DALLA NON BELLIGERANZA ALLA GUERRA PARALLELA

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Ciro Paoletti

DALLA NON BELLIGERANZA ALLA GUERRA PARALLELA L’ingresso dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale per paura dei Tedeschi, 1938-1940

Associazione Culturale

“Commissione Italiana di Storia Militare” - CISM

ROMA 2014


Ciro Paoletti

Dalla non belligeranza alla guerra parallela – l’ingresso dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale per paura dei Tedeschi, 1938-1940

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Indice Introduzione Prima Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8

La situazione italiana dalla Guerra d’Etiopia al Patto di Monaco Il Patto di Monaco Dopo Monaco: la visita di Ribbentrop e l’offerta d’alleanza La dimostrazione del 30 novembre alla Camera e le sue conseguenze Il 26 gennaio 1939 La Cecoslovacchia e l’Albania Le proposte dei Tedeschi, il Patto d’Acciaio e le sue condizioni La guerra scoppia con tre anni d’anticipo Durante

Capitolo 9 Capitolo 10 Capitolo 11 Capitolo 12 Capitolo 13 Capitolo 14

La non belligeranza, la mancanza di soldi e quella di armamenti L’approvvigionamento delle materie prime, del carbone e del petrolio Il problema del blocco navale inglese e della Marina Diplomazia marginale con Belgio, Olanda e Stati Uniti e il problema dell’Alto Adige Il crollo della Francia La paura dei Tedeschi Dopo

Capitolo 15 Capitolo 16 Capitolo 17 Capitolo 18 Capitolo 19 Capitolo 20

10 giugno 1940: ordine di non attaccare L’armistizio con la Francia: la Germania offre tutto e l’Italia non prende niente, perché? La Guerra Parallela Perché fare la guerra alla Grecia La Guerra di Grecia e la fine della Guerra Parallela Ricapitolazione

Bibliografia Note 3


Introduzione

L’entrata dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale è un argomento finora trattato solo ed esclusivamente in basi a parametri d’interesse politico. Nei Paesi vincitori la storiografia non ha fatto che ripetere le stesse frottole della propaganda alleata di guerra. In Italia o queste stesse frottole sono state tradotte e ripetute ad alta voce, o si è posto l’accento, grazie al prevalere della storiografia di sinistra, sulla criminosa impreparazione delle Forze Armate e della Nazione, la cui origine è rintracciata non in ragioni obiettive, ma nella mancanza di serietà e nel ridicolo comportamento di Mussolini e del Partito Fascista, a loro volta più o meno apertamente tacciati di millanteria, buffoneria e nessuna serietà. Questo giudizio è in realtà un pregiudizio e, in quanto tale, è radicalmente sbagliato. Non si vede, infatti, come mai un regime e degli Stati Maggiori che avevano affrontato seriamente la riconquista della Libia, la Guerra d’Etiopia e la Guerra di Spagna, approntando armi e rifornimenti in quantità più che sufficiente a vincere, improvvisamente avessero disimparato come si faceva una guerra e, messi davanti al conflitto mondiale, avessero fornito delle prestazioni non solo al disotto della sufficienza, ma al disotto del livello tenuto in precedenza. Non è logico, non c’è logica. Se una cosa la si sa fare, la si fa sempre; se non la si sa fare, la si sbaglia sempre. E allora perché l’Italia vinse in Libia, vinse in Etiopia, vinse in Spagna, vinse in Albania, ma non vinse nelle campagne della Seconda Guerra Mondiale? La risposta generalmente data è: perché quelle erano guerre su scala minore e quindi facili; la Seconda invece era assai più seria e, messo davanti a una vera prova, il Fascismo dimostrò la sua pochezza e portò il Paese alla catastrofe. E’ così o no? Non ne sarei tanto sicuro. Gli Stati Uniti vinsero la Seconda Guerra Mondiale, che era una prova dura per loro quanto per l’Italia, ma non vinsero la Guerra di Corea e persero quella del Vietnam, che, adottando i parametri che si applicano all’Italia e fatte le dovute proporzioni, non erano, specie il Vietnam, più impegnative della Spagna o dell’Etiopia. Eppure entrambe, in particolare la prima, furono combattute e dirette da persone che avevano vinto o almeno combattuto la Seconda Guerra Mondiale; nessuno però si è messo a dire che quegli insuccessi dimostravano l’invalidità, la non serietà 4


o la ridicolaggine degli Stati Uniti. Se poi si pensa ai disastri dell’intervento americano in Iraq e all’insuccesso di quello in Afganistan, gabellati come vittorie solo perché l’ha detto il Presidente, ma di fatto sonore sconfitte, viene da domandarsi se sia il caso di continuare ad accettare la spiegazione basata sulla ridicolaggine di Mussolini, del Fascismo e dell’Italia, dicendo, come si è sempre detto, che l’Italia entrò in guerra, respingendo la mano amica tesale dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti e pugnalando alla schiena la povera Francia, per raccattare sciacallescamente gli avanzi del banchetto di guerra tedesco, cercando di prendersi Nizza, Savoia e Corsica, ma dovendosi accontentare di una macchia sulla carta geografica per via della miserabile prestazione del suo esercito sulle Alpi; dicendo che tentò di rifarsi aggredendo la Grecia senza alcun motivo e mal gliene incolse, perché fece una figuraccia e dovette farsi salvare dai Tedeschi, per poi calare un velo pietoso sul resto e risollevarlo solo con la Resistenza. Questa spiegazione ha tenuto banco per settant’anni e non mi ha mai convinto ma, occupandomi di Settecento e non di Seconda Guerra Mondiale, l’ho registrata e tenuta là a futura memoria. Nel gennaio 2010, unico straniero, dovevo parlare a Parigi, all’Accademia Militare di Saint-Cyr, sull’armistizio italo-francese e, ovviamente, non sapendone altro che il poco sempre letto qui e là, raccolsi le fonti primarie stampate che avevo a casa e mi misi al lavoro. Dal punto di vista metodologico, dovendo parlare d’armistizio, occorreva prima accennare alla guerra e, per parlare della guerra, mi pareva necessario stabilire cosa avessimo voluto ottenere e quando avessimo cominciato a pensarci, cosa che, per strano che possa sembrare, io non sapevo e non mi ero mai occupato di sapere. In fondo, se tanti più esperti di me ne avevano scritto…. Solo che, andando a vedere da vicino la cosa, scoprii che i termini erano nebulosi, per cui, visto che adesso ne dovevo parlare io, volevo essere preciso e verificare quanto avrei poi detto, per evitare figuracce. Da dove iniziare? Controllai la bibliografia disponibile, cioè le opere più o meno correlate all’argomento che avevo a casa e decisi di cominciare da una che mi pareva assai adatta, dal primo volume dei Verbali delle riunioni tenute dal Capo di S.M. Generale, pubblicato dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito molti anni prima. Lo aprii e ci restai secco. A pagina 2, non scherzo, proprio a pagina 2, alla prima riunione, il 26 gennaio 1939, cioè 8 mesi prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale e 18 mesi prima dell’entrata dell’Italia in guerra, il maresciallo Badoglio, in apertura di seduta, dichiarava: “Anzitutto S.E. il Capo del Governo mi ha dichiarato che, nelle rivendicazioni verso la Francia, non intende affatto parlare di Corsica, Nizza e Savoia. Queste sono iniziative prese da singoli, le quali non entrano nel suo piano di azione. 5


Mi ha dichiarato, inoltre, che non intende porre domande di cessioni territoriali alla Francia perché è convinto che essa non ne può fare: quindi si metterebbe nella situazione o di ritirare una eventuale richiesta (e ciò non sarebbe dignitoso) o di fare la guerra (e ciò non è nelle sue intenzioni).” I In meno di sei righe, a pagina 2 di un libro pubblicato nel 1983, cioè 27 anni prima, veniva fatta crollare tutta la storiografia esistente sulla nostra entrata in guerra. Per anni e anni avevo sentito ripetere fino alla noia che eravamo entrati in guerra per Nizza, Corsica e la Savoia, magari col contorno di Tunisi e Gibuti e adesso scoprivo che non era vero; e lo scoprivo per bocca di Badoglio che riferiva quanto gli aveva detto Mussolini in persona. Ma allora? Forse in seguito era cambiato l’atteggiamento? Spulciai tutti i verbali seguenti e, no: non era cambiato affatto. Era roba da non credere, per più d’una ragione. Lo era perché, allora, per quale motivo eravamo entrati in guerra? E perché tutti i vari soloni della storiografia nostrana ed estera, che pretendevano di passare per storici, non ne avevano mai parlato? Possibile che non sapessero? Non l’avevano letto? Ma si trattava di un libro uscito nel 1983, di una pubblicazione di fonti, curata da uno studioso serio, come Antonello Biagini, ordinario a Roma e che, mentre leggevo, era vicerettore della Sapienza. Possibile che per 27 anni nessuno avesse mai letto quello che leggevo io in quel momento? Evidentemente si, se no bisognava dedurne che quanto aveva detto Badoglio fosse stato coscientemente messo da parte; ma questo implicava aperta ed esplicita malafede da parte degli storiografi italiani e stranieri, o incapacità di leggere e capire. In tutti e tre i casi la categoria degli storici faceva una pessima figura. Non se ne usciva: o non avevano letto, o non avevano capito, o non avevano voluto capire. Lasciai in sospeso la questione e mi studiai il resto. Mi venne un dubbio. Più andavo avanti più il dubbio cresceva. Era il novembre del 2009, avevo davanti a me poco più d’un mese, perché dovevo parlare il 10 gennaio. Ero certo di quanto avevo dedotto, ma mi mancava la prova documentale, che, beninteso, non poteva essere negli archivi, in nessun archivio, perché era una di quelle cose che si dicono ma non si scrivono, mai. Un giorno nel negozietto di libri usati dove andavo di solito, pescai un volume piuttosto tozzo, le memorie di Giacomo Acerbo. Di lui sapevo poco, ma bastava. Per curiosità andai a vedere cosa aveva scritto sul periodo dell’entrata in guerra. Lessi appena poche righe della sua prosa pesante, ma mi suonarono in testa come un urlo. Avevo ragione, Acerbo confermava: Mussolini era entrato in guerra per paura dei Tedeschi. Quando parlai a Parigi avevo il turno peggiore, il penultimo della sessione dopo il pranzo, notoriamente quella in cui tutti dormono. Si svegliarono tutti. 6


Non volò una mosca. Centocinquanta persone fra storici e militari mi ascoltarono col fiato sospeso fino all’ultima parola: era la scoperta più stupefacente mai fatta sull’argomento, era la scoperta che ho sviluppato nelle pagine di questo libro e, cosa più importante, l’ho fatta adoperando solo fonti a stampa, cioè solo libri a disposizione mia come di chiunque altro. Quello che vorrei sapere è perché io ho capito e gli altri, tutti gli altri esperti del periodo invece no. Non hanno letto? Hanno letto e non hanno capito? O non han voluto capire? Decidete voi. Quanto a me, gli elementi nuovi li ho già pubblicati in Italia e all’estero, 1 scatenando le ire, il disprezzo e gli insulti di MacGregor Knox – conservo tutta la corrispondenza – il quale però, messo davanti all’evidenza, ha battuto in ritirata, sottraendosi allo scontro pubblico che avrebbe esplicitamente cancellato le basi su cui ha costruito una carriera, la cui qualità a questo punto mi viene da mettere in dubbio. Qui si fa un’esposizione più ampia di tutto l’insieme esposto nei saggi e negli articoli, sia nei fatti, sia nell’arco temporale e si vedrà come parecchi elementi, trascurati o anche studiati ma non messi in correlazione, siano fondamentali tanto per comprendere la collocazione dell’Italia nel conflitto, quanto nel determinarne, almeno in parte, la data di coinvolgimento. Infine una premessa di metodo. Non ho adoperato le fonti d’archivio, non le ho nemmeno cercate. Non credo ve ne siano, ma, se qualcuno vuole cercarle, si accomodi. Perché non l’ho fatto? Premesso che di mano di Mussolini a quanto pare non abbiamo nulla di affidabile, non essendo i volumi dell’Opera Omnia altro che testi con un fine politico e dunque ben poco utili; che le fonti primarie e secondarie sono notissime, che le prime sono state scandagliate in maniera abbastanza approfondita, anche se di solito limitata alla pura e semplice enunciazione dei fatti e dei dati, per di più spesso non correlati fra loro, e che le altre, le secondarie, sono quasi sempre da trattare con ponderatezza, perché o – 1

C. PAOLETTI, 1940: le point de vue italien, in atti del convegno L’armistice de 1940: faute ou nécessité?, Parigi, Ecole Militaire, 14 gennaio 2010, pubblicati a cura di J.-D. Avenel e J. P. Ricalens come, L’armistice de 1940: faute ou nécessité?, Parigi, Economica, 2011, pp. 141154; C. PAOLETTI, Self-protecting from the Germans? A hypothesis about why Italy declared war in 1940, presentato al 5th Rothenberg Seminar Military History of Italy, University of High Point, NC, 19 marzo 2011, atti in corso di pubblicazione; C. PAOLETTI, Aspetti navali relativi all’entrata in guerra nel 1940, su «Rivista Marittima», anno CXLIII, n. 8, agosto 2010, pp. 8998; C. PAOLETTI, Un’ipotesi sul perché l’Italia entrò in guerra il 10 giugno del 1940, su «Storia Militare», anno XVIII, n. 8, agosto 2011, pp. 35-42; C. PAOLETTI, Protecting Itself from the Germans? A Hypothesis About Why Italy Declared War in 1940, in uscita su «Journal of Military History», 77, 2013.

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come nei casi limite dei diari di Ciano e Bottai – sicuramente riviste e corrette dai loro autori per scopi personali prima della pubblicazione, o scritte in base a precisi intenti giustificativi di entità, gruppi o persone, resta qualche cosa, e forse più di qualcosa, da fare. Anche un’altra precisazione preliminare è relativa ad ogni possibile accusa di non aver adoperato fonti d’archivio. A parte il fatto che il mio intento consiste nel dimostrare che se si leggono – ma si leggono sul serio, capendo cosa vogliono dire e correlandole – le fonti a stampa e se ne fa un’analisi comparata ed incrociata dei dati si hanno parecchie sorprese, sarei stato più che lieto di trovare documentazione archivistica a supporto delle mie idee, ma dubito che ne esista. Sarebbe realmente sorprendente se una qualsiasi fonte archivistica dicesse a chiare lettere che l’Italia fascista entrò in guerra per proteggersi da una minaccia tedesca. Quale documento dell’epoca avrebbe mai potuto ammettere una cosa del genere? E’ invece un’ammissione che si potrebbe trovare – e si trova, come vedremo – nelle memorie e nei diari, dove l’autore tende ad essere più sincero, più chiaro e ad ammettere cose che si suppongono riservate alla sua sola memoria e non alla lettura da parte di altri. Dunque dichiarazioni del genere non si possono trovare, né ci si deve aspettare di trovarne, in documenti che l’estensore abbia saputo o potuto immaginare diretti a suoi superiori, a terzi, o, addirittura, soggetti alla possibilità di cadere in mano a nemici che avrebbero potuto poi usarli contro di lui. I documenti d’archivio non sono dogmi di Santa Romana Chiesa, ma strumenti di lavoro adoperati nel passato per ottenere un risultato in quel momento o di lì a poco, non per scrivere la storia. In quanto tali, spesso ritraggono la realtà come uno specchio deformante, secondo i fini del loro autore. Chiunque abbia un minimo d’esperienza di servizio nell’amministrazione militare o civile, una vera esperienza, fatta sul terreno della burocrazia, coi suoi scontri, i suoi tranelli e le sue sotterranee e durissime lotte cartacee, sa che raramente i documenti riflettono la realtà: mettono in evidenza alcune cose, ma altre ne lasciano volutamente in ombra; certi aspetti sono ammorbiditi, altri sottolineati, evidenziati oltre il necessario; certe cose sono dimenticate, altre omesse del tutto. Di conseguenza i documenti d’archivio vanno adoperati con cautela. Per questo ritengo – e sono in buonissima compagnia – che l’uso di fonti primarie costituite da resoconti personali in fonti a stampa al posto di fonti d’archivio sia altrettanto valido, come del resto la mia trentacinquennale esperienza di studioso e i 20 libri da me pubblicati negli ultimi diciott’anni mi hanno ampiamente dimostrato. 8


PRIMA

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Capitolo 1 La situazione italiana dalla Guerra d’Etiopia al Patto di Monaco

Dal punto di vista politico l’anno 1935, che si aprì colla questione della Saar e si chiuse con una guerra fra Italia ed Etiopia, segnò un radicale cambiamento negli equilibri europei. Dal 1933 Hitler era cancelliere del Reich. Per riuscire nella sua politica che, seguendo rigidamente il programma già esposto nel suo “Mein Kampf”, mirava a dare il primato assoluto nel mondo alla Germania, il Führer voleva innanzitutto riottenere ogni lembo di terra perso col Trattato di Versailles. Successivamente avrebbe cercato, cioè preso, il proprio spazio vitale ad Est e, infine, avrebbe dominato il globo: “Heute ist unser Deutschland, Morgen die Welt !” – oggi è nostra la Germania, domani il mondo! Il primo passo, la riunificazione delle terre tedesche, era assai lungo da compiere e poiché sarebbe andato a turbare irrimediabilmente l’assetto continentale stabilito, fu articolato in tempi diversi. Il primo era la riacquisizione dei territori ex-germanici non appartenenti ad altri Stati; il secondo la “liberazione” delle terre inserite ormai da anni in altre Nazioni. I primi due obbiettivi territoriali di Hitler furono dunque la Saar e la Repubblica Austriaca. Il dominio di Vienna era ora ridotto a circa due terzi della sola zona di lingua tedesca dello scomparso impero austro-ungarico; ma fin dal periodo antecedente il 1914 si era delineata una politica tendente all’unificazione di tutti quei territori sotto l’egida berlinese. Tale aspirazione, frustrata sia dagli Asburgo fino alla sconfitta che dagli Alleati nel 1918, era ancora viva; ma era guardata con enorme sospetto, specialmente dall’Italia, la quale riteneva, fondatamente, che la costituzione di un blocco pantedesco al di là delle Alpi avrebbe ripresentato tutti i pericoli ritenuti definitivamente sepolti colla battaglia di Vittorio Veneto. Per questo Mussolini era un accanito sostenitore dell’indipendenza austriaca, come, del resto, di quella ungherese, ed appoggiava il cancelliere Döllfuss, il quale a sua volta si opponeva alla tendenza unionista sostenuta dai Nazisti austriaci. 11


Quando, il 25 luglio del 1934, questi ultimi lo uccisero e tentarono un colpo di stato, la reazione italiana fu immediata e pesante. Mussolini schierò due divisioni al Brennero, minacciandone l’intervento a garanzia dell’indipendenza austriaca. Hitler, costretto a sconfessare i suoi uomini di Vienna, si rese conto di due cose. La prima era che, essendo la Germania ancora militarmente debole, era meglio agire rispettando, almeno apparentemente, le regole internazionali. La seconda che poiché in tutta Europa si era mossa contro di lui solo l’Italia, evidentemente essa era l’unica Potenza militarmente forte e decisa. Occorreva neutralizzarla e il modo migliore poteva essere quello di allearsela. Stabilito questo, rimaneva solo da aspettare l’occasione adatta. Per quanto concerneva la Saar, occupata per lungo tempo dai Francesi, in quel momento era sotto un regime internazionale. Infatti era stato stabilito che solo dopo 15 anni, che scadevano il 31 dicembre 1934, i Saarresi avrebbero potuto decidere con un plebiscito se restare sotto il regime internazionale, diventare francesi o tornare tedeschi. Si votò il 13 gennaio 1935 ed il risultato, con oltre il 90% dei consensi, fu a favore della riunificazione al Reich. Forte del clamoroso successo ottenuto, Hitler decise di saggiare la capacità di reazione di Francia e Gran Bretagna e, il 16 marzo, annunziò il ripristino della coscrizione obbligatoria in Germania e l’aumento della Wehrmacht a 36 divisioni. Di nuovo gli Alleati europei, a corto di truppe, si limitarono a delle vivaci proteste. Il risultato era buono: nessuno si era veramente mosso. Così, nel giugno 1935, il Führer mise allo studio la rimilitarizzazione della Renania, pensando di attuarla nel febbraio 1936, senza sapere che la sorte, grazie all’Etiopia, stava per donargli la desiderata alleanza italiana. Lo scoppio della guerra Italo-Etiopica generò una situazione diplomatica difficile. La Società delle Nazioni mise l’Italia sotto accusa in quanto assalitrice di un altro Stato membro e decretò contro di essa una serie di sanzioni economiche il cui risultato sull’andamento delle operazioni fu quasi nullo perché non comprendevano il petrolio. A dire il vero i governi di Parigi e, soprattutto, di Londra erano in una situazione alquanto complessa. Non potevano fare a meno di condannare una così patente violazione delle norme internazionali come una guerra d’aggressione, senza perdere completamente la faccia davanti ai propri elettori e al mondo, ma non volevano neanche perdere l’appoggio militare italiano contro la Germania. Del resto non solo il fronte sanzionista non comprendeva tutti i membri della Società, visto che Albania, Austria ed Ungheria, strettamente legate a Roma, avevano votato contro e la Svizzera si era astenuta, 12


ma la stessa Società non includeva gli Stati Uniti e la Germania, ai cui mercati poteva quindi rivolgersi l’Italia. Di conseguenza la guerra, danneggiando economicamente le democrazie, incrinando il fronte antitedesco e mettendo in difficoltà i governi di fronte ai loro elettori, costituiva un impaccio che andava risolto al più presto e in qualsiasi modo. Fallita la via del compromesso, ci si rassegnò e si rimase a guardare chi dei due l’avrebbe spuntata, ben sapendo che, terminata la guerra, le cose sarebbero state aggiustate. Infatti, se l’Etiopia avesse vinto, come tutti pensavano considerando le asperità del terreno su cui gli attaccanti dovevano muoversi, l’Italia sarebbe rientrata nei ranghi. Se invece fosse stata Roma a vincere si sarebbe potuta far calmare la tempesta e poi, come avvenne nel ‘38, riconoscere il nuovo stato di cose senza dare troppo nell’occhio. In entrambi i casi, prima si finiva e meglio era. Vinse l’Italia, ma la fine della Guerra d’Etiopia portò con sé quella dell’equilibrio europeo nato a Versailles nel 1919. L’atteggiamento di Londra e Parigi non era piaciuto a Roma, le sanzioni anche meno ed erano state adoperate come un catalizzatore del consenso politico, salito alle stelle, e una spinta all’industria nazionale, inaugurando un protezionismo sfrenato. Francia e Inghilterra erano considerate nemiche a Roma e, profittando di quell’incrinatura fra gli Alleati della Grande Guerra, Hitler prima procedé alla rimilitarizzazione della Renania nel marzo 1936, poi proseguì nella sua azione diplomatica d’avvicinamento all’Italia. In questo senso un’ulteriore opportunità gli fu offerta dallo scoppio della Guerra Civile Spagnola, poiché si trovò accanto a Mussolini nel sostenere i Nazionalisti di Franco, mentre il Governo repubblicano cercava appoggi a Londra, Parigi e Mosca. Il “pronunciamiento militar”, organizzato dai generali il 17 luglio 1936 era riuscito benissimo nei territori d’oltremare, ma solo parzialmente in quelli metropolitani, dove larghe porzioni dell’esercito, la quasi totalità della marina e tutta l’aeronautica si erano mantenute fedeli al legittimo Governo della Repubblica. Questo significava che, se non si trovava il modo di trasferire sul continente europeo le truppe insorte, le zone della Spagna cadute nelle mani dei ribelli sarebbero state ben presto riportate in quelle di Madrid. L’errore commesso dal governo legittimo consisté nel chiedere ufficialmente aiuto a quello francese; e l’errore commesso dal Primo ministro francese Blum consisté nel concederglielo ufficialmente e platealmente, senza aver prima sentito il parere del Parlamento o del Governo. 13


Nei tre anni precedenti i rapporti franco-spagnoli erano stati ottimi e, in seguito alla tensione derivata dalla campagna d’Etiopia, era stato firmato un accordo militare: passaggio libero e illimitato sul suolo spagnolo alle truppe francesi destinate al Nord-Africa in caso di guerra contro l’Italia. La cosa non era piaciuta a Roma, ma sarebbe rimasta senza conseguenze se non avesse avuto una sorta di seguito nella promessa di Blum di inviare armi, materiali e uomini in soccorso al Governo spagnolo contro i Nazionalisti. Né servì il successivo sganciamento ufficiale della Francia, perché se era vero che significava il non intervento dell’esercito francese a fianco della Repubblica, comportava comunque un forte appoggio ufficioso a quelli che vennero definiti “I Rossi”. D’altra parte Roma rischiava di vedere in mano ad una potenza ostile anche il controllo del secondo accesso dal Mediterraneo all’oceano. Il fatto che Suez fosse in mani anglo-francesi poteva non essere troppo importante finché la sponda opposta a Gibilterra restava in possesso della Spagna; ma se la Spagna fosse diventata una specie di protettorato francese, anche l’uscita verso l’Atlantico sarebbe stata vigilata dalle due più accese potenze sanzioniste, dunque nemiche. Bisognava evitarlo; e il Duce, su forte pressione di Ciano, autorizzò, anzi ordinò, l’inizio dell’operazione OMS – Oltre Mare Spagna – a favore dei Nazionalisti. Le potenze democratiche si erano schierate colla Repubblica o, come la Gran Bretagna, si erano defilate; e il nuovo capo degli insorti, il generale Franco, si rivolse agli Stati antidemocratici retti da regimi di destra. Ottenne aiuti dal Portogallo e dalla Germania e, il 21 luglio, inviò a Roma una delegazione, spedendo il giorno dopo anche un telegramma nel quale chiedeva che gli fossero mandati 12 aerei, che gli consentissero di raggiungere al più presto le sacche nazionaliste sparse in tutta la Spagna. Franco teneva moltissimo all’indipendenza formale e sostanziale sua e della Spagna, come del resto a Mussolini premeva non far apparire l’Italia ufficialmente coinvolta nel conflitto, ragion per cui tutti furono d’accordo nell’inviare a Franco la M.M.I.S. - Missione Militare Italiana in Spagna – diretta dal tenente colonnello Emilio Faldella e nel far arruolare fittiziamente i militari italiani inviati in Spagna nel “Tercio”, la Legione Straniera spagnola,. I primi furono gli equipaggi dei 9 bombardieri S. 81, giunti da Cagliari Elmas il 30 luglio ed entrati in azione contro la flotta repubblicana nello stretto di Gibilterra nel pomeriggio del 4 agosto. Fu un grande successo degli uomini della Regia Aeronautica, che in quel momento costituivano tutte le forze aeree dello schieramento nazionalista: spazzò via la flotta nemica dallo stretto e 14


consentì ai Nazionalisti di trasbordare le truppe sul territorio metropolitano. La rivolta era finita; cominciava la Guerra di Spagna. L’apporto italiano aumentò in quantità e in qualità. Si formò il Corpo Truppe Volontarie. Franco, seccato per l’inframmettenza dei comandi italiani, profittò del vittorioso contrattacco repubblicano sviluppato il 18 febbraio per far entrare il CTV subito in linea. Così gli Italiani si ritrovarono sulla Carretera de Francia, con un tempo infame – neve, ghiaccio e niente appoggio aereo per il maltempo sulle basi nazionaliste – per la battaglia di Guadalajara, il cui insuccesso, propagandato in tutto il mondo dalla Repubblica, avrebbe infuriato Mussolini a tal punto da fargli intensificare l’appoggio diplomatico e militare a Franco fino a determinarne il successo. Molto in breve, l’8 marzo 1937 il CTV attaccò lungo la Carretera de Francia – la strada che da Madrid portava a Guadalajara, Saragozza e in Francia – con due divisioni, due Gruppi Banderas, un battaglione carri L, autoblindo e motomitragliatrici, avendo in riserva altre due divisioni, in appoggio 180 cannoni e 80 aerei italiani e circa 50 chilometri di avanzata da fare. Innegabilmente quella di Guadalajara fu una battaglia persa dal CTV, la prima e l’unica, anche se è difficile considerare veramente perduta una battaglia combattuta senza appoggio da parte degli alleati, senza copertura aerea a causa del maltempo, sotto l’imperversare dell’aviazione nemica – le cui basi invece erano praticabili – e alla fine della quale si era avuta comunque un’avanzata del fronte di 20 chilometri e l’unico terreno perso erano 15 dei 35 chilometri inizialmente presi al nemico. Come già accennato, la propaganda repubblicana ed antifascista portò la vittoria al settimo cielo e la definì la prima di una lunga serie al cui termine sarebbe stato distrutto il Fascismo. “Oggi in Spagna, domani in Italia,” disse Rosselli alla radio. “No pasaràn !” strillò la “Pasionaria” Dolores Ibarruri alle folle repubblicane. In realtà l’unica cosa certa era che la sconfitta avrebbe consentito a Franco di impedire agli Italiani di mettere ancora bocca nella condotta della guerra; ragion per cui era più che lecito dubitare che il minimo apporto fornito dagli Spagnoli durante la battaglia fosse stato voluto dall’alto. Comunque da Roma vennero ordini drastici, furono aumentate le dotazioni e, rinsanguato dai nuovi complementi, il CTV fu rapidamente in grado di riprendere le operazioni, scendendo in campo ai primi d’aprile nei Paesi Baschi, a dimostrazione di quanto poco era stato toccato dalla sconfitta. Non avrebbe perso più un solo scontro. 15


Intanto le convergenze politiche verificatesi a proposito della Spagna avevano generato l’Asse Roma-Berlino, che da una vaga amicizia si sarebbe tramutato in una vera e propria alleanza, prima mediante l’adesione dell’Italia al Patto Antikomintern, nel 1937, poi col nulla osta di Mussolini all’annessione dell’Austria al Reich nel 1938 e infine colla questione dei Sudeti, infelicemente risolta nel settembre del medesimo anno a Monaco. La politica tedesca aveva degli obiettivi chiarissimi, che chiunque si fosse preso la briga di leggere Mein Kampf non avrebbe potuto non scoprire. Hitler li enunciò programmaticamente nella conferenza segreta tenuta a Berlino il 5 novembre del 1937, confermandoli come politica ufficiale tedesca per l’avvenire. La guerra era prevista come strumento di realizzazione di questa politica e con due scadenze. La più vicina era il 1938, la più lontana e l’ideale il biennio 1943-45. Nel ’38 la Germania sarebbe stata non del tutto preparata ma la sue potenziali avversarie, Francia e Inghilterra, sarebbero state completamente impreparate. Per di più, grazie all’attrito esistente fra loro e l’Italia, si poteva sperare che si sarebbero logorate contro l’Italia in una guerra che, con la fornitura di un po’ di materie prime, gli Italiani avrebbero potuto sostenere bene. Se invece non fosse scattato il casus belli immediato, si sarebbe potuto aspettare il 1943, quando il potenziale tedesco avrebbe raggiunto il suo apice e consentito di raggiungere tutti gli obiettivi. Il principale di essi consisteva nell’allargamento verso Oriente – cioè ai danni dell’Unione Sovietica – acquisendone il territorio e le risorse e distruggendo la minaccia bolscevica. Qui c’era un primo punto di contatto fra la politica tedesca e quella nipponica, il cui espansionismo in Estremo Oriente era ostacolato, come quarant’anni prima, proprio dai Russi, con in più il problema che la guerra non dichiarata contro di loro in Siberia, stavolta i Giapponesi l’avevano persa e anche pesantemente. Per la famosa regola secondo la quale “il nemico del mio nemico è mio amico”, Berlino e Tokio non potevano fare a meno di avvicinarsi in funzione antisovietica; e da là era nato il Patto Antikomintern, al quale la Germania aveva proposto di far aderire pure l’Italia. Questo però aveva comportato una deviazione rispetto alle finalità antisovietiche del Patto, perché in quel momento Roma era in buoni rapporti con Mosca, mentre ne aveva di pessimi con Londra e Parigi. Vedeva quindi la propria adesione in funzione prevalentemente antibritannica, mentre per i Tedeschi gli Inglesi non erano nemici e per i Giapponesi non lo erano in modo immediato. Certo, la Gran Bretagna era la prima potenza del mondo – il che implicava che prima o poi si sarebbe scontrata colla Germania decisa a scalzarla – ed 16


aveva i suoi maggiori possedimenti in Asia, cioè là dove il Giappone intendeva espandersi; ma poiché l’obiettivo primario del Patto era l’URSS, tutto sommato per il momento Londra aveva potuto anche non preoccuparsene troppo. Dal punto di vista di Hitler, allargare all’Italia la prima alleanza messa in piedi dalla Germania nazista aveva significato cominciare a legare al carro tedesco il cavallo italiano; e il gioco valeva tanto la candela, in funzione del futuro, da fargli anche accettare di dare al Patto Antikomintern un’implicita e non voluta valenza antibritannica. Finché la valenza fosse stata implicita anche il Giappone sarebbe stato d’accordo; ma non si doveva andare oltre, almeno per il momento. Però da Roma le cose erano viste in tutt’altro modo: l’alleanza col Giappone e la Germania doveva servire a minacciare l’Inghilterra. Il problema era semmai dove fermarsi. Secondo alcuni settori della diplomazia l’obiettivo da raggiungere poteva essere limitato ad ottenere il riconoscimento inglese dell’Impero in Africa Orientale – riconoscimento al quale sarebbe seguito a ruota quello francese – e, magari, con adeguate minacce, ad avere poi guadagni territoriali da stabilire, prevalentemente a danno della Francia. Secondo Mussolini invece era il primo atto della lotta tra i popoli giovani – italiano, tedesco e giapponese – contro quelli vecchi – inglese e francese – per prenderne il posto nel dominio del mondo mediante una guerra: “Il Duce, avrebbe scritto Ciano il 2 gennaio 1938 nel suo diario - intende farsi dei giapponesi degli alleati militari contro la Gran Bretagna.” Si delineavano dunque due politiche italiane diverse; ma che fino a un certo punto, cioè fino al momento dello scoppio dell’eventuale guerra contro l’Inghilterra, potevano collimare. Per la realizzazione dell’una e dell’altra era comunque necessario legarsi strettamente al Giappone, assai riluttante però, proprio per la diversa funzione – antisovietica e non antibritannica – da lui data all’alleanza. Il miglior modo per convincerlo consisteva nel dimostrarglisi amici e nel dargli qualcosa. Gli fu offerto il riconoscimento del Manciukuò – la parte della Cina settentrionale occupata dai Giapponesi nel 1937 – e gli si sacrificò l’amicizia esistente fra Italia e Cina, resa concreta da grosse forniture di armi al governo cinese La strada però restava lunga. Solo l’11 maggio 1938 Ciano avrebbe potuto scrivere: “Il Giappone si fa sempre più sotto per rinforzare i legami militari con noi. Anche il Duce è d’accordo”; né c’è da stupirsene visto che ciò andava esattamente nella direzione che Mussolini voleva: verso l’alleanza militare per distruggere l’Inghilterra. Solo grazie all’opera del viceministro della Guerra generale Ideki Tojo, il quale avrebbe portato decisamente il Giappone verso la 17


guerra, si sarebbe giunti alla firma del Patto tripartito con Italia e Germania il 27 settembre 1940. Per quanto riguardava l’Austria, il discorso era più breve e semplice. Hitler la voleva, Hitler era un potenziale alleato da schierare contro l’Inghilterra, era opportuno accontentarlo. Fu fatto. “Non lo dimenticherò mai!” fu la risposta che diede a Mussolini. Adesso toccava alla Cecoslovacchia. La Germania le chiese i Sudeti.

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Capitolo 2 Il Patto di Monaco

La storia del Patto di Monaco è nota e non vale la pena di rifarla qui. Mentre Hitler si preparava a far valere le sue pretese con le armi, gli Inglesi e i Francesi cercavano di capire cosa potevano fare. La risposta fu rapidamente chiara: solo piegare la testa e guadagnare tempo per riarmarsi. Il servizio informazioni francese, il Deuxième Bureau, dal 1935 diretto dal colonnello Gauché, aveva seguito con estrema attenzione il riarmo germanico fin dagli inizi. In base alle sue valutazioni, il generale Gamelin a suo tempo aveva escluso di poter bloccare la rioccupazione della Renania senza almeno un milione di uomini, in un momento in cui la Francia ne aveva 400.000 scarsi e adesso, nell’estate del 1938, le cose stavano peggio. I Tedeschi si erano premuniti costruendo a ovest la Linea Sigfrido ed erano molto forti. Il 25 agosto il colonnello Gauché avvertì i suoi superiori con chiarezza delle intenzioni di Hitler. Il 19 settembre gli agenti inglesi e francesi documentarono i movimenti di ingenti forze tedesche verso la Cecoslovacchia. Il 27 settembre, cioè 48 ore prima dell’accordo di Monaco, come scrisse poi sir Kenneth Strong, all’epoca addetto militare britannico a Berlino: “Gauché disse ai suoi superiori che la Germania non solo era pronta ad attaccare la Cecoslovacchia, ma era anche preparata, ora, ad affrontare il rischio di una guerra mondiale. Era in grado di mobilitare 120 divisioni, cinque delle quali erano divisioni panzer, né meno minacciosa era la sua forza aerea. Nell’agosto del 1938 il generale Vuillemin, capo di stato maggiore dell’aviazione militare francese, era stato a Berlino, e durante la visita i tedeschi gli avevano mostrato i loro “segreti”. Egli confessò di essere rimasto stordito da quello che aveva visto, anche se molti particolari gli erano già noti tramite gli addetti francesi. E tuttavia forse fu un male che egli avesse ricevuto queste fosche impressioni solo alcune settimane prima di Monaco, dove i tedeschi si vantarono di avere ai confini della Cecoslovacchia non meno di “duemila aerei”, ognuno dei quali aveva assegnato un obiettivo 19


militare, in modo da preparare il terreno per l’avanzata delle forze di terra.” II E’ vero che al processo di Norimberga e anche in seguito i generali tedeschi sostennero che in caso di guerra non sarebbero stati in grado di sfondare le difese cecoslovacche né di resistere a un attacco francese, ma sopravvalutavano i Francesi, per non parlare degli Inglesi. La minaccia che la Wehrmacht rappresentava era reale e assai più forte di quanto immaginavano. Strong era sul posto, vide e seppe di prima mano molte cose e aggiunge: “La sezione speciale del servizio informazioni francese era riuscita ad avere la situazione precisa di ogni aspetto della Linea Sigfrido. E sulla base di questa documentazione i francesi erano giunti alla preoccupante conclusione che per fare anche una breccia di pochi chilometri nella prima linea delle nuove fortificazioni tedesche sarebbe stato necessario impiegare tutta l’artiglieria pesante di cui disponeva l’esercito francese, dopo di che non vi sarebbero state più munizioni sufficienti per continuare l’attacco. Cosa ancora più grave, l’esame dell’alternativa di attraversare il Reno nell’Alsazia, dove il fiume costituiva la comune linea di frontiera, ed evitare così le principali difese della Linea Sigfrido, aveva convinto lo stato maggiore generale francese che un’operazione del genere sarebbe stata impossibile con le riserve di cui disponevano. Non può sfuggire l’enorme significato di queste valutazioni, se si pensa che probabilmente furono queste meditate considerazioni dell’alto comando francese a costringere il governo di Parigi a non opporsi alle richieste avanzate a Monaco dai tedeschi, in quanto la Francia non era in grado di intraprendere un’azione militare o di parare eventuali mosse tedesche: non solo, ma non costituiva una minaccia. Lo sapesse o meno, Hitler stava andando a colpo sicuro. Durante l’occupazione dei Sudeti io mi trovavo nella zona in qualità di rappresentante della conferenza degli ambasciatori a Berlino. Assieme al delegato italiano conte Badini, avevo il compito di controllare che le forze tedesche di occupazione osservassero la linea di demarcazione concordata a Monaco. E in questi viaggi in Cecoslovacchia ebbi modo di osservare per la prima volta con i miei occhi come funzionava e operava il nuovo esercito tedesco. In qualità di addetto militare avevo assistito a molte esercitazioni ed anche ad alcune grandi manovre, ma ogni volta avevo avuto alle costole degli ufficiali tedeschi che mi avevano fatto da angeli custodi, per cui solo raramente mi era stato possibile dare 20


un’occhiata da vicino a certe cose e a certi particolari che mi interessavano. Ma nel 1938, nel territorio dei Sudeti ebbi la possibilità di girare liberamente all’interno delle linee tedesche e non ebbi più dubbi sull’efficienza delle loro unità. Era chiaro che dall’occupazione dell’Austria in poi l’esercito hitleriano aveva fatto enormi progressi tecnici: ottimo l’equipaggiamento, adeguate le strutture logistiche, ed eccellenti le comunicazioni e la collaborazione tra le varie armi. Tutto sommato, ebbi la sensazione che i tedeschi fossero in grado di mettere in campo una forza ben addestrata, altamente agguerrita ed estremamente efficiente. Sull’opportunità o meno del Patto di Monaco si è discusso a non finire e non è mio desiderio riaprire polemiche su nessuno dei particolari. Per quello che può valere, la mia opinione personale sulla situazione si basava su quello che avevo visto a proposito dell’efficienza delle forze tedesche e su quello che sapevo dello stato pauroso in cui si trovavano quelle inglesi. Tutto sommato e da un punto di vista strettamente militare, ritengo che il Patto di Monaco possa ritenersi giustificato se – e si tratta di un grosso se – inteso da coloro che vi presero parte in nome dell’Occidente, e cioè Chamberlain e Daladier, come un espediente per prendere respiro e migliorare la nostra posizione militare…. Anche Gauché non aveva dubbi: dal punto di vista militare Monaco era pienamente giustificato. I francesi si trovavano infatti in questa situazione: o impegnarsi in una guerra in condizioni iniziali disastrose, senza che si unissero né gli inglesi né gli americani e con le forze terrestri e aeree largamente inferiori a quelle tedesche, oppure accettare, per quanto poco glorioso, di rimandare la sfida.” III Questo contrasta con la versione tradizionale, data da gran parte della storiografia, di una resa diplomatica incondizionata senza tentare alcuna resistenza per mera viltà o paura di combattere. Francia e Inghilterra sapevano a cosa andavano incontro e in che condizioni e sapevano di non avere scelta. La mediazione di Mussolini servì solo a salvare loro la faccia e a privare Hitler della soddisfazione dell’ingresso solenne a Praga, per il momento. E’ vero che il Führer ne approfittò per indossare ancora una volta le vesti dell’uomo disposto al negoziato; ma le proposte approvate erano le sue e sua la vittoria. Comunque il mondo respirò e credé a una pace duratura. Tutti ricordavano le tremende perdite della Grande Guerra. Nessuno voleva vederne un’altra e ogni arrangiamento sembrava meglio di un nuovo massacro generale. 21


Sfortuna volle che Monaco suonasse come una conferma di quanto già si sospettava dai tempi dell’assassinio di Dollfuss: delle tre Potenze europee vincitrici dell’altra guerra, l’unica reattiva era l’Italia; dal punto di vista tedesco andava neutralizzata facendosela alleata. E l’alleanza le fu proposta.

