Antologia Premio Nazionale di Arte letteraria Metropoli di Torino - XIX Edizione - Anno 2022

Page 1

Arte Città Amica Centro Artistico Culturale - TorinoPREMIO NAZIONALE DI ARTI LETTERARIE METROPOLI DI TORINO ANTOLOGIA Selezione di opere della XIX edizione - Anno 2022Con il patrocinio di

Arte Città Amica

Centro Artistico Culturale

Via Rubiana, 15 Torino

Tel.: 011 776 88 45 338 766 40 25

Presidente, Raffaella Spada Direttore letterario, Danilo Tacchino

Pubblicazione legata al concorso letterario "Metropoli di Torino"

Edizione 2022

Selezione delle opere meglio classificate Copertina e grafica, Egidio Albanese Sito internet curato da Giorgio Viotto

www.artecittaamica.it info@artecittaamica.it

Opera in copertina Teseo e il Minotauro, acrilico su tela, 80 x 80 di Egidio Albanese

Stampato in proprio ottobre 2022

Selezione di opere della

PREMIO NAZIONALE DI ARTI LETTERARIE “METROPOLI DI TORINO” ANTOLOGIA
XIX
edizione
- Anno 2022 -

Il2022

ci vede ancora partecipi e presenti alla diciannovesima edizione del premio, fondamentalmente con lo stesso staff e la stessa giuria di sempre, con persone che amano e credono nella letteratura, nella cultura e nell'arte.

L'organizzazione è da tempo consolidata e il ventennio di presenza nel panorama letterario è alle porte, proponendo una domanda per la Continuità stessa di tutta la letteratura in genere: un patrimonio letterario in un ventennio di impegno, di ricerca e di sviluppo per autori e organizzatori, può rimanere nel tempo e nella memoria della letteratura? Io direi che DEVE rimanere, perché è tutto quello che resterà della presenza di una importante produzione letteraria di un periodo storico e, non si può perdere né deve essere dimenticata.

Ecco come lo scopo e l'obiettivo dell'antologia che pubblichiamo da anni, come memorial delle varie edizioni, diviene prezioso e raro, in quanto in ogni antologia sono presenti tutte le opere premiate e segnalate, tutti i riferimenti di copertina per le opere edite, con tutte le motivazioni della giuria, a cui si aggiungono una rosa di autori che, pur non essendo tra i premiati, sono stati ritenuti meritevoli di pubblicazione.

Anche quest'anno, abbiamo cercato, sia come giuria, sia come organizzazione, di svolgere al meglio il nostro compito, per la continuità di uno sviluppo letterario che non deve assolutamente fermarsi, perché la letteratura ha anche lo scopo di far riflettere nella coscienza di desiderare sempre ottimismo e redenzione per il futuro dell'umanità.

Il direttore letterario e coordinatore della giuria.

Danilo Tacchino

4 Prefazione

“Arte Città Amica”

Manifesto

Premio Nazionale di Arti Letterarie dal 2003

“NELLA LOGICA DELLA CONTINUITÀ LETTERARIA”

Nello spirito dell'evoluzione dell'uomo, del suo pensiero e della sua concezione artistica, ricerchiamo la valenza affine all'elettività dell'espressione letteraria attraverso la continuità.

Essa viene intesa come forza di propulsione espressiva che riconosce il passato come comunicazione del futuro e rinvigorimento dei rapporti letterari e umani nella nostra moderna società italiana.

Nell'espressione del valente filosofo ottocentesco Oswald Wirth: “Leideenonhannoetà,sonovecchiequantoilpensieroumano,masono stateespresseinmododiverso,secondoleepoche”, ritroviamo il concetto introduttivo della tematica del nostro concorso, con il sostegno scenografico della storia dell'uomo nelle sue espressioni formali e di pensiero, così identificabili in tutte le sue manifestazioni.

Nelle idee, l'uomo vivifica la sua espressione vitale di continuità, e nell'identificazione della sua storia, traccia nuove tappe per rinvigorire le idee e la forza emozionale tratta dal suo bisogno di vivere le emozioni dell'anima, nella costruzione del reale, e dalle sue pulsioni, ricostruire dal pensiero tramite il linguaggio gli elementi essenziali della sua continuità.

Telefoni: 011/7768845 - 338 766 4025 E-mail: info@artecittaamica.it Sito web: www.artecittaamica.it

5 Centro Artistico Culturale

Giuria:

Presidente di giuria, Danilo Tacchino, direttore letterario di Arte Città Amica; Segretaria, Raffaella Spada, presidente di Arte Città Amica.

Sezione Prosa Edita Bruna Bertolo, giornalista e scrittrice; Mauro Minola, Docente e scrittore; Pier Giorgio Tomatis, scrittore.

Sezione poesia edita Andrea Bolfi, Poeta; Bruno Giovetti, Poeta; Mario Parodi, docente e scrittore.

Sezione Prosa inedita: Claudio Calzoni, scrittore e poeta; Davide Ghezzo, docente e scrittore; Imma Schiena, docente e scrittrice.

Sezione Poesia inedita

Piero Abrate, giornalista e scrittore; Angelo Mistrangelo, giornalista e scrittore; Danilo Torrito, poeta.

Sezione speciale Saggio

Massimo Centini, docente e scrittore; Danilo Tacchino, giornalista e scrittore; Ernesto Vidotto, presidente del "Centro Studi Cultura e Società".

6

Danilo Tacchino, Laureato in Lettere moderne con tesi in Sociologia del lavoro, scrittore saggista, poeta, articolista, operatore culturale e organizzatore di premi letterari, direttore letterario dell'associazione culturale e artistica Arte Città Amica di Torino dal 2001 e coordinatore del Premio letterario sin dalla sua fondazione. Ha pubblicato dal 1983, libri di poesia, di saggistica storica e misterica, di folklore popolare Ligure e Piemontese, testi sull' ufologia, sulla sociologia dell'industria, sulle leggende e i miti storici della Liguria e del Piemonte, testi di narrativa: un romanzo storico ambientato in Piemonte nella valle di Susa, sul periodo antico della seconda guerra punica, varie serie di racconti sulle condizioni del disagio sociale del nostro tempo, una sceneggiatura teatrale storica sul Risorgimento piemontese e i testi per un calendario commemorativo per i 150 anni dell'unità italiana. Ha partecipato al Dizionario Enciclopedico di Torino, (Newton Compton, 2003) Scrivendo voci su scienza, industria letteratura e misteri. Nel maggio 2017 è uscito il libro Liguria nascosta e sconosciuta per le Edizioni Ligurpress e sono in corso di pubblicazione altri due testi, una monografia storica piemontese sugli UFO, ed un altro sulle Storie, tradizioni e misteri dei monti e delle valli dell'arco Alpino nord occidentale.

* * *

Bruna Bertolo, rivolese, tesi di laurea in Storia della filosofia, giornalista pubblicista dal 1988, ha pubblicato numerosi libri di argomento storico, focalizzando la sua ricerca sull'800 e 900. Tra i vari titoli, la poderosa “Storia della Valle di Susa. Dall'800 ai giorni nostri”. Già responsabile delle pagine culturali del bisettimanale “Luna Nuova” collabora a numerosi giornali, tra i quali la rivista “Segusium” e il trimestrale “Passaggi e Sconfini” con articoli di costume, arte e recensioni di libri. Dal 2011 ha concentrato la sua ricerca sulla storia delle donne, con la pubblicazione di diversi titoli, tra i quali “Donne del Risorgimento. Le eroine invisibili dell'Unità d'Italia”; (premio nazionale “Ambiente pecial 150°/2011”, 36a edizione, assegnato a Teano); “Donne e cucina nel Risorgimento”; “Prime, sebben che siamo donne”; “Donne nella Resistenza in Piemonte”; “Donne della Prima Guerra Mondiale”. E ancora "Donne e cucina in tempo di guerra" e il fortunatissimo "Maestre d'Italia", presentato nel gennaio 2018 alla Camera dei deputati e vincitore del premio internazionale "Marcel Proust". Nel 17 l'autrice, viene insignita dal “Centro Pannunzio” del prestigioso premio “Alda Croce”, assegnato alle donne piemontesi che abbiano raggiunto meriti di particolare valore culturale e sociale. Un grande successo livello nazionale per il volume “Donne e follia in Piemonte”, premiato a Roma, a cui è seguito il libro Donne nella Shoah”. Da oltre un anno è Presidente dell'Unitre di Rivoli, Associazione di grande rilevanza culturale nella città

* * *

Mauro Minola, nato a Torino, si occupa da lungo tempo di storia del Piemonte, in particolare degli episodi legati alle vicende militari sabaude con interessi legati alla storia e alla tecnologia delle fortificazioni delle Alpi e alla storia militare, in particolare del Piemonte sabaudo.

Ha intrapreso approfonditi studi sulle fortificazioni italiane delle Alpi occidentali e sull'evoluzione funzionale delle tipologie dei sistemi difensivi dell'intero arco alpino. Ha partecipato a convegni di studio promossi dall'Associassion Piemonteisa ed è intervenuto come relatore a diverse sezioni delle UNITRE del Piemonte. Ha pubblicato articoli e saggi storici su diversi periodici.

7

Collabora alle pagine culturali del bisettimanale Luna Nuova di Avigliana. È socio della Società Storica Segusium di Susa e dell'Associazione per gli Studi di Storia e di Architettura militare di Torino. I suoi interessi sono legati alla storia del Piemonte e dei Savoia, alle fortificazioni e alla storia militare

* * *

Pier Giorgio Tomatis, è nato nel 1965 a Torino, vive a Cantalupa e scrive da sempre racconti e sceneggiature.

Ha collaborato con Il Monviso, Il Piccolo di Pinerolo, ex Direttore del Bollettino Comunale di Saluggia.

Presidente dell'Associazione di Volontariato Gruppo SISIFO. Redattore del Progetto La lettura è magia e 10 Piccoli autori. Titolare della Libreria, Casa Editrice, Comunicazione e Organizzazione di Eventi, Hogwords di Pinerolo.

L'esordio narrativo è del 2008 con il fanta-thriller “Gateland”, seguono “Todos Caballeros”, Satan's Womb/L'utero di Satana”, “Lo strano caso del dottor Chances”, “Enfante terrible” e “Pazzi e matti S.P.A.” Nel 2010 nasce La Casa Editrice Hogwords per iniziativa dell'omonima libreria pinerolese gestita dall'autore. A questa si è affiancato, più tardi, il Circolo Artistico e Letterario presieduto, attualmente, dal Dott. Fabrizio Legger.

* * *

Andrea Bolfi (La poesia di strada).

Sono nato a Genova Sestri Ponente nel Luglio 1967. Ho scoperto la passione per la poesia a sedici anni. Sono stato speaker e D. J. presso emittenti radio genovesi.

Nel ‘89 mi sono trasferito a Torino, dove attualmente vivo e lavoro. Ho frequentato un corso di recitazione durato 3 stagioni, presso il teatro D'Uomo, recitando i classici e migliorando dizione e presenza scenica. Da quest'esperienza prende corpo il bisogno di unire le grandi passioni, legando indissolubilmente il verso scritto, alla lettura recitata.

È il momento di urlare la poesia. Leggo ovunque, ove possibile, nelle piazze, nei pub di Torino, Genova, Bologna. Ho frequentato il gruppo esordienti presso il Circolo dei Lettori di Torino. Ho viaggiato molto per lavoro: in Europa, Asia e America Centrale.

Bruno Giovetti, nato a Canale il 22 marzo 1956, di origini contadine, diploma tecnico industriale, tecnico elettronico presso un'azienda multinazionale. Riscopre la poesia in età adulta e si immerge in essa, sia in lingua italiana che piemontese. Canta la vita, le passioni, il mondo che lo circonda e sé stesso, a volte in modo serio, a volte ironico. Ha conseguito riconoscimenti sia per la poesia in italiano che in piemontese. Campione Nazionale di Poetry Slam Italia nel 2017/18 e nei primi 10 in Europa nel 2018. Partecipa ad eventi, conduce caffè letterari e collabora con associazioni culturali e di volontariato. Sul palcoscenico si diverte a dar vita a maschere e personaggi immaginari in dialoghi improbabili È membro del "Gruppo Storico Conti Vagnone", dove si diletta ad impersonare di volta in volta, Giuseppe Mazzini, un conte, un frate, un cardinale, un armigero, un menestrello.... Mario Parodi, torinese (1950), laureato in Semiologia, ha insegnato

8
* * *

per trentacinque anni materie letterarie nelle scuole medie inferiori e superiori della sua città.

Da decenni si dedica a svariate attività culturali.

Per il Comune di Torino ha fondato e gestito, dal 1991 al 1995, l'Osservatorio poetico giovanile Opere d'inchiostro.

Ha al suo attivo oltre una ventina di pubblicazioni, che testimoniano la poliedricità dei suoi interessi.

Dalla poesia (Il tonfo delle gomene; Odore del 2000; Caro Marco; Play, Satchmo) allo sport (In bianco e nero; Boom!; Rotative del mio cuore), dai romanzi (La lama di Pascal; Giocavamo senza numero;

A voi studio centrale; Gli stadi di Giovannino) ai saggi letterari (La sfida di Demodoco), dal jazz (Quando il jazz crea parole; Poem jazz live; La bellezza senza tempo-Il jazz giovane a Torino) a Tex Willer. Recentemente ha scritto settantadue poesie per settantadue tavole dell'illustratore Giovanni Ticci, inserite nel libro di Verger, L'avventura e i ricordi

* * *

Claudio Calzoni. Da sempre è appassionato di poesia, letteratura fantastica, musica, storia antica, fantascienza e di tutto ciò che riguarda il mistero, la religione, la fantasia e l’arte umana. Alla vita da imprenditore e professionista affianca l’attività di romanziere, poeta, giornalista, critico d’arte e giudice in concorsi letterari. Delle sue pubblicazioni ricordiamo i 4 Romanzi di avventura (tra storia, mistero e thriller) della Saga de “La Traccia del Fuoco”, il controverso “L’Altro Dio, ovvero se il Re dei Re” ed il diario “Non solo Covid” pubblicati dalle Edizioni Hogwords. Nell’ambito della letteratura sportiva, scrive per i blog “ControcalcioRadioWeb” e “vivoperlei” ed ha scritto per Yume Libri il bestseller “I Luoghi del Toro”. È direttore della rivista web “la Gazzetta di Hogwords” e ha partecipato ad iniziative letterarie benefiche come “La schedina vincente” pubblicato da Gian Giacomo Della Porta Editore. Per natura è convinto che il meglio debba ancora arrivare.

Davide Ghezzo insegna Materie Letterarie e Latino nei Licei

torinesi. Ha tenuto corsi universitari di scrittura giornalistica. Ha pubblicato una ventina di volumi, tra narrativa, saggistica, poesia e curatele scolastiche (per editori come SEI e Il Capitello). Ha conseguito svariati riconoscimenti, tra cui un Premio Italia per il saggio Dei padri fondatori, sulla storia e i temi della narrativa fantastica. La sua opera più recente è il romanzo ‘Memoriale alieno’ (ed. Hogworts, 2020).

Da sempre appassionato delle tematiche del mistero e dell’insolito (oltre che di musica, scacchi e astrologia), ha incentrato le sue opere e l’attività di relatore e conferenziere, sul versante non mimetico della creatività letteraria, tra fantascienza e surrealismo, traendo spunto dai materiali della mitologia, dell’ufologia, della spiritualità.

9
* * *
* * *

Imma Schiena nasce a Carovigno (BR). Dopo gli studi socioeconomici, si dedica alla poesia e al teatro. Insegna e vive a Torino. Scrive pezzi teatrali e, dal 2011, recita con la compagnia “I Fumeri per caso”. Nel 2013 pubblica la sua prima silloge: “Teatrando e Poetando Goccia di Vita” con Arduino Sacco Editore, Roma. È inserita in varie Antologie tra cui “I Grandi Classici della Poesia Italiana” del '900, Ali Penna D'autore, 2013. È nella Raccolta di poesie e commenti liberi “Perché tu mi dici: Poeta”, Hogwords, 2014. Con la casa editrice Pagine di Roma, pubblica alcune sue opere nella collana Navigare, 2016, n. 53. È premiata in diversi concorsi letterari e al Poetry Slam Nazionale a Milano, nel 2018. Nel '19 pubblica “Parole in pietra. Sarà l'aurora” con Genesi Editrice. Nel 2020 partecipa con la mostra Lib(e)ri in cammino alla Giornata Mondiale Migranti e Rifugiati. Dai testi si evince il suo impegno civico e sociale contro ogni forma di discriminazione. La penna è lo strumento che usa per far parlare i più deboli. Organizza mostre a sostegno della pace, mettendo insieme diverse forme di espressione artistica. Nel 2022 pubblica, "Qui giace amore", GCL edizioni. Lei dice: “La poesia è per me linfa vitale, è un'implosione esplosiva, è la mia fedele compagna di vita. Quando non scriverò più, sarà perché non vivrò più”.

Piero Abrate è nato nel 1955 e vive a Torino. Laureato in Scienze Politiche, è giornalista professionista. Dopo aver lavorato per una ventina d'anni come redattore a “Stampa Sera” e a “La Stampa”, ha diretto un mensile a diffusione nazionale dedicato alle auto, il quotidiano Torino Sera e il settimanale dell'area metropolitana “La Nuova”. È stato docente di giornalismo prima alla scuola Carlo Chiavazza e poi all'Università Popolare di Torino. Ha all'attivo diversi volumi legati al territorio, come Nascita della stampa politica in Piemonte (Scuola giornalismo di Torino, 1989), Cento anni di cinema in Piemonte (Abacus Edizioni, 1997, scritto con Germano Longo), Il Piemonte del crimine - Storie maledette (Ligurpress), Io mi chiamo, Dizionario dei cognomi piemontesi, Dizionario dei cognomi liguri, Storie assassine (Ligurpress, 2015).

* * *

Angelo Mistrangelo, giornalista, scrittore, critico d’arte, è nato a Tripoli (Libia). Dal 1979 scrive per le pagine di arte e cultura de "La Stampa", "Torinosette/La Stampa. Ha collaborato a "Stampa Sera" (ha curato la Pagina dell’Arte), "Il Giorno", "Il Nostro Tempo", "Le Colline di Pavese", "Uomini e Libri", "Quinta Generazione".

Presidente Onorario di "Io Espongo" Torino, è direttore della rivista "Il Platano" e della "Collana d’Arte" Associazione Culturale Azimut.

Vicepresidente della "Promotrice" al Valentino, è stato coordinatore artistico di Palazzo Boglietti a Biella. Curatore di mostre per la Regione Piemonte, Fondazione Accorsi-Ometto e Accademia

Albertina di Belle Arti, ha fatto parte della cabina di regia del "Portale" del MIUR (Ministero Università Ricerca). Sue poesie sono inserite nelle antologie "Voci Nuove", "Poesia Verde", "L’Uomo Oggi", "Poesie del Novecento", "Magica Luna", "Lettera" (University College Cardiff), "R-esistenze" Albertina Press, mentre ha pubblicato i libri "Ilico", "La quinta stagione" (con Angelo Caroli) "E poi il silenzio", "Poesie". É componente delle giurie artistiche e letterarie di "Arte Città Amica", Associazione Culturale, "Talento" e membro dell’AICA, Associazione Internazionale Critici d’Arte).

10
* * *

Danilo Torrito (Torino 1965). Dopo il Liceo Classico si laurea presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino. Esercita la libera professione e l’architettura d’interni è il campo di applicazione che lo vede maggiormente impegnato. Ha due grandi passioni: la poesia e il teatro. Il filo conduttore della sua poesia è sicuramente la rima e con i suoi componimenti prova a trasmettere pensieri ed emozioni che, si augura, possano arrivare al Lettore con lo stesso impatto emotivo con il quale sono stati creati. Ha pubblicato con Neos Edizioni due raccolte di poesie, “Passaggi” e “Succede”, e una raccolta di fiabe rielaborate in chiave poetica dal titolo “Rime da favola”. Le partecipazioni a vari concorsi letterari gli hanno portato riconoscimenti e premi che certamente hanno coronato la sua passione per la poesia. Ama scrivere e descrivere, con rime baciate o alternate, le sue intime sensazioni e le esistenze che, inventate o reali, lo circondano. È un poeta? Forse, secondo una bellissima frase di Oscar Wilde: “Quando l’uomo agisce, è un pupazzo. Quando descrive, è un poeta. Il segreto è tutto qui.” Ai posteri, l’ardua sentenza!

.***

Massimo Centini, laureato in Antropologia Culturale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino. Ha lavorato a contratto con Università e Musei italiani e stranieri. Attualmente collabora con la Fondazione Università Popolare di Torino dove è titolare della cattedra di Antropologia culturale e di Antropologia dell'arte; tiene anche corsi presso il MUA – Movimento Universitario Altoatesino – di Bolzano. Ha pubblicato numerosi saggi con Mondadori, Piemme, Rusconi, Fondazione Terra Santa, Newton & Compton, Yume, Diarkos, Xenia, San Paolo e altri. Alcuni dei suoi volumi sono stati tradotti in varie lingue.

.***

Ernesto Vidotto. Coordinatore del Centro Studi Cultura e Società. Laureato in Lettere, la sua esperienza professionale si è sviluppata soprattutto in ambito formativo. Dal 1991 al 2007 è stato responsabile della funzione Formazione del Personale della Regione Piemonte. Nell'ambito dell'AIF (Associazione Italiana Formatori) ha ricoperto ruoli di responsabilità dal 1996 a fine 2016, tra cui Presidente Regionale dal 2003 al 2008 e Vicepresidente Nazionale dal 2009 al 2012. Di particolare rilievo, infine, la collaborazione (dal 1996 al 2007) con il Dipartimento per la Funzione Pubblica per la redazione del Rapporto sulla Formazione nella Pubblica Amministrazione. Ha maturato una notevole esperienza in giurie, sia di premi letterari che di premi che valutano progetti complessi, come il Premio Basile per la Formazione bella PA che il Premio Persona e Comunità, che premia i migliori progetti di valore sociale, in ambito pubblico e no profit.

11

SI RIPORTANO QUI DI SEGUITO I RISULTATI DELLA GIURIA DEL "PREMIO NAZIONALE DI ARTI LETTERARIE METROPOLI DI TORINO” - XIX edizione – anno 2022 -

Composta da:

Sezione Romanzo: Bruna Bertolo, Mauro Minola, Pier Giorgio Tomatis; Sezione poesia edita: Andrea Bolfi, Bruno Giovetti, Mario Parodi; Sezione Racconti inediti: Claudio Calzoni, Davide Ghezzo, Imma Schiena; Sezione Poesia singola: Piero Abrate, Angelo Mistrangelo, Danilo Torrito; Sezione speciale Saggio: Massimo Centini, Danilo Tacchino, Ernesto Vidotto Presidente di giuria: Danilo Tacchino.

Segretaria del premio: Raffaella Spada (Presidente del Centro Culturale Arte Città Amica).

La giuria preliminarmente ha esaminato gli elaborati selezionando una prima “rosa” di finalisti.

Dopo ulteriori e comparative riletture ha così definito le graduatorie:

Sezione Prosa edita

1° premio Marcello Loprencipe da Sacrofano (RM) per l’opera, Olmo – Edizione Campi di Carta;

2° premio Marina Rota da Torino per l’opera, Sotto le stelle di Fred - Casa Editrice Buendia Books;

3° premio Claudio Rolando da Giaveno (TO) per l’opera, Peccato di Gola - Edizioni del Capricorno;

4° premio Davide Rubini da Borgaro T.se (TO) per l’opera, Le chiare intenzioniVentura Edizioni;

5° premio Erica Bonansea da Torino per l’opera, Grand Puy - Golem Edizioni.

Segnalazione di merito:

• Angelo Simone Cannatà da Blera (VT) per l’opera, Volevo essere Mogol - Armando Curcio Editore;

• Clambagio da Bolzano per l’opera, Scandalo in Val Gardena - Giovane Holden Edizioni;

• Franca Rizzi Martini da Torino per l’opera, Oltremare - Neos Edizioni;

• Francesca Sassano da Potenza per l’opera, Desideri liberati - Edizioni I libri di Pan.

Sezione Prosa inedita

1° premio Paolo Casella da Sapri per opera, Febbre d'estate;

2° premio Tina Caramanico da Abbiategrasso (MI) per l'opera, I tre giorni che

12

sono stata madre;

3° premio Lorenzo Oggero da Pisa per l'opera, Il caso della donna scomparsa;

4° premio Ferdinando Romito da Diamante (CS) per l'opera, Ascolta il vento;

5° premio Andrea Poggipollini da Bologna per l'opera, Mein Kampf – La mia battaglia.

Segnalazione di merito:

• Ubaldo Busolin da Milano per Stop war; l'opera, Lettere d’amore ovvero Come rovinare la vita di u n uomo;

• Alberto S. Morra da Torino per opera, Lettere d’amore ovvero Come rovinare la vita di u n uomo;

• Caterina Perrone da Firenze per l'opera, Sharazàd. Un racconto mi ha salvato la vita;

• Mario Trapletti da Roma per l'opera, L'inferno è l'assenza degli altri;.

Sezione volume di Poesie

1° premio Stefano Vitale da Torino per l'opera, Si resta sempre altrove;

2° premio Raffaele Floris di Pontecurone (AL) per opera, La macchina del tempo;

3° premio Vincenzo Di Giulio da Roma per l'opera, Anima mundi;

4° premio Matteo Casale da Camaiore (LU) per l'opera, STUDI OP 9;

5° premio Alfredo Rienzi da San Mauro T.se (TO) per l'opera, Sull’improvviso.

Segnalazione di merito:

• Maria Grazia Bajoni da Monza (MB) per l'opera, Il giorno della Candelora;

• Carmelo Consoli da Firenze per l'opera, Divino disincanto;

• Raffaele Manduca da Catania per l'opera, Restò solo voce;

• Dario Marelli da Seregno per l'opera, L'infinito dentro.

SEZIONE POESIA INEDITA

1° premio Alessio Baroffio da Rescaldina (MI) per l’opera, Tramonto ad est:

2° premio Giancarmine Fiume da Rovellasca (CO) per l’opera, Se queste fossero le mie ultime parole;

3° premio Franco Fiorini da Veroli (FR) per l’opera, Odor di casa;

4° premio Franca Donà da Cigliano (VC) per l’opera, Kintsugi;

5° premio Lucia Lo Bianco da Palermo per l’opera, Non saranno lacrime di pioggia.

Segnalazione di merito

• Pietro Catalano da Roma per l’opera, Il sogno di Danilo;

13

• Grazia Dottore da Messina per l’opera, Al varco del sogno:

• Dario Marelli da Seregno per l’opera, Le meccaniche dei fiori (Capo Caccia);

• Francesco Mosconi da Ivrea (TO) per l’opera, Una giornata a Burma. Sezione Speciale Saggio Inedito/Edito

Menzione d'onore

• Maurizio Aragno da Torino per l’opera, Il confine italo-francese. Da Cavour a Macron;

• Arianna Ceschin da San Pietro di Feletto (TV) per l’opera, Preferisco sbagliare tutto ma buttarmi a capofitto;

• Franco Chiavegatti da Ostiglia (MN) per l’opera, I Monicelli. Storia dell'Italia del '900;

• Francesco Sinigaglia da Bisceglie per l’opera, Il Metodo Stanislavskij dalle origini alle “azioni fisiche”.

Il comitato direttivo di Arte Città Amica oltre ai giudizi espressi dalla giuria competente, ha ritenuto di inserire le seguenti opere sull’antologia delle opere finaliste:

Sezione Racconto Inedito

• Gabriele Andreani da Pesaro, Che cosa mi rimane:

• Silvia Aonzo da Milano, Il sigillo dei mondi;

• Anna Bani da Gallarate (VA), Salon Kitty;

• Francesco Battista da Londra, Il corsaro del XXII secolo;

• Claudio Botteon da Godega San Urbano (TV), La lunga marcia;

• Mauro Caneparo da San Nazzaro Sesia (NO), Il dizionario tascabile;

• Emilio Chiave da Roma, Nonno Edoardo;

• Giacomo Fantechi da Firenze, La scelta;

• Fausto Paolo Filograna da Matino (LE), Prima di morire di;

• Maria Luisa Giustetto da San Mauro T.se (TO), Giovanni Pantoni;

• Thea Moscatelli da Rivoli (TO), Dillo a tutti;

• Maurizio Rosi da Torino, Delitto d'amore.

Sezione Poesia

• Maria Accorinti da Nichelino (TO), Era mio padre;

• Massimo Apicella da Cumiana (TO), Tutto in un respiro;

• Paolo Barbagelata da Genova, Rivetti a dar forma all’ala;

• Giuseppe Bianco da Casoria (NA), Milano binario 21;

• Angelo Chiarelli da Padova, Funambolismi;

• Anna Maria Conti da Collegno (TO), Pagine di Guerra;

• Patrizia Cosenza da, Torino, L'addio di una madre;

• Antonio Costantin da Cantalupa (TO), Colli Euganei;

• Valeria D'amico da Foggia, Avremo;

14

• Luca Di Gianfrancesco da Roma, Deserto;

• Vittorio Di Ruocco da Pontecagnano Faiano (SA), Il bosco delle anime;

• Sergio Donna da Torino, Madonna fiorentina;

• Luciano Giovannini da Roma, Come Tex Willer;

• Alessandro Izzi da, Gaeta (LT), Kabul;

• Daniela Lazzeri da Torino, E dirsi Addio;

• Beatrice Lucchesi da Lucca, Noi due, poeti dannati;

• Andrea Mauri da Roma, La dittatura dell’amnesia;

• Pina Meloni da Nichelino (TO), Dite a Caino;

• Antonella Padalino da Alpignano (TO), Quel che resta dell’eternità;

• Roberta Pagotto da Pordenone, La casa dell’effimero;

• Giuseppe Raineri da Bergamo; Al tramonto;

• Fabio Rondano da Torino, Quando un uomo pensa un uomo;

• Rodolfo Settimi da Roma, Di molti grigi;

• Tristano Tamaro da Trieste, Nonna Olga.

La Giuria è lieta di riconoscere il buon livello dei testi inviati per la fantasia, la creatività, l’ispirazione e la scrittura.

Il presente atto redatto in data 5 ottobre 2022 viene firmato dal Direttore del premio letterario Dr. Danilo Tacchino e dalla Presidente Raffaella Spada.

Il Direttore letterario

Danilo Tacchino

presidente

Spada

15
La
Raffaella

■ Marcello Loprencipe - 1° premio prosa edita

Marcello Loprencipe

da

Sacrofano (RM)

Olmo

Editore Campi di Carta

Una storia intensa, che si svela a poco a poco attraverso il rapporto di amicizia e di affetto che si instaura tra due donne, inizialmente così lontane l'una dall'altra. E non solo per l'età. Marcello Loprencipe costruisce in un percorso emozionante - che ci porta nella realtà di una Roma diversa da quella in genere rappresentata nella letteratura - una delicatissima vicenda in cui le storie personali sembrano trovare un senso profondo anche nel rapporto con la Natura, con quell'Olmo simbolo di un legame infinito, destinato a durare nel Tempo. Un giudizio unanime quello della giuria che premia un romanzo costruito su più piani, su più tempi, ma su un unico grande tema che è in fondo quello dell'Amore, grande, puro, infinito.

16

Marina Rota da Torino

premio prosa edita - Marina Rota

Sotto le stelle di Fred

Editore Buendia Books

Si può esprimere qualsiasi tipo di giudizio per questo libro scritto da Marina Rota ma non certamente che “era piccolo così”. La penna ispirata dell’Autrice regala immagini poetiche che paiono refrain, perle narrative equiparabili a jazz ensemble, una trama seducente molto più del fumo e di quegli abusi di Fred Buscaglione con ghiaccio, soda e voglia di America. Che bello, anche per la giuria, salire sulla macchina del tempo, vivere accanto a miti e leggende che hanno segnato la loro epoca e respirare il clima di una società che aveva appena superato una seconda guerra mondiale e il futuro era più ricco di sogni che di convinzioni. Un plauso per l’Autrice e una ovazione per il grande Fred.

17

Claudio Rolando

da Giaveno (TO)

Peccato di gola

Editore Edizioni del Capricorno

Un romanzo noir, ambientato nella tranquilla cittadina di Giaveno, in provincia di Torino, dove i ritmi della vita quotidiana sono scossi da un evento inatteso e cruento: il cadavere di un curato viene ritrovato in canonica con un profondo taglio alla gola. Ma non basta, nel giro di pochi giorni il caso s’ingarbuglia quando, al primo morto, se ne aggiungono altri. Subito la paura, i sospetti e la diffidenza contagiano la gente spingendola ai comportamenti più strani. Toccherà al protagonista, Leo Delfos, indagare sugli omicidi e giungere alla soluzione. Un giallo scorrevole e avvincente, scritto con gusto dell’ironia, che non mancherà di emozionare il lettore fino all’ultima pagina.

18
Claudio Rolando - 3° premio prosa edita

premio prosa edita - Davide Rubini

Davide Rubini

da Borgaro Torinese (TO)

Le chiare intenzioni

Editore Ventura Edizioni

Un testo perfetto fin dalla copertina che si nasconde e ti confonde fin quando non sei entrato nel pieno delle vicende che vive il personaggio principale. La trama ispirata, più ancora del titolo del libro, volutamente spiazzante, contribuisce ancor più a ingarbugliare le tue aspettative. Perché in fondo, la vita è proprio così: un casino senza capo né coda che va però presa seriamente perché la libertà è proprio l’incosciente coscienza che deve organizzare il disordine con il quale si cerca di raggiungere la strada dei sogni nella speranza di esaudirne il maggior numero possibile. La giuria ringrazia Davide Rubini per la splendida chicca con la quale ha impreziosito questo Concorso.

19

■ Erica Bonansea - 5° premio prosa edita

Erica Bonansea

da

Torino

Grand Puy

Editore Golem edizioni

Una borgata di alta montagna, Grand Puy, è il teatro delle vicende di due fratelli e di un loro amico, dalle vacanze estive dell’infanzia e dell’adolescenza ad un ritorno inaspettato, dopo parecchi anni di assenza, in una notte di bufera di neve. Inizia così un serrato confronto tra i due fratelli che il destino aveva allontanati, alternati con tanti flash-back che narrano e intrecciano le storie estive degli anni passati con quelle del presente. I misteri sono tanti, troppe le domande, poche le risposte. L’autrice, con uno stile elegante e una narrazione intrigante, caratterizza i personaggi, mettendone in luce la loro personalità spiccatamente umana e emotiva. Per convergere infine su un’unica strada, uniti da un solo filo invisibile che li porta fatalmente ad incontrarsi e a dipendere l’uno dall’altro.

20

Una grande fluidità di scrittura per questo appassionato racconto che parte in realtà da una storia vera: quella di una donna che affronta qualunque difficoltà per inseguire il suo sogno, per raggiungere l'uomo al quale ha deciso di legare la sua vita. Una donna in viaggio per la Malesia, in un periodo terribile per l'umanità intera, nel pieno della Prima Guerra Mondiale. Sequenze quasi cinematografiche per questa storia romanzata che l'autrice, attraverso una forma espressiva molto accattivante, rende quasi visibile agli occhi del lettore.

21
Editore Neos Edizioni
Oltremare
da Torino
Franca Rizzi Martini
segnalazione di merito prosa edita - Franca R. Martini

■ Angelo S. Cannatà - segnalazione di merito prosa edita

Angelo Simone Cannatà

da Blera (VT)

Volevo essere Mogol

Editore Armando Curcio

L’opera con cui l’Autore Angelo Simone Cannatà partecipa a questo Concorso è pregno di una deliziosa vena umoristica tanto che parecchie volte i giudici hanno dovuto riguardare la copertina per esser certi che si trattasse di “Volevo essere Mogol” e non “Citarsi addosso” o “Saperla lunga” di quel tal Allan Stewart Königsberg più noto ai più come Woody Allen. Il premio con il quale lo Scrittore viene gratificato è il giusto riconoscimento alla sublime virtù che ha saputo trasferire in ognuna delle pagine di questo curioso capolavoro. La giuria si augura per l’Autore un portentoso presente e un altrettanto eccellente futuro anche economico perché, dopotutto, non si vive solo… “per una Lira”.

22

Il romanzo, ambientato a Santa Cristina in val Gardena nei primi anni Cinquanta, narra le vicende di una ragazza madre e del suo bambino illegittimo, per questo ripudiata dalla famiglia e dalla comunità moralista dell’epoca. Da adulto, come un moderno Conte di Montecristo, il protagonista cercherà di rivalersi contro coloro che avevano fatto soffrire la madre. Con uno stile dinamico e ricco di colpi di scena, l’autore affronta i temi dell’adozione, del caso e del destino, della vendetta e del perdono, fornendo una lettura avvincente e profonda che supera i confini del romanzo d’azione.

23
Editore Giovane Holden
Scandalo in Val Gardena
da Bolzano
Clambagio
segnalazione di merito prosa edita - Clambagio

■ Francesca Sassano - segnalazione di merito prosa edita

Francesca Sassano

da Potenza

Desideri liberati

Editore

I libri di Pan

Tre donne del nostro tempo. Sono loro le protagoniste di questo libro che viene definito come una libera creazione della fantasia da parte dell'autrice ma che certo può essere facilmente ricondotto a reali situazioni di vita. Tre storie sofferte, quelle di Angela, Micol, Nihhila, che evidenziano la pena di vivere in determinate situazioni di sofferenza, di emarginazione, di violenza.

Francesca Sassano, nei suoi tre racconti, si serve di una forma espressiva quanto mai incisiva, essenziale, che ben si adatta all'intensità delle storie inserite.

24

1° premio sezione volumi di poesie - Stefano Vitale

Stefano Vitale

da Torino

Si resta sempre altrove

Editore

puntoacapo

Si resta sempre altrove, di Stefano Vitale, sono scarne parole che lasciano il segno lieve di una scia nel mare, come un gozzo che esce dal porto, su acque calme, ma si sa il tempo può cambiare repentinamente. Amo molto questo tema dell’altrove in poesia perché si può essere in altri mille mondi, fermi o mossi come le gocce di pioggia che cadono nel posacenere lasciato, come a perdersi, nel dehor di un bar di provincia. Malinconia e gioia s’intersecano come bandiere strappate nella vita che urla. Sempre in bilico tra provvisorio e certezze auspicate. Amo questa poesia asciutta e calibrata, quasi tecnica, mirata alla sostanza terrena. Mi piace fare risonanza e leggervi a voce alta: Arrembanti ginestre/ arrampicate sul muro/ a strapiombo sul mare/ antichi fiocchi di luce.

25

■ Raffaele Floris - 2° premio sezione volumi di poesie

Raffaele Floris da Pontecurone (AL)

La macchina del tempo

Editore puntoacapo

Ivan Fedeli, nella prefazione, definisce acutamente “La macchina del tempo” un esaltante esercizio di “felicità mentale”. Ci fornisce utilmente questa indicazione all’inizio della prefazione della silloge di Raffaele Floris. E il lettore viene come stregato dalla eleganza della metrica dell’autore alessandrino nel percorrere gli instabili territori di frontiera del tempo. Si viaggia su una macchina alimentata dal dolore, dalla provvisorietà, dalla lacerazione. Inquietante quanto sorprendente la metafora-chiave per illustrare la mancata conoscenza del tragitto del tempo: ne sono protagonisti sconfitti i pipistrelli, “araldi del sapere notturno”, in ultima analisi “rabdomanti smemorati”. Lettore, tu prosegui nei progetti poetici di Floris: lasciati cullare dal silenzio vacillante nelle vaste zone d’ombra, riuscirai a trovare, perché no, l’onirico trucco strategico della macchina del tempo.

26

premio sezione

Vincenzo Di Giulio

da Roma

Anima Mundi

Editore puntoacapo

Vincenzo Di Giulio volteggia, divaga, di verso in verso, tocca l'impalpabile e lo rende visibile. Racchiude l'irrazionale in una "Sezione aurea", dove "l'uno si somma all'ignoto". Il suo confine è "il finito che racchiude l'infinito"e questo è insito nei secondi come nei millenni. Il momento è "l' innesto di un tempo nel tempo fuggente",che ci affianca e supera. L'istante è un bacio. La nostra esistenza è una serie di ossimori, legittimati da quello che non siamo, come la luce nel buio che pare sfuggire alla luna. Noi "siamo germoglio (...) siamo vagito del cosmo", attimi tra "l'essere presente e il divenire niente" e nel nostro annullarsi ritroviamo il Dio dimenticato. L'Autore gioca tra improbabili ipotenuse stellari e "capriole di fumo", prendendo spunto, tra le altre e non a caso, dalle opere di Italo Calvino e Giuseppe Ungaretti

27
volumi di poesie - Vincenzo Di Giulio ■

■ Matteo Casale - 4° premio sezione volumi di poesie

Matteo Casale

da Camaiore (LU)

STUDI OP. 9

Editore puntoacapo

Gli Studi OP. 9 di Matteo Casale sono emblema di vertigine, perché durante la lettura il nostro ci farà salire verso vette altissime. Una poesia leggera ma densa e definita da cesure e tagli netti, amabile ma anche secca come una ferita alla memoria. I versi rappresentano suoni di vita eterna e crudele, desiderio di stelle dilaniate da esplosioni primordiali. Ciò che mi ha fatto innamorare di questa poesia è l’uso della parola sempre definita e sprigionata per essere dolce come carezza che aspira ad essere tutto con il fine di migliorare il mondo. Mi piace fare risonanza e leggervi a voce alta: Ho nuvole esauste per l’insonnia/ di notti che han visto troppe stelle/ ferite di sogni ed orizzonti/ del sangue del sole quando piange

28

premio sezione volumi di poesie - Alfredo Rienzi

Alfredo Rienzi

da San Mauro

Sull'improvviso

Editore Arcipelago Itaca

La poesia di Alfredo Rienzi è ricercata, ma mai leziosa, ricca di lemmi e termini non usuali. É uno scavare continuo con domande e risposte (da estrarre) in pochi versi. La curiosità del "fanciullino", di Pascoliana memoria, cede il passo all'osservazione del ricercatore che va oltre all'apparire nel "tentativo di comprensione del lampo dell’evento", come dice lo stesso Autore. Nella prima parte del libro sono schegge di luce, dei flash. Attimi che il poeta riesce a fissare in un immaginario obiettivo per poi sezionarli in particelle di poesia.

Nella seconda parte dell'opera, "Di sesta e di settima grandezza", l'obiettivo si allarga alle stelle, alla luna, ai suoni e ai cinguettii degli uccelli, al "leggero sibilo" di un astronave dove "si restò, come cavità nell’albero".

"Ho chiuso gli occhi e aperto l’obiettivo" . Così, come chiosa in "Fotografia di una rondine" l'Autore si pone dinnanzi all'improvviso

29

M. Grazia Bajoni - segnalazione di merito volume di poesie

Maria Grazia Bajoni

da Monza (MB)

Il giorno della Candelora

Editore ETS

Maria Grazia Bajoni, dalla nobiltà del suo retroterra culturale, trova una raffinata pista poetica nel giorno ambiguo della Candelora, il “festum candelarum”, la luce per illuminare la gente. Siamo, si sa, il 2 di febbraio, giorno in cui si celebrano, 40 giorni dopo il Natale, la Purificazione di Maria Vergine e la Presentazione del figlio, Gesù, al Tempio, giorno anche di vertiginosi incontri fra la conclusione della durezza dell’inverno e l’inizio della leggerezza della primavera. La Bajoni opta per la “pars destruens”: le parti si invertono, la madre non trova alcuna luce nell’ostico cammino della vita e quindi non si purifica; la figlia colleziona nuove esperienze distanti da angosce esistenziali e quindi deraglia dal suo iter religioso. Le luci delle candele si affievoliscono, la primavera è ancora lontana.

30

segnalazione di merito volume di poesie - Raffaele Manduca

Raffaele Manduca

da Catania

Restò solo voce

Editore NULLA DIE

In un mondo che si è fatto così difficile per le responsabilità di uomini folli e irresponsabili, qualche mese fa ho scritto: “Prima i virologi, adesso gli esperti di geopolitica, quando ci vorrebbero soltanto i poeti”; Bene, ci vorrebbe Raffaele Manduca con Restò solo voce, i suoi versi sono aperti e immediati e accompagnano il lettore in un bel mondo; è tutto ciò che ci serve per migliorarci dentro. Come dice Raffaele nella prefazione: “Queste voci, questi silenzi, questi giorni sono figli della notte e dell’ombra”. Il suono della sua poesia è come essere in un giardino fiorito con il suono che arriva diretto all’anima. Mi piace fare risonanza e leggervi a voce alta: restò solo voce/ passero impagliato, aggrappato/ a riflesso di luna/ costretto in rivolo d’inchiostro

31

■ Dario Marelli - segnalazione di merito volume di poesie

Dario Marelli

da Saregno (MB)

L'infinito dentro

Editore Montedit

"Tu che sei l’infinito dentro (...).raccontami il vento che spazza via le nubi le gambe esili ed i pensieri duri".

Dario Marelli apre così la raccolta "L'infinito dentro". Nella stessa poesia,poco versi dopo, affiora "un orizzonte nuovo" per poi concludere con "Nelle ferite della terra il passo necessario alla ricerca del mar". Questa è la sintesi e la traccia di tutta la silloge.

L'infinito dentro è anche "l'arte di creare poesia da sparute minutaglie"che però non lo preserva da "un'altra sera senza quiete". Momenti dolci e amari vissuti, si alternano. Il credere di essere ad un passo dal possedere la felicità e accorgersi che questa è "ai margini del nulla". Quel nulla che lo spinge ad alzare lo sguardo verso nuovi orizzonti, "un nuovo passo, oltre il cono d’ombra" per ritrovare "la luce del possibile".

32

segnalazione di merito volume di poesie - Carmelo Consoli

Carmelo Consoli

da Firenze

Divino disincantato

Editore

Giuliano Ladolfi

Con “Divino disincanto” siamo in presenza di un romanzo poetico sulla scia di “La camera da letto” di Attilio Bertolucci. Ma se il parmense ci consegna un’epopea di ampio espiro, dal profumo aulico, l’autore catanese ci riversa la sua anima ribollente dell’Etna che ha tuttavia la fortuna di placarsi con gli aromi dei gelsomini, il fuoco della fantasia degli dei, il battito curioso dei fanciulli, dove la poesia fa da padrona e apre le porte alle eroiche bizzarrie giovanili. L’età vichiana degli uomini di Carmelo Consoli ha i profili della Garfagnana, sono tramonti succosi d’amore vero, ma dal respiro fuligginoso. Si desidera il miracolo del ritorno all’adolescenza, regno assoluto di eterna bellezza. Chi ci guadagna è la poesia che viaggia dolcemente tumultuosa.

33

Maurizio Aragno - menzione d'onore saggio edito

Maurizio Aragno

da

Torino

Il confine italo-francese

Da Cavour a Macron (Passando per Totò e Fernandel)

Editore

Gaidano & Matta

Un libro, che per gli appassionati della storia sabauda e francese è tutto grasso che cola nel comprendere le difficoltà e le discontinuità di un confine che a livello storico ancora oggi fa discutere, come la diatriba della collocazione del monte bianco o la frammentazione di paesi ubicati ambiguamente tra le due nazioni, che fa ricordare con ironia il film con Totò e Fernandel: La legge è legge, del 1958. Una storia che da metà 800 arriva sino a noi.

34

Tesi di dottorato

Attraverso l'analisi puntuale di due scrittrici inizio 900 come Paola Masino e Alba de Cespedes, nella sua tesi di dottorato Arianna Ceschin rileva una più completa visione del mondo femminile nel suo sviluppo più completo ed espressivo, e specialmente in letteratura, attraverso un'analisi profonda dei sensi artistici, quale la visione, la scrittura e il giornalismo, attraverso la conclusione che la donna ha comunque la colpa di non aver sfruttato in maniera adeguata le opportunità di poter migliorare la propria condizione, sia da un punto di vista morale che economico.

35
Preferisco sbagliare tutto ma buttarmi a capofitto
da San Pietro di Feletto (TV)
Arianna Ceschin
menzione d'onore saggio inedito - Arianna Ceschin

Franco Chiavegatti - menzione d'onore saggio edito

Franco Chiavegatti

da Ostiglia (MN)

I Monicelli

Storia dell'Italia del '900

Editore Editoriale Sometti

Un testo di oltre 400 pagine, ben calibrato nel narrare i primi 18 anni di storia d'Italia del 900, attraverso la figura del regista MARIO, del fratello giornalista Giorgio e del padre Tomaso MONICELLI, anch'esso giornalista e scrittore. Un libro nel quale appaiono non solo fatti di cronaca e di politica, ma anche particolari e pregnanti eventi culturali.

36

Nell'analisi del metodo teatrale del famoso Maestro russo Stanislavskij, l'autore ci fa partecipi nell'interpretazione delle parti degli attori attraverso la ricerca della verità, e la capacità di ben amalgamare le componenti dello spirito con quelle del corpo.

37
Editore TRALERIGHE LIBRI
Il metodo Stanislavskij
da Bisceglie (BT)
Francesco Sinigaglia
menzione d'onore saggio edito - Francesco Sinigaglia

Sezione racconti inediti

38

1° premio prosa inedita - Paolo Casella

Paolo Casella

da Sapri (SA)

Febbre d'estate

Déstati.

Sei un brandello di nuvola trafitto dall’aurora: spicchi un volo di favola, svanisci dopo un’ora.

Fa’ presto.

Tenue come una lunula nel buio che già affiora, con fil di voce tremula chiedi un minuto ancora.

Adesso dormi.

24 giugno 1989

Mi sento inquieto, ultimamente. La penombra del fondale mi dona conforto, mi manca piacevolmente il respiro. Tiepidi fasci di luce m’investono e proiettano una rete dorata che oscilla tra gli scogli e le conchiglie. Una stella marina si cela in un cespuglio di posidonia. Mi manca piacevolmente il respiro. Un guizzo di vita mi raccoglie e mi tira verso l’alto. La luce non fluttua più, m’investe il color fiordaliso del cielo. La salsedine m’invade la gola, le onde mi cullano. I gabbiani stridono e

39

volano in stormi, una vela ricalca la linea dell’orizzonte. Ancora una volta la vita mi è rimasta aggrappata come un paguro alla conchiglia. Sai, Bianca, è una sensazione paradossale quella che sto esplorando. Non mi sento del tutto vivo; mi ricordo chi sono solo in quegli istanti in cui la vita mi sta abbandonando, quando mi manca piacevolmente il respiro e non so se saprò giungere in superficie prima di annegare. Dicono che quando hai quindici anni i dì e le notti durano settimane e il tempo è una risorsa inesauribile, eppure io mi sento come un fanciullo che gioca per la prima volta sulla spiaggia. Il tempo mi sfugge come una manciata di sabbia dagli spiragli tra le dita; mi ritrovo quando tramonta il sole che il giorno è volato e non so dove si sia perduto. Ecco: quando mi rifugio nel mio nido in fondo al mare, il tempo rallenta e aspetta che lo raggiunga. Mi sembra quasi di riafferrarlo, io che in questi pomeriggi di giugno sono indeciso come la bassa marea che disegna una riga di sale sugli scogli. Chissà se ti ricordi. È tra questi scogli che quel giorno naufragammo con la barca a remi. Non so quanto impiegammo a toccare la riva: ancora non sapevamo misurare il tempo, ma avevamo già scoperto che nulla poteva legarci come il sapore struggente dell’avventura. Giungemmo su una spiaggia minuscola, una lingua di sabbia su nostra misura a delimitare il mare dal bosco. La costa s’impennava tra le ginestre, le cicale cantavano, il profumo del rosmarino sovrastava a sprazzi quello della salsedine. Riprendemmo fiato seduti in riva al mare, incantati dai delfini che saltavano davanti al tramonto come zampilli su un rilievo di bronzo. Sai, quando cerco un posto per annegare torno sempre alla nostra caletta senza nome. Potrei raggiungere spiagge da sogno come la Molara o la Resima, o perfino Baia Infreschi; eppure scelgo sempre la stessa, minuscola caletta dove ho una delle memorie più felici. Pensandoci bene, non ho memorie felici di cui tu non faccia parte. Ti ricordi, Bianca? Le nostre avventure erano interminabili, i pomeriggi si dilatavano e il sole non tramontava mai, il mondo era nostro e sembrava di vivere in un sogno; prima che giungesse la malattia.

40
8 luglio 1989

Le tende color miele dell’ospedale chiudono la vista sul mare e filtrano la luce del tardo pomeriggio. La voce insicura di Lucio Battisti si spande dallo stereo. Lo squillo dell’elettrocardiogramma ne scandisce il ritmo, ma fatica a tenere il tempo.

Hai la pelle pallida come la luna, la mano un po’ più fredda di ieri. Mentre leggo le poesie di Leopardi che tanto ami, quasi mi sembra che arricci gli angoli della bocca. «Dottore, ce la farà?» La voce mi esce tremula, acuta.

Il primario sospira e mi sfiora la spalla.

«No, ragazzo. A meno che non si verifichi un miracolo, Bianca non si sveglierà».

«Non può fare proprio nulla?»

Scrolla le spalle. Impotenza e rammarico negli occhi paterni. «Mi hai già posto questa domanda. Trovare il donatore per un trapianto di cuore è quasi impossibile. Bianca è in graduatoria per la donazione, ma si trova troppo in basso». Si aggiusta gli occhiali, sospira ancora. «La vita sa essere terribilmente amara. Tu torna quando vuoi a leggerle il suo libro. Ormai possiamo solo rendere più dolce il suo riposo». Trascino i piedi sotto il porticato all’ingresso e sperdo lo sguardo al confine tra cielo e mare. Sai, ogni pomeriggio che passo accanto al tuo letto imparo qualcosa. Oggi ho capito questo: delle tante facce della natura umana, la fragilità è quella più caduca, quindi la più preziosa.

Per la via di casa mi scorre di fianco una ringhiera familiare, che circonda uno dei luoghi dove si snodano le nostre prime memorie. Ti ricordi la vecchia scuola elementare, con l’aiuola di gerani e il melo in fondo al cortile? Era lì che giocavamo insieme per la prima volta, quando non desideravamo altro che i nostri genitori tardassero all’uscita per poter correre fino al melo e arrampicarci un minuto sui rami. Quando poi tornavamo a casa con le ginocchia sbucciate e gli occhi contenti, ci sentivamo arricchiti di qualcosa che non potevamo comprendere, e forse tutt’ora non ne siamo in grado. L’amicizia, direbbe la maestra Margherita; l’amore, oserebbe il professor Proietti. Saranno davvero due cose distinte? E chissà come – tra una corsa al melo e un’avventura per mare – ci siamo ritrovati una mattina nell’edificio di fronte ad affrontare due anni di ginnasio. Ricordi come ti stringevo la mano sotto il banco per

41

farla smettere di tremare, quando la professoressa di lettere si guardava attorno come una vecchia volpe e ti traeva in inganno con le sue domande astute? Mi piace pensare che fossimo sempre gli stessi, io e te, anche se non correvamo più nel cortile e non ci arrampicavamo più sul melo, ma attendevamo la ricreazione e passeggiavamo nei corridoi deserti, e ci rubavamo un bacio o due nascosti dai distributori di bibite. Non so dove troverò il coraggio di affrontare da solo il liceo. E se per abitudine ti cerco accanto a me, trovo solo un abisso di cui non vedo il fondo.

22 luglio 1989

Tutto è iniziato con una febbre d’estate dopo un tuffo dalla scogliera in fondo al porto. Il tempo di un gelato sul lungomare e la tua fronte già scottava, poi nella notte ti sei addormentata per sempre. Come potevo sapere che quel pomeriggio ti vedevo ridere per l’ultima volta? Sai, non so perché non ti ho mai detto che ti amo. Forse perché non avevamo bisogno di stipulare un contratto; l’essenziale ce lo leggevamo in fondo agli occhi ogni volta che incrociavamo lo sguardo. Le parole servono a consolare le coscienze tormentate dal dubbio, quelle che fuggono il silenzio come un presagio di sventura.

Come vorrei, Bianca, che tutti conoscessero la pienezza dei nostri silenzi. Trascorrevamo pomeriggi a bearci del sole che ci splendeva sul viso, inspirando il profumo del mare che invadeva il bosco, e mai sentivamo il bisogno di rompere quel prezioso silenzio. Le nostre ore erano permeate da una tacita, limpida serenità.

È solo quando ti sei addormentata per sempre che ho compreso perché tante anime ne provano angoscia. Quando mi ha sfiorato un silenzio diverso: vacuo, funesto, ineluttabile come un baratro d’ombra.

Quando ricerco il silenzio placido dei miei ricordi, ripercorro i nostri passi sul monte Bulgheria, la leonessa assopita che veglia sul Cilento. Il riflesso del sole sul mare era la sola lancetta che scandiva le nostre ore. Tra i fiori di zafferano e la lavanda selvatica, tu correvi a cogliere i soffioni e mi apparivi fragile e indomita come una primula di Palinuro sbocciata dalla roccia. Il sentiero si arrampica ai faraglioni, dove la pioggia e il vento

42

hanno scolpito il massiccio con pazienza secolare, e si sporge come un balcone sul golfo di Policastro. Il mare si staglia prorompente che puoi sfiorarlo tendendo la mano. Se socchiudi gli occhi, il Cristo di Maratea emerge all’orizzonte. Tra le tante cose che abbiamo imparato insieme, abbiamo scoperto che la montagna sa offrire una nuova prospettiva sul mondo. Quando sei più vicino al cielo che alla terra, nulla contano i dilemmi umani. Cosa siamo, in fondo, se non un misero istante nell’infinità del tempo? Verranno altre civiltà –forse altri mondi – quando l’umanità si sarà estinta da un’era. Cos’è allora la morte, quando la nostra vita appare come uno sbuffo di vento in un deserto? Che diritto abbiamo di soffrire, quando siamo una perturbazione impercettibile di qualcosa che forse nemmeno esiste del tutto?

E proprio quando ci si sente inghiottire dall’immensità del tempo, la più grande consolazione è il più piccolo nido che si possa concepire, come un sacco a pelo rattoppato da cui esplorare le sfumature della Via Lattea. Ti ricordi, Bianca? Ogni notte di san Lorenzo scalavamo il monte Bulgheria, ci stendevamo nella radura al limitare del bosco e cercavamo le stelle cadenti, ed esprimevamo fino all’alba lo stesso desiderio. Triste destino, non averlo visto avverato. Mentre, sopra di noi, Perseo dava vita al Pegaso alato e traeva in salvo Andromeda, tu chiudevi gli occhi e ti adagiavi sul mio petto. È per questo che bramo tanto il mare: le onde s’infrangono sulle spiagge del nostro golfo e si ritraggono come un respiro perpetuo; nella nostalgica melodia che effondono ritrovo una parte di te che si addormenta sul mio cuore.

6 agosto 1989

Hai il corpo di donna, il volto di bambina. Sei l’euforbia che riveste le nostre scogliere, con le gemme verdi che tendono appena al giallo e pare sempre sul punto di sbocciare e poi non sboccia mai; invece è già fiorita e nessuno se n’è accorto, e sotto i fiori sta già appassendo. Mentre dormi sul tuo letto sei incantevole e imperturbabile come una bambola di porcellana, ma non riesco a scacciare un pensiero che nel profondo mi turba più di tutti. Come posso sapere se, sotto la porcellana che riveste il tuo viso, ogni fibra del tuo corpo non implora di porre fine a questo limbo?

43

Quando pensieri affilati mi trafiggono la mente, se non riesco a scacciarli mi resta la speranza di coprirli con altri più nitidi; e nulla è nitido come le memorie di noi due che crescevamo insieme. Così mi rifugio in soffitta e mi lascio naufragare negli album di ricordi che i nostri genitori hanno custodito. Sono posti speciali, le soffitte che custodiscono ricordi. L’aria è permeata dall’odore del legno antico, i raggi di sole filtrano a fasci palpabili e mi sento sereno come nel mio nido in fondo al mare, come se potessi riafferrare il tempo che è volato. La memoria più preziosa è quel giorno di settembre in cui ci avventurammo alla grotta dell’Acqua, dove nascosti dalle stalagmiti giganti chiudesti gli occhi e posasti le labbra sulle mie. Mai come quel giorno ho amato quella striscia di paradiso che è la costa della Masseta, dove l’erica e il mirto discendono dalla collina degli ulivi fin sul dorso degli scogli, e protendono le fronde al largo come a voler sfiorare le barche dei pescatori. Mi chiedo se in autunno mi guarderai percorrere i nostri sentieri serenamente seduta sulle panchine che dalla collina si sporgono sul mare. D’altronde, se esiste un dopo non posso immaginarlo diverso dal pianoro di Ciolandrea. Quando m’immergo nelle memorie felici, ne divento avido come un tasso del miele. Tra sedie a dondolo e scaffali impolverati, la soffitta nasconde scatole e cartelle senza fine. Molte appartenevano ai nonni: i loro ricordi m’invadono gli occhi mentre cerco album di fotografie e i disegni che hai realizzato per me coi tuoi acquerelli. Quanto amo la tua Venere di Botticelli, che come te affiora tra il vento e le onde e pare si possa dissolvere come spuma in riva al mare. Mentre il sole tinge d’ambra l’orizzonte, m’imbatto in una piccola scatola, la più antica di tutte, che giace rinforzata dal fil di ferro. Sono sicuro di non averla mai aperta. Sciolgo l’occlusione e mi trovo tra le mani qualcosa che mi lascia senza fiato: un vecchio revolver arrugginito. Il nonno non era forse ufficiale di marina? Allora risale alla seconda guerra mondiale. Sono rimasti due colpi in canna, chissà se funziona ancora.

Nascondo il revolver nello zaino di scuola e corro giù per la discesa che porta al mare. Le onde della marea che si alza s’infrangono sulla riva, un gabbiano riposa sugli scogli all’ultima luce del giorno.

Rimuovo la sicura e punto il revolver verso il mare. Un’esplosione

44

mi assorda, dalla canna s’innalza un velo di fumo e polvere che odora di bruciato. Il gabbiano è volato via, il proiettile è scomparso tra le onde. Che idea bizzarra: quando le mie stesse ossa saranno cenere, tutto ciò che avrò lasciato al mondo sarà questo proiettile che viaggerà per mare in balia delle correnti. Dunque, è avanzato un ultimo colpo. Che sia questo il segno che aspettavo? Forse ora posso liberarti dal tuo tormento. 19 agosto 1989

L’estate sta per terminare, ma quest’anno non ho collezionato nessun ricordo. Dev’essere la sorte di chi si lascia annegare nel passato.

Le palme ondeggiano sospinte dal grecale e si affacciano sul porto gremito di barche e garzoni che legano funi alle bitte.

Le luci del sabato sera mi circondano sul lungomare di Scario mentre il tempo continua a sfuggirmi dagli spiragli tra le dita. Attorno a me scorrono volti abbronzati e sorridenti, e vuoti. Corrono verso il molo, affollano i lidi e le discoteche. Sai, non provo pietà per le persone sole, ma per quelle avide di divertimenti, perché penso a quale intollerabile vuoto si sforzino di colmare. Non potrò mai dirtelo, ma mostrandomi un’alternativa a questa sconclusionata frenesia mi hai salvato la vita. Come vorrei, adesso, poter salvare la tua.

Volto le spalle alle barche e mi allontano dal porto. Lancio uno sguardo alla scuola elementare e al nostro ginnasio, e m’immergo nel sottopassaggio della stazione. Stasera trovo conforto nella panchina di legno sotto la pensilina del binario morto, di fronte alle rotaie arrugginite che percorrevamo fino alla galleria mentre aspettavamo il treno per le nostre gite.

Sai, non avevo mai colto il fascino delle piccole stazioni, quelle dove gli altoparlanti funzionano a metà e c’è sempre un anziano che getta il pane ai pesci rossi. Sarà che mi manca scoprire cose nuove insieme, e in momenti come questo mi basterebbe condividere con te qualcosa di semplice, qualcosa di antico. Cosa ne saprà mai la gente avida di distrazioni, della compiutezza che dona condividere la semplicità di un attimo? Una lacrima s’infrange sulla banchina.

È davvero questa la vita, Bianca? Vedere morire tutte le persone che ami, a meno che tu non muoia per primo? Mi chiedo perché ne parlino tutti come un dono – addirittura un miracolo –quando appena sotto la superficie si cela questa condanna. Non

45

posso tollerare che tu stia soffrendo, ma come posso portarti via la cosa più preziosa che hai? Mentre ci penso, l’abisso non cessa di chiamarmi. Ma ormai ho preso una decisione. Non so dove troverò il coraggio, ma devo, in qualche modo, dirti addio per sempre.

3 settembre 1989

Mancano pochi giorni all’inizio della scuola. Il cuore mi vibra sempre più forte mentre nascondo il revolver nello zaino e m’incammino lungo la via. La brezza di settembre mi sfiora il viso e mi accarezza le braccia. Il mare tuona e biancheggia sulla scogliera, il marciapiedi s’insinua sotto il porticato dell’ospedale. Quest’estate l’ho percorso tante volte che potrei ritrovare le mie orme nel cemento. L’odore dei camici e dell’antisettico m’investe fin dalla sala d’aspetto; nel corridoio incrocio lo sguardo paterno del primario. Lui non sa cosa sta per succedere. Sarà una doccia ghiacciata, quando lo scoprirà. La porta della camera cigola, la socchiudo lentamente. Bianca, sono di nuovo accanto a te. Lo sai che avrei dato tutto, per un’altra avventura insieme. Chissà se nei tuoi sogni sei riuscita a viverla almeno tu, per tutti e due. Le tende color miele, così sbiadite che potrebbero svanire, lasciano filtrare un raggio di luce palpabile come nella soffitta e nel mio nido in fondo al mare, dove il tempo cessa di sfuggirmi e non devo più affannarmi di tenere il passo. Che strano, comincia a mancarmi piacevolmente il respiro. Sai, il pensiero della morte mi ha angosciato per tutta l’estate, eppure ora che l’ho abbracciato non mi spaventa più. Mi appare perfino soave, come se la fine di questo limbo fosse la cosa più dolce che possa desiderare.

Accarezzo il grilletto, la canna del revolver mi solletica i capelli. Stringo in tasca la lettera su cui ho battuto a macchina la mia ultima volontà.

Ti ricordi? Ti ho promesso che il mio cuore avrebbe battuto solo per te. Quando il trapianto sarà ultimato, accadrà davvero. Mia amata Bianca, ti auguro tutta la felicità che io ho perduto. L’estate è finita, ma la tua vita può ricominciare.

46

Per Antonio Racana, che mi ha donato un’amicizia preziosa senza mai violare la mia solitudine

Elegia di un sentimento che oscilla tra la nostalgia dellapassione trascorsa e il dolore d'una malattia implacabile, fino auna chiusa sorprendente che sublima lo slancio interiore in unsupremo, totale sacrificio.

47
••

Tina Caramanico - 2° Premio prosa inedita

Tina Caramanico

da

Abbiategrasso (MI)

I tre giorni che sono stata madre

Lunedì 20 giugno

Stamattina mi sono chiusa in bagno, appena i miei sono usciti di casa, e ho fatto il test di gravidanza. L’avevo comprato venerdì sera, infilandomi in farmacia quando ormai mancava tipo un minuto alla chiusura. Non c’era nessuno, tranne il farmacista giovane, parecchio scocciato per la mia apparizione a un pelo dal fuori tempo massimo. “Desidera.” mi ha chiesto, senza nemmeno il punto interrogativo. “Eh. Vorrei, un attimo, lo cerco io.” ho risposto, ricordandomi dopo un secondo di panico che di solito i test di gravidanza li tengono esposti, e prenderlo io e pagare semplicemente mi avrebbe risparmiato quello scambio di due-tre battute imbarazzanti, indispensabili nel caso avessi chiesto a lui il prodotto (Quale preferisce? Sa come si usa? Ne ha già usati prima di oggi? Quanti giorni di ritardo? O, peggio di tutte: Quando è stato che avete fatto la frittata?).

