SECONDA GUERRA MONDIALE 1940-'45

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Seconda guerra mondiale 1940-45: racconti di vita a cura di Pio Secciani

Ottobre 2018

CIP (Cataloguing in Publication)

a cura della Biblioteca della Toscana Pietro Leopoldo

Seconda guerra mondiale 1940-45 : racconti di vita / a cura di Pio Secciani ; [presentazione di Eugenio Giani ; prefazione di Valentina Vadi]. - Firenze : Consiglio regionale della Toscana, 2018

1. Secciani, Pio 2. Giani, Eugenio 3. Vadi, Valentina

940.53

945.590916

Guerra mondiale 1940-1945

Volume in distribuzione gratuita

Associazione culturale “Meleto vuole ricordare”

In copertina particolare del monumento in memoria dell’eccidio perpetrato a Meleto dai nazi-fascisti il 4 luglio 1944 . Foto di proprietà dell’associazione “Meleto vuole ricordare”

Le immagini nel racconto di Peri (pag. 205) sono di proprietà dell’autore.

Consiglio regionale della Toscana Settore “Rappresentanza e relazioni istituzionali ed esterne. Comunicazione, URP e Tipografia” Progetto grafico e impaginazione: Daniele Russo Pubblicazione realizzata dal Consiglio regionale della Toscana quale contributo ai sensi della l.r. 4/2009

Ottobre 2018

ISBN 978-88-85617-23-0

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5 Sommario Presentazione 7 Prefazioni 9 I racconti Tornerò presto… Fabrizia Landi – San Giovanni V.no (Ar) 19 Mia madre Lidia Calderone - Palermo 29 Give me a chocolate Carla Gazineo – Collesalvetti (Li) 35 I nonni raccontano Filippo Secciani – Cavriglia (Ar) 41 28 Occhi immensi Alessandro Silva – Parma 49 Un disertore Autore: Simone Lisi - Firenze 57 Chiamati a morire Maria Giovanna Panarotto – Pratovecchio-Stia (Ar) 73 Attraverso nuovi occhi. Pupilla (bambina) Paolo Borsoni (Ancona) 79 Con gli occhi di una bambina Ada Pondini – Cavriglia (Ar) 89 8 settembre 1943 Licio Moni – Genova 99 Cuordiconiglio e Cuordileone Vittoria Sagnotti – Fondi (Lt) 105 Un’infanzia di guerra Paolo Pratesi - Firenze 115 La fiaccola accesa Bruno Bini – Cavriglia (Ar) 123 Corri Elsa, corri! Dina Armini - Firenze 135 Maggio 1944 Massimo Merlini – San Giovanni V.no (Ar) 149
6 La guerra di Cosimo Rossella Valentini – Montevarchi (Ar) 157 Se mai la guerra passasse di qui Carola Ciotti – Tavarnelle Val di Pesa (Fi) 179 Sfollati nelle Ville Paolo Melani - San Giovanni V.no (Ar) 189 Mario Peri. Vita e guerra di un deportato civile in un campo di concentramento nazista Matteo Grasso – Monsummano Terme (Pt) 205 Il giorno dei ricordi Alba Giannini - Firenze 219 Il peso della memoria Mauro Barbetti – Osimo (An) 223 Ex voto! Mariano Sartore – Cartigliano (Vc) 229 La terra in tasca Laura Campobello - Firenze 235 Il corto mitra appoggiato in un angolo buio Giovanni Bergamini – Modena 251 Natività Marco Tonello – Marcallo con Casone (Mi) 267 Il giorno della memoria Mario Bonaccini – Figline e Incisa Valdarno (Fi) 275 Il sole splendeva Carlo Banchieri – Capannori (Lu) 281 Ca’ Berna Guergana Radeva Sacheva – Scansano (Gr) 289 Estate 1944. “Passaggio del fronte” Maria Paola Fineschi – Cavriglia (Ar) 297 La pace in mare Andrea Zarroli - Livorno 307 Il tonfo sordo Mauro Marzi – Lastra a Signa (Fi) 319 Seconda guerra mondiale 1940 / 1945. Racconti di vita Nello Brogi – Sesto Fiorentino (Fi) 335

Il volume “Seconda guerra mondiale 1940-45: racconti di vita” a cura di Pio Secciani si inserisce perfettamente in una delle vocazioni principali che la collana del Consiglio Regionale si è posta: quella di mantenere viva la memoria sui terribili anni della II Guerra mondiale, di dare voce a storie - anche meno conosciute - ma che rappresentano uno spaccato importantissimo della nostra identità toscana. Come sappiamo anche la nostra Regione ha pagato un tributo altissimo in termini di vite umane, è stata teatro di eroiche operazioni partigiane ma, purtroppo, anche di terribili rappresaglie e vere proprie stragi che hanno colpito civili, donne e persino bambini. Meleto è una di queste e il testo di oggi, che raccoglie i lavori del concorso letterario nazionale per racconti brevi inediti Seconda Guerra Mondiale 1940-1945: racconti di vita promosso dalla Associazione culturale “Meleto vuole ricordare” in collaborazione con il Comune di Cavriglia, è un lavoro dall’alto valore storico e culturale.

Voglio unirmi ai sinceri ringraziamenti della Consigliera regionale Valentina Vadi nei confronti dell’Associazione “Meleto vuole ricordare” per aver svolto un’attività di tale spessore che, da oggi, va a impreziosire la collana Edizioni dell’Assemblea e, attraverso questa, il desiderio di verità e giustizia che anima ancora il nostro territorio.

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Presentazione
Eugenio Giani Presidente del Consiglio regionale della Toscana Ottobre 2018

Questo volume, edito dal Consiglio Regionale della Toscana, raccoglie gli elaborati che hanno partecipato alla prima edizione del concorso letterario nazionale per racconti brevi inediti sul tema «Seconda Guerra Mondiale 1940-1945: racconti di vita», promosso dalla Associazione culturale «Meleto vuole ricordare» in collaborazione con il Comune di Cavriglia. L’Associazione «Meleto vuole ricordare» si è costituita nel 1998 allo scopo di conservare la memoria ed il ricordo della strage nazi-fascista compiuta il 4 Luglio del 1944 nel borgo cavrigliese, che provocò la morte di 93 civili tra i 15 ed gli 89 anni. Il concorso letterario – con i racconti pervenuti da diversi luoghi della Toscana e dell’Italia - ha il merito di ampliare la prospettiva dalla quale si guarda ad uno dei periodi più oscuri e dolorosi della storia del nostro paese.

Il contributo della provincia di Arezzo, del Valdarno, dei suoi territori e di Cavriglia, alla storia della Resistenza e della Lotta di Liberazione dal nazifascismo, è un contributo alto in termine di vite umane. Numerosi furono gli eccidi in cui persero la vita, in maniera drammatica e violenta, tanticivili,uomini,donne,bambini:CivitellainValdichiana,SanPancrazio, Vallucciole, e poi Massa dei Sabbioni, Meleto, Castelnuovo dei Sabbioni, Santa Lucia, Badia a Ruoti, Pogi, Matole, solo per ricordarne alcuni dei più significativi. Il Valdarno, nell’estate del ’44, mentre le truppe angloamericane cercavano di risalire la penisola e sfondare la Linea Gotica per liberare il Nord Italia, fu teatro di scontri, rastrellamenti e bombardamenti tragici prima di tornare alla libertà: il 16 luglio del 1944 fu liberata Arezzo, il 19 Luglio Montevarchi, il 24 Luglio San Giovanni Valdarno e Cavriglia, mentre Firenze sarà liberata nell’Agosto del 1944.

Il Valdarno è stato un territorio che ha dato un contributo significativo anche nella lotta partigiana contro i tedeschi ed i fascisti: tanti giovani, animati da valori ed ideali di libertà, uguaglianza, solidarietà partirono alla volta dei monti ed entrarono nelle brigate partigiane. Pio Borri, Eduino Francini, Licio Nencetti, Sante Tani, Guerrino Isidori, Alfredo Merlini, Guelfo Billi sono soltanto alcuni dei nomi di rilievo, la maggior parte dei quali caduti sotto i colpi dei nazi-fascisti poco più che ventenni. Sarebbe importante e significativo che questa storia, la storia di questi uomini e di queste donne, fosse conosciuta, studiata ed approfondita nelle scuole: c’è un libro che più di altri potrebbe essere utile a questo scopo, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano di Antonio Curina, uno dei protagonisti della Lotta di Liberazione nella provincia di Arezzo, pubblicato in prima edizione nel 1957 e ristampato in occasione dei 70 anni dalla Liberazione di Arezzo, nel

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2014. In questo volume, con dovizia di particolari, si ricostruisce la storia della Liberazione ad Arezzo e in provincia, con un ampio capitolo dedicato anche al Valdarno, e dunque, anche a Cavriglia.

A Meleto fu perpetrata la strage più dolorosa e più drammatica vissuta dalla comunità cavrigliese: oltre 90 furono i morti, trucidati con una violenza ed una barbarie inaudite.

Oggi, 74 anni dopo quella strage, commemoriamo quelle vittime insieme a tutte le vittime della barbarie nazi-fascista dal 1943 al 1945 perché in noi c’è un profondo debito di riconoscenza, un ‘dovere morale’ del ricordo e della memoria: quegli uomini e quelle donne che nel silenzio della loro vita quotidiana in quei mesi di guerra stavano dalla parte dei partigiani, quei giovani partigiani partiti per combattere e per liberare i nostri paesi, hanno dischiuso a noi – oggi – la possibilità di una vita libera, pacifica e democratica che dovremmo difendere e preservare ogni giorno da quanti vorrebbero farla scivolare di nuovo verso l’odio, la sopraffazione e la guerra.

Per questo i giovani devono sapere e conoscere. Ma non solo: devono conoscere anche per fare dei valori e degli ideali della Resistenza una pratica quotidiana, rendendo, in questo modo, la memoria ‘attiva’ nel presente. Scrive Dacia Maraini che la «Resistenza non può essere solo memoria del passato, ma deve essere esercizio del presente». In questo modo, tutelando le libertà ed i diritti, sempre dalla parte dei più deboli, contro le ingiustizie e le diseguaglianze economiche e sociali, anche oggi i ragazzi e le ragazze possono contribuire a tener vivi i valori della Resistenza e della Lotta di Liberazione, oltre 70 anni dopo.

Il volume, raccogliendo racconti brevi che hanno al centro la vita delle nostre comunità cittadine e rurali negli anni della Seconda Guerra Mondiale, ha il pregio di rispondere perfettamente a questo scopo: permettere di conservare, presso le giovani generazioni, la memoria e il ricordo di quegli uomini e di quelle donne che hanno contribuito a dare all’Italia l’opportunità di essere un paese libero.

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Valentina Vadi Consigliere della Regione Toscana

Il valore del racconto, in una terra di Memoria

La promozione del Concorso letterario “Seconda Guerra Mondiale 1940 –45:raccontidivita”, ideato ed organizzato dall’Associazione Meleto Vuole ricordare, presieduta da Pio Secciani, che da ormai vent’anni opera con grande attenzione e sensibilità per la salvaguardia e la tutela della memoria del nostro territorio, in particolare per quello della comunità di Meleto, è stata un’operazione davvero molto importante e siamo felici che il Consiglio Regionale della Toscana abbia voluto premiare con la pubblicazione il progetto, che abbiamo fin dall’inizio promosso, patrocinato e contribuito ad organizzare.

Sono trascorsi ormai più di 73 anni da quando, tra il 4 e l’11 luglio 1944, l’Unità Hermann Goering della Wehrmacht trucidò barbaramente 192 civili maschi innocenti in una serie di terribili massacri messi in atto in cinque frazioni del Comune di Cavriglia: Meleto Valdarno, Castelnuovo dei Sabbioni, San Martino, Massa Sabbioni e Le Matole. Con il trascorrere del tempo, i testimoni di quei terribili giorni stanno scomparendo, e con loro sta per scomparire anche il ricordo di chi è stato spettatore diretto di quei drammatici eventi. Per non rendere vano il sacrificio di quelle vite innocenti è sempre più necessario conoscere e comprendere gli insegnamenti lasciati in eredità dal nostro passato. Per questo credo che ognuno di noi si debba sentire responsabile della trasmissione della Memoria e dei valori del rispetto della vita umana. Una responsabilità che si è assunta l’Associazione Meleto vuole ricordare con grande impegno nel corso degli anni e che l’ha portata a raggiungere traguardi importanti per la nostra comunità nel corso del tempo come questa pubblicazione, che oltre ad avere il merito di raccogliere memorie, diari e racconti della seconda guerra mondiale provenienti da tutta Italia, è riuscita soprattutto a fare emergere particolari e dettagli del conflitto all’interno dei confini del nostro territorio grazie a racconti nuovi, inediti, fino ad oggi sconosciuti; terra fertile per storici e ricercatori che nel futuro vorranno approfondire e fare luce su nuovi aspetti di questo terribile massacro.

Ed in questo percorso si è inserito perfettamente il concorso letterario promosso dall’associazione “Meleto vuole ricordare”, da noi convintamente sostenuto. Un’iniziativa di grande valore, sia letterario che culturale. Dopo la “maledetta” estate del 1944 se abbiamo avuto la forza di ripartire lo dobbiamo al coraggio di coloro che hanno visto uccidere i propri cari dai fucili Nazifascisti, oppure hanno sacrificato la propria vita nel tentativo

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di salvarne altre. Il gesto di amore di queste persone nei confronti della propria comunità dovrà rimanere per sempre nella nostra Memoria. E ciò sarà possibile anche grazie all’impegno dei tanti partecipanti che hanno trasformato alcune storie dei giorni più difficili del secondo conflitto mondiale in una preziosa testimonianza che presto potrà arricchire tutti coloro che avranno modo di sfogliare le pagine di questo importante volume. Un altro tassello fondamentale del mosaico da tutelare con tutte le nostre forze, della nostra memoria.

Sindaco di Cavriglia

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“Un popolo senza memoria è un popolo senza futuro”, così scriveva lo scrittore e attivista politico cileno Luis Sepulveda. Questo verso - che dà dignità poetica ad una grande verità – anima da oramai 20 anni l’attività dell’Associazione Meleto Vuole Ricordare che si è posta fin da subito l’obiettivo di raccogliere, conservare e tramandare alle giovani generazioni le memorie di una delle pagine più drammatiche della storia del nostro Paese, quale è certamente stata la miriade di eccidi di civili, uomini, donne e bambini, perpetrati dai nazi-fascisti ed in particolare quella che il quattro luglio 1944 ha privato un piccolo paese del Valdarno aretino, Meleto, della quasi totalità della propria popolazione maschile: 93 uomini, di età compresa da 15 a 89 anni, trucidati e poi dati alle fiamme.

Riteniamo che mantenere viva e vitale la memoria di quella pagina di storia sia un obbligo civico e morale per istituzioni pubbliche, private e singoli cittadini, soprattutto in una fase come quella che stiamo vivendo che vede afflati revisionisti o negazionisti tanto deplorevoli quanto pericolosi.

Questo libro raccoglie i racconti pervenuti alla nostra Associazione in occasione di una delle sue ultime iniziative, ovvero la promozione di un concorso letterario dal titolo “Seconda guerra mondiale 1940-45. Racconti di vita” che si è svolto a cavallo degli anni 2015/2016 e che si è concluso con la cerimonia di premiazione in occasione dell’anniversario dell’eccidio di Meleto Valdarno il quattro luglio 2016.

In questi racconti traspare la quotidianità stravolta di una popolazione civile vittima di uno stato di guerra e di occupazione straniera, insieme a piccoli e grandi ricordi di famiglia di cui ciascuno degli autori ha voluto con dignità rendere partecipi i lettori.

Perché la vera memoria è una memoria collettiva. E perché chi non ha vissuto quegli anni può apprendere gli alti valori della Resistenza e della Libertà solo prendendo esempio dalle piccole e grandi storie dei propri padri e nonni.

Io che scrivo, ad esempio, che non ero all’epoca nato, devo molto alla sensibilità per il tema della memoria che mi ha trasmesso mio padre, prigioniero in un campo di concentramento tedesco, la cui storia è raccontata in una delle tante, belle e significative pagine di questa raccolta.

Questo è uno dei libri che dovrebbe essere letto principalmente dai giovani perché loro è il futuro e l’onere di preservare la libertà e la pace che i nostri genitori e nonni ci hanno conquistato e consegnato.

La libertà, infatti, non è qualcosa che una volta acquisita non può più esserci tolta, ma deve essere conquistata e mantenuta giorno dopo giorno,

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come un fiore che abbisogna di cure per preservare intatta la propria bellezza.

Ringrazio gli autori dei racconti per il loro appassionato lavoro. La stampa di questo volume ci permette di lasciare ai posteri un pezzo importante della nostra storia.

Ringrazio le amministrazioni comunali del Comune di Cavriglia che si sono susseguite in questi vent’anni per il costante appoggio alle nostre iniziative.

Ringrazio i rappresentati del Consiglio Regionale della Toscana che hanno creduto in questa pubblicazione e che l’hanno resa possibile.

Grazie Consigliera Valentina Vadi.

Grazie Presidente Eugenio Giani.

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racconti
I

Tornerò presto…

Alda arrivò in classe con il respiro mozzato per aver salito di corsa lo scalone; la sua amica e compagna di banco, Miriam, non era ad attenderla fuori dal portone della scuola come tutte le mattine. Non c’erano stati bombardamenti la notte precedente, era vero, ma la guerra poteva portar via al mattino chi avevi salutato la sera senza sapere che non l’avresti rivisto mai più.

Invece, per fortuna, Miriam stava benissimo: in quel momento, ignara della preoccupazione dell’amica, si trovava su un tram diretto alla periferia di Firenze, perché quella mattina ci sarebbe stata l’interrogazione di matematica e lei proprio non aveva studiato. Così, con un’amica si erano prese una vacanza extra, e non importava se il cielo era tutto coperto … si sarebbero divertite ugualmente. C’era stato anche un piccolo brivido, che rendeva tutto più eccitante: nello stesso tram avevano visto la preside, e certo si era accorta di loro. La mattina dopo l’aspettava una bella strigliata.

Scese al capolinea, la pioggia promessa dall’alba iniziò a cadere; Miriam aprì l’ombrello di scatto sotto l’acquazzone, improvviso come la voce maschile che si levò dietro di lei: “Ma vuoi accecarmi?”

Qualche ora dopo, don Pio Poggi pedalava per le strade di Firenze alla massima velocità consentita dalla sua vecchia bicicletta e dalla corporatura robusta; era necessario tornare subito in parrocchia, ai SS. Gervasio e Protasio, perché era suonato l’allarme aereo e voleva assicurarsi che tutti fossero al sicuro nel grande rifugio da lui allestito non lontano dalla chiesa. Vide uno dei suoi ragazzi, Mario, uno studente del quinto anno di medicina ormai prossimo alla laurea. Gli gridò di far presto, e lui di rimando disse di non attenderlo al rifugio, perché stava recandosi da un ferito che aveva assistito il giorno precedente. Quell’uomo era uno squadrista, ma per Mario, che pure nutriva forti sentimenti antifascisti, non faceva differenza: un medico non fa politica, sosteneva, e deve essere di aiuto a chiunque abbia bisogno di lui.

Don Pio Poggi era intanto arrivato alla canonica; l’allarme non suonava

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più, segno che stavano arrivando i bombardieri. Per strada si affrettavano gli ultimi ritardatari, correndo verso il rifugio; don Pio buttò la bicicletta contro il muro ed entrò chiudendo la porta, mentre nel cielo si sentiva il ronzio cupo e pesante degli aerei carichi di bombe.

Nel pomeriggio, finite le lezioni, Alda rientrò a casa in via Fibonacci dove l’attendevano i genitori e i fratelli: suo padre era direttore al Monte dei Paschi e la guerra non aveva portato molte limitazioni; la ferita al cuore ricevuta durante la Grande Guerra, lui ragazzo del ’99 e adesso tenente colonnello, lo aveva in qualche modo “salvato” dalla prima linea; il cibo non mancava, anche se il razionamento rendeva impegnativo mettere a tavola una famiglia di sei persone. Spesso la madre di Alda, la signora Tina, invitava Miriam a pranzare da loro, perché le provviste che la ragazza riceveva da casa finivano in gran parte alla signora presso cui abitava a pensione, anche lei provata dalla guerra e con una figlia da mantenere.

Tornando a casa in tram, Alda ripensava spesso a come aveva conosciuto la sua amica: il primo giorno di scuola della prima superiore, sullo stesso tram, si erano scambiate poche parole e avevano scoperto di frequentare lo stesso istituto. Da allora, compagne di banco e di avventure, non c’era giorno che non avessero passato insieme in quella Firenze devastata dalla guerra. Si erano scambiate racconti di improvvisi risvegli notturni per l’allarme aereo e di corse al rifugio con i libri di scuola; dell’anziano signore dal cognome un po’ buffo (il signor Cinque), che era salito un momento dal rifugio per vedere la situazione nonostante le proteste della moglie ed era stato colpito dall’ultima bomba; dell’amica schiacciata dal cancello per l’onda d’urto di un’altra esplosione…

Ma a diciotto anni la forza della vita supera anche gli orrori della guerra. A casa, Alda trovò Miriam tutta eccitata: no, non doveva preoccuparsi, come vedeva non era successo niente, niente di brutto, anzi… “Ho conosciuto un ragazzo, si chiama Franco Del Nero … gli ho quasi sbattuto l’ombrello in faccia, mi ha trattato malissimo, ma poi … mi sono scusata, gli ho detto che avevo marinato la scuola perché non volevo essere interrogata in matematica … non ci capisco niente. Lui, beh, lui ha detto che può spiegarmi qualcosa, studia architettura; domani ci troviamo su una panchina in piazza D’Azeglio”.

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La parrocchia dei SS. Gervasio e Protasio a Firenze, quella di Alda, durante l’occupazione tedesca era divenuta un centro cruciale dell’antifascismo: oltre al rifugio antiaereo, don Pio Poggi aveva allestito un piccolo ambulatorio che con l’incalzare degli eventi faceva sempre più le funzioni di ospedale; in parrocchia trovavano rifugio ricercati politici, renitenti alla leva, ebrei, si raccoglievano armi per i partigiani … lì si trovava spesso anche Mario, il ragazzo che don Pio aveva incontrato giorni prima. Ex-allievo del sacerdote al liceo-ginnasio Michelangelo e vicepresidente dell’Azione Cattolica giovanile della parrocchia, Mario passava molte ore ad assistere i feriti ricoverati nel piccolo ospedale di don Poggi. Era infatti allievo ufficiale medico, ma non amava questa guerra che era stato costretto a combattere. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, era entrato nel gruppo clandestino della parrocchia e ogni sua licenza era dedicata ai feriti e all’attività clandestina, che nel 1944 si era andata intensificando anche nelle colline vicino ad Arezzo dove si recava a cavallo. Non era più il ragazzino che si sbucciava le ginocchia arrampicandosi sulla palma del giardino di don Poggi, ma la sua natura vivace e altruista era rimasta la stessa. Pochi mesi prima, la notte del 18 gennaio 1944, il bombardamento della collina di Camerata aveva visto Mario accorrere con don Poggi per aiutare chi era rimasto ferito e cercare di ricomporre i cadaveri smembrati tra gli olivi … Le grida di dolore, l’odore acre del sangue moltiplicavano gli sforzi di Mario che per tutta la notte era rimasto sulla collina senza risparmiarsi, finché si era fatta l’alba. ***

Miriam si sentiva quasi in colpa per essere così contenta mentre tutto intorno a lei era paura e desolazione: aveva rivisto Franco altre volte, ma la matematica non era più un pretesto. Quel ragazzo era come una luce nella notte, per lei che era lontana da casa per frequentare quella scuola così prestigiosa e così severa. C’era Alda, sì, la sua compagna di banco … ogni tanto la preside le convocava - sulle labbra di Miriam affiorò l’ombra di un sorriso al ricordo - per far loro una nuova ramanzina: passava il caldarrostaio una mattina d’inverno, e loro due, a scuola, avevano calato dalla finestra un cestino con i soldi; accanto a lei Alda faceva il palo e, mentre Miriam tirava su la corda con il cestino pieno di castagne, si era

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sentita battere una mano sulla spalla. Sicura che fosse l’amica, si era voltata sorridendo trovandosi invece davanti la preside, che intanto aveva fatto cenno ad Alda di allontanarsi … Dalla sorpresa, Miriam lasciò andare la corda e il cestino cadde nella piazza con tutto quel ben di Dio. “Presentini e Santini! Sempre voi due! Subito nel mio ufficio!”. E quella volta che per marinare l’ora di ginnastica si erano chiuse nello stanzino del carbone con i loro grembiuli bianchi? Le aveva trovate la bidella dopo tante ricerche, e per punizione la preside aveva ordinato loro di stare sotto il grande orologio dell’atrio, lì in piedi con i loro grembiuli tutti sporchi di carbone, fino alla fine delle lezioni perché tutte le altre ragazze potessero vederle … Il padre di Alda, l’integerrimo tenente colonnello, veniva convocato ogni tre per due e messo al corrente delle marachelle della figlia e dell’amica. “Santini, mi meraviglio di te! Prometti a tuo padre di comportarti bene!”, finché l’ufficiale, stanco di queste perdite di tempo, perse la pazienza e si rivolse alla preside: “Signora, mi manda a chiamare per queste ragazzate?”

Miriam sorrise ancora. Adesso, in quel pomeriggio di sole, stava aspettando Franco appoggiata alla balaustra di piazzale Michelangelo; sotto di lei, fino alle colline, Firenze appariva irreale nella nebbiolina di primavera, una città che attendeva il suo destino: ecco là il cupolone del Duomo, il campanile di Giotto, quello della Badia, Santa Croce … chi poteva sapere cosa sarebbe rimasto dopo questa guerra? Poche settimane prima era stato ucciso il filosofo Giovanni Gentile, un uomo mite; tanti partigiani venivano arrestati e di molti di loro non si avevano più notizie … si parlava di terrificanti interrogatori, di persone che sparivano nel nulla, fucilazioni e impiccagioni …

Franco Del Nero apparve all’improvviso, correndo; e per un momento non ci fu altro che lui.

Seduti su una panchina del piazzale, si dissero che, quando la guerra fosse finita, sarebbero tornati proprio su quella stessa panchina a guardare Firenze risorta. Scrissero su un quadernino tutte le cose che avrebbero fatto funzionare la loro amicizia, una frase per uno, ridendo a volte di quel loro piccolo divertimento. La guerra sembrava lontana su quella panchina sospesa sui loro sorrisi.

Una sera di maggio, poco prima del coprifuoco, Mario si avviò verso la parrocchia di San Gervasio e Protasio con il cuore in tumulto: aveva

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preso una decisione molto importante ed era certo che don Poggi lo avrebbe sostenuto. Dopo l’alleanza di Mussolini con Hitler, e soprattutto con l’entrata in guerra, lo spirito antifascista di Mario si era fatto sempre più acceso. Dopo l’8 settembre aveva iniziato l’attività clandestina proprio nella sua parrocchia, e, in seguito a queste azioni, era venuto in contatto con la brigata Pio Borri, che operava nell’Alpe di Catenaia, in Casentino. Ammirato dal coraggio e dall’abnegazione di questi partigiani, aveva deciso di unirsi a loro mettendo al servizio della brigata le sue capacità mediche.

Don Poggi lo accolse con il solito sorriso bonario e un po’ burbero; aveva appena finito di celebrare la messa e non si aspettava di vedere Mario a quell’ora. Dandogli la solita pacca sulle spalle si accorse che lo sguardo del ragazzo bruciava di un’intensità sotterranea … Non ci fu bisogno di molte parole, né di spiegazioni. Don Poggi capì che questo era esattamente ciò a cui la natura di Mario doveva condurlo. Accettò la sua decisione con orgoglio misto ad un’apprensione che si guardò bene dal mostrare: gli raccomandò solo di fare attenzione e lo benedisse.

Mario uscì dalla canonica e, fatti pochi passi, si voltò sorridendo verso don Poggi: “Tornerò presto”. Il sole stava scomparendo all’orizzonte nella gloria del tramonto.

PochigiornidopodonPioPoggiricevettelavisitadiunsuoparrocchiano, un signore alto e distinto, che riconobbe subito come il padre di Alda, ma del suo solito tono pacato non era rimasto molto mentre raccontava al sacerdote che la figlia era stata fermata in piazza del Duomo insieme a molte altre persone, in uno dei frequenti rastrellamenti dei tedeschi. Era stata portata in una stanza e guardata a vista da un’ausiliaria, ma questa, impietosita, si era seduta voltandole le spalle e le aveva detto: “Io non vedere e non sentire”. Così, solo poche ore dopo, Alda era potuta tornare a casa sana e salva … Per strada aveva visto un uomo a terra, ucciso, a cui era stato tagliato un dito per impossessarsi di un anello. Adesso, ancora sotto choc, aveva accanto la sua amica Miriam che faceva del suo meglio per recarle conforto, cercando di non pensare troppo alle sue preoccupazioni personali: i tedeschi erano stati alla facoltà di architettura e avevano portato via Franco insieme a tanti altri studenti, e sembrava addirittura che li avrebbero condotti in Germania per impiegarli come manodopera nelle fabbriche. Per il momento non si avevano notizie

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certe … L’urlo dell’allarme aereo interruppe bruscamente i suoi pensieri, facendola tornare alla realtà.

Frattanto le notizie di guerra si susseguivano alimentando le speranze: il 4 giugno la V Armata del generale Clark era entrata a Roma salutata dal tripudio dei cittadini; due giorni dopo gli alleati sbarcavano in Normandia … Firenze era ancora dilaniata dagli scontri e dalle rappresaglie, agli arresti seguivano gli interrogatori e le torture; l’emittente del Partito d’Azione, Radio Cora, era stata chiusa con violenza dai tedeschi che avevano condotto tutti alla famigerata Villa Triste di via Bolognese. Lì avevano cercato di estorcere loro notizie, che nessuno, malgrado le torture, aveva rivelato. La banda Carità imperversava ovunque a Firenze, nessuno era più sicuro di niente, si poteva parlare col vicino conosciuto da anni e poco dopo ritrovarsi denunciato ai fascisti … Arrivò l’estate del 1944. Miriam ricevette una lettera da Franco Del Nero, che in poche righe, perché non c’era il tempo di scrivere, l’assicurava di star bene e di trovarsi in quel momento a Torino attendendo l’occasione di attraversare la Linea gotica e scendere così a Firenze. Chiudeva la lettera con le parole che Miriam impresse nel suo cuore: “Tesoro, non preoccuparti. Tornerò presto”.

Il 25 luglio, con la caduta di Mussolini, i fascisti fuggirono in gran fretta verso il nord Italia: era il segnale che la liberazione si avvicinava. Dalle campagne arrivavano a Firenze tanti profughi, tanti sfollati che cominciarono a sperare, mentre il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale chiedeva ai partigiani di scendere dalle montagne e convergere in città.

Gli scontri divennero di giorno in giorno più violenti. Il 29 luglio Hitler ordinò di minare tutti i ponti fiorentini, ma il console tedesco Gerhard Wolf, amante dell’arte, risparmierà Ponte Vecchio che non verrà distrutto; gli altri, compreso il ponte Santa Trinita di Bartolomeo Ammannati, saranno rasi al suolo la notte del 3 agosto insieme a molti palazzi storici dei lungarni. Ponte Vecchio restò isolato, ma salvo.

Il 4 agosto gli alleati arrivarono a Porta Romana, raggiungendo Ponte

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Vecchio, dove il giorno dopo si incontrarono con lo storico dell’arte Ragghianti, il tenente colonnello Niccoli e il tenente Fischer: era il preludio alla liberazione, che giunse il mattino dell’11 agosto. Il 7 settembre i partigiani sfilarono per le vie del centro acclamati dai fiorentini. Il giorno dopo Pietro Calamandrei poté riaprire l’Università, mentre i tedeschi venivano definitivamente sconfitti sulle colline circostanti. Era la libertà.

Con l’arrivo delle truppe alleate, si cominciarono a chiedere italiani che parlassero inglese per lavori di segreteria presso i vari comandi. Alda e Miriam fecero domanda, e Alda venne assunta temporaneamente presso il comando del generale Mark Clark, arrivato nel frattempo a Firenze con la sua V Armata. Clark era un uomo cordiale, simpatico, che sapeva qualche parola italiana e rideva della sua pronuncia alla “il grasso e il magro”, come si chiamavano allora in Italia Stanlio e Ollio. Alda amava l’ambiente militare, un po’ per la sua indole e un po’ perché abituata da sempre a vedere suo padre Aldo in divisa; casa sua era frequentata da ufficiali di ogni grado e, durante la guerra, al padre era stato assegnato un attendente di campo dal cognome divenuto immediatamente oggetto di battute: si chiamava Scemi, subito ribattezzato Scemo da Alda, incurante delle occhiatacce dell’imbarazzato padre.

Al comando della V Armata il lavoro era interessante e scorrevole: si dovevano scrivere a macchina lettere sotto dettatura, sistemando in un italiano comprensibile frasi talvolta molto sgrammaticate. E poi c’era Fred Slomack. Fred era un soldato bello e simpatico, con cui Alda fece amicizia e che talvolta veniva anche in via Fibonacci, perché il padre della ragazza gli permetteva di riaccompagnarla a casa in jeep: sedili duri e sbalzi a ogni buca della strada, ma per Alda erano come tragitti sul velluto. Fred era un bravo ragazzo di origine polacca, gentile e sorridente, e quando parlava della sua città natale, Newark nel New Jersey, una città industriale, ma che ad Alda in quei momenti sembrava un luogo incantato, gli brillavano gli occhi. Quegli occhi che, se erano illuminati dal sole, rilucevano di pagliuzze dorate. E mai giornate erano più dorate di quelle per Alda e il giovane soldato americano.

Nacque una simpatia che stava per sbocciare in qualcosa di più profondo. Aldo conduceva la figlia a ballare al comando statunitense con la scusa di accompagnare la piccola orchestra con il mandolino, che

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suonava benissimo, in un improbabile “rinforzo” al nuovo ballo portato dagli americani, il boogie-woogie. La sala da ballo USA era molto più frequentata di quella inglese grazie all’accattivante simpatia degli americani, certo molto meno raffinati dei britannici, ma aperti ed estroversi.

Erano giorni felici. Fred aveva presentato a un’amica di Alda, Elena, il suo commilitone Casey. I quattro ragazzi - sempre sotto l’ala protettrice e attenta di Aldo - passavano ore spensierate alla sala da ballo e talvolta, da soli, facevano lunghe passeggiate in gruppo.

Ma l’incanto si spezzò presto. La V Armata dovette proseguire per Bologna ancora non liberata, e dopo pochi giorni di preparativi era pronta a smobilitare. Alda e Fred s’incontrarono per il commiato: le pagliuzze dorate negli occhi del ragazzo brillarono quando, nel sole del pomeriggio, tolse dalla tasca della divisa un anellino di plastica trasparente con un pesciolino dipinto; l’aveva fabbricato lui stesso per Alda, e sarebbe stato l’auspicio del loro ritrovarsi. Fred guardò Alda con dolcezza e sorrise: “Tornerò presto”.

Ma nessuno dei tre ragazzi tornò.

Mario Sbrilli fu ucciso a sangue freddo dai tedeschi il 14 luglio 1944 a San Polo, presso Arezzo, per essersi ribellato alla ferocia disumana con cui erano stati trattati diciotto civili che stavano per essere fatti esplodere vivi, ammassati in una buca che loro stessi erano stati costretti a scavare. Avrà la laurea postuma in medicina e una medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

Di Franco Del Nero, dopo la lettera a Miriam da Torino, si erano nuovamente perse le tracce. Era corsa voce che fosse quasi arrivato a Firenze con mezzi di fortuna, per cui ogni giorno Miriam si recava a casa del ragazzo, in via Coluccio Salutati, sperando ogni volta di vederlo finalmente sano e salvo. Il 20 febbraio 1945 suonò di nuovo il campanello, e questa volta una voce le fece balzare il cuore in gola: il pianerottolo era nascosto dalle scale, ma quella voce … “Franco!” gridò Miriam correndo su per la rampa. Ma ad attenderla c’era solo il fratello del ragazzo, di cui Miriam non aveva mai sentito la voce pressoché identica a quella che conosceva così bene: “Franco è morto”. Ferito in combattimento, in ospedale le sue condizioni si erano aggravate e nessuno seppe mai con certezza le vere

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cause della morte.

Quanto a Fred Slomack, Alda non ne ebbe più notizie. Conservò l’anellino come un ricordo sempre più lontano di quelle pagliuzze dorate; col tempo il pesciolino si stinse e scomparve, ma ogni raggio di sole che vi batteva ricreava l’incanto di quei momenti troppo brevi.

Molto tempo dopo, Alda conobbe un ragazzo di San GiovanniValdarno, Luciano, e se ne innamorò. Fu proprio don Pio Poggi, insignito nel 1947 della medaglia di bronzo al valor militare, a celebrare le nozze nella chiesa dei SS. Gervasio e Protasio di quei due ragazzi che sarebbero diventati i miei genitori.

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Mia madre

A mia madre piacevano così tanto i film del neorealismo italiano, specchio della nostra Italia durante e dopo la Seconda guerra mondiale, che non perdeva occasione di rivederli in televisione con immutato interesse e coinvolgimento.

Una sera, in prima serata, vedemmo insieme in televisione il bellissimo film “Roma città aperta”. Durante la proiezione del film, scambiammo solo poche frasi approfittando della pubblicità, ma già avevo notato il suo disinteresse per ciò che le dicevo e alla fine della proiezione mi accorsi anche che dal suo viso, segnato da ben ottantasette primavere, traspariva solo tristezza.

Pensando che le immagini viste l’avessero turbata più che in altre occasioni, senza chiederne il permesso, spensi il televisore. Il suo sguardo rimase fisso sullo schermo ormai spento, ma non protestò per il mio gesto. Rimase pensierosa, e solo dopo qualche istante mi ringraziò per averlo fatto, poiché sentiva la necessità di raccontarmi la “sua” guerra. Quella sera la sua narrazione fu per me una rivelazione. Rimasi ad ascoltarla per tutto il tempo che le occorse senza interromperla. La sua dolorosa testimonianza fu così dettagliata che mi immaginai come doveva essere allora: una bella e solare ragazza di ventitré anni con le speranze e i sogni spezzati dalla crudeltà della guerra.

Era il 1943 e mia madre abitava a Palermo a casa della zia che l’aveva cresciuta come una figlia. In città, i bombardamenti si erano intensificati mettendo a rischio la popolazione. Una sirena ne avvertiva l’inizio. Mia madre mi confidò che al suono acuto e straziante della sirena, le gambe le diventavano “molli e pesanti” per la paura.

Priva di forza, anche se sentiva la necessità di sedersi, poiché nel palazzo dove abitava non c’era un sotterraneo, lei e la zia erano costrette a uscire in strada.

Correvano velocissime e quando, ansimanti, raggiungevano finalmente l’ingresso del ricovero, facendosi largo tra la folla, scendevano nel tunnel dove l’aria era malsana, l’illuminazione fioca ed i sedili in muratura insufficienti per tutti i ricoverati, cosicché i più giovani lasciavano il posto agli anziani ed alle donne con bambini. Mia madre sedeva per terra, con

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la schiena poggiata al muro freddo ed umido, ed in quelle ore terribili contorceva le mani affinché il dolore fisico la potesse “distrarre” da tutto ciò che la spaventava.

Una volta le capitò anche che una bomba esplodesse nell’area sovrastante il ricovero.

Dal soffitto, come pioggia, erano caduti detriti e sassi mentre le lampade, dopo aver oscillato pericolosamente sulle teste dei rifugiati, si erano spente. Nel sotterraneo era calata la notte. Urlò con quanto fiato aveva in gola. Le gocce di sudore freddo imperlavano la sua fronte, mentre pensava che nessuno di loro avrebbe più visto la luce del sole. Sarebbero morti sepolti vivi.

Fortunatamente tutti uscirono incolumi dal ricovero.

Fu durante un altro bombardamento che invece fu distrutto l’edificio scolastico dove insegnava la zia.

Perdendo il lavoro, ben presto, per loro iniziarono le difficoltà economiche. Provarono a barattare qualche oggetto di valore in cibo e vestiario, ma erano due donne sole in balìa degli approfittatori.

Nell’autunno del 1943, mia madre e la zia lasciarono Palermo e la loro casa. Nella valigia solo qualche vestito, pochi oggetti personali e i pochi soldi che avevano furono sufficienti a pagarsi il viaggio fino a Padova, dove già da anni abitavano gli altri zii. Attraversarono l’Italia a bordo di un vecchio camion con altre donne, bambini ed anziani ed anche con qualche gallina ed un paio di maiali.

Un lungo viaggio di sette giorni, su strade bianche e polverose, con poco cibo e poca acqua, con qualche sosta solo per esigenze fisiologiche o per emergenza. Mi raccontò, infatti, che durante il tragitto un paio di volte avevano sentito sulle loro teste il rombo di un aereo.

Pensando ad un cacciabombardiere, il camionista aveva fermato bruscamente il camion e tutti loro erano scesi alla svelta; avevano lasciato la strada e di corsa erano scesi giù per i canali per proteggersi dalle bombe.

Poi, quando erano stati certi che non c’era più il pericolo di bombardamenti, erano tornati in strada e avevano ripreso il loro posto sul camion.

Avevano viaggiato anche col timore di incontrare qualche camionetta con qualche soldato che, per “sfogo” o perché ubriaco, avrebbe potuto approfittare delle donne, ma a Padova giunsero sane e salve.

La stazione, pur “ferita” dai bombardamenti, sembrò loro bellissima.

Mia madre e la zia scesero dal camion irriconoscibili: spettinate,

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accaldate, affamate ed assetate.

Sugli abiti e sulla pelle un misto di polvere e sudore.

L’aria frizzante della sera le fece rabbrividire nei vestiti poco adatti alla temperatura della città del nord, ma ad accoglierle trovarono i parenti e nel loro abbraccio trovarono conforto e speranza. Per i primi tempi furono ospiti presso i loro parenti, poi, mia madre fu assunta presso un ente che dipendeva dal ministero del lavoro. Con il primo stipendio si trasferirono in un monolocale con l’uso di cucina nel centro della cittadina di Padova. Dell’appartamentino se ne occupava la zia, che alla sera, quando mia madre tornava dal lavoro, le faceva trovare sempre qualcosa di caldo.

Mia madre era molto contenta del suo lavoro ed i colleghi erano molto simpatici. Tra questi, Rodolfo, con il quale nacque una bell’amicizia.

Rodolfo, mia madre e sua zia erano soliti uscire insieme la domenica. Andavano in giro per Padova e dintorni e le ore passavano in allegria. Purtroppo il rigido inverno del nord non giovava alla zia che, gracile e di salute cagionevole, suo malgrado, dovette ritornare a Palermo.

Rimasta sola e non avendo più nessuno che si occupasse di lei, mia madre lasciò il monovano in città per una stanza in famiglia. I proprietari, una famiglia di contadini con due bambini, l’accolsero come una figlia e alla sera, la signora Germana le faceva trovare un pasto caldo.

Rodolfo continuò ad essere per mia madre una preziosa presenza.

Più affiatati che mai, nei pomeriggi liberi organizzavano sempre qualcosa per stare insieme. Se pioveva o era freddo, preferivano andare al cinema o ascoltare della buona musica a casa di amici in comune, dove a volte si dilettavano a suonare al pianoforte le musiche in voga in quel tempo. Nelle belle giornate, invece, organizzavano passeggiate a piedi per le vie della città o in bicicletta nei dintorni di Padova.

Pur sentendosi attratta da Rodolfo per la sua intelligenza e sensibilità, tra lui e mia madre c’era solo una bella amicizia e lei non avrebbe mai immaginato a quale terribile conseguenza l’avrebbe portata questa amicizia.

Erano giorni che Rodolfo non si vedeva. In ufficio nessuno sapeva nulla e mia madre era preoccupata, perché non era mai successo di non vederlo per tanti giorni.

Una sera, in ufficio fece più tardi del solito a causa di una pratica urgente che aveva dovuto completare prima di andare via.

Fuori era buio ed era già quasi l’ora del coprifuoco. La strada campestre per andare a casa era deserta e con lei non c’era il caro amico Rodolfo ad

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accompagnarla.

Preoccupata, andava a passo svelto, quando ad un tratto nella semioscurità mia madre intravide due uomini che la fissavano.

Istintivamente accelerò il passo, ma i due si mossero verso di lei e con aria minacciosa la bloccarono.

Lo spintone le arrivò addosso inaspettato facendola barcollare. Impaurita, tentò di scappare, ma lo stesso uomo l’afferrò per un braccio e costringendola a guardarlo le chiese qualcosa con voce roca.

Confusa e dolorante, non capì subito che le stava chiedendo di Rodolfo, provocando l’irritazione di quell’omaccione che si rivolse a lei violentemente. Con voce tremante, aveva spiegato che erano giorni che non si era presentato neanche in ufficio e nessuno ne sapeva nulla. Insoddisfatto dalla risposta, l’uomo che la teneva le diede uno schiaffo, mentre l’altro l’accusò di aiutare i partigiani insieme a Rodolfo. Mia madre non poteva credere a ciò che quegli uomini le dicevano del suo caro amico.

Non lo aveva visto mai in compagnia di altre persone e tentò di difenderlo: “E’ impossibile!”

“È un bravo ragazzo” avrebbe voluto urlare, ma dalla bocca non le uscì alcun suono, provocando la rabbia del suo aguzzino che le diede un altro schiaffo. Disperata, con la guancia gonfia e dolorante, nauseata dal sapore dolciastro del sangue, che dal naso le colava sulla bocca, tentò di fermarli: “Lasciatemi. Non so nulla. State sbagliando persona”. Esasperati i due uomini la buttarono per terra insultandola.

Poi, le diedero pugni sul viso e calci sulle gambe urlandole a turno sempre la stessa frase martellante: “Dicci dov’è quel porco traditore. Parla parla!!!”

Come poteva dir loro qualcosa se non sapeva nulla, ma il pensiero di ciò che avrebbero potuto fare al povero Rodolfo la terrorizzava ed in cuor suo si augurava che fosse scappato. Poi sentì le gambe cederle e, mentre gli occhi le si offuscavano, sentì delle grida in strada e vide i due omaccioni scappare nel buio. Urlò con quanto fiato aveva in gola. Poi svenne.

Solo in seguito, a distanza di mesi, seppe quello che era successo.

Si era salvata grazie all’intervento del proprietario di casa. Dal fienile aveva sentito rumori in strada e, incuriosito, era uscito fuori.

Aveva visto quegli uomini che la stavano massacrando di botte ed aveva urlato. Poi, quando quegli uomini erano scappati, si era avvicinato ed aveva trovato mia madre semi-svenuta con il volto sporco di sangue ed i

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lividi su braccia e gambe.

Con delicatezza l’aveva presa in braccio e portata in casa dove la moglie si era presa cura di lei per tutta la notte. Con bende umide le aveva rinfrescato la fronte infuocata dalla febbre alta e curato le ferite.

Mia madre rimase a letto un paio di mesi prima di poter rialzarsi.

Tornò in ufficio sperando di poter riprendere il lavoro, ma i colleghi la accolsero con diffidenza ed il capufficio la licenziò, rifiutandosi di darle i soldi che le spettavano. Nessuno le chiese come si sentiva e lei non chiese a nessuno del povero Rodolfo. Ritornò a casa con il cuore affranto e più povera di prima.

Non aveva denaro per pagare la camera, ma i proprietari non le fecero problemi e l’accolsero con affetto.

Mia madre, che grazie alla loro bontà era viva e fisicamente si era ripresa, pensò di rendersi utile occupandosi della casa e dei loro bambini.

Dopo un anno fece ritorno a Palermo.

Non seppe più nulla di Rodolfo ed il dubbio che fosse morto fu una spina nel suo cuore.

Non credevo fosse possibile ricordare con tale lucidità eventi di sessant’anni prima e glielo dissi.

Asciugandosi una lacrima, mia madre mi rispose così: “Purtroppo gli orrori della guerra non si possono e non si devono scordare mai per poterli raccontare a chi non li ha vissuti”.

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Give me a chocolate

Fra un po’ è Natale, ma noi siamo tristi: la mamma sta ancora male. Oggi sono venuti quei dottori con quelle cose schifose e gliele hanno messe sulla pancia. Il babbo mi ha spiegato cosa sono: si chiamano sanguisughe e tolgono il sangue che non è buono. Io gliel’ho detto che secondo me le fanno male e mi sono messa a tirare i calci alla porta, perché sentivo che la mamma piangeva. Ma il babbo si è arrabbiato tantissimo e quando lui si arrabbia tantissimo, io me ne accorgo, perché mi dice quella parola “TES!”, che vuol dire “taci”. E lo dice con la faccia brutta. Ma poi, sconsolato: “Che ne sappiamo noi ... quelli sono dottori, hanno studiato. Io no … e tu hai solo 8 anni ... Non urlare, che la mamma deve riposare”. Quando sono usciti dalla camera, le sanguisughe erano come delle palle, le avevano tolto tantissimo sangue cattivo ed è per questo che la mamma ha dormito tutto il giorno.

Oggi è stato il giorno più bello della mia vita: la mamma si è alzata ed ha cucinato per tutti. “A Natale”, ha detto “dobbiamo stare tutti insieme. Vieni qui, Gianna. Questo è per te: ti piace?” Nel mio regalo, ho trovato due noci, un mandarino e una bambola piccola di pezza. Me l’ha cucita mamma mentre io ero a scuola. È fatta con un pezzo di lenzuolo e ha un vestitino fatto con la tovaglia. Io l’ho riconosciuta subito la tovaglia, perché è quella più bella che abbiamo e mi dispiace che mamma ne abbia tolto via un pezzo per fare la bambola a me. Ma mamma mi ha detto che quando finisce la guerra, ne compriamo dieci di tovaglie nuove!

La mia bambola è bellissima, anche se la mamma non le ha disegnato benissimo gli occhi: uno è più in alto e uno più in basso, ma che importa.

Caro diario, ieri sera ha suonato la sirena, quella dei bombardamenti. Abbiamo spento le luci, chiuso tutto e siamo scappati al rifugio nelle cantine. La mamma non ce la faceva neanche a correre per le scale ed era preoccupata per i miei fratelli che non erano ancora rientrati. È stato terribile, perché hanno bombardato tutta Modena. Stamattina la scuola è chiusa e anche i negozi. Non c’è più niente qui. Io non me lo ricordo di cosa facevamo

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prima della guerra. I miei fratelli grandi mi dicono che era divertente, che potevano uscire, che non c’erano i carri armati, che non c’erano i tedeschi e che non c’era il Fascio. Che cos’è questo Fascio io ancora non l’ho capito … e non so nemmeno perché il babbo alza sempre la voce e batte il pugno sul tavolo quando ne parlano. E mi dicono sempre : “Tu non capisci perché sei piccola.” e io mi arrabbio.

A me piace quando la mamma si alza la mattina. È bello, perché lei mi prepara sempre qualcosa da mangiare e poi canta delle belle canzoni ... Oggi era così felice che mi ha detto: “Ho una bella notizia! Ho chiesto al parroco di farti fare la Comunione e la Cresima insieme, così io ti posso vedere. Ti farò due belle trecce e metterai un vestito bellissimo, bianco con il velo, come quelli delle spose. Poi i capelli dobbiamo tagliarli. Io non riesco più a pettinarteli. Facciamo un bel caschetto come le signorine. Ormai sei grande! Va bene?”

“Io non voglio tagliarli, i capelli! I pidocchi non li ho più! E perché devo fare la Comunione e la Cresima insieme?”

Non lo so perché, ma all’improvviso i suoi occhi si sono riempiti di lacrime e ha detto: “Su! Su! Andiamo a vestirci! Mettiamoci i nostri vestiti più belli e andiamo da Mario a fare la spesa!” Ma poi, prima di uscire ha avuto uno dei suoi capogiri e si è dovuta sdraiare sul letto. Io ho aspettato un po’, e poi: “Mamma, vado io! Tanto è qui sotto, devo fare solo due passi fuori dal portone”.

“Va bene, torna subito. Io ti guardo dalla finestra. Prendi il foglietto sul tavolo e dì a Mario che stasera passa il babbo per pagare o più tardi scendo io”.

Che emozione, uscire da sola! Anche se a me quel Mario e sua moglie non è che mi piacciono tanto. Anche al babbo non piacciono, ma la mamma si arrabbia, perché dice che non vuol dire niente che sono napoletani e che Gesù ci ha fatto tutti uguali.

Quando sono entrata nel negozio, la signora Concetta non mi ha nemmeno salutato. Suo marito l’ha scansata e mi ha detto: “Ch buò?”

“Eh?”, ho risposto, perché io il napoletano non lo capisco. “

Ch buò? Ch buò? Nd ‘sta bottega nun ciai mette chiù pied. Dinnell a Giuann, ca i traditori hanna murì e’ famm”.

Io ho guardato Concetta perché non ho capito niente.

E lei: “Ha detto: digli a papà che i traditori non devono più entrare

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qui”.

“E hanna murì e’ famm,” ha urlato lui, “dinnell a’ uagliona”.

“E devono morire di fame,” ha continuato Concetta, guardandomi con disprezzo, dritta dritta negli occhi.

Io sono rimasta ferma a guardare, con il mio foglietto in mano, e lui mi ha urlato “Vattn! Iesci! Iesci!” Sono scappata. Ho preso di corsa le scale e ho corso così forte che sono caduta. Mi sono sbucciata il ginocchio ed è uscito tutto il sangue che è arrivato fino ai calzettoni. Non mi ricordo cosa ho raccontato alla mamma. Lei ha detto “Non capisco! Non capisco! Smettila di piangere! Io non ti capisco! Vai a bussare alla Marta, chiamala, falla venire che io non mi sento bene. Vai! Corri!”

Marta è la nostra vicina di pianerottolo, lei e la mamma sono molto amiche, anche se credo che Marta abbia più di cento anni. Il marito non ce l’ha perché è morto e così lei, delle volte, sta a casa con noi.

È buona e ci aiuta. Le ho spiegato cosa mi ha detto Concetta e lei ha detto alla mamma: “Fascista! Fascista! Quel Mario è uno sporco fascista. Dì a Giovanni di fare attenzione, perché fanno le ronde. Danno un sacco di botte a chi non ha la tessera del partito. Hanno dato l’olio di ricino persino al Carlo, che ha la mia età. Che te ne fai di picchiare un vecchio di 60 anni? Che te ne fai? Maledetti! Vigliacchi! Tanto ci pensa il Signore a punirvi tutti. Preghiamo, Carolina, preghiamo”.

Anche io ho preso il mio rosario e mi sono messa in ginocchio ai piedi del letto insieme a Marta. E l’ho dovuta aiutare a mettersi in ginocchio, perché lei dice che non ce la fa da sola. Io l’aiuto sempre, perché ho sempre pensato che avesse cento anni, ma ora so che ne ha sessanta, anche se è vecchia vecchia. Non è così vecchia da non farcela, ma la aiuterò lo stesso.

Stasera è successa una cosa bruttissima. Quando è tornato il babbo era tardissimo. Eravamo tutti preoccupati perché lui non fa mai tardi. E poi, quando è arrivato, abbiamo capito perché. Aveva il labbro spaccato e un occhio nero. Quasi piangeva mentre raccontava di quello che gli avevano fatto Mario e i suoi amici. La mamma si è messa a piangere e voleva mandarmi a letto, ma io ho detto “No!” e mio fratello più grande ha detto: “Lasciala mamma! Deve capire cosa sono quelle bestie. Io li ammazzo. Io giuro che li ammazzo! Infami! È facile prendersela con un uomo da solo in sei! Glielo faccio ingoiare io l’olio di ricino! Babbo! Adesso tu hai la tessera del Fascio … e come facciamo? Li ammazzo, maledetti!”

Il mio babbo stava con i gomiti sul tavolo e la testa appoggiata nelle

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mani, teneva gli occhi bassi. Poi è stato male tutta la notte, è dovuto andare tantissime volte in bagno, che è sul balcone, e con questo freddo si è preso pure la febbre.

Caro diario, non ho scritto più niente da un sacco di tempo. Lo sai? Qualche giorno fa ho compiuto 9 anni, ma non abbiamo nemmeno festeggiato, perché la mia mamma non c’è più. Marta dice che è volata in cielo e che da lassù mi guarda e che mi devo comportare bene, perché sennò lei ci resta male. Ma io non lo so se ci credo. E ha detto “Adesso lo capisci perché voleva farti fare la Comunione e la Cresima insieme?

Lei lo sapeva che il Signore presto l’avrebbe voluta con sé”. Ieri è venuta mia zia, domani partirò ed andrò ad abitare con lei a Roma. Io non ci volevo andare, ma il babbo mi ha detto che verrà a trovarmi ogni tre mesi e così devo andare per forza. Adesso sto aspettando di andare alla stazione a prendere il treno. Mi mancherà questa casa.

Appena sono arrivata a Roma la zia mi ha portato in un negozio di vestiti. Ha detto che i miei sono troppo vecchi. Io li voglio i miei vestiti, perché me li ha cuciti la mamma. Ma lei ha insistito tanto e siamo andate. Mia cugina, che ha dodici anni, si è comprata un vestito bellissimo.

La zia, mentre camminavamo, mi ha detto: “La tua mamma era mia sorella, adesso che lei è volata in cielo, sarò io la tua mamma. Da ora in poi, mi chiamerai mamma”.

Io mi sono fermata: “Mi dispiace, ma io non ti chiamerò mai mamma. Io di mamma ne ho una sola e non sei tu”.

Ci è rimasta malissimo. “Come vuoi. Dopo tutto quello che ho fatto per te, mi ringrazi così. Come vuoi…”

Non so se è per questo motivo che a me la mattina dà lo zucchero nero nel latte e a mia cugina dà quello bianco.

Caro diario, non vedo l’ora che arrivi domani, perché finalmente verrà a trovarmi il mio babbo. Oggi la zia si è arrabbiata moltissimo ed ha detto: “Riferirò tutto al tuo papà. Ti comporti molto male, ragazzina!” Tutto è successo perché mi hanno messo a scuola dalle suore e lì c’è suor Imelde che mi odia. Oggi ci ha insegnato quella canzone che fa “Mamma son tanto felice, perché ritorno da te ...” e dovevamo cantarla tutte insieme.

Io ho detto: “Non la canto! Io la mamma non ce l’ho!”

“Tu, la canti eccome! La tua mamma adesso è tua zia. Qui comando io!”

Io ho chiuso la bocca stretta stretta; allora lei mi ha preso le mani e mi

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ha dato dieci bacchettate. Non ho pianto nemmeno un po’, ma non ho nemmeno cantato. Il resto della giornata l’ho passato a camminare avanti ed indietro per tutto il corridoio con un cartello sulla schiena con scritto asino e non mi hanno fatto neanche mangiare. Quando è venuta la zia, suor Imelde ha detto che se continuo così, dovrà cacciarmi dalla scuola, perché qui ci sono solo signorine per bene.

Che bella giornata! Oggi è venuto il mio babbo e domani torneremo insieme a Modena! Sono la bambina più felice del mondo. La zia ha detto che forse è meglio che io ritorni a casa, che ormai sono più grande ed ora che la guerra sta per finire, posso andare a imparare un lavoro, che tanto non sono fatta per studiare, io. Il babbo ci è restato male, ma ha detto: “Sì, sì, va bene”.

Non ho mai visto Modena più bella di oggi, tutte le lenzuola bianche stese, tutti per strada. La guerra è finita.

Noi bambini ci avviciniamo ai carri armati degli alleati e diciamo: “Give me a chocolate!” e gli americani ci danno un pezzo di cioccolata. A me lo ha insegnato mio fratello a dirlo.

Adesso ho tante cioccolate a casa, ma non mi bastano mai.

E oggi ho visto quel soldato e mi sono avvicinata “Give me a chocolate!”

“Cosa?”

“Give me a chocolate!”

“Sei italiana!?!”

“Sì.”

“E allora, bambina, parla italiano!”

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I nonni raccontano

Si dice spesso che l’assenza è un sentimento molto più potente della presenza. Ci si rende conto di quanto una persona sia importante solo quando non c’è più e diventa ricordo. Ed allora vorresti che il ricordo si facesse carne per poterla abbracciare di nuovo, un’ultima volta. C’è un momento esatto, verso la sera, in cui l’assenza si sente con maggiore intensità ed è in quel momento che, con il pretesto di un Concorso Letterario, ti trovi a scrivere di quelle persone che ti mancano, dei loro racconti ascoltati un po’ controvoglia quando da piccolo correvi dietro ad un pallone e loro, per avere la tua attenzione, ti porgevano una caramella.

Mi sono sempre chiesto perché i miei nonni avessero tanto a cuore che io ascoltassi la loro storia. Mai dubitato che la ragione non fosse la vanità. Solo ora che loro non ci sono più e che sono diventati Assenza, trascorsi i miei trent’anni, so dare una risposta: volevano che sapessi per essere in grado a mia volta di raccontare. Perché nelle loro piccole storie c’è la storia del nostro paese, della comunità in cui sono cresciuto, ci sono l’etica e i valori che tramanderò ai miei figli come ciò di più prezioso che mai potrò lasciare in eredità.

Quella che voglio raccontarvi è quindi la storia dei miei nonni, Antonio e Elio, così diversi tra loro, ma entrambi uomini semplici e giusti.

Il nonno Antonio, classe 1921, era figlio di contadini della fattoria di Meleto, podere di San Donato in Avane, in quel territorio fertile e soleggiato che dalle colline del Chianti scivola giù verso la vallata del Valdarno Superiore.

Fu intorno ai diciassette anni che Antonio iniziò a pensare di arruolarsi nel corpo dei Carabinieri, forse attratto da quelle cartoline dell’epoca che ritraevano giovani alti e di bella presenza avvolti in quella divisa così austera ma imponente. Lui che alto certo non era, il cui corpo forgiato dal lavoro nei campi era più adatto ad una camicia di logora flanella e ad un cappello di paglia piuttosto che ad una divisa. Ma il giovane Antonio era caparbio e ambizioso, forse idealista come sempre lo si è da giovani. Quando gli dissero che il suo grado di istruzione (terza elementare) non era sufficiente per entrare nell’onorata Arma, in poco tempo, dividendosi tra il lavoro nei campi e le scuole serali, ottenne il richiesto diploma di quinta

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elementare e poté far domanda di arruolamento presso la locale Stazione dei Carabinieri di Figline Valdarno. Nel frattempo, la guerra incombeva e la Patria chiamava i suoi figli a raccolta sotto il vessillo reale. Tra questi figli anche Antonio che nel giugno del 1940 fu arruolato con il numero di matricola 24893/11 e assegnato all’XI Reggimento Fanteria Caserma Caterina di Forlì.

Dopo alcuni mesi di esercitazioni militari, nel settembre 1941, il Battaglione di Antonio fu inviato al fronte in Grecia.

Partirono in treno da Forlì in molti, giovani e ingenui come Antonio, e raggiunsero Brindisi, dove furono imbarcati su una nave diretta a Patrasso, che raggiunsero dopo un giorno e una notte di navigazione.

Durante quel viaggio Antonio pensò spesso ai suoi genitori, Beppe e Anna, a suo fratello e alle sue sorelle. Li immaginava lì tra i campi e si chiedeva se avrebbero avuto il tempo tra tutto quel da fare per sentire vicino, quanto meno con il pensiero, quel figlio, fratello che partiva per la guerra.

Da Patrasso un’altra nave condusse Antonio e i suoi compagni a Messolonghi dove rimase alcuni mesi prima di essere assegnato al 1° Battaglione Carabinieri prendendo servizio ad Atene con l’incarico di attendente al Tenente del Battaglione.

Il Tenente era un uomo sulla cinquantina, alto e magro, con i capelli brizzolati che si intravedevano al di sotto del cappello d’ordinanza.

Le estati ad Atene erano molto calde e certo la divisa non aiutava a combattere la calura. Il Tenente portava sempre con sé un fazzoletto bianco che lasciava scivolare frettolosamente sulla fronte ad asciugare il sudore perlato, quasi impercettibile alla vista, in quel viso particolarmente pallido. Antonio sapeva farsi ben volere. La sua semplicità e l’entusiasmo che metteva nelle operazioni anche d’ufficio colpirono subito il Tenente. Lui, che per ragioni di carriera non aveva potuto mettere su famiglia, prese Antonio sotto la sua ala protettrice, come un figlio. Un giorno il Tenente regalò a Antonio una piccola pistola modello Beretta, di quelle da tenere alla caviglia. Lo fece con una certa solennità dicendo: “Questa figliolo potrà un giorno salvarti la vita. Quando disarmato dalla pistola di ordinanza ti troverai di fronte al nemico, avrai un’altra occasione di fuoco”. Mentre la riceveva porgendo al Tenente le mani giunte come si fa quando si riceve la Santa Comunione, Antonio pregò tra sé e sé che quel giorno mai giungesse.

I mesi passavano con una certa ripetitività, quella stessa a cui Antonio

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era abituato, contadino qual era.