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Capitolo 3 Dopo Monaco: la visita di Ribbentrop e l’offerta d’alleanza

Circa tre settimane dopo l’incontro di Monaco, la sera del 23 ottobre 1938, Ribbentrop telefonò a Ciano a proposito dell’eventuale arbitrato sull’Ungheria e la Cecoslovacchia e, di passaggio, disse “di avere una missione personale del Führer per il Duce da compiere personalmente” e che voleva venire a Roma nella seconda metà di quella stessa settimana, possibilmente il venerdì o il sabato. Aggiunse che la sua visita sarebbe stata brevissima e di carattere non ufficiale. IV Mussolini consentì e il 27 Ribbentrop arrivò. Apparentemente si trattava di colloqui per risolvere la vertenza ungaro-cecoslovacca, in realtà, come emerse il 28 sera, quando incontrò Mussolini e Ciano insieme, si trattava d’offrire all’Italia un’alleanza militare. Il verbale fatto da Ciano riporta: “Ribbentrop espone i concetti che inducono il governo del Reich a ritenere molto utile, nel momento attuale, la stipulazione di un Patto di alleanza militare tra Italia, Germania e Giappone. Il Führer è convinto che dobbiamo contare inevitabilmente su una guerra con le democrazie occidentali nel giro di pochi anni, forse tre o quattro.” V Fermiamoci un momento. Queste parole andranno tenute bene a mente, perché in quel momento vennero poste le basi dell’inestricabile pasticcio in cui Mussolini si sarebbe trovato di lì a dieci mesi, nel settembre del 1939, e che dopo altri nove e mezzo sarebbe sfociato nell’entrata in guerra a fianco della Germania. Ribbentrop offriva l’alleanza e fin lì non c’era nulla di strano. Il principe d’Assia l’aveva già più o meno annunciata da parte di Hitler il 25 settembre e a Monaco, il 30 settembre, proprio Ribbentrop aveva dato a Ciano un progetto completo d’alleanza italo-nippo-tedesca. Adesso a Roma Ribbentrop la dichiarava volta a garantirsi contro la già esistente intesa formale anglo-francese e anche questo era logico e comprensibile. Non diceva che a Hitler premeva spaccare il fronte degli ex-alleati della Grande Guerra, ma tanto quel fronte, in buona parte per colpa di Parigi e Londra, non esisteva più. La sua dichiarazione non sorprendeva nemmeno Mussolini, perché da anni il Duce 23


era convinto che prima o poi ci sarebbe stata una guerra. Sappiamo infatti dalle memorie del generale Costanzi “che nel settembre del 1928 Balbo gli confidò che il capo del governo gli aveva detto, “nel modo più reciso”, che nel 1938 ci sarebbe stata una guerra e gli aveva ordinato di preparare l’Aeronautica per quell’epoca.” VI Contro chi e perché, Mussolini nel ’28 non l’aveva detto né probabilmente lo immaginava. Resta però il fatto che adesso Ribbentrop, lo sapesse o meno, non faceva che confermargli quanto aveva sempre pensato: ci sarebbe stata una guerra. No, l’equivoco, il fattore che ingannò Mussolini non fu dirgli che ci sarebbe stata inevitabilmente una guerra, ma che ci sarebbe stata “nel giro di pochi anni, forse tre o quattro”; perché, dicendo così, gli si dava il termine di tre o quattro anni – cioè l’autunno del 1941 o il 1942 in genere – come il più vicino. In altre parole, dirgli che ci sarebbe stata una guerra nel giro di pochi anni, forse tre o quattro, significava che, se proprio andava male, ce ne sarebbe stata una non prima, attenzione: “non prima”, di tre o quattro anni, altrimenti sarebbe scoppiata lo stesso, di sicuro, ma dopo, in un futuro più vago e lontano. Qui, viene da pensare, nacque tutta l’impreparazione bellica italiana: dal fatto che si ritenne di avere davanti ancora tre anni pieni e più probabilmente quattro, cioè che si sarebbe entrati in guerra non prima dell’autunno del 1941 e forse solo nella primavera del 1942. Guarda caso, il piano di costruzione delle quattro nuove corazzate prevedeva che le prime due entrassero in linea nell’estate del ’40, ma le altre nel corso dei dodici mesi seguenti, per cui la flotta sarebbe stata pronta nell’estate del 1941. Gli aerei più moderni, i Macchi MC 202, fecero il primo volo nell’agosto del ’40, ma cominciarono ad essere consegnati nel maggio del 1941 ed ebbero il primo impiego in combattimento solo in settembre per correggere i vari difetti riscontrati. L’aereo motoreattore, antesignano dei successivi apparecchi a reazione, il Caproni Campini C.C. 2, volò nell’agosto del 1940 e fu sostanzialmente pronto nel 1941. Il carro M. 13/40, il primo in grado almeno di reggere il confronto con quelli medi britannici, progettato nel 1937, entrò in linea nel luglio del 1940, ma fu subito chiaro che ne occorreva uno potenziato e la sua versione migliorata, l’M. 14/41, fu consegnata ai reparti combattenti nel luglio del 1941. Non ci sono elementi per dire che la programmazione degli armamenti fu regolata in base alla scadenza del 1941, ma certo è singolare che molti dei sistemi d’arma più importanti fossero stati impostati in modo da essere pronti proprio per il primo degli anni in cui, secondo Ribbentrop, poteva scoppiare l’inevitabile guerra. A questo vanno aggiunti due elementi. Uno è la mancanza di scorte di materie prime strategiche. Si può continuare a pensare che sia stata una criminosa imprevidenza – non lo si può escludere – ma è lecito farsi venire il dubbio che, 24


con le ristrettezze finanziarie in cui ci si dibatteva, con una guerra in corso – anche se prossima a finire – in Spagna e coll’idea che il conflitto seguente non sarebbe scoppiato prima del 1941, si fosse momentaneamente tralasciato d’aumentare le scorte, pensando di poterlo fare dopo la fine della guerra in Spagna e prima dell’inizio della successiva. L’altro elemento riguarda le carenze degli armamenti. Le esamineremo meglio nel capitolo relativo alle condizioni delle Forze Armate, ma una cosa va detta subito. Nel giugno del 1940 l’Italia usciva da quattro anni e mezzo di guerra e guerriglia continua in Africa Orientale, gli ultimi tre dei quali erano stati accompagnati da un’altra guerra in Spagna. Le spese erano state spaventose e le entrate scarse. Le scorte erano state ripianate quanto bastava a proseguire i combattimenti, ma, dopo la fine del conflitto in Spagna, c’erano stati dieci mesi di non-belligeranza del tutto inaspettati, durante i quali l’approvvigionamento di materie prime era stato difficilissimo, lento e condizionato dai controlli anglofrancesi. Se la Seconda Guerra Mondiale fosse scoppiata nel 1941, ci sarebbe stato il tempo di ripianare le scorte di armi, mezzi e, soprattutto, di munizioni. Come andarono le cose, no. Certo, viene in mente un parallelo col 1914-15, quando l’Italia si trovò col Tesoro e coi magazzini vuotati dalla Guerra di Libia e non ancora ripianati, perché si era contato d’approfittare del logoramento dei materiali in guerra per consumare i vecchi e sostituirli coi nuovi tipi, a partire dalle divise grigioverdi, che però nel 1914 non erano ancora pronti nella quantità necessaria, anche a causa della mancanza di denaro dovuta alle spese, ben superiori alle aspettative, per via proprio dalla Guerra di Libia. Torniamo alla sera di quel lontano 28 ottobre 1938, sedicesimo anniversario della Marcia su Roma e primo giorno dell’anno XVII dell’Era Fascista. Mussolini, sentitosi dire da Ribbentrop che la guerra non sarebbe scoppiata prima di tre o quattro anni, lo ascoltò esporgli tutto il panorama della situazione internazionale secondo la Wilhelmstrasse: esisteva un’alleanza franco-inglese, esisteva un patto franco-russo di mutua assistenza; stando a Hitler, Francia e Inghilterra adesso avrebbero cominciato a riarmarsi, ma l’America si sarebbe tenuta fuori e anche i Giapponesi ne erano convinti. La Germania era in rapporti strettissimi col Giappone dal 1933 e il Giappone dominava l’Asia. In Europa la Germania era fortissima: fortissima la Wehrmacht, fortissima la Luftwaffe, tutti erano fortissimi, tranne la Marina, che però fra poco lo sarebbe stata anch’essa e tanto da poter impegnare la Royal Navy nel Mare del Nord. Mezza Europa dell’Est desiderava legarsi all’Asse. La Russia era e sarebbe restata debole per lungo tempo, per cui, concluse Ribbentrop: “tutto il nostro dinamismo può dirigersi contro le democrazie occidentali. Questa la ragione fondamentale per cui la Germania propone il Patto e lo ritiene adesso tempestivo.” VII 25


Mussolini cominciò col prenderla larga. Disse che credeva che si dovesse arrivare all’alleanza, ma fece “una precisa riserva sul momento in cui converrà stringere tale Patto”. VIII Questa sarebbe stata una buona risposta diplomatica e gli avrebbe lasciato tutte le porte aperte, inclusa quella della ritirata; ma lui continuò a parlare e in cinque minuti si impegnò fino al collo. Allineò alcune ragioni ostative, ma le annullò dicendo che era “sua volontà fare questa alleanza allorché l’idea sia stata fatta convenientemente maturare nelle grandi masse popolari.” IX Non contento, caricò la dose affermando che: “nel frattempo niente sarà fatto fra noi, la Francia e l’Inghilterra. Con l’Inghilterra esiste il Patto di aprile che tra poco entra in vigore, ma che nel frattempo ha perso molto della sua importanza. Coi francesi la situazione continua ad essere estremamente difficile.” X Ammettere la non efficacia di un patto firmato, ratificato e prossimo a entrare in vigore non era una bella azione. Era eticamente scorretto e politicamente inopportuno. Scorretto perché implicava l’ammissione di non mantenere la parola data, inopportuno perché dava alla Germania un vantaggio negoziale immenso, facendole capire che Mussolini teneva più ad essa che a qualsiasi altra Nazione. Ribbentrop gli aveva messo il laccio al collo. Si trattava di stringerlo. Diede un primo colpetto dicendo che confermava “…che il Mediterraneo è destinato a divenire un mare italiano. La Germania intende agire a tal fine. Per due volte l’Italia ha dato prova della sua amicizia verso la Germania. Adesso è la volta dell’Italia di profittare dell’aiuto tedesco.” XI Il futuro avrebbe fatto vedere che falsità stesse dicendo, ma per il momento Mussolini non chiedeva di meglio che credergli e gli credé. La Germania, la potentissima Germania, si avvicinava e gli offriva l’alleanza. Insieme al Giappone avrebbero dominato il mondo: al Giappone l’Asia, alla Germania il mondo e all’Italia il Mediterraneo. In realtà non c’era proporzione e, considerando che i Tedeschi rivolevano le colonie in Africa, sarebbe stato il caso di domandarsi quanto a lungo avrebbero evitato di ficcare il naso nel Mediterraneo, ma nessuno sollevò la questione e alle 20 il colloquio ebbe termine. Per l’atto seguente si dové aspettare un mese.

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Capitolo 4 La dimostrazione del 30 novembre 1938 alla Camera e le sue conseguenze

Il 26 gennaio 1939 allo Stato Maggiore Generale si tenne una riunione di cui non ci si ricorda mai, nonostante il verbale sia noto e pubblicato fin dal 1983. In apertura il Maresciallo Badoglio, capo di Stato Maggiore Generale, annunciò l’atteggiamento difensivo stabilito fin d’allora dal Duce: “L’altro giorno sono stato ricevuto da S.E. il Capo del governo al quale ho posto il quesito della situazione politica, perché Egli, quale Comandante delle Forze Armate, mi desse direttive da trasmettere alle LL.EE. i Capi di Stato Maggiore. Anzitutto S.E. il Capo del Governo mi ha dichiarato che, nelle rivendicazioni verso la Francia, non intende affatto parlare di Corsica, Nizza e Savoia. Queste sono iniziative prese da singoli, le quali non entrano nel suo piano di azione. Mi ha dichiarato, inoltre, che non intende porre domande di cessioni territoriali alla Francia perché è convinto che essa non ne può fare: quindi si metterebbe nella situazione o di ritirare una eventuale richiesta (e ciò non sarebbe dignitoso) o di fare la guerra (e ciò non è nelle sue intenzioni).” XII La cosa è quantomeno sorprendente, anche se ancor più sorprendente è che, nonostante sia stata pubblicata nel 1983, nessuno ne abbia poi mai fatto menzione: Mussolini ne esce privo delle velleità territoriali che gli sono regolarmente attribuite, o quantomeno non ne ha di impellenti e nemmeno a media scadenza. Ma esattamente che voleva dire Badoglio? E il Duce chi intendeva indicare? Parlando di “iniziative prese da singoli”, Mussolini si riferiva a Ciano, a Starace forse, ma soprattutto a qualcosa all’epoca ben noto a tutti e recentissimo, qualcosa avvenuto alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni il 30 novembre del 1938, cioè un mese e due giorni dopo la visita di Ribbentrop. Prendiamo la fonte più nota, il Diario di Ciano, a quella data e leggiamo: 27


“Pronuncio alla Camera il discorso. Va molto bene. Quando parlo, alla fine, delle “naturali aspirazioni del popolo italiano”scoppia nell’aula una vera bufera di acclamazioni e di grida “Tunisi, Corsica, Nizza, Savoia”. Niente era stato preparato. I deputati hanno espresso spontaneamente le loro aspirazioni, che son quelle del popolo. Il Duce era contento. L’ho accompagnato in macchina a Palazzo Venezia. Ha detto: “Un grande discorso e una grande giornata del Regime. E’ così che si imposta un problema e si lancia un popolo”. Infatti ha preso la parola in principio di seduta, al Gran Consiglio ed ha più o meno detto quanto segue: “Vi comunico le mete prossime del dinamismo fascista. Come è stata vendicata Adua, vendicheremo Valona. L’Albania diventerà italiana. Non posso né voglio ancora dirvi quando e come. Ma lo sarà. Poi, per necessità della nostra sicurezza in questo Mediterraneo che ancora ci costringe, abbiamo bisogno della Tunisia e della Corsica. Il confine deve andare al Varo. Non punto sulla Savoia perché è fuori della cerchia alpina. Tengo invece presente il Ticino, perché la Svizzera ha perduto la sua forza di coesione ed è destinata un giorno a venir dislocata, come lo saranno molti piccoli Paesi. Tutto ciò è un programma. Non posso fissare termini di tempo. Segno soltanto le direttrici di marcia. Chiamerei a rispondere di tradimento chi rivelasse in tutto o in parte quanto ho detto.” XIII Bottai, secondo l’edizione delle sue memorie del 1982, più o meno conferma la versione di Ciano, 2 ma entrambi peccano d’omissione; e anche grave. Ce lo dice uno dei principali gerarchi del Regime, il barone Giacomo Acerbo, pluridecorato della Grande Guerra, camicia nera antemarcia, nume tutelare dell’Abruzzo nel Ventennio, economista e noto esperto di agricoltura, membro del Gran Consiglio del Fascismo – uno dei soli quattro a votare contro le leggi razziali – e della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, il quale, di lì a pochissimo, sarebbe stato nominato Presidente della commissione generale del bilancio della Camera, restandoci fino al gennaio del 1943, quando sarebbe divenuto l’ultimo ministro delle finanze di Mussolini. Scrisse dunque Acerbo nelle sue memorie, a proposito di Galeazzo Ciano: 2

I diari di Bottai hanno avuto due edizioni principali, entrambe a cura di Giordano Bruno Guerri. La prima apparve sotto il titolo di Vent’anni e un giorno, per i tipi di Garzanti, a Milano, nel 1977. La seconda fu intitolata Diario 1935-1944 e venne pubblicata, sempre a Milano, dalla Rizzoli, nel 1982. Occorre essere molto attenti nell'adoperarle, perché l'edizione del 1977 ha parecchie differenze rispetto alla successiva e, in questo specifico caso, manca di tutta la parte relativa alla Francia, che invece c'è in quella del 1982.

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“L’ostinazione di Mussolini a non volersi privare della collaborazione di suo genero appare ancora più incomprensibile e deplorabile se si ripensa ai fatti del 30 novembre 1938. Alludo alla seduta della Camera nella quale, durante un discorso di Ciano, nel punto ove questi, incalorendo la voce, accennò alle antiche rivendicazioni irredentistiche a cui l’Italia fascista non intendeva rinunziare, una dimostrazione a freddo partì da una trentina di deputati con le grida di “viva Nizza”, “viva la Savoia”, “viva la Corsica”, ecc., questo mentre nella tribuna diplomatica assisteva l’ambasciatore di Francia François-Poncet arrivato da appena una settimana a Roma dopo il ristabilimento delle relazioni diplomatiche fra i due paesi che l’incontro di Monaco aveva accelerato. Al termine della seduta, in piazza Montecitorio un centinaio di dimostranti emettevano le medesime acclamazioni. Fu in definitiva una commedia inscenata dallo stesso Ciano con la cooperazione del segretario del partito Starace; e lì per lì si pensò che non le fosse mancato l’assenso preventivo del Duce che era stato presente alla seduta. Invece la sera stessa Mussolini dando inizio ai lavori del Gran Consiglio, stigmatizzò con tono reciso quanto era successo: “Deploro la scena di oggi alla Camera – queste furono quasi esattamente le sue parole – e la deploro sia perché è stata fatta a mia insaputa, sia perché coloro che l’hanno organizzata non hanno riflettuto che essa era per lo meno intempestiva giacché solo da pochi giorni abbiamo ripreso le relazioni piene con la Francia. Più deplorevole ancora è l’accaduto giacché si è sviata l’attenzione della Camera e della nazione da quello che doveva costituire l’argomento da valorizzare: il grande successo del governo fascista a Monaco.” I due responsabili rimasero indifferenti come se la cosa non li riguardasse […]. Tutti si aspettavano la liquidazione dei due responsabili, ma essi restarono più saldi di prima ai loro alti posti di comando.” XIV Come si vede c’è una gran differenza fra i due resoconti. Chi dice la verità? La risposta è: Acerbo. Perché? Ciano stesso ce ne dà la prova, scrivendo, il 9 febbraio 1939, cioè due mesi abbondanti dopo la seduta del Gran Consiglio: «9 Febbraio – firma reale. Il Re, fra l’altro, mi dice che due persone ieri gli hanno detto che il Duce nell’ultima riunione del Gran Consiglio, ha deplorato la seduta del 30 novembre. L’ho riferito al Duce: ancora una prova che il Gran Consiglio non è un organo di assoluta discrezione.» XV Ora, per chi legge solo il diario di Ciano, questa annotazione 29


resta oscura e come tale viene dimenticata, perché, se la si confronta con quanto scritto alla data del 30 novembre, è impossibile trovare qualsiasi commento negativo di Mussolini, anzi, al contrario. Per di più, il fatto che Ciano scriva di aver riportato al Duce le parole del Re induce il lettore a pensare a tutto tranne che a una critica di Mussolini contro di lui, ma se si confronta questa annotazione del 9 febbraio col resoconto di Acerbo del 30 novembre, il mistero è risolto, l’affidabilità d’Acerbo confermata e quella di Ciano inficiata. Per essere proprio precisi, la seduta del Gran Consiglio a cui il Re si riferiva non è quella del 30 novembre sera, ma un’altra che Ciano menziona nel suo diario solo per dire che il Duce aveva parlato della marcia all’oceano e che il rapporto da lui – Ciano – presentato era stato salutato da applausi. Era accaduto ai primi di febbraio ma non era stata indolore per il Ministro degli Esteri e, grazie al diario di Bottai, conosciamo le dure critiche di Mussolini, a cui fece poi riferimento il Re il 9 febbraio. Infatti, alla data del 4 febbraio 1939 Bottai scrisse che Mussolini, nell’ultima seduta del Gran Consiglio, aveva parlato della seduta del 30 novembre alla Camera, era stato assai critico e aveva detto che quella dimostrazione aveva galvanizzato l’Union Sacrée, minacciato di compromettere la visita dei ministri inglesi a Roma e che dopo la Spagna, cioè dopo la fine della Guerra Civile Spagnola, sarebbe stato possibile negoziare con la Francia. XVI In altre parole, Mussolini aveva trovato l’intervento fatto da Ciano il 30 novembre così fuor di luogo e dannoso da stigmatizzarlo non solo il giorno stesso in cui era stato fatto, ma addirittura di nuovo dopo oltre due mesi; però Ciano non fece alcun cenno di ciò nel suo diario. Dunque nell’autunno del 1938 e ancora nell’inverno 1938-39 le rivendicazioni territoriali contro la Francia erano un’idea di Ciano e Starace, in quel momento talmente non condivisa da Mussolini da indurlo a confermarlo pure a Badoglio e, per suo tramite, ai Capi di Stato Maggiore. A fugare qualsiasi dubbio, va ricordato che i verbali delle sedute fatte allo Stato Maggiore Generale erano inviati sia ai partecipanti alla riunione, che li firmavano, sia, in seguito, a Mussolini stesso – e nei rari casi in cui ciò non fu fatto lo si scrisse apertamente 3 – il quale poi diceva a Badoglio su cosa dissentiva; e Badoglio lo riferiva ai colleghi nella seduta seguente. Ebbene: in questo caso Mussolini non smentì nulla, né corresse nulla; in altre parole confermò coi fatti che la sua opinione era come Badoglio l’aveva riferita. Cade così una delle asserite ragioni dell’intervento italiano: visto quanto era stato detto dal Duce al Gran Consiglio la sera del 30 novembre 1938 e ribadito da lui stesso a Badoglio nel gennaio del 1939, le velleità mussoliniane 3

Cfr Verbale n. 4, Seduta del 6 maggio 1940, in op. cit., p. 47, dove, dopo la frase «alle 9,30 la seduta è tolta», si legge: «NOTA – il verbale di questa riunione non sarà inviato al Duce».

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di conquista di territori europei e africani risultano del tutto inesistenti, quantomeno allora. Effettivamente, come vedremo, ciò che interessava al Duce in quel momento erano: il mantenimento dello stato particolare degli Italiani di Tunisia, avere dei posti nel consiglio d’amministrazione della compagnia del Canale di Suez e un arrangiamento relativo a Gibuti, terminale dell’unica ferrovia esistente per Addis Abeba; basta. Dunque rivendicazioni territoriali vere e proprie non ce n’erano, almeno in quel periodo. Tale atteggiamento non mutò fino alla primavera del 1940 e, anche allora, rimase, per ordine di Mussolini, l’attitudine non offensiva nei confronti della Francia e delle sue colonie, come si evince leggendo i verbali delle sedute dello Stato Maggiore Generale. E allora? Se cade la motivazione territoriale, per giustificare l’entrata in guerra bisogna cercare dell’altro: cosa? Lo vedremo poi, per adesso registriamo il fatto che le rivendicazioni territoriali non erano una molla fondamentale della politica mussoliniana e torniamo al 1938, per la precisione al 2 dicembre, due giorni dopo la manifestazione dei deputati alla Camera. Quel giorno l’ambasciatore di Francia, André François-Poncet, ottenne udienza da Ciano. Già ambasciatore a Berlino per quattro anni, era arrivato a Roma il 7 novembre del 1938, dopo la normalizzazione dei rapporti franco-italiani seguita al Patto di Monaco. Ricevuto da Ciano il 9, aveva detto di voler “esaminare a fondo con il Governo italiano i problemi che hanno reso difficili le relazioni tra Roma e Parigi, allo scopo di arrivare al più presto ad una chiarificazione.” XVII Ciano gli aveva risposto prendendo atto delle sue parole, confermandogli la buona volontà italiana e mettendo subito sul tavolo il nodo irrisolto del riconoscimento della Spagna franchista – ancora in guerra contro quella repubblicana legittima – e facendone la condicio sine qua non si poteva concludere alcun ravvicinamento. François-Poncet aveva ribattuto d’esserne conscio e di volersi adoperare in tal senso e si erano lasciati in termini sostanzialmente buoni. Cinque giorni dopo, il 14 novembre, Ciano aveva scritto al regio ambasciatore a Londra, Dino Grandi, ricordandogli che il 16 sarebbero entrati in vigore i Patti di Pasqua e che, sistemata così la situazione coll’Inghilterra, lo doveva essere ancora quella con la Francia, per cui “le rivendicazioni che una volta tenevamo chiuse nel nostro animo, ormai possono, a breve scadenza, essere messe sul tappeto. Tre sono i punti fondamentali della nostra politica nei confronti della Francia: la Tunisia, Gibuti e il Canale di Suez.” XVIII Da queste premesse era nata la sceneggiata del 30 novembre alla Camera. Salta agli occhi che, delle tre rivendicazioni, secondo Ciano solo Tunisi venne menzionata, mentre furono aggiunte Savoia, Nizza e Corsica, la prima esclusa, 31


le seconde poi confermate – coll’aggiunta del Canton Ticino – da Mussolini nel Gran Consiglio di quella sera. Secondo Acerbo, invece, nessuna di esse fu menzionata né alla Camera dai deputati, né da Mussolini in Gran Consiglio. A dire il vero non è molto importante sapere se alla Camera si fosse gridato “Tunisi” o meno; rilevante è ciò che ne conseguì. François Poncet avvisò Parigi; e al Quai d’Orsay avvennero due cose: gli si disse di chiedere spiegazioni a Ciano e si decise che la guerra contro l’Italia era sicura. XIX Dunque, il 2 dicembre 1938, seguendo le istruzioni del suo governo, François-Poncet si presentò da Ciano e, con molta buona maniera, gli pose due domande, entrambe originate dalla gazzarra del 30 novembre alla Camera: “le grida dei Deputati potevano rappresentare le direttive della politica estera italiana?” XX e, in particolare a proposito della questione tunisina, visto che era menzionata esplicitamente negli accordi italo-francesi del 1935, il Governo italiano considerava questi ultimi tuttora in vigore e riteneva di potersene servire quale base delle relazioni franco-italiane? Ciano diede una risposta politicamente e diplomaticamente ineccepibile, ma in realtà assai falsa, almeno alla luce di quanto aveva scritto a Grandi e nel proprio diario, risposta che merita d’essere riportata per intero: “Ho risposto al signor Poncet, per quanto concerneva la prima richiesta, che il Governo non può prendere la responsabilità di grida lanciate da fascisti, siano esse state lanciate nell’aula parlamentare o nelle pubbliche piazze. Si limita a prenderne atto come indizio preciso dello stato d’animo del popolo italiano, poiché è da tener presente che, contrariamente a quanto la stampa ha asserito, nessuna dimostrazione era stata precedentemente organizzata: non è consuetudine del Governo di compiere alla Camera nessun gesto per sconfessare eventuali interruttori: la disciplina nell’aula è tenuta dal Presidente della Camera, il quale, come lo steso signor Poncet ha visto, ha suonato più volte il campanello per richiamare al silenzio gli interruttori. La sola manifestazione responsabile del Governo fascista era rappresentata dal testo del mio discorso: in esso nessuno potrebbe riconoscere alcunché destinato ad offendere la Francia. Per quanto concerneva la seconda richiesta, ho detto al signor Poncet che la questione che mi aveva posta era d’importanza troppo precisa perché io potessi senz’altro assumermi la responsabilità di una risposta e che quindi avrei dovuto prendere ordini dal mio Capo. Però, a titolo preliminare e personale, dovevo far presente che gli Accordi del 1935 erano stati realizzati con dei presupposti che non 32


hanno poi trovato nella pratica la loro conferma: in primo luogo l’atteggiamento non amichevole della Francia durante la campagna etiopica. Perciò mi domandavo se tutta la questione non dovesse venire ulteriormente esaminata sotto una nuova luce.” XXI Era trasparente. Smentendo ufficialmente, a titolo personale Ciano confermava. Ce n’era abbastanza perché a Parigi si capisse che aria tirava. Il gruppo italofilo del Ministero degli Esteri fu emarginato e neutralizzato da quello italofobo, in cui la figura di spicco era quella del segretario generale del ministero, Léger, e la Francia iniziò a prepararsi per la guerra, per cui l’attacco italiano cominciò ad essere aspettato fin da allora e, quando arrivò, nel giugno del 1940, era atteso da 19 mesi e fu tutt’altro che una pugnalata alle spalle. Né i militari, per quanto labili potessero essere i contatti coi diplomatici, furono colti di sorpresa, visto che lo Stato Maggiore aveva preparato i piani per un’invasione dell’Italia fin dal 1931. XXII E’ difficile dire quanto gli Italiani sapessero dei piani francesi, ma è lecito supporre che fosse abbastanza da preoccuparsi e, se pure avessero avuto dei dubbi, bastarono a dissiparli le improvvide dichiarazioni poi fatte dal generale Giraud che, nella primavera del 1939, parlando a un raduno di sottufficiali dell’Esercito, ebbe la felice idea d’affermare che la guerra contro l’Italia sarebbe stata per gli uomini del generale Gamelin «une simple promenade dans la plaine du Po» XXIII – una semplice passeggiata nella pianura del Po – mentre altri parlavano, ma più in privato, d’una penetrazione “facile come infilare un coltello nel burro.” XXIV Davanti a dichiarazioni del genere, per di più fatte da un generale dell’importanza di Giraud, come si poteva evitare di pensare alla realtà concreta d’una minaccia francese? In realtà le cose non stavano esattamente come i Francesi avrebbero desiderato. I piani del 1931 erano stati ripresi e ampliati nel 1935 e di nuovo nel 1937. Nell’agosto del 1938 Gamelin aveva chiesto di redigerne di dettagliati per un’offensiva sul fronte alpino, ma adesso, nel dicembre 1938, il generale Georges, commentava: «In presenza dell’esercito tedesco di domani, qualsiasi azione offensiva di penetrazione in Italia non può essere ammessa che alla condizione preliminare d’aver consolidato il fronte Nord-Est per mezzo di nuove organizzazioni […] che permettano d’assicurarvi una difesa economica e di recuperare delle disponibilità a profitto del Sud-Est.» XXV Insomma, la Francia non era in grado d’attaccare se le pendeva addosso la minaccia tedesca, che, secondo i Francesi, poteva essere neutralizzata solo con 33


opere maggiori e dispendiose e, ma questo i Francesi non lo ammettevano volentieri, coll’intervento britannico. Come abbiamo visto, il 27 settembre 1938 il Deuxième Bureau aveva avvertito lo Stato Maggiore francese che i Tedeschi erano pronti a invadere la Cecoslovacchia e rischiare una guerra mondiale. Adesso, in dicembre, il colonnello Gauché tirò fuori un’altra analisi realistica quanto deprimente: “Per quanto il Deuxième Bureau fosse più che sicuro che gli obiettivi finali di Hitler erano ben lungi dall’essere stati raggiunti, soltanto nel dicembre del 1938 esso ebbe la prima prova inconfutabile della probabilità di ulteriori aggressioni tedesche. In conseguenza di questa informazione, Gauché indirizzò ai suoi superiori una nota in cui delineava il probabile sviluppo degli avvenimenti secondo il Deuxième Bureau. Diceva che la Francia aveva perduto ogni prestigio all’estero e non poteva sperare di trovare, nel momento critico, delle potenze disposte a sostenerla. L’Italia rimaneva fedele all’Asse, e quanto all’efficienza militare della Russia c’era da andarci coi piedi di piombo. Solo la Polonia rimaneva una potenziale amica, ma, minacciata com’era da tre lati, sarebbe ben presto stata costretta ad arrendersi. Con le sue frontiere orientali al sicuro, la Germania avrebbe potuto o spingersi ancora verso est, oppure volgersi contro la Francia. Il suo obiettivo finale sarebbe stato comunque la Russia e in particolare l’Ucraina con tutte le sue risorse.” XXVI Già nel 1917 i Francesi avevano previsto che, nel 1933, a causa del diverso tasso di natalità, i Tedeschi avrebbero avuto disponibili 8 milioni di uomini contro i soli 3.300.000 della Francia. Caricarci sopra pure un paio di milioni di Italiani, se non tutti gli 8 milioni di baionette vantati da Mussolini, non era una buona idea. Insomma, la guerra all’Italia si poteva fare solo a condizione di non starla facendo pure alla Germania e, nel suo insieme, la situazione europea era una via di mezzo fra un ricatto incrociato e una danza sulle uova: l’Italia guardava alla Germania perché temeva d’essere attaccata dalla Francia, sostenuta dall’Inghilterra, che non l’assaliva per paura d’essere attaccata dalla Germania, la quale non si muoveva – non ancora – per il timore della reazione della Gran Bretagna e della Francia, contro le quali aveva bisogno dell’alleanza dell’Italia, la cui forza militare – creduta notevole – andava tenuta in conto, perché stava dando buona prova in Spagna, come del resto aveva sempre fatto nei quattro conflitti degli ultimi ventisette anni, e perché avrebbe comunque distratto ingenti forze francesi dal Reno. 34


Il 23 e il 24 novembre 1938 Chamberlain e Halifax andarono a Parigi. Fra le altre cose parlarono di cooperazione militare e lo resero noto con chiarezza nel comunicato congiunto finale. Adesso la Francia si sentiva più sicura e cominciò a dimostrarlo. Il 6 dicembre Francesi e Tedeschi firmarono un accordo, che non serviva a nulla se non a gettare fumo negli occhi e a far sembrare le due nazioni in buoni rapporti. Nonostante questo, o, come vedremo, forse proprio per questo, il 17 dicembre Mussolini denunziò i patti sottoscritti con Laval nel 1935. Se era un assaggio del terreno, andò male. Forte degli accordi cogli Inglesi, Parigi fece finta di nulla e il 22 l’agenzia Havas, nemmeno il Governo, rispose che gli accordi Mussolini-Laval, anche se non ratificati, liquidavano tutte le divergenze esistenti fra le due Nazioni. Insomma, l’iniziativa di Mussolini e la risposta della Havas furono due passi in più sulla strada dell’inasprimento delle relazioni cominciato il 30 novembre. Venne l’inverno e portò un ulteriore passo, il viaggio nei luoghi oggetto delle mire italiane, cioè in Corsica, Tunisia e Algeria di Daladier, che parlò più volte, ad Ajaccio, a Bastia, a Tunisi, in termini chiari: la Francia non avrebbe mai ceduto alle pretese fasciste. Il suo giro era cominciato il 2 gennaio 1939. Lo stesso giorno Ciano scrisse a Ribbentrop e, riferendosi alla proposta di patto d’alleanza, affermò: “Adesso, sciogliendo la riserva, il Duce ritiene che il Patto possa essere firmato e propone come epoca della firma l’ultima decade di gennaio.” XXVII Ciano proseguiva dicendo che nella decisione di Mussolini le rivendicazioni italiane nei confronti della Francia non avevano avuto alcun rilievo: “Le vere ragioni che hanno indotto il Duce ad accogliere in questo momento la Vostra proposta sono le seguenti: 1. La ormai provata esistenza di un Patto militare tra la Francia e la Gran Bretagna; 2. Il prevalere della tesi bellicista negli ambienti responsabili francesi; 3. La preparazione militare degli Stati Uniti che ha lo scopo di fornire uomini e soprattutto mezzi alle democrazie occidentali in caso di necessità.” XXVIII Un patto anglo-francese significava che Parigi aveva le spalle coperte e il suo prossimo atto poteva essere l’attacco all’Italia. Temendo d’essere assalito, Mussolini si era gettato in mano ai Tedeschi. La lettera fu accolta con soddisfazione a Berlino: era in trappola. 35