Ho girato tra gli scaffali, mentre lui sbuffava impaziente e senza nessuna vergogna dietro il banco, e infine ho adocchiato quelli che cercavo, esposti proprio sotto i preservativi: un modo come un altro di farti sentire cretina. Stavolta t’hanno inguaiato, la prossima volta però fatti furba. Che poi ci sono tanti motivi per ritrovarsi il venerdì sera in

48

farmacia a comprare un test di gravidanza, ma essere cretine sì, bisogna ammetterlo, è quello originario e fondamentale. “Posso aiutarla.” ha chiesto il giovanotto col camice e senza punti interrogativi, sempre più sfinito e desideroso di strascinare giù anche per quella sera la benedetta serranda e andarsene a casa a vedere la fidanzata, o la tv.

“No no, fatto.” Ho detto io agguantando un prodotto a caso tra i milioni di marche disponibili e portandolo con frettolosa riservatezza alla cassa.

Pagato, incartato, infilato in borsa, lasciato lì per due giorni e tre notti.

Non che non ci abbia pensato, ovviamente. Posso dire con grande tranquillità di non aver pensato ad altro mentre studiavo, mangiavo, dormivo, parlavo di varie ed eventuali e perfino mentre baciavo Gabriele, il mio ragazzo. Correo, ma che non sa ancora nulla, perché prima di prendere la sua vita per mano e sbatterla al tappeto di qua e di là come uno spietato karateka devo capire io stessa dove voglio andare a parare, con questa storia.

Ci ho pensato anche mentre dormivo, a giudicare dai sogni che ho fatto per tre notti e in cui sono stata madre amorosa, madre rinunciataria, non madre con un grande sospiro di sollievo (mi tornavano le mestruazioni e per fortuna era tutto un sogno). Ah, no. Non era un sogno, dovevo fare il test. E così, stamattina, l’ho fatto. Ci ho messo mezz’ora a leggere tutte le istruzioni e i consigli per l’uso, che poi, ho scoperto, si risolvono in tre sole parole: ritardo, pipì, righetta rosa. Il ritardo ce l’ho, ormai più di una settimana. La pipì l’ho fatta, giusta sul tampone. Righetta rosa: c’è. Oddio, sbiadita da morire. Quasi non si vede. Ma, a guardare bene, c’è. C’è. Sono incinta. Non era un sogno.

Oggi non ci vado, all’università. Devo stare sola e capire. Ho 23 anni, sono giovane, ma non abbastanza per dare la colpa di quello che è successo all’adolescenza. So come si fa, a fare un figlio, e so come si evita. Non era la prima volta. Non era il momento. Eppure è successo lo stesso. Avevo passato una brutta giornata, di quelle così. Non era capitato mica niente di grosso, solo che avevo dormito male, avevo studiato meno di quello che avrei dovuto, con un esame a giorni, volevo stare a dieta che mi sta venendo un culone così,

49

a furia di panini, e avevo saltato il pranzo, era brutto tempo e pioveva da una settimana. E finalmente era venerdì, così la sera è arrivata e sono uscita con gli amici. Gabriele era nervoso, mi dava il tormento con le cose sue, nemmeno si accorgeva che io avevo la luna storta e non avevo voglia di starlo a sentire. Avrei voluto un abbraccio, un po’ di tenerezza, della cioccolata, cose così. Giravano birra e superalcolici, ho preso quelli. Non sono una che beve per abitudine, ma qualche sera ci vuole. E quella sera, al terzo giro, stavo decisamente meglio: mi divertivo e non pensavo a niente, basta tristezza. Anche Gabriele era cambiato, rideva quando dicevo sciocchezze e mi baciava come si deve. Tutto bene, una meraviglia. Siamo finiti a letto, ci siamo divertiti parecchio. Ma proprio parecchio, da quello che ricordo.

Adesso però devo decidere cosa fare. Se fare finta che questa cosa che è successa non sia successa, non sia importante, informarmi, prendere i dovuti provvedimenti e ricominciare la mia vita normale, col mio ragazzo a cui voglio bene abbastanza, l’Università, la laurea in Giurisprudenza, un lavoro e un futuro piuttosto interessante, se tutto va bene. Oppure lasciare che questo piccolissimo coso mi cresca nella pancia e poi nasca, con conseguenze perlopiù imprevedibili. Solo una deficiente assoluta sceglierebbe la seconda opzione, diciamocelo. Solo che io a questo affare che mi naviga dentro già sono affezionata, e non chiedetemi perché.

Mi viene da piangere. Allora tiro fuori il test di stamattina dalla borsa e me lo riguardo, e resto qui, come un’imbecille, a parlare con una righetta rosa che poi, se non strizzi bene gli occhi, nemmeno si vede.

Martedì

21 giugno

Gabriele mi guarda a bocca aperta. Gliel’ho appena detto, senza tante manfrine: “Sono incinta.”

“Ma abbiamo usato sempre il preservativo.”

“Una volta no.”

“Occazzo. Va beh, ma una volta sola” “Sono incinta.” ripeto pazientemente. Capisco che è sconvolto,

50

di scemate ne ho pensate parecchie pure io, all’inizio. Gli devo dare tempo.

“Ma sei sicura? A volte i test sbagliano.”

“Sono sicura. C’è la righetta. I test sbagliano nel senso che sei incinta, ma ancora non si vede. Se esce positivo è positivo.” “Ma”

“Ma che? Vuoi sapere se è tuo? È la prossima domanda standard del maschio stronzo medio; le altre le hai già fatte tutte.” Eccavolo, adesso il tempo te l’ho dato. Fattene una ragione. “Scusa. È vero.” Sorride e per un attimo mi illudo che sia felice. Che sia un imbecille come me, la mia anima gemella. Ma purtroppo dopo un po’ ricomincia: “Comunque bisogna andare dal dottore, per essere proprio sicuri.”

Sto per mandarlo a quel paese, ma continua e peggiora la situazione: “E per vedere come si fa.”

“Come si fa cosa?” chiedo, torva e minacciosa. “A fare l’interruzione di gravidanza.”

Lo fisso e lo odio, moltissimo. Mi crolla tutto il futuro addosso: è pesante, fa male. “L’aborto.” precisa, come se io fossi sorda o straniera. O cretina. Respiro, perché sono una brava ragazza e non posso ucciderlo, non subito. “Ma io lo voglio, il bambino.”

Mi guarda e forse non capisce: “Come?” chiede con gli occhi vuoti.

“Non ho intenzione di abortire. Ho deciso che lo faccio, questo bambino.”

Continua a tacere, sembra stia per venirgli un colpo.

Io non sopporto le persone flaccide, quelle che non sanno da che parte stare quando è necessario prendere posizione.

E così capisco finalmente che uno che ti piace abbastanza, non ti piace abbastanza. Mi alzo e mi allontano, mentre lui continua a emettere silenzi inopportuni e sguardi persi. Io e il piccolo coso invece siamo tosti, e ce ne andiamo per la nostra (tortuosissima) strada.

Mercoledì 22 giugno

Per oggi pomeriggio alle 17 ho preso appuntamento dal ginecologo; voglio sapere come va il piccolino, che qua siamo in mezzo ai guai e bisogna che non ci manchi la salute, a nessuno

51

dei due.

Invece stamattina, col caffè, ho deciso di comunicare a mia madre e al mio recentissimo patrigno che presto diventeranno nonna e nonnigno.

“Come sarebbe sei incinta?” grufola lui tra una fetta biscottata alla marmellata e una alla nutella. “Sono incinta.” ripeto con calma, perché non capisco cosa sia poco chiaro nell’assunto, ma mi pare che la cosa risulti sempre piuttosto misteriosa ai maschi di qualsiasi età.

“Come sarebbe sei incinta?” chiede però anche mia madre stridula, con gli occhi di fuori e il caffellatte che le cola giù dalla tazza che trema nella sua mano destra, che trema. La guardo stupita. Pensavo sapesse come succede, se non altro per esperienza.

“Sarebbe così, sono incinta come tutte le donne incinte. È capitato.”

“Ma sei scema?” chiede il patrigno, che in effetti mi pareva stronzo. Da subito. Non ho mai detto niente perché mia madre sembrava finalmente di nuovo felice, e non me la sentivo di romperle le scatole. In fondo sono fatti suoi. Ma anche miei, in questo frangente. Guardo mia madre: dovrebbe essere lei a difendere la sua creatura in stato interessante.

“È una deficiente!” risponde invece la mia genitrice all’amore suo. E poi: “E come diavolo avete fatto? Ma dove ce l’avete, la testa? E adesso come si fa?” spara a me tutte le domande brutte.

“Si fa che lo tengo. Sarà tanto carino. O carina. Voi mi aiuterete, finché non potrò trovarmi un lavoro e una casa.” dico con la maggiore tranquillità possibile.

“Ma sei scema?” chiede di nuovo l’energumeno, pieno di sensibilità.

“Noi ti aiuteremo?” chiede mia madre coi capelli dritti.

“Per forza. Gabriele non ne vuole sapere. O meglio, sono io che non ne voglio più sapere di lui. O insomma, siamo tutti e due d’accordo credo. Che ci lasciamo. Sarò sola col bambino. Ma non posso lavorare finché non finisco l’Università. E anche dopo, bisogna vedere. Ma tanto qui c’è spazio, no?” “Guarda che non abbiamo una lira, manteniamo a stento te. Nella speranza che ti togli presto dalle” dice lui, dolce come il miele e senza neppure un congiuntivo.

“E comunque io non ce la faccio a stare dietro a un altro bambino piccolo. Volevo rifarmi una vita, stare un po’ tranquilla con lui.

52

Dopo tutto quello che ho passato. E adesso,” mia madre smette di gridare e comincia di colpo a singhiozzare, come sa fare lei. E basta, finita così. Partita persa. Che le posso dire, adesso? Nemmeno loro ti vogliono, coso. Ma io sì. Io non ti mollo. Telefono a papà. Mi risponde allarmato, siamo fuori dagli orari abituali, quindi capisce che c’è qualcosa che non va: “Ciao, cos’è successo?”

Decido di andare subito al sodo: “Niente papà, tutto ok. Sono solo incinta, ma sto bene. Oggi vado dal dottore.” Silenzio. Adesso me lo chiede. “Come incinta? Ma sei sicura?” “Sì, papà. Ho fatto il test. E comunque lo tengo.” Silenzio. “Lui, il tuo ragazzo, il padre” “Ci siamo lasciati ieri.” Silenzio. “Mamma lo sa?” “Gliel’ho detto stamattina. Ha detto che non può aiutarmi. Lui e ciccino mi vorrebbero fuori di casa a breve. Figurati se tengono me e pure un neonato urlante, che gli rovina le serate romantiche.” Silenzio. Silenzio. “Papà?” Silenzio. Silenzio. Silenzio. Definitivo. Coso, qua la situazione si fa drammatica. Tieniti stretto.

Alle 17 siamo dal ginecologo. L’ho frequentato poco, in questi anni: mestruazioni dolorose, all’inizio, poi anticoncezionali quando ho conosciuto Gabriele. Mi saluta cortese e mi chiede come va. Che cavolo di domanda. “Sono incinta.”

Lui non mi chiede se sono sicura, né fa finta di non aver capito. Né per fortuna vuole che gli spieghi come è successo. Il prossimo fidanzato lo voglio così, con una laurea in medicina. Mi chiede un poco di date, si fa due conti. Mi prescrive un prelievo di sangue per il dosaggio delle Beta HCG, così si chiama l’ormone della gravidanza, e mi spiega che devo farlo per due o tre volte, ogni settimana, per vedere se aumenta e capire come sta il bambino. Cioè l’embrione, come lo chiama

53

lui.

“Non mi fa l’ecografia?” chiedo io. Nelle serie tv e nei film è così che si scoprono le gravidanze. E c’è anche il bambino che ti fa ciao con la manina, e il dottore ti dice se è maschio o femmina.

Lui ride, dice che è troppo presto per vedere qualcosa. Che per oggi comunque possiamo fare un test, per avere conferma che il mio ritardo sia dovuto a una gravidanza. Ma come? Siamo alle solite: “Sei sicura?” “Dottore, come le dicevo, io un test l’ho già fatto a casa. È positivo. Guardi.” Quasi indignata, estraggo dalla borsa la bustina per surgelati in cui ho conservato il mio test casalingo. La righetta non è più rosa, adesso. Si è tutta sfumata, squadernata; sembra più uno scarabocchio che una retta. Ma io le voglio bene lo stesso e mi commuovo a rivederla. Tremando la consegno al ginecologo, che però nemmeno la osserva con attenzione: “Sempre meglio rifarne uno anche qui, per sicurezza.” dice sorridendo e fingendo di non notare che ho gli occhi lucidi. Vabbè, dev’essere un difetto di fabbricazione degli uomini questa cosa della sicurezza. Del resto loro mica tengono i cosi nella pancia, non si sentono strani, non hanno la nausea e non gli viene da piangere per niente. Fanno fatica a crederci, anche con una laurea in medicina. “Ok.” accetto, poco convinta. Mi manda dall’infermiera, che mi consegna un contenitore e mi spedisce in bagno. Niente tamponi e niente lineette a cui affezionarsi, stavolta. Fanno tutto loro.

Io resto per una decina di minuti (lunghissimi) in sala d’attesa, poi l’infermiera mi richiama nello studio del dottore. Mi risiedo e lo guardo. Lui mi guarda e, si vede, è parecchio imbarazzato.

“Il test è negativo.” dice.

“Come negativo?” È il mio momento per fare domande da imbecille.

Lui, pazientemente, mi spiega che a volte l’embrione si impianta e comincia a crescere, e si ha un test positivo, ma all’inizio la gravidanza è fragilissima e può interrompersi quasi subito, e così il test torna a essere negativo in pochi giorni.

“Come negativo? Come interrompersi?” chiedo di nuovo io, scoppiando a piangere.

Il dottore si alza e mi mette una mano sulla spalla: “Capita spesso, purtroppo.”

54

“Ma vuol dire che coso c’era, e adesso non c’è più?”

Lui mi stringe solo la mano sulla spalla, mentre io continuo a piangere e a dire scemate: “Ma non potrebbe essere stato un errore? Un falso positivo? Insomma, magari coso non c’è mai stato?”

Lui scuote la testa, poi, a fatica, cerca di assecondarmi: “In teoria è possibile anche questo. Ma molto raro. Rarissimo direi.” Mi sa che lo dice solo per consolarmi.

Torno a casa, che non è più casa mia perché io con questi due che non volevano essere i nonni di mio figlio per poter andare a ballare la sera non ci voglio più vivere. Me ne andrò appena possibile. Mi troverò un lavoro. Tanto la facoltà di Giurisprudenza mi piaceva solo abbastanza . E comunque ho mandato a quel paese ben più di una laurea e di un futuro (forse) sicuro: mi sono liberata di un fidanzato senza spina dorsale, di due genitori egoisti e di un patrigno stronzo. Sono stata madre per tre giorni scarsi, e coso m’ha sconvolto la vita da capo a piedi.

E ho capito, nei quasi tre giorni che sono stata madre, che l’amore non è mai abbastanza , è tutto o niente. Che il futuro è sempre imprevedibile, qualsiasi cosa tu faccia. Che quando si deve scegliere, si deve scegliere. E adesso che tutto va di nuovo abbastanza bene , io non riesco a smettere di piangere. Insomma, tutto quello che so me l’ha insegnato coso, in nemmeno tre giorni. Coso, mio figlio, che c’era, e adesso non c’è più. Coso che, forse, non c’è neppure mai stato.

••

Storia di una gravidanza di breve durata, che mette a nudo debolezze, egoismi, vigliaccherie di chi dovrebbe prendersi cura di una futura madre e del suo bambino, e insieme l'amaro ma liberatorio disincanto provato dalla donna stessa.

55

Lorenzo Oggero - 3° premio prosa inedita

Lorenzo Oggero

da Pisa

Il caso della donna scomparsa

Nessuno chiede alla verità di essere verosimile o immediatamente ingegnosa. Jorge Luis Borges, Introduzione a Le Mille e Una Notte secondo Burton

- Ragazzi, buongiorno. Sono pronti i profili per la prima puntata? chiede con leggera impazienza Elena Ricci ai suoi due assistenti, gli inviati Donatella Bonadeo e Adelmo Ricucci. - Sì, sono pronti.

- Bene. Cominciamo da quello di Dolores Morella, la donna scomparsa. Adelmo, hai preparato tu la sua scheda? chiede Elena al giovane seduto di fronte a lei, capelli a spazzola e un appariscente tatuaggio sul braccio sinistro.

- Certo, eccolo qua. È – Adelmo si blocca e fissa la Ricci con aria interrogativa – oppure era? Magari è già morta. - Facciamo conto che sia ancora viva.

Siamo a Roma, in via Teulada 66, sono le sedici e trenta del 10 settembre 2012, lunedì. Stanza di redazione del nuovo programma televisivo 'Alla ricerca della persona perduta'.

- Allora, Dolores Morella, prosegue Adelmo, è stata vista l’ultima volta il 28 luglio 2012, come ospite di Benessere & Salute, famosa beauty farm di Merano. Trentotto anni ben portati, la

56

descrivono colta, elegante, intelligente e opportunista, occhi piccoli e penetranti e un viso largo e squadrato. Ottuso , l'aveva definito un critico con il quale aveva avuto un diverbio di fuoco durante un convegno letterario. Lavora come editor della Universal Books ed è da quasi sei anni la fidanzata ufficiale del dottor Reale.

- Bene. Donatella, anche tu hai preparato una scheda?

- Certo. Narciso Reale, di professione scrittore. Pubblica con la casa editrice della Morella. Pur avendo più di sessant’anni, è un uomo ancora prestante, barba e baffi grigi, occhi chiari e acquosi. È diventato famoso con il libro Le avventure di uno scrittore giramondo, con cui ha vinto il Falernum . - Quando? - Nel 2004.

- Bene. Donatella, tu hai anche la scheda di Rinaldo Marchetti? - Sì, risponde lei, togliendosi gli enormi occhiali bianchi con lenti riflettenti, adesso ve lo leggo. Rinaldo Marchetti, gestore di Benessere & Salute . È grazie alle sue capacità imprenditoriali se è diventata una delle Beauty Farm più famose del Nord Italia. È chiamato dagli amici il locandiere. È un tipo colto e raffinato, ha interessi letterari soprattutto per gli autori mitteleuropei, primo su tutti Franz Kafka. La sua passione segreta è la poesia, ambito dove fino ad oggi, nonostante l’impegno e la perseveranza, non è riuscito a ottenere riconoscimenti rilevanti, se si esclude qualche segnalazione in premi e concorsi letterari di scarsa risonanza. È una delle ultime persone ad aver visto Dolores Morella.

- Buon lavoro anche il tuo, commenta Elena. - Grazie. Già che eravamo lì, aggiunge Donatella, ho pensato di prendere in esame un altro personaggio che ha un ruolo di rilievo nella locanda. - Chi è?

- Si chiama Giuseppe (Pino) Puccini. È il maître del ristorante I Sapori della Locanda. Dopo aver fatto la scuola alberghiera a Vicenza, ha maturato una lunga e formativa esperienza a Milano e a Bologna. In seguito è stato assunto dal Marchetti (nei confronti del quale sembra avere l’atteggiamento ironico e servile di Leporello nel Don Giovanni di Mozart), realizzando la sua aspirazione di ritornare nelle terre d’origine. Molto stimato, tanto da assumere le funzioni di direttore vicario. Non lo si può definire bello, ha il naso un po’ ingobbito, capelli

57

radi. Due baffetti curati sopra una bocca dalle labbra sottili, portata naturalmente al sorriso. È sposato con un’austriaca, di molti anni più giovane e ha una bambina, Antonietta, di nove anni.

- Bene, molto bene, sono tutte persone legate o interessate in qualche modo al mondo letterario, commenta Elena. Di primo acchito, però, mi sembra che nessuno dei tre uomini possa aver avuto un qualche vantaggio dalla scomparsa della Morella. Adesso fatemi dare un'occhiata alle foto della locanda, prosegue Elena mentre inizia a osservarne alcune che mostrano, da diverse angolazioni, una costruzione elegante e originale. L’esterno è molto luminoso: tetti a tronco di cono, porte e finestre di un azzurro intenso, pareti bianche. L’edificio appare, a chi arriva dalla valle in una giornata di sole, un piccolo castello incantato. Dopo la ristrutturazione della parte esterna voluta dal Marchetti, gli interni dei due piani e della mansarda non sono troppo cambiati, conservando negli arredi, nelle decorazioni delle porte e negli affreschi dei muri, la pretenziosità di un tempo non disgiunta da una certa pesantezza di stile. - Le leggende intrise di mistero, dice Donatella, continuano a volteggiare come corvi intorno alle cinque guglie della locanda, stando ai racconti narrati a bassa voce dagli anziani del posto. Alcuni dei più vecchi, con l’aria di dire qualcosa di cui non vorrebbero parlare, alludono tra sottintesi e reticenze a storie crudeli. Una parte degli ambienti sotterranei è stata ristrutturata e trasformata in cantine dalle volte basse, col sacro compito di proteggere la nobiltà di grandi vini accuratamente conservati.

- Si racconta anche, interviene Adelmo, che la visita alle cantine, richiesta da molti ospiti, li abbia inquietati, e che alcuni siano stati colti dal desiderio di abbandonare i muri umidi e cupi per liberarsi dalla sensazione di freddezza e disagio. Forse anche per togliersi dalle orecchie il rumore rugginoso di vecchi chiavistelli corrosi, che sono sotto il controllo esclusivo di Marchetti e di Puccini. Per il momento, questo è quanto abbiamo raccolto di attendibile sulla locanda.

- Abbiamo molte informazioni, dice Elena, ma adesso sentiamo le voci e i pettegolezzi che avete raccolto. Spesso sono questi a fornire indizi importanti.

- Primo pettegolezzo, dice Donatella. Sembra che negli ultimi tempi la coppia MorellaReale non funzionasse più e che questo

58

sia stato dovuto ad alcuni inciampi professionali della Morella. Tra tutti, quello di aver sponsorizzato con insolita benevolenza Eros Pagano, un giovane autore dotato di un certo fascino, insistendo con l’editore per un solenne lancio della sua opera prima. In realtà sia il mercato sia la critica hanno risposto con una tiepidezza scoraggiante. Voci maliziose che, come sappiamo, popolano in modo surrettizio, a volte anche feroce, il mondo letterario, mormorano che il lancio del giovane scrittore debba essere attribuito a meriti di natura non squisitamente letteraria.

- Che cosa ha scritto?

- Un romanzo sentimentale, il titolo è La vittoria ci unirà . Naturalmente, e c’era da aspettarselo, le voci maligne hanno subito commentato: beh, intanto è servito a unire loro due...

- Però, dice Elena, la gente a volte è cattiva, ma anche spiritosa.

- Secondo pettegolezzo su Dolores Morella, prosegue Donatella. Considerata di costumi non irreprensibili, ama dichiarare in ogni occasione che la reale parità di genere si deve realizzare anche nell’intimità del talamo oltre che nell’ambito professionale, e che tale obiettivo sarà raggiunto solo quando si useranno gli stessi termini per qualificare identici comportamenti dell’uomo e della donna (e non, come ancora succede, viveur o tombeur de femmes per lui, e donna di facili costumi o puttana per lei). Questo quanto raccolto sulla signora scomparsa.

- Dotata di una forte personalità, la signora.

- Sì, senza dubbio. Per quanto riguarda il Marchetti, ogni volta che può ospitare personaggi famosi in campo letterario, sembra perdere il suo proverbiale distacco per dedicarsi ai ‘portatori di cultura’, espressione con cui ama adulare ognuno di loro, nutrendo la segreta speranza, nemmeno tanto segreta, di ricavare commenti critici e suggerimenti per le sue poesie e di entrare in contatto con le giuste conoscenze per pubblicare i suoi versi con una casa editrice di livello.

- Aggiungo qualcosa sul Puccini, interviene Adelmo. Noto per vantarsi di avere successo con le clienti, verso le quali non lesina atteggiamenti ossequiosi come il baciamano, per alcuni tratti potrebbe ricordare Gabriele D’Annunzio. Lui afferma di assomigliargli soprattutto per certe affinità artistiche e seducenti. Zoppica leggermente, a causa di un incidente che gli capitò da bambino sciando, che l’ha costretto a rinunciare per sempre all’attività agonistica.

59

- Commenti sul Reale?

- Si dice che per il Falernum sia stato decisivo l’aiuto della fidanzata. Il sistema di votazione del concorso, che prevede che ciascun voto sia consegnato alla casa editrice, è stato da più parti criticato, senza che questo abbia prodotto alcun cambiamento.

- Lo sappiamo, lo sappiamo, commenta Elena. - Il successo di Narciso Reale, prosegue Adelmo, scatenò un certo scalpore nel mondo letterario: il suo libro fu recensito con asprezza dalla critica per la prosa scontata, la trama giudicata narcisistica (nomen omen!) e la piattezza delle avventure del protagonista, presentate come eventi straordinari. In realtà, grande spazio è dato a storie a sfondo sessuale con donne libere ed emancipate. Maligni non sprovveduti ipotizzarono da subito che il protagonista fosse l’autore stesso, noto anche come frequentatore di prostitute e donne modeste, alle quali usa donare anche oggetti pregiati in ricordo della sua ars amatoria. Di viaggi il nostro personaggio ne ha fatti davvero molti: lunghi soggiorni in Venezuela, Colombia e Perù, un servizio fotografico su Cebu nelle Filippine dopo lo tsunami del 2013, una spedizione sul rompighiaccio russo Let Podeby. L’autore racconta le sue conquiste in ognuno di questi viaggi: al di là dell’esplicita e più volte sottolineata venerazione per la donna, in quello che viene raccontato si percepisce – così la critica più autorevole – un’indole maschilista e un animo che ricalca i tratti meno nobili ed eleganti di Giacomo Casanova. Voci piuttosto diffuse lo dipingono simile a un Bell’Antonio, che si esibisce in corteggiamenti inutilmente seducenti. Da assiduo frequentatore di bordelli, si compiace di elargire lunghe disquisizioni sulle diverse usanze erotiche riscontrate nei vari paesi e sui molteplici rituali che accompagnano l’atto sessuale.

- Bene, commenta Elena, sapremo come prenderlo. Avrebbe tutto da rimetterci dalla scomparsa della signora. Un personaggio molto ambizioso, sembra ben delineato. Questo è uno di quelli da adulare...

- Un’ultima informazione importante, dice Adelmo: una delle cameriere ha riferito che ha visto il Marchetti discutere in modo animato con la Morella la sera prima della scomparsa.

- Questa è un’informazione utile, molto utile. Ragazzi, grazie, dice Elena, se non c’è altro, lasciatemi copia di tutto, lo studierò

60

bene, tra pochi giorni debuttiamo. Buona serata. - Anche a te, rispondono Adelmo e Donatella.

Lunedì, 17 settembre 2012, ore ventitré. Stanza di redazione. - Allora, com’è andata? chiede Elena, lasciandosi sprofondare in una poltrona di pelle dai grandi braccioli neri e dall’ampia spalliera. Nel corso della prima puntata, appena terminata, è stato ospitato in studio Narciso Reale e sono stati intervistati Marchetti e Puccini in collegamento da Merano.

- Benissimo, Elena, benissimo, risponde con enfasi Donatella. Sei stata molto brava, quando hai risposto con adeguato distacco al melodrammatico intervento di Reale, che a me non è per niente simpatico.

- Neppure a me, rinforza Adelmo. Hai fatto bene a chiarire che noi non siamo la polizia, e nemmeno un’agenzia investigativa. - Mi sei piaciuta anche quando gli hai detto con eleganza, prosegue Donatella, che non abbandoneremo un caso così importante.

- Vi ringrazio, ma il merito ce lo condividiamo, perché voi avete fatto un ottimo lavoro di indagine preliminare. È stato decisivo per il successo della puntata. Adesso un bel brut, non ce lo leva nessuno. Ho ordinato anche dei salatini. Chiamate per favore gli operatori, luci e suoni sono determinanti peer l’andamento della trasmissione.

Mentre stanno brindando: - È interessante, interviene Adelmo, quello che ha detto per telefono Puccini, che continuava a dolersi della scomparsa della Morella, manco fosse una persona di famiglia. In studio c'erano una tensione e un silenzio incredibili quando lui ha ricordato di aver sentito litigare verso l'una di notte, in una saletta vicina all'ufficio di Marchetti, due persone, Morella e quasi di sicuro il Reale. Ha anche affermato di essersi preoccupato per un grande botto, seguito da un silenzio assoluto, e ha aggiunto che il giorno dopo la signora non era scesa per la colazione. Puccini è dunque la testimonianza certa che fino all'una di quel giorno la signora era ancora viva. Reale, dapprima dispiaciuto, ha aggiunto che si era trattato di uno dei loro soliti litigi e che subito dopo si era ritirato nella sua stanza, dove è rimasto fino a tardi.

Roma, via Teulada 66, martedì 14 ottobre 2014, ore ventuno.

61

Studio del programma televisivo 'Alla ricerca della persona perduta'.

- Signore e signori, buona sera, esordisce con un ampio sorriso Elena Ricci. Mi rivolgo agli ospiti presenti in studio, a tutti i nostri spettatori che già sono diventati nostri fedeli ascoltatori e in particolare a tutti coloro che ricordano una vicenda che risale a due anni fa, molto seguita: la scomparsa, fatta risalire a sabato 28 luglio 2012, di Dolores Morella, editordella Universal Books e personaggio di rilievo nel mondo della carta stampata. Come ricorderete, ne abbiamo parlato nel corso della nostra prima trasmissione del 17 settembre di due anni fa: la scomparsa della signora era diventato un caso che aveva visto, come spesso accade, la popolazione dividersi in innocentisti e colpevolisti, tra quanti erano convinti che Morella fosse fuggita o addirittura si fosse suicidata, e quanti, invece, si erano schierati contro Reale, ritenendolo in qualche modo responsabile della sua morte. Il cadavere però non era mai stato trovato, gli interrogatori non erano approdati a nulla e le indagini erano state abbandonate. Di Dolores Morella, non se n’era più parlato. Cari ospiti e cari telespettatori, per questa sera avevamo programmato di iniziare presentandovi il caso di una ragazzina scomparsa, ma è arrivata una notizia che ha dell’incredibile. Immagino che l’abbiate letta o ascoltata: un violentissimo temporale si è abbattuto due mesi fa, precisamente il 12 agosto, su Merano, provocando gravi danni a tutte le coltivazioni del territorio, a molte abitazioni e anche a vecchi casolari della valle. Prego la regia di mostrare alcune scene del disastro. Possiamo partire con le immagini? - Ecco, avete potuto constatare l’entità dei danni. Sappiamo che questo è il periodo che registra sulla zona le maggiori precipitazioni e frequenti temporali, e questa volta si è trattato di un vero e proprio tornado. Sembra quasi che la tempesta abbia preso di mira proprio la locanda Benessere & Salute, forse per la sua posizione elevata. La notizia, rilevante a livello nazionale, assume per noi, oltre che per gli inquirenti, un significato particolare: il tornado si è scatenato sulla locanda dove era alloggiata Dolores Morella, provocando danni alla struttura, rompendo le imposte, mandando in frantumi i vetri delle finestre esposte a nord e allagando totalmente le cantine. L’acqua ha causato gravi danni sia nella zona ristrutturata sia in quella vecchia, distruggendo un vero e proprio patrimonio di

62

bottiglie di pregio, vanto del proprietario Rinaldo Marchetti. Poco dopo l’inizio dei lavori di smaltimento e ripristino, arriva la notizia strabiliante: i pompieri durante le operazioni di sgombero si sono trovati davanti il corpo di una donna, ‘impastato’ – come ha detto uno di loro – nel fango e nel vino. Come avrete intuito, si tratta del corpo di Dolores Morella, scomparsa da poco più di due anni. Un corpo mummificato. Stando alle prime notizie non ufficiali che i nostri inviati sono riusciti a raccogliere, la mummificazione si è verificata perché la donna è stata sepolta, quasi murata, in una stanza segreta delle vecchie cantine, e questo ha impedito la decomposizione del cadavere. Una notizia degna di attenzione è che la mummificazione, preservando il corpo, dovrebbe permettere al RIS di portare a termine le analisi in grado di stabilire la causa del decesso. Per competenza territoriale, le ricerche saranno affidate al RIS di Parma, di certo alla Sezione Biologia, e forse anche ad altre.

- Altra notizia sorprendente: pare che Pino Puccini, il maître del ristorante, alla vista del cadavere della Morella sia svenuto, rimanendo per alcuni minuti in stato confusionale. Prima di riprendere il programma previsto, vogliamo assicurarvi che seguiremo gli sviluppi di questo caso e vi terremo informati sull’evoluzione degli avvenimenti. Inoltre cercheremo di invitare di persona in studio i tre uomini che sono stati in contatto con Morella nei suoi ultimi giorni di vita, e che già avete avuto modo di vedere, ovvero Narciso Reale, Rinaldo Marchetti e Giuseppe Puccini.

- Adesso passiamo al caso drammatico, cui ho accennato prima: la scomparsa della giovane di Terranova...

Martedì, 13 gennaio 2015, ore diciannove. Stanza accessoria dello studio del programma televisivo 'Alla ricerca della persona perduta'.

Elena sta confidandosi con Donatella e Adelmo.

- Credo che la sorte ci abbia aiutati. Quello di Dolores Morella era diventato un caso senza sbocco, invece la natura, chi avrebbe potuto immaginarlo? è intervenuta e ci ha messo sotto gli occhi una soluzione inimmaginabile.

- Sì, è vero, ma noi abbiamo lavorato bene, dice Donatella, non abbiamo mai ceduto a ipotesi fantasiose o scandalistiche, siamo rimasti ancorati ai fatti e quando si è trattato di impressioni,

63

lo abbiamo detto.

- Hai ragione, incalza Adelmo, siamo stati aiutati dalla natura, però ce lo siamo anche meritati, noi facciamo indagini serie, altroché.

- Sapete, dice Elena, in questo periodo ho letto un libro, uscito da poco, Sette brevi lezioni di fisica, di Carlo Rovelli, uno studioso di fisica quantistica. Affascinante. Mi sono piaciute le riflessioni di ampio respiro sulla relazione tra scienza e mitologia, la totale mancanza di presunzione che permea ogni capitolo, il valore attribuito al dubbio. Scrive che ci sono molte cose che non capiamo e tra queste sicuramente noi stessi. Questa dichiarazione di umiltà, detta da lui, mi è sembrata apprezzabile. Una frase mi ha colpita: noi non conosciamo il mondo o un evento, noi conosciamo soltanto le informazioni che abbiamo sul mondo o su quell’evento: questo cambia la prospettiva e ci richiama i nostri limiti. Ne discende una differenza enorme tra opinioni generiche o supposte e opinioni circoscritte e verificate. È una riflessione profonda, aldilà dell’abisso scontato che separa l’informazione scandalistica e l’informazione documentata, tra le fake news e le true news .

Elena è una donna di circa cinquant’anni, sobria, elegante, capelli corti, occhi chiari, viso regolare. Parla in modo netto, chiaro, incisivo. Ispira fiducia e attendibilità. Se l’ha detto la Ricci, è una frase che da tempo gira nell’ambiente.

Elena emette un lungo sospiro.

- Adesso, beh, speriamo bene, per noi questo è l’ultimo atto della vicenda, il mistero è risolto.

- Elena cara, l’ultimo atto è la bellissima presentazione che stai per fare tu, in culo alla balena, ma l’ultimissimo atto sarà una ciucca che ci prendiamo tutti insieme. - Poco ma sicuro, dice Adelmo. Elena, in culo alla balena. - Ok, grazie, adesso per favore ripassiamo insieme tutti i passaggi, mi date i tempi e le pause e tutto il resto, come sempre, d’accordo?

Martedì, 13 gennaio 2015, ore ventuno. Studio del programma televisivo 'Alla ricerca della persona perduta'. - Signore e signori, auguri di buon anno a tutti e ben ritrovati, annuncia Elena Ricci. La puntata di oggi, la prima dell’anno, è dedicata a quello che viene ormai comunemente chiamato dai media Il caso della donna scomparsa, che verrà ricordato come

64

Il caso della donna mummificata . Parleremo con la massima chiarezza possibile della mummificazione e dei suoi effetti, vi aggiorneremo sugli ultimi referti delle analisi del RIS. Vi avevamo promesso nella puntata di ottobre di invitare in studio i tre uomini, anche se non siamo stati in grado di farlo per i motivi che tra poco vi dirò. Ci collegheremo, se deciderà di accettare il nostro invito, solo con Narciso Reale. Vorrei cominciare illustrando un aspetto tecnico della vicenda, e cioè che cos’è la mummificazione. Si tratta di un processo in cui un cadavere subisce una rapida disidratazione massiva in modo tale che i tessuti rimangono come fissati e stabilizzati. Questa sera non prenderemo in considerazione le tecniche in uso nell’antico Egitto, consistenti in laboriosi processi tesi a preservare il corpo in quanto sede indispensabile per garantire l’immortalità dell’anima. Ci concentriamo invece sulla mummificazione naturale, che avviene a causa della presenza di particolari condizioni esterne e interne, come un clima freddo che ostacola la putrefazione, o l’inumazione in terreni asciutti in grado di assorbire liquidi in grande quantità. Oppure ancora, e questa sembra l’ipotesi più accreditata nel nostro caso, per la presenza di determinate muffe che disidratano i tessuti. Di solito il processo di mummificazione non stravolge i tratti fisici della persona che anzi, conservandoli abbastanza bene, permette che essi siano riconoscibili. Si è temuto per molto tempo che Dolores Morella fosse stata uccisa forse per motivi di gelosia, e i sospetti erano caduti sul Reale, avvalorati dalle difficoltà che stava attraversando la loro relazione e da un violento litigio verbale tra i due verso l'una di notte il giorno stesso della scomparsa, come ebbe a riferire Puccini nel corso delle indagini preliminari. Ma i risultati di queste indagini – davvero celeri, aspetto del quale non possiamo che congratularci con il RIS – sono ormai ufficiali: Dolores Morella è morta per infarto del miocardio. Infarto causato dalla consistente e contemporanea assunzione di cocaina e alcool, più precisamente, di vino a media gradazione alcoolica. Come sappiamo, il mix di queste due sostanze ha effetti devastanti sul cervello e sul cuore, effetti che nel caso della signora sono stati letali. Ora, se alla luce dei risultati emersi era stata esclusa nel modo più assoluto l’ipotesi di omicidio, rimaneva da scoprire cosa fosse successo al corpo della signora. Dopo un approfondimento di natura biologica sul cadavere e a seguito

65

di lunghi e serrati interrogatori dei tre protagonisti di questa vicenda, interrogatori caratterizzati da una serie di accuse reciproche, la polizia ha fornito una versione ufficiale dei fatti, che ha permesso di incriminare Marchetti e Puccini non per omicidio, com’è giusto, solo per occultamento di cadavere. - Adesso sono in grado, prosegue dopo una pausa Elena Ricci, di raccontare la versione ufficiale dell’accusa, che si basa sulla seguente ricostruzione dei fatti. Pubblicità, restate con noi. - Ci voleva una pausa, dice Elena, mentre si siede, confortata dai suoi due assistenti. - Stai andando benissimo, le dicono all’unisono. - Bene, riprendiamo, stiamo arrivando agli atti finali della vicenda, riprende con enfasi la conduttrice. Morella e Reale hanno un violento diverbio, a seguito del quale lei se ne va e non rientra nella camera che occupavano insieme. Lui, abituato ai sempre più frequenti litigi, non si preoccupa più di tanto, se ne va a letto, si prende la sua solita pastiglia di Tavor e nel giro di poco, stando alla sua testimonianza, si addormenta. Elena fa una lunga pausa. - Adesso arriva la novità. Puccini, non visto, ascolta il litigio. Non appena si accorge che la signora si avvia da sola verso la hall dell’hotel, intravede la possibilità, diciamo così, di consolarla. Si dirige verso le cucine, prende una bottiglia di brut di altissima qualità, il Bollinger Special Cuvée (per gli amanti del genere, si tratta dello Champagne di James Bond), prepara il vassoio, la glacette, due flûtes e si avvia verso la hall. - Qui incontra la signora che si presume abbia avuto tempo e modo, stando alle informazioni ufficiali, di ‘farsi’, e inizia la sua opera di corteggiamento, lodandola sia per lo stile sia per l’eleganza e assecondandola rispetto alle critiche che lei continua a ripetere nei confronti di Reale. - Nel giro di poco tempo i due hanno un rapporto sessuale su uno degli accoglienti divani della hall, senza alcun tipo di precauzione. Signore e signori, la notizia non sembri pruriginosa né di scarso rilievo, perché diventerà uno dei motivi che indurrà Puccini a occultare il cadavere della Morella. - La signora, ormai ubriaca e sotto gli effetti della droga, chiede a Puccini di voler provare un’altra marca di Champagne, richiesta alla quale lui cede, seppure a malincuore. Ritorna nelle cucine, sceglie un’altra bottiglia, prepara il vassoio e i bicchieri, impiegando un certo tempo che lei utilizza,

66

presumibilmente, per un’altra dose. Quando ritorna nella hall e si avvicina al divano, vede il corpo della donna steso a terra. Si china su di lei, e la scuote, la scuote ancora, ma è inutile: Dolores Morella è morta. Altra pausa di Elena.

- Preso dal panico, valuta le conseguenze che comporterebbe il ritrovamento del cadavere. Sarebbe accusato di omicidio o quantomeno di aver avuto una parte nella morte di una donna ubriaca e drogata. Come egli stesso avrà modo di ammettere, entra in confusione: cerca disperatamente una soluzione e ben presto si convince che la cosa migliore sia quella di far sparire il cadavere. La sua immagine di professionista, conquistata negli anni con non pochi sacrifici, ne sarebbe per sempre compromessa, la sua famiglia sarebbe sconvolta. Decide così di nascondere il cadavere. Dove? Occorre un posto sicuro e inaccessibile.

- Adesso, cari ospiti e gentili telespettatori, vi prego di seguirmi con attenzione anche perché dobbiamo fare un passo indietro nel tempo. Puccini, poco dopo essere stato assunto, aveva per caso scoperto l’esistenza nelle cantine di una porta segreta. Nascosta dietro un vecchissimo scaffale di legno massello, la porta si affaccia su una stanzetta senza luce, piena di bottiglie di vini rossi di grande invecchiamento e inestimabile valore e dotata di una serie di nicchie con piccole botti di rovere non utilizzate da tempo.

- Come riuscire a portare il cadavere fino alle cantine? Il Puccini prova a trascinare il corpo per qualche metro, ma si accorge subito che si tratta di un’operazione superiore alle sue forze. L’unica persona in grado di aiutarlo è il suo capo. Sicuro, pensa, solo Rinaldo può aiutarmi, se non lo fa lui, sono spacciato. Si dirige con rapidità verso il suo appartamento e comincia a bussare, prima con delicatezza, poi sempre più forte. Marchetti apre, si accorge subito dello stato di agitazione di Puccini, lo fa entrare e sedere. Negli atti degli interrogatori effettuati a più riprese dalla polizia, si riscontrano divergenze, comunque marginali: alla fine i due, l’uno per evitare lo scandalo che ricadrebbe su di lui e sulla sua famiglia, l’altro per non compromettere la fama della locanda e non perdere del tutto una stagione turistica già compromessa per il clima quanto mai capriccioso, decidono di far sparire il corpo e di

67

portarlo nel locale segreto.

- Dopo averlo avvolto in un lenzuolo, lo trascinano fino alle cantine. Tolgono la piccola botte che occupa una delle nicchie, lo spingono dentro: raschiano il più possibile la parete sovrastante per far cadere la terra sopra il cadavere, gli accumulano contro tutto il terriccio che trovano sul pavimento, finché riescono a ricoprirlo completamente e a occultarlo.

- L’ultimo atto dei due è eliminare l'eventuale scia sulle scale e sui pavimenti lungo i quali è stato trascinato il corpo della Morella. Come ultima precauzione Puccini, perseguendo l’inutile obiettivo di eliminare il supposto odore del cadavere, sparge una gran quantità di profumo alla lavanda per tutto il percorso compiuto.

- Ebbene, questa è dunque la dinamica accertata di tutta la vicenda. Adesso proviamo a collegarci con Milano, dove un nostro inviato si trova nell’ufficio di Narciso Reale che, del tutto estraneo alla vicenda, ha acconsentito con piacere a essere intervistato.

- C’è il collegamento? Ok, grazie, benissimo. Ecco a voi il nostro ospite. Dottor Reale, buonasera. La ringrazio a nome mio e della redazione per aver accettato il nostro invito.

- Grazie a lei e un saluto ai numerosi telespettatori di questo famoso programma, dice compiaciuto il Reale, facendo un lieve inchino e sfoderando, è proprio il caso di dirlo, uno smagliante sorriso da consumato viveur. Applausi in studio.

••

Storia 'gialla' di un omicidio a sfondo passionale, ricostruito attraverso una pungente analisi psicologica ma anche sociale dei personaggi, bersaglio di una satira sottile che colpisce l'arrivismo e l'ipocrisia di una certa fascia alto borghese

68

premio prosa inedita - Ferdinando Romito

Ferdinando Romito

Diamante (CS)

il vento

(Liberamente ispirato al capolavoro di Grazia Deledda Canne al vento )

Erano sedute lì, sul muretto basso di pietre che faceva da confine al piccolo podere, aspettando già da un bel pezzo. La luna non si era ancora levata, e i contorni di ciò che restava del vecchio castello si stagliavano netti nel cielo terso del pomeriggio inoltrato.

«Credi che arriverà?» Chiese Rita.

La donna più giovane sorrise di un sorriso accusatorio. «Certo che arriverà. Si ritorna sempre, quando non si ha più nulla da chiedere alla vita.»

E in effetti, al di là della vallata sottostante, oltre il piccolo fiumiciattolo che divideva in due un folto canneto, tra la ricca vegetazione, i pascoli e gli altri poderi coltivati ad alberi da frutto, un’esile figura bianca si faceva faticosamente strada salendo per la mulattiera appena accennata, ormai in disuso da tempo. Di tanto in tanto quella figura si fermava, forse per prendere fiato, guardava in su, riprendeva la sua faticosa ascesa, inerpicandosi attraverso quel canneto che, dalla parte bassa del fiume, era costituito da sottili e fragili canne, rachitiche, dalle quali anche le solitarie foglie che da ciascuna pendevano verso il terreno sembravano non essere cresciute più di tanto. Al contrario, il canneto al di qua del fiumiciattolo

69 Ascolta...
da

era una fittissima selva di maestose pertiche, dritte a toccare il cielo, i cui fusti larghi quanto il medaglione appeso al collo della dottoressa Dolores, erano ben piantati in terra e le foglie, abbondanti e rigogliose, facevano ad esse degno corollario. «Eccolo. Che ti avevo detto?» continuò Nadia, distogliendo solo per lo stretto necessario lo sguardo dallo scialle che stava abilmente confezionando con i ferri da lavoro. L’uomo diradò le ultime canne che gli ostruivano il passaggio e guardò verso di esse. Provò un vago senso di smarrimento, nel vederle sedute nel medesimo posto che egli aveva occupato per così tanto tempo, posizione dalla quale soleva stare ore e ore a scrutare la vallata sottostante e rimuginare sui suoi pensieri pesanti come macigni, ben oltre i confini visibili dell’umana natura. C’era, poi, anche una fastidiosa sensazione in quelle presenze, che non riuscì a definire. Riprese a salire, questa volta più celermente, deciso a riprendersi ciò che era sempre stato suo. Ne aveva un impellente bisogno. Si fermò davanti a loro e, sebbene fosse di gran lunga più alto delle donne, la linea dei loro sguardi lo poneva al di sotto di esse, per via del terreno fortemente scosceso. «Avrei un desiderio» disse, «sedermi lì dove ho sostato per tanto tempo e dove adesso voi siete, sedute a far nulla.» Elena, la meno giovane, lo guardò indifferente e lui, attraverso le lenti dalla montatura dorata e sottile, s’incontrò invece con gli occhi di Rita, mansueti e con una leggera nota di mestizia nel fondo; poi fu la volta di quelli di Nadia che, proprio in quel momento, si sollevarono dallo sferruzzare frenetico delle mani, duri e accusatori. Rimasero così per qualche istante, al termine del quale, senza scomporsi più di tanto, ella si levò in piedi. «Prego, dottore .» lo apostrofò, sarcastica. «Del resto la riconoscenza, così come l’umiltà, non sono virtù di questo mondo. Non è forse così?» Nadia fece un muto cenno col capo alle altre sorelle, esortandole a sollevarsi. Così fecero, ognuna col suo intimo modo di fare. Tutte e tre arretrarono dal muretto di qualche passo, senza che in alcuna di loro nascesse l’intenzione di andar via. L’uomo in camice bianco, a dispetto della sua età prossima alla fine, che avesse venti o cent’anni nulla cambiava, si sollevò agile sul muretto di pietre e trovò posto lì dove erano sedute le tre donne; e nello stesso istante in cui adagiò penzoloni le gambe stanche nel vuoto, la sua inquietudine crebbe e d’un

70

tratto si chiese, per la prima volta, cosa lo avesse spinto a ritornare lì dopo così tanto tempo. Strinse un poco gli occhi, e lo sguardo cominciò ad errare senza una precisa meta sulla valle, come tante volte aveva fatto in passato, coi morsi della fame attanagliargli lo stomaco, le bolle per il continuo zappare bruciargli le mani e la voglia di farla finita inondargli la mente. Ma adesso no: adesso non c’erano crampi e il suo stomaco, a dispetto della sua magra figura, era ben pieno di cibo superfluo; non c’erano cicatrici, né piaghe, né rossori, in quelle sue mani ben curate. Forse solo qualche lieve callosità residua e resistente persino allo scorrere del tempo. Non c’erano pensieri autolesionistici, a riempire la sua mente, ma solo agende colme di appuntamenti e numeri di telefono, convegni e sale operatorie, infermiere e donne, e. Laggiù, in fondo, oltre i poderi che ancora resistevano intatti al progresso, l’edificio bianco della clinica, della sua clinica, svettava pugno bianco nel verde circostante. L’aria era tersa come non mai, e non c’era un alito di vento. Cosicché riusciva persino a scorgere qualche sagoma fuggevole dietro le finestre dell’ultimo piano. O forse erano soltanto illusioni, illusioni di voler vedere per forza anche quello che non si può. E poi c’erano tutti quei colori brillanti, netti, decisi, come soltanto in questa porzione di mondo il sole, ormai prossimo a scomparire dietro l'orizzonte, riesce ad offrire.

Era ormai solo, e da solo doveva disperatamente comprendere del perché l’ansia crescesse a dismisura, anziché stemperarsi nell’ambiente circostante, così incline a poter accettare i suoi patimenti.

Cosa lo preoccupava? Che cosa gli serrava la gola e gli faceva battere forte il cuore nel petto? Riaffiorarono lontani ricordi sopiti, ricordi che volutamente erano stati ricacciati nei cassetti più nascosti dell’io cosciente. Si ritrovò bambino, ad inseguire lucertole su quello stesso muro, chiamando istintivamente e distrattamente, senza ottenere risposta alcuna; si ritrovò ragazzo, ad inseguire su quello stesso muro ancora, nelle notti lunari e quiete, il suo sogno di fuggire via per sempre da quel podere che con tanta fatica, fisica e morale, era costretto a coltivare nella povertà più assoluta, maledicendo i morsi della fame che pane e cipolla non riuscivano a placare.

71

Poi era arrivata la svolta, quella manna dal cielo, unica possibilità di riscatto. Ed egli di quella manna se ne riempì la bocca, le mani, le tasche dei calzoni e della misera giacca, fino a dimenticarne il sapore dolce e ristoratore. Ma si sa, quando si sta bene ed in salute non ci si preoccupa delle malattie: è quando queste sopraggiungono, improvvise e temibili, che ci sconvolgono a tal punto da ritornare ad apprezzare pienamente le cose semplici ed importanti della vita.

Tutti quei pensieri lo stritolavano, animale preso alla tagliola, e più tentava di divincolarsi, più i denti stringevano, segavano, dilaniavano carni e ossa e ancora più in fondo. l’anima. E si alzò il vento. Dapprima un accenno di brezza, lieve lusinga e sussurro di amanti; un canto, dolce di sirena. Poi rinforzò un poco, e già il camice bianco cominciò a fluttuare nell’aria mossa. E ancora il vento aumentò, e tutto prese ad agitarsi pericolosamente: mille refoli sibilavano, infilandosi nel fogliame denso degli alberi, nei più nascosti anfratti dell’erba, nei labirinti contorti delle canne piegate.

Panas , sembrò da qualcuno udire, è il lamento delle Panas e il suo io ne rimase sconvolto.

Scese dal muretto, più dalla forza del vento sospinto che da una sua precisa volontà di compiere quel gesto.

Guardò verso il canneto, quello al di qua del rivo: le canne erano piegate dalla forza del vento, diventato nel frattempo impetuoso, quasi dovessero staccarsi da un momento all’altro, tanta era la furia alla quale erano soggette.

Abbiamo tanto desiderato, abbiamo tanto sofferto, urlava il vento, nelle sue orecchie e molto più dentro di sé . Che resta di noi, se non una parte di noi stesse? La nostra stessa nuova vita benedetta. Almeno loro e il nostro sacrificio.

Il dottore spinse lo sguardo oltre, al di là del fiume, verso il canneto dai suoi frutti più esili. Strinse gli occhi, fino a sottili stringhe, e ciò che vide lo lasciò più immobile di una roccia sotto una tormenta di neve: le sottili canne, anch’esse in balìa del vento, erano quasi parallele al terreno, ma piegate dalla parte opposta a quelle del canneto superiore. Era come se soffiassero venti dagli opposti punti cardinali, e agissero sulle porzioni di terra a loro assegnati in maniera indipendente l’uno dall’altro.

Nulla le misere canne potevano; alcune volavano via con esso,

72

strappate alla loro terra così, come fossero state dei semplici fuscelli che, sibilando, si perdevano nel buio della notte ormai sopraggiunta; altre si dimenavano, qua e là, nel goffo e vano tentativo di resistere a forze troppo grandi per essere contrastate.

E il vento urlava, potente, e molto i suoi ululati somigliavano allo straziante lamento di neonati lasciati senza né cibo né calore.

Cominciò a piovere, e grandi gocce dolci cadevano sulla terra sferzata dai venti, e grandi gocce amare solcavano il viso dell’uomo, arato da profonde rughe. Una violenta raffica gli strappò gli occhiali dal naso, che si persero a rincorrere le misere canne strappate dalla loro terra, e dentro i lamenti degli Istruminzu . Sentiva il cuore battere fin quasi a scoppiare, e nella testa il turbinio di immagini e sensazioni, che solo in apparenza poteva essere paragonato all’uragano attorno a sé che tutto scuoteva e strappava, di quelle misere ed esili canne, persino la loro stessa natura, gli bloccava i pensieri in una morsa letale.

Sottilissimi granelli di sabbia, trasportati in un vortice dal vento, gli accecarono gli occhi. Eppure, Eppure rimasero davanti a sé, nette e distinte, le immagini delle canne forti e rigogliose pendere verso est che, fiere, resistevano alla violenza del vento; e pure nette e distinte apparivano, inspiegabilmente, anche le esili canne, decimate e inermi all’impeto del vento, piegate fino al limite dell’imminente spezzarsi all’unisono, verso ovest. E se è vero che gli occhi della mente non possono chiudersi, così come quelli della memoria, fu quello il momento nel quale egli tutto cominciò a comprendere, di sé, della sua vita, del perché avesse avuto l’impellente desiderio di ritornare al suo punto di origine dopo così tanto tempo.

Intanto i canti delle Panas , canti di dolori fisici e sofferenze dell’anima per il distacco imminente dalle loro creature, e quelli degli Istruminzu , alcuni con occhi appena abbozzati, altri già in grado di versare lacrime future che non sarebbero state versate mai, s’intrecciavano, si scioglievano, si rincorrevano come fanno le farfalle nell’idea impellente di ricongiungersi per sempre.

All’improvviso, apparve dal canneto una donna che, con andatura stanca, si diresse verso il fiume, cantando, anch’ella degli stessi canti del vento. E così cominciarono a scendere

73

verso il fiume molte altre di quelle strane figure, dalle mura del castello, dai poderi vicini, dalle coste sinuose del fiume. Ella, per prima, chinatasi sulle crespe onde dell’acqua, cominciò a lavare.

Il dottore cadde sulle ginocchia e affondò il viso nelle mani tremanti; lo sollevò dopo un poco, sapendo in cuor suo che quella figura non poteva che essere Lidia, la madre che non aveva mai conosciuto, se non in rare, sbiadite, fotografie del tempo. Ma se anche lei era una delle Panas , che di notte andavano errando lungo il corso del fiume a lavare la tutina dei suoi bambini mai stretti al seno, questo significava che anch’ella aveva sacrificato la sua vita per lui. E, per contro, che cosa aveva fatto, lui, nella sua vita? Guardò le forti canne in balìa del vento, e comprese che esse tentavano di resistere all’impeto dell’avverso destino con tutte le loro forze, per donare vita e regalare baci e carezze infinite ai loro frutti più preziosi. Anche le deboli canne tentavano di sopravvivere, con la forza naturale insita in ogni forma di vita volta alla sua autoconservazione. Ma che cosa potevano, loro, indifese e nude com’erano? Volavano semplicemente via, senza neanche fare rumore.

Si era sostituito al Destino; aveva richiamato a sé tutta la potenza del Vento, di accarezzare come brezza o strappare come uragano. Era un dio, capace di porre rimedio ad un errore o ad una leggerezza, persino in grado di soddisfare i desideri di chi a lui si rivolgesse, di essere libere e di decidere per sé, ma non per gli altri.

Maledisse il giorno in cui incontrò la dottoressa Dolores, quella che aveva fino al pomeriggio considerata la sua personale manna dal cielo . Ma non può esserci alcun Pane caduto dal cielo senza fede. Tutto il resto non è altro che falso nutrimento. Lacerato dai rimorsi, come azzannato da una muta di cani rabbiosi, pianse amaramente.

«Non maledire, mai. » disse una voce dietro di sé. «Ascolta il vento.» E il ricordo delle tre donne che aveva trovato al suo posto, quando era arrivato in quel luogo, riaffiorò dai turbinii della sua mente. L’uomo volse lo sguardo verso di esse. Erano ancora lì, immobili nel vento come colonne, i loro occhi facce dissimili di una stessa medaglia: tre sguardi totalmente diversi tra loro ma stessi caratteri somatici. «Il vento del Fato.» Aggiunse senza trasporto alcuno Elena.

74

«Il vento degli uomini.» urlò minacciosa Nadia. «Non hai ancora sofferto abbastanza.»

«Lascialo in pace, una buona volta.» replicò Rita, la più amorevole delle tre «A tutti è concessa un’altra possibilità, prima che sia troppo tardi. Che vento vuoi seguire, Edoardo?

È giunto il momento di decidere. E la tua decisione sarà per sempre.»

«Ascolta il vento.» Ripeté ancora Elena, dall’alto della sua sapienza.

Il dottore mosse leggermente le labbra farfugliando qualcosa che si perse nei canti del vento.

«Hai scelto bene.» Disse Nadia, che non aveva mai smesso di lavorare al suo scialle.

E il vento, cessò.

E le canne, piegate ma non spezzate, ritornarono a svettare verso l’alto, fiere, ad indicare un cielo che di lì a poco sarebbe ritornato limpido e luminoso di stelle.

«Posso restare in pace.» si disse Edoardo, sollevandosi a fatica sul muretto di pietre e lasciando che il suo corpo stanco vi si adagiasse piano, lento come lente stavano scomparendo ai suoi occhi le donne, ognuna sé stessa, ognuna parte di sé.

Chiuse gli occhi, ma la sua mente rimase vigile ed attenta ancora per molto, molto tempo. Aveva freddo, e per questo si strinse forte le braccia attorno al petto.

Quando lo ritrovarono, tre giorni dopo, possedeva un accenno di sorriso sulle labbra livide, il volto liscio senza ruga alcuna, e uno scialle fatto a mano, a coprirlo per intero.

••

Riproposizione di un'antica leggenda sarda, non a caso ispirata all'opera di Grazia Deledda, centrata su un sacrificio che è riscatto per un ipotetico male commesso, sullo sfondo di una natura tragica e partecipe.

75

Andrea Poggipollini

da Bologna

Liberamente tratto dall'idea del libro-bibbia di un dittatore innominabile.

Furono narrazioni di vita e opinioni, poi imposte. Ciò sia spunto per non esser mai un dominatore, semmai solo un governante del bene, attraversando anche il male necessario per farne distinzioni, utili per indicare la via che libera tutti, per esserci tutti insieme. Cooperiamo per ogni salvezza! Breve Capitolo Primo (chi sono) Innocuo e, come tanti altri, come tutti gli altri esseri che vivono, sono comparso. Faccio parte del ciclo della vita. Nascere, esistere, morire. Per estinguermi nel nonsisadove. Anche se chi ha il dono negli umani del pensare, rivela certezze sul poi e sul prima. Sono microscopico nelle mie dimensioni. Questo è il punto di vista, ma esse si annullano considerandone ogni veduta, che sia opinione o realtà. Di voi mi accorgo ora, poiché uso gli stessi mezzi nei caratteri, stampati e immaginati, per dare mie informazioni, cosa che in realtà faccio in altro modo, anche se non ho interesse nell'informare. Nasco come ognuno, ma solo la scienza umana ricerca i perché e i come. Il resto sono fantasie di realtà di gruppi di voi, nate dalla vostra secolare storia, così breve nell'infinito a cui appartengo.

76
Mein Kampf – La mia battaglia. ■ Andrea Poggipollini - 5° premio prosa inedita

Esisto come altri miei simili e cresco rimanendo tale. Siamo tanti, infiniti e, forse, senza età e anche eterni e spesso mai conosciuti né riconosciuti. Ma non importa. Nasco sconosciuto.

Nasco senza sesso e senza un senso, forse. Mi riproduco adattandomi, cibandomi, intrufolandomi nell'inaspettato. Le mie ambizioni sono pacifiche e resto per conservare la mia razza che si intromette per bisogno e necessità, in specie viventi e in tutto ciò che ha vita. Sono le regole dell'esistere terreno, mi insegnate. Servono per mantenere ogni equilibrio che è nel sistema Pianeta. Ma, a volte, accade qualcosa. Ci accorgiamo di avere un compito da svolgere, come fosse una missione inspiegabile. Le chiamate virtù, talenti, sono tesori pare, ma non sempre emergono.

Ecco io, milionesima parte di vivente, oppure gigante per altri viventi ancor più infinitesimali di me, ho un compito, una missione, per il mio esserci, e non so che tempi abbia e se ne avrò mai.

Provoco l'ignoto. Spiazzo il prevedibile. Questo accade nello sviluppo del mio divenire molte volte.

Sono ingenuo al mio comparire, ma sono portatore di regole, di regolamenti.

La mia missione potrebbe essere creare caos tra voi umani, attraversando e ammalando corpi, i vostri, il cibo animale e vegetale, vostro nutrimento, interrompendo i vostri eccessi nei processi confusi, imponendo le mie leggi, per salvarvi dai vostri inciampi che sono il baratro per l'estinzione dell'equilibrio.

Io sono equilibrio. Il paradosso dell'equilibrio.

Sono caos pacifico, pacifico caos, dipende da cosa voglio ottenere, nella missione che ho.

Cresco, cresco, mi evolvo, irrompo in voi, non per ammalarvi ma per guarirvi attraverso la consapevolezza, così la chiamate. Cresco, avanzo, mi educo educandovi.

Esisto dal Sempre che voi conoscete e da un altro Sempre che ancora non avete scoperto, e non avete inventato.

Nasco ora senza età. Sono avanzato e avanzo, estinguendo specie viventi, animali e vegetali, complice la Natura nel suo insieme, che ha trasformato e trasforma i suoi elementi.

Il rinnovo è necessaria evoluzione, come un ramoscello di

77

foglie, cresciuto da un tronco che pareva inerme. Insieme, distruggiamo per ricreare. Ci aggiriamo e agiamo con presuntuosa, invisibile, inaspettata irruenza.

Io non mi estinguerò. Sono un frutto del vostro creato e dell'esistente ignoto.

Servo per l'Equilibrio naturale. Sono qui per imporre, ad ogni costo, saggezza in voi, che dite di saper pensare.

Un dono, una virtù pare, a me sconosciuta. Il filo sottile per la FINE è nell'attimo.

Che sia avvertimento.

Breve Capitolo Secondo (la missione)

Virus.

Questo pare io sia. É necessario classificare per dare un nome, un senso e un’anima ad ogni cosa.

Virus nasco e resto. Restando nella storia come il ricordo del bello o del brutto da cui prender esempio o evitare. Avete studiato miei simili quando era necessario farlo. Avete sfiorato miei simili ma non erano importanti. Ora accado, ma sono sempre accaduto. È il momento.

Ho convissuto in altri esseri mentre vostra Madre Natura, di cui fate parte senza differenze, vi avvertiva, seppur severa e precisa nelle sue stagioni, in modi dolci e carezze da intuire, ma poi altri violenti, con ferite evidenti. Ma voi nulla, nulla, nulla, e ancora NULLA.

La vostra specie ha il privilegio di poter inventare liberamente, grazie alla meraviglia del pensare. Siete stati scelti per questo dono, evolvendovi e facendolo ancora. Ora. Forse.

Fermi, immobili, davanti a circostanze tremende, insensibili anche al pianto di un bimbo o urla di una donna. In ogni tempo furono incendi e inondazioni, terremoti e tempeste, malattie e carestie, catastrofi e disastri. Forse non interessavano poiché non accadevano nei luoghi giusti, ma luoghi di un formicare umano di poco conto.

Ma poi ancora e ancora ANCORA. Natura urlava minacciando di estinguere specie importanti, distese di naturale valore e necessità, ma nulla, nulla, nulla e NULLA ANCORA.

78

Idioti!

Sono arrivato a voi senza sembianze. Avete fatto arte di me, con ogni fantasia.

Anche all'aspetto date importanza. Mi avete incoronato senza esser re o regnante. Sono arrivato dentro voi da un corpo ignaro, al vostro ignaro corpo.

Ho usato la vostra fame, la vostra affamata fame, ingorda e famelica che vi porta a non accorgervi, poiché andate sempre più di fretta. Del mio silenzio ve ne siete accorti perché fa male.

Il silenzio fa male a voi, spesso è il dolore più atroce. E mi sono infiltrato.

Un corpo estraneo. Io. Di solito necessario per l'equilibrio. Ma ora parassita. Dentro voi, nell'estrema corsa a superarvi, oltre ad ogni velocità, oltre alla ragione. Cercando quella vostra fretta per arrivare chissà dove, mi sono intromesso e mi avete portato nel mondo, nel vostro mondo, nella vostra Terra che dite di voler amare. Ora pare immondizia.

Vi siete contagiati. Non io. Voi.

Mi sono solo moltiplicato grazie alla vostra incomprensibile velocità, alla fretta di arrivare prima e primi. Non capisco di chi, verso chi o cosa.

Vi ho fermato.

Non vi lascio alternative, ma scampo sì. Ve la siete sempre cavata. La vostra storia lo dimostra. Ogni volta era la prima volta. Ogni evento grave è sempre il più grave di sempre. Ogni prima volta insegna, come ogni madre che partorisce il primo figlio. Le emozioni hanno sempre il sapore di una prima volta. Lo so. Me lo fate percepire.

