Firenze

Paolo Fresco: "Privati italiani non sapete fare il vostro dovere per la cultura"

L’ex amministratore delegato della Fiat si è dimesso dalla Scuola di Musica di Fiesole ed è entrato nel consiglio d’amministrazione degli Uffizi. Con lui facciamo il punto sul dialogo fra mecenati e soggetti pubblici

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"NESSUNO può fare soldi da solo, e una parte di ciò che si guadagna si ha l'obbligo morale di restituirlo alla società". Obbligo poco sentito in Italia, dice Paolo Fresco, ex presidente e ad Fiat, uno dei più influenti manager internazionali ma anche esperto d'arte e collezionista, presidente uscente della Scuola di Musica di Fiesole (per la quale ha raddoppiato di tasca propria l'importo delle borse di studio, ma da cui, oggi, darà le dimissioni: "Seguo troppe cose", spiega, "devo ridurre i miei impegni "). Membro del nuovo cda degli Uffizi ex riforma Franceschini, finanzia con 70 mila euro l'anno il progetto Muse per la diffusione delle arti nelle scuole, e ha stanziato 25 milioni di euro per la Fondazione per la ricerca sul Parkinson che ora porta il suo nome.

Perché in Italia il concetto del give back stenta a entrare nella mentalità sia dei privati che del pubblico? L'Art Bonus, un primo passo, ha avuto risultati scarsi.
"Nei paesi a tradizione protestante l'iniziativa privata gode da sempre di grande prestigio, ma in Italia, nonostante il suo scarso senso dello Stato o forse proprio per questo, domina lo statalismo, complice l'egemonia culturale della sinistra. Ovvio che ne risulti attutito il senso di responsabilità sociale dei privati. Gli enti pubblici non possono più, e sempre meno potranno, pensare a tutto. La vera sfida è mettere insieme i due attori in nome del bene comune. E' anche un modo per chiamare tutti a sentirsi cittadini, a far corrispondere oneri e onori. L'Art Bonus era una buona idea, ma il meccanismo, come al solito, pensato più per evitare abusi che per favorire gli interventi, è pieno di vincoli, con un limite di deduzione troppo basso per chi pensa in grande, e insomma non premia abbastanza chi vuole fare qualcosa".

C'è chi teme che l'apertura ai privati condizioni le scelte politiche sulla cultura.
"Nessuno pensa certo di mettere tutto in mano ai privati, il cui ruolo deve restare suppletivo. Al pubblico, fiduciario del patrimonio culturale per conto dell'umanità, spetta quello principale, di controllo e tutela. Ma non ha senso considerare il rapporto come antagonistico. Tutti i grandi musei del mondo sono cofinanziati da pubblico e privato, e si guardano i risultati. Non mi sembra che al Moma si facciano scelte culturali mirate su interessi privati. La presenza dei privati, semmai, garantisce il rigore economico della gestione ".

Sarebbe favorevole alla concessione onerosa di spazi degli Uffizi per eventi e attività private?
"Occorre valutare il rapporto costi/benefici con elasticità e senza dogmatismi. Commercializzare troppo gli spazi significa svilire il patrimonio, ma va evitato l'elitarismo, altro difetto della sinistra storica. Una cena di gala può far entrare nel museo persone che non l'hanno mai visto e possono sentirsi spinte a sostenerlo. Fra l'altro, il contributo del privato, che pretende rigorosi rendiconti, impone un buon uso dei soldi, mentre la gestione gerarchica dei fondi pubblici rischia la scarsa trasparenza".

Lei è l'unico rappresentante del mondo privato nel cda degli Uffizi. Idee da proporre?
"Sì, e molto pratica: migliorare l'accessibilità al museo diversificando i percorsi, con più ingressi e più uscite, a seconda di quello che si vuole vedere. Nei grandi musei, come il Louvre, è già così. Servirebbe anche per ridurre le code".