Hystrio 2015 2 aprile-giugno

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trimestrale di teatro e spettacolo

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POSTE ITALIANE S.P.A. - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N° 46) ART.1, COMMA 1, LO/MI

ANNO XXVIII 2/2015 APRILE-GIUGNO

teatromondo LONDRA PARIGI VIENNA TEL AVIV COREA OLANDA

anno XXVIII 2/2015

testo: SUPERNOVA di Erika Z. Galli e Martina Ruggeri

speciale LUCA RONCONI

DOSSIER: TEATRO & CIBO critiche / danza / lirica / biblioteca / società teatrale


PUNTI VENDITA Trova Hystrio nella tua città Rivista trimestrale di teatro e spettacolo fondata da Ugo Ronfani editore: Hystrio-Associazione per la diffusione della Cultura Teatrale, via Olona 17, 20123 Milano. direttore responsabile: Claudia Cannella redazione: Ilaria Angelone, Albarosa Camaldo, Roberto Rizzente, Monica Giacchetto (segreteria). progetto grafico: www.studiopaola.it grafica e impaginazione: Alessia Stefanini hanno collaborato: Paola Abenavoli, Matteo Antonaci, Sergio Ariotti, Nicola Arrigoni, Giorgia Asti, Giuseppe Battiston, Massimo Bertoldi, Laura Bevione, Mario Bianchi, Paola Bigatto, Matteo Brighenti, Fabrizio Sebastian Caleffi, Roberto Canziani, Gianfranco Capitta, Francesca Carosso, Sara Chiappori, Tommaso Chimenti, Mariagiulia Colace, Lucia Cominoli, Chiara Dattola, Renzo Francabandera, Renato Gabrielli, Erika Z. Galli, Francesca Gambarini, Pierfrancesco Giannangeli, Maddalena Giovannelli, Maria Grazia Gregori, Gerardo Guccini, Filippa Ilardo, Margherita Laera, Giuseppe Liotta, Sergio Lo Gatto, Fausto Malcovati, Stefania Maraucci, Marco Menini, Giuseppe Montemagno, Stefano Moretti, Alessio Negro, Emilio Nigro, Renato Palazzi, Michele Pascarella, Nicola Pianzola, Gianni Poli, Paolo Poli, Paolo Ruffini, Martina Ruggeri, Laura Santini, Francesca Serrazanetti, Paolo Stratta, Francesco Tei, Pino Tierno, Alessandro Toppi, Sergio Trombetta, Nicola Viesti, Diego Vincenti, Valerio Massimo Visintin, Chiara Viviani, Irina Wolf, Giusi Zippo. direzione, redazione e pubblicità: via Olona 17, 20123 Milano, tel. 02 40073256, fax 02 45409483, segreteria@hystrio.it – www.hystrio.it Iscrizione al Tribunale di Milano (Ufficio Stampa), n. 106 del 23 febbraio 1990. Stampa: Arti Grafiche Alpine, via Luigi Belotti 14, 21052 Busto Arsizio (Va). Distribuzione: Joo, via Filippo Argelati 35, 20143 Milano, tel. 02 8375671 Manoscritti e fotografie originali anche se non pubblicati non si restituiscono. È vietata la riproduzione, parziale o totale, dei testi contenuti nella rivista, salvo accordi con l’editore.

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CHIARA DATTOLA Chiara Dattola, che ha realizzato appositamente per Hystrio la copertina e l’immagine di apertura del dossier Teatro & Cibo, vive e lavora tra Milano e Parigi. È uno degli illustratori ufficiali del Corriere della Sera e Internazionale, in Italia, e, in Francia per Les Echos e Le Monde. Collabora con case editrici italiane e straniere. Le sue illustrazioni appaiono in esposizioni, personali e non, in Italia e all’estero. Appassionata di outsider art, ha curato l’albo per bambini Giovan Battista! sull’artista di Art Brut Giovanni Battista Podestà, unica pubblicazione in Italia sul genere. Nel 2010 ha realizzato 36 illustrazioni dal titolo Disegni per versi ispirati alla Divina Commedia, editi dalla Galleria Spazio Papel di Milano. È docente presso l’Istituto Europeo di Design di Milano. www.chiaradattola.com

Librerie Feltrinelli Ancona via dé Cerretani Librerie Feltrinelli 30/32R c.so G. Garibaldi 35 tel. 055 2382652 tel. 071 2073943 Bari La Feltrinelli Libri e Musica via Melo da Bari 119 tel. 080 5207511

Genova La Feltrinelli Libri e Musica via Ceccardi 16 tel. 010 573331

Benevento Libreria Masone via dei Rettori 73/F tel. 0824 317109

Lecce Librerie Feltrinelli via Templari 9 tel. 0832 279476

Bologna Libreria Ibs via Rizzoli 18 tel. 051 220310

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Librerie Feltrinelli Mestre p.zza Ravegnana 1 La Feltrinelli Libri tel. 051 266891 e Musica piazza XXVII Librerie Feltrinelli Ottobre 1 via dei Mille tel. 041 2381311 12/A/B/C tel. 051 240302 Milano Abook Piccolo Brescia Piccolo Teatro La Feltrinelli Libri Grassi e Musica via Rovello 2 corso Zanardelli 3 tel. 02 72333504 tel. 030 3757077 Catania La Feltrinelli Libri e Musica via Etnea 285 tel. 095 3529001 Cosenza Libreria Ubik via Galliano 4 tel. 0984 1810194 Librerie Feltrinelli corso Mazzini 86 tel. 0984 27216 Ferrara Libreria Ibs piazza Trento e Trieste (Palazzo San Crispino) tel. 0532 241604 Librerie Feltrinelli via G. Garibaldi 30/A tel. 0532 248163 Firenze Libreria Ibs via dé Cerretani 16/R tel. 055 287339

Anteo Service via Milazzo 9 tel. 02 6597732 Joo Distribuzione via Argelati 35 tel. 02 4980167 La Feltrinelli Libri e Musica c.so Buenos Aires 33/35 tel. 02 2023361 La Feltrinelli Libri e Musica piazza Piemonte 1 tel. 02 433541 Librerie Feltrinelli via U. Foscolo 1/3 tel. 02 86996897

Rimini Librerie Feltrinelli largo Giulio Cesare 4 (angolo corso Libreria Puccini c.so Buenos Aires 42 Augusto) tel. 0541 788090 tel. 02 2047917 Libreria Popolare via Tadino 18 tel. 02 29513268

Modena La Feltrinelli Librerie via C. Battisti 17 tel. 059 222868

Napoli Librerie Feltrinelli La Feltrinelli via V. E. Orlando Express 78/81 varco corso A. Lucci tel. 06 4870171 tel. 081 2252881 La Feltrinelli Libri e Musica via Cappella Vecchia 3 tel. 081 2405401 Librerie Feltrinelli via T. D’Aquino 70 tel. 081 5521436 Padova Librerie Feltrinelli via S. Francesco 7 tel. 049 8754630 Palermo Broadway Libreria dello Spettacolo via Rosolino Pilo 18 tel. 091 6090305 La Feltrinelli Libri e Musica via Cavour 133 tel. 091 781291 Parma La Feltrinelli Libri e Musica Strada Farini 17 tel. 0521 237492 Pescara La Feltrinelli Librerie via Trento angolo via Milano tel. 085 292389

Pisa Librerie Feltrinelli Librerie Feltrinelli corso XXII Marzo 4 corso Italia 50 tel. 02 5456476 tel. 050 47072 Libreria dello Spettacolo via Terraggio 11 tel. 02 86451730

Roma La Feltrinelli Libri e Musica l.go Torre Argentina 11 tel. 06 68663001

Ravenna Librerie Feltrinelli via Diaz 14 tel. 0544 34535

Salerno La Feltrinelli Libri e Musica c.so V. Emanuele 230 tel. 089 225655 Siracusa Libreria Gabò corso Matteotti 38 tel. 0931 66255 Torino Libreria Comunardi via Conte Giambattista Bogino 2 tel. 011 19785465 Librerie Feltrinelli p.zza Castello 19 tel. 011 541627 Trento La Rivisteria via San Vigilio 23 tel. 0461 986075 Treviso La Feltrinelli Librerie via Antonio Canova 2 tel. 0422 590430 Verona La Feltrinelli Libri e Musica via Quattro Spade 2 tel. 045 809081 Vicenza Galla Libreria corso Palladio 12 tel. 0444 225200


02 2015

2 speciale 20 vetrina

Luca Ronconi, l'utopia del teatro — con interventi di Gianfranco Capitta, Laura Bevione, Pierfrancesco Giannangeli, Sergio Ariotti, Maria Grazia Gregori, Paola Bigatto, Renato Palazzi, Giuseppe Montemagno e Roberto Canziani

26 teatromondo

Seul, la metropoli dei 100 teatri — di Nicola Pianzola Londra, tutti i linguaggi del Mime Festival — di Margherita Laera Parigi, teatro e libertà di espressione — di Giuseppe Montemagno La Vienna fringe dei teatri indipendenti — di Irina Wolf In Olanda i teatri si disegnano così — di Francesca Serrazanetti Tel Aviv: fate teatro, non la guerra! — di Pino Tierno

40 humour

G(l)ossip — di Fabrizio Sebastian Caleffi

41 dossier

Teatro & Cibo — a cura di Laura Bevione e Claudia Cannella, con interventi di Giuseppe Battiston, Paolo Poli, Giuseppe Liotta, Gerardo Guccini, Sara Chiappori, Giuseppe Montemagno, Sergio Trombetta, Lucia Cominoli, Ilaria Angelone, Paolo Stratta, Mario Bianchi, Roberto Rizzente, Renzo Francabandera, Valerio Massimo Visintin, Nicola Arrigoni, Giorgia Asti, Albarosa Camaldo, Roberto Canziani, Francesca Carosso, Francesco Tei, Nicola Viesti e Sergio Lo Gatto

Il silenzio della ragione, Napoli attende un futuro migliore — di Alessandro Toppi Licia Lanera, l’attrice operaia incoronata dalla scena — di Emilio Nigro A Genova il Museo dell’Attore cambia casa — di Stefano Moretti Torino, 60 anni di teatro in un click — di Laura Bevione

73 testi Supernova (Ritratto di famiglia) — di Erika Z. Galli e Martina Ruggeri, Premio Hystrio-Scritture di Scena 2014 86 critiche Tutte le recensioni della seconda parte della stagione 112 danza

Virgilio Sieni, Wayne McGregor, DV8 e Orto-Da Theatre Group — di Michele Pascarella, Paolo Ruffini e Francesca Serrazanetti

114 lirica

Hermanis e Wilson alla Scala, Michieletto ad Amsterdam ed Emma Dante a Palermo — di Giuseppe Montemagno

116 biblioteca

Le novità editoriali — a cura di Albarosa Camaldo

120 la società teatrale

Tutta l’attualità nel mondo teatrale — a cura di Roberto Rizzente

Nel prossimo numero: DOSSIER: Teatro e scienza/PREMIO HYSTRIO 2015/TEATROMONDO: Parigi, Londra, Berlino, Vienna, Stettino, Mosca, Charleston/RITRATTO: Christoph Marthaler/ TESTO: pre Amleto, di Michele Santeramo/ recensioni, libri e molto altro…


Luca Ronconi, l'utopia del teatro e la regia come conoscenza Lavorava con la determinazione e il metodo di un ricercatore: dal primo spettacolo (Goldoni) ai kolossal, passando per l'Orlando furioso, la direzione alla Biennale di Venezia e il Laboratorio di Prato, il viaggio dentro il teatro del regista, scomparso lo scorso febbraio, che ha segnato gli ultimi cinquant'anni di storia teatrale italiana. di Gianfranco Capitta

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riguardarla oggi, dopo la sua scomparsa, la vicenda teatrale di colui che sicuramente è stato il maggior regista teatrale italiano di tutti i tempi, si può leggere come un unico, coerente e metodico, viaggio di Luca Ronconi "dentro" il teatro. Nato nel 1933, e quindi bambino negli anni della guerra, lui stesso ha confessato di trovarsi quasi costretto, dagli eventi bellici, a costruirsi un proprio mondo di letture. Onnivoro e senza controlli (la madre insegnava nei licei), quel ragazzo poté attingere a molta parte dello scibile umano. Coltivando nello stesso tempo, e sempre più, una raffigurazione “teatrale” di tutto quanto andava leggendo, pur senza essere in grado di comprendere tutto. Lo attraeva il teatro cui la madre lo conduceva, e finito il liceo, non ebbe altro interesse che entrare all’Accademia Silvio D’Amico. Per fare l’attore certo, ma frequentando in realtà anche i corsi di Orazio

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Costa, uno dei pochi che ha sempre riconosciuto come “maestro”, pur consapevole dei limiti dei suoi spettacoli. E, dopo dieci anni da “attor giovane” (non senza successo), cominciò a sentire che era tempo di lasciare il palcoscenico per padroneggiarlo da fuori. Così accettò la proposta di quattro giovani colleghi di grande avvenire (Pani, Occhini, Gravina e Volonté) per elaborare, per la prima volta dal vivo, una vera regia, su un doppio Goldoni, La buona moglie e La putta onorata, montati in un unico spettacolo. Era il 1963, lui amava raccontare che fu un clamoroso insuccesso, ma occupò gli anni successivi a prepararsi al successo. Non per ambizione o vanità, ma perché dal teatro, anzi anche da un solo spettacolo, sapeva di poter trarre sensazioni, emozioni e pensieri come raramente sulla scena si erano visti. Dopo aver partecipato attivamente al convegno di Ivrea del 1967 Per un nuovo teatro, lambì (e fu

la sua rivelazione) gli elisabettiani con I lunatici, accettò di fare la regia del Riccardo III di Gassman (avvolto nelle sagome lignee di Mario Ceroli), scomodò dall’oblio Giordano Bruno mettendone in scena il Candelaio, ma nel frattempo andava elaborando con Edoardo Sanguineti qualcosa di assolutamente originale, lo spettacolo che gli sarebbe per sempre rimasto quasi come etichetta: l’Orlando furioso. Ridotto e riaggiustato dallo scrittore genovese rispettando tutte le rime e le ottave, ma che di fatto esplodeva attraverso i suoi 50 attori, i carrelli su cui questi si muovevano e recitavano, la contemporaneità degli episodi, l’Ippogrifo su ruote per raggiunger la luna, che per altro era quasi a portata di braccio. Quanto al pubblico, senza più poltrone, seguiva i personaggi camminando, sceglieva chi sentire, faceva da massa reattiva all’offensiva della recitazione. Una cosa mai vista, che da San Nicolò di Spoleto, attraversò davvero


SPECIALE RONCONI

i due mondi e anche di più, prima di venir immortalata in una lussuosa edizione Rai su pellicola, che ancora fa storia. Ronconi aveva allora 36 anni, e la sua stella aveva cominciato a brillare, nonostante le smorfie e i mugugni della critica più tradizionalista. Il pubblico era entusiasta: gli slogan del ‘68 si erano fatti viventi, in uno spettacolo collettivo, in cui bisognava “scegliere”, e in cui la tradizione culturale italiana, Ariosto in testa, veniva catapultata nel futuro. Aristofane a Venezia Nonostante le complicate riprese tv protrattesi per anni (la trasmissione fu pronta solo nel ‘75), le tournée all’estero e qualche commissione importante dall’Europa (XX era, su testo di Wilcock, uno scandaglio nella quotidianità di venti stanzette su due piani, in ognuna un attore che la raccontava, e insieme agli italiani c’erano le star di Peter Brook e della Mnouchkine, perché lo spettacolo fu dato solo a un importante festival parigino), il regista non sembrava in grado di contenersi, sia perché la curiosità e le offerte piovevano, sia per impiegare i suoi attori della Cooperativa Tuscolano (le future celebrità della scena italiana). Nacquero così una serie di spettacoli importanti, poco visti quanto invece impegnativi. Come la Kätchen di Kleist sul lago di Zurigo, sabotata dai vigili del fuoco elvetici, che non autorizzarono attori e pubblico a galleggiare su zattere, e tanto meno l’altissima torre d’acciaio, con la scenografia firmata da Arnaldo Pomodoro. E insieme altre opere mai viste prima, come La tragedia del Vendicatore di Tourneur tutta al femminile, con Mariangela Melato che duellava di spada con Edmonda Aldini, e poi Fedra con Lilla Brignone imprigionata in una griglia bianchissima a strapiombo sulla platea. Furono anni intensi e fertili, in cui cominciava a praticare la regia operistica, suscitando egualmente entusiasmi e “scandali”, pur rimanendo assoluti il suo rigore e la sua coerenza ai testi. Cumulò spettacoli meravigliosi, che hanno fatto storia. Un titolo per tutti, l’Orestea realizzata alla Giudecca, che chiudeva in un unico grande contenitore ligneo attori e pubblico. E dal contatto ravvicinato con la tragedia degli Atridi, faceva nascere forme inusitate di comunicazione teatrale. Poco apprezzati dalla burocrazia e dalla “sicurezza” pubblica, che portò i vigili del fuoco di Roma a “chiudere”

lo spettacolo a Cinecittà dopo la prima sera. Ma Ronconi, ricercando le ragioni del teatro in quegli anni Settanta, cominciò ad approntare una pratica che poneva nuove basi al rapporto dell’artista con la società e le istituzioni. Idee che cominciarono a materializzarsi con l’incarico di direttore alla Biennale veneziana, per teatro e musica. Due anni, tra il ‘75 e il ‘76, molto fecondi per tutto il pubblico che riuscì ad accorrervi, e per una “formula” destinata a farsi strada, motivando in profondità le ragioni dell’intervento pubblico nello spettacolo: il Laboratorio. A Venezia furono chiamati tutti i grandi maestri del teatro dal mondo: Grotowski, per fare un solo esempio, mostrò su un’isola appartata l’ultima definitiva apparizione di quello che sarebbe stato il suo ultimo spettacolo, Apocalypsis cum figuris. Ma per il pubblico fu un’occasione unica per confrontare e confrontarsi con i grandi maestri e i nuovi linguaggi, da Meredith Monk ad Andrei Serban de La Mama di New York. Da parte sua il regista realizzava un altro suo titolo storico, Utopia, montaggio di cinque testi di Aristofane, prodotto insieme dalla Biennale e dal Festival nazionale dell’Unità. E su quei cinquanta metri di strada asfaltata, che era la scena, c’erano auto e camion, salotti a rotelle e una limousine presidenziale, letti d’ospedale e terra rossa del deserto….

Prato, variazioni su Calderon Un‘esperienza conclusa prima del tempo, ma che permise a Luca Ronconi di mettere a punto la propria elaborazione, grazie all’amministrazione di una città toscana che gli offrì ospitalità e accoglienza: nasceva il Laboratorio di Prato. Decine di attori (alcuni già celebri, e molte new entry coltivate e agguerrite dai corsi che lo stesso regista aveva continuato a tenere all’Accademia Silvio D’Amico), diversi intellettuali chiamati a fornire strumenti e suggestioni, da Franco Quadri a Dacia Maraini, e molte diverse personalità a vario titolo disposte a lavorare per una nuova idea di teatro. Come Gae Aulenti, architetta e designer di fama internazionale, che disegnò spazi e percorsi di questa tappa esaltante del percorso ronconiano. Una idea centrale quella dello spazio, tanto che per la prima volta, a pieno e consapevole titolo, un‘antica struttura industriale in via di dismissione, fu trasformata in luogo teatrale, diventando il prototipo di ogni futura operazione del genere: il Fabbricone di Prato. Tre gli spettacoli che rappresentarono per il pubblico il “prodotto finale” di quella straordinaria esperienza. Che era stata ricca di scambi, messa in comune, ideazione e fantasie tra maestri e allievi, di dedizione assoluta e a tempo pieno, di coraggiosa assun-

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SPECIALE RONCONI

zione di responsabilità. Posizioni così forti che mostrarono al confronto la debolezza della politica: esplosero divisioni e lacerazioni violente nell’amministrazione pratese, causando addirittura una crisi e brusche dimissioni, nel Comune e nel Pci. Invece restano nella storia del teatro le tre messinscene nei tre luoghi simbolo della città. Al Metastasio, il cui palcoscenico si era allargato a coprire tutta la platea per mano della Aulenti, confinando il pubblico nei palchetti, avvenne il debutto assoluto del Calderon di Pasolini (di cui Ronconi avrebbe poi negli anni messo in scena l’intero corpus teatrale), con tre attrici strepitose (Zamparini, Aldini, Languasco) a impersonare nelle lunghe corse circolari su quell’immenso ovale, i tre momenti che portavano La vita è sogno dal siglo de oro al duro confronto tra capitalismo e classe operaia. Nell’orfanotrofio Magnolfi appena dismesso, Marisa Fabbri assumeva su di sé sola tutti i ruoli, e tutti i nodi brucianti delle Baccanti euripidee, con una prova d’attrice, e di pensiero, entrata nella leggenda. E infine, al Fabbricone appena riattato, un’altra variazione novecentesca de La vita è sogno, ovvero La torre di Hoffmansthal, prendeva corpo in una sorta di teca incantata. Il soffitto riproduceva il Nuovo mondo di Tiepolo ripreso dalla residenza reale di Würzburg, l’ambiente era costituito da ammassi di mobilio “collinari” ricoperti da funeree fodere bianche, come di una casa ormai in disuso, come i suoi valori e la sua storia. Un effetto scioccante per lo spettatore, che entrava in sintonia diretta con le lacerazioni di quel Sigismondo (che aveva tutto il fascino giovanile di Franco Branciaroli), con i dubbi e le ansie del Novecento che Hoffmansthal aveva instillato in quella devozione seicentesca. Un esito trionfale dal punto di vista artistico, che sul rapporto con le istituzioni ebbe una ricaduta poco felice, come si è detto.

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Via dall'Italia L’ambiente tradizionalmente chiuso e litigioso del teatro italiano (e la sua “facciata“ critica sui giornali), fino a quel momento si era in qualche modo “difeso” dal ciclone creativo ronconiano, cercando di delimitarlo e “ridurlo“ dentro etichette tutte parziali e mai benevole: le sue regie erano via via state definite “strutturaliste”, barocche, neobarocche se non addirittura inutilmente “faraoniche”. Certo “traviavano“ il buonsenso antico della polverosa tradizione italiana, che perpetuava volentieri il mai tramontato “grande attore”, almeno sui grandi palcoscenici. La ricerca, come si diceva allora, era ben relegata nelle cantine e nei margini dell’avanguardia. La grande scommessa di Ronconi andava contro tutto questo tran tran, “pretendendo“ di portare l’invenzione del nuovo nelle sedi storiche della consuetudine e dello sbadiglio. La conclusione dell’esperienza del Laboratorio di Prato, fece scattare così una sorta di malcelato “ostracismo” verso il regista, che a quel punto accettò prestigiosi contratti all’estero (uno triennale con il Burgtheater viennese, e poi Zurigo, e più tardi anche la Comédie Française) dove realizzò classici antichi e moderni. Non smise ovviamente di creare nuovi, spesso bellissimi spettacoli, ma certo non fu chiamato, come sarebbe stato naturale per molti versi, a responsabilità nel teatro pubblico. Mantenne intatta la propria forza creativa, grazie agli attori con cui aveva costituito un sodalizio assai stretto, che si rinnovava da una generazione a un’altra (e che ancora oggi vede quegli stessi nomi ai vertici della scena italiana). Gli attori, e la loro formazione, rimangono con lo spazio scenico i grandi punti di forza del teatro ronconiano, cui il regista ha sempre portato la forza di testi mai ovvi o scontati, anzi spesso poco frequentati, e non di rado assolutamente sconosciuti, benché scritti cento, o quattrocento, anni prima.

Proprio in quel decennio che va dalla fine degli anni Settanta alla vigilia dei Novanta, quando sarà finalmente chiamato alla direzione di un teatro pubblico prestigioso come quello di Torino, con inquieta disponibilità Ronconi accentua la sua presenza sui palcoscenici operistici, molto alla Scala, con allestimenti molto importanti. Ma la progettualità teatrale resta al centro dei suoi interessi. Così, quasi “in ordine sparso” realizza altre creazioni memorabili. Dagli Spettri a Spoleto (1982) dentro un'asfissiante serra di rapporti familiari, costruita da Mario Garbuglia, alle prodigiose Due commedie in commedia dell’amatissimo Giovan Battista Andreini (una vena sorgiva preziosa, cui appartengono altri tesori frequentati ripetutamente quali Amor nello specchio e La centaura) con Valeria Moriconi protagonista scatenata, e i giovani appena diplomati alla D’Amico con lui, da Massimo Popolizio a Luca Zingaretti. E per il bicentenario della rivoluzione francese, sceglie di celebrarlo per Emilia Romagna Teatro con gli “austeri” Dialoghi delle Carmelitane che si fanno dialogo civile di altissima spiritualità e intensa umanità, con tre “badesse” d’eccezione: Marisa Fabbri, Franca Nuti e Paola Mannoni. Da Perugia a Ignorabimus Nello stesso tempo c’è una esperienza di avvicinamento a un teatro pubblico, lo Stabile dell’Umbria, che gli offre l’occasione di portare fino in fondo, e con risultati notevoli, il suo teatro d’attori, in una sorta di ventaglio di possibilità. È un saggio di allievi dell’Accademia la mirabile Fidanzata povera a Gubbio: un solo, poverissimo, albero stilizzato al centro della scena, e luci dall’esterno attraverso i finestroni aperti del teatro. Ma quegli attori esordienti danno un calore straordinario all’apologo favolistico di Ostrovskji. Resta in ambiente russo con la grande scommessa di Tre sorelle tutte giocate sulla memoria: sono ancora Nuti e Fabbri, con Anna Maria Guarnieri e Delia Boc-


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cardo, mentre Verscinin ha il fascino sempre prestante di Umberto Orsini. Il fatto che tutta la vicenda, tra irresolutezza e infelicità, sia al passato, scopre intuizioni e mondi di Cechov inusuali, e forse ancor più inquietanti. Attorno alla Guarnieri costruisce un’altra indagine spietata: con gusto noir scopre in Goldoni un lato ruvido mai frequentato prima, che si fa dramma anche ambientale con un viavai di mobilio da rigattiere che soffoca e amplifica La serva amorosa. E con la Guarnieri, sua antica compagna di palcoscenico (avevano condiviso a lungo Il diario di Anna Frank) tornerà ancora, mettendola a telegrafare Nella gabbia di Henry James sempre in Umbria, che assume così la dignità di vero “periodo artistico”, come usa per le opere di certi pittori. E per lui ha la caratteristica dell’attrice, la sua grandezza e la sua duttilità, e le infinite possibilità di esprimere, anche l’ineffabile. Infine, prima del salto nella responsabilità piena di una direzione artistica stabile, c’è un altro episodio che non può essere taciuto: uno

spettacolo monumentale (in senso letterale) che lo fa tornare a Prato, al Fabbricone, assieme alle sue attrici predilette. Ignorabimus era un testo di Arno Holz praticamente sconosciuto da noi, più o meno quanto l’autore, intellettuale tedesco di inizio Novecento. Consiste in una lunga e dotta discussione tra quattro scienziati, su quelli che senza ironia si possono definire i “massimi sistemi” e la minima quotidianità. Pur lasciando crescere in quella trama di parole una serie di nodi relazionali, tra loro, e con il mondo. Sono discorsi lunghi, cui la regia di Ronconi lascia il respiro delle dissertazioni importanti, e il peso del privilegio intellettuale. Lo spettacolo nasce dopo lunghi mesi di prove, ed ha un carattere letteralmente extra-ordinario. Non tanto per l’argomento, quanto per la durata (tutto di seguito, compresi gli adeguati intervalli, si sfiorano le dodici ore), ma anche per lo spazio e l’interpretazione, i due campi da sempre irrinunciabili per Ronconi. Così le scene sono costruite in cemento, asfalto e brandelli di marmo, quasi

a sottolineare la radice industriale e positivista del contenitore Fabbricone. E tutta la vicenda è affidata a cinque attrici, tutte in abiti maschili e maschere facciali, tranne Delia Boccardo in vesti femminili. E le signore/signori sono nomi fondamentali del teatro italiano: Franca Nuti, Marisa Fabbri, Edmonda Aldini e Anna Maria Gherardi. Un vero parterre de reines per uno spettacolo monstre, non solo perché intrasportabile e irriducibile, ma perché con la sua dimensione pone le basi di un teatro della scienza che costituirà un itinerario ronconiano lungo i decenni successivi. Senza quasi dover aggiungere la mostruosa bravura delle cinque signore, la cui arte teatrale, già riconosciuta, si unisce per l’occasione a una tempra fisica davvero eccezionale. Da Ignorabimus, tappa fondamentale del teatro di Ronconi, bisognerà ripartire per comprendere e apprezzare molti suoi lavori futuri. ★ In apertura, un ritratto di Luca Ronconi; a pagina 3, L’Orlando furioso; nella pagina precedente, La torre, e Tre sorelle.

Per saperne di più Bibliografia Laura Aimo (a cura di), Il lavoro è di scena. “Santa Giovanna dei Macelli” di B. Brecht per la regia di Luca Ronconi, Milano, EDUcatt Università Cattolica, 2013. l Alba Andreini e Roberto Tessari (a cura di), La letteratura in scena. Gadda e il teatro, Roma, Bulzoni, 2001. l Mara Cantoni, Wagner: mito, racconto, musica. La tetralogia di Ronconi e Pizzi a Firenze, Milano, Edizioni di musica viva, 1982. l Elisabetta Castiglioni, Le regie liriche di Luca Ronconi, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2001. l Livia Cavaglieri, Invito al teatro di Ronconi, Milano, Mursia, 2003. l Angela De Lorenzis, Ronconi e Racine. La regia della Fedra, Napoli, I.O.U., 1988. l Ave Fontana e Alessandro Allemandi (a cura di), Luca Ronconi: gli spettacoli per Torino, Torino, U. Allemandi, 2006. l Maria Grazia Gregori (a cura di), Luca Ronconi al Piccolo, Milano, Piccolo Teatro di Milano Teatro d’Europa, 2009. l Isabella Innamorati (a cura di), Luca Ronconi e il suo teatro. Settimana del teatro, 8-15 aprile 1991, Roma, Bulzoni, 1996. l Claudio Longhi, “Orlando Furioso” di Ariosto-Sanguineti per Luca Ronconi, Pisa, ETS, 2006. l Maddalena Lunardello Lenti, Luca Ronconi. Un’idea di teatro, Udine, Mimesis, 2011. l Cesare Milanese, Luca Ronconi e la realtà del teatro, Milano, Feltrinelli, 1973. l Italo Moscati (a cura di), Luca Ronconi: utopia senza paradiso. Sogni disarmati al Laboratorio di Prato, Venezia, Marsilio, 1999. l Franco Quadri, Il rito perduto: Luca Ronconi, Torino, Einaudi, 1973. l Franco Quadri, Il teatro degli anni Settanta, Torino, Einaudi, 1982. l Franco Quadri ( a cura di), Luca Ronconi: la ricerca di un metodo, Milano, Ubulibri, 1999. l Franco Quadri, Ronconi story, in Le théâtre. Cahiers dirigés par Arrabal, vol. 1, n. 0 1971. l Franco Quadri, Maria Grazia Gregori, Claudio Longhi, Luca Ronconi: un regil

sta in dieci progetti, Milano, Piccolo Teatro di Milano Teatro d’Europa, 2001. l Sergio Ragni, Da Goldoni a Ronconi. La messinscena de “La serva amorosa”, Perugia, Editoriale Umbra, 1986. l Ronconi. Frammenti di storia, Milano, Archinto, 2001. l Luca Ronconi, Inventare l’opera. L’Orfeo, Il viaggio a Reims, Aida: tre opere d’occasione alla Scala, Milano, Ubulibri, 1986. l Luca Ronconi, Progetto Domani, Milano, Ubulibri, 2007. l Luca Ronconi e Gianfranco Capitta, Teatro della conoscenza, Roma, GLF editori Laterza, 2012. l Luca Ronconi ed Edoardo Sanguineti, Orlando furioso, Milano, Bur, 2012 (con 2 dvd).

Videografia Luca Ronconi, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, adattamento e regia tv di Giuseppe Bertolucci, Rai Palcoscenico 1997. l Ariella Beddini (anche regista), Lolita - Sceneggiatura, prod. RaiSat Cinema, 2001. l Ariella Beddini, Special Infinities. Percorsi all’infinito, regia teatrale di Luca Ronconi, prod. RaiSat Show, 2003. l Ariella Beddini (anche regista), Luca Ronconi. Appunti di lavoro. Ronconi alla prova, prod. RES/Rai Storia, in collaborazione con Rai Teche, Centro di Produzione di Torino, Centro Teatrale Santacristina, Rai Cultura, 2013. l Felice Cappa, Laboratorio Ronconi. In cerca d’autore, regia di David Doplicher, prod. Rai Cultura, Rai Teche, 2014. l Jacopo Quadri (anche regista), La scuola d’estate, prod. Ubulibri e Rai Cinema in associazione con Okta Film, in collaborazione con Santacristina Centro Teatrale e l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico, 2014. l Franco Marcoaldi, Luca Ronconi. Ritratto del regista da grande, regia di Ariella Beddini, prod. RES/Rai Storia, in collaborazione con Rai Teche, Centro di Produzione di Torino, Centro Teatrale Santacristina, Rai Cultura. (a cura di Laura Bevione) l

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SPECIALE RONCONI

Torino: l'umanità in guerra tra i pilastri del Lingotto Accanto a O’Neill, Strauss, Hoffmansthal, Pasolini, Čapek e altri, momento epocale della direzione di Ronconi dello Stabile piemontese fu l’allestimento de Gli ultimi giorni dell’umanità di Kraus. Il ritorno nel 2006 con i cinque spettacoli “olimpici” di Progetto Domani. di Sergio Ariotti

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no degli spettacoli italiani più interessanti di tutta la fine del secolo scorso, Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, lega indissolubilmente il nome di Luca Ronconi a Torino. Fu allestito nell’ex sala presse del Lingotto (una storica officina Fiat, dismessa) nell’autunno 1990 e debuttò il 29 novembre. Ronconi aveva da poco assunto la direzione del Teatro Stabile torinese, succedendo a Ugo Gregoretti. È impossibile, ripensando a quel progetto artistico, non sottolineare come avesse un sorprendente valore simbolico, forse profetico, dato che era in corso la Guerra del Golfo. Il testo di Kraus, dedicato alla Grande Guerra come catastrofe universale e finale, e lo spettacolo di Ronconi che ne derivò, sembravano scritti e creati apposta, ma non poteva essere, come analisi del primo conflitto da “villaggio globale”. Le scene simultanee delle recite procuravano al pubblico un iniziale disorientamento e lo costringevano poi ad assumere un ruolo super attivo nella fruizione, quasi che gli spet-

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tatori fossero degli autori. Ronconi stesso parlò, magari con la sua solita sorniona ironia, di “regia del pubblico”. In quella sorta di boulevard, delimitato dalle maglie regolari dell’edificio, lo spettatore si muoveva nella condizione del flâneur di Benjamin, cioè «attraverso un tempo remoto». Camminando senza guida, vagando quasi come un sognatore, egli doveva costruirsi, nella molteplicità di luoghi deputati e nella polifonia, una fabula. Non mancò di significato la presenza di vere locomotive, di automobili, di macchine tipografiche, di banchi di montaggio, di armi. Cose che perfettamente evocavano la brutalità dei conflitti, spesso in stridente contrasto con un certo clima, voluto, da operetta viennese e con la recitazione imbonitoria che caratterizzava tutto lo spettacolo. Gli interpreti dovevano di fatto “gareggiare” tra di loro. L’utilizzo del Lingotto in funzione teatrale fu un autentico colpo di genio. «Recitare qui è stato – disse Massimo De Francovich – come recitare al teatro greco a Siracusa» riferendosi sia a una certa sacralità dello spazio, sia al-

la forza necessaria agli attori per sovrastarlo. Il suo personaggio del Criticone è tra quelli indimenticabili. Ma lo sono anche altri, interpretati da attori in stato di grazia: tra i tanti (erano una sessantina!) Marisa Fabbri, Annamaria Guarnieri, Galatea Ranzi, Gabriella Zamparini, Claudia Giannotti, Mauro Avogadro, Riccardo Bini, Piero Di Iorio, Ivo Garrani, Carlo Montagna, Massimo Popolizio, Lino Troisi, Luciano Virgilio (contraltare, con il suo Ottimista, del Criticone), Virgilio Zernitz, Luca Zingaretti. Tutti in perenne movimento nella selva di pilastri di cemento armato. Le scene erano di Daniele Spisa, i costumi di Gabriella Pascucci. Un kolossal paragonabile solo all’Orlando furioso, a Utopia, a Infinities. Il doppio Makropulos Ronconi come direttore dello Stabile aveva gìà presentato a Torino prima de Gli ultimi giorni dell’umanità ma nello stesso anno, il 1990, Strano interludio di Eugene O’Neill con Galatea Ranzi, Massimo De Francovich, Massimo Popolizio (il 3 gennaio), Besucher di


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Botho Strauss con Franco Branciaroli e Umberto Orsini mattatori (il 31 gennaio), e L’uomo difficile di Hugo Von Hoffmansthal (il 23 maggio). Una prolificità stupefacente. A proposito de L’Uomo difficile va ricordato che lo stesso Ronconi vi interpretò con diligenza un personaggino, il cameriere Lukas, lasciando poi la parte a Pino Patti. Nella stagione 1990-91 Luca Ronconi diresse anche, al Carignano, La pazza di Chaillot di Giraudoux: attori e tecnici erano ancora tutti stremati dalle recite del Kraus e lo si percepì. Nella stagione successiva, a maggio ’92, nacque Misura per misura (nel cast figurano i fedelissimi Galatea Ranzi, Popolizio, Avogadro e Bini) ma nacquero anche due bellissimi monologhi: Nella gabbia di Henry James con Annamaria Guarnieri e Donna di dolori di Patrizia Valduga con Franca Nuti, che per questa interpretazione vinse il Premio Duse. Quattro furono i nuovi spettacoli del ’92-’93: L’aquila bambina di Sixty e Affabulazione di Pasolini, coprodotti con Roma e Modena, ma anche Calderón e Pilade, sempre di Pasolini, recitati dagli attori della Scuola di teatro che Ronconi aveva da poco fondato. L’ultimo anno torinese – Ronconi si dimise a fine febbraio del 1994 – fu ancora significativo: andarono in scena L’affare Makropulos di Karel Čapek con un’immensa Mariangela Melato (Ronconi diresse al Regio anche l’opera gemella Il caso Makropulos di Leoš Janáček, con Raina Kabaivanska protagonista) e il controverso Venezia salva. Per il Regio oltre al Makropulos firmò anche, tra gli altri, un’applauditissima Dannazione di Faust di Berlioz, con scene molto ardite di Margherita Palli. Sempre la Kabaivanska sarà la protagonista dell’incantevole Giro di vite di Britten firmato da Ronconi, nel ’95, al Carignano. L’atleta del pentathlon Chiamato alla direzione del Teatro di Roma prima e del Piccolo di Milano poi, Ronconi tornò a Torino per il Progetto Domani delle Olimpiadi della Cultura del 2006. Propose – con direttore dello Stabile Valter Le Moli – cinque spettacoli sul tema della guerra,

dell’economia, della politica, della bioetica. Ne derivarono cinque allestimenti, come sono cinque i cerchi olimpici. Ronconi preparò gli spettacoli e li diresse tutti in contemporanea, un record di bravura e organizzazione. Gli stavano accanto, come preziosi collaboratori, Mauro Avogadro, Ave Fontana e gli assistenti Claudio Longhi, Giovanni Papotto, Marco Rampoldi, Carmelo Rifici, Paola Rota e Daniele Salvo. A far da sfondo al Progetto Domani la Torino dei teatri, ma anche dell’archeologia industriale, degli studi hi-tech come quelli della Lumiq. I titoli in cartellone: Troilo e Cressida di Shakespeare, Atti di guerra: una trilogia di Edward Bond, Il silenzio dei comunisti (il carteggio tra Vittorio Foa, Miriam Mafai e Alfredo Reichlin), Lo specchio del diavolo dell’economista Giorgio Ruffolo (una specie di “economeide”) e Biblioetica. Dizionario per l’uso di Gilberto Corbellini, Pino Donghi e Armando Massarenti. Non fu un allestimento tradizionale Biblioetica, programmato al Teatro Vittoria. Il pubblico transitava attraverso vari spazi scenici, progettati da Tiziano Santi, e ciascuno spettatore era libero di scegliere un percorso diverso tra nove combinazioni possibili. Solo due erano i momenti collettivi. Al centro dell’attenzione il processo di Norimberga e la clonazione, l’eutanasia e gli esperimenti genetici. L’ennesima sfida di Ronconi a partire da testi per nulla drammaturgici. Non fu uno spettacolo fortunato Atti di guerra per via del forfait dopo poche repliche, per ragioni di salute, del prim’attore Massimo Popolizio, ma i pochi spettatori che vi assistettero all’Astra lo ricordano come una prova registica e una prova d’attore, di Popolizio appunto, eccezionali. Atti di guerra è degno di figurare tra le migliori regie del Maestro. «Si possono collegare questi spettacoli a Gli ultimi giorni dell’umanità – mi disse Ronconi in un’intervista di allora – soprattutto per la scelta dei temi. Una sorta di continuità c’è e mi piace anche che ci sia e che non si dimentichi quell’episodio, il Kraus. Che esso non rimanga un caso isolato nella memoria mi fa piacere».

Il Progetto Domani si trascinò dietro non poche polemiche per i costi che molti considerarono eccessivi (sessantotto attori, un centinaio di tecnici, moltissime ore di rappresentazione). Era già capitato anche per Gli ultimi giorni dell’umanità. Ancora oggi ci sono ex assessori che esaltano Ronconi, altri addetti ai lavori che ossessivamente lo considerano il responsabile di un iniziale e patologico deficit nei bilanci della cultura di Torino. Come non dare ragione a Renato Palazzi quando scrive a proposito de Gli ultimi giorni dell’umanità al Lingotto: «pareva un inutile spreco, ma in definitiva ne era nato un avvenimento che è entrato nella storia del teatro». È un po’ “torinese” anche il fiammeggiante Fahrenheit 451 di Ray Bradbury concepito e realizzato per il Salone del Libro 2007, con un’intensa Elisabetta Pozzi. Va detto ancora che molti torinesi alla partenza di Ronconi per altri lidi si sentirono davvero abbandonati, un po’ orfani. Come non ricordare i molti pullman organizzati nel capoluogo piemontese per andare al Piccolo Teatro a vedere i suoi spettacoli, le tante amicizie che sono durate nel tempo. Anche la mia per lui (con Ronconi ho lavorato) timidamente manifestata e timidamente ricambiata, di cui vado orgoglioso. ★ In apertura, Gli ultimi giorni dell’umanità, di Karl Kraus; in questa pagina, Mariangela Melato e Riccardo Bini in L’affare Makropulos, di Karel Čapek (foto: Marcello Norberth).

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Roma: allargare i confini passando per via Merulana È il Pasticciaccio di Gadda lo spettacolo simbolo degli anni in cui Ronconi è alla guida dello Stabile capitolino. Senza dimenticare Tasso, Ibsen e Shakespeare, prima, e Dostoevskij, O’Neill, Pirandello e Savinio poi. di Piefrancesco Giannangeli

È

difficile pensare, in anni contemporanei, a stagioni più esaltanti e complesse per la scena capitolina di quelle in cui, tra il 1994 e il 1998, Luca Ronconi fu alla guida del Teatro di Roma. Anni esaltanti, perché il regista osò sperimentazioni per le quali il livello dell’asticella si alzò vertiginosamente rispetto al consueto. Complessi, perché comunque quel teatro apriva abissali squarci di senso, richiedendo un’adesione da parte dello spettatore che superasse il sentire comune. L’avventura di Ronconi a Roma comincia al Teatro Argentina alla metà di aprile del 1994 con la messinscena dell’Aminta di Torquato Tasso. Un’opera in versi – come lo erano

state, pur nelle dovute differenze, le recenti esperienze nel teatro di Pasolini – pensata in uno spazio vuoto, se si escludono gli elementi vivissimi, i “fantasmi silvani” come in una foresta d’inverno, di Sergio D’Osmo. In uno spericolato gioco di rimandi, si può supporre che qui sia presente la lezione di Giordano Bruno, filosofo il cui pensiero Ronconi conosce benissimo e ama frequentare, come testimoniano i ritorni quasi ciclici al Candelaio. Per Bruno il vuoto non è assenza di pieno, bensì una realtà: il vuoto è, sostiene a più riprese nei Dialoghi italiani. Ebbene, questo vuoto dell’Argentina è lo spazio vitale, erotico, delle corse in tondo della Silvia di Sandra Toffolatti, della parola poetica che, con

straordinaria naturalezza, diventa teatro totale nella recitazione degli attori, ed è anche lo spazio dell’autore che si nasconde dietro a tutti i personaggi, a partire dal Tirsi di Massimo Popolizio. Ha tutti i prodromi, questo spettacolo, di una stagione romana in cui Ronconi sintetizza l’essenza del suo teatro, costruito sull’incrocio tra un’analisi feroce del testo e la consapevolezza dello spazio scenico, facendolo incontrare con la grande letteratura italiana e internazionale, in una corsa a perdifiato nei secoli. Prima di tornare al rapporto tra Ronconi e Roma, va aperta una parentesi, perché questo è anche il periodo in cui il regista affronta il suo primo Pirandello. E lo fa non in Italia,

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bensì, convinto da Peter Stein, che ne aveva assunto la direzione, al Festival di Salisburgo. Die Riesen vom Berge, cioè I giganti della montagna, vengono recitati in tedesco, con Jutta Lampe nei panni di Ilse, agli ex magazzini del sale sull’isola di Perner, ad Hallein. È un successo clamoroso per il “mito incompiuto”, analizzato nella relazione che lega Ilse a Spizzi (il poeta morto), il Conte (l’impresario) e il mago Cotrone (l’incarnazione magica dell’autore). Il resto lo fa ancora una volta lo spazio, trasformato da Margherita Palli su due livelli, tra cipressi, pedane di legno, mobili, binari, macchine sceniche. Il finale è quello dove lasciò il testo Pirandello prima di morire, e Ronconi fa venire giù il teatro a colpi di escavatrici che lo demoliscono. Un Peer Gynt senza tempo Di nuovo a Roma, ma restando nella grande drammaturgia a cavallo tra Ottocento e Novecento, nella primavera del ’95 al Teatro Centrale va in scena l’esperimento di Verso Peer Gynt. O meglio, quello che sarebbe dovuto essere un avvicinamento all’immaginifico testo di Ibsen, diventa invece uno spettacolo autonomo, capace di reggere la scena nella pienezza totale delle forme. Rilevante è l’indagine della relazione del protagonista, a cui dà vita Popolizio, con se stesso e poi quella del rapporto tra lui e le donne: indicativo, in questo caso, è il fatto che Anna Maria Guarnieri sia dapprima la madre Aase e poi l’amata Solvejg. Lo spettacolo è un caleidoscopio rispetto al testo, la cui impaginazione originale viene sconvolta per creare quell’«assoluto temporale unico» voluto da Ronconi, un tempo astratto dove si innestano i fili del racconto, in modo tale da far coesistere reale e possibile. E il “monologo della cipolla” trova ogni sera un interprete diverso, uno dei quindici attori che hanno frequentato il corso di perfezionamento del Teatro di Roma. Con i già citati Popolizio e Guarnieri, e insieme a Riccardo Bini e Massimo De Francovich, sul palco salgono, tra gli altri, anche i giovani Alessio Boni e Pierfrancesco Favino. Nella stessa stagione appare il Re Lear di Shakespeare, il “testo perfetto”, quello che

dopo due pagine ha spiegato chiaramente qual è la situazione e illustrato nelle loro caratteristiche fondamentali tutti i personaggi. Nel suo allestimento c’è l’urgenza di raccontare un mondo sulla frontiera del tempo e delle epoche, un mondo dove molto sta finendo e altrettanto sta cominciando, ma ancora non se ne vedono netti i contorni. Nella lettura di Ronconi, Lear (De Francovich) e il Fool (Corrado Pani) hanno la stessa età e si accompagnano – è il verbo più giusto per descrivere la relazione – nella vita fin dall’infanzia. Più che un doppio è come fosse uno il suggeritore, o meglio il consigliere, dell’altro, protagonista delle azioni. Lo spazio scenico è ancora una volta un personaggio inserito nell’azione. Gae Aulenti lo vuole in movimento perpetuo, in mutazione costante tra porte, controporte, saracinesche e battenti che ne cambiano continuamente il volto, ma non l’essenza, vale a dire quella, tipicamente elisabettiana, di uno spazio della mente suggerito allo spettatore dalle parole del testo. Gadda, l’impossibile diventa possibile Si arriva così, nel febbraio del 1996, allo spettacolo-manifesto degli anni romani di Luca Ronconi, ancora oggi uno dei più belli, nel suo essere operazione arditissima e riuscitissima, della storia recente dello spettacolo italiano. Al teatro Argentina va in scena, con un cast stellare – in cui spicca la presenza, nei panni del Commissario Ingravallo, di Franco Graziosi: attore preferito di Giorgio Strehler, che per la prima volta lavora con Ronconi –, la versione teatrale di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, di Carlo Emilio Gadda. Dopo aver allestito, pochi mesi prima, Dio ne scampi dagli Orsenigo di Vittorio Imbriani, di nuovo Ronconi è alle prese con una lingua strana, tra il barocco e l’espressionismo. Perché l’ha fatto? «Per il bisogno di allargare i confini» dice. Finendo stavolta in un mondo veramente “altro”, perché parte da un romanzo di non facile lettura nell’immediato e, fedele alla convinzione che il testo teatrale non sia solo costituito dal dialogo, finisce per mettere un tassello decisivo a una linea aperta venticinque anni pri-

ma con l’Orlando furioso di Spoleto e proseguita più recentemente con Gli ultimi giorni dell’umanità a Torino. È la strada del teatro pensato come impossibile, che diventa realtà viva di irraggiungibile livello, dove le difficoltà della lettura vengono trasformate in un impasto linguistico “fisico” capace di comunicare attraverso la voce e il movimento, quasi dentro un’arena dove chi sbaglia muore. Ronconi taglia il testo senza cambiare neppure una parola (e lo spettacolo dura sei ore), affida le pagine del romanzo a questo e a quell’attore, chiedendogli lo sforzo di entrare e uscire in continuazione dal personaggio, nello spazio giocoforza antinaturalistico della Palli, che contiene richiami ai fascisti anni Trenta e soprattutto a una Roma lunare e ombrosa, dove – causa il gioco a scacchi del potere – nulla è mai ciò che sembra. Parlando del Pasticciaccio non si può che saltare a due anni dopo, al gennaio 1998, quando un altro romanzo di grande peso prende corpo sul palcoscenico dell’Argentina: I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Ronconi lo intende come il segnale di un nuovo arricchimento della drammaturgia contemporanea, che così può avvalersi di un linguaggio altro, oltre il già noto. Anche in questo caso siamo davanti a un’edizione per il teatro che non è un semplice adattamento, perché alla fine nulla viene adattato, bensì solo sfoltito. In scena passioni piuttosto che sentimenti e la riflessione metafisica propria di Dostoevskij, con un Grande Inquisitore nel quale giganteggia Massimo De Francovich in stato di grazia. Resta da dire dell’interessante esperienza de Il lutto si addice a Elettra di O’Neill (febbraio 1997), con Mariangela Melato protagonista di uno spettacolo pensato nella contrapposizione spaziale tra interno ed esterno, di un Questa sera si recita a soggetto di Pirandello (che arriva a Roma dopo il debutto di Lisbona, luglio 1998) la cui vicenda viene oggettivata sul palcoscenico, senza ricorsi alle scene in platea, e dell’Alcesti di Samuele di Alberto Savinio (aprile 1999), curioso testo sul confine fra tragedia e commedia, che Ronconi maneggia con grande attenzione per il suo saluto al palcoscenico romano. ★

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Milano e il Piccolo Teatro, nel «tempio del grande mestiere» Da Infinities alla Lehman Trilogy, passando per Shakespeare, Goldoni, Schnitzler, Nabokov e Spregelburd, sono molti i segni e i sogni che Ronconi ha lasciato in questo suo ultimo e più lungo periodo passato ai vertici di un Teatro Stabile. di Maria Grazia Gregori

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arrivo di Luca Ronconi al Piccolo, nel 1998, non avviene solo per raccogliere il testimone dell’eredità artistica di Giorgio Strehler, ma è anche l’approdo naturale per il nostro più grande regista, l’unico ad avere una dimensione internazionale. Ronconi, infatti, arriva al Piccolo con una lunga storia teatrale alle spalle, fatta di esperienze fortunate e no, dopo l’invenzione del Laboratorio di Prato, che aveva al suo centro il tema della formazione dell’attore e, più in generale, di una comunicazione teatrale che cercava strade nuove per andare oltre la stanca tradizione scenica di allora. Ronconi ha anche alle spalle la direzione di due Teatri Stabili, a Torino e a Roma, e il Piccolo è per lui l’approdo «al tempio del

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grande mestiere», dove i due termini sono da leggere in diminuendo il primo e in crescendo il secondo. Ci arriva dopo avere fatto praticamente “tutto”: interrogato i Greci, chiedendosi come un teatro sacrale possa avere un senso qui e ora; sfidato la lunghezza della rappresentazione alla ricerca di uno spettacolo infinito anche nella durata; rivoluzionato lo spazio scenico nella sua fissità e averlo fatto diventare qualcosa di straordinariamente e drammaturgicamente significativo per lo spettacolo, gettando dunque un ponte verso un tempo che non fosse solo limitato alla durata, ma dove questa durata potesse essere protagonista nel rapporto con il pubblico; affrontato alcune delle sue prove più grandi andando oltre

il repertorio per misurarsi con il romanzo. Ci arriva dopo aver insegnato in diverse scuole teatrali e aver diretto la Scuola dello Stabile torinese spinto anche dal desiderio di formare degli attori dando loro gli strumenti per crescere, cosa che in questi anni è avvenuta nella Scuola del Piccolo, mai abbandonata nonostante la malattia, scuola che oggi porta il suo nome. Accanto a questo, oltre a questo, c’è il modo tutto suo di intendere il teatro – lui direbbe una “casa” – dove si “impara” soprattutto a saper distinguere e dove quello che si sa serve a conoscere e a riconoscere qualcosa che non è il messaggio (parola che non appartiene al vocabolario ronconiano) ma l’esperienza all’interno di un itinerario conoscitivo ed


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emozionale. E accanto all’esperienza, lo stile, il carattere, i procedimenti di un modo di fare teatro e, insieme a questo, la continua ricerca, addirittura l’ossessione, della contemporaneità, che non vuol dire parlare solo del tempo in cui si vive, ma inventare, fare un teatro contemporaneo anche attraverso i classici, perché la contemporaneità, per il Ronconi del Piccolo, significa investigare il teatro nella sua totalità fuori da qualsiasi luogo comune. Spazi in continua metamorfosi Arriva, soprattutto, con l’idea dello spettacolo come opera aperta, da un certo punto di vista inafferrabile nella sua totalità, ricerca iniziata con Orlando furioso e ripresa fino a Infinities, a Il panico di Spregelburd, a Lehman Trilogy di Massini e applicata anche a Shakespeare. Opera aperta perché presuppone per il regista la libertà di opzione e per il pubblico la possibilità di scegliere un percorso anche solo mentale, magari sostituendo al movimento degli spettatori – “apparentemente” seduti nella loro poltrona –, quello frenetico delle scene. È l’inseguimento di un Gran teatro del mondo, di un Grande meccanismo anche drammaturgico nella continua metamorfosi degli spazi: il piccolo e il grande, la botola che sprofonda e il muro che si spalanca o che si chiude, le porte che si inseguono in un movimento allo stesso tempo reale e illusorio, il soffitto che s’abbassa, le pareti di stanze che s’allargano e si restringono, gli oggetti che scendono dall’alto o passano lungo tutta la scena non hanno solo un significato fattuale, ma servono a Ronconi come segni per interpretare i testi sia che si tratti di Calderón, di Shakespeare o di Massini, sia di Spregelburd, di Nabokov, di Strindberg o di Goldoni. Non posso certo qui analizzare tutti gli spettacoli diretti da Ronconi al Piccolo Teatro, mi

preme però cercare di individuare il senso di alcune scelte artistiche più originali, sempre un passo avanti rispetto alla norma del teatro italiano. Perché anche le scelte che potrebbero apparire più scontate hanno sempre avuto nel suo percorso una loro necessità. Shakespeare, per esempio, potrebbe sembrare la scelta più facile e invece non solo si tiene con quella degli elisabettiani dei suoi primi, tumultuosi anni creativi, ma ritorna anche con Peccato che fosse puttana di John Ford, con il Calderón di La vita è sogno e con La Celestina di de Rojas-Garneau e significa, in questi anni, andare alla ricerca di un linguaggio rappresentativo spiazzante e innovatore. Sogno di una notte di mezza estate, per esempio, è un magnifico, visionario viaggio della mente e del cuore, un intrigo d’amore e ironia, di apparenti tenerezze e potere, un cammino di conoscenza, anche, compiuto dai personaggi, soprattutto quelli giovani, fra lacrime e dolori e qualche rara felicità, dove la foresta in cui le coppie si inseguono e si sparigliano, in cui si compiono sbadati incantesimi non è per Ronconi un semplice corollario, ma un vero e proprio personaggio, un luogo infantile ma anche adulto di gioco e il grande palcoscenico del Teatro Strehler, indagato nella sua allarmante nudità, si trasforma continuamente in un luogo in cui tutto si capovolge e tutto può essere tentato. Ci sono lettere che si scompongono e si compongono in parole, parole che suggeriscono ciò che non si vede, cartelli fosforescenti che scendono dall’alto a suggerire luoghi e oggetti in un’ideale sciarada con cui interagiscono i protagonisti di questo gioco d’amore e d’azzardo, gli unici, si direbbe, a sapere risolvere i rebus. E a contare è soprattutto una compagnia formata da giovani ma già affermati attori che guarda al futuro, tutti raccolti attorno a un maestro che sa rinnovarsi e spe-

rimentare come pochi il processo di una creazione mai fine a se stessa, inquieta e aperta. Le inquietudini del ’900 Nel Mercante di Venezia, testo che Ronconi aveva già messo in scena a Parigi in modo del tutto diverso, niente resta identico, tutto cambia, niente è come era all’inizio e tutto sembra rendere evidente la crisi – sociale, economica, morale –, dove certo il mondo non è color pastello, dove è molto difficile riconoscere con chiarezza il male e dove l’amore può diventare un gioco crudele visto che si percepisce immediatamente quanto si può guadagnare anche dal sentimento, anche da una libertà riconquistata. Tutto “costa” in questo spettacolo ronconiano, tutto ha un prezzo: la generosità, le molte menzogne di cui si veste l’amore, nessuno è davvero sincero in una Venezia che potrebbe sembrare Porto Marghera, in un andare e venire che esalta dei simboli del denaro, pese gigantesche e piccole, carrelli con sacchi di monete. Uno spettacolo in cui si fa strada a poco a poco la linfa segreta che lo percorre: la ricerca di se stessi nella contrapposizione fra amore omosessuale ed eterosessuale, nodo quanto mai shakespeariano che qui Ronconi rivela con forza poeticamente chiarificatrice. Il lavoro su Goldoni, che avrebbe dovuto chiudersi idealmente fra pochi mesi con Le donne gelose, per Ronconi anche prima del Piccolo (La buona moglie, La serva amorosa) si è invece centrato su commedie il più possibile lontane dalla Commedia dell’Arte. Sono commedie che potremmo definire “nere”, dove le vicende raccontate sia in I due gemelli veneziani sia nel Ventaglio mettono in rilievo non tanto il gioco del teatro quanto la psicologia dei personaggi, il formarsi di caratteri più moderni, quasi un annuncio di

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drammaturgia ottocentesca. A fare invece da ideale ponte con la drammaturgia contemporanea ci sono alcuni testi che pongono in primo piano i grandi temi di una società che sta affrontando il nuovo secolo: temi etici, politici, economici, sociali, scientifici. Emblematico da questo punto di vista è Il professor Bernhardi, di Schnitzler, fra i grandissimi spettacoli di Ronconi, dove la superiore dignità dell’essere umano si riflette nell’orgogliosa ma consapevole superiorità della scienza nei confronti delle pastette e delle corruzioni politiche, qui complicate da un diffuso razzismo di cui si cominciavano a percepire i frutti avvelenati in quell’Austria che già non era più felix. Uno spettacolo magistrale senza moralismi, di uno Schnitzler inaspettato, a più dimensioni, dove a venire in primo piano è l’insondabile complessità dell’animo umano accanto all’antisemitismo, alla corruzione della società e della politica. Nulla, del resto, secondo Schnitzler e Ronconi, è definitivo perché nessuno, neppure Bernhardi è un superuomo. La cosiddetta “contemporaneità” per Ronconi al Piccolo inizia con la messinscena di un testo non scritto per il teatro, che si trasforma in uno straordinario esempio di teatralità: mi riferisco a Lolita, la sceneggiatura scritta da Nabokov stesso per il film di Kubrick che non la usò. Questa doppia funzione del testo, questa sua apertura e questa sua cinematografica “economicità” permettono al regista di sviluppare uno spettacolo in parallelo dove, accanto alla parola, acquistano fondamentale importanza il movimento delle scene, che si svolge parallelamente al passare del tempo fra prima e dopo, il pulsare

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dei personaggi e quel senso di spaesamento e di relativismo che è dell’autore e che Ronconi esalta grazie al movimento di un’ipotetica macchina da presa. Ancora una volta è lo spettacolo infinito a mostrarsi dietro questa scelta che cerca – come era già successo in Gli ultimi giorni dell’umanità e nel Pasticciaccio di Gadda – di ricostruire, come in un’ideale lanterna magica, lo sviluppo di un pensiero, la dilatazione improvvisa di un’immagine, l’inquietudine di un sentimento. Sognando lo spettacolo infinito Il sogno e il segno di uno spettacolo infinito si esaltano in quel vero e proprio capolavoro che è Infinities (di cui qui scrive Renato Palazzi) e si concretizza nell’innamoramento ronconiano per il teatro di Jean-Luc Lagarce, per quello che ha al suo centro il grande e misterioso tema dell’economia con testi di Ruffolo, Broch e Bond e, soprattutto, per il drammaturgo argentino Rafael Spregelburd. I due testi di Spregelburd affrontati, La modestia e Il panico, sembrano essere diversissimi fra loro. Fisso in una forma apparentemente chiusa il primo, dilatato verso un’inafferrabile complessità fatta di premonizioni e di continui ritorni dal mondo della memoria in un mescolamento di vivi e morti, il secondo. In realtà nella Modestia, nell’apparente immobilità di un stanza con quattro personaggi che si confrontano ma anche si duplicano, e nel Panico, con il sovrapporsi nel candore abbagliante di ambienti alla ricerca di un’impossibile stabilità (resa evidente anche dall’accidentata scena che sembra avere perso il suo centro di gravità), nell’intrecciarsi inquietante di storie di personaggi legati fra di loro solo dal sen-

timento di dovere fare qualcosa, di non sapere come farlo e per questo nutrire una comune sensazione di panico, sono le epoche, le identità, i sentimenti, a mescolarsi in un affascinante anche se non facile gioco. Dove il movimento interno del testo (soprattutto nel Panico), la sua simultaneità inquieta, che non accetta definizioni di spazio e di tempo, gli suggerisce confermandogli, se ce n’era bisogno, la necessità di uno spettacolo infinito. Consapevolezza che si ripeterà in Lehman Trilogy (recensione a pag. 86), storia della nascita e della caduta delle banca che porta il nome della famiglia che la fondò, che è quasi banale definire il suo testamento. Ma lo è davvero per tutte le cose che ho cercato di chiarire e di chiarirmi fin qui: la scelta di un testo che si distingue per la particolarità di un linguaggio non teatrale ma epico, il suo strutturarsi non per dialoghi detti dai personaggi, ma per flussi di coscienza detti da attori che non sono personaggi bensì figure, dove si sfugge alla temporalità come in un gigantesco flashback, andando avanti e indietro nel tempo, dove i morti assistono alla caduta definitiva di tutto ciò che hanno creato. Ancora una volta uno spettacolo infinito, aperto, con un grande punto interrogativo sul futuro. Per Luca Ronconi il sogno inseguito e realizzato lungo tutta la sua vita, al quale ha impresso il segno, il sigillo della sua genialità. Ci mancherà. ★ In apertura, Lolita, di Nabokov (foto: Luigi Ciminaghi); nella pagina precedente Il professor Bernhardi, di Schnitzler (foto: Marcello Norberth); in questa pagina, Sogno di una notte di mezza estate, di Shakespeare (foto: Marcello Norberth) e La modestia, di Spregelburd (foto: Luigi Laselva).


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La sapienza antica di un maestro rivoluzionario Il lavoro sul testo e sulla lingua, la lontananza dal teatro psicologico, l’assenza di un metodo sono alla base dell’unicità della pedagogia ronconiana. di Paola Bigatto

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ue spunti di riflessione relativi all’attività pedagogica di Ronconi, attività, come è noto, praticata con passione non solo nell’ambito delle diverse istituzioni didattiche nelle quali operò (dall’Accademia Silvio D’Amico di Roma al Centro Teatrale Santacristina, in Umbria, passando per la scuola del Teatro Stabile di Torino, la Scuola del Piccolo Teatro, che ora porta il suo nome, e lo Iuav di Venezia), ma anche, in un certo senso, nei confronti dei suoi attori durante gli allestimenti: il titolo di “maestro”, che ha accettato senza protestare solo negli ultimi anni, credo gli fosse perfettamente aderente nel suo senso primario. La prima caratteristica che vorrei segnalare è l’assenza di un metodo. In questi anni, all’interno delle scuole di teatro, si fa sempre più riferimento ai “metodi” e a terminologie relative ai gradi di lavoro previsti, appunto, da “metodi”. Ronconi apertamente rifiutava il termine e il concetto di “metodo”: «una ricetta», diceva con un movimento della mano come a sbattere delle uova immaginarie, riferendosi esplicitamente alle ricette di cucina, procedimenti che, se applicati minuziosamente, garantiscono la riuscita della

pietanza. Gli era estraneo il pensiero che un procedimento fosse applicabile a qualsiasi testo, per lui sempre caratterizzato da una irriducibile unicità. La sua pedagogia non si configurava quindi come insegnamento di un metodo, visto che un metodo non lo aveva, se non quello di stare insieme ai testi, lavorandoli con gli attori (e in questo senso la pedagogia aveva la centralità di uno spazio di ricerca). Per gli allievi, lo studio del testo proposto da Ronconi passava attraverso una pratica corporea: la respirazione, la corretta articolazione dei suoni, e si affidava allo strumento dell’imitazione: le battute pronunciate da Ronconi erano subito piene di significato, efficaci, e subito leggibile il personaggio da cui scaturivano. L’imitazione quindi si configurava come un complesso esercizio di ascolto per affinare la riproduzione non tanto di quello che lui faceva, quanto di ciò che lui additava con il suo dire. L’oggetto era la lingua parlata nella sua inesauribile ricchezza timbrica e ritmica: l’imitazione, maestra di ogni arte, ma, chissà perché, vituperata solo nell’arte teatrale, era uno dei principali attrezzi di questo maestro antico.

Ed ecco, proprio sull’antichità di questo maestro, il secondo spunto di riflessione. Ronconi è stato spesso descritto come un rivoluzionario, un innovatore, e certamente lo è stato. Ma ritengo, rispetto alla pedagogia, che sia stato il portatore di una conoscenza antica, e che fosse il rappresentante di un teatro italiano di tradizione. Non senza stupore ho ritrovato, in manuali del primo Novecento, alcuni esercizi che avevo conosciuto attraverso i suoi consigli, e poi, a ritroso, anche nei manuali di recitazione dei grandi insegnanti dell’Ottocento, per rinvenire una concordia di visione, e quasi delle assonanze verbali, negli scritti teorici di Alfieri. Un certo filone del teatro italiano, che emerge in maniera carsica in epoche diverse, sembra aver trovato in Ronconi un particolarissimo canale di espressione, filone che ha il suo centro nel lavoro sul testo e sulla lingua. Su questi due ambiti l’insegnamento di Ronconi ha una grande lucentezza e preziosità: l’incitamento, sempre rivolto ai giovani, a conoscere, a saper collocare un testo nel sistema di segni in cui è nato, l’ammonimento a non usare il testo per i propri fini espressivi, ma invece l’invito ad andare noi verso il testo; tutto ciò forma, e chiede, un grande rigore, una deontologia teatrale più incisiva di un metodo. Se la radice del suo insegnamento era antica, ciò non vuol dire che lo estraniasse dall’oggi, anzi, lo collocava strettamente nel presente. Di qui la lontananza da un teatro psicologico di tipo ottocentesco, legato a un’antropologia passata; di qui, con un certo sgomento per i giovani attori, vagamente iniziati a metodi psicologici, l’assenza totale, nel suo vocabolario e nelle sue indicazioni, del termine “intenzione”: proponeva invece una provenienza preterintenzionale delle battute, invitava a scoprirne l’origine fisiologica e a considerare i personaggi attraversati da pensieri, mossi e non motori – un’idea di uomo certamente più vicina alla nostra percezione di noi stessi – idea che, a proposito delle tecniche di improvvisazione, tanto diffuse nelle altre pratiche teatrali, lo portava a dire: «Improvvisare vuol dire farsi cogliere all’improvviso». ★

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Tra scienza ed economia Ronconi e la curiosità per l'ignoto Un personale bisogno di conoscenza e di sperimentazione sono alla base di una serie di spettacoli a tema scientifico o economico, da Infinities alla Lehman Trilogy, dagli Ultimi giorni dell’umanità a Progetto Domani. di Renato Palazzi

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i è detto in varie sedi che Ronconi, fino all’ultimo, non ha mai rinunciato a quel forte impulso di curiosità nei confronti del nuovo che l’ha spinto fin dalle origini, a cercare in palcoscenico strade inedite e inesplorate, capaci di portarlo fuori dai confini della drammaturgia tradizionale. Uno degli aspetti più peculiari del suo percorso artistico, in questi anni, è stato dunque il “filone” di spettacoli che si possono ricondurre all’imprevedibile interesse del regista per argomenti che trascendono l’ambito ristretto del teatro, attingendo a materie prevalentemente scientifiche o economiche. Il punto di svolta, l’inizio di questa fervida linea creativa è stato, all’apparenza, lo straor-

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dinario Infinities realizzato nel 2002 negli exlaboratori scenografici della Scala, alla Bovisa, in uno dei passaggi culminanti della sua collaborazione col Piccolo Teatro di Milano. Infinities era uno spettacolo fuori dall’ordinario in tutti i sensi, a partire dal testo: una serie di cinque saggi sui principi logico-matematici del concetto di infinito, commissionati all’astrofisico inglese John D. Barrow e affrontati da lui così com’erano, nella loro natura eminentemente speculativa, mettendoci molta intelligenza scenica, molta ironia, un’inesauribile fantasia nell’uso degli spazi, ma senza neppure provare a dare loro una qualunque struttura narrativa. I concetti affrontati – matrici e numeri primi –

erano ardui, ma grazie al felice intervento di Ronconi prendevano un imprevedibile risalto concreto. È difficile dimenticare i buffi affanni del direttore dell’“albergo di Hilbert”, alle prese col problema di sistemare infiniti ospiti in infinite stanze, i mostruosi vegliardi impegnati a prefigurare le mille contraddizioni di una vita protratta all’infinito, o gli anonimi individui che in un universo infinito incontravano infinite copie di se stessi. E poi il matematico pazzo Georg Cantor che, fasciato di bende come una mummia, cercava di fornire un fondamento aritmetico all’idea divina dell’Assoluto, e i viaggiatori del tempo pronti a paradossali intromissioni nel proprio passato o nel proprio futuro. Gli attori, costretti a misurarsi con dei personaggi-non personaggi, precarie figurette dall’incerta fisionomia, più che recitare enunciavano puntigliosamente i loro presupposti teorici, aiutandosi con tabelle luminose e lavagne su cui tracciavano oscure formule algebriche. Come in tanti spettacoli seguiti al Pasticciaccio, anziché rappresentare descrivevano e commentavano l’oggetto della rappresentazione, ma quelle loro pedanti dissertazioni assumevano un ritmo corale a tratti irresistibile. Mentre un’azione si concludeva e il pubblico si spostava nello spazio successivo, la stessa scena veniva ripetuta per nuovi spettatori: e poiché spesso gli interpreti cambiavano, cambiava il tono, il taglio della scena, dando luogo a un meccanismo combinatorio praticamente infinito. Sapere di non sapere Era stata significativa, allora, al di là dell’altissimo livello del risultato, la spiegazione dei motivi che stavano alla base di questa scelta. Ronconi aveva chiarito di non sapere nulla dei concetti esposti, e di avere deciso di allestire lo spettacolo proprio per un suo personale bisogno di conoscenza, per cercare lui per primo di capire ciò che ignorava. Partiva da un’ammissione di non sapere: ma la traduceva, proprio attraverso questa sorta di apprendimento empirico, in un atteggiamento esso stesso in qualche modo scientifico, un processo di sperimentazione linguistica, un


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prolungamento di quella disposizione alla lucida analisi strutturale che da sempre apparteneva alla sua concezione della messinscena. Pino Donghi, che della creazione di Infinities era stato fiancheggiatore e testimone, nel suo libro Gli infiniti di Ronconi cita un episodio che la dice lunga su questa esigenza del regista di addentrarsi in un terreno ignoto: «Fu un giorno, quando gli chiedemmo se per caso conosceva l’adattamento teatrale che Peter Brook aveva proposto di alcuni casi clinici di Oliver Sacks, che ci disse che quello era appunto ciò che non gli interessava fare: se avesse proposto a De Francovich o Popolizio o a Galatea Ranzi un testo di Oliver Sacks loro, dopo un po’, avrebbero cominciato a recitare Pirandello... e allora meglio Pirandello». Il clou di questo suggestivo itinerario ronconiano era stato, nel 2006, l’ardito sforzo inventivo del Progetto Domani, il ciclo di cinque proposte su temi di bruciante attualità realizzati a Torino in occasione delle Olimpiadi invernali, cinque titoli concatenati l’uno all’altro come i cinque cerchi del simbolo decoubertiano. Di questi cinque eventi, ben tre prendevano le mosse da fonti drammaturgiche del tutto anomale: un trattato di economia di Giorgio Ruffolo, un carteggio fra tre grandi ex-dirigenti comunisti sulla crisi dell’ideologia dopo la caduta del Muro di Berlino, un compendio di voci enciclopediche sui problemi della bioetica. Uno di essi, Atti di guerra di Edward Bond – testo incompiuto, nato da un laboratorio tenuto dall’autore inglese nell’85 a Palermo – immaginava gli effetti di una strage nucleare, svariando dalle difficoltà economiche alla genetica. Solo uno, il Troilo e Cressida di Shakespeare, si rifaceva a un’opera canonica, per quanto anomala e ambiguamente a cavallo fra commedia e tragedia come questa sorta di rivisitazione a rovescio del Romeo e Giulietta: anche qui, però, il tema della guerra, e specificamente dell’assedio di Troia, si prestava a una serie di riflessioni sulla sproporzione tecnologica degli armamenti – moderni fucili contro spade e corazze – e sulla cinica compravendita dei sentimenti umani.

Adamo ed Eva al supermercato Come già in Infinities, quella materia che sembrava inerte si accendeva di una folgorante vitalità teatrale: Lo specchio del diavolo, la severa lezione accademica di Ruffolo sul capitalismo e lo sfruttamento delle risorse naturali, diventava un travolgente divertissement che proiettava Adamo ed Eva e un’amena famiglia di scimmie primordiali tra i banchi di un odierno supermercato; Il silenzio dei comunisti, con i tre anziani leader che si scrivevano dalla solitudine delle loro stanzette, si caricava di uno spessore ideale stranamente commovente; e persino Biblioetica. Istruzioni per l’uso dislocava le astratte riflessioni di una trentina di studiosi sulla clonazione o le donazioni di organi in un ingegnoso labirinto in cui il pubblico era invitato ad aggirarsi. Da questo fertile alveo derivavano alcuni importanti allestimenti presentati in seguito: Inventato di sana pianta ovvero gli affari del barone Laborde di Hermann Broch, una scintillante commedia del ‘34 in cui si dimostra come sia possibile arricchirsi vendendo le azioni di un giacimento petrolifero inesistente; La compagnia degli uomini di Edward Bond, un possente dramma che analizza con rigore didascalico lo scontro fra due magnati per il controllo di una fabbrica di armi; la San-

ta Giovanna dei macelli di Brecht, scandita dagli alti e bassi della Borsa di Chicago negli anni della Grande Crisi del ‘29; e infine, ovviamente, la recentissima Lehman Trilogy di Stefano Massini, due secoli di storia colti attraverso la prospettiva della celebre dinastia di banchieri. Ho premesso che questa ricerca sui rapporti fra il teatro e le varie discipline scientifiche è iniziata all’apparenza con Infinities, ma in realtà essa era già inscritta nella storia teatrale di Ronconi. Basti pensare alla mitica messinscena torinese de Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, interamente incentrata sulla spietata analisi dei legami tra produzione industriale, industria dell’informazione ed eventi bellici. O all’altrettanto mitico Ignorabimus di Arno Holz, uno sterminato esercizio di naturalismo radicale attraversato dai bagliori del conflitto tra razionalismo scientifico e studi occultistici. Ma si potrebbe anche citare Il candelaio di Giordano Bruno, coi suoi richiami al sapere alchemico e alla filosofia naturale, o le ipotesi pseudo-fantascientifiche alla base dell’Affare Makropulos di Karel Čapek. ★

In apertura, Infinities, di John D. Barrow; in questa pagina, Lo specchio del diavolo, di Giorgio Ruffolo.

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Sulla gran scena del melodramma l'ultimo teatro delle meraviglie La lezione di Ronconi come regista d’opera ha segnato quasi mezzo secolo di dialogo con il grande repertorio, ma anche con i fasti della scena barocca e di quella contemporanea. Alla ricerca di immagini mirabolanti e d’inedite fughe prospettiche. di Giuseppe Montemagno

O Falstaff (foto: Carlo Cofano)

ttantaquattro. Non è difficile smentire chi sostenga la vocazione di Luca Ronconi per il teatro di prosa: quanto meno sotto il profilo quantitativo, le sue ottantaquattro – appunto – produzioni liriche, realizzate lungo un arco temporale che dal 1967 raggiunge l’ultimo mese del 2014, attestano l’attenzione costante, l’ininterrotta riflessione dedicata al teatro musicale e alla pluralità delle sue forme. Un teatro che, con voracità quasi bulimica, Ronconi ha percorso e attraversato a larghe falcate, poco o nulla tralasciando dall’Orfeo tardo-rinascimentale di Monteverdi sino alle creazioni contemporanee di Berio e Stockhausen, Reimann e Battistelli: a

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partire da un debutto segnato, al Nuovo di Torino, da Arlecchino di Busoni, sino al crepuscolare explicit fiorentino con il verdiano Falstaff. Un teatro che interroga e illumina – in prospettiva – l’altra drammaturgia, quella fondata sulla parola, per rivelarne alcuni tratti salienti. Ronconi non si sottrae al confronto con i grandi classici, per cominciare: sin da quando interviene nel Ring scaligero (1974-1975) di Wolfgang Sawallisch, limitato alle due giornate centrali, ma poi più compiutamente ripreso al Maggio Musicale Fiorentino (19791981), praticamente a latere di quello del centenario allestito a Bayreuth da Chéreau e Boulez. Sulla scorta dell’elegante impian-

to scenico di Pier Luigi Pizzi, la cosmogonia wagneriana parte dalla rappresentazione della natura primigenia: ma da questa subito si sradica per indagare l’origine del capitale, per mettere in scena la civiltà tedesca al tempo di Wagner, l’irresistibile ascesa e l’inarrestabile declino della plutocrazia militare prussiana, che negli immensi specchi, che circondano austeri salotti borghesi, dapprima si riflette, quindi si ritrae sgomenta. E con Wagner non può mancare il primo Ottocento italiano, cui Ronconi accende la miccia sin da un Nabucco (1977) toscano – ma si potrebbero citare anche Il trovatore dello stesso anno e il contestatissimo Ernani (1982) scaligero, sino ai Vespri siciliani (1986) di Bologna – in cui la parabola verdiana degli “anni di galera” viene evocata sub specie risorgimentale: per raccontare l’eterno romanzo di una nazione in cerca di un’identità bella e perduta, la storia incompiuta di tableaux vivants assortiti nel nostalgico rimpianto della pittura di Hayez. Ma un cenno meritano almeno il funereo Don Carlo (1977) e il rigoroso Macbeth (1980) berlinese, che Luciano Damiani declina il primo nelle tinte dell’arancio, vivido dei fuochi dell’autodafé, il secondo nelle sfumature del rosso, il colore del sangue e del potere. Fino a una poetica, imponente Aida (1985) immaginata come un sogno dorato tra le sabbie e le pietre del deserto: una fantasia archeologica, memoria delle conquiste coloniali fin de siècle; ma anche un ricordo delle sopraffazioni inferte agli schiavi di ieri, ai sudditi di oggi. Per questa via il melodramma diventa, anche, la sede più idonea per sperimentare quell’impronta visionaria, di stampo barocco, che è cifra peculiare del teatro ronconiano: a partire da quando, auspice Riccardo Muti, riscopre la stagione francese di Luigi Cherubini, di cui affronta a Roma Démophoon (1985) e in Scala la rarissima Lodoïska (1991), recuperando le strategie della pièce à sauvetage di epoca rivoluzionaria nel ritmo avventuroso di visioni ardite e catturanti. Negli anni sviluppa così un autentico culto dell’immagine, di mirabolanti machinae destinate a suscitare lo stupore dello spettatore, di una


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composizione dello spazio scenico, disegnato da Mauro Pagano, Gae Aulenti, Margherita Palli, che predilige fughe prospettiche ora dal basso, ora dall’alto, ma sempre allo scopo d’infrangere una frontalità rassicurante e scontata. L’arrivo del carro del sole nel Fetonte (1988) di Jommelli, il lungo viaggio tra le onde e le nubi della Fiaba dello zar Saltan (1988) di Rimskij-Korsakov, le incombenti librerie dello studio legale dell’Affare Makropulos (1993) di Janáček, l’intrigo piranesiano delle architetture capitoline di Tosca (1997), fino alla gigantesca statua della Madonna in frantumi sul piancito di Suor Angelica (2008) di Puccini sono solo alcune delle memorabili fantasmagorie realizzate da Ronconi. Con il trascorrere del tempo, peraltro, lo studio delle immagini si è trasformato in riflessione sui mezzi da utilizzare. Così, a partire dallo storico Viaggio a Reims (1984) pesarese, ma soprattutto in occasione di Guglielmo Tell (1988), il video assume un ruolo e un peso sempre più significativi, fino a occupare l’intero sfondo della scena. L’ultimo caso, in cui le immagini sono firmate da Giuseppe Rotunno, il direttore della fotografia di Visconti e Fellini, è emblematico di questa ricerca: perché consente un riferimento agli smisurati spazi dipinti da Friedrich, ma soprattutto a una natura incontaminata che è fondamento stesso della collettività elvetica, celebrata nel finale. E tutto questo diventa anche teatro politico, perché s’interroga sulle basi della democrazia e sulla creazione di un’identità condivisa, nascosta tra le pieghe della storia. Da qui l’interesse di Ronconi per il melodramma: come gli esiti più alti di un magistero che non ha interamente beneficiato dell’eco internazionale che avrebbe meritato, forse proprio a causa della grandiosità di allestimenti sitespecific, raramente e difficilmente esportati su altre ribalte. Proprio l’approccio kolossal, tuttavia, è venuto meno con il passare degli anni – e con l’avanzare di una crisi che, tuttavia, è stata affrontata nel desiderio di «trasformare una difficoltà in un’opportunità». In questo contesto s’inquadrano la provocatoria Turandot “nuda”, senza scene né costumi, allestita al Regio di Torino per l’inaugurazione 2006; ma soprattutto quel Falstaff (2013-’14) che, da Bari a Firenze, ne costituisce il testamento spirituale. Quando un gran lettone occupa la scena vuota, al capezzale di un vecchio burlone e un po’ mitomane, anarchico e seduttore: l’ultimo sognatore, ancora capace di credere nella grande utopia del teatro. ★

Ronconi e il Rossini Opera Festival l’ineguagliata magia del Viaggio a Reims La sera del 18 agosto 1984 qualcosa cambiò nella regia d’opera, e da quel magico momento non si tornò più indietro. Aveva più di un dubbio Luca Ronconi nel mettere in scena una cantata scenica, perché temeva che non avesse la forza appunto dell’opera. Ma, prova dopo prova, il miracolo prese corpo e il Viaggio a Reims (nella foto) nell’edizione del Rossini Opera Festival - che era nato da appena quattro anni - diventò un punto di riferimento internazionale. Il segreto di questo clamoroso successo, accompagnato da continue ovazioni per i protagonisti come raramente si sentono in un teatro, si rivelava nel fatto che allora era possibile mettere in scena uno spettacolo dai contorni definiti e di grande personalità, anche quando la musica vincolava alle sue origini, anche quando l’opera non era stata pensata per il teatro vero e proprio. Ciò, da quel momento in avanti, funzionò in particolare per Rossini, sublime musicista che si affidava spesso a libretti dalle trame esili, fino a volte a essere improbabili. Da quel nulla di parole, era possibile costruire grande teatro. Era possibile quindi, attraverso la messinscena, dare corpo solido a storie che ne avevano poco o nulla. Per farlo, ovviamente, bisognava essere dei visionari totali, con coraggio e conoscenze enciclopediche, altrimenti non si sarebbe potuto dare sostanza all’impalpabile. Ronconi firmò il Viaggio con Gae Aulenti e un immenso Claudio Abbado, un’avventura autentica in compagnia di Cecilia Gasdia, Lucia Valentini Terrani, Katia Ricciarelli, e poi Samuel Ramey, Ruggero Raimondi, Enzo Dara, Leo Nucci, con un poetico intervento delle marionette Colla, dentro un piccolo teatro che si componeva da sé, in alto e sospeso nel vuoto. Indimenticabile l’impianto scenico all’Auditorium Pedrotti, con le canne d’organo sullo sfondo e tutto il resto dei praticabili in bianco, colorato dai costumi, in uno spazio che era, genialmente, un palcoscenico elisabettiano con una buca per l’orchestra. Il risultato, al di là dell’accoglienza trionfale diventata storica, fu piuttosto una testimonianza della gioia, fanciullesca e meravigliata, di fare teatro. C’è una foto che racconta meglio di tante parole: Abbado che dà indicazioni all’orchestra con il braccio destro sollevato e Ronconi, tutto vestito di bianco, dietro di lui, appoggiato alla balaustra, con lo sguardo concentrato e puntato sul palcoscenico. Una complicità totale tra musica e azione che fu la chiave di tutto. Un altro momento scolpito nella memoria dello spettatore è quello della Cenerentola del 1998. Uno spettacolo dalla raffinata carica ironica e dalla giocosità elegante, con mobili che si sollevavano, muri che ruotavano su se stessi a scoprire nuovi ambienti, una berlina che catapultava sul palcoscenico decine di coristi, fino a Cenerentola (Vesselina Kasarova) trasportata a casa del Principe a volo di cicogna. Il gioco più autentico del teatro di Luca Ronconi, che al Rof ha firmato dodici spettacoli, l’ultimo, l’Armida all’Adriatic Arena, proprio l’estate scorsa, e un notevole Ricciardo e Zoraide nel 1990, premio Abbiati per scene e costumi (Gae Aulenti e Giovanna Buzzi). Può sembrare inutile, ma giova sempre ricordarlo, che Il viaggio a Reims vinse l’Abbiati nel 1984 come miglior spettacolo dell’anno, e la Cenerentola si portò a casa Abbiati e Premio Samaritani ancora per scene e costumi (Margherita Palli e Carlo Diappi). Piefrancesco Giannangeli

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La metamorfosi della regia Ronconi tra passato e futuro Nei cinquant'anni che hanno visto in Italia l’affermazione e il dominio della regia, Luca Ronconi è stato il punto di svolta definitivo. Il teatro prima, e dopo di lui. di Roberto Canziani

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a mia vocazione teatrale è stata assai precoce: ogni cosa che mi capitava sott’occhio, ogni spazio in cui mettevo piede, avrei voluto poterlo trasformare in un luogo capace di accogliere il teatro». Un’immagine di regia è già presente in queste poche frasi, anche se appare ancora vaga, astratta, certamente non tecnica e nemmeno storica. Eppure torna spesso nelle parole con cui Luca Ronconi ricostruiva la propria carriera. Non solo la carriera, anche la propria vita, che considerava “naturalmente” legata al teatro. «Per me il teatro era l’unico territorio in cui potessi “respirare” naturalmente» confessava a Gianfranco Capitta, in un’ampia conversazione che rappresenta il cuore del volume Teatro della conoscenza (Laterza 2012). «Non avrei potuto fare altro che teatro. Ma per me fare l’attore era patogeno: ero anche abbastanza bravo, ma soffrivo moltissimo, non era il mio elemento e ho dovuto smettere... Così quando mi hanno proposto di fare il regista della compagnia Volontè-Pani-Occhini-Gravina ho provato, e mi ci sono trovato bene». Come se non l’avesse voluto lui, o comunque lui non l’avesse deciso. Come se il passo indietro, la rinuncia al mestiere dell’attore a cui l’Accademia lo aveva formato, fosse già scritto in un destino al quale non le stelle, ma la sua infanzia, lo aveva preparato. «Da ragazzo sono stato fortunato. Parlo del ‘44-’45 e dell’immediato dopoguerra, quando ero ancor meno che adolescente. C’era il coprifuoco, non si poteva uscire, e io, a dodici anni, ho letto l’iradiddio. In casa c’era una gran bella biblioteca». II teatro come macchina Nel teatro italiano il secondo Novecento è il dominio della regia. Nei cinquant’anni di quella parabola si iscrivono Visconti, Strehler, Ronconi, Castri, nati a distanza di circa un decennio l’uno dall’altro, e ora tutti scomparsi. In Ronconi però, la figura, il ruolo, la vocazione della regia trovano un punto di svolta definitivo. Esiste uno scarto fondamentale tra i registi italiani che hanno vissuto con consapevolezza adulta il periodo della Resistenza – Visconti (1906), Strehler (1921) e al loro fianco anche Pandolfi, Squarzina, De Bosio – e quelli come Ronconi (1933), Castri (1943) – e in parallelo a loro anche Carmelo Bene e Carlo Cecchi – che nati da poco, o molto giovani durante gli anni del conflitto, ne hanno percepito l’eco, attutito nel caso di Ronconi dalle pareti della casa materna felpate di libri.