Il 10 gennaio Chamberlain e Halifax si misero in viaggio per Roma, si fermarono poche ore a Parigi e giunsero a destinazione l’11. Non cavarono un ragno dal buco, anche se si poté avere la sensazione che fossero disponibili – ove possibile – a premere sulla Francia per farla cedere sulle colonie, tanto mica erano le loro. In definitiva, come si vede dalla successione dei fatti, la dimostrazione alla Camera del 30 novembre 1938 innescò un meccanismo di cause ed effetti che andò crescendo d’intensità per le rispettive ostinazioni e alla fine buttò l’Italia in braccio alla Germania. Viene allora da domandarsi: visto che quella benedetta dimostrazione ebbe un effetto così dirompente, perché fu fatta? Era necessaria? A che doveva servire se non si volevano Savoia, Nizza e Corsica, ma dei consiglieri d’amministrazione nella Compagnia del Canale di Suez, la revisione dello statuto di Tunisia e un arrangiamento su Gibuti? Ci si rese conto degli effetti che poteva avere? La risposta è sorprendente e dimostra che dilettanti fossero il Duce e il suo Ministro degli Esteri: non serviva altro che a far chiasso per dare una base alla rinegoziazione dell’accordo Laval-Mussolini del 1935, solo che fu fatta nel momento sbagliato. Perché lo dico? Chi me lo conferma? Due testimoni coevi, uno parlando in generale, l’altro riferendosi al caso particolare. Cominciamo dal primo. Aveva scritto sir Harold Nicolson nel suo Diplomazia uscito nel 1939: “Lo scopo della politica estera italiana è l’acquisizione sul terreno diplomatico di un’importanza maggiore di quella che possa esserle assicurata dalla sua potenza reale. Essa è pertanto l’antitesi del sistema tedesco, poiché invece di basare la diplomazia sulla potenza, basa la potenza sulla diplomazia. E’ l’antitesi del sistema francese, poiché invece di sforzarsi di assicurarsi degli alleati stabili contro un nemico permanente, considera i suoi alleati e i suoi nemici intercambiabili. E’ l’antitesi del sistema britannico, poiché ciò che intende assicurarsi non è un credito durevole, ma un vantaggio immediato. La sua concezione dell’equilibrio di potenza, soprattutto, non è identica a quella britannica; infatti, mentre in Gran Bretagna tale dottrina è interpretata come opposizione a qualsiasi Paese che cerchi di dominare l’Europa, in Italia essa è intesa come quel particolare equilibrio di forze che le consenta di far inclinare l’ago della bilancia. I diplomatici italiani considerano l’arte del negoziato una loro specialità. Il loro metodo è spesso consistito nel creare dapprima un 36


peggioramento delle relazioni con il Paese con cui desiderano negoziare e quindi nell’offrirgli “buone relazioni.” Prima di intraprendere i negoziati hanno cura di assicurarsi tre argomenti da usare come moneta di scambio. Innanzi tutto viene provocato artificialmente nell’opinione pubblica uno stato d’animo di risentimento e di ostilità, quindi si provvede a definire qualche forma di valutazione del danno da far valere contro il Paese con cui l’Italia si accinge a negoziare; infine si formula la richiesta di qualche concessione – che l’Italia non si illude di ottenere né desidera realmente – ma il cui abbandono obbligherà la controparte a concedere qualche compensazione. Man mano che i negoziati procedono, a queste pretese, avanzate a titolo di mercanteggiamento, se ne aggiungono altre. Se i negoziati danno segno di diventare difficili, viene fatto capire che analoghe trattative saranno aperte altrove. In qualche caso vengono intrapresi negoziati contemporaneamente con due parti opposte.” XXIX Ebbene, non è la descrizione di quanto accadde dal 30 novembre in poi? La scena alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni fu certamente la “provocazione artificiale nell’opinione pubblica d’uno stato d’animo di risentimento e di ostilità”; quando François Poncet andò a chiedere spiegazioni gli si disse qual’era il danno – il fatto che l’accordo del 1935 non fosse più sufficiente – e si chiesero le concessioni con la sconfessione degli accordi fatta il 17 dicembre e l’implicita richiesta relativa a Suez, Tunisi e Gibuti. Contemporaneamente l’Italia giocò la carta tedesca, sia per coprirsi le spalle in caso di guerra, sia per impressionare la Francia. Ma la mossa fallì. I Francesi conoscevano le abitudini negoziali italiane e si sentivano protetti dall’Inghilterra, per cui si irrigidirono; e quella che era cominciata come la solita manovra negoziale italiana dai fini limitati si sviluppò in un inaspettato crescendo che sfociò in una strettissima e soffocante alleanza con la Germania e in ultima analisi fu tra le cause che consentirono la guerra. C’è di più, un’ulteriore conferma, data dal secondo testimone e proprio sul caso specifico. Nell’aprile del 1939, il ministro degli Esteri romeno, Grigore Gafencu, fece un giro delle capitali dei vari Stati europei su cui stava per scatenarsi la tempesta. Traversata la Polonia e visitate Berlino, Bruxelles e Londra, a fine aprile arrivò in Francia e incontrò i vertici della Repubblica. Ricordò poi, dopo la guerra, che a Parigi non c’era unanimità riguardo all’atteggiamento da seguire verso Roma: 37


“Bonnet credeva che l’Italia avrebbe potuto essere guadagnata ad una politica di intesa e di pacifica collaborazione. Daladier non condivideva questa speranza. Il Presidente del Consiglio era irritato dalla politica equivoca del Governo fascista, che periodicamente scatenava violente campagne contro la Francia, pur favorendo le voci di corridoio secondo le quali l’Italia era pronta a trattare alle migliori condizioni. Per una strana coincidenza, ogni volta che la Germania faceva mostra di riavvicinarsi alla Francia (così al momento del viaggio di von Ribbentrop a Parigi il 6 dicembre 1938), Roma risuonava di clamori che esigevano il “ritorno” all’Italia della Corsica, di Nizza e della Savoia. Poi questi rumori si calmavano, l’Italia tornava sorridente e i viaggiatori francesi – cosa sorprendente – erano unanimi nel riconoscere che laggiù si era riservata loro un’accoglienza assai buona. Tra questi viaggiatori si trovavano degli osservatori, dei negoziatori segreti… e tutti tornavano con la convinzione che c’era modo d’intendersi coi padroni dell’Italia. Daladier non si fidava di questi rapporti “ottimisti”. Non si interessava affatto al Governo di Roma, e pensava che l’Italia, facendo delle offerte alla Francia, ma proclamando ben alto di appartenere all’Asse, voleva soltanto giocare e guadagnare dalle due parti. Gli uffici del Quai d’Orsay sui quali dominava Alessio Léger nutrivano la stessa diffidenza. Il segretario generale del Ministero degli Affari Esteri mi diceva, con quella acutezza che gli era propria, di non ritenere che la situazione in Italia permettesse una seria opera di riavvicinamento. “Bisogna abbandonarli alla loro esperienza fino in fondo. Ogni sforzo tentato dal difuori per ricondurli a noi è destinato all’insuccesso: li farebbe perseverare nella loro politica di doppiezza, li indurrebbe a mettere al più alto prezzo i vantaggi di cui dispongono e farebbe loro apprezzare ancor più i benefici che l’Asse è in grado di assicurare loro. Solo quando avranno maturato fino in fondo un’idea che oggi è solo germogliata – il pericolo che rappresenta per l’Italia l’obbedienza alla Germania – essi si decideranno a tornare verso di noi, non per realizzare degli affari, ma per ritrovare la situazione di equilibrio che ha sempre garantito la loro sicurezza. Allora solamente potremo tenderci la mano.” XXX Insomma, i Francesi la pensavano come Nicolson. La differenza era che loro si riferivano al caso specifico e lui no, ma la valutazione era comune: il 38


Duce aveva tirato troppo la corda e non gli si credeva più. Adesso il gioco era troppo serio per poter dare retta ai suoi sotterfugi, ma, poiché lui non lo capì, fece una mossa di cui i Franco-Inglesi, sopratutto i Francesi, non compresero la portata né le implicazioni. Si alleò alla Germania e, così facendo, le coprì le spalle quanto bastava a renderla sicura di poter minacciare la Polonia e correre il rischio di provocare la guerra.

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Capitolo 5 Il 26 gennaio 1939

Mentre l’orizzonte politico europeo si oscurava, Mussolini prese almeno un provvedimento. Ordinò che lo Stato Maggiore Generale si radunasse per la prima volta da quando era stato creato e valutasse la situazione. Il 26 gennaio 1939, alle 9 del mattino, si incontrarono il Capo di Stato Maggiore Generale, Maresciallo Badoglio, i capi di Stato Maggiore della Regia Aeronautica generale d’armata aerea Valle, della Regia Marina ammiraglio d’armata Cavagnari, del Regio Esercito generale designato d’Armata Pariani, i loro sottocapi generale di squadra aerea Pinna, ammiraglio di squadra Campioni e generale di corpo d’armata Viscontini, il capitano di vascello Giacopini, capo ufficio Piani e Operazioni della Marina, il tenente colonnello Piacentini dell’Ufficio della Segreteria Militare del Ministero della Guerra e, come segretari, il colonnello Gandin, il capitano di Vascello Galati e il tenente colonnello pilota Ravagli,. L’ordine del giorno era: “direttive politico strategiche; scorte per le industrie di guerra; mobilitazione civile; mobilitazione per la Milizia Dicat”, la riunione era, ovviamente, segreta e durò meno di due ore. Badoglio esordì come già sappiamo e, per completezza, ripetiamo, con qualche particolare in più: “L’altro giorno sono stato ricevuto da S.E. il Capo del governo al quale ho posto il quesito della situazione politica, perché Egli, quale Comandante delle Forze Armate, mi desse direttive da trasmettere alle LL.EE. i Capi di Stato Maggiore. Anzitutto S.E. il Capo del Governo mi ha dichiarato che, nelle rivendicazioni verso la Francia, non intende affatto parlare di Corsica, Nizza e Savoia. Queste sono iniziative prese da singoli, le quali non entrano nel suo piano di azione. Mi ha dichiarato, inoltre, che non intende porre domande di cessioni territoriali alla Francia perché è convinto che essa non ne può fare: quindi si metterebbe nella situazione o di ritirare una 41


eventuale richiesta (e ciò non sarebbe dignitoso) o di fare la guerra (e ciò non è nelle sue intenzioni). Questo come quadro politico di S.E. il Capo del Governo. Avendo io richiesto se esistessero accordi precisi con la Germania per un intervento di questa al nostro fianco, in caso di conflitto armato con la Francia, S.E. il Capo del Governo mi ha detto che Hitler ha fatto dichiarazioni pubbliche di appoggiare la politica italiana e altre ne farà il 30 p.v. parlando alla Camera: però un impegno preciso, da parte tedesca, di venirci in aiuto, come quello preso dal Duce nel settembre scorso a Trieste e Udine non c’è ancora. Avendo io richiesto quali direttive intendesse impartire per un’eventuale azione di guerra contro la Francia, in caso di conflagrazione, S.E. il Capo del Governo ha detto queste precise parole: “Assoluta difensiva sulla fronte libica”. Io ritengo che questa decisione miri allo scopo di lasciare alla Francia la responsabilità di un’eventuale aggressione. Abbiamo, così, in termini precisi, le direttive per il nostro studio in questo momento. S.E. il Capo del Governo mi ha, altresì, informato della decisione di chiamare alle armi 50.000 uomini. Ho pregato di portarli a 60.000 per avere più disponibilità di forze alla frontiera francese. Se non altro la Guardia alla frontiera e i corpi d’armata di frontiera potranno avere una certa consistenza. Ho chiesto inoltre quale sarebbe stato il contegno della Jugoslavia in questo caso di conflitto. S.E. il Capo del Governo mi ha informato che siamo nei migliori rapporti con la Jugoslavia; ha accennato, anche, di questa amicizia con noi, la quale è ben vista dal popolo jugoslavo. Però la situazione interna jugoslava è delicata per la secessione croata. Ad ogni modo il Capo del Governo ritiene che, in caso si conflagrazione verso ovest, non ci sia da preoccuparsi della situazione al confine della Jugoslavia. Data questa situazione, sarà bene che in singoli Stati Maggiori perfezionino il piano di radunata verso ovest: mai come adesso abbiamo avuto direttive così specifiche. Bisognerà mantenere contatto continuo fra i diversi Stati Maggiori, specie per quelle parti del piano che riflettono più di una Forza Armata. Ripeto: abbiamo avuto una descrizione precisa della situazione, però non è ancora precisa per il lato tedesco. Vedremo quale dichiarazione farà Hitler alla fine del mese. 42


Bisogna quindi, specie per la Libia, che il Governo Generale della Libia abbia tutto il piano rivolto verso occidente, intendo, con questo che l’azione verso l’Egitto non ha più motivo di essere.” XXXI Diciamo che se queste per Badoglio erano delle direttive precise, il suo concetto di precisione era assai diverso da quello comune e lui era in grado di capire molte cose non dette. Dire poi che “mai come in quel momento si erano ricevute direttive così specifiche”, fa capire che fino a quel momento si era, evidentemente, brancolato nel buio. Dall’insieme del verbale si comprende, a fatica e talvolta argomentando “a contrario”, che nelle intenzioni di Mussolini vi fosse una guerra limitata contro la Francia e, per di più, solo difensiva; ma come ritenesse di evitare il coinvolgimento dell’Inghilterra – deducibile dall’affermazione che “l’azione verso l’Egitto non ha più motivo di essere” – non è chiaro, specie alla luce del recentissimo accordo anglo-francese del novembre 1938. In sostanza, i Capi di Stato Maggiore concordarono che, grazie alla buona rete di comunicazioni terrestri del Nordafrica, i Francesi erano in grado di far affluire in Tunisia forze ingenti, mentre la Libia non poteva essere rifornita per mare altro che con grandissimi rischi. Si pensò a un ponte aereo, ma non ce n’erano i mezzi. Pariani disse d’aver calcolato che sarebbero serviti 1.000 aerei da trasporto, ma che Mussolini glieli aveva ridotti a 100 e, come interloquì Valle, in quel momento se ne stavano costruendo appena dieci, ognuno capace di portare 50 uomini, due cannoncini o bombe, il che avrebbe significato un contingente di 500 uomini per ogni viaggio. Però, aggiunse, se ci si limitava al trasporto di uomini, le cose cambiavano, perché, con un preavviso di 15 giorni, si potevano adoperare almeno metà dei 200 apparecchi civili esistenti, la cui capacità variava da 10 a 20 o 25 persone, per cui avrebbero consentito il trasporto di almeno 1.000 uomini per volta. Vale la pena di notare che aggiungendovi gli altri 40 aerei da trasporto che sarebbero stati pronti entro la fine dell’anno, per la fine del 1939 si sarebbe stati in grado di aerotrasportare dalla Sicilia in Libia circa 3.000 uomini per volta con un minimimo di dotazione pesante, o 3.500 uomini per volta con le armi personali. Il nodo però, sottolineò Pariani, era “come s’intende risolvere la guerra contro la Francia: con la difensiva si rischia di subire degli scacchi. Bisogna battersi in un punto offensivamente.” XXXII Poiché tutto dipendeva da cosa avrebbe detto Hitler a fine mese, questo aspetto fu approvato solo in linea di massima e rimandato a data da destinarsi, come pure cosa fare per la Corsica, perché, come Badoglio ricordò, finché non si fosse saputo che volevano fare i Tedeschi, non si sarebbe potuto decidere che 43


fare sulle Alpi e, senza sapere cosa fare sulla Alpi, non si poteva stabilire che fare contro la Corsica. Si passò poi a parlare delle scorte di materiali per le industrie di guerra. Erano scarse, perché, come disse Badoglio: “Si può dire che l’esercito, dal 1935, fa da deposito a tre scacchieri: all’A.O., alla Libia e alla Spagna la quale ultima, specialmente, continua ad ingoiare soprattutto batterie e munizioni. Proprio nel ramo munizioni ho grandissime preoccupazioni. Non bastano i milioni per poter avere le munizioni: occorrono gli acciai che vengono dal di fuori. Nel 1937 noi abbiamo lavorato 1.800.000 tonnellate di acciaio, mentre la Germania ne ha lavorate 21.000.000. Bisogna avere moneta estera.” XXXIII Valle aggiunse che pure l’Aeronautica aveva fatto da deposito, inviando fino a quel momento 700 aerei in Africa Orientale e 900 in Spagna e, parlando d’altro, accennò al fatto che, mentre il bilancio dell’Aeronautica era in pratica di un miliardo e 600 milioni all’anno, quelli inglese e francese erano rispettivamente equivalenti a 20 e 23 miliardi, per cui la Francia poteva permettersi di costruire 200 aerei al mese. Si parlò poi di siluri, delle opere difensive per lo Stretto di Messina e della contraerea. Si stabilì di prospettare ogni cosa al Duce e si demandò molto alla Commissione Suprema di Difesa Alle 10.50 la seduta fu tolta; la seguente sarebbe stata solo il 18 novembre 1939, cioè di lì a undici mesi e due mesi e mezzo dopo lo scoppio della guerra. In sostanza, dal verbale emerge che nel momento in cui in Francia e Inghilterra si considerava certa la guerra contro l’Italia, in Italia si pensava di doversi difendere contro un attacco della sola Francia, si ammetteva di non poter rifornire la Libia a causa della Marina francese in Tunisia, di non aver abbastanza materiali per colpa della Guerra di Spagna e dell’A.O.I., di mancare di denaro e d’avere un’industria nazionale dalla capacità ridotta. Nessuno di questi problemi poteva essere risolto in tempi brevi e, soprattutto, finché duravano la controguerriglia in Africa e la Guerra Civile in Spagna. La controguerriglia in Etiopia era costosissima. Nel 1936-37, incluse però le spese per la guerra contro il Negus, erano spariti 17 miliardi e 519 milioni di lire; nel successivo esercizio del 1937-38 – relativo quindi solo alle operazioni antiguerriglia – erano stati spesi 9 miliardi di lire, pari a più del doppio del denaro impiegato per le spese d’amministrazione dell’Impero – 4 miliardi e 100 milioni nel medesimo esercizio 1937-38 – senza vedere risultati concreti. Sia la Spagna che l’Etiopia sembravano dei pozzi senza fondo e, se la seconda pareva destinata ad inghiottire ancora molto, almeno per la prima la fine era in vista. 44


La sera di quello stesso 26 gennaio 1939, infatti, Mussolini parlò a Roma a una folla non meno euforica di lui per le grandi vittorie di Spagna e per la presa di Barcellona dicendo: “La parola d’ordine dei “rossi” era questa: No pasaràn! Siamo passati e vi dico che passeremo!” XXXIV Effettivamente ormai si era alla fine. Il Governo legittimo cercava riparo in Francia e nulla poteva più salvare la Repubblica. Nella seconda metà di marzo i Nazionalisti provvidero a liquidare i resti dell’apparato repubblicano, mandando mezzo milione di soldati all’attacco in Castiglia il 26. Col Corpo Truppe Volontarie in prima linea e al centro dello schieramento, i “Neri” avanzarono su un lungo fronte che andava dalla Castiglia alla Sierra Morena, sfondando subito e catturando 30.000 prigionieri già il primo giorno. Il 28 marzo i Legionari italiani presero Aranjuez e a sera Guadalajara. La sconfitta del 1936 era vendicata e l’accerchiamento di Madrid completato. Nella capitale entrarono i Nazionalisti ed una colonna legionaria il 29 marzo 1939, mentre il grosso del CTV prendeva Albacete e, l’indomani, il generale Gambara occupava Alicante. Il 1° aprile 1939 il Quartier Generale nazionalista comunicò: “En el dia de hoy, cautivo y desarmado el Ejercito rojo, nuestras tropas victoriosas han alcanzado sus ultimos objetivos. La guerra ha terminado.” XXXV Al costo di 6.000 morti e 16.000 feriti i Legionari italiani si erano coperti di gloria e di vittorie convincendo Mussolini della potenza militare dell’Italia. Sia per questo, sia per mantenere buoni rapporti col nuovo Governo di Madrid, sia perché sarebbe stato troppo costoso riportarli indietro, il Duce donò al Caudillo tutti i mezzi e gli armamenti pesanti italiani trasferiti fino a quel momento in Spagna: era un salasso spaventoso, specie per un esercito che tra Africa ed Europa era ininterrottamente in guerra dal 1935. Ma il Duce non se ne preoccupò. L’avventura spagnola era finita bene e “..indicando l’atlante geografico aperto sulla pagina della Spagna” disse “… è stato aperto così per tre anni. Ora basta. Ma so già che devo aprirlo in un’altra pagina.” Commentava Ciano: “Ha nel cuore l’Albania.” XXXVI

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Capitolo 6 La Cecoslovacchia e l’Albania

Mentre il CTV combatteva in Spagna, nell’Europa centrale i Tedeschi avevano compiuto una mossa che aveva accelerato la conclusione dell’alleanza coll’Italia e segnato pure l’inizio di una certa paura italiana verso di loro. Il 15 marzo 1939 la Wehrmacht era entrata in quanto restava della Cecoslovacchia e l’aveva divisa in Slovacchia – indipendente – e Reichsprotektorat di Boemia e Moravia, sotto un governatore tedesco. Ciano e Mussolini vennero colti di sorpresa come mai prima. Si preoccuparono. Capirono di non poter manipolare i Tedeschi per i propri fini come avevano creduto fino allora, ma che erano i Tedeschi a valersi degli Italiani per i loro. Nel pomeriggio, come riferisce Ciano, Mussolini disse che ormai conveniva: «[…] far buon viso al gioco tedesco ed evitare così di renderci “a Dio spiacenti ed ai nimici sui”». XXXVII L’indomani il Duce riparlò con Ciano, che scrisse: Egli ritiene ormai stabilita l’egemonia prussiana in Europa. E’ d’avviso che una coalizione di tutte le altre Potenze, noi compresi, potrebbe frenare l’espansione germanica, ma non più ributtarla indietro … Domando se in tale stato di cose convenga a noi stringere l’alleanza o non piuttosto mantenere la piena libertà di orientarci in futuro secondo i nostri interessi. Il Duce si dichiara nettamente favorevole all’alleanza. XXXVIII Dieci giorni dopo, Mussolini fece un discorso in occasione del XX annuale dei Fasci di Combattimento e disse fra l’altro: Primo: per quanto i pacifisti di professione siano individui particolarmente detestabili …, noi consideriamo che sia necessario un lungo periodo di pace per salvaguardare nel suo sviluppo la civiltà europea … Secondo: … I tentativi di scardinare o di incrinare l’Asse RomaBerlino sono puerili … 47


Terzo: Nel mio discorso di Genova parlai di una barriera che separava l’Italia dalla Francia. Questa barricata può considerarsi abbastanza demolita e fra qualche giorno, forse fra qualche ora, le magnifiche fanterie della Spagna nazionale daranno l’ultimo colpo ... … Nella nota italiana del 17 dicembre 1938 erano chiaramente stabiliti i problemi italiani nei confronti della Francia: problemi di carattere coloniale. Questi problemi hanno un nome: si chiamano Tunisi, Gibuti, Canale di Suez. Il governo francese è perfettamente libero di rifiutarsi anche alla semplice discussione di questi problemi … Non avrà poi a dolersi se il solco che divide attualmente i due Paesi diventerà così profondo che sarà fatica ardua, se non impossibile, colmarlo. XXXIX In sostanza aveva detto ai Francesi: non illudetevi di staccarci dai Tedeschi; noi non vogliamo la guerra, ma ci armiamo – questo era nel quinto punto – per cui, adesso che si chiude il contenzioso nato con la Guerra di Spagna, siete ancora in tempo a trattare su Tunisi, Suez e Gibuti prima che sia troppo tardi. Insomma: il Duce non chiudeva la porta ai Francesi, ma in pratica la spalancava ai Tedeschi, perché riaffermando l’incrollabilità dell’Asse, implicitamente apriva la strada alla conclusione del Patto desiderato a Berlino. Però, mentre si avvicinava ai Tedeschi e, per questo motivo, non poteva contrastarne l’espansionismo, Mussolini voleva rafforzare la posizione italiana rispetto alla Germania e lo preannunciò coi punti quarto e quinto dello stesso discorso, dicendo che il Mediterraneo era uno spazio vitale per l’Italia e che comunque bisognava armarsi, “anche se si dovesse fare tabula rasa di tutto quello che si chiama vita civile.” XL Lo smembramento della Cecoslovacchia aveva accentuato l’avvolgimento della Polonia, avvantaggiato l’Ungheria e tagliato le ali alla Romania, il cui programma di riarmo era in corso ma dipendeva dagli acquisti fatti in Boemia, cioè, adesso, dagli acquisti fatti nel Reich. In altre parole, ora Bucarest si sarebbe potuta armare solo se, come e quanto Berlino l’avesse consentito. La Bulgaria, la Jugoslavia e la Grecia erano tutte più o meno sotto scacco, per diverse ragioni. Insomma: l’area danubiano balcanica stava cominciando a scivolare verso Berlino. Occorreva un bilanciamento a salvaguardia degli interessi italiani nell’area, perciò Mussolini ordinò l’occupazione dell’Albania. L’Italia vi aveva degli interessi petroliferi e strategici. Il controllo dell’Adriatico si esercitava avendo Otranto e la baia di Valona; e la baia di Valona si controllava avendo l’isolotto di Saseno. Metter piede in Albania significava chiudere l’Adriatico, 48


assicurarsi un rivolo di petrolio, minacciare gli Jugoslavi anche da sud, impedire che ci arrivassero i Greci, che vi si stabilisse un’influenza anglofrancese e che ci mettessero lo zampino i Tedeschi. A dire il vero, col trattato di Amicizia di Tirana del 1926, l’Albania era rimasta indipendente dall’Italia solo di nome, ma il Duce volle far sparire anche quello. Il 4 aprile il generale Pricolo ricevette l’ordine di spostare subito sui campi di Grottaglie, Brindisi e Lecce i reparti di volo della Regia Aeronautica costituenti la Squadra A, di cui era stato designato comandante. Fu l’ultimo ad essere avvisato; anche se il comandante dei reparti del Regio Esercito destinati all’operazione, generale Guzzoni, aveva saputo cosa lo attendeva solo perché aveva casualmente incontrato un capitano di Stato Maggiore alla stazione di Padova mentre si accingeva a partire per Roma per ricevere l’incarico. Il corpo di spedizione che si andava radunando comprendeva 22.000 uomini, 64 cannoni, 125 carri veloci, 860 automezzi e 1.200 motociclette ed era articolato su tre scaglioni. Di questi l’unico effettivamente impiegato fu il primo, formato da poco più di 13.000 uomini, articolato su quattro colonne, da sbarcare a Durazzo, San Giovanni di Medua, Valona e Santi Quaranta. La principale era la prima, destinata a puntare poi su Tirana, al comando del generale Messe. Alle 11 del 6 i primi bastimenti cominciarono a partire per le destinazioni più lontane: Valona e Santi Quaranta. Alle 18,30 anche gli altri lasciarono Brindisi. Alle 4,50 del mattino dopo, le navi che trasportavano la colonna Messe entrarono nella rada di Durazzo; e cominciarono le difficoltà. Il piroscafo Palatino, su cui si trovavano i Bersaglieri, che dovevano sbarcare per primi ed occupare la città, era in ritardo a causa della nebbia. Il Toscana non poteva entrare in porto: pescava troppo; ma nessuno ci aveva pensato. La Regia Nave portaidrovolanti Miraglia non poteva scaricare i suoi carri armati perché le era passato avanti l’Aquitania che, pur facendo parte dell’ultimo scaglione, aveva già attraccato e stava facendo scendere a terra i fanti del 47°, i quali, invece di essere gli ultimi e limitarsi a presidiare Durazzo, furono i primi e se la dovettero conquistare. Dopo una breve resistenza, alle 9 la città era in mano agli Italiani; ma lo sbarco di materiali, veicoli e carburanti procedeva lentamente, sia per l’eccessivo pescaggio di parecchie navi, costrette quindi a scaricare in rada su barche e zatteroni che facevano la spola colle banchine, sia perché, calata la notte, la scarsa illuminazione del porto complicava ogni movimento. 49


Intanto due parlamentari albanesi avevano proposto una tregua. Da Roma Mussolini la respinse; e le truppe proseguirono le operazioni. Mentre le altre colonne avanzavano senza difficoltà, quella di Messe uscì da Durazzo. All’alba passò l’Arzen, intanto che i bombardieri italiani martellavano il bivio di Vorra, poi, messi in fuga alcuni nuclei albanesi, si accinse a rifornire i propri automezzi. Ma non poté farlo, perché erano stati inviati da Durazzo fusti di gasolio anziché di benzina; ed ora la quasi totalità degli autoveicoli e tutti i carri armati erano bloccati. Si ordinò ad uno dei battaglioni ciclisti di avanzare ugualmente senza perdere tempo. Poi, scolando i serbatoi, si mise insieme abbastanza benzina da rifornire almeno una compagnia motociclisti ed un battaglione carri e lanciarli dietro a loro. Alle 8,45 un nucleo meccanizzato puntò decisamente su Tirana, di conserva con una compagnia motociclisti, mentre la Colonna Messe rimetteva in moto le prime unità rifornite. Alle 9,30, sconvolte e distrutte le poche difese incontrate lungo la strada, gli Italiani entrarono in città. Nel frattempo sull’aeroporto si posavano i primi dei circa 100 bombardieri S.81 che, decollati da Grottaglie alle 9,05 e scortati dai caccia, trasportavano i Granatieri di Sardegna. Quaranta minuti dopo, alle 10,10, le avanguardie della colonna Messe arrivarono nella capitale. La sera del 10 aprile l’occupazione dell’Albania era completata e l’esercito albanese – 50.500 uomini – era dissolto. Montata all’ultimo istante e a dispetto dell’improvvisazione, avvertita sopratutto nell’aerotrasporto, 4 l’Operazione “Oltre Mare Tirana” era finita, al modico prezzo di 12 morti ed 81 feriti. Aveva evidenziato delle grosse pecche organizzative nelle Forze Armate e forse sarebbe stato il caso di prendere qualche provvedimento, ma non successe.

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Il comandante dei Granatieri da aerotrasportare era rimasto assai sorpreso nell’apprendere che l`imbarco sugli aerei doveva essere effettuato collocando i soldati, oltretutto privi di paracadute e di salvagente, a diretto contatto coi portelli d`uscita delle bombe. Sarebbe bastata una svista e qualche velivolo se li sarebbe potuti perdere nell`Adriatico. Di conseguenza si preoccupò di arrangiare un`artigianale intercapedine di tavole di legno sopra i portelli. Poi ci fu il problema che gli S.81, che pure erano tra i bombardieri più grandi di cui disponesse la Regia Aeronautica, non lo erano abbastanza da portare gli equipaggiamenti troppo ingombranti e le armi pesanti, così i due battaglioni partirono colle sole armi individuali e leggere. Ma il colmo fu quando, arrivati a Tirana, scoprirono che tra i materiali troppo pesanti per essere trasportati in volo erano rientrate anche le cucine da campo ed i viveri e quindi dovevano stringere la cinghia fino a quando tutta quella roba non fosse arrivata via mare. Questo avrebbe avuto pesanti conseguenze sulla pianificazione della guerra alla Grecia, diciotto mesi dopo.

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Il 12 aprile l’Assemblea Costituente del Regno d’Albania offrì la corona a Vittorio Emanuele III. L’Adriatico era sotto controllo e il prossimo bersaglio doveva essere la Grecia. A dire il vero, lo sarebbe dovuto già essere insieme all’Albania, ma Mussolini, vista la tesa situazione internazionale, all’ultimo istante aveva deciso di soprassedere.

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Capitolo 7 Le proposte dei Tedeschi, il Patto d’Acciaio e le sue condizioni

Tre settimane dopo la presa dell’Albania, il 6 e il 7 maggio 1939 Ciano incontrò Ribbentrop a Milano e gli illustrò i punti sui quali Mussolini voleva chiarezza prima di firmare un’alleanza. 5 Per quanto riguardava la Polonia, Ribbentrop calmò le apprensioni italiane, particolarmente vive dopo l’invasione e lo smembramento della Cecoslovacchia. Anche se non poteva né voleva rinunciare a Danzica, il Führer era “deciso a marciare su una strada di conciliazione.” XLI I Tedeschi non avrebbero più fatto offerte alla Polonia, ma questo non significava che escludessero negoziati in futuro. Spiegò poi Ribbentrop: “il programma è quello di non prendere iniziative: il tempo giuoca in favore della Germania tanto più che già si notano segni di stanchezza in Francia e in Inghilterra nei confronti del problema polacco, ed è sicuro che tra qualche mese né un francese né un inglese marcerà per la Polonia.” XLII La Germania intendeva lasciar “stagionare” il problema polacco, pronta a reagire in caso dall’altra parte si fosse passati a una politica offensiva. Era un’assicurazione di intenti pacifici? Lo sembrava, almeno alla luce delle parole che seguirono: “Anche la Germania è convinta della necessità di un periodo di pace che dovrebbe essere non inferiore ai 4 o 5 anni. Il Governo tedesco intende impiegare molto attivamente questo tempo per la preparazione dell’esercito… e per la costruzione della Marina… Ciò non vuol dire che prima di questo periodo la Germania non sia pronta alla guerra. Qualora vi fossimo forzati, il Führer intende tentare di risolverla attraverso un rapido corso di operazioni. Ma se ciò sarà impossibile, si prepara anche a sostenere una guerra di durata pluriennale.” XLIII

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I punti includevano una proposta di conferenza internazionale avanzata da Pio XII,

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Per quanto riguardava la situazione franco-italiana, Ribbentrop, pur dicendosi d’accordo sulla politica mussoliniana, asserì di non ritenere possibile una guerra circoscritta a Roma e Parigi. Londra sarebbe certamente intervenuta a fianco della propria alleata e avrebbe provocato l’intervento automatico di Berlino a favore dell’Italia. Su tutti gli altri punti si registrò identità di vedute. Rassicurato dall’asserzione d’avere le spalle coperte dalla Germania in caso d’attacco anglo-francese e ancora quattro o cinque anni di pace davanti, cioè di avere ancora tempo per riarmarsi fino al 1943 o al 1944, Mussolini andò avanti sulla strada dell’alleanza, dando un assenso improvviso e inatteso. Ciano riferisce nel Diario che il 6 sera telefonò a Mussolini i risultati del primo incontro con Ribbentrop e le risposte che aveva dato ai 14 punti del promemoria mussoliniano e che si sentì dire di fare l’alleanza. Più esattamente “L’alleanza, o meglio l’annunzio immediato dell’alleanza è stato deciso sabato sera subito dopo il pranzo al Continental, in seguito ad una telefonata del Duce. Dopo il colloquio avevo riferito a Mussolini i risultati soddisfacenti per il nostro punto di vista. Egli, come sempre quando ha ottenuto qualcosa, chiede di più e mi ha domandato di fare annunziare il patto bilaterale ch’egli ha sempre preferito all’alleanza triangolare. Ribbentrop, che nel fondo del cuore ha sempre puntato all’inclusione del Giappone nel Patto, ha dapprima nicchiato, ma poi ha finito col cedere, con la riserva dell’approvazione di Hitler. Il quale, telefonicamente interpellato, ha dato la sua immediata approvazione ed ha personalmente collaborato alla redazione del comunicato. Quando il Duce ne è stato da me informato, al mattino di domenica, ha manifestato una particolare soddisfazione.” XLIV Tutti si sono sempre chiesti perché Mussolini abbia deciso così di botto. Non è mia intenzione provare a rispondere qui. Mi limito a fra presente che il 13 aprile Churchill, ancora un semplice membro della Camera dei Comuni, per quanto autorevole, aveva pronunciato un focoso discorso in cui aveva detto fra l’altro che, a proposito dei Patti anglo-italiani e visto quanto era accaduto in Albania, veniva “…logico chiedersi se un Governo il quale ha mostrato tanto sprezzo e indifferenza per un solenne accordo contratto da brevissimo tempo con una potenza amica non sia già deciso ad aprire le ostilità, con la massima risolutezza, contro questa stessa potenza quando la situazione lo richieda… Se entro quest’anno noi tutti fossimo costretti ad affrontare una nuova guerra mondiale, con ogni probabilità i primi sviluppi decisivi di questo conflitto si avrebbero nel Mediterraneo, sviluppi che avrebbero naturalmente un effetto disastroso nei riguardi degli eserciti italiani in Abissinia, in Libia, in Spagna e in Albania. Vi è una fortissima corrente di strateghi britannici i quali 54


sostengono che, in una guerra mondiale contro il nazismo, l’Italia come nemica costituirebbe per noi un vantaggio positivo. In questa lunga vulnerabilissima penisola, con la sua mancanza di materie prime, essi vedono un teatro d’operazione in cui è possibile ottenere vittorie di basilare importanza. Le truppe tedesche e soprattutto l’aviazione tedesca dovrebbero infatti partecipare in pieno alla difesa dell’Italia e, nei limiti del possibile, dovrebbero appoggiare le imprese italiane al di là del mare.” XLV Lo stesso giorno l’Inghilterra aveva dato la propria garanzia alla Romania e alla Grecia, un chiaro monito ad eventuali aggressori. L’Italia non era interessata alla Romania, ma alla Grecia si, tant’è vero che nei piani per la presa dell’Albania era stata contemplata pure un’azione contro di essa. Poi, il 26 aprile, cioè dieci giorni prima dell’incontro di Milano fra Ciano e Ribbentrop, Chamberlain aveva annunciato l’introduzione in Gran Bretagna del servizio militare obbligatorio. Noi oggi sappiamo che era stato deciso in gran parte in base alla situazione militare tedesca delineata nei rapporti di Kenneth Strong dalla Germania, ma allora non lo si sapeva – e lo stesso Strong l’avrebbe appreso solo in seguito – e nulla vietava che il più grande esercito britannico che ne sarebbe nato venisse impiegato contro l’Italia. Ce n’era abbastanza perché Mussolini se ne potesse sentire minacciato e, conscio – e lo sappiamo dal Diario di Ciano – del grave stato in cui si trovavano allora le forze italiane, visto che le risposte dei Tedeschi davano prospettive favorevoli, di pace per almeno tre anni e automatico intervento germanico a favore dell’Italia, potrebbe aver pensato di cogliere l’occasione dell’alleanza per coprirsi le spalle in attesa di migliorare le condizioni militari italiane. E’ un’ipotesi e come tale vale quel che vale. La espongo qui tanto per dare una risposta e in questa sede non ho intenzione né di dimostrarla, né di tornarci su. Neanche una settimana dopo, il 13 maggio, la bozza tedesca era pronta e a Roma: “Partenza per Firenze con gli jugoslavi, in treno mi viene consegnato lo schema tedesco del Patto d’Alleanza. In massima va bene. Vogliamo però aggiungere una frase che riguardi le frontiere – garantite per sempre – gli spazi vitali e la durata del Patto. Non ho mai letto un patto simile: è vera e propria dinamite.” XLVI Il 17, dopo un ennesimo tentativo andato a vuoto di Ribbentrop per convincere i Giapponesi ad aderire, “Mussolini approva il testo definitivo del Patto di Alleanza e autorizza la concessione del Collare dell’Annunziata a Ribbentrop. Dice anche di preparare uno scambio di telegrammi tra il Re e il Führer per “evitare le solite maligne interpretazioni della stampa francese”.” XLVII 55


Il 20 Ciano partì per Berlino, “In viaggio parlo con Mastromattei, prefetto di Bolzano, al quale mostro il testo del trattato. Afferma che il preambolo, col riconoscimento definitivo delle frontiere, darà una grande scossa all’irredentismo atesino.” XLVIII A Berlino Ciano per prima cosa ebbe un colloquio con Ribbentrop. Fu un ultimo giro d’orizzonte. “niente di mutato nei confronti di quanto fu detto e deciso a Milano. Ripete l’intenzione e l’interesse della Germania ad assicurarsi un lungo – almeno tre anni – periodo di pace. insiste molto sull’opportunità di avvincere al nostro sistema anche il Giappone… Col Führer ripetiamo più o meno gli stessi discorsi. Si dichiara molto lieto del Patto e conferma che la politica mediterranea sarà diretta dall’Italia. Si interessa dell’Albania ed è entusiasta del nostro programma di farne una roccaforte che domini inesorabilmente i Balcani.” XLIX Il 22 maggio 1939 venne chiusa la trappola in cui Mussolini era entrato. A Berlino fu sottoscritta l’alleanza militare, proposta dai Tedeschi così bene da farla diventare il sogno del Duce. Diceva il testo: “S. M. il Re d'Italia e di Albania, Imperatore d'Etiopia, e il Cancelliere del Reich tedesco, ritengono giunto il momento di confermare con un Patto solenne gli stretti legami di amicizia e di solidarietà che esistono fra l'Italia fascista e la Germania nazionalsocialista. Considerato che, con le frontiere comuni, fissate per sempre, è stata creata tra l'Italia e la Germania la base sicura per un reciproco aiuto ed appoggio, i due Governi riconfermano la politica, che è stata già da loro precedentemente concordata nelle sue fondamenta e nei suoi obbiettivi e che si è dimostrata altamente proficua tanto per lo sviluppo degli interessi dei due paesi quanto per la sicurezza della pace in Europa. Il popolo italiano ed il popolo tedesco, strettamente legati tra loro dalla profonda affinità delle loro concezioni di vita e dalla completa solidarietà dei loro interessi, sono decisi a procedere, anche in avvenire, l'uno a fianco dell'altro e con le forze unite per la sicurezza del loro spazio vitale e per il mantenimento della pace. Su questa via indicata dalla storia, l'Italia e la Germania intendono, in mezzo ad un mondo inquieto ed in dissoluzione, adempiere al loro compito di assicurare le basi della civiltà europea. Allo scopo di fissare, a mezzo di un Patto, questi principi, hanno nominato loro plenipotenziari: 56


Sua Maestà il Re d'Italia e di Albania, Imperatore d'Etiopia: Il Ministro degli Affari Esteri Conte Galeazzo Ciano di Cortellazzo (Italia), Il Cancelliere del Reich Tedesco; Joachim von Ribbentrop (Germania) i quali, dopo essersi scambiati i loro Pieni Poteri, trovati in buona e debita forma, hanno convenuto i seguenti articoli: Art. I. - Le Parti contraenti si manterranno permanentemente in contatto allo scopo di intendersi su tutte le questioni relative ai loro interessi comuni o alla situazione generale europea. Art. 2. - Qualora gli interessi comuni delle Parti contraenti dovessero esser messi in pericolo da avvenimenti internazionali di qualsiasi natura, esse entreranno senza indugio in consultazione sulle misure da prendersi per la tutela di questi loro interessi. Qualora la sicurezza o altri interessi vitali di una delle Parti contraenti dovessero essere minacciati dall'esterno, l'altra Parte contraente darà alla Parte minacciata il suo pieno appoggio politico e diplomatico allo scopo di eliminare questa minaccia. Art. 3. - Se, malgrado i desideri e le speranze delle Parti contraenti, dovesse accadere che una di esse venisse ad essere impegnata in complicazioni belliche con un'altra o con altre Potenze, l'altra Parte contraente si porrà immediatamente come alleata al suo fianco e la sosterrà con tutte le sue forze militari, per terra, per mare e nell'aria. Art. 4. - Allo scopo di assicurare per il caso previsto la rapida applicazione degli obblighi di alleanza assunti coll'articolo 3, i membri delle due Parti contraenti approfondiranno maggiormente la loro collaborazione nel campo militare e nel campo dell'economia di guerra. Analogamente i due Governi si terranno costantemente in contatto per l'adozione delle altre misure necessarie all'applicazione pratica delle disposizioni del presente Patto. I due Governi costituiranno, agli scopi indicati nei summenzionati paragrafi 1 e 2, Commissioni permanenti che saranno poste sotto la direzione dei due ministri degli Affari esteri. Art. 5. - Le Parti contraenti si obbligano fin da ora, nel caso di una guerra condotta insieme, a non concludere armistizi e paci se non di pieno accordo fra loro. 57


Art. 6. - Le due Parti contraenti, consapevoli dell'importanza delle loro relazioni comuni colle Potenze loro amiche, sono decise a mantenere ed a sviluppare di comune accordo anche in avvenire queste relazioni, in armonia cogli interessi concordati che le legano a queste Potenze. Art. 7. - Questo Patto entra in vigore immediatamente al momento della firma. Le due parti contraenti sono d'accordo nello stabilire in dieci anni il primo periodo della sua validità. Esse prenderanno accordi in tempo opportuno, prima della scadenza di questo termine, circa il prolungamento della validità del Patto. Berlino, lì 22 maggio 1939, Anno XVII dell'Era Fascista.” Un patto così era pericolosissimo, significava legarsi mani e piedi e consegnare ai Tedeschi il capo della fune. Aveva ragione Ciano a definirlo “dinamite”, ma non servì a nulla, soprattutto non a far ragionare Mussolini. Sempre più convinto che, come gli aveva detto Ribbentrop, fosse “…la volta dell’Italia di profittare dell’aiuto tedesco” L e che avrebbe potuto sfruttare la copertura della potentissima Germania per i suoi contenziosi territoriali con la Francia, ma non preoccupandosi di che avrebbe dovuto fare l’Italia se, come successe, la Germania si fosse trovata in guerra per prima, il Duce si cacciò in un pasticcio da cui non sarebbe più potuto uscire e della cui portata si sarebbe reso conto troppo tardi. L’unico che vide giusto, ma non fece e forse non avrebbe comunque potuto far nulla per opporsi, fu Vittorio Emanuele III quando il 25 maggio, a Ciano, ricevuto in udienza al ritorno da Berlino, disse: “I tedeschi finché avran bisogno di noi saranno cortesi e magari servili. Ma alla prima occasione, si riveleranno quei mascalzoni che sono.” LI Il futuro gli avrebbe dato pienamente ragione.