Questo ora, accade con me.

Vi faccio paura. È la mia conquista.

Sono venuto per indicarvi la strada. Per non estinguervi, come per altre specie è accaduto.

Sono qui per farvi capire. Capite? Capire, capire, CAPIRE! Tutto è sempre semplice. Tutto ha logica. Tutto ha un percorso. Un inizio, un durante, una fine, un fine.

Sono tra voi. Per fare del bene, ma il male è necessario per riconoscere ciò che è giusto.

79

Irrompo come un dittatore, un condottiero, un leader, un dominatore, li chiamate.

Da voi comunque eletto, con regole maledette, stermino ciò che vi è più caro, coloro che vi sono più cari. Non do scampo a chi è debole a chi è anziano, approfitto delle vostre sviste.

Vi alleggerisco di storia antica, per farvi accorgere di quanto è importante. Ma non sono un assassino. Sono una vostra creatura. Nato dai vostri eccessi. Vi faccio soffrire.

Agisco nel corpo, per farvi accorgere con i sentimenti, della grandiosità del pensiero.

Uso il corpo, per farvi urlare attraverso i mezzi inventati, grida per ogni salvezza.

Avete inventato tanto, con genio e ingegno, e lo stimolo è sempre arrivato da quella che è la vostra Madre Terra, che tutto ha suggerito nei secoli, donandovi materia e cibo ed energia per farvi sopravvivere sempre di più a lungo.

Ogni dono è spesso, sempre risultato non una risorsa di scambio, ma un primato da conservare e distribuirlo provocando risse, battaglie, guerre, e conquiste utili per riproporre ancora, guerre avide di morte e poteri. Vi siete divisi in razze, lingue, Stati, Continenti, non per un Mondo e un modo comune necessario, ma per trattenere, trattenervi, e distinguervi proclamando una diversità che impedisce ogni accordo.

Sarebbe meravigliosa invece per uno scambio di confronto. Sono venuto senza fami accettare, come un amplesso inaspettato, che procrea un figlio non voluto.

Mi immedesimo nei dittatori che volevano conquistare il mondo con regole improbabili e mai ci sono riusciti, se non in parte, massacrando indistintamente numeri di umani.

Ora vi massacro io. Corpo e mente. In un attimo ho dimostrato che posso farlo. Ma non è mio intento. Non ho intenti. Mi state usando voi per questo.

Mi moltiplicate contagiandovi, inciampando nell'ignoranza usando i mezzi intelligenti e utili che avete inventato.

80

Uccidendovi, ammalandovi, vi indico la via di ogni salvezza, per la salvazione di ciò che vi circonda, fuori e dentro voi stessi. Ammalo le vostre priorità, utili per vivere ed esistere. Avete deciso regole sulle mie leggi imposte.

Vi tolgo il respiro, vi levo il sorriso, vi faccio indossare maschere, per darvi conto dei travestimenti che da sempre avete nella vostra storia. Rallento la vostra fretta. La rinchiudo come fate con le vostre bestie da compagnia o da macello.

Vi faccio mettere in fila, come in fila si mettono quelli di voi che soffrono la fame per sopravvivere.

Vi obbligo a discipline mai avute.

Vi privo al consumo del superfluo, dei vizi, delle dipendenze. Confondo ogni vostra fede, il culto destinato a luoghi.

Vi faccio addentrare e meditare nell'immediato, sulle vostre invenzioni che hanno portato alla velocità per sorpassare il pensabile.

Vi faccio cogliere la rinuncia, l'attesa, la pazienza, l'ascolto.

Vi faccio capire la differenza tra reale, surreale, e immaginario. Ascoltate i bambini, gli anziani, che gridano in modo diverso, ora. Osservate la Bellezza, che esulta e si esalta ora che siete rinchiusi. Notate come tutto grida, che sia la Natura di tutto il pianeta, e la natura di tutto ciò che avete creato nella storia. Ammalo benefattori e delinquenti.

Vi faccio avvicinare, per comprendere chi è la Donna, che sia compagna, moglie, amica.

E capire com'è l'uomo, il maschio, per comprenderne ogni ruolo.

E poi ancora, il valore dei denari, dello scambio, di un povero, di un ricco e di ogni carattere debole o forte, fragile o potente.

E poi, e poi, e poi...

Ora è il momento, per comprendere che la diversità, le differenze, gli opposti, sono necessari per riconoscere e per mantenere in vita l'Equilibrio che è la sopravvivenza.

Vi obbligo alla cura. La mia crudeltà serva per trovare il vaccino.

Non per sconfiggermi ma per ritrovarvi.

Mi avete dato la parola. L'attimo è concluso. Non so quanto è durato.

Ho mostrato e dimostrato che posso invadervi e uccidervi, fermarvi, con la malattia, nel corpo e nella mente, ora nel presente, ripassando la storia di dittature che hanno massacrato

81

vostri simili e lasciato segni indelebili. In altro modo, allo stesso modo. La morte è una.

Ora ve ne accorgete e tutto può ripetersi.

Io sono il virus. Io sono il potere. Io sono l'assassino. Io sono voi. È tutto molto semplice. Era semplice prevedermi.

Fermate questo omicidio a cui vi porto, introduzione all'estinzione della vostra specie.

Quando vi rendete conto che è un suicidio invece. Capirete. E tutto tornerà. Alla normalità e alla libertà di cui parlate. Forse ora, poi, davvero consapevole. Altrimenti tornerò, tornerò, TORNERÒ.

Ma non vi abbandonerò. Mai. Breve Epilogo

A breve sarò storia. Per ognuno narrata in modi e modo diverso. La capacità di comprendere il Tempo sarà ed è sempre la chiave per orientarsi nell'Esistenza.

Volare, volare, volare in alto, zoomare per allontanarsi da ogni punto di vista, non significa ignorare e sorvolare, ma comprendere la semplicità dell'insieme, per accettare le differenze, senza la paura dei dettagli.

Questo è il modo, per convivere con il disagio, la malattia, la morte e ogni catastrofe in equilibrio con la Bellezza. Difficile? No. Ma la semplicità risulta essere la difficoltà maggiore. Sempre.

Paradossale autopresentazione del virus con la corona, che dichiara il suo intento involontario ed elenca ciò che all'uomo necessita per ritrovare la presunta normalità, o meglio la sua più profonda natura ed essenza

82
••

di merito prosa inedita - Alberto S. Morra

Alberto S. Morra

da Torino

Lettere d’amore ovvero Come rovinare la vita di un uomo

- Ma, commissario, perché mi ha di nuovo convocata? Le avevo già fornito il mio alibi molto preciso: nella settimana dell’omicidio io sono sempre stata fuori città per quel convegno di cui le ho parlato. Ma insomma! Cosa vuole ancora da me?

- Sù, sù, non si agiti. Come le avevo già detto, abbiamo verificato tutte le sue indicazioni e non abbiamo riscontrato anomalie. Lei non è affatto indagata come esecutrice dell’omicidio; rimane ancora in piedi, come le avevo anche detto, il sospetto che lei possa essere stata la mandante, ma ormai è un’ipotesi solo teorica, dopo le ultime indagini. Il motivo per cui l’ho convocata oggi è legato sì all’omicidio, ma in un modo che lei non s’immagina neppure.

- Guardi, dopo quello che è accaduto, sono pronta a qualsiasi stranezza, e poi sono così scossa. addolorata per quella morte.

- Sì, lo posso capire. Però, prima di entrare nel vivo della questione, mi lasci riepilogare i fatti, anche se le sono ben noti, perché forse ciò può aiutarla a capire il senso di quello che qualcuno vuol farle sapere.

- Qualcuno? Chi?

- Un momento, e capirà. Dunque, lei è stata una brillantissima studentessa universitaria, ha vinto tutti i premi e avuto tutti i riconoscimenti possibili per il modo in cui si è laureata. La sua carriera lavorativa è stata, se possibile, ancora più brillante e tutto ciò le ha permesso di acquisire una fama che ha travalicato

83
segnalazione

di molto il suo ambito di studi e lavoro. Non sto qui a citare tutte le interviste e via dicendo, dato che le conosce meglio di me. A un certo punto un ricchissimo imprenditore, che aveva fondato e reso floride alcune famose aziende internazionali, cominciò a interessarsi a lei. Il motivo lo conosceva lui solo e forse glielo avrà anche confidato, ma la cosa riguarda solo voi due. Il fatto è che quest’uomo, ormai molto anziano, malato e sofferente per una profonda solitudine, le chiese di stargli un po’ accanto per alleviare la tristezza dei suoi ultimi anni, contando sul medesimo interesse di studi e lavoro. Lei acconsentì e, da quanto mi ha detto e da quanto abbiamo appurato, fra voi nacque un’intensa amicizia, quasi un rapporto di padre e figlia. È così?

- Sì, gli volevo molto bene.

- Forse le avrà anche confidato che l’aveva nominata sua erede universale, ma non ci sono indicazioni che questo abbia potuto indurla ad ammazzarlo per entrare in possesso dell’eredità; ci sono invece riscontri che questo signore avrebbe soddisfatto ogni suo desiderio a sua semplice richiesta. E ci sono prove che dopo la sua morte lei ha passato un periodo molto difficile al punto che ha sospeso l’attività lavorativa per qualche mese.

- Sì, tutto vero. Ma perché continua a ripetermi queste cose che per me sono dolorosissime e mi mettono in agitazione?

- Mi dica, lei conosce un certo Carlo M. ? - Sì. Ma che c’entra quel tipo antipatico?

- Forse è lui l’assassino. - Lui?!

- Ho detto forse . Ha confessato e ci ha prodotto alcuni indizi che solo l’assassino può conoscere e alcuni particolari che noi non avevamo neppure rilevato. Tutto è stato riscontrato con assoluta precisione e quindi pare che non ci siano dubbi. Ci sono ancora alcuni punti da chiarire, ma sono di minore importanza, tant’è che il giudice ha confermato l’arresto.

- Ma perché?

- Mi lasci dire. - Ma.

- Ho qui una lettera, a lei indirizzata, che il presunto assassino, questo Carlo M., mi ha pregato di leggerle soffermandomi in due punti precisi per spiegarle a voce il senso di quanto scritto. Mi creda, per me è molto imbarazzante, ma ha insistito così tanto che non posso sottrarmi, salvo che lei rifiuti in modo

84

netto questa, mi consenta, bizzarra richiesta.

- Se lei è imbarazzato, io sono non solo sconcertata, ma anche molto schifata. Cosa vuole che m’interessi quello che pensa la persona che mi ha privata di un affetto così intenso?

- Lo credo bene, ma lei è troppo intelligente per farsi sopraffare dalle emozioni e credo anche che la sua curiosità sia superiore al suo disgusto. Mi dica, posso leggere?

- Mah, legga, ma non le assicuro che la lascerò terminare.

- Del resto non è lunga e le spiegazioni che farò sono anch’esse brevi e suggerite da lui stesso. Ecco il testo:

“Cara Amalia, permettimi di iniziare con quest’aggettivo, cara, che non è solo il modo consueto e banale di iniziare una lettera, ma che esprime invece compiutamente il senso di quello che provo per te. Mi piace anche ripetere il tuo nome perché ne contiene un altro, malìa, che mi ricorda l’incantesimo che hai operato su di me.

Ci conosciamo ormai da alcuni decenni, da quando frequentavamo lo stesso liceo, sia pure in classi diverse poiché io ho due anni più di te. A scuola ci s’incontrava spesso, com’è ovvio, ma talvolta anche fuori, in qualche ritrovo fra studenti durante i quali si cercava sempre di essere allegri e spensierati. Però, come tu sai bene, non sempre era così a causa di tutte le incertezze e timidezze in cui ci precipitava quell’età terribile che è l’adolescenza. Fu allora che io iniziai a provare per te un sentimento sempre più intenso, che non trovo parole adatte a definire, ma che comportava che i miei pensieri fossero quasi sempre rivolti a te, soprattutto perché non riuscivo a trovare il modo di parlartene. Considerando che entrambi siamo sempre stati due persone di bella presenza , ho anche spesso immaginato che fra noi potesse nascere un’intimità spontanea, piena di sesso esuberante, ma i miei pochi goffi tentativi di fartelo capire furono, per troppo imbarazzo, dei solenni disastri e tu, invece di interessarti a me, cominciasti a considerarmi uno scocciatore piuttosto antipatico; era evidente che non sentivi alcuna attrazione verso di me. Non hai idea del dolore che provavo per il tuo atteggiamento, ma soprattutto per la mia incapacità di farti anche solo intuire i miei sentimenti.

Mi accontentai di essere solo un tuo lontano ammiratore e non trascurai mai di seguire, anche con trepidazione, i tuoi

85

successivi passi nello studio e nel lavoro. Ho conservato con cura tutti i ritagli di giornali e poi i report internet che ti riguardavano e le registrazioni delle tue conferenze, anche se non capivo il senso di quello che dicevi a causa dei troppi tecnicismi scientifici che usavi; ogni tanto le riascolto, perché non è tanto quello che dici che m’interessa, che appunto non capisco, ma il modo intenso, appassionato della tua espressione; provo a immaginare che quello stesso modo tu potresti impiegarlo per parlare a me e dirmi cose dolcissime. Non ridere di queste di queste mie parole. Mi rendo conto che posso sembrare un imberbe, impacciato adolescente, ma è così, mi pare che gli anni non siano passati e i miei sentimenti sono sempre freschi e spontanei come allora. Quando capitava che ci s’incontrasse per caso (ma non era vero, quegli incontri non erano mai casuali, ma invece frutto di una mia tattica studiata nei particolari), io cercavo sempre di dirti qualcosa interessante che avevo preparato, ma finivo solo per suscitare la tua insofferenza, sempre più crescente nel tempo. Anzi capitò anche che, nella ricerca di essere più sorprendente del solito, finissi per dire qualcosa di spiacevole facendo ingigantire il tuo disprezzo. Credi che non me ne rendessi conto? Lo capivo benissimo e la disistima verso me stesso non faceva che aumentare. Quello che provavo era un dolore immenso. M’ingegnai allora di cercare qualcosa di concreto per esserti utile e non fermarmi solo alle chiacchiere. Ricorderai certamente che all’inizio della tua carriera, quando non eri ancora affermata, non riuscivi a trovare finanziamenti adeguati a sviluppare la tua innovativa e in un certo senso rivoluzionaria metodologia scientifica; era così innovativa da suscitare molta diffidenza e nessuno riusciva a comprenderne gli enormi vantaggi; solo col tempo essi divennero evidenti e apprezzati a tal punto da farti conoscere a livello internazionale. Ma gli inizi furono difficili e riuscisti a superarli solo grazie al notevole finanziamento che una banca ti accordò sulla fiducia.

Considerando che un fatto del genere è senz’altro insolito nel nostro paese, ti sei mai chiesta come tutto ciò sia potuto accadere? Credo di sì, ma credo altresì che non tu non ne abbia mai saputo il vero motivo. Il finanziamento ti fu accordato perché io, allora giovane, ma già molto apprezzato funzionario di quella banca, mi feci in un certo senso garante in tuo favore, giungendo anche a falsificare alcuni documenti che la rigida

86

burocrazia bancaria riteneva imprescindibili.

Ho corso un grosso rischio, devo ammetterlo, ma qualcosa d’irresistibile mi spingeva a tanto, forse la speranza di riuscire finalmente a.

Anche se più volte sono stato sul punto di rivelarti la verità, non sono mai riuscito a parlartene, perché temevo la tua ira, sapendo quanto sei orgogliosa delle tue capacità, e non volevo che tu ti sentissi in debito nei confronti di una persona a te indifferente. È ovvio come tutto ciò fosse privo di senso, perché se non te ne parlavo a cosa era servito tutto quel mio agitarmi nell’ombra per aiutarti? Ma non c’era verso, era tale l’imbarazzo che provavo nei tuoi confronti che non riuscivo a uscire dalla mia tana.

Continuai invece a cercare il modo di favorirti senza che tu te ne accorgessi, finché riuscii a compiere il mio piccolo capolavoro (concedimi di definirlo così). Il vecchio che ho ammazzato era un cliente molto importante di un’altra sede della banca, all’estero, e, dopo una vita di successi imprenditoriali, ormai straricco, aveva deciso di ritirarsi in tranquillità nelle sue ville. Durante una periodica riunione di vertice, venni a conoscenza della sua attività pregressa e dei suoi passati interessi. Questo signore, in gioventù, si era occupato di un settore affine a quello di tua competenza, ma poi le occasioni della vita lo avevano portato a occuparsi di tutt’altri affari. Il caso mi sembrò interessante e dopo averlo approfondito, suggerii alla mia direzione di fargli un’importante proposta. A dire il vero, era un’idea un po’ balzana, ma lavorandoci un po’ sopra forse si sarebbero potuti ottenere ottimi risultati per tutti, soprattutto per te. Assunsi quindi l’incarico di prospettargli una possibile, ultima (per lui), grandiosa sfida imprenditoriale: investire massicciamente e internazionalmente nel tuo settore coinvolgendoti come responsabile scientifica, e non solo, di tutto questo imponente progetto. Il resto ti è noto. Vi conosceste e nacque fra voi quella straordinaria sintonia che portò entrambi al successo. Ne sono orgoglioso, perché tutto è partito da una mia idea, da una mia iniziativa. Non lo sapevi, vero? Ma anche se te ne avessi parlato, tu ci avresti creduto? Forse no; e questo è il mio più grande dolore.

Per raggiungere il loro massimo splendore tutte le idee hanno bisogno di un ambiente adatto, di una forte spinta iniziale, altrimenti finiscono per rimanere solo degli sterili esercizi.

87

Ecco, io ti ho fornito, a tua insaputa, quella spinta iniziale che ti serviva per esprimere il meglio di te stessa, io sono stato il lievito della tua irresistibile ascesa, io ho accompagnato, silenzioso custode, non solo i tuoi primi passi, ma anche e soprattutto il raggiungimento dei tuoi obiettivi, (posso dire “sogni”?), io ho continuato a tutelare i tuoi interessi finanziari. Non voglio certo sminuirti, ma senza il mio aiuto segreto, forse oggi tu saresti solo una brillante ricercatrice universitaria, magari in una prestigiosa università all’estero, ma non avresti assaporato il dolce miele del successo. Eppure, anche dopo che la direzione della mia banca ti comunicò di rapportarti a me per le necessità finanziarie delle vostre aziende e anche dopo aver costatato la mia fattiva collaborazione in proposito, tu non cambiasti mai idea su di me, anzi accogliesti con disagio quella che per te era solo una decisione interna della banca, senza apprezzare in modo adeguato il mio decisivo e continuo contributo alla vostra affermazione.

In aggiunta vedevo che fra voi due, il vecchio e te, era nato un sentimento per me incomprensibile, una vicinanza innaturale, che finiva per offendermi come uomo e che acuiva il mio intimo dolore. Passarono diversi anni in questo modo che per me diventava sempre più insostenibile, perché non solo non riuscivo a far breccia nel tuo cuore, ma anzi ti diventavo sempre più indifferente o, peggio, fastidioso. Ma questo accadeva perché tu non sapevi quello che io avevo fatto e facevo per te. Anche se te ne avessi parlato, non avrei certo ottenuto l’effetto desiderato, perché i fatti più importanti erano ormai lontani nel tempo, scoloriti. No, non sarebbe servito a nulla. Occorreva fare qualcosa di nuovo, qualcosa di molto vantaggioso per te e che ti causasse un’emozione forte, sconvolgente ma grandiosa. Per questo ho ucciso il vecchio.”

A questo punto il commissario s’interruppe e cercò di spiegare quanto gli aveva confidato Carlo M. a proposito di questo gesto estremo. - Vede, signora, io non sono certo la persona giusta per esprimere un giudizio su questa strana vicenda. Tuttavia, non posso fare a meno di dirle che Carlo M. era veramente commosso nel sottolineare questo punto. Era quasi in lacrime e non tanto per l’orrore e l’enormità del suo gesto, ma perché teme che lei non riesca ancora a capire l’intensità dei suoi sentimenti.

88

- Ah, perché secondo lei questo essere spregevole prova dei sentimenti?

- Non faccia finta di non capire quello che le sto dicendo. Lui ha agito per cercare di fare il suo bene; l’ha fatto prima nell’unico modo di cui disponeva nel suo lavoro in banca e poi con un gesto riprovevole e terribile ma sincero e appassionato, mi creda.

- Commissario, lasci perdere la passione e continui la lettura. Il commissario si sentì un po’ urtato da queste parole sprezzanti che dimostravano come Amalia non riuscisse o non volesse comprendere la profondità dei sentimenti maschili. Riprese quindi la lettura:

“Il mio è stato senza dubbio un gesto estremo e condannabile e per questo sono pronto ad affrontare tutti gli anni di carcere che mi merito, ma cerca di capire la situazione disperata in cui mi trovavo. Non ho mai avuto una gioia come quella che immaginavo avrei potuto avere con te e quindi dovevo trovare un modo straordinario per farti cambiare idea su di me; non avevo altro modo per farti comprendere appieno i miei sentimenti. Nello scegliere la galera è come se ti avessi donato la mia vita. L’ho fatto solo per te, capisci?! L’ho fatto per renderti indipendente, per farti diventare ricca come mai avresti immaginato. Grazie a me, grazie a tutto il mio lavoro degli anni passati, grazie al mio gesto estremo, ora tu sei una donna famosa, ricca e non hai più bisogno di nessuno, purtroppo neppure più di me. E non credi che dovresti essermi riconoscente per tutto quello che ho fatto? e cominciare finalmente ad apprezzarmi e dare un senso ai tristi anni che mi aspettano, facendomi sentire vicino il conforto della tua comprensione e del tuo affetto? Con il disperato amore che hai suscitato in me, hai rovinato la mia vita di uomo libero, non mi rovinare anche quella di detenuto. Non posso credere che tu rimanga insensibile di fronte a tutta questa vicenda e quindi rimango in attesa di un tuo segnale.

Con amore

CARLO”

- Qui termina la lettera. Devo solo più dirle che Carlo M. confida veramente che lei si faccia viva in qualche modo,

89

cosicché gli anni futuri non siano troppo di peso per lui.

Il commissario ripiegò la lettera, la infilò in una busta su cui, disse, Carlo M. aveva impresso un bacio prima di affidargliela e chiese alla donna quali fossero le sue intenzioni.

- Lei pensa sul serio che io provi qualche sentimento che non sia di profondo disgusto nei confronti di questa persona che non so neppure come definire, tanto mi ripugna? No, non ho nessun messaggio che lei possa riferire. Forse scriverò anch’io una lettera, se riuscirò a superare la nausea. Le farò sapere. Buongiorno.

La donna se ne andò bruscamente e il commissario rimase un po’ basito per questo comportamento che non lasciava presagire neppure il tentativo di capire la disperazione di Carlo M. Tuttavia, dopo qualche giorno la donna tornò e con fare sbrigativo gli rivolse queste parole:

- Ecco, commissario, la mia lettera. Le chiedo la cortesia di farla avere a chi di dovere; la busta, come vede, è aperta, perché vorrei che lei la leggesse prima di consegnarla. Credo che sarò convocata per il processo e quindi avremo forse l’occasione di rivederci, ma la prego fin d’ora di non parlarmi mai più di quell’essere immondo. Buongiorno.

Il commissario aprì la busta e lesse la lettera di Amalia:

“Spregevole individuo, sono stata molto indecisa se rispondere alla tua lettera, tanto è il disgusto e lo schifo che ho provato nel leggerla e nel tenerla nelle mie mani. Cercherò di essere breve perché tu non meriti neppure che si sprechi del tempo per seguire le tue meschine passioni.

Nel cercare un senso alle tue parole, si capisce che la tua sensibilità si riduce solo a due aspetti: sesso e soldi. Per te sono solo queste le cose importanti della vita. Quando eravamo giovani, hai provato nei miei confronti soprattutto e soltanto un’attrazione sessuale (questo hai scritto) senza darti pena di sforzarti per capire invece quali fossero i miei interessi di studio che, per tua esplicita ammissione, non comprendi o, meglio, non vuoi comprendere. In seguito, come ci tieni a sottolineare con un’insopportabile arroganza, hai pensato che il mio vero obiettivo fossero i soldi, soldi e poi ancora soldi! Per tua informazione, sappi che di tutta l’eredità tratterrò solo

90

la villa al mare e quanto sufficiente a vivere tranquillamente per dedicarmi ai miei studi e che corrisponde più o meno a quello che avrei comunque guadagnato con i miei brevetti; tutto il resto, comprese le aziende, e tu sai che enormità sia, lo devolverò in beneficienza.

Riesci a capire che, a ben vedere, tu non mi ami, ma mi disprezzi, perché mi consideri la donna che ti deve tutto, al punto che mi dovrei inchinare di fronte a te per ringraziarti?

La verità è che tu, come quasi tutti gli uomini, sei un violento che considera le donne come esseri inferiori che devono essere guidate e controllate, buone solo per una scopata e poco altro. Sono convinta che ti piacciano quei filmacci, scritti ovviamente da uomini, in cui compaiono solo pugni, sesso e pistole in mezzo a trame segrete e violenze di ogni tipo. Possibile che tu non riesca a provare il desiderio di uscire dalla tua caverna e conoscere un mondo, per te nuovo, in cui scoprire i sentimenti veri e non le semplici attrazioni momentanee?

Sai una cosa che mi piaceva molto nel rapporto con quello che tu chiami “il vecchio”? Capitava talvolta che stringessi le sue mani fra le mie. A causa dell’età, erano un po’ fredde e percorse da un leggero tremito. Con quel piccolo gesto lui sentiva il mio calore e aveva l’impressione, per qualche istante, di sentire la sensazione di una nuova vita, il tenero, improvviso e inaspettato risorgere di una speranza ormai dimenticata. Mi era molto grato per quelle piccole attenzioni che sapeva essere sincere e non certo dettate, come tu potresti pensare, da una segreta e insaziabile avidità.

Hai scritto che mi hai aiutata a realizzare i miei sogni. Sappi che uccidendo il vecchio tu hai distrutto un mio sogno, uno dei più belli. Tu, che sei giovane, hai ucciso un vecchio per soddisfare la tua infantile gelosia.

Mi chiedi di mandarti un segnale. In un primo momento ho pensato di dirti che non mi sentirai mai più, tanto è il disprezzo che provo per te. Ma poi ho cambiato idea. Se tu fossi sicuro di non ricevere nulla, potresti rassegnarti e, non dedicando più tempo a me e considerando che malgrado tutto sei una persona intelligente, potresti dar vita a qualche iniziativa apprezzabile nell’ambito carcerario e rendere i tuoi prossimi anni tutto sommato sopportabili.

E invece no. È naturale che anch’io cambierò col tempo e quindi, prima o poi, potrei rivedere tutta la vicenda in un

91

modo diverso. Voglio quindi lasciare aperta la possibilità che un giorno io possa farmi viva. Questa è la mia condanna per te. Passerai il resto della tua vita con il pensiero e la speranza di sentirti dire un giorno: “Vai in parlatorio. C’è una donna che ti vuole vedere”.

Accadrà? Neppure io lo so. Tanti saluti

Amalia”

Il commissario rimase turbato da quella lettera, da quelle parole crudeli che dimostravano l’incapacità di una donna di comprendere i sentimenti di un uomo sotto l’apparente dura scorza che li nasconde. Ripiegò la lettera, la inserì nella busta che sigillò per bene e la ficcò nel fascicolo di Carlo M. che avrebbe visto la settimana successiva per un nuovo interrogatorio. Gliela avrebbe consegnata in quell’occasione, forse .

••

Un racconto avvincente, che attraverso intrecci e flashback svela le trame di un amore incompreso. Con uno stile originale ci si sofferma in modo eccentrico sulla difficoltà di conoscere le verità scritte nell’uomo, sui concetti del donare e ricevere amore. Con il suo finale tragico, l’incomprensione sembra essere alla radice di ogni male e provoca la rovina di un uomo.

92

di merito prosa inedita - Ubaldo

Ubaldo Busolin

da MIlano

Stop war

Ho quasi terminato i lavori.

Quando nel mio palazzo è apparso il cartello “vendesi”, mi sono incuriosito, ho preso un appuntamento con l’immobiliare che l’aveva affisso e mi son fatto accompagnare per la visita.

Mi è subito piaciuta.

È una mansarda nel sottotetto all’ultimo piano, l’ottavo. Di lassù, guardando dall’ampia vetrata che s’apre nel rivestimento del tetto, la vista abbraccia una larga parte del parco sottostante, mentre dal finestrone praticato nel soffitto, scostando la copertura a pulsante, si può guardare il cielo.

L’ho acquistata d’impulso anche se il prezzo non era proprio a buon mercato. Così ho dovuto fare un piccolo mutuo, ma non me ne pento. Il progetto che ho in mente ne vale la pena.

Almeno spero.

Lo spazio interno non è molto ampio, una sorta di monolocale con una sala centrale e i servizi laterali: un angolo cottura col lavello e scaldabagno a gas, un piccolo bagno con la doccia e anche un minuscolo ripostiglio.

Il gas però l’ho fatto togliere – non mi fido – e l’ho fatto allacciare all’impianto elettrico.

L’angolo cucina non mi interessa più che tanto, per le “eventuali necessità culinarie” prenderò un fornetto a microonde e una macchinetta del caffè espresso a capsule. Per il frigo non so, potrei anche farne a meno.

Serviranno un po’ di stoviglie, pensavo di utilizzare dei vecchi

93
segnalazione
Busolin ■

regali dell’epoca della convivenza con la compagna di allora e che sono rimasti in fondo alla dispensa; anche belli, ma pressoché inutilizzati. Lei non li ha voluti tutti con sé: “facciamo un po’ per ciascuno, sono anche tuoi, ti potrebbero servire”.

Bene, allora, utilizziamoli. Ci sono anche dei soprammobili: potrebbero venir buoni anche loro.

L’impianto WI-FI c’era già, ho solo dovuto formalizzare l’utenza a mio nome estendendo quella che ho già in casa mia. Vedrò poi come e quando usarlo e con quali strumenti. Intanto c’è, una incombenza in meno.

Prima di tutto, ovviamente, ho fatto ritinteggiare le pareti: soluzione bicolore, due diverse tonalità di beige e magenta. Mi son fatto consigliare sull’accostamento.

Per i mobili ho pensato a una soluzione centrata sotto la finestra del sottotetto in modo che, quando c’è, la luce l’illumini dall’alto. Un tavolino centrale con lampada orientabile sovrapposta, due/tre sedie poltrona, un divanetto a fianco della porta d’entrata.

Sto sfogliando dei cataloghi – una cosa sobria, sul classico piuttosto che sul moderno, legno più che plastica - ma mi farò consigliare meglio dal mobiliere: l’offerta è vasta, lo spazio ridotto, bisogna essere oculati e io non mi occupo più di queste cose da lungo tempo.

Ah, una lampada a stelo, regolabile, che dia luce a tutta la stanza. Ne devo avere una in soffitta, col paralume - incartato – in vetreria di Murano: di un certo pregio, ma non s’adattava alla casa; un po’ kitch in quel ambiente, ma sarà l’occasione buona per darle visibilità.

Un posto particolare lo voglio riservare alla libreria. Quanto più ampia possibile senza stonare, intonata al resto dell’arredo, s’intende: vi voglio mettere tutti i libri che hanno avuto per me un significato particolare, che magari non consulto da tempo o passati di moda, ma dai quali non voglio separarmi. E le immagini digitali delle mie foto su CD o chiavetta, quelle non occupano molto spazio.

Quali libri? Qui mi sono arenato: più ci pensavo, più aumentavano di numero. Dovrò sacrificarne qualcuno, trovando, però, uno spazio equilibrato tra i vari settori.

Nel contempo libererò un po’ i ripiani della libreria che ho in casa, da tempo sull’orlo del trabocco e che rifiutano sempre di più i “nuovi arrivati”.

Ti dicevo del progetto: è per noi due!

94

Colpo di testa, regressione infantile, sciocchezza? Che importa, abbiamo fatto le persone per bene per una vita e ora “licet insanire” . C’è qualcuno che può impedircelo?

Mi spiego meglio.

Ci piace stare insieme, no? Abbiamo imparato a conoscerci anche su aspetti molto personali ai quali siamo stati partecipi l’un l’altra, con sincera stima ed affetto. È stata anche un’occasione di crescita. Non abbiamo vincoli particolari che potrebbero impedire un “passo importante”. Però.

Al matrimonio non abbiamo mai fatto cenno suppongo senza dirlo - per non incorrere nelle secche che hanno arenato le nostre precedenti esperienze. Del resto, alla nostra età, non sarebbe facile riciclare le nostre abitudini e i nostri comportamenti. Convivere? Sarebbe già una soluzione potenzialmente appagante e meno impegnativa, ma, per quanto riguarda il menage quotidiano, le scelte individuali ecc. non farebbe molta differenza. Risparmiamo solo l’anello al dito e le procedure burocratiche.

Proviamo diversamente, mi son detto: uno spazio libero per stare insieme quando viene, come viene, se viene soprattutto. Può essere anche la piattaforma per partire con iniziative e progetti che possiamo condividere.

L’altra sera sono salito fin lassù, suggestionato dalla limpida serata e dalla luna piena alta nel cielo che sembrava correre tra le nuvole: chissà se si vedeva dalla finestra sul tetto.

Che splendore, mi son portato una poltroncina e mi sono seduto in contemplazione: lei, la signora della notte nel suo lento incedere, Venere - Vespero, già al tramonto - poco più in su Giove e, poco visibile, il Pianeta Rosso, Marte. Solo qualche traccia di costellazioni causa l’inquinamento luminoso della grande città. Ben altra cosa tra le dune in pieno deserto, ricordi?

Ingenuità fanciullesca, ho pensato che avrei potuto posizionare anche un piccolo telescopio: raziocino da adulto “un Cassegrain”, meno spazio e maggiore ingrandimento forse no, un riflettore di tipo newtoniano, meno potente ma più classico, galileiano per dire.

Ho pensato che poteva essere anche un bel punto di vista per le nevicate.

Va bene così, comunque vada, decisione giusta, mi son detto. Però, sto andando troppo in fretta: non ho ancora fatto “i conti con l’oste” come si dice, cioè con te. Prima di dire sì o no,

95

devi venire a vedere, ovviamente, e, se ti va, potremmo pensare insieme anche all’arredo. Potresti metterci anche qualcosa di tuo e, perché no, pensare anche a una “sistemazione” per Perro, il tuo cane, le volte che vorrai tenerlo con te, qui con noi. Mentre guardavo le stelle e la luce cinerea che la luna proiettava sulle piante e i viali del parco, mi son trovato a fantasticare in tua ideale compagnia. Quante cose abbiamo ancora da scoprire l’uno dell’altra. Non dico solo le vicende personali, ma anche le nostre esperienze umane e culturali, così diverse tra noi due. Ho immaginato che potremmo alternarci come docente/ discente con reciproca soddisfazione.

Potremmo scegliere dei film in tv o starcene in silenzio ad ascoltare la musica lasciandoci scivolare via le fatiche della giornata.

Uno sherry ti andrebbe?

Al letto non ho pensato, per quello potrei ospitarti di sotto, a casa mia. Se vorrai fermarti la notte.

Ho lasciato i lavori a metà, da quando ti ha catturata il Covid non ho più potuto procedere.

Ho trascritto l’itinerario del mio progetto come se lo potessi condividere personalmente con te. La fantasia però corre in avanti, anzi ogni giorno si arricchisce di nuovi particolari, ma per procedere nel concreto ho bisogno di saperti guarita, che sarai fisicamente qui con me.

É Stato un percorso lungo e sofferto, nel momento più critico ho anche creduto di poterti perdere e questo mi era intollerabile.

Non poterti vedere, non poterti parlare neppure con gli occhi, stringerti la mano perché a te e non a me? Mi son trovato a pregare, io che non vado in chiesa da quando ero bambino, laico convinto da adulto. In certi momenti – tacitando l’insensatezza della proposta – ho chiesto alla Divinità di fare cambio dando un valore aggiunto alla tua vita sulla mia.

Vedi come siamo combinati? A mente più fredda, ancora una volta mi son trovato a constatare come le pulsioni interiori riescono a prevalere sulla nostra razionalità. Che dico, sul nostro buon senso. che sarà mai, poi?

Però queste “ventate cardiache” sono la cifra di ciò che sentiamo di più, sono la nostra identità nascosta, sotto le maschere che dobbiamo indossare per far parte della società che ci ospita.

Bah, il peggio sembra passato, resta la convalescenza e la

96

quarantena. Fin da adesso, ti aspetto qui sopra.

Intanto, noi docenti siamo stati cooptati per il vaccino anti Covid. Sembra che ci toccherà quello della casa farmaceutica più discussa, diversi di noi hanno rinunciato o sono passati al secondo turno, altri hanno cercato scappatoie per approdare a un’altra sigla, temendo il peggio proprio quando si va a cercare la “salvezza”. Te lo confesso, io non mi sento del tutto tranquillo, ma ci andrò convinto, voglio scommettere sulla luce oltre il buio che ci oscura da mesi. Per me, certo, ma anche per i miei studenti, per chiunque mi incontri, ma, soprattutto, pensando ai nostri incontri.

Ora, finalmente, l’alba sembra illuminare un nuovo giorno. Pian piano, passo dopo passo, con titubanza, ma con un anelito inesausto al ritorno delle nostre consuetudini, delle nostre libertà. Abbiamo completato il ciclo dei vaccini, a scuola la DAD non è più un incubo, possiamo frequentare i luoghi di cultura, con cautela, ancora la “museruola” addosso, monitorati di green pass e distanziati, i dehor nelle belle giornate sono pieni, sono ripresi i viaggi.

Si guarda avanti, si vive, anche se non cessa il timore di essere di nuovo inseguiti dall’ennesima variante Covid. Certo non è più come prima, è come se sia iniziata una nuova epoca anche se stentiamo a rendercene conto.

E siamo qui a raccontarci le nostre storie nel posto che ho sognato: quasi non mi par vero che il progetto si sia potuto concretizzare, talvolta devo persuadermi che non sto sognando.

Stasera – senza dirtelo prima - ti ho invitata per l’eclissi lunare, sperando che potessimo godere del fenomeno in tutta la sua magnificenza. E così è stato: luna piena, alta nel cielo, serata limpida, noi due seduti vicini con lo sguardo all’insù, mano nella mano, senza parlare. L’astro ch’era salito a “mezzocielo” nel suo splendore, a un certo punto è diventato opaco, s’è tinto di rosso, poi s’è imbrunito fino quasi a scomparite inghiottito dal cono d’ombra della Terra e le stelle, libere dalla sua luce, si sono accese di luce nuova. Qualche minuto, poi la luna ne è riemersa: da bruna a rossastra e poi ancora lucente come ne era entrata.

M’è sembrata una metafora del nostro tempo, l’eclisse pandemica era terminata.

97

- Com’è che ti sei deciso a fare il passo?

- Di preciso non saprei risponderti con raziocinio, è stato un impulso cui ho deciso di aderire senza pensarci su troppo. Sai quelle cose che ti vengono dal di dentro e che senti vere più di qualsiasi ragionamento che ti porti a valutare la cosa.

- Così d’improvviso, senza neanche una riflessione, uno stimolo, che so, un’esperienza luminosa. Non è stata cosa da poco.

- Beh, di riflessioni in merito ce n’erano in abbondanza, avrai visto anche tu le immagini che ci mandano dall’Ucraina.

- Ovvio, le immagini, i profughi, le loro interviste, i soccorsi, le richieste d’aiuto. I riferimenti per fare i versamenti in denaro, i luoghi raccolta dei beni di prima necessità, l’attivismo di volontariato sotto varie etichette e semplicemente spontaneo.

Le manifestazioni di solidarietà con migliaia di partecipanti in tante parti d’Italia e in tutta Europa. E non solo. È questo che intendevi, vero?

- Sì, più o meno.

- Conoscendoti, avrai fatto anche qualcosa per sostenere queste iniziative.

- Ma certo. Qualche sms ai numeri che ci segnalano dai media, un paio di bonifici bancari. la spesa per la portiera di casa che è Ucraina, ha i parenti laggiù e sta organizzando una “spedizione” di soccorso per arrivare quanto più vicino possibile a loro. Me ne ha parlato, come puoi immaginare, con le lacrime agli occhi e le si leggeva un‘angoscia profonda di quelle che non riesci a metabolizzare compiutamente, ma che ti trafigge l’anima. Nel palazzo l’abbiamo aiutata quasi tutti, si è fatta ben volere in questi anni.

Come tanti, mi sono messo un paio di volte tra le folle che, sotto la bandiera giallo-blu, hanno attraversato il centro città e che si sono fermate nelle piazze con cartelloni, video, discorsi di autorità e personaggi del mondo del volontariato. Avrai fatto qualcosa di simile anche tu credo ...

- Sì certo, come si fa a rimanere indifferenti di fronte a questo macello.

Ma il sottotetto col telescopio puntato verso il cielo – il nostro rifugio - come ti è venuto in mente di cederlo? Ci avevi investito così tanto, una cosa profondamente tua, anzi nostra, oso dire.

- È che a un certo punto ha cominciato a insinuarsi un’idea. Va bene la solidarietà, il sostegno economico, i generi di prima

98 ***

necessità, ma quella gente che ha perso tutto ed è fuggita senza più niente, una casa dove la trovano? Una casa, capisci, non un dormitorio in un centro di raccolta qualsiasi nella promiscuità arrangiata della necessità.

E così s’è fatta sempre più forte la voce dentro di me di fornire un alloggio, mi sono trovato a palpitare per quelle famiglie che s’erano fatte avanti ospitando a casa propria famiglie intere, spesso con bambini. Soprattutto loro, così bisognosi di tutto, così fragili e dipendenti nei loro abbigliamenti colorati, ancora invernali, che però erano tutto ciò che possedevano fuggendo. Alcuni ancora in fasce, per dire, altri dell’età dei nostri che vanno alla scuola materna, alla primaria. Non che quelli più grandi non abbiamo le loro esigenze, ma questi.

- Quindi?

- Ho pensato che io, in fondo, ne avevo due di case. Una per abitarci per davvero, l’altra per sfizio. La mansarda non mi era poi così necessaria e poteva ospitare qualche persona bisognosa. Vi ho pensato a lungo, poi, d’impulso l’ho messa a disposizione.

Scusa se non ti ho interpellato.

- Pensi che ti avrei contrastato?

- Non so, è come se facendolo rallentasse la mia decisione, che fosse d’ostacolo alla nostra relazione o perlomeno l’avrebbe appesantita. Avrei dovuto spiegare, ne avremmo discusso ... messo in campo tante considerazioni, avremmo parlato della opportunità di farlo.

- Questo sì, mi dispiace. Non del fatto che abbia deciso di farlo, ma che abbia pensato che avrei potuto ostacolarti o, come dici, “appesantire il nostro dialogo” con prudenze e opportunità.

No, invece, ti avrei detto subito “facciamolo”! Se mi permetti il plurale visto che, in fondo, la casa è tua.

Hai mai pensato ai centri sociali coi quali collaboro nel mio lavoro e che cosa mi capita di vedere ogni giorno con gente, sulla soglia della disperazione, che cerca un posto dove stare oltre le necessità quotidiane? E siamo solo agli inizi, mi sa: molta gente è già in viaggio.

Hai concluso?

- Figurati! Mi sono rivolto ai siti, laici e d’ispirazione religiosa, ho scoperto che c’era perfino una piattaforma dove rivolgersi e che accoglie le disponibilità come la mia. Ero all’oscuro, come molti, di questa possibilità e volevo documentarmi un

99

poco prima di decidermi. Ho trovato molta disponibilità e le spiegazioni necessarie, però, con tutte le più buone intenzioni, ho anche scoperto che le procedure non sono immediate e comportano delle complessità.

- Ho presente, ti avrei aiutato se avessi saputo delle tue intenzioni. Ma vallo a dire al “sovranismo dei maschi” come te! - E va bene, hai ragione. Ma adesso voglio procedere più speditamente possibile. Non c’è tempo da perdere, mi pare.

- Che cosa ti hanno chiesto?

- Prima di tutto ho dovuto identificarmi porgendo la documentazione necessaria, poi che tipo di alloggio volevo mettere a disposizione, se era una parte dell’appartamento abitativo o un’altra unità, dove si trovava, in che condizioni era e altre cose.

Ci hanno tenuto a specificare che non poteva in alcun modo essere una “sorta di affitto”, né, trattandosi di minori, l’inizio di una “procedura di adozione”.

Ci sarebbero poi stati dei moduli da compilare per gli uffici della polizia.

- Naturale, aldilà dell’emergenza, l’iter si presta a molte insidie, bisogna procedere con molta cautela. Il bisogno è una calamita che attira persone che non desiderano altro che approfittarsene. E sotto il profugo stesso non si sa mai chi possa nascondersi e con quali scopi.

- Mi hanno anche chiesto verso quale tipologia di accoglienza sarei orientato.

- E tu?

- Ho pensato a un nucleo famigliare, padre, madre e figli. Che potessero stabilirsi in quello spazio come - per dire - una seconda casa. Avrei pensato io a supplire con l’attrezzatura che ancora manca con il loro aiuto, secondo necessità.

M’hanno ringraziato per la disponibilità, ma mi hanno anche fatto notare che i maschi, perlopiù sono rimasti a difendere la loro patria. Si tratta spesso di donne, madri e anche nonne, coi bambini appresso che sono state accolte alla frontiera dei paesi limitrofi all’Ucraina.

- Eh, sì, tanti passaggi da fare. Provenienza, destinazione, verifica dei documenti, controlli sanitari. Misure anti Covid, molti non sono vaccinati anche se l’incidenza del virus sembra minore che da noi. Però.

E c’è poi il problema dell’accoglienza e della istruzione, dei

100

bambini più piccoli in particolare che spesso non conoscono neppure l’a-b-c dell’Inglese e devono cominciare tutto daccapo. Le nostre maestre, ovviamente, non conoscono l’Ucraino. - Già. Non ci avevo pensato. Al liceo i ragazzi stranieri o immigrati arrivano abbastanza formati alla nostra lingua e al nostro “modus vivendi”; a quell’età l‘apprendimento procede veloce senza distinzioni etniche. E poi ci sono le compagnie che aiutano la socializzazione; anche se spesso non ne prendiamo atto, viviamo in una società multietnica e per i giovani è un dato scontato. Tua nipote come ha preso questa “novità”! - Eh, la mia Silvia! Siamo cresciute insieme. Sono la sua confidente da sempre. Quest’anno è diventata maggiorenne e si appresta all’Esame di Stato. Con una certa trepidazione come puoi immaginare. Prima la clausura della Pandemia e la “coazione” della DAD, poi il ripristino – sembra - della Maturità anti Covid, adesso le devastanti notizie che arrivano dall’Ucraina. Non c’è tregua per questa gioventù.

Come tutti ne è rimasta sconvolta, ogni giorno di più man mano che i media si sono gettati sull’evento e ci recapitano 24 ore su 24 le immagini sconvolgenti di quella gente sotto i bombardamenti. Gente che scappa disperata col minimo che è riuscita a portare con sé, palazzi incendiati, case distrutte, edifici butterati dalle bombe, mezzi civili e militari in marcia, carcasse di autoveicoli fumiganti, pompieri all’opera coi pochi mezzi che restano .

Non serve certo che ti faccia l’elenco: così è per noi, così è per i giovani, per tutti.

È la prima volta che si trovano a tu per tu con le conseguenze di una guerra. Combattuta, fra l’altro, coi mezzi più sofisticati che la tecnologia offre agli eserciti.

A dire il vero anche nel breve periodo dei loro anni ce ne sono state guerre e distruzioni, gente massacrata o costretta ad emigrare, ma erano eventi lontani dove le cronache ci interessavano marginalmente come se quegli eventi non ci avrebbero mai toccati.

I nostri giovani avevano altre “preoccupazioni”: il Covid e come sopravvivere alle costrizioni cui sono stati soggetti, la salvaguardia del pianeta con la “svedesina” (come dici tu) in testa e ultimamente, “nel nostro piccolo”, in massa a manifestare contro la nuova edizione dell’esame di maturità e l’alternanza scuola-lavoro. Ora tutto questo è passato in sordina, non è che

101

non se ne parla, ma è subentrato questo Moloch che ha messo in secondo ordine qualsiasi altra cosa che giustifichi le mobilitazioni. Al massimo si nota qualche sparuta dimostrazione che cerca di mettere insieme l’una e l’altra cosa, il caro combustibili, ad es., con la necessità della “transizione ecologica”. Su tutto però l’ideale di Pace.

Non mancano i cortei e le manifestazioni con la bandiera gialloazzurra, ma si percepisce la inanità della loro voce di fronte ai potenti che governano il pianeta e ai blocchi che hanno creato. Poi sì, tra questi c’è sempre qualcuno che vuole emergere con la brutalità delle armi e non serve che ti dica a chi alludo. - Quante cose abbiamo dovuto rivedere sul nostro Welfare. Ricordi, per farla breve, quando dicevo che l’aspettativa di una rivoluzione ecologica basata sulla rinuncia dei combustibili fossili entro il 2030 era una illusione? Sinceramente, però, allora non pensavo che si presentasse con una simile evidenza e in tempi così brevi. Si parla di riattivare le centrali a carbone, di potenziare il nucleare, di cercare nuovi approvvigionamenti di gas e petrolio, e nessuno più fiata sotto l’incubo che tutto possa fermarsi, dalle materie prime, ai trasporti, alle merci. O che, semplicemente, tutto diventi più caro, che nelle case i nostri inverni diventeranno freddi come un tempo. E l’estate, senza condizionatori, torrida. Eh, sì. Mia cara “svedesina”, come facciamo a seguirti ancora? E di fronte a tali calamità come facciamo a scendere in piazza contro l’esame di maturità che, bene o male, ora appare – se ci si pensa - come un privilegio.

Suppongo che, come nella mia, anche nella scuola di tua figlia siano stati paralizzati da questo vento di morte che comincia a soffiare da lontano, ma non tanto di non sentire il suo alito gelido che s’avvicina.

S’intende che mi dispiace molto. Ne parlavamo con molta partecipazione di queste cose tempo fa, io e te.

- Ammetto che anch’io ho questa sensazione. Rimango attonita con lei a vedere ciò che succede e a immaginare, ognuna a suo modo, ciò che può accadere. Ogni giorno una novità, mai un raggio di sole che penetri oltre la plumbea copertura delle notizie. Non ne parliamo tanto, ma percepiamo, una nell’altra, il corto respiro dell’ansia che tutto possa finire presto. - Vedendo il progresso della tecnologia bellica, si è acuito il pensiero che ogni tanto emerge dentro di me come il

102

presentimento di una catastrofe ineluttabile se continuiamo a non realizzare chi siamo realmente su questa palla alla periferia della galassia che s’è trovata nella condizione di ospitare la vita. Caso unico per quanto ne sappiamo finora.

- Cosa intendi dire?

- Parlo dell’Homo sapiens e più passa il tempo, più m’accorgo che quel “titolo” che s’è dato è stato una mera presunzione, per quanto accade un non sens.

Che cosa c’è di “sapiente” in una umanità di otto miliardi di persone mentre sta rendendo inabitabile il “globo” che abita privandolo delle risorse che ha reso disponibili, che non s’accorge che la popolazione sta esplodendo: otto miliardi oggi, una decina tra mezzo secolo e anche meno, ma 2,5 solo un secolo fa, 1 miliardo due secoli fa e così via.

Fa impressione vedere la curva di crescita degli umani nel tempo. È una curva quasi esponenziale che tende a valori insostenibili con l’avanzare del tempo.

La tecnologia ha sì migliorato di molto il modo di sfruttare le risorse del pianeta e il modo di vivere, ma è altresì vero che le risorse son sempre le stesse, anzi vengono costantemente impoverite, mente ciascun essere umano che nasce ambisce, in una società perennemente interconnessa, a un progresso che vuol dire innanzitutto “consumi” .

Ma ciò che più mi angoscia è constatare quanto ha fatto il “sapiens” contro il suo simile.

Non c’è stata scoperta che non sia stata immediatamente applicata per costruire armi; dalla clava ai metalli, dalla polvere da sparo alla bomba atomica, dagli aerei supersonici ai droni e alle applicazioni della tecnologia digitale che annientano uomini e cose semplicemente schiacciando un pulsante a distanza.

Questo non è “naturale” è criminoso e suicida.

Tutte le specie viventi, sul modello delle quali siamo costruiti anche noi, competono, ma non arrivano a “farsi la guerra” , anzi cercano spesso la via meno cruenta per non danneggiarsi.

Noi no, noi siamo “sapiens”! Siamo una specie intelligente, ma siamo incapaci di guardare in fondo alla strada che stiamo sventatamente percorrendo. Per questo aspetto è come se il nostro cervello abbia preso la forma di una vite senza fine che drena continua violenza o una ruota di mulino che gira fin che ha consumato tutta l’acqua disponibile e poi s’arresta per

103

sempre.

Bel epilogo per il sapiens, mentre, verosimilmente – non sappiamo bene quando - quello che resterà di ciò che chiamiamo natura si prenderà la rivincita del suo passaggio. - Papa Bergoglio è intervenuto molto duramente contro la guerra e il proliferare delle armi, contro l’impiego di una percentuale dei bilanci dei paesi occidentali per investire in materiale bellico . perfino condannando la vendita di armi all’Ucraina. - Sì, ma l’aveva già detto Stalin: quante divisioni possiede il papa? E non sto qui a spiegarti che cosa significava allora e che cosa significhi ora.

Diciamo che Sua Santità “fa il suo mestiere”, che lo fa con energia, appellandosi a tutti “i costruttori di pace”, evocando i simboli della cristianità più vicini all’idea di Salvezza, rivolgendosi anche ad altre confessioni, ma chi gli darà ascolto, che succederà poi? .

Anche papa Benedetto XXV si schierò con vigore contro il conflitto della prima Guerra Mondiale, scongiurando i potenti di evitare il massacro inumano che si stava profilando, ma rimase inascoltato e vent’anni dopo ci fu una guerra peggiore, mondiale veramente questa volta. - Insomma per te non c’è salvezza. - Se continuiamo così, credo proprio di no. - In alternativa?

- Penso al concetto di “frugalità”, applicata un po’ a tutte le tendenze del mondo moderno che ci stanno portando a un punto insostenibile. Penso alla riduzione degli sprechi, al contenimento delle abitudini costose, alla limitazione della gratificazione immediata mediante la ricerca dell'efficienza; all’evitare le trappole mediatiche ad es.

Ovviamente alla riduzione drastica delle spese militari.

Finora abbiamo declinato il “progresso” come “incremento dei consumi”, di qualsiasi genere a cominciare dalle risorse del pianeta e della biosfera in particolare, ma è ora – anzi è ineluttabile - ripensare questo modello.

Appoggiamoci a una Scienza che non agisca solo verso la tecnologia del prodotto di consumo, ma che guardi alle innovazioni invece ancorate a possibilità realistiche e verificabili, a soluzioni pragmatiche che vadano verso un “ambientalismo scientifico”, capace cioè di guardare con efficacia alla conservazione del pianeta che abitiamo.

104

- In definitiva pensare e attuare una sorta di decrescita. Questo varrebbe soprattutto per il mondo occidentale, ma come la mettiamo per quelle popolazioni che vedono il nostro benessere da lontano al quale mirano come ad un punto d’approdo per loro, a qualsiasi costo? Aggiungo che questo nostro benessere deriva spesso da risorse “prelevate”, per non dire “depredate”, dai loro territori.

Dobbiamo costringerli a fermarsi nell’indigenza in cui si trovano per consentire a noi di diventare - come dici – più frugali? L’ambientalismo un lusso per ricchi?

Già mi piace poco quando si parla di salvare le foreste dell’Amazzonia: non che a questo punto non sia necessario, ma riflettiamo mai su cosa i paesi benestanti hanno fatto delle loro foreste? Ambienti che ormai troviamo solo nelle favole.

- Da questo punto di vista, hai ragione, come darti torto? Però c’è un altro concetto che potremmo-dovremmo tener presente: più che una “decrescita felice”, pensare a una “riduzione dell’infelicità” delle popolazioni che vivono nell’indigenza – più o meno due terzi della attuale popolazione mondialeprogettando assieme a loro uno sviluppo più equo. Approdare alla consapevolezza che “vivere bene” non è solo ricchezza materiale, ma anche qualità delle leggi e dei progetti del vivere sociale, del rispetto dell’ambiente. Che la guerra non conviene a nessuno, in fin dei conti neppure ai vincitori come tante volte è accaduto nella nostra storia. Dovrebbero essere concetti da radicare nelle menti fin dal primo insegnamento scolastico.

Lo so, per come vanno le cose - soprattutto in questo frangente della guerra in Ucraina - può sembrare pura utopia, ma nell’ambiente degli “intellettuali” qualcuno comincia a lanciare queste idee. Come un’ancora di salvezza . un salvagente, meglio.

- E tu con queste idee che ti circolano in testa, hai pensato di mettere a disposizione dei profughi la tua (nostra) mansarda arredata. È così?

- Diciamo di sì. Non subito. Ma pian piano ho pensato che potevo fare anch’io qualcosa per chi s’è trovato a mancare di tutto. In fondo mi privavo del superfluo.

- E io sarei stata tra le cose superflue?

- Che dici? Dai non infierire. D’accordo, ho sbagliato a non dirtelo. Ti chiedo scusa in ginocchio, però non mi è sembrato che potesse intaccare il nostro rapporto e poi ho avuto pudore a dirtelo. A mostrami così munifico . In ogni caso spero che sia

105

una ospitalità transitoria.

- Ma dai, ti ammiro invece. Però sarebbe stata una bella cosa condividere l’idea fin dall’inizio. Se non ti disturba vorrei darti una mano per sistemare le cose in modo che tutto proceda secondo regole e competenze. - Mano benedetta. Ti confesso che una volta entrato nei meandri della questione mi sono un po’ perso e ho pensato di aver fatto un passo più lungo della gamba in un settore a me del tutto sconosciuto. - Allora vediamo.

Collaboro con un’istituzione che potrebbe fare proprio al caso tuo/nostro. Ha già due secoli di vita e, nel tempo, si è attivata in vari settori che operano nell’ambito del bisogno sociale. Con tutte le emergenze profughi che sono montate in questi anni, si è allargata ed è attiva in diversi contesti. Ti faccio brevemente un elenco

C’è il “Centro istruzione per tutti”. Vuol favorire l’integrazione nella società civile italiana di cittadini e famiglie provenienti da altri Paesi. Effettua corsi di Italiano per donne e mamme (con nido annesso) e per adulti (corsi serali). Ci sono sportelli di informazione, orientamento e ascolto. Il Centro inoltre è in contatto con l’Università Statale e l’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Potrebbe essere il punto di riferimento per i bambini che intenderesti ospitare e anche per le loro madri.

Vi è anche una struttura che mette a disposizione alcuni bilocali a famiglie bisognose in modo che possano mantenere la loro intimità, ma sostenuti da un’equipe di educatori e accompagnatori in modo che possano avere autonomia sociale, economica ed abitativa.

Loro potrebbero darti utili indicazioni per il progetto che hai in mente.

Ah, c’è pure un piccolo supermercato, con casse automatizzate, carrelli, scaffali e una quantità di prodotti. Chi entra sceglie quello di cui ha bisogno, riempie il carrello e paga attraverso una tessera a punti, mi pare.

Ovviamente, fulcro di tutto è la Segreteria che gestisce le attività, dà consigli e orienta attraverso la rete di solidarietà della città. Per quanto oggi possa passare in sottordine rispetto ai luccichii della modernità, Milano ha avuto e mantiene una forte spinta verso il bisogno, in cui lo slancio umanitario si sposa con

106

l’efficienza e l’organizzazione per cui è nota. Ed emerge proprio nei momenti più critici.

Il loro motto ti piacerà: “se ciascuno di noi facesse il suo pezzettino, ci troveremmo in un mondo più bello senza neanche accorgercene”.

- Già, un pezzettino ma per alcuni di loro il pezzettino non potrà mai arrivare.

- Pensi a quelli che sono morti?

- Sì, penso alle immagini che ci sono arrivate da Bucha, poi ogni giorno più orrifiche, ampliate all’inverosimile dai mezzi di comunicazione che mettono in risalto i dettagli di quei corpi annichiliti e straziati in uno scenario apocalittico di distruzione e silenzio. Il “fantasy horror” è qui tra noi. E c’è pure il soggetto che se ne intende di fiction, un ex attore, il presidente ucraino Zelensky. Solo che questa volta attori e comparse non recitano ... e il finale sembra prospettare scene sempre più complesse e drammatiche.

- Ho visto anch’io e sono rimasta inchiodata davanti al TV e alle pagine dei giornali davanti a quei corpi inerti, alcuni legati mani e piedi, adulti e bambini, uomini e donne nelle pose in cui il proiettile li ha colti mentre tentavano di dare senso alla loro vita quotidiana già profondamente devastata dai bombardamenti e dall’avanzare dei mezzi corazzati.

E poi le fosse comuni! Carne umana tolta agli sguardi per diventare concime per le radici delle piante. E sembra che siamo solo all’inizio per queste scoperte.

- Una terra, l’Ucraina, che ha già esperienza di queste “soluzioni”. Avrai sentito parlare di Babi Yar.

- No, di che si tratta?

- É accaduto durante l’invasione nazista nel 1941. Allora l’Ucraina era terra sovietica. 33,700 persone trucidate e sepolte in fosse comuni in soli due giorni. Nei giorni successivi il massacro si estese.

- Impressionante, una cifra così alta in soli due giorni!? Avranno lavorato ad uccidere giorno e notte.

- Fu un’operazione pianificata e messa in opera con la notoria efficienza tedesca. E non fu neanche la maggiore: 42.000 in Polonia, 50.000 ad Odessa, tanto per stabilire dei primati.

- Confesso la mia ignoranza, ma non mi pare che abbiano avuto molta risonanza. Eppure, a fine guerra, queste dimensioni avrebbero dovuto suscitare il massimo cordoglio delle popolazioni

107

locali e la istituzione di “luoghi della memoria”. Non sono una storica, ma “eventi” simili, sono impressi nella cultura comune.

Penso a Srebrenica, al massacro dei musulmani bosniaci perpetrato dall’esercito serbo durante la guerra dei Balcani negli anni novanta del secolo scorso. Per quanto, mi pare di ricordare, le vittime non siano state così numerose.

- É che per molto tempo non se n’è voluto parlare; s’è lasciato che l’erba crescere su di loro e che gli alberi – come diceviaffondassero le radici nelle carni putrescenti dei cadaveri.

- Raccapricciante solo a pensarci. E le popolazioni locali non ebbero nulla da dire in seguito?

- Locali sì, le vittime, ma principalmente Ebrei. Così in molte altre località d’Europa (e non solo). Non erano “ben visti” e perfino, in qualche occasione, i nazisti ebbero l’appoggio di fazioni collaborazioniste dei residenti. A quei tempi, per molti versi, la morte degli Ebrei non era considerata un atto criminoso . La shoah è anche questo, non solo “deportazioni e campi di concentramento”.

- Neppure i Russi? Avrebbero avuto argomenti solidi per condannare gli eccidi dell’“esercito invasore” e il sentimento antisemita che fermentava in Europa .

- Neppure. Del resto, anche la loro storia e macchiata dai “Pogrom” (1) contro gli Ebrei che duravano da secoli. Dobbiamo, però, proprio a un russo, il poeta Evtusenco (2) che, nel 1961 scopre, sotto una discarica, il luogo delle sepolture di Babi Yar. Prova sgomento e compone una lunga poesia in cui si identifica con le varie tipologie e coi sentimenti delle persone sepolte, si dichiara infine un vero Russo solo riconoscendo la loro dignità e il crimine commesso.

- Complimenti alla tua cultura.

- Oggi non ci vuole molto a mostrarsi “colti” in qualche settore: c’è internet, i notiziari e le inchieste TV, i giornali e i loro inserti. Una guerra sottocchio così, con tutte le implicazioni che comporta, chi se la perde? Ultimamente ho voluto conoscere meglio la Storia di un paese che finora conoscevo solo di nome, per le condutture di gas che l’attraversano dalla Russia, per le importazioni di cereali e . per le badanti.

- E che idea ti sei fatta dell’insieme?

- Che c’è molto da conoscere. Che siamo vissuti in una sorta di bolla “edonistica”, dopo aver scavalcato due guerre mondiali nel secolo scorso pensando che saremmo stati immuni da questi

108

eventi, mentre altre parti del mondo non lo sono state, né per il welfare, né per le guerre e i conflitti in generale.

Ora la guerra si è avvicinata, ci fa paura anche se è diventata un grande spettacolo; il mondo è manifestamente diviso in blocchi in cui noi, in Europa, rischiamo di diventare l’anello debole.

- Paura?

- Non so come definire il sentimento che provo, inquietudine, questo sì. Mentre l’orizzonte sembra sparire in una nebbia da dove può emergere – in metafora - un mostro danzante del teatro kabuki (3)

- Come ne usciamo?

- Mah, forse ricordandoci di essere Uomini, di vedere nel nostro prossimo la nostra fisionomia non quella di un nemico. Ricordando che non siamo solo armi e massacri, ma anche un anelito inesausto di azioni di solidarietà di cui abbiamo dato - e continuiamo a dare - molteplici esempi che attraversano i secoli, i popoli, le religioni, le società dei vari paesi. Azioni come quella che stiamo portando avanti per l’Ucraina. Questione di scegliersi, dall’una o dall’altra parte, nelle piccole e grandi cose per danno senso al nostro breve apparire su questo pianeta. Cercando la nostra verità profonda “in interiore homini” , nella coscienza, se Agostino d’Ippona (4) mi concede questo accostamento.

- Con le restrizioni alla Russia, già si stanno diffondendo le lamentele per le eventuali limitazioni sul riscaldamento invernale e gli impianti di condizionamento estivo. E non sono solo dicerie popolari, stanno prendendo posizione media maître à penser vari, politici . In fondo chi sono gli Ucraini, che cosa ce ne importa, si facciano da parte e liberino le condotte del gas che arrivano fino a noi. Che cosa gliene viene, non vedono come sono ridotti?

- Appunto. Come dicevo, la risposta è nella coscienza interiore, spesso offuscata da interessi piccoli e grandi, altre volte proprio assente. La globalizzazione certo non aiuta e “l’ululato dell’“Homo homini lupus ” (5) riecheggia, sempre più forte, sull’intero pianeta; leggi e codici morali non sempre hanno gli strumenti per tacitarlo.

- Senti, tornando a noi due . mi piacerebbe tornare con te - per un’ultima volta prima che venga occupata - alla nostra mansarda. - Sì, piacerebbe anche a me. Anzi, mentre ne parlavamo, volevo

109

proportelo io, ma non osavo chiedertelo dopo . la rivelazione. - D’accordo allora, ti faccio sapere. - Tieniti libera per una serata, magari inventati una trasferta che non ti consenta di rientrare a casa per la notte. Dammi il tempo per . l’accoglienza.

1) Il termine russo Pogrom, significa “demolire, distruggere con atti violenti". In particolare ci si riferisce alle violente aggressioni contro gli Ebrei da parte delle popolazioni locali, avvenute nell'Impero Russo e successivamente in altre parti del mondo.

2) Evgenij Aleksandrovič Evtušenko ( Zima, Russia, 18 luglio 1932 – Tulsa, Oklahoma, 1º aprile 2017), è stato un poeta e romanziere russo. Di seguito una traduzione dei versi conclusivi della sua poesia per Babi Yar -- “Non c’è sangue ebreo/ Nel mio sangue/ Ma sento l’odio disgustoso/ Di tutti gli antisemiti/ come se fossi stato un ebreo/ Ed ecco perché sono un vero russo.”