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SPECIALE RONCONI

Un tempo, il vecchio vocabolario gramsciano, li avrebbe definiti i primi «intellettuali organici». Un altro tempo avrebbe associato ai secondi lo spirito dell’engagement che negli anni ‘60 scompigliava le file dell’ortodossia politica, con i nascenti brividi dello strutturalismo. Oggi, rileggendo la storia di quella “società civile”, ai primi si riconosce l’impegno della rifondazione materiale e spirituale della nazione, e anche del suo teatro. Ai secondi l’aver portato a termine quel processo che, nel momento del tramonto del grande attore, inventò e costruì anche in Italia una scena finalmente moderna. Dentro la quale poté risplendere la decisiva esperienza della “regia critica”. Visconti e Strehler avevano affrontato le fatiche di chi, con condotta pugnace, svecchia il passato e sgretola, ma non rinuncia, all’eredità delle compagnie ottocentesche, tanto che l’Arlecchino strehleriano innalza a mito internazionale la forma-compagnia («e il suggeritore – ricorda Strehler – fu abolito lentamente, credo dopo il quinto o sesto anno del Piccolo Teatro»). “Scelto” invece da una di quelle compagnie, il trentenne Ronconi fa presto a liberarsene perché, mentre nel 1963 aderisce a una proposta che al regista riconosce ruolo e mestiere, lui sta già coltivando in sé l’idea di una regia come pratica diversa. «Continuo a pensare che questo mestiere, che ho definito il più bello del mondo, e anche salvifico, per chi ha bisogno di salvarsi, mi piace considerarlo un modo e un processo di conoscenza». Ciò che si pratica e si conosce, per Ronconi regista non è un autore, o una vicenda, o un gruppo di personaggi, ma il meccanismo stesso dell’opera. Perché nelle sue regie, il teatro è macchina e non conflitto di psicologie. Perché il valore di un titolo nasce, per lui, dalla dinamica sempre nuova dei segni, non da una determinazione storica. Spazio e tempo, le chiavi della libertà Orlando furioso (1969), Gli ultimi giorni dell’umanità (1990) e Infinities (2002) sono le pietre miliari, i vertici che contrassegnano la metamorfosi della regia in Italia. Al compito pedagogico e civile, lui sostituisce l’esplorazione delle strutture e l’invenzione dello spazio. La

categoria di “prosa” è definitivamente annullata. La letteratura drammatica lascia il posto a una drammaturgia che si squaderna ovunque. E, oltre che a un poema cavalleresco, a un’enciclopedia pacifista, a una suite di saggi matematici, vede Ronconi applicarsi anche a un romanzo sperimentale (Quer pasticciaccio brutto de via Merulana), a un trattato critico di storia della finanza (Lo specchio del diavolo), agli epistolari (Il silenzio dei comunisti). A qualsiasi cosa lo incuriosisca. Senza che questo significhi voltare le spalle a Goldoni o a Ibsen. Anzi. Ma con una libertà nuova. È lo spazio la chiave di questa libertà. Spazio fisico, come è accaduto per l’antica fabbrica torinese del Lingotto, o per i magazzini milanesi alla Bovisa, o per una strada di Ferrara riconvertita, grazie alla macchina teatrale del tempo, nella sua origine rinascimentale. Ma anche spazio cognitivo, immagine del mondo che non si limita alla ri-presentazione realistica e verosimigliante dell’esistente e dell’esistito, ma forza i cardini dell’equazione spaziotemporale e le necessità della causa e dell’effetto. Così come fa Rafael Spregelburd, punto d’approdo dell’ottantenne Ronconi alla dram-

maturgia post-drammatica del quarantenne artista argentino. La modestia e Il panico sono una collaborazione che dà scacco al pregiudizio che vuole le generazioni in perenne conflitto. C’è un prima di Ronconi, e un dopo Ronconi. Senza la lunga parabola, senza questo “teatro della conoscenza”, il nuovo millennio non avrebbe potuto varare e vedere all’opera la successiva generazione della regia. Da Pippo Delbono a Romeo Castellucci, da Antonio Latella a Emma Dante a ricci/forte. Artisti che continuano a usare quell’etichetta nelle locandine ma, come la logica del tempo vuole, ne hanno rimodellato le pratiche, alla luce di quei 125 titoli teatrali (e pochi di meno sono anche gli allestimenti operistici di Ronconi), che il giornalismo superficiale e la brutta bestia dell’invidia hanno spesso accusato di spreco faraonico e dissipazione. Ma che adesso rappresentano un lascito inestimabile. Senza il quale la scena italiana sarebbe ferma a cinquant’anni fa, polverosa e anchilosata. E invece è una delle più belle e vitali del mondo. ★ Un ritratto di Luca Ronconi (foto: Luigi Ciminaghi).

Lacrime 2.0: lo squallore delle esequie social trionfo di retorica, egocentrismo e humor nero «È finita. Con la morte di #Ronconi questo paese ha definitivamente perso il suo posto nel mondo» (tweet del 21/2/2015). È vero che l’avvento dei social media ha contribuito a fare di una parte dell’umanità, un’umanità “accresciuta” (si intitola così il sempre troppo poco letto volume di Giuseppe Granieri). Ma altrettanto vero è che questo accrescimento, più populista che democratico, mette (quasi) tutti in condizione di poter e di voler parlare, esprimersi, commentare. E alimentare così l’incessante rumore bianco della Rete, dentro al quale ognuno parla, mentre ascoltare diventa sempre più difficile e raro. La scomparsa di Luca Ronconi, la sera del 21 febbraio, ha movimentato grandi e giustificate emozioni e i social sono stati, in Italia, cassa di amplificazione di un fenomeno di consenso funebre, vicino piuttosto all’inquinamento informativo. Retorica, banalità, melassa di lacrime e autocertificazioni, oltre a un temibile humour nero, hanno segnato le ore e i giorni successivi, moltiplicando la tristezza. Non solo per lui che non c’è più, ma per le lacrime dei coccodrilli, i “mi piace”, le esequie da 140 caratteri: «Luca #Ronconi occupa la posizione 1 del Top20 delle Tendenze d’Italy domenica 22». Oltre agli inascoltabili «lascia un vuoto incolmabile», «la cultura piange», a inflazionati «genio e maestro», ai famigliari «Grazie Luca, per la tua grandezza», la sfilza dei tweet lascia basiti: «scomparso da poco mentre il suo genio arde ancora», «quando lo vidi per la prima volta, nel 1976, era poco meno di un giovane dio», «certe ronconate mi mancheranno assai: pure quando non capivo aveva ragione lui: gli sono stato prono». Comprese le volgarità («il funerale di #Ronconi durerà 5 ore e mezza e sarà diviso in 3 atti» e le spiritosaggini di una regista di fama (cinematografica, per fortuna): «è morto #Ronconi, come fosse morta la caponata, u fil di ferro, la maratona di san Silvestro o l’ermeneutica: la fatica della grandezza». Meno di 140 caratteri. Che tristezza. Roberto Canziani

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Il silenzio della ragione, Napoli attende un futuro migliore Una grande vitalità creativa in una totale assenza di sistema: questa, in sintesi, la situazione teatrale partenopea. Tolti lo Stabile e il San Carlo, le numerose sale cittadine devono la vita all’iniziativa dei loro fondatori. Con un futuro in bilico tra resistenza e resilienza. di Alessandro Toppi

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crive Marta Porzio – ne La resistenza teatrale. Il teatro di ricerca a Napoli dalle origini al terremoto (Bulzoni, 2011) – che è «la mancanza di spazi per poter lavorare la condizione più oggettiva ed evidente, addirittura cronica» e che – questa condizione – spiega perché a Napoli l’iniziativa teatrale abbia, spesso, carattere individuale. «Possiamo addirittura affermare – aggiunge – che, a eccezione del San Carlo e del Mercadante, tutti i teatri napoletani sono nati in questo modo»: per iniziativa di singoli che, in solitudine o per aggregazione ridotta, hanno dato vita a fondazioni, ristrutturazioni, opere di recupero. Questa pro-

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pensione all’attivismo personale spiega perché – piuttosto che la descrizione di un sistema – scrivere della condizione odierna della teatralità napoletana significhi procedere di storia in storia, di vicenda in vicenda. Occorre immaginare dunque Napoli come un insieme di focolai artistici, per lo più localizzati nel suo centro storico, che avvampano talora senza alcun preannuncio, che vivono di entusiasmi vagamente duraturi e che cercano di resistere alle intemperie: siano dovute alla distrazione istituzionale o alla concorrenza del divertimento notturno. D’altronde iniziative passate, volte a coordinare la diffusione teatrale favorendone an-

che la collocazione nelle aree periferiche più disagiate, non hanno prodotto risultati: è degli anni Novanta l’ultimo tentativo del Comune – chiamato Teatri di Napoli – volto all’assegnazione di edifici e sale a favore di compagnie già in opera sul territorio: spazi inagibili che, nella maggior parte dei casi, sono rimasti tali e in cui è stato impossibile l’avvio di un’attività continuativa. Se si considera inoltre che la maggior parte dei teatri attualmente attivi nasce tra la fine degli anni Ottanta e il termine del decennio successivo e che il Mercadante – fulcro dello Stabile di Napoli – è stato riaperto solo nel 1995, si può facilmente comprendere che – alla tradi-


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zione attoriale di lunga data – si contrappone una giovinezza strutturale di fatto, esercitata tra l’altro in condizioni tecniche e ambientali precarie e senza alcun sostegno economico delle istituzioni. Volendo restare ancora in termini di premessa generale vanno segnalate inoltre: la ripetitività del circuito commerciale cittadino (Diana, Acacia, Augusteo, Delle Palme, Cilea), incapace di mutare la funzione di puro intrattenimento della propria offerta; l’inesistenza della pratica della residenza artistica e il funzionamento del circuito del Teatro Pubblico Campano che, diretto da Alfredo Balsamo fin dalla sua fondazione (1983), non riesce «a incentivare e sostenere la sperimentazione» di «nuovi mezzi espressivi teatrali» (dal sito) ma sembra piuttosto votato a favorire la circuitazione di opere di consumo e di tradizione. Da Teatro Stabile a Nazionale Il punto di partenza di questo viaggio non può che essere lo Stabile, dal 2011 diretto da Luca De Fusco. Affiancato da un consiglio di amministrazione, De Fusco ha impresso un cambio radicale di programmazione: ridotte le relazioni internazionali, ha inteso fare di Teatro Mercadante, Ridotto e Teatro San Ferdinando gli spazi della cultura napoletana rendendo così – lo Stabile – un presunto specchio artistico della città: in tal senso, ad esempio, il cambio di funzione del Ridotto che, da spazio dedicato alla drammaturgia contemporanea nazionale, da tre anni prevede invece cicli di spettacoli dedicati a un autore partenopeo d’origine o d’adozione (Ortese, La Capria, Patroni Griffi). Un teatro napoletano per un pubblico orgogliosamente napoletano, quindi, nelle intenzioni. S’aggiungano – analizzandone l’offerta pluriennale – criteri che sono riscontrabili in altri Stabili italiani e che determinano anche le scelte del più importante teatro di prosa di Napoli: la vocazione autoproduttiva del suo direttore e la pratica dell’ospitalità ricambiata, cui occorre aggiungere il legame con il Napoli Teatro Festival Italia – diretto dallo stesso De Fusco fino al 5 marzo, giorno in cui ha rassegnato le dimissioni, in seguito ai rilievi operati dal Ministero. Alle accuse di autoreferenzialità gestionale Luca De Fusco contrappone il miglioramento dei conti, con un fatturato raddoppiato negli ultimi quattro anni, e il progressivo aumento di presenze: «Lo Stabile napoletano ha raggiunto un nuovo record: siamo a quota

3.568 abbonamenti, con un aumento pari al 18% dei carnet» (La Repubblica, 18 novembre 2014). Tuttavia l’ultimo bilancio pubblicato dal sito risale al 2013 e permane – in assenza di dati consultabili, nonostante le reiterate richieste – la sensazione di un complessivo invecchiamento del pubblico. Infine le polemiche relative alle procedure di «selezione per l’assunzione, a tempo indeterminato, di quindici unità», perché lo Stabile potesse concorrere alla qualifica di Teatro Nazionale. Avvenuta la selezione, a oggi posta al vaglio degli inquirenti perché ne sia valutata la correttezza, ci limitiamo ad alcuni fatti. Al momento sappiamo che: nessuno conosce i criteri di preselezione e di selezione successiva; il rapporto di corresponsabilità valutativa tra l’Adecco e lo Stabile di Napoli è avvenuto in termini di screening operato dall’agenzia su una griglia di parametri realizzata dallo Stabile e resa pubblica a seguito della richiesta di una candidata esclusa (Corriere del Mezzogiorno, 4 febbraio 2015); l’avviso ha subito modifiche in corso d’opera. Inoltre, ai 1471 che hanno inviato candidatura, soltanto dalla fine di febbraio è stata concessa, previo appuntamento individuale, «la verifica del proprio punteggio». Ulteriori aspetti, degni d’attenzione: la presa d’atto del fabbisogno di personale, avvenuta solo nel CdA del 12 novembre 2014; la rapidità dello svolgimento del concorso (la pubblicazione dell’avviso è del 16 dicembre 2014, l’assunzione dei prescelti è datata 26 gennaio 2015); la circostanza per cui – quattro dei quindici vincitori del bando – hanno già prestato servizio per il Napoli Teatro Festival Italia e/o per la Fondazione Campania dei Festival mentre sei risultano di «recente esperienza» o sono già «addirittura in servizio presso lo Stabile» (fonte: rapporto sulla procedura di selezione, pubblicato dal sito dello Stabile di Napoli). Com’è noto le opacità del concorso e le polemiche conseguenti non hanno influito sulla scelta della commissione del Mibac: dal 24 febbraio lo Stabile di Napoli è Teatro Nazionale, opportunità che significa miglioramento ulteriore dei bilanci (fondi ministeriali poco meno che triplicati; Comune e Regione impegnate al sostegno economico continuativo delle attività del teatro), nascita di una Scuola per attori (diretta da Luca De Filippo) e programmazione triennale contraddistinta da riduzione delle ospitalità e aumento delle produzioni.

Soli o in rete? Cercasi nuovo pubblico Da cinque anni il Teatro Bellini è gestito dai figli di Tato Russo: Daniele (Presidente), Roberta (Direttrice) e Gabriele (Consulente artistico). Un passaggio generazionale che sta determinando un cambio d’identità. Il Bellini – in questi cinque anni – ha modificato la sua struttura (oggi fornita di una libreria, di una sala-concerti e di un sottopalco per incontri con registi, autori e attori); ha registrato un aumento di pubblico pari al 70% circa, determinando anche un ricambio anagrafico dello stesso e – dalla sala prove – ha ricavato un secondo teatro, nominato Piccolo Bellini e impiegato per ospitare ricerca e drammaturgia contemporanea. Inoltre: il legame con In-Box, per favorire la circuitazione del teatro under 35; la direzione dell’Accademia per gli attori affidata, per il prossimo triennio, a Danio Manfredini e la relazione intrapresa con altri medio-piccoli teatri cittadini ne testimoniano il nuovo corso. «Riconosciamo il valore dell’eredità ricevuta ma non possiamo che fare di questa eredità materia che si rinnova in forme diverse» dice Gabriele Russo. Il dato che meglio racconta il cambiamento è quello degli abbonamenti acquistati dagli under 29 passati, nel quinquennio, da quaranta a settecentocinquanta. Se tale risultato è stato raggiunto è per l’intensificato rapporto con le scuole e – soprattutto – per la proposta di visioni teatrali che, un tempo, non avrebbero trovato alcuna ospitalità in cartellone. Il Teatro Bellini è dunque l’esempio di come si possa tentare una riformulazione salvifica della propria storia. A oggi conta un bilancio in attivo, garantitogli da spettacoli dal riscontro sicuro, ed è questa sicurezza che sostiene gli azzardi programmatici, le aperture all’avanguardia, la disponibilità ad accogliere l’off. Restano miglioramenti da compiere. In particolare la coincidenza delle programmazioni tra sala principale e sala ridotta ha, talora, limitato l’afflusso agli spettacoli delle compagnie più giovani, vanificando gli sforzi compiuti per mettere in relazione il nuovo teatro nazionale con un contesto locale già refrattario di suo ad accorgersi di ciò che giunge d’oltre regione. Politeatro è una rete di teatri metropolitani (Elicantropo, Start, Teatro Area Nord, Théâtre de Poche e il già citato Piccolo Bellini): costituitasi nel 2014, rappresenta il primo connubio effettivo tra sale differenti – per storia e identità culturale – e ha prodotto, in un solo anno: aumento complessivo del pub-

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blico, la realizzazione di un carnet da sessanta spettacoli, sinergie programmatiche nelle scelte dei rispettivi cartelloni stagionali. «Politeatro nasce dalla considerazione che, da soli, non si va da nessuna parte – spiega Vincenzo Ambrosino (Start) – e nasce anche da una disperazione che apparteneva a tutti noi che gestiamo questi spazi privati». Basato sull’autofinanziamento e privo di riconoscimento da parte delle istituzioni, il Politeatro conta cinquecento tesserati e costituisce un vero e proprio circuito a se stante, in grado di far ruotare i suoi spettatori di settimana in settimana e di teatro in teatro. Offre opere che – da statuto – sono prevalentemente di «repertorio contemporaneo e prodotte e messe in scena da compagnie giovani»; è in costante relazione con i più importanti festival di teatro under d’Italia e accompagna la proposta artistica con una serie di iniziative collaterali, volte a rendere il pubblico protagonista, facendo crescere il confronto tra chi il teatro lo fa e chi lo fruisce. Per questo l’organizzazione di dibattiti, incontri, giornate di studio. In aggiunta la prima edizione di “Turnover. Più spazio per crescere” – organizzata dal Teatro Bellini e Start, nell’ottobre scorso – e che ha determinato, per la prima volta a Napoli, una discussione pubblica durata cinque giorni e capace di mettere in relazione esponenti nazionali dei circuiti indipendenti, delle realtà teatrali occupate e della critica web. Il decentramento fallito Sala Ichòs ha cinquanta posti, tra gradoni e sedie. Si tratta di un teatro di frontiera e rappresenta l’ultimo palcoscenico procedendo dal centro storico verso la periferia vesuviana. Attiva da quindici anni, ha ospitato alcune tra le realtà più interessanti del nuovo teatro italiano: da Fibre Parallele a Biancofango, da Fortebraccio Teatro a I Sacchi di Sabbia, da Davide Iodice a Mimmo Borrelli. «Qui Antonio Latella ha visto e scelto Roberto Latini per il suo Arlecchino» racconta Salvatore Mattiello.

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Sala Ichòs, nel suo isolamento, è l’emblema del fallimento delle istituzioni partenopee, incapaci di rivitalizzare ampie zone del proprio territorio incentivando e sostenendo una presenza culturale effettiva. Il decentramento pianificato, ravvisato fin dalla metà degli anni Settanta come un’esigenza prioritaria, non ha mai trovato riscontro nei fatti e così ampie aree extraurbane sono prive di una sala di prova o di un teatro che possa definirsi tale. Al tempo stesso – tuttavia – Sala Ichòs è l’emblema anche dell’ostinazione a fare teatro nonostante il disinteresse dell’amministrazione cittadina, la disagevole collocazione geografica, l’assenza di mezzi di trasporto che uniscano periferia e centro città, le difficoltà economiche di una gestione che vive di volontariato e autofinanziamento. Sono circa una decina gli spazi che, a Napoli, operano in precarie condizioni economiche e che agiscono in funzione della pura ospitalità, rispondendo in tal modo a una carenza sistemica di palcoscenici dedicati alle compagnie più giovani, prive di possibilità alternative di distribuzione territoriale. Si tratta, per intenderci, del nuovo aspetto assunto dalla pratica delle cantine: se la drammaturgia post eduardiana e la ricerca degli anni Settanta e Ottanta hanno potuto usufruire dello Spazio Libero di Vittorio Lucariello, dell’Ausonia di Mario e Maria Luisa Santella, del Centro Teatro Esse di Paolo Falace o del Teatro Instabile di Michele Del Grosso; la nuova sperimentazione usufruisce – quando possibile – di una fitta rete di caves sconosciute o quasi all’amministrazione cittadina, ma note alla microcomunità dei teatranti e loro affini. Il Teatro Sanità di Mario Gelardi, Diffusione Teatro di Eduardo Zampella, lo Zona Teatro Naviganti, il Pozzo e il Pendolo, il Nest Teatro di San Giovanni a Teduccio; Sala Ferrari di Salvatore Ferrari e il Circolo Teatrale Arcas, il Teatro Rostocco di Acerra, Il Teatro di Contrabbando rispondono con la messa a disposizione di un palco, e di una platea più o meno numerosa, ai

bisogni di visibilità e di confronto col pubblico espressa da una teatralità napoletana talora ancora acerba, divenendo così spazi di formazione effettiva. Aldilà delle rispettive specificità costituiscono un insieme vivacissimo che offre, scambia e propone cultura con cadenza settimanale e compensano vicende mortificanti di fallimenti, chiusure, abbandoni: la fine del Teatro Sancarluccio di Franco Nico, l’assenza di una programmazione continuativa per la storica Sala Assoli, la messa all’asta del Trianon, la trasformazione del Teatro Nuovo da inquieta stanza d’avanguardia a rassicurante platea commerciale. Infine. Difficile individuare prospettive future, Napoli appare l’apice settentrionale di una più ampia terra teatrale di nessuno costituita – con eccezione della Puglia – dall’intero meridione: una parte del Paese vittima di disorganizzazione pluriennale, potentati locali, spreco di risorse, uso privato del pubblico. Da questo Sud – e da questa Napoli – singoli talenti emergono ancora, ma per proseguire il loro impegno hanno la necessità d’emigrare, mutando il luogo nel quale agire e i rapporti da cui far dipendere le proprie possibilità di affermazione e di crescita. Da Mario Martone a Punta Corsara, passando per Mimmo Borrelli: è altrove che continuano certe storie che nascono qui. Naturalmente c’è chi resta, accusando un senso di sconfitta non dissimile rispetto a quello provato da chi ha deciso di partire. Incapaci – al momento – di generare un movimento intellettuale compatto, agiscono sentendo la solitudine a cui ti costringe questa città corposa, iperattiva, confusa. Eppure perseverano, in attesa che qualcosa cambi, giacché – per dirla con la Ortese de Il silenzio della ragione – «non è possibile che non succeda mai niente. Un giorno, forse, capiterà qualcosa. Allora mi farà piacere essere rimasto qui». ★

In apertura, l’interno del Teatro Ichòs; in questa pagina, il Teatro Mercadante e il Teatro Trianon.


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Licia Lanera, l'attrice operaia incoronata dalla scena Una storia artistica da autodidatta, una lunga gavetta combattendo corpo a corpo con i pubblici delle scolastiche e poi, con Riccardo Spagnulo, la fondazione di Fibre Parallele e i recenti ambiti riconoscimenti come attrice. di Emilio Nigro

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oco più che trentenne è tra le più acclamate e riconosciute giovani artiste del panorama teatrale nostrano. Il 2014 per Licia Lanera, originaria di Bari, è stato l’anno favoloso: il premio Eleonora Duse come attrice giovane, il Virginia Reiter come migliore attrice italiana under 35 e il premio Ubu nella categoria attrici under 35. La sua carriera è legata indissolubilmente alla compagnia Fibre Parallele, che crea e dirige con il compagno di vita e d’arte Riccardo Spagnulo. Sostanza e forma attorale acquisite “sul campo”, dall’esperienza operaia di decenni di tournée e pratica quotidiana ai bordi dei grandi palcoscenici, in zone di quartiere, nelle periferie del mondo. «Una storia artistica “bastarda”, da autodidatta» la definisce con ironia.

Ha fatto incetta di premi nell’ultimo anno, riconoscimenti al lavoro di palco e alla pratica fuori dalla scena. Si sente sazia, arrivata? È passato un po’ di tempo dall’ultimo premio ricevuto (l’Ubu, ndr), gli allori e gli articoli sulla stampa sono passati, si ritorna alla realtà. Continuo a fare le pulizie del mio studio, a fare molti laboratori, a fare organizzazione, a lavorare sodo, insomma. Il valore di questi premi è soprattutto nel mio cuore, nella pratica non è un premio a cambiare le cose. Un premio può essere semmai un punto di partenza, per compiere un salto professionale. Mi piacerebbe che fosse un segno di maturità della Compagnia, come impresa culturale e sul piano della produzione artistica. Il segno del passaggio da un’altra parte, la parte dei teatri più grandi, delle dimensioni più protette, delle repliche più numerose, fuori da quel piccolo circuito che ci siamo costruiti finora. Quindi un punto di partenza per andare, per allargare un orizzonte. Il punto di partenza per diventare grandi. I riconoscimenti arrivano dopo un lungo percorso artistico e di vita. Tutto quello che è legato alla mia storia è legato alla mia città: Bari. Nascere qui significa avere tante ispirazioni per fare degli spettacoli sull’orrore, come facciamo noi… ma in compenso molte meno possibilità di lavorare. Ho iniziato a scuola e ho fatto per un periodo teatro con delle compagnie locali. Delle “compagnie di battaglia” che avevano piazze estive molto difficili, nel meridione, e d’inverno lavoravano con i matinée: pubblici scalpitanti. Gli esordi mi sono serviti a scoprire il lato pragmatico, artigianale, del teatro. Tutto molto pratico, molto veloce. Si provava e si andava in scena in pochissimo tempo. Questo artigianato è stato fondamentale per la mia risolutezza, mi fa essere più spartana e meno “fighetta”. Il teatro è fatto di altre cose, non della confezione perfetta. È nella sua natura l’imperfezione. Per cui è fondamentale l’esperienza degli esordi, è stata la mia scuola. Negli spettacoli o

riuscivi ad avere l’attenzione del pubblico o ti facevano a pezzi. Ero costretta a tirare fuori gli “attributi”. La sua definizione di teatro? Penso che il teatro sia la forma d’arte più viva, sia perché, banalmente, fatto da persone, sia perché contiene in sé, più delle altre forme d’arte, una riflessione sulla vita stessa. Mi interessa un teatro vivo, vitale. Non mi piace il teatro che parla del teatro, il teatro che guarda a se stesso, non mi piace il teatro come forma estetizzante. Per me il teatro è strettamente legato alla vita, alla città, alla polis, quindi è un atto politico fortissimo. Politico ed emotivo. Nei miei spettacoli s’incrocia l’aspetto sociale, politico, a quello che sono io. Lì dentro ci sono i pezzi della nostra vita e allo stesso tempo uno sguardo alla società. Per questo, il teatro, lo trovo tremendamente vivo. Da cosa attinge e quali sono le poetiche del suo teatro? Il teatro di Fibre Parallele è legato al luogo in cui viviamo: per la lingua, per il suono, per i personaggi. Il nostro linguaggio è spesso definito splatter, perché nei nostri spettacoli compaiono la violenza, la morte, il sangue. In realtà queste cose mi terrorizzano. Incamero questi miei terrori esorcizzandoli sulle tavole del palcoscenico, dove lascio emergere aspetti della vita che non voglio vedere. E poi di consolazione ne riceviamo fin troppa, in giro. Va di moda, ultimamente, esporre i fatti di cronaca e di violenza in modo disgustosamente pornografico, senza andare a fondo. Invece noi spiattelliamo tutto, perché ci piace dare uno scossone, far “vedere” davvero, far specchiare lo spettatore e fargli dire «io non sono così perfetto», offrire uno sguardo acuto, critico su quello che vediamo e che non ci piace. Utilizzando la cifra del grottesco, formalmente, perché amiamo molto ridere delle miserie nostre e altrui. E questa è un’arma ancora più violenta nei confronti dello spettatore, perché si trova a ridere di se stesso o di cose tremende. ★

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A Genova il Museo dell'Attore cambia casa Dalla stipatissima sala di lettura in cima a una scala a chiocciola di Villetta Serra, la nuova sede del museo, accanto alla Biblioteca Berio, ha ora spazi adeguati a ospitare mostre e a favorire consultazioni. di Stefano Moretti

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a anni si parlava di cambiare sede al “Museo biblioteca dell’attore” di Genova. Nato nel 1966 intorno ai fondi della famiglia Salvini e a quello di Adelaide Ristori, il museo è un vero gioiello, che possiede più di settantamila documenti autografi e altrettante fotografie, milletrecento copioni, quattromila bozzetti di scena e costumi appartenuti alla Ristori, a Zacconi, a Tofano e a Lilla Brignone. Ai fondi dei “grandi attori” si sono aggiunti negli anni quelli di molti altri attori, critici, scenografi e drammaturghi. I nomi che spiccano sono Sergio Tofano, Gilberto Govi, Alberto Lionello, Paolo Stoppa e Giorgio De Lullo, ma anche Silvio, Sandro e Masolino D’Amico e poi Lele Luzzati, Gianni Polidori e Umberto Onorato. Negli ultimi tempi il fondo più studiato e frequentato è quello del regista Alessandro Fersen. Tutti questi materiali erano sinora visibili in parte, perché, dal 1982, il museo risiedeva a Villetta Serra, un luogo bellissimo e antico, che aveva però il difetto di essere un po’ troppo angusto. Saliti sino all’Acquasola, si doveva attraversare il piccolo parco della villa, entrare per la porta a vetri coperta di locandine e poi salire una stretta scala a chiocciola per arrivare all’ultimo piano, dov’era collocata una stipatissima sala di lettura. Bellissimo, ma scomodo. Se poi si voleva consultare un documento d’archivio allora i tempi si allungavano, perché l’archivista, il solerte Gian Domenico Ricaldone, ti svelava con voce dispiaciuta e gentile che ci sarebbe voluto qualche giorno, perché i materiali erano tutti in un capannone vicino all’Ikea. Già nel 2012, non senza sollevare

Lo studio Fersen

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dubbi, il Comune aveva deciso di mettere all’asta la villetta e assegnare al museo due piani dell’ex Seminario vescovile, a due passi da via XX Settembre e dalla frequentatissima Biblioteca Civica Berio. Un lunedì pomeriggio sono salito a vedere la nuova sede, che ancora attende l’inaugurazione ufficiale. Il cambiamento è radicale. Non più piccole stanze stipate, non più scale a chiocciola, ma un enorme spazio longitudinale con grandi capriate di legno, ammezzato da due ballatoi bianchi. Al pian terreno si trovano gran parte dei quarantunomila volumi della biblioteca, che ora confina con la biblioteca del museo mazziniano, ricordandoci che molti attori e attrici furono, nel Risorgimento, ferventi patrioti. Mi accolgono la bibliotecaria Danila Parodi e il presidente Eugenio Pallestrini, evidentemente soddisfatti della nuova sede, ma un po’ dubbiosi per il futuro del museo, soprattutto per l’incerto orizzonte finanziario. Danila mi accompagna tra gli scaffali della biblioteca, dove spuntano riproduzioni ad altezza d’uomo del mitico manuale Morrocchesi e di alcuni divi usciti dall’Actor’s Studio. Passiamo poi dai ballatoi, ancora quasi vuoti: tra modellini di Polidori e fondali del teatrino Rissone, immaginiamo che qui potrebbero essere esposti i costumi della Ristori e di Zacconi, oppure tavoli e poltrone per i lettori. Arriviamo così alla sala di lettura, al quarto piano dell’edificio. Qui il cambiamento è ancora maggiore. Sembra di essere nella chiglia rovesciata di una grande nave. Forse è una mia impressione o forse è perché a Genova tutto sembra legato al mare. Intorno e in mezzo alla sala ritrovo le scaffalature che ricordavo all’ultimo piano della villetta Serra, con le opere di consultazione e le riviste (anche quella che state leggendo). Ma soprattutto, ai due angoli di questa grande sala, sono stati ricostruiti gli studi di Tommaso Salvini e Alessandro Fersen. Due secoli che si specchiano, con differenze e similitudini. Da un lato, dietro l’immensa, un po’ buffa panoplia, piena di elmi, corazze e mazze chiodate, ci sono la scrivania, la libreria e un enorme specchio, con il quale, forse, Salvini aveva impostato il suo Otello, amato e studiato da Stanislavskij. All’opposto, lo studio quasi monastico di Fersen, con una libreria aperta, un tavolo e due panche. Speriamo che presto molti giovani appassionati di teatro e di cinema vengano in questa sala, a studiare e a lasciarsi ispirare. Mi avvio all’uscita e rivedo il costume del signor Bonaventura, che dalla sua teca saluta (e accoglie) il visitatore. Ormai in strada, penso alla scrivania di Fersen, la figura che negli ultimi anni muove il maggiore interesse per il museo. A villetta Serra era messa all’ingresso, coperta di fotocopie e scatole di libri. Sembrava un tavolo qualunque. ★


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Torino, 60 anni di teatro in un click Il Teatro Stabile di Torino ha avviato un ambizioso processo di digitalizzazione che consente a studiosi e appassionati di consultare da casa il ricco patrimonio di foto, video, bozzetti, locandine del suo Centro Studi. di Laura Bevione

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uale modo migliore per festeggiare sessant’anni di attività – e anche la recente nomina ministeriale come “teatro nazionale” – che rendere accessibili a studiosi e semplici appassionati i molteplici materiali che ne testimoniano l’intensa vita artistica? Un sogno che il Teatro Stabile di Torino è riuscito a realizzare grazie a un bando del Mibac che ha reso disponibili i fondi per mettere in atto la digitalizzazione del patrimonio conservato nel proprio Centro Studi. Il progetto è partito a settembre 2014, si è concluso nel mese di marzo e, dopo un periodo di rodaggio e perfezionamento, verrà introdotto ufficialmente a fine maggio nel corso della conferenza stampa di presentazione della stagione 2015-16 del Tst. La digitalizzazione ha interessato, per ora, i materiali relativi agli spettacoli prodotti dall’ente torinese a partire dall’anno della sua nascita, il 1955, mentre per le ospitalità sarà necessario aspettare qualche tempo – e un nuovo finanziamento. La quantità di materiali digitalizzati è, nondimeno, imponente se si pensa – come sottolinea Pietro Crivellaro, direttore del Centro Studi – che in sessant’anni le produzioni del Tst sono state più di cinquecento. Non solo, il progetto ha permesso di riversare in digitale anche l’archivio completo della rivista Il Dramma – dal primo numero del 1925 fino all’ultimo, pubblicato nel 1989 – consentendo così il reperimento di preziose informazioni anche su spettacoli e artisti non direttamente legati al Tst. Un’immensa opera di riordinamento, in alcuni casi “restauro” e in altri scansione, e, infine, catalogazione, che è stata coordinata dalla bibliotecaria del Centro Studi, Anna Peyron, con la collaborazione di Marco Rubichi di Promemoria – società impegnata nella valorizzazione del patrimonio artistico-culturale sia pubblico sia privato – e il fattivo impegno di un giovanissimo e affiatato pool formato da sei giovani neolaureati dell’Università di Torino. Una squadra coesa e appassionata, come evidenzia Peyron, che illustra contenuti e finalità del progetto, sottolineando in particolare come l’obiettivo primo sia stato quello di garantire la massima accessibilità del patrimonio posseduto, così da realizzare – aggiunge Rubichi – una sorta di «centro studi virtuale». Aspirazione evidente già dalla homepage di questo nuovo archivio teatrale: accattivante, capace di attrarre non soltanto gli specialisti ma altresì spettatori curiosi e appassionati, costruita – afferma Peyron – all’insegna della filosofia della serendipity, ossia del gusto e della felicità di compiere piacevoli e inattese scoperte mentre si è impegnati a cercare qualco-

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sa d’altro. Così, accanto alle tradizionali modalità di ricerca – semplice e avanzata – cui sono avvezzi gli studiosi più scafati, l’homepage del Centro Studi permette varie modalità di esplorazione del sito, in modo tale che l’utente possa “navigare” liberamente al suo interno, giungendo anche a risultati fortuiti ma non meno soddisfacenti. Una filosofia che Rubichi spiega parlando del «profumo della notizia», ossia della possibilità per l’utente di costruirsi all’interno del sito un percorso individuale frutto dei collegamenti suggeritigli di volta in volta dai risultati ottenuti. Le sei sezioni in cui è articolato il sito, infatti, consentono un’infinità di “incroci” di informazioni: dalla pagina introduttiva di una stagione teatrale, per esempio, è possibile accedere a quella relativa a uno spettacolo e, di qui, a quelle relative agli artisti che compaiono nella sua locandina. Il materiale disponibile per ciascuna voce, poi, è assai eterogeneo: programmi di sala, rassegne stampa, copioni, fotografie, bozzetti, video… Un patrimonio unico che i giovani del pool costituito ad hoc sono stati felici di aver potuto “maneggiare”: lo dichiara con entusiasmo una di loro, Claretta Caroppo, che aggiunge come l’aver potuto visionare, ordinare e persino “restaurare” documenti tanto vari le ha restituito un’immagine non stereotipata della società italiana degli ultimi sessant’anni, «una testimonianza di ciò che l’Italia è stata, non solo nel teatro». Scena teatrale che, nondimeno, del Paese è stata specchio veritiero e inclemente, un ulteriore buon motivo per navigare in sessant’anni di Tst. ★

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Viaggio nella metropoli al neon, la "Play Mecca" dai 100 teatri Un distretto teatrale popolosissimo, Festival e Centri che sorgono anche in campagna, un programma di finanziamenti “a progetto”, capillare e controllato, caratterizzano Seul e il sistema teatrale coreano. Sempre più attento e curioso verso l’Ovest. di Nicola Pianzola

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uesta volta il sipario si alza su Seul, una delle metropoli più densamente popolate del pianeta, centro nevralgico delle nuove tendenze culturali del Paese e sede della quasi totalità delle compagnie teatrali coreane. Una megalopoli al neon che risplende notte e giorno senza sosta, con le sue mille sfaccettature e i suoi distretti creati per soddisfare ogni bisogno. Si va dalle drinking area brulicanti di giovani studenti alle shopping area, passando per gli art districts e poi finalmente alla meta per eccellenza di tutti i teatranti: Daehangno, conosciuto come “The Play Mecca”, il distretto dei teatri di Seul. L’intera area prende il nome dalla strada di Daehangno designata come street

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of culture e da sempre luogo di ritrovo degli studenti. Qui è consuetudine assistere a flash mob, outdoor performance, happening di fronte ai principali Performing Arts Centre. In una gelida giornata di dicembre, con temperature che sfiorano i dieci gradi sotto lo zero, usciamo dalla stazione metropolitana di Hyehwa dove le pareti, le scale, gli spazi pubblicitari sono tappezzati di poster di spettacoli e abbiamo la sensazione di essere tornati a Edimburgo durante il Fringe. È proprio questa la particolarità di questo quartiere, dove per tutto l’anno si vive come in un Fringe e che, con questa tipologia di festival, ha in comune la sua genesi. Intorno ai principali teatri ufficiali della zona è nata, infatti, una miriade di piccoli spazi alternativi

gestiti da compagnie indipendenti di giovani teatranti e studenti. Su una superficie di pochi isolati vi sono oltre cento teatri che vanno aumentando così rapidamente che sembra impossibile definirne il numero esatto. Quando lo chiediamo ai nostri colleghi coreani, dopo aver cercato disperatamente sui loro smartphones, ci confessano imbarazzati: «Don’t know but… many, many theatres!». Fringe tutto l’anno In questa zona sorgono due colossi della cultura teatrale cittadina: il Daehangno Arts Theatre e l’Arko Arts Theatre, entrambi sede dello Spaf - Seoul Performing Arts Festival. Arko è un edificio costruito nel 1979 che ha al suo interno due sale teatrali e di-


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versi spazi espositivi oltre agli uffici dell’Arts Council Korea il principale ente a sostegno dell’arte nell’intera nazione. Anche il Daehangno Arts Theater ha diversi spazi teatrali che, rispetto ai teatri tradizionali della città, sono stati disegnati avvicinando le sedute il più possibile alla scena per far vivere allo spettatore un’esperienza più coinvolgente e per promuovere quelle forme di teatro contemporaneo che necessitano di spazi meno convenzionali. Daehangno è soltanto l’esempio più lampante di questa vita intorno al teatro. In ogni area universitaria della città si possono trovare scantinati trasformati in centri culturali e sale teatrali che le compagnie indipendenti affittano per presentare i propri lavori al pubblico, proprio come accade in un Fringe. D’altronde sono proprio i principali festival off europei che attirano le formazioni artistiche coreane in cerca di successo e affermazione a livello internazionale e, almeno fino a una decina d'anni fa, Edimburgo rappresentava la piazza per eccellenza. Fino al 2004 e 2005 la presenza della Corea al Fringe era massiccia, con spettacoli che spaziavano dall’intrattenimento folkloristico alle grosse produzioni commerciali, che a Seul restano in scena tutto l’anno (basti pensare a spettacoli quali Jump e Nanta), fino ai lavori sperimentali di alcune giovani compagnie. In quegli anni la Corea investiva molte risorse nella diffusione e promozione del proprio prodotto artistico sui mercati esteri. Non a caso nascevano realtà come Pams e Asia Now. Il Pams - Performing Arts Market Seoul rappresenta ancora oggi la più grande fiera del teatro in Oriente, raduna ogni anno produttori e operatori di diverse nazioni e offre una gigantesca vetrina per le compagnie asiatiche. Asia Now è un’impresa di produzione con la mission di presentare un teatro di qualità e innovazione a un pubblico internazionale e ha prodotto i lavori di Yohangza e Sadari Movement Laboratory, due ensemble di physical theatre considerati tra i più sperimentali nel panorama contemporaneo. Asia Now ha investito sulla partecipazione delle produzio-

ni di queste compagnie al Fringe di Edimburgo e in altri festival d’Europa e Asia, cercando partner europei per coproduzioni presentate poi nei principali festival coreani. Durante il nostro progetto in Corea abbiamo incontrato Kyu Seok Choi, fondatore di Asia Now, che ci ha illustrato come il modello produttivo coreano stia subendo un cambiamento in questi ultimi anni. Lui stesso sta lasciando la direzione di Asia Now per dedicarsi a progetti che favoriscano la relazione fra i principali produttori asiatici, attraverso una serie di incontri, tavoli di lavoro, confronto e co-progettazione di un nuovo modello asiatico di cooperazione produttiva. Kyu Choi ci racconta che i produttori coreani hanno capito che investire enormi risorse nella partecipazione al Fringe di Edimburgo non portava risultati commisurati all’ingente impegno economico e hanno preferito incentivare reti e canali di circuitazione in Asia. Le compagnie hanno di conseguenza spostato l’attenzione su Avignone Off che, qui in Corea, è diventato il “sogno proibito” di ogni gruppo teatrale. Nel 2010 abbiamo assistito personalmente alla cerimonia che stipulava l’accordo di collaborazione tra il festival francese e il Busan International Performing Arts Festival (Bipaf), in base al quale una sezione del programma, chiamata “Go Avignon”, avrebbe permesso alla migliore compagnia emergente coreana di portare il proprio spettacolo in una venue di Avignone, grazie a un consistente contributo economico. Busan Festival & Co. Quello di Busan è uno dei festival teatrali internazionali più grandi in Corea e non a caso si svolge nella seconda metropoli del Paese, una città di mare all’estremità meridionale, dove hanno avuto origine la maggior parte delle forme performative tradizionali, tra cui molte danze e drammi in maschera, i cui personaggi presentano molti aspetti in comune con quelli della nostra Commedia dell’Arte. Ancora oggi a Busan, la domenica, gruppi folkloristici, di cui spesso fanno parte attori, danzatori, musicisti, che lavorano profes-

sionalmente in teatro, si radunano nei teatri all’aperto, inseriti in parchi cittadini e complessi culturali, per rappresentare il repertorio della ricca tradizione di drammi danzati in maschera. Gli stili e la terminologia di questi mask play variano da provincia a provincia e spesso sono erroneamente chiamati talchum, termine che indica la variante principale di questi drammi, tipica della provincia di Hwanghae (attualmente in Corea del Nord). È in queste occasioni che si assiste a momenti magici in cui maestri ultrasettantenni eseguono la danza dei ventagli con una precisione e una qualità che riassume il grande Oriente in un gesto. Il Bipaf è nato sulla scia del più noto Biff, Busan International Film Festival, il festival del cinema più famoso del Paese che porta ogni anno celebrità internazionali sul red carpet del Biff Square, il moderno movie district dove si svolge il festival. Come la maggior parte dei grandi festival coreani, si rivolge a un target ampio, puntando su grosse produzioni e su una forma di entertainment per tutta la famiglia che possa riempire i grandi teatri cittadini e gli spazi della Kyungsung University. Una sezione del Bipaf è dedicata ai 10 minutes plays, brevi performance di dieci minuti dove il pubblico sembra più interessato al countdown proiettato sul fondale che alla performance in sé. Non è infrequente che il pubblico si lasci andare a esclamazioni di stupore collettivo solo quando la fine dello spettacolo ha sfiorato di poco lo 0:00. Altri festival da citare, al di fuori dell’area metropolitana di Seul, sono il Miryang Summer Performing Arts Festival nella provincia di Gyeongsangnam-do e l’International Mime Festival a Chuncheon. Nella provincia di Gyeongsangnam-do esiste anche un Miryang Theatre Village, gestito dalla Street Theatre Troupe, che ha trasformato un villaggio in una residenza dedicata al teatro popolare. L’International Mime Festival ha un vasto programma (circa ottanta ensemble di cui dodici internazionali) di performance che spaziano dal teatro di strada al mimo corporeo, dal circo contemporaneo al visual theatre.

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Dal 2014 esiste anche un International Bilingual Festival a Incheon che propone la stessa opera interpretata da diverse compagnie nella propria lingua d’origine. Il direttore del festival, Seung Il Shin, ci ha spiegato come gran parte del lavoro riguardi la traduzione del testo, che, in alcune occasioni, viene pre-

Instabili Vaganti Fondata a Bologna nel 2004 dalla regista e attrice Anna Dora Dorno e dall’attore Nicola Pianzola, la compagnia porta avanti una ricerca quotidiana sull’arte dell’attore e del performer e sulla sperimentazione nei linguaggi del contemporaneo. Dal 2006 la compagnia dirige Stracci della memoria un progetto di contaminazione e sperimentazione che coniuga la tradizione culturale all’innovazione e che comprende per formance, installazioni, dimostrazioni di lavoro, workshop, sessioni di lavoro e conferenze in tutto il mondo. La tappa più recente del progetto si è svolta in Corea del Sud lo scorso dicembre, in collaborazione di Ert-Emilia Romagna Teatro Fondazione e Bologna Unesco City of Music, ed è stata finalizzata alla creazione della performance East meets West, un primo studio della co-produzione italo-coreana tra Instabili Vaganti e International Bilingual Festival di Incheon. Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola hanno inoltre diretto la V sessione internazionale del progetto a Incheon e un workshop a Busan. www.instabilivaganti.com

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sentato nella sua nuova versione linguistica per la prima volta durante il festival. Questa particolare modalità implica una stretta collaborazione con le compagnie invitate, che entrano a far parte di un vero e proprio progetto internazionale di cooperazione drammaturgica. La prima edizione ha visto la partecipazione di tre compagnie asiatiche provenienti da Corea, Cina e Filippine. Mentre in futuro Shin intende coinvolgere anche ensemble europei a partire da una collaborazione con la nostra compagnia Instabili Vaganti, avviata già attraverso la prima tappa di lavoro al progetto di co-produzione East meets West, che sarà presentato alla prossima edizione del festival in lingua italiana e coreana. Da Seul al teatro nelle risaie Torniamo a Seul. Qui troviamo i festival internazionali più conosciuti fuori dal Paese, primo fra tutti per dimensioni il Seoul Performing Arts Festival (Spaf) che, nell’arco di quasi un mese, offre una vastissima programmazione che comprende overseas performances, domestic performances, assoli di danza. Un’anticipazione sulla prossima edizione dello Spaf? Il festival si concentrerà sulla reinterpretazione di testi classici attraverso i linguaggi del contemporaneo, prediligendo grandi produzioni e co-produzioni internazionali. Se da un lato lo Spaf sta ricoprendo sempre di più il ruolo del festival ufficiale di Seul, dall’altro sono nati altri festival che offrono programmazioni rivolte a target differenti e che riescono ad accontentare il variegato pubblico di una metropoli che attira la maggior parte dei giovani e degli studenti coreani. Come Edimburgo e Avignone, anche Seul ha il suo Fringe Festival. Nato nel 1998 proprio a Daehangno dalla volontà di una ventina di artisti indipendenti, il festival è diventato annuale dal 2012 sotto il nome di Seoul Fringe Festival. Per quanto riguarda la sperimentazione nel campo del teatro, della performance e delle arti visive, il Bo:M Festival, giunto alla sua nona edizione quest’anno, rappresenta la sponda del contemporaneo a Seul, con una programmazione disseminata in diversi spazi della città, dove le parole d’ordine sembrano essere multidisciplinarietà e innovazione. Un altro esempio degno di nota è l’Interna-

tional Physical Theatre Festival, nato nel 2006 con l’intento di offrire una programmazione dedicata al teatro fisico senza fare troppe differenze di categorie tra le esperienze provenienti dalla danza e quelle teatrali. Abbiamo incontrato la direttrice del festival Julie Pae, che ci ha raccontato come il suo festival sia nato “dal basso” e come negli anni sia stato in grado di costruirsi un proprio pubblico e assumere le proporzioni e la dignità di un festival internazionale. Il Physical Theatre Festival, ci spiega Julie, nasce dall’esigenza di diffondere anche a Seul e in Corea un teatro di matrice fisica, totalmente assente dalle stagioni e dai programmi di molti altri festival del Paese, ancora legato a un teatro di parola, talvolta molto classico. A tale scopo è necessario educare il pubblico e formare quelli che saranno i futuri protagonisti di un teatro fisico coreano. Da qui l’idea di chiedere agli artisti invitati di condurre una serie di workshop pratici e incontri, in grado di offrire uno sguardo a trecentosessanta gradi sul proprio lavoro per introdurre spettatori, studenti e partecipanti a un nuovo linguaggio teatrale incentrato sul corpo e sul movimento. Il festival, supportato dalla Seoul Foundation for Arts and Culture, è giunto alla sua nona edizione e ad abbracciare diversi spazi cittadini, tra cui alcuni teatri universitari, ma soprattutto ha soddisfatto quella necessità dalla quale nasceva: contribuire a portare il Physical Theatre in Corea. Ci sentiamo subito in sintonia con Julie, dato che diffondere un teatro di matrice fisica è anche la nostra mission. In fondo è così che siamo approdati in questo Paese, invitati a condurre un workshop di teatro nell’ambito dell’International Workshop Festival che si tiene ogni estate presso l’Hooyong Performing Arts Centre, nella provincia di Gangwon. Lo spazio è la sede del Nottle Theatre, una compagnia indipendente che ha deciso, in piena controtendenza, di lasciare Seul per cercare la propria dimensione in un luogo ameno, dove il tempo scorre diversamente e si possono percepire le radici della cultura coreana. In un minuscolo villaggio in mezzo alle risaie, hanno trasformato una vecchia scuola elementare in un complesso che comprende una sala teatrale e una foresteria, creando una vera e propria comunità teatrale perfettamente integrata con gli abitanti del villaggio. Così, in un luogo dove non si era mai visto un occidenta-


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le, ogni anno arrivano da tutto il mondo artisti in residenza e maestri di teatro, e il piccolo villaggio accoglie attori e danzatori che partecipano ai workshop e che provengono da ogni parte del Paese. La cosa interessante del panorama teatrale e culturale coreano è che, accanto a esperienze di festival e programmazioni molto consolidate e caratterizzate da una veste ufficiale ancora molto forte, con tanto di pompose cerimonie di apertura e chiusura, vi sono realtà uniche per la propria modalità operativa e per l’offerta culturale. Questo è possibile grazie a un sistema di contributi alle attività teatrali basato sulla valutazione dei singoli progetti più che sull’anzianità o l’importanza della struttura o dell’ente richiedente. Ogni anno, infatti, entro il mese di dicembre, ciascuna realtà teatrale, dalla piccola compagnia indipendente al grande teatro di produzione, presenta il proprio progetto per l’anno seguente all’Arts Council Korea, l’ente che supporta tutte le forme artistiche nel Paese, i cui membri e commissioni giudicano il valore qualitativo e quantitativo del progetto. Inoltre i funzionari dell’ente si recano regolarmente nei luoghi dove i progetti vengono realizzati per verificarne sul campo il corretto e trasparente svolgimento, la coerenza con gli obiettivi, i risultati. Abbiamo incontrato personalmente diversi funzionari dell’Arts Council in visita nelle strutture nelle quali abbiamo realizzato i nostri progetti in residenza, diretto workshop o presentato spettacoli, e siamo rimasti colpiti dal loro reale interesse per gli eventi del progetto sostenuto e desiderosi di entrare in dialogo con le realtà invitate per avere anche da queste un feedback. Se da un lato, quindi, le realtà teatrali del Paese possono contare sui contributi pubblici dell’Arts Council e di altri enti cittadini, dall’altro l’aspetto privato e commerciale del teatro è molto forte, e si basa molto sulle

vendite dei biglietti, il merchandising, e una serie di attività collaterali (è comune al termine di uno spettacolo, anche in un festival importante, assistere a una lotteria organizzata per il pubblico dalla stessa compagnia). La rivoluzione grotowskiana Nel teatro coreano c’è un buon equilibrio tra pubblico e privato. La formazione teatrale, ad esempio, è tutta affidata alle università. È nelle facoltà di teatro a numero chiuso che, attraverso classi pratiche e corsi teorici, si formano i futuri attori coreani. Solo una piccola parte della formazione è svolta dal privato. Min Woo Yi, direttore della Mon-In Theatre Academy di Busan, ci spiega che, dal momento che non è semplice superare l’audizione per essere ammessi ai corsi universitari, esistono una serie di accademie private, come la sua, che offrono corsi di teatro, suddivisi in classi che rispecchiano le materie affrontate nelle facoltà (interpretazione, danza, canto, ritmica ecc.), per preparare i giovani allievi all’audizione. Approfittando della nostra presenza in Corea, Min Woo ci ha invitato a dirigere un seminario di tre giorni, offrendo così ai suoi studenti un’esperienza unica: studiare con maestri di teatro stranieri. Un’esperienza che, qui in Corea, vale molti punti sul curriculum ed è considerata come un valore aggiunto nella valutazione da parte della commissione di ammissione ai corsi universitari. Inoltre per i giovani studenti sono rarissime le occasioni di venire a contatto con un teatro fisico e sperimentale. In Corea infatti il modello di riferimento per la formazione dell’attore è Stanislavskij e chi decide di effettuare i propri studi all’estero, in genere, si affida alle Accademie russe. Basti pensare che l’approccio all’arte dell’attore sviluppato da un maestro come Grotowski è stato introdotto in Corea solo pochi anni

fa, in via del tutto sperimentale, quando tra il 2010 e il 2012, siamo stati invitati a condurre due percorsi formativi, incentrati sul lavoro del maestro polacco e rivolti rispettivamente a studenti universitari e bambini. I bambini (cosa per noi stupefacente) erano stati accuratamente selezionati in base al loro curriculum e all’appartenenza o meno alle genius class, corsi scolastici dedicati a bambini con alto quoziente intellettivo. Lo scopo era quello di avvicinare i partecipanti a un teatro fisico di matrice grotowskiana, a partire dalla rielaborazione di una leggenda classica coreana, per stimolare un incontro interculturale tra Oriente e Occidente. Con l’approccio grotowskiano, possiamo affermare di aver attuato una nostra “piccola rivoluzione teatrale” sulla formazione dell’attore in Corea, proponendo un modello alternativo a quello dell’interpretazione intimista del testo e svelando loro la via del teatro fisico, radicata nella loro cultura, ma non ancora presente nel loro teatro. In poco meno di un decennio il nostro metodo è stato riconosciuto in Corea, teorizzato nelle tesi di laurea e nei PhD degli studenti che hanno seguito il nostro lavoro, e oggi dirigiamo regolarmente percorsi di formazione nelle principali università del Paese portando molti studenti coreani a trasferirsi per lunghi periodi a Bologna, presso la nostra sede, per continuare gli studi con noi. Guardando all'Occidente In questi anni, realizzando i nostri progetti in Corea, abbiamo assistito a un rapidissimo cambiamento della scena teatrale sotto diversi aspetti. Dal punto di vista produttivo si sta investendo sempre di più su un sistema di circuitazione asiatico e su co-produzioni internazionali con teatri e festival europei (principalmente

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in Francia e Belgio). Del 2012 è la prima coproduzione teatrale fra Italia e Corea dal titolo Eomuyi - Memoria Madre, un lavoro commissionato dal Bipaf con il sostegno dell’Istituto Italiano di Cultura di Seul e che ha visto impegnate la nostra Compagnia e la Yariu Theatre Company di Busan. Esperienze come questa hanno suscitato il dialogo con il modello di teatro europeo e hanno contribuito a innescare una fase di profonda evoluzione del teatro in un Paese dove le tradizioni sono ancora molto presenti e radicate anche nei modelli educativi, ma senza il necessario distacco critico. Lo sviluppo della Corea procede a una velocità tale che, accanto alle metropoli evolute, dove la vita quotidiana è caratterizzata da una serie di facilities e tecnologie all’avanguardia, permane, a distanza di nemmeno una generazione, un mondo antico intriso di una cultura ancestrale. Bambini e giovani conoscono i canti tradizionali, i ritmi e i frammenti di danze legate ai drammi in maschera. Tuttavia il distacco dalla tradizione non è ancora avvenuto: manca un approccio critico, di studio, rielaborazione e attualizzazione della stessa attraverso linguaggi quali il teatro e le arti performative. La tradizione resta cristallizzata e si inserisce come tale anche negli spettacoli teatrali, portandosi dietro i propri costumi, le proprie maschere, i propri codici. Così le compagnie che lavorano con gli elementi della propria tradizione non riescono ad andare oltre l’aspetto folkloristico e sono molti gli spettacoli in cui affascinanti danze, canti evocativi, personaggi in maschera caratterizzati da un’estrema pu-

lizia nel movimento e da un’impeccabile precisione ritmica, coesistono con sketch cabarettistici e macchiette televisive. L’irrompere della contemporaneità, della globalizzazione, dei nuovi modelli relazionali dettati dai social network nella tradizione culturale coreana è letteralmente visibile nelle sue forme di espressione teatrale. Il teatro è comunque inglobato nella categoria Entertainment. Deve divertire e coinvolgere il pubblico, fino a chiamarlo in causa sul palco per farlo sentire partecipe di un’esperienza. Vi è una percentuale altissima di spettacoli che comprendono almeno un momento di coinvolgimento diretto dello spettatore in scena e che ammiccano al pubblico, chiedendo la sua partecipazione. Lo spettatore coreano partecipa attivamente allo spettacolo manifestando la propria reazione con esclamazioni che sembrano rispettare codici prestabiliti. In questi anni abbiamo avuto l’occasione di assistere a molti spettacoli, da grandi allestimenti di testi classici coreani a lavori di compagnie indipendenti, e quello che traspare palesemente è la ricerca di una poetica contemporanea. Una ricerca che procede per tentativi, per imitazione di modelli occidentali, per sperimentazioni estreme che a volte accostano forzatamente linguaggi differenti e che, purtroppo, ancora in pochi casi passa attraverso una valorizzazione del talento degli attori e dell’enorme bagaglio culturale coreano. In questi ultimi anni, però, grazie all’apertura verso altri modelli teatrali, grazie ai progetti internazionali e a una serie di organizzazioni che incentivano le collaborazioni tra Asia ed Europa, la Corea sta riscoprendo la ricchez-

Sitografia www.arko.or.kr: ArkoArtsTheatre www.asianow.kr: Asia Now l www.bipaf.org: Bipaf Busan International PerformingArts Festival l www.mimefestival.com: Chuncheon Mime Festival l www.festivalbom.org: Festival Bo:m l www.instabilivaganti.com: Instabili Vaganti compagnia teatrale l www.fattiditeatro.it/category/instabili-vaganti-on-tour: Instabili Vaganti On tour l www.pams.or.kr: Pams Seoul PerformingArtsMarket l www.physicaltheater.co.kr: PhysicalTheatre Festival l www.facebook.com/ragsofmemory: Progetto Stracci della memoria l www.seoulfringefestival.net: Seoul Fringe Festival l www.spaf.or.kr: Spaf Seoul PerformingArts Festival l

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za del proprio patrimonio performativo e sta cominciando ad attingere da questo elementi utili a una trasformazione del proprio linguaggio teatrale. Con il nostro progetto Stracci della memoria abbiamo aperto un dialogo interculturale con questo Paese sul piano della ricerca, del processo e della creazione teatrale già dal 2009, anno in cui siamo stati invitati per la prima volta. Dai semi gettati in quell’occasione sono germogliate fasi successive di lavoro che hanno coinvolto sempre più partner, partecipanti, teatri e festival fino a portare a un progetto di creazione condiviso dello spettacolo East meets West che, il 16 e 17 dicembre 2014, è stato presentato in forma di studio al Blue Light Hall di Seul, prima del debutto ufficiale previsto per settembre 2015 a Incheon. Al termine dell’ultima replica si spengono le luci, il pubblico scoppia in un fragoroso applauso e un sipario metaforico si chiude su Seul. Siamo alla fine di questo affascinante viaggio, di questa immersione nella cultura orientale. Ripartiamo con malinconia sulle note di un Arirang, canzone tradizionale coreana che esprime l’essenza di questo sentimento, assaporando già il ritorno in questo affascinante palcoscenico dell’Est. ★

In apertura, uno scorcio di Seul; a pagina 28, una scena di East meets West, degli Instabili Vaganti (foto: Valerio Agolino); nella pagina precedente, un momento di uno spettacolo di teatro tradizionale coreano (foto: Nicola Pianzola) e uno durante un workshop presso il Bipaf; in questa pagina, il Teatro Nazionale di Seul.

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Danzatori, contorsionisti e acrobati, tutti i linguaggi del Mime Tra gli spaghetti animati di NoFit State Circus e le contorsioni dei performer di Peeping Tom, il Mime Festival raggiunge quota trentanove, con ventiquattro giorni di programmazione, tutti dedicati al visual theatre. di Margherita Laera

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l nuovo astro del teatro francese, Aurélien Bory, ha conquistato i londinesi al Sadler’s Wells durante la XXXIX edizione (2015) dell’International Mime Festival di Londra. Con Plexus, interpretato dalla danzatrice Kaori Ito, Bory riceve un’accoglienza degna di una star, ma viene proprio da chiedersi il perché. Tutto fumo e niente arrosto è questo spettacolo, in cui Bory ritorna alla danza dopo il successo di What’s become of you? con la danzatrice di flamenco Stéphanie Fuster. Avevamo ammirato Bory per le sue spassose reinterpretazioni dell’arte circense con la Compagnie 111, ma è tutt’un’altra storia con Plexus, il cui tono è piuttosto contrito. La pedana generalmente vuota della danza viene rimpiazzata da una scultura/installazione che domina la scena e ne influenza le possibilità. Lo scenografo Pierre Gosselin ha creato una piattaforma da cui si innalza una foresta di cavi di plastica trasparente, che la tiene sollevata dal suolo; con questa invenzione deve fare i conti la danzatrice, facendosi strada tra un cavo teso e l’altro, come in un bosco di rovi. La battaglia della protagonista contro i limiti imposti dalla scenografia domina lo spettacolo, e la Ito sa fare di necessità virtù. Ma le suggestioni della colonna sonora e i cambi di costume stridono con il senso di gravità cui aspira la performance. Con tanto compiacimento, e altrettante cadute di stile, Plexus annoia non pochi critici britannici. Tra le troupe meno conosciute del festival, quest’anno abbiamo incontrato NoFit State Circus: una compagnia inglese attiva dal 1986 i cui membri vivono insieme, come una piccola comunità di giovani performer circensi internazionali. Nello spettacolo intitolato Noodles, presentato al Jacksons Lane Theatre, la troupe composta da artisti provenienti dal nord e sud dell’Europa – due contorsioniste, un illusionista e due trapeziste – presenta una serie di sketch in cui lo spaghetto cinese fa da protagonista. I vermicelli cascano dall’alto, escono dalle scarpe e dai cappelli, nascondono i corpi degli artisti, fungono da corde su cui arrampicarsi e vengono cucinati per una cena romantica. Aldilà della godibile leggerezza dell’atmosfera – soprattutto lo stereotipico entusiasmo delle due performer “brune” (l’italiana e la spagnola) controbilanciato dalla freddezza delle “bionde” settentrionali (le scandinave) – lo spettacolo stenta però a prendere il volo per un’intrinseca mancanza di drammaturgia. Gli sketch frammentari, che pure fanno parte del genere circense, non sono all’altezza delle intenzioni e sarebbero stati più efficaci se legati da un senso più spicca-

to dell’evoluzione narrativa. Incanta invece 32 Rue Vandenbranden del collettivo belga Peeping Tom, andato in scena al Barbican Theatre. Sullo sfondo celeste di un cielo invernale, due piccole abitazioni bianche si affacciano l’una all’altra in un villaggio coperto di neve, creando uno spiazzo centrale dove si dispiegano le avventure dei dirimpettai: due donne rivali in amore, tre uomini misteriosi e una signora di una certa età, che ci allieta con arie liriche e canzonette. Con uno stile unico che combina danza, teatro, circo e mimo, il collettivo Peeping Tom riesce a creare atmosfere da sogno e personaggi surreali, le cui storie sono immaginate dagli spettatori più che dispiegate davanti ai loro occhi. Tra cambi di costume, numeri di contorsionismo, gag da teatro di strada e situazioni assurde, il susseguirsi di piccoli intrighi a poco a poco si configura in un unico dramma, i cui indizi sono svelati al pubblico come in un romanzo criminale. Cos’è accaduto veramente? Chi è il colpevole? Come si risolverà la situazione? Il crescendo di tensione e il maturare della drammaturgia sono evidenti, ma lasciano in bocca un po’ di amarezza. Il nodo su cui si regge la performance si rivela essere un vuoto di contenuti alquanto deludente, anche se il contenitore era stato capace di ammaliarci. ★

Una scena di 32 Rue Vandenbranden, di Peeping Tom (foto: Herman Sorgeloos).

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Teatro e libertà d'espressione quando gli scarafaggi pascolano in scena Sensibile alla valanga emotiva seguita agli attentati terroristici, la scena teatrale parigina s’interroga sui temi fondamentali della convivenza civile grazie ad alcune voci del panorama internazionale, tra cui spiccano Rodrigo García e Christoph Marthaler.

Daisy (foto: Christian Berthelot)

di Giuseppe Montemagno

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n’immagine passerà alla storia della stagione invernale parigina: un rettangolo nero con la scritta «Je suis Charlie», lo slogan stampato su migliaia di volantini affissi alle porte dei teatri, distribuiti agli spettatori, sostituiti alle immagini dei profili social. Se il teatro è politica, mai come nei giorni successivi all’attentato alla redazione di “Charlie Hebdo” tutte le sale teatrali hanno espresso condanna alla violenza e pieno, convinto sostegno alla libertà d’espressione. Tema, quest’ultimo, non soltanto di eterna attualità, ma che sembra aver innervato la programmazione degli ultimi mesi: a cominciare

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dal Théâtre du Rond-Point, che mai ha dimenticato – e per l’occasione ha ricordato – il sostegno assicurato proprio dalla testata “ribelle”, nel 2011, in occasione delle recite parigine di Golgota Picnic di Rodrigo García, rappresentato mentre la polemica infuocava all’esterno del teatro. Da allora l’artista sudamericano, che nel frattempo ha assunto la direzione del Centre Dramatique National di Montpellier, non aveva più presentato nuovi spettacoli a Parigi. È ritornato adesso al Rond-Point con Daisy: che è il nome della garrula compagna di Paperino, ma anche di uno dei due deliziosi cani d’appartamento, insostituibili “amici

dell’uomo” in una società, come quella contemporanea, dove la solitudine domina incontrastata. Di animali trabocca la scena, che però ostenta un nitore, un’esasperata pulizia formale, propria di una domesticità iperigienista, come quella che qui si racconta. Piccole telecamere nascoste rivelano infatti, dentro gli strumenti di una batteria smembrata sul palcoscenico, ora un piccolo esercito di scarafaggi, ora un branco di lumache, perfino una tartaruga marina: i primi pronti a brucare le foglie di lattuga generosamente largite dal padrone, le seconde prodighe di bava non appena vaporizzate con acqua. Trattamenti tutti affettuosamente riservati agli animali, quando l’uomo ormai non comunica più con il suo simile: come si evince dalla lunga tirata contro gli sms – esilarante la risposta con uno smiley a un lungo commento critico su Rembrandt – o sugli sport che servono per ”socializzare“ – come lo sci nautico, bersaglio di una critica virulenta quanto facilmente condivisibile. Lunghe sequenze-performance collegano immagini e testi, che qui però lasciano spazio anche a lunghi, ingombranti silenzi, al lirismo sospeso del Quartetto Leonis, che dà voce al tardo camerismo beethoveniano per commentare le riprese di immacolati quartieri residenziali, cimiteri su misura per due fantasmi che li abitano – non senza graffiante ironia. E allora non c’è da stupirsi se, alla fine, uno dei due attori, Gonzalo Cunill, sigilla dentro una poltrona a forma di uovo il suo collega, Juan Loriente; quindi collega un lungo cannello da un lato all’interno del guscio, dall’altro al tubo di scappamento di una moto: accende il motore e preme sull’acceleratore, finché il fumo non satura la scena. Di animali e di morte si ritorna a riflettere in Per fortuna gli animali ti amano senza farti domande, sempre di García, che però il Rond-Point affida alla rigorosa, impellente guida registica di Christophe Perton. Nell’universo concentrazionario di un campo di basket, circondato da invalicabili pareti metalliche, tre personaggi alternano sapienti citazioni colte – dalla letteratura di Robert Walser e Francisco de Quevedo all’architettura biologica del Cimitero di Igualada


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di Enric Miralles – per discutere di malattia e di dignità, di terapie efficienti ma raramente efficaci, di un’umanità che ha perduto la capacità di affrontare il dolore. L’intero spettacolo sembra tuttavia smarrire la carica corrosiva del testo di partenza, di una drammaturgia appare frammentaria, randomica, priva di spessore. García autore senza García regista perde, almeno in parte, la sua ragion d’essere: non fosse per l’ultimo quarto d’ora, in cui un’adamantina Anne Tismer evoca la folle corsa di una donna con la madre, malata terminale, per strapparla alle cure di un eccellente ospedale. A bordo di una moto sfrecciano in una foresta innevata: ed è lì, legata a un albero, che la lascia morire, a contatto con la natura, ma soprattutto in maniera naturale. Coperto dal fragore della musica techno, l’ultimo grido di rivolta si estingue nel buio. Il tempo della memoria E allora non rimane che raccogliere le voci di chi resta, dopo. Lo ha fatto David Lescot, che in un’atmosfera quasi clandestina – la spoglia cornice di una sala ricavata sotto quella principale del Théâtre de la Ville – ha presentato Coloro che restano, un’intervista a due sopravvissuti del ghetto di Varsavia, due cugini miracolosamente sfuggiti alle persecuzioni naziste. È uno spettacolo di rara, avvincente tensione morale, nella disarmante semplicità del dialogo di due anime che scavano nella memoria e, lentamente, recuperano quanto era stato occultato, dimenticato, rimosso. Le storie di Paul (Antoine Mathieu) e di Wlodka (Marie Desgranges), apparentemente simili, svelano reti di relazioni complesse: perché il primo è figlio di un agiato orafo, sulle prime fornitore anche degli invasori tedeschi; mentre la famiglia della seconda è legata al Bund, il movimento comunista in sostegno dell’avanzata sovietica. La forza della parola, scabra, priva di retorica, scolpisce gli eventi di un’intimità devastata dalla paura – non poter piangere nei nascondigli, per non farsi scoprire. Sino alle avventurose fughe, poco prima della rivolta del 1943, di un ragazzo che attraversa le fogne, di una ragazza che scala il muro di cinta del ghetto: verso un sogno di libertà, tutto da costruire, ma soprattutto di una storia e di un’identità da preservare, custodire, difendere. Ma il tempo dell’attesa può anche risolversi nel nulla, nell’angoscia, nel rimpianto. È felice l’intuizione drammaturgica con cui Célie

Pauthe – presenza ormai stabile sulle scene della Colline – aggancia a una novella di Henry James, La bestia nella giungla, nell’adattamento francese di Marguerite Duras, La malattia della morte, scritta dalla drammaturga francese agli inizi degli anni Ottanta. Dall’algido countryside britannico a una terrazza dischiusa sulle tormente di un mare nero e impenetrabile, analoga è l’impossibilità di amare dapprima di John Marcher e Catherine Bertram, per lunghi anni in attesa di un evento che non avrà mai luogo, quindi di un uomo e di due donne uniti da un legame ambiguo, lui in attesa della morte, le altre desiderose di officiare una scoperta della sessualità destinata a fallire. Le morbide luci radenti di Sébastien Michaud, l’incalzante vis dialogica di John Arnold e Valérie Dréville – presenza quest’ultima tra le più qualificate della scena francese contemporanea – restituiscono pacata eleganza al tema dell’attesa, all’insorgere del desiderio che, forse inizialmente presente, viene ignorato, eluso, anestetizzato; mentre si coltiva la certezza che, sordo, brutale, violento, sia pronto a erompere ed esplodere: per sottrarre i personaggi a un’assenza di vita, al baratro della nonstoria, pronta a fagocitarli. E la storia continua. O forse no Ma a volte la storia si ferma. Oppure si ripete. È quanto accade in Un’isola galleggiante, da Eugène Labiche, ultimo anello della drammaturgia caustica e spiazzante di

Christoph Marthaler, applaudito sulle scene dell’Odéon. Il titolo è del tutto assente dal catalogo del drammaturgo parigino, ma fa riferimento a un celeberrimo dessert francese (l’île flottante, appunto) di vaporosa, vacua (in)consistenza. Il regista svizzero parte da Polvere negli occhi, storia di due famiglie che, in vista delle nozze dei rispettivi rampolli, s’ingegnano a ingigantire meriti inesistenti agli occhi dei futuri parenti. Mentre i rintocchi di un campanile impazzito si ripetono senza posa, il testo, autentica partitura verbale per un manipolo di strepitosi interpreti, ora viene letto al rallentatore; ora iterato ad libitum, certo per metterne in luce i congegni strutturali, ma anche per rivelare impietosamente i molti vizi e le rare virtù di una società borghese che – appunto – galleggia a vista. In un salotto zeppo fino all’inverosimile di ninnoli e ritratti di rara bruttezza, immaginato da Anna Viebrock, tacchi smisurati e troneggianti acconciature, sedie sfondate e vistosi trofei d’animali – le corna, soprattutto – rendono instabile, precario, involontariamente esilarante l’equilibrio tra le due famiglie. Un meccanismo a orologeria semplicemente perfetto, che tuttavia non può concludersi con il tradizionale happy ending: ma con lo smantellamento sistematico del salotto, con un trasloco forzato che ha l’acre sapore del crepuscolo, mentre lunghe ombre minacciose si stagliano su bianche pareti vuote. L’ultimo, prima di uscire, spegne la luce. Per sempre. ★

Un’isola galleggiante

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La Vienna fringe dei teatri indipendenti

Fuori dalle Istituzioni e dalle Accademie, i teatri off sono una risorsa culturale della capitale austriaca fin dagli anni Settanta. Inizialmente considerati fringe e dotati di scarse risorse, offrono tuttora programmi non convenzionali per i pubblici più curiosi. di Irina Wolf

A

partire dagli anni Settanta del Novecento, la vita teatrale di Vienna è stata plasmata da un crescente numero di piccoli teatri e gruppi indipendenti. Gradualmente, la scena si è emancipata dalle tre istituzioni nazionali: il “Burg” (Burgtheater e Akademietheater), il Volkstheater e il Theater in der Josefstadt. Inizialmente definiti fringe dati i metodi non convenzionali e i budget ridottissimi, questi gruppi non erano finanziati dallo Stato. Oggi, invece, molti di essi ricevono sostegno dal settore pubblico. La scena femminista Consultando il sito Internet di KosmosTheater, “Herstory” (storia di lei, ndt) potrebbe sembrare un errore ortografico ma, controllando la sua “History” (storia, ndt) (che risale al primo referendum legato alle donne in Austria, nel 1998), si comprende come sia stato scritto apposta. Questo luogo speciale sorto nel vecchio cinema Kosmos di Vienna è stato creato allo scopo di accrescere la consapevolezza della parità di genere nell’arte e nella cultura. Attraverso i propri focus sulle questioni di genere,

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KosmosTheater si rivolge specificatamente alle artiste donne. «La bellezza di questa istituzione», così la direttrice Barbara Klein nel corso di un’intervista in occasione del decimo anniversario nel 2010, «è che la gente che viene da noi non si accorge dell’approccio femminista. Non predichiamo alcun principio femminista ma, piuttosto, registi uomini e donne offrono prospettive diverse su determinate questioni. Per noi sono molto importanti i ruoli stereotipati, dal passato fino al presente». KosmosTheater è fondato su due princìpi: almeno una donna deve essere inclusa nel gruppo direttivo (il teatro non ha un organico fisso) e il dramma deve trattare di ruoli stereotipati. Tranne pochissime eccezioni, vengono messi in scena soltanto testi drammatici contemporanei. Con una sala polifunzionale che può accogliere fino a duecento persone, il teatro offre un’ampia varietà di generi, comprese performance, teatro tradizionale, danza, musica, visual art, commedia, cabaret e spettacoli di clown, presentati come co-produzioni oppure come sezioni di festival internazionali. Quasi ogni anno vengono aggiunti nuovi eventi. Il 2015,

poi, prevede una doppia celebrazione, per il KosmosTheater e per Vienna: quindici anni di esistenza per il teatro di genere e per il primo festival internazionale delle performance queer. Non stupisce quindi che nel 2014 Barbara Klein sia stata insignita della Medaglia d’Oro al Merito della Repubblica austriaca per il suo impegno nelle questioni femminili. Pentametro giambico vs agonismo scenico Oggi, tuttavia, «il più interessante gruppo off viennese» pare essere il Tag Theatre, quanto meno secondo il quotidiano Kurier. In effetti il Theater an der Gumpendorfer Straße gode di questa reputazione da alcuni anni. Il suo nome indica la posizione dell’edificio sulla via Gumpendorfer e, allo stesso tempo, con un gioco di parole, significa “giorno” – la traduzione letterale di Tag. Analogamente al KosmosTheater, può ospitare fino a centonovanta persone, ma ha uno staff fisso. Fin dalla sua apertura nel 2006, il Tag si è concentrato su produzioni proprie, basate principalmente su testi drammatici, e sulla cooperazione a lungo termine con artisti provenienti da paesi di lingua tedesca.


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Funzionando come teatro di repertorio, offre, ogni stagione, fino a sei produzioni, cui si aggiungono un massimo di cinque ospitalità. Una specialità di Tag sono le trascrizioni di classici della letteratura mondiale, un’avventura cui si è dedicato Gernot Plass dal 2010. Plass, che ha acquisito la direzione del teatro nel 2013, cancella il linguaggio “antico” e lo sostituisce con una lingua moderna, che segue comunque il pentametro giambico, lasciando così intatta la struttura del testo originale. Negli ultimi cinque anni, egli ha parafrasato e diretto Il processo di Kafka e I Masnadieri di Schiller, Riccardo II, Amleto ed Enrico IV di Shakespeare. È stato, dunque, naturale arrivare al Faust di Goethe (parte prima). E ha un grandissimo successo! Particolarmente entusiasti dello spettacolo sono gli studenti che riempiono la sala. Un altro tratto distintivo del Tag è il suo programma dedicato all’improvvisazione e intitolato Sport sul posto: due squadre si fronteggiano e si esibiscono per conquistare il favore del pubblico. In pochissimo tempo, vengono creati e messi in scena vari personaggi. Dopo ogni round, il pubblico vota la squadra che ha improvvisato meglio eleggendo, alla fine, la vincitrice. A proposito di vincitori, recentemente il Tag ha vinto il premio teatrale Nestroy (riconoscimento intitolato all’artista Johann Nepomuk Nestroy che, dal 2010, prevede venti categorie e premia i migliori allestimenti della scena austriaca) come migliore produzione off per Il fascino discreto della gente alla moda, adattamento del famoso film di Buñuel Il fascino discreto della borghesia.

del centro città. Denominato anche «il teatro nel culo del mondo» (Theater am Arsch der Welt) per la sua localizzazione nel dodicesimo distretto, Werk X possiede due sale che possono ospitare fino a seicento spettatori. Il neonato teatro viennese mira a offrire uno spazio per opere impegnate e a mostrare un teatro innovativo ed eccitante. Segue un approccio artistico che favorisce una visione critica dell’ordine sociale contemporaneo e lavora allo scopo di rendere l’arte e il teatro una parte vitale di ogni società democratica. Vengono messe in scene produzioni e co-produzioni realizzate soprattutto con teatri dell’area di lingua tedesca. Garage X (ribattezzato “Werk X-Eldorado”) è ancora aperto come luogo della scena libera. Un aspetto importante del nuovo programma è il diverCITYLAB di Asli Kislat, dedicato alla formazione dell’identità post-migratoria, con il quale i due direttori cercano di attirare come pubblico gruppi di migranti nel teatrocantina, che comprende due sale e può ospitare circa duecentocinquanta spettatori. Per la sua prima stagione, Werk X si è sforzata di cercare tracce del futuro, così come del passato e del presente. E, dunque, la grande sala ha aperto nell’ottobre del 2014 con la prima di Eldorado, di Marius von Mayenburg. Una scelta non casuale. Scritto

nel 2004, durante la seconda guerra in Iraq, il testo è tuttora attuale. Dieci anni dopo, questa «terra promessa», che è l’Occidente, sembra essere andata in frantumi come mai prima. La prima stagione del nuovo teatro comprende, fra le molte proposte, Blueberry Hill – Omicidio di primo grado scritto da Mario Salazar (un giovane drammaturgo tedesco di origini cilene), che mostra un approccio sorprendente e in qualche modo anarchico nel concepire futuri possibili; e La passione dei proletari, una produzione musicale che indaga su come gli ultimi decenni possano essere interpretati attraverso lenti marxiste. Werk X, inoltre, pare concentrarsi sull’adattamento di alcuni fra i romanzi più importanti del secolo passato e di quello attuale e, infatti, il cartellone della stagione include Ulisse di James Joyce, Infinite Jest di David Foster Wallace, La pecora nera di Ascanio Celestini e Duchessa di Sergej Minaew. Fra i progetti di prossima attuazione, anche un convegno per esplorare differenti approcci concettuali al futuro. ★ (traduzione dall’inglese di Laura Bevione)

In apertura, una scena di Infinite Jest, di David Foster Wallace al Werk X; in questa pagina, il Tag Theatre (foto: Anna Stîcher).

Il teatro “in culo al mondo” C’è un detto nella capitale austriaca che dice all’incirca: «Un viennese ha bisogno del teatro così come dell’aria e dell’acqua». Non stupisce, quindi, che dal 2014 Vienna abbia un nuovo teatro. Werk X (che significa “fabbrica X”) è stato fondato grazie alla riconversione di un impianto per la produzione di cavi da parte di Garage X, un teatro situato in una cantina nel cuore di Vienna. Dopo aver guidato con successo quest’ultimo dal 2000 al 2014 (nel 2012 Garage X ricevette il premio Nestroy), i due manager Ali M. Abdullah e Harald Posch hanno immaginato di creare un luogo in “antitesi” ai teatri nazionali “simili a musei”

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In Olanda i teatri si disegnano così Colorati, trasparenti, dalle forme singolari e ricercate, sono i molti spazi nuovi sorti nelle principali città olandesi negli ultimi vent’anni: a progettarli, grandi studi internazionali nell’ambito di piani urbanistici che, attorno a essi, ridisegnano interi quartieri. di Francesca Serrazanetti L’Agora Theatre

L’

Olanda non copre nemmeno la superficie del Nord Italia. Eppure negli ultimi vent’anni vi sono spuntate decine di nuovi teatri. Progettati nell’ambito di più ampi piani di espansione urbana o nati da esigenze di recupero di fabbricati dei centri storici, dal punto di vista architettonico sono edifici interessanti per diversi aspetti, legati alla valorizzazione della dimensione pubblica e partecipativa del luogo teatrale e alla flessibilità di spazi e usi, e spesso firmati da importanti nomi dell’architettura internazionale.