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Capitolo 8 La guerra scoppia con tre anni d’anticipo

Due mesi dopo la firma del Patto d’Acciaio, l’orizzonte europeo si oscurò in modo preoccupante. Danzica era il nodo gordiano e Hitler voleva scioglierlo come Alessandro Magno: con la spada. Mentre la tempesta montava, Ciano riceveva da Berlino informazioni divergenti. Ribbentrop mandava segnali di tranquillità; il primo consigliere dell’Ambasciata d’Italia, Magistrati, vedovo da poco della sorella di Ciano, era ottimista; invece l’ambasciatore del Re, Attolico, era allarmatissimo e bombardava Roma di rapporti preoccupati e preoccupanti. Fu proposto dagli Italiani un incontro al Brennero fra Hitler e Mussolini per il 4 agosto, ma il 31 luglio proprio Hitler lo disdì, cosicché Ciano si mise in viaggio e l’11 agosto incontrò Ribbentrop nel castello di Fuschl, vicino a Salisburgo, per spostarsi poi l’indomani a Berchtesgaden a incontrarvi Hitler in persona. L’incontro di Salisburgo – come sarebbe stato noto in seguito – vide il Ministro tedesco fare al collega italiano un giro d’orizzonte netto e non privo di logica. In sostanza, secondo lui, se Varsavia non avesse accettato le condizioni tedesche, ci sarebbe stato un conflitto, ma limitato a Germania e Polonia, che Francia e Inghilterra erano nella materiale impossibilità di soccorrere, per cui avrebbero assistito inerti, come per l’Austria e la Cecoslovacchia; né c’era da preoccuparsi della Russia o dell’America. Inutile, o quasi parlare, degli Stati minori come Romania, Turchia e Jugoslavia, con la quale Ribbentrop sperava – disse – che l’Italia avrebbe liquidato i conti in sospeso per la Dalmazia e la Croazia profittando dell’urto germano-polacco. Ciano cercò di farlo ragionare, ma non ci fu verso, Ribbentrop continuò a ripetere: “…macchinalmente e senza spiegazioni plausibili le due frasi che il conflitto sarà localizzato e che anche in caso di generalizzazione, la vittoria della Germania è sicura al cento per cento.” LII L’indomani Ciano si spostò a Berchtesgaden per il primo di due colloqui con Hitler. Fu sommerso da una quantità di considerazioni militari, illustrate sulle carte geografiche dell’Europa occidentale e orientale, da assicurazioni che 59


la Polonia stava danneggiando il prestigio germanico, già pesantemente leso dal ritiro degli allogeni dall’Alto Adige – implicitamente dandone la responsabilità all’Italia, ma ci torneremo sopra – e cercando d’occupare Danzica, che questo non poteva essere tollerato e avrebbe portato se necessario alla guerra. Il conflitto sarebbe però restato sicuramente circoscritto alla Germania e alla Polonia; al limite l’Italia avrebbe potuto contestualmente profittarne per liquidare la Jugoslavia, ma né Parigi né Londra sarebbero intervenute. Elencò tutte le ragioni che lo portavano a quella conclusione, accennò d’essere in trattative coll’Unione Sovietica per un non meglio definito patto d’amicizia e concluse riaffermando che il conflitto sarebbe restato localizzato. Ciano riferì d’averlo ringraziato per la novità delle notizie che gli dava “…dato che nei nostri precedenti colloqui la situazione generale e i problemi singoli erano stati esaminati sotto un altro aspetto. In realtà si era concordato di lasciar decorrere un periodo di due o tre anni, prima di prendere iniziative che avessero potuto avere conseguenze belliche, e ciò al fine di migliorare l’apprestamento militare dei due Paesi. Il Führer mi ha interrotto dicendomi che era verissimo quanto gli dicevo e che anche lui concorda con Mussolini nel ritenere che due o tre anni – non però più – siano utili all’Asse per migliorare la sua posizione e la sua preparazione. Li avrebbe attesi, secondo quanto era stato concordato. Ma le provocazioni della Polonia e l’aggravarsi della situazione ha reso urgente l’azione tedesca. Azione però che non provocherà un conflitto generale. Il Führer è quindi certo che, per quanto concerne l’Italia, egli non dovrà chiedere l’aiuto secondo l’impegno esistente.” LIII Questa era una liberatoria a tutti gli effetti, ma sarebbe stato utile pubblicizzarla quanto lo era stato il Patto d’Acciaio. Si fissò un secondo colloquio per l’indomani e ci si lasciò con la riaffermazione di Hitler della “sua sicurezza assoluta della localizzazione del conflitto in modo tale che l’Italia non dovrà per nessuna ragione trovarvisi coinvolta.” LIV Il 13 agosto “Hitler prende la parola per dirmi che dopo lunga riflessione egli non ritiene conveniente di fare alcun comunicato sull’incontro di Salisburgo. “Ciò lascia le mani più libere per qualsiasi decisione o qualsiasi soluzione.”” LV Non c’era da aspettarsi altro; un comunicato che avesse esonerato l’Italia dai suoi impegni del Patto d’Acciaio avrebbe chiaramente fatto capire che la Germania voleva la guerra, consentendo ai suoi avversari – prima fra tutti la Polonia – di prepararsi. A domanda di Ciano, Hitler disse di non aver ancora fissato il giorno dell’attacco, ma che il termine ultimo per l’avvio delle 60


operazioni sarebbe stato la fine d’agosto. Più tardi no, perché allo Stato Maggiore servivano da quattro a sei settimane per vincere e dal 15 ottobre il tempo avrebbe reso impraticabili strade e aeroporti. Ciò che fu interessante, ma ci torneremo sopra, fu la disquisizione di Hitler sull’imperialismo italiano. Disse: “L’Italia, che invece è per la sua posizione geografica la Nazione dominante nel Mediterraneo, dovrà sulle sponde di questo mare affermare e allargare il suo impero. Non vi sono possibilità di contrasto fra i due imperialismi. Ricorda che anche Bismarck scrisse una lettera a Mazzini per affermare questa verità.” LVI Ce ne ricorderemo parlando della Guerra Parallela. Ciano tornò a Roma con le pive nel sacco e la certezza dello scoppio del conflitto. Il 24 agosto ci fu la firma del Patto Nazi-Sovietico, il 1° settembre cominciò la guerra. Nei quindici giorni fra gli incontri a Salisburgo e Berchtesgaden e l’attacco alla Polonia, Mussolini cominciò a capire in che ginepraio si era cacciato e tentò di sganciarsi. Non è il caso di rifare qui tutta l’altalena dei suoi pensieri così come riportata da Ciano. La telefonata con cui Ribbentrop la sera del 21 agosto annunciava l’imminente firma del Patto con Stalin infiammò il Duce, facendogli pensare di prendere Croazia e Dalmazia. La notte dal 24 al 25 un’altra telefonata di Ribbentrop annunciò che la situazione stava diventando critica. In extremis Ciano riuscì a far accettare a Mussolini di mandare un messaggio a Hitler dicendo che l’Italia non era pronta a entrare in guerra e l’avrebbe fatto solo se avesse ricevuto ciò di cui abbisognava in mezzi e materie prime. I Tedeschi sospesero la mobilitazione in serata e chiesero cosa serviva all’Italia. L’indomani alle 10 i vertici delle Forze Armate si riunirono e stilarono la famosa lista “Tale da uccidere un toro”. Poi fu preparato il messaggio d’accompagnamento, concluso dicendo che l’Italia senza quelle forniture non poteva assolutamente entrare in guerra. Nel consegnarlo, Attolico, appositamente, disse che il materiale andava consegnato tutto e subito: erano 170 milioni di tonnellate, ci sarebbero voluti 17.000 treni. Hitler rispose che poteva dare ferro, carbone, legname e qualche batteria antiaerea, comprendeva la situazione italiana, pregava di mantenere un contegno amichevole e diceva che avrebbe battuto prima la Polonia e dopo gli Anglo-Francesi. Poi tutto andò avanti come lui voleva e all’alba del 1° settembre la Wehrmacht passò la frontiera Quasi sicuramente i vertici nazisti non si aspettavano la reazione anglofrancese e contavano sull’acquiescenza già vista per l’Austria, i Sudeti e la Cecoslovacchia. L’ostilità britannica e francese fu una brutta sorpresa, la 61


dichiarazione di guerra una anche peggiore e l’Italia la scansò all’ultimo istante. La sera del 31 agosto Ciano aveva avvertito l’ambasciatore inglese a Roma, sir Percy Lorraine, della non-belligeranza e l’indomani, il 1° settembre, Mussolini telefonò ad Attolico, scrisse Ciano: “per farsi mandare un telegramma di Hitler con cui lo sganci dagli obblighi dell’alleanza. Non vuole passare per fedifrago di fronte al popolo tedesco e nemmeno di fronte all’italiano.” LVII Questa storia del telegramma la ritroveremo ancora, perché Hitler lo adoperò per imbrogliare le carte ancora di più. William Shirer, all’epoca corrispondente americano da Berlino, riportò così la reazione alla richiesta del Duce: “il Führer consentì subito e perfino con cortesia. Proprio prima di recarsi al Reichstag, alle 9.40 egli inviò al suo amico un telegramma che, per risparmiare tempo, fu telefonato attraverso l’ambasciata tedesca di Roma. Duce! Vi ringrazio cordialissimamente per l’appoggio diplomatico e politico da voi recentemente dato alla Germania e alla sua giusta causa. Sono certo di poter assolvere il compito che ci è stato imposto con le sole forze militari della Germania. Così stando le cose, non mi aspetto il sostegno militare dell’Italia. Vi ringrazio anche, Duce, per quanto vorrete fare in futuro per la comune causa del fascismo e del nazionalsocialismo Adolf Hitler” LVIII Aggiunse Shirer: “Dopo una riunione del consiglio dei ministri, a Roma la radio italiana trasmise alle ore 16.30 la decisione da esso presa e annunciò “al popolo italiano che l’Italia non prenderà nessuna iniziativa in fatto di operazioni militari.” Subito dopo fu radiotrasmesso il messaggio con cui Hitler esonerava l’Italia dai suoi obblighi verso l’alleata.” LIX Tutto bene, solo che il messaggio non fu radiotrasmesso anche dalla Deutsche Rundfunk, né riportato sui giornali, per cui i Tedeschi non ne seppero mai nulla; e questo avrebbe avuto un peso crescente sulle decisioni di Mussolini nei successivi dieci mesi. Comunque entro due mesi si seppe che in Germania molti, incluso Ribbentrop, attribuivano l’intervento inglese all’aver Londra saputo della non belligeranza italiana. Ciano scrisse ad Attolico già il 9 novembre dicendogli d’intervenire, ma il problema rimase. I documenti a discarico degli Italiani 62


erano segreti, il telegramma di Hitler non era stato pubblicato in Germania, perciò il pubblico poteva dire quel che voleva senza essere smentito e così sarebbe stato anche dopo. Ancora il 10 marzo 1940 Mussolini, ricevendo Ribbentrop a Roma, gli avrebbe detto d’essere: “… molto riconoscente al Führer per il telegramma nel quale questi ha dichiarato che non aveva bisogno dell’aiuto militare italiano per la campagna contro la Polonia. Sarebbe stato bene, ha aggiunto il Duce, se questo telegramma fosse stato pubblicato anche in Germania.” LX Sarebbe stato bene, ma era servito ai Tedeschi a serrare il laccio ancor di più e ormai era troppo tardi.

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Capitolo 9 La non belligeranza, la mancanza di soldi e quella di armamenti

Come è noto uno degli aspetti determinanti della guerra, se non quello determinante in assoluto, è l’aspetto economico finanziario. Si sa abbastanza bene, o meglio: gli storici dell’economia sanno molto bene, mentre pochi di quelli militari italiani e forse solo un paio di quelli stranieri lo sanno, che nel secondo semestre del 1939 la situazione economica e finanziaria italiana era terribile. Le guerre d’Etiopia e Spagna e l’occupazione dell’Albania avevano assorbito risorse ingenti e, a partire dal 1935, i due terzi della spesa annuale dello Stato erano andati alle Forze Armate, spingendo quella complessiva dai 33 miliardi dell’esercizio 1935-36 ai 60 del 1939-1940 e il deficit, nello stesso periodo, da 13 miliardi ai 28 del 1939-40. LXI Ecco dunque un primo dato concreto: l’impossibilità di condurre una guerra a medio o lungo termine per mancanza di denaro. Mussolini ne era perfettamente al corrente, anche se non se ne curava troppo e, quando il ministro Guarneri ne parlò in maniera troppo chiara e pubblica, lo fece dimettere. Senza soffermarcisi oltre ed aggiungendo che le entrate dello Stato venivano per un misero 28% dalle imposte dirette, mentre il restante 72% era coperto da quelle indirette, destinate a ridursi in caso di guerra per via della sicura contrazione dei commerci, si poteva prevedere che, se questo era il risultato di guerre limitate come le tre campagne d’Africa, Spagna ed Albania, l’impegno contro potenze di prima grandezza quali la Francia e l’Inghilterra sarebbe stato molto più costoso e probabilmente impossibile da sostenere. In tali condizioni non si era in grado non solo d’ammodernare le dotazioni, ma nemmeno di ripianare i materiali consumati, soprattutto in Spagna, per cui non ci sarebbe stato da stupirsi quando, nella riunione del maggio 1940, Graziani, Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito, avrebbe dimostrato l’impossibilità di condurre una guerra moderna, come quella dei Tedeschi in Polonia, per mancanza di automezzi e di munizioni. Infatti il secondo aspetto da considerare è quello, notissimo e strettamente collegato alla mancanza di denaro, che le Forze Armate, anche avendo i soldi, non avrebbero potuto armarsi, né riempire 67


i depositi svuotati dagli impegni in Africa ed Europa. La debolezza del sistema industriale italiano era tale da non permetterlo 6 e, comunque, la mancanza di materie prime avrebbe vanificato qualsiasi sforzo. Il 1° settembre 1939 il generale Carlo Favagrossa aveva preso il posto del generale Alfredo Dallolio alla direzione del Commissariato Generale Fabbricazioni di Guerra, più noto come CoGeFaG, e il 24 aveva chiesto ai sottosegretari di Stato per la Guerra, la Marina e l’Aeronautica le loro necessità in caso di guerra. Gli Stati Maggiori si erano messi all’opera e si era giunti alla conclusione che, per ripianare le carenze esistenti, ammesso di non avere ostacoli nell’approvvigionamento di materie prime, l’Aeronautica sarebbe stata pronta a metà ‘41, la Marina a fine ‘43 e l’Esercito alla fine del ’44, ma per avere proprio tutto, incluse tutte le scorte delle munizioni d’artiglieria, si sarebbe dovuto attendere il 1949, lavorando con due turni giornalieri di dieci ore, importando ogni anno materie prime per 5 miliardi e 660 milioni e aggiungendovi altri 4 miliardi di carbone, carburanti e foraggi. In realtà Favagrossa si era tenuto largo, sia per controbilanciare l’ottimismo di Mussolini, sia per tenersi un minimo di margine, in quanto, spostando fuori degli stabilimenti militari una parte della produzione e razionalizzando dove poteva, sarebbe riuscito a far scendere i tempi da dieci a un massimo di sei e forse cinque anni, il che sarebbe stato abbastanza in linea con le previsioni più rassicuranti avute prima della firma del Patto d’Acciaio. L’11 dicembre Mussolini ebbe il rapporto di Favagrossa, da cui emergeva che il problema vero, al di là delle difficoltà d’approvvigionamento, restava quello di come pagare anni e anni di future importazioni. L’indomani il Duce lo convocò a una riunione insieme ai Sottosegretari di Stato militari e ai capi di Stato Maggiore. Si decise di ridurre l’Esercito da 120 a 73 divisioni binarie, 60 delle quali, per un totale di un milione di uomini, dovevano essere pronte per 6

I dati comparati della produzione bellica di alto livello tecnologico come quella degli aerei possono essere assunti come parametro esemplificativo: nel 1939 l’Italia produsse 1.750 aerei; nel 1940 3.250. L’anno dopo, nel 1941, con 3.503 toccò l’apice della sua produzione, che poi decrebbe lentamente a 2.813 nel 1942 e 1.930 nel 1943 per un totale di 13.523 apparecchi nell’arco del conflitto. nel solo 1942 il Giappone costruì 9.300 aerei, l’URSS 8.000, la Gran Bretagna 23.671, gli USA 47.859 e la Germania 15.596, il che vuol dire che, anche ammettendo un errore del 10% nel calcolo della produzione italiana, in un solo anno la Germania produsse più aerei che l’Italia in quattro e più veloci, armati, potenti e moderni di quelli italiani. Nel periodo 1939-1945 il Giappone fabbricò 64.800 apparecchi, l’Unione Sovietica 99.500, la Germania 125.072, l’Inghilterra 125.254 e gli Stati Uniti più di 300.000. Questi sono i dati pubblicati ufficialmente dall’Aeronautica Militare in R. GENTILE, Storia dell’Aeronautica dalle origini ai giorni nostri, Firenze, Scuola di Guerra Aerea, 1967 e in V. LIOY, Cinquantennio dell’Aviazione italiana, Roma, Ufficio Storico dello Stato Maggiore Aeronautica, 1959.

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l’agosto del 1940 con scorte per un anno di guerra, tenendo presente che, se l’Italia fosse entrata di sua iniziativa nel conflitto, avrebbe potuto ridurre il suo impegno a pochi mesi, ma se ci fosse stata tirata dentro dagli Anglo-Francesi, la guerra sarebbe potuta essere più lunga. Mentre Aeronautica e Marina non cambiavano molto i loro calcoli, perché navi e aerei quelli erano, lo Stato Maggiore del Regio Esercito rifece tutto da capo, orientandosi su 11 Armate, tre delle quali senza i servizi d’armata, per complessivi 21 corpi d’armata, più tre alpini da completare in seguito, e 60 divisioni di vario tipo. Di nuovo ci si trovò davanti a forti carenze in armi ed equipaggiamenti, però le riduzioni previste implicavano un risparmio di 1 miliardo e 200 milioni, per cui si scendeva dai 5 miliardi e 650 milioni del memoriale dell’11 dicembre a 4 miliardi e 450 milioni. In più, con le varianti introdotte nei programmi delle Forze Armate, diminuivano i tempi d’approntamento, per cui si sarebbe potuti essere pronti con un anno di scorte per la fine del 1942. Questo fu esposto nella riunione tenuta a Palazzo Venezia il 16 febbraio 1940, che seguì di due giorni la fine della XVII sessione della Commissione Suprema di Difesa, svoltasi dall’8 al 14. La Sessione, in cui, davanti al deprimente panorama svelato dalle relazioni, l’amaro commento di Mussolini era stato: “eravamo in una botte di ferro, in quanto il patto d’acciaio prevedeva il nostro intervento per la fine del 1942 dato che, quando si era concluso il patto, credevamo di essere pronti per tale data” LXII aveva reso evidente che il nocciolo della questione era nella mancanza di denaro. Secondo Ciano – e stavolta è attendibile – la situazione finanziaria italiana al 31 maggio 1939, cioè un anno prima dell’entrata dell’Italia in guerra, era cattiva, con riserve per soli 3 miliardi di lire in valuta estera. Il 2 giugno 1939 Ciano aveva annotato che il giorno precedente Guarneri gli aveva detto che la situazione finanziaria continuava ad essere cattiva e che, secondo lui, le riserve di valuta erano si e no di 3 miliardi e 200 milioni di lire, ma che 500 milioni servivano a coprire le spese previste fino alla fine del 1939, ripetendogli, il 24 luglio, che la situazione valutaria era pessima. Il 6 agosto 1939, mentre montava all’orizzonte la tempesta che minacciava la Polonia, Ciano aveva scritto che lui e Mussolini si erano trovati d’accordo sul fatto che: A battere la strada tedesca, si va alla guerra e ci andiamo nelle condizioni più sfavorevoli per l’Asse e specialmente per l’Italia. Siamo a terra con le riserve auree; a terra con le scorte di metalli, 69


lontani dall’aver militare. LXIII

completato

il

nostro

sforzo

autarchico

e

Con queste premesse, si era arrivati alla dichiarazione di non belligeranza il 1° settembre 1939 e poi alla sessione della Commissione Suprema di Difesa, alla quale, il 10 febbraio 1940, il nuovo ministro per gli Scambi e Valute, Riccardi, disse che le riserve valutarie erano ridotte a soli 1,4 miliardi di lire e che durante i sei anni di Guarneri erano stati consumati 12 miliardi di lire in buoni stranieri e 5 miliardi di lire in oro. Ora, partendo dall’assunto che il fabbisogno italiano per il primo anno di guerra ammontava a 22 milioni di tonnellate di materie prime, calcolando un costo medio di 1.000 lire a tonnellata, si aveva una spesa di 22 miliardi. Riferendosi a quanto aveva appena detto il ministro per le Comunicazioni, Host Venturi, che aveva considerato bloccati al traffico italiano i due accessi al Mediterraneo, Riccardi disse: “Giunti a questo punto possiamo dispensare i camerati compilatori dello studio ad andare oltre. Stiamo spaziando negli spazi siderali. Torniamo con i piedi sulla terra…. Si è fatto uno studio con una mentalità 1914. Vale a dire con i mari liberi, i mezzi di pagamento abbondanti e gli approvvigionamenti sicuri. …. Il mercato interno è in preda a una forma di leggerezza e le autorità militari consumano più di quanto hanno bisogno. Poi, nello studio, si parla di scorte e di un fabbisogno di 7 milioni di tonnellate di combustibili liquidi, ecc. ecc. Ora, tutto ciò nel solo primo anno di guerra e nell’ipotesi ovest, vale a dire con tutti e tre gli stretti chiusi al traffico. Poi si fa un’altra ipotesi, di trasporti via terra e via mare. Per terra occorrono 16 miliardi di lire per importare nove milioni di tonnellate di merci e quattro per via mare. Ma chi paga? Bisogna pensare che non solo non si esporta più verso i paesi che danno un gettito valutario, ma vengono a mancare le materie prime, come il cotone e la lana, con le quali si fabbricano quei filati e quei tessuti da esportare. Quindi, mentre vengono meno le fonti per i pagamenti, io dovrei provvedere a sborsare cifre favolose con ciò che potrò ricavare da alcune malinconiche esportazioni occasionali e dalle riserve della Banca d’Italia. Quindi, come si può, dopo quanto ho detto per gli approvvigionamenti, parlare di costituirci delle scorte?” LXIV 70


Secondo Riccardi, in caso di non belligeranza e di mantenimento della situazione europea e mondiale quale era, si potevano importare beni e merci per un valore di 11 miliardi di lire, dei quali 4 e 700 milioni da pagare in valuta pregiata e il reso in clearing. I 4 miliardi e 700 milioni rappresentavano circa il 45% delle importazioni di tutto il Paese, ma occorreva aggiunger loro 900 milioni per i fabbisogni di tesoreria, 500 milioni per i noli e il turismo passivo, 300 per i debiti di tesoreria e ben un miliardo e 96 milioni di pagamenti arretrati, da fare nel 1940 e in valuta pregiata. Secondo Riccardi, servivano in complesso 7 miliardi e 45 milioni di lire (evidentemente posticipando o riducendo le uscite come si poteva) a cui far fronte con entrate per un massimo di 4 miliardi dalle esportazioni e un altro miliardo raggranellabile fra arretrati attivi per esportazioni e minori entrate varie. La conclusione era netta: “Mancano quindi all’appello 2 miliardi e 245 milioni. Per le riserve auree esistenti questo è uno sforzo estremo. Perciò bisogna ridurre gli acquisti, i fabbisogni non strettamente indispensabili per le spese militari e il fabbisogno interno, perché Annibale non è alle porte, ma ha già varcato la soglia. L’industria italiana è quella che è e, attratta dalle allettanti commesse di carattere militare, non produce per esportare. Queste sono le ragioni che mi spingono a perorare la causa delle limitazioni di consumo nel mercato interno… Se non si esporta non si possono avere i mezzi di pagamento e perciò i programmi debbono aderire a questa realtà. Noi, per esportare, non potendo aumentare la produzione, dobbiamo ridurre i consumi interni, dobbiamo ridurre i programmi… Ora questi problemi li affido alla comprensione dei camerati militari e mi auguro che essi si compenetrino di questa realtà. O si hanno i mezzi per acquistare le materie prime, altrimenti bisogna subire la situazione qual è. Non ci sono più scorte in Italia; dall’epoca delle sanzioni si stanno bruciando le riserve. Non c’è il gioco delle importazioni che si può fare solo attraverso una politica di esportazione.” LXV Sembrava definitivo, ma nonostante tutto si andò avanti verso l’entrata in guerra. A tanta chiarezza, quando ormai era certissimo l’intervento, fece eco la situazione delle forze di terra che, senza denaro, era stato impossibile armare ed equipaggiare, come dimostrò il rapporto presentato il 25 maggio 1940 dal Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito, Maresciallo Rodolfo Graziani: 71


[...] le due divisioni corazzate sono tali solo di nome (disponendo quasi esclusivamente di carri leggeri) quelli medi disponibili (M.11) sono 70; i carri pesanti ed autoblindo non esistono. Le divisioni di fanteria, anche considerandovi inclusa la legione cc.nn. divisionale, hanno un numero di battaglioni inferiore alle divisioni francese e jugoslava (circostanza che si aggrava per il fatto che su 2 battaglioni di dette legioni se ne può in genere - per difetto di dotazioni - mobilitare ora solo uno, senza la compagnia mitraglieri prevista al comando di legione divisionale e non si può mobilitare la compagnia mitraglieri in organico ai battaglioni cc.nn. di copertura); - posseggono solo tre gruppi di artiglieria di fronte ai cinque - di cui due di medio calibro - delle divisioni avversarie; - non posseggono, come queste, un reparto d’esplorazione; - hanno un organico ( e sopratutto una dotazione reale ) di armi di accompagnamento ed anticarro nettamente inferiore alla divisione francese ]...] in definitiva l’Esercito non possiede quei mezzi corazzati e quell’attrezzatura generale moderni che hanno consentito la recente rapida penetrazione germanica. E si può dire che non possieda artiglieria contraerea.[…]» LXVI. Il rapporto proseguiva indicando, fra l’altro, che le deficienze nel parco automezzi erano tali (ne mancava circa la metà nonostante le requisizioni) da impedire una guerra di movimento; che il munizionamento della Fanteria era quasi a posto, mentre quello dell’Artiglieria era deficitario e che i carburanti potevano bastare per non più di sette - otto mesi. In totale il Regio Esercito aveva 23.000 autoveicoli, 8.700 veicoli speciali, 4.400 auto e 12.500 motociclette. I carri armati erano circa 1.500 carri L e non più di 70 M. In altre parole c’erano solo la metà dei veicoli necessari per una guerra di movimento e non si potevano riempire i vuoti perché, come disse Graziani, anche a requisirlo, tutto quel che c’era in Italia non sarebbe bastato. LXVII Effettivamente il problema era lì. Non si cava sangue dalle rape e non si trova quel che non esiste. Il Governo aveva già fin dagli Anni ’20 ordinato l’ascrizione al Pubblico Registro Automobilistico di automezzi e motocicli per valersene in caso di mobilitazione, però non ce n’erano abbastanza. Nel 1939 erano stati fabbricati in totale 56.008 telai d’automobile e 12.952 per carri industriali, che in linea di massima coincidevano cogli autocarri, ma includevano anche gru, cisterne, carri attrezzi e così via. Però le carrozzerie prodotte, cioè le macchine complete, ammontavano solo a 48.907 automobili e 10.416 carri industriali. LXVIII 72


Quanto all’esistente, prescindendo dalle automobili e dalle motociclette, pressoché irrilevanti sotto il profilo militare, tanto operativo quanto logistico, nel giugno del 1939 al P.R.A. – dunque in tutta Italia – erano registrati 61.495 autocarri di portata superiore ai 7 quintali, ma 14.719 di questi erano risultati irreperibili, dunque probabilmente già demoliti da tempo, mentre dei restanti 46.776 – tutti visitati dalle autorità – 22.096 erano stati riconosciuti non idonei alle necessità delle Forze Armate. Ne erano restati 24.680, che però appartenevano a 150 tipi diversi e presentavano grossi problemi d’omogeneizzazione dell’approvvigionamento di parti di ricambio e carburanti. Di questi: 1.257 erano di marche estere e/o tanto vecchi da non averne i ricambi; 10.437 avevano più di sette anni d’età e dunque solo i restanti 12.986 potevano essere davvero impiegati dalle Forze Armate, alle quali però, specie a quelle di terra con le loro 73 divisioni, sarebbero serviti, secondo le tabelle di mobilitazione 20.500 automezzi. Ne mancavano quindi 8.500 ma, poiché, come se non bastasse, dei 12.986 utilizzabili, se ne stavano requisendo solo 8.000, in realtà, almeno all’inizio, ne sarebbero mancati non 8.500, ma circa 13.500 su 20.500 previsti e, anche a voler destinare alle Forze Armate tutta la produzione nazionale, ci sarebbe voluto un anno e mezzo a colmare i vuoti, beninteso, sempre all’impossibile condizione che intanto non vi fossero perdite dovute alla guerra. In altre parole, le truppe italiane avrebbero avuto lo stretto necessario per la difesa statica, ma neanche lontanamente quanto serviva alla guerra di movimento. Potevano difendersi, ma non attaccare, o, almeno: potevano difendersi tutte, ma solo alcune Grandi Unità avrebbero potuto attaccare e solo a condizione di prendere gli automezzi delle altre, che sarebbero restate quindi immobilizzate. Logica voleva che si mantenesse la neutralità, non fu fatto; perché? La versione comunemente accettata è che l’Italia entrò in guerra in queste condizioni perché Mussolini, vista l’imminente, o così sembrava, vittoria germanica, decise d’approfittarne per arraffare qualche colonia e compensazione territoriale al tavolo della pace. Una simile spiegazione, molto parzialmente basata sul Diario di Ciano, non prende in considerazione, anzi, mette completamente da parte, alcuni elementi documentati e regolarmente pubblicati, che, di fatto, se non la smentiscono del tutto, almeno la ridimensionano parecchio: materie prime, carbone e petrolio.

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Capitolo 10 L’approvvigionamento delle materie prime, del carbone e del petrolio

Uno dei problemi maggiori che l’Italia si trovò davanti allo scoppio della guerra fu senza dubbio quello del carbone, di cui solitamente non ci si ricorda altro che per sbaglio. Allo scoppio del conflitto l’Italia si era dichiarata non belligerante, ma era stata ugualmente danneggiata dal blocco subito imposto da Inghilterra e Francia sulle esportazioni tedesche. Infatti il 75% del carbone necessario arrivava, prevalentemente per mare, dall’Inghilterra, dal Belgio, ma per la maggior parte dalla Germania. In media all’Italia occorrevano 17 o 18 milioni di tonnellate di carbone all’anno, alle quali bisognava sommare le necessità di carburanti liquidi, il cui consumo annuo, stimato a circa 3 milioni di tonnellate in tempo di pace, si supponeva – e non ci si sbagliava, come si sarebbe visto poi – che sarebbe salito a 8 milioni di tonnellate in guerra. LXIX Bisogna considerare che nel corso del 1940 la produzione nazionale di carbone sarebbe ammontata a 5.355.000 tonnellate a fronte dei 17.882.000 di tonnellate necessari, ma i 12 milioni mancanti non potevano essere ottenuti incrementando la produzione italiana per due buoni motivi: non c’erano i mezzi per farlo, almeno non in tempi medi o brevi e, soprattutto, fin dall’autunno 1868 gli esperimenti condotti in mare dalla Regia Marina avevano dimostrato che il potere calorifico dei carboni italiani era fino al 30% inferiore a quello dei carboni inglesi e comunque non raggiungeva le loro stesse prestazioni neanche aumentandone la quantità. LXX Il discorso era lievemente diverso per il petrolio, ma comunque, anche a sfruttare al massimo le risorse albanesi, non si sarebbe mai riusciti a superare le 200.000 tonnellate all’anno, per cui ci si può facilmente render conto di cosa significasse per l’Italia l’interruzione del traffico marittimo. LXXI Nel 1938, su una produzione mondiale annuale di 271.362.000 tonnellate di petrolio, la quota statunitense era ammontata a 164.740.000 tonnellate, quella russa a 29.300.000, la messicana a 4.800.000 e la romena a 6.603.000 tonnellate. Nello stesso anno il consumo italiano di petrolio, benzina e altri derivati era stato di oltre 2.500.000 tonnellate, pressoché pari al consumo del 75


1937, che era stato di 2.575.000. Di queste, il 27,7% veniva dagli Stati Uniti, il 20,4% dall’Irak, il 20,2% dalla Romania, il 3,1% dalla Colombia, il 2,2% dall’Albania, l’1,3% dall’URSS, lo 0,5% dalle Indie Olandesi e il rimanente 24,6% da altri Paesi, inclusa, in minima parte, la stessa Italia. Insomma, la maggior parte del petrolio arrivava per mare e via Gibilterra e Suez. Il trasporto marittimo costava molto ed era stato a lungo una sorta di monopolio di pochissime compagnie e un cappio al collo di parecchi Paesi e della loro politica. Non a caso, da tempo l’Italia per affrancarsene si era dotata di una flotta di petroliere, che era adesso la quinta del mondo dietro a Regno Unito, Stati Uniti, Norvegia e Olanda, con 72 navi per 365.000 tonnellate. Ma se il traffico marittimo veniva rallentato dai controlli o bloccato dalla guerra, che succedeva? 7 Ora, a partire dalla dichiarazione di non belligeranza, la marina inglese fece del suo meglio per inasprire il blocco contro l’Italia, pur dichiarandolo ufficialmente diretto contro la Germania e le sue merci, e lo indurì ulteriormente dal dicembre del ’39. Questo era un guaio serio perché rallentava l’arrivo del petrolio, ma soprattutto perché indicava che, all’atto dell’entrata in guerra, non si sarebbe vista più una sola goccia di tutto quello che arrivava dall’America, dall’Irak e dalle Indie olandesi. Insomma: su 2.575.000 tonnellate, ne sarebbero giunte ancora si e no 620.000 prodotte entro gli Stretti, cioè 34.000 dalla Russia e 521.000 dalla Romania, sempre che fosse libero il passaggio dei Dardanelli, 57.000 dall’Albania e il resto da qualche fornitore minore raggiungibile per via di terra. Per pareggiare i conti si sarebbe dovuto ripiegare su un aumento d’acquisti dalla Russia e dalla Romania. Quest’ultima, però, nel 1938 aveva destinato all’esportazione solo 4.500.000 tonnellate su 6.603.000 prodotte; per di più 3.934.000 tonnellate erano state estratte da ditte anglo-olandesi – la Shell – o franco-belghe, cioè potenzialmente nemiche, mentre solo 335.000 erano state estratte dall’AGIP e 946.000 da ditte romene. Inoltre c’era il problema del trasporto. Le ferrovie dalla Romania all’Italia consentivano di portarne non più di 50.000 tonnellate al mese, cioè 600.000 all’anno. Il resto sarebbe dovuto andare per mare. Ma più del petrolio, il problema toccava il carbone, che alimentava navi, industrie, ferrovie, centrali elettriche e tutti gli impianti di riscaldamento. E lì erano guai seri. Già il 24 novembre 1939 Ciano aveva scritto nel suo diario: 7

Il problema era stato sollevato già nel 1928 dal tenente colonnello del Genio Alberto, STABARIN a proposito dell’alimentazine delle ferrovie nel suo articolo Considerazioni militari sull’elettrificazione delle ferrovie, su “Rivista Militare italiana”, anno II, n. 9, settembre 1928, anno VI E.F