Poi arrivò l’8 settembre 1943 e il ripetitivo trascorrere dei giorni si interruppe bruscamente come la musica di un vecchio vinile quando la puntina del grammofono salta a metà del disco. Antonio insieme ai suoi compagni soldati fu catturato, disarmato, messo su un treno da bestiame e, dopo un viaggio di alcuni giorni in cui il cielo divenne per lui Assenza, deportato in Germania.

All’arrivo in Germania gli altoparlanti annunciarono che i soldati italiani erano prigionieri e che avrebbero dovuto disfarsi di qualsiasi arma in loro possesso. Antonio portava con sé la Beretta regalatagli dal Tenente e fu con molto rammarico, ma consapevole delle possibili conseguenze, che consegnò quell’arma come definitiva resa al nemico. In Germania Antonio cambiò un paio di campi di detenzione. Dormiva insieme ad altri 11 compagni in delle baracche di legno. L’igiene era pessima, tra pulci, pidocchi e malattie che aggredivano con facilità quei corpi debilitati dalla fame. Il cibo era scarso, il più delle volte un nauseante minestrone di verdure, due etti di pane al giorno, grasso o margarina. Quando andava meglio, il rancio comprendeva rape e carote lesse. Antonio riusciva ad implementare la propria alimentazione barattando le sigarette, che venivano distribuite agli internati per combattere la malaria, con quel poco di cibo che si poteva trovare nel campo. Di notte Antonio, insieme agli altri prigionieri, veniva accompagnato alla vicina stazione ferroviaria e di lì in treno veniva condotto ai lavori forzati. Le sue braccia forti venivano impiegate nell’industria bellica oppure per scavare con le nude mani trincee anticarro di 3 metri per 3, oppure ancora per scavare grandi buche in prossimità di ponti e snodi viari, che poi i Tedeschi avrebbero riempito di esplosivo per ostacolare l’avanzata del nemico.

Nei campi di concentramento Antonio rimase circa due anni e più il tempo trascorreva e più si affievoliva in lui la speranza di poter tornare dai suoi cari in quella campagna a cui il suo pensiero tornava con sempre maggiore nostalgia. Quando chiudeva gli occhi, soprattutto la sera, steso sulla sua branda, vedeva i suoi genitori piegati sulla fertile terra. Li vedeva di spalle, ma era certo che quelle due minuscole figure, quasi impercettibili tra il verde del grano appena sbocciato, fossero loro. Qualche volta nel sonno provò anche a chiamarle nella speranza vana che si voltassero verso di lui, così da rivedere i volti di quella madre e di quel padre che oramai non vedeva da alcuni anni. Furono anni di stenti, superati miracolosamente.

Antonio fu liberato dagli Americani il 19 marzo del 1945. Mai avrebbe

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potuto dimenticare quella data, così come non si dimentica la data in cui si è nati. Antonio quel giorno nasceva di nuovo. E così come si nasce nudi e piangenti, così Antonio quel giorno si trovò nudo e a piangere di gioia.

Il viaggio di ritorno verso casa fu lungo e non privo di difficoltà. Senza soldi, le uniche monete che Antonio poteva spendere per un passaggio o un aiuto erano una stecca di sigarette che gli Americani gli avevano dato. L’Italia era oramai un paese distrutto, distrutte erano le sue stazioni ferroviarie, le sue vie di comunicazione. Fu solo grazie all’aiuto compassionevole di un autista di autobus che lo imbarcò senza denari, che verso il far della sera, del più bel martedì che Antonio ricordi di aver vissuto, arrivò a Figline Valdarno.

Da lì prese a piedi la via di casa, scalzo e seminudo. Per la strada del Cesto incontrò molte persone che lo conoscevano e tutte vollero che Antonio raccontasse la sua storia. Antonio fu lieto di farlo. In Cesto abitava anche uno zio che, dopo averlo teneramente abbracciato come mai Antonio ricordava di essere stato prima, lo accompagnò fino a casa, a S. Donato in Avane, dove i due arrivarono nel silenzio della sera, sotto la luce di quella luna che scandisce i tempi e le abitudini delle famiglie contadine.

La gioia di tornare a casa e riabbracciare i suoi cari fu tanta, quasi difficile da racchiudere in un gesto che non apparisse forzato e innaturale. Quando rientrò dalla prigionia in Germania, Antonio era stato lontano da casa quasi tre anni. Di quel corpo giovane modellato dal lavoro nei campi erano rimaste solo le ossa e la pelle che sembrava tenerle insieme. Quando partì pesava 70 chilogrammi e tornò che ne pesava poco più di 30. Ma tornò. Ed ebbe così modo di conoscere l’amore di Annunziata che lo accompagnerà per tutta la vita, di conoscere il dolore per la perdita prematura del suo unico fratello maschio, Pio, che ne segnerà il ritorno alla vita contadina. Le sue braccia restituite alla terra e quella divisa, in fin dei conti sempre amata nonostante la sofferenza, la fame e la paura, riposta in un cassetto per il bene della famiglia e di ciò che le dava da vivere.

Era primavera inoltrata quando Antonio tornò.

Tra le stagioni dell’anno la primavera è da sempre quella che gli esseri viventiprediligono:glianimaliselvaticiesconodalletargoacuiciclicamente sono relegati dal freddo inverno, le piante ne salutano l’arrivo con fiori di mille colori e dai mille profumi, la terra produce in quella stagione alcuni dei suoi frutti più preziosi. Gli uomini, all’avvento della primavera, con maggiore piacere aprono gli usci delle loro case e si soffermano, al primo

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sole, a respirare la natura che nuovamente si mette in moto.

Le primavere di quegli anni però furono diverse. C’era la guerra a cambiare le leggi che regolano il mondo. Passeggiare per i sentieri dei boschi non era più sicuro e quando si usciva dalle proprie case non era per assaporare la vita ma per rintanarsi nei rifugi.

Mio nonno Elio lo sapeva bene. Classe 1918, Elio era un uomo tranquillo, minatore per tradizione di famiglia. Risiedeva al Ronco, paese di minatori che, strano gioco del destino, fu il primo negli anni ’50 ad essere raso al suolo dalla devastazione delle escavazioni a cielo aperto di lignite. Aveva una moglie, Dina, che in quei primi giorni del giugno 1944 stava per mettere al mondo il loro primogenito al quale avrebbero dato il nome di Lorenzo.

Era la notte del primo giugno 1944 quando Dina cominciò ad avvertire, sempre più lancinanti, i dolori del parto. Tutta la famiglia si raccolse nella camera da letto intorno alla partoriente. Il momento era maturo, non restava altro da fare che chiamare la levatrice, Solange, che abitava nel paese vicino di Castelnuovo dei Sabbioni.

Non c’erano telefoni a quel tempo. I messaggi si muovevano ancora sulle gambe o, tutt’al più, sulle ruote di una bicicletta. L’unico modo di avvertire la levatrice era quello di “sfidare” il coprifuoco, con tutti i pericoli conseguenti, e andare da lei.

Elio non ci pensò due volte e uscì di casa frettolosamente, non prima però di aver preso con sé il foglio di “lasciapassare” che era stato rilasciato a tutti i minatori per ragioni di lavoro. Si incamminò verso la casa di Solange, distante poco meno di due chilometri, e mentre percorreva i primi metri sentiva dalla finestra aperta della sua camera da letto i lamenti di dolore di sua moglie a dargli coraggio. Conosceva bene la strada e la luce splendente della luna di giugno illuminava a giorno il sentiero. I passi di Elio erano però cauti e misurati. Dopo tutto c’era la guerra e quella era una zona di Partigiani, come tale presidiata con particolare attenzione da pattuglie di Tedeschi.

Elio era quasi giunto a casa della levatrice, poteva vederla lì, a non più di trecento metri, oltre quell’uliveta, quando all’improvviso sbucarono da un sentiero secondario quattro Tedeschi. Alla vista di Elio i Tedeschi imbracciarono i loro fucili, puntandoli verso il mal capitato. Elio alzò le braccia, come un riflesso, senza neppure che gli fosse comandato. ITedeschi gli urlavano contro parole che Elio non capiva, ma non servì conoscere la

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lingua per rendersi conto che pensavano fosse un Partigiano.

Elio allora tentò di abbassare una mano verso il taschino interno della giacca per estrarre il suo “lasciapassare”. Ma ogni suo anche lieve movimento era seguito da urla ancora più forti e risolute dei soldatiTedeschi. Solo dopo molti, interminabili secondi uno di loro, il più giovane del gruppo, capì e invitò i suoi compagni a consentire all’uomo di prendere ciò che aveva nel taschino. Elio estrasse il documento e lo porse tremante a quello stesso soldato che si era dimostrato ben disposto nei suoi confronti. Quando la situazione fu meno esplosiva, Elio tentò di far capire ai soldati Tedeschi perché si trovasse lì. “Quella laggiù essere casa di levatrice. Io avere bisogno di lei per mia moglie. Bambino sta per nascere”. E così dicendo mimava il gesto della culla.

Quel gesto, più di ogni parola, aveva carattere universale e i soldati Tedeschi, riposte le armi, si avvicinarono a lui dandogli vigorose pacche sulle spalle.

Ancora scosso, Elio con passo svelto percorse gli ultimi metri che lo separavano dalla casa di Solange. Bussò più volte alla porta della levatrice senza avere risposta.

“Signora Solange, sono Elio del Ronco, mi apra per favore!”

Dopo pochi minuti, quando già temeva che in casa non vi fosse nessuno, l’uscio della porta si aprì e apparve Solange avvolta in un mantello marrone appuntato al collo da una vistosa spilla, con la sua borsetta con gli attrezzi del mestiere saldamente tenuta nella mano destra. Non le raccontò niente di quanto accaduto poco prima sul sentiero, per paura che, presa dallo spavento, si rifiutasse di seguirlo fino al Ronco.

Tornato a casa insieme alla levatrice, Elio si lasciò cadere a peso morto su una sedia nell’angolo della camera da letto, mentre tutto intorno a Dina, Solange e i parenti si affannavano a compiere quanto necessario perché Lorenzo potesse emettere finalmente il suo primo vagito. Elio osservava la scena esausto, pensando allo scampato pericolo. Pensando soprattutto a Lorenzo, figlio di guerra e di un grande amore. Era un uomo fortunato Elio. Ne avrebbe avuto ulteriore dimostrazione appena un mese dopo, quel 4 luglio 1944, rimasto indelebile nella mente della comunità di Cavriglia, come una ferita che neppure il tempo potrà mai risarcire. Nelle prime ore del mattino di quell’infausto giorno, Elio si trovava nei pressi della Miniera di Pian di Colle, sotto Castelnuovo dei Sabbioni, insieme ad altri minatori con il compito di nascondere tra le sterpaglie, vicino all’adiacente borro, i motori e i trasformatori della

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miniera per il rischio che l’invasore tedesco, ormai prossimo alla ritirata, potesse farli saltare come ultimo gesto di distruzione.

Non fu un lavoro semplice, sia per la enorme mole dei macchinari da trasportare che per le condizioni in cui fu svolto, tra l’olio depositatosi sui mezzi che rendeva la presa incerta e precaria e il gran caldo che, man mano che le ore passavano, diventava sempre più insopportabile. Ma i minatori hanno braccia forti, non sentono la fatica e qualunque temperatura esterna è niente rispetto al caldo della galleria, loro abituale luogo di lavoro.

Elio e i suoi compagni finirono che il sole del mattino di luglio era già alto in cielo.

Elio aveva le mani sporche dell’olio di quei macchinari e pensò di tornare al borro per lavarsi e rinfrescarsi un po’. L’operazione richiese vari minuti, tanto ostico era lo sporco che ricopriva le mani e il volto di Elio.

Mentre tornava dai suoi compagni, li vide in ordinata fila con i Tedeschi sopraggiunti in sua assenza. Un graduato Tedesco ordinò al gruppo di dirigersi verso Castelnuovo dei Sabbioni con un ampio gesto del braccio. Elio pensò che li portassero a lavorare, come altre volte era capitato. Allungò pertanto il passo per raggiungerli e unirsi a loro.

Ma ad un tratto, prima ancora che potesse essere alla giusta distanza per gridare “Aspettatemi, ci sono anch’io”, vide uno della fila che cercò di scappare correndo dalla parte opposta, verso una macchia. Passarono una manciata di secondi prima che un soldato tedesco scaricasse su di lui due colpi di fucile, di cui il secondo fece centro. Il minatore cadde lì, a pochi passi da quella boscaglia nella quale vedeva la salvezza.

Elio allora capì e l’istinto più che la ragione lo fecero saltare giù dal dirupo che costeggiava il sentiero e correre più veloce che poteva, senza una meta, ma distante il più possibile da quello che i suoi occhi avevano visto.

Rimase nascosto diverse ore. Quando pensò che il pericolo fosse scampato, si diresse all’ingresso della miniera, pensando di trovarci qualche compagno. Ma non c’era nessuno. Allora cominciò a scendere la galleria buia aiutandosi con il tatto. Continuando a scendere, ad un certo punto intravide un lume e questo lo rianimò. Si trovò insieme ad una quindicina di minatori. Per un po’ rimasero lì, ma quando l’aria cominciò a mancare perché i motori di areazione non funzionavano, decisero di uscire, due alla volta per non dare nell’occhio. Elio uscì per ultimo insieme ad un minatore di non più di quindici anni, già uomo nel fisico ma bambino nel pronunciare, a cadenze regolari e a voce bassa, il nome della mamma, quasi

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a cercare conforto in quel nome e in quel grande affetto filiale.

Poco fuori la miniera i due trovarono una donna che raccontò loro della strage che i Tedeschi avevano compiuto su in paese. Oltre settanta uomini, tra cui il parroco, messi al muro della piazza principale e fucilati. I loro corpi poi dati alle fiamme come sommo gesto di barbarie e di inumanità. Tra di loro anche i compagni di Elio.

La donna raccontò il tutto senza versare una lacrima, ma si vedeva che i suoi occhi, fissi verso un punto indefinito davanti a lei, erano prosciugati e vuoti. Le guance solcate da rivoli di lacrime asciugate dal sole di luglio.

Elio invece pianse, come mai gli era capitato prima, pensando ai tanti amici, uomini senza colpe, i cui corpi giacevano irriconoscibili su quella piazza, luogo fino ad allora di gioventù e vita.

Elio, sempre insieme al minatore bambino, prese la via dei campi. Arrivarono a Ghiandelli e di lì a S. Pancrazio, dove vivevano i suoceri di Elio a cui poté dire di rassicurare la sua amata Dina, che era vivo e che sarebbe tornato da lei. Ricevette dai suoceri quel poco che avevano da mangiare e prese di nuovo la via dei campi, verso la montagna fino a Corneto, dove trovò tanti altri come lui con i quali divise quei miseri viveri. Rimasero lì alcuni giorni, dormendo sotto gli alberi, a turno, per paura che i Tedeschi, che ancora pattugliavano le campagne, potessero sorprenderli nel sonno.

Elio tornò a casa quando si sentì al sicuro e come prima cosa si diresse alla culla del suo Lorenzo che dormiva beato, inconsapevole della barbarie che si era consumata. Quando lo prese in braccio, lo strinse forse a sé quasi a voler, in quell’abbraccio, recuperare la purezza persa in quei terribili giorni di paura e orrore.

All’epoca Elio e Antonio non si conoscevano. Minatore del Ronco uno, contadino di S. Donato l’altro.

Alcuni anni dopo, a pochi giorni di distanza, le loro mogli misero alla luce i rispettivi secondogeniti: i miei genitori, Marusca (che il Parroco si rifiutava di registrare con quel nome “comunista”) e Pio (come lo zio prematuramente morto).

A questo punto della loro storia le vite di Elio e Antonio si intrecciano per via di quei figli, primi compagni di gioco, poi fidanzati e infine sposi.

Se penso a loro, li vedo ancora lì: uno seduto in veranda e l’altro su una sedia nell’orto, che sventolano verso di me una caramella.

“Nini, ti va di ascoltare una storia?

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28 Occhi immensi

Dal 7 novembre 1938 al 18 luglio 1940.

Ricordo l’ora in cui il mio sguardo si posò per la prima volta sul ragazzo che doveva diventare la fonte della mia più grande felicità e della mia più totale disperazione.

Fred Uhlman, “L’amico ritrovato”.

L’uomo attraversò la strada e coprì la breve distanza per raggiungere il marciapiede con un piccolo, ma azzardato balzo. Il piede sembrò non risentirne e la figura snella, avvolta nell’impermeabile grigio, riprese a camminare con la solita andatura celere, ma sporcata da una lieve zoppìa, la cartella di pelle tenuta salda sottobraccio e le mani in tasca.

In quei giorni aveva lavorato alacremente per la preparazione del processo, dopo la decisione del Ministero della Giustizia di accusare il piccolo ebreo di violazione dell’articolo 1751

Alle azioni incoerenti commesse dagli esperti legali, reagì come suo solito: una distaccata sicurezza. Le labbra, non molto carnose, avevano mantenuto il disegno di una linea scura e diritta, di poco curvata verso il basso, agli estremi. Una mano era passata lenta sulla fronte e i capelli lucidi, pettinati all’indietro seguendo la curva del cranio sino al collo. Solo gli occhi, incapaci di soffermarsi su di un punto per più di pochi istanti, tradivano la frenetica attività cerebrale dell’uomo, il suo rapido calcolare una soluzione che portasse profitto e limitasse i rischi al buon funzionamento della macchina governativa.

«Questo vi sia da monito,» aveva detto ai suoi collaboratori dentro l’ufficio al Ministero, «è da stolti affidare qualsiasi questione politica nelle

1 Il “Paragrafo 175” (noto come §175 StGB) fu un articolo del codice penale tedesco in vigore dal 15 maggio 1871 fino al 10 marzo 1994, che disciplinava i rapporti di tipo omosessuale tra uomini. La prima versione così riportava: «§175, fornicazione innaturale. La fornicazione innaturale, cioè tra persone di sesso maschile ovvero tra esseri umani e animali, è punita con la reclusione; può essere emessa anche una sentenza di interdizione dai diritti civili».

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mani dei giuristi.» e le labbra si erano chiuse di nuovo nella linea scura. «Sembra esistano documenti che avvalorano l’ipotesi di una relazione tra Grynszpan2 e vom Rath.» disse, nel silenzio degli altri, uno dei collaboratori e, presa tra indice e pollice l’asta degli occhiali scivolati, li risistemò sul naso.

L’uomo recuperò la custodia in pelle dalla sedia a fianco e l’aprì. Lisciò di nuovo i capelli con la mano e rispose: «Finora, ha sempre affermato di non aver mai conosciuto vom Rath. Ora viene fuori quest’assurda menzogna, ovviamente costruita ad arte dagli avvocati di Grynszpan, con lo scopo di alleggerire la posizione difensiva del piccolo ebreo e gettare fango sul nostro benamato consigliere.” Nel dirlo, l’uomo, recuperò i documenti sparsi sulla scrivania, sistemandoli con cura dentro la cartella. «Signori, non preoccupatevi. Se volete scusarmi, la seduta è aggiornata.» aveva concluso, afferrando l’impermeabile appeso all’attaccapanni per uscire dall’ufficio.

Il pomeriggio si stava spegnendo in una luce esangue e umida per l’ultimo cenno di pioggia, gettando gli ultimi accenni sulle pozzanghere in strada, incendiate di colori cremisi. La figura dell’uomo, in chiaroscuro, camminava seguendo un percorso rettilineo, che subiva variazioni solo per schivare le pozzanghere finché non attraversò il cancello d’ingresso di una villetta a un piano, senza balconi, con finestre a edicola, poste a decoro della facciata.

Fu accolto da una domestica di robusta corporazione, la pettorina di un ruvido bianco, tesa dalla carne ingombrante del seno.

«Hanno lasciato un documento per lei,» disse la donna, e si allontanò

2 Il 7 novembre 1938 a Parigi, il diciassettenne ebreo polacco Herschel Grynszpan, probabilmente come disperata protesta contro l’avversa sorte riservata ai suoi genitori, i fratelli e le sorelle, che stavano per essere deportati dalle autorità naziste, si recò nell’ambasciata tedesca in rue de Lille 78 dove sparò cinque colpi all’addome contro Ernst Eduard vom Rath, un diplomatico che venne confuso dal giovane con l’ambasciatore tedesco Graf Johannes Welczek, il reale bersaglio. Vom Rath morirà due giorni dopo. Dai documenti del processo si legge proprio che Grynszpan, dapprima, si avvicinò all’ambasciatore subito fuori del palazzo, senza sapere che fosse proprio lui. Chiese dove potesse incontrare il conte Welczek ed egli, sospettando il pericolo, indirizzò il ragazzo al segretariato, davanti al quale il giovane tirò fuori l’arma e sparò a caso.

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con l’impermeabile piegato sul braccio.

L’uomo raggiunse lo studio e sedette alla scrivania. Un breve bruciore di fitte partì dal piede, risalendo sino all’anca. Fissò qualche istante il plico giallo e il timbro del Ministero a contrassegnare i documenti importanti, a fianco del suo nome scritto in eleganti caratteri neri.

Attese qualche minuto, fino a quando il riverbero della dolìa si fu quietata. Con un taglio netto aprì la busta e, riposto il tagliacarte, sfilò il foglio piegato che vi era dentro.

Prigione di Bourges, 18 luglio 1940.

Qua tutti parlano, ma nessuno chiede a me cosa è successo. Tutti si riempiono la bocca di parole come fosse pane o ostie consacrate per fare i santi e poi, quando ne hanno la gola piena, sputano dei pezzi e credono di dare sentenze eterne con la benedizione di Dio. Ma cosa ne sa la gente dei ragazzi come me.

Tu, perché mi hai dato quella carezza là, non lo so. E perché non mi guardavi mai? Le tue scarpe di vernice erano lucide come la spilla dell’aquila tedesca sul giaccone, e gli abiti eleganti da diplomatico, la fronte alta, il tuo parlare colto.

Tu ridevi, e vedevo i denti sopra, bianchi e allineati, e quelli sotto altrettanto belli, se non fosse stato per i due davanti, uno di poco sovrapposto all’altro. Ma cosa mi fregava di quello. Io non lo so, parlavi bene, avevi la bocca piccola e ben delineata sì, ma due occhi immensi.

Qualcuno doveva pur farlo. O forse no. Lascia perdere i motivi stupidi, il poco denaro e l’esilio di ebreo. I motivi stupidi si spengono presto. Il poco denaro non conta. Essere ebreo non è un crimine. Io non sono un cane. Se nessuno su questa terra mi concede il diritto di vivere e di esistere, me lo prendo io. Me lo faccio da solo un paese dove aprire una bottega o coltivare un orto e sapere che qualcuno ti aspetta quando parti, ma non sai se rientri la sera. Cosa mi frega.

Lascia perdere l’amore che impasta la lingua degli idioti e riempie la bocca di scemenze. Alla mia età cosa vuoi che ne sappia dell’amore. È desiderio e basta. È possesso. È che non si conosce nulla, non si sa. Gli uomini e le donne sono tutti un corpo di carne da esplorare e tu, che attendi sempre quel brivido lungo la spina molle e, quando arriva, non te

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lo aspetti.

Poi non si sa se esiste l’amore, e comunque, anche se c’è, non è mai lineare e semplice. Per quelli come noi, forse, l’amore è più puro, libero da vincoli e leggero. Non fa chiasso e si solleva in alto come fanno le foglie in autunno e si spera che il cielo non cada e sia per sempre vento.

Non è vero che quelli come noi sono cresciuti nel disordine, è solo il vento di foglie che ci trascina e ci fa malinconici. Come la tristezza nelle periferie delle città, dove, tra i depositi e la corsa di binari arrugginiti, trovi i giovani che aspettano come noi dentro un sogno di ferro.

Che poi tu non mi guardavi, quando ci incontravamo per strada e nemmeno un saluto avevi, quando aspettavo sulla porta; poi abbassavo la maniglia e “Allora ciao,” ti dicevo e uscivo pesante, quando poco prima avevamo bevuto un bicchiere di vino sul divano, scherzato sui tuoi capelli impomatati e fatto silenzio per stare vicini, con la testa leggera di vino.

Avrei voluto chiederti: “Ma tu, perché mi hai dato quella carezza là?”, quel pomeriggio, sul divanetto di velluto verde troppo scomodo per due, troppo scomodo il fumo di sigaro che mi puzzava in testa e impediva di vedere se i tuoi occhi guardavano i miei (no, non guardavano, eri troppo innervosito e non stavi fermo, prendevi il bicchiere e lo posavi, lisciavi le dita sui pantaloni fino a quando quella mano non partì rapida). Perché quella carezza là? La tua era la mano del diavolo e l’hai sfregata bollente sulla mia pelle e, nonostante sei stato discreto, mi ha lasciato una cicatrice mai guarita, che brucia ancora.

Tu lo sapevi cosa pensano i tuoi amici tedeschi di gente come noi, incancrenita da un vizio che ripugna i normali. Perché il popolo tedesco deve vivere, e vivere significa lottare. E lottare è da uomini che sono disciplinati in amore, non dei deviati lascivi che rubano la possibilità al popolo di dare vita a dei figli e sopravvivere al tempo. Ma cosa ne sanno loro di quanto può profumare il corpo di un uomo, di quanto può essere caldo e tremante quando lo accarezzi con la mano e perfetto quanto quello di una donna. Il tuo profumo lo ricordo bene, non mi va più via dalla mente. Anche in questa prigione che fa pietà e puzza e ci sono le pareti macchiate di muffa, lo sento. Anche se c’è puzza quando mi corico sulla paglia e cerco di dormire, il tuo profumo lo sento. Ma non so descriverlo. È dentro di me come uno di quei pomeriggi di novembre con l’aria azzurra e il sole tondo che non scalda, ma è bello e ti fa venire da piangere. Al diavolo le questioni di morale e tutte le stupidaggini su chi deve fare cosa.

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Se vedevano i tuoi occhi quando mi parlavi, allora. Non lo so.

Per questo bisognava farlo, capisci, e dovevo essere io. Perché mi hai guardato, quando ti ho chiamato correndoti incontro all’uscita dell’ambasciata come se ti vedessi per la prima volta, la mano tesa e tu, all’inizio sconcertato, mi fissavi come se non mi conoscessi e non capivi e poi sei rimasto fisso su di me, quando dalla tasca sono usciti i colpi che ti hanno maciullato la pancia.

Io sorridevo, tu sgranavi gli occhi immensi e finalmente mi guardavi. Non m’importa quanto è durato. Un secondo, dieci, forse cento. Le urla della gente le sentivo ovattate. Anche i poliziotti, che mi strattonavano portandomi lontano e mi gonfiavano con pedate e pugni, non mi facevano male. Io scalciavo, c’avevo come una bestia feroce dentro, e mi sollevavo e smaniavo per tenere nei miei occhi i tuoi, con il sangue alla bocca (ed ero contento), nel dolore di un braccio rotto ero finalmente contento. Quando ti sei accasciato, in quell’istante è finito tutto per me.

Ho chiesto a una guardia e mi ha detto che sei morto dopo due giorni. Non credevo, non volevo farti soffrire, ma solo che tu mi guardassi. Allora ho chiesto se avevi gli occhi aperti quando sei morto. Quella mi ha guardato con un’espressione di schifo e rabbia, come quando si vede un topo di fogna nella cucina di casa, e mi ha colpito in faccia con il manganello. Sono caduto sul pavimento sporco, ho sentito la puzza della prigione, poi mi è tornato in mente il tuo profumo e sono rimasto lì, a terra, perché non volevo alzarmi e vedere le pareti ammuffite, il pagliericcio, la finestra scavata in alto, volevo solo ricordarmi di te e del tuo profumo, che, quando avvicinavo la faccia alla tua pelle, sentivo fresco, sembrava l’odore della neve e poi sotto c’era il profumo, un profumo di crosta di pane che mi ricordava le feste. Ecco il tuo profumo, quello del pane sotto la neve. Poi che ne so io, è questo l’amore? Che ne so di quali parole sono giuste: per me diventano tutte inadeguate, quando chi parla è l’amore. Oggi ho sentito le pareti della prigione tremare. Poi sono arrivati tutti quegli uomini della polizia segreta e ho nascosto in fretta la carta. Mi hanno guardato e sputato addosso parole che non capisco, ridendo. Parlano di gente come me, di “rosa Dreieck3” e vogliono portarmi non so dove. Adesso questa lettera la brucio. No, non posso. Devo strapparla e

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3 “rosa Dreieck”, ossia triangolo rosa. Era il marchio identificativo degli omosessuali uomini deportati nei campi di concentramento. La scelta del colore rosa era stata fatta come scherno nei confronti di uomini giudicati effemminati.

ingoiarla. Perché solo così porterò sempre dentro il tuo sguardo.

Ma che mi frega della polizia, la bocca piccola e i denti imperfetti, e una carezza che mai saprò più perché mi hai dato. Che mi frega.

La donna di servizio entrò nello studio con un vassoio d’argento, depose sulla scrivania la teiera e una tazza, entrambe di porcellana bianca, con un disegno floreale dipinto sulla superficie panciuta. Il tessuto teso della pettorina sfiorò il bordo di metallo graffiato quando la schiena fece un arco nel piegarsi verso la scrivania.

Si allontanò dopo un impercettibile inchino, mentre l’uomo ripiegava con cura la lettera di carta sgualcita, con segni di strappi da usura, riponendola di nuovo nella busta gialla. Posò il plico alla sua destra, in asse con i lati della scrivania, e lisciò con le mani la busta per eliminare una fastidiosa piega formatasi al centro.

Si versò del tè, caldo e scuro. Non vi aggiunse nulla e prese la tazza tra le mani. La porcellana riscaldata trasmise il tepore alla carne, fino a un perfetto equilibrio di caldo tra la pelle e il fiore smaltato. Le due labbra si scostarono, modificando di poco la linea scura e diritta, per accogliere un sorso della bevanda. Un gusto amaro e prepotente prese il sopravvento in gola, raggiungendo dopo poco la giusta soglia di tollerabilità per essere sostituito da un sapore morbido che strinse le pieghe di carne sottile nel palato. L’uomo deglutì senza far rumore e posò la tazza. Si passò la mano sui capelli lisci, perfetti, senza scomporne nemmeno uno. Sulla fronte si percepì un fremito sotterraneo attraversare l’accenno debole di rughe.

Il ragazzo e vom Rath. Il piccolo ebreo. Dalla tazza, una lingua di fumo sinuosa saliva, carezzando la linea scura della bocca e giungendo sino agli occhi, incapaci di rimanere fissi su di un punto.

Bevve l’ultimo sorso di tè e posò la tazza alla sua sinistra. Dopo aver recuperato l’oggetto dal cassetto della scrivania, prese la busta e si diresse verso la finestra.

Piccolo. Piccolo e stupido ebreo. Ogni dettaglio era stato pianificato con precisione: radio e giornali parlavano a rotazione del processo ed i suoi progressi, così che il nome di Grynszpan, dalle sfere politiche, era sceso

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sulla bocca dei cittadini.

Che su vom Rath cadesse pure l’onta di comportamenti lascivi. Era morto e, se ancora importava a qualcuno cosa avesse fatto in vita, lui aveva pronte una decine di lettere d’amore sequestrate dai suoi uomini a detenuti che poteva spacciare per parole scritte da donne francesi al diplomatico. Che Grynszpan diventasse pure il coraggioso eroe che aveva sfidato le leggi della natura per seguire il suo sogno d’amore impossibile. Bastava un suo ordine e la Gestapo sarebbe tornata dall’ebreo in prigione, per deportarlo altrove e chiudere così il processo, denunciando l’esistenza di una subdola congiura della comunità ebraica che aveva trovato nell’omicidio di vom Rath una salda copertura.

Basta ripetere una bugia cento, mille, un milione di volte e quella diventerà una verità. Piccolo e stupido, pensò di nuovo.

L’uomo scrutò la tela dipinta di buio, fuori dalla finestra, e i tagli di luce gialla dei lampioni. Il suo piede ricominciò a dolergli. Un bagno caldo con i sali avrebbe aiutato a sfiammarlo.

Si udì lo sfregamento della ruota zigrinata sulla pietra focaia. Dall’accendino, la fiamma ovale e ondeggiante, lambì l’angolo della busta incendiandolo in pochi attimi.

Sorrettodaunabrevecorrented’aria,l’ultimopezzodicartacarbonizzata, con i contorni ancora incandescenti, fece ampi volteggi davanti la finestra, venendone sospinto lontano. Atterrò oltre la cancellata, in una pozza dai bordi irregolari, dove il nero si sfaldò in frammenti minuti, subito assorbiti e dissolti dall’acqua.

Parve che la pozzanghera fosse scossa da un brivido, quando s’udì il rumore di persiane chiudersi provenire dalla finestra dello studio di casa Göebbels4

4 Ministro della Propaganda del Terzo Reich dal 1933 al 1945, Ministro plenipotenziario per la mobilizzazione alla guerra totale e generale della Wehrmacht con l’incarico della difesa di Berlino dall’aprile del 1945 e, dopo il suicidio di Hitler, Cancelliere del Reich per quasi due giorni: Joseph Paul Göebbels fu uno dei più importanti gerarchi nazisti. Essendo una delle persone più colte tra i nazionalsocialisti del Terzo Reich, furono in molti a chiamarlo “Herr Doktor” (Signor Dottore). Nel corso della sua vita, Göebbels compilò numerosi diari, scritti spesso in maniera frettolosa e poco elegante, a differenza dell’osses-

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siva cura che poneva nella preparazione dei suoi discorsi pubblici ma, all’interno dei quali, si trovano appunti sugli incontri ai quali partecipava, riflessioni personali e idee. Proprio questi motivi, rendono i diari un importantissimo documento storico del periodo.

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Un disertore

Per B.

11 marzo

Un’intera giornata passata a lanciare sassi verso uno più grande, piatto, tranne per una punta ricoperta di muschio rossastro, finché al pomeriggio mi sono avvicinato per indolenza e per sgranchirmi le gambe. La cima del masso si era parzialmente ripulita dai licheni, era passata da un bruno fulvo granata al grigio chiaro. Ho passato, penso, tre, quattro o cinque ore, non saprei dire con esattezza, a tirare sassi che raccoglievo dalla scarpata. Non ho fatto nient’altro.

13 marzo

Nascosto tutto il giorno nel bosco. Non è successo niente.

21 marzo

Dopo una serie di giornate piovose in successione, durante le quali sono stato da mattina a sera sotto il camminamento e mi sono molto preoccupato che dovessi abbandonare il mio rifugio, sono già tre giorni che il tempo si è rimesso. Primo giorno di primavera. Ho atteso che arrivasse C., che si è visto solo quando era già quasi completamente tramontato. Mi ha portato del pane e un po’ di vino. Non abbiamo parlato quasi per nulla, ci siamo guardati come al solito, molto di sfuggita.

23 marzo

Niente di niente.

24 marzo

Niente. Sembra che non succederà mai niente.

25 marzo

Già venti giorni che sono qua nascosto, sinceramente pensavo che sarebbe stato peggio. Pensavo che avrei patito più freddo o solitudine. Ciò che mi pesa maggiormente è la fame. Il punto dove sto nascosto è riparato

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e mi offre notevoli vantaggi. Non passa molta gente, dalla strada sopra di me, uno o due contadini al giorno, per il resto niente. La notte escono gli animali, che sembrano fiutarmi. La mattina sento in lontananza i richiami di un pastore. Oltre a questi contatti, c’è il signor C. che viene ogni sera, mi guarda di sfuggita e non dice quasi mai nulla, non vuol sapere nulla, e io nulla gli domando. Ma è ovvio che molto poco sa di quello che succede in paese, intorno a noi e nel mondo, giù in fondo alla valle.

26 marzo

Scrivo sul mio diario: oggi non è successo niente, eppure niente non esiste per davvero. Anche oggi che non è successo niente, ho compiuto tutta una serie di gesti e di azioni. Ho rimesso a posto la coperta, dopo averla sbattuta. Ho nascosto il mio giaciglio, come ogni giorno, in una rientranza nella roccia. Sono arrivato alla fonte del Bembo. Ho avuto cura di sciacquarmi bene e frizionarmi il collo. Ho bevuto dell’acqua, mangiato un pezzo di pane che avevo tenuto dalla sera prima. E poi ho atteso. Le ore sono passate, in che modo? Mi chiedo adesso che scrivo queste righe. Ho pensato. Sono stato in ascolto se passasse qualcuno. Non passava nessuno. Sono rimasto disteso tra le foglie ancora umide e poi le ore si son fatte miti, intorno al tocco, fino quasi a sentire autentico tepore del sole di marzo, il primo.

27 marzo

Ho atteso che arrivasse C., ma oggi non si è visto. Ho aspettato circa due, tre ore, credo, dopo che era scesa la notte. Poi ho tirato fuori la coperta dalla rientranza nella roccia e mi sono preparato per dormire. Mi sono addormentato a fatica, con le lacrime agli occhi per la fame.

28 marzo

C. è arrivato al tramonto. L’intera giornata è trascorsa in attesa febbrile e pensieri poco lucidi che si rincorrevano. Il suo arrivo è stato per me fonte di grande gioia, che ho dissimulato agli occhi di quest’uomo che non voglio descrivere fisicamente in queste pagine, in nessun modo, per non comprometterlo. C. ha fatto riferimento a certi passanti mai visti, che non gli erano piaciuti, sul perché non fosse venuto il giorno prima. Io del resto non avevo domandato niente e mi ero lanciato sul mezzo filone di pane e sul pezzo di formaggio che mi ha portato. La notte ho dormito benissimo.

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31 marzo

Niente. Marzo è finito. Sembra lontano nel pensiero e nel tempo, ma era solo l’inizio di questo mese, quando stavo ancora giù a casa mia e aspettavo il giorno della convocazione al Distretto e la cartolina sulla vetrinetta di cucina stava là a ricordarmelo. Ripenso a come tirare di lungo sia stata la scelta più semplice e naturale del mondo. Ripenso alle primissime ore da disertore, quel vagare quasi fossi ubriaco, a quel senso di possibilità e di paura che provavo e mi ricordava certi capogiri provati in alta montagna.

3 aprile

È venuto a trovarmi mio padre. Mi ha detto che ha lasciato la bici alla fattoria al termine della strada nuova, e da lì è risalito a piedi per la masseria. L’ho trovato invecchiato, ma con una forza che non ricordavo in lui. Ho chiesto le condizioni di salute di mia sorella e di mia madre. Mi ha detto che la ragazza non sta bene, niente di nuovo, che i dottori consigliano di portarla via, lontana dalla piana, ma che comunque con la tubercolosi, si sa, non c’è molto da ragionare. Le medicine, mi ha detto con occhi improvvisamente arrossati e cerchiati di rosso e sangue, non le fanno più quasi alcun effetto. Mia madre mi manda i suoi saluti e io mi sono voltato di tre quarti rispetto a lui e ho pianto una lacrima, e anche lui si è girato, non so se per non vedere quello spettacolo o perché non vedessi lui. Mi ha chiesto del signor C., se mi porta regolarmente da mangiare, io ho detto che va tutto bene. Che impressione è stato rivedere mio padre, una delle più forti da quando sto quassù. Abbiamo passato del tempo assieme, ma sempre con l’idea che fosse troppo, che già era per lui l’ora in cui se ne dovesse andare.

4 aprile

Ancora pensieri rivolti alla giornata di ieri, il pensiero a mia sorella e alla sua malattia. Per il resto niente. Non è passato nessuno e non è accaduto niente.

5 aprile

Scrivo queste piccole note, ma devo stare attento a non menzionare luoghi o persone, perché potrebbe costarmi caro. Ogni parola deve essere un sasso. La carta è poca, le parole sono poche e devono essere necessarie. Dovrei smettere di scrivere, mi sembra che tutte le mie parole siano in

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fondo inutili e pericolose.

6 aprile Niente.

7 aprile

Il bosco e il sottobosco, la luce che pure li attraversa, le giornate che si ripetono molto simili, l’attesa che arrivi C. Oggi quando è arrivato verso l’ora dei vespri, gli ho detto che era il mio compleanno, che compio diciannove anni e dopo un attimo mi sono pentito di averglielo detto. Mi sono sentito debole e in pericolo. Lui non ha commentato in nessun modo la notizia, ma mi ha guardato come a dire: meno informazioni ho su di te e meglio è, per me e la mia famiglia. Io lo sapevo, l’ho visto già nel suo sguardo. Ma dovevo dirlo a qualcuno.

8 aprile

Ho pensato a casa mia, alla sua piantina, me la sono disegnata mentalmente e anche con uno stecco, sul terreno umido.

9 aprile

Attesa. C. oggi non si è visto.

10 aprile

Provo a cacciare con una fionda piccoli uccellini. Mi chiedo cosa ne farò una volta che li avrò catturati. Li darò in dono a C., non posso certo mangiarli crudi o mettermi a fare un fuoco. C. li darà a sua moglie, che ci farà il sugo, ho pensato.

11 aprile

Molte ore sono passate veloci mentre mi aggiravo nel sottobosco. Sono arrivato fino all’inizio dei campi coltivati, alle pendici del monte dove mi nascondo. Mi muovo senza fare rumori. Il bosco e questi giorni mi stanno cambiando. Ho cambiato anche il mio modo di camminare. Mi sembra che il mio baricentro si sia spostato in avanti per la pendenza del terreno. Cambio modi di essere senza che io quasi me ne accorga. Ho seguito i sentieri degli animali, ho costeggiato la casa del signor C., le radure e i campi coltivati. Ho visto sei persone, le stesse che ho visto negli ultimi quindici giorni. Allora mi sono ricordato di certe lezioni di geografia, sui

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popoli dell’Africa orientale: popoli nomadi che si muovono nel deserto, quella loro scelta di non diventare sedentari. Ho pensato a loro in relazione a me, e a questa giornata passata veloce, muovendomi. Ho la testa leggera, le gambe stanche, ma devo stare attento, ricordare la mia situazione.

12 aprile

Pasqua. Non ho pregato. Non saprei chi o che cosa. Speravo che passasse il babbo, era una speranza sciocca, infantile. Sognavo addirittura che venisse su con la mamma e mia sorella, ma non si è visto nessuno. Come era naturale. Sulla fine della giornata ha piovuto forte, mi sono sentito triste e perduto.

14 aprile

Ieri, il giorno di Pasquetta c’è stato un rastrellamento. Hanno perquisito la casa di C., hanno perlustrato la zona attorno al lavatoio, alla fonte del Bembo e verso la seconda fonte alla ricerca di tracce, sono saliti su per il pendio, ma è chiaro che cercavano qualcosa che qui non c’è, che avevano avuto delle false informazioni. Sono da solo in questa collina, non c’è nessun altro nascosto oltre a me, magari ci fosse qualcun altro. Forse, le altre persone scappate si trovano più avanti, oltre la seconda fonte e salendo verso nord, in posti che io non conosco e che se volessi raggiungere mi richiederebbero minimo un giorno di cammino. Ma perché dovrei andare fino là? Ho avuto paura. Li ho visti in lontananza, i soldati, li ho sentiti camminare e urlare rumorosamente per darsi coraggio. Non erano tantissimi, e una sola persona come me, conoscendo bene il posto, poteva evitare di cadere nelle loro mani. Lo scrivo adesso, quasi fossi un eroe del cinematografo, impassibile di fronte al pericolo, ma ho temuto per la mia vita. È stato senza dubbio il giorno più rischioso da quando sono qui. C. la sera non si è visto e penso che forse non verrà neanche domani, ma il cibo stasera è l’ultimo dei miei pensieri.

18 aprile

Devo interrompere questo diario.

19 aprile

Devo togliere ogni riferimento a fatti o persone. Non si deve capire chi sia io, né la mia famiglia, né C., né dove siamo. Distruggere questo diario

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sarebbe la cosa più semplice di tutte, in effetti.

25 aprile

Vorrei parlare della quotidianità, di queste giornate tutte identiche, ma solo apparentemente. Sono altri i miei pensieri, sono altri i ricordi che affiorano, i pensieri che arrivano da chissà dove nella mia testa: al mattino, quando mi sciacquo al lavatoio, o la sera, nel momento in cui il signor C. si allontana per il sentiero tra gli alberi o poco prima di dormire. Esiste in me un intero universo di pensieri che nascono e si perdono in quell’ora della notte. Ho ripensato, ad esempio, alle prime volte che sono andato col babbo in città da bambino per la visita medica, per curare la mia otite. Le due volte che siamo andati in città si confondono nella memoria, e sembrano quasi una sola. Ricordo che mio padre noleggiò il legno, perché andare con il tram sarebbe stato scomodo per tornare. Ricordo quando arrivammo in via della Condotta, lo studio del dottore e l’altezza dei palazzi, ricordo principalmente il nome di quella via e che c’era un arco, ma più che altro il nome. Ricordo che il babbo mi spiegò che anche da noi in paese le strade avevano dei nomi, proprio come in città, solo che nessuno li usava. “Strada Nuova è solo un soprannome, non si chiama davvero così,” disse lui. “E quale sarebbe il vero nome,” chiesi. “Si chiama Via Dalmazia,” rispose, “gliel’hanno dato i fascisti.” Allora ho pensato che le guerre si fanno per i nomi delle strade del futuro. Anche questa guerra qui.

29 aprile

È tornato a trovarmi il babbo. La bici l’aveva lasciata a casa, e l’ho visto affaticato per la salita. Speravo mi portasse qualcosa da mangiare, del formaggio o del vino, ma mi ha detto che le guardie avrebbero potuto vederlo e perquisirlo e avere del cibo con sé sarebbe stato troppo pericoloso. Aveva due uova, mi ha detto, per festeggiare la Pasqua appena passata, ma lo ha detto come per scherzare, noi che in famiglia siamo socialisti e queste cose non ci interessano. Quel suo mezzo sorriso nel darmi le uova pasquali però me lo ha fatto sentire vicino, come se il mio essere qui nascosto fosse qualcosa che fa di noi una famiglia, avvicina me a lui, e al nonno, e agli altri disertori del paese e anche ai mezzadri e agli operai della fabbrica che ancora continuano a lavorare, come si vede dal fumo che esce della ciminiera. Poi ho divorato le uova, come se fosse una Comunione.

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10 maggio

Mi ha chiesto il signor C. (mi ha detto di lasciar perdere con questo signor, che ormai sono un uomo fatto), mi ha chiesto se voglio portare le pecore al pascolo, poco prima dell’alba, tanto per fare qualcosa. Se dovessimo incrociare qualcuno, dovrei semplicemente nascondermi nelle frasche, ma lui, ha aggiunto, ha l’impressione che qualcosa giù stia succedendo. “Passano meno persone dai sentieri,” ha detto. L’attenzione dei fascisti che in questa zona già era minima, si è fatta ancora minore, come se, ha concluso, (e mi ha meravigliato sentirlo fare un discorso così lungo e complesso) come se i fascisti avessero la testa altrove, rivolta ad altre preoccupazioni piuttosto che a un giovane disertore nascosto dentro a un fosso. Ho accettato subito di aiutarlo con le pecore perché ogni cambiamento e novità mi è vitale a passare le giornate. Domani cominciamo, e ne sono contento. C. ha portato un quartino di vino per festeggiare: sapeva già che avrei accettato la sua proposta, evidentemente.

22 maggio

Il bosco è silenzioso, il bosco lo conosco bene. Il bosco in certe ore non lo conosco. La notte mi nascondo. Durante il giorno mi nascondo. Vivo all’alba, nell’ora delle pecore e del pascolo, poi torno nel mio punto di bosco che conosco come una mano, come la mano di mia sorella.

23 maggio

Lancio questi sassi da mesi, sempre verso il sasso col muschio rosso, dovrei smettere di gettare sassi, di lasciare tracce del mio passaggio, di scrivere queste righe. Dovrei smettere penso, ma mi chiedo anche se davvero smettere o continuare, di lanciare, di scrivere, di nascondermi, possa cambiare qualcosa, o importare a qualcuno. Dalla mia posizione sembra impossibile che a valle ci sia ancora qualcuno che mi cerca o mi aspetta, che ancora qualcuno stia giocando a rimpiattino. Mi chiedo invece se i bambini che giocavano con me non siano già tornati tutti a casa, dalle loro madri, e la ricreazione non sia finita già da un pezzo.

27 maggio

Le giornate si allungano. Io resto, nelle lunghe sere dopo che C. se n’è già andato, disteso con le braccia dietro alla testa, in uno spazio aperto, dove vedo parte della valle e anche in fondo alcune case del mio paese. Le luci che dovrebbero stare spente per il coprifuoco, a volte compaiono

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per un attimo. Cerco quei minuscoli bagliori. Penso alla mia famiglia e in parte mi commuovo e in parte mi sento così bene, forte e felice. Non so spiegare meglio. Oggi una giornata come altre, simile ad altre di questo periodo, che pure so che finirà, che cambierà ancora. Mi domando la guerra come vada, mi domando se arriverà fino a qui e cosa farò io, dove mi nasconderò, se mi troveranno. Penso alla mia famiglia che ha già finito di mangiare, penso alle cose che fanno adesso, al loro ascoltare la radio in sala, col volume al minimo. Penso alla stanza di mia sorella e alla mia, al mio letto vuoto e comodo, ma anche queste foglie lo sono. Non penso veramente a niente, e non aspetto niente.

28 maggio

Solita trafila delle pecore al mattino. Portarle al lavatoio e poi discendere o salire la collina fino alle differenti zone di pascolo. Loro sanno già tutto, dove andare, dove è cresciuta l’erba e dove no, andrebbero sempre avanti, vorrebbero arrivare ai campi coltivati, che è dove non devono andare. Mi sento così anche io. Vorrei continuare con loro, arrivare fino alla casa del contadino che segna la fine del bosco e proseguire oltre, come avviene nei sogni del mattino. Mi muovo allora nel paese deserto, all’alba, perché è uno dei pochi momenti della giornata in cui mi sento veramente al sicuro. Penso che niente di male possa accadermi, che nessuno bombarderà niente, che tutti stiano dormendo. Tutti tranne me.

29 maggio

Ho ripensato al lavoro, a come poco mi manca la mia occupazione in città, a come pochissimo mi mancano quei piccoli riti: il viaggio con il tramvai, la ressa di commercianti e donne che si affollano cercando di farsi spazio per leggere un quotidiano, il loro sciamare dalla stazione verso le differenti botteghe, e quel gioco di sguardi che pure ci lega ad alcuni e mi allontana ad altri. Ho ripensato al lavoro presso la ditta M. e a come mi sento cambiato e cresciuto in questi tre anni che sono assunto là. Ora con la guerra si è interrotto qualcosa che riempie le mie giornate eppure la differenza sta altrove, ad altre ore che pure sono minoritarie, ad altre relazioni.

2 giugno

Niente di niente. Ho cantato a bassa voce delle canzoni che mi sono riaffiorate alla mente, ho declamato alcune poesie studiate chissà, quasi

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dieci anni fa. Per il resto la solita sinfonia dei grilli che riempie e quasi assorda. Giornate di sole lunghe e bellissime.

3 giugno

Le pecore sono animali curiosi. Mi ricordano in parte, sarà per l’orario in cui le porto a pascolare, il viaggio in tramvai che facevo ogni giorno per andare al lavoro. Ha detto C., che mi accompagna a volte con le bestie, che le pecore sono uguali identiche alla gente del paese, e ho sentito come del disprezzo verso me che ne faccio parte. Sono piccole cattiverie, dovute, io la capisco, alle molte offese che C. avrà ricevuto nella sua vita quassù. Non me la sono presa, ovviamente, la mia sopravvivenza è legata a C. Se dice queste cattiverie lo fa per debolezza, non per cattiveria, come lo farebbe una pecora.

11 giugno

A volte penso che potrei scendere in paese, in queste albe che fa freddo e arrivare fin dentro la casa, quella casa che è la mia e della mia famiglia. Mi piacerebbe andare a casa degli zii, salutare i miei cugini, o non salutarli affatto, guardarli solo dormire, sentire gli odori delle case, guardare quelle cose comuni, la cucina economica e un bricco appoggiato sopra, il bagno alla turca al primo piano, il catino di stagno. Quegli oggetti di uso comune che pure si trovano in quasi ogni casa senza che nessuno ci faccia caso. Vorrei passarci un dito sopra, mentre tutti nella casa stanno dormendo.

18 giugno

Giornate limpide e miti, il bosco è cambiato davanti ai miei occhi, quasi posso vedere i rami, le foglie, l’erba, le piante che si aprono, che si dischiudono, che si distendono. Tutto il bosco è in fermento, e il mondo degli uomini lontano, in fondo alla valle.

19 giugno

Quanto può durare questa situazione? - mi domando. Non succede mai niente.

1 luglio

Passato quassù il babbo, con i saluti di mia madre e di mia sorella. Mi ha detto che andranno via per un periodo, che porteranno la ragazza in montagna. Che è troppo importante per lei evitare il caldo del paese. Ne

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sono stato lieto, ma allo stesso tempo una tristezza intensa mi ha colto, non so dire se per il pensiero che loro saranno presto lontani, più lontani ancora di quanto già lo siano, o se piuttosto non sono geloso di non essere con loro in quel luogo, che mi ricorda l’infanzia e tempi più spensierati di questi. Tristezza e rabbia generica, non so dire verso chi e verso che cosa.

2 luglio

Niente. Il bosco è radioso. Eppure stento ad accorgermi di ogni cosa. “Povero me,” ecco quello che penso, se penso, altrimenti niente. Solite sassate contro il masso piatto, finiranno questi sassolini?

13 luglio

Niente, maledizione. Niente di niente.

14 luglio

Le poche parole scambiate con C. me lo rendono odioso, la sua indolenza, questo senso di inutilità e di indifferenza per tutto ciò che non lo riguarda, per ciò che gli è lontano, che dista da lui qualche centinaia di metri. Niente lo interessa davvero, ad esclusione delle sue pecore, della sua famiglia, del suo campo, del suo tetto. Io a volte ho provato a dire qualcosa sul vasto mondo che pure preme alle pendici del colle e l’ho visto schernirsi come per un’idea scartata anni fa, messa da parte, accantonata e mai più ripresa seriamente in considerazione.

17 luglio

Questo tempo che pure mi sembra pietrificato, passerà. Passa già, sta passando, è passato. Ma quanto è pesante questa attesa di qualcosa che è lontano, solo possibile e non sicuro, questa attesa di nemico invisibile, di volti vaghi, di forze malvagie che non hanno corpo, che sono fantasmi e si muovono quando mi distraggo, che si aggirano per il bosco e forse mi osservano quando riposo, quando chiudo infine gli occhi dopo queste giornate lunghissime, queste mattine e pomeriggi infiniti passati disteso sul prato, questi tramonti che non vogliono passare, per non menzionare le notti, ecco, quelle, lasciamole semplicemente da parte.

19 luglio

Continuo a pensare di andare a trovare la mia famiglia in villeggiatura, e poco sembra curarsi, il mio lato razionale, dei rischi che correrei. Mi

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dico: Ti rendi conto delle cose assurde a cui pensi? Mi rispondo: Non mi importa in assoluto, meglio il rischio che questo niente. Meglio esser trovato, meglio esser fermato, che questo niente. Meglio qualsiasi cosa, anche la peggiore, che questo bosco rigoglioso, questo giardino felice che serve solo a ricordarmi quanto io sia triste e solo.

29 luglio

Ecco, è accaduto: ho percorso alcune ore di cammino, poco prima dell’alba, poi ho preso un treno. Mi sono convinto che solo giù al paese mi cercano, che a nessuno importa di me, che nessuno mi ha mai visto. Sono stati tre giorni di grandissima emozione. Ho rivisto mia madre e mia sorella, sono stato due notti su con loro, nascosto certo, ma con loro a distanza di qualche metro. Il viaggio, in parte su un piccolo treno, è costato poche lire, tutto è andato bene e a ripensare adesso, alle facce preoccupate dei miei e in particolare a quella di mio padre, mi dico che sia stata una pazzia sul serio, che una seconda volta io questo rischio non lo potrei correre. L’impressione che ho ricavato dal mondo dei vivi è quello di un grande caos, di grandissima agitazione. La guerra prosegue, ma non si capisce come vada. Sembra bene, sembra malissimo, da quello che dicono le radio clandestine. Secondo mio padre è questione di giorni e arriveranno gli americani. C’è chi dice che già ci sono, che le colline sopra la mia sono interamente popolate di soldati e di partigiani, nascosti, che organizzano le resistenze. Mi sembra un mondo di favola, ora che sono di nuovo qua al mio rifugio, dopo aver rivisto C. e il suo sguardo di delusione e sfiducia, tutto mi appare lontano, ma ho fatto così, ho scelto, non avrei potuto fare altrimenti.

8 agosto

La vita, nascosto, ha ripreso il suo corso come sempre, ma la collina e la campagna e il bosco vivono come minate, come rallentate, come bruciate. Come se qualcosa stia per cambiare. C. parla già dell’arrivo dell’autunno e di come ci sarà da cambiare posto per me, e qualcosa si dovrà inventare. Io posticipo quel pensiero e mi dico che ci penseremo quando verranno i primi freddi. Per ora è ancora tutto lontano, tutto immobile in una grande calma, sconvolti dal caldo, dal silenzio e dai frastuono dei grilli. Non succede niente.

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11 agosto

Vorrei innamorarmi. Penso solo a questo, da quando son tornato quassù. Vorrei innamorarmi e forse lo sono già. Ho incontrato su a … una ragazza del paese. Il suo nome è Alba. La sua famiglia viene dal mio stesso paese, ma lei ha vissuto gli ultimi anni lontana perché è orfana di padre. La madre ha fatto da sola una piccola fortuna, con un pastificio. Lei mi è sembrata bella, con un suo dolore che la contraddistingue pur senza renderla pietosa, quanto piuttosto fragile e cara. Non so perché mi sia piaciuta. L’incontro a … è stato qualcosa di naturale, e poi dopo nel viaggio di ritorno mi è stato vicino il pensiero di lei. Mi piace il suo nome. Ecco tutto. Sembrerà sciocco ma il suo nome mi si è come incastrato in testa.

12 agosto

Solita vita, soliti risvegli e solite pecore, solite giornate tutte uguali. Soliti discorsi, pochissimi con C., solite ore passate qua nascosto, nel sottobosco, sotto questo ponticello. Mi chiedo a volte, ma sono le paure di C., cosa succederà con l’arrivo dell’autunno, se dovrò cambiar rifugio. Penso allora che andrò verso nord, dove si dice ci siano altri uomini che stanno nascosti e già si organizzano per resistere. L’inverno assume a tratti le sembianze minacciose della guerra, un pensiero che mi assale prima di dormire e che torno a scartare. Mi sveglio la mattina e sembra semplicemente lontano dal presente.

13 agosto

C. sembra non capire i miei discorsi sull’andare a nord, quando arriverà l’inverno. Forse si sta affezionando a me, o, più probabile, qualsiasi cambiamento che non sia lo scorrere delle stagioni, lo terrorizza. A me no. Non mi sento superiore a lui, non è questo, siamo soltanto figli di storie diverse. A me l’idea di partire e raggiungere i ribelli sembra affascinante, come un libro di avventure. Penso a storie incredibili di cui io sono protagonista, finiscono sempre che torno da Alba. Ci sono varie avventure e donne in questi pensieri; sono tutte avventure vaghe, e finiscono in una grande casa al paese, con una sposa accanto.

18 agosto

Lanaturaèprobabilmentealsuoapice.Comincianoleprimissimepiogge e temporali. Il bosco e io, minuscolo al suo interno, viviamo sentimenti simili: stiamo, terrorizzati dai rovesci notturni, immobili, attoniti, svegli e

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tremanti. Sciocco aver paura di un temporale e dei fulmini quando tanti pericoli mi circondano, eppure mi sento così vulnerabile qua, circondato.

19 agosto

Un’intera giornata di temporali e perfino il primo freddo. Odore di sottobosco. C. è passato con un telo incerato, mi ha lasciato del cibo e mi ha guardato senza parlare come a dire: “Guardati”, come fosse una fiaba di Esopo, non saprei nemmeno dire io quale fiaba mi ha ricordato, ma non mi ha messo né di buon umore né mi ha fatto capire cos’è che dovrei fare o dire, secondo lui.

22 agosto

Di nuovo, finalmente, il sole. Il bosco ha ripreso i suoi colori, il grigio, il verde rosso e il bruno giallo e l’oro. Io sono tornato sui luoghi che ho imparato a conoscere, le due fonti, a sciacquarmi nel Bembo, ho camminato per riattivare i muscoli indolenziti dalle giornate fermo, nascosto sotto il camminamento. Mi muovo a occhi chiusi, in questo bosco, conosco i sassi come le mie tasche, come li conoscono gli animali.

25 agosto

Oggi nulla. Mi stranisce quasi scrivere queste due parole, come tante altre volte ho fatto in questo diario, ora che molto tempo è passato e tante discorsi che ho fatto sembrano negare questo niente. Ma oggi, e lo dico con una strana nostalgia, non è successo nulla: sembrava una mattina di giugno, sembrava un pomeriggio di maggio, l’inverno lontanissimo. Il tempo si era fatto immobile, nulla.

26 agosto

È salito il babbo. Le condizioni di mia sorella si aggravano, mi porta i saluti di mia madre, e incredibilmente, anche quelli di Alba. Si agitano in me pensieri contrastanti, la preoccupazione per mia sorella e di contro la gioia del messaggio di Alba. C’è ancora qualcuno che pensa a me dunque, non sono solo. C’è un dopo, perché le cose andranno avanti, in qualche direzione. Mio padre mi ha detto che in paese la situazione è instabile, che la guerra forse è perduta, ma questo forse vuol dire il contrario: una vittoria per noi. Si rincorrono strane notizie, le radio clandestine sono in fermento. Mi ha detto lui di rimanere qua, di non fare niente. “E chi si muove?”, ho detto io e ci siamo sorrisi con speranza, come due amici.

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29 agosto

Il mese finisce. Solito senso di immobilità, di frustrazione e di rabbia. Lo indirizzo su C., che però non c’entra nulla. “Povero uomo,” penso, guardandolo con tutte le sue piccole sicurezze intorno, “che buon uomo.” mi affretto a pensare subito dopo.

30 agosto

Agosto mi sembra un mese che abbia una capacità di sembrar che finisce e di non finire mai. Sono giornate strane, c’è davvero una sensazione che va oltre la natura, sono i gesti dei mezzadri, che pure non hanno mai smesso di muoversi in queste zone, i passi degli agenti di commercio e i pochi soldati fascisti che raramente son passati in questa zona: sembrano tutti in attesa, tutti immobili con orecchie tese verso qualcosa che sta per avvenire. Perfino C. e il suo essere pietra tra pietre. Mi pare che trattenga il fiato.

2 settembre

Niente. Un’intera giornata lunghissima e inutile. L’aria di settembre. Vaghi pensieri di partire verso nord, tanto per cambiare panorama. Tanto per aver qualcosa da raccontare quando tornerò in paese.

3 settembre

Penso ad Alba, al suo volto chiaro. A quel pochissimo tempo trascorso in compagnia di mia sorella, a quei pochi discorsi su argomenti in comune, la festa di paese, dove forse ci incontreremo se cambia qualcosa, ma qui non cambia mai nulla.

8 settembre

Il bosco è completamente pieno di uomini. Sono persone scappate dai reggimenti, sono soldati, ciò che cercano sono vestiti civili, borghesi. Ciò che lasciano è la loro divisa. La parola che si ripete e rimbalza per questo bosco fatto di parole non umane, oggi è una sola parola umana: Armistizio. Sembra che ci siano date umane in grado di divenire date memorabili. Arriva fino a qui il tempo degli uomini, anche in questo bosco scandito da ritmi e tempi naturali. Il bosco è completamente pieno di soldati, di persone che non sanno che fare, che se ne sono andati dai posti in cui erano. “Adesso,” mi hanno detto alcuni di loro, “cambia tutto.” “Adesso finisce tutto,” mi hanno sussurrato altri. Io penso, invece, che non ha mai smesso. Ma lo capisco adesso che il mio tempo in questo bosco è finito e mi

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preparo per tornare in paese: anche io, come questi uomini che riempiono di suoni il bosco, me ne andrò a breve e qui tornerà tutto com’era, senza lasciare traccia. E, per quanto riguarda il resto, lo vedrò.

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Chiamati a morire

Nel camino il fumo saliva da quei pochi legni anneriti rimasti dal giorno passato.

S’alzava l’alba di una giornata già stanca, così abituale nei gesti e nella paura.

La guerra aveva reso tutto provvisorio e mutabile, fermo e fuggevole come le impronte nel fango che la pioggia cancella.

Eppure, dal fondo del sentiero che costeggiava il paese, aspettavo sempre il ritorno di qualcuno.

Quel viottolo mi percorreva l’animo come una speranza, come un’angoscia.

Il sole d’aprile colorava le sterpaglie, l’acqua sgorgava canterina e il confuso conversare delle donne al lavatoio addolciva le ferite di quei giorni.

Il vecchio cieco sedeva sui gradini della sua casa e dal mulino venivano portati i sacchi di farina per il pane di Pasqua.

Poi, dalle campagne si sentì un parlottio gentile, una parlata amica, romagnola, un discorrere confidenziale, che divenne rassicurante allorché un gruppo di giovani partigiani si fermò a bere alla fonte del lavatoio. Erano figli di Romagna e figli anche di Spinello, seppur venissero dalle Balze. I loro volti, le camicie sporche di sangue e stracciate dagli spini ne dicevano troppe di cose.