Ironia delle forme Tra i più grandi (e noti) vi è il New Luxor Theatre di Rotterdam, realizzato nel 2001 dallo studio tedesco Bolles+Wilson. Sorto all’interno di un programma di rinnovamento di una zona portuale, che ha coinvolto architetti come Renzo Piano e Norman Foster, il teatro nasce come nuova sede dell’Old Luxor Theatre, unica sala di Rotterdam sopravvissuta al-

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la Seconda guerra mondiale, con una tradizione popolare di spettacoli musicali, varietà e cabaret. L’edificio si ispira all’idea di “bolla” in grado di contenere il vuoto della sala, sospesa, come la carena di una nave, sul foyer al piano terra. La facciata è un nastro rosso che, partendo dal grande portale d’ingresso, avvolge al suo interno la promenade architecturale che conduce gli spettatori dal foyer fino alla balconata più alta, abbracciando il nucleo centrale della sala su tre lati e offrendo scenografiche viste sul panorama urbano. Sul quarto lato, la linea del proscenio si estende in pianta fuori dall’auditorium marcando un altro limite: la soglia degli ingressi, che segna il confine tra la strada e la “casa dell’illusione”. Nodo di un ampio masterplan è anche il Kunstcentrum de Kunstlinie inaugurato nel 2007 (e già vittima della mancanza di finanziamenti per la gestione e il funzionamento degli spazi, al momento usato solo per laboratori e corsi di formazione) ad Alme-

re, una città di recente fondazione protagonista, dal 1994, di un piano di progettazione di infrastrutture culturali. L’edificio è stato pensato dallo studio giapponese Sanaa (Sejima+Nishizawa) con lo scopo di far interagire artisti professionisti e amatori. La dualità del programma è evidente nel progetto: una grande piattaforma vetrata quadrangolare a un piano, lambita su tre lati dall’acqua del lago Ijsselmeer e bucata da piccoli patii, accoglie spazi di socializzazione, laboratori artistici, spazi per la formazione, sale di registrazione e di prova, mentre i tre volumi delle sale teatrali vere e proprie svettano in altezza come articolazioni del parallelepipedo basamentale. Un altro edificio-simbolo dei grandi piani di intervento che hanno trasformato le città olandesi al volgere del secolo è l’Agora Theatre di Lelystad, disegnato dall’olandese UN Studio come un volume organico – tipico dei progetti del gruppo guidato da Ben van Berkel – appoggiato sulle due sale come


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il tendone di un circo. Il colore fa da padrone sull’involucro esterno dai toni arancioni, sul foyer fucsia, sulla sala conferenze blu, sulla sala maggiore rossa, mentre la sala piccola rispetta la neutralità di un black box multifunzionale. Le superfici prismatiche piegate caratterizzano formalmente un edificio aperto a diversi usi: dal teatro per bambini al musical, all’opera, alla danza, al cinema e agli eventi. Lo stesso tipo di linguaggio (e di agenda) caratterizza un progetto più recente di UN Studio, il Theatre de Stoep a Spijkenisse. Le due sale – colorate coi toni accesi del fucsia – sono nascoste da una grande “coperta” curvilinea, sotto la quale si snoda un flusso di spazi e servizi, che hanno il fulcro nel grande foyer centrale. Un linguaggio formale fortemente espressivo è di certo anche quello che aveva intenzione di ottenere il Toneelschuur Theatre, uno storico teatro di avanguardia di Haarlem, quando incaricò il fumettista Joost Swarte di progettare la sua nuova sede. Lo studio olandese Mecanoo ha tradotto le suggestioni grafiche di Swarte in un progetto di architettura in grado di soddisfare i requisiti funzionali, e allo stesso tempo di emergere dal tessuto fitto del centro storico con variazioni di altezza e di forma e con la grande facciata di vetro inclinata, che trasforma la hall di ingresso in un’estensione della strada. Due sale sono dedicate al cinema e due al teatro, con spettacoli di ricerca prodotti dalla compagnia e ospitalità che mescolano i generi (prosa, danza, cabaret, performance), con una tendenza costante alla sperimentazione, e una stagione dedicata ai bambini. In una piscina anni Venti A fronte di un elevato numero di teatri progettati ex novo, molti altri sono nati dal rinnovamento di edifici esistenti. Qui il linguaggio della contemporaneità incontra quello storico, per lo più – salvo rare eccezioni come il Teatro Municipale di Haarlem, restaurato dall’architetto Erick van Egeraat in una collaborazione con la nota artista di ceramiche Babs Haenen, che ha curato i rivestimenti della nuova torre scenica – a partire da spazi non teatrali, in una lungimirante politica di conversione di luoghi abbandonati in centri di aggregazione e produzione culturale. È

questo il caso della Chiesa Luterana di Amsterdam, risalente al 1793, trasformata dallo studio Mecanoo nel teatro della compagnia De Trust (oggi Compagnie Theatre). L’edificio esistente è stato trasfigurato il meno possibile, mantenendo il doppio colonnato delle navate della chiesa e realizzando nello spazio centrale una struttura freestanding che assume forme diverse ai vari livelli a seconda delle funzioni, fino a diventare sala, all’esterno rossa e dorata all’interno. In questa felice convivenza di elementi storici e moderni, il teatro ospita spettacoli di prosa, danza e musica, artisti affermati e giovani talenti. Con una logica analoga ha operato lo studio Cepezed Architects nella chiesa neo-bizantina di Helmond, convertita nel nuovo Speelhuis Theatre nel 2013. Il progetto, realizzato in sostituzione dell’omonimo teatro distrutto da un incendio nel 2011 (un edificioicona dello scomparso architetto Piet Blom) doveva essere un allestimento temporaneo, ma sembra orientato a divenire permanente. Nella navata centrale della chiesa, che conserva integralmente l’apparato decorativo originale, è stata installata una struttura di metallo che accoglie la platea e si estende fino alla zona dell’altare, destinata alla scena, incorporando attrezzature e apparati tecnici che consentono di ospitare musical, spettacoli di danza e di prosa sia tradizionalpopolari sia di ricerca. Gli spazi per gli attori e quelli di accoglienza per il pubblico sono collocati in due volumi compatti innestati sui fianchi della chiesa, che sfruttano delle aperture esistenti senza danneggiare l’edificio storico. Una conversione ancora meno convenzionale è quella del Theatre The Regents a Den Haag, operata da Atelier Pro. Qui l’edificio esistente è una piscina del 1920: il nuovo teatro mantiene visibile l’antica struttura, con le tipiche mattonelle in ceramica, e ne sfrutta i caratteri e il fascino per accogliere i più vari generi performativi. Nei recuperi e nei nuovi progetti sembra sempre essere al centro il ruolo socializzante del luogo teatrale: così come la programmazione copre una richiesta molto eterogenea e popolare – spaziando tra diversi generi e includendo spesso stagioni parallele di cinema e attività pensate appositamente per

i bambini, nell’ottica di avvicinare un’utenza ampia e trasversale – le aree esterne alle sale sono spazi d’incontro intorno al tema dello spettacolo, piazze pubbliche coperte, spesso delimitate da grandi pareti vetrate. Particolarmente rappresentativi in questo senso sono due edifici di Amsterdam. Il DeLaMar Theatre (con una lunga tradizione di musical e cabaret) si innesta nel fronte della monumentale Marnixstraat con una nuova facciata trasparente, collega due frammenti della città storica, cucendo lungo la strada tradizione e innovazione e allo stesso tempo mostrando – soprattutto la sera, quando gli interni si accendono e il fronte diventa una lanterna rossa – quello che avviene nei sistemi di foyer verticali. Il concetto di “piazza pubblica” aperta alla città è al centro del Muziekgebouw aan ’t IJ di 3XN: tre volumi “opachi” (un ampio auditorium e una sala più piccola destinati a concerti di musica classica e contemporanea e un blocco con laboratori e uffici) sono incastonati in una grande scatola vetrata, attraversata da foyer a più livelli che conducono alla caffetteria e alla terrazza, con uno spettacolare affaccio sul porto. Tutti questi teatri sono architetture vitali nelle quali la trasparenza del vetro si affianca a colori accesi, forme ironiche e tracce storiche. Ma tutti (o quasi) accettano il compromesso con l’arte della scena, auspicato da Peter Wilson in riferimento al suo progetto per il Luxor di Rotterdam: quando inizia lo spettacolo l’edificio deve scomparire e cedere il passo alla rappresentazione, senza distrarre il pubblico. «Il coniglio deve rientrare nel cappello». ★

Per saperne di più Siti web dei teatri citati: www.luxortheater.nl; www.agora-lelystad.nl; l www.theaterdestoep.nl; l www.toneelschuur.nl; l www.compagnietheater.nl; l www.theaterspeelhuis.nl; l www.denieuweregentes.nl; l www.delamar.nl; l www.muziekgebouw.nl l l

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Fate teatro, non la guerra! La voce delle platee affollate d'Israele Il Festival Isra-Drama 2014 di Tel Aviv ha dato voce a nuovi talenti e mostrato tante sfaccettature della scena locale, ma la tensione bellica e il terrorismo restano al centro di un gran numero di testi e spettacoli. di Pino Tierno

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e “contrasto” e “conflitto” sono invariabilmente parole chiave per il teatro e la drammaturgia, non stupisca che Israele abbia, in proporzione al numero degli abitanti, uno degli indici di frequentazione teatrale più alti nel mondo. È una terra che vive di contrasti, Israele. Contrasto, intanto, fra la pulsione progressista espressa dal fervore e dall’apertura di una città come Tel Aviv e, dall’altra parte, le forme spesso anguste e intolleranti della dimensione religiosa, che ha il suo centro in Gerusalemme. Scherzando, gli israeliani dicono che per andare da una città all’altra occorrerebbe il passaporto, tanta è la distanza ideologica fra le due “capitali”. Altro contrasto, poi, è quello tra i falchi favorevoli a una posizione sempre dura e belligerante e le mille anime dell’attivismo pacifista che, con la sola forza del dialogo, cerca di opporsi alla linea maggioritaria. E naturalmente il conflitto; lo

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scontro con l’altro, con il vicino; conflitto nato con lo Stato, anzi prima, e che impregna cellule e fibre di ogni abitante di quelle terre. Certo, dal punto di vista culturale, la sensazione di isolamento o di compressione può anche presentare qualche vantaggio. La promozione della cultura e della lingua ebraica – quest’ultima, nella versione parlata ha appena cent’anni di vita – è da sempre un punto chiave della politica del Paese e i risultati, evidentemente, non mancano. Ogni più piccola città ha il suo teatro con un consistente numero di abbonati e, anche nei teatri più commerciali, una buona percentuale di opere attinge al giovanissimo repertorio locale. Quasi ogni teatro ha poi un Dipartimento Scuole, che si occupa della promozione presso il pubblico più giovane, e questa è una delle ragioni per cui fra il pubblico israeliano la staffetta generazionale funziona e i teatri appaiono spesso pieni di ragazzi.

Nel nome di Hanoch Levin Il più grande autore teatrale in lingua ebraica è a tutt’oggi considerato il prolifico Hanoch Levin (1943-1999), il quale, sin dalla fine degli anni Sessanta, cominciò a opporsi a una drammaturgia considerata troppo patriottica e reazionaria. Le sue opere sono attraversate da feroce ironia verso le istituzioni civili e militari del Paese, ma nella vasta produzione di Levin non mancano testi dallo struggente afflato universale ed esistenzialista e sono proprio questi ultimi a essere, negli ultimi anni, oggetto dell’interesse di moltissimi teatri, anche in Italia. Pensiamo all’apprezzato spettacolo Il lavoro di vivere, proposto l’anno scorso dal Teatro Franco Parenti. L’Istituto Hanoch Levin per il dramma israeliano, fondato appena un anno dopo la scomparsa del drammaturgo, ha la funzione di promuovere all’estero la scena locale, attraverso scambi, sostegni a tournée, traduzione di te-


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sti. L’iniziativa più importante è probabilmente l’organizzazione dal 2005 di Isra-Drama, un festival che propone, ogni dicembre, a un gran numero di operatori internazionali, ciò che è considerato il meglio della produzione annuale. «Più di ottanta lavori sono stati esaminati dalla giuria – scrive nel programma Sigal Cohen, produttrice e rappresentante dell’Isra-Drama – e ne sono stati selezionati dodici». L’evento, nell’ultima edizione, risultava arricchito da molte tavole rotonde su tematiche ricorrenti nella drammaturgia locale: il conflitto arabo-israeliano, il mito o le crepe dell’esercito, il terrorismo e le sue ripercussioni nella vita quotidiana. In Montagna (The Mountain), scritto da Yaton Edelstein, in collaborazione con Dalit Milstein, cinque soldati sono intrappolati in una guerra interminabile; dopo ogni avanzata, sistematicamente fanno ritorno al punto di partenza, e ogni volta s’innalza il livello di sacrificio richiesto per proteggere la patria. In questa trappola angosciosa, che richiama un conflitto del 1950, emerge un eroe, Montagna, ispirato a un’autentica figura storica israeliana. Il ritmo pulsante dell’azione scenica rende efficacemente la dimensione nevrotica del meccanismo di comando e obbedienza, e per il tempo serrato della pièce un po’ si dimentica che la follia degli apparati militari è stata forse trattata altrove con più squassante forza simbolica. Atmosfera di grande intensità, quella creata da Zvi Sahar, attore e regista che lavora sul testo La strada per Ein Harod (The road to Ein Harod) di Amos Kenan, per offrirci una performance elegiaca e fascinosissima che combina sorprendenti tecniche marionettistiche con proiezioni video e scenografie miniaturizzate costruite al momento. L’artista ci introduce magicamente in un mondo surreale e distopico, in cui il protagonista, fuggendo dall’ultimo colpo di stato nel suo Paese, scopre il significato della perseveranza e della libertà. Il talento e l’ingegnosità di Sahar fanno prevalere la dimensione onirica ed esistenziale. Le vicissitudini del protagonista, narrate con voce pastosa e ipnotica, sanno infrangere i confini di ogni dettaglio biografico o locale.

Grünwald narra l’educazione sentimentale di una ragazzina araba alla fine degli anni Settanta. La donna, oramai adulta, rivede il suo passato, intessuto soprattutto di ricordi legati al gusto e all’odore del cibo di casa sua, e ripercorre le difficoltà vissute da chi, come lei, porta i segni dell’appartenenza a una cultura “diversa” o addirittura ostile. Il racconto, tuttavia, non riesce mai a superare i limiti di una modesta aneddotica, senza offrire una prospettiva realmente originale sulla vita della minoranza. Spassoso e toccante Oh Elias Elias, cabaret di scenette e canzoni di Hanoch Levin, messo in scena da un formidabile trio di attori-cantanti, fra cui Lilian Baretto, l’ultima moglie del drammaturgo. I tre artisti hanno selezionato e diretto una pirotecnica antologia dei primi lavori di Levin e la genialità dell’autore torreggia in questi frammenti che affrontano temi quali il desiderio e le sue disillusioni, l’amore con le sue opportunità mancate, la gioia di vivere infettata dal pensiero della fine… il tutto sospeso in un’atmosfera di comica angoscia e di scettica spiritualità. La vicenda del Dybbuk (The Dybbuk) è stata per la prima volta trasposta teatralmente a Mosca nel 1922 ed è oggi considerata una pietra miliare della giovane drammaturgia in lingua ebraica. Hanan, giovane e povero studente, muore di crepacuore nel sapere che l’amata Lea è stata promessa in sposa all’uomo più ricco della città. La sua anima, però, invece di raggiungere l’aldilà, rimane sospesa fra il mondo dei vivi e quello dei morti, finché non entra nel corpo di Lea come dybbuk, anima perduta, nel tentativo di impedirne il matrimonio. Negli anni si sono succedute innu-

merevoli versioni della leggenda e anche Moni Ovadia ha offerto la sua nel 1995. Quella di Roee Chen proposta dal Teatro Gesher, sala di Tel Aviv storicamente legata alla comunità russa, non è apparsa però troppo convincente. Lo spettacolo è esteticamente impeccabile, ma l’adattamento odierno di Roee Chen spazza via ogni dimensione femminista e moderna, per privilegiare una visione classica e fin troppo ripulita della storia. Dio aspetta alla stazione (God waits at the station), infine, produzione del Teatro Habima, è una riflessione sul terrorismo condotta da una giovane drammaturga, Maya Arad. In un caleidoscopio di storie e di testimonianze, le verità e le prospettive si susseguono, fino a sovrapporsi una all’altra, e fino a cancellare quasi il confine fra vittime e carnefici. Lo spettacolo ha un ritmo incalzante e percussivo e la compagnia di giovani attori lo recita con un coinvolgimento che è pari a quello con cui lo segue un folto e concentrato pubblico di ogni età. Provare a dimenticare il fatto di vivere sopra un vulcano è difficile, forse inutile. Gli spettatori, a quanto ci riferiscono tanti artisti e operatori, non disdegnano gli spettacoli classici o impegnati, ma affollano in particolare le sale che propongono commedie e musical, anche locali; è il segno che permane in loro una gran voglia di leggerezza che intorpidisca un po’ l’ansia molesta con cui tocca convivere ogni giorno. ★ In apertura, una scena di Dibbuk, di Roee Chen; in questa pagina, un’immagine da The mountain, di Yaton Edelstein.

Classici e nuove proposte Una ingenua dimensione didascalica la fa da padrona nello spettacolo proposto dal Teatro di Jaffa, che ha comunque il grandissimo merito di far lavorare insieme artisti tanto di lingua e cultura israeliana quanto araba. Papa’gina (Papa’Ajina) di Hannah Vazana

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HUMOUR

G(L)OSSIP Il Teatro: una Passione Divorante di Fabrizio Sebastian Caleffi

Crasso - Mangi mai ostriche, Antonino? Antonino - Quando ci sono. Crasso - E le lumache? Antonino - No, padrone. Crasso - Pensi che mangiare le ostriche non sia immorale e mangiare le lumache invece sì? Antonino - No, non lo penso. Crasso -Certo che no. È una questione di gusto, vero? Antonino - Sì, padrone. Crasso - E il gusto non ha niente a che vedere con la morale, giusto? Antonino - Sì, padrone. Crasso - Ho finito. Questo dialogo esemplare è tratto dalla sceneggiatura del film Spartacus, diretto da Stanley Kubrick e scritto da Dalton Trumbo, illustre perseguitato dal maccartismo che, grazie a Kirk Danielovitch Douglas, protagonista e produttore dell’opera, tornò a firmare con il suo nome dopo aver dovuto lavorare per anni sotto pseudonimo, vincendo anche un Oscar. E la passione cannibale? È anche quella una questione di gusto? O vi sembra una domanda di cattivo gusto? Se la risposta è affermativa, non avete superato il test di contemporaneità. Aggiornatevi! Leggete Cronemberg. Sì, il regista, ora al suo primo romanzo, Divorati, versione italiana di Consumed che la traduzione italiana di Carlo Prosperi per Bompiani rende vieppù ambiguo a seconda di dove cade l’accento: divòrati ovvero màngiati oppure divoràti, soggetti per un menu antropofago. Al centro del plot, gli Arosteguy, coppia filosofica post sartriana composta da Ari e Célestine, nome da colf proustiana per la de Beauvoir del nostro eccitante nuovo millennio. La rappresentazione narrativa del creatore di Crash, e soprattutto della versione cinematografica del Pasto Nudo (vi dice niente?), è forma attualissima del tema del dossier di questo numero, nonché di Expo

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2015. Nel tristellato Michelin Menu dei nostri hystrionici chef trovate piatti per tutte le stagioni, dagli spaghetti alla Scarpetta al riso alla Wesker (ma la mia madeline è un Patatine di Contorno al Piccolo di via Rovello con Giulia B* ai tempi del Beccaria nel senso di ginnasio). E dunque... exponetevi! Mettete a nudo la vostra Passione Divorante, teatranti, da Dioniso a Bourroghs, dall’ebbrezza alcoolica ai viaggi lisergici! Avete presente l’espressione: «Mangiare con gli occhi»? Bene, s’adatta perfettamente all’atto scenico (come atto oscenico). E riguarda tanto l’attore quanto il consumatore. Tutti i partecipanti al banchetto (un pasto nudo) sono oggetto e materiale da cucina: cuochi e buongustai si cucinano e si assaggiano; in palcoscenico si mordicchiano e gettano libbre di carne dalla parte del cuore alla platea in un rituale di cannibalismo oculare (Mangiare con gli occhi, ecco). Non a caso, la drammaturgia popolare dell’eucaristia è, per García Lorca, la forma teatrale perfetta; certamente la più distribuita e diffusa, dopo Trappola per Topi... E non per caso e non solo per retaggio di fame atavica, l’attore manifesta una passione divorante per la cena dopo lo spettacolo (non importa chi paga, purché non sia io). Una vera e propria comunione senza passione, nel senso di sacrificio. Expectandi resurrectionem, alla prossima replica: la resurrezione della carne. E del contorno. Nel frattempo, però, il conto arriva. E i conti non tornano mai. Alla fine dei conti, il bilancio è sempre falsato dal famigerato pane&coperto. Meglio aver vissuto di companaticum&circenses. Così abbiamo celebrato, a cena dopo lo spettacolo (l’ultima replica di Cinecittà al Nuovo di Milano, vedi recensione) l’addio alle scene di Luca Ronconi. Della cui eredità s’ha da parlare a lungo, in lungo e in largo. Io al dessert mi limito a lanciare il Monopoli della successione, schierando la pedina anomala di un premio Oscar milanese, co-fondatore dell’Elfo e compagno al Beccaria. Nel senso di liceo.


DOSSIER: Teatro & Cibo a cura di Laura Bevione e Claudia Cannella

Fin dall’antichità le arti della cucina e quelle della scena si sono incontrate, rievocando miti arcaici e mescolando rituali di vita e di morte. Un’irresistibile e atavica attrazione, quella fra cibo e teatro, che percorre tutta la storia dello spettacolo e coinvolge generi e linguaggi assai eterogenei. Dalla prosa alla lirica, dalla danza al circo, dalla tradizione alle sperimentazioni più ardite, abbiamo voluto indagare, nell’anno di Expo a Milano, una molteplice fenomenologia artistica che, soprattutto in Italia, rivela una sorprendente ricchezza. Hy41


DOSSIER/TEATRO & CIBO

Cibo e teatro? Più che la cucina poté il digiuno Da Orson Welles a Falstaff sognando Gargantua e Pantagruel, uno dei volti più noti della scena e del cinema italiani, Giuseppe Battiston, racconta la sua passione per la buona tavola e per il buon vino, come a volte si sia intrecciata al teatro e quanto oggi, nel bene e nel male, condizioni le nostre vite. di Giuseppe Battiston e Claudia Cannella

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on si sorprende Giuseppe Battiston quando gli racconto che, curando questo dossier, è emersa una galassia molto ricca, anche se spesso episodica, di teatranti che, in Italia, si dedicano a esperienze sceniche in cui il cibo diventa drammaturgia, mentre all’estero, anche in Paesi con una tradizione gastronomica forte, tale rapporto è praticamente inesistente. «Se non noi chi altro?», dice sornione. E certo la sa lunga, perché nota è la sua passione per la buona cucina e soprattutto per il buon vino, che talvolta si è affacciata anche sulle tavole del palcoscenico.

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Ha dato corpo personaggi teatrali che, in qualche modo, si godono la vita anche attraverso il cibo: penso a Orson Welles e a Falstaff… In quello spettacolo, il rapporto di Welles con il cibo e la cucina era di carattere metaforico, perché il roast, a cui faceva riferimento il titolo (Orson Welles’ Roast), era riferito all’usanza, in voga tra i vip americani e inglesi, di celebrarsi mettendosi “sulla graticola”, cioè prendendosi in giro. Diverso è Falstaff, che ha soprattutto una passione smodata per il vino. Ci sono sicuramente degli elementi in comune fra teatro e cibo, la cucina è un’arte performativa, come testimoniano i

vari programmi televisivi, ma va fatto un certo sforzo creativo per farli convivere sulla scena. In questo senso, l’esperienza personale più riuscita che ricordo è uno spettacolo diretto da Giorgio Marini, tratto da un capitolo di Il libro di cucina di Alice Toklas intitolato La cucina come semplice arte del delitto, dove, lustrando mele con uno straccio, io, che interpretavo Gertrude Stein, e Carlos Martin, che era la Toklas, raccontavamo come avevamo acquistato una carpa viva e come poi l’avevamo assassinata e cucinata. Ci sono altri personaggi, legati alla passione per il cibo, che vorrebbe interpretare?


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Sono enormemente affascinato da Gargantua e Pantagruel di François Rabelais e prima o poi mi piacerebbe dedicarmici. Quando è nata la sua passione per il buon vino e la buona tavola? La passione per il buon vino ce l’ho nel dna perché sono friulano. E il cibo diventa un modo per accompagnare il vino giusto, non viceversa. Cucina? Sì. Soprattutto la carne, sia semplice alla griglia che piatti più elaborati. Mi piace sperimentare. Amo i libri di cucina intelligenti, che mescolano ricette a racconti di vita come quello appunto della Toklas, in cui la gastronomia si intrecciava alla biografia e alla sua lunga relazione con la Stein. Oppure La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene dell’Artusi, di cui non vedo l’ora di ascoltare l’audiolibro realizzato da Paolo Poli. Esperienze di vita d’attore in tournée: come se la cava col mangiare? Mangio sempre dopo lo spettacolo. Per questo apprezzo la misericordia dei ristoratori che non ti ricevono con la faccia di chi ti sta facendo un favore e magari non ti fanno trovare solo una pizza. Apprezzo anche molto l’orario, diffusissimo in Inghilterra, di fare spettacolo alle 19: lo considero civilissimo e dovremmo adottarlo più spesso anche in Italia. Tra l’altro potrebbe creare un indotto interessante, non solo per i teatri ma anche per i ristoranti. Ha mai fatto la fame? Sì, agli inizi della carriera. Ma fare la fame vent’anni fa era diverso che farla adesso. Adesso chi fa la fame la fa davvero: gli attori sono aumentati e il lavoro diminuito. Credo che nel teatro il problema della fame sia ben più grosso del problema della cucina! Cosa pensa della mania dei concorsi televisivi di cucina e degli chef superstar? Mi annoiano terribilmente e sono troppo crudeli. Amo di più i programmi di turismo gastronomico. Gli chef sono i nuovi vip, i nuovi divi, hanno scalzato attori e politici. È un male di cui soffriamo noi italiani: siamo tutti commissari tecnici della Nazionale di calcio, economisti e ora chef, basta procurarsi un’enciclopedia a fascicoli, dove magari, per cucinare un uovo alla coque, devi comprare mezzo chilo di tartufo. In generale, non mi sembra

interessante la “riproducibilità domestica”, in questo caso di un piatto o del mestiere di cuoco, ma quando una cosa o una persona diventano un punto di riferimento. Predilige le trattorie oppure i ristoranti pluristellati? Preferisco che i ristoranti dei grandi chef non diventino una consuetudine perché, se ti abitui a bere ogni giorno Brunello non va bene, né per il portafoglio né per le papille. Così come non va bene mangiare ogni giorno tagliatelle al ragù. Bisogna miscelare le due tipologie. Mi piace la filosofia di Davide Oldani, sono fan di Davide Scabin e di Filippo Lamantia, che non usa l’aglio e non fa i soffritti, ma farsi coccolare dagli chef è un’esperienza e va centellinata come un buon vino. Amo invece incondizionatamente la cucina del territorio, che mangi solo in loco e che sfugge alla globalizzazione. Perché la possibilità di reperire sempre gli ingredienti per un piatto, da ogni parte e in ogni momento, non significa che siano buoni.

Piatti preferiti? Nessuno in particolare. Dipende dai momenti, dal tempo, dal luogo… Mi dà un po’ fastidio la consistenza del fegato, ma mangio qualsiasi tipo di paté. Se non è roba cattiva o surgelati precotti, va bene tutto. Preferisco però mangiare prodotti di stagione, costano meno e hanno più sapore. Expo, nutrire il mondo: come la vede? Con un misto di curiosità e preoccupazione. Da un lato c’è l’Expo con l’esigenza di curare il mondo, dall’altra in Puglia, per esempio, hanno in progetto di espiantare un milione e mezzo di ulivi perché pensano di debellare così il parassita che li ha attaccati. Ma nessuno ne parla. Si tratta di ulivi secolari, di un patrimonio non solo alimentare, ma anche storico e artistico di un luogo che, senza quegli alberi, perderebbe la sua identità. Una tragedia. Sono curioso di vedere l’Expo di Milano. Spero che i contenuti non si fermino alla buona tavola, tutto il mondo sa quanto si mangia bene in Italia. I temi da affrontare sono ben più corposi. ★

Paolo Poli: «Credevo fosse il secolo del sesso, invece sono tutti in tv a spadellare» «Odio l’Artusi, il cibo e la cucina. Era taccagno e antipatico». Perché allora ha appena prestato la sua voce a un audiolibro per Emons? «È un libro, non una pastasciutta!». Soave e diabolico, come diceva la Ginzburg, Paolo Poli su quel sacro testo della cucina italiana (La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene) imparò a leggere. «Avevo cinque anni. Passavo molto tempo con la nonna, perché mia madre insegnava tutto il giorno. In cucina c’era l’Artusi da cui appresi, sillabando col ditino, che dal riso si facevano le frittelle di San Giuseppe. È stato un grande libro, molto utile e diffuso, si regalava a tutte le sposine. Per molte persone fu l’occasione di imparare l’italiano e a leggere. Prima dell’Artusi, con quelle caratteristiche, c’erano stati I promessi sposi e Pinocchio. Ma l’Artusi era più diffuso e ha contribuito a costruire l’identità degli italiani, non soltanto a tavola». Il cibo comunque non è mai stato in cima ai pensieri di Paolo Poli, e si vede: bello, elegante e dritto come un fuso con i suoi quasi 86 anni splendidamente portati. «Quando ero in scena, come il cane, mangiavo solo a mezzogiorno. A cena niente. Dopo lo spettacolo giusto un frutto prima di dormire». Alla voce “Cucina” di Alfabeto Poli (a cura di Luca Scarlini, Torino Einaudi, 2013) dice: «Le convivenze: meno male che il sale lo hai messo tu. Io metto prima l’aglio, poi il pomodoro lo metto a crudo. Per me c’è da impazzire. Credevo che il mio fosse il secolo del sesso, e invece è quello della cucina: quando guardo la televisione, ci sono sempre persone che spadellano». E aggiunge: «Nell’’800 si parlava di grandi matrimoni, di divorzi e di adulteri. In questo secolo pare esistano solo pentole e fornelli. Che palle!». Più che altro detesta l’enfasi di chi racconta le proprie gesta culinarie. «Che noia tutti questi che in tv si improvvisano chef. Sarà che io appartengo a una generazione che ha vissuto durante la Seconda Guerra mondiale, quando il problema quotidiano era la mancanza di cibo…». Claudia Cannella

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Mangiare in scena dal rito alla dissacrazione Dalla tragedia greca a Carmelo Bene, da Eduardo De Filippo a Harold Pinter e Rafael Spregelburd: metamorfosi di un topos teatrale che si perpetua nei secoli, mantenendo inalterati potere evocativo e valore simbolico. di Giuseppe Liotta

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opo Il crudo e il cotto (1964) di Claude Lévi-Strauss, come sostiene Jan Kott in Mangiare dio (1970), «non si può non essere colpiti dalla grande somiglianza fra il mito di Prometeo e i miti culinari conservati dal “pensiero selvaggio”». Insomma, i miti dialogano fra di loro, annullano le differenze di spazio e tempo, e impongono la loro simbologia diventando una curiosa e fertile maniera di interpretazione del teatro: dalla tragedia greca ai giorni nostri. Cuocere il cibo, bruciare le carni, mangiare, divinare, chiacchierare fin dal teatro delle origini è stato, in senso simbolico e pratico, un momento sempre importante, a volte centrale dell’azione drammatica e scenica, in cui la sua principale funzione risiede in «una attività di mediazione fra cielo e terra, vita e morte, natura e società». Come scrive Plinio nella Storia naturale, Prometeo insegnò agli uomini a mangiare la carne, e quindi anche a cucinarla. Se poi trasse in inganno suo padre Zeus, nascondendo sotto uno strato di grasso le ossa e riservando le parti migliori del

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bue ucciso agli uomini, pagò a caro prezzo il suo inganno, ma mostrò come dietro un buon piatto si possano nascondere infide menzogne e veleni mortali. Da Prometeo a Trimalcione E con tragico, inesorabile contrappasso, una leggenda di Prometeo ci narra che gli dei mandarono ogni mattina un’aquila sulle rocce del Caucaso dove il Titano, figlio di Zeus, era incatenato a nutrirsi col fegato di Prometeo destinato ogni giorno a ricrescere e perpetuare così il suo dolore: divorare ed essere divorati; questa la nuova legge che si impone alla tavola degli uomini e degli dei dell’Olimpo. Immagini e metafore culinarie, insaziabili appetiti alimentari, che tradiscono altresì un’inarrestabile fame sessuale, arricchiscono un linguaggio verbale che ha una sua duplice esigenza: arrivare in una maniera semplice e immediata al cuore dei problemi, e restituire quei fatti, quegli eventi narrati e rappresentati in una maniera chiara e intellegibile per tutti gli spettatori. Un vocabolario gastrono-

mico ricco di multipli sensi dentro i quali l’allegoria del cibo e del nutrimento fa tutt’uno col racconto tragico o l’apologo da commedia e ci interroga tuttora sulla loro intercambiabilità in una scena teatrale che si presenta inevitabilmente come cucina del sacrificio, spesso atroce e cannibalica, attraverso cui leggiamo in maniera facile, spontanea, direi quasi “naturale”, le relazioni fra gli uomini e le donne, e tra essi e il mondo che sta sotto e sopra di noi. C’è molto di rituale, di spaventevole, ma anche di burla e di sghignazzo in questo sfrenato e intenso piacere del cibo, sia nei testi tragici sia in quelli comici (negli Uccelli di Aristofane Pisetero propone ai volatili di fondare a mezz’aria una città per ridurre alla fame gli dei), dove si mettono insieme istanze mitiche e pratiche di vita quotidiana legate alla preparazione degli alimenti, in un’ambiguità costante di nutrimento del corpo e opzione trascendentale, religiosa, che impone un dualismo “famelico” di tensioni spirituali e desideri repressi. La tavola imbandita, diventata in tal modo il luogo della gioia e della sofferen-


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za, della verità e dell’inganno, della vendetta (Atreo che offre in pasto a Tieste i suoi figli, e gli dà da bere il loro sangue), si trasforma in quella sottile linea di demarcazione, nello stesso tempo concreta e immateriale, che separa i vivi dai morti, il divino dall’umano, il bene dal male, la fame dalla sazietà. Tutto ha il suo rovescio, ogni felicità ha la sua contropartita nel dolore. Se Prometeo, rubando il fuoco agli dei, ha condannato gli uomini a usare il suo calore per nutrirsi, Dioniso, un altro semidio, regala loro il potere dell’immaginazione, dell’ebbrezza irrazionale che, attraverso una bevanda, il vino, può tutto osare, e invita Penteo ad andare oltre il visibile, salire le pendici del Monte Citerone e posare lo sguardo su ciò che non poteva essere visto. Nel Prometeo di Eschilo e nelle Baccanti di Euripide troviamo dunque gli elementi costitutivi di una cultura materiale che trova nel mangiare e nel bere, nella messa in scena di atti gastronomici, un divenire del fatto teatrale, delle tecniche, della storia, e delle ideologie (politiche e religiose) della rappresentazione di straordinario interesse drammaturgico e scenico da essere tentati di scrivere una storia del teatro basata su un intreccio fra le arti della cucina e quelle del teatro nelle loro reciproche influenze. Naturalmente è sempre la donna a cucinare, sia che si chiami Elettra (Elettra di Euripide. «Contadino: Tu entra svelta e prepara quello che c’è. Molto di quanto occorre per un banchetto sa trovare, quando vuole, una donna».), o Prassagora (Donne in Parlamento di Aristofane. «Prassagora: Tu non avrai altra preoccupazione che di andare tutto allegro a cena»). Ma cosa mangiavano i greci? Pane, vino, cipolle, verdure, olive, carni, ma soprattutto pesce, lenticchie e fagioli – il cibo preferito da Eracle, come ci conferma Aristofane nelle Rane («Dioniso: Ti ha preso mai, all’improvviso, un desiderio di… fagioli?»; «Eracle: Fagioli? Hai voglia, da che campo!»). Nel teatro romano, e soprattutto in Plauto, sono frequenti scene di vita ordinaria con servi-cuochi che vanno a fare la spesa al mercato (Aulularia) e improvvisano pranzi in cui il richiamo all’ambito sessuale è scoperto e dichiarato, privo di ambiguità o sottintesi, in cui il senso combacia col suo “doppio senso”, senza riserva alcuna. Ma è nel Satyricon di Petronio Arbitro, il romanzo teatrale più importante della letteratura latina con la famosa cena in casa di Trimalcione, che il desiderio di cibo e l’appetito erotico sono accomunati da una medesima affinità verbale, men-

tre hanno la stessa funzione di soddisfare le esigenze primarie dei padroni come dei servi, senza opposizioni di classe: a ciascuno il suo piacere. Un trionfo di lussuria e opulenza culinaria a cui hanno attinto poeti, musicisti, artisti e drammaturghi nei secoli successivi per la “messinscena” del cibo non più solo intesa in termini di “sacrificio”, bensì come “festa”. A cena con Macbeth Superato l’anno Mille, dopo la lunga notte dei barbari conquistatori con i loro banchetti truculenti e re Alboino che beveva nel cranio dei suoi nemici, dalla seconda metà del Duecento

in poi l’arte della buona tavola e della cucina attenta ai profumi e ai sapori delle vivande si affermò alle corti dei principi, duchi e visconti che governavano le nostre città-Stato. Nelle Storie Milanesi del Corio si parla di un pranzo nuziale imbandito in un cortile del palazzo dell’Arenga di Milano il 15 giugno 1368 da Lionello Plantageneto, duca di Chiarenza, che si univa in matrimonio con Violante Visconti, ricchissimo di portate e impreziosito da una scenografia che più teatrale non poteva essere per i velari che addobbavano lo spazio a cielo aperto, per la magnificenza degli abiti indossati da dame e cavalieri invitati alle noz-

Per saperne di più Bibliografia Pellegrino Artusi, La scelta in cucina e l’arte di mangiar bene letto da Paolo Poli, audiolibro, Roma, Emons, 2014. l Davide Barbato (a cura di), Play with Food. La scena del cibo, Spoleto (PG), Editoria & Spettacolo, 2011. l Anthony Bourdin, Kitchen Confidential, Milano, Feltrinelli, 2005. l Renato Cuocolo e Roberta Bosetti, The Secret Room, Castello di Serravalle (BO), Le Ariette Libri, 2006. l Gerardo Guccini e Michela Marelli (a cura di), Stabat Mater. Viaggio alle fonti del “teatro narrazione”, Castello di Serravalle (BO), Le Ariette Libri, 2004. l Elena Guerrini, Bella tutta! I miei grassi giorni felici, Milano, Garzanti, 2012. l Elena Guerrini, Orti insorti, Viterbo, Stampa Alternativa, 2009. l Jan Kott, Mangiare Dio, Milano, SE, 1990. l Claude Lèvi-Strauss, Il crudo e il cotto, Milano, Il Saggiatore, 1995. l Filippo Tommaso Marinetti e Fillia, La cucina futurista, Milano, Viennepierre, 2007. l Massimo Marino (a cura di), Teatro da mangiare?, Castello di Serravalle (BO), Le Ariette Libri, 2003. l Sergio Secci, Il teatro dei sogni materializzati. Storia e mito del Bread and Puppet, Firenze, La Casa Usher, 1985. l Giancarlo Sissa e Stefano Massari, L’estate.fine, Castello di Serravalle (BO), Le Ariette Libri, 2004. l

Sitografia www.caluogodarte.com: sito di Cà Luogo d’Arte, la compagnia di teatro ragazzi con sede a Gattatico, in provincia di Reggio Emilia. l www.cetec-edge.org: sito del Centro Europeo Teatro e Carcere, da 15 anni impegnato in progetti di teatro e arte in Italia - in particolare a San Vittore - e in Europa. l www.cheptelaleikoum.com: sito del collettivo artistico francese di artisti del circo, noto per il suo Le Repas. l www.cooperativaestia.org: sito della cooperativa sociale E.s.t.i.a., attiva all’interno della casa di reclusione di Milano-Bollate. l www.cucinarramingo.it: tutte le informazioni - dalle date alla rassegna stampa - del fortunato spettacolo di Giancarlo Bloise. l www.cuochivolanti.it; www.playwithfood.it: il sito della società torinese di “cucinieri”-teatranti e quello del festival annuale da essi organizzato. l www.cuocolobosetti.org/www.iraatheatre.com.au: progetti passati e futuri, immagini e il “decalogo” per comprendere l’idea di teatro della coppia Cucolo-Bosetti. l www.elenaguerrini.it: tutte le informazioni per conoscere meglio l’attività dell’autrice-attrice maremmana. l www.escarlata.com: sito della compagnia spagnola di circo contemporaneo, erede di Leo Bassi. l www.teatroacorte.it: i cartelloni di tutte le edizioni del festival organizzato dalla torinese fondazione TPE diretta da Beppe Navello. l www.teatrodegliacerbi.it: sito ufficiale della compagnia teatrale astigiana. l www.teatrodelpane.it: tutte le attività dell’originale spazio, situato in provincia di Treviso, nato per coniugare buon cibo e buon teatro. l www.teatrodelleariette.it: biografia, spettacoli, le varie edizioni del festival A teatro nelle case, progetti futuri della compagnia con sede fra i colli bolognesi. l www.teatroinpolvere.it/teatrocucina.html: tutte le informazioni e le date della cena-spettacolo Teatro-Cucina. l www.terrenicreativi.it: sito del festival organizzato nelle serre di Albenga (SV) dalla compagnia Kronoteatro. l www.tizianadimasi.it: sito ufficiale dell’autrice e attrice che ha saputo, fra l’altro, unire cibo e legalità. l

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ze, per i musici che accompagnavano le svariatissime portate distribuite su due lunghe tavole, nella prima delle quali sedeva, fra gli altri gentiluomini, l’eximio poeta Francesco Petrarca, mentre nella seconda, riservata alle «honorande Matrone», la Regina Scaligera, Beatrice della Scala, per la presenza di numerosi paggi e paggetti che accudivano i commensali («cinquanta taglieri per tavolo»). Insomma, il banchetto e la cucina “fanno spettacolo” di sé, tanto che vengono chiamati ad assistervi come “spettatori” cittadini comuni, comparse di una “rappresentazione” tutta da vedere. Bisogna attendere il genio di Shakespeare perché la cultura alimentare entri a pieno titolo nella composizione drammatica, non soltanto da un punto di vista esornativo e scenografico, ma assolutamente funzionale all’azione teatrale. Un luogo deputato all’interno della scena dove fare convergere i momenti chiave, di svolta, dell’intera rappresentazione, come nella scena IV dell’atto III del Riccardo III dove, in attesa di andare a pranzo, fra la richiesta di un cesto di fragole e conversazioni subdole, Gloucester manda al patibolo il povero Hastings che, prima di lasciare la sala, pronuncia quelle terribili e profetiche parole che risuoneranno per l’intera tragedia («Hastings: Oh infelice Inghilterra prevedo per te i più tremendi giorni che sventurato secolo abbia mai visto»). E sempre, per una misteriosa simmetria drammaturgica, nella scena IV dell’atto III questa volta del Macbeth assistiamo a una delle scene più sconvolgenti del teatro elisabettiano: l’apparizione dello spettro di Banquo al banchetto dei diabolici coniugi assassini: («Lady Macbeth: Mio re, che aspetti a celebrare il brindisi? Un banchetto che non si concreta in brindisi frequenti e cordiali non è che un banchetto a pagamento. Mangiare si può anche a casa propria, ma qui l’ospitalità deve condire il pasto, o la festa è ben magra»). La cena come luogo di manifestazione

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del rimosso, demandata allo svelamento di un delitto, o alla sua attuazione. Pulsioni di piacere (gastronomico) che, alcuni secoli prima di Freud, vanno a coincidere con l’istinto di morte insito negli individui e che già il mito classico greco aveva esplorato e che nel Macbeth trova una sua corrispondenza nella pentola delle Streghe che ogni elemento legato ai riti sacrificali antichi contiene, dalla carne di serpente, al dente di lupo, alle interiora di tigre; («Le tre Streghe: Brucia fuoco, e tu pentola, scoppia»). Ma è nell’Amleto, atto V, scena finale del duello tra Amleto e Laerte, quando il re Claudio e Gertrude, Laerte e i gentiluomini al seguito si siedono intorno a una grande tavola piena di coppe e boccali di vino, per assistere alla cortese “partita d’armi” che si compie il binomio perfetto fra la festa e il suo esatto contrario, la morte. Fame e sazietà, Arlecchino e Tornaquinci I carri dei Comici dell’Arte erano pieni di vettovaglie e piccole attrezzerie da cucina (piatti, mestoli, forchette), perché quando il teatro esce dalle corti e gira per le strade si rivolge soprattutto a un pubblico popolare che, come scrive Vito Pandolfi, «riconosce sulla scena fatti e personaggi che gli sono molto vicini». Per queste persone il tema del cibo, della fame è un problema quotidiano, per cui vederlo rappresentato in forma di burla e di parodia diventa anche una maniera per esorcizzarlo: Arlecchino e Pulcinella, nella complicità che stabiliscono fra ciò che accade in scena e il pubblico che li sta a guardare, allontanano il flagello delle dilaganti carestie. Mentre più drammatico è il mondo contadino rappresentato nelle sue commedie da Angelo Beolco, detto il Ruzante, che associa alla miseria dell’ambiente in cui vivono i suoi personaggi anche il fallimento dei rapporti coniugali e dove ciò che dispiace di più al marito abbandonato dalla moglie non è tanto il tradimento subito, ma di avere la dispensa vuota («Bilora: Oh cànca-

ro, mo a me vezo pur impazò. A muoro de fame e sí a n’he pan, e sí a n’he gniàn dinari de comprarme. Mo almanco saesse on la stà e on el l’ha menà: che la pregherae pur tanto che la me darae un pezato de pan»). È con Molière, ma soprattutto con Goldoni, cioè con la presenza in scena della classe borghese, che apparecchiare in palcoscenico una tavola per mangiare si trasforma da rito quotidiano in strategia drammaturgica. L’avaro, atto III: «Arpagone (a Elisa): Tu avrai il compito più adatto ad una giovane figlia di famiglia. Terrai l’occhio ben aperto quando i servi sparecchiano, e controllerai che piatti e bicchieri tornino tutti al loro posto. Ma ora preparati a ricevere la mia futura sposa, che oggi verrà qui a farci visita...», col divertentissimo dialogo che segue fra Arpagone, Valerio e Mastro Giacomo dove la semplice organizzazione del menu per la cena manifesta, più che altrove, il carattere dei tre personaggi. Mentre in Goldoni le locande, le botteghe di caffè vengono elette a luogo unico e privilegiato dello svolgimento della vicenda, fino a promuoverlo a titolo di “commedia nuova”. Ma fa di più: mutua dal vocabolario culinario la nuova lingua di scena («Mirandolina: Uh, è cotto, stracotto e biscottato»), e nel dialogo dell’atto II, scena IV della Locandiera, fra Mirandolina e il Cavaliere, costruisce una finta scena di seduzione a base di vino di Borgogna, pane e due uova ben cotte; assolutamente moderno e geniale quando decide di fare ruotare tutta la vicenda delle Baruffe chiozzotte intorno a una “zucca arrostita” (come, peraltro, farà dopo col “ventaglio”). E se Voltaire per dissacrarne il mito patriottico e religioso colloca le imprese cavalleresche della Pucelle d’Orléans (1730) più fra pentole e fornelli che sui campi di battaglia, dobbiamo aspettare la fine del secolo successivo con l’Ubu roi (1896) di Alfred Jarry per leggere un testo altrettanto irriverente dove, fin dalla seconda scena dell’atto I, che rappresenta una “splendida tavola” imbandi-


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ta, assistiamo al capovolgimento di una situazione da “eroica” a “comica” che contrassegna, fin dall’inizio, l’intera commedia. Come accade, in un versante invece decisamente tragico, con la Cena delle beffe (1909) di Sem Benelli. Fin dalla prima battuta del Tornaquinci, si chiarisce che parte proprio da una “cena” l’intrigo principale di questo “poema beffardo” di vendetta e di morte («Tornaquinci: Disponete che tutto sia per bene; voglio che questa cena si rammenti (…). Giannetto: Una cena per ogni pugnalata»). Stomaci borghesi È interamente ambientato dentro una bettola il “dramma grottesco” in un atto Al pappagallo verde (1899) di Arthur Schnitzler (autore anche di un testo teatrale che ha per titolo Cena d’addio) che si svolge a Parigi la sera del 14 luglio 1789, proprio il giorno della Rivoluzione: ma questo luogo convenzionale, secondo Luca Ronconi che lo ha messo in scena col Teatro Stabile di Genova nel 1978, «non è che una realtà apparente (il palcoscenico del teatro di Prospère che raddoppia la natura del ruolo di ogni personaggio). Così l’indicazione della bettola come luogo d’azione è descrittiva solo di una delle modalità delle apparenze che il palcoscenico può rappresentare». Uno spazio che comunque diventa sempre più drammaturgicamente importante, se non decisivo, nelle opere degli autori fra ’800 e ’900, come August Strindberg che nella sua Signorina Julie (1889) ambientata in «una grande cucina» costruisce una sorta di permanente “controcanto” scenico, di visione “dal basso” della vicenda rappresentata, senza la quale questa “tragedia naturalistica” resterebbe soltanto l’infelice storia di seduzione e di morte fra un servo e la sua capricciosa Contessina. Acquisito alla scena del dramma borghese, il teatro del cibo aveva già trovato nelle farse di Antonio Petito e nella sceneggiata napoletana di Eduardo Scarpetta un terreno, come dire, naturale di gioco scenico e vitalità espressiva assolute: Miseria e nobiltà, rimane, in questo senso, un capolavoro di intrecci comico-sentimentali e gastronomici inarrivabile. Dall’esibizione di piatti fumanti e cibarie in scena alla descrizione delle varie ricette il passo fu breve, complice il Manifesto futurista di Filippo Tom-

maso Marinetti, nel 1932, intitolato La cucina futurista, un vero e proprio manuale di cucina con tante ricette e suggerimenti per l’uso. La cucina, la sala da pranzo, insomma, prendono il posto del “salotto” come luogo privilegiato della conversazione teatrale. «Al levarsi della tela, Leone Gala, con berretto da cuoco e grembiule è intento a sbattere con un mestolino di legno un uovo in una ciotola. Filippo ne sbatte un altro, parato anche lui da cuoco. Guido Venanzi ascolta, seduto». Siamo all’inizio del secondo atto del Giuoco delle parti di Luigi Pirandello, uno sbatter d’uova diventa un’allegoria manifesta dell’animato e “montante” dialogo fra i due personaggi. Ma l’esempio più efficace l’abbiamo in Sabato, domenica e lunedì di Eduardo De Filippo quando, all’inizio della commedia, Donna Rosa insegna alla cameriera Virginia come si prepara il ragù. Ma il pranzo è destinato a diventare in scena una sofisticata “tecnica drammaturgica” che occuperà l’intero arco della rappresentazione come in Metti, una sera a cena (1984) di Giuseppe Patroni Griffi, nel Lungo pranzo di Natale (1931) di Thornton Wilder, e A cena con le ombre (1978) di Giorgio Celli. Le dispute culinarie sono argomento di dialogo anche in tempi di guerra come accade fra il cuoco dell’esercito svedese e Madre Courage nel dramma Madre Courage e i suoi figli (1939) di Bertolt Brecht che peraltro definisce «culinario» il teatro di tradizione, opponendogli il «teatro epico», e i protagonisti della commedia di Boris Vian Generali a merenda (1951), ingordi e pasticcioni come bambini cresciuti troppo in fretta. La cucina come sfida alle possibilità tecniche della scena teatrale la offrono i drammaturghi della scena inglese degli anni ’60. Arnold Wesker, primo fra tutti, con La cucina (1959) e presente con titoli da menu di ristorante: Brodo di pollo con orzo (1961), Patatine di contorno (1962). I grandi temi filosofici e sociali tradotti in un linguaggio semplificato di facile comunicabilità. Wesker: «Una delle ragioni per cui The Kitchen ebbe tanto successo fu che venne scritta quando la mia esperienza del teatro era ancora molto limitata, e non c’era nessuno al mio fianco a dirmi che (…) non si può mettere un forno in scena, e via dicendo». Anche Pinter intreccia, con una sensibilità te-

atrale più avvertita e densa, temi universali e pratiche di vita quotidiana legate al cibo. Il compleanno si apre con la colazione a base di fiocchi d’avena che Meg ha preparato al marito Petey e si chiude sempre con Meg in attesa che Stanley scenda dalla sua stanza («Meg: Sarà in ritardo per la colazione»), mentre nel Calapranzi Ben e Gus si fronteggiano scambiandosi piatti, patatine fritte, biscotti all’interno di un ristorante in cui come dice Gus «con tre fornelli soli c’è poco da cucinare per un posto come questo», intanto che il calapranzi continua il suo metafisico e inquietante saliscendi. Un pasto “sacrificale” è invece quello che induce il personaggio di Anna Cappelli dell’omonimo, ultimo testo teatrale (1986) di Annibale Ruccello a mangiare pezzo per pezzo fino a morirne il suo amante dopo averlo ucciso e cotto: un monologo macabro, cannibalico, da rituale primitivo, espressione della quieta follia domestica di un personaggio da tragedia greca che mangia l’altro (non più dio) per appagare un desiderio di indissolubile e definitiva unità e intima completezza (Anna Cappelli: «Questo è un atto d’amore… Ti mangio… Sì, ti mangio… Ti mangio tutto…»). E intorno al tavolo di una cena familiare si consumano i rancori, i rimorsi, gli odi, le violenze di due genitori e due figlie in Autunno e inverno (1989) di Lars Norén, come accade al Ristorante nell’irrealtà del sogno di Luca in Lucido di Spregelburd, a testimonianza del fatto che mangiare in scena è un rito che, pur declinato in maniere diverse – penso agli spettacoli del Bread and Puppet e a quelli di Carmelo Bene, soprattutto ad Arden of Feversham con la strepitosa lettura che fa di un brano della cucina di Elle di Roland Barthes – non muore mai: anzi fa bene al teatro, ne è forse il suo ingrediente più elaborato e richiesto, ma anche molto delicato da usare. Non è forse «il pranzo è servito» la battuta più difficile da pronunciare per un attore? ★

In apertura, una scena di Miseria e nobiltà, di Eduardo Scarpetta, regia di Eduardo De Filippo; a pag. 46, rielaborazione grafica di Mariangela Martellotta di immagini ispirate al Manifesto della Cucina Futurista e Arlecchino servitore di due padroni, regia di Giorgio Strehler (foto: Luigi Ciminaghi).

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Cibo e teatro dagli anni Ottanta a oggi un excursus quasi antropologico Riproposta di rituali antichissimi ovvero riscoperta dei ritmi e delle consuetudini della vita dei campi, il cibo è stato un poliedrico ma costante protagonista del teatro italiano degli ultimi quarant’anni. di Gerardo Guccini

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arcellizzato, marginale, misconosciuto al livello delle sue umili eccellenze, il teatro contemporaneo ha riscoperto la necessità di attivare alla base le forme di partecipazione collettiva che gli consentono di esistere. Obiettivo che lo porta a coinvolgere nella sfera degli intrattenimenti culturali e ludici, che gli competono, la complessa filiera dei riti collettivi. Fra questi la condivisione del cibo ricopre un posto importante. Il consumare assieme un cibo o una bevanda rafforza, infatti, negli spettatori la consapevolezza d’essere, non solo un insieme di individui interessati all’evento scenico, ma una comunità di tipo particolare: relativa, effimera, parziale, che alimenta e incanala la pulsione a esistere in stato di compresenza attiva. Preparato o consumato in ambito scenico, il cibo sospende la finzione drammatica e precipita parole e gesti al centro d’una ideale cerchia d’attenzione, dove prendono talvolta

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forma, come emergendo da necessità censurate, rituali di coesistenza fra vivi e morti, che possono apparire nuovi perché antichi, premoderni, rimossi. Incominciamo con ricordare Stabat Mater (1989): uno spettacolo che veniva recitato nelle case, previo accordo con i proprietari, o comunque in luoghi extra-teatrali. Tre attrici, Laura Curino, Mariella Fabbris e Lucilla Giagnoni accoglievano il pubblico facendolo accomodare e parlando con ogni spettatore. Poi, una dopo l’altra, raccontavano storie familiari e del proprio personaggio. L’ultima narrazione, fatta da Laura Curino, veniva incorniciata dalla preparazione di un caffè d’orzo, che veniva infine offerto agli spettatori, che, tenendo le tazzine in mano, non potevano applaudire. Accompagnate dal regista Roberto Tarasco, le tre attrici viaggiavano per l’Italia chiamandosi coi nomi di Demetra, Fosca e Gaia, vestendo le vesti di scena e col-

tivando le sovrapposizione fra immaginario drammatico e vivere quotidiano. Le loro storie ruotavano intorno alle vicende di Benedetta, la madre morta dei tre personaggi. Così, fra relazioni immediate, brevi dialoghi, battute improvvisate e racconti, l’incontro assumeva gradualmente il carattere di una veglia rituale, al cui centro la vita trascorsa di Benedetta, madre inesistente di tre sorelle di finzione, veniva rievocata dal ricordare – tutt’altro che fittizio perché fondato sulla coesistenza fra persona e personaggio – delle tre attrici. Stabat Mater e il suo caffè d’orzo anticipano modalità che si sarebbero poi ampiamente diffuse. Da un lato, il narrare variamente immedesimato delle “tre sorelle” apriva la strada ai coinvolgimenti tragici del “teatro di narrazione”. Dall’altro, il rapporto diretto col pubblico disgregava la frontalità scenica a favore di una impostazione ritualistica e conviviale, che possiamo considerare “pre” o “postdramma-


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tica” a seconda che la si consideri in condizione di attesa o di superamento rispetto all’individuazione di un dramma da rappresentare. L’offerta di alimenti – si tratti del caffè di Stabat Mater o dei panini che il gruppo americano Nature Theatre of Oklahoma distribuisce agli spettatori a inizio spettacolo – sposta l’asse della performance dall’orizzontalità della forma spettacolare alla verticalità delle relazioni dirette. E cioè, come afferma HansThies Lehmann, viene «a stabilire [...] un rapporto comunitario in cui si esperi[sce] qualcosa insieme agli attori». Fin dagli anni Sessanta, il cibo accompagna la ricerca di radici comunitarie su cui fondare il senso dell’attività teatrale. Leggiamo nei programmi di Peter Schumann, fondatore, nel 1960, del Bread and Puppet Theatre: «Noi a volte vi diamo un pezzo di pane assieme allo spettacolo di marionette perché il nostro pane e il nostro teatro stanno bene insieme». Tuttavia, il successivo “teatro popolare di ricerca”, che si verifica a partire dagli anni Ottanta, presenta, specie in Italia, caratteristiche proprie. In esso, infatti, l’offerta di alimenti o l’atto di mangiare in scena si integrano a un bisogno, più o meno esplicitato, di afferrare l’assente, captando in reti di azioni concrete e di esperienze condivise, le ombre che s’affollano nel vivere individuale e collettivo. A pranzo con i vivi e i morti Nel “teatro di narrazione”, il tema dei rapporti rituali con mondi “altri” viene esplicitato da Ascanio Celestini. In Vita, morte e miracoli (1999) la veggente Mariona partecipa a un pranzo di morti. Qui i trapassati chiedono qualcosa da mangiare ai vivi e offrono a loro volta cibo, minacciando però di inghiottire chi se ne serve. Dicono a Mariona: «Mò hai magnato te, adesso magnamo noi». L’anno prima, nello spettacolo Cicoria (1998), Ascanio Celestini e Gaetano Ventriglia avevano messo in scena il viaggio verso Roma di due personaggi di morti, padre e figlio. La situazione si risolveva in un’alternanza di racconti culminanti nella scoperta che tanto il mutuo scambiarsi storie che il viaggiare assieme servivano uno stesso scopo: svelare gradualmente al figlio la sua nuova condizione di trapassato. Dello spettacolo, a restare indelebilmente impressa nella memoria di critici e spettatori – ne parlano pressoché tutte le recensioni – è un’umile cipolla che veniva tagliata e mangiata dai due attori. Narrato o mangiato, il cibo

incardina il teatro di Celestini al rapporto rituale coi morti. Rapporto ribadito dalla scelta registica di Beppe Rosso che, nel 2013, colloca i racconti e i dialoghi, che costituiscono la composita drammaturgia di Attenzione alle vecchie signore corrose dalla solitudine di Matei Visniec, all’interno d’un pranzo che si svolge nell’ex cimitero di San Pietro in Vincoli a Torino. Gli spettatori dell’evento ideato da Rosso pranzano, dunque, vicino alle tombe. Vale a dire, nel «solo luogo dove – scrive Genet – si possa costruire un teatro». L’autobiografia è in tavola Diverse le motivazioni di partenza e le dinamiche creative del Teatro delle Ariette, fondato nel 1996 da Stefano Pasquini e Paola Berselli. Questa originale realtà condivide col pubblico il vivere dei due attori/artefici, che coltivano la terra e allevano animali e, con le stessa concretezza artigiana, realizzano spettacoli intrisi di un intimo rapporto col mondo naturale. Lo spettacolo che li ha rivelati è Teatro da mangiare? (2000): un pranzo teatralmente ritmato da densi racconti autobiografici che ha toccato le seicento repliche. Qui vorrei, però, ricordare la seconda versione di L’estate.fine, che, nato come spettacolo itinerante nell’ambito del Festival di Santarcangelo del 2004, attraversava un terreno agricolo di seimila metri quadrati. In seguito, però, tale drammaturgia processionale è stata riformulata a misura di ambienti circoscritti e unitari. Ricordo la rappresentazione nel teatro/granaio delle Ariette. Le pareti erano interamente tappezzate di carta rossa, mentre al suolo spiccavano gialli mucchi di grano. Lo spettacolo aveva ridotto i riferimenti alle feste agrarie, alle processioni, alla Pasqua, trasformandosi da rievocazione di miti laicamente condivisi in celebrazione di un mito personale: il racconto di Paola Berselli sulla perdita della madre. Nella prima versione questo episodio concludeva il percorso dello spettatore. Qui, invece, la contrazione spaziale faceva sì che la ciclicità del mondo naturale entrasse in drammatico conflitto con l’irreversibilità tragica delle perdite umane.

zialità e la cultura della vita dei campi nella Maremma di qualche decennio fa, quando a fare le persone era il lavoro a tu per tu con le piante, le stagioni, il terreno, e non il flusso di immaginari mediatici che inducono nuovi e insensati bisogni. Anche qui il mondo rurale viene veicolato dai ricordi d’un morto: il nonno della narratrice. Si tratta, però, di un morto allegro, che non vuole tornare né venire pacificato, e, indifferente al senso rituale del cibo, narra le sue accortezze per accudire e proteggere l’orto. A partire da questo spettacolo, Elena Guerrini ha sviluppato in diverse direzioni il connubio fra alimenti e teatro. Da un lato, a Orti Insorti è seguito Bella tutta (2009), un graffiante atto d’accusa contro il “fascismo estetico” che sottomette il corpo femminile ai modelli imposti dalle industrie della cosmesi e dell’abbigliamento. Dall’altro, il ritrovato mondo rurale dell’infanzia è diventato, a Manciano, protagonista e contesto del festival “a veglia e a teatro col baratto”, dove Elena Guerrini sperimenta nuove forme di imprenditoria teatrale retribuendo gli artisti – anche quando si chiamano Marco Paolini – con i prodotti del luogo. Gli stessi che riceve come pagamento agli spettacoli. Il cibo connette il teatro del racconto alle sue origini conviviali. Queste riemergono anche nei Trebbi organizzati dall’attore/narratore Luigi Dadina prima nella pineta di Classe poi,

La riscoperta della campagna Al rapporto fra spettacolo e pratiche della coltivazione si rifà anche Orti Insorti. In giardino con Pasolini, Calvino e il mi’ nonno contadino (2008) di Elena Guerrini. Spettacolo che offre agli spettatori semi di basilico e fette di pane intinte nel vino, rievocando l’essen-

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a partire dal 2014, a Lido Adriano. Nella sala di una moderna casa della cultura vengono dapprima rappresentati spettacoli, mentre all’esterno, visibili dalle finestre ai lati della scena, maestri grigliatori arrostiscono carni e verdure; segue la cena in un’atmosfera satura di odori; infine ci si dispone intorno a ospiti ogni sera diversi, che raccontano variegate esperienze inerenti il tema dell’incontro. La messa-in-vita delle pratiche conviviali del passato intercetta le dinamiche percettive del «teatro rasico». Nozione coniata dall’antropologo Richard Schechner per indicare una ricezione scenica accompagnata, oltre che dall’esercizio della vista e dell’udito, anche dalla degustazione e dal processo digestivo: rasa (“sapore”) è una delle nozioni cardine del celebre trattato Natya-Sastra che la giustappone a bhava (“emozione”). Modello per eccellenza del «teatro rasico» è il teatro classico indiano, «che permette allo spettatore di “assaporare” le emozioni, di “gustarle” quasi alla stregua di cibi (e “insieme” ad essi)» (Marco De Marinis). Decisamente “rasici” sono anche il rinascimentale teatro dei banchetti e, ai giorni nostri, gli spettacoli dell’artista e antropologo colombiano Enrique Vargas, che affronta il tema del vino in Memoria del vino o i giochi di Dioniso (2000) e in Fermentación (2012). In quanto atti necessari alla vita, il nutrirsi e il bere pervadono i rituali comunitari, le narrazioni effettuate al loro interno, la letteratura d’argomento conviviale e, a partire da queste distinte polarità (concrete, orali, testuali), le stesse pratiche sceniche.

Se la televisione entra in cucina Tuttavia, l’attenzione del teatro contemporaneo per il cibo risponde anche a diversi modelli e suggestioni. Il continuo intensificarsi di programmi televisivi dedicati a gare fra cucinieri o aspiranti maître (ricordiamo almeno il pioneristico La prova del cuoco), a operazioni di salvataggio di ristoranti in crisi (Hell’s Kitchen) e a esibizioni di maestri pasticcieri (Cake boss e Il re del cioccolato), ha infatti influenzato la mentalità dell’individuo sociale, facendogli percepire le funzioni inerenti il cucinare in quanto parti di una sorta di teatro mediatico provvisto di abilità, appassionanti contenuti agonistici, ruoli – l’aspirante e il maître, il ristoratore fallito e quello di successo – e caratteri – Gordon Ramsay, Buddy Valastro ecc. Reagendo a tale fenomeno, il teatro contemporaneo ha inscritto le performance culinarie in dinamiche rappresentative che arricchiscono le modalità sceniche con l’invenzione di originali “format dal vivo”. Più che di un filone, si tratta di una costellazione di esperienze che ruota intorno a due tipologie fondamentali: il convivio e la narrazione. Teatro-Cucina. Intrattenimento conviviale in cinque portate e due atti è in repertorio dal 2001. Firmato da Elisabetta Faleni e Valentino Infuso, lo spettacolo vede la collaborazione del cuoco Davide Oldani e di diversi attori. Concentrato nella dimensione dell’one man show è invece CucinarRamingo di Giancarlo Bloise, opera che ricava da eterogenee esperienze una nuova figura professionale di “Narra-Attore-Cucinante”. Ancora diverso il caso del “teatro civile-gastronomico” di Tiziana Di

Masi, che integra cibo e problematiche sociali, coinvolgendo personalità del calibro di Don Luigi Ciotti e Giancarlo Lucarelli. Quando è l’attore a mangiare Nel vario rinnovarsi del teatro del cibo, l’attore che mangia costituisce un’identità refrattaria al gioco di rispecchiamenti con le soluzioni mediatiche. Il cibo fa agire la bocca in funzione d’una introiezione materica di senso contrario al movimento del parlare: inghiottito, attiva la parte nascosta della persona, rigettato, esibisce una vergognosa sostanza che è già quasi corpo, pronta a venirne assimilata o espulsa. Rispetto alle crude matrici popolari della Commedia dell’Arte – dove l’ingurgitare è spesso oggetto d’attrazione –, il teatro di parola è stato, per l’attore, anche un recinto a difesa del corpo. Ma, continuamente, il teatro aspira a possedere totalmente le proprie componenti umane. E perciò reclama il sacrificio dell’attore. In mPalermu (2001), lo spettacolo che ha rivelato Emma Dante, c’è una scena chiamata La piccola abbuffata. Durante il suo svolgimento Giammarco – l’attore Sabino Civilleri – ruba velocissimo tutti i dolci dei compagni, «li ammucchia, li mischia, li comprime in un’unica massa molliccia e si prepara a sbranarli». La didascalia prosegue descrivendo questa frenesia alimentare: «Si allenta la cravatta, tende le gambe, butta il culo in fuori per non sporcarsi il vestito e ficca la faccia nell’amalgama di crema ricotta cannella cioccolata crosta dura e canditi. Poi vomita e piange». Il teatro di Emma Dante nasce dall’interazione con gli attori: è un esperire in cerca di dramma. Così, durante le prove, La piccola abbuffata venne ripetuta per molti giorni, finché Civilleri, soffocato dal cibo e tormentato da un’infezione alla trachea, chiese di poter bere. Richiesta che suggerì a Emma Dante di mettere in azione un bidone che si trovava nell’ambiente delle prove. Nasce così la scena dell’acqua: tutti gli attori si mettono in fila per ricevere una razione distribuita da Mimmo (l’attore Gaetano Bruno), poi dalla distribuzione si passa allo scialo, gli attori si bagnano e si spogliano restando nudi. A fungere da cerniera fra l’uno e l’altro momento, una battuta detta con un filo di voce da Sabino Civilleri – stilizzazione e residuo della sua timida, ma scatenante richiesta d’acqua: «Haiu siti!». ★ In apertura, una scena di mPalermu, di Emma Dante; nella pagina precedente, un’immagine da Attenzione alle vecchie signore corrose dalla solitudine, di Matéi Visniec, regia di Beppe Rosso; in questa pagina, Elena Guerrini in Orti insorti.

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Expo e teatro milanese un matrimonio a metà Il cibo, tema cardine di Expo, appassiona poco le sale meneghine, che rispondono al mega-evento del Cirque du Soleil con spettacoli di sicuro appeal commerciale oppure con la chiusura. di Sara Chiappori

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poco più di un mese dal fischio di inizio, il calendario teatrale dei sei mesi di Expo a Milano arranca in stato confusionale. Dovevamo essere il centro del mondo, rischiamo di confermarci periferia. Com’è noto, lo spettacolo ufficiale sarà quello del Cirque du Soleil, Allavita!, appositamente commissionato alla multinazionale canadese, in scena dal 6 maggio al 23 agosto, all’Open Air Theatre da 12.000 posti allestito tra i padiglioni di Rho Fiera. Costo dell’operazione 8.415.000 euro, mugugni a non finire, ma tant’è. Il resto è autogestione, nessuno stanziamento speciale di fondi pubblici (tampona in parte un progetto di Fondazione Cariplo), stagioni che si allungano senza troppo slancio fino a estate inoltrata e una costellazione di eventi più o meno interessanti all’insegna del “si fa quel che si può”. A tenerli insieme è il calendario di “Expo in città”, il palinsesto inventato dal Comune a costo zero per dare quanto meno supporto organizzativo e promozionale. Per il loro evidente ruolo istituzionale, Scala e Piccolo Teatro hanno previsto una programmazione straordinaria non stop da maggio a ottobre: il Piermarini aprirà Expo il 1° maggio con la Turandot diretta da Riccardo Chailly (già sold out, per quanto funestata da minacce sindacali), mentre il Piccolo spingerà con le sue tre sale e 300 appuntamenti, tra cui la ripresa dell’ultimo capolavoro di Ronconi, Lehman Trilogy (maggio) e di Odyssey di Bob Wilson (ottobre), la Carmen di Martone (mag-

gio), l’immancabile Arlecchino, le marionette dei Colla, il dittico bergmaniano dell’olandese Ivo van Hove. Spulciando gli altri cartelloni, balza all’occhio un sostanziale disinteresse per il tema del cibo, parola chiave di Expo (Nutrire il pianeta, energia per la vita). Se ne occupa qualcuno, qua e là. All’Out Off recuperano il corrosivo Note di cucina di Rodrigo Garcia con la regia di Lorenzo Loris, all’Oscar Eugenio Allegri firma Magna Italia! The Eatable True Story of Italian Comedy, ovvero una satira del Belpaese tra commedia dell’arte e truffe alimentari. E se Maggie Rose in collaborazione con l’Università Statale propone il progetto Exposhakespeare and Food sulle tracce del Bardo erborista e ambientalista, in quasi polemica con il tema del cibo si mette il Crt squadernando la rassegna “Feed the eyes, feed the ears, feed the mind”. Programmazione intensa, la loro, anche perché il Teatro dell’Arte è incorporato nel palazzo della Triennale, dove si svolgerà la megamostra Expo Arts and Foods curata da Germano Celant (altro vespaio di polemiche) e non sarebbe stato carino abbassare il sipario. Alle faccende gastronomiche in senso stretto riserva qualche appuntamento (un progetto sull’olio della compagnia di danza Sanpapiè, uno sul vino a cura di Daniele Abbado e Giovanna Bozzolo), ma le vere star si muovono a piede libero: Bob Wilson e Mikhail Baryshnikov con Letter to a man, dedicato a Nijinsky, il grande ritorno di Maguy Marin a Milano dopo anni di inspiegabile assenza, Alvis Herma-

nis con Black Milk, Tim Robbins (titolo da definire). Diversa la politica dell’Elfo, che a fronte dell’assenza di finanziamenti e progetti precisi, chiude con l’estate e riapre in settembre per il festival di danza MilanOltre, mentre al Parenti, dove fervono i lavori del cantiere per la riapertura in giugno della ristrutturata piscina Caimi, che farà della sala di via Pier Lombardo il primo teatro con centro balenare d’Europa, sono allo studio diverse ipotesi, ma niente è deciso. C’è chi poi risponde al Cirque du Soleil innalzando un piccolo chapiteau in pieno centro (alla Palazzina Liberty), come farà il Teatro Menotti con il Circo El Grito. Sul fronte dell’entertainment, le sale specializzate nel genere si attrezzano con titoli sicuri e molte riprese: al Nazionale vedremo gli Stomp e i Momix, al Teatro della Luna il Pinocchio con le musiche dei Pooh, al Manzoni Priscilla e al Nuovo Jesus Christ Superstar con il cast originale capitanato dall’arzillo Ted Neely, mentre l’Arcimboldi conferma la sua doppia anima ospitando i concerti della Filarmonica della Scala e il kolossal di Michele Guardì dai Promessi sposi. Chiudiamo questa rapida e non molto entusiasmante ricognizione con l’appuntamento che ci piace di più, Eresia della felicità del Teatro delle Albe. Nato per il festival di Santarcangelo, arriva a Milano grazie a Olinda, dal 21 al 26 luglio. Ancora da stabilire la location, probabilmente il Castello Sforzesco. Sarà bello, nei giorni di Expo, vedere 200 adolescenti dare l’assalto, con Majakovskij, al cuore di Milano. ★

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Con la bocca piena e la pancia vuota: di brindisi, veleni e d'altri pranzi...

Dal «cioccolatte» della Serva padrona alle spine di pesce di Yvonne, princesse de Bourgogne nel melodramma è tutto un narrare di fame e di sete, di ultime cene e di brindisi fatali, di profumi d’arance e di sospiri di panna montata… Con alcuni ritratti indimenticabili, su tutti quello di Falstaff evocato da Verdi. di Giuseppe Montemagno

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appena entrato in scena Uberto, stizzoso e stizzito protagonista della Serva padrona di Giovanni Battista Pergolesi. Nell’anticamera della sua dimora, «non interamente vestito» pur avendo fretta d’uscire, attende la cameriera che tarda a servirgli la prima colazione: «son tre ore che aspetto, e la mia serva/portarmi il cioccolatte non fa grazia.» Il primo recitativo dell’atto di nascita dell’intermezzo per musica (Napoli, Teatro San Bartolomeo, 1733) mette al centro dell’azione il controverso rapporto con un alimento, goloso pretesto per il primo contenzioso di un padrone impaziente con la sua servetta impertinente. Certificato di uno status sociale difficilmente conquistato, il «cioccolatte» allieta infatti le giornate dei personaggi

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più abbienti, ma lascia a bocca asciutta quelli «in basso stato»: quasi sessant’anni più tardi, un’altra cameriera, la Despina del Così fan tutte di Mozart e Da Ponte fa la sua comparsa affannata e affamata: «È mezz’ora che sbatto; /il cioccolatte è fatto, ed a me tocca/restar ad odorarlo a secca bocca?» Molto prima dell’opera seria, il genere buffo mette in scena uno dei peccati capitali dell’uomo, la gola, e il controverso rapporto con il cibo. Servi voraci e gentiluomini satolli sono solo il punto di partenza di un percorso lungo e articolato – e di cui quindi è impossibile dar conto in maniera esaustiva – durato ben quattro secoli, tanti quanti ne intercorrono tra La serva padrona e il rabelaisiano banchetto finale di Yvonne, princesse

de Bourgogne (2009), “commedia tragica” su libretto di Luc Bondy – dall’omonima pièce di Witold Gombrowicz – e musica di Philippe Boesmans: opera nella quale tutti vogliono uccidere la protagonista ma nessuno si vuole sporcare le mani. Ci penseranno le spine del pesce persico a soffocare l’ingorda, famelica principessa: oscuro oggetto del desiderio, il cibo è vita ma anche morte, o quanto meno fosca, inascoltata premonizione della fine. L’ultima cena di Don Giovanni Ma conviene rimanere a Mozart – un passo indietro rispetto a Così fan tutte – per svelare uno dei tratti fondamentali del rapporto con l’alimentazione. Il finale ultimo del Dissoluto punito ossia il Don Giovanni (1787) ha luogo


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infatti in una «sala illuminata in casa di Don Giovanni», dove «una mensa è preparata per mangiare». L’ultima cena del libertino è l’occasione di innumerevoli, sapidi calembours legati alla ricca libagione: il «piatto saporito» ammicca ad esempio a Teresa Saporiti, prima interprete del ruolo di Donna Anna, mentre l’«eccellente marzimino» è un omaggio al vino trentino prediletto dall’abate Da Ponte, librettista dell’opera. Ma dietro la maschera del sorriso si cela la tragedia ormai imminente, e non solo a causa del sopraggiungere dell’unico invitato al banchetto, il “convitato di pietra”, la statua del Commendatore ucciso sin dalla prima scena dell’opera. Personaggio ambivalente e complesso, quest’ultimo infatti da sempre è stato considerato come la personificazione di Leopold Mozart, scomparso proprio nell’anno della composizione dell’opera, invadente padre-padrone che, se da un lato aveva fatto la fortuna del musicista in tutte le corti europee, dall’altro ne aveva pesantemente condizionato l’esistenza. La lettura psicanalitica di Otto Rank, opportunamente sviluppata da Mara Lacchè, ha sottolineato come proprio la presenza del “sarcofago” (dal greco: la pietra che mangia la carne) del Commendatore costituisca un cupo annuncio della fine: ennesima replica del mito di Chronos che divora i suoi stessi figli, «immagine della gola mostruosa dell’inferno, della morte divoratrice dei vivi.» Il «lezzo immondo» percepito da Donna Elvira nell’entrare in scena è, dunque, foriero di quella decomposizione che di lì a poco divorerà le carni del dissoluto, e che finirà per coinvolgere il suo perverso legame al cibo e all’eros, viatico per la libertà rivendicata sin dalla fine del primo atto. «Non si pasce di cibo mortale/chi si pasce di cibo celeste» è l’ultima, accorata ammonizione del Commendatore, immolato in vita e oltraggiato dopo morto dal banchetto sacrilego di Don Giovanni. Minacciose, infernali lingue di fuoco già si levano all’orizzonte, pronte a incenerire il «giovane cavaliere molto licenzioso»: sarà cotto a puntino? Una forma ottocentesca: il brindisi Non di solo cibo vive l’uomo melodrammatico: e per questo non è raro che innalzi il calice per brindare. Forma prediletta du-

rante tutto il corso dell’Ottocento, il brindisi è evento collettivo e, come tale, propizio a un frequente uso teatrale: intonato stroficamente da uno o più personaggi, viene solitamente ripreso dal coro, che prontamente si unisce ai voti di chi festeggia. Spetta probabilmente a Maffio Orsini, paggio en travesti della Lucrezia Borgia (1833) di Gaetano Donizetti, la definizione non soltanto della struttura formale del brano, ma soprattutto della sua funzione drammaturgica. Ospite con i suoi sodali dell’oscura principessa Negroni, intona infatti una ballata all’insegna del carpe diem, in cui, incurante dell’«incerto domani», deride «gl’insani/che si dan del futuro pensier». Mai richiesta fu più prontamente accolta: da lì a pochi istanti scoprirà di essere stato invitato da Lucrezia Borgia, che ha provveduto a somministrare loro un veleno fatale. Dal Macbeth (1847) di Verdi alla Cavalleria rusticana (1890) di Mascagni, passando attraverso La traviata (1853) e Otello (1887) – ma anche l’Hamlet (1868) di Ambroise Thomas, se si vuole allargare lo sguardo al repertorio francese – il brindisi nega ciò che fintamente proclama, ha lo scopo di soffocare l’angoscia, l’apparizione della morte (Banco) o la sua premonizione (Turiddu) tra i fumi dell’alcool. Ci penserà Jacques Offenbach a mettere alla berlina tanta austera sobrietà. La sua Périchole, cantante di strada e protagonista dell’omonima opéra-bouffe del 1868, conclude il primo atto con una Griserie ariette: finalmente sazia dopo una cena straordinaria, forse un po’ alticcia per il troppo vino tracannato, non si è accorta che una sontuosa tavola imbandita e una cantina ben fornita rischiano di portarla difilato nella camera da letto di Don Andrès de Ribeira, viceré del Perù, che intende farne la sua compiacente, appagata favorita… Tra anorexia mirabilis e bulimia Vasto teatro è il mondo e suo specchio ne è il melodramma dell’Ottocento, gran romanzo di umanità varia. Per questo l’opera racconta la sete. Quando la miseria porta ad accettare altisonanti incarichi, come quello di cui viene insignito Don Magnifico, duca e barone di Montefiascone: «trenta botti già gustò,/e bevuto ha già per tre/e finor

non barcollò!/È piaciuto a sua maestà/nominarlo cantinier;/intendente dei bicchier/con estesa autorità,/presidente al vendemmiar,/ Direttor dell’evoè!» (La Cenerentola, 1817). Per questo l’opera racconta anche la fame, quando «si muore d’inedia» e s’insegue il profumo di «Aranci, datteri! Caldi i marroni!/ […] Torroni! Panna montata!/Caramelle! La crostata!» (La bohème, 1896). Sintesi unica e irripetibile di questo universo è il teatro musicale verdiano, che lungo tutto il corso dell’Ottocento – lo ha notato, non senza ironia, Pierpaolo Polzonetti, che annuncia un’ampia ricognizione su Opera e cibo. Uno studio sulla convivialità nell’opera – mette in scena i due opposti. Da un lato la santità di Giovanna d’Arco (1845) e di Luisa Miller (1849), affette da anorexia mirabilis perché pronte a rinunciare al «terreno cibo», unica fonte di sostentamento per «le affralite membra», onde pregustare «le celesti dolcezze» dell’aldilà. Rappresentano, entrambe, l’incarnazione dell’anti-Don Giovanni, della virtù che, negata in terra, sarà celebrata in cielo: non diversamente si comporterà Violetta Valéry, inchiodata al suo destino sin dal titolo della Traviata (1853), che nell’ultimo atto si limiterà a chiedere «d’acqua un sorso», quando la redenzione è ormai prossima. Ma dall’altro trionfa l’inarrestabile bulimia, la sana voracità di Falstaff (1893), che della sua «epa tronfia», del suo smisurato addome ha fatto il suo regno e, per questo, mira unicamente a ingrandirlo. Polli e tacchini, acciughe e fagiani, nonché «trenta giare di Xeres» sono il suo indispensabile nutrimento quotidiano, la sua decadenza rischia di avere inizio quando, scaraventato tra le acque del Tamigi, si affretta a mescervi del vino, onde sperdere «le tetre fole/dello sconforto.» Folgorante appare, a questo proposito, una delle ultime battute su cui cala il sipario della parabola verdiana e del secolo lungo del melodramma italiano: «E poi con sir Falstaff, tutti, andiamo a cena», prima della «risata final» che sommergerà il mondo. ★ In apertura, una scena di Falstaff, di Giuseppe Verdi, regia di Robert Carsen (foto: Rudy Amisano/Teatro alla Scala).

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Bistecche e scarpette da punta quando il cibo incontra la danza Fin dal Rinascimento, alimenti e bevande hanno giocato un ruolo importante negli spettacoli coreutici, ma è con Pina Bausch e il suo Tanztheater che tornano in scena, sovente in maniera originale, come racconta la sua storica danzatrice Cristiana Morganti. di Sergio Trombetta

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ttovagliati per danzare. Dal Rinascimento ai giorni nostri, il cibo è una presenza importante negli spettacoli di danza. Dai convivi cinquecenteschi alle bistecche sanguinolente infilate nelle scarpette da punta, a significare il dolore fisico, in un memorabile assolo di Cristiana Morganti in Viktor di Pina Bausch. Un rapporto che incomincia presto. Era il 1498 e per celebrare le nozze di Galeazzo Sforza duca di Milano con Isabella d’Aragona, Bergonzio Botta, gentiluomo lombardo, allestì un “balletto conviviale” dove le “intromesse” entravano in scena fra un piatto e l’altro del banchetto nuziale. E via mangiando e brindando, in Giselle, nel Lago dei cigni, ma vogliamo parlare del minestrone infernale di Madge in Sylphide del 1831? In un paiolo posto su un fuoco al centro della scena, la strega cattiva cucina una brodaglia malefica nella quale intinge una sciarpa che, così avvelenata, viene posta da James sulle spalle della Sylphide causandone la morte. E qui la preparazione gastronomica è elemento fondamentale per far proce-

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dere lo sviluppo drammaturgico. Ma è nel secondo Novecento che il rapporto con il cibo diventa più intimo, qualche cosa che coinvolge direttamente la personalità del danzatore e del coreografo, e questo grazie a uno sdoganamento operato dal teatrodanza, in particolare dagli spettacoli di Pina Bausch. Cucina una frittata, inondando la platea di un piacevole olezzo di soffritto Ambra Senatore in Altro piccolo progetto domestico. Nella molto speciale Bella Addormentata di Mats Ek, il danzatore Veli-Pekka Peltokallio si occupa, senza tante cerimonie, di un salmone e intanto pronuncia un testo senza senso. Spiega Pompea Santoro, una delle principali muse di Mats Ek, protagonista di quella Bella, oltre che moglie di Veli: «L’idea era di mostrare che anche in cucina c’è violenza». Si spinge più in là il franco tunisino Radhouane el Meddeb che in Je danse et je vous en donne à bouffer unisce danza e cucina preparando in scena un cous cous per cinquanta coperti. Su un piano molto più sofisticato e intellettuale ecco Manger, l’ultimo lavoro di Boris Charmatz, Il co-


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reografo francese si pone, provocatoriamente questa domanda: «Come muovere il corpo non a partire dagli occhi o dalle membra ma dalla bocca?». Tanztheater, un’antologia gastronomica Ma è il capitolo Pina Bausch che ci permette di parlare più diffusamente di cibo in scena. Oltre alle bistecche della Morganti, una breve antologia gastronomicobauschiana ci porta a 1980 e al tè bevuto prima da due protagonisti e poi offerto al pubblico, agli spaghetti che Nazareth Panadero si stringe ansiosamente al petto in Madrid, Madrid, Madrid. Oppure ecco le arance tagliate a metà con cui Regina Advento in Danzon (1995) insegna alle colleghe come si danno i baci con la lingua. Le grandi foglie di cavolo verde che le danzatrici in Rough Cut (2005) utilizzano come ventagli per farsi aria. Ne abbiamo parlato con Cristiana Morganti, grande performer del Tanztheater Wuppertal e ora anche autrice e interprete. Dopo Moving with Pina eccola con il nuovo Jessica and me in questi mesi in tournée italiana. Ci dice Cristiana: «in quasi tutti gli spettacoli del Tanztheater di Wuppertal si mangia, si raccontano storie sul cibo, si cucina, si lavano piatti, si apparecchia e si sparecchia, si distribuiscono caramelle, tè, caffè, vino e panini al pubblico. Insomma direi che in generale il cibo, la frutta e la verdura sono molto, molto presenti. A volte vengono utilizzati dai danzatori in modo puramente funzionale, a volte invece in maniera simbolica». La lista è infinita, «ma stranamente non ricordo delle specifiche domande di Pina sul cibo – riflette la Morganti – durante le svariate creazioni a cui ho partecipato, il cibo appariva nelle improvvisazioni dei danzatori spontaneamente, senza che lei lo chiedesse, spesso solo per rendere una sensazione o tradurre un’immagine». Due esempi che coinvolgono direttamente la danzatrice: «durante la creazione dello spettacolo Masurca fogo (una coproduzione con la città di Lisbona del 1998) Pina ci aveva dato come tema “uccidere l’amore”. Io mi ero travestita da grande mamma, imbottendomi il reggiseno e il sedere per risultare più incombente e obbligavo affettuosamente, ma con insistenza, un mio giovane collega a mangiare tutte le enormi portate di cibo che gli servivo: dalla zuppa alla pasta ai dolci. Oppure in O Dido (la seconda coproduzione con la città di Roma nel 1999) alla domanda “come mettere a suo agio qualcuno?” avevo risposto offrendo un bicchiere di vino rosso proprio a Pina! Quest’azione poi nello spettacolo è stata agita col pubblico: mi siedo elegantemente sul bordo della scena e offro allegramente del vino agli spettatori della prima fila».

Picnic sulle lenzuola Nessuna finzione teatrale comunque: «Una caratteristica costante è che cibo e bevande sono sempre rigorosamente veri! Tuttavia non credo che l’immagine del cibo in scena avesse per Pina un significato speciale o simbolico. Penso semplicemente che il cibo, vero, tangibile, commestibile sia presente nei suoi spettacoli come lo è nella vita, cioè come un elemento fondamentale dell’esistenza. Anche gli altri elementi fondamentali come la terra, l’acqua, la pioggia, il fuoco, gli animali, ricorrono spesso nell’universo bauschiano, con grande naturalezza e organicità». Chi ha avuto il privilegio di partecipare a cene “dopo-spettacolo” ricorda il rapporto molto positivo della grande coreografa col cibo: «Pina, adorava mangiare – conferma Cristiana – e adorava mangiare cose prelibate, ancora meglio se in compagnia. Forse per questo metteva spesso e volentieri in scena nei suoi spettacoli delle situazioni conviviali». Ricorda poi la danzatrice: «La seconda parte di Arien (1978), per esempio, si apre con i danzatori, tutti in abito da sera, che mangiano seduti a un tavolo generosamente imbandito. Il tutto però con i piedi nell’acqua! La celebre scenografia di questo spettacolo consiste infatti in un palcoscenico-vasca pieno d’acqua (circa venti centimetri) dentro il quale i danzatori si muovono e compiono le loro azioni come se niente fosse». E ancora: «In Nefes (2003) festeggiamo un matrimonio con un ricco picnic apparecchiato su delle lenzuola bianche; e, nella Leggenda della Castità (1979), c’è addirittura un vero e proprio buffet in scena, al quale, durante tutto lo spettacolo, i danzatori possono liberamente servirsi o spizzicare». Innumerevoli le “scene gastronomiche” del Tanztheater rievocate da Cristiana: «In 1980 tutti i danzatori camminano tagliando su dei piattini delle cipolle (vere) per poter piangere. In Nelken invece sono solo gli uomini a sedersi a un tavolino e a infilare la testa in una montagna di cipolle per riuscire a piangere. Cipolle tagliate da Jan Minarik con vera tecnica da cuoco». Oltre all’assolo con le bistecche, «in Viktor le danzatrici, in abito elegante, preparano e distribuiscono panini burro e marmellata al pubblico; il che è molto furbo: dopo tre ore di spettacolo, è importante “addolcire” e coccolare un po’ il pubblico stanco». Infine, ecco Jan Minarik in Palermo Palermo che «cucina una bistecca e poi della uova su un vero ferro da stiro, ovviamente bollente. Poi mangia una torta al formaggio come fossero spaghetti e spara dei pomodori veri, facendoli esplodere. Un scena fantastica!». ★ Pina Bausch a cena con il capo della comunità rom di Roma (foto: Enrica Scalfari, Archivio Andres Neumann/il Funaro Pistoia).

