Uso di sostanze stupefacenti e patologie infettive correlate

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USO DI SOSTANZE STUPEFACENTI E PATOLOGIE INFETTIVE CORRELATE Aggiornamento tecnico-scientifico per i Dipartimenti delle Dipendenze


Pubblicazione “non-profit� e non sponsorizzata - Vietata la vendita Per informazioni: Dipartimento Politiche Antidroga Presidenza del Consiglio dei Ministri Via Po 16/A - 00198 Roma tel. seg. +39 06 67796350 - fax +39 06 67796843 e-mail: direzionedpa@governo.it

Coordinamento editoriale e traduzione dei testi in inglese a cura di Annalisa Rossi Progetto grafico copertina a cura di Alessandra Gaioni Stampato da Cierre Grafica - Sommacampagna (Verona) Ottobre 2012


A cura di Giovanni Serpelloni

Presidenza del Consiglio dei Ministri

Capo del Dipartimento Politiche Antidroga

Mario Cruciani

Centro Medicina Comunitaria, ULSS 20 Verona Consulente Infettivologo, Ospedale G. Fracastoro, San Bonifacio, Verona

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Autori

(in ordine alfabetico) Ruben D. Baler

National Institute on Drug Abuse, Bethesda, USA

Adriana Bonora

Dipartimento di Scienze Neurologiche, Neuropsicologiche e Motorie, Università degli Studi di Verona

Alessandra Bo

EMCDDA, Osservatorio Europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, Lisbona

Oliviero Bosco

Centro Medicina Comunitaria, Sezione di Screening HIV, ULSS 20 Verona

Pietro Canuzzi

Ministero della Salute, Direzione Generale della Prevenzione Sanitaria

Cristina Castello

Uoc Cardiologia, ULSS 20 Verona

Mario Cruciani

Centro Medicina Comunitaria, Sezione di Screening HIV, ULSS 20 Verona Consulente Infettivologo, Ospedale G. Fracastoro, San Bonifacio, Verona

Chiara Danzi

Osservatorio Epidemiologico Infettivologia, Azienda ULSS 22 Bussolengo (VR)

Sergio Ferrari

Dipartimento di Scienze Neurologiche, Neuropsicologiche e Motorie, Sezione di Neuropatologia, Università degli Studi di Verona

Marica Ferri

EMCDDA, Osservatorio Europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, Lisbona

Eugenia M.Gabrielli

Dipartimento di Malattie Infettive, Azienda Ospedaliera Polo Universitario Luigi Sacco, Milano

Bruno Genetti

Osservatorio Nazionale Dipartimento Politiche Antidroga

Isabelle Giraudon

EMCDDA, Osservatorio Europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, Lisbona

Giampiero Girolomoni Clinica Dermatologica, Università degli studi di Verona, Verona Maurizio Gomma

Dipartimento delle Dipendenze, ULSS 20 Verona

Teodora Groshkova

EMCDDA, Osservatorio Europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, Lisbona

Bruno Guarita

EMCDDA, Osservatorio Europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, Lisbona

Dagmar Hendrich

EMCDDA, Osservatorio Europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, Lisbona

Letizia Leone

Clinica Dermatologica, Università degli Studi di Verona, Verona

Marina Malena

Centro Medicina Comunitaria, Sezione di Screening HIV, ULSS 20 Verona Commisione Nazionale AIDS

Joao Matias

EMCDDA, Osservatorio Europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, Lisbona

Romualdo Mazzi

Centro Medicina Comunitaria, Sezione di Screening HIV, ULSS 20 Verona

Carlo Mengoli

Dipartimento di Medicina Molecolare, Università degli Studi di Padova

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Salvatore Monaco

Dipartimento di Scienze Neurologiche, Morfologiche e Motorie, Università degli Studi di Verona

Roberto Mollica

Dipartimento Politiche Antidroga, Presidenza del Consiglio dei Ministri

Mauro Moroni

Vice Presidente Commissione Nazionale AIDS, Professore Emerito di Malattie Infettive, Università degli Studi di Milano

Stefano Nardi

Centro Medicina Comunitaria, Sezione di Screening HIV, ULSS 20 Verona

Luigi Nisini

EMCDDA, Osservatorio Europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, Lisbona

Jacques L. Normand

National Institute on Drug Abuse, Bethesda, USA

Saverio Giuseppe Parisi Dipartimento di Medicina Molecolare, Università degli Studi di Padova Giorgio Palù

Dipartimento di Medicina Molecolare, Università degli Studi di Padova

Daria Pocaterra

Dipartimento di Malattie Infettive, Azienda Ospedaliera, Polo Universitario Luigi Sacco, Milano

Giovanni Rezza

Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie ed Immunomediate, Istituto Superiore di Sanità, Roma

Claudia Rimondo

Sistema Nazionale di Allerta Precoce, Dipartimento Politiche Antidroga Presidenza del Consiglio dei Ministri

Giuliano Rizzardini

Dipartimento di Malattie Infettive, Azienda Ospedaliera Polo Universitario Luigi Sacco, Milano

Gianluca Russo

Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie ed Immunomediate Istituto Superiore di Sanità, Roma

Catia Seri

Sistema Nazionale di Allerta Precoce, Dipartimento Politiche Antidroga Presidenza del Consiglio dei Ministri

Giovanni Serpelloni

Dipartimento Politiche Antidroga, Presidenza del Consiglio dei Ministri

Barbara Suligoi

Centro Operativo AIDS, Istituto Superiore di Sanità

Nora D. Volkow

National Institute on Drug Abuse, Bethesda, USA

Lucas Wiessing

EMCDDA, Osservatorio Europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, Lisbona

Mauro Zaccarelli

Unità Immunodeficienze virali, Istituto Nazionale per le Malattie Infettive L. Spallanzani, Roma

Irene Zagni

U.O. Medicina , Azienda Ospedaliera di Desenzano del Garda (Brescia)

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Indice Prefazione M. Moroni Introduzione M. Cruciani, G. Serpelloni

9 11

ASPETTI EPIDEMIOLOGICI 01

Epidemiologia dell’infezione da HIV, HBV e HCV. I dati del 2011 dalla Relazione al Parlamento sull’uso di sostanze stupefacenti P. Canuzzi, G. Serpelloni, B. Genetti, R. Mollica, B. Suligoi

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02

Malattie Infettive e decessi correlati alla droga. I dati del 2011 dal Report annuale 2011 dell’Osservatorio Europeo delle Droghe e delle Tossicodipendenze (EMCDDA) L. Wiessing, D. Hendrich, I. Giraudon, M. Ferri, T. Groshkova, A. Bo, B. Guarita, L. Nisini, J. Matias; con la collaborazione di Jaen Mounteney, Roland Simon, Julian Vicente

29

03

Le potenzialità non sfruttate della scienza della dipendenza nel controllo dell’epidemia di HIV N.D. Volkow, R.D. Baler, J.L. Normand

45

04

Epidemiologia delle infezioni nei tossicodipendenti in base alla via di introduzione e al tipo di sostanza d’abuso M. Zaccarelli

51

Le principali infezioni correlate all’abuso di sostanze 05

Sepsi ed endocarditi infettive nel tossicodipendente G. Rezza, G. Russo

67

06

Infezioni della cute e dei tessuti molli nel tossicodipendente con uso parenterale delle sostanze C. Mengoli

79

07

Infezioni osteoarticolari R. Mazzi, C. Danzi

89

08

Tossicodipendenza ed infezioni polmonari G. Rizzardini, D. Pocaterra

105

09

Endoftalmiti A. Bonora

115

10

Infezioni del sistema nervoso centrale nell’abuso di sostanze S. Ferrari, S. Monaco

121

11

Infezioni a trasmissione sessuale L. Leone, G. Girolomoni

139

7


12

Epatite virale da HCV S. Nardi, I. Zagni, G. Serpelloni

163

13

Epatite virale da HBV I. Zagni, S. Nardi,

181

14

Aspetti della terapia antiretrovirale nel tossicodipendente M. Malena, E.M.Gabrielli

201

15

Procedure per lo screening delle principali patologie infettive nei tossicodipendenti O. Bosco, M. Gomma, G. Rizzardini, G. Serpelloni

219

16

Cocaina e patologie internistiche correlate O. Bosco, C. Castello, S. Ferrari, M. Gomma, G. Serpelloni

233

Problematiche infettive emergenti 17

Infezioni da Bacillus anthracis nei tossicodipendenti L. Leone, G. Serpelloni, C. Rimondo, C. Seri

255

18

Epidemiologia di HIV, sottotipo non-B S.G. Parisi, G. PalĂš

261

19

Nuove droghe e comportamenti a rischio C. Seri, L. Leone, C. Rimondo, G. Serpelloni

267

20

I danni derivanti dal consumo di cannabis sul sistema immunitario O. Bosco, C. Seri, C. Rimondo, G. Serpelloni

285

21

Uso di droghe per via iniettiva e comportamenti a rischio HIV: news dalla letteratura C. Seri, M. Cruciani, G. Serpelloni

291

ALLEGATI 22

8

Allerta grado 3 – Aumento della percentuale di NO-TESTING per le infezioni da HIV, HCV e HBV presso i Ser.D.

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Prefazione Una delle leggi universali cui tutti gli esseri viventi obbediscono e per cui ogni giorno combattono è la legge della sopravvivenza della specie. Ciò vale per i microrganismi dai prioni, virus e batteri alle alghe e protozoi, agli insetti, invertebrati, animali superiori e l’uomo. Nel corso dei milioni di anni di convivenza, gli esseri viventi evolvono a favore di una loro reciproca convivenza senza danno. Secondo questa prospettiva, la grande maggioranza dei microrganismi stabiliscono oggi con l’uomo rapporti di simbiosi o commensalismo mentre le specie intrinsecamente patogene si sono ridotte ad un numero esiguo. In un’ottica evolutiva, ciò è “merito” dei microrganismi che hanno “intuito” la non convenienza a uccidere i propri ospiti ma soprattutto dell’efficacia del sistema immunitario degli animali superiori che si è progressivamente perfezionato e che oggi permette all’uomo di vivere in un ambiente persistentemente contaminato, ammalandosi solo eccezionalmente di malattie da infezione. L’equilibrio, tuttavia, non è “inossidabile”. Ci è donato gratuitamente ma non ammette errori. Ogni comportamento che incrina uno tra le numerose braccia armate del sistema immunitario, rompe l’equilibrio e la distinzione tra specie microbiche simbionti, commensali e patogeni, perde il suo significato biologico. I comportamenti individuali e collettivi sono quindi fondamentali nel mantenere l’equilibrio tra l’uomo e il mondo microbico. I comportamenti igienicamente scorretti stanno alla base delle cosiddette “epidemie comportamentali”, oggi le più temibili e diffuse nel mondo occidentale e le più difficili da combattere in quanto non correlate a carenze strutturali, rimediabili con interventi e investimenti ma alle irrazionalità sempre presenti in ambiti profondi della mente dell’uomo. L’uso delle droghe, di tutte le droghe, sta alla radice, nel mondo occidentale, ricco e industrializzato, delle più devastanti epidemie comportamentali dell’ultimo secolo. Ho diretto per 30 anni la Clinica delle Malattie Infettive dell’Università degli Studi di Milano prima presso l’Ospedale Agostino Bassi e successivamente presso l’Azienda Ospedaliera, Polo Universitario L. Sacco. L’esperienza delle decine, centinaia, migliaia di ragazzi e ragazze che con l’uso promiscuo di siringhe per iniettarsi eroina contraevano i virus epatitici B, delta, “non A non B”, non può essere rimossa dai ricordi di chi l’ha vissuta. E così le epatiti sub acute e fulminanti, le endocarditi del cuore destro, pressoché sconosciute prima delle droghe iniettive; la gangrena gassosa degli arti sede di iniezione sotto cute di eroina, patologie che i Medici avevano imparato solo sui libri di storia della medicina; la tubercolosi, le sepsi ed infine l’AIDS. Malattie e morti che hanno segnato una intera generazione. Oggi il panorama è cambiato ma il pericolo resta. La siringa ha in parte perso il suo fascino ma ciò ha reso il pericolo più subdolo e insidioso. Può mancare il diretto trasferimento di microrganismi tramite il sangue infetto tra chi non fa uso di sostanze iniettive ma l’induzione a comportamenti scorretti rimane forte per tutte le droghe. È questo un aspetto oggi sottostimato che merita invece una attenta sorveglianza epidemiologica e ricerche e, approfondimenti scientifici. È presumibile che tutte le droghe nascondano intrinseche tossicità: è questa la parte ancora largamente sommersa dell’iceberg, solo in parte intravista.

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Numerose sostanze inalate o ingerite inducono danni diretti sulle mucose, primo scudo difensivo contro le infezioni. Tutte alterano i comportamenti ed il razionale che li determina e questo è forse il problema più rilevante e più gravido di conseguenze. Perché i microrganismi sono costantemente presenti in attesa dei nostri errori. Restano simbionti o commensali, quando non si commettono errori; si trasformano rapidamente in patogeni quando le nostre fragilità, disattenzioni, imprudenze lo consentono. Prof. Mauro Moroni Professore Emerito di Malattie Infettive Università degli Studi di Milano

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Introduzione Uso di droghe e dipendenza sono da sempre state associate ad una varietà di infezioni. Per molti anni si è ritenuto che questa relazione fosse dovuta unicamente all’uso iniettivo di sostanze e allo scambio di siringhe. Pur rimanendo la via parenterale di assoluta rilevanza, è da sottolineare come l’uso di sostanze determini sempre di più un importante impatto su comportamenti a rischio, quali la promiscuità sessuale, che a loro volta rappresentano un importante causa di acquisizione di infezioni, HIV in primis. Inoltre, lo stato di marginalizzazione sociale che in tutto il mondo accompagna la maggior parte dei tossicodipendenti, nonché l’effetto immunosoppressivo di alcune sostanze d’abuso, contribuiscono all’aumentato rischio di infezione tra i tossicodipendenti. Le infezioni nel tossicodipendente presentano varie problematiche, non solo in termini di complessità dei problemi clinici da affrontare, ma anche inerenti la gestione di pazienti particolarmente “difficili” dal punto di vista psicosociale. Tuttavia, nonostante la persistente attualità e i cambiamenti epidemiologici delle patologie infettive nei tossicodipendenti, da diversi anni si è rilevato un notevole calo dell’offerta, da parte dei servizi per le tossicodipendenze, del test HIV e per le Epatiti B e C, decremento che potrebbe comportare un ragguardevole ritardo nella diagnosi precoce relativamente a tali infezioni, con una riduzione dell’accesso anche alle terapie. Vi è la necessità, quindi, da più parti segnalata, di rilanciare l’offerta del test per queste importanti infezioni nella popolazione tossicodipendente, perseguendo così una strategia di “early detection” la quale, oltre ad assicurare una cura tempestiva per gli aventi bisogno, assicura anche un migliore contenimento della diffusione inconsapevole delle infezioni in questione. Questo è stato uno dei motivi, ma non l’unico, che ci ha indotto alla stesura del presente volume, rivolto a tutti i medici che hanno in cura soggetti con problemi di uso da sostanze: medici dei servizi per le tossicodipendenze, medici di medicina generale, ed altri specialisti, come gli infettivologi, che spesso hanno in carico pazienti con problemi attuali o pregressi di uso di sostanze. I curatori Dott. Giovanni Serpelloni Dott. Mario Cruciani

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1. Epidemiologia dell’infezione da HIV, HBV e HCV I dati del 2011 dalla Relazione al Parlamento sull’uso di sostanze stupefacenti in Italia Pietro Canuzzi 1, Giovanni Serpelloni 2, Bruno Genetti 3, Roberto Mollica 2, Barbara Suligoi 4 1 2 3 4

Ministero della Salute, Direzione Generale della Prevenzione Sanitaria Dipartimento Politiche Antidroga, Presidenza del Consiglio dei Ministri Osservatorio Nazionale Dipartimento Politiche Antidroga Centro Operativo AIDS, Istituto Superiore di Sanità

IMPLICAZIONI E CONSEGUENZE PER LA SALUTE Malattie infettive droga correlate La prevalenza di patologie infettive correlate all’uso di sostanze psicoattive illegali rientra tra gli indicatori chiave individuati dall’Osservatorio Europeo sulle Droghe e le Tossicodipendenze di Lisbona (EMCDDA) ai fini del monitoraggio del fenomeno dell’uso di sostanze. L’attenzione a livello europeo viene dedicata in particolare agli assuntori di sostanze per via iniettiva (IDU), in relazione all’elevato rischio di incorrere in malattie infettive, HIV ed epatiti virali. A livello nazionale l’analisi è condotta sia tra gli utenti dei servizi delle tossicodipendenze che tra i ricoveri ospedalieri droga correlati. I dati dell’utenza in trattamento nei servizi sono stati elaborati sulla base del flusso aggregato fornito dal Ministero della Salute: nel corso del 2011, con l’avvio della rilevazione secondo il flusso SIND, alcune regioni (Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Piemonte e Umbria) hanno provveduto all’invio dei dati delle malattie infettive correlate attraverso il nuovo flusso. Per Lazio, Piemonte e Umbria (per questa regione solo per HIV) i dati non sono utilizzabili in quanto trasmessi in forma parziale o errata. Le rimanenti regioni hanno trasmesso le schede ANN.04, ANN.05, ANN.06. La Liguria non ha trasmesso alcun flusso. Per questi motivi le prevalenze del 2011 sono state stimate. In estrema sintesi, anche nel 2011 continua la costante diminuzione della verifica (testing) della presenza di malattie infettive correlate all’uso di sostanze stupefacenti nell’utenza assistita dai Ser.T. (HIV -0,7%; HBV -0,8%; HCV -3,0%). Rispetto al 2010, nel 2011 la prevalenza di utenti positivi ai test delle malattie infettive, diminuisce per l’HIV (8,3% vs 11,5%), per l’HBV (33,4% vs 36,2%) e per HCV (54,0% vs 58,5%). Le informazioni sui ricoveri sono state rilevate dal flusso informativo della scheda di dimissione ospedaliera; in particolare sono state considerate le

Patologie infettive correlate: in forma di HIV, HBV, HCV, TBC, MST

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Tabella 1 - Prevalenza di utenti HIV, HBV, HCV positivi. Anni 2000-2011 Prevalenza 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 positivi HIV

15,8 14,8 14,8 14,2 13,9 13,8 12,0 11,9 11,7 11,5 11,1

8,3

HBV

44,5 49,4 43,4 43,2 43,6 41,7 39,5 37,2 32,7 36,2 34,4 33,4

HCV

67,4 66,3 64,9 64,9 63,5 61,4 62,0 60,2 59,2 58,5 61,0 54,0

Fonte: Elaborazione su dati Ministero della Salute

Figura 1 - Prevalenza dei nuovi utenti positivi a test HIV, HBV e HCV. Anni 2000-2011

Fonte: Elaborazione su dati Ministero della Salute

Figura 2 - Prevalenza di utenti già in carico positivi a test HIV, HBV e HCV. Anni 2000-2011

Fonte: Elaborazione su dati Ministero della Salute

dimissioni da regime di ricovero ordinario e day hospital, che presentano diagnosi, principale o secondarie, droga correlate. Diffusione di HIV e AIDS L’incidenza dell’infezione da HIV diagnosticata tra i consumatori di stupefacenti per via parenterale (IDU) nel 2009 risulta contenuta nella maggior parte dei paesi dell’Unione Europea, attorno a 2,85 casi per milione di abitanti, in calo rispetto ai 3,7 del 2007. Questo andamento è dovuto in

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Epidemiologia dell’infezione da HIV, HBV e HCV

parte all’aumento della disponibilità delle misure di prevenzione universale, di trattamento e di prevenzione delle patologie correlate, comprese le terapie sostitutive e i programmi di scambio di aghi e di siringhe; secondo alcuni paesi incidono anche altri fattori quali il calo del consumo per via parenterale come verificato anche in Italia. Le informazioni sull’incidenza dell’AIDS sono importanti per dimostrare i nuovi casi di malattia sintomatica, e per fornire indicazioni sulla diffusione e sull’efficacia della terapia antiretrovirale estremamente attiva (HAART). A livello europeo la presenza di elevati tassi di incidenza dell’AIDS in alcuni paesi può far pensare che molti tossicodipendenti che abitualmente assumono le sostanze per via iniettiva ed affetti da HIV non ricevano la terapia HAART nella fase precoce dell’infezione. L’Estonia è il paese con la più alta incidenza di casi di AIDS riconducibili al consumo di stupefacenti per via parenterale. Tassi relativamente elevati di incidenza dell’AIDS sono segnalati anche da Lettonia, Lituania, Portogallo e Spagna; in Italia dopo i valori molto elevati ad inizio periodo, il contrasto alla diffusione dell’infezione da HIV ha consentito di ridurre notevolmente i nuovi casi di AIDS (Figura 3). Utenti in trattamento presso i Servizi per le tossicodipendenze Rispetto all’utenza complessivamente assistita dai Ser.T nel 2011 e per la quale era disponibile il dato su HIV (138.475 persone), 42.291 soggetti, pari al 30,5%, sono stati sottoposti a test HIV. La prevalenza complessiva di utenti HIV positivi è del 8,3%, rispetto al contingente di utenti per i quali era disponibile l’esito del test. (Tabella 2). Continua ad essere elevata la quota di utenti non testati (69,5% dell’utenza in carico). Va precisato che le informazioni pervenute dalle regioni al Ministero della Salute alla data del 25 maggio 2011, coprono circa il 90% del totale dei servizi per le tossicodipendenze, quindi sono da considerare sicuramente rappresentative anche se non complete. La verifica della presenza di patologie infettive correlate all’uso di sostanze stupefacenti nelle persone assistite dai Ser.T. ha interessato negli ultimi 12

In forte diminuzione l’incidenza dei casi di AIDS nei tossicodipendenti italiani

Criticità: soggetti testati per HIV (solo il 30,5%) presso i Ser.T.

Figura 3 - Tasso di incidenza (casi x 1.000.000 ab.) di casi AIDS tra i consumatori di stupefacenti per via iniettiva nei Stai membri della EU. Anni 2004-2009

Fonte: Osservatorio Europeo per le Droghe e le Tossicodipendenze – Bollettino Statistico 2010

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Tabella 2 - Esito test HIV nell’utenza dei servizi per le tossicodipendenze. Anni 2010-2011 Prevalenza di positivi a test HIV

2010

2011

Diff%

Maschi

2,2

5,5

3,3

Femmine

4,5

8,7

4,2

Totale

2,5

6,0

3,5

Nuovi utenti

Utenti già in carico Maschi

12,3

8,1

-4,2

Femmine

18,6

12,9

-5,7

Totale

13,3

8,8

-4,5

Totale Maschi

10,6

7,7

-2,9

Femmine

16,4

12,2

-4,2

Totale

11,5

8,3

-3,2

Fonte: Elaborazione su dati Ministero della Salute

Solo il 32,6% dei tossicodipendenti viene testato

Prevalenza HIV nei TD oscilla tra il 2,4% e il 23,1%

anni, dal 2000 al 2011, una percentuale di soggetti in costante diminuzione. Relativamente alla presenza dell’infezione da HIV, la percentuale dei soggetti testati su testabili è diminuita di quasi 15 punti percentuali passando dal 45% circa rilevato nel 2000 al 30,5% osservato nel 2011. Il tasso di prevalenza dell’infezione nella popolazione afferente ai servizi dal 2000 al 2011, si è ridotto passando dal 16% circa del 2000 all’8,3% del 2011. Nei soggetti di genere maschile la siero prevalenza per HIV è pari al 7,7%, mentre nelle femmine è del 12,2%; ciò significa che le persone di genere femminile sono fortemente sovra-rappresentate tra i soggetti HIV positivi. Rispetto al 2010, aumenta la prevalenza di HIV positivi tra la nuova utenza, (6,0% nel 2011 vs 2,5% nel 2010), mentre si osserva una riduzione per i soggetti già in carico (13,3% nel 2010 vs 8,8% nel 2011). A livello territoriale la percentuale di utenti testati nel 2011 rispetto a tutti i soggetti che i Ser.T avrebbero dovuto sottoporre al test sierologico HIV, varia da un minimo del 4,6% osservata nella Provincia Autonoma di Bolzano, ad un massimo del 58,6% circa nella Provincia Autonoma di Trento (Figura 6). Per contro, la prevalenza di sieropositivi osservata nel 2010 varia da un minimo del 2,4% nella regione Campania ad un massimo del 23,1% nella Regione Lombardia. Figura 4 - Percentuale dei soggetti testati su testabili e prevalenza utenti positivi a test HIV. Anni 2000-2011

Fonte: Elaborazione su dati Ministero della Salute

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Epidemiologia dell’infezione da HIV, HBV e HCV

Confrontando le distribuzioni percentuali dei soggetti testati e dei positivi per regione, si osserva come, generalmente, a fronte di un basso tasso di testing si osservi una elevata prevalenza di sieropositivitĂ (Figura 6). Figura 5 - Prevalenza di utenti HIV positivi secondo il genere e il tipo di contatto con il servizio Anni 2000 2011

Aumenta la prevalenza di HIV nelle femmine afferenti per la prima volta nei Ser.T

Fonte: Elaborazione su dati Ministero della Salute

Figura 6 - Percentuale di non utenti testati nell’anno di riferimento su testabili, per area geografica e prevalenza per HIV. Anno 2011

(1) Flusso informativo SIND; (2) Flusso SIND parziale (Indicatore non calcolabile); (3) Dato richiesto ma non pervenuto - Fonte: Elaborazione su dati Ministero della Salute

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AIDS e infezioni da HIV

Meno urgenze più ricoveri ordinari

Il binomio uso iniettivo di eroina/HIV

Ricoveri ospedalieri droga correlati Nel 2010 tra i ricoveri droga correlati, le diagnosi (principale o concomitante) relative a situazioni di AIDS conclamato o di sieropositività per HIV, sono circa il 5,6% (pari a 1.348 ricoveri); la restante quota riguarda casi non comorbili con tali condizioni. In modo sostanzialmente stabile nel corso dell’intero triennio 2008-2010, tra i ricoveri con diagnosi di infezione da HIV sintomatica o asintomatica, si osserva una percentuale più elevata di maschi (75,5% vs 25,5% delle femmine) ed una più bassa di situazioni che presentano un’età inferiore ai 24 anni (1,2% vs 11,5%) rispetto ai casi non comorbili per tali patologie. L’analisi del regime e tipologia di ricovero evidenzia inoltre, che tra i ricoveri droga correlati con diagnosi relative anche a condizione di infezione da HIV o di AIDS si rileva una percentuale più bassa di ricoveri a carattere urgente (circa il 53,6% vs 65,4%) e di situazioni di regime ordinario (circa 83,9% vs 92,0%). Lo studio della sostanza d’uso (Figura 7) effettuato in base alla condizione di HIV sieropositività/AIDS evidenzia, tra i positivi, una quota più elevata di assuntori di oppiacei (74,8% vs il 22,3%). Figura 7 - Percentuale di ricoveri droga correlati per condizione di sieropositività HIV/AIDS e tipo di sostanza assunta. Anno 2010

Fonte: Elaborazione su dati Ministero della Salute

Diffusione di Epatite virale B Il fenomeno della presenza del virus da epatiti virali nella popolazione tossicodipendente è maggiormente diffuso rispetto l’infezione da HIV sia a livello europeo che a livello nazionale. Negli Stati membri della EU la prevalenza degli anticorpi contro il virus dell’epatite B (HBV) varia in misura ancora maggiore rispetto all’HCV, in controtendenza rispetto alla diffusione del virus in Italia, sebbene il dato nazionale si riferisca a tutta la popolazione tossicodipendente e non alla sola IDU. Nel periodo 20042009, 4 dei 13 paesi che hanno fornito dati sugli IDU hanno segnalato livelli di prevalenza anti-HBC superiori al 40%, in linea con il dato nazionale, sebbene quest’ultimo rappresenti una sottostima della reale prevalenza di HBV positivi nella sottopopolazione IDU italiana.

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Epidemiologia dell’infezione da HIV, HBV e HCV

Utenti in trattamento presso i Servizi per le Tossicodipendenze Relativamente alla presenza di epatite B nel periodo 2000-2011, la percentuale dei soggetti non testati è aumentata, di oltre 6 punti percentuali passando dal 73,8% rilevato nel 2000 al 78,9% nel 2011, fatta eccezione per l’anno 2008 in cui si osserva una temporanea e modesta ripresa dell’attività di test per epatite virale B. Il tasso di prevalenza di positivi dell’epatite B nella popolazione afferente ai servizi dal 2000 al 2008, si è ridotto passando rispettivamente dal 44,5% al 32,7%. Nel triennio successivo, si è verificato un aumento di prevalenza di positivi pari al 36,2% nel 2009, seguito da una diminuzione nel 2011 pari al 33,4%. Gli andamenti della prevalenza di positivi della nuova utenza per genere non evidenzia tendenze differenti con decrementi per i nuovi utenti maschi dal 23% del 2000 al 14,7% del 2011 e per la nuova utenza femminile dal 21% del 2000 al valore stimato del 13,6% nel 2011. Per gli utenti già in carico nei servizi, la percentuali di positivi HBV diminuisce di circa 0,6 punti percentuale (37,1% nel 2010 vs. stima del 36,5% nel 2011), sebbene gli andamenti per genere siano differenziati e in controtendenza; la prevalenza complessiva di HBV positivi diminuisce di circa 1,2 punti percentuali (15,7% nel 2010 vs stima del 14,5% nel 2011), differenziate nel seguente modo: 13,1% per le femmine e 14,7% per i maschi.

Alta percentuale di non testati anche per l’epatite B

Figura 8 - Percentuale dei soggetti non testati e prevalenza utenti positivi a test HBV. Anni 2000-2011

Fonte: Elaborazione su dati Ministero della Salute

Figura 9 - Prevalenza di utenti HBV positivi secondo il genere e il tipo di contatto con il servizio. Anni 2000-2011

(La figura continua alla pagina seguente)

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(Segue figura 9 dalla pagina precedente)

Fonte: Elaborazione su dati Ministero della Salute

Tabella 3 - Prevalenza di utenti positivi secondo il genere e il tipo di contatto. Anni 2010-2011 Prevalenza di positivi a test HBV

2010

2011

Diff%

Maschi

15,9

14,7

-1,2

Femmine

14,3

13,1

-1,2

Totale

15,7

14,5

-1,2

Maschi

36,8

34,9

-1,9

Femmine

39,7

50,5

10,8

Totale

37,1

36,5

-0,6

Maschi

33,6

32,1

-1,5

Femmine

35,8

43,9

8,1

Totale

33,9

33,4

-0,5

Nuovi utenti

Utenti giĂ in carico

Totale

Fonte: Elaborazione su dati Ministero della Salute

Figura 10 - Percentuale utenti non sottoposti al test e percentuale utenti positivi a HBV. Anno 2010

(1) Flusso informativo SIND; (2) Flusso SIND parziale (Indicatore non calcolabile); (3) Dato richiesto ma non pervenuto - Fonte: Elaborazione su dati Ministero della Salute

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Epidemiologia dell’infezione da HIV, HBV e HCV.

A livello territoriale la percentuale di utenti non testati nel 2011 varia da un minimo del 60,0% in Campania a un massimo del 100% osservata nella Provincia Autonoma di Bolzano. Per conto la prevalenza di utenti positivi all’epatite B osservata nel 2010, varia da un minino del 10,3% in Basilicata ad un massimo dell’81,8% in Abruzzo. Ricoveri ospedalieri droga correlati Nel 2010 tra i ricoveri droga correlati le diagnosi (principale o concomitante) relative alla presenza di epatiti virali B sono inferiori all’1% (pari a 109 ricoveri), senza differenze rilevanti nell’ultimo triennio. Maggiore variabilità si osserva nel corso del triennio, tra i ricoveri con diagnosi di infezione da HBV sintomatica o asintomatica, in relazione alla quota di ricoveri di soggetti di genere maschile (85,6% nel 2008, 78,1% nel 2009 e 81,7% nel 2010). Anche in questo caso come detto sopra più elevata (78% vs 45%) rispetto ai pazienti ricoverati senza tale comorbilità. Lo studio della sostanza d’uso (Figura 11) effettuato in base alla condizione di positività alle epatiti virali B evidenzia, tra i positivi una quota più elevata di assuntori di oppiacei (50,5% contro 22,1%), in forte analogia con la presenza di sieropositività per HIV o AIDS conclamata.

Prevalenze per HBV oscillanti tra il 10,3% in Basilicata e l’81,8% in Abruzzo

Riduzione dei ricoveri per epatite B

Figura 11 - Percentuale dei ricoveri droga correlati per condizione di malattia/positività per le epatiti virali B e tipo di sostanza assunta. Anno 2010

Fonte: Elaborazione su dati Ministero della Salute

Diffusione di Epatite virale C I livelli di prevalenza dell’HCV osservati tra i diversi paesi europei e all’interno di uno stesso paese, sono estremamente vari, a causa sia di differenze intrinseche ai territori sia delle caratteristiche della popolazione oggetto del campione indagato. Nel biennio 2008-2009 i livelli di anticorpi anti-HCV tra campioni di tossicodipendenti esaminati a livello europeo, variano da circa il 22% al 91%, sebbene la maggior parte dei paesi riferisce valori superiori al 40%. A livello nazionale, la prevalenza di positivi al test HCV è risultata pari a circa il 61% dei soggetti in trattamento nei Ser.T. Utenti in trattamento presso i Servizi per le Tossicodipendenze Come per i precedenti test sierologici, anche per l’HCV, si osservava, analoga e preoccupante situazione relativamente sia alla diffusione del virus sia ai soggetti non testati nell’anno. Nell’ultimo anno gli utenti in trattamento non testati sono

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Basso utilizzo dei Ser.T. del test per HCV soprattutto per i nuovi tossicodipendenti afferenti ai servizi Resta alta la prevalenza dell’HCV: 61,0%

aumentati di 3 punti percentuali (80,4% nel 2010 vs 83,4% nel 2011). La verifica della presenza di epatite virale C correlata all’uso di sostanze stupefacenti nelle persone assistite dai Ser.T. ha riguardato, dal 2000 al 2010, una percentuale di soggetti in costante diminuzione. La percentuale dei soggetti non testati è aumentata dal 79,8% del 2000 all’83,4% del 2011 (Figura 12). Relativamente alla presenza del virus della epatite virale C, la percentuale di soggetti positivi è diminuita di 13,4 punti percentuali negli ultimi dieci anni, passando dal 67,4% nel 2000 al 54,0% nel 2011 (Figura 2). Figura 12 - Percentuale dei soggetti non testati e prevalenza utenti positivi al test HCV. Anni 2000 2011

Fonte: Elaborazione su dati Ministero della Salute

Figura 13 - Prevalenza di utenti HCV positivi secondo il genere e il tipo di contatto con il servizio. Anni 2000-2010

Fonte: Elaborazione su dati Ministero della Salute

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Epidemiologia dell’infezione da HIV, HBV e HCV

Nei nuovi utenti, nel periodo oggetto di osservazione, il fenomeno sembra interessare in uguale misura i due generi, e in progressivo decremento fino al 2008; nel 2009-2010 la prevalenza HCV di positivi sembra stabile per le nuove femmine e in lieve aumento nei nuovi utenti maschi, ma nel 2011 si osserva ancora un trend in calo. Fino al 2009 è stabile il trend della prevalenza dell’utenza già nota ai servizi e risultata positiva al test HCV, senza sensibili differenze per genere: per entrambi si osserva un lieve aumento di HCV positivi nel 2010 cui segue un calo nel 2011 (Figura 13). La differenza di prevalenza di HCV positivi tra utenti nuovi e già in carico potrebbe essere sostenuta da un minor tempo di esposizione al rischio. Il decremento del trend nei nuovi utenti può essere sostenuto da un minor uso della via iniettiva che si è andato ad instaurare nel tempo. Rispetto al 2010, diminuisce di 5,2 punti percentuali la prevalenza di HCV positivi per la nuova utenza (28,0% nel 2010 vs 22,8% nel 2011), differenziate nel seguente modo : 20,2% per le femmine e 23,2% per i maschi. Per gli utenti già in carico nei servizi, la percentuali di positivi HCV diminuisce di 5,3 punti Tabella 4 - Prevalenza di utenti positivi a Test HCV secondo il genere e il tipo di contatto. Anni 2010-2011 Prevalenza di positivi a test HCV

2010

2011

Diff%

Maschi

28,3

23,2

-5,1

Femmine

26,1

20,2

-5,9

Totale

28,0

22,8

-5,2

Maschi

67,3

59,3

-8,0

Femmine

70,2

60,7

-9,5

Totale

67,7

62,4

-5,3

Maschi

62,1

53,9

-8,2

Femmine

64,5

54,5

-10

Totale

62,5

54,0

-8,5

Nuovi utenti

Utenti già in carico

Totale

Fonte: Elaborazione su dati Ministero della Salute

Figura 14 - Percentuale di utenti non testati e prevalenza per HCV, per area geografica. Anno 2011

Le regioni con minor uso del test per HCV: Bolzano, Lombardia, Toscana, Abruzzo, Liguria, Sardegna ed Emilia Romagna

(1) Flusso informativo SIND; (2) Flusso SIND parziale (Indicatore non calcolabile); (3) Dato richiesto ma non pervenuto - Fonte: Elaborazione su dati Ministero della Salute

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percentuali (67,7% nel 2010 vs 62,4% nel 2011), differenziate nel seguente modo: 60,7% per le femmine in diminuzione di 9,5 punti percentuali, e 59,3% nei maschi anche essi in diminuzione di 8 punti percentuali. A livello territoriale la percentuale di persone assistite e non testate per HCV nel 2011 varia da un minimo dello 63,3% in Campania a un massimo del 100% nella P.A. Bolzano. La prevalenza di utenti positivi al test HCV varia tra il 34,5% individuata in Campania e l’80,5%, in Lombardia. Ricoveri ospedalieri droga correlati Nel 2010 tra i ricoveri droga correlati le diagnosi (principale o concomitante) relative alla presenza di epatiti virali C sono pari al 7,4% corrispondente a 1.780 ricoveri. Tra i ricoveri con diagnosi di infezione da HCV sintomatica o asintomatica, nel 2010 si osserva una percentuale più elevata di maschi rispetto alle femmine (76,1% contro 23,9%); inoltre si registra una percentuale più bassa di situazioni che presentano un’età inferiore ai 24 anni (2,8% contro 11,5%), rispetto ai casi non comorbili per tali patologie. Lo studio della sostanza d’uso effettuato in base alla condizione di positività alle epatiti virali C evidenzia una quota più elevata di assuntori di oppiacei (67,1% contro 19,9%), in forte analogia con gli andamenti osservati nei ricoveri droga correlati in comorbilità con le altre malattie infettive (Figura 15). Figura 15 - Percentuale dei ricoveri droga correlati per condizione di malattia/positività per le epatiti virali C e tipo di sostanza assunta. Anno 2010

Fonte: Elaborazione su dati Ministero della Salute

Presenza di ricoveri per TBC

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Diffusione di Tubercolosi Nel 2009 tra i ricoveri droga correlati le diagnosi (principale o concomitante) relative alla presenza di infezione da tubercolosi sono inferiori al 2,0% corrispondente a 28 ricoveri. Nel 2007 si è osservato un aumento di infezione da tubercolosi rispetto al 2006 (2,6% vs 3,2%), per diminuire negli ultimi tre anni (2,8% nel 2008, 2,1% nel 2009 e 1,2% nel 2010). Nel gruppo con diagnosi di malattia tubercolare si osserva una presenza quasi esclusivamente maschile e sensibilmente più elevata rispetto al volume


Epidemiologia dell’infezione da HIV, HBV e HCV

complessivo di ricoveri droga correlati (circa 80% contro 57%) e relativi a pazienti di età inferiore ai 50 anni (circa 92% contro circa il 76%), in prevalenza consumatori di oppiacei (78% contro 23%) (Figura 17). Figura 16 - Percentuale dei ricoveri droga correlati per condizione di malattia/positività per TBC. Anni 2006-2010

Fonte: Elaborazione su dati Ministero della Salute

Figura 17 - Percentuale dei ricoveri droga correlati per condizione di malattia/positività per TBC e tipo di sostanza assunta. Anno 2010

Forte correlazione con uso di oppiacei

Fonte: Elaborazione su dati Ministero della Salute

Epidemiologia AIDS e HIV in IDU Centro Operativo AIDS In Italia, i dati epidemiologici relativi all’AIDS e all’HIV derivano da due sistemi di sorveglianza: il Registro Nazionale AIDS che dal 1984 raccoglie le notifiche delle persone con diagnosi di AIDS, e la sorveglianza delle nuove diagnosi di infezione da HIV che riporta i dati relativi alle persone che risultano positive al test HIV per la prima volta. I dati del Registro Nazionale AIDS In Italia, gli IDU rappresentano la popolazione che ha maggiormente contribuito alla diffusione dell’HIV sin dall’inizio dell’epidemia nel 1982. Infatti, dei 63891 casi di AIDS riportati dal Registro Nazionale AIDS dal 1982 al 2011, il 54,2% sono IDU. Questa percentuale è diminuita drasticamente

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in modo particolare negli anni ’90, passando dal 61,5% nel 1985 al 17,6% nel 2011. Tuttavia, l’impatto dell’infezione da HIV tra i tossicodipendenti continua ad essere rilevante. Questa popolazione costituisce ancora un importante serbatoio per la trasmissione dell’infezione da HIV e può rappresentare un rischio anche per altri sottogruppi di popolazione. Dall’inizio dell’epidemia, ad esempio, il 19,3% dei pazienti con AIDS che si sono infettati attraverso rapporti sessuali ha riferito di aver avuto un partner tossicodipendente. Secondo i dati del 2011, gli IDU costituiscono il gruppo di popolazione che accede più frequentemente alla terapia antiretrovirale pre-AIDS rispetto ad altri gruppi; infatti, dei 6460 casi di IDU con AIDS segnalati tra il 1995 e il 2011, più del 54% ha effettuato una terapia antiretrovirale pre-AIDS; in particolare, il 52% di questi ha assunto una terapia combinata. I dati del Registro Nazionale AIDS descrivono lo scenario epidemiologico di persone sieropositive che sono ormai in fase avanzata di malattia, ma dal 2008 questi dati vengono completati dai dati della sorveglianza delle nuove diagnosi di infezione da HIV, che riportiamo di seguito. I dati della sorveglianza delle nuove diagnosi di infezione da HIV I dati più recenti, relativi alla sorveglianza delle persone che ricevono una prima diagnosi di positività per HIV (Notiziario ISS, 24(5) suppl 1, 2011), consente invece di analizzare il contributo degli IDU nelle nuove infezioni. Quanto riportato dalle regioni che progressivamente hanno aderito alla sorveglianza HIV dal 1985 in poi, dimostra una diminuzione marcata dell’incidenza delle nuove diagnosi di HIV tra gli IDU che è passata da 18,5 casi ogni 100.000 residenti nel 1987 a 0,3 casi ogni 100.000 residenti nel 2010 (Figura 18). Si consideri, come termine di paragone, che nel 2010 l’incidenza dei casi trasmessi per via sessuale(eterosessuale e omosessuale) è stata 5,9 per 100.000. Nel 2010, i 182 IDU che sono stati segnalati come nuove diagnosi di HIV avevano un’età mediana di 40 anni (IQR 33-44 anni), l’84,1% erano maschi, l’ 81,9% italiani, il 50,5% erano “late presenters” (meno di 350 CD4cells/µL alla diagnosi o AIDS conclamato) e il 18,7% erano in stadio AIDS. Figura 18 - Incidenza delle nuove diagnosi di infezione da HIV, per modalità di trasmissione

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Epidemiologia dell’infezione da HIV, HBV e HCV

L’età media alla diagnosi di HIV è aumentata tra IDU, passando da 25 anni nel 1985 a 41 anni nel 2010. L’incidenza di IDU è superiore tra maschi rispetto alle femmine (0,53 per 100.000 vs 0,10 per 100.000) (Figura 19) e tra gli stranieri rispetto agli italiani (0,74 per 100.000 vs 0,27 per 100.000). L’incidenza di HIV in IDU nel 2010 è stata più alta nelle regioni del sud Italia (0,36 per 100.000 residenti) rispetto al nord e al centro (rispettivamente 0,28 e 0,29 per 100.000) (Figura 20). Figura 19 - Incidenza delle nuove diagnosi di HIV in IDU, per genere

Figura 20 - Incidenza di nuove diagnosi di HIV in IDU, per regione di residenza, 2010

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Nonostante l’incidenza di HIV sia notevolmente diminuita negli ultimi 20 anni, ancora oggi una quota rilevante di IDU arriva tardi alla prima diagnosi di infezione da HIV. Nel 2010, il 49,5% degli IDU segnalati al sistema di sorveglianza si trovava in fase avanzata di malattia con un livello di CD4 inferiore a 350 cell/uL; una situazione di ulteriore grave deficit del sistema immunitario (CD4 < 200celluL) è stata riportata nel 36,3% degli IDU, sebbene queste percentuali di persone con livelli bassi di CD4 siano comunque inferiori rispetto a quanto osservato in altri gruppi di popolazione (Figura 21). Figura 21 - Proporzione di persone con bassi livelli di CD4: IDU vs altre modalità di esposizione

Bibliografia 1. Relazione annuale al Parlamento 2012 sull’uso di sostanze stupefacenti e sulle tossicodipendenze in Italia. Dipartimento Politiche Antidroga, Agosto 2012. Dati relativi all’anno 2011 e primo semestre 2012 - elaborazioni 2012

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2. Malattie infettive e decessi correlati alla droga I dati del 2011 dal Rapporto annuale 2011 dell’Osservatorio Europeo delle Droghe e delle Tossicodipendenze (EMCDDA) Lucas Wiessing, Dagmar Hendrich, Isabelle Giraudon, Marica Ferri, Teodora Groshkova, Alessandra Bo, Bruno Guarita, Luigi Nisini, Joao Matias con la collaborazione di Jaen Mounteney, Roland Simon, Julian Vicente EMCDDA, Osservatorio Europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, Lisbona

Introduzione Il consumo di droga può produrre un’ampia gamma di conseguenze negative, quali incidenti, disturbi mentali, malattie polmonari, problemi cardiovascolari, disoccupazione o assenza di fissa dimora. Le ripercussioni negative sono particolarmente prevalenti tra i tossicodipendenti problematici, la cui salute generale e situazione socioeconomica possono essere notevolmente peggiori rispetto a quelle della popolazione generale. Il consumo di oppioidi e il consumo di stupefacenti per via parenterale sono due forme di utilizzo di stupefacenti strettamente associate a tali danni, in particolare alle overdose e alla trasmissione di malattie infettive. Il numero di overdose mortali riferite nell’Unione europea negli ultimi due decenni è pari a circa un decesso da overdose ogni ora. Le ricerche dimostrano inoltre che, negli ultimi due decenni, un gran numero di consumatori di stupefacenti è morto per altri motivi, come l’AIDS o il suicidio (Bargagli et al., 2006; Degenhardt et al., 2009). La riduzione della mortalità e della morbilità correlate al consumo di droga è fondamentale per le politiche europee sulla droga. Gli sforzi principali in questo ambito vengono effettuati attraverso interventi diretti ai gruppi più a rischio e mirano ai comportamenti direttamente associati ai danni correlati alla droga.

Malattie infettive correlate alla droga L’OEDT sta monitorando sistematicamente l’infezione da HIV e dai virus dell’epatite B e C tra i consumatori di stupefacenti per via parenterale. Le malattie infettive prodotte da questi virus sono tra le conseguenze più gravi per la salute del consumo di sostanze stupefacenti. Anche altre malattie infettive, tra cui l’epatite A e D, le malattie sessualmente trasmissibili, la tubercolosi, il tetano, il botulismo, l’antrace e il virus dei linfociti T dell’uomo possono colpire i tossicodipendenti in misura estremamente maggiore.

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HIV e AIDS Alla fine del 2009, il tasso di nuove diagnosi da HIV tra i consumatori di droga per via endovenosa (IDU) è rimasto basso nella maggior parte dei paesi dell’Unione europea e la situazione complessiva nell’UE risulta positiva rispetto al contesto globale ed europeo più ampio (ECDC e OMS Europa, 2010; Wiessing et al., 2009) (Figura 1). Questa situazione può essere dovuta, almeno in parte, all’aumento della disponibilità delle misure di prevenzione, di trattamento e di riduzione del danno, compresa la terapia sostitutiva e i programmi di scambio di aghi e siringhe. Anche altri fattori, come il calo del consumo per via parenterale, segnalato in alcuni paesi, possono essere stati determinanti (OEDT, 2010g). Il tasso medio di nuovi casi diagnosticati nei 26 Stati membri dell’UE in grado di fornire dati per il 2009 ha raggiunto un nuovo valore minimo di 2,85 per milione di abitanti, ovvero 1299 nuovi casi riportati. In talune regioni europee, tuttavia, i dati indicano che la trasmissione dell’HIV collegata al consumo di stupefacenti per via parenterale e proseguita nel 2009, mettendo in luce la necessità di garantire la copertura e l’efficacia delle prassi di prevenzione locale. Anche i dati disponibili sulla prevalenza dell’HIV in campioni di consumatori di droga per via parenterale nell’UE risultano positivi rispetto alla prevalenza nei paesi vicini dell’est, anche se i confronti tra i paesi devono essere considerati con cautela a causa delle differenze nei metodi di studio e nella copertura.

Tendenze osservate nell’infezione da HIV I dati sui casi di nuova diagnosi connessi al consumo di stupefacenti per via parenterale nel 2009 indicano che, in generale, il tasso di infezione sta ancora diminuendo nell’Unione europea, dopo il picco raggiunto nel 2001-2002 e dovuto alle epidemie scoppiate in Estonia, Lettonia e Lituania. Dei cinque paesi che riferiscono i tassi più elevati di infezioni di nuova diagnosi tra gli IDU tra il 2004 e il 2009 (Estonia, Spagna, Lettonia, Lituania, Portogallo), tre hanno continuato a segnalare una tendenza al ribasso, ma il tasso in Estonia e in Lituania è aumentato nuovamente rispetto ai livelli del 2008 (Figura 2). In Estonia si è registrato un aumento da 26,8 casi su un milione nel 2008 a 63,4 su un milione nel 2009 e in Lituania da 12,5 casi su un milione nel 2008 a 34,9 casi su un milione nel 2009. Nello stesso periodo, anche il tasso di nuove infezioni tra gli IDU in Bulgaria è aumentato da 0,9 nuovi casi su un milione di abitanti nel 2004 a 9,7 su un milione nel 2009, mentre in Svezia il tasso ha raggiunto il picco di 6,7 nuovi casi su un milione (61 nuove diagnosi) nel 2007. Questi dati indicano che in alcuni paesi esiste una potenzialità continua di diffusione dell’HIV tra gli IDU. I dati sull’andamento provenienti dalle attività di monitoraggio della prevalenza dell’HIV in campioni di IDU sono un elemento complementare importante rispetto ai dati di segnalazione dei casi di HIV. Per il periodo 2004-2009 sono disponibili statistiche sulla prevalenza trasmesse da 27 paesi europei. In 19 Stati la prevalenza dell’HIV non ha subito variazioni. In cinque paesi (Francia, Italia, Austria, Polonia, Portogallo) si sono verificate diminuzioni della prevalenza dell’HIV, tre delle quali basate su campioni nazionali, mentre in Francia la tendenza si basa sui dati provenienti da cinque città. In Austria, il campione nazionale non mostra alcuna variazione, ma viene osservata una diminuzione a Vienna. Due paesi riferiscono un aumento della prevalenza dell’HIV: la Slovacchia (dati nazionali) e la Lettonia (risultati delle sperimentazioni autodichiarati provenienti da sette città). In Bulgaria una riduzione a livello

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Malattie infettive e decessi correlati alla droga

Figura 1 - Infezioni da HIV di recente diagnosi nei consumatori di droghe per via parenterale nel 2009 in Europa e in Asia centrale

Casi segnalati per milione di abitanti >50 10<50 5<10 0<5 Non noti

NB: I colori indicano il tasso, per milioni di abitanti, dei casi di HIV di recente diagnosi, attribuiti al gruppo a rischio relativo al consumo di stupefacenti per via parenterale diagnosticati nel 2009. Fonte: ECDC e OMS-Europa, 2010. I dati russi provengono dal Federal Research Methodological Centre on Prevention and Fight of AIDS. Infezione da HIV. Bollettino informativo n. 34, pag. 35, Mosca 2010 (in russo).

nazionale non è rispecchiata dalla situazione nella capitale (Sofia), dove la tendenza è in aumento. In Italia esiste una tendenza nazionale al calo, con soltanto una delle 21 regioni che riferisce un aumento. Il confronto tra le tendenze nelle infezioni di nuova diagnosi connesse al consumo di stupefacenti per via parenterale e l’andamento della prevalenza dell’HIV tra gli IDU suggerisce che l’incidenza dell’infezione da HIV in relazione al consumo di stupefacenti per via parenterale sta diminuendo nella maggior parte dei paesi a livello nazionale. Nonostante le tendenze per lo più in rapido calo a partire dal 2004, la percentuale delle nuove diagnosi di HIV (su un milione di abitanti) nel 2009 correlate al consumo di stupefacenti per via parenterale è ancora relativamente elevata in Estonia (63,4), Lituania (34,9), Lettonia (32,7), Portogallo (13,4) e Bulgaria (9,7), il che indica che continuano a verificarsi numeri rilevanti di nuove infezioni tra i consumatori di stupefacenti per via parenterale in questi paesi. Ulteriori segnali di una trasmissione continua dell’HIV si osservano in sei paesi (Estonia, Spagna, Francia, Lettonia, Lituania, Polonia), con livelli di prevalenza superiori al 5% tra i campioni di giovani IDU (di età inferiore a 25 anni) nel 2005-2007 e in due paesi (Bulgaria, Cipro) in cui la prevalenza nei giovani IDU e aumentata tra il 2004 e il 2009.

Incidenza dell’AIDS e disponibilità della HAART Le informazioni sull’incidenza dell’AIDS possono essere importanti per dimostrare i nuovi casi di malattia sintomatica, sebbene siano un indicatore limitato della trasmissione dell’HIV. La presenza di elevati tassi di incidenza dell’AIDS può indicare che molti IDU affetti da HIV non ricevano la terapia antiretrovirale estremamente attiva (HAART) in una fase sufficientemente precoce dell’infezione, che consentirebbe loro di trarre il massimo beneficio dal trattamento. Una recente indagine globale conferma che potrebbe essere ancora così in alcuni paesi dell’UE (Mathers et al., 2010).

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Figura 2 - Andamento delle infezioni da HIV segnalate di recente nei consumatori di stupefacenti per via parenterale in cinque Stati membri dell’UE che segnalano i tassi più elevati

200

Casi per milione di abitanti

175 150 125 100 75 Estonia Lituania Lettonia Portogallo Spagna

50 25 0 2004

2005

2006

2007

2008

2009

NB: Dati segnalati alla fine di ottbre 2010. Per ulteriori informazioni consultare il grafico INF-2 del bollettino statistico 2011 Fonte: ECDC e OMS-Europa, 210

Attualmente, la Lettonia e il paese con la piu elevata incidenza di casi di AIDS riconducibili al consumo di stupefacenti per via parenterale, con 20,8 nuovi casi stimati ogni milione di abitanti nel 2009, in calo rispetto ai 26,4 nuovi casi per milione di abitanti nel 2008. Tassi relativamente elevati di incidenza dell’AI DS tra gli IDU sono segnalati anche da Estonia, Spagna, Portogallo e Lituania, con rispettivamente 19,4, 7,3, 6,6 e 6,0 nuovi casi per milione di abitanti. Tra questi paesi la tendenza dal 2004 al 2009 era in diminuzione in Spagna e Portogallo, ma non in Estonia e Lituania.

Epatite B e C L’epatite virale, in particolare, l’infezione causata dal virus dell’epatite C (HCV) mostra una prevalenza maggiore negli IDU in tutta Europa. I livelli di anticorpi anti-HCV tra i campioni nazionali di IDU esaminati nel 2008/09 variavano da circa il 22% al 91%, anche se nove dei 13 paesi riferisce risultati superiori al 40%. Tre paesi (Repubblica ceca, Ungheria, Slovenia) registrano prevalenze inferiori al 25% sebbene un tasso di infezione a questo livello rappresenti comunque un problema importante per la salute pubblica. I livelli di prevalenza dell’HCV possono essere estremamente vari all’interno di uno stesso paese, a causa sia di differenze sul piano regionale sia delle caratteristiche della popolazione oggetto del campione. Per esempio, in Italia, le stime regionali oscillano dal 37% circa all’81% (Figura 3). Studi recenti (2008/09) mostrano un’ampia gamma di livelli di prevalenza dell’HCV tra gli IDU di età inferiore a 25 anni e tra quelli che assumono droghe per via parenterale da meno di due anni, indicando livelli diversi di incidenza di HCV in questi gruppi in Europa. Ciononostante, questi studi

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Malattie infettive e decessi correlati alla droga

indicano anche che molti IDU contraggono il virus quando iniziano ad adottare questa modalità di consumo e ciò implica che l’intervallo di tempo in cui si può prevenire l’infezione da HCV è piuttosto breve. Nel periodo 2004-2009, otto paesi riferiscono una prevalenza dell’HCV in calo negli IDU e un paese la indica in aumento (Cipro), mentre altri quattro paesi riferiscono un andamento divergente in diverse serie di dati. Ciononostante, è necessario mantenere la cautela, date la copertura geografica e/o le dimensioni limitate del campione considerati negli studi in alcuni casi. Gli studi sui giovani IDU (di età inferiore ai 25 anni) suggeriscono anch’essi che in alcuni paesi potrebbe verificarsi un calo nella prevalenza in questo gruppo a livello nazionale (Bulgaria, Slovenia, Regno Unito) o subnazionale (Creta in Grecia, Vorarlberg in Austria), che potrebbe indicare una riduzione dei tassi di trasmissione. Tuttavia, vengono riferiti anche alcuni aumenti (Cipro, Graz in Austria). Alcune di queste tendenze sono confermate dai dati per i nuovi IDU (che consumano stupefacenti per via parenterale da meno di due anni). L’aumento della prevalenza dell’HCV tra i nuovi IDU è segnalato in Grecia (Attica), mentre l’Austria (Vorarlberg) e la Svezia (Stoccolma) riferiscono un calo). Anche la prevalenza degli anticorpi contro il virus dell’epatite B (HBV) varia in larga misura, forse a causa, in parte, delle differenze riscontrate nei programmi vaccinali, benché possano essere coinvolti anche altri fattori. Il marcatore sierologico più informativo dell’infezione da HBV e l’HBsAg (antigene superficiale del virus dell’epatite B), che indica un’infezione in corso. Per il 2004-2009, quattro dei 14 paesi che hanno fornito dati sul virus tra gli IDU riferiscono studi con livelli di prevalenza dell’HBsAg superiori al 5% (Bulgaria, Grecia, Lituania, Romania). L’andamento rilevato nei casi notificati di epatite B e C indica quadri diversi, che sono pero di difficile interpretazione perché i dati sono di scarsa qualità. Tuttavia, la percentuale di IDU tra tutti i casi notificati in cui i fattori di rischio sono noti può fornire ulteriori indicazioni sull’epidemiologia di queste infezioni (Wiessing et al., 2008). Calcolato come media tra i 20 paesi per i quali sono disponibili dati per il periodo 2004- 2009, il consumo di droga per via parenterale è pari al 63% di tutti i casi di HCV e al 38% dei casi gravi notificati di HCV, laddove è nota la categoria di rischio. Per quanto riguarda l’epatite B, gli IDU rappresentano il 20% di tutti i casi notificati e il 26% dei casi gravi. Questi dati confermano che gli IDU continuano a costituire un gruppo a rischio rilevante per l’infezione da epatite virale in Europa).

Altre infezioni Oltre alle infezioni virali, gli IDU sono esposti alle malattie batteriche. La diffusione dell’antrace tra gli IDU in Europa (cfr. OEDT, 2010a) ha evidenziato un problema in corso con le forme gravi di malattia dovuto ai batteri sporigeni tra gli IDU. Uno studio europeo ha confrontato i dati relativi ai casi riferiti di quattro infezioni batteriche (botulismo, tetano, Clostridium novyi e antrace) negli IDU nello scorso decennio. Nel periodo 2000-2009, sei paesi hanno riferito 367 casi, con tassi di popolazione variabili, da 0,03 a 7,54 su un milione di abitanti. La maggior parte dei casi di infezione (92%) è stata riferita da tre paesi nell’Europa nord-occidentale: Irlanda, Regno Unito e Norvegia. I motivi di questa variazione geografica non sono chiari e sono necessarie ulteriori indagini (Hope et al., in stampa).

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Figura 3 - Prevalenza degli anticorpi anti-HCV tra i consumatori di stupefacenti per via parenterale % 100

75

50

25

Romania

Norvegia

Bulgaria

Finlandia

Italia

Svezia

Polonia

Belgio

Paesi Bassi

Grecia

Danimarca

Portogallo

Slovacchia

Austria

Cipro

Croazia

Regno Unito

Malta

Ungheria

Slovenia

Repubblica ceca

0

NB: Dati per gli anni 2008 e 2009. I quadrati neri rappresentano campioni con copertura nazionale, i triangoli blu campioni con copertura subnazionale (locale o regionale). Le differenze fra i paesi devono essere interpretate con cautela a causa delle differenze nei tipi di impostazione e metodi di studio; le strategie nazionali di campionamento variano. I paesi sono rappresentati per ordine di prevalenza crescente, in base alla media dei dati nazionali ose non disponibile, dei dati subnazionali. Per ulteriori informazioni consultare il grafico INF-6 del bollettino statistico 2011 Fonte: Punti focali nazionali Reitox

Prevenzione delle malattie infettive e risposta La prevenzione delle malattie infettive tra i tossicodipendenti è un importante obiettivo di salute pubblica dell’Unione europea e una componente delle politiche di lotta alla droga della maggior parte degli Stati membri. I paesi mirano a prevenire e a controllare la diffusione delle malattie infettive tra i tossicodipendenti attraverso una combinazione di approcci, tra cui il controllo, la vaccinazione e il trattamento delle infezioni, il trattamento delle tossicodipendenze, in particolare la terapia sostitutiva per la dipendenza da oppioidi e la distribuzione di strumenti sterili per le iniezioni; inoltre, attività a livello di comunità forniscono informazioni, istruzione e interventi comportamentali, spesso attuati tramite agenzie di prima assistenza o agenzie a bassasoglia. Queste misure, insieme alla terapia antiretrovirale e alla diagnosi e al trattamento della tubercolosi, sono state promosse dalle agenzie delle Nazioni Unite come interventi fondamentali per la prevenzione, il trattamento e l’assistenza per l’HIV destinati agli IDU (OMS, UNODC e UNAIDS, 2009).

Tubercolosi tra i tossicodipendenti La tubercolosi (TBC) è una malattia causata da batteri, che attacca generalmente i polmoni e puo essere mortale. Nel 2008, sono stati identificati 82 605 casi in totale in 26 Stati membri dell’UE e in Norvegia, con tassi superiori a 20 su 100 000 in Romania (114,1), Lituania (66,8), Lettonia (47,1), Bulgaria (41,2), Estonia (33,1) e Portogallo (28,7) (ECDC, 2010). In Europa, la malattia è concentrata per lo più nei gruppi a rischio elevato, come i migranti, i senza tetto, i tossicodipendenti e i carcerati.

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Malattie infettive e decessi correlati alla droga

A causa dell’emarginazione e dello stile di vita, i tossicodipendenti possono essere confrontati a rischi maggiori di contrarre la TBC rispetto alla popolazione generale. Essere positivi all’HIV comporta un rischio aggiuntivo di sviluppare la TBC, che è stimato essere da 20 a 30 volte superiore rispetto alle persone che non hanno un’infezione da HIV (OMS, 2010a). I dati sulla prevalenza della TBC tra le popolazioni di tossicodipendenti sono limitati. In Europa sono riferiti tassi elevati di TBC attiva (sintomatica) tra i tossicodipendenti in terapia in Grecia (1,7%), Lituania (3%) e Portogallo (1-2%), mentre prove sistematiche condotte in strutture di trattamento della tossicodipendenza in Austria, Repubblica slovacca e Norvegia non hanno individuato alcun caso. La tubercolosi nei tossicodipendenti può essere trattata in maniera efficace, sebbene ciò richieda un regime terapeutico complesso di almeno sei mesi. Il completamento del trattamento è essenziale, perché l’organismo malato diventa rapidamente tollerante alle medicine e sviluppa una resistenza al trattamento. Per i consumatori problematici di stupefacenti, soprattutto quelli con stili di vita disordinati, può essere difficile adattarsi al trattamento. I nuovi metodi che mirano a ridurre la durata del trattamento hanno le potenzialità di aumentare la probabilità di completarlo con successo.

Interventi L’efficacia della terapia sostitutiva per la dipendenza da oppioidi nella riduzione della trasmissione dell’HIV e del comportamento a rischio dell’assunzione per via parenterale autodichiarato è stata confermata in diversi studi e analisi. Esistono sempre più prove del fatto che la combinazione della terapia sostitutiva per la dipendenza da oppioidi e lo scambio di aghi e siringhe sia più efficace nella riduzione dell’incidenza dell’HIV o HCV e del comportamento a rischio dell’assunzione per via parenterale rispetto a uno dei due approcci da solo (ECDC e OE DT, 2011).

Prevenzione delle infezioni tra gli IDU: orientamenti comuni ECDC-OEDT Nel 2011, Il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) e l’OEDT hanno emesso alcuni orientamenti comuni sulla prevenzione e il controllo delle malattie infettive tra gli IDU. Gli orientamenti offrono una panoramica completa dell’efficacia degli interventi, comprese misure quali la fornitura di siringhe pulite e altri strumenti per iniezioni, il trattamento delle tossicodipendenze, compresa la terapia sostitutiva per la dipendenza da oppioidi, la vaccinazione, i test e il trattamento delle infezioni tra i tossicodipendenti. Gli orientamenti esaminano i modelli di erogazione del servizio e le informazioni e i messaggi educativi più adeguati per questa popolazione. Tenendo conto dei miglioramenti nel trattamento dell’epatite C, molti paesi stanno aumentando gli sforzi per prevenire, rilevare e trattare l’epatite tra i tossicodipendenti. L’Unione europea sostiene varie iniziative per migliorare la prevenzione

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dell’epatite C tra i tossicodipendenti. Tali iniziative comprendono: definizione di norme e orientamenti nazionali per la prevenzione dell’HCV nell’UE (Zurhold, 2011), compilazione di esempi di sensibilizzazione, prevenzione, interventi di trattamento e assistenza (studio di correlazione ed EHRN, 2010), sviluppo di materiali formativi per responsabili politici, professionisti del settore sanitario e fornitori di servizi locali (ad esempio Hunt e Morris, 2011). La fornitura di siringhe gratuite e pulite organizzata attraverso strutture specializzate o farmacie esiste in tutti i paesi tranne la Turchia, ma nonostante una notevole espansione negli ultimi due decenni, l’informazione sulla copertura geografica rivela degli squilibri, con diversi paesi nell’Europa centrale e orientale e in Svezia che riferiscono una mancanza di disponibilità in alcune zone (Figura 4). Sono disponibili dati recenti sulla fornitura di siringhe attraverso programmi specializzati di scambio di aghi e siringhe per tutti i paesi tranne tre, mentre sono incompleti in altri due paesi. I dati dimostrano che attraverso questi programmi vengono distribuiti quasi 50 milioni di siringhe all’anno, pari a una media di circa 94 siringhe ogni consumatore di stupefacenti stimato nei paesi che forniscono dati sulle siringhe. Il numero medio di siringhe distribuite in un anno per ogni IDU può essere calcolato per 13 paesi. In sette di questi paesi, il numero medio di siringhe distribuite tramite programmi specializzati è pari a meno di 100 per IDU, quattro paesi distribuiscono tra 100 e 200 siringhe e il Lussemburgo e la Norvegia riferiscono di distribuire più di 200 siringhe ogni IDU. Per la prevenzione dell’HIV, le agenzie delle Nazioni Unite ritengono bassa la cifra di 100 siringhe distribuite all’anno per IDU e alta la cifra di 200 siringhe per IDU (OMS, UNO DC e UNAI DS, 2009). Figura 4 - Disponibilità geografica di programmi di scambio di aghi e siringhe a livello regionale

Dati mancanti o esclusi Disponibili Non disponibili

MT00

NB: Regioni definite secondo la nomenclatura delle unità territoriali per la statistica (NUTS) livello 2; per ulteriori informazioni consultare il sito internet Eurostat Fonte: Cfr. la tabella H5R-4 nel bollettino statistico 2011

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Malattie infettive e decessi correlati alla droga

Negli ultimi quattro anni di segnalazione (2005-2009) il numero totale di siringhe distribuite dai programmi di scambio di siringhe è aumentato del 32%. Un’analisi a livello sub-regionale dell’andamento della fornitura di siringhe mostra un appiattimento dell’aumento tra gli Stati che erano membri dell’UE prima del 2004 e un aumento nei nuovi Stati membri.

Mortalità e decessi correlati agli stupefacenti Il consumo di sostanze stupefacenti è una delle principali cause di problemi di salute e di decesso tra i giovani europei e può essere responsabile di una percentuale notevole di tutti i decessi tra gli adulti. Gli studi hanno rilevato che tra il 10% e il 23% della mortalità tra le persone di età compresa tra 15 e 49 anni può essere attribuita al consumo di oppioidi (Bargagli e al., 2006; Bloor e al., 2008). La mortalità indotta dagli stupefacenti comprende i decessi provocati direttamente o indirettamente dal consumo di stupefacenti. Sono inclusi i decessi prodotti da overdose di stupefacenti (decessi indotti dagli stupefacenti), HIV/AIDS, incidenti stradali (in particolare in associazione ad alcol) violenza, suicidio e problemi cronici di salute prodotti dal consumo ripetuto di droghe (ad esempio problemi cardiovascolari nei consumatori di cocaina).

Decessi indotti dagli stupefacenti Le stime più recenti indicano che nel 2009 vi sono stati circa 7.630 decessi indotti dagli stupefacenti negli Stati membri dell’UE e in Norvegia, il che indica una situazione stabile rispetto ai 7.730 casi riferiti nel 2008. È probabile che queste cifre siano prudenti, perché i dati nazionali relativi ai decessi indotti dagli stupefacenti potrebbero essere riferiti o valutati per difetto. Pochi paesi hanno misurato l’ampiezza della stima per difetto nei loro dati nazionali. Nel periodo 1995-2008 sono stati riferiti ogni anno dagli Stati membri dell’UE e dalla Norvegia tra 6 300 e 8 400 decessi indotti dagli stupefacenti. Nel 2008, l’anno più recente per il quale sono disponibili dati per quasi tutti i paesi, più della metà dei decessi indotti dagli stupefacenti era segnalata da due paesi, la Germania e il Regno Unito, che insieme alla Spagna e all’Italia hanno registrato due terzi di tutti i casi segnalati (5 075). Per il 2009, il tasso medio di mortalità dovuto a overdose nell’UE è stimato a 21 decessi per milione di abitanti di età compresa tra 15 e 64 anni, e la maggior parte dei paesi riferisce tassi compresi tra 4 e 59 decessi per milione (Figura 5). Percentuali superiori a 20 decessi per milione di abitanti si riscontrano in 13 paesi europei su 28, mentre in sette paesi il dato supera i 40 decessi per milione di abitanti. Tra i cittadini europei di 15-39 anni, l’overdose da stupefacenti era pari al 4% di tutti i decessi. Il numero di decessi indotti dagli stupefacenti riferiti può essere influenzato dalla prevalenza e dai modelli di consumo degli stupefacenti (per via parenterale, poliassunzione), dall’età e dalle comorbilità dei tossicodipendenti e dalla disponibilità dei servizi di trattamento e di emergenza, nonché dalla qualità della raccolta dei dati e dalla modalità di stesura delle relazioni. I miglioramenti nell’affidabilità dei dati europei hanno consentito migliori descrizioni degli andamenti e la maggior parte dei paesi ha adottato attualmente una definizione dei casi approvata dall’OEDT. Ciononostante occorre una certa cautela nel confronto tra paesi, poiché esistono ancora differenze nella metodologia di stesura delle relazioni e nelle fonti di dati.

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Figura 5 - Tassi di mortalità stimati tra tutti gli adulti (15-64 anni) dovuta a decessi indotti da stupefacenti 146 90 80

Tasso per milione di abitanti

70 60 50 40 30 20 10

Estonia

Norvegia

Irlanda

Regno Unito

Danimarca

Finlandia

Lussemburgo

Svezia

Austria

Lituania

Malta

Germania

media UE

Cipro

Croazia

Slovenia

Spagna

Lettonia

Italia

Paesi Bassi

Belgio

Grecia

Francia

Polonia

Bulgaria

Portogallo

Repubblica ceca

Slovacchia

Ungheria

Turchia

Romania

0

NB: Per ulteriori informazioni consultare il grafico DRD-6 nel bollettino statistico 2011 Fonte: Punti focali nazionali Reitox

Decessi correlati agli oppioidi Eroina Gli oppioidi, soprattutto l’eroina o i suoi metaboliti, sono menzionati nella maggior parte dei decessi indotti dagli stupefacenti riferiti in Europa. Nei 22 paesi che hanno fornito dati per il 2008 o il 2009, gli oppioidi erano responsabili della maggior parte di tutti i casi: più del 90% in cinque paesi e tra l’80% e il 90% in altri 12. Le sostanze riscontrate spesso oltre all’eroina comprendono alcol, benzodiazepine, altri oppioidi e, in alcuni paesi, la cocaina. Questo suggerisce che una parte considerevole di tutti i decessi correlati al consumo di stupefacenti si verifica in un contesto di poliassunzione, come illustrato da un esame della tossicologia dei decessi correlati agli stupefacenti in Scozia nel 2000-2007. Tale studio ha dimostrato che la presenza di eroina e alcol erano associati positivamente, soprattutto tra gli uomini in età più avanzata. Tra gli uomini i cui decessi erano correlati all’eroina, l’alcol era presente nel 53% delle persone con 35 anni e più, contro il 36% nei casi con meno di 35 anni (Bird e Robertson, 2011; cfr. anche GROS, 2010). In Europa, la maggior parte dei consumatori di droga che muore per overdose è di sesso maschile (81%). Nel complesso, si registrano circa quattro casi che coinvolgono uomini per ogni caso che riguarda una donna (con un rapporto che va da 1,4:1 in Polonia a 31:1 in Romania) (130). Negli Stati membri che hanno aderito all’UE più di recente, sono più probabili i decessi riferiti indotti dagli stupefacenti negli uomini e nei giovani rispetto agli Stati membri prima del 2004 e alla Norvegia. I modelli sono diversi in Europa, con percentuali più elevate di uomini riferite nei paesi meridionali (Grecia, Italia, Romania, Cipro, Ungheria, Croazia) e in Estonia, Lettonia e Lituania. La Danimarca, i Paesi Bassi, la Svezia e la Norvegia riferiscono percentuali più elevate di casi con età più alta. L’età media dei tossicodipendenti deceduti per overdose di eroina nella maggioranza dei paesi e

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Malattie infettive e decessi correlati alla droga

attorno ai 35 anni e in molti casi si sta alzando, a suggerire una possibile stabilizzazione o diminuzione del numero di giovani consumatori di eroina e un gruppo di consumatori problematici di oppioidi che invecchia. Nel complesso, il 12% dei decessi da overdose registrati in Europa si verifica tra persone di età inferiore a 25 anni. Numerosi fattori sono associati alle overdose letali e non letali di eroina, tra cui l’assunzione per via parenterale e l’utilizzo simultaneo di altre sostanze, in particolare alcol, benzodiazepine e alcuni antidepressivi. Altri fattori correlati alle overdose sono il consumo smodato di droga,la comorbilità, l’assenza di fissa dimora, la scarsa salute mentale (ad esempio la depressione e l’avvelenamento volontario), il fatto di non essere in terapia per la tossicodipendenza, l’avere sperimentato altre overdose in precedenza e l’essere da soli al momento dell’overdose (Rome et al., 2008). Nel periodo immediatamente successivo al rilascio dal carcere (OMS, 2010a) o all’abbandono di una terapia c’è un rischio di overdose particolarmente alto, come illustrato da alcuni studi longitudinali. Metadone e mortalità Con circa 700.000 consumatori di oppioidi in terapia sostitutiva, sono emerse droghe quali il metadone in relazione ai decessi indotti dagli stupefacenti. Il metadone viene citato spesso nelle relazioni tossicologiche per i decessi correlati al consumo di stupefacenti e talvolta viene identificato come causa del decesso. Nonostante ciò, le attuali prove disponibili sono fortemente a favore dei benefici della terapia sostitutiva ben regolata e controllata, abbinata a interventi psicosociali di assistenza, per mantenere i pazienti in terapia e ridurre il consumo illecito di oppioidi e la mortalità. Gli studi osservazionali segnalano che il tasso di mortalità fra i consumatori di oppioidi in terapia con metadone e circa un terzo del tasso registrato fra quelli che non sono in terapia. La durata del trattamento è un fattore importante, e gli studi recenti indicano che la terapia sostitutiva per oppioidi ha una possibilità superiore all’85% di ridurre la mortalità globale tra i consumatori di oppioidi se rimangono in terapia per 12 mesi o più (Cornish et al., 2010). I benefici in termini di sopravvivenza aumentano con l’esposizione cumulativa alla terapia (Kimber et al., 2010). Inoltre, sembra che il metadone riduca il rischio di infezione da HIV del 50% circa rispetto all’astinenza o a nessun trattamento (Mattick et al., 2009). Per quanto riguarda i decessi correlati al metadone in una popolazione, uno studio recente in Scozia e in Inghilterra ha concluso che all’introduzione di un dosaggio controllato di metadone seguiva un calo sostanziale dei decessi in cui era coinvolto il metadone. Tra il 1993 e il 2008, si è avuta una riduzione di quattro volte almeno dei decessi dovuti a overdose correlata al metadone per quantità di metadone prescritta, in un contesto di espansione del trattamento (Strang et al., 2010). Altri oppioidi Oltre all’eroina, nelle relazioni tossicologiche è presente una serie di altri oppioidi, tra cui il metadone e la buprenorfina. I decessi ascrivibili a intossicazione da buprenorfina sono rari e vengono citati da pochissimi paesi, nonostante l’aumento del ricorso a questa sostanza nella terapia sostitutiva in Europa. In Finlandia, tuttavia, la buprenorfina rimane la sostanza più comune rilevata nelle autopsie, generalmente in combinazione con altre sostanze. Questo è il risultato emerso da una recente relazione finlandese che ha esa-

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minato i risultati sugli stupefacenti in casi di avvelenamento accidentale; tale relazione ha segnalato la presenza di benzodiazepine in quasi tutti i casi (38/40) in cui la buprenorfina è stata identificata come principale causa di decesso. Anche l’alcol, individuato in 22 casi su 40 (Salasuo et al., 2009), era un fattore significativo. In Estonia, la maggior parte dei decessi indotti dagli stupefacenti riferiti nel 2009, come negli anni precedenti, era dovuta al consumo di 3-metilfentanil.

Decessi correlati ad altre sostanze I decessi prodotti da intossicazione acuta da cocaina sembrano essere relativamente poco comuni (OE DT, 2010a). Tuttavia, poiché è più difficile definire e individuare le overdose da cocaina rispetto a quelle correlate agli oppioidi, esse potrebbero venire registrate meno. Nel 2009 sono stati segnalati circa 900 decessi correlati al consumo di cocaina in 21 paesi. A causa della mancanza di confrontabilità nei dati disponibili non è possibile descrivere l’andamento europeo. I dati più recenti per la Spagna e il Regno Unito, i due paesi con i livelli più elevati di prevalenza di cocaina, indicano un calo nei decessi correlati a questa droga: in Spagna, dal 25,1% dei casi segnalati con cocaina (e non oppiacei) nel 2007 al 19,3% nel 2008 e nel Regno Unito dal 12,7% nel 2008 al 9,6% nel 2009. La cocaina viene identificata molto raramente come l’unica sostanza che contribuisce a un decesso indotto da stupefacenti. Una recente analisi internazionale sulla mortalità tra i consumatori di cocaina ha concluso che vi sono dati limitati sull’estensione della mortalità elevata tra i consumatori di cocaina problematici o dipendenti (Degenhardt et al., 2011). L’analisi ha incluso risultati ricavati da tre studi europei di follow-up: uno studio francese che ha seguito i soggetti arrestati per reati legati alla cocaina; uno studio olandese con consumatori di cocaina per via parenterale individuati tramite servizi a bassa soglia e uno studio italiano con consumatori di cocaina dipendenti in terapia. I tassi di mortalità generici in questi studi andavano da 0,54 a 4,6 su 100 persone/anno. Un recente studio di coorte danese su soggetti in terapia per il consumo di cocaina, ha mostrato un eccesso di rischio di mortalità pari a 6,4 rispetto a soggetti di pari età e sesso nella popolazione generale (Arendt et al., 2011). I decessi in cui è presente l’ecstasy (MDMA) sono segnalati raramente e, in molti di questi casi, la droga non è stata identificata come causa diretta del decesso. Nel 2009 sono stati segnalati in Inghilterra (mefedrone) e in Finlandia (MDPV) decessi probabilmente correlati ai catinoni.

Andamento dei decessi correlati al consumo di stupefacenti I decessi indotti dagli stupefacenti hanno subito un’impennata in Europa negli anni ottanta e nei primi anni novanta paragonabile all’aumento del consumo di eroina e dell’assunzione di sostanze per via parenterale, per poi stabilizzarsi a livelli elevati. Tra il 2000 e il 2003 molti Stati membri dell’UE hanno segnalato una diminuzione, seguita da un successivo aumento tra il 2003 e il 2008. I dati preliminari disponibili per il 2009 indicano una cifra globale pari o leggermente inferiore a quella dell’anno precedente. Laddove è possibile un

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confronto, i numeri dei decessi segnalati sono diminuiti in alcuni dei paesi più grandi, tra cui la Germania, l’Italia e il Regno Unito. È difficile spiegare le cause del numero elevato o in aumento di decessi indotti dagli stupefacenti segnalati in alcuni paesi, soprattutto considerate le indicazioni di riduzioni nel consumo di droga per via parenterale e gli aumenti nel numero di consumatori di oppioidi in contatto con i servizi di terapia e di riduzione dei danni. Le spiegazioni possibili comprendono: maggiori livelli di poliassunzione (OE DT, 2009b) o comportamento ad alto rischio; un aumento del numero di consumatori di oppioidi recidivanti che lasciano il carcere o abbandonano la terapia e un gruppo di tossicodipendenti che invecchia.

Mortalità generale correlata al consumo di sostanze stupefacenti La mortalità generale legata al consumo di sostanze stupefacenti comprende i decessi indotti dagli stupefacenti e quelli prodotti indirettamente dal consumo di droga, come attraverso la trasmissione di malattie infettive, problemi cardiovascolari e incidenti. È difficile quantificare il numero dei decessi correlati indirettamente al consumo di droga, ma il loro effetto sulla salute pubblica può essere notevole. Tali decessi sono concentrati per lo più tra i tossicodipendenti, sebbene alcuni (incidenti stradali) si verifichino tra i consumatori occasionali. Le stime della mortalità generale correlata agli stupefacenti possono essere ricavate in molti modi, ad esempio associando informazioni provenienti da studi di coorte a stime della prevalenza del consumo di droga. Un altro approccio consiste nell’utilizzo delle statistiche generali esistenti sulla mortalità e nella stima.

Studi di coorte sulla mortalità Gli studi di coorte sulla mortalità esaminano gli stessi gruppi di tossicodipendenti problematici nel tempo e, attraverso il collegamento con registri della mortalità, provano a individuare le cause di tutti i decessi che si verificano nel gruppo. Questo tipo di studio può stabilire i tassi di mortalità generali e quelli legati a una causa specifica relativi alla coorte e può valutare la mortalità in eccesso del gruppo rispetto alla popolazione generale. A seconda delle modalità di reclutamento (ad esempio strutture per la terapia delle tossicodipendenze) e dei criteri di inclusione (ad esempio IDU, consumatori di eroina), la maggior parte degli studi di coorte indica tassi di mortalità nell’intervallo compreso tra 1 e 2% all’anno tra i tossicodipendenti problematici. Questi tassi di mortalità sono approssimativamente da 10 a 20 volte superiori a quelli dello stesso gruppo di età nella popolazione generale. L’importanza relativa delle cause di decesso cambia tra le popolazioni, da paese a paese e nel tempo, tuttavia la causa principale del decesso tra i consumatori problematici in Europa è generalmente l’overdose da droga, responsabile del 50-60% dei decessi tra i consumatori per via parenterale nei paesi a bassa prevalenza di HIV/AIDS. Oltre all’HIV/AIDS e ad altre malattie, le cause di decesso segnalate più frequentemente comprendono il suicidio, gli incidenti e l’abuso di alcol.

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“Questione specifica”: mortalità correlata al consumo di stupefacenti: un approccio globale e implicazioni per la salute pubblica

Una «Questione specifica» dell’OEDT pubblicata quest’anno presenta i risultati sulla mortalità correlata agli stupefacenti provenienti da recenti studi longitudinali tra i consumatori problematici di stupefacenti in Europa. Viene presa in esame la mortalità generale è dovuta a cause specifiche e descritti i fattori di rischio e protettivi individuati attraverso la ricerca. Inoltre, vengono esaminate le implicazioni per la salute pubblica.

Decessi indirettamente correlati al consumo di stupefacenti Associando i dati esistenti provenienti da Eurostat e dal controllo su HIV/ AIDS, l’OEDT ha calcolato che circa 2100 persone sono decedute nell’Unione europea nel 2007 a causa dell’infezione da HIV/AIDS contratta in seguito al consumo di stupefacenti, con il 90% di questi decessi verificatisi in Spagna, Francia, Italia e Portogallo. Altre malattie responsabili di una percentuale di decessi tra i tossicodipendenti comprendono condizioni croniche quali le malattie epatiche, dovute principalmente a infezione dal virus dell’epatite C (HCV) e spesso aggravate dal forte consumo di alcol e dalla coinfezione HIV. I decessi prodotti da altre malattie infettive sono più rari. Le cause di decesso tra i tossicodipendenti, come i suicidi, i traumi e gli omicidi, hanno ricevuto molta meno attenzione, nonostante le indicazioni del loro notevole impatto sulla mortalità.

Riduzione dei decessi correlati al consumo di stupefacenti Quindici paesi europei riferiscono che la loro strategia nazionale di lotta alla droga rivolge un’attenzione particolare alla riduzione dei decessi correlati al consumo di stupefacenti, che tali politiche esistono a livello regionale, o che hanno un piano d’azione specifico per la prevenzione dei decessi correlati agli stupefacenti. In alcuni degli altri paesi (Estonia, Francia, Austria), i recenti aumenti nei decessi correlati al consumo di stupefacenti (in parte tra gruppi di età più giovane e consumatori integrati) hanno aumentato la consapevolezza della necessita di migliori risposte. Il trattamento può ridurre significativamente il rischio di mortalità dei tossicodipendenti, anche se i rischi relativi alla tolleranza alla droga emergono quando si inizia o si lascia la terapia. Gli studi indicano che il rischio di decesso indotto dalla sostanza stupefacente nella fase di ricaduta dopo il trattamento o nelle settimane successive al rilascio dal carcere è sostanzialmente elevato. A causa del suo profilo di sicurezza farmacologico, la buprenorfina è consigliata per la terapia di mantenimento per la dipendenza da oppioidi in alcuni paesi e una combinazione di buprenorfina-nalossone ha ottenuto l’autorizzazione alla commercializzazione in almeno la metà dei paesi. Sebbene siano stati fatti dei progressi in alcuni paesi europei verso l’eliminazione del divario terapeutico tra comunità e carcere, l’abbandono del trattamento della tossicodipendenza, dovuto ad arresto, incarcerazione o rilascio, è stato identificato come fattore che aumenta il rischio di overdose (Dolan et al., 2005). Ciò ha condotto alla pubblicazione da parte dell’ufficio regionale dell’OMS per l’Europa (OMS, 2010c) di raccomandazioni per quanto riguarda la preven-

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Malattie infettive e decessi correlati alla droga

zione dell’overdose in carcere e la migliore continuità dell’assistenza dopo il rilascio. Oltre a migliorare l’accesso al trattamento dei tossicodipendenti, sono stati studiati altri interventi destinati a ridurre i rischi di overdose nei tossicodipendenti. Questi interventi riguardano fattori personali, situazionali e legati al consumo di stupefacenti. I materiali informativi sul rischio di overdose, spesso prodotti in più lingue per raggiungere i consumatori di stupefacenti immigrati, vengono distribuiti nella maggior parte dei paesi attraverso centri e siti Internet specializzati nelle droghe e più recentemente anche attraverso messaggi telefonici e posta elettronica. In 27 paesi esiste un servizio di consulenza e di formazione per un consumo più sicuro per i tossicodipendenti, erogato dal personale di assistenza ai tossicodipendenti o tramite formatori di pari livello, ma l’offerta di questi interventi è spesso sporadica e limitata. Risposte aggiuntive segnalate da un piccolo numero di paesi comprendono: monitoraggio delle persone che hanno vissuto un’emergenza correlata alla droga (Belgio, Danimarca, Lussemburgo, Paesi Bassi, Austria); «sistemi di allarme rapido» per avvertire i consumatori delle sostanze pericolose (Belgio, Repubblica ceca, Francia, Ungheria, Portogallo, Croazia) e migliori controlli per prevenire prescrizioni di più droghe (Lussemburgo, Regno Unito). I locali di consumo controllati, come quelli disponibili in Germania, Spagna, Lussemburgo, Paesi Bassi e Norvegia, forniscono opportunità per un intervento immediato da parte di professionisti in casi di overdose e riducono l’effetto sulla salute delle overdose non mortali. Le prove dell’effetto dei locali di consumo controllato sui decessi indotti dagli stupefacenti nella comunità comprendono uno studio recente condotto a Vancouver, che ha segnalato una riduzione del 35% negli incidenti da overdose nella comunità interessata dopo che era stato aperto un locale per il consumo per via parenterale controllato (Marshall, B. et al., 2011). Questo risultato va nella stessa direzione di studi precedenti analizzati in una monografia sulla riduzione del danno (OEDT, 2010b). La formazione sull’overdose, associata a una dose per assunzione domestica di nalossone (che inverte gli effetti degli oppioidi ed è ampiamente utilizzata negli ospedali e nella medicina di primo soccorso) è un intervento che può evitare i decessi da overdose di oppioidi. Alcuni paesi europei segnalano l’esistenza di programmi a livello di comunità che prescrivono il nalossone ai consumatori di oppioidi a rischio di overdose. La prescrizione di nalossone è accompagnata da una formazione obbligatoria al riconoscimento delle overdose, che fornisce tecniche di base di primo soccorso (ad esempio respirazione di primo soccorso, posizione di recupero) e informazioni su come somministrare il nalossone. Questo intervento è destinato ai consumatori di stupefacenti, alle loro famiglie e pari e intende aiutarli ad adottare azioni efficaci nelle situazioni di overdose, in attesa dell’arrivo dei servizi di pronto soccorso. La distribuzione di nalossone ai consumatori di stupefacenti è segnalata dall’Italia (dove il 40% delle agenzie di assistenza ai tossicodipendenti fornisce la sostanza), dalla Germania e dal Regno Unito (Inghilterra e Galles). Nuove iniziative vengono riferite dalla Bulgaria, dalla Danimarca e dal Portogallo. In Scozia, la fornitura di “nalossone per assunzione domestica” a tutti i soggetti a rischio che lasciano il carcere è stata introdotta a livello nazionale nel 2010 e il governo sostiene un programma nazionale di assunzione domestica di nalossone per le persone che si ritengono a rischio di overdose da oppioidi e per chi potrebbe entrare in contatto con loro. In Inghilterra, il progetto di studio N-Alive, che eseguirà una sperimentazione controllata randomizzata su 5600 carcerati, sta valutando l’efficacia del nalossone nel ridurre i decessi dovuti a overdose nelle settimane successive al rilascio dal carcere.

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Bibliografia Rapporto annuale 2011 dell’Osservatorio Europeo delle Droghe e delle Tossicodipendenze (OEDT Lisbona).


3. Le potenzialità non sfruttate della scienza della dipendenza nel controllo dell’epidemia di HIV Nora D. Volkow, Ruben D. Baler, Jacques L. Normand National Institute on Drug Abuse, Bethesda Traduzione italiana dell’articolo “The Unrealized Potential of Addiction Science in Curbing the HIV Epidemic” (Current HIV Research, 2011 9, 393-395)

Abstract L’incidenza sempre elevata di nuove infezioni di HIV rende infondate le evidenze scientifiche prevalenti secondo cui una prolungata terapia antiretrovirale altamente attiva (HAART) avrebbe il potere di ridurre drasticamente la diffusione dell’infezione di HIV e di modificare per sempre il volto di questa devastante epidemia. Uno dei principali fattori che determinano questo paradosso della salute pubblica è l’attuale epidemia di HIV tra i tossicodipendenti che, attraverso l’uso iniettivo di droga e i comportamenti sessuali ad alto rischio, contribuiscono in modo significativo ad incrementare i tassi di infezione da HIV. Le evidenze correnti dimostrano chiaramente che, per colmare questa lacuna, è necessario integrare il trattamento per l’abuso di sostanze con i programmi di cura per l’HIV e garantire alle persone tossicodipendenti l’accesso universale al trattamento per l’HIV attraverso uno sforzo teso all’individuazione di quei soggetti ad alto rischio difficili da raggiungere e al loro incoraggiamento a sottoporsi al test HIV e alle cure. Questi obiettivi richiederanno dei cambiamenti strutturali del sistema sanitario per superare molti degli ostacoli che hanno inibito per troppo tempo la fusione del trattamento per l’uso di sostanze con i programmi di cura per l’HIV. Parole chiave: HAART, terapia antiretrovirale altamente attiva, prevenzione HIV, disturbi da uso di sostanze, trattamento. Sono disponibili ampie evidenze secondo cui una prolungata terapia antiretrovirale altamente attiva (HAART) porta ad una significativa riduzione nella diffusione del virus dell’immunodeficienza umana (HIV). Il vigoroso impiego di tale terapia ha praticamente eliminato la trasmissione verticale del virus HIV nel mondo occidentale e perfino ridotto la trasmissione orizzontale tra le coppie eterosessuali sierodiscordanti. Inoltre, la diffusione della terapia antiretrovirale, in particolare tra le popolazioni ad alto rischio, limita ulteriormente la trasmissione dell’HIV [1].

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Tuttavia, l’incidenza di nuove infezioni – stimata all’incirca di 55.400 casi all’anno nell’ultimo decennio – non è riuscita a evidenziare l’efficacia clinica della terapia HAART e le sue prospettive promettenti [2]. I principali responsabili delle nuove trasmissioni di HIV sono i soggetti sieropositivi non diagnosticati: 1 su 5 degli individui infetti negli Stati Uniti (US) non è a conoscenza del suo stato di sieropositività per l’ HIV. Un secondo elemento determinante è l’epidemia di HIV in corso tra i consumatori di sostanze, non solo quelli per via iniettiva, ma anche tra coloro che utilizzano altre vie di assunzione. Questi ultimi contribuiscono in modo significativo ad aumentare i tassi di infezione da HIV, non solo perché condividono le reti sociali e sessuali dei consumatori per via endovenosa, ma anche a causa della elevata frequenza di comportamenti sessuali ad alto rischio [3]. La ricerca sulla dipendenza ha permesso di raccogliere informazioni fondamentali sull’impatto dei comportamenti d’ uso di sostanze sul rischio di trasmissione dell’HIV facendo luce sugli effetti deleteri acuti e a lungo termine delle droghe sul controllo cognitivo, in particolare perché interferiscono con la normale attività frontocorticale. È noto da più di due decenni che gli effetti gratificanti delle droghe da parte dell’uomo sono associati all’aumento della dopamina (DA) nel nucleo accumbens (NAc), che costituisce un elemento fondamentale del sistema di ricompensa cerebrale [4]. Non c’è da meravigliarsi che anche il sesso provochi un incremento della DA nel NAc. Poiché la DA aumenta il livello di eccitazione e attivazione, l’incremento della DA indotto dall’uso della droga potrebbe aumentare la motivazione ad avere comportamenti sessuali [5]. In effetti, gli studi preclinici e clinici hanno dimostrato che l’intossicazione da sostanze può aumentare i comportamenti sessuali. Ad esempio, nei ratti femmina, la procettività (un indicatore della motivazione al comportamento sessuale) aumenta con l’assunzione di metanfetamine (MA) [6], e negli esseri umani, il metilfenidato (un farmaco stimolante) per via endovenosa, è stato dimostrato aumentare l’eccitazione sessuale, sia nei gruppi di controlli che nei consumatori di cocaina [7]. Gli studi di imaging del cervello hanno anche documentato che durante l’intossicazione si verifica una concomitante inibizione delle aree coinvolte nel controllo cognitivo. Ad esempio, in seguito all’intossicazione da alcol non vi è soltanto una maggiore attivazione delle aree limbiche cerebrali coinvolte nella eccitazione sessuale (NAc e amigdala), ma anche una inibizione delle aree cerebrali coinvolte nel controllo cognitivo (corteccia prefrontale e giro cingolato) [8]. Questi risultati sono coerenti con un una riduzione del controllo e dell’impulsività riportati durante l’intossicazione alcolica [9] e potrebbero preludere l’aumentata perdita di controllo che caratterizza la dipendenza. Infatti, durante l’instaurarsi di una dipendenza, emergerebbe un più radicato squilibrio funzionale tra l’amigdala eccessivamente reattiva e la corteccia prefrontale debole, il che ha un impatto negativo diretto sul processo decisionale e sul controllo degli impulsi [10]. Studi di imaging cerebrale supportano l’idea che l’autoregolamentazione emozionale (come si è osservato durante l’eccitazione sessuale) venga attuata da un circuito neurale che comprende varie regioni limbiche prefrontali e sottocorticali [11]. Inoltre, le vie dopaminergiche striato-corticali giocano un ruolo cruciale nell’orchestrare la comunicazione equilibrata necessaria per avviare un processo decisionale adeguato e tenere sotto controllo l’impulsività. A questo proposito il livello significativamente più basso di recettori striatali D2 della DA, che viene costantemente osservato nei soggetti tossicodipendenti, è stato associato a punteggi più elevati di impulsività [12] e alla compromissione dell’attività frontale [13].