Solo la freschezza della giovane età mitigava l’amarezza che avevano vissuto.

Tutti raccontavano una storia toccante, diversa e uguale: di coraggio, di notti insonni, di fughe interminabili, di giorni di fame e di terrore.

Quattro di loro passarono la Pasqua a casa nostra. Ognuno aveva un nome di battaglia e non svelava quello di battesimo. Di questo non ci curavamo.

Tenevano i fucili sempre a tracolla, dicevano: “Non si può mai essere sicuri con quella gente in giro!”

Uno di loro “il Falco” aveva, oltre al suo, un fucile tedesco. Spiegava che sconfiggerli con il loro arsenale doveva essere per loro ancora più avvilente. Si percepiva che ne aveva sofferte troppe per poter dormire a casa.

Se gli altri avevano ancora voglia, in questi momenti di pausa, di giocare

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a carte con i ragazzi più giovani, lui stava seduto vicino al vecchio cieco a narrargli quel che fortunatamente non aveva visto.

Si lasciava andare al sorriso quando il piccolo Andrea, che camminava a stento, andava ad attorcigliargli i capelli riccioluti e, prendendolo in braccio, quasi come una promessa, sussurrava: “Dimmi, ma che mondo sarà il tuo?”

Aveva chiesto a mia madre ago e filo e si era rammendato la camicia alla bene e meglio. Fu allora che conversai con lui chiedendogli di portarmi con loro.

Mi ero avvicinato senza reticenze e, presentandomi come un uomo pieno di forze e di volontà, ponevo quale unico ostacolo il permesso di partire, che mia madre, per i miei sedici anni, non mi avrebbe concesso.

Il Falco cercò di sbriciolare tutte le mie certezze e per più di un’ora presentò mille ragioni perché io rinunciassi a diventare un ribelle. Il suo sforzo fu vano visto che alla fine le mie convinzioni si erano rafforzate.

Mi guardò e disse: “Parlo io con tua madre, le dirò che stia certa del tuo ritorno. Non sarai esposto in azioni di pericolo”.

L’indomani era Pasqua. Seppur le campane avessero suonato a festa, nella messa ricordammo i nostri morti, rubati da una guerra ingiusta e fratricida.

Il pane fresco e un piatto di pasta ci ricordarono che quello era un giorno solenne.

Nel mezzo del pranzo, Falco chiamò mio padre e mia madre da parte e parlò con loro. Tornati che furono a tavola, mia madre mi osservava con tristezza e mio padre si limitò a dire: “Ti lasciamo andare, ma sii prudente. Ci vuol poco a morire”.

Con nel cuore la fretta di partire, non finii di mangiare e quella fetta di pane e olio, lasciata là sul tavolo, sarebbe tornata tante volte nel mio pensiero a tormentare i miei momenti di fame.

Gli scarponi di Gino, mio fratello, mi andavano bene e la mia divisa era fatta di quel che avevo addosso. Mia mamma mi dette un fagotto con una coperta per la notte, poi, poggiatasi all’uscio, si coprì il volto con il grembiule e pianse.

Io abbracciai tutti e con Falco e gli altri ci avviammo verso Ridracoli.

La notte il Falco faceva la guardia, perciò mi preparò un messaggio da portare ad una vedetta che stava tra Strabatenza e Biserno. Era un importante segnale e riguardava movimenti di camion tedeschi, tanti da

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far presagire qualcosa di grosso.

In un’alba che non arrivava mai, lasciai i compagni che mi avrebbero raggiunto in seguito a Biserno.

Era iniziato il rastrellamento tedesco di tutta la zona a ridosso della Linea gotica, incluse le statali Bibbiena- Cesena e Firenze- Faenza.

Quando il Falco, insieme agli altri, giunse a Biserno, il comandante disse che bisognava tenersi pronti, si meravigliò che io non avessi un fucile e me ne consegnò uno.

Il Falco attese l’inizio dei colpi tedeschi, poi mi fece caricare l’arma e sparai anch’io.

Non avevo mai pensato alla morte, ma ora avevo davvero paura.

I tronchi degli alberi, i cespugli, le cunette, i fossi, i pendii formavano una fortezza senza muri né feritoie dove era sempre probabile diventare un bersaglio.

Il Falco, in un momento di forte confusione, mi fece segno di seguirlo. Di corsa, scendemmo il pendio e da dietro un muretto a secco vedemmo cadere dei nostri. Fu allora che preso il suo fucile tedesco mirò e colpì i tiratori nemici.

Non so quanto tempo sia passato prima che il bosco si riappropriasse dei suoi suoni, che tuttavia non riuscirono a coprire il lamento dei feriti e dei moribondi.

Quando il buio e il freddo della notte si impadronirono di tutto e di tutti, i tedeschi si allontanarono e iniziarono una delle loro lunghe marce al riparo degli aerei alleati.

Nella penombra del primo quarto di luna, camminavamo tra i morti e i feriti e mi chiedevo di quanto dolore fosse capace di provare il cuore.

In quello scenario drammatico, il Falco mi accompagnò fino al sentiero maestro dicendomi che dodici erano stati i ragazzi perduti e che a sedici anni dovevo scegliere di vivere.

Quella guerra l’avevo vissuta anch’io, perciò chiesi al Falco di restare.

Il suo sguardo, in quei pochi attimi, valutò il mio coraggio. Allora stabilì chepernoipartigianieraessenzialeconoscerelemossedegliavversari,perciò avrei seguito la compagnia stando nelle retrovie per captare soprattutto le intenzioni dei repubblichini.

Mentre parlava, lo guardai con la certezza di un addio e la provvisorietà delle nostre vite mi sembrò l’unica cosa che realmente mi appartenesse.

Caricai il fucile e lo misi a tracolla, poggiato sul petto. Il Falco mi

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abbracciò e senza più voltarsi risalì il crinale.

Io, cauto, organizzavo nella mente il mio tragitto, ma solo il caso avrebbe potuto guidare i miei passi sulle orme del nemico, alla pericolosa caccia di notizie.

Aspettavo, senza sapere bene cosa. Le ore si susseguivano invano, giorno e notte. Poi, su un sentiero verso Stia, da un gruppo di forestali fascisti, sentii nominare la mia compagnia, “l’8° brigata”, che dicevano si fosse rifugiata alla casina dell’Oia.

Passati che furono, con il cuore in gola, penetrai nel folto del bosco in una corsa sfrenata, tenendo in mano il fucile. Alla casina dell’Oia non c’era più nessuno. Da una chiazza di sangue su un sasso, capii di essere arrivato troppo tardi. Le gocce di sangue segnavano la salita.

La strada si fece lunga tanto da dubitare di trovare i miei compagni. Mentre mille pensieri mi tormentavano, udii gridare la marmaglia tedesca con l’inconfondibile arrogante violenza. Da dietro i cespugli vidi i miei amici, i figli dell’Italia, disarmati e con le mani legate dietro la schiena, che camminavano stanchi sulla propria terra. A nulla sarebbe valso ogni atto di eroismo. Ero solo, e poco avrei potuto contro tanti tedeschi bene armati.

Mano a mano che passavano, riconobbi tutti i miei amici e poi c’era il Falco, senza i suoi due fucili e privo di uno scarpone: trascinava il piede ferito. Mi abbassai fra il fogliame per cogliere lo sguardo di uno di loro. Il Falco guardando nella mia direzione, mi vide. In quell’istante portai la mano al fucile perché mi indicasse cosa fare. Con un’espressione nel volto, dimostrò tutta la sua contrarietà a che sparassi e con la testa mi fece cenno di no. Quegli occhi pieni di dolore e di fierezza mi ordinarono di desistere per non sprecare inutilmente la mia vita.

Costeggiavo la disastrosa marcia di quegli uomini stremati verso la fucilazione. Giunti a Terre Rosse, il Falco cadde e non riuscì più a rialzarsi. Mentre gli aguzzini lo riempivano di calci, alzò la testa un’ultima volta e poi un rigolo di sangue gli colò dalla bocca. Quell’immagine mi vuotò l’anima. Pensai a lui che, morente, temeva per la mia vita e le lacrime mi riempirono gli occhi e bagnarono quell’ingombrante fucile.

Uno sparo riecheggiò su quei monti per gridare che era morto un uomo, un partigiano. Attesi che l’assurda compagnia si inoltrasse nel fitto della foresta e spostai il corpo del mio amico sotto un albero. Gli slegai i polsi e con infinita amarezza ripresi la mia strada. Né funerali, né pianti, né lutti per il partigiano, solo il sole d’aprile ad illuminargli il volto come

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una presenza gentile e misteriosa.

Pur sapendo che la mia corsa non avrebbe fermato l’inevitabile destino dell’ottava brigata, correvo per l’irresistibile necessità di trovare i miei amici. Un freddo orizzonte delineava i monti quando i miei compagni vennero portati nel paese di Stia dalla solita feroce soldataglia. Designati ad una fine certa ed orrenda, camminavano con passo pesante. Cercavano negli occhi di chi li vedeva passare un briciolo d’affetto che potesse accompagnarli fino all’ultimo momento. Quei volti erano gravi di tristezza.

Ancora la polvere della strage di Vallucciole non si era posata e gli occhi bagnati di pianto osservavano smarriti l’impietoso corteo. Le mamme guardavano a quei figli di Romagna come ai loro e quelle labbra bruciate dalla sete chiedevano acqua. Una di loro si avvicinò con una brocca, ma venne violentemente scacciata. La brocca cadde e si ruppe. Prima che quell’acqua si asciugasse, i miei compagni, condotti da un comando tedesco all’altro, portavano sulla faccia e sul corpo tutto i segni dei brutali interrogatori.

Le urla di quelle giovani voci riempirono la notte. Quel supplizio dilaniava non solo i loro corpi ma i cuori di chi sentiva chiamare: “Mamma, mamma! Dio, Dio!”

Poi fu silenzio. Gli assassini, compiaciuti, si allontanarono ubriachi di follia.

Ora ero solo e avevo perso tutto. Mi tornò in mente il Falco, soffocato dal proprio sangue, primo a soccombere sotto i calci dei criminali.

L’alba illuminò quelli che la morte aveva strappato ad altri tormenti. Quel mucchio di corpi massacrati, addossati al muro del cimitero, venne gettato con odio dai criminali in una fossa.

Solo la pietà di un intero paese seppe fare un funerale degno per salutare la loro partenza verso le terre di Romagna.

E là, al cimitero di Stia, per ognuno c’è una lapide con il nome e c’è una lapide con un nome che non c’è.

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Attraverso nuovi occhi. Pupilla (bambina)

La strada costeggia il bosco di castagni; risale il costone di una collina; supera un punto di valico. Da lassù, la vista si apre su una piccola valle con al centro una concentrazione di bassi edifici di pietra e di legno, fabbricati che disegnano una geometria verticale e orizzontale tra carrarecce circondate da un muro.

È un pomeriggio d’ottobre. La pioggia non scende più dalle prime ore dell’alba. Una bambina cammina da sola lungo la strada fra le baracche, evitando accuratamente le pozzanghere. Si ferma accanto a un edificio a un piano con i vetri rotti alle finestre. Appoggia le mani sui fianchi, si guarda in giro, ha un atteggiamento fiero quasi da piccolo soldato, sembra aspettare qualcuno.… Si piega fin quasi a toccare il marciapiede di terra battuta e toglie via un grumo di fango incrostato agli orli del vestito che le lascia scoperte le gambette esili. È un vestito rosso, a dire il vero molto malconcio, pieno di macchie. A tratti, si sente un soffio gelido di vento, scendere dalle montagne, dalle vette lontane imbiancate di neve, che si stagliano contro il cielo coperto di nuvole grigie. È una terra gelida, quella che circonda la piccola valle. L’inverno sta per avvicinarsi a grandi passi e tutto lascia supporre che sarà il più freddo inverno degli ultimi anni. Qualsiasi cosa sembra suggerire che per quella valle quest’inverno sarà molto duro.

Dal fondo della strada, fra le baracche, si sta avvicinando un uomo. Indossa un vestito pulito, stirato, di colore grigio. Quando giunge accanto alla bambina, senza dire una parola, le porge la mano.

Vesna rialza lo sguardo … poi, sorridendo, stringe la mano che le viene porta. E i due, fianco a fianco, si incamminano. A guardarli così di spalle che si avviano, sembrano due sopravvissuti a qualche cataclisma, a uno sconvolgimento che ha spazzato via ogni altro fermento di vita in quel luogo. A parte loro, sembra non ci sia nessun altro tra le baracche. Gocce di pioggia brillano sui vetri. Il vento continua a sferzare a folate. Il vestitino rosso della bambina risalta nel grigiore che la circonda.

Quando i due giungono accanto al muro che delimita il confine degli edifici, l’uomo si ferma … senza dire una parola appoggia la mano sulla faccia della bambina… la rivolta verso il muro. Vesna non sembra

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contrariata dal quel gesto… ma quando la mano dell’uomo si allontana dal suo viso, si gira e guarda da sotto in su, con un atteggiamento incuriosito, quel signore vestito tutto di grigio che le sta accanto.

L’uomo appoggia ancora il palmo della mano sulla faccia della bambina e la sposta verso il muro.

Vesna per un po’ aspetta… ma appena sente che le dita, come in un’incertezza, quasi in una pausa, si allontanano dal suo viso, si rivolta per guardare di nuovo, da sotto in su, in faccia quel signore, che se ne sta zitto zitto come un pesce.

Sembra un gioco: voltare il viso… guardarsi… rivoltarsi… di nuovo scrutarsi.

L’uomo fa una smorfia (quasi un ghigno). Si sfila gli occhiali. Estrae di tasca un fazzoletto. Prende a pulire le lenti. Il suo atteggiamento, il modo di fare hanno una pacatezza sicura, quella di chi non fa altro che il suo ufficio di ogni giorno. In questo pomeriggio nulla di ansioso o di precipitoso viene rivelato dai suoi gesti: si sta pulendo gli occhiali, guarda davanti a sé, pensa alla propria famiglia, forse alle proprie bambine e alla vita fuori di questo luogo.

È un giorno di fine ottobre. Il sole fra poco scomparirà dietro quelle vette lontane. Le baracche disegnano ombre oblique sul selciato. Molte finestre hanno i vetri rotti, lasciano intravedere stanze dissestate dove sono stati accumulati oggetti spaiati: carte, vestiti, scarpe, ma sparpagliati, senza un ordine preciso, come se qualche scompiglio si sia verificato da poco da quelle parti. Sulle pietre, all’esterno degli edifici, rilucono gocce di pioggia. Il vestitino carminio della bambina sembra una favilla, una piccola fiamma in mezzo alla caligine grigia e opaca che la circonda.

Si sentono risuonare in lontananza le note di una canzone. Dunque, oltre ai due, c’è qualcun altro da quelle parti. È una fanfara; c’è chi s’impegna nella musica anche in un luogo apparentemente poco adatto ad attività culturali. Il vento porta in giro brandelli di suoni, ad alcune folate più forti della brezza emergono rintocchi netti delle grancasse, in altri momenti la musica viene attenuata dalla lontananza così da renderla pressoché inavvertibile. È una canzone sentimentale, ma solo il ritornello è ben chiaro, scandisce: “Rosamunda! Rosamunda!” Vesna sorride per quel concerto improvvisato.

La musica è scomparsa, come se quelli che la suonavano e che ripetevano il ritornello se ne fossero andati a suonare da qualche altra parte.

L’uomo si riaggiusta gli occhiali sul naso. Si china stringendo gli occhi

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a fessura. Avvicina la mano alla faccia della bambina e la rivolta verso il muro.

Vesna per un po’ aspetta ... ma poi si volta e riprende a scrutare da sotto in su quel signore che le è accanto: è vestito come un fattorino! Forse consegna la posta! Forse è giunta una lettera anche per lei, che ha perso di vista sua mamma da due giorni e non sa dove sia andata a finire dopo il viaggio lunghissimo!

L’uomo la osserva, studia quello strano essere che si comporta in modo incoerente… Senza dire una parola si chiede: “Quanti anni può avere? Sei? Sette? Fa quasi senso toccarla. Eppure ha una carnagione inaspettatamente bianca. Per quale incrocio? Per quale contaminazione? Con quel vestito rosso,conqueimovimentiascattiassomigliaaunpupazzodiunacommedia di burattini. Da dove è sbucata? Da dove è fuggita? Chi l’ha lasciata andare? Come si è sottratta sgusciando via dai controlli al momento dell’arrivo?”

Una goccia d’acqua piovana sfiora le dita di Vesna e lei volta subito la mano per vedere se un’altra goccia le tocca anche il palmo aperto.

L’uomo rialza gli occhi al cielo: “Solo acqua dalle grondaie, portata in giro dalle folate di vento. Ha smesso di piovere dalle prime ore dell’alba. Nevicherà forse prima della notte”.

Sbuca dall’angolo delle baracche un drappello: sono individui che camminano in fretta, apparentemente vorrebbero tenere il passo, marciano inquadrati a tre a tre, ma hanno un’andatura sbilenca, sono impacciati, sul capo indossano non un cappello grigio con la visiera come il signore tanto azzimato qui vicino, ma una cuffia a righine. Avanzano a passo cadenzato con la testa penzolante, muovono le braccia rigide avanti e indietro, avanti e indietro quasi che recitassero da burattini, come appesi ai fili di un teatro per bambini. Quel buffo berretto a righine sul capo li fa sembrare un gruppetto di pazzerelloni usciti appena adesso con il pigiama della notte, perché anche le palandrane che indossano sono a righine, a dire il vero molto sudice e stracciate. Non sono molto educati né raffinati, questi pazzerelloni che marciano. Passano davanti ai due, fermi accanto al muro; marciando allineati tengono il passo, ma in modo sbilenco, e non mostrano alcun interesse per l’uomo e la bambina, non rivolgono neppure uno sguardo ai due, come se guardare, prestare attenzione, occuparsi di altri siano cose che non hanno senso da quelle parti. Continuano a marciare passo dopo passo, infilandosi dentro ogni pozzanghera senza neppure tentare di evitarla, come burattini si dirigono verso la fine della strada, dove svoltano a tre a tre e scompaiono. In sottofondo, si sente ancora quella canzone con

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il ritornello ritmato “Rosamunda! Rosamunda!” E i tipi che se ne vanno, camminano a passo cadenzato sul ritmo di quel ritornello scandito dalla fanfara: “Rosamunda!”; poi, svoltando, spariscono.

Vesna scuote il capo divertita. E, quando anche gli ultimi tre di quei pazzerelloni se ne sono andati, spariti dietro l’angolo della baracca giù in fondo, ha gli occhi che le brillano di allegria, è tutta una rappresentazione giocosa quella che la circonda, uno spettacolo che vuole divertire con bizzarrie, scene da pazzerelloni, e lei quasi si sente a teatro con le sue scarpette rosse, con i calzetti rossi. Ha i capelli raccolti in una treccina con un gran fiocco rosso che le saltella dietro la schiena. Da lontano la sua figura sembra brillare come una piccola fiammella in tutto quel grigio che la circonda, in tutta quella foschia impalpabile e plumbea che regna in ogni dove e permea ogni cosa e s’infila anche negli abiti, dentro, vicino alla pelle. Vesna si piega, toglie via un altro piccolo grumo di fango dall’orlo del suo vestito. Bisogna essere a posto quando si va a teatro!

L’uomo la osserva, l’ombra di un ghigno si disegna di nuovo sulle sue labbra, appena trattenuto eppure truce, quello di un essere che non ha in sé alcuna incertezza, nessuna emozione, il suo sorriso è sardonico, ma non per il ridicolo spettacolo di quegli sciagurati che sono passati prima ma per l’irrilevanza incosciente e ingenua di chi gli sta vicino … Torna a schiacciare il volto di quell’essere contro il muro. Gli occhi dell’uomo non lasciano trasparire emozioni; ha le labbra strette in un’espressione impassibile; le sue mani non tremano.

Il silenzio si è impadronito del cortile. Le pietre scintillano. Delle fanfare ora non si sente più alcun clangore. Ma di punto in bianco, a interrompere quanto sta accadendo, fanno la loro comparsa da dietro le baracche altri due stranissimi personaggi: uno magrissimo come uno stecco, vestito anche lui in pigiama, come quelli di prima, corre a gran velocità come se facesse una gara sportiva, passa davanti a Vesna alzando le gambe a più non posso, ma in modo strambo e scombinato; è proprio fuori forma! Sembra impegnato in un’impresa sportiva, ma senza essere un vero corridore. È solo un pazzerellone, come tutti quelli di prima. Dallo stesso angolo della baracca è comparso anche un altro che l’insegue, ma questo qua è grasso e sembra un porcello. È vestito in divisa, ma non ordinata e grigia come quella del signore azzimato qui vicino, è una divisa a strati, a pezzi, in parte sembra quella dei pazzerelloni di prima in pigiama, almeno per i calzoni, ma la giubba è una giubba di pelle imbottita. Questo qua ha un grande pancione, scarponi grossi e inzaccherati, deve mangiare come un porcello,

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e viene tirato nella sua corsa affannata da un cane lupo legato al guinzaglio. Il cane è arrabbiato e abbaia, abbaia contro il fuggitivo che sta correndo a più non posso lungo la strada; il cane l’insegue, latra e sbava contro quel pazzerellone secco come uno stecco, che corre vestito in pigiama, ai piedi ha addirittura infilati gli zoccoli come al mare, sta scappando fra le baracche alzando le ginocchia in modo scoordinato, scombinato, cascherà di sicuro correndo su quegli zoccoli. Passano alcuni istanti … e i due sono scomparsi! E Vesna è proprio divertita, è davvero uno strano posto quello in cui è capitata: tutti sembrano giocare, comparire e scomparire, ogni cosa è bizzarra quasi si trattasse solo di un divertimento, di un mondo di pazzerelloni, di gente che cammina d’inverno con gli zoccoli e si diverte a girare in pigiama quando c’è un gelo che bisognerebbe stare al riparo vicino a una stufa. Vesna stringe le mani davanti al grembo e prende a dondolare da un piede all’altro come in un balletto. Anche fuori della finestra della sua casa, quella vera non quella di adesso dov’è capitata solo da poco, gli alberi ondeggiavano al vento, sembravano folletti che danzassero solo per lei alle fresche folate della brezza. La sua casa, quella vera, è molto lontana, è una piccola casa che ha sullo sfondo monti bellissimi, molto più belli e più verdi di questi che si vedono lontani all’orizzonte. Questi sembrano monti che celino qualche segreto, laggiù invece, vicino alla sua casa, i monti sono quasi dipinti contro il cielo azzurro a formare un quadro di qualche pittore bravo e preciso. Attorno alla sua abitazione ci sono fiori di tutti i colori sia in primavera sia in estate e anche in autunno, e nei campi vicini alla sua casa pascolano tanti animali tranquilli. C’è gioia attorno a dove lei vive, una gioia vera, non come quella di qui dove la gente sembra divertirsi a correre e suonare, a rincorrersi e imitare burattini in modo sconclusionato, eppure senza divertirsi davvero, perché tutto da queste parti ha l’aria di essere un po’ strano, tra quelli che scappano e quelli che li vorrebbero acchiappare, tra quelli che marciano vestiti in pigiama da notte e quelli che sono tirati dai cani al guinzaglio e sembrano abbaiare anche loro come i loro cani, perché gridano parole stranissime, incomprensibili, digrignando i denti e quasi sbavando. Là, dove lei abita, è una gioia tranquilla, serena, tutti parlano con calma, e la lingua che parlano si capisce. Tutti sorridono, non gridano se non per farsi sentire dagli animali, la sera, quando devono rientrare, ma nessuno abbaia. Qui, in questo strano divertimento di sconsideratezze, non c’è nessuno che rida e imitare i cani nel parlare di certo non è molto elegante né davvero piacevole per chi ascolta. La carrareccia che passa davanti alla sua casa porta al paese che non è molto lontano, qui, adesso, fra queste

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baracche, non si sa dove conducano le strade, dove portino, ogni tratto della via finisce davanti a un muro o davanti a campi incolti, delimitati da fili con spine di ferro taglienti, e da tutte le parti c’è fango, davanti alle baracche, lungo le strade che non portano da nessuna parte. L’aria, qui, spira gelida dai monti, quasi per farti un dispetto. La sua casa, la sua vera casa, è molto lontana; qui la vista è come se fosse sempre opaca, come se davanti agli occhi ci fosse sempre caligine. Vicino alla sua casa l’aria è fresca e buona e tutto ha un colore vivido e dà una gioia vera. E poi il vicino di casa ha Black, che quando ti vede si mette a scodinzolare e a uggiolare di gioia, non ad abbaiarti contro digrignando i denti. Ondeggiando di qua e di là, Vesna comincia a cantare una canzoncina che le ripetevano sempre e di cui lei però non capiva le parole.

I me gava palan ladi!

I me gava palan bura!

I me gava palan croiuti!

I me gava palan ladi!

Sorridendo, guarda di sottecchi quel signore (che – chissà perché? – le sta sempre così vicino) per vedere l’effetto che gli hanno fatto le strane parole della sua bellissima e stranissima canzone. L’uomo la abbranca, la afferra per le gambe e la sbatte contro il muro. La faccia di Vesna, con la forza bruta che l’ha schiacciata come quella di un pupazzo di un teatro di burattini, sbatte sulla parete. Al boato lei vorrebbe liberare le mani, le gambe, respingere il dolore lancinante, ma è floscia come un sacco. Le ginocchia, le gambe tremano; non lontano ci sarebbe un rifugio, ma anche le case tremano. È finita a terra, distesa su un fianco accanto al muro; sente qualcosa di viscido, di unto che le cola sulla fronte, quella goccia scivola giù verso la tempia e ora le acceca un occhio. Con l’occhio che vede riesce ancora a guardare il muro, un sasso sbrecciato, un grumo grigio, molle, un filo di ferro di spine che pende dall’alto, dalla parete di pietre. È piccolo e orribile il mondo, è duro e cattivo. Anche l’altro occhio a poco a poco si offusca; da qualche parte le sembra di udire scalpitare un cavallo, il rumore di zoccoli, e si sente opprimere, opprimere come se qualcuno la stia schiacciando, passandole sopra, calpestandola e poi il frastuono, di nuovo la canzone “Rosamunda! Rosamunda!”; è terribile, è cattiva quella canzone… Il silenzio le pesa sul petto… Il tempo si è fermato… Il cielo si schiaccia con le sue nuvole grigie contro la terra. E la

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terra è dura, gelida… Un uomo è contro il muro… Le ha afferrato il polso, glielo gira storcendolo… L’uomo si china… Osserva qualcosa… Bisbiglia qualcosa… Le lenti degli occhiali scintillano... Lei riconosce quell’uomo…

Ludwig Schlage si rialza. Emette un gemito afono di fastidio: «Ci penseranno altri a pulire». Tira un sospiro di nausea. Si volta. Rivoli rossi si mischiano a coaguli grigi lungo il muro. S’incammina.

Dopo un centinaio di metri entra in un edificio. Arrivato a una stanza, si dirige verso un tavolo dietro il quale è seduto un altro uomo che alza gli occhi su Ludwig Schlage con uno sguardo truce, ma segnato dalla noia. «Wieviel Stucke?» domanda l’uomo dietro la scrivania.

«Zweihunderteinundzwanzig – risponde Ludwig Schlage. – Häftling ‘Zigeuner’

Z-Achttausendvierhundertsechsundfünfzig soppresso». Poi appone la firma, chiude il registro. Si avvia per andarsene.

Gli altri, usciti da qui, stasera andranno a bere, a cantare, a passare in compagnia le ore libere dal lavoro. Lui tornerà a casa, come ogni sera.

Al suo arrivo darà alla moglie i vestiti di quel giorno perché siano lavati alla perfezione. Poi bacerà le tre bambine. Quindi, sotto lo scroscio dell’acqua calda della doccia, si libererà dal fango che gli si è incrostato addosso in quella giornata di lavoro.

Alle sette meno un quarto, lui, la moglie e le tre bambine come ogni sera siederanno attorno al tavolo imbandito per la cena. Prima di mangiare, chinando il capo, a mani giunte, ringrazieranno tutti assieme il cielo per il cibo che è sul loro desco

Padre di tutte le genti guarda propizio questa famiglia e concedile che, come si è assisa a questo convito terreno, partecipi anche al banchetto celeste.

Quindi, scambiandosi un sorriso, Ludwig Schlage, la moglie e le tre bambine inizieranno in silenzio a cenare.

Nell’addormentarsi, quella sera, Ludwig Schlage avrà la certezza di aver eseguito alla perfezione il suo lavoro, quanto gli è stato ordinato di fare. Nel suo letto, accanto alla moglie, prenderà sonno, un sonno profondo

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quasi quanto quello di un giusto.

I contadini del villaggio della valle adiacente, quando i camion ricoperti da teli mimetici sferragliano sulla strada sterrata in fondo ai loro campi, interrompono il lavoro. I convogli sfilano alzando nuvole di polvere in un rombare di motori, che ammorbano l’aria, quasi flagellandola coi loro stridori acuti. I contadini appoggiano il mento sulle zappe, sulle vanghe, osservano quegli strani veicoli che passano e ripassano con carichi di cui non è consentito dire e sapere nulla: risalgono la carrareccia, attraversano il bosco di castagni, a uno a uno superano il valico e scompaiono alla vista. Quando ritorna la quiete, i contadini riprendono a infilzare con forza la vanga sulla loro terra, ricominciano il lavoro, quello di lavoratori indefessi che, ora dopo ora di laboriosa e quotidiana attività, hanno reso fecondo un luogo sicuro e ricco di raccolti in ogni stagione. Quanto avviene al di là della collina, nella valle adiacente, non è affar loro. Quanto accade in quella concentrazione di baracche e di edifici, comparsa dal nulla cinque anni fa, è qualcosa di cui non è consentito dire e sapere nulla. Da questa parte della collina il villaggio è quieto, ogni cosa disposta con raziocinio, la vita è serena, del tutto lontana dal disordine e dal caos che regnano in altre parti del mondo. La vita di questo villaggio è estranea all’anarchia che vige in paesi da cui giunge un eco attutito, lontano, sgradevole. Sono sempre più numerosi i segnali di sconvolgimenti estranei a questa valle ordinata. È estraneo il mondo attraversato dal disordine, dalla confusione, dall’anarchia. Qui la campana della chiesa risuona come sempre a ogni ora, precisa e rassicurante, e sparge un timbro e un ritmo solenne a scandire e regolare la vita di tutti gli abitanti di questa valle fra i monti, popolata da secoli. Il paesaggio attorno alla chiesa nella piazza è un esempio di pulizia, di ordine, di precisa disposizione di ogni cosa e di ogni persona.

Le montagne sullo sfondo s’illuminano all’alba e al tramonto con sfumature tenui, sembrano dipinte in un quadro da qualche artista divino. In primavera, in estate, in autunno, in questa valle fioriscono fiori dai colori vividi, sgargianti e nei campi pascolano animali con tranquillità. C’è una quieta serenità in questa valle abitata; una tranquilla e serena alacrità pervade la vita delle persone.

E anche l’eco di quel fragore di fanfare, di quella canzone sentimentale, che echeggia di tanto in tanto come uno scherzo in misura appena udibile, proveniente dai pendii della valle adiacente, “Rosamunda! Rosamunda!”, con la sua stranezza bizzarra si spegne presto nella fitta macchia di castagni,

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che cinge come a difesa il villaggio di Buchenwald, in questo mese di ottobre di un anno di cui si parlerà, di un anno di cui si tacerà, di un tempo in cui nessuno sa o osa dire nulla, sotto un cielo da cui non cade pioggia, ma ferro e dove un piccolo fiore, spuntato dall’immensità cinerea che lo circonda, è stato reciso tra le fenditure di una terra seminata dall’indifferenza e dal gelo dell’anima.

In questo pomeriggio di ottobre, di una stagione che si preannuncia fredda più di tutte le precedenti, una preghiera si sente spargersi nell’aria dai banchi della chiesa del villaggio, abitato da gente religiosa e ligia che compie ogni giorno, per tutta la sua vita, il suo dovere. La preghiera sale al cielo attraverso le finestre intarsiate:

Padre di tutte le genti guarda propizio questo paese e concedigli di partecipare anche al Regno celeste.

Nulla che sia in potere dell’uomo potrà risanare quanto avviene nella valle adiacente. E tante, tante preghiere, che vengono pronunciate e ripetute in luoghi di culto su questa terra, forse verranno rispedite giù dal cielo al suolo, perché irricevibili nel Regno Supremo.

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Con gli occhi di una bambina

I miei ricordi di guerra iniziano nel 1943. Il mio primo ricordo di quell’anno è la carestia: il pane era distribuito con le tessere annonarie. Centocinquanta grammi a persona al giorno. Era un pane scuro e duro, perché poco lievitato, ma lo mangiavamo ugualmente anche se non ci piaceva, tanto non c’era altro. La quantità del pane che ricevevamo allora non sembra tanto poca in confronto a quanto se ne mangia oggi, ma noi non avevamo molto altro da mangiarci insieme. Poco anche lo zucchero e gli altri generi alimentari. Era il periodo del mercato nero.

All’epoca, vivevo nella piccola frazione di San Cipriano con la mia famiglia, che era formata da tre persone: la mamma, io e mio fratello. Non avevamo il padre perché era morto nel gennaio del 1941. Si era ammalato di polmonite, in seguito era insorta la meningite. Accadde tutto nel giro di una settimana e poi morì. La mamma era disperata, ed anche la nonna paterna, che dal dolore cominciò a perdere la testa. Così, oltre a noi bimbi piccoli, mia madre doveva accudire anche lei, ma fu per poco tempo, perché la povera nonna non si riprese più e morì nell’anno successivo. In seguito, la mamma andò alla miniera di lignite, presso l’azienda dove mio padre aveva lavorato, a chiedere se potevano prenderla al suo posto. Spiegò loro che aveva due bambini a carico, ma le dissero subito che non era possibile. Lei non si dava pace, ogni tanto ritornava dal direttore e lo supplicava, dicendo che non sapeva cosa dare da mangiare ai suoi figli. Alla fine la presero a lavorare, ma le affidarono la mansione che svolgeva mio padre, che era molto faticosa per una donna, infatti doveva andare nella galleria della miniera a caricare le chiatte di lignite. Tuttavia la mamma non si lamentava, per lei la cosa principale era portare a casa quei pochi soldi che l’aiutavano a sfamarci. Così, con tutte le difficoltà del caso, tiravamo avanti alla meno peggio.

La scuola

Il 1 ottobre del 1943 iniziai la prima elementare. L’insegnamento era molto diverso da come è adesso: per prima cosa, l’insegnante ci insegnò a disegnare dei paletti in un quaderno a quadretti piuttosto grandi e, quando

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imparammo a farli precisi, passammo a fare dei cerchi dentro ai quadretti del foglio. Da lì in poi, passammo a ricopiare le lettere dell’alfabeto, fino a che non le imparammo a memoria. Piano piano s’imparava, ma gli strumenti nella scuola erano pochi e noi bambini eravamo indietro rispetto ai bambini di oggigiorno. Non eravamo andati alla scuola materna, perché all’epoca queste scuole per i bambini piccoli, in campagna, non c’erano neanche. Gli strumenti didattici adeguati erano: un quaderno a righe ed uno a quadretti, un libro per l’italiano e uno per l’aritmetica. Non c’erano le penne biro, solo i lapis; sul banco dove facevamo i compiti, c’erano il calamaio con l’inchiostro e la penna di legno col pennino, che si cambiava quando si spuntava. La penna ad inchiostro l’avremmo cominciata ad usare in seconda elementare.

Mio fratello aveva un anno più di me e aveva iniziato ad andare a scuola nel 1942. Ricordo che aveva la divisa del piccolo balilla: camicia nera e pantaloncini, che doveva indossare ogni giorno di scuola. Ma poi, dopo l’8 settembre del 1943, con la resa incondizionata, caddero tutte le teorie del fascismo e a scuola noi bambini ci andavamo con i soliti vestiti che si portava a casa.

E poi la guerra

Nell’inverno del 1943-44 ricordo che si cominciò a sentir passare gli aerei. Gli adulti dicevano che erano aerei da guerra, per precisare erano aerei caccia. Le autorità ci obbligavano a non accendere luci notturne, per evitare di essere bombardati dagli aerei.

La guerra faceva il suo corso e nella primavera del 1944, verso il mese di aprile, il fronte si era abbastanza avvicinato. Sentivamo bombardare ad una distanza di circa 3 km in linea d’aria. I bombardamenti colpivano la ferrovia e le strade principali da cui passavano i Tedeschi durante la loro ritirata.

Suona l’allarme

Spesso suonava l’allarme, segno di pericolo. Segno di poter essere bombardati o mitragliati da codesti aerei. E quando l’allarme suonava durante le ore scolastiche, la maestra ci faceva uscire e andavamo per i campi a nasconderci nei fossetti. Quando il pericolo era passato ritornavamo in classe. Dopo poco la scuola fu chiusa, molto prima della fine dell’anno

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scolastico.

Intanto i Tedeschi cominciavano a girare intorno al paese con camionette, motociclette e poi si insediarono nelle case di un paese vicino: mandavano via gli abitanti minacciandoli ed entravano loro.

L’aereo in fiamme

Era il mese di maggio. Una domenica sera, mentre eravamo in chiesa al rosario, sentimmo un boato. Tutti quanti uscimmo dalla chiesa impauriti, cercando di capire cosa stesse succedendo. Quasi subito venimmo informati da persone che avevano assistito allo scoppio: un aereo in fiamme era precipitato a due o tre chilometri dalle nostre abitazioni. I giorni seguenti, gli abitanti di San Cipriano andarono a vedere il disastro dell’aereo caduto. Anche la mamma andò a vedere e anch’io sarei voluta andare, ma lei non mi volle portare, dicendomi che ero troppo piccola per vedere quelle tragedie e che mi avrebbero fatto male. Quando tornò a casa la mamma disse che era stato terribile vedere quell’aereo a pezzi, con i piloti bruciati dentro. Si cominciavano a vedere da vicino gli orrori della guerra, nei luoghi dove i soldati eseguivano gli ordini impartiti seminando macerie e morte. Passavanoigiornienelnostropiccolopaesec’erasemprepiùmovimento. I Tedeschi perlustravano continuamente la zona e ogni tanto si sentiva qualche scoppio di granata: ci volevano impaurire e ci erano riusciti. Ogni giorno venivano a cercare gli uomini e mi ricordo che ne trovavano sempre tre o quattro, li prendevano la mattina e la sera li riaccompagnavano a casa. Questi raccontavano che i Tedeschi gli facevano fare dei lavori di manutenzione per delle cose che servivano a loro.

Le bombe a mano

Ogni tanto sentivamo dire che succedevano degli incidenti a noi civili, con le armi che i Tedeschi lasciavano in giro, alcune senza sicura, non si sa se di proposito o per noncuranza. Il fronte si avvicinava e sempre più aerei sfrecciavano in cielo. Inutile ripetere che i bombardamenti erano all’ordine del giorno.

Una mattina sentimmo uno scoppio fortissimo. Tutti noi del paese uscimmo di casa e corremmo in direzione del rumore, a circa trecento metri da casa mia. Arrivati sul posto, trovammo un gruppo di ragazzi a terra: avevano trovato una bomba a mano e, non sapendo cosa fosse,

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avevano iniziato a giocarci, ma poi la bomba gli era scoppiata in mano. Di questi ragazzi se ne salvarono solo due, ma portarono a vita la mutilazione provocata da quell’incidente. Questo fatto increscioso non rimase isolato, infatti era frequente sentire di casi simili occorsi in quel periodo.

Gli sfollati

Passati pochi giorni dall’incidente della bomba a mano, un giorno i Tedeschi vennero alle nostre case e ci dissero: “Entro ventiquattr’ore dovete lasciare le case libere, altrimenti noi fare kaput a tutti!”

La mattina dopo facemmo i bagagli e oltre ai vestiti ci portammo dietro anche alcune scorte alimentari. Il pomeriggio, tutti alla stessa ora, lasciammo le nostre case. Io e la mamma andammo ad abitare dai nostri vicini, che non erano stati sfrattati dai Tedeschi, forse la loro casa non gli serviva. Mi ricordo ancora l’effetto che mi fece veder partire queste famiglie in gruppo, con borse piene di stracci e un po’ di viveri che potevano bastare appena per qualche giorno. Si diressero verso le case di alcuni contadini, dove erano stati rimediati dei rifugi. Questi contadini ospitarono gli sfollati presso le loro case e i loro rifugi e certamente li sfamarono anche, visto che in quel periodo c’era molta solidarietà tra poveri.

I Tedeschi che entrano nelle case degli operai

Non appena le famiglie lasciarono il paese, i Tedeschi si installarono nelle loro case. Erano passati appena pochi giorni quando uscii di casa e rimasi sorpresa da un fatto nuovo: di fianco alla casa nella quale avevamo trovato ospitalità, c’era un campo di bocce, il pallaio, e lì i Tedeschi ci avevano installato una grossa stufa, ma proprio molto grande, con una batteria completa di grosse pentole, tegami e qualche tavolo. Io, bambina, non capivo tutto questo, poi la mamma mi spiegò che lì avrebbero cucinato per l’esercito militare. Il giorno dopo, mentre ero affacciata alla finestra della camera dove io e mamma dormivamo, vidi arrivare un camion che trasportava vari animali da cortile sopra al cassone: polli, anatre, oche, conigli, e così tutti i giorni. Una mattina sul cassone c’erano anche un vitello e un maiale, ma i maiali li avevo visti altre volte. Questi animali venivano estorti ai contadini col fucile puntato. Anche queste sono le ferite

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della guerra: i Tedeschi, non avendo più nulla da mangiare, facevano razzia.

Il carro armato

Io non uscivo quasi mai da sola, la mamma me lo proibiva, diceva che era pericoloso. Di bambini in giro neanche uno, erano tutti sfollati con le loro famiglie. Quindi uscire fuori non mi piaceva neanche e con tutti quei soldati avevo paura. Una mattina io e la mamma andammo alla cooperativa a comprare il pane. Quando arrivammo sul ciglio della strada, arrivarono tre o quattro carro armati. Ci soffermammo ad osservare il primo: a me fece l’effetto di un mostro meccanico. Aveva un cannoncino al centro sul davanti, una mitragliatrice su ogni lato, ruote cingolate, due finestrini davanti e nessuno sportello in vista. Improvvisamente, sopra al carro armato, si aprì uno sportellino, dal quale uscì fuori un soldato tedesco. La mamma, vedendomi sorpresa e allo stesso tempo spaventata, mi disse: “Vedi, questa è una macchina da guerra, si chiama carro armato e questa la usano quando vanno a fare battaglia al fronte e sparano al nemico. Ma stai tranquilla, ora non ci sparano”.

Vedevo sempre qualcosa di nuovo. Dopo qualche giorno, vidi che sulla piazzetta davanti alla mia finestra erano state depositate delle armi: bombe da cannone, granate, cartucciere da mitragliatrice. Era diventata un’armeria.

Uomini prigionieri dei Tedeschi

OgnigiornovedevopassarelunghemarcediTedeschiarmatifinoaidenti e con l’elmetto in testa. Gli aerei passavano sempre di più, soprattutto la notte e buttavano anche i bengala, razzi molto luminosi che illuminavano a giorno le zone circostanti.

Un’altra volta, mentre ero fuori con la mamma, che doveva scendere al torrente per sciacquare dei panni insaponati, iniziai a girellare intorno alla casa dove si erano insediati dei Tedeschi. Vidi una finestra aperta che dava su una camera nella quale erano rinchiusi degli uomini: due o tre erano affacciati alla finestra, ma all’interno ce n’erano di più, forse una decina. Raccontai alla mamma quello che avevo visto e lei mi disse che questi uomini erano prigionieri dei soldati tedeschi, perché volevano estorcergli informazioni sui partigiani, ma loro non sapevano nulla. I Tedeschi, pur di farli parlare, li costringevano, per il tempo in cui restavano presso di loro,

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a dover fare i propri bisogni nella stanza in cui erano rinchiusi.

Il bengala

Una notte la mamma, fra le undici e mezzanotte, mi svegliò e mi disse: “Alzati, dobbiamo andare via,perché al piano di sotto stasera ci sono entrati i Tedeschi e hanno portato con loro anche delle donne.Se si ubriacano, gli potrebbe venire in mente di venire anche di sopra”. Ogni tanto si sentiva dire che i Tedeschi violentavano le donne e allora la mamma aveva paura che potesse succedere qualcosa anche a noi. Scappammo in silenzio e andammo da una famiglia nostra amica, che abitava a circa due chilometri di distanza da San Cipriano. Ci incamminammo, passando per campi e stradelle, perché la mamma lo riteneva più sicuro della via principale, ma, arrivati a metà strada, passò un aereo e buttò giù un bengala. Cadde a pochissima distanza da noi, illuminò a giorno a largo raggio. Io e la mamma ci abbracciammo ed io dissi: “Ora ci ammazzano”. Invece l’aereo continuò ad andare, la luce si spense e noi continuammo per la nostra strada. Arrivati a destinazione, bussammo alla porta dei nostri amici. Ma loro non aprivano. Dovemmo insistere a bussare. Solo quando la mamma disse chi eravamo, ci aprirono finalmente la porta. Dopo aver raccontato cosa ci era accaduto, ci prepararono un giaciglio per terra e ci lasciarono dormire a casa loro. Al mattino tornammo alla nostra casa.

Alcuni giorni dopo, sentivamo il fronte avvicinarsi sempre più. Un pomeriggio, sul tardi, cominciò a suonare l’allarme ripetutamente. Alcune persone del paese ci invitarono ad andare nel rifugio che era stato ricavato da alcuni volontari ai piedi di una collina, nei pressi di un boschetto.

Il rifugio

Il rifugio era uno scavo fatto sottoterra, come una galleria. Aveva due entrate, una davanti e l’altra dietro alla collina, per una lunghezza di duecento-trecento metri, largo circa un metro e mezzo e alto un metro e ottanta. Questo foro era tutto armato, vale a dire che ogni tre o quattro metri c’era un sostegno ai lati delle pareti, come una colonna di legno, e una trave sopra che appoggiava sulle colonne portanti. Tutto questo per evitare frane. Da un lato del rifugio avevano messo un po’ di paglia per tutta la lunghezza. Ognuno di noi aveva portato qualche telo o coperta da poter mettere sulla paglia e poterci dormire, ma i vestiti non ce li

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toglievamo e per i nostri bisogni andavamo nel boschetto. Ad ogni modo, lì ci sentivamo abbastanza sicuri. Di giorno stavamo quasi sempre fuori dal rifugio, ma, quando suonava l’allarme, correvamo al riparo dentro la galleria. In quei dieci o dodici giorni che passammo nel rifugio, non ci giungevano notizie del movimento del fronte che stava passando nel paese, ma c’erano un paio di persone che provvedevano al rifornimento alimentare per tutti. Andavano alla cooperativa e portavano tutto quello che c’era da poter mangiare senza cucinare. Praticamente svuotarono il negozio. Questi signori, intanto che andavano fuori, ci riportavano sempre qualche notizia di come andava il fronte, se i Tedeschi erano andati via dalle case, ecc …

Un giorno ci raccontarono degli eccidi di Meleto, Castelnuovo e Massa: uomini presi dai Tedeschi con il rastrellamento, fucilati e bruciati ancora vivi. Questa fu una notizia terribile, nessuno si sarebbe aspettato che succedesse una strage del genere. Avevamo paura di fare la stessa fine, oltre al terrore dei bombardamenti.

Dopo pochi giorni, una sera sul tardi, arrivarono tre Tedeschi. Erano armati e tutto il resto. Chiesero di poter rimanere per la notte nel nostro rifugio. Ci dissero di essere disertori, così li fecero rimanere. A dire il vero avevamo tutti paura, ma non potevamo certo rifiutare loro ospitalità. La notte mi svegliai. La mamma mi accompagnò fuori per un bisogno, passammo in mezzo a questi tre Tedeschi che erano sugli scalini del rifugio. Per me fu impressionante passargli vicino, sapevamo ormai quanto ci odiavano e quanto ci avevano spregiato. Ma poi tutto finì lì e al mattino se n’erano andati.

Finalmente tornammo alle nostre case. Il ponte non c’era più, era stato fatto saltare. Vicino al ponte, c’era un campo che avremmo dovuto attraversare per arrivare alla nostra casa, ma era minato e prendemmo vie traverse. Di case buttate giù nel nostro paese non c’erano, sebbene fossero tutte molto scheggiate e le strade sconquassate.

Rientriamo nelle nostre case

Rientrare a casa sani e salvi, dopo quello che avevamo passato, ci sembrava un sogno. Dopo qualche giorno, arrivò la notizia di altri eccidi: quelli di Civitella e San Pancrazio e qualche uccisione di civili nella zona del Valdarno. Tutto questo ci fece rattristare più che mai. Di fronte a quelle mogli vedove, ai figli rimasti orfani di padre, alle madri a cui avevano ucciso

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i figli, ci chiedevamo “Perché tanto odio e cattiveria da parte dei Tedeschi? Che colpa ne avevamo noi, popolo civile, che subivamo soltanto angheria e miseria?” Non c’era risposta a queste domande, ma dovevamo andare avanti. C’era un Paese intero da ricostruire e ben presto ci rendemmo conto di essere nello squallore più assoluto. La mamma di soldi ne aveva pochissimi, la cooperativa era stata svuotata da tutte le riserve alimentari, quindi non sapevamo come mangiare. Fortunatamente era la metà del mese di luglio e vicino a noi c’erano diversi contadini che dovevano mietere il grano. La mamma si offrì come volontaria per aiutarli. Loro accettarono. La mamma portava anche me, anche se non ero capace di tagliare il grano con la falce, perché ero piccola, ma un pasto loro lo offrivano anche a me. Così per una decina di giorni, avemmo di che sfamarci. Nel frattempo, la cooperativa riuscì a reperire i rifornimenti necessari, così potevamo fare la spesa per quel poco che potevamo permetterci. La mamma, nel tentativo di darci ogni giorno un pasto quasi normale, andava spesso a cercare le erbe nei campi, di quelle che nascevano spontanee. Le faceva bollire, le mangiavamo con un po’ di pane, se l’avevamo, e poco più.

Le case vuote piano piano si riempirono dei loro inquilini, ma scarsità di cibo era un male comune.

La miniera

I Tedeschi nella ritirata avevano minato la centrale elettrica e prima di andarsene l’avevano fatta saltare, di conseguenza tutta la zona era senza luce. Nell’azienda era necessario ripristinare immediatamente la corrente, in primo luogo, per le gallerie della miniera, che si sarebbero allagate senza l’azione della pompa dell’acqua, adibita allo svuotamento e poi per tutto il resto dei macchinari che andavano a corrente. La situazione era critica. Fortunatamente, un ingegnere che lavorava per l’azienda e alcuni operai riuscirono a recuperare il motore di un carro armato abbandonato dai Tedeschi. Lo abbinarono ad un generatore di corrente, così furono in grado di far ripartire le pompe ad acqua ed in seguito l’estrazione della lignite. Nel giro di poco tempo, gli operai tornarono al lavoro e tutto ricominciò a girare nel verso giusto.

Nel frattempo la mamma era andata a prendere mio fratello all’ospedale di Careggi: alla fine di maggio del 1944, era rimasto ferito dalla scheggia di un’esplosione. Nonostante le cure immediate, la ferita era piuttosto grave e

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ne riportò le conseguenze a vita.

Al ritorno di mio fratello, sia la mamma che io, nonostante le difficoltà economiche,riuscivamoancheaesserefelici,eravamounafamigliafinalmente riunita.

Arrivano gli alleati

Alla fine dell’estate arrivarono gli alleati, gli inglesi per primi. Devo dire che si mostrarono a noi paesani con cordialità e amicizia, venivano la sera al circolo e bevevano volentieri qualche bicchiere di vino. Facevano amicizia con gli uomini che la sera frequentavano il locale. Dopo poco, questi soldati venivano invitati a frequentare qualche famiglia la sera dopo cena. Loro portavano sempre qualcosa da mangiare come cioccolata, ciambelline fritte, gallette, pane in cassetta, frutta sciroppata, latte condensato e il tè, che noi ancora non conoscevamo. Vennero ospitati anche a casa nostra. La mamma non sarebbe stata d’accordo, ma dividevamo la casa con un’altra famiglia, erano marito, moglie e una bambina piccola. Sapendo che gli inglesi avrebbero portato qualcosa da mangiare, si convinsero tutti quanti che era meglio farli venire a veglia. Poi si instaurò un bel rapporto di amicizia, tant’è vero che quando questi soldati avevano la necessità di far lavare le loro divise e tutti gli indumenti che indossavano, li portavano a lavare alle donne del paese, anche a mia mamma e alla signora che abitava con noi. All’epoca, non c’erano lavatrici, quindi il lavaggio veniva fatto in un certo modo: si metteva l’acqua a scaldare sulla stufa a legna. Quando era calda, veniva messa nell’acquaio, si aggiungeva la lisciva, si immergevano gli indumenti, poi con un pezzo di sapone da bucato, si insaponava, si stropicciava e per sciacquarli si andava nel torrente vicino casa. Anch’io andavo a risciacquare, ma le mie mani erano piccole, allora la mamma mi dava i calzini. Il prezzo, per un sacco abbastanza grande di panni, lavati, aggiustati e stirati, si aggirava sulle 75 lire. La mamma diceva che era un bel compenso.

Dopo qualche mese o più, cominciammo a vedere passare dei camion pieni di soldati di colore. La prima volta che li vidi, mi fecero impressione, soprattutto per il loro colore, così scuro. Infatti noi li chiamavamo “i neri”. Quando passavano, salutavano dal camion con molta allegria. Anche noi bambini li salutavamo, ma le persone grandi ci dicevano di non farlo, perché poteva essere pericoloso, potevano aggredirci e portarci via. Allora noi piccoli restavamo di più in casa.

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Con gli occhi di una bambina

Raccontare questa storia non è stato facile, andare a frugare nei miei ricordi e nel mio cuore, mi ha fatto sentire come mi fossi trovata di nuovo in mezzo ai soldati tedeschi, esposta a tutti i pericoli del fronte e agli eccidi compiuti in nome del nazismo.

Io e mio fratello siamo rimasti orfani di padre all’età di tre e quattro anni. Siamo cresciuti solo con la mamma. Lei faceva del suo meglio, ma vivevamo in condizione di estrema povertà. Ci mancavano tante cose rispetto ai nostri coetanei. Nell’estate noi stavamo sempre scalzi, tornavamo spesso a casa con i piedi feriti da qualche vetro o qualsiasi altra cosa abbastanza dura e appuntita in grado di tagliare la nostra pelle giovane. Quando andavamo a scuola, al mattino, ci dovevamo svegliare da soli e capitava di frequente che arrivassimo in ritardo e senza aver fatto colazione. La mamma faceva i turni al lavoro e, quando era di notte, la sera andavamo a letto da soli. Non c’era nessuno a rimboccarci le coperte. In quei momenti mi mancava tanto mio padre e sentivo molto dolore dentro, ma non potevo colpevolizzare nessuno. A volte con qualche coetanea, rimasta anche lei orfana di padre, parlavamo della nostra condizione e lei con rabbia mi diceva: “Tuo padre è morto di malattia, ma il mio è stato ammazzato!” ed anche nella stessa disgrazia di essere orfani, dovevo soccombere. Quando morì mio padre, io ero veramente piccola. Mi sono rimasti dei ricordi, anche se pochissimi, ma me li tengo tanto cari. Come quelle volte che, tornando dal lavoro, io gli andavo incontro e lui mi faceva montare sulla canna della sua bicicletta: per una quindicina di metri mi portava con sé, sentivo il suo abbraccio durante la corsa ed ero felice.

Ho vissuto un’infanzia triste e frustrante. Non credo di essere mai stata felice come un bambino avrebbe il diritto di essere. Mi sentivo sempre meno degli altri miei coetanei, ma poi si cresce, prendiamo in mano la nostra vita e andiamo avanti.

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8 settembre 1943

Ero da alcuni mesi alla Scuola Sommergibili di Pola, nell’isola di S. Andrea, lì trasferito dalla portaerei “Aquila”, dove ero responsabile dello scafo, sotto il comando dell’Amm. Carmo Unger di Lowemberg.

Questo isolotto, nel bel mezzo del porto di Pola, a poca distanza dall’isola di Brioni, era sede delle camerate della scuola vera e propria, degli alloggi del Comandante e della Cappella. Era collegato a terra da un imbarcadero alla terraferma con un piccolo attracco in cui faceva mostra da tempo immemorabile una vecchia nave del LLOYD TS., che aveva tutte le scritte a bordo in cinese avendo fatto servizio in quei mari come nave passeggeri.

Da alcuni giorni, avevo notato una contemporanea partenza di tutte le famiglie degli alti ufficiali addetti all’insegnamento nella scuola. Era rimasto solo il Comandante ed il Cappellano, Don Andrea Spada, divenuto celebre dopo la guerra, come Direttore dell’Eco di Bergamo, un giornale noto per la sua battaglia continua contro il PCI. Anche loro il 6 settembre erano spariti.

Tutto questo mi insospettì e pensando, da buon toscano, che stava per succedere qualcosa di grosso, avevo spedito a Colle-Salvetti, dove erano sfollati i miei, il mio baule con dentro anche un bel mucchio di sigarette. Ci venivano distribuite mensilmente, ma io non le usavo - non fumavo e non ho mai fumato - e fecero la felicità dei miei cugini, che abitavano con i miei.

Mi tenni solo una valigetta con lo stretto necessario per i ricambi giornalieri.

Un insolito silenzio svegliò me e un ufficiale amico fraterno, che era stato con me fin dai tempi dell’Accademia. Poco dopo, nella sala mensa sentimmo per radio il proclama del Gen. Badoglio che proclamava l’armistizio.

Le mie impressioni avevano così un’amara conferma. Mi trovai, di punto in bianco, essendo in graduatoria, per meriti di studio, di servizio, a capo di una quindicina di ufficiali di pari grado od aspiranti sottotenenti, alcuni effettivi, mentre io ero un richiamato, insieme ad alcune centinaia di marinai e sott’ufficiali. Un Capitano Commissario era con noi, ma aveva

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rinunciato al Comando essendo, disse lui, un contabile da poco richiamato alle armi.

Tutto questo senza direttiva, se non quella di opporsi ai nostri vecchi alleati e basta. Disarmati: c’era solo una pistola Beretta, che mi fu consegnata ritrovandola per caso.

Non mi persi d’animo e con l’impeto della gioventù dei miei vent’anni, radunai tutti, ufficiali e marinai, cui nel frattempo il Commissario aveva distribuito la paga del mese in corso e quella dei due mesi successivi. Decisione molto saggia per i motivi che vedremo. Sottoposi all’assemblea quello che ritenevo giusto dovesse esser fatto: sequestrare l’Eridania, la vecchia nave dell’ LLOYD TS., nella quale avevo dato già dato l’ordine di accendere le caldaie e raggiungere Brindisi, dove pareva, ed era vero, si era rifugiato il Re, cui purtroppo avevamo fatto giuramento.

Salimmo lentamente a bordo dell’Eridania, con la raccomandazione di restar fermi nei posti occupati sulla tolda, molto alta sul livello del mare, per evitare un ribaltamento. Trasportammo a bordo tutte le provviste che riuscimmo a racimolare anche presso i depositi del CREM e partimmo nel più assoluto silenzio per un’odissea, che nessuno poteva immaginare quale fine potesse avere.

Costeggiammo lentamente. Il comandante della LLOYD aveva affermato che una caldaia era fuori uso; nessuno lo aveva messo in dubbio, non pensando che molti triestini di allora erano filo- tedeschi. In più questo individuo voleva riportare indenne la nave alla Società da cui dipendeva, la Costa. Arrivammo a Sebenico e, dopo aver fatto rifornimento, ripartimmo non prima di aver imbarcato un capitano dei bersaglieri con la famiglia, perseguitato dagli ustascia e le “signore” del locale luogo di divertimento.

Uscimmo, preceduti da un rimorchiatore sul quale avevano trovato posto una quindicina di sottufficiali della Marina.

Dopo circa mezz’ora di navigazione, avvistammo tre Stukas, provenienti dalla Grecia, che ci passarono sulla testa mitragliando non con lo scopo di colpirci, ma lasciando una scia di fumo per indicarci che dovevamo fermarci e tornare indietro.

Detti ordine di obbedire, perché altrimenti avrei portato ad una inutile strage, come invece successe per il rimorchiatore: non si fermò e gli Stukas ridiscesero in picchiata mitragliandolo ed affondandolo.

I pochi superstiti si rifugiarono su un isolotto e furono barbaramente uccisi.

Non si salvò nessuno.

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Noi tornammo indietro fino a Zara e lì, un mio parigrado, sottotenente di vascello effettivo, tentò la fuga, fu preso e fucilato immediatamente sulla banchina del porto: aveva solo ventun’anni!

Da Zara andammo a Fiume, dove i tedeschi credevano di essere già padroni della città. Invece, era ancora occupata dagli italiani al comando del Gen. Gamba.

I tedeschi, che erano saliti a bordo e ci avevano disarmato, ammesso che si potessero chiamare armi le sciabole di ordinanza (la mia non la presero, perché l’avevo gettata via attraverso l’oblò della mia cabina nelle acque del porto), furono a loro volta fatti prigionieri e rinchiusi nelle prigioni di Fiume.

Qui rimanemmo alcuni giorni soggetti alle cannonate tedesche, ma anche ai mitragliamenti di sgangherati aerei jugoslavi. Purtroppo ebbi un morto tra i miei marinai: dalla paura si era gettato in mare, così credeva, invece finì con la testa sfracellata sulla banchina alla quale eravamo attraccati.

Lì sperimentai l’ospitalità della gente di Fiume: ero andato a cercare un mio cugino, che da Livorno era stato trasferito alla Motofides di Fiume per la sua specializzazione nella messa a punto dei giroscopi dei siluri, ma era già partito. Mi furono consegnate le chiavi di casa rimasta a mia disposizione. Lì passai finalmente la notte in un letto pulitissimo, degno di questo nome.

Ma ad una cosa non si poteva rimediare: la fame.

Trovai alla fine su un banchetto due mele acerbe, vicino una focaccia piena di vermi, che pulii e sciacquai sotto una fontana e mangiai: fu la mia salvezza, ma mi colpì la dissenteria nei giorni successivi. I tedeschi, che erano arrivati in città, ci fecero nuovamente prigionieri e fummo inviati a Venezia, dove alla stazione Marittima erano già pronti i treni che ci dovevano portare in Polonia.

Il primo treno era fatto di vagoni passeggeri normali e alcuni di noi ne approfittarono per fare un viaggio più comodo. Io aspettai, e con me due aspiranti e quattro marinai livornesi, sperando in qualche colpo di fortuna, che avvenne il giorno dopo.

Alle sentinelle tedesche subentrarono delle sentinelle austriache. Queste, nel loro procedere in su e giù, facevano finta di non vedere: risultato tutti i miei concittadini, cui segnalavo il momento più opportuno, scapparono confondendosi con la folla che si era formata intorno alla stazione. Tra questa gente, alcune ragazze, con il permesso dei tedeschi, avevano preso

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i nostri nomi ed indirizzi per avvertire le famiglie che eravamo vivi. Quella che prese il mio, l’ho rincontrata ad un Congresso di Urbanistica a Palazzo Vendramin, ove ero con mia moglie. Andai a salutarla con suo grande stupore per averla riconosciuta dopo tanti anni. Sono terribilmente fisionomista!

Ero già sul vagone che ci avrebbe portato in Polonia, quando ebbi un’ispirazione: sapendo che i malati non venivano portati in Germania, finsi di sentirmi male per la dissenteria, di cui ancora soffrivo dopo il lauto pranzo di Fiume. Venne un tenente medico austriaco cui risposi con il mio tedesco scolastico e lui mi inviò all’ospedale della Marina al Lido.

Giuntisulpiazzaledellastazione,ilsoldatotedescochemiaccompagnava portando la valigia, me la scaraventò in terra in mezzo al piazzale e se ne andò lasciandomi solo.

Non feci una grinza, come si dice in Toscana, ed imperterrito attraversai tutta Venezia sui vaporetti, sovraccarichi di gendarmi della polizia metropolitana, trasferiti a Venezia con le loro sgargianti divise e collari dorati. Non mi furono chiesti documenti od altro ed arrivai all’ospedale militare della Marina al Lido.

Lì trovai un maggiore medico, comandante l’ospedale, che non voleva ricoverarmi, perché non avevo il foglio della mia base.

Con spirito non molto militare, lo mandai al diavolo e gli dissi che se voleva tale permesso, si poteva buttare a mare ed a nuoto andarselo a prendere a Pola.

Un capitano medico lì presente, Romano di cognome e romano di provenienza, mi prese a braccetto e fece lui tutto quanto necessario per il ricovero. Trascorsi alcuni giorni in attesa di un prete di S. Marco, che mi trovò un vestito nuovo della mia misura. Lo pagai ben 1350 lire (la paga in zona operazioni era di 1700 lire, che fortunatamente avevo per merito del Commissario di cui ho dato notizia poco sopra).