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Sul tetto del mondo con la barca-tavolo delle Ariette Cominciata quasi per caso, l'esperienza di Paola Berselli, Stefano Pasquini e Maurizio Ferraresi prosegue da venticinque anni. E, mentre il viaggio di Teatro da da mangiare? affronta nuove tappe, altri commensali condividono la tavola imbandita con Camus e l'Odissea. di Lucia Cominoli

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alle tagliatelle al cous cous, dalla Valsamoggia a Calais. Dopo venticinque anni il Teatro delle Ariette decide di rimettersi in viaggio e lo fa per raccontarci biografie e sapori di popoli in transito, là dove il Nord dell’Europa si incrocia con l’Oriente e tutto si gioca in pochi delicatissimi passi. Un viaggio cominciato a casa, nel Capanno degli Attrezzi, mescolando alla farina i ricordi e le passioni della giovinezza. Insieme a loro i compagni di sempre: Pasolini, Omero e Camus. Ne abbiamo parlato con Stefano Pasquini, che ci racconta gli esordi di Teatro da mangiare?, di morte, rinascita e trasformazione. Tutto cominciò con Teatro da mangiare?, spettacolo che vi riportò dopo anni sulla

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scena teatrale. Un titolo che mette in evidenza una dichiarazione d’intenti che non vi abbandonerà più così come il punto di domanda... Sì, era ed è un tratto distintivo. Questo titolo è stato forse la grande fortuna dello spettacolo, perché ci ha permesso di incontrare persone che magari non si sarebbero mai avvicinate al nostro percorso. Il punto interrogativo è assolutamente d’obbligo non solo perché rende plausibile un’affermazione altrimenti inesatta, ma soprattutto perché il nostro teatro cerca di incontrare lo spettatore e di nutrirlo grazie a questo incontro, così come, a nostro parere, dovrebbe fare ogni gesto artistico e intellettuale. Teatro da mangiare? è nato quasi per caso, noi non eravamo più dei professionisti del teatro da anni, il nostro mestiere era di-

ventato la campagna, coltivare la terra, seguire il nostro agriturismo. Il teatro però è tornato a trovarci e complice fu anche Armando Punzo, che, ascoltando la nostra storia all’inaugurazione del Teatro delle Ariette nel Deposito degli Atrezzi e vedendoci cucinare per i nostri clienti, ci invitò a unire le due cose al suo Festival a Volterra. Ne è uscito uno spettacolo che era, e ancora un po’ è, l’autoritratto di una generazione che nel Duemila aveva quarant'anni. Nei vostri spettacoli viaggiano parallelamente alla preparazione del cibo alcuni elementi costitutivi dell’esperienza teatrale. Ritualità, convivio, gusto. Un teatro gastronomico, diceva Bertolt Brecht. In che misura farli coesistere in drammaturgia e nello scambio con il pubblico?


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Ho sempre trovato l’affermazione di Brecht molto interessante e di certo fondamentale per il nostro teatro, se intendiamo il teatro così come lui lo concepiva, ovvero un luogo dove si può e si deve anche bere e mangiare... Perché il teatro è un luogo dove si vive intensamente, non un luogo dove la vita viene sospesa. L’elemento della ritualità è per noi l’altro elemento cardine dell’esperienza. Tutto il teatro viene dal rito. Molto spesso anche il percorso intorno al cibo, alla sua costruzione, alla sua preparazione e al suo consumo è parte di una ritualità. In questo senso la sfida drammaturgica è unire assieme due operazioni, il mangiare e il partecipare allo spettacolo, che di solito siamo abituati a condividere separatamente. Diverso l’intrattenimento proposto da Brecht. Il gioco per noi è inserire il cibo in quanto elemento del racconto e parte della drammaturgia. Il cibo non è semplicemente evocato nella parola, ma è elemento presente fisicamente, da far vivere e preparare producendo odori, sapori e obbligandoci a gesti attenti, reali, di verità e di concretezza. Esso diviene poi per il pubblico-comunità elemento condivisibile, perché il cibo è un rito continuo di morte e rinascita, simbolo di qualcosa che finisce e che comincia nello stesso tempo, un rito di trasformazione. Parlare di cibo è anche parlare di cura, una forma di dono. Voi rimettete al centro questa intimità anche con il racconto autobiografico, quello della vostra vita artistica, personale e di coppia. Come sentirsi protagonisti e non ospiti a una mensa tanto privata? In qualche modo la risposta è arrivata la prima volta che abbiamo tentato l’esperimento di Teatro da mangiare? La scoperta che abbiamo fatto è stata che più la nostra dimensione di apertura di un’intimità era profonda e sincera e più ci portava in un territorio che drammaturgicamente accendeva una condivisione, cioè un'autoralità collettiva. Con l’ultimo Teatro naturale? Io, il cous cous e Albert Camus qualcosa è cambiato. Uscite dalle colline di Monteveglio e ci parlate di incroci, di persone e di popoli e anche la cucina si fa meticcia, complice probabilmente l’Odissea con la Cooperativa Olinda di Milano. In questo scenario s’inserisce la vostra ultima tournée in

Francia, a Calais. È iniziato un nuovo percorso interculturale? Credo che in parte questo percorso venga anche da un avvicinamento all’Odissea, qualcosa che covava da tempo su cui abbiamo lavorato sia nel laboratorio permanente che conduciamo alle Ariette fino all’esperienza che abbiamo fatto a Milano con Cooperativa Olinda con cui abbiamo costruito un’Odissea in cinque puntate coinvolgendo amatori, stranieri e operatori, il cuoco del loro ristorante intorno a una barca-tavolo. E poi c’è Camus che come Pasolini resta uno dei nostri autori di riferimento. Così come l’ultima nostra creazione, Sul tetto del mondo, e il percorso di Teatro naturale?, la mia personale Odissea... Credo che ogni piccolo passo che fai, cioè ogni spettacolo nuovo, sia un po’ la conseguenza di quello che hai fatto prima, anche se non te ne rendi conto. Ora, con il gruppo Les amateurs di Calais, nell’ambito

de Le Channel Scène nationale de Calais, abbiamo iniziato e proseguiremo un laboratorio incentrato su Ulisse a Calais, quindi lavorando sull’Odissea in termini biografici a partire dalle storie di un luogo che è il polo dell’emigrazione al Nord Europa, testimone degli stessi episodi della nostra Lampedusa. Vi spingerete fino all’Expo? Il tema è interessante anche se noi concepiamo spettacoli per trenta spettatori, non amiamo le kermesse e preferiremmo conoscere nuove realtà piuttosto che rimangiare la solita minestra, tanto per restare nella metafora, ma è un parere personale. Probabilmente concepiremo qualcosa per il Teatro di Roma, su invito del direttore Antonio Calbi. ★ In apertura, una scena di Sul tetto del mondo, del Teatro delle Ariette; nel box, Valentino Infuso in Teatro-Cucina, di Teatro in Polvere.

Al desco barocco di Teatro-Cucina dove le storie prendono sapore Una cena-spettacolo, il cibo come performance: con Teatro-Cucina non si sa se cominciare dal cibo o dal teatro. Quel che è certo è che si tratta di un’esperienza complessa dove le emozioni del sentirsi raccontare storie, del vederle danzare, della musica si fondono in modo inscindibile con il gusto di una cena buona e accurata, fin nei dettagli. Trenta commensali-spettatori prendono posto a una tavola che abbraccia la scena, apparecchiata con cura, tra stoffe barocche, piatti di coccio, cucchiai di legno e posate dal taglio antico, per assistere alle acrobazie dei tre attori che al cibo intrecciano storie assai diverse (Valentino Infuso, Laura Gamucci, Stefania Casiraghi). La durata dello spettacolo è quella della cena, assaporare i profumi e i sapori del cibo, che passa dalle mani degli attori a quelle degli spettatori-commensali, coincide con la durata delle storie che i personaggi ci raccontano. Ha una storia lunga, Teatro-Cucina. Nasce nel 2000, da un’intuizione di Valentino Infuso, danzatore-attore napoletano trapiantato a Milano, dove fonda il Teatro in Polvere e il suo Atelier. È la sua esperienza ad accendere la scintilla «qualche spunto gettato qua e là intorno alle possibilità espressive ed emotive di singoli ingredienti e di specifiche portate che avessero per noi un significato particolare». Il pane, innanzitutto (il nonno di Valentino era panificatore), i suoi significati densi e i suoi gesti evocativi. «Il progetto di partenza - racconta sempre Valentino - si basava sulla forte esigenza di ricreare, nel rapporto attore-spettatore, qualcosa che avesse la stessa forza intima della condivisione conviviale, dove però a penetrare il commensale non fosse solo materia concreta ma, soprattutto, impalpabile quanto palpitante emozione». E così, grazie all’intervento della regista-coreografa Elisabetta Faleni, il progetto prende corpo. La partitura di gesti e parole si forma sulla base delle suggestioni culinarie dei piatti assemblati e cucinati “in scena”. L’intervento del polistrumentista Roberto Zanisi, capace di passare dalla darbouka alla chitarra a docici corde, sonorizza l’esperienza completandola con le musiche di Giovanni Venosta. All’alchimia delicata dei sapori pensa Davide Oldani, chef pluristellato, inventore di sapori e della cucina pop, che del progetto si è evidentemente innamorato. Dal 2000, il nome Teatro-Cucina è divenuto un genere, un brand, e ha ancora tanta strada da fare. Cambiano i sapori, si adattano alle stagioni, si evolvono coi gusti, ma non cambia la forza contenuta nel semplice gesto dell’attore che ti porge il pane. Ilaria Angelone

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Panem et circenses tutti a pranzo sotto lo chapiteau Senza rinunciare ai tradizionali Spiegeltent, alcune compagnie hanno saputo reinventare in modo originale l’atavico rapporto fra cibo e arte circense: il “teatro gourmet” di Palazzo, l'esperienza intima di Escarlata Circus e il coinvolgimento collettivo di Cheptel Aleïkoum. di Paolo Stratta

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otizia succulenta: il circo contemporaneo esiste! Sembra essersene accorto pure il ministro Franceschini che lo sostiene anche nei teatri, luoghi diversi da quelli della tradizione, favorisce i circhi che lavorano senza animali, ma impone che abbiano la codifica di circo equestre. Circo contemporaneo equestre senza animali, ecco cosa una giovane compagnia italiana deve fare per essere sostenuta dal Ministero. Il circo contemporaneo è essenzialmente circo, il circo che si fa oggi. Non è una ricetta predefinita e sempre uguale a se stessa, ma una scoperta quotidiana, una finestra aperta sul lavoro delle nuove generazioni di autori e interpreti e uno spazio aperto alle proposte di reinterpretazione del genere da parte di maestri più consolidati e autorevoli. Il circo nutre, e sovente, non solo gli spiriti ma anche gli appetiti veri, quelli della pancia. E se il circo si fruisse in vere e proprie cucine, o sale di ristoranti, ora create in uno chapiteau, ora riprodotte all’interno di Spiegeltent come nelle più grandi tradizioni della Mitteleuropa? Un rapporto di lunga data La possente fascinazione che il cibo e la cucina stanno esercitando sul mondo dello spettacolo dal vivo, che nel teatro ha indotto Paola Berselli e Stefano Pasquini del Teatro delle Ariette a creare Teatro da mangiare? o i Cuochivolanti il Kitchen Kabarett, non ha certo esentato il mondo del circo. Vero è che tanti sono i cliché riproposti dai circhi tradizionali che sempre più spesso in scena portano grandi terrine di spaghetti fumanti, al termine dello spettacolo, per simulare “la famiglia circense” che – fatto il dovere di divertire il pubblico – si richiude in se stessa nel tentativo di ricreare una malriuscita convivialità con il pubblico, forse in onore dei vecchi copioni clowneschi trascritti da Tristan Rémy nel suo intramontabile Entrées Clownesque. Gli Spiegeltent, per esempio, grandi tende da viaggio in legno, tela e decorate appunto con specchi e drappeggi porpora, nate in Belgio tra fine Ottocento e inizio Novecento, sono tra i luoghi privilegiati per l’esecuzione

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di una vera e propria saga di spettacoli in cui il circo e la ristorazione si compenetrano intimamente, con alterni esiti e vari tentativi di clonazione e riproduzione. Penso a Palazzo – che si autodefinisce “teatro gourmet” – che per diversi mesi all’anno porta in scena un format piuttosto rodato, incalzante ed emozionante in cui ogni azione, dall’accoglienza alla somministrazione, dallo sbarazzo delle portate alla comparsa dei numeri di circo avviene con studio, precisione e tempismo pregevoli. Si tratta pur sempre di una forma di spettacolo che sta tra l’industria e l’impresa artigiana, che da un lato può gratificare lo spettatore ma che ha un focus innegabile sulla redditività piuttosto che sull’arte: Palazzo è ora in contemporanea ad Amsterdam, Berlino, Amburgo, Mannheim, Norimberga, Stoccarda e Vienna. In una delle sue numerosissime repliche a Berlino può capitare di imbattersi in artisti di grande valore, diplomati nelle più prestigiose accademie mondiali di circo come nel caso di Anastasia Nasridinova e Sergey Malyutin, acrobati aerei alle cinghie, del duo Ars così come di artisti del calibro di Kolja Kleeberg e Hans-Peter Wodarz. Soffritto di cavolo e festa condivisa Nell’ambito dell’arte circense gastronomica in senso lato sono due gli spettacoli che, tuttavia, meritano una citazione, per polarità estrema tra performance di piccolissima scala e intimità quasi domestica e per esperienza collettiva e di coinvolgimento dinamico: mi riferisco a Devoris Causa di Escarlata Circus e a Le Repas di Cheptel Aleïkoum. Il genio di Jordi Aspa e Bet Miralta di Escarlata Circus concepisce un micro tendone per cinquanta spettatori intriso di un fortissimo odore di soffritto di cavolo cappuccio che la seduzione degli artisti riesce anche a farti assaporare. Lo spettacolo è crudelissimo, di quella violenza poetica pari solo al maestro Leo Bassi, che ti rende subito simpatici i due cuochi eccentrici e buffoni anche nel dare vita a un rituale di antropofagia vegetale: un tenerissimo burattino di carote viene sbranato pezzo a pezzo in una festa dei cinque sensi che ti lascia con il desiderio di tornare a casa a preparare un timballo di verdure. È invece dalla Francia che arriva l’esperimento più riuscito di scrittura artistica contempo-

ranea circense che coniughi la cucina, il cibo e l’alimentazione al divertimento e al circo. Una giovane compagnia di quindici indomiti, il collettivo artistico Cheptel Aleïkoum, che centra il proprio lavoro sul rispetto della diversità degli approcci artistici di ciascuno dei suoi membri e non su un postulato estetico, ha superato con Le Repas qualunque formalismo o tentativo maldestro di “cena con spettacolo” seppur ispirata al meglio riuscito degli Spiegeltent. La compagnia Cheptel (bestiame per l’appunto) trasforma l’atmosfera di un cabaret partecipativo, sublimato dalla presenza di nove artisti-cuochi-camerieri, in qualcosa di politico, nella sua volontà, divenuta esito di ricreare un legame intorno a dei momenti quotidiani, tanto che ritorna all’essenza di un circo che vuole innanzitutto mostrarsi nella prossimità con l’altro, per divertire e portare il sorriso. Il collettivo, per il nostro più grande piacere, riconferisce al pasto alcune tra le sue prime vocazioni: la gioia semplice degli incontri, dei sapori e dei piaceri differenti. Un tourbillon spiazzante di coinvolgimenti sottili in cui gli spettatori condividono con gli artisti una festa sorprendente fatta di momenti e spazi di libertà fragili e incontrollati. In barba alle più elementari norme di igiene in termini di somministrazione di alimenti – lo spettaco-

lo regna sovente sovrano e permette deroghe meravigliose – centocinquanta spettatori alla volta diventano aiuto cuochi nel pelare le patate o le carote, familiarizzando con i vicini spesso sconosciuti di una tavolata su cui volteggiano pericolosamente acrobate aeree alla corda oscillante. Ogni attrezzo è funzionale, dall’attaccapanni che diventa sostegno per una corda verticale alle ruote tedesche che turbinano per servire il vino ai commensali. Il pubblico di questo avvenimento straordinario non mancherà neppure di lavare i piatti, dopo averne provate di ogni sorta e tipo, tra cui partecipare a una gara a chi riesce a far montare prima la panna: un rito comunitario in cui il circo riavvicina alle radici, alle cose semplici che non sappiamo più fare e non riusciamo più a goderci. Le parole non rendono giustizia all’energia dispiegata in questo chapiteau in cui ogni azione concorre a creare un universo spiazzato e al tempo stesso vicino ai nostri riferimenti in virtù di questa cucina collettiva. Tutto per creare uno scambio, una comunicazione che rompe quella quarta parete in cui sovente il circo è campione e questa volta lo fa con un senso speciale, il gusto. ★ In apertura, una scena di Le Repas, di Cheptel Aleïkoum (foto: Milan Szypura); in questa pagina, un'immagine da Devoris Causa, di Escarlata Circus (foto: Miquel Ruiz).

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Sandokan, o la fine dell’avventura

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C'era una volta la buona alimentazione storie da mangiare per i più piccoli Finalità didattiche e voglia di divertire: il teatro ragazzi da molti anni declina il tema del cibo in innumerevoli tonalità, dalle favole tradizionali alla riscrittura per la scena del cartoon Ratatouille. di Mario Bianchi

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l teatro ragazzi molto spesso è stato visto, soprattutto dalla scuola, come uno dei canali migliori per proporre al suo pubblico di riferimento i dettami per un corretto comportamento personale e sociale: quindi anche l’abitudine a una congrua e giusta alimentazione ha spesso attraversato molti suoi spettacoli. Certo ben sappiamo che il teatro ragazzi non deve necessariamente servire a questo, è teatro e basta, anche se è indubbio che la corretta abitudine a un’alimentazione sana e controllata sia fondamentale nel momento più importante della crescita di un essere umano e il teatro può certo stimolare i ragazzi a ragionare anche su questo. Non è poi un caso che il problema del cibo sia anche una costante di molte fiabe, che sono fra i topoi preferiti del teatro ragazzi, pensiamo a Pollicino, a Hänsel e Gretel, o a Biancane-

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ve, solo per citarne alcune. Fondamentale il cibo è anche nei burattini, forma questa spesso utilizzata per proporre il teatro ai ragazzi, dove le varie figure, pensiamo solo ad Arlecchino, focalizzano tutte le loro avventure nella ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Il cibo è quindi un argomento di primaria importanza nel teatro ragazzi che, tra l’altro, non si è lasciato sfuggire l’occasione dell’Expo per produrre nuove creazioni. Ma a noi, qui, piace soprattutto fare una piccola carrellata sugli spettacoli rimasti nella nostra memoria su questo tema, scusandoci in partenza di qualche dimenticanza. Nel ristorante di Hänsel e Gretel Subito ci vengono in mente due spettacoli dell’attore-cuoco (per davvero tutti e due) Stefano Bresciani che in due creazioni di Te-

atro Invito e Città Murata invade la scena con i suoi fornelli: Racconti di stagione e Racconti di contorno. Nel primo è alle prese con l’impasto di una pizza, le patate per gli gnocchi e una mela, mentre racconta tre storie di impianto culinario; nel secondo è Cristian Ucci che nella sua locanda prepara un pranzetto vero e proprio a base di verdura – ma insegna anche come si cucinano i bambini – per i cinquanta piccolissimi che “vivono” lo spettacolo mentre l’orco suo padre sbraita nella stanza di sopra. Anche Renzo Boldrini e Vania Pucci di Giallo mare minimal teatro, venti anni prima (1988), in Hänsel e Gretel restaurant, uno spettacolo a percorso, invitano i ragazzi a pranzo, raccontando la storia che dà il nome al ristorante, in un gioco narrativo intrecciato con l’uso teatrale di tutto ciò che il cuoco ha a portata


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di mano con un uso creativo degli oggetti. È in questa maniera che spesso il teatro ragazzi narra e sviluppa il tema del cibo, sia utilizzando i vari ingredienti del pasto, sia gli oggetti che si trovano in cucina, come nell’esemplificativo lavoro storico La Battaglia di Emma di Monica Mattioli, che tratta con profondità in questo modo curioso un tema molto difficile come quello della guerra. In maniera più leggera, come è loro costume, I sacchi di Sabbia di Giovanni Guerrieri raccontano, soprattutto con la verdura, Sandokan, o la fine dell'avventura mentre nello storico Cucina di Laboratorio Teatro Settimo gli allora giovanissimi Andrea e Massimo Violato armeggiavano con gli oggetti della cucina in un gioco verbale e visivo dedicato a Cervantes – la medesima cosa fa più recentemente Millima Teatro raccontando l’Odissea. Di oggi è, invece, Storie da mangiare de Le Strologhe, in cui Carla Taglietti e Valentina Turrini attraverso l’uso di oggetti e ingredienti culinari mettono in scena Biancaneve e i sette Nani (o, meglio, i sette Pani) e La Principessa sul pisello; mentre i friulani di Ortoteatro narrano le favole della tradizione in Fiabe dolci, dolci da fiaba. Per conoscere paesi lontani Ci sono poi compagnie che durante gli anni hanno spesso utilizzato il cibo nei loro spettacoli come metafora e strumento di conoscenza. Ecco così i tre spettacoli di Cà Luogo d’arte della premiata ditta Allegri-Bercini: Gnam Gnam, in cui Dina Conta prepara tutti i cibi delle fiabe, e Storie Fruttuose, liberamente ispirato ai due libri illustrati Piccolo Bruco Mai Sazio e Zuppa di Sasso, pensato per i piccolissimi, nel quale la compagnia indaga l’importanza del nutrimento del corpo e dell’anima. E, infine, nel significativo Dura Crosta il pane viene usato come metafora della crescita: l’adolescente Zeno Bercini, uscendo in carne e ossa da una macchina che lo forma, ne è l’esempio vivente. Anche i milanesi del Teatro del Buratto frequentano spesso il tema e, a distanza di venticinque anni dallo storico e premiatissimo Sotto la tavola di Gianfranco Bella e Jolanda Cappi (1990), tornano sul cibo con Aurelia Pini in È pronto. A tavola, compiendo un viaggio tra il dolce e il salato, i profumi delle spezie e

la puzza dei cavoli, e scoprendo così il cibo degli altri, che viene da paesi lontani: dall’Africa, dal Sud America, dall’Irlanda. Anticipatore, però, dei temi interculturali sul cibo è stato senza dubbio Heina e il Ghul con la regia di Mario Gumina, di cui da oltre quindici anni il narratore marocchino Abderrahim El Hadiri è il cuoco narratore: egli racconta la storia di Heina, la figlia dello sceicco rapita dal Ghul, il mostro della farina, utilizzando gli ingredienti del cous cous e alla fine invita i suoi spettatori a pranzo, spesso ambientato in una vera tenda araba. Anche il nuovo progetto di Aslico – la lombarda associazione lirico concertistica – di opera per bambini Milo e Maya intorno al mondo, su libretto di Lisa Capaccioli e musica di Matteo Franceschini, esce dal contesto nazionale narrando

di due ragazzi e del loro viaggio attraverso i cibi di tutte le culture. Ma altre compagnie teatrali attraversano il cibo in modo divertente: i Fratelli Caproni, Alessandro Larocca e Andrea Ruberti, lo mescolano con la clownerie, accompagnando i bambini nel mondo del cibo alla scoperta dei mille segreti contenuti in tutti gli alimenti in L’omino del pane e l’omino della mela; il Css di Udine rifà il famosissimo cartone animato Ratatouille in Topochef; Teatro Daccapo in Buon Appetito, scritto da Gianpiero Pizzol, e Dracma teatro in Il menù di Re Artù di Marco Zoppello, si divertono in modo diversissimo a illustrare ai ragazzi come si può mangiare in maniera intelligente. Come si vede ce n’è, e ce n’è stato, per tutti i gusti. ★

Quando il cibo è un nemico: teatro e disordini alimentari Il teatro ragazzi - e non solo - si è occupato anche dei cosiddetti disordini alimentari. Viene messo in scena con successo da alcuni anni Quasi perfetta di Valeria Cavalli e Claudio Intropido di Quelli di Grock. Protagonista è Giulia Bacchetta che, in un intenso monologo, è Alice, una ragazza uscita dall’anoressia che narra la sua malattia, nata soprattutto da un disagio adolescenziale. Intorno a lei una madre poco “accogliente”, un padre assente, un’amica e un amore infelice. Infine Adele, la custode del palazzo, l’unica persona in grado di dare alla ragazza affetto e comprensione. Per una biografia della fame, scritto e interpretato da Annagaia Marchioro, diretto da Alessia Gennari, liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Amélie Nothomb, è invece il racconto, ironico e caustico, di un’esistenza famelica di esperienze e di desideri. E la parola anoressia non è mai pronunciata ma è protagonista anche di Dietro lo specchio, spettacolo con la regia di Elena Marino e l’interpretazione di Barbara Fingerle, Silvia Furlan, Flora Sarrubbo, prodotto da Teatrincorso Spazio 14 di Trento. La malattia è dipinta come frutto del fallimento della comunicazione in famiglia, a scuola, con gli amici. Tenta, invece, di comunicare con un linguaggio originale il disagio alla base di questo disturbo Studio per uno spettacolo divertente sull’anoressia, frutto del fertile incontro fra l’attrice e drammaturga Carlotta Piraino e la musicista Claudia Loddo. Di anoressia sconfitta racconta anche La bambina con la pelliccia, della compagnia Veranda Rabbit, con Eleonora D’Urso, storia di una via crucis nella malattia e di una vita di relazioni difficili (madre asente, padre violento), affrontata da una giovane donna incinta di tre mesi. Per parlare di bulimia, invece, vi è uno spettacolo ironico e commovente, Io sono la luna, della compagnia torinese Genovese Beltramo (nella foto), in cui è rappresentato il disagio di essere “ciccioni” di due amici, Sergio e Melania, lui obeso nell’infanzia, lei in età adulta, mostrati anche attraverso costumi che, gonfiandosi e sgonfiandosi, ingombrano i gesti dei due attori. Anche qui la malattia è vista come un atto di denuncia, le cui cause più profonde sono da ricercare nelle dinamiche familiari e relazionali, ma anche nei meccanismi economico-finanziari. Mario Bianchi

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Il cibo, la performance e oltre l'arte divorata dallo spettatore Da Kaprow alla Beecroft, passando per Nitsch e Piero Manzoni, sin dal suo ingresso nelle pratiche performative, l’alimentazione si carica di significati politici e sociali. di Roberto Rizzente

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ew York, 1960. L’happening esiste da un anno. Allan Kaprow, il suo mentore, radicalizza il concetto. In una chiesa sconsacrata colloca un altare, ornato di mele vere e mele finte (Apple Shrine). È la caverna platonica, remake del Paradiso Terrestre, il pubblico ci arriva a fatica, attraversando un labirinto di stoffe, paglia, cartoni. Le mele sono alla sua mercé: possono essere mangiate, ma possono anche essere portate a casa. In ogni caso, sono esposte all’azione: sono, anzi, il “veicolo” dell’azione. Il centro gravitazionale, da cui la performance ha inizio, per il tramite del pubblico. Ha dunque il cibo, al suo primo apparire nell’happening, una valenza metaforica. Non vale per se stesso, in quanto “feticcio” – lo impedisce la sua deperibilità, impermeabile alla valorizzazione economica e per conseguenza all’archiviazione – ma come mezzo per parlare di “altro”, in un senso innanzitutto politico. Perché è del “sistema” dell’arte che ci parla l’opera di Kaprow, divisa tra il pubblico degli appassionati, abituati a “guardare” senza toccare, e quello dei collezionisti, legittimati invece a “cannibalizza-

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re”, tramite l’acquisto. Questa traslitterazione di senso – di chiara matrice dada – è fondamentale per capire il significato che l’alimentazione acquista nella storia della performance. Se Andy Warhol, negli stessi anni, si appella alle Campbell’s Soup per de-costruire la società, mostrandone la vocazione seriale e potenzialmente omologante (ma potremmo citare anche i Literaturwurst, i libri-salsiccia di Dieter Roth, tra il 1961 e il 1970), gli artisti performativi, da subito, “mettono in scena” il cibo per ricostruire la società, a partire dalla rifondazione identitaria dell’uno. Né poteva essere diversamente, considerando i legami che il cibo intrattiene con l’organico, di là da ogni semplificazione di stampo razionalista, che alla vita viene sovrapposta. Notevole è, in questo senso, il caso di Hermann Nitsch. Le sue Aktionen, a partire dagli anni Sessanta, sono costruite anche e soprattutto a partire dalla macellazione di animali. Il sangue, la carne, il vino, consumati collettivamente nel corso di vere e proprie “orge”, servono all’artista per riaffermare una radicale “alterità” che trova giustificazione nell’inconscio collettivo, il rimosso, al

quale i partecipanti possono arrivare per istinto e libera volontà, tramite lo “sregolamento di tutti i sensi”. Sulla sponda opposta, le uova firmate dell’enfant-terrible Piero Manzoni, distribuite al pubblico il 21 luglio 1960 al centro Azimut di Milano (Consumazione dell’arte dinamica del pubblico divorare l’arte), servono a rimarcare la diffidenza verso tutto ciò che è imposto dall’alto, il “sistema dell’arte”, spesso a fini utilitaristici, secondo una retorica anti-consumistica che mira all’intelletto, prima che alla pancia, sì da liberare la coscienza critica del singolo. Ma del cibo si sono servite, in chiave spesso politica, anche le donne. Basti pensare ai digiuni di Eleanor Antin, realizzati negli anni Settanta per denunciare il presente processo di mercificazione cui è sottoposto il corpo femminile (Carving: A Traditional Scultpure; The Eight Temptations, 1972). O, in anni più recenti, a lavori come The Onion (1996) di Marina Abramovic e Dead Sea (2005) di Sigalit Landau, in cui il parallelismo con la cipolla e l’anguria, siano esse ingerite o esposte sul mare, serve a rimarcare una condizione di fragilità, tanto all’interno della società capitalista, votata all’accumulo delle esperienze e all’anestetizzazione delle emozioni, quanto della società israeliana, perennemente sbilanciata sull’abisso, nell’uno come nell’altro caso costringendo l’artista a un surplus di energie per reinventarsi creativamente. Tanti elementi, l’uno intrecciato all’altro, trovano una sintesi provvisoria in VB65 di Vanessa Beecroft, presentata al Pac di Milano nel 2009. L’immagine dei venti immigrati africani in smoking fuori misura, seduti intorno a una tavola trasparente come a un’ultima cena e costretti a mangiare carne e pane nero, senza piatti e senza posate, in silenzio e dentro a un museo, suggella svariate riflessioni intorno ai temi dell’appartenenza comunitaria, l’identità individuale e il conseguente ruolo dell’arte, schiudendo prospettive che, alla luce della cronache recenti, suonano tremendamente attuali. ★ VB65, di Vanessa Beecroft.


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Festival teatrali e nutrizione idee molte, ma in pratica... Sono pochi i festival organicamente strutturati intorno a questa tematica. Fanno eccezione A Teatro nelle case, Play with Food, Terreni Creativi e soprattutto Teatro a Corte. di Renzo Francabandera

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iciamolo subito: l’idea ha sempre affascinato, ma in fondo nessuno l’ha poi mai realizzata in concreto e con la dovuta continuità. Un po’ perché l’arte è sempre tramite e non fine, quindi pensare a un intero festival teatrale costruito attorno al tema del cibo è forse sempre parso alle direzioni artistiche una forzatura sul mezzo più che sul fine; un po’ perché mettere assieme una struttura organizzativa che avesse la convivialità culinaria come elemento fondante di tutti o gran parte degli eventi è impegnativo e, in un momento di attenzione ai costi, l’abbinata fra il numericamente consistente, la gestione di performance sul cibo con tutti i temi di controlli igienico/sanitari collegati, implica un addendum di struttura difficilmente sostenibile. Ciò nonostante è innegabile che ci siano alcuni festival che hanno negli anni dedicato al tema una grande attenzione e, dove è stato possibile, dei focus tematici che ora, complice Expo, si sono ampliati per un ragionamento più ampio su cibo e società. Festival in cui il cibo riveste un ruolo non secondario – sia perché oggetto di performance sia perché protagonista di momenti conviviali qualificanti. E per chiunque frequenti il teatro di narrazione e del circuito delle case, l’esperienza costruita negli ultimi quindici anni dal Teatro delle Ariette con il loro festival A teatro nelle case è innegabilmente la dimensione più strutturata. Un po’ perché loro da sempre aprono e chiudono i loro spettacoli attorno al cibo. Un po’ perché questo elemento è spesso tessuto drammaturgico, esperienza sinestesica, che abbina alla parola il profumo del brodo dei tortellini, o delle verdure del cous cous, costringendo gli spettatori a essere abitanti di uno stesso vascello, al largo dell’esperienza teatro, con il cibo e il desiderio di sentire anche col palato. Hanno creato un’esperienza che ora in molti rileggono e rielaborano, e viene in mente Play with food dei Cuochivolanti, o quello che avviene nelle serre di Terreni Creativi, dove Kronoteatro accoglie gli spettatori ad Albenga. Qui sicuramente l’elemento conviviale assume una cifra consu-

stanziale alla presenza di spettatori e artisti all’interno dei luoghi deputati all’arte. Se però nulla di veramente strutturato e organico è mai stato messo in piedi sul tema dell’alimentazione, al di là dell’esperienza di Play with food, rassegna dedicata esclusivamente a spettacoli e performance artistiche sul tema, esistono alcune realtà che con maggior continuità hanno proposto spettacoli, interventi performativi ed eventi collegati al cibo, quale il festival Teatro a Corte, diretto da Beppe Navello. Memorabile per chi c’è stato, all’interno della splendida corte sabauda di Pollenzo, dove si è stabilita l’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche e l’Agenzia di Slow Food, la notevolissima performance del collettivo francese Ilotopie, dedicata al tema dell’accesso al cibo nel nostro tempo. Era il 2009 e La bonne voie/Le banquet si strutturò come una cena per quasi duecento persone per due serate, con un binario che attraversava in lungo l’intero tavolo e permetteva agli interpreti di avere un palcoscenico lunghissimo, sul quale si svolgeva una cena evento, dove i personaggi, in costume, distribuivano cibo ai commensali nel modo più bizzarro, magari servito da donne manager in tailleur che tiravano fuori

deliziose polpettine da valigette ventiquattr'ore, per poi scappare via. L’accesso diseguale al cibo, la fretta e la logica del consumo, lo spreco. Ricordo fantastica la donna che serviva il pane con le pagnotte agganciate all’anima di ferro di una gonna settecentesca e che attraversava il desco di corsa, cosicché solo chi era pronto ad accaparrarsi la razione, il più forte, aveva pane per i propri denti. E la donna con un abito da sera cucito con fettine di carne. Immagini entrate poi in una sorta di immaginario collettivo del rapporto uomo cibo. Un tema che verrà ripreso anche nell’edizione di quest’anno con la intensa e controversa performance della compagnia belga XL production, la cui coreografa Maria Clara Villa Lobos ha dedicato uno spettacolo, Mas-Sacré, al tema dell’allevamento massivo, alla base dell’alimentazione di massa contemporanea. Il gioco di parole del titolo già evoca in maniera chiara il rapporto fra quanto di più sacro dovrebbe esserci nel consesso civile, ovvero la nutrizione – intesa sia in senso materiale che spirituale – con il concetto di violenza che sta invece sovrastando e permeando questa sfera che ha a che fare in modo evidente con l’idea di intimo, interiore. ★

Le banquet

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Cibo vs Food il cuoco nell'era di MasterChef Nella cultura dello show business la metamorfosi del cibo in prodotto ha condotto alla sua spettacolarizzazione, trasformando gli chef in star, i commensali in spettatori, il cucinare in show cooking. di Valerio Massimo Visintin

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utta colpa del food. L’avvento feroce di questa paroletta ha marcato una svolta radicale nella concezione collettiva della alimentazione e delle sue derivazioni più o meno nobili. Anche prima del food, si parlava di cibo e di ricette, naturalmente. Ma in parsimonia ed entro confini dialettici prestabiliti con un certo rigore. Prima del food, la cucina, se non era un’entità domestica, era un retroterra segreto dal quale fiorivano i piatti dei ristoranti e delle trattorie. I cuochi, officianti silenziosi, conducevano un’esistenza misterica dietro le quinte delle sale apparecchiate. Erano registi occulti di un rito conviviale nel quale noi avventori avevamo in consegna il ruolo principale. Prima del food, la televisione invitava ai fornelli chiunque, purché non fosse cuoco, frastornata da una forma di basso snobismo o da una sorta di censura preventiva, come se svelare quelle identità in toque blanche fosse un peccato, quanto mostrare le gambe delle Kessler. Molti anni prima del food, a raccontare storie di gente e di gastronomia erano il folklore letterario di Mario Soldati e il pionerismo esplorativo di Luigi Veronelli. Due scuole affini, onorate con coerenza divulgativa e sostanza etica da Slow Food qualche lustro più tardi.

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Cucinare al tempo di internet Eppure, proprio i templari della tutela agroalimentare hanno, inconsapevolmente, gettato il seme della deriva foodista di questi ultimi anni. E non solo per la parziale coincidenza linguistica. Il fatto è che viviamo in una società vocata alla propaganda. Nella quale, per ogni buona azione, germoglia un’opportunistica parodia. Il monito culturale di Slow Food è stato acchiappato, divorato e rigettato sulla pubblica piazza sotto una lente deformante. Tutto appare pletorico e grottesco, compresi i più alti comandamenti, come la “valorizzazione” dei prodotti, del lavoro artigianale, delle eccellenze, dei cuochi, della tradizione, della nostra ristorazione nel suo complesso. Basta sfogliare qualche testata del settore o, addirittura, qualche menu di ristorante aristocratico. Ovunque, si replicano gli stessi piatti, lo stesso lessico involuto e iniziatico, le stesse minuzie ossessive nell’individuazione degli ingredienti, con nome, cognome, data di nascita del produttore e del singolo acro di terreno. Questa rivoluzione mercantile, sospinta dall’esplosione incontrollata del web (con conseguente moltiplicazione di siti specializzati e foodblog improvvisati), ha prodotto una sottocultura gastronomica a maglie larghe quanto basta per infilare con comodità mes-


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saggi pubblicitari più o meno surrettizi. Naturalmente, la televisione non poteva lasciar scappare l’opportunità di rilanciarsi in un territorio improvvisamente vasto e fertile. Buffo che abbia colto nel segno pur non avendo maturato la capacità di produrre una formula originale, dedicata e misurata su quella specifica taglia. Tra reality fittizi e realistiche finzioni, la cucina viene declinata lungo tutto l’arco costituzionale degli schemi pre-esistenti. Tra i duetti anni Settanta inscenati da Ave Ninchi e Veronelli e l’odierno teatrino di Antonella Clerici e Beppe Bigazzi non c’è distanza narrativa. Cambia soltanto la qualità dei protagonisti. E nemmeno MasterChef, il format di maggior impatto, ha attinto a un nuovo bacino di idee. Poiché, in fondo, rimastica il canovaccio risaputo del talent show alla X Factor. L’inedito televisivo, semmai, è l’insorgere di un vago sadismo paramilitare, incarnato dal ghigno biondiccio di Gordon Ramsey, dallo schiamazzo stridulo del nostro Carlo Cracco, dal birignao anglofono di Joe Bastianich o dall’opulenza partenopea di Antonino Cannavacciuolo. Facile dire che le estremizzazioni dei caratteri sono il pane della tivù. È vero, piuttosto, che nel caso specifico l’estremismo nasce prima. Fiorisce, insomma, nella realtà extratelevisiva. Ai convegni, alle fiere e agli show cooking, la cucina registra puntualmente bagni di folla e “tutto esaurito”. Gli chef d’alto bordo monologano e straparlano in prima persona, mostrando le loro maschere, ieratiche o feroci. La magia delle ricette e l’esibizione dei gesti bianchi e centimetrati con i quali ricamano i piatti sono eventi marginali. Da chef a guru Un esempio? Ne faccio tre. E li estrapolo dal medesimo contesto: Identità Golose, massimo convegno nazionale dello chef-system (tenutosi lo scorso febbraio a Milano) dove i divi si manifestano su un vero palcoscenico davanti a platee elettrizzate dai flash dei selfie. State a sentire. In gioco ci sono tre grandi firme della ristorazione italiana. Davide Scabin (Combal.Zero di Rivoli, alle porte di Torino) ha messo in relazione i propri disegni gastronomici con la successione di Fibonacci e la sezione aurea: mancavano solo Dan Brown e i Templari. Massimo Bottura (Osteria Francescana di Modena), lisciando la sua retorica pretesca, ha tirato in ballo Andy Warhol, Vittorio De Sica, fantomatici “monaci di una volta”, un mezzo etimo latino e altre paternità artistiche. Pietro Leemann (Joia Milano), prima di toccar pentola, ha benedetto l’acqua (non sto scherzando), pregando e tintinnando un campanellino, tra cortine di incenso. Visto? Le esibizioni degli chef sono spettaco-

li di arte varia, che ormai prescindono dalla gastronomia, perché attengono al circo del food. E i protagonisti becchettano frammenti di cultura e di spiritualità per riempire i vuoti procurati dalla lievitazione mediatica. Qualche tempo fa, Andrea Berton, altro vate della ristorazione milanese, mi ha detto più o meno: «Quando si va in un ristorante con uno chef che ha determinati canoni, ci si prepara come se si andasse a vedere la mostra di un pittore». Nel locale dello stesso Berton (dove mi ero recato in incognito e dove il mio volto non è conosciuto), a fine cena, il maître mi ha gentilmente offerto la possibilità di andare a salutare lo chef e rendergli doveroso tributo, esattamente come si fa con gli attori in camerino. La non sottile differenza tra i due ambiti è che la ristorazione è un servizio al centro del quale dovrebbe essere posto il cliente. E difatti non si parla di “spettatore” né di “visitatore”, come per il teatro o per i musei. Indagare le ragioni di questa mutazione genetica è complicato, perché lungo e fitto è l’elenco dei sospettati. Tuttavia, non è difficile abbozzare un quadro indiziario. La seduzione del food si è insinuata agevolmente nella nostra società perché colonizza un’azione quotidiana e universale come l’atto del mangiare; il piacere più longevo e ripetuto; il vizio più diffuso e più evocativo, quello al quale si concede la maggiore indulgenza. Ma il food tiene in ostaggio anche altri verbi non meno vicini e abituali: cucinare, coltivare, produrre, consumare, trasformare. Perciò, siamo tutti abilitati a vestire i panni degli esperti di food. Tutti mangiatori, tutti cuochi, tutti blogger, tutti critici ed esperti. Se vogliamo accedere ad altre espressioni creative, dobbiamo muoverci nella loro direzione con passione, talento, fatica, studio, approfondimento. Il food, invece, ci viene incontro e ci seduce ogni santo giorno, essendo parte della nostra esistenza. Secondo fonti accreditate dagli storici, il primo avvistamento del food nella storia dell’umanità, fu la mela che il serpente offrì a Eva alla prima edizione di Identità Golose, tenutasi nell’Eden parecchi anni fa. La speranza, seppur labile, è che durante l’Expo e dopo l’Expo l’attenzione si rivolga al cibo. Senza sottovalutare gli interpreti della cucina, ma evitando di erigere altari. Con parole semplici e piane, per favore, parlate di cibo: quello buono e quello sano; il cibo contraffatto e quello violato; il cibo inquinato dalle mafie; il cibo che abbiamo e quello che ci manca, quello coltivato e quello cucinato con amore. Tutto il cibo del mondo, purché non sia food. ★ In apertura, Antonino Cannavacciuolo (foto: Martin Schoeller).

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Nutrire il corpo e lo spirito la missione dei Cuochivolanti Ristoratori sopraffini e teatranti professionisti, l’associazione torinese ha saputo coniugare professionalità ed esperienze differenti per creare format gastronomici, spettacoli e un festival, Play with Food, unici in Italia. di Laura Bevione

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avide Barbato e Roberta Cavallo si conoscono nel 1998, in ambito rigorosamente teatrale, quando entrambi entrano a far parte della compagnia dei Marcido Marcidorjs, con la quale lavorano continuativamente fino al 2006. In quell’anno i due decidono «di abbandonare non soltanto la compagnia ma l’attività teatrale a pieno regime, e di prendere un anno sabbatico, dedicandoci esclusivamente ai fornelli, con allegria». Nascono così i Cuochivolanti, in primo luogo imprenditori del settore catering ma anche incurabili teatranti. Incontro Davide Barbato e Chiara Cardea – insostituibile collaboratrice e complice del primo, con il quale mette in scena spettacoli e dirige il festival Play with Food – nella sede di Cuochivolanti, a Torino.

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Davide, perché la scelta di dedicarvi proprio ai fornelli? La cucina era una passione coltivata già da tempo, anche durante il lavoro teatrale, e abbiamo così iniziato una piccola attività di catering, prima a livello “amicale” poi, dopo circa un anno, abbiamo intuito che l’attività poteva diventare un lavoro. Ci siamo resi conto, però, che noi possedevamo già un altro tipo di professionalità, acquisita durante gli anni con i Marcido. Così abbiamo iniziato a seguire due percorsi paralleli: da una parte studiando come “cucinieri” e, dall’altra, inventandoci cose per trattenere parte del vecchio lavoro in quello nuovo. Nel 2007, poi, Cuochivolanti si è costituita come società, di cui facciamo parte io, Roberta Cavallo e Patrizia Capuzzi, una psicologa che è diventata socia più tardi.

Quali sono state le vostre prime esperienze di cuochi/teatranti? La prima cosa che abbiamo fatto è stato Kitchen Kabarett, che ancora oggi mettiamo in scena e che ha avuto moltissime versioni. Fondamentale per la sua evoluzione è stato l’incontro con Chiara Cardea e Claudio del Toro – conosciuti durante l’esperienza con i Marcido – con i quali abbiamo realizzato già almeno trecento repliche dello spettacolo. Per noi è un cabaret gastronomico da realizzare nelle case, composto da vari numeri, cantati e recitati, a tema cibo e intrecciati strettamente con il momento conviviale. In seguito, però, avete messo in scena spettacoli più “tradizionali”, penso a Happy Meals…


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Sì, con il passare degli anni è cresciuta l’esigenza, artistica prima di tutto, di riflettere sul tema cibo anche con uno spettacolo. Prima è nata con Roberta una performance intitolata Cooking Times, commissionata dal Circolo dei Lettori di Torino, dedicata ai tempi di cottura dei vari piatti. È stata un’esperienza importante perché ci ha permesso di mettere in pratica la nostra idea di come coniugare cibo e teatro, ossia l’elaborazione di un piatto così come se fosse la messa in scena di uno spettacolo. Entrambe sono pratiche che prevedono un esito fulmineo, momentaneo, molto rischioso, non replicabile, con un giudizio finale e con tempi di preparazione sproporzionati perché il tempo passato in cucina è moltissimo così come quello necessario per provare uno spettacolo. Nel 2012, invece, abbiamo messo in scena, sul palco del teatro Astra, ospiti del Festival delle Colline Torinesi, Happy Meals, prodotto con il sostegno del Sistema Teatro Torino. Perché uno spettacolo messo in scena su un palco, dopo tante sperimentazioni in luoghi non teatrali? Durante il lavoro di catering, mentre sono impegnato a servire, penso sempre che il buffet sia come un enorme palcoscenico: da dietro il tavolo vedo dispiegarsi di fronte a me dinamiche teatrali allo stato puro. Prima di tutto il buffet segna una linea proprio come il proscenio e, dietro, le persone si muovono come seguendo dei copioni. Ho voluto dunque ricreare quella situazione sul palco con il proscenio che, al termine dello spettacolo, si trasforma in un buffet, cui è invitato il pubblico. È anche un modo per sottolineare, un po’ ironicamente, che siamo tutti sullo stesso palcoscenico. Nella primavera di quest’anno va in scena la sesta edizione del festival Play with Food: com’è nata l’idea della rassegna? L’idea è nata fin da subito ma siamo riusciti a realizzarla soltanto nel 2010, con una prima edizione “fatta in casa”, realizzata chiamando amici e compagnie che sapevamo lavorare sul tema cibo. A partire dalla seconda edizione, Chiara si è occupata con me della direzione artistica. In quella edizione abbiamo proceduto con una chiamata pubblica mentre a partire dalla terza abbiamo fatto un bando, aperto non solo ai teatranti, bensì a tutte le arti, purché le opere proposte avessero come tema il cibo, sondato in tutti i suoi aspetti.

Voi lavorate con passione al vostro festival… Sì, per noi è qualcosa di prezioso, anche perché dimostra quali sviluppi interessanti possa avere il tema del cibo, anche quando è utilizzato nei suoi aspetti più “difficili” e tutt’altro che “pacifici”. Il cibo serve sia come grimaldello per coinvolgere e sedurre pubblici diversi, sia per stimolare gli artisti, che sono riusciti a far scaturire cose impensabili anche da una semplice fetta di pane. Il festival, inoltre, è riuscito a creare sempre una grande convivialità e un intenso scambio con il pubblico. A questo proposito, un’esperienza assai significativa è quella delle Underground Dinner, che abbiamo proposto nelle ultime due edizioni del festival: l’esperimento è quello di mischiare e confondere lo spazio pubblico con lo spazio privato, il reale della cena e l’”irreale” della performance teatrale.

Davide, quando è impegnato nell’attività di catering le dispiace che alcuni non sappiano che è anche un teatrante? A differenza di Chiara, che si occupa esclusivamente della parte relativa al teatro, io mi sento prima di tutto un ristoratore, qualcuno che si occupa di nutrire le persone. Ogni tanto, però, il nutrimento avviene utilizzando mezzi teatrali: sono convinto che le persone, anche se non conoscono la mia biografia, nell’intimo sanno che sono pure un teatrante, perché la sovrapposizione delle mie due nature si fa sentire, il modo in cui presentiamo e serviamo il cibo ha sicuramente un’anima teatrale che alle persone, anche se irrazionalmente, non sfugge. ★ In apertura, un momento di Cooking Times (foto: Alain Battiloro).

Cuocolo/Bosetti, il sapore della memoria Nel giugno 2000 debuttò a Melbourne The Secret Room (nella foto), che da allora ha superato le 1600 repliche ed è stato messo in scena in quattro continenti. La prima parte dello spettacolo consiste in una cena e, d’altronde, «tutte le cene sono teatrali per natura»: gli spettatori sono invitati a casa dell’ospite/protagonista Roberta Bosetti alle otto di sera, all’ora del pasto serale appunto. Il menu è variato nel tempo, sia per assecondare quel principio di voluta ambiguità fra vita e teatro che costituisce la cifra di Cuocolo/Bosetti – poiché gli spettatori sono invitati nella vera casa della coppia, condividono il pasto che i due avevano preparato per quella particolare sera – sia per adeguarsi alla disponibilità alimentare dei vari luoghi del mondo in cui lo spettacolo è stato realizzato. Nelle ultime repliche, andate in scena nel febbraio appena trascorso al Funaro di Pistoia, il menu era ispirato all’infanzia, il periodo della vita dell’attrice rievocato in The Secret Room. E, dunque, pastina al sugo e “pesce finto”, piatti semplici ma gustosi, tipici della cucina piemontese di trenta-quaranta anni fa e che, oggi, nessuno prepara più. La cena si svolge normalmente ma ci sono alcuni momenti che lasciano trapelare segreti e inquietudini fino a quando avviene un rovesciamento della situazione e «l’immagine protettiva e casalinga del luogo del cibo, e quindi della nutrizione e della sopravvivenza, si inquina. Questo rovesciamento ha qualcosa a che fare con il fantastico, e forse con le fiabe, in cui il luogo del cibo apre la strada alla paura di essere mangiati». L’incubo e l’angoscia dell’infanzia si attenuano nella rievocazione del passato di Margherita, la madre dell’attrice, in Roberta torna a casa (2012). Roberta Bosetti accoglie gli spettatori nella casa di famiglia a Vercelli e racconta loro della madre. Nella parte finale dello spettacolo, poi, l’attrice offre agli spettatori-ospiti latte e grappa e il riso al latte, ancora un piatto semplice della tradizione vercellese. Il passato, così, non è rievocato soltanto dalle parole ma, quasi proustianamente, da quel senso dotato di solida memoria che è il gusto. Laura Bevione

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Un panorama delle compagnie che hanno trasformato il cibo in discorso artistico, facendone la propria particolare cifra poetica, e degli spettacoli dedicati al nutrimento, spirituale e materiale, del pubblico.

Le tavole del palcoscenico un'ipotesi di censimento Roberto Abbiati e Leonardo Capuano, Pasticceri - In Pasticceri Roberto Abbiati e Leonardo Capuano sono due fratelli che vivono “segregati” nel loro laboratorio-microcosmo al riparo dalle intemperie esistenziali. Nella cucina attrezzatissima, in cui preparano in tempo reale gustosissimi dolci offerti poi al pubblico, si beccano, si coccolano e raccontano storie di vita reale o immaginaria.

Sara Allevi, L’odore di spezie che ha il buio - Creata nel 2013, la cena performativa si svolge nella semioscurità: c’è un tavolo ricoperto di semi, radici, fiori e cortecce che richiamano terre lontane; qui ha inizio un banchetto esplorativo del mondo delle spezie. Gli ospiti sono invitati a usare tutti i sensi per recuperare un contatto autentico con il cibo.

ACTI Teatri Indipendenti / Beppe Rosso Taste Circus (2013) mette in relazione il circo contemporaneo con la cucina, lo chapiteau si trasforma in ristorante e gli artisti in camerieri. Al pubblico viene servito uno spettacolo circense in cinque atti abbinati alle portate di un menù. Dello stesso anno è Attenzione alle vecchie signore corrose dalla solitudine: mentre i commensali gustano prelibatezze, gli attori, seduti con loro, danno vita alle trame “indigeste“ del teatro di Matei Visniec.

alTREtracce - Il teatro d’ombre racconta il cibo. Nel fortunato Kitchen Circus un insolito chef presenta, come se fossero numeri da circo, storie di ricette che hanno per protagoniste le verdure. alTREtracce ritorna sul binomio ombre-cibo con Aglio, ombra e peperoncino: un tributo alla pasta come simbolo dell’italianità (olio/verde, aglio/bianco, peperoncino/rosso) in onore dei festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia.

Agriteatro - Il rapporto con il tema del cibo e della convivialità è una costante di questo cantiere d’arte e di teatro fondato nel 2008 da Tonino Conte nell’Alto Monferrato, zona ricchissima di tradizioni nel campo enogastronomico. La rassegna estiva ha ospitato vari spettacoli legati al cibo, seguiti poi da picnic nei prati cui partecipano pubblico e artisti.

Assemblea teatro, Nasce nell’acqua ma muore nel vino - Un regista che prepara con cura un risotto mentre una donna racconta la sua vita: la giovinezza a faticare nella risaia, la guerra e il trasferimento in Svizzera. Alla fine brinda con il pubblico, col quale condivide anche il risotto. Scritto da Laura Pariani, diretto da Renzo Sicco, il monologo è interpretato da Manuela Massarenti.

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a cura di Ilaria Angelone, Nicola Arrigoni, Giorgia Asti, Laura Bevione, Albarosa Camaldo, Claudia Cannella, Roberto Canziani, Francesca Carosso, Francesco Tei, Nicola Viesti

Marco Baliani, Trincea - Parte del progetto Il Rancio della Storia curato da Luigi Ceccarelli/Casa delle Arti-Teatro Sociale di Bergamo, lo spettacolo, prodotto da Marche Teatro, descrive la sopravvivenza, fra cibo “avariato” e scarso, dei soldati italiani nelle trincee della Prima guerra mondiale. Giancarlo Bloise, CucinarRamingo - «Ho fatto il cuoco di professione al Kosher Vegetarian Food Ruth’s di Firenze. Nello stesso tempo mi sono occupato di studi di architettura, urbanistica, teatro e teatro di figura con Tomas Jelinek, al Laboratorio Teatro Nove e a Holstebro: un percorso da cui ho distillato la mia nuova figura professionale di narra-attore cucinante». Tra gli avventori di quel ristorante fiorentino c’era Giuliano Scabia. Un suo racconto è l’ingrediente base di CucinarRamingo (foto a lato), con cui Bloise nel 2012 vince il Premio Cappelletti/Tuttoteatro.com e da allora replica regolarmente. Fabio Bonelli, Musica da cucina - La strumentazione: pentole e padelle, scolapasta, grattugie, mestoli, cucchiaini, sbattiuova, imbuti e altri oggetti simili. La location: case, ristoranti, mense, orti pubblici, all’occorrenza anche teatri. Un concerto dal sound “casalingo” che, dal 2007, porta in giro per il mondo i suoni della cucina.


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Cà Luogo d’Arte - La compagnia, fondata da Maurizio Bercini e Marina Allegri, ha fatto della riflessione sul cibo e sull’alimentazione un suo tratto distintivo, come testimoniano Gnam Gnam, partito dallo sgomento dell’agricoltore che sapeva raccontare solo storie di latte e farina e non conosceva gli ovetti con le sorpresine; Incontri con animali straordinari, sotto un tendone circense una mucca, un maiale e una gallina, ognuno con qualcosa da raccontare; Storie fruttuose, sull’importanza del nutrimento del corpo e dell’anima; Dura crosta (foto a lato), la lievitazione del pane paragonata al processo di maturazione di un adolescente. Cantieri Teatrali Koreja, Il pasto della tarantola - Percorso post-moderno nei sapori della terra salentina con la convinzione che il mangiare coinvolga tutti e cinque i sensi. Gli spettatori intraprendono un viaggio che ristora mente e palato grazie a cibi presentati in forma minimale ed elegante da due intriganti insegnanti, Annachiara Ingrosso e Ottavia Perrone. Cetec - Carcere di San Vittore di Milano - I detenuti, grazie all’associazione Cetec, partecipano a laboratori di cucina, oltre che di teatro, così da poter avere una doppia possibilità di reinserimento nella società. Il risultato sono gli Happy Alda, aperitivi poetici preparati dalle detenute, che partecipano anche ad A cena con Alda, con la regia di Donatella Massimilla: stralci delle poesie di Alda Meri-

ni, dedicati al cibo, intrecciati alla preparazione dei suoi piatti preferiti, come il timballo di riso, degustati poi con gli spettatori. Anche in La casa di Bernarda Alba, San Vittore Globe Theatre e Sogno di una notte di mezza estate vengono cucinati piatti nelle scene chiave. Per Expo debutterà Ape car (To Bee or not to Bee), un progetto di street theatre nella periferia milanese con la preparazione di street food. Chi per Es Teatro, Gusto e disgusto - Debutta a Play With Food 4 Gusto e disgusto_ orazione degustativa, un monologo in cui il protagonista, Salvo Montalto, argomenta le proprie preferenze alimentari al fine di tracciare un’identità, personale e culturale, a partire da due antitetici giudizi che il gusto può esprime in fatto di cibo: piacere e disgusto. Collettivo PirateJenny, D.O.C. Denominateci o collassiamo - Azione performativa che propone un ironico parallelismo tra la classificazione del cibo e il riconoscimento del valore personale: i performer, persi nell’esasperata ricerca dell’eccellenza, mirano a raggiungere quella “certificazione di qualità” che – come accade con il cibo – assegni loro un posto nel mondo. Compagnia Aldes - Altro piccolo progetto domestico è un assolo del 2007 di Ambra Senatore, rappresentazione surreale della quotidiana solitudine: la donna e i suoi desideri, la cucina, la preparazione di una frittata. Debutta anche Il duca delle prugne di Roberto Castello: in un night club gli spettatori consumano cibi e bevande mentre assistono a balletti e numeri comici. Ma gli attori/camerieri, tra un’esibizione e l’altra, forniscono su richiesta massaggi, coccole, baci, «siringhe di autostima». Compagnia Cooperativa E.s.t.i.a - II Casa di Reclusione di Bollate - Camerieri della vita, ideato dalla Cooperativa E.s.t.i.a, è un esempio di “teatro-ristorante”, aperto a tutti e gestito da camerieri speciali: i detenuti del Carcere di Bollate. Divenuti chef qualificati, cucinano la pizza o servono un menù completo dall’antipasto al dolce. Durante le serate, i detenuti-ristoratori alternano le portate con momenti teatrali e musicali in cui offrono il racconto delle loro vite.

Compagnia Qui e Ora, Saga salsa - Realizzato dalla Compagnia Qui e Ora su drammaturgia di Silvia Baldini e regia di Aldo Cassano, Saga Salsa racconta le storie di tre generazioni di donne, del loro ristorante e della salsa di pomodoro da preparare. Il pubblico è invitato a una vera e propria cena, diversa a seconda del luogo (ristoranti, trattorie, agriturismi ecc.) che li ospita. Cuochivolanti - Teatranti e “cucinieri”, nascono nel 2006 a Torino a opera di Davide Barbato e Roberta Cavallo: offrono saporiti catering e un duttile “format” teatral-gastronomico, il Kitchen Kabarett. Hanno allestito la performance Cooking Times e gli spettacoli Cucina Sonora – con il sound designer Enrico Ascoli – e Happy Meals. Dal 2010 l’associazione organizza Play with Food, un festival di arti visive e performative interamente dedicato al cibo. Cuocolo/Bosetti - Nel 2000 debutta The Secret Room: gli spettatori/ospiti cenano con l’attrice/padrona di casa, chiacchierano normalmente finché l’immagine protettiva del luogo del cibo è corrotta e subentra la paura. La casa di famiglia come scrigno della memoria, anche alimentare, è protagonista pure di Roberta torna a casa, del 2012: al pubblico è offerto un tradizionalissimo riso al latte.

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Tiziana Di Masi - Tiziana Di Masi fa da anni del Teatro Gastronomico uno dei veri e propri capisaldi della sua ricerca artistica e teatrale: il cibo come metafora di nutrimento e di vita, di tradizione, cultura, memoria e bellezza. Il progetto di “Teatro da Gustare” comprende tre spettacoli che interpretano in maniera differente e variegata l’immagine del cibo in tutte le sue forme e significati: Pranzo a Santa Maria Incoronata (2009), Garganelli al Ragù della Linin (dal racconto di Carlo Lucarelli) e Escargot e Brachetto?!! (2008). Dal 2010 la ricerca sul cibo si è unita alla passione per la legalità, con il pluripremiato spettacolo Mafie in Pentola (foto sotto), organizzato in collaborazione con l’associazione antimafia Libera.

Luigi Ciotta e Aurélia Dedieu – nei panni di una coppia di obesi che abita in un bidone dell’immondizia. Giocando con il cibo e i rifiuti, dipingono una caricatura della società dei consumi, accentuandone i peggiori dettagli. Amedeo Fago e Fabrizio Beggiato, Risotto Il duo da oltre trent’anni porta in giro con enorme successo questo spettacolo: il primo entra in scena, si mette a sedere e comincia a imbastire piccoli giochi da tavola; il secondo prende posto ai fornelli e inizia il lento, ma coinvolgente, rituale della preparazione del risotto. Nell’ora scarsa che serve ai due per completare tale rituale, non si ha mai la sensazione di assistere a una rappresentazione, semmai a una condivisione di esperienze. Elvira Frosini, Digerseltz - La performer, autrice e regista lavora da sempre sul corpo come prodotto di cultura, convenzioni, rapporti di potere e politica. Lo spettacolo, di cui è autrice e unica interprete, ha debuttato nel 2011 ed è incentrato sulle mitologie contemporanee del mangiare, sugli sprechi e le eccedenze rituali. Gruppo di teatro campestre, Civediamoaldìperdì - La compagnia nasce a Genova nel 2008 per volere di tre attori dell’entroterra ligure tra cui Elisabetta Granara, oggi direttrice artistica. Alla stagione 2012-13 risale il suo fortunato spettacolo Civediamoaldìperdì, che si sviluppa nella cucina di un ristorante dove le tre protagoniste lavorano.

Don Pasta - Cooking dj set e Food Sound System: sono gli show di Don Pasta (al secolo Daniele De Michele), cuoco poeta e “gastrofilosofo”, oltre che dj. Gli ingredienti che utilizza sono cucina salentina, musica, racconto popolare alla maniera di un antico cantastorie, messaggi politico-sociali e, infine, immagini: veri e propri piccoli film che mostrano Don Pasta mentre prepara i suoi piatti. L’intento è quello di «chiamare in causa tutti i sensi: vista, gusto, olfatto, tatto, udito». En CroQ, Funky Pudding - Parlare di rifiuti, cibo spazzatura e sprechi alimentari con comicità: questo il compito degli attori –

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Elena Guerrini - Dopo esperienze con il Teatro Valdoca e Pippo Delbono, Elena Guerrini scrive e realizza per la scena La cucina erotica (2002), performance gastronomica per un solo spettatore alla volta che, tra vini e cibi, viene coinvolto con ricette afrodisiache e testi poetici. Del 2008 è Orti insorti, rievocazione della vita dei mezzadri maremmani, prodotto barattando la storia con cibo, vino, olio e prodotti della terra. Da tale esperienza è nato il festival “A veglia, a teatro col baratto”, esempio di rassegna low cost e di economia condivisa, che si svolge a Manciano, in Maremma. Interazione Scenica, Thanksgivingday - Un progetto permanente di creazione scenica e attività laboratoriale, nato nel 2011 a cura del regista Andrea Ciommiento. Nel 2014 debutta a Play with Food Thanksgivingday, che racconta il lungo giorno del ringraziamen-

to vissuto dal protagonista Fausto, appena emigrato negli Usa, tra le due passioni che lo muovono, cibo e sesso. La Piccionaia/I Carrara, Special Price Scritto e diretto dai Babilonia Teatri, rientra nel progetto Parole per la Terra (foto sotto), nato nel 2009 dalla collaborazione fra Napoli Teatro Festival e Festival della Scienza di Genova. Lo spettacolo racconta l’ossessione del cibo che affligge il nostro tempo, fra risate e scenari futuri poco incoraggianti. Laboratorio Teatro Settimo/Mariella Fabbris - Il caffè offerto da Curino, Giagnoni, Fabbris in Stabat Mater e, ancora prima, Riso amaro, fino a Cucina, diretto da Roberto Tarasco e ispirato a Cervantes, in cui due studenti poco diligenti (Andrea e Massimo Violato) armeggiano con vari utensili da cucina. L’interesse verso il “nutrimento”, pur variamente declinato, è una costante di Teatro Settimo e caratterizza anche l’attività “solista” di Mariella Fabbris, che da qualche anno, in Cibo angelico, offre agli spettatori una bella storia, ispirata a un racconto di Antonio Tabucchi, e un buon piatto di gnocchi. Eleonora Marino, Pane/a ciascuno il suo Lo spettacolo fa parte del progetto multidisciplinare Del grano da macinare e racconta una storia onirica, dove il pane si trasforma in oggetto artistico e composizione poetica. Gli spettatori attraversano così differenti mondi e culture, in cui l’aroma, il gusto e la fragranza del pane diventano elemento di interazione con il pubblico. Pandemonium Teatro, “Ruggero! Ruggero!” Ovvero öna grignada sana - Recital in rime bergamasche dedicato alle poesie di Pietro Ruggeri da Stabello. Tiziano Manzini


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veste i panni del Poeta, costretto a preparare una polenta taragna – che verrà poi offerta al pubblico – mentre recita la sua opera, perché il servitore che doveva assisterlo non si presenta. Antonio Russo, Mangia bello, mangia! Monologo liberamente ispirato al romanzo Mi fido di te di Carlotto e Abate. Si tratta di un’indagine, approfondita e documentata, sul sistema alimentare moderno. Antonio racconta al pubblico dell’esistenza, tutt’altro che fantastica, del vasto commercio di cibi contraffatti e potenzialmente dannosi per la salute. Irene Russolillo e Claudia Caldarano, Anti_ Pasto. Prima e contro il pasto - In principio era la cucina, povera e scarna, espressione di una fatica ricorrente del corpo e dello spirito. Qui ha luogo la ciclica ultima cena di due sorelle, per le quali la fame è il peccato originale, ciò che le condanna a una sfibrante abitudine: il sedersi a tavola per cibarsi. I Sacchi di Sabbia, Sandokan, o la fine dell’avventura - I tigrotti di Mompracem come patate, spicchi d’aglio per i soldati inglesi e un pomodoro per la bella Marianna, mentre si combatte una furiosa battaglia in una ciotola per l’insalata: ironico e divertente, è Sandokan, o la fine dell’avventura dei toscani Sacchi di Sabbia, dove le avventure dell’eroe salgariano vengono raccontate manipolando ortaggi e attrezzi da cucina. Teatro-Cucina - Ideato da Valentino Infuso, attore e danzatore, prende corpo presso il Teatro in Polvere di Milano nel 2001 con la collaborazione di Elisabetta Faleni che ne cura anche la regia. Tre attori in scena, un musicista Roberto Zanisi polistrumentista, un pranzo servito direttamente dagli attori ai trenta spettatori. Un’efficace alchimia fra i piatti realizzati dallo chef pluristellato Davide Oldani, serviti con molta cura su una tavola dal sapore barocco, e le storie, che al cibo si ispirano e si intrecciano. Teatro degli Acerbi, Zuppa di latte - In una latteria dai toni beckettiani, una famiglia di lattai e i loro clienti abituali parlano, senza distinzione tra presente, passato e futuro, di tradizioni e attualità, progetti e speranze, di filosofia popolare e poesia del cibo, in attesa che ritorni il figlio «che hanno mandato a studiare».

Teatro del Pane - «Cibo, arte, cultura, sopra e sotto il palcoscenico»: questo lo slogan che identifica il Teatro del Pane, un luogo pensato per chi si esibisce e per lo spettatore, uno spazio intimo e gioioso dove gustare frutta e verdura biologiche a chilometro zero e dove bere il miglior vino del territorio. Fondato nel 2013 da Mirko Artuso e Ricky Bizzarro, offre ai suoi spettatori teatro di qualità in un ambiente mutevole, che in base all’ora della giornata diventa bistrot o platea. Nel corso della settimana si susseguono eventi diversi quali aperitivi, concerti, reading e mostre, tutte all’insegna del buon cibo. Teatro del Sale - Difficile immaginare una contiguità – nel senso letterale del termine – tra teatro e cibo più diretta di quella che incontriamo in questo spazio fiorentino, attivo da nove anni. Qui i clienti consumano le deliziose creazioni gastronomiche di Fabio Picchi e poi godono degli spettacoli programmati dalla moglie, Maria Cassi, che offre anche i propri irresistibili, assoli comico-mimico-musicali. Ma la contaminazione tra cibo e il teatro la si ritrova anche nei fragorosi “assoli” vocali con cui Picchi apostrofa i clienti annunciando o preannunciando i diversi piatti in arrivo. Teatro delle Ariette - Stefano Pasquini, Paola Berselli e Maurizio Ferraresi: cominciano nel 1997, dando voce con A Teatro nelle case alle biografie della comunità contadina dell’Appenino bolognese di cui fa parte. Teatro da mangiare? è lo spettacolo che nel 2001 li riporta sulla scena. Da allora è la tavola la custode della narrazione e il cibo si fa protagonista del racconto nel dialogo con i grandi della drammaturgia e della letteratura. Talvolta capita anche di assaggiare sapori d’oltremare, come con gli ultimi Odissea (2014) e Teatro naturale? Io, il cous cous e Albert Camus (2015). Teatro delle Moire, It’s always Tea Time Alessandra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani portano in scena nel 2012 questo suggestivo spettacolo (foto sopra). Un lungo tavolo bianco e la quasi totale assenza di azione: si apparecchia, si sparecchia, si beve un tè immaginario e si mangia pur senza cibo, con lo sguardo rivolto ad Alice nel Paese delle Meraviglie, da cui è tratto il titolo. Teatro di Dioniso/Elena Serra, La tour de la Defense - Nel suo elegante appartamento parigino, Jean invita gli spettatori a condividere con lui la cena di Capodanno. Nella

disinvolta lettura di Serra, il dramma di Copi offre buon cibo, servito dagli stessi attori, e un grottesco ritratto delle umane debolezze. Marcella Tersigni, Microstoria - Una singolare narrazione che ripercorre l’esistenza della protagonista e il suo passaggio «da Romana a Burina» negli anni del secondo dopoguerra. Mentre scorrono le parole del racconto, la protagonista prepara una squisita pasta e fagioli che verrà poi assaporata, al termine dello spettacolo, da tutti gli spettatori presenti. The Kitchen Company - Nasce nel 2008 per volere del produttore Massimo Chiesa che decide di instituire una compagnia teatrale di attori neodiplomati. A lui si devono le messe in scena di The Kitchen di Arnold Wesker (2008) – da cui il nome del gruppo – e La Cena dei cretini, di Francis Veber (2014). Chiara Vallini/Teatro NEO - L’attrice è autrice di suggestive cene performative. Un ristorante con un solo avventore che sceglie dal menù l’azione teatrale a cui assistere: questo è Psychofood. In Ricettario/Lato B lo spettatore munito di cuffie osserva la “cuoca” nell’esecuzione di una ricetta. Nel corso della cena di MIAO-Lezioni pratiche di erotismo a tavola il pubblico riceve lezioni sull’eros da una “gatta”. Un pasto di cinque minuti ha luogo in Minicena: un tavolo per due, il cibo dei Cuochivolanti, Vallini e Chiara Cardea che accompagnano gli ospiti in un viaggio sentimentale. ★

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Épater les bourgeois la tavola come provocazione Fra aragoste bollite in scena e sanguinacci “umani”, nel resto d’Europa molti artisti utilizzano il cibo per sottolineare ipocrisie e sprechi della società occidentale.

Accidens. Matar para comer

di Sergio Lo Gatto

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e realtà europee offrono numerosi esempi di lavori teatrali che usano letteralmente l’arte gastronomica come amplificatore di segni e produttore di significati. Quella che segue non è certo una ricognizione esaustiva, piuttosto una microscopica antologia di visioni sperimentate in prima persona durante i viaggi all’estero degli ultimi anni. Bisogna innanzitutto fare il nome di Rodrigo García. Il suo Storia di Ronaldo il pagliaccio del McDonald’s – ricordiamo la versione di Giorgio Barberio Corsetti – vedeva il cibo da fast-food come sintomo di una globalizzazione fagocitante. Ma diversi suoi lavori colgono il cibo come mezzo di critica violenta, sia nelle folgoranti drammaturgie che nelle messinscene, in cui ingurgitare, vomitare, sputare, ingozzarsi e rotolarsi nel cibo e nelle salse diviene quasi una cifra stilistica. Nella controversa performance Accidens. Matar para comer veniva bollita e mangiata un’aragosta viva. Le atroci urla dell’animale (che poi l’artista spagnolo aveva rivelato essere postprodotte) riprese dai microfoni avevano fatto sobbalzare animalisti e deboli di fegato, centrando in pieno il cuore della critica a certe ipocrisie consolatorie. Nel 2004 Angélica Liddell vinceva il premio Sgae con Mi relacion con la comida, per certi versi simile all’opera di García nel mirare all’orrore capitalista e alla dittatura finanziaria. L’aberrazione del turismo gastronomico in Occidente affiancato alla fame del Terzo mondo viveva in un monologo fatto di frasi brevi, riferito in parte a L’industria culturale di Adorno, declinando sulla forza della parola, ancora più che sull’atto, una visione “metabolica” delle questioni morali. Al Festival Off di Avignone nel 2009 era passato il lavoro di Marion Aubert L’Enfer – Pour une comédienne et 4 kilos de pâte à pain, nel quale una pagnotta ancora

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cruda coperta da un canovaccio faceva da comprimario. Il tema del doppio declinava l’aspetto “creazionale” sulla manipolazione della pasta di pane, materia molliccia cui bastano pochi movimenti per prendere sembianze umane, che lo spettatore rendeva reale attraverso un meccanismo d’illusione caro al teatro di figura. La voracità restituiva una visione della meccanica di certe ansie umane, in cui la parola chiave finale era “metabolismo”. In chiusura, l’attrice farciva la pagnotta con una tavoletta di cioccolato e, ad applausi incassati, rientrava in scena servendo al pubblico un soffice e delizioso pain au chocolat. L’artista britannica Bobby Baker, celebre per aver raccontato in un libro di disegni il suo viaggio attraverso il tumore al seno e la diagnosi di disordine mentale che le era costata 42 ricoveri in 11 anni, aveva cucinato un’intera colazione nella performance Mad Gyms and Kitchen e l’aveva offerta agli spettatori. Sempre con un’offerta si apriva e chiudeva un altro, più estremo, esperimento, quello dello spagnolo Sergi Faustino in Nutritivo. Il folle performer incaricava un infermiere di prelevargli una siringa di sangue. Per i seguenti 40 minuti si dedicava a cucinare del sanguinaccio usando il campione appena prelevato, riempiendo i vuoti con un racconto-fiume sulle band di black metal sataniste, che appendono teste di capra appena tagliate e bevono sangue di topo, il tutto mentre nella padella sfrigolava il suo stesso sangue. Il monologo analizzava il concetto di fiducia verso simili pratiche. «Alla maggior parte di voi – diceva – sarà capitato almeno una volta di farsi prelevare il sangue. Ma il sanguinaccio che mangiate di solito proviene dal sangue di un maiale che non avete mai visto. Non sapete da dove provenga. Con me ci avete trascorso quasi un’ora. Io ora vi offro una salsiccia fatta con il mio sangue». Ci alzammo solo in due, per accettare con un piccolo sorriso, di fronte al naso arricciato del resto della platea. C’è infine l’esempio del grande rumeno Silviu Purcărete, autore di produzioni davvero mastodontiche. Tra queste compare Pantagruel’s Sister in Law, un’esplosione di regia e movimento di masse che attinge alla figura di Pantagruel, protagonista del romanzo seriale scritto da Rabelais. Purcărete lancia 18 performer in una grottesca sarabanda dionisiaca. Come in un quadro di Bosch, la fame insaziabile del protagonista rivive in un movimento assolutamente incessante, tra piogge di stoviglie e un finale in cui Pantagruel viene letteralmente cucinato in scena e ricomposto in una figura arcimboldiana fatta di solo pane, poi offerto al pubblico: il teatro come nutrimento per l’occhio, per l’ego, per l’anima. Buon appetito! ★


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SUPERNOVA (RITRATTO DI FAMIGLIA) di Erika Z. Galli e Martina Ruggeri Premio Hystrio Scritture di Scena 2014

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TESTI Personaggi: Elena: la madre Adele: sorella 27 anni Antonia: sorella gemella 26 anni Aida: sorella gemella 26 anni Angelica: sorella 25 anni Anita: sorella 24 anni Sono donne bellissime a guardarle bene, peccato la puzza, peccato i loro polmoni, peccato la loro tosse, peccato i pidocchi, peccato la sporcizia che pervade i loro lineamenti, peccato la tristezza, peccato il rossore. Peccato mangino ormai da troppo tempo solo cibo in scatola. Hanno sudato troppo per colpa delle temperature tropicali che emana la loro stufa. Sfioriscono. Elena è vittima degli psicofarmaci e della depressione derivata dalla scomparsa del suo uomo. Impugna sempre un fucile e comunica attraverso mugugni e sguardi. È molto magra ma le sue figlie la vedono grassa, immensa. Antonia è cresciuta in simbiosi con la madre. È felice di essere a casa. Vuole rimanerci. Per sempre. Per questo ha la chiave di casa sempre al collo come fosse un pegno d’amore. Aida è la gemella di Antonia. Vede tutto rosa. Adele è la maggiore. Fin da bambina è cresciuta spiando la montagna, sognando a occhi aperti di conoscerne i sentieri. Dall’età di sei anni trascorre con il padre, tra le montagne, le ore più belle della sua vita. In casa è solo di passaggio. Angelica, la terza. È cresciuta ascoltando musica rock ad alto volume in compagnia del padre. Ci sta stretta in quattro mura, ci sta stretta tra le montagne, ci sta stretta tra le galassie. Non capisce perché tutto questo freddo per dei corpi così caldi. Vuole andare via. Anita, la minore. Studia dall’età di quattro anni. Ha una curiosità morbosa. Senza limiti. Vuole sapere tutto. Avrebbe voluto tanto scoprire la teoria ultima. Vorrebbe oltrepassare la conoscenza dell’universo. NOTE: La scena è avvolta dai ricordi, per questo è spesso irreale, frammentata. C’è chi ricorda e chi scorda, ma sta già nell’accezione delle due azioni verbali: sono tutte faccende che hanno a che fare col cuore e per tale motivo sono impalpabili, totalmente autoreferenziali, da diario segreto. QUI E ORA: Una casa su un precipizio. Il precipizio dà sulla montagna. La montagna rosa. Di quella casa noi vediamo il salotto. Un salotto con uno spesso muro di vetro invisibile. Ci sono dei giorni particolari. E dei particolari rituali che scandiscono le ore di quei giorni. Oggi è la festa di primavera e una famiglia si prepara ai festeggiamenti. E, come ogni rituale familiare, ha delle movenze precise, imprescindibili, che avvengono ogni anno in quel giorno.

La Locandina SUPERNOVA (Ritratto di famiglia), di Erika Z. Galli e Martina Ruggeri. Con Aurora Peres, Anna Bellato, Alice Torriani, Sara Pantaleo, Margherita Massicci e Regina Orioli. Il testo debutterà a Tivoli Chiama! - il Festival delle Arti, rassegna culturale per la valorizzazione del patrimonio storico-artistico e paesaggistico attraverso lo spettacolo dal vivo, con direzione artistica di Franca Valeri (data del debutto in via di definizione, tra giugno e luglio 2015).

AIDA - Anitaaaaaaaaaaaaaaa! E dai svegliati che siamo tutte pronte! Svegliatevi dai, guardate avanti, guardate la montagna. Angelica, Antonia! Adele dai apri gli occhi! Che bel rosa che c’è, rimbalza sulla vetrata del salone e si riflette dappertutto. Guardate dritto, aprite gli occhi, è giorno! Ma come faccio a scattare la foto se avete gli occhi chiusi? Promettetemi che non ridete, vi prego. Dobbiamo essere pronte per la festa, non fate come sempre, dobbiamo fare la foto sennò poi come facciamo a ricordarci… Io sono pronta. Ma come lo levo il rosa? Lo lascio, mi piace e il ritratto lo faccio rosa pure quest’anno anche se Antonia si arrabbia che sono tutti rosa i nostri ritratti, ma il ritratto è il mio. È il mio ritratto di famiglia, Antonia, io lo guardo e non ci sono nemmeno dentro. Come ogni anno. Siete pronte? Le sorelle, intanto, hanno raggiunto Aida e si sono posizionate davanti alla montagna. La madre fa uno scatto in avanti preoccupata che le figlie si siano avvicinate alla vetrata verso la montagna e si lascia spostare e sistemare per la foto. Le cinque figlie saranno sempre molto sorridenti nelle fotografie mentre la madre a ogni flash mostrerà una smorfia diversa.

A queste cinque ragazze piace di brutto fare le foto, specialmente nei giorni di festa, solo che la mamma è tanto grassa e non ci entra Una famiglia di cinque donne si prepara a scattare una foto. AIDA - Adele tu vai al centro, abbraccia Antonia. ANTONIA - Vieni! Dai che è tardi! ANGELICA - La facciamo con la montagna dietro, venite. ANTONIA - Mamma vieni, ci facciamo la foto. ADELE - E dai mamma, manchi solo tu. AIDA - Per la foto tutte pronte? ANTONIA - No, con la montagna dietro no, cambiamo sfondo, giriamoci. ANGELICA - Aspettate. Devo controllare che entrate tutte e che rimane pure un pezzetto per me! Sorridete alla montagna, in posa. Flash.

Dentro. Contro Elena dorme inquieta, a occhi aperti, con il fucile accanto. Ha una pancia enorme, che si muove sempre più velocemente. Il suo respiro è profondo e rauco, ricorda quello delle bestie. Si sveglia e lentamente il suo corpo si moltiplica. Una sorta di partenogenesi. Le radici si aprono sotto di lei. Sono le figlie. Sotto le coperte. Dentro una madre. Una a una escono dalla coperta come espulse durante il parto e cominciano a ballare verso il proscenio. Dormono ballando. L’ultima a uscire sarà Aida che andrà davanti alle altre.

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ANGELICA - È venuta? Controlla. ANTONIA - No, mi sa che la dobbiamo rifare, mamma se stai così però perdiamo tempo, corri dai. AIDA - Dai, corri, mamma, senti Antonia! ADELE - Lasciatela stare. ANGELICA - Mamma, allontanati dal vetro, non la guardare tu la montagna, vieni qui. ANTONIA - Se la mamma si decide a venire stavolta mi sa che non usciamo tutte nella foto. Fate mettere la mamma dietro.


TESTI AIDA - Dietro, dai, che tanto sarai la più bella come sempre. ADELE - Mamma, ma che ti sei ingrassata ancora? ANGELICA - Non ci posso credere. ANTONIA - Se fate così non viene la foto. Anita con quella faccia, esci dalla foto, la mamma non ha bisogno di energie negative vicine a lei, vedi che così non viene. ADELE - Dai, tutte ferme, fatemi spazio. AIDA - Dieci, nove… ANGELICA - È bella la montagna. ADELE - Grande. AIDA - Otto… ANTONIA - Ha tante facce. AIDA - Sette… ANGELICA - Mi fa un po’ paura… ADELE - No, non fa paura. AIDA - Sei… ANTONIA - Ma non si muove mai? ANGELICA - È rossa. AIDA - Cinque… ANTONIA - Perché è timida. AIDA - È vero, è timida, imbarazzata quasi. ADELE - No, la montagna resta, sta lì ferma ad ascoltarci. ANTONIA - Come diceva papà? ANGELICA - La montagna ha tante facce tutte uguali, strette strette, una accanto all’altra che rimangono là con le orecchie bene aperte per ascoltare tutti i desideri e i segreti degli uomini. E nasconderli dentro il cuore della terra. ANTONIA - E farli durare per l’eternità. Flash. AIDA - Giratevi facciamola con lo sfondo. ANGELICA - Allora è rossa perché è una roccia carnivora, rossa di sangue perché si è mangiata qualcuno… ANTONIA - Smettila tu. Mamma, guarda la montagna, sorridi… ANITA - Adesso ricomincia. AIDA - La montagna non mangia nessuno, lei sorride sempre, sorridi, mamma, anche tu. ANGELICA - Mamma e no però. ANTONIA - Dai che è tardi, ci dobbiamo preparare. Tra poco arriveranno tutti. ADELE - Possiamo rimanere ancora un po’ a guardare la montagna? Si girano. ANGELICA - Ma ti ricordi la festa di primavera, la prima in assoluto? ADELE - Lei non se la ricorda, era troppo piccola. ANTONIA/AIDA - Io sì, io sì. ANGELICA - C’erano tutti quella sera. ANTONIA - Ad ascoltare la mamma cantare. Per me sarebbe diventata meglio della Callas. ANITA - Se l’è mangiata la Callas. ANGELICA - Ma perché ha smesso poi? ANTONIA - Perché le importava solo di papà… ANGELICA - A me piaceva di più come cantava papà, quanto rideva la mamma. ANTONIA - Mamma metti giù. ANGELICA - Sembrava Jeff Buckley stonato. ADELE - No, papà sembrava David Bowie. Flash. La mamma si va a sedere, esce silenziosamente dalla foto senza che le figlie se ne accorgano.

ANTONIA - Mamma, ma quanto avevi cucinato? ADELE - Tutto il giorno da mattina a sera. ANGELICA - Mamma, fila in cucina a preparare, ma non ti mangiare tutto come sempre. Se continua così va a finire che Adele dovrà rinforzare le sedie. ANITA - Ha preso trenta chili in dieci anni. AIDA - La mamma… ANTONIA - Adele, ma perché tua sorella è così stronza? ANITA - Non l’ho detto io, l’ha detto la montagna. ADELE - È anche tua sorella. Non la guardare in quel modo. ANITA - La montagna dice che sei una leccaculo. ANGELICA - In effetti è ingrassata davvero tanto, ma come fa? Mamma, hai cucinato per almeno cinquanta persone, non fare come al solito. AIDA - La mamma… ADELE - Sì che poi alla fine arrivano in tavola solo i resti. ANGELICA - Si mangia tutto lei. ANITA - Io non voglio niente. AIDA - La mamma è una donna di grande stazza perché ha un grande senso della famiglia e… ANGELICA - Anita una volta mi ha detto che mamma leccava le cose prima di impiattarle. ANTONIA - Smettetela di ridere che vi sente, non è sorda. ANITA - Pure questo me l’ha detto la montagna. Flash. ANGELICA - Che dite, me la faccio la coda? Cappelli su, capelli giù… Come mi sta questo? AIDA - Bellissimamente, Angelica, la fai anche a me la coda dopo? ADELE - Dai muoviti tu che sei sempre l’ultima. ANTONIA - Ti sta meglio la coda. Vieni. Flash. ANGELICA - Che bella la montagna, secondo voi ci sente? Cioè, sente proprio tutto? AIDA - Ha delle orecchie grandissime e sente tutto. Ha un acutissimo spirito di osservazione. ANITA - Tutte le cazzate che dite, guardala, guardala come sta, è stanca… ANTONIA - La montagna ci ama. AIDA - Sì, la montagna ci ama. ADELE - Sennò perché se ne sta lì da tutti questi anni. ANTONIA - Non ci ha lasciate mai, perse di vista neanche un secondo. ANITA - Le montagne pesano. ANTONIA - È tardi! Sorridete alla montagna!!! AIDA - Dite tutte quante “Supernova!” ANGELICA - Però la vedo un po’ triste stasera… Mamma, mi copri così! ANTONIA - Non è così grassa. TUTTE - “Supernova!” Flash. ANGELICA - Secondo me tra poco ce ne dobbiamo uscire di qui, non ci sarà più spazio per noi. ADELE - Ma dobbiamo lasciarla in cucina durante la festa? ANITA - Sì. AIDA - La mamma è in cucina che cucina, sempre così, dove è la mamma? È in cucina che cucina! ANTONIA - Ma no, adesso si prepara, vero mamma?

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TESTI ANGELICA - Dite che la dobbiamo far uscire? Non lo so, magari si impressionano. AIDA - Impressionabilmente mamma. ADELE - È stata chiusa in cucina per tutto il giorno, ha cucinato per tutti. ANGELICA - Ma ce la farà a ballare? ANTONIA - La mamma ha sempre ballato. Era la migliore, nel canto e nel ballo. Ha conquistato così papà una sera che l’ha vista in mezzo alla pista. E lui l’ha portata qua. E la faceva ballare ogni notte. Flash. La madre inizia a spogliarsi totalmente rapita dai ricordi di quel ballo con il suo uomo. ANGELICA - Certo come era magra. Le contavamo le costole quando eravamo piccole. ADELE - Papà diceva che sembravano le corde di un’arpa. ANITA - Ora le si contano i rotoli. AIDA - Una mamma musicale. Flash. ANTONIA - Ci riesce. Flash.