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Le potenzialità non sfruttate della scienza della dipendenza nel controllo dell’epidemia di HIV

La conoscenza del legame tra l’abuso di sostanze e la trasmissione del virus HIV, sia diretta (per mezzo di aghi contaminati) che indiretta (attraverso una maggiore impulsività che porta ad elevati comportamenti a rischio) dovrebbe essere un forte incentivo a prevedere la prevenzione e il trattamento per l’HIV nella popolazione tossicodipendente [14]. Purtroppo, l’ampia applicazione di questa logica incontra diversi impedimenti. Il primo e più importante è la riluttanza ad intraprendere la HAART nei tossicodipendenti. Tale resistenza è da attribuire alla convinzione che i tossicodipendenti sono incapaci di mantenere l’adesione alla HAART, compromettendo l’efficacia del trattamento e promuovendo la comparsa di ceppi farmaco-resistenti all’HIV [15]. Tuttavia, evidenze recenti dimostrano che, a parità di aderenza al trattamento, i consumatori di sostanze per via parenterale e i non consumatori hanno una sopravvivenza a 5 anni paragonabile quando sono in cura con la HAART [16]. Inoltre, i tossicodipendenti con uso per via endovenoso non in trattamento, si scambiano le siringhe e praticano sesso a rischio in misura significativamente superiore rispetto ai soggetti in trattamento, mentre il trattamento per l’abuso di sostanze è associato a tassi di sieroconversione per l’HIV notevolmente più bassi [17]. Infine, evidenze recenti dimostrano che il rischio di sviluppare resistenza antiretrovirale non differisce in modo significativo tra i tossicodipendenti con uso parenterale di sostanze e quelli con uso non endovenoso [18]. Questi esempi evidenziano l’importanza di programmi di trattamento globali mirati contemporaneamente all’uso di sostanze e all’HIV per migliorare l’aderenza e i risultati. È importante sottolineare che le preoccupazioni riguardanti la comparsa di ceppi farmaco-resistenti all’HIV non si sono concretizzate, anche là dove si privilegia un trattamento HAART aggressivo dei tossicodipendenti [19]. Inoltre, i programmi di trattamento globale HAART indirizzati ai tossicodipendenti sono associati a sostanziali diminuzioni di nuove infezioni HIV [20]. Di conseguenza, una nuova serie di raccomandazioni, presentate ad una recente Conferenza Internazionale AIDS [21], sottolineano l’urgenza di cercare di identificare i tossicodipendenti in modo proattivo, di indurli annualmente al test HIV (secondo le raccomandazioni dei Centers for Disease Control and Prevention [CDC]), di sottoporli al trattamento con la HAART, secondo le attuali linee guida, e di mantenere in trattamento (con trattamento ottimale per disturbo da uso di sostanze) i consumatori di sostanze con infezione da HIV. Anche l’assenza di trattamento dei disturbi da uso di sostanze compromette gli sforzi per combattere l’epidemia di HIV attraverso una riduzione dei serbatoi di infezione costituiti dalle popolazioni ad alto rischio. Un esempio è la nostra incapacità di sfruttare pienamente le uniche opportunità terapeutiche che esistono tra gli individui in carcere, oltre la metà dei quali hanno una storia di consumo di sostanze [22]. Infatti, degli oltre 200.000 individui con dipendenza da eroina che passano ogni anno attraverso gli istituti penitenziari americani, solo a una piccola parte viene offerta la terapia sostitutiva durante e dopo la carcerazione, e quelle strutture che la forniscono ne limitano l’uso per lo più alle donne in gravidanza [23]. Per quanto riguarda l’HIV, attualmente non ci sono procedure standardizzate riguardanti il test e il trattamento in carcere e negli istituti penitenziari statunitensi. Questa è una grande opportunità persa, perché il trattamento dei tossicodipendenti affetti da HIV nel sistema giudiziario penale potrebbe integrare la pianificazione della dimissione e la consegna dei farmaci per garantire la continuazione delle cure al rientro nella comunità; tali cambiamenti strutturali potrebbero trasformare il volto dell’epidemia da HIV. La mancanza di cure a livello mondiale è altrettanto sconcertante: nei cinque

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paesi a basso e medio reddito in cui è presente quasi la metà di tutti i tossicodipendenti con uso endovenoso di sostanze, sieropositivi per l’HIV, la percentuale di soggetti che hanno accesso alla terapia sostitutiva varia da 0% (Russia) a 4% (Cina) [24]. Questa assenza o inadeguata implementazione della terapia sostitutiva, che è in palese contraddizione con i suoi benefici sociali, medici ed economici [22], riflette sia l’opposizione ideologica alla terapia sia anche le difficoltà della sua attuazione. Per esempio, la terapia sostitutiva in molti paesi richiede una revisione quotidiana, che costituisce un onere supplementare per un individuo a cui può essere richiesto di trascorrere diverse ore per accedere al trattamento cercando al tempo stesso di mantenere un lavoro. Perciò, sarebbero utili strategie di cure alternative in grado di superare questi ostacoli pratici. Per esempio, mentre gli attuali trattamenti per la dipendenza da oppiacei si sono concentrati sulla disintossicazione mediata dagli agonisti (es. metadone o buprenorfina), vi sono anche evidenze che gli antagonisti (cioè il naltrexone) possono contribuire a raggiungere la remissione nei consumatori di eroina [25]. Fino a poco tempo fa l’utilizzo del naltrexone era stato limitato dall’aderenza molto scarsa a questo farmaco. Tuttavia, lo sviluppo di una formulazione iniettabile di naltrexone a rilascio prolungato, che è stata recentemente approvata dalla Food and Drug Administration (FDA) americana per il trattamento della dipendenza da oppiacei potrebbe aiutare a superare la scarsa adesione osservata con gli antagonisti oppioidi. Anche se sono necessari ulteriori studi, i dati raccolti finora con questo farmaco, che viene somministrato soltanto una volta al mese, sembrano supportare la sua efficacia per il trattamento della dipendenza da oppioidi [26]. Un altro obiettivo della ricerca in questo contesto è lo sviluppo di immunoterapie per il trattamento della dipendenza da oppiacei. La logica alla base di tale vaccino è che la stimolazione di anticorpi contro eroina (e i suoi metaboliti attivi) possono interferire con l’ingresso della droga nel cervello, fornendo una protezione duratura contro la ricaduta nella dipendenza da eroina. I risultati promettenti di un rapporto preclinico costituiscono delle evidenze di principio, dimostrando che la generazione di una robusta e specifica risposta anticorpale policlonale nei ratti vaccinati è stata accompagnata da riduzioni significative sia degli effetti antinocicettivi dell’eroina sia nell’acquisizione di auto-somministrazione di eroina [27]. I tossicodipendenti, e in particolare i consumatori di sostanze per via iniettiva, hanno attualmente molte minori probabilità di ricevere la HAART, nonostante l’elevata prevalenza di infezione da HIV nel gruppo [21]. Questa lacuna, se non presa in debita considerazione, si sta preannunciando come uno degli ostacoli più deleteri al progresso negli ambiti che si intersecano con i disturbi da uso di sostanze e con l’HIV. Vale la pena ricordare in questo contesto che la paura che i tossicodipendenti possano aumentare ulteriormente i loro comportamenti ad alto rischio durante il trattamento con la HAART non è stata dimostrata; infatti, alcuni studi hanno dimostrato che la somministrazione della HAART ai tossicodipendenti con uso di droga per via iniettiva non è associata ad un aumento di comportamenti a rischio legati dell’attività sessuale o all’uso di droghe [28, 29]. Quindi, uno dei messaggi più chiari emersi dalla recente Conferenza Internazionale sull’AIDS è stato che “il trattamento come prevenzione” non è più un’ipotesi da verificare, ma è divenuta ora una priorità di urgente attuazione [21]. In sintesi, i nostri sforzi per migliorare l’outcome della salute pubblica nei confronti dell’epidemia di HIV, dovrebbero rispecchiare le seguenti nuove concrete acquisizioni: a) sia i consumatori di droghe per via iniettiva sia quelli per via parenterale sono in grado di intraprendere con successo il tratta-

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Le potenzialità non sfruttate della scienza della dipendenza nel controllo dell’epidemia di HIV

mento per l’HIV; b) molti tossicodipendenti mantengono la loro adesione alla terapia antiretrovirale allo stesso modo delle persone che non si iniettano o che assumono sostanze; c) i tossicodipendenti per via iniettiva che seguono il trattamento per l’uso di sostanze hanno maggiori probabilità di ottenere e di mantenere il trattamento per l’infezione HIV. L’insieme di tali evidenze costituisce una ragione convincente per integrare il trattamento per l’abuso di sostanze con i programmi di trattamento dell’HIV, e per fornire ai tossicodipendenti l’accesso universale alle cure per l’HIV. Al momento, la strategia più efficace per portare avanti questo obiettivo sembra essere uno sforzo mirato per “identificare, testare, trattare e ritenere” soggetti ad alto rischio, difficilmente raggiungibili, offrendo loro il test per l’HIV e, se necessario, la terapia assieme a supporti per rimanere nei programmi di trattamento sia per l’HIV che per l’uso di sostanze [30]. Il raggiungimento di questi obiettivi, tuttavia, richiederà cambiamenti strutturali del sistema sanitario volti a superare gli ostacoli persistenti che hanno inibito per troppo tempo la fusione del trattamento dell’uso di sostanze con i programmi per HIV. Bibliografia 1. Montaner JS, Wood E, Kerr T, et al. Expanded highly active antiretroviral therapy coverage among HIV-positive drug users to improve individual and public health outcomes. J Acquir Immune Defic Syndr 2010; 55 (Suppl 1): S5-9. 2. Taege A. Seek and treat: HIV update 2011. Cleve Clin J Med 2011; 78(2): 95-100. 3. Strathdee SA, Stockman JK. Epidemiology of HIV among injecting and non-injecting drug users: current trends and implications for interventions. Curr HIV/AIDS Rep 2010; 7(2): 99-106. 4. Di Chiara G, Imperato A. Drugs abused by humans preferentially increase synaptic dopamine concentrations in the mesolimbic system of freely moving rats. Proc Natl Acad Sci USA 1988; 85(14): 5274-8. 5. Phillips AG, Vacca G, Ahn S. A top-down perspective on dopamine, motivation and memory. Pharmacol Biochem Behav 2008; 90(2): 236-49. 6. Holder MK, Mong JA. Methamphetamine enhances paced mating behaviors and neuroplasticity in the medial amygdala of female rats. Horm Behav 2010; 58(3): 519-25. 7. Volkow ND, Wang GJ, Fowler JS, Telang F, Jayne M, Wong C. Stimulant-induced enhanced sexual desire as a potential contributing factor in HIV transmission. Am J Psychiatry 2007; 164(1): 157-60. 8. Zhu W, Volkow ND, Ma Y, Fowler JS, Wang GJ. Relationship between ethanol-induced changes in brain regional metabolism and its motor, behavioural and cognitive effects. Alcohol Alcsm 2004;39(1): 53-8. 9. Dougherty DM, Marsh-Richard DM, Hatzis ES, Nouvion SO, Mathias CW. A te measures of impulsivity. Drug Alcohol Depend 2008; 96(1-2): 111- 20. 10. Bechara A. Decision making, impulse control and loss of willpower to resist drugs: a neuro cognitive perspective. NatNeurosci 2005; 8(11): 1458-63. 11. Beauregard M, Levesque J, Bourgouin P. Neural correlates of conscious self-regulation of emotion. J Neurosci 200; 21(18): RC165. 12. Lee B, London ED, Poldrack RA, et al. Striatal dopamine d2/d3 receptor availability is reduced in methamphetamine dependence and is linked to impulsivity. J Neurosci 2009; 29(47): 14734-40. 13. Volkow ND, Fowler JS, Wang GJ, Swanson JM, Telang F. Dopamine in drug abuse and addiction: results of imaging studies and treatment implications. Arch Neurol 2007; 64(11): 1575-9. 14. Crawford ND, Vlahov D. Progress in HIV reduction and prevention among injection and noninjection drug users. J Acquir Immune Defic Syndr 2011; 55 (Suppl 2): S84-7. 15. Lert F, Kazatchkine MD. Antiretroviral HIV treatment and care for injecting drug users: an evidence-based overview. Int J Drug Policy 2007; 18(4): 255-61. 16. Wood E, Hogg RS, Lima VD, et al. Highly active antiretroviral therapy and survival in HIVinfected injection drug users. J Am Med Assoc 2008; 300(5): 550-4. 17. Metzger DS, Woody GE, McLellan AT, et al. Human immunodeficiency virus seroconversion among intravenous drug users in- and out-of-treatment: an 18-month prospective follow-up. J Acquir Immune Defic Syndr 1993; 6(9): 1049-56.

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18. Werb D, Mills EJ, Montaner JS, Wood E. risk of resistance to highly active antiretroviral therapy among HIV-positive injecting drug users; a meta-analysis. Lancet Infect Dis 2010; 10(7): 464-9. 19. Wood E, Hogg RS, Yip B, et al. Rates of antiretroviral resistance among HIV-infected patients with and without a history of injection drug use. AIDS 2005; 19(11): 1189-95. 20. Wood E, Kerr T, Marshall BD, et al. Longitudinal community plasma HIV-1 RNA concentrations and incidence of HIV-1 among injecting drug users: prospective cohort study. Br Med J 2009; 338: b1649. 21. International AIDS Society (IAS). IAS/NIDA Meeting Report: Prevention and Treatment of HIV/ AIDS among Drug Using Populations: A Global Perspective. Washington, DC: IAS 2010. 22. Nunn A, Zaller N, Dickman S, Trimbur C, Nijhawan A, Rich JD. Methadone and buprenorphine prescribing and referral practices in US prison systems: results from a nationwide survey. Drug Alcohol Depend 2009; 105(1-2): 83-8. 23. Rich JD, Boutwell AE, Shield DC, et al. Attitudes and practices regarding the use of methadone in US state and federal prisons. J Urban Health 2005; 82(3): 411-9. 24. Wolfe D, Carrieri MP, Shepard D. Treatment and care for injecting drug users with HIV infection: a review of barriers and ways forward. Lancet 2010; 376(9738): 355-66. 25. Johnson RE, Chutuape MA, Strain EC, Walsh SL, Stitzer ML, Bigelow GE. A comparison of levomethadyl acetate, buprenorphine, and methadone for opioid dependence. N Engl J Med 2000; 343(18): 1290-7. 26. Krupitsky E, Nunes EV, Ling W, Illeperuma A, Gastfriend DR, Silverman BL. Injectable extended-release naltrexone for opioid dependence: a double-blind, placebo-controlled, multicentre randomised trial. Lancet 2011; 377(9776): 1506-13. 27. Stowe GN, Vendruscolo LF, Edwards S, et al. A Vaccine Strategy that Induces Protective Immunity against Heroin. J Med Chem 2011; 54(14): 5195-204. 28. Kuyper L, Milloy MJ, Marshall BD, et al. Does initiation of HIV antiretroviral therapy influence patterns of syringe lending among injection drug users? Addict Behav 2011; 36(5): 560-3. 29. Marshall BD, Milloy MJ, Kerr T, Zhang R, Montaner JS, Wood E. No evidence of increased sexual risk behaviour after initiating antiretroviral therapy among people who inject drugs. AIDS 2011; 24(14): 2271-8. 30. Volkow ND, Montaner J. Enhanced HIV testing, treatment, and support for HIV-infected substance users. J Am Med Assoc 2010; 303(14): 1423-4. st of alcohol dose effects on multiple behavioural.

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4. Epidemiologia delle infezioni nei tossicodipendenti in base alla via di introduzione e al tipo di sostanza d’abuso Mauro Zaccarelli Unità Immunodeficienze virali, Istituto Nazionale per le Malattie Infettive L. Spallanzani, Roma

Riassunto Dall’inizio degli anni ’70, da quando l’uso di eroina e morfina ha iniziato a diffondersi largamente nelle aree urbane dei paesi più sviluppati, tra cui il nostro, sono comparsi in letteratura sempre più studi, che dimostravano la connessione tra uso di droghe e malattie infettive come ad esempio la tubercolosi. La tossicodipendenza per lo stile di vita ad essa correlato e per le modalità di assunzione della droga si associa ad alta morbilità e mortalità, le cause di tale eccesso sono quindi in parte riconducibili all’azione diretta della droga (come per es. overdose), in parte ai comportamenti che ne caratterizzano l’assunzione (es. infezioni conseguenti all’uso di aghi non sterili o a scambio di siringhe per le droghe assunte per via endovenosa). Le infezioni che si sono largamente diffuse nella popolazione dei tossicodipendenti sono state infezioni virali: principalmente infezione da HIV, epatite C e B, e batteriche: endocardite, polmonite, infezioni della cute e dei tessuti molli. I tossicodipendenti risultano a elevato rischio anche per infezioni dell’encefalo (meningiti encefaliti), dell’apparato muscolo scheletrico (rabdomiolisi, fascite necrotizzante, osteomielite), e micosi sistemiche. La trasmissione degli agenti infettivi avviene attraverso le modalità di assunzione delle droghe, in particolare la via endovenosa, e viene favorita dallo stato di ipersuscettibilità alle infezioni che è presente nel tossicodipendente attivo. È stata infatti osservata una correlazione tra uso di droga in particolare oppiacei e depressione immunitaria. Se questa correlazione sia dovuta a continua esposizione ad agenti patogeni attraverso i comportamenti a rischio o all’effetto immunosoppresore ad esempio dei derivati dell’oppio e/o a una correlazione di queste due modalità è tuttora oggetto di discussione non risolto. Dall’inizio degli anni 80, la diffusione dell’infezione da HIV ha determinato un booster di mortalità tra i tossicodipendenti in particolare nelle aree urbane, ma con il tempo e l’aumento informazione riguardo al rischio di trasmissione l’uso in comune di siringhe tra i tossicodipendenti è diminuito. Le

Connessione tra uso di droghe e malattie infettive.

Maggiore diffusione di infezioni virali e batteriche

Correlazione tra uso di droghe e depressione immunitaria

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conoscenze accumulate negli anni sui comportamenti dei tossicodipendenti hanno permesso di mettere a fuoco il ruolo di determinate situazioni che si associano alla somministrazione della droga, citiamo a titolo di esempio la elevata frequenza di iniezioni legata a droghe come la cocaina, le “shooting galleries”, i paraphernalia, su cui è stato possibile effettuare interventi di riduzione del danno, che senza moralismi hanno permesso di salvare molte vite.

1. Introduzione

La tossicodipendenza si associa ad alta morbilità e mortalità per azione diretta delle sostanze e per i comportamenti legati all’assunzione.

Tasso di mortalità tra i tossicodipendenti con infezione da HIV 5 volte superiore agli HIV negativi

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Storicamente, già dalla fine del 1800 e inizio 1900 era stato messo in evidenza come la dipendenza da oppio fosse correlata ad una elevata incidenza di complicanze infettive (1-3), in particolare infezioni batteriche che assumevano decorso particolarmente grave (4, 5). Già allora si è posto l’accento sul possibile effetto di riduzione della risposta immunitaria correlato all’uso di derivati dell’oppio (6, 7). Dall’inizio degli anni 70, da quando l’uso di eroina e morfina ha iniziato a diffondersi largamente nelle aree urbane dei paesi più sviluppati, tra cui il nostro, sono comparsi in letteratura sempre più studi, che dimostravano la connessione tra uso di droghe e malattie infettive (8) come ad esempio la tubercolosi (9). La tossicodipendenza per lo stile di vita ad essa correlato e per le modalità di assunzione della droga si associa ad alta morbilità e mortalità, le cause di tale eccesso sono quindi in parte riconducibili all’azione diretta della droga (come per es. overdose), in parte ai comportamenti che ne caratterizzano l’assunzione (es. infezioni conseguenti all’uso di aghi non sterili o a scambio di siringhe per le droghe assunte per via endovenosa). Dall’inizio degli anni 80, la diffusione dell’infezione da HIV ha determinato un booster di mortalità tra i tossicodipendenti in particolare nelle aree urbane. In uno studio condotto a Roma negli anni ’80 si evidenziava un incremento del tasso di mortalità dall’11,8 per 1000 al 17,4 per 1000, con un rapporto standardizzato di mortalità (ovvero il rischio relativo di morte rispetto alla popolazione italiana) pari a 10,1 (10). Uno studio condotto a Roma su 2461 tossicodipendenti dimostrava come la mortalità tra i tossicodipendenti con infezione da HIV avessero un tasso di mortalità 5 volte superiore agli HIV negativi e infezioni come l’endocardite e altre cause di morte come l’overdose fossero significativamente più frequenti tra i tossicodipendenti HIV-positivi (11). Un altro studio condotto a Milano dimostrava come sia stato osservato un rapido incremento della mortalità nei tossicodipendenti nel corso degli anni 80 e come questa si correlasse ad un aumento di mortalità per overdose e AIDS (12). Stesse osservazioni sono state fatte in altre grandi città come New York (13). La trasmissione degli agenti infettivi avviene attraverso le modalità di assunzione delle droghe, in particolare la via endovenosa, e viene favorita dallo stato di ipersuscettibilità alle infezioni che è presente nel tossicodipendente attivo. È stata infatti osservata una correlazione tra uso di droga in particolare oppiacei e depressione immunitaria. Se questa correlazione sia dovuta a continua esposizione ad agenti patogeni attraverso i comportamenti a rischio o all’effetto immunosoppresore ad esempio dei derivati dell’oppio e/o a una correlazione di queste due modalità è sempre stato ed è tuttora oggetto di discussione; di fatto i programmi di prevenzione basati sulla riduzione del rischio di trasmissione per via endovenosa di HIV e altri agenti patogeni dove sono stati implementati sono stati in grado di salvare migliaia di vite (14, 15), con vantaggio di costo beneficio (16).


Epidemiologia delle infezioni nei tossicodipendenti in base alla via di introduzione e al tipo di sostanza d’abuso

2. Infezioni trasmesse per via iniettiva L’iniezione endovenosa è la più efficiente via di somministrazione di droga. Iniettare una sostanza psicoattiva direttamente nel circolo venoso è subito seguita da un potente effetto, che è sicuramente più potente di quanto si ottenga se la droga viene inalata. Una droga inalata o fumata anche se può arrivare in alcune situazioni ad un effetto paragonabile alla stessa sostanza iniettata, comporta lo svantaggio di perdita nell’ambiente di parte dei fumi o polveri che non vengono aspirati. Quasi ogni droga può essere somministrata per via endovenosa, associandola alla sostanza adatta che la renda solubile e iniettabile e pertanto la somministrazione endovenosa produce l’effetto massimo al costo più contenuto. È chiaro che chi è dipendente, specie se in sindrome di astinenza, una volta ottenuta la droga cerca di somministrarla subito, per cui prende la prima siringa disponibile, non importa se già utilizzata, magari da altri. Ed il needlesharing, la condivisione di aghi e siringhe, è stato la base per la diffusione di agenti infettivi tra i tossicodipendenti. Negli anni 70-80 la condivisione di siringhe era di fatto la regola tra i tossicodipendenti (17), supportata anche da superstizioni che imponevano di non acquistare siringhe senza aver prima disponibile la dose di eroina. Con la diffusione dell’infezione da HIV e l’informazione riguardo al rischio di trasmissione l’uso in comune di siringhe tra i tossicodipendenti è diminuito, ma è stata posta attenzione anche sui “paraphernalia”: cotone, filtri, cucchiaio e in generale tutti gli strumenti che vengono usati per la preparazione della dose di droga (18), la cui importanza per il rischio di infezione è stata a più riprese dimostrata (19). 2.1 Infezione da HIV La condivisione di aghi e siringhe è un mezzo efficiente di trasmissione di HIV ed è stata la via attraverso la quale HIV e anche altri virus si sono rapidamente diffusi tra i tossicodipendenti. Tassi di incidenza di nuove infezioni da HIV tra il 10/100 e il 50/100 anni/ persona sono stati riportati negli anni 80, all’inizio dell’epidemia di HIV, a New York (20) ed Edimburgo (21). Lo stesso andamento di rapida diffusione è stato osservato in periodi successivi in altre aree geografiche in concomitanza con la diffusione dell’infezione da HIV (22) per ultimo in Europa dell’Est (23). In Italia, i tossicodipendenti hanno di fatto sostenuto l’epidemia di AIDS per tutti gli anni 90 essendo l’anello di passaggio alla popolazione generale attraverso la trasmissione sessuale. Dalla seconda metà degli anni 80, è stato osservato un decremento della prevalenza di positività per anti-HIV osservato nei tossicodipendenti all’ingresso in trattamento presso Ser.T. in varie città italiane (24-26): da un 80% a Milano e un 60% a Roma nell’8586 fino a stabilizzarsi intorno al 15%, mentre a Napoli la prevalenza si era mantenuta intorno al 10% pur con andamento in diminuzione fino al 5%; questi trend sono stati successivamente confermati negli anni 90 (27). Analogamente si osservava un diffuso calo dell’incidenza di nuove infezioni nei tossicodipendenti in trattamento presso Ser.T. nelle maggiori città italiane (26): a Roma comunque le nuove infezioni da HIV si sono stabilizzate su livelli relativamente elevati, cioè intorno al 4/100 anni/ persona fino al 1995 (28). In generale dall’inizio dell’epidemia di HIV i comportamenti a rischio risultavano progressivamente cambiati e si osservava una diminuzione della proporzione tossicodipendenti che riferivano scambio di siringhe (29) e una minor

La condivisione di aghi e siringhe, è stata la base per la diffusione di agenti infettivi tra i tossicodipendenti

Negli anni ’80 il tasso di incidenza di nuove infezioni da HIV era tra il 10/100 e il 50/100 anni/ persona

In Italia, i tossicodipendenti hanno di fatto sostenuto l’epidemia di AIDS per tutti gli anni 90

Successivo costante decremento dell’incidenza e della prevalenza dell’infezione da HIV

Progressivo cambiamento dei comportamenti a rischio

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Trattamento sostitutivo associato a riduzione del rischio di infezione da HIV

Bassa percentuale dei soggetti sottoposti al test HIV tra gli utenti dei SerT

Nelle Regioni a più alta prevalenza di sieropositività si tende anche a testare meno i nuovi soggetti in entrata al servizio.

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rilevanza di questo fenomeno come rischio di infezione. Rimaneva però il problema di una alta incidenza di infezione da HIV contratta per via sessuale, considerato che il tossicodipendente era ancora restio all’uso del profilattico (30), pur in una elevata frequenza di contatti, probabilmente sia per scarsa informazione sia per il costo e la scarsa disponibilità di questo metodo preventivo. Era anche stato dimostrato che il trattamento stabilizzato con metadone si associava a una riduzione del rischio di contrarre HIV (31). È decisivo notare come la diffusione estremamente rapida dell’infezione da HIV tra i tossicodipendenti non è stata generata semplicemente dall’efficienza di trasmissione attraverso siringhe condivise, ma piuttosto da un insieme di fattori associati (32). Questi fattori comprendono: I. mancanza di informazione riguardo HIV e AIDS nella popolazione tossicodipendente locale; II. restrizione nell’accesso a siringhe sterili, che possono essere dovute a norme di legge sulla loro vendita o sulla necessità di prescrizione medica; III. situazioni che creano la possibilità di rapido scambio di siringhe con un elevato numero di altri tossicodipendenti in breve tempo come ad esempio le note “shooting galleries” di New York, i giardini pubblici di Zurigo e altre città svizzere o i quartieri periferici delle grandi aree urbane, dove sono presenti luoghi di vendita che possono contattare un alto numero di utenti in brevissimo tempo nel momento in cui la droga è disponibile (33). I dati più recenti del Dipartimento Politiche Antidroga segnalano nel nostro paese una “forte diminuzione del casi di AIDS, ormai perdurante da qualche anno” (34). Questi dati derivano però dalla sorveglianza nei Ser.t e soffrono di una bassa percentuale di utenti sottoposti a test per HIV, che è risultata soltanto del 37,3%. La prevalenza media nazionale dei soggetti testati risultati HIV positivi è risultata dell’11,5% con percentuali differenziate nel seguente modo: il 18,7% nelle femmine e il 12,3% nei maschi nei soggetti già in carico, mentre è il 2,3% nelle femmine e il 2,0% nei maschi nei nuovi utenti. La maggior prevalenza di HIV si è riscontrata nel genere femminile. Si è rilevato un’associazione negativa tra basso livello di utilizzo del test e percentuale di soggetti HIV positivi, sottolineando che nelle Regioni a più alta prevalenza di sieropositività si tende anche a testare meno i nuovi soggetti in entrata al servizio. Le situazioni critiche per maggior positività per HIV e contemporaneo minor uso del test sono emerse in Bolzano, Toscana, Abruzzo, Emilia Romagna, Liguria. Rimane il problema della reale rappresentatività di questi dati in quanto riferibili soltanto alla popolazione di tossicodipendenti in trattamento e solo a una parte di essi, quelli che accettano di sottoporsi al test. Per ottenere dati su tossicodipendenti non in trattamento si stanno tentando nuovi approcci, quali sottoporre a test rapido su saliva i tossicodipendenti contatti con le unità mobili con successivo invio dei soggetti risultati positivi ai centri di riferimento di malattie infettive per la presa in carico. Il programma svolto a Roma ha sottoposto a test, in anonimato, tra Febbraio e Luglio 2010 468 persone, il 38% dei quali tossicodipendenti mai sottoposti a test per HIV. Tra questi sono risultati positivi 4 tossicodipendenti, ma soltanto uno di questi si è successivamente recato al centro di riferimento, confermando la difficoltà di agganciare e trattare i tossicodipendenti al di fuori dei trattamenti sostitutivi offerti nei Ser.T (35). I tossicodipendenti sia nei paesi sviluppati che in quelli a basso livello di risorse hanno rapidamente appreso come si tramette HIV e come è possibile evitare l’infezione, anche se esiste una obiettiva difficoltà di cambiare i propri


Epidemiologia delle infezioni nei tossicodipendenti in base alla via di introduzione e al tipo di sostanza d’abuso

comportamenti se si è dipendenti da una sostanza. Questa difficoltà ha creato lo stereotipo del tossicodipendente che sia incapace di modificare i propri comportamenti a rischio. La letteratura ha invece dimostrato che i tossicodipendenti sono stati in grado negli anni di ridurre la frequenza di scambio siringa, ridurre il numero di altri soggetti con cui viene effettuato lo scambio ed anche, per quanto possibile, ridurre il numero di rapporti sessuali non protetti (36). I cambiamenti di comportamento riportati in letteratura configurano però una riduzione di rischio che non può essere per forza di cose una eliminazione completa. Vi sono infatti evidenze periodiche di ripresa della diffusione rapida di HIV in aree geografiche in cui si verificano condizioni a questo favorevoli (37). Per questo motivo i programmi di prevenzione e riduzione del danno che hanno mostrato efficacia nel ridurre il rischio di trasmissione di HIV vanno mantenuti e potenziati evitando moralismi e preconcetti. 2.2 Epatite C e B I dati del Dipartimento Politiche Antidroga confermano anche un basso utilizzo del test per l’epatite B e C per i tossicodipendenti afferenti ai Ser.T, in particolare per i nuovi utenti (35). Le percentuali di soggetti testati sono infatti soltanto il 46% per l’epatite C e il 40% per l’epatite B. La prevalenza media nazionale dei soggetti testati risultati HCV positivi è risultata comunque elevata: 58,5%, più alta nelle femmine (67,5%) che nei maschi (64,1%) nei soggetti già in carico, e in generale più bassa nelle femmine (24,3%) e nei maschi (24,7%) tra i nuovi utenti. le Regioni con maggior positività all’HCV sono Sardegna, Emilia Romagna, Abruzzo, Valle d’Aosta e Liguria. La prevalenza di anticorpi per epatite B è invece risultata del 36.1%, più alta nelle femmine (57.3%) che nei maschi (38.5%) nei soggetti in carico, e del 19% nei nuovi utenti. L’epatite C è probabilmente l’infezione virale più diffusa tra i tossicodipendenti. Il virus C è stato identificato inizialmente nel 1990 e si stima che ci siano 150 milioni di persone affette da epatite cronica C, che risulta essere la causa più frequente di cirrosi epatica ed epatocarcinoma (38, 39). L’infezione da HCV tra i tossicodipendenti ha avuto il suo picco nella seconda metà degli anni 80, poi un successivo decremento, legato agli interventi e all’informazione sulla trasmissione dell’infezione da HIV. Il virus dell’epatite C è facilmente trasmissibile per via iniettiva. È stato osservato come dopo un anno di uso di droghe per via endovenosa già due terzi dei tossicodipendenti possono risultare HCV positivi, con analoga frequenza di diffusione per l’epatite B (40). Più di recente, la proporzione di tossicodipendenti portatori di virus C è risultata il 50% dopo 5 anni di uso di droga (41). I programmi di “neddle-exchange” per HIV hanno certamente contribuito a questo decremento (42), ma è stato anche osservato che, per il rischio di trasmissione di epatite C, l’impatto dei paraphernalia è maggiore che per la trasmissione da HIV (43). Infatti, l’incidenza di HCV rimane alta anche dove l’incidenza di infezione da HIV è bassa o in diminuzione, suggerendo come sia più difficile definire strategie di intervento. Una serie di studi condotti a San Francisco in anni differenti ha mostrato un costante alto tasso di nuove infezioni da virus C (25/100 anni persona nel 2001, 29/100 anni/persona nel 2006), mentre l’incidenza di nuove infezioni da HIV rimaneva stabile, a più basso livello, intorno a 1/100 anni persona dal 1990 (44-46). Questo elevato rischio di trasmissione tuttora elevato dimostra come per la trasmissione dell’epatite, in particolare epatite C non è stato fatto abbastanza e gli interventi di riduzione del danno implementati per l’infezione da HIV non sono da considerarsi sufficienti (47).

Modifica dei comportamenti nei tossicodipendenti

Calo del test anche per HCV e HBV

L’epatite C è probabilmente l’infezione virale più diffusa tra i tossicodipendenti

Il virus dell’epatite C è facilmente trasmissibile per via iniettiva

Ruolo dei paraphernalia nella trasmissione dell’epatite C

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Nei TD l’endocardite infettiva, nella maggioranza dei casi coinvolge la parte destra del cuore

L’endocardite rappresenta ancora una causa rilevante di morte fra i TD

L’uso di cocaina è tra i fattori di rischio per endocardite

Lo stafilococco aureo è l’agente etiologico più spesso in causa

Sempre maggiore la frequenza di infezioni da stafilococco aureo meticillino-resistente (MRSA)

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2.3 Endocardite Nella popolazione generale l’endocardite infettiva si osserva nella parte sinistra del cuore dove la maggior pressione sanguigna e la presenza di alterazioni congenite o acquisite del tessuto miocardico o valvolari costituiscono fattori favorenti. Soltanto nel 5-10% dei casi coinvolge la parte destra del cuore e la valvola tricuspide (48). La situazione opposta si verifica nei soggetti tossicodipendenti, tra i quali l’endocardite infettiva, che rappresenta una delle più serie patologie infettive associate con una incidenza osservata tra l’1% e 5% per anno, nella maggioranza dei casi coinvolge la parte destra del cuore (49-52). I dati di letteratura infatti riportano fino al 76% dei casi di endocardite localizzati nella parte destra del cuore tra i tossicodipendenti per via endovenosa contro il 9% tra i non-tossicodipendenti (53, 54). In due terzi dei casi di endocardite nei tossicodipendenti è coinvolta la valvola tricuspide, in un terzo la valvola tricuspide più un’altra valvola (aortica o mitrale), in un 10% dei casi tutte e tre le valvole cardiache (49, 54,55). L’endocardite tricuspidale presenta facilmente recidive sulla stessa valvola ed è anche spesso associata a complicanze cardiopolmonari, neurologiche, renali, oftalmologiche, addominali e delle estremità vascolari (56). Le spiegazioni di questa elevata frequenza di endocardite della parte destra del cuore nei tossicodipendenti non sono ancora chiarite. Sono state ipotizzate differenze nell’endotelio valvolare nei tossicodipendenti, effetti fisiologici delle sostanze iniettate, differenze nei microorganismi interessati e nella loro carica batterica e minor resistenza dei tossicodipendenti alle infezioni. Anche se il tasso di mortalità ad essa correlato è dimostrato essere più basso rispetto alla endocardite che coinvolge la parte sinistra del cuore (57), per la sua frequenza rappresenta un reale problema di sanità pubblica. In era pre-HIV, le endocarditi rappresentavano negli USA, la seconda causa di ricovero ospedaliero dei tossicodipendenti dopo l’intossicazione acuta, e una fra le più frequenti cause di morte (58, 59). Uno studio condotto a Roma negli anni 80 mostrava come l’eccesso di mortalità per i tossicodipendenti rispetto alla popolazione generale si evidenziava non solo per overdose, AIDS, ma anche per altre malattie infettive e per cause cardiocircolatorie, tra cui spiccava l’endocardite (10). Lo stesso eccesso di mortalità per endocardite si evidenziava in misura ancora maggiore tra i tossicodipendenti con infezione da HIV, rispetto agli HIV negativi (11). Tra i fattori di rischio per endocardite segnaliamo l’uso endovenoso di cocaina, che a causa della sua breve emivita comporta una più elevata frequenza di iniezioni, incrementando il rischio infettivo ad esse associato (60). La scarsa igiene nell’atto iniettivo fa sì che un ruolo predominante nel causare infezioni endocardiche sia assunto dai batteri della flora cutanea. Lo stafilococco aureo è l’agente etiologico più spesso in causa , la sua presenza è stata associata ad una maggior probabilità di avere un coinvolgimento del cuore destro, rispetto ad altri agenti batterici (61), ma altri microorganismi sono frequentemente in causa: stafilococco coagulasi negativo, che alberga comunemente sulla cute, streptococchi, enterococchi e Serratia marcescens, anch’essa più frequentemente associata a endocardite tricuspidale (62-65). Tra le situazioni emergenti segnaliamo la sempre maggior frequenza di infezioni da stafilococco aureo meticillino-resistente (MRSA). MRSA è generalmente presente in infezioni nosocomiali (12% delle infezioni in uno studio europeo) (66) e nella maggior parte dei casi (85%) trova come via di diffusione il catetere venoso con elevata mortalità (67). Questo aspetto è particolarmente importane per i pazienti tossicodipendenti ricoverati, che frequente-


Epidemiologia delle infezioni nei tossicodipendenti in base alla via di introduzione e al tipo di sostanza d’abuso

mente presentano irreperibilità di accessi venosi per cui è necessario catetere venoso centrale per la terapia. Il catetere venoso può venire usato per iniettare la droga, aumentando i rischio di infezioni e in particolare di endocardite. MRSA, prima limitato all’ambiente ospedaliero, oggi è di frequente riscontro anche in infezioni acquisite in comunità (68) e in grado di complicare il decorso e il trattamento delle infezioni nei tossicodipendenti. 2.4 Infezioni della cute e dei tessuti molli È stato rilevato come i tossicodipendenti presentino con elevata frequenza alti tassi di colonizzazione da stafilococco aureo sia nasale che cutanea (69). Questo dato può spiegare l’elevata incidenza di infezione da stafilococco aureo nei tossicodipendenti, in quanto la sua presenza nelle fosse nasali costituisce un “reservoir” per il tessuto cutaneo (70). È stato infatti osservato in più studi come i ceppi di stafilococco presenti nelle fosse nasali coincidano con quelli rilevati sulla cute e in eventuali infezioni sistemiche. Saliva, aghi e paraphernalia possono essere i vettori dello stafilococco sulla cute e nel punto di iniezione durante la preparazione della droga da iniettare, spesso infatti si usa “leccare” l’ago e la cute prima dell’iniezione (71). La sede dell’iniezione è anche importante. È stato rilevato come i tossicodipendenti cominciano a utilizzare per l’iniezione i vasi venosi della fossa cubitale. Per sclerosi venosa progressiva, le vene diventano progressivamente inutilizzabili e mediamente dopo 3-4 anni la sede di iniezione si allarga alle braccia e successivamente alle mani. Si può passare a usare vene delle gambe e del collo dopo 6 anni e dopo 10 anni le vene delle dita delle mani e dei piedi e dell’inguine. Quando gli accessi venosi non sono più reperibili la droga può venir iniettata per errore o deliberatamente per via sottocutanea o intramuscolare (71, 72). È chiaro come ad esempio le mani alberghino facilmente microorganismi e le iniezioni intramuscolari possano essere facilmente causa di ascessi. I batteri più frequentemente in causa sono i cocchi gram-positivi: stafilococco aureo e streptococchi, principalmente alfa e beta emolitico. Gli anaerobi sono il secondo gruppo per frequenza, tra questi segnaliamo il clostridio difficile, in genere presente in associazione con gram-positivi, mentre sono rari i gram-negativi (74). La presentazione clinica più frequente è l’ascesso sottocutaneo, che di regola oltre alla terapia antibiotica necessita di trattamento chirurgico; si osservano frequentemente anche quadri di cellulite, ulcere e necrosi tissutale (75). La complicanza più temibile è comunque la fascite necrotizzante con shock tossico (76), gravata da elevata mortalità e rischio di amputazione, che spesso si manifesta in modo subdolo e di non facile diagnosi (77). Una serie di casi di infezioni cutanee severe con necrosi cutanea e muscolare, con elevato tasso di mortalità (45%) è stata osservata nel Regno Unito, Irlanda e a san Francisco (78) ed aveva come agente etiologico il clostridio (perfringes, novyi) (79). Il coinvolgimento del tessuto muscolare (rabdomiolisi) può essere dovuto a estensione dell’infezione dal tessuto cutaneo o sottocutaneo al muscolo, ma più spesso a diffusione generalizzata per via ematica, questo tipo di infezione può non dare alcun sintomo a parte la febbre e può venire drammaticamente alla luce solo con il peggioramento delle condizioni generali del paziente (80). 2.5 Altre infezioni Tra le altre infezioni la cui origine è da microorganismi trasmessi per via iniettiva e di cui si rileva un eccesso tra i tossicodipendenti, ricordiamo il tetano. Segnalato inizialmente negli Stati Uniti negli anni 50-60, e di cui sono stati segnalati casi sporadici in Italia, dove è comunque ipotizzabile una sotto-no-

Elevata frequenza di colonizzazione da stafilococco aureo sia nasale che cutanea

La sede dell’iniezione è importante

La presentazione clinica più frequente è l’ascesso sottocutaneo La complicanza più temibile è la fascite necrotizzantee

Tetano

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Botulismo della ferita

Osteomieliti

Infezioni del SNC

Epatite da HAV

Micosi sistemiche

tifica, soprattutto nei tossicodipendenti più anziani (81). In un cluster di casi registrato in California il 40% era stato osservato in tossicodipendenti per via endovenosa (82). Analogamente negli stati Uniti tra il 1998 e il 2000 il 15% dei casi erano stati osservati in tossicodipendenti (83). In Inghilterra è stato segnalato nel 2003 un cluster di 8 casi in tossicodipendenti da una partita di eroina contaminata da clostridium tetani (84). Sono stati inoltre segnalati casi, anche se sporadici, di botulismo. La solubilizzazione dell’eroina mediante esposizione al calore non è sufficiente a garantire la distruzione delle spore di Clostridium botulinum e la segnalazione, nel 1995, di 19 casi in tossicodipendenti californiani ha suggerito che le modalità di preparazione e le sostanze di taglio impiegate possano avere un ruolo nell’aumentare il rischio di botulismo (85). In uno altro studio caso-controllo, basato su 26 casi osservati in California, è stata evidenziata una relazione statisticamente significativa tra botulismo da ferita e quantità di eroina inoculata intramuscolo o sottocute (86). Infezioni ossee (osteomieliti) sono anche frequenti. Le sedi più frequenti di infezione sono la colonna vertebrale (spondilodiscite) e le ossa del ginocchio ma possono essere rilevate in sedi meno comuni come sterno, clavicola e coccige (87). Queste infezioni possono essere conseguenza della disseminazione di batteri iniettati attraverso vene di grosso calibro come la giugulare o la femorale, il batterio più frequentemente in causa è lo stafilococco, ma queste sono frequentemente polimicrobiche con presenza di germi anaerobi (88). Ricordiamo anche l’elevata frequenza tra i tossicodipendenti per via endovenosa di infezioni dell’encefalo come meningite, encefalite e ascessi cerebrali. La maggior parte delle meningiti e degli ascessi cerebrali trae origine da stati setticemici o da emboli settici in pazienti con endocardite. Anche in questo caso il batterio più frequente in causa è lo stafilococco aureo, anche se si possono ritrovare altri batteri gram-positivi come lo pneumococco, che diventa più frequente con l’aumento dell’età media dei tossicodipendenti (89). È stato ipotizzato che anche l’epatite A, di regola a trasmissione oro-fecale, possa essere trasmessa per via iniettiva e con l’uso in comune di siringhe. Questa possibilità è stata infatti proposta per una epidemia di casi di epatite A, osservata in Italia tra il 2002 e 2003, in cui è stata anche riportata una elevata mortalità (90). Segnaliamo infine una elevata frequenza di infezioni micotiche, principalmente da Candida species, che possono dare gravi quadri settici e interessamento di cute, occhio, polmoni, apparato digerente e sono favorite dall’immunodeficit correlato all’infezione da HIV (59). Il dato epidemiologico comune è rappresentato dall’uso di eroina bruna (“brown sugar”) che, a causa della sua scarsa solubilità, deve essere diluita nel succo di limone (o in altri solventi acidi), che favoriscono la crescita di Candida albicans (91). Anche il succo d’arancia, usato per diluire preparati per uso orale contenenti metadone al fine di poterlo iniettare, può favorire la crescita del microrganismo (92).

3. Infezioni trasmesse per via respiratoria e inalatoria Molte droghe, in particolare cocaina, il cui uso è negli ultimi anni è in grande aumento, vengono assunte preferibilmente per via inalatoria o fumate (crack), questo utilizzo predispone all’ingresso di microorganismi e di conseguenza ad una elevata frequenza di infezioni delle vie respiratorie di chi ne fa uso. I tossicodipendenti presentano in generale un rischio 10 volte superiore di polmonite acquisita in comunità rispetto alla popolazione generale (93). I

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Epidemiologia delle infezioni nei tossicodipendenti in base alla via di introduzione e al tipo di sostanza d’abuso

tossicodipendenti sono spesso fumatori e, nel tempo, possono diventare portatori di sindrome bronchitica cronica, con alterato meccanismo di clearance microbica da parte della mucosa bronchiale. Lo stato di immunocompromissione (ad esempio da infezione da HIV) generale può contribuire all’aumento del rischio di contrarre infezioni del tratto respiratorio (94, 95), per cui la polmonite ricorrente (2 episodi in un anno solare) è stata inclusa dal 1993 nella definizione di caso di AIDS. I batteri più frequentemente in causa sono: pneumococco, haemofilus, e stafilococchi, ma possono ritrovarsi con relativa frequenza anche gram-negativi e anaerobi. Anche la tubercolosi polmonare, inclusi casi con farmaco-resistenza, è di riscontro più frequente nei tossicodipendenti. La causa può essere legata a condizioni di vita in ambienti affollati, lo stato di “homeless” e l’infezione da HIV. La tubercolosi polmonare nei tossicodipendenti può essere caratterizzata maggior gravità per ritardo di diagnosi e possibili recidive o aumento del tempo di infettività dovuto a bassa aderenza alla terapia antitubercolare (96, 97). L’assunzione di droga per inalazione può predisporre anche alle infezioni del tratto respiratorio superiore, in particolare sinusiti e più raramente ascessi settali. In particolare l’uso di cocaina che per la sua breve emivita richiede frequenti somministrazioni e l’uso in comune con altre persone della cannuccia che viene usata per aspirare (98). La tubercolosi e gli altri patogeni respiratori possono essere trasmessi attraverso pratiche come lo “shotgunning”: fumare e inalare una droga e quindi espellere il fumo nella bocca di un’altra persona. Si tratta di pratica molto comune tra i fumatori di crack cocaina (99).

I tossicodipendenti presentano un rischio 10 volte superiore di polmonite acquisita in comunità

Tubercolosi

4. Conclusioni Possiamo dire che la tossicodipendenza per lo stile di vita ad essa correlato e per le modalità di assunzione della droga si associa ad alta morbilità e mortalità. In particolare le infezioni costituiscono la parte più rilevante della morbilità legata alla tossicodipendenza, in quanto correlate ai comportamenti che ne caratterizzano l’assunzione: infezioni conseguenti all’uso di aghi non sterili per le droghe assunte per via endovenosa. Si tratta però di uno scenario in costante evoluzione, dove l’avvento di nuovi agenti infettivi, soprattutto virali, pone nuovi problemi di gestione e spinge a nuove strategie di prevenzione. È quanto è avvenuto e sta avvenendo dopo la diffusione dell’infezione da HIV, che ha permesso di mettere a fuoco il ruolo di determinate situazioni che si associano alla somministrazione della droga – citiamo a titolo di esempio la elevata frequenza di iniezioni legata a droghe come la cocaina, le “shooting galleries”, i paraphernalia – su cui è stato possibile effettuare interventi di riduzione del danno che, evitando moralismi e idee preconcette, hanno permesso di salvare molte vite. Bibliografia 1. Kee, T. H. The habitual use of opium as a factor in the production of diseases. Philipp. J. Sci 1908. 6:63. 2. Hussey, H. H., and S. Katz. Infections resulting from narcotic addiction. Am. J. Med 1950. 9:186. 3. Biggam, A. G. Malignant malaria associated with the administration of heroin intravenously. Trans. R. Soc. Trop. Med. Hyg 1929. 23:147.

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Epidemiologia delle infezioni nei tossicodipendenti in base alla via di introduzione e al tipo di sostanza d’abuso

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Le principali infezioni correlate all’abuso di sostanze



5. Sepsi ed endocarditi infettive nel tossicodipendente

Giovanni Rezza, Gianluca Russo Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie ed Immunomediate, Istituto Superiore di Sanità, Roma

Riassunto I tossicodipendenti che fanno uso di droghe per via iniettiva sono esposti a frequenti episodi batteriemici transitori che possono divenire vere e proprie sepsi nel momento in cui generano focolai infettivi capaci di immettere microbi in circolo in modo continuo o intermittente, determinando l’insorgenza di un quadro settico. L’endocardite rappresenta una delle patologie infettive più frequenti e gravi nel tossicodipendente. La sepsi e l’endocardite nel tossicodipendente sono spesso a partenza da un’infezione della cute e dei tessuti molli o tromboflebiti in corrispondenza dei siti di iniezione. I fattori di rischio per insorgenza di sepsi ed endocardite nel paziente tossicodipendente sono numerosi: scarsa igiene cutanea nel sito di iniezione della sostanza stupefacente, abitudine di leccare l’ago prima dell’iniezione o di detergere con la saliva la superficie di iniezione, tipo di droga o la sua modalità di preparazione. L’agente eziologico di più frequente isolamento da emocolture è lo Staphylococcus aureus, la cui virulenza è tale da poter determinare l’insorgenza di un’endocardite anche su una valvola nativa apparentemente sana. La valvola cardiaca più frequentemente interessata dall’endocardite nel tossicodipendente è la tricuspide, ma non infrequenti sono anche le localizzazioni nelle sezioni sinistre e multivalvolari. La prognosi della sepsi non è influenzata dall’eventuale tossicodipendenza, ma piuttosto dall’agente eziologico, dalle comorbidità e dalle condizioni generali del paziente; la prognosi dell’endocardite infettiva nel tossicodipendente è generalmente migliore rispetto ai pazienti non-tossicodipendenti. Parole chiave: sepsi, batteriemia, endocardite, vegetazione, ecocardiografia, emocoltura, stafilococco, HIV, tossicodipendente.

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Introduzione L’abuso di sostanze stupefacenti rappresenta uno dei fenomeni socio-sanitari internazionali di maggiore rilevanza e problematicità. I dati forniti da una recente review (1), basata sui risultati di studi di prevalenza provenienti da 61 Paesi (77% della popolazione mondiale), permettevano una stima di 15.9 milioni tossicodipendenti adulti attivi (range 11.0-21.2 milioni) nel 2007 a livello globale. I Paesi con il maggior numero di tossicodipendenti sono Cina, USA e Russia, rispettivamente il primo, terzo e nono paese del mondo per numero di abitanti. L’abuso cronico di sostanze stupefacenti rappresenta a tutt’oggi una problematica con implicazioni assistenziali ed epidemiologiche di assoluto rilievo. Tra le patologie associate alla tossicodipendenza, le malattie infettive occupano una posizione di assoluta preminenza (2-4) e, sebbene difficilmente determinabile con precisione, si stima che oltre il 60% degli episodi febbrili nei tossicodipendenti siano ascrivibili ad un’infezione (5, 6). L’identificazione di una causa infettiva in un paziente tossicodipendente febbrile è resa difficoltosa anche dal fatto che alcune sostanze d’abuso, in particolare la cocaina, possono essere direttamente responsabili di iperpiressia. Una reazione febbrile può essere inoltre provocata dalle sostanze di taglio o inquinanti presenti nelle sostanze iniettate. La suscettibilità alle infezioni nei tossicodipendenti può essere incrementata da alterazioni immunologiche (es. infezione da HIV) e dall’abuso di alcol, farmaci e fumo di sigaretta. Infine, la ridotta attitudine di questa popolazione ad accedere alle strutture sanitarie e ad aderire ai programmi di vaccinazione e profilassi contribuisce sia ad aumentare l’incidenza, sia a ritardare la diagnosi e la cura dei processi infettivi. Infine è da sottolineare che fra i tossicodipendenti si può spesso riscontrare un uso inappropriato delle terapie antibiotiche (frequenza e dosaggio delle assunzioni, durata del trattamento) cui consegue un aumento del rischio di insorgenza di fenomeni di resistenza microbica (7). Nella popolazione tossicodipendente, in linea generale, lo scambio di siringhe e la promiscuità sessuale rappresentano i principali fattori di rischio per la trasmissione di agenti virali (es. HIV, HBV, HCV), mentre le infezioni causate da agenti batterici e fungini sono spesso dovute all’alterazione ripetuta della barriera cutanea conseguente all’iniezione (in condizioni igieniche non adeguate) di sostanze con possibile sviluppo di focolai infettivi locali a potenziale diffusione setticemica.

Sepsi Per batteriemia si intende il saltuario e transitorio passaggio di germi nel torrente circolatorio, generalmente non accompagnato da sintomatologia clinica in quanto i microrganismi vengono rapidamente eliminati dagli emuntori naturali o distrutti dalle difese aspecifiche. Per sepsi, secondo la classica definizione di Hugo Schottmüller (1914), si intende un’infezione batterica generalizzata nella quale, a partire da un focolaio sepsigeno, vengono immessi nel torrente circolatorio in modo continuo o intermittente microrganismi patogeni che provocano sintomi soggettivi e obiettivi, talora con sviluppo di focolai metastatici. Successivamente la definizione classica di sepsi è stata contemperata con la risposta organica individuale, definita come SIRS (Systemic Inflammatory Response Syndrome); pertanto, attualmente, per sepsi si intende una SIRS scatenata da un processo infettivo (8). I quadri acuti febbrili

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Sepsi ed endocarditi infettive nel tossicodipendente

nel paziente tossicodipendente sono causati nella maggioranza dei casi da ripetuti episodi di batteriemia (9). In uno studio prospettico canadese (10) condotto nel periodo 1996-1999 su una coorte di 598 tossicodipendenti per via venosa, la sepsi era la terza causa di ricovero ospedaliero in emergenza rappresentando circa l’8% del totale. L’infezione da HIV non sembra associarsi ad un maggior rischio di batteriemie o sepsi nosocomiali (11, 12). I tossicodipendenti che fanno uso di droghe per via venosa, per motivi evidentemente legati alla modalità di assunzione delle sostanze stupefacenti, sono esposti a frequenti episodi batteriemici che, nel momento in cui generano focolai infettivi capaci di immettere microbi in circolo in modo continuo o intermittente, determinano l’insorgenza di un quadro settico. Spesso il microbo viene introdotto direttamente in circolo attraverso iniezione di sostanze stupefacenti in siti cutanei non disinfettati o mediante materiale per iniezione contaminato; oppure entra in circolo partendo da focolai settici costituiti da tromboflebiti o infezioni dei tessuti molli. Lo Staphylococcus aureus è in assoluto l’agente eziologico più frequentemente isolato nei pazienti tossicodipendenti, inclusi i casi di sepsi. In alcuni studi condotti in pazienti tossicodipendenti per via venosa lo S. aureus era responsabile del 61% dei casi di batteriemie (13; 14), del 71% dei casi di sepsi (15) e rappresentava il principale agente eziologico di trombosi venosa profonda settica (16). Peraltro, alcuni outbreaks di infezioni da S. aureus meticillino-resistente (MRSA) tra tossicodipendenti sono stati descritti negli USA (17) e in Svizzera (18), dimostrando dunque la possibile circolazione del microbo in questa specifica popolazione. In uno studio condotto a Baltimora (USA) nel periodo 2000-2004 su una coorte di 4607 pazienti HIV positivi, l’incidenza di batteriemia da MRSA aumentava da 5.3/1000 persone/anno del 2000-2001 a 11,9/1000 persone/ anno del 2003-2004 ed era correlabile all’uso di droghe per via endovenosa (OR 4.61) (19). Lo stafilococco è anche l’agente eziologico principale delle infezioni nosocomiali; in uno studio prospettico multicentrico condotto in Italia in una popolazione di pazienti HIV positivi, la tossicodipendenza attiva rappresentava un fattore di rischio indipendente associato alle infezioni nosocomiali di catetere venoso il cui agente eziologico più frequentemente isolato era lo S. aureus. In caso di ospedalizzazione di un paziente tossicodipendente per via venosa, considerata la difficoltà o impossibilità di reperire accessi venosi periferici, bisogna ricorrere al posizionamento di cateteri venosi centrali (CVC) per la somministrazione delle terapie endovenose di cui abbisognano. Può accadere, però, che il tossicodipendente attivo utilizzi l’accesso venoso centrale per iniettare sostanze stupefacenti e, in tal modo, aumenta il rischio di infezione in pazienti che, di per sé, sono già a rischio di infezione per un tasso più elevato di colonizzazione cutanea da S. aureus (20), la presenza di patologie venose preesistenti (es. tromboflebiti) (16), di una maggiore indaginosità della manovra di posizionamento del CVC, del frequente ricorso al CVC anche per i prelievi per esami ematici da parte del personale sanitario (11). In tossicodipendenti che abbiano assunto la sostanza stupefacente con un’iniezione a livello dei vasi femorali, un’eventuale quadro settico potrebbe essere ascrivibile anche a batteri gram negativi che contaminano più frequentemente questi distretti cutanei (21, 22); in caso di contaminazione salivare del sito di iniezione o dell’ago è possibile un’eziologia streptococcica o da batteri anaerobi (21, 23); possibile infine anche un’eziologia da patogeni inusuali (es. Corynebacterium butyricum) per contaminazione delle sostanze stupefacenti prima della loro iniezione (24). In caso di tossicodipendenti da eroina che preparano la sostanza con succo di limone è possibile un’eziologia da Candida spp (25); peraltro la Candida è stata isolata quale terzo agente

Aspetti epidemiologici

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Aspetti clinici, diagnostici e terapeutici

eziologico di infezione nosocomiale di cateteri venosi in una coorte multicentrica di pazienti HIV positivi in Italia (11). Come in ogni caso di sepsi, anche nel paziente tossicodipendente bisogna ricercare il focolaio sepsigeno ed identificare l’agente eziologico mediante isolamento microbiologico da emocolture. Un’attenta valutazione anamnestica tossicologica, unitamente ad un accurato esame clinico, possono permettere di orientare verso una diagnosi eziologica di presunzione al fine di impostare una terapia antibiotica empirica, da modificare sulla base del profilo di resistenza dell’agente eziologico isolato. In ogni caso la terapia empirica della sepsi nel paziente tossicodipendente deve includere una copertura specifica anti-stafilococcica. L’utilizzo di antibiotici attivi contro MRSA deve esser preso in considerazione nei pazienti tossicodipendenti in funzione dell’epidemiologia microbiologica locale (19). In generale la prognosi della sepsi è influenzata dall’agente eziologico, dalle comorbidità e dalle condizioni generali del paziente, ma non dalla eventuale presenza di tossicodipendenza.

Endocardite infettiva

Aspetti eziologici e patogenetici

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Le endocarditi infettive sono infezioni setticemiche caratterizzate dalla presenza di un focolaio sepsigeno endocardico che interessa tipicamente le valvole cardiache, ma anche l’endocardio murale, i difetti settali, gli eventuali dispositivi intracardiaci. Le endocarditi infettive possono essere classificate in base alla localizzazione dell’infezione e alla presenza o meno di dispositivi intracardiaci, alla modalità di acquisizione, nonché al decorso clinico (26). Gli studi di incidenza sull’endocardite infettiva nella popolazione tossicodipendente dei Paesi industrializzati si riferiscono principalmente al periodo degli anni ’70-’90, epoca di esplosione dell’abuso di sostanze per via endovenosa, nella quale, peraltro, i consumatori di droghe non erano completamente informati o pienamente coscienti dei rischi infettivi aggiuntivi dipendenti da modalità e tipologia dell’assunzione di sostanze stupefacenti. Le endocarditi batteriche rappresentano una delle più gravi patologie infettive associate alla tossicodipendenza, con un’incidenza stimabile intorno a 15-20 casi l’anno/1000 tossicodipendenti per via venosa (27, 28). Tale dato risulta ancora più eclatante se confrontato con l’incidenza di endocardite infettiva nella popolazione generale non-tossicodipendente, che si attesta intorno ai 3-10 casi anno/100.000 abitanti (29-31). In uno studio condotto negli anni ’80 a Roma, l’endocardite infettiva rappresentava la prima causa di decesso tra i soggetti tossicodipendenti di sesso maschile, seguita dalla cirrosi epatica (32). Negli USA, prima dell’epidemia da HIV, le endocarditi rappresentavano, oltre che una delle principali cause di decesso, la seconda causa di ricovero ospedaliero dei tossicodipendenti dopo l’intossicazione acuta da sostanze stupefacenti (33). Un ruolo particolare in tale aumento di incidenza negli USA potrebbe essere ascrivibile all’abuso di cocaina che, avendo una breve emivita, determina una più elevata frequenza di iniezione da parte del tossicomane, con conseguente aumento del rischio infettivo (34). Per quel che riguarda l’infezione da HIV, gli studi di prevalenza mostrano che il 40-90% dei pazienti tossicodipendenti affetti da endocardite infettiva è HIV positivo (35-38). Pur essendo la tossicodipendenza per via venosa di per sé un fattore di rischio sufficiente per endocardite, è da ricordare che i fattori di rischio rilevabili nella popolazione generale non-tossicodipendente (es. presenza di protesi intracardiache, difetti congeniti valvolari, procedure diagnostico-terapeutiche


Sepsi ed endocarditi infettive nel tossicodipendente

invasive recenti, etc.) devono comunque esser presi in considerazione ai fini diagnostico-terapeutici anche nel paziente tossicomanico. Uno studio multicentrico retrospettivo condotto in 54 centri ospedalieri italiani relativo al periodo 1986-1996 (39) ha censito 895 casi di endocardite infettiva, di cui 263 casi in pazienti tossicodipendenti. Le emocolture relative ai 263 pazienti tossicodipendenti hanno permesso l’isolamento dell’agente eziologico nell’86,6% dei casi. Gli agenti eziologici di riscontro più frequente sono stati lo Staphylococcus spp nel 75,8% dei casi (S. aureus 68,4%, S. coagulasi negativo 7,4%), Streptococcus spp nel 14,5%, Enterococcus spp nel 4,8%, Candida albicans nel 4,4%, batteri gram negativi (Escherichia Coli, Pseudomonas aeruginosa, Salmonella spp) nel 2,6%, altri microbi (Corynebacterium spp, Propionibacterium spp, Candida glabrata, Micrococcus, Peptococcus) nel 2,2% dei casi (39). Tali dati eziologici non si discostano significativamente rispetto a quanto pubblicato in letteratura relativamente ad altri contesti geografici (13, 14, 40, 41). Sono possibili anche isolamenti eziologici di microbi inusuali quali Eikenella corrodens (42), Corynebacterium dyphteriae (43), Clostridium bifermentans (44), etc. L’incongruo uso di antibiotici da parte del paziente tossicodipendente prima del contatto con la struttura ospedaliera (7) può anche esser causa, nel paziente con endocardite, di emocolture falsamente negative. I fattori di rischio per insorgenza di endocardite nel paziente tossicodipendente sono numerosi. Le ripetute iniezioni di materiale particolato (es. cotone, talco) o delle droghe stesse, producendo un danno dell’endotelio valvolare, favoriscono la deposizione di piastrine e fibrina con formazione di trombi asettici che, nel corso delle frequenti batteriemie osservabili anche nella popolazione generale (45, 46), si infettano originando la tipica vegetazione endocarditica (34, 47). La scarsa igiene cutanea nel sito di iniezione della sostanza stupefacente, l’abitudine di leccare l’ago prima dell’iniezione o di detergere con la saliva la superficie di iniezione, la contaminazione dell’ago con microbi ambientali prima dell’iniezione, possono facilitare l’entrata diretta dell’agente eziologico nel torrente circolatorio. Inoltre, uno studio svizzero (18), ha evidenziato come lo stretto e frequente contatto sociale tra tossicodipendenti sia stato associabile alla diffusione di un medesimo clone di S. aureus meticillino-resistente (MRSA) tra tossicodipendenti e che ha determinato 31 infezioni da MRSA, di cui 7 endocarditi. L’inalazione di droghe è stata associata ad una più frequente colonizzazione nasale da S. aureus (48), probabilmente facilitata dal danno della mucosa nasale legato all’inalazione stessa. In uno studio non recente (49), la colonizzazione nasale da S. aureus è stata dimostrata essere la fonte di infezione dell’endocardite in 10 pazienti tossicodipendenti. Lo strumentario utilizzato per l’inalazione di sostanze stupefacenti è stato ipotizzato quale veicolo di trasmissione di S. aureus tra tossicodipendenti (50), sebbene altri studi ne abbiano dimostrato un ruolo secondario (51-53). L’uso di leccare l’ago prima dell’iniezione è stato associato all’endocardite da Eikenella corrodens (42), mentre il succo di limone utilizzato nella preparazione dell’iniezione di eroina è stato associato all’endocardite da Candida albicans (25). Infine, un focolaio di 10 casi di endocardite da Pseudomonas aeruginosa in tossicodipendenti da pentazocina e tripelennamina è stato associato all’uso di acqua contaminata per diluire gli stupefacenti (54). A questo proposito, è stato riportato che l’applicazione di interventi di riduzione del danno, mediante distribuzione di siringhe sterili mono-uso o somministrazione endovenosa controllata di sostitutivi oppioidi, può ridurre significativamente il rischio di infezioni, inclusa l’endocardite, nella popolazione tossicodipendente (55).

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Endocardite destra

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La localizzazione dell’endocardite nel tossicodipendente merita un discorso a parte. Infatti, nella popolazione generale, la localizzazione nelle sezioni destre dell’endocardite infettiva rappresenta circa il 5-10% del totale dei casi (26). Sebbene una localizzazione destra di endocardite infettiva sia possibile anche in portatori di dispositivi intracardiaci (inclusi pacemakers) o cateteri venosi centrali, pazienti affetti da malformazioni cardiache congenite, nei tossicodipendenti questa situazione è molto più frequente, essendo osservabile nel 76% dei casi (56, 57). La valvola tricuspide è la più frequentemente colpita dall’endocardite nei pazienti tossicodipendenti, sebbene raramente (<1% dei casi) siano osservabili anche interessamenti della valvola polmonare e della valvola di Eustachio, e, più frequentemente, anche delle valvole cardiache sinistre (58-60): l’interessamento tricuspidale è osservabile nel 40-69% dei casi, quello della valvola aortica e mitralica nel 20-30% dei casi ed una localizzazione multivalvolare è presente nel 5-10% dei casi (27, 39, 47, 61, 62). Tuttavia, alcuni studi riferiscono che il coinvolgimento delle sezioni sinistre è riscontrabile con pari frequenza (58) o addirittura superiore (63) rispetto a quello tricuspidale. Nel sesso femminile, inoltre, l’interessamento mitralico sarebbe più frequente, probabilmente a causa di una maggiore prevalenza di prolasso mitralico (59). I fattori implicati nel maggior coinvolgimento delle sezioni destre possono essere molteplici (56). La carica batterica elevata osservabile nei pazienti tossicodipendenti è stata associata al danno provocato alle strutture anatomiche cardiache raggiunte per prime dalle sostanze iniettate (64-66), sebbene ciò non giustifichi la predilezione per le sezioni destre in questa specifica popolazione (67, 68). Il materiale particolato presente nelle soluzioni iniettate con la sostanza stupefacente è responsabile di danno endoteliale diretto (34, 69), cui la valvola tricuspide è maggiormente esposta per questioni di fisiologica emodinamica. Allo stesso modo, la tipologia stessa della sostanza stupefacente può determinare danni endoteliali diversi: la cocaina, ad esempio, causando vasospasmo determina danni tissutali da ischemia (70) che, unitamente ad una maggior propensione ad indurre fenomeni trombotici a distanza (71, 72), è associata ad una maggiore frequenza di endocardite rispetto ad altre droghe (es. eroina) assunte per via venosa (73). Il danno endoteliale prodotto dagli eccipienti ed adulteranti, unitamente all’ipertensione polmonare associata all’uso di droghe, possono determinare un aumento dei gradienti pressori e turbolenze locali che possono favorire l’attecchimento dell’infezione (5). Infine è stata ipotizzata anche una maggior affinità di alcuni microbi per le sezioni cardiache destre (13). Tuttavia alcuni studi (73, 74) hanno evidenziato come lo S. aureus fosse responsabile di endocardite principalmente destra nella popolazione tossicodipendente (76%), e principalmente sinistra nella popolazione non-tossicodipendente (74%). Pertanto lo S. aureus, che per propria virulenza è capace di infettare anche valvole apparentemente sane (27, 75), presenterebbe una predilezione per le sezioni destre del cuore solo nei pazienti tossicodipendenti: a giustificazione di ciò è stata postulata la possibile esistenza di specifiche modificazioni endoteliali in tale settore, in particolare per ciò che riguarda la capacità fagocitaria, l’espressione di molecole di superficie che si legano alle adesine batteriche, di recettori, cirtochine e fattori tissutali (56). Anche lo P. aeruginosa sembra colpire preferenzialmente le valvole destre che, però, devono presentare qualche danno endoteliale che ne favorisca l’attecchimento (76, 77); una particolare associazione con questa eziologia è stata osservata in tossicomanici da pentazocina-tripelennamina la cui preparazione viene eseguita miscelando acqua non bollita che, se contaminata, può veicolare l’infezione verso l’endotelio valvolare già danneggiato da particolato stu-


Sepsi ed endocarditi infettive nel tossicodipendente

pefacente residuale (14, 78). Pertanto, differenze fisico-chimiche dei diversi batteri non sembrano giustificare di per sé una loro specifica affinità per le sezioni cardiache destre (56). L’endocardite infettiva in pazienti HIV-positivi è riscontrata pressoché esclusivamente tra i tossicodipendenti (79), suggerendo pertanto che l’infezione da HIV, di per sé, non rappresenti un fattore di rischio per insorgenza di endocardite, né sia associabile a localizzazioni o eziologie diverse rispetto ai pazienti HIV negativi (39, 56). Tuttavia, uno studio condotto negli anni ’90 (80) dimostra che, in pazienti HIV positivi, una conta CD4 < 350 cellule/mmc e CD4 > 350 cellule/mmc si associa ad un aumentato rischio di insorgenza di endocardite infettiva (OR 8.3 e OR 2.3 rispettivamente): tale risultato è stato confermato anche da altri studi più recenti (57, 81). Dal punto di vista clinico non sussistono specificità particolari tra popolazione tossicodipendente e non-tossicodipendente affetta da endocardite, ad eccezione della maggior frequenza di localizzazioni destre ad eziologia stafilococcica. Pertanto, in generale, il quadro clinico dell’endocardite destra nel paziente tossicodipendente si caratterizza per una febbre persistente elevata e preceduta da brivido, cui si associano manifestazioni emboliche polmonari che possono determinare dispnea ingravescente, dolore toracico respiratorio da coinvolgimento pleurico, episodi di emottisi. Gli emboli settici polmonari possono complicarsi ulteriormente causando ascessualizzazione polmonare secondaria, empiema, infarto polmonare, pneumotorace (73, 82). L’insorgenza di insufficienza cardiaca destra è rara, ma può esser causata da ipertensione polmonare, stenosi o insufficienza severa delle valvole destre. La diagnosi ecografica di endocardite destra è generalmente fattibile anche con l’approccio transtoracico, sia per la posizione anteriore della valvola tricuspide, sia per un’usuale dimensione sufficientemente grande delle vegetazioni (83-85). Tuttavia l’approccio ecografico per via transesofagea presenta una maggiore sensibilità in caso di coinvolgimento della valvola polmonare, presenza di ascessi intracardiaci (in particolare se adiacenti al setto membranoso) e contemporaneo coinvolgimento delle valvole sinistre (86). Gli esami di laboratorio generali sono di scarso ausilio diagnostico in quanto mostrano un aumento degli indici di flogosi ed una leucocitosi neutrofila. In caso di endocardite sinistra, il quadro clinico-diagnostico del paziente tossicodipendente è sovrapponibile a quello osservabile nella popolazione nontossicodipendente. La prognosi dei pazienti tossicodipendenti affetti da endocardite infettiva è generalmente migliore rispetto ai pazienti non-tossicodipendenti (26). Infatti, il paziente tossicodipendente affetto da endocardite è generalmente giovane e non presenta cardiopatie predisponenti. Inoltre, la localizzazione destra e l’eziologia stafilococcica determinano un quadro clinico più acuto, peraltro di più semplice identificazione clinico-microbiologica, che induce il paziente a presentarsi più precocemente in ospedale riducendo significativamente il tempo di diagnosi. La localizzazione destra dell’endocardite presenta una prognosi globale decisamente migliore in termini di mortalità (< 5% dei casi vs 15-20%) e si associa anche ad una minor frequenza di ricorso a cardiochirurgia terapeutica (< 2% dei casi) (3, 5). Nello studio retrospettivo multicentrico italiano (39), dei 263 pazienti tossicodipendenti affetti da endocardite presi in considerazione, il 14% presentava complicanze cardiache, il 52% fenomeni di embolizzazione ed il 16% dei pazienti è stato sottoposto ad intervento cardochirurgico; la mortalità globale osservata era pari al 16% (38 decessi), risultando statisticamente associata in maniera significativa a localizzazione sinistra di endocardite (OR 5.2) ed età superiore a 35 anni (OR 3.5). In uno studio retrospettivo (periodo 1985-1999) condotto in un ospedale

Aspetti clinico-diagnostici

Aspetti prognostici e terapeutici

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Terapia antibiotica

Terapia chirurgica

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di Madrid (87), su 220 casi di endocardite infettiva in pazienti tossicodipendenti presi in considerazione, è stata registrata una mortalità globale del 6% (14 decessi) che è risultata essere associata a dimensione >2 cm della vegetazione endocardica (OR 10.2) ed eziologia fungina (OR 46.2). L’infezione da HIV sembra non rappresentare un fattore prognostico negativo in caso di endocardite (39, 87), neanche in caso di ricorso a terapia cardiochirurgia (88, 89). Tuttavia alcuni studi riportano tassi di mortalità per endocardite infettiva in pazienti HIV positivi associati al grado di immunosoppressione (CD 4 < 200 cellule/mmc) (36, 90). Pertanto ulteriori studi sono necessari per definire in maniera più chiara il ruolo dell’infezione da HIV nei pazienti tossicodipendenti affetti da endocardite. Per quanto riguarda gli aspetti terapeutici, in caso di paziente tossicodipendente affetto da sospetta endocardite, un’attenta valutazione della storia dell’assunzione di sostanze (tipo di droga, tipo di preparazione e modalità di assunzione) è importante al fine di ipotizzare un’eventuale eziologia ed impostare una più corretta terapia antibiotica empirica (3, 5). L’eziologia da S. aureus deve essere sempre presa in considerazione e la terapia antibiotica empirica deve pertanto includere penicilline penicillinasi-resistenti o vancomicina a seconda della prevalenza locale di MRSA (13, 14). Se il paziente è dipendente da pentazocina, la terapia empirica deve comprendere anche un antibiotico anti-pseudomonas (91). Qualora invece il paziente sia dipendente da eroina preparata sciogliendola con succo di limone, una copertura antifungina per Candida spp (non solo C. albicans) deve essere aggiunta alla terapia empirica. In pazienti tossicodipendenti con difetti valvolari noti e/o coinvolgimento delle sezioni sinistre del cuore, la terapia antibiotica empirica deve essere attiva anche contro streptococchi ed enterococchi (3, 5). Una volta isolato l’agente eziologico, la terapia antibiotica empirica deve essere adattata alla tipologia e specifica suscettibilità del microrganismo. In caso di eziologia da S. aureus meticillino-sensibile la terapia standard con penicilline-penicillinasi resistenti (oxacillina o cloxacillina) è superiore alla terapia con glicopeptidi anche nei pazienti tossicodipendenti (37, 92). Inoltre, in questi casi, è dimostrato che un trattamento di 2 settimane può essere sufficiente (37, 94, 95), anche senza l’aggiunta di un aminoglicoside (37), purché non vi sia interessamento valvolare sinistro, il paziente non sia portatore di dispositivi intracardiaci, la vegetazione misuri <2 cm di diametro, una buona risposta iniziale al trattamento sia presente, non vi siano manifestazioni metastatiche di malattia o empiema, complicazioni cardiache, infezione da HIV e/o immunodepressione severa (26). L’uso di glicopeptidi in regimi terapeutici di 2 settimane è sconsigliato in quanto questi antibiotici presentano una limitata attività battericida, relativa penetrazione all’interno della vegetazione endocarditica, aumentata clearence nei pazienti tossicodipendenti (26). In caso di eziologia non-stafilococcica, da MRSA, da MSSA complicata (presenza di fenomeni di embolizzazione, insufficienza cardiaca, localizzazione alle sezioni sinistre, vegetazioni > 2 cm di diametro, lenta risposta clinica, infezione da HIV con/senza immunosoppressione severa) la durata della terapia antibiotica nel paziente tossicodipendente con endocardite infettiva è pari a 4-6 settimane (35, 36, 93-98). In linea di massima l’indicazione al trattamento chirurgico dell’endocardite nel paziente tossicodipendente è la medesima che nella popolazione non-tossicodipente, sebbene sia auspicabile un atteggiamento il più conservativo possibile considerata la tendenza di questi pazienti a recidiva di malattia secondaria generalmente alla persistenza dell’abitudine tossicomanica (99, 100).


Sepsi ed endocarditi infettive nel tossicodipendente

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6. Infezioni della cute e dei tessuti molli nel tossicodipendente con uso parenterale delle sostanze Carlo Mengoli Dipartimento di Medicina Molecolare, Università degli Studi di Padova

Generalità I consumatori di droga sono gravati da un aumento del rischio infettivo. A ciò concorrono pratiche intrinsecamente rischiose, quali l’esecuzione di punture percutanee, soprattutto endovenose, per la somministrazione di agenti attivi farmacologicamente sul sistema nervoso centrale. Il rischio di acquisizione di agenti infettivi a trasmissione parenterale è ben noto, e dipende dall’abitudine di scambiare aghi e siringhe fra compagni che condividono l’abuso di sostanze psicotrope. Alcune pratiche eseguite nella preparazione del materiale da iniettare o della sede cutanea scelta per l’infissione dell’ago sono caratteristiche di questi soggetti, ed aumentano fortemente il rischio di conseguenze settiche. L’uso di cocaina per via iniettiva, solitamente mescolata con eroina (speedball), è frequentemente complicato da necrosi cutanea dovuta al potente effetto vasoscostrittivo. Il booting consiste nell’aspirazione ripetuta di sangue nella siringa prima di scaricare l’intero contenuto in vena. Il drogato talora frammenta capsule o compresse con i denti prima di iniettare il materiale, esponendosi a infezioni da batteri del cavo orale (streptococchi, Gramnegativi, anaerobi). La leccatura dell’ago non è rara. L’inoculazione diretta in sede intramuscolare o sottocutanea può essere propiziata dalla mancanza di vene periferiche pervie o da una cattiva tecnica iniettiva; anche questa circostanza facilita l’insorgenza d’infezioni della cute e dei tessuti molli. Vanno inoltre menzionate circostanze più generiche, quali condizioni di povertà, frequente malnutrizione, abitazione scadente, cattive condizioni igieniche, scarsa propensione a cercare il medico o a ricorrere ad ambienti di cura. La malnutrizione contribuisce a produrre un deficit dei meccanismi immunitari, le carenti pratiche igieniche personale comportano un aumento della carica microbica commensale presente sulla cute e sulle mucose in prossimità degli orifici anatomici, l’affollamento degli ambienti abitativi facilita la trasmissione di patogeni attraverso varie vie, via inalatoria compresa. A ciò

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va aggiunto lo stile di vita orientato a pratiche sessuali promiscue. Un declino dei meccanismi di difesa, con maggiore suscettibilità nei confronti delle infezioni, può inoltre essere indotto da malattie infettive sistemiche a decorso cronico dovute ad agenti HIV, virus epatotropi (HBV, HDV, HCV), Mycobacterium tuberculosis. I drogati parenterali dimostrano un aumento della colonizzazione delle narici da parte di Staphylococcus aureus; inoltre la proporzione dei ceppi meticillino-resistenti associati all’ambiente comunitario (CA-MRSA) appare particolarmente elevata.

Difese immunitarie Azione degli oppiacei sul sistema immunitario

Alterazioni immunitarie gravi e infezioni da HIV Assunzione di materiale contaminato per via parenterale e alterazioni immunoumorali

Gli oppiacei (eroina, morfina) riducono chemiotassi, fagocitosi, nonché produzione di chemochine e citochine. Le cellule dell’immunità sono dotate di recettori per gli oppiacei, che inibiscono l’attività natural killer e la linfoproliferazione indotta da mitogeni, fra cui fitoemoagglutinina. Si presume inoltre che l’azione esercitata da questi alcaloidi sull’asse neuroendocrino (ipotalamo, ipofisi e surrene, in particolare) e sul sistema nervoso autonomo moduli funzionalmente il sistema immunitario. La morfina deprime le funzioni dei monociti con possibile aumento della suscettibilità alle infezioni virali. In vitro questo oppiaceo deprime la produzione di ß-chemochine favorendo l’aumentata espressione di CCR5; questo facilita la penetrazione di HIV nelle cellule bersaglio. Tuttavia, le severe infezioni opportunistiche che indicano un grave difetto nell’immunità timo-dipendente si osservano raramente nel drogato in assenza di un’infezione da HIV. Nel drogato parenterale è frequente riscontrare ipergammaglubulinemia policlonale dovuta alla stimolazione antigenica cronica. In generale si osserva l’elevazione delle IgM e, in misura meno rilevante, delle IgG. Tale condizione si associa spesso alla presenza di fattore reumatoide ed alla positività aspecifica delle reazioni anti-cardiolipina (VDRL) in uso nella diagnosi sierologica della sifilide, creando le premesse per equivoci diagnostici in soggetti spesso a rischio di acquisire infezioni sessualmente trasmesse. La frequente associazione di un’epatite cronica può contribuire a queste anomalie umorali.

Aspetti epidemiologici

Pratiche parenterali settiche e infezioni

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Le infezioni della cute e dei tessuti molli (SSTI, skin and soft tissue infections) rappresentano cause comuni di accesso al Pronto Soccorso, ove rappresentano l’1-2,5% di tutte le visite. D’altra parte, le SSTI costituiscono il più frequente motivo di ricovero ospedaliero per il drogato parenterale. La prevalenza di queste infezioni nella popolazione citata è stata stimata fra il 21% e il 31% in Europa. Indubbiamente, i drogati con SSTI costituiscono una porzione considerevole della patologia che affluisce al Pronto Soccorso degli ospedali urbani. Il sesso femminile è più esposto a queste infezioni per la difficoltà maggiore a trovare un accesso venoso efficace. La lunga pratica dell’uso illecito di droga, l’incarcerazione recente, la prostituzione e l’infezione da HIV son altri fattori di rischio. Le SSTI sono più frequenti negli individui che consumano cocaina, nonché quelli che praticano lo speedball, l’iniezione sottocutanea e il booting. Invece, la disinfezione con alcool riduce il rischio. La natura delle


Infezioni della cute e dei tessuti molli tossicodipendente con uso parenterale delle sostanze

sostanze iniettate influenza la microbiologia delle infezioni; l’uso di cocaina predispone alle infezioni miste con componente anaerobia, mentre gli eroinomani più frequentemente sono affetti da infezioni ad eziologia streptococcica o stafilococcica. Si segnala un recente, rapido aumento delle SSTI in drogati in Inghilterra sotto forma di ascessi cutanei, celluliti, e complicanze vascolari sotto forma di tromboflebiti della vena femorale, aneurisma o pseudoaneurisma dell’arto inferiore; si ritiene che il recente incremento nell’uso di crack e di cocaina abbia un ruolo in questa tendenza, oltre all’abitudine di cercare un accesso vascolare nella regione inguinale La cocaina può essere sinergica con l’infezione streptococcica nel facilitare la produzione di necrosi estensiva. L’uso di metamfetamina è apparso più frequente in un gruppo di drogati con SSTI (9,9%) rispetto quanto riscontrato nel gruppo di controllo esente da SSTI (1,8%); questo nell’ambito di uno studio caso-controllo condotto in un’area rurale della Georgia (USA). MRSA causava la maggior parte delle SSTI in questa popolazione. La trasmissione di questi ceppi era particolarmente attiva nei consumatori illegali di metamfetamina. Va osservato che questa sostanza causa una sensazione di formicolio che induce con facilità lesioni da grattamento; queste contribuiscono all’aumentato rischio di SSTI nei soggetti che ne fanno uso.

Ruolo crescente di MRSA

Topografia delle lesioni La distribuzione anatomica delle SSTI varia in rapporto con il sito delle iniezioni. Questo a sua volta varia con la durata delle pratiche iniettive. In generale il drogato inizia con le vene alla fossa antecubitale, passando quindi alle vene dell’avambraccio, della mano e, con il passare degli anni, a collo, piede e gamba; dopo una decina d’anni passa ad utilizzare l’inguine e le dita. In taluni casi l’accesso è rappresentato dalla vena femorale.

Patogenesi Ripetute iniezioni in un sito cutaneo causano frequentemente un’area di necrosi su cui, di regola, si impianta una SSTI. L’uso di cocaina può agevolare la comparsa di trombi in sede distante; anche dopo assunzione per via inalante, questa droga può favorire la comparsa di infezioni cutanee e muscolari. L’azione immunosoppressiva degli oppiacei è già stata segnalata, come pure l’infezione da HIV.

Clinica Le SSTI sono comuni, per lo più di severità modeste e sono trattate facilmente con numerosi agenti. La diagnosi eziologica non è facile, tuttavia in molti casi non è necessaria, quando il paziente presenta sintomi e segni lievi. Indizi d’infezione severa e preoccupante sono rappresentati da segni di tossicità sistemica, come febbre o ipotermia, tachicardia (frequenza cardiaca > 100 battiti/minuto) e ipotensione (pressione arteriosa sistolica < 90 mm Hg o inferiore di 20 mm Hg rispetto al valore usuale), configurando una sindrome settica. Altri segni di gravità comprendono dolore intenso, bolle violacee, emorragie cutanee, lacerazione o necrosi cutanea, anestesia cutanea, rapida progressione, enfisema tessutale. Sfortunatamente questi sintomi e segni sono

Sindrome settica

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Ascesso

Cellulite

Ulcere cutanee

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spesso tardivi. In tali condizioni una visita chirurgica urgente può essere d’importanza cruciale nella conduzione di un trattamento efficace. L’ascesso rappresenta la forma clinica più comune, seguita in ordine di frequenza da cellulite ed ulcere cutanee infette. Altre condizioni anatomo-cliniche, ad impronta necrotizzante, sono fortunatamente più rare. L’ascesso cutaneo è una raccolta purulenta situata nel derma e nei tessuti più profondi. Solitamente si presenta come un nodulo arrossato, caldo, fluttuante, dolente; la palpazione ravviva il dolore. L’ascesso è spesso sormontato da una pustola centrale e circondato da un’area di tumefazione eritematosa. Queste lesioni cutanee sono tipicamente polimicrobiche e contengono i batteri che normalmente colonizzano la cute; non raramente sono presenti anche specie derivanti dalle mucose contigue. S. aureus, presente solo in circa il 25% dei casi, solitamente è isolato in coltura pura. La cellulite si manifesta con un’area a rapida estensione di edema, rossore, calore, talora con linfangite e infiammazione dei linfonodi regionali. La cute sovrastante può apparire a “buccia d’arancia” a causa dell’edema che gonfia la superficie cutanea attorno ai follicoli piliferi. Vescicole, bolle contenenti liquido chiaro, ed emorragie cutanee sotto forma di petecchie o ecchimosi possono manifestarsi sulla cute infiammata. La cellulite differisce dall’erisipela per una maggiore estensione in profondità, fino a coinvolgere il sottocutaneo. Nella maggior parte dei casi sono in gioco streptococchi b-emolitici, per quanto numerose specie batteriche possano essere responsabili di quest’affezione. Manifestazioni sistemiche sono generalmente assenti o lievi, ma possono manifestarsi febbre, leucocitosi, tachicardia, confusione, insufficienza renale. La mancata risposta clinica alla terapia antibatterica iniziale può essere dovuta a microorganismi non usuali, ceppi resistenti di stafilococchi o streptococchi, o processi profondi ed estensivi a impronta necrotizzante. Ascessi e celluliti possono diffondere a strutture adiacenti, con gravi conseguenze. Ad esempio, ascessi dell’area giugulare possono estendersi al mediastino, o interessare le carotidi con emorragie massive, o produrre celluliti profonde del collo con paralisi improvvisa della corda vocale, ostruzione delle vie aeree con asfissia acuta e necessità di tracheostomia. L’infezione del trigono femorale può complicarsi con tromboflebite settica locale o estendersi a causare una cellulite retroperitoneale. Ulcere cutanee infette sono molto comuni nei drogati parenterali. Esse sono osservate più frequentemente alle estremità inferiori, solitamente nei pressi delle caviglie, e conseguono all’iniezione ripetuta di materiale non sterile. Esse possono conseguire a ripetute iniezioni di materiale contaminato nello stesso sito, con la partecipazione di stimoli irritativi ed infettivi, a cui concorrono eventi tromboflebitici. Le ulcere possono persistere per anni e occasionare ripetuti ricoveri in ambiente ospedaliero. Sul piano microbiologico è comune il reperto di diverse specie batteriche; particolarmente frequenti sono S. aureus e streptococchi b-emolitici, ma anche specie Gram-negative possono assumere un ruolo di rilievo: Pseudomonas aeruginosa, enterobatteri (E. coli, Klebsiella, Proteus). L’iniezione intravenosa di materiale contaminato e/o in condizioni che contravvengano alle norme di asepsi è inoltre associata ad un rischio importante di flebotrombosi o tromboflebite. Le SSTI necrotizzanti differiscono da quelle più lievi e superficiali per presentazione clinica, manifestazioni sistemiche e strategie di trattamento. Possono interessare i piani fasciali e muscolari, sono destruenti e possono avere esito letale. Trauma, intervento chirurgico o iniezione in condizioni settiche


Infezioni della cute e dei tessuti molli tossicodipendente con uso parenterale delle sostanze

rappresentano il momento di avvio. L’eziologia può essere monomicrobica (sostenuta solitamente da streptococchi o raramente stafilococchi) o polimicrobica (essendo implicata una flora mista aerobia-anaerobia). Sono state descritte diverse varianti anatomo-cliniche, ma l’approccio diagnostico, il trattamento antibatterico e il ruolo del chirurgo sono simili in tutte queste forme. In fase iniziale può essere difficile la distinzione fra la cellulite che dovrebbe rispondere al solo trattamento antibiotico e l’infezione necrotizzante che richiede un intervento operatorio. Dolore intenso e continuo, bolle, ecchimosi, necrosi cutanea, enfisema sottocutaneo (crepitio), edema che oltrepassa i limiti dell’area eritematosa, anestesia cutanea, manifestazioni sistemiche e rapida estensione – anche a dispetto della terapia antibiotica – sono segni d’allarme. La fascite necrotizzante è un’infezione sottocutanea che si estende in profondità diffondendosi lungo i piani fasciali (rappresentati in genere dalla fascia superficiale). Una lesione cutanea iniziale è riconoscibile nell’ottanta% dei casi, ed è solitamente di modesta entità. Una caratteristica distintiva è la consistenza dura, lignea del sottocutaneo; i piani fasciali e muscolari non possono essere distinti dal tessuto sottocutaneo alla palpazione. Non v’è suppurazione. Se si riconosce una ferita aperta, l’introduzione di uno strumento non appuntito riesce con facilità a dissecare i tessuti necrotici dal piano fasciale sottostante. L’area circostante è ampiamente sottominata. Dalla ferita fuoriesce un essudato fluido, brunastro. La letalità è elevata nell’ambito di un quadro settico generalizzato. Altre patologie necrotizzanti, tali da richiedere la dovuta attenzione ed un adeguato trattamento non solo antibatterico, ma anche chirurgico, sono rappresentate da miosite da streptococchi anaerobi, piomiosite (prevalentemente causata da S. aureus) e cellulite necrotizzante “sinergistica” (tipicamente causata da flora mista, aerobia ed anaerobia).

Forme necrotizzanti

Agenti eziologici S. aureus è la specie batterica più frequentemente implicata, seguono streptococchi. Gli ascessi sono prevalentemente causati da S. aureus, mentre le celluliti diffuse, soprattutto in mancanza di porte d’entrata ben definite, sono più comunemente causate da specie streptococciche. Questi agenti possono essere isolati in coltura pura o assieme ad altri batteri. La maggior parte dei ceppi di S. aureus a circolazione comunitaria è sensibile alla meticillina (MSSA). Tuttavia, in talune aree geografiche la maggior parte dei ceppi di S. aureus esibisce resistenza alla meticillina (MRSA); negli USA è emerso con prepotenza il community associated MRSA (CA-MRSA). Si tratta di ceppi che differiscono da quelli ospedalieri di MRSA per essere portatori del determinante (staphylococcal cassette chromosome, SCC) mec di tipo IV (responsabile della meticillino-resistenza) e del gene codificante la leucocidina di Panton-Valentine (PVL); sono inoltre caratterizzati da bassa eterogeneità clonale; negli Stati Uniti prevale il clone USA 300. Altre specie coagulasi-negative di stafilococchi sono identificate con discreta frequenza, come pure streptococchi alfa-emolitici, in particolare Streptococcus milleri e, occasionalmente, pneumococco. Questa specie, come pure un Gram-negativo, Eichenella corrodens, tradisce l’origine orale dell’agente infettivo (dopo iniezione di farmaci in preparazione orale assunti mediante iniezione previa rottura con i denti della capsula o della compressa). Recente è la segnalazione di un ruolo crescente per anaerobi e flora mista. Casi aneddotici

Staphylococcus aureus

Altri gram-positivi

Anaerobi e flora mista

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sono stati associati a clostridi. Ad esempio, la diffusione in California dell’uso di una particolare preparazione di eroina proveniente dal Messico (black tar) è stata collegata con gravi infezioni: tetano e casi di fascite necrotizzante. Un’epidemia da C. novyi nel Regno Unito è stata associata a stretto contatto e scambio di aghi, siringhe e attrezzatura ad hoc nell’ambito di una comunità dedita all’uso illecito di droga. D’altre parte, un aumento delle infezioni da streptococco di gruppo A è risultato eterogeneo alla sierotipizzazione M ed è stato attribuito al diffondersi di una pratica (scambio di siringa) piuttosto che ad una sorgente comune di infezione.