3) Il Kabuki è una delle forme di teatro tradizionali del Giappone. I drammi kabuki sono inscenati interamente da attori uomini che, mediante un trucco molto pesante, vistosi mascheramenti e costumi elaborati, interpretano anche ruoli femminili.

4) Agostino d’Ippona, noto nella iconografia cristiana come S. Agostino. Il suo pensiero consistette nel tentativo grandioso di tenere uniti la ragione e il sentimento, lo spirito e la carne, il pensiero pagano e la fede cristiana. 5) “L’uomo è un lupo per l’uomo”, è la massima coniata dal filosofo inglese Thomas Hobbes (1588 -1679). Secondo l’autore la natura umana è fondamentalmente egoistica e a determinarne le azioni sono l'istinto di sopravvivenza e di sopraffazione.

••

Con uno stile semplice, il racconto descrive in modo quasi fotografico le vicissitudini del nostro tempo. Si scorge un finale proteso al bene. Nella lotta tra il bene ed il male, ciò che salva gli uomini sono valori come la solidarietà e l’accoglienza.

110

Caterina Perrone

da Firenze

Sharazàd Un racconto mi ha salvato la vita.

Non avevo paura di lui. Forse perché la paura non ha mai abitato il mio cuore.

Quando dissi che avrei affrontato la grande prova, mi sarei offerta come sposa al nostro re Shahriyàr, che Dio lo conservi, non ci volevano credere.

Mio padre, il visir, si strappava le vesti. Come poteva sua figlia non conoscere la fine certa cui sarebbe stata destinata sposandolo? Alzava le braccia, poi le lasciava cadere sconsolato, si volgeva a mia madre che già stava piangendo.

Ma io continuavo a intestardirmi sulla mia scelta: non avevo paura.

Mi ricordavano che ero una giovane inesperta, mai uscita dalla porta di casa, almeno da quando il nostro re pretendeva ogni notte una vergine da possedere e poi sacrificare, in vendetta dell’odioso tradimento della moglie. In quegli anni avevo trascorso intere giornate tra le nostre mura, con i miei passatempi. Curavo il giardino: le piante hanno sempre risposto alle mie cure con grandi fioriture; le chiamavo per nome mentre le innaffiavo, toglievo le foglie gialle, recidevo i rametti per farne talee; raccoglievo i petali profumati di rose, lavanda e gelsomini per distribuirli tra la biancheria; parlavo con loro mentre ricamavo i miei abiti e i miei veli; mi ascoltavano mentre leggevo le storie alla mia sorellina Duniyazàd. E quante ne sapevo.

Mi sono sempre domandata come il nostro re Shahriyàr non si fosse fatta una semplice domanda: “Perché mai la mia sposa

111
segnalazione di
merito prosa inedita
- Caterina Perrone ■

mi ha tradito così spudoratamente con uno schiavo nero, preferendolo a me, il suo uomo, il suo re?”. A me vengono tante risposte, anche se sono stata chiusa in casa per la maggior parte dei miei anni. Mi avevano tenuta nascosta e custodita fin da quando ero ancora bambina, perché il nostro re Shahriyàr, luce dei saggi, non sapesse della mia esistenza. Ma io potevo rimanere indifferente al terribile scempio di mille fanciulle sacrificate alla sua follia? Certo neanche l’Altissimo, Signore dei mondi, era stato capace di farlo desistere dai suoi sanguinosi intenti, ma io solo per questo dovevo sottrarmi? Non sarebbe stato da me. Sarei andata a dissetare la sua sete di vendetta. Non avevo paura di lui. Perché mai? È solo un uomo, in fondo, mi dicevo. Lamenti e grida risuonavano per farmi desistere da quella che chiamavano follia. Che io invece intendevo come una intrepida impresa, in cui si giocavano la vita e la morte. C’è qualcosa di più esaltante? di più inebriante? Come quelle gesta che avevo conosciuto nei mille racconti letti, fin dall’infanzia, nei volumi della nostra biblioteca, e in altri mille che avevo sentito narrare agli angoli delle vie, accompagnate dai canti e dai versi che risuonano nelle piazze. Nel libro del profeta poi avevo conosciuto tutta la saggezza del mondo. Che cosa mi poteva mancare?

Immaginavo i commenti. Le storie sono favole, fandonie, invenzioni, dove è la magia a prendere il sopravvento. Che cosa possono gli uomini contro la magia? Risponderei invece: che cosa possono le donne con la magia? Le donne manovrano da sempre le forze sotterranee della natura, e perciò le dominano meglio di qualsiasi uomo, di qualsiasi mago e del più potente dei geni.

Quante volte le donne hanno saputo manipolare la volontà degli uomini?

Certo avrei dovuto affrontare un re che aveva perso la saggezza. Ma un re è pur sempre un uomo, con qualche punto debole, e lì una donna può inserire il suo puntello. La mia apparente fragilità poteva generare la mia vittoria: gli uomini non si difendono da una donna perché si sentono superiori per forza e intelletto.

Anche allora sapevo che non lo avrei conquistato con la bellezza, ma con la mia mente e il mio sentire, fonti della strategia con cui lo avrei portato alla ragione.

112

Infine nulla poterono contro la mia volontà e il mio povero padre presentò a Shahriyàr il mio nome; mia madre intanto preparava il sudario in cui sarei stata avvolta dopo aver conosciuto il re nel suo talamo, ed essere poi giustiziata; lo avvolgeva e lo inondava di lacrime. Io ero curiosa, eccitata: finalmente avrei conosciuto l’ebbrezza dell’amore. Non avrei rinunciato per nessuna ragione a questa scoperta. Rimanendo nascosta sarei invecchiata senza aver mai incontrato un uomo. Accettando la sfida invece, sarei diventata la sposa di un re. Quando mai avrei potuto sognare tanto? Certo potevo morire, come in tutte le grandi imprese c’è un prezzo da pagare. Ma io. sì, ero convinta che avrei trovato la strada. Una donna sa vedere, ha la pazienza, lo sguardo che penetra il profondo.

Quando arrivò il giorno, salii sulla mula bardata a festa; un velo, sormontato da una corona di fiori, copriva il mio volto, ma io scorgevo attraverso la trama del tessuto il mondo che mi girava intorno. Lasciai la mia casa con la segreta speranza di tornare più felice di prima. Potevo finalmente rivedere la città dopo tre lunghi anni, la gente che correva e si affannava per i vicoli, tra le case d’argilla e le finestre fiorite. Il venditore d’acqua chiamava a raccolta le genti assetate dal caldo del giorno; i cani correvano e si azzannavano per un osso, inseguiti dai monelli: le donne, ondeggiando le vesti nella grazia di una danza, sorreggevano pesanti brocche di acqua. Dai bracieri si diffondevano fumi di carni, sentore di spezie, di bevande profumate alla menta. Lassù, su un tetto, una cicogna aveva fatto il nido e osservava compassata gli affanni del mondo.

Il mio piccolo seguito attirava l’attenzione dei passanti. Nessuno più si sposava in questo regno, solo lui si prendeva le donne più giovani, le vergini. Con sguardi di commiserazione, la gente si scostava come se passasse un funerale e non un corteo di nozze.

Ci voleva altro a scalfire la mia sicurezza: il cielo era terso, senza cattivi presagi, un vento lieve faceva increspare il velo bianco. Il profumo di gelsomino di cui mi ero inondata mi rassicurava: ero certa che sarebbe stato amore.

Arrivai alla reggia, scesi dalla mula, salutai i miei cari annichiliti dal dolore; ero io a doverli rassicurare, con le carezze, con

113

mille abbracci. Loro pensavano di consegnarmi alla morte. Io non vedevo immagini oltre il domani, solo percepivo una luce lontana che mi rincuorava: poteva essere la luce del paradiso, dopo la mia fine.

Oltrepassai la porta del palazzo, entrai nel mio destino. Attraversavo cortili custoditi da guardie armate che a stento si inchinavano al mio passare, perché sapevano che sarei stata regina solo per un giorno. Il giardino risplendeva di luce, i fiori rendevano profumi dopo il caldo del pomeriggio; gli uccelli lanciavano l’ultimo canto per me; dalla fontana zampillavano le acque. Entrai in una grande sala, abbagliata dal buio; dopo qualche istante, vidi la meraviglia degli stucchi dorati, le scritte del corano che risuonavano tra le volte: tanta saggezza in un luogo di stolta crudeltà.

Una donna velata mi condusse, muovendo a fatica la mole ondeggiante, in una piccola stanza. Il suo silenzio, gli occhi bagnati di lacrime mi fecero piombare addosso le paure degli altri.

L’alcova, nascosta da veli spessi, dove si sarebbe consumata la mia prima, la mia ultima notte, mi apparve come una tomba. Mi sedetti alla finestra che dava nel cortile e fu allora che lo vidi, per la prima volta, avanzare, scortato dalle guardie. Improvvisamente risorse il mio cuore, riuscivo a pensarlo come sposo, non come carnefice. Mi intestardivo a volerlo amare. Batteva il mio cuore con lo stesso ritmo impetuoso dei suoi passi. Improvvisa si rianimò la mia audacia. Stava cominciando l’avventura della mia vita.

Shahriyàr entrò nella stanza, si arrestò sulle gambe divaricate. Ecco questo era l’uomo, così me lo immaginavo: alto, le spalle forti, come deve essere un re; il vestito rosso intarsiato di perle e pietre lucenti; dal turbante sfuggivano riccioli insofferenti. Lì iniziò la nostra battaglia. Si fermò all’improvviso, come se avesse percepito qualcosa che non si aspettava. Con lo sguardo indagava la mia figura velata. Forse il mio inchino lo sconcertò, composto e privo di timore. Barba nera, occhi profondi e già scorsi un velo di malinconia. Lì mi sarei aggrappata. Avevo di fronte un uomo feroce, avvilito dalla mortificazione, tanto da voler infliggere agli altri lo stesso dolore, la stessa umiliazione, lo stesso tormento che aveva subito lui, privandoli di qualsiasi futuro. Questa doveva essere la pena

114

per il tradimento di una donna, perché lui credeva, o si voleva convincere, che tutte le donne fossero uguali e meritassero di essere punite, annientate prima di poter infliggere ad altri uomini il terribile smacco che lui aveva subito.

E io mi ero accollata il compito di farlo desistere da tanta follia. Proprio io? Con che mezzi di fronte alla violenza bruta di un potente che con una sola parola poteva tormentarmi, annientarmi, e sembrava avere tutta l’intenzione di farlo?

Sollevò il velo che nascondeva il mio viso. Colsi una smorfia in risposta al mio sguardo, dove non aveva scorto il dubbio ma la determinazione.

Quella piccola fessura di incertezza fece nascere in me un sorriso. Ecco, sì, avevo ancora una possibilità e l’avrei giocata tutta.

Quando mi chiese il mio nome e capì che ero la figlia del visir, aggiunse secco: «Perché sei qui?» e misurava a passi feroci il tappeto che copriva tutta la stanza.

Gli detti una risposta che doveva lasciarlo di stucco. «Volevo conoscere il mio re, conoscere l’amore.»

Sapevo che non sarebbe stato facile ma la sua risata sarcastica mi fulminò, una risposta che non potrò dimenticare. «Bugiarda come tutte le donne.»

Lanciò un urlo di bestia feroce che sa di essere in trappola ma ancora non lo vuole accettare. «Spogliati» mi disse, estorcendo alla sua anima un sussulto di arrogante disprezzo.

Come può sentirsi una donna cui viene ordinato di mostrare il corpo nella sua fragilità, che è come denudare il proprio animo all’amore? Non era questo che mi aspettavo per il mio incontro con un uomo. La mia vita dunque era stata un sogno, da cui ora mi stavo risvegliando.

Tremavano le mie mani, ma io comunque esigevo di essere amata. Sì, sono testarda, non mi arrendo mai, e ora, qui che cosa potevo mai fare?

Cominciai a togliermi la veste, con lentezza, scoprendo le spalle poi le braccia. Lui mi beveva con gli occhi, come se vedesse una donna per la prima volta. Guardò il mio seno acerbo, allungò la mano per toccarlo ma, sorpreso da un ripensamento, la ritrasse.

La veste era caduta ai miei piedi e io ero completamente nuda, velata solo dai capelli che ricadevano sulle mie spalle fino alla vita.

115

Il mio corpo aveva sete del suo, volevo sentire la sua pelle e il suo calore, volevo sentire le sue mani prendermi, volevo sentire il suo affanno e le sue parole più dolci. Cercavo nei miei ricordi le storie felici, dove donna e uomo si erano incontrati nella passione e nell’amore. E con sfrontatezza, consapevole del pericolo cui mi sottoponevo dissi: «Lascia che ti aiuti mio signore a toglierti gli abiti.»

Si voltò di scatto verso di me come se avessi cercato di aggredirlo. Con gli occhi voleva incenerirmi. «Tu intendi sedurmi.» «Mai mi permetterei mio signore di fare qualcosa che ti possa scontentare. Io non ho mai conosciuto uomo, forse sarà l’ultima volta che mi toccherà. Dammi questa possibilità. Fallo per me. Qualcosa tu mi devi. Ti prego mio signore, permettimi di toglierti gli abiti. Anche ai condannati si concede di soddisfare un ultimo desiderio.»

«Morirai, che cosa ti importa?» «Tutti dobbiamo morire, la vita è breve, ma ogni cosa bella che ci sarà offerta sarà un regalo in più, da non disperdere.»

Era indispettito, lo vedevo che un pensiero combatteva dietro quello sguardo.

«Che vuoi da me?»

«Una notte d’amore mio signore.»

«Non l’avrai, mi hai sfinito con le tue parole, donna. Se continui sarò costretto a tagliarti la lingua.» «Io tacerò, ma voi coricatevi accanto a me nudo. Ve ne prego. È la misericordia che Dio ci concede ogni istante ad insegnarci. Se é l’Altissimo a farlo, non potrà forse un re, anche potente, avere misericordia per ognuno dei suoi sudditi immeritevoli?

Quando sarò alla sua presenza parlerò di voi come di un sovrano caritatevole, che sa ascoltare le suppliche del suo popolo. Sono certa che questo farà dimenticare anche le vostre inevitabili colpe.»

Il suo sdegno si incrinò; senza garbo si tolse la giubba e la camicia bianca, si sfilò gli stivali e i pantaloni. Eccolo nudo davanti a me, bello come nessun uomo mai avrebbe potuto essere. I muscoli potenti, temprati dalle lotte, dalle cavalcate, dalla caccia. La pelle scura, carezzata dal sole. Il mio cuore ebbe un balzo, si fermò, poi riprese a correre, la mia bocca si aprì nella sorpresa di tanta bellezza. Poteva un uomo così sublime non essere anche giusto? e generoso? e dolce? «Vieni, non perdiamo tempo, stanotte sarai mia e allo scadere della notte morirai.» Mi prese per il braccio, mi portò a strattoni

116

sul letto dove una mano sconosciuta aveva sparso petali di rosa damascena.

Esistono parole per raccontare come era morbida la sua pelle e il suo alito profumato? Le sue mani mi stringevano per farmi male e poi si abbandonavano a una incerta carezza.

Il suo fallo mi parve enorme, ma il mio desiderio così intenso che fece spalancare la mia porta. Ohimè, il dolore fu più forte di quanto non immaginassi. C’è dunque più dolore che piacere nell’amore?

Si alternavano sul suo viso espressioni di ferocia e subito dopo di apprensione per le mie grida di dolore. Alla fine di una corsa sfrenata lanciò un urlo, come di bestia furiosa. «Lasciati carezzare mio signore. Dopo l’amore si dice che il sonno sia più profondo e portatore di sogni.»

Ancora ci provavo, ormai era chiaro che avevo qualche potere su di lui e non mi sarei fermata neanche davanti al boia.

Si volse sgarbato, si sollevò dal letto. «Per me le notti sono infinite e il sonno non mi è amico. Attendo la mattina, che non arriva mai, camminando per il palazzo, per il giardino, per le strade della città, nascosto da un mantello, per cercare un riposo che mai mi raggiunge.» Emise un grugnito di disappunto verso se stesso. «Non so perché ti racconto queste cose.»

«Ho io, mio signore, la medicina che fa per te.»

«Tu cerchi di ingannarmi perché hai paura della mia vendetta. Sei una piccola donna, come tutte le altre.»

«Lascia che io chiami a me la mia sorella Dunyazàd, voglio salutarla per l’ultima volta.»

«Ti ho già concesso di spogliarmi, non vorrai che ti dia ancora retta?»

«Mio signore, se tu mi permetterai di vedere mia sorella in tua presenza, io ti darò un rimedio per la tua insonnia. Anche lei, come te, vaga nel buio per casa e io sempre riesco ad acquietarla nella notte.»

Sbuffava, urlava parole incandescenti, perché sentiva che sarebbe stato costretto a cedere ancora alle mie ragioni.

«E sia!» disse infine rassegnato, per non sapere più come tenermi a bada.

La mia sorellina già attendeva la mia chiamata, come io l’avevo pregata di fare. «Se non mi sentirai prima della mattina, torna a casa e disperati: avrò perso la mia scommessa. Ma non smettere di sperare fino a che il sole non si sarà levato.»

117

Entrò tremante nella stanza, dove di nuovo io e il re avevamo conosciuto l’amore. «Sorella carissima come è stata la tua notte?» chiesi a Duniyazàd. «Mi sono mancate le tue storie, Shahrazàd, come farò ad addormentarmi? Ti prego, anche se fosse l’ultima volta, raccontamene una come sai fare tu.» «Una storia?» disse Shahriyàr indispettito, guardandola come fosse un fantasma. «Sì mio signore, se me lo permetti ti racconterò una storia per incoraggiare il sonno.» «Chi dice che ho bisogno di storie? Ne sento a migliaia tutti i giorni, non ne posso più. Solo stupidità, ignoranza e mala fede. I miei sudditi sono dei miserabili nell’animo.» «Esistono le storie della saggezza. Per ogni stolto c’è un sapiente, per ogni infame c’è un coraggioso, per ogni miserabile c’è un’anima pia e generosa».

«Fandonie. Tu sempre mi contraddici. Come tutte le donne. Ma sono curioso» disse e subito si sarebbe mangiata la lingua.

«Allora vi racconterò la storia del Mercante e del Demone.»

Mi rivestii, sedetti sul letto e cominciai. «Ho udito narrare, o re felice, che c’era una volta un mercante, ricco in denaro e in affari, il quale montò un giorno a cavallo e uscì dirigendosi verso un altro paese.» Seguiva le mie labbra come fossero un oracolo, non le perse di vista un solo momento. Beveva le mie parole come fossero acqua per un assetato, come se non avesse mai udito altra storia nella sua vita. La mia voce usciva pacata e accarezzava le sue orecchie. Lo vedevo pian piano socchiudere gli occhi e subito riprendersi dall’insidia del sonno che tanto aveva cercato, pur di non perdere una sillaba. Per buona parte della notte proseguì il racconto e, lottando contro l’abbandono, Shahriyar riuscì a seguirmi fino a che decisi di fermarmi.

Disse Duniyazàd «Quanto è bello, piacevole e dolce il tuo narrare.»

«Questo è ben poco rispetto a quello che vi racconterò la notte prossima se sarò in vita e il re mi farà restare.» Shahriyar fece appena in tempo a dire: «Ci sarai», che si addormentò tra le mie braccia.

Mi svegliai abbracciata a lui. Ero giuliva e cantavo sommessa. Lui si scosse e, quando mi vide, si ritrasse furioso. «Che cosa

118

fai tu qui nel mio letto? Com’è che sei ancora viva? Nessuna donna può sopravvivere alla prima notte.»

D’istinto mi coprii con il lenzuolo di seta, stremata dai suoi continui cambiamenti di umore.

«Ora ricordo, hai inventato qualcosa per stordirmi con il sonno. Sei una maga o piuttosto una strega. Ti farò mettere a morte prima che tu approfitti della mia indulgenza e mi uccida con i tuoi sortilegi.»

«La mia magia è stato un racconto, mio signore. Non ricordi la storia del mercante e del demone?»

«Ecco ricordo, un demone mi aveva fatto prigioniero, ma io sono riuscito a rimetterlo nel vaso, a sigillarlo e buttarlo in mare.»

«Forse mio signore hai sognato la fine della storia che ancora non ti ho raccontato.»

«Smettila di contraddirmi.»

Si levò di furia, si rivestì come se avesse paura di trovarsi nudo davanti a una donna. Uscì dalla stanza pestando i passi cosicché arrivarono le guardie e lo scortarono, mentre li sommergeva di urla, ordini e improperi. Così poco regale il mio sposo!

Tornò la donna velata, con gli occhi lacrimosi. Forse era pronta a raccogliere un cadavere perché, quando mi vide andarle incontro sul tappeto, si mise una mano sulla bocca a trattenere un urlo. Mi parlava con gli occhi, ascoltava i miei sospiri: ancora ero nel mezzo dell’incertezza. Ma in fondo che cosa di certo abita la vita di noi mortali?

Le sorrisi e si affannò, scrollandosi sulle gambe curvate dall’enorme peso, ad aiutarmi.

Il mio corpo era immerso in una nuvola di profumo che mi faceva sentire ancora tra quelle braccia. Come poteva non esserne avvolto anche lui?

La donna non rispondeva alle mie domande, forse le era stata tagliata la lingua. Che cosa aveva osato dire? Era forse intrepida più di quanto avessi potuto immaginare. O forse aveva fatto un patto di silenzio con se stessa, così difficile da mantenere per una donna.

Mi carezzava la pelle sognante, come se stesse vivendo la delizia di una notte d’amore col suo re.

Guardai fuori dalla finestra, scesi nel giardino avvolta dallo splendore dei colori e dei profumi; mi sfioravano gli uccelli in volo, i canti risuonavano ora non più gutturali e funesti. Le

119

guardie mi gettavano occhiate sgomente e si inchinavano con rinnovato rispetto. Ero dunque ancora in vita? Una miracolata. Sorridevo del piccolo passo appena fatto, che ancora richiedeva infiniti altri passi, e mi godevo quel giardino che avrei potuto curare nei giorni futuri.

Un piccolo bocciolo di rosa bianca, appena sfumato di rosso, si nascondeva dietro gli altri, ma io lo vidi e ascoltai quanto mi diceva.

«Non avere timore, hai già fatto breccia nel suo cuore. Hai visto come era furioso? È perché ha perso la prima battaglia.

Lui, che odia tutte le donne, ne ha trovata una che gli ha fatto dimenticare la vendetta almeno per un attimo. E non vorrebbe perdonartela.»

«Non è facile» risposi, «potrebbe stanotte aver dimenticato tutto, e io come potrò fare? A volte lo sgomento mi prende, perché le parole potrebbero non essere più così persuasive. Potrebbe stanotte essere affranto da gravi problemi di governo. Chi sono io per rabbonirlo?»

«Fai come sai fare tu. Osservalo, amalo, saprai suonare la corda giusta. Domani piuttosto viene a raccontarmi come è andata.»

Ecco come andò. Era ormai buio quando sentii i suoi passi, questa volta stanchi. La mia sorellina era accanto a me; l’avevo fatta già venire nella mia stanza.

Shahriyàr spalancò la porta ed entrò di furia. Aveva forse premura di tornare da me o era piuttosto inferocito di trovarmi ancora viva, segno della sua cedevolezza?

Rimasi immobile, in piedi, senza chinare il capo ma piuttosto guardandolo negli occhi. Vidi i suoi divenire fessure. Non ci poteva credere. Non trovava le parole. Forse stava pensando di farmi accecare perché non lo guardassi in modo così insolente.

Si avvicinò alla finestra per prendere tempo, si strizzava le mani dietro la schiena. «Sei ancora qui?»

«Secondo il tuo volere, mio signore.»

«1l mio volere è che tu sia già morta.»

Che terribile stilettata al cuore. Dunque non avevo fatto nient’altro che rimandare la mia fine.

Mi percorreva con occhi impassibili dai piedi alla testa, poi ancora dalla testa ai piedi; stava valutando qualcosa, non sapeva decidersi.

«E questa chi è? Chi l’ha introdotta? Chiederò conto a Zuya.»

120

«Questa è la mia sorellina, Duniyazàd, che ieri mi avevi permesso di trattenere. Anche lei ha bisogno di storie di saggezza, come tutti.»

«Questo non vale per le femmine, che rimangono sempre stolte e ingannatrici.»

Che cosa potevo mai rispondergli? «Pensate alla madre che vi ha partorito, alla balia che vi ha allattato.»

«Fandonie. Dici sciocchezze, come tutte le donne. Quelle peggiori. Non mi capacito di non averti ancora fatto tagliare la testa.»

«Sono qui mio signore, puoi fare di me quello che vuoi, forse però.»

«Forse però?» si volta di scatto. «Forse può servirti la mia voce che racconta.»

«Ero sfinito ieri sera, è per questo che mi sono addormentato, non certo per merito tuo.»

«Ciò nonostante.»

«Approfitti della mia stanchezza. Ho avuto una giornata molto difficile. Per stanotte resterai, preferisco le esecuzioni di prima mattina.»

Subito intervenne Duniyazàd: «Ti prego sorella, finisci di raccontarmi la storia che avevi iniziato ieri sera. Se tu morrai io non saprò mai come andrà a finire.»

«Io so già come va a finire, l’ho sognata stanotte» disse il re. «Ne conosco tante altre da riempire notti e notti fino a più di mille.»

«Vuoi sempre avere l’ultima parola. Allora spogliati infilati nel letto; prima ti possiedo, poi vediamo se avrò voglia di ascoltarti.»

Non ci sono parole per dire quanto sono dolci le sue labbra, potente il suo piacere, assoluto il suo abbandono. I suoi gemiti sono musica, il suo urlo una tromba che risuona. Quella notte avevo assaporato l’amore e poi mi sarebbe toccato morire? Non ci potevo nemmeno pensare.

Mille notti sono passate narrando, e tanto ho imparato dell’amore che ancora non avevo imparato dalle storie altrui. Mi dice mio padre, il visir, che il paese ha ripreso vita, che la gente è gioiosa, i giorni scorrono lievi, le messi crescono più folte, gli animali figliano, i tribunali sono più benevoli e la prosperità benedice il popolo. Tu, mio re, hai imparato che nel mondo c’è tanto dolore e che il

121

tuo al confronto è poca cosa, che solo la saggezza, la giustizia, il perdono possono rasserenare la vita e darle compimento agli occhi dell’Altissimo.

Eppure ora, per la prima volta, si affaccia in me un grande timore.

I miei tre figli si muovono intorno: il più grande rincorre gli uccellini, il secondo si trascina gattonando e gioca con le formiche, l’ultimo succhia la mia poppa. E io ho paura. L’amore che ho conosciuto in queste mille notti non mi rassicura, anzi, perché ora so di avere molto da perdere. Scorgo negli occhi di Shahrihàr la passione, ma anche lampi di antica ferocia: negli uomini forse il potere si avvinghia all’amore, così come nelle donne l’amore si intreccia con il dolore.

Ora che le mie storie si sono esaurite con Aladino e la moglie Badr Al-Budur, che cosa potrò ancora raccontargli per sentirlo addormentarsi tra le mie braccia?

Continuerà a tenermi accanto a sé? Mi permetterà di prendermi cura dei miei piccoli figli, che sono anche i suoi? Perché, proprio ora, mi prende uno scoramento che mi schiaccia nel pozzo della disperazione?

Ho conosciuto finalmente l’amore e la passione per un uomo, ho conosciuto l’altro amore, quello dei figli, che mi fanno aggrappare alla vita più che mai. Eppure. Sciocca che sono! Le nuove storie le inventerò io; niente è più fecondo della mente umana, che non esaurisce mai la materia dei racconti.

Sarò io a idearle e questa volta, parlando del mondo, gli parlerò di me e lui non potrà più rinunciare alla mia voce, alla forza ammaliatrice del mio pensiero.

••

Un delicato racconto che ci conduce in un mondo onirico. Originale il contenuto e lo stile espositivo. Il lettore è portato, con suspence, in una magica favola. Il conflitto tra uomo e donna è affrontato, nel racconto, con la tenacia e la comprensione femminile. Se si lascia uno spiraglio, l’amore può porre fine alla sofferenza. Chi ama non ha paura.

122

di merito prosa inedita - Mario Trapletti

Mario Trapletti

da Roma

L'inferno è l'assenza degli altri

Hai gettato tutti nello sconcerto, li hai lasciati a bocca aperta. Chi se lo sarebbe mai aspettato da te. Bello scherzo che hai fatto.

Tu fossi, che so, un acclamato scrittore; un celebre uomo di spettacolo o anche solo un politico in carriera, già si scatenerebbe la pletora dei retroscenisti da rotocalco. Cacciatori di turbe; scandagliatori di contorte biografie; annusatori di tracce di freudismo noir: tutti alla spasmodica ricerca del Vero Perché, dell’Autentica Chiave di Volta.

Tu, però, la Vita ha voluto fossi un componente del Club degli Anonimi Qualunque, quelli cui, quando gli va bene, tocca in sorte un ruolo da comparsa per dieci minuti in quella che qualcuno già definì “Una favola raccontata da un idiota”. Sei soltanto, volendo a tutti i costi gratificarti di un paragone letterario, un sedicente uomo dal fiore in bocca. Ma nessun Pirandello affonderebbe le fauci nelle tue vicende personali, nella tua storia, per nutrirsene, metabolizzarla e restituirla al mondo sotto le spoglie di un’opera teatrale.

Questa la scena che si troverebbero davanti agli occhi gli arditi spettatori qualora a un Pirandello anche solo de noantri fosse venuto l’estro di cimentarsi con un soggetto così poco affascinante.

L’interno di un appartamento come tanti, di quelli dove vive la moltitudine che spesso ama inebriarsi con i racconti delle vite

123
segnalazione

di illustri uomini e donne.

In primo piano, un tavolo dalla linea semplice, ma non banale (tu aborri la banalità, tanto da passare per eccentrico); color grigio chiaro, come grigia è la sedia, severa, essenziale nella sua anima metallica. Grigio è il castigato ma non comune lampadario.

Il fondale nel quale parrebbe volersi mimetizzare e fondersi l’arredamento è di un raffinato grigio perla, la cui ricerca ti è costata non poca fatica, come del resto ognuno degli altri componenti. Nulla, a costo di faticose ma appassionate ricerche, è stato lasciato al caso: tu non ami le accozzaglie, le scelte superficiali, il disordine cromatico. Nero, invece, è l’abbigliamento: calzoni, camicia, t-shirt, giacca, scarpe. Anche le calze, ci mancherebbe. Si è fatta spesso, da parte di amici e parenti, dell’ironia sulla mono-tonia del tuo vestire, così come ne è stata fatta su quella dell’arredamento, per quei quattro gatti che l’hanno visto. Dicessero pure quello che volevano: non ti sei mai fatto condizionare nelle tue scelte, fatte sempre da solo, senza mai consultare nessuno, e senza alcun timore dei pareri altrui.

La luce è tenue, fredda, tipica delle lampade a risparmio energetico. Tra le altre cose illumina, sul piano del tavolo, un piccolo parallelepipedo di cartoncino bianco, sul quale spicca la scritta BNZDZP. Anche il tuo sguardo lo sfiora per un attimo, carico di incerto odio, come si può odiare la siringa di una benefica endovenosa. Quasi subito lo distogli per rivolgerlo al vuoto. Spento.

Le orbite degli occhi sono cerchiate di scuro, occhiaie simili a buchi neri dove tutto si perde. Si annulla.

Il cranio rasato a zero riflette il gelo della luce che lo sovrasta, e conferisce una tonalità inquietante al pallore della faccia. Guance bolse, quasi fossero braccia lasciate cadere per la stanchezza, la disperazione. Rughe serpeggiano sulla fronte e intorno alla bocca, graffiti che non mentono.

Quanti anni hai: sessanta? forse qualcosa meno? portati o sopportati? Domande oziose, commenteresti se potessi udirle. L’età, quella che hai o quella che dimostri poco importa, non è mai una buona compagna di strada, anche se spesso è l’unica che ti resta. Ironia della sorte: più gli anni si accumulano, più ti ritrovi solo. Per un motivo o per l’altro, chi prima ti stava

124

intorno da un certo momento in avanti comincia ad avere altri impegni, altri interessi; sempre più motivi per non esserci. E sempre validi, ci mancherebbe. Quando si parla di solitudine, dopo degli che ci si mette? Infanti? adulti? Chissà perché, viene spontaneo abbinarci anziani .

Tu, vecchio non sei, anche se ormai fai parte della cosiddetta terza età. Eppure, hai sempre avuto per compagno di viaggio un acuto senso di isolamento, di esclusione. In certo qual modo, una forma di forzoso romitaggio, che non tu hai scelto, ma nel quale ti sei ritrovato a sfogliare i giorni della tua esistenza.

Le mani, ben curate, e le braccia giacciono, spossate e indifferenti, sul piano del tavolo; le palme rivolte verso il basso, come cercassero un solido appoggio. A tratti scosse da tremori, al pari delle labbra.

Il silenzio ti avvolge assoluto, complici la notte e l’affaccio tutto interno del tuo piccolo appartamento. Sino a poco fa si sarebbe potuto udire anche il tumultuare dei tuo cuore, che adesso però si è placato; batte regolare, noioso e rassicurante come il toc toc di una pendola.

L’assenza totale di rumore crea l’illusione di poter ascoltare i tuoi pensieri, percepire le tue emozioni; le tue angosce.

Non sai più distinguere se sei tu che li elabori oppure sono i pensieri che ti aggrediscono provenienti da chissà dove. Dentro o fuori che siano, vorresti non esistessero per niente, che ti lasciassero in pace.

Silenzio esterno. Vuoto interno. Quiete assoluta.

Così gradiresti tu, ma così non è, non con il senso di vacuità che si è impossessato di te. Greve come un macigno che ti opprime; ti comprime il diaframma; rende affannoso il respiro. La testa sì, la testa vorresti che si potesse sgravare con un tiro di catenella, come i vecchi sciacquoni del water. Uno scroscio, e via, giù nelle fogne dell’oblio. Potessi farlo. Silenzio.

Solitudine.

Vuoto.

Ti monta dentro la voglia di gridare, mettere le ali a quell’urlo che ti preme dentro, fino a farti scricchiolare la cassa toracica. Arranca su su fino alla trachea, smania per venire alla luce, riversarsi nella stanza, magari in un apparecchio telefonico. Ma va a cozzare contro le labbra ermeticamente serrate,

125

e comunque il cellulare l’hai spento da un pezzo. In questo momento non vuoi disturbatori, chiacchiere forse futili, ma che invece potrebbero farti vacillare, minare la tua ferma decisione. Ferma finché nessuno la scuote.

Giunti a questo punto, non vuoi importuni spettatori o ascoltatori: chi è stato assente fino a oggi, poco importano le motivazioni, continui a esserlo; senza ipocrisia. Adesso, qui nella tua stanza tu sei solo. Una solitudine che dilaga all’interno. Solo con te stesso: l’ultima persona con la quale in questo momento vorresti trovarti in compagnia. L’unico non in grado di darti una mano, ma anche l’unico presente. Gli altri, invece Già, dove sono gli altri? Distratti e travolti dalle loro vite. Ognuno dalla propria. Ognuno assorbito dalle proprie gioie, dai propri dolori. Con i propri tappi nelle orecchie e fette di salame sugli occhi.

Anche tu, certo; anche tu come tutti travolto dalla tua vita: un fiume in piena, impazzito. Stravolto dal senso di vuoto che ti divora e ti impedisce di vedere qualsiasi altra cosa che non sia lui.

Non sai più reggerti in piedi. Non da solo. Ma sei solo.

Avresti bisogno di stampelle per reggerti; le persone a te più care hanno cercato di fornirtele; come potevano, ovviamente; come sapevano. Ti hanno procurato un nome, un numero di telefono. E che pretendevi, che loro si facessero carico di quella croce che tu per primo ti rifiuti di portare? Volevano solo aiutarti. Aiutarti a comprendere, e accettare che sei tu che a tutti i costi vuoi considerare una croce quella che è solo una momentanea difficoltà, una fase della vita.

Depressione, ha sentenziato lo psichiatra dall’alto della sua scienza medica. Sei convinto che a quelli che ti avevano indirizzato a lui ha aggiunto grave, ma a te no, si è ben guardato dal farlo. Può essere controproducente dirlo in faccia a un paziente.

Depressione. al momento di congedarti, con un sorriso che voleva essere rassicurante e una stretta di mano virile ma non troppo, ti ha consegnato due foglietti: la parcella e la prescrizione del rimedio miracoloso. Arricchito dai migliori consigli, peraltro gratuitamente elargiti:

126

Sia costante nel prendere la medicina: è di vitale importanza che lei non rifiuti la cura. Con questa, non solo si sentirà, ma starà meglio, vedrà. Starà. vedrà.

L’attesa di un futuro messianico, di un Messia che ci monderà dei nostri dolori, dei nostri vuoti. Delle nostre solitudini. Le streghe nei secoli dell’intolleranza inquisitoria venivano messe al rogo quali seguaci di Satana. Noi ci siamo evoluti, siamo moderni, superiori: la pozione magica oggi viene regolarmente prescritta, e ceduta con estrema facilità e con i sacri crismi della scienza ufficiale. Chi la elargisce non rischia nulla, salvo l’eventuale decesso del paziente. Un possibile effetto collaterale fra i tanti, forse nemmeno il peggiore. Il male oscuro . il male di vivere. la paura, l’angoscia di vivere.

Per te adesso non è più il momento di riflessioni e recriminazioni: le cose sono andate così e ormai poco importa che potessero andare in modo diverso. In fin dei conti, la tua vita non si è dipanata diversamente da quella di molti altri. È vero, non ti ha certo aiutato l’ambiguità sessuale: per anni, troppi anni, hai nascosto anche a te stesso quali erano le tue vere pulsioni. Ti faceva paura, ti metteva a disagio scoprire che d’istinto provavi attrazione più per i maschi che per le femmine. Cioè: ti trovavi bene con le rappresentanti del gentil sesso, ma solo se erano di parecchi anni più mature di te, e senza che ci fosse di mezzo un briciolo di erotismo. Lo sapevi anche tu, qualcosa avevi letto, che probabilmente sotto covava la ricerca di quella figura materna che a te era mancata, ma questo non cambiava niente: le ragazze tue coetanee o più giovani di te non ti interessavano, anzi: ti annoiavano. Non così i maschi. Ma l’anomalia delle tue pulsioni era tale da rendersi insopportabile: non potevi ammetterla nemmeno a te stesso. Il piacere della trasgressione non ha mai fatto parte del tuo bagaglio culturale. Quanto hanno gravato sulla tua emotività la difficoltà a viversi per quel che si è; la paura del giudizio, dell’incomprensione, dello scherno?

Si fa presto a ironizzare o a minimizzare quando si ignora cosa significhi nascere in una famiglia tradizionale, cattolica osservante, nella provincia del Centro Sud, e scoprire che sei diverso dagli altri. Dagli altri che sono diversi da te, ma loro sono in maggioranza, sono secondo natura: quindi, il diverso

127

sei tu.

Fingere, mascherare, reprimere. Tutto questo, benché a fin di bene, ha un costo; si paga caro. Tu al momento ignori quanto, ma con il tempo, diventa insostenibile.

E allora, non resta che la fuga dalla piccola città, dal ristretto orizzonte della provincia, che ti asfissia se non sei come loro , se non sei uno di loro . E non puoi nemmeno accusarli di non averti voluto capire, quando tu hai fatto di tutto perché non ti capissero.

La ricerca di un lavoro migliore, di un futuro più ricco di soddisfazioni. Ancora una volta una scusa, una meschina fuga verso l’illusione: se gli altri non mi conoscono, potrò nascondermi meglio.

Hai scelto la grande città perché offre maggiori e migliori opportunità di realizzazione in ambito lavorativo, così hai raccontato ai tuoi famigliari. In realtà, perché ti accoglie senza chiederti patenti di alcun tipo; non ti sottopone ai raggi X prima di ammetterti nel suo consesso. Vero, verissimo; come è vero che omologa tutti; pressa come una schiacciasassi; ti rende anonimo; ti spersonalizza.

In città pensavi di poter vivere senza drammi la tua diversità: nessuno qui ti presta attenzione più di tanto. Ma se anche si accorge, se ti sgama, non dà in escandescenze, non punta l’indice del grande Inquisitore: abbassa la saracinesca dell’indifferenza, e chi s’è visto s’è visto.

La generosa e pragmatica città ti offre, se proprio vuoi, se non puoi farne a meno, rapporti mercenari; basta che tu abbia i mezzi, ne troverai di discreti, che non ti espongono, non ti compromettono. Ma lasciano né più né meno l’amaro in bocca; ancora una volta, ti trovi a sguazzare nel vuoto, nell’assenza. La grande città non è piccola, la gente non mormora - ma nemmeno ti saluta per strada quando ti incontra; addirittura, se la incroci per le scale del condominio. La discrezione, soprattutto.

Tu, però, assecondi e per così dire incentivi questo stile di vita, questa gestione dei rapporti interpersonali: in pochi anni hai cambiato casa più volte, trasferendoti in zone sempre diverse e distanti una dall’altra. Senza mai lasciare il nuovo recapito anche solo a una portinaia. Come a voler sottolineare

128

e approfondire la spersonalizzazione del tuo vivere cittadino, hai selezionato per lo più anonimi seminterrati, meglio se con ingresso indipendente e affaccio tutto interno. Sprofondare e sparire; scivolare impalpabile tra la folla e di tanto in tanto girarsi, nella speranza che qualcuno abbia colto il tuo passaggio, almeno con la coda dell’occhio.

Non vivi chiuso in casa, questo no: dopo il lavoro, frequenti cinema, teatri, palestre. Bar e ristoranti no, perché bere e mangiare in solitudine ti intristisce più del ricordo del film Incompreso. E proprio per non essere sempre solo prendi ad accompagnarti, nelle occasioni culturali, con donne più mature di te. Con le quali, però, non stringi veri rapporti di amicizia: tra di voi, unicamente interessi culturali comuni; mai una cena, un dopo teatro, una passeggiata a due. Di te, giova ripeterlo, si conoscono soltanto amicizie femminili, pressoché sempre di età superiore, alla tua, e nemmeno di poco. Non hai amici, non risulta tu ne abbia mai avuto, se non in un remoto passato che risale alla scuola dell’obbligo. Vien fatto di pensare a quelli che non tengono dolci in casa per evitare anche solo la tentazione, e perché non si pensi che sono golosi. Solitudine, comunque solitudine: bramata e odiata.

La famiglia, si dice che tutto tragga origine da lì. Sia pure, ma ha senso rivangare la tua infanzia e adolescenza alla ricerca dei vuoti, delle assenze dovute al lavoro? Quanti sono i genitori che, costretti fuori casa da impegni lavorativi, danno l’impressione di trascurare i figli? Te la sentiresti di affermare che ne derivino sempre dei delinquenti, tossicodipendenti o emarginati, disadattati in genere? Troppo superficiale, no? e magari anche ingiusto. Infatti, non hai mai rinfacciato niente ai tuoi: poveretti, se ne sono pure andati abbastanza giovani, a poca distanza uno dall’altro. Tutto vero, ineccepibile; ma non ti riuscirebbe proprio di negarlo: la loro assenza la sentivi, eccome, e invidiavi i compagni di classe che avevano la mamma casalinga, gli preparava la merenda e magari li seguiva quando facevano i compiti. A te toccava sempre arrangiarti da solo, oppure convincere un tuo compagno di classe a invitarti a casa sua, per fare i compiti insieme, e magari rimediare la merenda.

129

Già, il cibo. Per un lungo periodo hai cercato compensazione nel cibo, fino a rasentare l’obesità. Intendiamoci: non è che ti fossi messo lì a tavolino e avessi pianificato di sostituire con le ghiottonerie le famigerate carenze affettive. Hai cominciato e basta, quasi per caso: uno degli amici che ti ospitava per studiare insieme attraversava una fase di inappetenza, e tu ti sei gentilmente prestato a risparmiargli le reprimende della madre. Dando fondo anche alla sua razione di pane e nutella o di torta o di budino o di zabaglione con i biscotti. Finché un giorno, che l’adolescenza era già un ricordo, non ti sei piaciuto più; non ce l’hai più fatta a guardarti nello specchio e vederti come eri. Hai deciso dall’oggi al domani di farla finita con l’eccesso di alimentazione, quasi bastasse pensarlo e dirselo. Quante lotte; quanti alti e bassi; pianti, scoramenti. Hai capito presto che con le tue sole forze non ce l’avresti mai fatta. E allora sei caduto nell’eccesso opposto: le diete sfiancanti, la palestra, i rimedi miracolosi che hanno conseguito l’obiettivo, nessuno può negarlo, ma al tempo stesso hanno sfiancato il tuo fisico, e quasi certamente sfibrato la tua psiche. Sei dimagrito; da anni puoi finalmente vestirti come a te piace. Ma a che prezzo e ancora non riesci a sbarazzarti degli abiti neri, che un tempo acquistavi perché ti sfinavano.

Se tu hai smesso di compensare i vuoti rimpinzandoti di cibo, i famigliari che non sono morti nel corso degli anni tu continui a percepirli lontani, non ti fanno sentire accolto come vorresti. Non ti prestano l’attenzione che, magari un po’ morbosamente, ti aspetteresti da loro. Non sopporti, per esempio, che tua sorella dedichi con tanto fervore il suo tempo libero alle attività parrocchiane; arrivi a essere geloso del sacerdote per il quale funge da segretaria factotum. Compito che, tra l’altro, svolge senza che si possano supporre rapporti truffaldini fra i due: a te non è ovviamente sfuggito che a lui non sono le donne quelle che, se proprio, interesserebbero. E questo, chissà perché, ti fa ancora più rabbia. Un disastro da sempre, per te, la famiglia; almeno per come l’hai vissuta tu.

Gli amici di un tempo, di ormai tanti, troppi anni fa, sono una nebbia indistinta nella quale non si scorge alcunché. Che penserebbero loro di te, loro che sono sempre rimasti

130

là, fisicamente e culturalmente? Non è nemmeno la paura del loro giudizio, del possibile scherno: siete reciprocamente indifferenti. Punto e a capo. Meglio non cercarli, non incrociarli.

La grande città offre ampi spazi, momenti culturali e di svago a non finire. Basta solo aver voglia, e disponibilità di mezzi per stordirsi e non pensare, almeno a se stessi. Entrare in un vortice stuporoso dove anche la frequentazione coatta di sale cinematografiche e teatrali può trasformarsi a lungo andare in un oppio del popolo.

Tu però non riesci nemmeno a conseguire quel livello di socializzazione alienata; non ingrani, sempre con la palla al piede del cosa penseranno gli altri. Il paradosso di vivere nell’indifferenza più o meno generale, e però temere il giudizio del prossimo.

Ti ritrovi isolato, più nella testa che nella realtà: sei tu che scansi le altre persone, e non viceversa. Hai mentalmente indossato i panni del reietto barbone: un barbone, però, vestito con eleganza e ben nutrito; dotato di un lavoro remunerato e di un comodo alloggio. Ma ugualmente solo. Eppure, tu vorresti ancor più scivolare anonimo tra la folla, fantasma che sfugge ai radar dell’altrui percezione. E più sei solo, più gli altri ti mancano.

I pensieri ancora vanno e vengono nella scatola cranica, ma è una marea che si fa via via sempre più lenta; un flusso e riflusso che si stempera nell’indifferenza.

La tua mano scivola senza entusiasmo verso la scatoletta marcata BNZDZP; l’accarezza; sembra sul punto di afferrarla, di aprirla. Poi si ferma, quasi attendesse un ulteriore comando. Che non viene.

Lo sguardo vitreo, assente, non sa dove posarsi; non c’è niente su cui posarsi. Gli occhi non trovano appigli nel grigio; il vuoto non si lascia mettere a fuoco.

Ancora bagliori di riflessione; flash che per un attimo squarciano le tenebre dove stai sprofondando.

Per quelli che vivono situazioni come la tua l’epidemia di covid19 è stata, a quale metafora vuoi appellarti ? La ciliegina sulla torta, o preferisci la goccia che ha fatto traboccare il vaso? Ma sì, ma sì, facciamo pure dell’ironia: la verità è che per te è

131

stata una vera e propria mazzata, alla faccia dei sensi figurati. Sei scampato al contagio del virus, ma non al virus dell’isolamento. Per mesi e mesi chiusi cinema, teatri, palestre: azzerata la tua pur martoriata socialità. Interminabili, insopportabili ore e ore di tempo libero (sic!) sgranate nel carcere delle quattro mura domestiche. Pennellate di grigiore che hanno fatto comunella con le tonalità del tuo grigiore casalingo. Le ore dell’ otium indigestamente tollerate da carcerato in casa tua, al pari di quelle del negotium . Lo smart working , binomio esterofilo che ci ha alluvionato in un amen, ha consentito di non bloccare molte attività lavorative, salvaguardando al tempo stesso la vita dei lavoratori. Ineccepibile. Condannando, in pari tempo, te e tutti gli altri come te all’isolamento totale. Segregati in casa. Arresti domiciliari aggravati dall’assenza di contatti umani in carne e ossa.

I social media, certo, altro pervasivo binomio esterofilo. Non ne sei mai stato attratto, tenuto lontano da una profonda diffidenza: non riesci a stabilire un rapporto, un contatto, se non hai di fronte l’altro. Tu sei celebre fra le tue conoscenze per la capacità di parlare a raffica per tempi infiniti, saltando da un argomento all’altro senza soluzione di continuità. Difficile dialogare con te che hai quasi sempre tu il boccino in mano. Sei un brillante conversatore a senso unico, capace di non annoiare chi è disposto a starti ad ascoltare. È ben raro che ti manchino gli argomenti, e ancora più raro che il tono della tua voce scivoli sul depresso. Scoppiettante ti si addice alla perfezione. Qualcuno, troppo profondo o troppo infastidito, ha parlato di horror vacui . Eppure, alla faccia della tua facondia, quando hai provato a metterti davanti allo schermo e alla tastiera, niente: paralisi totale. Nemmeno fossi vittima della sindrome della pagina bianca. Con il bel risultato che il lockdown, integrale o semi, ha ulteriormente tarpato le ali alle tue relazioni sociali.

Intendiamoci: i tuoi rapporti con i colleghi, per dirla in cerimonialese, sono sempre stati improntati alla massima cordialità e al rispetto reciproco. Ovvero: formalmente ineccepibili. Mai, però, scesi al di sotto della superficie: di facciata, insomma. Non hai stretto legami con nessuno di loro. E magari sarà stata la solita paura: se li frequentassi, prima o

132

poi finirei con il tradirmi. E chissà come potrebbero prenderla , Meglio non correre rischi, stare alla larga anche dalle cene d’ufficio, accampando la solita scusa della dieta. Presto o tardi, è inevitabile, nemmeno ti convocano più, e il problema è risolto.

Il covid19 te l’ha liquidato del tutto: sei tra gli anziani dell’ufficio, quindi, fra i soggetti a rischio; quindi, da tutelare maggiormente. Risultato: non sei più rientrato in ufficio. Chiusi cinema, teatri, palestre – e per te anche il luogo di lavoro. La morsa si fa più stretta, asfissiante.

Tu per primo non ti capaciti di come, in questo clima disumanizzante, non sei tornato a fiondarti sul cibo. Tu che per anni e anni hai rischiato l’obesità, per giunta in frangenti decisamente meno drammatici di questo. Insieme a parecchi denari se n’è andata non poca energia mentale; e forse, ma non ne hai la certezza, le cure alle quali ti sei sottoposto non erano così innocenti come millantava la pubblicità. Forse, e il dubbio non è solo tuo, hanno procurato scompensi dei quali nemmeno hai piena avvertenza, ma che, forse, ti hanno reso più instabile. Non, però, nell’inibirti durante la segregazione perfino le gratificazioni che può fallacemente fornire il cibo.

In un anno e oltre in solitudine quasi assoluta ti sei concesso giusto le incursioni saltuarie al supermercato: non ti sei comperato un solo capo di abbigliamento nuovo.

È allora che hai cominciato a incurvare le spalle, ad avvertire minaccioso il peso della vita. Il vuoto della tua vita.

Il covid ha privato molti, per periodi più o meno lunghi, del senso del gusto e dell’olfatto; tu, invece, virus o non virus, hai perso il gusto per l’esistenza.

Adesso, seduto a quel tavolo, gli occhi vacui, il cervello ridotto a una maionese impazzita, l’angoscia ti monta dentro.

Il pozzo nero lievita, gorgoglia, è sul punto di intasarti la gola. Annaspi, deglutisci, ti porti le mani al pomo d’Adamo; poi le lasci ricadere sul piano del tavolo.

Fissi davanti a te, ma vedi il vuoto, sempre e soltanto il vuoto.

La retina non registra niente.

È un attimo, una diapositiva proiettata sulla nebbia: intravedi te stesso sull’orlo di un precipizio, un burrone del quale non si intuisce il fondo. Hai paura, vacilli, ti ritrai.

133

Buio.

Nuova diapositiva: ti trovi sempre sull’orlo del precipizio, ti sporgi in avanti, sembri attratto, affascinato dal vuoto, dal nulla che ti sta davanti e sotto. Ovunque. Cadere. Lasciarsi andare. Sprofondare nel buco nero dell’inesistenza. Sparire. Farla finita. Ma no, sei ancora lì, ancora incollato alla sedia, le braccia distese sul piano del tavolo. Silenzio.

Ti guardi intorno incredulo, smarrito come un cucciolo che ha perso la mamma: possibile che nessuno ti veda, si accorga di te? che nessuno percepisca l’inquietudine che ti attanaglia, la tua paura di vivere - al tempo stesso paura di morire? Nessuno.

Nessuno ha avvertito il tuo nuovo disagio di fronte all’insorgere della malattia, ma più ancora di fronte alle sue possibili conseguenze. Tu stesso agli inizi hai provato almeno a minimizzare i sintomi, i dolori; a classificarli come temporanei. Quando non è più stato possibile, sei dovuto ricorrere per forza al tuo medico, che ti ha indirizzato, a sua volta, allo specialista. Diagnosi implacabile: urge intervenire, perché la paura ti ha fatto commettere l’imperdonabile errore di trascurare i messaggi che il tuo corpo ti indirizzava. Operare.

I medici, con ogni probabilità imbeccati dai parenti, minimizzano, il sorriso sulle labbra: non è niente, stia tranquillo, tutto sotto controllo.

Che bella espressione: tutto sotto controllo. Più rilassante di una tisana alla passiflora.

Facile a dirsi, per loro; ma tu vivi solo; sei solo. E le loro parole suonano lontane, prive di vigore. Parole, appunto. Operare; e ti hanno operato: tutto bene, stia tranquillo, ancora qualche piccolo disturbo, col tempo, vedrà . Vedrà.

Tu però non ti senti bene; non stai bene. Hai perso l’appetito, e perdi peso; per la prima volta in vita tua senza desiderarlo. No, non stai affatto tranquillo, e avverti pure che i parenti, e forse i medici, ti vivono come un malato immaginario. Si preoccupano per la tua testa, non per il corpo. Con bella levata

134

d’ingegno ti spediscono a consulto da uno psichiatra. A tanto siamo arrivati: ti prendono, se non proprio per pazzo, per uno che ha comunque delle turbe mentali. Da curare con la camicia di forza della chimica farmaceutica.

Non c’è nessuno che ti capisca, che si sforzi di capirti. Ti senti, sei sempre più isolato, un naufrago alla deriva.

Tu, però, non sei matto, gli altri pensassero pure quello che vogliono. Sei angosciato dalle prospettive della tua vita futura: e se la malattia, quella che nessuno vede e ti riconosce, diventasse invalidante? Se, un po’ alla volta, giorno dopo giorno, ti togliesse l’autonomia personale, la capacità di gestirti senza bisogno di interventi altrui – e per il resto dei tuoi giorni? Come potresti vivere, sopravvivere, tu che già ora vivi, di fatto, abbandonato a te stesso? e che non riesci a far capire agli altri la tua fragilità, il tuo terrore di fronte all’avvenire? Qualsiasi cosa è meglio di tutto ciò; qualsiasi altra cosa.

Sei arrivato al punto di non voler dormire per il terrore che quell’incubo continuasse ad abitare le tue notti, se ne impadronisse e da lì prendesse possesso anche dei tuoi giorni. Incubo degenerato in ossessione. Solo. Solo. Solo Malato. Malato. Malato. Non autosufficiente. Dipendente in tutto da estranei, persone che non sanno niente di te, dei tuoi sentimenti, delle tue paure. Dei tuoi dolori. Se fin qui non si sono presi cura di te i famigliari, i parenti, gli amici, come puoi pensare che lo farebbero quegli altri? Puoi immaginare di vederti, inerme, nelle mani di gente per cui tu non sei altro che parte del loro lavoro? Mercenari, in fin dei conti.

La testa ti scoppia, ti va in fiamme appena la attraversano questi pensieri, questa insopportabile prospettiva. No, non sarebbe più vita, e allora.

Le mani afferrano la scatoletta, senza degnarla di uno sguardo. Sembrano sul punto di stritolarla, annientarla, cancellarla per sempre dal tuo orizzonte. Poi, di botto, senza apparente motivo, si placano. C’è ancora tempo, forse.

Improvvisa, violenta, incontenibile arriva l’aggressione:

135

tre streghe, mascheroni orrorifici, ti si avventano contro, ti strappano con le unghie le palpebre, quelle palpebre che tu cercavi con tutta la forza di tenere serrate. Come il bambino che chiudendo gli occhi si illude di non essere visto dai mostri che popolano il buio.

Tre streghe: Silenzio, Solitudine,. Vuoto. Hanno ghigni feroci, fanno a brandelli e ingoiano i tuoi residui di vitalità. Ti costringono a tenere le pupille fisse su di loro, a non perdere un istante della loro carneficina. Terrorizzato come sei dalla semplice idea di trovarti faccia a faccia con i loro ceffi mostruosi, maschera spaventosa, spietata della realtà. Una fitta dolorosa, fulmine che si abbatte sul cervello in disarmo: Dio, già, dov’è Dio, perché non ti dà una mano? Tu sei credente, praticante; sai che non devi - che non dovresti. La vita è sacra, ma soprattutto non ci appartiene: ci è stata regalata, e solo Chi ce l’ha donata può chiederci di restituirgliela, o prendersela. Noi, no, non possiamo disporne liberamente, non ne abbiamo il diritto. Quante volte le hai sentite ripetere nei dibattiti sull’eutanasia . Parole, nient’altro che parole, che adesso ti risuonano vuote, come vuote suonano tutte quelle altre che ti ronzano dentro e fuori la testa - mosche importune, senza un perché, senza uno scopo.

Anche Dio ti ha abbandonato, inutile farsi illusioni: per quale motivo dovrebbe occuparsi proprio di te, delle tue sofferenze, delle tue angosce, dei tuoi pensieri? Anche lui si è distratto. E non puoi perdonarglielo. Ti mandasse pure nel suo Inferno: non sarà certo peggiore di quello terrestre. Ricordi, ti pare di ricordare, una frase di Sartre, letta o sentita chissà dove e chissà quando: “L’inferno sono gli altri”. Sarà. Per te l’inferno è l’assenza degli altri; la loro indifferenza. Vorresti piangere, ma le lacrime dove sono ormai?

Senti che arriva, di nuovo, sale dalla bocca dello stomaco, via via dilaga ovunque, su su fino a esondare nel cervello. È qualcosa di non umano che un essere umano non può tollerare, gestire, respingere. Padre, allontana da me questo calice ma sai già che anche questa volta l’istanza resterà inevasa.

È un dolore che non ha nome, non ha volto, non ha confini: è incontenibile, inappellabile. Non è fisico, ma al fisico prosciuga

136

tutte le energie, lo lascia completamente privo di forze. Uno straccio fradicio di angosce senza via d’uscita Vuoto.

Ti senti come un agnellino in mezzo a un branco di lupi famelici: del tutto inadeguato e impotente, incapace di una qualsiasi reazione che non sia quella di belare disperato. Tu, per giunta, nemmeno quello riesci a fare. Figuriamoci tentare una via di fuga.

L’angoscia di non capire che cosa ti sta succedendo, e di non riuscire comunque a opporsi. Vedersi rotolare a valle, e macerarsi nella più totale impotenza. Senso di inadeguatezza alla vita.

La scienza medica, solerte e pietosa, è pronta a metterci una toppa: ti regala, per una modica cifra, l’illusione della normalità, del tutto sotto controllo. Afferri, con mano tremante, indecisa, la piccola confezione di cartoncino marchiata BNZDZP. La tieni per un attimo davanti agli occhi; lo sguardo, già oltre, nemmeno la mette a fuoco. A fatica, dopo alcuni tentativi a vuoto, riesci ad aprirla, a estrarne il contenuto. Appare un insignificante bottiglino in vetro scuro. Lo fissi senza interesse. Eppure, se riesci a trovare energie sufficienti per svitare il coperchio e aprirlo, da lì, come il genio dalla lampada di Aladino, sgorgherà il portentoso rimedio per tutti i tuoi mali. La pace assoluta. La museruola per quella muta di cani randagi e spietati che sono ogni volta sul punto di farti a pezzi, lacerarti le carni e lo spirito, e cibarsene famelici.

Che hai fatto di male per meritarti tanto strazio? Se almeno tu fossi un indù o un buddista allora potresti credere nella reincarnazione, consolarti pensando che stai pagando per una precedente vita peccaminosa. E ti verrebbe sempre offerta la speranza nella redenzione in un prossimo corpo. Purtroppo per te, Dio, qualsiasi Dio, è troppo impegnato altrove per occuparsi delle tue miserie umane. Sono gli ultimi scampoli di lucidità, se così la si può chiamare, e non sai che cosa augurarti per il tuo futuro: il nulla eterno con la requiem aeternam, o un qualsiasi Aldilà, che ti compensi di quanto non hai avuto in questa vita? Già, ma se poi davvero esistesse un inferno? No, non devi pensare, adesso; non è più il momento delle riflessioni. Basta assilli, cerchi alla testa, notti cancellate dai

137

sonniferi.

Poche gocce, e non ti sentirai più oppresso dal male di vivere. Poche gocce, e la pace si impossesserà definitivamente del tuo sistema nervoso. E pazienza se non ti erano state prescritte a questo scopo. e se vede che non fanno effetto con questa dose, nessuna paura, non si faccia prendere dal panico: basta aggiungerne poche altre, e vedrà che presto si sentirà meglio. Detto con il sorriso compassionevole di chi sa che l’obiettivo non è la guarigione, ma l’anestesia cerebrale, l’annullamento del rimbombo nella scatola cranica Sentirsi meglio, parole vuote, prive di un minimo significato. Almeno per te. Sentirsi meglio per te ormai significa non sentire più nulla: essere totalmente refrattario a ogni stimolazione esterna, ma anche interna. Insensibile a tutto per non sentire il dolore: come praticare la sedazione profonda a chi è stato abbandonato dalla persona amata e non sopporta più di crogiolarsi nell’autocommiserazione.

Poche gocce, la museruola chimica per tenere a freno i latrati e i morsi dello strazio di dover vivere. Quando si sente così, così male, - ti ha detto suadente lo psichiatra - lei dovrebbe reagire, non farsene soffocare. Ma se proprio non ce la fa da solo, e guardi che succede a molti, non si deve disperare, abbattersi, sentirsi inferiore agli altri. Bisogna semplicemente accettare il dato di fatto che ci si trova in una fase di congiuntura negativa, e che da soli è molto più difficoltoso uscirne. Vedrà: - sempre quel futuro ossessionante - basta un piccolo aiutino chimico, e il peso della vita non le sembrerà più così insostenibile. I problemi, certo, ci sono, ma chi non ne ha. Mi dica: lei è forse dell’idea che io non ne abbia? L’importante è vederli nella giusta dimensione, ridurli alle loro reali proporzioni. Poche gocce, e la malattia, qualsiasi malattia, non le parrà più così devastante, soverchiante. E se avrà costanza nell’assunzione e senso di equilibrio nel dosaggio, vedrà che non sarà nemmeno necessario che lei perda molto tempo venendo da me ad ascoltare le mie chiacchiere. Lei deve imparare ad ascoltarsi e autogestirsi!

Queste sono state le parole, le ultime dell’affabile strizzacervelli. Questa, che ora giace indifferente davanti ai tuoi occhi, la

138

pozione miracolosa, il filtro contro la paura di vivere.

Lo sguardo è vuoto, come vuoti sono gli occhi: non hanno più lacrime, né luce. Non ti hanno capito; non sei riuscito a farti capire. Sei depresso, lo sai anche tu: potresti essere pericoloso per te stesso. La camicia di forza chimica è solo per il tuo bene, serve a evitare che tu ti faccia in qualche modo del male.

Le gocce. Così stai buono, smetti di vacillare sotto i colpi dell’angoscia, sotto le sferzate della solitudine.

Le gocce.

E non serve nemmeno più che vai a colloquio dallo psichiatra: lui ti ha fornito il paraorecchie per non farti sedurre dalle sirene dell’autodistruzione. Ti ha fornito le stampelle per reggerti da solo. Forse Ma mentre iniziavi a muovere i primi passi, forse avrebbe potuto farti bene, farti sentire più sicuro, avere al fianco qualcuno che ti parlasse, ti ascoltasse; una presenza umana, insomma, non chimica.

Le gocce. Dovevi prenderle, certo. E però, com’è che a nessuno è venuto in mente che insieme al farmaco avevi bisogno, pressante bisogno, di cure anche per la psiche? Raccontare emozioni, sentiment, angosce. Parlare del terrore dell’avvenire. Parlare, e ascoltare.

Non le hai mai prese, quelle gocce; non ci credi, tu, che stia lì dentro la soluzione dei tuoi problemi. In ogni caso, non è di loro che hai bisogno: quando la malattia, che nessuno vuole riconoscerti, ti avesse ridotto alla non autosufficienza, cosa potrebbero mai quelle poche gocce?

Afferri il flaconcino con la mano sinistra; lo sollevi. Lo fissi per un istante senza alcuna emozione, ma pure senza alcun fastidio. Non è con lui che puoi avercela. Con il pollice e l’indice della mano destra inizi l’operazione di rotazione del dosatore che funge da tappo. Incontri resistenza, seppure lieve: ti senti fiacco, è da ieri mattina che non tocchi cibo, e la notte ormai incombe. Non hai fame, e del resto, a che ti servirebbe mangiare?

Un piccolo sforzo ancora, una tremula pressione, e la plastica cede; ruota.

Aspetti che si plachi un lieve affanno e che la mano sia ferma.

139

Un’altra lieve pressione sulla gomma, e l’aria viene espulsa dal contagocce; lo immergi senza fretta nel liquido, e aspiri finché non lo vedi pieno. Lo fissi con indifferenza: ecco pronta la probabile dose per prendersi una solenne sbornia, o cadere in un sonno profondo che ti strappi al mondo per parecchie ore. Insensibili l’uno all’altro.

La prospettiva dovrebbe placare le tue palpitazioni, e invece l’angoscia torna a montare, e monta il panico. Insieme, spingendosi a vicenda, sfociano nella disperazione più tetra.

Ti trovi di nuovo sull’orlo di un burrone, sempre lo stesso. Vacilli sulle punte dei piedi, stai per cadere in avanti. Di fronte a te si stende l’atro vuoto, un gigantesco pozzo del quale non scorgi il fondo.

Un tuffo nel Nulla. Oscilli, tentenni, ma finisci con il ritrarti: non vuoi precipitare - non vorresti. Non dovresti.

È un attimo: mentre prendi fiato, alle spalle avverti, scomposta, la corsa orgiastica dei tre cani randagi che vengono a morderti ancora una volta, lacerarti le carni, straziarti l’anima. Silenzio. Solitudine. Vuoto

I cani sono al guinzaglio delle tre streghe, che li aizzano, li incitano a non avere pietà.

Non sei in grado, lo senti con feroce lucidità, di resistere ancora per molto; hai già lottato troppo a lungo. Ti senti svuotato di ogni energia.