ANTONIA - Mi sono svegliata così sudata. Sudata che avevo sognato solo posti senza neve tutto intorno. Dove non c’è bisogno di accendere la stufa. È che io ci sto troppo bene qua, ci sto comoda. Pure se devo accendere la stufa. Mi viene da ridere soltanto all’idea che esistono posti dove la gente siede all’aperto in costume da bagno. Ci sono posti con i pesci blu che mangiano alghe gialle alte tre metri e poi ho visto pure che sotto sotto il mare è nero. La luce non ci arriva. Sai che significa? Stare sott’acqua e senza luce? Quando papà mi ha fatto stare al buio da piccola per poco non ci resto secca. Non era mica una punizione. Solo che continuavo a rubare gli occhiali di mamma. Diceva che sarei diventata cieca, che avrei visto quel buio per sempre, come quello dell’oceano, se avessi continuato a metterli su, come una notte senza fine. Mi piaceva mettere gli occhiali della mamma, pensavo le avrei somigliato un po’ di più. Volevo essere bella come lei, bionda come lei, elegante e fiera come lei. Pure ora lo faccio ogni tanto. Me li metto e vedo tutto diverso. È simile a quando bevo un Americano, o magari un Manhattan Dry. Vedo tutto come se si muovesse, ché a mamma mancano sei gradi ed è pure astigmatica, ché io non l’ho mica capita la differenza. Ma lei tanto vede solo la faccia di papà e non capisce troppo bene i contorni. Glieli togliamo spesso. E quando la mamma è senza occhiali vede quello che vuole lei e allora io e le mie sorelle le facciamo credere quello che vogliamo. Alla fine sono diventata cieca per davvero ma non gliel’ho mai detto.

ANGELICA - Non credo. Mamma, ma che fai? Flash. ANITA - Che orrore, non credo di farcela a sostenere una visione del genere, vi prego portatela via. Lontana da me, lontana anni luce. AIDA - Oh, che spavento! Mamma ma che fai? Sembri una lumachina ina ina senza guscio. ANGELICA - Ah! Le mutande no! ANTONIA - Adele dai vieni qua. Inizia tu che io e la mamma vogliamo provare il ballo per stasera. Vero? Prometto che se non ci riesce rimane in cucina. Rivestiti, dai. Flash. ANITA - Giura. ANGELICA - Mamma, la canna verso terra per favore. ANTONIA - Lo giuro su papà. Flash. Il giuramento di Antonia cambia l’atmosfera. Comincia a imbrunire e qua, di fronte alla montagna, un rosa shocking invade la casa. Succede così ogni alba e ogni tramonto, solo quando il sole bacia la montagna. Anche Elena comincia a danzare un ballo folk, è il ballo che si farà alla festa. È un ballo di conquista, un ballo da maschi. Tutte danzano compatte. Soprattutto Elena che ha deposto il suo fucile. Le donne finiscono di prepararsi in battere e in levare. Manca poco più di un’ora alla festa. È la prima notte di primavera. Flash. Una chiave apre una porta. Antonia ha fatto un brutto sogno.

La montagna è rosa perché è femmina Ogni volta che una delle figlie si avvicina alla montagna, la madre corre verso il proscenio con il suo fucile a far da vedetta. È molto preoccupata che le aquile possano prendere anche le sue figlie.

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All’interno dell’abitazione le quattro sorelle tolgono gli occhiali alla madre dopo averla convinta a ritornare al suo posto. Chi c’è dietro di te, l’Oceano indiano? Io però non ci credo ci siano altre montagne oltre te. Di sicuro non si fanno così rosa. La mamma diceva: «La montagna si fa tutta rosa perché è femmina». È una femmina come voi. E quando il sole la tocca diventa così, rossa. Magenta, anzi, perché non è proprio rosso. È fucsia all’ennesima potenza, ma solo quando la tocca il sole. La mamma era quasi gelosa di te. E io allora le dicevo: «Mamma, ma come fai a essere gelosa di una montagna?» Sì che è una femmina, è una femmina rosa, ma poi diventa bianca e fredda e ha una caverna enorme dentro, buia come la notte dell’oceano che ti ci perdi. Ma non dire cazzate, papà non passa più tempo con lei che con te! Ma come fa a essere più bella di te? Torna presto! La montagna non mangia mica gli uomini. Non ci crede e ti guarda e piange di gelosia. Io non so come fare a spiegare che sei solo un pezzo di roccia. Che non te li mangi gli uomini. Mamma! Mamma, ma guardala ha un culo, è enorme, è orribile, è mostruosa. È oscena. Rientra. Voi non faticate a ricordare la faccia di papà? Succederà così anche a noi. Ci dimenticheranno.

C’ che la mamma ha il cuore spaccato. C’ che non riesce a scordare AIDA - Ma la mamma non dorme mai? ANTONIA - Trenta minuti al giorno. ANGELICA - Come Michelangelo. ADELE - Non era Napoleone? ANITA - Era Leonardo, e il suo era un sonno polifasico. AIDA - Allora la mamma è un cavallo.


TESTI ADELE - Ma come sta? Che ti ha detto ieri il dottore? Quando passa? ANTONIA - Dice che dobbiamo aumentare le dosi. ADELE - Come aumentare le dosi? AIDA – No, è un pony azzurro, bello panciuto. ADELE - Basta. ANGELICA - Non è il momento adesso, è tardi… ANTONIA - Basta cosa? ANGELICA - Ma secondo voi di ragazzi carini ce ne saranno? O sarà come l’anno scorso che… ADELE - L’anno scorso erano tutti ragazzini. ANGELICA - Si è vero erano tutti ragazzini. ADELE - Dell’età giusta per Anita… e non mi guardare così. ANGELICA - Non gliele diamo le pillole a mamma stasera. ANTONIA - Ma che dici? ANGELICA - Magari si diverte, fa conoscenza, magari le torna la voglia di parlare. ADELE - Sì, si metterebbe subito a chiamare papà, con la voce. ANGELICA - Così magari posa quel fucile e la sentiamo solo urlare come una pazza. ADELE - Con tutto quello che si mangia la sentiamo solo ruttare come una pazza… ANTONIA - Ma neanche col rutto più forte del mondo ce la farebbe. (rutta) Ormai penso che papà… ADELE - Non devi dirlo nemmeno per scherzo. ANTONIA - È la verità. Non sta qui. Non lo vediamo da anni. E gli anni sono fatti di giorni, mesi e ore in cui io non l’ho più visto. ANITA - L’immagine è un fatto. ANTONIA - Adele, non puoi fare così. Sembri un cane con la rabbia, calmati e non prendere a calci la sedia di papà. ANGELICA - Mamma, è un concorrente nuovo questo? ANTONIA - Ti prego stai calma che la mamma si impressiona e non sai che dolore le dai se ti vede così. ADELE - Spegnete la tv! ANGELICA - Venite a vedere che c’è uno che canta tale e quale a Billie Holiday, ma è un maschio! ADELE - Che ha la mamma? Posso sapere cos’ha? Al corpo cos’ha? ANTONIA - Adele non ricominciare. Anita la smetti di ridere? ADELE - Cerca! Studia! Che magari ci salvi tutte! ANITA - Quanto può dirsi si può dir chiaro; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere. ANGELICA - Ha il cuore spaccato. Se papà non torna finisce male. Finché non si scorda tutto. E speriamo pure si scordi di dover ricordare. Stava migliorando lo scorso anno. Solo che tu… ANTONIA - Eravamo tutte qua, Anita che studiavi tu? Parlavi solo di uno con un nome Wikten? Lichtestein? ANITA - Wittgenstein. ANTONIA - Mamma era sempre alla finestra che tu non tornavi. Cercavi papà, correvi per tutti i sentieri da mattina a sera. Noi lo sapevamo che non lo trovavi. Dicevi: «Chi cerca trova». Noi lo sapevamo che non lo trovavi. Ti aspettavamo. Tu che facevi quando Adele ha fatto l’appeso sulla grande quercia? ANGELICA - Guardavo il dvd del concerto degli Spiritualized. Cantavano quella bella bellissima canzone che ti fa venire tipo la vertigine. ANITA - Angelica! Mi si spaccano le orecchie. ANGELICA - Ve la ricordate Broken Heart? ANTONIA - Calmati, Adele, ti giuro che non volevo dirlo. Non volevo, solo che io… Il volume della tv, di fronte alla quale stanno Elena sul suo divano e Angelica sul suo bracciolo, suona talmente forte da coprire tutto il resto. Si tappano tutte le orecchie. Broken Heart seppellisce di nuovo quei ricordi scordati da dimenticare.

Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico Aida esce. A telefonare. AIDA - È il decimo messaggio che ti lascio in segreteria. Puoi richiamarmi? Non so più come fare. Abbiamo finito i soldi. Antonia li ha spesi tutti per comprare la cena di questa sera. Devi tornare perché sennò loro non sanno più come fare. La notte non dormiamo, facciamo finta. È Antonia che ci ha attaccato la fissa della chiave, pensa che qualcuno la possa prendere per scappare e allora ci troviamo tutte con un occhio chiuso e l’altro aperto a guardare lei che se la tiene stretta tra le mani. Io non scappo mica, aspetto qui. Ah, Anita ora ha la fissa della filosofia tedesca, credo si sia presa una cotta per il suo professore. Vecchiosamente tedesco. Ha un ciuffo di capelli bianchi enorme in mezzo alla testa, ma fa simpatia, sembra uno di quei pupazzi americani. È così strano, Anita lo guarda come se fosse un ragazzo “altobiondocchiazzurri” e studia pure quando lui non c’è. Lei e Angelica litigano ancora da quando si sono prese per i capelli per Aaron. Te lo ricordi Aaron? A me pure piaceva Aaron, ma non mi guardava proprio, secondo me adesso cambierebbe idea. A dire la verità più di tutti piaceva ad Antonia. Era innamorata. Chissà che fine ha fatto Aaron, ma se stasera viene gli scatto una foto. Adele sta meglio, si è calmata, solo che non sa più aggiustare niente, guarda solo la montagna e la casa casca a pezzi, non è capace nemmeno a mettere un chiodo dritto, anche la casa è diventata storta ma io ho il mio metodo, se pieghi la testa a destra torna tutto come prima, non ti accorgeresti di niente. Mamma non riesce più a cucinare e la sua voce è talmente bassa che dobbiamo leggere il labiale come ai sordomuti. Sordomutamente mamma. Le altre per prenderla in giro sai cosa le dicono? La voce di mammacallas se l’è portata via papà. Sono cattive. Ma ti farebbe ridere con il fucile in mano che continua a girare in mutande come piaceva a te e si mette la tua giacca della festa come vestaglia e poi sta sempre alla tv e appena vede uno che ti somiglia le viene da piangere e pure quando guarda noi le viene da piangere. Ride solo quando le togliamo gli occhiali e le mettiamo davanti Anita che è tale e quale a te. Papà sei lì? Non si fa così, dovresti rispondermi. Educatissimamente papà. Dovevi restare al tuo posto. Io penso sempre che se torni, Angelica smette di fumare e puoi portare ancora Adele per i sentieri e io e la mamma ti prepariamo il roast beef alle mele la domenica e il chili con la carne il martedì e ci facciamo spiegare da Anita quella teoria nuova dell’universo che io e te non l’abbiamo mica mai capita, eh papà? Mi richiami? Torni? Pure la montagna sta sempre qua. Quando torni potresti portarci un cane. Anche un gatto però va bene. Anche solo un canarino o un pesce rosso, o rosa anche.

Non c’ niente di meglio che una bella sigaretta prima della festa ANGELICA - Mi dai la chiave? ANTONIA/AIDA - Dove devi andare? ANGELICA - A fumarmi una sigaretta. ANTONIA - Non dovresti fumare. ANGELICA - Non sei mia madre. E poi me lo dici tutti i giorni. ADELE - Ha ragione non dovresti fumare. ANGELICA - La chiave. ANTONIA - Togliti quella sigaretta dalla bocca.

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TESTI AIDA - Forse alla mamma non fa bene, pensa a lei, a quel rantolo che fa sempre… ANTONIA - Dammi l’accendino. Qua non fumi. La mamma ha l’enfisema. E tu sputa quella gomma. AIDA - Angelica ma come è che si chiamava quel ragazzo… ANGELICA - E allora apri il cancello. AIDA - Aaaaa… ANTONIA - Papà una volta me lo ha detto: «Guarda bene tua sorella che a me sembra un po’ scema». Angelica si accende la sigaretta. ANGELICA - Papà non può mai aver detto questo. Ero la sua seconda preferita. Tu dopo chi? Ah, sì, Aida. ANTONIA - Non è vero. ANGELICA - Aaaadeleeeeeee! Io!! Anita!!! Aida e poi solo dopo noi quattro e dico all’ultimo posto della classifica ci sei tu. Papà ha sempre detto che più che eterozigote voi due sembravate figlie di due madri diverse. AIDA - Ma se siamo due gocce d’acqua! Vero, Antonia? Vieni qui. ANGELICA - Aida il tuo entusiasmo ci salverà. O magari ci farà fuori tutte. Pallottole di entusiasmo al centro del nostro petto. ANTONIA - Io e Aida siamo gemelle. Ma non era quello il punto. Una volta papà mi ha guardato zitto per cinque minuti, eravamo soli qua in giardino e c’era una neve strana, di quella che non vedi ma che ti bagna tutto il naso e ti fa lacrimare gli occhi. Papà aspettava il suo Stinger, come ogni sera dopo le 17. E lo Stinger come si deve lo chiedeva a me mica a voi. Come si prepara uno Stinger? Anita non puoi rispondere. Lo so che lo sai. ANGELICA - Tu invece lo sai perché bevi, ecco perché lo sai, perché bevi molto più di papà. Solo che lui lo faceva perché stava sempre al freddo, invece tu bevi e sudi e comunque c’è il cognac di sicuro, papà ha sempre saputo di cognac. ANTONIA - La chiave te la sogni. Dopo questa te la sogni. ADELE - Non subito. Quando eravamo piccole aveva lo stesso odore di mamma. Sapevano della stessa identica cosa. AIDA - Allora, la mamma sapeva di marshmallow avvelenato. ANITA - La mamma sapeva di una cosa dolce e poi dopo amara, papà di una aspra e salata allo stesso tempo. AIDA - E papà invece sapeva di Tequila sale e limone! Antonia me la fai la faccia della Tequila sale e limone? Mi piace da morire quando la fai.

Guarda che se fai così nessuno vorrà ballare con te stasera... io stamattina mi sono svegliata e ho fatto un pensiero. Sì mi sono svegliata in forma e ho pensato che questa giornata mi cambierà la vita. Lo so. Sai a me piace alzarmi ogni giorno e trovare la montagna e trovare voi, ognuna dentro le sue cose... anche te mi fai simpatia in fondo, certo ogni tanto penso che tu abbia qualcosa che non va... così silenziosa, dopo tanti anni ancora non si capisce a che pensi... ma proprio chi sei... io non ti conosco ma mi fai simpatia. E penso anche che ti porterei con me. Me ne vado, ho deciso. Mi sento bene, in forma, pronta. Come quella volta... ti ricordi quella volta che mi sono tuffata nel fiume a gennaio? Che freddo, l’acqua era ghiacciata, va bene che qui è sempre inverno, ma quel giorno si gelava. L’aria era limpida proprio come oggi. È il giorno giusto. E se quella volta mi sono buttata, se ho trovato il coraggio di farlo, anche oggi può essere così. Non mi guardare in questo modo, andiamocene, vieni via con me... a dire la verità ti ho scelta come compagna di viaggio proprio perché non dici mai un cazzo e allora ho pensato che poteva essere una buona idea. Non sei fastidiosa e poi comunque sei la più carina, sei l’unica che non fa imbarazzo qua in mezzo. Ho pensato anche che se sorridessi ogni tanto saresti addirittura interessante. A Elena inizia a far male la pancia. ANTONIA - (ad alta voce) Angelica si metterà nei guai, è chiaro finirà sicuramente in qualche brutta faccenda. Tua sorella è così… ANGELICA - Così come? ANTONIA - Tua sorella è così spregiudichevole. Perché ridete? Lo ha detto. Ha detto: «Tua sorella Angelica è spregiudichevole». ADELE - Spregiudicata. AIDA - Spregiudichevolmente Angelica. Mi fa ridere. ANGELICA - Che significherebbe che papà mi ha dato della spregiudicata? ANITA - Che sei una specie di… Non toccarmi. ANTONIA - Lasciala. Lo sai che fa così, perché ti arrabbi? Sputa quella gomma ti ho detto. ANGELICA - Datemi le chiavi della sua stanza. Voglio chiuderla a chiave. ADELE - Lasciala stare. ANGELICA - Sto soffocando. Voglio fumare.

Angelica va verso Anita che ha cominciato a sfogliare un libro, isolandosi. Le tre sorelle continuano a farsi degli indovinelli alcoolici. Angelica si avvicina ad Anita. La madre dalla poltrona come spinta da un gran bisogno. Di spalle piscia. Le tre sorelle se ne accorgono e rimangono incredule e spiazzate. Elena si è solo versata da bere.

Antonia le apre la porta. Angelica esce. Verso la montagna. Che è verso il padre.

ANGELICA - Anita, Anita, e guardami. Senti, ieri ho comprato un libro nuovo, si chiama Squisitamente tu, lo conosci? No, stai zitta e non dire niente che tanto non ci capiamo. Basta che mi guardi. La sai fare la spaccata tu? No, eh? Immaginavo. Ma che sai fare tu, niente. Sempre con quel libro in mano... ma che avrai tanto da leggere poi... tutto scritto piccolo piccolo, senza figure. Ma che lingua è? È italiano? Dai guardami, ti faccio vedere una cosa. Senti te lo dico. Io stasera voglio essere la più brava nel ballo. Mi sono esercitata tanto, sono andata anche su internet a vedere i video per prendere ispirazione. Se tu mi guardi ti faccio vedere... guarda... guarda... senti ma tu come fai? Li sai fare i balletti tu? No, ma che sai fare. Io non ti capisco. E non capisco perché invece per loro sei sempre stata la migliore. La preferita di tutti. Che poi stai sempre zitta, che avrai nella testa... ma che, stai male? Sei pallida.

ANGELICA - Non ci credo che mi hai dato della scema. Ma dove stai? Se canto esci? Se canto torni? Non ce la faccio più a stare sempre chiusa qua dentro. E poi fa sempre più caldo, ho sempre il mal di testa, e allora ho preso il vizio del fumo per uscire. All’inizio mi facevano pure un po’ schifo, poi mi ci sono abituata. La prima volta ha cominciato a girarmi la testa che vedevo la montagna più a destra e vedevo le facce che dici tu, quanto le vedevo bene. E allora tiravo e fumavo, tiravo e fumavo e la montagna si capovolgeva e poi gli alberi si rivoltavano. Mi pareva di avere un alveare pieno di api dentro la testa. Ho iniziato il giorno dopo che sei andato via. E allora cantavo, cantavo, di fronte a tutte quelle facce senza vergognarmi, mica come alla Festa di Primavera del 2002. Cazzo mi esce il sangue dal naso. Lo sai che mi succede sempre. È il freddo. Ha detto il medico di mamma che ho un pro-

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Happy and bleeding for you 1


TESTI blema con la circolazione. Quanto ti ho fatto vergognare? Avevamo provato tutto l’anno! Ma ora non mi succederebbe più, sono pronta te lo giuro e aspetta un momento che mi pulisco il naso. Metto le cuffie come mi hai insegnato tu che così non mi vergogno. Ma lo sai che avevi ragione? Sono tale e quale a Pj Harvey basta che mi faccio mora. È una Festa di Primavera strana questa, fuori stagione. Non trovi papà? Piega il fazzoletto sporco e lo mette in tasca. Mette le cuffie. Canta verso la montagna. È finalmente pronta alla sua esibizione. Ha il naso sanguinante ma pensa di averlo pulito fino a quando non le scenderà nella bocca. She burst Dropped off Picked the fruit And realize I’m naked too So cover my body Dress it fine Hide my linen and lace Been sewing ever Since time began More than the hills. More than the trees. More than the mountains, you So fruit flower myself inside out I’m happy and bleeding for you Fruit flower myself inside out I’m tired and I’m bleeding for you This fruit was bruised Dropped off and blue Out of season Happy and bleeding Long overdue Too early and it’s late too Too early and it’s late too ANTONIA - Sei tutta sporca! Cos’hai? ANGELICA - C’è freddo fuori e dentro caldo, mi succede ogni tanto lo sai. AIDA - Ma lo sai che ti sta bene il rosso in faccia? Fa risaltare il colore dei tuoi occhi. ANITA - Ora vomito. ANTONIA - Mamma, non fare così che non è niente! AIDA - Ma no, mamma, è trucco, lo vuoi un po’ anche tu? Qui, sulle labbra. ANGELICA - È solo un po’ di sangue dal naso. ADELE - Mi dai un fazzoletto? Anzi due! ANTONIA - Ma dai, mamma, sta tranquilla, che ora passa! Ma perché continua a uscire? Sembra una fontana! Anita cos’hai? AIDA - Anita cos’hai? ANITA - Ma perché non mi date tregua? AIDA - Sbiancatamente Anita. ANGELICA - Ché mi fissi e non fai niente? ANTONIA – Angelica, sta ferma! Che se ti agiti non smette più di uscire! Adele reggi qua con tutte e due le mani che metto la mamma sul divano, mamma dai! ADELE - Ma che ridi tu? Angelica ferma! Angelica si alza e sbatte il suo viso su quello di Anita, la sporca di sangue. Ridendo la bacia. Baciandola ride.

AUTOPRESENTAZIONE

Ritratto di famiglia al femminile quando la natura uccide le sue figlie «Siamo in un maledetto buco nero. Un buco nero dove entra tutto e il fatto è che nessuno lo sa cosa accade di preciso dentro questo buco. Se oltrepassi il limite non puoi tornare più indietro. Il fatto è che questo buco era una stella prima. Una supernova lunga e larga a più non posso». (Anita, Supernova). Una madre, cinque figlie, una montagna di fronte alle loro vite. Una montagna rosa, una montagna dalle cosce di donna. Le gemelle eterozigote, Antonia e Aida, e le sorelle Adele, Angelica e Anita si preparano come ogni anno a celebrare la Festa di Primavera: provano a scattare foto, a farsi belle, a ritornare a essere felici, ma qualcosa irreparabilmente è cambiato. La luce si è spenta, si è fatto più scuro. Un padre è sparito nel cuore della montagna e una madre ha smesso di essere madre, ha impugnato un fucile per difendersi e si è fatta muta. Il cortocircuito è avvenuto, un albero si è rovesciato e la supernova brillante e potente che colorava le vite delle giovani donne è divenuta un buco nero. E, mentre la montagna si tinge di rosa shocking, tutto è pronto, le ragazze si preparano alle danze. Manca un’ora o poco più all’inizio della serata che da tanto attendono. Un’ora delle loro vite. Supernova è un ritratto di famiglia che si ripete anno dopo anno. E, anno dopo anno, qualcuno verrà a mancare rispetto al precedente: vite dal volto cancellato, presenze che si agitano, asfissiate da un clima tropicale in mezzo alle montagne, fantasmi che, uno a uno, spariranno senza lasciare più traccia. Supernova è l’esplodere di una stella, è la luce dentro gli occhi, è la potenza del cielo, è la crudeltà della natura. Il testo nasce dalla costola dell’ultimo nostro lavoro, È tutta colpa delle madri, e fa parte della Tetralogia del sangueamaro, che indaga sulla potenza dei legami familiari e sulla degenerazione e crudeltà della natura, insieme al testo I ragazzi del cavalcavia (ispirato ai fatti di cronaca del 1996, quando un gruppo di fratelli lanciò un masso da un cavalcavia uccidendo una giovane donna) e al lavoro in fase di scrittura La tua Vodka sa di Gin. Erika Z. Galli e Martina Ruggeri

ANGELICA - Mi devi voler bene Anita, sei costretta! Senti qua! È lo stesso sangue tuo identico preciso non lo senti? Ma che ti pulisci, che sbraiti tanto. “Erreaccapositivo”. Stesso, proprio, Anita mia mia mia. ADELE - State ferme! AIDA - Bisogna volersi bene Adele! ANTONIA - C’è quel programma che ti piace tanto! Lascia il fucile mamma! Adele! ANGELICA - Quando ero piccola me le leccavi le ferite. Lo sai? E quanto ti piaceva!

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TESTI Anita esplode. Prende a schiaffi Angelica. La madre spara in aria. Tutte si fermano. Indica con il fucile Anita. ANTONIA - Rimani dove posso guardarti. Anita deve essere punita. Soffre tanto il freddo.

Black hole, black star ANITA - (verso la montagna, credendoci appena come quegli atei che per una volta si rivolgono a Dio) Visto che è l’ultima sera che ci vediamo te lo dico. Mi ha giurato su Nietzsche che mi portava via da qua. Stasera, finita la festa, Adele sarà in preda ai suoi deliri e piangerà sotto il cuscino, Angelica se ne starà a blaterare poesie d’amore a uno degli invitati, la mamma sarà sedata come un cavallo con la febbre e la febbre di Aida invece si farà sempre più alta e Antonia avrà bevuto talmente tanto che russerà da ore. La finestra del bagno dà direttamente sulla strada. Ho già tutto pronto. Non porto niente. Ci sarà lui ad aspettarmi con la sua Mercedes cabrio grigia che sa di sigaro. Passeremo il confine e in dieci ore saremo in un posto pieno di caldo. Con il sole in faccia, con un sole grande come te. Più grande cento, mille volte te. Mi cambio nome. Cancello tutto. La foto di mamma e papà davanti casa, Natale 1983. Antonia che esce dalla cucina più unta di mamma, i piagnistei di Adele, le stupide canzoncine pop hard metal rock di Angelica che è stonata come una campana, questa neve che non la sopporto che fa un casino senza farsi sentire. E poi voglio cancellare il foie gras, l’anguilla, lo strudel e tutto quel guacamole verde alieno che ho sempre rivomitato al bagno. Mi porta via perché me lo dice sempre che io qua non c’entro proprio, che sono fuori posto, che non somiglio a nessuno di loro, che non posso continuare a farmi inquinare la testa. Conviene a tutti che qualcuno si salvi, in un modo o nell’altro. «Ma che ci stai a fare in quella foresta tropicale? Ma cos’ha nel cervello tua madre? Mica si è mangiata tuo padre? Tua sorella mi sembra sempre che inciampi sui suoi piedi, sembra storta, ma cos’ha? L’altra guarda la montagna e poi guarda in basso ma mi chiedo perché l’avete salvata, non era meglio che se la portavano via le aquile? E poi c’è l’altra, quanto mi fa ridere! Oddio non riesco nemmeno a guardarla e quando ha cantato lo scorso anno mi sono dovuto trattenere per non pisciarmi sotto. Per non parlare poi di quella…» Così mi dice. E lascia la moglie. La moglie è più grassa della mamma. Ma è anche brutta, ha gli occhi vicini e chi ha gli occhi vicini si sa che è stupido. Con lei fa un millesimo di quello che fa con me. Dice che la cosa che faccio meglio è l’apnea bianca. È esplosiva come la lava e silenziosa più della neve. Mi piace la sua pelle più di ogni altra cosa, non come quella delle mie sorelle. Non come quella di mia madre, che solo se ci penso mi sento male a quel salato stantio che ti lascia senza fiato. Ti voglio dire questo segreto: siamo in un maledetto buco nero. Un buco nero dove entra tutto e il fatto è che nessuno lo sa cosa accade di preciso dentro questo buco. Se oltrepassi il limite non puoi tornare più indietro. Il fatto è che questo buco era una stella prima. Una supernova lunga e larga a più non posso. Antonia apre il cancello. La punizione è finita. ANTONIA - Anita entra! Stai parlando con la montagna? Non lo dico a nessuno. Anita riprende il suo posto. Sono tutte al loro posto.

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Run baby run 2 ANGELICA - Quanto dobbiamo aspettare così come cinque cretine? ANTONIA - (imitando Angelica) Quanto dobbiamo aspettare così come cinque cretine? ADELE - Simpatica. AIDA - (imitando Adele) Simpatica. ANTONIA - (imitando Angelica) Io voglio solo sigarette, solo sigarette e scappare da qui. AIDA - (imitando Adele) Ma no, non uscire, è pericoloso per te Angelica. ANTONIA - (imitando Angelica) Tu non mi capisci Adele, io voglio solo andare fuori, fuori, fuori. AIDA - (imitando Adele) Ferma Angelica, non andare, lì fuori succedono delle cose… e poi fa freddo. Fa un freddo che ti immobilizza le gambe e ti fa tutta la pelle rossa. ANTONIA - (imitando Angelica) Il freddo ce lo avete voi dentro. Voglio uscire da qui. Le gemelle non le sopporto, mi prendono sempre in giro e non so mai chi ha la chiave, Aida, Antonia, Antonia, Aida… sai che facciamo? Scappiamo Adele! AIDA - (imitando Adele) Non possiamo, è scesa la sera, le aquile stanno lassù a guardarci, è pericoloso, meglio rimanere in casa… ANGELICA - Smettetela. ANTONIA - Smettetela, smettetela. E tirati su, allora, se gli ospiti arrivano mica vorrai farti trovare scomposta? Adele stai un po’ più su, non sbragarti! Aida stai bene tu, sei bellissima. ADELE - Non mi piace stare seduta lo sai. Guarda Anita come sta comoda, guarda lei. ANGELICA - Se alzasse la testa. Puoi alzare la testa? ANTONIA - Che fastidio ti dà? ANGELICA - Le cala la vista. AIDA - Siete tutte bellissime. Stupendamente sorelle. ADELE - È già ciecata, ha le lenti. Ha preso dalla mamma! ANTONIA - Ma se è identica a papà. ANGELICA - Ma che c’entra ha gli occhi di mamma e il corpo di papà. ADELE - Ma se i suoi occhi hanno la stessa forma di quelli di papà! AIDA - Anita è la fotocopia di papà. Sembra lui sul serio. ANGELICA - Facci vedere, tirati su! ANTONIA - Dai, Anita, un minuto. ADELE - Sono stanca di aspettare. ANGELICA - Alza quella testa. ADELE - Non mi piace stare seduta ferma, non mi piace. ANTONIA - Devi calmarti, anche noi ti abbiamo aspettato quel giorno. Eravamo qua ad aspettarti. Non tornavate più! ANITA - Correvi. Sessanta chilometri orari. ANTONIA - Hai corso tanto. ANGELICA - Quanto correvi. AIDA - Sembravi una mandria di cavalli imbizzarriti e uno sciame di vespe impazzite, veloce come il battito d’ali di un colibrì, più veloce del vento, più veloce delle stelle… ANTONIA - Papà era parecchio indietro. AIDA - Ma tu correvi sempre più veloce, ti vedevamo quanto correvi. ANTONIA - Eravate là verso il passo delle betulle e allora. AIDA - Allora ti incitavamo da qui: «Dai Adele!» ANTONIA - Allora io ho preso il cannocchiale della mamma. AIDA - La mamma era tutta tirata in volto, faceva avanti e indietro, avanti e indietro. ANTONIA - Non stava ferma un minuto. AIDA - E tu correvi ancora di più, ti facevi forte come una valanga, grande come i cavalloni del mare, correvi e correvi. ANTONIA - Anita era piccola piccola, portava ancora gli occhiali e aveva sempre fame.


TESTI Rewind Angelica mette le cuffie, Antonia guarda la montagna con il cannocchiale, Anita inforca i suoi vecchi occhiali e rimane in maglietta. Elena cambia ritmo vitale: è agitata, viva, si morde le unghie, fuma, cammina avanti e indietro per la casa. Sembra un’altra donna. Adele osserva il suo ricordo. ANGELICA - Run my baby run my baby run. AIDA - Adeeeeeleeeee! Guardatela, venite! ANITA - Ho fame! ANTONIA - Adele è avanti corre come una pazza. ANGELICA - Lasciala correre. AIDA - Mamma vieni qui, vieni a vedere. ANTONIA - Papà è indietro. AIDA - È più veloce di un fulmine! ANGELICA - Sta soltanto correndo. AIDA - È un uragano, una tempesta di acqua di mare incandescente! Wow!!! ANGELICA - Adele conosce bene quelle montagne. Mamma, ti fermi un secondo? ANITA - Mamma, prepari la cena? ANTONIA - Non li vedo bene. Ecco hanno svoltato. Cosa è quello? ANGELICA - Run run run baby run. Run from the noise of the street and the loaded gun. AIDA - Quello è il gran Passo delle Aquile, guarda ce n’è una che vola sopra. La vedi? ANTONIA - No, non la vedo. Non vedo neanche più Adele, mi hai fatto distrarre. ANGELICA - Ce n’è più di una. Ce ne sono uno, due, tre, quattro. AIDA - Ce ne sono cento! ANTONIA - Una è appena caduta in picchiata. AIDA - Sembrava un missile di un cacciabombardiere della seconda guerra mondiale, wooouuummmm! ANITA - Mamma voglio il guacamole! Ma quando tornano? ANGELICA - Non dovrebbe passare di lì. Lo sa che là c’è sempre la nebbia, dove va? Sta anche venendo notte. ANTONIA - Papà è tanto indietro. La montagna è già rosa e il sole tra poco ci casca dietro. AIDA - Adele sta volando! ANTONIA - Vola per quanto corre quella stronzincosciente. Adele!!! Fermati è pericoloso! ANITA - Ma mica ti sente. AIDA - Adeeeeeleeeeeee. ANTONIA - Certo che mi sente. La montagna è vicina. ANITA - Non ci vedo proprio. AIDA - Adeeeeeleeeeeeee. ANTONIA - Sì, sembra sempre lì lì per cascarci addosso. ANTONIA - Non li vedo più. La luce da rosa diventa debole ché il sole sta scendendo. È buio. Rumore di una corsa. Disperatissima. Adele è sola e corre. È buio ma porta una luce artificiale per illuminare i sentieri tra i denti. Di tanto in tanto salta quasi a sorvolare le rocce, a scavalcare la neve. Quattro aquile sbattono le ali, invisibili, sopra la testa. ADELE - Papà? Papà? Oh? Dove sei? Mica che mi stai facendo uno scherzo? Papà? Vedi che è tardi! Ci aspettano da due ore! Papà? Dai esci! Papà, scusa, non dovevo arrivare fino a qua. Scusa. Papà? Dai andiamo sono le otto, la cena tra cinque minuti è pronta, oggi è mercoledì mamma e Antonia hanno cucinato il foie gras, è il mio piatto preferito il foie gras. Papà? Io me ne vado papà. Ci vediamo a casa. Esci ti prego. Papà?

La luce si spegne. Un fiammifero si accende. Quello di Angelica, in casa, che sta per fumare un’altra sigaretta.

Dance me to the end of love 3 (il ritorno che non c’è) AIDA - (davanti alla vetrata incidendo il suo segreto) Ma se San Francesco parlava agli animali, agli uccellini, alla tigre, al pettirosso, alla lucertola, alle balene, alla pianura e alla montagna… ANTONIA - Mamma ma hai mangiato tutto il paté? Mamma! AIDA - … Io parlo alla montagna ANGELICA - Dobbiamo vestirla. AIDA - … Io sono San Francesco ANITA - Che mi guardi? Io non la tocco. AIDA - Posso fare i miracoli! ADELE - Vi aiuto io. AIDA - Adele esprimi un desiderio! Io lo posso realizzare. ADELE - Un montacarichi. ANTONIA - Vuole fare da sola. ANGELICA - Ci dobbiamo muovere, mamma stacca la faccia da quella televisione. ANTONIA - Mamma, prendi. ANGELICA - Non le va, soltanto per oggi. ADELE - Sì, oggi non le diamo niente. ANTONIA - Ma come vi viene in mente? E se succede qualcosa durante la festa? ANGELICA - Ma lasciala divertire. AIDA - Angelica esprimi un desiderio? ANGELICA - Le pasticche della mamma vorrei in questo momento. ADELE - Adesso basta! ANTONIA - Mamma, ti prego, vieni qua! Basta televisione, basta divano, sarà una festa bellissima. AIDA - Ci penso io, guardate. Mammaaaa, mammona mammaaaaa, golosamente mammona ti devi alzare adesso perché altrimenti chi se li mangia i tortellini al ragù di agnello ripieni di cinghiale e rosolati nell’uovo e nel pane grattato? E chi se li mangia i cannelloni di cervo bagnati nel marsala e cotti nell’olio che ci viene quella bella crosticina ina ina sul sopra, e quel bel timballo di fegato di squalo impanato nella farina di segale e lasciato ammorbidire in forno in crosta di burro speziato al rosmarino? E il contorno, mamma, chi lo mangia quel bel contorno di… ANTONIA - Quel bel contorno di patate mamma, patate fritte prima nell’olio e poi nel burro. ANGELICA - E la frittata di ravioli al mascarpone e formaggio blu? ANTONIA - Dai Anita aiutaci! E quella bella torta rustica salata piena di… piena di bue fritto impanato con la crosticina sopra e… ANITA - Con la crosticina sopra e una spruzzata di besciamella. TUTTE - Eh no! Ma lo fai apposta? Lo sai che alla mamma fa schifo la besciamella! AIDA - Avete rovinato il mio primo miracolo. ANTONIA - Mamma mi fai male, alla mano, mi hai fatto male. ANGELICA - Cazzo, mamma, sei fantastica! ANTONIA - Mi hai fatto male al braccio. Hai buttato tutto in terra. ADELE - Ora si prepara. Antonia dove è “la serale” ? ANGELICA - Mamma, non la prendere. AIDA - Mamma, calmati adesso ti porto un raviolo e passa tutto, stai tranquilla. ADELE - Smettila Angelica! ANGELICA - Perché? Ma se non la vuole? Non gliela diamo punto. E quello che succede succede. ANITA - La guardi tu allora.

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TESTI ANGELICA - Sì. ANTONIA - Chi ci crede, eh? Lo scorso anno hai passato tutta la sera con il nostro vicino. ADELE - Chiusi in bagno. ANTONIA - Tre anni fa hai spaccato un piatto in testa ad Anita e abbiamo passato la nottata al pronto soccorso. ANGELICA - Stasera è diverso. Vero Anita? Kiss me!! Va bene guarda te lo tiro mmmmmuà! È tutto pronto? Prova, prova. Uno due tre un due tre. Il microfono non funziona! ADELE - Come non funziona? Il filo è attaccato? ANGELICA - Ma che hai nella testa, non hai attaccato il filo? Spegnete la tv che non sento niente! ANTONIA - Anita? ADELE - Adesso? ANGELICA - Era spento! Anita? Non riesco a sollevarla, mi aiuti? Mi fa male la mano. Anita per favore. Oh black star, I can’t touch you. Hot black star come back to me. Come back at home ANTONIA - Adele! Se hai finito mi vieni ad aiutare? ADELE - Dai mamma alzati! ANTONIA - Spegni! Mamma basta, calmati! Mi fai male. A Elena cadono gli occhiali, cerca di riprenderli dal divano. Non ce la fa. Antonia li prende e li nasconde. Elena piange per il nervoso. Antonia dice qualcosa ad Anita nell’orecchio. Anita sbuffa. Dalla sedia del padre. Anita indossa una giacca. Annoda i capelli e mette un cappello. È un vecchio gioco del padre. Tutte le sorelle partecipano. Antonia è la regista, Aida la sua assistente. Un attore padre si forma dalla voce amplificata di Angelica e dal corpo di Anita. Gli attori di questa piccola commedia: Elena, la madre; Adele, Antonia e Aida, le figlie; Angelica, la voce del padre; Anita, il corpo del padre; Adele bussa al cancello. ANTONIA - Chi è? ADELE - È lui. AIDA - Che emozione! ANTONIA - La sua voce? ADELE - È qui. AIDA - È qui. ANGELICA - Ho attraversato chilometri, abbracciato notti senza stelle, ho cavalcato i mari in cerca di una creatura, spossato di fatica, rotto dall’insonnia. ADELE - È qui! ANGELICA - Potete dunque dar da bere a un uomo che ha abbracciato notti senza stelle, ha cavalcato i mari, arido, rotto, spossato… in cerca di una creatura dal nome Bittersweet? ANTONIA - Bloody Mary, Negroni, Americano… ADELE - No, non vuole quello. ANTONIA - Manhattan Dry, Kir Royal, Whiskey Sour, Black Russian. ADELE - Ma no, l’altro, vuole l’altro. ANTONIA - Godfather, Godmother, John Collins, Long. ADELE - Noooooooo. ANTONIA - Island Ice Tea, Cosmopolitan, Ladyboy, Tequila Sunrise, Gin Fizz, Mimosa, Caipiroska, Caipirinha, Daiquiri, Martini Dry… AIDA - Io lo so, io lo so, lo dico io… ANTONIA - French Martini. ADELE - No, quello no. ANTONIA - Dirty Martini, Paradise, Dark Night… AIDA - Io lo so, io so lo sssssss…

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ANTONIA - White Lady, Golden Dream, Stinger! AIDA - Lo sapevo! ANGELICA - Cosa hanno udito le mie orecchie. Uno Stinger è proprio quello che ci vuole. ANTONIA - Eccolo. ADELE - Bevilo tutto d’un fiato come sai fare tu. AIDA - Lasciane un po’ anche a noi. ANGELICA - Aaahhhh. Bello, fresco e che colore. Mi ricorda il perché del mio stare qui. ANTONIA - E qual è? Diccelo! AIDA - Diccelo, dai! ADELE - Aspettate, lascialo parlare. ANGELICA - I suoi occhi ambrati… sono alla ricerca di una creatura che al posto degli occhi ha due gemme di ambra, lucenti come spilli e preziosi come pepite d’oro, forse voi la conoscete? Dicono si chiami Bittersweet perché è amara e subito dopo dolce. ANTONIA - Sì, è proprio lei! È nostra madre. AIDA - Dolcissimamente mamma. ADELE - È lì, quella con il fucile in mano. ANTONIA - Mamma posa il fucile. ANGELICA - È proprio lei! L’ho trovata, finalmente… ANTONIA - (alle sorelle) Ma è sicuro sia proprio lei? ANGELICA - Creatura dagli occhi di ambra, come dimenticarla. Chiederò a questa creatura di guidarmi in un ballo. ADELE - Chiediglielo, dai. ANTONIA - Sì, prendila, falla ballare. AIDA - Romanticamente mamma e papà. ADELE - Un pezzo rock, mamma balla! ANTONIA - No io vorrei sentire quella… ADELE - No, vi prego ballate quella che… ANGELICA - Bittersweet shall we dance? Sempre che le sue figlie siano d’accordo… ANTONIA - Sì lo siamo, lo siamo tutte vero? Anita prende Elena e mentre Angelica canta, lei balla un lento. Elena è visibilmente emozionata, quasi incredula che stia accadendo veramente. ANTONIA - Bravi, bravi! Tutte cantano Dance me to the end of love. ANGELICA/ANTONIA/ADELE - Baciatevi. AIDA – Sì, baciatevi, come se foste dentro un film, baciatevi come Rossella O’Hara e Rhett, come Romeo e Giulietta, come Julie Andrews e Christopher Plummer in Tutti insieme appassionatamente, come Leonardo di Caprio e Kate Winslet, come Debbie Reynolds e Gene Kelly, come Nicole Kidman e Ewan McGregor, oppure no, come Tom Hanks e Meg Ryan, come in C’è posta per te, come Marcello Mastroianni e Anita Ekberg, ma no che dico, baciatevi come Humphrey Bogart e Ingrid Bergman in Casablanca o come Sienna Miller e Heath Ledger in quel film, come si chiamava, no aspettate, baciatevi come Vivien Leigh e Clark Gable, baciatevi come loro. «Oh, Rhett, Rhett, Rhett, se te ne vai cosa sarà di me, che farò?» Elena è trasognante, aspettava quel ritorno da tanto tempo e si sente elettrizzata all’idea di baciare ancora suo marito. Anita ed Elena si baciano. Appassionatamente, eternamente. Le sorelle in un primo momento entusiaste per la scena lentamente abbassano lo sguardo, non vogliono più vedere. Vergogna. Anita si stacca.


TESTI Fegatograssod’oca (volevo solo fumare e dunque nostra sorella Anita ha abortito) ANGELICA - Ma quando si comincia? ADELE - Quando ti togli quella sigaretta dalla bocca. ANGELICA - È spenta, che fastidio ti do? ANTONIA - Non lo sai che i ragazzi di oggi non fumano? È passato di moda. AIDA - Tossicamente Angelica, non dovresti fumare, non si confà a una graziosa ragazza come te. ADELE - E costa troppo. ANGELICA - Non è vero che è passato di moda e comunque ancora non si vede nessuno. ANITA - Lavati i denti. ANGELICA - No prima devo fumare. ANTONIA - Brava così non ti vorrà baciare nessuno. ANGELICA - Anche Sid Vicious fumava, e Syd Barret e Jimi Hendrix, anche Courtney Love e Jim Morrison, eppure tutti volevano baciarli. ANITA - Infatti adesso stanno tutti a fare la fila per baciare i cadaveri. ANGELICA - Courtney Love è viva. ANTONIA - Courtney Love era una femmina? AIDA - Anche io voglio essere come Courtney Love. ANGELICA - È una femmina. È viva e fuma e si bacia con un sacco di ragazzi. Lasciamo stare, fumo dentro, non mi importa, fa troppo freddo fuori. Adele chiudi la porta che viene freddo. E adesso non ho voglia di vedere nessuno, sono nervosa. Se no che fumo a fare? Quindi non voglio sentire nulla, dovete capirla questa cosa, perché siete le mie sorelle ci vogliamo bene e se mi volete bene dovete lasciarmi fumare. ANTONIA - Esci dai. ADELE - Ma non puoi resistere? ANGELICA - Non vedo perché io non posso quando il suo professore di tedesco non fa altro che fumare il sigaro per cinque ore nello studio di papà e lei non dice niente. ANTONIA - Cosa c’entra? ANGELICA - C’entra. AIDA - C’entra, ha ragione Courtney Love. ANGELICA - E come mai non viene più? ANITA - Viene stasera. ANGELICA - E la porta sua moglie? ANTONIA - Fammi fumare. ANGELICA - Magari poi potete andare nello studio e studiare il comportamento del cane lupo. ANTONIA - In che senso?

ANTONIA - Col grano. Lo fanno bollire a fuoco lento nel grasso così scivola giù nel collo delle oche. Le strafogano insomma, in modo che il fegato si gonfia e diventa bello, bello sodo, lucido, pieno di grasso. “Fegatograssod’oca”. Ma ti sei scordata? Va giù che è una bellezza. ANGELICA - Non lo so se stasera lo mangio. ANTONIA - Che vuol dire che non lo mangi? ANGELICA - Non mi va più. E mi sa nemmeno ad Anita. Guardala è verde in faccia. AIDA - Mostruosamente Anita, secondo me non si sente bene. ANTONIA - No voi lo mangiate. Ci ho messo due giorni a farlo che la mamma si è scordata come si fa e ora lo mangiate. L’ho preparato speciale che l’ho fatto marinare nel cognac invece che nel porto. ANGELICA - Anita, cos’hai? ANTONIA - Non lo vuoi il foie gras? ANGELICA - Mica vorrai la pasta con la marmellata? ANTONIA - Ma lo sai che hai mangiato pasta con la marmellata di more fino a quando avevi sette anni? ADELE - Deve vomitare. AIDA - Adesso vomita. ANGELICA - Ma se non ha mai vomitato in vita sua! AIDA - Sta per aprire la bocca. ANTONIA - E che c’entra.

Premio Hystrio Scritture di Scena 2014: la motivazione di Supernova La giuria del Premio Hystrio-Scritture di Scena – formata da Fausto Paravidino (presidente), Fabrizio Caleffi, Claudia Cannella, Renato Gabrielli, Roberto Rizzente e Diego Vincenti – dopo lunga e meditata analisi dei 79 copioni in concorso, ha deciso, all’interno di una rosa di cinque finalisti (Aritmia di Carlotta Corradi, Hugo-Burla veronese di Margherita Monga, Natura morta con attori di Fabrizio Sinisi, Supernova di Erika Z. Galli e Martina Ruggeri e La vergogna di Orestia di Tiziana Tomasulo), di assegnare il Premio Hystrio-Scritture di Scena 2014 a: Supernova di Erika Z. Galli e Martina Ruggeri, per l’attitudine delle autrici a prendersi più rischi in un dispositivo drammaturgico dominato da un realismo magico virato in grottesco. La scrittura frammentata, il procedere per quadri fortemente simbolici a ritrarre una famiglia tutta femminile, con padre assente o forse morto, rende con forza il lato “nero” di dinamiche familiari irrisolte, liberando un’energia eversiva che fa pensare a modelli “alti” (García Lorca, Garcìa Màrquez, Emma Dante) trattati però con sana irriverenza.

Anita manda a fare in culo la sorella. ANGELICA - Leva quel libro dallo stomaco. ANTONIA - Dai, basta, è tardi. ADELE - Cosa c’è per cena? ANTONIA - Foie gras, tortellini al ragù, mamma poi cosa hai cucinato? Ah si il guacamole, l’anatra all’arancia, arrosto di cervo, anguilla marinata. AIDA - Con la crosticina tutta intorno dorata dorata, splendente come pepite d’oro, mamma! ANGELICA - Come è che si fa il foie gras? ANTONIA - Non ti ricordi? Lo fanno che ingozzano le oche. Se con dieci sono piene gli danno cento, poi mille poi diecimila. Gli riempiono il fegato quasi a farlo scoppiare. ANGELICA - Come le fanno scoppiare?

(foto: Marina Siciliano)

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TESTI AIDA - No, no, no, girati di là, attenta al vestito. ADELE - Anita. Bevi. ANTONIA - Forse vuole prendere un po’ d’aria. Anzi no, vieni, siediti sulla poltrona vicino alla mamma. ADELE - Anita? ANTONIA - Cos’hai? ANGELICA - È incinta, ecco cos’ha. Le sorelle tutt’intorno. E allora gioiscono a dovere, ma non sanno bene come si fa. Elena spara in aria. La abbracciano. Con quegli abbracci che diventano morse. Anita si svuota.

La Tormenta (Dal Lat. tormentum , ovvero tormentare, martoriare, distruggere, capovolgere) Sono tutte sul ciglio della casa. Antonia beve come una disperata, Adele cerca la montagna, Angelica fuma straziandosi le unghie, Anita tace pensando a come la natura potrebbe ucciderle tutte. Aida ha la sua macchina fotografica in mano, ma non sa come bloccare tutto questo in un solo ricordo. Silenziosamente. L’inizio di una tormenta. Guardano gli alberi alzarsi, la nebbia dilatarsi, la montagna nascondersi. Un bianco scendere come colpi di fucile. Inesorabile. ANGELICA - Voi dite che è una buona idea aspettare qui? ANTONIA - Ma magari riusciamo a vedere meglio. ADELE - Ma che vuoi vedere, con questo vento… AIDA - Arriveranno, tra poco gli invitati saranno qui. E faremo una bellissima festa, la Festa di Primavera di quest’anno sarà indimenticabile, più degli altri anni, più di sempre. ANGELICA - Se non si muovono si fredda tutto in tavola. ANITA - Il vento è trasparente. ANTONIA - Mamma, metti giù il fucile. ADELE - È già fredda la cena, è esotica. ANTONIA - Sì, c’è troppo vento fuori. AIDA - Arriveranno, lo so, ve lo dico io. Il salone diventerà una immensa pista da ballo e la palla dal centro comincerà a girare e sopra di noi, sopra le nostre teste, ovunque, tante piccole animelle di luce. ANITA - Se le sfugge da quelle mani unte magari parte pure un colpo. ANGELICA - Non l’avevo mai visto un vento così. ADELE - C’era pure quando è nata Anita. È quel giorno che mamma si è ammalata. Pure gli alberi si sono rovesciati. Ne ho visto uno al contrario, aveva le radici verso il cielo. Io un albero morto così vivo non l’avevo mai visto. ANGELICA - Un albero morto. Che ne sai che era morto? ANTONIA - Che ridi! Smettila e vieni qua. Fuma dentro, fai quello che ti pare, ma non uscire. Mamma, metti giù il fucile. Angelica, mica vorrai uscire? AIDA - Saranno tutti qui per noi. ANGELICA - No, voglio vedere gli alberi morti di Adele. ANTONIA - Le cose mica muoiono. L’albero è una cosa strana, con tutte quelle radici, come si tiene? Così? È contronatura. AIDA - Lo so sarà una festa indimenticabile, stupendamente Festa di Primavera. ANGELICA - Voglio vedere se arriva qualcuno. ADELE - Ora smette. Tra dieci minuti smette. Eccone uno! ANGELICA - Dove? ANITA - Là guardate! AIDA - Rimarranno tutti a bocca aperta e tu Anita, sì tu, potrai invi-

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tare il tuo professore a ballare un lento come fanno gli innamorati, noi ti guarderemo sorridendo e alla fine della serata lui ti porterà via come promesso e sarete felici per sempre. ANTONIA - Io non vedo niente. ANITA - Sei ubriaca fradicia. ANGELICA - Rimettiamolo bene, rimettiamolo dritto, rimettiamolo sotto la terra. ADELE - Era già morto quello. È il pino che avevamo piantato a Natale. ANTONIA - È quello che hai ammazzato con papà. Gli avete dovuto fare le punture di acido muriatico per ammazzarlo. Non voleva morire mai. Aveva le radici sotto sotto sotto. Angelica piangeva come una cretina. AIDA - Tu, Angelica, salirai sul tavolo e inizierai a cantare e avrai tutti gli occhi puntati su di te, sarai la star, sarai la più brava e alla fine della tua esibizione tutti i ragazzi più carini ti chiederanno di uscire. E noi penseremo che siamo tutte un po’ gelose ma che siamo contente per te. Antonia mette gli occhiali della madre. ANGELICA - Io esco. ANTONIA - Aspetta domani mattina. Non si vede niente ora, non lo vedi che è buio pesto fuori? Non vedi che c’è la nebbia, non lo vedi che è tutto al contrario? Aspetta. AIDA - Mentre Antonia incontrerà Aaron finalmente e lui si dichiarerà, le dirà che è sempre stato innamorato di lei e che non si lasceranno più, che sono fatti l’uno per l’altra e che ce li darà lui i soldi per sistemare la casa e andare avanti, che non ci mancherà più niente perché Aaron vuole sposare Antonia e per questo è come se un po’ sposasse anche noi. E poi a un certo punto ogni invitato salterà sulla sedia. E le animelle di luce si faranno sempre più fitte e intense che sembrerà di stare dentro una gigantesca palla di neve, una di quelle con le case dentro, con le montagne e con le persone come noi, piccole piccole. Perché da quella porta entrerà davvero lui e Adele potrà finalmente riposare e non essere così inquieta. Adele tu abbraccerai nostro padre che ritorna come se non se ne fosse mai andato e ti darà un bacio sulla fronte e ti dirà che sei stata forte, che non è stata colpa tua. E tu mamma ti metterai a urlare che lo ami e gli salterai con le braccia al collo e vi guarderete negli occhi come mai prima d’ora e vi direte che non c’è mai stata ora o istante in cui l’anima di uno si sia sciolta dall’anima dell’altra. Vi direte di non essere mai stati lontani e vi prometterete di non lasciarvi più. E a quel punto io chiederò a tutti gli invitati di alzarsi e di ballare e di farla muovere un po’ questa gigantesca palla di neve con noi dentro perché dopotutto è questo quello che aspettavamo. Un giorno come questo. Angelica apre il cancello ed esce. La luce si spegne. I suoni della tormenta. Buio. Fuori è rivolta dei cieli e della terra. Angelica muore il primo giorno di primavera. Luce. Aida scatta l’ultima fotografia. ANTONIA - Mamma, mamma vieni qua, tranquilla, guarda che sta bene Angelica, sta solo facendo la scema. Dai che adesso si tira su. Non lo vedete che è finita la tormenta? Perché state ferme? E dai che tra poco inizia la festa, è il giorno più bello questo. Adele smettila di guardare fuori, vieni qui togli il fucile alla mamma. Mamma, mamma, senti non è successo niente, dai, sistemati i capelli, sei bella, così dietro le orecchie tra poco arriveranno tutti, mica ci possiamo far trovare così, con queste facce, ridi mamma ridi, ridete tutte, non le voglio vedere queste facce, ho detto sta bene Angelica, fa la scema, fa la rock star, lo sai mamma, le


TESTI piace giocare, fa la scema, è fatta così. Non la guardate, lasciatela stare che poi le passa e viene qui. Vedo qualcuno? Voi lo vedete? O sono due, controlla, Adele, guarda bene… Lo vedi mamma? Respira, si muove, ci fa preoccupare… Angelica, alzati adesso, però, basta. Abbiamo fatto tutto questo per te, dai, che tra poco canti davanti a tutti, ti sei preparata tanto, dai, che la mamma ha tanta voglia di sentire la canzone nuova, vero? Vero che se è brava poi la mandiamo in televisione? Così diventi famosa e ci porti via. Ci porta nei paesi esotici, come piace a mamma, dove fa caldo e non c’è bisogno di accendere la stufa, là, come si chiama, Anita, quel posto, dai, che lo sai, diglielo alla mamma, la Polinesia si chiama, ecco, andiamo là, Angelica, Angelica, Angelica, ti prego, ripigliati, ti faccio fumare, ecco la chiave, è la tua, te la regalo, vieni qua, Angelica, fuma, fuma quanto vuoi, mamma, posa il fucile, mamma, che fai è pericoloso, ma che fai, Anita, Anita, che hai, sembri di marmo, quanto sei bianca, Angelica, canta, canta Angelica, facci sentire il pezzo nuovo, sei tale e quale a Pj Harvey, a Courtney Love, sei perfetta, Angelica, perfetta, dai, che ci facciamo la foto che è tardi, quando fai così mi dai fastidio, quando fai l’attrice, quando fai la rock star “maledettastrafatta”. Mamma. Mamma, ferma! Elena spara furiosamente. La natura le ha tolto tutto. La montagna, lo specchio di vetro che le ha protette e le rifletteva ormai non serve più. E adesso come facciamo? Adele? Adele lo sai riparare il vetro? Mamma-ma-non-puoi-sparare-a-un-pezzo-di-roccia? Ma come

ti viene in mente. Facciamo la foto. Ma perché hai rotto tutto? Non vi muovete, ora pulisco! Mamma, balliamo? Esprimiamo il desiderio. Aspettate, fa freddo, mettetevi la giacca, ecco, che se no vi viene il raffreddore e finisce che dobbiamo rimandare la festa, venite qua, guardate la montagna, vieni più qua, Adele, stringiamoci, no, ecco, più così, Angelica, tirati su, smettila, ridete, mamma ridi, ridi mamma. Flash. Buio.

FINE

Note: 1 Happy and Bleeding, canzone di Pj Harvey 2 Run baby run, canzone dei Garbage 3 Dance me to the end of love, canzone di Leonard Cohen 4 Per "la serale" si intende un bicchiere da champagne con dentro 200 ml di acqua frizzante e trenta gocce di Lexotan

In apertura, illustrazione di Mariagiulia Colace. A pagina, 79, Alice Torriani e Sara Pantaleo in Supernova.

ERIKA Z. GALLI E MARTINA RUGGERI Erika Z. Galli (nata nel 1983) e Martina Ruggeri (nata nel 1986) si incontrano artisticamente nel 2005 dando vita al progetto Industria Indipendente, collettivo artistico e di ricerca, principalmente dedito alle arti performative, teatrali e visive. Dal 2005 a oggi il gruppo realizza varie personali e collettive, in particolare nello scenario indipendente romano esponendo, tra gli altri, per Enzimi (O.S.I. Occupare spazi interni), Despatch (Kollatino Underground) e per la rassegna d’arte visiva Live Perfomance meeting. Nel 2007 Erika Z. Galli e Martina Ruggeri cominciano la loro ricerca drammaturgica con la traduzione di alcuni testi di Eschilo ed Euripide, che le conduce alla completa riscrittura di Orestea. È del 2008-2009 la produzione di 8.10.88, grazie al quale, nel 2010, vincono il Premio Speciale Celeste Brancato come autrici e registe dei propri lavori, per la ricerca e la sperimentazione in ambito teatrale e, nello stesso anno, presentano lo spettacolo presso il Teatro Ambra alla Garbatella di Roma. Nel 2009 partecipano, con la performance When the sky goes out, alla mostra Nuda Proprietà, nell’ambito dell’Europride 2011. Dal 2011 al 2013, con Crepacuore, monologo interpretato da Diletta Acquaviva, vincono i concorsi nazionali Teatri Riflessi (Catania), Martelive (Roma), La Corte della Formica (Napoli) e By Pass (Vicenza). Nel 2012 debuttano nella rassegna Orfani per desiderio, al Teatro Garibaldi di Palermo, con uno studio su Edipo dal titolo E. È del 2014 È tutta colpa delle madri, presso il Teatro Valle Occupato di Roma, con cui iniziano un percorso di ricerca sulla drammaturgia scenica. Attualmente sono impegnate teatralmente con il lavoro di messinscena del testo Supernova in quello tutto al maschile de I ragazzi del cavalcavia, e nello studio sull’Iliade dal titolo Ho tanti affanni in petto. Sono entrate da gennaio 2014 a far parte del collettivo di registe “Le ragazze del porno”, per il quale stanno scrivendo il cortometraggio dal titolo Più di ogni altra cosa al mondo vorrei. Con il testo Supernova hanno vinto il Premio Hystrio-Scritture di Scena nel 2014 e sono state selezionate per Face à Face - Parole d’Italia per scene di Francia, progetto dedicato alla drammaturgia italiana contemporanea in Francia, che vedrà, da aprile ad agosto 2015, la mise en scène dei testi selezionati.

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critiche L’epopea dei fratelli Lehman, Ronconi e Massini leggono la Storia Lehman Trilogy (foto: Luigi Laselva) 6 bianca (foto: Serena Serrani)

LEHMAN TRILOGY, di Stefano Massini. Regia di Luca Ronconi. Scene di Marco Rossi. Costumi di Gianluca Sbicca. Luci di AJ Weissbard. Suono di Hubert Westkemper. Con Massimo De Francovich, Fabrizio Gifuni, Massimo Popolizio, Paolo Pierobon, Roberto Zibetti, Fausto Cabra, Francesca Ciocchetti, Fabrizio Falco, Martin llunga Chisimba, Raffaele Esposito, Denis Fasolo, Maria Laila Fernandez. Prod. Piccolo Teatro di MILANO-Teatro d’Europa. L’epica, il mito, la storia, pubblica e privata, di una delle famiglie più potenti d’America, i Lehman, e del Paese in cui misero nuove radici, emigrando a metà Ottocento da Rimpar, Baviera, a Montgomery, Alabama. Ebrei ortodossi rispettosi di riti e tradizioni all’inizio, ebrei newyorchesi ormai “laici”, semmai votati al culto del dio denaro poi: 160 anni di storia per tre generazioni di commercianti, banchieri e finanzieri. Fino al mostruoso crack della Lehman Brothers nel 2008. Tutto ha inizio con uno sperduto ma volitivo ebreo ortodosso, figlio di un mercante di bestiame bavarese, che l’11 settembre 1844 sbarca a New York. Nel giro di pochi anni viene raggiunto da Emanuel e Meyer. Ben presto i tre fratelli capiscono che in quell’America, che dà una chance a chiunque mostri talento e tenacia, la ricchezza si raggiunge diversificando gli investimenti: quindi cotone, caffè, ferrovie, petrolio, siga-

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rette, televisori, cinema, automobili, aerei, Canale di Panama, alcol, computer. Ma anche, e poi soprattutto, percentuali sulla transazioni, New York, Borsa, azioni, finanza: ricchezza spregiudicata che si concluderà con il crack del 2008, quello definitivo, perché la “Lehman Brothers”, che da tante crisi si era risollevata (Guerra di secessione, conflitti mondiali, crisi del 1929), a quella soccomberà. Lehman Trilogy di Stefano Massini è un bellissimo testo (pubblicato da Einaudi), un’opera “ibrida” a cavallo fra teatro e letteratura, una sorta di “romanzo teatrale” in cui molteplici sono i registri linguistici e di contenuto: saggio, narrativa, racconto onirico, mito e storia, prosa e versi, con dialoghi e scarti temporali dai ritmi cinematografici. Non stupisce che Luca Ronconi ne sia rimasto colpito: per la forma non strettamente teatrale, per i toni epici della grande saga familiare, per un modo di indagare la contemporaneità che va a toccare, per esempio, la storia dell’economia, ma anche l’evoluzione dell’umanità e il rapporto con la tradizione e le radici. Temi presenti in molti suoi spettacoli degli ultimi trent’anni, da Strano interludio e Gli ultimi giorni dell’umanità a La compagnia degli uomini, passando per Infinities, Il professor Bernhardi e Lo specchio del diavolo. Al centro della fluviale Lehman Trilogy, divisa dal

quarantenne autore fiorentino in tre parti e da Ronconi in due (ovvero due serate di spettacolo), ci sono i tre fratelli Henry, Emanuel e Mayer, poi lo speculatore Philip, figlio di Emanuel, e il politico Herbert, figlio di Meyer, infine il fragile Robert, figlio di Philip, la terza e ultima generazione. Per loro un cast d’eccezione composto, in ordine “di nascita”, da Massimo De Francovich, Fabrizio Gifuni, uno straordinario Massimo Popolizio, Paolo Pierobon, Roberto Zibetti e Fausto Cabra. Senza dimenticare Francesca Ciocchetti, interprete delle varie mogli dei Lehman, e Fabrizio Falco nel ruolo emblematico di un funambolo che passeggia sospeso per cinquant’anni davanti all’ingresso di Wall Street per poi cadere proprio il giorno dell’inizio della crisi del ‘29. Nessuna concessione alla scenografia, una scatola bianca punteggiata dalle diverse insegne dell’impero Lehman, e ai costumi, tute nere da cui spuntano colletti rigidi e panciotti. È puro teatro d’attore e di parola, con una prima parte avvincente come un’epopea biblica e non priva di gustosi momenti di ironia “ebraica” (i tre esilaranti monologhi di Meyer, Emanuel e Philip sulla scelta delle rispettive mogli), e una seconda, tutta sul secolo breve, più cupa, con qualche cedimento didascalico, forse ancora troppo vicina a noi per essere adeguatamente storicizzata e mitizzata. Ma sono peccati veniali di fronte all’incontro tra un testo ambizioso e appassionante e un regista che ha saputo trasformarlo in uno degli spettacoli più affascinanti della stagione. Claudia Cannella

La spietata vendetta di una figlia infelice IL BALLO, ideato e interpretato da Sonia Bergamasco, liberamente ispirato al romanzo di Irène Némirovsky. Scene di Barbara Petrecca. Costumi di Giovanna Buzzi. Luci di Cesare Accetta. Prod. Sonia Bergamasco e Teatro Franco Parenti, MILANO. IN TOURNÉE Specchi. Specchi. Specchi. Vanità. Superbia. Crudeltà. Infelicità infantile. Arroganza adulta. Il ballo: uno dei più bei testi di Irène Némirovsky. Storia di una figlia infelice, mortificata, non amata che si vendica di una madre tirannica, frivola, capricciosa. La madre organizza un ballo, boriosa occasione per esibire la recente ricchezza: la figlia, esclusa perché troppo piccola e comunque ingombrante, glielo manda a monte. Sonia Bergamasco costruisce uno spettacolo, un vero spettacolo a cinque voci (madre, padre, figlia, istitutrice, vecchia cugina), magnifico per passione e talento. Inventa cinque personaggi diversissimi, cinque voci dissimili, cinque gestualità stravaganti: diventa di


CRITICHE/LOMBARDIA

volta in volta madre vanesia, padre rozzo, figlia frustrata, istitutrice autoritaria, cugina pettegola. Si muove tra grandi specchi inquietanti, che riflettono le storie feroci di quei cinque esseri umani infelici, insoddisfatti, disattenti, violenti, incapaci di amare. Gli specchi all’inizio sono velati: Sonia li scopre uno dopo l’altro, come cercando di moltiplicare la disperazione che cresce di battuta in battuta, e si avvolge nei teli di plastica che li coprono come intrecciando le storie narrate, per poi buttarli, eliminarli, strapparli. Antoinette, la figlia, è tiranneggiata, schiacciata, sopraffatta, continuamente ferita da una madre che non conosce affetto, tenerezza, attenzione, da un padre che fa solo soldi, da un’istitutrice che la estenua con noiose lezioni di piano. E quando arriva l’umiliazione definitiva, l’esclusione dal primo grande ballo nella pomposa casa da nuovi ricchi, scatta la vendetta: tutti gli inviti, accuratamente scelti per vanagloria mondana (da Antoinette scritti sotto dettatura della madre), finiscono nella Senna. È una fenomenale prova d’attrice, quella di Sonia Bergamasco: una lettura composita che si rinnova in ogni gesto e in ogni tono. Magnifiche le braccia sventolate in alto della cugina che arriva, unica invitata al ballo, le compiaciute smancerie della madre, il brutale tono roco del padre, la voce avvilita della figlia. E magnifico quel sorriso finale, perfido e disperato, con cui Antoinette, protesa sullo specchio che la illumina in modo quasi satanico, rivendica il suo esserci, il suo spazio, il suo bisogno inascoltato di amore, la sua crudeltà, la sua vittoria. O forse la sua definitiva sconfitta. Fausto Malcovati

Lui vs Lei: un match che dura da secoli LA PALESTRA DELLA FELICITÀ, di Valentina Diana. Regia, scene e costumi di Elena Russo Arman. Luci di Nando Frigerio. Musiche di Alessandra Novaga. Con Elena Russo Arman, Cristian Giammarini. Prod. Teatro dell’Elfo, MILANO. Uomo e donna si allenano, come in una palestra per trovare, o non trovare, la propria felicità di coppia. Tante piccole storie, raccontate in

pochi minuti, si svolgono con la rapidità di un match o di un gioco in cui, a ogni conclusione, si muore uccisi, ma poi ci si rialza, indossando una nuova pelle. Elena Russo Arman (anche regista) e Cristian Giammarini rappresentano, in questo testo pervaso d’ironia, la difficile convivenza uomo-donna fin dai primordi, quando appaiono sotto forma di scimmioni, di cui riproducono le fattezze attraverso i movimenti del capo e delle mani. Cadono uccisi e si rialzano, sdraiandosi sul palcoscenico per indossare abiti e parrucche, esposte in fila su manichini disposti sullo sfondo, cambiando così in un attimo anche la caratterizzazione di ogni personaggio, in un alternarsi di musiche e suoni. Convincente Elena Russo Arman quando interpreta la petulante moglie di un marito distratto, che confessa come sia necessario per l’uomo non ascoltare le litanie delle proprie donne per sopravvivere, rivendicando, subito dopo, la sua superiorità intellettuale. Esilaranti le due coppie senza figli che curano i pesci rossi, come se fossero bambini, criticandosi a vicenda. Ogni volta si ripete il rituale di reciproca distruzione in cui uno dei due partner uccide l’altro con una pistola giocattolo, finché il meccanismo non si inceppa: gli attori stessi si interrogano su quale sia il modo migliore per morire, lasciando tuttavia al pubblico l’interrogativo, provocatorio, se non si possa concludere la vicenda senza la morte di uno dei due. Albarosa Camaldo

Opera, il corpo al confine della geometria

MOLIÈRE

Se il female touch di Andrée Shammah traghetta Argan da Parenti a Dix IL MALATO IMMAGINARIO, di Molière. Traduzione di Cesare Garboli. Regia di Andrée Ruth Shammah. Scene e costumi di Gianmaurizio Fercioni. Luci di Gigi Saccomandi. Musiche di Michele Tadini e Paolo Ciarchi. Con Gioele Dix, Anna Della Rosa, Marco Balbi, Valentina Bartolo, Francesco Brandi, Piero Domenicaccio, Linda Gennari, Pietro Micci, Alessandro Quattro, Francesco Sferrazza Papa. Prod. Teatro Franco Parenti, MILANO. IN TOURNÉE «Cosa resterà/di quegli Anni Ottanta?» Restiamo noi. Nei Roaring 80eens, abitavo in via Pier Lombardo 28, a due passi dal Salone, alla cui inaugurazione fui presente. Da allievo prediletto di Argan (storia dell’arte contemporanea) ero passato armi e bagagli alle scene. Al debutto dell’Argan di Franco Parenti (Malato immaginario, 1980 per la regia di Andrée Ruth Shammah) c’ero. E anche venticinque anni fa, all’ultima replica neo molieriana del Maestro nel suo Salone. Ora son qui a raccontarvi che cosa resta di quell’interpretazione degli anni Ottanta. Resta netta, nitida, la memoria del felice incontro tra gran teatro dell’attore protagonista e giovane teatro di regia. Un’operazione sciamanica che si ripropone con Gioele Dix, maturato primattore e la sempre giovane direzione di Andrée, per molti versi di stampo strehleriano. Resta netta, nitida, la memoria affettuosa della co-protagonista Lucilla Morlacchi. Che è un’eternità laica, loica, lucida, culturale. Resta netta, nitida, la sensazione del confronto tra ipocondria e malattia, che corrisponde al match tra comico e tragico. La vecchia guardia del Salone Pier Lombardo/Teatro Franco Parenti non è vecchia, non muore e soprattutto non si arrenderà mai. La dimostrazione? Questo Argan di Gioele Dix nel riallestimento invernale di Shammah che preannuncia la primavera (dell’eterno ritorno). Carattere saliente dell’interpretazione di Gioele 8 e 1/2 Dix (autobiografia generazionale felliniana con Argante fratello teatrale del Guido cinematografico e “sorella” del Guido letterario di Volponi, La strada per Roma) è proprio quella di conferire al ruolo un retrogusto e un sottotesto femminile, materno. Quasi a sottolineare che l’adulto malato, immaginario o meno, diventa inconsapevolmente la sua mamma, la mamma di se stesso. Questo aspetto di grande sensibilità rivela il female touch della regia maternale di Shammah, yiddish mamele e della memoria di Franco Parenti.

Fabrizio Sebastian Caleffi

MA/MAINS TENANT LE VIDE, di Opera. Progetto, coreografia e danza di Marta Bichisao. Cura della visione di Vincenzo Schino. Progetto e composizioni sonore di Federico Ortica. Scene di Emiliano Austeri. Video di Paul Harden e Grazia Genovese. Prod. Crt/Centro Ricerche Teatrali, MILANO. Ispirarsi a Giacometti. E reggere il confronto. Con eleganza. Trasferendo sul palco una bellezza di linee minime, tenaci e delicatissime come il corpo di Marta Bichisao, creatrice e unica protagonista del lavoro. Che ruba il titolo a una celebre scultura

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CRITICHE/LOMBARDIA Le intellettuali

dell’artista svizzero e vi aggiunge un ideogramma giapponese, a indicare il vuoto che permette l’avvicinamen to, l’incon tro. The space between us: tema indagato spesso nelle arti figurative. E d’altronde è (al solito) un incrocio di grammatiche la nuova produzione di Opera, in costante evoluzione creativa. Lunga gestazione per una coreografia intima, di det tagli, quasi minacciata dagli oggetti intorno: un candido piano illuminato e sospeso; un cubo di soli contorni sottili, come fosse il disegno di un bambino; una travebilanciere, con cui giocare, sfidando il proprio equilibrio (non solo fisico); fili tesi a creare fasci di luce, tagli d’ombra, la mobilità dello spazio. E poi quella marionetta stilizzata, già protagonista nel precedente Eco, umanità neonata (s)persa nello spazio. Di raro fascino la costruzione scenica, habitat mosso abilmente attraverso un gomitolo nascosto di cavi. Questo il regno della Bichisao, in conversazione “afona” con una geometria liquida come certa filosofia, quasi sovrappensiero, prima di divenire azione raffinatissima. Gusto minimo orientale, certo. Ma molto di più. A sedurre con una camminata disarmonica, il gesto di una caviglia, di nuovo come a fluttuare nel vuoto e poi insetto gentile che trova senso nel contatto, a terra. È un foglio riempito a carboncino, saliscendi emotivo dove le musiche richiamano campane tibetane, prima di improvvisi temporali d’inquietudine. E ci si ricorda di quello spleen conturbante e malsano che inizialmente apparteneva al linguaggio del gruppo. Sfumato lato oscuro che talvolta emerge dal profondo. Come in questo caso. L’uscita di scena per alcuni minuti della Bichisao è un’interruzione emotiva di cui non si sentiva il bisogno. Si è tesi verso la conclusione. Il suo ritorno apre invece a un assolo nel silenzio, mentre quel cubo disegnato da un bim-

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bo scende dalle nuvole, sacrificando la propria tridimensionalità a una superficie piana. Non ci si incaponisce più sugli interrogativi aperti. È la serenità. O qualcosa di simile. Diego Vincenti

Fra cultura e ignoranza, sfida senza vincitori LE INTELLETTUALI, di Molière. Traduzione di Cesare Garboli. Regia di Monica Conti. Scene e costumi di Domenico Franchi. Luci di Antonio Zappalà. Musiche di Giancarlo Facchinetti. Con Maria Ariis, Stefano Braschi, Marco Cacciola, Monica Conti, Federica Fabiani, Miro Landoni, Angelica Leo, Roberto Trifirò, Carlotta Viscovo. Prod. Elsinor, MILANO. IN TOURNÉE Commedia poco rappresentata, ma certo fra le più interessanti di Molière, Le intellettuali non è un testo facile da mettere in scena. Perché è corale nel suo amaro tratteggiare le molteplici facce del potere: quello della cultura e quello dell’ignoranza, della tradizione e della novità, del maschio e della femmina. Perché manca di protagonisti assoluti e offre molteplici “centri” e punti di vista, a tratti anche contradditori, permeati tutti da una grande disillusione di fondo. Verso la cultura, qui fonte di distorta percezione della realtà e di inganno, ma anche verso il pragmatismo dell’ignoranza, che non è la miglior soluzione ai propri guai esistenziali, ma semplicemente la meno peggio. Dissodare grandi classici poco frequentati per metterne in luce riverberi, anche imprevedibili, sulla nostra contemporaneità, è però una costante delle acute regie di Monica Conti che, anche in questo caso, riesce con rigore a mettere a fuoco e a domare un

L’età proibita (foto: Serena Serrani)

Per una donna (foto: Serena Serrani)

testo assai sfuggente. Pretesto narrativo di un plot davvero esile è la contesa matrimoniale tra padre e madre, il ricco borghese Crisalo e la moglie Filaminte, su chi dare in sposo alla figlia Enrichetta: Clitandro, gradito alla ragazza e al papà, o il pedante e fasullo Trisottani, idolatrato dalle “intellettuali” di casa, ovvero mamma, zia e sorella. Un uomo, Trisottani, sorta di Tartufo in sedicesimo, pronto a tessere le sue trame con le armi della pseudo cultura al posto di quelle della pseudo devozione, a cui il bravo Roberto Trifirò dà un tono di livida ambiguità che “contagia” giustamente tutta l’atmosfera della pièce. Ma è tutta la compagnia a reggere ottimamente il gioco, con gli alessandrini della sempre splendente traduzione di Garboli detti con sapienza e limpidezza, con un ritmo e una musicalità perfettamente concertati dalla regia della Conti, anche in scena nel ruolo della serva Martina, capace di togliere le castagne dal fuoco al posto del codardo padrone, un po’ come di lì a poco farà la Tonina del Malato immaginario. A emergere con decisione sono, quindi, tutti i segni del teatro di Molière: acuto analista di mali individuali ma anche irriducibile fustigatore di snobismi e mode sociali. Claudia Cannella

spesso mosaici confusi di aneddoti e pagine strappate. Il lavoro di Maria Pilar Pérez Aspa, L’età proibita - Appunti biografici di Marguerite Duras, sorprende invece per onestà intellettuale. E per l’intelligenza di scegliere un taglio strettamente (auto)biografico, in cui è la stessa Marguerite Duras a parlare in prima persona, attraverso quelli che paiono spezzoni di interviste e diari. Ci si concentra sulla donna per far emergere l’artista, la complessità di una figura che ha segnato il Novecento. Duras mon amour. Ne esce un testo colmo di riflessioni sulla vita e sulla letteratura. Ma anche di «uomini che le son piaciuti», colpi di testa, lutti, sesso, innamoramenti, alcolismo. In un altalenarsi emotivo (ma quanto pudico, per assurdo) in cui segni indelebili divengono dettagli. E viceversa. A tratti in un entusiasmo adolescenziale che ha il sapore della vita vissuta e disperatissima, più che dell’alcol. Parole che spiazzano per solidità e prospettiva. Si veda lo splendido brano iniziale sulla natura delle storie raccontate in letteratura, realtà e finzione a scambiarsi di ruolo, l’attenzione rapita. Con le emozioni a muoversi con grazia dal salotto intellettuale al dolore intimo, da un erotismo giocoso ai conti definitivi con se stessi. Prestandosi a un lavoro scenico che punta sulla semplicità ma rimane incisivo, riuscendo perfino a turbare. Il titolo si rifà probabilmente a quell’amore maturo della Duras che spezza (per l’ennesima volta) le gabbie borghesi. E meno male. Un po’ affrettato e improvviso il finale, che meriterebbe un crescendo più disteso. Mentre incredibilmente intensa e precisa Maria Pilar Pérez Aspa, la cui cura dei dettagli è nascosta sotto una cipria di naturalezza. Si tira le calze, si sofferma su una sillaba, un balbettio in francese prima di sistemarsi gli occhiali: la Duras è sul palco. Con un sottile accento italo-franco-spagnolo. Diego Vincenti

La donna e l’artista Duras mon amour L’ETÀ PROIBITA - appunti biografici di Marguerite Duras, di Roberto Festa e Maria Pilar Pérez Aspa. Regia di Marìa Pilar Pérez Aspa anche interprete. Luci di Alessandro Verazzi. Scene di Maria Spazzi. Prod. Atir/Teatro Ringhiera, MILANO - Pim Off, MILANO. Scivolose le agiografie a teatro. I bigini letterari. Brevi monologhi a condividere grandi passioni, troppo


CRITICHE/LOMBARDIA

Se una passione omo ti sconvolge la vita

Dal Tevere ai Navigli la Broadway di De Sica

PER UNA DONNA, di Letizia Russo. Regia di Manuel Renga. Scene di Stefano Zullo. Luci di Alessandro Verazzi. Con Sandra Zoccolan. Prod. Atir/Teatro Ringhiera, MILANO.

CINECITTÀ, di Christian De Sica, Riccardo Cassini, Marco Mattolini e Giampiero Solari. Regia di Giampiero Solari. Scene di Patrizia Bocconi. Costumi di Ester Marcovecchio. Luci di Marcello Iazzetti. Musiche dell’orchestra diretta dal maestro Marco Tiso. Coreografie di Franco Miseria. Con Christian De Sica, Ernesta Argira, Daniele Antonini e Alessio Schiavo, Roberto Carrozzino, Roberto D’Urso, Deborah Esposito, Dalila Frassanito, Veronica Lepri, Tommaso Petrolo. Prod. Bags Live, MILANO.

Un groviglio di fili rossi. Come un viluppo interiore che stringe, soffoca, impedisce i movimenti. Come i legami relazionali che si scoprono difficili da recidere. Inciampa e si annoda nella scenografia la brava Sandra Zoccolan, unica interprete di Per una donna: il monologo, firmato da Letizia Russo per la regia di Manuel Renga, ripercorre il dissidio interiore di una quarantacinquenne sposata, improvvisamente infiammata dall’attrazione per una sconosciuta. Come accade di fronte agli sconvolgimenti biografici e passionali, la protagonista cerca inutile appiglio in un rassicurante dispiego di razionalità. Sviscera pro e contro, elenca lucide motivazioni, si illude di averla vinta contro la parte meno disciplinabile di se stessa, destinatario personificato della sua vana invettiva. Ma il furbo alter ego, silenzioso, non ha nulla da rispondere: sa bene che non è una battaglia da combattere sul piano della logica. Intorno all’attrice si chiude un cerchio di microfoni, gabbia amplificante che rimanda l’eco di ogni sospiro, di ogni incertezza nella voce, di ogni frase sussurrata piano, quasi lo spettatore fosse portato all’interno di una mente in stato confusionale. In questo tappeto sonoro, a un tempo avvolgente e angoscioso, il racconto dell’unico incontro erotico, forse immaginario, con la donna - una “lei” di cui significativamente non si ricorda neanche il nome - diviene un’ossessione insinuante e pervasiva che entra nelle orecchie e squassa le membra. «Queste cose non succedono all’improvviso», cerca invano di convincersi la donna, portando come testimonianza scampoli della propria normalità: la vita tranquilla con il marito, gli occhiali sulla testa, il ronzio del frigo. Ma non si è mai al riparo, nemmeno nella cucina più ordinata, da una folata di vento capace di buttare all’aria tutti i fogli sul tavolo. Questo ci ricordano, non senza ironia, il testo sottile e ben scritto della Russo e la generosa interpretazione di Sandra Zoccolan. Maddalena Giovannelli

IN TOURNÉE Ne parli bene, ne parli male, non ci azzecchi mai. Sia che tu scenda in campo affrontando il Kulturkampf suonando la cornamusa camp per affermare che il padre dei cinepanettoni è il neorealismo, sia che arricci il nasetto alla Bazin per bocciare snobisticamente Cinecittà, hai solo svolto un inutile compitino. Ma, se sei del mestiere, non puoi non riconoscere in Christian De Sica il miglior intratten-attore attualmente in circolazione. Romano simpatico anche ai milanesi, con questo suo show è al top e con lui i teatri come il Nuovo e il San Babila sono vicini al Belasco e allo Schubert a Broadway. Mentre a Hollywood l’Academy offre, con l’Oscar a Birdman , un tributo irrituale al mito teatrale di Manhattan, a Milano il CineBirdMan italiano dimostra di aver fiato da vendere e di saperlo vendere bene. E noi anti-accademici gli consegniamo volentieri una statuetta di panetùn. Premio alla raggiunta maturità dalla strepitosa versatilità, da condividere con la regia e con un cast impeccabile. Da citare il momento commovente del ricordo del film paterno meno noto e più importante, La porta del cielo (1944), la cui lavorazione, grazie alla “connivenza” del Vaticano, servì per mettere al riparo dalla Bestia nazifascista ebrei, comunisti e altri perseguitati, che si nascosero a lungo nel Santuario di Loreto, dove venne girato. Auguriamoci che il progettato film su questo film Christian se lo regali e intanto applaudiamolo per le due ore di palcoscenico che ci regala. Va sul sicuro De Sica, perché è sicuro di sé, ma non ha solo mestiere. Preferisce divertirsi che annoiarci, preferisce divertire il pubblico che annoiarsi. Hai detto cotiche! Fabrizio Sebastian Caleffi

GABRIELLI/LORIS

L'avvocato voyeur e la bella lettrice amore e morte in riva al mare LA DONNA CHE LEGGE, di Renato Gabrielli. Regia di Lorenzo Loris. Scene di Daniela Gardinazzi. Costumi di Nicoletta Ceccolini. Luci di Stefano Bolgè. Musiche di Simone Spreafico. Con Massimiliano Speziani, Cinzia Spanò, Alessia Giangiuliani. Prod. Teatro Out Off, MILANO. Un avvocato in pensione e poeta fallito si invaghisce di una ragazza vista sulla spiaggia immersa nella lettura di un libro. Tramite una ex collega, e un tempo anche sua amante, offre alla fanciulla un mucchio di soldi perché si faccia guardare mentre legge, in luoghi e orari precisi. Lei accetta, ma le condizioni e la posta in gioco diventano sempre più estreme. Ci sono parecchie cose nel nuovo testo di Renato Gabrielli, La donna che legge, messo in scena da Lorenzo Loris con un bel terzetto di interpreti in grado di reggere un gioco teatrale multiplo: Massimiliano Speziani, beffardo e irrequieto, con impennate di intensità e affondi sottili, Cinzia Spanò, la donna avvocato ancora innamorata e Alessia Giangiuliani, la musa in pedalò che non legge l’Ulisse di Joyce ma un giallo svedese (brave entrambe). Da un lato c’è la sofisticata ricerca drammaturgica di Gabrielli, che si nutre di Beckett spingendosi fino all’area tedesca e mitteleuropea, da Müller e Gombrowitz. Qui, forte di una scrittura sempre più pulita e affilata, costruisce un testo prismatico e complesso, con personaggi che sono anche voci narranti intrecciando piani e punti di vista, dialoghi e monologhi in una irrequieta geometria di sguardi che si allarga al pubblico. Una struttura che porta in sé qualcosa di minaccioso, come è minacciosa la condizione dei protagonisti di questo triangolo d’amore e morte che parte da Joyce e dal suo Mr Bloom mentre spia Gerty MacDowell sulla spiaggia per dirci parecchio anche sullo sguardo predatorio e voyeuristico del maschio (tra le esplicite fonti di ispirazione di Gabrielli c’è il brillante pamphlet di Francesca Serra, Le brave ragazze non leggono romanzi). Materia teatrale precisa e sottile, che Loris ha maneggiato con cura dislocandola su una scena scarna: un lungo tavolo, qualche sedia azzurro pallido, una parete scura e riflettente che raddoppia e sfuma la visione. Lo spazio giusto per uno spettacolo che vive della relazione tra i tre protagonisti, fatalmente dipendenti l’uno dall’altro ma destinati a non afferrarsi mai davvero. Figure paradossalmente chiare dentro una storia scura di inquietudine e fallimenti (personali e collettivi), di conflitti (generazionali e sessuali) e di perdite. Con la morte a fare da ultima tentazione sancendo la nostra cronica inadeguatezza alla vita. Sara Chiappori

La donna che legge (foto: Dorkin).

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CRITICHE/LOMBARDIA-PIEMONTE

Vite da terroristi e desideri borghesi

In trincea con Cederna, l’orrore della guerra

FIGLI SENZA VOLTO, testo Ida Farè. Regia di Aldo Cassano. Scene di Valentina Tescari. Costumi di Lucia Lapolla. Luci di Beppe Sordi. Video di Semira Belkhir, Marco Burzoni, Stefano Stefani, Federico Tinelli. Con Natascia Curci. Prod. Animanera, MILANO - Crt/Centro Ricerche Teatrali, MILANO.