Diagnosi Clinica

Diagnostica per immagini

Ecotomografia

Accertamento microbiologico

La diagnosi è tuttora essenzialmente clinica. Ascessi profondi possono essere difficili da documentare. La profondità e l’estensione dell’interessamento tessutale e l’eventuale coinvolgimento di strutture adiacenti possono essere valutati mediante ecografia, che può utilmente essere condotta al letto del paziente con l’ausilio di strumenti portatili, aumentando l’accuratezza diagnostica in maniera efficace e rapida. Altri approcci alla diagnosi per immagini possono essere offerti dalla tomografia computerizzata (TC) e dalla risonanza magnetica nucleare (RMN). La TC è utile per localizzare ascessi cervicali, e per esplorare la regione inguinale e femorale. La RMN è particolarmente efficace nelle infezioni delle estremità. Reperti rilevanti possono consistere ispessimento asimmetrico fasciale o dissociazione del pannicolo adiposo conseguente alla formazione di gas lungo i piani fasciali. La pervietà dei vasi può essere valutata con ultrasonografia Doppler. L’ecotomografia duplex dovrebbe essere condotta per svelare eventuali complicanze vascolari, ad esempio una trombosi della vena femorale profonda. Questi metodi possono documentare raccolte purulente, flebotrombosi o pseudoaneurisma. La trombosi ileofemorale compare quando le vene superficiali sono esaurite e il soggetto inizia ad utilizzate i grossi vasi nella regione inguinale; aneurisma o pseudoaneurisma possono conseguire ad iniezione intra-arteriosa. Corpi estranei, come frammenti di ago, debbono essere ricercati radiograficamente. La diagnosi microbiologica si basa sulla raccolta di campioni ottenuti dalla cute e dai tessuti infetti e/o dal sangue (emocoltura). Sfortunatamente, l’aspirazione della cute non produce risultati utili nel 75-80% dei casi di cellulite e l’emocoltura è raramente positiva (5%). La presenza di febbre richiede la ricerca di eventuali vegetazioni endocardiche per una possibile coesistente infezione di questo distretto.

Terapia

Ruolo del chirurgo

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Il paziente esente da tossicità sistemica, in condizioni di stabilità clinica e senza co-morbidità può spesso essere gestito ambulatorialmente. In molti casi le infezioni localizzate possono essere dominate per mezzo dell’evacuazione chirurgica, con o senza terapia antibiotica orale o locale. Nel paziente febbrile è opportuno che prima dell’incisione chirurgica sia iniziata una copertura antibiotica profilattica. Le forme severe o progressive richiedono, oltre al tempestivo intervento del chirurgo allo scopo di evacuare raccolte fluide, drenare essudato in


Infezioni della cute e dei tessuti molli tossicodipendente con uso parenterale delle sostanze

formazione e rimuovere tessuti devitalizzati, un trattamento antibiotico a dosaggio elevato e per via venosa. Sono generalmente necessarie ripetute visite chirurgiche e talora reinterventi, con eventuale resezione ampia fino all’amputazione. La terapia antibiotica deve essere condotta in maniera mirata, diretta cioè contro i microrganismi isolati dal materiale purulento o dal sangue. Poiché soprattutto nelle celluliti non complicate le colture sono spesso poco fruttifere, in tali circostanze la terapia deve essere condotta su base “empirica” ovvero “razionale”, in base anche all’epidemiologia propria della sede geografica, con particolare riferimento a suscettibilità agli antibatterici e resistenze batteriche acquisite. La terapia antibiotica solitamente è condotta per 1 o 2 settimane, ma non raramente (fino al 20% dei casi) l’infezione ricorre. Gravi infezioni streptococciche sono affrontate validamente con una penicillina ad alto dosaggio più clindamicina. In caso di severa ipersensibilità alla penicillina, scelte alternative sono vancomicina, linezolid, quinupristina/ dalfopristina, daptomicina. Si deve tener presente, inoltre, come gli streptococchi, in particolare i gruppi A, B, C, G, F e Strep. milleri siano sensibili a quasi tutte le betalattamine e ai macrolidi, pur essendo crescenti le resistenze nei confronti di questi ultimi. Gravi infezioni da MSSA richiedono una penicillina semisintetica resistente alle penicillinasi stafilococciche (oxacillina, ad esempio) oppure una cefalosporina di prima generazione (cefazolina ad esempio) e/o clindamicina. Scelte alternative sono vancomicina, teicoplanina, linezolid, quinupristina/dalfopristina, daptomicina (quest’ultima meno ampiamente documentata); uno di questi farmaci può essere impiegato in caso di ipersensibilità, ma soprattutto si usa in caso di meticillino-resistenza (MRSA). Dobbiamo notare che anche altri farmaci possono essere utilizzati in terapia anti-stafilococcica: carbapenemi (peraltro inefficaci nei confronti di MRSA), macrolidi, cotrimossazolo (TMP/SMX). Va inoltre rimarcato che i ceppi CA-MRSA solitamente non sono multiresistenti, risultando per lo più sensibili a cotrimossazolo, doxiciclina, minociclina, clindamicina e rifampicina; si riscontrano invece frequenti resistenze ad eritromicina, mentre la sensibilità ai fluorochinoloni è variabile. Altri antibiotici efficaci contro i Gram-positivi, e con buone potenzialità nei confronti di MRSA, sono tigeciclina, recentemente approvata da FDA per il trattamento delle SSTI, ed alcune molecole tuttora in fase di investigazione clinica, dalbavancina, telavancina e ceftobiprole. Gravi infezioni da flora mista aerobia/anaerobia richiedono una penicillina protetta (ampicillina/sulbactam, oppure piperacillina/tazobactam) + clindamicina + ciprofloxacina. Il metronidazolo può sostituire la clindamicina; talora si considera l’impiego di un aminoglucoside. Se si configura un ruolo per gli stafilococchi bisogna aggiungere un agente appropriato. A tutto ciò va aggiunto che l’incidenza di tetano è elevata in questi pazienti, per cui se lo stato vaccinale non è chiaro, si raccomanda una rigorosa condotta di profilassi immunitaria.

Terapia antibiotica mirata

Terapia antibiotica “empirica”

Streptococchi

MSSA

MRSA

CA-MRSA

Antibiotici in fase investigazionale Copertura anti-anaerobia

Prevenzione Fattori di rischio in grado d’indurre infezioni della cute e dei tessuti molli a seguito di somministrazione di sostanze illecite sono stati identificati con chiarezza. Si tratta, come si è visto, in particolare d’iniezione sottocutanea, cocaina, speedball, uso di aghi contaminati e mancata pulitura/disinfezione della cute. Campagne d’educazione mirate ad informare la popolazione a

Fattori di rischio

Campagne di educazione

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Ruolo educativo del medico curante

rischio ed a modificarne il comportamento in maniera positiva dovrebbero essere condotte innanzi tutto dalla mano pubblica. La fornitura di aghi sterili e di tamponi alcolici dovrebbe essere assicurata, o comunque l’accesso a questi mezzi dovrebbe essere agevolato. La conduzione di un vero e proprio trial su base operativa, corredato di valutazione statistica, produrrebbe dati utili a misurare il beneficio derivante da tali provvedimenti. Dobbiamo inoltre ricordare che i soggetti che abusano di sostanze per via venosa, e che afferiscono in ambiente di cura per SSTI, sono soggetti ad alto rischio di nuova ospedalizzazione e di esito infausto. Il sanitario che visita questi malati è perciò posto di fronte all’opportunità di condurre una appropriata quanto vitale opera di prevenzione. Bibliografia Levine DP, Brown PD. Infections in Injection drug users. In: Mandell, Douglas, and Bennett’s Principles and Practice of Infectious Diseases, 7th edition, 2010 Churchill Livingstone Elsevier. Alonzo NC, Bayer BM: Opioids, immunology, and host defenses of intravenous drug abusers. Infect Dis Clin North Am 2002; 16:553-569. Butler, KH. Incision and Drainage. In Roberts and Hedges (eds.): Clinical Procedures in Emergency Medicine, 4th Edition, Philadelphia, Saunders, 2004, pp717-748. Folstad SG: Soft tissue infections. In Tintinalli JE, Kelen GD, Stapczynski JS (eds): Emergency Medicine: A Comprehensive Study Guide, sixth edition, New York, McGraw-Hill, 2004, pp 979-987. Gutman SJ. Subcutaneous abscess incision and drainage. In Reichmann EF, Simon RR (eds): Emergency Medicine Procedures. New York McGraw-Hill 2004, pp 812-820. Stone MH, Stone DH, MacGregor HA. Anatomical distribution of soft tissue sepsis sites in intravenous drug misusers attending an accident and emergency department. Br J Addict. 1990 Nov;85(11):1495-6. Makower RM, Pennycook AG, Moulton C. Intravenous drug abusers attending an inner city accident and emergency department. Arch Emerg Med. 1992 Mar;9(1):32-9. Erratum in: Arch Emerg Med 1992 Sep;9(3):346. Morrison A, Elliott L, Gruer L. Injecting-related harm and treatment-seeking behaviour among injecting drug users. Addiction. 1997 Oct;92(10):1349-52. Khalil PN, Huber-Wagner S, Altheim S, Bürklein D, Siebeck M, Hallfeldt K, Mutschler W, Kanz GG. Diagnostic and treatment options for skin and soft tissue abscesses in injecting drug users with consideration of the natural history and concomitant risk factors. Eur J Med Res. 2008 Sep 22;13(9):415-24. Murphy EL, DeVita D, Liu H, Vittinghoff E, Leung P, Ciccarone DH, Edlin BR. Risk factors for skin and soft-tissue abscesses among injection drug users: a case-control study. Clin Infect Dis. 2001 Jul 1;33(1):35-40. Bergstein JM, et al: Soft tissue abscesses associated with parenteral drug abuse: presentation, microbiology, and treatment. Am Surg 1995; 61:1105-1108. Simmen HP, et al: Soft tissue infections of the upper extremities with special consideration of abscesses in parenteral drug abusers. A prospective study. J Hand Surg Br 1995; 20:797-800. Maliphant J, Scott J. Use of the femoral vein (“groin injecting”) by a sample of needle exchange clients in Bristol, UK. Harm Reduct J. 2005;2:6. Irish, Skin and soft tissue infections and vascular disease among drug users, England. Emerging Infectious Diseases 2007; 13: 1510-1511. Hoeger PH, Haupt G, Hoelzle E: Acute multifocal skin necrosis: synergism between invasive streptococcal infection and cocaine-induced tissue ischaemia?. Acta Derm Venereol 1996; 76:239-241. Cohen AL, Shuler C, McAllister S, Fosheim GE, Brown MG, Abercrombie D, Anderson K, McDougal LK, Drenzek C, Arnold K, Jernigan D, Gorwitz R. Methamphetamine use and methicillin-resistant Staphylococcus aureus skin infections. Emerg Infect Dis. 2007 Nov;13(11):1707-13. Soft tissue infections among injection drug users—San Francisco, California, 1996-2000. MMWR Morb Mortal Wkly Rep 2001; 50:381-384. Stevens DL, Bisno AL, Chambers HF, Everett ED, Dellinger P, Goldstein EJC, Gorbach SL, Hirschmann JV, Kaplan EL, Montoya JG, Wade JC. Practice Guidelines for the Diagnosis and Management of Skin and Soft-Tissue Infections. Clinical Infectious Diseases 2005; 41:1373–406.

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7. Infezioni osteoarticolari

Romualdo Mazzi 1, Chiara Danzi 2 1 2

Centro Medicina Comunitaria, Sezione di Screening HIV, ULSS 20 Verona Osservatorio Epidemiologico Infettivologia, Azienda ULSS 22, Bussolengo (VR)

Artrite infettiva Si definisce artrite infettiva l’infezione di una o più articolazioni, causata da molteplici microorganismi: batteri, virus, miceti e micobatteri. La forma più comune è l’artrite batterica, detta anche settica, piogenica o suppurativa, che si presenta generalmente in forma acuta e si accompagna ad una rapida distruzione dei tessuti articolari con conseguente perdita irreversibile della funzionalità articolare. Le infezioni causate da micobatteri e da miceti hanno un’evoluzione cronica, interessano per lo più una sola articolazione e progrediscono lentamente. È necessario arrivare alla diagnosi ed iniziare la terapia nel più breve tempo possibile per limitare i danni e le complicanze tardive dell’artrite. È la forma più diffusa nei tossicodipendenti, i microorganismi raggiungono l’articolazione prevalentemente per via ematogena, oppure per diffusione da processi infettivi contigui o per lesione diretta del’articolazione. Le manifestazioni cliniche, la gravità, l’evoluzione e gli esiti della malattia dipendono da fattori legati al patogeno, quali la specie e la capacità di produrre fattori di virulenza (adesività, tossine, ecc.) e da fattori che dipendono dall’ospite; in particolare la carenza di vascolarizzazione locale, la presenza di traumi con danni tissutali e malattie concomitanti. La sinoviale non possiede una membrana limitante ed è particolarmente vulnerabile alla colonizzazione ed infezione batterica. Una volta raggiunta l’articolazione i microorganismi tramite meccanismi intrinsechi aderiscono alla sinoviale, la colonizzano e si moltiplicano a livello del liquido sinoviale provocando un’intensa reazione infiammatoria con liberazione di endotossine che provocano lisi e necrosi dei tessuti articolari. L’infiammazione dell’articolazione e del liquido articolare assume un aspetto francamente purulento; vengono prodotte in sede citochine, comprese IL1, IL 6 e TNF, che provocano un ulteriore danno tissutale con degenerazione della cartilagine articolare, inibizione della sintesi cartilaginea e coinvolgimento dell’osso sub condrale. La pressione endoartico-

Artrite batterica acuta

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lare aumenta danneggiando ulteriormente i tessuti. Se non trattato oppure se curato tardivamente il processo si espande ai tessuti circostanti con distruzione dell’articolazione, dell’osso sub condrale, dei legamenti, dei tendini e dei tessuti molli periarticolari con perdita completa della funzione, fistolizzazione cutanea ed abbondante fuoriuscita di materiale purulento. L’artrite settica, in genere, riconosce una genesi mono specifica. Staphylococcus areus è il germe isolato più frequentemente seguito dagli Streptococci. Nei tossicodipendenti vengono spesso isolati bacilli Gram negativi, in particolare coliformi fecali. Anche Pseudomonas aeruginosa è uno dei patogeni che vengono frequentemente associati all’uso di droghe per via endovenosa, è dotato di un particolare tropismo per i tessuti fibrosi cartilaginei delle articolazioni (5). Infezioni più rare ma peculiari dei tossicodipendenti sono quelle dovute ad anaerobi e da patogeni presenti nel cavo orale, probabilmente per lo stato di salute disastroso della bocca e dei denti, dovuto all’igiene orale scadente, all’azione immunosoppressiva ed irritante delle droghe. Sono spesso presenti residui radicolari, gengiviti e stomatiti gravi che favoriscono la colonizzazione batterica della bocca. Alcune persone hanno inoltre l’abitudine di leccare la pelle oppure l’ago prima dell’autoinoculo. La sintomatologia è caratterizzata da segni locali a carico dell’articolazione coinvolta, generalmente singola. Il ginocchio è la sede più frequente ed è colpito in una percentuale che supera il 50%, seguito dall’anca e dalla caviglia. L’articolazione colpita appare tumefatta, dolente con cute sovrastante arrossata e calda. I movimenti sono limitati sia attivamente che passivamente ed esacerbano il dolore. Nei tossicodipendenti possono essere colpite anche le piccole articolazioni, spesso coinvolte per contiguità da processi osteomielitici o cellulitici (Figura 1). Altre articolazioni colpite più raramente ma caratteristicamente sono le sternoclaveari, le sterno condrali e le sacroiliache. Uno studio spagnolo che evidenziava le differenze cliniche tra infezioni osteoarticolari in persone tossicodipendenti rispetto alle persone non tossicodipendenti (5) ha evidenziato che l’articolazione sacroiliaca è quella colpita più frequentemente (23% di tutti i casi di infezione osteoarticolari nei tossicodipendenti). Infatti il coinvolgimento delle articolazioni sacroiliache, sterno costali e sternoclaveari risulta abbastanza comune nelle persone che abusano di sostanze per via endovenosa mentre sono siti coinvolti raramente nelle persone che non fanno uso di droghe. I sintomi sistemici sono rappresentati dalla febbre, accompagnata da brivido, espressione di batteriemia, che in genere compare prima dei sintomi locali; ci può essere malessere generalizzato con ottundimento del sensorio. La diagnosi va sospettata in base alla valutazione delle caratteristiche cliniche del processo infiammatorio. Gli esami di laboratorio evidenziano aumento della velocità di eritrosedimentazione, della proteina C reattiva e leucocitosi neutrofila. L’artrocentesi permette il drenaggio e l’esame citologico, biochimico, microscopico diretto e colturale del liquido articolare. Con l’esame diretto si evidenzia la componente granulocitaria neutrofila presente nel liquido articolare, possono essere fatte le colorazioni di Gram. L’esame colturale permette di giungere quasi sempre alla diagnosi eziologica (80-90% dei casi). Le emocolture risultano positive in un’alta percentuale dei casi (50-70%). Vanno eseguite anche colture del materiale superficiale di eventuali ferite e del materiale che fuoriesce dalle fistole periarticolari. La terapia si basa sul drenaggio chirurgico dell’articolazione con il lavaggio della cavità articolare e sull’uso sistemico di antibiotici. • Artrite settica da Staphylococcus meticillino sensibile

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Infezioni osteoarticolari

Nafcillina o Oxacillina 2 g 6 volte al dì I.V. oppure Cefazolina 2 g I.V. per 2-4 settimane; Vancomicina 15-20 mg/kg/dose ogni 8-12 ore. • Artrite settica da Staphylococcus meticillino resistente Vancomicina 15-20 mg/kg/dose ogni 8-12 ore + Rifampicina 600 mg al dì (o 300-450 x 2 al dì) per 2-4 settimane Daptomicina 6 mg/kg/die I.V. per 2-4 settimane Linezolid 600 mg ogni 12 ore P.O. o I.V. per 2-4 settimane Clindamicina 600 mg 3 volte al dì P.O. o I.V. per 2-4 settimane TMP-SMX 3.5-4 mg/kg/dose ogni 8-12 ore P.O. o I.V. per 2-4 settimane • Artrite da Streptococci penicillino sensibili Penicillina G 20 milioni di UI in infusione continua o divisa in sei dosi per 4-6 settimane; oppure Ceftriaxone 1-2 g/die I.V. o I.M. per 4-6 settimane; oppure Cefazolina 2 g 3 volte al dì I.V. per 4-6 settimane; Vancomicina 1520 mg/kg/dose ogni 12 ore per 2-4 settimane • Artrite da Enterobatteriacee Ceftriaxone 1-2 g/die I.V. o I.M. per 4-6 settimane; oppure Ciproflossacina 750 mg P.O. ogni 12 ore per 2-4 settimane • Artrite da Pseudomonas aeruginosa o Enterobacter spp. Cefepime 2 g I.V. ogni 12 ore per 4-6 settimane; oppure Meropenem 1 g I.V. 3 volte al dì per 4-6 settimane; oppure Ciproflossacina 750 mg P.O. ogni 12 ore per 2-4 settimane (1,2,3). L’artrite cronica è sostenuta nei tossicodipendenti da miceti ed in particolare da Candida spp., che rappresenta la localizzazione d’organo susseguente alla fungemia. Nei pazienti gravemente immunocompromessi con sindrome da immunodeficienza acquisita si riconoscono anche forme sostenute da Criptococco e da Micobatteri. Si tratta in genere di entità nosologiche paucisintomatiche con segni modesti di coinvolgimento articolare e dolore moderato. Evolvono con lentezza ma se non trattate portano inesorabilmente alla distruzione dell’articolazione con perdita della funzione e quindi della mobilità (20). L’artrite da Candida può presentarsi con caratteristiche simili a quelle di una comune artrite settica ed in questo caso l’artrocentesi permette la diagnosi differenziale; più spesso si manifesta in forma subdola con evoluzione clinica cronica. L’infezione dell’articolazione avviene, salvo rare eccezioni, per via ematogena.

Artrite cronica

Figura 1 a/b - Osteoartrite delle articolazioni falangee del secondo e terzo dito del piede destro in paziente tossicodipendente con insufficienza vascolare periferica

a

b

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Artrite tubercolare

L’artrite da Criptococco è estremamente rara e colpisce persone affette da sindrome da immunodeficienza acquisita negli stadi tardivi di malattia. La terapia dell’artrite da candida si basa sulla somministrazione dei derivati lipidici dell’Amphotericina B per 2-3 settimane seguita da Azolici per un periodo di 6-12 mesi, oppure Echinocandine per le specie di Candida resitenti agli azoloci. Anche l’artrite da Criptococco si giova del trattamento con derivati lipidici dell’Amphotericina B per due o tre settimane seguita da un trattamento prolungato fino ad un anno con Fluconazolo. L’artrite Tubercolare è riscontrabile in circa il 10% di tutte le forme extrapolmonari di tubercolosi. I fattori di rischio principali sono l’abuso di alcool e di droghe endovena, la denutrizione e la sindrome da immunodeficienza acquisita. La localizzazione articolare segue la diffusione ematogena del BK che si verifica durante l’infezione polmonare primaria. Si presenta tipicamente come una monoartrite cronica granulomatosa, colpisce soprattutto l’articolazione del ginocchio, dell’anca e della caviglia. Vi possono essere in concomitanza altre localizzazioni polmonari ed extrapolmonari. La sintomatologia è preminentemente locale caratterizzata da modesto dolore e tumefazione articolari che evolvono cronicamente verso la distruzione dell’articolazione. I sintomi sistemici, compresa la febbre, sono in genere completamente assenti. La diagnosi si basa sull’esecuzione di tests Tubercolinici o sull’esecuzione di Quantiferon. L’esame istologico del tessuto sinoviale permette di evidenziare la presenza di tessuto granulomatoso con necrosi caseosa centrale; inoltre sul liquido sinoviale si eseguono l’esame microscopico diretto per la ricerca di Bacilli acido-alcool resistenti e l’esame colturale per BK. La terapia dell’artrite è identica a quella proposta per tutte le forme di tubercolosi extrapolmonari e si basa sulla classica associazione di quattro farmaci: Rifampicina, Isoniazide, Pirazinamide ed Etambutolo, per otto settimane, seguito da un periodo di altri 4 mesi con Rifampicina ed Isoniazide.

Osteomielite L’osteomielite è l’infiammazione del tessuto osseo causata da una infezione sostenuta da molteplici microorganismi. L’incidenza non è elevata perché il tessuto osseo normalmente è molto resistente alle infezioni, per questo motivo vengono colpite, in particolare, persone che presentano fattori di rischio che aumentano la vulnerabilità dell’osso. L’infezione si può localizzare per via ematogena, per inoculazione diretta (come in corso di eventi traumatici che danneggiano direttamente il tessuto osseo, o permettono l’ingresso all’interno dei tessuti di corpi estranei infetti), oppure si può propagare per contiguità da processi flogistici che coinvolgono tessuti vicini (Figura 2). L’osteomielite può essere classificata in doversi modi: • a seconda delle caratteristiche cliniche in acuta e cronica; • secondo l’eziopatogenesi: diffusione ematogena, inoculazione diretta traumatica, diffusione per contiguità; • rispetto al coinvolgimento delle strutture anatomiche dell’osso: midollare o superficiale, localizzata oppure diffusa; • rispetto a fattori legati all’ospite. Staphylococcus aureus è il patogeno che viene isolato più comunemente in

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Infezioni osteoarticolari

Figura 2 - Osteomielite ed artrite cronica del ginocchio secondarie alla diffusione di processo infettivo dei tessuti contigui (pregressa fascite necrotizzante)

qualsiasi tipo di osteomielite, anche se in passato era stato segnalato un ruolo preminente di Pseudomonas aeruginosa. L’infezione da Pseudomonas aeruginosa è divenuta progressivamente meno frequente dopo gli anni ’80 del secolo scorso a causa delle variazioni delle abitudini tossicofile (6). La sintomatologia è estremamente varia e comprende sintomi sistemici aspecifici (quali febbre, brividi, malessere generalizzato, affaticamento, letargia ed irritabilità) e sintomi localizzati più specifici. La diagnosi precoce e l’identificazione del patogeno in causa sono fondamentali per il trattamento e per l’evoluzione prognostica futura. La diagnosi si basa sull’esame fisico del paziente, su esami di laboratorio e su esami strumentali di imaging, ma l’esame principale comprende la coltura e l’esame istopatologico del tessuto osseo infetto. L’esame colturale dei campioni microbiologici ricavati da materiale raccolto da ulcere superficiali o da fistole cutanee, spesso non permette l’isolamento dei patogeni che causano il processo osteomielitico; pertanto il trattamento antibiotico mirato dovrebbe essere guidato sempre dall’esame colturale dell’osso. Nei tossicodipendenti si riscontrano i seguenti agenti patogeni: • Staphylococcus aureus è responsabile di più del 50% delle osteomieliti • Streptococcus spp. • Pseudomonas aeruginosa • Enterobatteriacee • Anaerobi • Candida spp.

Eziologia

Classificazione Le due classificazioni usate maggiormente sono: • classificazione secondo Waldvogel • classificazione secondo Cierny e Mader La classificazione di Waldvogel (8) tiene conto delle caratteristiche eziopato-

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genetiche dell’infezione ossea. In base alla durata dell’infezione l’osteomielite viene distinta in acuta e cronica. In base alla patogenesi può essere distinta in ematogena, secondaria alla propagazione da focolai infettivi contigui, oppure associata ad alterazioni del sistema vascolare periferico. Nell’infezione acuta l’inizio dei sintomi si presenta entro pochi giorni con segni locali di infiammazione che possono essere accompagnati anche da sintomi sistemici. Se l’infezione persiste per più di 10-14 giorni si assiste alla degenerazione necrotica dell’osso ed allo sviluppo di un processo cronico, che evolve in genere nell’arco di mesi o di anni. La sintomatologia è prevalentemente locale, con presentazione subdola, è caratterizzata da dolore moderato e da modesti segni di infiammazione (con la triade classica: tumefazione, dolore arrossamento). In seguito si ha il sequestro dell’osso necrotico ed il coinvolgimento dei tessuti molli circostanti; si formano delle raccolte purulente che si fanno strada verso la superficie tramite tragitti fistolosi che permettono il drenaggio del materiale (Figura 3). L’osteomielite di origine ematogena si osserva frequentemente nelle persone che usano sostanze stupefacenti per via endovenosa. La localizzazione più frequente è a livello vertebrale, ma si osserva anche il coinvolgimento di sedi del tutto inusuali, ma caratteristiche nei tossicodipendenti, quali la sinfisi pubica, l’articolazione sternoclaveare, e le sacroiliache. Gli episodi batteriemici frequenti sono uno dei maggiori fattori predisponenti che si osservano nelle persone tosicodipendenti e sono dovuti all’uso di materiale non sterile ed alla contaminazione delle sostanze iniettate. Inoltre la presenza di lesioni croniche con infezione dei tessuti molli e la concomitante presenza di endocardite rappresentano ulteriori fattori di rischio. L’osteomielite di origine ematogena è in genere causata da un singolo microorganismo. In più del 50% dei casi si tratta di Staphylococcus aureus, ma nei tossicodipendenti sono frequenti anche gli isolamenti di bacilli Gram negativi e di Pseudomonas aeruginosa.

Figura 3 - Tramiti fistolosi cutanei ed insufficienza vascolare superficiale in paziente tossicodipendente, affetto da osteomielite della gamba sinistra

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Infezioni osteoarticolari

L’infezione da HIV non sembra rappresentare un rischio ulteriore, salvo che negli stati avanzati di malattia, quando si raggiungono stadi di immunodepressione estremi; si possono allora osservare forme di osteomielite dovute a patogeni opportunisti, quali micobatteri atipici, Bartonella henselae, micobatteriosi atipica e Tubercolosi disseminata. L’osteomielite secondaria ad estensione di un focolaio di infezione contiguo al tessuto osseo è la forma che colpisce con maggior frequenza l’età adulta. Le ossa lunghe sono generalmente le più colpite. Nei tossicodipendenti sono frequenti le infezioni dei tessuti molli secondarie ad autoinoculo, fuori vena di sostanze non sterili che raggiungono per via iniettiva siti profondi. In questi casi i pazienti si presentano con sintomatologia prevalentemente locale caratterizzata da dolore eritema e tumefazione. Quando l’infezione si cronicizza si forma un tragitto fistoloso che geme materiale purulento (Figura 3). In questa situazione gli esami di laboratorio possono essere del tutto normali. La flora batterica in causa è generalmente polimicrobica (fino nel 50% dei casi). Anche in questo caso Staphylococcus aureus è il patogeno isolato più frequentemente, seguito da bacilli Gram negativi. L’osteomielite associata ad insufficienza vascolare periferica si riscontra quasi esclusivamente nei pazienti affetti da diabete mellito da lungo tempo; è presente anche nelle persone che hanno fatto uso di droghe per via iniettiva per lungo tempo e nelle quali vi sono segni evidenti di vasculopatia dovuta al danno diretto delle sostanze sul microcircolo e sul sistema venoso superficiale (Figura 1). La maggior parte delle infezioni è sostenuta da flora polimicrobica. Il microorganismo isolato più frequentemente è Staphylococcus aureus, seguito da Enterococcus foecalis Streptococchi del gruppo B, Enterobatteriacee, batteri anaerobi e Pseudomonas aeruginosa. La classificazione di Cierny e Mader (9) si basa sulla localizzazione del processo infettivo nelle varie strutture anatomiche dell’osso, sullo stato di salute fisica dell’ospite e sul’ambiente circostante all’osso nel quale si sviluppa l’infezione ; è una classificazione dinamica, che può mutare nel tempo rispetto alla risposta alla terapia, all’evoluzione della malattia ed alle condizioni fisiche generali e fisiologiche del paziente. Ha il vantaggio di dare indicazioni terapeutiche e prognostiche Secondo le caratteristiche anatomiche si distinguono: • 1 stadio: osteomielite della midollare; confinata alla cavità midollare e generalmente associata all’infezione per via ematogena; • 2 stadio: osteomielite superficiale, deriva dall’esposizione dell’osso alla base di una ferita o di una lesione infetta; • 3 stadio: osteomielite localizzata, caratterizzata da necrosi e sequestro osseo che comprendono tutto lo spessore della corticale; • 4 stadio: osteomielite diffusa; il processo coinvolge sia la corticale che la midollare dell’osso con perdita della stabilità. Riguardo alle caratteristiche fisiologiche del paziente si distinguono le seguenti classi: • A individuo sano • B individuo compromesso – B s Compromissione sistemica; malnutrizione, scompenso epatico e renale diabete, neoplasie immunodeficienza ed età estreme; – B l Compromissione locale; linfedema, stasi venosa, abuso di tabacco e di alcool, compromissione della circolazione locale; – B l s Compromissione locale e sistemica. • C Non sono possibili cure tranne la terapia antibiotica sistemica e l’amputazione dell’arto.

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Patogenesi

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I fattori più importanti che influenzano la patogenesi dipendono: • dalle caratteristiche intrinseche del microorganismo: fattori di virulenza, adesività, capacità di formare biofilm, produzione di tossine, resistenza agli antibiotici; • dalle caratteristiche dell’ospite ed in particolare dal suo stato immunitario, dall’età, dalle abitudini di vita (fumo, alcool, alimentazione, uso di droghe) e dalle comorbosità; • da fattori anatomici, tipo di osso, precedenti traumi e patologie. I patogeni raggiungono l’osso ed il tessuto articolare attraverso la via ematogena, per contiguità da processi infettivi di tessuti vicini e infine per inoculo diretto. Il microorganismo raggiunto l’osso, a livello della midollare, aderisce alla matrice ossea e del tessuto connettivo, tramite sofisticati meccanismi di adesività mediati da proteine presenti sulla superficie batterica (quali adesine ed altri fattori di aggregazione). Una volta raggiunta la sede di infezione vengono prodotti fattori antifagocitari e pro infiammatori che provocano la morte e la distruzione dei tessuti con osteolisi. Viene sintetizzata una barriera fisica mucopolisaccaridica (biofilm) nella quale i microorganismi, pur metabolicamente meno attivi, sopravvivono a lungo, protetti nei confronti dell’azione degli antibiotici (che penetrano assai poco in questa struttura) e dei meccanismi di difesa dell’ospite. Si verifica un’intensa risposta infiammatoria con leucocitosi e produzione locale di citochine (Interleuchine, TNF) con aumento della pressione all’interno dei canali di Harvey, vengono a crearsi condizioni favorevoli alla formazione di fenomeni trombotici e tromboembolici con necrosi ischemica del tessuto e formazione di sequestri ossei dove la terapia antibiotica arriva in quantità insufficiente. Il processo infiammatorio stimola l’attività osteoclastica con una ulteriore perdita di matrice ossea e rarefazione del tessuto osseo fino ad arrivare a fratture spontanee. L’ospite tossicodipendente va considerato a rischio elevato per diversi motivi; infatti spesso alla dipendenza da sostanze per via endovenosa si associano altre abitudini che rappresentano di per se fattori di rischio aggiuntivi, ad esempio la malnutrizione, il fumo e l’abuso di alcool. L’impiego di sostanze e di presidi non sterili usati per l’inoculo endovenoso è la causa dell’ingresso di patogeni nel torrente circolatorio. Inoltre vi è spesso scarsa igiene della cute e mancanza di pratiche di medicazione. Nelle persone tossicodipendenti si riscontrano frequentemente lesioni flemmonose dovute ad auto inoculo di sostanze fuori vena con conseguente infiammazione del sottocutaneo o dei muscoli (Figure 2 e 4). Questi processi si possono espandere verso l’osso per contiguità oppure possono fistolizzare verso la superficie esterna rappresentando una porta d’ingresso per nuove infezioni. Tutte le persone tossicodipendenti manifestano delle complicazioni infettive e ascessuali a livello della cute e dei tessuti molli durante il periodo del loro abuso. Queste dipendono dal tipo di droga, dal metodo di preparazione, dal sito di iniezione e dalla presenza di agenti infettivi nell’iniezione. La maggior parte dei tossicodipendenti usa più di una sostanza per esempio eroina e cocaina. La cocaina è dotata di un effetto citotossico diretto e di una potente azione adrenergica che provoca vasocostrizione. Altre sostanze iniettate frequentemente in associazione sono il crack, la morfina e i suoi derivati, la pentazocina, le anfetamine, la ketamina e le benzodiazepine. Tutte possono provocare fenomeni irritativi e vasculitici che nell’arco di 10 anni portano in genere alla sclerosi del sistema circolatorio periferico. Conseguentemente devono essere ricercati altri siti di accesso alternativi, ad esempio l’iniezione nei tessuti molli sottocutanei oppure l’accesso a vene profonde oppure ad arterie con rischio elevato


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Figura 4 - Lesioni cutanee conseguenti ad autoinoculo di sostanze

di batteriemie, sepsi e infezioni tissutali. Il tessuto osteoarticolare può essere raggiunto direttamente tramite inoculo quando si trova vicino ad un grosso vaso profondo (ad esempio l’articolazione sternoclaveare che viene coinvolta nel tentativi di raggiungere la succlavia). Quindi quando non è più possibile l’accesso venoso periferico si possono determinare tutte le maggiori situazioni a rischio di osteomielite sia ematogena che per contiguità (iniezione di arteria o di vena profonda, infezioni cutanee, fascite necrotizzante, ulcere necrotiche, tromboflebiti, aneurismi micotici e falsi aneurismi). Le varie manipolazioni sono una ulteriore occasione di contaminazione da parte di vari patogeni. La scarsa igiene orale con gravi infezioni odontostomatologiche predispone a batteriemie con possibile localizzazione dell’infezione a livello dell’endocardio e da qui raggiungere l’osso. Si possono individuare alcuni punti essenziali nella patogenesi delle infezioni nei tossicodipendenti: • Aumentata esposizione ai patogeni – tramite iniezioni non sterili – strumenti di preparazione della droga contaminati – adulterazione delle sostanze. • Caratteristiche della flora commensale cutanea e mucosa dovute alla scarsa igiene personale ed all’azione locale sulle mucose orale e nasale delle droghe. • Influenze delle droghe sul sistema immunitario che possono essere dirette, ed indurre l’attivazione o la soppressione di recettori di membrana delle cellule immunitarie; oppure possono agire indirettamente attraverso interazioni farmacologiche col sistema nervoso centrale (13). • Stili di vita delle persone tossicodipendenti (22-26) – molteplici partners sessuali – situazioni abitative sovraffollate e promiscue – malnutrizione e abuso di alcoolici e di fumo di tabacco.

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Sintomatologia

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Le sostanze stupefacenti come l’eroina, dalla produzione al consumo, vengono più volte tagliate e diluite con altre sostanze quali amido, metaanfetamina, lidocaina ed altre, che possono causare fenomeni irritativi e necrotici locali. Durante queste adulterazioni la sostanza viene spesso contaminata da spore batteriche che resistono ai pochi attimi di riscaldamento ai quali è sottoposta prima di essere iniettata. La situazione locale dei tessutiti, che sono spesso danneggiati dalla carenza di un’adeguata circolazione e da fenomeni infiammatori ed emorragici locali dovuti alla presenza di residui insolubili, costituisce un habitat favorevole alla crescita ed allo sviluppo di anaerobi. Tra i consumatori di eroina sono state descritte infezioni da Clostridi (compresa la fascite necrotizzante) e da altri batteri sporigeni ad esempio da Bacillus cereus e da Bacillus anthracis (10, 11). Spesso l’attrezzatura usata per la preparazione e l’iniezione delle sostanze stupefacenti (aghi, cucchiaini, tappi di bottiglia metallici, filtri di sigaretta e di cotone) è contaminata da microrganismi (12) ed in particolare da Staphylococcus aureus; è stata descritta la trasmissione interumana tramite aghi e anche tramite gli strumenti usati per l’inalazione (cannucce e rotolini di carta). Infatti i tossicodipendenti risultano colonizzati a livello nasale da Staphylococcus aureus in una percentuale molto elevata rispetto alla popolazione generale (14). Anche i contatti fisici stretti possono essere veicolo di trasmissione di Staphylococcus (15). Le infezioni da Streptococcus spp., da bacilli Gram negativi, da anaerobi e da Candida (20) sono spesso associate alla contaminazione con saliva delle sostanze, degli aghi oppure della cute sede di iniezione; e sono espressione della colonizzazione del cavo orale da parte di questi microrganismi. L’uso di sciogliere l’eroina e la cocaina con succo di limone rappresenta il fattore di rischio e la causa principale dell’infezione da Candida albicans nei tossicodipendenti (16, 17). L’osteomielite delle ossa lunghe è rara nell’adulto e colpisce esclusivamente individui a rischio e tra questi le persone tossicodipendenti. Nell’età adulta l’infezione si localizza prevalentemente a livello della diafisi ossea. La sintomatologia è caratterizzata da dolore accompagnato da sintomi locali: tumefazione, cute calda ed arrossata e più raramente, da sintomi sistemici quali febbre e malessere generalizzato. Nell’età adulta la forma di osteomielite acuta ematogena più frequente è quella della colonna; colpisce il tratto lombare (Figura 5) e con minor frequenza (eccetto che per la tubercolare) il tratto toracico e quindi cervicale (figura n. 6). La prevalenza di osteomielite vertebrale è in aumento in particolare nei tossicodipendenti (2). Il dolore è il sintomo principale più tipico. In genere il paziente lamenta algie al collo ed alla schiena, ma anche all’addome (dolore riferito); nell’arco di due o tre mesi il dolore si intensifica e compaiono altri sintomi di accompagnamento, quali contratture muscolari e limitazioni funzionali con vizi di postura in posizioni antalgiche, ogni tentativo di movimento evoca dolore. La febbre può essere di tipo settico, come espressione di batteriemia in corso, oppure può manifestarsi come febbricola o essere completamente assente. Dopo alcune settimane il processo infettivo tende ad espandersi alle strutture contigue all’osso e si formano ascessi epidurali o del muscolo Psoas (18, 19). Compaiono allora segni di compressione nervosa midollare, caratterizzati da radicoliti con debolezza muscolare ed impotenza funzionale progressiva fino alla paralisi. Il dolore si esacerba e diventa insopportabile. La sintomatologia dell’osteomielite secondaria a processi infettivi contigui è spesso mascherata da quella dell’infezione tissutale primitiva. Il coinvol-


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Figura 5 - Osteomielite della colonna lombare

gimento dell’osso è favorito dalla cattiva vascolarizzazione locale (tale situazione è presente spesso a livello degli arti nei tossicodipendenti), dalla presenza di lesioni traumatiche e di corpi estranei. Una volta raggiunto l’osso il processo tende a persistere ed a cronicizzare. I sintomi sono quelli caratteristici dell’osteomielite cronica; il dolore è assente o modesto, sono presenti fistole cutanee che drenano materiale purulento assieme a frammenti di osso necrotico. Se il tramite fistoloso si chiude si assiste ad una riacutizzazione della sintomatologia con comparsa di tumefazione, dolore arrossamento della parte e febbre. A questi periodi di acuzie si alternano lunghi periodi durante i quali la sintomatologia è silente o paucisintomatica. Come complicanze tardive si possono presentare fratture spontanee, raramente tumori cutanei a livello dell’orifizio della fistola. L’osteomielite tubercolare colpisce prevalentemente la colonna dorsale (Figura 6) e la prima vertebra lombare. L’agente eziologico è il Mycobacterium tuberculosis, raramente il Mycobacterium bovis. La diffusione avviene per via ematogena tramite la ricca rete arteriosa paravertebrale ed è secondaria alla prima infezione polmonare oppure alla localizzazione renale del Bacillo di Koch. Colpisce generalmente due corpi vertebrali contigui ed il disco tra loro interposto prevalentemente nella parte anteriore. Il processo porta alla distruzione del disco ed alla necrosi ossea, tende ad estendersi alle strutture fibrose, cartilaginee e muscolari adiacenti con produzione di necrosi caseosa e formazione di ascesso freddo che diffonde lungo i tessuti paraspinali particolarmente lungo il legamento longitudinale anteriore. La distruzione dell’os-

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Figura 6 - Osteomielite della colonna toracica

Diagnosi

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so porta al crollo della parte anteriore dei corpi vertebrali (a cuneo) con cifosi e compressione midollare e radicolare (Figura 6). Il sintomo di esordio è il dolore localizzato che può precedere gli altri segni anche di molti mesi. Si può accompagnare a febbricola e ad astenia. Col progredire della malattia il dolore si esacerba, compaiono sintomi da compressione radicolare e midollare con perdita progressiva della funzione muscolare degli arti inferiori con debolezza, paraparesi, cifosi con contratture muscolari antalgiche e sindrome della cauda equina. Se il processo colpisce la colonna cervicale vi può essere disfonia e stridore e la compromissione neurologica può avere esiti drammatici (7). La diagnosi poggia su criteri clinici basati sulla sintomatologia presentata dal paziente; nelle forme acute elementi di sospetto sono la presenza di febbre, malessere generalizzato, tumefazione e dolore localizzato; nelle forme croniche, il dolore può essere anche modesto, in genera mancano i sintomi sistemici e si possono riscontare tragitti fistolosi con emissione di materiale purulento. Gli esami di laboratorio nelle forme acute sono caratterizzati dalla leucocitosi neutrofila, in genere modesta, dall’elevazione della VES e della Proteina C Reattiva. Questi ultimi due esami seppur aspecifici sono molto sensibili e spesso


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sono un utile presidio di valutazione dell’efficacia della terapia antibiotica; infatti il loro abbassamento in corso di terapia è un indice prognostico favorevole. Nel sospetto di una forma tubercolare è importante l’esecuzione di intradermoreazione di Mantoux oppure di Quantiferon. Eseguire l’esame emocolturale ha senso esclusivamente nelle forme acute ematogene di artrite ed osteomielite, che sono quasi sempre sostenute da un singolo germe. In queste forme spesso è possibile raggiungere la diagnosi eziologica ed iniziare l’antibioticoterapia sulla base delle indicazioni dell’antibiogramma. L’esame colturale della superficie delle piaghe e del pus, che fuoriesce dai tragitti fistolosi dell’osteomielite cronica, spesso da esito all’isolamento di flora batterica comune della cute e in genere diversa da quella presente nell’osso; tuttavia la predominanza di un microorganismo o la presenza di Staphylococcus aureus potrebbero essere suggestive e indirizzare alla diagnosi. Nelle forme croniche è indispensabile l’esame colturale dell’osso per raggiungere la diagnosi di certezza (21). Buoni risultati si ottengono anche dalla coltura del materiale raccolto tramite agobiopsia, che risulta diagnostico in percentuali elevate (fino al 85% dei casi). È utile richiedere anche gli esami colturali per miceti e micobatteri. Gli esami radiologici hanno un ruolo fondamentale e spesso consentono di arrivare precocemente alla diagnosi ed all’inizio della terapia antibiotica, forniscono inoltre indicazioni essenziali al chirurgo ortopedico e infine permettono la raccolta mirata di campioni di materiale infetto utilissimo per la diagnosi eziologica. Quando si sospetta un coinvolgimento dei tessuti molli è indicata l’esecuzione di ecografia che permette l’individuazione di aree ascessuali (Figura 7) in comunicazione con ascessi ossifluenti, è possibile eseguire sotto guida ecografica il prelievo del materiale purulento e la coltura del pus. L’esame ecografico è importante anche nella diagnostica delle infezioni articolari acute. La radiografia convenzionale va sempre eseguita nelle forme di osteomielite Figura 7 - Raccolta ascessuale dei tessuti molli sottocutanei in corso di osteomielite della gamba destra

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Terapia

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primitiva; essa permette spesso di formulare una diagnosi e quindi di dare inizio della terapia antibiotica precoce. Se negativa l’approfondimento diagnostico si giova della scintigrafia trifasica e nei casi che permangono dubbi della scintigrafia con leucociti marcati. Nell’osteomielite della colonna gli esami radiologici principali sono la RMN e la TAC (23) solo nei casi dubbi è indicata la prosecuzione diagnostica con tecniche di medicina nucleare. Nelle osteomieliti secondarie hanno un ruolo fondamentale per l’alta definizione delle immagini la TAC e soprattutto la RMN. In presenza di mezzi di sintesi metallici questi esami perdono di valore pertanto è spesso indispensabile l’esecuzione di scintigrafia con leucociti marcati. Questo esame, quando eseguito dopo adeguata sospensione della terapia antibiotica, fornisce importanti informazioni sulla persistenza o meno di processi flogistici infettivi. La PET (Tomografia emissione di positroni) è un’indagine sensibile e specifica per la diagnosi di osteomielite cronica (24), anche in caso di presenza di mezzi di sintesi. Inoltre non è necessaria la sospensione della terapia antibiotica prima dell’esecuzione dell’esame e questo rappresenta senz’altro un’ulteriore vantaggio rispetto alla scintigrafia con leucociti marcati (25). La terapia delle infezioni ossee ed articolari necessita di un approccio multidisciplinare medico e chirurgico ortopedico. La terapia medica andrebbe iniziata il più presto possibile per limitare l’instaurarsi di danni necrotici e la formazione di sequestri ossei e di raccolte purulente dove gli antibiotici diffondono con difficoltà e si concentrano a livelli subottimali con conseguente rischio di poli resistenze microbiche e con possibilità di successo terapeutico scarso o nullo. In questi casi è necessario l’intervento chirurgico per bonificare e drenare le raccolte, per rimuovere i sequestri ossei necrotici ed eventualmente, per stabilizzare le strutture ossee adiacenti non coinvolte. L’approccio chirurgico permette inoltre la raccolta diretta di tessuto infetto con maggiore possibilità di giungere alla diagnosi microbiologica corretta ed a una terapia mirata. In attesa degli esiti dell’esame colturale dei tessuti prelevati va iniziata al più presto una terapia empirica che andrà continuata in un secondo tempo se non si raggiunge una diagnosi eziologica oppure andrà modificata ed ottimizzata in base alla valutazione dei risultati dell’antibiogramma. Prima di iniziare una terapia empirica devono essere considerati i fattori epidemiologici locali e l’emergenza di eventuali specie resistenti; vanno tenuti in considerazione fattori legati all’ospite come le abitudini di vita (abuso di sostanze, alcolismo, fumo di sigarette) e le malattie concomitanti; importanti sono anche le caratteristiche cliniche dell’infezione, se acuta o cronica, se acquisita per via ematogena o dovuta all’estensione di processi infettivi contigui; infatti l’artrite acuta ematogena e l’osteomielite acuta riconoscono una genesi generalmente mono microbica, mentre i processi cronici sono frequentemente polimicrobici. La terapia deve comprendere antibiotici attivi nei confronti di Staphylococcus aureus, che rappresenta l‘agente patogeno più frequente, in associazione ad antibiotici attivi sui Gram negativi, spesso causa di infezioni nei tossicodipendenti. In genere le persone tossicodipendenti contraggono infezioni in ambienti extraospedalieri e pertanto gli Stafilococchi potrebbero con maggior facilità essere meticillino sensibili. L’isolamento di MRSA nei tossicodipendenti ha avuto un incremento netto fino al 2005 con percentuali che arrivavano in alcune casistiche al 75%, successivamente le percentuali sembrarono diminuire; è importantissima la valutazione dell’epidemiologia locale prima di impostare una terapia empirica. la terapia empirica si basa sull’uso di una aminopenicillina associata ad un inibitore delle betalattamasi e da una delle combinazioni seguenti:


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• Rifampicina + Fluorchinolone • Oxacillina, Teicoplanina o Clindamicina + chinolone o Ceftriaxone o

Cefepime. Nelle forme in cui si suppone la presenza di Stafilococci meticillino resistenti è indicata una terapia che comprende l’uso di un glicopeptide (Vancomicina o Teicoplanina) in associazione alla Rifampicina e ad un antibiotico attivo sui Gram negativi. La Rifampicina deve essere sempre inclusa negli schemi terapeutici per le sue caratteristiche di farmacocinetica e per l’ottima penetrazione nel biofilm. Una volta raggiunta la diagnosi eziologica si procede ad instaurare una terapia mirata Non è ancora stato stabilito quale sia la via preferenziale per la somministrazione della terapia antibiotica (infusiva, orale, infusiva ed orale), anche se generalmente si inizia con una terapia antibiotica infusiva seguita dalla somministrazione orale. Nemmeno la durata ottimale del trattamento è stata stabilita, anche se viene raccomandato un periodo di sei otto settimane, seguito da un periodo di terapia orale di almeno tre mesi. • Osteomielite da Staphylococcus meticillino sensibile Nafcillina o Oxacillina 2 g 6 volte al dì I.V. oppure Cefazolina 2 g I.V. per 466 settimane; Vancomicina: 15-20 mg/kg/dose ogni 8-12 ore. • Osteomielite e Artrite settica da Staphylococcus meticillino resistente Vancomicina: 15-20 mg/kg/dose ogni 8-12 ore + Rifampicina 600 mg al dì (o 300-450 x 2 al dì) Daptomicina 6 mg/kg/die I.V. Linezolid 600 mg/ogni 12 ore P.O. o I.V. Clindamicina 600 mg 3 volte al dì P.O. o I.V. TMP-SMX 3.5-4 mg/kg/dose ogni 8-12 ore P.O. o I.V. • Osteomielite da Streptococci penicillino sensibili Penicillina G 20 milioni di UI in infusione continua o divisa in 6 dosi per 4-6 settimane; oppure Ceftriaxone 1-2 g/die I.V. o I.M. per 4-6 settimane; oppure Cefazolina 2 g 3 volte al dì I.V. per 4-6 settimane; Vancomicina: 1520 mg/kg/dose ogni 12 ore per 4-6 settimane. • Osteomielite da Enterococci Penicillina G 20 milioni di UI in infusione continua o divisa in 6 dosi per 4-6 settimane; oppure Ampicillina 12 g/die in infusione continua o suddivisa in 6 somministrazioni per 4-6 settimane + Gentamicina 1 mg/kg ogni 8 ore; oppure Vancomicina: 15-20 mg/kg/dose ogni 12 ore per 4-6 settimane. • Osteomielite da Enterobatteriacee Ceftriaxone 1-2 g./die I.V. o I.M. per 4-6 settimane; oppure Ciproflossacina 750 mg P.O. ogni 12 ore per 4-6 settimane. • Osteomielite da Pseudomonas aeruginosa o Enterobacter spp. Cefepime 2 g. I.V. ogni 12 ore per 4-6 settimane; oppure Meropenem 1 g I.V. 3 volte al dì per 4-6 settimane; oppure Ciproflossacina 750 mg P.O. ogni 12 ore per 4-6 settimane. • Osteomielite tubercolare Rifampicina 600 mg al dì, Isoniazide 300 mg al dì, Pirazinamide 15-30 mg/ kg al dì ed Etambutolo 15 mg/kg al dì, per 8 settimane, seguito da un periodo di altri 4 mesi con Rifampicina ed Isoniazide. • Osteomielite da Candida La terapia dell’osteomielite da Candida si basa sulla somministrazione dei derivati lipidici dell’Amphotericina B per 2-3 settimane seguita da Azolici per un periodo di 6-12 mesi, oppure Echinocandine per le specie di Candida resitenti agli azoloci.

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8. Tossicodipendenza ed infezioni polmonari

Giuliano Rizzardini, Daria Pocaterra Dipartimento di Malattie Infettive, Azienda Ospedaliera Polo Universitario Luigi Sacco, Milano

Riassunto La peculiarità della patologia polmonare nel paziente tossicodipendente poggia su alcuni elementi di ordine sociale, microbiologico e correlati alla sostanza assunta. Si tratta infatti di una popolazione “fragile”, difficilmente raggiungibile dai servizi sanitari, e con un rischio epidemiologico ben preciso correlato all’ambiente (condizioni disagiate, detenzione carceraria). La frequente presenza di comorbidità complica ulteriormente il quadro clinico e la gestione terapeutica. Da un punto di vista microbiologico, è opportuno ricordare che esistono alcuni microrganismi ricorrenti la cui distribuzione risulta agevolata sia dalla diffusione comunitaria che dalla frequente contaminazione delle sostanze stupefacenti. Infine la conoscenza di particolari quadri polmonari a genesi tossinfettiva derivanti sia dall’assunzione di sostanze stupefacenti per via endovenosa che per via inalatoria diventa essenziale per un corretto inquadramento della patologia in atto e una miglior definizione dell’approccio terapeutico. Nel corso del capitolo analizzeremo le forme cliniche, sia a genesi infettiva che infiammatoria, che possono caratterizzare uno stato febbrile associato a infiltrati polmonari nel paziente tossicodipendente. Parole chiave: emboli settici, aspergillosi, tubercolosi, marjiuana, cocaina.

Introduzione Nel paziente tossicodipendente per via endovenosa o inalatoria, gli insulti al tessuto polmonare possono essere duplici, di ordine infettivo o infiammatorio, spesso coesistenti e compartecipanti alla definizione della presentazione clinica. Pertanto, il rilievo di iperpiressia associata a infiltrati polmonari ed

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eventuali alterazioni di laboratorio richiedono un’attenta valutazione di tutte le possibili e numerose diagnosi differenziali, senza dimenticare i quadri non infettivi. La duplice patogenesi comporta un rischio 10 volte maggiore di infezioni polmonari rispetto agli altri pazienti [1] e, nel caso di una confezione con il virus dell’HIV un’aumentata incidenza nonostante l’efficacia di un trattamento antiretrovirale [2]. Tra le cause dell’aumentato rischio ricordiamo l’alterata clearance delle secrezioni, la ridotta funzionalità immunitaria sistemica e locale,la frequente coinfezione con altre patologie a trasmissione parenterale (HCV e HIV) e le condizioni di vita spesso disagiate. Lo sviluppo di una patologia polmonare, sia essa prettamente infettiva o infiammatoria, si basa su alcuni elementi fondamentali: la via di introduzione (inalatoria o endovenosa), il tipo di sostanza, l’agente microbiologico e lo stato immunitario dell’ospite. Per una dettagliata trattazione dell’epidemiologia delle infezioni in base alla via di introduzione e al tipo di sostanza si rimanda ai capitoli dedicati. Prenderemo in rassegna la patologia polmonare cercando di mettere in evidenza i quadri clinici o radiologici a presentazione atipica rispetto alla popolazione generale.

1. Via di introduzione della sostanza Le sotanze da “taglio” o usate per il filtraggio della droga principale iniettabile possono causare reazioni granulomatose polmonari L’overdose di eroina può causare edema polmonare Il quadro polmonare da setticemia è caratterizzato da lesioni multiple rotondeggianti

Il focolaio di partenza è un’endocardite dx o una tromboflebite

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1.1 Endovenosa La presenza di sostanze aggiunte alla soluzione endovenosa derivanti dal filtraggio (cotone) o dalla preparazione (talco, pillole tritate) della sostanza, possono determinare vere e proprie reazioni granulomatose transitorie o croniche a carico del parenchima polmonare o del sistema arteriolare [3]. L’iniezione di cocaina può essere responsabile di ipertensione polmonare e emorragia alveolare, mentre casi di edema polmonare mono-bilaterale conseguenti alla perdita di funzionalità capillare, sono stati associati a overdose di eroina. Generalmente in caso di disseminazione setticemica di un microrganismo contaminante si profila un quadro polmonare caratteristico, rappresentato da multiple lesioni bilaterali rotondeggianti, talvolta cuneiformi, con tendenza alla cavitazione per la presenza di necrosi centrale. Il concomitante danneggiamento dell’apparato vascolare può concorrere alla definizione del quadro radiologico (vedi la patologia polmonare da cocaina). Il coinvolgimento pleurico è comune e può presentarsi come una semplice soffusione pleurica o assumere l’aspetto dell’empiema, mentre nel caso venga utilizzato un accesso venoso centrale quale la vena giugulare, possono verificarsi complicanze polmonari quali il pio pneumotorace [4]. In caso di quadro settico ricorrente per ripetute batteriemie, può svilupparsi anche un quadro di ipertensione polmonare. La presenza di un endocardite destra o di una tromboflebite rappresentano spesso il focolaio microbiologico di partenza per la disseminazione ematogena: in questo modo il parenchima polmonare diventa uno dei possibili bersagli secondari della setticemia rispecchiando la flora microbica di partenza. Prerogativa della trasmissione settica è la presenza di microrganismi a livello ematico conseguente a contaminanti della sostanza stessa, all’utilizzo di dispositivi non sterili o a commensali prevalenti nella popolazione tossicodipendenti. Il quadro clinico non si limiterà pertanto al solo coinvolgimento polmonare ma risulterà costituito dalla varia compromissione degli organi interessati (Tabella 1).


Tossicodipendenza ed infezioni polmonari

Tabella 1 - Agenti eziologici responsabili di batteriemie

Contaminanti (manifattura)

Contaminanti

(iniezione/preparazione)

Commensali (ospite)

C. novyi Eroina S. aureus (MRSA) Cute

S. aureus e streptococchi

C. botulinum

Eroina

S. milleri

B. anthracis

Eroina

P. aeruginosa

E. corrodens Cavo orale Candida spp.

C. albicans

Saliva Cute

Succo C. perfrigens di limone

Mucosa nasale

Tratto gastrointestinale

Nel primo caso sono riportati casi: – spore di clostridio (eroina): C. novyi, C. botulinum – bacillus (eroina) – antrace (eroina) Nel secondo caso: – MRSA – Plasmodium vivax (no polmonare) – Borrelia recurrentis – Streptococcus milleri (frammentazione con i denti) – Pseudomonas – Candida albicans (succo di limone per sciogliere eroina) Nel terzo caso: – S. aureus (portatori nasali) e streptococchi – Cocci anaerobi – Gram negativi – C. perfrigens – Flora del cavo orale (Eikenella corrodens, Candida spp.)

La peculiarità delle infezioni polmonari a genesi setticemica non risiede pertanto nella presentazione radiologica ma piuttosto dall’eziologia microbiologica che comprende germi a limitata distribuzione nella popolazione generale. 1.2 Inalatoria Negli ultimi anni si è assistito ad un incremento nel consumo di sostanze per via inalatoria (marijuana, crack, eroina, metamfetamine). Le conseguenze polmonari sono prevalentemente infiammatorie, conseguenti sia allo stimolo irritativo e tossico sulla mucosa delle sostanze inalate che ad un indebolimento della funzionalità immunitaria locale. Verranno successivamente prese in considerazione i possibili scenari clinici correlati alla sostanza assunta.

2. Tipo di sostanza 2.1 Marijuana Il consumo abituale di marijuana può condurre al danneggiamento della mucosa bronchiale ed all’alterazione della funzionalità macrofagica predisponendo il soggetto ad infezioni polmonari ed all’eventuale sviluppo di condizioni precancerose. I patogeni che risultano facilitati da questo deficit dell’immunità cellulo-mediata sono C. albicans, C. pseudotropicalis e S. aureus, mostrando una maggior prevalenza nei soggetti consumatori di marijuana rispetto ai non fumatori. La modalità di assunzione della sostanza predispone alla diffusibilità tra i partecipanti di alcuni patogeni come il M. tuberculosis di cui tratteremo nella sezione specifica dedicata alla tubercolosi. In letteratura sono inoltre riportati casi di aspergillosi invasiva in pazienti immunocompromessi (AIDS, trapianto di midollo, patologie croniche granulomatose, neutropenici post-chemioterapia), derivanti dalla frequente contaminazione della marijuana con spore di A. fumigatus.

Infezioni polmonari da Candida spp e S. aureus sono più frequenti nei consumatori di Cannabis, che sono anche predisposti a TB e ad aspergillosi se immunocompromessi

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I quadri polmonari da cocaina variano con le diverse modalità di assunzione e di composizione con altre sostanze di taglio

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2.2 Cocaina Il parenchima polmonare, come già precedentemente ricordato, può presentare quadri radiologici che mimano un focolaio infettivo ma che derivano più propriamente da una genesi tossica-infiammatoria sulla quale può poi successivamente sovrapporsi un patogeno nosocomiale o acquisito in comunità. Nell’approccio al paziente tossicodipendente febbrile, con coinvolgimento del parenchima polmonare, è necessario conoscere le possibili presentazioni radiologiche asettiche da considerare nella diagnosi differenziale, per una migliore gestione della terapia antibiotica e di supporto. Una trattazione a parte meritano le complicanze polmonari da abuso di cocaina, rappresentando quest’ultima una droga ad elevatissima diffusione nella popolazione e gravata da un’elevata mortalità. La sostanza è disponibile in varie forme, tra cui il sale idrocloride (assunto per via inalatoria, orale o endovenosa talvolta mescolato con eroina), il “crack” (sostanza termostabile che, vaporizzando ad alte temperature può essere fumata) e il “bazuko” (sostanza altamente impura ed estremamente tossica preparata con cherosene, acido solforico e benzina). Tutti i campioni di cocaina presentano un grado di purezza variabile attorno al 40%, essendo preparata con sostanze di taglio che ne accentuano la tossicità: tra le più comuni ricordiamo gli anestetici locali (lidocaina, benzocaina), lo zucchero, alcuni stimolanti (caffeina, efedrina), alcune tossine (stricnina, chinino) e composti inerti (inositolo, talco, calcio, gesso). Le complicanze polmonari che ne conseguono dipendono ovviamente dalla via di somministrazione e dalla dose assunta. Riportiamo di seguito alcuni quadri clinici ricorrenti da considerare nella diagnosi differenziale. 1. Sintomi respiratori acuti: i sintomi respiratori sono particolarmente associati al consumo di crack e includono tosse carbonacea , dolore toracico, dispnea, emottisi e esacerbazione dell’asma. Da un punto di vista radiologico è possibile identificare infiltrati alveolari ai lobi superiori polmonari mentre all’analisi del lavaggio broncoalveolare sono spesso rilevabili i prodotti di combustione della sostanza incorporati nelle cellule macrofagiche. 2. Barotraumi (pneumotorace, pneumomediastino, pneumopericardio, enfisema sottocutaneo): la genesi è sostanzialmente fisica ed è riconducibile alle profonde inalazioni dei soggetti fumatori (manovra di Valsalva a fine inspirazione), ai violenti accessi tussigeni che ne conseguono e alla frequente abitudine dell’inspirazione forzata a pressione positiva esercitata da un compagno. 3. Asma: il fumo di cocaina induce rapida broncocostrizione specialmente nei pazienti già asmatici, conducendo talvolta a quadri di insufficienza respiratoria che radiologicamente possono presentarsi con opacità peribronchiali e parailari. Simili quadri radiologici possono svilupparsi nell’ambito di una Churg-Strauss con infiltrati eosinofili periarteriolari e opacità alveolari e un quadro clinico asmatiforme con eosinofilia periferica. 4. Edema polmonare: a genesi cardiogena o irritativa (cocaina endovenosa, fumo di crack) si evidenzia con cardiomegalia, edema peribroncovasale, versamento pleurico e opacità parailari. In un’analisi autoptica su pazienti deceduti a seguito dell’abuso di cocaina l’edema polmonare è risultato essere presente nel 77-85% dei casi [5]. 5. Emottisi ed emorragia polmonare: la presenza di areole multifocali polmonari con aspetto a vetro smerigliato all’indagine tomografica, deve far sospettare al clinico un emorragia alveolare secondaria al danno vascolare o parenchimale.


Tossicodipendenza ed infezioni polmonari

6. Polmonite eosinofila (crack lung): si caratterizza clinicamente dalla presenza di febbre, ipossiemia, emottisi, insufficienza respiratoria di vario grado, diffusi infiltrati alveolari e versamento pleurico. Al rilievo di eosinofili a livello del lavaggio broncoalveolare o del liquido pleurico (empiema eosinofilo) può associarsi la presenza di eosinofilia periferica. 7. Bronchioliti obliteranti e polmoniti: la proliferazione di fibroblasti a livello dei bronchioli terminali determina un ispessimento dell’interstizio coadiuvato dalla migrazione di cellule pro infiammatorie associato talvolta alla proliferazione di cellule muscolari. Ne deriva una compromissione degli scambi alveolari caratterizzata radiologicamente da un aspetto a vetro smerigliato. 8. Talcosi, silicosi: lo sviluppo di una granulomatosi indotta da sostanze da taglio si verifica prevalentemente nei casi di somministrazione endovenosa di cocaina. Nel caso invece di consumatori di crack può svilupparsi un quadro assolutamente sovrapponibile alla sarcoidosi con impegno linfonodale mediastinico ed elevati livelli sierici di ACE. Sono riportati casi di progressione di fibrosi progressiva nonostante la sospensione della tossicodipendenza [6].

3. Quadri polmonari atipici 3.1 Candidiasi Lo sviluppo di una candidosi polmonare può avvenire per diffusione broncogena o più frequentemente per disseminazione ematica. Nel caso di contaminazione della sostanza iniettata nel corso della preparazione (succo di limone), si assiste alla diffusione settica del microrganismo con quadri polmonari caratterizzati da infiltrati nodulari o interstiziali difficilmente distinguibili nelle fasi iniziali da interstiziopatie cardiogene o da pneumocistosi. La concomitante presenza di una immunodepressione HIV-relata o di altre comorbidità rende complessa la patogenesi e l’identificazione della causa eziologica. La presenza di lesioni polmonari a distribuzione embolica deve necessariamente imporre una ricerca attenta di altri foci infettivi, spesso disseminati a livello articolare, osseo, cerebrale, endocardico, pericardico, miocardico e oculare. L’approccio diagnostico e terapeutico deve tenere conto dell’elevata mortalità delle sepsi da candida che spesso rimangono misconosciute a causa della difficoltà nell’identificazione del patogeno tramite emocolture. Il trattamento non differisce dalle indicazioni proposte per la popolazione generale e deve ovviamente tenere presente dell’eventuale presenza di una immunodepressione associata. 3.2 Aspergillosi Il genere Aspergillus è ubiquitario, essendo presente nel suolo, cibo, acqua e soprattutto nella vegetazione marcescente. Una concomitante condizione di immunodepressione è fondamentale nello sviluppo di una patologia disseminata considerata l’elevata diffusione del patogeno. È pertanto verosimile che nel paziente tossicodipendente, soprattutto per via inalatoria, si creino le condizioni favorenti lo sviluppo di una pneumopatia. In letteratura sono riportati casi di aspergillosi polmonare in soggetti immunocompromessi fumatori di marijuana [7,8]: la patogenesi poggerebbe sulla contaminazione delle foglie della pianta e il successivo sviluppo della patologia in presenza di una condizione di immunodepressione sistemica o locale (deficit della funzionalità macrofagica, ridotta clearence del muco bronchiale). Il quadro

La candidosi polmonare si verifica più frequentemente per via ematogena da contaminazione della sostanza iniettata

Aspergillosi polmonare in fumatori di marijuana

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clinico dell’aspergillosi polmonare può essere estremamente variabile, comprendendo: 1. broncopneumopatie allergiche (ABPA: Allergic Bronchopulmonary Aspergillosis); 2. colonizzazioni asintomatiche di una pregressa cavitazione ad eziologia multiforme (TBC, enfisema bolloso, istoplasmosi, sarcoidosi ecc.); 3. infezioni invasive acute o subacute.

L’aumentata incidenza di TB nei TD è legata ad una patogenesi multifattoriale

3.3 Tubercolosi 3.3.1 Epidemiologia Nonostante l’incidenza della tubercolosi sia in riduzione nei paesi industrializzati, persiste un serbatoio importante e in crescita in alcune sottopopolazioni urbane tra cui i tossicodipendenti [9]. Numerosi studi in letteratura riportano un’aumentata incidenza di malattie tubercolare e di infezione latente, quest’ultima associata alla durata della tossicodipendenza per via endovenosa e l’età avanzata. Il rischio poggerebbe su un fattore epidemiologico e fisiologico. Come già accennato in precedenza, la ridotta funzionalità cellulo-mediata indotta dalla tossicodipendenza e dalla frequente associazione con il tabagismo e l’alcolismo, contribuisce alla sviluppo della patologia mentre, da un punto di vista epidemiologico, la frequente assenza di una rete sociale di supporto e la permanenza in ambiente carcerario fungono da agenti catalizzatori del rischio di trasmissione e contagio. Oltmann [10] ha descritto un cluster di TBC a Seattle (USA) tra gli immigranti dell’africa orientale con anamnesi positiva per consumo di marijuana. Gli isolati mostravano lo stesso pattern genotipico verosimilmente dovuto al contagio interindividuale dovuto al consumo “comunitario” in ambiente chiuso. Pratiche come lo shotgunnig (espirare il fumo nella bocca altrui) sono risultate associate ad un aumentato rischio di trasmissione [11]. L’utilizzo di crack contribuendo allo stimolo irritativo della tosse può inoltre rappresentare un ulteriore fattore di rischio per la trasmissione. Ma è l’ambiente carcerario uno dei fattori di rischio prevalenti. Il tasso documentato di infezione tubercolare in ambiente carcerario può risultare infatti 30 volte superiore rispetto alla restante popolazione, registrando anche un aumentato rischio di TB multi drug resistance [12]. 3.3.2 Screening per la tubercolosi latente Il metodo sicuramente più diffuso è l’intradermoreazione di Mantoux nonostante sia gravato da numerose limitazioni tecniche (operatore dipendente, necessità di un follow-up) e interpretative (cross-reattività con altri micobatteri non tubercolari, effetto booster nei pazienti già sottoposti al test e risposta incompleta nei soggetti anergici). Al momento il Center for Diseases Control and Prevention considera positivo un test con indurimento superiore a 10 mm nei tossicodipendenti e ai 5 mm nei pazienti sieropositivi. Nei soggetti con severa immunodepressione l’identificazione di una TB latente rischia inoltre di perdere significato clinico dal momento che in letteratura sono riportati dati di inefficacia del trattamento con isoniazide su soggetti anergici [13]. La necessità di un controllo dell’intradermoreazione a 72 ore si scontra con la ridotta compliance del paziente tossicodipendente. Per migliorare l’accesso al servizio di salute pubblica sono stati proposti numerosi interventi tra cui incentivi monetari [14], counselling e auto-lettura del test. Il recente sviluppo di tecnologie in vitro basate sulla risposta immune agli antigeni di M. tuberculosis (IFN-γ-release assay) presentano alcuni vantaggi rispetto alla metodica tradizionale quali la mancata cross-reattività verso

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Tossicodipendenza ed infezioni polmonari

la vaccinazione, l’assenza di un effetto booster, l’esecuzione dell’esame in un’unica visita senza necessità di follow-up e la possibilità di eseguire il test in soggetti anergici. Uno studio di confronto fra le due metodiche [15] condotto su 467 tossicodipendenti per via endovenosa ha mostrato una maggiore sensibilità ma una debole concordanza del test sierologico con l’intradermoreazione sottolineando come la sua applicazione clinica sia ancora limitata. 3.3.3 Coinfezione HIV-TB La popolazione tossicodipendente per via endovenosa risulta particolarmente colpita dalla coinfezione con HIV creando le condizioni favorenti al contagio ed allo sviluppo della malattia tubercolare. Lo sviluppo della malattia, poggiando sul deterioramento immunologico dell’individuo, raggiunge il picco alcuni anni dopo la scoperta della sieropositività, senza registrare differenze fra l’era pre-HAART [16] e l’era HAART [17]. Nell’Europa dell’est e in Asia centrale la trasmissione parenterale di HIV rappresenta il 60-80% delle modalità di contagio, nel sud est asiatico la percentuale varia tra il 38 e il 77% mentre appare meno significativa anche se in crescita nei paesi africani. Complessivamente tra gli stimati 33.2 milioni di persone affette da HIV, la tubercolosi è la prevalente patologia AIDS-defining. Il report del WHO del 2008 sottolinea inoltre come l’elevata prevalenza di ceppi multi resistenti (Commonwealth, Sud est asiatico) coincida pericolosamente con la diffusione dell’infezione da HIV e della tossicodipendenza, nonostante un efficace sistema di rilevamento epidemiologico sia ancora carente. Considerate le difficoltà di accesso della popolazione in oggetto ad un efficace sistema di controllo epidemiologico ed alle cure sanitarie, una diagnosi di coinfezione HIV-TB rischia di essere spesso tardiva. Le indicazione suggerite dal documento del WHO prevedono pertanto: 1. Un’intensificazione del case-finding per HIV e TB con l’obiettivo di ridurre la trasmissibilità delle infezioni e di migliorare l’outcome clinico I sintomi sospetti per infezione tubercolare sono la presenza di tosse produttiva da 2-3 settimane associata a calo ponderale. Diarrea, decadimento organico e lesioni cutanee possono essere più frequenti nella popolazione sieropositiva. Discutibile è l’analisi microscopica dell’espettorato in quanto la percentuale di TB polmonare con espettorato negativo varia dal 24% al 61% e parallelamente si assiste ad un elevata frequenza di forme extrapolmonari. L’analisi dell’escreato (analisi di 2 campioni raccolti in 2 occasioni differenti) rimane comunque al momento l’indagine più cost-effective disponibile. 2. Profilassi con isoniazide La profilassi con isoniazide (5 mg/kg/die per 6-9 mesi) è ancora poco utilizzata nella popolazione tossicodipendente, nonostante in letteratura sia riportata una efficace riduzione dello sviluppo della malattia attorno al 60%. Nei paesi ad elevata prevalenza di tubercolosi, il rischio di sviluppo di malattia attiva tra i pazienti sieropositivi è tra il 2.4 e il 7.5% per anno, ragione per cui la politica del WHO raccomanda caldamente il trattamento dell’infezione latente sottolineando come la popolazione tossicodipendente sia il gruppo con il minor numero di casi sottoposti a screening e trattati per prevenire lo sviluppo di nuovi casi e ridurre la mortalità. La profilassi non risulta ovviamente efficace in pazienti con infezione latente da M. tuberculosis resistente all’isoniazide

Il test al quantiferon sembra più sensibile rispetto all’intradermoreazione di Mantoux ma non è ancora applicato su vasta scala

La TB è la condizione AIDS-defining prevalente tra i sieropositivi a livello mondiale

La TB polmonare presenta un espettorato negativo in una percentuale variabile dal 24 al 61%

La profilassi con Isoniazide può essere inefficace nei TD

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Le comorbidità presenti spesso nel paziente Td possono aggravare l’epatossicità dei farmaci anti-TB

3.3.4 Principi di terapia Esistono diverse problematiche relative al trattamento dell’infezione tubercolare nel paziente tossicodipendente. In primo luogo sia che si tratti di un trattamento di profilassi per infezione latente o di un quadro conclamato occorre tenere presenti le frequenti comorbidità, in particolare un’epatopatia cronica (virale o etiltossica) e l’infezione da HIV. Un documento dell’American Thoracic Society pubblicato nel 2006 prende in esame i vari fattori aggravanti la già nota epatotossicità degli schemi terapeutici antitubercolari [18] sottolineando come un elevata citolisi al baseline (HBV, HCV alcool indotta) sia un fattore di rischio ulteriore nel paziente in trattamento o in sola profilassi. La coinfezione con HIV, situazione assolutamente rilevante dal punto di vista epidemiologico e di sanità pubblica, pone una serie di difficoltà nell’approccio clinico e terapeutico. Come indicato dalle linee guida italiane per l’infezione da HIV [19], le difficoltà connesse al trattamento della duplice infezione consistono nell’incremento del rischio di sindrome da immunoricostituzione sistemica (IRIS) e di reazioni avverse ed effetti collaterali, nell’interazione farmacologica tra antitubercolari (rifamicine) e antiretrovirali e nella potenziale ridotta aderenza del paziente sottoposto ad un importante pillburden giornaliero. Un attento monitoraggio dell’efficacia della terapia sostitutiva metadonica dovrà essere compiuto al fine di ottimizzare l’aderenza del paziente al trattamento prescritto. Alla luce delle molteplici comorbidità che caratterizzano il paziente tossicodipendente è evidente come la corretta gestione di una terapia antitubercolare risulti non solo complessa ma assolutamente fondamentale, sia per ridurre la mortalità in queste categorie a rischio che per limitare la diffusione di microrganismi resistenti nell’ambiente. Bibliografia 1. Hind CR: Pulmonary complications of intravenous drug misuse. 2. Infective and HIV related complications. Thorax 1990; 45:957-961. 2. Le Moing V, Rabaud C, Journot V, Duval X, Cuzin L, Cassuto JP et al. APROCO Study Group et al: Incidence and risk factors of bacterial pneumonia requiring hospitalization in HIVinfected patients started on a protease inhibitor-containing regimen. HIV Med 2006; 7:261267. 3. Levine DP, Brown PD. Infections in injection drug users. In Mandell GL, Bennett JE, Dolin R. Principles and practice of Infectious Diseases. Vol.2. Churchill Livingstone VII edition p.3875-3890. 4. Zorc T G, O’Donnell A E, Holt R W, Pappas L S, Slakey J. Bilateral pyopneumothorax secondary to intravenous drug abuse. Chest 1988;93;645-647 5. Restrepo C S, Carrillo J A, Martinez S, Ojeda P, Rivera AL, Hatta A. Pulmonary complications from Cocaine and Cocaine-based substances: imaging manifestations. RadioGraphics 2007;27:941-956. 6. Pare JP, Cote G, Fraser RS. Long term follow-up of drug abusers with intravenous talcosisAm Rev respire Dis 1989;139:233-241 7. Bal A, Agarwal AN, Das A, Suri V, Varma SC. Chronic necrotising pulmonary aspergillosis in a marijuana addict: a new cause of amyloidosis. Pathology. 2010 Feb;42(2):197-200 8. Cescon DW, Page AV, Richardson S, Moore MJ, Boerner S, Gold WL. Invasive pulmonary aspergillosis associated with marijuana use in a man with colorectal cancer. J Clin Oncol. 2008 Aug 20;26(24):4053. 9. Oeltmann JE, Kammerer JS, Pevzner ES, Moonan PK. Tuberculosis and substance abuse in the United States, 1997-2006. Arch Intern Med. 2009 Jan26;169(2):189-97. 10. Oeltmann JE, Oren E, Haddad MB, Lake L, Harrington TA, Ijaz K, Narita M.Tuberculosis outbreak in marijuana users, Seattle, Washington, 2004. Emerg Infect Dis. 2006 Jul;12(7):1156-9.

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Tossicodipendenza ed infezioni polmonari

11. Kaushik KS, Kapila K, Praharaj AK. Shooting up: the interface of microbial infections and drug abuse. J Med Microbiol. 2011 Apr;60(Pt 4):408-22. 12. World Health Organisation. Policy guidelines for collaborative TB and HIV services for injecting and other drug users. Disponibile a : http://whqlibdoc.who.int/publications/2008/9789241596947_eng.pdf. 13. Gordin FM, Matts JP, Miller C, Brown LS, Hafner R, John SL et al. A controlled trial of isoniazid in persons with anergy and human immunodeficiency virus infection who are at high risk for tuberculosis. N Engl J Med 1997; 337:315-20. 14. Volmink J, Garner P. WITHDRAWN: Interventions for promoting adherence to tuberculosis management. Cochrane Database Syst Rev. 2007 Jul 18;(4). 15. Kimura M, Converse PJ, Astemborski J, Rothel JS, Vlahov D, Comstock GW et al. Comparison between a whole blood interferon-gamma release assay and tuberculin skin testing for the detection of tuberculosis infection among patients at risk for tuberculosis exposure. J Infect Dis. 1999 May;179(5):1297-300. 16. van Asten L, Langendam M, Zangerle R, Hernåndez Aguado I, Boufassa F, Schiffer V et al. Tuberculosis risk varies with the duration of HIOV infection: a prospective study of European drug users with known date of HIV seroconversion. AIDS 2003; 17:1201-8. 17. Muga R, Ferreros I, Langohr K, de Olalla PG, Del Romero J, Quintana M et al. Spanish Multicenter Study Group of Seroconverters (GEMES). Changes in the incidence of tuberculosis in a cohort of HIV-seroconverters before and after the introduction of HAART. AIDS 2007;21:2521-7. 18. Saukkonen JJ, Cohn DL, Jasmer RM, Schenker S, Jereb JA, Nolan CM et al; ATS (American Thoracic Society) Hepatotoxicity of Antituberculosis Therapy Subcommittee. An official ATS statement: hepatotoxicity of antituberculosis therapy. Am J Respir Crit Care Med. 2006 Oct 15;174(8):935-52. 19. Linee guida Italiane sull’utilizzo dei farmaci antiretrovirali e sulla gestione diagnosticoclinica delle persone con infezione da HIV. Disponibile a: http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1301_allegato.pdf

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9. Endoftalmiti

Adriana Bonora Dipartimento di Scienze Neurologiche, Neuropsicologiche e Motorie, Università degli Studi di Verona

Riassunto Le endoftalmiti endogene rappresentano il 5-7% di tutte le endoftalmiti e nella maggior parte dei casi sono associate a uno o più fattori di rischio (cateteri endovenosi, procedure chirurgiche invasive, diabete mellito, insufficienza renale, endocarditi, abuso di droghe per via endovenosa, malattie e terapie immunosoppressive). Le endoftalmiti endogene possono essere causate da batteri, più comunemente Staphylococcus aureus, o da funghi, soprattutto del genere Candida. [1] Nell’abuso di sostanze stupefacenti per via endovenosa la Candida albicans rappresenta l’agente infettivo più frequentemente implicato. Non è raro il riscontro di “casi seriali”, verosimilmente legati ad una contaminazione della droga all’origine [2]. La localizzazione oculare di una candidosi è dovuta alla penetrazione diretta del micete nel torrente ematico attraverso l’iniezione della sostanza. La mancanza di asepsi durante la preparazione e l’inoculazione o la contaminazione con Candida della droga stessa attraverso il diluente (succo di limone) o con acqua o saliva infetta sono fattori che favoriscono l’endoftalmite. La diagnosi di endoftalmite fungina è inizialmente clinica, specie se supportata da una anamnesi accurata. La conferma eziologica è comunque necessariamente microbiologica. La terapia si avvale dell’utilizzo di farmaci antimicotici somministrati per via sistemica e per iniezione intravitreale, ma è spesso necessario ricorrere ad una vitrectomia (VTK) via pars plana. La prognosi visiva è molto variabile. Parole chiave: Endoftalmite endogena, endoftalmite micotica, tossicodipendenza, Candida albicans, Candida glabrata, Aspergillus, farmaci antimicotici, amfotericina B, fluconazolo, 5-fluorocitosina, voriconazolo, caspofungin, vitrectomia diagnostica, vitrectomia terapeutica, VTK, iniezioni intravitreali.

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Endoftalmite

Le endoftalmiti endogene sono rare

L’incidenza di endoftalmite endogena è in aumento negli ultimi decenni e questo può essere in parte ricondotto all’aumentato uso di droghe per via endovenosa

L’acuità visiva è compromessa in modo variabile a seconda della localizzazione delle lesioni, ma il deficit è spesso importante a causa della predilezione per la sede maculare.

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L’endoftalmite è una infiammazione intraoculare di origine infettiva che coivolge la camera anteriore e il vitreo. Può essere di due tipi: endogena ed esogena. L’endoftalmite endogena è causata da una disseminazione per via ematogena del microrganismo responsabile, mentre la esogena deriva dalla inoculazione diretta dell’agente nell’occhio come complicanza di traumi bulbari o corpi estranei penetranti ma anche di procedure chirurgiche che alterano l’integrità del bulbo. [3] Le endoftalmiti endogene sono rare, rappresentano il 5-7% di tutte le endoftalmiti. Candida albicans è la causa più comune di endoftalmite. È un microrganismo commensale che si trova normalmente nel apparato genitale femminile, nel tratto gastrointestinale e respiratorio, dove la normale risposta immunitaria dell’ospite ne evita la diffusione attraverso la circolazione ematica. Tuttavia l’immunosoppressione da sola non aumenta significativamente il rischio di candidemia, infatti l’endoftalmite da Candida è una condizione rara in individui affetti da AIDS [4]. Le persone a rischio sono i pazienti con cateteri venosi da lungo tempo, quelli sottoposti ad alimentazione parenterale prolungata, persone sottoposte a chirurgia addominale, con malattie debilitanti come diabete e neoplasie, trapiantati d’organo, utilizzatori di droghe per via endovenosa. Qualora si abbia il sospetto o la certezza di una candidosi, va sempre esaminato il fundus oculi per escludere in coinvolgimento oculare che, se presente, è indice di disseminazione ematogena multiorgano. L’abuso intravenoso di sostanze stupefacenti “classiche” è un fattore di rischio noto per una candidiasi disseminata, [5] come pure l’utilizzo inappropriato per via endovenosa di sostituti orali dell’eroina, come metadone e buprenorfina [6]. L’incidenza di endoftalmite endogena è in aumento negli ultimi decenni e questo può essere secondario all’aumentato uso di droghe per via endovenosa, al maggior ricorso alla chemioterapia, al trattamento intensivo di pazienti gravemente compromessi. Le endoftalmiti da Candida presentano un decorso subacuto, lentamente progressivo nell’arco di alcuni giorni. Nella pratica clinica la diagnosi è spesso misconosciuta o tardiva. I pazienti lamentano un annebbiamento o una riduzione marcata del visus, scarso dolore, lacrimazione, fotofobia. Si può associare una sintomatologia sistemica, con febbre, nausea, algie generalizzate. È frequente la comparsa di pustole cutanee, di facile accesso per un esame colturale. L’esame obiettivo mostra iperemia congiuntivale, presenza di precipitati corneali endoteliali, talvolta ipopion. Il fundus può essere mal esplorabile in caso di marcato coinvolgimento vitreale, ma la visualizzazione di una o più lesioni retinocoroideali centrali, biancastre, di aspetto cotonoso, con o senza componente emorragica, è caratteristica (Figura 1). Il focolaio tipicamente aggetta nel vitreo che a sua volta può presentare opacità che assumono l’aspetto “a filo di perle”. La papilla ottica può apparire sfumata e rilevata (papillite). L’acuità visiva è compromessa in modo variabile a seconda della localizzazione delle lesioni, ma il deficit è spesso importante a causa della predilezione per la sede maculare. Se l’infezione non viene dominata dalla terapia si possono creare membrane epiretiniche con conseguente trazione vitreoretinica e successivo distacco di retina. Il coinvolgimento oculare può essere mono- o bilaterale.


Endoftalmiti

Figura 1 - Retinocoroidite da Candida albicans: focolaio micotico retinocoroideale centrale

Più raramente una endoftalmite micotica può essere causata da Aspergillus flavus o maculatus [7]. In questo caso l’esordio è più acuto e tende a progredire più rapidamente delle endoftalmiti da Candida. Il quadro clinico e la terapia sono però simili. La diagnosi di endoftalmite micotica endogena è essenzialmente clinica e deve essere considerata di fronte ad una vitreite associata a lesioni retinocoroideali sospette. In pazienti non ospedalizzati, quindi privi di fattori di rischio noti, la diagnosi di infezione da Candida è sempre molto complessa e si basa sulla clinica, sulla microbiologia, sul laboratorio, sulla sierologia. L’indagine anamnestica deve essere accurata e diretta a rivelare comportamenti pericolosi in pazienti che potrebbero tendere a negare l’uso di sostanze stupefacenti. Una diagnosi presunta di endoftalmite micotica può essere posta se il micete viene isolato in una qualsiasi parte del corpo. Gli esami di laboratorio devono mirare ad indagare lo stato di salute generale del paziente. Bisogna considerare infatti che una endoftalmite da Candida è indice di una candidiasi disseminata. Delle oltre 200 specie di Candida esistenti in natura solo alcune sono responsabili di malattia, in particolare la C. albicans e la C. glabrata sono coinvolte nell’80% dei casi [8]. È necessario effettuare una emo- e urocoltura anche se potrebbero risultare negative in circa il 30-50% dei casi. Si deve effettuare un esame colturale sul materiale proveniente dalle eventuali concomitanti lesioni cutanee. La Rx del torace potrebbe mostrare una localizzazione micotica a carico delle cartilagini costali. Il test diagnostico più accurato è costituito dall’esame colturale su terreno di Sabouraud dell’umore acqueo, estratto con paracentesi della camera anteriore, e soprattutto del vitreo, prelevato in corso di vitrectomia diagnostico-terapeutica via pars plana. Molto utile, anche per la rapidità del risultato, è la identificazione del DNA della Candida nei fluidi oculari mediante PCR (polymerase chain reaction) [9]. La terapia deve essere iniziata precocemente. Di frequente si utilizza amfo- La terapia deve essere tericina B in associazione o meno con fluconazolo o 5-fluorocitosina. [10] iniziata precocemente L’amfotericina B è il trattamento di prima scelta per la sua copertura ad am- con antifungini sistemici

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pio spettro, ma la penetrazione oculare è scarsa. Al contrario, il fluconazolo è dotato di una buona capacità di superare la barriera emato-oftalmica. La 5-fluorocitosina tende a provocare resistenza, viene quindi utilizzata in associazione con l’amfotericina B, permettendo di ridurre il dosaggio di entrambi i farmaci e di conseguenza anche la loro tossicità. Altri farmaci, di più recente formulazione, sono il voriconazolo e il caspofungin [11]. L’amfotericina B desossicolato è gravata da una elevata tossicità renale e da importanti effetti collaterali peri-infusionali, mentre l’amfotericina B liposomiale (AmBisome ®), pur dimostrando una sostanziale equivalenza in termini di efficacia, risulta meglio tollerata e meno tossica. Il voriconazolo, somministrato per via orale o endovenosa, raggiunge una buona concentrazione intraoculare. Anche somministrato mediante iniezione intravitreale non ha manifestato tossicità retinica nei ratti [12]. Il caspofungin per contro sembra dotato di una scarsa capacità di penetrazione intraoculare e il suo ruolo nella terapia delle endoftalmiti micotiche non è ancora ben definito [13]. Il dosaggio di ciascun farmaco menzionato è brevemente riassunto nella Tabella 1. Come già riportato, spesso i farmaci vengono utilizzati in associazione tra loro allo scopo di potenziarne l’effetto e di ridurne il dosaggio contenendo gli effetti collaterali. Il trattamento delle endoftalmiti fungine ha subito una svolta con l’avvento della vitrectomia (VTK) via pars plana. La VTK consente di rimuovere direttamente il microrganismo e il materiale infiammatorio dal vitreo e di fornire materiale utile per la coltura. Inoltre, attraverso gli accessi chirurgici, è possibile iniettare farmaci antimicotici, abitualmente amfotericina B (5-10 µg in 0.1 ml). Di fronte ad una endoftalmite che progredisce nonostante una appropriata terapia sistemica antimicotica, diventa obbligatorio effettuare una VTK associata a terapia intravitreale. In ogni caso, una endoftalmite micotica di grado medio-severo richiede una VTK, anche in considerazione del fatto che la maggior parte dei farmaci antimicotici non ha una eccellente capacità di penetrazione nel vitreo. Tabella 1 - Farmaci antimicotici Farmaco

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Posologia sistemica

amfotericina B desossicolato 50mg (Fungizone®)

1 mg/kg/die ev

amfotericina B liposomiale 50mg (AmBisome®)

3 mg/kg/die ev

fluconazolo (Diflucan®)

400 mg/die os, mantenimento 200 mg/die os

5-fluorocitosina (Ancotil®)

37.5-50 mg/kg x 4 ev

voriconazolo (Vfend®)

pz di peso ≥ 40 kg: dose da carico: 6 mg/kg x 2 ev; 400 mg x 2 os; dopo le prime 24 ore: 4 mg/kg x 2 ev; 200 mg x 2 os

caspofungin acetato (Caspofungin 50® , Caspofungin 70®)

dose da carico: 70 mg/die ev; dopo le prime 24 ore: 50 mg/die ev


Endoftalmiti

Non va dimenticato che la endoftalmite micotica è la manifestazione oculare di una malattia sitemica, è pertanto necessario un approccio multidisciplinare. La prognosi di una endoftalmite micotica dipende dalla aggressività del microrganismo, dal grado di coinvolgimento oculare, dalla precocità della diagnosi e della terapia [14]. Sono frequenti una significativa riduzione del visus, che in alcuni casi può arrivare alla cecità e in casi estremi alla perdita anatomica del bulbo.

L’endoftalmite micotica è la manifestazione oculare di una malattia sitemica, è pertanto necessario un approccio multidisciplinare

Bibliografia 1. Schiedler V, Scott IU, Flynn HW jr, Davis JL, Benz MS, Miller D. Culture-proven Endogenous Endophthalmitis: Clinical Features and Visual Acuity Outcomes. Am J Ophthalmol 2003; 137(4): 725-731 2. Tomazzoli Gerosa L, Bonora A, Bianco M. Su quattro casi di endoftalmite micotica in tossicodipendenti. Boll Ocul 1987; 5: 799-805 3. Taban M, Behrens A, Newcomb RL. Acute endophthalmitis following cataract surgery: a sistematic review of the literature. Ophthalmol 2005; 123(5): 613-620 4. Miailhes P, Labetoulle M, Naas T, Guibert M, Bourée P, Frau E, Nordmann P, Galanaud P. Unusual etiology of visual loss in an HIV-infected patient due to endogenous endophthalmitis. Clin Microbiol Infect. 2001 Nov;7(11):641-5 5. Connell PP, O’neill EC, Amirul Islam FM, Buttery R, Mc Combe M, Essex RH, Roufail E, Lash S, Wolffe B, Clark B, Chiu D, Campbell W, Allen P. Endogenous endophthalmitis associated with intravenous drug abuse: seven-year experience at a tertiary referral center. Retina. 2010 Sep 8. 6. Hirsbein D, Attal P, Gueudry J, Guet I, Brasseur G, Vassenneix C. Endophtalmie endogène à Candida secondaire à l’utilisation de la buprénorphine par voie intraveineuse. J Fr Ophtalmol 2008 ; 31(2): 180-183 7. Weishaar PD, Flynn HW Jr, Murray TG, Davis JL, Barr CC, Gross JG, Mein CE, McLean WC Jr, Killian JH. Endogenous Aspergillus endophthalmitis. Clinical features and treatment outcomes. Ophthalmology. 1998 Jan;105(1):57-65. 8. Vazquez JA, Sobel JD. Candidiasis. In: Clinical Mycology, Dismukes WE, Pappas PG, and Sobel JD, eds. Oxford Univers. 2003:143-187. 9. Hidalgo JA, Alangaden GJ, Eliott D, Akins RA, Puklin J, Abrams G, Vazquez JA. Fungal endophthalmitis diagnosis by detection of Candida albicans DNA in intraocular fluid by use of a species-specific polymerase chain reaction assay. J Infect Dis. 2000 Mar;181(3):1198-1201. 10. Khan FA, Slain D, Khakoo RA. Candida endophthalmitis: focus on current and future antifungal treatment options. Pharmacotherapy. 2007 Dec;27(12):1711-1721. 11. Breit SM, Hariprasad SM, Mieler WF, Shah GK, Mills MD, Grand MG. Management of endogenous fungal endophthalmitis with voriconazole and caspofungin. Am J Ophthalmol. 2005 Jan;139(1):135-140. 12. Kernt M, Neubauer AS, De Kaspar HM, Kampik A. Intravitreal voriconazole: in vitro safetyprofile for fungal endophthalmitis. Retina. 2009 Mar;29(3):362-370 13. Gauthier GM, Nork TM, Prince R, Andes D. Subtherapeutic ocular penetration of caspofungin and associated treatment failure in Candida albicans endophthalmitis. Clin Infect Dis. 2005 Aug 1;41(3):e27-8. Epub 2005 Jun 28. 14. Takebayashi H, Mizota A, Tanaka M. Relation between stage of endogenous fungal endophthalmitis and prognosis. Graefes Arch Clin Exp Ophthalmol. 2006 Jul;244(7):816-820.