Vestito in borghese, con una licenza fino alla fine del marzo 1944 (facilmente trasformai il 3 in 8), mi recai alla Feld Kommandatur sulla Riva degli Schiavoni e lì firmai il registro che mi presentò un soldato tedesco.

La paura aguzza l’ingegno ed infatti, in quel momento, mi venne una brillante idea: sul registro che rimaneva ai tedeschi, scrissi come mio indirizzo Livorno Ferraris, prov. di Vercelli (sbagliai era Alessandria) e sul mio tagliando solo Livorno!

Non sono mai stato rintracciato. Con i biglietti ferroviari rilasciatomi dall’ospedale, dopo una breve sosta a Firenze, dove rividi la mia fidanzata

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e lasciai la divisa che avevo portato in un fagotto, nell’abitazione dello zio Don Mario, raggiunsi Riprafatta, vicino a Pisa. Essendo tutta la restante ferrovia distrutta dai bombardamenti, a piedi raggiunsi casa mia a Colle. Mia madre, che mi aprì, mancò poco svenisse per l’emozione.

A Colle trascorsi tutto il tempo fino all’arrivo degli alleati nel giugno 1944. Svolsi attività di spionaggio essendo stato incaricato da due Ufficiali della Marina facenti capo ad un comandante che risiedeva a Fauglia.

Il mio lavoro, anche per il poco tedesco che conoscevo, consisteva nello studiare attraverso le mostrine i movimenti delle truppe tedesche nella mia zona, che era un crocevia importante.

All’arrivo degli americani mi presentai al Comando della Marina, che si era insediato in una villa di Via Marradi. Lì, feci la mia deposizione su quanto avevo fatto e fui riammesso con onore nei ruoli. La mia deposizione fu raccolta da un maresciallo, che a Via Ravizza all’Ardenza aveva registrato la mia non aderenza alla Repubblica (Graziani aveva messo la pena di morte per chi non si presentava) e mi notificò la mia degradazione.

Aveva cambiato casacca alla svelta!

Così va il mondo.

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Cuordiconiglio e Cuordileone

Fu l’invito di una cara amica, insegnante di lettere, che mi convinse a buttar giù qualche ricordo dei miei anni vissuti durante la Seconda guerra mondiale dal ’40 al ’45. Pensava di darne lettura ai suoi allievi nel Giorno della Memoria. Non sapevo se l’avrei accontentata, poiché da tempo li avevo quasi sepolti, ritenendoli privi d’interesse. Erano ricordi di vicende che la guerra aveva appena sfiorato senza lasciare indelebili tracce di sofferenza. Ciononostante, essi incominciavano a riaffiorare nella mia memoria e a riprendere vita. Ma sì, dopotutto – pensai – se guerra vi è stata, ognuno ne ha una sua propria da raccontare. La mia, la vissi da comparsa. Ma se ebbi a soffrire, non fu per le infinite privazioni, le paure, il trauma del rientro dalla campagna per drammatiche ragioni famigliari, in una Milano devastata dai bombardamenti, occupata dai tedeschi e invasa da topi e scarafaggi. Avrei vissuto tutto ciò con la saggia sopportazione dei bambini, se non fosse stato per le angustie che mi causava mio padre: amava il rischio e le imprese temerarie, le sole armi in suo possesso per opporsi alla dittatura fascista. Fu dunque lui il protagonista della “mia guerra” e con lui entrai in un silenzioso conflitto, poiché se per il suo coraggio andavo orgogliosa, per la stessa ragione gli portavo un profondo rancore. Trascorsi così quegli anni in uno stato di perenne angoscia contrapponendo la mia paura di Cuordiconiglio alla sua audacia di Cuordileone.

Figlia di Madre Ebrea

Il pugno di una legge feroce batté una notte ad una porta del nostro palazzo addormentato, facendo scempio della vita di una donna così riservata e silenziosa da passare inosservata ai più, che poi portasse su di sé una colpa infamante lei stessa lo ignorava. Invece, quella colpa la condannava perché era figlia di madre ebrea, il ramo materno, appunto, che determinava secondo le leggi razziali naziste, l’appartenenza di un individuo alla razza ebraica. L’ambigua politica di Mussolini del “discriminare e non perseguitare” ingannò molti ebrei, che in Italia si ritenevano al sicuro. Se tanti fuggiaschi si salvarono grazie al generoso aiuto della popolazione italiana, nessuno poté far nulla per l’ignara vicina di casa, che venne

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trascinata via nella notte e gettata su uno di quei vagoni piombati diretti verso i lager dello sterminio. Costernati, gli abitanti del palazzo passavano davanti alla sua porta sbarrata, rassegnati a non rivederla più. Invece, - la guerra era finita da pochi mesi - la bella notizia risuonò di casa in casa: la vicina del secondo piano era tornata!5 A questo punto la storia potrebbe dirsi conclusa, ma io sento di doverle qualcosa in più del semplice racconto di un fatto di cronaca. Con quella donna quasi sconosciuta ho condiviso ciò che, ingenuamente, credevo un segreto. Da sempre, ovvero fin dove posso ricordare, ero solita fare un incontro (mentre io scendevo dal mio quarto piano, lui saliva per andare da lei). Dominava, con il suo passo calmo, quel tratto di scale che ci divideva, lasciando tuttavia lo spazio alla mia discesa frettolosa e mai che cogliessi nel suo sguardo il minimo fastidio per la mia involontaria intrusione. Mai, in tutti quegli anni, ricercai la ragione di quegli incontri segreti e mai nessuna curiosità infantile oltrepassò la soglia del loro rifugio. Un forte legame doveva tenerli uniti, sebbene qualche ostacolo li costringesse ad una vita separata. Quando sopraggiunse l’evento drammatico della deportazione a separarli, assai più crudelmente di quanto avesse già fatto la vita, lui non ebbe più ragione di ritornare. Credetti di dimenticarli, ma la gioia che provai allorché lo vidi risalire le scale di un tempo e bussare a quella porta non più sbarrata, ora non la saprei descrivere. La loro storia d’amore, brutalmente interrotta, come nelle favole aveva trovato il suo lieto fine. A distanza di un paio d’anni, su un tram semivuoto, incontrai la mia vicina. D’impulso mi alzai e andai a sedermi accanto a lei. Finalmente (delle due, io la sola a sapere quanto in passato ella avesse occupato i miei pensieri) le potevo parlare. Bruciavo dalla voglia di sapere come avesse vissuto la terribile esperienza del lager e come fosse riuscita a salvarsi. Ed ecco il suo racconto. Dopo un interminabile viaggio venne scaricata a Birkenau, memorabile campo di lavoro e di sterminio della cittadina polacca di Auschwitz. Nella fatale selezione di chi doveva vivere e chi doveva morire, venne giudicata, per l’ancor giovane età, idonea alle fatiche di campo. Grattando la sporcizia dagli alloggi altolocati e dalle latrine delle baracche, riuscì ad evitare la camera a gas. A tutte le prove disumane che era stata costretta a subire, lei aveva opposto, senza mai cedere alla tentazione di lasciarsi andare, la fede in “una cara persona” (disse proprio così, con il riserbo di chi vuole tenere per sé un segreto), una cara persona che per tutto il tempo della sua

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5 Dei 6244 ebrei italiani deportati se ne salvarono 515.

assenza, avrebbe vissuto soltanto per attendere il suo ritorno.

I Bambini ci guardano

Fino alle otto di quel 31 dicembre del ’44, l’aria di casa era rimasta desolatamente tranquilla senza alcuna prospettiva di festeggiamenti, ma all’ultimo momento il bisogno di scuotersi di dosso la paura di agguati e di cattura ebbe il sopravvento. Per festeggiare San Silvestro saremmo andati – suprema delizia, sublime evasione, unico diletto in tanta temperie – in quel luogo che la gente comune chiama ‘soltanto’ cinema, ma che per me e mia sorella era il PARADISO. Fu mia madre, ingannata dal titolo che le suggeriva visioni adatte all’infanzia, che decise per “I bambini ci guardano”, un film talmente drammatico da indurre anche il più cinico alla depressione e al pianto. Il massimo dei lussi in fatto di trasporti era il tram. E quella sera ( l’invio era stato precipitosamente esteso anche a nonna Eugenia e zia Silvia ), il tram che ci avrebbe condotto in paradiso, con un repentino sobbalzo si fermò. Ad attenderci, nel vano spalancato dello sportello, la truce sagoma di un tedesco, mitra spianato ed aspro comando: “Dieci uomini ciù”! Si degnò, tuttavia, di informare gli atterriti passeggeri che per ognuno dei loro, fatti fuori, dieci dei nostri sarebbero stati “kaput”. Il primo a calarsi, manco a dirlo, fu mio padre! Una volta scesi, fummo sospinti verso un punto di raduno dove già sostava un gruppo di accalappiati in attesa di controllo. Il tedesco, frattanto, ci aveva consegnato ad un paio di zelanti “repubblichini”, ma poiché, lungo il percorso, colti dall’ingordigia, i due cercavano di arricchire il bottino con la cattura di nuove prede, noi cinque membri femminili del branco, con la strategia di certi animali che attuano l’accerchiamento di protezione al compagno braccato, al nostro riuscimmo a coprire la fuga. Avevamo già percorso un buon tratto di strada verso la salvezza quando – altro cardiopalmo! – un drappello di miliziani in borghese ci fermò. L’uomo alla loro guida, affannato e sbrigativo, puntò subito all’unico maschio fra quelle femmine impaurite, invitandolo ad esibire il suo lasciapassare. Noialtre sapevamo che neppure se l’avessero voltato a testa in giù, quel documento gli sarebbe uscito dalle tasche: Cuordileone, come già per la tessera del Partito, si era ben guardato dal farne richiesta, sbattendo la porta in faccia alla Repubblica di Salò e a tutte le sue pretese di giuramenti di fedeltà. Tuttavia, il suo impassibile assenso, seguito dal gesto risoluto di estrarlo dal taschino, fu così convincente che l’uomo con premura gli bloccò la mano

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a mezz’aria e con ossequiosa deferenza lo congedò. Forse una somiglianza con qualche gerarca fascista? O forse perché soltanto un membro della loro consorteria avrebbe potuto attraversare indenne il posto di blocco nazifascista. Increduli, riprendemmo la fuga. Agli ignari che incrociavamo per via, passammo la voce che il percorso era pattugliato da truci bracconieri e disseminato di tagliole. Raggiunta la nostra tana, trascorremmo la notte di Capodanno – altro che Paradiso! – a leccarci le ferite dello spavento.

“I bambini ci guardano” film di Vittorio De Sica.

Il nuovo vicino di casa

Di notte, la sirena d’allarme si faceva precedere da un sibilo sinistro: era il preludio alla mia paura, che però veniva sempre accolta dalle sfuriate di un Cuordileone sdegnato da quel mio pavido contegno di Cuordiconiglio. Nel rifugiosottocasainvece,incontravol’accoglienzadeivicinichesiconsolavano a vicenda e non mi lesinavano la loro comprensione. La solidarietà con la guerra era cresciuta e tutti, nel bisogno, si davano una mano. Tutti, tranne uno. Di recente un appartamento era rimasto sfitto ed era stato occupato da un nuovo inquilino con la moglie e una giovane figlia. Un non so che di segretezza lo circondava e qualche indiscrezione circa le sue misteriose attività cominciò a trapelare. Un muro di diffidenza lo separò dal resto del vicinato e la sua famigliola ne fece le spese. Ignoravo quale idea si fosse fatta di lui Cuordileone, ma sono portata a pensare che fu più per sfida che per il sospetto di una minaccia a indurlo a rivolgerli parole di buon vicinato e non fu tanto per sondare il suo enigma, quanto per rendergli meno opprimente l’ostilità dei suoi vicini di casa. Quel gesto distensivo ebbe il suo effetto su di lui a tal punto che mio padre divenne il suo unico riferimento, l’unico suo interlocutore nelle notti passate in rifugio durante gli allarmi.

C’era da aspettarselo: un suono di campanello e una torva minaccia sul volto di quei due ceffi alla porta di casa. Subito non compresi, tanto fu rapida la scena. Stretta nella loro morsa, la dritta figura di mio padre – un cappotto infilato di premura e in viso, come sempre in situazioni critiche, nessuna emozione – scomparve giù per le rampe delle scale. E mentre noi brancolavamo all’oscuro di tutto, Cuordileone veniva interrogato nella

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sede dell’OVRA6, senza peraltro collaborare. Anzi, all’invito di discolparsi dalle accuse del suo delatore, lui, anziché negare, di rimando chiedeva chi fosse quel “farabutto” che lo aveva denunciato. Poiché, nonostante la notte passata in carcere e un secondo, minaccioso interrogatorio, mio padre non dava segni di ravvedimento, l’incaricato, con una secca comunicazione interna, chiese rinforzi. L’attesa del funzionario di grado superiore fu breve. Quando, nel vano della porta spalancata, con un certo nervosismo, comparve l’uomo che avrebbe avuto in mano la sorte di mio padre, ecco il colpo di scena: l’atteso funzionario altri non era che il nuovo vicino di casa. “Dunque è lui il farabutto” pensò, ma anche l’altro parve barcollare dalla sorpresa e per riprendersi gli ci volle un po’. Letta velocemente l’accusa, sorvolando sulla sua gravità, forte della superiorità sul collega, dichiarò che per la vecchia conoscenza e la stima che aveva del “soggetto in causa”, la calunnia di antifascismo era infondata. Mano sul fuoco, lui stesso se ne faceva garante e suggerì che una vendetta per qualche vecchio rancore doveva nascondersi in quella delazione. Sbrigate le procedure del rilascio, Cuordileone fece ritorno a casa e tutto parve finir lì. Ma la vicenda non era ancora conclusa, quasi aspettasse come nei romanzi il suo degno epilogo. Quando la mattina del 25 aprile del ’45 l’esercito di liberazione fece il suo ingresso a Milano, salutato dal tripudio della cittadinanza, a Cuordileone pervenne una soffiata: un Comando partigiano era sulle tracce del vicino di casa. Memore di quanto era accaduto nelle oscure stanze dell’OVRA, egli sentì il dovere di ripagare il suo debito di gratitudine a quell’uomo che a suo tempo lo aveva salvato. La decisione, dopo un rapido consiglio di famiglia, fu unanime. Scortato a distanza dalle figlie, visibilmente agitate e consapevoli della gravità del momento, scese le scale, bussò al portoncino sbarrato e sibilò la notizia dell’imminente cattura. Solo un Grazie, appena sussurrato, si udì. Il giorno stesso la famiglia era scomparsa. Ecco come il destino aveva giocato, per questi due uomini schierati su fronti avversi, la sua carta migliore.

Il Soldato tedesco

Faceva freddo anche quella sera a Milano. Un freddo umido e pungente che penetrava fin dentro le ossa e mi gelava. Avevo imparato a sopportarlo e la mia angustia era tutta rivolta alla sofferenza di mio padre, che aveva

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6 O.V.R.A. – Organizzazione spionistica della Repubblica di Salò.

subito una profonda incisione senza anestesia ad una mano infettata (gli antibiotici erano ancora di là da venire). Si era rivolto ad un medico privato, evitando di proposito l’ospedale per via dei soliti documenti di adesione alla Repubblica di Salò, di cui era privo. Io l’avevo accompagnato. I bambini erano un buon lasciapassare per sviare i sospetti di milizie fasciste e pattuglie tedesche. Camminavamo come ombre, in silenzio, verso casa quando, dalla nebbia densa che avvolgeva la città come un sudario, emerse la figura di un soldato tedesco, arma spianata ed un secco Alt! da far gelare il sangue. Sia pur debolmente, l’ultimo bagliore del crepuscolo prima del coprifuoco rischiarava i nostri visi tanto da poterci ancora distinguere l’un l’altro. Guardai mio padre, pallido per la sofferenza, ma come sempre impassibile di fronte al pericolo, poi il volto del soldato che io, impietrita dal terrore, fissavo per coglierne i tratti di fanatismo disumano della gioventù hitleriana. Ma per quanto prevenuta in tal senso, non vi scorsi nulla di ostile o di perverso. Era, nonostante il piglio militaresco della Wermacht, quello di un ragazzo che in buona fede stava compiendo il proprio dovere di soldato. Gli sarebbe bastato poco – un eccesso di zelo, l’ambizione di un encomio, una dimostrazione di autorità - per cambiare i nostri destini. Invece, gli bastò un’occhiata per comprendere che un uomo - una mano vistosamente fasciata e una bambina spaurita appesa all’altro suo braccionon rappresentava alcuna minaccia per la Germania nazista. Non pretese alcun lasciapassare e con un cenno del capo ci fece intendere che potevamo proseguire. Riprendemmo la via di casa senza parlare. Col cuore gonfio di gratitudine avrei voluto ringraziare, almeno con uno sguardo, quel ragazzo, ma quando mi voltai era già scomparso, ombra in un deserto di solitudine nell’attesa di un’altra notte di coprifuoco. Dopo un tale spavento, il mio cuore di coniglio avrebbe avuto bisogno di conforto; ma Cuordileone preferì chiudersi nel suo silenzio senza dar voce al travaglio che certamente lo aveva agitato. Non un commento, neppure in seguito, vi fu sull’episodio, eppure qualche parola si sarebbe dovuta spendere per quel ragazzo soldato, che per pochi istanti aveva avuto la vita di mio padre nelle sue mani e intatta gliel’aveva restituita.

L’Amico Viterbo

L’amico Viterbo pareva non avesse un suo nome proprio, ma soltanto quel cognome da ebreo sulla bocca di amici e conoscenti che, negli anni dal ’39 al ’45, avrebbe potuto causargli seri fastidi, se associato al suo

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semitico nasone degno di citazioni bibliche. Cambiar naso a quei tempi non sarebbe stato facile e poiché il momento era tale da non consentire troppe leggerezze, grazie a non so quali misteriose conoscenze riuscì a cambiar nome; ma si sa, le cattive abitudini sono dure a morire e così, tutti continuarono a chiamarlo Viterbo. Io l’avevo amato fin da piccola il mio “Riterbone” (quell’accrescitivo gli calzava a pennello data l’opulenza della sua corporatura); amavo il suo accento bolognese, morbido e cantilenante, e l’affetto che mostrava a noi due, le figlie di un Cuordileone dai rigidi metodi educativi; ma soprattutto amavo la sua grande umanità, che metteva al servizio di chi aveva bisogno di aiuto. Fu per mio padre un compagno di lotte politiche e una guida in rischiose missioni segrete. A guerra finita, senza scalpore né encomi ufficiali, aveva messo a segno parecchi salvataggi di ebrei, che inviava talvolta anche a noi, senza preavviso: donne impaurite con un pugno di gioielli in seno; padri di famiglia nelle mani di avidi mercanti di promesse, che si tramutavano spesso in tradimenti, e molti ragazzini della nostra età: Costantino, Leone, Ester, Narciso. Quanti di loro hanno condiviso i nostri giochi e qualche magra torta di riso, veri miracoli di mia madre per sconfiggere la nostra fame in tempo di guerra. Con noi, essi ritrovavano il sorriso, mentre altri come loro calpestavano i campi della morte e passavano, con le parole di Francesco Guccini7, nel fumo dei camini di Auschwitz. Viterbo, nel frattempo, lavorava come membro del CLNAI8 e attivista del Partito d’azione9, trascinando sul fronte dell’attività clandestina Cuordileone, a suo tempo risparmiato al fronte di guerra. Infatti, non venne richiamato alle armi per una curiosa circostanza: il suo anno di nascita, il 1904, coincideva con quello del Principe ereditario Umberto di Savoia, che a causa della successione al trono non poteva combattere al fronte.

Le Ragazze dei lager

Cuordileone tornò a casa quel giorno – un pomeriggio dei primi di luglio del ’45 – con un’eccitante novità. I Viterbo ci invitavano ad un ricevimento che avrebbero dato in onore di alcune ragazze ebree, reduci dai

7 “Son morto ch’ero bambino/ Son morto con altri cento/ Passato per il camino/ Adesso sono nel vento”. “Auschwitz” di Francesco Guccini.

8 CLNAI – Comitato di Liberazione dell’Alta Italia.

9 (°) Partito d’Azione – Nuovo partito liberal-socialista.

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lager nazisti. Un tragico destino le aveva private degli affetti più cari; ma perché erano loro le uniche ad essersi salvate dallo sterminio delle proprie famiglie? Lì per lì, la bella notizia mi aveva portato al settimo cielo, ma quei tristi particolari incrinarono il mio entusiasmo. Sulle prime, scartai l’idea che la festa sarebbe stata divertente. Mentalmente, mi preparai ad assumere un contegno conveniente per non urtare i sentimenti di quelle poverine, che immaginavo pallide, emaciate e piene di afflizione. Ma in quanto a previsioni, non ne azzeccai una. Le ragazze che incontrai quella sera erano bellissime e sui loro volti sorridenti si leggeva una gran voglia di ricominciare a vivere. Erano momentaneamente ospiti dei Viterbo in attesa di raggiungere in altri continenti parenti a loro sconosciuti. L’Italia era l’ultima tappa del loro viaggio di ritorno: chi da Bukenwald, chi da Auschwitz, chi da Belsen. Era stata propiziata da Viterbo, non ancor pago di aver dato aiuto a tanti fuggiaschi durante le persecuzioni naziste. Ferveva la festa. L’allegria regnava fra gli invitati. Le festeggiate dispensavano sorrisi e l’adorabile padrona di casa ci deliziava con squisitezze, che in tanti anni di privazioni avevamo dimenticato. Coi miei quindici anni appena compiuti, ritenendo ormai assolto l’apprensivo dovere di vigilare su Cuordileone, sentivo di potermi abbandonare alla spensieratezza. Il rosa-antico del mio abito era un bel richiamo e gli inviti a ballare piovevano numerosi. Tutto era perfetto, eppure una certa inquietudine si era impadronita di me e una domanda mi assillava: “Come riuscivano quelle giovani a mostrarsi così serene senza far trapelare nulla delle terribili esperienze vissute in quei lager maledetti?” Loro, che ne erano la testimonianza più diretta, avrebbero potuto dare una risposta al mio bisogno di conferme e al mio “perché”. Viterbo, intanto, vigilava, fiutava, sventava ogni pallida indiscrezione. Nessuna allusione alla sventurata odissea delle ragazze avrebbe dovuto turbare la serenità della sua casa e nessuna risposta si sarebbe data a quel “perché”. A salvarle era stata la loro bellezza, ingiuriata e calpestata nei postriboli delle SS.

A tarda sera, ci congedammo dalle “Ragazze dei lager”. Presto se ne sarebbero andate, ognuna col proprio carico di sventure, che sapevano così ben custodire con il loro silenzio e mascherare con tanti sorrisi. Non le avrei più riviste e quindi mi manca il seguito delle loro storie. Sono rimaste per me come i personaggi di un appassionante film interrotto prima della parola Fine.

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Ciò che colpiva, era quella sagoma, che nonostante la stagione avanzata era ancora infagottata in un cappotto scolorito dagli anni e dall’usura. Lei, che avrebbe potuto menar vanto di un ricchissimo abito d’oro. Chissà se lassù l’avevano già informata della sorpresa che i laboriosi cittadini di Milano le stavano preparando? Fin dalle prime ore di un luminoso mattino di maggio, in molti erano saliti a quelle vertiginose altezze, da cui l’operosità degli uomini al suolo appare simile ad un formicaio. Finalmente, anche per lei era giunto il grande momento! Nell’affaccendarsi gioioso dei preparativi, nell’approssimarsi di un evento che avrebbe coinvolto tutta la città, io c’ero, e mi sentivo partecipe e spettatrice dell’ultimo atto di un dramma vissuto nell’infanzia, che ricordo come “la mia guerra”. Anche per me era un giorno felice. Stavo con mio padre (non più batticuori e spaventi per lui) con l’illusione che tutti i miei patemi l’avessero in qualche modo protetto e salvato ed ora, finalmente, avrei potuto pensare a me stessa. Mentre mi estraniavo col pensiero in arditi progetti per il futuro, una gaia moltitudine andava riempiendo il vasto sagrato del duomo con un brusio trattenuto dall’attesa. Gli sguardi di tutti erano puntati sulla guglia più alta, bianca e sottile come una stalagmite, piedistallo della sagoma impaludata intorno a cui armeggiavano le solerti figure dei guastatori. D’improvviso, si era fatto silenzio. La tensione era alle stelle. Da lassù, giungeva soffocato il rumore dei fendenti: uno, due, tre, un altro e un altro ancora ed ecco, finalmente, il grido che squarcia il silenzio, ecco l’applauso esultante, ecco gli osanna, gli evviva, le lacrime, ecco la gioia! Cadeva fra stormi di colombe il pesante fardello ai piedi della madonnina d’oro, ormai non più richiamo degli aerei di guerra, ma nel sole di maggio simbolo splendente di libertà.

“Taci, il nemico ti ascolta”10

Altro che “vita spericolata”, caro Vasco, era quella di noi ragazzi in tempo di guerra! Le insidie erano ovunque, anche là dove ci credevamo al sicuro. Quante volte io ho provato la sensazione di attraversare un precipizio camminando su di una corda tesa. Accadde così anche quel giorno, su un treno che prendevo da sfollata per andare e venire da scuola. Le corse che le Ferrovie Nord potevano concedere, dati i tempi, erano molto ridotte,

10 Frase scritta sotto il grande orecchio impresso sui manifesti fascisti

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L’ultimo atto

ma in compenso offrivano vagoni in prima classe, pretenziosamente arredati con divanetti di velluto rosso-porpora ad alto schienale dietro il quale scompariva del tutto il viaggiatore. Era su uno di questi vagoni in sosta sui binari, un’ora prima della partenza e perciò ancora vuoti, che noi ragazzi potevamo finalmente chiacchierare a ruota libera. Ma le nostre non erano le chiacchiere spensierate della gioventù. Quasi sempre era di guerra che si parlava e ci si abbandonava a confidenze che le grandi orecchie della Repubblica di Salò non avrebbero certo tollerato. Fu in uno di questi “abbandoni” che Cuordiconiglio inciampò in una bravata che le costò incubi senza fine, e per anni atroci sensi di colpa. In breve, con orgoglio annunciai che mio padre avrebbe presto raggiunto in montagna i partigiani. D’improvviso, dal nulla, ovvero dallo schienale del rosso sedile di fondo, vidi sporgere la testa di uno sconosciuto. Era rimasto per tutto il tempo in silenzio ad ascoltare quasi fosse in attesa di una preda. Ed eccola finalmente nella sua rete! Con voce secca e tagliente, puntando su di me lo sguardo, ordinò: “Tu, vieni qui”. Di colpo il mio corpo si era fatto di marmo. Sentendomi ormai nelle sue mani, mi alzai senza opporre alcuna resistenza e andai a sedermi di fronte a lui. L’uomo attaccò un discorso infarcito di proclami, di assiomi, qua e là di minacce, ma io non l’ascoltavo. Un unico pensiero mi dominava: avevo messo in pericolo mio padre e ora lo dovevo salvare; ma come? Mi arrovellai fra mille scappatoie fino a provarci con le blandizie del tipo: “Lei ha ragione”, “Io sono dalla sua parte”, fino a mentire spudoratamente, dichiarandomi io stessa fascista. Ma del mio credo politico a quel sadico sconosciuto non importava un fico secco. E, infatti, non mi parve di aver fatto colpo. Il suo scopo l’avrebbe raggiunto consegnando mio padre alle SS. E sarei stata io a tradirlo, io a metterlo nella mani dei suoi aguzzini, io che molte volte, deprecando le sue imprese temerarie, l’avevo quasi detestato. Il mio inquisitore, ormai a corto di argomenti, finalmente tacque. La sentenza era vicina; l’attendevo atterrita senza guardarlo in volto (ancora oggi non saprei dire che faccia avesse), ma un suo gesto, che mi parve di clemenza, lo colsi all’istante. Allora compresi che mi stava congedando senza dar corso alle sue minacce. Incredula, mi alzai da quella graticola di velluto rosso e raggiunsi i miei compagni ammutoliti. Cuordileone ancora una volta era salvo.

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Un’infanzia di guerra

10 Giugno 1940, lunedì. Il Duce Benito Mussolini, dal balcone di Palazzo Venezia, urla all’esaltata moltitudine: “.... UOMINI E DONNE

ASCOLTATE .... OGGI IL GOVERNO ITALIANO HA DICHIARATO GUERRA ALLA FRANCIA E ALL’INGHILTERRA ...”

Così la guerra iniziava ufficialmente a fianco della Germania di Hitler.

Genova è il secondo porto del Mediterraneo. Questa città fu il primo porto italiano bombardato da una squadriglia di aerei francesi, fuggiti alla cattura dei tedeschi!

Prima di continuare a parlare della mia esperienza di ragazzo delle vicende della guerra, desidero parlare delle bellezze della città di Genova. In modo particolare delle ville dei genovesi, che si estendono ad oriente della città, proprio sulle sue colline, in mezzo ad una flora meravigliosa dove sorse, fin dal ‘500, un centro extra urbano, che ancora oggi può dirsi il maggior centro residenziale; dimore antiche e moderne si contano a centinaia. È una città dove il regime fascista era visto con ostilità.

Io, Paolo, avevo compiuto quel lontano giorno, la tenera età di tre anni. Naturalmente, data l’età, non ero consapevole di ciò che stava accadendo intorno a noi. Mi ricordo un particolare episodio: l’ambasciatore francese quel lunedì era in vacanza.

Negli anni del dopoguerra, mio zio Mario narrava di essere esploso in una pericolosa frase per quei tempi: “Quell’uomo, il Duce, fa un grosso errore a entrare in guerra!” “Ma che dici, - replicò il fanatico vicino di casa - senz’altro sarà una guerra lampo e vinceremo l’odiata Inghilterra e la Francia, già sconfitta dai tedeschi!”

Da quel momento nessuno parlava così tanto delle azioni di guerra.

La fattoria, dove tutta la famiglia lavorava da lunghi anni, è vicinissima alla città. Da lì, la tenuta gode di quiete e aria salubre, poiché le colline la separano dal centro cittadino e strette strade di collegamento limitano il traffico automobilistico.

Il centro della bella campagna è dominato dalla villa settecentesca e dal meraviglioso parco all’inglese. Durante le passeggiate negli uliveti e nelle vigne della proprietà è normale incontrare piccola selvaggina, ormai

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abituata alla presenza inoffensiva dell’uomo.

La villa è una classica casa dei signori delle colline fiorentine: le panche in pietra sul fronte della villa ne sono testimonianza per chi proviene a piedi dalle zone del Chianti. La barocca cappellina è rifugio per i momenti di preghiera, ed oggi i proprietari l’aprono alle coppie di romantici sposi.

Le stanze sono arredate con mobili del ‘700. La luminosa vetrata dell’accogliente sala da pranzo che si affaccia sul parco, i tavoli apparecchiati con cura per la prima colazione, tutto questo dà un’impressione di gradevole, discreta accoglienza.

Nella Firenze degli anni Trenta, nella bella stagione, i proprietari americani davano animati ricevimenti che erano la delizia dell’aristocrazia fiorentina.

Eugenio Montale nel suo libro, pubblicato nel 1939 “La bufera ed altro”, esprimeva con il suo linguaggio ermetico l’angoscia del mondo culturale di quel tempo.

Proprietari e contadini cercavano di non pensare a quello che sarebbe accaduto con l’inizio della guerra.

Purtroppo, già nei primi anni 40, i treni non erano poi tanto sicuri; i bombardamenti dell’aviazione alleata erano sempre più frequenti. Roma, la città sognata dagli “sposi” di quel tempo, era un’avventura pericolosa! Si rischiava di passare da momenti di festa alla sensazione di morte imminente.

Unica nota simpatica di quegli anni era costituita dall’iniziativa delle Ferrovie dello Stato, che avevano istituito un servizio gratuito per le coppie di sposi che si recavano in viaggio di nozze nella capitale. Questo treno speciale partiva dalla stazione di Firenze alle ore tredici, una volta alla settimana.

Nell’estate del ‘41, Mussolini, a fianco di Hitler, iniziava la campagna di Russia: era orgoglioso del fatto che le truppe italiane fossero state accolte festosamente in Ucraina, che già allora voleva staccarsi dalla Russia di Stalin.

Anche mio padre ebbe l’ordine di partire per Piombino, dove il contingente toscano doveva imbarcarsi con il resto degli altri soldati italiani “richiamati alle armi”. Fortunatamente per la nostra famiglia, fu “salvato” da un telegramma firmato dal Generale Comandante della Toscana con disposizione di presentarsi immediatamente in caserma a Firenze. Era accaduto che il babbo era stato caldamente “raccomandato” dal genero della proprietaria della fattoria, giovane ufficiale e aiutante di campo del

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Generale.

Fu tanta la mia gioia, che ancora ricordo con commozione con quanto amore ed orgoglio parlava di me ai suoi commilitoni quando, con grave rischio e pericolo, mia madre attraversava la città con me, quasi in braccio — ho sempre avuto difficoltà di deambulazione — per raggiungerlo la domenica nella lontana caserma.

Dopo un anno di guerra, i bombardamenti degli alleati americani e inglesi causarono la distruzione delle più importanti città italiane. In modo particolare, in quei mesi Roma subì un grave attacco aereo. Il quartiere di San Lorenzo fu subito visitato da Papa Pio XII, che dimostrò tutta la sua considerazione per la popolazione disperata.

Molti italiani della città decisero di andare a vivere in campagna dove si poteva supporre che le incursioni dei nemici potessero essere meno frequenti.

Anche la mia famiglia ospitò per un lungo periodo alcuni benestanti della Firenze di allora. Le stanze della nostra casa erano spaziose, piene di luce, ma scomode e prive di ogni comodità. Vivere d’inverno in quella casa era un problema, perché solo la grande cucina aveva un focolare, che occupava un’intera parete. La nuova famiglia si adattò molto bene alla vita in comune. Il padre era un commerciante all’ingrosso di frutta e verdura, che si faceva spedire la merce da tutta l’Italia per poi rivenderla agli ortolani di Firenze. Erano persone tradizionali. Le ragazze della famiglia fiorentina avevano superato i vent’anni, ma non lavoravano. Avevano conseguito la licenza media inferiore e non avevano voluto proseguire negli studi.

Trascorrevano le loro giornate ricamando interminabili corredi, che conservavano accuratamente. I loro genitori pensavano che far lavorare una ragazza in ufficio come impiegata non sarebbe stato decoroso. Solo la domenica mattina, per loro era veramente un giorno particolare: avevano il permesso del loro padre di scendere il pomeriggio in città dove, generalmente, trascorrevano le ore andando a ballare. E lì, si scatenava tutta la loro gioia di vivere e la voglia di dimenticare i momenti drammatici.

Ricordo che il sabato era da loro programmato accuratamente. D’estate si recavano sull’aia per lavarsi i capelli in grandi catini di porcellana. Ma quello che era più curioso per me, era notare la cura con cui davano lo smalto alle unghie: era un rosso fiammante. Sembravano “dipingere” la superficie delle loro unghie, quasi dovessero compiere un’opera d’arte!

La domenica mattina indossavano graziosi cappellini a seconda della stagione. Si recavano a messa con tutta la famiglia. Anche io e i miei ci

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univamo al gruppo per scendere dalla collina attraverso una stradicciola che conduceva alla parrocchia. Naturalmente, ogni volta che uscivamo dalla fattoria, c’era sempre il rischio di un improvviso attacco aereo.

Il lunedì le due sorelle riprendevano il lavoro consueto. I loro dialoghi erano animati e parlavano entusiaste dei giovani con i quali avevano trascorso il pomeriggio della domenica. Però non ricordo che fossero state fidanzate con qualcuno incontrato a ballare.

Finita la guerra, per lunghi anni ci ritrovavamo tutti insieme per un pranzo all’aperto. Ricordo che nei primi anni ‘50 le due sorelle si fidanzarono seriamente con due buoni “partiti”: uno era un proprietario terriero delle Marche, l’altro un funzionario dell’amministrazione statale. Dopo il loro matrimonio, hanno continuato le loro visite in campagna e la loro madre era felicissima nel constatare che le figlie si erano finalmente “sistemate”!

La sera si ascoltava “Radio Londra”, una voce in perfetto italiano lanciava misteriosi messaggi: “Le ciliegie sono mature”, “Luigi va in bicicletta ...” erano strane parole che io non riuscivo a capire. Gli uomini della mia famiglia, che ascoltavano la radio con grande attenzione, davano a questi messaggi un particolare significato.

Sulle montagne, i nostri partigiani lottavano contro l’invasore e contro i fascisti. Anche loro sapevano dare un significato a questi messaggi.

Le stanze della vasta casa colonica, le porte e le finestre erano sbarrate. Tutti noi, adulti e ragazzi, osservavamo il più assoluto silenzio. A pochi chilometri da noi c’era la villa occupata dal comando tedesco: si rischiava la vita o la deportazione in Germania!

Gli uomini passavano il tempo giocando a carte. Ad un certo momento, udimmo picchiare alla finestra. Le facce dei più grandi divennero pallide di terrore. Ci sentivamo perduti. All’improvviso, la porta si spalancò sbatacchiando. Apparve mio cugino di quindici anni, esclamando: “Sono stato io a picchiare alla finestra, per scherzo! “ Mi ricordo l’ira del signore che abitava con noi … Ho ancora nelle orecchie le parole di rimprovero che il padre, mio zio, indirizzava al figlio. Lo spavento è difficile da descrivere ... Certo l’incoscienza di alcuni è davvero indescrivibile!

Ma da quel lontano episodio, ancora a distanza di settant’anni, quando sento picchiare alla porta di casa, dove ora vivo da solo, l’animo mio si trova in una condizione tormentosa.

Nell’estate del ’44, gli alleati bombardarono Impruneta. Sulle nostre teste, le fortezze volanti lanciavano i “bengala” illuminando a giorno la

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notte stellata. La gente attenta si sparpagliava per la campagna. Ho ancora immagini di una zia, che in camicia da notte era discesa dalla sua camera sull’aia tenendo sulle spalle una coperta da inverno! Il suono acuto delle sirene ci faceva correre all’impazzata attraverso i campi.

Contadini e “signori”, accomunati dallo stesso pericolo di morte imminente. Eravamo diventati un’unica famiglia.

La figlia del vecchio americano, proprietario da tanti anni della grande tenuta, era diventata intima amica del Generale tedesco, comandante di tutta laToscana. Così questa signora aveva salvato tutti noi dalle prepotenze dei nazisti che avevano preso alloggio nelle ville vicine.

Lei, negli anni ‘30, aveva sposato un giovane antiquario italiano. Fallito il loro matrimonio, con l’arrivo dei militari alleati, la nobile residenza divenne un luogo gradevole per i cocktail-party.

La signora alta, slanciata, sempre vestita con sobria eleganza, simboleggiava il tipico esempio di donna dell’alta borghesia del Novecento.

Le gambe ben fatte erano da lei messe in particolare evidenza, quando scendeva dalla fiammante “Isotta Fraschini”, la sua macchina decappottabile.

L’Impruneta è un ridente paese della campagna fiorentina, contornata da belle colline, campi coltivati a ulivi e vigne.

Questo paesino, ricco anche di storia e di tradizioni religiose, era luogo di villeggiatura delle antiche famiglie fiorentine. Lo scoppio della guerra fu veramente una disgrazia per la devastazione e i bombardamenti che si susseguirono per giorni e giorni.

La Basilica di Santa Maria, rifugio della popolazione contro i pericoli esterni, fu completamente distrutta.

Passarono gli anni della ricostruzione. Un giorno arrivò una lettera alla popolazione dell’Impruneta da un ufficiale alleato, il quale diceva di essere il responsabile del bombardamento del luglio 1944. Egli affermava che aveva ricevuto l’ordine di bombardare poiché i tedeschi erano nascosti sia in chiesa che sotto i loggiati del Pellegrino.

Tornando a parlare delle giornate che precedettero i bombardamenti sull’Impruneta, noi tutti della fattoria — io ero protetto dalla mia famiglia — uscimmo all’aperto sull’aia illuminata a giorno dai bengala. Il suono assordante delle sirene che davano l’allarme risuona ancora nelle mie orecchie e mi dà un senso di sgomento.

La gente si sparpagliava per la campagna in preda al terrore. Eravamo distanti pochi chilometri dall’Impruneta: in quella sera d’estate, un’estate

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colma di frutti, di messi rigogliose, sembrava veramente che la natura volesse esplodere con tutti i suoi doni da offrire a vittime e carnefici!

Nell’inverno di quell’anno, anche la fattoria e la villa settecentesca sembrava dovessero subire la tragica esperienza di Impruneta. Infatti, in febbraio, un bombardiere alleato sganciò una bomba che causò la morte di Lina Cavalieri, una famosa attrice e cantante del primo Novecento, la quale aveva trovato rifugio nella bella zona vicino alla tenuta.

Questa signora fu un’attrice e cantante conosciuta nel mondo del primo Novecento. Aveva un portamento signorile. Per quanto di umili origini, aveva l’aria di grande signora, salutava tutti con grande rispetto e, almeno apparentemente, non faceva nessuna distinzione fra contadini e signori.

Si racconta che, pochi istanti prima che un bombardiere inglese sorvolasse la nostra zona, Lina Cavalieri corse rapidamente in casa a riprendere la sua borsa con i gioielli. Questo momento le fu fatale: la sua villa esplose colpita dalla bomba e uccise la sua contadina.

Aprile 1945

La guerra era finita. In tutta Italia restava attiva una sola linea ferroviaria! Concludendo la mia piccola storia vissuta, dirò che proprio in quei mesi la gente tornava a vivere. Una cugina di appena 16 anni, dattilografa con la conoscenza della lingua inglese, trovò lavoro a Firenze in un ufficio dell’Amministrazione Militare alleata.

Le ragazze del paese, fidanzate con i soldati americani, affollavano la casa dell’insegnante di lingue straniere. Avevano frequentato nella loro infanzia le scuole elementari, ora avevano desiderio di apprendere l’inglese, perché speravano di sposarsi presto e di volare in America.

L’insegnante di lingua inglese per alcuni mesi non aveva percepito lo stipendio statale. Era un signore discreto, benvoluto da tutti; andavano da lui i ragazzi rimandati a settembre. Se i giovani scolari erano figli di contadini, l’insegnante veniva ripagato in natura con i prodotti della terra. Uno dei tanti miei cugini adolescenti fu invogliato dal bravo insegnante a riprendere gli studi. Il padre, però, era poco convinto della riuscita del figlio! Ma per rispetto dell’uomo di studio, che spesso veniva a trovarci, lo zio acconsentì. Accadde ciò che era prevedibile: trascorsi alcuni mesi, si seppe che mio cugino non frequentava regolarmente le lezioni private del professore e che il denaro destinato a pagare gli studi prendeva un’altra strada… Veniva speso per regalare alla ragazza di turno l’anello

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di fidanzamento. Infatti, il giovanissimo “don Giovanni” corteggiava le ragazze del luogo!

Nelle case private i ragazzi e le ragazze ballavano allegramente nei giorni di festa cercando di dimenticare tante sofferenze. Le madri aspettavano il ritorno di coloro che erano caduti prigionieri.

Erano i primi mesi di pace. Nelle città bombardate si cercava di ricostruire ciò che era stato distrutto dai tedeschi in ritirata. Anche a Firenze nasceva l’illusione del “sogno americano”!

Mi sembra ora facile raccontare tutto questo. Il tempo si acquieta e i fatti salienti scivolano lungo il filo degli anni come valigie sul nastro di un aeroporto. Li prendi, li metti sulla pagina ed è fatta.

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La fiaccola accesa

Sono trascorsi più di settanta anni dalla guerra che coinvolse l’Europa e buona parte del mondo, causando milioni di morti insieme a tante distruzioni.

In questo lungo periodo, le generazioni si sono avvicendate. I cicli storici, sovrapposti uno all’altro, ci hanno portato ad un presente così diverso che è difficile immaginare, per troppi di noi, la situazione vissuta nel nostro paese da quel fatidico 10 giugno 1940 alla primavera del 1945.

Fortunatamente, molti dei sopravvissuti capirono la necessità di raccontare, di lasciare alle persone di buona volontà le testimonianze dei loro sacrifici, la fiaccola accesa dei martìri subiti perché, di mano in mano, fosse passata ai figli, ai nipoti.

Da qui una immensa bibliografia. Tanti libri che riportano atti di coraggio, vigliaccherie, uccisioni e torture; pennellate di pazzia collettiva in cui i nazisti recitarono il ruolo principale, ma che, purtroppo, coinvolsero anche la nostra patria.

Volevamo conquistare senza averne i mezzi, volevamo emulare il nostro alleato nonostante le scarse capacità belliche.

Insieme alle parole scritte anche le ricorrenze, le strade intitolate ad antifascisti intrepidi, i marmi che dai palazzi omaggiano i morti fucilati.

Tutto per non dimenticare, perché la memoria svolga la sua funzione pedagogica, educare, far capire ciò che di orrendo la natura umana può partorire.

A questo scopo anche la tradizione orale, le storie quotidiane di piccoli eroi non celebrati, né ricordati nei libri di storia hanno contribuito a dare una visione di tante dure realtà, fatto conoscere, per non ripetere gli errori.

Racconti di un popolo che si sforzava, giorno dopo giorno, di sopravvivere ai bombardamenti aerei, ai rastrellamenti, alle rappresaglie fasciste, alle restrizioni.

Mancava quasi tutto, la maggioranza degli italiani pativano la fame, il freddo, le malattie con rassegnazione. Morivano per cause naturali o venivano uccisi senza trovare la forza di reagire.

Solo a partire dagli ultimi mesi del’43 la situazione degenerò. La guerra, ormai persa, incrudelì gli animi. Molti giovani iniziarono a ribellarsi.

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Insomma, iniziò per l’Italia uno dei periodi più drammatici della sua storia, una lotta fratricida senza quartiere.

In quei lunghi mesi fino alla liberazione del paese, si intensificarono gli episodi più significativi di una guerra assurda.

Alcuni furono vissuti in prima persona anche dai miei genitori, sballottati in una tempesta più grossa di loro, che affrontarono con dignità e coraggio, senza fare del male a nessuno.

Di quelli ne ricordo tre: il primo riguardante mia madre; gli altri mio padre. Abbastanza diversi fra loro, specialmente il secondo. A quell’epoca ero ancora piccolo. Ascoltavo affascinato quelle due persone che dopo cena mi guardavano ed iniziavano a parlare, popolando i muri della cucina con tante immagini.

Mamma Evelina iniziò descrivendomi una Livorno semidistrutta dai bombardamenti, dalle tonnellate di bombe che i”B-17” americani avevano scaricato a più riprese sulla città.

Purtroppo il porto, il cantiere navale, le industrie avevano una grande importanza strategica, pazienza se rimanevano uccisi tanti innocenti.

Non bastavano certamente i pochi rifugi fatiscenti, ricavati in cantine umide o seminterrati, che crollavano al minimo scoppio trasformandosi in tombe collettive.

Alla popolazione non restava che fuggire, sfollare verso luoghi più sicuri come le campagne vicine, trovare ospitalità nei casolari contadini.

Fu verso la fine di settembre, dopo l’ultimo raid aereo, che anche mia madre e la sua decisero di lasciare la città labronica per una destinazione più sicura.

Così, una mattina, si ritrovarono, in compagnia di una lunga processione di fuggitivi, a percorrere un largo viale alberato spingendo una carrozzella, trovata chissà dove, con poche cose radunate in fretta.

Camminarono diverse ore tra una confusione estrema di gente frettolosa, barrocci trainati da cavalli sfiniti, camion stracarichi che chiedevano strada pigiando sui clacson impazziti.

Per fortuna, verso sera, riuscirono ad imboccare uno stretto sentiero sterrato, che le condusse davanti alla loro nuova casa. Era una grande costruzione in pietra, dava una idea di solidità rincuorante. Le due donne, stanche e affamate, si abbracciarono sorridendo.

Così, in quel luogo, lungo le sponde del fiume Arno, nella campagna pisana, iniziò una breve fase della loro vita tanto diversa dalla solita alla quale non fu semplice abituarsi.

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In quei pochi mesi conobbero i ritmi della vita rurale: la sveglia all’alba, lavorare la terra, accudire le bestie, stare piegate su lavatoi improvvisati, insomma una esistenza dura, che, alla sera presto, le trascinava a letto distrutte.

Ogni tanto, al pomeriggio di qualche festa, riposavano sedute sotto la pergola del cortile ad ascoltare da una vecchia fisarmonica i motivi in voga al momento.

Veramente Evelina avrebbe anche voluto sfogare l’esuberanza giovanile, ma ballare avrebbe dato sicuramente il via a pettegolezzi inopportuni, sicuramente antipatici.

Al di là di questi aspetti, chi la faceva da padrona era la fame, perché anche se di cibo ce n’era in abbondanza, molto era stivato in luoghi nascosti, venduto alla borsa nera che prosperava ed era un’attività redditizia.

Loro due campavano con poco: al mattino, un cantuccio di pane da inzuppare nel latte; per desinare, una scodella di minestra in cui galleggiava chissà cosa; alla sera, spesso alcune fette di polenta, insaporita da un pezzo di lardo strusciato sopra.

D’altronde, per quello che pagavano, non osavano chiedere niente. Soffrivano e sopportavano tutto, anche il freddo che piano piano arrivò in quello stanzone pieno di spifferi. Si salvava solo la cucina, dove troneggiava un grosso camino per fortuna sempre acceso.

In quel periodo, in quel contesto, successe alla mamma quell’episodio che io ricordo meglio, emblematico di quei tempi violenti .

Era uno dei primi giorni di ottobre. Stava albeggiando, un pallido sole iniziava a sagomare la cima delle colline; nella pianura, dall’erba umida si alzava una debole foschia che andava a patinare i filari gonfi di uva matura.

I contadini più mattinieri stavano percorrendo i campi, mentre altri uscivano alla spicciolata con la bicicletta in spalla e un fagottino che doveva contenere il loro pranzo.

Le porte si aprivano sbattendo senza alcun riguardo. Una fu socchiusa lentamente e da lì uscì, guardinga, la giovane donna. Si guardò intorno per alcuni istanti, poi prese a correre verso il sentiero vicino.

Vi si incanalò a passo spedito, tranquilla perché due muriccioli in pietra, ai lati della via, proteggevano da sguardi indiscreti.

Saliva veloce, senza sapere dove stesse andando. Era arrivata in quel luogo solo da pochi giorni ed aveva una grande voglia di esplorare, conoscere una zona così nuova, tanto diversa dal centro cittadino e il mare.

Era stata presa da un desiderio crescente. Adesso si sentiva contenta,

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leggera, le gambe magre sembravano muoversi da sole, spinte da una energia insospettata. Un venticello fresco ondeggiava l’orlo della gonna agevolando il suo cammino.

In breve, arrivò sopra un vasto spiazzo erboso, punteggiato di rocce e monconi di vecchi muri su cui crescevano ciuffi spelacchiati, cespugli incolti, testimonianze desolanti.

Girando lo sguardo, dall’altra parte dell’orizzonte, lo spettacolo era diverso: la lunga striscia argentata del fiume contornava il verde dei campi, i bei filari diritti degli alberi, arrossati dall’autunno ormai vicino, le grandi fattorie colorate.

Assaporò ciò che stava vedendo respirando a pieni polmoni, ma quella aria frizzante le risvegliò un brontolio allo stomaco, la riportò alla triste realtà.

Sentì, prepotenti, i morsi della fame. Quella mattina non aveva neppure consumato la misera colazione. Era fuggita alla chetichella, lasciando solo un breve messaggio sul comodino. Si mise seduta, appoggiò il mento fra le mani aperte e cercò di appisolarsi per non pensare.

Il tentativo durò poco, un rumore leggero la fece sobbalzare. Impaurita, si alzò velocemente pronta a fuggire.

Così sarebbe stato, se da dietro un cespuglio non fosse arrivato un “Coco-dè”, che la bloccò incredula.

Un istante dopo apparve una grassa gallina, arrivata da chissà dove. Sembrava incurante della sua presenza, continuava a razzolare imperterrita.

La donna credeva di sognare, si stropicciò gli occhi, ma quella promessa di cibo era ancora lì, bastava allungare le mani per prenderla.

Non fu facile. Passarono una quindicina di minuti, prima che si ritrovasse a discendere il viottolo con il suo trofeo tenuto stretto per il collo.

Già pregustava la carne morbida, croccante, il profumo prelibato dell’arrosto sparso nell’ambiente … Finalmente, dopo tanto tempo, si sarebbero saziate.

Era così assorta in pensieri piacevoli da non accorgersi dei due militi fascisti in camicia nera.

Erano fermi proprio dove il percorso sboccava nella strada principale.

Quando li vide era ormai troppo tardi. Ad armi spianate, le intimarono di fermarsi. Dovette ubbidire terrorizzata.

Iniziarono subito a porre domande in maniera perentoria, arrogante, si sentivano forti nei confronti di una ragazza intimidita.

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Sembrava si fossero convinti a lasciarla andare, quando il più anziano dei due, indicando il pollo, ordinò che gli fosse consegnato.

Una tale prepotenza suscitò nella donna tanta rabbia, un coraggio incontrollato, una forza interna che sorprese i due. Si ritrovarono spinti di lato mentre quella iniziò a fuggire disperatamente.

Correva veloce; sapeva di non potercela fare, perché, a breve, sarebbe stata inseguita da uomini più veloci e resistenti di lei.

Era già ansimante, allo stremo delle forze, quando vide l’ingresso di un fienile. Vi si infilò, nascondendosi nell’angolo più buio. Dopo alcuni istanti, sentì gli inseguitori passare di corsa, poi li udì fermarsi a parlare con qualcuno perché le loro voci si confusero con un’altra.

Infine le arrivarono rumori di lotta, intercalati da grida agghiaccianti, non resistette più e si affacciò.

Quello che vide la sconvolse: un uomo disteso per terra, immobile, si stava lamentando mentre il sangue gli colava dal volto tumefatto.

I carnefici si stavano allontanando tranquillamente, forse appagati di avere sfogato la loro violenza inutile e gratuita. Corse verso l’anziano contadino, gli lavò le ferite, lo aiutò ad alzarsi ed a tornare in casa.

Poi lo stese sul letto, mentre il povero disgraziato la guardava in silenzio con uno sguardo sbigottito ed incredulo.

Si sentiva in parte colpevole di avere coinvolto quell’innocente, così tornò nel fienile a riprendere il tesoro che aveva difeso e glielo lasciò sul tavolo.

Adesso poteva ritornare al casolare. Il sogno di soddisfare l’appetito era svanito, ma quella brutta avventura sembrava conclusa abbastanza bene.

Così,purtroppo,nondovevaessere.Ildestinoavevadecisodiversamente. Quella lunga giornata riservava una triste appendice.

Era appena tornata sulla strada principale, quando da una piega di un muro sbucarono nuovamente i due in divisa.

Questa volta non persero tempo, non riuscì neppure a meravigliarsi. Si sentì presa sotto le ascelle e trascinata verso un auto, spinta sul sedile posteriore mentre il mezzo ripartiva velocemente.

In meno di mezz’ora, si ritrovò in un piccolo ambiente disadorno, sui muri spogli spiccava solo un gagliardetto con su scritto ”Me ne frego”. Stava accasciata sopra una sedia scomoda, davanti ad una scrivania ingombra di carte e fissava la scritta, quando nella stanza entrò un omone alto.

Dagli stivaloni lustri, i pantaloni ben stirati, la camicia nera piena di

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nastrini capì che doveva essere il comandante.

Questi prese a passeggiare davanti a lei accusandola di essere una ladra, una nemica della patria in guerra, addirittura spia dei partigiani.

La poveretta scuoteva il capo piangendo, implorava che la lasciassero andare via, perché non aveva fatto niente di male.

L’unica risposta che arrivò fu un potente ceffone. La spalliera evitò la caduta, vi sbatté contro mentre il naso iniziò a sanguinare.

Il carnefice la lasciò così. Due occhi lustri lo videro allontanarsi per entrare in un ingresso laterale lasciando la porta aperta.

Rimase lì interdetta. Stava male, pensava alle cose più brutte che le sarebbero potute succedere.

Per non svenire si mosse. In quello spazio stretto fu costretta a passare davanti all’uscio spalancato, che si apriva in un ambiente altrettanto misero.

Non voleva, ma guardò. Quello che vide fu il coronamento di una giornata tremenda, difficile da dimenticare.

Un fagotto informe, forse un uomo, stava rannicchiato in un angolo del muro a mani alzate.

Sopra di lui, quell’essere che prima l’aveva accusata, infieriva con pugni e calci. Le pareti erano schizzate di macchie scure, mentre il pavimento emanava un odore nauseabondo.

Dalla camicia strappata si intravedevano sulla pelle segni di graffi e bruciature. I piedi scalzi erano neri dai lividi.

La ragazza non ce la fece a continuare a guardare. Barcollando, ritornò seduta, stordita dall’orrore.

Dopo alcuni minuti il carnefice rientrò, si appoggiò alla scrivania guardandola fissamente, poi le urlò di tornare a casa alla svelta.

Il viaggio di ritorno fu lungo. In qualche modo ebbe il tempo di calmarsi, di rassettarsi un po’, così, quando riuscì a stringersi al seno della sua cara vecchia, quella non si accorse di nulla.

Terminava così la sua avventura, una delle tante che nascevano e morivano giorno dopo giorno, costellando di tanti drammi la vita di guerra.

Come ho scritto sopra, anche di mio padre Bino desidero ricordare due esperienze vissute. Storie per certi versi opposte, una di speranza, l’altra tragica, che narrò sgranando i grandi occhi azzurri.

Per raccontare la prima, che si svolse a Napoli nella primavera del ‘44, occorre fare una breve premessa.

Il babbo era un musicista, girava in lungo e in largo la penisola, suonava

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la batteria con grandi orchestre, importanti compagnie di varietà.

Da Brindisi a Milano, da Roma a Palermo, aveva fatto tappa in molte città, aveva vissuto decine di situazioni spiacevoli in quei tormentati anni.

Aveva trascorso nottate sulle tradotte, ferme in un binario morto di stazioni sperdute; fughe improvvise nei ripari di fortuna; assistito a retate improvvise nei teatri dove stava suonando; persone arrestate e condotte chissà dove.

Insomma, aveva dovuto assistere, suo malgrado, a tante brutalità, scene di violenza a cui era impossibile abituarsi.

Conviveva con le paure giornaliere, spinto dalla consapevolezza di fare qualcosa di buono con i suoi tamburi e la musica.

Appunto con questa convinzione, era contento di essere nella città partenopea liberata da alcuni mesi.

Si voleva festeggiare. Le forze alleate avevano dato la loro autorizzazione affinché una popolazione tanto provata potesse sfogare la gioia, non pensare, per alcune ore, alle estreme difficoltà future.

La celebrazione si sarebbe svolta davanti al porto, che brulicava di navi da guerra alla fonda. I loro cannoni spaventavano, anche se erano puntati verso nemici ormai lontani.

La folla era numerosa. Migliaia di persone accalcate davanti al palco dell’orchestra. I suonatori, in giacca bianca dietro il leggio, formavano una simmetria piacevole.

Preceduta da un applauso immenso, finalmente la musica iniziò per proseguire in un susseguirsi di blues, boogiewoogie, valzer e beguine, melodie che salivano nel cielo terso ed entravano nei cuori.

I suoni dolci si mischiavano allo sciabordio del mare, carezzato da una brezza leggera odorante di salmastro, un impasto che calmava e rilassava.

L’incantesimo non durò molto, un ronzio lontano iniziò a frustare l’aria, poi rapidamente si trasformò in un rombo assordante.

I suoni dei violini, gli acuti delle trombe, i rimbombi della grancassa, furono sovrastati dal forte rumore, sgradevole ricordo di un qualcosa che si voleva dimenticare.

Migliaia di occhi si alzarono verso l’orizzonte. Videro ciò che già immaginavano e temevano: decine di aerei scintillanti si dirigevano verso quella direzione rappresentando una grossa potenziale minaccia.

Non si riusciva a capire se fossero bombardieri tedeschi vogliosi di dare gli ultimi colpi di coda o, magari, “Liberators” americani diretti verso il nord, ma suscitarono una immensa paura.

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Al suono delle campane e delle sirene, gruppi di persone iniziarono ad ondeggiare. La situazione era prossima a degenerare in un fuggi fuggi caotico, con feriti spinti a terra, morti calpestati.

I suonatori, titubanti, si guardavano incerti. Anche il babbo rimaneva fermo, con le mani appoggiate al tamburo.

L’intervallo di tempo fu breve. In un baleno, il direttore d’orchestra, con grande spirito d’iniziativa, salì su un palchetto e, come un forsennato, iniziò a brandire la bacchetta.

Urlò di riprendere a suonare, di intonare “O sole mio” a tutto volume. Appena quelle note rimbalzarono nella piazza, la gente si fermò, meravigliata, commossa, poi prese a cantare partecipando con loro ad un coro immenso.

Tutto il resto fu coperto. Quando la canzone terminò, il rumore minaccioso degli aerei si era ormai perso in lontananza.

Il miracolo era avvenuto. Una volta tanto, alla città martoriata erano stati risparmiati altri lutti. Grazie alla forza della musica, molti si erano salvati da una brutta fine.

Un’arte gentile, nell’occasione, aveva superato le paure, le conseguenze estreme di un conflitto così grande.

Quel giorno Bino si sentì forte. Dentro di lui aumentò la speranza, gli aspetti belli della natura umana potevano vincere sulla perversione, la cattiveria.

Fu un piccolo episodio con una grande morale, mentre l’ultimo che sto per raccontare, gli lasciò solo una grande pena.

Anche questo avvenne nel 1944, ma un po’ prima, verso la fine dell’inverno, nella sua Livorno.

Quella stagione fu una delle più crude degli ultimi anni. Mancava tutto, le tessere annonarie non venivano rispettate, le razioni alimentari diminuivano continuamente.

Il freddo uccideva, non c’era di che scaldarsi. I pochi rami rubati di notte, le palle di carta bagnata, pressata e seccata, servivano a poco, mancavano perfino le medicine per i malati cronici.

I livornesi sopravvivevano a stento. Tenevano duro per quanto possibile, in attesa dell’arrivo, ormai imminente, delle forze alleate.

Era sempre più difficile resistere. Ancora spadroneggiavano i nazifascisti, anzi in città gli arresti si erano intensificati. I treni partivano per la Germania sempre più carichi di prigionieri, di beni trafugati.

Occorreva stare più attenti che mai ad avventurarsi per strada. Bisognava

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evitare i posti di blocco, le pattuglie armate pronte a fare fuoco su chiunque.

Proprio per questa situazione, fu difficile per Bino convincere la futura moglie a recarsi al famoso “Santuario della Madonna di Montenero” per sciogliere un voto, che avevano fatto due anni prima.

Alla fine ci riuscì, spingendosi a vicenda, fermandosi ad ogni crocicchio. Incrociarono un furgone, sul quale furono fatti salire, che li condusse proprio nelle vicinanze della loro destinazione.

Tutto sommato erano stati fortunati, così quando si ritrovarono in chiesa, davanti all’altare, ebbero un motivo in più per ringraziare la loro protettrice.

Fu una lunga preghiera mormorata a fior di labbra da una coppia di giovani, che si stringevano mano nella mano, e chiedevano di poter realizzare i loro sogni.

Quando uscirono si sentivano soddisfatti, felici, pronti ad affrontare il futuro.

Iniziarono a scendere la scalinata del sacrato abbracciati uno all’altra, ma dopo pochi gradini si fermarono di colpo, interdetti. La piazza davanti a loro brulicava di repubblichini e di SS tedesche, armate di mitra. Erano appena saltati giù da due camion fermi di traverso, che bloccavano la via di fuga.

Un gruppo di militi stava correndo verso una vecchia casa dai muri scorticati che appariva abbandonata. Un altro manipolo si sparpagliò iniziando a guardarsi intorno.

I due spettatori, rimasti per un momento immobili, si riscossero dalla sorpresa, saltarono di lato, dentro un portoncino socchiuso. Da lì rimasero ad osservare impauriti.

Udivano le grida isteriche di un ufficiale nazista, mentre l’edificio preso di mira veniva circondato, il portone di ingresso sfondato con i calci dei mitra.

Seguirono alcune scariche a fuoco, poi dalla porta semidistrutta uscirono tre uomini a braccia alzate, scortati da due file armate.

I prigionieri erano spinti con forza verso i mezzi fermi più in là. Sembravano stanchi, indeboliti, rassegnati.

La processione era quasi giunta a salire, quando uno dei tre ebbe un guizzo improvviso, si buttò di lato per scappare.

Non fece neppure in tempo ad iniziare la fuga che alcuni spari lo raggiunsero alla schiena.

Proseguì pochi metri, si avvicinò a mio padre, che riuscì a vedere le sue

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labbra contrarsi in una smorfia simile ad un sorriso appena accennato.

Poi cadde giù a braccia allargate, rimase immobile. Un rivolo di sangue prese a scorrere verso il marciapiede.

Rimase il silenzio, scandito dal rumore delle scarpe chiodate e di quei due disgraziati che andavano verso il loro triste destino, la fucilazione o la deportazione.

Appena gli autocarri furono ripartiti, la zona iniziò a popolarsi, nelle abitazioni circostanti si aprirono le persiane, alcune botteghe accesero le vetrine. Tornava la vita, ma non per il giovane steso sull’asfalto.