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Faccio un primo passo presso l’ambasciatore di Francia e l’incaricato inglese per protestare contro le misure di blocco. Il passo è da me contenuto in termini moderati. L’inglese ne prende atto; Poncet […] polemizza [...]. Poi – siccome coi Francesi come col Cielo, si trovano sempre degli accomodamenti – che interverrà perché il traffico di carbone germanico – che è quanto in realtà ci interessa – venga lasciato passare senza troppe difficoltà. LXXII Quattro giorni dopo, rientrato da Londra l’ambasciatore britannico sir Percy Lorraine, Ciano l’aveva convocato, riportando poi, il 30 novembre: Lungo colloquio con Sir Percy Lorraine [...] Attacco fortemente la questione del blocco e gli dico che è sommamente cretino compromettere le relazioni anglo-italiane per questioni di secondaria importanza. Ho l’impressione che lui abbia fatto del suo meglio ma che gli incidenti sorgano sul terreno della pratica applicazione. LXXIII Dopo il viaggio fatto da sir Percy a Malta il 5 dicembre per premere sull’ammiraglio inglese e rendere meno rigido il blocco, il 6 Ciano annotò che François-Poncet gli aveva comunicato la decisione degli Alleati di «dar via libera al carbone che noi importiamo dalla Germania». Belle parole, ma ad esse non seguirono i fatti, tant’è vero che il 10 dicembre nel Diario si trova scritto che Mussolini era sempre più esasperato per il controllo inglese sulla navigazione e minacciava rappresaglie, mentre il 21, sempre secondo Ciano, era furioso per il fermo dei nostri piroscafi da parte britannica. Non gli si poteva dar torto: dall’agosto del 1939 erano state fermate 847 navi mercantili e passeggeri italiane, che andavano dal transatlantico Augustus, tenuto fermo otto giorni a Gibilterra dal 22 al 30 ottobre 1939, e dal Saturnia, fino ai pescherecci. A tutti venivano controllate le stive, aperti i bagagli, i sacchi e i plichi della corrispondenza confiscando le merci prive di certificato d’origine in perfetta regola, il che, in certi casi era impossibile da avere. “A Gibilterra hanno cominciato ora a fermare anche i motopescherecci della Genepesca di ritorno dalle campagne di pesca nell’Atlantico. E’ evidente che il loro carico di pesce non può essere provvisto di “navicert” poiché i pesci non pensano a provvedersene prime di entrare nella rete. Ma sembra che ciò non sia facilmente comprensibile per i cerberi del controllo che seggono a Gibilterra.” LXXIV Il valore complessivo dei danni, secondo la relazione ufficiale preparata dall’ufficio dell’ambasciatore Luca Pietromarchi, ammontava a oltre un 77


miliardo di lire del tempo, anche se in realtà era stato artatamente gonfiato, su richiesta di Ciano, da quello vero di 50 milioni; ma, al di là dei valori, veri o no, bisognava continuare a subire: non c’era alternativa, dato che l’improvvisa movimentazione ferroviaria di tutto quel carbone era impossibile per carenza di vagoni. La situazione era divenuta difficile da subito, già nell’autunno del ‘39, con le riserve di carbone a un dato momento ridotte a soli 40 giorni; e il gioco degli Alleati apparve chiaro in inverno, quando l’Inghilterra annunciò ufficialmente che avrebbe potuto dare all’Italia il carbone – ma non più di 6 milioni di tonnellate, cioè la metà del fabbisogno annuo d’importazione, e senza alcuna garanzia quanto ai tempi di consegna – in cambio della fornitura agli Alleati di aerei, cannoni ed armamenti pesanti; in altre parole: l’Italia si sarebbe dovuta tramutare nell’arsenale degli Alleati venendone ripagata in carbone. A dire il vero non era nulla di nuovo. Qualcosa del genere era stato già fatto dagli Alleati nella Grande Guerra, in particolare negli anni 1916-18 premendo su Norvegia, Olanda, Svezia, Svizzera e Danimarca. A quel tempo si era parlato di “cooperazione leale”, ammesso che in guerra ci fosse ancora posto per la lealtà, organizzando dei gruppi di privati di spicco che, sulla loro parola, avevano assicurato gli Alleati che quanto acquistato dal loro Paese là sarebbe stato consumato, per cui erano nati il Trust Olandese, la Società Svizzera di Sorveglianza economica e la Cooperativa dei Commercianti Danesi. Inutile immaginare quali interessi dei membri di quei gruppi in Francia, Italia ed Inghilterra fossero stati trasformati dagli Alleati in strumenti di pressione o di ricatto, l’importante è che tutto aveva funzionato così bene che, ad esempio, le importazioni olandesi fra il 1913 ed il 1916 erano calate, mentre gli Svizzeri, oltre a ridurle e azzerarle per alcuni materiali e metalli speciali, quali bauxite, cromo, wolframio e cobalto, avevano accettato d’acquistare e lavorare quegli stessi materiali nei loro stabilimenti per conto degli Alleati. Dunque in pratica nel 1939-40 l’Inghilterra stava cercando d’applicare all’Italia qualcosa del genere. Il problema però era se all’Italia ciò convenisse, non solo dal punto di vista industriale, ma da quello politico e militare. Si poteva rischiare? Gli industriali italiani erano ovviamente assai interessati e del resto stavano già vendendo a tutto spiano agli Alleati, ma erano dei privati, mentre l’accettazione d’una simile proposta in via ufficiale da parte del Governo esponeva l’Italia al rischio d’una reazione, forse d’un attacco tedesco, al quale non si sarebbe potuto resistere per la nota carenza di armi pesanti, combustibili, carburanti e automezzi. E’ vero che alcuni autori hanno poi sostenuto che gli Alleati volessero indebolire la Germania mettendo l’Italia davanti 78


all’alternativa fra lo scendere in campo contro i Tedeschi, così da distrarne le forze dal fronte occidentale o da qualsiasi altro teatro, o insieme ai Tedeschi, obbligandoli, a causa della sua debolezza, anche in quel caso a distrarre forze per sostenerla, ma l’una e l’altra tesi sono ancora in discussione e andrebbero meglio documentate. 8 Come sappiamo dal suo diario, il 14 febbraio 1940 Ciano comunicò ufficialmente a sir Percy Loraine la ripulsa italiana dell’accordo commerciale proposto. Il 16 il presidente della Montecatini, Donegani, disse a Ciano d’essere preoccupato per la mancanza di carbone e aggiunse che si rischiava di fermare la produzione industriale causando una crisi sociale. L’indomani, 17, febbraio, sir Percy comunicò a Ciano che il blocco marittimo sul carbone sarebbe cominciato il 1° marzo. Effettivamente iniziò a quella data e Mussolini mise a disposizione un miliardo di lire della Banca d’Italia per sostenere i rifornimenti di carbone. Così facendo, però, restavano solo un miliardo e 300 milioni di riserve e il bilancio annuale prevedeva un fabbisogno di 4 miliardi di lire per ripianare il deficit. Il 6 marzo 1940 la Royal Navy cominciò a bloccare i trasporti di carbone tedesco per l’Italia. Il 9 gli Inglesi acconsentirono a rilasciare le carboniere italiane, a condizione che però nessun’altra fosse in futuro inviata nei porti del nord. Non era, quello del carbone, un problema da poco. Per di più incrociando le informazioni sul carbone con quelle relative alla situazione finanziaria che Riccardi aveva esposto alla Commissione Suprema di Difesa, il quadro diveniva drammatico. Il 15 febbraio 1940 Ciano scrisse che il capo della Polizia, l’eccellenza Bocchini, gli aveva detto d’essere preoccupato da possibili problemi di stabilità interna causati dalla difficile situazione economica. L’indomani – come già detto – Donegani parlò a Ciano delle sue preoccupazioni sul carbone e la paralisi economica, poi, il 1° marzo, come sappiamo, cominciò il blocco inglese. Di conseguenza, il problema del carbone era uno dei principali, se non il principale, visto che portava la Nazione alla povertà, al caos e forse alla resa per fame; e fu risolto grazie ai Tedeschi e grazie alla disponibilità svizzera, che ne consentì il passaggio anche attraverso la Confederazione. 8

Cfr. Franco BANDINI, Tecnica della sconfitta, 2 volumi, Milano, Longanesi, 1966. Enrico Cernuschi invece ha trovato in Gran Bretagna - Public Record Office, Foreign Office (PRO, FO) 371 R 7549/3700/22 Position of Italy, 18 novembre 1942 - della documentazione attestante che la politica inglese non era cambiata rispetto all’anteguerra, ovvero: «[…] our view was that we should not count on the possibility of a separate peace with Italy, but should aim at provoking such disorder as would necessitate a German occupation» concludendo che, «secondo un apprezzamento della situazione fatto a Londra nel gennaio 1937 alla Gran Bretagna l’Italia serviva morta e basta, e agì di conseguenza».

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In realtà i Tedeschi avevano subito indicato una via d’uscita, legando l’Italia ancora di più al loro carro: il 26 febbraio si erano offerti di fornire all’Italia 12 milioni di tonnellate di carbone all’anno. Questo avrebbe coperto completamente il fabbisogno italiano di carbone straniero, però, dato il problema dei mezzi di trasporto, se ne sarebbero potuti trasportare non più di 6 milioni di tonnellate. Due settimane dopo, il 10 marzo 1940, Ribbentrop arrivò a Roma insieme al ministro plenipotenziario Karl Clodius e consegnò a Mussolini una lettera di Hitler il quale dichiarava d’offrire tutto l’aiuto della Germania, bollando l’iniziativa inglese come “un tentativo inaudito degli stati plutocratico-democratici inteso a jugulare economicamente l’Italia.” LXXV Proseguiva il verbale: “il Duce ha accennato a un fabbisogno mensile da 500 fino a 700.000 tonnellate. Il Ministro degli Affari Esteri del Reich ha risposto che il Ministro Clodius può fare proposte per la copertura dell’intero fabbisogno di un milione di tonnellate al mese. Rispondendo ad un accenno del Duce alla difficile questione dei carri ferroviari, il Ministro degli Affari Esteri del Reich ha dichiarato che il Ministro Clodius, a seguito dei negoziati avuti con le autorità militari, è ora nella possibilità di ottenere carri supplementari e di assicurare in comune collaborazione fra Italia e Germania il completo trasporto del carbone.” LXXVI Era un aiuto enorme, però non significava che i Tedeschi fossero amici. Se ne poteva essere più che dubbiosi. I segnali c’erano, specie stando a Ciano, e non erano dei migliori. Hitler aveva una grandissima ammirazione per Mussolini, ma i suoi uomini non sembravano condividerla e, comunque, non ne avevano affatto per gli Italiani in generale. L’ambasciatore a Berlino, Attolico, e l’addetto militare, Efisio Marras erano entrambi assai poco entusiasti dei Tedeschi. La corrispondenza ufficiale del primo era piena di avvertimenti e già il 10 settembre 1939 Ciano aveva scritto che Attolico aveva riferito come, a seguito della proclamazione della non belligeranza italiana, grandi masse popolari avessero iniziato a dimostrare una crescente ostilità contro l’Italia e si sentissero di frequente parole come “tradimento” e “spergiuro”. Questo si doveva al fatto che, avendo Ribbentrop dichiarato che la firma del Patto d’Acciaio significava la completa adesione e sostegno dell’Italia al Reich, tutti ora parlavano del non intervento italiano come del “secondo tradimento”, considerando come primo l’entrata in guerra contro l’Austria nel 1915. C’erano poi altri segnali preoccupanti, provenienti da differenti fonti e riferiti da Ciano nel suo Diario, che tutti insieme fornivano il quadro di un sempre più diffuso sentimento anti-italiano in Germania. E’ probabile che Mussolini non se ne curasse troppo, ma rimase impressionato dal rapporto verbale che Marras gli 80


fece in presenza di Ciano il 4 marzo del 1940 a Roma, dicendosi molto pessimista sull’atteggiamento dei Tedeschi verso l’Italia e aggiungendo che, nonostante il rispetto formale e la cortesia nei rapporti, era certo che conservassero intatto contro gli Italiani odio e risentimento, aggravati proprio da ciò che definivano “il secondo tradimento”. Infine – aveva detto Marras – nessun obiettivo bellico sarebbe stato più gradito alle generazioni vecchie e nuove di una discesa verso i mari caldi e i cieli azzurri del sud. Secondo Ciano, Mussolini ne era rimasto assai colpito. LXXVII Allora, sapendo questo, in cambio delle forniture inglesi di carbone, per di più da pagare al prezzo fissato da Londra, si poteva rischiare una guerra contro la Germania e un’invasione? Sarebbe stato un suicidio. Di conseguenza nell’autunno del 1939, a causa della scarsità del carbone dovuta al blocco navale, Mussolini si trovava davanti all’alternativa fra una guerra contro gli Alleati e l’accettazione del loro ultimatum, che però sembrava implicare quasi certamente la guerra contro la Germania, senza possibilità di difendersi e senza speranza di ricevere aiuti dagli Alleati, visto il nulla fatto per la Polonia a cui prima avevano garantito tutto il loro appoggio.

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Capitolo 11 Il problema del blocco navale inglese e della Marina

A Roma si sapeva benissimo che, a seguito degli accordi franco-inglesi del novembre del 1938, nella primavera del 1939 i comandi inglesi e francesi sparsi nel mondo avevano tenuto delle sedute congiunte in Europa, Africa ed Asia per stabilire un’azione coordinata contro Tedeschi, Italiani e Giapponesi; e si sapeva ancora meglio che il problema principale quanto all’Italia era quello della guerra navale. Lo stesso Churchill l’aveva pubblicamente sottolineato all’indomani della presa dell’Albania e quattro mesi e mezzo prima dello scoppio della guerra mondiale, dicendo, alla Camera dei Comuni, il 13 aprile 1939: “le forze italiane sono nel momento attuale disposte nel modo più irregolare che mai si sia presentato nella storia. Quattro distinti eserciti italiani si trovano ora fuori del territorio nazionale e, se la Marina italiana venisse battuta dalle flotte anglo-francesi, essi si troverebbero tagliati fuori senza la minima speranza. Le flotte alleate, per di più, sono incomparabilmente più forti della Marina italiana. Anche se l’equipaggio di tutte le navi da guerra italiane fosse composto di tanti Mussolini, assai difficilmente esse potrebbero assicurarsi il dominio del marea causa delle gravi condizioni di inferiorità nelle quali dovrebbero combattere.” LXXVIII Anche se non c’erano più truppe in Spagna, per cui gli eserciti fuori dal territorio nazionale erano scesi a tre, era tutto vero. La guerra terrestre poteva essere sostenuta più o meno a lungo, appoggiandosi alle Alpi contro un’invasione francese, quella aerea pure; ma sia l’Impero che gli altri possedimenti non potevano reggere senza le comunicazioni marittime; ed ecco un altro dei problemi maggiori: la flotta non era ancora pronta; e gli Alleati lo sapevano. Al di là delle difficoltà di armamento dell’Esercito e della scarsità di carburante, la situazione appariva veramente brutta per l’aumento della presenza navale anglo-francese in Mediterraneo, il cui nucleo secondo lo Stato Maggiore della Regia Marina, era previsto – e sostanzialmente sarebbe stato – a sette corazzate – cinque britanniche e due francesi – mentre la Regia Marina 83


aveva in linea solo due vecchie corazzate rimodernate – Giulio Cesare e Conte di Cavour – e sapeva di non poter raggiungere un minimo di parità prima del giugno o luglio 1940, se non oltre, quando sarebbero entrate in squadra prima le altre due corazzate rimodernate Caio Duilio e Andrea Doria e poi le prime due super-dreadnoughts della classe “Littorio”, il Littorio e il Vittorio Veneto. Era chiaro che, in quelle condizioni, entrando in guerra contro gli Alleati prima della fine della primavera del 1940 l’Italia avrebbe avuto la flotta spazzata via immediatamente, le coste devastate, il traffico annientato e parecchie delle sue città principali, come Palermo, Napoli, Genova, Trieste, Bari, Catania, Ancona, Livorno e Venezia, distrutte o colpite. In Italia questo non fu considerato un caso, ma un piano attentamente studiato. Come sottolineò poi l’ammiraglio Bernotti nel dicembre del 1940, cioè sei mesi dopo l’entrata in guerra: Nell’agosto 1939, nel periodo di tensione diplomatica, per la possibilità di entrata in guerra dell’Italia gli anglo-francesi concentrarono nel Mediterraneo la maggior parte delle loro forze navali; contemporaneamente fu deviato da questo mare il traffico mercantile. Il dirottamento cessò nel periodo della non belligeranza dell’Italia, ma fu ripreso con anticipo di tre settimane sul nostro intervento. Nei piani anglo-francesi era previsto che il ripiego del dirottamento dal Mediterraneo avrebbe avuto carattere provvisorio, di breve durata, presumendo che l’Italia sarebbe stata presto costretta a soccombere in conseguenza della sua inferiorità navale e della rapida asfissia economica. LXXIX Ora se così appariva la situazione – e non importa se fosse reale o no, l’importante è come appariva in Italia – e se gli Alleati volevano distruggere l’Italia, cosa ci si poteva aspettare da loro? Ma, al tempo stesso, quanto si poteva resistere al loro ultimatum senza carbone? Il soccorso dato da Hitler, fornendo all’Italia tutto il carbone necessario, spedendolo per ferrovia e inviando anche una certa quantità di vagoni, consentì a Mussolini di prendere ancora un po’ di tempo per vedere come sarebbe andata a finire la guerra. La questione navale non cessò di essere rilevante, visto che, stando ai dati ufficiali, LXXX alla fine di dicembre del 1939 la Francia aveva otto corazzate, tre vecchie (Courbet, Océan, Paris) e cinque nuove (Bretagne, Provence, Lorraine, Dunkerque, Strasbourg); e l’Inghilterra quindici (Queen Elizabeth, Warspite, Valiant, Malaya, Barham, Ramillies, Resolution, Revenge, Royal 84


Oak, Royal Sovereign, Repulse, Renown, Hood, Nelson, Rodney) senza contare la francese Richelieu, prima e sola d’una classe che doveva essere di quattro, prossima ad entrare in squadra, come dovevano entrare in squadra in un futuro più o meno prossimo le inglesi King George V, Prince of Wales, Duke of York, Jellicoe e Beatty. Invece la Germania aveva allora le due vecchie corazzate Schlesien e Schleswig-Holstein, da non contare perché quasi subito declassate a navi-scuola, e le più moderne Deutschland, Admiral Scheer, Admiral Graf von Spee, Scharnorst e Gneisenau, con la Bismarck in costruzione, per cui il Patto d’Acciaio poteva contare su si e no 9 corazzate separate – cinque nel Baltico e quattro nel Mediterraneo – contro 22, poi 23, alleate, concentrate, un terzo delle quali poteva essere piazzato in Mediterraneo. Al termine delle costruzioni e sperando sia di non perder più nulla (dopo l’affondamento della Graf von Spee al Rio de la Plata in dicembre) sia di veder entrare in squadra la Tirpitz e sottraendo agli Alleati la Royal Oak, affondata da un U-Boot nell’ottobre 1939, la proporzione poteva diventare al massimo di 13 a 31, cioè pure sempre di una a due a favore degli Alleati; e non era una prospettiva piacevole. Cosa si poteva fare?

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Capitolo 12 Diplomazia marginale con Belgio, Olanda e Stati Uniti e il problema dell’Alto Adige

Nell’affannosa ricerca di una via d’uscita, se ne cercarono di assai oblique. Nell’inverno del 1939-40 Roma avvertì ufficiosamente Bruxelles ed Amsterdam del preventivato attacco tedesco. Era un mettere i bastoni tra le ruote alla Germania e implicava pure un tentativo di smarcarsi dall’alleanza. Del resto il 3 gennaio 1940 Mussolini aveva mandato a Hitler una amichevole ma ferma lettera, consegnata l’8, in cui gli suggeriva d’arrivare a una pace negoziata cogli Alleati, cominciando coll’abbandonare la Polonia in segno di buona volontà e dicendo che l’Italia si riservava d’entrare in guerra nel momento che avrebbe ritenuto più favorevole. Ribbentrop convocò Attolico e chiese un sacco di spiegazioni: forse l’Italia dubitava che il Reich potesse perdere la guerra? E cosa significava quel “momento che avrebbe ritenuto più favorevole”? Attolico se la cavò bene, ma sfortunatamente la posizione dell’Italia, tutto sommato facile da cambiare nei dieci mesi dopo i Patti di Pasqua del 1938, non lo era più adesso, a meno di pagare un prezzo altissimo, che saliva sempre di più col passar del tempo. In questa complicatissima situazione, nell’ultima decade di febbraio, all’indomani del rigetto italiano della proposta inglese di accordo commerciale e del preannuncio da parte di Percy Lorraine che dal 1° marzo sarebbero cominciate le confische di carbone tedesco importato via mare, arrivò il sottosegretario di Stato americano Sumner Welles, che il 26 febbraio 1940 fu ricevuto da Mussolini, presente Ciano. Era latore di alcune proposte di Roosevelt, che andavano da un accordo economico formale fra i due Paesi, a una più ampia iniziativa di pace economica nel mondo. Non fu un dialogo tra sordi, ma ci andò molto vicino. Il sottosegretario di Stato americano esordì assicurando la partecipazione degli Stati Uniti all’Esposizione Universale di Roma del 1942, proseguì offrendo un accordo economico e terminò chiedendo se, secondo il Duce, c’erano possibilità di negoziati fra i contendenti. Mussolini ringraziò per l’accordo economico, ma, visto che non implicava il riconoscimento del dominio italiano in Etiopia e in Albania, rimandò tutto a 87


data da destinarsi, ricordò che quanto al protezionismo l’Italia c’era arrivata dopo gli Stati Uniti e l’Impero Britannico e disse che le possibilità di negoziato fra i belligeranti secondo lui ci sarebbero state a condizione che non vi fossero intanto grossi scontri vittoriosi che cambiassero l’andamento della guerra e di riconoscere i diritti della Germania. Sumner Welles se ne andò in giro per le altre capitali, tornò il 16 marzo, parlò di nuovo con Mussolini e non ne venne fuori nulla, salvo tanta cortesia. Il problema era che gli Americani non sembravano avere niente da offrire né tanto meno in grado di fare alcuna reale minaccia. Anche quando alla fine di maggio l’ambasciatore degli Stati Uniti a Roma chiese – da parte del Presidente – quali fossero le richieste italiane, impegnandosi a presentarle a Parigi e Londra e garantendo sia la soddisfazione di esse alla fine della guerra, sia di far sedere il Duce al tavolo della pace come tutti i belligeranti, il problema rimase lo stesso. Roosevelt prometteva per un futuro incerto e lontano. Sarebbe stato in grado di mantenere? E se per allora non fosse stato più presidente? L’Italia aveva già avuto in passato, nel 1915 e negli anni seguenti, delle notevoli promesse, poi non mantenute a Versailles nel 1919, come ci si poteva fidare? Mussolini doveva scegliere fra le promesse a lunga scadenza, fatte per di più da un presidente che di lì a sei mesi doveva presentarsi alla rielezione, e le possibilità vicine, concrete, date da una Francia al collasso, un’Inghilterra allo stremo e dalla paura di cosa avrebbe potuto fargli subito dopo la ormai certa vittoria in Francia – e assai prima di qualsiasi intervento americano – una Germania trionfante. Anche quando alla vigilia dell’entrata in guerra l’ambasciatore si rifece vivo, con un messaggio in cui Roosevelt ricordava l’esistenza di interessi americani in Mediterraneo, come gli si poteva dare retta? Se la casa brucia adesso, quanto si dà retta alle promesse di uno che sostiene che, a fare come dice lui, i pompieri potrebbero arrivare fra sei mesi? In definitiva Mussolini procedé nel corso dell’inverno dando un colpo al cerchio e uno alla botte, specie considerando che in Occidente era in corso la “finta guerra” e non si sparava un colpo. Certo, occorreva tenersi buoni i Tedeschi, per cui, il 10 marzo, nel corso della visita di Ribbentrop che risolse il problema del carbone, si lasciò andare, ma sempre con cautela. Dopo aver ricordato che allo scoppio della guerra l’Italia non era pronta, se ne uscì fuori dicendo: “… che è praticamente impossibile per l’Italia mantenersi al di fuori del conflitto. Al momento dato entrerà in guerra e la condurrà con la Germania e parallelamente ad essa, perché l’Italia ha anche da parte sua dei problemi da risolvere… L’Italia è molto paziente e lo deve rimanere finché non è pronta…. Il Duce è passato quindi a parlare della questione del momento in cui l’Italia potrà entrare in guerra. Tale questione è la più delicata, poiché 88


Egli vuole entrare in guerra solo quando è completamente preparato, per non essere di peso al suo compagno. Ad ogni modo egli deve fin da ora con ogni chiarezza dichiarare che l’Italia non può sostenere finanziariamente una guerra lunga.” LXXXI A rigore si era impegnato a entrare in guerra, ma senza dire quando e come, anzi, specificando che avrebbe combattuto poco per mancanza di denaro. Prima voleva essere preparato del tutto, il che poteva significare aspettare i famosi due o tre anni di cui si era parlato prima di stipulare il Patto d’Acciaio; e, possiamo aggiungere, due o tre anni sono lunghi e tutto poteva succedere, pure che la guerra finisse prima. Restava il problema che la Germania era sempre più minacciosa. Poteva arrivare a un’aggressione? Una scusa ci sarebbe stata: la forniva l’Alto Adige. Per ognuna delle crisi da loro provocate, i Tedeschi avevano sempre cercato un appiglio da trasformare in un casus belli. Dunque, ne potevano avere uno nei confronti dell’Italia? La risposta disgraziatamente era: si, l’Alto Adige. Popolato prevalentemente da gente di lingua tedesca, costituiva un problema, tanto più grave se visto alla luce delle asserzioni naziste che là dov’era un Tedesco era suolo tedesco. Berlino aveva raggiunto con Roma un accordo per il trasferimento in Germania degli Altoatesini. A ognuno doveva essere chiesto se preferiva restare o spostarsi nel Reich. La questione era stata sollevata una prima volta dopo il discorso in cui Hitler, il 20 febbraio del 1938, aveva parlato dei dieci milioni di Tedeschi rimasti al di fuori delle frontiere del Reich. Dopo l’Anschluss Hitler aveva dichiarato intangibile la frontiera del Brennero con un messaggio inviato a Mussolini l’11 marzo 1938, ma in aprile Ciano aveva scritto all’incaricato d’affari italiano a Berlino, suo cognato Massimo Magistrati, che l’annessione dell’Austria aveva generato inquietudine fra gli Altoatesini di lingua tedesca. C’erano stati degli incidenti e Magistrati doveva parlarne a Goering, il più vicino all’Italia fra i gerarchi nazisti. Magistrati aveva eseguito e Goering, allora presidente del consiglio dei Ministri prussiano, gli aveva detto che bisognava mettere gli Altoatesini di lingua tedesca davanti alla scelta: rientrare in Germania, o rinunciare ad essere considerati Tedeschi, aggiungendo che si sarebbe potuto fare uno scambio. Roma si sarebbe ripresa gli Italiani residenti in Germania in cambio degli Altoatesini che avessero scelto d’emigrare nel Reich. La visita di Hitler in Italia aveva originato un’altra dichiarazione ufficiale d’intangibilità della frontiera, 9 ma nella pratica la situazione non era 9

Durante la visita a Roma, il 7 maggio 1938, alla fine della cena offertagli a Palazzo Venezia, Hitler aveva risposto al brindisi di Mussolini con un non lungo discorso in cui, a proposito

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migliorata, anzi, forse era leggermente peggiorata. Il prefetto di Bolzano, Giuseppe Mastromattei, seguiva attentamente la questione, ma era evidente che un potente Reich dall’altra parte del confine era una fonte di guai. Nei colloqui preparatorii del Patto d’Acciaio, tenutisi a Milano il 6 e il 7 maggio del ’39, Ciano aveva risollevato la questione con Ribbentrop, al tredicesimo dei quattordici punti di discussione. Gli diede tutti i particolari, si convinse che il collega non avesse mai avuto chiaro il problema e annotò: “Ribbentrop, dopo avermi ripetuto l’assoluto disinteresse presente e futuro del Governo del Reich per l’Alto Adige, mi ha dichiarato che intende mettersi immediatamente all’opera, insieme ad Attolico, per risolvere al più presto almeno il problema che concerne l’evacuazione dei 10.000 tedeschi exaustriaci.” LXXXII Come sappiamo, era stata inserita nel Patto una riga a proposito dell’intangibilità delle frontiere, che Mastromattei aveva giudicato utilissima. Dopo l’alleanza erano seguiti contatti lunghi, sfociati in un accordo di massima. Dal diario di Ciano apprendiamo che il 21 giugno 1939 la delegazione italiana incaricata di definire la questione altoatesina era partita per la Germania. Ma il 12 agosto, incontrandolo a Berchtesgaden, Ciano, come sappiamo, si sentì ripetere da Hitler, come giustificazione per l’intransigenza tedesca verso la Polonia, “per ben due volte – e con molta energia – che il ritiro degli allogeni dall’Alto Adige è stato un duro colpo sul prestigio germanico e suo personale. Questo gesto non può essere invocato a precedente da nessuno, ed anzi lo obbliga ad una maggiore intransigenza nei confronti della Polonia.” LXXXIII Era un pessimo segno, perché “nessuno” poteva implicitamente significare che nemmeno gli Italiani avrebbero potuto invocarlo come precedente per la soluzione delle vertenze in corso. Iniziata l’invasione della Polonia, il 12 settembre 1939 Ciano annotò che i Tedeschi volevano spostare la realizzazione di quanto previsto dall’accordo a dopo la fine della guerra. L’11 ottobre 1939 secondo Ciano stavano facendo delle difficoltà, ma il 18 ottobre l’accordo venne raggiunto. Però il 9 novembre 1939 Ciano scrisse che i Tedeschi stavano agendo contro l’accordo, facendo della frontiera, aveva detto: “Ora voi ed io, divenuti vicini immediati ed ammaestrati, dall’esperienza di due millenni, intendiamo riconoscere la frontiera naturale che la Provvidenza e la Storia hanno tracciato ai nostri due popoli. … E’ mia incrollabile volontà ed anche mio testamento politico al popolo tedesco, che consideri intangibile per sempre la frontiera delle Alpi eretta tra noi dalla natura.” rip. in VIVALDI, Raul – DE CARLO, Salvatore, Guerra per la nuova Europa – storia della seconda guerra mondiale – dalla campagna di Polonia all’occupazione della Norvegia, Roma, Officine grafiche De Carlo, 1941, pag. 187.

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propaganda parlando apertamente di un ritorno dell’Alto Adige al Reich, che del resto, come i Sudeti era sempre stato austriaco e non tedesco. Davanti a questa attività, non c’è da stupirsi se, nelle annotazioni relative ai giorni dal 9 all’11 novembre, Ciano dipinse Mussolini come violentemente anti-tedesco e se il 21 aggiunse che la situazione altoatesina stava peggiorando. Senza entrare in ulteriori dettagli, inserendo questi fatti nel più ampio contesto del momento politico, si deve ammettere che i Tedeschi potevano trovare nella questione altoatesina un “casus belli” contro l’Italia assai simile a quelli adoperati per scatenarsi contro la Cecoslovacchia e la Polonia ed è del tutto ragionevole pensare che Mussolini se ne rendesse conto e lo temesse. Del resto Albert Speer avrebbe ricordato, che quando era ancora solo l’architetto di Hitler, nella primavera del 1937, aveva: “…saputo quel che Hitler meditava, poiché, circa a quell’epoca, egli mi aveva detto trattenendomi all’improvviso sui gradini di accesso alla sua casa: “Noi creeremo un grande Reich. Esso abbraccerà tutti i popoli germanici. Comincerà dalla Norvegia per finire nell’Italia settentrionale.”” LXXXIV Speer era un tipo riservato, uno di cui Hitler stesso diceva che fosse l’unico che non parlava e non ripeteva nulla di quanto sentiva, ma c’era pur sempre la possibilità, per quanto remota e tutta da dimostrare, che qualcosa fosse giunto anche alle orecchie di Mussolini. E’ vero che Ciano non ne fa parola nel suo diario, né sembra essercene traccia in altri testi italiani, ma chi può negarlo o affermarlo senza un’approfondita ricerca? Resta il fatto che l’intenzione di Hitler era di annettersi l’Italia Settentrionale. Insomma, ricapitolando: conoscesse o meno le idee di Hitler sull’Italia del nord, che Mussolini sapesse che poteva aspettarsi dei guai dai Tedeschi glielo dissero, come vedremo, Roatta, Villani e Marras; stando a Bottai, lo ammise lui stesso in Gran Consiglio e Ciano lo riferisce senza mezzi termini parlando dei fatti del 18 agosto del 1939. Che fra le ragioni che spinsero Mussolini a scendere in guerra a fianco dei Tedeschi ci sia stata la paura di una loro aggressione o rappresaglia dopo la guerra, come vedremo ce lo dice Acerbo, ce lo confermano Ciano, Bottai, Anfuso e Sebastiani e lo dice pure Faldella. Ce n’è dunque più che abbastanza per ammettere che questo motivo, la paura dei Tedeschi, giocò una parte importante al momento di prendere la decisione finale. Ma abbiamo ancora altri elementi che ce lo suggeriscono, fra i quali gli avvenimenti che portarono al crollo della Francia nella primavera del ’40.

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Capitolo 13 Il crollo della Francia

Ciò che distrusse qualsiasi possibilità di terminare la guerra in fretta fu l’iniziativa britannica in Norvegia in aprile. In dieci giorni scarsi la Norvegia fu persa e con essa l’idea che gli Alleati fossero forti quanto si pensava. Dai verbali delle riunioni del Capo di Stato Maggiore Generale emerge che fino a quel momento l’unico rischio che si credeva di vedere in caso di guerra era in Libia e veniva dall’Armée de Syrie comandata dal generale Weygand. LXXXV Weygand era all’epoca considerato dai colleghi italiani come il miglior generale vivente, così come dopo la Grande Guerra si riteneva comunemente che quello francese fosse il migliore e più potente esercito del mondo. Sapendo questo, risultano assai rivelatori i commenti pubblicati sulla stampa italiana nella primavera del 1940, sia perché fatti passare dalla censura, quindi ritenuti in qualche maniera condivisi dai vertici del Regime, sia per il loro autore. Descrivendo la situazione militare in Norvegia e, più tardi, in Olanda, Belgio e Francia, Mario Appelius, uno dei più noti e fascisti giornalisti italiani, 10 parlava di Weygand con profondo rispetto, mentre era estremamente duro nei confronti di altri generali alleati come Ironside, Gort o Gamelin. Ancora il 15 maggio 1940 Appelius lodava i soldati francesi dicendo che nessuno dubitava del coraggio dell’Esercito francese che, chiamato dagli errori dei suoi politici a sacrificarsi ancora una volta, per difendere l’Inghilterra, avrebbe sicuramente combattuto con la stessa foga del 1914. LXXXVI Si tratta di parole rivelatrici di una certa propensione degli Italiani verso la Francia, rafforzate dalle memorie del ’14. L’esercito francese era lo stesso che aveva fermato i Tedeschi sulla Marna e, nel 1918, ad Arras e Reims. La Francia 10

Appelius seguì la guerra dal principio delle operazioni in Polonia, poi fu in Finlandia e, il 9 maggio 1940, era ad Amsterdam. il giorno seguente raggiunse Bruxelles sotto le bombe tedesche, e subito lasciò la città col treno 28 bis, praticamente l'ultimo che da là arrivò a Parigi. Non solo descrisse nelle sue corrispondenze quanto aveva visto in quei giorni, ma le raccolse e poi pubblicò pochi mesi dopo, in luglio, nel libro La tragedia della Francia: dalla superbia di ieri agli armistizi di oggi, per il quale cfr. infra, nota LXXXVI.

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aveva dimostrato durante la Grande Guerra che poteva perdere delle battaglie, ma non la guerra e che era capace di riemergere dalle situazioni più disperate e arrivare alla vittoria. Poi venne maggio e scattò l’offensiva a ovest. In una manciata di giorni Olanda e Belgio furono invasi, poi l’Armata del Nord alleata, forte di 1.200.000 uomini, fu accerchiata con le spalle al mare e costretta a cercare di salvarsi da Dunkerque attraverso la Manica. Weygand, appositamente richiamato dalla Siria, sostituì Gamelin. Ma anche lui fu battuto; e qui gli Italiani cominciarono a preoccuparsi. Dunkerque poteva essere stato qualcosa di simile al Piano Schlieffen ed alla Corsa al Mare del ’14. Del resto molti mesi prima François-Poncet aveva detto a Ciano che i Francesi ritenevano i Tedeschi capaci di oltrepassare la Linea Maginot, però erano certi di poterli poi battere in campo aperto. LXXXVII Ma adesso la Linea Weygand, appoggiata a tre fiumi, era saltata. Non si vedeva all’orizzonte alcun nuovo Miracolo della Marna e il primo esercito del mondo, quello francese, comandato da Weygand in persona, era in piena ritirata; la situazione non era più quella del 1914 e la Germania stava chiaramente per vincere la guerra. E’ un dato acclarato ed acquisito che Mussolini abbia dichiarato guerra perché la Germania stava per vincerla e l’Inghilterra per perderla, perché gli Stati Uniti non potevano scendere in campo per il fatto – spesso dimenticato – non solo che la loro opinione pubblica non lo voleva, ma che Roosevelt, alla scadenza del suo secondo mandato, doveva pensare per prima cosa a vincere le elezioni presidenziali dell’autunno 1940, tutt’altro che facili perché concorreva per la terza volta, cosa mai successa in passato e ferocemente osteggiata dai Repubblicani. Alla fine ci sarebbe riuscito promettendo ad alcuni avversari i portafogli della Guerra e della Marina – rispettivamente ai repubblicani Stimson e Knox – ed al popolo di non coinvolgere l’America nella guerra europea. In queste condizioni è ovvio che nel maggio del 1940 era logico pensare che la politica americana sarebbe stata proseguita tale e quale dopo il prossimo dicembre e, comunque, anche se Roosevelt fosse stato rieletto, sarebbe stato difficile per lui violare senza conseguenze le promesse fatte agli elettori. Dunque, si poteva ragionevolmente supporre che la Germania avrebbe vinto la guerra entro la fine del 1940 senza l’intervento d’alcun nuovo nemico. A questo si può aggiungere che a fine maggio il rischio dato dalla disparità navale tra Italia e Alleati in Mediterraneo stava per sparire, perché in estate la Regia Marina avrebbe ricevuto le quattro corazzate Duilio, Doria, Littorio e Veneto, con all’orizzonte la quinta, la Roma; e questo significava la sicurezza delle coste, la protezione del traffico con le colonie e la fine del ricatto energetico inglese iniziato nell’autunno precedente. Dunque tutto permetteva di considerare il giugno del 1940 come quel famoso “momento più favorevole” 94


preannunciato a Hitler l’8 gennaio. Da molti è stata criticata la scelta d’entrare in guerra. Alcuni, come Vittorio Emanuele III, erano abbastanza certi d’un intervento americano già allora e se ne preoccupavano; altri, legioni di altri, avrebbero in seguito riempito non le fosse, ma la Fossa delle Marianne col loro senno di poi, affrettandosi a dimostrare che Mussolini non si era mai reso conto della potenza industriale degli Stati Uniti e che avrebbe fatto meglio a restare neutrale, o a non dichiarare guerra agli Americani nel dicembre del ’41, avrebbero detto i più avveduti, che, ovviamente, sarebbero stati i meno. Ma, supponendo che l’Italia non fosse entrata in guerra, che sarebbe successo? I Tedeschi avrebbero fatto qualcosa quando avessero avuto il tempo di ripensare al “secondo tradimento” degli Italiani? E, se si, cosa? E in Italia che se ne pensava?