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10. Infezioni del sistema nervoso centrale nell’abuso di sostanze

Sergio Ferrari, Salvatore Monaco Dipartimento di Scienze Neurologiche, Neuropsicologiche e Motorie, Sezione di Neuropatologia, Università di Verona

Riassunto L’approccio alle infezioni del sistema nervoso centrale nel paziente che abusa di sostanze è spesso complesso e richiede una stretta collaborazione tra gli specialisti, in particolare tra neurologo, infettivologo. Il sistema nervoso centrale nel paziente che abusa di sostanze può essere sede secondaria di infezioni che derivano da foci ad altra localizzazione come endocarditi e ascessi o essere associato all’infezione da HIV. Fin dalla sua comparsa l’epidemia di AIDS ha colpito in maniera particolare i tossicodipendenti per via parenterale, che attualmente rappresentano ancora una quota significativa dei pazienti con infezione da HIV. Le complicazioni neurologiche al sistema nervoso centrale possono essere direttamente correlate al retrovirus o secondarie ad infezioni opportunistiche inusuali prima dell’AIDS. L’introduzione della terapia antiretrovirale efficace e potente ha contribuito a ridurre la frequenza di gran parte delle infezioni opportunistiche da infezione da HIV, ma il sistema nervoso centrale rimane un bersaglio maggiormente vulnerabile e più difficilmente raggiungibile rispetto agli altri organi. Negli ultimi anni si è constatato che la terapia antiretrovirale può originare una reazione immunitaria abnorme, la sindrome da immunoricostituzione infiammatoria, che è in grado di favorire la comparsa di nuove lesioni infiammatorie al SNC o di aggravare patologie preesistenti come la leucoencefalopatia multifocale progressiva. È stato provato che l’abuso di sostanze, in particolare oppiacei, cocaina e metanfetamina, rientra nei fattori che possono modulare il ruolo dell’HIV nel detreminare il deterioramento cognitivo. Infatti le droghe da abuso possono interagire con la patogenesi del danno HIV-correlato al SNC attraverso vie differenti che agiscono sulla replicazione dell’HIV, sulla barriera emato-encefalica, sulla funzionalità neurogliale. Parole chiave: HIV; Sistema nervoso centrale (SNC); Leucoencefalopatia multifocale progressiva (PML); Toxoplasmosi cerebrale; Sindrome da immunori-

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costituzione infiammatoria (IRIS); Citomegalovirus (CMV); Terapia antiretrovirale (ART); Highly activity antiretroviral therapy (HAART); Indice di penetrazione nel SNC (CPE); Demenza associata all’HIV; HIV-associated neurocognitive disorders (HAND); Compromissione neurocognitiva moderata (MND); Compromissione neurocognitiva asintomatica (ANI); criptococcosi.

1. Infezioni del sistema nervoso centrale correlate all’abuso di sostanze Il SNC è frequentemente una sede secondaria di infezioni locali o sistemiche che avvengono in pazienti che abusano di sostanze

La tossicodipendenza, attraverso gli effetti negativi delle sostanze da abuso sul sistema nervoso centrale e sull’immunità, è ritenuta responsabile di una maggiore vulnerabilità all’azione dell’HIV sulle cellule nervose e gliali

Il sistema nervoso centrale (SNC) è frequentemente una sede secondaria di infezioni locali o sistemiche che avvengono in pazienti che abusano di sostanze [1]. Le endocarditi batteriche o fungine possono diffondere e causare meningiti, infarti cerebrali, vasculiti e ascessi dell’encefalo, raccolte purulente sottodurali, epidurali e del midollo spinale. Nei pazienti tossicodipendenti si possono inoltre verificare emorragie subaracnoidee per la rottura di aneurismi settici, prevalentemente micotici. L’infezione da epatite può essere causa di encefalopatie e infarti emorragici. L’osteomielite delle vertebre può provocare la compressione delle radici nervose e del midollo spinale. Nei pazienti che fanno uso di eroina per via sottocutanea sono stati osservati alcuni casi di grave infezione tetanica [2]. Il botulismo si può sviluppare in tossicodipendenti per via parenterale a partenza dai seni paranasali nei cocainomani che utilizzano la via nasale [3]. Poiché l’eroina e la cocaina sono entrambe sostanze che determinano depressione del sistema immunitario infezioni inconsuete e rare come l’aspergillosi e la mucormicosi si possono presentare in questi pazienti in assenza di infezione da HIV [4]. L’infezione da HIV nei paesi sviluppati è tuttora molto frequente nei soggetti che abusano di sostanze, in particolare nei tossicodipendenti per via parenterale. I tossicodipendenti che contraggono l’infezione da HIV presentano le medesime complicazioni neurologiche dei casi con altri fattori di rischio. Come vedremo la tossicodipendenza, attraverso gli effetti negativi delle sostanze da abuso sul sistema nervoso centrale e sull’immunità, è ritenuta responsabile di una maggiore vulnerabilità all’azione dell’HIV sulle cellule nervose e gliali.

2. Infezioni del sistema nervoso centrale nel paziente HIV-positivo Le complicazioni neurologiche dell’infezione da infezione da virus dell’immunodeficenza tipo 1 (HIV) sono state descritte fin dall’inizio dell’epidemia di AIDS, poco dopo la comparsa dei primi casi di AIDS. Gli studi compiuti negli anni successivi hanno contribuito a chiarire la natura e lo spettro delle complicazioni neurologiche che colpivano i pazienti con immunodepressione da HIV. Le affezioni descritte comprendevano infezioni opportunistiche molto rare nei pazienti immunocompetenti, tumori del SNC, malattie del midollo spinale, neuropatie periferiche, miopatie e un’encefalopatia progressiva. Tra le complicazioni neurologiche solo alcune delle infezioni opportunistiche potevano essere trattate adeguatamente, mentre per la gran parte di esse la prognosi era pessima per l’impossibilità di curare l’immunodeficienza sottostante. L’introduzione nel 1986 del primo farmaco antiretrovirale, la zidovudina, portò ad un iniziale e parziale controllo dell’infezione da HIV. La vera rivoluzione della terapia dell’AIDS avvenne però a partire dagli anni ’90 con l’inizio della terapia antiretrovirale altamente attiva (HAART), che si

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Infezioni del sistema nervoso centrale nell’abuso di sostanze

basa sull’associazione di tre o quattro farmaci antiretrovirali. L’introduzione dell’HAART ha ridotto la morbidità e la mortalità di gran parte delle tradizionali complicazioni neurologiche dell’infezione da HIV e ne ha modificato notevolmente il decorso clinico. L’HAART si è dimostrata efficace in pazienti con alcune delle complicazioni del sistema nervoso verosimilmente sostenute direttamente dall’HIV come la demenza in corso di AIDS, mentre la risposta al trattamento risultava limitata in pazienti con neuropatia periferica e mielopatia. Nonostante le conoscenze riguardanti l’infezione da HIV siano rapidamente evolute, le sue complicazioni neurologiche restano un capitolo complesso anche per il neurologo più esperto. Infatti spesso le complicazioni neurologiche dell’HIV si manifestano in forme clinicamente atipiche, presentano reazioni difficilmente prevedibili all’HAART e alle terapie specifiche, i pazienti possono presentare più di una malattia neurologica contemporaneamente. Inoltre i soggetti con infezione da HIV possono essere affetti da malattie del sistema nervoso non correlate all’HIV che complicano ulteriormente l’approccio diagnostico. Attualmente l’infezione da HIV colpisce più di 40 milioni di persone di ogni parte del mondo ed è associata ancor oggi ad interessamento del sistema nervoso centrale (SNC) almeno nel 30% dei casi. Tratteremo in questo capitolo le principali infezioni opportunistiche al SNC, in particolare quelle che in epoca HAART pongono ancora maggiori problemi diagnostici e terapeutici.

L’HAART si è dimostrata efficace in pazienti con alcune delle complicazioni del sistema nervoso verosimilmente sostenute direttamente dall’HIV come la demenza in corso di AIDS, mentre la risposta al trattamento risultava limitata in pazienti con neuropatia periferica e mielopatia L’infezione da HIV colpisce più di 40 milioni di persone di ogni parte del mondo ed è associata ancor oggi ad interessamento del sistema nervoso centrale (SNC) almeno nel 30% dei casi

2.1 Leucoencefalopatia multifocale progressiva La leuocoencefalopatia multifocale progressiva (PML) è stata descritta per la prima volta nel 1958 in tre pazienti con malattia linfoproliferativa che presentavano una sindrome caratterizzata da sul piano patologico da demielinizzzazione, oligodendrociti con nuclei abnormi e astrociti giganti e anomali [5]. Da allora fino al 1984 sono stati descritti circa 230 casi di PML dei quali solo 109 erano confermati all’esame neuropatologico. Con l’avvento dell’epidemia di AIDS il numero di casi affetti da PML è notevolmente aumentato tanto che attualmente solo rari casi sono associati a condizioni di immunodepressione diverse dall’infezione da HIV. Prima dell’uso dell’HAART dal 3 al 7% dei soggetti con infezione da HIV erano colpiti da PML che diveniva la principale causa di morte nel 18% dei pazienti. 2.1.1 Eziologia Nelle prime descrizioni l’eziologia della PML non era ancora conosciuta. Nel 1959, sulla base di uno studio in microscopia elettronica dei corpi inclusi degli oligodendrociti, fu proposta un’ipotesi virale della malattia [6]. Solo nel 1965 si giunse a stabilire che le particelle evidenziate all’esame ultrastrutturale erano costituite da papovavirus, un virus fino ad allora mai osservato all’interno del SNC [7]. In seguito il virus è stato isolato su cellule gliali in coltura provenienti da encefalo di un paziente affetto da PML, confermando così definitivamente l’eziologia virale da papovavirus [8]. Il virus era quindi definito come Polyomavirus della famiglia Papovavirus e denominato JC dalle iniziali del primo paziente nel quale era stato identificato. Il virus JC condivide circa il 70% delle sequenze nucleotidiche con il BK, frequente causa di rigetto nei trapianti renali. Negli anni successivi per l’aumentata frequenza dei casi di PML nell’epidemia di AIDS e per le nuove conoscenze scientifiche e tecnologiche sono state messe a punto metodiche come l’ibridizzazione in situ su tessuto e la amplificazione genica delle sequenze virali o polymerase chain reaction (PCR) su liquor che hanno notevolmente migliorato l’approccio diagnostico alla PML [9]. Il virus JC (JCV) è costituito da un genoma

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a DNA di 5.1 kilobasi, double-stranded avvolto da un capside di struttura proteica icosaedrica di 40nm di diametro. Il DNA codifica per tre proteine non-strutturali e tre proteine capsidiche (VP1, VP2, VP3). La proteina T è la più importante delle proteine non strutturali, ha funzioni multiple: controlla l’inizio della replicazione virale (DNA-binding protein) e la trascrizione delle proteine capsidiche. La proteina T è stata implicata nei meccanismi di trasformazione neoplastica, in particolare delle cellule astrogliali in cellule di astrocitoma, comunque il suo ruolo nella patogenesi dei tumori gliali è controverso [10]. La piccola proteina non-strutturale denominata t non è considerata importante per la patogenesi della PML. Nel genoma del JCV vi è inoltre una sequenza non codificante che contiene segnali per la replicazione e trascrizione virale, tale regione di DNA è ritenuta responsabile dell’esclusivo tropismo gliale dell’HIV [11]. È stato dimostrato che il virus JC si lega alla membrana cellulare della cellula gliale attraverso il recettore serotoninergico 5HT2a [12], in seguito a questo legame il virus penetra attraverso nella cellula attraverso le vie clatrina e eps15-dipendenti [13], quindi nel nucleo interagisce con le proteine cellulari che legano il DNA, in particolare con il nuclear factor 1 (NF-1), che è determinate nella replicazione del JCV [14]. 2.1.2 Patogenesi In seguito all’infezione iniziale da JCV il virus rimane latente in tessuti come tonsille, rene, milza, midollo osseo, polmone [15]. In circa il 5% della popolazione sana è possibile isolare o identificare con PCR il virus JC nelle urine [16], a dimostrazione che il rene è sede dell’infezione latente del virus. Ma la sequenza genomica del JCV isolato nel rene non è tale da consentire l’infezione al SNC, quindi il virus necessità di processi di delezione, sostituzione e replicazione che verosimilmente avvengono a livello degli tessuti linfatici in corso di depressione delle difese immunitarie. In seguito i linfociti circolanti, in grado di superare la barriera emato-encefalica, penetrano nel SNC attraverso gli astrociti perivascolari che a loro volta trasmettono l’infezione agli oligodendrociti, cellule nelle quali avviene la replicazione virale nel SNC. A conferma di tale ipotesi il JCV è stato dimostrato nei linfociti circolanti nel 90% dei pazienti con PML [17]. Fin dai primi studi su casistiche di PML è apparso chiaro che la malattia si manifesta in pazienti con immunodepressione, in particolare in soggetti con malattie linfoproliferative, mieloproliferative, malattie infiammatorie granulomatose (tubercolosi, sarcoidosi) [5]. In seguito all’avvento dell’AIDS si è verificato un drammatico incremento della frequenza della PML e l’infezione da HIV è rapidamente divenuta la prima causa predisponente allo sviluppo di PML [18]. Dal 1996, in seguito alla diffusione dell’HAART, si è verificata una netta riduzione di frequenza delle infezioni opportunistiche al SNC associate dell’infezione da HIV come la toxoplasmosi, la malattia da citomegalovirus, il linfoma primitivo cerebrale. Attualmente, sebbene la sopravvivenza dei soggetti affetti da PML in HAART sia aumentata, i dati di prevalenza della malattia sono ancora controversi. 2.1.3 Clinica Il quadro clinico più comune dei pazienti con PML consiste nella presenza di segni di deficit neurologici focali correlati alla localizzazione delle lesioni alla sostanza bianca del SNC. L’esordio è spesso asimmetrico con monoparesi o disturbo sensitivo di un arto, deficit del campo visivo ed emianopsia, afasia, disartria, atassia, dismetrie, diplopia, compromissione cognitiva. Nel 20% circa dei casi di PML si possono manifestare crisi epilettiche nel corso

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della malattia. Sono stati descritti alcuni casi alcuni casi nei quali l’esordio clinico avviene con epilessia parziale continua che coinvolge un arto o parte di esso e successivamente evolve in deficit motorio dello steso arto [19]. L’evoluzione consiste nell’accentuazione e nell’aggravamento dei deficit iniziali ai quali si aggiungono nuovi segni neurologici a carico di altri sistemi. I deficit cognitivi isolati sono poco frequenti in corso di PML. Segni di lesione del midollo spinale sono assenti.

Il quadro clinico più comune dei pazienti con PML consiste nella presenza di segni di deficit neurologici focali correlati alla localizzazione delle lesioni alla sostanza bianca del SNC

2.1.4 Diagnosi radiologica All’esame TAC dell’encefalo dei casi di PML si osservano lesioni ipodense della sostanza bianca che non presentano effetto di massa occupante spazio e raramente assumono mezzo di contrasto. La conferma della diagnosi di PML si avvale principalmente del quadro caratteristico di risonanza magnetica nucleare (RMN) dell’encefalo che mostra lesioni multifocali della sostanza bianca iperintense nelle sequenze pesate T2 (Figura 1) o FLAIR, a volte ipointense in T1 se il processo è francamente necrotizzante. Le lesioni sono tendenzialmente confluenti, colpiscono maggiormente la sostanza bianca degli emisferi cerebrali, con minor frequenza il tronco cerebrale e la sostanza bianca del cervelletto. A differenza di quanto avviene in altre malattie demielinizzanti come la sclerosi multipla, nella gran parte dei pazienti con PML le aree demielinizzanti non risparmiano la sostanza bianca immediatamente sottostante alla corteccia cerebrale (o fibre arcuate sottocorticali) e le lesioni generalmente non assumono mezzo di contrasto paramagnetico. La spettroscopia in risonanza delle lesioni in corso di PML mostra una riduzione di Nacetilaspartato e creatina e un aumento in colina, mioinositolo e lattato [20] . 2.1.5 Diagnosi laboratoristica Nei pazienti HIV-positivi la PML si manifesta prevalentemente quando s’instaura una profonda immunodepressione con conta di linfociti CD4 inferiore a 200 cellule per mm3. In uno studio esteso su numerosi casi, però, il 10% dei pazienti con PML presentava più di 200 CD4 all’esordio (21). La rachicentesi è un esame molto utile alla diagnosi di PML, le cellule sono generalmente inferiori

Nei pazienti HIV-positivi la PML si manifesta prevalentemente quando s’instaura una profonda immunodepressione con conta di linfociti CD4 inferiore a 200 cellule per mm3

Figura 1 - RMN con iperintensità T2 della sostanza bianca in paziente con leucoencefalopatia multifocale progressiva

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a 20/mm3, circa il 50% dei casi presenta un lieve aumento delle proteine, raramente di osserva ipoglicorrachia. La ricerca delle sequenze geniche del virus JC su liquor mediante PCR nei pazienti HIV si è dimostrata una metodica diagnostica fondamentale con sensibilità di 72-92% e specificità di circa il 100% [22]. In caso di fondato sospetto clinico e radiologico, qualora la PCR per JCV sia negativa in una prima rachicentesi, è consigliata la ripetizione dell’esame. La probabilità di identificare le sequenze geniche nel liquido cerebrospinale (LCS) è notevolmente ridotta nei pazienti che assumono terapia HAART. Le metodiche di PCR quantitativa, introdotte negli ultimi anni, permettono di monitorare la gravità dell’infezione da JCV in base al numero delle sequenze presenti nel LCS. È attualmente accettato che, in presenza di segni clinici e radiologici suggestivi, la presenza di sequenze di JCV nel LCS conferma la diagnosi di PML evitando così la necessità sottoporre il paziente a biopsia cerebrale.

La caratteristica patologica fondamentale della PML è la presenza di lesioni demielinizzanti, spesso confluenti nell’evoluzione della malattia fino a formare, negli stadi più avanzati, aree di necrosi cavitaria

2.1.6 Patologia La caratteristica patologica fondamentale della PML è la presenza di lesioni demielinizzanti, spesso confluenti nell’evoluzione della malattia fino a formare, negli stadi più avanzati, aree di necrosi cavitaria. Tutte le aree del SNC possono essere colpite, tranne il midollo spinale che è raramente coinvolto. Sul piano istologico si osservano oligodendrociti con nuclei ipercromici di grandi dimensioni e astrociti giganti abnormi con nuclei lobulati (“bizarre astrocytes”) (Figura 2). All’esame ultrastrutturale gli oligodendrociti anomali presentano inclusioni nucleari contenenti particelle con struttura paracristallina del diametro di 28-45 nm che corrispondono a virioni di JCV [5,6] (Figura 3). Le particelle virali possono essere individuate, sia pur raramente, anche in astrociti o in macrofagi che rimuovono i residui di oligodendrociti. L’immunoistochimica con anticorpi anti-JCV e l’ibridizzazione in situ con sonde a DNA complementari alle sequenze del JCV rappresentano un ulteriore supporto alla diagnosi patologica. Generalmente nei casi di PML la componente infiammatoria è assai scarsa, rappresentata da piccoli infiltrati perivascolari di cellule mononucleate prevalentemente costituite da linfociti. In seguito Figura 2 - Leucoencefalopatia multifocale progressiva. Area di demielinizzazione con astrociti bizzarri e oligodendrociti con nuclei abnormi (ematossilina-eosina (ingrandimento originale 50x)

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all’introduzione della terapia HAART si è assistito a un incremento dei casi di PML con componente infiammatoria spiccata con linfociti CD8 [23]. 2.1.7 PML in HAART Circa il 5% dei pazienti con infezione da HIV sviluppa una PML [24], di questi circa il 19% risulta attualmente affetto da PML associata a sindrome da immunoricostituzione infiammatoria (IRIS) [25]. L’IRIS è definita come un peggioramento paradosso delle condizioni cliniche di un paziente con infezione da HIV in seguito all’instaurazione di terapia HAART. La gran parte dei casi di PML associata a IRIS si presenta entro 4-8 settimane dall’inizio dell’HAART, ma alcuni casi si possono manifestare tardivamente, anche dopo 2 anni dall’instaurazione dell’HAART [26,27]. A differenza della PML classica nella PML-IRIS il quadro RMN è caratterizzato dall’assunzione del mezzo di contrasto da parte delle lesioni demielinizzanti [28]. Tale presa di contrasto è il risultato di un’abnorme risposta infiammatoria, inconsueta per la PML classica, che sul piano patologico determina la formazione di infiltrati infiammatori perivascolari, talvolta anche parenchimali, prevalentemente costituiti da linfociti T CD8+ e da macrofagi.

La sindrome da immunoricostituzione infiammatoria (IRIS) è definita come un peggioramento paradosso delle condizioni cliniche di un paziente con infezione da HIV in seguito all’instaurazione di terapia HAART. Il 19% delle PML si associa ad IRIS

2.1.8 Trattamento Non esiste attualmente una terapia di sicura efficacia per la PML. Nonostante in vitro sia stata dimostrata l’abilità della citosina arabinoside (ARA-C), un analogo nucleosidico, nell’inibire la replicazione del JCV [29], studi controllati su pazienti PML in AIDS non hanno dimostrato beneficio dalla somministrazione intratecale o endovenosa di ARA-C [30]. Anche il cidofovir, che ha mostrato una selettiva azione anti-poliomavirus in vitro, in uno studio controllato su casi di PML-HIV non ha dimostrato alcun beneficio [31]. La somministrazione del cidofovir esponeva inoltre i pazienti a gravi effetti collaterali quali aplasia midollare, insufficienza renale, ipotonia oculare. Altri immunomodulatori, quali l’interferon-alfa e beta, non hanno dimostrato sostanziale efficacia nel trattamento della PML [32,33]. Il trattamento con mirtazapina, Figura 3 - Leucoencefalopatia multifocale progressiva. Immagine ultrastrutturale di particelle virali di JCV nel nucleo di un oligodendrocita (ingrandimento originale 20000x)

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un antagonista del recettore della 5-idrossitriptamina, ha prodotto un parziale benefico in alcuni casi recentemente riportati nella letteratura [34,35,36]. L’effetto immunomodulante dell’interleukina-2 ha mostrato una promettente efficacia in casi anedottici [37]. Recentemente un farmaco antimalarico, la meflochina, è risultato attivo in vitro contro il JCV [38] ed è in corso uno studio clinico per testarne l’efficacia in pazienti con PML. In gran parte dei pazienti con PML ed infezione da HIV la terapia anti la terapia antiretrovirale HAART ha contribuito a migliorare la sopravvivenza in oltre il 50% dei casi [39,40,41,42]. Il razionale dell’efficacia della terapia ARV nella PML consiste nel fatto che l’HIV agisce potenziando la transattivazione delle sequenze del virus JC nel SNC. In alcuni studi l’efficacia dell’HAART non è così univoca e sembra essere limitata ai casi di PML che non hanno mai ricevuto terapia ARV [43]. In ogni caso la terapia antiretrovirale combinata può essere in grado di arrestare l’evoluzione dei deficit neurologici, ma non garantisce il miglioramento clinico dei deficit neurologici dovuti alla localizzazione e all’estensione delle lesioni cerebrali formatesi a causa del processo patologico. In sintesi in corso di PML-HIV il trattamento antiretrovirale dovrebbe essere iniziato nei pazienti mai sottoposti a terapia antiretrovirale, dovrebbe essere modificato in pazienti con scarsa risposta della carica virale HIV alla terapia ARV. Nei pazienti con PML e viremia HIV soppressa è necessario verificare l’indice di penetrazione al sistema nervoso centrale dei farmaci ARV ed eventualmente determinare la carica virale HIV nel liquor per valutare l’efficacia intratecale della terapia. In pazienti con PML e sindrome da immunoricostituzione da HIV, nei quali si instaura un rapido deterioramento neurologico con segni radiologici RMN di peggioramento delle lesioni con immagini di captazione del mezzo di contrasto paramagnetico, si può iniziare una terapia corticosteroidea, anche non vi sono ancora evidenze sufficienti alla sua efficacia [44]. La dose e la durata della terapia steroidea non sono ancora state definite, ma sembra che la precocità del trattamento e la sua lunga durata siano fattori prognostici postivi nei casi di PML-IRIS [28].

La meningite da criptococco è espressione dell’infezione avanzata da HIV, frequentemente si instaura con valori di CD4<50 e rappresentava la causa di decesso nel 20% dei pazienti con AIDS

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2.2 Meningite da criptococco Il criptoccus neoformans è responsabile della più frequente infezione fungina del SNC nei pazienti HIV [45]. Nonostante l’avvento della terapia antiretrovirale potente, si stima che circa il 5-8% dei pazienti dei paesi sviluppati presentino una malattia da criptococco nel corso dell’infezione HIV [46]. La meningite da criptococco è espressione dell’infezione avanzata da HIV, frequentemente si instaura con valori di CD4<50 e rappresentava la causa di decesso nel 20% dei pazienti con AIDS [47]. Oltre alla meningite, che è la manifestazione più comune, la malattia da criptococco spesso interessa l’apparato respiratorio, in particolare il polmone, che di solito rappresenta la sede primaria dell’infezione, e molti altri organi, tra i quali principalmente la cute seguita in ordine di frequenza, da ossa, occhio, cuore, ghiandole surrenali, prostata, vie urinarie. L’esordio dei sintomi è subdolo con cefalea in circa il 75% dei pazienti, febbre nel 50% dei casi; altri sintomi comuni sono nausea, vomito, sonnolenza, cambiamenti della personalità, deficit di memoria, stato confusionale [48]. La durata dei sintomi prima della presentazione conclamata della meningite è più lunga nei pazienti immunodepressi non-AIDS. Nei pazienti HIV i segni di meningismo come rigidità nucale e fotofobia si manifestano in circa il 25% e i segni focali neurologici nel 20% dei casi. Nei casi più avanzati si possono osservare papilledema, emorragie retiniche peripapillari e disturbi visivi, da ipertensione endocranica. L’antigenemia criptococcica su siero è positiva a titoli elevati nel 95% dei casi di meningite da criptococco.


Infezioni del sistema nervoso centrale nell’abuso di sostanze

La diagnosi definitiva di meningite criptococcica si ottiene con la rachicentesi mediante la dimostrazione dei funghi con inchiostro di china, l’antigenemia per criptococco (sensibilità >90%) [48] o l’esame colturale. L’esame del LCS evidenzia aumento della pressione liquorale di apertura, sono presenti modesta pleiocitosi (50-500 linfociti/ml) e iperproteinorrachia di 500-1000mg/dl. L’esame TAC dell’encefalo nel 50% dei casi risulta negativo, in alcuni casi si evidenzano segni di idrocefalo. La RMN può mostrare atrofia corticale e, in rari casi, la presenza di alterazioni focali espressione di criptococcomi. Le complicazioni consistono in ipertensione endocranica, idrocefalo, diabete insipido, iposodiemia. La meningite da criptococco è fatale se non trattata. Il trattamento è rivolto da un lato alla terapia antifungina dall’altro, quando necessario, alla riduzione dell’ipertensione endocranica. La terapia antimicrobica si differenzia in una fase di induzione di almeno 2 settimane, una fase di consolidamento di almeno 10 giorni ed infine una fase di mantenimento che si protrae se persiste l’iimunodeficienza [49]. La terapia di induzione consiste nell’associazione di anfotericina B e 5-flucitosina per 2 settimane, seguita da consolidamento con fluconazolo ed infine mantenimento con fluconazolo a dosi più basse. Il deterioramento neurologico secondario all’ipertensione endocranica può non rispondere rapidamente alla terapia antifungina, in questo caso il trattamento si avvale di ripetuto drenaggio liquorale con rachicentesi o con l’eventuale confezione di uno shunt ventricolo-peritoneale. 2.3 Toxoplasmosi Il Toxoplasma gondii è un protozoo parassita obbligato intracellulare che frequentemente è causa di encefalite in pazienti immunodepressi, in particolare nei pazienti HIV con CD4<200ml. L’esordio della sintomatologia avviene con manifestazioni cliniche estremamente variabili da uno stato confusionale acuto alla subdola comparsa di segni neurologici focali che evolvono in maniera subacuta nell’arco di settimane. I più frequenti sintomi iniziali sono cefalea, stato confusionale, crisi convulsive. I segni neurologici focali sono in rapporto alla sede anatomica delle lesioni e consistono in emianopsia, emiparesi, disturbi della motilità oculare, emisindrome sensitiva, alterazioni comportamentali, afasia, atassia. Poiché la toxoplasmosi si localizza frequentemente ai gangli della base si possono osservare anche segni di interessamento extrapiramidale come parkinsonismo, discinesie, emiballismo [50]. I pazienti possono presentare anche iponatriemia per inappropriata secrezione di ADH. Generalmente la toxoplasmosi nei pazienti HIV si manifesta con esclusivo interessamento del SNC ma talvolta si osserva una localizzazione oculare. Dall’introduzione della terapia HAART gli studi epidemiologici condotti nei paesi industrializzati hanno mostrato una netta riduzione delle infezioni opportunistiche in AIDS, compresa la toxoplasmosi. Uno studio francese ha riportato una riduzione dell’incidenza dal 3,9 all’1% negli HIV positivi in seguito all’introduzione dell’HART [51]. Poiché spesso la toxoplasmosi in HIV è la riattivazione di un’infezione pregressa, gli anticorpi IgG sierici anti-toxoplasma sono presenti nel 97% dei casi [52]. I pazienti HIV con sierologia positiva per toxoplasma sono a rischio di sviluppare l’infezione se l’immunodepressione è profonda con livelli di CD4<200/mm3. Sensibilità e specifcità della PCR su liquor nell’identificare le sequenze del T. gondii sono ampiamente variabili nei diversi laboratori. La TAC dell’encefalo può essere inizialmente negativa o mostra lesioni ipodense rotondeggianti circondate da cercine che assume mezzo di contrasto con alone di ipodensità da edema attorno alle lesioni ascessuali. La RMN è molto più sensibile nell’identificare le lesioni multiple di piccole dimensioni.

La diagnosi definitiva di meningite criptococcica si ottiene con la rachicentesi mediante la dimostrazione dei funghi con inchiostro di china, l’antigenemia per criptococco e/o l’esame colturale La meningite da criptococco è fatale se non trattata. Il trattamento è rivolto da un lato alla terapia antifungina dall’altro, quando necessario, alla riduzione dell’ipertensione endocranica

Dall’introduzione della terapia HAART gli studi epidemiologici condotti nei paesi industrializzati hanno mostrato una netta riduzione delle infezioni opportunistiche in AIDS, compresa la toxoplasmosi

La TAC dell’encefalo può essere inizialmente negativa o mostra lesioni ipodense rotondeggianti circondate da cercine che assume mezzo di contrasto con alone di ipodensità da edema attorno alle lesioni ascessuali

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Il trattamento di scelta è l’associazione di pirimetamina e sulfadiazina

La manifestazione clinica più comune dell’infezione da CMV è la retinite

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L’aspetto radiologico non è patognomonico di toxoplasmosi e devono essere considerate in diagnosi differenziale le lesioni occupanti spazio che si possono osservare in corso di infezione da HIV come il linfoma cerebrale primitivo (LCP), la PML, nocardia, ascessi batterici, tumori primari e metastasi, tubercolomi. In genere la toxoplasmosi cerebrale si manifesta con lesioni multiple, mentre il LCP si presenta inizialmente con lesione unica. Anche la localizzazione può essere di aiuto: a differenza della toxoplasmosi il LCP è spesso periventricolare e subependimale, si può localizzare e diffondere al corpo calloso e alle leptomeningi [53]. Anche la tecniche di spettroscopia in RMN possono essere di aiuto nella diagnosi. La SPECT con tallio-201 si è dimostrata utile nella diagnosi tra lesioni del SNC in HIV ed è in grado di differenziare il LCP dalle lesioni focali di origine infettiva. Nella diagnosi differenziale tra LCP e toxoplasmosi la SPECT diventa maggiormente sensibile e specifica se affiancata dalla PCR su liquor per EBV (positiva nel linfoma) e dalla sierologia per toxoplasma [54]. Se un paziente con AIDS presenta lesioni radiologiche del SNC suggestive di toxoplasmosi e sierologia positiva per T. gondii deve essere presa in considerazione una terapia empirica anti-toxoplasma [49]. Il trattamento di scelta è l’associazione di pirimetamina e sulfadiazina. 2.4 Malattia da citomegalovirus Il citomegalovirus (CMV) è un virus della famiglia degli herpes responsabile di infezioni opportunistiche localizzate o disseminate in pazienti con profonda immunodepressione. Prima dell’introduzione dell’HAART l’infezione da CMV era comune nei pazienti HIV con linfociti CD4+ <50 cellule/l, mentre nell’era post-HAART la sua incidenza risulta notevolmente ridotta [55]. La manifestazione clinica più comune dell’infezione da CMV è la retinite. Prima dell’HAART il 30% dei pazienti presentava retinite da CMV nel corso dell’AIDS, dopo l’introduzione dell’HAART l’incidenza di nuovi casi di infezione da CMV è drasticamente ridotta fino al 75%-80%. La retinite da CMV all’esordio è monolaterale nei due terzi dei pazienti, può esssere asintomatica o manifestarsi con scotomi o difetti dell’acuità visiva, diviene bilaterale in assenza di terapia [56]. Altre localizzazioni possono coinvolgere l’apparato gastroenterico, fegato, polmone, epididimo, cervice uterina, pancreas e sistema nervoso. Il CMV è responsabile di sindromi neurologiche eterogeee come encefalite, ventricolite, poliradicololite, mielopatia. L’encefalite da CMV è caratterizzata da un decadimento cognitivo subacuto con disturbi di memoria e di attenzione, a volte associati a deficit motori e atassia. Rispetto alla demenza associata all’HIV l’encefalite da CMV di solito presenta un’evoluzione più rapida con delirio [57]. L’infezione al sistema nervoso da CMV si manifesta anche con quadri neurologici meno comuni come neuropatie craniche, segni neurologici focali, segni cerebellari e del tronco encefalico, midollari. Il quadro imaging dell’encefalo è spesso privo di alterazioni oppure può evidenziare alterazioni aspecifiche, come atrofia, o segni di ventricolite, consistenti in impregnazione ependimale con mezzo di contrasto, o enhancement meningeo. In alcuni casi sono state osservate leucoencefalopatia focale o diffusa. L’esame del LCS mostra una pleiocitosi prevalentemente neutrofila, la PCR per la ricerca di sequenze CMV è diagnostica. Difficilmente il CMV può essere coltivato in colture di LCS. La localizzazione del CMV al midollo spinale determina una mielite necrosante che coinvolge sia le strutture grigie che i fasci bianchi ed è spesso associata a poliradicolite. La localizzazione al sistema nervoso periferico del CMV spesso si manifesta con parestesie agli arti inferiori e al perineo, che configurano un quadro di poliradicolite, o con disturbi sensitivi o motori a carico di singoli tronchi nervosi che evolvono,


Infezioni del sistema nervoso centrale nell’abuso di sostanze

nell’arco di giorni o settimane, a coinvolgere altri tronchi nervosi in un quadro di mononeuropatia multipla [58]. L’esame neurofisiologico conferma il coinvolgimento radicolare o multifocale dei tronchi nervosi. L’esame bioptico del nevo surale permette di osservare i segni diretti di vasculite (necrosi fibrinoide della parete dei vasi epineurali) o indiretti (infiltrati infiammatori perivascolari, perdita di fibre o degenerazioni assonali con distribuzione focale). Nei casi di infezione da CMV si possono osservare infiltrati infiammatori endoneurali e presenza di cellule citomegaliche con presenza alla microscopia elettronica di particelle suggestive di CMV [58]. Il trattamento, oltre alla terapia ARV, si avvale di farmaci che inibiscono la DNA polimerasi del CMV: valganciclovir, ganciclovir, foscarnet, cidofovir. Il trattamento di scelta dell’infezione da CMV al SNC consiste nell’associazione tra ganciclovir e foscarnet [49].

3. Disturbi cognitivi inHIV e dipendenza da sostanze La terapia antiretrovirale combinata ha ridotto l’incidenza della demenza associata all’HIV, la forma più grave di disturbo neurocognitivo associato all’HIV (HIV-associated neuro cognitive disorders o HAND), mentre persistono la compromissione neurocognitiva moderata (MND) e la compromissione neurocognitiva asintomatica (ANI) [59]. È stato recentemente dimostrato che la terapia HAART con elevato indice di penetrazione nel SNC può migliorare le funzioni neuro cognitive. Anche l’abuso di sostanze rientra nei fattori che possono modulare il ruolo dell’HIV nel determinare il deterioramento cognitivo. Le droghe da abuso possono interagire con la patogenesi dell’HIV nel SNC attraverso vie differenti che agiscono sulla replicazione dell’HIV, sulla barriera emato-encefalica, sulla funzionalità neuro-gliale. L’effetto degli oppiacei sulla replicazione intratecale dell’HIV è stato dimostrato in modelli sperimentali su primati infetti da HIV che, in seguito alla somministrazione cronica di morfina presentavano incremento significativo della carica virale HIV sia plasmatica che liquorale [60]. Altri studi hanno sottolineato che l’attivazione da parte degli oppiacei del recettore µ dei macrofagi aumenta la replicazione dell’HIV, probabilmente attraverso l’espressione dei recettori per le citochine, in particolare del recettore CCR5 che viene utilizzato dall’HIV come corecettore ed è implicato nella neuro patogenesi dell’infezione da HIV [61;62]. La cocaina è in grado di aumentare la replicazione del virus HIV nei monociti, nei macrofagi e anche negli astrociti [63]. Così gli astrociti potrebbero costituire un importante reservoir di virus HIV all’interno del SNC. La metanfetamina, mediante la stimolazione dei recettori dopaminergici, può indurre incremento della replicazione dell’HIV attraverso l’aumentata espressione dei corecettori CXCR4 e CCR5 [64,65]. Studi in vitro sugli effetti delle droghe da abuso sulla barriera ematoencefalica (BEE) mostrano che la cocaina favorisce la migrazione dei monociti attraverso la BEE, induce l’espressione di molecole di adesione sulle membrane delle cellule endoteliali e degrada le giunzioni intercellulari [66]. La degenerazione strutturale della BEE è stata osservata anche in studi autoptici di pazienti infetti dal virus HIV che abusavano cocaina [67,68]. La metanfetamina, cooperando con la proteina gp120 dell’HIV, può ridurre l’espressione delle giunzioni tra le cellule endoteliali dell’encefalo aumentando così la permeabilità della BEE ai monociti-macrofagi [69]. L’effetto tossico sulla BEE è stato mostrato in esperimenti di intossicazione acuta da metanfetamina, in questo caso il danno alla BEE determina edema cerebrale negli animali ed eventi che

È stato recentemente dimostrato che la terapia HAART con elevato indice di penetrazione nel SNC può migliorare le funzioni neuro cognitive

La cocaina è in grado di aumentare la replicazione del virus HIV nei monociti, nei macrofagi e anche negli astrociti

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Anche la morfina, in associazione al virus HIV può alterare la permeabilità della barriera emato-encefalica

L’abuso di metanfetamina può causare una perdita neuronale della sostanza nera che si può sommare al danno al sistema dopaminergico provocato dall’infezione da HIV

possono favorire la neurodegenearazione [70]. Anche la morfina, in associazione al virus HIV può alterare la permeabilità della BEE. L’alterazione della BEE favorisce l’entrata nel SNC, oltre che dei macrofagi, di molti altri fattori, tra i quali l’HIV, proteine virali e mediatori dell’infiammazione, che contribuiscono all’attivazione astrocitaria e ai processi neurodegenerativi secondari all’infezione da HIV. L’abuso di metanfetamina può causare una perdita neuronale della sostanza nera che si può sommare al danno al sistema dopaminergico provocato dall’infezione da HIV [71,72]. In modelli sperimentali è stato dimostrato che la proteina tat dell’HIV, associata a morfina o a cocaina, determina un danno neurotossico che è alla base dei disturbi cognitivi. Oppiacei, cocaina e metanfetamina hanno diversi meccanismi di azione che sono mediati da recettori neuronali differenti ben caratterizzati. Oltre alle interazioni coni i recettori neuronali le sostanze da abuso interagiscono anche con altri tipi cellulari, come astrociti e cellule endoteliali coinvolti nella patogenesi della neurodegenerazione associata all’HIV.

4. Complicazioni neurologiche e sindrome da immunoricostruzione infiammatoria in HIV

Si stima che l’IRIS avvenga nel 15-35% dei casi di pazienti con infezione da HIV, mentre sembra che solo lo 0.9% degli HIV-positivi sviluppi IRIS a carico del sistema nervoso centrale (SNC-IRIS)

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La sindrome da immunoricostituzione infiammatoria (IRIS) è definita come un peggioramento paradosso delle condizioni cliniche attribuibile alla ripresa funzionale del sistema immunitario in corso di terapia antiretrovirale potente (HAART) [73]. L’IRIS è stata descritta per la prima volta nell’infezione da HIV nel 1992 in un paziente che presentava un’infezione da Mycobacterium avium intracellulare dopo l’inizio della terapia antiretrovirale [74]. Da allora l’IRIS è stata osservata in pazienti con un’ampia variabilità di quadri clinici, sostenute da agenti patogeni differenti. In passato erano già note alcune sindromi neurologiche associate ad immunoricostituzione, le più comuni avvenivano dopo l’inizio di terapia antibatterica in pazienti con tubercolosi o meningite batterica. Inizialmente sono state distinte due forme di IRIS: una detta “unmasking” nella quale il sistema immunitario all’instaurazione dell’HAART risponde all’infezione opportunistica preesistente producendo un peggioramento delle condizioni cliniche, e una forma “paradossa” secondaria ad un reazione immunitaria scatenata dall’HAART contro l’antigene di un agente patogeno. Attualmente alcuni autori preferiscono distinguere IRIS simultanea, definita dallo sviluppo contemporaneo di IRIS e di nuova infezione opportunistica, o IRIS ritardata nei pazienti con infezione opportunistica che sviluppano IRIS tardivamente [75]. Si stima che l’IRIS avvenga nel 15-35% dei casi di pazienti con infezione da HIV, mentre sembra che solo lo 0.9% degli HIVpositivi sviluppi IRIS a carico del sistema nervoso centrale (SNC-IRIS) [76,77]. Un basso nadir di CD4+, la presenza di infezioni opportunistiche subcliniche e una rapida riduzione della carica virale con veloce incremento dei CD4+ HIV dopo HAART sono attualmente considerati fattori di rischio per lo sviluppo di IRIS [78]. La SNC-IRIS in HIV è verosimilmente secondaria dall’accentuazione dei processi infiammatori di preesistenti patologie opportunistiche. Quando si sviluppa nel SNC l’IRIS è caratterizzata dalla comparsa di nuovi sintomi neurologici o dall’aggravamento delle condizioni neurologiche preesistenti dopo l’instaurazione dell’HAART, dall’accentuazione o dalla comparsa di nuovi segni RMN, dalla marcata riduzione del viral load plasmatico HIV, da una dimostrazione istologica di infiltrazione di cellule T. La SNC-IRIS può essere distinta in base alla gravità in: IRIS asintomatica, con alterazioni solo


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radiologiche del SNC, IRIS sintomatica con segni neurologici clinicamente evidenti spesso associati a nuove lesioni RMN, IRIS catastrofica caratterizzata da gravi segni di compromissione neurologica a decorso rapidamente progressivo fino al coma e all’ipertensione endocranica. La gran parte dei pazienti sviluppano IRIS tra entro i primi mesi (3-6) dall’inizio dell’HAART, ma sono stati descritti casi con esordio più tardivo [79]. Nelle prime 3-6 settimane dopo l’inizio dell’HAART la maggior componente dell’immunità che viene ripristinata è il sottotipo dei linfociti T-memoria che vengono rilasciati dai tessuti linfoidi. Tali linfociti T si differenziano sia nel fenotipo che nelle funzioni dalle cellule T naive. I linfociti T-memoria rispondono più precocemente ed in maniera più marcata dei linfociti T naive allo stimolo antigenico perché richiedono minor co-stimolazione e minor carico antigenico rispetto ai linfociti T naive. Pertanto i linfociti T-memoria compaiono precocemente nell’immunoricostituzione in risposta a stimoli antigenici di infezioni opportunistiche silenti, mentre i linfociti T naive proliferano più tardivamente, continuando e potenziando il ruolo dei linfociti T-memoria nella genesi dell’IRIS. Così il ripristino della funzione immunitaria può protrarsi anche per 3-5 anni fino a quando entrambe le popolazioni dei linfociti T-memoria e naive riprendono la loro completa proliferazione e funzionalità. La risposta infiammatoria è spesso rivolta ad un’infezione opportunistica preesistente all’IRIS e può essere dovuta ad un’eccessiva reazione immunitaria a uno stimolo antigenico originato dall’agente patogeno può anche essere secondaria a una difficoltà nel regolare la risposta immunitaria. Finora sono state descritte diverse infezioni opportunistiche, virali, batteriche, parassitarie e fungine che possono essere associate allo sviluppo di IRIS, tra le quali la PML, le infezioni da virus herpetici, la criptoccosi, le infezioni da Mycobacterium tuberculosis e Mycobacterium avium. In generale l’esordio della PML è precoce e avviene entro 1-2 mesi dall’inizio dell’HAART, le micobatteriosi si sviluppano più tardivamente a 5-10 mesi, mentre il range temporale di comparsa della criptoccoccosi varia tra 2 e 20 mesi dall’instaurazione della terapia anntiretrovirale potente. Sono state descritte patologie correlate all’IRIS che non sono associate ad infezioni opportunistiche come una encefalite fulminante da HIV e malattie autoimmuni del sistema nervoso. L’encefalite fulminante da HIV in IRIS è stata osservata in pazienti con rapido deterioramento neurologico (convulsioni, alterato stato mentale, coma) che portava al decesso nell’arco di 1-3 mesi, in questi l’HIV può essere presente nel LCS, nonostante sia assente nel sangue. La RMN può mostrare lesioni multiple della sostanza bianca con segni di edema cerebrale. Negli studi autoptici si osserva una marcata infiltrazione di macrofagi e linfociti T prevalentemente CD8+ perivascolare e diffusa a carico di leptomeningi e sostanza bianca e grigia delle aree interessate. Un gruppo di casi con rapido deterioramento neurologico in IRIS correlato all’HIV hanno presentato una miglioramento significativo in seguito alla somministrazione di terapia corticosteroidea ad alto dosaggio [80]. Nel quadro dell’IRIS sono state anche descritte alcune malattie autoimmuni come lupus eritematosus che insorgono precocemente dopo l’inizio di terapia HAART [81] e sindrome di Guillain-Barrè [82], mentre nelle fasi più tardive, fino a a due anni dall’instaurazione della terapia antiretrovirale, si osservano casi di malattia di Graves [83]. Alcuni casi di malattia demielinizzante del SNC in IRIS presentano analogie radiologiche e istologiche con la sclerosi multipla [84,85]. Pur se non vi sono ancora delle linee guida condivise per il trattamento delle malattie neurologiche in IRIS si ritiene che il trattamento dell’IRIS debba essere modulato in base alla forma clinica. Nelle forme asintomatiche di IRIS, nelle quali i pazienti presentano lesioni che assumono mezzo di contrasto

La gran parte dei pazienti sviluppano IRIS entro i primi mesi (3-6) dall’inizio dell’HAART, ma sono stati descritti casi con esordio più tardivo

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alla RMN in assenza di sintomi clinici, non è necessaria alcuna terapia, ma è opportuno sorvegliare strettamente l’andamento clinico e radiologico. Le forme sintomatiche di IRIS non catastrofiche secondo alcuni autori possono giovarsi di trattamento corticosteroideo, anche se non vi sono ancora evidenze cliniche e radiologiche che confermano l’efficacia di tale trattamento. Nelle forme catastrofiche di IRIS la rapida evoluzione del quadro neurologico e l’aggressività degli aspetti infiammatori evidenti alla RMN suggeriscono l’opportunità di un trattamento aggressivo che si basa su corticosteroidi ad alto dosaggio. Non è ancora stato stabilito per quanto tempo il trattamento corticosteroideo debba essere prolungato nelle SNC-IRIS. È stato recentemente suggerito che nelle IRIS con infezione opportunistica la terapia steroidea sia somministrata per un breve periodo di tempo, fino a quando la terapia antimicrobica divenga efficace. Le sindromi PML-IRIS, per le quali non esiste un trattamento antivirale specifico, sembrano rispondere ad un trattamento steroideo a lungo termine. Anche nei pazienti con encefalite HIV e IRIS, per la scarsa accessibilità dei serbatoi virali alla terapia HAART, è suggerito un trattamento corticosteroideo prolungato [77].

5. HAART e sistema nervoso centrale È stato dimostrato che il 36% dei pazienti in HAART dopo 2 mesi dall’inizio del trattamento presentano ancora una attiva replicazione dell’HIV nel SNC che può sostenere l’avvento di complicazioni neurologiche

Nonostante l’HAART sia in grado di ridurre drasticamente la carica virale plasmatica HIV, la replicazione virale può continuare in santuari anatomofunzionali come il SNC. È stato dimostrato che il 36% dei pazienti in HAART dopo 2 mesi dall’inizio del trattamento presentano ancora una attiva replicazione dell’HIV nel SNC che può sostenere l’avvento di complicazioni neurologiche. Uno degli principali ostacoli all’efficacia dell’HAART nel SNC è rappresentato dalla barriera emato-encefalica. Infatti la capacità di penetrazione dei farmaci antiretrovirali attraverso la BEE è un fattore di fondamentale importanza nel prevenire le malattie neurologiche in HIV. Letendre e collaboratori [86 ] hanno stimato il grado di penetrazione dei diversi farmaci antiretrovirali nell’encefalo e hanno coniato il termine di “central nervous system penetration effectiveness” (CPE). I diversi farmaci antiretrovirali sono stati così valutati ed è stato assegnato un punteggio maggiore ai farmaci con maggiore capacità di penetrazione nel SNC, mentre ai farmaci ARV con bassa capacità i penetrazione era assegnato un punteggio più basso. Nella terapia combinata si somma il punteggio di CPE di ciascun farmaco. Secondo tali studi la popolazione con alto score CPE mantiene un migliore controllo del virus HIV nel LCS, infatti il 91 percento dei pazienti con un regime antiretrovirale ad elevato score CPE era in grado di mantenere una carica virale non determinabile nel LCS, rispetto al 57% dei pazienti con CPE basso. Alcuni autori non confermano la corrispondenza tra score CPE e carica virale HIV e sottolineano l’importanza della determinazione della carica virale HIV liquorale nei pazienti in ART nei quali si manifestino sintomi e segni neurologici nonostante lo score CPE sia elevato [87]. Bibliografia 1. Richter RW. Infections other than AIDS. Neurol Clin. 1993; 11:591-603. 2. Brust JCM, Richter RW. Tetanus in the inner city NY State J Med.1974; 74:1735-42. 3. Kudrow DB, Henry DA, Haake DA, Marshall G, Mathisen GE. Botulism associated with Clostridium botulinum sinusitis after intranasal cocaine abuse. Ann Intern Med. 1988 Dec 15;109(12):984-5.

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11. Infezioni a trasmissione sessuale

Letizia Leone, Giampiero Girolomoni Clinica Dermatologica, Università degli studi di Verona

Riassunto Di particolare interesse è oggi il capitolo relativo all’acquisizione di MST nei tossicodipendenti: difatti, l’associazione tra abuso di sostanze, comportamento sessuale e queste malattie è noto da tempo. Le malattie a trasmissione sessuale (MST) sono un gruppo eterogeneo di infezioni determinate da un ampia gamma di patogeni. Parole chiave: malattie sessualmente trasmesse, abuso di sostanze, gonorrea, uretriti non gonococciche, cervico-vaginiti non gonococciche, sifilide, herpes genitale, condilomi acuminati, droghe iniettive.

Introduzione Le malattie sessualmente trasmesse (MST) sono un gruppo eterogeneo di infezioni causate da molteplici patogeni che si trasmettono obbligatoriamente o preferenzialmente attraverso i rapporti sessuali (Tabella 1). Questi microrganismi possono infettare lo stesso soggetto contemporaneamente tra loro determinando nello stesso individuo diversi quadri clinici e questa evenienza è possibile in quanto alcuni di questi patogeni sembrano possedere un’azione sinergica nel meccanismo di trasmissione, nella patogenesi e nel decorso clinico di queste malattie infettive. Tutte le MST (ad eccezione dell’infezione da virus dell’epatite B) non conferiscono immunità. Di particolare interesse è oggi il capitolo relativo all’acquisizione di MST nei consumatori di sostanze d’abuso: l’associazione tra queste sostanze, comportamento sessuale e MST è noto da tempo dal momento che le sostanze d’abuso possono avere effetti rilevanti sul comportamento sessuale che variano in base alla tipologia della sostanza, quantità, modalità di assunzione e periodo d’uso portando il soggetto che ne faccia uso all’adozione di pratiche sessuali

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Tabella 1 - Malattie a trasmissione sessuale Agente patogeno

Malattie o sindrome associata

Batteri Neisseria gonorrhoeae

Uretrite, cervicite, bartolinite, proctite, faringite, salpingite, epididimite, amniosite

Chlamydia tracomatis - sierotipo L1,L2,L3 - sierotipo D-K

Linfogranuloma venereo Uretrite, cervicite, proctite,epididimite, prostatite,salpingite

Ureaplasma uralyticum U. parvum Mycoplasma genitalium M. hominis

Uretrite, cervicite, salpingite

Treponema pallidum

Sifilide

Gardnerella vaginalis Mobilunculus curtisii M. muliebri

Vaginosi batterica

Haemophilus ducrey

Ulcera venerea

Calymmtobacterium granulomatis Shigella spp. Campylobacter spp. Helycobacter cinaedi H. fenneliae

Donovanosi (granuloma inguinale) Shigellosi (rapporti anali) Enterite , proctocolite (rapporti anali) Proctocolite, batteriemia (in AIDS= Acquired Immune Deficiency Syndrome)

Virus Human Immunodeficiency Virus (HIV)

Malattia da HIV, AIDS

Herpes simplex virus 1 e 2 (HSV 1,2)

Herpes simplex genitalis

Papillomavirus (HPV)

Condilomi, carcinomi

Virus epatitici maggiori (HAV, HBV, HCV, HDV)

Epatite

Citomegalovirus (CMV)

Sindrome similmononucleosica

Virus di Epstain-Barr (EBV)

Infezioni da EBV

Poxvirus

Mollusco contagioso

HTLV-1

Leucemia o linfoma a cell T dell’adulto, paraparesi spastica tropicale

HHV-8

Sarcoma di Kaposi, linfoma, Malattia di Castelman multicentrica

Protozoi Trichomonas vaginalis

Vaginite, uretrite, balanite

Entamoeba histolytica

Amebiasi (rapporti anali)

Giardia lamblia

Giardiasi (rapporti anali)

Miceti Candida albicans

Vulvovaginite, balanite, uretrite

Epidermofiti, tricofiti

dermatomicosi

Parassiti

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Phtirius pubis

Pediculosi pubica

Sarcoptes scabiei hominis

Scabbia umana

Enterobius vermicularis

Proctite


Infezioni a trasmissione sessuale

a rischio (scambio di sesso per droga o denaro, mancata utilizzazione di metodi di barriera) e a una diminuzione delle capacità di controllo volontario del comportamento che diviene più disinibito (Tabella 2) [1].

Malattie batteriche sessualmente trasmesse Sifilide La sifilide è una MST molto frequente negli utilizzatori abituali di droghe [2], è caratterizzata da un’alta contagiosità e, in assenza di trattamento, ha un’evoluzione cronica con manifestazioni per lo più intermittenti. L’agente eziologico è il Treponema pallidum, un batterio elicoidale della classe delle spirochete le cui estremità terminano con un sottile filamento caratteristico che consente la diagnosi differenziale con altri treponemi responsabili di treponematosi endemiche non veneree [3]. Il T. pallidum è un parassita tessutale (diversamente da altre spirochete che sono principalmente parassiti del sangue) e l’infezione si contrae per contatto diretto con cute e mucose anche con minime lesioni. In seguito, il microrganismo migra attraverso i capillari verso i linfonodi regionali dove si moltiplica. Le modalità di contagio possono essere essenzialmente tre: la trasmissione sessuale, la trasmissione materno-fetale e il contagio professionale. La possibilità riguardo a contagi accidentali (“il bicchiere del bar”, “il water”) è dubbia dato che il treponema soccombe in pochi minuti libero nell’ambiente. Altrettanto improbabile è la contagiosità attraverso una trasfusione di sangue: sia grazie ai test attualmente in uso per la diagnosi precoce (anche se è possibile in linea ipotetica se il portatore è in fase pre-sierologica) sia alla impossibilità del T. pallidum di sopravvivere alle usuali condizioni di conservazione del sangue odierne. La sifilide è una malattia infettiva con obbligo di notifica (entro le 48 ore dalla diagnosi). – Sifilide acquisita La fase di incubazione va dal momento del contagio alla comparsa del sifiloma e dura in media 3 settimane [4]. Il periodo primario (sifilide acquisita primaria) è caratterizzato dalla comparsa del “sifiloma primario” (lesione al-

Eziologia e vie di contagio nei consumatori di sostanze d’abuso

Tabella 2 - Parametri del comportamento sessuale in base agli effetti di alcune sostanze d’abuso (modificata da Rezza G et al. Ann Ist Super Sanità 2000) Effetto Sostanza Inibizione Libido Potenza Erezione

Qualità dell’orgasmo n

Durata del coito

Acido lisergico

i

n

n

n

n

Amilnitriti

i

n

h

hh

hhh

hhh

Anfetamine

ii

h

n

n

hh

hh

Cocaina

iii

h (ii)

hh

h (i)

hh

hh

Eroina

i

iii

ii

i

i

i

Marijuana

ii

n/i

n (ii)

n

n

n

n = effetto non rilevabile i = moderata depressione; ii = depressione; iii= significativa depressione h = moderato aumento; hh = aumento; hhh= significativo aumento ( ) = tra parentesi vengono indicati gli effetti in caso di uso prolungato

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Il periodo primario della sifilide acquisita è caratterizzato dalla comparsa del sifiloma

Dopo un periodo di latenza, in assenza di terapia, si passa al periodo secondario

Le lesioni assumono diversi aspetti clinici a seconda della sede dell’interessamento mucoso e/o cutaneo

tamente contagiosa, pullulante di treponemi) costituito da un’esulcerazione (superficiale, interessante l’epidermide e gli strati superficiali dermici) o da un’ulcerazione (più profonda, a livello dermo-ipodermico) generalmente unica (ma può essere multipla). Le sedi più frequenti sono quelle delle mucose e delle semimucose, come i genitali esterni (Figura 2), ano e bocca (Figura 1). Altre sedi possibili sono i capezzoli, l’ombelico, le ascelle, le dita (in teoria non esistono zone realmente esenti da interessamento). Generalmente è riferito come “indolente”. Raggiunge la sua massima estensione in 1-2 settimane, quindi regredisce spontaneamente. Contemporaneamente le spirochete si moltiplicano e diffondono per via linfatica (si ha una linfangite) prestandosi ad interessare i linfonodi regionali (la così detta adenopatia satellite). In caso di sifiloma orale questa reazione linfonodale è molto intensa, mentre potrebbe non essere apprezzabile clinicamente i sifilomi rettali, cervicali e vaginali. La linfadenopatia satellite è solitamente monolaterale e anch’essa regredisce spontaneamente. Segue una fase di latenza clinica della durata di 20-40 giorni a cui segue (senza l’opportuna terapia) la successiva fase. Il periodo secondario (sifilide acquisita secondaria) è caratterizzata dall’insorgenza di manifestazioni cutanee, mucose (raramente viscerali o nervose) dovute alla diffusione linfatica ed ematogena dei treponemi. A queste possono accompagnarsi sintomi sistemici quali febbre, malessere, cefalea, poliartralgie e dolori ossei intensi (osteocopi, espressione di focolai periostitici). Se non curata nel frattempo questa fase è caratterizzata da riacutizzazioni e periodi asintomatici della durata di 2-3 anni. Le manifestazioni più frequenti e caratteristiche di questa fase sono essenzialmente due: la roseola sifilitica e il sifiloderma papuloso secondario (Figura 3). La roseola sifilitica (o sifiloderma maculare) è costituita da macule e chiazze di 5-15mm di diametro, disseminate al tronco, solitamente di color rosa pallido. La regressione avviene spontaneamente in 7-10 giorni. Il sifiloderma papuloso secondario, invece, è caratterizzato da fasi eruttive interessanti cute e mucose alternate a periodi di latenza clinica. Il numero degli elementi può andare da pochi sino a un centinaio e la loro morfologia può essere molto variabile (questo polimorfismo ne sottolinea la difficoltà diagnostica). Sotto la squama, la crosta, l’ulcerazione e la necrosi però riscontriamo la presenza di papule. La fine desquamazione disposta ad orletto perilesionale circolare detta collaretto di Biett (Figura 4) non è costante né specifico. Il sifiloderma palmo-plantare (Figura 5) non è papuloso, ma infiltrativo ed è talmente caratteristico da aiutare nella diagnosi clinica, tranne che nei soggetti di razza negroide in quanto la fisiologica pigmentazione a macule e chiazze palmo-plantari può porre problemi diagnostico-differenziali. Figura 1 - Sifiloma bocca

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Figura 2 - Sifiloma penieno


Infezioni a trasmissione sessuale

Figura 3a/b/c - Sifiloma papuloso secondario a

b

c

Figura 4 - Collaretto di Biett

Figura 5 - Sifiloderma palmare

A livello genitale e perineale, il sifiloderma secondario è caratterizzato da lesioni papulo-erosive, spesso ulcerate, estremamente contagiose (condilomi piani). I solchi naso-genieni e la regione mentoniera sono spesso interessati rispettivamente da lesioni con aspetto seborroico e papule acneiformi. A livello della mucosa orale possono essere apprezzabili lesioni eritematose, ragadi sia linguali che delle commissure labiali, aree ovalari (dette “placche lisce”) costituite da atrofia delle papille o placche biancastre lattiginose a pastiglia (dette “placche opaline”) a livello linguale[3]. Sempre a livello mucoso è da segnalare la sifilide gastrica [5] la cui diagnosi è in costante aumento. Le manifestazioni cliniche comprendono dolore addominale, vomito, perdita di peso. Le complicazioni includono ulcerazioni, emorragie e perforazioni. Altre manifestazioni tegumentarie e annessiali comprendono l’alopecia a livello delle sopracciglia con il caratteristico interessamento del terzo distale, mentre

La sifilide si manifesta anche a carico degli annessi

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Lo stato di latenza che segue il periodo secondario può perdurare per 10-20 anni e portare al rapido sviluppo del periodo terziario Durante la sifilide terziaria qualunque organo può essere interessato, ma è sempre responsiva al trattamento con la penicillina

Durante la gravidanza è possibile il contagio del feto

in sede temporo-parietale si possono riscontrare delle chiazze alopeciche areolari (chiazze non completamente decalvate su un cuoio capelluto apparentemente indenne). Il coinvolgimento successivo dell’organismo da parte del T. pallidum viene gradualmente controllato dal sistema immunitario di modo che il quadro clinico solitamente scompare del tutto, mentre gli esami sierologici permangono positivi. A questo punto, la storia naturale della sifilide non trattata prevede lo stato asintomatico o di latenza che può durare sino a 10, 20 anni o portare al rapido sviluppo della sifilide terziaria [6]. Si distingue la fase di latenza in una forma precoce (entro un anno dall’infezione) e in una forma tardiva (oltre un anno dall’infezione). Il periodo terziario (sifilide terziaria) è caratterizzato dall’insorgenza di complicazioni attualmente eccezionali (responsive alla terapia con penicillina). Le sedi maggiormente colpite sono la cute, l’apparato scheletrico, l’apparato cardiovascolare e il sistema nervoso. Nella sifilide latente (sierologicamente positiva) devono essere sempre ricercate le principali manifestazioni cliniche. A carico di cute e mucose si può sviluppare la sifilide tubero-ulcero-serpiginosa costituita da noduli dermo-epidermici raggruppati o disposti in formazione anulare o arciforme, duri alla palpazione, rosso-rameici, squamo crostosi (a volte con necrosi e ulcere) associati a fenomeni regressivi-cicatriziali e a estensione serpiginosa oppure le gomme (costituite da lesioni dermo-ipodermiche) il cui substrato istologico è un infiltrato granulomatoso cronico a tipo tubercoloide, indolori e prive di treponemi, che successivamente ulcerano con fuoriuscita di materiale simile a gomma fusa. Queste gomme possono formarsi anche sulla lingua, fegato, cuore, cervello. A carico dell’apparato scheletrico le sedi più frequenti in cui possiamo trovare le gomme sono quelle in prossimità di superfici ossee (la volta palatina, le cartilagini nasali, etc) o nelle ossa stesse. A carico dell’ apparato cardio-vascolare caratteristica è l’aortite luetica, in cui si ha infiltrazione della tonaca media da parte delle spirochete e formazione di aneurismi sacciformi. A livello del sistema nervoso è caratterizzata da lesioni a livello meningeo, vascolare e/o parenchimale. I quadri clinici più temuti della neuro sifilide sono la tabe dorsale e la paralisi progressiva. – Sifilide congenita Qualora la sifilide della madre non venisse riconosciuta o sia stata trattata tardivamente o insufficientemente è possibile il contagio fetale [4]. Nel caso in cui l’infezione sia stata massiva e precoce è possibile avvenga un aborto spontaneo con l’espulsione di un feto morto e malformato. Altrimenti il feto può nascere ed evidenziarsi nei periodo dopo la nascita (giorni/settimane) una sintomatologia caratterizzata da manifestazioni cutanee (papule del tronco, bolle palmo plantari o sifiloderma pemfigoide, ragadi alle commessure labiali), mucose (erosioni orali, corizza con rinorrea purulenta) e viscerali (convulsioni, nefrite, epatosplenomegalia con ittero, osteocondrite, periostite, distacco epifisario delle ossa lunghe). Successivamente, la sifilide tardiva (in genere dal settimo anno di età) si può manifestare con altri aspetti, ancora polimorfi, quali alterazioni ossee come le “tibie a sciabola”, i denti di Hutchinson, cheratite, sordità e altri ancora. La sierologia è sempre positiva, anche se l’unico dubbio si può avere nelle prime settimane di vita del neonato dove può risultare difficile la distinzione tra gli anticorpi materni trasferiti passivamente e quelli prodotti dal neonato. Diagnosi di laboratorio La diagnosi di sifilide può essere posta in due modi: evidenziando direttamente il treponema con la microscopia in campo oscuro (utile sostanziamente solo sul sifiloma essudante) oppure, per via indiretta, dimostrando la presenza di anticorpi specifici. Fondamentalmente oggi la diagnosi viene posta

144


Infezioni a trasmissione sessuale

con la sierologia che si avvale di metodiche sufficientemente standardizzate, affidabili e poco costose. Le tecniche maggiormente utilizzate sono i test non treponemici (reaginici) in cui la reazione di agglutinazione avviene con antigene cardiolipidico, tra cui abbiamo la VDRL (Venereal Disease Reference Laboratory), la RPR (Rapid Plasma Reagin), meno sepcifico e meno utilizzato della VDRL; mentre nei test treponemici (specifici) vengono utilizzati sia quelli in cui abbiamo una reazione di emoagglutinazione treponemica, come il TPHA (Treponemal Pallidum haemo-agglutination Assay), il MHATP (Microhaemoagglutination Treponema Pallidum) e l’FTA-Abs ( Fluorescent Treponemal Antibody Absorptio Test) e quelli in cui utilizzano delle reazioni immunoenzimatiche, come l’ELISA IgG+IgM e l’ELISA TmpA. Più sensibili e specifici, ma più costosi e indaginosi sono il Western-Blot IgM e IgG. Per quanto riguarda la neurosifilide una diagnosi di certezza si ha nel caso in cui coesistano nell’analisi del liquor cefalorachidiano la positività dei test non treponemici (VDRL >1:32), l’albuminorrachia con > 40mg% di proteine e la citometria liquorale con un quantitativo cellulare > 5/mm3.

I test treponemici e non treponemici aiutano nel porre la diagnosi

Trattamento Le penicilline parenterali rappresentano il trattamento di prima scelta, con ricorso alle tetracicline laddove sia accertata una allergia alla penicillina. Nella gravida con presunta allergia alla penicillina non è più consigliata l’eritromicina, ma è opportuno l’esecuzione di test allergologici per la conferma dell’allergia e quindi si effettua una desensibilizzazione (Tabelle 3 e 4). La terapia va estesa anche ai partner sessuali, previa esecuzione dei test e, nei partner sieronegativi, i test andrebbero ripetuti dopo 3 mesi nei casi di sifilide primaria, a 6 mesi per quella secondaria e a 1 anno per la forma latente [7]. Dopo 1-2 ore dall’assunzione dell’antibiotico è possibile che si sviluppi una reazione (di Jarisch-Herxheimer) caratterizzata da febbre, cefalea, dolori muscolari e ossei a cui si può accompagnare l’esacerbazione dei sintomi cutanei [8]. L’origine è da ricondursi a una reazione infiammatoria sistemica immunomediata causata dalla lisi dei microrganismi con rilascio di grandi quantità di antigeni batterici in circolo. Il trattamento si avvale di una terapia di supporto dal momento che la sintomatologia generalmente migliora in 24 ore [9].

Tabella 3 - Terapia per la sifilide acquisita (primaria o secondaria o latente precoce )

Terapia di prima istanza

Allergia alla penicillina

HIV +

Adulti

Penicillina-Benzatina G Doxiciclina 100 mg 1+1 cp/dì per 14 giorni 2.400.000 UI i.m. in unica somministrazione Tetraciclina 500 mg per os 1+1+1+1 cp/dì per 14 giorni Azitromcicina 2 g in unica somministrazione Ceftriaxone 1000 mg 1/dì IM o EV per 8-10 giorni

Penicillina-Benzatina G 2.400.000 UI i.m. alla settimana per 3 settimane Doxiciclina 100 mg 1+1 cp/dì per 28 giorni Tetraciclina 500 mg per os 1+1+1+1 cp/dì per 28 giorni

Gravidanza

Penicillina-Benzatina G 2.400.000 UI i.m. in unica somministrazione in regime di ricovero ospedaliero ed un’altra dose a distanza di una settimana

Desensibilizzazione + Penicillina-Benzatina G 2.400.000 UI i.m. in unica somministrazione in regime di ricovero ospedaliero e un’altra dopo 1 settimana

Penicillina-Benzatina G 2.400.000 UI i.m. alla settimana per 3 settimane

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Tabella 4 - Terapia per la sifilide acquisita tardiva o latente da più di un anno (o di durata sconosciuta)

Terapia di prima istanza

Allergia alla penicillina

HIV +

Adulti

Penicillina-Benzatina G 2.400.000 UI i.m. alla settimana per 3 settimane (giorno 1-8-15)

Doxiciclina 100 mg 1+1 cp/dì per 28 giorni Tetraciclina 500 mg per os 1+1+1+1 cp/dì per 28 giorni

Penicillina-Benzatina G 2.400.000 UI i.m. alla settimana per 3 settimane Doxiciclina 100 mg 1+1 cp/dì per 28 giorni Tetraciclina 500 mg per os 1+1+1+1 cp/dì per 28 giorni

Gravidanza

Penicillina-Benzatina G 2.400.000 UI i.m. alla settimana per 3 settimane (il primo trattamento in regime di ricovero ospedaliero ≥ 24h)

Desensibilizzazione + Penicillina-Benzatina G 2.400.000 UI i.m. in unica somministrazione in regime di ricovero ospedaliero

Penicillina-Benzatina G 2.400.000 UI i.m. alla settimana per 3 settimane

Sifilide cardiovascolare, gomme: Penicillina-Benzatina G 2.400.000 UI i.m. alla settimana per 3 settimane (giorno 1-8-15) Neurosifilide e sifilide oculare: Penicillina G acquosa cristallina 12-24.000.000 UI/die (2-4.000.000 UI e.v. ogni 4 ore) per 10-14 giorni Procaina-penicillina 2.400.000 UI i.m. 1 fl/die per 10-14 giorni + Probenecid 500 mg 4 cpr/die per 10-14 giorni Penicillina-Benzatina 500.000 U i.m. o e.v. ogni 6 ore + Probenecid 500 mg 4 cpr/die per 17-21 giorni Penicillina-Benzatina 18-24.000.000 UI e.v./die (3-4.000.000 UI ogni 4 ore) per 17 giorni Se allergia alla penicillina: Penicillina dopo procedure di desensibilizzazione Doxiciclina 100 mg 2 cpr/die per 4 settimane

I tempi del follow-up variano in base alla fase di sviluppo della sifilide e in base all’interessamento d’organo

Follow-up Dopo i vari trattamenti è opportuno effettuare degli esami di controllo a distanza di tempo (Tabella 5) per confermare la guarigione, in quanto il titolo della VDRL dovrebbe scendere progressivamente come prova dell’adeguatezza del trattamento e se si sono utilizzate terapie alternative alla penicillina, dovrebbe essere ciclicamente controllato anche il liquor cefalorachidiano. Nei pazienti a cui è stata diagnosticata e curata la neurosifilide i controlli sierologici andranno effettuati più frequentemente (consigliati almeno ogni 3 mesi per 3 anni) e 2 volte all’anno andrebbe controllato il liquor [7]. Il paziente va avvertito che si può reinfettare in quanto la guarigione clinica non comporta immunità. Tabella 5 - Follow-up post trattamento della sifilide Adulti HIV-

6-12 mesi

Gravidanza

Prelievi alla 20-28-32 settimana di gestazione

Adulti HIV+ 3-6-9-12-24 mesi (e dopo 6 mesi anche un controllo del liquido cefalo-rachidiano)

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Infezioni a trasmissione sessuale

Gonorrea Sinonimi: scolo, blenorragia. La gonorrea è l’infezione da gonococco (Neisseria gonorrhoeae), diplococco Gram negativo, costituito da due elementi appaiati a “chicco di caffè” e incapsulati. Il gonococco è asporigeno e si divide per scissione trasversale ed è particolarmente labile agli agenti fisici e chimici. La sua membrana cellulare è dotata di microvilli con cui aderisce e penetra negli epiteli mucosi, dove si moltiplica provocando flogosi [10]. Le sedi predilette sono l’epitelio colonnare dell’uretra, il canale cervicale, il retto e la congiuntiva [11]. È suscettibile all’infezione anche l’epitelio vaginale cheratinizzato delle gravide, delle ragazze prepuberi e delle anziane, come pure le false vagine ricostruite con cute peniena (negli interventi finalizzati al cambio di sesso). Il periodo di incubazione, generalmente, varia da 2-4 giorni ad una settimana (per alcuni ceppi è ridotto a 12 ore), ma sono segnalati intervalli anche di 30-60 giorni. Gli esseri umani sono l’unico ospite e l’infezione non conferisce immunità [10]. Clinicamente si possono avere diversi quadri patologici determinati dal punto di inoculazione, sottotipo batterico, stato immunitario ospite. Frequentemente si hanno o infezioni localizzate alle mucose con sintomatologia tipica associata o infezioni localizzate asintomatiche [11] ed è possibile la contemporanea presenza di altre infezioni sessualmente trasmesse. La gonorrea è una malattia infettiva con obbligo di notifica (entro le 48 ore dalla diagnosi). Infezione gonococcica maschile L’uretrite è la forma di gonorrea non complicata più frequente nel maschio. Dopo un breve periodo di incubazione (1-6 giorni) si ha la comparsa al meato uretrale di prurito modesto, secrezione sierosa e disuria. L’ostio uretrale è solitamente infiammato e può essere presente una balanite (dovuta all’azione irritante delle secrezioni e all’infezione secondaria), come pure è possibile la fimosi. Nei casi più tipici la secrezione è giallo-verdastra a comparsa mattutina (la “goccia del bonjour”) anche se almeno il 10% dei pazienti è completamente asintomatico e viene identificato solo durante studi epidemiologici. Un trattamento tempestivo evita la comparsa delle complicazioni. Le complicanze delle uretriti gonococciche maschili sono ormai rare e si distinguono in locali (ascessi delle ghiandole periuretrali di Littrè, ascessi parauretrali, stenosi di Cowper per ascesso della ghiandola) e diffuse (come nella gonorrea ascendente con orchiepididimite e prostatite). Infezione gonococcica femminile La gonorrea nella donna, qualora sia sintomatica (esiste l’eventualità di portatrici sane), è caratterizzata nella sua forma acuta da una cervico-vaginite a carattere purulento ed emorragico con spotting vaginali se vi fosse l’interessamento endometriale. In realtà, in numerosi casi clinici si possono osservare soltanto leucorree isolate o lievi cerviciti [12]. Rara, ma possibile, l’uretrite (senza compartecipazione cervico-vaginale), caratterizzata da modesto bruciore e disuria, che va incontro a rapida guarigione spontanea. Le complicanze più comuni della gonorrea femminile sono caratterizzate prevalentemente dall’interessamento delle ghiandole del Bartolini e di quelle di Skene, mentre la complicanza più grave è costituita dalla salpingite gonococcica che può in taluni casi evolvere verso una pelvi-peritonite[13].

Gli esseri umani sono l’unico ospite del gonococco e l’infezione che ne deriva può essere asintomatica

La forma clinica non complicata più frequente nel sesso maschile è l’uretrite

Nella donna la gonorrea è spesso asintomatica

Infezione gonococcica extragenitale L’oftalmite gonococcica, unilaterale o bilaterale nell’adulto può essere dovuta all’auto inoculazione del gonococco con le mani contaminatesi attraverso il

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L’interessamento extragenitale è più frequente nella donna

La setticemia gonococcica è molto rara

La diagnosi batteriologica si basa sull’esame diretto del pus

A causa dello sviluppo di resistenza di alcuni ceppi di gonococco la terapia farmacologica può variare da caso a caso

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contatto urogenitale, mentre nei neonati avviene durante il passaggio nel canale del parto. Lacrimazione, bruciore e fotofobia sono i sintomi precoci.La gonorrea anorettale è un’affezione tipica dei rapporti sessuali anali, ma colpisce il 50% delle donne affette da gonorrea genitale come risultato di contaminazione per contiguità. Possono essere frequenti tenesmo ed esigua secrezione rettale. La gonorrea faringea è l’infezione è trasmessa per mezzo dei rapporti oro-genitali (e non attraverso i baci). La sintomatologia sia obbiettiva che soggettiva può essere lieve o del tutto assente (costituendo un possibile focolaio insospettato di contagio) [14]. La setticemia gonococcica è rara con circa lo 0,5-3% dei pazienti affetti dalla forma localizzata che arrivano a svilupparla. Di questa percentuale il 60-90% sono donne che sviluppano i sintomi entro il settimo giorno dalla mestruazione o da un parto o da un aborto. Generalmente la malattia disseminata è causata da una N. gonorrhoeae con il fenotipo della proteina IA (di raro riscontro nella popolazione omosessuale, dà raramente problemi locali ed è molto sensibile alla penicillina) e clinicamente si presenta con febbre intermittente, poliartriti (polsi, dita, ginocchia, caviglie) o oligoartriti, lesioni cutanee pustolose lenticolari circondate da un alone eritematoso (in sede acrale o sormontanti l’articolazione infetta, effimere e in numero esiguo). Complicanze rare, ma possibili, sono l’endocardite, l’epatite e la meningite. La diagnosi di setticemia gonococcica richiede la dimostrazione microscopica diretta di N. gonorrhoeae in sede extra e intracellulare o dimostrazione colturale su terreno di Thayer-Martin. La sierodiagnosi non è utile [12,13]. Diagnosi La diagnosi batteriologica si fonda sull’esame microscopico diretto del pus (colorato con Blu di Metilene secondo Janet o con il Gram) e su l’esame colturale (indispensabile nella donna dove la ricchezza della flora cervicovaginale normale oscura il quadro microscopico dello striscio) a livello di tutte le possibili “porte d’entrata”. Nella donna, nello specifico, la ricerca del gonococco andrebbe effettuata in quattro sedi: cervice uterina, uretra, faringe e ano [12,13,17]. Si riesce a isolare il gonococco dalle emocolture, dalle lesioni cutanee e dal liquido sinoviale in non più del 50% dei casi. Trattamento Il trattamento dell’infezione gonococcica è in continua evoluzione per la progressiva comparsa (con meccanismo plasmidico o cromosomico) di ceppi resistenti a uno o più antibiotici [18,19]. Per le infezioni non complicate i farmaci raccomandati sono il ceftriaxone (in un unica somministrazione da 250 mg per via intramuscolare), la cefixima (in un unica somministrazione da 400 mg per via orale) e la spectinomicina (in un unica somministrazione da 2 g per via intramuscolare) seppure è risultata essere inefficace nei confronti della gonorrea faringea [20]. I fluorochinolonici (quali ciprofloxacina, levofloxacina, ofloxacina) non sono più raccomandati data la frequente resistenza sviluppata dal gonococco e sono utilizzabili solo nel caso in cui vi sia la certezza attestata laboratoristicamente della sensibilità al farmaco del microorganismo. Dato che spesso vi è la concomitante infezione da Chlamydia trachomatis sarebbe opportuno associare un trattamento attivo anche su questo microorganismo (ad es. azitromicina 1 g in un’unica dose). Per le infezioni complicate, invece, i trattamenti d’elezione vengono distinti in base all’interessamento d’organo [20]. Fondamentale il trattamento dei partner sessuali anche nel caso risultino negativi agli opportuni accertamenti.


Infezioni a trasmissione sessuale

Infezioni da Chlamydia trachomatis La C. trachomatis è un batterio parassita intracellulare obbligato di cui esistono diversi sierotipi, tra questi quelli designati dalle lettere D, E, F, G, H, I, J, K sono responsabili di infezioni oculo-genitali, mentre i sierotipi L1, L2, L3 sono gli agenti eziologici del linfogranuloma venereo (Malattia di Nicholas Favre) [21]. Attualmente la C. trachomatis (sierotipi D-K) costituisce la causa più frequente di uretriti non gonococciche (20-50% dei casi) ed è anche il principale agente eziologico delle cervicovaginiti [22,23]. Il periodo di incubazione è alquanto variabile, potendo andare da pochi giorni ad alcuni mesi e nella metà dei casi l’infezione è totalmente asintomatica. Qualora insorgessero, le manifestazioni cliniche più comuni sono nell’uomo un’uretrite con secrezione trasparente di lieve entità, disuria e pollachiuria, mentre nella donna si ha uretrite e una leucorrea con cervicite evidenziabile all’esame con lo speculum. Nei soggetti che hanno rapporti esclusivamente anali, invece, si ha una proctite e una ano-rettite. La guarigione non conferisce immunità. Le complicanze delle infezioni genitali maschili e femminili, ad oggi, sono caratterizzate principalmente nei maschi da un’orchiepidedimite che se lasciata decorrere senza terapia può assumere un carattere nettamente flogistico, nella donna è la prima causa di salpingite, di sterilità da fattori tubarici e di gravidanze extrauterine. Sono possibili, inoltre: pelvi peritoniti e peri epatiti (Sindrome di Fitz-Hugh-Curtis). Le principali complicanze nel neonato nato con parto naturale da madre infetta sono l’oftalmia neonatale e la polmonite neonatale. Diagnosi Nel maschio si effettua un tampone uretrale (spinto almeno sino a 4 cm dal meato per ottenere cellule epiteliali) su cui sono effettuabili sia la coltura cellulare che la PCR (Polimerase Chain Reaction, reazione di amplificazione del DNA batterico) oppure, eventualmente è effettuabile la PCR anche sul mitto urinario iniziale (raccomandando ai pazienti di trattenere l’urina per almeno 6 ore prima del test). Nella donna si esegue un tampone sul collo uterino e a livello endouretrale su cui si può effettuare sia la coltura cellulare che la PCR. La diagnostica sierologia non è dirimente quando l’infezione riguardi le basse vie genitali, di contro, può essere di valido supporto quando ci trovassimo di fronte al sospetto delle complicazioni in cui vi sia un interessamento delle “alte” vie genitourinarie [23]. Trattamento Nelle infezioni non complicate di uomini e donne la somministrazione per via orale di 1 grammo di azitromicina in un’unica dose (anche per le donne in gravidanza) è efficace quanto una settimana di cura con tetracicline (doxiciclina 100 mg 2 volte al giorno o minociclina 100/200 mg al giorno o tetraciclina cloridrato 500 mg 4 volte al giorno). Una buona alternativa per le gravide è l’eritromicina etilsuccinato (800 mg 4 volte al giorno per 7 giorni) o l’amoxicillina 500mg 3 volte al giorno per 7 giorni. [24] – Linfogranuloma venereo (LGV). Il LGV (malattia di Nicholas-Favre o linfogranuloma venereo inguinale subacuto) è una malattia causata dai sierotipi L1, L2 o L3 frequente nei paesi tropicali e subtropicali, mentre è sempre stata considerata rara nel resto del mondo [25]. Negli ultimi anni, però, è riportato un aumento dell’incidenza di questa patologia infettiva negli Stati Uniti, in Canada, Australia ed Europa [25-27]. Il decorso clinico è suddivisibile in 3 stadi. Il primo è quello della lesione primaria, quando dopo circa 14 giorni

La metà dei casi di infezione è asintomatica

La diagnosi sierologica è utile solo in caso di complicanze

La terapia d’elezione è l’azitromicina

Tre sono gli stadi del linfogranuloma venereo in assenza di terapia

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di incubazione è possibile reperire una papula asintomatica che evolve verso una lesione papulo-vescicolosa o papulo-pustolosa che va incontro ad ulcerazione. Negli uomini è spesso localizzata al glande, sul solco coronale sul prepuzio, nella donna sulla vagina o sulla cervice, in caso di rapporti rettali vi può essere un riscontro anche a questo livello. Queste lesioni spesso sono ignorate e scambiate per un sifiloma o una lesione traumatica o erpetica. Quindi, c’è lo stadio del bubbone, caratterizzato dalla linfadenopatia inguinale (generalmente monolaterale) a carattere infiammatorio, satellite della lesione genitale o rettale. Consegue una colliquazione spontanea del pacchetto linfonodale che può fistolizzare a livello della cute seguendo diversi tragitti (poroadenite). La rettite acuta è caratterizzata da dolori, tenesmo e secrezione muco purulenta. È possibile il riscontro di febbre, astenia,la comparsa di esantemi, artralgie, segni di interessamento meningeo (rigidità nucale e cefalea), epatiti e congiuntiviti. In ultimo abbiamo lo stadio dell’elefantiasi, caratterizzata anorettite proliferante, stenosante e necrotizzante, con fistole retto vaginali, elefantiasi perineale e genitale (il complesso elefantiasi rettaleperineale è conosciuto come Sindrome di Jersild), in relazione al blocco del drenaggio linfatico. Diagnosi La diagnosi si effettua sul materiale prelevato a livello uretrale, rettale o linfonodale coltivato su linee cellulari adeguate (HeLa229 o Mc Coy): sono così possibili l’isolamento del germe e la determinazione del sierotipo (per mezzo di anticorpi monoclonali). Indirettamente la diagnosi si effettua sierologicamente con il riscontro di titoli elevati di anticorpi anti clamidia (>1/64) per mezzo della fissazione del complemento e dell’immunofluorescenza (con la presenza di anticorpi di classe IgM). La terapia d’elezione è la doxiciclina

Trattamento La terapia d’elezione è la doxiciclina (100 mg 2 volte al giorno per os) per almeno 21 giorni (preferibili 4-6 settimane), mentre in alternativa si può utilizzare l’eritromicina base (500 mg 4 volte al giorno) per 21 giorni [28]. Un trattamento possibile è costituito dall’azitromicina 1g/settimana in compresse per 3 settimane [20]. L’evacuazione del bubbone mediante ago-aspirato, eventualmente ripetuta, previene la fistolizzazione, mentre l’incisione chirurgica è controindicata.

Malattie virali sessualmente trasmesse L’Herpes simplex si trasmette per contatto cutaneo e/o mucoso diretto

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Herpes simplex L’herpes simplex è un virus a DNA a doppia elica con struttura icosaedrica che infetta permanentemente la sua cellula bersaglio. Se ne conoscono due tipi: l’herpes simplex di tipo I (HSV-1) e l’herpes simplex di tipo II (HSV-2) distinti per caratteristiche strutturali [29]. L’HSV-1 infetta soprattutto la regione alta del corpo e si trasmette per contatto diretto (tramite le lesioni erpetiche o la saliva dei portatori sani), mentre l’HSV-2 è il responsabile principale dell’herpes genitale e dell’herpes del neonato (che si infetta durante il passaggio nel canale del parto). In realtà, questa distinzione non è considerata più assoluta, potendo entrambi prestarsi ad interessare qualsiasi superficie cutanea e mucosa. Possibili, ma rare, le manifestazioni viscerali. L’HSV si trasmette per contatto cutaneo e/o mucoso diretto. La trasmissione è favorita da discontinuità o alterazioni del rivestimento epiteliale. Una volta penetrato


Infezioni a trasmissione sessuale

il virus si moltiplica nelle cellule infettate, quindi passa lungo i nervi sensitivi sino a localizzarsi nei gangli nervosi corrispondenti [30]. Lo stato di latenza è caratterizzato dalla persistenza del genoma virale in alcuni neuroni (in forma non integrata al genoma cellulare), rendendosi, così, poco accessibile all’azione del sistema immunitario e dei farmaci che agiscono durante la sola replicazione del virus [31]. Clinica Le lesioni cutaneo-mucose compaiono secondo una sequenza particolare: infezione primaria, latenza, infezioni erpetiche ricorrenti [30]. Solitamente benigna l’infezione primaria erpetica può passare inosservata (difatti, la maggior parte degli adulti è portatrice di anticorpi, ma non ricorda l’herpes iniziale), qualora si evidenziasse, però, due sono i quadri clinici più comuni. La gengivo-stomatite erpetica acuta, dovuta all HSV-1 che si manifesta per lo più nei bambini tra i 6 mesi e i 3 anni (oltre alle tipiche lesioni erpetiche vescicolose a grappolo, vi può essere febbre con temperature > 39° C e adenomegalie cervicali) con evoluzione favorevole in 10-15 giorni. L’altro quadro è la cosiddetta infezione primaria erpetica genitale che può essere causata sia dall’HSV-1 che dall’HSV-II [32,33] e causata sia da rapporti oro-genitali che da auto-inoculazione di un herpes in altra sede corporea. La sintomatologia di quest’ultima forma è caratterizzata nella donna dalla comparsa di una vulvovaginite acuta, estremamente dolorosa, accompagnata da febbre, malessere e adenomegalie inguinali dolorose. La vulva è tumefatta e interessata da erosioni e/o afte con eventuale interessamento vaginale e/o anale. Nell’uomo la sintomatologia sistemica è meno drammatica, mentre localmente sono presenti vescicole ed erosioni solitamente a livello del glande e nel solco sottocoronale. Altre sedi comuni in cui è possibile la manifestazione primaria sono la cutanea pura che può presentarsi in qualsiasi sede corporea (patereccio erpetico alle dita, herpes gladiatorum ai glutei, ecc.), oppure la forma oculare che si presenta come una cheratocongiuntivite unilaterale acuta, con vescicole sulla palpebra edematosa e adenopatia retro-auricolare [30].

Nel caso in cui si manifesti l’infezione primaria erpetica varia in base alla sede colpita

Infezioni primarie erpetiche gravi – Immunodepressi Le lesioni cutanee e mucose sono quasi sempre imputabili all’ HSV-1 e sono generalmente estese e necrotizzanti con eventuale interessamento viscerale (meningoencefalite, polmonite ed epatite fulminante). – Sindrome di Kaposi- Juliusberg (o eczema herpeticum o eruzione varicelliforme di Kaposi). Infezione erpetica caratterizzata da una dermatite vescico-pustolosa a carattere talvolta emorragico che partendo a livello di una dermatosi preesistente (ad esempio in corso di dermatite atopica) o a seguito di ustioni o erosioni si diffondono anche in altre sedi cutanee sane con sintomi sistemici quali febbre elevata e grave compromissione dello stato generale, a cui si possono associare complicazioni meningoencefalitiche o viscerali [34,35]. – Nei neonati L’herpes nel neonato pur essendo molto raro è estremamente grave [36,37]. La trasmissione in utero avviene se la madre è colpita dall’infezione primaria durante la gravidanza e possono seguire: aborto, ritardo di crescita intrauterina, lesioni oculari, cardiache e del sistema nervoso. La trasmissione peri partum però è la più frequente, mentre il contagio post partum è dovuto più che altro ai familiari e il virus in causa è per lo più l’HSV-1. Le forme neurologiche

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(meningo-encefaliti) sono quelle più frequenti, mentre la forma disseminata (coinvolgimento multi viscerale) è più rara.

L’infezione ricorrente presenta solitamente l’interessamento della stessa sede corporea

Infezione erpetica ricorrente Quasi il 100% della popolazione adulta ospita l’HSV allo stato latente ed è potenzialmente esposto al rischio di recidiva [38]. A seguito di un fattore scatenante (un’infezione, il ciclo mestruale, un’esposizione solare acuta, rapporti sessuali) e nel momento in cui vi sia un calo transitorio dell’immunità cellulare è possibile la riattivazione del virus. La modalità clinica con cui si manifesta è stereotipata: senso di bruciore, formicolio, prurito, comparsa di una o più chiazze eritematose, quindi, formazione di vescicole distribuite a “grappolo” che confluiscono a formare bolle che vanno incontro a rottura ed erosione con la formazione di una o più croste che cadono nel giro di alcuni giorni. Generalmente recidiva sempre nella stessa sede, determinata dalla localizzazione dell’infezione primaria. In corso di immunosoppressione acquisita o congenita le recidive sono frequenti, atipiche e a evoluzione prolungata. I cosiddetti herpes cutaneo-mucosi cronici assumono spesso l’aspetto di ulcere a fondo necrotico con ai margini delle vescico-pustole su cui si dovrebbe effettuare il prelievo bioptico per l’immunofluorescenza diretta e le colture virali necessarie per la diagnosi. Inoltre, negli immunodepressi è frequente l’interessamento viscerale da parte del virus con il possibile sviluppo di un’epatite, meningoencefalite e polmonite (il più delle volte associati all’HSV-1). – Eritema polimorfo A distanza di 15 giorni dalla gittata erpetica è possibile lo sviluppo di un eritema polimorfo severo che può seguire regolarmente tutte le recidive erpetiche (che ne sono la causa più frequente) giustificando così un trattamento antivirale profilattico a lungo termine [39]. Diagnosi Generalmente per porre diagnosi è sufficiente la clinica. Solo in alcuni casi particolari e in funzione del contesto (ad esempio gravidanza, neonato) può rendersi necessaria la dimostrazione del virus[40,41]. Le metodiche rapide sono costituite dall’esame citodiagnostico di Tzanck, dall’immunofluorescenza su materiale bioptico o colturale e dal test ELISA (Enzyme-Linked Immuno Sorbent Assay). La PCR solitamente è utile se eseguita su liquor per la diagnosi di encefalite erpetica, mentre la sierologia è utile solo in corso di infezione primaria. La diagnosi sierologica specifica per distinguere i due tipi di HSV utilizzando il Western Blot e il test della Glicoproteina G vengono ad oggi utilizzate per effettuare studi epidemiologici.