L’ULTIMA ESTATE DELL’EUROPA, di Giuseppe Cederna e Augusto Golin. Regia di Ruggero Cara. Scene di Rosanna Monti. Costumi di Alexandra Toesca. Luci di Giuseppe La Torre. Musiche di Alberto Capelli e Mauro Manzoni. Con Giuseppe Cederna. Prod. Art Up Art, BESANA IN BRIANZA (Mb).

Il desiderio di essere come tutti. Gesti, maschere, banalità a coprire la propria clandestinità armata. Vite da terroristi rivoluzionari. Parte da una riflessione umana (più che politica) il nuovo lavoro degli Animanera, che poggia su un racconto di Ida Farè, all’epoca giornalista del Manifesto. Performance racchiusa in una scatolina curatissima, ipotetico appartamento di fine anni Settanta. Qui vive una coppia di terroristi. Lei va a far la spesa, cucina, lava, guarda la tv. Fa tutte quelle cose che crede scandiscano l’esistenza delle sue vicine, donne che però non organizzano riunioni operative, non cercano febbrilmente notizie sui giornali, non aspettano con ansia il segnale convenuto alla porta di casa. Una finzione vissuta con sempre più fragilità dalla protagonista, stanca e desiderosa di una serenità che inizia a intravedere fra quei simboli borghesi. Intelligente il taglio drammaturgico, cha permette di ricordare come, magari, fossero pure figli senza volto. Ma pur sempre figli. Spezzando così stereotipi propagandistici. E con alcune metafore capaci di sorprendere (la clandestinità come un adulterio da nascondere). La scena è un gioiellino di modernariato fra tv Brionvega, giradischi, tappeto peloso e pessime Muratti. La Curci si muove a proprio agio in questo acquario vintage. È credibile più nel gesto che nella parola, ma è un attimo immaginarsela con un Ak-47 in mano, saranno i capelli rossi. Al solito molto curato l’apparato musical-sonoro, così come i video, veri e propri documenti provenienti da un altro mondo (da un’altra Italia). Chiusura forse un po’ facile, ma con una sua forza didascalica. Rimane l’impressione che ci fosse ulteriore potenziale nell’idea, che si sarebbe potuto andare più a fondo. Ampliare. Ma non dispiacciono questi Animanera, al solito esteticamente ineccepibili, ma con sempre più sostanza sotto la carta da parati. Diego Vincenti

IN TOURNÉE

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Rievocazione memoriale, racconto, dissertazione saggistica con effetti dal vivo. L’ultima estate dell’Europa tenta la narrazione della Grande Guerra, giunta al suo centenario. Il vero obbiettivo dello spettacolo - tuttavia - è piuttosto voler dimostrare l’insensatezza del militarismo, l’orrore d’ogni conflitto, la tragicità d’ogni battaglia. Esposizione del passato, quindi, perché sia di ammonimento al presente. In scena un solo interprete - Giuseppe Cederna che fa da cuntista: spiega, legge, intrattiene, chiama all’attenzione il pubblico indicando luoghi e figure invisibili, accenna brevi recite alternando mimesi ed epicità testimoniale, discorso diretto e indiretto, prima e terza persona. Nonostante il buon impegno attorale, la resa de L’ultima estate dell’Europa è però, nel complesso, inefficace. Colpa della fissità scenografica - un baldacchino di legno centrale, sacchi di sabbia sui lati - che non viene riscattata dagli effetti di luce (limitati a rendere il seguito dei giorni e delle notti o a far apparire il riflesso di un fiume, il chiarore di un’alba, gli avvampi degli spari); colpa di musiche poco incisive, che fungono da facile richiamo ambientale o da colonna sonora istantanea; colpa soprattutto di una drammaturgia che fa seguire citazioni a citazioni (Marinetti, Gadda, Trilussa e Ungaretti, Rumiz, Stuparich) senza che queste diventino una trama plausibile, lineare, unitaria. Impegnato a rendere la vastità degli umori del primo Novecento e gli eventi del conflitto conseguente, il testo di Cederna e Golin fatica quindi a portarci in trincea, come invece si propone, e - piuttosto che far vedere la guerra dal basso, lì dove gli uomini hanno vissuto il loro strazio - la sorvola frettolosamente: dandone allusioni, frammenti, solo qualche scorcio poetico. Alessandro Toppi

MOSCATO/MARTONE

Una Carmen che non muore eterno mito sotto il Vesuvio CARMEN, di Enzo Moscato. Adattamento e regia di Mario Martone. Direzione musicale di Mario Tronco. Scene di Sergio Tramonti. Costumi di Ursula Patzak. Luci di Pasquale Mari. Suono di Hubert Westkemper. Coreografie di Anna Redi. Con Iaia Forte, Roberto De Francesco, Ernesto Mahieux, Giovanni Ludeno, Anna Redi, Francesco Di Leva, Houcine Ataa, Raul Scebba, Viviana Cangiano, Kyung Mi Lee e l’Orchestra di Piazza Vittorio. Prod. Teatro Stabile di TORINO - Teatro di ROMA. IN TOURNÉE È il Martone che non ti aspetti quello che torna a collaborare con il drammaturgo Enzo Moscato, molti anni dopo uno storico spettacolo come fu Rasoi e a distanza di qualche stagione da L’opera segreta. È un Martone leggero e vitale, che esorcizza la morte e la violenza, che si concentra sui mille rivoli della napoletanità, dai segreti umori alla solarità, fino alle esplosioni dei caratteri di ciascun personaggio. Nella Carmen, che ha adattato da Lacarmèn di Moscato, racconta una storia che appartiene più agli immaginari della novella di Mérimée che all’opera di Bizet, capace di rendere immortale il personaggio: qui manca Micaela, che era servita al compositore più in funzione musicale e di contraltare etico alla protagonista, ma soprattutto qui Carmen resta in vita e nel finale viene accecata. Dunque l’ultima battuta, «I’ nun so’ morta. Musica maestro», ne perpetua il mito. E proprio la musica è la colonna portante dell’intero spettacolo, nell’arrangiamento di Mario Tronco e Leandro Piccioni e nell’esecuzione dal vivo della colorata Orchestra di Piazza Vittorio, che appunto attinge a Bizet, ma anche, a piene mani, a una certa sonorità popolare. Nel continuo scambio tra palcoscenico e platea, i musicisti diventano pure in qualche frangente attori, contribuendo a popolare di umanità varia la storia che viene raccontata, in un’atmosfera alla Viviani, mescolando Napoli, la Francia mediterranea e il Maghreb. Un mondo che vede protagonisti Carmen e Cosé (il Don José dell’opera), Mercedes, il tenente Zuniga, il taverniere Lilà Bastià, O’ Torero, e via via tutti gli altri, contorno di un amore malato reso in uno spazio scenico insieme onirico e concreto. La protagonista è Iaia Forte, che restituisce una Carmen sensuale, libera, ma anche in certi momenti umanamente fragile. Con lei Roberto De Francesco, un Cosé che non ha niente di eroico, quanto piuttosto un lato oscuro, tendente alla debolezza caratteriale, che lo domina. Racconta lui la vicenda, dal chiuso della prigione, nell’ultima notte della sua vita, come voleva Mérimée, evocando i fantasmi di una memoria malinconica, che prende corpo nella disperata vitalità dei personaggi. Pierfrancesco Giannangeli


CRITICHE/PIEMONTE

Quando il dio denaro seduce anche la poesia

6BIANCA, ideazione di Stephen Amidon. Scrittura di Stephen Amidon, Riccardo Angelini, Sara Benedetti, Filippo Losito, Francesca Manfredi. Regia di Serena Sinigaglia. Scene di Maria Spazzi. Costumi di Erika Carretta. Luci di Roberta Faiolo. Musiche di The Sweet Life Society e Cecilia. Con Carolina Cametti, Pierluigi Corallo, Mariangela Granelli, Alessandro Marini, Daniele Marmi, Francesco Migliaccio, Camilla Semino Favro, Ariella Reggio. Prod. Fondazione del Teatro Stabile di Torino, TORINO.

IL TRIONFO DEL DIO DENARO, di Pierre de Marivaux. Traduzione e regia di Beppe Navello. Scene di Francesco Fassone. Costumi di Augusta Tibaldeschi. Luci di Marco Burgher. Musiche di Germano Mazzocchetti. Con Camillo Rossi Barattini, Alberto Onofrietti, Diego Casalis, Daria Pascal Attolini, Stefano Moretti, Eleni Molos, Riccardo De Leo. Prod. Fondazione Teatro Piemonte Europa, TORINO. A questa piccola commedia allegorica di Marivaux, Beppe Navello pensava dal 1997: troppe le risonanze di quel negletto atto unico nella contemporanea società italiana, confusa e corrotta; ognora più urgente la necessità di affermare valori altri rispetto all’imperante e gretto materialismo. Navello, dunque, decide di farsi traduttore e regista di questo Le Triomphe de Plutus, in cui si racconta di come il dio Apollo, innamoratosi, apparentemente ricambiato, di un’affascinante ragazza, Aminta, sia costretto da Plutone a un’odiosa scommessa. Il tronfio dio del denaro, infatti, sfida il raffinato e colto “collega”, dichiarando che sarà in grado di sedurre la procace Aminta. È facile immaginare chi sarà il vincitore della scommessa e quale sia, dunque, l’amaro assunto di Marivaux: il denaro, l’oro e le pietre preziose seducono con relativa velocità la stessa fanciulla, le cui aspirazioni alla poesia e alla raffinatezza sono rapidamente oscurate dall’accecante luccichio di un preziosissimo bracciale. Al dio Apollo, così, non resta che assistere allo sfarzoso – e assai pacchiano - trionfo del proprio rivale, celebrato con sfrenata allegria dagli umani di ogni classe sociale, servi e signori. Un trionfo che è esplicita allegoria della decadenza morale della società settecentesca così come di quella contemporanea, in cui bellezza e cultura assumono valore soltanto allorché mercificate e rese “monetizzabili”. Un’amarezza tanto più acuta quanto maggiormente sontuosa e spensierata appare la messa in scena: le musiche composte ad hoc da Germano Mazzocchetti ed eseguite dal vivo da un soprano e tre musicisti; la scenografia fastosamente barocca e i costumi sgargianti e smaccatamente kitsch. Una tonalità cui è accordata anche l’interpretazione dell’affiatata e giovane compagnia – tutti under 35 – che, con la sua allegra e salda professionalità, afferma sonoramente la capacità del teatro di difendersi/ci dalla grettezza che sta lentamente asfissiando la nostra società. Laura Bevione

6Bianca (foto: Serena Serrani).

Torino, con 6Bianca il teatro diventa seriale

U

n progetto seriale per il teatro, sei puntate – finora in scena le prime tre – per raccontare il mistero del suicidio della giovane rampolla di una ricca famiglia di industriali torinesi. Una sorta di format teatrale concepito dallo Stabile di Torino in collaborazione con la Scuola Holden, che ha fornito i giovani autori incaricati di affiancare il celebre scrittore statunitense Stephen Amidon – noto in Italia per il suo romanzo Il capitale umano – nella stesura del copione. L’idea di una narrazione teatrale seriale non è del tutto nuova: nel lontano 1987 Beppe Navello mise in scena a puntate I tre moschettieri; mentre nel 2003 Rafael Spregelburd scrisse e diresse una “teatronovela” in dieci episodi, Bizarra. Nuova è, però, la volontà di adattare al teatro le modalità drammaturgiche di serie televisive capaci di coagulare attorno a sé l’interesse di un elevato numero di telespettatori. Così, la serie teatrale realizzata dal Tst vuole indirizzarsi a un pubblico eterogeneo, attratto anche con una massiccia campagna mediatica. Coerente a tali obiettivi è stata la scelta di coinvolgere Stephen Amidon, acuto conoscitore dei lati oscuri della scintillante alta borghesia. Lo scrittore ha dunque confezionato una storia che mira a svelare i peccati di una ricca famiglia torinese - i Ferraris - e, allo stesso tempo, a intercettare i contrastanti sentimenti che animano sei personaggi a essa legati. Le sei puntate, infatti, sono dedicate ciascuna a uno o due dei protagonisti: finora abbiamo visto quelle incentrate su Amedeo, padre di Bianca; su Luna, amica della protagonista e amante di Amedeo; su Massimo, padre di Luna e su Anna Magdalena, nonna di Bianca. Come ogni serie che si rispetti, ciascuna puntata inizia e si conclude con brevi sipari che illuminano i singoli personaggi, colti in un atteggiamento topico. E, per non dimenticare che l’intera vicenda ruota attorno all’inattesa morte della giovane Bianca, la scena del suicidio della ragazza apre ogni puntata, accompagnata dal

tema musicale appositamente composto. Il luogo in cui Bianca sceglie di farla finita – una fabbrica abbandonata, di proprietà dei Ferraris – è anche la scena unica dello spettacolo, pur variamente modificata nelle puntate: nella seconda affollata di rottami; nella terza contrappuntata da rami e cespugli. Uno spazio in rovina, così come le esistenze dei vari personaggi: i costumi coperti da calce e polvere, i tic nevrotici che la regia inventa per ciascuno di loro, assicurandone anche una caratterizzazione precisa che gli interpreti ben assecondano. Sinigaglia traduce in stilemi teatrali peculiarità proprie delle serie televisive: scene brevi come sequenze incorniciate da bui, ovvero la riproposta leggermente modificata di sipari già accaduti. Espedienti che convivono con quella necessità di verosimiglianza propria dei serial che l’accentuato simbolismo dello spazio scenico, invece, pone in discussione. Necessità elusa anche da quel costante bisogno di impegnare gli attori con attività apparentemente estranee all’azione – accatastare rottami, potare rami - indicativo dei notevoli sforzi computi dalla regia e dal generoso e affiatato cast per smuovere e rendere dinamico un copione non soltanto lontano dalla verosimiglianza ma altresì ristagnante. Il limite di questo tentativo di tradurre in drammaturgia efficace il linguaggio dei serial televisivi, infatti, è proprio nella scrittura: nelle tre puntate la vicenda non avanza quasi - tanto che, alla terza, la storia risulta pienamente leggibile anche a uno spettatore che non abbia visto le precendenti - senza che vengano forniti veri e stimolanti indizi per la soluzione del mistero del suicidio della protagonista. I dialoghi, a tratti piuttosto scialbi, invece che far procedere l’azione, la invischiano in una pletora di luoghi comuni e sterili variazioni sul tema che, anziché incuriosire, rischiano di annoiare il pubblico. È auspicabile che le prossime puntate trovino la strada per uscire da tale infruttuoso cul-de-sac. Laura Bevione

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CRITICHE/LIGURIA

Titania come Marlene nel Sogno della Tosse

SERRA/GALLIONE

Bisio, soliloquio di un padre inquieto con il fantasma di un figlio "sdraiato" FATHER AND SON, di Michele Serra, da Gli Sdraiati e Breviario comico. Regia di Giorgio Gallione. Scene e costumi di Guido Fiorato. Luci di Aldo Mantovani. Musiche di Paolo Silvestri. Con Claudio Bisio, Laura Masotto (violino) e Marco Bianchi (chitarra). Prod. Teatro dell’Archivolto, GENOVA. IN TOURNÉE Piovono pietre e spuntano fiori in Father and son di Giorgio Gallione. Percorrendo il palco con una certa irrequietezza, Claudio Bisio entra con fatica nel personaggio del padre che Michele Serra ha costruito nel suo ultimo romanzo, Gli sdraiati, tentativo di raccontare una generazione, gli attuali adolescenti, capace di interagire con più dispositivi tecnologici insieme, ma apparentemente assente dal mondo, che osserva con un approccio molto diverso da quello dei padri (da “sdraiati”, appunto). In scena l’assenza del figlio è in parte compensata da un tema musicale ricorrente, in una struttura a episodi piuttosto aderente al libro, come si trattasse di sketch legati dai personaggi, ma non dalla regia (Giorgio Gallione). Costruito come un soliloquio che non ha nessuna intenzione di trasformarsi in un tentativo di dialogo, il testo resta quasi “afono” persino nella versione teatrale, tanto è chiuso su se stesso. L’intento autoironico che attraversa il libro non emerge nello spettacolo e finisce per essere espediente narrativo più che onesta chiave di lettura, un modo per non scadere in facili moralismi ma che, restando abbozzato, finisce per non adempiere alla sua funzione. Quello che sulla pagina scritta è reso con variazioni tipografiche – corsivo, grassetto, maiuscolo – in scena diventa un’occasione per ricordare la natura interdisciplinare del teatro e la duttilità di un interprete che può saltare da un personaggio all’altro a ogni frase, con l’agilità vocale e mimica di un ginnasta. Un figlio che guarda la tv, ascolta la musica con le cuffiette, messaggia con il telefonino e studia chimica viene reso con la campionatura di un Bisio che si presta a interpretare, con gli opportuni toni, ogni stralcio di questo ascolto su più canali e argomenti nella testa dello “sdraiato”. Claudio Bisio cerca il suo pubblico e proprio su una mancata comicità del testo svela l’inquietudine da showman. L’applauso, che arriva su una piroetta e un olé improvvisati, slega i lacci di un interprete troppo proteso verso la platea. Su una serie di episodi che creano immediata empatia nel pubblico – per esempio l’ora di ricevimento degli insegnanti a scuola, oppure gli accenni ai tentativi per una nuova legge elettorale – il ritmo dello spettacolo si rinsalda fino al climax che si consuma intorno alla natura multitasking dello “sdraiato”. Laura Santini

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SHAKESPEARE DREAM MUSIKABARETT, di Emanuele Conte e Amedeo Romeo. Regia di Emanuele Conte. Costumi di Bruno Cereseto. Canzoni di Federico Sirianni. Con Enrico Campanati, Rita Falcone, Pietro Fabbri, Susanna Gozzetti, Mauro Lamantia, Marco Lubrano, Alessandro Bergallo, Nicholas Brandon, Bruno Cereseto, Alessandro Damerini, Viviana Strambelli. Prod. Teatro della Tosse, GENOVA. Emanuele Conte torna al Sogno shakespeariano, ambientandolo in un Kabarett anni Trenta, dove alcuni spettatori sono coinvolti nella rievocazione dei personaggi canonici, protagonisti invecchiati di uno scherzoso e malinconico revival. Lo presenta Puck, un Pietro Fabbri da avanspettacolo, che denuncia nell’amore l’eterno movente di tanti personaggi fantastici. Questi rimandano anche a persone vere del passato. Così Oberon (Enrico Campanati), ricordando la regina Titania (Rita Falcone), la vede apparire in camerino come attrice. Vestito da soldato, autoritario, il vecchio re ricorda una cantante (Marlene D.?) che lo affascinava, la stessa che aveva stregato un Tizietto (Adolf H.?) prima di diventare famosa anche in America. Le storie amorose incrociate delle coppie del vero Sogno, di Ermia (Susanna Gozzetti) e Demetrio (Mauro Lamantia), di Elena (Sara Cianfriglia) e Lisandro (Massimiliano Caretta), si gustano nei numeri a monologo del programma del locale. Lisandro è un clown, inabile giocoliere con le palline colorate. Ermia si esibisce in una parodia gustosa di tango a cui segue un Decalogo per la Sposa Modello, che poi ella rifiuta come una femminista odierna. Demetrio sceglie le maracas per ritmare un suo intervento ironico e scanzonato. Finché s’insinua in lui l’attrazione per Lisandro, a completare la casistica degli inganni sentimentali. Quando le citazioni toccano Juliet, Viviana Strambelli offre un aspetto della sua giovane sensibilità con una bella canzone, dedicata a Romeo. Frattanto, a un tavolino, due comari en travesti (Nicholas Brandon e Bruno Cereseto) commentano l’inarrestabile corrompersi dei costumi. Bottom (Marco Lu-

brano) si sveglia asino per partecipare alla recita di Piramo e Tisbe. Qui davvero c’è da “morir dal ridere”, perché i ruoli in commedia sono recitati dagli spet tatori, guidati dall’Ipnotizzatore-regista Alessandro Bergallo, sprizzante simpatica comicità. La fusione della vita e del teatro si compie nel coro, accompagnato dal pianista swing Alessandro Damerini. Gianni Poli

Se Dürrenmatt scivola in farsa IL MATRIMONIO DEL SIGNOR MISSISSIPPI, di Friedrich Dürrenmatt. Regia di Marco Sciaccaluga. Scene e costumi di Catherine Rankl. Luci di Sandro Sussi. Musiche di Andrea Nicolini. Con Ugo Dighero, Alice Arcuri, Andrea Di Casa, Roberto Serpi, Roberto Alinghieri, Rachele Canella, Nicolò Giacalone, Davide Mancini, Davide Mazzella, Valerio Puppo. Prod. Teatro Stabile di GENOVA. IN TOURNÉE Ruota intorno ai quattro personaggi principali questo dramma di tema tardo romantico, dove sono tutti contro tutti: Florestano Mississippi vorrebbe imporre al mondo l’onestà in ossequio ai principi di Mosè, SaintClaude invece vorrebbe farlo coi dettami del Comunismo, due fratelli uguali e contrari che si distruggeranno a vicenda. Il Conte è un sognatore e un paladino dell’amore assoluto, mentre Anastasia passa dall’uno all’altro a seconda del momento. Confezionando Il matrimonio del Signor Mississippi in una cornice da commedia borghese, che normalizza compor tamenti e parole, Marco Sciaccaluga ne soffoca la carica iconoclasta e sovversiva. La scrittura enigmatica e irriverente di questo testo, accanita contro ogni credo politico, svilito da pratiche umane individualiste, è annacquata e restituita come commedia farsesca. I giochi metaforici, le complicazioni della trama, tutto scorre senza spessore. La natura ibrida di una commedia grottesca, piena di conflitti, scelte e rivisitazioni, senza contare gli interventi narrativi in stile brechtiano - su cui Dürrenmatt si scaglia sovvertendone la funzione - chiama invenzione e spa-


CRITICHE/LIGURIA-VENETO

esamento, perché il pubblico, come i personaggi, possa sentirsi confuso e preso in giro. Ma niente di tutto questo succede. Collocati in un salotto tanto precisamente borghese, che accoglie tutta la vicenda e tale resta a lungo, interpreti, drammaturgia e scena parlano lingue diverse. Eppure gli attori si destreggiano, cercando di restituire personaggi deliranti, ma passionali, tra continui colpi di scena e, più tecnicamente, tra dialoghi e soliloqui - talvolta volutamente pedanti - con autonoma agilità (almeno nella maggior parte dei casi), per esempio il Florestano di Ugo Dighero, il SaintClaude di Andrea Di Casa, e il conte Bodo di Roberto Serpi. Più debole il ruolo centrale femminile di Alice Arcuri, a suo agio nei panni della moglie borghese, meno in quelli di femme fatale. Molta attenzione e cura sui ruoli minori: dall’esile e stupefatta cameriera di Rachele Canella ai tre ruoli maschili, sempre in scena come blocco unico, di Davide Mancini, Davide Mazzella e Valerio Puppo. Laura Santini

Il giustiziere kafkiano che giustizia se stesso IN THE PENAL COLONY, di Philip Glass. Libretto di Rudolph Wurlitzer, da Franz Kafka. Regia di Emanuele Conte. Costumi di Daniela De Blasio. Luci di Tiziano Scali. Video di Paolo Bonfiglio. Con Franziska Schotensack, Roberto Piga, Federico Regesta, Alberto Pisani, Federico Bagnasco, Tiziano Tassi, Renato

Il matrimonio del Signor Mississippi

Parachinetto, Eutopia Ensemble, direttore Matteo Manzitti. Prod. Teatro della Tosse, GENOVA - Eutopia Ensemble, GENOVA. Il racconto di Kafka rappresenta l’esecuzione d’una pena capitale mediante una macchina di tortura che, durante dodici ore, incide la sentenza nella carne del condannato. La regia tende alla semplificazione scenografica e, per l’eliminazione dei due personaggi muti (il Condannato e il Soldato), fa intervenire un disegno animato, emotivamente coinvolgente, proiettato in diretta dall’autore, Paolo Bonfiglio, allusivo alle presenze appena evocate. Glass affida ai cantanti la massima responsabilità della narrazione. E Conte, scegliendo il libretto in inglese, la esalta, eliminando i figuranti e fidando nella forza delle parole in musica. Così l’Ufficiale e il Visitatore si affrontano come in contrappunto: alla descrizione netta e implacabile del primo, risponde la passiva, ritrosa attenzione del secondo. La spazialità è scandita da ulteriori simmetrie: a destra, l’Ufficiale espone programma e ideologia della punizione, con enfasi contenuta ed efficace convinzione; a sinistra, reagisce il Visitatore. In questo scambio calibrato – in cui emerge il tentativo del responsabile dell’esecuzione di affermare la validità e della procedura e della regola che l’ha imposta – pare inadeguata la prova del Visitatore, un Renato Parachinetto che usa la voce, dai timbri stridenti, in maniera incerta, indecisa, nell’intimo rifiuto della crudeltà repressiva. Molto convincente, invece, l’Ufficiale, Tiziano Tassi, indotto a sacrificarsi sot-

Ballata di uomini e cani... (foto: Marco Caselli Nirmal)

to il giudizio della Storia incalzante nell’ultimo dialogo. Superiore a ogni sentimentalismo, è il vero conduttore della vicenda, conclusa facendosi trafiggere dall’ordigno. Ruolo il suo persino melodioso, in una partitura impegnativa, non esauribile nella formula «minimalista», che la direzione di Manzitti governa dall’impetuoso al pianissimo e che fa risorgere, con ripetuti attacchi scaturiti dal nulla, l’angosciosa domanda sull’insensatezza della giustizia umana. Gianni Poli

Paolini affabulatore con i cani di London BALLATA DI UOMINI E CANI. DEDICATA A JACK LONDON, di e con Marco Paolini. Luci di Daniele Savi e Michele Mascalchin. Musiche di Lorenzo Monguzzi, Angelo Baselli e Gianluca Casadei. Prod. Michela Signori-Jole Film, VENEZIA. IN TOURNÉE In Ballata di uomini e cani. Dedicata a Jack London Marco Paolini fa i conti con se stesso o meglio con l’origine del suo fare teatro: narrare storie. L’impressione che si riceve è che Paolini voglia recuperare il piacere del narrare per il narrare, intrecciando le parole di Jack London con le proprie, mettendosi al servizio di un autore. Attore come mediatore, dunque, con una propria firma autorale ben marcata. A questa firma, ben inteso, Paolini non rinuncia, ma è come se in Ballata di uomini e cani facesse un passo indietro, per concedersi al pu-

ro piacere della narrazione. «Altro che scrittore per ragazzi!», sottolinea più volte riferendosi a Jack London, come a dire che siamo al cospetto di un grande a cui basta lasciar parlare i suoi personaggi: quei cani che pensano, agiscono come uomini e quegli uomini che, per ferocia e crudeltà, sono peggio delle bestie. Paolini in piedi su una pedana, dentro e sopra bidoni di latta, racconta di Macchia, di Bastardo e “recita” Preparare un fuoco, il racconto che ha dato vita allo spettacolo. Su queste tre narrazioni, diverse per cromatismi e per ritmo, si costruisce Ballata di uomini e cani, in cui la parola si sposa alla musica, in cui il ritmo del dire e il respiro teatrale sono sostenuti, accompagnati dalle musiche composte ed eseguite da Lorenzo Monguzzi con Angelo Baselli e Gianluca Casadei. Macchia è la storia di un cane marrone con un occhio nero, grasso e furbo, uno di quei cani che non ti stacchi di dosso e che hanno più vite di un gatto. Bastardo racconta la vicenda di Black e del suo padrone Leclère, è una sorta di ballata macabra, in cui il daimon è tutto nel digrignare i denti dei due, un comune e malefico ringhiare dolore. Preparare un fuoco è il rapporto intimo fra uomo e cane, è il contare su di sé e perdersi via, è l’attesa, ma anche l’intimismo di un narrare pulito, che si concede a poche digressioni. Ma alla fin fine Ballata di uomini e cani è un regalo che Paolini fa a se stesso: concedersi il lusso di parlare dell’autore che ama, Jack London, perché sa che in ogni caso il suo pubblico viene a vedere Marco Paolini. Nicola Arrigoni

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CRITICHE/TRENTINO ALTO ADIGE

PATRIZIA MILANI PROTAGONISTA

La lucida follia di Donna Anna Luna, Bernardi saluta Bolzano con Pirandello LA VITA CHE TI DIEDI, di Luigi Pirandello. Regia di Marco Bernardi. Scene di Gisbert Jaekel. Costumi di Roberto Banci. Luci di Massimo Polo. Con Patrizia Milani, Carlo Simoni, Gianna Coletti, Karoline Comarella, Paolo Grossi, Sandra Mangini, Giovanna Rossi, Irene Villa, Riccardo Zini. Prod. Teatro Stabile di BOLZANO. IN TOURNÉE Nozze d’argento e poi divorzio. Marco Bernardi, dopo venticinque anni, lascia il Teatro Stabile di Bolzano: alle sue spalle ha una magnifica carrellata di spettacoli quasi sempre con una grande protagonista, Patrizia Milani. Ed ecco l’ultimo, un Pirandello raro sui nostri palcoscenici, La vita che ti diedi del 1923, scritto per la Duse: ma l’attrice ebbe qualche perplessità, non lo interpretò e morì l’anno dopo. La follia di una madre che non accetta la morte del figlio: dopo sette anni di assenza, il figlio torna da lei, irriconoscibile, minato da una malattia incurabile e muore poco dopo. Per lei c’è una sola via d’uscita per sopravvivere allo strazio: negare la morte, vivere di ricordi, vivere di quella vita che gli diede. Fino a che non arriva la donna con cui il figlio ha convissuto negli anni di lontananza: è incinta di lui. La nuova vita dissipa la follia. Lo spettacolo è asciutto, intenso, pieno di energia: a cominciare dalla scena di Gisbert Jaekel, una stanza tutta bianca, semplice, con pochi mobili, su cui si stagliano i personaggi per lo più vestiti di nero. Ma il punto forte dello spettacolo è l’interpretazione di Patrizia Milani. Finalmente un Pirandello senza enfasi, senza cantilene, senza compiacimenti: la sua Anna Luna è lucida nel determinato rifiuto della morte, non c’è una goccia di retorica, di inutile esasperazione, di ridondanti contorcimenti. È credibile fin dal suo primo apparire in scena, convince la sua voce a tratti aspra, a tratti imperiosa, a tratti commossa. Convince il suo brusco reagire di fronte a chi la vuol mettere di fronte all’evidenza, convince la sua disarmante fede nella forza dell’amore che supera la morte, la annulla, la trasfigura. Una grande prova d’attrice. Accanto a lei, Irene Villa, la fidanzata, e Gianna Coletti, la sorella: anche loro hanno fermezza, solidità, intensità. Nel complesso, uno spettacolo davvero riuscito, un addio di Bernardi di grande livello, e, in fondo, una lezione per chi farà Pirandello in futuro. Fausto Malcovati

Patrizia Milani e Irene Villa in La vita che ti diedi (foto: Le Pera).

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Donne in guerra e identità smarrite

Crucchi contro walschen convivenza (im)possibile

VOCI NELLA TEMPESTA, drammaturgia e regia di Elena Marino. Luci e musiche di Marco Bonomi e Giovanni Paternoster. Con Silvia Furlan, Silvia Libardi, Chiara Superbi. Prod. Teatrincorso-Spazio 14, TRENTO.

ALTO FRAGILE, di e con Maura Pettorruso, Stefano Pietro Detassis, Flora Sarrubbo, Christian Mair. Scene e costumi di Tessa Battisti. Luci di Alice Colla. Prod. TrentoSpettacoli, TRENTO.

Voci nella tempesta, vincitore della seconda edizione del concorso “Premio nuova_scena.tn” promosso dal Centro Servizi Culturali Santa Chiara in collaborazione con il Teatro Stabile di Bolzano e il Coordinamento Teatrale Trentino, è uno spettacolo coraggioso per i contenuti trattati e pregevole sotto il profilo artistico. Elena Marino confeziona un testo ricavato dai diari dell’epoca e ricostruisce l’esodo forzato dei trentini in Austria all’entrata dell’Italia in guerra nel 1915, scegliendo un osservatorio originale: tre donne qualsiasi. «Siamo in guerra anche noi» dice una, «siamo austriaci come voi, anche se parliamo italiano» afferma un’altra. Oltre allo smarrimento dell’identità etnica e all’espropriazione del quotidiano, Voci nella tempesta ricostruisce le condizioni di vita dei centri di raccolta profughi. L’adozione di un realismo narrativo crudo, talvolta didascalico secondo la formula del teatro civile, trasforma il destino delle tre donne in una metafora generalizzabile nel tempo e nello spazio a situazioni analoghe, come dimostrano i vestiti neri a lutto arcaico indossati all’inizio dalle tre attrici, Silvia Furlan, Silvia Libardi e Chiara Superbi. Ora assomigliano ad anime solitarie avvolte, ora sono un coro di drammi quotidiani cui non mancano momenti di umorismo, di rabbia, di fiducia. Agiscono in uno spazio spoglio, privo di supporto scenografico; dispongono di una serie di secchi e di sgabelli con i quali compongono all’occorrenza oggetti scenici. Il pregio della regia è la costruzione di uno spettacolo dinamico nei momenti corali e preciso nell’innesto di momenti monologanti, che valorizzano le abilità gestuali e verbali delle tre attrici, efficaci nel restituire un’immagine di donna in guerra carica di umanità, capace di resistere al dolore sperando in un futuro diverso. Massimo Bertoldi

Per chi non vive da quelle parti sembrano problemi lontani, superati. Ma, se ti trovi ad assistere, a Trento o a Bolzano, a una replica di uno spettacolo come Alto Fragile, che già nel titolo assonante con Alto Adige richiama equilibri instabili, capisci quanto la questione sia in realtà ancora aperta. Una questione che inizia con l’annessione del Südtirol (per noi Alto Adige) all’Italia dopo la Prima guerra mondiale e prosegue con un’integrazione mai del tutto riuscita tra due lingue, due etnie e due culture. Spettacolo finalista al Premio Nuova Scena, promosso dal Teatro Stabile di Bolzano e dal Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento, incentrato proprio sul tema del primo conflitto mondiale come occasione di riflessione più generale sui conflitti tra popoli e culture diverse, Alto Fragile va a indagare la questione sudtirolese e l’(im)possibile convivenza, ancora oggi, tra “crucchi” e “walschen” (più o meno l’equivalente di “terroni”) intrecciando, come vera e propria scelta drammaturgica, la provenienza degli attori in scena (italiani e sudtirolesi) e l’assemblaggio di una serie di luoghi comuni sulle frizioni ancora esistenti fra le due etnie, ricavati da giornali, vita quotidiana, abitudini, gastronomia, sport. Un’idea interessante, affrontata anche con bella generosità interpretativa, ma pericolosa, perché l’uso del luogo comune scivola a tratti nella carrellata di sketches dal respiro un po’ corto. Forse, a mancare, un occhio registico e drammaturgico esterno, capace di scegliere dove più affondare il coltello. In scena due coppie a sfidarsi: pizza contro gulash, commedianti contro terroristi, nazionale di calcio italiana contro nazionale tedesca, lessico italiano contro lessico tedesco. Poi tutto si ricompone davanti a un bel sushi, emblema di neutralità global. Anche se si ha la sensazione che sia solo una tregua. Claudia Cannella


CRITICHE/EMILIA ROMAGNA

Fedeltà o maniera? Il rischio della Valdoca

Jon Fosse, metafisica di un suicidio

VOCI DI TENEBRA AZZURRA, di e con Mariangela Gualtieri. Regia, scene e luci di Cesare Ronconi. Costumi di Patrizia Izzo. Prod. Teatro Valdoca, CESENA - Teatro A. Bonci, CESENA.

IO SONO IL VENTO, di Jon Fosse. Traduzione di Graziella Perin. Regia di Lukas Hemleb. Scene e costumi di Pietro Babina. Con Giovanni Franzoni e Luca Lazzareschi. Prod. Ert-Emilia Romagna Teatro Fondazione, MODENA - Maison De La Culture D’AMIENS-Centre Européenne de Création et de Production.

Un enorme cappello a punta, la faccia sporca di terra, piccole danze burattinesche, disequilibri e rotazioni: l’inquieta e inquietante figura incarnata da Mariangela Gualtieri in Voci di tenebra azzurra combina il circo immaginato nel ‘23 da S.M. Ejzenštejn a invocanti nuvole pasoliniane. Del grande russo rispecchia anche l’anelito a un teatro che agisca efficacemente sullo spettatore, a un’arte che trasformi. Non è una novità: da molto tempo la «poeta» cesenate pratica una parola che si pone come traccia evidente di un itinerario evolutivo condiviso, come segno di un comune «rituale di apprendimento» alla gioia. Negli anni le sue esortazioni hanno trovato nella progressiva semplificazione (non solo) formale la loro cifra: Mariangela Gualtieri dà voce ad alcuni tòpoi a lei cari (il mistero degli animali, l’eredità di altri poeti, l’attenzione sottile) in minimali, densissime letture al microfono dei propri versi, “commoventi” nel senso etimologico del “fare muovere assieme” chi dice e chi ascolta. Nel caso di Voci di tenebra azzurra, invece, si assiste a un’inversione di tendenza che lascia interdetti. Il volto dipinto e i costumi da clown malinconico sono peculiarità del regista Cesare Ronconi, a lui utili per dare vigore scenico agli acerbi corpi con i quali sempre più spesso si trova a lavorare. Un analogo mascheramento produce l’effetto opposto sulla maturità di Mariangela Gualtieri, la cui forza sta anche (e soprattutto) nel silenzio che la precede e la segue, nel vuoto che ha intorno, nella sua conquistata nudità. In questo spettacolo tornano gli stilemi del Teatro Valdoca: strisce di luce bianche e blu, bastoni di led bianchissimi, palchetti e predelle a moltiplicare i piani, costumi con ampie gonne, figure di animali. E, appunto, cappelli a punta, volti dipinti e disequilibri immobili. Si ripropone una ineludibile questione di fondo: qual è il confine tra la fedeltà al proprio percorso e la maniera? O forse il manierismo è davvero il destino di tutte le arti? Michele Pascarella

Il titolo del dramma di Fosse va a coincidere con la battuta finale pronunciata dal personaggio definito come “L’uno”: quasi che il senso e l’obiettivo principale del testo fosse nel passaggio da una situazione materiale del protagonista a quella metafisica di un uomo che ha deciso di mettere fine alla sua vita a causa di un profondo disagio esistenziale le cui ragioni non ci saranno mai dette. In questo metaforico naufragio della vita, l’uomo dialoga con un interlocutore, reale o immaginario che sia, indicato come “L’altro” che cerca di capire i motivi che hanno spinto “L’uno” a quel gesto. I due personaggi senza nome si trovano infatti su una barca e cercano di raggiungere un punto di approdo, ma sono sempre spinti al largo, in mare aperto. Forse siamo all’interno di un teatro di poesia, dove l’azione verbale sostituisce quella più strettamente scenica, teatrale, in cui l’allusione e l’illusione prendono il sopravvento sui fatti e sulle cose concrete, dove le similitudini linguistica e letteraria diventano l’unica modalità di conversazione. In questa versione scenica del testo la realtà fisica del teatro è detenuta per intero dai due straordinari interpreti, Luca Lazzareschi (“L’uno”) e Giovanni Franzoni (“L’altro”), che riescono a dare credibilità e senso a quelle parole sostanzialmente vuote, e agiscono in scena come se fossero veramente in una imbarcazione, spostando di continuo quelle infinite cassette catramate – una magnifica e funzionale idea scenografica di Pietro Babina, insieme a quel tondo di luce bianca sempre accesa (faro, o stella polare che sia) – con le quali innalzano mura fra di loro, costruiscono, con un lavoro incessante, invisibili luoghi deputati, fino a farla sembrare simile a una zattera in alto mare. La regia

CASTELLUCCI

I figli perduti di Mosè, ovvero il fallimento dell'Occidente GO DOWN, MOSES, di Romeo Castellucci. Regia, scene, costumi e luci di Romeo Castellucci. Testi di Claudia Castellucci e Romeo Castellucci. Musiche di Scott Gibbons. Con Raschia Darwish, Gloria Dorliguzzo, Luca Nava, Stefano Questorio, Sergio Scarlatella. Prod. Socìetas Raffaello Sanzio, CESENA e altri partner internazionali. Era nelle cose, il nuovo spettacolo di Romeo Castellucci ha sollevato polveroni. Trasversali a generazioni o a famiglie teatrali si consumano giudizi. Ma tutta questa espansività dovrebbe spostare il dibattito altrove, magari verso un radicale ripensamento del concetto di spettacolo, e analizzarlo. Perché è lì che Castellucci colloca la macchina tragica e narrante del suo Go Down, Moses, nella configurazione performativa di una composizione parlante che invece governa tutta un’altra e arcaica esposizione di forme, suoni e verbalità. Sono quadri in successione che si fanno spazio nella storia mosaica facendo emergere alcune incrinature di significato, il regista lascia così sullo sfondo la figura messianica quasi a riportare nell’attualità la sua (di Castellucci) idea di shekinà (dimora) divina. Nel primo ci troviamo in uno spazio metafisico rarefatto e gli ospiti di una galleria si muovono nel rituale di un vernissage. Sulla parete campeggia l’opera Giovane lepre di Dürer, forse un gancio col suo stesso immaginario che tracima dall’ignoto doloroso e fanciullesco. Ma è una parentesi. La scena si sposta poi nella toilette di un luogo pubblico: una donna ha le doglie e per lunghi e interminabili minuti si contorce, perde sangue, imbratta tutto, cede allo strazio di quella verità rappresentata disturbante. Il passaggio successivo è nella stanza di un comando di polizia (il quadro meno riuscito e didascalico) dove la donna è interrogata, preceduto dalla scena di un cassonetto dell’immondizia dal quale provengono vagiti di neonato. È un momento crudo che si apre all’enfasi dell’omonimo gospel coniugando così l’Esodo biblico alla schiavitù dei neri. Fa da ponte l’immagine di lei che si sottopone a una Tac per essere catapultati in un remoto delle caverne, esseri primitivi in un alveo familiare che sembrano usciti da un film di Kubrick, ritratti nel momento della perdita di un figlio. Con la sua portentosa visione Go Down, Moses denuncia il fallimento di una civiltà (occidentale) non in grado di rigenerarsi, ma rinuncia a quel gesto rivoluzionario e di formazione che la fuga dall’Egitto e gli anni nel deserto rappresentano. Paolo Ruffini Go Down, Moses (foto: Luca Del Pia).

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CRITICHE/EMILIA ROMAGNA

del tedesco Lukas Hemleb, che ha firmato anche l’edizione in francese (ma con altri attori) dello stesso spettacolo italiano, riesce a intrecciare un’intensa e suggestiva trama scenica fatta di parole-pensiero intime, con risolute azione fisiche. Giuseppe Liotta

L’incubo di Elisabeth nel Faust della Jelinek FAUSTIN AND OUT, di Elfriede Jelinek. Traduzione di Elisa Balboni e Marcello Soffritti. Regia di Fabrizio Arcuri. Con Angela Malfitano, Francesca Mazza, Sandra Soncini, Matteo Angius e Fabrizio Arcuri. Prod. Associazione Tra un atto e l’altro, BOLOGNA Accademia degli Artefatti, ROMA Festival Focus Jelinek, MODENA. Dentro e fuori l’Urfaust, ma anche dentro e fuori i personaggi del dramma di Goethe e dei terribili fatti di cronaca accaduti in Austria e in Germania intorno alla metà degli anni Ottanta. Così come le brave e sgomente attrici Angela Malfitano, Francesca Mazza, Sandra Soncini che escono ed entrano nei loro rispettivi ruoli per superarli, prenderne le distanze. Insomma, un testo complesso, definito dalla stessa autrice “dramma secondario”, sovraccarico d’intenzioni, che rendono ancora più difficili le possibilità di una sua messa in scena. Tre pezzi di monologo occupano la prima parte dello spettacolo in un intreccio di riferimenti fra il dramma originario e la vicenda del padre che tenne segregata la figlia, Elisabeth Fritzl, nella cantina di casa, costringendola a rapporti incestuosi: intanto da un piccolo televisore vengono proiettate le immagini del Faust di Murnau. Nella seconda parte, come l’uscita da un incubo, si cambia registro, e in una sorta di “riscrittura a soggetto” si dibatte, come in un talk- show, di filosofia e di comunicazione di massa. L’ultima scena è, invece, interamente dedicata al lucido e drammatico monologo della figlia, un’intensa Angela Malfitano, che ripercorre la sua agonia con impassibile rassegnazione, inchiodata nell’abisso di un’inconcepibile infelicità senza fine: nel tempo che dura questa recita livida e forte, Matteo Angius e Fabrizio Arcuri, montano e rimontano dal vivo delle alte pareti fino a circon-

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dare completamente la sottomessa attrice, mentre la madre, seduta comodamente nella sua poltrona, sfoglia con indifferenza una rivista di moda; a ribadire, un’ultima volta, quella tecnica di costante “distanziamento” rispetto alle azioni rappresentate che caratterizza questo singolare, molto elaborato, progetto teatrale, che non scioglie tutti i dubbi relativi all’“irrappresentabilità” di Elfriede Jelinek. Giuseppe Liotta

Nella Serra di Plini Pinter sembra Brecht LA SERRA, di Harold Pinter. Traduzione di Alessandra Serra. Regia di Marco Plini. Scene e costumi di Claudia Calvaresi. Luci di Fabio Bozzetta. Musiche di Franco Visioli. Con Mauro Maliverno, Luca Mammoli, Valentina Banci, Giusto Cucchiarini, Fabio Mascagni, Francesco Borchi, Elisa Cecilia Langone. Prod. Emilia Romagna Teatro Fondazione, MODENA - Teatro Metastasio Stabile della Toscana, PRATO. IN TOURNÉE È il testo più difficile da mettere in scena fra quelli scritti da Harold Pinter. Egli stesso ne doveva essere consapevole tanto da tenerlo chiuso in un cassetto per oltre vent’anni per poi decidersi a rappresentarlo con la sua regia nel 1980, ma senza il successo ottenuto dai suoi precedenti spettacoli. Perché il problema vero è quello di un testo drammatico convulso e involuto, perfino distante dalle modalità tipiche della scrittura teatrale pinteriana, che procede per sintesi drammatiche e “conflitti momentanei”, dove invece Pinter sembra guardare piuttosto alle commedie “apocalittiche” e sociali di George Bernard Shaw, Anthony Burgess e Orwell. Dramma distopico per eccellenza, in cui l’utopia di una società migliore si rovescia nel suo contrario, fino a toccare le estreme conseguenze di una allegoria apocalittica volta in farsa tragica, La serra è ambientata in un Istituto psichiatrico o metaforico Palazzo del potere, diretto da un eccentrico personaggio, a metà strada fra Padre Ubu e il grande dittatore di Chaplin, il signor Roote. Ma due eventi imprevisti, la morte di una

Ivanov (foto: Michele Lamanna)

persona e la nascita di un bambino, mettono in crisi l’efficienza di un sistema di potere apparentemente invulnerabile. Da questo momento in poi la situazione precipita nel caos come in un finale da tragedia elisabettiana: vengono pugnalati, impiccati o strangolati Roote, la sua amante Miss Cutts e l’intero personale che prima deteneva il potere, per fare posto al futuro Direttore, l’ex segretario di Roote, Gibbs. Il taglio comico e grottesco impresso da Marco Plini allo spettacolo svela la seconda natura di questo dramma, quella didascalica, contraddittoria, dialettica, in una sola parola, brechtiana; ottimamente assecondato dai suoi bravissimi interpreti, automi impazziti dentro l’assurdo delle situazioni. Giuseppe Liotta

Tra ragione e sentimento l’Ivanov di Filippo Dini IVANOV, di Anton Cechov. Traduzione di Danilo Macrì. Regia di Filippo Dini. Scene e costumi di Laura Benzi. Luci di Pasquale Mari. Musiche di Arturo Annecchino. Con Valeria Angelozzi, Sara Bertelà, Filippo Dini, Ilaria Falini, Gianluca Gobbi, Orietta Notari, Nicola Pannelli, Fulvio Pepe, Ivan Zerbinati. Prod. Fondazione Teatro Due, PARMA - Teatro Stabile di GENOVA. È animata da troppe intuizioni registiche la messa in scena dell’Ivanov proposta da Filippo Dini che, per trovare una corrispondenza a tutte quelle interessanti intenzioni, spezza l’azione in tante situazioni teatrali perfettamente congegnate ma che non sembrano, tuttavia, trovare un centro

drammaturgico riconoscibile; a vantaggio, comunque, di un’attenta definizione del carattere dei vari personaggi, ciascuno portatore di un valore morale fuori uso, superato dalla piccola cronaca quotidiana come dalla grande Storia. Mentre è molto bravo, interpretando la parte di Ivanov, a dare quel senso di malinconia permanente alla vicenda di un uomo inutile, teso alla costante ricerca della sua identità, e di un ruolo qualsiasi da potere vantare all’interno di quella società, o microcosmo domestico, in cui è costretto a vivere, che sta precipitando nel baratro di un totale disfacimento culturale ed economico. Un male esistenziale invisibile ma devastante che contagia tutti i personaggi rendendoli simili a marionette impazzite, privi di qualità umane. Filippo Dini sceglie la strada delle relazioni sentimentali, della crudeltà e dell’egoismo che nascondono i rapporti amorosi da perseguire con ostinata determinazione per il raggiungimento di un fine superiore che è poi il segreto motivo che spinge Ivanov al suicidio finale; costruisce i quattro atti del testo come commedie autonome, per stile recitativo e movimento scenico, aiutato in questo da una scenografia composta di pareti mobili che si allargano e si restringono in rapporto alle situazioni teatrali. Si dilata così, inevitabilmente, il ritmo complessivo dello spettacolo, che si avvale delle efficaci e pertinenti musiche di Arturo Annecchino. Un attento lavoro di regia esalta i singoli interpreti, che si prendono tutto lo spazio dovuto al loro personaggio, a volte con qualche eccesso, non solo di bravura, con effetti di squilibrio drammaturgico e sbilanciamento dei ruoli assegnati. Giuseppe Liotta


CRITICHE/EMILIA ROMAGNA-TOSCANA

Una favola buonista col candore di una soap GYULA - UNA PICCOLA STORIA D’AMORE, testo e regia di Fulvio Pepe. Scene di Mario Fontanini. Luci di Pasquale Mari. Con Ilaria Falini, Orietta Notari, Gianluca Gobbi, Enzo Paci, Alberto Astorri, Nanni Tormen, Ivan Zerbinati, Alessia Bellotto, Nicola Pannelli, Tania Rocchetta, Massimiliano Sbarsi. Prod. Fondazione Teatro Due, PARMA. Sulla destra del palcoscenico un piccolo bar con bancone, tavolinetti e qualche sedia; al centro, la stanza dove vivono Gyula e la madre; sulla sinistra, una porta di casa che si apre su un salottino borghese occupato da Jani, ex primo violino dell’orchestra locale ora disoccupato, e dalla moglie Tania. Tre interni di un paese di pr ovincia dell’Eur opa dell’Est abitato da onesti taglialegna e operai a rischio di licenziamento per la possibile chiusura della segheria. Undici personaggi per raccontare una storia di buoni sentimenti collocata in un tempo imprecisato che può essere intorno agli anni ‘50, ma anche oggi, oppure antico, da teatro naturalista ottocentesco. Fulvio Pepe, al suo primo impegno di drammaturgo e regista, crede intensamente alla sua piccola storia d’amore e vi si butta dentro con molto candore e una buona dose di avventatezza, lasciandosi tuttavia andare a una scrittura mimetica superficiale, poco sorvegliata, soprattutto sul piano linguistico, che tende a riprodurre, con molta semplicità, il dialogo quotidiano senza farlo diventare una nuova “parola di scena”. Privo di un minimo di profondità, sia nei contenuti del testo che nella modalità rappresentativa, lo spettacolo appare troppo schematico nella definizione dei personaggi e prevedibile nel succedersi delle varie situazioni, come se ci trovassimo davanti a una soap opera televisiva piuttosto che di fronte alle tavole di un palcoscenico. Un buonismo esasperato attraversa l’intera commedia, contrastato soltanto da piccoli incidenti di percorso, rendendola, in certi momenti, francamente insopportabile per eccesso di melodramma, che

spinge il regista a fare interpretare il ruolo di Gyula, un ragazzo, alla brava e sensibile Ilaria Falini, di cui tutto il pubblico, alla fine, giustamente si innamora. I giochi sono fatti: la segheria non chiuderà, il Maestro di violino riprenderà il suo pos to nell’orchestra dopo aver pensato di uccidersi, Gyula vince un concorso musicale a premi: così va in teatro; non così nella vita. Giuseppe Liotta

Vanno e vengono le Nuvole di Parma LE NUVOLE, di Aristofane. Interpretato e diretto da Roberto Abbati, Paolo Bocelli, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Gigi Dall’Aglio, Luca Nucera, Tania Rocchetta, Marcello Vazzoler. Costumi di Emanuela Dall’Aglio. Luci di Luca Bronzo. Musiche di Alessandro Nidi. Prod. Fondazione Teatro Due, PARMA. Cosa ci racconta oggi Le Nuvole di Aristofane, una commedia nutrita del dibattito filosofico del V secolo ateniese e intrisa di riferimenti culturali che il pubblico ha smarrito? Teatro Due di Parma – dopo aver affrontato con successo analoghe difficoltà nelle Rane – tenta la sfida con coraggio e alterni risultati. Comincia aggiungendo una cornice narrativa, che svela da subito il gioco metateatrale della commedia: a mettere in scena Aristofane è una compagnia di attori, che approda sul palco a bordo di una vettura scalcinata dalla quale saranno estratti elementi scenografici di fortuna. Drammaturgia e regia giocano abilmente a creare negli spettatori risonanze con la contemporaneità: ed ecco che Fidippide – rampollo ateniese indebitatosi a causa della mania per l’ippica – è qui appassionato di altri cavalli e appare vestito con una giacca della Ferrari. Suo padre, Strepsiade, vuole liberarsi dai debiti e lo affida a Socrate perché gli insegni a difendersi dai creditori: ne uscirà un Fidippide “da discoteca”, adulto e sicuro di sé, ma anche irrimediabilmente corrotto. Non mancano allusioni all’attualità politica: Strepsiade giura di essersi indebitato «a sua insaputa» e si insiste sull’abilità del «lasciar cadere in prescrizione i processi». Tra lazzi e sketch (e qualche

calo di ritmo) il messaggio è serio e per nulla rassicurante: c’è una polis allo sbando, che guarda alla cultura solo come a un mezzo utile per i prop r i m i s e r i t o r n a c o n t i . E c ’è un’intellighenzia non meno in crisi, presa da problemi “piccini” come la misura del salto di una pulce e più interessata a riscuotere parcelle che a riflessioni filosofiche. Quel Socrate buffone ridicolmente a penzoloni per quasi tutto lo spettacolo appare, sul finale, in ben altre vesti: è il Socrate dell’apologia platonica e, bevendo la cicuta, ci ammonisce sul tetro futuro che ci aspetta. Le Nuvole, sornione divinità bianco vestite, guardano gli uomini da lontano e ridono delle loro incoerenze. «Vanno, vengono, ritornano», dicono di sé, mentre sorridono infide e melliflue al pubblico prendendo in prestito le parole da De Andrè. Maddalena Giovannelli

Donne in cerca d’identità nel conflitto turco-armeno LA BASTARDA DI ISTANBUL, tratto dall’omonimo romanzo di Elif Shafak. Adattamento e regia di Angelo Savelli. Video-scenografie di Giuseppe Ragazzini. Con Serra Yilmaz, Valentina Chico, Riccardo Naldini, Monica Bauco, Marcella Ermini, Fiorella Sciarretta, Diletta Oculisti, Elisa Vitiello. Prod. Pupi e Fresedde, FIRENZE. Certamente La bastarda di Istanbul non durerà, e non avrà lo stesso boom, quanto il piccolo grande caso nazionale de L’Ultimo Harem che il Teatro di Rifredi porta avanti da undici

anni consecutivi. Stessa regia, Angelo Savelli, stessa primattrice, Serra Yilmaz, stesso cast-fulcro, Riccardo Naldini e Valentina Chico (l’unica a spiccare; intense anche le proiezioni video che danno colore, atmosfera e profondità alla staticità dell’azione), stessa provenienza geografica di riferimento, la Turchia, con la quale la compagnia Pupi e Fresedde intesse un grande amore, contraccambiato. Savelli dichiara di non amare la nuova drammaturgia e di preferire la trasposizione dalla letteratura prendendo ad esempio la lezione de Il pasticciaccio di Luca Ronconi. La bastarda, romanzo di Elif Shafak, vede due donne, una che vuole dimenticare le proprie origini e l’altra che le vuole ricercare con forza. Sullo sfondo la questione turco-armena in occasione del centenario (come della Prima guerra mondiale) del genocidio-diaspora. Quindi questione femminile e tema etnico. Teatro civile che racconta una specie di Albero di Antonia, una famiglia tutta “in rosa”, una genealogia popolata da mogli, madri, figlie, nonne, cugine, dove gli uomini sono tutti defunti per morti ridicole o evitabili. Al di là della complessità dei nomi da ricordare (il turco in questo non ci aiuta) e delle discendenze mediorientali con infiniti intrecci e parentele, è l’impostazione vintage a non convincere, oltre la lunghezza, con la presentazione in terza persona dei personaggi che si raccontano, entrando a uno a uno, con le classiche stereotipizzazioni sia della produzione artistica orientale di maniera, tra commozione e ironia, che attorali, entrambe sopra le righe. Tommaso Chimenti

Le nuvole (foto: Michele Lamanna)

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CRITICHE/TOSCANA

PRO & CONTRO Baliani e Accorsi: come Comici dell’Arte per un Decamerone senza tempo Di Mauro-Campana una scommessa vinta CANTI ORFICI - VISIONI, dai Canti Orfici di Dino Campana. Drammaturgia di Andrea Cortellessa. Regia di Giancarlo Cauteruccio. Scene di Paolo Calafiore. Costumi di Massimo Bevilacqua. Luci di Loris Giancola. Musiche di Gianni Maroccolo. Video di Alessio Bianciardi. Con Michele Di Mauro e gli allievi del Laboratorio su Dino Campana. Prod. Compagnia Krypton, SCANDICCI (Fi).

DECAMERONE - VIZI VIRTÙ PASSIONI, liberamente tratto dal Decamerone di Boccaccio. Drammaturgia di Maria Maglietta. Regia di Marco Baliani. Scene e costumi di Carlo Sala. Luci di Luca Barbati. Con Stefano Accorsi, Salvatore Arena, Silvia Briozzo, Fonte Fantasia, Mariano Nieddu, Naike Anna Silipo. Prod. Nuovo Teatro, NAPOLI Fondazione Teatro della Pergola, FIRENZE. IN TOURNÉE

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opo l’Orlando Furioso, Marco Baliani e Stefano Accorsi affrontano il Decamerone, in uno spettacolo in cui il teatro di narrazione si accompagna alla “rappresentazione” tradizionale, alla recitazione di attori che interpretano in scena dei personaggi; sia pure animandone molti in pochi (solo sei, compreso Accorsi che ha un ruolo a metà tra il narratore-affabulatore – è il “Maestro di Brigata” – e l’interprete di alcuni personaggi delle novelle). Con in scena un carro-furgone colorato, scenografia di fortuna, aperto o anche chiuso, e casa viaggiante di quello che si finge un gruppo di moderni Comici dell’Arte, il brillante “collettivo” di interpreti – scelti, evidentemente, con oculatezza – dà forma a un gioco teatrale felice, grazie alle loro ottime qualità, alla loro versatilità, vitalità ed energia (comica ma non solo). Accorsi, molto più a suo agio qui che nei due spettacoli sull’Orlando, è un primus inter pares, il capitano di questa “squadra” teatrale che se le cava bene anche nel ridar vita alle novelle meno ridanciane, d’argomento cortese o drammatico. Nel dipanarsi festoso del gioco scenico, questo Decamerone, fresco e comunque godibile, lascia intravedere il suo rifarsi costante, anche se sotterraneo, a due forti punti di riferimento: il primo è il film di Pier Paolo Pasolini (pure lontano come atmosfere, ma presente come modello e come fonte di ispirazione), il secondo è la matrice da teatro di figura e da teatro-ragazzi che lascia tracce nell’impostazione di alcune parti dello spettacolo e nel suo linguaggio scenico e drammaturgico: e non solo nella sua chiave esplicativa e “didattica”. In ogni caso, nel copione del lavoro di Baliani si proclama in modo esplicito il senso e il valore del Decamerone come affermazione del bisogno di evadere – con la fantasia, con l’inventiva, con l’eticità stessa dell’arte e del teatro – da un mondo colpito, anche adesso, dalla peste: non più quella del Trecento, certo, ma quella, altrettanto devastante, della corruzione e della disonestà. Francesco Tei

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on bastava il povero Ariosto, ora tocca anche a Boccaccio. Sull’Orlando furioso la strana coppia Marco Baliani-Stefano Accorsi ci sono tornati ben due volte. Nel primo caso la presenza di Nina Savary, nel secondo quella dello stesso Baliani, unite all’essenzialità del teatro di narrazione e a fascinose confezioni sceniche (di Bruno Buonincontri e di Mimmo Palladino), mitigavano i limiti di un’operazione interessante, ma fatalmente ambiziosa. Molto peggio va con il recente Decamerone, dove Baliani rimane “solo” drammaturgo (con Maria Maglietta) e regista. Scelta infelice. La squadra di attori in scena, capitanata da Accorsi nelle vesti di narratore, non va oltre la pur generosa prova di una filodrammatica (senza nulla togliere ai filodrammatici). È vero che in fondo mettono in scena proprio questo: una compagnia di guitti in giro su un torpedone sgangherato, che è un po’ casa e un po’ teatro, a rappresentare di paese in paese alcune novelle di Boccaccio, fra corna, suore vogliose e gelosie omicide. Ma tutto pare raffazzonato. La lingua del Boccaccio semplificata ad usum populi. Costumi senza un’identità precisa, che si rifanno in parte all’epoca dell’autore, insieme a un camper da fricchettoni anni Sessanta. Tutto rimane in superficie, è gioco didascalico facile e ammiccante, dove neanche per un attimo, dietro la storiella scollacciata, emerge l’angoscia di quel gruppo di persone che, in esilio volontario dal mondo, ingannavano il tempo raccontandosi novelle per sfuggire alla peste, reale o metaforica che fosse. E a scongiurare l’insipienza dell’operazione, che neanche diverte, non aiuta Accorsi, che recita come in un saggio di fine anno (ma dove è finito il bravo attore che avevamo visto ne Il dubbio?). Certo, mamme e figlie sono in visibilio davanti al sorriso luminoso del divino Stefano, durante lo spettacolo parte di straforo qualche flash e fuori dal camerino non manca la rituale richiesta di selfie e autografi. Ma Boccaccio è un’altra cosa. E anche il teatro. Claudia Cannella

Una sfida affrontata e vinta da Giancarlo Cauteruccio, non nuovo a lavori teatrali su Dino Campana, quella – ardua – di costruire uno spettacolo e (con Andrea Cortellessa) una drammaturgia che si reggessero in piedi senza aggiungere assolutamente nulla ai testi dei Canti Orfici, in apparenza ben lontani da una qualsiasi possibile valenza teatrale. Resistendo così anche alla tentazione di fare invadere il campo, almeno in parte, dalla biografia – così drammatica, dolorosa e suggestiva – del poeta “folle” e misconosciuto. La difficile impresa riesce, soprattutto, per la presenza in scena di un interprete, come Michele Di Mauro, in stato di grazia, che fa del poeta un personaggio teatrale vero, in un’interpretazione che accosta fisicità e una recitazione dalle mille sfaccettature. Il modello altissimo, quasi mitico, di Carmelo Bene non resta poi molto lontano negli esiti di una prova del tutto sorprendente a livello di qualità. L’altro elemento che regala una resa teatrale più che soddisfacente è l’abile lavoro sullo spazio scenico e sulla visione, in cui (assistito dalla scenografia di fogli di carta stracciati di Paolo Calafiore) Giancarlo Cauteruccio mette a frutto un’esperienza pluridecennale di maestro delle suggestioni visuali, proiettando immagini video sulle pareti-quinte di carta. Tanti gli effetti che rendono affascinante questa ispirata opera di ambientazione dei Canti Orfici, disegnando un itinerario ideale di un Campana che, un po’ alla Rimbaud, approdi alla fine del suo viaggio di uomo e di poeta a un mondo selvaggio, esotico, lontano dalla “cultura”. Nel suo caso, ovviamente, si tratta non dell’Africa, ma dell’ America Latina. I corpi dei giovani allievi di un laboratorio del Teatro Studio di Scandicci - le ragazze esibiscono generosamente,


CRITICHE/TOSCANA REGIA DI CIRILLO

Vittoria Puccini, una gatta che non graffia in un'America troppo astratta

e con insistenza, le loro grazie - fanno parte, di fatto, della scenografia, stando alle spalle di Campana-Di Mauro. Francesco Tei

la città si salverà grazie alla bellezza e alla poesia, ci dice il protagonista in scena, ma è un po’ poco. Di questi tempi c’è bisogno anche di altro. Marco Menini

LA GATTA SUL TETTO CHE SCOTTA, di Tennessee Williams. Traduzione di Gerardo Guerrieri. Regia di Arturo Cirillo. Scene di Dario Gessati. Costumi di Gianluca Falaschi. Luci di Pasquale Mari. Musiche di Francesco De Melis. Con Vittoria Puccini, Vinicio Marchioni, Paolo Musiu, Franca Penone, Clio Cipolletta, Francesco Petruzzelli, Salvatore Caruso. Prod. Fondazione Teatro della Pergola, FIRENZE - Compagnia Gli Ipocriti, NAPOLI. IN TOURNÉE

La sola bellezza non salverà Napoli

L’incoerenza dell’amore, la parola a Santeramo

NAPOLISCIOSCIAMMOCCA. GIANCARLO CAUTERUCCIO CANTA LA CITTÀ DI NAPOLI, di e con Giancarlo Cauteruccio. Scene e luci di Loris Giancola. Video di Alessio Bianciardi. Prod. Compagnia Krypton, SCANDICCI (Fi).

LA PROSSIMA STAGIONE, spettacolo da leggere, di e con Michele Santeramo. Luci e allestimento di Erica Artei. Immagini di Cristina Gardumi. Musiche di Sergio Altamura, Giorgio Vendola, Marcello Zinni. Prod. Fondazione Pontedera Teatro, PONTEDERA (Pi).

IN TOURNÉE Avevamo lasciato Giancarlo Cauteruccio alle prese con la celebrazione del centenario dei Canti Orfici di Campana e lo ritroviamo protagonista di Napoli Sciosciammocca, prima parte della Trilogia delle Città di Mare, che proseguirà toccando anche Genova e Trieste, nell’intento di «leggere questi luoghi attraverso le canzoni che li hanno caratterizzati tra l’Ottocento e il Novecento, senza dimenticare alcuni musicisti contemporanei». In questo particolare esperimento, di resa dell’essenza di una città in materia drammaturgica, Cauteruccio si affida a presenza, talento e mestiere. Con l’ausilio di un’imponente scenografia per riquadri geometrici, corredata di video e immagini, viene evocata una città femmina, cantata e amata, e si sceglie di farlo attraverso l’interpretazione dei grandi classici della melodia napoletana. Il protagonista dimostra notevoli doti, offrendo un’interpretazione per nulla scontata e molto intensa. Napoli è femmina, dicevamo, ma anche coacervo denso di rimandi a strade e luoghi, monumenti e atmosfere, storie e personaggi illustri del teatro, da Scarpetta – evocato nel titolo – a De Berardinis e Neiwiller, De Simone e Ruccello. Ma non basta il solo nome a evocarli: in scena vengono nominati quasi si stilasse un mero elenco. Il talento di Cauteruccio, coadiuvato da un mestiere che ben conosciamo, non è supportato da una struttura drammaturgica così articolata come ci si aspetterebbe e questo fa sì che il lavoro nell’insieme non risulti pienamente riuscito. NapoliSciosciammocca si chiude tra gli applausi, con le note di Napule è di Pino Daniele, finale tra il doveroso e il retorico che arriva dopo una riflessione sul disastroso e miserevole presente del capoluogo campano:

Può capitare, a volte, che un autore, anziché abbandonare, decida di accudire i propri personaggi, fino a regalare loro la propria voce. È quanto succede a Viola e Massimo, la coppia cui Michele Santeramo ha dato vita e l’artista visiva Cristina Gardumi una particolarissima e suggestiva fisionomia. Il drammaturgo narra sei differenti momenti nell’esistenza della coppia, a distanza di dieci anni l’uno dall’altro, dal 2015 e fino al 2065, data in cui marito e moglie avranno compiuto ottant’anni. Sul palcoscenico non vi sono attori ma, su un lato, uno schermo sul quale sono proiettati i disegni di Gardumi; e, dall’altro, lo stesso Santeramo che, appoggiato a un leggio, legge – ma più spesso pronuncia rivolgendosi apertamente ai suoi personaggi, proiettati lì sullo schermo – le battute che ha immaginato per loro. L’autore non interpreta, non vuole essere né Viola né Massimo, bensì sceglie di diventarne voce e megafono. Una modalità di trasposizione del testo sul palcoscenico che richiede anche un ruolo attivo dello spettatore, cui è affidata la lettura autonoma e silenziosa delle didascalie che, interrompendo il racconto di Santeramo, vengono proiettate sullo schermo. La forza dello spettacolo, tuttavia, non risiede soltanto nella sua inedita messa in scena, bensì nel dettagliato e sensibile disegno dell’incoerenza e della testardaggine che contraddistingue il rapporto amoroso; e, ancora, nella capacità di immaginare un futuro distopico che, invece di annullare, amplifica sentimenti e passioni. La scrittura del drammaturgo mescola tenerezza e scherzo, delusione e rabbia, ingenuità e disincanto: l’intero spettro, insomma, dei movimenti dell’animo

Dura la sfida che attende l’attrice (bellissima) di fiction tv e di cinema, quando decide il suo debutto in teatro: tanto più se in un ruolo difficile, che non si adatta molto né al suo fisico né al suo personaggio. Stiamo parlando di Vittoria Puccini, Maggie ne La gatta sul tetto che scotta, nell’allestimento firmato – come regia (poco visibile, in verità) – da Arturo Cirillo. Alla prova della scena, la Puccini si dimostra ancora acerba: discutibile il suo cercare di dare carattere, grinta e aggressività alla sua Maggie provvedendo a ingrossare la voce o a scurirne il tono, oppure semplicemente gridando (scelta fatta anche da altri membri della compagnia). Il problema è, però, che l’aristocratica, bionda, alta e magra Puccini non ha molto né della carnalità né della sensualità provocatoria del personaggio, né quel tanto di volgarità che non guasterebbe anche agli altri personaggi. Non dimentichiamo che sia Brick, il protagonista, che il defunto Skipper erano muscolari “guerrieri” del football americano. Pare incongrua anche la scenografia - pure notevolissima - di Dario Gessati, che ci porta nelle affascinanti, metafisiche atmosfere visive di Edward Hopper: tutta un’altra America, quella del grande pittore anche se l’apertura del sipario è di fortissima suggestione. Il clima di questa nuova edizione de La gatta è lontano (crediamo volutamente) da quello originario evocato da Williams, come se si fosse voluta collocare la vicenda in una dimensione astratta e “moderna”. Il livello non eccelso della Maggie di Vittoria Puccini non è compensato da una prova più convincente degli altri interpreti, tranne – in parte – Paolo Musio nel ruolo del padre, condannato a morte dalla malattia: Vinicio Marchioni è un protagonista più che corretto, attento all’intonazione dei diversi momenti, ma sostanzialmente monocorde e mai di grande effetto; Franca Penone è anagraficamente improbabile nella parte della mamma, per di più in una chiave banalmente bozzettistica e quasi caricaturale. Clio Cipolletta fa intuire comunque la sua statura di attrice, ma neanche lei appare adatta alla sua parte, quella della “cattiva” Mae. Di scarso peso, poi, il Gooper di Francesco Petruzzelli. Tutto questo però non significa che nei momenti clou dell’azione il drammone a tinte fortissime di Williams non riacquisti in pieno la sua presa sullo spettatore, avvinto dalla storia, dai tormenti, dalle malvagità, dalla sofferenza di tener nascosti inconfessabili segreti di questo interno familiare desolato e “maledetto”. Francesco Tei

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CRITICHE/TOSCANA-UMBRIA

umano nel corso di un’intera esistenza, fra sogni di rivoluzione e desideri irrealizzabili, difficoltà economiche e amari compromessi. Ma Santeramo sa anche trasformare in concretissime parole incubi simil-apocalittici e luoghi comuni linguistici – per esempio «pagare col sangue». Leggerezza e commozione, passione e delusione, vita e morte: si percorre l’intera parabola dell’esistenza umana in questo piccolo ma preziosissimo spettacolo. Laura Bevione

La guerra di Tönle, contadino ottantenne SENZA VINCITORI NÉ VINTI. GUERA GRANDA 15-18, di Mario Rigoni Stern e Francesco Niccolini. Regia di Alessio Pizzech. Scene e luci di Richard Gargiulo. Musiche di Alessandro Grego, interpretate dal Coro Valcavasia, diretto da Cesarino Negro. Con Paolo Bonacelli e Giuseppe Nitti. Prod. Festival Lunatica, MASSA CARRARA Associazione Teatro di BUTI (Pi). IN TOURNÉE Caratteristica precipua dei lavori giovanili di Alessio Pizzech era quella di dare un’impronta registica forte ai suoi attori, esaltando i lati eccessivi e caricati di una recitazione troppo ricca di pathos. Nel corso degli anni i suoi lavori si sono sempre più allontanati da questo tipo di regia soffocante, a favore di un maggior respiro dato all’interpretazione dei protagonisti in scena, evitando che si producesse l’effetto di una clonazione ripetitiva dei caratteri. Purtroppo in questo Senza vincitori né vinti il regista toscano sembra tornato indietro di qualche anno e a farne le spese è soprattutto il giovane protagonista Giuseppe Nitti, attore di talento ma troppo “schiacciato” dalla regia di Pizzech. Lo spettacolo è costruito attorno al romanzo Storia di Tönle del grande Rigoni Stern, che in molti ricordano per Il sergente nella neve. Senza vincitori né vinti racconta la Prima guerra mondiale vista dagli occhi di un contadino ottantenne originario dell’Altipiano d’Asiago. Con l’ausilio degli inserti drammaturgici di Francesco Niccolini si affronta il terribile dramma della Grande Guerra e lo si fa, va detto, senza retorica. Il lavoro tuttavia delude. La presenza di Paolo Bonacelli – che si limita a leggere – è distonica rispetto alla prova del sopracitato Nitti, giovane soldato che vive tutto il dramma e la ferocia di una guerra che provocò, solo sul fronte

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italiano, oltre seicentomila vittime. Per tutto lo spettacolo si attende invano uno scarto o un’accelerazione che rendano più vivo l’evolversi delle vicende, ma il pathos, così a lungo cercato, sortisce l’effetto opposto. Marco Menini

Il triangolo rosa dell’omofobia nazista BENT, di Martin Sherman. Regia di Lorenzo Tarocchi. Con Alessandro Novolissi, Gabriele Giaffreda, Alessio Nieddu, Henrj Bartolini, Francesco Tasselli, Claudia Corrieri. Prod. Compagnia Cervelli In Tempesta, QUARRATA (Pt). Costruito su due momenti storici adiacenti - un prima libertario e decadente e un dopo feroce e disumano - Bent, scritto alla fine degli anni ‘70, è un testo ibrido che chiede a molti generi teatrali di coesistere per la rappresentazione. Sherman descrive lo shock dell’Olocausto in una Berlino piena di locali e disinibita: gay friendly alla fine degli anni ‘20; omofoba all’alba del nazismo. Il contrasto con il cabaret iniziale e la parte successiva - l’arresto, gli abusi, la deportazione e i campi di concentramento con omosessuali ed ebrei - è particolarmente ben articolato nell’uso originale dello spazio scenico - con il pubblico ai tavolini e un palco a ferro di cavallo. E se il canto ammiccante e sensuale dell’introduzione ben descrive promiscuità e ingenuità di una vita da bohémien, i serrati dialoghi successivi e le voci che sembrano rubare spazi a silenzi forzati o a formule di rito raccontano altrettanto bene climi opposti. Seppur protratto, è letteralmente carico di sofferenza e privazione il lungo scorcio sulla vita all’interno del campo di concentramento che occupa quasi tutta la seconda parte: ordini insensati, brutalità gratuite, compiti ingrati, proibizione di intrattenere relazioni umane tra deportati. Stella gialla e triangolo rosa, ebrei e omosessuali divisi da un colore ma non nel destino, vivono fianco a fianco mentre la corruzione del corpo e dello spirito in nome della sopravvivenza sembra essere scelta obbligata. La necessità di relazione è, però, istinto umano che supera e sfida quello di sopravvivenza e così, seppure in soli tre minuti, immobili, in piedi, stanchi, affamati e al freddo, due uomini, due omosessuali, si amano a parole. Ogni frase si fa carezza sempre più tangibile e l’atto amoroso non è mai stato tanto palpabile e universale. Laura Santini

LAVIA/GUARNIERI

Se il Kammerspiel di Bergman è una partitura per strumenti solisti SINFONIA D’AUTUNNO, di Ingmar Bergman. Regia di Gabriele Lavia. Scene di Alessandro Camera. Costumi di Claudia Calvaresi. Luci di Simone De Angelis. Musiche di Giordano Corapi. Con Anna Maria Guarnieri, Valeria Milillo, Danilo Nigrelli, Silvia Salvatori. Prod. Teatro Stabile dell’Umbria, PERUGIA - Fondazione Brunello Cucinelli, SOLOMEO (Pg). IN TOURNÉE Una madre e una figlia si ritrovano dopo sette anni. Un incontro carico di aspettative, grazie al quale si confrontano, si contrappongono, si rinfacciano torti e mancanze e infine si lasciano con tanta disillusione e con un carico di risposte inevase. Sinfonia d’autunno, film di Ingmar Bergman del 1978, è un lungo dialogo a due tra una madre e una figlia. Un Kammerspiel che spinge lo spettatore a comunicare con i propri fantasmi. Un film carico di tensioni e di emozioni. Una vicenda che si snoda quasi esclusivamente in interni. Charlotte, pianista attenta solo alla carriera, pessima madre e pessima moglie, ha vissuto solo per la musica. Il confronto è con la figlia Eva, distrutta dal dolore per la morte del suo bambino, che da due anni si prende cura della sorella disabile, abbandonata dalla madre in una casa di cura. Lo spettacolo di Gabriele Lavia ne ripropone i contenuti, ma non gli umori. Nelle intenzioni il regista, come sottolinea nelle sue note, cerca di rappresentare il senso di esclusione, quello che Bergman chiamava la “solitudine assoluta”. Gli attori recitano degli “a solo” recuperando lo spirito del film così come si evince fin dal titolo originale Sinfonia d’autunno, e come conferma la sceneggiatura concepita come una partitura di brani per strumenti solisti. Ma, nonostante le intenzioni programmatiche e l’impianto drammaturgico, si assiste a uno spettacolo lento che non coinvolge. Eppure i presupposti ci sarebbero tutti per il contrario: la bravura degli attori, le soluzioni sceniche che traducono un film già molto teatrale e un disegno luci che ripropone un interno plumbeo. Ma la regia non ha saputo restituire il senso di solitudine dei singoli personaggi, scegliendo invece la strada della caratterizzazione eccessiva. Anna Maria Guarnieri troppo enfatica nel proporre una Charlotte prorompente e cinicamente distratta. Valeria Milillo troppo dimessa nel rappresentare il personaggio di Eva, donna fragile ma determinata. Silvia Salvatori troppo ridondante nel ricreare il disagio psicofisico di Helena, Danilo Nigrelli nel ruolo di Viktor, marito di Eva, poco comunica quel senso di esclusione e di marginalità con cui è stato concepito. Giusi Zippo


CRITICHE/LAZIO

Casanova, bilancio di vita di un vecchio seduttore CASANOVA, di Ruggero Cappuccio. Regia di Nadia Baldi. Costumi di Carlo Poggioli. Luci di Carlo Mastrogiacomo. Musiche di Marco Betta. Con Roberto Herlitzka, Marina Sorrenti, Rossella Pugliese, Franca Abategiovanni, Carmen Barbieri, Giulia Odori. Prod. Teatro Segreto, ROMA. IN TOURNÉE Il sipario si schiude quando – appena spente le luci – una voce perentoria dice: «Aprite!»: è Giacomo Casanova a implorare con quel grido la libertà, nella convinzione d’essere in qualche modo prigioniero del conte di Waldestein, che da tredici anni ne ha fatto il suo bibliotecario nel castello di Dux, in Boemia. È ormai vecchio Casanova, è stanco e, probabilmente, la sua vita è agli sgoccioli: per questo si trova a fare i conti col proprio passato avventuroso e, inevitabilmente, con i fantasmi delle innumerevoli donne che ha conquistato. Donne che gli tornano in mente, ora, in tutta la loro prorompente e provocante femminilità, ma muovendosi come fantocci meccanici. Questo particolare fa capire che una suggestione fondamentale, per la regia di Nadia Baldi, deriva dalla nota sequenza del Casanova felliniano, nella quale il seduttore danza e giace proprio con una bambola meccanica. Cinque donne con corpetti succinti e grandi parrucche diventano, dunque, esemplari della condotta dissoluta del protagonista; cinque donne che, con voci ora acute e stridule ora ammalianti, gli rivolgono domande incalzanti, facendo riaffiorare i ricordi di una vita intera, tormentandolo, ma determinando anche intenerimenti e autoironie. Una sorta di giuria che celebra un processo grottesco grazie al quale Casanova - che non ammette mai la propria identità - ricostruisce e comprende, finalmente, fino in fondo, la propria esistenza, consacrata indubbiamente al godimento, ma anche allo studio e alla scrittura, quest’ultima mai adeguatamente riconosciuta e apprezzata. Decisamente affascinante e seduttiva la drammaturgia di Ruggero Cappuccio, ispirata all’Histoire de ma vie, un po’ manierata la regia onirica ed estetizzante di Nadia Baldi. Roberto Herlitzka, con il suo

volto scavato e la sua esile fisicità, offre un’interpretazione straordinaria e in piena sintonia con il testo, ma soprattutto capace di conquistare il pubblico con la forza d’una passione che non va mai sopra le righe. Stefania Maraucci

La tradizione accogliente del Pirandello eduardiano IL BERRETTO A SONAGLI, di Luigi Pirandello nella versione di Eduardo De Filippo. Regia di Luigi De Filippo. Scene e costumi di Aldo Buti. Con Luigi De Filippo, Stefania Ventura, Stefania Aluzzi, Francesca Ciardiello, Giorgio Pinto, Vincenzo De Luca, Claudia Balsamo, Marisa Carluccio. Prod. I Due della Città del Sole, ROMA. IN TOURNÉE In questo Berretto a sonagli pirandelliano, nella versione in napoletano di Eduardo De Filippo, allestita dal nipote Luigi (figlio di Peppino), che ne cura anche la regia, colpisce la scelta di ritmare e sveltire la messa in scena come in una rincorsa verso lo scioglimento, nel tentativo di non perdere mai l’attenzione del pubblico. Timore legittimo, per un testo che non è dei più riusciti dell’autore siciliano, ma che l’interpretazione eduardiana rese comunque celebre: uomo dalla pazzia in nuce, sofferente e irrisolto, come molti dei personaggi maschili di Eduardo, più moderni del “pupo” tratteggiato dal testo originale. Per raggiungere lo scopo, il regista si affida alla sinuosità e alla pienezza aspra del dialetto, in un buon equilibrio che fa guadagnare corposità e lucidità alla messa in scena. Sui bravi attori, preparati, attenti, fa da capocomico il navigato Luigi. Il risultato è quanto di più accogliente si possa desiderare per occhi e orecchie dello spettatore, un lavoro dignitoso che può piacere a un pubblico vasto e trasversale. Come ogni operazione di “recupero” condotta su questa falsariga, il rischio è quello di non incidere mai. Certo non di annoiare, verbo che non si addice se di mezzo ci sono Eduardo e la sua visione del teatro, sempre così energica, scossa, fortemente dubbiosa. La tradizione ha un peso, portarla avanti non è mai indolore. Ai meno convinti, che si chiedono il motivo

dell’ennesimo Berretto, si può rispondere che questa è la storia del nostro teatro: non si mastica mai abbastanza, prima di poterla dire digerita. Di rimando, ai detrattori del nuovo, che non vorrebbero mai vedere un Eduardo diverso da se stesso (come nel Natale in casa Cupiello di Latella), si può fare notare che proprio dopo aver visto un Berretto a sonagli siffatto arriva il momen to del superamen to. Come Eduardo ha fatto con i “suoi” classici. Francesca Gambarini

Barbareschi, uno show da mattatore debordante CERCANDO SEGNALI D’AMORE NELL’UNIVERSO, di e con Luca Barbareschi. Regia di Chiara Noschese. Luci di Giuseppe Filipponio. Con Marco Zurzolo Quintet. Prod. Casanova Multimedia, ROMA. IN TOURNÉE Luca Barbareschi, mattatore di un one man show, dal significativo titolo Cercando segnali d’amore nell’universo, celebra i suoi quarant’anni di carriera spaziando dalla musica alla recitazione con l’energia e la forza di un ventenne. Guidato dalla regia di Chiara Noschese, senza retorica, ma mostrando di divertirsi nel mettersi in gioco e nel prendersi in giro, intreccia ricordi personali della sua infanzia, all’ironia di Mame t - che Barbareschi ha fat to conoscere in Italia - a Cervantes, a

Shakespeare, accompagnato dalle musiche eseguite dal vivo dal raffinato Marco Zurzolo Quintet. Barbareschi non si risparmia, per due ore filate balla, canta, suona il pianoforte e la chitarra elettrica, alternando Mozart, James Taylor, Simon & Garfunkel. I momenti salienti della sua vita privata e pubblica si susseguono, come in un flusso di coscienza di cui a volte si perdono i passaggi: dal ricordo dell’Uruguay in cui è nato, alla rievocazione della figura del padre severo che lo portava a sciare, costringendolo a indossare l’insopportabile calzamaglia e sci troppo lunghi per lui, alle prime esperienze in America, fino ai successi al cinema, in teatro e in tv. L’esperienza in politica viene invece sfiorata attraverso le solenni parole del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Barbareschi al terna così momen ti commoventi, come la separazione dei genitori e la morte del padre, ad altri eccessivamente caricati, preso dalla foga di raccontare troppi episodi, a volte scomodi, come la violenza subita da bambino, a volte super flui e ripetitivi, come le rocambolesche avventure d’amore o i lavori svolti come cameriere in America per guadagnarsi da vivere prima degli incontri che cambieranno la sua vita professionale. E così, al di là del clima di festa che Barbareschi sa instaurare, creando empatia con un pubblico divertito, risulta più incisivo quando recita i grandi autori, in modo personalissimo, quando fa l’attore più che l’intrattenitore. Albarosa Camaldo

Casanova (foto: Valeria Tomasulo)

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CRITICHE/LAZIO

MICHELI/FERILLI

Quando basta un nome sbagliato per far "saltare" una famiglia SIGNORI… LE PATÈ DE LA MAISON, di Matthieu Delaporte, Alexandre De La Patellière, adattamento di Carlo Buccirosso e Sabrina Ferilli. Regia di Maurizio Micheli. Con Sabrina Ferilli, Maurizio Micheli, Pino Quartullo, Massimiliano Giovanetti, Claudia Federica Petrella, Liliana Oricchio Vallasciani. Prod. Camelia, ROMA. IN TOURNÉE Alexandre Dubois de la Patèlliere è il poco più che quarantenne figlio del regista Denys, scomparso a 92 anni dopo una vita al piano nobile dell’intrattenimento (ricordiamo il film Tempo di Roma del 1962, sceneggiatura di Diego Fabbri, starring Charles Aznavour, Arletty, Marisa Merlini e l’aristocratico scrittore Gregor von Rezzori, cinefilo militante che dalla sua esperienza d’attore trasse il gustoso libro Morti al loro posto); con il coetaneo Matthieu Delaporte ha scritto la commedia neoboulevardier Le Prénom, successo anche cinematografico francese del 2012. Una cena in famiglia, fratello e sorella con i rispettivi partner e l’amico di una vita, atmosfera familiare, rapporti che sembrano solidi e sereni, l’annuncio dell’imminente nascita di un bambino e il nome da scegliere per il nascituro. Tutto sembra perfetto. Eppure, una butade, il futuro padre butta lì un nome per il nascituro, “inconsueto” e portatore di una storia infausta, come Adolphe, e l’equilibrio va in frantumi, emergono ruggini mai confessate. È il caos. Commedia alla parigina, come dire Arlequin bourgeois. Nel rituale teatrale che declina in forma bistrot il tema Expo food on stage, tema conduttore anche del numero della nostra rivista. Questa versione italianizzata, anzi, romanizzata, diretta dal capitano di lungo corso Maurizio Micheli, di alta scuola simonettiana (citiamo la sua indimenticabile interpretazione di Mi voleva Strehler) della cena borghese delle beffe, protagonista Sabrina Ferilli, affiancata dal regista stesso e da Quartullo, affronta e supera egregiamente la severa prova della piazza milanese. È un gustoso patè alla carbonara, aromatizzato dalle spezie retrò conservate sottovuoto dall’era del boom, ora più rimpianta che vituperata. Piatto teatrale difficile e delicato che la Ferillona porge con la sua travolgente comunicativa scenica. Le fa ala una batteria di cucina teatrale professionale, competente, brillante. Da citare l’ambientazione scenografica appropriata, che non dà mai la sensazione di assistere al set di una sit com. O di una soap opera al sapone di Marsiglia. Niente da eccepire dunque: gradire il genere, gustoso nel suo genere. Fabrizio Sebastian Caleffi