La gente iniziò ad avvicinarsi. Bino ed Evelina furono i primi ad arrivare sul luogo della tragedia.

Il babbo guardava inebetito quel corpo dilaniato. Non aveva mai visto la morte così da vicino, provava quasi una attenzione malsana per una esperienza così nuova.

Stranamente, non provava né sentiva nulla, neppure la giovane donna che si appoggiava al suo braccio.

Poi, lo prese un grande freddo. Sentiva che era per svenire. Doveva allontanarsi. Si fece forza per un ultimo sguardo e vide il pezzetto di carta.

Stava appallottolato fra le dita allargate, un bigliettino sporco, mezzo strappato che sentì il bisogno di raccogliere.

Lo stirò leggermente per non cancellare la scritta, una breve frase a malapena leggibile, che riuscì a decifrare ”Gesù non è risorto, che il mio martirio lo schiodi dalla croce”.

Appena letto, pianse per un momento, poi lo mise nel portafoglio e si avvicinò a mia madre nascondendo l’emozione.

Intanto, la folla che nel frattempo si era assembrata, aprì un varco da cui passò un carrettino cigolante trainato dal becchino della zona.

Il corpo fu adagiato sul pianale e due secchi di acqua lavarono il sangue. Cosi terminò quella ennesima crudeltà, ma per il babbo la foto di quel volto rimase impressa molto tempo, le parole scritte sul biglietto furono lette e rilette innumerevoli volte.

Le tre storie sono finite. Loro me le hanno raccontate con la consapevolezza che sarebbero servite a migliorare qualcosa del mio futuro, magari con la presunzione di poter rendere un umile servizio anche al prossimo.

Io le ho divulgate, convinto di soddisfare il loro desiderio. Piccoli esempi, magari capitati a chissà quante persone.

Ad ognuno la sua parte, sia per chi ha sofferto il martirio di “Auschwitz”

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o “Mauthausen”, sia per i partigiani coraggiosi che hanno combattuto, ma anche per i piccoli eroi quotidiani.

Il 27 gennaio, “Giornata della memoria” è per tutti, non solo per il povero popolo ebreo che ha subito la “Shoah”. La memoria è per tutti affinché sia usata come uno strumento per migliorare la vita, trasformare il male e le disgrazie in progresso.

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Corri Elsa, corri!

Mi chiamo Elsa e ho sei anni: abito in un podere dal nome strano, vicino a un paese che si chiama Torrenieri, nelle campagne senesi. Qui i poderi hanno tutti dei nomi un po’ strani: il mio si chiama Triboli di Mezzo, perché esiste anche Triboli Daccapo e Triboli Dappiedi, poi abbiamo Meleto, Montechiaro e nei dintorni il Colombaio, Pelagrilli e l’Assino. Mi fanno tanto ridere questi nomi, se ci penso. La mia famiglia è molto numerosa, abito con mia mamma Settimia, mio babbo Gino e mia sorella Delia, con mio zio Adamo, che tutti chiamano Damo, la moglie Sabatina e i suoi quattro figli, Marino, Alfiero, Egle e Bruno, con la zia Ottorina e suo figlio Franco, infine con il nonno Fortunato. Che grande tavolata quando siamo tutti riuniti a pranzo e a cena!

Ogni giorno posso uscire nell’aia a giocare con i miei cugini Franco e Bruno, che hanno un anno più di me e sono molto simpatici e vivaci.

Oggi è il primo giugno 1946 ed è già molto caldo. Tutti i campi intorno ai poderi stanno cominciando ad imbiondire. Il grano è alto: mi piace guardarlo, specialmente quando tira vento e si muove tutto, e correrci in mezzo formando tante piccole stradine. A noi bambini piace molto anche raggiungere la Fraschetta, un gruppo di alberi in mezzo ai campi, non lontano da casa, dove il padrone del nostro podere e di tutti i poderi qua intorno, il signorino Nozzoli, ha fatto costruire un capanno di caccia, largo e basso, seminascosto fra il verde degli alberi e un po’ infossato. Quando lui arriva, noi ce ne stiamo molto lontani, perché si sentono spari e spari per molte ore e alla fine esce col carniere pieno di uccellini. Ma quando non c’è, noi tre e tutti gli altri bambini dei poderi vicini ci divertiamo tantissimo a giocare a nascondino, ad arrampicarci sugli alberi o anche solo a stare al fresco per raccontare storie.

Una volta Bruno e Franco, che sono un po’ birbanti e tanto spericolati, sono riusciti addirittura a salire sul tetto del capanno e gridavano di gioia saltando, mentre io invece gridavo di paura, dicendo loro di scendere subito.

Ma il nostro gioco preferito è quello dei Quattro Cantoni, che lì viene benissimo, perché al centro del grande ovale circondato da lecci ci sono quattro querce altissime. Prima disegniamo un cerchio al centro dei

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quattro alberi e poi facciamo la conta per vedere a chi tocca mettersi dentro il cerchio, perché nessuno ci vuole mai stare. Infine ognuno di noi si mette davanti a un tronco e dobbiamo scambiarci di posto più velocemente possibile, per impedire al bambino nel mezzo di prendere una delle quattro posizioni. Chi perde posto, deve entrare nel cerchio.

Comunque sia e qualsiasi cosa facciamo, ogni volta che sono alla Fraschetta con i miei cugini e i miei amici, un po’ lontano da casa, tutto mi sembra più bello e divertente e mi sembra di vivere una grande avventura! Noi bambini, però, di avventure ne abbiamo vissute già tante per l’età che abbiamo, perché siamo nati e cresciuti nel periodo della guerra, che tutti chiamano Seconda guerra mondiale.

In quel periodo in famiglia mancavano i due fratelli più giovani, mio babbo Gino e mio zio Armando, che erano stati richiamati al fronte. Lo zio Damo invece non era partito, perché aveva partecipato giovanissimo alla Prima guerra mondiale e per legge doveva rimanere a casa ad occuparsi delle terre e degli animali e a provvedere alle donne e ai bambini della famiglia.

Mi ricordo che, un giorno di due anni fa, con Franco e Bruno ci trovavamo proprio nel nostro boschetto, quando in lontananza vedemmo una lunga fila nera di uomini, macchine e camion che procedeva piano piano e si avvicinava. Subito una grande paura ci obbligò a correre a più non posso per i campi. Arrivati vicino a casa, sentimmo le nostre mamme che, con voci preoccupate, gridavano i nostri nomi. Noi rispondemmo immediatamente: “Siamo qui! Arriviamo!”

Mia mamma, che tutti chiamano Mimma, mi disse di entrare subito in casa, perché erano arrivati i tedeschi. Il comando si era fermato a Triboli Dappiedi, in un grande spiazzo davanti alle due case coloniche, poco lontano dal nostro podere. Un pomeriggio arrivò da noi un tedesco, barcollando e chiedendo del vino. Mio nonno fece cenno di no con la testa. Noi infatti non avevamo il vino, ma lui mi prese in braccio e si mise a sedere sulla sedia di paglia vicino al forno. Io avevo molta paura, perché avevo sempre sentito parlare male di questi tedeschi e poi quello puzzava di vino e sudore e aveva una voce rauca e sgradevole, oltre al fatto di pronunciare parole incomprensibili. Cominciò ad accarezzarmi i capelli con le mani callose e ruvide, facendo capire a tutti che, se non compariva subito del vino, mi avrebbe portata via con sé. Meno male mio zio, con una rapida mossa, mi strappò dalle sue ginocchia e disse a tutta la famiglia di andare a nascondersi al fossato poco lontano da casa. Il tedesco allora,

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borbottando: “Kaputt, kaputt”, fece con le dita il segno della pistola, imitò con la voce il suono degli spari e si incamminò verso il comando. Per fortuna quel soldato non aveva con sé la pistola, altrimenti non so cosa sarebbe successo! E grazie al cielo il suo comandante si accorse che era ubriaco e gli impedì di tornare da noi. Lo fermò che era già a mezza strada e, urlando comandi secchi, gli ordinò di tornare indietro. Poi si diresse verso il nostro podere per verificare se aveva causato danni e per scusarsi con mio zio. Noi eravamo ancora ben nascosti nella macchia del fossato. Era ormai passata qualche ora ed io e i miei cuginetti non ne potevamo più di stare fermi e zitti. Quando abbiamo visto arrivare il nonno, che ci diceva di uscire, ci siamo messi a saltare e a gridare: “Evviva, evviva!”

Dopo qualche giorno, una mattina presto, la mamma entrò in camera da letto e, con voce concitata, svegliò me e mia sorella: “Forza, svegliatevi e vestitevi alla svelta e tu, Delia, aiuta tua sorella!” Senza dare altre spiegazioni, cominciò a mettere dei panni e delle coperte dentro un sacco. Appena pronte, uscimmo dalla camera e, con mia grande sorpresa, vidi che la nostra grande cucina era piena di uomini, tutti vestiti uguali, che dormivano sdraiati per terra: era uno spettacolo davvero insolito e allo stesso tempo impressionante. Mia mamma, con me in braccio e mia sorella per mano, faceva zig-zag fra quegli uomini sdraiati, sperando di non pestare niente di importante per non svegliarli e farli arrabbiare. Fuori il carretto era carico a metà delle nostre povere cose e la mamma mi disse: “Elsa, stai qui con Delia che io vado a prendere altre cose da portare via”, ma io ero troppo spaventata e mi misi a piangere e a strillare. Così la mamma dovette fare il resto delle cose con me, abbarbicata a lei, con le braccia strette al collo e la faccia nascosta fra i suoi capelli.

Mi accorsi così che, mentre noi e gli altri familiari facevamo viaggi dentro e fuori casa per cercare di prendere l’indispensabile, alcuni di quegli uomini si erano svegliati e avevano cominciato a sistemare le loro cose. Mi ricordo che mi stupii, perché molti di essi erano biondi con gli occhi chiari, cosa da noi abbastanza rara. Mia sorella Delia, per esempio, che all’epoca aveva dieci anni, è biondissima, con bellissimi capelli, lunghi e un po’ mossi, ma gli occhi sono castano scuro e fanno un bel contrasto col colore dei capelli e del carnato. Quei giovani soldati, invece, li ricordo come sbiaditi riguardo al loro colore, ma non meno impressionanti, perché le armi e gli elmetti davano loro un aspetto davvero terrificante. Qualcuno stava pure usando le nostre cose. Riconobbi la bella tovaglia fatta a telaio da mia mamma, che mettevamo tutti i giorni in tavola: era stata fatta a

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pezzi e la usavano per pulire le pistole o le gamelle oppure le scarpe. Che peccato, era così bella! Poi avevano aperto tutti gli sportelli della dispensa, spalancato la madia e preso tutto quello che avevano trovato. Quando stavamo per lasciare la casa, Delia trovò finalmente il coraggio di chiedere: “Mamma, ma perché dobbiamo andare via? Che succede? Cosa vogliono tutti questi soldati?” La mamma rispose con voce emozionata: “Tesoro, sono tedeschi: hanno piazzato la cucina da campo sotto la nostra grande tettoia e ci hanno ordinato di lasciare la casa”. Partimmo quindi per Meleto, il podere più lontano, dove finiva la strada bianca e dove c’era meno pericolo di incontrare soldati. Io ero un po’ dispiaciuta di lasciare la mia casa, ma ero anche contenta per il fatto che almeno una parte della mia famiglia sarebbe rimasta tutta unita. Difatti il nonno e lo zio Damo erano rimasti a casa per poter accudire le vacche, i buoi e gli altri animali. Io partii con i miei cuginetti piccoli e quelli grandi, con la mia mamma, la mia sorellina e le zie. Inoltre a Meleto abitava una numerosa famiglia con dieci o dodici figli. Avrei di sicuro trovato qualcuno della mia età con cui giocare un po’, magari una bambina, visto che con i miei cugini dovevo sempre fare giochi da maschi, tipo la corsa, la gara ad arrampicarsi più in alto sugli alberi e io, che ero femmina e più piccola, perdevo sempre!

Appena arrivati, ci vennero ad accogliere i padroni di casa con una nidiata di bambini dai tre ai dodici anni. Io e i miei cugini cominciammo subito a correre per l’aia, inconsapevoli di tutto ciò che ci capitava intorno, mentre la mamma, gli zii e i cugini grandi cominciavano a sistemare le nostre cose.

La mia camera era un semplice materasso appoggiato in terra nel granaio, dove dormivo stretta stretta alla mia mamma e a mia sorella, che non era poi così grande, ma non aveva più voglia di giocare con noi e stava sempre ad aiutare la mamma e le zie. La notte, però, dormire vicino a lei, in mezzo a quei bellissimi capelli che mi facevano il solletico, mi dava un gran senso di pace e di sicurezza.

Sfollato insieme a noi, c’era anche Niccolino, un signore molto simpatico che la mia famiglia aveva accolto e nascosto, perché era un fuggitivo. Ci raccontò infatti che l’8 settembre era scappato dal fronte, perché contrario alla guerra. Ora i suoi superiori lo ricercavano per farlo tornare a combattere contro la sua volontà, mentre lui odiava la guerra e non sarebbe tornato al fronte per nessun motivo al mondo. Per questo, una volta riuscito a fuggire, era stato accolto in casa nostra, in attesa che la

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guerra finisse per poter tornare dalla sua famiglia.

Quando arrivò a Triboli, qualche mese prima, tutto sporco e affamato, a me fece molta paura: non era alto, era molto scuro di pelle e di capelli e aveva occhi così neri che non ne avevo mai visti uguali. Parlava una lingua incomprensibile per me, ma non per mio zio, che stette molto tempo in un angolo del focolare a parlare con lui. Nei giorni seguenti, cominciai ad abituarmi alla sua presenza e mi accorsi che riuscivo a capire anche qualche sua parola, se stavo molto attenta. Che uomo strano ... Ci raccontò di essere nato in una terra molto lontana, chiamata Sicilia, dove crescevano profumati alberi di arance e di limoni e dove c’erano costruzioni antichissime chiamate templi; una terra circondata dal mare. Io non ho mai visto il mare e non riuscivo ad immaginarlo quando lui ci diceva che era mille e mille volte più grande del laghetto lì vicino, così grande che non se ne vedeva la fine. Ci si poteva fare il bagno e l’acqua era fresca, trasparente e salata, più azzurra del cielo. E poi non c’erano tutti quegli insetti fastidiosi che svolazzano sulla superficie, ma c’erano conchiglie e pesci colorati.

Durante il giorno, Niccolino aiutava lo zio nei campi, ma la sera amava stare con i più piccoli e faceva ridere raccontando favole mai sentite prima, accompagnandole con gesti o facce buffe, oppure riusciva ad attirare tutta l’attenzione dei presenti semplicemente descrivendo la sua terra meravigliosa.

I giorni passavano. Ogni tanto suonava la sirena del paese e noi bambini facevamo a gara a chi arrivava per primo al rifugio, una grande grotta scavata sotto terra che odorava di chiuso. Non mi piaceva entrare in quel cunicolo buio, stare per ore pressati l’uno contro l’altro, appoggiati a pareti umide. Ben presto l’odore di sudore diventava insopportabile, ma la paura che mi faceva il rumore degli spari e delle bombe là fuori, superava di gran lunga quella per il buio e il disgusto per il cattivo odore. Mi stringevo alla mamma, cercando di intravedere il suo viso nella semi-oscurità. Dentro di me la pensavo sorridente e radiosa, anche se ultimamente i suoi occhi erano troppo spesso accigliati, la fronte aggrottata e la bocca seria, con gli angoli curvati all’ingiù. Ero certa che le mancasse il mio babbo e che fosse preoccupata per lui. Quando la vedevo troppo pensierosa, le saltavo sulle ginocchia e con le dita andavo a premere dolcemente sugli angoli della bocca per tirarglieli su. Allora lei capiva e mi sorrideva dandomi un bacio. Un giorno, in un tardo pomeriggio, la sirena del paese suonò a lungo e in lontananza cominciammo a sentire il rombo dei bombardamenti. Tutti

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corremmo al rifugio, gli adulti dicevano ad alta voce che gli americani non erano lontani e i tedeschi volevano far saltare il ponte sul fiume Asso, nella Cassia, per impedire loro l’avanzata verso nord. Quelle ore non le scorderò mai: eravamo quasi in settanta in quella grotta stretta e maleodorante. Passammo lì tutta la notte. Mia mamma se ne stava seduta su un piccolo sgabello con me in braccio e mia sorella sulle ginocchia, perché un posto più largo non c’era, nemmeno in terra. Nessuno riuscì a dormire nemmeno un momento. Qualcuno parlava a bassa voce, ma i più tacevano atterriti; qualche bambino piangeva e alcune donne gridavano, soprattutto quando i boati delle bombe sembravano troppo vicini a noi.

Quando i bombardamenti cessarono, la mattina presto, potemmo finalmenteuscire.Unavoltafuori,ciaccorgemmosubitochesopraalrifugio si era formata una buca, dentro la quale c’era una granata, fortunatamente inesplosa. Ci fu un momento di totale confusione. Io non capivo bene cosa stesse succedendo: intorno a me vidi gente che rideva, ma c’era pure chi piangeva, chi gridava al miracolo e chi si inginocchiava, pregando e ringraziando Dio di averci salvato da morte certa. L’unica cosa che capivo era che, nonostante reazioni così diverse, il fatto era da festeggiare, per cui, nonostante il sonno perduto, cominciai subito a correre con gli altri bambini, anche per sgranchirmi le gambe dopo l’immobilità forzata di tante ore.

La prima persona che tornò dal paese riferì a tutti che il ponte non era crollato, ma alcune case di Torrenieri erano state colpite e distrutte e c’erano vari morti e feriti.

Questa notizia portò nuova disperazione e tristezza fra le persone, perché in paese tutti si conoscevano o erano mezzi parenti, così noi bambini smettemmo subito di correre e saltare e ci mettemmo buoni in un angolo.

Ma ecco che, a pochi giorni di distanza da quei bruttissimi fatti e da quei lunghi bombardamenti, le cose cambiarono all’improvviso in meglio. Una mattina fui svegliata da Niccolino che gridava: “Elsa svegliati! Presto! E voi tutti bambini, alzatevi alla svelta! È una giornata meravigliosa, sono arrivati gli americani!”

Niccolino mi prese in braccio e uscimmo fuori. La prima cosa che vidi fu un enorme macchinario, tanto grande e minaccioso da far paura, ma mi tranquillizzai subito vedendo che tutti intorno a me lo indicavano stupiti, ma allegri. “Il carro armato! Il carro armato!” urlavano. Un soldato americano mi sollevò, strappandomi dalle braccia di Niccolino, e mi fece salire su in alto, fino in cima a quella enorme macchina da guerra, dove

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un altro giovane soldato mi prese, aprì con delicatezza la mia mano e ci mise dentro alcune caramelle. Le tirò fuori da un pacchetto nella tasca dell’uniforme, erano piccole, colorate e con un buco in mezzo, come croccanti ciambelle. Mi fece capire che le potevo mettere in bocca: non avevo mai assaggiato niente di più buono! Sebbene fossi molto piccola, non riuscivo a non pensare a quella volta in cui provai una paura infinita sul grembo del soldato tedesco. Il suo alito puzzava di rancido e aveva lo sguardo duro e cattivo. Anche il soldato che mi afferrò tra le braccia in cima al carro armato era straniero, eppure sorrideva e mi faceva capire a gesti che non dovevo aver paura di lui. E poi tutte quelle caramelle, così buone e colorate ... che gioia. Ricordo quel giorno come il più bello della mia vita. Quelle piccole caramelle colorate, lo sguardo buono del soldato, i suoi gesti affettuosi, avevano spazzato via in un momento i timori, la tristezza e lo squallore delle ultime settimane.

La guerra era davvero finita, almeno per noi, e ora non rimaneva che tornare alla nostra casa. Il contadino che ci ospitava a Meleto si offrì di accompagnarci, col carro tirato dai buoi, fino a Triboli di Mezzo e così partimmo. Noi bambini sedemmo sul carro sopra i materassi e le altre pochissime cose che ci eravamo portati dietro. Gli adulti ci seguirono a piedi. A casa ci attendevano lo zio Damo e il nonno Fortunato, che ci accolsero con gioia e tanta commozione.

Prima di entrare, però, gli americani, che nel frattempo erano arrivati anche lì, vollero ispezionare tutto intorno alla casa, alla ricerca di mine inesplose. In fondo al nostro rifugio trovarono invece un tedesco nascosto nella penombra. Mi fece molta pena: era molto giovane, poco più che un ragazzo, pallidissimo e tremante, sembrava avere la febbre alta. Gli gridarono di spogliarsi completamente, puntandogli i fucili contro, anche se si vedeva che riusciva a malapena a stare in piedi. Una volta appurato che non nascondesse armi, lo fecero rivestire e lo portarono via come prigioniero. Finalmente potemmo rientrare in casa, ma come era cambiata: completamente devastata!Tutte le donne scoppiarono a piangere disperate, soprattutto quando si accorsero che i tedeschi avevano scoperto il nascondiglio delle cose di valore. Fra la casa e la stalla c’era un grande mezzanino nel quale si poteva entrare solo da una finestrella alta che si affacciava sulla stalla. La finestra era stata murata e la calce invecchiata e sporcata apposta. Ai miei familiari e a tutte le persone del vicinato sembrava in assoluto il posto più sicuro dove nascondere le cose più preziose, ma i tedeschi erano molto furbi e lo avevano trovato. Usando un martello a

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manico lungo bussavano su tutti i muri e, se sentivano suonare a vuoto, abbattevano la parete e portavano via tutto. Dentro questo ripostiglio c’erano cose molto importanti per la nostra famiglia e per molte altre famiglie dei dintorni. I gioielli erano pochi a dire il vero, ma si trattava di ricordi delle nonne o delle bisnonne. In particolare, avevano portato via tutti i corredi di nozze di mia mamma e mia zia Ottorina, ma anche quello di Egle, mia cugina grande che aveva già sedici anni e che, finita la guerra, avrebbe sposato il suo Mario, diventato partigiano e costretto alla macchia. Per mesi Egle aveva rischiato la vita per portargli da mangiare, in luoghi nascosti e segretissimi, dei quali non mi aveva mai voluto parlare. Col fidanzato Mario vivevano nascosti anche suo fratello Marino, il più grande dei quattro figli di mio zio, e altri ragazzi del posto. Tutti in paese li chiamavano partigiani, ma quella parola veniva pronunciata sempre a bassa voce, come fosse un segreto da non rivelare a nessuno, così come il loro nascondiglio.

Insieme ai pochi oggetti preziosi sparirono anche tutte le oche, le anatre e le galline, divorate dai tedeschi.

Noi bambini eravamo dispiaciuti per le nostre belle oche bianche: erano cresciute insieme a noi e spesso ci seguivano nelle nostre corse in lungo e largo per l’aia. Erano stati dei piccoli paperottoli gialli e spumosi, sempre in fila dietro mamma oca che era un piacere guardarli. Poi erano diventati in poco tempo alti e fieri, avevano messo su delle penne così candide che ti chiedevi sempre come facessero a rimanere tali in mezzo alla polvere e al fango dello spiazzo davanti a casa. Noi bambini non riuscivamo mai a rimanere così puliti, nonostante cercassimo di obbedire alle raccomandazioni delle nostre mamme.

Per fortuna, grazie alla furbizia di mio zio, si erano salvati i conigli, perché le gabbie erano state nascoste lontano da casa, in un boschetto di cipressi molto fitto, non lontano dalla strada per San Quirico d’Orcia, sperduto in mezzo ai campi e non troppo visibile grazie alle ondulazioni del terreno. E si erano salvati anche i maiali. Mio zio li aveva liberati in mezzo ai campi di grano, sperando che se la cavassero da soli senza farsi notare dai tedeschi. Nei giorni che seguirono la liberazione, andammo a cercarli. Che gioia vedere che la famiglia era cresciuta e che dieci piccoli porcellini seguivano la loro mamma che giungeva ai nostri richiami.

Anche se la guerra era ormai giunta al termine, in casa mia non erano ancora finite le disgrazie che questo brutto conflitto si trascinava dietro.

Un giorno, rientrando in casa dopo i giochi nell’aia, notai tante facce

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tristissime intorno a me. In particolare mia zia Ottorina, la madre di mio cugino Franco, piangeva a dirotto e tutti gli altri le stavano intorno cercando di farle coraggio. Suo marito Armando, il più giovane tra i fratelli di mio padre, era morto di tifo mentre si trovava prigioniero in Montenegro e il suo corpo era stato sepolto da qualche parte, non lontano da Sarajevo. Anche Franco era molto triste vedendo la mamma così disperata, nonostante non avesse mai conosciuto il suo babbo. La notizia portò angoscia e disperazione nella nostra famiglia. Armando era il più giovane dei tre fratelli, un ragazzo bellissimo e molto alto, con un fisico forte e robusto. Si era salvato dalla guerra, dai partigiani di Tito, aveva resistito al lavoro dei campi di prigionia ed era stato abbattuto da una febbre? Nessuno riusciva a credere a quanto scritto in quel telegramma. Soprattutto tutti cominciarono in cuor loro a temere anche per la vita del mio babbo, anche perché era appena tornato in paese il suo amico Gualtiero. Erano partiti insieme per il fronte e, finché rimasti in Italia, erano riusciti, anche se saltuariamente, ad inviarci delle brevi lettere per tranquillizzarci sulle loro condizioni, ma a un certo punto le notizie si erano interrotte ed erano quasi quattro anni che non sapevamo più niente di loro! Dopo Gualtiero, mia mamma vide rientrare in paese anche altri soldati ed ebbe un brutto presagio. Era così preoccupata per le sorti del marito che per qualche giorno non riuscì neanche ad alzarsi dal letto, dicendo di avere un forte mal di testa. Provavo una gran pena per lei e tanta tristezza, perché la mia famiglia, sorellina compresa, era diventata improvvisamente seria e silenziosa. Nessuno aveva voglia di giocare con noi o di raccontarci le fiabe, cosa che mio zio Damo e suo figlio Alfiero sapevano fare benissimo.

Una mattina, di buon’ora, vidi mia mamma inforcare la bicicletta e partire. Disse che andava alla fattoria di Celamonti, a qualche chilometro dalla nostra casa. Là, nella villa padronale, abitava in quel periodo una contessa romana, padrona della tenuta, che aveva lasciato momentaneamente la capitale per motivi di sicurezza. Si diceva predicesse il futuro, senza chiedere niente in cambio, ma solo per altruismo. In quei tempi, infatti, molte donne avevano improvvisato un mestiere del genere per poter raggranellare qualche soldo e sopravvivere, ma le predizioni non si erano mai rivelate veritiere. Si diceva, invece, che questa contessa, che non aveva certo bisogno di soldi, avesse davvero il dono della predizione e si prodigava per aiutare tante giovani spose e madri disperate. Mia mamma le portò una foto del mio babbo e una di mio cugino Marino, che in quei giorni era finalmente tornato a casa con gli altri partigiani

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e si stava nuovamente dedicando al lavoro dei campi. La contessa non conosceva la storia dei due uomini, ma, osservando le foto, le rivelò che, mentre secondo lei Marino era in quel momento intento a tagliare l’erba di un campo, Gino era in compagnia di un altro uomo e insieme camminavano lungo una strada, in cerca di un passaggio. Quando la sera tornò a casa, rinfrancata dalle parole di quella donna, la mia mamma era molto più serena. Purtroppo in quel periodo i momenti di pace o di serenità duravano sempre troppo poco. In primo luogo bisognava sempre stare attenti alle facce nuove che comparivano all’orizzonte: non si sapeva mai se erano ex-soldati che camminavano per tornare alle loro famiglie e solo bisognosi di rifocillarsi un po’, oppure se erano persone sbandate e pericolose, come quando il nonno e lo zio dovettero cacciare via con le falci in mano dei soldati marocchini, che di sicuro cercavano qualcosa da rubare o qualche giovane donna da importunare. Inoltre, ogni tanto arrivava qualche brutta notizia di persone che non sarebbero più tornate o scoppiava all’improvviso qualche tragedia a causa delle mine inesplose. È quanto successe a dei contadini del podere Giardinello, non lontano dal fiume Asso, mentre stavano mietendo il grano. Nonostante la fatica, questo è di solito un momento gioioso per i contadini. Infatti il nonno dice sempre che il grano non dà la ricchezza, ma la certezza di non dover soffrire la fame, che è quello che più conta per tutti noi. Faceva molto caldo, i contadini, posizionati in fila davanti al grano alto con le falci in mano, chiacchieravano allegramente, quando all’improvviso ci fu uno scoppio e il boato si sparse per tutta la valle del fiume. Lo sentimmo anche da casa nostra e Alfiero si avviò in quella direzione per capire cosa fosse successo. Una mina era esplosa, aveva travolto tutti e c’erano molti feriti, uno aveva anche perso un braccio, e due morti. Tra questi una giovane donna, che lasciava il marito e tre bimbi piccoli. Si chiamava Silvia ed era la moglie di un cugino del mio babbo, che condivideva con lui non solo il cognome, ma anche il nome. Questo fatto portò un nuovo doloroso lutto nella nostra famiglia. Per tutti noi, la preoccupazione per chi ancora non dava notizie di sé si fece ancora più angosciante. Mia mamma cadde di nuovo nella depressione, non aveva mai appetito e spesso stava a letto, al buio e con forti mal di testa, fin quando non arrivò finalmente il giorno che riportò la gioia nella mia famiglia.

Quella mattina mia mamma aveva appena finito di fare il bucato nella grande conca. Io ero andata a prendere il mio piccolo catino, che lei mi riempiva con i panni meno pesanti. Insieme stavamo raggiungendo il

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piccolo poggio laterale alla casa, dove c’erano i fili per tendere. Mamma portava il grande catino ricolmo di lenzuola profumate di ranno e io, fiera accanto a lei, reggevo il mio catino in miniatura, pronta ad aiutarla in questo faticoso compito. A un certo punto, mia madre gridò, lasciò cadere tutto a terra e corse incontro a due uomini che lentamente camminavano verso casa. Finalmente poté abbracciare il suo Gino, mio padre, e la sorpresa fu ancora più grande quando si accorse che l’uomo accanto a lui altri non era che suo fratello minore Domenico, che tutti chiamavano Beppe, chissà perché. Fu una festa grande: un marito e un fratello ritrovati nello stesso giorno, quando sembrava che la speranza di riabbracciarli fosse ormai svanita. I due uomini erano sporchi di polvere, esausti e affamati, ma mia sorella Delia fu felicissima di lanciarsi fra le braccia del babbo che la sollevò in aria, commosso. Io, invece, me ne stavo in disparte, un po’ intimidita e un po’ impaurita da quelle due figure sconosciute e sgangherate. Il mio babbo, che aveva compreso i miei sentimenti, mi fece solo una carezza sulla testa e non volle forzare la mano pretendendo baci o abbracci: ce ne sarebbe stato di tempo per conoscermi meglio!

Mio zio quella sera rimase a dormire da noi, non ce la faceva a proseguire per altri quindici chilometri fino al Poderino, dove abitava con la madre e gli altri fratelli già sposati. Così mio cugino Marino inforcò la bicicletta e andò intanto ad informare nonna Maria che Beppe era vivo e che sarebbe tornato l’indomani.

La sera, dopo cena, mio babbo e mio zio ci raccontarono la loro incredibile storia. Il caso aveva voluto che si incontrassero in un campo di lavoro in Germania, vicino a Dusseldorf, dove erano stati deportati. I tedeschi avevano bisogno di contadini che lavorassero i campi abbandonati a causa dell’assenza degli uomini e lo zio Beppe aveva pagato un soldato tedesco, con sigarette e qualche spicciolo, affinché lo mettesse nello stesso gruppo di lavoro di suo cognato. Ogni mattina li facevano salire sui camion e li portavano nei campi, dove lavoravano duramente per circa dieci ore avendo in premio un pezzo di pane e un po’ di formaggio o margarina. La sera, esausti, ricevevano solo un po’ di zuppa. Una sera, dato che negli ultimi giorni i sorveglianti erano diminuiti e meno attenti, salirono nell’ultimo camion e, quando il convoglio rallentò fin quasi a fermarsi vicino a un bivio, grazie anche all’assenza della camionetta chiudi fila, mio babbo e mio zio si gettarono di sotto e scapparono nel bosco.

Dopo alcuni giorni passati a nascondersi, nutrendosi solo di bacche e radici, trovarono ospitalità in una colonica, dove erano rimaste solo

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alcune donne, dei bambini e dei vecchi. In cambio di cibo, povero ma abbondante, lavoravano i campi ogni giorno, vestiti da donne per non dare nell’occhio. Intanto seguivano le vicende della guerra, anche se non era facile conoscere gli eventi seguendo le trasmissioni radio in lingua tedesca. Quando furono sicuri che la guerra fosse finita definitivamente e che non c’era più pericolo per loro, iniziarono il lungo viaggio di ritorno, a piedi o con mezzi di fortuna come passaggi su camion o altro.

Non avendo mai conosciuto mio padre, non avevo mai sentito la mancanza della figura paterna, dato che questo ruolo, nella mia grande famiglia patriarcale, era ben svolto da mio zio e dai miei cugini più grandi, Marino e Alfiero, che si sentivano responsabili dei fratelli e dei cugini più piccoli. Per questo, quando babbo tornò, io mi sentivo un po’ a disagio e mi comportavo con indifferenza verso di lui, contrariamente a mia sorella che aveva invece conservato molti ricordi della vita precedente la sua partenza per la guerra. Ma il grande desiderio del mio babbo di stare con noi per recuperare il tempo perduto, i suoi modi gentili, la grande pazienza, il sorriso sempre benevolo e la voce bassa e calda con cui ci raccontava la storia del cece o della Capra Ferrata, mi fecero ben presto cambiare atteggiamento e l’indifferenza iniziale si è trasformata in attaccamento quasi morboso.

E torniamo ad oggi, 1 giugno 1946. Ho appena finito l’ultimo anno di asilo e un po’ mi dispiace, perché mi mancano le lunghe camminate fino a scuola insieme a mia sorella, che, finché restiamo sulla strada bianca mi lascia correre e saltare come un capretto, ma quando raggiungiamo la Cassia, dove transitano i camion della vicina fabbrica Crocchi, mi tiene la mano stretta stretta, eseguendo alla lettera gli ordini della mamma. E poi, lungo la strada incontriamo sempre gli altri bambini dei poderi vicini e proseguiamo tutti insieme correndo e scherzando. Ogni mattina, arrivati davanti alla grande scuola elementare, lasciavo sorella e cugini e proseguivo poco oltre, fino a quella vecchia e angusta costruzione che prima era la scuola e ora è l’asilo infantile gestito dalle suore. La madre superiora è molto arcigna: mai un sorriso o una parola carina, solo ordini secchi e autoritari, che incutono timore a tutti noi bambini. L’unica suora dolce e disponibile è suor Vincenza: ci faceva sempre giocare e cantare. A metà mattinata ci portava il latte condensato e io aspettavo con ansia quel momento e già assaporavo quel gusto dolciastro, piacevole e avvolgente. Potrebbe sembrare che io pensassi solo a mangiare, ma un altro dei miei momenti preferiti dell’asilo era quello del pranzo: ricordo ancora l’odore del minestrone, che

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due inservienti portavano in un’enorme pentola e versavano nelle nostre ciotoline di metallo, perfettamente incastrate nei buchi al centro dei nostri banchi, in modo che non si rovesciassero. Io, però, ogni giorno sognavo di entrare nella scuola dei grandi, insieme ai miei cugini che ci andavano già da un anno, per poter imparare a leggere e a scrivere, sebbene lì non si faccia pranzo e la merenda di metà mattina ce la dobbiamo portare da casa. Questa scuola è veramente bellissima: è stata fatta costruire dai signori Crocchi, così imponente e curata da essere invidiata da tutti i paesi vicini. Persino gli abitanti di Montalcino non ne hanno una così e chissà se a Siena esistono scuole grandi e belle come la nostra, tutta a mattoncini, con decorazioni lungo i fianchi, le grandi finestre e l’arco centrale incorniciati da mattoni verticali, che creano un grazioso ornamento. E poi, c’è quella bella scalinata in pietra serena e ghiaia che, partendo dalla Cassia e passando in mezzo a due curati giardinetti laterali, accoglie come in un abbraccio tutti noi bambini. E se la struttura esterna è bella, mia sorella mi racconta che l’interno è ancora meglio: le classi sono grandissime e molto luminose e ci sono pure i termosifoni in ghisa, che d’inverno ben le riscaldano. In fondo al corridoio ci sono i bagni con lunghi lavandini e tanti rubinetti di acqua corrente; la buca per fare i bisogni è circondata dalla ceramica, non come a casa nostra, che è solo un buco maleodorante dentro uno sgabuzzino freddo collocato a metà scale. Domani, proprio in questa bella scuola, ci sarà un evento molto importante, che gli adulti chiamano Referendum. Bisogna decidere se vogliamo la Repubblica o che restino i Re al governo dell’Italia. Non so di preciso cosa voglia dire, ma tutti in casa voteranno per la Repubblica. Dicono che se il Re avesse avuto più polso e più autorità, forse avrebbe potuto impedire la guerra e mio zio Armando sarebbe ancora vivo. Mio nonno Fortunato, che di soprannome fa Bazzino, ne parla tutte le sere a cena: “Ho 86 anni e sono il più vecchio del paese. Voglio essere il primo a presentarmi alle urne il 2 giugno!” Gli amici e i vicini si divertono a punzecchiarlo e gli chiedono spesso per chi vuole votare. Lui si arrabbia e non si stanca mai di ripetere: “Per la Repubblica! Che domande fai? E se sei furbo e ci tieni alla tua famiglia, anche tu devi votare come me!” È ora di pranzo e mia mamma ci chiama. Io e i miei cugini corriamo subito verso casa, ma loro, come al solito, sono più veloci. Mentre corro, vedo il nonno che riposa sdraiato a terra in mezzo alla vigna, il cappello un po’ abbassato sugli occhi. Lo chiamo: “Nonno, nonno! Vieni che si mangia!”, ma lui non sente. “Dorme proprio forte.” penso, “Oppure è diventato sordo!”

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Mi avvicino e lo tocco, lo scuoto, ma niente; mi accorgo che, nonostante la calura estiva del mezzogiorno, ha le mani fredde. Allora mi guardo intorno e vedo mio padre che, rientrato dai campi, sta togliendo il giogo ai buoi. Corro verso di lui e grido: “Babbo, Babbo! Il nonno è nella vigna, ma non si sveglia!” Lui gira lo sguardo e comincia a correre chiamando gli altri. Tutti escono di casa e si precipitano là, dove il nonno riposa. Da lontano vedo gesti concitati, mani fra i capelli o sugli occhi ... Noi bambini piccoli siamo rimasti infatti sulla porta di casa con Egle e Delia.

L’ho capito, il mio nonno non riuscirà a votare, ma sono sicura che da lassù, dove ora si trova il suo spirito, verrà in aiuto a tutti gli indecisi per far trionfare la Repubblica Italiana.

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Maggio 1944

Quella notte sognai che piangevo insieme alla mia mamma con un pianto dolce e tenero.

Non sapevo il perché!

Sognai che attendevo di correre al suo letto e, con la poesia dei sogni di primo mattino, aspettavo che la mia mamma mi chiamasse, come ogni giorno…

Ecco la tua voce mamma: eccola finalmente…

Ma non è la solita dolce voce che al mattino mi chiama!

Invece è una voce di pianto. Anzi, ora sono urla di pianto disperato: “Alfredo! Alfredo! Alfredo!”

Per vedere se è ancora davvero un sogno, scendo dal letto e vado verso quella voce…

Ora il sogno è finito davvero…

Ti vedo, babbo, scendere le scale… Perché?

Perché sei stretto tra quattro uomini a me sconosciuti?

Perché quegli uomini vestiti di camicia nera ti hanno legato i polsi come a Gesù davanti a Pilato?

Perché in fondo alle scale ti attendono altri soldati vestiti di camicia nera e con i moschetti a tracolla, mentre fuori della casa ci sono altri uomini?

Tutti col volto di ragazzi, e con la camicia nera?

E altri, su un camion, tutti con la camicia nera?

Spingono sul camion, a calci, il mio babbo prigioniero. La mia mamma grida e si aggrappa con tutte le sue forze al cassone del camion. Vuole salire sul camion pieno di camicie nere: qualcuno di loro col viso di bambino, ma con la camicia nera e con il moschetto a tracolla, la minaccia. Lei invoca la Madonna e loro bestemmiano ferocemente. Con bestemmie feroci ben diverse da quelle dei contadini, quando con confidenza bestemmiano il Padreterno e la Madonnina…

Vogliono partire subito, e portano sul camion anche la mia mamma. Scompaiono tutti tra nuvole di polvere, cantando come beceri “le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera”. Il camion si fermò ad Arezzo in via Garibaldi 259, dinanzi al cancellone del carcere. Il

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cancellone si aprì e si richiuse non appena il camion fu entrato. Mia mamma fu fatta scendere e mio padre con i suoi “custodi…” fu accompagnato entro il carcere. Si abbracciarono. Mia madre urlava e piangeva, mentre mio padre cercava di rassicurarla. Le disse di recarsi dagli amici Cutini che erano tra l’altro i proprietari di due cinema di Arezzo. Mia mamma così fece…

Era il 29 maggio. Il pomeriggio successivo ebbe luogo un “processofarsa”, che si basò sulle false accuse e sul falso racconto del fascista Mecchia, il quale, mentendo, sostenne di avere avuto precise indicazioni da mia madre, e di essere stato “arruolato” da mio padre nella formazione partigiana che aveva come parola d’ordine “8 settembre”, e dal quale avrebbe ricevuto il fazzoletto da indossare come segno di appartenenza a quella formazione. A proposito del Mecchia, va detto anche che egli era quello che venne riconosciuto dalla nostra domestica, Lina Casalini, che mi aveva visto nascere. La Lina, che si era affacciata alla finestra del primo piano, riconobbe il Mecchia. Lo insultò come spia con feroci ingiurie tanto da indurlo ad estrarre la pistola e spararle. Fortunatamente la Lina, quando vide l’arma in mano al Mecchia, si ritrasse velocemente dalla finestra. Insieme a mio padre, con le stesse accuse vennero processati il segretario di mio padre Gino Pampaloni, cavaliere ad honorem quale grande invalido della Prima guerra mondiale, ed il fattore della azienda agraria Poggitazzi. Tutti e tre gli accusati vennero condannati alla fucilazione con sentenza da eseguirsi all’alba del mattino successivo, 31 maggio. Quella notte terribile, in attesa della fucilazione, mio padre pregò con una coroncina del Rosario che a lui era stata donata da Mons. Peroni, vescovo di Norcia, con il quale mio padre aveva trascorso qualche tempo nel Seminario di Fiesole. Infatti, mio padre per un certo tempo fu seminarista, rispondendo ad una vocazione che evidentemente confliggeva con l’altra vocazione, che era quella di farsi una famiglia, avere dei figli e svolgere la professione di avvocato, come in effetti avvenne. Il cavalier Pampaloni, invece di recitare il Rosario, trascorse la notte mangiandosi i bottoni di osso della giacca e quelli della camicia… Ma il trenta maggio giunse al carcere la notizia che il principale esponente della Resistenza aretina, Sante Tani, era stato arrestato nella canonica di Casenovole, nei pressi di Anghiari. Ivi, il di lui fratello, Don Giuseppe, era parroco. Assieme a Santino e a Don Giuseppe venne arrestato un altro partigiano, Aroldo Rossi. I tre erano caduti in un tranello: alcuni fascisti, fingendosi partigiani allo sbando, compirono furti e soprusi nella zona in cui operava il gruppo di Santino, il quale ne venne a conoscenza

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e chiese a Don Giuseppe di parlare con loro e invitarli a comportarsi più degnamente. Era l’occasione che i falsi partigiani attendevano. Chiesero al parroco un colloquio con Santino. Fu fissato alla canonica. Santino si recò all’appuntamento insieme ad Aroldo Rossi, non sospettando niente. Solo quando erano ormai caduti in trappola, i falsi partigiani si rivelarono per quello che in realtà erano. Santino, Aroldo e Don Giuseppe vennero immediatamente arrestati e condotti al carcere di Arezzo, ove giunsero in cattive condizioni fisiche a causa delle percosse, dei pugni e dei calci subiti. Santino dovette passare la notte seduto sullo sgabello non potendosi sdraiare sulla branda proprio per le lesioni ricevute.

L’avvenuto arresto di Santino, Don Giuseppe e Aroldo Rossi fece rinviare la fucilazione di mio padre e degli altri due detenuti sopra indicati.

Mio padre teneva con sé una piccola agenda tascabile nella quale annotava i suoi impegni professionali di avvocato. Già vi aveva annotato per la data di giovedì primo giugno: “Poppi: interrogatorio Eredi Coccoloni (ore 9)”. Per il giorno 2 giugno aveva annotato “Firenze: Corte: Monsignori e Restoni”. Proprio per le esigenze professionali di avvocato gli venne consentito di tenere con sé l’agendina. In essa scrisse il “diario” della sua detenzione. Nella data “31 maggio mercoledì’, S. Petronilla verg. –luna piena il 6 giugno”, annotò: “Nel carcere di Arezzo (III giorno) giunge (ore 22) l’avv. Tani (cella n° 9), Don Giuseppe (cella n° 19) e Rossi Aroldo (cella n° 7) (dal memoriale di Aceti)”.

L’ulteriore annotazione nell’agenda di mio padre è la seguente: “Notte terribile: spari, ecc.”.

Il primo giugno, il capo delle guardie carcerarie chiese l’intervento di un medico sia per mio padre che per Santino Tani. Gli fu negato con queste parole: “Per i detenuti politici non c’è medico: prima muoiono e più piacere ci fanno!” Evidentemente, però, mio padre fu più fortunato perché sempre nella data di “giovedì 1 giugno – S. Panfilo prete” si annota: “Nel carcere di Arezzo (IV giorno). Colica di fegato, e visita del Dott. Dal Pozzo. Interrogatorio di Tani in cella (mem. Aceti)”. In “venerdì 2 giugno – S. Erasmo vesc. – Luna piena il 6” risulta annotato quanto segue: “Nel carcere di Arezzo: V giorno ore 8: raduno dei carcerati per il lavoro obbligatorio, e discorso dell’ufficiale. Ore 11: bombardamento aereo”.

Mia madre era rimasta ad Arezzo presso gli amici Cutini. La sera del 9 giugno, venne a sapere da essi che le truppe alleate stavano per giungere ad Arezzo e che i fascisti stavano preparando la fuga verso il Nord. Sarebbero quindi rimaste in città le retroguardie più fanatiche e feroci. Ciò faceva

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temere per la vita anche dei detenuti politici, perché la parola d’ordine era quella di eliminarli e compiere le ultime vendette e le ultime crudeltà. Mia madre non si rassegnò e cercò di trovare aiuti rivolgendosi a coloro che potevano avere una qualche influenza e una qualche strada per fare uscire dal carcere mio padre, prima che le retroguardie in fuga compissero (come in effetti compirono) gli ultimi crimini. Si rivolse a tanti amici aretini che riteneva potessero avere una purché minima autorità per scarcerare mio padre. Cercò anche fra tutti quelli che potevano averlo conosciuto per le attività di volontariato che mio padre aveva svolto e stava svolgendo. Fra di essi cercò di rivolgersi al Prefetto (che durante la Repubblica di Salò era chiamato Capo della Provincia) ed al Questore. Ma purtroppo, sia nella Prefettura, sia nella Questura, vi era un totale caos di partenze e di fughe al Nord Italia. Riuscì a trovare ascolto dal Prefetto Melchiorri il quale, ben conoscendo le doti umane e professionali di mio padre, firmò l’ordine di scarcerazione per lui, per il cavalier Pampaloni ed il fattore di Poggitazzi. Non disponendo più di fogli intestati della Prefettura né di altra carta ove scrivere, commosso dalle drammatiche parole di mia madre, che parlava come moglie ma soprattutto come madre di tre figli, avendo sotto mano soltanto un foglio già riempito, scrisse l’ordine di scarcerazione sulla facciata rimasta in bianco, apponendovi il timbro del Prefetto e firmando egli stesso.

Con tale foglio, la stessa notte, mia madre corse al carcere ed ottenne la liberazione di mio padre, detenuto nella cella attigua a quella di Santino Tani. Prima di uscire dal carcere, mio padre poté abbracciare Santino al quale disse: “Santino, ci rivediamo fra pochi giorni fuori da questo carcere. Ti lascio questa mia coroncina del Rosario che potrai restituirmi quando ci incontreremo”.

Santino si commosse e abbracciò mio padre piangendo e dicendogli: “Grazie Alfredo, pregheremo insieme… ma tu pregherai su questa terra ed io pregherò con te e per te dal cielo…”

La triste profezia della propria morte espressa da Santino si avverò pochi giorni dopo, quando le ultime retroguardie fasciste, prima di fuggire al Nord, entrarono nel carcere e spararono raffiche di mitra a Santino, a suo fratello Don Giuseppe e ad Aroldo Rossi.

Dopo la fuga dei fascisti, il vescovo di Arezzo, Mons. Mignone, poté visitare la cella ove Santino ancora giaceva. Secondo quanto narrato da Mons. Mignone, Santino venne trovato irrigidito, inginocchiato con la testa china sopra il pagliericcio, tenendo fra le mani fredde la coroncina del

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Rosario di metallo bianco che mio padre gli aveva lasciato come fraterno e cristiano augurio.

Dinanzi alla Corte di Assise straordinaria di Arezzo, nel maggio 1947, ebbe luogo il processo ai responsabili delle uccisioni avvenute nel giugno 1944, ivi comprese quelle di Santino Tani, Don Giuseppe Tani, Aroldo Rossi e di due altri partigiani che erano stati uccisi nei pressi del carcere aretino. Quei partigiani erano il belga Jean Mauritz Justin Meuret e il piemontese Giuseppe Oddone, che aveva disertato dall’esercito fascista per fare il partigiano. Jean Mauritz stava aspettando che uscissero dal carcere Santino Tani, Don Giuseppe Tani e Aroldo Rossi in attuazione di un piano, ideato l’11 giugno 1944, dal vescovo di Arezzo Mons. Mignone e dai partigiani Curina e Ciarpaglini. Il piano prevedeva di corrompere il capo delle guardie carcerarie, Antonio Aceti, con trentamila lire offerte dal Partito Comunista attraverso Ciarpaglini, e di far così evadere i tre prigionieri politici. Tale danaro avrebbe dovuto essere consegnato all’Aceti da padre Raimondo Caprara, parroco di Sant’Agostino, dopo che i tre detenuti fossero liberati da un commando di partigiani entrati nelle celle simulando un’azione militare. In realtà, il partigiano Giannini agì da solo riuscendo a penetrare nel carcere e, sotto la minaccia delle armi, fece uscire dalle celle i tre detenuti conducendoli poi in direzione del cancello di uscita. Secondo il progetto, l’Aceti avrebbe dovuto sparare un colpo di pistola in aria al momento in cui i tre detenuti fossero ormai fuori dal carcere. Questo, perché dalla vicina Caserma Piave sarebbero sopravvenuti i militi fascisti credendo che l’Aceti fosse stato sopraffatto dal gruppo di partigiani che avrebbero liberato Santino e gli altri due detenuti. Pochi minuti dopo, Antonio Aceti, che era stato tenuto sotto la minaccia di un’arma da parte di Alfredo Giannini, mentre i tre detenuti si avviavano verso la porta di uscita del carcere, sparò il suo colpo in aria. Subito dalla vicina caserma Piave giunsero i militi fascisti sparando in tutte le direzioni. Uno di essi, il tenente Armando Nucci, riconobbe Aroldo Rossi presso un cancelletto che era aperto e sparò in aria una raffica di mitra intimandogli di fermarsi. Non lontano da lui, erano anche i due fratelli Tani. Tutti e tre vennero condotti in un’unica cella con l’assicurazione che avrebbero avuto salva la vita. Invece, poco dopo, Nucci tornò con alcuni militi che uccisero a sangue freddo Santino, Don Giuseppe e Aroldo Rossi. Era il 15 giugno 1944. Un mese dopo, ed esattamente il 16 luglio, Arezzo sarebbe stata liberata.

Pochi giorni dopo l’eccidio, padre Caprara poté accedere al carcere

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insieme all’infermiere Ferruccio Babbini per benedire le salme, ricomporle e trasportarle nella chiesa di San Domenico. L’infermiere Babbini descrisse poi lo stato in cui si trovavano i tre cadaveri. Precisò particolarmente quali erano le condizioni di Sante Tani che aveva la spina dorsale troncata dai proiettili e la parte posteriore della testa era sfondata tanto che, quando il Babbini tentò di sollevare il corpo, la mano entrò all’interno del cranio. La cella aveva un aspetto terrificante: infatti il pagliericcio sul quale Tani era stato ucciso presentava grandi macchie di sangue colato fino a terra. Vicino alle macchie di sangue si trovava un libro di preghiere assieme a una coperta.

I tre caduti, assieme ai corpi dei due partigiani Meuret e Oddone, che prima di essi erano stati uccisi durante il loro tentativo di liberare Santino Tani, furono portati nella chiesa di San Domenico, affinché il parroco Don Raimondo Caprara officiasse le esequie. Rimasero nella chiesa per otto giorni a causa della confusa situazione di quegli stessi giorni nei quali le truppe alleate si stavano avvicinando, i fascisti assieme ai tedeschi preparavano la fuga al Nord, e i partigiani intensificavano gli scontri contro di essi.

Frattanto mio padre si era rifugiato in casa di amici nei pressi di Arezzo senza poter dare notizie alla famiglia.

La notizia della condanna a morte di mio padre fu pubblicata dai giornali. Il giornale “La Nazione” scrisse che già era stato fucilato. In quei giorni io mi trovavo a casa del mio nonno Ovidio in Loro Ciuffenna. Con lui ogni mattina andavamo alla edicola nella piazza. Mio nonno comprava “La Nazione” e spesso un giornalino per me. Dopo conversava con gli amici di Loro. Quella mattina, dopo aver acquistato il giornale, venne circondato da alcuni amici i quali con tristezza cercarono di consolarlo per la notizia luttuosa che essi avevano già letto. Essi non sapevano che mio nonno ancora non l’aveva letta. Mio nonno, sgomento, si preoccupò di me e mi diede una monetina da venti centesimi perché io corressi all’edicola a comprarmi un giornalino. Ma mio nonno non era più quello di poco prima e rimase in silenzio fino a quando arrivammo a casa.

A Loro Ciuffenna dormivo in un letto matrimoniale che aveva una testata di ferro nero con due grosse sfere, una a destra e una a sinistra. Ad una certa ora del mattino, quando mi svegliavo, correvo nella camera di mio nonno e mi mettevo a letto con lui, che mi raccontava episodi del passato e storie di fantasia. Io gli proponevo il tema ed egli lo sviluppava, lo arricchiva attribuendo i ruoli della novella a persone da noi conosciute.

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Ricordo che una di quelle storie la intitolò “L’uovo di Paolo”. Paolo era un ragazzo poco più grande di me, che abitava in una casetta vicina, confinante con il mio giardino dal quale lo separava una rete a maglie metalliche. Io e Paolo avevamo aperto un varco in questa rete che ci consentiva di entrare ed uscire. Eravamo sempre insieme nel giardino a giocare. Per tornare a “L’uovo di Paolo”, una delle novelle raccontate da mio nonno, narrava di un uovo di Pasqua bellissimo e grandissimo, regalatoci dal coniglietto pasquale e, naturalmente, contenente - come tutte le uova di Pasqua“la sorpresa”. Quando io e Paolo aprimmo l’uovo, la sorpresa si rivelò consistere in “due stronzoli di cacca”…!

Il giorno successivo a quello innanzi descritto, quando entrai nel letto del nonno, mi accorsi che egli non aveva voglia di parlare. Io e lui siamo stati un bel po’ di tempo in silenzio. Improvvisamente, squillò il campanello di casa, mia nonna aprì il portone ed entrò mio zio Mario il quale, in uno stato di grande emozione, urlava: “Alfredo è vivo, Alfredo è libero, Alfredo sta bene…”. Mio nonno e mia nonna piangevano di gioia!

Mio nonno, in particolare, tornò ad essere quello di sempre. Si soffiò il naso più volte e subito mi disse: “Massimo, vestiti subito, prendi il costumino da bagno e andiamo al fiume a pescare”.

Così facemmo. La nostra pesca avveniva durante il bagno ove il livello del torrente Ciuffenna ci consentiva di camminare sul fondo ghiaioso e di pescare i ghiozzi. Il ghiozzo è un pesce che vive in acque limpide e fresche su fondali di ciottoli e ghiaia.

La tecnica di pesca che ci era consentita in quel luogo avveniva in “punta di forchetta”…

Si cercava il ghiozzo sollevando i sassi più grossi con una mano e, non appena si individuava lo sfortunato ghiozzo, lo si infilzava con la forchetta. Tornati a casa, i ghiozzi così pescati venivano fritti da mia nonna e mangiati. Nel clima festoso per la notizia di avvenuta liberazione di mio padre, la cena di quel giorno fu particolarmente lieta… (naturalmente fu lieta per i commensali e non certo per gli sfortunati ghiozzi…).

A questo punto, si presentò il problema delle modalità con cui avremmo potuto riportare a casa mio padre senza rischi. Infatti, non si poteva escludere l’ipotesi di un incontro, durante il percorso, di blocchi stradali (che erano frequenti) da parte di tedeschi, e peggio ancora di retroguardie fasciste, che avrebbero potuto nuovamente arrestarlo, essendo egli ben noto per la sua attività antifascista. Nacque, perciò, l’idea di chiedere alla Confraternita di Misericordia, di cui mio padre era stato Presidente, un

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“clandestino” trasporto in autoambulanza. Così venne fatto. Anch’io, e naturalmente anche mia madre, facemmo parte del viaggio di ritorno. Ricordo l’attraversamento di Arezzo ove vi era un grande movimento di mezzi militari ed i soldati tedeschi che agli incroci stradali regolavano il traffico come i vigili urbani…

Lasciata l’ambulanza… la nostra famiglia cominciò così l’ultimo atto della “peregrinatio…” con il folto gruppo composto da due capifamiglia ed il relativo seguito di mogli, bambini, suocere e nuore…

Ogni notte cambiavamo alloggio, grazie all’ospitalità che ci veniva data per l’esistenza delle tante famiglie che ci conoscevano. Questa ospitalità significava forzatamente alloggiamenti di fortuna in stalle, fienili e garages. Una di queste notti la trascorremmo in un vasto fienile nel quale potevamo dormire sopra mucchi di fieno con la cordiale compagnia di un cavallo e di un asino. Questi mucchi di fieno avevano anche un’altezza di due-tre metri e sembravano essere accoglienti. Ma, dopo che ci eravamo “alloggiati” in cima al mucchio, nacquero dei problemi poiché i nostri corpi nel sonno scivolavano verso il basso e quindi in tale evenienze noi ragazzi venivamo “soccorsi” dai nostri genitori che ci prendevano per mano e ci riportavano… in quota!

Durante una di queste notti, improvvisamente, si udirono pesanti passi nell’appartamento sovrastante ed urla femminili. Una pattuglia tedesca vi era entrata per passarvi la notte ed avendo trovato le due giovani figlie dei proprietari stavano usando loro violenza, dopo aver chiuso i genitori in una stanza. Le nostre due famiglie ricoverate nella sottostante stalla, terrorizzate, cominciarono a temere che qualcuno dei tedeschi scendesse nella stalla e compisse le stesse violenze. Mio padre aveva con sé una pistola “Mauser” e naturalmente, se i tedeschi se ne fossero accorti, avrebbero certamente fatto una strage. Pertanto mio padre aprì una finestra e gettò fuori la pistola. I tedeschi non ebbero idea di entrare nella stalla e, dopo aver commesso le violenze innanzi descritte, se ne andarono cantando da ubriachi inni di guerra, intervallati da risate e pesanti rutti…

La nostra famiglia riprese sollecitamente il cammino attraverso i boschi salendo verso la montagna. Durante tale cammino, udivamo frequentemente spari di fucili e di mitraglie al di sopra di noi.

Quando raggiungemmo la parte più alta del bosco dal quale avevamo udito provenire gli spari, trovai a terra un bossolo di ottone che era appartenuto ad un moschetto. Questo bossolo di ottone mi è rimasto come ricordo di quei giorni e di quei momenti…

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La guerra di Cosimo

Fu di martedì, ma non un martedì qualsiasi. Fu il martedì successivo alla Pasqua, giorno di festività solenne per le poche centinaia di anime raccolte nella parrocchia di S. Pietro a Montegonzi. Fu, per l’esattezza, l’11 aprile 1944, martedì di festa e di tragedia. In questo antico castello, che dai monti del Chianti si affaccia in posizione dominante sulla valle dell’Arno, popolato a quell’epoca da contadini, piccoli artigiani e operai delle miniere di lignite di Castelnuovo dei Sabbioni, tutti i martedì che seguivano la Pasqua si festeggiava la Compagnia della Santissima Annunziata. Ogni famiglia, dalle più umili alle più facoltose, contava almeno un membro nella venerabile confraternita e la festa era dunque unanime, festa grande di paese.

Neppure i timori suscitati dall’approssimarsi del fronte, annunciato in quel mese di aprile dai violenti bombardamenti aerei che scuotevano le città di fondovalle e dal flusso di profughi e di militari allo sbando, erano riusciti a sospendere quella consuetudine secolare. Del resto, in tempi così foschi, solo il mantenimento delle attività quotidiane e il ripetersi dei riti e delle tradizioni permettevano di porre un argine alla deflagrazione del mondo circostante, rendendo più sopportabili i tumultuosi cambiamenti indotti dalla guerra.

Tutti ricordano distintamente che quel martedì il sole splendeva nitido nel cielo primaverile sgombro di nubi, irradiando con forza il verde mantello della campagna. L’aria chiara e luminosa del mattino, piacevolmente mite, invogliava a lasciare le abitazioni e a riversarsi per strada. Le botteghe artigiane e le rivendite di generi alimentari erano aperte e piene di avventori. Alcuni uomini aspettavano con pazienza il loro turno dal barbiere, chiacchierando del più e del meno, mentre nella drogheria accanto si giocava a carte e si ascoltava la radio. I ragazzi, liberi da impegni scolastici, gironzolavano per le vie in gruppetti brulicanti di vita, in attesa che avesse inizio la messa. Nelle case le donne, che avevano già partecipato alla funzione religiosa del primo mattino, preparavano il pranzo festivo. Un gruppo di giovani indugiava pigramente nella pista da bocce sotto le antiche mura castellane. Tre bambini pascolavano il loro gregge nei campi della via che sale verso il paese, poco più sotto un ragazzo badava ai suoi

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maiali. Dai luoghi di ritrovo si levavano voci e scoppi di risa. L’aria tersa e pulita pareva dilatare le maglie del tempo e le ore indolenti e tranquille del giorno di riposo sembravano a tutti più lunghe del solito. In paese si respirava aria di festa. Nessuno poteva immaginare che, di lì a poco, quella splendida e benevola mattina avrebbe generato un inferno di violenza e brutalità con cui la guerra, fino allora lontana, precipitò all’improvviso nelle strade, nei boschi, nelle case, nelle chiese del paese.

L’orologio della torre campanaria ha appena battuto undici rintocchi quando, in lontananza, si sentono echeggiare aspre grida accompagnate da scariche di mitra. Sono i bambini, che si attardano con il loro gregge sotto il paese, i primi ad accorgersi che un gruppo di uomini armati si dirige verso Montegonzi, risalendo la strada provinciale. A un tratto li vedono sbucare da una curva. I militari imbracciano i fucili e avanzano sparando piegati in avanti, come cacciatori che fiutano la presenza della preda. Spaventati da quella visione, i bimbi corrono a nascondersi abbandonando le pecore al loro destino. Anche i giovani e gli uomini che sono nella pista da bocce sentono il rumore sordo e distante degli spari, capiscono che è in corso un rastrellamento, si danno alla fuga e in breve il pallaio rimane deserto. Alcuni soldati entrano in paese passando dalla via di Borgo, piena di gente che sosta fuori dalle abitazioni. Procedono minacciosamente, sparando all’impazzata per terra, in aria, contro le case, seminando il panico tra i presenti.

Nella chiesetta della Compagnia della Santissima Annunziata, intanto, si sta celebrando la messa solenne. Due chierichetti hanno ricevuto dal parroco il compito di andare a suonare le campane della chiesa maggiore nei passaggi rituali più importanti, per questo poco prima che il coro dei fedeli intoni il canto del Gloria, escono dalla chiesa della Compagnia affrettandosi verso la parrocchia. Fatti pochi metri si imbattono in un gruppo di soldati in divisa grigioverde. I militari hanno in testa il nero copricapo dei repubblichini. I ragazzi, intimoriti da quell’insolita presenza, accelerano l’andatura, raggiungono la prioria e cominciano a suonare le campane.