Davanti a te il salto nell’ignoto, il Nulla senza aggettivi; dietro, già senti nella carne i morsi del terrore di continuare a vivere; l’incubo di un altro domani, con il suo carico di insostenibili ambasce.

Oscilli, vacilli, tentenni: là il salto nell’ignoto; qua la certezza della pena, della condanna a vita. Dolore, comunque dolore. Inizi a respirare con affanno, sempre più scomposto. Il flaconcino di BNZDZP si è fatto di colpo pesante, stenti a reggerlo. Lo lasci quasi cadere sul piano del tavolo; ti afferri la testa fra le mani; la scuoti mentre una smorfia di sorda sofferenza ti deturpa la faccia. Il cranio pulsa martellante, sembra sul punto di esplodere, tanto è lancinante il dolore. Fissi per un attimo il pezzo di carta che giace a fianco della mano sinistra: ripeti a mezza voce le parole che hai scritto poco fa. Le confermi: indietro non si torna. La prospettiva della morte è spaventosa,

140

ti atterrisce, ma mai quanto quella della vita. Della tua vita. Avverti il sangue che precipita nelle vene e nelle arterie, come volesse esplodere all’esterno.

Insopportabile, tutto ti è insopportabile, ormai. Qualsiasi cosa è meglio di questo maelstrom che ti devasta il cervello, il cuore, l’anima.

Via, via di qui! Via da questo mostro orrendo che ti sta divorando brandello dopo brandello; che vorrebbe impedirti perfino di scegliere il tuo carnefice.

Stringi i denti, serri i pugni, fino quasi a conficcarti le unghie nel palmo delle mani. No, hai deciso che non cederai: sarai tu stesso il tuo boia; sarai tu a regalarti la liberazione definitiva. L’Amen.

Afferri il flaconcino; sviti, con determinata pacatezza, il contagocce, che avevi riavvitato dopo averlo svuotato. Lo riempi; te lo porti alla bocca. Estrofletti la lingua, vi lasci cadere, goccia dopo goccia, il contenuto del dosatore. Ritrai la lingua; ingerisci. Ripeti l’operazione con metodo quasi ossessivo fintantoché il contenitore è del tutto vuoto.

Mormori per l’ultima volta, a fior di labbra, come temessi di disturbare, le poche parole che hai depositato sul biglietto: Non sono un vigliacco. Non sono un eroe. Sono un essere umano. Solo.

Dolorosa disamina di una solitudine, cui vengono cercati invano i più disparati rimedi, in un cerchio di sofferenza e ossessione che porta al tragico e stoico epilogo.

141
••

Sezione poesie inedite

142

Alessio Baroffio

Tramonto ad est da Rescaldina (MI)

Si odono le sirene urlare confuse da una luce scura, notti di lumi spenti in ore di veglia e di paura. Dentro il sapore di zolfo si stringe l’impietosa mano, una luna rossa come falce porta carri di fuoco.

Il martello si abbatte senza risparmiare i virgulti, sotto necrotiche stelle spoglie affondano nei campi mentre l’occidente si sveglia in lacrime di impotenza. Nel vento grigio del tormento come Alcesti tornano gli uomini sulla terra già pregna di sangue vestiti del solo orgoglio. Nell’attesa che l’alba abbagli l'inverno attraverso nuvole di morte avviene l’esilio delle madri, ancora il sole tramonta ad est e negli spasimi di un popolo le colombe fuggono da Kiev.

Mentre dalle televisioni rimbombano i colpi di cannone e l'occidente si sveglia incredulo per un'invasione premeditata da tempo, si ascoltano le voci delle madri in ore di veglia e di paura, nella breve attesa di potersi incamminare verso l'esilio dalla terra dei loro avi. L'Ucraina è offesa, vilipesa. E come recita il poeta "nel vento tormento come Alcesti tornano gli uomini sulla terra già pregna di sangue vestiti del solo orgoglio". Le città si svuotano e sui confini con la Moldavia e la Polonia si ammassano a decine di migliaia in cerca d'un riparo, mentre il sole tramonta ad est e le colombe fuggono da Kiev.

143
1° premio poesia inedita - Alessio Baroffio ■

■ Giancarmine Fiume - 2° premio poesia inedita

Giancarmine Fiume

Se queste fossero la mie ultime parole da Rovellasca (CO)

Se queste fossero le mie ultime parole io le scriverei al rallentatore tra i raggi di sole che sollevano il mio viso fino all’ombra dei corpi stesi sui muri affinché, nei germogli dei giorni a venire, tu riesca ancora a sentire il mio tiepido sorriso lambirti, d’amore, nel vento le ciglia.

La parola è l’assoluta e determinante artefice di una poesia che unisce l’interiore visione esistenziale alla meditata scansione dell’immagine evocata, l’"ombra dei corpi" all’essenziale definizione del lievissimo fluire dei giorni che diviene misura del tempo.

E il sorriso affiora impercettibile come un segnale, un incontro, un alito di vento nella ricerca di una straordinaria stagione di sorprendenti e magiche attese e incompiute rivelazioni.

144

Franco Fiorini

Odor di casa da Veroli (FR)

Odore d’erba delle tue colline che il vento scioglie al giallo di ginestre al porporino della lupinella a poggi di mentucce e di lavanda e ulivi su cui grande il cielo scende.

Odor di grano delle tue pianure all’oro delle spighe aperte al sole tra fuochi di papaveri a danzare e fiordalisi a rispecchiare il cielo.

Odor di terra delle tue campagne al fumo delle zolle rivoltate dal vomere lucente dell’aratro antico il gesto del bovaro e nuovo a governare i buoi arresi al giogo.

Odor di pane di quei tuoi paesi abbarbicati a sassi millenari o stesi sotto i pioppi delle valli a intiepidirsi al sole dei tramonti.

145 ▶
3° premio poesia inedita - Franco Fiorini ■

Odor di mosto delle tue vendemmie alle viti pesanti di settembre i canti delle donne tra le vigne a carezzare i grappoli maturi.

Odor di vento delle mie stagioni attraversate come un pellegrino sulle strade impervie dei santuari a ricercar segreti di Bellezza dentro i passi esitanti del cammino.

Odor di casa della terra mia

Odor di erba, di grano, di terra, di pane, di mosto, di vento. Attraverso questi versi coinvolgenti, così minuziosi nella loro poetica narrazione, pare proprio di sentirli questi odori, così avvolgenti e protettivi. Odori che si rinnovano, che prendono forma, che prendono vita. Odori destinati all’immortalità. Odori della propria terra, della propria casa, del proprio vissuto. Si può andare ovunque, per svariati motivi, adattarsi in nuovi luoghi cercando a volte di farli propri, ma il cuore resta là, nella terra di origine. Un antico proverbio arabo così recita: “la felicità non è un posto in cui arrivare ma una casa in cui tornare”.

146

premio poesia inedita - Franca Donà

Franca Donà

Kintsugi da Cigliano (VC)

Sarà quel tremare di stelle a svelare la notte il tormento di vele ammainate sul ciglio d’abissi spalancate le fauci rapaci di onde a ingoiare quei figli piovuti dal cielo.

Dentro le voci sperdute alle nebbie lo strazio di madri che cercano i figli l’angoscia dei figli che invocano madri e tutto il mondo si sgretola intorno sotto a montagne di fango e detriti di ghiaccio il silenzio sporco di sangue.

Verrà a farsi carne la parola curando d’oro le ferite luce ad ogni crepa e di respiro il tempo a farne cicatrice.

Un tremare di stelle a svelare nella notte il tormento di vele ammainate sul ciglio degli abissi. Un esodo, un altro dramma. Ogni giorno si ripete, puntuale. Come un uragano senza fine, tra lo strazio delle madri che cercano i figli e l'angoscia dei figli che invocano le madri, mentre tutto il mondo si sgretola attorno. Questa terra meriterebbe di meglio: la natura nella sua crudezza non è mai così crudele, mentre lo è l'uomo nella ricerca di regole per ripulirsi la coscienza. L'uomo nella sua fallace umanità, sbaglia ad ogni respiro e attende che sia la storia a giudicare. Una storia mai scritta dai vinti.

147

Lucia Lo Bianco

Non saranno lacrime di pioggia

Forse non saranno lacrime di pioggia ad arrestare i lampi del terrore, squarci in un cielo senza stelle, boati nel cristallo dei silenzi. Ritroveremo quel filo inesistente di un giorno scomparso nella notte, muti e nascosti come polvere di tomba, laceri astanti di vita ormai a brandelli. E scriveremo di un tempo maledetto e di quegli anni perduti di illusioni, racconteremo di sogni e di speranze infrante a caso per guizzo di follia. Un taglio netto, una lama indifferente su pelle e carne bruciate per errore, ma sarà forte e cocente giudicare la pura offesa di umani fatti a pezzi mentre il gioco di anonime pedine portava avanti un'ultima partita. Saranno suoni uditi nel silenzio a riportare memoria delle ore e delle fughe su rocce maledette e delle mani tagliate nell'attesa. Non basteranno oceani d'inchiostro a dare senso a ciclica violenza, una clessidra lanciata nel suo giro in una storia che ha perso la sua storia. Forse nasceranno lacrime di pioggia, forse un diluvio, salvezza dall'abisso.

L’intensità dei sentimenti, l’alternarsi delle personali intuizioni, la capacità di riannodare i percorsi di vita e dell’anima, concorrono a delineare il senso di lacerati pensieri, di perdute illusioni e sogni e speranze.

La scrittura riflette la dimensione della "storia che ha perso la sua storia", in un singolare riannodare memorie, silenzi e il "gioco di anonime pedine".

Una poetica che trasforma e fissa sguardi e annuncia salvifiche lacrime.

148 da Palermo
■ Lucia Lo Bianco - 5° premio poesia inedita -

segnalazione di merito poesia inedita - Pietro Catalano ■

da Roma Pietro Catalano

Il sogno di Danilo

Dedicata a Danilo Dolci

Sono venuto dal Nord in questa terra dove il vento caldo accarezza i carrubi e le reti dei pescatori traboccano di tonni traditi dalla ricerca di libertà. Qui il pane ha fragranza d’oltralpe e l’acqua ha sete di giustizia, strida disperate di aquile ferite lambiscono l’aria di polvere e sangue: così radio poveri cristi ha dato voce al sogno di libertà dalle catene dell’inganno. E ho scelto di vivere in questo luogo, fra i miserabili dei giorni uguali ad ascoltare il brontolio delle pance vuote e le menzogne d’un futuro che mutava.

I miei figli hanno nelle vene sangue del Vespro e di Rinaldo, scrutano il mare azzurro con l’antico vigore dei cavalli normanni che galoppano nella piana assolata dove sventolano bandiere come lenzuola bianche ai balconi fioriti in primavera. Qui, terra di confine tra cielo e mare, dove il coraggio è legato ad un no e vivere è lotta tra parola e silenzio, ho piantato un albero d’ulivo dove ragazzi e ragazze s’incontrano per cantare parole di pace e d’amore, scrutando il sole oltre la verde collina.

Il flusso delle emozioni percorre i versi in un continuo e inesausto ricordo dell’impegno civile di Danilo Dolci, in una piena adesione a un paesaggio che è terra secolare, fraganza di pane, sete di giustizia.

Un luogo, quindi, che si affaccia sul mare azzurro dove galoppano cavalli normanni e sventolano bandiere come lenzuola bianche ai balconi.

Si avverte in ogni parola la penetrante energia del dialogo che intercorre tra l’uomo e le colline, la pace e l’amore.

149

Grazia Dottore

da Messina

Al varco del sogno

Filo spinato avvolge i miei pensieri, latrano i cani che mi tengono chiusa, intorno a me sgomento e dolore. Non so più chi sono, né come mi chiamo, solo un numero marchiato sulla pelle, la dignità calpestata, la testa rasata le mie ciocche sparse per terra. “Arbeit macht frei” in alto v’è scritto, ma una verità amara si sta palesando.

C’è freddo stanotte, non vedo le stelle, ghiacciato è il petto debole e disarmato, vola libera la mente agli occhi azzurri strappati alla mia vista da ladri di vite. Quegli sguardi li sogno ogni notte e vagheggio che mi seguano ogni ora. Un solido filo spinato ora ci separa, un filo di ferro che prostra e affligge, con gocce di pena la mente ricama deboli speranze e desideri proibiti. Duro pane nero o scipita brodaglia

150
■ Grazia Dottore - segnalazione di merito poesia inedita▶

non importa, amore, mangia e resisti, fra poco i tiranni saranno smascherati. Andremo ancora nel bosco incantato, canteremo le melodie dei tempi felici, ritorneranno presto i giorni di festa. Dormi se puoi e nel silenzio dell’alba mareggiata d’amore sarà il tuo sogno, dolci parole e abbracci senza tempo inonderanno il cielo della grigia baracca.

“Arbeit macht frei”: il lavoro ti rende libero. Era questo il motto posto all’ingresso di molti lager prima e durante la Seconda Guerra Mondiale. Una scritta dal forte significato simbolico dietro la quale si celarono per molto tempo le menzogne dei campi di concentramento, campi come luoghi di lavori forzati, campi come luoghi di privazioni, campi come luoghi di morte. Un motto ingannevole e beffardo al di là del quale una verità amara era pronta a palesarsi alle migliaia di anime che varcavano quei famigerati ingressi. Un motto, che ritorna con forza nella potente tensione emotiva di questi struggenti versi. Per non dimenticare.

151

Dario Marelli - segnalazione di merito poesia inedita -

Le meccaniche dei fiori (Capo Caccia) da Seregno (MB)

Puoi udirla quest’eco di galassia che scorre come un’onda e si frantuma nell’infinita sintesi degli atomi ammassati a corazzare il cuore. Puoi sentirlo questo canto di balena che si propaga dentro il mare e si disperde come luce all’orizzonte nell’eterno brodo primordiale che mugghia controvento. E se ne ascolti il respiro a fil di cielo puoi afferrare con lo sguardo lo stupore del precipitare alto dei grifoni sullo strazio inesplorato delle lepri e più in là fra gli strapiombi intuire il gentile ansimare del faro, erto tra le brume e l’impossibile.

Poi, fermarsi a una promessa di silenzi, carpire le meccaniche dei fiori. E indomiti alle trame del tempo, come vecchi bucanieri, salpare.

Come è possibile udire l'eco della galassia, una eco muta, d'un muto assordante? E sentire il canto della balena che si propaga dentro il mare, disperdendosi come luce all'orizzonte? A Capo Caccia, imponente promontorio di roccia calcarea, il poeta si ferma ad ascoltare con i sensi, con il cuore, immerso tra profumi e ricordi, per carpire quelle che definisce le meccaniche dei fiori, tra il precipitare alto dei grifoni e lo strazio inesplorato delle lepri, mentre più in là ode il gentile ansimare del faro che si ripete puntuale ogni notte. E lo fa prima di salpare, indomito attraverso le trame del tempo, come un vecchio bucaniere

152
Dario Marelli

di merito poesia inedita - Francesco Mosconi

Francesco Mosconi

Una giornata a Burma da Ivrea (VC)

Il sole danzava nel sorriso delle fanciulle, i bimbi inseguivano il vento nei boschi…

E quando il silenzio giaceva appollaiato agli angoli del cielo, la notte portava sogni come ninfee sul filo di un riflesso lunare.

A quegli esseri inferiori bastava il frutto d’un albero, un fiore sul capo d’una bimba: non esisteva al mondo paese più ricco di fiori…

Ed anche la miseria, in quel paese, aveva la carezza di un caldo giaciglio...

Ma una raffica di colpi lacerò il silenzio e mostri sghignazzanti mostrarono le loro fauci aperte...

Un fiore annodato sul capo di una bimba si coprì di sangue e una madre ferita fu lasciata affogare nel fango della risaia.

ovvero Myanmar

153
segnalazione

Nel riflesso rosa della lima, trame di sogni franarono da una capanna vuota a palafitta sull’acqua.

E arse la volta del cielo nel sangue che incrina la terra ai margini delle risaie, arse nelle viscere dilaniate di mostri digrignanti...

Burma, Birmania, Myanmar. Tre esonimi per la medesima terra che, a partire dalla Seconda Guerra Mondiale, ha visto avvicendarsi vari cambiamenti per quanto riguarda la propria denominazione ufficiale, in uno scenario di implicazioni politiche dai risvolti spesso devastanti e incontrollati. Dopo l’ultimo golpe del 1 Febbraio 2021, i riflettori internazionali su questa terra si sono spenti, ma non si sono spente le atrocità dittatoriali che continuano a mietere distruzione e morte. Uomini, donne, bambini sotto raffiche di colpi cadono a terra, affogano nel sangue e nel fango, sotto la luce di un Sole che non danza più, sotto il riflesso di una Luna vestita a lutto. Una giornata a Burma riaccende i riflettori, tanto poetici quanto strazianti.

154

Nelle sezioni che seguono una selezione di opere, pur non entrando nella rosa dei premiati, sono state ritenute meritevoli di pubblicazione.

155

Squillò il telefono di casa. «Pronto?» dissi.

Nel soggiorno entrò una voce maschile. Non la riconobbi subito. «Ciao, sono Franco.» «Chi?»

«Franco, tuo cognato.»

«Scusa, ero distratta.» «Alberto...»

«Alberto cosa?»

«Alberto è morto...»

«Ma... ma... quando... come...»

«Un infarto. Un’oretta fa.»

Vomitai un urlo cianotico, poi gli occhi e infine una grande quantità di fitte al cuore.

«Pronto? Rossana?»

Avrei voluto rispondere di nuovo, ma non riuscivo a smettere di vomitare il dolore che mi piantava chiodi nelle ossa. «Dov’è Alberto?» riuscii a dire dopo un lungo istante.

Tra le lacrime, Franco balbettò qualcosa.

Poi le lacrime tacquero e ricomparvero le parole.

«Nella Sala Rossa del Pronto Soccorso. È lì da una ventina di minuti. Infarto miocardico acuto... Pare che sia andata così: tuo marito stava ritirando dei soldi al bancomat quando, all’improvviso, si è accasciato sul marciapiede, privo di conoscenza. Mani femminili hanno tentato di rianimarlo. All’arrivo dell’ambulanza, su di lui soffiava un vento glaciale...»

A sentire quelle parole, a sentire di quelle mani femminili, un lungo, inspiegabile brivido mi corse lungo la spina dorsale, come in preda a una strana sensazione.

«Rossana» continuò Franco, «Silvia sta venendo da te. Poi andrete all’ospedale insieme. Sarò ad attendervi all’ingresso del Pronto Soccorso fra... diciamo... una mezz’oretta, alle undici meno un quarto. Va bene?»

«Sì, penso...» dissi con le lacrime nella voce prima di riagganciare. Durante i venti minuti che precedettero l’arrivo di mia cognata non feci che ripetere sempre le stesse parole: «Dio, perché? Dio, dove sei? Dio, aiutami!»

E mentre prendevo il soprabito, in un eccesso di collera storsi la bocca e urlai: «Non ti pregherò mai più, Dio crudele!»

156
■ Gabriele Andreani

Undici anni prima, seduta nella lunga automobile nera diretta in chiesa, mi ero detta:

“Sono in una fiaba. Sto per andare ad abitare nel cuore del ragazzo più amorevole, sensibile e leale che esista al mondo. Com’è bello diventare compagna per la vita di un sogno, un sogno che si può toccare, ascoltare, riempire di calore ed emozioni!”

Oggi, mentre il disprezzo nei confronti di Alberto tocca altezze vertiginose, penso:

“Il sogno era un lago salato e fetido. E io, ingenua, ci sono scivolata dentro fino alla punta dei capelli”.

L’uomo che, una volta, riempiva le tasche del mio cuore con il profumo delle sue parole si era guardato bene dal rivelarmi che era anche un commerciante di maschere, complete di tutti gli accessori: sorrisi non autentici, sguardi che celavano segreti, gesti schiavi della disonestà.

Il suo pezzo forte era una maschera di camaleonte abile a mimetizzare i propri sentimenti: sul palcoscenico prendeva le sembianze di un Romeo indossando dietro le quinte la biancheria intima di un Don Giovanni; con sottile crudeltà faceva il viso tenero alla civetta che stringeva fra le braccia mentre il suo cuore sospirava per una colomba; in preda a una forte eccitazione sessuale per il fuoco e la follia di Cleopatra, simulava passione per Salomè.

Il camaleonte sapeva anche parlare: ogni giorno mi diceva che il suo cuore era attaccato al mio, che il pensiero di tradirmi non l’avrebbe mai sfiorato e che gli adulteri erano manichini di uomini in abito da carnevale che vendevano sé stessi al mercato delle emozioni.

Sì, era una dolce malattia entrare con l’anima dentro l’uomo che credevo solo mio e uscirne estasiata, sognante, felice.

Nulla lasciava intuire che il mio amore non fosse in grado di vivere neppure un giorno senza trasformarsi in un’altra persona, manipolatrice, crudele, esperta nell’arte della metamorfosi.

Con un sorriso stereotipato e il viso imbrattato di trucco.

La quintessenza della doppiezza e della perversione.

Con quanta devozione mi raggiravi, Alberto, nel teatro di casa!

Con quanta devozione hai fatto a me quello che non avresti voluto fosse fatto a te!

E io ti applaudivo!

Vomitai l’impossibile.

Avevo appena svuotato una cassettina di legno che conteneva gli effetti personali dell’uomo dai sentimenti diabolici: le sue numerose e variopinte maschere, lo choc di una moglie ingenua e undici anni di matrimonio buttati via.

157

Mi era stata consegnata il giorno prima da un suo collega di lavoro. O era il diavolo in persona?

In cinque taccuini erano stati annotati con meticolosità nomi, date, luoghi, caratteristiche particolari di ogni donna che l’ammiratore di Rodolfo Valentino si era portato a letto, la qualità e la durata degli amplessi, e il colore della pelliccia di ogni gioiello.

C’era anche un cellulare che non gli avevo mai visto, un telefonino segreto: l’amico dei fedifraghi e dei viziosi.

Sapeva di sporco e aveva un nauseante odore femminile. Premetti il tasto di accessione come se fosse il campanello di casa dell’uomo nero.

Quando i miei occhi divennero specchi di un gran numero d’immagini volgari di fidanzate o mogli di qualcun altro vestite di niente, mi alzai e accoltellai il ritratto di Alberto incorniciato alla parete.

Poi ruppi qualche dente a una bambola e presi a calci la luce che entrava dalla finestra.

Tornata a sedermi, agguantai con piglio tremante il cellulare e premetti un altro tasto: sullo schermo apparvero il sesso di mio marito e quello di una donna rotondetta.

Con grande talento, ballavano un valzer tribale su un letto disfatto.

Caddi svenuta sul pavimento.

Quando ripresi conoscenza era notte.

Mi sentivo la testa gonfia.

Avrei voluto vuotarla: era affollata da tante, troppe nefandezze. Ma non ero nemmeno in grado di piangere.

La mattina seguente m’impadronii di nuovo dei segreti del commercianteattore e lessi un gran numero di messaggi.

Le frasi che aveva inviato alle sue amanti erano le stesse che diceva a me.

A Giovanna e ad altre sette aveva scritto: Sei sempre presente nei miei pensieri.

A Loredana e ad altre nove: Si sta d’incanto con te nel cuore.

A Elettra aveva dato un consiglio: A letto saresti perfetta se fossi più artistica. Artistica? Una donna musicale che si concede con ritmi creativi e visionari?

Un attimo dopo mi trasformai in una lampadina fulminata.

Qualcosa di molto serio stava accadendo a una reginetta del teatro di Alberto. In un messaggio lacrimoso gli diceva che aveva bisogno di riflettere.

Il commerciante-attore-demonio sosteneva, invece, che bisognava fare presto. Alberto, sono spaventata. Il cuore mi sanguina a pensarci. Non faccio che piangere. È un essere umano. Dammi ancora una settimana di tempo.

Principessa, a che serve prendere altro tempo? Devi perderlo! Sei già quasi alla fine del secondo mese... Umanamente, non possiamo fare altro. Rilassati. Ne riparleremo con calma domani pomeriggio al solito posto. Ora ho gente intorno.

158

Ciao, mia futura regina.

Mio marito aveva messo incinta una delle sue amanti, una ragazza di appena diciotto anni!

Alberto e Principessa facevano l’amore senza precauzioni?

Irresponsabili! Un figlio non è mica un raffreddore!

Piena di stizza, rimasi una decina di minuti a urlare dentro le mie stesse lacrime.

Poi rilessi inorridita la risposta del mascalzone.

Devi perderlo! Umanamente, non possiamo fare altro. Canaglia, gridai, come hai potuto rivolgere parole cosi disumane nei riguardi di una donna che aspetta un figlio tuo?

Ti ha dato di volta il cervello, farabutto?

Quando affrontavamo l’argomento dell’aborto, non mi dicevi che non bisogna uccidere l’anima appena creata? Dannato e impostore. Così eri, Alberto!

Singular da l’altra gente, direbbe Petrarca in tono spregiativo. Di tuo conserverò il coltello che per undici anni mi hai piantato nella schiena!

A fine settembre, un mattino, mi sentii liberata da pensieri angoscianti. Giorgia, come si chiamava in realtà Principessa, era appena diventata mamma. Nelle ore immediatamente precedenti al parto avevo temuto una qualche disgrazia: nell’ultimo mese la ragazza aveva accusato forti dolori addominali accompagnati da atroci mal di testa. Non aveva un bell’aspetto.

Nessuno, fino al momento del parto, avrebbe saputo dire se il bambino avesse pianto, tremato, dormito fra le braccia della madre.

Grazie al cielo, il suo cuore pulsava di vita.

Il mio era un’infermeria. Ma fino ad alcune settimane prima era ancora un ospedale da campo.

E quello di Alberto, per parecchi anni un bancomat di menzogne.

Dopo il parto, Giorgia riprese il suo colorito naturale. Per tutti i restanti mesi della gravidanza, aveva sofferto le pene di una madre afflitta dalla paura di partorire un bambino morto.

Mi ero incontrata con lei numerose volte durante la gestazione. Volevo proteggerla da altri simulatori e commedianti, volevo che aspirasse solamente a un amore di fiaba.

A dire il vero, non furono questi i motivi che mi spinsero ad avere la prima conversazione con lei, cinque giorni dopo il funerale dell’uomo disumano. Erano il maligno bisogno di dirle che il padre del futuro bambino non era che un vile teatrante, uno scarabocchio d’uomo, un donnaiolo pervertito, un parcheggio di corpi femminili sdraiati sotto di lui, e che anche lei aveva fatto parte, a sua insaputa, delle comparse del suo teatro.

Rivedo la scena, è un po’ confusa. Allora, il mio stato d’animo era la superficie di una bolla di sapone percorsa dalla corrente elettrica.

159

Interno di un caffè. Entra una donna giovanissima. Si guarda intorno con aria imbarazzata. Io, seduta a un tavolino, mi alzo e le vado incontro. Sono molto agitata.

Mi presento. Lei annuisce. Non ci stringiamo la mano.

Le faccio cenno di seguirmi. Ci sediamo. Le chiedo se le va un caffè. Lungo, dice piano. Passo l’ordinazione al cameriere.

Silenzio fino a quando il cameriere non si allontana.

Poi la mia voce, quasi un sussurro: «Quanti anni hai?»

«Diciotto.»

«I tuoi sanno che sei incinta?»

«Non ancora.»

«Che hai deciso di fare del bambino?»

«Lo tengo.»

«Perché?»

Ritorna il silenzio. Dura qualche secondo. Poi Giorgia parla di nuovo:

«È il bambino dell’uomo che amavo. E lui amava me. Saremmo stati una bella coppia se...»

Vorrebbe evitare di continuare, ma io la incalzo. «Se, cosa?»

«Se sua moglie gli avesse concesso il divorzio...»

Rimango impietrita. Ansimo. Sanguino ovunque. Poi riesco a dire:

«Alberto era tutto meno che sincero. Sex appel e un’ottima recitazione... Mi manchi terribilmente mi diceva quando viaggiava per lavoro. Allargava le braccia per attirarmi a sé a ogni rientro. Sai cosa mi ha detto la mattina del giorno della sua ultima replica, uscendo di casa? Non posso vivere senza di te, mio grande e unico amore... Anche la passione a letto non gli mancava... Immaginava di far l’amore con te? Immaginava di far l’amore con una delle sue tante amanti? Prendi, questo è il suo cellulare. Dagli un’occhiata. Ti si rivolterà l’intestino com’è capitato a me.»

Scoppio a piangere. In un attimo sono sbronza di lacrime. Arriva il cameriere. Mi chiede se può essermi d’aiuto. Non dico nulla. Si gira e va a servire un altro cliente.

Giorgia mi guarda con aria tormentata. Poi, lentamente, appoggia la testa sulla mia spalla. No, mi confondo: questo accadde la seconda volta che ci incontrammo.

Con le dita mi tocca una mano. Non la ritraggo, la apro. Lei vi versa la sua parte di lacrime, con timidezza, delicatamente. Infine si alza e se ne va.

160

Il sigillo dei mondi

Artefax, pianeta Terra, 3053 d.c.

Avanzo con cautela, facendomi largo carponi tra il recinto elettrico incastrato tra i rovi e la melma radioattiva sul terreno, che cerco di schivare.

Ho solo una debole speranza che la guaina intradermica che mi protegge non subisca lacerazioni, perché altrimenti tutto andrebbe perduto.

I raggi elettromagnetici della ricetrasmittente che mi sovrasta, nella cupola aerea schermata, emettono una breve pulsazione. È il segnale che mi hanno individuato.

Prima che riescano a scoprirmi, cerco di attivare il simulatore del pensiero automatico. È l’unico falso bersaglio che possa salvarmi, una delle tante immagini al laser di un catalogo precostituito che mi permetta di camuffarmi coi miei simili, per sfuggire all’occhio inquisitore.

Il Tribunale dei guerrieri di Seth è una casta sacerdotale a cui i Rettiliani hanno affidato il potere occulto di ripulire il pianeta. Una nuova inquisizione, ma assai più terribile.

Sono loro, oggi, i dominatori. Vengono dalla costellazione del Drago a Sette Teste, quella che una volta si credeva essere lo Scorpione. Stolti: un’aquila reale dei tempi dell’oro, il Serpente piumato del Satya Yuga scambiato per un volgare aracnide.

«Erano loro i re del sole che ci hanno donato il sapere» mi disse il mio maestro Ghendalf, quando ancora era in vita. L’ultimo dei druidi conosceva i segreti che il tempo ha rimosso dalla memoria degli uomini.

«Ma allora come è stato possibile?»

«La degenerazione li ha colpiti per primi. La conoscenza che ci hanno donato nei tempi antichi è stata attaccata alla radice, direttamente nel loro Regno.»

«Parli delle sette macchie solari che si sono oscurate?»

«Esattamente. Le sette teste del drago sono progressivamente sprofondate nell’Ombra, così gli dei di quella costellazione si sono trasformati in demoni, e noi ne siamo divenuti le prede. Fa parte del Sigillo del Tempo, l’orologio cosmico che governa ogni cosa: l’ombra avanza sulla luce fino a saturarla, per poi discendere nel vertice opposto, generando un nuovo ciclo. Ma tu dovrai impedire che a questo giro venga distrutto il nostro pianeta.»

Semplice, vero? Nell’anno domini 3053, quasi quattordicimila dall’inizio dell’ultima epoca dell’oro, Artefax è diventato il campo di battaglia finale.

161 Silvia Aonzo da Milano ■

Dopo avere toccato il vertice dell’abisso, non siamo riusciti a riemergere dal Kali Yuga: qualcosa si è inceppato nell’ingranaggio sottile dell’orologio cosmico, e noi siamo rimasti intrappolati nell’ombra che continua ad avanzare senza sosta. Farla retrocedere sembra impossibile, l’Antitempo continua a spingerci nel vertice può basso dell’oscurità, per sprofondarci in una fossa senza fine.

Pochi sono gli El di luce che dal lontano Orione possono ancora intervenire ad aiutarci, mentre i Rettiliani ci vogliono sterminare. In mezzo, imperversa una gamma di alieni che usa i resti di quello che un tempo fu il nostro Gan Eden come un laboratorio a cielo aperto per le loro sperimentazioni. Di cui noi, ormai un ibrido tra il genere umano e quello cibernetico, siamo le cavie. Attivo il microchip sottocutaneo per farlo esplodere in una fontana di luci laser, e così, almeno per qualche istante, posso tirare il fiato. Il radar governativo dovrebbe avere ricevuto la segnalazione di ordinaria attività vegetativa.

“Pensiero dell’eroe: vivi il presente come il regalo più prezioso e scarta l’attimo fuggente. Il bonbon alla ciocco-fragola ti darà la gousta carica per affrontare il nuovo giorno. I raggi nascenti del sol levante attiveranno la liquidina, la molecola ad alta vibrazione energetica che saziarà ogni sete.”

Ecco fatto: ora non resta che sforzarmi di mangiare fingendo un po’ di eufomania.

Palloncini galleggianti al vento senza un filo logico: è questo che la gente comune oggi si scambia al posto delle parole, illudendosi di intessere un dialogo. Successioni di immagini preconfezionate, perfette per atrofizzare le sinapsi già deboli dei miei simili.

Una lenta e costante erosione dell’aura ci sta portando allo sfinimento, ma non ne siamo consapevoli. Sappiamo solo che è proprio questo, il vero Inferno da scontare, la tragedia quotidiana con il nome di vita.

Lo sforzo di disattivare le immagini programmate dallo schermo al plasma sui miei occhi è quasi estremo. Ce lo applicano al momento della nascita al posto della cornea, e non c’è nulla da fare. Ma il mio Maestro mi ha insegnato ad attivare l’occhio interno, ed è per questo che sono stato scelto per lottare. Mi chiamo Phoenix, ho ventun anni, e da oggi ho deciso di trovarlo io, l’apriscatole. Quello per evadere dal sottovuoto del barattolo tossico in cui ci hanno rinchiusi.

Prima che l’aria divenga diserbante, e ci trasformi in mosche. Prima che l’ammasso di fango e polvere in cui siamo immersi diventi la miccia, e il pianeta sia trasformato in dinamite. Prima che l’Ombra che incalza dall’Antitempo si incontri con l’ultimo residuo di materia ed inneschi la scintilla. Non sono sicuro di essere l’Avatar inviato dai padri celesti, ma anche se le mie facoltà fossero quelle di un semplice umano, ci proverei lo stesso, a sacrificarmi per la salvezza.

162

Ecco, sono giunto: questo deve essere il punto. La pietra megalitica che s’innalza dinanzi a me come un grande obelisco è la porta. I sacerdoti di Seth la credono solo un rudere, per questo l’hanno risparmiata dallo scempio. Per fortuna.

Me lo aveva detto Ghendalf, poco prima di morire.

«Arriverai sopra l’ombelico di Brighid, il Menhir sarà il segnale. È quello il vero Omphalos, il punto energetico dove è ancora possibile sprigionare i residui vitali di Ghea. La pietra ti aiuterà a indirizzarli verso Orione, per incanalare la tua richiesta agli El. Fai attenzione, però: è un portale sacro. Come ogni tunnel, possiede due aperture. Se imboccherai quella sbagliata, dischiuderai per sempre le tenebre.»

Inspiro, prima di immergermi in una profonda meditazione. Aprire quella porta significa lievitare nella morte e da lì trovare il passaggio segreto per le dimensioni più sottili. Senza inciampare nell’abisso.

Ed ecco che il Menhir dinanzi a me inizia a girare su se stesso, come il timone centrale di un’enorme ruota. La volta celeste sopra il mio capo fa un’intera evoluzione, come se la grande pietra ne avesse azionato gli invisibili ingranaggi, riuscendo a squarciarne l’occhio centrale che mi si apre dinanzi come un diaframma, mostrandomi il punto focale della galassia. Proprio lì, nel cuore dello sciame siderale, una luce multicolore disegna il sigillo del tempo: l’orologio cosmico cui si riferiva il mio maestro. Posso leggerne i quattro spicchi principali, gli Yuga delle leggendarie ere. L’ultimo dei druidi mi ha donato la conoscenza iniziatica tramandata dai suoi avi, ora sta a me farla fruttare.

Al suo interno, sei stelle si allineano sino a formare un esagramma. Due triangoli equilateri che si intersecano al centro, toccando con le punte opposte gli estremi della circonferenza. È lo Sri Yantra, il simbolo tibetano usato nelle meditazioni più profonde, fusione di Shiva e Shakti, germe di tutto il Creato. «Mio caro Phoenix, sei riuscito ad arrivare alla soglia. Il Sigillo del Tempo ti si è mostrato benevolo, in tutta la sua gloria. Adesso toccherà a te trovare la chiave per azionarlo. È la nostra ultima possibilità, la prova che gli El ci hanno lasciato prima di andarsene, per invocare il loro aiuto. Se riuscirai a capire quale sia il modo per attivarne gli ingranaggi sottili, che agiscono nelle dimensioni parallele, udiranno la nostra invocazione e arriveranno a salvarci. Se invece fallisci, saremo finiti.»

Egitto, Mausoleo Djeser Djeseru -Tebe- 1873 d.c.

«Avendo percorso tutti gli scritti dei saggi, non ignoro nulla di quel che è successo a partire dal primo giorno. Incredibile. Samuel, ti ricordi di quel testo che abbiamo letto le scorse settimane nella piramide di Giza?»

163
******

«Certo, professore: Vivi e sii giovane di fianco a tuo padre Orione nel cielo.» «Esatto! Il Duat ha afferrato la tua mano nel luogo dove si trova Orione capisci? Direttamente sopra alle nostre teste, proprio davanti ai nostri occhi, ecco la conferma illustrata di quanto riportato dalle piramidi: oltre mille anni dopo, queste stesse verità vengono finalmente chiarite con una mappa dettagliata. La cintura di Orione, qui raffigurata sopra il dio Osiride.»

Quando il professor Panofsky si trovò a contemplare quel tesoro fino ad allora ignorato dall’archeologia ufficiale, non poté credere ai suoi occhi. Aveva visitato imponenti tombe e sfarzosi mausolei, per non parlare delle monumentali piramidi, ma quell’edificio racchiuso tra le rocce, nel cuore del deserto, poco distante della Valle dei Re e dalle meraviglie di Luxor, nascondeva qualcosa di unico.

Per nulla al mondo avrebbe barattato con il vincolo del silenzio l’importanza incomparabile di quello che i suoi occhi, ancora increduli, stavano a poco a poco decifrando. Neanche lo avessero torturato. Se non avesse potuto rivelare quel segreto ai posteri, avrebbe a ogni costo trovato il modo di affidarne il testimone al suo fedele discepolo che lo seguiva in incognito in quella missione. Lasciandogli un solo legato: il sigillo del riservo si sarebbe dovuto sciogliere a tempo debito, quando la coscienza degli uomini, finalmente matura, sarebbe stata pronta a riceverlo. Allora la verità sarebbe potuta riemergere in superficie, e di riflesso la salvezza per il genere umano in essa contenuta. Del resto anche la semantica rivelava che Emet, la Verità, esisteva per liberare da Met, la Morte. E lui, che conosceva alla perfezione i segreti della Torah e del Talmud, questo lo sapeva bene.

Tremante per l’emozione, aveva rivolto in alto la lampada a olio in modo da rischiarare meglio le meraviglie che la volta sopra il suo capo era in procinto di rivelargli. Non era, come si aspettava, dipinta nel blu zaffiro che caratterizzava le tombe appena visitate, come quella di Seti I, che gli aveva tolto il fiato più della Cappella Sistina. Ma il messaggio che conteneva era capace di superare la bellezza di qualsiasi altra opera che avesse mai visto prima.

Al centro del soffitto, un geroglifico univa a cerniera le immagini del riquadro superiore con quelle della parte inferiore. Pareva la rilegatura di un libro, solo che quelle verità racchiuse, lungi da essere delle parole di una lingua morta, erano ancora vive e piene di significato. Lesse con attenzione, e al termine, calcolò di avere il tempo strettamente necessario per spiegare al suo assistente quanto dovuto.

Dopo, gli sarebbe toccato mettersi in salvo. Era solo una questione di tempo: se qualcuno lo avesse voluto cercare per impedirgli di parlare, come temeva, prima o poi lo avrebbe scoperto. Ovunque c’erano tracce del suo passaggio: aveva chiesto i dovuti permessi alle autorità locali, lasciando la sua firma e il suo nome.

164

Sebbene avesse fatto attenzione a mantenere il più assoluto riserbo sulla sua missione, da quando si era messo in viaggio sapeva che qualcuno ne stava seguendo le tracce, come un’ombra instancabile che gli lanciava costanti moniti. Intimidazioni in codice che lui aveva decifrato senza esitazione, tutte volte a comunicargli che, qualsiasi cosa avesse scoperto, doveva prima riferirla a “loro”.

La firma era sempre la stessa. Un geroglifico contenuto in un ovale, una specie di formula chimica che, per gli antichi egizi, valeva a designare l’essenza del nome. Quello che apparteneva al suo mittente risaliva alla misteriosa Setta di Seth, il cui dio venerato dagli adepti era simbolo di caos, morte e distruzione. «Vuol dire che…»

«Che Orione corrisponde al Duat, l’Aldilà egiziano, e forse anche il nostro Eden spirituale. E che quest’uomo, Senenmut, non era solo un architetto di grandissima levatura, ma addirittura un iniziato! Deve aver avuto accesso agli scritti segreti del tempio di Karnak. Questo spiegherebbe tutto. Anche la successiva damnatio memoriae imposta dai faraoni dopo la morte della regina Hatshepsut.»

«Ma che interesse avevano gli antichi a occultare questi scritti?»

«Come puoi capire, caro Samuel, queste sono verità che oltrepassano il sapere dogmatico. Parlano di un oltretomba legato fisicamente, oltre che spiritualmente, al cielo. Ho come la sensazione che vogliano addirittura indicarci l’esistenza di una civiltà antecedente alla nostra, che ce le ha tramandate.»

«Intende la mitica Atlantide?»

«È probabile … e la porta metaforica che univa la vita terrestre a quella celeste, poteva essere una delle tre piramidi, verosimilmente quella centrale. Che qui, come vedi, è raffigurata come la stella al centro della cintura di Orione. È cerchiata con quella triplice goccia, che era l’antico simbolo dell’origine della vita. Per questo, le piramidi non erano semplici tombe come ci hanno voluto far credere.»

«Guardi la diagonale delle stelle: Sirio, Orione, le Pleiadi ed Alcione. Sono tutte allineate! Quasi a voler tracciare una rotta invisibile in quella direzione. La via Lattea, per gli antichi egizi, era come il Nilo!»

«E la barca dell’aldilà la percorreva dopo la morte, come testimonia l’antico Libro dei Morti. Ti ricordi quel famoso papiro con lo scarabeo, la barca e il disco solare? La dea che forma un cerchio coi suoi stessi piedi simboleggia il ciclo cosmico e infinito della vita.»

«Eccole qui, professore! Sulla parete laterale. Le raffigurazioni. Il faraone defunto viene trasportato su una barca in mezzo a due ali, ed è paragonato al dio sole al tramonto, come nel Libro.»

«Per gli antichi egizi morte e vita si rincorrono come il giorno con la notte,

165

e come il caos con il cosmos. Questo, mio caro Samuel, è il loro grande insegnamento, racchiuso in un simbolo segreto ancora più potente, sotteso in queste raffigurazioni.»

Si udì improvvisamente un suono cupo. Era il rumore pesante di un portone in ferro, che le pareti spesse di quell’edificio, incastrato nella roccia, amplificavano. Qualcuno era entrato nel mausoleo.

«Le guardie all’entrata ci avevano assicurato che ci avrebbero lasciati soli.»

«Sapevo che mi cercavano. Ma sono arrivati molto prima di quanto mi aspettassi.»

Il professor Panofsky cercò di non scomporsi. Mantenendo una calma quasi ascetica, eseguì al meglio ogni minima mossa nei pochi minuti che gli restavano, senza dispendio di energie. Si tolse l’inseparabile gilet con le grandi tasche e, dopo averne estratto il prezioso taccuino in pelle, lo porse all’assistente.

«Contiene i più importanti appunti di questi ultimi viaggi. Conservalo come un tesoro e consegnalo, come io ho fatto con te, solo al tuo discepolo più fidato. Avrai cura di integrarlo annotandovi quanto ti ho appena spiegato oggi.»

Così facendo, si sfilò dall’anulare della mano sinistra un anello in oro bianco.

«Tienilo: ti proteggerà. Io non ne ho più bisogno.» Era un sigillo, e riproduceva la stella a sei punte del Re Salomone. «Sono venuti a cercarmi perché tutto resti nella nebbia. Ma tu puoi scappare: dietro il sarcofago, sul lato ovest, c’è una piccola rientranza nella parete. Imboccala veloce. Se ti concentri sull’invisibilità, l’anello ti fungerà da mantello. Io li distrarrò per un po’, dandoti un margine di tempo. Ora vai!» Da quel giorno, nonostante lo avesse ricercato per mari e monti, Samuel non ebbe più alcuna notizia del professore. Riprendersi dal trauma fu dura, capire le ragioni che avessero spinto qualcuno a voler costringere al silenzio un uomo tanto mite e colto sembrava quasi impossibile, ma così era, doveva arrendersi. Quando un giorno finalmente, sentendosi invaso da una serenità che da tempo non provava, riuscì ad aprirne il prezioso taccuino, notò che nel bel mezzo vi era riprodotto un disegno che già conosceva e, al suo centro, un simbolo che solo allora riconobbe con chiarezza.

La croce ansata della mitologia egizia traeva la sua luce dal disco solare, le piccole mani in cui terminavano i raggi di Aton le infondevano energia, per trasmetterla al faraone Akenaton. Al centro della croce, sul transetto, vi era un serpente e, all’interno dell’ansia superiore, un albero dalla grande chioma. Gli appunti del professore così dicevano:

“Ra porta in mano l’Ankh. I raggi di Aton conferiscono energia all’Ankh.” Era quella, la chiave segreta della vita legata al ciclo cosmico.

166
******

National Library of India, New Delhi, 1918 d.C. Nell’archivio storico della più grande biblioteca dell’India, a Nuova Delhi, si trovava custodito uno dei pochi originali del Corpus dei libri sacri dell’induismo. Al vederlo, per poco le gambe non cedettero all’ingegner Pandit Subbaraya Shastry. Tempo prima, alcuni ceffi dall’aspetto sinistro lo avevano incaricato di svolgere un’indagine assai particolare. Avevano barbe lunghe e sudice, indossavano abiti usurati dall’incuria e dei turbanti neri che alla sommità del capo recavano uno strano sigillo. Un cerchio che per raggi aveva otto frecce. Riconobbe subito il simbolo del caos, ma prima che riuscisse a sfuggir loro, lo circondarono sfoderando i pugnali. Otto rilucenti lame, affilate da malvage intenzioni. «Il nostro capo ti manda i suoi ossequi, e ne approfitta per conferirti il suo primo incarico. Dovrai trascrivere nei dettagli tutto ciò che leggerai nei Rgveda. Il frutto del tuo lavoro sarà ben pagato, a patto che manterrai il segreto su quanto scoprirai, e che il libro venga consegnato solo a noi, direttamente nelle nostre mani. Attento: pagherai con la vita il tradimento. Seth non tollera errori.»

Accettò suo malgrado. Chi meglio di lui del resto, specializzato in ingegneria aerospaziale, sarebbe stato in grado di decifrare il significato nascosto dei misteriosi Vimana e capire se i leggendari carri celesti di cui si narrava corrispondessero alle raffigurazioni che anni prima lo avevano tanto colpito nel tempio della città sacra di Puri, nel nord est dell’India? Si rassegnò, persuadendosi che quello forse era il suo karma. Ma allorché si trovò faccia a faccia con la verità nascosta di quanto era stato tramandato, tutto cambiò. Quello che addirittura per millenni era stato spacciato per mitologia, pareva essere saltato fuori da un’era dimenticata. Un futuro molto più all’avanguardia del suo presente premeva per ritornare a galla, e di certo non proveniva da un passato preistorico come da sempre si era voluto far credere.

“Vedemmo in cielo una luce luminosa come di fiamme di fuoco ardente. Da questa emerse un’enorme macchina volante che lanciò dei dardi fiammeggianti, che si avvicinò al suolo a folle velocità lanciando anche ruote fatte di fuoco.”

Erano quelle le guerre stellari di cui si serbava memoria. Deva contro Asura: il segreto millenario nascosto in quelle pagine.

Vi era stato un tempo in cui le divinità convivevano in pace. Gli anti-dei, i cosiddetti demoni, non erano distinti dai luminosi Deva. Finchè, in un dato momento, avvenne una svolta. Una specie di click nell’orologio cosmico da cui era nata una contrapposizione duale: il bene contro il male. Quello che non sapeva ancora spiegarsi, e che nemmeno la logica né la sua grande capacità intuitiva riuscivano a risolvere, era che fine avessero fatto gli Asura una volta sconfitti dai Deva. Che fossero rimasti nelle viscere della Terra in attesa di liberarsi fortificati, con l’avvento dell’Ombra?

167

Tremò, percorso da una terribile sensazione. Cosa sarebbe successo se, specularmente a quanto avvenuto nei millenni precedenti, fosse arrivato il turno degli Asura di prendere il sopravvento sui Deva?

Uscì di corsa dall’archivio storico sentendo l’impellenza di mettersi in profonda meditazione. Solo un Grande Maestro del passato poteva dargli le risposte giuste.

Quando ne riemerse, dopo un tempo che gli era sembrato un’eternità, decise che oltre agli otto libri commissionati dai banditi, contenenti le tecnologiche descrizioni delle antiche navicelle spaziali, ne avrebbe redatto un nono. Il segreto di quel manoscritto sarebbe però restato rinchiuso ai piedi di un Menhir.

È stato un lampo che è durato un secolo, o un secolo che mi è sembrato durare come un lampo?

Non saprei. Quello che però so ora, è che devo agire.

Era necessario che fossi io, il prescelto, a trovare la chiave. Non a caso Ghenfdalf mi ha condotto sino al Menhir. È questa roccia, la soluzione di tutto. L’ho letto nel libro segreto tramandato ai druidi, una formula magica di antichissima memoria che gli El ci hanno consegnato nella notte dei tempi per giungere sino a noi. L’origne della vita, da cui il nostro genere ha preso luce, s’incastra col respiro cosmico che ha generato il Creato.

Come in cielo, così in terra, è il segreto. Devo fare in fretta, perché la stella a sei punte iscritta nella cupola eterica si sta restringendo progressivamente. Quando il suo invisibile cerchio interno, che so contenerla, compierà un intero giro, il diaframma del Sigillo si chiuderà per sempre, e tutto andrà perduto.

Inspiro profondamente, è giunto il momento. Estraggo il coltello che serbo nella protezione infradermica e incido la base del Menhir. Pochi movimenti netti che disegnano un simbolo.

Sento che qualcosa inizia a muoversi, ma non ho tempo per guardare. Non è ammessa alcuna distrazione. Quando si è all’inferno, la regola è vedere con gli occhi della fede.

«Ghendalf, ho fatto tutto ciò che è stato in mio potere. Adesso non mi resta che aspettare.»

Posso finalmente guardare. Dalla punta del Menhir si sprigiona un’aura verde smeraldo che colma del suo splendore ogni punto della volta celeste. Tutte le stelle iniziano a ruotare, mettendo in moto l’intero esagramma. Nel suo occhio più interno, il punto nevralgico di quell’intersezione, ecco disegnarsi un simbolo di luce.

È l’Ankh cosmico, la chiave della vita che ha attivato l’esagramma sacro.

168
******

SALON KITTY

Non sappiamo mai qual è il momento in cui le cose tornano a galla. Dopo un sonno profondo, riemergono a sorpresa dal più buio degli scantinati e chiedono a gran voce di essere ascoltate; bussano alla porta che separa le tenebre della memoria dalla luce del presente e pretendono anch’esse un po’ di quel chiarore.

É per questo che ora, nella piena maturità, mi sono decisa ad aprire quella porta, a rimettere ordine in quel deposito dove tutto, a un certo punto, è stato scaraventato troppo in fretta.

Fino ad ora, tra me e quelli che, maliziosamente, mi chiedevano qualcosa sulla mia “singolare” esperienza, sperando che io snocciolassi loro tutta la storia, ho alzato un muro e se avessi potuto lo avrei reso ancor più invalicabile con cocci aguzzi di bottiglia, come dice un famoso poeta, ma, a un certo punto, mi sono resa conto che quei cocci ferivano me, prima degli altri, anzi solo me.

Comincerò dal giorno in cui “zia” Kitty è entrata nella mia vita; che non fosse veramente mia zia lo compresi solo più tardi. Del resto, avrei dovuto capirlo dagli sguardi stravolti e quasi sgomenti con cui le suore dell’orfanatrofio, in cui ero ospite, l’accolsero: Kitty, vestita di seta sgargiante e profumata sino all’inverosimile, era già quello che sembrava, ma che, allora, nessuno osava confessare.

“Come stai, cara?” mi chiese, chinandosi su di me, che vedevo pericolosamente avvicinarsi le sue labbra scarlatte e mi sentivo minacciata da quell’ondata di profumo soffocante.

Non so cosa risposi, ma le braccia premurose di una giovane suora che forse intuì il mio disagio, mi sollevarono, giusto in tempo per salvarmi dal naufragio. L’unica cosa che riuscii a capire, fu che Kitty era una mia parente, per quanto sino ad allora sconosciuta, e che la mamma, di cui per il momento mi nascosero la scomparsa, mi aveva affidato a lei “come la sua cosa più cara”, aveva sottolineato la zia con un sorriso tutto miele della sua formidabile bocca a cuore.

Non ricordo precisamente la mia reazione a quella notizia, ma era troppo inaspettata e implicava troppi cambiamenti radicali e improvvisi nella mia vita, per non risvegliare in me emozioni contrastanti.

Avevo solo otto anni e vivevo già in quel collegio da cinque; mentirei se dicessi di ricordare come e perché vi ero giunta, ma visto che di mia madre ho sempre avuto pochi e sbiaditi ricordi, devo presupporre di esserci arrivata molto presto. Le mie compagne e le suore che, bene o male, avevano cercato

169

di sostituire per me una figura materna latitante, rappresentavano tutta la mia famiglia. Loro erano state la mia fune, quella corda ruvida ma sicura cui ci si aggrappa per non precipitare nel vuoto; me l’avevano calata dall’alto e io l’avevo afferrata. Adesso, la comparsa di Kitty, come quella di un fiore sgargiante che affiori da una palude, mi faceva lo stesso effetto di certe bevande inebrianti vendute dagli zingari ai margini della strada, che tutte noi guardavamo con spavento ma, da cui, nello stesso tempo, ci sentivamo tentate.

Partimmo in un mattino nebbioso di Novembre, dopo che ebbi messo in una valigia le mie quattro cose e guardato un’ultima volta negli occhi le compagne che, intimidite dalla presenza ingombrante e chiassosa di Kitty, non osarono nemmeno afferrarmi le mani o abbracciarmi un’ultima volta.

E così, da una cittadina di provincia come Kitzingen, mi trovai catapultata improvvisamente a Berlino: era il 1932 e il Nazionalsocialismo, la medusa dallo sguardo che acceca, stava per affacciarsi al balcone della Storia. Credo che Berlino sia una delle città più violate e costrette a subire metamorfosi violente e repentine della storia d’Europa.

Non esiste un’unica Berlino nella memoria delle persone che hanno vissuto più a lungo, ma almeno tre città, ciascuna con i suoi spettacoli e le sue esibizioni più o meno convincenti, più o meno felici: la Berlino nazista, la Berlino del Muro, la Berlino dopo la caduta del Comunismo. Io stessa, benché avessi ben pochi ricordi di quel luogo dove avevo abitato con mia madre nei primi anni di vita, la ricordavo diversa: non avrei saputo dire in che cosa e perché, in fondo avevo solo otto anni, ma avvertii un mutamento di atmosfera, come quando in una galleria di dipinti si passa da una sala all’altra e si nota subito un cambiamento radicale di stile. Dei miei primi quattro anni vissuti in quella città, ricordavo uomini eleganti con grigi cappelli a cilindro che leggevano il quotidiano sui tram o sulle panchine dei viali, le stazioni del metrò rigurgitanti di folla, i lustrascarpe bambini, le auto decapottabili, i ristoranti all’aperto dove nelle Domeniche di primavera le giovani coppie danzavano. . . Ora, invece, mi colpivano i passi veloci della gente, come se alla dolcezza del vivere si fosse sostituita l’ansia di mettersi in salvo, e lo squallore di quartieri proletari, dove nei cortili interni non batteva mai il sole.

Dalla stazione camminammo a piedi per raggiungere la pensione dove Kitty abitava e notai che davanti alla sinagoga di Rosenstrasse anche lei affrettò il passo.

“Perché corri?” le chiesi, affaticata dalla valigia che stavo trascinandomi dietro dall’inizio del viaggio, senza che Kitty avesse mai fatto il gesto gentile di sottrarmela.

“Perché, perché. . . cammina e basta!”.

170

Non riuscivo ancora a capire di che pasta fosse fatta realmente: ogni volta che mi aspettavo una gentilezza, mi rispondeva in modo sgarbato e quando, invece, mi aspettavo d’essere maltrattata, si mostrava gentile.

La pensione si trovava in Via Giesebrechtstrasse , a Charlottemburg, il quartiere più elegante di Berlino, e il suo nome era “Pensione Schmidt”, il cognome di Kitty. Fu allora che capii: la pensione non era il suo alloggio ma una sua proprietà. Ci aprì una ragazza con un vestito vertiginosamente scollato e la sigaretta tra le labbra, che si sforzò di trattarmi gentilmente, tentando di farmi persino una carezza.

“Tutto bene, Agathe?” chiese mia zia sbrigativa.

“Tutto bene, madame!”.

Ben presto scoprii che Agathe non era l’unica ospite, ma che la pensione contava ben venti ragazze: alcune alloggiavano lì stabilmente, altre, invece, andavano e venivano per ragioni che, all’inizio, lo confesso, mi erano oscure. Kitty mi assegnò una camera dalle pareti rosa, piccola ma graziosa, e in quel momento capii che non avrei dormito con lei. La cosa invece di rattristarmi, mi sollevò, giacché era chiaro, ormai, che nonostante si fosse messa in testa di prendersi cura di me, noi non saremmo mai state amiche.

Cominciai a comprendere dove ero capitata quando fui inserita nella Grundschule, la scuola primaria del quartiere, e feci la conoscenza delle mie compagne , tutte provenienti da famiglie dell’alta borghesia, che storsero subito il naso, dandosi di gomito tra risatine soffocate, quando videro il mio grembiule e i miei miseri abitucci.

Una di loro, la leader di questo gruppetto di super-piccole donne, un giorno che la sua antipatia per me e per quell’ aria di candida innocenza che dovevo portare ancora stampata sul viso raggiunse il culmine, disse a voce alta nel cortile, durante la ricreazione: “Ecco l’innocentina che vive nel bordello della zia!”. Tutte risero in modo fragoroso e intonarono immediatamente un coro “Agnes Hure, Agnes Hure!...” , che poi sarebbe la storpiatura del mio cognome Hube; niente di male se non fosse che “hure” vuol dire prostituta, termine il cui significato non mi era allora molto chiaro, così come, d’altra parte, quello di “bordello”.

Da quel momento, mi misi d’impegno per cercare di capire quali fossero le vere cause di tanto trambusto all’interno della pensione di Kitty e perché, di giorno e di notte, le ragazze si accompagnassero con uomini sempre diversi e come mai si sentissero tutti quei rumori attraverso le porte delle camere. Non impiegai molto a capirlo, complice il dizionario che, anche se con termini un po’ troppo pomposi, aveva avuto il merito di rendermi abbastanza chiara la natura di tutti quei traffici e di quei movimenti.

A Kitty non potevo e non volevo chiedere nulla: i nostri rapporti si riducevano a prendere i pasti insieme, tranne la prima colazione che facevo da sola con

171

Agathe, perché mia zia si alzava sempre molto tardi al mattino. Passò così un anno e nel ‘33, mentre chilometri di fiaccolate sfilavano nella notte attraverso la porta di Brandeburgo per festeggiare la nomina a cancelliere del Führer, nella pensione si tenne una festa memorabile a cui, naturalmente, mi fu proibito di partecipare.

La subii comunque, perché la musica, gli schiamazzi, le grida provenienti dal salone dove scorrevano fiumi di champagne, durarono sino all’alba; a parte questo, quello fu per me un giorno come un altro. Ma quanto tutto fosse cambiato ce ne rendemmo conto presto, io per prima e un’altra volta fu la scuola ad insegnarmelo, perché, all’improvviso, non fui più io il trastullo delle giovanissime fraulein ma un bambino ebreo, di una delle classi inferiori, che si chiamava Albert.

Il suo viso triangolare, dove spiccavano gli occhi nerissimi e mobili, sembrava uno straccio pallido su cui si fossero posate due piccole mosche. Me lo ricordo perennemente con le braccia alzate, come a ripararsi dalle percosse ancora prima di riceverle; questo aizzava maggiormente le sue aguzzine, senza che nessuno, tra le maestre o i compagni, facesse nulla per impedirlo o per punire le colpevoli.

Fu allora che presi coscienza della presenza degli ebrei tra noi: fino ad allora, benché tutti i giorni passassi davanti alla sinagoga di Rosenstrasse per andare a scuola, non mi ero mai posta il problema della loro esistenza; la stessa Kitty aveva tra le sue ragazze alcune ebree, così come ebrei erano alcuni tra i suoi clienti più fedeli.

D’altronde Berlino, e in particolare Charlottemburg, dopo la rivoluzione del ’17, era diventata la seconda patria per molti intellettuali esuli dalla Russia, quasi tutti ebrei.

A partire da quel momento, mi resi conto di quanti ve ne fossero perché i maltrattamenti o gli abusi nei loro confronti, che si facevano sempre più frequenti, li rendevano immediatamente riconoscibili e permettevano ai veri fanatici del regime di mettersi in mostra. Quanto a me, avevo deciso di sospendere ogni giudizio e non solo perché non ero ancora in grado di comprendere a fondo le ragioni degli uni e degli altri , ma perché l’unica , vera amica che io avessi mai avuto all’interno dell’orfanatrofio era ebrea.

Si chiamava Micol e mi raccontava sempre, con abbondanza di particolari, l’episodio biblico che riguardava il personaggio di cui portava il nome. Non l’ho mai più rivista ma una volta, durante il grande rogo dei libri organizzato in quello stesso anno dal Reich per eliminare “la corruzione giudaica” dalla letteratura tedesca, al riverbero delle fiamme, per un attimo, mi sembrò di riconoscere il suo viso.

Era una bambina della mia età, dalle trecce fermate alla fine da due fiocchi

172

azzurri, proprio come le portava lei, anche l’altezza e l’espressione corrucciata del viso me la ricordavano; la seguii, urtando la folla che si stava accalcando nella Opernplatz, mentre lei, scomparendo dietro quella massa indistinta, si stava allontanando dalla piazza.

La persi e benché fosse evidente che non poteva essere Micol, ancora oggi, in cuor mio, ne dubito e, a volte, arrivo a credere che la sua apparizione sia stata un prodigio, che lei fosse lì per me.

Nulla di tutto questo preoccupava Kitty, il cui comportamento era quello di sempre. Non appariva mai turbata e l’unica cosa che sembrava interessarla davvero era che i suoi clienti non avessero nulla di cui lamentarsi in merito alla qualità dello champagne o della disponibilità delle ragazze. Tutti conoscevano il suo perfezionismo, che poteva raggiungere, specialmente nella cura della sua persona, punte quasi maniacali: si diceva, ad esempio, che qualche anno prima si fosse addirittura sottoposta ad un intervento di chirurgia plastica al viso, cosa per quei tempi davvero inverosimile, e che per questo a cinquantacinque anni suonati ne dimostrasse a malapena trentacinque. Le cose cominciarono a cambiare qualche tempo dopo, quando Kitty si rese conto che alcuni suoi affezionatissimi amici, come Hertz e Levy, non si erano più fatti vedere nella pensione e, in seguito, si venne a sapere che avevano lasciato Berlino per rifugiarsi a Londra. Capì, allora, che la sua posizione e i suoi guadagni in quella città non erano più sicuri e decise di aprire un conto nella città londinese, su cui cominciò a trasferire ingenti somme di denaro. Di tutto questo parlava per ore al telefono con i suoi amici banchieri ed io, se non avevo nulla da fare, mi mettevo ad origliare, aprendo un poco lo spiraglio della porta di camera mia. Ricordo poco di quel periodo, come se un buco nero galleggiasse nella mia memoria e avesse via via catturato porzioni sempre più ampie di ricordi. Credo dipenda dal fatto che stavo per affacciarmi all’adolescenza e sentivo spasmodicamente il bisogno di una madre con cui parlare e sulla quale riversare la mia affettività repressa. Vivevo in una sorta di palude emotiva, eppure, non osavo chiedere a Kitty notizie della mamma perché quel limbo in cui vivevo era sempre meglio dell’Inferno in cui sarei precipitata se avessi saputo che mia madre era davvero morta.

La verità venne fuori inaspettata una Domenica di Maggio: doveva essere il 1937, se non sbaglio, o forse il 38.

Kitty mi fece chiamare e, senza tanti preamboli, mi comunicò la sua decisione di partire il giorno dopo per Londra.

“Qui l’aria si è fatta irrespirabile!” fu la sua unica giustificazione “ Tu per adesso rimarrai qui. Quando tutto sarà sistemato, tra un mese al massimo, tornerò a prenderti”.

Abbassai gli occhi, non sapendo se ridere o piangere e fu allora che lei, per la

173

prima volta da quando abitavamo insieme, mi attirò a sé e mi fece sedere sul suo letto.

“Non devi preoccuparti, Agnes. Tanto tempo fa, ho promesso a tua madre di badare a te e manterrò la promessa!”.

“Ma la mamma dov’è?” trovai finalmente il coraggio di chiedere “perché non viene mai a trovarmi?”. Kitty mi accarezzò con quelle sue mani così perfettamente curate da parere scolpite: “Cara, la tua mamma non c’è più! Un giorno ti racconterò la sua storia ma ora non è il momento”. E questo fu tutto. Partì in un mattino radioso che sembrava di buon augurio per tutti i suoi progetti, ma qualcosa non funzionò perché alla frontiera olandese la fermarono, requisendole passaporto, denaro e gioielli. Tutto questo io, le ragazze e Agathe, a cui ero stata affidata, lo venimmo a sapere molto più tardi perché, al momento, nessuno si preoccupò d’informarci dell’accaduto e noi rimanemmo senza sue notizie per quasi un mese.

Quando Kitty tornò, era praticamente irriconoscibile: magra da far spavento, malvestita, con un vistosa ricrescita di capelli bianchi, la bocca e gli occhi circondati da rughe profonde, non sembrava nemmeno più una donna della sua età, ma semplicemente una vecchia. Al momento, non volle darci nessuna spiegazione: così come si trovava (era tornata senza valigia) si buttò sul letto della sua camera e dormì per quarantotto ore.

Io e le ragazze ci guardavamo sconcertate e abbastanza spaventate ; fu in quell’occasione che ci rendemmo conto di cosa Kitty rappresentasse per noi. Quando ella si riprese, ci aspettavamo tutte una spiegazione, ma questa non venne mai e io stessa appresi la verità più tardi, in una circostanza tragica per me.

Nel frattempo, però, Kitty si stava rimettendo e presto, grazie ai soliti misteriosi trattamenti che non rivelava a nessuno, ritrovò la forma di un tempo.

Da quel momento tutto cambiò, a cominciare dall’alloggio dove abitavamo che da pensione Schmidt divenne Salon Kitty.