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Capitolo 14 La paura dei Tedeschi

Qui si direbbe esistere un amplissimo spazio di discussione per valutare se e quanto il timore di un’azione tedesca contro l’Italia abbia influito sull’intervento in guerra, fino magari addirittura a determinarlo. Da quanto detto fino ad ora, correlando i dati, peraltro tutti provenienti da fonti edite, ben note, quasi tutte ufficiali e mai né criticate né controbattute, viene quantomeno da domandarsi se non esistesse il rischio concreto, o almeno se agli occhi di Mussolini non potesse sembrare esistere il rischio concreto, di un attacco tedesco “dopo”. Di quanto abbia riportato Ciano nel suo diario si è fatto cenno, LXXXVIII dei rapporti d’Attolico si è detto e di ciò che riferì Marras pure, anche se, sempre a proposito di Marras, è utile riportare un brano di un suo rapporto, con cui, dopo aver scritto a Roma che lo Stato Maggiore tedesco aveva aumentato in maniera sorprendente le forze dislocate all’interno e in particolare nella Germania meridionale, evidenziava come il medesimo Stato Maggiore: «ha voluto sottolineare le sue possibilità di azione immediata in altri settori. Forse anche […] silenziosa replica ai cenni della stampa sul vallo alpino del Littorio». LXXXIX Questo perché Mussolini aveva ordinato di completare il Vallo Alpino del Littorio, ma perché completarlo anche dal lato del confine col Reich se non se ne temeva nulla? O invece qualcosa si temeva? E non a caso le truppe corazzate italiane vennero schierate per un certo periodo nella pianura padana orientale, cioè ad interdire un’eventuale minaccia proveniente dal Brennero e dal Friuli. Dunque sembrerebbero esserci pochi dubbi: oltre a temere un intervento in guerra della Jugoslavia, ipotesi comunque già presa in considerazione fin dalla seconda metà degli Anni ‘20, Mussolini deve aver valutato la possibilità d’un’aggressione germanica e, temendo un possibile scontro dopo la fine della guerra, è plausibile che possa aver deciso di entrare in campo per privare i Tedeschi di qualsiasi motivo di rimostranza. Questo spiegherebbe anche la strana difensiva assoluta, attuata con nefaste conseguenze, imposta alle Forze Armate italiane e lasciata solo sporadicamente, quando sembrava che i Tedeschi stessero per vincere, in modo da poter dire che pure gli Italiani avevano combattuto e fatto la loro parte in 97


guerra. 11 Il consumo di uomini e materiali sarebbe stato minimo e l’Italia avrebbe risparmiato le sue forze in modo da evitare, o almeno affrontare, qualsiasi minaccia si fosse profilata dopo la fine del conflitto; ma quale minaccia poteva mai profilarsi dopo la sconfitta dell’Inghilterra? Certo non quella americana; difficilmente quella sovietica, visti i rapporti fra Roma e Mosca; e allora? Restava solo la Germania. Riprendiamo Acerbo e troviamo una conferma, salvo errore l’unica esistente che sia veramente sicura, ma, come vedremo, non la sola in assoluto: Sulla sua decisione è probabile abbia avuto altresì l’apprensione che il drago teutonico, da lui stesso alimentato, finisse ad ingoiarsi tutta l’Europa, con pregiudizio anche degli interessi dell’Italia già estromessa dalle sue tradizionali posizioni d’influenza. Per effetto delle strepitose vittorie germaniche si apprestava ora a prender corpo l’entimema nazista dello “spazio vitale” che Mussolini, attratto dalla sonorità della frase, si era affrettato a inserire nel paradigma delle nostre rivendicazioni, senza badare se essa si adattasse alle nostre peculiari necessità e non piuttosto avvalorasse la pretesa del Reich, ereditata dal secondo, dell’esigenza impellente per la nazione tedesca di uno sbocco nel Mediterraneo attraverso Trieste; e si aggiunga che l’esaltazione del supernazionalismo di quel popolo, arroventato dalle glorie militari, minacciava di render nulli gli accordi per l’Alto Adige e l’allocuzione del Führer nel brindisi di Palazzo Venezia (e quanto siffatta tema fosse fondata l’ha dimostrato il contegno dei Tedeschi dopo l’8 settembre allorché procedettero ad un’annessione di fatto della Venezia Giulia e del Sud Tirolo, sottraendoli ad ogni ingerenza, anche formale, della repubblica sociale). Conveniva quindi secondo lui non attardarsi più oltre a schierarsi a fianco del vincitore se si volevano evitare irreparabili iatture ai nostri danni, e nel contempo partecipare alla divisione del bottino. Non mi consta però che Mussolini, nelle riunioni militari e nei colloqui occasionali dei giorni precedenti all’intervento, abbia prospettato a suffragio delle sue determinazioni anche cotesto argomento; di esso si è cominciato a parlare solo in un secondo

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Queste le conclusioni a cui arrivò il Maresciallo d’Italia Enrico CAVIGLIA, nel suo Diario, pubblicato a Roma da Gherardo Casini editore, nel 1953. La stessa tesi è stata sostenuta da Pierpaolo BATTISTELLI, nel suo articolo L’evoluzione del Regio Esercito nella seconda guerra mondiale, su «Storia Militare», anno IV, n. 36, 1996.

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tempo, allorché le sorti della guerra volgevano a noi avverse, per giustificare l’irreparabile passo compiuto. XC Dunque, secondo Acerbo, la paura di quanto avrebbero potuto fare i Tedeschi dopo aver vinto c’era, ma come stupirsi che Mussolini non ne abbia fatto menzione nel ’40? Come avrebbe potuto dire, dopo anni in cui aveva magnificato la potenza dell’Italia, esaltato l’amicizia della Germania fino a farne la propria alleata “d’acciaio” e attaccato Francia e Gran Bretagna, che entrava in guerra a fianco della Germania perché non se ne fidava, anzi ne aveva paura? Che figura avrebbe fatto? Quindi non c’è da stupirsi che questo motivo non sia emerso tranne che, sembra, in qualche colloquio occasionale: Mussolini non lo diceva perché non poteva perdere la faccia. Ma una traccia sola, benché autorevole, non basta. Può essere un’impressione di chi racconta, può essere qualcosa di passeggero, di momentaneo, che oggi c’è, ma ieri non esisteva e domani sarà sparito. E’ così? Proprio no. La paura c’era da tempo, non diminuì mai, aumentò e ne abbiamo le testimonianze, basta metterle insieme. Cominciamo. Il punto di partenza, l’inizio della paura appare nel Diario di Ciano quando, il 15 marzo 1939, lui e Mussolini appresero l’ingresso dei Tedeschi in Cecoslovacchia. Ne ho già fatto cenno. Adesso vediamo la cosa con più particolari. Stupefatti, chiaramente confusi e preoccupati, Duce e ministro degli Esteri si resero conto in quel momento che non potevano manipolare i Tedeschi per i propri fini come avevano creduto fino allora, ma che erano i Tedeschi a valersi degli Italiani per i loro. Nel pomeriggio, come riferisce Ciano, Mussolini disse che ormai conveniva: «[…] far buon viso al gioco tedesco ed evitare così di renderci “a Dio spiacenti ed ai nimici sui”». XCI L’indomani il Duce riparlò con Ciano, che scrisse: Egli ritiene ormai stabilita l’egemonia prussiana in Europa. E’ d’avviso che una coalizione di tutte le altre Potenze, noi compresi, potrebbe frenare l’espansione germanica, ma non più ributtarla indietro… Domando se in tale stato di cose convenga a noi stringere l’alleanza o non piuttosto mantenere la piena libertà di orientarci in futuro secondo i nostri interessi. Il Duce si dichiara nettamente favorevole all’alleanza. XCII Questa frase, forzandone un po’ il significato, potrebbe essere considerata prova di una certa paura nei confronti dei Tedeschi, ma per ora è preferibile ritenerla una fredda valutazione dei fatti e un programma di come trar vantaggio da una situazione spiacevole e impreveduta. 99


Poco tempo dopo questa conversazione fra Ciano e Mussolini, cominciarono ad arrivare notizie sull’atteggiamento dei Tedeschi attraverso vari canali. Il 27 marzo Ciano scrisse nel suo diario che Vittorio Emanuele III gli aveva detto che, secondo il principe Corrado di Baviera, a Monaco si parlava del Duce come del Gauleiter dell’Italia; il 18 agosto, cinque giorni dopo gli incontri di Salisburgo e Berchtesgaden, Ciano annotò che Mussolini: «[…] teme l’ira di Hitler. Pensa che una denunzia – o qualcosa di simile - del Patto [d’Acciaio] possa indurre Hitler ad abbandonare la questione polacca, per saldare il conto dell’Italia». XCIII Di nuovo occorre fare attenzione prima di considerare questa citazione come una prova della paura di Mussolini, da un lato perché potrebbe essere un’autodifesa di Ciano e dall’altro perché la guerra non era ancora scoppiata. Però, se messa in relazione con una fonte non sospetta, perché non bisognevole di giustificarsi davanti alla Nazione e alla storia – come Acerbo – diviene, come la precedente, una prova aggiuntiva di grande valore. Ce ne sono altre? Vediamo. Scoppiò la guerra e con essa aumentarono i problemi. Il 9 settembre 1939 Ciano accompagnò l’ambasciatore ungherese Villani dal Duce e riportò che Villani disse a Mussolini che, se la Germania avesse vinto la guerra, una minaccia terribile avrebbe pesato su tutto il mondo, inclusa l’Italia e aggiunse che a Vienna la gente cantava una canzone che diceva: “Quello che abbiamo lo teniamo stretto e domani andremo a Trieste.” L’odio antitaliano è sempre vivo nello spirito Tedesco, anche se l’Asse lo aveva per qualche tempo cloroformizzato. Il Duce ne è rimasto scosso. XCIV L’indomani, 10 settembre, Ciano accompagnò dal Duce Attolico, che confermò che «le grandi masse popolari, ignare dell’accaduto [cioé ignare dell’accordo fra Hitler e Mussolini per una non immediata entrata in guerra dell’Italia e del telegramma di conferma di Hitler, non pubblicato in Germania] cominciano già a dar segno di una crescente ostilità. Le parole tradimento e spergiuro ricorrono con frequenza». XCV Era un brutto segno di ciò che poteva arrivare dall’alleata e forse poteva convenire fare un cambio di campo. Dunque non c’è da stupirsi se il 30 settembre 1939 Mussolini, secondo Bottai, parlando delle riserve di carburante necessarie all’Esercito e all’Aeronautica aggiunse che finché non le avesse avute non sarebbe entrato in guerra: «Con chi e contro chi? Un cenno rapido: “finché queste riserve non ci saranno, non potremo impegnarci né col gruppo 100


A né col gruppo B” E’ ancora ammessa la possibilità di scelta fra i due rivali», commentò poi Bottai. XCVI Il 26 novembre Ciano annotò che lo Staathalter di Dresda aveva detto durante un banchetto, alla presenza del console italiano, che la Germania doveva temere più il tradimento degli amici che i nemici. Sentendo questo Mussolini si indignò. Il 6 dicembre Ciano riportò che Attolico aveva detto che la popolazione tedesca era sempre meno favorevole all’Italia, ma che si aspettava che questa entrasse in guerra nella primavera del 1940. Due giorni dopo, l’8 dicembre 1939, ci fu una lunga seduta del Gran Consiglio del Fascismo. L’argomento all’ordine del giorno era la posizione italiana. Per ordine di Mussolini Ciano espose dettagliatamente tutto quanto era successo fra Italia e Germania e tutti i trucchi e le slealtà dei Tedeschi fino a quel momento. Nel suo diario ne parlò brevemente, ma Bottai riportò che Mussolini disse: L’Italia? Dichiara la sua fedeltà ai patti (“non abbiamo d’altronde, anche un patto con l’Inghilterra?”) e attende gli eventi. Qui ci sono due imperi in lotta, due leoni. Non abbiamo interesse che stravinca nessuno dei due. Se vincesse l’Inghilterra non ci lascerebbe che il mare per fare i bagni. Se vincesse la Germania, neppure l’aria per respirare. Si può desiderare che i due leoni si sbranino, fino a lasciare a terra le code. E noi, caso mai, andremo a raccattarle. XCVII Il 23 dicembre Ciano convocò l’ambasciatore tedesco, von Mackensen, per chiedergli spiegazioni sul discorso tenuto dal vicesindaco tedesco di Praga, Pfitzner, che aveva detto che il Reich doveva prendersi l’intera Pianura Padana. Subito dopo von Mackensen fu richiamato a Berlino per istruzioni e, il 26 dicembre, Mussolini disse a Ciano di sperare che i Tedeschi avrebbero perso la guerra. Il 3 gennaio arrivò la risposta ufficiale germanica sul discorso di Pfitzner: i Tedeschi smentivano tutto, ma Ciano annotò nel suo diario che Attolico da Berlino confermava almeno in parte il discorso e i suoi contenuti. Poi, il 4 marzo 1940, Ciano scrisse: Accompagno dal Duce il Generale Marras, che è molto pessimista sullo stato d’animo tedesco nei nostri riguardi. Nonostante il rispetto formale, egli è convinto che i tedeschi mantengano intatti contro di noi odio e disprezzo, aggravati da quello che chiamano il secondo tradimento. Nessun obbiettivo di guerra sarebbe tanto popolare in Germania, per le vecchie e le nuove generazioni, quanto una calata in armi verso i cieli azzurri e i mari caldi. Queste ed altre 101


cose il Marras ha onestamente detto al duce che ne è rimasto scosso. XCVIII L’11 aprile 1940, dopo l’improvvisa svolta impressa all’andamento del conflitto dall’occupazione tedesca della Danimarca e dallo sbarco in Norvegia, secondo Ciano Mussolini disse: «Il Re vorrebbe che entrassimo solo per raccogliere i pots cassés [i cocci]. Basta che prima non ce li rompano in testa!» XCIX Chi erano questi “loro” che ce li avrebbero potuti rompere in testa? Ciano non lo dice, né riporta se Mussolini sia stato più chiaro in merito, ma, considerando la situazione del momento, è difficile pensare che “loro” fossero gli Alleati; non è più plausibile che si trattasse dei Tedeschi? Non si sa, ma, visto che l’Italia non era ancora entrata in guerra, sembrerebbe così. E’ vero che dopo il 18 agosto 1939 Ciano non scrisse più che il Duce temesse i Tedeschi, ma lo disse ad altri, o almeno a Bottai, il quale annotò che il 29 marzo 1940 Ciano gli aveva detto, riferendosi a Mussolini: «Una Germania vincente da sola lo spaventa». C Il problema è che messa così la dichiarazione non è facile da interpretare. Significa che Mussolini temeva che la Germania potesse agire contro l’Italia dopo aver trionfato all’Ovest, o più semplicemente, come nelle interpretazioni correnti, che se fosse arrivata alla vittoria da sola, senza l’aiuto italiano, la posizione diplomatica dell’Italia ne sarebbe uscita indebolita? Il dubbio resta, però c’è un’altra menzione della paura mussoliniana e la apprendiamo da Anfuso, all’epoca capo di gabinetto di Ciano. Anfuso scrisse che quando Mussolini seppe che Goering aveva chiesto al nuovo ambasciatore italiano a Berlino, Alfieri, la data dell’intervento italiano, disse a Ciano: […] se Goering ha parlato in quel modo, sembra chiaro che noi non possiamo tirarci indietro. Dopo la Francia, un giorno, potrebbe venire la volta nostra: e sarebbe il colmo aver firmato un Patto che si chiama d’acciaio, per essere invasi dalla Germania, trovarsi cioè dalla parte dell’incudine. CI E’ degno di nota che Ciano, se alla data del 26 maggio 1940 menzionò la richiesta di Goering nel suo diario, aggiungendo d’averla riferita a Mussolini, il quale stabilì d’entrare in guerra nella seconda settimana di giugno, non menzionò quanto riportato da Anfuso; ma perché? Perché omise un’opinione mussoliniana così importante mentre Anfuso la annotò? Siamo davanti a un’ulteriore omissione – e non di poco conto – da parte di Ciano. Se la prima, relativa al Gran Consiglio del 30 novembre del 1938 poteva essere un caso, se 102


la seconda poteva costituire una coincidenza, con questa ce n’è abbastanza da mettere in dubbio l’affidabilità di Ciano e da domandarsi se il ritratto che di Mussolini scaturisce dal suo Diario sia corretto o no. A questo punto, facendo un primo bilancio delle testimonianze sparse, si potrebbe dire già più che giustificata la supposizione di una paura dei Tedeschi e di una loro reazione, indipendentemente da ciò che potessero davvero avere in testa, come una delle ragioni per l’intervento in guerra. E’ vero che Acerbo è stato l’unico veramente affidabile che abbia testimoniato in merito, ma esistono altre due fonti primarie e una secondaria che meritano d’essere citate. La prima è nelle memorie del generale Roatta, che scrisse che Mussolini nel periodo della non belligeranza: […] considerava la possibilità, se non di scendere in campo dalla parte degli “Alleati”, almeno di dovere far fronte a qualche eccessiva pretesa e prepotenza germanica. Egli si rendeva perfettamente conto, allora, della mentalità tedesca e dei pericoli che essa poteva eventualmente rappresentare anche nei nostri confronti. In novembre ’39, quando ero rientrato da Berlino – dove ero addetto militare – per assumere la carica di Sottocapo di S.M. dell’esercito, Mussolini mi aveva chiesto che cosa pensassi delle future intenzioni del Reich rispetto ai Paesi occupati durante la Guerra, ed io gli avevo categoricamente risposto che, in caso di vittoria, il Reich avrebbe “annesso” in una forma o nell’altra, non solo i paesi occupati, ma anche gli Stati a lui associati, nessuno escluso, introducendovi ciò che si chiamava a Berlino “die deutsche Ordnung”, ossia “l’ordine tedesco”. Giudizio che il duce aveva accolto senza il minimo stupore. CII Questa testimonianza è importante ma non definitiva, visto che riguarda il novembre del 1939, per cui è meno importante, o se, si vuole, ha probabilmente avuto meno influsso sugli avvenimenti, di quanto detto da Marras in marzo, però, messa insieme alle altre, contribuisce molto al quadro generale, perché evidenzia una continuità: quanto detto da Roatta coincideva nella sostanza con ciò che Marras avrebbe riferito sei mesi dopo. La seconda fonte la fornisce il generale Emilio Faldella, nel suo L’Italia e la Seconda Guerra Mondiale, uscito la prima volta nel 1959. Veterano e decorato della Grande Guerra, Faldella fu nei servizi segreti dal 1930 al dicembre del 1937, periodo in cui fu, come sappiamo a capo della Missione Militare Italiana in Spagna mandata a Franco durante la Guerra Civile. Poi 103


comandò un reggimento nella campagna alpina del 1940, dal 1941 all’estate del 1943 fu allo Stato Maggiore del Regio Esercito e lo lasciò per assumere la carica di Capo di Stato Maggiore della 6ª Armata in Sicilia. Dopo l’armistizio, fu riassorbito dai servizi segreti e venne impiegato nell’Italia del nord, dove fu al tempo stesso intendente generale dell’Esercito Nazionale Repubblicano e capo di una rete partigiana attiva nel nordest. Generale di divisione dopo la guerra, fu promosso al grado di corpo d’armata nella riserva. Si trattava, insomma, di un ufficiale che conosceva dall’interno uomini, cose e segreti e nessuno dei suoi lavori è stato mai contestato. Ebbene, Faldella scrisse esplicitamente tre volte in tre pagine del primo capitolo del suo libro che Mussolini nel 1939-40 temeva una vendetta o una rappresaglia tedesca. Riferì infatti che l’11 maggio 1940, dopo aver ricevuto il messaggio datato 9 che gli annunciava l’attacco tedesco alla Francia, Mussolini […] rivelò a Sebastiani 12 il suo intimo sentimento: “Se continueremo con la neutralità che molti vorrebbero, anche a noi toccherebbe un bel telegramma di sdegno del Papa da sventolare davanti ai tedeschi occupanti!”. Il timore della vendetta tedesca si accentuava col trascorrere del tempo. CIII La seconda menzione della paura mussoliniana è fatta da Faldella, riportando la già citata testimonianza di Anfuso: […] se Goering ha parlato in quel modo, sembra chiaro che noi non possiamo tirarci indietro. Dopo la Francia, un giorno, potrebbe venire la volta nostra: e sarebbe il colmo aver firmato un Patto che si chiama d’acciaio, per essere invasi dalla Germania, trovarsi cioè dalla parte dell’incudine. CIV La terza è invece un’opinione di Faldella stesso, che scrisse: «Più si profilava l’eventualità della vittoria germanica, più Mussolini temeva la vendetta di Hitler». CV Qui abbiamo due problemi. Il primo è che quest’ultima valutazione, come ho detto, sembra essere dello stesso Faldella, però chiunque abbia avuto a che fare con la storia militare italiana sa che affidabilissimo e scrupoloso storiografo sia stato, per cui si può pensare che abbia parlato a ragion veduta e abbia riportato qualcosa che, grazie ai suoi incarichi d’ufficio, sapeva con certezza. Il secondo problema riguarda la citazione di Sebastiani. Sfortunatamente come era normale all’epoca, Faldella non citò la fonte nel suo 12

Come è noto, Osvaldo Sebastiani fu il segretario personale di Mussolini dal 1934 al 1941.

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libro. Ora, poiché Sebastiani scomparve misteriosamente nel 1944, quando persone non note andarono a prenderlo a casa, sarebbe assai interessante sapere da dove Faldella abbia attinto questa informazione. Non è possibile e l’unica cosa che possiamo dire è che, conoscendo l’affidabilità e serietà di Faldella, la fonte doveva essere stata vagliata attentamente e giudicata valida, per cui la si può accettare senz’altro. Gran finale: l’opinione pubblica. Si è sempre detto che non ce ne fosse, che non esistesse, che fosse stata anestetizzata e uccisa dal Fascismo; invece c’era e Mussolini ne faceva gran conto. Gli informatori erano sparsi dappertutto, erano le persone più insospettabili, sentivano molto e riportavano tutto. Ai loro rapporti si sommavano le intercettazioni telefoniche e ogni giorno il Duce veniva informato e si faceva un quadro completo della situazione, dagli umori dei gerarchi più importanti alle opinioni berciate nelle osterie di paese. E che veniva dall’opinione pubblica? Ce lo dice il prefetto Guido Leto, allora a capo della Direzione della polizia politica, la temutissima OVRA: “La sonnecchiante se pur vigile opinione pubblica ricevette una sferzata coll’inizio della campagna tedesca in Francia nella primavera del 1940. La stupefacente marcia dell’esercito tedesco, effettuata in pochissime settimane, la liquefazione dell’esercito francese, dopo la sparizione di quelli olandese e belga, la precipitosa ritirata degli inglesi a Dunkerque determinarono un senso di sbigottimento e dettero inizio ad un curioso stato d’animo che da cronista fedele raccolsi e che ho il dovere di riferire. I nostri informatori segnalarono, prima sporadicamente, poi con maggiore frequenza ed ampiezza, uno stato di timore – che andava diffondendosi rapidamente – che la Germania fosse sul punto di riuscire a chiudere assai brillantemente e da sola la tremenda partita e che, di conseguenza, noi – se pure ideologicamente alleati – saremmo rimasti privi di ogni beneficio per quanto aveva tratto colle nostre aspirazioni nazionali. Che, a causa della nostra prudenza – di cui veniva attribuita la responsabilità a Mussolini – saremmo stati, forse, anche puniti dal tedesco e che, quindi, se ancora in tempo, bisognava bruciare le tappe ed entrare subito in guerra. Il tema – fu accertato con sicurezza – era inizialmente polemico, doveva servire a scrollare la fiducia in Mussolini e faceva parte di quegli argomenti che, giorno per giorno, venivano messi in giro dagli antifascisti a scopo di propaganda. 105


Ma, polemico o meno, era terribilmente suggestivo sicché, in breve, pervennero alla Direzione generale della P.S. una valanga di informazioni, da tutti i settori che ripetevano il leit motiv e che segnalavano il dilagare pauroso di questo sentimento materiato dalla preoccupazione di “arrivare tardi”. Più vivace ed incisiva la critica partiva dagli ambienti antifascisti, ma si può coscienziosamente affermare che pochi si sottrassero a questa frenetica spinta all’intervento. E giunse anche, in forma indistinta, data la riservatezza tradizionale dell’ambiente da cui partiva, l’eco di giudizi – concordi con quelli che ora manifestava la pubblica opinione – del Re, che secondo l’informazione, al cruccio del Capo dello stato – per il temporeggiare del suo primo ministro che rischiava di arrivare a tavola sparecchiata – aggiungeva quella di Capo di casa Savoia che vedeva sfumare l’agognata annessione della terra dei suoi avi. Pochissime voci, e non certo di politicanti delle due parti avverse e con debolissimi echi nel paese, si levarono ad ammonire sulle tremende incognite che la situazione presentava. … mi pare che sia elemento non trascurabile, anche se non consacrato in atti ufficiali, la formidabile spinta che l’opinione pubblica, sia pur mossa da cause diverse, in tutti i suoi strati ed in forma quasi totalitaria, esercitò sulle decisioni di Mussolini, deviata da un’apparenza che aveva quasi le forme di una realtà indiscutibile. Sarebbe ardito affermare che il fenomeno segnalato sia stato causa determinante dell’entrata in guerra dell’Italia, ma fra le cause concorrenti e fra le più specifiche esso è certamente da annoverare, sicché le responsabilità delle decisioni del 10 giugno vanno equamente divise fra corona, governo e popolo. Come nell’agosto del 1939 la polizia rilevò e riferì il quasi unanime dissenso del paese verso un’avventura bellica, così nella primavera del 1940 essa segnalò il rovesciamento della pubblica opinione presa da un ossessionante timore di arrivare tardi. E nel primo e nel secondo tempo operò come un termometro: non determinò, né influenzò, né menomamente alterò la temperatura del paese, ma semplicemente la misurò.” CVI Anche ammettendo – ed è da dimostrare - che Leto abbia mentito e cioè che il Paese non volesse la guerra, per cui i rapporti sottoposti dall’OVRA a Mussolini fossero falsi, ci troviamo davanti a un ulteriore elemento assai 106


influente: la polizia politica riferiva che il Paese temeva che “saremmo rimasti privi di ogni beneficio… a causa della nostra prudenza…”, che “saremmo stati, forse, anche puniti dal tedesco e … quindi … bisognava… entrare subito in guerra.” Vale la pena di ripeterlo: che Leto abbia detto la verità, e dunque che la gente volesse la guerra, o che abbia mentito falsando il sentimento pacifista dell’opinione pubblica, a Mussolini arrivò sul tavolo che il paese voleva l’intervento e di questo dové tener conto: gli Italiani temevano l’eventualità di perdere i vantaggi di una facile vittoria e paventavano una possibile rappresaglia tedesca, né più né meno di lui stesso. Dunque, tornando ad Acerbo e a quanto ha scritto, si vede che tutto ciò che riporta è vero e verificabile attraverso varie altre fonti, incluso il diario di Ciano, e i fatti accaduti: vero – e lo abbiamo visto anche in Ciano – che in Austria e Germania si parlasse apertamente, dal basso fino al livello di Gauleiter, di riprendere Trieste e il Friuli; vero che il Reich – e lo scrisse Goebbels nel suo diario e lo confermò Speer nelle sue memorie – mirasse a far scendere il suo confine a sud di Venezia, cioè a riprendere almeno una parte dell’ex-Lombardo-Veneto, vero, infine, che nonostante gli accordi presi per il trasferimento degli Altoatesini che avevano optato per la Germania, i Tedeschi avessero cominciato a tirar fuori un ostacolo e un cavillo dopo l’altro fin dall’autunno del 1939, tanto da far prospettare un allungamento a tutto il 1942 dei tempi previsti, in origine assai più brevi. Verificate e vere le premesse, la deduzione non sembra altro che una: Mussolini entrò in guerra per paura di quanto avrebbe potuto fare la Germania dopo. C’era una Germania che stava schiacciando tutti gli avversari; c’era l’astio del popolo tedesco, irritato dal “secondo tradimento” del mancato intervento italiano e aizzato dall’omessa pubblicazione del famoso telegramma di Hitler; c’era un potenziale e concreto casus belli quanto all’Alto Adige; c’erano strani movimenti tedeschi vero il lato est del Vallo alpino del Littorio e non c’era nessuno a cui chiedere aiuto. C’era o no abbastanza da aver paura? C’era. E come si potevano evitare i guai? Entrando in guerra; e fu la guerra.

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DOPO

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Capitolo 15 10 giugno 1940: ordine di non attaccare

Il 30 maggio il Duce scrisse al Führer preannunciandogli la propria partecipazione al conflitto e, il 10 giugno 1940 pronunciò il discorso famoso, che terminava con: “Popolo italiano, corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore.” CVII Cominciava l’ultima guerra del Regio Esercito Italiano; e cominciava coll’ordine di non sparare: atteggiamento difensivo su tutti i fronti, meno in Africa Orientale e sul mare. A tutt’oggi l’unica spiegazione plausibile di quest’ordine assurdo, che in quei frangenti era a dir poco criminale, sembrava essere quella fornita da Pierpaolo Battistelli nel suo articolo “I rapporti militari italo-tedeschi 1940-1943”. Secondo Battistelli, consci dell’impreparazione italiana, i vertici militari nazionali avrebbero deciso di muoversi solo se e quando i Tedeschi si fossero mossi. In questo modo avrebbero sfruttato l’indebolimento nemico dovuto alla concentrazione di risorse contro i Tedeschi e sarebbero apparsi come attivi belligeranti agli occhi dell’alleato, raggiungendo il massimo risultato col minimo sforzo. Non è possibile riassumere qui compiutamente le tesi di Battistelli, ma resta il fatto che gli esempi da lui illustrati suonavano quanto mai convincenti e io stesso li presi per buoni e adottai nel mio Gli Italiani in armi del 2002 e in Capitani di Casa Savoia nel 2008: l’attacco alla Francia avvenne solo quando la Germania l’aveva battuta; alla pausa operativa tedesca dell’estate 1940, fece eco l’inazione italiana in Africa Settentrionale, dove le cose si mossero soltanto quando i Tedeschi cominciarono a pianificare l’operazione “Leone Marino” per conquistare l’Inghilterra; idem per la Grecia. Ogni volta che i Tedeschi si muovevano poteva essere quella decisiva per la fine vittoriosa del conflitto; e l’Italia doveva farsi trovare impegnata quel tanto che bastasse a dire che anch’essa aveva combattuto lealmente e godeva il diritto di sedersi al tavolo dei vincitori. Non si poteva perdere una simile occasione: bisognava esserci e, per riuscirci, bisognava far finta d’aver combattuto. Quanto ho esposto fino qui, dovrebbe indicare piuttosto chiaramente cosa penso ora: che Mussolini entrò in guerra anche, e forse “soltanto”, per paura 111


dei Tedeschi e che cercò di combattere il meno possibile perché temeva lo scontro con loro dopo e voleva conservarsi le forze per affrontarlo. Questo, in fondo, si allaccia all’idea di Caviglia e Battistelli, con la differenza che loro ritennero la conservazione della forze fine a sé stessa e dettata dalla loro carenza; io vado più in là e dico: le si doveva conservare per l’eventuale scontro successivo con la Germania. Con che cosa l’Italia entrò in guerra? Il 10 giugno il Regio Esercito era diviso nei tre Comandi di Gruppo d’Armate, Ovest, Est e Sud e nei Comandi Superiori dell’Africa Orientale, della Libia e dell’Egeo. In totale esistevano nove armate, composte da 26 corpi d’armata, articolantisi su 75 divisioni, 28 brigate coloniali e reparti minori. Più precisamente: una divisione, la Regina, era nell’Egeo; cinque, raggruppate nel XXVI Corpo d’Armata, dipendente direttamente dallo S.M.R.E., erano in Albania; 14 (nove di fanteria, tre di camicie nere e due libiche) in Libia formavano i corpi d’armata X, XX e XXI delle armate 5ª e 10ª; due, una speciale, la Granatieri di Savoia, ed una in via di formazione, la Africa, con 28 brigate coloniali ed unità minori costituivano la guarnigione dell’Africa Orientale. Le rimanenti 53 erano stanziate in Italia e precisamente: due in Sicilia, due in Sardegna e 49 ed un raggruppamento da montagna nella Penisola, a formare le armate 1ª, 2ª, 3ª, 4ª, 7ª 8ª e quella detta “del Po”, in via di costituzione. In totale 1.746.010 13 uomini, 199.973 14 dei quali nell’Impero. La Regia Marina aveva sei corazzate più due in costruzione, 30 incrociatori e 62 caccia, 73 torpediniere, 122 sommergibili, due navi scuola e 343 unità minori e ausiliarie. La Regia Aeronautica allineava 1.569 aerei, cioè 995 bombardieri e 574 caccia, senza contare i ricognitori e i trasporti, questi ultimi messi insieme attingendo alle linee aeree civili. In che condizioni? Buone quelle della Marina, un po’ penalizzata dalle non grandi scorte di carburante; non ottime quelle dell’Aeronautica, la cui linea di volo caccia era antiquata, ma non tanto peggiore di quelle alleate di allora, mentre mancavano i bombardieri pesanti e non esistevano gli aerosiluranti. Quanto all’Esercito, il rapporto di Graziani l’abbiamo già visto e non occorre 13

Cfr. Virgilio ILARI, Storia del servizio militare in Italia, vol IV. Nel totale sono incluse la Milizia, la Milizia Contraerea, la Polizia dell`Africa Italiana, la Regia Guardia di Finanza oltre, naturalmente, i Reali Carabinieri. 14 Fonte: come sopra; però bisogna far presente che, secondo l’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, i militari italiani ed indigeni in A.O.I. sarebbero stati 280.000 al 10 giugno del`40. Siccome la pubblicazione di Ilari, in quanto edita dal Centro Alti Studi della Difesa, può anch’essa essere considerata ufficiale, ma posteriore e più dettagliata, riporto i suoi dati ritenendoli più precisi.

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tornarci su. Magari, per dare un’idea possiamo soffermarci sulle condizioni dell’Africa Orientale. Secondo De Biase, l’A.O.I. al giugno del 1940 disponeva di 16.000 veicoli, di cui (1.625 autocarri), 984 cannoni, 275 mortai, 3 milioni e mezzo di proiettili, 4.000 mitragliatrici pesanti, 5.000 leggere, 672.800 fucili, 1.075.000 bombe a mano e ben 16 milioni e mezzo di cartucce. Ci limitiamo ad osservare che tali cifre, certamente impressionanti in assoluto, diventano ridicole se messe in relazione alla forza mobilitata. Infatti, data la forza di 324.000 uomini, si ha: un autocarro ogni 199 uomini, cioè si e no uno per compagnia (gli altri veicoli non sono rilevanti in una guerra). Per ogni soldato: 3 bombe a mano e 50 cartucce. Se poi dal monte cartucce ne deduciamo anche solo 200 per ogni mitragliatrice, la dotazione individuale, e non facendo le necessarie differenze fra cartucce da pistola e da fucile, scende a 45 a testa, senza la possibilità di ricevere rifornimenti dalla Madrepatria. Tre bombe a mano e 45 colpi a testa per la durata d’un’intera guerra. Una follia? Un rischio calcolato? O una necessità? E comunque poteva pure funzionare, perché nel maggio del ‘40 nessuno pensava che la guerra sarebbe durata più di sei mesi. Lo stesso Hitler cominciò a dubitarlo solo in luglio.

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Capitolo 16 L’armistizio con la Francia: la Germania offre tutto e l’Italia non prende niente, perché?