Non appena i primi rintocchi del doppio si diffondono in aria, una pioggia di pallottole si abbatte sul campanile e sulla porta della canonica. Sono i soldati della Guardia Nazionale che, dal piazzale sottostante, mitragliano rabbiosamente la torre campanaria con il proposito di far cessare quel suono festoso, interpretato come un segnale di avvertimento agli sbandati e ai ribelli nascosti nei boschi del paese. I due bambini,

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atterriti dalla gragnola di colpi metallici che piove sulle loro teste, mollano le funi delle campane e con il cuore in gola corrono a nascondersi sotto i tini della cantina. Qui restano a lungo, acquattati, a occhi chiusi e con le orecchie tappate per non sentire il rumore degli spari.

I militari hanno ormai occupato tutto il paese e raggiunto anche la chiesa della Compagnia, dove irrompono con i mitra spianati mentre la messa è ancora in corso. La confusione tra i fedeli è indescrivibile. I preti sospendono la celebrazione. Le donne, urlando, cercano riparo sotto le panche. Chi riesce a guadagnare l’uscita senza essere fermato dagli uomini dellamiliziasiallontanarapidamente.Ilcoroscendedallacantorìaattraverso le scale esterne, riversandosi nella piazzetta antistante alla chiesa. I soldati perquisiscono l’edificio e scovato un giovane nascosto nell’armadio della sacrestia lo pestano a sangue, mentre sotto la minaccia delle armi avviano i preti, accusati di essere i “primi antifascisti d’Italia”, fiancheggiatori di sbandati e renitenti, verso la parrocchia. Qui, tacitate le campane, sono cessati anche gli spari. La perpetua, indaffarata a cucinare il grande pranzo festivo per i fratelli della Compagnia, cerca di calmare gli animi invitando i militari a mangiare quello che sta preparando. Nel piazzale della prioria si raduna gente e ai repubblichini viene chiesto da dove provengano. Si apprende così che sono emiliani di Carpi e di Modena. Il loro battaglione, intitolato all’eroe fascista Ettore Muti, è temporaneamente di stanza a S. Barbara, villaggio di minatori vicino a Castelnuovo dei Sabbioni, ed è impegnato in azioni repressive in tutto il territorio valdarnese.

Quel giorno, gli uomini della Guardia Nazionale sono partiti da Santa Barbara di buon mattino a bordo di alcune camionette. Divisi in due squadre, una proveniente dal basso e una dall’altipiano di Sereto, con una manovra a tenaglia hanno accerchiato Montegonzi, procedendo alla perquisizione del territorio e delle abitazioni. I giovani, fermati per strada e nelle case, sono costretti a mostrare i documenti d’identità e, se in età di leva, anche i fogli di esonero o di congedo dal servizio militare. Le richieste vengono rafforzate dalle botte e molti corrono concretamente il rischio di essere uccisi da quegli uomini in divisa, “matti,carichidivinoedipallottole”. I renitenti e i soldati tornati dal fronte scampano al rastrellamento con fughe rocambolesche oppure nascondendosi in rifugi di fortuna, come le grandi canne fumarie dei focolari domestici, le capanne, le cantine, i pozzetti dell’acquedotto e perfino le fogne del paese.

Gli uomini della Guardia Nazionale sono certi che a Montegonzi si rifugino renitenti alla leva e partigiani. Forse c’è stata una soffiata e vanno

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a colpo sicuro, sapendo che i ricoveri degli sbandati sono alle “Cappanne”. Tuttavia, l’ignoranza della toponomastica locale li conduce anziché alle Capanne del Poggio alle Monache, riparo di disertori e renitenti, alle innocenti capanne di Pretasciona, al limite basso della pineta della Forra, dove si consuma la tragedia di Cosimo Sabbìa, giovane soldato siciliano rifugiato nei boschi delle alture. Quando i repubblichini lo sorprendono e lo uccidono, Cosimo è con alcuni suoi compagni intento a giocare a bocce nella pineta sotto la strada della Forra. Il pallaio, ben nascosto tra i pini, era stato costruito dai figli dei mezzadri della vicina fattoria, secondo un’usanza diffusa nelle campagne toscane. A quei tempi, infatti, non era insolito trovare nei pressi delle case coloniche una pista da bocce a uso degli uomini delle famiglie contadine.

Il pallaio della Forra era utilizzato anche dai ragazzi che si rifugiavano nei boschi per passare il tempo e vincere il tedio delle vuote giornate oziose, trascorse muovendosi da un nascondiglio all’altro, in attesa che la guerra finisse e la vita riprendesse il suo corso consueto. Questi giovani, giunti in età di leva dopo l’armistizio del settembre 1943, avevano scelto di non presentarsi al distretto diventando, di fatto, disertori costretti a nascondersi. Ai ragazzi del posto, a mano a mano, se ne erano aggregati altri, provenienti dai comuni limitrofi. Di tutti loro si diceva che “si erano dati alla macchia”. Nei boschi non era raro incontrare anche soldati dell’esercito italiano, veterani di guerra che avevano rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò e, abbandonati i loro reparti, tentavano di fare ritorno a casa da soli o in piccoli gruppi, affrontando quotidianamente difficoltà e pericoli che potevano costare loro la vita.

Cosimo Sabbìa era uno di questi soldati. Di lui, probabilmente, non sarebbe rimasta alcuna traccia, uno dei tanti sbandati arrivati e ripartiti, senza volto e senza nome, se la tragica morte non lo avesse consegnato per sempre alla memoria del paese. I testimoni lo ricordano alto, i capelli biondo scuro tagliati a spazzola con la scriminatura laterale. Gli occhi, di un profondo e intenso colore acquamarina, spiccavano nell’ovale del viso, catturando l’attenzione per la loro singolare bellezza. L’unica immagine che abbiamo di lui ci mostra un giovane uomo con i capelli pettinati all’indietro, la fronte spaziosa e due grandi occhi limpidi in un volto regolare e gradevole. In questa fotografia, scattata in uno studio di posa, Cosimo aveva diciotto anni, indossava una camicia all’ultima moda, di tela chiara con le cerniere ai taschini e al colletto. La sua espressione era seria e lo sguardo remoto, gli occhi fissavano un punto indefinito, misterioso e

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sfuggente.

Secondogenito di Luciano Sabbìa e di Elvira Armando, Cosimo era nato a Catania in una modesta famiglia operaia, il 6 gennaio 1923, ma un garbuglio anagrafico ne certificò la venuta al mondo solo due giorni più tardi, l’8 gennaio. Il 14 di quello stesso mese il bambino era stato battezzato nella chiesa dei Santi Cosma e Damiano, detta comunemente chiesa di San Cosimo. Con il battesimo, la sua giovane vita fu affidata alla benigna protezione di quell’antico martire cristiano di cui portava il nome e con il quale,perunatragicafatalità,condiviseancheildestinodimartirio.Treanni prima della nascita di Cosimo, nel gennaio 1920, Elvira aveva dato alla luce Giuseppa, la sua primogenita, vissuta per appena due mesi. La bambina fu una delle vittime della mortalità infantile di epoca postbellica che in Italia, soprattutto nel nord-est e nel meridione, falcidiava le famiglie più povere. I rapporti del periodo ci illustrano una situazione particolarmente critica in quelle città come Catania, dove il sovraffollamento dei quartieri popolari, le carenze igienico-sanitarie e la denutrizione favorivano il diffondersi di vere e proprie epidemie, che per i bambini si rivelavano spesso fatali. Il padre di Cosimo si guadagnava da vivere come “spezzapietra”, mentre la madre badava alla casa. L’attività di Luciano Sabbìa consisteva nella frantumazione della pietra lavica estratta dalle cave dei dintorni di Catania, per ricavarne il pietrisco usato nella costruzione delle massicciate e dei fondi stradali. Con il suo ingrato mestiere, Luciano a malapena riusciva a mantenere la famiglia che aveva formato con Elvira. Costretto a stare seduto per molte ore consecutive sul suo mucchio di sassi, battendo la dura pietra con un pesante martello, esposto al freddo invernale e alla calura estiva, il suo corpo si era progressivamente indebolito e deformato, tanto che il 29 settembre 1924, l’uomo perì, ancora in giovane età, mentre la moglie era incinta del loro terzo figlio. La morte di Luciano precedette di alcuni mesi la nascita di un altro maschietto, che ereditò il nome del genitore da poco scomparso. Anche questo bambino, nato nel marzo 1925, non sopravvisse che poche settimane e Cosimo, che allora aveva due anni, rimase solo con la madre. La famiglia scivolò rapidamente nell’indigenza. Elvira si arrangiava come poteva per sostentare se stessa e il figlio, adattandosi ai lavori più umili e precari, ma la loro vita era assai grama e incerta, priva di qualsiasi prospettiva futura. Così, venuto a mancare il padre, la prima infanzia di Cosimo fu profondamente segnata dalla miseria.

La situazione mutò radicalmente nel 1928, quando Elvira, ormai quarantenne, sposò in seconde nozze il carrettiere Giuseppe Rapisarda e

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con Cosimo si trasferì a vivere in casa del nuovo marito. Con loro abitava anche Antonino, figlio di primo letto del Rapisarda. A unire i due vedovi, più che un sincero affetto, fu sicuramente il comune stato di necessità: Elvira contava sul matrimonio per risollevarsi dalla miseria in cui erano sprofondati lei e Cosimo, mentre Rapisarda aveva bisogno di una nuova compagna che badasse alla casa e accudisse suo figlio.

Con le nozze della madre, l’esistenza di Cosimo acquistò quella stabilità e quella sicurezza che non aveva mai conosciuto prima. Le sue condizioni di vita migliorarono sensibilmente: pasti, riparo, vestiario non furono più un’emergenza per lui, e il futuro andò progressivamente assumendo una connotazione più favorevole. Il bimbo non ebbe difficoltà a integrarsi nel suo nuovo nucleo familiare e da subito ne condivise le consuetudini. Nelle famiglie dei carrettieri catanesi era prassi consolidata avviare i figli maschi alla professione paterna fin dagli 8-10 anni e Cosimo non costituì un’eccezione alla regola. Com’era dunque uso, già in tenera età fu introdotto dal patrigno al mestiere che avrebbe praticato per tutta la sua breve esistenza. Il prematuro avviamento al lavoro impedì al fanciullo di frequentare regolarmente la scuola. L’istruzione era un privilegio, un lusso che Cosimo non si poté permettere e come tanti bambini dell’epoca, non imparò né a leggere né a scrivere. Era quindi, secondo la definizione comune, un analfabeta totale. Questa condizione di minorità, che condivideva con molti suoi coetanei, non gli impedì di cavarsela egregiamente nella vita di tutti i giorni. Le responsabilità che aveva imparato ad assumersi fin da piccolo, la lotta per la sopravvivenza e il duro lavoro, ne forgiarono il carattere e fecero di lui un giovane uomo serio e avveduto. Il suo bell’aspetto, unito a un’indole allegra e socievole, lo rendeva gradito e molto popolare tra tutti quelli che lo conoscevano. Cosimo amava il suo mestiere e lo praticava con perizia e dedizione, senza mai lamentarsi, affrontando la vita con il sorriso sulle labbra e nel cuore. Giovanissimo, si innamorò di Angela, una sua coetanea. Angelina, come la chiamava affettuosamente lui, era piccola, minuta, con vivaci occhi neri e una forte personalità. Suo padre, Natale, era un venditore ambulante di abbigliamento e merceria. La madre, Maria, si occupava della casa e dei figli, che per Cosimo diventarono come fratelli.

Angela e Cosimo si conoscevano fin da bambini perché entrambi erano nati e cresciuti nei quartieri popolari della città vecchia, nei vicoli a ridosso del porto peschereccio e del molo di mezzogiorno. Fu in questi luoghi, affollati da una chiassosa umanità, che trascorse la loro serena esistenza

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fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Dal momento in cui l’Italia divenne una delle nazioni belligeranti, molte furono le coppie, anche giovanissime, che accorciarono i tempi del fidanzamento e salirono all’altare prima che la guerra le separasse, forse, per sempre. Cosimo, che presto sarebbe partito per il fronte, desiderava con tutto l’ardore del suo giovane cuore innamorato, che Angela diventasse sua moglie. Così i due ragazzi, dopo un breve periodo di fidanzamento, probabilmente ricorrendo alla fuitina, ottennero dai genitori il consenso alla celebrazione delle nozze e si sposarono l’11 dicembre 1941 nella chiesa dei padri salesiani di Santa Maria della Salette.

La loro vita in comune ebbe inizio al numero 5 di cortile Rapisarda, dove viveva la famiglia di lui. Angela, che aveva appena diciassette anni, si occupava della casa, mentre Cosimo, allora diciottenne, provvedeva al proprio sostentamento e a quello della giovane sposa con la sua professione di carrettiere. All’epoca, i carrettieri si muovevano dentro il perimetro cittadinoepertuttalapianadiCatania,inunandirivienipressochécontinuo. Cosimo esercitava il mestiere per conto del patrigno e il rozzo carretto a due ruote, che usava negli spostamenti e che dopo il lavoro trovava riparo accanto alla porta di casa, faceva parte di quelli in dotazione al vecchio Rapisarda. Il giovane, che era forte e robusto, si occupava di movimentare i carichi più pesanti.Trasportava i prodotti agricoli stagionali, quali il fieno e i carciofi, oppure faceva la spola dal porto ai quartieri cittadini per distribuire le merci scaricate dalle navi. Spesso partiva prima dell’alba e tornava dopo il tramonto. Talvolta capitava che restasse lontano da casa anche per più giorni. La paga di Cosimo, in linea con le tariffe vigenti, variava dalle 5 alle 20 lire, in base al luogo di consegna delle merci. Di solito effettuava un viaggio al giorno e riscuoteva il salario alla fine della settimana. Gli aspetti più duri della sua professione erano la fatica e la lontananza quasi continua da casa e dalla famiglia, compensati però dalla consapevolezza di una minore instabilità lavorativa e da guadagni migliori rispetto ad altri mestieri. Con lo scoppio della guerra, la precarietà divenne sensibilmente più elevata anche per i carrettieri, data la situazione di incertezza in cui precipitò la Sicilia tra il 1940 e il 1942. I perduranti bombardamenti della guerra in Africa, la requisizione militare degli animali da traino e dei mezzi di trasporto, determinarono progressivamente il collasso del sistema viario, della circolazione delle merci e delle derrate alimentari, che i rifornimenti dal continente non bastavano a compensare. Nell’isola la popolazione era

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allo stremo, prostrata dalla fame e dall’insicurezza.

Nonostante il quadro generale così cupo, i giorni che Cosimo trascorse accanto alla moglie furono i più felici della sua effimera esistenza. I due coniugi,sebbenecircondatidaglialtrimembridellafamiglia,siscambiavano pudiche premure e piccole attenzioni, prendendosi cura l’uno dell’altra con gioia e tenero trasporto. Si amavano con lo slancio tipico della loro giovane età e tutto il loro amore si riversava nel grembo di Angela, che il 19 settembre 1942, quando il ragazzo venne chiamato alle armi, era incinta del loro primo figlio. La pena della separazione era immensa, ma la giovinezza, unita al fatto che aspettavano un bambino, li proteggeva e li rendeva fiduciosi nell’avvenire. Forse neppure presagirono che non si sarebbero rivisti mai più, che il loro tempo insieme si era irrimediabilmente consumato nel breve volgere di alcuni mesi.

Dopo due lunghi giorni di viaggio, il 21 settembre 1942, Cosimo giunse a Legnago, in provincia di Verona, per unirsi al 1° Reggimento Genio Pontieri. Del periodo che il giovane passò a Legnago resta traccia solo nella busta vuota di una lettera spedita alla moglie il 25 febbraio 1943, probabilmente in risposta all’annuncio giunto da Catania che Angelina, il 9 di quello stesso mese, aveva dato alla luce un figlio maschio a cui, in ossequio alla tradizione, era stato imposto il nome del defunto nonno paterno, Luciano.

La permanenza di Cosimo a Legnago, terminò il 10 giugno del ‘43 quando fu trasferito sul fronte orientale, a Poggio Reale del Carso, l’odierna Opicina, in località Banne. La caserma di Banne era in quel periodo sede del 5° Reggimento Genio e Cosimo, che a Legnago si era specializzato nella bonifica e nell’allestimento dei campi minati, entrò a far parte della Compagnia Addestramento Guastatori. Un giovane militare, Ercole Destro, soldato di leva assegnato alla caserma giuliana, nelle sue memorie tratteggia un quadro sconfortante delle condizioni di vita della truppa a Banne.

Scrive Destro: “... Mancava tutto, o meglio, ci si doveva arrangiare in qualche modo per risolvere anche i problemi più banali. Una burocrazia elefantiaca ed inefficiente stagnava al di sopra di ogni più piccola iniziativa o necessità... Aggravava la situazione la mancanza di mezzi causata principalmente dallo stato di guerra... Non c’erano divise nuove o quanto meno decenti. Ci si doveva adattare ad indossarle nello stato miserevole in cui si trovavano e cioè, o troppo grandi o troppo piccole, alcune addirittura sporche e macchiate di sangue. Le scarpe erano indecenti: costruite di materiale

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scadente, usate, sporche, rotte e spesso spaiate”. Il rancio era immangiabile e veniva distribuito in gavette, che solo di rado potevano essere lavate perché c’era un unico rubinetto per tutto il reggimento. La mensa non esisteva e i soldati consumavano i loro pasti all’aperto, nel piazzale della caserma. I dormitori avevano letti a castello con sudici pagliericci privi di lenzuola, maleodoranti e pieni di pulci. Cosimo, tuttavia, pareva non risentire di questi disagi, o almeno non se ne curava e, com’era suo costume, non se ne lamentava. Ormai erano dieci mesi che si trovava al fronte e aveva imparato a sopportare privazioni e inefficienze. Come tutti i soldati, conviveva con la paura della morte e per questo lo preoccupavano le continue scaramucce con i partigiani slavi, che quasi quotidianamente tentavano di varcare il confine per sabotare i depositi di munizioni della caserma. Di tanto in tanto, il giovane era sopraffatto dalla nostalgia per la famiglia e per la sua terra e l’acuta sofferenza del distacco lo rendeva fragile e vulnerabile come un bambino. In quei momenti lo consolava soltanto la striscia di mare che si scorge dalle alture di Banne. Quando v’indugiava con lo sguardo, adagiata ai suoi piedi, non vedeva Trieste, ma Catania. La sua bella città, con l’eterno pennacchio di fumo dell’Etna alle spalle, sembrava sorgere dalle acque come una visione. Catania, inondata nei lunghi pomeriggi estivi di una luce bianca e abbagliante, che annullava le ombre dei palazzi barocchi e delle povere case terrane affacciate sui vicoli stretti e bui della sua infanzia. Catania, con le magnifiche chiese, le piazze, le strade e il porto penetrato dall’odore del mare e dalle grandi navi che attraccavano ai suoi moli. E poi la fertile piana, verde e rigogliosa, percorsa dai carretti cigolanti, dove si rincorrevano i nitriti dei cavalli e i richiami dei rudi e solitari carrettieri. Dalla distanza del ricordo, dinanzi a Cosimo sfilavano, ad uno ad uno, i suoi compagni e i familiari e i loro volti si intrecciavano e si confondevano, lasciando il posto all’immagine di Angela, quella che più di ogni altra il giovane portava nel cuore. La sua Angelina gli compariva davanti, bella e tenera come non mai, con il figlio premuto contro il seno. Quel figlio che Cosimo tuttavia, per quanto si sforzasse, non riusciva neppure a raffigurarsi. La preziosa manciata di mesi trascorsi insieme a quella ragazza, che lo aveva reso padre, era l’unico patrimonio che il giovane possedesse e quando, con l’aiuto dei commilitoni, scriveva alla moglie, i suoi pensieri erano sempre caldi e affettuosi. Cosimo parlava con tenera riservatezza del suo amore per lei e per il loro bambino. La squallida vita di caserma e la paura per la precarietà della sua esistenza si annullavano nello slancio verso la famiglia e il futuro. In una lettera del

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30 giugno 1943, l’ultima che Angela ricevette da lui, la sua condizione di militare trapelava solo in riferimento al desiderio di ottenere una licenza per tornare a casa e conoscere il figlio. Diceva Cosimo: “Mia carissima e amatissima moglie, il mio stato di salute è ottimo e così spero sia di te. Ora ti faccio una preghiera. Prega la nonna di farsi fare dai carabinieri un certificato nel quale sia detto che tu devi sfollare da Catania, così potrò venire in licenza. In ogni ora del giorno e della notte costante mi è la tua persona, il ricordo che ho di te sarà incancellabile dal mio cuore. Quando tra questi monti mi prende per un momento lo sconforto, basta che pensi a te, alla tua dolcissima figura che tutto passa e la serenità torna in me, nell’ansia di poter un giorno, speriamo non lontano, riabbracciarti. Conforto mi è la tua fotografia che spesse volte ho bagnato di pianto pensando che mi sei lontana, che abbiamo un figlio che ancora non conosco e che il desiderio di vederlo è diventata una specie di pazzia. Mi concederà Dio questa grazia?

Ti prego perdonami se non ti ho scritto prima, ma ben sai che la colpa non è stata mia, ma della mancanza del tuo nuovo indirizzo. A proposito hai fatto le fotografie al bambino? Se le hai fatte, mandamene una e anche una tua. Ancora una raccomandazione per quel certificato. Null’altro più al momento, solo inviarti un bacio, un saluto e un forte abbraccio. Bacioni per il piccolo. Tuo affezionatissimo sposo Sabbìa Cosimo”.

In realtà, come testimonia l’indirizzo sulla lettera, Angela era già sfollata da Catania e si trovava ad Adrano, paese della provincia ai piedi dell’Etna, ospite della nonna. La ragazza era lì con il figlio e gli altri familiari, perché la sua casa era crollata sotto le bombe americane, che il 12 maggio si erano riversate sul porto di Catania, danneggiando gravemente anche il centro storico della città e provocando più di cento vittime. Quel bombardamento fu solo uno dei tanti che dal mese di gennaio, prima in maniera sporadica e poi con frequenza sempre maggiore, flagellarono senza sosta la città, costringendo molti catanesi a un esodo forzato verso le campagne. Appena nel volgere di una settimana dal giorno in cui Cosimo scriveva alla moglie, gli eventi nell’isola precipitarono: con lo sbarco degli alleati del 10 luglio, la guerra arrivò direttamente sul suolo siciliano. Catania fu sottoposta a bombardamenti aereo-navali sempre più violenti, che costarono la vita a centinaia di civili. Il 5 agosto, infine, la città semidistrutta fu liberata dalle truppe britanniche. I piani di Sabbìa per tornare a casa in licenza furono così completamente vanificati. Per Cosimo comunicare con i familiari diventò impossibile, e questo gli impedì di sapere della morte di sua madre Elvira, deceduta il giorno 8 di quello stesso mese.

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A contrastare l’avanzata degli americani in Sicilia, ci fu anche un contingente del 5° Reggimento Genio Guastatori di Banne. Questi soldati, rientrati dall’isola, portarono in caserma il racconto di una vera e propria disfatta, contribuendo con il loro atteggiamento di disprezzo nei confronti degli ufficiali, a disorientare il resto della truppa. Le notizie provenienti dalla Sicilia, unite alla caduta del governo Mussolini del 25 luglio, scardinarono definitivamente la narrazione fascista di un’Italia forte e invincibile ma, allo stesso tempo, accesero nei militari di Banne, la speranza che la guerra volgesse ormai al termine. Così il mese di agosto trascorse in caserma in un clima di attesa, oscillante tra il pessimismo e la fiducia.

Nonostante le ultime notizie certe della permanenza di Cosimo Sabbìa presso il 5° Reggimento Genio risalgano al 30 giugno 1943, data dell’ultima lettera inviata alla moglie, non sussiste alcun motivo per ritenere che il giovane non fosse in caserma fino all’armistizio dell’8 settembre. Di conseguenza, la sua sorte fu analoga a quella dei suoi commilitoni. Per illustrare la drammatica situazione in cui vennero a trovarsi i militari di Banne nelle ore successive alla proclamazione dell’armistizio da parte del maresciallo Badoglio, dobbiamo ricorrere ancora una volta ai diari della recluta Destro e alla testimonianza di un giovanissimo soldato toscano, Vinicio Lupi, giunto da pochi giorni nella caserma giuliana. Racconta Lupi: “Poco prima della mezzanotte un carrarmato tedesco si piazzò davanti al cancello della caserma… dietro al panzer c’erano una cinquantina di soldati armati fino ai denti. Un gruppo di guastatori, reduci da diverse campagne bellicheeintenzionatiavendercaralapelle,manifestòilpropositodiindirizzare contro il cancello il carro di dinamite che stazionava nei paraggi. Gli alti ufficiali si opposero tenacemente perché temevano le inevitabili rappresaglie. Fu ordinata l’apertura del cancello. Entrarono il panzer e i cinquanta armati tedeschi. I soldati italiani furono fatti tutti prigionieri, ufficiali compresi”. “Il mattino seguente – dice Ercole Destro – “la caserma era bloccata all’ingresso da un carrarmato. C’era stata preclusa ogni via d’uscita. I militari germanici, di guardia al cancello, erano decisi nell’ordinarci che per quel giorno si doveva rimanere ancora in caserma e solo il giorno seguente saremmo stati liberi di andare a casa. Ad avallare le disposizioni dei tedeschi ci pensò un nostro maggiore, che in un’improvvisata assemblea, intimò a tutti di non tentare in alcun modo di fuggire. Ci assicurò inoltre che il comando tedesco aveva garantito che il giorno seguente saremmo stati tutti liberi. Nessuno diede molto credito alle affermazioni del maggiore. Tuttavia nulla si fece per reagire a quell’ordine e studiare un piano di fuga ....” Il dramma dei soldati di Banne

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giunse al suo epilogo la mattina dell’11 settembre, quando il comandante tedesco fece radunare nel piazzale della caserma tutti i militari che, scortati da una compagnia di carabinieri, furono avviati a piedi verso Postumia. Ai giovani fu promesso che sarebbero stati rimandati a casa ma, una volta giunti a destinazione, furono caricati sui treni merci diretti verso i campi d’internamento in Germania.

Ci dice Vinicio Lupi che durante quella terribile marcia, “i carabinieri non fecero mai pesare sui militari italiani la loro presenza”. Molti soldati poterono fuggire impunemente e tornare verso Trieste, dove la popolazione diede prova di un grande altruismo nei loro confronti. Italo Sommavilla, all’epoca studente di 19 anni, così racconta i giorni successivi all’armistizio nella città giuliana: “Si assistette ad una commovente gara di solidarietà da parte della cittadinanza tutta verso l’amato soldatino che in gran parte era di originemeridionaleodelleisole:ognunodilorooramaipensavasolodiritornare ai propri cari e alla propria casa. Avvenne cosi uno slancio di generosità verso coloro in cui ogni madre, padre e fratello vedeva un proprio caro nelle stesse condizioni. Furono donati vestiti vecchi e nuovi, camicie, maglie e tutto ciò che serviva a sostituire quella divisa che li avrebbe denunciati. Solo la disperazione e la fortuna poteva aiutare questi ex soldati”.

Anche il giovane Sabbìa scampò in modo fortunoso al destino dei militari di Banne avviati alla deportazione in Germania. Forse ci riuscì proprio fuggendo nel corso della marcia verso Postumia e fu uno dei tanti “soldatini delle isole” che beneficiarono del soccorso della popolazione triestina. Dalla città giuliana ebbe così inizio il suo lungo viaggio di ritorno verso la Sicilia, costantemente accompagnato dai timori per la sorte dei suoi cari di cui da mesi non aveva più notizie. Quello di Cosimo fu un cammino estenuante fatto di solitudine, di fame e di freddo, di nascondigli precari e di paura, ma anche di solidarietà che certamente incontrò lungo tutta la sua strada. Probabilmente il giovane entrò in contatto con altri sbandati come lui o con i gruppi di partigiani, che sempre più numerosi stavano organizzando la Resistenza. Per qualche tempo rimase con loro per poi riprendere, impaziente, il suo viaggio. Certamente furono il cibo e il riparo che ricevette con generosità percorrendo l’Italia da nord a sud, che gli permisero di sopravvivere a un duro inverno e di arrivare in Toscana, dove la sua pazza fuga si concluse con la fucilazione.

Cosimo fece la sua comparsa tra i reduci sbandati a Montegonzi, alla fine del Marzo 1944. Non sappiamo seguendo quali percorsi fosse giunto in questo piccolo borgo della Toscana orientale. È plausibile che lungo

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la sua strada, il giovane avesse incontrato uno o più soldati toscani, forse delle province di Siena o di Arezzo, come lui di ritorno dal fronte, e avesse deciso di fare parte del suo cammino con loro, che conoscevano il territorio e sapevano come muoversi in sicurezza. Difatti, quando la gente del posto cominciò a notarlo, il giovane era sempre in compagnia di un uomo che pare risiedesse nella vicina San Giovanni Valdarno. Alcuni testimoni ipotizzano che Cosimo provenisse da Fabbrecchi, località sul versante senese dei monti del Chianti non molto distante da Montegonzi, dove per un po’ di tempo si sarebbe unito a un gruppo di partigiani che operava nella zona. Il fatto che il giovane possedesse una pistola sembra deporre a favore di questa ricostruzione, che tuttavia non è possibile confermare. Quell’arma suscitava paura nella gente che incrociava il soldato fuggiasco e in molti lo avevano esortato a sbarazzarsene o quantomeno a tenerla ben nascosta. Ma Cosimo non era prudente, non voleva saperne di disfarsi della piccola pistola che aveva con sé, non se ne separava mai, la considerava il suo lasciapassare nel lungo e rischioso cammino che aveva intrapreso per tornare a casa dalla moglie e dal figlio. Tenere l’arma gli infondeva sicurezza, lo faceva sentire protetto, nonostante, come raccontava lui stesso, in canna ci fosse un solo colpo. Coloro che conobbero il giovane siciliano riferiscono che il suo cruccio più grande non era la vita stentata ed esposta al pericolo che conduceva nei boschi, ma il pensiero del viaggio lungo e insidioso che ancora lo attendeva per raggiungere la sua isola. Il ragazzo, nelle chiacchiere che scambiava con gli altri sbandati e renitenti che si nascondevano con lui, si diceva fiducioso di riuscire a cavarsela e di fare ritorno a casa. Per proseguire il suo cammino aspettava soltanto il passaggio del fronte, dato ormai per imminente. Sabbìa, intenzionato a non correre inutili rischi, evitava accuratamente di farsi vedere in paese, stava nascosto nelle fasce boschive montane e solo spinto dalla fame si avvicinava alle abitazioni della campagna. La zona entro cui si spostava era quella delle case sparse di Busi, Poggio alle Monache, Casa alVento, La Forra e Vecciale. Il soldato si recava nei poderi alla ricerca di cibo e piccoli favori. Di lui si dice che fosse benvoluto per quel suo speciale carattere allegro e scherzoso, grazie al quale, generalmente, nessuno si rifiutava di aiutarlo. Tuttavia la sua presenza era anche fonte di apprensione nelle famiglie che lo assistevano, esposte alle possibili ritorsioni fasciste.

La vigilia di Pasqua, intorno a mezzogiorno, Cosimo e il sangiovannese che stava con lui gironzolavano nelle vie del Poggio alle Monache in cerca di ospitalità. I due, dopo il rifiuto ricevuto nelle altre abitazioni, si erano

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affacciati alla porta di una delle ultime case del borghetto, insistendo per entrare. Avevano un coniglio e chiesero alla padrona di casa il permesso di poterlo cuocere e mangiare nella sua cucina. Fu Cosimo a dirigere le operazioni. Annunciò di voler preparare gli gnocchi, si fece dare acqua e farina e abilmente stese e tagliò l’impasto. Mentre il coniglio cuoceva lentamente sul fuoco, si rivolse al suo amico dicendo: “Vedi che ti conviene stareconme,perchémangicicciatuttiigiorni!”. AncheilcompagnodiCosimo era armato. Dalla sua cintura spuntava una grossa rivoltella a tamburo che non si curò di nascondere, suscitando un vago timore nella donna e nel bambino che li avevano accolti. Subito dopo il pasto, i due lasciarono la casa e silenziosamente si dileguarono nella campagna. Sull’uomo che era con Sabbìa in paese, dopo i tragici fatti, si mormorò a lungo ipotizzando che il basista, la spia dei repubblichini fosse lui, perché fu l’unico, tra coloro che si trovavano nella pista da bocce della Forra nel corso del rastrellamento, a cui non venne torto un capello. Del resto si è anche parlato di delatori del posto, che avrebbero fatto intervenire la milizia per ripulire i boschi dagli sbandati che vi si nascondevano. C’è chi fa risalire la denuncia alla partecipazione dei ragazzi che erano alla macchia alla prima messa del mattino di Pasqua. A quanto si sa, questi giovani forestieri si mostrarono in Chiesa per comunicarsi, e forse la loro presenza suscitò paure tali, da indurre qualcuno a richiedere l’intervento delle autorità. Comunque sia, è un dato di fatto che in quegli stessi giorni di aprile, i rastrellamenti si susseguirono ininterrottamente nelle frazioni montane di molti comuni toscani e lasciarono sul campo un numero spaventoso di morti, soprattutto civili inermi. Queste azioni quasi simultanee erano frutto di una vera e propria strategia di guerra, volta a fiaccare i partigiani e le popolazioni civili delle montagne che davano loro sostegno e rifugio, per rendere sicuro il passaggio delle truppe tedesche verso nord, in caso di ritirata.

Dare conto con precisione dell’operazione militare che quel martedì 11 aprile 1944 ebbe luogo nella pista da bocce della Forra, è praticamente impossibile, perché dei momenti drammatici e concitati che portarono alla fucilazione del Sabbìa, esistono solo versioni frammentarie, nebulose e spesso discordanti, frutto di testimonianze indirette dei racconti di coloro che erano presenti.

Secondo la narrazione più accreditata, quando gli uomini della guardia nazionale piombano nella pista da bocce, insieme a Cosimo Sabbìa, ci sono Beppe e Duilio Manganelli, che abitano con la famiglia nel vicino podere della Casa al Vento, Santi Ruggeri, renitente alla leva, e il sangiovannese

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che si accompagnava con Cosimo. I repubblichini, provenienti dalla vicina fattoria, dopo aver visto i giovani intenti a giocare, entrano nella pineta e li raggiungono. Presi dal gioco, i ragazzi non si accorgono del loro arrivo e non tentano neppure di darsi alla fuga. I militari chiedono ai presenti di identificarsi. Sabbìa forse non ha i documenti o non li vuole mostrare, perché sa di essere un fuggitivo. L’eloquio ne rivela l’origine meridionale, dunque è evidente che non è uno del posto e si sta nascondendo. Inoltre ha in tasca la pistola, indizio sicuro della sua militanza partigiana. In un gesto di disperazione il giovane tenta di disfarsi dell’arma scagliandola lontano, ma i soldati gli sono addosso e lo immobilizzano. Agli uomini della brigata “Ettore Muti” appare chiaro che Cosimo è un vigliacco che ha abbandonato l’esercito, un disertore, per il loro modo di vedere la questione, uno dei ribelli che stanno cercando. Decidono che va immediatamente passato per le armi, così da essere di esempio e monito per il paese intero. Lo invitano a girarsi, ma il giovane è impietrito e non si muove; lo costringono a voltarsi, lo spintonano per allontanarlo e lo mitragliano alla schiena. Cosimo cade, rotola giù dal pallaio, ma è ancora vivo e uno dei repubblichini gli esplode in testa il colpo di grazia: è così che devono morire i traditori.

Anche Santi Ruggeri è invitato ad allontanarsi. Il giovane capisce che vogliono finirlo come Cosimo, che gli è caduto morto ai piedi. Titubante e malfermo sulle gambe, muove qualche passo incerto. Questa esitazione innervosisce i militari che lo richiamano indietro e lo colpiscono alla testa con il calcio del fucile. Nel pallaio, intanto, attirato dal fragore degli spari è sopraggiunto il comandante del battaglione, uno dei pochi in quella mattina che pare conservare una certa dose di lucidità. L’uomo intima ai suoi di cessare immediatamente il fuoco, perché capisce che gli animi sono surriscaldati e la situazione potrebbe precipitare, coinvolgendo nella sparatoria anche i ragazzi Manganelli che, palesemente, sono “soltanto bambini”. L’ufficiale, con durezza e decisione, riporta la calma tra i soldati, alterati dall’alcool e accecati dal fanatismo ideologico. L’ammonimento del comandante ristabilisce l’ordine evitando che sia compiuta una carneficina. Allontanati i fratelli Manganelli e tratti in arresto nella fattoria della Forra Santi e l’altro uomo presente nel pallaio, i repubblichini riprendono il cammino verso il paese incendiando, poco distante, le capanne di Pretasciona, che credono il covo di partigiani e disertori.

Cosimo Sabbìa rimane steso a terra, riverso nel fosso di scolo dov’è caduto. Il suo cadavere giace abbandonato a se stesso, mentre intorno, dopo tanto clamore cala un cupo silenzio di morte, interrotto soltanto dal

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suono delicato del vento primaverile che attraversa i pini.

I soldati in marcia verso Montegonzi portano la notizia che alla Forra è stato ammazzato un giovane. Tra la gente comincia a circolare con insistenza la voce che il ragazzo giustiziato a sangue freddo sia Santi Ruggeri. Santi è uno dei cinque figli di Emilio, il postino del paese. Ad avvertire la famiglia della tragedia che si è appena consumata è Narciso Ricci, becchino di Montegonzi. Il Ricci si presenta a casa Ruggeri ed esorta Emilio a correre alla Forra, perché il morto di cui si vocifera è suo figlio Santi. Emilio distrutto dalla notizia si precipita fuori, ma fatti pochi metri gli mancano le forze, non riesce a proseguire ed è costretto a tornare sui suoi passi.

Una delle sorelle di Santi, Emilia, apprende direttamente dai repubblichini che incrocia per strada che c’è stato un morto. Emilia sa che il fratello, renitente alla leva, si nasconde nei boschi della Forra e va spesso a giocare a bocce con Beppe e Duilio Manganelli, per questo teme il peggio e corre verso la pineta seguita dall’altra sorella, Laura. Il sollievo e la gioia che provano le ragazze nel vedere che il morto non è Santi, si tramuta ben presto in sgomento e pietà per quel soldato forestiero che giace esanime in un letto di aghi di pino, rannicchiato, un braccio levato in alto sulla testa e la camiciola grigioverde sollevata sulla schiena. Cosimo stringe tra le mani irrigidite dalla morte, quasi in un’ultima, muta preghiera di aiuto, una figurina di gesso di Sant’Antonio abate. Emilia e Laura non sanno che quella statuina era il suo talismano, il dono della madre per proteggere il cavallino che lo accompagnava nei solitari e rischiosi spostamenti nella piana di Catania, l’animale fedele e intelligente a cui era affidata la sicurezza del suo viaggio.

Nelle ore che seguono, la pista da bocce della Forra diventa meta dei curiosi che accorrono per vedere il morto. Confuso tra la gente c’è anche un bambino. La madre lo ha portato con sé per dare l’ultimo saluto a quel giovane allegro, che spesso si recava a casa loro, nel podere di Busi, alla ricerca di cibo. La scena che si presenta davanti al piccolo è raccapricciante. L’immagine di quel corpo martoriato gli apparirà continuamente nel corso di quella notte, come un incubo a occhi aperti, impedendogli di dormire e fissandosi per sempre nella sua memoria. Il cadavere di Cosimo tormenterà a lungo quel bambino e cesserà di comparirgli in sogno solo molti anni più tardi, ormai adulto e padre di famiglia.

Cosimo Sabbìa rimane riverso a terra, là dov’è caduto, fino al pomeriggio inoltrato, quando arrivano alcuni confratelli della Compagnia

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della Santissima Annunziata, portando una lettiga. Hanno ottenuto dai repubblichini il permesso di rimuovere il cadavere per trasferirlo al cimitero. Il parroco non è con loro, ma il camerlengo della Compagnia, ha portato con sé un libro di preghiere e legge una breve orazione funebre davanti al corpo dello sfortunato giovane. Nel momento in cui il Sabbìa viene girato e adagiato sulla barella, le ferite all’addome si rivelano in tutta la loro gravità. Cosimo è carne da macello, dilaniato dalle pallottole che gli sono esplose nelle viscere.

Il mesto corteo funebre lascia la pineta della Forra e si dirige verso il paese. Gli uomini e i ragazzi, che timidamente sono tornati a popolare la pista da bocce di Montegonzi, assistono al passaggio della lettiga con la salma di Sabbìa, diretta verso il cimitero. Subito dopo, al termine di un’intera giornata di follia criminale, la Guardia Nazionale Repubblicana lascia finalmente il paese, portando via un carro carico di viveri sequestrati alla Forra. Con i soldati c’è Santi Ruggeri, ha la testa bendata ed è in stato di fermo. Seduto comodamente sul carro, si trova lo sconosciuto che si nascondeva nei boschi insieme a Cosimo. In coloro che lo vedono andare via con la milizia è allora che prende corpo l’idea che sia una spia, un infiltrato, e che si debba a lui l’orrore senza fine di quella giornata. Nessuno in paese lo rivedrà mai più.

Dietro alla barella su cui giace il cadavere di Sabbìa, si forma un piccolo corteo spontaneo che accompagna il giovane siciliano nel suo ultimo viaggio. Forte è l’emozione che suscita quel povero corpo straziato e rattrappito con indosso una lacera camiciola dell’esercito e i pantaloni di uno sbiadito color grigio-azzurro. Con la tumulazione si chiude la storia di Cosimo. Il giovane fuggitivo viene sepolto da quella gente semplice che l’ha accolto da vivo e se ne prende cura ora che è morto. Il disperato viaggio che ha intrapreso per tornare a casa finisce così, lontano dai suoi affetti più cari, in quell’angolo remoto della terra di Toscana, generosa e crudele al tempo stesso, dove si è trovato a transitare andando incontro al suo destino, come in un fatale appuntamento.

Il priore di Montegonzi annota nel registro parrocchiale delle morti: “L’anno del Signore millenovecentoquarantaquattro il dì undici del mese di Aprile ha reso l’anima a Dio, Cosimo, di condizione soldato fuggiasco... barbaramente trucidato dai sicari del Battaglione Ettore Muti della Guardia Nazionale Repubblicana, proveniente da Modena e di stanza al villaggio di S. Barbara, presso Castelnuovo dei Sabbioni… Il cadavere fu associato alla Chiesa del cimitero” e sepolto il “dì dodici del mese di Aprile del

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millenovecentoquarantaquattro”.

A sepoltura avvenuta, su Cosimo Sabbìa calò rapidamente l’oblio. Per lungo tempo nessuno pensò più che nel piccolo camposanto del paese riposava un soldato forestiero, tanto che la morte del giovane siciliano fu comunicata alle autorità municipali di Cavriglia, e da qui a quelle di Catania e alla famiglia, solo nel 1951, a distanza di ben sette anni dagli avvenimenti che ne furono la causa. Quest’ultimo è forse l’aspetto dell’intera vicenda legata al rastrellamento che, a posteriori, appare più sconcertante, ma che niente ha a che vedere con l’indifferenza, e si spiega collocando l’episodio nell’ambito degli eventi che si susseguirono a Montegonzi fino alla fine della guerra. Una tale rimozione collettiva di quel fatto di sangue, si comprende solo se inquadrata nel complicato e terribile periodo in cui esso ebbe luogo. Era il momento cruciale del passaggio del fronte in Toscana e il paese fu interessato da una continua e cospicua affluenza di profughi e sbandati e dai movimenti delle truppe regolari dell’esercito tedesco. Per comprendere il clima di terrore in cui visse la popolazione in quei mesi, è utile la testimonianza resa dal parroco, Ermanno Grifoni, nel novembre del 1944, nell’ambito dell’inchiesta aperta dalla polizia militare britannica per fare luce sulle stragi nazifasciste che si erano susseguite in Toscana nell’estate appena trascorsa. Il prete racconta che il 1° luglio giunsero a Montegonzi un’ottantina di uomini della divisione tedesca Hermann Goering. I militari, al comando di un certo maggiore Seiler, arrivati a bordo di moto e camionette, furono alloggiati nella scuola, mentre gli ufficiali si acquartierarono nel Cassero, l’antica fortificazione trasformata in villa padronale che domina il paese. Don Grifoni, quella sera stessa, fu convocato al castello. Dice il prete: “Come entrai nel giardino, vidi un uomo con indosso un’uniforme da ufficiale tedesco. Quando l’ufficiale mi vide, mi fece un cenno. Mi avvicinai e mi disse: “Sono il Comandante dei soldati tedeschi che sono arrivati oggi. Ci sono partigiani qui? Se è così, le faccio sapere che qualsiasi attacco dei partigiani contro i miei soldati mi costringerà ad effettuare una rappresaglia come ho fatto a Civitella della Chiana”. Ho assicurato al Maggiore che non c’erano partigiani e che la popolazione era pacifica. Egli si dimostrò apparentemente soddisfatto tanto da permettermi di andarmene”. La sera del 3 luglio, un numero imprecisato di tedeschi lasciò il paese, e il giorno seguente questo gruppo di militari prese parte alle terribili stragi di Castelnuovo dei Sabbioni e di Meleto. Compiuti i massacri, gli uomini di Seiler se ne andarono da Montegonzi, sostituiti, nel pomeriggio del 6 luglio, da un altro contingente di soldati al comando

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del maggiore Graf. I militari rimasero alloggiati in paese per più di una decina di giorni, poi, intorno al 20 luglio, in una notte terribile, scandita dal suono metallico degli scarponi dei soldati in marcia, gli abitanti di Montegonzi, nascosti nelle case e nei rifugi, sbirciando dalle imposte socchiuse, assistettero al transito dell’esercito tedesco in ritirata dalle colline di sud-ovest, verso Firenze e il settentrione. Era l’ultimo atto del passaggio del fronte, la liberazione, consacrata qualche giorno più tardi, il 24 luglio, dall’arrivo in paese delle truppe britanniche. Con il progressivo spostarsi del fronte verso nord, la circolazione dei profughi e degli sbandati si intensificò. I reduci transitarono in un flusso ininterrotto per tutto il 1945 e oltre, chiedendo cibo e riparo. Occorsero due anni, dal tragico aprile 1944, perché la situazione si normalizzasse.

Così, la straordinarietà degli eventi legati al passaggio del fronte, fece sì che anche la drammatica morte del giovane Sabbìa cadesse temporaneamente nell’oblio. Di Cosimo si ricominciò a parlare a guerra ormai finita, quando le autorità militari, premute dalle famiglie in ansia per la sorte dei loro congiunti, cominciarono la ricerca dei soldati che non avevano fatto ritorno a casa.

Identificare il forestiero sepolto nel cimitero di Montegonzi fu complicato e richiese del tempo. Di lui in paese erano noti con certezza solo il nome di battesimo e la città di provenienza. Sul cognome si crearono invece quegli equivoci che costituirono l’ostacolo maggiore al suo riconoscimento. Nel registro parrocchiale delle morti, compilato subito dopo la sua sepoltura, al giovane venne attribuito il cognome Sarri. A generare ulteriore confusione sulla sua identità, provvide poi il cippo commemorativo eretto nel dopoguerra, che attestava il sacrificio di Cosimo Sabbi. A quanto pare furono necessari sette anni per giungere a identificare nel soldatino assassinato alla Forra il carrettiere catanese Cosimo Sabbìa, disperso in guerra fin dal 1943.

Angelina aspettò a lungo il ritorno di Cosimo, nell’incertezza se il marito fosse vivo o morto, e se lei dovesse considerarsi ancora una giovane moglie o piuttosto una giovane vedova, mentre con l’inevitabile lentezza della burocrazia dell’immediato dopoguerra, le autorità civili e militari, impegnate a rintracciare migliaia di soldati dispersi, tentavano di fare luce anche sulla sorte del soldato Sabbìa. Il primo passo in questa direzione fu compiuto nel febbraio del 1947, con l’atto notorio della pretura di Catania che lo dichiarava ufficialmente disperso “in seguito a eventi bellici avvenuti in Italia”. A partire da questo atto notorio, nel marzo di quello stesso anno

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il comando del distretto militare di Catania redasse la dichiarazione di irreperibilità, nella quale si legge: “… Il militare soldato Sabbìa Cosimo ... già appartenente al 5° Genio Guastatori Trieste – è stato dichiarato disperso in data imprecisata del 1943… Essendo trascorsi più di tre mesi dalla sua scomparsa, risultando che le ultime ricerche ed indagini, esperite in ogni campo e sotto ogni forma, sono riuscite infruttuose nei di lui riguardi e che pertanto non è stato possibile nel frattempo conoscere se egli sia tutt’ora in vita o sia in effetti deceduto, viene redatto il presente verbale di irreperibilità”.

I familiari ebbero certezza della sorte di Cosimo soltanto nel 1951, quando dal Comune di Cavriglia fu trasmesso a quello di Catania l’atto di morte del giovane, con la dichiarazione resa dai testimoni sulla sua tragica fine: “L’anno millenovecentocinquantuno, addì dieci del mese di Novembre, nella Casa Comunale, davanti a me Brunetto Nesterini, impiegato ufficiale dello Stato civile del Comune di Cavriglia, per delegazione avuta dal Sindaco, sono comparsi: Valentini Dino, operaio… e Filippi Olinto, agricoltore… i quali alla presenza dei testimoni Veneri Bruno e Ravenni Miranda..., mi hanno dichiarato quanto segue: Il giorno undici del mese di Aprile dell’anno millenovecentoquarantaquattro alle ore dieci e minuti trenta, in questo Comune, in frazione Montegonzi, località “La Forra”, mitragliato da un reparto della Guardia Nazionale Repubblicana in una operazione di rastrellamento è morto Sabbìa Cosimo dell’età di anni venti cittadino italiano, residente a Catania, di professione carrettiere, nato a Catania da Luciano e da Armando Elvira e che era coniugato con Lo Verde Angela. Prima di fare la presente denuncia di morte è pervenuta al Comune di Cavriglia, copia di sentenza pronunciata dal Tribunale civile e penale di Arezzo…colla quale sono autorizzato a ricevere la tardiva dichiarazione di morte...”.

Ancora oggi, a distanza di oltre settant’anni da quei fatti, le spoglie di Cosimo riposano nel cimitero del paese, nell’ossario comune. Alcuni testimoni dicono che una donna, forse la vedova, venne a Montegonzi per dare l’ultimo saluto al giovane soldato, ma versando in ristrettezze economiche non poté trasferirne la salma. Non sappiamo se questo ricordo corrisponda a verità e non è confermato dalla famiglia. È invece certo che il tempo e il fluire della vita allontanarono progressivamente la figura di Cosimo dall’esistenza della moglie. Nel 1958 Angela si risposò e con il figlio adolescente abbandonò per sempre la Sicilia, lasciandosi alle spalle il suo fardello di dolore.

Si racconta che i comuni di Cavriglia e di Catania, a distanza di quarant’anni dai tragici eventi dell’aprile 1944, si siano adoperati per

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rintracciare i familiari del Sabbìa con l’intento di restituire loro la salma del giovane caduto nel corso di una commemorazione pubblica, alla presenza delle autorità civili e militari. I familiari declinarono l’invito, adducendo l’impossibilità a spostarsi dal luogo di residenza e ricusando qualsiasi celebrazione. Il ricordo di Cosimo, in chi lo aveva amato, sbiadiva ormai in un passato lontano e doloroso. Troppo tempo era ormai trascorso dalla sua tragica morte e quella distanza aveva scavato un solco profondo e incolmabile tra il giovane soldato e la sua famiglia. Agli occhi di chi non ha vissuto esperienze così dure può apparire incomprensibile che i familiari non trovino il modo di rendere un ultimo omaggio al loro defunto. In realtà, non è affatto un caso isolato. A molti umili è negato perfino il lusso di rielaborare il lutto nelle forme che noi consideriamo doverose. È anche questo il frutto avvelenato di un dolore vissuto come un torto subito dalla vita, a cui non si può porre riparo, una ferita faticosamente richiusa, che non deve sanguinare di nuovo. Angela, nei lunghi anni di vana attesa di quel marito tanto amato, può aver maturato la convinzione che Cosimo l’avesse abbandonata e si fosse rifatto una famiglia lontano dalla Sicilia. Questa drammatica sensazione di abbandono forse perdurò in lei anche dopo aver saputo a quale tragico destino fosse andato incontro il suo giovane sposo, colpevole ai suoi occhi, se non di averla dimenticata, di essersi fatto ammazzare, lasciandola a crescere il loro unico figlio in una disperata solitudine. Tuttavia Cosimo non è mai stato solo nel cimitero di Montegonzi e la sua tomba per molti anni ha interrogato più di una generazione sul senso ultimo della vita e della morte in tempi di guerra. All’umile croce di ferro che indicava la sua sepoltura, a lungo è rimasto legato un nastro tricolore per ricordare che lì giaceva un soldato di vent’anni, una delle tante vittime del passaggio del fronte in Toscana.

Ciò che resta oggi della storia di quello sfortunato ragazzo siciliano si trova nella quieta ombra della pineta della Forra. In prossimità del luogo in cui cadde colpito a morte, ai piedi di quella piccola pista da bocce ormai inghiottita dal tempo e dalla vegetazione, il cippo eretto in sua memoria, simbolo di una giovane vita spezzata, recita: Sabbi Cosimo barbaramente ucciso, morto l’11 aprile 1944. Gloria ai caduti della libertà.

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Se mai la guerra passasse di qui

Prefazione

I fatti che seguono mi sono stati riferiti da una delle protagoniste, Gigliola Brini, che all’epoca – era il 1944 – aveva dodici anni. Gigliola fa parte di una grande famiglia borghese, con una lunga storia alle spalle. Quieta e solare signora di ottantatré anni, cordiale e aperta al mondo, vive tra Siena e Scorgiano, sulla Montagnola senese, dove la famiglia possiede una bella tenuta. Questi luoghi, sono lo scenario dei fatti vissuti da lei e i suoi cari, nei giorni tra il 30 giugno e il 2 luglio 1944, quando la liberazione di Siena, da parte degli alleati, era ormai prossima. Ho conosciuto Gigliola proprio a Scorgiano, durante una delle mie frequenti escursioni alla scoperta dei borghi più nascosti della splendida regione in cui sono nata e vivo tuttora. Mi capita spesso, quando incontro luoghi dove si respira l’atmosfera di tempi lontani, d’interrogarmi su cosa sia successo lì, proprio lì, durante l’ultima guerra. Quella che, più di tutte, ha segnato la storia recente dell’umanità. Ho chiesto allora a Gigliola di parlarmi di quegli anni, e, insieme abbiamo scelto di narrare l’episodio della fuga da Scorgiano. La testimonianza che segue è stata raccolta il 3 novembre 2015, presso la sua casa di Siena. ***

Arrivo un po’ infreddolita in Via dei Termini: già in autunno, le strette strade di Siena sono piuttosto fresche. Suono al portone di un antico palazzo e varco l’androne, tipico di questi storici edifici. Salgo al primo piano e trovo Gigliola, sorridente, sulla soglia del grande appartamento di famiglia. Ci accomodiamo nel soggiorno, ampio e con grandi finestre. Siamo nel centro di Siena; si scorge dai vetri, vicinissima, la sommità della Torre del Mangia. La stanza è luminosa, nonostante il cielo oggi sia grigio. Ogni oggetto, ogni arredo, presenti in questa stanza, mi parlano di coloro che qui hanno vissuto.

Prendo posto su un piccolo divano; Gigliola si siede su una poltrona, di fronte a me. Mi accingo a registrare sul dittafono il racconto che tra

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poco ascolterò e – non si sa mai – accendo anche il mio iPad, così da poter disporre di una copia di riserva. Gigliola è un po’ emozionata: non ha dimestichezza con le interviste; quindi la rassicuro e faccio il possibile per metterla a proprio agio. Mi mostra subito due vecchi quaderni, che recano, inequivocabili, i segni del tempo. «Finita la guerra – mi spiega – scrissi una cronaca della fuga da Scorgiano, come compito in classe, a scuola. Se vuole, le leggo qualcosa». Penso sia davvero una fortuna potersi avvalere di una tale risorsa e la invito, quindi, a tenere pronti i preziosi quaderni e a iniziare, intanto, a raccontarmi ciò che accadde in quei giorni lontani. «Nel giugno del 1943, come di consueto, ci trasferimmo dalla città alla campagna, per le vacanze estive, ma in autunno non rientrammo a Siena, come sempre facevamo. La guerra, ormai, era arrivata anche da noi. Non erano più i tempi in cui si diceva “Se mai la guerra passasse di qui…”. Ricordo che saltò un treno di munizioni a Castellina Scalo e noi si sentì benissimo; si vide questo gran fumo, dietro al Montemaggio. Insomma, passata l’estate, i genitori decisero di restare a Scorgiano: lì si sentivano più al sicuro, e poi avevano raccattato un sacco di sfollati, tra cui i parenti di Genova e quelli di Livorno. Ormai, avevano bombardato anche qui a Siena, la Stazione, Camollia… Nell’appartamento al primo piano di questo stabile, dove ci troviamo ora, avevamo accolto due famiglie di sfollati che stavano in Camollia e che avevano avuto guai alle abitazioni. Per carità, due famiglie che non ci dettero nessun problema, mio padre le conosceva, non che fossero amici, ma… insomma gli erano stati indicati, consigliati; poi, in quei momenti, uno cerca di accogliere… come a Scorgiano, dove nei vari poderi c’erano ebrei nascosti. Anche i parenti di Livorno, che già erano stati da noi in campagna nell’estate del ‘42, ritornarono quando il pericolo si fece più incombente: erano una famiglia di quattro persone. Venne anche gente sfollata da Colle, addirittura un’officina meccanica. Questi lavoravano per la nostra azienda come meccanici, e quando arrivarono le bombe chiesero a mio padre: “Aiuto, aiuto, ingegnere, non ci ha mica dove ricoverarci?”

Tant’è, che in una delle tinaie fu ricavata un’officina per questa gente; quello che ci veniva a castrare i maiali, invece, fu ospitato nell’appartamento che era dei cocchieri e che era usato molto saltuariamente: papà ci fece venire lui e la sua famiglia. Poi, nel ‘43, da fine dicembre, cominciarono i bombardamenti a Colle e Poggibonsi e crebbe il numero di persone che chiedevano aiuto e ospitalità. Alla fine di giugno del 1944, irruppero in fattoria i soldati tedeschi che requisirono la villa, con la motivazione di dovervi allestire un ospedale. Secondo loro, potevamo arrangiarci al piano

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di sopra, ma avvertirono che c’era pericolo piovessero delle granate (cosa che poi, per fortuna, non accadde). Io, poi, non credo abbiano fatto a tempo a impiantare quest’ospedale, perché furono costretti a smobilitare abbastanza presto. Fatto sta che, in pratica, nel giro di un pomeriggio fummo messi fuori; ma avremmo deciso comunque di andarcene, giacché a mio padre non parve cosa sicura restare lì, in quelle condizioni. L’idea era di fermarsi sul Montemaggio nell’intervallo fra la ritirata dei tedeschi e l’arrivo degli alleati, e poi – siccome le voci facevano presupporre che la liberazione di Siena fosse vicina – di far ritorno a Scorgiano. La sera del 30 giugno, quindi, partimmo dopo un lungo pomeriggio di preparativi, durante il quale fu caricato anche un carro con la roba necessaria. Saranno state le 22.00; ci vollero un paio d’ore per arrivare a Nagli, che era la nostra mèta. Era tutta salita. Prima, si scese giù per quella strada, che va verso il borro di Poggirosso, per poi risalire nella vecchia strada per Siena – che era già impraticabile a quel tempo, non ne parliamo ora – e infine uscendo, un po’ sulla destra, c’è questa cappellina di Nagli che mio padre conosceva; ci si andava a fare i pic-nic, e in quell’occasione la usammo come rifugio. Si era in ventotto persone: tutta la mia famiglia, i vari parenti, il personale di fattoria e quello di servizio. La nostra cameriera, addirittura, prese il gatto persiano e se lo portò fin lassù nel cestino, per tutta la strada; la stessa cosa fece la governante della mia zia, con un’altra gattina. Quella, però, al tonfo del cannone si spaventò, fuggì dal cesto e fu una gran tragedia per la zia. La gatta, si seppe poi, riuscì a tornare in fattoria: aveva ritrovato la strada di casa, povera bestia. Insomma, si partì ognuno col suo sacco, e il carro appresso: certo, nessuno si era portata dietro la camicia da notte o il pigiamino, avevamo l’indispensabile, si dormiva vestiti; avevamo soprattutto roba da mangiare... anche perché noi non possedevamo tessere annonarie. Come produttori, noi si versava un certo contingente di grano all’ammasso, come si diceva allora, e quello che si tratteneva si macinava e ci si faceva il pane e la pasta. Mi ricordo che i primi di giugno si andò a cavare delle patate che erano piccoline così, perché chiaramente non avevan fatto in tempo a crescere. Insomma, via… la paura era di non avere da mangiare! Ricordo che quel giorno portammo, tra le altre cose, del latte in polvere e una latta così di acciughe sotto sale, ché ci si faceva colazione Laura, le mie cugine e io».

Gigliola ride a ripensare alla latta di acciughe. Penso che chi, come me, non sa cosa significhi la penuria di cibo, forse non comprende appieno la sensazione che questa donna, minuta e gentile, possa provare nel rievocare

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la visione di quei momenti, in cui anche avere un cibo così povero da mangiare recava conforto e sicurezza.

«Mio padre arrivò con un tascapane e un sacco, dove aveva messo un prosciutto disossato: probabilmente, la sera stessa che ci buttarono fuori, aveva incaricato qualcuno affinché provvedesse anche a questo. Infatti, io poi nel mio tema di scuola scrissi che si fece il brodo con un osso. Dicevo, si arrivò a destinazione con questo carro tirato da due vacche, e gli uomini tornarono in giù il giorno dopo, col carro vuoto, per caricarvi altra roba: materassi e coperte, più che altro, per dormire più comodi, pensando soprattutto alle persone anziane. Perché, mi ricordo benissimo, come unica coperta la prima notte s’aveva il cappotto di mia madre. Di notte, anche se era estate, faceva freddo. Noi si dormì lassù, la notte del 30 e quella tra il 1 e il 2 di luglio, e poi si ripartì per Siena. Evidentemente gli uomini – c’erano mio padre e due zii, oltre al nonno – decisero che la situazione era troppo rischiosa: stare lì, in questa cappellina in mezzo ai boschi… e poi si era molto arrangiati. Infatti, qui nella cronaca scrivo che la prima notte non si era dormito per nulla. Ricordo che quando arrivammo, trovammo già sul posto alcune persone della fattoria che ci avevano preceduto: avevano tagliato un po’ di frasche e approntato questi giacigli, chiamiamoli letti… ma eran parecchio duri per le mie abitudini! Però, arrivati stanchi morti, uno si butta lì e spera in Dio di addormentarsi».

Mentre osservo Gigliola, provo a immaginarla bambina: le chiedo di raccontarmi com’era da piccola, e come ha vissuto quel lungo, difficile periodo. Si descrive vivacissima, un po’ un maschiaccio: si arrampicava volentieri sugli alberi, cavalcava il ciuco sardegnolo, e faceva scorribande in bicicletta, con la sorella, per tutta la tenuta. Crescendo, ha sviluppato però anche un bisogno di riservatezza, e mi racconta che spesso saliva in cima agli alberi a leggere un libro, in solitudine. Ha vissuto il tempo di guerra senza eccessivi traumi, come fosse una cosa lontana, che mai sarebbe arrivata a turbare il suo mondo. Quando giunse il passaggio del fronte, iniziò a vivere maggiore tensione – il pericolo era vicino, reale – ma dato il carattere piuttosto ottimista, non si è troppo disperata. Sempre positiva nell’approccio alla vita, mai troppo preoccupata per se stessa, casomai più per gli altri. Ricorda con molta chiarezza la vicinanza che provava per le persone che a Scorgiano si erano rifugiate. Ricorda ancora che nutriva un profondo sentimento di solidarietà verso tutti coloro che si trovavano in pericolo. A questo punto penso sia interessante rievocare i ricordi, anche leggendo le parole scritte da lei ragazzina. La invito quindi a cercare tra le

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pagine ingiallite dei quaderni che tiene in grembo, quella cronaca redatta nell’autunno del 1944, una volta ripresa la scuola.

«Eravamoinventotto,poichéeravenutaconnoianchelafamigliadelnostro fattore, siamo andati lassù portando con noi un carro di roba sul quale erano damigiane di acqua per lavarsi e per bere e roba da mangiare, pentole, ecc. Io arrivai là di notte insieme alla mia famiglia, mentre verso le sei del pomeriggio erano partiti zio Sandro, zioTato, il nonno e la famiglia del fattore. La prima notte non dormii affatto, perché le cannonate in partenza ci fischiavano sulla testa e, il mucchio di rami di leccio, sul quale avrei dovuto dormire, era molto duro. Mi alzai verso le sei e mezzo e uscii subito a farmi un letto più comodo. Presi l’accetta e andai da Laura e i miei cuginetti, Maurizio e Gianni, e riuscii a fare un bel fastello di foglie bastanti per tutti e quattro. Babbo, zio Sandro e il sottofattore erano partiti per Scorgiano con il carro per prendere qualche materasso e altre cose che ci sarebbero state utili durante il nostro soggiorno nei boschi. “Bisogna fare il fornello, cercate dei mattoni” ci disse lo zio Sandro; noi ci mettemmo alla ricerca e poi riunimmo anche fuscelli secchi. Quando il fuoco fu pronto, andai a prendere una pentola dove avevano messo un osso per fare il brodo. Io ero incaricata di conservare il fuoco mentre gli altri cercavano ramoscelli e mettevano a posto la cappella».