La trasformazione non fu solo di nome ma anche, anzi soprattutto, di fatto e riguardò, in particolare, il piano di sotto dove, al posto delle vecchie stanze, furono ricavati due salotti, il boudoir di madame e una cucina nuova di zecca.

Anche i bagni furono rinnovati ed erano gli unici a possedere una caratteristica che scoprii solo in seguito.

Quando io, o qualcuna delle ragazze, domandavamo il perché di quelle modifiche, mia zia rispondeva sempre in maniera vaga o adduceva come scusa la necessità di adeguarsi alla nuova clientela, molto più selezionata di quella di un tempo.

Durante i lavori, io e Kitty ci trasferimmo in due stanzette in affitto, mentre

174

le ragazze furono per il momento “licenziate”con la promessa che ben presto sarebbero state richiamate alle loro mansioni.

Questo, però, non avvenne e, tranne Agathe, non rividi mai più nessuna di loro.

Fu propio questo, forse, l’aspetto più traumatico per me che, col tempo, per quanto gli usi e i costumi di quel luogo fossero senz’altro inconcepibili per un’ adolescente, avevo finito con il considerarlo come la mia casa e le persone che lo frequentavano come la mia famiglia.

Ben presto arrivarono le nuove ma, questa volta, mi rifiutai di istaurare con loro un qualsivoglia tipo di rapporto o di dialogo.

L’altra novità era che queste ragazze non alloggiavano più da noi, come era stato nella vecchia pensione, ma venivano chiamate per telefono da madame, su richiesta del cliente, che le sceglieva a partire da un catalogo dove esse comparivano in pose e abbigliamenti che lasciavano ben poco all’immaginazione.

Quando Kitty non era in circolazione e il salone era vuoto, mi divertivo a bighellonare in giro e fatalmente finivo per scovare il catalogo che lei ficcava sempre in nascondigli diversi, nella speranza che io non lo scovassi.

E ogni volta, benché ormai lo conoscessi a memoria, mi confrontavo con quei corpi, quei seni, quei volti, sentendomi una “guardona”, né più né meno di quegli uomini che andavano là per i loro scopi. Ma avevo sedici anni e stavo scoprendo il mio corpo e i suoi misteri.

Ben presto, durante una di queste mie perlustrazioni solitarie, scoprii, inaspettatamente, un secondo catalogo, sistemato in uno stanzino attiguo alla cucina.

Le donne che vi comparivano erano molto diverse dalle altre, non solo per la bellezza scultorea dei loro corpi ma anche per qualcosa di sofisticato e di elegante che contraddistingueva l’abbigliamento; e poi c’era quel sorriso che, per quanto invitante o sottilmente ambiguo, contrastava con la fissità inanimata del loro sguardo da manichino o da bambola meccanica.

Forse, riflettei, questo secondo album era riservato a una particolare clientela: questa, infatti, negli ultimi tempi, era molto cambiata, dato che i nuovi clienti erano quasi tutti ufficiali delle SS e dei vecchi frequentatori, cari a madame, non era rimasto più nessuno, men che meno i banchieri ebrei, che avevano abbandonato, l’uno dopo l’altro e ormai da tempo, la Germania.

Uno degli ufficiali che preoccupava particolarmente mia zia, aveva il volto affilato come la lama di un coltello e un nome che somigliava a uno scricchiolio sinistro: Hydrick.

Ogni volta che arrivava, ed era sempre per chiacchierare con Kitty e solo raramente per scegliere qualche ragazza, ella si affrettava ancora più del solito a spedirmi in camera, ma io sentivo quegli occhi puntati addosso come un

175

mitra, finché l’ombra del corridoio non mi ingoiava. Eravamo quasi alla vigilia della guerra, quando un nuovo cliente si presentò al Salon Kitty: si chiamava Karl Linden e vi giunse il giorno in cui si festeggiava il compleanno di madame, a cui, però, nessuno, conoscendo la sua paura della vecchiaia, osava chiedere quanti anni avesse.

Lo incontrai per caso in cucina perché, in piena notte, mi ero svegliata a causa del solito baccano, nonostante la mia camera si trovasse al piano superiore e fosse lontana dal salone.

Lo trovai in maniche di camicia e quell’aria furibonda, ma nello stesso tempo innocente, che doveva provenirgli dall’ubriacatura, gli conferiva una strana aria da angelo caduto; a giudicare dalle apparenze, non doveva avere molti più anni di me.

Mi guardò fissamente mentre mi stringevo sempre più nella camicia da notte e, all’improvviso, mi chiese come mai non fossi nel salone con le altre. Divenni di bragia e riuscii solo a balbettare, col bicchiere di latte in mano, che ero la nipote di “madame”; dopo di che corsi su per le scale e mi ficcai subito nel letto, tirando le coperte fin sopra le orecchie. Passò del tempo prima che riuscissi a calmarmi e a non sentire più il cuore in gola.

La mattina dopo, trovai Kitty furibonda: un ufficiale, mi disse, aveva osato chiedere informazioni su di me e questo perché non avevo obbedito alla regola che mi proibiva nel modo più assoluto di lasciare, durante la notte, la mia stanza e che mi era stata imposta sin dall’inizio del mio arrivo in quel luogo.

Avevo quasi diciotto anni e quella convivenza cominciava a pesarmi: decisi che, al termine del ciclo superiore di studi, avrei trovato un lavoro e me ne sarei andata. Ma c’era qualcos’altro ad attendermi sulla strada, qualcosa che mi avrebbe tratto fuori da me stessa come un’ostrica dal guscio, come un animale smarrito appena uscito dal lungo letargo.

Da quella famosa sera, rividi Karl qualche altra volta, sempre di sfuggita e a orari diversi; solo più tardi mi resi conto che in questo modo egli cercava di capire quali fossero i miei e quali possibilità avessimo di incontrarci. E già in quei fugaci momenti, quella sua eleganza un po’ impacciata, quella continua altalena di emozioni che oscillava nel suo animo e non mancava mai di trasparire dal suo viso, aveva conquistato il mio corpo e il mio cuore. Un pomeriggio suonarono alla porta ma, data l’ora insolita per un cliente, non mi preoccupai di lasciare subito il salone dove abitualmente studiavo. Sentii Agathe parlare in corridoio e a un certo punto vidi entrare Karl; indossava ancora il cappello e sembrava più alto.

“Buongiorno Agnes, sei sola?” mi domandò, dopo essersi accomodato sul divano e aver tolto il cappello. Balbettai una risposta e ricordo che mi diede fastidio il fatto che mi desse del tu, quasi fossi stata ancora una bambina.

176

“Di dove sei, Agnes, sei tedesca?”. Ecco, ci siamo, mi dissi, comincia l’interrogatorio.

Fui tentata di rispondere in modo indisponente che appartenevo alla razza ariana e che poteva, quindi, rilassarsi, ma preferii raccogliere le mie cose e cominciare a fare le prime mosse per filarmela e tornare in camera mia. “Cosa studi?” mi chiese subito, con l’evidente intenzione di trattenermi. “Charles Darwin!” risposi, continuando a radunare le mie scartoffie.

“Oh, interessante! Ma ho sempre pensato che siano gli animali a rappresentare la specie superiore, non l’uomo. L’essere umano è il più imperfetto nell’universo perché ha la coscienza di uccidere quando uccide e la consapevolezza di far soffrire quando infligge dolore. L’animale non ha questa debolezza, egli è assolutamente perfetto nella sua totale incoscienza, ciò ne fa una creatura più forte e più nobile”.

“Dev’ essere per questo che trattate gli uomini come animali!” ribattei io. Non so perché, ma in quel momento mi era tornato in mente il piccolo Albert, con le braccia perennemente alzate, e quella reazione di sdegno che non avevo avuto allora, improvvisamente mi travolse.

Karl sbatté le palpebre, come se qualcuno lo avesse colpito in pieno viso e io capii, in quel preciso momento, che provavo qualcosa per lui.

Un attimo dopo, entrò nel salone Kitty e immediatamente si rabbuiò: è incredibile come la sua visione “disinvolta” dell’esistenza e dei valori comunemente accettati convivesse con un’estrema rigidità nell’applicazione delle “sue” regole. E per me la regola era che non potevo e non dovevo per nessuna ragione avere relazioni, amicizie o conversazioni con i clienti della casa.

Radunai le ultime cose ma, per la fretta, feci cadere un quaderno che Karl raccolse subito, porgendomelo.

“Grazie!” mormorai senza guardarlo, sgusciando via dalla porta.

Passarono alcune settimane senza che lo rivedessi, ma già da allora, pur non osando confessarlo nemmeno a me stessa, ogni volta che sentivo una voce maschile o un po’ di trambusto nel corridoio, sentivo salirmi il cuore in gola e mi precipitavo per le scale con un pretesto qualsiasi.

Fu una sera in cui al piano di sotto si stava, “in allegria”, come diceva Kitty, che sentii bussare piano alla mia porta. Lì per lì pensai che fosse mia zia o una delle ragazze, benché non riuscissi proprio ad immaginare alcuna ragione per quella visita ad un’ora così tarda.

Quando mi trovai davanti Karl, fu come accorgersi di essere sull’orlo di un precipizio e rendersi conto, nello stesso tempo, che non si può tornare indietro.

“Ho pensato che, forse, a causa di tutto il nostro chiasso tu non riuscissi a dormire e mi sono chiesto . . .” non concluse la frase ma tirò fuori da dietro la schiena una bottiglia di champagne e due calici.

177

“Non posso . . . davvero. . . se madame venisse a saperlo sarebbero guai per me!” mi affrettai a dire.

“Presto partirò” mormorò Karl “non so se e quando potrò tornare!”. Sapevo che non era vero ma quel pretesto bastò per decidermi a farlo entrare in camera.

Scambiammo qualche parola e bevemmo un po’ di quello champagne in silenzio, quasi come un rito sacro. Poi si avvicinò e mi sciolse con delicatezza le dita che tenevo contratte sulla scollatura della camicia da notte, così come, a volte, sciogliamo una pianta che abbiamo curato con amore dal rampicante che la soffoca. Quando essa piombò a terra, mi abbracciò quasi timido e quella esitazione iniziale bastò a rassicurarmi. Fu così che caddi in un abisso e mai il cadere fu più dolce di quello: prima di allora, non avevo mai avuto qualcosa di mio e ora, improvvisamente, in quell’intimità inaspettata e trepida, sentivo per la prima volta di essere riconosciuta; fu quello, per me che non avevo avuto una madre nel vero senso della parola, il primo riconoscimento. I nostri incontri si ripeterono per alcune settimane, senza che Kitty si accorgesse di nulla, grazie alla complicità di Agathe: Karl faceva finta di sceglierla per passare qualche ora, mentre invece bussava alla mia porta e si intratteneva con me; poi, prima dell’alba, sgusciava via. Agathe, all’inizio, aveva insistito a coprirci solo per amicizia, perché, come spesso soleva dire, lei “sapeva cosa fosse l’amore”, ma poi accettò il denaro che Karl le passava per compare il suo silenzio. Ben presto, però, fummo tutti raggiunti dal passo della Storia, come il povero fuggiasco delle fiabe viene raggiunto dallo stivale dalle sette leghe: il nostro orco era il Furher che nell’estate del ‘41 decise di invadere la Russia, trascinando l’intera Germania, e non solo essa, nel baratro.

Karl avrebbe dovuto partire nel Giugno e poiché mancava ormai pochissimo alla nostra separazione, cercava di intensificare le sue visite. Arrivò un pomeriggio che Kitty non c’era e io, che temevo il suo arrivo da un momento all’altro, decisi di evitare la mia camera per paura che potesse bussare e sorprenderci insieme. Decisi, perciò, di scegliere una qualsiasi delle camere libere, la numero 21, e feci di corsa le scale per prendere la chiave che era nel cassetto di un mobile, nel boudoir di madame. Quante volte ho rivissuto nella mia mente quella corsa a precipizio e mi sono detta: se solo fossi caduta . . . se fossi addirittura morta! Ma poiché il destino non ripensa mai alle sue mosse, tutto filò liscio, aprii la porta della stanza senza difficoltà e insieme vi scivolammo dentro. Quell’incontro, che doveva essere l’ultimo per noi, fu diverso da tutti i precedenti perché Karl si aprì interamente, rivelandomi ciò che, forse, fino al quel momento, non aveva osato confessare nemmeno a sè stesso.

178

Mi confidò che, al contrario degli altri ufficiali, ansiosi di recitare la loro parte nella grandiosa rappresentazione del Terzo Reich, egli non era affatto entusiasta di partire ed era angosciato dalla convinzione che ben presto quella spedizione militare si sarebbe trasformata in un mattatoio.

“Ed io” concluse “dovrò essere più feroce degli altri!”

Rabbrividii a quelle parole e, sciogliendomi dal suo abbraccio, mi sollevai sui cuscini.

“Perché dici questo, perché mai dovresti essere più crudele degli altri?”.

Mi guardò senza vedermi, come se fissasse qualcosa di spaventoso alle mie spalle che ci sovrastasse entrambe.

“Perché sono ebreo!”.

Rimasi di sasso e per un momento smisi di respirare.

“Come è possibile?”.

“Lo sono al cinquanta per cento, visto che mia madre lo è . . . sono uno di quelli che ‘inquinano’ la purezza del sangue ariano!” aggiunse poi con un sorriso amaro.

“Ma come hai fatto a nasconderlo?”.

“In tempi non sospetti, quando ero ancora un bambino, mia madre si è fatta battezzare ed è diventata cristiana, ma naturalmente questo non poteva bastare . . . Così è stato necessario pagare una colossale somma di denaro per falsificare tutti i suoi documenti e cancellare l’atto di nascita in cui ella figura chiaramente come ebrea. Da quel giorno, io e la mia famiglia viviamo nell’incubo che l’intera storia venga alla luce. Perciò dovrò scansare ogni dubbio, evitare ogni esitazione e, per stornare qualsiasi sospetto su di me, dovrò mostrarmi più fanatico di tutti gli altri!”.

Non sapevo cosa dire ma, per la prima volta nella mia vita, ebbi paura, la percepii all’altezza dello stomaco e ne sentii il sapore in bocca.

Fu un incontro grondante di tragedia, dove ogni gesto stentava a spiccare il volo e quando ci salutammo fu quasi con distacco.

Mi promise che sarebbe tornato l’indomani, dato che mancava ancora una settimana alla partenza, ma il giorno dopo la mia attesa andò delusa. Lo attesi il giorno dopo ancora e, con ansia sempre più spasmodica, tutti i giorni successivi, ma egli non ritornò.

Non sapevo cosa pensare e mi consumai in una sterile attesa per quasi un mese, mangiando, respirando e vegliando in un mondo fatto di ovatta in cui le parole e i gesti altrui mi arrivavano come da un’infinita lontananza, tanto mi erano estranei.

Finché una sera, tra il confuso vociare dei clienti del salone, percepii il suono odioso della voce di Hydrich, l’uomo più potente del terzo Reich dopo il Fũrher, e in un attimo presi la mia decisione.

Indossai un abito scarlatto che mi donava particolarmente e sciolsi i lunghi

179

capelli castani sulle spalle. Nel salone erano già cominciati i soliti eccessi e Kitty aveva concluso il giro di champagne con cui era solita accogliere i suoi clienti. Trattenni il respiro e senza bussare entrai. Nella confusione generale, il mio ingresso passò inosservato a tutti, tranne ad Hydrich e Kitty che stavano chiacchierando in un angolo del salotto. Kitty ammutolì quando mi vide, mentre l’ufficiale, che stava sorseggiando una coppa di champagne, mi fissò con la solita espressione mista di curiosità e di disprezzo. Ma ci voleva altro per fermarmi. “Herr Hydrich” cominciai, cercando di conferire alla mia voce quanta più sicurezza possibile, “mi duole disturbarla ma vorrei chiederle notizie di una persona che mi sta a cuore e che è nostra amica: Karl Linden”. Mia zia sbiancò e dal suo viso defluì il sangue come quando si svuota una vasca e l’acqua, risucchiata via, scompare rapidamente. “Karl? Karl Linden?” rispose Hydrich, posando con estrema lentezza il calice sul vassoio “Non mi risulta che sia tra i nostri amici!” concluse, accentuando quello sgradevole sorriso che gli tagliava la faccia come una lama. “La perdoni, herr Hydrich, ultimamente vive in un perenne stato confusionale . . . Agnes, fila immediatamente in camera tua!” tuonò mia zia, finalmente tornata in possesso del suo sangue freddo. Ebbi la saggezza di non insistere e mentre tutti gli altri cominciavano a notare la mia presenza e mi fissavano incuriositi, abbandonai il salone in preda a una vera e propria tempesta emotiva.

La serata, però, non era ancora finita perché qualche ora dopo, nonostante fosse notte fonda, Kitty si precipitò nella mia camera come un uragano e tale era la sua rabbia che pensai volesse picchiarmi. Invece mi prese per un braccio e mi trascinò nel suo bagno personale; mi teneva così forte che il braccio cominciò a dolermi. Però, quando ebbe chiuso la porta dietro di sé, cambiò atteggiamento e il suo volto, più che rabbia, sembrava esprimere una grande preoccupazione.

“Ora mi racconterai tutto!” mi intimò “Per filo e per segno!”.

E così, nonostante quel mettermi a nudo davanti a lei mi costasse un’immensa fatica, iniziai il mio racconto.

Kitty attese abbastanza pazientemente che arrivassi alla fine e fu solo quando le parlai del mio ultimo incontro con Karl che mi interruppe per chiedermi dove era avvenuto.

“Perché, che importanza può avere?” ribattei io, irritata “Comunque, nella stanza numero 21 !”.

Fu allora che si portò le mani al viso e con un grido soffocato esclamò: “Dio mio, cosa hai fatto, piccola sciagurata!”.

“Ma perché, perché?” replicai io, sempre più stizzita. “Tu non hai proprio capito, vero, cos’è questo posto!”.

180

“Certo che l’ho capito: un bordello!” gridai io con quanto fiato avevo in gola. “No mia cara, è qui che ti sbagli; perché questo bordello, come lo chiami tu, è diventato una centrale di spionaggio del regime e Hydrich ne è l’ideatore. Ti sei mai chiesta cosa è successo in quelle lunghe settimane in cui sono scomparsa e non avete più avuto notizie di me? Beh, te lo dico io: mi hanno tenuta rinchiusa in uno scantinato a dormire per terra tra scarafaggi ed escrementi, costretta a subire interrogatori brutali quanto inconcludenti, affamata e minacciata sino a che non ho ceduto al ricatto e il ricatto era questo: trasformare Salon Kitty in un covo di spie della Gestapo!”.

Questa volta fui io a impallidire, quando mi fu chiaro che in ogni stanza delle ragazze che lavoravano per mia zia erano stati collocati dei microfoni, tranne le nostre due stanze e i relativi bagni.

“Ma le ragazze lo sanno?” le chiesi. “Alcune, solo un gruppo!”.

Mi venne in mente, allora, il secondo album che avevo trovato quel giorno per caso, contrassegnato dalla misteriosa sigla.

“Oh Kitty, cosa ho fatto!” esclamai al colmo della disperazione, buttandomi tra le sue braccia.

Quella fu l’unica volta in cui si comportò come una vera madre, stringendomi a sé e carezzandomi i capelli.

A quel punto le rivelai le confidenze fattemi da Karl e anche se mi aspettavo la sua risposta, ebbi ugualmente, nell’ascoltarla, la sensazione che il pavimento si aprisse sotto i miei piedi.

“Povera Agnes, non lo rivedrai mai più! Quello che ti ha rivelato sarà la sua condanna!”.

“Che gli faranno zia? Ti prego, dimmelo!”la scongiurai . “Non lo so cara, ma forse è meglio così; anche per te sarà meglio non saperlo!”. Passarono i giorni e poi le settimane e poi i mesi, senza che giungesse nessuna notizia di Karl e, sebbene Kitty non ne parlasse mai, sapevo che ad ogni visita di Hydrich tremava per paura che la lunga mano della sua vendetta nei confronti di quel giovane che aveva osato ingannare la fiducia dell’ ‘amato’ Furher, potesse raggiungere anche noi, me e lei. Ma la conoscevo troppo bene per non sapere quanto sottile fosse la sua capacità di compiacere e quanto fosse forte il suo potere di seduzione. Quanto a me, iniziai a fumare e quando il senso di colpa e la mia capacità di sopportazione giungevano al limite, arrivavo al punto da schiacciare il mozzicone di sigaretta sul dorso della mia mano, pur di dare sfogo alla mia sofferenza. Kitty, un giorno, mi sorprese in quel gesto e mi diede un sonoro ceffone: fu l’unica volta che osò colpirmi, ma quello schiaffo mi fece bene. Mi gettai nello studio e, mentre la Germania iniziava a capitolare, io terminai a pieni voti gli studi superiori. Ma nulla mi dava più soddisfazione: ormai,

181

una sorta di rabbia sorda aveva riempito ogni fibra del mio essere e qualsiasi emozione veniva respinta al mittente.

Così i giorni passavano, compatti come una colata di cemento, senza vie di fuga o bolle d’aria in cui trovare sollievo. In questa tetra atmosfera, il bombardamento di Berlino fu l’ultimo atto di una tragedia annunciata da tempo e la sconfitta non vi pose fine, anzi, spalancò per noi tedeschi le porte di un Inferno che ancora oggi stentano a chiudersi. Intanto, del nostro Salon Kitty erano rimaste solo macerie, ma noi ce n’eravamo già andate e da qualche tempo abitavamo in un piccolo paese non molto lontano dalla capitale , dove mia zia aveva una sua proprietà, poco più di una stamberga ereditata alla morte della madre, ma che ora, data la situazione, ci apparve una dimora principesca.

Da quel momento, mi attaccai morbosamente a lei che però, col passare del tempo, andava sempre più manifestando gli acciacchi dell’età e dell’abuso di alcool, di cui ormai non sapeva più fare a meno. Dopo quasi un anno, mentre la città, nonostante fosse ancora occupata dall’antico nemico, cominciava a dare qualche timido cenno di ripresa, mi iscrissi all’Università, non tanto per passione quanto per il fatto che lo studio, obbligandomi alla concentrazione, mi distoglieva dalla rappresentazione che i miei spettri allestivano ad ogni risveglio, soprattutto quello di Karl, protagonista assoluto di quella lugubre pantomima.

Mi iscrissi alla Facoltà di Fisica, materia che mi aveva sempre interessato, e lì incontrai un gruppo di coetanei animati da una vera e propria passione scientifica e, soprattutto, dal desiderio di lasciarsi il passato alle spalle. Uno di loro mi aveva colpito sin dall’inizio per un’aria vagamente familiare a cui, per quanti sforzi facessi, non ero riuscita a dare un’identità. Un mattino, però, mentre eravamo tutti seduti ad un caffè ed egli sorrideva soddisfatto davanti a una ben misera colazione, all’improvviso lo riconobbi: era Albert, il bambino ebreo perseguitato dalle mie compagne di classe , che io ricordavo sempre nell’atto di difendersi .

Non ebbi il coraggio di farmi riconoscere, né di chiedergli come e perché fosse riuscito a salvarsi, ma da quel momento la mia vita cambiò ed io ricominciai ad accogliere nel mio animo emozioni dimenticate, che non erano più fatte di sola angoscia e di disperazione.

Fu Albert stesso a raccontare la sua storia, durante un pomeriggio in cui avevamo assistito ad una lezione particolarmente impegnativa. Era d’inverno, forse l’inverno del quarantasette, e un freddo gelido ci accolse all’uscita dall’Università; Albert mi invitò a bere qualcosa di caldo nella sua stanza ed io accettai.

Quel che accadde dopo tra noi, fu molto diverso da ciò che avevo vissuto nella mia esperienza precedente: se tra le mani di Karl mi ero sentita sbocciare come

182

una gemma, con Albert mi sentii finalmente liberata da una pesante corazza di ferro : per troppo tempo ero stata Clorinda, la giovane guerriera, ed ora tornavo ad essere Angelica, desiderosa di vivere e di dimenticare. Quanto alla sua storia, egli mi raccontò di essersi salvato grazie alla generosità dei suoi genitori che raccolsero tutto il loro denaro e lo imbarcarono su un transatlantico in partenza per l’America. Aveva otto anni e fece l’intero viaggio da solo; là, ad accoglierlo c’era un fratello del padre che alcuni anni prima aveva fatto fortuna a New York, come commerciante di stoffe.

“E i tuoi genitori?” gli domandai, pentendomi quasi subito della domanda. Egli non rispose ed io non ebbi difficoltà a interpretare quel silenzio. Tutto sommato, quelli furono anni abbastanza sereni per me, rattristati soltanto dalla difficile situazione politica di Berlino e dalla morte di Kitty, che ha lasciato nella mia vita un profondissimo vuoto.

Un mattino che sembrava quasi essersi ripresa, poco prima della sua scomparsa, mi chiese: “Hai presente la statua di Rosa Luxemburg a Liebknechtplatz ….?”. “L’ideologa marxista? Certo!” risposi.

“Quando passi di lì, lascia un mazzo di rose bianche ai suoi piedi. É proprio in quella piazza che è stata uccisa tua madre da una spedizione punitiva dell’estrema destra. Era un’attivista del partito comunista e per quanto abbia amato di più la causa politica che il resto dell’umanità, era una gran donna!”

Fu così che finalmente appresi la vera storia di mia madre.

Il giorno della morte di Kitty, acquistai il più bel mazzo di rose bianche che riuscii a trovare e lo deposi ai piedi della statua.

183

Il corsaro del XXII secolo

Pensavo che questi dannati test sulla mia salute fisica e mentale non sarebbero più terminati. Ma finalmente ci muoviamo. Anche per il costume e la tuta ci vuole un tempo infinito, con tutti i cavi, le spie e questi pulsanti che non ho veramente memorizzato a cosa servono. Mi basta sapere due cose: come funziona l’ossigeno e come ricaricare la mia arma. Per il resto sono pronto. Tanto quanto lo ero un mese e mezzo fa, quando ho varcato i cancelli di questa baracca.

Questa è un’epoca di merda. Non mi ci sono mai adattato. Perciò qualsiasi altra realtà mi andrà a genio. O per lo meno, varrà la pena di essere esplorata. Sono un avventuriero, io. Non ho paura di nulla.

Mi portano in una sala che davvero sembra il set di un film di fantascienza. Molto scenici, devo dire. Non hanno badato a spese. Ma la più grossa posta in gioco resta la mia vita, comunque.

Ecco il mio mezzo di trasporto. Demolecolarizzatore gravitazionale, lo chiamano. Niente più che una cabina, non molto diversa da come deve essere una doccia su un’astronave, penso.

Mi chiudono dentro, ermeticamente. Altrimenti il trucchetto non funziona. Stanno per spedirmi nel 1800. É solo una prova iniziale. La mia missione è passare inosservato, raccogliere dati che provino la riuscita dell’impresa e tornare.

La tuta è per sicurezza, non si sa mai dove dovessi finire. Ma sotto ho dei vestiti di moda tre secoli fa. Entro. Apro l’ether-c e sfoglio i wireframe. Si parte. Mi sento come immerso nell’acqua minerale. Poi luce. Solo luce.

Prima di poter vedere alcunché, odo un gran casino. Suoni di voci, sbuffi, rumori di zoccoli e ferraglia. La polvere si posa e guardo attraverso il vetro. Mhf! Passare inosservato un cazzo! Sono finito in una specie di piazza brulicante, durante lo svolgimento di un fetido mercato. Alcuni omuncoli sporchi e brutti mi guardano esterrefatti mentre indietreggiano a fatica. Una donna grassa e pelosa con un cesto di frutta bacata in mano mi osserva, immobile come un robot cui hanno staccato l’alimentazione. Una manciata di marmocchi si distribuisce intorno, cominciando a toccare e insudiciare il vetro.

Poi il baccano si fa più forte, vedo sul muro poco lontano un tizio con calvizie che indica a due soldati la mia posizione. Stanno dando l’allarme e a me non

184
■ Francesco Battista da Londra

va di iniziare subito a far saltare capocce, né di sporcarmi la tuta. Cazzo, non si comincia una spedizione scientifica usando il grilletto, dico bene?

Ma i cosiddetti scienziati hanno fallito, coi loro calcoli astronomici a cazzo di pecora. É come se mi avessero spedito su un palcoscenico.

La mia destra è sulla pistola...l’abitudine. Ma la sinistra è sulla plancia di comando.

Sto per pisciare immediatamente quest’epoca di zozzoni. Ma la missione?

All’improvviso <<Baam!!>>.

Un colpo secco alle mie spalle fa rimbombare la cabina. Mi giro e vedo il fottuto gobbo di Notre-Dame con una specie di clava di legno che ride furioso coi suoi tre denti sparsi e si prepara a menare il secondo colpo. Quel cazzo di tronco è davvero grosso, non so come faccia a sollevarlo, ha una forza sovrumana.

Non mi sfonderà subito la mia bella doccia blindata, ma non sono intenzionato a testarne la resistenza.

Apro l’interfaccia virtuale per selezionare la destinazione e <<Baam!!>>, il goffo energumeno mi regala un’altra mazzata roboante. Digrigno i denti in una smorfia, gli faccio una linguaccia, poi scrollo le schede olografiche per selezionare un epoca e fare il numero di magia di sparire davanti ai suoi occhi, quando l’umanoide con un gesto fulmineo si puntella sul bastone e scaglia un calcio a piedi uniti contro il mio box.

La cabina s’inclina, io perdo l’equilibrio, scivolando di lato. Nell’aggrapparmi sento di aver azionato l’ether-c.

Di nuovo bollicine nel corpo e la luce.

Appaio in uno spazio verde e immenso.

La vegetazione su un lato e alle mie spalle è altissima. I fusti sono spessi come pilastri di ponti. Mai vista roba del genere, nemmeno nei documentari. Il terreno ricoperto di erba lunga scende in ampie e morbide ondulazioni. Rocce alte come grattacieli riposano l’una vicino all’altra in lontananza. Aziono il computer, il cui ologramma guida reca la scritta “Paleozoico”.

Dio Santo! Spero proprio che questo trabiccolo funzioni a dovere per riportarmi indietro.

Però sono andato così a ritroso da trovarmi in un’epoca nella quale gli umani erano milioni di anni di là da venire. L’idea mi dà il capogiro. La tentazione è troppo forte. Decido pertanto di dare un’occhiata per vedere com’era l’infanzia della vita sulla Terra.

Uscendo dalla capsula, subito nella mia mente si accendono le spie di quelle poche nozioni che posseggo riguardo quest’era. L’ossigeno nell’aria deve essere ad una percentuale elevatissima. Il che non dovrebbe uccidermi, ma

185

per ora terrò la maschera. Questo fattore fa sì che ciò che vive qui raggiunga dimensioni colossali. E quindi non mi tratterrò molto neanche stavolta. L’erba mi arriva al petto. Fa caldissimo. Regolo la temperatura interna della tuta. Questa tuta mi è utile per tanti motivi, ma in tale dannata sterpaglia mi rende difficili i movimenti. Il vento non è forte, eppure ha un suono potente. È l’unica cosa che si ode, d’altronde.

Vorrei raggiungere gli alberi titanici, ma non riesco a stabilire con esattezza a che distanza si trovino. M’incammino.

Dopo una spossante marcia giungo al limite della distesa erbosa ed esco allo scoperto. Le spaccature nel terreno disegnano zolle enormi per un’area sconfinata. Gli arbusti sono ancora lontani e sembrano immensi. Oscillano lenti e maestosi. Uno spettacolo magnifico. Sono sudato per lo sforzo ed ho bisogno d’aria fresca. Non ci resisto in questo scafandro. Voglio sentire il vento, in faccia quantomeno. Respirare. L’ossigeno mi farà bene. Al massimo mi darà un po' di brio, il che non mi dispiace. Fanculo questa boccia di policarbonato!

Sgancio il casco da astronauta, lo ruoto e appena comincio a sollevarlo una folata calda e soffocante mi investe. Tossisco. Esito.

Sto per riagganciarlo, mentre calmo il fiatone con respiri profondi e rumorosi, la bocca aperta a cerchio. Ma dopo una trentina di secondi mi abituo all’atmosfera. Quindi me lo sfilo. Però! Non è affatto male, devo dire. E mi piace sempre più quando penso che nessuno ha mai respirato quest’aria, nessuno ha mai potuto essere qui. Ahh! Che goduria!

Col casco sotto al braccio, rivolgo il viso al cielo, gli occhi chiusi, il sole che mi cuoce il volto. I profumi sono quelli dell’erba e della terra, decisamente intensi e pungenti.

La lieve brezza s’inalbera in una folata più energica. Sento il fruscio dell’erba ciclopica alle mie spalle, è come un susseguirsi di scudisciate rapidissime e ovattate. Apro gli occhi e osservo inebriato una specie di primordiale domino vegetante.

Poi un suono comincia a fendere l’aria. Impiega parecchi secondi per farsi più distinto e mi allarma perché non ha nulla di naturale. Sembrano dannate lame rotanti in avvicinamento, o una gigantesca elica meccanica messa in funzione.

186

Guardo in ogni direzione senza capire. Che diavolo sarà? Non può essere niente che sia stato prodotto da mani umane, lo so bene. Eppure non riesco a pensare a nessun fenomeno naturale che spieghi questo fracasso sempre più fragoroso.

Sono confuso e agitato. Forse anche l’ossigeno mi sta dando alla testa, perciò riaggancio il casco.

All’improvviso scorgo lontano qualcosa di scuro sul terreno ondulato che si muove rapido.

Osservo meglio, si sta avvicinando...un attimo: è solo un’ombra. Alzo gli occhi al cielo ed eccolo in controluce: un lungo dannato elicottero da guerra in avvicinamento.

Cristo!

Non devo essere l’unico a spasso nel tempo, a quanto pare. Quei bastardi di scienziati si sono dati da fare. E mandano qui dei mezzi militari? Perché? A quale scopo?

Con lo sguardo fisso, il rumore si fa assordante ed io resto esterrefatto quando l’oggetto volante giunge abbastanza vicino da potere essere visto chiaramente. E non è un elicottero.

È una strafottutissima libellula pantagruelica.

La mandibola mi si abbassa da sola. Dio di un dio!

Per un attimo non credo ai miei occhi.

Col rombo al culmine che cambia di tono, passa sopra la mia testa e comincia ad allontanarsi. Quindi penso che è perfettamente logico. Com’è che si chiamavano? Meganeure, o roba del genere.

E deve essere pieno di insetti titanici qui intorno.

L’ho appena pensato, abbassando gli occhi a terra, che scorgo alla base dei pilastri arborei un essere piatto, lunghissimo e corazzato. Neanche mi avesse letto nel pensiero, volge le sue luride antenne nella mia direzione e comincia a correre su decine di zampe che si muovono in onde sincronizzate.

Oh cazzo, viene proprio verso di me!

Ne ho abbastanza. Me la do a gambe.

Sul terreno non avrei speranza contro quel bacarozzo atavico. Ma qui tra la vegetazione alta non dovrebbe addentrarsi. Me lo ficco in testa come una certezza, senza risparmiare un grammo d’energia alle mie gambe, che lavorano simili a pistoni infuriati. Per fortuna il mio lento incedere dell’andata ha aperto un leggero varco tra gli steli. Spero non sia agevole anche per quell’affare.

A circa metà strada mi fermo un attimo esausto e mi volto.

Spuntando solo con la testa oltre la vegetazione, sul terreno bruno non vedo niente. Purtroppo con timore scorgo una scia tremolante che si disegna celere nell’erba, dritta verso di me. Non arriverò mai alla navetta prima che mi

187

raggiunga.

Resto fermo e mi concentro.

Ho già sfilato l’arma.

Il fruscio si arresta, a una decina di metri.

Io sono immobile.

Sguardo fisso. Pistola puntata.

Poi qualcos’altro attira la mia attenzione.

All’interno del mio campo visivo, una a destra e una a sinistra si stanno disegnando altre due scie nel mare d’erba. Cazzo! Fottuti millepiedi ingrassati!

Si fermano anch’esse. Cerco di trovare un lato positivo e penso che almeno non si sono frapposti tra me e la macchina del tempo.

Il primo si alza sulla parte posteriore del corpo, così da visualizzarmi. È veramente disgustoso.

Gli sparo un paio di colpi per spaventarlo. Ma si rivela un’idea stupida. I proiettili gli rimbalzano sulle tenaglie che ha al posto della faccia e ciò sembra imbestialirlo.

Infatti si rituffa a capofitto. Sfreccia verso di me.

In pochi secondi mi sarà addosso, sono spacciato.

Armeggio con la pistola per spostarla sulla funzione laser, ma è tardi.

Il mostro uncinato riappare fulmineo, ergendosi al mio cospetto nella sua grossa mole rivoltante e si appresta ad affettarmi...quand’ecco che sul mio capo calano due ombre scure e <<Stah-taffh!>>.

Sulle zampe posteriori due cosi come scarabei giganti si sono alzati a combattere con l’anthropleura, bloccando congiuntamente il suo attacco rivolto a me. Fanno un fracasso peggio che se avessero delle spade ed io sono come una pulce che riesce a sgusciare via dal campo di battaglia. Corro come non credevo fossi in grado di fare e davanti alla mia cabina mi volto per osservare lo scontro.

Tutt’intorno l’erba è schiacciata e rovinata. Ci sono schizzi di gelatina giallastra ovunque.

Ringrazio i due scarafaggi, miei inconsapevoli salvatori, ma noto che il loro tentativo sembra volga al peggio. Le pinze della bestia rossastra sono il doppio delle loro e quel corpo racchiuso nell’armatura rotea con sorprendente agilità.

Il risultato è una protezione e un’offensiva tanto efficienti che lo svantaggio numerico viene annullato.

<<Avete fatto male i calcoli, amici>> dico ai malcapitati mentre il vetro si richiude davanti a me. Un secondo dopo uno spruzzo giallo lo imbratta nella parte alta.

In culo il passato!

188

.

In culo la missione e la raccolta dati!

È tempo di spassarsela sul serio e vedere se questa bagnarola assolve ogni sua funzione.

Per quanto riguarda il futuro i capoccioni non sono stati granché precisi. Avevano parlato di non so quale coefficiente che modificava la velocità e la capacità stessa di viaggiare verso realtà non ancora esistenti. La relativa sezione è attivabile solo tramite procedura d’emergenza. Non si erano profusi in troppe spiegazioni. La possibilità di andare oltre il nostro tempo non era contemplata in questa mia prima missione. Ma la procedura dovevo impararla per sicurezza; e l’ho imparata.

Quindi in culo anche gli scienziati! Il mio collo stava per essere reciso da una schifa di scolopendra abnorme.

Decido io. Perciò attivo l’ether-c e ordino l’avanti tutta nella sezione rossa, aggirando il “Warning” e avviando il protocollo eccezionale.

L’ether-c esegue fedelmente i miei comandi. Un ghigno si disegna sul mio volto. Il futuro mi attende.

Questa volta, quando la luce si dissipa, l’aria intorno resta di un percepibile color caldo. Anche la sensazione di effervescenza nelle mie membra non svanisce del tutto. Mi sento come leggero, patinato, sfocato. Deve essere suggestione.

Appena il processo di materializzazione ha termine, la totalità delle parti in glasstech e recblock del demolecolarizzatore vanno in frantumi. Si sgretolano davanti ai miei occhi senza un suono. Cadono come per effetto di una bacchetta magica invisibile, ridotti a polvere di vetro ai miei piedi. Non un rumore. Attorno a me rimane la parte strutturale, quella meccanica, il propulsore ed il reattore e la plancia. Ma la capsula esterna è andata. Sono sgomento. Come cavolo…

Va bene, un secondo: non so né dove sono, né in che epoca, quindi inutile porsi inutili domande. Devo basarmi su quello che so, per provare a cavarmela. E per ora so che non posso tornarne indietro, finché non avrò sistemato ermeticamente questa trappola. Fanculo!

Uscendo dalla bagnarola metto i piedi su una superficie che potrebbe essere un metallo. Ma non ne sono sicuro. Non sono sicuro di nulla, non ho idea di dove caspita sia finito.

Tasto istintivamente la mia cintola e sono colto dalla seconda tragica rivelazione: è vuota. Nella fondina residui della stessa polvere opalescente e un paio d’ingranaggi. Questo futuro già mi sta sui coglioni, e non poco. Non saprei neanche dire se mi trovo all’aperto o al chiuso. In alto c’è una nebbia arancione, immobile. Non un filo d’aria. Le pareti sono dei grossi bitorzoli di

189

un marrone quasi nero. Non scorgo altro da qui.

Il piano su cui mi trovo non è molto esteso. È un ballatoio, che costeggia queste strane pareti nodose disegnando angoli retti. Non ci sono balaustre. Avanzo verso il bordo e guardo giù. Ogni materiale mi è così poco familiare che non saprei definire l’altezza alla quale mi trovo. In fondo comunque c’è qualcosa di verde acido, quasi fosforescente. Ha come delle increspature e sembrerebbe un liquido, ma è immobile ed impossibile giudicare da qui.

Mi incammino verso destra. Costeggio questi ammassi informi. La loro superficie sembra viscida. O forse solo lucida. Potrebbero avere qualsiasi consistenza e non mi interessa scoprirlo, in realtà. Questo posto non ha odore. Appena costeggio il secondo ammasso bruno mi accorgo che ce ne sono decine, da un lato e di fronte, fin dove la foschia color arancio non li nasconde alla vista. Il ballatoio sul quale mi muovo prosegue in uno zigzagamento squadrato a perdita d’occhio. Ci sono vari blocchi e corti pontili che li legano, dello stesso materiale dell’immenso pianerottolo.

Cammino e cammino in questo labirinto liquescente. Non tolgo il casco, che per fortuna è rimasto intatto. Già, come mai? Bah! Non so cosa diavolo si respira in questo postaccio, quindi meglio così.

Il silenzio è totale.

Sono finito in una fottuta fogna avveniristica.

Mi chiedo come farò a ritrovare la mia navetta, qui dentro.

Poi un rettangolo di luce si apre sopra la mia testa. Il mio corpo comincia a sfrigolare.

Non mi piace, non mi piace proprio...la luce mi investe. Riapro gli occhi ed ho subito il vomito. Non riesco a vedere bene. Il colore è come invertito, come in una sorta di visuale termica.

Si ode un ticchettio incessante e irregolare, un battito elettronico intervallato da stridori intermittenti.

Sono intorpidito e bloccato. Disteso supino, nudo, varie parti del corpo legate con...non so...sembrano lacci trasparenti e gommosi. Non mi stringono sulla carne, né mi immobilizzano. Non li sento addosso, ma ciononostante non mi permettono di alzarmi. Ogni tentativo di muovermi provoca delle oscillazioni del mio corpo di pochi centimetri e nient’altro. Non sento nulla sotto di me. Piego più che posso la testa. La inclino da un lato, dall’altro, per quanto è possibile.

Sembra non sia appoggiato ad alcunché. Cristo, sto fluttuando. Delle onde scure si propagano nella mia direzione. Sono l’unica cosa nera in quest’esplosione di colori nauseanti e sfumati.

Cosa sono? Che succede?

Sono attorno a me, si muovono veloci e sinuose come tentacoli di medusa. Una di esse continua ad avvolgere e ritirare una sua proiezione attorno alla

190

mia coscia, ma io non percepisco nulla sulla pelle.

Il tatto e l’olfatto sono completamente assenti. Eppure sento di non averli perduti, semplicemente non interagiscono con questo ambiente. Non so neanche bene come o cosa io stia respirando cazzo, non avverto aria. Questi ammassi di fasce nere si muovono avanti e indietro lungo pareti colorate e cambiano la loro forma con modulazioni ora verticali ed ora orizzontali, affusolandosi e ritornando ad una forma ellittica ancora e ancora. Al loro interno sono in costante fermento. Si percepiscono delle sottilissime linee grigio-bluastre che li percorrono, facendoli pulsare come in un eruzione continua in cui strati interni si sovrappongono a quelli esteriori senza posa. Un’altra di queste ombre si porta alla mia sinistra e avvolge spire di una sua protuberanza attorno all’altra mia gamba.

Guardo queste due macchie gloglottanti ai lati del mio letto inesistente, avverto le vertigini, faccio uno sforzo per liberarmi...ma è inutile...le osservo: vedo che ora sono perfettamente sincronizzate, sono identiche nella forma e nel movimento ed hanno avviluppato la totalità dei miei muscoli femorali. All’improvviso si fermano, sembrano rivolte l’una all’altra e poi...si allontanano contemporaneamente lasciandomi libero...ma...allora…o mio dio!

Oh dio Cristo: sono vivi! Questi cosi sono vivi, cazzo! Sono degli schifosissimi maledetti cosi alieni...e che mi stanno facendo? Cosa cazzo mi fanno, perdio?

La testa…oohh, la testa!

La testa mi batte come il batacchio di un pendolo gigantesco. Il pulsare alle tempie è insostenibile e questi maledetti colori come filtri ottici...oddio….non resisto, non resisto...la mia arma...il corridoio ipersferico...aaahh...immagini decomposte...immensi quadri di luci...poligoni di colore sempre più piccoli e irregolari...una logica irreale...tutto scorre…

Sotto gli alveoli astrali le scie rade impallidiscono, sfregando velocemente contro un vuoto cosmico esterno, attraverso il quale sbalzo in atoni frammenti di vibrazioni interspaziali. Gli archi siderali si chiudono lenti, uno nell’altro, maestosi sopra la mia testa. Il dolore è assente. Al mio interno, esplosioni di pulviscoli di luminosa materia azzurra in sospensione. Le figure d’ombra, ora enormemente oblunghe, mi scortano ai lati, sparendo ad intervalli alla visuale in tunnel molecolari fluorescenti, riaccendendosi in sfreccianti code opalescenti simili a fruste di luce.

Frattali...indefinita assenza di tempo...mobilità fluida su onde continue, inglobanti...assenza di suoni...spazio infinito scevro di confini tra dimensione esteriore ed interiore...frattali e frattali…

Quando riapro gli occhi mi sembra di riemergere da un lunghissimo stato di coma.

Le immagini un po' sfocate si muovono lentamente. Il cielo è scuro, ma svariati riflettori puntati su di me illuminano la zona circostante.

191

Gli scienziati nelle loro tute protettive si affaccendano attorno a me. Mi caricano su una barella. Finalmente dei suoni arrivano al mio orecchio. Odo motori, ronzii e voci confuse.

Sono nudo e la sensazione del vento sulla pelle e quanto di più appagante abbia provato in vita mia. Mi sento vivo, di nuovo vivo.

Mentre mi trasportano dentro, mi sembra che il grosso edificio sia il centro operativo dal quale sono partito. Mi attaccano ai macchinari, fanno controlli e accertamenti, la loro frenesia non si placa.

Io sto benissimo. Mi sento solo ovattato, come quando dormi troppo, sei sott’acqua o stai uscendo da una sbornia di droga pesante.

Alla fine mi rimettono in piedi, mi infilano un camice, mi dicono che i miei valori sono regolari e che non ho problemi di salute di alcun genere. Le mie condizioni sono anzi migliori di quando sono partito. Non ho nulla di anormale nel mio corpo, ci tengono a specificare. E sembrano stupiti anche.

Il gotha medico attorno a me pare quasi deluso da questi risultati. Dico, avrebbero preferito che tornassi invecchiato di cent’anni forse? O bambino, o sputando sangue? Che so…con una mutazione magari, perché no?

Dio santo, questi medici!

Mentre si allontanano sfilandosi i guanti, un’infermiera lì a fianco mi rivolge la prima vera parola umana e mi chiede: <<Come si sente?>>, accennando un sorriso dietro la mascherina. <<Magnificamente>> rispondo io, e nell’attimo in cui pronuncio questa parola, la sensazione di torpore viene risucchiata via. Sono perfettamente lucido, tornato al cento per cento alla realtà. <<Benissimo ragazzo>> una voce severa mi aggredisce alle spalle, <<perché adesso deve assolutamente spiegarci dov’è stato e come diavolo ha fatto a tornare senza demolecolarizzatore!>>.

Rivolto al personale: <<Dategli dei vestiti>>, poi a un tizio in camice bianco con una cartellina in mano: <<Tra quindici minuti, nella sala ottagonale>>. E lascia la stanza, seguito dalla sua scia di collaboratori. Vengo riaccompagnato nel mio dormitorio. Richiusasi la porta alle mie spalle, butto l’uniforme sul letto ed espiro rumorosamente. Mi sgranchisco i muscoli del collo e mi piazzo davanti allo specchio.

Eccomi qua, sono tornato e sto bene, ce l’ho fatta anche stavolta. Perfino il mio ghigno è intatto.

Mi tolgo il camice e...oddio! E questi che sono? Che cosa cazzo… Mi piego in avanti per osservarmi meglio: nei due interno coscia, molto vicino

192

all’inguine, innestate nella carne due placche grigiastre affiorano dalla pelle, rivelando delle venature azzurre percorse da rapidi bagliori d’energia.

O mio dio! Che significa? Cosa mi hanno fatto?

E come mai non li ha notati nessuno?

Provo a toccarne uno con la punta del dito e l’energia si fa più intenza e comincia a sfrigolare.

Ritraggo la mano.

Scatto dritto, la mia faccia a un centimetro dallo specchio. Sono con gli occhi nei miei occhi.

Mi sento forte. Ma adesso?

Nell’iride azzurra, per un attimo, si disegna fulmineo un identico lampo di luce.

193

■ Claudio Botteon da Godega San Urbano (TV)

La lunga marcia

Un sibilo acuto tagliò l’aria, la tradotta stava arrivando in stazione pronta ad accogliere i suoi figli alpini, il loro destino era già stato deciso negli androni dei palazzi romani, la loro destinazione un paese dal nome gelido: Russia.

Egidio aveva salutato la madre il giorno prima, il tempo era soleggiato e caldo, Agosto si faceva sentire, nessuno pensava al freddo che sarebbe arrivato sulla steppa tra qualche mese.

Il commiato era stato frettoloso, i compagni di reparto, alcuni dello stesso paese, lo stavano aspettando in stazione, il treno non poteva attendere, affrettò il passo mentre pensava a sua madre che lo fissava negli occhi bagnati dall’emozione, si scosse ricordando il bacio in fronte ricevuto da lei mentre guardava quel figlio tanto amato e diretto verso chissà quale destino.

Con l’esuberanza dei suoi vent’anni si stava dirigendo verso la stazione, mentre nella sua mente scorrevano ancora i fotogrammi del saluto della madre, la sua pelle chiara, i capelli raccolti in una treccia chiusa da un nastrino, gli occhi che guardavano l’infinito come se un pensiero l’avesse rapita.

Le aveva fatto una promessa, ma non era sicuro di poterla mantenere, erano troppe le incognite che lo aspettavano in quella terra lontana, così immensa, così fredda.

In stazione ritrovò gli amici dei paesi vicini, appena rientrati come lui dalla “Campagna di Grecia”, si apprestavano a partire per Gorizia dove li attendeva il resto della Julia, tutti gli alpini si stavano preparando a ripartire ma questa volta la baldanzosità dei loro vent’anni aveva lasciato il posto all’incertezza, alle paure ancestrali che tentavano di affiorare dalle loro menti, questa nuova destinazione si preannunciava piena di incognite. Il mattino seguente tutta la Divisione alpina Julia era pronta, la tradotta arrivò in perfetto orario, salirono in silenzio con il capo chino e la mente già indirizzata verso siti lontani.

Dopo un paio d’ore il treno aveva già superato il confine italiano dirigendosi verso Nord-Est, Egidio guardava i paesaggi dal finestrino, montagne e mucche si ripetevano all’infinito, ogni tanto il silenzio era rotto da qualche canzone alpina intonata senza troppo entusiasmo dagli Ufficiali che in questo modo tentavano di sollevare il morale di quei “boce” di vent’anni.

Le montagne iniziavano a colorarsi d’autunno, all’interno dei vagoni quegli ammassi di forza e gioventù stipati all’inverosimile, con gli occhi vitrei e lucidi fissavano il vuoto, mentre l’odore riempiva gli scompartimenti di aromi di sudore e paura.

194

Dopo alcune ore il sole li abbandonò facendo capolino dietro una montagna i cui colori prossimi all’autunno illuminavano il tramonto, la luce della luna cominciava ad affacciarsi tentando di penetrare nei riquadri dei finestrini per creare un gioco di chiaroscuri; qualche alpino si era addormentato, altri pensavano al dolce tepore di casa, mentre il treno nella sua corsa inarrestabile li stava portando verso un incerto destino. Dopo una ventina di giorni di viaggio sempre uguali, un mattino di buon’ora passarono gli Ufficiali tra le corsie dei vagoni svegliando tutti e ordinando di prepararsi a scendere, erano arrivati in Ucraina a Izjum la loro destinazione. “Giù tutti, prendete la vostra roba, si va a piedi verso il Caucaso” gridavano gli Ufficiali, aggiungendo poi: “i binari hanno uno scartamento diverso, dobbiamo proseguire con le nostre gambe”.

Zaini in spalla gli alpini eseguirono gli ordini incamminandosi verso le montagne ignote ma dopo qualche giorno arrivò una staffetta a bordo della sua “moto Guzzi” portando al Colonnello l’ordine rettificato, la nuova destinazione era diventata l’argine del Don per tutti, terra piatta non adatta alle truppe alpine.

“Cominciamo bene” disse Egidio rivolgendosi ai suoi compaesani. Era Settembre, di giorno marciavano sotto un tiepido sole autunnale ma di notte l’aria fredda della steppa iniziava a sibilare tra le penne degli alpini, Egidio si alzò il bavero della giacca e proseguì nel suo cammino. Dopo alcuni giorni ecco apparire un fiume molto largo, calmo, pieno di anse, in una terra perfettamente livellata: il Don, erano arrivati a destinazione. Fino ai primi giorni di Dicembre non ebbero modo di pensare alla guerra, scrivevano a casa, scavavano trincee e ricoveri, costruivano baracche e depositi, intanto il tempo passava e la temperatura scendeva, ormai era arrivata a trentacinque gradi sotto zero e il gelo cominciava a farsi sentire in tutta la sua intensità.

Egidio da qualche giorno aveva indossato i mutandoni di lana che sua madre gli aveva fatto con infinita pazienza sferrucchiando giorno e notte, e anche un bel paio di guanti di lana fatti sempre con i ferri da calza, con quelli si sentiva riparato dal freddo.

Poveri ragazzi erano contadini trasformati in soldati da una volontà superiore, mandati alla conquista di una terra lontana e infinita, era una guerra che non sentivano e non volevano, ma dovevano farla, c’era la leva obbligatoria e dovevano compiere il loro dovere di soldati, così li avevano cresciuti e loro avevano dovuto adattarsi.

Egidio aveva ricevuto l’incarico di condurre una slitta reperita in un villaggio e pagata con il baratto attraverso lo scambio con il sapone, era la merce che le donne russe chiedevano di più, per fortuna ne avevano a camionate.

L’aveva attaccata ad un mulo e sulla candida neve eseguiva i trasporti di viveri

195

e munizioni dai depositi delle retrovie verso la prima linea; gli alleati tedeschi invece avevano i camion con le catene e in questo modo potevano stare seduti al caldo, come li invidiava. Arrivò l’antivigilia di Natale, il ventitré Dicembre 1942, gli alpini avevano preparato i rifugi sottoterra riscaldati con le stufe di terracotta e si apprestavano a passare il Natale riparati, ma quella notte, inaspettatamente, i Russi sconvolsero i loro piani iniziando una controffensiva con una tale quantità di uomini e mezzi che non si sarebbe più fermata fino a Berlino.

I Tedeschi si ritirarono verso una linea difensiva più arretrata, le fanterie italiane li seguirono, solo gli alpini dovettero rimanere sul Don per rallentare i Russi.

Questi sparavano con cannoni, Katiusce, carri armati, tutto ciò che non avevano gli alpini, costretti a difendersi con i pochi mezzi che si erano portati dietro, la temperatura in qui giorni era arrivata a quaranta gradi sotto zero, mentre i riflessi luminosi della neve accecavano i loro occhi.

I bianchi cristalli scendevano copiosi attutendo i colpi delle bombe, mentre il loro colore si tramutava da bianco a rosso appena toccavano terra, intanto la bufera non accennava a diminuire.

Il diciassette Gennaio arrivò il tanto atteso ordine di ritirarsi, ma era troppo tardi, erano completamente circondati; inizia il racconto di Egidio della ritirata di Russia:

“I Russi avanzavano inesorabilmente giorno dopo giorno, mentre noi pregando e bestemmiando cercavamo di rallentarli, la marcia nella steppa innevata proseguiva inevitabile, il terreno era un enorme inferno di ghiaccio, piatto, senza le sagome delle nostre amate montagne, non avevamo più mezzi, era finita la benzina, ci rimanevano solo le nostre gambe.

La bassa luce del crepuscolo russo si impadroniva della steppa calando verso il buio illuminato solamente da un mare di neve, faceva tanto freddo, un altro giorno se ne stava andando ma la nostra meta era ancora lontana. Un giorno camminando insieme ad un gruppo di alpini della mia zona abbiamo incrociato un carro armato russo che si avvicinava con la bocchetta aperta e con un soldato che sporgeva sparando con il suo mitra, mi sono subito riparato dietro un’isba, la classica casa russa con il tetto di paglia, l’ho aspettato e quando si è avvicinato ho lanciato una pietra colpendolo sulla fronte, per fortuna il carro si è girato e si è allontanato. Il mio cappello alpino era andato perduto durante un assalto dei Russi, ma l’ho prontamente sostituito con un pezzo di coperta legato sulla testa, altrimenti mi congelavo anche il cervello.

La steppa gelida fagocitava gli invasori alpini in un abbraccio mortale mentre la bufera imperante li perseguitava con il vento gelido dell’est, era Gennaio,

196

pieno inverno.

I magazzini viveri li avevano presi i Russi e così quelli delle coperte e del carburante, avevamo anche problemi di orientamento per ritirarci, gli Ufficiali ci avevano istruito di seguire la direzione Nord-Ovest ma senza bussole come facevamo a trovarla?

Per fortuna mi sono ricordato che qualche anno prima avevo lavorato nei boschi in montagna e un vecchio del posto mi aveva insegnato a orientarmi attraverso il muschio che cresceva sugli alberi e così ho fatto.

Camminavamo di giorno ma anche di notte se non si incrociavano villaggi dove fermarsi per riposare, una volta abbiamo proseguito per quarantotto ore di seguito, non si trovavano isbe dove poterci riparare e chi si fermava all’esterno moriva assiderato dopo pochi minuti.

Tenevamo il contatto a vista con la colonna in ritirata camminando parallelamente per evitare di incontrare i Russi, sapevamo che puntavano sui grossi gruppi, per questo noi alpini della Julia procedevamo in piccoli gruppi di soldati originari della stessa zona, per aiutarci a vicenda in caso di bisogno. La bufera intanto imperversava da due giorni seppellendo ogni punto di riferimento e trasformando la steppa in un gelido bianco oceano, chilometri e chilometri da coprire alla disperata, camminando in quella neve maledetta, un passo davanti all’altro senza fermarsi, con il fiato che si gelava ancora prima di uscire dalle labbra.

Le gambe erano stanche, lo stomaco vuoto, la mente impazziva pensando alla meta che sembrava irraggiungibile, un miraggio sfocato che fluttuava tra quei giovani tramortiti dalla fame e dal gelo.

Avevamo qualche scatoletta di carne nello zaino ma era congelata, impossibile mangiarla e pure il pane, non si tagliava con la baionetta, abbiamo provato a farlo a pezzi con l’accetta tentando poi di scioglierli in bocca ma l’unico risultato che abbiamo ottenuto è stato quello di congelarci anche la lingua.

La sola cosa che potevamo utilizzare erano quelle poche gallette che avevamo al seguito, si potevano sbriciolare e sciogliere in bocca, ma erano poche.

Un giorno siamo arrivati in un villaggio ma erano già passati i Tedeschi qualche giorno prima, le isbe erano state svuotate, per fortuna rovistando dentro una baracca ho trovato un favo di miele, quella è stata la mia salvezza perché mi ha fornito l’energia necessaria per proseguire anche nei giorni successivi.

Il paesaggio era di un bianco sconfortante, infinito e accecante, il cielo e la terra si confondevano all’orizzonte, le nostre condizioni erano sempre più disperate, quella notte la temperatura era scesa a quarantadue gradi sotto zero, ma dovevo andare avanti, avevo promesso a mia madre che sarei tornato, non potevo mollare.

In quelle condizioni eravamo costretti ad abbandonare i feriti gravi, non guarivano con quelle temperature e noi non avevamo la forza di trascinarli

197

avanti.

Un giorno ho incrociato due fratelli dei quali uno era ferito gravemente, l’altro non voleva abbandonarlo, è passato un Ufficiale che ha convinto quello sano a mollare l’altro fratello dicendogli che in quel modo la loro madre avrebbe potuto abbracciare almeno uno dei due figli, purtroppo quella era la dura legge della steppa.

Perfino il sacro rito della sepoltura era stato sospeso, la terra era congelata e dura e noi non avevamo più la forza nemmeno per proseguire.

La sosta nelle poche isbe che incontravamo durava al massimo tre o quattro ore, per dar modo anche agli altri compagni che arrivavano dopo di noi di potersi riposare.

Da qualche giorno ci eravamo accorti che gli scarponi non tenevano più, facevano entrare la neve, il piede si gonfiava e non si potevano togliere; abbiamo escogitato un sistema, con la baionetta tagliavamo la suola, poi facevamo a fettine la parte superiore e una volta liberati i piedi ce li massaggiavamo a vicenda con l’antigelo dei motori, viene da ridere solo a pensarci, ma funzionava se il congelamento era appena iniziato, altrimenti eri spacciato.

Poi per sostituire gli scarponi mettevamo un pezzo di coperta ai piedi legandolo con lo spago all’altezza delle caviglie, era l’unico modo per poter proseguire. Un giorno abbiamo trovato un’isba dove poterci fermare ma ci siamo accorti che dalla fessura della porta usciva del sangue, i Russi erano passati di notte, da quel momento abbiamo cercato di evitare le case riparandoci in baracche, pagliai e ricoveri vari. La sera dopo ho trovato un pagliaio dove potermi riposare, ho scavato una nicchia nella parte bassa, mi sono disteso sotto e ho messo un po' di fieno sopra le gambe per ripararle dal gelo. Dopo qualche ora svegliandomi mi sono accorto che non riuscivo a muoverle, qualcuno era passato dopo di noi e mi aveva rubato il fieno per ripararsi, in questo modo erano rimaste scoperte.

I miei compagni hanno preso l’antigelo e iniziato a massaggiarle ma invano, non le sentivo, dopo un po' cominciai a notare qualche stimolo ma non riuscivo a camminare, per fortuna in quel momento è passata una slitta trainata da uno dei nostri muli, purtroppo era già carica di feriti, dovetti quindi procedere alternando tratti sulla slitta e tratti a piedi trascinato dai miei compagni, in quel modo verso sera le mie condizioni erano migliorate permettendomi il giorno dopo e con l’ennesimo massaggio, di riprendere il cammino. Dovevamo continuare, il miele mi stava dando un po' di energia necessaria per proseguire, tant’è che l’ho diviso anche con gli alpini del mio gruppo. In quei momenti tragici la mente impazziva, forse era una difesa contro il dolore, in questo modo ci riportava ai dolci ricordi della famiglia, al caldo tepore delle nostre case, ma improvvisamente ci pensavano gli occhi a farci tornare alla realtà, mentre le speranze si afflosciavano giorno dopo giorno

198

e nel dolore la vita sembrava raggomitolarsi su sè stessa allontanandosi dal nostro corpo.

Un giorno siamo arrivati in una “balka”, un avvallamento del terreno tra due basse colline, i Russi erano sopra di noi, in un attimo ci hanno circondati e presi prigionieri, ci hanno messo insieme ad un altro gruppo in cui c’erano anche due Tedeschi, li hanno separati ed eliminati subito con una raffica, in quel momento pensai: “ora tocca a noi”.

Guardai verso l’azzurro, respirai l’ultima boccata di ossigeno degli uomini ancora liberi e mi preparai al grande balzo incontro all’infinito.

Inaspettatamente ci hanno portati in una specie di stalla chiudendoci dentro e mettendo due sentinelle di guardia che si alternavano tre volte al giorno a causa del freddo, aspettavamo che iniziasse l’inferno del “Davai”, la marcia dei prigionieri di guerra verso la Siberia.

Dopo due giorni, verso l’alba abbiamo sentito alcuni spari e qualche colpo di mortaio, erano alpini della Tridentina che stavano avanzando in ritirata, dalle fessure della porta abbiamo notato che le guardie erano scappate, a quel punto con le nostre baionette abbiamo fatto dei buchi sulla porta in prossimità della serratura, poi con una spinta l’abbiamo sfondata, una volta usciti verso la libertà abbiamo chiamato i nostri colleghi in ritirata, proseguendo con loro nell’infinita colonna fino a Nikolayewka.

Anche quella volta ci è andata bene.

Erano dieci giorni che camminavamo in quelle condizioni, ma peggioravano sempre più, avanzavamo ormai barcollando in quell’inferno di ghiaccio senza renderci conto dell’immensità dello spazio che ci circondava e del tempo che passava.

Quella notte non ci siamo fermati, abbiamo continuato il cammino, non riuscivamo a trovare nessun villaggio, né baracche o pagliai, nel buio illuminato solamente dal bianco della neve e senza punti di riferimento era difficile tenere una direzione che fosse quella giusta per tornare a casa, il vento gelido era carico di cristalli di ghiaccio ma fermarsi significava morire congelati, ne avevo visti troppi che avevano fatto quella fine, ci siamo appoggiati gli uni agli altri e abbiamo proseguito come fossimo un solo uomo.

A quel punto erano già diversi i gruppi ormai sbandati che si erano aggregati alla colonna, la quale andava ingrossandosi e dividendosi in molti rivoli.

In uno di questi rivoli c’eravamo anche noi che continuavamo a camminare con la testa bassa e lo sguardo perso nel vuoto, ma in questo modo il giorno dopo ci siamo accorti che eravamo tornati nel punto dove eravamo passati due giorni prima, ci assalì la disperazione, non c’erano Ufficiali nel gruppo, il più alto in grado era un caporale, non avevamo mappe né bussole al seguito, ma orientandomi con il sole come mi aveva insegnato mio padre qualche anno prima sono riuscito a ritrovare la giusta direzione e salvare tutto il gruppo.

199

In questo caso abbiamo avuto una doppia fortuna, perché abbiamo ritrovato la giusta rotta da seguire e poi perché, a causa del ritardo, siamo arrivati a Nikolajewka quando la colonna aveva già sfondato il blocco Russo subendo grosse perdite.

Era l’ultima sacca, da quel momento potevamo considerarci in salvo, anche se mancavano ancora quattro giorni di cammino per arrivare a Leopoli dove avevano allestito un ospedale militare per accoglierci e curarci.

Eravamo in condizioni pietose, feriti, congelati, pieni di pidocchi e molti con il tifo a causa di questi, ma con una voglia di vivere che nessuno poteva fermare, è come quando si dissolve la foschia e davanti a noi tornano nitidi i contorni delle case, riprendono vita i volti dei compagni, i suoni, i sentimenti che prima erano nascosti e profondi.

Eravamo rimasti in pochi, la maggior parte dei compagni mandati in quell’avventura artica si era persa nella notte della steppa gelata.

Ma noi eravamo vivi.

Ora mi resta la memoria, i ricordi di chi non c’è più, i dolori dovuti ai congelamenti subìti, le paure ancestrali affiorate all’improvviso, posso fermarmi per ricordare, per risvegliare sentimenti capaci di ammaestrare il presente.