I farmaci ad oggi in uso agiscono durante la replicazione virale

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Trattamento Gli attuali trattamenti antivirali si oppongono alla moltiplicazione virale, ma sono inattivi sul virus quiescente nei gangli nervosi (Tabella 6) [42-44]. L’analogo guanosidico aciclovir (disponibile per via orale, intravenosa, cutanea e oftalmologica) malgrado più di 20 anni di impiego ha presentato rari casi di resistenza negli immunocompetenti. Il valaciclovir, l-valil-estere dell’aciclovir, è un pro farmaco la cui disponibilità è da 3 a 5 volte maggiore dell’aciclovir (permettendo così di ridurre la somministrazione orale). Altri farmaci chimicamente simili sono il famciclovir (disponibile per solo uso orale) e il penciclovir (per solo uso topico). Il foscarnet è un analogo organico del pirofosfato inorganico e il suo utilizzo nell’infezione da HSV è limitato alle forme resistenti negli immunodepressi. Il cidofovir è un analogo nucleotidico


Infezioni a trasmissione sessuale

Tabella 6 - Trattamento herpes oro facciale e genitale dell’adulto

Clinica

Herpes oro-facciale IP

Trattamento sistemico

Trattamento locale

ACV per os 200 mg 5 cp/die per 5-10 giorni

R

Trattamento curativo: ACV (ridotta efficacia a qualunque dosaggio) Trattamento preventivo (>6 recidive/anno): ACV 400 mg 2cp/die

Efficacia non provata: antivirali topici, antisettici, terapie fisiche (DTC, laser, irradiazione)

Herpes oculare

ACV 200 mg 5 volte in un giorno

ACV pomata oftalmica, ganciclovir gel, trifluridina collirio o pomata, idoxuridina soluzione per uso topico

Herpes genitale IP e non primaria

Per os: ACV 200 mg 5 cp/die per 5-10 giorni Valaciclovir 500 mg 2 cp/die per 7-10 giorni Famciclovir 250 mg 3 cp/die per 7-10 giorni Per iv: ACV 5 mg/kg/8h/die I trattamenti possono essere continuati per più tempo sino a completa guarigione clinica Donna gravida: ACV 400mg 3/die per 7-10 giorni Valaciclovir 500 mg 2/die per 7-10 giorni

R

Trattamento curativo: ACV 200 mg 5 cp/die per 5 giorni Valaciclovir 1 g/die per 10 Famciclovir 1 g 2 volte/die per 1 giorno Trattamento preventivo: (> 10 recidive/anno) ACV 400mg 2 cp/die Valaciclovir 500 mg per os 1 g 1 volta/die Famciclovir 250 mg 2 cp/die Donna gravida: come nell’IP

Immunodepressi Immunodepressione generica (herpes oro facciale e genitale) HIV+ (herpes genitale)

Altre terapie

Fotoprotezione in caso di herpes R solare Terapia del dolore

Terapia del dolore

Resiquimod 0,01% gel: in fase di studio

ACV e.v. 8-10mg/kg/8 h/die

Terapia soppressiva giornaliera: ACV 400-800 mg os 2-3 volte al giorno opp Famciclovir 500 mg 2 volte al giorno opp Valacyclovir 500 mg 2 volte al giorno Terapia per episodi ricorrenti: ACV 400 mg os 3 volte al giorno per 5-10 giorni opp Famciclovir 500 mg 2 volte al giorno per 5-10 giorni opp Valacyclovir 1 g 2 volte al giorno per 5-10 giorni

Cidofovir 1% gel 1 volta al giorno per 5 giorni

Terapia psicologica e del dolore

Resistenza all’ACV, Famciclovir, Valcyclovir: Foscarnet 40 mg/kg/8h Resistenza al foscarnet: Cidofovir 5 mg/kg ev 1 volta alla settimana sino a guarigione IP= Infezione Primaria; R= Recidivante; ACV= Aciclovir; ev=endovena; os= orale

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ad oggi utilizzato nella cura delle infezioni da HSV negli immunodepressi (se si riscontra resistenza al foscarnet) o in corso di infezione attiva da HSV e citomegalovirus insieme. Gli inibitori della elicasi-primasi, il vaccino e i microbicidi topici sono ancora in fase di studio, come anche il resiquimod gel 0,01% per l’herpes ano-genitale ricorrente [44].

Infezioni da Papillomavirus Esistono oltre 120 sierotipi di HPV

Il papilloma virus umano (HPV) appartiene al genere dei papilloma virus, non capsulati, dotati di un DNA circolare a doppio filamento, di cui se ne conoscono almeno 120 sierotipi (34 di essi mostrano uno spiccato tropismo per gli epiteli genitali) in grado di infettare l’uomo [46-53]. Il sempre maggiore interesse dimostrato nei confronti dell’ HPV è dovuto al fatto che nonostante molti causino lesioni benigne autolimitanti, alcuni sierotipi siano implicati nello sviluppo di neoplasie cutanee-mucose (Tabelle 7 e 8). Gli HPV sono dotati di uno spiccatissimo tropismo per gli epiteli squamosi pluristratificati dove inducono uno specifico effetto citopatogenico che si manifesta con la formazione del coilocita (cellula infettata in cui si ha un aumento del nucleo, ipercromasia e vacuolizzazione perinucleare). È da sottolineare come nelle neoplasie intraepiteliali indotte da alcuni sierotipi con proprietà oncogeniche la trasformazione neoplastica è associata all’integrazione di un grande numero di copie del DNA virale, mentre nelle lesioni benigne il DNA virale Tabella 7 - Principali manifestazioni cliniche muco-cutanee associate ad alcuni sierotipi di HPV Lesioni cutanee-mucose

Sierotipi HPV

Verruche plantari e palmari

1

Verruche a mosaico

2

Veruche piane

3,10,28,49

Verruche dei macellai

7

Cisti epidermoide

60

Epidermodisplasia verruciforme

5,8,9,12,14,15,17,19,20-25,36,47,50

Condilomi acuminati, tumore di Buschke-Loewenstein, papilloma laringeo

6,11

Papillomatosi del cavo orale (soprattutto negli HIV+)

72,73

Iperplasia epiteliale focale del cavo orale (malattia di Heck)

13,32

Displasia e carcinomi anogenitali

16,18,26,27,30,31,33-35,39,40,42-45,5159,61,62,64, 66-69,71-74

Cheratoacantoma

37

Carcinoma squamo-cellulare della cute

38,41,48

Papulosi bowenoide

16,18,33,39

Tabella 8 - Potenziale oncogeno degli HPV a tropismo ano genitale

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Potenziale oncogeno

Sierotipi HPV

basso rischio

6,11,42,43,44, 54,61, 70, 72, 81, 89

probabile alto rischio

26, 53,66,68,73,82

alto rischio

16, 18, 31, 33, 35, 39,45,51,52,56,58,59


Infezioni a trasmissione sessuale

non è integrato. Il fatto che il periodo di latenza tra l’infezione virale e lo sviluppo eventuale di una neoplasia sia molto lungo sembra indicare come il processo carcinogenetico necessiti di altri cofattori costituiti principalmente da fattori inerenti l’ospite (sesso femminile, HLA, patologie infettive genitali concomitanti,igiene precaria, immunodepressione congenita/acquisita, prostituzione) e fattori esogeni/ambientali (radiazioni ultraviolette, Raggi X, fumo di sigaretta, carcinogeni chimici). [54-57] Trasmissione L’HPV è trasmesso per contatto diretto (sia per le verruche che per i condilomi), ma per quanto riguarda i sierotipi a tropismo genitale le modalità più frequenti sono la trasmissione sessuale (dove si ha un periodo di incubazione che varia da 3 settimane a 8 mesi e dove il fattore di rischio più importante è rappresentato dall’alto numero di partner), la trasmissione materno-fetale (in caso di infezione materna in concomitanza con il passaggio nel canale del parto soprattutto per i sierotipi HPV 6 e 11) e la trasmissione connatale transplancetare in caso di infezione materna (HPV 16 e 18) [58]. Clinica – Condilomi anogenitali I condilomi ano genitali possono presentarsi clinicamente come macule o papule, a seconda della sede e della fase clinica [58,59]. I condilomi acuminati (“creste di gallo”) sono delle formazioni carnose, peduncolate, talvolta confluenti di color rosa-rosso vivo situate nella donna perlopiù a livello del vestibolo della vagina, grandi e piccole labbra, potendosi però estendere anche al perineo (Figura 6), vagina, uretra e al collo uterino; mentre nell’uomo le sedi più comunemente interessate sono il prepuzio, il frenulo, il solco balano-prepuziale e il meato uretrale (Figura 7). A questa presentazione tipica possono associarsi altre tipologie lesioni quali papule sessili multiple (Figura 8), verruche di tipo volgare, pigmentate o cheratosi che (Figura 9) localizzate a livello della cute della zona genitale e/o del perineo. I condilomi piatti, invece, si presentano come delle macule rosa o rosse (talvolta invisibili senza l’applicazione di acido acetico al 5% che in 5 minuti le evidenzia colorandole di bianco-grigio) localizzate esclusivamente a livello delle mucose e/o semimucose genitali. Alla colposcopia e alla peniscopia si presenteranno con la tipica punteggiatura vascolare che in caso mancasse richiederebbe una biopsia della zona sospetta per fugare il sospetto di neoplasia intraepiteliale. Figura 6 - Condilomi vulvo-perineali

La trasmissione avviene per contatto diretto

L’aspetto clinico delle lesioni mucocutanee varia in base alla sede corporea

Figura 7 - Condiloma del meato uretrale

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Figura 8 - Condilomi (papule sessili multiple anali)

Lo sviluppo del tumore è sempre associato a fattori predisponenti Il pene e la vulva sono le sedi più colpite

HIV e HPV interagiscono a livello molecolare favorendo l’infezione dell’uno e dell’altro

Figura 9 - Condilomi (placche cheratosiche asta)

– Tumore di Buschke-Loewenstein È un carcinoma spinocellulare a basso grado di malignità. È caratterizzato da una crescita lenta, ma localmente invasiva e destruente per i tessuti limitrofi. Solitamente si sviluppa a livello penieno (solco balano-prepuziale), ma simili tumori sono stati descritti anche a livello della mucosa anorettale e della mucosa genitale femminile. Il paziente può lamentare prurito, bruciore, dolore o tenesmo (a seconda della grandezza del tumore e/o della sede colpita). Al suo interno sono stati rinvenuti genomi di HPV-1 e 11. Tra i fattori predisponenti per il suo sviluppo sono annoverati l’immunosoppressione (pazienti sieropositivi al virus dell’immunodeficienza umana, trapiantati, neoplastici o diabetici), l’etilismo e la gravidanza [60,61]. – Papulosi bowenoide È considerata un carcinoma in situ a basso grado di malignità [62] associato I all’infezione persistente da alcuni sierotipi di HPV (in particolare gli HPV 16, 18, 31 e 33 sono stati quelli di più frequente riscontro) [60]. La papulosi bowenoide è così detta in quanto costituita da papule isolate, di numero variabili, in genere a superficie liscia o mammellonata, a volte desquamative, di color rosa o rosso-violaceo o brunastre. Le sedi più colpite sono il pene e la vulva, ma può manifestarsi anche a livello extragenitale con o senza contemporaneo coinvolgimento genitale [63-65]. Il decorso senza terapia può essere alquanto variabile, persistendo per mesi/anni o, regredire spontaneamente o progredire, seppur raramente, verso un carcinoma invasivo [66]. – HPV e infezione da HIV L’infezione da virus dell’immuodeficienza umana (HIV) modifica l’epidemiologia e l’evoluzione delle infezioni da HPV sia nell’uomo che nella donna. Dal 1993 il carcinoma invasivo della cervice uterina è entrato a far parte dei criteri di definizione Jdella sindrome da immuno deficienza acquisita (AIDS) [67,68]. In questa tipologia di pazienti le manifestazioni cutaneo-mucose dell’infezione da HPV sia benigne che maligne presentano un maggior carattere evolutivo, rispondono male ai trattamenti classici e tendono a recidivare più frequentemente che nei pazienti HIV negativi. Inoltre, è stato evidenziato in diversi studi come l’HPV e l’HIV interagiscano a livello molecolare facendo sì che l’HPV aumenti la possibilità di infettarsi con l’ HIV e ne faciliti la progressione [69]. Diagnosi La diagnosi clinica difficilmente presenta delle difficoltà, potendosi eventualmente avvalere del test con l’acido acetico al 5% per evidenziare lesioni non

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Infezioni a trasmissione sessuale

individuabili clinicamente o in fase iniziale per quanto riguarda i genitali esterni e dell’esame colposcopico (periscopico per il maschio) o al microscopio operatorio per quelli interni femminili [70]. Qualora si necessitasse di una diagnosi di certezza sulla natura della lesione ci si può avvalere dell’esame istologico e ultrastrutturale mediante prelievo bioptico. La diagnosi virologica è posta grazie a tecniche biochimiche di analisi molecolare del DNA basate sulla digestione con enzimi di restrizione e sull’ibridazione molecolare. I metodi immunologici (immunofluorescenza, immunoperossidasi) si servono di sieri immuni rivolti contro un antigene capsidico tipo specifico o contro un antigene comune a tutti i papilloma virus dopo rottura delle particelle virali (anche se non specificano il sierotipo di HPV coinvolto nell’infezione). Il test Hybrid Capture II (HC-II) oggi in commercio permette la distinzione tra 18 sierotipi e si basa su una tecnica di ibridizzazione molecolare con amplificazione del segnale chemioluminescente (i risultati sono semiquantitativi) [59]. Trattamento Nonostante sia descritta la regressione spontanea dei condilomi, l’astensione terapeutica non è giustificabile. Pur vero è che nessuna delle tecniche disponibili permette l’eradicazione del virus dai tessuti coinvolti: infatti, sono frequenti le recidive anche a distanza di anni e sono possibili risultati terapeutici incompleti. I trattamenti adeguati sono scelti in base alla tipologia clinica della lesione e alla sede. Per i condilomi presenti nei genitali esterni si possono utilizzare la podofillotossina topica applicata 2 volte al giorno per 3 giorni consecutivi per 2-3 settimane (non superando le 5 settimane) o l’imiquimod crema applicata 3 volte alla settimana (a giorni non consecutivi) sino a scomparsa clinica delle lesioni (non superando le 16 settimane). Le terapie fisiche sono ugualmente efficaci e ben tollerate e possono essere utilizzate sia per le lesioni esterne che per quelle interessanti le mucose (genitali e orali) e sono la crioterapia con azoto liquido, la diatermocoagulazione e il laser CO2. L’escissione chirurgica viene utilizzata generalmente per le masse lesionali più voluminose (come nel caso del tumore di Buschke-Loewenstein). Risultati variabili si sono ottenuti con l’immunoterapia locale (esteri dell’acido squarico) o sistemica (levamisolo, isoprinosina); mentre, risultati incoraggianti si sono avuti con l’utilizzo di iniezioni intralesionali o intramuscolari di interferone a2 ricombinante e con i retinoidi (etretinato e isotretinoina) che hanno fornito risultati incoraggianti in pazienti affetti da papillomi laringei, condilomi acuminati e displasie cervicali. Passati 3 mesi dal trattamento è importante effettuare un follow-up. [71]

I metodi diagnostici variano in base alla sede corporea interesata dall’infezione

Il trattamento spesso non riesce ad eradicare l’infezione

Vaccino I vaccini disponibili ad oggi contro l’ HPV in Italia sono due: un tetravalente contro i sierotipi 16-18-6 e 11 e un bivalente attivo contro i soli sierotipi 16 e 18.

Malattie protozoarie sessualmente trasmesse Tricomoniasi Il Trichomonas vaginalis è un protozoo con 4 flagelli anteriori più piccoli e 1 posteriore più grande inserito nella membrana ondulante, la sua grandezza varia da 4 a 45 mm di lunghezza e da 2 a 14 mm in larghezza ed è caratterizzato dai così detti movimenti “a strappo” che ne consentono

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L’infezione nella donna è solitamente sintomatica, mentre nell’uomo è asintomatica

l’individuazione al microscopio. Il T. vaginalis non cresce sulla cute anche se è in grado di favorire la cheratinizzazione delle superfici mucose prediligendo la vagina, le ghiandole di Skène e l’uretra (sia maschile che femminile); raramente si può prestare ad interessare la cervice, la vescica, gli ureteri, la prostata, l’epididimo e il prepuzio. Nella donna l’infezione sintomatica è caratterizzata da un prurito molto intenso, disuria, dispareunia, le grandi labbra si possono presentare edematose e la cervice presentare emorragie puntiformi. A questi sintomi si possono accompagnare perdite schiumose bianco-giallastre. L’uomo solitamente è asintomatico (rara la disuria e scarse le secrezioni). La diagnosi si basa sull’esame microscopico estemporaneo del preparato a fresco (parassita mobile) e sugli accertamenti colturali mediante terreni speciali in anaerobiosi. Il trattamento si avvale della somministrazione di nitroimidazolici come il metronidazolo oppure il tinidazolo da assumere per bocca 2 g in un’unica somministrazione [73]. Altri nitroimidazolici disponibili in Italia sono il nimorazolo, l’ornidazolo e l’azanidazolo.

Altre infezioni delle vie genitali basse (uretriti, vaginiti e cervicovaginiti)

Qui di seguito vengono riportate delle infezioni genitali che pur non rientrando nelle MST propriamente dette coinvolgono patogeni trasmissibili anche sessualmente. Candidiasi genitale Le infezioni vulvovaginali da lieviti sono molto comuni e si manifestano con vulviti eritematose e pruriginose associate a leucorrea densa e aderente, mentre nell’uomo possono causare balaniti. Le specie di lieviti più frequentemente rilevate sono la Candida albicans, la C. glabrata e la C. tropicalis. Pur non rientrando nelle MST propriamente dette (in quanto per lo più espressione di un dismicrobismo o di immunospressione acquisita o iatrogena) le riportiamo in quanto è un’infezione genitale molto frequente nei consumatori di sostanze d’abuso. Per quanto riguarda i trattamenti, nelle forme non complicate si possono utilizzare sia rimedi topici (come il miconazolo, la nistatina, il tioconazolo o il terconazolo) che sistemici (il fluconazolo 150mg in un‘unica dose), ma le candidosi recidivanti (>4 in 1 anno) sono un evento comune e necessitano diversi schemi di trattamento. È consigliato il follow-up a 2 mesi nelle forme non complicate o recidivanti [74-76]. Vaginosi batterica Anche la vaginosi batterica non è più considerata una MST, ma l’espressione di un dismicrobismo vaginale in cui l’alterazione del ph favorisce la proliferazione di alcuni batteri, tra i quali merita una citazione particolare la Gardnerella vaginalis. Questa vaginosi si manifesta con leucorree abbodanti dall’odore nauseabondo (in particolare dopo rapporti sessuali completi o dopo lavaggi vaginali), positività al test al KOH (“amine fishy odor test”), innalzamento del ph vaginale (>4.5) e con la presenza di clue-cells all’esame microscopico diretto (criteri di Amsel). La terapia della vaginosi batterica si avvale del metronidazolo per os 1 g/dì per 7 giorni oppure del metronidazolo gel vaginale 5 g 1 volta al giorno per 5 giorni o di clindamicina crema vaginale 5 g 1 volta al giorno per 7 giorni.

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Infezioni a trasmissione sessuale

Infezioni da micoplasmi Ureaplasma urealyticum, U. parvum, Mycoplasma hominis e M. genitalium possono essere causa di infezioni genitourinarie maschili, femminili e causare patologie perinatali [77, 78]. Questi microorganismi possono essere dimostrati con terreni di coltura adeguati (e la PCR nel caso del M. genitalium) nel maschio mediante il materiale prelevato con un tampone uretrale oppure nel mitto urinario iniziale, mentre nella donna mediante un tampone cervicale e uretrale. Il M. genitalium è stato correlato anche allo sviluppo della malattia infiammatoria pelvica (PID) con una sintomatologia che ricorda quella causata dal coinvolgimento della N. gonorrhoeae e dalla C. trachomatis [79]. Per quanto concerne il trattamento, ad oggi i farmaci utilizzati sono le tetracicline e alcuni chinolonici [80]. Bibliografia 1. Rezza G, Farchi F, Giuliani M. Le infezioni sessualmente trasmesse nella popolazione dei tossicodipendenti. Ann Ist Super Sanità. 2000; 36 (1): 63-8. 2. Kanno MB, Zenilman J. Sexually transmitted dieases in injection drug users. Sexually transmitted diseases in injection drug users. Infect Dis Clin North Am 2002;16(3):771-80. 3. Offidani AM.Sifilide. In: Dermatologia e Venereologia. Edizioni Minerva Medica. 2003; pp: 310-23. 4. Morel P. Sifilide. In: Dermatologia e malattie sessualmente trasmesse. Masson. 2006; pp: 231-37. 5. Mylona EE, Baraboutis IG, Papastamopoulos V, Tsagalou EP, Vryonis E, Samarkos M et al. Gastric syphilis: a systematic review of published cases of the last 50 years. Sex Transm Dis. 2010;37(3):177-83. 6. Brown DL, Frank JE. Diagnosis and management of syphilis. Am Fam Physician. 2003;68(2):283-90. 7. CDC. Sexually transmitted disease treatment guidelines 2006. MMWR Recomm Rep 2006; 55(RR11): 23-32. 8. Griffin GE. Cytokines involved in human septic shock--the model of the Jarisch- Herxheimer reaction. J Antimicrob Chemother. 1998;41 Suppl A:25-9. 9. Pound MW, May DB. Proposed mechanisms and preventative options of Jarisch-Herxheimer reactions. J Clin Pharm Ther. 2005;30(3):291-5. 10. Offidani AM. Infezione gonococcica. In: Dermatologia e Venereologia. Edizioni Minerva Medica. 2003: pp 324-25. 11. Braun-Falco, O., Plewig, G., Wolff, H.H., & Burgdorf, W.H.C. (2002). Dermatology (2nd ed.). Berlin: Springer. 12. Herida M, Michel A, Goulet V, Janier M, Sednaoui P, Dupin N, de Barbeyrac B, Semaille C. Epidemiology of sexually transmitted infections in France. Med Mal Infect. 2005; 35(5): 281-9. 13. Janier M. Gonorrea e infezioni non gonococciche delle basse vie genitali. In: Dermatologia e malattie sessualmente trasmesse. Terza ed. Masson 2006; pp: 226-30. 14. Miller KE. Diagnosis and treatment of Neisseria gonorrhoeae infections. Am Fam Physician. 2006; 73(10): 1779-84. 15. Haugh PJ, Levy CS, Hoff-Sullivan E, Malawer M, Kollender Y, Hoff V. Pyomyositis as the sole manifestation of disseminated gonococcal infection: case report and review. Clin Infect Dis. 1996;22(5):861-3. 16. Mehrany K, Kist JM, O’Connor WJ, DiCaudo DJ. Disseminated gonococcemia. Int J Dermatol. 2003;42(3):208-9 17. Bignell C, Ison CA, Jungmann E. Gonorrhoea. Sex Transm Infect 2006; 82 (Suppl IV): iv6iv9. 18. Miller KE. Diagnosis and treatment of Neisseria gonorrhoeae infections. Am Fam Physician. 2006 ;73(10):1779-84. 19. Barry PM, Klausner JD. The use of cephalosporins for gonorrhea: the impending problem of resistance. Expert Opin Pharmacother. 2009;10(4):555-77. 20. CDC. Update to CDC’s sexually transmitted diseases treatment guidelines, 2006: fluoroquinolones no longer recommended for treatment of gonococcal infections. Morb Mortal Wkly Rep. 2007;56(14):332-6. 21. Jalal H, Stephen H, Curran MD, Burton J, Bradley M, Carne C. Development and validation of a rotor-gene real-time PCR assay for detection, identification, and quantification of Chlamydia trachomatis in a single reaction. J Clin Microbiol 2006; 44: 206–213.

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12. Epatite virale da HCV

Stefano Nardi 1, Irene Zagni 2, Giovanni Serpelloni 3 1

Centro Medicina Comunitaria, Sezione di Screening HIV, ULSS 20 Verona U.O. Medicina, Azienda Ospedaliera di Desenzano del Garda (BS) 3 Dipartimento Politiche Antidroga, Presidenza del Consiglio dei Ministri 2

Riassunto Mentre l’epidemiologia dell’epatite virale da HCV è rimasta sostanzialmente invariata nel corso degli ultimi 10 anni, sono aumentate le conoscenze sulla sua storia naturale e sono migliorati gli strumenti terapeutici che abbiamo a disposizione per eradicare il virus. Il monitoraggio e l’eventuale trattamento della malattia nel tossicodipendente non si discosta da quanto è consigliato per gli altri gruppi epidemiologici ed è in continua, rapida evoluzione: nuove metodiche di approfondimento diagnostico e una ricerca farmacologica che sta già offrendo al mercato nuovi farmaci antivirali rendono la gestione della malattia cronica da virus C sempre più complessa e interessante. Parole chiave: tossicodipendenza, cronicizzazione, cirrosi, peginterferone, ribavirina, genotipo, carica virale, steatosi, fibrosi, comorbidità, effetti collaterali.

Introduzione Sin dalla sua identificazione nel 1989, il virus C, uno dei principali agenti dell’epatite cronica, è stato considerato la più importante causa di scompenso epatico e sequele gravi e potenzialmente fatali (come la cirrosi e l’epatocarcinoma). Negli anni ’70-’80 l’epatite allora detta non A-non B – e verosimilmente causata in gran parte proprio dall’HCV – era già considerata tipicamente a trasmissione parenterale, colpendo in particolare gli emotrasfusi, ma già allora l’ormai significativa popolazione di consumatori di droghe endovena era interessata dalla stessa epatopatia cronica. E oggi l’epatite virale da HCV rappresenta la principale patologia infettiva tra i tossicodipendenti. La tendenza quasi inevitabile (oltre l’80%) alla cronicizzazione, la bassa probabilità di presentare un’insorgenza acuta evidente e il

163


successivo andamento prevalentemente asintomatico rendono conto dell’evoluzione subdola, spesso misconosciuta, verso le fasi più avanzate della cirrosi e dell’insufficienza epatica. Anche se solo una modesta percentuale dei pazienti infetti svilupperà le manifestazioni più gravi della malattia, la presenza nella popolazione tossicodipendente di svariati fattori favorenti (o “acceleranti”) quali abuso etilico e coinfezioni spiega perché l’evoluzione infausta sia più frequente in questo segmento epidemiologico. In considerazione degli alti costi umani e sociali che ogni malattia cronica comporta, anche per l’epatite da HCV nei tossicodipendenti, grazie a un intervento multidisciplinare socio-sanitario, è ormai generalmente accettato che un approccio terapeutico abbia un rapporto costo/beneficio favorevole. I progressi della ricerca e della farmacologia hanno nondimeno permesso da un lato di selezionare i pazienti con più probabilità di rispondere positivamente ai farmaci, dall’altro di utilizzare schemi posologici e associazioni più efficaci e meglio gestibili, ottenendo al tempo stesso un’ottimizzazione delle risorse, una riduzione degli sprechi e una razionalizzazione degli interventi. Parallelamente a un lavoro di counselling sui comportamenti a rischio e sulle possibilità di reinfezione, oggi il tossicodipendente con epatite C cronica va considerato, superando decenni di diffidenza, un paziente da trattare come tutti gli altri.

Patogenesi e storia naturale HCV è un piccolo virus a RNA a elica singola, di circa 10.000 nucleotidi, della famiglia dei Flaviviridae. Scoperto nel 1989, è da allora considerato la causa principale dell’epatite post-trasfusionale e parenterale. Ne esistono 6 genotipi e svariati sottotipi. Questo rende conto di una elevata variabilità con presenza di una popolazione polimorfa nello stesso soggetto, anche in considerazione del fenomeno della quasispecie, cioè la presenza di numerose varianti virali pronte a prevalere sul ceppo dominante anche in corso di terapia. Questo insieme di caratteristiche spiega anche la difficoltà di sintetizzare un vaccino efficace e la possibilità di reinfezione dopo guarigione completa. Il genoma di HCV, a differenza di quello dell’epatite B, non si integra nel DNA della cellula infettata. Nella regione strutturale del virus sono presenti le sequenze che codificano per la proteina del nucleocapside e per le proteine dell’envelope; nella regione non strutturale si ritrovano invece le sequenze che codificano per l’elicasi/proteasi (implicate nella replicazione dell’RNA virale) e per la polimerasi e altre proteine. La replicazione di HCV è modesta e probabilmente oltre che negli epatociti avviene anche in altri distretti corporei (midollo, organi linfopoietici) e porta a un danno citopatico diretto con necrosi delle cellule infettate; nella fase cronica il danno sembra sostenuto da una reazione immunomediata [1]. L’infezione primaria, con circa 6-12 settimane di incubazione, è quasi sempre asintomatica e casualmente riconosciuta per l’alterazione degli indici di epatocitolisi (valori delle ALT anche maggiori di oltre 10 volte la norma). L’RNA virale compare già nel primo mese mentre gli anticorpi anti-HCV vengono sintetizzati nel corso del terzo mese dal contagio (Figura 1). Rarissima è la forma fulminante, nella quale HCV si somma invariabilmente ad altri fattori epatolesivi. In una minoranza dei casi al rapido aumento delle transaminasi segue il ritorno alla normalità con scomparsa dell’RNA e guarigione spontanea. L’evoluzione nella forma cronica avviene nel 70-80% dei casi ed è definita

164


Epatite virale da HCV

dalla persistenza delle ALT aumentate di 5-6 volte la norma per almeno 6 mesi in presenza di RNA virale (Figura 2). Solitamente l’andamento delle ALT permane fluttuante negli anni, pur in presenza di valori meno elevati che nella fase acuta. Nelle forme inattive le transaminasi rimangono persistentemente nella norma, anche se questo non esclude l’evoluzione verso la cirrosi istologica e clinica [2]. La trasmissione di HCV avviene in maniera dimostrata ed efficiente attraverso trasfusioni di sangue o emoderivati (se infetti), attraverso trapianti da donatore positivo e attraverso scambio di siringhe o altri strumenti contaminati durante l’assunzione di sostanze stupefacenti endovena. La trasmissione avviene anche, ma in maniera meno efficiente, con le seguenti modalità: • punture da aghi infetti • rapporti sessuali • tatuaggi • linea materno-fetale o neonatale • contatti domestici. E anche, sebbene non dimostrato ma molto verosimile: • piercing • emodialisi • agopuntura • scambio di cannucce nell’uso della cocaina endonasale. Bisogna inoltre sottolineare che circa il 30% degli infetti non riferisce cause certe di trasmissione. La progressione completa della malattia, molto lenta, avviene solo in una piccola percentuale di casi, ma il bacino degli individui infettati è molto ampio e questo spiega l’importanza del problema dal punto di vista sociale oltre che sanitario. L’evoluzione dell’infezione cronica è stata ben studiata negli emotrasfusi [3], interessando fino al’80-90% dei pazienti. Di questi però solo il 23% svilupperà cirrosi e il 10% e 5% esiterà rispettivamente in scompenso epatico terminale ed epatocarcinoma. Ovviamente questi sono dati generali, mentre nella valutazione del singolo paziente bisogna tener conto di una lunga serie di variabili associate con la probabilità maggiore o minore di evoluzione. Tali variabili [4], che aumentano con l’aumentare dell’esperienza dei clinici e con i progressi della ricerca, sono fattori correlati all’ospite, al virus stesso e all’eventuale terapia, come illustrato nella Tabella 1. Figura 1 - Modello sierologico dell’infezione acuta da HCV con guarigione

Figura 2 - Modello sierologico dell’infezione acuta da HCV con progressione a infezione cronica anti-HCV

anti-HCV

+/- sintomi

+/- sintomi

HCV RNA

Titolo

Titolo

HCV RNA

ALT

ALT

Normalità

Normalità

0

1

2

3

4

5

6

1

Mesi Tempo dell’esposizione

2

3

Anni

4

0

1

2

3

4

5

6

1

Mesi

2

3

4

Anni

Tempo dell’esposizione

165


Le variabili elencate in tabella non valgono per ogni singola situazione, alcune essendo solo correlate al tipo di virus e all’uso di terapia anti-virale (il corredo genetico, la carica virale, il genotipo virale, il dosaggio dei farmaci e le loro eventuali interazioni), altre a peculiarità immodificabili del soggetto (età, sesso, coinfezioni o comorbidità presenti), altre ancora a caratteristiche che potrebbero mutare nel tempo (body mass index, poliabuso di stupefacenti o alcool, concentrazione di vitamina D, ecc.). Tabella 1 - Variabili correlate al virus, all’ospite e alla terapia Variabili Età

Ospite

Virus

X

Terapia X

Grado di fibrosi

X

Aplotipi HLA

X

X

Etnia

X

X

Body Mass Index

X

X

Steatosi-Resistenza insulinica

X

X

Coinfezioni

X

X

Poliabuso/aderenza

X

Patologie psichiatriche

X

Concentrazione di Vitamina D

X

X

Genotipo

X

X

Carica virale

X

X

Dosaggio adeguato

X

Interazione tra farmaci

X

Soriano V et al, Antiv Research, 2010, modificato

Il quadro che ne deriva è estremamente complesso ed esula dagli scopi di questo scritto, ma è importante averne accennato per chiarire che l’approccio a questa patologia è sempre più multidisciplinare e personalizzato. Nei tossicodipendenti si considera che il 45% circa dei soggetti infettati, al termine della fase acuta, quasi sempre asintomatica, potrà ottenere la guarigione spontanea con la clearance del virus (RNA negativo),pur con la persistenza degli anticorpi (HCV-Ab positivi) [5]. In altri gruppi a rischio le casistiche assegnano solo uno 20-30% di guarigione spontanea [6]. Tra chi poi risulterà infettato cronicamente (55%) una significativa quota (70%) svilupperà una epatopatia asintomatica, mentre solo l’8% evolverà in cirrosi sintomatica e l’1% morirà per scompenso epatico. Dopo 20 anni di monitoraggio delle epatiti croniche da virus C si può però affermare che l’evoluzione di questa patologia non è lineare: indipendentemente dalla presenza di cofattori che aggravano il quadro clinico, l’epatite da HCV di per sé, silente per 20-30 anni, può improvvisamente “accelerare” e nel giro di 4-5 anni esitare in una grave insufficienza epatica, apparentemente senza fattori scatenanti. Non esiste modo per prevedere chi andrà incontro a tale sviluppo infausto, se non monitorando strettamente il quadro clinico, biochimico e istologico, con particolare riguardo a quei pazienti che già presentano i fattori prognostici negativi prima ricordati (Tabella 1). A questo proposito i fattori più importanti per la progressione della malattia sembrano essere [7]: • l’età al momento dell’infezione • il consumo di alcool

166


Epatite virale da HCV

• il genere.

Si è visto che le infezioni contratte dopo i 40 anni sono quelle che comportano le complicanze più gravi; il consumo di alcool, anche in quantità modiche, è noto essere un fattore di rischio aggiuntivo; infine, nel sesso femminile si osserva una “protezione” nel corso dell’età fertile, dovuta verosimilmente all’elevata concentrazione di estrogeni, dimostrata anche dal rapido peggioramento allo scoccare della menopausa. Il range di 13-42 anni sembrerebbe quello nel corso del quale l’evoluzione a cirrosi possa avvenire: • 13 anni nei maschi infettati dopo i 40 anni di età • 42 anni nelle donne (astemie) infettate prima dei 40 anni. Senza l’intervento della terapia, in meno di 20 anni appare probabile che almeno un terzo dei pazienti svilupperà cirrosi istologica,mentre, come sopra riportato, la cirrosi clinica sintomatica interesserà una percentuale minore di pazienti. Anche se è ormai assodato che i portatori di genotipo virale 1 o 4 e di alta carica virale hanno molte meno probabilità di rispondere alle terapie correnti, non è mai stato dimostrato che l’evoluzione possa correlarsi a un particolare genotipo o sottotipo o alla intensa moltiplicazione del virus, anche se la cosa non appare illogica. Anche la normalità dei parametri basilari di funzionalità epatica, in particolare le transaminasi, non è garanzia di infezione inattiva: fino al 30% dei pazienti con ALT persistentemente normali può andare incontro a improvvisa (e inspiegata) evoluzione della malattia epatica. Come prima accennato, altri fattori che giocano sicuramente un ruolo importante sono la steatosi (in un certo senso “motore” della fibrosi che, se avanzata, coincide con la cirrosi), l’obesità e il diabete di tipo II, ad essa correlati: insieme causano una progressione dell’epatite cronica 2-3 volte più veloce. La steatosi, infatti, è l’evento conclusivo, attraverso meccanismi diversi, di svariate noxae: la dieta inadeguata, il diabete di tipo II, il sovrappeso e la mancanza di idonea attività fisica, l’assunzione di quantità eccessive di alcol, l’accumulo di ferro, l’utilizzo di farmaci epatotossici [8]. Un altro fattore “accelerante”, abbastanza comune tra i tossicodipendenti – la coinfezione con HIV – gioca inoltre, se presente, un ruolo importante nell’aumentare la morbidità e mortalità dei pazienti con epatite C, favorendo la presenza di elevate cariche virali e l’aumento delle transaminasi e della fibrosi. Se volessimo riassumere approssimativamente la storia naturale dell’epatite cronica da HCV nel tossicodipendente, potremmo elaborare una sinopsi come segue: 100 50 15 5-10

soggetti infettati sviluppano malattia cronica progrediscono a cirrosi sintomatica muoiono per le complicanze terminali (insufficienza epatica o epatocarcinoma)

Epidemiologia A livello mondiale è verosimile ipotizzare che il 2-4% della popolazione generale sia infetto, e anche in Europa la prevalenza si colloca tra l’1 e il 5% (dati WHO), con punte oltre il 10% in alcune aree dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo [9].

167


La difficoltà nell’individuare la malattia alla sua insorgenza, a causa di un esordio quasi sempre asintomatico, rende l’infezione da HCV ancora più insidiosa: data la lentezza dell’evoluzione (10-30 anni e oltre), non dando segno di sé, arricchisce un enorme serbatoio di soggetti potenzialmente contagiosi e ignari di esserlo, con tutto ciò che ne consegue in termini di comportamenti a rischio [10]. Inoltre, a causa del ritardo della diagnosi, spesso occasionale, molti soggetti late presenter non potranno trarre dall’eventuale terapia i benefici che avrebbero tratto se curati nelle fasi iniziali [11]. Se è vero che solo il 15-25% delle persone infette svilupperà una malattia evolutiva più o meno grave, in considerazione delle percentuali prima descritte (il 2-4% della popolazione mondiale corrisponde a circa 170-250 milioni di infetti), si stimano dai 20 ai 50 milioni di malati gravi. Nei principali Paesi europei dall’inizio degli anni ’90 è obbligatoria la ricerca degli anticorpi anti-HCV tra i donatori di sangue (in Italia dal 1992). Questo ha permesso un drastico decremento delle infezioni tramite quella via di trasmissione, sicuramente la più efficiente, anche in considerazione dell’entità dell’”inoculo”, ma non ha inciso significativamente sulle altre modalità (parenterale inapparente, jatrogena, domestica e correlata all’uso di stupefacenti endovena), né ovviamente ha avuto un riflesso sulle infezioni già consolidate, per le quali ancora oggi si aspetta un aumento in termini di complicanze a lungo termine [12]. Oggi, comunque, archiviata con costi umani altissimi l’epidemia che dagli anni ’70 ha colpito gli emotrasfusi, la modalità di trasmissione correlata all’uso di stupefacenti endovena (e forse anche attraverso la mucosa del naso negli “sniffatori”) è considerata largamente la più importante nella maggior parte degli stati europei, con una prevalenza stimata tra il 15 e il 90% sul totale delle infezioni da virus C [13]. In realtà la maggior parte delle stime non poggia su dati oggettivi ma su estrapolazioni di risultati di studi limitati o focalizzati su particolari gruppi a rischio (per esempio gli emotrasfusi) e, in ultima analisi, su “opinione di esperti”. La stessa poca affidabilità e accuratezza dei test sierologici di prima e seconda generazione ha in passato portato sicuramente a una sottostima delle diagnosi. Alla luce di queste considerazioni vanno utilizzate con cautela le stime che indicano il virus C come causa del 20% delle epatiti acute, del 70% di quelle croniche, del 40% degli scompensi epatici, del 60% degli epatocarcinomi e del 30% dei trapianti epatici [14]. Altre fonti [15] quantificano il 70% dei trapianti epatici causati da HCV. Altre vie di trasmissione parenterale (punture accidentali, tatuaggi, piercing) sono spesso invocate per spiegare infezioni da causa ignota, anche se difficilmente quantificabili. Nel complesso la via parenterale cosiddetta “inapparente” sembra contare tra il 10 e il 50% in alcuni studi, anche se spesso sembra includere casi in cui la raccolta del dato epidemiologico risulta difficoltosa per scarsa collaborazione della popolazione investigata oppure dedotta per esclusione di altre cause [16]. Una percentuale minore di contagi sembra da attribuire alla trasmissione verticale da madre a neonato (soprattutto nel corso del travaglio) e da quella sessuale. Per quest’ultima appare comunque importante la presenza di sangue nel corso del contatto genitale o anale e tale evenienza risulta più frequente nel corso di rapporti occasionali di popolazioni ad alto rischio per malattie sessualmente trasmissibili (per esempio omosessuali con comportamenti

168


Epatite virale da HCV

promiscui o eterosessuali/bisessuali pluripartners etc) o comunque coinvolti in pratiche sessuali “traumatiche” (per esempio fisting) e non protette. In questo contesto la trasmissione di HCV è dimostrata prevalentemente in individui HIV positivi o altrimenti immunodepressi. In Italia la prevalenza dell’infezione da HCV si colloca tra lo 0.6 e il 2.5%, con punte più alte (anche 30% in età avanzata) in alcune regioni del Sud; l’incidenza, difficile da definire con esattezza a causa della paucisintomaticità degli esordi, sembra essere di 1:100.000. Interessante, per quanto concerne la prevalenza, la distribuzione nei principali gruppi a rischio, che illustra quanto in precedenza riportato (Tabella 2). Tabella 2 - Prevalenza di HCV nei gruppi ad alto rischio Gruppi a rischio

Prevalenza (%)

Talassemici

42-83

Emofilici

50-95

Emodializzati

10-45

Operatori sanitari

0-10

Tossicodipendenti e.v.

48-90

Tatuati Detenuti Sottoposti a cure dentarie

11 15-46 9

Trapiantati da donatori hcv+

62-90

Alcolisti

15-25

Istituzionalizzati

4-7

Partner sessuali di hcv+

0-18

Prostitute

1-6

Omosessuali

3-18

Conviventi di hcv+

0-11

Figli di hcv+

0-6

Alberti A, Levrero M. Epidemiologia e storia naturale. In: Epatite C: dalla virologia molecolare alla terapia. Accademia Nazionale di Medicina. Genova: Forum Service Editore, 2003; p. 8

Epidemiologia nei tossicodipendenti L’incremento in Europa e in Italia della prevalenza di infezioni da HCV può essere spiegato con la più attenta sorveglianza epidemiologica, con l’intensificarsi delle attività di screening o con la disponibilità di test più accurati, ma sicuramente la quota da ascrivere all’uso di sostanze stupefacenti è ovunque la causa più importante, con punte dell’80-90% in alcuni contesti (Figura 3). Il tasso di prevalenza in questo gruppo sembra essere proporzionale alla durata della tossicodipendenza stessa [17]. L’estesa circolazione del virus C in Italia nella popolazione degli eroinomani può forse spiegare perché, a differenza dell’infezione da HIV, quella da HCV non ha mostrato variazioni nel corso degli ultimi due decenni in termini di incidenza (ma abbiamo visto quanto i dati siano deficitari) e di prevalenza. Le campagne di prevenzione dell’HIV che nel corso degli anni ’90 hanno sensibilizzato anche la popolazione tossicodipendente a evitare la promiscuità dei rapporti sessuali (o almeno a proteggerli) e soprattutto a esercitare prudenza nell’uso di siringhe e parafernalia, sembra non abbiano particolarmente inciso sui tassi di trasmissione di HCV.

169


Figura 3 - Percentuale di utenti non testati e prevalenza per HCV, per area geografica. Anno 2011

(1) Flusso informativo SIND; (2) Flusso SIND parziale (Indicatore non calcolabile); (3) Dato richiesto ma non pervenuto - Fonte: Elaborazione su dati Ministero della Salute

Una spiegazione di questo fenomeno può essere che una diminuzione in effetti ci sia stata ma, non essendoci chiare raccolte dati prima dell’introduzione del test per la ricerca degli anticorpi anti-HCV, non emerga la differenza. Un’altra ipotesi è che l’utilizzo esteso della terapia antiretrovirale per l’infezione da HIV che, abbassando la carica virale, abbatte drasticamente la probabilità di trasmissione di HIV, non abbia un corrispettivo nel contesto dell’infezione da HCV, rendendo forse conto della persistente circolazione di questo virus nel gruppo a rischio degli eroinomani [18]. Come per HIV, l’assunto che la diminuzione della carica virale, attraverso l’uso di una terapia soppressiva efficace, può sicuramente ridurre il rischio di trasmissione (anche se non lo azzera) può valere anche per HCV, ma è difficilmente praticabile, sia per la mancanza di una terapia “cronica”, sia per l’intensità e la difficile gestione degli effetti collaterali dell’unica terapia disponibile (PegIFN+ ribavirina). Nel contesto della tossicodipendenza questo è ancora più vero, in considerazione della scarsa aderenza che gli individui di questo gruppo epidemiologico manifestano in generale per ogni trattamento. Al tempo stesso anche la persistenza del virus C sulle superfici a temperatura ambiente fino a 16-72 ore rende conto di una maggior contagiosità rispetto a HIV, molto meno stabile nelle stesse condizioni ambientali. Quindi HCV si trasmette più facilmente non solo attraverso lo scambio di siringhe ma anche con l’utilizzo promiscuo dei filtri, dei recipienti, delle pipette, del cotone e di tutti gli altri strumenti che possono essere utilizzati nella preparazione di una dose di droga iniettabile [19]. Molti tentativi di trattamento “controllato” dell’infezione da HCV presso i Servizi per le tossicodipendenze sono stati effettuati, in Italia e all’estero, proponendo anche incentivi materiali e “legando” la somministrazione degli anti-virali a quella dei farmaci sostitutivi o collaterali al trattamento della tossicodipendenza. Tali tentativi hanno portato a risultati non univoci, confermando l’impressione che ancora molto potrebbe essere fatto per limitare il bacino dell’infezione da HCV tra i tossicodipendenti.

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Epatite virale da HCV

La nostra esperienza di gestione dell’infezione cronica da HCV tra i tossicodipendenti nell’ultimo decennio (da quando cioè la terapia combinata IFN+ribavirina prima e l’introduzione dell’interferone peghilato poi hanno consentito il raggiungimento di tassi di guarigione più elevati) conferma che in questo particolare gruppo epidemiologico l’ottenimento dell’aderenza necessaria al successo del monitoraggio e del trattamento (quando indicato), oltre alla rimozione di altri cofattori di evoluzione (abuso di alcool, steatosi su base alimentare, sovrappeso) si raggiunge molto più facilmente nelle situazioni in cui il paziente è “istituzionalizzato”, cioè quando è ospite di comunità terapeutiche o ristretto in carcere. In queste situazioni, evidentemente “controllate”, a fronte di un costante lavoro psicologico motivazionale svolto anche da altri operatori, il medico può essere ragionevolmente sicuro che l’approccio integrato alla patologia epatica (terapia + dieta + astensione dall’alcool + monitoraggio biochimico) sarà effettuato al livello più alto. Sono peraltro le situazioni in cui il paziente epatopatico tossicodipendente, essendo astinente dall’uso di sostanze, è nelle migliori condizioni per concentrarsi sulla cura del proprio corpo e della propria salute e, insieme con una nuova progettualità esistenziale, non raramente ha le energie e le motivazioni per dedicarsi a rimuovere, ove possibile, le varie problematiche che lo stile di vita pregresso gli ha causato. In questi contesti, infatti, il raggiungimento dell’SVR (risposta virologica sostenuta, cioè la guarigione) sembra essere, nella nostra esperienza, la regola e non l’eccezione. Si può dunque affermare che, se anche la storia naturale dell’epatite C cronica è ormai ben nota, sia nel tossicodipendente che nelle popolazioni con fattori di rischio diversi, molto resta da fare proprio dal punto di vista della raccolta dati per inquadrare il fenomeno nelle sue giuste dimensioni e caratteristiche epidemiologiche. Il monitoraggio della popolazione tossicodipendente si è parzialmente ridotto (Figura 4) invece che aumentare, forse per la consueta scarsità di risorse, forse per altri fattori che ancora ci sfuggono. Il “sommerso” di infezioni misconosciute, non dando segno di sé e quindi non allarmando le persone coinvolte, mantiene un bacino di individui portatori di una patologia che potenzialmente è gravata da costi sociali altissimi, che forse non sono ancora evidenti in tutta la loro importanza.

Diagnosi e monitoraggio Il contesto epidemiologico nel quale il medico agisce condiziona le due modalità più frequenti attraverso le quali il paziente portatore di un’infezione cronica da HCV inizia il suo percorso diagnostico: il riscontro occasionale di positività per anticorpi anti-HCV o il riscontro occasionale di una elevazione dei livelli sierici delle transaminasi. È auspicabile che nei Servizi per le Tossicodipendenze o comunque nella gestione di un soggetto con tale fattore di rischio il controllo degli anticorpi per HCV (così come per HBV, HIV e lue) e una routine bioumorale di funzionalità epatica siano periodicamente eseguite, almeno una volta all’anno o in occasione di riferiti episodi a rischio. I test di determinazione degli anticorpi anti-HCV (di I, II, III generazione a seconda delle proteine strutturali del virus verso cui sono diretti, rilevabili in reazioni immunoenzimatiche; test immunoblotting RIBA di conferma) hanno elevata sensibilità e specificità, in particolare nelle popolazioni ad alto rischio come i tossicodipendenti. In questo contesto, infatti, un test ELISA positivo è

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Figura 4 - Percentuale dei soggetti non testati e prevalenza utenti positivi al test HCV. Anni 2000 2011

Fonte: Elaborazione su dati Ministero della Salute

sufficiente a porre la diagnosi, mentre solo il risultato “indeterminato” del test suggerisce l’approfondimento con la ricerca dell’RNA virale mediante biologia molecolare. In popolazioni non a rischio,invece, la sensibilità è più bassa e la conferma attraverso la ricerca dell’RNA virale è indispensabile [20]. Quindi anche un riscontro occasionale di elevazione delle transaminasi deve condurre al test anticorpale, la cui eventuale positività è diagnostica per epatite C. Le rare forme acute verranno distinte sulla base dei valori delle transaminasi, 10 e più volte superiori alla norma, mentre nelle forme croniche la fluttuazione di tali enzimi è molto più contenuta. Qualora sia noto l’evento a rischio, quindi l’epoca dell’esposizione, è utile ricordare che gli anticorpi anti-HCV compaiono tra l’ottava e la dodicesima settimana, mentre l’RNA virale è già riscontrabile alla fine del primo mese, risultando pertanto di maggiore utilità nel porre la diagnosi. A questo punto è importante monitorare il paziente per distinguere tre fondamentali categorie: • i pochi casi destinati a guarigione spontanea • il paziente con transaminasi persistentemente normali (impropriamente chiamato “portatore”) • il paziente con malattia cronica evolutiva. Nel primo caso avremo avuto la rara fortuna di diagnosticare un’epatite acuta: il paziente dovrà essere monitorato fino ai 3 mesi successivi all’esposizione quando, se non eliminasse spontaneamente il virus, ricadrebbe nella definizione di malato cronico. Contestualmente è importante sottolineare che, trascorso tale periodo nell’attesa di una possibile guarigione spontanea, questo particolare paziente è fortemente candidato alla terapia, con altissime probabilità di raggiungere l’eliminazione del virus. Nel secondo caso, pur non potendo escludere una riattivazione della malattia né un’evoluzione istologica silente, sembra ragionevole adottare un monitoraggio meno aggressivo, con controlli della funzionalità epatica ogni 6-12 mesi. La terapia potrà essere presa in considerazione, in assenza di “risveglio” bioumorale, solo se presenti co-fattori favorenti l’evoluzione cirrogena quali HIV, HBV, alcolismo, altre patologie epatiche o terapie epatolesive; o su esplicita richiesta da parte di un paziente motivato. Infine nel terzo caso si procederà agli approfondimenti diagnostici in funzione dell’opportunità di iniziare la terapia anti-virale o del monitoraggio della

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Epatite virale da HCV

malattia cronica evolutiva o delle sue complicanze (cirrosi). Tali accertamenti possono essere così schematizzati: La tempistica di tali accertamenti dipende dagli obiettivi, dalle condizioni del paziente, dall’insorgere o meno di alterazioni ematologiche o cliniche. Nel corso della terapia l’emocromo andrebbe controllato ogni 15-30 giorni se normale, ma anche ogni settimana se dovesse insorgere, come spesso accade, neutropenia e/o anemia; gli autoanticorpi e la funzione tiroidea necessitano un monitoraggio almeno dopo 1-3 e 6 mesi, la biopsia (o elastografia) è utile preliminarmente all’inizio della terapia stessa, così come l’ecografia addominale e l’esofagogastroduodenoscopia. Quest’ultima indagine ha maggior significato e indicazione nei casi di malattia cronica avanzata e/o cirrosi iniziale, per escludere la presenza di varici gastriche o esofagee a rischio di rottura in corso di terapia. Nel monitoraggio senza terapia di un’epatite cronica stabile è consigliabile una valutazione dei parametri ematobiochimici ogni 3-6 mesi e un’elastografia con ecografia epatosplenica almeno una volta all’anno. In caso di malattia epatica evolutiva con o senza cirrosi è importante monitorare i parametri di funzionalità epatica e renale e l’emocromo almeno ogni 2-3 mesi, ogni 3 mesi andrebbe effettuata un’ecografia del fegato per escludere la presenza di noduli rigenerativi o, se già presenti, per controllarne l’evoluzione; infine una volta ogni 12 mesi un’elastografia potrebbe, in maniera incruenta, documentare un peggioramento eventuale della fibrosi mentre un’EGDS è indispensabile per escludere o monitorare la presenza di varici esofagee o gastriche.

Clinica Il quadro clinico dell’epatite C cronica è estremamente vario così come la sua gravità. Esistono infatti forme apparentemente lievi in cui il paziente lamenta esclusivamente astenia e minima dispepsia e l’obiettività addominale evidenzia soltanto epatomegalia modesta con o senza splenomegalia. Le indagini di laboratorio di questi casi mostrano alterazione degli indici di funzionalità epatica di entità poco significativa. Viceversa altri casi si presentano con manifestazioni più gravi come ittero franco, importante epatosplenomegalia, dolenzia alla palpazione del fegato, a volte anche alterazioni cutanee tipiche dell’insufficienza epatica (eritema palmare, spider naevi), mentre le indagini ematochimiche mostrano compromissione più marcata della funzionalità epatica. In media la progressione clinica dell’epatopatia HCV-correlata ha un andamento irregolare, con alternanza di periodi di quiescenza e di riacutizzazione, con sintomi, segni o parametri laboratoristici più o meno alterati. Nelle fasi più avanzate, comunque, il paziente è visibilmente sofferente, con sintomi di carattere generale come febbre o febbricola, dolori articolari, manifestazioni cutanee pruriginose di tipo eritematoso, alterazioni infiammatorie delle sierose (fino a quadri di pleurite sintomatica). Pertanto a volte è difficile differenziare un quadro acuto iniziale da una riacutizzazione di una forma cronica, salvo che nel secondo caso sintomi e segni appaiono più sfumati, anche se più protratti nel tempo. Il quadro di cirrosi franca si instaura in realtà gradualmente e, anche in assenza di una diagnosi nota di epatopatia da virus C, di solito l’anamnesi remota illumina un esordio caratterizzato da disturbi digestivi, anoressia, pesantezza epigastrica post-prandiale, sensazione di tensione addominale con o senza meteorismo. Gli edemi alle caviglie sono abbastanza frequenti, tanto da rappresentare lo spunto

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per il paziente ancora ignaro di recarsi dal medico e iniziare un iter diagnostico. Con progredire della patologia negli anni appaiono spesso caratteristiche “patognomoniche”: un addome prominente, un volto emaciato, affilato, una struttura corporea che non raramente mostra magrezza del tronco e allargamento dell’addome. Quest’ultimo aspetto è spesso dovuto alla presenza di ascite, che già configura uno stadio avanzato della cirrosi, preannuncio dell’insufficienza epatica. Al contempo l’ipotrofia della massa muscolare degli arti e la perdita di peso causata dalla dispepsia e dall’anoressia concorrono a definire il deterioramento complesso dell’aspetto corporeo. La febbre, quando presente, ha spesso un andamento irregolare, spesso di entità contenuta, a volte elevata in rapporto alla presenza di processi flogisticonecrotici che si sviluppano nel parenchima epatico o anche alle frequenti infezioni endogene dovute a batteri di provenienza intestinale. Il dolore, come già detto, è presente in ipocondrio destro ed è di tipo viscerale, profondo, sordo, molto accentuato dalla palpazione. Il colorito cutaneo del cirrotico è quasi sempre itterico o è perlomeno presente subittero sclerale. Se la malattia è presente da molti anni, è spesso presente una pigmentazione bruna della cute (ittero melanico), dovuta all’aumentata deposizione di melanina; dell’eritema palmare e degli spider naevi già si è detto, in quanto segni presenti nel corso dell’evoluzione dell’epatopatia, che quindi si accentuano nello stadio di cirrosi. Le dita ippocratiche sono probabilmente dovute alla frequente formazione di shunt artero-venosi a livello periferico che causano ipossia delle estremità. Anche piccole manifestazioni emorragiche puntiformi (petecchie o ecchimosi), meglio definite dalla definizione di porpora cutanea, sono causate da carenza dei fattori della coagulazione. La facies etilica, anche in chi non assume alcolici, riconosce la stessa genesi ed è causata da piccole teleangectasie al volto per dilatazione permanente dei piccoli vasi della pelle. Altri segni meno frequenti ma non rarissimi sono la retrazione dell’aponeu rosi palmare (presente anche in altre patologie), tumefazione della regione parotidea (di eziologia sconosciuta), alterazioni endocrine (perdita dei peli e ginecomastia nei maschi, amenorrea e ipo-atrofia mammaria nelle femmine). L’esame obiettivo addominale del cirrotico fa rilevare un addome tipicamente globoso, teso, a volte batraciano; non è insolita la presenza di un’ernia ombelicale; i reticoli venosi superficiali sono invece molto comuni e sono causati da circoli collaterali porta-cava o cava-cava. Le dimensioni del fegato di solito diminuiscono con la progressione della cirrosi per il prevalere della componente fibrosa epatica. La milza, invece, a causa dell’instaurarsi di ipertensione portale, tenderà col tempo a aumentare di dimensioni e di consistenza [21].

Terapia Nel corso dell’ultimo decennio si è assistito a un costante incremento dell’efficacia degli schemi di terapia antivirale nei confronti del virus C. Tale miglioramento non è stato il risultato dell’uso di farmaci rivoluzionari, ma del perfezionamento di molecole già esistenti. Prima l’associazione dell’interferone standard con la ribavirina, un analogo nucleosidico della guanosina, già utilizzato nel trattamento di influenza e bronchiolite, ha permesso un netto aumento dei tassi di guarigione; poi l’introduzione dell’interferone peghilato, riformulazione della molecola originale ma a lento rilascio, ha consentito il mantenimento di una concentrazione ottimale del farmaco nel circolo ematico per almeno 6-7 giorni, ottimizzando al tempo stesso la gestione della tera-

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pia e, soprattutto, mitigando gli effetti collaterali che molto spesso portavano all’interruzione della stessa. In attesa dell’introduzione nella pratica clinica dei nuovi inibitori delle proteasi (telaprevir e boceprevir), imminente ma ancora in fase di approvazione al momento in cui scrivo, l’obiettivo del trattamento dell’infezione cronica da HCV è oggi quello di ottimizzare l’approccio con i farmaci disponibili, individuando i pazienti che meglio risponderanno agli schemi utilizzati e semmai modificare gli schemi stessi per quanto riguarda il dosaggio e la durata in rapporto a fattori predittivi che via via emergono e vengono standardizzati. Tali fattori predittivi di risposta/non risposta alla terapia, che in parte coincidono con quelli che favoriscono/rallentano l’evoluzione della malattia, se modificabili, permettono di aumentare la probabilità di successo del trattamento; se non modificabili, suggeriscono, in taluni casi, schemi posologici o di durata più aggressivi. In circostanze estreme, cioè in presenza di un numero elevato di fattori prognostici di risposta negativi, possono orientare il clinico a differire il trattamento, in attesa dei nuovi farmaci, verosimilmente più potenti. Analizzando questi fattori (Tabella 3) correlati all’SVR (sustained viral response), cioè alla guarigione, si nota appunto, come accennato sopra, che alcuni possono essere modificabili (il body mass index, la resistenza insulinica, l’uso di stupefacenti, lo scompenso psichiatrico non grave, la concentrazione di vitamina D, il dosaggio di ribavirina e peginterferone, l’aderenza, l’anemia o la neutropenia e, in caso di coinfezione con HIV, il numero dei linfociti CD4) mentre altri non lo sono (il patrimonio genetico, l’età, il grado di fibrosi, il genotipo, la carica virale, le patologie psichiatriche fuori controllo) e come tali vanno comunque presi in considerazione per decidere l’approccio terapeutico migliore, il monitoraggio più adeguato ed eventualmente la sospensione o il prolungamento del trattamento. Senza entrare nel dettaglio delle singole correlazioni, aspetto che esula dagli scopi di questo capitolo dedicato a una panoramica generale, mi pare utile soffermarsi sull’aspetto tossicologico e psichiatrico più di pertinenza dei Servizi per le Tossicodipendenze. Come sottolineato nell’Introduzione, il trattamento dell’epatite C nei tossicodipendenti è attualmente consigliato e anche tra quegli individui che presentano comorbidità psichiatrica non esiste più una controindicazione assoluta. Ovviamente tra i tossicodipendenti e tra gli “psichiatrici” esiste una vasta gamma di differenze. Compito del clinico accorto è valutare caso per caso Tabella 3 - Fattori correlati all’SVR (risposta virale sostenuta Modificabili

Non modificabili

Body mass index

Etnia

Resistenza insulinica

Polimorfismo IL B28

Uso/abuso di stupefacenti

Età

Disturbi psichiatrici minori

Grado di fibrosi

Concentrazione di vitamina D

Disturbi psichiatrici maggiori

Dosaggio di Peghinterferone

Genotipo HCV

Dosaggio di ribavirina

Carica virale

Aderenza Anemia/neutropenia Numero di CD4 (se HIV+)

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quali tra questi pazienti “difficili” (per la prevedibile scarsa aderenza, per la possibilità di tossicità cumulativa con altri trattamenti, per lo sfondo psicosociale precario ecc.) possa effettivamente affrontare, con accettabili probabilità di successo, un ciclo terapeutico impegnativo come quello con peginterferone e ribavirina. Inoltre non va mai trascurato il rischio potenziale che l’uso di interferone scateni crisi depressive gravi o scompensi psicotici latenti. Il medico del SerT in particolare potrà operare una pre-selezione tra i suoi pazienti, indirizzando allo specialista soltanto quei casi che ritenga idonei, sulla base anche di considerazioni ulteriori: infatti oltre ai fattori prognostici di risposta che potremmo definire “clinici” (tutti quelli elencati in Tabella 3), bisogna sempre considerare quelli psicosociali. Oltre alle patologie psichiatriche scompensate (incluse le sindromi depressive non trattate) o alla tossicodipendenza attiva e fuori controllo, bisogna prestare particolare attenzione anche al contesto esistenziale generale in cui si muove e opera il paziente: la condizione abitativa, il lavoro, i rapporti familiari e amicali, la comunità d’origine (soprattutto se straniero), il grado di istruzione o di alfabetizzazione, l’accesso ai servizi sanitari. Questi dettagli non implicano ovviamente una discriminazione di ceto o di origine ma anzi possono aiutare a focalizzare gli sforzi dell’èquipe di operatori dei SerT sulle criticità del paziente tout court. Un soggetto senza fissa dimora, senza lavoro o reddito, isolato dal nucleo familiare o dalla comunità di provenienza e incapace di comprendere le indicazioni mediche avrà poche possibilità di gestire positivamente la complessità della terapia dell’epatite C, anche e soprattutto negli aspetti pratici (conservazione dei farmaci, puntualità delle somministrazioni e dei controlli, minimizzazione degli effetti collaterali). Logicamente esiste tutto un gradiente di criticità psicosociali che devono appunto essere valutate a mente aperta ma con obiettività per decidere chi potrà iniziare la terapia e chi no. Resta implicito che tossicodipendenti attivi, in particolare eroinomani che, indipendentemente dalle terapie sostitutive, non riescano a raggiungere la completa astinenza, o malati psichiatrici per i quali le terapie specifiche ottengono solo un labile compenso, non sono candidabili al trattamento antivirale. L’utilizzo di metadone invece non controindica tale terapia; anzi è spesso utile nel miglioramento dell’aderenza e non dovrebbe mai essere scalato durante il ciclo antivirale. Indipendentemente dal gruppo di rischio, la terapia del virus C è unica e si basa sull’associazione dei due farmaci prima citati, peginterferone e ribavirina. Il peginterferone, a somministrazione settimanale sottocutanea, è prodotto da due diverse ditte farmaceutiche con minime differenze nella struttura molecolare: il peginterferone alfa-2a, a più lento rilascio e a dosaggi fissi, e il peginterferone alfa-2b, dosabile sul peso del paziente (1-1.5 mcg/kg). Recenti studi di confronto tra le due molecole non hanno definitivamente chiarito quale dei due farmaci sia più vantaggioso, pur essendo chiaro che il peginterferone alfa2b, grazie alla possibilità del dosaggio pro chilo, è più facilmente gestibile su pazienti di struttura fisica estrema (molto magri o molto grassi), mentre l’alfa2a ha la caratteristica di garantire una concentrazione attiva più a lungo. Sarà comunque l’esperienza del singolo medico a far propendere per l’uno o l’altro farmaco, anche se possiamo in conclusione considerarli di efficacia analoga. La ribavirina viene invece somministrata oralmente ogni giorno al dosaggio di 10-15 mg/kg, da suddividere in due o tre dosi da assumere preferibilmente a stomaco pieno. L’associazione dei due farmaci descritti, a condizioni ottimali di aderenza e tollerabilità, può condurre a una risposta virale sostenuta tra il 50% e l’85%, a secondo del genotipo (genotipi 1 e 4 versus genotipi 2 e 3, il 5 e 6 essendo

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estremamente rari e poco studiati). Se non è possibile l’assunzione di ribavirina (per intolleranza soggettiva o soprattutto per anemizzazione grave), il solo peginterferone può essere comunque somministrato, seppur con percentuali inferiori di risposta sostenuta; lo stesso non può dirsi per la sola ribavirina che, pur avendo effetto antivirale (riduce comunque i livelli di HCV-RNA), non conduce mai all’eradicazione del virus. La durata della terapia è di 24 settimane per i genotipi “favorevoli” (2 e 3), di 48 settimane per quelli “difficili” (1 e 4); al di fuori degli schemi tradizionali, come già accennato, in condizioni particolari lo specialista può allungare o accorciare tali periodi sulla scorta delle evidenze che man mano emergono in merito ai fattori prognostici elencati sopra (Tabella 4 come esempio di approccio ragionato). Un altro passaggio importante della gestione terapeutica è la valutazione della risposta virale rapida (RVR) e di quella precoce (EVR), rispettivamente al primo e al terzo mese. La negativizzazione o la netta diminuzione della carica virale sarà indicativa di risposta e assumerà il significato di un ulteriore fattore prognostico favorevole. Viceversa, se al terzo mese non si avrà una risposta importante, le probabilità di guarigione diminuiranno notevolmente e molto spesso, se non presenti altri fattori modificabili, il medico consiglierà la sospensione della terapia. A questo proposito, al di là delle due categorie grossolane dei genotipi favorevoli o difficili, è ormai evidente che il sovrapporsi dei vari fattori prognostici definisce in realtà, tra chi risponde, due categorie più complesse, che potremmo chiamare responders veloci e responders lenti per i quali la durata della terapia potrebbe essere variata. Questo già viene fatto in studi controllati ed è probabile che presto tale approccio verrà gradualmente introdotto nella pratica clinica e nelle linee-guida. Un ultimo accenno merita la gestione degli effetti collaterali, in particolare la neutropenia da interferone e l’anemia da ribavirina. Mentre altri eventi avversi, potenzialmente anche gravi (depressione, tireopatie, crisi ipertensive, patologie cutanee, miopatie etc) meritano tutta l’attenzione e la cura degli specialisti implicati, neutropenia ed anemia possono essere discretamente gestite con i fattori di crescita disponibili (per granulociti e per eritrociti). Anche in un recente passato molte terapie venivano sospese o pesantemente depotenziate per la progressiva neutropenia o anemia (o entrambe); negli ultimi anni invece si è scelta la linea del mantenimento di Tabella 4 - Alcuni schemi terapeutici antivirali PEG-IFN alfa Ribavirina

Durata (settimane)

SVR

Genotipi HCV 1-4

HCV 2-3

2a 180 mcg 2b 1.5 mcg/kg

2a 180 mcg 2b 1.5 mcg/kg

<65 kg 800 m <75 kg 1000 mg > 75 kg 1200 mg

800 mg opp <75 kg 1000 mg > 75 kg 1200 mg

48

48 se genotipo 3 e RNA> 800.000 UI 24 12 se RVR

40-50 %

75-85%

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dosaggi più alti possibile per la maggior durata possibile, utilizzando appunto i fattori di crescita in base all’andamento dell’emocromo. Anche questo approccio ha permesso l’incremento delle guarigioni.

Altri aspetti dell’epatite C cronica Non comuni ma non rarissime manifestazioni extraepatiche correlate all’infezione da virus C, come sindrome di Sjogren, nefropatia, linfomi, crioglobulinemia, porfiria cutanea tarda e altre lesioni cutanee rientrano in una trattazione specialistica e non sono state considerate in questo capitolo. Non per questo devono essere ignorate ed è utile anzi approfondirne lo studio su testi dedicati. Lo stesso dicasi per le interazioni dell’epatite cronica virale con quella da abuso etilico o da terapie farmacologiche concomitanti. Anche il diabete, nel quadro più ampio della sindrome metabolica, come accennato in precedenza, deve essere considerato nella gestione dell’epatopatia. Queste considerazioni, integrate da altre riguardanti la coinfezione con HIV o HBV e i pazienti “speciali” (il nefropatico, il trapiantato, l’anziano, il bambino, la gravida, il portatore di patologie ematologiche, il paziente con epatocarcinoma, il relapser e il non-responder), rendono lo studio e la gestione dell’epatite cronica da HCV un campo multidisciplinare in continua e vivace espansione. Bibliografia 1. Bottarelli P,Brunetto MR,Minutello MA et al.T linphocyte response to hepatitis C virus in different clinical courses of infection.Gastroenterology 1993;104:580, 7 2. Takahashi M, Yamada G, Miyamoto R et al. Natural course of chronic hepatitis C. Am J Gastroenterol 1993; 88, 2: 240-243 3. Tremolada F, Cassin C, Drago C et al. Long-term follow-up of NANB (type C) post-transfusion hepatitis. J Hepatol 1992; 16: 273-281 4. Soriano V et al, Antiv Research, 2010, 5. Rodger AJ, Roberts S, Lanigan A et al. Assessment of long-term outcomes of communityacquired hepatitis C infection in a cohort with sera stored from 1971-1975. Hepatology 2000; 32: 582-587 6. Wiese M, Berr F, Lafrenz M et al. Low frequency of cirrhosis in a hepatitis C (genotype 1b) single-source outbreak in Germany: a 20-year multicenter study. Hepatology 2000; 32: 91-96 7. Poynard T, Bedossa P, Opolon P et al. Natural history of liver fibrosis progression in patients with chronic hepatitis C: the OBSVIRC, METAVIR, CLINIVIR, and DOSVIRC groups. Lancet 1997; 349: 825-832 8. Ong JP, Younossi ZM, Speer C et al. Chronic hepatitis C and superimposed nonalcoholic fatty liver disease. Liver 2001; 21: 266-271 9. World Health Organization. Hepatitis C: global prevalence - update 2003 10. Mazzeo C et al. Ten year incidence of HCV infection in northern Italy and frequency of spontaneous viral clearance. Gut 2003; 52:1030-1034 11. Parrilli G et al. Natural history of chronic viral hepatitis in southern Italy: epidemiological changes since the introduction of the anti-HCV test. Epidemiol.Infect. 2003; 131: 11111115 12. Rantala M et al. Surveillance and epidemiology of hepatitis B and C in Europe – A review. Eurosurveillance vol.13 (2008) issues 4-6 13. Istituto Superiore di Sanità. Epidemiology of acute viral hepatitis: twenty years of surveillance through SEIEVA in Italy and a review of the literature. Rapporti ISTISAN 06/12:18-27 14. European Association on the Studies on the Liver (EASL): EASL International Consensus Conference on Hepatitis C. Paris, 26-27 February 1999. Consensus statement. J Hepatology 1999, 31 (Suppl I) 3-8 15. World Health Organization: Hepatitis C. Geneva, Switzerland; 2002: 1-69 16. Muhlberger N et al. HCV-related burden of disease in Europe: a systematic assessment of incidence, prevalence, morbidity, and mortality. BMC Public Health 2009, 9:34

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13. Epatite virale da HBV

Irene Zagni 1, Stefano Nardi 2 1 2

U.O. Medicina, Azienda Ospedaliera di Desenzano del Garda (BS) Centro Medicina Comunitaria, Sezione di Screening HIV, ULSS 20 Verona

Introduzione L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) stima che i portatori cronici di infezione da virus dell’epatite B (HBV) nel mondo, identificati sulla base della positività per l’antigene di superficie del virus (HBsAg), siano circa quattrocento milioni. Il numero dei portatori cronici di HBV è quindi circa 2 volte superiore ai portatori di infezione da HCV e 7 volte superiore ai pazienti infettati dall’HIV. Nel mondo ci sono 400 milioni di persone con epatite cronica HBV correlata (circa il 5% della popolazione mondiale) di cui la maggior parte cittadini dell’Asia, anche se elevate percentuali di infezione si riscontrano in Africa. Quasi tutti i pazienti in queste aree ad elevato rischio, sono infettati alla nascita (trasmissione verticale dalla madre) o entro i due anni di età (sempre dalla madre o da fratelli o parenti stretti conviventi). Questo quadro epidemiologico è profondamente diverso dalla realtà del Mondo Occidentale con epatopatia HBV, poiché in genere l’infezione è acquisita durante l’adolescenza o nell’età adulta, di solito attraverso contatti sessuali a rischio o con la condivisione di aghi infetti nel caso dei tossicodipendenti. In Italia, l’incidenza di epatite B per anno ed età (SEIEVA, 2002) ha evidenziato un progressivo calo nel tempo anche se negli ultimi anni sembra che ci sia un nuovo aumento in relazione all’immigrazione di soggetti infetti provenienti dalle aree dove il virus è molto diffuso. L’HBV rimane tuttora un’importante causa di epatopatia in Italia, nonostante la maggior consapevolezza sulle vie di trasmissione e l’introduzione, quasi 20 anni fa, della vaccinazione obbligatoria per neonati ed adolescenti. Pur essendo il nostro Paese un’area a bassa endemia per HBV (la prevalenza è < al 2%), vengono comunque stimati circa 1 milione di portatori conici di HBsAg, la stragrande maggioranza dei quali (circa 90%) HBeAg negativi (1). L’infezione da HBV è responsabile di un ampio spettro di forme cliniche, che vanno dall’epatite acuta benigna, all’epatite fulminante, all’epatite cronica, alla cirrosi e all’epatocarcinoma (HCC).

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L’HBV è la causa più frequente nel mondo di epatocarcinoma, tanto da essere considerato dall’OMS il più importante agente carcinogenetico noto dopo il fumo di tabacco. Il corretto utilizzo dei farmaci a disposizione è fondamentale per la cura del singolo paziente ma anche per la prevenzione delle complicanze della malattia epatica.

Eziologia A differenza di tutti gli altri virus a DNA ed al pari dei retrovirus, il virus B replica attraverso la trascrizione inversa di un RNA pregenomico. Negli epatociti infetti, il DNA virale viene trascritto in RNA messaggero per la sintesi delle proteine virali e in RNA pregenomico che migra nel citoplasma dove viene retrotrascritto in DNA ad opera della trascriptasi inversa. Struttura del virus Il virus dell’epatite B appartiene alla famiglia degli Hepadnaviridae, famiglia di virus a DNA con spiccato tropismo verso gli epatociti. Il virus completo (virione o particella di Dane) è una particella sferica, costituita da una parte centrale, core, di 27 nm e da un rivestimento, envelope, di 7 nm. Il core o nucleocapside è composto da due proteine: l’antigene del core (HBcAg) e l’antigene e (HBeAg), i quali circondano il genoma. Il genoma virale è costituito da una molecola di DNA circolare a doppio filamento parzialmente a doppia elica e da una DNA polimerasi, responsabile della sintesi di DNA virale nelle cellule infettate, ed una proteina kinasi. Nel genoma virale sono stati identificati 4 geni parzialmente sovrapposti che dirigono la sintesi dei diversi antigeni virali: • il gene S codifica per le proteine dell’envelope HBsAg, pre-S1 e pre-S2; • il gene C codifica per HBcAg e HBeAg; • il gene P codifica per la DNA polimerasi/trascriptasi inversa • il gene X codifica per la proteina X con funzioni di regolazione della espressione dei geni virali L’envelope è un doppio strato fosfolipidico che contiene tre proteine, la proteina grande, media e piccola, le quali costituiscono i tre antigeni virali di superficie. La proteina piccola (small surface protein) è conosciuta anche come l’antigene Australia (Figura 1). Il core è sintetizzato nel nucleo degli epatociti mentre l’envelope è sintetizzato nel citoplasma degli epatociti infetti (1,2). Nel circolo ematico si osservano anche le particelle subvirali, formate per auto-assemblaggio delle proteine virali, che hanno forma sferica o filamentosa, con un diametro di 20-22 nm e con una lunghezza variabile per i filamenti dai 40-400 nm (Figura 2). Le particelle subvirali contengono solo l’envelope insieme agli antigeni virali di superficie, quindi non sono infettanti perchè prive dall’acido nucleico. Infatti, solo il virus completo è infettante. Il rapporto tra particelle subvirali e virus completo nel siero dei pazienti affetti dall’epatite B varia da 1000:1 a 10,000:1 (3). Il ruolo delle particelle subvirali nel ciclo vitale di virus dell’epatite B non è chiaro. Queste particelle possono interagire con il sistema immune dell’ospite oppure favorire il processo infettivo (4). Il genoma di HBV è costituito da una molecola circolare di DNA parzialmente a doppia elica. L’acido nucleico virale ha un filamento breve S (+) di lunghezza variabile di 1700-2800 nucleotidi ed un filamento lungo complementare, denominato L o filamento (–), la quale lunghezza varia da 30203320 nucleotidi.

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Epatite virale da HBV

Figura 1 - Struttura del virus dell’epatite B

Icosahedral core (C)

Small surface protein (S) Medium surface protein (S + PreS2) Large surface protein (S + PreS2 + PreS1)

DNA

Polymerase (P)

Figura 2 - Struttura genomica dell’HBV

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La catena L contiene 4 sequenze geniche denominate S, C, P e X (cosidette open reading frames [ORF]), le quali si sovrappongono ampiamente e codificano per la sintesi di 7 proteine virali. Al contrario, la catena S non contiene ORF (Figura 2). La regione pre S/S è divisa in tre regioni che sono il pre-S1 (108-119 aa in relazione al genotipo) (5), pre-S2 (55 aa) e il gene S (226 aa) (6). Questi regioni codificano i tre antigeni virali di superficie distinti in base al punto d’inizio della traduzione genica (proteina grande, media e piccola). La proteina grande [L] (p39 e gp42) è codificata dalle regioni pre-S1, pre-S2 e dal gene S ed ha una lunghezza variabile in relazione al genotipo di HBV. Essa costituisce solo il 20% delle proteine dell’envelope ed è meno rappresentata a livello della superficie virale. Tale proteina risulta essenziale per l’infezione e per la morfogenesi virale in quanto implicata sia nel legame del virus ai recettori cellulari, nell’assemblaggio del virione e nel suo rilascio dalla cellula, sia nella sollecitazione della risposta cellulare B e T (7). La sua presenza nel sangue della persona infetta è strettamente correlata con l’antigene HBeAg e con la presenza di HBV-DNA, due markers sierologici dell’infezione acuta (8). La proteina media [M] (p30, gp33 e gp36) (5,9,10) è codificata dalla regione pre-S2 e dal gene S. Essa ha un ruolo prioritario per la penetrazione del virus nell’epatocita, poichè contiene un recettore per l’albumina umana (aa 3 e aa 16). La proteina media è prodotta esclusivamente nella fase di infezione acuta (11). La proteina piccola [S], chiamata anche antigene S o HBsAg (p24 e gp26) è codificata dal gene S e rappresenta la più piccola tra le proteine di superficie. Si chiama anche proteina maggiore (major) a causa della sua presenza dal punto di vista quantitativo. L’HBsAg posto a temperatura ambiente o congelato resiste per anni. Il suo potere antigenico viene distrutto dal riscaldamento a 85°C per 1 ora o a 100°C per 5 minuti (2). L’antigene HBsAg appare molto precocemente nel siero delle persone infettate nel corso dell’infezione, costituendo il primo marker sierologico dell’infezione e prevale nel siero dei portatori cronici. La regione pre-C e C (core o nucleocapside virale) codifica due proteine, l’antigene del core (HBcAg) e la proteina di secrezione (HBeAg). L’HBcAg è il principale componente strutturale del nucleocapside. L’antigene del core HBcAg non è rilevabile in circolo pur essendo presente nei nuclei degli epatociti fin dalle primissime fasi, perché è ricoperto dall’antigene di superficie HBsAg. Quando l’HBcAg viene espresso sulla superficie degli epatociti infettati, è il principale bersaglio della risposta immunitaria cellulomediata finalizzata alla distruzione degli epatociti infettati. Gli anticorpi HBcAb diretti contro HBcAg si repertano in tutti i soggetti esposti al virus; essi non sono protettivi e non permettono la distinzione tra evento acuto e cronico, rinvenendosi sia nel soggetto guarito che nel portatore cronico. La distinzione tra evento acuto e cronico si basa invece sul riscontro, nel primo caso, degli anticorpi anti-core di tipo IgM che non permettono però la discriminazione tra epatite acuta e riacutizzazione in corso di epatopatia cronica (12) . L’HBeAg non è un componente della particella virale, ma è presente nel siero del soggetto infetto ed è un marcatore di attiva replicazione e di infettività; viene inoltre espresso sulla superficie degli epatociti insieme all’HBsAg ed è un importante bersaglio della risposta immune dell’ospite che porta alla distruzione della cellula infetta. L’eliminazione di HBeAg e la concomitante comparsa di anticorpi specifici si associa, salvo nel caso della selezione di mutanti HBeAg minus, al controllo immunitario dell’infezione virale.

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Epatite virale da HBV

Gene pol: Il gene Pol (832 aa) costituisce l’80% del genoma virale e codifica la polimerasi virale. Il gene comprende quattro domini distinti, che codificano per enzimi essenziali al ciclo di replicazione virale. A differenza della polimerasi retrovirale, la polimerasi di HBV è priva di un dominio di integrazione. Gene X: Il gene X codifica per una proteina non-strutturale (HBx) di 154 aa che sembra avere una funzione regolatrice, esprimendo una proprietà transattivante nei confronti delle altre proteine virali e geni cellulari, giocando così un ruolo importante nel processo di epatocarcinogenesi (13). La proteina X è essenziale per l’infezione di HBV e desta una particolare attenzione per la sua funzione pleiotropica. HBx non lega direttamente il DNA ma agisce tramite un’interazione proteina-proteina ed attiva importanti fattori trascrizionali indispensabili per la replicazione del DNA virale (14). L’infezione da epatite cronica di tipo B è associata con un aumento della produzione di ROS (reactive oxygen species), a sua volta collegato a processi infiammatori, dentro agli epatociti, che sono responsabili dell’ossidazione delle macromolecole intracellulari. Il ROS può danneggiare il DNA inducendo mutazioni (stress ossidativo) ed inoltre può indurre l’attivazione di importanti fattori di trascrizione, quali il promotore della crescita, della proliferazione, della replicazione del DNA e coinvolge altri funzioni che inducono a morte cellulare o allo sviluppo di tumore. HBx sembra attivare fattori di trascrizione cellulare attraverso lo stress ossidativo nelle cellule tramite la sua diretta associazione coi mitocondri portando all’innalzamento della ROS. Un valore aumentato di ROS può aumentare la replicazione virale, nonostante il meccanismo attraverso il quale la proteina X attivi questi fattori di trascrizione non sia ancora completamente chiarito (14). Ciclo replicativo HBV: A differenza di tutti gli altri virus a DNA ed al pari dei retrovirus, il virus dell’HBV replica attraverso la trascrittasi inversa di un RNA pregenomico. Il ciclo replicativo inizia con l’attacco del virus ad un recettore dell’epatocita, cui segue la fusione delle membrane cellulari; il virione viene privato dell’envelope ed il genoma virale raggiunge il nucleo cellulare. A livello nucleare il genoma virale costituito da DNA circolare parzialmente a doppia elica, che si chiama RC-DNA (relaxed circular DNA), viene trasformato in DNA circolare a doppio filamento (ccc-DNA, covalently closed circular). Il ccc-DNA funge da stampo per la trascrizione di trascritti genomici e subgenomici ad opera dell’enzima RNA polimerasi II della cellula ospite; questi vengono poi trasportati a livello citoplasmatico dove ha luogo la sintesi delle proteine funzionali e strutturali del virione (15). Il primo step nella replicazione virale è l’incorporazione dell’RNA pregenomico e della proteina Pol all’interno di proteine del core assemblatesi a formare il nucleocapside. All’interno del nucleocapside, un singolo filamento dell’RNA pregenomico viene retrotrascritto in un filamento di DNA genomico a polarità negativa. Non appena quest’ultimo si è formato, vi è una degradazione dell’RNA pregenomico ad opera di una RnaseH. Questo frammento dell’RNA si include nella regione DR1 e poi, viene legato nella regione DR2 di DNA in posizione terminale 5’. Successivamente, l’HBV polimerasi genera il filamento complementare (+) del DNA utilizzando questo oligoribonucleotide come primer e usando il filamento (-) come stampo (15). La catena positiva rimane incompleta poiché la stessa polimerasi è in seguito privata dei precursori trifosfati. Il nucleocapside così costituito viene internalizzato nel reticolo endoplasmico passando attraverso il quale acquisisce le proteine dell’envelope costituite dall’antigene di superficie virale. Dopo di questo, il virione maturo fuoriesce dalla cellula epatica. In questo momento, il filamen-

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to positivo cessa immediatamente di allungarsi. Questo meccanismo spiega la variabilità nella sua lunghezza. Un aspetto particolare del ciclo replicativo di HBV che sta alla base dell’infezione persistente è che una piccola parte di nucleocapsidi non viene indirizzata verso la via secretoria, tornando invece nel nucleo dove il DNA genomico viene convertito in ccc-DNA; ciò permette di creare una riserva stabile di molecole di ccc-DNA che fungano da stampo trascrizionale senza la necessità di multiple reinfezioni (16). La peculiare strategia replicativa di questo virus rende ragione della elevata frequenza di mutazioni introdotte ad ogni ciclo di replicazione e della simultanea presenza in ciascun individuo infetto di molteplici varianti virali strettamente correlate ma non identiche tra loro. L’infezione da HBV è pertanto sostenuta da una popolazione virale eterogenea, con una sequenza più frequentemente rappresentata ed un ampio spettro di varianti, una distribuzione genomica definita “quasispecie”. Nel corso dell’ infezione cronica le varianti virali che grazie alle mutazioni incorporate presentano un vantaggio rispetto al virus non mutato o virus selvaggio, (per esempio migliore capacità di replicazione, resistenza alla eliminazione immune o agli agenti antivirali) vengono positivamente selezionate e diventano la popolazione virale dominante. Oltre alle caratteristiche biologiche che rendono ragione di per sé dell’alto tasso di variabilità del genoma virale, si deve anche tener conto che nell’individuo cronicamente infetto l’HBV può persistere anche per decenni negli epatociti. Questo può spiegare come un elevato numero di mutazioni genetiche sia spontanee sia indotte dalla pressione immunologica dell’ospite o delle terapie antivirali possono accumularsi nel genoma del virus e determinare l’emergere di ceppi virali con nuove caratteristiche biologiche e mutate capacità replicative e patogenetiche, capaci di eludere il controllo immunitario e di resistere alle terapie antivirali. I mutanti pre-C o HBeAg difettivi rappresentano la popolazione virale prevalente nei soggetti con epatite cronica anti-HBe positiva. L’HBeAg deriva dalla traduzione continua della proteina precore/core dopo rimozione di alcuni aminoacidi dell’ estremità amino e carbossiterminale. I mutanti pre-C sono incapaci di produrre HBeAg a causa di mutazioni nella regione precore essenziale per la sintesi e secrezione dell’ HBeAg. La mutazione più comunemente osservata interessa il penultimo codone della regione precore e causa l’ introduzione di un codone di stop (TAG) che termina prematuramente la sintesi della proteina precore, precursore dell’ HBeAg. Poiché la regione preC non è necessaria per laformazione dell’ HBcAg, la mutazione descritta non interferisce con la produzione di particelle virali infettanti. Pertanto, l’identificazione dei mutanti pre-C ha spiegato dal punto di vista virologico la mancata espressione dell’ HBeAg in presenza di attiva replicazione virale dell’ HBV. Genotipi virali Sulla base del grado di diversità della sequenza nucleotidica del suo genoma, l’HBV viene classificato in 8 diversi genotipi (A,B,C,D,E,F,G,H), che presentano una diversa distribuzione geografica ed etnica. I genotipi A e D prevalgono in Europa, Africa e India. I genotipi B e C hanno un’elevata prevalenza in Asia. In Italia è più frequente il genotipo D (>90%). I dati forniti dalla letteratura in merito ai genotipi virali non sono ancora sufficienti ad attribuire una rilevanza clinica.

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Epatite virale da HBV

Epidemiologia Fino alla metà degli anni ’80 l’Italia è stata il teatro di un’elevata circolazione di HBV. In seguito si è assisitito ad un rapido declino dell’incidenza di epatiti acute e di prevalenza dei casi di epatiti croniche per il progressivo miglioramento delle condizioni igieniche (in particolare l’utilizzo di siringhe monouso), la migliore conoscenza delle vie di trasmissione e, dal 1991, l’introduzione della vaccinazione di tutti i neonati e dei dodicenni. La politica vaccinale adottata ha fatto sì che le due coorti sottoposte a vaccinazione si siano fuse al dodicesimo anno, realizzando una copertura vaccinale teorica da 0 a 24 anni (17). Parallelamente, le malattie epatiche croniche HBV correlate sono passate da oltre il 50% a circa il 13% dei giorni nostri. L’Italia è quindi attualmente un paese a basso livello di endemia, con una prevalenza di portatori cronici del 1.5%, un’incidenza di infezioni acute sintomatiche tra 1 e 2/100.000 abitanti/anno ed un quasi totale azzeramento delle infezioni in età infantile. La circolazione del virus avviene prevalentemente per via sessuale e in misura minore attraverso l’uso di droghe per via endovenosa. Delle classiche modalità di contagio parenterali, la trasfusione ha oggi un ruolo marginale quale fattore di rischio, ma non azzerato nonostante lo screening dei donatori o del sangue. Uno studio italiano calcola il rischio residuo stimato in circa 13 per milione di unità trasfuse utilizzando per lo screening. metodiche immunoenzimatiche. Questo valore è di circa 5 volte superiore a quello di trasmissione di HCV e 10 volte superiore ad HIV. L’introduzione di metodiche di amplificazione genica Nucleic Acid Testing (NAT) permette di identificare fino a 72 unità positive per HBV-DNA per milione di unità HBsAg negative (18). Le nuove mode, che si sono presentate negli ultimi anni, hanno creato nuove fonti di contagio. Piercing e tatuaggi espongono un numero crescente di persone a questo rischio parenterale; l’esposizione di un numero elevato di persone ad un rischio, anche non particolarmente intenso, rende comunque quel rischio responsabile di un numero elevato di casi di malattia (19). Un aspetto recente del problema è dato dalla intensa immigrazione da aree di elevata endemia per HBV come l’Est Europeo, l’Africa sub-sahariana, la Cina. Si stimano in circa tre milioni gli immigrati in Italia, con presenza di un buon numero di clandestini che sfuggono a qualsiasi misura di profilassi. La prostituzione rappresenta il veicolo frequente di trasmissione della infezione. Genotipi inusuali di HBV per l’Italia sono implicati in infezioni da virus importato. Questo fenomeno può avere rilevanza clinica, in quanto è descritta una diversa storia naturale e una diversa sensibilità all’interferone tra i vari genotipi. Emerge infine il rischio che possano circolare virus resistenti agli antivirali. Nel mondo è in aumento il numero di soggetti trattati con lamivudina che presentano HBV resistente. La lamivudina è adoperata nei protocolli terapeutici per i pazienti con infezione da HIV, tra i quali circa il 10% è HBV coinfetto in Europa e verosimilmente una proporzione superiore in aree ad alta endemicità per HBV. L’esperienza dell’HIV ha insegnato che nuove infezioni possono essere causate da virus experienced multiresistenti. Mutazioni di resistenza sono anche possibili in natura, in pazienti mai esposti al farmaco (20). L’impatto dei mutamenti epidemiologici sulla presentazione clinica dell’epatite cronica è stata epocale. Negli anni ’80, il 40% delle epatiti croniche era HBeAg positivo, mentre i pazienti che afferiscono oggi alle strutture sanitarie sono in maggioranza anti HBe positivi, mentre solo il 10-15% è HBeAg positivo.

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In epoca di elevata incidenza di nuove infezioni, infatti, era elevato il numero di HBeAg positivi. Molti di essi nel tempo hanno sieroconvertito ad antiHBe, raggiungendo lo stato di portatore inattivo, altri con malattia cronica attiva sono morti o sono stati trapiantati. Oggi, in epoca di bassa incidenza, afferiscono agli ambulatori in prevalenza i vecchi casi sopravviventi, divenuti anti-HBe positivi e con replicazione virale, affetti da forme meno attive, ma con progressione indolente verso la cirrosi e l’epatocarcinoma. Per anni il più importante cofattore di malattia per i portatori cronici di HBV è stato l’agente Delta (HDV) che, attraverso la coinfezione o la superinfezione di un portatore, provocava epatiti fulminanti o infezioni croniche rapidamente progressive. La circolazione del virus Delta negli ultimi anni è nettamente diminuita. Attualmente circa l’8% dei portatori di HBV presenta coinfezione con HDV, che si associa a cirrosi nel 40% dei casi (21, 22). L’infezione si concentra per lo più in soggetti di età più avanzata (oltre i 50 anni) ed è rara nei giovani, dove si riscontra ancora in soggetti coinfetti con HIV, in cui il fattore di rischio è l’uso di droghe ev. L’infezione cronica da HCV si associa ad HBV in circa il 7% dei casi e ne modifica il pattern virologico ed il decorso clinico (23). Nella confezione HBV HCV vi è una reciproca inibizione della replicazione virale, per cui i livelli viremici di entrambi i virus possono essere meno elevati rispetto ai soggetti monoinfetti e possono mostrare reciproche oscillazioni temporali (24). Nei confetti è maggiore il rischio di sviluppare l’epatocarcinoma (25). Si stima inoltre che il 2% dei pazienti con infezione cronica HBV correlata sia coinfetto con il virus dell’HIV, con elevato rischio di progressione di malattia epatica e morte in questi pazienti. Nei soggetti HBV positivi con determinati fattori di rischio è pertanto mandatorio ricercare le confezioni con HIV e HDV e HCV (26). Epidemiologia dell’HBV nei tossicodipendenti L’infezione da virus epatitici nei soggetti tossicodipendenti è maggiormente diffusa rispetto all’infezione da HIV sia nella popolazione europea che in quella italiana e la prevalenza di anticorpi anti HBV nei paesi membri dell’EU varia in modo maggiore rispetto all’HCV, in controtendenza rispetto alla diffusione del virus in Italia. Nel periodo compreso tra il 2004 ed il 2009 in Italia ed in 4 dei 13 paesi che hanno fornito dati sui tossicodipendenti per via iniettiva (IDU), la prevalenza di anti HBc è risultata superiore al 40%. La prevalenza complessiva di HBV nel 2011 nei pazienti in carico ai servizi per le tossicodipendenze è diminuita nel 2011 di 1,2 punti percentuali rispetto all’anno precedente, attestandosi al 14.5%. Nel 2010 tra i ricoveri droga correlati, le diagnosi riconducibili alla presenza di epatite B sono inferiori all’1% in linea con i dati dell’ultimo triennio (27).

Storia naturale Il fattore più importante che condiziona il tasso di cronicizzazione dell’epatite acuta da virus dell’epatite B è rappresentato dall’età del paziente al momento dell’infezione; infatti esso varia dal 90 al 95% nei neonati da madre HBsAg ed HBeAg positiva fino al 5-10% nei soggetti adulti immunocompetenti. L’infezione cronica è contraddistinta da processi clinico-patologici eterogenei, che contemplano lo stato di portatore sano o con minime alterazioni istologiche, l’epatite cronica, la cirrosi e l’epatocarcinoma.