Fra timore di rappresaglie e altro, abbiamo detto che ce n’era a sufficienza perché Mussolini decidesse per la guerra. Sempre Acerbo riferisce d’aver saputo da Graziani durante il comune periodo di detenzione a Procida, dopo il conflitto: […] di un rapporto tenuto da Mussolini il 10 aprile ai comandanti di armata (fra i quali era anche il Principe di Piemonte) e di corpo d’armata, nel quale egli annunziò riservatamente che l’Italia sarebbe entrata in guerra, specificando “non con la Germania né per la Germania, ma a fianco della Germania.” CVIII Commentava subito dopo Acerbo che quella era: «Una di quelle allitterazioni tanto a lui dilette con i cui bisticci era convinto negli ultimi suoi anni di sgrovigliare qualsiasi intricata faccenda, di rovesciare ogni ostacolo e di superare le più ripide posizioni!» CIX Acerbo lo conosceva bene dal 1921 e parlava a ragion veduta; ma bisogna ammettere che la frase si prestava a un’interpretazione non tanto distante dall’ipotesi d’un’entrata in guerra per paura della Germania: non alleati al Reich, non a vantaggio del Reich, ma a fianco del Reich e – si potrebbe aggiungere – per non dare al Reich il pretesto per attaccarci in seguito. Ultimo dato che potrebbe andare a sostegno di questa ipotesi e che forse non è il meno rilevante, è la spiegazione della minima estensione dell’occupazione italiana in Francia. Si sa benissimo come andarono le cose sulle Alpi e che non vi fu alcun tentativo offensivo contro i territori francesi in Africa, né contro la Corsica. E’ noto che la Francia fece ben poco contro l’Italia e si sa che Roma si contentò di 83.271 ettari, cioè 832 chilometri quadrati e tre quarti. Questo è decisamente poco, specie se si pensa che nell’incontro italo-tedesco di Monaco del 19 giugno 1940 Hitler non solo aveva riconosciuto agli Italiani il diritto d’occupare la Corsica, la Tunisia, Gibuti e la Francia continentale fino al 115


Rodano, ma anche suggerito d’allargare l’occupazione italiana con una fascia lungo il confine svizzero, così da isolare la Francia di Vichy e collegarsi alla zona d’occupazione tedesca. CX Come gli era venuta l’idea? Dagli Italiani. A Monaco, mentre Hitler incontrava Mussolini, Ciano l’aveva detto a Ribbentrop e poi riportò: “In primo luogo von Ribbentrop mi ha parlato dell’armistizio con la Francia. Ha detto essere intenzione del Führer evitare di porre ai francesi condizioni tali da non dare appiglio a un rifiuto di concludere i negoziati e di trasferire il governo Pétain in Inghilterra o in Algeria ove potrebbe “proclamare la guerra santa” e continuare per un tempo non precisabile le ostilità. In particolare egli si preoccupava della flotta francese, elemento inafferrabile, e che certamente piuttosto di consegnarsi al nemico passerebbe all’Inghilterra o in America donde potrebbe nuovamente tornare in gioco al momento opportuno. ” CXI Attenzione: queste righe sono state sempre artatamente e implicitamente adoperate per spiegare perché l’Italia occupò solo i famosi 832 chilometri quadrati e tre quarti, ma se ci si limita ad esse si cade in inganno. Lo stesso anonimo curatore della pubblicazione dei verbali di Ciano, preparata nel 1947 e avvenuta nel gennaio 1948, si ingannò, perché aveva sotto gli occhi le richieste di Ciano, sapeva cosa l’Italia aveva poi occupato, ma non conosceva le memorie di Acerbo e Roatta, poiché le seconde uscirono si nel 1948, ma dopo gennaio, mentre le prime sarebbero apparse solo nel 1968, per cui, probabilmente nella più totale buonafede, introducendo questo verbale dell’incontro Ciano-Ribbentrop del 19 giugno, il curatore imbrogliò le carte asserendo che: “Mussolini pensava a condizioni durissime, che contemplavano, tra l’altro, l’occupazione della Tunisia e della Corsica e la consegna di tutta la flotta. Ma la Germania sola aveva vinto in campo…. Hitler poi vedeva diversamente da Mussolini la soluzione del problema francese, in funzione degli interessi tedeschi, che non erano quelli nei quali credeva, per l’Italia, Mussolini.” CXII Ricordiamoci questa interpretazione, andiamo avanti e avremo una sorpresa, una grossa sorpresa. Dopo aver parlato delle possibilità nei confronti dell’Inghilterra e della disponibilità del Führer di trovare un’intesa con essa, Ribbentrop disse che se Londra avesse scelto la pace, Hitler sarebbe stato lieto 116


di poter collaborare alla ricostruzione di un’Europa nella quale l’ordine e la pace fossero assicurati per la durata di alcune generazioni. Continuò Ciano: “Devo aggiungere, a questo punto, che von Ribbentrop si è espresso in termini assolutamente nuovi nel suo linguaggio: ha parlato del bisogno di pace della umanità, della necessità di ricostruzione, del bisogno di riavvicinare i popoli, che la guerra ha così separati, in una convivenza armonica. Gli ho posto nettamente il quesito: la Germania in questo momento preferisce la pace o la prosecuzione della guerra? Senza esitare, Ribbentrop ha risposto: “La pace”. Siamo quindi venuti a parlare delle aspirazioni italiane. Egli mi ha chiesto che cosa noi reclamavamo dalla Francia. Premettendo che parlavo a titolo puramente personale, riservando ogni richiesta formale al Duce, ho detto che consideravamo richieste minime: Nizza, la Corsica, la Tunisia, la Somalia francese. Ho escluso la Savoia, che, essendo al di fuori della cerchia alpina non viene da noi considerata territorio italiano, mentre si considera territorio nazionale tutto quanto è compreso nella cerchia alpina. Ribbentrop ha sottolineato con molto interesse questa enunciazione di principio. Ho anche parlato dell’Algeria e del Marocco facendo presente il bisogno italiano di avere uno sbocco all’Oceano. Per quanto concerne le prime richieste, Ribbentrop ha detto che, a suo avviso, il Führer è completamente d’accordo. Per quanto riguarda invece l’Algeria e il Marocco non si è pronunciato. Mi ha domandato quale effettivo interesse e quale eventuale diritto noi si vanti sull’Algeria. Ho risposto ricordando il lavoro italiano colà compiuto particolarmente in alcuni centri e facendo rimarcare l’interesse politico e strategico che all’Italia venga assegnata una così lunga zona litoranea dell’Africa del Nord. Comunque ho rivendicato il diritto tunisino nella rettifica di frontiere per includere la zona mineraria (ferro, fosfati). Per quanto concerne il Marocco, Ribbentrop ha fatto un breve cenno alle ormai storiche ambizioni germaniche nei confronti di tale territorio e si è dilungato a parlarmi delle rivendicazioni spagnole nei confronti del Marocco francese. Egli ha aggiunto che nell’Europa ricostituita dopo la pace, l’Italia e la Germania dovranno rappresentare i gendarmi dello stato di fatto che verrà creato: se all’Italia e alla Germania verrà aggiunta anche una 117


Spagna soddisfatta, custode dell’ordine, per lunghissimo tempo in nessuna situazione potrà venire modificato il futuro status quo europeo. …Ribbentrop non ha dato precisazioni circa le rivendicazioni coloniali germaniche. Ha detto che il Reich rivendica tutte le sue colonie, che considera il Congo Belga politicamente ed economicamente necessario al completamente dell’Impero coloniale germanico, ha accennato anche, ma in forma non precisa, alla richiesta di altri territori coloniali francesi nell’Africa Occidentale. …Niente Ribbentrop ha detto per quanto concerne il futuro assetto continentale europeo: tranne che è desiderio germanico che venga conservato lo statu quo nella regione danubiano-balcanica… ” CXIII Questa è la sorpresa: l’indomani, 20 giugno, i Tedeschi offrirono all’Italia quello che il giorno prima proprio l’Italia aveva chiesto per bocca del suo ministro degli Esteri; niente di meno, molto di più. In effetti, la lettura di questo verbale, preceduta da quella delle su riportate righe d’introduzione del curatore del 1948, inganna il lettore, facendogli credere che l’Italia chiese molto e i Tedeschi non le diedero nulla, perché essa aveva combattuto poco e non aveva vinto. Ma non è così, non è assolutamente così. Se proviamo a mettere questo verbale nel contesto che vedremo delineato da Roatta nelle sue memorie, ci accorgiamo che ci si inserisce perfettamente, senza una sbavatura; e la successione degli avvenimenti lo dimostra. Ricapitoliamo con ordine. Il 19 giugno 1940 Ribbentrop chiede a Ciano cosa vuole l’Italia e Ciano domanda Nizza, la Corsica, la Tunisia e la Somalia francese, aggiunge l’Algeria e il Marocco, ma non come condizione necessaria, ed esclude la Savoia. Ribbentrop prende nota. Con un linguaggio tipicamente diplomatico insinua che sarà assai utile una Spagna soddisfatta, si oppone garbatamente al solo Marocco e dice che, secondo lui, sul resto Hitler è d’accordo. Dunque, è la Germania a chiedere all’Italia cosa vuole, implicitamente riconoscendola belligerante a pieno titolo e su un piede di parità; non è l’Italia a farsi avanti di sua iniziativa, pretendendo cose su cui l’alleata non le riconosce alcun diritto. L’indomani – lo sappiamo da Roatta – Hitler riconosce agli Italiani il diritto d’occupare la Corsica, la Tunisia e Gibuti – cioè la Somalia francese – e non la sola Nizza, ma tutta la Francia continentale fino al Rodano e suggerisce che gli Italiani si allarghino lungo il confine svizzero – prendendosi quindi pure la Savoia – per isolare Vichy e collegarsi alla zona 118


d’occupazione tedesca. Offre mezza Algeria, perché il resto se lo riserva per la Spagna, come Ribbentrop ha molto indirettamente detto il giorno prima parlando di una Spagna soddisfatta, e non menziona il Marocco. In altri termini: ventiquattr’ore dopo che Ciano ha esposto i desideri dell’Italia, Hitler glieli soddisfa uno dopo l’altro, con le sole eccezioni, parziale una, totale l’altra, dei due punti – Algeria e Marocco – su cui peraltro Ribbentrop si era già pronunciato. Dove sta il diniego tedesco all’occupazione italiana che praticamente tutti gli storici di ogni Paese, copiandosi, hanno sbandierato nei loro libri dal 1945 in poi? Da quando la soddisfazione di un desiderio è un rifiuto o un diniego? Non basta. Hitler si dimostrò favorevole all’estensione della zona italiana fino alla Saona ed accettò l’idea d’includervi una ferrovia di buona capacità, che quello stesso 20 giugno il generale Roatta indicò nella linea Chambéry – Digione – Bourg-en-Bresse. Non solo: sempre Hitler approvò personalmente pure il progetto di concedere all’Italia un’altra ferrovia che la collegasse alla Spagna, come la Avignone-Nîmes-Perpignano, allargando in conseguenza la zona d’occupazione italiana nella Francia Meridionale. Questo è assai differente da quanto è normalmente noto e la cui fonte dovrebbe essere la minuta scritta dall’interprete Schmidt e che delle carte tedesche sembra essere l’unica che s’è salvata. Ma la lettura le carte italiane, che esistono ancora e sono state consultate nella preparazione delle due relazioni ufficiali CXIV sulla campagna alpina e sull’occupazione, rendono chiaro che quanto riportato da Schmidt non si regge, mentre quanto asseriscono loro si, non fosse che per i riscontri incrociati con le memorie di Roatta e il libro dei verbali di Ciano. L’unico punto in comune fra le carte italiane e la minuta di Schmidt è quello navale: tutte concordano nel riportare che Hitler pregò Mussolini di non esigere la flotta francese, giustificandosi col timore che in quel caso si sarebbe consegnata agli Inglesi; e del resto troviamo la stessa cosa nel verbale dell’incontro fra Ciano e Ribbentrop del 19. Se questa della flotta era davvero l’unica condizione, allora perché Mussolini non accettò quanto Ciano e Roatta erano stati capace di ottenere e i Tedeschi pronti a concedere? Per la pessima figura fatta sulle Alpi dall’Esercito, si dice di solito. Ma ancora il 23 giugno, cioè il giorno dopo la firma dell’armistizio franco-tedesco il 22 e prima della firma di quello francoitaliano il 24, l’addetto militare tedesco von Rintelen avrebbe consegnato a Roatta un telegramma personale di Hitler, il quale chiedeva che le truppe italiane si portassero a 20 chilometri da Ginevra, in modo da unirsi alle forze tedesche; e lo chiedeva un giorno “prima” delle discussioni armistiziali francoitaliane, cioè in tempo perché quella richiesta venisse inserita fra le condizione 119


d’armistizio da imporre ai Francesi. Ancora: pure gli accordi italo-tedeschi presi poi a Wiesbaden il 29 giugno lasciavano all’Italia il territorio francese fino al Rodano E allora, se i Tedeschi davano tutto, perché limitarsi a 843 chilometri quadrati, se davvero tanta era la smania mussoliniana di conquiste? La versione data da Roatta nel suo libro è chiara: Hitler aveva accondisceso a cedere ampie parti del territorio metropolitano francese, della Corsica, della Tunisia e di parte dell’Algeria, riservando il resto – ma questo non lo disse – alla Spagna come incentivo a farla entrare in guerra; e fu Mussolini a rifiutare. Mussolini però, a fine giugno 1940, ad Acerbo – richiamato come colonnello di complemento di Stato Maggiore sul Fronte Occidentale – che gli chiedeva «come mai l’Italia non avesse preteso altri pegni dalla Francia, e più che sui territori metropolitani su quelli coloniali mediterranei», CXV aveva risposto sgarbatamente: «La vostra aquila lucente vi fa dimenticare che in questa faccenda non sono stato io solo a decidere». CXVI Sembrava dunque esserci stata un’opposizione di Hitler, almeno così credette Acerbo; e la stessa idea si fecero al quartier generale del Gruppo Armate comandato dal Principe Umberto: allora perché Roatta diede una differente versione? Ma pure in questo caso, a ben vedere, la frase mussoliniana era così generica che poteva voler dire tutto e niente. Non si parlava di Hitler, non si faceva nessun nome; poteva anche voler semplicemente significare che il Duce non era stato libero di decidere e poteva essere una scusa per evitare di dare spiegazioni troppo complesse e in ultima analisi pericolose se riferite. D’altra parte, non solo Roatta non aveva alcuna ragione di mentire nella stesura del suo libro, ma l’onnipresente Acerbo raccontò che, scontento della risposta ricevuta da Mussolini e sempre più stupito dalla sciocchezza strategica di non aver preso il Nord Africa francese, proprio a Roatta aveva chiesto spiegazione incontrandolo a Sussak nell’ottobre del 1942, poco prima dello sbarco alleato ad Orano: «ed egli, considerata la mia duplice speciale posizione politica e militare, accondiscese a confidarmi che la verità era tutt’all’opposto, e quanto allora mi disse l’ha confermato categoricamente nel suo libro». CXVII Poiché nell’ottobre 1942 Roatta poteva anche aver preso in considerazione di scrivere un libro dopo la guerra, ma certo non poteva prevedere né, che l’avrebbe fatto Acerbo venticinque anni dopo, riportandovi quanto detto a Sussak, né che nel 1948 sarebbero stati pubblicati i verbali del convegno di Monaco tra Ciano e Ribbentrop che avrebbero confermato la sua chiacchierata con Acerbo, quanto lui disse e poi scrisse dev’essere assolutamente vero: fu Mussolini a rifiutare. Ma il motivo di questo rifiuto mussoliniano allora quale fu? Ce lo dice la relazione ufficiale sull’occupazione, CXVIII che sottolinea un 120


aspetto già rimarcato da quella sulla campagna alpina: CXIX quando Mussolini chiese a Roatta quanti uomini servissero a presidiare la zona occupata, la risposta fu: 15 divisioni fino alla fine del disarmo francese, poi mai meno di dieci; al che il Duce replicò che avrebbe chiesto alla Francia solo quanto era stato effettivamente conquistato. Come entrambe le opere sottolineano, nel giugno 1940 per il Regio Esercito 15 divisioni significavano una ogni 3,5 di quelle nella Penisola: assolutamente troppe. Entrambe suggeriscono che Mussolini abbia deciso così perché aveva già in mente altre conquiste. Sia pure, ma non esiste uomo la cui decisione sia presa in base a un solo fattore, per cui nulla vieta che, ammesso e non concesso che davvero avesse già in mente altri impegni, come la Grecia, questa possa essere un’altra ed altrettanto valida dimostrazione del suo desiderio di tenere le truppe italiane lontane dai Tedeschi e sottomano, per poterle usare subito senza difficoltà in caso di guai.

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Capitolo 17 La Guerra Parallela

La prima campagna di quella guerra “non con la Germania né per la Germania, ma a fianco della Germania” e che poi sarebbe stata definita “La Guerra Parallela” andò malissimo, né chiunque abbia un minimo d’esperienza militare può stupirsene. Gli ordini erano di stare sulla difensiva, i piani appena fatti prevedevano la difensiva, la disposizione delle truppe era quindi difensiva, cioè in profondità, con le artiglierie pesanti a sbarrare le vie di facilitazione dalle Alpi verso l’Italia, non a battere quelle dalle Alpi verso la Francia per aprire la strada alla penetrazione. Passare dallo schieramento difensivo, in profondità, a quello offensivo, proiettato in avanti, non si può fare in poco tempo. Occorre spostare di chilometri i cannoni e i rincalzi, i depositi di carburante, viveri e munizioni di primo, secondo e terzo anello, i magazzini e gli ospedali, i centri di rifornimento e gli autoparchi. Servono giorni e giorni, mentre il Gruppo Armate Ovest si sentì ordinare l’attacco alla Francia all’improvviso il 21 giugno, tanto per arrivare all’armistizio franco-tedesco dell’indomani e a quello franco-italiano del 24 facendo vedere che si combatteva. Andò come era logico che andasse. L’artiglieria era troppo indietro per poter proteggere l’avanzata, i depositi e i magazzini troppo indietro per alimentarla; fu un inconcludente e inglorioso pasticcio. Fu l’inizio della guerra parallela e a chi aveva la testa per pensare fece capire che, essendo improntata a criteri di risonanza politica e propagandistica anziché a criteri militari professionali, difficilmente avrebbe avuto successo. Ma una guerra le cui azioni erano scelte e portate avanti per motivi politici e di propaganda, una guerra che le Forze Armate italiane dovevano condurre prive di mezzi e coi magazzini e i depositi semivuoti, che lo Stato italiano, senza soldi, non poteva pagare né alimentare, una guerra che si voleva fare indipendentemente dai Tedeschi e nonostante queste tragiche condizioni era qualcosa che Mussolini poteva permettersi? In effetti ci si scorda spesso di collocare certe decisioni e le conseguenti azioni nel loro contesto. In altre parole: quando Mussolini decise di fare la Guerra Parallela, poteva ragionevolmente considerarla un’opzione o no? 123


La risposta, paradossalmente, è “Si”, poteva. In primo luogo bisogna ricordare come Hitler stesso non fosse apparso troppo desideroso di avere gli Italiani al proprio fianco nelle sue campagne di guerra. Prima dell’attacco alla Polonia, in agosto, sia Ribbentrop che lui avevano suggerito a Ciano di attaccare la Jugoslavia – definita da Hitler “infida” – per liquidare i contenziosi sulla Croazia e la Dalmazia. Nel corso del secondo colloquio, il 13 agosto 1939, il Führer aveva anche detto che: “L’Italia, che invece è per la sua posizione geografica la Nazione dominante nel Mediterraneo, dovrà sulle sponde di questo mare affermare e allargare il suo impero. Non vi sono possibilità di contrasto fra i due imperialismi.” CXX Questo, unito a tutto l’atteggiamento tedesco, sembrava indicare che i Nazisti gradissero delle iniziative militari italiane che portassero a una dispersione di forze dei loro nemici attivi – come Francesi e Inglesi – o potenziali, come gli Jugoslavi, che fossero dispostissimi a compensare gli Italiani con quelle parti di bottino che a loro non interessavano e che erano molte più di quanto non si pensi, come l’Africa del Nord, ma che non intendessero né coinvolgere gli Italiani sui loro stessi fronti, né farsi coinvolgere su quelli degli Italiani. A loro interessava l’espansione a Est, in Ucraina e Russia, postulata fin dai tempi di Bismarck, messa in atto nei Paesi Baltici dal 1914, interrotta nel 1918 e adesso pronta a riprendere. Del Mediterraneo non si curavano, anche perché già prima della Grande Guerra la Germania l’aveva saltato, puntando direttamente all’Iraq attraverso la famosa ferrovia di Bagdad. Infine, ricordiamoci che il 10 marzo, nel corso della visita di Ribbentrop che aveva risolto il problema del carbone, Mussolini aveva già delineato la Guerra Parallela, senza suscitare alcuna reazione negativa da parte germanica, dicendo che L’Italia: “Al momento dato entrerà in guerra e la condurrà con la Germania e parallelamente ad essa.” CXXI Dunque, dal lato dell’alleato tedesco non sembravano esserci difficoltà quanto a una guerra parallela italiana. Restava da chiedersi se fosse possibile combatterla da soli. Al momento sembrava di si. In Africa Orientale la situazione era positiva. Le truppe nazionali ed indigene appena in moto avevano conquistato, in Kenya il saliente compreso fra Moyale ed El Uach; oltre il confine etiopico fra Sudan e Kenya la sponda nordoccidentale del Lago Rodolfo; ed in Sudan Kurmuk, Gallabat e Cassala. Poi venne la presa della Somalia Britannica, ultimata dal generale Nasi con 40.000 uomini contro 13.000 britannici il 19 agosto e, mentre in settembre Graziani invadeva l’Egitto arrestandosi però a Sidi el Barrani, comunque 100 chilometri oltre il confine, il 6 novembre tre battaglioni italiani 124


avrebbero sconfitto un’intera brigata indiana, rinforzata da altri due battaglioni britannici, carri armati e parecchia artiglieria a Gallabat, sul confine sudanese. In quelle condizioni gli Inglesi non avrebbero attaccato fino a quando non glielo avesse consentito il collasso di Graziani in Africa Settentrionale, ma questo si verificò solo dopo l’inizio dell’Operazione Compass, cominciata il 9 dicembre 1940; e solo nell’inverno 1940-41 il successo di Compass consentì il distacco verso sud delle unità che avrebbero attaccato l’Eritrea dal Sudan, mentre solo il 18 dicembre 1940 si sarebbero viste le prime avanguardie inglesi puntare sulla Somalia. In altre parole: dal 10 giugno al 10 dicembre 1940, cioè per sei mesi pieni, in linea teorica nulla poteva far pensare a Mussolini che la Guerra Parallela non funzionasse, specie poi considerando che lui voleva crederlo. Oltre a condurla, bisognava pagarla. Le Forze Armate costavano un sacco di soldi e, lo sappiamo, le casse erano vuote. Si ricorse al Prestito di Guerra, con la riserva mentale che, comunque fossero andate le cose, se ne sarebbe usciti con una bella svalutazione, come dopo la Grande Guerra e come in effetti sarebbe successo dopo l’aprile del 1945. Quanto costava la guerra? Non si sa, perché sembra che nessuno si sia mai preoccupato di scoprirlo. Si sa quanto costò nel suo insieme, ma, per intenderci, non si sa quanto costasse al mese, o alla settimana, o al giorno. Del resto le variabili erano moltissime. Un periodo calmo implicava un consumo minimo di carburanti, mezzi e munizioni e quindi una spesa minima. Un periodo intenso obbligava a spendere cifre enormi. Viene però da domandarsi se la famosa e giustamente criticatissima smobilitazione di fine estate e inizio autunno del 1940 non sia stata un tentativo di risparmiare. Comunque stessero le cose, fossero le spese più o meno forti, nel momento in cui Mussolini decise l’attacco alla Grecia, in ottobre, la situazione era statica, ma in sostanziale equilibrio. La Francia era liquidata e gli Inglesi avevano perso terreno in Africa Orientale e Settentrionale; ma era evidente che non si sarebbe stati a casa per Natale, dunque che i sei-otto mesi di scorte di carburante esistenti a giugno non sarebbero bastati e che, per arrivare alla fine della guerra, occorrevano materie prime e petrolio. Le prime si potevano raccattare tramite la Germania, o direttamente in Francia o in Spagna, il secondo solo in Romania e, eventualmente, in Unione Sovietica. Senza le prime si sarebbero fermate le industrie, senza il secondo si sarebbero fermate anche la Nazione e le truppe. Il petrolio era necessario e, per continuare ad averlo, era necessaria la neutralità della Grecia. Ma la neutrale Grecia fu attaccata, perché? 125


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Capitolo 18 Perché fare la guerra alla Grecia

Adesso occorre fare un altro lungo passo indietro nel tempo, per spiegare il perché della Guerra di Grecia. Dopo la fine della Grande Guerra c’era stata una sistematica azione anglofrancese per escludere l’Italia dalla spartizione del Medio Oriente, a dispetto di qualunque decisione precedente. L’attrito aveva portato a un risultato inatteso. Roma si era stufata e, perso per perso, aveva cominciato a sostenere l’exnemica Turchia contro la Grecia, aiutata dai Franco-Inglesi, nella Guerra Greco-Turca del 1919-1922, che era terminata col trionfo della Turchia e l’annientamento delle antichissime comunità greche dell’Anatolia. Motivi d’urto ce n’erano abbastanza, tutti dovuti alle rivendicazioni territoriali greche. L’enosis, la riunione di tutti i Greci e delle loro terre, infatti prevedeva l’annessione ad Atene non solo dell’Asia Minore anatolica, ma della Macedonia, dell’Epiro, di Cipro e del Dodecanneso. Questo aveva significato che già durante la Grande Guerra non erano mancati urti coll’Italia a proposito dell’Albania. L’Italia la voleva per sé o indipendente, la Grecia la voleva per sé, la Francia la voleva greca. Gli urti erano continuati dopo il conflitto e, quando quasi in concomitanza colle tensioni in Anatolia, in Albania era stata massacrata da bande filogreche la Missione Tellini, Roma aveva giudicato colma la misura, reagito con lo sbarco a Corfù nel 1923 e chiarito una volta per tutte che non accettava più provocazioni. In seguito le relazioni fra Roma ed Atene erano rimaste non cattive fino al 10 ottobre 1934, quando dopo dieci mesi di scontri di piazza e disordini era risalito al trono di Grecia Giorgio II. Essendo un fedelissimo dell’Inghilterra, non ci si sorprese troppo quando, il 12 ottobre del 1934, il Governo d’Atene consentì ufficialmente alla Mediterranean Fleet britannica di adoperare le basi e i porti greci. Questo riavvicinamento implicò per forza di cose l’abbandono di qualsiasi rivendicazione greca su Cipro, ma, per tenere vivo il fuoco e dare al popolo qualcosa per cui agitarsi, il nuovo governo, guidato dal generale Metaxas, spostò il tiro sul dominio italiano a Rodi e nel Dodecanneso. Contemporaneamente, a partire dal 1935, iniziò una riorganizzazione delle 127


Forze Armate che portò all’istruzione degli ufficiali ellenici a Saint-Cyr, alla costruzione di una linea fortificata – ribattezzata Linea Metaxas – sul confine bulgaro e al potenziamento della Marina. Questa parte del programma comprendeva l’acquisto di due cacciatorpediniere di fabbricazione britannica della classe “H”, da pagare grazie a un prestito decennale di due milioni di sterline, prestati nel settembre del ’36 da Londra allo spaventoso e usurario tasso del 40%, tanto più sorprendente se si pensa che, nemmeno sei mesi dopo, nel febbraio del ’37, Atene ottenne dalla Germania un prestito equivalente a 636.000 sterline inglesi, al più modesto ed onesto tasso del 3%, mentre nello stesso periodo la Turchia sottoscriveva a Londra un prestito per l’acquisto di armi e navi inglesi, al tasso del 5%. CXXII L’interesse con cui Atene guardava a Londra si comprese nell’ottobre del 1938 e di nuovo nel gennaio del 1939, quando Metaxas propose un’alleanza anglo-greca, che però gli Inglesi respinsero. Rigettarono pure la richiesta greca di un ulteriore prestito per comprare un incrociatore costruito in Inghilterra, il cui dichiarato scopo doveva essere quello d’agire contro il traffico italiano da e per il Mar Nero. CXXIII Per non interrompere gli affari, però, il Governo inglese rilanciò, offrendo un’altra coppia di caccia classe “H”, da pagarsi con un nuovo prestito, stavolta all’interesse del 43%. Ovviamente tutto questo era ben noto a Roma. Nell’autunno del ’35, in piena crisi diplomatica con Londra e Parigi per la Guerra d’Etiopia, l’Italia aveva previsto di bombardare il porto ellenico di Navarino nel caso la Mediterranean Fleet se ne fosse avvalsa come base provvisoria, poi cominciò ad aiutare il riarmo bulgaro – ovvia reazione locale a quello greco – e, nell’ottobre del 1936, lo Stato Maggiore italiano pianificò un’invasione della Grecia attraverso l’Albania. Si trattava di sfruttare una guerra greco-bulgara – sarebbe stata la quarta in trent’anni – inserendovisi come mediatori e cogliendo l’occasione per occupare l’Epiro o Corfù. Si partiva dall’assunto che il governo Metaxas fosse debole e impopolare e per questo facile da far cadere con una crisi del genere. Se fosse caduto, l’Italia avrebbe potuto raggiungere un accordo soddisfacente con la Grecia, mantenendo aperte e sicure le rotte del Mar Nero ed obbligando la Mediterranean Fleet ad abbandonare i porti greci e a concentrarsi ad Alessandria, perché Malta era troppo esposta agli attacchi aerei. Come sappiamo, le rotte del Mar Nero erano fondamentali per l’approvvigionamento di petrolio dalla Romania, per cui Roma non avrebbe mai accettato passivamente di vederle interrotte. 128


Ancora nel marzo del 1939, quando vennero preparati i piani per l’Albania, fu prevista pure l’occupazione di Corfù e, se non fu fatta, si dové solo al timore di Mussolini che sarebbe stato un po’ troppo da far mandare giù all’Europa. L’Inghilterra in seguito aveva offerto la sua garanzia ai Paesi dell’area danubiano-balcanica, incluse la Grecia e la Turchia, ma questo non aveva fermato Mussolini, che, sentendosi coperto dal Patto d’Acciaio, in giugno, ignaro di quanto stava per accadere fra Germania e Polonia, aveva pianificato un’invasione della Grecia il cui nocciolo doveva consistere nello sbarco di una divisione aerotrasportata nell’aeroporto ateniese di Tatoi in settembre. Ma il 1° settembre i Tedeschi avevano attaccato la Polonia e il piano italiano era stato messo da parte fino a maggio del ’40. I fermi delle navi italiane da parte inglese durante la non belligeranza erano avvenuti pure in acque greche 15 e questo non aveva migliorato i rapporti fra Roma e Atene. Il piano d’attacco alla Grecia era stato ripreso in considerazione e poi di nuovo accantonato in giugno, per l’entrata in guerra e per l’idea che fosse possibile un accordo italogreco su Cipro e Corfù, rifiutando, al contempo, un’offerta sovietica di spartire i Balcani dando la Grecia a Roma e la Turchia a Mosca. CXXIV Il crollo della Francia bloccò due azioni contro l’Italia, perché impedì l’invio a Salonicco del corpo d’armata francese che doveva agire contro l’Albania ed arrestò l’attacco che i Turchi il 20 giugno avevano promesso agli Inglesi di fare nel Dodecanneso. CXXV I Turchi rimasero tranquilli e osservarono strettamente la neutralità. I Greci non fecero né l’una né l’altra cosa e meno di una settimana dopo l’entrata in guerra dell’Italia diedero alle navi inglesi il permesso di rimanere nei loro porti – incluso il Pireo – e nelle loro acque territoriali oltre le 24 ore previste dalle leggi internazionali, rifornendovisi di ogni cosa. Appena si capì che non avveniva per caso, la Regia Aeronautica cominciò ad attaccare il naviglio britannico pure nelle acque greche, ma, contemporaneamente, successe una cosa altamente irregolare e che segnò il destino della Grecia: a dispetto della neutralità delle acque, le navi inglesi iniziarono a intercettare il traffico italiano e neutrale che ci passava. Lo si vide col fermo britannico in acque elleniche e confisca del carico di due petroliere spagnole provenienti dai Dardanelli e dirette in Italia, mentre nessun ostacolo 15

Il 15 febbraio 1940 alle 7 era stato fermato fra Itaca ed Oscia il piroscafo Giuseppe Dormio in viaggio da Brindisi a Coo; il 17 marzo alle 19.32 era stata fermata in acque greche la motonave Brindisi, il 21 il piroscafo Zara, il 6 maggio la motonave Egeo. Va detto però che in almeno due casi gli Inglesi fermarono navi italiane – la motonave Adriatico e il piroscafo Adige, rispettivamente il 1° maggio e il 1° aprile 1940 – in acque territoriali turche

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veniva frapposto alle navi inglesi che nelle stesse acque scortavano quattro o cinque mercantili al mese, carichi di cromo, nickel, o di cartucce prodotte in Grecia per le truppe britanniche in Medio Oriente. Infine, erano internati col loro equipaggio tutti gli aerei italiani che atterravano in Grecia, ma non quelli inglesi e, per di più, gli aerei delle linee civili italiane dovevano fronteggiare sul suolo greco un mucchio di complicazioni. Il fatto è che i Greci, al di là di quali fossero le loro simpatie, si trovavano in una situazione tremenda e senza uscita, in cui qualsiasi decisione avessero preso sarebbe stata quella sbagliata. La loro economia già nel 1938 dipendeva dalla Germania per l’85%, ma la loro alimentazione in pratica dall’Inghilterra. La produzione ellenica di cereali poteva, nella migliore delle ipotesi, in un anno di raccolti particolarmente buoni, nutrire l’80% dei 7.700.000 greci, ma il resto andava importato. Dal settembre del 1939, a causa delle chiusure dei vari mercati, si dovevano importare 180.000 tonnellate all’anno di cereali dagli Stati Uniti, cioè per mare, da Gibilterra, cioè attraverso la rete della Marina inglese. Se l’Inghilterra l’avesse voluto, la Grecia sarebbe precipitata nella carestia. In queste condizioni, al di là delle simpatie governative per Londra, non fu difficile agli Inglesi ottenere dalla Grecia cromo, nickel e, inviando le necessarie materie prime, la fabbricazione di cartucciame per le proprie truppe nella fabbrica di Imitos, la più grande del Levante, con una capacità produttiva di 800.000 cartucce ogni 24 ore, quando la produzione italiana del 1940 era di quasi quattro milioni al giorno. “Si trattava di un elemento importante nel quadro della logistica britannica date le modestissime scorte disponibili nel 1939/1940 in Medio Oriente e il fatto che ancora nell’autunno 1940 il British Army non poteva autorizzare l’istruzione al fuoco dell’esercito in patria perché avrebbe richiesto il consumo, giudicato insostenibile, di ben due milioni di cartucce al mese.” CXXVI E’ vero che nell’agosto del 1940 le forniture di cartucce furono sospese perché gli Inglesi erano in forte ritardo coi pagamenti, ma restò l’appoggio di cui godevano nelle acque territoriali elleniche. Insomma, l’avesse chiesto esplicitamente o no, l’Inghilterra dal settembre del ’39 stava applicando alla Grecia lo stesso schema inaugurato nella Grande Guerra coi neutrali e che, adoperato nei confronti dell’Italia, l’aveva spinta nel campo opposto. L’entrata in guerra dell’Italia complicò enormemente la situazione greca. Il traffico mercantile per portare le famose 180.000 tonnellate annue di cereali americani, dopo Gibilterra passava per il Canale di Sicilia, che però il 6 giugno 1940 fu dichiarato zona di guerra e minato, mentre il traffico mercantile veniva obbligato a passare per lo Stretto di Messina e sottoposto a visita. Questo 130


significava che adesso oltre all’Inghilterra, anche l’Italia poteva affamare la Grecia. Certo, Gibilterra era uno dei due ingressi, c’era Suez; ma, oltre al fatto che il viaggio era più lungo, costava di più ed era comunque sotto la minaccia delle Regie Navi basate a Massaua, solo un mercantile su nove diretti in Grecia passava da là; gli altri otto seguivano la rotta di Gibilterra e della Sicilia. Per di più, finché l’Italia era stata neutrale, Atene aveva potuto continuare il commercio con la Germania, per ferrovia dal Brennero a Brindisi e per mare da Brindisi alla Grecia, ma adesso le navi italiane diventavano nemiche di quelle inglesi e, in quanto navi nemiche che portavano merci nemiche, dei bersagli. A maggior ragione, dunque, Atene si era dovuta tener buona Londra; e quindi oltre all’appoggio a navi ed aerei inglesi, aveva consentito l’esercizio delle stazioni trasmittenti della Cable & Wireless di Creta e Sira da parte di personale militare inglese in abiti civili. Però aveva fatto – o era stata costretta a fare – un altro passo che fu quello fatale. Mentre tentava di incrementare il proprio traffico marittimo coll’Italia e l’Albania per ricevere quanto era rimasto delle sue importazioni dalla Germania, 16 fece del suo meglio per tagliare i rifornimenti italiani al Dodecanneso, di cui la guarnigione e la popolazione, essendo le isole molto povere e improduttive, avevano viveri per un massimo di sei mesi. Questo obbligò Roma a reagire. La minaccia al rifornimento di petrolio era già grave, perché per ferrovia si poteva ricevere dai Romeni un massimo di 50.000 tonnellate al mese, ma adesso si rischiava pure di perdere il Dodecanneso per fame: era troppo; si andò alla guerra.

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La guerra fece crollare le importazioni greche dalla Germania dai 2.180.000 tonnellate del 1939 a 1.323.000 tonnellate nel 1940, cfr. CERNUSCHI, Enrico, “Storia insospettabile della Guerra di Grecia - Il quadro strategico e navale del conflitto italo - ellenico, 1940-1941”, su “Storia Militare”, anno XVIII, n. 7, luglio 2011.

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Capitolo 19 La Guerra di Grecia e la fine della Guerra Parallela

Oltre ai motivi già detti, la causa che scatenò l’attacco alla Grecia in ottobre e non dopo, fu di nuovo politica, più che militare, cioè perfettamente in linea con tutti i motivi alle basi delle scelte della Guerra Parallela: il 12 ottobre 1940, giunse a Roma la notizia dell’insediamento a Bucarest d’una missione militare tedesca. Nella tarda estate del 1940 Hitler si era trovato davanti al problema dell’Unione Sovietica che, rassicurata dal patto concluso l’anno prima ai danni della Polonia, andava facendosi più esigente e spostava le proprie frontiere sempre più ad ovest. Ora, se si fosse limitata, come poi fece, ad inglobare le tre Repubbliche baltiche e ad assalire la Finlandia, il Führer non si sarebbe preoccupato troppo ed avrebbe atteso di sconfiggere la Gran Bretagna prima di volgersi, come già pianificato da lungo tempo, contro l’URSS. Ma i Sovietici si annetterono parte della Romania e lì cominciarono i guai. Grazie ad un durissimo ultimatum, che Bucarest aveva accettato solo perché Berlino e Roma avevano comunicato che non sarebbero intervenute in suo favore, Mosca rischierò i propri aerei a trenta minuti di volo dai pozzi petroliferi di Ploesti, dai quali veniva la quasi totalità dei carburanti per le forze armate dell’Asse. La situazione poteva farsi pericolosa ed Hitler, deciso a porre un freno diplomatico ai suoi alleati sovietici, raccolse una richiesta avanzatagli dalla Romania e vi inviò una missione militare, dichiarando nel contempo che la Germania avrebbe protetto Bucarest da ulteriori diminuzioni, politiche o territoriali, senza specificare contro chi tale protezione fosse rivolta. La mossa, come si vede, era stata dettata da necessità oggettivamente consistenti, ma era sgradita a Mussolini. La Germania s’installava a ridosso dei Balcani, che, nei piani dell’Asse, o almeno nei piani italiani, nel dopoguerra sarebbero toccati alla sfera d’influenza italiana, e si affacciava sul Mar Nero, mettendo le mani sulle ricche risorse granarie e petrolifere della Romania, alle quali il Duce, anche se copertamente, mirava da tempo. 133


Una simile mossa, inoltre, offriva ai Paesi balcanici la possibilità di giostrare fra Roma e Berlino sottraendosi all’influenza che Mussolini sognava d’imporre loro ed indebolendo la posizione politica dell’Italia rispetto alla Germania. Dunque, come all’occupazione dei Sudeti ed allo smembramento della Cecoslovacchia si era risposto prendendo l’Albania, così ora la risposta all’ingresso dei Tedeschi a Bucarest sarebbe stata data da quello degli Italiani ad Atene. Insieme ai rapporti che l’Eccellenza De Vecchi di Val Cismon spediva a Roma dal Dodecaneso di cui era governatore, raccontando tutte le malefatte dei Greci, la missione tedesca a Bucarest originò l’Esigenza G – Grecia – che Mussolini prospettò allo Stato Maggiore Generale, il quale, a sua volta, la passò alle tre Forze Armate perché ne studiassero la fattibilità e si pronunciassero in merito. I tre Capi di Stato Maggiore si dichiararono molto scettici sulla possibilità d’intraprendere una simile campagna e di concluderla facilmente ed in tempi brevi. Il Regio Esercito fece notare che l’assoluta mancanza di ferrovie sul territorio albanese rendeva necessari, oltre a quelli delle unità da impiegare, 500 autocarri per decongestionare i porti ed altri 1.250 per rifornire le divisioni operanti al fronte; che gli automezzi potevano solo essere prelevati da quelli per l’armata di Graziani in Libia e che le truppe presenti in Albania non erano neanche numericamente pari a quelle greche. La Regia Marina fece rilevare la carenza degli approdi sull’altra sponda dell’Adriatico e la loro ridotta capacità ricettiva, per cui lo sbarco di unità italiane in Albania e, eventualmente, in Grecia Settentrionale sarebbe stato lungo difficile. La Regia Aeronautica comunicò che gli apparecchi a sua disposizione erano più che sufficienti per le necessità della campagna in esame; ma, alla domanda se fosse possibile aerotrasportare le truppe che la Marina diceva di non poter sbarcare, rispose che i velivoli in dotazione consentivano solo il carico di uomini ed armi leggere; niente quadrupedi, servizi ed armi pesanti. 17 Badoglio tagliò corto: “Il Duce ha giudicato e dichiarato che per lui è di somma importanza l’occupazione della Grecia. Quindi non si discute.” CXXVII E nessuno discusse, lui per primo.

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Badoglio, quando si venne a questa domanda, menzionò il caso del reggimento granatieri aerotrasportato a Tirana, ricordando che era "rimasto senza mangiare per non so quanto tempo" ed eliminò ogni tentativo di esaminare ancora la questione dell`aerotrasporto.