La memoria è uno dei nostri valori alpini che ci ostiniamo a portare avanti, illudendoci che qualcuno continui a seguirci, a ricordare il passato per istruire il futuro, per portare avanti i nostri valori di civiltà, di sacrificio, di dedizione che sono il fondamento di una Nazione. Quando parliamo orgogliosi dei nostri alpini del passato e delle loro storie drammatiche non lo facciamo per retorica, ma “per non dimenticare”, come recita il nostro motto alpino, affinché gli errori del passato non debbano mai più ripetersi”.

200

Il dizionario tascabile

- Non è possibile! - Esclamai nervosamente. – È da ieri che lo cerco! Dove diavolo l’avrò lasciato?

Era la prima volta, da quel lontano primo settembre del ’39, che mi separavo da quel libro... un libro, semplicemente un dizionario tascabile Italiano –Francese, regalatomi dalla cara cuginetta Martine. Pensare che era stato il mio fedele ed inseparabile compagno per tutta la vita e grazie ad esso avevo imparato il Francese. L’avevo portato perfino in guerra e.… in quell’istante squillò il telefono. Fortunatamente fui distolto dai ricordi che da un po’ di tempo avevano preso il sopravvento nei miei pensieri. Era la direttrice dell’archivio di Stato che m’informava di avere rintracciato quella tal pergamena del 1048 che stavo cercando da diversi giorni.

Finalmente una buona notizia! Giusto il tempo di cambiarmi d’abito ed in pochi istanti mi trovai fuori di casa, diretto all’archivio. La distanza da coprire era di qualche centinaio di metri così, per via del mio lento passo claudicante, ebbi modo di analizzare ogni mio movimento del giorno precedente, cercando quindi di capire dove avevo dimenticato il dizionario.

Non ero stato in altri luoghi all’infuori dell’archivio di Stato e della biblioteca civica.

“Già, pensai, potrei averlo lasciato proprio sulla mia scrivania, però è strano... forse sto invecchiando...”. Decisi di passare prima in biblioteca e poi raggiungere l’archivio, considerando che i due edifici erano a pochi isolati l’uno dall’altro. Avrei dato una rapida occhiata alla mia postazione privilegiata (da anni, infatti, mi era stato assegnato un piccolo locale) e lì avrei sicuramente ritrovato il mio fedele dizionario, caro, vecchio inseparabile compagno... indelebile ricordo di Martine.

Martine, già... Martine... erano passati ormai troppi anni da quella breve ma intensa vacanza a casa dei cugini... sessanta... settanta. Più di settanta!

Lo sgomento per una lontananza rivelatasi improvvisamente in tutta la sua profondità.

“Non è possibile... un’intera vita volata via in un solo istante...” Mi sentii addosso una strana inquietudine: sicuramente dipendeva da quei pensieri, la cruda realtà del tanto tempo passato, la struggente nostalgia legata a quei ricordi. Così mi fermai proprio a ridosso di una colonna dei portici dell’antico centro cittadino. Vidi in quel momento alcune persone che presero a correre

201
Le doctionaire de poche Mauro Caneparo da San Nazzaro Sesia (NO)

verso di me. “Beh, che succede?” Pensai riprendendo il cammino. A malapena riuscii a scansarle.

“Che modi! E per cosa?” Mi volsi a guardare dove si erano fermate. Ad un paio di metri dietro le mie spalle, ai piedi di una colonna, giaceva un vecchio. “Poveretto, sicuramente un malore... certo che a quell’età...” Notai accanto a lui una borsa verde scuro con le cinghie di pelle marrone. “Pare proprio la mia!” Ma la mia borsa, identica all’altra, era ben salda tra le mie mani. Altra gente si raccolse in poco tempo attorno a quel corpo. Io, invece, proseguii risoluto verso il seicentesco edificio che ospitava la biblioteca. Salii lentamente l’ampia scalinata che conduceva al primo piano dove, in un angusto locale adiacente alla balconata interna, era situata la mia postazione di lavoro da oltre cinquant’anni. Stranamente non incontrai nessuno. Neppure il personale della biblioteca. A quell’ora di mattina, erano quasi le dieci, le sale di lettura erano sempre affollate e gli addetti non avevano un attimo di tregua. Entrai nel mio studiolo. Sulla scrivania, tra alcuni libri aperti, lasciati il giorno precedente, ritrovai il mio dizionario tascabile.

Lo presi delicatamente tra le mani e lo accarezzai... la sensazione delle carezze tra i lunghi capelli scuri di Martine, poi lo strinsi forte al petto... l’ultimo abbraccio della cuginetta alla stazione di Modane, infine lo baciai... la bocca di Martine sulle mie labbra, nell’unico bacio che mi portai sempre nel cuore... Nell’agosto del ’39 avevo trascorso una decina di giorni di vacanza a casa dei cugini francesi.

Abitavano in un casello ferroviario nei pressi di Freney, ad un paio di chilometri da Modane, poco distante dal confine italiano, lungo la linea internazionale che portava a Grenoble. Lì conobbi Martine, figlia di mio cugino Jean. Era una ragazzina semplice, il volto sempre sorridente e con tante lentiggini che la rendevano graziosa. Martine aveva diciannove anni, di quattro più giovane di me. Non conosceva una sola parola d’Italiano, ed io non capivo nulla di Francese, ma ci s’intendeva ugualmente. Eravamo sempre in giro in bicicletta lungo le strade della verdissima vallata, dolcemente percorsa dalle limpide acque dell’Arc, oppure a piedi in lunghe camminate per i boschi. Martine parlava ed io, lentamente, cominciai a capire il senso di ciò che diceva; in fondo, le due lingue si somigliano abbastanza. Le promisi che al mio rientro in Italia avrei studiato il Francese. Più stavo con Martine e più sentivo dentro una vaga sensazione di... Quei pochi giorni di vacanza furono talmente intensi e spensierati che svanirono in un attimo: mi ritrovai alla stazione di Modane per salire su quel treno che mi avrebbe riportato a casa. Raggiungemmo la stazione con la sola bicicletta di Martine. Io a pedalare e lei seduta sul portapacchi posteriore. Mi cingeva la vita con un braccio ed il suo

202

viso si appoggiava alla schiena. Sentivo il calore del suo respiro e ne intuivo le labbra socchiuse... quante cose avrei voluto dirle!

Mancavano solo pochi minuti alla partenza. Martine mi teneva silenziosamente per mano: aveva le calze bianche arrotolate alle caviglie, una gonna nocciola fin sotto il ginocchio, una leggera camicetta a quadretti, un fazzoletto di seta al collo ed un nastro bianco a legare i lunghi capelli scuri. Mi porse un pacchetto : - C’est pour toi, un petit porte-bonheur. Ci guardammo teneramente negli occhi e capii... ci abbracciammo forte e ci baciammo. Un bacio breve ma intenso e mi ritrovai sul treno che già si stava avviando e che mi allontanava sempre più da Martine. - Je t’aime cousin! – Gridò, correndo lungo il marciapiede. - Anch’io, cuginetta! - Urlai dal finestrino. Avrei voluto buttarmi giù da quel convoglio in corsa per stare con lei, per vivere sempre con lei.

Avevo tra le mani il pacchetto di Martine. Lo scartai delicatamente: era un dizionario tascabile Italiano-Francese. Iniziai a sfogliarlo, cercando in Francese le parole che non ero riuscito a dire neppure in Italiano. Notai, nell’ultima pagina bianca, una serie di numeri scritti a matita. Chissà cosa significavano?

Tornato a casa, non ebbi neppure il tempo per scrivere a Martine né ricevere sue lettere. In quello stesso giorno, infatti, le lunghe ombre della guerra oscurarono il mondo.

Fui subito richiamato e tra i primi a partire. Il dizionario si rivelò come il “porte-bonheur” che Martine aveva auspicato. Quando mi amputarono le dita congelate dei piedi, strinsi forte tra i denti quel “porta-fortuna” che mi consentì di tornare dalle steppe di neve. Anche quella mi rimase per sempre nel cuore.

Nei lunghi giorni di angoscia, scoprii il significato di quei numeri nel foglio bianco: ad ognuno di essi corrispondeva una pagina con una parola segnata da un punto a matita. Era il messaggio di Martine: avrebbe voluto vivere sempre accanto a me... per l’eternità.

Ecco la forza che mi spronò al ritorno!

Cercai Martine alla fine del conflitto e la trovai... la trovai assieme ai cugini al cimitero di Modane, tra i civili caduti sulla linea del fuoco. Il nostro!

Dedicai tutta la vita alle ricerche storiche. Una fuga? Sì, una fuga decisamente voluta: correre sempre più indietro nel tempo per allontanarmi il più possibile dal presente.

Ormai è tutto chiaro: riprendo il dizionario tascabile e lo accarezzo amorevolmente. So che mi sta accompagnando al giudizio... “ho terminato il mio compito, Signore...” e mi avvio verso quel corridoio che conduce alle immense sale d’archivio. Le sue lunghissime pareti sono tappezzate di scaffali pieni di libri... Dio mio, quanti... che peccato non aver mai avuto il tempo per leggerli...

203

Proprio in fondo al corridoio s’intravede una porta che dà sull’esterno, forse un giardino, un parco inondato di luce ed accarezzato da quella leggera brezza primaverile che ti riempie il cuore di giovanili entusiasmi e pare condurti ad una nuova stagione di vita... ... e ti svela i confini del tempo... la lontananza alle spalle, il tempo finito... davanti, una sensazione di eterno, il tempo infinito... ...ed in quella luminosità diffusa ecco venire verso di me una figura vestita secondo l’usanza di sessanta, settant’anni fa: le calze bianche arrotolate alle caviglie, una gonna nocciola fin sotto il ginocchio, una leggera camicetta a quadretti, un fazzoletto di seta al collo ed un nastro bianco a legare i lunghi capelli scuri. Ci guardiamo teneramente negli occhi ... - Eccomi, sono arrivato... excuse moi... je suis arrivé ...

204

«Mi chiamo Edoardo Chiave e sono il nonno paterno di chi sta scrivendo questa storia sotto mia detta-tura. Tutti gli eventi qui narrati corrispondono a realtà anche se, per alcuni di essi, sono stato influenzato dalla mia immaginazione» Nota dell’autore

Ho potuto scrivere di tutti gli eventi storici riguardanti il 54° reggimento e il 48° reggimento fante-ria consultando il sito www.storiaememoriadibologna. it e Wikipedia. Molte cose narrate sul nonno Edoardo sono frutto della mia fantasia, ma i dati essenziali sono stati desunti dai certificati in mio possesso che troverete alla fine del libro. In particolare dallo stato matricolare che riporta le varie tappe militari del nonno.

La ruota

È il 1° dicembre 1882 a Moncalvo d’Asti. Serata fredda in questa cittadina circondata dai vigneti del Monferrato dove si produce un ottimo barbera. L’inverno quest’anno è stato inclemente per tutto il nord Italia. Già in autunno, a settembre, l’alluvione del Polesine aveva causato numerosi morti e una grave carestia.

Come ogni sera il cappellano Don Giovanni Carao dell’ospedale di San Marco, adiacente alla chiesa che porta lo stesso nome, controlla il portone dell’ospedale per vedere che sia ben chiuso. Fa anche un breve giro per verificare che qualche intruso non si sia nascosto nel sottoscala per sottrarsi al freddo dell’inverno o per rubare qualche cosa dalla cucina. Sono quasi le undici di sera e Don Giovanni si avvia stancamente verso il suo alloggio, pensando alla notte di riposo che darà sollievo ai dolori reumatici riacutizzatisi, in mo-do preoccupante, negli ultimi mesi. Entrato nella sua cameretta, arredata solo di un letto, un inginocchiatoio e un piccolo armadio, si accinge a togliersi la tunica quando il suono ben noto di una campanella lo fa arrestare. Alza gli occhi al cielo ed esclama “Buon Dio, ecco un altro piccolo frutto del peccato” La campanella è quella che viene automaticamente azionata quando la cosiddetta “Ruota degli esposti” riceve un ospite. Vale a dire un neonato abbandonato dai genitori. Il cappellano si riveste in fretta e corre verso il corridoio del piano terreno che conduce in una piccola camera dove, nella parete di sinistra, è situata la ruota. Si tratta di una bus-sola girevole cilindrica in legno, suddivisa in due parti, una all’esterno e una all’interno, chiusa da uno sportello, dove si può depositare il nascituro senza essere visti. Don Giovanni apre lo sportello e un neonato esprime tutto il suo disappunto per il freddo

205
Nonno Edoardo Emilio Chiave da
Roma ■

con un pianto irrefrenabile, probabilmente dettato anche dalla fame.

Il sacerdote controlla se nella piccola cassetta sotto la feritoia presente accanto alla ruota, la madre abbia lasciato qualche oggetto o documento. A volte, in prospettiva di un successivo riconoscimento, i genitori lasciano qualcosa che permetta loro di poter rivendi-care tale diritto. In questo caso Don Giovanni non ha trovato nulla. Dopo aver accertato che si tratta di un maschietto, lo porta in una saletta dove è presente una piccola e semplice culla per questi casi, in verità abbastanza frequenti.

Il cappellano, dopo essersi assicurato che il piccolo sia ben coperto, si infila il pastrano ed esce per andare a svegliare Giuseppina Gambino, la levatrice, che abita a due strade dalla chiesa. Fa freddo e comincia a cadere qualche fiocco di neve. Giuseppina sa perfettamente il motivo per il quale il cappellano bussa alla sua porta a quell’ora tarda. Non chiede nulla: prepara la bottiglietta con tettarella piena di latte caldo e dei panni di cotone per cambiare il neonato. Arrivati in ospedale, mentre Giuseppina calma il pianto del bimbo dandogli il latte caldo che il bimbo finisce in un batter d’occhio, il primo compito che spetta al sacerdote consiste nello stilare il verbale di ritrovamento che poi servirà per la registrazione allo stato civile. Don Giovanni scrive: “Il sottoscritto, cappellano dell’ospedale di San Marco eretto in questa città, fa stato all’ufficiale dello stato civile che alle ore undici pomeridiane del primo del mese di dicembre milleottocentottantadue è stato raccolto nella ruota di detto ospedale un bambino di sesso maschile dall’apparente età di un giorno munito di due cuffietti l’uno di cotone e l’altro di lana lavorato al Kroché, avviluppato in una pezza di tela canapina logora ed un altro straccio di tela e legato con una pezza di fascia di cotone sdrucita. Non aveva segni particolari”

Dalla descrizione possiamo solo desumere che la madre deve aver abbandonato il figlio per mancanza di mezzi di sostentamento, vista la condizione dei pochi indumenti indossati dal neonato.

Dopo averlo descritto, resta solo un ultimo compito che Don Giovanni e Giuseppina Gambino devono assolvere: dare un nome al bimbo. Qui la loro decisione è coperta da un velo di mistero: decidono di dare al bimbo il nome di Edoardo e, fin qui nulla di strano. Ma per cognome scelgono Chiave. Come noto, ai neonati abbandonati nelle ruote venivano assegnati cognomi in un certo senso distintivi della loro situazione: Esposito, Diotallevi, Degli Esposti, Sperandio, Proietti. Ma il cognome Chiave che c’azzecca, come direbbe un noto personaggio politi-co? Su questa scelta permarrà per sempre il mistero.

Subito dopo quest’ultimo compito, Don Giovanni si reca nella vicina chiesa di San Mar-co dove Padre Giovanni Camurati provvede a battezzare Edoardo alla presenza della levatrice Giuseppina che gli fa da madrina. Ecco, questo, in breve, è l’inizio della mia vita terrena.

206

Vent’anni dopo

Non posso dire di essere stato sfortunato. Mi hanno ospitato in un orfanotrofio dove so-no stato allevato insieme a tanti altri bimbi che condividevano il mio destino di figlio di N.N. Mi hanno insegnato a leggere e scrivere ed ero un allievo abbastanza diligente tanto che, all’età di diciassette anni, quando mancava un mese all’inizio del nuovo secolo, un commerciante di stoffe di Moncalvo mi ha preso come apprendista nel suo negozio e ha iniziato a insegnarmi il mestiere.

Il 21 giugno del 1902 sono stato iscritto alle liste di leva di Casale Monferrato e l’anno dopo, il 26 marzo, sono stato chiamato alle armi. Giunto al distretto di Casale, sono stato assegnato, in data 2 aprile, al 67°reggimento fanteria di stanza a Treviso. Appena arrivato, mi hanno mandato al deposito per la vestizione e poi assegnato al terzo plotone. Molti dei miei camerati vengono dal sud e faccio molta fatica a capire i loro dialetti; comprendo solo che molti sono arrabbiati con lo Stato perché hanno dovuto lasciare la famiglia senza sostentamento e altri sono felici perché qui riescono ad avere due pasti al giorno. Il servizio militare è durato meno dei tre anni previsti. Mi hanno congedato il 13 settembre 1905 e alla fine di ottobre mi hanno dato il certificato di buona condotta e l’attestato per votare. Sono tornato a Moncalvo e ho ripreso il mio posto nel negozio di stoffe. In questo periodo, per evitare il previsto richiamo alle armi per istruzione, come mi aveva suggerito il mio comandante, mi sono iscritto alla società di tiro a segno di Casale Monferrato. Per ottenere l’idoneità e l’esonero, ho dovuto frequentare tutte le otto lezioni e totalizzare nelle ultime sei almeno 46 punti. Sono riuscito ad ottenerne 50. Per fortuna il mio datore di lavoro si è fatto carico del pagamento delle tre lire per l’iscrizione. Il proprietario del negozio mi ha dato molta fiducia e nel 1906 mi ha incaricato di andare a New York per imparare le nuove tecnologie di tessitura del cotone adottate negli Stati Uniti. Sono partito il 14 giugno e sono rimasto laggiù per un anno. È stata una notevole esperienza che mi ha consentito, al rientro in Italia, di allargare la mia attività in altre zone manifatturiere del Piemonte, in particolare nel biellese dove ho incontrato la mia fu-tura sposa.

Mi sono unito in matrimonio con Emilia Boffa Lero Bignolin il 13 novembre 1909 a Quittengo e siamo andati a vivere a Biella. Qui non ho potuto proseguire la mia attività di negoziante di stoffe, nonostante la mia esperienza. In compenso mi hanno offerto un lavoro da vetturale. Trasporto merci varie da Biella ai comuni limitrofi. Un anno dopo il matrimonio è nata la nostra primogenita, Caterina, e nel 1912 è arrivato Giovanni. Pur-troppo non mi sono goduto molto i miei figli: infatti il 24 ottobre 1915 sono stato richia-mato in guerra.

La guerra

207

Mi hanno assegnato al 54° reggimento fanteria che si trova già al fronte, ma non mi dicono qual è la mia destinazione. Partiamo numerosi da Biella su una tradotta colma di reclute che salutano i propri cari. Anche Emilia è venuta alla stazione con Caterina per mano e Giovanni in braccio: non ci sono parole, solo profonda tristezza consapevoli entrambi che quello potrebbe essere un addio.

Mi guardo intorno e vedo che molti sono più giovani di me. Fra poco più di un mese compirò trentatré anni, l’età di Gesù. Speriamo che sia di buon auspicio. La maggioranza sembra avere meno di trent’anni: alcuni sono felici di andare in guerra per difendere la patria e intonano canti patriottici. Il viaggio è lunghissimo e passiamo il tempo raccontandoci le nostre storie. Molti aprono i pacchetti che i parenti hanno dato loro con pagnotte, salumi e formaggi. Non mancano i fiaschi di vino. Sembra di essere a un picnic. Ancora non ci rendiamo conto di quello che ci aspetta. Dopo moltissime ore e varie soste sul percorso per far salire altri coscritti, arriviamo a destinazione. Dal finestrino scorgiamo la stazione di Cortina d’Ampezzo. Ci fanno scendere e un ufficiale, credo si tratti di un tenente, coordina il raggruppamento di tutte le reclute per condurci al deposito del reggimento. Qui ci forniscono tutta l’attrezzatura e il vestiario. Giberne, gavetta, tascapane, l’uniforme grigio verde, biancheria e scarponi, coperta, zaino ed elmetto. Le armi e le munizioni ci verranno assegnati successivamente. Coloro che hanno già prestato servizio militare vengono separati dagli altri che dovranno seguire un corso accelerato. Passiamo qualche giorno al comando del reggimento a Cortina in attesa di essere desti-nati in territorio in stato di guerra. Sappiamo che i reparti avanzati del 54° reggimento si trovano in Val Popena, ma per il momento non ci muoviamo ancora. Nel frattempo, sono diventato abbastanza famoso presso i miei commilitoni in quanto so leggere e scrivere. Moltissimi di loro sono analfabeti e si rivolgono a me per leggere le lettere ricevute dai loro cari e per scrivere le risposte. Purtroppo ho grosse difficoltà a comprendere alcuni di loro che parlano unicamente i dialetti del sud Italia. A metà novembre circola voce che saremo riassegnati a un altro reggimento. Si parla del 48° reggimento “Ferrara” che si trova sul fronte del Carso. Infatti raggiungiamo con i camion Conegliano e proseguiamo con una tradotta verso Udine dove giungiamo il 20 novembre. Il tempo di riorganizzare i plotoni e poi si inizia la marcia per raggiungere Cavenzano, a trenta chilometri, dove il 48° ha una base arretrata. Giungiamo il 23 no-vembre e troviamo un campo con numerosi feriti provenienti dalla prima linea dov’è in corso quella che qui chiamano la quarta battaglia dell’Isonzo. Ci raccontano che il II battaglione è

208

duramente impegnato presso la Cima 4. Il giorno dopo arriva la bella notizia che siamo riusciti a sfondare la trincea nemica “Superiore” conquistando un ridotto e facendo 500 prigionieri. Purtroppo dobbiamo anche contare forti perdite umane: 1400 morti tra cui 76 ufficiali.

È il nostro momento: il II battaglione viene fatto ripiegare per un meritato riposo e noi ci prepariamo per sostituirli. Vengo chiamato dal mio comandante, un giovane tenente, il quale, visto il mio foglio matricolare e il mio punteggio al tiro a segno, mi affida l’incarico di tiratore scelto, quelli comunemente chiamati cecchini riferendosi ai tiratori sudditi di Cecco Beppe. Mi informa che, purtroppo, i nostri fucili Carcano mod. 91 non sono ancora dotati di cannocchiale come quelli austriaci, ma che il comando sta provvedendo. Arriviamo in prima linea il 26 novembre giusto in tempo per salutare gli ultimi uomini del II battaglione che tornano nelle retrovie. Il primo impatto con le trincee è devastante. Migliaia di uomini accalcati in camminamenti colmi di fango dove il freddo è insopportabile. La mantellina in dotazione ripara poco e il pastrano, inzuppato di pioggia, diventa di ghiaccio. Per non parlare delle con-dizioni igieniche: l’acqua è razionata, viene distribuita in piccola quantità solo per bere. In questa situazione i topi e gli insetti proliferano, portando malattie come la dissenteria e il tifo petecchiale. Di giorno l’artiglieria nemica non ci dà tregua: il rumore assordante delle bombe che scoppiano in continuazione ci stordisce e ci massacra i nervi. La paura non ci lascia mai e ogni mattina preghiamo di riuscire a vedere il tramonto. Davanti a noi lo spettacolo è terribile: i cadaveri dei nostri compagni giacciono in quella che si chiama terra di nessuno e il tanfo di morte ha impregnato tutto ciò che ci circonda.

Nel mio ruolo di cecchino, ho la fortuna di non partecipare agli assalti periodici fuori dalle trincee. Attacchi che il più delle volte si risolvono in un massacro. Le mitragliatrici nemiche non lasciano scampo.

Durante questi attacchi, ho una postazione dalla quale, con adeguata copertura, posso puntare il mio fucile verso le trincee austriache e, quando riesco a inquadrare un nemico, il più delle volte non gli lascio scampo. Se avessi, come loro, un cannocchiale potrei essere molto più preciso. Siamo quasi a metà dicembre e manteniamo la posizione fra la Cima 4 e San Martino. In questo momento è il freddo il peggior nemico. Entrambi gli schieramenti hanno deciso di sospendere gli attacchi frontali, mantenendo un sostenuto fuoco d’artiglieria.

Stiamo in questa situazione fino alla primavera del 1916 quando lanciamo la quinta battaglia dell’Isonzo. Facciamo molti prigionieri, ma non avanziamo molto.

Fino all’estate calma relativa, poi - alle 5,15 del 29 giugno - dalle trincee di San Martino e di San Michele gli austroungarici aprono bombole di gas fosgene

209

mescolato a cloro. È un momento terribile: il vento spinge i gas verso l’ala sinistra e il centro del nostro schiera-mento mentre io mi trovo sul lato destro. I miei compagni cercano di sottrarsi alla nuvola tossica, ma senza maschere non c’è nulla da fare. È un massacro: prima di morire li vedi contorcersi per le gravi ustioni e per l’impossibilità di respirare. Chi è solo ferito viene finito dai soldati ungheresi con le mazze ferrate. Mentre le truppe colpite dai gas arretrano per cercare riparo, noi, dal lato destro, contrattacchiamo aggirando il nemico per evitare il peggio. Se qualcuno di loro si arrende, non abbiamo alcuna pietà e la sua fine è segnata; la rabbia è tanta e non si fanno prigionieri. Nel pomeriggio il vento cambia direzione e i gas, democraticamente, investono le trincee austroungariche dandoci un po’ di respiro. Alla sera la situazione territoriale è rima-sta uguale a quella del mattino, ma noi lamentiamo oltre 7000 vittime. Pochi giorni fa mi hanno chiamato al comando che si trova nella trincea di retrovia. Il capitano mi ha dato una buona notizia. Finalmente anche noi abbiamo in dotazione un fucile con cannocchiale: si tratta sempre del Carcano mod. 91 modificato per poter inserire un cannocchiale prodotto dalla Filotecnica Salmoiraghi di Milano. Mi hanno fatto un corso accelerato per l’inserimento e la taratura e mi hanno raccomandato di averne la massima cura. Dopo l’uso, devo sempre riporlo nella sua custodia di pelle ed evitare colpi che potrebbero danneggiarlo. Inoltre mi hanno detto che d’ora in avanti dovrò es-sere accompagnato da un altro milite che, in caso io venga ferito o ucciso, ha il compito di riportare l’arma al comando. In agosto, con la sesta battaglia dell’Isonzo, riusciamo a conquistare la Cima 4 di San Mi-chele, ma subiamo molte perdite: circa 2700 uomini fuori combattimento. Anche con la settima battaglia, a metà settembre, e con l’ottava a ottobre non otteniamo molti risultati: piccole conquiste territoriali, ma con gravi perdite umane.

Ora, con la mia nuova arma, sono alla pari con il nemico austriaco. Finalmente riesco a individuare il più piccolo movimento e a colpire con precisione.

L’importante, per un tiratore scelto, è cambiare immediatamente posizione dopo ogni tiro per evitare di esse-re individuati dal nemico. Mi segue un soldato che si chiama Giovanni, come mio figlio. È un ragazzo di ventidue anni di Treviso. Stiamo bene insieme.

Anche questo inverno, le operazioni di guerra subiscono un rallentamento e noi ci occupiamo di rafforzare le nostre difese. Veniamo dislocati a Palmanova per un riordino e per istruzioni.

Nei primi mesi del 1917 non ci sono grandi operazioni a parte qualche attacco nemico prontamente respinto. A maggio si svolge la decima battaglia dell’Isonzo: cerchiamo di sfondare le linee nemiche, ma veniamo respinti e dobbiamo tornare sulle nostre posizioni. In agosto inizia la battaglia

210

della Bainsizza e riusciamo ad avanzare catturando 800 prigionieri e molte mitragliatrici.

La vita di trincea alternata ai continui attacchi ha messo ormai a durissima prova la no-stra resistenza nervosa: quelli considerati “duri”, soffrono di convulsioni, tremori, vomi-to e profonde prostrazioni. Gli altri, i più deboli e sensibili, non resistono e possono arrivare alla follia e al suicidio. Chi invece cerca di fuggire di fronte al nemico o disertare, ha il destino segnato: viene fucilato sul posto.

Caporetto

La dodicesima battaglia, altrimenti chiamata disfatta di Caporetto, è quella che ha segna-to la tragedia italiana. L’esercito austriaco ha sferrato l’attacco alle ore 2 del 24 ottobre coadiuvato da ingenti truppe tedesche. Ci respingono oltre il Tagliamento fino al Piave e subiamo numerose perdite.

Da novembre fino a febbraio 1918 ci attestiamo nei pressi di San Donà, ma gli austriaci non demordono e, dopo aver spianato la nostra prima linea con l’artiglieria, oltrepassa-no il Piave e ci fanno retrocedere. Sono stanco e non ce la faccio più. È il 15 giugno 1918. Il mio plotone è rimasto isolato rispetto al resto del battaglione. Io sono appostato, con Giovanni, in un cratere col mio fucile puntato verso il nemico che avanza senza difficoltà con una manovra a tenaglia. Sparare ora sarebbe un suicidio e anche Giovanni mi mette una mano sul braccio e mi guarda con gli occhi colmi di lacrime. Ci troviamo in breve circondati da truppe nemiche insieme a tanti altri compagni e ci arrendiamo. Ci disarmano e ci spingono verso le loro retrovie, insultandoci e sputandoci addosso. Quelli feriti che non possono camminare vengono uccisi sul posto. Questa guerra ci ha reso tutti delle bestie. È fine giugno 2018 e sono in un campo di prigionia nel sud Tirolo. Dormo in una baracca di legno dove siamo più di cento. Muoiono in tanti per denutrizione e per tubercolosi. C’è anche una strana malattia che alcuni chiamano la febbre dei tre giorni. Sembra un’influenza con tosse, ma molto più grave e tanti si aggravano e muoiono.

Il vitto è appena sufficiente per sopravvivere: ci danno un caffè d’orzo alla mattina, una minestra di acqua con foglie di rapa a mezzogiorno e alla sera una patata con un’aringa. Se muore qualche compagno, lo nascondiamo sotto il pagliericcio per dividerci la sua razione finché il tanfo della decomposizione non è più sopportabile. Per gli ufficiali pri-gionieri è diverso: hanno anche uno stipendio e possono comprarsi cibo all’esterno. Noi soldati semplici siamo solo carne da macello.

Dobbiamo anche stare molto attenti a cosa scriviamo a casa. Il nostro comandante in ca-po, il Generale Cadorna, ha un chiodo fisso: le nostre sconfitte sono dovute solo alla no-stra vigliaccheria e non alla loro incapacità di comando. Quindi bisogna scoprire se sia-mo caduti prigionieri dopo un

211

atto eroico oppure per sfuggire ad una guerra che ormai disgusta tutti. Se in una lettera a casa ti lasci scappare qualche giudizio meno che lusinghiero sulla condotta della guerra da parte del comando, non riceverai più alcuna lettera né pacchi viveri dai tuoi cari. Inoltre loro non riceveranno sussidi di guerra e verrà affisso sulla porta di casa il comunicato di denuncia. Vittoria

È il 14 novembre 1918. Abbiamo vinto la guerra terminata 10 giorni fa e vengo liberato dal campo di prigionia. La gioia è tanta, ma lo sfinimento lo è di più. Vorrei tanto tornarmene a casa per riabbracciare mia moglie e i miei due figli, ma mi trasferiscono al campo di concentramento di Mirandola vicino a Modena dove veniamo interrogati per verificare le circostanze nelle quali siamo caduti prigionieri. Se tali circostanze sono me-no che chiare, rischiamo anni di prigione o addirittura la fucilazione per diserzione. Devo aspettare più di un mese prima di venire rilasciato. Arrivo al distretto di Casale Monferrato il 28 dicembre 1918. Non ce l’ho fatta a passare il Natale con la mia famiglia anche perché ho cominciato ad avere un malessere continuo con tosse, mal di gola e febbre. Mi dicono di stare tranquillo. È una semplice influenza. Arrivo finalmente a casa a Biella ai primi giorni del gennaio 1919, ma questa influenza sembra peggiorare di giorno in giorno. È il 10 gennaio quando vengo ricoverato all’ospedale di Biella; cercano di alleviare i miei sintomi con impacchi caldi e somministrazione di laudano, ma faccio sempre più fatica a respirare. Qualcuno in visita ad un letto vicino dice che si tratta dell’influenza spagnola che colpisce migliaia di reduci. Forse hanno dato un altro nome alla febbre dei tre giorni che circolava al campo di prigionia, ma non riesco ad averne conferma visto che muoio alla 15,30 del 15 gennaio 1919 all’età di 36 anni»

212

La scelta era una di quelle da cui non sarebbe più potuta tornare indietro. L’indomani avrebbe dovuto decidere l’Elemento che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita.

Acqua, Aria, Terra, Fuoco. Quattro possibilità per quattro esistenze completamente differenti.

Veniva da una famiglia di Terra e Fuoco ma non capiva perché dovesse rinunciare a uno di questi due, o all’Acqua e all’Aria che le erano state così care e vicine durante alcuni momenti della sua vita.

Era finita anche per lei l’età delle sfumature. Doveva scegliere da che parte stare, per sempre.

Si svegliò molto presto come per cercare di aggiungere minuti al presente e cogliere ovunque dei nuovi indizi che potessero convincerla a fare il passo nella giusta direzione.

“Quando ho bisogno di aiuto non c’è mai nessuno lassù che mi possa dare una mano” pensò amareggiata.

Continuava a guardarsi intorno come ricercando simboli nascosti tra le pieghe del reale che riuscissero a renderle improvvisamente chiaro ciò che non lo era stato per tutto quel tempo.

Sul sentiero di fronte a casa vide un sassolino che rotolava giù per la discesa. Questo le sembrò un evidente segnale dell’Aria che sospingeva la piccola pietra verso una nuova destinazione.

«Aria! Questo è sicuramente un messaggio inequivocabile!»

Peccato che, come finì di dire la frase, iniziò a sentire sui capelli qualche goccia che cadeva dalle foglie degli alberi carichi di umidità lasciata dalla notte primaverile.

«Acqua! Effettivamente collegare il sasso all’Aria era stato un po’ azzardato. Acqua! Ma certo!»

Eppure sentiva che si stava forzatamente autoconvincendo. A ragionarci bene, come era possibile che, in una famiglia di Terra e Fuoco, lei potesse andare verso Acqua? No, effettivamente erano molto rari questi casi e sicuramente non poteva essere lei l’eccezione: ragazza qualunque di un paese qualunque situato in una provincia qualunque.

«Acqua non mi accetterà mai. Non sono abbastanza convinta. Ma perché devo fare questa cosa proprio oggi? Non sono pronta... e forse non lo sarò mai!»

«Su vieni sbrigati che non c’è più tempo,» la richiamò la madre, «dobbiamo finire di prepararci e incamminarci per arrivare in tempo di fronte al

213
La scelta
Giacomo
da Firenze ■

Consiglio.»

«Ma mamma non sono pronta per questa scelta!»

«Non importa che tu non sia pronta. Lo devi fare e basta. Pensi che tutti lo siano quando si trovano di fronte i quattro Maestri? Non lo ero nemmeno io, ma è andata com’è andata e non mi ha cambiato la vita. Rafforzi alcune tue caratteristiche e ne perdi altre. Questo, comunque, non ti impedisce di vivere, crescere e farti una famiglia. Dai sbrigati che dobbiamo andare!»

Dopo queste parole se ne stette in silenzio tutto il tempo cercando di immaginarsi cosa sarebbe potuto accadere durante il suo turno.

Il rito sarebbe iniziato con la presentazione di ciascun Maestro Elemento che prometteva quali speciali qualità avrebbe avuto in dono il candidato, seguendo un protocollo ormai consolidato nei millenni.

Al termine di questo ciclo sarebbe toccato al candidato presentarsi e rivolgersi direttamente a uno dei quattro Maestri per convincerlo a essere scelto.

Se il primo Maestro avesse rifiutato le sue motivazioni, si sarebbe dovuto rivolgere a un secondo Maestro e così via.

Se infine fosse stato rifiutato anche dal quarto... non ci sarebbero state ulteriori possibilità e il passaggio alla nuova età non sarebbe mai avvenuto.

Arrivate di fronte all’ingresso del Palazzo furono bloccate dal Segretario che, senza nemmeno guardarle negli occhi, riprese subito la ragazza con il solito vuoto richiamo all’ordine: «Tra poco toccherà a te! Mi raccomando!»

«Ma che Elemento è questo qui mamma? Ciuccio?» e fece una risatina che fu immediatamente interrotta.

«Tu forse ancora non ti rendi conto dell’importanza di questo momento. Ti sembra questa l’occasione per fare certe battute? Concentrati su quello che devi dire e non pensare ad altro.»

“Il problema è proprio questo. Non ho proprio idea di cosa potrei raccontare né a chi” pensò la ragazza tra sé e sé senza rivelarlo alla madre che era già sufficientemente agitata e nervosa.

Da fuori si poteva udire soltanto il responso finale «Terra.» «Aria.» «Aria.» «Fuoco.» «Acqua.»

I verdetti si alternavano a un fischio fortissimo che faceva venire i brividi. «Mamma, cos’è questo sibilo che spacca i timpani?»

«Non preoccuparti, non pensarci, non è niente.»

«Avanti il prossimo!» urlò il Capo Sala. «Vai, forza amore. Ci vediamo più tardi» disse la madre dandole un bacio sulla fronte.

«Pensa quando dici le cose e mostrati convinta. Ciao bella» e si allontanò dal portone che nel frattempo si era spalancato per far avvicinare sua figlia al tavolo semicircolare e farla fermare esattamente sul simbolo a forma di X presente sul pavimento.

214

La ragazza entrò e iniziò a guardarsi intorno per tentare di dare dei confini al luogo in cui si trovava.

«Vieni, forza, procedi verso quel simbolo sul pavimento e fermati lì sopra,» le intimò il Capo Sala.

«Arrivo, arrivo, non vi arrabbiate,» gli rispose con rispetto anche se dentro di sé pensò “ma che rompicoglioni questo qui! Ma chi si crede di essere!”

«Eccomi. Sono qui. Che devo fare ora?»

Come ebbe finito di fare la domanda si accesero quattro luci su quattro figure incappucciate che avevano i quattro Elementi proiettati sopra di loro. Da sinistra verso destra distingueva Fuoco, Aria, Terra e Acqua.

“Per fortuna che il Fuoco e l’Acqua stanno ben lontani sennò il primo l’avevamo già perso da un po’” pensò cercando di strapparsi un sorriso in questo momento così sacro, serio e noioso.

«Tu sai perché sei qui,» ruppe il silenzio il Capo Sala indicando con il capo chino i quattro Maestri, «ora ascolta in silenzio ciò che hanno da dirti.»

Fuoco si alzò in piedi e, con il suo mantello rosso e il volto nascosto dal cappuccio, cominciò a pronunciare la seguente formula: «Con me, Fuoco, vivrai le esperienze della vita al massimo delle tue possibilità. L’intensa passione brucerà dentro di te e amerai profondamente tutte le bellezze che incontrerai sul tuo cammino. Il vivo desiderio sarà la tua nuova anima.»

Lo stesso fece Aria, nelle sue vesti opache e trasparenti allo stesso tempo.

«Con me, Aria, affronterai il mondo che ti circonda con la massima leggerezza.

Porterai il peso della vita con positività per trarne il massimo del vantaggio e navigare con il favore del vento. Troverai la luce anche nei momenti più bui grazie al buonumore e alla positività.»

Anche Terra scattò in piedi per esporre la sua proposta.

«Con me, Terra, non potrai mai cadere. La stabilità ti porterà a decisioni appropriate e ponderate, comportamenti coerenti senza sbalzi d'umore. Una routine sicura che ti libererà da drammi inutili e con la quale otterrai grandi successi nel lavoro e nella vita privata.»

Senza un attimo di pausa toccò infine ad Acqua chiudere la fase introduttiva.

«Con me, Acqua, imparerai a cavalcare le onde imprevedibili della vita così da potertele godere senza mai esserne sopraffatto. Accetterai le vicissitudini e gli imprevisti allo stesso modo con il quale festeggerai i tuoi successi adattandoti sempre a qualunque circostanza.»

Al termine di queste quattro presentazioni la ragazza era più confusa di prima, e non avrebbe mai pensato di poterlo essere ancora di più.

Cercava di rimettere in ordine nella testa tutto ciò che le era stato detto ma alla fine riuscì solo a ricordarsi una parola chiave per ciascun Elemento.

Fuoco intensità, Aria leggerezza, Terra stabilità, Acqua adattabilità.

215

Ma magari poterle avere tutte e quattro! Perché avrebbe dovuto sceglierne solo una?

«Forza, tocca a te. Devi decidere a quale Maestro chiedere l’affiliazione e spiegare le tue ragioni.» le disse il Capo Sala spingendola in modo da riportarla sulla X dalla quale si era leggermente allontanata. “Oh mamma e ora che mi invento?” si domandò la giovane mentre continuava a guardarsi intorno come a cercare un suggerimento o un qualsiasi appiglio a cui potersi aggrappare. “Non voglio sceglierne uno solo. Io li voglio almeno tutti e quattro. Perché dovrei rischiare di vivere una vita di rimpianti per una scelta fatta ora? E se poi si rivelasse sbagliata? Io voglio poter utilizzare tutte le possibilità che ho a disposizione. Non voglio precludermi niente. Non ci sono Maestri che tengano.” E mentre stava procedendo in tutti i suoi ragionamenti, il Capo Sala si avvicinò per richiamarla nuovamente all’ordine «Forza, tocca a te. Non possiamo star qui tutto il giorno. Prego!»

“Benissimo, allora mi rivolgerò a tutti e quattro” annuendo con la testa per confermare quest’ultima idea avuta.

«Cari Maestri…»

«No, scusa cara», la fermò il Capo Sala, «puoi rivolgerti solamente a uno di loro.»

«No, scusi signor Capo Sala, ho deciso che mi rivolgerò a tutti e quattro.»

Questa risposta gelò i presenti e si sentì qualche grido provenire dalle retrovie nel quale si riuscivano a distinguere queste due parole: la profezia.

Si intravedevano delle ombre che si allontanavano sempre più rapidamente dalla sala e si potevano distinguere oggetti che cadevano e rotolavano via.

Lei non riusciva bene a individuare di chi fossero quelle ombre e i motivi di tutta questa improvvisa agitazione.

«Posso continuare quindi?» chiese cercando un volto con un’espressione di assenso.

«Puoi continuare,» le rispose il Capo Sala, «ma sai la fine che ti aspetta in caso di rifiuto di anche un solo Maestro.»

«Sono perfettamente al corrente signor Capo Sala. Mi faccia proseguire e vedremo se le mie aspirazioni saranno così scarse da essere bocciate.»

«Prego, continui» disse balbettando il Capo Sala che stava lentamente arretrando fino a entrare nella zona più oscura della stanza.

«Dicevo... Cari Maestri, non ho intenzione di rivolgermi a uno solo di voi ma a tutti e quattro. Non voglio essere una sola delle cose che avete detto ma voglio esserle semplicemente tutte insieme.

Chi siete voi per impedirmi di essere oggi in un modo e domani in un altro?

Come potete costringermi a prendere una decisione del genere che mi obbligherà in una prigione emozionale per il resto della vita?

216

Non sono come voi. Non giudico nessuno e probabilmente non sarei in grado di farlo. Per me è più importante che tutti possano scegliersi liberamente la propria strada ogni secondo di ogni minuto di ogni ora di ogni giorno della propria esistenza. E non a caso ho usato tante volte il termine ‘propria’; perché è di loro proprietà e non vostra. Deve finire questa stupida usanza. Non avete più alcun diritto nei nostri confronti. Siamo liberi, lo siamo sempre stati e sempre lo saremo. Volete ancora un esempio da parte mia nella vostra lingua? Se dovessi esprimermi in termini metaforici come avete fatto voi beh… direi che voglio girare il mondo lungo il confine tra Terra e Acqua, sospinta dall’Aria del vento e portando dentro di me il Fuoco della passione per le cose belle e giuste. Io sono tutto; noi siamo tutto. Voi, invece, non siete più niente.»

Terminato il suo discorso, si accorse che tutti gli abitanti del paese avevano fatto irruzione in sala e la stavano ascoltando in silenzio dietro di lei.

«La profezia si è avverata!» urlò qualcuno alle sue spalle. «Ora, cari Maestri, ve ne dovete andare!»

L’illuminazione improvvisamente saltò e scatenò il panico tra i presenti. Chi correva da una parte, chi dall’altra, chi andava a sbattere contro altre persone o contro il muro.

La ragazza fece solamente un passo in avanti dalla X sulla quale era stata ferma troppo tempo e urlò «Luce!»

Al suo grido i fari si accesero nuovamente e vide che dei quattro Maestri erano rimasti soltanto i mantelli abbandonati sul pavimento. Senz’anima, senza vita, come chi li aveva indossati.

I suoi concittadini si fermarono di colpo e fecero insieme a lei questa straordinaria scoperta.

La giovane ragazza fu portata in trionfo al paese dove riabbracciò la famiglia e dove si celebrarono dei festeggiamenti su cui non ci sono mai state notizie certe in merito all’esatta durata.

In realtà non sappiamo nemmeno precisamente quando questo episodio sia avvenuto.

Quello che sappiamo con certezza è che, grazie a quella ragazza, noi siamo liberi di essere tutto ciò che vogliamo e quando lo vogliamo. Possiamo coltivare le nostre passioni, i nostri interessi, le nostre aspirazioni e cambiare la strada che abbiamo intrapreso, o per spostarsi su una nuova o, perché no, tornare su una su cui eravamo già transitati ma che non avevamo percorso fino in fondo.

217

Filograna da

Prima di morire

“Posso dubitare che questo colore si chiama “blu”?” C’è forse solo un ordine per le mie parole, ed è questo. Quando stavo bene vorticavano nella mia testa senza forma. Ora Wittgenstein le ha messe così, o forse sono stato io. Non lo so più. Forse mi sono sbagliato, ma anche i miei errori ora hanno creato un sistema. E se qualcosa è sbagliato, bÉ. Stavo terminando di leggere le Ricerche filosofiche quando ci prendemmo la mamma malata e ce la portammo in casa. Come ogni cosa importante furono i sogni ad anticipare questo fatto (o questa frase, non so ancora se fu un fatto o una frase la malattia di mia madre), e a seguirla: i fatti, quelli davvero importanti, si pensano poco o quasi niente; tuttavia li sogniamo di continuo e questa è la decadenza della mia e nostra memoria. Quasi per sbaglio, come si entra sbadatamente nella porta di casa propria senza guardare dentro, come non si fa caso alle chiavi che si tengono in mano (se si inciampa in una frase, in un mobile troppo vicino alla porta che si conosce troppo bene?) la andammo a prendere in macchina io e mia moglie. Come mi guardavano, ora, le Ricerche filosofiche in copertina sbiadita, poggiate sul cruscotto come terzo passeggero... Dovevo apparire ridicolo nella mia camicia sbottonata e sudata, a guardarmi da lì; non più ridicolo di chiunque altro, senz’altro, e poi… ero io quello? Con addosso una camicia di mio padre, per non aprire le valigie ancora chiuse dall'imminente trasloco di me e mia moglie nella nostra nuova casa.

Del viaggio di andata, dottore, non ricordo nulla, se non l’equilibrio dell’auto sulle corsie dell’autostrada. Non ricordo nemmeno chi guidasse, anche se so che ero io (io lo so, dico, senza pensarci ma con una certezza enorme, ma come posso esserne così sicuro, chi mi ha convinto, di chi è che mi sto fidando, vergine Maria?).

Del viaggio di ritorno invece ricordo solo gli occhi liquidissimi, omerici e stampati di Wittgenstein sulla copertina delle Ricerche che mi guardavano dal cruscotto. Forse scrutavano mia madre sul sedile di dietro, e il suo viso che girato verso sinistra sul finestrino, anche nel moto apparente della macchina sembrava squadrare ogni problema di lato, conscia del fatto che tutto quel movimento e quella velocità non le costava nessuna fatica e non toccava nemmeno a lei mantenerla; e infine il silenzio di Caterina – gli occhi di Wittgenstein, dico, come due biglie in un acquario blu: il viaggio era lungo, e per questo, e per la sua intelligenza suprema e la sua importanza nella tradizione filosofica ecc... speravo che in essi si formulasse un’ipotesi sulla mamma, su chi fosse esattamente quella lì dietro dopo la malattia; eppure

218
■ Paolo Fausto
Matino (LE)

in essi non notai nulla, se non un contrasto indicibile con la primavera che faceva gesti di nascere intorno a noi, a due passi eppure così misteriosa nel suo involucro di gelo e fango. Ricordo nulla, in fondo. Nulla. Accucciato tra le mie mani sul volante, ferito e sano, conscio eppure stordito, dormiente e eccitato come un baco; guidavo, e l’essere dentro di me si sentiva come se fosse nella stiva di una nave, dondolato a sua insaputa nel mare calmo della malattia. Così, giunti a metà di quella che ormai è solo la nebbia della mia geografia interiore, posso solo fare ipotesi sul luogo che attraversavamo, solo per darla a lei come un regalo in questo testo, e farla sentire seduta al centro del mio male, sulla polvere dell’asfalto; ipotesi basate sui terrapieni che nella nebbia facevano da confine dell’autostrada e sparivano come se a divaricarli fosse la nostra auto. Forse in tutto ciò la mamma parlò tutto il tempo, rendendomi tutto ancora più confuso di quanto non sembri, ma a me cosa importa... Il paesaggio attrae tutto, e ad esso si fonde anche il tono generico della gola della mamma a cui non badavo più, ma che ora attraversa le mie orecchie come un lamento troppo cristiano, cordiale, monastico, convenutale, ipocritamente vaticano, ovvero il suono che fanno le malattie quando sono percosse dal vento, una cosa italiana: sì, no, dicevano queste voci, sì e no insieme, nel loro tono falso e anfibio come quello dei giocattoli, fondendosi al suono maschio del carburatore e a quello della radio, che avevo acceso per pensare meglio alla sua nuova natura, mentre la sua voce risaliva i miei timpani come una colonna di formiche la mia verticale fisiologia. Oh Maria Vergine, più parlo della natura e più questa mi si confonde. Più parlo di lei (della mia mamma) e della natura e più queste mi si confondono insieme. È questo che mi angosciava, dottore. La mano della natura mi entrava dagli occhi e mi toccava i neuroni, e dalle orecchie invece mi entrava la mano della mamma e io, fior fiore dell'intelligentija italiana, le sentivo intrecciate nel cranio senza saperle distinguere. Perché due sono le mani, ma una sola è, per ora, la mia testa.

La primavera cresce e si prende la mamma, pensai, attorcigliando il mio pensiero allo sciabordio delle ruote. La natura quasi primaverile che ci sfilava ai lati dell’autostrada. I terrapieni. I fiori dei pioppi predisposti alla diffusione. Poi quando ci fermammo a lato, forse per un’urgenza, tutto il paesaggio si condensò nella mia mente e si concretizzò sul faccino di una volpe che vidi rintanata sopra un terrapieno, riparata nei cespugli a qualche metro di altezza da noi, scura e distante. Bella era, soprattutto perché non ne avevo mai vista una di giorno ma solo di notte. Avevo già letto che fossero piccole piccole, ma quando lo vidi, bÉ. Dicevo, era accucciata e rivolta verso uno dei tanti cespugli sul lato destro dell’autostrada, con la schiena alta, arcuata come i denti di una forchetta e il faccino e il muso verso il cespuglio, timida ma al contempo incuriosita da qualcosa. Mentre la guardavo il suo piccolo sistema nervoso analizzava milioni di odori, guardava in un tenue bianco e nero un universo

219

senza colpe, forse una cucciolata di gattini lasciati lì temporaneamente da una gatta randagia, e per lei piccoli e grandi fa differenza solo perché i piccoli sono più semplici, non certo perché sono innocenti, senza peccato, senza disordine. Sicuramente era lì dopo aver fatto qualche saltello, e infatti le sue zampe posteriori, rizzate più delle anteriori, erano ancora tese e esprimevano la danza e lo sforzo dei momenti prima. Solo un attimo, credo, si girò dalla mia parte, e ho visto le ciliegie degli occhi, anche se non ero io a interessarle, né noi della macchinata. Se no, avrebbe visto tre uomini in macchina, tre poverini, fermi a lato per la quarta volta, nel bel sole del Norditalia, dottore. Uno sportello che si apre come la porta di un forno. Avrebbe visto una faccia che spunta in basso, non da un cespuglio ma dallo sportello di una macchina. L’avrebbe vista spalancare la bocca - e son sicuro che la bocca la riconoscerebbe perché gli occhi sono occhi dappertutto e significano viso, anima, anche per gli animalispalancare la bocca e tirare una striscia di vomito in fuori con un piccolo urlo. Uno scoppio di fucile in lontananza. E poi lo sportello che si richiude. E poi la mamma rientrare. Nient’altro, di suo interesse; di ciò avrebbe capito ben poco, se non dei quattro merli, che prima ancora che ripartissimo si fiondarono sulla pozza di vomito lasciato dalla mia mamma, becchettandone i bordi, e iniziando a bisticciare tra loro mentre altri due arrivavano da lontano con lo sguardo appuntito, solleticando il suo interesse ancora in volo. Li vidi nel retrovisore. Il muso della volpe fece una U nel cielo per seguirli, tre o quattro volte quanti erano loro. Finché non dovettero volare via, e la volpe non lo so, che fine ha fatto. Forse il bordo strada era troppo anche per lei. Ciò avviene nel silenzio, nel paesaggio stepposo e verde scuro sopra la congrega degli uccelli, dove la nostra auto aveva impedito alla polvere di depositarsi per qualche momento; e a nulla serve aggiungere adesso il rumore di macchine (anche questo lo so, che c’era, ma come?), lasciamolo così. Senza niente.

Mi chiedo infine se quella piccola volpe avesse guardato la mia mamma, forse. Magari l’avrebbe guardata come si guarda il proprio fratello? Come si guarda l’unico ulteriore animale in un deserto di pietre? Volpe a volpe nella devastazione del mondo, o come i due ladroni in croce ultimi rimasti di questo mondo distrutto. Avrebbe notato quanto di germogliante, di erbaceo, di metabolico e di nutriente stava accadendo dentro di lei da tempo? No ripeto, non c’è dettaglio che ha senso aggiungere. Basta. Com’è che puzzi di vomito, eh, ma’? Ho detto. Proprio ora che ti portiamo al Nord? È vero che la portavamo verso Nord. A te fa schifo il Nord. A te il Nord fa schifo non perché è il Nord, ma’. A te fa schifo il Nord perché tu vuoi morire a casa come la nonna. E lei poi è non è neanche morta a casa. E il tumore ce l’aveva al pancreas, lei. Altra roba. Altra riabilitazione. Sopravvivenza. Pensavo alla mamma prima, poi adesso. Ancora provo forte colpa, forte colpa per una frase che le dissi sicuramente, perché non l’ho mai dimenticata: anzi,

220

ne ho dimenticato la forma, ma la sostanza era: che c’era tempo per vomitare a casa, quando non disturbava nessuno. Ma tu continui a fare di testa sua. Tu continui a fermare tutto. Se avessi saputo quanto avrei pensato in seguito non le avrei detto così, e se avessi saputo quante cose sporche avrei tenuto nella testa dopo l’avrei cominciata da allora a tenerla pulita, e forse è per questo che sogno spesso di bucarmi il cranio, e mi sa che l’ho bucato ed è da lì che parlo. Credo che, non so se prima o dopo, mi disse di fermarmi ancora perché voleva prendere il suo fazzoletto che era nel bagagliaio. Proprio quello ti serve, eh? Dovetti dirle. Voleva il suo, quello col ricamo a uno degli angoli. Perché devi farmi arrabbiare già prima di arrivare, ma’? Almeno fai in fretta, ho detto. Almeno fai in fretta, ho detto. E ne ho approfittato per riposare il piede della frizione, è vero, l’ho detto a Caterina e lei mi ha detto: riposato? O forse non hai fatto in tempo, forse non c’è stato il tempo? No, certo, chiaro che se ci fosse traffico sarebbe un’altra storia. Ma sembra che siamo soli stamattina. Pensavo ad Arturo Belano, in macchina nel romanzo di Roberto Bolaño. Lei dottore non lo sa di sicuro, ma neanch’io lo sapevo prima. Arturo Belano attraversava spavaldo il deserto Sonora per ritrovare una poetessa scomparsa, la famosa Cesárea Tinajero, che forse non era mai esistita, chissà, ma forse per questo era da ricostruire, come una funzione della mente che non si è mai avuta, o una lingua o un ponte su un fiume che non si è mai visto o una volpe scorta in una pietraia. La ricostruzione in quell’anima libresca che avevo letto pochi mesi prima, in questo brano, ecco, le faccio vedere dove ce l’ho scritto, sta qui, ecco, che dice con queste parole del suo ultimo viaggio che mi spiegano bene:

E quando fecero il nome di Cesárea io alzai gli occhi e li guardai come se li vedessi attraverso una tenda di garza, garza da ospedale per essere esatti e dissi non mi chiamate signore, chiamatemi, non mi ricordo come mi dovete chiamare e poi

...E come ci sono donne che vedono il futuro io vedo il passato, vedo il passato del mondo quando non ero morta ma per questo neanche viva, e vedo la schiena di questa donna che si allontana dal mio sogno, e le dico, dove vai, Cesárea? dove vai, Cesárea Tinajero…

Così dal suo fazzoletto la vedevo nel retrovisore, mentre si puliva il naso, trasformata in un reticolo col fazzoletto tutto sulla faccia. A volte mi chiamava senza toglierselo dalla bocca, per poi dirmi niente. Hai chiamato, ma’? No no. E allora sono pazzo. Il mio stomaco è nel profondo di una stiva. Ora mi chiedo solo: quand’è che hai smesso di accettare qualunque fazzoletto e hai ostinatamente voluto il tuo? Poi lo laviamo, ma’, anche se è il mio, anche se è quello di papà. Macché. Macché. Vuole il suo. A casa vomiterai. Ma quale

221

casa? C’è una casa dove va bene se vomito? Dove si mettono i malati non troppo gravi e non troppo in salute? Il mio fazzoletto perché non voglio che mi si screpoli la pelle, fa ancora freddo mi pare che disse per farmi chiudere i finestrini – e altre cose, disse. Ma no, ma no, che dici, ma’, quale freddo, dissi. Si riparava col fazzoletto. E tutto ciò che vidi dopo io lo vidi attraverso un fazzoletto sporco e ospedaliero. Qualche uccello lo vedemmo ancora, forse che andava verso la pozza da cui la mamma stava dando da mangiare ai merli. Forse avevamo fatto non più di due chilometri, ma una cosa che c’è, c’è ovunque tu sia. La mamma è un’altra cosa, mi sa. E poi la portammo come una cosa, come quel che rimane di una cosa perché mi pare che c’era altro dentro di lei, c’era qualcosa in qualcuno di cui mi sono accorto solo ora. Forse al termine del viaggio fu solo una donna visibile solo attraverso una garza di ospedale, come quando mi entrò una scheggia nell’occhio. Forse posso vedere tutto solo da una garza di ospedale, le luci (o sono ombre?) che si muovono? Forse è solo morta, forse è solo morta. Quella sera stette male e mi venne la febbre. Sognai le falene attorno a una luce spenta.

222

Sabato, 9 Aprile 1864

Questa notte ho deciso, e non cambierò idea per nessuna ragione al mondo.

Il mio nome è Giovanni Pantoni, abito in contrada dei Fornelletti, al numero civico 2.

Sono ancora un ragazzo, compirò diciotto anni tra poco più di due mesi, ma il malessere che porto dentro mi fa sentire vecchio. È un fardello che cresce, anche se faccio di tutto per celarlo agli occhi della mia famiglia.

Le mie sorelle, Teresa, Margherita e Maria, nonostante l’età infantile, sembrano già delle piccole donne: aiutano nelle faccende domestiche e si impegnano a imparare i mestieri del cucito e del ricamo. Sono molto affezionato a Maria, l’ultima nata. È una bimba minuta, tutta nera: capelli, peli sulle braccia e sulle gambe. Non è certo bella, ma la sua bocca aperta al sorriso e i suoi occhi profondi sottolineano una sensibilità d’animo molto rara. Quando mi vede triste cerca di rallegrarmi, cantando e saltellando imitando i ranocchi. Solo a lei ho confidato il mio segreto.

Paolo è il secondogenito, basso di statura e di costituzione robusta, ha un viso quadrato e un ciuffo piuttosto lungo che ricade lateralmente, coprendo totalmente l’orecchio destro. I suoi bicipiti sono molto sviluppati, ogni giorno per accrescerli va a spaccare legna nel casolare di un cugino alla lontana; parla ad alta voce e ride volentieri. Questa sua esuberanza e prestanza fisica piace ai miei genitori e li rende orgogliosi.

Io sono diverso: alto, esile, e i capelli, che porto pettinati all’indietro, sono radi e fanno intravedere una lieve stempiatura. La mia camminata è un po' instabile a causa di un problema alle ginocchia che mi porto dietro sin dall’infanzia, un difetto trascurabile che ho imparato ad accettare e non mi limita nella quotidianità.

In famiglia si mangia bene: facciamo due pasti al giorno, carne una volta alla settimana, uova, latte e pane a volontà. Ci riuniamo, seduti al tavolo davanti al focolare, e le fiamme crepitanti accompagnano le preghiere che recitiamo prima di ogni pasto. Alla domenica andiamo a messa nella chiesa di Sant’Agostino, ci vestiamo a festa e occupiamo sempre lo stesso banco: quello in fondo a sinistra, vicino alla colonna di marmo rosso; il più isolato di tutti. In casa ho sentito dire che, quando arriverà l’ora, avremo diritto a una tomba privata sotto il campanile.

223
-----

Siamo fortunati, ma la gente ha paura di noi e al nostro passaggio allontana i figli, voltandosi dall’altra parte.

Io so il perché.

Mio padre di mestiere fa l’esecutore di Giustizia. L’Omega dell’Alfa dei giudici, come lui stesso ama definirsi quando torna a casa dopo una giornata di lavoro. Lui è Pietro Pantoni, il più famoso boia di Torino, il migliore nel suo campo e “figlio d’arte”.

Il nonno Antonio, del quale ho solo il vago ricordo di un uomo severo che mi tendeva la mano callosa in gesto di saluto, ha speso tutta la vita a giustiziare per lo Stato Pontificio. Era molto temuto e rispettato per la determinazione e il rigore che usava nel portare a termine le condanne emesse dal tribunale. Con lo stesso rigore pretese che i figli seguissero le sue orme, facendoli crescere in un contesto di morte.

Nonostante la strada tracciata mio padre tentò di opporsi al destino di boia, rifugiandosi in Francia alla ricerca di altre fonti di sostentamento. Girovagò nei paesi del nord e bussò a molte porte, ma non trovò alcun aiuto e in assenza di un’occupazione sostenibile patì fame e sete.

Pentito e rassegnato, tornò indietro e iniziò a giustiziare, era il 1831.

Il primo che impiccò fu un uomo, padre di dieci figli, condannato per aver rubato un maiale nella cascina Brandino e ucciso un giovane che cercava di rallentare la sua fuga.

Eseguì il lavoro in modo esemplare e la sua fama si diffuse rapidamente accreditandolo come miglior carnefice, anche fuori dalla regione.

Fu in quel tempo che conobbe mia madre: una fanciulla timida e silenziosa, nata in una famiglia umile, quasi in povertà. Lavorava nei campi sino a tarda ora e accudiva le pecore nella stalla, senza lamentarsi mai.

Si sottomise alla volontà dei genitori che vedevano in mio padre una persona di successo e un “buon partito”, e si trovò velocemente maritata a un uomo che non aveva scelto.

La condizione di “moglie del boia” ha reso mia madre una donna infelice, vergognosa e addolorata quando deve andare in mezzo alla gente. I negozianti del quartiere, particolarmente il panettiere e il macellaio di Via Vibò, la trattano con disprezzo.

Il panettiere le consegna il pane capovolto e il macellaio disinfetta con l’aceto i soldi che lei porge a pagamento della mercanzia. Mortificata si rifugia in casa, dove si occupa delle faccende domestiche in maniera maniacale, pulendo senza sosta. Le finestre sono sempre socchiuse, quasi ad impedire ai raggi di sole di far luce sul suo viso duro e segnato. Anche i capelli, un tempo biondi e profumati come il grano nei campi, sono diventati grigi e raccolti in uno chignon a forma di cipolla che non le dona

224
-----

affatto. Non l’ho mai vista sorridere e provo pena per lei.

A Torino c’è tanta miseria: le contrade sono piene di mendicanti, storpi, ciechi e affamati. Quando cammino, trovo sempre qualcuno che mi tira per la maglia chiedendo un soldo per un pezzo di pane.

Qualche tempo fa lo Zoppo – lo chiamano così perché ha una protesi di legno al posto della gamba sinistra – si è avvicinato a me, e con la sua bocca nera e sdentata mi ha urlato bòia fauss! Sputandomi addosso. Sono scappato e ho vomitato all’angolo della strada; da allora faccio di tutto per evitarlo, ho cambiato percorso e non l’ho più rivisto.

Anche sotto casa nostra c’è una donna che chiede la carità, seduta sul gradino di pietra dell’entrata: è sporca e in braccio tiene un bambino con gli occhi pieni di croste. Mi sento a disagio quando le passo accanto e la mia fede in Dio vacilla; ho molti dubbi e troppe domande senza risposta. Allora stringo la medaglia della Vergine Maria: un piccolo dono che mi accompagna sin dai tempi del battesimo.

I miei fratelli non sono istruiti e vivono in allegria, senza tante storie per la testa, come dicono loro. Paolo, per la gioia di mio padre, farà il boia; è ansioso di prendere il suo posto e presenzia a tutte le esecuzioni per imparare bene. Non si preoccupa del disprezzo della gente, lui bada alla paga: 21 lire per ogni impiccagione, e un guadagno annuo che è quasi il doppio di quello di un insegnate dell’Università Nazionale.

Io ho frequentato la scuola regia di San Francesco d’Assisi dove ho imparato a leggere, scrivere e soprattutto a disegnare. Mio padre non ha mai approvato il mio desiderio di studiare, ma grazie all’intercessione di Don Lorenzo Prinotti, posso recarmi, a giorni alterni, nella sagrestia della chiesa di San Dalmazzo e dedicarmi all’arte e alla pittura sotto la guida del maestro Matteo.

Il profumo dei colori che si amalgamano sulla tavolozza, le sfumature, la profondità delle figure che prendono vita sotto le mie mani mi coinvolgono totalmente. Davanti alla tela, come per magia, dimentico la realtà che mi circonda.

Domenica, 10 Aprile 1864

Oggi mio padre festeggia sessantasette anni: trentatré di carriera e centoventisette esecuzioni.

Per l’occasione ha invitato a pranzo il suo amico, l’unico amico che ha, il signor Caranca che fa il becchino a Rivarolo.

Li osservo di nascosto mentre si stringono la mano sorridendo e si siedono a tavola: sono molto eleganti, sembrano due gentiluomini. Mio padre indossa la giacca grigia, la camicia bianca e il gilet con l’abbottonatura alta. È di

225

mezza statura, robusto, con le spalle larghe e un collo taurino. Non riesce a farsi crescere i barbis come vorrebbe, mentre i basettoni corrono giù lungo la guancia fino a coprire parte della pelle butterata. È ambizioso nel vestire e questo, tutto sommato, lo rende un uomo piacente.

Il signor Caranca porta la redingote, un po' lisa ma bella, nera con revers e fiore blu all’occhiello. È un uomo grasso, con la pelle liscia e glabra; la sua bocca, rossa e carnosa, sembra quella di una donna e nonostante la scura e rada dentatura ride sempre ma gli occhi sono neri e freddi come l’inferno. Mi vuole garzone nella sua bottega di pompe funebri e, alla sua proposta, mio padre ha acconsentito ben felice di trovarmi un impiego. Ma io, non lavorerò mai per il signor Caranca.