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Nella storia naturale dell’infezione e della malattia da virus B è possibile individuare tre fasi virologiche e cliniche generalmente abbastanza distinte fra loro. Il passaggio da una fase all’altra è condizionata dal modificarsi, nel tempo, del rapporto tra virus e ospite. La fase precoce di replicazione virale è contraddistinta da positività nel siero di HBsAg ed HBeAg ed elevati livelli sierici del DNA virale specifico del virus B (HBV DNA). I livelli di transaminasi sono normali o solo lievemente alterati, indicando che, durante questa fase, la risposta immune dell’ospite verso gli epatociti infetti è molto debole. Il quadro istologico può essere quello di un’epatite cronica a minima o lieve attività, e nel fegato è presente una distribuzione diffusa di antigene “core” (HBcAg) a localizzazione prevalentemente nucleare. Durante l’infezione cronica la risposta immune dell’ospite può modificarsi con il tentativo di eliminare gli epatociti infetti. In questa fase intermedia, che può avere una durata variabile da mesi ad anni, i livelli sierici di HBV DNA si riducono notevolmente e si può osservare la scomparsa di HBeAg. La malattia epatica presenta una spiccata attività bioumorale ed il quadro istologico è quello di epatite cronica a moderata o severa attività con presenza di flogosi e necrosi lobulare. La fase tardiva non replicativa implica sieroconversione, cioè lo sviluppo di anticorpi verso l’HBeAg (anti HBe), con negativizzazione dell’HBV DNA sierico, mediante le comuni tecniche di ibridizzazione molecolare, anche se quantità, seppur minime, di HBV DNA possono essere rilevate mediante PCR. L’evento sieroconversione da HBeAg ad anti HBe nella storia naturale dell’infezione e della malattia epatica cronica da HBV avviene con un’incidenza annua di circa il 10-15% dei pazienti e si associa, nella maggior parte dei casi, a terminazione della replicazione virale con normalizzazione delle transaminasi e regressione dell’infiammazione e necrosi epatica (28). L’aumento dei livelli delle transaminasi che si osserva prima della sieroconversione ad anti-HBe può raggiungere livelli simili a quelli riscontrabili nell’epatite acuta, ed è generalmente asintomatico. In alcuni pazienti il passaggio alla fase tardiva non replicativa può essere il preludio all’eradicazione dell’infezione con eliminazione dell’HBsAg. Infatti circa l’1-2% dei pazienti perde l’HBsAg e sviluppa anti-HBs ogni anno. Nella maggior parte dei pazienti, invece, permane l’espressione di HBsAg nel siero, in tale modo più si allunga la durata dell’infezione, più aumenta la possibilità che un numero elevato di molecole di HBV DNA si integri nel genoma delle cellule epatiche dell’ospite, processo importante, anche se non unico, nella genesi dell’epatocarcinoma. L’evoluzione dell’epatite cronica dopo sieroconversione ad anti HBe dipende dall’entità del danno epatico instauratosi precedentemente. Se la replicazione virale termina prima che si sia sviluppata cirrosi, si può avere regressione ad epatite cronica lieve o minima, oppure a modica fibrosi limitata agli spazi portali o a fegato normale. Nei pazienti nei quali la cirrosi si sia già sviluppata, si osserva lo spegnimento della componente flogistica e necrotica con passaggio a cirrosi inattiva. Tuttavia, anche questi pazienti possono andare incontro a complicanze della cirrosi, durante l’osservazione successiva. D’altra parte la sieroconversione ad anti HBe non rappresenta necessariamente una risoluzione permanente dell’epatite cronica e la possibile successiva riattivazione della replicazione virale con ricomparsa di HBeAg e/o HBV DNA nel siero può essere un’importante causa di progressione della malattia, ma si può osservare anche spontaneamente nel 10-20% circa dei pazienti dopo sieroconversione ad anti-HBe. Infine, una parte dei pazienti può presentare persistente positività sierica per HBV DNA ed elevazione delle transaminasi nonostante la sieroconversione ad anti HBe. Per tale mo-

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tivo oggi vengono contraddistinti due sottogruppi di epatiti croniche HBsAg positive, ovvero la forma di HBeAg positiva e la forma HBe ag negativa (anti HBe positiva) con replicazione virale in atto, contraddistinta dalla positività nel siero per HBV DNA e/o nel fegato per antigene “core”. La persistenza della replicazione virale in assenza di HBeAg è stata biologicamente spiegata dall’identificazione di un mutante del virus B, con mutazione della regione precore che impediscono la produzione di HBeAg, marcatore sierologico delle forme di epatite cronica sostenute da virus non mutato o selvaggio (29). Questa forma di epatite cronica HBeAg negativa è particolarmente diffusa nei paesi del bacino del mare Mediterraneo ed in Estremo Oriente. Essa, inoltre, presenta delle caratteristiche che la differenziano rispetto al decorso della forma HBeAg positiva in quanto presenta un andamento caratterizzato da fasi di riattivazione della malattia che si alternano a periodi di remissione più o meno completa, con negatività per HBV DNA nel siero. Le transaminasi presentano quindi delle elevazioni periodiche con valori che possono simulare un’epatite acuta, alternate a fasi di normalità. L’attività virale è anch’essa ciclica con positività sierica per l’HBV DNA non costante. La malattia ha inoltre un andamento con rapida progressione a cirrosi, mentre la remissione spontanea persistente si osserva in un numero limitato di casi (30, 31). Dal punto di vista clinico è di estrema importanza la progressione dell’epatite cronica B a cirrosi, cioè la comparsa di una condizione morfologica irreversibile, condizione che determina l’insorgenza di complicanze che possono compromettere la sopravvivenza del paziente. Studi longitudinali compiuti su pazienti con epatite cronica da virus B indicano che l’incidenza annua di cirrosi varia dallo 0,1% al 10% (32). Tale variabilità può essere spiegata con le differenti caratteristiche cliniche e sierologiche dei pazienti inclusi nei vari studi. È stato infatti documentato che l’età più avanzata, la presenza di lesioni istologiche severe, quali la necrosi a ponte e la persistenza di HBV DNA nel siero, indipendentemente dal sistema HBeAg/ anti-HBe, sono fattori prognostici significativamente ed indipendentemente associati a progressione a cirrosi (33). È stato altresì dimostrato che anche forme di epatite cronica lieve possono progredire ad epatite severa o cirrosi in presenza di persistente replicazione virale (34). Naturalmente altri fattori possono aggravare la malattia epatica, determinando una più rapida evoluzione a cirrosi, quali la sovrainfezione con altri agenti epatitici, in particolare l’antigene delta (35) ed il virus dell’epatite C (36), od altre cause di danno epatico quali l’alcol ed i farmaci. La morbilità e la mortalità dell’epatite cronica B sono correlate all’evoluzione a cirrosi e ad epatocarcinoma (37,38,39). Nel mondo sono stimati circa 250.000 i decessi che annualmente sono dovuti alle conseguenze legate alla malattia da virus B. Le principali cause di morte sono l’epatocarcinoma e lo scompenso epatico. Tuttavia il tasso di mortalità varia a seconda che il paziente sia un portatore inattivo, sia affetto da epatite cronica o da cirrosi. L’eterogeneità dell’epatite cronica da virus B e la sua evoluzione nel tempo dipendono da fattori virali, ovvero dalla persistenza o terminazione della replicazione virale o la presenza di virus mutante e fattori dell’ospite, quali l’età, il sesso e lo stato immunitario. Risulta infatti maggiore il rischio di progressione a cirrosi e lo sviluppo di epatocarcinoma in caso di elevati livelli di replicazione virale (HBV DNA), di genotipo C>B, varianti HBV e coinfezioni con HDV, HCV e HIV. Per quanto attiene i fattori dell’ospite, risultano maggiormente a rischio di sviluppare cirrosi i soggetti di sesso maschile, età superiore a 40 anni, fibrosi severa al momento della presentazione e con ricorrenti flares epatitici. Sono poi a maggior

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Epatite virale da HBV

rischio di sviluppare cirrosi i pazienti maschi, di età superiore a 40 anni, di razza asiatica o africana, con cirrosi già presente e familiarità per HCC. L’assunzione di alcolici, steatosi, diabete e obesità sono altri fattori in grado di aumentare la progressione della malattia (40). Portatore occulto di HBV L’infezione occulta da HBV può essere definita come la persistenza a lungo termine di genomi virali nel tessuto epatico (ed in alcuni casi anche nel siero) di soggetti negativi per l’antigene di superficie (HBsAg), con o senza la presenza di marcatori sierologici di pregressa infezione. Lo stato occulto di HBV è determinato da una forte soppressione della replicazione virale e dell’espressione genica. Le cause dell’inibizione dell’HBV non sono ancora del tutto chiare, sebbene sia probabile che l’immunosorveglianza dell’ospite giochi un ruolo fondamentale. La forma occulta di HBV è trasmissibile ed è in grado di determinare le classiche forme di malattia epatica. Probabilmente tale tipo di trasmissione è verosimilmente la causa dei residui rari casi di infezione trasfusionale e può provocare infezione nei riceventi organi trapiantati. Inoltre, lo sviluppo di immunosoppressione legato a terapie immunosoppressive o a infezione da HIV può determinare la riattivazione di un’infezione occulta da HBV con comparsa di profilo sierologico tipico di un’infezione produttiva e lo sviluppo di epatite acuta spesso grave. Numerosi studi suggeriscono inoltre che esso possa favorire la progressione della fibrosi epatica, in particolare nei pazienti HCV positivi. Questo implica anche la possibilità di un ruolo indiretto di HBV occulto nello sviluppo dell’HCC, dal momento che la cirrosi è la principale lesione precancerosa del fegato. In ogni caso, HBV occulto può essere responsabile di sviluppo di HCC attraverso meccanismi diretti quali la sua possibile integrazione nel genoma dell’ospite e la sintesi proteine pro-oncogene.

Diagnosi La diagnosi di epatite HBV correlata viene formulata sulla base della combinazione di marcatori sierologici, virologici, biochimici ed istologici di malattia. Per l’inquadramento sierologico dell’infezione si ricercano i prodotti virali (gli antigeni, che riflettono la complessità strutturale del virus, o l’acido nucleico) e gli anticorpi (prodotti dalla risposta immune del soggetto infettato). Si distinguono: marcatori di infezione (HBsAg, anti-HBc, anti-HBe), di replica virale (HBV-DNA, HBeAg), di danno virus-indotto (IgM anti-HBc), di immunità (anti-HBs) (42). Per la diagnosi di infezione è necessaria la determinazione dell’HBsAg. I livelli di HBsAg sono direttamente correlati con i livelli di HBV DNA, mentre non c’è correlazione con i livelli di transaminasi. HBsAg è determinabile da 1 a 10 settimane dall’infezione acuta e prima dell’insorgenza dei sintomi o dell’incremento delle transaminasi. Nei pazienti che guariscono l’HBsAg diventa negativo dopo 4-6 mesi. La persistenza oltre 6 mesi indica la progressione della malattia nella forma cronica. L’anticorpo verso l’HBsAg ( antiHBs) appare in concomitanza con la scomparsa dell’HBsAg e frequentemente persiste, conferendo immunità duratura (43). L’antigene core (HBcAg) non è determinabile nel siero. L’anticorpo (anti-HBc) appare precocemente e persiste durante l’infezione. In corso di infezione acuta è una immunoglobulina della classe IgM. In soggetti che guariscono l’anti-HBc è della classe IgG ed è associato all’anti-HBs. È inoltre presente in

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pazienti con epatite cronica attiva, in associazione all’HBsAg. È riconosciuto il ruolo delle IgM anti-HBc nell’ epatite cronica anti-HBe positiva: questa è caratterizzata da importanti fluttuazioni della viremia (range di 10.000 -1.000.000 genomi/ml). I livelli sierici di HBV-DNA possono risultare non determinabili (con metodi di ibridazione), pur in presenza di alterati indici di citolisi; le IgM anti-HBc, dosate con metodica quantitativa ad elevata sensibilità, sono un marcatore diagnostico di epatite B, in grado di identificare i portatori di HBsAg con danno epatico (42). L’HBeAg è un marcatore di replica virale e di infettività. È associato ad alti titoli di HBV-DNA nel siero, malattia epatica attiva ed alto grado di infettività. Pazienti con infezione perinatale possono tuttavia essere HBeAg positivi ed avere basso grado di flogosi epatica e normali livelli di ALT. La sieroconversione da HBeAg ad anti-HBe e la negatività dell’HBV-DNA sierico indicano generalmente guarigione. La maggior parte dei pazienti, nella nostra area geografica, presenta la mutazione nella regione precore del genoma virale, che impedisce l’espressione dell’HBeAg; in questi soggetti si riscontra malattia epatica attiva, HBV-DNA positivo nel siero ed HBeAg negativo. L’HBV-DNA nel siero è un indicatore sensibile e specifico di replica virale. Con i metodi di ibridazione ed amplificazione del segnale (branched DNA) è possibile determinare 100.000-.1000.000 genomi/ml, mentre la PCR individua 100-1000 equivalenti virali/ml. La guarigione dall’infezione acuta e la sieroconversione da HBeAg ad anti-HBe, in corso di infezione cronica, si associano ad assente viremia, valutata con metodi diversi dalla PCR. L’HBV ha un elevato potere replicativo e può raggiungere nel sangue titoli superiori a 1.000.000.000 virioni per ml. Per tale ragione il valore dell’HBVDNA è misurato in scala logaritmica e la risposta terapeutica espressa come riduzione logaritmica della viremia. Un importante vantaggio della PCR è la produzione di frammenti di DNA, che possono essere direttamente sequenziati dopo o durante l’amplificazione. La riproduzione della sequenza nucleotidica permette di individuare anche mutazioni puntiformi del genoma virale. L’introduzione in campo terapeutico di analoghi nucleosidici ha esercitato una ulteriore pressione selettiva sulla popolazione virale, con sviluppo di varianti nella regione polimerasica (YMDD) (44). Sono stati introdotti tests diagnostici per l’identificazione dei genotipi virali (si distinguono 6 genotipi dell’HBV) e la determinazione di mutanti dell’HBV, entrambi di crescente interesse nella pratica clinica. La biopsia epatica ha il ruolo di confermare la diagnosi di epatite cronica e stabilire la severità di malattia valutando severità di necroinfiammazione (grading) e quantità e distribuzione della fibrosi (staging), oltre che escludere altre cause di malattia epatica. I segni di cronicità sono rappresentati dalla flogosi di tipo cronico eminentemente collocata a livello dello spazio portale: si tratta prevalentemente di linfociti ma anche di plasmacellule ed istiociti. I linfociti sono quasi esclusivamente di tipo T e mostrano una zonalità nello spazio portale: i T4 sono situati nella parte più interna dello spazio portale, i T8 in quella più esterna, in prossimità dell’interfaccia con il parenchima. Le plasmacellule sono scarse. Gli istiociti nello spazio portale mostrano generalmente differenziazione macrofagica. La cronicità dell’epatite è anche evidenziata dal rimodellamento dello spazio portale. Infatti nelle fasi di attività di malattia fenomeni necroinfiammatorii si svolgono al confine spazio portale – parenchima lobulare, complesso di fenomeni definito come epatite da interfaccia. Ad ogni avanzata del fronte flogistico consegue una morte (per apoptosi) di epatociti della la-

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Epatite virale da HBV

mina limitante e, quindi, un processo riparativo di tipo fibrotico. Il processo non avviene omogeneamente su tutto il perimetro dello spazio portale per cui si assiste a profonde distorsioni del suo normale profilo per il susseguirsi di fronti di avanzamento ed aree di ritirata del processo infiammatorio. A volte le direttrici di necrosi si fondono con altre a partenza da altri spazi portali o dal centro del lobulo dando origine alle necrosi a ponte. Quando il fenomeno tende a spegnersi, si ha la deposizione di fibre collagene. I fenomeni di acuzie non sono una prerogativa della epatite acuta ma frequentemente compaiono anche nella epatite cronica, talora in modo così eclatante da simulare una forma acuta. Accanto a questi aspetti, pressoché comuni a tutte le epatiti croniche, l’epatite da virus B si caratterizza per aspetti morfologici specifici, anche se non patognomonici in senso assoluto, legati alla presenza tissutale dell’agente virale. Alcune componenti del virione, infatti, accumulandosi negli epatociti, conferiscono un aspetto a vetro smerigliato (ground glass) ai citoplasmi e sabbiato (sanded) ai nuclei. Due tipi di anticorpi sono stati nel tempo testati e poi routinariamente utilizzati nelle biopsie epatiche per la dimostrazione tissutale di antigeni virali: l’anticorpo per l’HBsAg, riconosciuto esclusivamente nel citoplasma, la cui dimostrazione conferma soltanto l’infezione e quello per l’HBcAg, che può invece avere espressione sia citoplasmatica che nucleare e la sua presenza si associa invariabilmente a danno epatico, anche se con diversa espressività. La biopsia epatica è il gold standard per valutare il danno epatico, ma è una tecnica invasiva (0,1-0,5% di mortalità descritta in letteratura) ed è scarsamente accettata dai pazienti, ha un margine di errore di interpretazione elevato (20%) e la sua affidabilità dipende dalla grandezza del frammento bioptico (> 20 mm, almeno 8-10 spazi portali) (45). La biopsia epatica non è il test ideale per monitorare la progressione di malattia e l’efficacia del trattamento. Dalle diverse combinazioni delle immunoreattività tissutali e sierologiche per antigeni ed anticorpi virus correlati e del dosaggio dell’HBV-DNA possono essere costruiti precisi profili clinico-patologici utili ad inquadrare la malattia e la sua possibile evoluzione. Ognuna delle fasi dell’epatite cronica è quindi caratterizzata da un diverso pattern di marcatori. La fase di immunotolleranza è caratterizzata da HBsAg positività, elevati livelli di HBV DNA, HBeAg positività, ALT normali e istologia con danno lieve moderato. La fase di immunoclearance è caratterizzata da HBsAg positività, elevati livelli di HBV DNA, HBeAg positività, ALT alterate o fluttuanti e istologia con danno necroinfiammatorio. L’epatite cronica HBeAg positiva è caratterizzata da elevata carica virale nel siero (10.000.000.000-100.000.000.000 copie/ml), picchi di transaminasi con oscillazioni dell’HBV DNA. Il carrier inattivo è caratterizzato dalla positività per HBsAg da più di 6 mesi, HBeAg negatività e positività per anti HBe, transaminasi nella norma ed HBV DNA < 2000 UI/ml. Nell’epatite cronica HBeAg negativa si rileva la HBsAg positività, HBeAg negatività con positività per anti HBeAg, livelli di HBV DNA > 2.000 UI/ml o fluttuanti, transaminasi alterate o fluttuanti e istologia con danno epatico significativo. L’epatite B può superinfettarsi con l’agente Delta, un virus difettivo la cui replicazione e patogenicità necessitano specificamente della funzione helper del virus B. Istologicamente non esistono aspetti patognomonici di infezione

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Figura 3 - Valutazione del paziente pre trattameto

CARATTERISTICHE DEL VIRUS Carica virale Genotipo Trattamenti precedenti

CARATTERISTICHE DEL PAZIENTE

VIRUS

CARATTERISTICHE DEL FARMACO Potenza antivirale Profilo di resistenza Tollerabilità Sicurezza Monitoraggio

PAZIENTE

FARMACO

Età Sesso Aderenza al trattamento Farmaci concomitanti Obesità Ipertensione arteriosa Diabete Co-infezioni Stadio dell’epatopatia Funzione renale

da virus Delta, ma il danno epatico è certamente più severo. La diagnosi di epatite Delta è basata sulla presenza di anticorpi anti-delta e/o HDV-RNA nel siero e sulla positività tissutale nucleare per l’antigene delta.

Terapia La terapia dell’epatite cronica B è finalizzata al miglioramento della qualità della vita, e alla riduzione del rischio di progressione della malattia verso la cirrosi e le sue complicanze. Gli obiettivi terapeutici possono però essere raggiunti solo se la replicazione virale è mantenuta soppressa a lungo termine con farmaci che hanno buona efficacia e tollerabilità e basso rischio di sviluppare farmaco resistenza. È quindi necessario valutare correttamente il paziente per individuare lo stadio di malattia, lo stato sierologico, eventuali precedenti trattamenti e la presenza di eventuali comorbidità, prima di decidere se e come trattare il paziente (Figura 3). L’indicazione al trattamento si basa principalmente sulla combinazione di tre criteri: i livelli sierici di HBV DNA, il valore delle ALT e la valutazione istologica. I pazienti devono essere considerati per il trattamento quando i livelli di HBV DNA sono superiori a 2.000 UI/ml (20.000 UI/ml nei pazienti HBeAg-positivi, secondo le linee guida italiane), i livelli di ALT sono sopra il limite superiore della norma per il laboratorio e la biopsia epatica mostra attività necro-infiammatoria e/o fibrosi moderata/severa. I pazienti con cirrosi devono essere considerati per il trattamento, anche se i livelli di ALT sono normali e/o i livelli di HBV DNA sono inferiori a 2.000 UI/ml, purché rilevabili. I farmaci approvati per il trattamento dell’HBV sono: • citochine: IFN alfa: 6.000.000-9.000.000 UI/ml x 3/sett PEG IFN alfa: 180 mcg/sett • analoghi nucleosidici:

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Epatite virale da HBV

Lamivudina: 100 mg/die Telbivudina: 600 mg/die Emtricitabina: 200 mg/die Entecavir: 0.5-1 mg/die • analoghi nucleotidici: Adefovir dipivoxil: 10 mg/die Tenofovir: 245 mg/die Essi hanno benefici e costi differenti. L’interferone agisce sia come antivirale (attraverso l’inibizione sia della sintesi delle nuove particelle virali a livello intracellulare che dell’ingresso dei virioni nelle cellule sane), come modulatore della risposta immune anti HBV innata e specifica e dell’espressione genica cellulare, nonché come farmaco antitumorale essendo dotato di azione antiproliferativa. La terapia con interferone ha un target aspecifico ed è gravata da numerosi effetti collaterali, ma ha il vantaggio di una durata limitata ed il suo obiettivo è quello dell’eradicazione dell’infezione (definita come perdita dell’antigene s e della stabile comparsa degli anticorpi anti HBs), ottenibile però in una percentuale limitata di casi. I farmaci antivirali hanno invece come target selettivo la DNA polimerasi RNA dipenedente e bloccano pertanto la replicazione del virus a livello intracellulare. La potenza antivirale dei farmaci antivirale analoghi nucleo(t)sidici è la rapidità con cui inducono la soppressione della replicazione virale: tanto più rapida è la soppressione, tanto più remoto è il rischio di sviluppare resistenza. La barriera genetica è rappresentata dal numero di mutazioni necessarie al virus per replicare efficacemente in presenza di quel farmaco. Pertanto, un’alta barriera genetica corrisponde ad una bassa probabilità di sviluppo di resistenze. Tenofovir è un antivirale analogo nucleotidico con elevata efficacia ed alta barriera genetica, tanto che il farmaco ha assunto un ruolo di prima linea nel trattamento dell’epatite B nel paziente naive ed un ruolo importante nel paziente precedentemente trattato con lamivudina e adefovir. Entecavir è un analogo guanosinico che agisce come “chain terminator”; a livello intracellulare deve essere trifosforilato ed ha un’altissima affinità per la DNA polimerasi virale ci si lega con elevata efficienza bloccandone tutti gli “step” di azione della fase di azione nella fase di retrotrascrizione dell’RNA virale. Il profilo farmacogenetico è molto favorevole e l’emivita lunga ne consente la monosomministrazione giornaliera. La terapia basata sull’utilizzo degli inibitori della DNA polmerasi virale, ha limitati effetti collaterali, ma porta raramente alla sieroconversione ad anti HBs e deve essere assunta continuativamente, pena la ripresa della replicazione virale. Dal punto di vista clinico è stato dimostrato che la rapida e persistente negativizzazione dell’HBV DNA circolante rappresenta un accettabile “surrogato”dell’eradicazione virale, in quanto correla con la normalizzazione delle transaminasi off-treatment, con la perdita di HBeAg, con il miglioramento istologico ed infine con l’arresto della progressione di malattia verso cirrosi e insufficienza epatica. La terapia basata sugli analoghi nucleos(t)idici ha però come punto debole la possibile emergenza di ceppi virali resistenti che determinano il fallimento virologico, biochimico e clinico della terapia, richiedendo lo switch a nuovi farmaci o l’aggiunta di questi al trattamento già in corso. L’emergere di ceppi mutanti è tanto più probabile quanto più prolungato è il trattamento, la viremia di partenza è elevata, la potenza del farmaco limitata, bassa la barriera genetica del farmaco e limitata la compliance del paziente al trattamento.

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Da tutto questo emerge come la strategia terapeutica del trattamento dell’epatite B debba prevedere un corretto “timing” di inizio del trattamento ed eventualmente un corretto “sequencing” terapeutico, inteso come corretto sequenziamento delle molecole sulla base delle loro caratteristiche di potenza terapeutica e barriera genetica. Le più recenti linee guida italiane (2011) (46) hanno stabilito come condizioni biochimiche e virologiche essenziali per iniziare la terapia sono ALT maggiori del limite superiori della norma ed HBV DNA sierico > 20.000 UI/ml nell’epatite cronica HBeAg positiva ed HBV DNA> 2.000 UI/ml nelle forme HBeAg negative ed HBV DNA rilevabile indipendentemente dal valore delle transaminasi nella cirrosi compensata o scompensata (Figura 4a/b). Nelle epatiti croniche istologicamente iniziali (METAVIR < F2) va considerato il PEG Interferone per 48 settimane soprattutto nelle forme HBeAg positive. In queste forme di malattia gli antivirali trovano indicazione soltanto nei pazienti che non hanno risposto al PEG IFN o presentano controindicazioni maggiori a quest’ultimo, o rifiutano tale trattamento. In questi casi il trattamento con antivirali dovrebbe essere protratto per non più di 12 mesi con lo scopo di ottenere la sieroconversione da HBeAg ad anti HBe. Il PEG IFN è l’opzione terapeutica preferibile se possibile nelle forme HBeAg negative con fibrosi lieve (METAVIR < F2), con indicazione crescente in presenza di score necroinfiammatorio > A2 secondo METAVIR. In presenza di fibrosi compresa tra METAVIR F2 e cirrosi in buon compenso (Child Pugh A), l’opzione preferibile è considerata l’uso degli antivirali, con indicazione decrescente per l’uso dell’interferone peghilato. Cirrosi Cirrosi Per quanto riguarda gli antivirali sono indicatiEpatite entecavir e tenofovir per la più cronica scompensata Fibrosi No Lieve Moderata Severa elevata efficacia e la più elevata barriera genetica. Telbivudina deve essere utiF1 F2 la lamivudina F3 F4 lizzata solo in caso di bassa caricaMETAVIR virale,F0S0mentre non deve essere Ishak S-1-2 S3 S4 S 5-6 impiegata in monoterapia per l’inaccettabile rischio di sviluppo di resistenze. indefinito Gli antivirali devono essere utilizzati per un tempo indefinitoTrattamento nelle forme HBecon NA PEG IFN o Ag negative, che non vanno incontro a negativizzazione di HBsAg ed in quelle Trattamento finito con NA HBeAg positive che non raggiungono la sieroconversione ad anti HBe. DNA: >20.000UI/L > 15 UI/L Nelle cirrosi scompensate vieneHBV raccomandato soltanto l’uso di farmaci antiALT: genetica, > UNL qualsiasi virali ad elevata potenza e barriera vale a dire entecavir oALTtenofovir, per ottenere una rapida e completa soppressione della replicazione virale (46). Considerare Trattare il trattamento Le linee guida italiane hanno precisato per la terapia con PEG IFN la definizione di risposta virologica sostenuta come il mantenimento di HBV DNA Carosi et al Dig Liver Dis 2011; 43(4) 259-65 < 2000 UI/ml e la persistente normalizzazione delle ALT (stato di portatore Figura 4a/b - Linee guida italiane sul trattamento delle epatiti croniche HBV positive

No Lieve Moderata

METAVIR Ishak

F0 S0

F1 F2 S-1-2 S3

Cirrosi scompensata

Cirrosi

Epatite cronica Fibrosi

Severa F3 S4

F4 S 5-6

PEG IFN o Trattamento finito con NA >20.000UI/L

> 15 UI/L

ALT:

> UNL

qualsiasi

ALT

Trattare Carosi et al Dig Liver Dis 2011; 43(4) 259-65

Cirrosi

Epatite cronica Fibrosi

No Lieve Moderata

METAVIR Ishak

F0 S0

F1 F2 S-1-2 S3

Cirrosi scompensata

Severa F3 S4

F0 S0

F1 F2 S-1-2 S3

PEG IFN

F4 S 5-6

Trattamento indefinito

Severa F3 S4

F4 S 5-6

Trattamento indefinito con analoghi

Attività necroinfiammatoria

≥A2 (METAVIR)

qualsiasi

HBV DNA:

>20.000UI/L

> 15 UI/L

ALT:

> UNL

qualsiasi

Considerare il trattamento

Pazienti naive con epatite cronica HBeAg positiva

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No Lieve Moderata

METAVIR Ishak

Trattamento indefinito con NA

HBV DNA:

Considerare il trattamento

Fibrosi

Cirrosi scompensata

Cirrosi

Epatite cronica

ALT

Trattare Carosi et al Dig Liver Dis 2011; 43(4) 259-65

Pazienti naive con epatite cronica HBeAg negativa


Epatite virale da HBV

cronico inattivo) a fine terapia e a 12 mesi dalla sospensione del trattamento e la definizione di fallimento terapeutico ovvero decremento di HBV DNA inferiore a 1 log 10 dopo 3 mesi di terapia o livelli di HBV DNA superiori a 200000 UI/ml dopo 6 mesi di trattamento. Recenti dati di letteratura hanno inoltre indicato come la quantizzazione di HBsAg avrebbe un ruolo predittivo di risposta al trattamento con PEG IFN in quanto la riduzione dell’HBsAg in corso di terapia è significativamente superiore tra i pazienti che mantengono la SVR nel follow up successivo rispetto ai pazienti non responsivi con ripresa della viremia. La misurazione quantitativa dell’HBV DNA, insieme al dosaggio quantitativo dell’HBsAg in corso di terapia interferonica possono permettere la personalizzazione e ottimizzazione del trattamento attraverso l’identificazione precoce dei pazienti che hanno maggiore possibilità di risposta al trattamento e dei pazienti che non hanno possibilità di risposta (47) Nei pazienti HBeAg positivi la monoterapia con antivirali dovrebbe essere continuata per almeno 12 mesi dalla sieroconversione ad anti HBe con non rilevabilità di HBV DNA. Sulla base delle linee guida nazionali e internazionali, si definisce come non risposta primaria ad un antivirale la riduzione dell’HBV DNA inferiore a 1 log rispetto al basale dopo 3 mesi di trattamento; per risposta parziale si definisce un livello di HBV DNA rilevabile dopo 6 mesi di trattamento con lamivudina o telbivudina o dopo 12 mesi di terapia con tenofovir, adefovir o entecavir; per breakthrough virologico si intende infine l’aumento di 1 log dell’ HBV DNA rispetto al nadir, osservato durante il trattamento in un paziente aderente alla terapia, e confermato dopo 1 mese. Nei pazienti aderenti alla terapia e che presentano non risposta, risposta parziale o breaktrough è necessario considerare una terapia di seconda linea, che dipende dall’antivirale utilizzato in precedenza. Poichè le molecole anti HBV agiscono tutti sulla polimerasi virale si determina infatti un elevato tasso di resistenze crociate. La migliore gestione dei mutanti resistenti è prevenire la loro emergenza. La scelta della prima linea di terapia dovrebbe cadere su molecole potenti e con alta barriera genetica quali entecavir o tenofovir. Inoltre, in caso di insorgenza di resistenza, la terapia andrebbe cambiata il primo possibile, riducendo il rischio che si accumulino mutazioni. Poiché Tenofovir appartiene alla classe dei nucleotidi ed è analogo dell’adefovir, ma rispetto a questo è più potente e dotato di più elevata barriera genetica, e poiché i nucleotidi rappresentano l’unica alternativa per i pazienti che sviluppano resistenza ai nucleosidi, tenofovir è stato preferito ad adefovir come farmaco di recupero in coloro che sviluppano resistenza ai nucleosidici. In caso di resistenza ad adefovir è invece indicato sostituire con tenofovir o entecavir (49) Le linee guida raccomandano il monitoraggio con HBV DNA ogni 3 mesi con metodica sensibile (PCR) a scadenza trimestrale al fine di individuare precocemente i fallimenti virologici. In caso di rialzo di HBV DNA oltre il nadir (> 1 log10 IU/ml), si consiglia la ricerca delle resistenze genotipiche, previa conferma della viremia a 1 mese di distanza. Data la bassissima incidenza di resistenze osservate con entecavir e tenofovir, nei pazienti con elevati valori basali di HBV DNA (>20.000.000 UI/ml), che presentano un decremento continuativo di HBV DNA e bassi valori di HBV DNA (<2000 UI/ml) dopo 12 mesi di terapia viene suggerito di prolungare la monoterapia per altri 12 mesi fino all’eliminazione dell’HBV DNA. Per quanto attiene gli effetti collaterali, il trattamento con PEG IFN è gravato da numerosi effetti collaterali che possono influenzare l’efficacia del trattamento. Gli analoghi nucleo(t)sidici hanno un migliore profilo di tollerabilità anche se: • tutti possono indurre acidosi lattica

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• per la telbivudina, considerato il rischio di miopatia, è necessario evitare

farmaci quali statine, fibrati e ciclosporina • tutti, ad eccezione di telbivudina, possono indurre nefrotossicità. Tuttavia, il rischio di nefrotossicità è aumentato per adefovir e tenofovir che pertanto devono essere usati in pazienti con insufficienza renale di grado III (VFG < 60 ml/min) solo se i benefici superano i rischi ed eventualmente è necessario l’aggiustamento posologico (Tabella 1). • Per tenofovir ed adefovir è necessario escludere l’insorgenza di tubulopatia renale o Sdr di fanconi nei pazienti con persistente ipofosfatemia, evitare il concomitante uso di farmaci nefrotossici in particolare i FANS, monitorare la funzionalità renale ed escludere alterazioni ossee con adeguato studio del metabolismo osseo nei soggetti sintomatici con persistente dolore alla schiena e/o riduzione in altezza o con ipofosforemia persistente. Tabella 1 - Adattamento posologico dei farmaci antivirali in funzione del filtrato glomerulare

Telbivudina

Entocavir

Adefovir

eGFR Dose 600 mg Dose 0,5 mg Dose 10 mg mL/min/1.73m2 SC

Tenofovir Dose 254 mg

>50

24 h

24 h

24 h

24 h

30-49

48 h

48 h

48 h

48 h

10-30

72 h

72 h

72 h*

72-96 h*

Insufficienza renale

96 h

ogni 5-7 giorni

ogni 7 giorni

ogni 7 giorni*

* Non raccomandato RCP telbivudina, entocavir, adefovir, tenofovir

Gestione dell’HBV nel paziente immunocompromesso La condizione clinica di immunosoppressione legata alla presenza di malattie acute o croniche, all’utilizzo di farmaci immunosoppressori o nel contesto dei trapianti d’organo, può determinare una progressione rapida di una malattia già attiva da HBV oppure provocare la riattivazione di replicazione di HBV in portatori inattivi o in soggetti con infezione occulta (51). Clinicamente, l’esacerbazione di malattia epatica HBV correlata o la riattivazione di un’infezione da HBV occulto può variare da un’epatite acuta itterica ad un’epatite fulminante. Tali riesacerbazioni possono condizionare negativamente il proseguimento della terapia immunosoppressiva, modificando prognosi e sopravvivenza (52). In caso di portatori inattivi di HBsAg con bassa viremia basale, viene consigliata una profilassi universale con lamivudina in tutti gli ambiti dell’immunosoppressione (oncoematologia, reumatologia, farmaci anti TNF, anti CD 20, micofenolato) ad eccezione dei pazienti dializzati in attesa di trapianto renale (pazienti in cui è necessario approfondire lo stato di portatore inattivo) ed in ambito reumatologico nel caso in cui si utilizzino terapie a basso rischio (steroide < 7.5 mg/die). In caso di portatore occulto di HBV la profilassi è consigliata in oncoematologia, iniziando il trattamento almeno una settimana prima dell’inizio dell’immunosoppressione, mantenuta durante tutta la durata della stessa e proseguita per almeno 12 mesi dopo lo stop della terapia oncologica o reumatologica e 18 mesi dopo il termine della terapia ematologia. Nei portatori inattivi sottoposti a trapianto epatico, la profilassi con lamivudina inizia prima del trapianto ed è proseguita nel post trapianto in combinazione con immunoglobuline anti HBs dopo il trapianto a tempo indeterminato (52). Nel caso di portatori attivi di HBV, caratterizzati da elevati valori di replicazione virale e dalla presenza di danno epatico, la strategia deve essere

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Epatite virale da HBV

quella di iniziare una terapia con farmaci ad elevata potenza ed elevata barriera genetica come entecavir o tenofovir. Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29.

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14. Aspetti della terapia antiretrovirale nel tossicodipendente

Marina Malena 1, Eugenia M. Gabrielli 2 1

Centro Medicina Comunitaria, Sezione di Screening HIV, ULSS 20 Verona Commissione Nazionale AIDS 2 Dipartimento di Malattie Infettive, Azienda Ospedaliera Polo Universitario Luigi Sacco, Milano

Riassunto La tossicodipendenza per via iniettiva direttamente o indirettamente è responsabile di oltre un terzo (36%) dei casi di sindrome da immunodeficienza acquisita. Circa l’80-90% dei tossicodipendenti (TD) per via iniettiva sono coinfetti con il virus dell’epatite C (HCV), e spesso presentano anche altre infezioni come TB, infezioni sessualmente trasmesse e infezioni strepto/stafilococciche. Ne derivano problematiche connesse alla difficile gestione dei pazienti e alle molteplici interazioni farmacologiche. Questi aspetti peculiari del paziente HIV-positivo TD e la sua maggior vulnerabilità rispetto al paziente non TD, suggeriscono la necessità di una stretta interazione multidisciplinare tra i vari specialisti coinvolti nella “cura”: da un lato psichiatri e internisti che si occupano della cura della tossicodipendenza e delle comorbidità psichiatriche correlate, dall’altro infettivologi deputati alla cura delle coinfezioni e alla gestione delle terapie antiretrovirali. La gestione del paziente TD HIV-positivo deve tener conto dell’esistenza di molteplici interazioni farmacologiche note e possibili, ma anche del rapido e continuo ampliamento ed evoluzione delle conoscenze sia in quest’ambito sia nell’ambito della farmacocinetica e farmacodinamica degli antiretrovirali, delle sostanze d’abuso, dei farmaci sostitutivi e dei farmaci per il trattamento delle comorbidità. Parole chiave: HIV/AIDS, tossicodipendenza, sostanze d’abuso, terapia antiretrovirale e tossicodipendenza, terapia sostitutiva, farmaci psicotropi e terapia antiretrovirale, metadone, buprenorfina, alcol e HIV, interazioni farmacologiche.

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Introduzione Da 30 a 36 milioni le persone viventi con infezione da HIV 3 milioni i TD sieropositivi

In Italia 1/5 delle infezioni è connesso alla tossicodipendenza

Negli ultimi anni l’acquisizione dell’infezione avviene prevalentemente per via sessuale anche in chi fa uso di sostanze

Epidemiologia A 30 anni dall’esordio dell’epidemia di AIDS negli USA nel 1981, globalmente un numero stimato che va dai 30 ai 36 milioni di persone nel mondo sono affette da infezione da HIV [1]. La TD per via iniettiva è una via chiave per la trasmissione di HIV, ed è la modalità primaria di trasmissione in alcune zone come l’Europa dell’est, la Russia ed il sud asiatico. Si stima che nel mondo vi siano 3.000.000 di TD sieropositivi. Anche se in Italia la tossicodipendenza per via iniettiva non rappresenta più la modalità primaria di trasmissione dell’infezione da HIV, essa riguarda circa un quinto di tutte le persone che ne sono affette [2]. È da tempo nota e dimostrata inoltre la correlazione tra uso dei cosiddetti street drugs (eroina, cocaina, metamfetamina, club drugs), sostanze alcoliche e rischio di acquisizione di HIV oltre che epatite C ed altre patologie infettive, mediante sia uso di siringhe, aghi e parafernalia usati, ma anche per rapporti sessuali non protetti con partner ad alto rischio, sesso di gruppo o prostituzione [3-8]. Questo è vero soprattutto per i giovani tra 15 e 24 anni. Le diagnosi legate all’uso iniettivo di droghe sono diminuite di 27 volte (dal 92,3% nel biennio 1984-85 al 3,4% nel biennio 2008-09), mentre le diagnosi legate ai rapporti sessuali sono aumentate dal 3% (nel biennio 1984-85) al 69,5% (nel biennio 2008-09). Per quanto riguarda la popolazione giovanile italiana (15-24 anni), nel 1985 tra le nuove diagnosi di infezione il 92,2% aveva contratto l’infezione attraverso l’uso iniettivo di droghe e l’1,6% attraverso contatti eterosessuali, nel 2008 le proporzioni sono rispettivamente il 5,6% per l’uso iniettivo di droghe e il 48% per rapporti eterosessual [9].

Terapia Antiretrovirale e Tossicodipendenza La TD si può associare alla presenza di più infezioni virali e/o batteriche

La TD attiva si può associare ad una ridotta aderenza alle cure

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L’intersezione tra l’epidemia da HIV e l’abuso di sostanze rende difficoltoso, per chi si occupa di infezione da HIV/AIDS, il management dei pazienti in cui queste due condizioni coesistono [10]. In aggiunta si stima che l’80-90% dei TD per via iniettiva siano anche infetti da virus dell’epatite C [11]. Oltre ad HIV ed HCV anche altre infezioni virali e batteriche si associano alla TD, tra cui TB, malattie sessualmente trasmesse, infezioni streptococciche e stafilococciche (celluliti ed endocarditi) [12]. Ne consegue, in maniera facilmente comprensibile, che i costi sociali, economici e sanitari che derivano dall’abuso di sostanze e la cura delle infezioni correlate siano enormi. Una ulteriore complicanza nella gestione clinica dei pazienti è dovuta al fatto che la tossicodipendenza attiva, incluso l’abuso alcolico, si associa a comportamenti o condizioni (comorbidità psichiatriche, vulnerabilità sociale, carcerazione, minor disponibilità a ricorrere alle cure) che interferiscono con l’accesso alle cure e alle terapie, e possono compromettere l’aderenza ai regimi terapeutici. Alcune di queste associazioni spesso permangono anche nelle persone che si sono completamente distaccate dall’uso di sostanze, rispetto alla popolazione sieropositiva nel suo complesso Da non tralasciare le molteplici interazioni farmacologiche farmacocinetiche e/o farmacodinamiche tra sostanze d’abuso e regimi prescritti che costituiscono spesso barriere difficilmente valicabili [8,9,13,14]. Per quanto riguarda nello specifico la terapia antiretrovirale, non è mai stato dimostrato lo sviluppo di resistenza ad essa e la trasmissione comunitaria di


Aspetti della terapia antiretrovirale nel tossicodipendente

ceppi resistenti, dovuto a non aderenza alla terapia. Non sarebbe quindi giustificata da questo punto di vista la diffusione in ambito medico specialistico della riluttanza a trattare i pazienti TD. Interessanti a questo proposito sono alcuni dati della letteratura dove emerge il contrario: ossia che i TD hanno una buona aderenza [15,16], ma anche che non vi è una differenza statisticamente significativa tra il rischio di sviluppare resistenza tra i TD e i non TD (OR 1,04, 95% CI 0,74-1,45, p=0,84), così come la perdita al follow-up e il rischio di fallimento virologico sono uguali nei due gruppi di pazienti [17] Per quanto riguarda l’approccio personalizzato alla terapia antiretrovirale e la gestione multidisciplinare suggeriti per tutti i pazienti sieropositivi, sono ritenuti fondamentali, a maggior ragione per questi pazienti, intendendo per pazienti tossicodipendenti tutte le persone con abuso di sostanze e/o in terapia sostitutiva. In quest’ambito, l’interazione con lo psichiatra e/o il medico del SerT, che si occupa di dipendenza da sostanze e segue il paziente in maniera prevalente, è d’obbligo per l’infettivologo, che deve “disegnare” la terapia antiretrovirale. Gli schemi terapeutici e la consequenzialità degli stessi proposti per la popolazione HIV-positiva, nel suo complesso si applicano in generale anche a questi pazienti. Ciononostante vanno fatte importanti considerazioni nella selezione di regimi efficaci e per garantire un appropriato monitoraggio del paziente, che includono: • la conoscenza delle interazioni tra farmaci d’abuso e sostitutivi e gli antiretrovirali, incluso l’aumentato rischio di effetti collaterali e tossicità; • la necessità di disporre di centri clinici di supporto (comunità terapeutiche, anche diurne), e di collegamento con i Servizi dedicati al trattamento dell’abuso di sostanze (SerT). Vanno preferiti i regimi più semplici per aumentare l’aderenza alla terapia, optando per farmaci con minor rischio di effetti collaterali epatici e neuropsichiatrici, e con minori interazioni con il metadone Per ottenere un efficace trattamento con la HAART è spesso necessario anteporre il trattamento dell’abuso di sostanze. L’aderenza può essere facilitata da schemi di terapia con monosomministrazioni giornaliere, da protocolli di terapia DOT o semi-DOT in particolare nell’ambito dei SerT, comunità terapeutiche e carceri [18,19].

I TD non hanno maggior rischio di sviluppare resistenza alla terapia antiretrovirale rispetto agli altri pazienti HIV positivi

È importante la multidisciplinarietà del team terapeutico che segue il paziente TD HIV positivo

La prescrizione dei regimi terapeutici antiretrovirali deve tener conto di alcune caratteristiche della popolazione di pazienti considerata

Interazioni tra farmaci antiretrovirali e sostanze d’abuso Le interazioni tra farmaci antiretrovirali e sostanze d’abuso non sono ancora completamente chiarite (Tabella 1). La Cannabis indica e suoi derivati, in particolare il principio attivo THC (tetraidrocannabinolo), nonostante siano parzialmente metabolizzati dal CYP3A4 non sembrano esercitare significativi effetti sul metabolismo degli antiretrovirali [20,21]. Inversamente, gli inibitori delle proteasi (IP) come indinavir, nelfinavir e ritonavir, che sono potenti inibitori del citocromo CYP3A4, possono interferire con il metabolismo della marijuana ed aumentarne il rischio di tossicità, causando ad esempio paranoia [8] (Tabella 1). Per quanto concerne LSD e fenciclidina (PCP) e il suo derivato ketamina, non sono disponibili informazioni sufficienti, anche se è verosimile che inibitori potenti del CYP3A4 (come gli IP) aumentino la tossicità di PCP [22]. Le linee guida italiane sulla terapia antiretrovirale nella sezione specifica dedicata al Monitoraggio Farmacologico e Interazioni, in particolare per gli psicofarmaci, possono costituire un utile approfondimento [23].

Gli antiretrovirali possono aumentare il rischio di tossicità di marijuana

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Gli IP in particolare RTV possono aumentare le concentrazioni plasmatiche di ecstasy, anfetamine e metanfetamine in modo tale da causare grave tossicità

La cocaina può favorire la trasmissione di HIV

Alcuni antiretrovirali possono aumentare la tossicità di cocaina

I cocktail a base di sostanze ricreazionali possono essere molto pericolosi se associati agli antiretrovirali come gli inibitori delle proteasi contenenti RTV

Le interazioni tra oppiacei naturali e terapia antiretrovirale non sono clinicamente rilevanti

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Ecstasy, anfetamine, metanfetamine e HAART La MDMA (3,4-metilenediossimetanfetamina) o Ecstasy, le anfetamine e le metanfetamine vengono metabolizzate dal CYP2D6. Le interazioni quindi con farmaci che utilizzano la stessa via metabolica risultano simili per queste tre sostanze. Gli IP, in particolare ritonavir (RTV), tramite la loro attività inibitoria su CYP2D6, sono pertanto in grado di aumentare da 3 a 10 volte le concentrazioni ematiche di Ecstasy, anfetamine e metanfetamine, causando overdose. È stato segnalato un caso di morte per interazione tra MDMA e RTV [24]. Sebbene il metabolismo di Ecstasy e anfetamine non sia ancora completamente compreso, la farmacocinetica non lineare, la variabilità genetica del CYP26D e il possibile effetto sulla glicoproteina P pongono qualunque paziente assuma un inibitore del CYP2D6 ad elevato rischio di tossicità da MDMA [22] (Tabella 1). Cocaina e HAART L’assunzione di cocaina costituisce un fattore di rischio indipendente per la trasmissione di HIV, in quanto frequentemente associata a comportamenti sessuali a rischio. Data la forte dipendenza psichica che crea e l’alto tasso di ricadute, è importante valutare l’impatto che il consumo abituale di cocaina può avere sull’aderenza e di conseguenza sull’efficacia della terapia antiretrovirale. Inoltre il consumo di crack-cocaina sembra accelerare la progressione dell’infezione da HIV, indipendentemente dalla HAART [25]. Pochi dati sono disponibili sulle interazioni tra cocaina e HAART, tuttavia è noto che alcuni IP (RTV e indinavir) ed efavirenz (EFV), tramite l’inibizione del CYP3A4, possono aumentare la tossicità da cocaina (aritmie, convulsioni, ecc.), mentre la nevirapina (NVP), induttore del CYP3A4, causando l’aumento della norcocaina, un metabolita epatotossico, può provocare tossicità epatica [26]. Pertanto i farmaci che inibiscono o inducono il CYP3A4 devono essere strettamente monitorati nei cocainomani attivi. L’uso cronico di cocaina e la stessa infezione da HIV aumentano la glicoproteina P [27]; in caso di farmaci trasportati da questa glicoproteina, come indinavir [28] ed abacavir [29], vi può essere un aumento dell’escrezione con conseguenti livelli sub terapeutici [8] (Tabella 1). Nuove droghe ricreazionali e HAART Recentemente si è assistito alla diffusione del consumo di cocktail di sostanze cosiddette ricreazionali, contenenti MDMA, anfetamine e/o cocaina, talora associate a farmaci per la disfunzione erettile, quali, ad esempio, sildenafil [30]. Pur non essendo ancora disponibili dati sulle possibili interazioni tra i farmaci antiretrovirali e questi nuovi cocktail, è tuttavia ipotizzabile, almeno per quanto concerne RTV, che le sopracitate interazioni con Ecstasy e cocaina si sommino a quelle esistenti con farmaci come sildenafil, è infatti noto che RTV causa un incremento di 10 volte delle concentrazioni di sildenafil, per cui è necessaria estrema cautela nella somministrazione dell’IP e uno stretto monitoraggio dei pazienti che fanno uso di tali sostanze, soprattutto in considerazione del fatto che rischi connessi al consumo delle stesse sono diffusamente non percepiti. Oppiacei naturali e HAART L’eroina (diacetilmorfina), presenta limitate interazioni con il sistema del citocromo CYP450 [22]. L’utilizzo di RTV potrebbe causare sintomi astinenziali nei soggetti che fanno uso di eroina e morfina tramite un meccanismo di induzione enzimatica o, al contrario, potenziarne gli effetti tramite glucoro-


Aspetti della terapia antiretrovirale nel tossicodipendente

coniugazione a principio attivo (morfina-6-glucoronide) o inibizione della glicoproteina P [31]. Non sono tuttavia segnalati effetti clinicamente rilevanti, al contrario di quanto accade con il trattamento sostitutivo con metadone (Tabella 1). Etanolo e HAART Etanolo assunto contemporaneamente ad abacavir (ABC) ne determina un aumento del 40% dell’AUC, dato che entrambi vengono metabolizzati dall’enzima alcol-deidrogenasi [32]. Il consumo di alcool in presenza di un regime terapeutico contenente didanosina (ddI) è associato ad un aumentato rischio di pancreatite. La concomitante assunzione di alcool e nevirapina (NVP) può aumentare l’epatotossicità di quest’ultimo antiretrovirale, in particolare in presenza di coinfezioni con virus epatitici [33-35]. Il consumo cronico di alcol inoltre potrebbe provocare induzione enzimatica, riducendo di conseguenza le concentrazioni ematiche di IP e NNRTI, al contrario dell’epatopatia e della cirrosi alcol-correlate, che ne rallentano il metabolismo [31].

L’assunzione contemporanea di alcol e alcuni antiretrovirali può aumentare la tossicità di questi ultimi

Interazioni tra farmaci antiretrovirali e farmaci sostitutivi e/o antagonisti La co-somministrazione di farmaci sostitutivi per la dipendenza da eroina e/o alcol e della HAART rende opportuna una stretta collaborazione tra i diversi servizi e i medici specialisti (Tabella 2). Metadone e HAART Il metadone, un agonista oppiaceo a lunga durata d’azione somministrato per os, è il più comune trattamento farmacologico sostitutivo per la dipendenza da oppiacei. Interazioni con gli antiretrovirali (Tabelle 2 e 3) possono verificarsi come conseguenza del suo metabolismo ossidativo a carico del sistema del citocromo P450 [36]. Tra gli NRTI, nessuno interferisce in modo clinicamente significativo sul metabolismo del metadone. Viceversa sono stati documentati importanti effetti del metadone sugli NRTI: il metadone infatti aumenta del 40% l’AUC della zidovudina (ZDV) [37], mentre diminuisce i livelli di stavudina (d4T) del 18%. Non sono invece segnalate interazioni di metadone con ddI nella nuova formulazione, lamivudina (3TC) e tenofovir (TDF) [38-41]. Per quanto attiene gli NNRTI: EFV e NVP, in quanto potenti induttori del citocromo P450, sono stati associati a significative riduzioni dei livelli plasmatici di metadone, rispettivamente del 43% e del 46%, che possono indurre una sintomatologia astinenziale [10, 42, 43]. Gli effetti clinici sono solitamente riscontrabili dopo circa 7 giorni di co-somministrazione: è pertanto raccomandabile un aggiustamento del dosaggio di metadone, incrementandolo gradualmente di 5-10 mg al giorno. L’Etravirina (FTC) invece non richiede modifica dei livelli di metadone [44]. Viceversa, il metadone non esercita effetti sui livelli plasmatici degli NNRTI. Nonostante il metadone non influenzi le concentrazioni degli IP, ad eccezione di quelle di amprenavir (APV), ridotte del 30%, molti IP esercitano un effetto significativo sul metabolismo del metadone. APV, fosamprenavir (fAPV), nelfinavir (NFV), lopinavir (LPV), RTV, tipranavir (TPV) e darunavir (DRV) provocano un decremento talora importante dei livelli di metadone, tali da indurre teoricamente sintomatologia astinenziale. Tuttavia ad oggi sono pervenute segnalazioni solo di rari casi nei pazienti trattati con NFV e di quadri di lieve entità in quelli trattati con APV [45, 46]. Nell’as-

Gli NRTI non interferiscono significativamente con il metadone, ma quest’ultimo ne altera la concentrazione di alcuni

EFV e NVP si associano a importanti riduzioni dei livelli plasmatici di metadone

Anche molti IP comportano riduzioni significative dei livelli di metadone ma raramente si associano a sintomi clinici

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Raltegravir e metadone non si influenzano a vicenda

Non ci sono interazioni significative reciproche tra buprenofina ed antiretrovirali ad eccezione di ATV

L’associazione di GHB ed ecstasy con alcuni PI può essere fatale

Interazioni Disulfiram e antiretrovirali non ancora definite

206

sociazione LPV/r, questo effetto è principalmente imputabile al LPV [47], mentre saquinavir (SQV) può ridurre i livelli plasmatici di metadone quando potenziato con RTV. Non sono invece segnalate interazioni di rilievo con IDV e atazanavir (ATV) [48,49]. Quanto agli inibitori della fusione, non sono disponibili dati sull’utilizzo concomitante di metadone ed enfuvirtide (T20), anche se si ritiene improbabile che vi siano interazioni [50], né di metadone e antagonisti del CCR5, mentre è segnalato che raltegravir non influisce sulla farmacocinetica di metadone [51] (Tabelle 2, 3 e 4). Buprenorfina e HAART La buprenorfina, un agonista parziale attivo sui recettori μ, è sempre più utilizzata nel trattamento sostitutivo della dipendenza da oppiacei per il ridotto rischio di depressione respiratoria e overdose e per il minor rischio di sindrome astinenziale rispetto a metadone [10, 43]. Le informazioni disponibili in merito alle interazioni tra buprenorfina e farmaci antiretrovirali sono finora limitate. Studi recenti hanno mostrato che i composti che diminuiscono le concentrazioni di buprenorfina, come EFV e NVP, e quelli che le aumentano, come RTV, non sembrano influenzare il suo profilo farmacodinamico, evitando quindi, rispettivamente, il rischio di sindrome astinenziale e quello di overdose [52, 53]. Al contrario del metadone, la buprenorfina non sembra aumentare i livelli di ZDV, né provocare modificazioni significative delle concentrazioni di antiretrovirali, come dimostrato dal fatto che l’utilizzo di buprenorfina non aumenta il rischio di fallimento virologico [54]. Non sembrano esserci inoltre interazioni clinicamente significative tra buprenorfina ddI, 3TC ed ABC [55]. È stato tuttavia segnalato che la buprenorfina favorisce la comparsa di acidosi lattica da NRTI [56]. Viceversa, non vi sono segnalazioni di tossicità o sindrome astinenziale per uso contemporaneo di farmaci antiretrovirali. La buprenorfina è stata studiata in combinazione con diversi IP (RTV, LPVr/r, IDV, SQV, NFV) che ne possono alterare il metabolismo, ma nessuna di queste è risultata significativa [52, 57]. Un’eccezione alla mancanza di interazioni significative è rappresentata dall’incremento della concentrazione di buprenorfina e dei suoi metaboliti in seguito a co-somministrazione di ATV o ATV/r, per cui potrebbe risultare necessario diminuire la posologia della buprenorfina: in caso di co-somministrazione viene pertanto raccomandato un attento monitoraggio [58]. Infine, dati recenti suggeriscono la possibile riduzione dei livelli ematici di TPV da parte di buprenorfina, il cui significato clinico rimane ancora incerto [59]. Nel complesso la buprenorfina dovrebbe essere considerata il trattamento di scelta dei pazienti HIV-positivi dipendenti da oppiacei [8] (Tabelle 2, 3 e 4). Metilenediossimetamfetamina (MDMA), Gamma-Idrossibutirrato (GHB), ketamina, metamfetamina e HAART Questi principi attivi possono potenzialmente interagire con la terapia antiretrovirale perché vengono metabolizzati almeno in parte dal sistema del citocromo CYP450. GHB viene utilizzato anche come farmaco anti-craving negli alcolisti (Alcover). sembra essere metabolizzato dal citocromo CYP2D6. In combinazione con saquinavir/ritonavir o altri IP (inibitori del citocromo CYP2D6) la associazione GHB ed ecstasy può essere fatale [60, 61] (Tabelle 1 e 2). Disulfiram e HAART Il disulfiram agisce bloccando l’ossidazione dell’alcol con accumulo di acetaldeide che si associa a sintomi spiacevoli (cefalea, nausea, vomito), scorag-


Aspetti della terapia antiretrovirale nel tossicodipendente

giando pertanto l’assunzione di alcol. Le interazioni tra disulfiram e farmaci antiretrovirali sono ancora in fase di studio ma la co-somministrazione di antiretrovirali che alterano la metabolizzazione enzimatica a livello epatico possono alterare l’efficacia del disulfiram riducendo la sua bioattivazione [10]. In considerazione della significativa interazione con l’enzima alcol-deidrogenasi, è consigliabile utilizzare con cautela disulfiram in associazione con le formulazioni liquide dei farmaci antiretrovirali che contengono alcol (RTV, LPV/r) [31] (Tabella 2). Naltrexone e HAART Viene utilizzato per la prevenzione delle ricadute in chi ha effettuato un programma di disintossicazione da oppiacei e per il trattamento della dipendenza da alcol. Come il disulfiram, anche il naltrexone non viene metabolizzato dal sistema del citocromo P450 e pertanto non presenta interazioni con i farmaci antiretrovirali [62], ma in quanto antagonista degli oppiacei potrebbe complicare l’eventuale terapia del dolore nei pazienti alcolisti con infezione da HIV (Tabella 2).

Naltrexone non interagisce con gli antiretrovirali

Interazioni tra farmaci psicotropi e HAART (tabelle 5-15) La frequente comorbidità con disturbi di tipo psichiatrico in questi pazienti può richiedere l’uso di farmaci anch’essi potenzialmente in grado di interferire con le terapie sostitutive o antiretrovirali e impone orientamenti e limitazioni nella scelta delle terapie antiretrovirali. Benzodiazepine e HAART (tabelle 5-8) Il metabolismo di midazolam, triazolam, alprazolam e flunitrazepan, che sono i farmaci psicotropi maggiormente prescritti nei pazienti TD, dipende dal CYP 3A4. I composti che inibiscono l’enzima (delavirdina, ritonavir, atazanavir) possono diminuire la clearance e potenziare l’effetto farmacodinamico di queste benzodiazepine e pertanto non vanno usati contemporaneamente. Sono stati segnalati casi di sedazione severa e depressione respiratoria che ne rendono sconsigliabile l’utilizzo in pazienti che assumono la HAART [22, 63, 64] In alternativa si possono utilizzare lorazepam o oxazepam e diazepam, tutti metabolizzati per glucoronidazione, ma attraverso una diversa via metabolica rispetto a raltegravir (UGT 1A1), che verosimilmente non presenta interazioni con essi [65]. Viceversa induttori del CYP 3A4, quali NVP, possono ridurre i livelli ematici di alcune benzodiazepine, provocando sintomi astinenziali [10]. Antidepressivi e HAART (tabelle 9-12) Sono stati segnalati casi di sindrome serotoninergica in pazienti riceventi fluoxetina in combinazione con regimi contenenti ritonavir, efavirenz o saquinavir [66]. La fluoxetina sembra aumentare le concentrazioni di RTV mediante inibizione del CYP450-2D6, ma l’interazione non sembra tale da dover modificare la dose di RTV [67]. Sembra che sertralina, citalopram ed escitalopram abbiano minor effetto sul sistema enzimatico del citocromo P450, rispetto a fluoxetina, paroxetina e fluvoxamina. DRV/r causa una diminuzione della concentrazione plasmatica di paroxetina

Alcune benzodiazepine vanno evitate con alcuni antiretrovirali per possibile aumento dei loro effetti tossici come sedazione severa e depressione respiratoria

NPV può indurre astinenza per riduzione dei livelli di benzodiazepine

Sertralina, cittalopram ed escitalopram hanno minori interazioni con gli antiretrovirali

207


e sertralina rispettivamente del 39% e del 49%, mentre FPV/r causa una diminuzione della concentrazione plasmatica di paroxetina del 55%. EFV causa una diminuzione della concentrazione plasmatica di sertralina del 39% e di buproprione del 55%. Anche LPV/rtv causa una diminuzione significativa dei livelli plasmatici di buproprione, tali da richiedere un aumento della dose del farmaco [68]. Gli antidepressivi triciclici sono metabolizzati dagli enzimi P450 e gli antiretrovirali che inibiscono questi enzimi possono aumentarne le concentrazioni sieriche.

I livelli di ac valproico possono diminuire con la concomitante assunzione di regimi contenenti RTV Le concentrazioni di carbamazepina possono aumentare per effetto degli IP boosterizzati

Stabilizzatori del tono dell’umore e HAART L’assunzione concomitante di LPV/rtv e acido valproico può causare diminuzione dell’ac. valproico. Pertanto data l’interazione potenziale tra ac. valproico e tutti i regimi contenenti ritonavir, i pazienti vanno monitorati attentamente per una possibile diminuzione degli effetti terapeutici di ac. valproico quando i farmaci vengano assunti contemporaneamente[69]. C’è evidenza di interazioni bidirezionali tra carbamazepina e antiretrovirali a livello di citocromo P450. Gli IP bosterati possono causare un aumento dei livelli di carbamazepina fino al 45% con DRV/r, con conseguente tossicità. Inversamente carbamazepina inducendo un aumentato metabolismo dei PI può causare una diminuzione dei livelli plasmatici di IP, più importante se gli IP non sono bosterati [70]. Antipsicotici e HAART (tabelle 13-15) Pimozide e clozaril sono controindicati con antiretrovirali che inibiscono il sistema enzimatico del CYP 450 come gli IP ed EFV [43, 71]. Sono state segnalate reazioni avverse a causa della aggiunta di ATV/r ad un regime stabile contenente quetiapina, un antipsicotico atipico metabolizzato via CYP 3A4, regredite con la sospensione di ATV/r [72]. Un altro recente report ha riportato un caso di coma profondo e ipotensione grave a seguito di autoingestione di 8.000 mg di quetiapina in un paziente che assumeva ATV/rtv con notevole aumento nell’emivita della quetiapina da 22 a 62,4 ore [73]. I pazienti in regime terapeutico contenente ritonavir che necessitano di assunzione di quetiapina vanno monitorati attentamente [74]. Una diagnosi appropriata di comorbidità psichiatrica e un suo appropriato trattamento sono di fondamentale importanza in questi pazienti. La salute mentale è direttamente proporzionale all’aderenza alla terapia. La necessità di una terapia su due fronti: da un lato con farmaci psicotropi e dall’altro con antiretrovirali in pazienti spesso anche in terapia sostitutiva e che magari contemporaneamente assumono sostanze d’abuso, costituisce una nuova sfida per i clinici, tenuto conto che il campo delle interazioni farmacologiche in quest’ambito è ancora in gran parte sconosciuto.

208


Aspetti della terapia antiretrovirale nel tossicodipendente

Tabella 1 - Interazioni tra farmaci antiretrovirali e sostanze d’abuso Sostanza

FOS/APV IDV LPV/R NFV RTV SQV

Eroina

s

Cocaina Alcol

s

s

s

s

n

s

s

s

s

Ecstasy

n

n

PCP

?

?

LSD

?

?

?

Ketamina

?

?

?

TPV ATV ?

EFV NVP s

s

ETV ?

s

s

s

s

n

s

s

?

n

n

?

s

s

s

s

s

s

n

s

n

n

l

n

n

n

s

s

s

?

?

?

?

?

?

n

?

?

?

?

?

?

?

n

?

?

n

n

?

?

?

n

s

?

Amfetamine

n

n

n

n

l

n

n

n

s

s

s

Cannabis

s

l

n

l

l

s

n

n

s

s

s

Legenda: s interazioni metaboliche assenti o trascurabili n potenziali interazioni metaboliche che potrebbero richiedere stretto monitoraggio, aggiustamenti

posologici o modificazioni dell’orario di assunzione dei farmaci antiretrovirali ? interazioni non note e non prevedibili l non somministrare/assumere i due farmaci/sostanze contemporaneamente per il rischio di gravi effetti

collaterali

Tabella 2 - Interazioni tra farmaci antiretrovirali e trattamenti sostitutivi Sostanza FOS/APV/R IDV LPV/R NFV RTV SQV TPV ATV DRV/R EFV NVP ETV ANTI RAL CCR5 γ-idrossibutirrato

s

s

s

s

n

s

s

?

?

n

s

?

?

?

Disulfiram

s

s

s

s

n

s

n

?

?

n

s

?

?

?

Naltrexone

s

s

s

s

s

s

s

?

?

s

s

?

?

?

Metadone

n

s

n

n

n

s

s

s

n

n

n

s

?

n

Buprenorfina

s

?

s

s

s

?

?

n

s

s

s

?

?

?

Disulfiram non può essere associato a formulazioni alcoliche di farmaci antiretrovirali (RTV, LPV/r) Legenda: s interazioni metaboliche assenti o trascurabili n potenziali interazioni metaboliche che potrebbero richiedere stretto monitoraggio, aggiustamenti posologici o modificazioni dell’orario di

assunzione dei farmaci antiretrovirali ? interazioni non note e non prevedibili l non somministrare assieme i due farmaci/sostanze contemporaneamente per il rischio di gravi effetti collaterali

209


Tabella 3 - Interazioni tra metadone e farmaci antiretrovirali NRTI ZIDOVUDINA

I livelli plasmatici subiscono un incremento del 43%. Gli effetti collaterali di ZDV dovrebbero essere monitorati perché potrebbero essere più gravi.

STAVUDINA

I livelli plasmatici sono diminuiti del 18%. Non sono stati descritti casi di aggiustamento della posologia.

DIDANOSINA

Non segnalate significative interazioni.

ABACAVIR

Ridotto del 34% il picco di concentrazione di ABC. Segnalato un incremento del 22% della clearance del metadone, per cui potrebbe essere necessario un aggiustamento posologico del metadone.

TENOFOVIR

Non segnalate significative interazioni.

LAMIVUDINA

Non segnalate significative interazioni.

EMTRICITABINA

Non segnalate significative interazioni.

NNRTI NEVIRAPINA

I livelli plasmatici di NVP non subiscono modificazioni. Si verifica una significativa diminuzione (43%) dei livelli plasmatici di metadone. Spesso necessario aggiustamento della posologia del metadone per evitare sintomi astinenziali.

EFAVIRENZ

I livelli plasmatici di EFV non subiscono modificazioni. Si verifica una marcata riduzione dei livelli plasmatici di metadone (52%) per cui è spesso necessario un aggiustamento posologico del metadone. Se possibile clinicamente, non raccomandare l’associazione EFV+metadone.

ETRAVIRINA

Non segnalate significative interazioni.

IP

210

INDINAVIR

Non segnalate significative interazioni.

SAQUINAVIR

Non interazioni significative se somministrato da solo. Quando associato a RTV si verifica una diminuzione del 19% dei livelli plasmatici di metadone.

NELFINAVIR

Diminuisce l’AUC del metadone del 40%.

AMPRENAVIR

I livelli plasmatici di APV sono ridotti del 30%;non sono necessari aggiustamenti posologici. Si verifica un lieve decremento dei livelli plasmatici di metadone (13%); non sono necessari aggiustamenti posologici.

FOSAMPRENAVIR

Interazioni presumibilmente simili all’APV.

ATAZANAVIR

Non segnalate significative interazioni. Quando associato a RTV diminuisce i livelli plasmatici di metadone (16-18% dell’AUC).

LOPINAVIR/RTV

I livelli plasmatici di LPV non subiscono modificazioni. Si verifica una diminuzione dal 26% all 53% dei livelli plasmatici di metadone. Può rendersi necessario un aggiustamento della posologia del metadone per evitare crisi d’astinenza.

TIPRANAVIR

I livelli plasmatici di TPV non subiscono modificazioni. Si verifica una diminuzione del 48% dei livelli plasmatici di metadone. Potrebbe essere necessario un aggiustamento della posologia del metadone.

ANTAGONISTI CCR5

Non sono state ancora studiate le interazioni con metadone.

INIBITORI INTEGRASI

Raltegravir non modifica i livelli plasmatici di metadone.


Aspetti della terapia antiretrovirale nel tossicodipendente

Tabella 4 - Confronto tra le interazioni tra farmaci antiretrovirali, metadone e buprenorfina NRTI Metadone Buprenorfina Note abacavir (ABC)

s

?

didanosina (ddI) emtricitabina (FTC)

s

s

?

?

lamivudina (3TC)

s

s

stavudina (d4T)

s

?

tenofovir (TDF)

s

s

zidovudina (ZDV) s s

solo con capsule enteric coated

metadone h ZVD: monitorare possibile h della tossicitĂ da ZDV

NNRTI Metadone Buprenorfina Note n n efavirenz (EFV)

aggiustamento posologico necessario solo con metadone

nevirapina (NVP) n s

aggiustamento posologico necessario con metadone

etravirina (ETV)

utilizzato solo il dosaggio 100 mg bid

s

?

IP Metadone Buprenorfina Note amprenavir (AMP)

n

?

segnalati quadri astinenziali di lieve entitĂ

atazanavir (ATV) s n

possibile sedazione: raccomandato monitoraggio

darunavir (DRV)

n

?

possibile sindrome astinenziale da oppioidi

fosamprenavir (fAMP)

n

?

verosimilmente stesse interazioni di AMP

indinavir (IDV)

s

?

lopinavir/r (LPV/r)

n

s

talora necessario h posologico di metadone

nelfinavir (NFV) n s

rari casi di sindrome astinenziale: raccomandato monitoraggio

ritonavir (RTV)

s

s

saquinavir (SQV)

s

?

tipranavir (TPV) n n ↓ ANTI-CCR5 maraviroc (MVC) Inibitori della Fusione enfuvirtide (T20) Inibitori della Integrasi

possibile sindr.astinenziale da oppioidi: da valutare h posologico di metadone i nor-buprenorfina TPV potrebbe essere meno efficace somministrato con buprenorfina

Metadone Buprenorfina Note ?

?

Metadone Buprenorfina Note ?

?

Metadone Buprenorfina Note

raltegravir (RAL) ? ?

una sola segnalazione di mancata influenza su metadone

211


Tabella 5 - Interazioni farmacologiche tra ansiolitici e IP Farmaco

ATV

DRV

FPV

IDV

LPV

NFV

RTV

SQV

TPV

Alprazolam

l

l

l

l

l

l

l

l

l

Clordiazepossido

s

s

s

s

s

s

s

s

s

Clorazepato

n

n

n

n

n

n

n

n

n

Diazepam

s

s

s

s

s

s

s

s

s

Estazolam

n

n

n

n

n

n

n

n

n

Flurazepam

n

n

n

n

n

n

n

n

n

Lorazepam

s

s

s

s

s

s

s

s

s

Midazolan (os)

l

l

l

l

l

l

l

l

l

Oxazepam/Temazepan

s

s

s

s

s

s

s

s

s

Triazolan

l

l

l

l

l

l

l

l

l

Zolpidem

n

n

n

n

n

n

n

n

n

Tabella 6 - Interazioni farmacologiche tra ansiolitici e NNRTI Farmaco

EFV

ETV

NVP

Alprazolam

n

n

n

Clordiazepossido

s

s

s

Clorazepato

n

n

n

Diazepam

n

n

n

Estazolam

n

n

n

Flurazepam

n

n

n

Lorazepam

s

s

s

Midazolan (os)

l

n

n

Oxazepam/Temazepan

s

s

s

Triazolan

l

n

n

Zolpidem

n

n

n

Tabella 7 - Interazioni farmacologiche tra ansiolitici e NRTI Farmaco

ABC

ddI

FTC

3TC

d4T

TDF

ZDV

Oxazepam

s

s

s

s

s

s

s

Tabella 8 - Interazioni farmacologiche tra ansiolitici e inibitori dell’entrata e dell’integrasi

212

Farmaco

Maraviroc

Raltegravir

Midazolam

s

s


Aspetti della terapia antiretrovirale nel tossicodipendente

Tabella 9 - Interazioni farmacologiche tra antidepressivi e IP Farmaco

ATV

DRV

FPV

IDV

LPV

NFV

RTV

SQV

TPV

Amitriptilina

n

n

n

n

n

s

n

n

n

Bupropione

n

n

n

n

n

n

n

n

n

Citalopram

n

n

n

n

n

n

n

n

n

Desipramina

n

n

n

n

s

n

n

n

n

Doxepin

n

n

n

n

n

n

n

n

n

Fluoxetina

n

n

n

n

n

s

n

n

n

Mirtazapina

n

n

n

n

n

n

n

n

n

Nefazodone

n

n

n

n

n

n

n

n

n

Nortriptilina

n

n

n

n

n

s

n

n

n

Paroxetina

n

n

n

n

n

s

n

n

n

Sertralina

n

n

n

n

n

n

n

n

n

Trazodone

n

n

n

n

n

n

n

n

n

Venlafaxina

n

n

n

n

n

n

n

n

n

Legenda: s interazioni metaboliche assenti o trascurabili n potenziali interazioni metaboliche che potrebbero richiedere stretto monitoraggio, aggiustamenti

posologici o modificazioni dell’orario di assunzione dei farmaci antiretrovirali ? interazioni non note e non prevedibili l non somministrare assieme i due farmaci/sostanze contemporaneamente per il rischio di gravi effetti

collaterali

Tabella 10 - Interazioni farmacologiche tra antidepressivi e NNRTI Farmaco

EFV

ETV

NVP

Amitriptilina

s

s

s

Bupropione

n

n

n

Citalopram

n

n

n

Desipramina

s

s

s

Doxepin

s

s

s

Fluoxetina

s

s

s

Mirtazapina

n

n

n

Nefazodone

n

n

n

Nortriptilina

s

s

s

Paroxetina

s

s

s

Sertralina

n

n

n

Trazodone

n

n

n

Venlafaxina

n

n

n

213


Tabella 11 - Interazioni farmacologiche tra antidepressivi e NRTI Farmaco

ABC

ddI

FTC

3TC

d4T

TDF

ZDV

Trazodone

s

s

s

s

s

s

s

Venlafaxina

s

s

s

s

s

s

s

Tabella 12 - Interazioni farmacologiche tra antidepressivi e inibitori dell’entrata e dell’integrasi Farmaco

Maraviroc

Raltegravir

Nafazodone

n

s

Trazodone

s

s

Venlafaxina

n

s

Tabella 13 - Interazioni farmacologiche tra antipsicotici e IP Farmaco

ATV

DRV

FPV

IDV

LPV

NFV

RTV

SQV

TPV

Clorpromazina

n

n

n

n

n

n

n

n

n

Clozapina

l

l

l

l

l

l

l

l

l

Aloperidolo

n

n

n

n

n

n

n

n

n

Perfenazina

s

s

s

s

s

s

n

s

s

Pimozide

l

l

l

l

l

l

l

l

l

Quetiapina

l

n

n

n

n

n

n

n

n

Risperidone

s

n

s

s

s

s

s

s

s

Sulpiride

s

s

s

s

s

s

s

s

s

Tioridazina

s

n

s

s

s

s

n

s

s

l non somministrare assieme i due farmaci/sostanze contemporaneamente per il rischio di gravi effetti

collaterali

Tabella 14 - Interazioni farmacologiche tra antipsicotici e NNRTI Farmaco

214

EFV

ETV

NVP

Clorpromazina

s

s

s

Clozapina

l

n

n

Aloperidolo

n

n

n

Perfenazina

s

s

s

Pimozide

l

s

s

Quetiapina

n

n

n

Risperidone

s

s

s

Sulpiride

s

s

s

Tioridazina

s

s

s


Aspetti della terapia antiretrovirale nel tossicodipendente

Tabella 15 - Interazioni farmacologiche tra antipsicotici e NRTI Farmaco

ABC

ddI

FTC

3TC

d4T

TDF

ZDV

Quetiapina

s

s

s

s

s

s

s

Sulpiride

s

s

s

s

s

s

s

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217



15. Procedure per lo screening delle principali patologie infettive nei tossicodipendenti

Oliviero Bosco 1, Maurizio Gomma 2, Giuliano Rizzardini3, Giovanni Serpelloni4 1

Centro Medicina Comunitaria, Sezione di Screening HIV, ULSS 20 Verona Dipartimento delle Dipendenze, ULSS 20 Verona 3 Divisione Malattie Infettive, Ospedale Luigi Sacco, Milano 4 Dipartimento Politiche Antidroga, Presidenza del Consiglio dei Ministri 2

Premessa (1,2) Lo screening per le principali patologie infettive correlate alla dipendenza da sostanze (HIV, HCV, HBV e tubercolosi) costituisce un aspetto importante nelle attività dei servizi per le dipendenze. L’Osservatorio Europeo sulle Droghe e le Tossicodipendenze di Lisbona (EMCDDA) considera l’analisi della prevalenza di patologie infettive correlate all’uso di sostanze psicoattive illegali uno degli indicatori chiave ai fini del monitoraggio del fenomeno dell’uso di sostanze. In particolare, a livello europeo, si focalizza l’attenzione verso gli assuntori di sostanze per via iniettiva, per l’elevato rischio di incorrere in malattie infettive quali l’infezione da HIV e le epatiti virali. L’analisi di prevalenza per queste infezioni, come si ricava dalla Relazione al Parlamento (2011), ha mostrato anche nel 2010, una costante diminuzione dell’esecuzione del test per le principali malattie infettive correlate all’uso di sostanze stupefacenti nell’utenza assistita dai Ser.D. Rispetto all’utenza complessivamente assistita nel 2010 (176.430 persone), 53.190 soggetti sono stati sottoposti a test HIV (30,1%); la percentuale dei soggetti testati su testabili è diminuita di 12,4 punti percentuali passando dal 45% circa rilevato nel 2000 al 32,6% osservato nel 2010. Per quanto riguarda l’epatite da HBV, nell’ultimo decennio, la percentuale dei soggetti sottoposti al test su quelli potenzialmente testabili è diminuita, di circa l’8%, passando dal 36,7% rilevato nel 2000 al 28,5% nel 2010. Analogamente la verifica della presenza di epatite da HCV negli utenti dei Ser.D. ha riguardato, dal 2000 al 2010, una percentuale di soggetti in costante diminuzione. La percentuale dei soggetti sottoposti al test sui testabili è diminuita dal 32% circa del 2000 a circa il 26% del 2010. Rispetto al 2009, nel 2010 la prevalenza di utenti positivi ai test delle malattie infettive, diminuisce per l’HIV (11,5% vs 11,1%) e per l’HBV (36,2% vs 34,4%), mentre aumentano gli HCV positivi (58,5% vs 61,0%). In relazione a questo quadro è evidente che risulta indispensabile, oltre ad

Diminuzione dello screening

219


Tabella 1 - Percentuale di test per HIV, HBV, HCV effettuati negli utenti. Anni 2000-2010

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

HIV

45,0

47,2

44,2

43,2

40,8

40,0

38,0

38,4

37,2

34,6

32,6

HBV 36,7

39,3

36,7

34,6

33,8

34,8

32,5

33,2

36,5

30,5

28,5

HCV 31,9

35,1

33,5

31,9

32,0

32,2

28,3

29,4

28,4

27,5

25,5

Dipartimento Politiche Antidroga - Relazione al Parlamento 2011

Tabella 2 - Prevalenza di utenti HIV, HBV, HCV positivi. Anni 2000-2010

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 12

∆%

HIV

15,8 14,8 14,8 14,2 13,9 13,8

HBV

44,5 49,4 43,4 43,2 43,6 41,7 39,5 37,2 32,7 36,2 34,4 -4,94

HCV

67,4 66,3 64,9 64,9 63,5 61,4

62

11,9 11,7 11,5 11,1 -2,71 60,2 59,2 58,5

61

4,16

Dipartimento Politiche Antidroga - Relazione al Parlamento 2011

incentivare lo screening all’interno delle Dipartimenti per le dipendenze ed ai SerD, utilizzare dei protocolli per il l’esecuzione del test uniformi. Tutto ciò al fine di uniformare le pratiche cliniche e al contempo adottare degli standard supportati dalle linee guida nazionali ed internazionali. Dal punto di vista epidemiologico, l’utilizzo di tali procedure trova giustificazione in quanto è altamente probabile che si possano concretamente raggiungere i seguenti obiettivi generali: • ridurre il numero delle persone infettate da persone HIV positive non a conoscenza del loro stato. • ridurre la prevalenza delle persone con infezioni asintomatiche (eleggibili per terapie antiretrovirali), non ancora in terapia per non conoscenza dello stato sierologico-clinico. • ridurre la diffusione anche di altre malattie sessualmente trasmesse. • far aumentare la precocità di accesso alle terapie anti-HIV con: aumento della sopravvivenza, aumento della qualità di vita e diminuzione della carica virale con diminuzione del grado di infettività. Realizzazione di protocolli e procedure condivisi per l’esecuzione dei test di screening con le seguenti caratteristiche: • contesto di counselling • confidenzialità • gratuità • possibilità di anonimato.

1. Procedura per lo screening e la diagnosi dell’infezione da HIV (2-7,15-26) Scopi-obiettivi Quantificare e limitare la diffusione dell’infezione da HIV mediante lo screening sierologico che permette: • identificazione dei soggetti che hanno contratto l’infezione; • screening nei contatti a rischio (tutte le persone esposte ad un paziente con infezione da HIV); • offerta di trattamento. Campo di applicazione Nei Dipartimenti delle Dipendenze a:

220


Procedure per lo screening delle principali patologie infettive nei tossicodipendenti

• tutti gli utenti nella fase di accoglienza; • soggetti già in carico che riferiscono “contatti a rischio” recenti (entro i 3

mesi) con persone HIV positive o a sierologia non nota; • soggetti già in carico che riferisco comportamenti a rischio (CaR) con sog-

getti appartenenti a gruppi a rischio, sierologia non nota (consigliabile comunque nei soggetti con dipendenza da sostanze la ripetizione del test ogni 6-12 mesi, indipendentemente da CaR riferiti); • pazienti che presentano sintomi di malattia retrovirale acuta o compatibili con immunodepressione. N.B.: anche nei TD si deve approfondire l’anamnesi dei CaR nel campo dei rapporti sessuali. Definizione dell’attività Matrice di responsabilità Descrizione dell’attività

Responsabile dell’attività

Pre-counseling: colloquio informativo con il paziente e ottenimento medico/infermiere del consenso Effettuazione di prelievo venoso di sangue intero per test di screening infermiere (In caso di positività il laboratorio provvede d’ufficio ad effettuare il test di 2° livello - Western Blot) Interpretazione dei risultati e post-counseling

medico

Programmazione di monitoraggio a 45 e 90 giorni se comportamen- medico/infermiere to a rischio recente. In caso di persistenza del CaR consigliare monitoraggio a scadenza semestrale (consigliata comunque la ripetizione del test ogni 6-12 mesi nei TD)

Nota: Stima del rischio di acquisire l’infezione da HIV a seconda della via di esposizione (per atto). Via di esposizione

Rischio per 10.000 esposizioni con fonte infetta

Uso di droghe per via endovenosa

67

Rapporto anale recettivo

50

Puntura percutanea con ago

30

Rapporto penieno vaginale recettivo

10

Rapporto anale insertivo

6.5

Rapporto penieno-vaginale insertivo

5

Rapporto orale recettivo

1

Rapporto orale insertivo Trasfusione di sangue

0.5 9.000

(Morbidity and Mortality Weekly ReportJanuary 21, 2005 / Vol. 54 / No. RR-2)

2. Procedura per lo screening e la diagnosi dell’infezione da HBV (8-10,27-29,34,36,37) La vaccinazione contro l’epatite virale B è raccomandata nei soggetti non ancora sottoposti a vaccinazione obbligatoria, agli operatori sanitari, al personale di assistenza degli ospedali e delle case di cura private, e a tutte le altre categorie indicate nel D.M. del 4 ottobre 1991.

221


A differenza di altre patologie, appare di entità non trascurabile la trasmissione cosiddetta “parenterale inapparente” (penetrazione attraverso membrane mucose, piccole lesioni cutanee). Scopi-obiettivi Quantificare e limitare la diffusione dell’infezione da HBV mediante lo screening sierologico che permette: • identificazione dei soggetti che hanno contratto l’infezione; • screening nei contatti a rischio (tutte le persone esposte ad un paziente con infezione da HBV); • offerta di vaccinazione/trattamento. Campo di applicazione Nei Dipartimenti delle Dipendenze a: • tutti gli utenti nella fase di accoglienza; • soggetti già in carico che riferiscono “contatti a rischio” recenti (entro i 3 mesi) con persone HBV positive o a sierologia non nota; • soggetti già in carico che riferisco CaR con soggetti appartenenti a gruppi a rischio, sierologia non nota; • pazienti che presentano sintomi di epatite acuta. Definizione dell’attività Matrice di responsabilità Descrizione dell’attività

Responsabile dell’attività

Pre-counseling: colloquio informativo con il paziente e ottenimento medico/infermiere del consenso Effettuazione di prelievo venoso di sangue intero per test di screening infermiere Interpretazione dei risultati e post-counseling

medico

Programmazione di monitoraggio a 3, 6 mesi se comportamento a medico/infermiere rischio recente. Consigliare in ogni caso la vaccinazione

Nota: interpretazione dei risultati dei test sierologici per il virus dell’epatite B.

Sierologia

HBs Ag HBs Ab

HBc Ab totali

Neg.

Neg.

Neg.

Neg.

Nessuna evidenza di infezione da HBV

Pos.

Neg.

Neg.

Neg.

Infezione acuta precoce, oppure primi 18 gg dopo la vaccinazione

Pos.

Neg.

Pos.

Pos.

Infezione acuta

Neg.

Neg.

Pos.

Pos.

Infezione acuta in fase di risoluzione

Neg.

Pos.

Neg.

Pos.

Infezione pregressa, soggetto immune

Pos.

Neg.

Neg.

Pos.

Infezione cronica

(MMWR 2006 linee guida CDC )

222

Interpretazione

HBc Ab IgM


Procedure per lo screening delle principali patologie infettive nei tossicodipendenti

APPENDICE Profilassi post-esposizione per HBV con paziente-fonte HBSAg positivo A. Se operatore sanitario suscettibile (HBsAg e HBsAb negativo) 1. somministrare preferibilmente entro le 24/ore immunoglobuline specifiche al dosaggio di 0,06ml/kg; 2. iniziare il ciclo vaccinale entro il 14o giorno dall’avvenuto contatto (possibilmente entro 96 ore) seguendo lo schema accelerato di somministrazione delle dosi 0,1,2 mesi e dose di rinforzo a distanza di 6-12 mesi dalla terza. Se l’operatore rifiuta la vaccinazione è consigliabile la somministrazione di una seconda dose di immunoglobuline specifiche dopo un mese. B. Operatore sanitario non suscettibile 1. operatore sanitario vaccinato con ciclo completo e classificato come “responder”: nessun provvedimento; 2. operatore sanitario vaccinato con ciclo completo e classificato come “non responder” o “low responder” con titolo HBsAb fra 10 e 100 o < 10 mUl/ml, valutare i casi singolarmente soprattutto in relazione al tempo intercorso dalla vaccinazione: può essere opportuno proporre una dose di richiamo del vaccino. C. Operatore sanitario la cui risposta al ciclo vaccinale non è nota 1. Valutare il tempo intercorso dalla vaccinazione e determinare titolo HBs-Ab: • se titolo HBsAb >100 mUl/ml: nessun provvedimento; • se titolo HBsAb tra 10 e 100 mUl/ml: 1) valutare l’opportunità di proporre 1 dose di richiamo se titolo HBsAb < 10 mUl/ml; • se l’operatore sanitario risulta HBsAg positivo è da verificare nel paziente fonte lo stato sierologico nei confronti del virus delta (HDV), se “delta” positivo inserire l’operatore nel follow-up con la determinazione degli anticorpi antidelta, oltre alle transaminasi a 0, 3, 6 mesi. Il follow-up dell’operatore sanitario suscettibile consiste nel dosaggio delle transaminasi e HBsAg al tempo 0, 3, 6 mesi ed eventuale visita medica in caso di sintomatologia.

Esposizione a materiali infetti da HBV

Presidi profilattici consigliati

Esposizione percutanea o mucosa a sangue o liquidi biologici contenenti sangue di soggetto HBs Ag positivo

Somministrazione di vaccino e di immunoglobuline HBIG

Contatto sessuale o puntura con ago contaminato con sangue di soggetto HbsAg positivo

Somministrazione di vaccino e di immunoglobuline HBIG

Vittime di abuso sessuale perpetrato da persona HBs Ag positiva

Somministrazione di vaccino e di immunoglobuline HBIG

Esposizione a fonti di cui non si conosce lo stato di infezione da HBV

Presidi profilattici consigliati

Contatto sessuale o puntura con ago contaminato con sangue di persona di cui non si conosce lo stato di infezione da HBV

Somministrazione di vaccino

Vittime di abuso sessuale perpetrato da persona di cui non si conosce lo stato di infezione da HBV

Somministrazione di vaccino

223


Per materiali biologici a rischio devono intendersi: • il sangue e qualsiasi altro materiale biologico visibilmente contenente sangue • liquido cerebro-spinale, sinoviale, pleurico, pericardico, amniotico • liquido seminale e secrezioni vaginali • la saliva deve essere considerata materiale biologico a rischio di infezione per gli operatori sanitari in campo odontoiatrico • il latte umano solo per gli operatori delle banche del latte. Il rischio di contagio attraverso il contatto mucoso con saliva di soggetto infetto è basso ma documentato. Da questa relativa facilità alla diffusione dei virus dell’HBV deriva la necessità di estendere capillarmente la vaccinazione anti HBV fra gli operatori sanitari. Per quanto riguarda la vaccinazione dei soggetti a rischio si propone di modificare il protocollo precedentemente adottato per adeguarlo alle nuove indicazioni emanate con il Decreto Ministeriale 22/12/1997 (“Aggiornamento del protocollo per l’esecuzione della vaccinazione contro l’Epatite virale di tipo B”) che prevede che 1-3 mesi dopo il ciclo vaccinale completo sia determinato il titolo anticorpale per verificare la risposta immunitaria e impostare eventuali controlli e richiami a distanza secondo questo schema: Interpretazione del titolo anticorpale post vaccinale (dopo 1-3 mesi) Titolo anticorpale

Interpretazione

Misura

HBsAb<10mUl/mI

Non responder

Ulteriori dosi di richiamo a distanza di un mese l’una dall’altra. Nei casi di rischio consistente somministrare fino a 3 dosi

HBsAb fra 10 e 100 mUl/ml

Low-responder

Dose di richiamo entro un anno

HBsAb > 100 mUl/ml

Responder

Dose di richiamo dopo 10 anni

3. Procedura per lo screening e la diagnosi dell’infezione da HCV (7,10-13,32,40,52,53) Scopi-obiettivi Quantificare e limitare la diffusione dell’infezione da HCV mediante lo screening sierologico che permette: • identificazione dei soggetti che hanno contratto l’infezione; • screening nei contatti a rischio (tutte le persone esposte ad un paziente con infezione da HCV); • offerta di trattamento. Campo di applicazione Nei Dipartimenti delle Dipendenze a: • tutti gli utenti nella fase di accoglienza; • soggetti già in carico che riferiscono “contatti a rischio” recenti (entro i 3 mesi) con persone HCV positive o a sierologia non nota; • soggetti già in carico che riferisco CaR con soggetti appartenenti a gruppi a rischio, sierologia non nota;, • pazienti con infezione da HIV; • pazienti che hanno ricevuto trasfusioni di sangue o emoderivati prima del 1992;

224


Procedure per lo screening delle principali patologie infettive nei tossicodipendenti

• pazienti trapiantati prima del 1992; • pazienti emodializzati; • pazienti che presentano sintomi di epatite acuta.

Definizione dell’attività Matrice di responsabilità Descrizione dell’attività

Responsabile dell’attività

Pre-counseling: colloquio informativo con il paziente e ottenimento medico/infermiere del consenso Effettuazione di prelievo venoso di sangue intero per test di screening infermiere Interpretazione dei risultati e post-counseling

medico

Programmazione di monitoraggio a 3 mesi se comportamento a medico/infermiere rischio recente

Allo stato attuale non vi è la possibilità di profilassi per HCV per cui i provvedimenti si limitano al follow-up con il controllo delle transaminasi e la determinazione del HCV-Ab a 0, 3 mesi se il paziente fonte risulta HCV-Ab positivo.

4. Procedura per lo screening e la diagnosi dell’infezione luetica (sifilide) (31-33) Scopi-obiettivi Quantificare e limitare la diffusione dell’infezione da sifilide mediante lo screening sierologico che permette: • identificazione dei soggetti che hanno contratto l’infezione, trattati e non trattati; • identificazione dei casi da trattare per infezione latente (precoce o tardiva); • identificazione dei casi di infezione primaria/secondaria sintomatici da trattare; • screening nei contatti a rischio (tutte le persone esposte sessualmente ad un paziente con sifilide). Campo di applicazione Nei Dipartimenti delle Dipendenze a: • tutti gli utenti nella fase di accoglienza, in assenza di sintomatologia suggestiva e con cadenza annuale nei negativi; • soggetti già in carico che riferiscono possibili “contatti a rischio” con soggetti affetti da lue. Definizioni Test

Significato

Note

Test treponemico EIA, TPPA

Test treponemici di screening

FTA-ABS, EIA e TPHA

Test treponemici di conferma (devono essere diversi da quelli usati nello screening)

Rimangono positivi per tutta la vita. Non correlano con l’attività della malattia

VDRL/RPR

Test non treponemici

Solitamente correlano con l’attività della malattia. Si negativizzano con il tempo

Ab IgM e IgG

Anticorpi precoci e tardivi

Le IgM permettono di distinguere una infezione acuta

225


Definizione dell’attività Matrice di responsabilità Descrizione dell’attività

Responsabile dell’attività

Pre-counseling: colloquio informativo con il paziente e ottenimento medico/infermiere del consenso Effettuazione di prelievo venoso di sangue intero per test di screening infermiere (EIA per IgG e IgM) (In caso di positività il laboratorio provvede d’ufficio ad effettuare la sierologia specifica - VDRL e TPHA) medico

Interpretazione dei risultati e post-counseling

Programmazione di monitoraggio a 1 e 3 mesi se comportamento a medico/infermiere rischio recente medico/infermiere Screening dei contatti sessuali: • per i pazienti con sifilide primaria tutti i contatti nei tre mesi precedenti alla comparsa del sifiloma • per i pazienti con sifilide secondaria con anamnesi negativa per sifiloma primario tutti i contatti dei sei mesi precedenti alla comparsa dei sintomi di sifilide secondaria • per i pazienti con sifilide latente precoce tutti i contatti dei 12 mesi precedenti

Possibili risultati Sierologia

Interpretazione

Misura

IgM pos, VDRL/RPR pos

Infezione attiva (infezione recente o reinfezione)

Trattamento specifico

IgG pos, IgM neg, VDRL/ RPR neg/pos, TPHA/TPPA/ FTA-ABS pos

Infezione latente, tardiva o pregressa

Necessaria l’anamnesi per definire l’epoca presunta di infezione e l’effettuazione o meno di trattamento antibiotico idoneo

• se manca il riscontro anamnestico di trattamento idoneo si effettua terapia; • se è riferito un trattamento idoneo è discriminante il titolo VDRL e le sue va-

riazioni nel tempo per la scelta di un eventuale nuovo ciclo di trattamento. Dopo il trattamento deve essere effettuato un monitoraggio sierologico per documentare la discesa del titolo VDRL (protocollo a 1,2,3,6 e 12 mesi). Indicazioni all’esecuzione di rachicentesi L’esecuzione di rachicentesi (in contesto di ospedalizzazione) è indicata nei pazienti con sierologia per Sifilide positiva e: • presenza di segni e sintomi neurologici • presenza di segni e sintomi oculari • segni e sintomi otologici • infezione da HIV concomitante specialmente con linfociti CD4 <350/μl e/o titolo sierologico RPR o VDRL >1:32.