Gigliola sorride con dolcezza e interrompe la lettura:

«Pensi un po’: Il brodo fatto con un osso, per tutta ‘sta gente!»

Tra sé e sé, così commenta il suo componimento:

«Mah, tutto è scritto con una tale tranquillità che non sembra d’aver vissuto delle cose così difficili. Vede, col tono più sereno del mondo intitolo la mia cronaca scolastica “Soggiorno nei boschi”. Ricordo che dicevamo spesso, tra di noi: “Se mai la guerra passasse di qui, come si farà...”. Poi quando è arrivata davvero... non c’è niente da fare, via: quando siamo in ballo, si balla! Oddio, forse a quell’età con una certa incoscienza; certo, i tonfi delle granate si sentivano – facevan paura, non c’è che dire –, ma il comportamento degli adulti durante quei giorni, nel non trascendere in nessuna manifestazione di paura, fu determinante. Furono tutti molto misurati, molto attenti a non spaventare noi ragazzi; non ci fu nessuno di particolarmente isterico».

Riprendiamo la nostra conversazione e Gigliola mi spiega come si svolse la giornata del primo di luglio, al termine della quale fu presa la decisione di partire per Siena.

«Il primo di luglio passò un pochino meglio: si era più organizzati, diciamo così; si mangiò qualcosa, il famoso prosciutto… Gli adulti avevano

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anche provato a chiedere ospitalità, almeno per i vecchi e i ragazzi, presso un vicino podere, ma non fu possibile e tornarono abbastanza delusi. Mentre rientravano alla cappellina di Nagli, attraverso il bosco, raccontarono di aver sentito un colpo di moschetto... Eh! i boschi erano pieni di partigiani. Quest’episodio, comunque, fece intendere che c’erano dei rischi anche a restare lì a Nagli. Si passò la seconda notte lì, cercando di dormire, ma già con la consapevolezza che la mattina dopo conveniva proseguire per Siena. Così il 2 di luglio, intorno alle 8:00, ognuno col suo sacco sulle spalle, si ripartì. Eravamo solo la nostra famiglia e la parentela degli sfollati legati al nucleo familiare; quindi, invece di ventotto anime s’era in diciotto. Il carro, insieme al personale di fattoria, rimase a Nagli. Quella mattina accadde una cosa abbastanza scioccante: cominciarono ad arrivare le granate. S’era ancora nel bosco e si sentì questo fischio, e poi la pioggia delle schegge sugli alberi, e mio padre gridò “A terra!” e giù, tutti sdraiati in terra per benino. Poi, cessato il pericolo, disse: “Proseguiamo”. Quella mattina ci si fermò anche al podere di un contadino che ci dette un po’ da bere. Poi ho un ricordo molto preciso: quando si fu in cima a un colle, in un punto dove si vedeva Siena, si notavano le fumate dei cannoneggiamenti sia verso la parte di Camollia, sia da quella di San Marco e si diceva “E noi di dove si entra?” Questo me lo ricordo nettamente, ma ormai si era lì, la decisione era stata presa, c’era solo da augurarsi che smettessero di cannoneggiare...».

Gigliola mostra qualche segno di stanchezza, mi pare di leggere sul suo viso un’espressione un po’ triste; riprende in mano il suo quaderno e lo sfoglia con attenzione; cerca conferma ai suoi ricordi, riflette, silenziosa. Riprende la lettura, concentrandosi e rendendo la mia esperienza di ascolto più profonda.

«Io cominciai a pensare che non sarebbe stato tanto facile arrivare a Siena poiché era molto lontana. L’avevamo vista dalla cima del Montemaggio e la Torre del Mangia non era molto più alta di quattro dita. A questo punto dei miei pensieri un sibilo acuto fendette l’aria e sentii babbo gridare “A terra!”, ma mi ero già resa conto del da farsi e giacevo bocconi. Uno scoppio vicinissimo, una leggera pioggerellina sugli alberi e poi intorno a noi; erano schegge. Babbo ci consigliò di correre, facemmo tutto il bosco a corsa, buttandoci in terra ogni poco poiché le granate si succedevano».

«A fine mattina del 2 luglio – riprende con calma a raccontare – verso mezzogiorno credo, si arrivò a Pian del Lago, e anche lì cannoneggiavano che era una bellezza, tant’è vero che mio padre preferì deviare per un fosso che attraversava tutto il Pian del Lago, e anche nel fosso ogni poco ci

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si sdraiava, perché spesso fischiavano queste granate sul capo. Insomma s’aveva parecchia paura! E poi il caldo: faceva molto caldo».

Riprende a leggere dal suo quaderno: «Dopo il bosco entrammo nel Pian del Lago; era prudenza camminare nel fossetto a lato della strada e anche lì eravamo costretti a buttarci in terra ogni poco. Una volta, dopo essermi rialzata, guardai indietro e vidi, molto più indietro di noi, ma proprio in mezzo al fossetto, una fumata. Questa si chiama fortuna, pensai».

«Una granata era cascata nel fosso e, se noi si era più indietro, qualcuno chiappava di certo! E poi ci fu l’episodio dei tedeschi che volevano portare via gli uomini. Passato il Pian del Lago, quando uno cominciava a sentirsi riavere perché era fuori dal tiro delle granate, ci fermarono a un posto di blocco tedesco».

Ecco il paragrafo sul suo quaderno, che descrive l’episodio:

«Passato il Pian del Lago, le granate cessarono, ma in compenso ci furono i tedeschi, che arrivati a un certo punto ci dissero: “Gli uomini debbono restare qui”. Noi, che sappiamo un po’ di tedesco, li pregammo di lasciarci andare, ma essi non volevano, fino a che mia cugina che ha nove anni, si attaccò al collo di suo padre piangendo e dicendo: “Papà, papà, non andare via” allora un soldato disse qualcosa a un ufficiale ed egli ci dette il permesso di andare».

Apprendere che i protagonisti della storia, dopo tutte le peripezie trascorse nelle poche ore precedenti, vissero anche la paura fondata, reale, di separarsi forse per sempre, mi colpisce particolarmente. Gigliola sembra comprendere la mia ansia: evidentemente, capisce che condivido con la mente e il cuore quei fatti drammatici, quasi come li vivessi sulla mia pelle. La sua narrazione è fluida, precisa, intrisa di sentimenti diversi. Questo nostro incontro mi conferma che conservare la memoria è operazione necessaria e fondamentale. Che non si deve rimuovere o consegnare all’oblio. E che la guerra è l’errore umano più grave, imperdonabile.

Di nuovo, posato il quaderno, Gigliola riprende il filo del suo racconto.

«In quella circostanza drammatica, la cugina grande, Dora Alice – una ragazza molto intelligente, vent’anni e una parlantina che non le dico – ci venne in aiuto, scongiurando il peggio. Fu grazie al suo intervento che ci salvammo tutti. Quando ci fermarono, fu lei a interloquire con loro, in tedesco. “Da che parte potremmo entrare a Siena?”, chiese. Naturalmente, mio padre, che sapeva il tedesco come tutti noi, stette zitto come l’olio, perché non era certo il caso di mettersi in mostra… e poi c’era lei che come avvocato difensore, diciamo così, era davvero eccezionale. Il soldato le rispose: “Potete passare da Camollia, ma gli uomini debbono rimaner

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qui”. Allora lei cominciò a pensare… ed ecco come riuscì a cavarsela: raccontò a quei soldati che si era fidanzata con un loro commilitone della sedicesima divisione. Non era vero, ovviamente! Disse che lui adesso era in Russia e che lo aveva rivisto solo quando col battaglione erano ripassati da qua. Fu molto convincente, e siccome forniva degli elementi di riscontro veri, tipo l’informazione di questa sedicesima divisione che si era fermata nel senese nel 1942, poi era andata in Sicilia e dopo era ripassata da qui, questi le credettero e, a un certo punto, fecero il gesto di lasciarci passare tutti, compresi gli uomini. Tutti noi si era seguito il discorso, si capiva tutti il tedesco, eccetto Gianna, la piccolina. Solo alla fine intuì ciò che stava succedendo e allora ebbe questo impulso di attaccarsi al collo di suo padre “Papà non andare via! Papà non andare via...”. Fu davvero toccante. Più avanti purtroppo, fummo fermati nuovamente. Dora Alice disse loro che il tenente del primo posto di blocco ci aveva fatto proseguire. Il milite a cui si rivolse, però, non aveva autorità per decidere e le indicò il suo superiore: eran tutti a torso nudo perché faceva un caldo cane; niente mostrine, niente gradi, dimmi te come faceva uno a distinguere tra soldati e ufficiali! Insomma, alla fine furono clementi e ci lasciarono passare. Si accontentarono di sentirsi dire che il tenente del primo posto di blocco si era assunto la responsabilità di farci proseguire, pur senza darci un lasciapassare, dicendoci solo “Andate”, e nient’altro. Se avessimo incontrato un ufficiale di grado superiore, chissà come sarebbe andata a finire... ».

A questo punto della storia, Gigliola ed io decidiamo di fare una pausa.

Si alza dalla sua poltrona, esce dalla stanza e torna poco dopo, con un bicchiere di acqua per me. Me lo porge in modo elegante, su un piccolo piattino di porcellana bianca. Molto cortese, affabile, materna. Si siede di nuovo e di sottecchi prende una ciotolina di metallo che contiene cioccolatini, confezionati in carte multicolore. Me li offre e accetto volentieri; scelgo quello alla nocciola, lo scarto e lo gusto con piacere; lei prende il suo preferito, al latte, e commentiamo, allegre, quanto sia buona la cioccolata, alimento energetico e dal potere rinvigorente, sotto tutti i punti di vista.

Ci avviamo verso la conclusione della storia di questo piccolo e travagliato esodo familiare.

Gigliola conclude così la sua testimonianza: «Oltrepassatiiblocchitedeschi,ciimbattemmoinquellamaledettasalita del Petriccio – che oggi conduce al Park Hotel – e lì gli adulti cominciarono a sentirsi un po’ male; al nonno gli dovettero fare un olio canforato, perché

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non ce la faceva più: il caldo, lo stress; era di pomeriggio, saranno state le 16.00. Giunti finalmente alle porte di Siena, mia sorella ed io, che si aveva ancora un po’ di fiato, si andò un po’ più avanti degli altri e ci si fermò sotto l’Antiporto. Poco dopo, arrivò mio padre e, vedendoci, esclamò: “Che ci fate qui dentro, voi due?” E noi, ingenue e contente, gli si rispose: “Eh, senti che freschino”. “Che freschino d’Egitto!... guardate questi fili: qui è tutto minato! Potrebbe saltare da un momento all’altro!” Via come razzi noi... se lo immagina lei, vero? La distruzione dell’Antiporto, poi, fu evitata dal parroco di Santa Petronilla, che era Don Bruno Franci, un prete davvero molto in gamba. Probabilmente, riuscì a convincere i tedeschi che distruggere l’Antiporto avrebbe di sicuro provocato danni gravissimi e irreparabili anche alla chiesa. Insomma, fatto sta che alla fine non lo fecero saltare.

In quelle ore, ancora era tutto incerto: mica si sapeva che nella notte sarebbero entrati gli americani, e tantomeno nessuno sapeva fino a dove si erano ritirati i tedeschi. Insomma, tutto doveva ancora accadere; era tutto un punto interrogativo. Ricordo che a un certo punto ci si fermò sulle scale della chiesa della Magione, e lì c’erano tutte le donnine che andavano a prendere l’acqua ai fontanelli, in piano – perché l’acqua, in casa, non arrivava più – e, vedendoci, dicevano: “Eh, poerine... di dove vengono? Oddio, icchè hanno fatto?” Chi ci dava il bicchiere d’acqua, chi ci faceva attaccare alla bottiglia… Insomma, si fu molto aiutati. Si doveva avere un aspetto abbastanza tremendo… ». Gigliola sfoglia di nuovo il quaderno, scorre tra le righe, riflette: «Io, qui nella mia cronaca, la chiudo in maniera molto semplicistica, scrivendo così:

”Mia cugina Dora Alice dichiarò che se fosse stata sola non avrebbe mai avuto il coraggio di entrare in Camollia, – per forza con tutte le bombe che s’era visto passare! – viceversa, andò tutto bene e potemmo arrivare tranquillamente a casa nostra, dove i nonni e gli zii ci accolsero a braccia aperte, facendo di tutto per farci scordare i brutti momenti passati...”. Ecco, questa era la mia conclusione di questa vicenda, che mio cugino Maurizio aveva denominato “la passeggiata della morte”».

Gigliola, a questo punto, ride sollevata a rivedersi giunta a casa sana e salva e mi dice che nella notte del 3 luglio – la prima, in cui dormirono di nuovo sotto il loro tetto –, entrarono gli alleati in Siena e da quel momento cessarono le bombe.

«A casa, la situazione era un poco precaria perché c’erano gli sfollati di Camollia, accolti in precedenza nelle varie stanze che gli avevano assegnato:

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poveretti, mica si potevano buttare fuori! Perciò, noi ci sistemammo alla meglio. Pochi giorni dopo, si andò a ringraziare Santa Rita alla chiesa di Sant’Agostino. All’epoca, custodivano lì la statua di Santa Rita, la santa dei casi impossibili: poiché s’era tutti vivi, ci sembrò il caso di andarla a ringraziare. Quando ci recammo lassù, transitando in fondo a Via Tito Sarrocchi,sitrovòilcarrodiScorgianoconlevacche:anchetuttoilpersonale di fattoria era dovuto scappare e, come noi, avevano raggiunto Siena, dove abitavano i suoceri del nostro fattore. Ci raccontarono che a Scorgiano, in fattoria e in villa, imperversavano i soldati marocchini. Purtroppo, subito dopo la liberazione, la villa e la fattoria furono depredate da tante persone, anche italiane: rubarono di tutto e furono distrutte e rovinate tantissime cose. Ancora oggi, si vedono i segni di quella devastazione».

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Sfollati nelle Ville

Negli anni della Seconda guerra mondiale, a San Giovanni Valdarno in Toscana, piccolo paese che ha dato i natali a Masaccio, non si respirava arte, ma paura e ingiustizia.

La famiglia Melani viveva nel quartiere del Ponte alle Forche, al numero 18.

Giuseppe e Assunta i genitori; Leonetto (1923), Luigi (1936) e Leo (1937) i figli; il fido cane Flock, detto in toscano Flocche, razza pointer a pelo raso.

Leonetto, ormai superati i venti anni, impegnato nella lotta al fascismo, partirà di lì a poco per Cassino dove si unirà agli alleati risalendo l’Italia per arrivare a San Giovanni Valdarno ed assistere alla liberazione. Proseguirà poi fino alla Linea gotica.

È il periodo in cui i tedeschi sono in difficoltà e a breve gli alleati inizieranno gli attacchi dal cielo.

Vicino al Ponte alle Forche c’era, così come oggi, la ferrovia Firenze Roma; un’altra ferrovia minore per il trasporto delle bricchette di lignite dalla miniera di Castelnuovo dei Sabbioni e la ferriera Italsider, che in tempo di guerra era stata convertita alla produzione di bossoli per munizioni. La casa dei Melani era più o meno al centro.

Naturalmente i bombardamenti si sarebbero concentrati in quei luoghi per cui Giuseppe, che chiameremo Beppe, dovrà escogitare un rifugio per la famiglia.

Beppe lavorava alla Ferriera e nel 1936 aveva avuto un infortunio che lo aveva privato del pollice della mano destra. A quel tempo, gli infortuni venivano liquidati subito, però con l’obbligo di investire in patrimonio.

Così Beppe acquistò la collina dietro casa, dove oggi ci sono gli insediamenti Dell’Ogna. Quindi, per fare una mappa, c’era la ferrovia Firenze-Roma, poi Via Ponte alle Forche con la sua casa, poi l’altra ferrovia utilizzata come scambio e carico-scarico merci e subito a seguire il “poggio”.

Nel tempo libero praticava un’agricoltura per le esigenze della famiglia. Coltivava il grano e la vite, ma anche ortaggi vari.

Il grano veniva raccolto in famiglia, gli adulti tagliavano con la falce e tutti, compreso i ragazzi, lo raccoglievano per riunirlo in “manne” dentro

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l’aia di casa. Veniva poi creato il pagliaio.

Per proteggere il grano durante la lavorazione veniva preparata l’aia, che veniva ricoperta di sterco di bue mischiato ad acqua. Si creava così una crosta dura al punto di poterci camminare sopra. Del grano non si sarebbe perso neanche un chicco.

Per utilizzare il grano venivano prese le manne e sbattute in una panca inclinata (battitura a panca) estraendo i chicchi, che per pulirli venivano poi librati in aria con la pala mettendosi contro vento in modo da liberarli dalla lolla. Certo era un processo lungo, ma vista la scarsa quantità non si poteva fare in altro modo.

Il “poggio” era una collina di argilla abbastanza friabile dove Beppe aveva costruito una caverna che fungeva da cantina per gli attrezzi. Sarà questo il primo rifugio per la famiglia Melani.

Il Ponte alle Forche, oltre che una via di San Giovanni Valdarno, era una vera e propria località, abitata e vissuta da persone semplici, in maggioranza operai ed alcuni artigiani.

La maggioranza degli operai lavorava in ferriera o alla miniera di Castelnuovo.

Beppe in origine era stato artigiano, costruiva le botti nel fondo sotto casa. Un aneddoto ci racconta di Leonetto che, spostandosi con il girello dentro casa, si era andato ad infilare nella botola che dall’abitazione conduceva alla bottega sottostante, con grosso spavento di tutti.

Successivamente era stato assunto in miniera ed infine in ferriera, come abbiamo detto.

Nell’edificio attiguo a casa Melani, c’era un’officina meccanica dove in quel tempo il nostro esercito portava i carri armati per le riparazioni. Si trattava di piccoli carri, delle dimensioni di una utilitaria, qualcosa di curioso per i ragazzi ai quali sembravano più adatti.

Al lato opposto della strada, la casa del Fascio, inaugurata nel 1940, oggi circolo ARCI.

Nel settembre 1943, passò un treno carico di autoblinde, carri armati e tanti militari. Si diffuse la notizia che Mussolini era caduto. Alcuni giovani, compreso Leonetto, andarono a distruggere il simbolo del Fascio con delle mazze. Le cose stavano cambiando.

Poco più in là, la cooperativa dove le famiglie andavano a prendere il pane e poco più per sfamarsi. Vigeva allora il pane a tessera. Ogni componente della famiglia aveva una tessera che dava diritto a 200 grammi di pane al giorno. Il commesso, che dava il pane, aveva delle forbici legate

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al collo con le quali tagliava la parte di tessera relativa a quel giorno per evitare che se ne prendesse oltre la quantità consentita.

L’allora bambino Leo racconta di come i primi aerei che vide erano simili ad uccellini che brillavano al sole.

La prima sera di bombardamento i bengala illuminano a giorno San Giovanni e la valle dell’Arno.

Al rifugio Beppe aveva portato già alcune cose più importanti per sopravvivere e alcuni piccoli tesori nascosti ai fascisti. Anche gli infissi di casa, ad un certo punto, furono portati nel rifugio, visto che l’abitazione era proprio in mezzo ad obiettivi sensibili.

Presa Assunta, che lui chiamava sempre Assuntina, e radunati i piccoli, si avviarono veloci verso il poggio, inseguiti, e talvolta anticipati, dal fido Flocche.

Arrivati lassù, lo spettacolo si faceva incredibile: meraviglia di luci e lampi, terrore di tuoni meccanici.

I due bambini Luigi e Leo, di 8 e 7 anni, ammiravano stupiti questo spettacolo. Ancora la paura non li aveva pervasi, per la giovane età ed anche perché fino ad allora non era successo niente.

Quelli che chiameremo bombardamenti erano talvolta lancio di bombe, ma più spesso azioni aeree di mitragliamento verso gli obiettivi principali.

Il primo bombardamento non fece grossi danni nel quartiere, ma fu subito chiaro come la situazione fosse difficile e che, di lì a breve, poteva succedere il peggio per cui sarebbe stato utile trovare un rifugio più lontano e sicuro.

Per fortuna, per i bombardamenti successivi, la ferriera aveva attivato la sirena di allarme in modo che la popolazione potesse fuggire per tempo per scampare alle bombe. Il suono era cupo, continuo e durava diversi secondi. Alla fine del bombardamento, un’altra sirena avvisava del cessato pericolo.

Il primo vero atto di guerra che segnò i piccoli fu durante il periodo di Pasqua. La famiglia era pronta, vestita a festa, per andare in centro per il “giro delle sette chiese”. Mentre i bambini aspettavano la mamma sul retro della casa, arrivarono alcuni grossi aerei italiani che volavano talmente bassi, forse 15 metri da terra, da distinguere bene la sagoma dei piloti. Subito dietro, due caccia inglesi a mitragliarli. Si notava ad occhio umano la maggiore rapidità degli aerei inglesi. Più tardi, giunse la notizia che gli aerei erano stati abbattuti ed erano caduti nella zona del cimitero di San Giovanni Valdarno.

Con il tempo i ragazzi impararono a capire se gli aerei avrebbero

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bombardato o meno in base alla disposizione dei velivoli. Se gli aerei erano in gruppo, non avrebbero bombardato, mentre il peggio sarebbe avvenuto se disposti a ventaglio.

Le bombe scendevano a grappoli, quasi come i volantini degli aerei pubblicitari in tempo di pace.

Un giorno il terrore si fece vivo quando nei binari dietro casa arrivarono diversivagonicarichidibenzinachedovevanoesserescaricati.Immaginiamo cosa potesse essere successo in caso di bombardamento… Per fortuna ci furono tre giorni di nebbia, e quindi nessun bombardamento, prima che il convoglio ripartisse vuoto.

Di treni se ne fermavano molti fra casa Melani e il poggio. Un giorno suonò l’allarme e la famiglia corse verso il rifugio. Un soldato tedesco, con mitra a tracollo, di scorta al treno, li seguì per sfuggire lui stesso ai bombardamenti. Arrivato sulla porta del rifugio, cominciò ad inveire verso gli aerei inglesi che in quell’occasione volavano a bassa quota. Puntò loro il mitra per sparare, cosa che fortunatamente non fece, evitando conseguenze facilmente immaginabili.

Data l’esigenza di fuggire da San Giovanni, Beppe pensò agli amici e cugini Giambini, due fratelli che abitavano alle Ville Alte, cinque chilometri da San Giovanni in direzione dei monti del Pratomagno, nel Comune di Terranuova Bracciolini.

Presa la bicicletta, unico mezzo di trasporto della famiglia e con Flocche al seguito, si recò alle Ville.

In quei tempi le famiglie si aiutavano tutte, in special modo quelle unite dal sentimento antifascista.

In tempo di guerra ci si prestava addirittura il “conditore”, osso di prosciutto, ormai consunto allo stremo, che veniva bollito nell’acqua per fare un brodo dalla bontà facilmente immaginabile. I contadini, ad esempio, avevano maggiore disponibilità di ortaggi, frutta e poca carne, mentre gli altri magari barattavano il sale o lo zucchero, oltre che altri generi.

I Giambini si accordarono con Beppe per trasferire la famiglia in quella enorme casa toscana dove abitavano le due famiglie contadine.

Qualche giorno più tardi, Beppe iniziò la spola dal Ponte alle Forche alle Ville per portare il possibile. Una volta sistemate le due stanze, un po’ alla meglio, invitò la famiglia a partire.

Era una domenica di fine primavera e, con le due biciclette di famiglia, Beppe e Assuntina invitarono i bambini a salire: Luigi sulla canna di Beppe

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e Leo nel sedile posteriore di Assuntina, fatto con i panni dismessi.

Il fido Flock venne lasciato a sentinella della casa. Beppe gli aveva lasciato il mangiare per qualche giorno per poi tornare regolarmente a portargli il cibo.

La giornata era limpida e il sole già scaldava abbastanza dopo quell’inverno particolarmente freddo.

Le prime gemme sbocciavano fra i rami.

Nell’aria odore di vita che rinasce, in contrasto con quella guerra che incombeva.

Il ponte sull’Arno non era stato ancora bombardato ed il viaggio per le Ville poteva essere affrontato nel suo percorso più breve.

Dopo quaranta minuti di pedalata in pianura, ecco l’ultimo strappo, una salita di circa 200 metri con una pendenza ardita.

Scesi di bici, i genitori salirono con il mezzo a spinta, mentre i bambini si guardavano intorno in quello splendido scorcio di campagna toscana con i campi coltivati ed i filari delle viti talvolta radunate a “loppi” (albero usato come sostegno per le viti).

Appena un attimo dopo, con la gioia dei bimbi inconsapevoli del pericolo imminente, i due ragazzini iniziarono a rincorrersi, strappando le margherite nate sul ciglio della strada a sterro che conquistava la salita.

Arrivati in cima, le famiglie Giambini ad aspettarli nell’aia.

Per far sembrare tutto meno pesante avevano pensato di organizzare un pranzo di benvenuto. Purtroppo non c’era molto e ogni famiglia portava qualcosa senza ostentare troppo, anche se di qualcosa era più “dotata”. Questo, soprattutto, per non dare nell’occhio ai tedeschi che avrebbero fatto razzia.

Le galline e le anatre correvano libere e i bambini giocavano a rincorrerle.

A tavola anche i vicini, invitati per l’occasione, per un banchetto di circa sessanta persone, praticamente tutti gli abitanti delle Ville Alte a quel tempo.

Fra le poche cose pregiate, del buon vino locale e, per finire, un bel bicchiere di vinsanto fatto in casa.

Finito il pranzo, gli adulti rimasero al tavolo mentre i più piccoli si “imbrancarono” con i nuovi amici locali, fra cui i figli dei Giambini, Alvaro, cugino di Leo e Luigi, nel frattempo sfollato anch’egli con la famiglia alle Ville Alte, ed altri bambini del posto.

A quel tempo i giochi dei maschietti erano dettati dalla povertà e dalla mancanza di molti beni superflui, causa la guerra.

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Il pallone, o meglio la palla fatta con gli stracci, non mancava mai e di sicuro questo era il divertimento preferito. Condiviso con le bambine c’era invece il nascondino e il gioco della campana.

I maschietti, poi, usavano trascorrere pomeriggi nei “poggi” a giocare con la natura. Sugli alberi venivano ricavati dei piccoli rifugi alla maniera diTarzan dove ci si divertiva a simulare azioni di guerra contro quel nemico ancora non troppo palpabile dai bambini.

Alvaro, che aveva già un’età maggiore, si dilettava nella costruzione di aerei in compensato, che poi faceva volare con l’ammirazione dei più piccoli. Era sicuramente questa l’attrattiva maggiore, ma capitava sempre più raramente, perché non si reperivano le materie prime. Talvolta, quando nella campagna veniva recuperato qualche paracadute, ci venivano fatte le camicie per gli uomini e, se aveva fortuna, Alvaro ne poteva prendere degli avanzi per le ali dei suoi aeromodelli.

Gli adulti, invece, avevano una consapevolezza maggiore di quello che stava succedendo.

Ancora non era guerra vera e propria a terra, ma fascisti e tedeschi erano ben presenti sul territorio e spesso c’erano razzie degli uni e azioni punitive degli altri per chi non la pensava come loro e osava osteggiarli.

Gli adulti maschi, che non condividevano il sistema, erano divisi fra coloro che erano intimoriti, e quindi non dimostravano la loro avversione, e quelli che erano partiti partigiani o lo sarebbero diventati di lì a poco, oltre purtroppo a chi portava la camicia nera.

La casa che ospitava Beppe e i suoi era molto grande, ma doveva accogliere tutte le altre persone delle famiglie Giambini ed altri sfollati. I Melani avevano l’utilizzo di una stanza grande al primo piano, separata da una enorme tenda che la divideva in due.

La zona cucina era abbastanza ampia ed era quella dove si svolgeva l’attività della famiglia. L’acquaio lo aveva costruito Beppe con un tronco di albero, data la sua esperienza di bottaio. La zona notte era un po’ più piccola. Leo e Luigi dormivano vicini e, più in là, un letto matrimoniale ospitava Beppe e Assuntina.

Il bagno era in comune.

A sinistra della casa c’era la conciaia e sotto la stalla con i buoi.

Nella conciaia Beppe ripose una cassapanca con degli oggetti che avrebbero potuto far gola ai fascisti e ai tedeschi. Un vicino, che aveva visto la scena, fece altrettanto. Quando però fu il giorno di riprenderla, il vicino dovette buttare tutto, perché non aveva isolato la cassapanca dal concio,

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come invece aveva fatto Beppe.

I quattro buoi che erano nella stalla incuriosivano molto Leo, che non aveva visto mai delle bestie così grandi. I primi giorni era sempre nella stalla ad osservare le operazioni dei contadini, che usavano il giogo e l’anello dove attaccavano l’aratro per lavorare i campi oppure il carro per il trasporto.

Prima che le cose precipitassero, Beppe, che aveva il lasciapassare grazie al suo infortunio, andava ogni giorno con la bici a lavorare come portiere in ferriera e con l’occasione faceva un salto alla casa di S.Giovanni Valdano per vedere che tutto fosse a posto e sfamare Flock.

Raramente la famiglia tornava a S.Giovanni, ma talvolta lo facevano per un giretto veloce.

Una domenica, mentre erano lungo l’Arno, vennero sorpresi dall’allarme antiaereo. Ci fu un attimo di terrore nel decidere il da farsi. Nella paura, presero le bici e, nell’intento di tornare velocemente alle Ville, attraversarono il ponte sull’Arno con il rischio che fosse bombardato. Per fortuna gli aerei avevano altri obiettivi quel giorno…

In un’altra occasione, Beppe era a casa al Ponte alle Forche da solo quando suonò l’allarme. Al solito, corse al rifugio sul poggio aspettando che suonasse il cessato allarme. Rientrando tranquillamente verso casa, vide all’improvviso da sud uno stormo di aerei in assetto da bombardamento. Il poveruomo non seppe fare altro che buttarsi a terra e la sorte gli sorrise anche in questa occasione.

Le bombe caddero davanti al passaggio a livello, nella casa di fianco e una sulla ferrovia dove c’era un locomotore. La cosa che più colpì la famiglia fu la distruzione del loro rifugio dove tante volte si erano riparati e dove ancora avevano delle cose utili come porte, finestre e alcuni mobili preziosi che saltarono in aria.

Beppe era talmente vicino che gli arrivarono zolle di terra in testa da ogni parte.

Quando Beppe raccontò l’accaduto, la famiglia si rattristì un attimo, ma pensando a cosa poteva essere accaduto di peggio se fossero stati lì, il morale ebbe un minimo sussulto positivo.

Dopo uno dei bombardamenti successivi, tornando al Ponte alle Forche, Beppe trovò la casa vicina alla sua completamente distrutta dalle bombe, la casa dove abitava la famiglia Marini. Per fortuna nessuna vittima, visto che nella zona erano tutti sfollati.

Anche casa Melani era stata colpita, ma probabilmente solo da una

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enorme massa di terra, alzata da una esplosione vicina, che aveva bucato il tetto e il pavimento del salotto.

Un giorno alle Ville, per uno di quei fantastici misteri della natura, arrivò Flock!

I ragazzi, che non lo vedevano ormai da diverso tempo, impazzirono di gioia. Chissà come aveva fatto a scappare e soprattutto a trovarli.

Beppe non ebbe il cuore di riportarlo indietro e quindi rimase anche lui alle Ville.

Il cane dormiva dove capitava, ma nelle ore di pranzo era sempre lì. Quando non era ora di pranzo, girava per la campagna circostante accontentandosi di ciò che trovava.

Già qualche settimana dopo, gli alleati sbarcati in Sicilia stavano risalendo la penisola e i tedeschi si stavano ritirando, lasciando non pochi disastri dietro di loro.

È questo senz’altro il periodo più buio della storia recente del Valdarno dove si conteranno numerose vittime negli eccidi di Meleto, Castelnuovo dei Sabbioni e San Pancrazio.

I tedeschi organizzarono vari “comandi” nella zona e alle Ville ne venne istituito proprio uno, all’inizio della salita che arrivava alla casa dove erano sfollati i Melani.

Una bella casa colonica requisita ed occupata interamente dai tedeschi, che perlustravano le case dei contadini della zona alla ricerca soprattutto di cibo di qualità e non solo.

Gli abitanti della zona non potevano fare altro che assecondarli, usando i modi gentili e nobili della civiltà contadina toscana, anche se non proprio spontaneamente.

I bambini sapevano che a volte i tedeschi disturbavano le signore per cui, quando li vedevano, facevano la staffetta avvertendo le donne, che con una scala a pioli salivano in un soppalco segreto. I ragazzi poi sfilavano e nascondevano la scala.

Nei periodi seguenti, Beppe fece raramente ritorno a S.Giovanni per paura di essere fermato.

Il comando tedesco delle Ville era un pullulare di militari da tutto il Valdarno. Talvolta si tenevano feste serali che duravano fino a tarda notte. I banchetti erano fra i più forniti. In quel periodo, quello fu probabilmente l’unico luogo della zona dove si custodiva la poca carne in circolazione. Solo qualche contadino, che era sfuggito alle razzie dei tedeschi, aveva

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qualche coniglio o qualche pollo ben nascosto nelle colline lontane da casa.

Da alcuni giorni Assuntina sentiva uno strano puzzo in casa. In quel periodo non è che le case della gente comune fossero profumate e anche prive di odori strani, ma quello era proprio una cosa insolita.

Ne parlò con Beppe ed i ragazzi. Ognuno si mise in cerca per capire cosa fosse e solo dopo tre giorni, riposto sotto il letto nell’angolo più lontano, fu scovato un pezzo di manzo di circa due chili come non se ne vedevano da molti mesi!!

Era naturale che nessuno di casa aveva messo lì il pezzo di bestia, quindi l’indiziato fu subito il povero Flock, che, appena si sentì accusare del furto, mise la lunga coda fra le gambe e con gli orecchi bassi se ne andò quatto quatto verso la porta.

Inseguito dalle ingiurie di Beppe, riuscì a guadagnare l’uscita e a scappare a gambe levate nella campagna.

Lo rividero solo dopo tre giorni.

La preoccupazione più grande fu che sicuramente quel brandello di ciccia era stato sottratto al comando tedesco per cui, se se ne fossero accorti, i tedeschi avrebbero senz’altro messo in atto qualche ritorsione nei loro confronti.

Quindi, appena fu notte fonda, Beppe prese la refurtiva e, allontanatosi dalla casa in direzione della campagna, abbandonò il pregiato pezzo in un ruscelletto dove di li a poco sarebbe sparito, un po’ per gli animali che lo avrebbero mangiato e un po’ per la trasformazione dovuta ad acqua e fango.

Due giorni dopo era domenica. Una di quelle splendide domeniche di tarda primavera in Toscana, con il cielo terso e la natura nel pieno del vigore.

Alcuni alberi da frutto erano in fiore e tutta la campagna emanava odore di vita.

Alcuni andavano a Messa nella piccola chiesetta delle Ville nelle prime ore del mattino.

I ragazzi di ritorno si attardavano nei soliti giochi anche se avevano il vestito “bono” e senz’altro avrebbero fatto arrabbiare le mamme, che al solito li pregavano di rimanere immobili con quegli indumenti.

Gli uomini giocavano a carte e vicino all’ora di pranzo accendevano il fuoco per cuocere qualcosa del poco disponibile per mangiare tutti insieme.

Naturalmente tre o quattro persone stavano sulla strada in modo da capire subito se dal comando tedesco salisse qualcuno a vedere, per ovvi

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motivi.

I pranzi erano sempre più scarni, ma quel clima di unione e solidarietà faceva sentire piena l’anima, anche se un po’ meno lo era la pancia.

Nel pomeriggio qualcuno faceva la pennichella, comunque c’era un “rompete le righe” generale tranne che per le donne, costrette a lavare i piatti con le stoviglie e ordinare la casa. In uno di quei pomeriggi Beppe insegnò a Flock a lanciarsi e riprendersi il biscotto. Appoggiava il pezzetto di cibo sul naso del cane, che lo teneva in equilibrio fino al cenno di Beppe, dopo il quale alzava velocemente il muso in aria lanciando il boccone in alto per poi riprenderlo al volo.

Quella domenica, a pomeriggio più inoltrato, il sole era già più basso e cominciava a disegnare ombre lunghe.

Beppe se ne stava seduto in mezzo a Leo e Luigi, sotto le scale che conducevano in casa.

Ecco d’un tratto in arrivo un gruppetto di soldati tedeschi in uniforme, con l’arma in posizione di ricognizione, con l’aria fra coloro che si sono alzati da pranzo un po’ alticci e coloro che, rabbiosi come cani, cercano la preda da sopraffare.

Le persone, che si erano accorte prima di questo arrivo, si erano dileguate nei campi mentre i tre, che se ne stavano in tranquillità, erano rimasti.

Il gruppetto sale le scale dove sono i tre senza curarsene, ma appena arrivato in cima, uno di questi da sopra si rivolge a loro con frasi incomprensibili, ma non certo rassicuranti “actung.. kaput… italiani traditori ...” Niente di tranquillizzante …

Poi punta il fucile all’indirizzo di Leo, poi di Luigi e infine di Beppe. I bambini terrorizzati iniziano a piangere e, al vederli così, il soldato scoppia in una risata isterica.

Subito dopo riprende, e per quattro volte interminabili la scena si ripete.

Intorno non c’era ormai anima viva se non il povero Flock, che aveva assistito passivamente. Per fortuna, altrimenti chissà che fine avrebbe fatto.

Il fato volle che quell’essere spregevole, ad un certo punto, abbia finito di divertirsi e se ne sia andato insieme agli altri per il poggio di fronte a sparare a ciò che si muoveva.

Per fortuna solo un innocente uccellino fu colpito a morte.

Beppe era cacciatore e, nei periodi precedenti lo sfollamento, andava a caccia dal Ponte alle Forche fino a Badia Agnano, 22 chilometri in bicicletta e ritorno. Partenza alle 4 del mattino con Flock al seguito a piedi.

Al ritorno, il cane, sfinito, veniva ospitato da Beppe in una cassetta legata

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sulla bicicletta.

Nelle giornate successive il tempo si manteneva bello e le giornate allungavano a vista d’occhio. Un giorno i ragazzi delle Ville stavano giocando a nascondino. Luigi si era rifugiato su un piccolo albero, che di lì a poco non avrebbe retto neanche al suo esile peso.

Purtroppo un ramo si spezzò in malo modo. Il povero bambino scivolò verso il basso fino a che il braccio interno non andò a conficcarsi nel moncone di ramo rimasto, come in una bocca piena di denti aguzzi.

La giovane pelle si lacerò subito con evidenti segni di sangue.

La situazione parve subito grave, anche oltre il reale. I ragazzi, con Leo in testa, corsero ad avvisare Beppe.

Arrivato sul posto, il padre mise al figlio un panno stretto al braccio per evitare una emorragia e se lo caricò sulle spalle per riportarlo a casa.

Appena Assuntina lo vide, chiamò le donne con più esperienza per capire il da farsi. Fu decisione comune che dovesse vederlo un dottore.

In quei tempi i medici non venivano a casa, perché era troppo rischioso per cui bisognava andare a qualche ambulatorio oppure direttamente all’ospedale.

Fu decisa quest’ultima soluzione. Beppe caricò il bambino sulla canna della sua bicicletta e partì.

A causa dei bombardamenti l’Ospedale di San Giovanni Valdarno era stato chiuso e quello più vicino si trovava a Castelfranco di Sopra, distante circa 5 chilometri, dove era stato allestito in modo provvisorio.

A parte la distanza, c’era una salita impegnativa che provò non poco lo stato del povero Beppe, che comunque arrivò a destinazione.

A Luigi praticarono subito una puntura di penicillina e, dopo aver ricucito a dovere lo sbrano nel braccio, lo ricoverarono a riposo.

Quella notte sarebbe dovuto rimanere in ospedale.

Non c’erano telefoni disponibili, per cui Beppe dovette far ritorno a casa per avvisare la famiglia. Era ormai buio e la sua bicicletta non aveva il faro.

Per fortuna una luna, in là con la crescita, lo aiutò non poco e dopo un’ora e mezza era con la famiglia ed i vicini a raccontare l’accaduto.

Di lì a due giorni, Luigi fu dimesso e dopo una settimana se ne tornò a giocare con gli amici.

Stavano giungendo i giorni cruciali. Gli alleati avanzavano conquistando terreno. I tedeschi erano nervosi e lasciavano dietro di loro morte e distruzione.

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I partigiani erano già sui monti e in parte avevano già raggiunto gli alleati.

Siamo ormai a luglio del ’44. Le milizie alleate si trovano nei dintorni di Terranuova Bracciolini, mentre i tedeschi arretrano a S.Giovanni Valdarno. Nelle notti di quei giorni, i fuochi avversi si incrociavano sopra il cielo delle Ville. Lo spettacolo era notevole, ma vissuto in maniera certamente diversa.

Per i grandi un segno di morte e distruzione, per i più piccini quasi un gioco di fuochi di artificio, che si alzavano a palombella da una parte per ricadere sull’altra.

Le diverse munizioni davano alle scie colori variegati così che quella furia di guerra divenisse quasi una sorta di spettacolo pirotecnico. NeigiorniaseguireancheilcomandotedescodelleVillefuabbandonato. Le famiglie delle Ville si nascosero nei rifugi scavati sotto terra nei campi per sfuggire alla furia della guerra e alle bombe che si incrociavano nei cieli sopra.

I rifugi erano in genere fatti a ferro di cavallo in modo da poter uscire da una parte o dall’altra in caso di pericolo.

Una sera, una pattuglia tedesca arrivò con le torce per ispezionare la zona, entrò nel rifugio del Melani, ma dopo averli osservati se ne andò. Chissà cosa cercavano, la paura fu molta, ma per fortuna senza conseguenze. Purtroppo una sera, per uno sbaglio di direzione, un proiettile di cannone cadde proprio all’imbocco di un rifugio delle Ville alte dove perse la vita un uomo anziano e altri rimasero feriti.

Per fortuna quella fu l’unica vittima in quel luogo, ma la paura fu ancora tanta.

Qualche giorno più tardi i bombardamenti sembravano ormai più lontani e un gruppo di uomini decise di andare a perlustrare la zona costeggiando le colline più alte. Per alcuni giorni calma piatta, ma non fidandosi rimasero nelle alture.

Una settimana dopo videro passare degli strani mezzi che assomigliavano a delle ruspe, ma con qualcosa davanti. Ai nostri giorni sarebbero stati paragonati a moderni spazzaneve.

Allora scesero in strada per capire cosa fossero.

Gli Alleati ! Americani e Inglesi !

Con alcuni mezzi anfibi con la pala anteriore stavano solcando una nuova strada che da Terranuova doveva andare a S.Giovanni.

Davanti, a piedi, gli artificieri che battevano il percorso per scansare le

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mine anticarro e antiuomo, che i tedeschi si erano premuniti di lasciare per rallentare l’avanzata degli alleati.

A quel punto, anche i ragazzi e le donne scesero verso la strada in fondo alla valle per rendersi conto di cosa stesse accadendo.

Gli alberi avevano degli strani dischi metallici legati al fusto e a qualche ramo. Un artificiere ne fece brillare uno davanti a loro per far capire cosa fossero e quanto, soprattutto i bambini, dovessero stare attenti.

Dopo questo primo passaggio arrivò una fila di carri armati, che alla vista di questa povera gente si fermò.

Aperto il coperchio superiore, uscirono alcuni giovani prestanti che con grossi sorrisi regalarono cioccolate e sigarette.

C’era proprio l’idea che la guerra fosse finita.

Dopo diversi giorni la famiglia decise che era l’ora di rientrare a casa, ma quale casa?

La casa del Ponte alle Forche non aveva porte e finestre e il tetto era da ricostruire.

C’era bisogno di una sistemazione vicina per poter lavorare alla casa prima di tornarci a vivere di nuovo. Per fortuna, alcuni villini della ferriera al Calambrone si erano liberati, perché i gerarchi fascisti, che li abitavano, erano in fuga. La ferriera, quindi, concesse a Beppe e alla sua famiglia quel riparo per il periodo necessario a risistemare la propria casa.

Il giorno deciso per il ritorno, di buon mattino per evitare la calura estiva, arrivò alleVille Alte un baroccio con il suo barocciaio. Le suppellettili insieme ai ragazzi furono caricate sopra e il carro si mosse in direzione di San Giovanni. Beppe e Assuntina seguivano in bicicletta e Flock a piedi. Arrivati al ponte sull’Arno, notarono che alcuni pezzi di ponte minati dai tedeschi erano stati riparati con delle provvisorie assi di legno.

Dopo aver scaricato tutto nella casa provvisoria, Beppe e Assuntina deciserodipassareavederequalefosselasituazionenelcentrodiS.Giovanni.

Arrivati in centro, si trovarono di fronte una città spettrale. Ad attenderli, la Basilica di S.Maria delle Grazie, bombardata e letteralmente aperta in due. Numerose le abitazioni ferite dalle bombe. Una colonna di Palazzo d’Arnolfo spezzata.

I bambini pensavano già a come avrebbero trovato la propria casa.

A quel tempo, fra il centro ed il Ponte alle Forche, c’era quasi un chilometro di campi.

Arrivati al passaggio a livello, già poterono lanciare un primo sguardo:

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il casone dove abitava la famiglia Marini non c’era più.

Era quello più vicino alla ferrovia.

La casa dei Melani, invece, che prima era coperta dalla vista da quel casone, era miracolosamente integra, tranne il foro sul tetto che Beppe aveva già visto.

La gente iniziava di nuovo a vedersi in giro: persone comuni, nessuna camicia nera, nessuna uniforme tedesca.

Qualcuno stava già risistemando la casa o il fondo dove aveva il lavoro, anche se ci sarebbe voluto molto tempo per tornare alla normalità.

Per diversi mesi ancora la famiglia abitò al Calambrone. Fu in quel periodo che videro ricomparire Leonetto, con grossa felicità di tutta la famiglia.

Raccontò la sua avventura, l’arresto da parte dei tedeschi a Cassino, era stato rinchiuso dentro un cinema. Durante una notte ci fu un bombardamento, approfittando del quale riuscì a fuggire.

Quindi si ricongiunse agli alleati con i quali poi arrivò a S.Giovanni. Si era fermato solo perché era malato.

Il giorno successivo vennero a prenderlo con la lettiga, un carretto con sopra una cassa nera, somigliante a quella per i morti, spinta a mano da quattro persone vestite di nero, la Confraternita della Misericordia.

Malaria e tifo erano le malattie diagnosticate. Per fortuna, dopo un periodo abbastanza breve di cura, si rimise in sesto e insieme ad altri volontari del Comitato di Liberazione Nazionale partì dalla piazza di S.Giovanni con dei camion per raggiungere gli alleati sulla Linea gotica.

Nei primi giorni di vita al Calambrone, tutti gli abitanti fecero la conoscenza degli alleati. La famiglia Melani ricorda di aver conosciuto alcuni soldati di stanza agli “assali montati”, un piazzale della ferriera lì vicino.

Fra loro americani, inglesi, polacchi, sudafricani, marocchini. Un ricordo affettuoso di Leo per un soldato polacco non giovanissimo: ogni sera veniva a parlare con Beppe con cui aveva fatto amicizia e gli portava la gavetta piena di brodo e pezzi di pecora. Gesti così non si dimenticano mai.

Dalla casa provvisoria a quella del Ponte alle Forche c’erano poco più di 100 metri. Mentre Beppe lavorava alla casa, Leo e Luigi spesso andavano nell’orto a cogliere la frutta e la portavano ai soldati. Soprattutto ceste di grosse pere agli americani, oltre all’acqua. Essi gradivano molto e

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contraccambiavano con cioccolata e sigarette.

Le sigarette erano in delle scatole di latta celeste che ne contenevano 50. Erano molto profumate.

Un giorno l’Agraria distribuì a tutta la popolazione una balla di piselli secchi. Una vera manna in quel periodo, ma in casa si mangiò, per un paio di mesi, minestra di piselli e piselli per secondo.

La situazione era ancora triste, ma c’era la consapevolezza che la guerra fosse passata e presto tutta l’Italia sarebbe stata liberata.

Quindi la cosa più importante in quel momento era di avere di fronte la prospettiva di avere la cosa più preziosa: la libertà!

Per il resto, piano piano e rimboccandosi le maniche, la vita si stava rimettendo in moto…

La famiglia Melani, finalmente ricomposta, inizia una nuova vita al Ponte alle Forche 18.

Le vicende dure della vita come questa si tende a dimenticarle in fretta. Invece tutti i membri della famiglia, come tante altre persone, da quel giorno hanno raccontato le vicende del fascismo e della guerra ai familiari e agli amici per far conoscere a chi non l’ha vissuta la tragicità degli eventi.

Per far capire che le proprie idee possono prevalere sulle altre solo con il dialogo della democrazia e mai con la prepotenza delle armi e che la memoria serve ad evitare gli errori già commessi in passato.

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Mario Peri. Vita e guerra di un deportato civile in un campo di concentramento nazista

La storia di Mario Peri riemerge a oltre settant’anni dal termine della Seconda guerra mondiale, grazie all’interessamento del figlio Umberto che ha preziosamente conservato il diario del babbo, prigioniero in un lager nazista.

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Agenda personale di Mario Peri

L’importanza di questi diari è fondamentale per la ricerca e per la conoscenza storica, andando ad aggiungersi alle testimonianze orali e alle fonti archivistiche. La narrazione diaristica è in grado di rappresentare i traumi psicologici, le aspirazioni e la vita quotidiana dei protagonisti della guerra. Una grande raccolta è stata avviata da alcuni anni per quanto riguarda i testi della Prima guerra mondiale11 mentre manca ancora un’indagine organica sui documenti della Seconda guerra mondiale, spesso posseduti dalle famiglie o presenti in archivi sparsi. Il conflitto ha avuto una memoria non omogenea e profondamente frantumata: racconti di soldati in Albania, Jugoslavia, Grecia, Unione Sovietica, Africa, isole; diari ed epistole di prigionieri di guerra militari e civili; scritti di fascisti e di repubblichini; memorie di partigiani comunisti, cattolici, azionisti, socialisti, anarchici, liberali e monarchici12. Sono solamente alcuni esempi: l’universo memoriale della Seconda guerra mondiale è vasto e non riducibile a visioni stereotipate. Memoria e oblio, ogni esperienza passa dai materiali archivistici in nostro possesso.

Dal punto di vista bibliografico, un grande sforzo è stato fatto negli ultimi trent’anni dai ricercatori italiani. Le lacune negli studi storici delle deportazioni e dell’internamento sono state in parte colmate dalla pubblicazione di numerosi volumi scientifici: in precedenza la bibliografia era costituita in larga parte da memorie e scritti autobiografici13 .

11 Vedi progetto della Fondazione Archivio Diaristico Nazionale www.archiviodiari. org/index.php/iniziative-e-progetti/la-grande-guerra.html

12 Isnenghi M., Le guerre degli Italiani. Parole, immagini, ricordi (1848-1945), Mondadori, Milano, 1989, p.247.

13 Sulla deportazione nei campi di concentramento nazisti: ANED, Bibliografia della deportazione, Mondadori, Milano, 1982. Argenta G, Deportazione e schiavismo nazista. Aspetti, considerazioni, testimonianze, Gribaudo, Cavallermaggiore 1991.

CerejaF. e Mantelli B. (a cura di), La deportazione nei campi di sterminio nazisti. Studi e testimonianze, Franco Angeli, Milano, 1986.

Istituto Storico della Resistenza in Piemonte, Una storia di tutti. Prigionieri, internati, deportati italiani nella Seconda guerra mondiale, Milano, 1989.

Labanca N., Fra sterminio e sfruttamento, Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista 1939-1945, Le Lettere, Firenze, 1992.

Lazzero R., Gli schiavi di Hitler. I deportati italiani in Germania nella seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano, 1996.

LovattoA. (a cura di), La deportazione nei lager nazisti. Nuove prospettive di ricerca, Vercelli, Istituto per la storia della Resistenza, 1989.

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Per questa ricerca, oltre al diario di guerra del deportato e alle fonti secondarie, ho utilizzato la testimonianza orale di Umberto Peri, oggi ottantacinquenne. Nato nel 1931, ancora lucido, ha narrato con passione e partecipazione la storia del padre, catturato dai tedeschi a Limite sull’Arno in provincia di Firenze. Certamente la narrazione che emerge è un’interpretazionepersonaleeparzialedelpassato,filtratadall’intervistatore in modo che possano emergere informazioni non più disponibili alla visione diretta14

Mario Peri nacque a Limite sull’Arno il 1 aprile 1906 e la sua casa divideva il confine con Vinci: l’abitazione era situata a Limite mentre il podere si trovava in territorio vinciano. Con la famiglia si era trasferito a Bologna, dove nel 1929 aveva sposato Rina Ciabatti e aperto una bottega di cappelli.

Nel 1940 l’Italia entrò in guerra a fianco delle potenze dell’Asse, aprendo alcuni fronti e dichiarando le ostilità nei confronti della Francia e alla Gran Bretagna; gran parte del suolo italiano in questa prima fase venne coinvolto marginalmente attraverso bombardamenti. Lo scoppio della guerra e l’inasprirsi della politica autarchica fascista indussero Mario a rivedere le sue aspirazioni. Le tasse aumentarono esponenzialmente, i ricavi subirono una netta flessione e l’affitto per il locale cominciò a gravare sulle finanze. Nel 1941 prese un appuntamento con il podestà della città emiliana per cercare di sistemare la situazione. La risposta del fascista fu chiara: Mussolini aveva bisogno di soldi per finanziare la guerra. Mario, mai iscritto al partito fascista essendo di fede socialista, rispose a muso duro affermando: «Mica l’ho voluta io la guerra». Il podestà si adirò e solamente l’intervento del fratello, iscritto di vecchia data al Partito Nazionale Fascista, evitò l’arresto15

Mayda G., Storia della deportazione dall’Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino, 2002.

Tibaldi I., Compagni di viaggio: dall’Italia ai lager nazisti. I trasporti dei deportati, 19431945, Franco Angeli, Milano,1994.

14 Contini G., Martini A., Verbamanent. L’uso delle fonti orali per la storia contemporanea, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1993, p. 15.

15 Testimonianza orale di Umberto Peri, Vinci, 04/03/2016, intervista a cura dell’autore.

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Foto di un giovanissimo Mario Peri

L’uomo fu costretto a chiudere la bottega e a tornare al proprio paese in Toscana, dove giunse agli albori del 1942. È in questo anno che inizia la storia del suo diario. Piccoli appunti presi con un lapis, inizialmente per segnare le spese (viaggi in treno, prodotti alimentari, carte da bollo, vestiti, cinema, riviste), gli stipendi e gli indirizzi, come una sorta di agenda personale16

La storia dei deportati italiani nei campi di concentramento nazisti si intreccia inevitabilmente alle vicende dell’8 settembre 1943, quando venne annunciato l’Armistizio fra il Regno d’Italia e le nazioni alleate, che

16 Diario personale di Mario Peri, proprietà famiglia Peri.

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portò all’occupazione militare e amministrativa tedesca del suolo italiano: la zona fra Vinci e Limite sull’Arno venne liberata solamente un anno dopo, a inizio settembre 1944. Un periodo durissimo sotto tutti i punti di vista: paura, fame, uccisioni erano all’ordine del giorno. La popolazione fu costretta a sottostare a leggi e a provvedimenti, a subire soprusi e violenze, a procurarsi in ogni modo il cibo necessario per la sopravvivenza. Fra gli episodi più spiacevoli ricordiamo l’internamento dei militari italiani, l’arresto e la deportazione di migliaia di ebrei prima di giungere alla terribile estate del ’44, quando in Toscana i nazisti, con la complicità dei fascisti locali, giunsero al culmine del periodo di stragi e massacri ai danni di civili e partigiani. A tutto ciò si aggiunsero anche i bombardamenti e i cannoneggiamenti angloamericani che, nel tentativo di colpire obiettivi sensibili dell’armata germanica, distrussero centinaia di case e obbligarono gli abitanti a rifugiarsi in luoghi che ritenevano sicuri17

Nel frattempo, nelle aree montuose e collinari andava formandosi quella che è stata la più grande esperienza di liberazione della propria terra: la Resistenza. Migliaia di persone, tra cui reduci militari sbandati, giovani renitenti alla leva, donne, contadini, operai, si unirono nella lotta contro l’oppressore nazifascista per il ritorno alla pace, spesso sacrificando la vita per la libertà altrui.

Mario Peri fu catturato proprio durante i quotidiani rastrellamenti nazisti dell’estate 1944, esattamente il 12 luglio. Vinci fu duramente colpita da operazioni militari tedesche: 5 vittime il 29 luglio; morti, feriti e arrestati il 7 agosto con la liberazione di un militare dell’Artillerie-Regiment della Wehrmacht; 11 vittime, 45 prigionieri e case distrutte nelle quali si trovavano munizioni il 9 agosto; 4 persone uccise accusate di effettuare segnalazioni luminose da una casa poi bruciata il 10 agosto18. A pochi chilometri venne effettuato il 23 agosto il quinto più grande massacro nazifascista in Italia: l’eccidio del Padule di Fucecchio, nel quale persero la vita 174 persone19

Mario nel diario ripercorre il momento della cattura e gli aspetti emotivi che coinvolsero gli arrestati e le loro famiglie:

17 Collotti E., L’occupazione tedesca in Toscana, in Palla M. (a cura di), Storia della Resistenza in Toscana. Volume primo, Carocci, Roma, 2006, p. 86.

18 Elenco parziale presente in Gentile C.,Azioni tedesche contro i civili in Toscana, s.n., s.l., s.d.

19 www.eccidiopadulefucecchio.it

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12 Luglio 1944

Da quel giorno quanti dolori abbiamo provato: da quel giorno è cominciato ilnostrocalvario,cièancoranellanostramentechenonsipuòdimenticaremai i pianti delle nostre famiglie. Ognuno di noi ha lasciato nello strazio genitori moglie figli sorelle parenti ma il dolore è chi ha lasciato moglie e madre e figli, in loro si vedeva il pianto dagli occhi gli cadevano tante lacrime. Piangevano e ci chiamavano per nome mentre noi scortati dai tedeschi col fucile mitragliatore come tanti delinquenti. I nostri cari piangevano è l’ultima volta che io ti vedo non ti rivedo più, chi poteva baciava i suoi e gli altri conoscenti come l’ultimo addio come partissimo per come un morto. E poi su un rozzo camion siamo partiti senza sapere quale fosse la nostra destinazione la nostra sorte che ci attendeva. Dal quel giorno non abbiamo potuto dare nessuno notizia di noi e nemmeno riceverla di quello che avevamo odi più caro al mondo per il quale egli vive, lava e lotta contro il destino è la famiglia ma nella nostra mente è sempre scolpito il pensiero della madre, della moglie e il figlio[…]quanto più

il pericolo e quanto più il pensiero va a loro da quel giorno della partenza dopo venti giorni di viaggio che è stato pieno di pericolo efame e disagi di ogni specie siamo giunti alla nostra destinazione.

La vita dell’uomo fu sconvolta. Nel diario sono annotati i luoghi di passaggio prima di giungere nello Stalag VI A:

Limite, Pistoia, Bologna, San Benedetto Po, Verona, Vicenza, Venezia, Treviso, Udine, Tarvisio Confine, Austria, Villach, Monaco, Francoforte, Colonia, Dusseldorf, Verberg

In un primo momento, il 14 luglio, fu visitato a Pistoia e dichiarato abile a lavorare in Germania: arrivò a Colonia il 28 luglio20. Il Terzo Reich gli assegnò un passaporto temporaneo per stranieri in cui erano indicati i suoi tratti caratteristici: nome, data e luogo di nascita, nazionalità italiana, professione operaio, faccia ovale, occhi marroni, capelli rasati. Era il libretto numero 4477521 .

20 Diario personale di Mario Peri, proprietà famiglia Peri.

21 Deutsches Reich, VorläufigerFremdenpass, proprietà famiglia Peri.

210
è
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Luoghi di passaggio prima di giungere al campo di concentramento

Passaporto temporaneo tedesco di Mario Peri

Passaporto temporaneo tedesco di Mario Peri

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Venne internato in un campo di lavoro, precisamente a Wuppertal, all’interno dello Stalag VI A, soffrendo il freddo e la fame, assistendo a quotidiane violenze e percosse. Lavorava in condizioni disumane come operaio per una ditta di Velbertnel distretto della Ruhr e veniva sfruttato dal Terzo Reich per sostituire i soldati tedeschi inviati al fronte22.Fece parte dei circa 900.000 schiavi italiani di Hitler: 716.000 Internati Militari Italiani del Regio Esercito; 36.000deportati civili (politici, ex partigiani catturati senz’armi, ex IMI ribelli, ufficiali antifascisti rastrellati, carcerati militari); 9.000 deportati razziali e religiosi; 74.000 lavoratori civili (rastrellati a forza in Italia e trasferiti nel territorio del Terzo Reich nel 1944, fra essi Mario); 86.000emigrati civili, volontari, bloccati in Germania l’8 settembre 1943 quando stavano per rimpatriare23 .

La sua vita non fu solo disgrazia e miseria, ma anche strenua lotta per resistere alla sopraffazione fisica, psicologica e morale. Talvolta le situazioni degli internati prendevano una piega estrema: l’indifferenza, l’apatia, il lasciarsi andare, le azioni di aperta ribellione, la partecipazione a rivolte armate24. Il deportato, come possiamo dedurre dal suo diario, fu colpito dal profondo dramma psicologico di non avere notizie della sua famiglia. Scrisse:

1 gennaio 1945.

Mia carissima sposa oggi è il tuo compleanno. In questo giorno siamo stati lontani l’uno dall’altro purtroppo oggi siamo lontani e è molti mesi che non sappiamo notizie l’uno dell’altro. Io voglio sperare che almeno di salute vi stia tutto bene però quello di non ricevere né dare notizie mi dà molto pensiero. Non potendo fare di meglio non potendoti né parlare né scriverti il mio pensiero lo trasmetto sopra questo pezzo di carta così mi sembra di parlarti. Vorrei dirti tante cose […] vorrei sapere […] come stai te e il mio bambino che mi sembra

22 Testimonianza orale di Umberto Peri, Vinci, 04/03/2016, intervista a cura dell’autore.

23 Sommaruga C., Una storia affossata. La resistenza degli “Internati Militari Italiani” (I.M.I.) – schiavi di Hitler nei Lager nazisti – traditi, disprezzati, dimenticati… e beffati dalla Germania e dall’Italia (1943 – 2007), Quaderno Dossier N. 3 – (2a edizione), Archivio “IMI”, 2007, pp. 2-3.

24 Devoto A., Considerazioni psicologiche sull’atteggiamento degli internati, in Della Santa N. (a cura di), I militari italiani internati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943. Atti del convegno di studi storici promosso a Firenze il 14 e il 15 novembre 1985, Giunti, Firenze, 1986.

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molti anni di non avervi visti nel pensare a tutto mi verrebbe da piangere ma guardo di essere più forte che posso così alla speranza che tu sia anche te perché quando venni via ti dissi che ritornerò e ho la certezza di tornare e sopportare disagi e pericoli […] questo mi fa avere la certezza di rivedervi tutti.

Tanti saluti e baci a te e al bambino con la speranza di rivedervi presto. In questo momento ti giunga il mio pensiero che vi ho tutti e sempre nella mia mente25 .

Appunti di Mario Peri dal lager

La sua famiglia soffriva per gli stessi motivi perché non aveva notizie di Mario e non era a conoscenza delle sue condizioni. In questo periodo non furono nemmeno corrisposti gli assegni familiari alla moglie e al figlio, come fu denunciato nel dopoguerra agli organi preposti.

Il 27 gennaio 1945, Mario raccontò sul diario questo pensiero diretto a suo figlio Umberto:

Oggi è il tuo compleanno in questo giorno non sono mai stato lontano purtroppo ora mi trovo molto lontano e non posso ricevere tue notizie né dare le mie. Voglio sperare che starai bene sono certo che ti sei mantenuto buono e

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25 Diario personale di Mario Peri, proprietà famiglia Peri.

studioso e che tu consolerai la tua mamma che in questo tempo immagino che avrà molti pensieri. Per quello che riguarda me non fo altro che pensare a voi altri e sopporto tutti i disagi con la speranza di tornare e di trovarvi tutti sani e salvi. Ti invio i miei auguri che tu seguiti a crescere sempre sano e robusto e studioso. Tanti baci tuo papà.

Non potendo inviare posta ho scritto queste parole in questa pagina così se io non potessi tornare sarà questo26 .