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Jannuzzo playboy sedotto dall’ereditiera bruttina LEI È RICCA, LA SPOSO… E L’AMMAZZO, di Mario Scaletta. Regia di Patrick Rossi Gastaldi. Scene di Salvo Manciagli. Costumi di Dora Argento. Con Gianfranco Jannuzzo, Debora Caprioglio, Antonella Piccolo, Claudia Bazzano, Antonio Fulfaro, Cosimo Coltraro. Prod. Compagnia Molière, ROMA. IN TOURNÉE Cosa accade se un miliardario gaudente si accorge improvvisamente di aver sperperato il suo denaro e non ha nessuna intenzione di cambiare vita? Se è poi uno scapolo d’oro, come Henry, non gli resta che cercare un matrimonio di interesse con una ricca, anche se goffa, ereditiera. La commedia Lei è ricca, la sposo… e l’ammazzo!, ispirata al racconto di Jack Richtie, da cui nel 1971 Elaine May trasse un film, dov’era protagonista insieme a Walter Matthau, è stata ora adattata da Mario Scaletta, che si concentra solo sul nucleo centrale della vicenda. La donna scelta da Henry per il suo piano è Albertina, interpretata da Debora Caprioglio, credibile nell’isolita veste, per lei, della bruttina, nascosta dietro grandi occhiali e abiti antiquati, imbranata e con la passione per gli insetti. Anche Jannuzzo si misura con un personaggio burbero e scorbutico, diverso dal suo clichè. Per conquistare Albertina non si risparmia, finge di non essere turbato dagli insetti da lei studiati, e si butta a capofitto con ironia nella divertente scena in cui cerca di rimanere impassibile, mentre un ragno enorme gli si è infilato sotto i vestiti. Ma la sua maschera di scorbutico non dura a lungo e presto si lascia andare a momenti di inaspettata tenerezza e preoccupazione per la moglie. La regia di Patrick Rossi Gastaldi attribuisce il giusto ritmo alla commedia che, a parte qualche birignao di troppo, diver te anche grazie ai diver tenti sketch degli altri personaggi: la cameriera di Henry (la bravissima Antonella Piccolo) cerca di aiutarlo contro i creditori, il mafioso, da cui si era fatto prestare denaro (Cosimo Coltraro), l’avvocato di Albertina (Antonio Fulfaro) contrario al matrimonio la inse-

gue addirittura ingoiando le fedi nuziali, l’amica, che li ha presentati (Claudia Bazzano) e che sperava di essere la prescelta. L’happy end è garantito e il giallo si tinge inevitabilmente di rosa. Albarosa Camaldo

Per sorridere anche di un amore molesto OSPITI, di Angelo Longoni. Regia di Angelo Longoni. Scene di Mario Cavacchioli e Tiziana Massaro. Con Cesare Bocci, Eleonora Ivone, Marco Bonini. Prod. Pragma, ROMA. IN TOURNÉE Con Ospiti, Angelo Longoni parla in modo ironico dell’amore, sorridendo anche dei comportamenti deviati e persino dello stalking. E per farlo, l’autore, anche regista dell’allestimento teatrale, dirige un terzetto di attori dinamici e divertenti. La scena si svolge a casa di Leo, interpretato da Cesare Bocci, marito separato, in difficoltà economica, in cerca di una nuova sistemazione in un appartamento in affitto, dove vive tra gli scatoloni, isolandosi da tutto e da tutti. Per uno strano gioco del destino irrompe nella sua casa la vitalissima Sara (Eleonora Ivone) in fuga dal suo ex fidanzato Franco (Marco Bonini). Leo accoglie Sara: lei lo smuove dal suo negativismo e gli fa incontrare nuova gente e naturalmente lo fa innamorare di sé, quando sul più bello Franco li scopre e inizia a minacciarli, cercando di farsi perdonare da Sara la sua irruenza. Il finale è a sorpresa. Singolare è l’ironia con cui vengono proposte le battute anche quando toccano temi scottanti o drammatici. Mentre i tre attori recitano, con un ritmo incalzante, emergono le problematiche relative al modo in cui alcune persone vivono l’amore: Franco ama Sara in modo irrazionale, comportandosi come un bambino che crede di annullare il male compiuto, chiedendo perdono; Sara, anche se con apparente frivolezza, spiega come sia difficile liberarsi di un amore ossessivo che rovina la vita. Eleonora Ivone, che recita mentre fa ossessivamente ginnastica, spiega come una donna sia obbligata a tenersi sempre in forma se vuole continuare a lavorare nel difficile mondo dello spettacolo. Ogni battuta acquista leggerezza, anche quando parla della concorrenza


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spietata fra attrici, dei problemi economici dei separati o del dramma dello stalking. Si esce con il sorriso sulla bocca anche se è un sorriso amaro. Albarosa Camaldo

Due fratelli alla prova di una scelta impossibile DALL’ALTO DI UNA FREDDA TORRE, di Filippo Gili. Regia di Francesco Frangipane. Scene di Francesco Ghisu. Luci di Giuseppe Filipponio. Musiche di Jonis Bascir. Con Massimiliano Benvenuto, Ermanno De Biagi, Michela Martini, Aglaia Mora, Matteo Quinzi e Barbara Ronchi. Prod. Progetto Goldstein, ROMA. Nel mare piatto della drammaturgia italiana, capita di incontrare un piccolo gioiello. È il caso di Dall’alto di una fredda torre. Siamo nel solco della tradizione, nel governo dell’eccellente teatro di prosa che aggiunge ulteriore linfa al racconto per scene di uno spaccato contemporaneo, senza dimenticarsi, però, di mettere in crisi quella certezza recitativa che si appoggia alla battuta. Ambiente di famiglia, due figli intorno ai trent’anni e genitori ancora nel pieno delle loro energie, contesto borghese emancipato e solidale, è possibile che abbiano già superato il livore del conflitto generazionale oppure ne sezionino con intelligenza affettiva il rimosso. Una sera come tante, e altre ne seguiranno consumando pasti, bevendo caffè, ritrovandosi a capire quale scelta affrontare, veniamo a conoscenza che entrambi i genitori sono affetti da una rara malattia e soltanto uno potrà salvarsi grazie alla donazione di midollo di uno dei figli. Ecco che allora si amplificano gli ambienti, mettendo a fuoco il particolare, sezionando gli animi nelle loro sferzate di ira o di compassione, vagliando le due possibili soluzioni ventilate dai medici. È un susseguirsi concatenato di opzioni che spostano l’asse sull’uno o sull’altra come possibilità di vita. Così la scatola scenica è camera da pranzo, casa-rifugio dei fratelli, stanza d’ospedale, grumo di dolore, ricerca di una lucidità impossibile laddove la vita di uno dipende dalla vita dall’altra. Il testo è perfetto, meccanismo a orologeria che progredisce

per innesti di moti d’animo, costruisce l’attesa di una possibilità ma si inabissa pian piano verso l’empasse, verso quella adultità che rifugge il gesto responsabile: per questo è una tragedia mozza. Ed è la regia di Frangipane che orienta un gruppo di attori in sincrono con quella distonia esis tenziale. Riesce a r ender e la “rappresentazione” più sospesa, quasi metafisica, spostandone i quadri in cornici cinematografiche efficaci e dove il lavoro attorale acquista una credibilità coerente. Paolo Ruffini

Aspettando gli zombi con Timpano e Frosini ZOMBITUDINE, testo, regia e interpretazione di Elvira Frosini e Daniele Timpano. Scene e costumi di Alessandra Muschella. Luci di Omar Scala. Prod. Compagnia Frosini/Timpano, ROMA - AmnesiA vivacE, Kataklisma, ROMA. IN TOURNÉE Chiusi dentro a un teatro. Mentre fuori piove un mondo freddo. Dove gli zombi hanno preso il potere e si muovono all’assedio. C’è da resistere su quel palco. C’è da sparare, ribadire la propria natura, unirsi per fingersi più forti. Cliché da film horror. Solo che invece che ritrovarsi bloccati in un supermercato o in qualche villetta sperduta, questa volta siamo in platea, in compagnia della coppia Timpano/Frosini, mentre una massa di non-morti vuole cenare con i nostri avambracci. Come dire: la situazione non è delle più rosee. Bellina la metafora da cui muove il lavoro, quasi un’evoluzione della “platea di morti” contro cui inveiva Carmelo Bene. Ora che siamo pochi e in una riserva indiana, meglio spostare il nemico (l’omologazione? la rassegnazione? i fascisti?) all’esterno. L’inferno sono gli altri. Il problema è che Zombitudine come rivendicazione identitaria-teatrale rimane deboluccia. Idem a leggere il tutto in chiave generazionale, coinvolgendo i ragazzi perduti fra i venti e i quarant’anni, con tanto di stilettata al mondo social. Una volta trovato il simbolo infatti, Timpano/Frosini faticano intorno a una drammaturgia che s’incaglia sul tema dell’attesa. Ispirazione nobile, potenzialmente gonfia d’inquietudine e ramificazioni esistenziali. Ma che di

ORLANDO/LUCHETTI

Orlando torna in cattedra ne La scuola di Starnone LA SCUOLA, di Domenico Starnone. Regia di Daniele Luchetti. Scene di Giancarlo Basili. Costumi di Maria Rita Barbera. Luci di Pasquale Mari. Con Silvio Orlando, Marina Massironi, Vittorio Ciorcalo, Roberto Citran, Roberto Nobile, Antonio Petrocelli, Michetta Farinelli. Prod. Cardellino srl, ROMA. IN TOURNÉE In un periodo in cui si parla tanto di “buona scuola”, Silvio Orlando torna a interpretare in teatro il professore di lettere idealista, che cerca di valorizzare ogni studente. Da una precedente versione teatrale, con il titolo Sottobanco, viene anche il film cult degli anni Novanta, con gli stessi protagonisti: Daniele Luchetti, Domenico Starnone e Silvio Orlando. Anche se ora il registro di carta degli insegnanti è sostituito da quello elettronico, le dinamiche burocratiche e le liti tra colleghi per la promozione o la bocciatura dei ragazzi sono sempre le stesse, incluso un consiglio di classe di fine anno nella palestra, poiché la sala professori è inagibile. Nella giornata in cui si svolge lo scrutinio viene proposta dagli ottimi interpreti una carrellata di docenti caratterizzati in modo grottesco, ma partendo, purtroppo, da situazioni reali: Antonio Petrocelli è il professore che svolge anche un secondo lavoro e si dà da fare con le studentesse. Maria Laura Rondanini interpreta con leggerezza l’isterica professoressa di arte che, avendo tante classi e non ricordando i nomi, utilizza le fototessere degli alunni, Vittorio Ciorcalo è il sacerdote che si lava poco, da cui tutti sfuggono anche se, preso dalle sue prediche, non se ne accorge. Roberto Nobile urla il suo disprezzo di “prof” di francese per l’ignoranza degli allievi che vorrebbe si dedicassero a coltivare i campi piuttosto che a studiare. Roberto Citran è il preside che dispensa favori in base allo “status” dei genitori degli alunni. Marina Massironi è la confusa professoressa di ragioneria che cambia i voti come cambia idea sul collega di lettere interpretato da uno straordinario Silvio Orlando. Con la sua apparente pacatezza e rassegnazione nei confronti del sistema scolastico e delle sue leggi, Orlando spazia dal comico all’intensamente poetico, racconta ora le avventure accadute durante la gita scolastica a Verona, ora descrivendo e mimando il suo alunno pluriripetente la cui unica abilità sta nell’interpretare una mosca, simbolo del disagio che vive, stando relegato in un banco e chiuso in una classe, come un moscone imprigionato che sbatte contro le finestre. Uno spettacolo pienamente riuscito e divertente nella parodia amara dell’ambiente scolastico. Bella prova di tutti gli interpreti. Albarosa Camaldo

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qualcosa va pure riempita, altrimenti fuori ci saranno pure gli zombi, ma lo spettacolo quando inizia? L’attesa per l’attesa diviene così una partitura di sketch dal consueto gusto surrealelunare: una spruzzata di provocazione, poi si abbassano i toni, si strappa una risata da cabaret, prima di correre con le pistole in pugno per vedere se arrivano ’sti zombi. Arrivassero! Mentre la coppia si fa dignitosamente da spalla uno con l’altra, registri distanti in cerca di dialogo. Nonostante la consueta esuberanza scenica di Timpano, alla fine emerge la misura della Frosini, i cui brevi monologhi sono fra i momenti più belli. Il resto lascia un po’ l’amaro in bocca. Proprio come quel finale citofonato, che non riesce nemmeno a distanziarsi dal più stanco dei film horror. Diego Vincenti

Giocarsi la vita a una slot machine FICCASOLDI, testo e regia di Rosario Mastrota. Drammaturgia di Dalila Cozzolino, Marco Foscari, Rosario Mastrota, Marco Usai. Con Dalila Cozzolino, Marco Foscari, Marco Usai. Prod. Compagnia Ragli, ROMA. Risposta alla mitizzazione dell’eroe mafioso e criminale a opera di romanzi, serial tv e cinema, Ficcasoldi della Compagnia Ragli - spettacolo patrocinato dall’Associazione Antimafia del Sud e vincitore del premio Giovani Realtà del Teatro - è il racconto di una vita ai tempi della crisi e dei videopoker. Un trattato brevissimo e ironico sul

gioco d’azzardo e sul suo legame con Stato e mafia: una corda tesa e pronta a legare la vita di una vittima incapace e complice fino a divenire soffocante cappio. Oppresso da un’economia in profonda crisi, l’uomo protagonista di questo racconto, firmato dalla regia di Rosario Mastrota (fondatore della compagnia insieme a Dalila Cozzolino), è costretto a chiudere il negozio di abiti che gestisce insieme alla compagna. Un appuntamento mancato con un fantomatico cliente in un bar, l’amicizia con il suo gestore e una luminosissima slot machine saranno i presupposti per la lenta deriva nei gironi dell’azzardo, nel luccicante inganno che scaverà nella sua vita come una moneta sulla superfice dorata di un gratta e vinci. Fino al sangue. Personaggi mentali figli dei colori sgargianti della pubblicità, incentivata e promossa da un governo in stile orwelliano, abitano lo spazio mentale e fisico dell’uomo, lo corrompono, mettono in luce la sua ingenuità e le sue debolezze, infine lo conducono inconsapevolmente nell’universo delle attività criminali organizzate. Così si diventa “ficcasoldi”, riciclatori di moneta falsa, burattini nelle mani di donne e uomini spregiudicati la cui immagine è scritta nella regola dell’inganno. Con una drammaturgia interamente costruita su ellissi temporali, che riassumono questa parabola di vita in pochi episodi significativi lasciandoli emergere su una superficie di ironia e leggerezza, Mastrota dona respiro a un universo di immagini che altrimenti cadrebbe nella retorica. I dialoghi e l’identità dei personaggi, ben interpretati da Dalila Cozzolino, Andrea Cappadona e Gianni Spezzano, contribuiscono

Ficcasoldi

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alla costruzione di un mondo in bilico tra visionarietà e cruda realtà, rendendo efficace il lavoro del regista cosentino e limpidissimo il fine dello spettacolo. Matteo Antonaci

Solitudini al femminile nella fiaba di Pommerat CAPPUCCETTO ROSSO, di Joël Pommerat. Regia di Sandro Mabellini. Con Caroline Baglioni, Cecilia Elda Campani, Riccardo Festa. Prod. Beat 72, ROMA - Centro Di Palmetta, TERNI - Città Del Teatro, CASCINA (Pi). IN TOURNÉE Chi sarebbe Cappuccetto Rosso nella realtà di oggi? Secondo Joël Pommerat, una figlia abbandonata a se stessa, invisibile agli occhi di una mamma troppo concentrata su di sé, e sola a sua volta. Nella messa in scena di Sandro Mabellini, il racconto della crescita di Cappuccetto Rosso inizia dalla richiesta di una bambina di ascoltare una fiaba, espediente utile a esplorare le solitudini di tre generazioni di donne (la figlia, la mamma, la nonna). Il racconto lasciato alla voce del narratore si sovrappone alle azioni delle due attrici, attraverso uno studio del movimento che, se a tratti richiama per contrappunto le parole con una curata pulizia dei gesti, finisce per seguirle in modo fin troppo didascalico. Il registro della narrazione cede il passo a quello interpretativo nei tre momenti di maggiore valore simbolico: il superamento della paura nell’incontro tra la bambina e il lupo, l’ingresso del lupo nella casa della nonna, e infine l’incontro tra il lupo e la ragazzina che entrerà nel suo letto, dopo avere compiuto alcune azioni (lo scioglimento della treccia, la trasformazione del mantello in lunga gonna rossa) che assumono il peso di passaggi iniziatici all’età adulta. A identificare la nonna e il lupo, interpretate rispettivamente dalla bambina e dalla mamma, sono le maschere di Chiara Amaltea Ciarelli che, nella loro semplice geometria, evocano i caratteri dei personaggi per astrazione, e contribuiscono, insieme alle luci e ai pochi elementi scenici, a sottolineare i gesti delle attrici, nella dimensione poetica della fiaba. Tuttavia la forza di un testo che ha l’intento di parlare - su più

livelli - alla contemporaneità e a diverse generazioni, non emerge del tutto. L’eccessiva coincidenza tra narrazione e azione lascia poco spazio all’immaginario e il ritmo fatica a ingranare. Il riferimento all’oggi è evocato da accenni deboli (come il cellulare che distrae la madre dalla figlia) che rischiano di restare fini a se stessi. Il doppio livello del racconto si riunificherà solo alla fine. Quando la bambina è ancora in ascolto. Nella propria solitudine, non le resta che giocare con gli “attrezzi” della finzione. Francesca Serrazanetti

Il Beckett partenopeo di Lluis Pasqual FINALE DI PARTITA, di Samuel Beckett. Traduzione di Carlo Fruttero. Regia di Lluís Pasqual. Scene e costumi di Frederic Amat. Luci di Cesare Accetta. Con Lello Arena, Gigi De Luca, Stefano Miglio, Angela Pagano. Prod. Teatro Stabile di NAPOLI - Fondazione Campania dei Festival-NAPOLI Teatro Festival Italia. IN TOURNÉE Finale di partita riassume tutta la poetica beckettiana sospesa fra tragicità e caustica ironia, che non vira necessariamente verso la negazione e il pessimismo. Il drammaturgo irlandese attraverso il gioco del paradosso, condotto fino agli estremi, ha saputo trasmetterci quanto e come il silenzio possa essere assordante, e il dialogo, privato dell’azione significante, possa comunicare esaustivamente. Ha saputo restituire senso attraverso il nonsense. Il titolo rimanda a una partita a scacchi, l’inizio dell’atto unico è quanto mai singolare, scandito dalla battuta, affidata al protagonista Hamm, «Finita, è finita, sta per finire, sta forse per finire». La punteggiatura e lo scambio di battute sono una esauriente guida registica. Ma Finale di partita è anche e soprattutto un testo che si presta a una lettura metateatrale, i rimandi a un’azione drammatica sono continui. Il poliedrico regista spagnolo Lluis Pasqual, tenendone presente la complessità, firma una regia originale, che attenua la solennità e l’ossequio con cui i testi beckettiani vengono allestiti. Lo fa, con sguardo lucido e disincantato, accomunando la reazione ironica di fronte all’asso-


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luto e alle sofferenze della vita del teatro napoletano al teatro di Beckett. Lo fa con naturalezza, senza forzatura, e anche l’incedere nell’accento vernacolare diventa una conseguenza naturale. Il dispotico Hamm, un lunare e straniato Lello Arena, cieco e immobilizzato su una sedia a rotelle, non fa che tiranneggiare Clov, uno Stefano Miglio troppo monocorde, il suo figlio adottivo, relegato al rango di servitore. Fanno da contrappunto i genitori di Hamm, Nagg, un ironico e beffardo Gigi De Luca, e Nell, una poetica, tenera e svagata Angela Pagano, senza gambe e rinchiusi come rifiuti in una pattumiera. I due vecchi coniugi vagheggiano dolci ricordi e si perdono in assurde smancerie. La regia asciutta di Pasqual recupera tutta la complessità dell’universo beckettiano, senza tralasciarne l’irriverente ironia. Giusi Zippo

L’amore e le sue variazioni cinque registi per Patroni Griffi STORIE NATURALI E STRAFOTTENTI, dalle opere di Giuseppe Patroni Griffi. Un progetto a cura di Luca De Fusco. Scene di Luigi Ferrigno. Costumi di Zaira De Vincentiis. Luci di Gigi Saccomandi. D’ESTATE CON LA BARCA, regia di Luca De Fusco. Musiche di Ran Bagno. Con Gaia Aprea. IL MIO CUORE È NEL SUD, regia di Mariano Rigillo. Musiche di Bruno Maderna. Con Mariano Rigillo, Anna Teresa Rossini, Ruben Rigillo, Silvia Siravo, Antonio Izzo. In collaborazione con Teatro di San Carlo. LA MORTE DELLA BELLEZZA, drammaturgia e regia di Benedetto Sicca. Con Mauro Lamantia e Benedetto Sicca. RAGAZZO DI TRASTEVERE, drammaturgia e regia di Giuseppe Sollazzo. Con Anna Ammirati, Michele Costabile, Davide Paciolla. LA NOTTE BLU DEL TRAM, regia di Pino Carbone. Musiche di Marco Messina. Con Francesca De Nicolais e Giovanni Del Monte. Prod. Teatro Stabile di NAPOLI.

Tre sorelle in riva al mare TRE SORELLE, di Anton Cechov. Regia di Claudio Di Palma. Scene di Luigi Ferrigno. Costumi di Zaira de Vincentiis. Luci di Gigi Saccomandi. Musiche di Ran Bagno. Con Paolo Serra, Sara Missaglia, Sabrina Scuccimarra, Gaia Aprea, Federica Sandrini, Gabriele Saurio, Andrea Renzi, Giacinto Palmarini, Paolo Cresta, Alfonso Postiglione, Massimiliano Sacchi, Enzo Mirone, Enzo Turrin. Prod. Teatro Stabile di NAPOLI. Una barca arenata sulla spiaggia, un sole pallido, tre sdraio, in riva al mare sono il segno della disillusione delle sorelle Prozorov, nello spettacolo Tre sorelle diretto da Claudio Di Palma. La barca è, nelle intenzioni del regista, il mezzo per il raggiungimento di una vita altra e al contempo la sua negazione, un orientamento perduto, una identità negata. Il senso di frustrazione di Olga, Maša e Irina è ricondotto a una barca senza navigazione. La spiaggia come immagine visiva dell’orizzonte acquista il significato del traguardo fittizio dell’anima. Ma al di là del fascino visivo lo spettacolo risente di un appiattimento nella lettura dei personaggi. Cechov li concepisce perennemente in bilico tra ironia e malinconia mentre, nella lettura che ne dà Di Palma, si av-

Francesca De Nicolais in La notte blu del tram

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n occasione dei dieci anni dalla scomparsa di Giuseppe Patroni Griffi, lo Stabile di Napoli presenta Storie naturali e strafottenti, un ciclo di cinque spettacoli tratti da alcune sue opere non teatrali. Tra i registi che ne firmano gli allestimenti, oltre a Luca De Fusco, curatore del progetto, Mariano Rigillo, Giuseppe Sollazzo e i giovani Benedetto Sicca e Pino Carbone. Un incontro con lo scrittore, drammaturgo, regista napoletano, trapiantato a Roma, con il suo mondo, fatto di pathos e di struggente bellezza. Patroni Griffi privilegiò nelle sue opere, più che le storie, gli stati d’animo, le atmosfere, i sentimenti. Una scelta singolare, vista la grande produzione teatrale dell’autore, che impegna i cinque registi in un articolato lavoro per adattare alla scena il linguaggio letterario e radiofonico. Messe in scena sobrie ed essenziali, in cui a fare da padrona è la parola, che spesso vanifica la leggerezza degli umori di Patroni Griffi. In D’estate con la barca, il racconto della gita in barca di due coppie di giovani innamorati, che escono al largo per consumare il loro acerbo amore, viene rievocato da Gaia Aprea. Un racconto attraverso cui si dipanano l’allegria, le paure e gli entusiasmi dell’età spazzati via, in un battito d’ali, dal tragico epilogo della morte di Enrico. Il mio cuore è nel sud, il radiodram-

ma trasmesso dalla Rai nel 1950 si avvale dell’Orchestra del Teatro di San Carlo che esegue le sofisticate partiture di Giulio Maderna. Jazz e suggestive dissonanze fanno da contrappunto al delirio amoroso di una giovane donna, moglie e madre, rapita dal canto di un carcerato che echeggia dalle finestre sbarrate dinanzi al suo balcone. Ma l’eccessivo pathos degli attori stravolge il contrasto tra le passioni dei personaggi e la partitura musicale. Ne La morte della bellezza, Benedetto Sicca circoscrive l’azione del romanzo all’incontro pudico e appassionato tra il giovane Lihandt e l’adolescente Eugenio, facendone rivivere tutti gli ardori e le incertezze. In Ragazzo di Trastevere, tra siparietti e voce narrante, stacchetti musicali e repentini cambi di scena, prende corpo la storia di Otello, anti-eroe dei nostri giorni, bello e senza troppi scrupoli che, marito e padre, prova a sbarcare il lunario prostituendosi con ricchi omosessuali. La notte blu del tram, infine, ricorre a un taglio più onirico per raccontare la scoperta della sessualità del tredicenne Eugenio e il suo incontro con un uomo durante il tragitto in tram che lo riporta a casa. Un bianco agghiacciante, a tratti psichedelico, avvolge la scena, sprazzi di colori, restituiti dai pupazzetti gettati in terra, come segno dell’innocenza perduta. Giusi Zippo

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CRITICHE/CAMPANIA

REGIA DI CERCIELLO

Uomini e topi, le leggende nere della Napoli terremotata di Moscato SCANNASURICE, di Enzo Moscato. Regia di Carlo Cerciello. Scene di Roberto Crea. Costumi di Daniela Ciancio. Luci di Cesare Accetta. Musiche di Paolo Coletta. Suono di Hubert Westkemper. Con Imma Villa. Prod. Teatro Elicantropo Anonima Romanzi, NAPOLI - Prospet, NAPOLI. Tra i vuoti geometricamente delimitati dai pilastri di un enorme e spettrale caseggiato in rovina, improvvisamente, si palesa una figura androgina che ne ribalta le proporzioni, cosicché quello che sembrava uno spazio imponente si rivela un dedalo di anfratti semibui e privi d’aria, all’interno dei quali vive un travestito. È l’unico “inquilino” d’un palazzo squarciato dal terremoto: oltre a lui ci sono soltanto ’e surice – i topi – per i quali prova lo stesso nauseato disprezzo che gli riserva la gente “per bene”, quella che vive nelle zone di Napoli dove – diversamente da lì, i famigerati Quartieri Spagnoli – l’aria c’è e la luce pure. In slip e canottiera, con una retina che gli trattiene i capelli, in vista del travestimento serale, l’inquietante personaggio si aggira con agilità animalesca nei recessi di questo luogo malsano, raccontando vicende d’un immaginario affascinante e terrificante al tempo stesso, antico e contemporaneo, ma in ogni caso espressione del cuore pulsante della città. Fatti della storia partenopea, leggende come quelle di Salita Concordia n. 37 e del monaciello che vi dimorava, storie di veleni somministrati da una madonna celestiale per risolvere il sovraffollamento di uomini e ratti, si intrecciano con un presente sordido, privo d’anima e di memoria, cui il terremoto sembra aver inferto il colpo di grazia. Imma Villa, nel ruolo di questa proteiforme figura, è letteralmente strepitosa: la sua fisicità, i timbri della sua voce, la potente espressività del suo volto restituiscono alla perfezione il corpo, il sangue, gli umori della lingua unica e inimitabile di Enzo Moscato. Una lingua capace di scuotere nel profondo, qui valorizzata dalle sempre sorprendenti ambientazioni sonore di Hubert Westkemper, fatte di echi e di sinistri scricchiolii, dalle musiche di Paolo Coletta e dalle luci di Cesare Accetta, tutto in sintonia con la bella architettura visiva realizzata da Roberto Crea. Una regia poetica e precisa, quella di Carlo Cerciello, che per l’ennesima volta è riuscito a fare del piccolo Teatro Elicantropo un luogo incredibilmente grande, sia in senso proprio che in senso figurato. Stefania Maraucci

verte o troppa seriosità o troppa guasconeria, a discapito della leggerezza. Il fine sembra essere quello del raggiungimento di un estetismo fine a se stesso. Gli appassionati ritratti femminili prostrati alla monotona vita di provincia si affievoliscono, così come si ridimensiona l’articolata lettura che Cechov fa della dissoluzione dell’aristocrazia russa. Per non parlare della crisi dei valori della società del tempo assimilabile alla nostra. Insomma un Cechov così universale risulta alla fine troppo circoscritto temporalmente e in qualche caso quasi datato. Lo spettacolo risente, a tratti, della mancanza di una recitazione d’insieme, di una seppur debole concertazione. Molto bravi gli attori impegnati in parti minori, come Paolo Cresta nei panni di Solionyj e Alfonso Postiglione in quelli di Cebutykin. Sabrina Scuccimarra rende un po’ troppo vitale il ruolo della rassegnata Olga, mentre Federica Sandrini, nella parte della più fiduciosa delle tre sorelle, risulta troppo dimessa. Infine Gaia Aprea, sempre impeccabile tecnicamente, tradisce nel suo incedere un cliché che ha come modello ancora una volta la grande Rina Morelli. Giusi Zippo

I fantasmi del passato di Schindler-Giuffré LA LISTA DI SCHINDLER, dal romanzo di Thomas Keneally. Drammaturgia di Ivan Russo e Francesco Giuffrè. Regia di Francesco Giuffrè. Scene di Andrea Del Pinto. Costumi di Sabrina Chiocchio. Luci di Giuseppe Filipponio. Musiche di Gianluca Attanasio. Con Valerio Amoruso, Pietro Fajella, Riccardo Francia, Marta Nuti. Prod. Diana OR.I.S., NAPOLI. IN TOURNÉE Non è tanto il confronto con il celebre film di Steven Spielberg a penalizz ar e lo sp e t t ac olo La lis ta d i Schindler, con Carlo Giuffrè nel ruolo del protagonista e la direzione del figlio Francesco, quanto una drammaturgia piuttosto fragile e una chiave di lettura registica poco convincente. Ivan Russo e Francesco Giuffrè, immaginano che Oskar Schindler, ormai vecchio e stanco, sia visitato dai fantasmi del suo passato, evocati dall’interrogatorio (reale o frutto d’un delirio, annuncio di mor te?) cui lo

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sottopone un gerarca neonazista per ottenere informazioni utili a favorire la nascita d’un Quarto Reich e soprattutto a renderlo immune dagli errori che hanno determinato la caduta del Terzo. La domanda ossessiva che l’aguzzino rivolge a Schindler è sempre la stessa: perché ha scelto di rischiare la propria vita per salvare degli ebrei? Questo fantasioso e debole pretesto drammaturgico innesca un viaggio introspettivo a ritroso nel tempo dell’ex ufficiale nazista, umanamente combattuto tra i mille dubbi sul suo operato, tra la consolazione per quanto è riuscito a fare e il tormento di non aver potuto fare di più. I due piani della narrazione sono proposti in scena con due ambienti diversi, separati da un velatino: sullo sfondo il luogo dove il gerarca neonazista interroga Schindler, dominato dalla presenza di una svastica; nella parte anteriore del palcoscenico, invece, lo spazio all’interno del quale si dipanano i ricordi, con due alte recinzioni di filo spinato, cumuli di panni, scarpe e valigie che descrivono un campo di concentramento. I personaggi che riemergono dall’universo interiore di Schindler raccontano la tragedia della Shoah mimando, molto più che recitando, drammatici frammenti di vita: dalle deportazioni fino alla tragica quotidianità nei lager, esemplificata attraverso l’esperienza di due uomini e una donna, cui progressivamente viene sottratto tutto. Ma, nonostante l’impegno di tutti gli interpreti, la rappresentazione non coinvolge, la storia risulta discontinua, i dialoghi e le azioni troppo banali per un tema così dolorosamente importante. Stefania Maraucci

Bacon, canto d’amore in morte di George Dyer CARO GEORGE, di Federico Bellini. Regia di Antonio Latella. Costumi di Graziella Pepe. Luci di Simone De Angelis. Musiche di Franco Visioli. Con Giovanni Franzoni. Prod. Stabilemobile Compagnia Antonio Latella, NAPOLI. IN TOURNÉE Parigi 1971, alla vigilia della mostra parigina che avrebbe consacrato (sacralizzato con il sangue) definitivamente Francis Bacon e la sua arte, il suo mo-


CRITICHE/CAMPANIA-PUGLIA

dello-amante George Dyer si uccide nella stanza d’albergo che condivideva col pittore. Bacon lo trova morto al ritorno dall’inaugurazione. Il testo di Federico Bellini è costruito come una lettera di Bacon a George, sospesa nell’attesa di quello che sarebbe accaduto in quel tempo teatrale immaginato, immaginario, forse dipinto. La distruzione dell’uno che diviene l’arte dell’altro, la sofferenza dell’uno, il lancio risolutivo dell’altro, la negazione del primo, l’esplosione del secondo. Scarto essenziale del testo (parola più (ab)usata: schizofrenia), nato nel 2010 quando Latella era direttore del Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, inserito nel progetto dedicato ai Fondamentalismi, che prevedeva sei drammaturgie, il testo è il passaggio finale, che vede Giovanni Franzoni, attore di solida esperienza, solo in scena, compiere un transfert tra l’artista (che dovrà vivere nel successo macchiato, nella continua assenza-presenza dell’altro) e l’amico suicida. Lì rinasce la pièce, fino a quel punto forse troppo lineare, per niente scivolosa, quanto la materia richiederebbe. Il rumore di una pallina da roulette, la (s)fortuna, il caos fa da cornice, da refrain dove emergono, in pose plastiche dénudé, i volti distorti e pasticciati, urlanti e deformi di George (potremmo spingerci in un parallelo smodato con Kurt Cobain), dipinti dopo la sua morte. Bacon è il croupier e George la pallina errabonda e instabile. Tutto è simbolo cromatico, netto, chiaro (troppo, forse): l’abito candido, i fogli rosa, il vino gettato attorno al cerchio di luce che crea una gabbia invalicabile, mancanza d’accesso, di comprensione. E in quel momento l’odore acre del vino versato fa percepire l’acido della morte, l’aceto della fine che prende la gola. Trionfo, invidia, amore e morte. Un match senza vincitori: finale di partita. Tommaso Chimenti

Il Don Giovanni di Preziosi un kolossal di maniera DON GIOVANNI, di Molière. Traduzione e adattamento di Tommaso Mattei. Regia di Alessandro Preziosi. Scene di Fabien Iliou. Costumi di Marta Crisolini Malatesta. Luci di Valerio Tiberi. Musiche di Andrea Farri. Con Alessandro Preziosi, Nando Paone, Lucrezia Guidone, Roberto Manzi,

Matteo Guma, Daniele Paoloni, Barbara Giordano, Daniela Vitale. Prod. Khora Teatro, NAPOLI - Tsa Teatro Stabile d’Abruzzo, L’AQUILA.

Caro George (foto: Brunella Giolivo)

IN TOURNÉE Il Don Giovanni di Alessandro Preziosi propone una recitazione da manierismo accademico in uno spazio tecnocinematografico, con tutto il campionario di mossette, di sorrisi forzati, d’ampi gesti di mano o di volteggi in punta di piedi, mentre un continuo di proiezioni accompagna la recita: gli alberi dorati del bosco, il mausoleo del Commendatore, le arcate cittadine, l’interno casa del protagonista. Una vecchia maniera di rendere il copione in un contenitore spaziale innovativo senza ragione effettiva si aggiunge alla mancanza di approfondimento critico sul personaggio di Molière. Chi è il Don Giovanni di Preziosi? Verrebbe da dire: solo un prestante amatore, futile nei pensieri e negli atti, votato a un ateismo ostinato e di protesta. Punta, Preziosi, proprio sulla questione religiosa, moltiplicando i segni celesti (i tuoni) e accentuando la fede di Sganarello/Nando Paone per giocare con il contrasto tra il difensore e il negatore di Dio. Così facendo rende il seduttore un portatore di verità e di carattere, fieramente in lotta contro ogni forma di ipocrisia. Ma sappiamo – basta aver letto Cesare Garboli – che Don Giovanni non è un personaggio ma un “carattere”, che non ha spessore e che il suo volto è una maschera. Invece Preziosi non dà peso alle battute metateatrali del testo, sporcato da accenni dialettali o da vaghe rimanenze francofone, e si dedica piuttosto a comporre una partitura estetica, fatta di incontri leziosi e danzanti, di duelli di spada resi in slow motion, di moraleggianti tirate in ribalta. Rende fin troppo carnale, Preziosi/Don Giovanni, il suo ultimo incontro con Donna Elvira; fa proprie le frasi del padre - nel quinto atto - riducendolo a una sagoma da retropalco; inventa per sé un finale da kolossal filmico nel quale, sparito in assito, riappare come immagine accanto a quella della statua di pietra: urla, si dispera, poi prende fuoco. Da lui divampa l’incendio, effimero, che lascia intatti gli arredi e libero il servo di dire l’ultima battuta prevista: «La mia paga!». Applaude, e molto, il pubblico, ma resta l’idea d’aver perso l’occasione per un buon Molière. Alessandro Toppi

Coe, nessun dorma nella casa del sonno NOTTURNO - LA RAGIONE AL SONNO, di Filippo Renda, liberamente tratto da La Casa del Sonno di Jonathan Coe. Regia di Filippo Renda. Scene e costumi di Eleonora Rossi. Luci di Marco Giusti. Musiche di Patrizia Rossi. Con Alice Redini, Filippo Renda, Irene Serini. Prod. Crasc, NAPOLI. IN TOURNÉE Inghilterra, anni Novanta. Ecco l’ambientazione di Notturno - La ragione al sonno, di Filippo Renda, dal romanzo di Jonathan Coe. Nell’antico maniero a strapiombo sulla scogliera, il destino fa ritrovare alcuni di coloro che lo avevano frequentato, da studenti, ai tempi del college. Ora l’edificio è una clinica specializzata in disturbi del sonno. È facile presagire che i fili delle loro vite torneranno a intrecciarsi sotto il segno del meccanismo cerebrale, indispensabile e ancora poco esplorato, che ci spinge a dormire. O ci tiene svegli. Si racconta di narcolessie e insonnie, di individui vulnerabili e devastati da turbe notturne. La chiave psicanalitica apre un varco nei loro comportamenti bizzarri. E al lettore, pagina dopo pagina, lo scrittore Jonathan Coe mette in mano via via gli indizi per far scattare, alla fine, la serratura della vicenda. Da un romanzo inglese che ha avuto successo anche in Italia, La casa del sonno (1997), nasce uno spettacolo complesso e costruito con cura, che non vuole competere con il respiro narrativo dell’opera originale, ma piuttosto sfilare una delle sue storie e raccontarla in forma di graphic novel, grazie a la-

voro d’attore e illustrazione animata (quest’ultima vive sul leggero velatino che separa scena e platea). Notturno - La ragione al sonno è frutto del lavoro di drammaturgia e regia di Filippo Renda che ha ritagliato parti del romanzo di Coe e – affiancato dalla scenografa Eleonora Rossi e dalle attrici Alice Redini e Irene Serini – punta a creare atmosfere da giallo psicologico, così care alla tradizione del thriller inglese. Cui si aggiunge un’assai contemporanea osservazione sull’identità di genere, su distinzioni così labili tra maschile e femminile, che trovano nella musica transgender di Antony and the Johnsons il proprio sigillo. Come se fosse uno dei casi clinici narrati da Oliver Sacks, a cui si aggiunge la beffarda visione del potere che Pinter aveva messo nel manicomio di La serra, questo Notturno offre occasioni per riflessioni non banali sul ruolo potente, e in questo caso anche maligno, che il sonno svolge nelle nostre vite. Altro che bacio della buona notte. Roberto Canziani

L’urgenza teatrale di sei anime in pena SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE, di Luigi Pirandello. Regia di Gabriele Paolocà. Con Michele Altamura, Nicola Borghesi, Riccardo Lanzarone, Paola Aiello, Natalie Norma Fella. Prod. VicoQuartoMazzini, TERLIZZI (Ba) Teatro Kismet OperA, BARI. IN TOURNÉE Di Sei personaggi in cerca d’autore VicoQuartoMazzini coglie la dimensione cerebrale, ossessiva, incantatoria: i personaggi avanzano sul palco vuoto,

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CRITICHE/PUGLIA-CALABRIA

vera e propria stanza mentale dell’autore, imponendosi come s’impongono i pensieri fissi, le parvenze irreali. Non ci sono gli attori, non si prova Il giuoco delle parti, non s’affronta il tema (caro a Pirandello) del rapporto tra l’opera pensata e l’opera realizzata. Siamo piuttosto nello studiolo delle novelle, in cui l’autore è solito ricevere le anime in pena, rimaste senza scrittura e che gli chiedono d’essere messe su pagina. «Il dramma è in noi» gridano, aggiungendo «Vogliamo vivere!»: così conquistano l’assito, metro dopo metro, occupandolo interamente. Di contro questo giovane autore in disarmo, stanco di una passione artistica che non dà soddisfazione e guadagno e che, per sbarcare il lunario, ha rinunciato al teatro per distribuire volantini vestito da hamburger. Ecco il tema scovato da VicoQuartoMazzini, dunque: l’urgenza teatrale, il bisogno - nonostante tutto - di andare in scena, di confessare la propria vicenda, di dire e di dirsi venendo guardati e ascoltati. Ne viene fuori uno spettacolo d’ottima fattura complessiva, pieno di suggestioni e trovate: i fogli del testo che, posti in ordine, diventano una catena; il piccolo teatrino nel teatro, perché sia recitato l’incontro incestuoso tra padre e figliastra; il fascio di luce orizzontale nel quale - come incubi parlanti, «sospesi e smarriti» - i personaggi esprimono tutto ciò che hanno da esprimere. Sia chiaro, vi sono anche scelte meritevoli di ripensamento (Madama Pace, una sorta di Renato Zero in panta fluo; l’orpello di Mi votu e mi rivotu, cantata all’unisono), ma la compagnia mostra d’aver bene inteso l’opera, d’averla approfondita cercandone un senso ulteriore, una ragione che ne motivasse la ripresa. Buona la prova degli attori; eccellenti gli effetti di luce, capaci di valorizzare la lettura larvale e onirica voluta da Gabriele Paolocà. Alessandro Toppi

Quando l’amore maschile è malattia di dominio POLVERE-DIALOGO TRA UOMO E DONNA, di Saverio La Ruina. Regia di Saverio La Ruina. Luci di Gennaro Dolce. Con Saverio La Ruina e Jo Lattari. Prod. Scena Verticale, CASTROVILLARI (Cs). IN TOURNÉE

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Armato di una rara sensibilità teatrale, da anni Saverio La Ruina esplora le ferite del femminile. A chiudere un’ideale trilogia, con Dissonorata e La Borto, ecco ora arrivare Polvere, che sposta l’attenzione sull’uomo, o meglio sui meccanismi di potere che regolano la coppia, a qualsiasi latitudine sociale, culturale ed economica. In scena ci sono un lui e una lei, di loro intuiamo lo stretto necessario: colti, benestanti, viaggi, libri, feste, gallerie d’arte. Li conosciamo all’inizio della loro storia, di ritorno da un party. Dovrebbe essere un momento perfetto, ma è subito chiaro che qualcosa non va. Lui pretende spiegazioni assurde, analizza maniacalmente i comportamenti di lei, la incalza con domande, battute, illazioni. Lei ride, innamorata e solo un po’ stupita, ma la trappola è già scattata. Vischiosa e invisibile. Perché, prima delle botte, della violenza fisica, degli stupri, c’è qualcosa che arriva da lontano. Un’ossessione tut ta maschile che fa dell’amore una patologia di dominio, una dimostrazione di forza in compensazione di un fragilità che non si vuole ammettere. A questo maschio, malato di se stesso e degli archetipi di cui non si è liberato, La Ruina offre la temperatura di un’interpretazione tutta dettagli e sfumature in sottrazione, piccoli scatti e silenzi ostili in una dinamica a due, dove l’esordiente Jo Lattari trova il giusto registro con istintiva naturalezza, mentre la scena – un tavolo, due sedie, un quadro luminoso – sembra stringersi, chiudendosi progressivamente intorno al meccanismo di affermazione di lui che si nutre dell’erosione dell’identità di lei. Qualcuno può rimpiangere la rigogliosa teatralità della lingua di Dissonorata o Italianesi, ma Polvere è un’altra cosa. Forse più fragile, ma segno di una volontà di ricerca coraggiosa e precisa. A cominciare dal testo solo all’apparenza semplice, in realtà dispositivo micidiale per un crescendo di tensione in accumulo, qualcosa di minaccioso che avanza nella ripetizione che a ogni scena aumenta il suo carico di angoscia, insinuandosi nelle pieghe della quotidianità, del gesto intimo e del colloquio domestico. Uno spettacolo di equilibri sottili e minimalismo quasi nordico. Sara Chiappori

RIPOLL/LLORENTE

La tragedia dimenticata degli spagnoli di Mauthausen EL TRIANGULO AZUL, di Laila Ripoll e Mariano Llorente. Regia di Laila Ripoll. Scene di Arturo Martín Burgos. Costumi di Almudena Rodríguez Huertas. Luci di Luis Perdiguero. Musiche di Pedro Esparza. Con Manuel Agredano, Elisabeh Altube, Marcos León, Mariano Llorente, Paco Obregón, José Luis Patiño, Jorge Varandela. Prod. Micomicón Centro Dramático Nacional (Spagna). IN TOURNÉE Il triangolo azzurro, quello che nel campo di concentramento di Mauthausen indicava gli apolidi, marchiò gli oltre settemila spagnoli dissidenti del regime di Franco, internati tra i primi e ultimi a uscirne in meno di duemila. Una vicenda poco nota, che Laila Ripoll e Mariano Llorente riportano all’attenzione attraverso questo spettacolo. Per non dimenticare la tragedia e il coraggio di alcuni deportati che riuscirono a sottrarre le foto che mostravano l’orrore di quel luogo, facendone prove usate a Norimberga. Una vicenda riproposta attraverso la strada del cabaret grottesco, dell’unione tra satira, mediata dalla musica, e dramma. Gli spagnoli internati riuscirono, infatti, nel Natale del 1942, a farsi autorizzare la realizzazione di uno spettacolo teatrale tra quelle mura. Un fatto reale che diviene strumento di racconto, trasfigurando anche l’arte visiva nelle note e divenendo mezzo per descrivere l’indescrivibile. Un elemento che non prende però mai il sopravvento, ma punteggia una rappresentazione caratterizzata da un ritmo molto alto, con l’alternarsi di sentimenti, situazioni, fatti tutti narrati, anni dopo, dal responsabile del laboratorio fotografico di Mauthausen. Sentimenti che non hanno bisogno di enfasi, anche nei momenti più coinvolgenti (come quello della lettera di un prigioniero alla moglie). Il tono rimanda a Brecht, con in più l’utilizzo di una indovinatissima scelta scenografica, che unisce l’uso sapiente di luci a foto e frammenti video, che sembrano muoversi all’unisono per rendere il dramma. In alcuni casi forse qualche sottolineatura maggiore non avrebbe guastato da parte degli interpreti (da citare soprattutto l’intensa prova dello stesso autore Llorente, nei panni dell’ufficiale tedesco), come pure nel testo, che a volte crea qualche stacco nella storia. Ma sono solo dettagli, in uno spettacolo (proposto per la prima volta in Italia nell’ambito del Globo Teatro Festival di Reggio Calabria), necessario e dall’importante valenza storica e sociale. Paola Abenavoli El triangulo azul (foto: MarcosGpunto).


CRITICHE/SICILIA

Irridente e ribalda è la Sicilia di Tempio IN PETRA, da Domenico Tempio. Drammaturgia e regia di Nino Romeo. Scene di Gabriele Pizzuto. Costumi di Rosy Bellomia. Musiche di Franco Lazzaro. Con Nino Romeo, Graziana Maniscalco, Saro Pizzuto, Rossella Cardaci, Pietro Cucuzza, Anna Di Mauro, Eloïse Pisasale, Sara Castrogiovanni, Gabriele Cutispoto, Alfonso Lauria, Ennio Nicolosi. Prod. Centro Teatrale Siciliano, CATANIA. Inafferrabile protagonista del Settecento illuminista catanese, poeta tra i più sorgivi e rivoluzionari del suo tempo, Domenico Tempio occupa da più di un trentennio l’immaginario di Nino Romeo. Che per l’occasione - e in attesa di un più ampio progetto di valorizzazione della Carestia, venti canti dedicati agli ultimi anni del secolo ne recupera un poemetto erotico, L’imprudenza o Lu Mastru Staci, in cui si narra dell’insana passione di donna Petronilla, virtuosa consorte del notaio don Codicillu, per lo smisurato membro del materassaio Mastru Staci, chiamato a rinverdire l’imbottitura del talamo nuziale, e non solo. La «trasfigurazione scenica» di Romeo s’intride del dialetto lussureggiante, immaginifico, torbido e sanguigno messo in scena dai versi di Tempio; e trasforma il profilo preraffaellita della Maniscalco in una maschera grottesca, espressionista, mappa che descrive l’artificio dell’inganno fino alla (ri)scoperta del piacere. Intorno a una scala, turris eburnea in cui si cela la sposa infedele, ma anche simbolo fallico che svetta al centro della scena, ruota tutta un’umanità - chiassosa irridente ribalda - che sorride alla vita, dopo il terribile terremoto del 1693, ma canta anche le miserie di una quotidianità ferita e bistrattata. Nell’intermittente barbaglìo di turchese e di topazio brilla un piccolo, strepitoso manipolo di vanniaturi e scalpellini: controcanto volto a restituire le voci di una città, le grida dei venditori, il battito di una ricostruzione urbana in progress con le bàsole di pietra lavica, musica concreta memore della folgorante carica espressiva della Nuova Compagnia di Canto Popolare di De Simone. Paro-

le come pietra, suoni di pietra s’intrecciano in una partitura della memoria, nel vivido ritratto di una città, dei suoi riti e dei suoi miti, dei suoi sogni e dei suoi - tuttora insoddisfatti - bisogni. Giuseppe Montemagno

Una donna sola contro mafia e potere UN ERRORE UMANO, scritto diretto e interpretato da Gigi Borruso. Scene di Roberto Lo Sciuto. Luci di Nino Annaloro. Video di Alice Rispoli/ Homelette. Con Serena Rispoli. Prod. Teatro Biondo Stabile di PALERMO Transit Teatro, PALERMO. La storia di Lia Burgo, protagonista di Un errore umano scritto e diretto da Gigi Borruso, coniuga in sé tante vite e storie vere, delle tante mogli di mafiosi che hanno avuto il coraggio di reagire a un mondo fatto di violenza e orrore che le riduce al silenzio. Ma il racconto di Lia descrive così puntualmente il malaffare da sembrare allucinato, folle: così la verità diventa, pirandellianamente, una gabbia e la donna viene fatta credere pazza con la connivenza dei medici. Come un animale in gabbia, la donna, una convincente Serena Rispoli, si dimena, proclamando la propria verità, con la furia, il delirio di chi combatte contro qualcosa più grande di lei, coniugando l’allucinazione e la lucidità, la disperazione e la tenerezza. A farle da contrappunto il responsabile della clinica, Gigi Borruso, impeccabile simbolo di quel potere corrotto dalla facciata sfarzosa. I suoi movimenti appena accennati e l’espressione plastica e spigolosa del viso imprimono al personaggio una forza fatta di controllo, violenza subdola, sopraffazione ben nascosta da un’apparenza di rispettabilità. L’uomo viene sommerso dal racconto della donna a cui hanno tolto i figli e la libertà. Tra i due s’instaura un energico gioco di forze e tensioni, di lotte e rincorse, di violenze e ribellioni, dove quello che conta non è la verità, ma ciò che appare. Durante tutto il tempo dello spettacolo si prepara una messa in scena in onore della Madonna di Loreto (per i mafiosi fede, devozione e crimine si mischiano in un tutt’uno). È a quel punto che Lia si riappropria della scena e finisce per strappare la

CESCON/ANDÒ

Americani, brava gente ma non troppo nel disincanto del nuovo millennio GOOD PEOPLE, di David Lindsay-Abaire. Traduzione di Roberto Andò e Marco Perisse. Regia di Roberto Andò. Scene e luci di Gianni Carluccio. Costumi di Ursula Patzak. Musiche di Carlo Boccadoro. Con Michela Cescon, Luca Lazzareschi, Esther Elisha, Loredana Solfizi, Roberta Sferzi, Nicola Nocella. Prod. Teatro Stabile, CATANIA - Napoli Teatro Festival, NAPOLI - Zachàr Produzioni di Michela Cescon, ROMA. IN TOURNÉE Per carità, sono tutte persone per bene. Lo è Stevie, che licenzia Margie dal suo lavoro di cassiera in uno scalcinato supermercato della periferia di Boston: ha collezionato troppi ritardi, e poco importa che lo abbia fatto per accudire la figlia ritardata. E lo è anche Dottie, costretta a prendere in seria considerazione l’ipotesi di sfrattarla, se – come è prevedibile – non riuscirà più a pagarle l’affitto. Ma lo è soprattutto Mike, ora che è diventato un endocrinologo di successo ed è dunque pronto a rinnegare, con un torbido passato nel Lower End, anche un’estate trascorsa con Margie. Profuma di Williams e di Miller la stringente scrittura drammaturgica di Lindsay-Abaire, un Pulitzer per il teatro conquistato nel 2007 con Rabbit Hole, al suo debutto italiano con un testo che racconta la crisi del nuovo millennio negli States. Al posto degli anni della Guerra fredda, tuttavia, qui un velo di arguto, ironico disincanto ammanta la critica all’uguaglianza dei punti di partenza, autentico pilastro dell’ideologia liberal messo in discussione dalla quotidianità della protagonista, dal suo desiderio di sfuggire alla stanca routine d’interminabili serate al bingo per trasferirsi «dove vive gente danarosa». È un congegno perfettamente oliato, quello innescato dal drammaturgo americano, di cui Andò sposa la schiettezza e l’assenza di retorica, all’interno di un’impaginazione scenica di sicura funzionalità, ma che diventa anche stringente metafora di una società liquida, in continuo, apparente mutamento. Per questo Lazzareschi compone il ritratto di Mike in maniera esemplare, «appuntato con gli spilli», algido e compassato; per questo è altrettanto attendibile la mercuriale, vivida Margie di Cescon, che ne mette a soqquadro le precarie dinamiche familiari e professionali. «Passivamente aggressiva», diventa infatti icona di una ribellione abortita ancor prima di ottenere risultati: «Sto scherzando» è il commento con cui Margie si congeda dagli amici dell’upper class, dopo averne fatto franare le fondamenta. Fuori, la miseria può attendere. Giuseppe Montemagno

Good People (foto: Salvatore Pastore).

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CRITICHE/SICILIA-SARDEGNA

L’onorevole

maschera a se stessa e a quel mondo di falsità. Una riflessione anche sul teatro come disvelamento della persona e della verità. Filippa Ilardo

Sciascia, quando il potere corrompe l’anima L’ONOREVOLE, di Leonardo Sciascia. Regia di Enzo Vetrano e Stefano Randisi. Con Laura Marinoni, Stefano Randisi, Enzo Vetrano, Antonio Lo Presti, Giovanni Moschella, Alessio Barone, Angelo Campolo, Aurelio D’Amore, Aurora Falcone. Prod. Teatro Biondo Stabile di PALERMO Emilia Romagna Teatro Fondazione, MODENA - Associazione Diablogues, IMOLA (Bo). IN TOURNÉE L’onorevole, uno dei pochi testi teatrali di Leonardo Sciascia, è un’opera profetica che indaga, con quel carattere razionale-illuministico proprio della scrittura dell’autore siciliano, i meccanismi di potere e l’origine degli intrecci tra politica, Chiesa e mafia. Vetrano e Randisi lo mettono intelligentemente in scena, facendone uno spettacolo levigato, del tutto coerente con le premesse estetiche e il rigore di pensiero dell’autore. Frangipane è un professore di latino che fa della cultura un modello di vita improntato a rettitudine morale e dignità. Tutto cambia quando accetta di candidarsi al Parlamento, la sua ascesa politica è associata a uno spregiudicato sprofondamento morale. Collusione, corruzione, traffici e malaffare imbrigliano l’uomo in una spirale di degenerazione. Scritto negli anni Sessanta, ambientato all’indomani della guerra, tutto sembra descrivere la

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cronaca più recente. Il professore di Enzo Vetrano ha una misura che degrada lentamente dal moralista intransigente, al cinico uomo di potere. Vittima di questo cambiamento è la moglie, interpretata (superbamente) da Laura Marinoni, che non cede alle lusinghe del potere, non si fa affascinare da soldi e comodità. Figura donchisciottesca, ricorda al marito le parole di Cervantes che lui citava a memoria, invano tenta di far rivivere l’ombra di quell’uomo che sognava una società giusta, dai valori umanistici. Una donna vinta tra uomini vincenti, chiusa in una casa di cura, in una lucidissima follia. A raccoglierne la confessione è Monsignor Barberino, affettato e simulatore, interpretato da Stefano Randisi, mentre una corte di personaggi (Giovanni Moschella, Aurora Falcone, Aurelio D’Amore, Antonio Lo Presti, Alessio Barone e Angelo Campolo) rappresenta una società alla deriva. «Un semplice discorso su cose maledettamente complicate», così Sciascia definiva la sua scrittura, lo stesso potremmo dire noi di questo spettacolo ragionato, disincantato, pieno di sano scetticismo. Filippa Ilardo

Tragiche storie di sesso in una società degradata IO MAI NIENTE CON NESSUNO AVEVO FATTO - BATTUAGE, testo e regia di Joele Anastasi. Costumi di Giulio Villaggio. Luci di Davide Manca. Musiche di Alberto Guardasi. Con Joele Anastasi, Federica Carruba Toscano, Enrico Sortino, Simone Leonardi. Prod. Vuccirìa Teatro, PALERMO. IN TOURNÉE

Io mai niente con nessuno avevo fatto inscena la morte, già avvenuta, di un omosessuale delicato e ingenuo. Il ricordo determina il ritorno. Tre personaggi (il protagonista, la cugina di lui, il suo unico amante) per uno spazio tripartito in orizzontale (destra/ centro/sinistra) mentre genera profondità l’andare e il venire continuo, in un percorso simbolico tra il buio del fondo e la luce in ribalta. Così le figure laterali stanno a mezzo palco, rimanenza viva di ciò che è accaduto, mentre «Motta Giovanni, ventitré anni, siciliano» perde e acquista vigore immergendosi e riemergendo dalla penombra. Un baule fa da unico arredo. L’opera sof fre d’ingenuità drammaturgiche, offrendo la Sicilia stereotipata che i non-siciliani s’attendono: retrograda, patriarcale, violenta. Acerbo debutto di una compagnia nuova, è il punto di partenza di un viaggio che, dall’isola e dalle sue ristrettezze, porta al Continente. Non a caso Battuage - il secondo lavoro - s’ambienta sulla terraferma, associa al siculo il romanesco di borgata e la lingua straniera, sostituisce l’individualismo alla coralità della trama. Si nota il tentativo di crescere, d’azzardare. Sul palco frammenti di una parete di mattonelle sudice, specchi e neon rosa rendono un bagno pubblico, in cui è forte il tanfo d’urina, l’umidità, la sporcizia. Osserviamo: un omosessuale con fallite aspirazioni d’attore; una coppia il cui matrimonio finisce in tragedia; due trans; una prostituta greca e il suo nuovo pappone; un gay al primo contatto col corpo maschile. Battuage s’articola per vicendedialoghi, pronte a intrecciarsi in un finale frettoloso, forzato. Già d’uso certe soluzioni visive, prese e ripetute (gli effetti caravaggeschi, la voce al microfono, le figure in controluce, la frontalità di confessione), in un lavoro che cerca, con il sesso, di raccontare società e relazioni: tra affetto e dipendenza, vicinanza e contrasto, solidarietà e abuso. Nonostante i limiti evidenti, è netta la capacità d’impattare sul pubblico e innegabile è la bravura attoriale, che va ancora formata e calibrata. Insomma, sentiremo parlare di Vuccirìa: la sensazione, infatti, è che la loro sia una storia teatrale tutta da scrivere e che non ha ancora dato il suo meglio. Alessandro Toppi

La miglior amicizia? Ha dieci anni o giù di lì BEST FRIEND, di Giuseppe Tantillo, anche regista con Daniele Muratore. Con Claudio Gioè e Giuseppe Tantillo. Prod. Bam Teatro, CAGLIARI. IN TOURNÉE Avere quarant’anni e dimostrarne venti. Lo garantiva - chissà quanto tempo fa - il Carosello di un’acqua minerale. Anche Claudio Gioè ha quarant’anni (e una carriera ricca di bei titoli cinematografici e televisivi) e la sua sfida è ancora più ardita. Dimostrarne dieci. O almeno risultare convincente mentre interpre ta un personaggio di quell’età. Il gioco gli riesce bene, ed è per questa ragione (anche per altre, che diremo) che Best Friend merita di essere visto nella produzione di Bam Teatro, factory teatrale che lavora su orizzonti di drammaturgia non banali. Il testo di Giuseppe Tantillo è una novità italiana, menzione speciale 2013 al Premio Tondelli, e lo stesso autore è in scena con Gioè. Fianco a fianco, danno vita a quadri veloci che, come le strisce a fumetti, raccontano la miglior amicizia di Cris e Davi, due ragazzini di dieci anni appunto, o giù di li. È l’età in cui il mondo si legge secondo prospettive particolari. Punti di vista che allo sguardo adulto appaiono candidamente fragili, ridicolmente delicati. Ma negli occhi dei due giovanissimi amici hanno dimensioni enormi. Dal provare qualcosa per la stessa compagna di classe, al primo sospetto di un brutto male, da un viaggio immaginario verso una meta lontana al trasferimento vero e lacerante in un’altra città. Per Cris e Davi, amici del cuore, sono le prime apparizioni di ciò che impareranno presto a chiamare Amore, Malattia, Avventura o Lontananza. Leggeri i dialoghi, sul filo di un candore che strizza l’occhio a pensieri più maturi. Leggeri anche il disegno registico, la scenografia e un fondale marezzato da luci e colori che lasciano immaginare quella Sicilia da cui Tantillo e Gioè provengono. Come se in loro potessimo scorgere il tempo in cui Scimone e Sframeli non erano che due bambini. Roberto Canziani


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CRITICHE/DANZA La Sagra della Primavera

Le Sacre di Virgilio Sieni fra archeologia e avanguardia

Cibernetica e modern dance, la ricetta di Wayne McGregor

PRELUDIO, coreografia di Virgilio Sieni. Musica di Daniele Roccato eseguita dal vivo dall’autore. LA SAGRA DELLA PRIMAVERA, coreografia di Virgilio Sieni. Musica di Igor Fëdorovic Stravinskij eseguita dal vivo dall’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna (Direttore Felix Krieger). Costumi di Virgilio Sieni e Giulia Bonaldi. Prod. Compagnia Virgilio Sieni, FIRENZE - Teatro Comunale, BOLOGNA.

FAR, coreografie di Wayne McGregor. Scene di Random International. Costumi di Moritz Junge. Luci di Lucy Carter. Musiche di Ben Frost. Prod. Sadler’s Wells, LONDRA - Peak Performances, MONTCLAIR State University (Usa).

In questo dittico, non a caso denominato Le Sacre, il pezzo forte “sulla carta” è certamente il balletto coreografato per la prima volta da Nijinskij poco più di un secolo fa. La prima parte, che si preannuncia come una “semplice” introduzione, porta invece con sé alcune ottime sorprese: il sestetto di donne che agisce nella semioscurità della mastodontica scena vuota del Preludio svela con grazia e potenza nuove sorprendenti sfumature dell’universo coreutico del celebrato coreografo fiorentino. Interagendo con le musiche battenti e ondeggianti del sempre più solido Daniele Roccato, le sei vibratili figure nude, quasi sempre affiancate, con segmentati scatti di schiena e braccia formano una sorta di umanissima divinità, un minuscolo e commovente grumo di vita. Il groviglio di arti annaspanti e invocanti, che ricorda certe tavole di Gustave Doré per la Commedia dantesca, per brevi momenti lascia spazio a una danzatrice che si stacca dal gruppo, portando a emersione tensioni e contrasti muscolari à la Schiele, per poi tornare a esser parte pulsante di una comunità di corpi in vita. La seconda coreografia, con l’orchestra nella buca a eseguire le maestose musiche di Stravinskij, vede dodici algide figure comporre, su un abbacinante tappeto rosso, una selva di intricati incroci, prese e sollevamenti, sorprendenti per complessità e maestria. Il lavoro è impreziosito da una quantità di citazioni cinetiche di autori dell’epoca in cui Le Sacre debuttò: Laban, Foregger e soprattutto Mejerchol’d, non tanto per le forme, quanto per la sottesa fiducia nel gesto come mezzo di espressione dell’ineffabile. I corpi di questa Sagra vibrano “per simpatia”, secondo le imperscrutabili leggi di un rito di iniziazione rivolto ai danzatori, più che al pubblico-testimone. Le primordiali figurazioni di partenza (cerchi, linee e punti nello spazio) si rivelano come immagini affioranti attraverso la stratificazione di esperienze diverse: è pratica “archeologica”. Non nostalgia verso il passato perduto, ma ineludibile passaggio verso il futuro. Michele Pascarella

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«Le più importanti compagnie di danza di tutto il mondo invocano l’attenzione del coreografo»: gli estratti del Sunday Times inducono alte aspettative. Deluse. Wayne McGregor sa quel che fa, i suoi danzatori sono bravi e bellissimi, la scenografia (un pannello-fondale stracolmo di led luminosi) è ben realizzata. Basta questo per fare un buono spettacolo? No. Si comincia con quattro fiaccole accese agli angoli del palco, l’aria Sposa son disprezzata di Geminiano Giacomelli cantata da Cecilia Bartoli e un duetto sinuoso, finanche animalesco. È come se il «multi-premiato coreografo e regista britannico» ci volesse dire che lui, se vuole, quella roba lì la sa fare. Ma non vuole: segue un’ora di martellanti suoni sintetici, ridondanti effetti di luce bianca e una costruzione coreografica distante, fredda, chiusa. Far, «mix di scienza, cibernetica e modern dance», è stato elaborato con il supporto di tre scienziati cognitivisti, allo scopo di testare, grazie all’ideazione di un apposito software, nuovi movimenti. Il pensiero, ovviamente, va a Merce Cunningham e al suo lavoro (iniziato ben un quarto di secolo fa…) con il programma digitale Life Forms. Un elemento di prossimità fra i due lo si individua nella comune assunzione di forme riconducibili alla tecnica classico-accademica, poi decostruite attraverso torsioni, decentramenti del peso, cambi repentini di direzione, accelerazioni e rallentamenti, estreme stilizzazioni e indipendenza di una parte del corpo dall’altra, a creare una sorta di apparente caos. Ma a McGregor, del Maestro, manca del tutto la salvifica, gioiosa ironia: c’è un’aria di seriosità compiaciuta, sul palco di Far, che certo avrebbe meritato qualche rimbrotto da parte del nume tutelare della postmodern dance. Nonostante il nome (Random Dance), la Compagnia di McGregor non ha nulla della feconda aleatorietà della polimorfa congrega nata al Black Mountain College nel ’52, o delle sue successive manifestazioni. E non c’è niente da fare: Wayne McGregor, anche se ha al suo fianco «la superstar della musica elettronica australiana, Ben Frost» non può contare su John Cage. Michele Pascarella


CRITICHE/DANZA

I turbamenti di John narrazione in movimento JOHN, ideato e diretto da Lloyd Newson (DV8 Physical Theatre). Coreografia di Lloyd Newson. Scene e costumi di Anna Fleischle. Luci di Richard Godin. Con Taylor Benjamin, Lee Boggess, Gabriel Castello, Ian Garside, Emira Goro, Garth Johnson, Hannes Langolf, Vivien Wood, Andi Xhuma. Prod. DV8 Physical Theatre, LONDRA. Equilibrio, il festival all’Auditorium Parco della Musica di Roma, continua la sua indagine tra le pieghe della danza contemporanea, muovendo dall’osservatorio delle giovani realtà italiane e ospitando pezzi della storia recente, a partire dagli incontri con i maestri e i geni del pensiero coreografico. Tra questi, indubbiamente Lloyd Newson è uno smottamento della danza stessa affermatosi proprio per quel suo linguaggio eversivo, dentro e fuori la danza, inopportuno al teatro quanto poi felicemente ricevente da questo l’impalcatura della parola e delle azioni che vanno a combinarsi in anomale narrazioni in movimento. Anche questo ultimo lavoro targato DV8 mostra il cinismo di sempre, quella scaltrezza nell’uso del corpo narrante che riesce a farsi poesia nonostante l’acrobazia concettuale la faccia da padrona. John è un nuovo tassello in progressione di una fisicità sbilanciante e spettacolare, questa volta però asciugata dalla durezza del racconto, anzi dei racconti. Perché a Newson interessa il vero delle persone, le microstorie che non hanno il lieto fine, le macerie e l’odore di morte che sottende come un leit motiv tutto lo spettacolo. Una scena fatta a scomparti, modulare e capace di trasformarsi a vista mentre ruota su se stessa, ambienta una dopo l’altra le biografie, quelle storie che lo stesso coreografo ha ricostruito dopo aver intervistato cinquanta uomini trattando dell’amore e del sesso. Si avviluppano aprendo squarci impressionanti le parole in quei corpi possenti e capaci, lì a misurarsi con l’intimo di quelle biografie lasciate in dono alla narrazione del movimento, irruento e compromissorio con lo spazio scenico che si lascia abitare come una seconda pelle, un vissuto fatto di abusi, di violenze, sesso estremo e senza protezione nelle saune, amori rovesciati e sconquassi familiari. È stordente l’effetto, è commovente l’innesto di tragico in un tempo evasivo, è vero il segno che lascia, sebbene un po’ edulcorante, la partitura. Paolo Ruffini John

AL PICCOLO TEATRO

Avanim, uomini di pietra in memoria della Shoah AVANIM (Pietre), di Yinon Tzafrir. Drammaturgia di Yifat Zandani Tzafrir. Regia di Yinon Tzafrir e Daniel Zafrani. Scene di Miki Ben Knaan. Parrucche e attrezzeria di Tova Berman. Luci di Uri Morag. Suono di Daniel Zafrani e Yinon Tzafrir. Con Avi Gibson Bar-El, Mott Sabag, Hila Spector, Nimrod Ronen, Michael Marks, Yinon Tzafrir. Prod. Orto-Da Theatre Group, Israele. IN TOURNÉE “Orto” fa riferimento al legame ortodosso con la tradizione, “Da” alla ricerca artistica di nuovi linguaggi, come nel movimento Dada. Ma in ebraico “Or”vuol dire luce e “Toda” grazie. Il lavoro, ospite del Piccolo Teatro, della compagnia israeliana Orto-Da, nata nel 1996 da sei mimi attori, si gioca tutto sull’equilibrio tra questi termini e sull’armonia generata dal contrasto tra poetiche e simbologie apparentemente opposte. Avanim (Pietre) ricrea in scena, con i corpi vivi dei performer, la statua realizzata nel 1946 da Nathan Rapoport per onorare la memoria degli ebrei del ghetto di Varsavia: Rapoport utilizzò lo stesso granito estratto in Svezia per la costruzione di un monumento celebrativo del Terzo Reich. La pesantezza di queste pietre cariche di significato scompare per i sessanta minuti in cui i corpi statuari degli ebrei del ghetto si animano. Nell’accostamento di memoria storica e trasposizione onirica i simboli più drammatici dell’Olocausto vengono trasfigurati fino a divenire positivi segnali di speranza. I movimenti precisi dei corpi degli attori – mimo, clownerie, danza – giocano con i pochissimi elementi scenici per trasformare il filo spinato dei campi di concentramento in uno strumento musicale a corde, un nastro giallo in casa, svastica e aquilone, le luci notturne in stelle di David appiccicate sul petto. Con l’immaginazione di Orto-Da, Hitler è un pupazzo buffo che cambia forma e profilo, e l’aquila nazista può diventare colomba di pace. Non mancano riferimenti ad aspetti della Storia che possono farsi universali e del tutto attuali, dai colpi di fucile alla barca in mezzo al mare carica di esuli. Il potere visivo e la ricerca linguistica di un teatro fisico capace di mettere insieme termini opposti fanno di Avanim un condensato di figure evocative, che sfruttano la forza dell’immaginario lasciando al pubblico la libertà di comporre un proprio percorso narrativo. Il tacito accordo con lo spettatore è di rinunciare a trovare una struttura drammaturgia forte e immediatamente comprensibile, ma di abbandonarsi all’accostamento di frammenti. Francesca Serrazanetti

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CRITICHE/LIRICA

Hermanis e Zimmermann doppio debutto alla Scala DIE SOLDATEN, di Bernd Alois Zimmermann. Regia di Alvis Hermanis con Gudrun Hartmann. Scene di Alvis Hermanis e Uta Gruber-Ballehr. Costumi di Eva Dessecker. Luci di Gleb Filshtinsky. Video di Sergey Rylko. Orchestra del Teatro alla Scala, direttore musicale Ingo Metzmacher. Con Laura Aikin, Thomas E. Bauer, Daniel Brenna, Gabriela Benacková, Cornelia Kallisch, Renée Morloc, Alfred Muff, Wolfgang Ablinger-Sperrhacke, Matthias Klink, e altri 18 interpreti. Prod. Teatro alla Scala, MILANO Festival di SALISBURGO. Sembrano grandi occhi indiscreti le arcate a vetri della Felsenreitschule di Salisburgo, la scuola di maneggio istituita sul finire del XVII secolo nella città absburgica, sede originaria e sfondo ideale dell’allestimento dei Soldaten (1965) di Zimmermann, fedelmente ricostruita sul palcoscenico della Scala, che ha coprodotto lo spettacolo. Comincia con un tributo a un monumento del teatro musicale del Novecento il mandato del nuovo sovrintendente scaligero, Alexander Pereira, che colma così una vistosa lacuna delle scene liriche italiane, dove l’opera non era mai stata eseguita. E lo fa con una produzione dal virtuosismo magistralmente ostentato, la prima di Hermanis in Italia, capace di esaltare la visione di teatro totale voluta dall’autore. I tavoli di una bottega del caffè, i letti impilati e disfatti di un dormitorio e un salotto dell’alta borghesia francese di fine Settecento sono infatti i luoghi in cui, contestualmente, si sviluppa uno Stationendrama che ruota intorno all’ascesa e caduta di Marie, «puttana da soldati» nelle mani di ufficiali senza scrupoli e nobili in cerca

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di facili avventure. Così, mentre sullo sfondo si svolge senza sosta l’addestramento dei cavalli, al proscenio sfila la lugubre, allucinata ronda dei fugaci amori di Marie, tra balle di fieno destinate ad alimentare gli animali, ma anche a diventare giacigli improvvisati, nascondigli furtivi di accoppiamenti rapidi, involontari, inesorabili. Corre su un filo, teso ad attraversare tutta la scena, tanto lo sguardo vigile di un’acrobata, che doppia e insegue la protagonista, quanto quello di tre generazioni di donne, dapprima avvolte in morbide crinoline, quindi evocate dagli ammiccanti dagherrotipi di nudi di primo Ottocento, infine occultate da maschere antigas, ora e sempre vittime di un’umanità infoiata e violenta. Per questo è illuminante intuizione che anche questa Marie generi un figlio: ma di paglia, unico, copioso frutto di un ventre sterile, esausta mangiatoia di uomini feroci come bestie. Giuseppe Montemagno

Una gelida Poppea incoronata da Bob Wilson L’INCORONAZIONE DI POPPEA, di Claudio Monteverdi. Regia, scene e luci di Robert Wilson. Costumi di Jacques Reynaud. Luci di A.J. Weissbard. Drammaturgia di Ellen Hammer. Orchestra del Teatro alla Scala, direttore musicale Rinaldo Alessandrini. Con Miah Persson, Leonardo Cortellazzi, Monica Bacelli, Sara Mingardo, Andrea Concetti, Adriana Di Paola, Maria Celeng e altri 8 interpreti. Prod. Teatro alla Scala, MILANO - Opéra di PARIGI. Accade alla Scala che, al termine di un percorso durato sei anni, arrivi a compimento la trilogia monteverdiana, affidata alle cure congiunte di Bob Wilson e Rinaldo Alessandrini; ma anche che

l’ultimo titolo, L’incoronazione di Poppea, autentico patchwork dell’intera storia del melodramma, venga definitivamente sottratta alla paternità del musicista cremonese e attribuita in tandem a Claudio Monteverdi e Francesco Cavalli, con un «finale composto da Francesco Sacrati e Benedetto Ferrari». Peccato che tanta acribia filologica, frutto della ventennale attività di ricerca di Alessandrini, si spenga in una concertazione di misurato nitore, in una piatta correttezza esecutiva che trova corrispondenza ideale nella raggelante drammaturgia del regista texano. Per questo, solo l’irresistibile vis dell’astuta Nutrice en travesti di Giuseppe De Vittorio restituisce impatto teatrale a una delle più avvincenti dimostrazioni del potere di Amore sul destino degli uomini: Wilson tratteggia tipi ideali, più che personaggi, maschere imbiancate del potere atteggiate in pose stereotipate. In un’impostazione geometricamente stilizzata, la natura, sin dal prologo simboleggiata dal nodoso tronco di un fico, lentamente s’insinua nelle architetture simmetriche di un atrium romano; come la forza del sentimento che unisce l’imperatore alla sua nuova amante vince sulla stoica virtù di Seneca, e il giorno cede il passo alla notte della ragione. Il meglio di Wilson arriva dunque tra le rovine di un’antichità di tersa eleganza formale: nelle radici di un cipresso sospeso a mezz’aria, mentre il filosofo viene progressivamente inghiottito dal regno delle ombre; nello spicchio di luna che protegge l’«oblivion soave» del sonno di Poppea; nel frammento di capitello corinzio che accompagna dapprima l’esilio della ripudiata Ottavia, quindi l’ascesa al soglio dell’ambiziosa Poppea. Immagini di sobria compostezza, lontane dall’urgenza del teatro e della passione. Giuseppe Montemagno


CRITICHE/LIRICA

A Reims con Michieletto un tableaux vivant per Carlo X IL VIAGGIO A REIMS, di Gioachino Rossini. Regia di Damiano Michieletto. Scene di Paolo Fantin. Costumi di Carla Teti. Luci di Alessandro Carletti. Koor van De Nationale Opera, Nederlands Kamerorkest, direttore musicale Stefano Montanari. Con Eleonora Buratto, Nino Machaidze, Carmen Giannattasio, Michael Spyres, Roberto Tagliavini, Anna Goryachova, Juan Francisco Gatell, Nicola Ulivieri, Bruno De Simone e altri 8 interpreti. Prod. De Nationale Opera, AMSTERDAM - Det Kongelige Opera, COPENHAGEN - Opera Australia, MELBOURNE. Rappresentare un testo in maniera altra, diversa, è sempre operazione impervia, ma soprattutto quando il soggetto è strettamente legato al contesto della creazione dell’opera: composto nel 1825 per celebrare l’incoronazione di Carlo X a re dei Francesi, Il viaggio a Reims di Rossini è opera squisitamente encomiastica - vi si racconta del tributo che le nazioni europee rendono al nuovo monarca, fautore della Restaurazione; e per di più cristallizzata nel ricordo del leggendario allestimento firmato a Pesaro da Abbado e Ronconi nel 1984, ripreso per un quarto di secolo con immutato, entusiastico successo. Non ai Bagni del Giglio d’oro ci convoca la regia di Damiano Michieletto, bensì alla Golden Lilium Gallery, luminosa sede di un museo in cui è in corso di allestimento una nuova esposizione. Inizialmente incerta sulla disposizione delle opere, la direttrice - un’elegantissima, dispotica storica dell’arte in odor di Miranda Priestly, la protagonista del Diavolo veste Prada – e un banditore d’aste spostano quadri e sculture che inaspettatamente si animano: le Tre grazie di Canova a un passo da Ol’ga Chochlova in Mantilla di Picasso, Il figlio dell’uomo di Magritte con One Man Show di Keith Haring, Velásquez a braccetto di Botero, in un irresistibile carosello che intriga e irretisce gli sbalorditi visitatori della galleria. Grazie al filtro del loro sguardo, una lunga giornata al museo serve non soltanto per sciogliere o rinsaldare amicizie e amori in apparenza improbabili, ma soprattutto per comporre un quadro che, nel corso della seconda parte, viene ricostruito nei dettagli. E allora è un tripudio di calze e mutandoni, cappelli piumati e falpalà, casule e mantelli, mitrie e corone, indossati da ciascun personaggio prima di prendere posto all’interno della cornice, nel grandioso tableau vivant che progressivamente si delinea. Quando termina l’Inno delle nazioni, mentre la poetessa Corinna acclama «il prode regnatore», L’incoronazione di Carlo X - monumentale olio su tela di François Gérard, oggi al Castello di Versailles - brilla infine in tutto il suo splendore: un autentico capolavoro, folgorante approdo di un viaggio nella storia dell’arte e nella concordia tra i popoli. Giuseppe Montemagno

Il sogno perduto di Gisela illuminato da Emma Dante GISELA!, di Hans Werner Henze. Regia di Emma Dante. Scene di Carmine Maringola. Costumi di Vanessa Sannino. Luci di Cristian Zucaro. Movimenti coreografici di Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco. Orchestra e coro del Teatro Massimo, direzione musicale di Costantin Trinks, maestro del coro Piero Monti. Con Vanessa Goikoetxea, Roberto De Biasio, Lucio Gallo e la Compagnia Sud Costa Occidentale. Prod. Teatro Massimo, PALERMO. «Tutto è bello come un sogno, come un sogno perduto», esclama Gisela Geldmaier, studentessa di storia dell’arte, al suo arrivo alla stazione di Napoli. Sta tutta racchiusa in questa affermazione, a un tempo ingenua ed entusiasta, la chiave di lettura per interpretare Gisela! ossia Le strane e memorabili vie della felicità (2010), testamento spirituale di Hans Werner Henze in prima italiana al Massimo di Palermo. Come Gisela sfugge all’atmosfera plumbea e opprimente di una Germania senza colori, infatti, così anche Henze, nel lontano 1953, era migrato in Italia, trovando sulle colline romane il suo buen reti-

ro, la sua oasi di serenità, la sua dimora stabile. Di questa salvifica fuga, di questo rinnovamento spirituale Gisela! si vuole specchio e ricordo: ma anche dell’intera letteratura odeporica tedesca che, da Goethe in poi, si è illuminata alla calda luce del Sud, culla di fantasia e di libertà. Emma Dante sposa questa prospettiva, ma la arricchisce - à la Robert Carsen - di una spiccata, stupefacente valenza metateatrale: Napoli e Pulcinella, il Teatro San Ferdinando e il bosco di Capodimonte albergano, hic et nunc, tra i velluti del Massimo, dietro i mille, illusori sipari dove la vita pulsa - ma sfuma nel sogno. È un percorso che parte dalla materia - le statuette colorate della processione pasquale, la cornucopia di cibi prelibati, ma anche l’acqua che alimenta le industrie siderurgiche tedesche e poi batte su un cielo di ombrelli neri - per diventare forma: le corolle bianche e rosse di Pulcinella che ruotano con la leggerezza dei dervisci, l’incanto di un giardino inglese dove fioriscono le rose, il mondo onirico e incantato di Gisela. Ed è qui che si dispiega l’ideale di uno spettacolo musicale ironico e graffiante, punteggiato di morbidi pulcini e nani affamati, streghe cattive e cacciatori puniti: un immaginario destinato a diradarsi all’ombra del Vesuvio e di una sua eruzione purificatrice, nel ventre di una città, nel cuore di un teatro. Giuseppe Montemagno

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biblioteca

Le principesse ribelli di Emma Dante Emma Dante Le Principesse di Emma Milano, Baldini & Castoldi, pagg. 192, euro 19,90 Premesso che un Principe imparentato con Dante è decisamente titolato a recensire le Principesse narrate da Emma, passo subito a proporre il piccante, pimpante, perturbante book illustrato da Maria Cristina Costa. Luci di sala: abbassate. Telefonini: spenti. Sipario: si comincia. Si comincia con la pièce della bella Rosaspina addormentata, dal finale attuale assai. Lo vorreste svelato? Desiderio scordato: andate a “vedere” lo spettacolo! Fatevi accompagnare dai vostri figli, principessine, nipoti e nipotine. Secondo atto: Biancaneve. Una sit com neopirandelliana dai misteriosi, sotterranei, sulfurei legami con i Giganti della Montagna (sacra), tra nani scalognati invero fortunati e White Paulsen in difficoltà salvata da principesco bacio, tanto quanto la successiva Cenerentola e due sorelle è un Cechov nel Giardino Dove Fioriscono i Limoni. Visito dall’interno i meccanismi narrativodidattici (meglio: narrativo-formativi) approntati da Emma Dante avendo realizzato, anni fa, per la Fratelli Fabbri una serie di fiabe sonore drammaturgicamente costruite sul ribaltamento degli stereotipi – il lupo di Cappuccetto è il buono, il cacciatore il cattivo... Tornando in chiusura di plaudente consiglio di acquisto all’aspetto visivo del volume, segnalo che la Costa si è valorosamente prodotta da Femme Dorè che illustra la Commedia di una Dante dalla parte delle bambine. Fabrizio Sebastian Caleffi

Franco Quadri, imperatore del teatro Panta Quadri a cura di Renata M. Molinari, ricerche iconografiche e materiali inediti a cura di Jacopo Quadri, Milano, Bompiani, pagg. 396, euro 25 Non è solo un volume che ripercorre, attraverso le parole di chi ha lavorato con lui, per lui, e accanto a lui, il ruolo svolto da Franco Quadri nel teatro italiano degli ultimi cinquant’anni. È anche un montaggio di ricordi, rievocazioni, racconti, analisi (e molte sorprendenti immagini) di cui soltanto Renata Molinari – che di Quadri è stata la musa dure-

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a cura di Albarosa Camaldo

vole e inquieta – poteva tenere il timone. Riuscendo così ad aggregare, per conoscenza, uso e consumo dei posteri, il lascito costituitosi alla scomparsa del più influente critico teatrale italiano del secondo dopoguerra. Scomparsa che risale al marzo del 2011, quando Franco non aveva ancora settantacinque anni. Quadri non solo critico: Quadri editore, Quadri ideatore e progettista, Quadri a colloquio con gli artisti, Quadri coltivatore del nuovo. Questi i capisaldi dell’eredità di “un Cesare” del teatro, se il paragone è lecito, per il ruolo mai imperiale, ma strategico e decisionale che ha esercitato sempre, nel bene e nel male, su sviluppo e sorti della scena e della drammaturgia italiana. Magari non solo quelle. «Sono venuto a seppellirlo, non a tesserne l’elogio», dice Antonio subito dopo la scomparsa di Cesare. Quanto di riprovevole un uomo compie, resta nella storia; il bene se ne va invece sotto terra con le ossa – aggiunge. Del difetto opposto soffrono invece le moderne commemorazioni che, al contrario, seppelliscono tutto ciò che potrebbe far ombra al luminoso ritratto del commemorato. Raccogliendo una quarantina di interventi, Renata Molinari ha avuto lo scrupolo di aggiungere anche l’immagine di quel Quadri con il cui cesarismo si poteva anche non essere d’accordo (ed è pieno d’affetto ma anche tagliente, per esempio, il contributo di Renate Klett). Anche per questo chiaroscuro, nella prima messa a punto dell’attività di Quadri e delle sue ricadute nella cultura italiana, dobbiamo essergliene grati. Roberto Canziani

Organizzazione teatrale, discorso sul metodo Mimma Gallina Ri-Organizzare teatro. Produzione, distribuzione, gestione Milano, Franco Angeli, 2014, pagg. 384, euro 36 A più di dieci anni dall’uscita di Organizzare teatro, c’era l’esigenza di aggiornare il discorso sul metodo della professione di organizzatore. Il panorama del teatro italiano è infatti notevolmente mutato, portando con sé gli esiti di un’evoluzione che ha fortemente modificato le categorie stesse con cui leggere il settore, sia dal punto di vista di chi sta sulla scena sia di chi lavora “dietro le quinte” per produrre, distribuire, comunicare e vendere. Il volume traccia un’analisi del “sistema” teatrale italiano precisa, dettagliata e illuminante, descrivendone forme e sostanze, dall’orizzonte degli Stabili alle compagnie indipendenti, dai

circuiti alle residenze, ma anche dall’ideazione di uno spettacolo alla sua distribuzione e vendita, passando per le cognizioni legislative, pratiche, economiche e ges tionali necessarie. Lo sguardo è a 360 gradi, senza tralasciare i problemi del “nuovo” teatro con la sua incapacità di rinnovarsi da cui discende la difficoltà di sopravvivere (si legga la puntuale sezione curata da Oliviero Ponte di Pino) e il teatro ragazzi con le sue differenze specifiche (di Adriano Gallina), senza dimenticare il nuovo decreto che ridisegna (forse) l’intero settore dall’identificazione dei Teatri Nazionali alle “azioni trasversali” con relativa spiegazione dei criteri di valutazione e allocazione del Fus. Uno sguardo che è insieme storico e attuale quello di Mimma Gallina, coadiuvata da un nutrito staff (da Patrizia Cuoco e Giuseppe Pizzo co-curatori a Lucio Argano, Antonio Taormina oltre ai già citati Ponte di Pino e Adriano Gallina). Ilaria Angelone