226


Procedure per lo screening delle principali patologie infettive nei tossicodipendenti

APPENDICE Trattamento lue Terapia

Scelta

Alternativa

Sifilide precoce

Penicillina G Benzatina: 2400000 U.I. i.m. in dose singola (1 b,A) Penicillina G Procaina: 600000 U.I. i.m. al dì per 10 gg (III, B)

Doxiciclina 100 mg x 2 al dì per 28 gg. (IV,C)

Sifilide latente, cardiovascolare e gomme

Penicillina G Benzatina: 2400000 U.I. i.m. a settimana per tre dosi (III, B) Penicillina G Procaina: 600000 U.I. i.m. al dì per 17 gg (III, B)

Doxiciclina 100 mg x 2 al dì per 28 gg (IV,C)

Neurosifilide (compresi il coinvolgimento nervoso ed oculare delle forme precoci)

Penicillina G Procaina: 1,8-2,4 MU.I. i.m. al dì + Probenecid 500 mg/ al dì per 17 gg (III, C) Benzilpenicillina: 18-24 MU.I. suddivisi in sei dosi per 17 gg (III, C)

Doxiciclina 200 mg x 2 al dì per 28 gg (IV,C) Amossicillina 2 g al dì + Probenecid 500 mg/ al dì per 28 gg (IV, C) Ceftriaxone 2 g i.m./e.v. dì per 14 gg. (IV,C)

Sifilide Precoce in gravidanza

Penicillina G Benzatina: 2400000 U.I. i.m. in dose singola durante il primo ed il secondo trimestre di gravidanza, nel terzo trimestre, una seconda dose dopo 8 gg (II B) Penicillina G Procaina: 600000 U.I. i.m. Al di per 10 gg (III, B)

Amossicillina 500 mg al dì + Probenecid 500 mg al dì per os per 14 gg (III, B) Ceftriaxone 500 mg i.m. al dì per 10 gg (III, B) Azitromicina 500 mg al dì per 10 gg (III, B)

Sifilide latente tardiva in gravidanza

Penicillina Benzatina: 2400000 U.I. i.m. A settimana per tre dosi (III, B) PenicillinaG Procaina: 600000 U.I. i.m. Al dì per 17 gg (III, B)

Amossicillina 2 g al dì + Probenecid 500 mg al dì per 14 gg (III, C)

Azitromicina 2 g in unica dose, oppure 500 mg al dì per 10 gg (II, B)

Amossicillina 2 g al dì + Probenecid 500 mg/ al dì per 14 gg (III, C)

Risposta clinica dopo la terapia delle forme precoci: • declino del titolo anticorpale VDRL /RPR di almeno 4 volte dopo 6 mesi (linee guida americane ed europee); • per le linee guida russe è da considerare un fallimento terapeutico anche la positività persistente di VDRL/RPR anche se vi è stata diminuzione del titolo di 4 volte ma permane la positività dopo 12 mesi senza ulteriore diminuzione. Follow-up dopo terapia delle forme tardive: • sierologia VDRL/RPR a 6, 12 e 24 mesi; • stop Follow-up dopo 12 mesi se declino del titolo anticorpale di 4 volte (quando si è iniziato il trattamento con VDRL/RPR > 1/32; • stop follow-up quando i titoli rimangono persistentemente bassi dopo 6 mesi; • stop follow-up se negativizzazione dei titoli VDRL/RPR.

227


Tabella riassuntiva del periodo finestra relativamente all’infezione da HIV, HBV, HCV e Sifilide

Infezione

1

2

Mesi 3

4

5

6

HIV HIV con PPE HBV HCV Sifilide

5. Procedura per lo screening e la diagnosi di TB (28) Scopi-obiettivi Quantificare e limitare la diffusione dell’infezione tubercolare mediante la Intradermoreazione secondo Mantoux che permette di: • identificazione dei soggetti che hanno contratto l’infezione TB, trattati e non trattati; • identificazione dei casi da trattare per infezione recente; • screening nei contatti a rischio (tutte le persone esposte ad un paziente con TB); • offerta di trattamento per i casi di TB attiva e di TB latente. Campo di applicazione • Tutti gli utenti del Dipartimento delle Dipendenze nella fase di accoglienza in assenza di sintomatologia suggestiva per TB, se possibile con ripetizione dopo 1-5 settimane per stimolare l’effetto-booster (risveglio della memoria immunitaria di precedente contatto). • Soggetti già in carico che riferiscono “contatti” recenti (entro i 3 mesi) con malati di TB. • Ogni due anni a tutti gli utenti SerT. Criteri di esclusione • Precedente test secondo Mantoux nei 12 mesi precedenti. Precauzioni • Gravidanza • Pregressa grave reazione locale successiva a intradermoreazione. Definizione dell’attività Matrice di responsabilità Descrizione dell’attività

Responsabile dell’attività

Pre-counseling: colloquio informativo con il paziente e ottenimento medico/infermiere del consenso Effettuazione di Intradermoreazione secondo Mantoux (PPD 5 TU/0,1 ml)

infermiere

Interpretazione dei risultati

medico

Viene prescritta Radiografia del torace ai Mantoux positivi.

228


Procedure per lo screening delle principali patologie infettive nei tossicodipendenti

Modalità di preparazione ed esecuzione dell’Intradermoreazione Preferibile usare confezione di Tubercolina PPD da 2 dosi (1 fiala PPD liofilo + 1 fiala di 0,5 ml di solvente). • Trasferire 0,3 ml di soluzione tampone nel flacone di PPD liofilizzata; prelevare 0,1 ml di soluzione così costituita (contenente 5 TU di PPD). • Detergere con etere o alcol la faccia volare dell’avambraccio. • Iniettare per via intradermica 0,1 ml di soluzione contenente 5 TU di PPD (il rilievo della formazione di un pomfo conferma la corretta esecuzione dell’iniezione nel derma). • Evidenziare l’area di iniezione mediante penna demografica. • Coprire con garza. Interpretazione del test Lettura a 48 (facoltativo) e 72 ore (obbligatorio), tenendo presente la possibilità di falsi negativi e l’opportunità di ritestare tutti i cutinegativi (effetto booster). Diametro Mantoux

Risultato

Popolazione

> 5 mm

POSITIVO

– HIV pos. o altri immunodepressi – recenti contatti stretti – esiti radiologici

> 10 mm

POSITIVO

– immigrati da aree endemiche nei primi 5 aa di soggiorno e/o in precarie condizioni socioeconomiche – tossicodipendenti ev – patologie croniche favorenti (silicosi, diabete…) – lungodegenti, detenuti, homeless – operatori a rischio

> 15 mm

POSITIVO

popolazione generale (test sconsigliato)

Nota Importante Vista la crescente difficoltà di reperimento della Tubercolina PPD per l’esecuzione della intradermoreazione, si tende ad impiegare maggiormente metodiche IGRA (Interferon Gamma Release Assey) quali Quantiferon® o Elispot® per lo screening delle persone per l’infezione tubercolare. Tali metodiche in vitro prevedono l’esecuzione di un prelievo ematico in apposite provette, e pro cessazione del campione in laboratorio. Le metodiche IGRA hanno il vantaggio, rispetto alla Mantoux, di una maggiore standardizzazione nell’interpretazione dei risultati, una maggiore specificità nei soggetti vaccinati con BCG, non necessitano di far ritornare il paziente per la lettura della reazione cutanea e non richiedono addestramento del personale per valutare la cutireazione. APPENDICE A. Profilassi per TB Da applicare ai soggetti tossicodipendenti afferenti al servizio con la presenza contemporanea dei seguenti: Criteri di inclusione • cutipositività (sulla base del protocollo diagnostico);

229


• Rx torace non patologico; • età inferiore a 35 anni.

Criteri di esclusione • riscontro anamnestico di pregressa cutipositività (almeno 2 anni prima); • pregresso trattamento adeguato per TB; • epatopatia acuta (o riacutizzazione di ep. cronica). Schema posologico Trattamento consigliato: Isoniazide (Nicizina©) 300 mg/die in unica somministrazione + Vitamina B6 50 mg/die (eventualmente prevedendo la somministrazione presso il servizio - DOT). Il trattamento deve prevedere una durata di 9 mesi (se soggetto HIV pos. durata d i12 mesi). Trattamenti alternativi per scarsa adherence del paziente o intolleranza a INI: • Isoniazide 18 mg/Kg 2 volte la settimana + Vitamina B6 50 mg/die per 9 mesi. • Rifampicina 600 mg/die + Pirazinamide 15-20 mg/kg/die per 2 mesi. • Rifampicina 600 mg + Pirazinamide 50 mg/kg 2 volte la settimana per 2 mesi. Trattamenti alternativi per intolleranza agli altri antitubercolari: • Rifampicina 600 mg/die per 4 mesi Monitoraggio degli effetti collaterali del trattamento • Controllo mensile della funzionalità epatica e esame emocromocitometrico. • Attenzione se transaminasi >3x la norma. • Sospensione del trattamento per transaminasi >5x la norma. B. Trattamento di TB latente Dove è possibile somministrare la chemioterapia preventiva con anti-tubercolari, i soggetti con intradermoreazione di Mantoux positiva e Rx torace negativo (che esclude malattia tubercolare attiva) e i contatti stretti HIV positivi o comunque immunosoppressi di un caso bacillifero, indipendentemente dal risultato del test di Mantoux, dovrebbero essere considerati per un trattamento della tubercolosi latente. La modalità di somministrazione DOT (Directly Observed Therapy), facilmente attuabile in un Ser.T., è quella che meglio ottiene il risultato di una buona aderenza a un lungo ciclo terapeutico, unico strumento per ottimizzare la risposta ed evitare l’insorgenza di resistenze farmacologiche. Il trattamento consigliato alla tipologia di utenti dei Ser.T. è: • isoniazide 15 mg/kg (max 900 mg) due volte/sett in somministrazione DOT per 6 mesi (concomitante assunzione giornaliera di300 mg di vit B6 per minimizzare il rischio di neuropatia periferica da isoniazide) In alternativa, se resistenza o intolleranza all’isoniazide: • rifampicina 10 mg/kg (max 600 mg) tutti i giorni in somministrazione DOT per 4 mesi

230


Procedure per lo screening delle principali patologie infettive nei tossicodipendenti

Controindicazioni al trattamento preventivo: • persensibilità nota a isoniazide e/o rifampicina • grave epatopatia • gravidanza (ad eccezione di HIV positive) • trombocitopenia grave (se schema con rifampicina) • concomitante assunzione di altri farmaci epatotossici. Raccomandata cautela se: • età maggiore di 35 anni • abuso etilico presente o recente • terapia con anticonvulsivanti, anticoagulanti orali, vitamina D, acido valproico o benzodiazepine ad alte dosi • malnutrizione, diabete, insufficienza renale cronica.

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231


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16. Cocaina e patologie internistiche correlate

Oliviero Bosco 1, Cristina Castello 2, Sergio Ferrari 3, Maurizio Gomma 4, Giovanni Serpelloni 5 1

Centro Medicina Comunitaria, Sezione di Screening HIV, ULSS 20 Verona Uoc Cardiologia, ULSS 20 Verona 3 Dipartimento di Scienze Neurologiche, Neuropatologiche e Motorie, Sezione di Neuropatologia, Università degli Studi di Verona 4 Dipartimento delle Dipendenze, ULSS 20 Verona 5 Dipartimento Politiche Antidroga, Presidenza del Consiglio dei Ministri 2

La dimensione del problema La cocaina è la sostanza d’abuso di uso più frequente dopo la marijuana negli Stati Uniti ed è il farmaco d’abuso che causa il maggior numero di interventi dei centri di pronto soccorso. Circa il 40% dei soggetti che si rivolgono al pronto soccorso per motivi correlati all’abuso di sostanze, sia lecite che illecite, ha fatto uso di cocaina; il 37% di questi soggetti ricade nel gruppo di età tra 35 - 44 anni. Il numero di accessi ai servizi di pronto soccorso associati all’uso di cocaina è aumentato del 47% dal 1999 al 2002, ed è in ulteriore aumento negli anni più recenti (Westover et al., 2007). L’uso di cocaina è anche la causa più frequente di morte associata a farmaci d’abuso. Il 40% dei soggetti che si recano al pronto soccorso per motivi correlati all’uso di cocaina lamentano dolore toracico e un quarto dei casi di infarto non letale in soggetti giovani è correlabile all’uso di cocaina.

Meccanismi alla base della tossicità da cocaina La cocaina è fondamentalmente una sostanza stimolante a livello del sistema nervoso centrale, un anestetico locale ed un simpaticomimetico con potente effetto vasocostrittore. La cocaina svolge la sua azione a livello di membrana neuronale mediante il blocco del transporter delle monoamine (serotonina, noradrenalina ed in particolare dopamina) con conseguente potenziamento della trasmissione dopaminergica. L’azione gratificante della cocaina si esplica attraverso l’attivazione dei neuroni dopaminergici del sistema mesolimbico e interferendo con la loro normale attività. L’azione inibente la ricaptazione di altri neurotrasmettitori come la noradrenalina e la serotonina spiega invece gli effetti della cocaina su altri organi ed apparati.

Aumento trasmissione dopaminergica

233


Blocco del reuptake di noradrenalina

Blocco dei canali del sodio

L’effetto della cocaina sul sistema cardiovascolare si spiega invece con il blocco del reuptake della noradrenalina, sia a livello centrale che periferico. Il conseguente effetto vasocostrittore si esplica in periferia potenziando la risposta adrenergica (Tabella 1). L’azione come anestetico locale dipende invece dal blocco della conduzione dell’impulso nervoso a livello dei canali voltaggio-sensibili del Na+, in modo da bloccare l’ingresso e la depolarizzazione Na+ dipendente.

Principali effetti d’organo L’uso e l’abuso di cocaina fanno parte di uno spettro di disturbi ben noti e classificati dal DSM IV tra i Disturbi Correlati all’Uso di Sostanze. Gli effetti comportamentali e psicologici della cocaina dipendono, oltre che dalla dose e dalla purezza, da una serie di circostanze quali: via di somministrazione, durata dell’uso, stato di salute mentale dell’utilizzatore, storia personale tossicologica (compreso l’uso concomitante di altre sostanze d’abuso). Gli effetti della droga si verificano più o meno rapidamente (e dipendono dalla modalità di assunzione, in ordine di velocità: iniezione venosa, crack/ freebase, sniffare, masticare le foglie) e consistono principalmente in: 1. Effetti psicotropi: a. aumento dell’attenzione e della concentrazione b. riduzione del senso di fatica c. riduzione di sonno e fame d. senso di euforia. 2. Effetti fisiologici: a. contrazione dei vasi sanguigni b. dilatazione delle pupille (midriasi) c. aumento della temperatura corporea, del ritmo cardiaco e della pressione arteriosa d. blocco del riassorbimento della dopamina nelle sinapsi. 3. Effetti a lungo termine: a. depressione, ansia, irritabilità, paranoia, insonnia e psicosi b. perdita di peso c. rottura del setto nasale nel caso la droga sia assunta per via intranasale per un lungo periodo di tempo.

Tabella 1 - Effetti della cocaina correlati al tipo di neurotrasmettitore interessato

234

Trasmissione

Sintomo

Dopaminergica

Autostimolazione (rinforzo positivo) Anoressia Stereotipia Iperattività Arousal sessuale

Serotoninergica

Allucinazioni Ipertermia Vasospasmo

Noradrenergica

Tachicardia Ipertensione Vasocostrizione Midriasi Tremore


Cocaina e patologie internistiche correlate

4. Sintomi di Overdose: a. agitazione, ostilità, allucinazioni, convulsioni, ipertermia, infarto, paralisi muscolare e della respirazione, morte. Gli effetti della cocaina sul SNC interessano le funzioni cognitive ed affettive oltre che gli impulsi fisiologici come la fame, la sete, il sonno ed il sesso. A livello periferico è presente un corteo sintomatologico legato in gran parte alla aumentata liberazione di amine biogene come dopamina, adrenalina, noradrenalina. Nell’organismo si scatena una reazione di allarme. Si produce uno stato di allerta, con attivazione del sistema cardiovascolare con tachicardia ed ipertensione. Sono presenti inoltre tremori, contrazioni muscolari, flushing cutaneo e midriasi, accompagnati da un ritardato svuotamento vescicale ed intestinale. Gli organi bersaglio sono soprattutto il cuore e il distretto cardio-circolatorio. A livello cardiaco si possono avere delle aritmie di vario tipo e grado; l’aumento del consumo di ossigeno e la riduzione del flusso coronarico conducono ad uno stato di ischemia cronica. La comparsa di spasmi a livello coronarico può condurre ad infarto del miocardio. Vasocostrizione e spasmi possono condurre all’insorgenza di infarti anche in altri distretti (polmone e cervello in particolar modo). Anche l’aterosclerosi è accentuata dalla cocaina ed il suo uso è stato associato alla formazione di trombi. Le crisi ipertensive, causate dall’assunzione di cocaina, possono portare ad emorragie cerebrali. L’assunzione per via nasale può condurre, per gli effetti vasocostrittori della sostanza, alla necrosi e alla perforazione del setto. A livello polmonare si possono osservare ipertensione e edema. È stata descritta anche una sindrome, detta “polmone da crack”. I sintomi sono quelli di una polmonite: dolore toracico, difficoltà respiratoria e iperpiressia. L’uso cronico di cocaina, diminuendo le scorte di dopamina, può causare anche iperprolattinemia con ginecomastia, galattorrea e amenorrea. La libido è diminuita con riduzione della performance sessuale, impotenza nell’uomo ed anorgasmia nella donna. Infine, la cocaina è anche un agente epilettogeno. La capacità di provocare convulsioni generalizzate aumenta a seguito di ripetute somministrazioni (Tabella 2).

Cuore e arterie

Polmoni

Sfera sessual

Complicanze cardiovascolari L’ischemia e l’infarto miocardio acuto rappresentano la complicanze più frequentemente descritte associate all’uso di cocaina. La cocaina sembra essere la causa di ischemia miocardia o infarto in pazienti con o senza danno coronario preesistente. Il dolore retrosternale è presente nel 40% dei casi di accessi al pronto soccorso correlati all’assunzione di cocaina e nelle persone che si presentano ai reparti di emergenza lamentando un dolore toracico non traumatico dovrebbe essere sempre indagato l‘ambito tossicologico ed in particolare l’uso di cocaina; tale sintomo infatti è quello di più comune riscontro nei cocainomani. Le persone con infarto miocardio da abuso di cocaina sono indistinguibili dalla popolazione generale in quanto a tempo di insorgenza, localizzazione e durata del dolore, anamesi positiva per patologia cardiovascolare e presenza o assenza di dei tradizionali fattori di rischio per aterosclerosi. Negli individui con infarto associato all’uso di cocaina: • il tempo di insorgenza dei sintomi dipende dalla via di assunzione: da una

Ischemia ed infarto miocardico

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Tabella 2 - Effetti della cocaina correlati al tipo di neurotrasmettitore interessato

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Complicanze

Quadro clinico

Cardiovascolari

Cardiopatia ischemica Infarto del miocardio Dolore toracico Cardiomiopatia Aritmie Endocardite Miocardite Edema polmonare cardiogenico Ipertensione arteriosa Dissecazione aortica Flebiti, tromboflebiti

Neurologiche

Cefalea Convulsioni Ictus Movimenti involontari Vasculiti Delirio di agitazione Atrofia cerebrale

Polmonari

Quadro respiratorio acuto Asma Malattia eosinofila e polmonite interstiziale Pneumotorace Pneumomediastino Pneumopericardio Edema polmonare Emorragia ed infarto polmonare Embolia polmonare “Crack lung� Bronchiolite obliterante Danno acuto delle vie respiratorie

Gastrointestinali

Stomatiti, glossiti Ischemia intestinale Infarto mesenterico Perforazione intestinale Colite Infarto della milza Epatopatia

Renali

Insufficienza renale acuta Infarto renale Mioglobinuria

Ostetriche e neonatali

Rottura placentare Placenta previa Preeclampsia Aborto spontaneo PrematuritĂ Ritardo sviluppo e crescita intrauterina Sindrome da morte improvvisa neonatale Basso peso alla nascita Anomalie congenite

Performance sessuale

Diminuzione della libido Impotenza Alterazioni del ciclo mestruale

Muscoloscheletriche

Rabdomiolisi

Capo, collo e cute

Erosioni dentali Ulcere gengivali Perforazione del setto nasale Rinite cronica Sinusite frontale Anosmia Granuloma della linea mediana Cheratiti e cheratocongiuntiviti


Cocaina e patologie internistiche correlate

Difetti epitelio corneale Neuropatia ottica

Altre

Ipertermia Acidemia

media di 30 minuti per la somministrazione endovenosa, ai 90 per il crack e ai 135 per l’assunzione intranasale; • età media di insorgenza 31-34 anni; • più del 90% maschi apparentemente sani; • 1 evento di infarto miocardio non fatale su 4 riguarda persone tra i 18 ed i 45 anni; • il rischio di insorgenza è massimo nella prima ora dopo l’assunzione (da 24 a 31 volte maggiore rispetto al rischio basale); • il rischio per la vita è mediamente del 6% maggiore rispetto ai non assuntori; • la sua comparsa è stata riportata fino ad un periodo successivo di 15 ore; • la sua insorgenza inoltre è indipendente dalla via di assunzione e dalla dose assunta. In sintesi si può affermare che la cocaina induce ischemia ed infarto miocardico attraverso fattori multipli, che vanno dalla marcata vasocostrizione coronarica (con conseguente stasi ed aggregazione piastrinica, aumentata anche dalla cocaina), all’aumentata richiesta di ossigeno da parte del miocardio e danno vascolare con accelerazione dei processi aterosclerotici. La possibilità di abuso di cocaina deve essere sempre considerata nel caso di morte improvvisa in pazienti giovani, soprattutto se non sono presenti i tradizionali fattori di rischio per l’aterosclerosi. Un recente studio condotto mediante una analisi tossicologica sistematica su 2744 autopsie (668 delle quali presentavano i criteri di morte improvvisa) ha evidenziato la presenza di ipertrofia ventricolare sinistra (IVS), malattia dei piccoli vasi, aterosclerosi precoce nei casi di morte associata all’uso di cocaina. Complessivamente il 3.1% dei casi di morte improvvisa sono risultate correlate all’uso di cocaina e principalmente dovute a cause cardiache È stato dimostrato che la cocaina può indurre un deterioramento acuta della funzionalità sia sistolica che diastolica del ventricolo sinistro, direttamente, anche in assenza di infarto. Questa disfunzione ventricolare può essere attribuita all’effetto tossico diretto della sostanza, a miocardite o ad entrambe. Negli assuntori cronici di cocaina si è riscontrata una ipertrofia ventricolare sinistra con importante disfunzione sistolica. In sostanza quindi la cocaina causa compromissione della funzione sistolica del ventricolo cardiaco sinistro attraverso il concorso di più meccanismi. La cocaina induce ischemia subendocardica o infarto attraverso una potente stimolazione simpaticomimetica. L’esposizione ricorrente del miocardio all’eccesso di catecolamine può causare la cardiomiopatia. L’uso di cocaina è correlato alla possibile comparsa di aritmie di vario grado. Le principali aritmie riscontrate sono: tachicardia e bradicardia sinusale, tachicardia sopraventricolare, l’asistolia, blocco di branca, tachicardia e fibrillazione ventricolare. In parecchie occasioni il disturbo aritmico si verifica in un contesto di profonda alterazione emodinamica e metabolica come ipotensione, ipossiemia, vertigini o infarto miocardico. È ipotizzabile comunque che la cocaina favorisca l’insorgere di aritmie cardiache attraverso più meccanismi. Come potente simpaticomimetico può

Morte Improvvisa

Cardiomiopatia

Aritmie

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Endocardite e miocardite

Dissecazione aortica

Ipertensione arteriosa

Flebiti e tromboflebiti

Associazione con fumo e alcool

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aumentare l’eccitabilità ventricolare ed abbassarne la soglia di fibrillazione. Attraverso il blocco dei canali del sodio, impedisce la generazione e la conduzione dello stimolo elettrico. Mediante l’aumento del calcio intracellulare, potenzia il rischio di insorgenza di aritmie ventricolari. Infine riduce l’attività vagale potenziando l’attività simpaticomimetica. Inoltre l’uso prolungato di cocaina è associato ad ipertrofia ventricolare con aumento di spessore della parete, fattori associati ad aumentato rischio, oltre che di infarto, anche di aritmie cardiache. Negli assuntori di cocaina per via endovenosa è stata riscontrata una maggiore frequenza di endocardite, ed essa stessa sembra essere un fattore di rischio indipendente rispetto ad altre sostanze iniettate per la stessa via. L’uso endovenoso di cocaina è associato in particolare ad un aumentato rischio di endocarditi batteriche. Il motivo di questo incrementato rischio non è del tutto chiaro. L’aumento della frequenza cardiaca e della pressione sistolica che accompagna l’uso di cocaina può provocare insulti vascolari e valvolari, che predisporrebbero all’ingresso di patogeni. Anche la maniera con cui è preparata la sostanza potrebbe spiegare l’aumentato rischio di endocarditi: l’eroina viene scaldata prima di essere iniettata, la cocaina no. Infine i suoi effetti immunosoppressivi e la presenza di sostanze adulteranti usate come “taglio”, potrebbero anch’essi esercitare un ruolo. In contrasto alle endocarditi provocate da altre sostanze d’abuso, l’endocardite da cocaina coinvolge più spesso le cavità sinistre del cuore. La concomitante assunzione di sostanze presenti nella polvere assunta o di agenti infettivi può causare anche miocardite. La dissecazione aortica o la sua rottura costituiscono una possibile drammatica evenienza tra gli assuntori di cocaina, in particolare per via inalatoria (crack). Tale eventualità deve essere presa in considerazione in caso di dolore toracico nei cocainomani. Il meccanismo alla base di tale quadro clinico sembra essere riconducibile all’ipertensione arteriosa e all’aumento delle catecolamine causate dalla cocaina. L’ipertensione arteriosa ed in particolare le crisi ipertensive, sono di frequente riscontro negli assuntori di cocaina. La genesi di questi quadri clinici sembra essere dovuta principalmente alla vasocostrizione periferica indotta dal mancato reuptake delle amine vasoattive. Tale stato contribuisce in maniera importante alla genesi dei quadri patologici cardiaci. Altre possibili conseguenze dell’uso di cocaina sono le tromboflebiti superficiali e profonde, che si realizzano con meccanismi riconducibili all’azione di vasocostrizione, di stimolo alla aggregazione piastrinica caratteristiche della droga e anche al possibile meccanismo irritativo provocato da sostanze da taglio presenti nei preparati in uso. Molti pazienti con angina pectoris o infarto, associati ad assunzione di cocaina, sono contemporaneamente anche fumatori di sigarette. Il fumo di sigaretta provoca vasocostrizione coronarica come la cocaina. Quindi gli effetti deleteri della cocaina sul fabbisogno di ossigeno da parte del miocardio, sono esacerbati dal concomitante fumo di sigaretta. Questa associazione incentiva l’aumento della frequenza cardiaca e l’ipertensione arteriosa; combinazione che determina un aumento del fabbisogno di ossigeno da parte del miocardio con una contemporanea diminuzione del diametro delle arterie coronariche. Nel poliabuso di sostanze una combinazione molto comune è quella costituita da cocaina ed alcool. L’assunzione concomitante di queste due sostanze è associata con un maggior tasso di esiti e morte improvvisa rispetto all’uso disgiunto; si stima infatti che questo rischio sia di 20 volte maggiore, come


Cocaina e patologie internistiche correlate

riscontrato nell’ambito di reperti autoptici di patologie cardiovascolari. Si è infatti ipotizzato che vi sia un effetto sinergico o additivo tra le due sostanze che si riflette in maniera catastrofica sul sistema cardiovascolare, dovuto anche alla presenza di metaboliti della cocaina biologicamente attivi, come il cocaetilene.

Complicanze neurologiche La cocaina agisce come uno stimolante del sistema nervoso centrale attraverso l’inibizione del reuptake della dopamina, serotonina e norepinefrina, la cocaina inoltre causa rilascio di quest’ultima sostanza anche dalle ghiandole surrenali. L’intensità e la durata dell’effetto stimolante è in funzione dalla via di assunzione e dalla conseguente velocità di raggiungimento del picco plasmatico. Numerosi sono i quadri neurologici associati all’uso di questa sostanza e qui di seguito ne verranno illustrati i principali. La cefalea rappresenta un sintomo di frequente riscontro, conseguente all’ipertensione arteriosa e può insorgere sia durante l’assunzione della cocaina che nella fase astinenziale. Le convulsioni appaioino con una certa frequenza e sono considerate una manifestazione severa di tossicità. Assieme alle alterazioni del sensorio, le convulsioni sono le sindromi neurologiche più frequentemente osservate nei dipartimenti di emergenza, raggiungendo il 52% dei disturbi a carico del sistema nervoso in pazienti che assumono cocaina. Le convulsioni correlate alla cocaina possono presentarsi sia negli assuntori cronici che nei naïve, soprattutto come manifestazione di overdose. Sono solitamente crisi convulsive generalizzate tonico-cloniche uniche e spesso pertanto si risolvono spontaneamente senza richiedere l’intervento farmacologico. Non sembra esserci relazione con il tempo di assunzione, infatti la loro comparsa può avvenire immediatamente dopo l’assunzione o manifestarsi dopo parecchie ore. Le complicanze vascolari cerebrali, siano esse di natura ischemica o emorragica, possono rappresentare una evenienza drammatica dell’abuso di cocaina. La prevalenza di tali lesioni è molto diversa dalla popolazione generale dove lo stroke è di natura prevalentemente ischemica (85% dei casi) ed interessa soprattutto la popolazione in età avanzata (80% dei casi), mentre negli assuntori di cocaina l’età media si aggira intorno ai 30-34 anni. Nel 50% dei casi il quadro neurologico insorge dopo qualche ora dall’assunzione della sostanza, ma talvolta può manifestarsi a parecchie ore di distanza da un uso massiccio (binge). Gli infarti sono in genere subcorticali e si stima che gli episodi ischemici siano più frequenti di quanto osservato. Infatti, utilizzando metodiche di neuroimaging è possibile osservare la presenza lesioni ischemiche cerebrali clinicamente silenti in un discreto numero di soggetti che usano cocaina. I meccanismi che stanno alla base delle lesioni di natura ischemica sono riconducibili al vasospasmo arterioso, che rappresenta una conseguenza diretta dell’azione della cocaina, all’attivazione dell’aggregazione piastrinica e, non da ultimo, all’induzione di quadri vasculitici cerebrali. L’azione vasocostrittrice sarebbe inoltre dovuta anche ai metaboliti della cocaina che, avendo una emivita più lunga, potrebbero spiegare l’insorgenza dell’ictus anche a distanza. Nei quadri emorragici, i reperti erano equamente rappresentati sia da emorragia cerebrale intraparenchimale che da emorragia subaracnoidea. Le distonie consistono in disturbi del movimento caratterizzati da contrazioni

Cefalea e convulsioni

Ictus (stroke)

Distonie (movimenti involontari)

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Delirio eccitatorio

muscolari involontarie, che costringono alcune parti del corpo ad assumere posture o movimenti anormali, ripetitivi o non ripetitivi, e spesso dolorosi. Alla base di tali manifestazioni gioca un ruolo fondamentale l’antagonismo della funzione nigrostriatale della dopamina che può causare disfunzioni nei motoneuroni extrapiramidali producendo distonie muscolari, bradicinesia, acinesia, acatisia, pseudoparkinsonismo e catalessi. Anche l’uso cronico di cocaina provoca una netta diminuzione dei livelli di dopamina e quindi, la droga, può diventare di per sé un fattore di comparsa di sindromi distoniche. Inoltre la cocaina può costituire un ulteriore fattore di rischio per la comparsa di distonie in persone che assumono neurolettici; poiché tali farmaci sono in grado di provocare disturbi extrapiramidali per la loro azione di blocco dei recettori dopaminici. Il delirio con agitazione, conosciuto anche come delirio eccitatorio, è un quadro di comune riscontro nei soggetti che manifestano grave tossicità da cocaina che porta all’exitus. Nei pazienti che presentano delirio con agitazione si ha l’immediata comparsa di comportamento bizzarro e violento che include aggressione, combattività, iperattività, ipertermia, paranoia, energia inaspettata e/o grida incoerenti. Tali sintomi possono essere seguiti da arresto cardiorespiratorio. Anche se la frequenza d’uso della cocaina in grado di aumentare il rischio di delirio non è stata determinata, è stato dimostrato che ripetuti binge sono associati alla comparsa di tale evento fatale. Gli individui con delirio eccitatorio sembrano essere più sensibili agli eventi fatali associati all’aumento delle catecolamine circolanti, rispetto agli altri individui che usano cocaina. L’aumento di temperatura aumenta l’incidenza del delirio eccitatorio. Il decesso per quest’ultimo è più comune nei mesi estivi (55% contro il 33% delle altre cause di morte accidentali per cocaina); perciò l’elevata temperatura ambientale l’umidità possono giocare un ruolo importante nel suo sviluppo. Anche le manovre costrittive attuate in caso di delirio possono costituire un fattore aggravante, soprattutto quando il paziente si trova in posizione prona.

Complicanze polmonari

Quadro respiratorio acuto

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I dati riguardanti l’effetto della cocaina ed in particolare il crack, sulla funzione polmonare, misurati con i test standard, sono variabili. Tuttavia si è riscontrata una modesta. ma significativa alterazione della capacità di diffusione polmonare, nei assuntori di crack rispetto ad altre sostanze, in un terzo dei casi. Una diminuzione della capacità di diffusione di solito implica un danno della membrana alveolo-capillare. Il meccanismo di questa alterazione non è chiaro, ma sono state proposte alcune teorie al riguardo: danno diretto della membrana alveolo-capillare, danno del letto vascolare polmonare, danno interstiziale in caso di concomitante uso endovenoso. I polmoni sono i principali organi esposti ai prodotti di combustione dell’assunzione di cocaina per via inalatoria (crack). La sintomatologia acuta respiratoria compare di solito dopo alcune ore, ma in alcuni casi anche dopo minuti. I disturbi polmonari acuti comprendono: tosse con produzione di catarro di colore scuro, dolore toracico con o senza dispnea, emottisi, esacerbazione di asma. La tosse risulta essere il sintomo di esordio più comune (44% dei casi) e sem-


Cocaina e patologie internistiche correlate

bra essere dovuto alla presenze di sostanze nocive nel prodotto inalato che irritano le vie respiratorie. La produzione di catarro carbonaceo (black sputum) è caratteristico degli assuntori di crack ed è attribuibile alla inalazione di residui carbonacei presenti nelle torce di cotone imbevute di butano o alcool, utilizzate per riscaldare la cocaina. Il dolore toracico (38% dei casi) di solito compare dopo circa un’ora dalla assunzione della droga e viene esacerbato dall’inspirio profondo. Esso è dovuto alla irritazione acuta della vie respiratorie per l’elevata concentrazione di cocaina inalata e ai prodotti di combustione del crack. In caso di comparsa di dolore toracico devono comunque essere escluse anche altre cause del sintomo quali: ischemia o infarto miocardio acuto, pneumotorace o pneumomediastino. La presenza di sangue nello sputo viene riportata dal 6 al 26% dei casi. Numerosi autori hanno riportato casi di esacerbazione di quadri asmatici in pazienti assuntori di crack. Tra i pazienti con un nuovo episodio asmatico, afferenti a strutture di emergenza negli Stati Uniti, il 36.4% è stato riscontrato positivi alla ricerca dei metabolici urinari della cocaina. Il meccanismo scatenante il broncospasmo è da porre verosimilmente in relazione a infiammazione dell’epitelio respiratorio da parte sia della cocaina che dalle altre sostanze presenti nelle preparazioni da strada. L’edema polmonare è una complicanza dell’uso di cocaina sia per via endovenosa che inalatoria. La causa è da ricercare probabilmente all’azione delle catecolamine circolanti, associato o meno ad un effetto diretto della cocaina a carico degli alveoli polmonari. In quasi tutti i casi vi è una stretta relazione temporale tra la quantità di crack inalato (1 grammo o più) e la comparsa dei sintomi (di solito entro 1 o 2 ore dall’inalazione). La difficoltà di respiro è il sintomo sempre presente. Una comune manifestazione dell’abuso di cocaina è costituita da emorragia polmonare diffusa con dispnea ed sputo con sangue. Più comune è l’evenienza di una emorragia polmonare occulta; tale quadro è stato riscontrato, a livello autoptico, nel 30% dei soggetti con morte improvvisa in seguito ad overdose di cocaina. L’emorragia polmonare è verosimilmente in relazione a estrema vasocostrizione della vascolarizzazione polmonare con conseguente ipossia tissutale. Più rara è la possibilità di infarto polmonare come conseguenza di vasospasmo localizzato e trombosi. In soggetti forti fumatori di crack è stato descritto un quadro clinico denominato “crack lung”. Tale quadro può comparire con vari sintomi come febbre, dolore toracico, tosse con emottisi, dispnea, broncospasmo, prurito, emorragia, edema ed interstiziopatia polmonare. Dal punto di vista radiologico si può avere un reperto simile all’embolia polmonare. Le cause possono essere varie: vasocostrizione polmonare con anossia epiteliale e conseguente danno tissutale con emorragie alveolare ed edema; effetto tossico diretto delle sostanze inalate; trombocitopenia indotta dalla cocaina. Questo sindrome si presenta in genere da 1 a 48 ore dopo l’assunzione di crack. Un’altra possibile complicanza polmonare dovuta al crack è costituita da un severo danno termico delle vie respiratorie dovuto sia al rapido ed elevato riscaldamento intratracheale causato dall’alcol impiegato per il processo di assunzione della sostanza, che ad insulto chimico da parte dei prodotti chimici inalati. In seguito a questo danno si può verificare una infiammazione acuta delle vie respiratorie con possibile stenosi tracheale, che può richiedere una risoluzione chirurgica.

Asma

Edema polmonare

Emorragia ed infarto polmonare

“Crack lung”

Danno acuto alle vie respiratorie

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Complicanze gastrointestinali

Stomatiti e glossiti

Ischemia e perforazione intestinale

Epatopatia

Le complicanze gastrointestinali dovute all’uso di cocaina sono meno frequenti, tuttavia possono costituire ugualmente un evento drammatico. Anche in questo caso il meccanismo principale è da ricondurre all’azione delle catecolamine stimolate dall’assunzione della droga. Quadri infiammatori a carico della mucosa della bocca e linguale sono stati descritti in soggetti cocainomani. Tali quadri sono caratteristici dei soggetti che masticano la cocaina. In ambito addominale sono stati descritti quadri di perforazione a tutti i livelli del tratto intestinale: prepilorica, gastroduodenale e mesenterica. In seguito all’ingestione della sostanza compaiono dolore addominale e debolezza, con accompagnamento di nausea, vomito e melena. L’insorgenza dei sintomi può variare da 1 ora fino a 48 ore dopo l’uso di cocaina. Le complicanze addominali variano a seconda che si assuma cocaina o crack. L’abuso di cocaina può causare ischemia mesenterica e gangrena, con possibile perforazione a carico del piccolo e del grosso intestino e conseguente emorragia peritoneale. Tutto questo in conseguenza della vasocostrizione indotta dalla cocaina o dalla trombosi mesenterica causata dall’aggregazione piastrinica. La mortalità associata a queste complicanze può essere alta (fino al 21%), specialmente in presenza di gangrena. In seguito all’uso di crack la causa più comune di addome acuto è costituita da perforazione duodenale prepilorica. In aggiunta il crack può comportare l’insorgenza di problemi simili a quelli incontrati nell’abuso di cocaina, quali gangrena intestinale con perforazione. Con l’abuso di crack può insorgere anche una colite ischemica, che si presenta con dolore addominale e melena. I quadri di ischemia ed infarto intestinale sono osservati più frequentemente nei body packer. Alcune osservazioni cliniche hanno riportato una correlazione tra alterazioni della funzionalità epatica nel poliabuso di sostanze e nell’assunzione non parenterale di cocaina. Tali osservazioni sono molto importanti in quanto, ogni alterazione della funzionalità epatica indotta da cocaina (sul citocromo p-450 o sul sistema della monoossigenasi), può conseguentemente rallentare il metabolismo della droga stessa e aumentare la presenza di metabolici, a loro volta con proprietà vasoattive. L’azione citotossica risulta più marcata se il soggetto abusa anche di alcool, per la epatotossicità del cocaetilene.

Complicanze renali Insufficienza renale acuta

Infarto renale

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L’insufficienza reale acuta dovuta a necrosi tubulare, è la complicanza renale di più frequente riscontro. Tale quadro si verifica in seguito a distruzione massiccia delle fibre muscolari (rabdomiolisi), dovuta ad episodi convulsivi, allo stato ipertensivo e ad ipertermia. L’infarto renale dovuto ad abuso di cocaina solitamente si presenta con dolore persistente e severo al fianco o dolore addominale associato con nausea o vomito con o senza febbre. La comparsa dei sintomi avviene usualmente dopo 2-3 ore dall’uso della sostanza, ma può comparire tardivamente fino a 4 giorni dopo. Tutte le vie di assunzione della cocaina possono portare a tale complicanza. Gli effetti vasocostrittore e trombogenico della cocaina sembrano essere i fattori dominanti nell’infarto renale correlato alla sua assunzione.


Cocaina e patologie internistiche correlate

Complicanze ostetriche e neonatali In questi ultimi anni si è verificato un sostanziale aumento del consumo di cocaina in gravidanza ed è parallelamente aumentato l’interesse nello studio delle alterazioni conseguenti all’uso di tale sostanza nel corso della gestazione. L’uso di cocaina in gravidanza è chiaramente in relazione all’incremento di problematiche sia per la prosecuzione della gestazione, che per la susseguente crescita e sviluppo fetale. Con l’assunzione di cocaina durante la gravidanza è stata riportata una maggiore frequenza di aborto spontaneo, sanguinamento per placenta previa e rottura placentare, prolungata rottura delle membrane, ritardo della crescita intrauterina e prematurità fetale. L’aumentata incidenza di aborto spontaneo e rottura placentare è correlata direttamente alla vasocostrizione placentare, diminuzione dell’apporto di sangue alla placenta ed aumento della contrattilità dell’utero. Questi fattori, in aggiunta alla marcata ipertensione sistemica concomitante all’uso di cocaina, possono favorire la rottura placentare. L’assunzione cronica di cocaina comporta la diminuzione del flusso ematico placentare con insufficienza utero-placentare. Tutto ciò gioca un ruolo importante nel ritardo di crescita e sviluppo endouterino del feto. La cocaina è in grado di superare la barriera placentare e si accumula nei tessuti fetali a concentrazioni maggiori di quelle osservate nel sangue materno. L’azione vasocostrittrice della cocaina può causare ipossia fetale, che sembra essere uno dei fattori responsabili delle alterazioni nei neonati. I neonati di madri che hanno assunto cocaina durante la gravidanza possono presentare un basso peso alla nascita e ridotta circonferenza cranica. Nei neonati da tali madri è stata riportata una ridotta capacità di interesse, una diminuita abilità a fornire risposte appropriate agli stimoli, una maggiore irritabilità e una iporeflessia. Inoltre sono state rilevate significative alterazioni del linguaggio e del QI. Recenti studi hanno dimostrato che bambini esposti a cocaina nel periodo gestazionale esibivano sottili alterazioni del comportamento: maggior irritabilità, disturbi dell’attenzione e maggiore impulsività e ridotta capacità attentiva soprattutto in situazioni di confronto e di competizione nell’ambito del gruppo e della scuola. In sintesi quindi i bambini esposti alla cocaina in utero presentano deficit cognitivi che possono protrarsi fino al secondo anno di vita. Infine vi sono segnalazioni che l’esposizione fetale alla cocaina può causare anomalie di varia natura: cuore, polmoni, fegato, genitali e sistema nervoso.

Aborto spontaneo, ritardo di crescita e prematurità

Ipossia fetale

Disturbi neurocognitivi

Malformazioni

Complicanze della performance sessuale La cocaina è una droga d’abuso con effetti nell’ambito della sessualità acuti e cronici del tutto opposti. Grazie alla sua azione dopaminergica, essa aumenta il desiderio e l’eccitazione mentre, parallelamente, inibisce l’orgasmo in entrambi i sessi. L’uso cronico causa una riduzione sostanziale della libido ed influisce negativamente sulle funzioni riproduttive. In utilizzatori di cocaina di sesso maschile sono state osservate impotenza, alterazioni della funzione erettile e ginecomastia, regrediti molti mesi dopo la sospensione dell’uso di sostanza. Nelle donne invece sono stati riportati disturbi del ciclo mestruale quali amenorrea, sterilità e galatorrea.

Alterazioni della libido

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Complicanze muscolo scheletriche Rabdomiolosi

Numerose segnalazioni riportano la comparsa di distruzione massiva di fibre muscolari (rabdomiolisi) in relazione all’uso di cocaina, indipendentemente alla via di assunzione, associata a ipotensione profonda, ipertermia, tachicardia, rigidità muscolare diffusa e, frequentemente, delirio eccitatorio. Tale quadro frequentemente si associa a coagulazione intravascolare disseminata, insufficienza renale acuta con mioglobinuria, ed epatopatia; quadro che ricorda la sindrome maligna da neurolettici. È possibile che la cocaina possa agire con una tossicità diretta sul muscolo scheletrico. La rabdomiolisi è frequentemente associata a elevati livelli sierici di creatinchinasi (CK), insufficienza renale con mioglobinuria e tale evenienza comporta un alto tasso di mortalità.

Complicanze a carico di cute, capo e collo Discromie cutanee

ORL e orofaringe

Occhio

Nell’assunzione di coca per via endovenosa, nei siti cutanei di recente somministrazione, si osservano aree discromiche color salmone, che con il passare del tempo diventano blu e quindi gialle per poi scomparire. Anche nei fumatori cronici di crack si possono osservare lesioni cutanee caratteristiche. Sono state descritte lesioni di tipo ipercheratosico alle dita e al palmo della mano, soprattutto quella dominante dovute ad insulto termico della pipa di vetro con cui viene fumato io crack. Le complicanze otorinolaringoiatriche più frequenti nei consumatori cronici di cocaina per via inalatoria sono costituite dalla perdita dell’olfatto, la comparsa di sinusite frontale, l’atrofia della mucosa nasale e la perforazione-necrosi del setto, in seguito a somministrazione per via inalatoria. In particolare quest’ultimo quadro è associato all’assunzione di cocaina per via endonasale e la perforazione della parte cartilaginea del setto è probabilmente la risultante di una combinazione di fattori quali l’effetto topico della sostanza ed il potente effetto vasocostrittore indotto dalle catecolamine. Sono infine stati descritti anche quadri di perforazione del palato. È stata descritto un progressivo calo dell’acuità visiva o addirittura cecità improvvisa per occlusione dell’arteria centrale della retina. Nei consumatori cronici di crack, l’effetto anestetizzante della cocaina a livello della cornea aumenta il rischio di lesioni da grattamento con conseguente maggiore facilità nello sviluppo di cheratiti e cheratocongiuntiviti. Il contatto della cocaina con la cornea può provocare ulcere ed abrasioni corneali; il danno corneale può anche essere una conseguenza dell’irritazione causata dal fumo. Tale quadro oculare viene anche chiamato “crack eye”.

Altre complicanze Ipertermia

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L’effetto letale della cocaina è peculiare rispetto alla altre sostanze d’abuso, perché non è legato solamente alla dose assunta, ma anche alla sua propensione a causare aumento della temperatura corporea (ipertermia). Infatti nei soggetti assuntori si verifica ipertermia anche con bassi livelli di sostanza e il tasso di mortalità aumenta sostanzialmente con le temperature calde. Le temperature raggiunte possono essere estremamente elevate (temperatura rettale fino a 45° C).


Cocaina e patologie internistiche correlate

Le proprietà della cocaina di causare ipertermia sono la risultante di diversi meccanismi: lo stato di agitazione ed aumentata attività muscolare che aumentano la produzione di calore, perdita di controllo sulla regolazione della temperatura interna ed infine una alterazione dei meccanismi di dissipazione del calore.

Sintomatologia di presentazione La cocaina esercita un effetto multisistemico e, virtualmente, ogni organo può essere coinvolto. Il sospetto di abuso di cocaina può essere preso in considerazione in presenza di alterazioni dello stato mentale, comparsa ex novo di convulsioni, ipertensione, dolore toracico, ischemia miocardica o infarto, tachipnea, emorragia intracranica, epistassi o quadri psichiatrici, specialmente se a comparsa in giovani soggetti. In questi casi bisogna porre particolare attenzione all’esame cardiologico, polmonare e neurologico. Vengono qui di seguito presentati i principali segni e sintomi che possono insorgere in seguito ad assunzione di cocaina.

Principali segni e sintomi

Tabella 3 - Principali sintomi correlati all’uso di cocaina Ambito

Segni e sintomi

Segni vitali

Bradicardia Tachicardia Ipertensione Ipertermia Cute fredda

Cardiovascolare e respiratorio

Aritmie Collasso Insufficienza cardiaca Dispnea Tachipnea Arresto respiratorio Edema polmonare

Occhi e naso

Midriasi reattiva Nistagmo Epistassi Atrofia della mucosa Ulcerazione e perforazione del setto nasale

Gastrointestinale e renale

Vomito Diarrea Suoni da iperattività intestinale Dolore e dolenzia addominale Melena Dolore al fianco o al dorso

Cute

Escoriazioni lineari Bruciature Arrossamenti tumefazioni dolenzia (flebiti)

Neurologico e psichiatrico

Sensorio normale Alterato stato mentale Confusione Irrequietezza Agitazione Attività motoria incoerente (cocaine leaps) Paranoia Delirio Cefalea Tremore

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Intossicazione acuta

Nella tabella seguente vengono invece riassunte le fasi della intossicazione acuta da cocaina. Tabella 4 - Le tre fasi dell’intossicazione acuta da cocaina Fase

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Ambito

Segni e sintomi

1. Stimolazione SNC iniziale

Midriasi Cefalea Bruxismo Nausea Vomito Vertigini Tremore involontario Tics Movimenti preconvulsivi Pseudo allucinazioni

Circolatorio

Possibile ipertensione arteriosa Bradi o tachicardia Pallore

Respiratorio

Tachipnea Aumento profondità del respiro

Ipertermia

Temperatura

Comportamento 2. Stimolazione SNC avanzata

Euforia Eloquio garrulo ed euforico Agitazione Apprensione Eccitazione Irrequietezza Sensazione di fatalità imminente Instabilità emotiva

Circolatorio

Ipertensione Tachicardia Aritmie ventricolari (possibili) Cianosi periferica

Respiratorio

Tachipnea Dispnea Respiro irregolare ed ansimante

Temperatura 3. Depressione e SNC stato preterminale

Ipertermia severa (possibile) Coma Areflessia Pupille fisse e dilatate Paralisi flaccida Perdita delle funzioni vitali di supporto

Circolatorio

Insufficienza cardiovascolare Arresto cardiaco (fibrillazione ventricolare)

Respiratorio

Insufficienza respiratoria Edema polmonare massivo Cianosi Respiro agonico Paralisi respiratoria

Encefalopatia maligna Convulsioni generalizzate Stato epilettico Diminuzione della risposta agli stimoli Iperreflessia marcata Incontinenza


Cocaina e patologie internistiche correlate

È difficile differenziare la sindrome da overdose di cocaina da quella di altre evenienze quali la sindrome serotoninergica (tossicità da litio e antidepressivi triciclici), tireotossicosi, o sindrome neurolettica maligna. Tra le diagnosi differenziali è da considerare, negli assuntori di cocaina, la tossicità da fenitoina. Tale quadro può presentarsi con nistagmo, atassia, disartria, letargia, ipotensione coma.

Conclusioni e linee di indirizzo La cocaina è una sostanza i cui effetti possono riguardare vari sistemi ed apparati, in relazione sia alla tossicità diretta, che alle azioni mediate dall’interferenza sul metabolismo della dopamina e delle catecolamine. I suoi effetti sul sistema cardiovascolare sono il risultato delle sue molteplici attività biologiche con una vera e propria sensibilizzazione del sistema vascolare agli stimoli contrattili e possono causare infarto miocardio ed aritmie. La comprensione ed il riconoscimento precoce delle complicanze cardiovascolari correlate all’uso di cocaina sono essenziali per il loro corretto trattamento. L’uso di cocaina può essere stabilito in base a quanto riferito dal paziente, alla sintomatologia presentata e dall’analisi delle urine. La determinazione del metabolita della cocaina benzoil-ecgonina nelle urine mediante immunoassay qualitativo è il metodo di laboratorio più comunemente impiegato, anche se la cocaina può essere determinata anche nel sangue e nei capelli. La possibilità dell’assunzione di cocaina deve essere presa in considerazione ogniqualvolta si presenti un quadro di cardiopatia ischemia, infarto, aritmia o cardiopatia dilatativa, in un soggetto giovane con assenza o minimo rischio cardiovascolare. In ambito del sistema nervoso centrale i quadri patologici più frequentemente associati all’uso di questa sostanza sono quelli a carattere ischemico ed emorragico e, quando sono sintomatici, si riscontrano, con le tecniche di imaging, lesioni evidenti nel 75% dei casi. In ogni caso è prudente considerare la possibilità di assunzione di cocaina come possibile causa di ictus o emorragia in pazienti con meno di 40 anni. Proprio in considerazione dell’aumentato uso è importante considerarne il coinvolgimento in caso di dolore addominale riferito da soggetti giovani con storia di uso di cocaina; potrebbe infatti trattarsi di complicanze addominali correlate alla sua assunzione, come ischemia mesenterica e perforazione gastroduodenale. Infine l’incremento di uso della cocaina ha fatto riscontrare un aumento della presenza di suoi metaboliti nelle persone coinvolte in incidenti stradali, anche mortali. Tale dato rinforza l’utilità dell’esecuzione routinaria di uno screening tossicologico nelle persone afferenti alle strutture di emergenza in seguito a traumi stradali. Date queste considerazioni sarebbe utile concretizzare la costituzione di un sistema di sorveglianza e di allerta precoce che coinvolgesse sia i dipartimenti di emergenza che delle dipendenze, al fine di costituire una rete integrata per la diagnosi precoce delle patologie correlate all’abuso di cocaina e per l’invio delle persone presso le strutture di specialistiche in ambito delle dipendenze.

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Problematiche infettive emergenti



17. Infezioni da Bacillus Anthracis nei tossicodipendenti

Letizia Leone 1, Giovanni Serpelloni 2, Claudia Rimondo 3, Catia Seri 3 1

Clinica Dermatologica, Università degli Studi di Verona Dipartimento Politiche Antidroga, Presidenza del Consiglio dei Ministri 3 Sistema Nazionale di Allerta Precoce, Dipartimento Politiche Antidroga, Presidenza del Consiglio dei Ministri 2

Casi di infezione da Bacillus anthracis in Europa L’infezione da Bacillus anthracis in soggetti consumatori di eroina per via iniettiva, risulta essere un fenomeno che, negli ultimi anni, ha avuto delle manifestazioni anche sul territorio europeo. Ciò è stato registrato e segnalato dal Sistema di Allerta Europeo dell’European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction che ha provveduto a trasmettere le informazioni ai rispettivi Sistemi di Allerta di ciascun Paese Membro, incluso al Sistema Nazionale di Allerta Precoce del Dipartimento Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Solo recentemente, tra giugno e luglio 2012, sono stati registrati in Europa 5 casi di infezione da B. anthracis, due dei quali con esito letale. Nello specifico, nel mese di giugno 2012 è stato registrato in Germania il decesso di un consumatore di eroina per via iniettiva, il quale è risultato positivo al B. anthracis. Successivamente, nel mese di luglio sono stati segnalati altri 4 casi di infezione. Un caso era stato registrato a Regensburg, nella regione di Ratisbona in Germania, in un consumatore di stupefacenti per via parenterale. In ospedale il paziente aveva manifestato febbre ed edema nel sito di iniezione dell’eroina: l’emocoltura (PCR) era risultata positiva per Bacillus anthracis. Le condizioni del paziente sono migliorate dopo trattamento. Il secondo caso confermato è stato registrato nello stato federale di Berlino in un consumatore di droghe per via endovenosa. Il quadro clinico indicava antrace cutanea presso il sito di iniezione di eroina (escara nera, edema, eritema, trombosi). Le condizioni del paziente sono migliorate con la terapia antibiotica. La diagnosi di antrace è stata confermata dal Robert Koch Institute mediante test sierologico e PCR. Un campione di ulcera necrotica è risultato positivo in real-time-PCR con tutti gli indicatori di antrace testati. I test sierologici con anticorpi tossina-specifici sono risultati più volte positivi (ELISA, Western blot). Il terzo caso di infezione, che ha condotto al decesso del paziente, è stato registrato in Danimarca relativamente ad un soggetto che aveva acquistato eroi-

Infezioni da antrace segnalate a livello europeo attraverso i Sistemi di Allerta

5 casi tra giugno e luglio 2012

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Un’epidemia di antrace in Europa ha colpito i consumatori di sostanze d’abuso per via iniettiva

Le manifestazioni cliniche e il decorso sono state variabili

A seguito di studi genetici l’ipotesi più probabile sull’origine dell’epidemia sembra sia stato il trasporto della droga in pelli infettate dall’antrace

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na a Copenaghen e l’aveva assunta per via endovenosa nei giorni successivi. Era giunto presso l’ospedale di Copenaghen manifestando dolore alla gamba e una ferita al basso ventre, in corrispondenza dell’area dove si iniettava la droga. La situazione clinica è peggiorata con dolore addominale e setticemia seguita da arresto cardiaco. L’analisi di campioni di sangue e di liquido ascitico hanno identificato la presenza del Bacillus anthracis. Infine, un caso di infezione registrato in Francia è stato segnalato dal Ministero della Salute italiano a luglio 2012 relativamente ad un soggetto eroinomane tossicodipendente di 27 anni proveniente dalla regione Rhone-Alpes, e attualmente in convalescenza dopo ricovero in terapia intensiva. Al momento attuale non risultano legami tra i cinque casi, che sono stati segnalati anche alle strutture sanitarie e laboratoristiche italiane attraverso il Sistema Nazionale di Allerta Precoce. Un’altra precedente epidemia di antrace era stata registrata tra i consumatori di sostanze d’abuso per via iniettiva in Europa; infatti, a partire da dicembre 2009 erano stati riportati 52 casi confermati in Gran Bretagna (47 in Scozia e 5 in Inghilterra) e 1 confermato in Gemania (la definizione dettagliata di caso confermato di Antrace è fornita nella tabella 1) [1-3]. La prima segnalazione (dicembre 2009) è stata fatta in Scozia relativamente a due tossicodipendenti (dei quali uno deceduto in seguito) ricoverati presso la Glasgow Royal Infirmary, nei quali era stata evidenziate un’emocoltura positiva per Bacillus anthracis [1]. I casi di infezione si manifestavano inizialmente con infiammazione o formazione di lesioni ascessuali localizzate nel sito di iniezione di eroina, con latenza di almeno un giorno. Successivamente i pazienti venivano ricoverati (in genere in quarta giornata) con manifestazioni cliniche variabili: infezioni localizzate, fascite necrotizzante, cellulite, sepsi, meningite emorragica o emorragia sub-aracnoidea. A seconda dei casi il trattamento si è avvalso di antibiotici sistemici per via endovenosa, antimicrobici topici, asportazione chirurgica del tessuto necrotico; in 4 casi sono state utilizzate immunoglobuline specifiche (AIGIV , Anthrax Immune Globulin Intravenous) fornite dai Centres for Disease Control and Prevention di Atlanta, che hanno partecipato direttamente all’indagine epidemiologica. Nella tabella 2 viene riportata la distribuzione geografica dei 47 casi scozzesi e dei 5 casi in Inghilterra con la relativa mortalità. Nel gennaio 2010 era stato segnalato un decesso per infezione da B. anthracis in un consumatore di eroina per via iniettiva nell’area di Aquisgrana in Germania, ricoverato nel dicembre 2009 e deceduto in seguito per disfunzione multi organo. All’epoca del ricovero non vi era stato il sospetto clinico di antrace, ma solo successivamente la diagnosi è stata fatta in seguito all’esito colturale di un tampone della lesione cutanea iniziale e alla successiva analisi del sangue periferico effettuata con la tecnica della Polimerase Chain Reaction (PCR) [3]. Tuttora non è chiaro se questo caso sia correlato con l’epidemia registrata in Gran Bretagna dal momento che dalla storia clinica del paziente non si evince un suo possibile viaggio in Scozia o in Inghilterra. Le autorità scozzesi ipotizzano come possibile nesso tra i casi avvenuti nella loro regione una partita di eroina contenente spore di B. anthracis oppure ad una contaminazione della stessa partita in seguito al suo trasporto dall’ Afghanistan o dal Pakistan in pelli animali contaminate [1]. A conferma di quanto detto, difatti, sono stati compiuti diversi studi sul genotipo di B. anthracis isolato, riscontrando come probabile una singola sorgente di infezione (forse da un singolo animale infetto) e che questa possa essere identificata nella pelle di una capra verosimilmente di origine turca [1].


Infezioni da Bacillus Anthracis nei tossicodipendenti

Antrace: origine, vie di trasmissione e manifestazioni cliniche L’antrace è una malattia infettiva causata dal B. anthracis, un grosso bacillo capsulato (Figura 1), gram-positivo, aerobio/anaerobio facoltativo, sporigeno, immobile [4]. Le spore [5] sono resistenti a vari trattamenti fisici e possono sopravvivere per anni in natura: alcune sono state ritrovate nelle ossa

L’antrace nell’essere umano si presenta sotto diverse forme cliniche a seconda della via di penetrazione

Tabella 1 - Definizione di “casi confermati, probabili, possibili” di antrace CASI CONFERMATI Un tossicodipendente utilizzatore di droghe iniettive in cui si abbia una sintomatologia clinica compatibile con il sospetto di antrace e 1 o più delle seguenti: 1. crescita in coltura del B. anthracis da campione clinico con conferma del laboratorio di riferimento 2. presenza del DNA del B. anthracis mediante PCR (polymerase chain reaction) 3. dimostrazione del B. anthracis mediante tecniche immunoistochimiche in campioni clinici 4. Sieroconversione in campioni seriati 5. Dimostrazione diretta di tossine dell’antrace nel sangue CASI PROBABILI (o SOSPETTI) Un tossicodipendente utilizzatore di droghe iniettive in cui si abbia una sintomatologia clinica compatibile con il sospetto di antrace 1. Bacilli gram positivi o colonie batteriche con crescita somigliante a quelle del B. anthracis provenienti da materiale tessutale mediante tampone o raccolta di fluidi o da coltura del sangue. CASI POSSIBILI Un tossicodipendente utilizzatore di droghe iniettive in cui si abbia una sintomatologia clinica compatibile con il sospetto di antrace e che sia stato in contatto con un caso accertato o probabile Fonte: HPA (servizio sanitario inglese, Health Protection Agency) Special Pathogens Reference Unit (SPRU)

Tabella 2 - Casi di antrace segnalati in Scozia e in Inghilterra dal 2009 al 2010

Casi clinici

Decessi

Ayrshire and Arran

1

0

Dumfries and Galloway

6

0

Fife

3

1

Forth Valley

1

1

Greater Glasgow and Clyde

20

7

Lanarkshire

9

2

Lothian

2

0

Tayside

5

2

Londra

2

1

Blackpool

1

1

Leicestershire

1

1

Kent

1

1

Casi totali

52

17

Zone controllate dal servizio sanitario nazionale scozzese (NHSS: National Health Service of Scotland)

Zone controllate dal servizio sanitario inglese (HPA: Health Protection Agency)

257


di animali morti 200 anni fa nel “Kruger National Park” in Sud Africa [6]. Due sono i fattori di virulenza di questo bacillo: la capsula (a superficie non immunogenica, dotata di capacità antifagocitaria) e la tossina, costituita da tre diverse tossine (PA: Protecting Antigen; EF: Edema Factor; LF: Letal Factor) [7]. Di per sé le singole tossine sono innocue, invece, se associate in combinazione binaria o ternaria, formano dei complessi tossici. L’iniezione endovenosa di PA+LF, ad esempio, provoca morte negli animali da esperimento, mentre l’iniezione intradermica di PA+EF è in grado di provocare edema cutaneo [8]. L’antrace può colpire sia gli umani che i mammiferi, molte specie di uccelli e gli anfibi. Comunemente, nell’uomo la malattia si può presentare sotto diverse forme a seconda della via di penetrazione delle spore: cutanea, polmonare e gastroenterica. Nella casistica relativa ai tossicodipendenti per via parenterale, la via più frequente di penetrazione risultava attraverso l’iniezione sottocutanea o intramuscolare, con il successivo sviluppo di forme miste cutaneo-sistemiche [1]. Nella forma cutanea il bacillo si trasmette per contatto penetrando attraverso la cute in presenza di una soluzione di continuo (anche minima) localizzata spesso sulle aree esposte (viso, collo, braccia e mani) e dopo un’incubazione di 1-5 giorni appare nel punto di inoculo una vescico-pustola siero-emorragica con edema infiammatorio periferico (a cui si possono associare adenopatie satelliti e prurito) che evolve rapidamente verso la formazione di un’escara nerastra. In assenza di trattamento l’evoluzione è verso la setticemia. La diagnosi di certezza si effettua mediante gli esami colturali su prelievi o biopsie delle lesioni cutanee o su sangue (emocoltura), dal momento che il microrganismo cresce facilmente e rapidamente in coltura (Figura 1); in attesa dei test di sensibilità si può intraprendere una terapia con ciprofloxacina o doxiciclina per via orale. Nella forma polmonare, invece, il bacillo si trasmette per via aerogena attraverso l’inalazione delle spore e il periodo di incubazione può arrivare sino a 60 giorni. Nella fase iniziale la sintomatologia ricorda una forma influenzale: febbre, astenia, tosse non produttiva, dispnea, dolore toracico, mialgie, cefalea, nausea e vomito. Successivamente, in poche ore (o giorni) si assiste ad un aggravamento del quadro clinico: aumento della febbre, dolore retro sternale, insufficienza respiratoria, shock e coma. In questa fase la mortalità è superiore al 90%. Nel caso si sospetti l’antrace la valutazione diagnostica si avvale di radiografia toracica (TAC qualora il sospetto permanga nonostante la radiografia possa apparire “normale”), esami ematochimici (emocromo con formula, indici epatici) ed emocoltura nell’attesa dei test di sensibilità. Figura 1 - B. anthracis all’esame microscopico diretto

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Infezioni da Bacillus Anthracis nei tossicodipendenti

Il trattamento si avvale di una terapia combinata in cui la ciprofloxacina per via endovenosa o la doxiciclina per bocca vengano associate a uno o due antibiotici quali: rifampicina, vancomicina, gentamicina, cloramfenicolo, penicillina, amoxicillina, imipenem, clindamicina. La forma gastroenterica, invece, può conseguire all’ingestione delle spore attraverso carni infette e può presentarsi con una sintomatologia scarsa sino a forme letali. L’ingestione delle spore causa lesioni che vanno dal cavo orale all’intestino cieco. Le tossine rilasciate provocano necrosi emorragica che si estende ai linfonodi mesenterici. Febbre, nausea, vomito, malessere, dolore addominale, ulcerazioni gastriche con ematemesi, ascite e diarrea ematica sono comuni. Possono conseguire peritonismo, necrosi intestinale, setticemia e shock settico potenzialmente letali (nel 25-60% dei casi). La forma orofaringea presenta lesioni muco-cutanee ricoperte da false membrane in ipofaringe con secchezza del cavo orale, febbre elevata, edema, adenopatie cervicali, disfagia, tosse secca e dispnea. Si può manifestare ostruzione delle vie aeree. Il decesso avviene per shock settico (nel 25-60% dei casi). Una complicanza comune nello stadio setticemico di queste forme descritte è la meningoencefalite emorragica che può esordire da 1 a 6 giorni dopo l’inizio della fase acuta (nella forma inalatoria il periodo di latenza può superare i 6 giorni). La forma mista cutaneo-sistemica rilevata a carico di individui che utilizzano eroina per via iniettiva, di contro, ha un interessamento multi organo e può comportare un’infezione dei tessuti molli (con formazione di cellulite, fascite necrotizzante, miosite necrotizzante), sepsi, meningite e segni o sintomi della forma inalatoria. In questo caso la malattia ha un andamento bifasico caratterizzato da un’iniziale malessere generale (per 2-3 giorni) a cui fa seguito un’apparente ripresa di 1-2 giorni prima del manifestarsi del quadro clinico completo. Fondamentale per la valutazione diagnostica la coltura e l’esame diretto del campione di tessuto (o del tampone) prelevato in sede lesionale (ove presente) e l’emocoltura (prima di iniziare la terapia antibiotica). Il trattamento in questi casi si può avvalere della terapia antibiotica che comprenda gli antibiotici attivi sui vari microorganismi responsabili di gravi infezioni cutanee (compreso il B. anthracis) come la ciprofloxacina e la clindamicina per via endovenosa in combinazione con uno o più antibiotici (meropenem, flucloxacillina, metronidazolo) a cui si può associare un’asportazione chirurgica del tessuto infetto.In tutte le forme descritte è importante che la antibioticoterapia sia protratta per almeno 60 giorni [9]. Prima del 2009 va segnalato un solo caso letale di meningite emorragica da B. anthracis, segnalata ad Oslo (Norvegia) nel 2000 in un eroinomane ospedalizzato a seguito della comparsa di un ascesso localizzato cutaneo accompagnato da leucocitosi elevata (45.000 cellule/mm3) [10]. In Italia l’antrace è una malattia alquanto rara e ad oggi non sono stati segnalati casi tra consumatori di sostanze d’abuso per via iniettiva.

È fondamentale effettuare un’emocoltura ed un esame diretto della eventuale lesione cutanea prima del trattamento

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260


18. Epidemiologia di HIV, sottotipo non-B

Saverio Giuseppe Parisi, Giorgio Palù Dipartimento di Medicina Molecolare, Università degli Studi di Padova

Il virus della immunodeficienza acquisita umana, HIV-1, viene classificato in tre gruppi, M (major), O (outlier) ed N (new). la pandemia di AIDS è sostenuta principalmente da ceppi del gruppo M, che oggi sono ulteriormente differenziati in sotto-tipi, quali A-D, F-H, J, K, e molte forme ricombinanti (CRFs), in continua evoluzione. La distribuzione dei vari sottotipi e delle forme ricombinanti è stata studiata nei diversi continenti, ed è stata rilevata inizialmente una prevalenza del sottotipo B in Europa occidentale e nord-America. Nell’ultimo decennio è stato poi dimostrata nei paesi occidentali una presenza crescente di forme non-B, dovuta a varie ragioni. Innanzi tutto il pattern epidemiologico caratteristico di alcune comunità di immigrati, infettati nei paesi di origine e poi trasferiti in Europa e nord-America e colà responsabili di diffusione secondaria alla popolazione autoctona; in secondo luogo, infezioni con ceppi non-B vengono acquisite da soggetti caucasici in occasione di viaggi e successivamente importate e diffuse nei paesi di origine [Boni et al., 1999; Brodine et al., 1999; Couturier et al., 2000; Balotta et al., 2001; Thomson 2001; Lospitao et al., 2005]. La correlazione con i comportamenti connessi al rischio di acquisizione di HIV è raramente descritta in modo da potere essere messa in rapporto con l’analisi filogenetica dei ceppi studiati; nelle popolazioni studiate cioè vengono solitamente descritte la distribuzione dei rischi, le caratteristiche demografiche ed i tipi virali nel loro complesso. È comunque possibili ricavare alcuni spunti. sulla circolazione nei differenti gruppi di popolazione. Negli USA uno studio su 1922 nuove diagnosi di infezione da HIV eseguite nel 2006 in dieci differenti stati [Wheeler WH 2010] ha rilevato sottotipi non-B nel 3,8% dei casi, con una prevalenza di C (1,3%), CRF02_AG (1,1), A (0,5%), e quindi D, G, CRF01-AE, CRF10-CD, CRF12-BF,CRF22-01A1. Quarantasette dei 66 soggetti con origine nota risultavano essere non americani, a conferma di precedenti osservazioni sulla ancora modesta penetrazione di clades non-B in nord-America [Sides TL 2005,. Weidle PJ 2000,. Jayaraman GC 2003,. Bennett D. 2005].

Prevalenza del sottotipo B in Europa occidentale e nord-America

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Si osserva una tendenza all’incremento dei ceppi non-B in Europa

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La frequenza dei clades non-B è bassa in gruppi ad alto rischio come omosessuali, tossicodipendenti, eterosessuali non TD [Brennan CA 2010, Delwart EL 2003, de Oliveira CF 2000,.], e cresce in popolazioni immigrate da regioni con epidemia di non-B o personale militare infettato all’estero [Thomson MM 2001,. Achkar JM 2004, Lin HH 2006, Singer DE 2010, Brodine SK 2003,]. studi su donatori di sangue hanno riportato un incremento dall’uno per cento degli anni ’90 al 2,5% del 2006-9 [Delwart E]. Sostanzialmente diverso risulta il quadro europeo, dove viene riportata una prevalenza di ceppi non-B del 33% in una coorte di 2687 soggetti raccolta tra il 2002 ed il 2005 in numerosi paesi [Vercauteren J 2012]. In Francia, il 42% di 466 soggetti con infezione contratta da meno di cinque anni e studiati da ottobre 2006 a marzo 2007 [Descamps D 2009] é risultata avere ceppi non-B; il 54% dei soggetti di questo gruppo proveniva dall’Africa sub-sahariana. Analoga tendenza all’incremento è stata descritta ancora in Francia [Chaix ML 2009] in analisi di soggetti con infezione acuta nel periodo 1996-2006; dal 10.3% (16/156) di pazienti nel 1996–1998 al 18.8% (45/240) nel 1999– 2000, al 24.4% (73/299) nel 2001–2002, al 27.6% in 2003–2004 (88/319) ed al 25.5% (106/415) nel 2005–2006 (P<0.001). Lo stesso trend era osservato in soggetti infettati attraverso contatti omosessuali o bisessuali; 4.5% (3/67) nel periodo 1996–1998, e poi progressivamente fino al 15.7% (42/268) nel 2005–2006 (P<0.020). Su 1854 nuove infezioni diagnosticate a Madrid tra il 2000 ed il 2010 [Trevino A 2011], i non_B (18,3% nel complesso) sono aumentati dal 1,5% (200002) al 7,2% (2003-06) al 11,4% (2007-10) tra gli spagnoli, dallo 0% al 9,5% e 15% tra i latino americani e dal 78% al 96% ed al 95% tra i soggetti africani. Un’attenta analisi dei comportamenti correlati a rischio di infezione ha evidenziato nei tre periodi di tempo un consistente incremento tra i soggetti eterosessuali ( 0, 6,3%, 10,5%) ed omosessuali (44,8%, 57,9%, 66,7%), ed una sostanziale stabilità a livelli modesti tra i soggetti tossicodipendenti (9,1%, 14,3%, 11,1%). In 369 nuove diagnosi effettuate in Grecia nel periodo 2000-07 [Skoura L 2011], i ceppi non-B sono aumentati dal 39% (2000-03) al 42,2%(2004-05) al 57% (2006-07), con una sostanziale prevalenza del sottotipo A (120 ceppi su 173). I tossicodipendenti, 7,6%, erano una sostanziale minoranza della intera popolazione studiata. Con riferimento al comportamento omosessuale, la circolazione di non-B in Gran Bretagna è stata riportata in crescita, dal 4% del 1996-99, al 5-9% del 2000-06, al 13% del 2007. il 34% di questi ultimi risultavano essere britannici [Fox J 2010] All’analisi multivariata l’acquisizione di HIV-1 non-B era indipendentemente associata a recente anno di diagnosi, (p<0.001) e nascita extra europea (P<0.01). Sostanzialmente differente risulta il quadro nell’Est Europa. Nella ex-Unione Sovietica, l’epidemia di AIDS, a lungo rimasta forse misconosciuta, e sicuramente poco conosciuta al resto del mondo, è stata successivamente da molti collegata strettamente con gli sconvolgimenti socio-economico-politici sopravvenuti nei primi anni ’90. Le difficoltà seguite al collasso dello stato centrale hanno creato un clima nel quale il commercio e l’uso di droghe illegali ed il rischio di acquisire HIV sono aumentati [Hamers FF 2003, Rhodes T 2005,] La grande diffusione di HIV tra i tossicodipendenti è iniziata nella metà degli anni ’90 con la simultanea introduzione dei sottotipi A e B [Nabatov AA 2002]. Il sottotipo A1, verosimilmente originato in Africa occidentale, è stato correlato alla diffusione dell’epidemia [Riva 2008]


Epidemiologia di HIV, sottotipo non-B

Una analisi condotta in Georgia [Dvali N 2012] su 153 soggetti, ha rilevato 138 (90,2%) sottotipi A1, 11 B, due G, un F ed una forma ricombinante. Il sottotipo A era la forma dominante in tossicodipendenti (94% di 67 soggetti) ed eterosessuali (89% di 75 soggetti). Per i dati italiani si può fare riferimento agli ultimi dati del Centro Operativo AIDS, che riporta come, tra i soggetti con diagnosi di AIDS, la modalità di trasmissione legata all’uso iniettivo di droghe sia in costante diminuzione negli ultimi 10 anni, fino al più recente 21,1% del biennio 2009-10, e come sia inferiore al 10% tra le nuove diagnosi. Con riferimento all’origine geografica, tra i soggetti con diagnosi di AIDS, al 2008 è stabile la quota di africani (circa il 10%), ed in aumento quella degli americani e degli europei (<5%). Riguardo ai sottotipi, dati rappresentativi dell’intera realtà geografica italiana si possono trarre dal database ARCA relativo alle nuove diagnosi [Bracciale 2009]. Analizzando 1690 soggetti diagnosticati nell’arco di 12 anni (1996-2007), si è rilevato un incremento dei ceppi non-B dal 9,7% del 1996-01 al 24,5% del 2006-07; i tossicodipendenti diminuivano dal 14,3 al 8,9% e gli stranieri dal 57,4 al 34,7%. Non sono pubblicate le percentuali dei differenti sottotipi in relazione alla origine geografica ed al rischio, ma CRF02_AG ed F1 erano i tipi più rappresentati nel periodo più recente, 8,7 e 6% rispettivamente. Su 484 pazienti analizzati in un centro lombardo [Baldanti 2008], e suddivisi in trienni dal 1980 al 2006, ad una analisi degli ultimi tre periodi (quelli con una numerosità più consistente, 266 soggetti) si riscontra che i sottotipi non-B erano molto rari nei tossicodipendenti, 4 su 53 soggetti, a loro volta in netta diminuzione rispetto alle altre categorie di rischio (20% del totale dei periodi considerati). Negli altri gruppi di rischio i non-B risultavano rispettivamente 34 su 185 eterosessuali (70% del totale) e 2 su 43 omosessuali (16% del totale). I ceppi non-B sembrano quindi non essere trasmessi in misura importante nell’ambito del rischio tossicodipendenza. Dati recenti relativi ad una regione del nord-est riportano nel periodo 200406 un tasso del 21,2% di ceppi non-B nelle 288 nuove diagnosi osservate [Parisi 2007]. Più recentemente è stato riportato un incremento nei soggetti con nuova diagnosi nella stessa regione, fino al 32,5% (236 su 725 soggetti) nel triennio 2009-11 [Parisi 2011]; interessante notare che il 29% dei soggetti non-B erano italiani, ed il 13% dei soggetti con sottotipo B erano stranieri, a sottolineare una tendenza alla diffusione dei vari tipi nelle differenti popolazioni. Dati relativi allo specifico fattore di rischio sono infine stati prodotti recentemente dalla coorte ARCA [Lai 2012] che su 144 sottotipi A1 raccolti dal 1997 al 2011, ha potuto determinare 42 fattori di rischio rintracciabili, riconoscendo 7 soggetti come tossicodipendenti, 27 eterosessuali ed 8 omosessuali. Concludendo, la diversità geografica che rendeva conto di segregazioni differenti per i vari sottotipi sta divenendo meno importante con il progredire della pandemia di HIV; questo fenomeno è avvertito soprattutto in Europa, meno negli USA. La progressiva diminuzione del peso del fattore di rischio tossicodipendenza ha reso modesta la penetrazione di sottotipi non-B in questa categoria, sebbene siano osservabili singoli cluster. Alla ampia disponibilità di dati virologici, che spesso derivano da studi finalizzati anche alla epidemiologia delle resistenze a farmaci antiretrovirali, non corrisponde ancora in letteratura una precisa analisi delle caratteristiche demografiche dei soggetti in cura.

Anche in Italia la prevalenza dei sottotipi non-B è in aumento

I sottotipi non-B sono più rari nei tossicodipendenti infetti rispetto ad altre categorie a rischio

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Epidemiologia di HIV, sottotipo non-B

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19. Nuove droghe e comportamenti a rischio

Catia Seri 1, Letizia Leone 2, Claudia Rimondo 1, Giovanni Serpelloni 3 1

Sistema Nazionale di Allerta Precoce, Dipartimento Politiche Antidroga, Presidenza del Consiglio dei Ministri 2 Clinica Dermatologica, Università degli Studi di Verona 3 Dipartimento Politiche Antidroga, Presidenza del Consiglio dei Ministri

Riassunto L’uso di droghe per via iniettiva costituisce uno dei principali fattori di rischio nella diffusione delle infezioni virali quali ad esempio l’HIV. Tuttavia il rischio di infezione si osserva anche nella popolazione di utilizzatori di droghe non per via iniettiva. Questo è sempre più spesso associato all’assunzione di droghe prevalentemente stimolanti, che facilitano la comparsa di comportamenti sessuali a rischio durante la fase di intossicazione dalla sostanza, comportando un aumento della possibilità di contrarre malattie sessualmente trasmissibili (MST). Gli stimolanti quali ad esempio, amfetamina, metamfetamina, ecstasy, sembrerebbero portare a disturbi dell’autocontrollo, con un aumento della disinibizione e del desiderio sessuale che può condurre ad assumere dei rischi per la salute. Negli ultimi anni inoltre, si è assistito alla comparsa di nuove droghe usate in ambito ricreazionale nei luoghi di incontro giovanili come bar, discoteche, rave party. Oltre alla diffusione di cannabis ed ecstasy, si assiste all’uso di GHB, inalanti e più recentemente di cannabinoidi sintetici e catinoni sintetici, venduti attraverso Internet e “smart shops” come “profumatori ambientali” o “sali da bagno” ed etichettati come “non per uso umano”, ma promozionati come droghe. La comparsa di nuove droghe e di nuove modalità di vendita e spaccio perpetrate attraverso i canali di comunicazione web hanno comportato un’ampia diffusione di queste sostanze tra i giovanissimi, particolare fascia della popolazione per la quale si osserva un aumento dei comportamenti sessuali a rischio quando sono sotto l’effetto delle droghe e conseguentemente una maggiore esposizione alla possibilità di incorrere in MST. Parole chiave: Malattie sessualmente trasmissibili, MST, club drugs, cannabinoidi sintetici, catinoni, ketamina, GHB, ecstasy, MDMA, amfetamina, metamfetamina, inalanti, stimolanti, sildenafil.

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Introduzione

Il rischio di infezione da HIV è elevato anche in tossicodipendenti che non si iniettano le droghe

La diffusione delle droghe ha portato, nel tempo, ad una maggiore incidenza delle malattie sessualmente trasmesse (MST), con un numero crescente di studi che indagano il fenomeno. Si sta assistendo ad una diffusione dell’infezione dell’HIV e all’insorgenza di nuove malattie in concomitanza con un più ampio uso di sostanze stimolanti, inducendo i ricercatori a studiare le possibili relazioni tra uso di droghe e prevalenza di MST [1]. Il contributo dell’uso di droghe all’epidemia del virus dell’immunodeficienza (HIV) nell’uomo è tradizionalmente associato all’uso di aghi contaminati da parte dei consumatori di sostanze stupefacenti, principalmente eroina, per via iniettiva. Tuttavia il rischio di infezione da HIV è elevato anche in tossicodipendenti che non si iniettano le droghe. Sembra, infatti, che durante l’intossicazione da stupefacenti vengano assunti comportamenti sessuali a rischio, costituendo un ulteriore meccanismo attraverso il quale la trasmissione dell’HIV così come di altre malattie sessualmente trasmesse vengono diffuse nella popolazione [2]. Quindi non più il binomio assoluto eroina-HIV, ma droghe, tutte e comportamenti sessuali a rischio sono corresponsabili della diffusione delle infezioni a trasmissione sessuale.

Comportamenti sessuali e nuove droghe: uso di stimolanti Comparsa sul mercato di nuove droghe sintetiche psicoattive utilizzate a scopo “ricreazionale”

Il meccanismo che facilita i comportamenti sessuali a rischio durante l’assunzione di questi stimolanti non è ancora del tutto chiaro

A partire dagli anni ‘80 sono comparse sul mercato europeo nuove droghe sintetiche psicoattive utilizzate a scopo “ricreazionale”, definite tali proprio perché ampiamente diffuse nella popolazione giovanile e nei contesti di svago (locali notturni, discoteche). Per droghe psicoattive si intendono quelle sostanze dotate di un’azione farmacologica diretta sul Sistema Nervoso Centrale, azione che comporta una alterazione dei normali equilibri fisiologici e psicologici dell’organismo, l’influenza dell’umore, dei processi cognitivi, così come del comportamento. Tra le droghe psicoattive, le fenetilammine sono state e restano tutt’ora molto diffuse. A questa famiglia appartengono le amfetamine e le metamfetamine per arrivare con minime modifiche strutturali, alla 3,4-metilendiossimetamfetamina (MDMA), meglio nota con il nome di “ecstasy” (Figura 1). Queste molecole hanno per lo più proprietà stimolanti, che si ripercuotono anche sull’attività sessuale, aumentando l’eccitazione, la potenza e la qualità dell’erezione [1]. Sono sostanze che agiscono sul sistema dopaminergico ed è noto che la dopamina, attraverso differenti sistemi neuronali e sottotipi recettoriali, gioca ruoli diversi nel controllo di numerosi aspetti del comportamento sessuale [3]. Il meccanismo che facilita i comportamenti sessuali a rischio durante l’assunzione di questi stimolanti non è ancora del tutto chiaro. Un interessante studio Figura 1 - Struttura chimica della amfetamina, della metamfetamina e dell’ecstasy

Amfetamina

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Metamfetamina

3,4-metilendiossimetamfetamina (MDMA o “Ecstasy”)


Nuove droghe e comportamenti a rischio

è stato condotto dalla direttrice dell’istituto americano sulle droghe d’abuso, il National Institute on Drugs Abuse (NIDA) Nora D. Volkow e collaboratori, nel quale sono stati valutati i comportamenti sessuali di 39 soggetti sani e 39 soggetti cocainomani ai quali è stato somministrato metilfenidato, uno stimolante che analogamente alla cocaina, agisce aumentando i livelli di dopamina attraverso una inibizione dei trasportatori responsabili della ricaptazione di questo neurotrasmettitore. I risultati hanno dimostrato che l’assunzione endovenosa di metilfenidato aumentava il desiderio sessuale sia rispetto al gruppo di controllo sia rispetto ai soggetti consumatori di cocaina. I ricercatori hanno ipotizzato che l’aumento del desiderio sessuale potrebbe essere dovuto all’innalzamento dei livelli di dopamina indotti dal metilfenidato nel cervello. La dopamina rilasciata agendo sul sistema mesocorticolimbico regolerebbe l’eccitazione sessuale, la libido e la motivazione. Stimolanti come l’amfetamina e la metamfetamina che inducono un rilascio di dopamina superiore rispetto al metilfenidato, potrebbero condurre ad effetti sul desiderio sessuale anche superiori [1]. Riconoscere il fatto che le droghe stimolanti aumentino il desiderio sessuale sottolinea come l’intossicazione da stimolanti rappresenti un fattore di rischio per l’infezione da HIV e da MST e come l’intervento di prevenzione e trattamento delle sostanze d’abuso si rifletta in una strategia di prevenzione delle MST [1]. Amfetamina e metamfetamina Uno studio condotto a Londra su oltre 2000 omosessuali reclutati in cliniche e in palestre tra il 2002 e il 2005 ha esaminato l’uso di cristalli di metamfetamina (“crystal meth”) e l’associazione a comportamenti sessuali altamente a rischio, evidenziando come in questi soggetti l’utilizzo di “crystal meth” assunto in combinazione con altre droghe (cocaina, ecstasy, ketamina) era associato a comportamenti sessuali rischiosi per almeno il doppio dei soggetti rispetto a chi non usava tali sostanze [4]. Questi dati sono stati ulteriormente avvalorati dai risultati di uno studio pubblicato online nel 2008 realizzato in una coorte di uomini omosessuali e bisessuali. Usando un modello lineare gerarchico, sono stati analizzati i dati raccolti a intervalli di quattro mesi, nel corso di un anno. I risultati hanno evidenziato come l’uso di metamfetamina fosse correlato alla frequenza di rapporti sessuali non protetti sia tra soggetti HIV-positivi che partner casuali [5]. Ecstasy Una evoluzione della struttura chimica delle amfetamine ha portato alla sintesi di una particolare metamfetamina, la 3,4-metilendiossimetamfetamina abbreviata con la sigla MDMA (Figura 1) e comunemente chiamata “ecstasy”, classico esempio di droga del divertimento notturno o “club drug”, la cui comparsa ha rivoluzionato il mondo delle droghe sintetiche. È una droga molto nota tra i giovani e diversi studi ne evidenziano la continua diffusione che non sembra passare di moda negli anni. Il National Survey on Drug Use and Health (NSDUH), una organizzazione americana che raccoglie dati a livello nazionale, ha riportato un aumento dell’uso di ecstasy tra i giovani statunitensi che è passato dall’1.0% del 2005 all’1.4% del 2008 [6]. L’ecstasy produce effetti stimolanti con componente psichedelica a cui possono seguire numerosi effetti avversi che includono ansia, agitazione, aumento della pressione arteriosa, disidratazione, colpo di calore, crampi muscolari, visione sfocata, ipertermia, arresto cardiaco, blocco renale. Questi effetti combinati ai contesti di uso che sono generalmente luoghi molto affollati, dove fa caldo e l’organismo si disidrata velocemente, possono venir amplificati aumentando il rischio di danno cardiovascolare tanto che un report pubblicato dal Drug

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Aumento degli accessi al Pronto Soccorso correlati all’assunzione di ecstasy negli Stati Uniti, con un incremento del 74.8%

Abuse Warning Network (DAWN), sistema di sorveglianza della salute pubblica americano in tema di sostanze d’abuso, ha registrato tra il 2004 e il 2008, un aumento degli accessi al Pronto Soccorso (PS) correlati all’assunzione di ecstasy negli Stati Uniti, con numeri che sono passati da 10.220 a 17.865, corrispondenti ad un incremento del 74.8%. Dati preoccupanti considerato l’uso anche in fasce di età molto basse. Ad esempio, uno studio di tipo longitudinale pubblicato nel 2010, realizzato attraverso questionari somministrati annualmente per tre anni in 43 istituti scolastici di tre città del Nord Irlanda, ha evidenziato che tra gli studenti di 14 anni il 7% aveva provato l’ecstasy almeno una volta, percentuale che dopo 3 anni passava al 13% [7]. Una fascia di età di inizio d’uso molto bassa tale da destare preoccupazione non solo per gli effetti tossici della sostanza ma anche per le potenziali conseguenze dei comportamenti a rischio associati all’uso di ecstasy, quali proprio i rapporti sessuali non protetti. Problematica evidenziata da uno studio pubblicato nel 2010 basato su dati raccolti tra il 2005 e il 2006 in un campione di oltre 20.000 giovani americani (18-22 anni), nel quale è stato osservato che mentre tra gli studenti non si era dimostrata una associazione tra uso di ecstasy ed MST, tra i non studenti, chi aveva iniziato ad assumere ecstasy prima dei 18 anni presentava un aumento del rischio di contrarre una MST nell’ultimo anno dal questionario [8].

Giovani e comportamenti a rischio L’uso di droga e alcol da parte degli adolescenti può portare a un precoce inizio dell’attività sessuale e ad un aumento del numero dei partner mettendo a rischio la salute in termini di malattie sessualmente trasmissibili

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Diversi ricercatori hanno evidenziato come molti comportamenti rischiosi per la salute si manifestino in combinazione con l’assunzione di droga e alcol rendendo a volte difficile distinguere tra causa ed effetto. L’uso di droga e alcol da parte degli adolescenti può portare ad un precoce inizio dell’attività sessuale e ad un aumento del numero dei partner mettendo a rischio la salute in termini di malattie sessualmente trasmissibili. Un sondaggio condotto negli Stati Uniti nel 2002 è stato realizzato attraverso delle interviste rivolte a 998 adolescenti (tra i 15 e i 17 anni) e giovani adulti (18-24 anni), i quali hanno risposto a questionari riguardanti l’uso di alcol, droghe e comportamento sessuale. I risultati hanno evidenziato come per la maggioranza di questi giovani, l’uso di alcol e droghe fosse fortemente legato alle decisioni prese riguardo i propri comportamenti sessuali. Circa nove su dieci (88%) hanno riportato che i propri coetanei facevano uso di alcol e di sostanze stupefacenti prima di un approccio sessuale e nel 73% dei casi non usavano profilattici quando erano sotto l’effetto di sostanze. In queste interviste, il 43% dei ragazzi tra i 15 e i 24 anni si sono detti personalmente preoccupati del fatto che potrebbero ritrovarsi ad avere più rapporti sessuali di quanti avrebbero pianificato prima di aver assunto alcol o droghe, come poi effettivamente riportato dal 29% degli intervistati. Ben il 23% dei ragazzi ha riportato, inoltre, di essersi messi in condizioni di rischio, proprio a causa dell’uso di sostanze [9]. Risulta che numerosi giovani in diversi paesi europei bevano e assumano droghe con il preciso scopo di mettere in atto una vera e propria strategia sessuale. Uno studio multicentrico, pubblicato sulla rivista BMC Public Health [10] rivela che un terzo dei ragazzi tra i 16 e i 35 anni e un quarto delle ragazze coinvolte bevono alcol per aumentare la possibilità di fare incontri sessuali, mentre consumano deliberatamente e intenzionalmente cocaina, cannabis o ecstasy per migliorare le prestazioni sessuali in termini di eccitazione e durata. Allo studio, condotto in nove città europee, hanno partecipato più di 1300 giovani tra i 16 e i 35 anni, che frequentavano regolarmente contesti di svago notturni. Quasi tutti i partecipanti (98.5%) hanno risposto a questionari ripor-


Nuove droghe e comportamenti a rischio

tando che avevano già usato alcol, tre quarti (73.8%) aveva provato o faceva uso di cannabis, mentre circa il 30% aveva provato almeno una volta ecstasy o cocaina. L’alcol veniva usato per facilitare gli incontri sessuali, la cocaina o l’ecstasy per migliorare le sensazioni sessuali, l’eccitazione. Nello specifico, il 23.3% delle femmine e il 34.1% dei maschi riportava che l’alcol faciliterebbe gli incontri sessuali mentre la cannabis e la cocaina permetterebbero un aumento delle sensazioni dell’eccitamento rispettivamente per il 29.2% e 21.7% delle femmine e il 23.2 e 33.0% dei maschi. La cocaina inoltre verrebbe usata per un sesso più duraturo dal 23.2% delle femmine e dal 28.2% dei maschi, mentre l’ecstasy sarebbe associato ad attività sessuale eccitante ed inusuale per il 20.5% dei soggetti intervistati (Tabella 1). Nonostante le motivazioni all’uso di droghe, percepite come migliorative degli approcci sessuali, in realtà i soggetti che erano stati più volte ubriachi nell’ultimo mese, avevano avuto più partner sessuali (anche oltre cinque), avevano avuto rapporti non protetti ed avevano rimpianto di aver avuto rapporti sessuali sotto l’effetto di alcol o droghe negli ultimi dodici mesi. Risultati analoghi si erano osservati nell’uso di cannabis o cocaina. Inoltre, la contrattazione “sesso in cambio di droga” è stata fortemente associata ad un uso regolare di cocaina ed ecstasy. Anche se lo studio non può considerarsi rappresentativo di tutti i giovani delle città considerate, fornisce comunque una visione della situazione riscontrata in molti giovani frequentatori della vita notturna in alcune delle principali città europee. E per questo campione, l’uso eccessivo di alcol e l’assunzione di droghe è stato strettamente correlato a comportamenti sessuali a rischio [10]. L’associazione tra uso di droghe e MST è dunque una realtà documentata

L’alcol veniva usato per facilitare gli incontri sessuali, la cocaina o l’ecstasy per migliorare le sensazioni sessuali, l’eccitazione

Tabella 1 - Confronto demografico su come gli assuntori di droghe usano le varie sostanze per scopi sessuali

Totale soggetti intervistati

Femmine (%)

Maschi (%)

Uso di alcol (n)

1094

553

540

Sesso più duraturo

11.6

6.5

16.9

Aumento delle sensazioni e dell’eccitamento

12.7

13.6

11.9

Facilitazione negli incontri sessuali

28.6

23.3

34.1

Attività sessuale eccitante/inusuale

14.6

13.6

15.7

Uso di cannabis (n)

497

212

284

Sesso più duraturo

11.4

9.4

13.0

Aumento delle sensazioni e dell’eccitamento

25.8

29.2

23.2

Facilitazione negli incontri sessuali

14.1

14.2

13.7

Attività sessuale eccitante/inusuale

12.7

12.3

13.0

Uso di cocaina

172

69

103

Sesso più duraturo

26.2

23.2

28.2

Aumento delle sensazioni e dell’eccitamento

28.5

21.7

33.0

Facilitazione negli incontri sessuali

15.1

15.9

14.6

Attività sessuale eccitante/inusuale

22.1

21.7

22.3

Uso di ecstasy

146

56

89

Sesso più duraturo

10.3

1.8

15.7

Aumento delle sensazioni e dell’eccitamento

22.6

14.3

28.1

Facilitazione negli incontri sessuali

12.3

8.9

13.5

Attività sessuale eccitante/inusuale

20.5

8.9

28.1

(Riadattata da Bellis MA et al., 2008)

271


da varie ricerche e in una delle analisi [11] sulla salute della popolazione americana pubblicata nel 2007, è stato chiesto a soggetti dai 12 anni in su di riportare l’uso di alcol e droghe nell’ultimo mese e di indicare se avevano contratto una MST nell’ultimo anno dal sondaggio. I risultati hanno evidenziato che tra i ragazzi di età compresa tra i 18 e i 25 anni, erano più numerosi i casi di MST tra coloro che avevano assunto alcol e droghe nell’ultimo mese (3.9%) rispetto a chi non aveva usato tali sostanze (1.3%). Uso ricreazionale di farmaci Un altro fenomeno che risulta essere piuttosto diffuso soprattutto tra i giovani è l’assunzione di farmaci senza avere la necessaria prescrizione medica. Tra questi si riscontrano principalmente farmaci per il trattamento dell’ansia, dell’insonnia, del dolore che vengono spesso sottratti agli adulti in famiglia o acquistati attraverso il mercato illecito, per un uso di tipo ricreazionale. Tale uso si ripercuote su un comportamento rischioso per la salute e spesso è associato anche all’assunzione di droghe. Uno studio pubblicato nel 2010 condotto dalla Virginia Commonwealth University e collaboratori negli Stati Uniti ha analizzato i dati ottenuti da questionari sottoposti ad un campione di 435 studenti, di età compresa tra i 18 e i 25 anni, con domande sul consumo di farmaci senza avere la necessaria prescrizione medica, sull’uso di alcol e droghe e sui comportamenti sessuali adottati negli ultimi tre mesi. I risultati hanno evidenziato che quasi il 36% degli intervistati aveva fatto uso, almeno una volta nella vita, di tali farmaci e questo comportamento era associato inoltre ad un uso recente di altre sostanze psicotrope (ad esempio alcol per l’89.7% rispetto al 75.4% dei non utilizzatori di farmaci senza prescrizione; ecstasy 17.6% rispetto all’1.8%; cocaina 9.8% rispetto all’1%) e ad un aumento dei comportamenti sessuali a rischio rispetto a chi dichiarava di non usare farmaci a scopo non medico. Tra i comportamenti a rischio sono stati riportati rapporti sessuali non protetti, numerosi partner sessuali, atti sessuali dopo aver bevuto o assunto droghe [12] tanto che quasi la metà delle MST negli Stati Uniti risultano venir contratte proprio durante l’adolescenza o la prima età adulta [13].