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Il 28 ottobre 1940, alle 6 del mattino, i 105.000 uomini dei Corpi d’Armata XXV e XXVI e del Raggruppamento Litorale - quest’ultimo pari a una brigata - varcarono la frontiera greco-albanese. Il 5 novembre l’avanzata italiana, già difficile per la brutte condizioni meteorologiche e per le asperità del terreno, rallentò. Il 6 i Greci attaccarono Corcia. Furono respinti; ma era evidente che l’iniziativa stava passando a loro e, visto che né la Bulgaria né la Turchia li attaccavano, come avevano in un primo tempo temuto, trasferirono in fretta quante più truppe poterono dai confini orientali al fronte albanese. L’offensiva italiana, a corto di rifornimenti, era esaurita. Sulle prime i Greci non si mossero, poi, sorpresi, effettuarono qualche cauta puntata qua e là e, constatato che gli invasori erano e restavano fermi, organizzarono la controffensiva. Se ancora avessero avuto dubbi, la notizia della sostituzione del comandante italiano, Visconti Prasca, col generale Soddu, diramata ufficialmente l’11 novembre glieli tolse. Non si cambiano i generali che vincono; solo quelli che perdono. Soddu, arrivato il 9 a capo delle truppe operanti, ammontanti ora alle due armate 9ª ed 11ª forti complessivamente di 9 divisioni e unità minori, si trovò subito attaccato dalle 13 divisioni, 3 brigate ed 1 gruppo tattico dei corpi I, II e III del comando d’armata ellenico Samo. Le quattro divisioni componenti la 9ª Armata - Piemonte, Arezzo, Parma e Venezia - furono impegnate da altrettante divisioni greche, più consistenti di loro perché ad Atene Pariani non aveva avuto influenza, che, fra il 14 e il 18, s’impadronirono di alcune posizioni della Parma, eliminando il saliente che essa teneva fra Dardha e Hocisti. La 9ª entrò in crisi. Già il 19 mattina i suoi reparti erano notevolmente frammischiati. La crisi s’accentuò e, fra il 21 e il 23 novembre, dovette ripiegare di circa 30 chilometri, spostando la sinistra dal lago di Presba a quello di Ohrida e la destra dal Monte Gramos al Mietes. Vistasi scoperta sul fianco sinistro, anche l’11ª Armata del generale Geloso, che teneva lo schieramento dal centro al mare, fu costretta a ritirarsi. I Greci la pressarono continuamente e riuscirono anche ad aprire un varco fra la sua linea e quella della 9ª nella valle dell’Osum. Intanto anche il Raggruppamento Litorale era stato assalito tra il 15 e 16 dall’8ª Divisione ellenica, riuscendo a pararne tutte le azioni col solo 3° Reggimento Granatieri. La notte fra il 16 e il 17 gli giunse però l’ordine di ritirarsi, conseguenza della crisi della 9ª Armata, e si attestò sulla linea lungo la strada da Delvino a Porto Edda - Santi Quaranta, approssimativamente 50 chilometri a nord dell’abbandonato confine. 135


La situazione italiana era tremenda. L’armata d’Albania, numericamente inferiore a quella nemica, comprendente i due terzi dell’esercito ellenico, pur disponendo di grandi riserve in Italia, non era in grado di riceverle rapidamente perché la capacità ricettiva dei porti albanesi era minima. Nelle condizioni migliori si era riusciti a far sbarcare tre divisioni in un mese; ma era stato un caso limite. La media era in realtà di due sole, insufficienti sia a ripianare le perdite, sia a raggiungere la parità coll’avversario. Per tentare di fermarne l’avanzata, gli Italiani impegnavano, giustamente, quasi tutti i relativamente pochi uomini disponibili nello sbarramento delle vie di facilitazione nei fondovalle. Dopodiché i Greci, prima fissavano i difensori nelle vallate, poi, una volta impegnatili a fondo, profittando del fatto che le catene montuose della zona avevano un andamento nord-sud e attraversavano perpendicolarmente il fronte, vi facevano arrampicare altre loro unità che, passando di cima in cima, sopraffatti i pochi difensori delle creste, aggiravano dall’alto le postazioni degli Italiani nelle valli, calando alle loro spalle e costringendoli a ritirarsi per non essere accerchiati. Al Comando italiano quindi non restava che tentare di tamponare le falle con tutto quello che aveva sottomano, fossero truppe appena sbarcate, o unità, o loro aliquote, attestate in settori nei quali la pressione avversaria era più contenuta. Così i reparti delle divisioni che arrivavano dall’Italia venivano immediatamente lanciati in linea, un battaglione qui ed un gruppo là, senza attendere i servizi, senza conoscere nè l’andamento del fronte né le antistanti forze nemiche, provocando situazioni grottesche in cui i comandi divisionali non sapevano dove fossero i loro reggimenti e quelli di reggimento non conoscevano l’ubicazione dei propri battaglioni, sciogliendosi come cera al fuoco, vinti dalla disorganizzazione più che dall’avversario. L’11 dicembre l’11ª Armata si attestò sulla nuova linea arretrata. Stava per cominciare un calvario di 40 giorni, che sarebbero stati i più duri di tutta la campagna. Fra le montagne albanesi incappucciate di neve e il freddo intenso che rendeva ancor più difficili le operazioni, i Greci tentarono di puntare a nord; e gli Italiani cercarono d’imbastire una difesa stabile, mentre a Roma il Duce silurava Badoglio, perché il 15 novembre aveva detto al Capo di Stato Maggiore germanico Keitel d’essere sempre stato contrario all’impresa greca, affermando poi che “Tanto lo Stato Maggiore Generale quanto lo Stato Maggiore dell’Esercito non sono entrati in questa organizzazione che si è svolta in modo nettamente contrario a tutto il nostro sistema, che si impernia sul principio di preparare bene e poi di osare.” CXXVIII 136


Sulla costa, intanto, i Greci avevano sfondato il fronte nel settore della Divisione Siena, obbligandola a ritirarsi di oltre 10 chilometri in cinque giorni, mentre sul fronte dell’11ª Armata il loro I Corpo impiegava la 4ª Divisione contro il Kurvelesh, per superarlo e andare a tagliare la strada fra Valona e Tepeleni a nord di quest’ultima. Nonostante la strenua resistenza i difensori furono costretti a cedere in alcuni punti; e la loro resistenza si concentrò a nord del Kurvelesh. La vigilia di Natale i Greci attaccarono e furono respinti con forti perdite. Poche migliaia di soldati ridotti a straccioni, febbricitanti, colle scarpe sfondate, senza viveri e con poche munizioni tennero il fronte disperatamente per un settimana. Il 30 si combatté per tutta la giornata. Capodanno vide un ulteriore attacco ma senza esito. La linea aveva tenuto e avrebbe continuato a tenere per tutto il mese di gennaio, a dispetto degli ostinati sforzi dei Greci di aprirsi la strada di Klisura - presa - e Perati, non raggiunta. Poi, respinta una controffensiva italiana su Klisura il 26 gennaio, il 9 febbraio i Greci attaccarono lungo le valli della Vojussa e del Drin, tenute da elementi del XXV Corpo d’Armata, per aprirsi la strada su Tepeleni, Valona e Berat. La lotta, lunga e durissima, si concentrò intorno allo Scindeli ed al Golico, il monte che sbarra le due valli. Il 12 febbraio fu il giorno del loro ultimo tentativo d’aprirsi la strada per Tepeleni. Respinti ancora, desisterono definitivamente. Sotto gli occhi di Mussolini, il 9 marzo gli Italiani passarono all’offensiva in Val Deisnizza con 6 divisioni, ma dopo cinque giorni ripiegarono sulle basi di partenza senza successo. Intanto, a Vienna, il 1° del mese era stato firmato il trattato che sanciva l’adesione bulgara al Tripartito, permettendo ai Tedeschi di venire in aiuto agli Italiani passando sul territorio bulgaro ed attestandosi al confine greco. Il 20 marzo la Jugoslavia aderì al Tripartito ma, nella notte fra il 26 e il 27, un colpo di stato fomentato dagli Inglesi rovesciò il governo filotedesco di Belgrado e lo sostituì con uno favorevole agli Alleati. Il colpo era grave. L’Asse veniva a trovarsi con una Nazione nemica all’interno dei Balcani la quale, non solo poteva minacciare i confini dell’Italia, della Bulgaria e del Reich, ma anche le spalle delle truppe operanti in Albania. Hitler non perse tempo e, già nella giornata del 27, ordinò d’assalire e distruggere la Jugoslavia, mentre, alle 5,15 del 6 aprile, i Tedeschi entravano anche in Grecia. Terminate in soli 12 giorni le operazioni contro Belgrado, i Tedeschi rivolsero tutto il loro sforzo contro i Greci, la maggior parte del cui esercito era già impegnata contro gli Italiani. In 15 giorni, li costrinsero ad arrendersi, 137


estendendo le loro operazioni fino a Creta, presa nel maggio, mentre dall’Egeo vi sbarcava un corpo di spedizione italiano di 2.585 uomini della Divisione Regina, 18 appoggiato da una squadra navale di 10 unità leggere. 19 Tornando agli Italiani in Albania, rimasero più o meno fermi per tutto marzo, progettando poi un’offensiva concomitante con quella tedesca per la seconda decina d’aprile. Il 13, domenica di Pasqua, vennero impartite le ultime disposizioni, poi cominciò l’attacco. All’alba del 15 le avanguardie dell’11ª Armata raggiunsero il Trebescines, prendendolo nella seguente giornata del 16, respingendo i Greci su Klisura. Mentre le truppe italiane arrancavano verso il confine greco-albanese, i Tedeschi entravano a Larissa e Trikala, muovendo poi su Gianina, situata ad una quarantina di chilometri dal medesimo confine, occupandola il 21. La guerra era finita. All’indomani della vittoria un reggimento di rappresentanza, composto da tre battaglioni di formazione di granatieri, di fanti e di alpini, si trasferì in autocarro ad Atene per partecipare alla parata delle truppe tedesche svoltasi il 3 maggio davanti al feldmaresciallo List. Ma era una vittoria amara. L’imprevidenza del Duce aveva fatto pagare al Regio Esercito un prezzo terribile: 13.755 morti, 25.067 dispersi, 50.874 feriti, 13.368 congelati e 52.108 ammalati gravi ricoverati in luoghi di cura; totale: 155.172 uomini fuori combattimento; gli effettivi d’un’intera armata. Il 25 giugno le autorità germaniche in Grecia passarono i propri poteri a quelle italiane; ed il generale Geloso, assunto il comando del territorio occupato, comprendente Epiro, Tessaglia, Eubea, Attica, Peloponneso e le isole Cicladi, Sporadi settentrionali e Ionie dovè spezzettare le proprie unità in una miriade di piccoli presidi, specie costieri, dove sarebbero rimaste fino al settembre 1943.

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Con sei cannoni da 65/17, sei da 47/32, 13 Carri L 3, tre automobili, un autocarro leggero, 9 motociclette e 205 muli. 19 Regio Cacciatorpediniere Crispi, Regie Torpediniere Libra, Lince e Lira e sei MAS.

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Capitolo 20 Ricapitolazione

Arrivati qui, mi rendo conto che i fatti nuovi e gli elementi per dimostrarli sono stati così numerosi e intrecciati da rendere necessaria una ricapitolazione. Diciamo che fino al settembre del 1938 tutto andava bene e la posizione di Mussolini era solida. L’Inghilterra si era riavvicinata in aprile. Dopo il Patto di Monaco, la Germania propose un’alleanza – per ridurre il fronte dei potenziali nemici nella prossima guerra e per distrarre forze francesi dal Reno al Mediterraneo – e la Francia ristabilì normali relazioni diplomatiche coll’invio d’un ambasciatore, ma fece un patto di cooperazione anche militare coll’Inghilterra a fine novembre. Mussolini ritenne di poterne approfittare per fare alla Francia tre richieste a proposito di Tunisi, Gibuti e Suez, nessuna delle quali implicava necessariamente delle concessioni territoriali. Seguendo la consolidata prassi italiana di chiedere molto più del voluto per fingere di contentarsi del poco ottenuto coi negoziati, il 30 novembre del 1938, sotto gli occhi dell’ambasciatore francese, fu organizzata da Ciano una dimostrazione irredentistica alla Camera chiedendo Tunisi, Savoia, Nizza e Corsica. Informata subito da François-Poncet, Parigi decise che era troppo, che ci si doveva aspettare la guerra con l’Italia e respinse i tentativi di Mussolini su Tunisi, Gibuti e la Compagnia di Suez. Il 2 gennaio 1939, lo stesso giorno in cui Daladier partì per un giro in Corsica e Nord Africa nel cui corso ripetutamente e pubblicamente rigettò le pretese fasciste, Mussolini fece dire a Ribbentrop che accettava l’alleanza, perché la Francia e l’Inghilterra erano palesemente ostili. In primavera successero quattro cose che accelerarono la firma dell’alleanza coi Tedeschi. Roma seppe che i Franco-Inglesi stavano facendo riunioni congiunte in Africa, Asia ed Europa per decidere come agire contro l’Asse e il Giappone, il generale Giraud disse che l’invasione dell’Italia sarebbe stata una passeggiata nella pianura padana, arrivarono in Medio Oriente due divisioni australiane chiaramente da impiegare contro l’Italia in Mediterraneo e i Tedeschi occuparono la Cecoslovacchia. 139


Mussolini si spaventò, decise che nessuno avrebbe potuto fermare i Tedeschi e, vista anche la supposta minaccia anglo-francese, manifestata dai discorsi di Giraud e dalle riunioni, accelerò l’alleanza, sapendo di non avere i mezzi per fare la guerra, ma convinto che davvero, come diceva Ribbentrop, non ce ne sarebbe stata una, almeno per iniziativa dell’Asse, fino all’autunno del 1941 o fino al 1942. La firma del Patto d’Acciaio consentì la sistemazione della questione altoatesina, ma diede via libera ai Tedeschi per la Polonia, perché l’ora alleata Italia non li avrebbe attaccati e, in caso di guerra, avrebbe impegnato consistenti forze anglo-francesi. Inoltre gli Anglo-Francesi, sapendosi inferiori ai Tedeschi e ancor più inferiori ai Tedeschi e agli Italiani insieme, non avrebbero combattuto per Danzica, per cui, accordatisi coll’URSS, i Tedeschi presentarono l’ultimatum alla Polonia sicuri di spuntarla senza guerra o, al massimo, con un conflitto limitato fra loro e Varsavia. Gli Italiani, colti di sorpresa dalla violazione del Patto d’acciaio – non c’erano state consultazioni preliminari – e delle promesse di pace per due o tre anni, sapendosi impreparati e debolissimi, specie per mare, si dichiararono non belligeranti. Mussolini chiese e ottenne un telegramma liberatorio da Hitler, che però non fu pubblicato in Germania, cosicché i Tedeschi cominciarono a parlare degli Italiani come dei soliti traditori. Mussolini, spinto da Ciano e sulla base delle allarmanti informazioni dategli da Villani, Attolico, Roatta e da Ciano stesso, pensò di cambiare cavallo, ma in autunno iniziò il blocco navale anglo-francese che cominciò a strozzare l’economia italiana ostacolando l’approvvigionamento di petrolio e carbone. Mussolini traccheggiò tutto l’inverno, con crescenti problemi di approvvigionamento e coi Tedeschi che cavillavano sempre di più sull’Alto Adige. Poi successero altre quattro cose: in febbraio l’Inghilterra lo ricattò esplicitamente sul carbone, il 4 marzo seppe da Marras che era plausibile un attacco tedesco all’Italia, il 10 la Germania lo salvò dandogli tutto il carbone che serviva e in aprile i Tedeschi in un giorno occuparono la Danimarca e in altri dieci la Norvegia, sconfiggendo Inglesi e Francesi. Contemporaneamente Goering chiese ad Attolico, come Ribbentrop in gennaio, quando gli Italiani sarebbero entrati in guerra. Il mese seguente i Tedeschi attaccarono la Francia e in quindici giorni la misero con le spalle al muro. Quando fu evidente che avrebbero vinto, Mussolini si impaurì sul serio e decise di scendere in guerra a fianco della Germania – con la cosiddetta guerra parallela – per togliere all’alleata qualsiasi scusa di poterlo aggredire dopo, come vendetta per il “tradimento” commesso 140


con la non belligeranza, magari usando come “casus belli” l’ancora irrisolta questione dell’Alto Adige. Ritenne di non avere scelta perché, in caso d’aggressione tedesca, l’Italia sarebbe stata sola, essendo occupata la Francia, battuta l’Inghilterra, disorganizzata – e per di più formalmente alleata dei Tedeschi – l’Unione Sovietica e forzatamente neutrali gli Stati Uniti per desiderio della loro opinione pubblica, che Roosevelt doveva tenersi buona almeno fino al dicembre del 1940 per essere rieletto. Che Mussolini avesse paura abbiamo nove testimonianze, sparse nell’arco di 15 mesi. Ce lo dicono esplicitamente: Acerbo in maniera netta ma generica; CXXIX Ciano il 15 marzo del 1939 riferendo l’impressione fatta sul Duce dall’occupazione della Cecoslovacchia; CXXX ancora Ciano, chiaramente e senza possibilità d’errore, il 18 agosto 1939, dicendo che Mussolini temeva che Hitler in caso di denuncia del Patto d’acciaio mollasse la Polonia per saldare il conto all’Italia; CXXXI Bottai l’8 dicembre 1939 riferendo che Mussolini aveva detto che, se la Germania avesse vinto, non avrebbe lasciato agli Italiani nemmeno l’aria per respirare; CXXXII di nuovo Bottai, il 29 marzo 1940, riportando che Ciano aveva detto che Mussolini era spaventato da una Germania vincente da sola; CXXXIII ancora Ciano, riferendo che l’11 aprile del 1940 Mussolini gli fece il discorso dei vasi rotti sulla testa; CXXXIV Anfuso, in data imprecisata, riferendo un colloquio fra Ciano e Mussolini nella primavera del 1940 in cui il Duce disse che sarebbe stato il colmo aver firmato il patto d’acciaio per essere poi invasi dalla Germania; CXXXV Faldella, che riferisce che l’11 maggio 1940 Mussolini aveva detto a Sebastiani che se continuavano con la neutralità sarebbero stati invasi dai Tedeschi; CXXXVI ancora Faldella come opinione personale. CXXXVII A queste vanno aggiunte le informazioni preoccupanti date a Mussolini da Villani il 9 settembre 1939, CXXXVIII da Attolico, in particolare il 10 settembre, CXXXIX da Roatta, in novembre, che dopo la vittoria i Tedeschi avrebbero introdotto il loro ordine pure negli stati associati; CXL da Ciano il 26 novembre 1939 a proposito delle dichiarazioni dello Staathalter di Dresda e, prima di Natale, sempre da Ciano, per le analoghe dichiarazioni del sindaco di Praga; da Marras nel suo rapporto sui movimenti di truppe tedesche verso la Germania del sud nella primavera del 1940; ancora da Marras il 4 marzo 1940 sulla popolarità in Germania di un’invasione dell’Italia. Dovrebbero bastare e avanzare. Esistono fatti da tutti accettati e considerati incontrovertibili che sono ricostruiti su una sola testimonianza; qui ne abbiamo nove, tutte autorevoli, tutte di testimoni attendibili e che sarebbero accettate in qualsiasi tribunale; non si vede perché non possa accettarle quello della Storia. Per di più sono corroborate da sette diverse informazioni, fornite a 141


Mussolini da cinque persone differenti e che si collocano a perfezione nel quadro dei fatti di quel periodo, spiegandoli in una luce nuova, logica e inattaccabile. Qui non c’è dietrologia, c’è il riesame delle fonti a stampa fatto senza pregiudizi e incrociando i dati. Resta la guerra parallela; quanto la riguarda è presto detto. Sapendo d’avere armi insufficienti, poco denaro e minime scorte di carburante e materie prime, Mussolini entrò in guerra centellinando le forze e muovendole solo quando sembrava prossima la vittoria finale, così da poter dire che aveva combattuto anche lui e meritava sia di essere fra i vincitori, sia di non essere aggredito dopo. Ma, poiché aveva avuto più d’un avvertimento che dei Tedeschi non ci si poteva fidare, probabilmente centellinò le forze anche per averle sottomano “dopo”, cioè in caso di conflitto contro i Tedeschi, il che spiegherebbe che limitò l’occupazione in Francia e 830 chilometri quadrati e rifiutò quella, offertagli dai Tedeschi, di Francia sudoccidentale, Corsica, Tunisia, Gibuti e mezza Algeria, proprio per conservare unite le proprie forze in caso di scontro coi Tedeschi.. Forse riprendendo e sviluppando un concetto rudimentalmente espresso da Hitler, Mussolini iniziò la guerra parallela, pensando di sottrarsi ai Tedeschi in qualche modo, ma tenendosi sulla difensiva. Come risultato, quando attaccò la Francia gli andò male, perché aveva l’esercito disposto in difesa, e non gli diede il tempo – sarebbe servito almeno un paio di settimane – di cambiare lo schieramento da quello difensivo in profondità a quello offensivo, proiettato in avanti. In Africa Orientale attaccò solo quando gli sembrò necessario farsi vedere in movimento per accompagnare l’imminente invasione tedesca dell’Inghilterra; in Grecia attaccò quando vide interrotti i rifornimenti al Dodecanneso, in pericolo l’approvvigionamento per mare del petrolio dal Mar Nero e i Tedeschi arrivare a Bucarest. Pure in questo caso la decisione fu presa all’improvviso e, data la ridotta capacità dei porti albanesi, non fu in grado d’alimentare l’offensiva, si trovò due terzi dell’esercito greco addosso a due sole armate e si ridusse sulla difensiva fino all’offensiva tedesca d’aprile del ’41, che, col precedente intervento dell’Afrika Korps in Libia, segnò la fine della guerra parallela e il completo assoggettamento italiano ai Tedeschi, che portò dritti dritti al collasso e all’8 settembre, prima, all’occupazione e alla Repubblica Sociale dopo.

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BIBLIOGRAFIA RAGIONATA

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NOTE I

Badoglio, rip. in Verbali delle riunioni tenute dal Capo di S.M. Generale, Vol. I, 1939-40, Roma, USSME, 1983, pag. 2 II STRONG, Kenneth, Gli uomini del servizio segreto, Milano, Garzanti, 1977, pagg. 77-78. III STRONG, op. cit., pagg. 80-81. IV Conversazione telefonica con il ministro degli Esteri del Reich von Ribbentrop – Roma, 23 ottobre 1938-XVI, in CIANO, Galeazzo, L’Europa verso la catastrofe – La storia d’Europa dal 1936 al 1942 in 184 colloqui di Mussolini, Hitler, Chamberlain, Sumner Welles, Rustu, Aras, Stojadinovic, Goring, Zog, François-Poncet ecc. verbalizzati da Galeazzo Ciano, con 40 documenti diplomatici inediti, Verona, Mondadori, 1948, pagg. 369-370. V Colloquio fra il Duce e il ministro degli Esteri del Reich von Ribbentrop presente il conte Ciano – Roma, 28 ottobre 1938-XVII, in CIANO, L’Europa verso la catastrofe…, cit., pagg. 373-378. VI PELLICCIA, A., Il maresciallo dell’aria Italo Balbo, Roma, Ufficio Storico dell’Aeronautica, 1998, pag. 197. VII Colloquio fra il Duce e il ministro degli Esteri del Reich, in CIANO, L’Europa verso la catastrofe…, cit., pag. 375. VIII Colloquio…, cit., ivi. IX Colloqui …, cit., pag. 377. X Colloquio…, cit., pag. 378. XI Colloquioe…, cit., pag. 375. XII Badoglio, rip. in Verbali delle riunioni tenute dal Capo di S.M. Generale, Vol. I, 1939-40, Roma, USSME, 1983, Verbale della seduta del 26 gennaio 1939, XVII, pag. 2. XIII CIANO, Galeazzo, Diario 1937-1943, a cura di Renzo De Felice, Milano, Rizzoli, 1990, 30 novembre 1938, pagg. 218-219. XIV ACERBO, Giacomo, Fra due plotoni di esecuzione, Rocca San Casciano, Cappelli, 1968, pag. 451 XV CIANO, Diario, cit., 9 febbraio 1939, p. 250. XVI BOTTAI, Giuseppe, Diario 1935-1944,(a cura di Giordano Bruno Guerri, Milano, Rizzoli, 1982, 4 febbraio 1939, pag. 141. XVII Colloquio con l’ambasciatore di Francia – Roma, 9 novembre 1938-XVII, in CIANO, L’Europa verso la catastrofe…, cit., pag. 381. XVIII Lettera all’ambasciatore a Londra, Grandi, prot. N.9161, del 14 novembre 1938-XVII – segreta, in CIANO, L’Europa verso la catastrofe…, cit., pag. 383. XIX LE MOAL, Frédéric, La perception de la menace italienne par le quai d'Orsay à la veille de la Seconde Guerre mondiale, intervento alle « Journées d’études France et Italie en guerre (1940-1944). Bilan historiographique et enjeux mémoriels », Roma, Ecole Française, 7 giugno 2012. XX Colloquio con l’ambasciatore di Francia – Roma, 2 dicembre 1938-XVII, rip. in CIANO, L’Europa verso la catastrofe…, cit., pagg. 386-387 XXI Colloquio con l’ambasciatore di Francia – Roma, 2 dicembre 1938-XVII, rip. in CIANO, L’Europa verso la catastrofe…, cit., pagg. 387. XXII SCHIAVON, Max, La perception de la menace italienne par l'état-major français à la veille de la Seconde Guerre mondiale, intervento alle « Journées d’études France et Italie en guerre

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(1940-1944). Bilan historiographique et enjeux mémoriels », Roma, Ecole Française, 7 giugno 2012. XXIII Rip. in APPELIUS, Mario, La tragedia della Francia: dalla superbia di ieri agli armistizi di oggi, Milano, Mondadori, luglio 1940, pag. 104. XXIV SCHIAVON, La perception… cit.. XXV SHD/GR 7N3449 – Attitude sur le front des Alpes/Avis du général Georges du 17 décembre 1938, rip. in SCHIAVON, op. cit, nota 4. XXVI STRONG, op. cit., pag. 83. XXVII Lettera al ministro degli Esteri del Reich von Ribbentrop – Roma, 2 gennaio 1939-XVII segreta, in CIANO, L’Europa verso la catastrofe…, cit., pag. 392. XXVIII Lettera.. cit, pagg. 393-394. XXIX NICOLSON, Harold, Diplomacy: a Basic Guide to the Conduct of Contemporary Foreign Affairs, Londra, 1939; la citazione è dalla traduzione italiana della III edizione inglese come Storia della diplomazia, Milano, Dall’Oglio, 1967, pagg. 160 e segg. XXX GRAFENCU, Grigore, Ultimi giorni del’Europa, Milano, Rizzoli, 1947, pagg. 123-124. XXXI Badoglio, rip. in Verbali, cit., pag. 2. XXXII Pariani, rip. in Verbali , cit., Verbale della seduta del 26 gennaio 1939, XVII, pag. 6. XXXIII Badoglio, rip. in Verbali, cit, pagg. 8-9. XXXIV Rip. in ATTANASIO, Sandro, Gli Italiani e la guerra di Spagna, Milano, Mursia, 1974, pag. 285. XXXV Ibidem, pag. 264. XXXVI CIANO, Diario, 28 marzo 1939, pag. 273. XXXVII CIANO, Diario, 15 marzo 1939, pag. 265. XXXVIII CIANO, op cit., 16 marzo 1939, pag. 266. XXXIX Mussolini, discorso del 26 marzo 1939 per il XX Annuale dei Fasci di Combattimento, rip. in VIVALDI, Raul – DE CARLO, Salvatore, Guerra per la nuova Europa – storia della seconda guerra mondiale – dalla campagna di Polonia all’occupazione della Norvegia, Roma, Officine grafiche De Carlo, 1941, pagg. 213-214. XL Mussolini, discorso cit., pag. 214. XLI Colloquio col ministro degli Esteri del Reich von Ribbentrop – Milano, 6.7 maggio 1939XVII, in CIANO, L’Europa verso la catastrofe…, cit., pagg. 428-429. XLII Colloquio…, cit., pagg. 428-429. XLIII Colloquio…, cit., pagg. 428-429. XLIV CIANO, Diario, 6-7 maggio 1939, pag. 294. XLV “La scelta di Mussolini”, discorso alla Camera dei Comuni del 13 aprile 1939, in SPENCER CHURCHILL, Winston, Passo a passo, Milano, Mondadori, 1947, pag. 336-337. XLVI CIANO, Diario, 13 maggio 1939, pag. 297. XLVII CIANO, Diario, 17 maggio 1939, pag. 298. XLVIII CIANO, Diario, 20 maggio 1939, pag. 299. XLIX CIANO, Diario, 21-22 maggio 1939, pag. 299. L Colloquio fra il Duce e il ministro degli Esteri del Reich, in CIANO, L’Europa verso la catastrofe…, cit., pag. 375. LI CIANO, Diario, 25 maggio 1939, pag. 301. LII Colloquio col ministro degli Esteri del Reich von Ribbentrop – Salisburgo, 11 agosto 1939XVII, in CIANO, L’Europa verso la catastrofe…, cit., pag. 453.

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LIII

Primo colloquio col Führer – Berchtesgaden 12 agosto 1939-XVII, in CIANO, L’Europa verso la catastrofe…, cit., pag. 457. LIV Primo colloquio col Führer …, cit., pag. 458. LV Secondo colloquio col Führer – Berchtesgaden 13 agosto 1939-XVII, in CIANO, L’Europa verso la catastrofe…, cit., pag. 458. LVI Secondo colloquio col Führer…, cit., pag. 458. LVII CIANO, Diario, cit., 1° settembre 1939, pag. 340. LVIII SHIRER, William L., Storia del Terzo Reich, 2 voll., Torino, Einaudi, 1990, vol. I, pag. 924. LIX SHIRER, op. cit, ivi, nota 2. LX Colloquio fra il ministro degli Esteri del Reich e il Duce, in presenza del conte Ciano e dell’ambasciatore von Mackensen – Roma, 10 marzo 1940-XVIII, in CIANO, L’Europa verso la catastrofe…, cit., pag. 530. LXI Non a caso le fonti in materia sono veramente poche. A parte il noto libro del generale C. FAVAGROSSA, Perché perdemmo la guerra, Milano, 1946, e quello dell’ex-ministro delle Finanze F. GUARNERI, Battaglie economiche, Milano, 1953, l’unica cosa da fare consiste nell’andare a consultare le fonti primarie come i dati forniti dall’Istituto Centrale di Statistica e i rapporti periodici della Ragioneria Generale dello Stato, come Il bilancio dello Stato negli esercizi dal 1930-31 al 1941-42 e Il bilancio dello Stato negli esercizi finanziari dal 1942-43 al 1947-48, nonché i resoconti annuali del Governatore della Banca d’Italia dal 1939 al 1946. Tra le poche fonti in materia, quelle più vicine a questo specifico argomento sembrano essere il libro del generale del commissariato G. MAYER, Teoria economica delle spese militari, Roma, 1961 e quelli di E. CORBINO, L’economia italiana dal 1861 al 1961, Bologna, Zanichelli, 1962 e di G. TONIOLO, La Banca d’Italia e l’economia di guerra Roma-Bari, Laterza 1989. Il lavoro più recente e forse il migliore in assoluto sulla finanza di guerra è quello del generale L. LUCIANI, L’economia e la finanza italiana nel secondo conflitto mondiale, Roma, Ente Editoriale per il corpo della Guardia di Finanza, 2009. Altri studi più brevi includono: G. VALGUARNERA, Seconda guerra mondiale: la struttura economica italiana alla vigilia del secondo conflitto, su «Rivista marittima», CXL, 2007, 5, pp. 95-104; P. FERRARI – A. MASSIGNANI, Economia e guerra in Italia 1943/1945, su «Storia Militare» VI, 1999, 72 e 73, pp. 39-49 e 36-46; L. LUCIANI, L’economia e la finanza di un paese in guerra – l’esperienza italiana del 1940-1945, su «Rivista della Guardia di Finanza», XLIX, 2000, 4, pp. 1353-1388. LXII Rip. in MONTANARI, Mario, L’Esercito Italiano alla vigilia della 2ª Guerra Mondiale, roma, USSME, 1982, pag 287. LXIII CIANO, Diario, cit., 6 agosto 1939, pag. 325. LXIV Rip. in MONTANARI, op. cit., pag 289. LXV Rip. in MONTANARI, op. cit., pag 290. LXVI Il rapporto di Graziani è stato pubblicato integralmente dal generale Mario MONTANARI nel suo L’Esercito Italiano alla vigilia della 2ª Guerra Mondiale, cit., pagg. 503-504. LXVII I dati sono presi dal libro del generale Carlo FAVAGROSSA, Perché perdemmo la guerra, Milano, Rizzoli, 1962. LXVIII Cfr. Le ultime cifre sulla produzione automobilistica nazionale, su “Le vie d’Italia”, anno XLVII, n. 7, luglio 1941, pag. 732. LXIX Idem. LXX R. V., Relazione sulle esperienze sui carboni nazionali fatte dalla R. Marina, su «Rivista Marittima», anno I, n. IX, settembre 1868, pag. XXIX..

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LXXI

Cfr. LUCIANI, Luciano, L’economia e la finanza italiana nel secondo conflitto mondiale, Roma, Ente Editoriale per il Corpo della Guardia di Finanza, 2009, pp. 55-93 e 102-103. LXXII CIANO, Diario, 24 novembre 1939. LXXIII CIANO, op. cit., 30 novembre 1939. LXXIV DEI SABELLI, Luca, Il controllo sui traffici marittimi e l’Italia, Roma, Istituto Nazionale di Cultura Fascista, 1940, pag. 42. LXXV Colloquio fra il ministro degli Esteri del Reich e il Duce, in presenza del conte Ciano e dell’ambasciatore von Mackensen – Roma, 10 marzo 1940-XVIII, in CIANO, L’Europa verso la catastrofe…, cit., pag. 513. LXXVI Ibidem. LXXVII CIANO, Diario, 4 marzo 1940. LXXVIII CHURCHILL, op. cit., ivi. LXXIX BERNOTTI, Romeo, L’evoluzione della guerra marittima, in MINISTERO DELLA MARINA – UFFICIO COLLEGAMENTO STAMPA, Almanacco navale 1941– XIX, Milano, Alfieri & Lacroix, 1940, p. XIV. LXXX MINISTERO DELLA MARINA – UFFICIO COLLEGAMENTO STAMPA, Almanacco navale 1941– XIX, voce “navi di linea” per le nazioni “Italia”, “Francia”, “Germania” e “Gran Bretagna”, Milano, Alfieri & Lacroix, 1940. LXXXI Colloquio fra il ministro degli Esteri del Reich e il Duce, in presenza del conte Ciano e dell’ambasciatore von Mackensen – Roma, 10 marzo 1940-XVIII, in CIANO, L’Europa verso la catastrofe…, cit., pag. 530. LXXXII Colloquio col ministro degli Esteri del Reich von Ribbentrop – Milano, 6.7 maggio 1939-XVII, in CIANO, L’Europa verso la catastrofe…, cit., pag. 433. LXXXIII Primo colloquio col Führer – Berchtesgaden 12 agosto 1939-XVII, in CIANO, L’Europa verso la catastrofe…, cit., pag. 455. LXXXIV SPEER , Albert, Memorie del Terzo Reich, Milano, Mondadori, 1972, cap. V, pagg. 9798 LXXXV Graziani, rip. in Verbali, cit., pag. 39. LXXXVI APPELIUS, Mario, La tragedia della Francia: dalla superbia di ieri agli armistizi di oggi - Generali del 1940 e… generali del 1914!, corrispondenza da “X”, in data 15 maggio 1940, Milano, Mondadori, 1940, pag. 80. LXXXVII CIANO, op. cit., 6 dicembre 1939. LXXXVIII CIANO, op. cit., dalla data del 9 settembre 1939 in poi. LXXXIX Rip. in PELAGALLI, Sergio, Il generale Efisio Marras addetto militare a Berlino (19361943), Roma, USSME, 1994, pag. 96. XC ACERBO, op. cit., pagg. 413-414. XCI CIANO, Diario, 15 marzo 1939, pag. 265. XCII CIANO, op cit., 16 marzo 1939, pag. 266. XCIII Idem, 18 agosto 1939, pag. 330. XCIV Idem, 9 settembre, 1939, pag. 344. XCV Idem, 10 settembre, 1939, pagg. 344-345. XCVI BOTTAI, Giuseppe, Diario 1935-1944, cit., 30 settembre 1939, pag. 165. L'edizione del 1977 alla stessa data, pagina 144, dice: «Con chi, contro chi? un cenno rapido “Finché queste riserve non ci saranno, non potremo impegnarci né col gruppo A né col gruppo B". Dunque, ammette ancora una scelta tra i due gruppi contendenti. abbiamo ancora libertà di manovra dei nostri interessi».

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XCVII

BOTTAI, Vent’anni e un giorno, cit, 8 dicembre 1939, pag. 151. Nell'edizione del 1982 alla stessa data si trova: «Qui ci sono due imperi in lotta, due leoni. Non abbiamo interesse che stravinca nessuno dei due, chiunque sia. Se vincesse l’Inghilterra non ci lascerebbe che il mare per fare i bagni. Se vincesse la Germania, ne sentiremmo il peso». XCVIII CIANO, Diario, cit., 4 marzo 1940, pag. 402. XCIX CIANO, op. cit., 11 aprile 1940, pag. 418. C BOTTAI, Vent’anni e un giorno, 9 marzo 1940, pag. 163. CI ANFUSO, Filippo, Da Palazzo Venezia al Lago di Garda (1936-1945), Roma, Edizioni del Settimo Sigillo, 1996, pag. 129. Il libro fu pubblicato per la prima volta negli Anni ‘50 e questo è il motivo per cui questo brano è citato anche dal generale Emilio FALDELLA nel suo, L’Italia e la Seconda Guerra Mondiale - revisione di giudizi, 3ª edizione, Bologna, Cappelli, serie Storia e Politica, n. 121, 1965, pag. 29. CII ROATTA, Mario, Otto milioni di baionette, Verona, Mondadori, 1946, pag. 91. CIII Rip. in FALDELLA, L’Italia e la Seconda Guerra Mondiale, cit., pag. 28. CIV Rip. in FALDELLA, op. cit., pag. 29. CV Idem, pag. 30. CVI LETO, Guido, OVRA – Fascismo e antifascismo, Rocca San Casciano, Cappelli, 1951, pagg. 211- 213. CVII Mussolini, rip. in BOSCHESI, Benedetto Palmiro, L’Italia nella II Guerra Mondiale.10-VI40, 25-VII-43, Milano, Mondadori, 1971, pag. 8. CVIII ACERBO, op. cit, pag. 427. CIX Ibidem. CX Oltre alle già citate memorie di Roatta, che qui sono la fonte principale, e tanto per restare nel campo delle pubblicazioni ufficiali, si veda la relazione ufficiale sull’occupazione dei territori metropolitani francesi del generale Domenico SCHIPSI, L’occupazione italiana dei territori metropolitani francesi (1940-1943), Roma, USSME, 2007, in particolare alle pagine 34 e 35. CXI Colloquio col ministro degli Esteri del Reich von Ribbentrop – Monaco, 19 giugno 1940XVIII, in CIANO, L’Europa verso la catastrofe…, cit., pagg. 562-564. CXII Anonimo, XXXIII L’armistizio con la Francia, in CIANO, L’Europa verso la catastrofe…, cit., pag. 561. CXIII Colloquio col ministro degli Esteri…, cit., pagg. 562-564. CXIV Per la campagna alpina del 1940 si veda: GALLINARI, Vincenzo, Le operazioni del giugno 1940 sulle Alpi Occidentali, Roma, USSME, 1981; per l’occupazione: SCHIPSI, op. cit. CXV ACERBO, op. cit., pag. 457. CXVI Idem, pagg. 457-8. CXVII Idem, pag. 457. CXVIII SCHIPSI, op. cit., pgg. 34 e 35. CXIX GALLINARI, op. cit., pagg. 218-220. CXX Secondo colloquio col Führer – Berchtesgaden 13 agosto 1939-XVII, in CIANO, L’Europa verso la catastrofe…, cit., pag. 458. CXXI Colloquio fra il ministro degli Esteri del Reich e il Duce, in presenza del conte Caino e dell’ambasciatore von Mackensen – Roma, 10 marzo 1940-XVIII, in CIANO, L’Europa verso la catastrofe…, cit., pag. 530.

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CXXII

CERNUSCHI, Enrico, “Storia insospettabile della Guerra di Grecia - Il quadro strategico e navale del conflitto italo - ellenico, 1940-1941”, su “Storia Militare”, anno XVIII, n. 7, luglio 2011. CXXIII PRO ADM 116/4200 Enclosure in 106/24/39 Packer to Waterloo, Athens 24 Jan. 1939. CXXIV PETRACCHI, Giorgio, Da San Pietroburgo a Mosca La diplomazia italiana in Russia 1861/1941, ed. Bonacci, Roma, 1993. MEZZETTI, Fernando, Fascio e martello Quando Stalin voleva allearsi col Duce, Milano, Greco e Greco, 1997. CXXV PRO CAB 79/4, COS (40) 131st meeting, 14 May 1940 (Allied Military Action in the Even of War with Italy). Andrew B. CUNNINGHAM, l’Odissea di un marinaio, Milano, Garzanti, 1952, pagg. 29-40, CERNUSCHI, Enrico, “Storia insospettabile della Guerra di Grecia - Il quadro strategico e navale del conflitto italo - ellenico, 1940-1941”, su “Storia Militare”, anno XVIII, n. 7, luglio 2011. CXXVI CERNUSCHI, op. cit., nota 13. CXXVII Badoglio, rip. in, Verbali delle riunioni tenute dal Capo di Stato Maggiore Generale, Vol. I, 1939-40, seduta del 17 ottobre 1940, Roma, USSME, 1983, pag. 101. CXXVIII Badoglio, rip. in BOSCHESI, op. cit., pag. 35. CXXIX ACERBO, op. cit., pagg. 413-414. CXXX CIANO, Diario, 15 marzo 1939, pag. 265. CXXXI CIANO, Diario, 18 agosto 1939, pag. 330. CXXXII BOTTAI, Diario 1935-1944, cit., 30 settembre 1939, pag. 165. CXXXIII BOTTAI, Vent’anni e un giorno, 9 marzo 1940, pag. 163. CXXXIV CIANO, op. cit., 11 aprile 1940, pag. 418. CXXXV ANFUSO, Da Palazzo Venezia al Lago di Garda (1936-1945), pag. 129. CXXXVI Rip. in FALDELLA, L’Italia e la Seconda Guerra Mondiale, cit., pag. 28. CXXXVII Idem, pag. 30. CXXXVIII CIANO, Diario, 9 settembre, 1939, pag. 344. CXXXIX CIANO, Diario, 10 settembre, 1939, pagg. 344-345. CXL ROATTA, Otto milioni di baionette, pag. 91.

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