Così Fo disegna la Callas, una debordante icona pop Dario Fo e Franca Rame Una Callas dimenticata Modena, Franco Cosimo Panini, 2014, pagg. 116, euro 22 Cinema, teatro e danza da almeno un ventennio si sono impossessati della figura e dell’opera di Maria Callas, controverso mito, prima ancora che indimenticabile soprano, della storia del teatro musicale del Novecento. E adesso ci provano Dario Fo e Franca Rame – quest’ultima anche dedicataria del volume – con una pièce teatrale in due tempi che ripercorre vita, morte e miracoli della cantante greca. Solo una breve introduzione, dovuta alla penna di Fo, ripercorre tuttavia il legame tra i due artisti: lui apprendista scenografo alla Scala, ancora allievo a Brera, lei già affermata protagonista del più grande teatro lirico del mondo. Il resto, infatti, è un biopic non particolarmente originale, in cui il taglio grottesco di alcune immagini, invero raccapriccianti (come quella che vede la cantante «abbracciata a un cotechino», alla tenera età di tre mesi), o gli abili giochi di parole (avrebbe preferito La Gioconda di Ponchielli all’opera tedesca,


BIBLIOTECA

priva «di giocondità») raramente fanno dimenticare una ricostruzione fondata su luoghi comuni francamente troppo abusati. Nella remota ipotesi che il testo conquisti il traguardo del palcoscenico, tuttavia, rimane da elogiare la qualità di un prodotto editoriale finemente curato: non solo per l’accattivante gioco di contrasti cromatici dell’impaginazione, ma soprattutto per i disegni, che ancora una volta rendono testimonianza della graffiante vena grafica di Fo, abile nel trasformare la Callas in una debordante, giunonica icona pop dalle forme fin troppo generose e sensuali. Ricordi di scena e amori contrastati approdano così a un’ultima immagine, quella di Giovan Battista Meneghini, rimasto vedovo ed erede unico delle fortune della Callas, «contornato dai forzieri» che traboccano di gioielli e monete d’oro: se non è vero, è ben trovato. Almeno questo. Giuseppe Montemagno

za e la filosofia contemporanee, alla ricerca di strutture drammaturgiche complesse, superando l’imitazione di un “newtoniano” concatenarsi di cause ed effetti. Insomma: «Un’opera è un oggetto di fiction, aggiunto alla realtà, non per disimpegnarsi da essa, ma per offrire nuovi strumenti per smascherarla. E, a sua volta, questo accade se cerchiamo di rispettare le sconosciute, profonde regole che reggono ciò che è vivo e organico». Questo libro, denso di contenuti e ottimamente curato, oltre a farci conoscere uno Spregelburd saggista di alto livello, offre aggiornati e ben documentati contributi critici sul pensiero e sulle opere dell’autore argentino. Renato Gabrielli

Spregelburd: la realtà smascherata dalla fiction

Flavia Mastrella e Antonio Rezza Clamori al vento. L’arte, la vita, i miracoli Milano, Il Saggiatore, 2014, pagg. 400, euro 19,50

Rafael Spregelburd Il teatro, la vita e altre catastrofi. Domande, ipotesi, procedimenti a cura di Manuela Cherubini e Giovanni Iorio Giannoli, Roma, Bulzoni Editore, 2014, pagg. 208, euro 20 «Costruire fiction è il mio lavoro specifico come drammaturgo. Ma costruire fiction è un compito quasi assurdo, in un paese che sembra essere sorto dalla testa di uno sceneggiatore con turbe psichiche, a causa di droghe che hanno effetti contraddi t tori». Così Rafael Spregelburd si riferisce, in uno scritto del 2007, alla sua condizione di scrittore in Argentina. Ma i dilemmi sul come e perché inventare storie – ora che il potere politico ed economico si afferma e mantiene anche attraverso narrazioni, imponendoci come “realtà” una catena di finzioni manipolatorie – riguardano qualunque autore di teatro, senza confini. Nei brevi saggi che costituiscono il nucleo di questo volume, Spregelburd rivendica la grande libertà che deriva alla scena contemporanea dal non dovere più rappresentare la realtà; incombenza, questa, di cui si fanno carico da decenni i media audiovisivi. A tale libertà corrisponde però una presa di consapevolezza dell’impossibilità di cambiare il mondo attraverso il teatro. La scrittura di Spregelburd è, d’altronde, incisivamente politica nel suo sistematico smontaggio delle convenzioni linguistiche e narrative vigenti; e dialoga con la scien-

Il pensiero? Una provocazione, parola di Mastrella/Rezza

Quattrocento pagine con la coppia Rezza/Mastrella non è cosa facile. Per nessuno. Non a caso un avvertimento campeggia in quarta di copertina: «Se durante la lettura dovesse subentrare un forte smarrimento alternato a un radicale scetticismo, allora il libro è ben riuscito». Confondere e provocare. Con quell’attitudine iconoclasta che li ha resi da subito non etichettabili. Libro corposo di testi, frammenti, materiali fotografici, trascrizioni, conversazioni: forse la cosa più simile a un’opera omnia che potessero partorire i due, per natura così poco conclusivi. Figurarsi compilativi. Qui infatti si accatastano un po’ a caso, invece che ordinare con precisione, i materiali di una vita artistica lunga ormai (quasi) trent’anni, anche se sono gli ultimi venti il cuore dell’antologia. E di nuovo piace sottolineare questo fregarsene delle forme convenzionali, proponendosi in un volume che si presta a essere letto per intuizione, spunti e rimandi. Ci si trova un po’ di tutto: dalle “drammaturgie” alle opere cinematografiche, dai celebri cortometraggi su Rai Tre negli Anni Novanta, a sceneggiature, annotazioni o brani del progetto Troppolitani Valle Occupato. Prezioso il contributo fotografico, che permette di cogliere il fascino plastico degli habitat della Mastrella, elementochiave per la riuscita performativa di Rezza. E colpisce forte questa visione artistica che nasce e continua a essere sovversione (e quindi atto politico), ribadendosi aperta, ramificata, ostile. Non ci si faccia infatti

confondere dal Rezza baldanzoso, in costante tensione verso la propria mitizzazione in vita. Sotto la maschera ci sono pensiero e rabbia, ribellione e insofferenza. Proprio come a teatro. Insomma, alla fine il volume testimonia prima di tutto una creatività anarchica senza compromessi, che si concretizza attraverso una costante disciplina realizzativa. Lezione non da poco per chi abbia intenzione di bazzicare certi palcoscenici. Di sudar fuori un talento. O, più semplicemente, un pensiero. Diego Vincenti

Una giornata con Eduardo Italo Moscati Eduardo De Filippo. Scavalcamontagne, cattivo, genio consapevole Roma, Ediesse, 2014, pagg. 239, euro 14 Il sottotitolo di questo serio e importante libro dedicato al grande Eduardo fa riferimento al vivissimo e toccante saggio – ma anche articolo, intervista, racconto – di apertura firmato dallo stesso Moscati sul suo “privato” incontro con l’uomo di teatro più celebre e rappresentativo del teatro italiano del ’900, avvenuto, quattro anni prima che morisse, nella sua casa romana al quartiere Trieste. Una giornata speciale che vede di fronte il brillante e giovane scrittore (critico teatrale e cinematografico, sceneggiatore) e il grande vecchio della scena teatrale di quegli anni in un dialogo vivo e appassionante, fatto di ricordi e di aneddoti infiniti che contraddistinguono una vita per il teatro ineguagliabile. Ma questo libro diventa anche, per ampiezza di riflessioni e ricchezza di contributi (Kezich, Compatangelo, Caprara, Audino), uno spaccato illuminante, sociale e culturale, di un’Italia che non c’è più, con le sue battaglie politiche e civili del teatro di quegli anni. Una tavola rotonda su “Eduardo e gli eduardiani” con, fra gli altri, Franca Angelini, Fiorenza Di Franco, Maurizio Giammusso arricchisce il volume di ulteriori spunti di riflessione e di ricerca. Alla fine di un’avvincente lettura ciò che rimane impresso è lo stretto legame fra un vero, grandissimo artista e il suo Paese. Nel tessere questa continua trama di influenze reciproche, Italo Moscati, con affetto, in punta di penna, con lucida e feconda consapevolezza ci restituisce la figura di un uomo di copioni e di scena del quale ci sarà sempre molto da dire, ma soprattutto ci regala, nella misura di quelle fitte pagine scritte come un romanzo di formazione, la memoria di un tempo ritrovato. Giuseppe Liotta

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biblioteca Mimma Valentino IL NUOVO TEATRO IN ITALIA 1976-1985 Corazzano (Pi), Titivillus, 2015, pagg. 584, euro 22 Il libro – terza tappa del progetto di analisi del Nuovo Teatro diretto da Lorenzo Mango – racconta i fenomeni e le esperienze più significative che attraversano il Nuovo Teatro italiano tra il 1976 e il 1985: un periodo caratterizzato da un grande fermento artistico e dal diffondersi di “tendenze”, manifestazioni (festival, rassegne) e formazioni teatrali. Il racconto si sofferma su alcune date cruciali, come il 1976, con la nascita della Postavanguardia e del Terzo Teatro, o la stagione 1984/1985, che segna un momento di più deciso riconoscimento e di maturazione per quelle formazioni protagoniste della rivoluzione scenica della seconda metà degli anni Settanta e la progressiva affermazione di nuovi gruppi. Alessandro Pontremoli TEORIA E TECNICHE DEL TEATRO EDUCATIVO E SOCIALE Torino, Utet, 2014, pagg. 286, euro 25 Per “Teoria e tecniche del teatro educativo e sociale” si intende una nuova disciplina nata nell’ambito degli studi universitari. Il volume intende dare ragione della prospettiva scientifica offerta dalla nuova disciplina e spunti di riflessione, analisi di azioni e percorsi operativi, a partire da angolature disciplinari complementari, come la psicologia di comunità, la drammaturgia dell’esperienza, la musicoterapia, la danzaterapia. TEATRO LABORATORIO DELLA TOSCANA, DIRETTO DA FEDERICO TIEZZI a cura di Sandro Lombardi e Fabrizio Sinisi, Corazzano (Pi), Titivillus, 2014, pagg. 136, euro 14 Un nuovo volume (dedicato agli anni 2013-14) per narrare gli sviluppi formativi e creativi di una realtà nata nel 2007 a opera di Federico Tiezzi. Numerosi e compositi i contributi: nella prima sezione, Un laboratorio nomade, il racconto dell’incontro di Tiezzi con il teatro classico indiano, stimolato da una corrispondenza con

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Ferruccio Marotti. Segue un corposo nucleo dedicato alla riflessione sulla drammaturgia (contributi, fra gli altri, di Walter Siti, Vitaliano Trevisan, Luca Doninelli). La parte finale del volume, invece, è più esplicitamente riservata all’esperienza pedagogicoformativa del Teatro Laboratorio: il percorso verso la messa in scena de Il pappagallo verde di Schnitzler; gli “esercizi di drammaturgia” su Kafka; il lavoro dell’attore su voce e movimento. Yves Lebreton ÉTIENNE DECROUX. LA STATUARIA MOBILE E LE AZIONI Corazzano (Pi), Titivillus, 2015, pagg. 272, euro 18 Un’indagine descrittiva del metodo e della tecnica della mobilità espressiva di Decroux, alla ricerca di una maggiore plasticità dell’arte scenica. Ispirandosi ad Appia, Craig, Copeau, Mejerchol’d, Schlemmer e Artaud, mentre gli altri si sforzavano di estendere l’eloquenza dell’attore alla dimensione fisica della recitazione, Decroux rinunciò alla parola per tornare all’essenzialità del corpo. Alle imposizioni dell’autore oppose la sua concezione del poeta-ginnasta. Annalisa Sacchi SHAKESPEARE PER LA SOCÌETAS RAFFAELLO SANZIO Pisa, Ets, 2014, pagg. 122, euro 18 In oltre trent’anni di vita la Socìetas Raffaello Sanzio ha esplorato, sorpassato e trasgredito le regole del teatro. Attraverso l’analisi delle due opere Amleto e Giulio Cesare, vengono affrontati i nodi cruciali del lavoro della Socìetas: il rapporto col testo, la nozione di figura, il ritorno del corpo, la presenza dell’animale, la forma dell’azione. Rosella Simonari LETTER TO THE WORLD. MARTHA GRAHAM DANZA EMILY DICKINSON Ariccia (Rm), Aracne, 2015, pagg. 248, euro 16 Letter to the World è una coreografia poco conosciuta di Martha Graham dedicata a Emily Dickinson. Confrontandosi con documenti di vario tipo

(scritti, orali, audiovisivi), l’autrice la ricostruisce e la contestualizza secondo una prospettiva storico-culturale. Emergono aspetti poco indagati del lavor o di Graham, come l’importanza del puritanesimo e il “motivo del viaggio”, ovvero il percorso a ostacoli che l’artista intraprende per portare a compimento la propria opera. AA.VV. IL TEATRO E IL SUO DOPO. UN LIBRO DI ARTISTI IN OMAGGIO A MARCO DE MARINIS a cura di Fabio Acca e Silvia Mei, Roma, Editoria&Spettacolo, 2014, pagg. 334, euro 30 Un primo tributo allo studioso Marco De Marinis in occasione dei suoi 65 anni, in cui più di 30 – tra attori, attrici e registi, gruppi, compagnie e formazioni – spesi a raccogliere i contributi qui presentati, totalmente inediti, accompagnati da un album di immagini, fotografie, bozzetti e disegni anch’essi pubblicati per la prima volta. Mariagabriella Cambiaghi CARTELLONI DRAMMATICI DEL PRIMO OTTOCENTO Milano, Guerini Scientifica, 2014, pagg. 197, euro 18 Una panoramica completa dei generi rappresentati tra il 1805, inizio del Regno d’Italia, e il 1853, anno dello scioglimento dell’ultima compagnia privilegiata, sovvenzionata dal Re di Sardegna, attraverso i cartelloni del primo Ottocento italiano: non appaiono così soltanto titoli e autori di prodotti letterari, ma anche moltissima drammaturgia scritta per la scena, rielaborata da uomini di teatro, liberamente tratta da materiale preesistente e di origine spesso non drammatica, per essere trasformata in copioni di immediato consumo. Giuseppe Liotta LO STUPORE E LO SGUARDO Bologna, Trame Perdute, 2014, pagg. 203, euro 18 Vent’anni di critica teatrale militante, dal 1968 al 1991, su importanti

testate tra cui Sipario, Il resto del Carlino, Il Nuovo quotidiano, Rivista del cinematografo, Avanti!. Giuseppe Liotta, drammaturgo, critico teatrale, docente universitario, collaboratore assiduo di Hystrio e per dieci anni presidente di Anct, ricostruisce così, dal suo punto di vista, la storia del teatro vissuta sul campo, vedendo e commentando con attenzione, ma anche “con stupore”, gli spettacoli più significativi della fine del Novecento. Lina Maria Ugolini IL TEATRO IN SCATOLA DA SCENA. CONTENITORE LUDICO E DIDATTICO PER SCRIVERE UNA DRAMMATURGIA BREVE Roma, Gremese, 2015, pagg. 190, euro 18 L’autrice propone uno strumento creativo semplice, accessibile a chiunque – attori, docenti, alunni – voglia capire a fondo i meccanismi costruttivi che regolano la scrittura teatrale. Una scatola, al suo interno delle car te suddivise in quat tro gruppi (tempo-ritmo, spazio, personaggi, oggetti) e dei fogli da usare come “bozzetti” della scena teatrale da costruire con carta, forbici e colori. Attraverso gli atti del costruire, giocare, scrivere, una breve drammaturgia può prendere forma. AA.VV. JINGJU. IL TEATRO CINESE NELLA COLLEZIONE PILONE Cinisello Balsamo (Mi), Silvana Editoriale, 2015, pagg. 264, euro 34 Il volume è il catalogo della mostra in corso fino a maggio presso il Museo delle Culture di Lugano, sulla collezione di Rosanna Pilone, giornalista, scrittrice e sinologa, che dedicò molti anni della sua vita allo studio dell’Opera di Pechino (Jing ju). Nel catalogo non sono presenti solo gli oggetti in esposizione, ma l’intera collezione, raccogliendo così gli esiti scientifici del pluriennale lavoro di studio e ricerca dell’équipe del museo luganese. Oltre ai saggi delle curatrici Elisa Gagliardi Mangilli e Barbara Gianinazzi, il volume contiene i contributi di sinologi e le schede di tutte le opere corredate da immagini.


Romolo Valli in Tutto per bene, di Pirandello, regia di Giorgio De Lullo, dal volume Lo stupore e lo sguardo.

Antonio Di Muzio IL TEATRO ALL’AQUILA E IN ABRUZZO. TSA, CRONACA E STORIA Teramo, Ricerche&Redazioni, 2015, pagg. 688, euro 40

Saverio La Ruina TEATRO. DISSONORATA, LA BORTO, ITALIANESI Corazzano (Pi), Titivillus, 2014, pagg. 189, Euro 15

A essere narrata è la storia, lunga più di cinquant’anni, del Teatro Stabile d’Abruzzo e di altri organismi operanti in Abruzzo, i successi, i personaggi, i periodi difficili. Una ricerca basata su fonti giornalistiche, interviste, testimonianze. Il libro, oltre all’Introduzione di Dacia Maraini e alla Prefazione di Ferdinando Taviani, presenta scritti di Eugenio Barba, Antonio Calenda, Raffaele Colapietra, Umberto Dante, Grazia Felli, Gian Piero Fortebraccio, Silvia Giampaola, Fabrizio Pompei, Alessandro Preziosi, Armando Rossini, Francesco Sanvitale, Ferdinando Taviani.

Il volume curato da Leonardo Mello raccoglie i testi degli spettacoli di Saverio La Ruina. “Staccati” dall’autore-interprete, acquistano un’autonomia drammaturgica che li rende adatti per essere portati in scena da altri attori. I testi, scritti in dialetto, hanno nella pagina “a fronte” la traduzione in italiano che poco toglie alla lingua dialettale originaria. I contributi di critici e studiosi di teatro arricchiscono il libro di osservazioni, tra cui quelle di Goffredo Fofi, Gerardo Guccini, Renato Palazzi e Paolo Puppa.

Eugène Labiche IL DELITTO DELLA RUE DE LOURCINE 29 GRADI ALL’OMBRA a cura di Guido Davico Bonino, Macerata, liberilibri, 2015, pagg. 84, euro 14 Due atti unici “fulminanti” del padre del vaudeville francese, Eugène Labiche (1815-1888), autore che, in quarantadue anni di frenetica operosità, ha lasciato ben centosettantatrè lavori teatrali, i più celebri dei quali (Un cappello di paglia di Firenze, Il viaggio del signor Perrichon, La cagnotte) sono ancor oggi nel repertorio della Comédie Française. Due piccoli gioielli da “teatro degli equivoci”, di cui fanno amaramente le spese o mogli troppo sospettose o mariti troppo ingenui. La curatela è del critico teatrale de La Stampa. Juan Villoro IL FILOSOFO DICHIARA Corazzano (Pi), Titivillus, 2014, pagg. 112, euro 11 A partire dalle rivalità tra i protagonisti della pièce – il Professore e Pato Bermúdez – si svela la pericolosa relazione tra potere e conoscenza e i privilegi che tale vincolo offre. Questa satira, rivolta al sistema accademico e al mondo della politica pubblica, prende di mira chi usa la filosofia e il sapere per tentare una scalata sociale e godere delle conseguenti ricompense e chi invece si rifiuta di entrare a far parte delle fila dei potenti ma mediocri.

Renato Gabrielli LA DONNA CHE LEGGE Bologna, Editrice Cue Press, 2015, pagg. 42, euro 5,99 (e-book) - 8,99 (cartaceo) Scrittura mai pigra quella di Gabrielli. Si apre a generi e sperimentazioni, scompagina le carte prima di divertirsi a cambiare (nuovamente) punti di vista, voci narrative. E, nonostante questo, riesce sempre a risultare leggibile e piacevole. Ne è un felice esempio quest’ultimo lavoro pubblicato dalla Cue Press, che ha debuttato a gennaio all’Out Off di Milano. Un uomo s’appassiona a una ragazza vista leggere in spiaggia. Le proporrà un accordo feticista: soldi in cambio della possibilità di guardarla mentre legge. Il resto è da scoprire. Andrea Camilleri IL QUADRO DELLE MER AVIGLIE. SCRITTI PER TEATRO, RADIO, MUSICA Palermo, Sellerio, 2015, pagg. 378, euro 18 Camilleri e il teatro, un rapporto inseparabile dalla sua attività di romanziere, essendosi spesso dedicato anche a regie, adattamenti, soggetti per il teatro, la radio, la televisione, il cinema, oltre che a libretti per musica. Il libro raccoglie testi di natura diversa, come La signora Leuca, riduzione teatrale dalla novella Pena di vivere così di Luigi Pirandello e Requiem per Chris, uno strano viaggio nello spazio e nel tempo, in cui si mescolano testi e musica jazz, Sicilia e New Orleans, il fascismo e i nostri giorni.

Alessandro Baricco SMITH&WESSON Milano, Feltrinelli, 2014, pagg. 108, euro 10

Fabio Chiriatti LO SCANNATOIO DEL LUNEDÌ Martignano (Le), Edizioni Kurumuny, 2015, pagg. 146, euro 13

Una pièce in due atti, ambientata nel 1902 sulle Cascate del Niagara, con tre personaggi: Tom Smith, meteorologo, Jerry Wesson, pescatore (di suicidi che si lanciano dalle cascate), Rachel Green, giovane giornalista decisa a sopravvivere al “tuffo” dalle cascate. Baricco maneggia alla perfezione tutti i luoghi comuni del racconto letterario: il sogno di un personaggio, un’impresa da compiere, un destino da assecondare. E usa la sua “sensibilità” teatrale per non farne personaggi di cartone.

Chiriatti, drammaturgo diplomato alla Paolo Grassi, classe 1984, ha più vol te collabora to con Zero grammi. In questo volume raccoglie tre testi, Mappughe, I Saburchi e Casca la terra, tre storie di spaesamento, dove la parola e la drammaturgia «trascinano il lettore verso l’altrove in cui sarebbe possibile trovare quiete». Con la prefazione di Renata Molinari e una nota di Diego Vincenti.

Paolo Puppa CA’ FOSCARI DEI DOLORI Corazzano (Pi), Titivillus, 2014, pagg. 272, euro 15

Emanuele Aldrovandi HOMICIDE HOUSE Bologna, Editrice Cue Press, 2015, pagg. 42, euro 5,99 (e-book) - 8,99 (cartaceo)

La storia di un matrimonio sterile e senza amore, cui si cerca di reagire con l’adozione di una fanciulla dell’Est, attraverso un iniziale affidamento. Lui, un mediocre professore di Storia della Repubblica Veneta all’università di Venezia, si innamorerà dell’adolescente. La storia si svolge a Venezia e si intreccia con il mondo accademico, con i suoi vizi e le sue cortigianerie, entro la crisi generale del Paese.

Un uomo che si indebita per il puro piacere di farlo, che si perde in un gioco al massacro da cui a salvarlo sarà la parola: Aldrovandi vince con questo testo il Premio Riccione Pier Vittorio Tondelli nel 2013 per «un’idea originale alla base della scrittura e un linguaggio disinvolto e agile nell’alternare isolati monologhi a fulminanti dialoghi». Prefazione di Fausto Paravidino.

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la società teatrale

a cura di Roberto Rizzente

La Riforma del Fus ovvero la primavera del nostro scontento di Roberto Rizzente

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n molti hanno gridato al complotto, tirando in ballo la geopolitica e presunti conflitti d’interesse dei “giudici”. Per dire quanto la Riforma del Fus, dopo le prove generali dei mesi scorsi, abbia movimentato le acque, ridisegnando i confini del sistema teatrale nazionale e le logiche di distribuzione delle (poche) risorse disponibili. Tutto è cominciato a fine febbraio, quando la Commissione consultiva per la prosa del Mibact, composta da Oliviero Ponte di Pino, Roberta Ferraresi, Ilaria Fabbri, Massimo Cecconi e presieduta da Lucio Argano, ha reso noti i nomi dei sette Teatri Nazionali per il triennio 2015-2017: le Fondazioni Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa (www.piccoloteatro.org) e Teatro Stabile di Torino (www.teatrostabiletorino.it), tra le prime in Europa. E poi l’Associazione Teatro di Roma, favorita dalla posizione geografica e dalle iniziative del neodirettore Calbi (www.teatrodiroma. net), la Fondazione Emilia Romagna Teatro (www. emiliaromagnateatro.it) e lo Stabile del Veneto-Carlo Goldoni, fresco di fusione con la Fondazione Atlantide (www.teatrostabileveneto.it). Fino ai due outsider: il neonato Teatro della Toscana, erede del Teatro della Pergola e della Fondazione Pontedera Teatro

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(www.fondazioneteatrodellapergola.it, www.pontederateatro.it), e l’Associazione Teatro Stabile della Città di Napoli, per l’occasione dotatasi in modo non episodico di una nuova sala, quella del San Ferdinando, e di una scuola, l’Accademia d’arte drammatica diretta da Luca De Filippo, col supporto del Comune (www.teatrostabilenapoli.it). La decisione della Commissione, come era facile prevedere, ha lasciato dietro di sé una ridda di proteste e di processi all’intenzione, arrivati fino in Parlamento. A cavalcare il malcontento, sono stati soprattutto i siciliani - tanto i progetti presentati dal Biondo di Palermo (www.teatrobiondo.it) quanto dall’Ente Teatro di Sicilia, a Catania (www.teatrostabilecatania. it), sono stati giudicati insufficienti a coprire il ritardo storico della Regione - e lo Stabile di Genova (www.teatrostabilegenova.it), uno dei primi quanto a storia e prestigio della sua Scuola di Teatro, eppure stroncato. Per motivi politici, secondo Sciaccaluga e soci, per il programma autoreferenziale e poco disposto all’innovazione, secondo la Commissione. Né è andata meglio a proposito dei Tric, i Teatri di seconda fascia, quelli di “rilevante interesse culturale”, individuati a marzo. Se è passata complessiva-

mente sotto silenzio la decisione di premiare i vecchi Stabili di Bolzano (www.teatro-bolzano.it), Friuli Venezia Giulia (www.ilrossetti.it), Brescia (www. ctbteatrostabile.it), Prato (www.metastasio.it), Marche (www.marcheteatro.it), Umbria (www.teatrostabile.umbria.it), Abruzzo (www.teatrostabile. abruzzo.it) e Sardegna (www.teatrostabiledellasardegna.it); lo Stabile Sloveno di Trieste, a tutela delle minoranze linguistiche (www.teaterssg.com); e i teatri virtuosi come l’Elfo (www.elfo.org) e il Franco Parenti di Milano (www.teatrofrancoparenti.it), le fondazioni Teatro Piemonte Europa di Torino (fondazionetpe.it), Luzzati Teatro della Tosse a Genova (www.teatrodellatosse.it), Teatro Due a Parma (www.teatrodue.org), e il neonato Teatro di Bari, formato da Kismet, l’Abeliano e Co&Ma (www.teatrokismet.org, www.nuovoteatroabeliano.com), ben altra eco ha avuto l’inclusione del Casanova-Teatro Eliseo di Roma (www.teatroeliseo.it), facente capo alla Casanova Multimedia Spa di Luca Barbareschi, ma nella realtà dei fatti ancora chiuso per il mancato accordo sulla proprietà. Per non parlare, poi, dei problemi che si sono venuti a creare in città come Genova, con la convivenza forzata tra due Tric, o in regioni come la Calabria, prive a ora di una rappresentanza degna di nota. In un contesto tanto problematico, la scelta dei primi dieci Centri di produzione teatrale (Fondazione Teatro di Napoli Nuova Commedia, la Casa del Contemporaneo di Salerno, la Baracca di Bologna, l’Accademia Perduta Romagna Teatri di Forlì, il Ravenna Teatro, il CSS Teatro Stabile di Innovazione del Friuli Venezia Giulia di Udine, il Teatro del Buratto di Milano, la Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani di Torino, la Fondazione Sipario Toscana di Cascina e la Piccionaia di Vicenza) chiamati a dividersi 13,5 milioni contro i 14 e 15 delle categorie precedenti, è apparsa ai maligni dettata più dalla volontà di compensare gli esclusi e ripianare le divergenze, che da un’autentica e meditata politica meritocratica. Colpa delle ingerenze politiche, diranno gli scettici. Se però si lasciano da parte i luoghi comuni e si va ad approfondire la questione, si scoprirà che il destino di molti teatri era inscritto nel Dna di una riforma che mira, prima di ogni altra cosa, a circoscrivere l’offerta, incoraggiando le fusioni (ne sono nate 3, nell’ambito dei Teatri Nazionali) e strozzando i teatri, imponendo, a parità di risorse, numeri, dati e vincoli a cui solo i “grandi” possono rispondere. Con buona pace di quelle realtà, magari piccole, che però tanto hanno significato, in termini di innovazione linguistica e culturale. Mentre andiamo in stampa, questo è lo stato dell’arte, in attesa che la Commissione prosa concluda il suo lavoro. Ne riparleremo sul numero estivo. ★


LA SOCIETÀ TEATRALE

La Siae conferma: il teatro continua a piacere Sono stati resi noti i dati Siae relativi al primo semestre 2014. Dal confronto con il 2013, risultano aumentati il numero (quindi l’offerta) di spettacoli (+1,76%), gli ingressi(+1,39%), la spesa al botteghino (+5,20%) e del pubblico (+2,45%), mentre è in lieve flessione il volume d’affari (-0,04%). Nello specifico delle “attività teatrali”, a fronte di un paio di indicatori in flessione, quali spesa del pubblico (-4,74%) e volume d’affari (-5,06%), sono in crescita il numero di spettacoli (+0,60%), gli ingressi (+0,97%) e la spesa al botteghino (+0,12%). L’unico dato a segnare una flessione significativa riguarda invece la Lirica: risultano in forte calo sia gli ingressi (-7,10%) sia la spesa al botteghino (-16,85%) a fronte di un segno positivo riguardate la prosa (+3,5% gli ingressi e +7,19% la spesa al botteghino). Info: www.siae.it

Nuova stagione a Pompei Riaperto lo scorso anno, il Teatro Grande di Pompei si prepara alla nuova stagione estiva, diretta da Luigi Veronesi. Evento d’apertura, dal 27 al 29 maggio, L’ultimo giorno di Pompei di Andrea Leone Tottola (1825), coproduzione del Festival della Valle d’Itria col Bellini di Catania. Il resto del programma sarà in agosto e prevede Tosca (regia di Maurizio Scaparro), La Traviata, Nabucco e Il Barbiere di Siviglia, quindi, per la danza, Carmen Suite, Giselle e Il Lago dei cigni, allestiti da Carla Fracci. Per quest’anno Veronesi annuncia un’importante novità: la creazione di un’orchestra e di un coro di giovani musicisti. Info: www.pompeifestival.com

Premi Danza & Danza Sono stati assegnati, come da tradizione, i premi della rivista Danza & Danza. Questo l’elenco: personaggio dell’anno, Alessandra Ferri; spettacolo contemporaneo, Excursions del Mark Morris Dance Group; produzione italiana, Sopra di me il diluvio della Compagnia Enzo Cosimi; interpreti, David Hallberg, Oksana Skorich, Daniil Simkin e Nicoletta Manni; interprete/coreografa, Cristiana Morganti; coreografi, Sharon Eyal e Roy Assaf; emergenti, Vittoria Valerio, Carlo Di Lanno, Angelo Greco; italiani all’estero, Sara Renda, Francesco Frola; premio alla carriera, Trisha Brown; premio Mario Pasi a Follia e disciplina. Lo spettacolo dell’isteria di Roberto Giambrone. Info: www.danzaedanzaweb.com

Un circuito per lo spettacolo dal vivo È stato presentato a marzo, a Milano Circle, Circuito Lombardo Europeo per lo spettacolo dal vivo. Nato dalla sinergia tra l’associazione Être, la Provincia di Brescia, la Comunità Montana del Lario Orientale e della Valle San Martino, Cassano Valcuvia, Erbusco e altri 40 comuni, proporrà in 89 città, appartenenti a

Le Buone Pratiche, fra teatro e cinema Un’inversione di senso, una parentesi che muta in fruttuose relazioni altrimenti pericolose. Teatro e cinema: un amore non (sempre) corrisposto. Fin dal titolo le Buone Pratiche del Teatro, quest’anno per la prima volta a Roma, hanno dimostrato di preferire alla contrapposizione sterile fra arte e industria la ricerca di linguaggi espressivi e modalità produttive sostenibili. L’iniziativa, a cura di Angelo Curti, Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino, è stata promossa dall’Associazione Culturale Ateatro, in collaborazione con Roma Capitale – Assessorato alla Cultura, Creatività, Promozione Artistica e Turismo, e con il Teatro di Roma. Venerdì 13 febbraio il programma si è aperto con alcune proiezioni in anteprima alla Casa del Cinema, mentre sabato 14, non a caso nel giorno di San Valentino, sul palco dell’Argentina autori, registi, attori, operatori e studiosi si sono dedicati a dipanare gli intrecci d’amore e odio tra il palcoscenico e lo schermo. Toni Servillo ha ricordato quanto il cinema appartenga ai registi e il teatro agli attori. «Ma se c’è dialogo – ha detto – gli spettatori possono mescolarsi e il pubblico crescere». Nonostante il nostro Paese sia al 27° posto in Europa per la spesa pubblica in cultura (dati Eurostat), l’arte rimane una risorsa economica e formativa. «Regista e cameraman sono tra le figure più richieste, – ha scandito Maurizio Sciarra, presidente dell’Apulia Film Commission – la formazione professionale crea posti di lavoro». E se Spiro Scimone (Compagnia Scimone-Sframeli) ha lamentato le tante difficoltà del cinema in fase produttiva rispetto all’artigianalità teatrale, Glauco Mauri ha raccontato di come con il teatro abbia dato una "spinta emozionale" al film di Tornatore Una pura formalità, che da un anno porta in giro per l’Italia insieme a Roberto Sturno. In definitiva, la lezione della due giorni romana delle Buone Pratiche può essere racchiusa in questa frase di Renato Carpentieri: «l’importante è esserci e lavorare con novità». Matteo Brighenti Info: www.ateatro.it

12 province, tra il 2015 e il 2017, più di 300 occasioni di spettacolo e incontro, dagli emergenti agli artisti affermati. Il comitato scientifico è composto da Mimma Gallina, Giulio Stumpo e Gerardo Guccini. Info: www.etreassociazione.it

Ietm Spring Meeting 2015 Si terrà a Bergamo dal 23 al 26 aprile, in occasione dello Ietm Spring Meeting, l’edizione speciale di Luoghi Comuni (foto a lato), il festival organizzato annualmente dall’Associazione Être. Nove le compagnie ospiti – Teatro delle Briciole, Deflorian/Tagliarini, Zerogrammi, Santasangre, Quattroquinte, Balletto Civile, 7-8 Chili, Fibre Parallele, Alessandro Sciarroni - cui vanno aggiunte le 4 maratone teatrali (Campsirago, 22 aprile; Idra, 24 e 25 aprile; Aia Taumastica, 25 aprile; Teatro IN-Stabile, 26 aprile) e i tanti eventi presso le residenze lombarde. Assente da dieci anni dall’Italia, il network Ietm comprende oggi più di 550 membri, provenienti da 50 Paesi del mondo. Info: www.etreassociazione.it, www.ietm.org

Torna Acrobazie Critiche Si è tenuta a marzo la seconda edizione del festival di critica teatrale per nuove generazioni “Acrobazie critiche”, promosso da Cristina Cazzola e Stratagemmi. Protagonisti, i ragazzi dai 14 ai 18 anni delle scuole secondarie di Milano e provincia, accompagnati nella visione e analisi di sei spettacoli al Franco Parenti, all’Elfo Puccini, al Verdi, al PimOff, all’Atir-Teatro Ringhiera e al teatro LaCucina, con tanto di workshop e la possibilità di pubblicare i propri scritti sul giornale on-line del Festival e su stratagemmi.it. Info: www.segnidinfanzia.org, www.stratagemmi.it

Lanza Tomasi all’Inda Gioacchino Lanza Tomasi, musicologo e studioso del melodramma italiano, è stato nominato nuovo sovrintendente della Fondazione Inda di Siracusa. Insediatosi a gennaio, Lanza Tomasi, che guiderà l’ente per i prossimi tre anni, ha dichiarato di voler riportare la stagione classica siracusana ai massimi livelli, con una programmazione triennale e con il ricorso ad artisti internazionali. Lanza Tomasi ha ricoperto incarichi di direzione artistica presso i Teatri Lirici di Palermo, Roma, Bologna e Napoli. Info: www.indafondazione.it

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LA SOCIETÀ TEATRALE

Per ricordare l’Ilva di Taranto C’era anche Made in Ilva - L’Eremita contemporaneo (foto a lato: Francesca Pianzola) tra gli ospiti del festival di teatro civile CassinoOFF (Fr). Prodotto da Instabili Vaganti, sul tema dell’acciaieria tarantina, lo spettacolo ha vinto il premio CassinoOFF “Teatri di Vita” nel 2014. Info: www.instabilivaganti.com

berto Casarotto sostituirà il maestro Walter Zappolini, fondatore nel 1960 della compagnia. Si tratta di un passaggio generazionale necessario, compreso all’interno di un processo di innovazione e internazionalizzazione dei contenuti e degli obiettivi della compagnia di danza, già avviato nel 2014. Casarotto sarà affiancato da Fabrizio Monteverde e Paolo Mangiola. Info: www.ballettodiroma.com

Interplay a Torino Addio a Nicola Saponaro

In-Box a Fuori Luogo Si terranno a La Spezia, dal 22 al 24 maggio, in occasione della rassegna FuoriLuogo, le finali della settima edizione di In-Box, il progetto di Straligut Teatro che mette in palio per i 4 finalisti 49 repliche presso i 43 partner dislocati in 15 regioni italiane, col sostegno del Comune di Siena e la Fondazione Toscana Spettacolo, per 49.000 euro complessivi di cachet. Le compagnie andranno inoltre ad arricchire il database di Sonar, il motore di ricerca del teatro emergente. Info: www.inboxproject.it, www.ilsonar.it

Apre il ridotto della Pergola Il Teatro della Pergola di Firenze inaugurerà un nuovo spazio scenico, all’interno della Sala Spadoni, opportunamente restaurata e adeguata. La sala, climatizzata e attrezzata, funzionerà come un “ridotto” da 60-70 posti, disponibile anche nei mesi estivi. Il teatro fiorentino, recentemente promosso a Teatro Nazionale, anche grazie alla “fusione” col Teatro Era di Pontedera, potrà così ampliare la propria offerta. I lavori, del valore di 4 milioni di euro, partiranno a maggio. Info: www.teatrodellapergola.it

Arrivano i Festival! Estate, ma non solo. Come da copione, anche le anteprime primaverili dei Festival possono riservare grosse sorprese. Tre sono gli eventi più attesi, tra maggio e giugno. Primavera dei teatri, innanzitutto. La XVI edizione del Festival promosso da Scena Verticale si terrà quest’anno dal 28 maggio al 2 giugno a Castrovillari, con i debutti di Milite Ignoto- quindicidiciotto di Mario Perrotta, Il libro del buio di Serena Sinigaglia, con Tindaro Granata, La beatitudine di Fibre Parallele e Io muoio e tu mangi di Quotidiana. com (www.primaveradeiteatri.it). Si prosegue con Torino, dove è di scena, dall’1 al 20 giugno, l’edizione del ventennale delle Colline: per l’occasione, verranno invitati gli artisti che hanno fatto la storia del Festival, da Latella alla Socìetas Raffaello Sanzio, da Emma Dante a ricci/forte, dal Teatro delle Albe a Cuocolo/Bosetti, oltre al collettivo femminile berlinese She She Pop, in scena con due lavori insieme alle madri e i padri delle attrici. (www. festivaldellecolline.it). Chiude questa prima tranche Inequilibrio. Dopo la preview dedicata alla danza contemporanea di Rigenerazioni/Eccentriche, dal 21 al 30 maggio, con CollettivO CineticO e il progetto Anticorpi XL, la programmazione di Armunia prosegue con la XVIII edizione del Festival maggiore, dal 24 al 28 giugno e dall’1 al 5 luglio, con, tra gli altri, Quotidiana.com, Claudio Morganti, Massimiliano Civica, Fortebraccio Teatro, Roberto Rustioni e Teatro Persona (www.armunia.eu). Roberto Rizzente

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È deceduto a gennaio il drammaturgo barese Nicola Saponaro. Nato nel ’35, si laureò in economia negli anni ’60. Figura di spicco nella vita culturale del capoluogo, fu attivo nel Cut (centro universitario teatrale), collaboratore de Il Piccolo Teatro di Bari e presidente del consorzio del Teatro Pubblico Pugliese. Definito da Franco Perrelli, nell’omonimo saggio, “poeta di compagnia”, lascia diversi testi, da I Girovaghi (Premio Selezione Marzotto, 1963), a La Traccia (Premio Ugo Betti e medaglia d’oro del Presidente della Repubblica, 1965), fino a Giorni di Lotta con Di Vittorio, La mafia non esiste, Rocco Scotellaro, La bottega dei sogni, Fedeltà. Le Edizioni Spirali/Vel di Milano hanno curato, nel 2008, un’edizione delle sue opere.

A Mnouchkine e Bonnefoy il Premio Nonino La direttrice del Théâtre du Soleil Ariane Mnouchkine e il poeta Yves Bonnefoy sono stati insigniti a gennaio del Premio Nonino e del Premio Internazionale Nonino 2015. A loro si aggiungono la filosofa Martha C. Nussbaum e Roberto De Simone, letterato e compositore. Giunto alla quarantesima edizione, il Premio, fondato nel 1975 a Ronchi di Percoto (Ud), in Friuli, dai distillatori Nonino, conferma il suo prestigio, annoverando in giuria, tra gli altri, Peter Brook ed Ermanno Olmi. Info: grappanonino.it/premio-nonino

Roberto Casarotto al Balletto di Roma Il Balletto di Roma è approdato al LV anno di attività annunciando la nomina di un nuovo direttore artistico. Ro-

Compie quindici anni Interplay, il festival torinese della giovane danza internazionale. L’edizione 2015 si terrà dal 23 maggio al 12 giugno con, tra gli altri, la coreografa greca Patricia Apergi, il collettivo ungherese Bloom!, Francesca Foscarini, Ambra Senatore, e il nuovo progetto di residenza “Switch/ Shared choreographic residencies”, con il Grand Studio di Bruxelles. Info: www.mosaicodanza.it

Il Margherita al Comune di Bari Passa dallo Stato al Comune di Bari la proprietà del Teatro Margherita. Nei piani dell’amministrazione, il Teatro, insieme all’ex Mercato del Pesce e alla sala Murat, opportunamente riqualificati con un finanziamento di dieci milioni di euro, rientrerà in un polo delle arti contemporanee e sarà parte integrante, accanto al Petruzzelli, il Kursaal Santa Lucia e il Teatro Piccinni (attualmente in fase di restauro), del network definito da Vendola “quadrilatero di teatri”. Info: www.comune.bari.it

Lirica, patrimonio dell’umanità La Cpi, Cantori Professionisti d’Italia, è l’associazione di cantanti lirici italiani e stranieri residenti in Italia fautrice della candidatura del melodramma a bene immateriale del Patrimonio Unesco. Testimonial dell’iniziativa è il tenore Fabio Armiliato. Chi volesse contribuire alla causa, può effettuare un bonifico all’Iban IT 50 E 02008 01600000102143979 (per bonifici dall’estero codice SWIFT: UNCRITM1200),causale: Melodramma candidatura Unesco. Info: www.cantoriproitalia.it


LA SOCIETÀ TEATRALE

Un Fringe per la Puglia Si terrà ad Andria, dal 18 al 24 maggio e in preview dal 24 al 26 aprile, la prima edizione dell’Apulia Fringe Festival. Promossa da Equilibrio Dinamico, con la direzione artistica di Vincenzo Losito e il patrocinio dell’Anct, darà alle compagnie selezionate la possibilità di partecipare ai Festival Castel dei Mondi, Benevento Città Spettacolo e Sale Nuovo, a Roma. Info: www.apuliafringe.com

Milano, torna IT Festival Saranno cinque i giorni di durata dell’edizione 2015 di It Festival, in programma dal 13 al 17 maggio alla Fabbrica del Vapore di Milano: tre di rassegna, aper ta al pubblico, e due propedeutici di confronto tra i partecipanti. Le durate degli spettacoli ammesse sono di 20 e 40 minuti, nelle due sezioni “spettacoli” e “studi”. È prevista anche una sezione “Mentor It”, riservata agli studi, in un’ottica di formazione e crescita personale, guidata da specialisti del settore. Info: www.itfestival.it

Ci lascia Ettore Zocaro Se n’è andato a gennaio il critico teatrale e musicologo Ettore Zocaro. Classe 1922, napoletano di nascita, romano d’adozione, collaborò alle pagine della cultura e dello spettacolo dell’Ansa, seguendo da vicino il Festival di Spoleto, l’Opera di Roma, il Macerata Opera Festival e Taormina Arte. Ricordiamo, tra le sue pubblicazioni, I passaggi di Dioniso. Venticinque anni dell’associazione teatrale tra i comuni del Lazio. Info: www.criticiditeatro.it

Caracalla e la lirica È stato presentato a Roma il cartellone estivo del Teatro dell’Opera, dal 23 giugno alle Terme di Caracalla, diretto da Alessio Vlad. Ventisei le serate, sotto il segno di Giacomo Puccini: fra gli eventi, la Madama Butterfly firmata da Àlex Ollé della Fura Dels Baus; una versione di Turandot affidata a Denis Krief; il ritorno de La bohème di Davide Livermore, dopo la stagione degli scioperi, il Gala di Roberto Bolle e l’o-

pera Pink Floyd Ballet di Roland Petit, su musica dei Pink Floyd. Info: www.operaroma.it

Arriva la Nid Platform Sarà Brescia, dopo la Puglia e la Toscana, a ospitare, dall’8 all’11 ottobre, la terza edizione della Nid Platform (Nuova Piattaforma della Danza Italiana). Promossa dal Mibac, Regione Lombardia e le realtà affiliate all’Adep in seno a Federdanza/Agis, con lo scopo di promuovere la produzione coreutica italiana all’interno del mercato internazionale, sarà inserita all’interno delle iniziative per Expo 2015. Info: www.nidplatform.it

Tutti pazzi per la Commedia dell’Arte

Premio Dante Cappelletti a Volver di Babel Crew È stato assegnato, il 28 febbraio, a Roma, il Premio Tuttoteatro.com alle Arti Sceniche Dante Cappelletti (XI edizione). La vittoria e il sostegno produttivo di 3000 euro sono andati a Volver di Babel Crew (nella foto) a cui la giuria riconosce la capacità di aprire «già in questo primo studio, un ventaglio di opzioni sceniche fondate nella tradizione contemporanea del teatro italiano: la pluralità delle lingue, gli strumenti della narrazione, il suono, il canto, la danza». Segnalati La metà di zero di Maniaci d’Amore, Milk/ Utøya di Mirko Feliziani e Shining di Federica Santoro, mentre I ragazzi del cavalcavia di Industria Indipendente e Natalia Di Iorio si aggiudicano, rispettivamente, il Premio della giuria popolare e il Tuttoteatro.com Renato Nicolini (III edizione). Presieduta da Grazia Maria Ballerini (nipote di Dante Cappelletti) e composta da Roberto Canziani, Gianfranco Capitta, Laura Novelli, Attilio Scarpellini, Mariateresa Surianello, Massimo Marino (membro dormiente) e Aggeo Savioli (membro onorario), la giuria aveva selezionato otto studi scenici, visionati pubblicamente al Teatro Palladium-Università Roma Tre. Gli altri finalisti erano Game theory: a play di Rosabella Teatro; Le scoperte geografiche di Morana/Franchi; e Aral di Circo Bordeaux. Ilaria Angelone Info: www.tuttoteatro.com

Il 25 febbraio si è tenuta la VI Giornata Mondiale della Commedia dell’Arte, istituita nel 2010 dall’Associazione Sat per commemorare il 25 febbraio 1545, giorno in cui nacque in Italia la prima compagnia di comici di professione. Quest’anno Padova è stata eletta città capofila di tutte le manifestazioni, e l’Accademia del teatro in lingua veneta ha organizzato l’evento centrale della settimana di festeggiamenti. Info: www.incommedia.org, www.accademiateatroveneto.it

I capolavori della danza in dvd con il Corriere È in edicola ogni mercoledì, fino al 3 giugno, la nuova collezione del Corriere della Sera dedicata alla danza, in collaborazione con il canale Classica Hd. Venti le uscite, in dvd e libretto, acquistabili anche presso La Scala Shop di Milano o sul sito store.corriere.it. Tra i titoli, Orfeo e Euridice di Pina Bausch, Sogno di una notte di mezza estate di Balanchine e La sagra della primavera di Nijinskij. Info: www.corriere.it

Addio a Paolo Terni ronconiano doc È scomparso a marzo lo scrittore e critico musicale Paolo Terni. Nato nel 1939 ad Alessandria d’Egitto, collaborò con la casa editrice Einaudi, subito

dopo la laurea in giurisprudenza e prima di vincere il concorso per la cat tedra di Storia della Musica all’Accademia Silvio D’amico, ove si distinse per le metodologie innovative nello studio della dimensione musicale della drammaturgia e delle arti teatrali. Autore e conduttore di programmi di divulgazione musicale per Radio3, scrittore per Sellerio e Bompiani, fu a n c h e c o n s ule n t e p e r r e g is t i cinematografici e teatrali, da Aldo Trionfo a Mauro Bolognini, da Lorenzo Salveti a Luca Ronconi. E proprio con Ronconi firmò il sodalizio più significativo della carriera, curando la scelta delle musiche di ben tredici produzioni del Piccolo: Il Sogno (2000), Lolita (2001), I gemelli veneziani (2001), Candelaio (2001), Quel che sapeva Maisie (2002), Prometeo incatenato (2003), Le baccanti (2004), Le rane (2005), Il ventaglio

(2007), Inventato di sana pianta (2007), Sogno di una notte di mezza estate (2008), Il mercante di Venezia (2009) e Santa Giovanna dei Macelli (2012).

La scomparsa di Manrico Gammarota Manrico Gammarota si è tolto la vita lo scorso febbraio all’età di 59 anni. Era attore, regista e autore teatrale, cinematografico e televisivo, pluripremiato in ruoli sotto la regia di Alessandro Gassmann (Persefone, nel 2009, per La parola ai giurati; e Premio della critica, nel 2010, per Roman e il suo cucciolo). Nell’ultimo periodo stava preparando Il custode, che avrebbe dovuto debuttare al teatro Curci – di cui era direttore artistico – di Barletta, la sua città natale.

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LA SOCIETÀ TEATRALE

tematici (corpo poetico, politico, tragico e furioso), con laboratori, installazioni, le vecchie produzioni di Lenz; e, a novembre, la ventesima edizione del Festival Natura dei Teatri. Info: www.lenzfondazione.it

Case Matte, teatro e psichiatria Prenderà il via in autunno il progetto “Case Matte”, promosso da Teatro Periferico di Cassano Valcuvia in collaborazione con Chille de la Balanza e la media partnership di Ateatro. Obiettivo dell’iniziativa è il recupero della memoria degli internati negli ex manicomi, attraverso letture, mostre, incontri e la circuitazione in tutta Italia, presso le otto realtà affiliate, di Mombello - Voci da dentro il manicomio, realizzato in collaborazione con delleAli Teatro. Info: www.teatroperiferico.it www.etreassociazione.it

L’Opera di Roma si tiene Fuortes Confermato dal Cda dello scorso febbraio, Carlo Fuortes, traghettatore della Fondazione Lirica fuori dalle bufere degli ultimi mesi, resterà alla guida del Costanzi. Rientrate le crisi, scongiurati i licenziamenti, partito Muti, il sovrintendente dovrà confermare il pareggio di bilancio e rilanciare il teatro sul mercato, con una programmazione innovativa (Elton John sarà ospite di Caracalla quest’estate). Info: www.operaroma.it

Nicolosi al Bellini Francesco Nicolosi è stato nominato direttore artistico del Teatro Massi-

Baryšnikov e Wilson al Festival di Spoleto

mo Bellini di Catania. Pianista di successo, Nicolosi è presidente, dal 1996, del Centro Studi Internazionale Sigismund Thalberg, direttore artistico della rassegna “I concerti d’Estate di Villa Guariglia”, dei Festival Jeux d’art a Villa d’Este e Roccaraso in Musica e dei Corsi Internazionali di Alto Perfezionamento e Formazione Musicale di Napoli e Roma. Info: www.teatromassimobellini.it

Una Fondazione per Lenz È nata Lenz Fondazione, frutto della sinergia tra Lenz Rifrazioni e Natura dei Teatri. Presieduta da Rocco Caccavari, con la direzione artistica di Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, propone fino a settembre il ciclo “Habitat Pubblico”, in quattro nuclei

Novità in vista per la Scala Col decreto firmato ai primi di gennaio la Fondazione Lirica milanese ottiene finalmente l’autonomia (insieme a Santa Cecilia) e l’approvazione del nuovo statuto. Il riconoscimento consentirà al teatro di gestire secondo regole proprie il finanziamento triennale conferito dal Mibac e di condurre trattative autonome sui contratti di lavoro. Ma le “novità” non si fermano qui. Da gennaio, ha assunto ufficialmente l’incarico di direttore musicale Riccardo Chailly, subentrato con un anno di anticipo a Barenboim, chiamato a Berlino. Il maestro milanese farà il suo debutto alla direzione dell’orchestra con la prossima Turandot, che dovrebbe inaugurare Expo il primo maggio (con tanto di suspense legata alle previste agitazioni dei lavoratori). Infine, ultima sorpresa dal Piermarini, la conferma di Alexander Pereira alla direzione del teatro per altri 5 anni. La scelta del nuovo Cda, insediatosi a gennaio, sorprende un po’ tutti, dopo le polemiche seguite ai poco chiari traffici di spettacoli con Salisburgo. Ma è probabile che il delicato momento di passaggio, col nuovo decreto ministeriale e l’arrivo di Expo, abbia convinto Pisapia (presidente del Cda) a difendere la stabilità del teatro. Ilaria Angelone Info: www.teatroallascala.it

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Un one man show basato sulla nuova edizione dei diari di Vaslav Nijinsky: questa la premessa di Letter to a Man, frutto della collaborazione fra Robert Wilson e Mikhail Baryšnikov (foto a lato), piatto forte della LVIII edizione del Festival dei due Mondi di Spoleto. Info: www.festivaldispoleto.com

Mehta, Gergiev e Gatti al Maggio Fiorentino Zubin Mehta, Valery Gergiev e Daniele Gatti, sono questi i direttori di punta scelti dal Maggio Fiorentino per il LXXVIII festival, in programma dal 26 aprile al 28 giugno. Spicca, tuttavia, nel programma l’assenza di una produzione coreografica propria: spetterà alla compagnia sudcoreana BulSsang, proposta da Fabbrica Europa, il 26 e 27 giugno al Goldoni, fare le veci di Maggiodanza, appena cancellato. Info: www.operadifirenze.it

Due vincitori al Premio Equilibrio Zero di Elisabetta Lauro e Pesadilla di Piergiorgio Milano: sono questi i vincitori ex aequo dell’ottava edizione del Premio Equilibrio Roma 2015, tenutasi a febbraio al Teatro Studio Borgna dell’Auditorium Parco della Musica. Le opere integrali, forti di un contributo complessivo di produzione di 20.000 euro, verranno presentate il prossimo anno in occasione del Festival della nuova danza Equilibrio. Info: www.auditorium.com

Trasparenze, terza edizione Si terrà a Modena dal 7 al 10 maggio la terza edizione del Festival Trasparenze, promosso da Teatro dei Venti, Ats Teatro dei Segni e Officinae Efesti. Le 4 compagnie vincitrici dell’omoni-

mo bando, che parteciperanno alla rassegna, sono Cuenca/Lauro, Estratto da (zero) work in progress; Gli Omini La famiglia Campione; Leviedelfool, LUNA PARK, Do you want a cracker? e VicoQuartoMazzini, Amleto Fx. Info: www.trasparenzefestival.it

La scomparsa di Nuccio Messina Il teatro italiano piange Nuccio Messina, scomparso a 85 anni lo scorso febbraio. Nel 1955 fu tra i fondatori dello Stabile di Torino, a fianco del primo direttore Nico Pepe. Trasferitosi in Sicilia, fu a capo della Compagnia Stabile di prosa della città di Palermo e poi del Festival del Meridione, prima di diventare, nel 1959, segretario generale del Teatro Popolare Italiano di Gassman, con l’impresario Giuseppe Erba. Tornato a Torino nel 1964, diresse lo Stabile per un decennio, accanto al regista Gianfranco De Bosio. Nel 1974 e fino all’81 fu direttore dello Stabile del Friuli Venezia Giulia e nel 1980 tra i fondatori di Veneto Teatro. Ancora, nel 1990, venne nominato presidente dell’Unat-Agis sezione Teatri Stabili Pubblici, nel 1998 direttore del Teatro Greco di Siracusa, nel 1993 fondò il mensile Primafila, guidandolo fino al 2004, e nel 2005 diede vita alle Maschere d’Oro. Fondò inoltre con Aldo Trionfo, nel 1973, il “Centro Studi del Teatro Stabile di Torino” al quale donò, nel 2012, tutto il suo immenso patrimonio letterario.

La maschera di Bellini La collezione del Museo Vincenzo Bellini di Catania si è arricchita, da febbraio, della maschera mortuaria del maestro. La riproduzione, fedele all’originale, è stata effettuata in Abs con una stampante 3D Dimension SST 1200 della società americana Stratasys, utilizzando le tecniche di reverse engineering, che consentono il contatto tattile agli ipovedenti. Info: www.comune.catania.it

Norcia ingaggia Sylos Labini È stata inaugurata a gennaio la nuova stagione del neodirettore del Teatro Civico di Norcia, Edoardo Sylos Labini,


LA SOCIETÀ TEATRALE

già direttore del Manzoni di Milano. Tra le proposte, le serate dedicate alla “scoperta” di personalità del teatro (si è iniziato con Lando Buzzanca, a gennaio) e spettacoli di prosa con Luca Barbareschi, Geppy Gleijeses e Lello Arena. Info: www.edoardosyloslabini.com

Romeo direttore a Genova Amedeo Romeo è il nuovo direttore del Teatro della Tosse di Genova. Milanese, classe 1970, un diploma all’Accademia dei Filodrammatici e una laurea in economia in tasca, a lungo collaboratore di Teatri Possibili e per 15 anni della Tosse, attore, regista, scrittore e traduttore, Romeo subentrerà per i prossimi tre anni al presidente Emanuele Conte. Info: www.teatrodellatosse.it

I Teatri Off uniti a Padova Si è costituita a febbraio la Cooperativa di Impresa Sociale “Top-Teatri Off Padova”. Cinque gli affiliati: Teatro de LiNUTILE, Carichi Sospesi, Tpr - Teatro Popolare di Ricerca, Teatrocontinuo e Amistad Teatro. La prima stagione è sostenuta dal Comune di Padova, la Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e la Fondazione Antonveneta. Info: www.teatrioffpadova.com

È morto Ruggero Bianchi Il 27 gennaio si è spento a Torino l’americanista Ruggero Bianchi. Fin dagli anni ’70 si è occupato della scena contemporanea, tenendo un corso sul teatro di ricerca al Dams di Torino e pubblicando saggi, da Autobiografia dell’avanguardia a Il teatro negli Stati Uniti: alla ricerca dell’innovazione permanente, entro la Storia del teatro moderno e contemporaneo di Alonge e Davico Bonino.

La Versiliana si rinnova Si terrà dal 19 giugno al 20 agosto la XXXVI edizione della Versiliana: diretta da Luca Lazzareschi, affiancherà alla tradizionale programmazione di Marina di Pietrasanta una nuova sezione al teatro delle Scuderie Granducali di Seravezza, “Versiliana Upgrade Festival”, dedicata alle scena contemporanea, oltre agli eventi collaterali di “Versiliana Extra!”. Info: www.laversilianafestival.it

Valle, riapre il foyer Ha riaperto a marzo il foyer del Teatro Valle. Momentaneamente adibito a punto informativo del Teatro di Roma, potrebbe ospitare, in attesa della riapertura della sala maggiore, dopo i necessari lavori di restauro, le attività della Fondazione Teatro Valle Bene Comune, che qui porterebbe avanti la propria politica di sperimentazione culturale. Info: www.teatrovalleoccupato.it; www.teatrodiroma.net

Roma Fringe Festival Si terrà a Roma dal 30 maggio al 5 luglio, nella nuova location dei Giardini di Castel Sant’Angelo, il Roma Fringe Festival 2015. Con il patrocinio della World Fringe Society di Edimburgo, proporrà dieci spettacoli a sera nelle categorie dramma, commedia, teatro civile, teatro canzone, danza, performing arts, installazioni, street art, puppet e stand up comedy. Info: www.romafringefestival.it

Il Premio Sipario a Ferruccio Soleri Lo scorso 7 Febbraio è stato assegnato il Premio Sipario San Genesio “Eccellenza del teatro nel mondo” a Ferruccio Soleri, storico Arlecchino del Piccolo Teatro. A premiare l’attore, in occasione dell’inaugurazione allo Spazio Arlecchino Casa della mostra “Le Famose Maschere della Commedia dell’Arte”, il sindaco di Montemurlo di Prato, Mauro Lorenzini. Info: www.premiosipario.it

memoria di Riccardo Cavallo per Avenida del Sol Buenos Aires - Corso Garibaldi S. Rosalia. Il testo si è imposto su L’inconciliabile o l’importanza dell’orologio di Tiziano Rovai e Gli innamoranti - una favola del sud di Chiara Rossi e Silvestra Sbarbaro. Il premio è stato consegnato a Roma lo scorso gennaio. Info: associazioneperlospettacolo.it

Un nuovo spazio per Firenze Cambia nome il Teatro Nuovo, presso l’Arci Lippi, e diventa Alias Teatro. Lo spazio, che aveva una programmazione in vernacolo, manterrà i legami con il territorio, con un cartellone

che spazia dalla prosa al cabaret. Parola di Roberto Pratesi e Silvia Papucci, Sp Management, che ne prendono la gestione. Info: http://circololippi.it

Maria Callas e Giuseppe Verdi Lo scorso gennaio, presso la Sala Convegni di Palazzo Gran Guardia a Verona, Nicola Guerini, presidente del Festival Internazionale Maria Callas, ha inaugurato il ciclo di convegni “Maria Callas e Giuseppe Verdi”. Gli incontri, che mirano a omaggiare le due icone, si protrarranno fino ad agosto. Info: www.festivalinternazionalemariacallas.org

Ligabue si fa in tre Nel 2013 debuttò a Primavera dei Teatri Un bès – Antonio Ligabue, Premio Ubu all’attore e “Hystrio-Twister, Nuovo pubblico in movimento”. Nel 2014, ancora a Castrovillari, fu la volta di Pitùr. Ora, i due progetti confluiscono in Bassa continua – Toni sul Po (foto sotto), evento conclusivo del progetto dedicato al “pittore folle” Antonio Ligabue, in programma dal 21 al 24 maggio nella bassa reggiana, tra l’ex manicomio San Lazzaro di Reggio Emilia fino alle sponde del Po a Guastalla, col concorso di 150 tra attori, musicisti, danzatori, cantanti, video-makers, fotografi e artisti figurativi. Tre i percorsi previsti, che ogni sera confluiranno nella piazza di Gualtieri per il finale collettivo: “Fiume – della solitudine e della libertà (Antonio Ligabue e i suoi anni di solitudine in un bosco)”, “Città – degli uomini e dello scemo del paese (Antonio Ligabue e le facce animali dei suoi concittadini)”, “Manicomio – dell’arte e della follia (Antonio Ligabue alla conquista di se stesso in una cella di manicomio)”. Ideato, diretto e interpretato da Mario Perrotta, con la co-produzione del Teatro dell’Argine di San Lazzaro di Savena, il Progetto Ligabue, nel cinquantennale della morte dell’artista, ha ottenuto il riconoscimento di anniversario d‘interesse nazionale 2015 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. R.R. Info: www.progettoligabue.it

Dolce&Gabbana alla Scala È stata presentata a gennaio la nuova collezione di Dolce&Gabbana. Location d’eccezione: il Ridotto Toscanini della Scala di Milano, con modello Roberto Bolle. Per il finale, la coppia di stilisti ha scelto gli abiti da ballo del Gattopardo con applicate in seta le locandine dei più famosi spettacoli in cartellone. Info: www.dolceegabbana.it

Al via il Riccardo Cavallo A Roberto Attias va il primo Premio di Drammaturgia 2015 intitolato alla

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LA SOCIETÀ TEATRALE

Il teatro entra nel PostModernissimo Francesco “Bolo” Rossini dirigerà la stagione teatrale numero zero del PostModernissimo, lo spazio polifunzionale da poco inaugurato a Perugia. Oltre alla programmazione di film nelle tre sale e alle mostre, lo spazio offrirà spettacoli (uno al mese) musical-teatrali, fortemente intrecciati al cinema. Info: www.postmodernissimo.com

Vitali direttore a Sassari

Del Frate-Pisu, parodiando i vizi italici in spettacoli come L’assillo infantile, Hobbyamente, 365 e Italiani si nasce.

Bologna apre i teatri Proposta da “Succede solo a Bologna”, “Bologna e la musica” è l’iniziativa che, fino a ottobre, una o due volte al mese, permetterà al pubblico di visitare i teatri cittadini, assistendo persino alle prove d’orchestra al Comunale, comodamente seduti accanto a uno strumentista. Info: www.succedesoloabologna.it

Dallo scorso 1 gennaio Lorenzo Vitali è il nuovo direttore artistico del Teatro Verdi di Sassari. Vitali, già patron da due anni del Teatro Nuovo di Milano, è stato nominato dal presidente Carlo Solinas e da Giorgia Guarino, amministratore delegato della società che da 30 anni gestisce il teatro. Info: www.nuovoteatroverdi.it

Laurea a Toni Servillo

Addio a Marisa Del Frate

Ex Aequo per il Pradella

È morta il 6 febbraio a Roma, all’età di 83 anni, Marisa Del Frate. Soubrette di successo accanto a Macario e Dapporto, protagonista del varietà televisivo L’amico del giaguaro, si dedicò anche al teatro con la compagnia Bramieri-

Eco di Fondo ed Epos Teatro: sono queste le compagnie vincitrici ex aequo della prima edizione del premio Pradella, riservato dall’Accademia dei Filodrammatici di Milano alle giovani compagnie formate da ex-allievi della

Dal 28 febbraio scorso l’attore Toni Servillo è Dottore ad honorem in Discipline della Musica e dello Spettacolo presso l’Università di Bologna. La cerimonia si è tenuta nell’Aula Magna Santa Lucia, alla presenza del rettore Ivano Dionigi, in diretta streaming. Info: www.unibo.it

Addio a Giuliano Vasilicò Il 15 febbraio, a Roma, è morto per un infarto il regista Giuliano Vasilicò, 75 anni, tra i protagonisti del teatro di ricerca degli anni ‘60-‘70. Nato a Reggio Emilia nel 1940, si formò, durante la permanenza in Svezia, a stretto contatto con realtà artistiche d’avanguardia. Tornato a Roma, dopo una parentesi al Teatro “La Fede” con Giancarlo Nanni, mise in scena con la propria compagnia, fondata nel ’69 insieme a Agostino Raff, Fabio Gamma, Ingrid Enbon e la sorella Lucia, Missione psicopolitica e L’occupazione, subito inserendosi nel movimento delle “cantine romane”, gravitanti intorno al Beat 72. Nel 1971, con la rappresentazione “compressa” dell’Amleto - un’ora, quattro personaggi – inaugurò la serie delle trasposizioni da opere letterarie, che procurarono a Vasilicò fama e riconoscimenti internazionali, tra cui Le 120 giornate di Sodoma (1972), Proust (1976), la prima parte de L’uomo senza qualità (1984) Il ritratto di Dorian Gray (1985), Il Mago di Oz (1988) e Il compimento dell’amore (1988). Negli anni seguenti, a partire dalla seconda parte de L’uomo senza qualità, Vasilicò approfondì la dimensione laboratoriale e di studio, realizzando spettacoli “aperti” (la trilogia Il Regista in scena Il Percorso artistico, La Ragione e il Sentimento) e ripensando i propri spettacoli. Dal 2006, dopo un personale ritorno alla fede cristiana, si impegnò in spettacoli di argomento religioso, da La Fede del Trecento a Santa Caterina da Siena, fino a Dal Vangelo secondo Giovanni. L’ultima apparizione di Vasilicò è del maggio scorso, con la riproposizione a Roma de Il regista in scena. Francesca Carosso Info: www.giulianovasilico.it

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scuola. Per loro, l’ospitalità in cartellone il prossimo autunno. Info: accademiadeifilodrammatici.it

Premi Puccini 2014 Assegnati lo scorso dicembre dall’omonima Fondazione Festival, al termine del mese pucciniano a Torre del Lago, i Premi Puccini sono andati a Serena Farnocchia (soprano) e Fabio Armiliato (tenore), migliori voci della stagione. Info: www.puccinifestival.it

Torna il Teatro Area Nord Ha riaperto, dopo sette mesi di chiusura forzata per inagibilità, il Teatro Area Nord a Napoli, nelle periferie settentrionali. La programmazione dello spazio sarà ripartita con Start/Interno 5 e diretta da Lello Serao e Hilenia De Falco. Info: liberascena1@gmail.com

Plagiati Certi discorsi Si è risolto con un risarcimento danni per violazione del diritto d’autore il processo per il plagio di Certi discorsi di Giovanni Franci, messo in scena dalla direttrice del Teatro Spazio Uno di Roma col titolo La casa nella notte. L’autore si è accorto del misfatto presenziando alla prima dello spettacolo.

Chiarot resta alla Fenice È stato riconfermato alla sovraintendenza della Fondazione Teatro La Fenice di Venezia Cristiano Chiarot. Il ministro Franceschini ha firmato il decreto di nomina in conformità con la proposta del consiglio di indirizzo, che ne chiedeva la conferma. Info: www.teatrolafenice.it

Un liceo per la danza È stato presentato, a fine gennaio, a Mantova, il Liceo Coreutico Isabella d’Este, attivo dall’anno scolastico 2015/2016. L’istituto, che fa il paio col liceo musicale, avviato qualche anno fa, è diretto da Daniela Cremonesi. Info: www.arcoeste.gov.it

Il quarantennale di Pier Paolo Pasolini Sono iniziate il 5 marzo alle Moline con Tutto il mio folle amore di Astorritintinelli (foto sopra), le iniziative bolognesi per il quarantennale della scomparsa di Pier Paolo Pasolini. Numerose le attività in cantiere, tra queste, lo spettacolo itinerante Pilade, promosso da Archivio Zeta dal 25 aprile; l’allestimento di Teatri di Vita da Petrolio e la Cena Pasolini, ideata da Virgilio Sieni. Previsti anche il restauro di Salò o le 120 giornate di Sodoma e mostre sul Pasolini pittore. Info: www.arenadelsole.it

Nuovo spazio a Treviglio Nasce il Tnt, Teatro Nuovo Treviglio nell’omonima cittadina bergamasca, un nuovo spazio da 350 posti. La struttura è stata aperta al pubblico nel gennaio scorso in occasione della giornata della memoria e inaugurata a fine febbraio. Info: www.comune.treviglio.bg.it

Il contemporaneo per le Marche Proseguono fino al 30 maggio a Pesaro, Urbino, Fano, Urbania, San Costanzo e San Lorenzo in Campo, gli appuntamenti


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dell’XI edizione di Teatroltre, promossa dall’Amat. Segnaliamo il gruppo di Anticorpi Explo, Muta Imago ed Enzo Cosimi. Info: www.nuovascenamarche.it

Le Briciole in un documentario Piccoli spettatori crescono. Trentotto anni del Teatro delle Briciole di Parma è il documentario realizzato dalla Rai, in occasione dei 38 anni di attività del teatro parmense. Curato da Felice Cappa, è stato trasmesso lo scorso 10 gennaio da Rai5. Info: www.rai5.rai.it; www.solaresdellearti.it

Sani sovrintendente per Bologna Nicola Sani è il nuovo sovrintendente del Comunale di Bologna. Già direttore artistico dell’Opera di Roma, Sani, classe 1961, compositore, è stato nominato a febbraio dal ministro Franceschini, dopo la designazione unanime del Cda del teatro. Info: www.tcbo.it

MONDO Tornano i National Dance Awards Sono stati assegnati a gennaio a Londra dal Circolo dei Critici i National Dance Awards. Due le stelle: Natalia Osipova, miglior ballerina e performance femminile nel balletto, e Jonathan Goddard, miglior ballerino e performance maschile, per la danza contemporanea. Segnalati, tra gli altri, Xander Parish, miglior performance maschile nel balletto; la compagnia indipendente Mark Bruce Company e l’English National Ballet; l’emergente Francesca Hayward; i coreografi Akram Khan e Christopher Wheeldon, rispettivamente per il contemporaneo e il classico; Wendy Houstoun, miglior performance femminile nel contemporaneo; Carlos Acosta e Frank Doran, vincitori, rispettivamente, dei premi De Valois e Jane Attenborough. Info: www.criticscircle.org.uk

Sospeso a Broadway il musical di Sting Nonostante gli sforzi per tenerlo in vita, il personalissimo musical teatrale di Sting The Last Ship, incentrato sui cantieri navali in crisi di Wallsend, non ha retto alla legge del botteghino e ha alzato il sipario l’ultima volta lo scorso 24 gennaio. Lo spettacolo, caro a Sting e ai suoi produttori, in tre mesi di repliche non è riuscito nemmeno a scalfire gli esorbitanti costi di produzione, portando alla chiusura obbligata dello show.

A Lugano in mostra l’Opera di Pechino Dura fino al 10 maggio la Mostra “Jingju” (“Il Dramma della Capitale”), dedicata al Teatro cinese dall’Heleneum, Museo delle Culture di Lugano, e curata da Barbara Gianinazzi e Marco Musillo. Il materiale (maschere, costumi, accessori, elementi di scena) proviene in gran parte dalla collezione della sinologa Rosanna Pilone, custodita dal Museo di Zurigo. Presso la stessa sede, sempre fino al 10 maggio, è visitabile anche una mostra dedicata alla danza balinese, con maschere e costumi dalla collezione della danzatrice Cristina Wistari. Info: www.lugano.ch/museoculture

Bradley Cooper a teatro Bradley Cooper calcherà il palco del Theatre Royal Haymarket di Londra nei panni del protagonista di Elephant Man (foto a lato), dramma già sceneggiato con molta fortuna da David Lynch nel 1980. Tratto da una storia vera, lo spettacolo sarà diretto da Scott Ellis e debutterà il 19 maggio per un totale di dodici settimane. Info: elephantmanlondon.com

to, in passa to, da un par terre prestigioso dove spiccano i nomi di Jean Cocteau, Luchino Visconti, Peter Brook e Vaclav Havel. Tradotto in oltre 30 lingue, il messaggio di Warlikowski è stato diffuso in tutto il mondo attraverso il network Iti (circa 100 Centri Nazionali e numerosi membri cooperanti) e molte altre organizzazioni teatrali, che hanno realizzato anche eventi, spettacoli e varie attività. In Italia citiamo le iniziative realizzate, il 27 marzo, dalla Compagnia Astràgali al Teatro Paisiello di Lecce e dall’Associazione Aenigma nella Casa Circondariale di Pesaro. Info: www.world-theatre-day.org

Sei promesse per il Prix de Lausanne Si è tenuta a febbraio al Beaulieu Théâtre la XLIII edizione del Premio Losanna per giovani danzatori. Sei le borse assegnate, rispettivamente a Harrison Lee (Australia); Jisoo Park (Sud Corea); Mitsuru Ito e Rina Kanehara (Giappone); Miguel Pinheiro (Portogallo) e Julian MacKay (Usa). Lou Spichtig si è aggiudicato il Premio del pubblico e come miglior artista svizzero. Info: www.prixdelausanne.org

dall’Opera di Valencia, ha vinto nel 2014 il Premio Campoamor, subentra a Helga Schmidt. Info: www.lesarts.com

PREMI Un bando per la performance È indetta la prima edizione di Cross Award, promosso da Lis Lab Performing Arts in collaborazione con Teatro sull’Acqua (Arona) e Fondazione Cariplo, e riservato ad artisti e compagnie nel campo della performance e della musica. I tre progetti finalisti verranno ammessi alle residenze in programma a Verbania dal 28 giugno al 3 luglio e poi presentati il 4 luglio in occasione del Festival Villaggio d’Artista. Al vincitore assoluto la giuria, presieduta da Lea Vergine, riconoscerà un contributo alla produzione di 4000 euro. Le candidature devono pervenire, tramite il form online, entro il 30 aprile. Info: www.crossaward.com

Livermore a Valencia

Fersen, tra regia e drammaturgia

Davide Livermore è stato nominato a gennaio direttore artistico del Palau de les Arts di Valencia. Già alla guida del Baretti di Torino, Livermore, la cui Forza del Destino, prodot ta

C’è tempo fino al 30 maggio per partecipare all’XI edizione del Premio Fersen. Due le sezioni: drammaturgia e regia. I materiali vanno inviati all’indirizzo: Mirios, via Cesare da Sesto 22

Il messaggio di Warlikowski Istituita nel 1962 per iniziativa dell’Iti (International Theatre Institute), la Giornata Mondiale del Teatro ha festeggiato come di consueto il suo compleanno, il 27 marzo, con un celebre artista. Quest’anno, il regista polacco Krzysztof Warlikowski precedu-

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- 20123 Milano. In palio, la pubblicazione in e-book e cartaceo dei testi selezionati, la recensione della Giuria (Enrico Bernard, Andrea Bisicchia, Fabrizio Caleffi, Anna Ceravolo, Ombretta De Biase e Corrado D’Elia), e la possibile ospitalità in alcuni teatri milanesi. La quota è di 35 euro. Info: www.siad.it, www.ombrettadebiase.it

Torna il Premio Gerundo Al via la XIII edizione del Premio Lago Gerundo. Si concorre alla sezione C “Francesco de Lemene” con atti unici, monologhi e testi della durata massima di 90 minuti. Sono previsti buoni in denaro e la pubblicazione in e-book a cura di Morellini Editore. I testi vanno inviati entro il 31 maggio alla Biblioteca Comunale, Piazza della Libertà 3 – 20067 Paullo (Mi) e per mail all’indirizzo associazionefrontiera@hotmail. com. La quota è di 25 euro. Info: www.lagogerundo.org

Molfetta, prima edizione del Premio Bertolucci

Ipazia, un premio tutto al femminile

Sono aperte fino al 22 maggio le iscrizioni alla prima edizione del Premio di drammaturgia Molfetta per il Teatro civile “Giuseppe Bertolucci” dedicato a monologhi (max 20.000 battute) inediti e mai rappresentati, che valorizzino la drammaturgia civile contemporanea. La giuria – composta da Concita De Gregorio, Nicola Lagioia, Graziano Graziani e Lucilla Albano – assegnerà al vincitore un premio di 2.500 euro, secondo premio 1.000 euro e terzo 500 euro. La partecipazione è gratuita. La premiazione avverrà a Molfetta, tra il 23 e il 26 luglio, nell’ambito di un Festival di Teatro Civile. I testi dovranno essere inviati al Comune di Molfetta, presso la sede di via Carnicella o presso la sede di via Martiri di Via Fani, o con posta certificata all’indirizzo protocollo@cert.comune.molfetta.ba.it. Info: www.comune.molfetta.ba.it/ comunicatistampa

“Il talento delle donne, nell’arte, nel lavoro e nella vita”: è il tema della III edizione del Premio Ipazia alla Nuova Drammaturgia Contemporanea, riservato alle donne. Si concorre, entro il 13 luglio, inviando il materiale a M.E.D.Ì Schegge di Mediterraneo, via al Ponte Calvi 6/1D – 16124 Genova, e per mail all’indirizzo premioipazia@eccellenzalfemminile.it. La quota è di 20 euro. Previsti premi in denaro, la pubblicazione e la mise en espace. Info: www.eccellenzalfemminile.it

Piccoli testi per piccoli attori Il 21 aprile è la data ultima per iscriversi alla prima edizione del concorso di drammaturgia in breve per ragazzi “Piccoli testi per piccoli attori”, bandito da Gremese Editore e IterCulture. Il materiale dovrà essere inviato all’indirizzo: IterCulture, via Napoli 17/A – 95127 Catania e in digitale a: info@ iterculture.it. È prevista la pubblicazione dei testi selezionati. Info: www.iterculture.it

Lorenzo Salveti, via Bellini 16 - 00198 Roma, e per mail a info@criticagiornalistica.it. La quota è di 3500 euro, nove le borse di studio. Il monte-ore complessivo è di 1500, a partire dal 19 novembre, e include corsi, seminari e stage. Info: www.criticagiornalistica.it

Torino, a scuola con Mamadou Dioume Policardia Teatro presenta “Cammini”, un workshop con Mamadou Dioume, collaboratore storico di Peter Brook, e il regista Andrea E. Moretti. Il workshop si svolgerà i giorni 1, 2 e 3 maggio 2015 presso lo spazio Genè 5, in via Genè 5 a Torino. Il contributo di partecipazione è di 200 euro. Info: www.policardiateatro.it

Drammaturgia col Cendic Proseguono, fino al 25 maggio, i seminari di drammaturgia promossi dal Cendic alla Casa dei Teatri di Roma. Gli incontri, a cura di Alfio Petrini e Marcantonio Lucidi, sono gratuiti. Info: info@centrodrammaturgia.it

Donne e teatro

Corsi estivi all’Eutheca

Bandita la XVI edizione del Premio di drammaturgia femminile “Donne e teatro”. Le opere vanno inviate entro il 31 maggio all’attenzione di Bianca Turbati, via Ugo de Carolis 61 - 00136 Roma. In palio la pubblicazione delle tre opere finaliste, a cura di Borgia Editore. Il Premio è promosso dall’Associazione Donne e Teatro, Liberté onlus e l’IBL Banca. Info: tel. 06.35344828, 339.3407285

Sono aperte fino al 17 luglio le iscrizioni per la sessione estiva dei corsi per attori di Eutheca (European Union Academy of Theater and Cinema). Per partecipare alle selezioni bisogna scaricare il bando dal sito e compilare un form online. Info: www.eutheca.eu

CORSI Critica giornalistica master alla D’Amico È uscito il bando del Master in Critica Giornalistica, promosso dall’Accademia Silvio D’Amico. Le domande devono essere inviate entro il 30 settembre all’at tenzione del Diret tore,

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Hanno collaborato: Ilaria Angelone, Giorgia Asti, Laura Bevione, Matteo Brighenti, Francesca Carosso, Alessio Negro, Emilio Nigro, Chiara Viviani


PUNTI VENDITA Trova Hystrio nella tua città Rivista trimestrale di teatro e spettacolo fondata da Ugo Ronfani editore: Hystrio-Associazione per la diffusione della Cultura Teatrale, via Olona 17, 20123 Milano. direttore responsabile: Claudia Cannella redazione: Ilaria Angelone, Albarosa Camaldo, Roberto Rizzente, Monica Giacchetto (segreteria). progetto grafico: www.studiopaola.it grafica e impaginazione: Alessia Stefanini hanno collaborato: Paola Abenavoli, Matteo Antonaci, Sergio Ariotti, Nicola Arrigoni, Giorgia Asti, Giuseppe Battiston, Massimo Bertoldi, Laura Bevione, Mario Bianchi, Paola Bigatto, Matteo Brighenti, Fabrizio Sebastian Caleffi, Roberto Canziani, Gianfranco Capitta, Francesca Carosso, Sara Chiappori, Tommaso Chimenti, Mariagiulia Colace, Lucia Cominoli, Chiara Dattola, Renzo Francabandera, Renato Gabrielli, Erika Z. Galli, Francesca Gambarini, Pierfrancesco Giannangeli, Maddalena Giovannelli, Maria Grazia Gregori, Gerardo Guccini, Filippa Ilardo, Margherita Laera, Giuseppe Liotta, Sergio Lo Gatto, Fausto Malcovati, Stefania Maraucci, Marco Menini, Giuseppe Montemagno, Stefano Moretti, Alessio Negro, Emilio Nigro, Renato Palazzi, Michele Pascarella, Nicola Pianzola, Gianni Poli, Paolo Poli, Paolo Ruffini, Martina Ruggeri, Laura Santini, Francesca Serrazanetti, Paolo Stratta, Francesco Tei, Pino Tierno, Alessandro Toppi, Sergio Trombetta, Nicola Viesti, Diego Vincenti, Valerio Massimo Visintin, Chiara Viviani, Irina Wolf, Giusi Zippo. direzione, redazione e pubblicità: via Olona 17, 20123 Milano, tel. 02 40073256, fax 02 45409483, segreteria@hystrio.it – www.hystrio.it Iscrizione al Tribunale di Milano (Ufficio Stampa), n. 106 del 23 febbraio 1990. Stampa: Arti Grafiche Alpine, via Luigi Belotti 14, 21052 Busto Arsizio (Va). Distribuzione: Joo, via Filippo Argelati 35, 20143 Milano, tel. 02 8375671 Manoscritti e fotografie originali anche se non pubblicati non si restituiscono. È vietata la riproduzione, parziale o totale, dei testi contenuti nella rivista, salvo accordi con l’editore.

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CHIARA DATTOLA Chiara Dattola, che ha realizzato appositamente per Hystrio la copertina e l’immagine di apertura del dossier Teatro & Cibo, vive e lavora tra Milano e Parigi. È uno degli illustratori ufficiali del Corriere della Sera e Internazionale, in Italia, e, in Francia per Les Echos e Le Monde. Collabora con case editrici italiane e straniere. Le sue illustrazioni appaiono in esposizioni, personali e non, in Italia e all’estero. Appassionata di outsider art, ha curato l’albo per bambini Giovan Battista! sull’artista di Art Brut Giovanni Battista Podestà, unica pubblicazione in Italia sul genere. Nel 2010 ha realizzato 36 illustrazioni dal titolo Disegni per versi ispirati alla Divina Commedia, editi dalla Galleria Spazio Papel di Milano. È docente presso l’Istituto Europeo di Design di Milano. www.chiaradattola.com

Librerie Feltrinelli Ancona via dé Cerretani Librerie Feltrinelli 30/32R c.so G. Garibaldi 35 tel. 055 2382652 tel. 071 2073943 Bari La Feltrinelli Libri e Musica via Melo da Bari 119 tel. 080 5207511

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Librerie Feltrinelli Mestre p.zza Ravegnana 1 La Feltrinelli Libri tel. 051 266891 e Musica piazza XXVII Librerie Feltrinelli Ottobre 1 via dei Mille tel. 041 2381311 12/A/B/C tel. 051 240302 Milano Abook Piccolo Brescia Piccolo Teatro La Feltrinelli Libri Grassi e Musica via Rovello 2 corso Zanardelli 3 tel. 02 72333504 tel. 030 3757077 Catania La Feltrinelli Libri e Musica via Etnea 285 tel. 095 3529001 Cosenza Libreria Ubik via Galliano 4 tel. 0984 1810194 Librerie Feltrinelli corso Mazzini 86 tel. 0984 27216 Ferrara Libreria Ibs piazza Trento e Trieste (Palazzo San Crispino) tel. 0532 241604 Librerie Feltrinelli via G. Garibaldi 30/A tel. 0532 248163 Firenze Libreria Ibs via dé Cerretani 16/R tel. 055 287339

Anteo Service via Milazzo 9 tel. 02 6597732 Joo Distribuzione via Argelati 35 tel. 02 4980167 La Feltrinelli Libri e Musica c.so Buenos Aires 33/35 tel. 02 2023361 La Feltrinelli Libri e Musica piazza Piemonte 1 tel. 02 433541 Librerie Feltrinelli via U. Foscolo 1/3 tel. 02 86996897

Rimini Librerie Feltrinelli largo Giulio Cesare 4 (angolo corso Libreria Puccini c.so Buenos Aires 42 Augusto) tel. 0541 788090 tel. 02 2047917 Libreria Popolare via Tadino 18 tel. 02 29513268

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Pisa Librerie Feltrinelli Librerie Feltrinelli corso XXII Marzo 4 corso Italia 50 tel. 02 5456476 tel. 050 47072 Libreria dello Spettacolo via Terraggio 11 tel. 02 86451730

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Salerno La Feltrinelli Libri e Musica c.so V. Emanuele 230 tel. 089 225655 Siracusa Libreria Gabò corso Matteotti 38 tel. 0931 66255 Torino Libreria Comunardi via Conte Giambattista Bogino 2 tel. 011 19785465 Librerie Feltrinelli p.zza Castello 19 tel. 011 541627 Trento La Rivisteria via San Vigilio 23 tel. 0461 986075 Treviso La Feltrinelli Librerie via Antonio Canova 2 tel. 0422 590430 Verona La Feltrinelli Libri e Musica via Quattro Spade 2 tel. 045 809081 Vicenza Galla Libreria corso Palladio 12 tel. 0444 225200


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ANNO XXVIII 2/2015 APRILE-GIUGNO

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anno XXVIII 2/2015

testo: SUPERNOVA di Erika Z. Galli e Martina Ruggeri

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DOSSIER: TEATRO & CIBO critiche / danza / lirica / biblioteca / società teatrale


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