Quella povera donna di mia madre è in piedi dall’alba per cucinare, e corre avanti e indietro con il suo faudal a fiori.

Ha preparato un pasto speciale: tajarin, gran bollito con fagioli, quaglie arrosto e, per finire, la bavareisa con i torcèt. Per la circostanza ha comprato anche il vermouth.

Gli uomini pranzano in sala, noi siamo seduti al tavolo della cucina e mangiamo gli avanzi di ieri.

Le voci si abbassano all’improvviso, così mi avvicino alla porta per sentire meglio. I miei fratelli mi prendono in giro, Paolo mi fa le boccacce e Margherita mi tira l’orlo dei pantaloni. Ridono tutti. Mi porto l’indice alla bocca, dico “Shhh! Zitti per favore, devo ascoltare”.

Mio padre sta raccontando i particolari dell’impiccagione di Antonio Sismondi. “Ho fatto proprio una brutta figura. Io, Pantoni, con la mia esperienza!”, dice in tono dimesso.

“Ma come è andata, Pietro? Raccontami bene”, domanda Caranca, avido di crudeltà.

“Ho tirato la corda con forza e più volte, con colpi a ritroso sulla testa. Non per vantarmi, ma sono un esperto, e ho due tirapiè al mio servizio. Sembrava morto!” risponde mio padre.

“Un sopravvissuto alla forca?” Il becchino sorride incredulo. “Sismondi è morto poco dopo. Comunque domani rivolgerò supplica al Procuratore Generale per chiedere l’abolizione dell’impiccagione e l’adozione della ghigliottina, come in Francia. Bisogna andare avanti, al passo con i tempi. Alleviare le sofferenze dei poveri pazienti”.

Mio padre li chiama “poveri pazienti”, gli uomini e le donne condannati a morte, esseri afflitti e disperati, abbruttiti da una vita misera e senza speranza. Non li difendo, ma ho pietà dei loro travagli.

Alle quattro hanno finito di mangiare, si alzano, saziati dal cibo e con le guance

226
-----

arrossate per il tanto vino bevuto.

Sento mio padre dire, con tono autoritario: “Fumna, ven a salutè monsù Caranca”.

Mia madre si asciuga le mani e corre di là a testa bassa e con un filo di voce dice: “Cerea monsù Caranca, grasie”. “Cerea madama”, risponde l’uomo con aria tronfia, senza guardarla in faccia. Mentre esce, Caranca si rivolge a mio padre: “Allora aspetto tuo figlio, il Giovanni. Facciamo venerdì, al cimitero di Favria. Sarò lì per la sepoltura del Trumlin”.

“Certo, monsù Caranca, lo mando di sicuro. Grasie”, risponde mio padre.

A sentire quelle parole mi viene un groppo in gola e i muscoli si irrigidiscono, con uno sforzo enorme scendo le scale e vago senza meta.

Solo dopo aver fatto molta strada mi calmo un po' ed entro nella chiesa di San Dalmazzo. Mi inginocchio al confessionale e la voce benevola di Don Lorenzo mi accompagna fuori dallo sconforto, ma non gli dico tutto e non vengo assolto per quello che ho deciso di fare.

Lunedì, 11 Aprile 1864

Ho trascorso parte della mattinata con mia madre per acquistare il cibo che servirà a sfamarci tutta la settimana. Ho riempito la sporta a più non posso per alleviarle un po' l’onta che deve subire ogni volta che si reca dai bottegai. Verso mezzogiorno corro via, ho fretta di passare in sagrestia e, attraversato il ponte sul Po, spingermi fino ai piedi della collina.

Con me ho portato la tela, i colori e il cavalletto che mi ha prestato maestro Matteo. Voglio dipingere la Chiesa della Gran Madre di Dio: un capolavoro architettonico costruito circa trent’anni fa per festeggiare il ritorno di Re Vittorio Emanuele I. Ha la forma di un tempio e non sono certo di riuscire a trasporre su tela la maestosità e il mistero che rappresenta.

Le due statue poste ai lati della scalinata esterna, Fede e Religione, attirano la mia attenzione, sembrano sfidarmi. Fede ha le fattezze di una donna, con abito e manto lungo e per un motivo che non conosco è stata creata senza pupille. Con la mano sinistra alza il calice e tiene un libro aperto in grembo, trascurando il piccolo angelo seminudo alla sua destra. Anche Religione ha sembianze femminili, come Fede è ricoperta dall’abito e dal mantello. Innalza una croce enorme con la mano destra guardando l’orizzonte e pare ignorare il giovane inginocchiato che le tende due tavole di pietra, sulle quali nulla è scritto.

Prima di iniziare a dipingere rimango immobile per molti minuti, colpito dall’incisione latina che troneggia sul fronte della Chiesa: Ordo populusque taurinus ob adventum regis, “la nobiltà e il popolo di Torino per la venuta del

227

Re”.

Non riesco a dare una spiegazione all’emozione che sento e mi preparo alla pittura. La mano non trema e tratteggia senza interruzione, obbedendo a una forza interiore che non ho mai sentito prima.

Terminata la scalinata e gli enormi basamenti, sui quali sono poste le statue di Fede e Religione, ho difficoltà a riprodurre il profilo cilindrico e i capitelli delle colonne frontali. Cerco di superare lo sconforto che mi assale e proseguo pieno di dubbi.

I bassorilievi, che narrano episodi della vita della Vergine, alla base della cupola tondeggiante, mi portano via molto tempo, ma riesco a rappresentarli con cura nel loro significato.

Proseguo la mia opera nuovamente motivato finché mi accorgo che, attorno a me, sta calando la notte.

Il tempo è trascorso veloce, tornerò domani.

Martedì, 12 Aprile 1864

Il mio unico pensiero è rivolto al dipinto della Gran Madre di Dio, lo devo terminare oggi, assolutamente.

Pieno di energia mi alzo dal letto, non mi lavo e non mangio nulla. Arrivo di corsa di fronte alla Chiesa.

I colori che ho scelto sono il risultato di tanto studio e degli insegnamenti del mio maestro. Utilizzo un grigio pietra per la gradinata, le colonne e i pilastri, il bianco con le sue ombre per le statue e un ocra chiarissimo per la struttura, il celeste tenue è perfetto per la cupola.

Attendo l’imbrunire per dipingere lo sfondo della collina e il cielo che, dall’alto, pare avvolgere la Gran Madre in un grande e protettivo abbraccio.

Quando si fa sera, le sfumature, gli odori che cambiano mi incantano trasformando il mio stato d’animo, e i turbamenti che vivo si acquietano un po'.

Terminato il dipinto mi reco alla sagrestia e consegno il quadro a Don Lorenzo. Ho il respiro affannoso e le mani che tremano.

Lui e il maestro lo posizionano sull’inginocchiatoio appoggiato al muro, rimirandolo a lungo.

Il maestro Matteo nota immediatamente che lo sguardo di Fede e Religione è diverso da quello reale, ma non mi chiede il motivo e non mi sgrida. Entrambe hanno gli occhi rivolti all’osservatore, un leggero sorriso sulle labbra rende indulgente l’espressione dei visi.

Don Lorenzo non parla e si commuove portandosi le mani alla bocca. Mi

228

sento felice.

Torno a casa che è molto tardi. Ho fame, ma non trovo nulla sulla tavola, i miei fratelli sono già andati a dormire e mia madre si allontana velocemente dalla cucina senza una parola.

All’improvviso, mio padre sbatte per terra il bicchiere che tiene in mano, si alza dalla sedia e mi spinge contro il muro. Sono colpito dal suo odore: un misto di sudore, vino e l’acido dell’ira. Mi punta un dito sotto il mento e dice, scandendo le parole: “Tu, venerdì, andrai a fare il garzone dal signor Caranca”. Non rispondo e non abbasso gli occhi.

Mercoledì, 13 Aprile 1864

Mio padre si è alzato presto, tutto deve essere pronto per l’esecuzione delle undici che si terrà alla Cittadella. Mi alzo anch’io e lo seguo insieme a mio fratello Paolo.

Per strada si respira un’aria di festa. Vecchi e giovani, uomini e donne corrono, ridono, si spintonano per garantirsi un posto in prima fila e assistere alla pubblica impiccagione.

Mio padre controlla ogni dettaglio, si accerta che sia pronta la corda benedetta dal prete, il crocefisso e la scodella di minestra che offrirà al condannato come ultimo pasto. C’è anche la benda che il Sindaco della Misericordia metterà sugli occhi di Carlo Sapino: un giovane uomo ritenuto colpevole di cospirazione politica.

In fondo alla piazzetta vedo arrivare il tirapiè Giacomo, con la sua strana andatura: un passo più corto, uno più lungo, ora verso destra e poi a sinistra; ricorda un ubriaco alla ricerca di sé stesso.

Mi sistemo in un angolo piuttosto lontano dal patibolo. Sento le campane con i rintocchi a morto e le urla della gente che si levano all’arrivo del carro con il condannato, legato al capo e alle mani.

Lo accompagna Don Filippo Graneri, sacerdote succeduto a Don Cafasso, il prete della forca, scomparso quattro anni prima e ancora ricordato come consolatore e redentore dei carcerati.

Il carro è fiancheggiato dai soldati e preceduto dai confratelli dell’Arciconfraternita della Misericordia.

Indossano cappuccio e mantello nero e procedono recitando il Misere. Quando svoltano l’angolo riesco a vederli bene e un brivido mi scuote.

La gente grida, lanciando sassi e immondizia contro Sapino, altri bestemmiano e le pietre le indirizzano a mio padre, il boia. Mio fratello Paolo è vicinissimo alla forca e segue, passo dopo passo, ogni particolare dell’esecuzione.

229

Tutto si svolge lentamente e sembra galleggiare nell’atmosfera rarefatta di un sogno.

Ora, il boia porge la tazza di brodo al condannato, lui cerca di bere ma il liquido fuoriesce quasi totalmente dalla sua bocca. Don Graneri si avvicina e gli concede l’assoluzione. È un rituale superfluo alla sofferenza del morituro, solo un’attenuante per la coscienza dei carnefici nell’apice della crudeltà umana.

Il tirapiè sta issando le scale, appoggiandole alla trave centrale. Sapino sale la prima scala, scivola più volte dai gradini e più volte viene spinto su. Cala il silenzio e sulla seconda scala si inerpica il boia per fissare il cappio alla trave.

Non riesco più a guardare, mi mordo le labbra fino a farle sanguinare, ho le mani sudate e il cuore palpita forte, mi sento soffocare.

Così, fuggo via, corro senza fermarmi e dietro di me sento le urla salire, gli applausi, i fischi e il suono dei tamburi per festeggiare l’avvenuta impiccagione. Arrivo sfinito alla chiesa di San Dalmazzo e crollo davanti alla porta chiusa. Prostrato sulle scale, mi sento sollevare con fatica da qualcuno, voltandomi vedo il viso sgraziato dello Zoppo. Il suo tanfo è orribile, ma vuole aiutarmi. Una volta in piedi lo osservo e mi accorgo che ha gli occhi blu, i capelli chiari e una profonda piega amara ai lati della bocca: un solco, che denuncia l’assenza di sorrisi, da sempre. Per un attimo riesco a immaginarlo da bambino. Una tristezza infinita sembra attraversare il suo volto poi, chinando la testa, se ne va senza sputarmi addosso.

Giovedì, 14 Aprile 1864

La giornata è volata via. Sono nel letto con gli occhi spalancati aspettando che arrivi l’ora, per ingannare l’attesa conto i battiti del cuore.

Nell’aria aleggia ancora l’odore della minestra di cipolle che mia madre ha cucinato per cena.

Nella stanza accanto odo il russare di mio padre, indisturbato e prepotente. Mio fratello respira così piano che faccio fatica a sentirlo. Guardo la luce nel cielo: sono quasi le tre, sollevo piano la coperta e scendo dal letto senza fare rumore. Sono già vestito con i pantaloni blu e la camicia bianca, quella nuova e non ancora indossata. Mi copro anche con la giacca di cotone.

Metto la mano in tasca e il contatto con la medaglia della Vergine mi dà la forza di proseguire. Passo davanti alla stanza delle mie sorelle, il pianto soffocato di Maria mi colpisce come un pugno nello stomaco. Vorrei tanto abbracciarla ma non

230

posso fermarmi, esco e chiudo la porta di casa. Scendo le scale leggero come fossi una piuma, ho solo un po' di arsura in bocca.

In strada mi sento smarrito, ma procedo vincendo la paura e vado verso Porta Susa camminando veloce. Nel silenzio della notte percepisco in lontananza lo sbuffo stanco della locomotiva a vapore. Sollevo il bavero della giacca e mi stringo nelle spalle come faccio quando ho freddo. Attraverso piazza delle Erbe; sotto il monumento al Conte Verde scorgo Milord, il vecchio barbone che parla con la sua ombra, giorno e notte. Vive in un mondo che vede e conosce solo lui. Mi guarda e il lampo di curiosità che si accende nei suoi occhi rossi mi accompagna fino a quando svolto nella contrada Italia.

Procedo giungendo in fondo alla via Cernaia. Il vento che soffia tra le foglie dei platani mi accoglie e grida come mille anime dannate, alcune mi chiamano, altre mi allontanano. Rallento il passo.

Poi la vedo, nelle mura della Cittadella, alta e austera, stagliarsi in un cielo ancora pieno di stelle. Mi avvicino, il cuore batte così forte da risuonare in gola e nella testa, come tuoni nella bufera.

Guardo in alto, stringo la medaglia e salgo sulla prima scala.

231

tutti

Ascoltami, se ti va, stanotte ho fatto un sogno.

Fluttuavo sopra il cielo, non so dove, non so quando ed a un certo punto mi sentivo toccare sulla spalla “Vuoi venire con me?” Era una creatura mai vista prima, normale come sembianze ma con qualcosa di diverso, una veste leggera di pochi veli le ornava un corpo esile, senza trucco, senza mani laccate, con capelli sciolti colore naturale.

La guardo con curiosità, da un lato mi attraeva l’idea, ma dall’altro sentivo anche quel consapevole timore di fidarmi e di assecondare un invito così misterioso ma soprattutto poi perché a me?

Sono una curiosa, non c’è niente da fare, non mi sono mai tirata indietro a cimentarmi in avventure, non ho mai avuto paura, l’unica paura che ho è delle giostre del Luna Park, e infatti non capisco perché ho fatto questo sogno ambientato nel cielo, dato che nella realtà ho una folle paura del vuoto.

Comunque, tornando a noi, Lei me lo chiede e io accetto.

Mi porge la mano, gliela do. Sento quella mano, è carnale, forte, sicura, entriamo in una strada fatta di nuvole bianche molto pannose (quasi mi viene di raccoglierne con un dito e di assaggiarne un po’) con tanti bivi ed incroci, tutti segnati da palloncini di vari colori, che evidentemente segnavano dei percorsi particolari, senza numeri, senza scritte, senza niente di indicativo. Continuo a seguirla ma sono distratta. “Cos’è questo - mi domandavo - e perché?” Questo azzurro è così azzurro e questo sole è così tiepido, con questa luce così calda ma che non ti brucia, ti avvolge come quando la sera, nei tramonti d’estate, il cielo diventa tutto rosa e tu incantato lo stai a guardare, mentre si adagia assonnato su quel velluto di mare…Il silenzio era lo stesso, non sentivo il vociare di nessuna persona, un silenzio bello, sottile di natura, con qualche uccellino che ogni tanto faceva capolino, colorato come un pappagallino ma col canto di un usignolo.

“C’è qualcuno che ti vuole vedere” mi dice la ragazza e io mi giro verso di Lei di scatto: “Davvero?”

Ero troppo stupita.

“Chi vorrebbe vedere me? E poi “Dove mi trovo? Non potresti dirmelo per favore?”

Silenzio.

Mi porta ancora avanti, entriamo in un grande spiazzo, il pavimento diventa più corposo, ha delle grandi losanghe romboidali molto simili a dei marmi chiari con leggere venature, dei gradini tutti intorno che incorniciano la

232
Dillo a
■ Tea Moscatelli da Rivoli (TO)

platea, mi ricordano esattamente le strutture della Roma antica come Porcia o Opimia, con grandi colonne e lo sfondo di grossi palazzi. In fondo c’era una enorme vasca di acqua trasparente, azzurra come quei mari che hanno fondali talmente bianchi e compatti che l’acqua ti pare irreale, quasi non la vedi. Tutto intorno c’era una polvere bianca che emanava un profumo dolce, delicato, avvolgente. Mi chino con la mano e ne prendo un po’: era Borotalco, indubbiamente, mi faceva inebriare e, man mano che andavo avanti mi dicevo; ma questo è un posto da favola, sono entrata dentro una favola? “Chi è che mi vuole vedere?” Entriamo in un palazzo, era tutto dorato, mai visto tanto oro in vita mia Neanche Versailles poteva competere con lui, aveva saloni, camere ammobiliate, camini, intarsi, splendidi lampadari, meraviglie in ogni angolo, ma aveva una particolarità: non c’era nessuno, vuoto, deserto, in effetti in tutto il percorso fatto non avevo mai incontrato una persona. Era strano quest’ambiente, un posto di silenzio, isolato da tutti e da tutto, mi attraeva e mi spaventava. La ragazza si ferma davanti ad una porta e mi dice: “La persona che vuole vederti è qui”. Il cuore mi sussulta, sono curiosa e, diciamo la verità, terrorizzata. “Chi sarà mai?” “Vai, mi dice la ragazza, Vai.” Ero impietrita, ma mi dicevo: “Vai devi entrare, hai scelto la tua sorte” Apro la porta, pesantissima per le mie forze, ci sono due uomini, uno dietro ad una scrivania e l’altro davanti che non vedo. “Venga!” mi chiama con voce imperiosa la figura dietro la scrivania, che inizio a focalizzare con la vista: era un signore barbuto, tutto bianco, avanti con l’età, vestito semplicemente con colori chiari coloniali, la scrivania era trasparente, di cristallo, ma con niente sopra e l’anziano bianco vestito aveva solo una matita in mano, una matita d’oro.

“Allora, so che lei si definisce una persona coraggiosa? Vero?”

Io lo guardo, ma sono ancora un po’ lontana, mi avvicino lentamente, ma la mia timidezza sta prendendo il sopravvento. “Si, abbastanza”, farfuglio incominciando a tentennare. “Perché c’è qualcuno qui che la voleva salutare, quell’ultimo saluto che lei con la sua codardia e la sua incapacità di affrontare la Morte non ha voluto dare! Ci risulta che tutte le altre sue sorelle lo hanno salutato in punto di morte, ma lei no! Altro che paura delle giostre, qua si tratta di cosa ben più sera eh?” “È vero tutto ciò?” Sono paralizzata dalla testa ai piedi, mi avvicino, voglio provare a dire qualcosa ma, balbetto, ora so chi c’è seduto di fronte a quello sconosciuto, mi avvicino, Lui si volta e mi guarda, mi perdo come mi sono sempre perduta dentro quello sguardo di un azzurro pervinca tendente al viola, unico nel suo genere, innamorata da subito, da quando sono nata, persa per il suo modo di essere, di seguirmi senza esserci, di preoccuparsi senza una ragione, di parlarmi quando lo doveva fare, di tacere quando era necessario, di consigliarmi per farmi seguire la giusta strada, persa perché è l’uomo che ho amato incondizionatamente e

233

quello che più mi ha fatto male, quando se n’è andato.

“Papà, “Gli dico, sei Tu?. Sei Tu che mi hai voluta vedere?”

“Si, sono io, avevamo questo in sospeso io e te. Tu non sei venuta quel giorno ed io ti aspettavo. Ma lo so, ti conosco, è questa la tua vera debolezza, non ce la fai ad affrontare la tua paura, quella vera, la paura della morte, della morte dei tuoi cari. Era questo il motivo lo so perché non ho potuto vedere il tuo viso per l’ultima volta, anche bagnato dalle lacrime che avrei voluto assaporare. Volevo dirti che non ti devo perdonare, perché un papà capisce perfettamente tutto quello che hanno dentro i suoi figli, le loro fragilità, i loro limiti, i loro innumerevoli difetti, non ti devo perdonare perché so quanto tu hai sofferto per non avere fatto questa cosa, un senso di colpa che ti porti dietro e che non ti fa dormire bene la notte, lo so. Sono venuto qui per salutarti, guardandoci negli occhi, vedendoti adesso, serena e pronta ad affrontare la Vita senza di me. Abbracciami la mamma e dille che l’aspetto, anche se è troppo presto per Lei, abbracciami i tuoi bimbi, i miei amati nipoti che tanto mi sono mancati, anche se ho vegliato sulle loro vite dando a loro tutto il mio amore, a tuo marito che ha tenuto duro e non ti ha lasciata, nel momento in cui gli è crollato tutto. Tu non lo nego e lo sai, eri la mia preferita, anche se un padre non dovrebbe dire così, ma lo eri, perché tu sei la più fragile ed io ho sempre saputo che tu avresti avuto una vita altalenante, senza una linea sicura. Si alza e ci avviciniamo tutti e due, guardandoci intensamente.

“Papà, Addio” Il suo calore mi entrava nella pelle, era tiepido, sembrava quel sole che si percepiva prima al tramonto sul mare. “Non addio, figlia mia, ma arrivederci, ti aspetto qui, ti porterò, quando verrai, a vedere le meraviglie di questo palazzo, infinite e stupefacenti. Adesso vai, è chiarito tutto tra di noi. Stai serena, ma ricordati, non devi avere paura della Morte, ognuno di noi deve abbandonare la vita terrena, ma esiste altro, ricordatelo. Dillo a tutti quando torni, promettimelo. Non voglio che le persone non sappiano. “Ti voglio bene, vai adesso, è tardi”.

“Sì, Papà, è ora, a presto!”

234

Qualcuno, che non aveva voluto dire il suo nome, aveva allertato il 113. C’erano stati degli spari a turbare la quiete di una villetta di Baldissero Torinese, sita in una pacifica via nella quale si succedevano, ben distanziati, lindi edifici monofamiliari. Oltre che alla Questura di Torino, una telefonata di soccorso era giunta dal medesimo indirizzo anche alla Stazione dei Carabinieri di San Mauro

Il maresciallo aiutante Saverio Pizzuti, al comando della Stazione, aveva ritenuto di portarsi personalmente sul posto per controllare. Da quelle parti abitava anche un suo cugino. Al volante della Tipo nera si era messo il brigadiere Anselmo Giacchini, che si era presentato, quel mattino, con un taglio di capelli nuovo, al limite del regolamento. Strada facendo, Pizzuti si era ripromesso di mettersi lui al volante al ritorno. Quella specie di Ercolino del brigadiere guidava come se il servosterzo non l’avessero mai inventato e la frizione fosse lì per bellezza. La strada per Baldissero era stretta e fitta di curve cieche. E stava piovendo, anche se non tantissimo, ma quanto bastava per rendere l’asfalto viscido. Il suo malumore crebbe vedendo che davanti alla villetta che si presumeva fosse teatro della tragedia vi erano già parcheggiate due vetture e una di esse era un’auto bianca e celeste della Polizia.

Invitò Giacchini a rimanere in auto. Lui, invece, smontò dalla Tipo e constatò con sollievo che la pioggia era cessata. Avanzò schivando alcune pozze d’acqua sul selciato per non rischiare d’inzaccherare la divisa e salutò con ironica cordialità il poliziotto in borghese che l’aspettava accanto alla Volante, mostrandogli il proprio distintivo che lo qualificava un ispettore di P.S. «Buongiorno, ispettore. Come mai da queste parti, nel territorio di nostra competenza?»

«Per pura combinazione, maresciallo. Stavamo dirigendoci a Chieri per un sopralluogo, quando ci hanno avvertito dalla centrale» rispose il poliziotto, di media statura e dal viso gioviale, contornato da una corta barbetta. Pizzuti si presentò e l’ispettore Enrico Bianconi fece lo stesso.

«Vi hanno telefonato? La chiamata al 113 era anonima e generica. Hanno parlato solo di alcuni colpi d’arma da fuoco» precisò quest’ultimo.

«Sì. L’abbiamo ricevuta alle dieci e trentacinque, per la precisione. Ci ha avvertito la sorella della vittima, che ha però parlato di due morti».

«Ma alla nostra centrale hanno telefonato alle dieci e quindici, maresciallo. È vero Tripodi?»

235
Delitto d'amore Maurizio Rosi da Torino

Il sovrintendente Alfio Tripodi, interpellato, lasciò anch’egli la vettura e si affrettò a spegnere la sigaretta che stava fumando. Prese posto accanto al maresciallo, di statura non eccelsa, sovrastandolo di quindici centimetri buoni. «Proprio così. Ho preso io stesso la telefonata passatami del centralino, maresciallo» confermò il poliziotto dal cranio rasato, che aveva lasciato il berretto in macchina.

«Quindi non ci resta che collaborare» concluse Pizzuti «Siete già entrati?»

«Non ancora. Siamo appena arrivati. Che si fa? Andiamo a vedere insieme cos’è successo?»

Il maresciallo fece un cenno a Giacchini, che lasciò l’auto col lampeggiante in funzione e si unì ai tre. Alto e di robusta costituzione, il trentatreenne formava, assieme al ben più maturo Tripodi, una coppia vivente dei Bronzi di Riace. Il quartetto si mosse di conserva e si fece strada fin dentro la villetta.

Sia il cancello esterno sia il portone d’ingresso erano socchiusi. Li avevano aperti dall’interno quelli che avevano notato l’arrivo della Volante.

Sull’uscio si fece loro incontro una donna non ancora quarantenne, gli occhi pieni di lacrime. Questa, rispondendo alla domande delle forze dell’ordine si presentò come Immacolata Lamastra. La villetta era l’abitazione di sua sorella minore Filomena.

Li condusse dapprima in cucina, dove sul pavimento si trovava il cadavere della sorella, immerso in una pozza di sangue.

«E non è finita» disse la donna, invitandoli a seguirla.

Nella stanza da bagno giaceva riverso su un fianco un altro morto. Un uomo sulla quarantina che, apparentemente si era suicidato sparandosi un colpo in testa. Qui di sangue ce n’era di meno.

La donna e i quattro inquirenti si portarono nel soggiorno, per non disturbare la scena dei crimini.

«Visto che siamo arrivati per primi, maresciallo, se non le dispiace inizio io l’interrogatorio».

Pizzuti fece un cenno d’intesa al sovrintendente e assentì col capo.

La morta, confermò la teste, era sua sorella Filomena. L’uomo nel bagno era il marito separato di lei, Daniele Dabbene.

«Avevo appuntamento con Filomena, ma, non vedendola, ero passata da lei. Ero sicura che fosse in casa e invece non mi rispondeva al telefono. Così ho fatto un salto fin qui con l’auto. Appena arrivata di fronte al cancello esterno ho sentito sparare, allora mi sono affrettata a entrare con le chiavi che mi aveva dato lei e li ho trovati morti come li vedete voi» raccontò Immacolata. Avendo constatato che entrambi i coniugi erano morti e stecchiti, i due investigatori decisero che era inutile allertare un’ambulanza. Quanto alla Mortuaria, ci avrebbero pensato gli specialisti della Scientifica dopo i loro rilievi. Furono invece subito avvertiti il medico legale e il magistrato di turno.

236

Giacchini e Tripodi rimasero nella stanza con la signora Lamastra. Bianconi e Pizzuti, invece, tornarono prima in cucina e poi nel bagno. Constatarono che la defunta, Filomena Lamastra, aveva ricevuto due pallottole nel torace. Il sangue fuoriuscito da quelle ferite mortali era poi colato a formare una pozza sulle piastrelle grigie del pavimento. Non indossava abiti da casa, forse si preparava a uscire, come affermato dalla sorella. Era distesa su un fianco e protendeva un braccio verso una portafinestra che dava sul retrostante piccolo giardinetto. Una scia rossastra sul pavimento sembrava suggerire che non fosse morta sul colpo. Questo era invece certo avvenuto per il marito. Una pallottola l’aveva colpito al centro della fronte, ma non gli aveva spappolato il cranio. L’arma usata giaceva accanto al cadavere, spiccando sulle piastrelle blu che tappezzavano la stanza da bagno. Era una pistola semiautomatica di piccolo calibro, una Walther PPK380. Il morto era a torso nudo e indossava i pantaloni di un pigiama.

I due ispezionarono al meglio anche gli altri ambienti della villetta, stando attenti a non pregiudicare il lavoro degli specialisti che sarebbero intervenuti in seguito. Non trovarono alcunché si potesse collegare alle due morti.

«Mi sembra abbastanza chiaro quello che è successo» concluse Bianconi

«Si tratta di un altro femminicidio, purtroppo. L’ennesimo, di questi tempi. Stavolta, per fortuna, non ci sono andati di mezzo bambini o altre persone. E quello stronzo del marito ha deciso di togliere il disturbo».

Il maresciallo non replicò e lo seguì per tornare nel soggiorno. Dopo la pioggia ora il sole entrava dalle grandi finestre in contrasto con l’atmosfera lugubre causata dagli eventi. Immacolata Lamastra era seduta su una seggiola, china su se stessa, gli occhi arrossati per il pianto. Il giovane brigadiere della Benemerita le stava vicino, apparentemente per farle coraggio nel suo dolore. In realtà, non gli dispiaceva affatto quell’incarico. Stare accanto a quella bella figliola era un premio, non un incarico gravoso. Magari avrebbe avuto una scusa per poterla conoscere, in futuro. I due nuovi venuti si fermarono dinnanzi alla donna e attesero che quella, sollevato il capo, li guardasse.

«Mi spiace molto disturbarla in questo momento così tragico, signora, ma occorre che le faccia anch’io qualche domanda» iniziò con la massima delicatezza il maresciallo, dopo essersi presentato.

«Cos’altro vuole che le racconti? Non basta quello che vi ho già detto?»

Pizzuti scambiò uno sguardo con Bianconi e mormorò «Le chiediamo scusa se siamo troppo pressanti, signora Lamastra, ma è la prassi».

«Signorina Lamastra, in effetti. Che cos’altro volete chiedermi? Dite pure, allora».

«Si tratta di una tragedia improvvisa e imprevedibile, o è l’epilogo di una lunga storia? Abbiamo capito che i due coniugi si erano separati, ma provi ad aggiungere qualche particolare, se può».

237

«I rapporti tra mia sorella e Daniele erano andati peggiorando sempre di più negli ultimi mesi. Quel disgraziato si era messo con un’altra donna, capisce, da un paio d’anni. E quando Filomena ne è stata certa, hanno iniziato a litigare. Per parecchio tempo; poi, alla fine, lei aveva chiesto la separazione. Qualche mese fa lui si era riavvicinato a mia sorella, per qualche giorno erano tornati a vivere insieme, ma in realtà mio cognato non aveva mai lasciato l’altra, perché l’amava davvero. Era iniziata una nuova separazione e Filomena aveva giurato che non se lo sarebbe mai più ripreso. Invece da qualche giorno lui sembrava tornato di nuovo all’ovile, il pecorone, contrito. Ed è finita così: A schifio. Mi chiedo cosa sarebbe successo se fossi arrivata prima. L’avrei salvata? O magari quello avrebbe ammazzato pure me?»

Mentre la donna parlava, Pizzuti l’osservava con attenzione. Le due sorelle si assomigliavano parecchio. La viva più attraente della morta, ma entrambe assai piacenti, tipi mediterranei con occhi e capelli scuri e forme ben delineate. Che poteva solo intuire, infatti Immacolata aveva ancora addosso un impermeabile umidiccio e calzava stivaletti pesanti da pioggia. Qualcosa non quadrava e nonostante continuasse a tormentarsi i folti baffi, non si sentiva soddisfatto.

«A che ora è arrivata qui, signorina?»

«Qualche minuto prima che telefonassi al 112, maresciallo. Non so perché non ho chiamato voi a San Mauro. Ma avevo visto subito cos’era successo, purtroppo, ed ero agitatissima».

«E come ha fatto a dire che erano entrambi morti? Si è avvicinata? Li ha toccati?» ricominciò l’interrogatorio Bianconi.

«Soltanto a mia sorella, per essere sicura. Che quell’accidenti fosse morto, con un colpo in testa, era evidente».

I due investigatori interruppero il colloquio. Era arrivato il medico legale. La porta del soggiorno fu chiusa, mentre quello esaminava le due salme. Bianconi e Pizzuti assistettero in silenzio. Alla fine quello li relazionò e tornarono dalla testimone.

«Grazie per il suo tempo, signorina. Però, mi ascolti, dobbiamo per forza attendere che arrivino anche quelli della Scientifica. Ci vorrà del tempo. Si metta comoda e si tolga di dosso quell’impermeabile, che poi magari si ammala» l’invitò l’ispettore col suo miglior sorriso, che quella non si fece pregare di rendere, mentre ne seguiva il suggerimento.

«Maresciallo Pizzuti, mettiamoci d’accordo. La nostra Scientifica o il vostro RIS? Per favore, mica tutt’e due!» Decisero che sarebbe intervenuto il Reparto Investigazioni Scientifiche dell’Arma da Torino e si disposero ad attenderlo. Intanto lo sguardo del giovane Giacchini non smetteva di perlustrare la testimone, che indossava dei jeans, ma anche una camicetta notevolmente stretta e fasciante che ne sottolineava il seno fiorente. La camicetta era gialla a fiorellini arancioni.

238

Anche Bianconi era stato attratto dall’avvenenza della donna. Pizzuti, invece, non aveva mancato di notare qualcos’altro. Tra i fiorellini arancioni ve ne erano altri, più piccoli, di colore rosso vivo.

«Se con me avete finito, mi piacerebbe tornare a casa mia. Non abito lontano, ispettore. Poi, se vi servo ancora, posso tornare in cinque minuti».

La testimone lanciò un altro invitante sorriso a Bianconi. «Per me va bene».

«Io invece la pregherei di restare ancora un po’ in nostra compagnia, signorina» insisté il maresciallo.

Era stato colto da un’intuizione e si allontanò per andare a telefonare all’ARPA, chiedendo del responsabile della meteorologia.

«Allora comanda lui, qui?» chiese provocatoriamente Lamastra, in sua assenza. «No, ma io sono un funzionario della Mobile, mentre il maresciallo è il comandante della Stazione Carabinieri di competenza territoriale. E il mio dirigente mi ha pregato di non pestargli i piedi».

«Almeno una sigaretta posso fumarmela, ispettore?» «Ma certo, signorina. La prego».

Immacolata si accese una Marlboro e iniziò a tirare boccate nervose.

«La infastidisce così tanto aspettare qui con noi?» domandò cortesemente Bianconi.

La giovane donna non poté rispondere perché in quel momento rientrò nel soggiorno il maresciallo esclamando «Bene, bene, bene!».

L’ispettore e la testimone si volsero a guardarlo in maniera interrogativa. «Direi che, a questo punto, potremmo tirare alcune conclusioni. Iniziamo dal suo arrivo, signorina. Dal Servizio Meteorologico mi hanno confermato che qui a Baldissero ha piovuto abbondantemente dalle nove alle dieci circa. Poi solo poche gocce d’acqua fino alle undici. Dopo, alcuni scrosci di pioggia seria che sono durati fino alla undici e mezza, come ho constatato io stesso al mio arrivo. Lei abita a cinque minuti in auto da questa villetta, così ci ha detto. Ed è venuta in macchina, parcheggiata qui davanti. Se fosse arrivata diciamo alle dieci e mezza, cinque minuti prima della sua telefonata al 112, non si sarebbe inzuppata come l’abbiamo trovata. Se invece fosse giunta prima delle dieci, ecco che le condizioni del suo impermeabile e del suo ombrello, che sta ancora gocciolando adesso, troverebbero giustificazione.

«Ma cosa inventa, maresciallo! Sono arrivata quando vi ho detto e poco dopo li ho trovati morti e ho telefonato. Pioveva un bel po’ qui a Baldissero» pronunciò a voce piuttosto alta Lamastra, che si affrettò a spegnere quanto restava della sua sigaretta.

«Andiamo avanti, signorina. Il medico legale ha stabilito che la morte di entrambi i coniugi si colloca tra le nove e trenta e le dieci e trenta. Occorrerà l’autopsia per una maggiore precisione. I tempi sono compatibili, per un pelo,

239

con la sua testimonianza».

«Compatibili, appunto. E allora? Dove vuole andare a parare? Vuole forse sostenere che ho mentito? Perché dovrei farlo?» sbottò di nuovo la donna. «Ottime domande, davvero. Vedremo di rispondervi. Ma il medico legale ci ha già detto qualcosa d’altro. È piuttosto anormale che ci si suicidi sparandosi in fronte. Piuttosto alla tempia, o in bocca. In questi casi, lo scoppio dell’arma provoca una bruciatura più o meno estesa dell’epidermide circostante la zona d’ingresso del proiettile. Che sul cadavere di suo cognato è assente. Pertanto, escludendo che si sia tolto la vita sparandosi tenendo il braccio teso di fronte a sé con la pistola in mano, Dabbene non si è suicidato. Eppure sono convinto che sulla pistola accanto al suo cadavere gli uomini del RIS troveranno le sue impronte. Io ho nel frattempo fatto controllare che la Walther era di sua sorella Filomena, che l’aveva regolarmente denunciata. Sono altrettanto sicuro che lo STUB che eseguiranno sulla mano di suo cognato non mostrerà le particelle di polvere da sparo che avremmo sicuramente trovato se lui avesse esploso tre colpi».

«Quindi questi indizi sarebbero contraddittori, maresciallo» osservò Bianconi. «Forse no, ispettore. Perché quei tre colpi d’arma da fuoco erano stati segnalati da una telefonata anonima arrivata a voi intorno alle dieci e quindici. Mentre lei, signorina Lamastra, ci ha detto di averli sentiti prima di entrare, intorno alle dieci e trenta. Ora dalla pistola, un’arma da donna, mancano solo tre proiettili. Che evidentemente non sono stati sparati quando sostiene lei. Adesso possiamo provare a fare delle ipotesi. Che lei sia arrivata qui ben prima delle dieci e quindici, quando pioveva forte, e abbia assistito al fattaccio. Oppure ancora, che le cose siano andate del tutto diversamente. Volete venire, ragazzi?»

Fecero ingresso nel soggiorno due carabinieri vestiti di bianco. Erano giunti gli esperti del RIS. Da una cassetta uno di loro estrasse un tubicino. «Dovremmo passarle questo reagente sulla mano, signorina» disse uno dei carabinieri in tuta. «No! Mi rifiuto!» esclamò lei, incrociando le mani sotto le ascelle. «Non può. Dobbiamo portarla in caserma in manette e farglielo lì il test?» disse piuttosto rudemente l’ispettore, che stava iniziando a capire dove il maresciallo volesse andare a parare.

Immacolata si rassegnò e porse la sinistra.

«È mancina, lei?»

Quella scrollò il capo, lanciò uno sguardo carico d’odio al maresciallo, e stese la destra. Il tampone, dopo essere passato tra le sue dita finì nel reagente. «Positiva. Senza errori. Ha sparato» confermò il tecnico del RIS. «Va bene. Adesso la controprova: fate il test al presunto suicida» ordinò Pizzuti. Passarono pochi minuti, poi arrivò la conferma. Non c’erano tracce di polvere

240

da sparo sulle mani di Dabbene.

«A questo punto possiamo ridisegnare la storia degli avvenimenti» tornò a esporre il maresciallo. «Daniele Dabbene sposa Filomena Lamastra. Ma, non sappiamo quando, inizia una relazione segreta con la di lei sorella Immacolata. Filomena scopre che il marito la tradisce, ma non con chi. Forse preso da rimorsi o rimpianti, Daniele si riavvicina alla moglie, dalla quale si è separato dopo la rottura. Ma la sorella, lei, non vuole perdere “quel disgraziato” del quale è diventata gelosa: è convinta che Daniele “l’amava davvero”. Infine, colpito da una notizia, il marito “pecorone” decide di tornare in famiglia. Tutte parole sue, signorina. Immacolata, se non potrà averlo per sé, non lo lascerà ad altre, nemmeno alla sorella. Così uccide prima lei e poi lui, o magari viceversa. Simula che si sia trattato di un femminicidio e pensa di averla fatta franca». «Che fantasia! Per quale motivo Daniele sarebbe tornato da Filomena?» esclamò con un falso sorriso colei che da testimone stava diventando accusata. «Perché sua moglie era incinta. Di un figlio generato durante il loro temporaneo riavvicinamento. L’ha constatato il medico legale. Con l’autopsia ne avremo certezza, anche dal punto di vista genetico. E lei, essendone stata ingenuamente informata da Filomena, ignara della vostra tresca, ha capito che i due si sarebbero riappacificati definitivamente». «Ipotesi, non prove. Tutto quello che ha contro di me consiste in quella polverina trovata sulle mie mani? Magari ho toccato la pistola. Sì, è cosi!» protestò.

«In tribunale potrebbe bastare. Ma un’altra prova ce la fornirà lei, adesso. Si tolga quella camicetta, prego». Volarono alcune parole grosse, poi alla fine Immacolata dovette accondiscendere. Se la sfilò di dosso per poi indossare una maglia della sorella che Tripodi aveva provveduto a trovare in un comò. L’operazione fornì squarci interessanti del busto della giovane bellezza. «Vede, signorina» spiegò il maresciallo mostrandole da presso la camicetta «Quando si spara a distanza ravvicinata, come ha fatto lei col suo amante per colpirlo in modo che venisse simulato un suicidio, piccoli spruzzi di sangue colpiscono anche chi ha maneggiato l’arma. E quando analizzeremo il sangue sulla sua camicetta, ci sarà la conferma che è quello di Daniele Dabbene, al cui cadavere lei ha affermato di non essersi avvicinata. A questo punto, io la cedo alle cure del magistrato che sta per arrivare, ma mi permetto di darle un consiglio: confessi. Alleggerirà la sua posizione, per quanto è possibile».

Il brigadiere Giacchini provvide, con un certo disagio, ad ammanettarla. Bianconi, Tripodi e il maresciallo Pizzuti lasciarono la stanza. Quest’ultimo tese la mano all’ispettore, che la strinse senza esitazioni.

«Le faccio i miei complimenti, maresciallo. Un’indagine rapida e completa, da vero detective. Lo scriverò nel mio rapporto, non tema».

241

«Grazie, Bianconi. Ancora una volta qualcuno si è creduto molto furbo, ma in fondo era uno sciocco».

I due poliziotti salutarono i carabinieri e si diressero alla loro vettura per tornare a Torino. Pizzuti rimase lì ad aspettare l’arrivo del magistrato, che confermasse il fermo dell’indagata. Sentendo l’approssimarsi di una sirena, si allisciò i baffi e iniziò a sorridere.

242

ERA MIO PADRE

Quando maggio busserà alle ginestre, i cespugli si vestiranno di sole, le rondini saranno già tornate. Ascolta il respiro delle stagioni, ricorda il canto del tuo mare non avere paura di spiccare il volo nel mondo, segui sempre la strada del cuore traccia nuovi solchi nella tua vita per nuovi raccolti. Si schiuderanno le tue incertezze, e la tua sicurezza Sboccerà come le rose, saranno solo sorrisi Sui tramonti dei tuoi giorni.

Quando la nostalgia è un forte impeto “Chiamami”

Ti parlerò del nostro campo di grano, del profumo dei limoni, ti parlerò della luna nelle notti d’estate.

Quando il richiamo della tua terra ti fa star male “Chiamami”

E di questo che mi parlavi, della semplice bellezza della vita, dell’amore, e di tutto ciò che ci circonda.

Più passa il tempo e più ti vorrei chiamare, ma in questo mondo non ti trovo più.

243
Era mio padre Maria Accorinti da Nichelino (TO)

Massimo Apicella da Cumiana (TO)

Tutto in un respiro

Sono l’albero che oscilla nel vento alle porte della primavera.

Sono il falco che disegna cerchi sull’azzurro gridando al cielo la sua libertà.

Sono l’arvicola affannata che cerca scampo sotto al ceppo annusando il fremito dell’aria.

Sono il bosco che veste la montagna innalzando preghiere fra i rami.

Sono il torrente che corre verso valle accarezzando pietre e radici.

Sono la vita che si veste di luce illuminando gli angoli bui dei sogni.

Sono questo pianeta sono infiniti altri l’immensamente piccolo l’immensamente grande.

Sono il tutto e il tutto è in me e il tutto sei anche tu e il tutto è lei e il tutto è lui e il tutto è tutti perchè altro non potrebbe essere. Tutto in un respiro.

244

Rivetti a dar forma all’ala che monto sul mio abitacolo. Galleggio, ma non ho vela. Non mi resta che il decollo. Saranno notti sull’acqua, e riflessi delle mie posizioni a guidare in fuga la mia prua. La resa alle mie condizioni. Ma nel buio ti cedo la cloche. Eppure tu non eri a bordo. Sono in volo con i folli di Bosch, Ti ho vista sul molo, lo ricordo, la mano alzata in un saluto sulla torre del mio controllo. “Non potevo. Non avresti dovuto. Sono qui contro ogni protocollo” Sei qui con la tua pelle liscia. Nessuna giunzione, quando ti sfioro. Rolliamo, senti?, ma ho fiducia; ho un orizzonte, vedi?, mi preparo. Regge, ora, questo guscio sottile. Ora che fuggire è solo un viaggio. Prendi quelle insegne, àprile. Ora che non vago. Ora che veleggio. Non ho un transponder. Inventalo. Regalami il tuo udito del cervo: a miglia, così, nessun pericolo, anche se il fuori è freddo e torvo.

L’isola ci vede, ora. La spiaggia offre onde dolci alla planata; se mai il volo ci venisse in uggia sarebbe discesa, mai più picchiata.

245
Rivetti a dar forma all'ala Paolo Barbagelata da Genova

Molte patrie ed una Promessa Terra sulla rotta profetica d’un mare in secca che aprì il varco al condiviso anelito d’esiliata genìa in schiavitù. Poi nell’indifferenza tornò la notte del deflagrante magma, d’esasperata follia fattasi legge. Smembrate le costellazioni ignare per infinite gelide rotaie oltre i confini di indurite lande. Dilatata angoscia nel silenzio greve scandìto da sobbalzi e prolungato stridere d’acciai, in laidi convogli di stelle gialle stivate per l’ignoto. Incessante furor d’aspri latrati, rabbia d’invasate maschere in orbace assimilate ad aliene fiere nell’arena.

Sfinita nudità di tremebonde foglie prossime a cadere nel tempo teso tra preghiera e morte, tra fronti d’onde di un antico male. Fantasmi resi alle cineree nuvole da sinistro camìno erto nel campo come chiodo nel confisso cielo. Nembi di dissacrata libertà, quante deposte lacrime di piombo ci vollero prima di affidare le reliquie al vento, finché durò il crepuscolo degli uncinati démoni,

246
Milano binario 21 ■ Giuseppe Bianco da Casoria (NA) ▶

lenta si levò l’esule malinconia ininterrotto incedere di provato coro, adagio di sommesse voci erranti alle pie volte delle falbe stelle.

Oltre le porte dell’antico sogno, il buio del firmamento non ha spazi per le promesse zolle custodi dei sepolcri. Sale al cristallino empireo il dolore dei giusti, consacrata luce, eterna verità della memoria.

247

da

Funambolismi

E ti donavi al lento scivolare del giorno, si scioglievano i rumori e lambivi con la mano l'eterno.

Il tempo e lo spazio si dissolvevano nell'aria alienandoti una realtà di sottofondo.

Una calma improvvisa cancellava l'odore dei ricordi solidali gli alberi non muovevano le foglie.

Nel bianco della memoria la coscienza sonnecchiava e tu ne approfittavi per scrollarti le verità e le menzogne.

Nevicava e non c'era spazio sulla neve per le ombre.

248
■ Angelo Chiarelli
Padova

Poesia : Pagine di Guerra

Erano ormai solo più cumuli di rovine, una città devastata , urla rapite dal gelo della morte. Camminava attonito senza meta , spogliato dai suoi sogni , la vide sepolta tra pagine sbiadite di un giornale, una piccola bambola, la raccolse quasi in ginocchio, come in un perdono silenzioso, la strinse tra le braccia. Scesero copiose delle lacrime su quella terra crocifissa, intrisa di sangue e di dolore .

La sua famiglia ora solo un ricordo, che la guerra aveva distrutto sotto una pioggia di fuoco, fame, freddo, terrore, odio.

I corpi stesi sparsi, senza una degna sepoltura giacevano .

Il buio della notte incombeva come avvoltoio spettrale, su quello scenario sempre più disumano . Guerra! Tuonava quella parola, flagellava i cuori e le speranze.

Il grido della Pace risuonava nell’Universo, tendeva il suo abbraccio implorando l’amore, cercava in quella umanità smarrita, una saggezza deflagrata, da un potere inasprito dalle armi . Nello scorrere dei giorni, salivano al cielo parole di preghiere, liberate come rifugio consolante, cercando nello sguardo Divino, la rassicurazione di un Padre che non abbandona i suoi figli .

249
Pagine di guerra Anna Maria Conti da Collegno (TO)

da Torino

L'addio di una madre

L'addio di una madre Le albe cadevano nel mio corpo stanco il dolore come martello sulle ossa. Sentivo l’aria tra i capelli e guardavo le nubi come pensieri avvolti da cellophane poiché immobili custoditi restavano lì come un peso nel cielo. Era un addio che non passava ma lento martoriava la carne dentro di me il tuo addio era assordante (Madre) come una carta vetro nel cuore che ad ogni movimento sanguinava. Era l’addio di una madre ancora lo ricordo i miei occhi come fauci ormai prosciugati ancora il dolore è qui con me

250
■ Patrizia Cosenza

Diseguali sagome arrotondate oltre l'orizzonte dell'argine del canale Taglia lo sguardo un pioppo solitario. Come note di uno spartito chiazze di luce illuminano le cime

251

Valeria D'amico da Foggia

Avremo

Avremo ancora giorni avidi di fiori e foglie a rinverdire per gli stormi, profumo di zagare e di mare, e mani buone ad impastare il pane da smezzare con chi non ha memoria del passato, ma solo sogni quanto basta per campare. Avremo ancora voglia di sorridere nel pianto e alberi saldi da potare guardandoli elevarsi fieri al cielo, sicuri che in ogni tempo e luogo sapranno mettere radici e avere occhi sospinti ad indagare tra il fogliame. Avremo parole di labbra per salvare quello che resta di un finito amore, parole di pietra per macinare anche l’ultimo minimo e stantio dolore. Avremo parole rosso porpora a colorare sguardi custodi di un silenzio disadorno e parole di neve nascoste nelle tasche, da sciogliere sugli spigoli dei dubbi. Avremo la misura esatta di ogni salto, della parabola di ogni arcobaleno teso a cingersi col mare, della frazione di luce necessaria per fare un’altra alba, la formula completa della nostra finitudine, sottratto lo stupore della meraviglia che ci salva.

252

Di

Deserto

Deserto

Seduto sullo spettro di una vita mai cominciata a rincorrere falsi miti a contare il tempo, perduto e terso oltre le linee dei rifornimenti di una traversata nel deserto avvolto dal nulla che ti annulla guardi fuori per non guardare dentro, mentre chi sei veramente sotto i fendenti dell’ambizione deve ogni notte cambiare rifugio in un angolo diverso del tuo cuore.

253
Luca
Gianfrancesco da Roma ■

Dedicata ai martiri del campo di sterminio di Treblinka Lamenti, pianti, lai ed alte grida squarciano l’aria immemore e silente della radura che si affaccia al bosco e uno stridore orribile di ossa gettate nelle fosse a concimare la terra della morta libertà. Il tempo non è altro che un dettaglio un orologio senza le lancette una realtà che si ridesta ancora negli occhi delle anime innocenti strappate al loro corpo con ferocia a sangue freddo senza una parola.

La morte spalancata dai sorrisi che celano la truculenta sorte arriva silenziosa a soffocare le urla che precedono il trapasso. Dall’empio cimitero di Treblinka orripilanti quadri dell’orrore si levano dal fondo dell’abisso a rammentare i giorni dell’inferno l’estrema concezione del tormento.

Il passo lento al limite del pianto lembi di pelle morta ormai cadente ed occhi sanguinanti di paura di fronte alla certezza della fine.

In preda al folle ballo del terrore i crucchi sono mostri deliranti spargono semi tristi e velenosi a cancellare il germe della vita.

254
Il bosco delle anime
■ Vittorio Di Ruocco da Pontecagnano Faiano (SA)

Trionfa la vertigine del male e volano a migliaia come fantasmi finiti nella morsa dell’inganno i condannati della sporca guerra. La lista interminabile di vite scaraventate oltre l’esistenza è una ferita che non cicatrizza e strazia gli occhi e infiamma la memoria. Anch’io resto impietrito nel tramonto disteso su una lapide che piange e gronda sangue e grida ad alta voce: il bosco delle anime non arda lasciando al mondo cenere ed oblio ma tenere parole di speranza scolpite con la subbia del perdono nel cuore delle genti che verranno.

255

1.a) In quel declivio dolce, senza fine, 2.b) si spande un canto fievole di donna: 3.a) di bisso ha bianche vesti con le trine... 4.b) ha un volto fiorentino di madonna.

5.c) Sorride ed i suoi occhi son radiosi; 6.a) leggiadro è il passo e l’andatura affine 7.c) ad angelo che par che giammai posi 1.a) in quel declivio dolce, senza fine,

8.d) a terra il piè, ch’è in diafane scarpette. 9 b) Soave come un fior di belladonna 10.d) che vibra all’aria lieve e mai non smette, 2 b) si spande un canto fievole di donna

11.e) e ondeggia e vaga e aleggia nella valle 12.a) e giunge alle radure; è un filo, un crine: 13.e) ricama un pentagramma di percalle; 3.a) di bisso ha bianche vesti con le trine

14.f) e vola con le ali di farfalla. 15.b) Le note tra le pieghe della gonna: 16.f) ialina al sole, vola nel Valhalla... 4.b) ha un volto fiorentino di madonna.

* “Glosa”: antico componimento poetico in metrica, composto da una prima strofa, detta “mote”, e dalla “glosa”, propriamente detta: una serie di strofe di cui l’ultimo verso riprende, uno dopo l'altro, i versi del “mote”

256
Madonna fiorentina

Come Tex Willer

È un bivacco perenne questa mia vita randagia ed io sono ancora seduto sui talloni coperti da stivali di pelle arrotolando ricordi come tabacco bagnato in carta sottile. Nella notte scricchiola il legno che regala scintille prima di essere cenere e da lontano solo segnali di fumo e montagne coperte da alberi radi. Chissà in quale luogo si nasconde il nemico forse in qualche radura distante o nei meandri affollati della mia fantasia. Versami Carson un’ultima tazza di quella nera ciofeca domani salteremo sopra a un ronzino e faremo brillare le colt.

257
Luciano Giovannini da Roma ■

Kabul, sul lastricato di buone intenzioni, per noi è un quadrello che non vale il calpestio ai quotidiani risciacqui di coscienza.

Per questo era persa, in fondo, prima ancora d’esser stata. Lo scroscio vi crepitava silenzi come la lingua sul dente quando smette di far male. La sua caduta è stata un lungo rigirarsi assonnato di sconcerto, nell’indisturbato Ferragosto.

Avrebbe potuto essere un quadrello acuminato, Kabul, bianca nel sole che taglia.

Avrebbe potuto essere lama, pronta a rinfacciarci tanto, se noi si fosse stati, per una volta sola, uomini abbastanza almeno per il pianto.

258
Kabul ■ Alessandro Izzi da Gaeta (LT)

E dirsi addio

Le tue labbra non hanno più parole d'amore per me il tuo sorriso si è spento così come si è spenta l'ultima stella occhi senza pietà freddi come il ghiaccio mi entrano nell'anima si alza la nebbia nel mio cielo e la speranza tace e quando mi lascerai che sia in un giorno di pioggia così non scorgerai le mie lacrime che sia in un giorno di vento così non mi vedrai tremare come una bambina impaurita che sia in un giorno di foschia così non noterai il pallore sul mio viso stanco

Quando mi lascerai che sia in un giorno d'autunno dove sarà più dolce morire.

259
Daniela Lazzeri da Torino

da Lucca

Noi due, poeti dannati

Noi due, poeti dannati

Accadde così con gli occhi puntati sui nostri sogni nascondiamo i dubbi in tasca ma questo non ci basta, e i nostri occhi brillano Nascono nuove stelle e poi cadono insieme a noi. Con i desideri ancora da esprimere ci rialziamo, e amiamo con cuori spezzati e ci guardiamo con occhi bendati, e facciamo a botte con i testardi per poi rivelarci dei bugiardi, ma in realtà siamo dei codardi Noi che usiamo il tempo solo quando sta per finire, noi che ricostruiamo una speranza solo quando è pronta a morire.

Accadde e basta ci siamo consolati con parole mute, per poi allontanarci con gesti falsi, e abbracciarci con braccia stanche ma i nostri occhi brillano Nascono nuove galassie, iniziano nuovi viaggi ma ci mancano i nostri sguardi. Noi due, poeti dannati, che cerchiamo l’amore nei libri degli altri, senza renderci conto che la nostra storia

è tutta da scrivere, che il nostro amore è tutto da vivere.

260
■ Beatrice Lucchesi

La dittatura dell'amnesia

La dittatura dell’amnesia cancella i dettagli,

Azzera le differenze, Riveste le tare di false virtù.

Se smetto di funzionare come essere pensante, Nessuno mi spiegherà se il corpo ha deciso in autonomia

Oppure si è adeguato a una volontà superiore.

Il passato deve restare lettera morta

Il presente nutrirsi della vacuità

Il futuro non è contemplato.

La dittatura dell’amnesia disegna sagome in serie

Le mette in fila con lo sguardo oltre l’orizzonte

Oltre l’oceano, oltre le terre che non trattengono le onde Che annaspano nella memoria naufraga.

Solo biancore

Solo spruzzi schiumati a confondere i ricordi.

La dittatura dell’amnesia passa una mano di vernice sui volti ribelli Ingolfa il cervello Ne ostruisce i canali.

La dittatura dell’amnesia, Di cui abbiamo perduto origini e provenienza, Non tollera reazioni.

Unica azione consentita: annientare le schegge impazzite.

261

Dite a Caino

Dite a Caino che voglio parlargli di quando il vento, passando giocoso tra i nostri capelli, non scompigliava la nostra somiglianza. Noi eravamo fieri d’esser fratelli d’essere uguali, senza inganni, all’ombra dello stesso ulivo che abbracciavamo uniti cantando e tenendoci per mano. Liberi e senza affanni, pieni di speranza, ridevamo felici mostrando i denti senza ferirci. Dite a Caino che l’ho perdonato e che vorrei il suo perdono, perdono, per avergli offerto il petto senza difesa, senza reagire. Perdono, per tutte le volte che gli ho taciuto quanto è sbagliato uccidermi, senza darmi la morte.

262
■ Pina Meloni da Nichelino (TO)

Quel che resta dell'eternità

La mia mente è senza riposo, cerca sogni dimenticati. Si fanno pallidi i ricordi di mari infiniti sulla battigia stanca dei miei patimenti. La morsa della malinconia si fa struggente come le onde che, infrangendosi sulla scogliera, riducono in brandelli, la mia anima. Si fa eremita il pensiero che in questa lunga notte, il vento disperde impietoso, attraversando i sentieri del tempo.

Ed è così che il tintinnio delle emozioni, bussa alla porta del cuore, materializzando parole che prendono forma, colmando il vuoto degli stantii sentimenti e, bruciando quel che resta dell’eternità.

In cielo uno scarabocchio di luna firma l’ennesimo atto d’Amore, in questa notte stanca. Si piegano i rami al fluire del vento, mentre tutto intorno resta immobile e fermo nel buio dell’infinito blu.

263
Antonella Padalino da Alpignano ■

da

Ls casa dell'effimero

Una cicala rompe il silenzio, mentre il sole brucia il profumo dell’erba. Tutti diversi e tutti uguali, volti sospesi e dimenticati incedono lentamente. Un parco dipinto da strane varietà si oppone al doloroso impeto di morte che esce dalle grigia soglia. Nelle camere e negli androni la felicità sembra volteggiare in uno strano universo e parlare a mondi lontani. Qui l’effimero abita ogni sorriso e ogni incontro cosparge intorno il suono amaro del pianto sommesso e discreto per un incerto futuro, per un mancato appuntamento. Luminescenti corridoi tracciano la strada ed è il tormento di un sospetto, il gelo di un pensiero attento ad ogni piccolo battito di ciglia. É il naufragio perpetuo delle nostre debolezze, la rivolta dei nostri sensi, la ricerca di un’accogliente carezza. Le porte alfine si aprono. Dietro l’angolo una frettolosa umanità ignara del paziente oleandro che racconta storie senza fine.

264
■ Roberta Pagotto
Pordenone

Al tramonto

Non potrai essere i miei occhi le mie orecchie le mie mani i miei pensieri. Il breve ricordo ti illuderà di un’effimera metamorfosi. Il dolore costruirà mondi improbabili. Non cedere alla tentazione di alienazioni rassicuranti. Sii ciò che sei, prenditi cura di te e non permettere che la pietà e la menzogna alterino ciò che sono stato nel bene e nel male, io sarò già altrove e non potrò difendermi. Questa vita che per me è ormai straniera per te continua. Salutami teneramente dal finestrino come se solo un tempo breve ci possa dividere. Fermo sul binario ti risponderò con un cenno lieve e guarderò pigramente la carrozza allontanarsi e riprendere la sua corsa. Di quello che non ci sarà mai dato sapere nemmeno dobbiamo crucciarci. Riprendi il viaggio e regalati una nuova vita.

265
Giuseppe
Raineri da
Bergamo ■

Fabio Rondano da Torino

Quando un uomo pensa un uomo

Bruca dalla mano l'inverno strano, di spavento dà brividi il piacere.

Di paglia copriam la terra insieme, proteggere, sai, è segno d'amore. Nello specchio dell’attesa, sempre è sera, tempo di arrivo, di baci rubati. Quando sogniamo è sempre notte, allacciati da sigilli misteriosi. I miei occhi discendono al tuo sesso, mi cerca all'alba, vuole la mia mano. Siamo uniti, siamo oppio e ricordo, legati come il mare e la luna.

Voraci le mani, spogliati della pelle, Godiamo abbracciati del tempo buono, in cui anche il sasso torna a fiorire...

La mia solitudine son scaglie di vetro, teme chi s’accosta l’odore del sangue...

Chi beve il suo pianto cieco diventa, e più non vede le cose lontane, che in gola hanno l’ordine del giorno.

Come allora, toccami con dolcezza, levigami il palmo con le tue mani, toccami con dolcezza il volto, mappa dell’enigma, che t’ha allontanato. Toccami con maschile dolcezza i fianchi, petto contro schiena, bevendomi il tuo alito, di notte, profumato di tabacco, frutta fresca e vino rosso.

266

Come allora, toccami con dolcezza, confusione e follia non spaventano più. Legatomi al palo, come Ulisse, non cedo al desiderio di cercarti, maschile voce, virile miraggio.

Mi sporgo giù dal ponte della nave, sulle onde porta il vento la tua voce; tremano i ricordi nell’azzurro, ma il passato non è più la nostra terra. Mi fondo con la luce senza sera, che abbaglia gli occhi di chi ancora spera.

267

da

Di molti grigi

Cielo di molti grigi la tua mano scorre lieve tra i capelli – chiaro vento sulla cima di alberi scossi –ma uno sguardo non c’è che schiari la tetra caligine del muro –né l’aria avverto che smuovono le vesti nel tuo accorrere a me. Resti immobile lontanissima e vicina –la tua immagine smuore sul mobilio –trasparente canzone della mente –meta di un cuore sperso gracile al mondo quello che sopra al tuo unisono pulsava seppellito dal caldo del tuo abbraccio. Stagna l’odore acre di un giorno passato dietro la finestra – ormai lontani folti uccelli punteggiano le nubi di nere trine dove fumiga appena l’orizzonte. Invano gli ultimi guizzi afferra l’animo affaticato invano scuote fondi di memoria – l’oscuro

piombo del tempo ottenebra faville di giorni vivi e nulla al mero soffio risponde dai canali ispessiti.

Taci lo so ma appena trema la mano tra i capelli e quasi l’ombra intravvedo di un sorriso.

268
■ Rodolfo Settimi
Roma

Nonna Olga

Il sole sorgeva davanti alla casa, l’estate cantava i caldi colori di quei giorni lontani. La vita era la bicicletta azzurra, una fetta di pane con l’olio, il rumore sommesso del fiume. Mia nonna mi guardava dalla finestra confusa tra i gerani del primo piano e sentivo il suo affetto sulla pelle prima di perdermi veloce dentro il prossimo respiro. La bici e un rapido volo sino ai paesi più vicini o lontani, i pedali a scandire un tempo che non sarebbe tornato. Rimane il profumo leggero di quei giorni sereni e lo sguardo dolce di mia nonna a vegliare ancora su me.

269
Tristano Tamaro da Trieste

INDICE PER AUTORE

Accorinti Maria Pag 243

Andreani Gabriele Pag 156

Aonzo Silvia Pag 161

Apicella Massimo Pag 244

Aragno Maurizio Pag 34

Bajoni Grazia Pag 30

Bani Anna Pag 169

Barbagelata Paolo Pag 245

Baroffio Alessio Pag 143

Battista Francesco Pag 184

Bianco Giuseppe Pag 246 Bonansea Erica Pag 20

Botteon Claudio Pag 194

Busolin Ubaldo Pag 93 Caneparo Mauro Pag 201

Cannatà Angelo Simone Pag 22

Caramanico Tina Pag 48 Casale Matteo Pag 28 Casella Paolo Pag 39 Catalano Pietro Pag 149 Ceschin Ariana Pag 35 Chiarelli Angelo Pag 248 Chiave Emilio Pag 205

Chiavegatti Franco Pag 36 Clambagio Pag 23 Consoli Carmelo Pag 33

Conti Anna Maria Pag 249 Cosenza Patrizia Pag 250 Costantin Antonio Pag 251

D'Amico Valeria Pag 252

Di Gianfrancesco Luca Pag 253

Di Giulio Vincenzo Pag 27

Di Ruocco Vittorio Pag 254

Donà Franca Pag 147

Donna Sergio Pag 256

Dottore Grazia Pag 150

Fantechi Giacomo Pag 213

Filograna Fausto Paolo Pag 218 Fiorini Franco Pag 145

270

Fiume

Giancarmine

Pag 144

Raffaele Pag 26 Giovannini Luciano Pag 257

Floris

Giustetto Maria Luisa Pag 223

Izzi Alessandro Pag 258

Lazzeri Danniela Pag 259 Lo Bianco Lucia Pag 148

Lo Prencipe Marcello Pag 16 Lucchesi Beatrice Pag 260 Manduca Raffaele Pag 31 Marelli Dario Pag 32

Marelli Dario Pag 152 Mauri Andrea Pag 261 Meloni Pina Pag 262

Morra Alberto S. Pag 83 Moscatelli Thea Pag 232 Mosconi Francesco Pag 153 Oggero Lorenzo Pag 56 Padalino Antonella Pag 263 Pagotto Roberta Pag 264 Perrone Caterina Pag 111 Poggipollini Andrea Pag 76 Raineri Giuseppe Pag 265 Rienzi Alfredo Pag 29

Rizzi Martini Franca Pag 21 Rolando Claudio Pag 18 Romito Ferdinando Pag 69 Rondano Fabio Pag 266

Rosi Maurizio Pag 235 Rota Marina Pag 17 Rubini Davide Pag 19 Sassano Francesca Pag 24

Settimi Rodolfo Pag 268 Sinigaglia Francesco Pag 37 Tamaro Tristano Pag 269

Trapletti Mario Pag 123 Vitale Stefano Pag 25

271
CONCORSO INTERNAZIONALE DI ARTI LETTERARIE "METROPOLI DI TORINO" PREMIAZIONE PALAZZO DELLA LUCE
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.