Nuove Droghe

Il NIDA ha definito “club drugs” il gruppo di droghe che include la metamfetamina, l’MDMA (ecstasy), la ketamina, l’LSD, il gammaidrossibutirrato (GHB) e il flunitrazepam (roypnol)

272

Dalla prima comparsa di droghe di natura sintetica sul mercato illecito si sono moltiplicate le molecole utilizzate a scopo ricreazionale. Se prima si sentiva parlare esclusivamente di fenetilamine (amfetamina, metamfetamina, MDMA) e triptamine (come la dietilammide dell’acido lisergico o LSD, la psicolibina), ora sono comparse nuove sostanze psicotrope sul mercato delle droghe, il quale si è evoluto velocemente per rispondere ad una richiesta sempre più variegata anche per aggirare le leggi, via via che tali molecole venivano poste sotto controllo. “Club drugs”, “smart drugs” e “legal high drugs” sono termini che descrivono un ampio gruppo di droghe definite “ricreazionali” a causa del loro utilizzo in contesti di svago, come i principali luoghi di ritrovo giovanili (club, night bar, discoteche, locali notturni, rave parties, dance parties, concerti, ecc). Nello specifico, il NIDA negli Stati Uniti ha definito “club drugs” il gruppo di droghe che include la metamfetamina, l’MDMA (ecstasy), la ketamina, l’LSD, il gammaidrossibutirrato (GHB) e il flunitrazepam (roypnol) [14]. Tra queste molecole l’ecstasy, divenuta illegale in molti paesi europei, inclusa l’Italia, è stata sostituita da numerosi analoghi strutturali o da altre molecole.


Nuove droghe e comportamenti a rischio

Si tratta prevalentemente di droghe di origine sintetica, per questo definite anche “designer drugs”. Sono molecole progettate e sintetizzate in laboratori spesso clandestini e commercializzate per i loro effetti psicotropici. Per la maggior parte di queste droghe non si hanno informazioni circa gli effetti tossici che esse provocano o possono provocare in chi le assume: sono infatti molecole progettate nell’ambito della ricerca farmaceutica o intermedi della ricerca che non hanno visto un interesse futuro. Di conseguenza esse non sono state progredite fino ai test tossicologici. Nel 2012 l’Osservatorio Europeo delle Droghe e delle Tossicodipendenze (OEDT) e l’Europol hanno pubblicato il report per l’anno 2011 sul fenomeno delle nuove droghe attraverso i dati provenienti dalle segnalazioni raccolte dall’Early Warning System (EWS), il sistema di allerta sulle nuove droghe e le nuove modalità di consumo a livello europeo. Ne è emerso un aumento di quasi il doppio di nuove molecole segnalate nel 2009 – 24 nuove droghe – rispetto alle 13 del 2008 per arrivare a 41 molecole segnalate nel 2010 e ben 49 nel 2011. A tal proposito il Sistema Nazionale di Allerta Precoce (National Early Warning System – N.E.W.S. – www.allertadroga.it) del Dipartimento Politiche Antidroga, Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha la finalità di raccogliere le informazioni relativamente alla comparsa sul territorio europeo ed italiano, di nuove droghe e di nuove modalità di consumo di sostanze cosiddette “tradizionali”. Al settembre 2012, sono più di 200 le molecole comparse sul territorio europeo ed italiano registrate dal N.E.W.S. (Tabella 2). Essendo molte di queste molecole nuove, spesso non rientrano in tabelle che ne controllano l’uso o la commercializzazione e per questo vengono definite “legal high” [15]. Queste nuove droghe ricreazionali possono presentarsi sotto vari aspetti e forme ed hanno rivoluzionato le modalità di spaccio e diffusione delle sostanze stupefacenti. Si trovano infatti commercializzate su Internet o in particolari negozi (denominati “smart shop”) sia in Italia che all’estero, sotto varie forme: polveri, compresse, pasticche, miscele vegetali. Un fenomeno recente è stato quello della vendita di polveri etichettate come “sale da bagno”, “profumatore per il forno”, “fertilizzante per piante”, ma risultate contenere catinoni sintetici. Queste molecole vengono vendute anche sotto forma di pasticche o compresse di varie forme, loghi o colori e vengono spesso spacciate per ecstasy, quando in realtà nei casi di sequestro e successiva analisi tossicologica, è stata riscontrata la presenza di molecole diverse dall’ecstasy. Generalmente si trattava di molecole appartenenti alla famiglia delle fenetilamine o dei catinoni sintetici, pur non escludendo casi di presenza di derivati delle piperazine. Un’altra tipologia di sostanze che ha costituito il fenomeno più eclatante degli ultimi due anni è quello delle “Spice”, miscele di erbe vendute come potpourri nelle quali è stata individuata la presenza di cannabinoidi sintetici. Etichettate come “profumatori ambientali” e “non per uso umano”, vengono in realtà promozionate come alternativa legale alla cannabis, e quindi promosse come prodotti da fumare sotto forma di spinello o da inalare, bruciandole come fosse incenso. La diffusione di nuove droghe è spesso accompagnata da una scarsa consapevolezza dell’effettiva composizione di quanto assunto dai consumatori. Si assiste alla circolazione sul mercato delle droghe, di prodotti che risultano avere composizioni eterogenee, nonché allo spaccio di sostanze vendute al posto di altre. Tale fenomeno costituisce un ulteriore pericolo per la salute dei consumatori tanto che, secondo quanto osservato dal Centro Antiveleni di Pavia - Fondazione Salvatore Maugeri, coordinamento operativo per gli aspetti clinico-tossicologici del Sistema Nazionale di Allerta Precoce del Di-

Per la maggior parte delle nuove droghe sintetiche (designer drugs) non si hanno informazioni circa gli effetti tossici che esse provocano o possono provocare in chi le assume

Continua a pag. 276

273


Tabella 2 - Molecole riscontrate in Europa e/o in Italia, segnalate al Sistema Nazionale di Allerta Precoce del Dipartimento Politiche Antidroga. Periodo di osservazione 2009 - settembre 2012. N

Nome

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53

N-Etilketamina 5-(2-Aminopropil)-2,3-diidro-1H-indene 4-Idrossiamfetamina 3-Metilmetcatinone (3-MMC) 2-MeO-Ketamina Pirazolam 4-AcO-DPT AH-7921 JWH 018 N-(5-cloropentil) derivato JWH 018 N-(5-bromopentil) derivato 1-(5-Fluoropentil)-3-(2-etilbenzoil)indolo 1-(5-Fluoropentil)-3-(2-metilbenzoil)indolo JWH-122 pentenil 2-metilindolo derivato JWH-122 pentenil derivato MAM-2201 cloropentil analogo 3,4-Metilendiossi-N,N-dimetilamfetamina JWH-018 carbossamide derivato APICA 25I-NBOMe MPHP STS-135 5-MeO-MET 4-HO-DPT UR-144(-2H) Zopiclone 5-(2-Aminopropil)indolo (5-IT) APINACA 2,4,5-TMMC 1-Fenil-2-(piperidin-1-il)butan-1-one 4-AcO-DALT LSD A-796,260 25D-NBOMe 5FUR-144 JWH-370 UR-144 3-MeO-PCP 4-Fluoroefedrina 1-Etinil-1-cicloesanolo (ECX) 4-Amino-3-fenil-butanoic acid (Phenibut) MAM-2201 2-Fluoro-N-metil-amfetamina - (2-FMA) 6-APDB 5-APDB Alfa-metiltriptamina (AMT) MDMA URB754 1-(Tiofen-2-il)propan-2-amina Clobenzorex (o-clorobenzilamfetamina) Fenilpropanolamina (PPA) 2-Fluoroamfetamina 1-(3-Metilbenzilpiperazina) 3-Fluoro-isometcatinone (3-FiMC)

274

Mese/Anno set-12 set-12 set-12 set-12 ago-12 ago-12 ago-12 ago-12 ago-12 ago-12 lug-12 lug-12 lug-12 lug-12 lug-12 lug-12 lug-12 lug-12 giu-12 giu-12 giu-12 giu-12 giu-12 giu-12 giu-12 giu-12 mag-12 mag-12 mag-12 mag-12 mag-12 mag-12 mag-12 mar-12 mar-12 mar-12 mar-12 mar-12 mar-12 mar-12 mar-12 mar-12 mar-12 mar-12 mar-12 feb-12 feb-12 feb-12 feb-12 feb-12 feb-12 feb-12 feb-12

N

Nome

Mese/Anno

54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 96 97 98 99 100 101 102 103 104 105 106

Trans-CP 47,497-C8 omologo 1-Cicloesil-x-metossibenzolo N-Propilamfetamina 3-(p-metossibenzoil)-N-metilindolo N-idrossi MDA (MDOH) Popper (Nitrito di isopropile) HU-331 Scopolamina Atropina 1-Fenil-1-propanamina AM-694 - cloro derivato a-Pirrolidinobutirrofenone (a-PBP) 3-Amino-1-fenil-butane (3-APB) AM-2232 Etizolam Etilfenidato Camfetamina JWH-022 4-Metilbufedrone 4-Me-MABP WIN 55,212-2 AM-679 CP 47,497-C8-omologo Propossifene bk-MDDMA Benzilpiperidina 4-EMC Desomorfina 4-BMC (Brefedrone) Pirovalerone Dipipanone Isopentedrone Sildenafil Metilone (MDMCAT; MDMC; bk-MDMA) 4-fluoroamfetamina (4-FA) Metamfetamina N-Etilbufedrone Org-29647 Org-27569 Org-27759 AM-2233 JWH-307 Caffeina (in eroina) Benzoin isopropil etere (BIE) Pseudoefedrina Nandrolone JWH-412 JWH-387 Fenazepam 4-APB 6-APB RCS-4(C4) Ostarina

feb-12 feb-12 feb-12 feb-12 feb-12 feb-12 gen-12 dic-11 dic-11 dic-11 dic-11 dic-11 dic-11 dic-11 dic-11 nov-11 nov-11 nov-11 nov-11 nov-11 nov-11 nov-11 nov-11 nov-11 ott-11 ott-11 ott-11 ott-11 ott-11 set-11 set-11 set-11 ago-11 ago-11 ago-11 ago-11 ago-11 ago-11 ago-11 ago-11 ago-11 ago-11 ago-11 lug-11 lug-11 lug-11 lug-11 lug-11 lug-11 giu-11 giu-11 giu-11 giu-11


Nuove droghe e comportamenti a rischio

N 107 108 109 110 111 112 113 114 115 116 117 118 119 120 121 122 123 124 125 126 127 128 129 130 131 132 133 134 135 136 137 138 139 140 141 142 143 144 145 146 147 148 149 150 151 152 153 154 155 156 157 158 159 160 161 162

Nome Mese/Anno JWH-122 fluoropentil derivato giu-11 2C-C-NBOMe giu-11 Colofonia in hashish giu-11 OMMA giu-11 WIN 48,098 (Pravadoline) mag-11 Metanandamide mag-11 AM-1220-azepane-derivato mag-11 AM-1220 mag-11 5-HTTP mag-11 JWH-007 mag-11 Tropicamide mag-11 (2-metossifenil)(1-pentil-1H-indol-3-il) metanone apr-11 N-Etilamfetamina apr-11 a-PVP apr-11 a-Pirrolidinopentiofenone apr-11 DMMA apr-11 Diazepam apr-11 Metorfano mar-11 3-FMC mar-11 Derivato JWH-250 mar-11 5-IAI mar-11 JWH-182 mar-11 1-Pentil-3-(1-adamantoil)indolo feb-11 JWH-251 feb-11 N,N-dimetilamfetamina feb-11 AM-2201 gen-11 MPA gen-11 CRA-13 gen-11 4-MeO-PCP gen-11 Desossi-D2PM dic-10 5-APB dic-10 BMDB dic-10 BMDP dic-10 Arecoline nov-10 Dibutilone nov-10 MDPBP nov-10 3-MeO-PCE nov-10 3-(4-Idrossimetilbenzoil)-1-pentilindolo nov-10 Metossetamina nov-10 PMMA ott-10 JWH-019 ott-10 JWH-203 ott-10 3,4-DMMC ott-10 JWH-250 ott-10 Desossipipradrolo ott-10 JWH-200 set-10 Buflomedil set-10 Diltiazem set-10 Etafedrina set-10 JWH-210 set-10 Pentedrone (β-etil-metcatinone) set-10 5-MeO-DPT set-10 5-MeO-DPT set-10 Pentilone set-10 M-ALPHA set-10 Isomero nafirone ago-10

N 163 164 165 166 167 168 169 170 171 172 173 174 175 176 177 178 179 180 181 182 183 184 185 186 187 188 189 190 191 192 193 194 195 196 197 198 199 200 201 202 203 204 205 206 207 208 209 210 211 212 213 214 215 216 217

Nome Mese/Anno Variante C8 + C2 del CP-47,497 ago-10 4MBC ago-10 MPPP ago-10 Butilone ago-10 MDPV ago-10 JWH-015 lug-10 MPBP lug-10 JWH-122 lug-10 AM-694 lug-10 4-Metiletcatinone (4-MEC) lug-10 Bufedrone lug-10 JWH-073 metilderivato lug-10 Dimetocaina DMC giu-10 DMAA giu-10 iso-Etcatinone giu-10 pFBT giu-10 Nafirone giu-10 JWH-081 giu-10 WIN 48,098/ Pravadoline mag-10 Fentanil mag-10 4-FMA mar-10 Mefedrone (4-MMC) mar-10 Metamizolo (novalgina) mar-10 pFPP mar-10 MDAI mar-10 Ă&#x;-Me-PEA mar-10 N,N-dimetilfenetilamina mar-10 N-benzil-1-feniletilamina mar-10 JWH-073 feb-10 JWH-018 feb-10 GHB gen-10 2C-B-BZP gen-10 Pregabalin dic-09 4-MA dic-09 JWH-200 dic-09 3-FMA nov-09 Etaqualone nov-09 Metamfepramone nov-09 Flefedrone (4-FMC; 4-fluorometcatinone) nov-09 Mitragynina (Mitragyna Speciosa) nov-09 Bromo-Dragonfly ott-09 Levamisolo ott-09 Metedrone (bk-PMMA) ott-09 2-PEA ott-09 MDPV ago-09 DNP (2,4-dinitrofenolo) ago-09 4-AcO-DMT ago-09 PMA lug-09 Petidine/Demerol lug-09 Nortramadol (O-Desmetiltramadol) giu-09 Ketamina giu-09 mCPP giu-09 Piperonale giu-09 TMA-6 giu-09 Carbarile mag-09

275


Segue da pag. 273

partimento Politiche Antidroga, nei casi di intossicazione acuta da assunzione di sostanze psicotrope, molto spesso si registra una discrepanza tra quanto dichiarato essere stato assunto dal paziente all’ingresso in pronto soccorso, e quanto effettivamente riscontrato dal laboratorio di tossicologia nei campioni biologici del paziente stesso (Tabella 3). Tabella 3 - Sostanza dichiarata rispetto al risultato delle analisi tossicologiche - assunzione singola (n=87) Sostanza Sostanza riscontrata in laboratorio dichiarata N % THC Cocaina Oppioidi MET MDMA JWH KET Amp/Met BDZ TCA ETOH LSD GHB LEVAM Herbal blends Cannabis Marijuana Hashish Cocaina Ecstasy MDMA Ketamina Eroina Metadone Allucinogeni GBL Datura Stramonium Ossido Nitrico Non nota

20 18,2

3

9 8,2

7

1

1

1

12

1

1

1

1

6 5,5

4

1

7 6,4

2

1

5 6 2 2 2

2

1

5

4

4,5 1 1 1 5 1 1 5,5 2 2 6 1,8 2 2 1 1,8 1 1,8

1 0,9

1 0,9 26 23,6 6 5 3 3 1 2 2

1

1 1 1 1 2

1

Fonte: Centro Antiveleni di Pavia - Fondazione Salvatore Maugeri

Catinoni sintetici Sono chiamati catinoni perché analoghi del catinone, una molecola di origine naturale ricavata dalla pianta del Khat

Il mefedrone agisce aumentando i livelli di dopamina nel cervello provocando un effetto stimolante ed eccitante

276

Negli ultimi anni hanno fatto la comparsa sul mercato delle droghe, molecole molto simili alle fenetilamine, famiglia alla quale appartengono le amfetamine e l’MDMA. Questi analoghi sono i catinoni sintetici che differiscono dalle fenetilamine per la presenza di un gruppo carbonilico di tipo chetonico. Vengono dunque anche definiti beta-keto amfetamine o beta-keto designer drugs. Sono chiamati catinoni perché analoghi del catinone, una molecola di origine naturale ricavata dalla pianta del Khat. Il catinone sintetico attualmente più popolare, anche per le cronache legate a numerosi decessi registrati in alcuni paesi europei e correlati alla sua assunzione, è il mefedrone (4-metilmetcatinone, 4-MMC). In un sondaggio effettuato alla fine del 2009 dalla rivista giovanile inglese del settore “dance” Mixmag [16] specializzata nell’ambito della musica e delle discoteche, il mefedrone è comparso in cima alla classifica delle droghe preferite tra i giovani frequentatori delle discoteche. Analogamente alle fenetilamine (e/o amfetamine), il mefedrone agisce aumentando i livelli di dopamina nel cervello provocando un effetto stimolante ed eccitante. Aumenta la socievolezza, la loquacità, la capacità di approccio ed interazione con gli altri, a cui sembra essere associata, secondo alcuni utilizzatori, una maggiore eccitazione sessuale e un aumento della libido. Nei contesti di uso, come per altre droghe ricreazionali, è piuttosto facile associare a questa disinibizione la comparsa di comportamenti a rischio e l’aumento delle possibilità di rapporti sessuali non protetti.


Nuove droghe e comportamenti a rischio

Figura 2 - Struttura chimica della fenetilamina e del catinone sintetico mefedrone. Evidenziato in blu lo scheletro comune alle due molecole

Fenetilamina

Mefedrone

L’interesse della comunità scientifica per il mefedrone è risultata tale che in brevissimo tempo sono stati pubblicati numerosi lavori tra cui uno studio scientifico che ha indagato sull’uso e sugli effetti del mefedrone tra gli utilizzatori negli ambienti delle discoteche del Regno Unito. Gli autori hanno effettuato dei questionati online anonimi ai quali hanno partecipato 2295 giovani di età media pari a 25 anni. Dai risultati è emerso che il 41.3% aveva assunto il mefedrone almeno una volta nell’ultima mese dall’intervista e che questa droga era al sesto posto in ordine di frequenza d’uso, dopo il tabacco, l’alcol, la cannabis, la cocaina e l’MDMA. Il mefedrone è risultato utilizzato principalmente dai maschi che riportavano di assumere la droga prevalentemente per via intranasale in quantità che variavano dal mezzo grammo al grammo per ogni singola sessione, anche se circa il 22% dichiarava l’uso di dosi superiori. Dopo l’assunzione, i soggetti sperimentavano effetti tipici degli stimolanti quali palpitazioni, eccessiva sudorazione, ma anche mal di testa, nausea e un aumento del desiderio sessuale [17]. Il mefedrone produce effetti stimolanti analoghi a quelli prodotti dall’ecstasy ma con una più breve durata d’azione, portando i consumatori ad un uso compulsivo per mantenere gli effetti eccitanti nel tempo, modalità di assunzione analoga a quella che si osserva negli utilizzatori di cocaina e che determina uno stato di dipendenza dalla sostanza [18]. La diffusione e la gravità degli effetti tossici associati all’uso del mefedrone hanno portato ad un attento processo di valutazione della pericolosità per la salute pubblica in Europa tanto che la sostanza è stata definitivamente messa al bando dalla Commissione Europea nel Dicembre 2010 [19]. Il mefedrone è stato infatti correlato ad almeno 37 casi di intossicazione acuta tra cui due casi accertati in cui il mefedrone era stato riscontrato come unica causa di decesso. Tale decisione è stata rivolta ai paesi dell’Unione Europea al fine di incoraggiare l’introduzione di misure di controllo per bloccare la libera diffusione del mefedrone, misure che erano già state introdotte in 15 pesi europei, Italia inclusa. In Italia infatti, con il Decreto legge del 16 giugno 2010 del Ministero della Salute, il mefedrone è stato reso illegale attraverso l’inserimento nella Tabella I del D.P.R. 309/90 e s.m.i. per le sostanze stupefacenti. La decisione italiana è sopraggiunta dopo la segnalazione, attraverso il Sistema Nazionale di Allerta Precoce, della presenza di mefedrone anche nel nostro Paese. La messa al bando di questa droga in Italia e in Europa, sia in termini di commercializzazione che di produzione, ha lo scopo di interromperne la diffusione. Tale droga risultava commercializzata attraverso Internet generalmente sotto forma di polvere, etichettata come fertilizzante o sale da bagno o attraverso il mercato illegale sotto forma di pasticche simili a quelle dell’ecstasy. Successivamente, con Decreto dell’11 maggio 2011 (GU n. 112 del 16/5/2011) è stato reso illegale anche il catinone sintetico 3,4-Metilendiossipirovalerone (MDPV) e con decreto 29 dicembre 2011 (G.U. n. 3 del 4

Effetti del mefedrone tra gli utilizzatori negli ambienti delle discoteche del Regno Unito

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gennaio 2012), il butilone. Quest’ultimo decreto inoltre, amplia la messa al bando di questa tipologia di molecole includendo in Tabella I anche gli analoghi di struttura derivanti dal 2-amino-1-fenil-1-propanone, per una o più sostituzioni sull’anello aromatico e/o sull’azoto e/o sul carbonio terminale, al fine di contrastare la rapida evoluzione della diffusione di queste droghe sintetiche.

Cannabinoidi sintetici

L’individuazione di cannabinoidi sintetici in miscela di erbe e l’osservazione degli effetti prodotti dalla loro assunzione è giunta al Sistema Nazionale di Allerta Precoce dall’OEDT attraverso il Punto Focale Nazionale Italiano del Dipartimento Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio di Ministri

Sempre nell’ambito delle “designer drugs”, sono comparsi negli ultimi anni sul mercato delle droghe, numerosi cannabinoidi sintetici. Questi appartengono prevalentemente alla serie dei JWH, molecole che prendono il nome dal loro inventore, il chimico John W. Huffman. Sono molecole strutturalmente molto diverse dal delta-9-tetraidrocannabinolo (THC), il principio attivo della cannabis, ma agiscono sugli stessi recettori cannabinoidi di tipo 1 (recettori CB1), attivandoli, in maniera superiore rispetto all’azione del THC, con la conseguenza di produrre effetti molto forti. I cannabinoidi sintetici più noti e che hanno visto una ampia diffusione all’inizio del fenomeno sono il JWH-018 (Figura 3) e il JWH-073. L’individuazione di cannabinoidi sintetici in prodotti che all’inizio del fenomeno venivano denominati genericamente come “Spice” e l’osservazione degli effetti prodotti dalla loro assunzione è giunta al Sistema Nazionale di Allerta Precoce dall’OEDT attraverso il Punto Focale Nazionale Italiano del Dipartimento Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio di Ministri. Le attività di monitoraggio del fenomeno hanno condotto all’individuazione anche in Italia di cannabinoidi sintetici, tanto che il Sistema di Allerta ha registrato a partire dal 2010, numerosi casi di intossicazione acuta associata all’assunzione di tali sostanze. Inoltre il 16 giugno 2010 il Ministero della Salute, ha decretato l’inclusione del JWH-018 e del JWH-073 nella Tabella I delle sostanze stupefacenti e psicotrope, D.P.R.309/90 e s.m.i. Successivamente, con Decreto dell’11 maggio 2011 (GU n.112 del 16/5/2011) sono stati resi illegali anche i cannabinoidi sintetici JWH-250 e JWH-122 e gli analoghi di struttura derivanti dal 3-fenilacetilindolo e dal 3-(1-naftoil)indolo, e con decreto 29 dicembre 2011 (G.U. n. 3 del 4 gennaio 2012), il cannabinoide sintetico AM-694 e gli analoghi di struttura derivanti dal 3-benzoilin-

Figura 3 - Struttura chimica del THC e del JWH-018

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THC

JWH-018


Nuove droghe e comportamenti a rischio

Figura 4 - Campione di miscela di erbe risultata contenere cannabinoidi sintetici

(Fonte immagine: Istituto di Medicina Legale dell’Università degli studi di Verona)

dolo. Pubblicati i decreti, il Dipartimento Politiche Antidroga ha informato tutte le Procure, le Prefetture e le Questure del Paese comunicando loro l’avvenuto aggiornamento della Tabella e invitandole ad attivare opportune e tempestive azioni di controllo e verifica su tutto il territorio nazionale per l’individuazione ed il riscontro delle nuove molecole. Tali azioni, grazie alla collaborazione con il Ministero della Salute, hanno condotto al controllo di numerosi esercizi commerciali del tipo “smart shop” e al sequestro di numerosi prodotti contenenti

le nuove sostanze illecite. Questi cannabinoidi sono infatti generalmente aggiunti a miscele di erbe (Figura 4) non attive per conferire loro proprietà psicotrope analoghe a quelle prodotte dalla cannabis. Vengono promozionate come alternative legali alla cannabis e vendute in “smart shops” o su Internet già dal 2006 e sono molto diffuse tra i giovani. L’Osservatorio Europeo sulle Droghe e le Tossicodipendenze da un’analisi del web ha rilevato che queste miscele di erbe o “Spice”, sono disponibili presso numerosi rivenditori online di sostanze in ciascun Stato Membro [20]. Dal NIDA, un aggiornamento sugli effetti della marijuana sottolinea come questa sostanza alteri la capacità di giudizio e di prendere decisioni [21], portando gli utilizzatori ad assumere comportamenti sessuali rischiosi per la salute che possono contribuire alla diffusione delle MST [22], rischi che possono ragionevolmente essere estesi all’uso di cannabinoidi sintetici che esercitano la loro azione farmacologica in modo analogo al THC presente nella cannabis. Oltre ai comportamenti sessuali a rischio associati all’uso di tali droghe, va ricordato che il sistema endocannabinoide, in normali condizioni fisiologiche, è coinvolto nel regolare il funzionamento del sistema immunitario. Interferire con le sue regolari funzioni, attraverso una ipereccitazione dei recettori con delle molecole esogene – il THC o i cannabinoidi sintetici – può comportare un abbassamento delle difese immunitarie che, associato a comportamenti sessuali a rischio, potrebbe comportare un ulteriore aumento della possibilità di incorrere in MST (sono necessari ulteriori studi a conferma di questo aspetto). Un recente esempio viene da una pubblicazione della rivista European Journal of Immunology nella quale uno studio riporta l’effetto di indebolimento del sistema immunitario in seguito ad esposizione al THC. Nello studio, effettuato su topi, la somministrazione di THC mostrava un rapido aumento di un gruppo di cellule soppressorie chiamate myeloid-derived suppressor cells (MDSC), molecole di derivazione mieloide con forti proprietà immunosoppressive sia in vitro che in vivo. L’accumulo di queste cellule portava ad una diminuzione delle cellule immunitarie presenti nel midollo osseo con un conseguente indebolimento del sistema immunitario. I recettori cannabinoidi dunque giocherebbero un ruolo chiave nella regolazione del sistema immunitario attraverso l’induzione delle cellule MDSC e l’uso di cannabis potrebbe influenzare la risposta ad eventuali infezioni in chi ne fa uso [23]. La vulnerabilità alle infezioni sembra dunque essere influenzata anche dall’effetto che alcune droghe hanno sul sistema immunitario, indebolendolo e rendendo l’organismo meno pronto a combattere eventuali attacchi da parte di agenti patogeni [24].

Oltre ai comportamenti sessuali a rischio associati all’uso di tali droghe, va ricordato che il sistema endocannabinoide, in normali condizioni fisiologiche, è coinvolto nel regolare il funzionamento del sistema immunitario Modelli sperimentali nell’animale domostrano un indebolimento del sistema immunitario dopo somministrazione di THC

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GHB L’azione afrodisiaca del GHB sull’uomo

GHB viene anche chiamato “rape drug” (droga dello stupro)

In una pubblicazione degli anni settanta [25] l’autore descrive l’azione afrodisiaca del GHB sull’uomo. Secondo quanto riportato dagli assuntori di questa sostanza, il GHB agirebbe secondo quattro tipologie di effetto che migliorano le prestazioni sessuali: la disinibizione (attraverso il rilassamento), una aumento delle sensazioni tattili, un aumento della capacità erettile e un aumento della potenza dell’orgasmo. Le cosiddette “club drugs” come l’MDMA, il GHB e la ketamina sono usate per la loro capacità di diminuire la disinibizione nell’ambito sociale e sono popolari negli ambienti gay e bisessuali. Promuovono comportamenti sessuali ad alto rischio che sono stati associati ad un aumento delle infezioni da HIV [26]. Il GHB viene utilizzato in ambito ricreazionale anche per aumentare la libido e le funzioni sessuali sia tra eterosessuali che omosessuali. Per questo il GHB e preparati vengono venduti nei cosiddetti “sex shops”. Tuttavia la principale modalità d’abuso del GHB è per gli effetti euforizzanti e allucinogeni. Alcuni riportano la sua capacità di indurre rilassamento e sedazione, altri lo assumono per la capacità di dare effetti analoghi a quelli prodotti dall’ecstasy, tanto da conferirgli il nome gergale di “liquid ecstasy” (ecstasy liquida) anche se la struttura chimica non ha nulla a che vedere con quella amfetaminica tipica dell’MDMA, così come il meccanismo d’azione. L’uso di GHB è associato prevalentemente a contesti sociali come feste, locali notturni, eventi musicali, inclusi quelli illegali come i “rave party” [27]. In questi casi si assiste spesso alla co-assunzione di alcol ed altre droghe che comportano un potenziamento degli effetti del GHB (eventualità che sono state registrate in numerosi casi di accesso al pronto soccorso e casi di decesso) [28]. Il GHB viene anche chiamato “rape drug” (droga dello stupro) in quanto è stato correlato a casi di violenza sessuale in cui alla vittima era stata somministrata la droga inconsapevolmente. Il GHB è incolore ed inodore e si scioglie nell’alcol: la vittima che assume la bevanda, inconsapevole della contaminazione, ne subisce gli effetti che a determinate dosi provocano una perdita dello stato di coscienza facilitando la violenza. Inoltre il GHB provoca una perdita della memoria a breve termine con la conseguenza che la vittima non ricorda la violenza subita [27, 29]. Il GHB viene velocemente assorbito dall’organismo e raggiunge il Sistema Nervoso Centrale con effetti che si manifestano entro 15 minuti dall’assunzione. Viene rapidamente metabolizzato ed escreto tanto che è difficilmente rilevabile nei liquidi biologici, per questo risulta difficile correlare la sua presenza nei casi di violenza.

Ketamina Oltre al GHB, sono stati riscontrati casi in cui era stata usata ketamina per facilitare la violenza sessuale [30, 31]. La ketamina è un anestetico dissociativo, utilizzato prevalentemente in ambito veterinario, in grado di provocare nell’uomo perdita di conoscenza e amnesia e che ha visto negli anni una notevole diffusione di uso anche a scopo ricreazionale [32].

Inalanti Gli inalanti sono sostanze chimiche i cui vapori vengono inalati per gli effetti di alterazione che provocano. Sono generalmente prodotti casalinghi facil-

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Nuove droghe e comportamenti a rischio

mente reperibili (colle, benzine, smacchiatori, solventi, liquidi infiammabili, ecc.) e a partire dal 2005 sono risultati molto diffusi tra i giovani. Gli assuntori ricercano nell’inalazione di queste sostanze, effetti che ricordino l’ebbrezza provocata dall’alcol, effetti stimolanti, perdita dei freni inibitori e distorsione della percezione della realtà. A questi effetti però sono associate intossicazioni che includono effetti come nausea, vomito, difficoltà nel movimento e coordinazione dei gesti, fino alla perdita di conoscenza. Possono provocare danni gravi quali perdita dell’udito, danni al sistema nervoso centrale, al cervello o al midollo osseo. Inalare grandi quantità di queste sostanze può portare addirittura alla morte per arresto cardiaco o soffocamento a causa dello spostamento di ossigeno nei polmoni da parte degli inalanti [33]. Sono economici e facili da reperire per i giovanissimi e per questo molto diffusi. Nel 2007 oltre un milione di adolescenti negli Stati Uniti, ha usato inalanti nell’ultimo anno [34]. Negli anni, sono stati pubblicati numerosi studi circa la diffusione dell’uso di inalanti (in particolar modo nella popolazione omosessuale maschile). Uno studio del 1993, il Multicenter AIDS Cohort Study (MACS)/Coping and Change Study (CCS) sulla popolazione gay di Chicago, ha analizzato i comportamenti sull’uso di droghe in relazione ai comportamenti sessuali. Uomini che combinavano l’uso di nitriti alchilici volatili (meglio noti come “popper”) con l’uso di altre droghe ricreazionali, erano a rischio più elevato sia in termini di comportamenti sessuali disinibiti che di contrazione dell’infezione da HIV-1 [35]. Risultati analoghi erano stati riscontrati nel precedente studio Multicenter AIDS Cohort Study (MACS) pubblicato nel 1990 [36]. Uomini che facevano uso di tre o più droghe e di nitriti volatili assumevano comportamenti sessuali rischiosi in una proporzione pari all’85% rispetto al 36% che non assumeva alcuna droga.

Farmaci e droghe: la poliassunzione e l’interazione tra sostanze Ecstasy e Sildenafil È interessante notare come negli ultimi anni, l’uso del sildenafil (principio attivo di un farmaco per il trattamento della disfunzione erettile) sia notevolmente aumentato tra i giovani, soprattutto nei contesti di uso delle “club drugs”. Come già descritto, l’assunzione di MDMA tende a facilitare le sensazioni di socievolezza, di intimità e vicinanza agli altri ma allo stesso tempo, rende più difficile il raggiungimento dell’erezione nell’uomo e dell’orgasmo sia nell’uomo che nella donna. Questo ha portato alla sperimentazione da parte dei consumatori, di una combinazione di MDMA e sildenafil (“sexstasy”) con lo scopo di produrre un effetto sinergico tra le due sostanze. Nella popolazione gay è stato osservato un aumento dei comportamenti sessuali a rischio in seguito a questa modalità di assunzione. Oltre ad un aumento potenziale delle MST, gli effetti avversi dell’uso ricreazionale del sildenafil includono il priapismo, ovvero erezioni persistenti che durano diverse ore e che possono condurre a danni fisiologici ed anatomici [37].

Nella popolazione gay è stato osservato un aumento dei comportamenti sessuali a rischio in seguito ad assunzione di sildenafil e MDMA (ectasy)

Metamfetamina e Sildenafil Uno studio cross-sezionale realizzato tra giugno 2002 e gennaio 2003 attraverso interviste telefoniche a San Francisco ha analizzato le risposte di 1976 omosessuali maschi per valutare l’uso e gli effetti della combinazione tra me-

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tamfetamina (MA) e sildenafil. Di questi, il 5.1% è risultato fare uso di questa combinazione, mentre il 9.6% riportava l’uso del sildenafil in combinazione con altre sostanze che alterano l’umore (esclusa la metamfetamina). Di questi soggetti che usavano sildenafil e MA, il 57% erano infettati dall’HIV e il 24% riportavano rapporti sessuali insertivi non protetti. La prevalenza di comportamenti sessuali a rischio era più elevata tra uomini che usavano sildenafil da solo o in combinazione con altre droghe rispetto a chi non ne faceva uso, ad eccezione dei casi di sesso in cambio di denaro o droga. Per esempio, dalle risposte emerge che negli ultimi 12 mesi il numero medio di partner sessuali era stato rispettivamente 6 e 5 per chi aveva usato solo sildenafil o solo “crystal meth” (metamfetamina in forma cristallina), per passare a 20 per chi ne aveva fatto un uso combinato. L’uso di tale combinazione era associato ad un più alto rischio di rapporti non protetti, sia insertivi che ricettivi, discordanti e una recente diagnosi di MST. La combinazione delle due sostanze ha mostrato una più elevata prevalenza di HIV e un aumento di comportamenti sessuali a rischio di contrarre il virus dell’HIV [38]. Una recente revisione della letteratura scientifica ha evidenziato ulteriormente come l’uso ricreazionale della combinazione metamfetamina-sildenafil sia ad elevato rischio, con evidenze che supportano fortemente una correlazione tra uso di sildenafil e sieroconversione HIV nella popolazione omosessuale maschile [39].

Evoluzione del fenomeno droga e comportamenti a rischio: alcune conclusioni L’uso di sostanze stupefacenti da parte dei giovani, anche in età adolescenziale, è variato notevolmente negli ultimi 5 anni. Si assiste ad una diversificazione delle offerte e a nuove modalità di commercializzazione e di uso aumentando la possibilità che i giovani entrino in contatto con questo tipo di realtà, parallelamente ad una diminuzione dell’età del primo uso di droghe. L’assunzione di droghe ricreazionali è associata ad una aumentata disinibizione che incentiva l’adozione di comportamenti sessuali a rischio. La bassa consapevolezza, soprattutto tra i giovani, dei pericoli a cui si va incontro a causa dell’assunzione di sostanze stupefacenti associata alla scarsa attenzione ai comportamenti sessuali, produce una elevata possibilità di incorrere in malattie a trasmissione sessuale, problematica che richiede una particolare attenzione alla prevenzione dell’uso di droghe e alla promozione di comportamenti sani. Bibliografia 1. Rezza G., Farchi F, Giuliani M. Le infezioni sessualmente trasmesse nella popolazione di tossicodipendenti. Ann. Ist. Super. Sanità, vol. 36, n.1 (2000), pp. 63-68. 2. Nora D. Volkow, Gene-Jack Wang, Joanna S. Fowler, Frank Telang, M, Millard Jayne, Christopher Wong. Stimulant-Induced Enhanced Sexual Desire as a Potential Contributing Factor in HIV Transmission. Am J Psychiatry 2007; 164:157–160. 3. Melis MR, Argiolas A. Dopamine and sexual behavior. Neurosci Biobehav Rev. 1995 Spring;19(1):19-38. 4. Bolding G, Hart G, Sherr L, Elford J. Use of crystal methamphetamine among gay men in London. Addiction. 2006 Nov;101(11):1622-30. 5. Halkitis PN, Mukherjee PP, Palamar JJ (2008). Longitudinal Modeling of methamphetamine Use and Sexual Risk Behaviors in Gay and Bisexual Men. AIDS Behav. 2009 Aug;13(4):783-91. 6. NSDUH (2009). Office of Applied Studies. Results from the 2008 National Survey on Drug Use and Health: National findings (NSDUH Series H-36, HHS Publication No. SMA 094434). Rockville, MD: Substance Abuse and Mental Health Services Administration. 7. McCrystal P, Percy A. Factors associated with teenage ecstasy use. Drugs, education, pre-

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20. I danni derivanti dal consumo di cannabis sul sistema immunitario

Oliviero Bosco 1, Catia Seri 2, Claudia Rimondo2, Giovanni Serpelloni 3 1

Centro Medicina Comunitaria, Sezione di Screening HIV, ULSS 20 Verona Sistema Nazionale di Allerta Precoce, Dipartimento Politiche Antidroga, Presidenza del Consiglio dei Ministri 3 Dipartimento Politiche Antidroga, Presidenza del Consiglio dei Ministri 2

Riassunto La cannabis e i sui derivati esercitano effetti sull’uomo dovuti soprattutto all’azione dei suoi componenti psicoattivi sui recettori cannabinoidi presenti nel cervello e alla periferia dell’organismo. Gli effetti principali sono correlati all’azione centrale del tetraidrocannabinolo (THC), il principale componente psicoattivo della pianta di cannabis, e alla sua interferenza con le normali funzioni fisiologiche del sistema endocannabinode. Le conseguenze a livello fisico su organi e apparati dell’essere umano derivanti dal consumo di cannabis sono molteplici, in quanto l’azione dei suoi principi attivi interferisce, alterandoli, con sistemi quali quello cardiovascolare, quello respiratorio e quello immunitario. Nel presente capitolo verranno trattate alcune delle recenti ricerche scientifiche relative ai danni derivanti dal consumo di cannabis specificatamente sul sistema immunitario. La compromissione delle difese immunitarie in soggetti consumatori di cannabis e/o altre droghe aumenterebbe la suscettibilità alle infezioni in una popolazione già di per sé a rischio di contrarre malattie droga-correlate.

Introduzione La correlazione tra consumo di droghe e compromissione del sistema immunitario è argomento variamente trattato dalla comunità scientifica. Una recente revisione della letteratura disponibile, pubblicata sulla rivista Journal of Medical Microbiology, ha messo in evidenza le criticità dell’assunzione di droga in relazione alla comparsa di infezioni in persone tossicodipendenti, popolazione particolarmente a rischio di esposizione a microbi patogeni e quindi più suscettibile a gravi patologie [1]. Karishma S. Kaushik della University of Texas di Austin, negli Stati Uniti, in collaborazione con la Armed Forces Medical College, Pune, in India, ha presentato gli aspetti della patogenesi microbica,

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della modulazione del sistema immunitario e delle infezioni più comuni, associati all’uso di droghe, prendendo in considerazione l’uso di oppioidi, marijuana, cocaina, eroina, amfetamine ed escludendo quello di alcol e nicotina. Gli autori hanno evidenziato come l’uso di droghe porti effettivamente ad una particolare vulnerabilità dei soggetti consumatori alle infezioni a causa della debilitazione dell’organismo che ne consegue, delle scarse condizioni igieniche spesso presenti sia nello stile di vita sia nei materiali utilizzati al momento dell’assunzione (parafernalia), sia per i comportamenti sessuali a rischio che l’uso di droghe incentiva [1]. Oltre al fenomeno della diffusione dei virus dell’HIV e dell’epatite prevalentemente tra gli assuntori di eroina per via iniettiva, anche microorganismi che costituiscono la normale flora dell’uomo possono diventare pericolosi nei contesti di uso di droghe. Ad esempio, l’assunzione di metamfetamina è spesso accompagnata dalla comparsa di un fastidioso formicolio: i soggetti tendono a grattarsi provocando escoriazioni sulla pelle che possono essere responsabili di infezione da Stafilococco. Ancora, la pratica di inumidire con la lingua gli aghi o la zona dell’iniezione, così come quella di spezzare con i denti tavolette di metilfenidato prima di iniettare la sostanza, sono risultate responsabili di casi di infezione da microorganismi come l’Eikenella corrodens, un bacillo presente nella flora endogena della cavità orale [1].

L’interferenza della cannabis sulle funzioni del sistema endocannabinoide Anche sostanze come la cannabis e gli oppiacei hanno la capacità di sopprimere il sistema immunitario del consumatore, facilitando lo sviluppo di microorganismi con conseguente insorgenza di infezioni. In particolare, la cannabis è in grado di interferire con le normali funzioni fisiologiche del sistema endocannabinoide, un complesso sistema endogeno di comunicazione tra cellule che prende il nome dalla pianta di cannabis poiché alcuni fitocannabinoidi in essa presenti, tra cui il ∆9-tetraidrocannabinolo (THC), mimano gli effetti degli endocannabinoidi legandosi ai medesimi recettori [1-6]. Il sistema endocannabinoide è composto dai recettori cannabinoidi CB1 e CB2, dai loro ligandi endogeni (gli endocannabinoidi) e dalle proteine coinvolte nel metabolismo e nel trasporto degli endocannabinoidi. Questo sistema risulta di grande importanza per il normale funzionamento dell’organismo. Infatti, in base alla localizzazione dei recettori cannabinoidi, è stato ipotizzato che il sistema endocannabinoide sia coinvolto in numerosi processi fisiologici, tra i quali il controllo motorio, la memoria e l’apprendimento, la percezione del dolore, la regolazione dell’equilibrio energetico, e in comportamenti come l’assunzione di cibo [7,8]. Altre funzioni del sistema endocannabinoide, nella normale fisiologia, potrebbero essere correlate alle funzioni endocrine, alle risposte vascolari, alla modulazione del sistema immunitario, alla neuroprotezione [2,3,4,5,6,9,10, 11]. L’uso di cannabis, quindi, può provocare alterazioni a queste importanti funzioni dell’organismo umano.

Cannabis ed effetti immunomodulatori È stato osservato che la cannabis e i suoi derivati esercitano effetti immunomodulatori diretti, attraverso il legame dei principi attivi ai recettori CB1 e CB2 [12]. Il legame a questi recettori è associato ad una diminuzione della

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I danni derivanti dal consumo di cannabis sul sistema immunitario

proliferazione dei linfociti, della formazione di anticorpi, dell’attività citotossica e nella produzione di citochine/chemochine, molecole proteiche responsabili della regolazione della funzione immune e delle risposte infiammatorie [13,1]. In altre parole, nel sistema immunitario, l’uso di cannabis può alterare la modulazione del rilascio di citochine poiché agiscono proprio sui recettori cannabinoidi. Il preciso meccanismo attraverso il quale i cannabinoidi agirebbero per mediare l’immunosoppressione risulta un aspetto di recente indagine. Secondo Nagarkatti e collaboratori (2010) [14] questo meccanismo può manifestarsi in quattro modi: l’apoptosi, l’inibizione della proliferazione, la soppressione delle citochine e delle chemochine, l’induzione delle cellule T regolatorie. Lo studio si è concentrato sul meccanismo dell’induzione dell’apoptosi ad opera di cannabinoidi naturali e sintetici attraverso l’attivazione dei recettori CB2, ed è stata anche osservata un’attività dei cannabinoidi nella modulazione dello sviluppo delle cellule T helper, nella chemiotassi e nello sviluppo tumorale [14]. Bisogna sottolineare come, oltre al suo consumo quale sostanza stupefacente, ci sia oggi molta ricerca diretta ad un utilizzo della cannabis per scopi terapeutici: la conoscenza dei suoi effetti immunitari riveste quindi una duplice importanza [15, 16]. Come già evidenziato, questa sostanza altera la funzionalità dei linfociti B, dei linfociti T, dei macrofagi, delle cellule NK in vitro ed in vivo [15, 17-19]. La maggior parte di questi effetti sono immunosoppressivi. Infatti, anche il THC altera il corretto equilibrio tra le citochine T helper 1 (IL-2 e IFN-gamma) e le citochine T helper 2 (IL-10 e IL4), spostandolo verso T helper 2 e diminuendo quindi la risposta cellulo mediata [17, 19, 20]. Questa ridotta capacità mostra un effettivo impatto sulla suscettibilità alle infezioni, come dimostrato anche da altri numerosi esperimenti su modello animale [19-21]. Gli effetti immunomodulatori sembrerebbero da attribuire soprattutto alla stimolazione del recettore CB2, quindi con una predominanza di effetti diretti sulle cellule immuni. Si evidenzia però che a seconda della dose e del tempo di trattamento con cannabinoidi, è stata riportata anche una stimolazione di alcune funzioni immuni, quali una disregolata produzione di citochine pro infiammatorie ad opera della stimolazione di recettori CB1 [15-17]. La letteratura che documenta gli effetti del THC e di altri cannabinoidi sul sistema immunitario in vitro ed in vivo nell’animale, è molto ampia, mentre sono sicuramente ancora molto pochi gli studi che affrontano questo problema nell’uomo, ovvero che analizzino in modo adeguato l’effetto dell’uso ricreazionale del THC sulla funzione immune. Uno dei pochi studi condotti conferma comunque quanto ripetutamente osservato su modello animale, cioè una diminuzione dell’immunità cellulo-mediata (T helper 1) con un aumento di citochine immunosoppressive e antinfiammatorie (T helper 2) [22]. È interessante ricordare come proprio queste attività ne abbiano spinto lo sviluppo come potenziali farmaci antinfiammatori e antidolorifici. Considerando però le molte condizioni in cui viene oggi prospettato l’utilizzo di derivati della cannabis come farmaci, emergono alcune perplessità su un potenziale uso di queste molecole in pazienti con un sistema immune già compromesso, come ad esempio nei pazienti con AIDS, per i quali i cannabinoidi sono proposti per stimolare l’appetito. Pertanto, sono necessari ulteriori studi per chiarire gli effetti della marijuana sul sistema immunitario sia in soggetti che ne fanno uso ricreazionale per assunzione attraverso il fumo, sia in una potenziale prospettiva terapeutica [15-16].

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Danneggiamento della capacità di combattere malattie infettive e cancro Consumando cannabis si possono verificare effetti avversi per la salute dovuti al fatto che il suo principale componente psicoattivo, il THC, è in grado di danneggiare la capacità del sistema immunitario di combattere le malattie infettive e il cancro. Esperimenti di laboratorio che hanno esposto cellule di animali e cellule umane a THC e ad altre sostanze contenute nella marijuana, hanno dimostrato che in molti tipi di cellule immunitarie le normali reazioni di prevenzione di una malattia vengono inibite [19-21]. Altri studi sui topi esposti a THC, o sostanze simili, hanno rivelato che questi animali avevano una maggiore probabilità di sviluppare infezioni batteriche e tumori rispetto a topi non esposti. Il THC esercita anche effetti immunomodulatori in grado di alterare le normali funzioni dei linfociti B e T, delle cellule Natural Killer (NK) e dei macrofagi [23]. I meccanismi molecolari e cellulari di questi effetti non sono ancora completamente noti, anche se si ritiene che siano coinvolti meccanismi recettoriali e non. In effetti, i recettori CB2 sono presenti anche nelle cellule immunitarie. Vi sono, inoltre, diverse osservazioni che evidenziano un ruolo immunomodulatore dei cannabinoidi. Viene riportata anche una modulazione dei livelli sierici delle immunoglobuline durante l’assunzione di marijuana con inibizione anche della produzione di gamma-interferone [21]. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista European Journal of Immunology, coloro che fumano cannabis mostrerebbero una maggior suscettibilità nei confronti di alcuni tipi di cancro e di infezioni. Lo studio in particolare si è concentrato sui cannabinoidi, compreso il THC, già noti per le loro capacità immunosoppressive [24]. La somministrazione di THC nei topi ha mostrato rapidi e sostanziali espansioni di un gruppo di cellule soppressorie chiamate MDSC, ovvero cellule di derivazione mieloide con forti proprietà immunosoppressive sia in vitro che in vivo. Secondo il gruppo di ricerca dell’Università del South Carolina, potrebbe essere proprio questo gruppo di cellule soppressorie ad indebolire l’organismo. Durante l’esperimento, infatti, si è visto che l’accumulo di cellule MSDC portava al corrispondente calo di cellule immunitarie nel midollo osseo. Questo studio quindi evidenzierebbe il ruolo chiave giocato dal recettore cannabinoide nella regolazione del sistema immunitario attraverso l’induzione delle cellule MDSC. Mentre la maggior parte delle cellule immunitarie combatte contro le infezioni e i tumori per proteggere l’organismo, il gruppo delle cellule MDSC si attiverebbe indebolendolo [24].

Soppressione della resistenza alle infezioni nell’ospite Inoltre, un rischio importante legato all’uso di cannabis riguarda la soppressione della resistenza alle infezioni nell’ospite [25]. Questi aspetti sono stati studiati sia in modelli animali sia nell’uomo, portando alla conclusione che i cannabinoidi hanno un moderato effetto su outcome di infezione (ad esempio mortalità, ricadute, progressione, ecc. (Tabella 1). È stata osservata anche una correlazione tra fumo di marijuana ed infezione da virus dell’herpes, con aumento del rischio di mortalità in soggetti HIVpositivi [26]. Inoltre, si è visto che macrofagi alveolari provenienti da fumatori cronici di marijuana erano carenti in alcune delle loro funzioni, quali la fagocitosi e l’attività battericida [27].

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I danni derivanti dal consumo di cannabis sul sistema immunitario

Tabella 1 - Effetti dei cannabinoidi sulla resistenza all’infezione Agente infettivo

Ospite

Effetto

Virus Herpex simplex

Topo

Aumento mortalità

Listeria

Topo

Aumento mortalità

Virus Herpex simplex

Uomo

Aumento ricadute

Virus Herpex simplex

Porcellina d’India Aumento infezioni

Virus Herpex simplex + Friend leukemia virus Topo

Aumento mortalità

Staphylococcus

Ratto

Aumento infezioni polmone

Treponema pallidum

Coniglio

Aumento della preogressione

Legionella

Topo

Aumento mortalità

Staphylococcus

Ratto

Diminuzione attività macrofagi

Fonte: Friedman H, Newton C, Klein TW. Microbial infections, immunomodulation, and drugs of abuse. Clin Microbiol Rev. 2003.

Conclusioni Diversi studi di letteratura scientifica riportano che la cannabis e i sui derivati hanno la capacità di sopprimere il sistema immunitario del consumatore, facilitando lo sviluppo di microorganismi con conseguente insorgenza di infezioni. In particolare, la cannabis sarebbe in grado di interferire con le normali funzioni fisiologiche del sistema endocannabinoide. I possibili effetti immunomodulatori esercitati attraverso il legame dei principi attivi presenti nella cannabis con i recettori CB1 e CB2 risultano in una diminuzione della proliferazione dei linfociti, della formazione di anticorpi, dell’attività citotossica e nella produzione di citochine/chemochine. I cannabinoidi interferiscono dunque con la funzionalità dei linfociti B, dei linfociti T, dei macrofagi, delle cellule NK in vitro ed in vivo con effetti per lo più di tipo immunosoppressivo, inclusa la soppressione della resistenza alle infezioni nell’ospite. Il preciso meccanismo attraverso il quale i cannabinoidi agirebbero per mediare l’immunosoppressione è un aspetto che richiede particolare attenzione soprattutto rispetto agli effetti che l’uso ricreazionale del THC eserciterebbe sulla funzione immune. È necessario prestare cura anche all’uso terapeutico di THC poiché, in alcuni casi, il suo utilizzo potrebbe peggiorare le condizioni dei pazienti con un sistema immunitario già compromesso da malattie quali l’AIDS. Bibliografia 1. Kaushik KS, Kapila K, Praharaj AK. Shooting up: the interface of microbial infections and drug abuse. J Med Microbiol; 60: 408 – 422, 2011. 2. Correa F, Mestre L, Molina-Holgado E, et al. The role of cannabinoid system on immune modulation: therapeutic implications on CNS inflammation. Mini Rev Med Chem. 2005;5:671-675. 3. Wang H, Dey SK, Maccarrone M. Jekyll and Hyde: two faces of cannabinoid signaling in male and female fertility. Endocr Rev. 2006;27:427-448. 4. De Oliveira Alvares L, Genro BP, Vaz Breda R, Pedroso MF, Da Costa JC, Quillfeldt JA. AM251, a selective antagonist of the CB1 receptor, inhibits the induction of long-term potentiation and induces retrograde amnesia in rats. Brain Res. 2006;1075:60-67. 5. Arenos JD, Musty RE, Bucci DJ. Blockade of cannabinoid CB1 receptors alters contextual learning and memory. Eur J Pharmacol. 2006;539:177-183.

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21. Uso di droghe per via iniettiva e comportamenti a rischio HIV: news dalla letteratura Catia Seri 1, Mario Cruciani 2, Giovanni Serpelloni 3 1

Sistema Nazionale di Allerta Precoce, Dipartimento Politiche Antidroga, Presidenza del Consiglio dei Ministri 2 Centro di Medicina Comunitaria, Sezione Screening HIV, ULSS 20 Verona 3 Dipartimento Politiche Antidroga, Presidenza del Consiglio dei Ministri

Riassunto Prevenire la diffusione dell’infezione da HIV è un aspetto di vitale importanza al fine di contenere le problematiche ad essa correlate, visto l’elevato tasso di comorbidità con diverse patologie nei soggetti infettati e gli elevati costi sanitari ad esse associati. Nella trasmissione del virus dell’HIV, l’uso di droghe e oppiacei per via iniettiva rimane uno dei fattori più critici ed è strettamente legato ai comportamenti a rischio concomitanti. I comportamenti a rischio di trasmissione del virus dell’HIV nella popolazione tossicodipendente femminile americana e i trattamenti sostitutivi nei soggetti dipendenti da oppiacei per via iniettiva quale strategia di prevenzione dell’infezione da HIV, sono le tematiche trattate da due recenti revisioni della letteratura scientifica, riassunte nel presente capitolo ed integrate con dati italiani ed europei. Parole chiave: Tossicodipendenza, rischio HIV, malattie sessualmente trasmissibili, donne, gravidanza, comportamenti a rischio, trattamenti, metadone, buprenorfina.

Introduzione Nel 2010 è stata pubblicata una revisione della letteratura scientifica a firma di Susan E. Ramsey e colleghi, che analizza la problematica dei comportamenti a rischio di trasmissione del virus dell’immunodeficienza acquisita umana (HIV) nella popolazione americana di genere femminile, consumatrice di sostanze stupefacenti [1]. Nel presente capitolo viene riportato un estratto delle principali osservazioni evidenziate da tale revisione. Si riportano inoltre i risultati di una revisione Cochrane, aggiornata al 2011, sulla valutazione dei trattamenti sostitutivi orali nei dipendenti da oppiacei per via iniettiva, nel prevenire o meno la trasmissione del virus dell’HIV [2], essendo

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tale comportamento a tutt’oggi, uno dei fattori più critici nella diffusione di questa infezione.

HIV e comportamenti a rischio nelle donne Le donne che usano droga per via iniettiva e che sviluppano AIDS sono i soggetti con il più basso tasso di sopravvivenza dopo lo sviluppo della malattia conclamata

L’uso di droghe rappresenta uno dei principali fattori di rischio nella diffusione dell’infezione da HIV nelle donne. Secondo i dati sulla sorveglianza dei nuovi casi di HIV registrati in 40 Stati degli USA, le donne rappresentano il 24% di tutte le nuove diagnosi di infezione da HIV, come riportato per il 2009 dall’ente americano di prevenzione e controllo delle malattie (Centres for Disease Control and Prevention, CDC). L’acquisizione dell’infezione viene riportata a seguito di uso di aghi infetti e per rapporti sessuali non protetti. Inoltre risulta che le donne che usano droga per via iniettiva e che sviluppano AIDS sono i soggetti con il più basso tasso di sopravvivenza dopo lo sviluppo della malattia conclamata [1, 3]. Ma non solo droga per via iniettiva, dalla revisione emerge che anche l’uso di altre vie di assunzione delle droghe (dunque altre sostanze oltre all’eroina), nonché l’assunzione di alcol, risulta generalmente in un aumento dei comportamenti a rischio che conducono a rapporti non protetti, allo scambio di denaro e/o droga con rapporti sessuali, ad avere più partner sessuali e al mancato uso del profilattico [1]. La ragione per cui si assiste ad un aumento dei comportamenti sessuali a rischio di infezione da HIV in questa tipologia di popolazione femminile non è tuttavia così ovvia e richiede uno studio approfondito del fenomeno, oggetto proprio della revisione scientifica della letteratura sul tema [1], presa in esame nel presente capitolo.

La situazione europea Le infezioni da virus dell’immunodeficienza umana (HIV) e lo sviluppo dell’AIDS rappresentano un serio problema per la salute della popolazione anche in Europa [4]. Tra il 2000 e il 2007 la diagnosi di nuovi casi di infezioni da HIV è salita da 14.483 casi (44/milione) a 19.435 casi (58/milione) in 28 paesi dell’Europa. Generalmente gli uomini risultano in numero maggiore con un rapporto pari a circa 2:1 rispetto alle donne infettate dall’HIV [4, 5]. Per quanto riguarda le donne, la maggior parte delle nuove diagnosi di infezione riguarda la fascia di età 20-39 anni. Tra di esse la via principale di trasmissione è rappresentata dall’uso di droghe per via iniettiva e da rapporti eterosessuali non protetti. Tra il 2003 e il 2005 le nuove infezioni da HIV diagnosticate nelle donne tossicodipendenti per via iniettiva è diminuita da 623 casi a 496, tuttavia si registra un aumento dei casi di nuove infezioni per rapporti eterosessuali, che sono passati da 6.231 a 7.377 [4, 6].

Ipotesi sulle ragioni dell’associazione tra uso di droghe e comportamenti a rischio HIV Tra le ipotesi di aumento dei comportamenti sessuali a rischio nei consumatori di sostanze stupefacenti rientrerebbe quella secondo la quale, il consumo di droghe, avrebbe un impatto sulla disinibizione, una variazione del giudizio nonché una ridotta sensibilità al dolore durante i rapporti sessuali. Il consumo di alcol invece, farebbe diminuire la percezione del pericolo. Altri studi riportano che il craving per la droga è talmente forte da sovrastare l’attenzione ai

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Uso di droghe per via iniettiva e comportamenti a rischio HIV: news dalla letteratura

comportamenti sessuali, pur di raggiungere lo scopo, quello cioè di ottenere la droga [1]. La revisione riporta inoltre che alcuni studi rivelano come alcune donne ritengono che l’uso di alcol e droghe preverrebbe da una gravidanza indesiderata. Va dunque considerato come il contesto di uso delle droghe, che di solito si presenta come socialmente degradato, possa esacerbare altri comportamenti a rischio, inclusi quelli sessuali. Inoltre la difficoltà a relazionarsi con i partner ed instaurare conversazioni anche sull’uso del profilattico, rende tale precauzione più difficile da prendere: la donna che ha scarse abilità comunicative difficilmente riesce poi a pretendere l’uso del condom con la conseguenza di incorrere più facilmente in rapporti sessuali non protetti [1 e riferimenti bibliografici in esso contenuti].

Gravidanza e tossicodipendenza: necessaria una attenzione particolare Le donne in stato di gravidanza meritano particolare attenzione per i rischi di trasmissione delle infezioni al nascituro. Risulterebbe infatti che la quasi totalità dei bambini affetti da HIV lo sono dalla nascita per trasmissione perinatale, rendendo necessario un intervento sulle donne in gravidanza per prevenire la trasmissione del virus ai neonati e ridurre la potenzialità che tali bambini rimangano orfani essendo presente il rischio addizionale di perdere successivamente la madre per AIDS. In Europa, nel 2007 il contagio madrebambino ha fatto registrare 270 nuovi casi di infezione da HIV [6]. Sono disponibili linee guida specifiche proprio per i trattamenti antiretrovirali nelle donne in gravidanza affette da HIV al fine di prevenire questa tipologia di trasmissione del virus [7]. Sono inoltre necessari interventi di informazione e prevenzione dei comportamenti a rischio trasmissione del virus. È stato osservato che, rispetto ai comportamenti sessuali a rischio di trasmissione HIV, le donne tossicodipendenti in gravidanza si comportano in modo analogo a quelle non in gravidanza. Sesso in cambio di denaro e/o droga e mancato uso del profilattico, rappresentano a volte, comportamenti addirittura rafforzati dalla non necessità di contraccezione in quanto già in stato di gravidanza [1].

Screening e trattamento delle donne in gravidanza e dei neonati Al fine di minimizzare la trasmissione perinatale dell’HIV, si raccomanda lo screening per l’HIV per tutte le gravidanze, durante i primi mesi e l’inserimento del test anche nel pannello dei controlli prenatali, non obbligatori ma raccomandati per chi sta programmando una gravidanza [8]. Il CDC prevede inoltre un secondo test di screening durante la gravidanza in quanto è stato osservato un certo numero di nuove infezioni contratte anche durante la gestazione [8]. Lo screening è raccomandato anche per donne che vivono in situazioni o condizioni a rischio HIV e dopo il parto per le donne che non hanno mai fatto il test prima (a meno del rifiuto da parte della paziente) [9]. Per le donne in gravidanza già in terapia antiretrovirale, viene continuato il trattamento, (evitando comunque la somministrazione di farmaci potenzialmente teratogeni). Viene poi raccomandato il regime antiretrovirale durante il parto e il parto cesareo alla 38sima settimana nel caso in cui i valori di RNA-HIV plasmatico rimangono superiori alle 1000 copie/mL. Viene inoltre

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raccomandata la profilassi antiretrovirale nel neonato per 6 settimane. Nel caso di donne non in trattamento, viene raccomandato l’inizio della terapia dopo il primo trimestre di gravidanza [1, 9]. In Italia nel gennaio 2011 sono state pubblicate dal Dipartimento Politiche Antidroga e dal Ministero della Salute, le Linee di indirizzo sullo “Screening e diagnosi precoce delle principali patologie infettive correlate all’uso di sostanze stupefacenti”, nelle quali viene posta attenzione anche alla popolazione femminile tossicodipendente in stato di gravidanza [10]. Le donne tossicodipendenti, nell’ambito delle patologie correlate, presentano delle problematiche particolari legate al loro genere. Nelle linee di indirizzo viene sottolineata l’importanza di formare gli operatori, promuovere la realizzazione di protocolli per un counselling standardizzato e l’aderenza ai protocolli di screening e terapia delle patologie infettive. Viene inoltre incoraggiata la facilitazione dell’accesso al counselling e alla visita ginecologica, la realizzazione e promozione di corsi di formazione, consensus conference e protocolli terapeutici anche in ambito di screening e diagnosi precoce delle patologie ginecologiche, consulenza sulla salute riproduttiva e gestione della gravidanza nelle donne HIV positive con il coinvolgimento dei Dipartimenti delle Dipendenze, del carcere, delle comunità terapeutiche, dei consultori familiari, nonché i reparti di ostetricia e ginecologia. Questo per ridurre il rischio di trasmissione dell’infezione (non solo HIV ma anche sifilide e tubercolosi) dalla madre al feto durante la gravidanza o l’allattamento ed introdurre interventi preventivi che in Italia come in altri paesi, sono rappresentati dalla terapia farmacologica nella donna durante il parto e nel neonato nelle prime settimane di vita, e la promozione in questi casi, dell’allattamento artificiale [10]. Analoghe raccomandazioni sul corretto uso della terapia antiretrovirale nelle donne in stato di gravidanza sono riportate nelle “Linee Guida Italiane sull’utilizzo dei farmaci antiretrovirali e sulla gestione diagnostico-clinica delle persone con infezione da HIV-1” realizzate su mandato del Ministro della Salute e pubblicate nel luglio 2010 [11].

Trattamenti per le donne tossicodipendenti e comportamenti a rischio HIV Da una revisione del 2000 realizzata sull’analisi di 33 studi pubblicati tra il 1988 e il 1998, i quali includevano un totale di 17mila soggetti, è emerso che soggetti in terapia di mantenimento con metadone mostravano una riduzione dell’uso di aghi e dell’infezione da HIV. Tuttavia le evidenze erano scarse se si guardava all’impatto del metadone sullo scambio di siringhe e sui comportamenti sessuali a rischio. Gli autori della revisione ritengono sia necessario avere una numerosità più elevata di soggetti in studio e soprattutto di prevedere l’inclusione di più soggetti femminili per poter verificare eventuali effetti di genere [12]. L’attenzione negli studi al genere femminile, è infatti da sempre trascurata. Tuttavia recentemente è stata approvata da parte delle Nazioni Unite, una risoluzione sulle donne, proprio nell’ambito della prevenzione dell’uso di droghe e dei servizi di cura e riabilitazione specifici per il genere femminile [13]. I temi trattati e gli interventi previsti dalla risoluzione riguardano vari ambiti: dalla prevenzione in generale, all’educazione delle madri, al pieno recupero delle donne tossicodipendenti e delle ragazze che, anche occasionalmente, usano sostanze stupefacenti. L’attenzione è inoltre rivolta alle donne che subiscono violenze e traumi correlati all’uso di droghe, alle donne in gravidanza, alle donne con figli, alle donne in carcere, al fine di

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Uso di droghe per via iniettiva e comportamenti a rischio HIV: news dalla letteratura

prevenire tutte le patologie correlate all’uso di droghe e realizzare campagne informative rivolte specificatamente al genere femminile [13].

Interventi motivazionali nelle donne per la riduzione del rischio HIV La revisione [1] riporta uno studio nel quale viene indicato che insegnare alle donne ad auto controllarsi e a sviluppare determinate capacità interpersonali, può risultare efficace nella riduzione dei comportamenti a rischio HIV. L’obiettivo è aumentare la consapevolezza del rischio e portare a cambiamenti dei propri comportamenti. Tuttavia la difficoltà nel trattare tali problematiche è anche dovuta alla pubblicazione di uno scarso numero di studi di intervento prettamente al femminile e con dimensioni limitate da poter portare a conclusioni forti. Un metodo che si è dimostrato efficace nella riduzione dei rischi è quello dell’intervista motivazionale tra il terapista e la paziente. L’obiettivo è quello di riuscire a stabilire, attraverso incontri frontali, un contatto con la paziente per comprendere il livello motivazionale al cambiamento e lavorare a diversi livelli a seconda del grado di motivazione raggiunta, al fine di aumentare la motivazione stessa al cambiamento dei propri comportamenti a rischio [1]. Interventi che includono componenti di intervista motivazionale possono dunque aumentare l’efficacia di interventi precedenti, se non altro nella popolazione di donne particolarmente svantaggiate economicamente [14]. Tuttavia la scarsità di studi sulla popolazione femminile non permette di raggiungere conclusioni esaustive e la sola intervista motivazionale può non essere sufficiente a ridurre il rischio di trasmissione dell’HIV [1].

Prevenzione dell’infezione da HIV: i trattamenti sostitutivi per via orale nei soggetti dipendenti da oppiacei per via iniettiva I consumatori di droga per via iniettiva come già discusso nei precedenti paragrafi, sono particolarmente vulnerabili alla trasmissione del virus dell’HIV ed altri virus o batteri a trasmissione ematica a causa del concomitante uso e scambio di aghi infetti, nonché di comportamenti sessuali a rischio, con rapporti non protetti. Nel 2011 è stato pubblicato l’aggiornamento di una revisione Cochrane che si poneva l’obiettivo di valutare l’effetto di un trattamento sostitutivo orale nei consumatori di oppiacei per via iniettiva, sulla percentuale di infezioni da HIV e sui comportamenti altamente a rischio [2]. Per la revisione sono stati analizzati i seguenti database: Cochrane Central Register of Controlled Trials, MEDLINE, EMBASE and PsycINFO. Le ricerche sono state condotte per coprire un periodo temporale fino al maggio 2011, includendo anche liste delle bibliografie degli articoli, revisioni e abstract di congressi. I criteri di selezione applicati prevedevano che gli studi considerassero l’incidenza dei comportamenti a rischio o l’incidenza dell’infezione da HIV in relazione ai trattamenti sostitutivi per la dipendenza da oppioidi. Sono state considerate tutte le tipologie di studi originali. Studi con raccolta di dati retrospettivi sui comportamenti a rischio sono stati invece esclusi. Due autori hanno valutato ogni singolo studio in maniera indipendente, al fine dell’inclusione. La raccolta dei dati e l’analisi ha previsto due autori che indipendentemente hanno estratto le informazioni chiave da ognuno degli studi inclusi. Nel caso di differenze nei dati raccolti dai due revisori si è pro-

Revisione Cochrane sull’effetto di un trattamento sostitutivo orale nei consumatori di oppiacei per via iniettiva, sulla percentuale di infezioni da HIV e sui comportamenti altamente a rischio

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ceduto alla discussione di tali dati o alla consultazione di un terzo autore. Gli indicatori dei comportamenti rischiosi per la trasmissione dell’HIV tipicamente riportati sono la frequenza dell’uso di droghe per via iniettiva (eroina, anche in coassunzione con altre sostanze), la frequenza di uso del preservativo, partner sessuali multipli, prestazioni sessuali in cambio di denaro o droga. L’outcome primario della revisione era l’impatto dei trattamenti sostitutivi per via orale su tutti questi comportamenti a rischio [2].

Risultati principali Ai fini della presente revisione, delle 2353 pubblicazioni reperite, sono 38 gli studi inclusi, per un totale di 12.400 partecipanti coinvolti. Per la maggior parte si trattava di studi descrittivi o studi per i quali la randomizzazione non correlava con i dati estratti e la maggior parte degli studi sono stati ritenuti ad alto rischio di bias. Gli studi variavano dunque in numerosi aspetti limitando l’estensione dell’analisi quantitativa. Solo pochi studi controllati soddisfacevano i criteri di inclusione definiti. Questo secondo gli autori potrebbe essere attribuibile al fatto che sussistono difficoltà etiche nell’allocare tossicodipendenti per via iniettiva con gruppi di controllo che non ricevono terapie sostitutive. Pertanto la revisione ha considerato tutti gli studi che fornivano dati sui comportamenti a rischio trasmissione HIV e i trattamenti sostitutivi per via orale. Gli studi hanno mostrato consistentemente che il trattamento sostitutivo orale con metadone o buprenorfina nei soggetti dipendenti da oppiacei per via iniettiva, è associato ad una riduzione statisticamente significativa dell’uso di oppiacei illeciti, dell’assunzione per via iniettiva e dello scambio di parafernalia. Inoltre è stata osservata una associazione tra la riduzione nella proporzione di soggetti che riportavano partner sessuali multipli, lo scambio sesso per droga o denaro, ma aveva un effetto piccolo sull’uso del condom. Sembrerebbe che la riduzione dei comportamenti a rischio correlati all’uso di droghe si trasli in una riduzione di casi di infezione da HIV. Tuttavia a causa del rischio di bias e della variabilità in numerosi aspetti degli studi analizzati, gli autori non hanno calcolato i dati totali combinati [2].

Effetto della terapia sostitutiva sui comportamenti sessuali a rischio La revisione riporta che, visto lo scarso numero di studi che indagano su questa problematica, non è stato possibile trarre delle conclusioni definite, Tuttavia i dati analizzati forniscono una indicazione sull’associazione tra i trattamenti sostitutivi e una più bassa incidenza di partner sessuali multipli o scambio di sesso per droga o denaro. Per quanto riguarda l’uso del profilattico, sono stati analizzati sette studi, ma nell’insieme i dati suggeriscono che non ci sono cambiamenti o solo dei piccoli decrementi nei rapporti sessuali non protetti associati al trattamento sostitutivo [2].

Trattamenti sostitutivi per via orale, conclusioni degli autori Dal presente studio, secondo gli autori, non è tuttavia chiaro quanto le strategie di riduzione dei rischi siano praticate dopo cessazione dei trattamenti sostitutivi. Il livello di scambio di aghi e siringhe diminuisce significativa-

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Uso di droghe per via iniettiva e comportamenti a rischio HIV: news dalla letteratura

mente all’ingresso nel trattamento sostitutivo ma, sulla base dei dati valutati, non è stato possibile determinare se la riduzione di questa tipologia di comportamento sia dovuta ad una riduzione complessiva dell’uso di droghe per via iniettiva. In modo analogo i trattamenti sostitutivi sono associati ad una riduzione dell’uso di oppioidi illeciti ma non è stato possibile, sulla base delle evidenze revisionate, determinare quanto la riduzione della via iniettiva sia dovuta alla complessiva riduzione dell’uso di oppioidi illeciti. I trattamenti sostitutivi sono associati ad una riduzione nella proporzione dei soggetti dipendenti da oppioidi per via iniettiva che riportavano di avere partner sessuali multipli e di praticare lo scambio di sesso per droga o denaro. Tuttavia i trattamenti sostitutivi non hanno dimostrato alcun effetto sull’uso del profilattico . Gli autori concludono dicendo che il trattamento sostitutivo orale per soggetti tossicodipendenti per via iniettiva riduce i comportamenti droga-correlati ad elevato rischio di trasmissione HIV ma ha un effetto inferiore nei comportamenti sessuali a rischio. L’assenza di dati da studi controllati randomizzati tuttavia limita la forza delle evidenze riportate nella presente revisione.

Uso di droga per via iniettiva, alcuni dati europei Da una relazione pubblicata nel 2010 dall’Osservatorio Europeo sulle Droghe e sulle Tossicodipendenze (OEDT) [15] viene presentato un quadro sui problemi relativi all’uso di droghe per via iniettiva in Unione Europea, con dati che indicano trend stabili o in calo, con una media ponderata pari a 2.5 consumatori ogni mille abitanti di età compresa tra i 15 e i 65 anni. Tra i consumatori che si sono rivolti nel 2007 a centri specializzati per seguire un trattamento terapeutico, il 45% ha dichiarato di assumere la sostanza primaria per via iniettiva. Il trattamento sostitutivo risulta essere la terapia principalmente utilizzata e i dati indicano che nel 2007 è stato fornito a circa 650.000 pazienti, pari al 40% del numero totale di consumatori problematici di oppiacei. Questa tipologia di trattamento è probabilmente il fattore d’impatto maggiore sulla riduzione dell’utilizzo di droghe per via iniettiva tra i soggetti in trattamento, modalità di uso che continua comunque ad essere elevata e non confinata alla sola iniezione di oppiacei, ma anche di cocaina, amfetamine e altre sostanze. Nei paesi europei dove sono stati attuati interventi per ridurre il rischio di malattie infettive legate alla condivisione di aghi e siringhe, è stato osservato un contenimento della diffusione del virus dell’HIV e dell’epatite [15].

Tossicodipendenti per via iniettiva e malattie infettive: una guida europea per la prevenzione La diffusione delle infezioni da HIV e altri microorganismi può essere molto rapida nella popolazione dei tossicodipendenti per via iniettiva e la prevenzione rappresenta un importante strumento che permette di intervenire anche su una riduzione degli alti costi di trattamento, della perdita di produttività e della sofferenza umana di chi è colpito da tali infezioni. A questi presupposti l’Europa ha risposto con una pubblicazione finalizzata a promuovere servizi efficaci per ridurre le problematiche correlate a queste malattie prevenibili. Il lavoro di collaborazione tra l’Osservatorio Europeo sulle Droghe e sulle Tossicodipendenze (OEDT) e l’organizzazione europea per il controllo delle

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malattie (European Centre for Disease Prevention and Control, ECDC), ha dunque prodotto una guida per la prevenzione e il controllo delle infezioni nei soggetti che assumono sostanze stupefacenti per via iniettiva, pubblicata nel 2011 [16]. Nonostante si siano raggiunti dei risultati importanti in numerosi paesi europei, nell’ambito della prevenzione delle infezioni in questa tipologia di popolazione che risulta particolarmente vulnerabile al contagio di virus e batteri, l’uso di droghe per via iniettiva rimane una delle cause principali di trasmissione delle infezioni in Europa, tra cui quella da virus dell’HIV, dell’epatite B e C e del batterio della tubercolosi. Infezioni dovute sia all’uso di aghi e siringhe infette che a contatti e rapporti sessuali non protetti, ma anche al contatto diretto con soggetti ammalati (come la tubercolosi). ECDC e OEDT indicano sette punti fondamentali da seguire per ridurre le infezioni, i quali rimandano al comune obiettivo di non avere più infezioni tra i tossicodipendenti. Questi punti fanno riferimento alla disponibilità di materiali sterili e alla disponibilità di accesso ai trattamenti per la cura della tossicodipendenza; al fornire i test per individuare l’infezione e fornire i trattamenti per curare l’infezione stessa, nonché alla possibilità di accedere alle vaccinazioni quando disponibili. Infine promuovere comportamenti sicuri per la salute e servizi mirati alle esigenze delle singole realtà locali e territoriali [16].

Conclusioni L’uso di droga per via iniettiva rappresenta uno dei principali fattori di rischio di trasmissione dell’HIV, sia nella popolazione generale che più specificatamente nella popolazione di genere femminile [1], accompagnato dai comportamenti sessuali a rischio, osservati frequentemente nei consumatori di droghe. I trattamenti sostitutivi nei soggetti dipendenti da oppiacei per via iniettiva rappresentano una strategia di prevenzione dell’infezione da HIV, con riduzione dei comportamenti droga-correlati ad elevato rischio di trasmissione del virus, quale lo scambio di siringhe ed aghi infetti. Tuttavia i dati analizzati nella revisione Cochrane [2] e riportati nel presente capitolo, indicano che tale approccio risulta avere un effetto inferiore sui comportamenti sessuali a rischio. Risulta dunque primario continuare ad intervenire con strategie di informazione e prevenzione, inclusa la promozione di comportamenti sani per la salute. Bibliografia 1. Ramsey SE, Bell KM, Engler-Field PA. HIV Risk Behavior Among Female Substance Abusers. J Addict Dis. 2010 April ; 29(2): 192–199. doi:10.1080/10550881003684756. (e riferimenti bibliografici in esso contenuti). 2. Gowing L, Farrell M, Bornemann R, Sullivan LE, Ali R. Oral substitution treatment of injecting opioid users for prevention of HIV infection (Review). The Cochrane Library 2011, Issue 8. Published Online: 10 AUG 2011. Assessed as up-to-date: 25 MAY 2011. DOI: 10.1002/14651858.CD004145.pub4 (e riferimenti bibliografici in esso contenuti). 3. Centers for Disease Control and Prevention. HIV among Women. 2009. 4. European Communities, 2009. Data and Information on Women’s Health in the European Union. Faculty of Medicine Carl Gustav Carus, Research Association Public Health Saxony and Saxony-Anhalt, Technische Universität Dresden, Dresden, Germany. 5. European Centre of Disease Prevention and Control (ECDC) (2008) Annual epidemiological report on communicable diseases in Europe 2008. Stockholm. 6. European Centre of Disease Prevention and Control (ECDC) (2008) AIDS/HIV Surveillances in Europe 2007, Stockholm. http://www.ecdc.europa.eu/en/publications/Publica-

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Uso di droghe per via iniettiva e comportamenti a rischio HIV: news dalla letteratura

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Allerta grado 3 - Aumento della percentuale di NO-TESTING per le infezioni da HIV, HCV e HBV presso i Ser.D. con rischi di compromissione del monitoraggio epidemiologico, ritardo di diagnosi e accesso precoce alle terapie, aumento della trasmissione delle infezioni

Dopo una preliminare analisi dei flussi informativi trasmessi dalla Direzione Generale della Prevenzione Sanitaria – Ufficio VII del Ministero della Salute in data 1 giugno 2011 al Dipartimento Politiche Antidroga, relativi alle schede Ministeriali sulle attività effettuate dai Ser.D. nell’anno 2010, il Dipartimento ha eseguito un ulteriore accertamento approfondito relativo alle attività di testing per le principali malattie infettive (HIV, HBV e HCV) nel periodo di riferimento. Dall’analisi è emersa la tendenza generalizzata in molte Regioni e Province Autonome, peraltro rilevata già da alcuni anni, alla riduzione dell’esecuzione dei test per l’infezione da HIV, HCV e HBV, sui nuovi utenti che afferiscono ai servizi per le tossicodipendenze e quelli già in carico che sono risultati negativi ai test precedenti e che hanno la necessità di essere ritestati almeno ogni 6-12 mesi. Poiché si ritiene la condizione di NO-testing rischiosa e potenzialmente pericolosa per le conseguenze infettive e cliniche che potrebbero attivarsi sia nel gruppo delle persone tossicodipendenti che nella popolazione generale, il 9 dicembre 2011 il Sistema Nazionale di Allerta Precoce del Dipartimento Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha attivato un’Allerta grado 3 indirizzata ai referenti di tutti i Dipartimenti delle Dipendenze e Servizi per le Tossicodipendenze in Italia. Nell’allerta è stata riportata l’indicazione di provvedere ad incentivare il testing per le malattie infettive all’interno dei Dipartimenti e dei servizi mediante la fornitura di specifiche e formali indicazioni operative, oltre all’indicazione di attivare un controllo a breve termine (3 mesi) sugli esiti di tali indicazioni, così come indicato nei Livelli Essenziali di Assistenza. Di seguito si riporta il testo integrale dell’Allerta attivata.

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09/12/2011 Prot. EWS 194/11 URGENTE Alla c.a. Assessorati alla Sanità Assessorati alle Politiche Sociali Referenti regionali per le Tossicodipendenze Coordinamento Salute delle Regioni e Provincie Autonome Oggetto: Allerta grado 3 – Aumento della percentuale di NO-TESTING per le infezioni da HIV, HCV e HBV presso i Ser.D. con rischi di compromissione del monitoraggio epidemiologico, ritardo di diagnosi ed accesso precoce alle terapie, aumento della trasmissione delle infezioni.

A. Il dato rilevato • Dopo una preliminare analisi dei flussi informativi trasmessi dalla Direzione Generale della Prevenzione Sanitaria – Ufficio VII del Ministero della Salute in data 01 giugno 2011 a questo Dipartimento, relativi alle schede Ministeriali sulle attività effettuate dai Ser.D. nell’anno 2010, il Dipartimento Politiche Antidroga ha eseguito un ulteriore accertamento approfondito relativo alle attività di testing per le principali malattie infettive (HIV, HBV e HCV) nel periodo di riferimento. • Dall’analisi emerge una tendenza generalizzata in molte Regioni e Province Autonome, peraltro rilevata già da alcuni anni, alla riduzione dell’esecuzione dei test per l’infezione da HIV, HCV e HBV, sui nuovi utenti che afferiscono ai servizi per le tossicodipendenze e quelli già in carico che sono risultati negativi ai test precedenti e che hanno la necessità di essere ritestati almeno ogni 6-12 mesi. • In alcune Regioni e Province Autonome, si sono osservati valori massimi di NO-testing nel 2010, rispetto al 2009, che evidenziano un’ulteriore diminuzione del numero di test eseguiti che oscilla dal 64% al 34% rispetto all’anno precedente. Riduzioni più modeste si registrano in altre Regioni con valori più contenuti ma sempre preoccupanti oscillanti dal 19% al 11,5%. • La forte riduzione delle attività di testing per le malattie infettive di alcune Regioni, ed in particolare per l’HIV, ha mostrato quindi che 9 Regioni e Province Autonome su 21 (43%), nel 2010 hanno testato meno del 30% dell’utenza assistita presso i servizi per le tossicodipendenze. • Va segnalato che solo in una Regione si è rilevato un buon incremento dei test effettuati tra il 2009 e il 2010. • L’aumento della quota di NO-testing risulta particolarmente preoccupante in quanto comporta diversi effetti negativi in grado di compromettere il controllo e la gestione delle malattie infettive all’interno del gruppo delle persone tossicodipendenti. In particolare, si possono generare importanti ritardi di diagnosi in grado di far ritardare l’accesso precoce alle terapie antivirali riducendo le probabilità di successo di tali terapie e la curva di sopravvivenza dei pazienti. Oltre a questo è provato che persone non consapevoli del proprio stato sierologico ed infettivo hanno una maggior probabilità di trasmettere l’infezione.

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• L’aumento dell’incidenza delle nuove infezioni nel gruppo dei tossicodipendenti è stato segnalato, anche se in via preliminare, da vari Stati Europei e non è da escludere che vi possa essere una ripresa di tale incidenza anche nel nostro Paese. Ad oggi non è però possibile confermare tale ipotesi proprio per la grave carenza di risultati sierologici nel gruppo di tossicodipendenti (in relazione all’alto tasso di NO-testing) che non permettono di monitorare le coorti di soggetti risultati negativi al primo test nel tempo. • Va ricordato che un aumento dell’incidenza e conseguentemente della prevalenza delle infezioni nel gruppo dei tossicodipendenti comporta secondariamente anche un aumento del rischio di trasmissione alla popolazione generale non tossicodipendente in quanto molte persone tossicodipendenti hanno partner (sia fissi che occasionali) non tossicodipendenti. • Le raccomandazioni formulate nelle linee di indirizzo già a suo tempo diffuse e trasmesse (Screening e diagnosi precoce delle principali patologie infettive correlate all’uso di sostanze stupefacenti – DPA, Ministero della Salute, gennaio 2011) (http://www.politicheantidroga.it/droghe/lineed%27indirizzo/screening-e-diagnosi-precoce-delle-principali-patologieinfettive-correlate-all%E2%80%99uso-di-sostanze-stupefacenti/presentazione.aspx) sono state redatte tenendo conto delle indicazioni riportate nelle linee guida nazionali (Commissione Nazionale AIDS, PNLG, DPA), europee (British HIV Association, EASL, EACS) ed extraeuropee (Centers for Disease Control, WHO, UNODC, UNAIDS,NIDA, ISDA, NIH, DHHS), relativamente alla metodologia per la stesura delle linee guida, alle indica-

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zioni relative allo screening, al testing, al contact tracing e partner notification, alla diagnosi e terapia delle principali patologie infettive correlate alla dipendenza da sostanze (1-7, 11-13, 17-28, 33,34,38).

B. Indicazioni e 10 raccomandazioni pratiche Si ritiene la condizione di NO-testing rischiosa e potenzialmente pericolosa per le conseguenze infettive e cliniche che potrebbero attivarsi sia nel gruppo delle persone tossicodipendenti che nella popolazione generale, si trasmette la presente Allerta grado 3 con l’indicazione di provvedere ad incentivare il testing per le malattie infettive all’interno dei Dipartimenti e servizi per le dipendenze mediante la fornitura di specifiche e formali indicazioni operative, oltre ad attivare un controllo a breve termine (3 mesi) sugli esiti di tali indicazioni. Si ricorda che quanto indicato rientra a pieno titolo nei Livelli Essenziali di Assistenza. Inoltre, per una migliore e più dettagliata comprensione delle possibili azioni da intraprendere, si rinnovano le raccomandazioni a suo tempo trasmesse e contenute nelle suddette linee di indirizzo: 1. Incentivare e incrementare fortemente l’offerta attiva del test HIV all’interno dei Ser.D. e dei Dipartimenti delle Dipendenze, sia per quanto riguarda le persone tossicodipendenti che per la prima volta arrivano, sia per le persone già in carico e riscontrate sieronegative (retest). In particolare i soggetti a cui offrire attivamente i test sono: a. tutti gli utenti nella fase di accoglienza; b. soggetti già in carico che riferiscono contatti a rischio recenti (entro i 3 mesi) con persone HIV positive o a sierologia non nota; c. soggetti già in carico che riferisco comportamenti a rischio con soggetti appartenenti a gruppi a rischio, sierologia non nota (consigliabile comunque nei soggetti con dipendenza da sostanze la ripetizione del test ogni 6-12 mesi, indipendentemente da comportamenti riferiti); d. pazienti che presentano sintomi di malattia retrovirale acuta o compatibili con immunodepressione. 2. Assicurare ai Dipartimenti delle Dipendenze condizioni logistiche e strumentali per poter eseguire i test sierologici e monitorare costantemente la percentuale dei consumatori di sostanze stupefacenti testati presso i Ser.D. in relazione al totale dei pazienti da testare, anche mediante la creazione di meccanismi di controllo interno. 3. Associare al test HIV anche gli accertamenti sierologici per l’infezione da HCV, HBV e Lue. 4. Si raccomanda ai servizi di eseguire sistematicamente, anche nelle persone tossicodipendenti, l’indagine anamnestica dei comportamenti a rischio in ambito sessuale e non solo dell’uso promiscuo dei materiali da iniezione. 5. È necessario associare sempre le attività di testing alle offerte terapeutiche per il trattamento della tossicodipendenza ed un supporto sociale e di difesa dei diritti della persona eventualmente risultata sieropositiva (anti discriminazione e stigmatizzazione). 6. Seguire, anche per le persone tossicodipendenti, le indicazioni generali per l’esecuzione del test HIV previste per i vari gruppi di popolazione (consenso informato, counseling, consegna personale dei risultati e in

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modo riservato, supporto psicologico alla comunicazione di sieropositività, informazioni preventive alla comunicazione di sieronegatività, ecc.). 7. Programmare il monitoraggio sierologico dopo 45 e 90 giorni se presente comportamento a rischio recente. In caso di persistenza del comportamento a rischio, consigliare monitoraggio a scadenza almeno semestrale (consigliata comunque la ripetizione del test ogni 6-12 mesi nei tossicodipendenti). 8. Organizzare i Ser.D. e i Dipartimenti delle Dipendenze in modo che l’esecuzione dei test sierologici possa essere eseguita “on site”, evitando quindi la migrazione e l’invio in altri servizi esterni o centri specialistici della persona tossicodipendente con conseguente diminuzione dell’aderenza al test. 9. Orientare i servizi affinché alle persone riscontrate sieropositive possano essere offerti immediatamente gli accertamenti di secondo livello e la presa in carico da parte dei centri clinici specializzati, compreso (se necessario) l’accesso alle terapie antiretrovirali. A questo proposito, va valutata positivamente la possibilità e l’opportunità di somministrare e distribuire presso in Ser.D. e i Dipartimenti delle Dipendenze (anche in stretta collaborazione con i centri specialistici di secondo livello), contestualmente alle terapie farmacologiche per la tossicodipendenze, anche quelle antiretrovirali al fine di migliorarne l’accesso e l’aderenza. Tutto ciò assicurando la costante sorveglianza clinica e diagnostica, secondo le linee guida della Commissione Nazionale AIDS. 10. Attivare presso i servizi pubblici, previa formazione specifica ed obbligatoria degli operatori e controllo costante della qualità delle procedure, l’offerta di contact tracing e partner notification, esclusivamente con adesione volontaria del paziente, con mantenimento del completo anonimato della fonte, con l’esclusione totale della possibilità di utilizzare tali dati a scopi legali. Queste procedure vengono attivate esclusivamente per aiutare i pazienti volontariamente consenzienti ad avvisare (direttamente o indirettamente) i propri partner, con la finalità di ridurre i tempi di infezione trascorsi in modo inconsapevole del proprio stato sierologico, della necessità di approfondire gli accertamenti clinici e soprattutto di poter accedere precocemente alle terapie antiretrovirali. Le procedure si sono mostrate efficaci, sicure, rispettose della privacy ed accettabili, sia da parte dei pazienti indice che da parte dei contatti. Ringraziando per la collaborazione si rimane a disposizione per qualsiasi altra informazione o chiarimento. Cordiali Saluti Dott. Giovanni Serpelloni Capo Dipartimento Politiche Antidroga Presidenza del Consiglio dei Ministri

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Allegato

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2012 da Cierre Grafica www.cierrenet.it





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