Le condizioni di Mario migliorarono grazie a un importante aiuto: una donna tedesca che lavorava nella fonderia gli procurava di nascosto, quasi quotidianamente, un po’ di pane, alimento che si sarebbe rivelato fondamentale per l’adattamento nel lager. Sulla prigionia riportò:

[…]lì ogni giorno di lavoro dalle sei del mattino alle sei di sera ci sembra un anno. Il mangiare consisteva in un tozzo di pane e due volte al giorno un poco di acqua con qualche foglia di cavolo. Ogni giorno il pericolo delle incursioni che venivano a migliaia il frastuono delle bombe dappertutto macerie ogni ora ogni momento è in pericolo la vita ma quello che tormenta di più e il pensiero della famiglia in ogni istante vedo il suo volto piangente, le sue ciglia piene di lagrime nessuno che abbia un poco di sentimento non può dimenticarlo più è il pericolo e più è il pensiero dei nostri cari […]27 .

La scrittura era diventata la sua arma personale di resistenza, un modo per comunicare il suo dolore senza esserne travolto. In quelle pagine leggeva se stesso, riconosceva di essere altro dal numero che lo avevano fatto diventare. In quelle poche pagine c’era tutta la sua vita prima, durante e dopo la guerra.

Il 17 aprile 1945 Mario affidava queste parole al suo diario:

Mia carissima moglie, stamattina all’alba abbiamo visto i primi carri armati americani non puoi credere la gioia. Splendeva il sole il cielo è sereno e le rondini volteggiano per l’aria28 .

Quando fu liberato pesava solamente 35 kg. Fu ricoverato in ospedale

26 Diario personale di Mario Peri, proprietà famiglia Peri.

27 Diario personale di Mario Peri, proprietà famiglia Peri.

28 Diario personale di Mario Peri, proprietà famiglia Peri.

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e, dopo due mesi di peripezie, riuscì finalmente a riabbracciare il figlio e la moglie: giunse con la testa rasata, i vestiti americani e uno zaino sulle spalle29

Una volta tornato a casa, nonostante tutto, continuò a utilizzare il diario come un’agenda:

2 ottobre 1945

Finito di svinare vino nostrale:

Barili 58

Americano 10

Bianco 5

Diviso a metà ciascuno30 .

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Un ritratto della famiglia Peri 29 Testimonianza orale di Umberto Peri, Vinci, 04/03/2016, intervista a cura dell’autore. 30 Diario personale di Mario Peri, proprietà famiglia Peri.

Fonti

Diario personale di Mario Peri, proprietà famiglia Peri. Deutsches Reich, Vorläufiger Fremdenpass, proprietà famiglia Peri. Testimonianza orale di Umberto Peri, Vinci, 04/03/2016, intervista a cura dell’autore.

www.eccidiopadulefucecchio.it

Bibliografia

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Contini G., Martini A., Verbamanent. L’uso delle fonti orali per la storia contemporanea, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1993.

Della Santa N. (a cura di), I militari italiani internati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943. Atti del convegno di studi storici promosso a Firenze il 14 e il 15 novembre 1985, Giunti, Firenze, 1986.

Gentile C., Azioni tedesche contro i civili in Toscana, s.n., s.l., s.d.

Isnenghi M., Le guerre degli Italiani. Parole, immagini, ricordi (1848-1945), Mondadori, Milano, 1989.

Labanca N., Fra sterminio e sfruttamento, Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista 1939-1945, Le Lettere, Firenze, 1992.

Lazzero R., Gli schiavi di Hitler. I deportati italiani in Germania nella seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano, 1996.

Mayda G., Storia della deportazione dall’Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino, 2002.

Palla M. (a cura di), Storia della Resistenza in Toscana. Volume primo, Carocci, Roma, 2006.

Sommaruga C., Una storia affossata. La resistenza degli “Internati Militari Italiani” (I.M.I.) – schiavi di Hitler nei Lager nazisti – traditi, disprezzati, dimenticati… e beffati dalla Germania e dall’Italia (1943 – 2007), Quaderno Dossier N. 3 – (2a edizione), Archivio “IMI”, 2007.

Chi chiude gli occhi davanti al passato diviene cieco per il presente.

Richard von Weizsäcker Presidente della RFT, 8 maggio 1985, 40° anniversario della capitolazione del Terzo Reich

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Il giorno dei ricordi

Oggi è una giornata particolarmente noiosa fin dal mattino, la pioggia insiste col suo ticchettio monotono mettendomi nell’animo una malinconia, che si insinua in tutto il mio essere.

Ed ecco riaffiorano i ricordi e un’arcana nostalgia turba l’anima mia!

Della casa paterna, della passata gioventù, delle persone care che non ci sono più. Con la vivace freschezza delle immagini, nitido è il ricordo, di quando ancora bambina, la voce della mamma mi svegliava ogni mattina, con un bacio e una carezza, soffondeva l’anima d’ineffabile dolcezza.

Cara dimora, se chiudo gli occhi ti rivedo ancora, di calce erano bianche le tue mura, tra il verde di un prato fiorito all’ombra di un pesco e del fico.

L’effluvio dei fiori in estate! Le belle “tavolate” per le feste comandate.

D’inverno, dinanzi al fuoco scoppiettante, di storie antiche ne narravano tante.

Poi, con l’andare degli anni, vetusta eri tu, ti han demolita non ti ho rivista più.

Caduca è la vita! Come le foglie ingiallite che il vento si porta via, lasciando a chi rimane tanta malinconia.

Nel crepuscolo d’autunno, fantasticando ritorno su quel prato, mi illudo di trovare chi ho tanto amato, risentire le care voci! Ma loro non ci sono più: sono sotto quelle croci!

Raduna la memoria l’esistenza e come in un caleidoscopio si alternano le immagini. Mi rivedo, nella gioia dei mattini d’estate, fra verdi arabeschi d’intensa bellezza, a vagare per il campo del nonno, libera come l’aria, alla carezza del vento.

Giocare sul prato trapunto di corolle, fra il frinire di cicale, il canto degli uccelli tra le piante e delle foglie il tenero fruscio. E in una mistica ebrezza, fra evanescenti colori d’oro e d’argento seguire le fiamme albali e quelle vespertine. Per la trebbiatura, mentre riverbera il sole, fra pulviscoli d’oro, rivedo nell’aia gli uomini, con i loro volti bruni rigati dal sudore, mettere i covoni del grano nella trebbia e intorno, tanta allegria.

La sera nell’aia tutta illuminata, veniva imbandita una tavola per tanti commensali, che più tardi, al suono di una fisarmonica, ballavano fino a notte inoltrata (con la gioia di noi ragazzi che per l’occasione non

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andavamo a letto presto).

Che dire della vendemmia! Lungo i filari di viti, ricche di grappoli maturi, si sentivano i canti e le risate dei vendemmiatori, che portavano i panieri pieni d’uva alle bigonce.

Insomma! Era il mio mondo fatato!

Ma i giorni felici hanno le ali, dopo una molteplicità di avvenimenti, tutto cambiò drasticamente e dei miei sogni di bambina non era rimasto niente!

Fu espropriato il podere, per consentire la costruzione dello stabilimento FIAT. Fu un tempo di pena per il cuore, vederlo erigere, giorno dopo giorno, in uno scenario brullo e cupo, fra pietre scabre e nude, lividi rami d’alberi spogliati e un senso di rovina, tutt’intorno. Tuttavia dovetti abituarmi all’idea. Infatti, pian piano, mi accorsi che oramai quel complesso industriale faceva parte integrante dell’ambiente che ci circondava. In seguito, la guerra ci portò spiacevoli conseguenze: lo stabilimento fu occupato dai soldati tedeschi, che sistematicamente invadevano l’aia e la zona circostante, facendo razzie e sparando ai pochi polli rimasti. In più ci trovammo esposti al fuoco incrociato, fra i tedeschi e i partigiani. Perciò vivevamo nascosti come talpe, trascorrendo le notti nelle cantine, su giacigli improvvisati, soverchiati d’ansia e di terrore, perché dalle botole sovrastanti, sentivamo i passi pesanti, delle ronde tedesche in perlustrazione. Casuali passavano i giorni e tutte uguali le notti, tuttavia, una in particolare si distinse tra le altre. Fu una notte enigmatica ed infinita, fra voci concitate e un andirivieni di mezzi pesanti, che si protrassero fino all’alba, finché fra quelle mura tenebrose non giunse anelito terrestre. Allora mio padre e altri uomini si fecero coraggio, uscirono furtivamente all’aperto e, con gran sollievo, constatarono che i tedeschi se ne erano andati lasciando una devastazione incredibile.

Guardando fra i cumuli di masserizie, si accorsero che sotto la pensilina antistante lo stabilimento, facevano bella mostra di sé dei sacchi pieni, ma ignorando che cosa potessero contenere e temendo ci fossero esplosivi, nessuno aveva il coraggio di andare a vedere.

Ilmattinosuccessivo,lacuriositàpreseilsopravventoeconcircospezione gli uomini si avvicinarono per aprirli.

Grande fu la sorpresa, nel vedere che contenevano semplicemente farina bianca! Quel ritrovamento per noi costituiva un tesoro inestimabile, considerando che non avevamo mai cibo abbastanza per tutti!

La farina fu divisa equamente. Fra l’euforia generale, fu acceso il forno

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della casa colonica, mentre le donne facevano il pane.

Ma quando finalmente iniziammo a mangiare, ci guardammo, attoniti e sconcertati, ironia della sorte! Quel pane sapeva di tabacco! Nell’euforia del momento, nessuno si era accorto, che la farina era stata messa nei sacchi della Manifattura Tabacchi.

Ma, come si suol dire “La fame fa buono anche il ferro”, lo mangiammo lo stesso.

Malgrado tutto, ci ritenevamo fortunati, perché fino a quel momento avevamosalvalavita!Considerandochenelmillenovecentoquarantaquattro, col precipitare degli eventi, furono uccisi tanti innocenti, prede di barbari, stuoli pronti al genocidio dell’umanità, non ebbero, gli indegni, nessuna pietà.

Niente potemmo! L’urlo ed i singhiozzi si sciolsero in preghiera! Successivamente, folli e cruente furono le battaglie, fra rombi di cannoni e il crepitare delle mitraglie. Nell’urto travolgente delle schiere, annientate furono le barriere. La “bufera” passò, ma ciò non toglie, che sul terreno giacevano tante spoglie.

Quell’esecrabile follia, migliaia di vite si era portata via!

Finché, fra scenari apocalittici d’intorno, della gloria e della pace, venne il giorno, l’epopea degli eroi era finita!

Dopo la liberazione, ci fu l’arrivo degli alleati, che si stabilirono nello stabilimento, portandoci la sicurezza che ci era mancata!

All’imbrunire d’ogni sera, sentivano sempre musica perché facevano feste danzanti. Ma la più bella musica per noi fu quando lo stabilimento riprese la sua attività lavorativa. Finalmente! Eravamo tornati alla normalità. Non so se dai ricordi la sorte mi allontanerà. Il ricordo di tutti i caduti in fondo all’anima mi sta. Tristi sono i pensieri per le reminiscenze di quei giorni torbidi e neri. A dire il vero, vola il mio pensiero,

A tutti quelli che per la Patria diedero gli anni più belli!

Di quegli eroi che si immolarono per noi! Purtroppo non sempre unanime è lo sdegno. Per alcuni, ormai, quei caduti sono una serie astratta di iscrizioni sepolcrali, che i posteri vorrebbero affidare al vento dell’oblio. Per quanto mi concerne, quando e dove ho potuto, sono andata a rendere omaggio nelle varie località. L’ultima visita è stata alle “Fosse Ardeatine”. Devo dire che, dopo il racconto dettagliato della guida sugli avvenimenti luttuosi del ventitré marzo millenovecentoquarantaquattro, ero rimasta sconvolta. Davanti a quei sepolcri promisi di scrivere qualcosa alla loro memoria e che l’avrei fatta conoscere ai posteri in ogni modo!

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Al ritorno, dopo una notte insonne, d’impulso mi misi a scrivere, come se qualcuno mi suggerisse le frasi e mi guidasse la mano. E con grande gioia avevo composto una poesia che voglio far conoscere ai lettori di questo racconto.

Anche perché tutto già fu, ma ancora si ripete! Oh! morte truce, che pietà non hai, tanti cuori soffrire fai, di chi trascini nel gorgo della guerra, pochi ne resteranno su questa terra!

Al destino crudele non si sfugge. L’uomo prima crea, poi distrugge! Così della vita questa è la sorte: scoprire bene e male, vita e morte! Ma, per il bene dell’umanità, auguro che spirino solo venti di pace e libertà!

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Il peso della memoria

“Provai a fuggire, ma inciampai e caddi nella polvere.Tentai di rialzarmi, graffiando la terra con le unghie per tirarmi su, circondata da parole che non conoscevo e non capivo”

(da testimonianza resa al Convegno di Pontecorvo - 1951)

Ci sono momenti di una vita in cui tutto si compie e ciò che viene dopo è solo un susseguirsi anonimo e grigio di date e eventi.

Non scorderò mai quei giorni e anche adesso, che manca poco alla fine della mia storia, quelli restano comunque i ricordi più forti e, purtroppo, incancellabili. Potevo morire già allora e invece non è successo.

Non so nemmeno io perché, ma con il tempo ho imparato a non chiedermelo più e a farne esercizio di memoria.

Era una gran persona il dottore, per lui era una missione quel mestiere e per me, giovane levatrice, accompagnarlo e assisterlo nel lavoro era un onore.

Anzi, molto di più.

Lo ammiravo, lo adoravo, ma con riservatezza e pudore. L’avevo rivestito di un sentimento puro, incondizionato e muto, che mai e poi mai si sarebbe rivelato o trasformato in passione concreta.

Del resto era già sposato e con una bella famiglia.

Aveva una figura slanciata e nobile il dottore, con quei suoi capelli corvini e ondulati, con quel suo sguardo acuto e penetrante, sempre gentile, disponibile e sorridente con tutti.

In quei giorni gli eventi al paese stavano rapidamente precipitando: mentre gli alleati risalivano da sud, i tedeschi si erano disposti ad aspettarli lungo il punto più stretto della penisola, decisi a resistere strenuamente.

La linea difensiva passava proprio sulle nostre terre e qui, sui monti Aurunci stavano piazzando le batterie di cannoni e le fortificazioni che dovevano sbarrare l’avanzata degli anglo-americani verso Roma.

Per questo motivo erano partiti i rastrellamenti degli uomini necessari alla costruzione delle infrastrutture; erano state requisite le case diVallemaio per alloggiare le truppe di riserva e il comando di zona; erano diventati

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sempre più frequenti gli episodi di razzia di bestiame e viveri e, come non bastasse, erano anche iniziati i bombardamenti aerei alleati.

Di fronte al pericolo la gente si era dispersa nelle zone più interne, spesso vivendo in nuclei familiari allargati, dentro ricoveri di fortuna o in masserie semiabbandonate.

Eppure il nostro lavoro continuava, con maggiori difficoltà certo, ma continuava, in giro per i monti e le case sparse, tra nascite e morti (ero presente anche a queste, a volte, dal momento che mancava un’infermiera in paese), ovunque vi fosse bisogno, ovunque vi fosse richiesta.

Talora ci arrivavano notizie e rumori di battaglia sempre più vicini che ci fornivano il quadro di una situazione che per i tedeschi stava volgendo al peggio.

Cassino resisteva, ma per quanto ancora?

Forse anche i tedeschi sapevano che era questione di tempo.

Fu la disperazione a spingerli verso un’azione così crudele e disumana?

Fu il disprezzo per noi italiani, prima alleati e poi passati al nemico dopo l’armistizio, fu la voglia di farcela pagare?

Qualcuno ipotizzò al contrario che tutto fosse avvenuto a causa del dottore, che lui facesse parte della Resistenza e che l’avessero scoperto.

Non saprei dirlo con certezza.

Certo, mi ero trovata al suo fianco a curare qualche partigiano ferito, ma sono convinta che avrebbe agito allo stesso modo anche per un tedesco, non faceva differenze lui, curare era il suo dovere, la sua missione.

Ricordo tutto di quel giorno. Era il 9 maggio del ‘44.

In molti eravamo sfollati a Pastinovecchio, un pugno di case in montagna, raggiungibile da Vallemaio attraverso un esile sentiero da percorrere quasi esclusivamente a piedi.

Il plotone di soldati tedeschi fu scorto da alcuni contadini mentre risaliva il pendio verso le case.

La notizia corse veloce, ma non causò eccessivo allarme, perché altre volte i militari erano passati di lì senza disturbarci troppo.

Alcuni comunque scapparono all’interno del bosco per precauzione, altri si chiusero in casa, aspettando il passaggio della truppa.

Il dottore fu uno di questi, rimase con la sua famiglia nel casolare dov’era sfollato.

Non era uno che temesse per la propria vita, altrimenti se ne sarebbe già andato via da un pezzo.

Ma chi avrebbe pensato, in sua assenza, alle persone che conosceva sin

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da ragazzo e che riponevano fiducia in lui?

A me però consigliò di nascondermi e io gli obbedii, acquattandomi tra gli alberi, non lontana dalle case, in attesa.

Da lì vidi i tedeschi circondare il primo casolare: armi in pugno, urlavano insulti, sembravano impazziti, radunarono quattordici persone, tutte quelle che trovarono all’interno e nelle immediate vicinanze.

Li conoscevo tutti, ad uno ad uno.

Conoscevo bene Maria, che avevo tratto fuori dal grembo della madre solo tre mesi prima; conoscevo sua sorella Giacinta di cinque anni e la maggiore, Luigia, così come gli altri tre ragazzi, le donne e i due uomini, gente semplice che non c’entrava nulla con la guerra e la sua follia.

Furono spintonati dentro il casolare e dalle finestre si scatenò un inferno di fuoco a cui seguì il lancio di alcune granate.

Poi solo il silenzio.

Conoscevo bene anche Arcangelo.

Lo vidi saltare dalla finestra del retro, prima che i tedeschi iniziassero la carneficina.

Fu un volo disperato: la finestra troppo alta, il terreno troppo scosceso; atterrò fratturandosi una gamba e fu facilmente raggiunto e freddato a colpi di mitra. Il casolare dove eravamo sfollati era a poca distanza.

Un gruppo di soldati lo raggiunse, sfondò la porta ed entrò anche lì.

Non so cosa successe all’interno, so solo che poco dopo i tedeschi ne uscirono con un prigioniero. Era il dottore.

Le ciocche nere dei suoi capelli ondeggiavano al vento, si girò più volte tentando di parlare agli aguzzini, ma quelli lo spinsero avanti senza spiegazioni, fino a un pozzo lì vicino.

Lo fecero salire sul bordo e il suo sguardo brillò per un attimo nel sole del mattino.

Non colsi terrore nei suoi occhi, solo tristezza e una profonda stanchezza, mentre li fissava senza abbassare lo sguardo.

Poi una raffica, seguita da un tonfo nell’acqua, mi cancellò il respiro rimasto fino ad allora sospeso.

Avrei voluto urlare, uscire dal nascondiglio, avventarmi su quegli assassini, morire con lui, ma, come sempre, c’era chi aveva più diritto di me di farlo.

Dentro le mura della masseria si udiva lo strazio della moglie e il pianto dei figli.

Solo allora i soldati parvero averne abbastanza di sangue, urla e polvere

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da sparo.

Volsero le spalle a quelle poche case e tornarono da dove erano venuti.

Ora toccava a me. A me spettava prestare soccorso e ricomporre i morti.

Ricacciai a fatica le lacrime e il dolore.

Nelle tragedie per fortuna, si scoprono a volte piccoli miracoli che la logica non contemplerebbe.

Nella prima casa, annerita dagli spari e dalle bombe, qualcuno era ancora in vita. Ritrovammo, illesa, Luigia che si era nascosta sotto un letto, mentre altri tre erano stati protetti dai corpi dei loro cari e si erano salvati.

Il resto erano cadaveri.

Alcuni uomini tirarono su il corpo del dottore dal pozzo.

Io non avrei avuto il cuore per farlo.

Seppellimmo i morti con le mascelle serrate e un pianto sommesso.

Per diverse notti rimasi insonne, il dolore aveva scavato un solco troppo profondo dentro gli occhi.

Per questo, il 13 maggio avvertii da subito l’infuriare della battaglia notturna.

Verso le quattro di mattina le truppe franco-marocchine sferrarono l’attacco decisivo alle difese tedesche.

I monti attorno a Vallemaio sembrarono prendere fuoco, ma il grosso della battaglia avveniva strisciando, lottando corpo a corpo e conquistando il terreno palmo a palmo nel buio della notte.

Le truppe marocchine erano abili in quel lavoro, strisciare nel buio e sgozzare il nemico.

Alle tre del pomeriggio un’enorme bandiera francese venne issata sulla cima di monte Maio.

I tedeschi, sconfitti, erano ormai in fuga verso Roma, la linea Gustav era stata sfondata.

Ci sentimmo finalmente liberi, l’incubo sembrava essere finito, i giorni dell’umiliazione e della paura terminati: così pensavamo.

Così pensavo anch’io, andando a casa di Antonia, che aveva accusato dolori al ventre durante la notte.

Ora che non c’era più il dottore, toccava a me rispondere alle richieste di aiuto, fintanto che non avessero inviato un altro medico in zona.

Successe tutto lungo il tragitto, nel buio della notte.

“Mentre mi rialzavo un volto sghignazzante mi si parò davanti nella penombra.

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Unvoltoscurocomequellanotte.Lesuemanimiafferraronoemibuttarono di nuovo nella polvere. Sentii poi quelle stesse mani che si facevano strada tra le mie gonne, le mani si moltiplicarono, divennero quattro, sei, otto, urlai e fu l’ultima cosa che rimase nel ricordo di quella notte”.

Ciò che mi fecero è qualcosa che mi porterò nella tomba assieme allo schifo, alla vergogna e al senso di colpa che ancora provo.

Dicono sia il complesso delle vittime, pensare di essere in qualche modo colpevoli, di aver magari scatenato involontariamente l’istinto del carnefice o di non aver fatto abbastanza per difendersi.

I “liberatori” mi avevano incrociato tra il paese e la fattoria di Antonia, erano in quattro ed erano goumiers marocchini.

Si seppe in seguito che il generale Juin aveva garantito loro, in caso di vittoria, una sorta di libertà d’azione, di impunità riconoscente.

Oggi so che, da qualunque parte la si guardi, la guerra è sempre la negazione dell’umanità, sofferenze e nefandezze la privano di qualsiasi giustificazione o logica.

I vincitori poi la racconteranno nel modo che a loro più conviene, ma la verità resta sempre molto lontana da ogni visione trionfale o eroica. Erano nostri alleati, ci avevano liberati: nessuno ebbe la forza o il coraggio di condannarli.

Non mi sono mai sposata. Forse dopo la morte del dottore, non ho più incontrato nessuno che fosse lontanamente come lui o, più probabilmente, l’essere stata violata così brutalmente mi ha tolto qualsiasi desiderio del rapporto con un uomo.

Ma ho continuato per tutta la vita a far nascere altre vite.

Lo dovevo al ricordo di quei morti, lo dovevo per quel bisogno tutto umano di coltivare una speranza che va oltre qualsiasi tragedia o orrore.

Ma portandomi sempre dentro il peso della memoria.

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Ex voto!

La Pour Le Mèrite. La Croce con le Fronde di Quercia.

Croce di Cavaliere della Croce di Ferro.

Croce di Cavaliere con Fronde di Quercia, Spade e Diamanti. Medaglia Italienisch-deutscher feldzug in Afrika. Medaglia del Fronte orientale.

Il tutto contenuto in un quadretto dalla cornice semplice, ma di un vetro stranamente lucido e brillante.

Castelnovo ne aveva il sotterraneo zeppo di ex voto (e, come si sa, ognuno ha una sua originalità se non nella forma, certamente nella motivazione, nell’intento e nell’esito).

I più frequenti erano dati da guarigioni, anche parziali o temporanee, da malattie brutte, oppure da incidenti stradali paurosi ma dagli esiti miracolosi: si ringraziava la Madonna perché aveva conservato una persona ai suoi cari pure senza un arto, o in carrozzina.

Il visitatore pugliese più che ateo era incredulo: dall’alto delle sue due lauree e da un master a Yale, mal concepiva come la gente arrivasse al punto di ringraziare Maria per avere un marito, reduce da una caduta dal terzo piano, condannato alle rotelle, e con il cervello retrocesso a quand’era bambino; oppure non capiva perché si dava lode al Cielo per aver salvato una, dico “una”, di ben nove persone nel bombardamento di Vicenza del ’44: una famiglia distrutta. E un pilota da corsa, perché rendeva grazie dello scampato pericolo da un incidente che fece, per causa sua, tre morti tra il pubblico? Non lo sapeva che il suo era un mestiere pericoloso, per sé e per gli altri?

La moglie distrasse per un attimo l’avvocato chiedendogli delle monete per la candela: e ben sapendolo polemico nel rapportarsi a quelle cose, tentò di portarselo al piano superiore col pretesto del pranzo, ma lui continuò a leggere sulla parete.

Una donna era riuscita ad avere un figlio, l’unico, a cinquant’anni suonati, dopo venticinque di matrimonio; un alpino era tornato dalla Russia nel 1949, quando ormai era stato dato per morto; un padre di sei

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figli ancor piccoli era guarito da una malattia di regola incurabile; una donna ringraziava perché la nuora era tornata col figlio e i nipotini dopo una fuga con un uomo di otto anni più giovane.

Altri ringraziavano per aver ripreso a lavorare dopo la crisi, o per il felice esito di un intervento difficile. Qualcuno aveva salvato la propria ditta grazie ad una commessa che portava lavoro per anni; un altro era riuscito a rivedere due fratelli sparsi per il Canada quarant’anni prima.

Un ex drogato rendeva grazie per aver ritrovato la strada giusta e si rivolgeva a due madri: quella celeste e la propria, che aveva consumato la vita e le sostanze per farlo entrare in una costosissima comunità, e non aveva fatto a tempo a vederlo guarito, ché il buon Dio se l’era presa per non farla più soffrire a causa del figlio. Il quale, per farsi perdonare, nel tempo libero si dedicava a chi soffriva delle stesse pene che aveva passato lui.

Un amministratore pubblico aveva visto esaudito il desiderio di poter espiare le colpe accumulate in dieci anni di mandato: aveva autodenunciato tutto per sua scelta, e il profitto illecito lo dava a Castelnovo per opere di bene. La foto vicino alle righe era ben diversa da quella che era ricorsa per tanto tempo sui giornali locali e regionali: sorridente di un sorriso vero, stavolta, e molto più disteso il volto.

Un padre quasi centenario ringraziava la Madonna non per i venti lustri concessigli senza malattie e privazioni e con una carriera strepitosa, ma perché i suoi numerosi figli avevano chiuso al suo capezzale una vertenza legale che si trascinava da dodici anni. Ma guarda un po’: il vecchio si era rimesso bene, quando tutti lo davano per spacciato, e ringraziava per quei cinque minuti in cui i figli si erano dati la mano davanti a lui.

Un automobilista rendeva grazie perché il ragazzo, che lui non aveva soccorso, se l’era comunque cavata nonostante la sua vigliaccheria: prometteva però qualcosa di indefinito…

P.g.r., p.g.r., p.g.r.: per grazia ricevuta, erano a centinaia sui muri laterali. Alcuni talmente in alto che stentavi a leggerli.

Molti, quindi, e variegati gli ex voto.

Ma fu quello delle medaglie ad affascinare l’uomo di legge e, a dir suo, di razionalità.

Per quanto ne sapeva, quelle decorazioni si conferivano di solito nella Wehrmacht del secondo conflitto mondiale a ufficiali superiori di alto rango, come generali o feldmarescialli, e unicamente per aver compiuto atti d’eroismo o di bravura strategica e tattica del tutto eccezionali. E chi le aveva ricevute, tali medaglie, se le conservava come reliquia, e i suoi

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discendenti pure.

Perciò: come mai erano finite lì? Incurante della moglie e degli altri, che lo sollecitavano dal piazzale, Oronzo s’avvicinò al quadretto, ma non vi vide scritto niente. Nemmeno un nome, solo alcune date: erano quelle dei fatti delle medaglie? 1939 – 1945. Probabile.

Si lasciò andare a mille congetture: era forse un capoccia nazista riuscito a scampare alla forca di Norimberga o di tribunali consimili? Era un pezzo grosso dell’esercito che aveva vinto qualche memorabile battaglia? Un grande uccisore di ebrei (più ne sterminavano, più erano benemeriti)? Un gerarca che aveva reso particolari, importantissimi servigi a Hitler?

Aveva ottemperato ad un voto fatto, per aver ricevuto una grazia? E se sì, si chiedeva lo scettico visitatore, anche ammesso ci fosse stata veramente la Madonna, come avrebbe mai potuto, questa, concedere il perdono ad un criminale di tal fatta?

Davvero bastava donare alla Signora di Castelnovo quei pezzi di metallo coi nastrini colorati per far scomparire un passato pregno di chissà quali, e quanti, misfatti?

Oronzo, durante il pranzo, si arrovellava in questi quesiti, e la moglie e gli amici lo prendevano in giro vedendolo così assorto e distratto.

Il pomeriggio si sarebbe andati al sacrario lì vicino, ma l’avvocato, adducendo un mal di testa, avvisò che avrebbe aspettato in albergo. “Ma come, - dicevano gli altri pensionati - abbandoni gli amici per non prendere una pastiglia? Un Oki o un Aulin; mezz’ora di sonno in corriera, e tutto può passare, no? Inoltre, ci hai fatto tanto di testa a dire “Sono quarant’anni che non vedo quel sacrario!” E ora che ci siamo…”

Ma la moglie, buona conoscitrice del carattere dell’uomo, non insisté affatto, e la comitiva s’avviò.

Oronzo ritornò al santuario, ma stava chiuso. Si mise al sedile di pietra in faccia al sagrato, al riparo da quel sole insolente, e ritornò a battagliare con le ipotesi.

E se il donatore si fosse veramente pentito? E magari avesse fatto tanto del bene, visto che si trattava di un personaggio così importante… si sa che molti ex-capoccia nazisti o comunque ex-appartenenti alle forze armate tedesche furono reintegrati nel nuovo esercito, la Bundeswehr, o nella nuova marina, o aviazione, o gendarmeria. C’era, già dal ’45, da fronteggiare la nuova minaccia ad oriente, quella sovietica. E non c’era molto tempo per andare troppo per il sottile: la neonata alleanza occidentale sorgeva anche da una necessità politica che aveva bisogno di mettere qualche macigno

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sopra un certo passato! Inoltre, qualcuno di questi pezzi grossi aveva pubblicamente chiesto scusa del suo passato, e s’era impegnato in opere di alto valore umano e civile…

Queste, ed altre congetture, passavano per la mente del turista sulla panchina, mentre il sole si spostava ad occidente ed un esile raggio gli illuminava il viso. Vuoi per il silenzio tutt’attorno, data l’ora, o vuoi per la stanchezza delle varie tappe del viaggio, egli si lasciò cogliere da quella luce flebile del tardo pomeriggio e si cullò in essa, chiudendo gli occhi, sprofondando in una sorta di beatitudine che raramente gli capitava.

“Vorwaerts!” echeggiò agli orecchi dell’uomo, che si svegliò di soprassalto, ed assisté ad uno spettacolo incredibile.

La salita che portava al santuario era satura di un fumo azzurrognolo, che soffocava i numerosi soldati che tentavano di salire, e l’ufficiale con i ripetuti “Avanti” li incitava a contendere la cima a un gruppo di uomini non in divisa, che falciavano coi moschetti ed una grossa mitragliatrice gli attaccanti. Ma questi, a forza di bombe a mano e di un lanciafiamme, riuscivano però a raggiungere la sommità del colle e ben pochi dei partigiani che lo difendevano rimasero vivi, ed arretrarono fino al sagrato del santuario, le mani ben in alto.

Il turista alzò le mani pure lui al sopraggiungere di due gigantesche SS grigie, ma queste non lo badarono. Fecero allineare i vinti alla scalinata ed ordinarono ad altri soldati grigi un imperioso “Feuer!”. I partigiani, piangendo e scuotendosi come marionette, crollarono sugli scalini in un lago di sangue.

I due ufficiali si sedettero alla panchina in pietra, s’accesero una sigaretta, uno di loro tradusse dal latino la scritta che sormontava il sagrato e l’altro espresse gesti e parole d’ammirazione per il contenuto. Poi, il primo chiamò il prete che aveva appena dato l’estrema unzione ai morti e si fece spiegare le caratteristiche storiche, artistiche e culturali del bel sito in cui si trovava, tradusse tutto all’altro colonnello, come se fossero loro stati in gita turistica, come se le altre scene di violenza che avvenivano intorno al santuario, non li riguardassero affatto.

Oronzo si chiese perché non lo badavano. Lo capì quando i due, alzandosi, lo “attraversarono” letteralmente, come se fosse fatto di aria. Capì, allora, che stava in una specie di sogno, e si augurò disperato di risvegliarsi al più presto.

Mentre dava un’occhiata al piazzale sottostante, quello delle corriere, occupatoinqueifrangentidacamiontrasportotruppeedamotocarrozzette,

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sentì uno scalpiccìo alle spalle. I due ufficiali SS diedero l’attenti a tutti i militari presenti: giungeva, scortato da quattro uomini in divisa nera, un tedesco alto e massiccio, che dall’uniforme sembrava certamente un pezzo grosso, (forse un generale, malgrado la giovane età, o addirittura un feldmaresciallo). Egli si soffermò sulla gradinata del santuario a guardare i morti; poi fece segno con durezza alla scorta di lasciarlo entrare da solo alla chiesa. Oronzo entrò con lui, e lo vide sedersi in prima fila, solo, davanti all’altare. Improvvisamente, si fece sulle ginocchia, raccolse il volto tra le mani, e scoppiò a piangere.

Oronzo gli si avvicinò, fece appena in tempo a notare una voglia marron scuro alla base del collo dell’uomo, quando venne preso da una stanchezza indicibile. Si sedette a sua volta su una panca e s’addormentò.

“Signore, si sposti: sta troppo al sole, le potrebbe venire un malore, il santuario è aperto, entri con me”. Il frate lo prese sottobraccio, lo sostenne, lo accomodò alla prima panca, e gli portò una po’ d’acqua fresca.

Fu un lampo: Oronzo vide nel viso di quello le stesse fattezze del prete del sogno, colui che aveva avuto l’ultimo gesto di pietà per i partigiani fucilati.

Fu scosso fortemente. Credette d’impazzire. Si chetò: “Magari l’avevo visto durante la prima visita al santuario, logico che posso anche averlo sognato” tentò di giustificarsi una volta e più volte, finché finì per crederci per davvero.

La moglie e gli amici, appena tornati dal sacrario, e saputo che un turista pugliese s’era sentito male, s’affrettarono alla chiesa e, vedendolo perfettamente rimesso, uscirono con lui per avviarsi al pullman e quindi all’albergo.

Ma, mentre stavano per scendere la stradina di ciottolato, Oronzo notò arrivare dalla piazzetta superiore un anziano alto e massiccio, che si fermò ad alcuni passi dal sagrato.

Egli gettò uno sguardo proprio sugli scalini che si erano ricoperti del sangue dei partigiani nel sogno, si fece il segno della croce, e restò muto in preghiera.

E, mentre gli altri s’erano soffermati ad un negozietto di souvenir, Oronzo tornò su di corsa, ma quando giunse al sagrato, l’uomo non c’era più.

Intuì: doveva andar di sotto, nelle sale degli ex voto.

Lì, un vecchio sostava davanti alle medaglie incorniciate, improvvisamente crollò sulle ginocchia, raccolse il viso tra le mani e pianse,

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e fece male ai pochi presenti come solo le lacrime dei vecchi sanno causare. Come ebbe piegato il capo in avanti, Oronzo vide la voglia marron scuro, alla base del collo.

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La terra in tasca

“Ku-vitt, ku-vitt, ku-vitt”.

Una civetta atterrò su uno dei rami dell’albero sotto al quale Cecco si era aggrappato, stremato. Erano ore che correva a perdifiato attraverso la boscaglia, cercando salvezza e, adesso, sentiva il bisogno di parlare con qualcuno, perché aveva paura, tanta paura e il fatto che il qualcuno in questione fosse una civetta non lo fermò.

“La guerra è una brutta bestia, uccellaccio del malaugurio. È per me, il tuo canto di morte? Allora, va’ a cantare per qualcun altro, ‘ché non son pronto a tirare le cuoia! Ma forse sono ingiusto. Magari sei solo curiosa e ti stai chiedendo cosa ci faccia ‘st’omone, a quest’ora, sotto al tuo albero. Già ... che ci faccio?”

Cecco si accarezzò il petto coi palmi, su e giù, immensamente stanco.

“Scappo, civetta, ecco che faccio! Toglimi una curiosità: ma voi animali ce l’avete la guerra? Perché, lasciamelo dire, è proprio una porcheria! Basta una pallottola, una!, e la vita se ne va. Ecco com’è la guerra: quando, in un attimo, tutto diventa Passato e tu non ci sei più”.

La civetta inclinò la testa e lanciò il suo ‘kiù, kiù.’, indifferente.

“No. Tu non lo sai cos’è una guerra. Voi mica vi ammazzate come facciamo noi uomini. Io li ho visti! Stavano fucilando tutti. Ce n’era uno, un capo, con una cicatrice sulla faccia... una iena! Rideva, mentre tutti quelli che fino a ieri chiamavo amici diventavano cadaveri. Fatti a pezzi come cristalli. Per me, non c’è niente di più bello della luce che filtra attraverso un pezzo di cristallo. Tutti quei piccoli arcobaleni che piovon giù come coriandoli; una magia. Come la vita, una magia! Ma è fragile il cristallo. Basta una pallottola, una sola, e niente più arcobaleni, niente più coriandoli, niente più amici”.

Cecco si allontanò dal tronco, con pezzi di corteccia attaccati ai calzoni e tanta fame attaccata alla pancia; l’uccello spalancò le ali, in segno di protesta.

“Io scappo, civetta. Vado a Meleto. Ci vivon du’ anime. È un paese piccolino. Che ci andrebbero a fare, quelli là, in collina? C’ho dei parenti. Non li vedo da anni, ma una mano me la daranno. Siam brava gente. Mi manca poco e sarò in salvo. Tu però non cantare per me, civetta, per favore. Non cantare”.

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Nedo si stropicciò gli occhi assonnati. Il nonno non era a letto. Si alzò sui gomiti e calciò la vecchia coperta, sbadigliando. Tirò giù le gambe per andare a cercarlo. Freddo, ma il rumore dei passi del vecchio, provenienti dall’orto, parevano un rimbrotto alla sua pigrizia. Si alzò e fece capolino dalla finestra. “Oh, nonno...”, gridò, “...che sei belle che ritto?”

“Oh, Nedo, buongiorno. Lo sai... chi dorme ‘un piglia pesci. L’orto vuole le sue cure. ‘Ndiamo pigrone, sorti di lì e dammi una mano”.

Nedo corse da lui e il vecchio Neri sorrise.

“Pettinati ogni tanto. C’hai dei capellacci lunghi, sembri una ragazzina... van tagliati”.

“Via nonno, o che parli sempre dei miei capelli?”

“No. Parlo anche dell’orto.” ridacchiò l’uomo, curvandosi verso terra. “Guarda che lattuga e che pomodori”.

“Sissì... e che cetrioli, che sedano, che carote...”

Neri gl’assestò uno scapaccione.

“Porta rispetto all’orto, Nedo. Porta rispetto alla terra”.

L’anziano sbriciolò una manciata di terriccio fra le forti dita arcuate e l’annusò.

“La terra è vita. Questa è la tua terra. Questa è la tua vita. Io ne porto sempre un po’ in tasca. Mi fa compagnia”.

Nedo sospirò. Suo nonno era fissato con quel fazzoletto di terra. Da quando erano rimasti soli, da anni, era diventata la sua unica distrazione.

Nedo, dell’orto, in realtà, apprezzava solo le pesche e le albicocche. Avevano un sapore meraviglioso. Si faceva venire il mal di pancia, ma non smetteva d’infilare le mani fra i rami per raccoglierne manciate che si lasciava sciogliere sotto la lingua.

“Va bene, nonno. Scusa. Ma lo sai che ore sono?”

“Umm... presto?”

“’Un si son svegliati manco i galli, nonno!”

Il vecchio sorrise ancora.

“Hai fame?”

Il giovane annuì, grattandosi un fianco, con la bocca aperta in un nuovo fragoroso sbadiglio.

“’Ndiamo in cucina, rogna. Ti preparo la colazione”.

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***

Il parroco, genuflesso, si segnò davanti alla povera Croce in legno. Faceva fresco in Chiesa, ma era un freddo rinvigorente, che non lo aveva mai fatto rabbrividire.

La guerra lo faceva rabbrividire! Le armi, i morti, le mutilazioni, le vedove, gli orfani, il dolore... quelli lo facevano rabbrividire.

“Quanto dolore, mio Dio, quanto dolore!”

Strinse più forte le dita intrecciate in preghiera e sospirò.

Era una mattina strana. Sensazioni strane. Fuori il sole faceva capolino. Odore di fiori, di frutta, di pulito. Gli uccelli stavano risvegliandosi e, coi loro canti di lode, rallegravano la campagna. Uscì sul sagrato ad ammirare le colline che si stavano spalmando velocemente di sole, come una crema sulla pelle. Il gatto grasso si stiracchiò, leccandosi una zampa. Sembrava tutto a posto.

Tutto uguale a ieri mattina e al giorno prima. Eppure... Eppure avvertiva un’immotivata sensazione di paura attanagliargli lo stomaco.

Sospirò ancora, cercando conforto nelle boccate d’aria buona concesse gratuitamente dal buon Dio e vide la Brutta.

La stava aspettando, come ogni giorno prima del sorgere del sole. Era in ritardo.

La salutò con un cenno del capo e lei, in risposta, allungò il passo per raggiungerlo. La Brutta era così brutta, povera creatura, che la gente la evitava tant’è che lei stessa, per evitare problemi, evitava la gente. Ma non evitava Dio. Così, per non incontrare nessuno, si presentava in chiesa tutte le mattine alle cinque e mezza spaccate.

Il curato si scansò per lasciarla entrare.

“Ho fatto brutti sogni.” disse. “Perciò sono in ritardo”.

Poi, senza salamelecchi, la Brutta s’inginocchiò ed insieme iniziarono a pregare.

“Qui abbiamo ‘ripulito”. Ottimo lavoro. Possiamo proseguire. Karl, consulta la mappa. Qual è la prossima meta?’

Il soldato spiegò la cartina geografica con mani incerte ed indicò al superiore un piccolo paese in collina.

L’uomo ghignò soddisfatto e l’orribile cicatrice che gli attraversava il viso, dall’occhio al mento, si mosse come un ipnotico cobra. Il dito di Karl,

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***

puntato sulla carta spiegazzata, divenne una condanna.

“Meleto, eh? Molto bene, Meleto, aspettaci; arriviamo a darti una bella... ripulita”. Karl serrò la mascella. Forse avrebbe potuto non indicare quel minuscolo paese.

Cecco non chiudeva occhio da ore. Nella sua testa l’unico pensiero era fuggire, fuggire, fuggire e poteva anche permetterselo. Non aveva moglie, né figli, né sorelle. Nemmeno una mamma o un babbo. Un fratello, quello sì, ma gli restava sull’anima. Fin da bambini s’eran detestati. Così, visti i tedeschi, s’era messo le gambe in spalla ed aveva corso per tutta la notte attraverso i boschi e ora, col sole che si stiracchiava sulle colline, iniziava a respirare aria di salvezza quando, all’improvviso, avvertì una presenza alle spalle. Paura! Rumore di fogliame; trasalì.

“Oddio, m’han trovato!”

Si voltò con la voglia di vomitare sangue che gli bussava in testa, ma quel che incontrò, ad una decina di centimetri dalla sua faccia, non era un plotone nemico, bensì l’enorme muso bonaccione di un bove stanco con le froge larghe.

“E tu, da dove salti fuori?”

L’animale gli diede una testata affettuosa, cercando una carezza e Cecco l’accontentò, sorpreso. Pelo curato. Doveva essere fuggito da poco.

“Da dove sei scappato, amico?”

Dei passi affrettati e delle voci in avvicinamento lo interruppero.

“I tedeschi!”

Iniziò a tremare, specchiando i propri occhi in quelli della bestia, altrettanto dilatati per la paura.

Cecco ritenne che, di certo, i soldati stessero rincorrendo l’animale per macellarlo e che quello, furbo e patriota, se la fosse data a gambe. Come lui. Fratelli di sangue. Fratelli di fuga. Ma la fuga pareva esser giunta al termine per entrambi. Ansimò in preda al panico. Cosa gli avrebbero fatto? L’avrebbero fucilato? Sì. Ma lo avrebbero ucciso al primo colpo o si sarebbero divertiti a mutilarlo e ad abbandonarlo lì, ancora vivo?

ITedeschi erano vicini. Cecco ormai riusciva ad intravedere le loro divise fra i tronchi. Il bovino lo fissò grave, serio e, quasi sospirando, annuì. Sì. Cecco avrebbe potuto giurarlo. La bestia aveva fatto ‘sì’ col grosso testone poi, scartando verso sinistra, aveva muggito forte e si era allontanata da lui,

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***

attirando i soldati e salvandolo.

Cecco restò per un bel pezzo nascosto fra i cespugli, culo a terra, tremando come il batacchio d’una campana e pregando, senza vergogna, per il bove.

Nedo, sull’uscio, stava scuotendo la logora tovaglia per liberarla dalle briciole di pane, mentre il vecchio Neri si stava godendo del buon tabacco per pipa, quand’ecco che il ragazzo rientrò in casa, col fiato grosso.

“Sembra t’abbia visto un fuoco fatuo”.

“Peggio, nonno. Ho visto la Brutta”.

Neri ridacchiò, impastando la risata con una tossaccia secca che non gli dava pace.

“Brutta, eh?”

“Parecchio! Nonno, ma da giovane la Brutta come l’era?”

Il vecchio chiuse gli occhi. Non amava parlare del passato. Troppi ricordi amari. Troppe persone, che avevan dato un senso di pienezza alla sua vita, ora non esistevano più e avevan lasciato spazi vuoti, grossi come sepolcri.

“E come vuoi che la fosse? Brutta! Nata brutta, cresciuta brutta e, se il buon Dio non decide all’improvviso di farle un miracolo, brutta morirà. È la nostra vicina.

Se fosse stata bella e me ne sarei accorto”.

“C’ha la faccia da comodino coi cassetti aperti...”

Il vecchio fissò il nipote con occhi curiosi.

“...Fronte piatta e piccina, naso sporgente e mento ancora più in fuori; in avanti”.

L’uomo rise ancora, fregandosene della tosse.

“Descrizione perfetta!”

Scricchiolando un poco, si alzò, dirigendosi verso l’esterno.

“L’orto mi chiama, Nedo, che lo senti?”

In lontananza, il primo gallo s’esibiva tronfio, a petto in fuori e cresta al vento, in un glorioso ‘Chicchiricchì’.

“...E quando l’orto chiama, ti chiama la vita”.

Nedo lo accompagnò fuori sperando, in cuor suo, di non rivedere la Brutta.

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La Brutta era quasi arrivata a casa. Fra poco, il paese si sarebbe popolato degli schiamazzi dei bambini, dei canti delle donne e delle bestemmie degli uomini che giocavano a carte, in un’armonia che non le dispiaceva ascoltare attraverso le finestre dischiuse. Anche se usciva poco, conosceva tutti gli abitanti di Meleto. Uno per uno. Le loro storie, le ansie, le gioie; le loro vite, insomma.

Di certo, la giovane Lorenza avrebbe presto scoperto d’aspettare un bambino. Lei lo capiva sempre quando una donna portava il seme della vita nel grembo. E lo stolto Maso, alla fine, fra le gemelle, avrebbe scelto la Leonida come fidanzata, fra lei e la Bice.

“...Ma solo perché è stupido e non le sa riconoscere l’una dall’altra. Siccome la Leonida è più alta, sceglierà lei per non sbagliarsi, ma la Bice sarebbe stata una scelta migliore per lui, smidollato com’è. È docile e paziente. La Leonida è tosta, invece. Un bel caratterino. Gli farà vedere i sorci verdi, a quel cretino”.

La Brutta si rintanò in casa, borbottando i suoi pensieri, e s’affacciò alla finestra sul retro.

In avvicinamento, notò un tizio, forestiero, mai visto prima, che entrava in Meleto, felice come una pasqua. Doveva aver passato più di una notte nei boschi. Sgualcito, infreddolito, sporco.

“Un altro fuggiasco. Un altro che scappa.” constatò la Brutta. “Ma dalla guerra si può scappare?”

L’uomo si avvicinò e lei fece il gesto di chiudere il vetro, ma quello l’apostrofò con un: “Signora, non chiuda per favore.”, così gentile e supplichevole, che lei s’arrestò. Sembrava non far neppure caso al suo viso poco grazioso. L’aveva chiamata ‘Signora’.

“Cerco i Berti e i Vannucci. Siam parenti, sa? Non ci vediam da un bel pezzo, ma quand’ero piccolo son venuto qui per un po’, a Meleto. Mi sa indicare dove son le loro case?”

La Brutta se li ricordava bene i Berti. Eran due vecchiucci, piccini e magri, che avran avuto ottant’anni quando lei ne aveva venti. Da anni, concimavano la terra del cimitero, ormai. I Vannucci, invece, s’eran trasferiti a Firenze da sette, otto anni; da quando le figliole eran state prese a servizio da un signorotto e consorte, una come cuoca e l’altra come balia.

“Mi sa tanto che non c’è più nessuno qui”.

All’uomo si sciolse il sorriso. Caduto in briciole accanto alle scarpe scollate.

“Niente Berti né Vannucci?”

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La Brutta scosse la testa. Quanto può afflosciarsi un uomo davanti alla perdita di speranza?

“Signora...”

“Dica...”

“Non avrebbe un bicchiere d’acqua?”

La Brutta sparì in casa, al trotto. Cecco fissò a lungo la finestra senza sapere se andarsene o aspettare ancora un poco e, quando stava per allontanarsi, una mano uscì dallo spiraglio con un fazzoletto di stoffa annodato e pieno di pane, latte, formaggio e una bottiglia di vino. Cecco singhiozzò. Lo prese delicatamente e se ne andò verso il centro della città senza ringraziare. Il suo singhiozzo era stato più che eloquente.

La Brutta s’asciugò col grembiule un bruscolino che doveva esserle finito in un occhio, poi si mise a rifare il letto.

“Sono le sei di mattina. Voi portate la squadra sul lato destro. Voialtri conducete la vostra su quello sinistro. Li accerchiamo!”

Karl non riusciva a distogliere lo sguardo dalla cartina. Il dito, che aveva usato per individuare il paesino successivo lungo la loro linea di marcia, pulsava e doleva come la canna di una pistola premuta contro la nuca.

“Forse... forse potevo rovesciare la mappa. Il colonnello non si sarebbe accorto di un paese tanto piccolo. Sono stato io. Io li ho condannati! Col mio dito. Eppure lo so quello che fa. Prima costringe donne e bambini ad andarsene. Non per umanità, ma perché ama il suono straziante dei loro lamenti, delle suppliche, dei pianti.

Poi... oh, mio Dio! Dovevo rovesciare la mappa, indicargli una strada che ci portasse nei boschi, lontano da tutta questa povera, brava gente. Perché? Perché ho avuto paura a rovesciare la mappa?”

Il vecchio spalancò l’uscio come il vento di una notte di tempesta. “Nedo? Nedo!”

“Che c’è, nonno?”

“Son arrivati!”

Il ragazzino non ebbe bisogno di chiarimenti. Non parlavano mai, lui e il nonno, della guerra. Semmai si limitavano a parafrasare di gelate in

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avvicinamento, come se parlassero dell’orto anziché delle loro vite, e mai avevano chiamato il pericolo con un nome umano.

Nedo prese a tremare. Forte. Strano, perché fuori il sole, ormai, aveva iniziato a scalare il cielo.

“Ti devi nascondere”.

Il vecchio artigliò il nipote per un polso e lo trascinò fuori, anche se non aveva la benché minima idea di dove portarlo.

La Brutta, quasi li aspettasse, s’affacciò in quell’istante, sbracciandosi.

“Qui, vecchio pazzo. Qui. O vi vedranno!”

Il vecchio spaventato si lasciò guidare e la raggiunse. Da anni, non parlava con la Brutta.

Lei li spinse in casa e chiuse la porta.

“C’han circondati a tenaglia e sono armati fino ai denti. Di certo, non son qui in villeggiatura. Han pessime intenzioni”.

“Brutta... puoi fare qualcosa per lui?” piagnucolò l’anziano, guardando il nipote con occhi impotenti.

LaBruttasquadròilgiovane,soppesandoneleformeancorafanciullesche e quei bei folti capelli, troppo lunghi per un ragazzo.

“Si può provare...” decretò infine e l’uomo riconquistò la speranza.

“Cosa fate? Andatevene. Lasciateli! Vi ordino, in nome di Dio, lasciateli andare”.

Il parroco gridava disperato, con la tonaca ondeggiante nella corsa. Tentava di fermare gli stranieri entrati a profanare Meleto.

“Lei... ordina?” rise, sguaiato, il colonnello.

“Sì, nel nome di Dio!”

“Lei è ridicolo. Irritante. Una nullità. Dio ride di lei”.

“Allora... vi imploro. Lasciateli stare. Dove li portate?”

I soldati, in coppia o in gruppi di tre, nel frattempo, sventravano gli usci a colpi di spalla o a calci, violentando i sacri nidi domestici, irrompendo nelle case, spezzando le famiglie. Ogni maschio, fra i quattordici e gli ottantacinque anni, venne strappato dal letto e dagli abbracci dei propri cari e sbattuto in piazza, in un capannello di uomini impreparati, sconcertati, storditi, mortificati.

“Lasciaateloo! Baccio, Bacciooo! Che ti fanno? Dove ti portano?”

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***

“Tranquilla, Flora. Vedrai... avran bisogno di gente per qualche lavoro di fatica. Vedrai si chiarisce presto e... e si risolve, vedrai. Tu pensa al bambino e alla cena. Fammi la minestra di fagioli. Quella buona... con le cipolle.”

“Oddio, Baccio. Bacciooo!”

Il colonnello, assistendo alle proteste di quella che riteneva un’inutile teppaglia umana, storse le labbra sottili in una smorfia che rese viva la cicatrice per un istante, poi si sistemò con il palmo i capelli corti.

“Vi imploro... dove li portate? Cosa volete?” insistette il curato.

Il crampo allo stomaco che lo tormentava dal mattino si era fatto coltello, nelle budella.

“Lei è seccante. Gliel’ho già detto?”

“So cosa volete fare alla mia gente, ma non ce ne è motivo. Sono innocui. Pacifici. Lei invece ha occhi di demone. Ha fame di sangue? Allora, eccomi! Si sfami. Uccida me. Si diverta su di me. Mi dilani. Mi sezioni. Mi strappi la carne. Si sfoghi, mutilandomi. Non m’importa. Sono qui. Urlerò. Piangerò. La farò sentire felice. Sarà un carnefice soddisfatto, glielo garantisco. Sono un uomo debole, dal patimento facile, ma lasci vivere la mia gente, la prego...”

Il tedesco soffiò aria e fastidio dalle labbra.

“Lei è niente. Lei è nessuno. Lei è impotente. Lei non può trattare con me. Io detengo il potere. Toglietemelo di torno. Accontentatelo! Se proprio vuole morire, portatelo con gli altri”.

“Lasciatemi andare. Io non c’entro. Sono arrivato ora. Non abito qui, io. Son solo di passaggio. Cercavo i miei parenti, ma m’han detto che non c’è più nessuno. Tolgo subito il disturbo, se mi lasciate il braccio, davvero! Fatemi andar via, vi prego. Mi dicevo: Lì sarai in salvo, Cecco. Ci ho messo tanto ad arrivare. Ho parlato solo con un bove e una civetta. Dove mi portate? Lasciatemi andare. Per favore...”

“Indossa questi”. La Brutta porse una sottana e una camicetta al giovane Nedo. “No! Son vestiti da donna.”

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“Sta’ zitto e mettili!”

“Mi vergogno, nonno”.

“Falla finita e indossali. Brutta... che pensi di fare con mio nipote?”

“Stan rastrellando le case, vecchio. Fra poco saran qui. Ho guardato dalla finestra.

Gli uomini da una parte. Donne e bambini dall’altra. Stanno allontanando le donne dal paese. Non è un buon segno, vecchio. Lo capisci quel che stanno per fare?”

L’uomo annuì stanco, a spalle basse.

“Nedo... sei un po’ secco per passare per una giovinetta in fiore, ma se mi starai accanto penseranno che tu abbia preso da me; che mi assomigli. Una donna brutta con una brutta nipote. Ti scherniranno, magari, ma tu ignorali.”

“Io non ti conosco, nemmeno. Perché mi aiuti?”

La donna fissò grave il ragazzo e poi il vecchio. Mise le mani sui fianchi e, rivolta all’anziano, sbottò: “Ma come l’hai cresciuta ‘sta creatura? Giovanotto, non si aiutano solo gli amici, sai? Si aiutano i propri ‘simili’! Sarò pure brutta, ma il mio cuore è uguale al tuo e, ringrazia Iddio, diverso da quello delle belve là fuori. Ti aiuto perché sei una persona”.

Nedo tacque, commosso.

“Eccoli. Si avvicinano. Vecchio... per te non posso fare niente, mi dispiace”.

“Fa niente. Questa è la mia terra. Voglio morire qui”.

“Cosa? No! Nonno, se non vieni te, allora io non...”

“Sta’ zitto!” lo minacciarono all’unisono.

“Brutta...”

“Vecchio?”

“Non sapevo quanto fossi bella. Perdonami e... grazie”.

“Prego, vecchio, prego...”

I tedeschi sfondarono la porta, facendoli trasalire.

In una manciata di secondi, Neri, mansueto, fu trascinato via, verso la piazza, con gli altri uomini.

Nedo, invece, fu avvicinato da uno dei soldati che, con la canna del fucile, gli scostò una ciocca di capelli dal viso e scoppiò a ridere.

“Levate le mani di dosso dalla mia nipotina.” gridò l’anziana, mostrando i denti.

Il soldato esplose in un’altra risata sguaiata, sgangherata, e la donna riuscì solo a comprendere due parole: ‘Schlecht’ e ‘Mann’, ‘Brutta’ e ‘Uomo’.

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Non c’era tempo da perdere. Sospettavano. Sollevò la camicetta, mettendo a nudo due seni magri e striminziti; secchi come prugne avvizzite. Un diversivo. Li aveva orgogliosamente esibiti solo una volta, ad un coetaneo, quando erano floridi e fioriti come rami di pesco. Storia vecchia. Lui aveva riso e lei aveva messo una pietra sopra alla questione ‘amore’. Con finta baldanza, prese a farli ciondolare, sotto agli occhi sdegnati del soldato.

“Donne, mio caro! Non vedi? Siamo donne, bocconcini prelibati. Interessa la mercanzia?”

Il tedesco lanciò un paio d’urlacci nella sua lingua brutale e, a spintoni, imitato dal compagno che rideva come un matto, spinse la vecchia e Nedo (da quell’istante, a tutti gli effetti, femmina accertata, seppur brutta per DNA) fuori da Meleto.

Le donne, sperdute, allontanate, fissavano l’amata Meleto, con occhi grandi e cuori piccoli, mentre i bambini giocavano fra gli alberi.

“Facciamo che tu eri tedesco e io italiano. Maramao! Prendimi se ci riesci.”

“Tu corri troppo veloce. Mammaaa”.

Si ha più fantasia, che paura, da bambini. Si ha tanta paura, invece, se si è una donna sola, senza un tetto sulla testa, senza cibo né acqua, nel mezzo del bosco, con i piccoli che giocano spensierati e il tuo uomo prigioniero.

Le donne, in piedi, terrorizzate, inermi, fissavano Meleto come statue di pietra.

I tedeschi divisero gli uomini in quattro gruppi, separandoli. Restavano pochi dubbi, ormai. Anche chi era stato uomo d’animo ottimista, ora capiva che il sole li stava riscaldando per l’ultima volta.

“Morire così, mio Dio, non ti par brutto farci morire così? In questo modo? Cosa faranno, sole, quelle povere donne? Mi senti, Dio? Ho paura! Perdonami e perdona tutti noi, Padre. Ego te absolvo. Ego te absolvo. Ego te absolvo...”

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“Da qui, vedo il mio orto e in tasca ho un pugno della mia terra. Son vecchio, soldati, fate un po’ quel che vi pare tanto Nedo sta in salvo. Vi abbiam fregati.”

“Io... Io pensavo: ‘Vado a Meleto. Che ci vanno a fare lì, i Tedeschi? Sarò al sicuro, a mangiar pesche e a bere vino, con i miei parenti. Un’aria di festa. E invece no. Mi uccidono a Meleto. Uccidono me. Me. Me. Me...”

“Io non sparo. Non me ne importa degli ordini. Non è ammutinamento. È che questa non è guerra; è una carneficina e io, Karl, un tempo fieramente tedesco, non sono un carnefice. Sono un soldato, ma sono anche un uomo! Un uomo con un cuore che pulsa e una testa che ragiona e un’anima che soppesa la differenza fra combattere e trucidare. Se sparo a questi italiani, non sparo solo a degli esseri indifesi, ma uccido anche parte dell’umana cultura. Sparo a Roma, a Firenze, a Napoli... Uccido l’intera umanità. Ognuno di questi italiani è un uomo, mica un ammasso di carne buttata lì! Uccido carne, pregi, peccati, idee e difetti. Uccido sentimenti e persone. Persone! No. No! Io non sparo. Imbraccio il fucile e faccio finta. Faccio solo finta...”

“Padre nostro che sei nei Cieli...”.

La Brutta, con labbra tremanti, fissava Meleto insieme alle altre donne. Nedo, stretto nella sottana che gli lasciava scoperti i polpacci magri e villosi, non avvertiva più imbarazzo per quegli abiti che lo avevano salvato. Provava dolore ed apprensione per il nonno, tanto dolore, ma provava anche gratitudine. Un’immensa, enorme pozza di placida gratitudine gli ristagnava nel petto come un lago assopito. La Brutta lo aveva salvato. Aveva rischiato la propria vita, si era umiliata mostrando le mammelle e poi lo aveva abbracciato forte, come una madre. Forse sarebbe stata lei la sua nuova famiglia e, se così fosse stato, ne sarebbe andato orgoglioso. Per la prima volta, da sempre, il giovane si domandò quale fosse il vero nome della Brutta.

La Brutta, rabbrividendo, notò dei colombacci allontanarsi dal paese. Era giunto il momento. Avrebbe tanto voluto poter abbracciare quegli uomini che si era sempre limitata a guardare da lontano e a conoscere da dietro lo spiraglio della finestra. Non avrebbe più potuto farlo. Almeno, non circondando le loro spalle con le sue braccia ma, forse... con la sua voce...

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Le venne in mente l’aria di un’opera che le ricordava il nome di quel coetaneo di cui si era innamorata da ragazzina. Iniziò a cantare, la Brutta. Forte, stonata, singhiozzando e le donne, dapprima stupite e offese persino, alla fine, comprendendo, la seguirono. Ne venne fuori un coro funesto, dolente e tanto intenso da spezzare le pietre e seccare i fiori. Le loro voci, puntate verso Meleto; le note lasciate al vento, lanciate come frecce, per raggiungere gli uomini, mariti e figli, per un ultimo messaggio di congedo.

“Sono qui, amore. Ti amo, lo sai? Non ti preoccupare. Sarà un istante. Tu gonfia il petto; non lasciarti morire a spalle curve. Chiudi gli occhi e riposa, mio tesoro, mio orgoglio, mio amore”.

A Meleto, entrò il canto, come un’ospite atteso, e raggiunse gli uomini. Quelle note furono caldi abbracci, carezze materne, baci appassionati, malinconici addii e dissetarono gli svuotati otri, che se ne stavano in piedi di fronte ai fucili; unsero come un unguento le piaghe della paura, restituendo coraggio. Le spalle di Meleto si allargarono. Non vacillarono le sue gambe.

“Di lagrime avea d’uopo, or son tranquilla

Lo vedi? ti sorrido… lo vedi?

Or sono tranquilla, ti sorrido!

Sarò là, tra quei fior, presso a te sempre.

Sempre, sempre presso a te!

Amami, Alfredo, Amami quant’io t’amo!

Addio!”

Fori in un muro e tutto divenne Passato.

Una colonna di fumo bianco, immacolato come un lenzuolo appena lavato e steso al sole, s’innalzò da Meleto, in ultima, funerea risposta.

Nedo si svegliò alle prime luci dell’alba. Era stata una notte di pianto

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e preghiera e l’avevano passata sdraiati a terra, sull’erba, infreddoliti e masticati dalle zanzare. La Brutta non c’era. Iniziò a cercarla con ansia crescente, ripetendosi: “Sei tutto quello che ho”.

Inciampò nei corpi di donne allo stremo, addormentatesi per non pensare e le svegliò tutte, una ad una, risvegliando anche quel dolore che non si poteva più ignorare.

“Dobbiamo andare.” un mantra. “Dobbiamo andare”.

“Allora... andiamo!”

In silenzio, in colonna, le donne rientrarono in Meleto, a far quello per cui sono nate: far nascere gli uomini e seppellire gli uomini.

Trovarono la Brutta china fra i corpi inceneriti, che parlava ai morti come a vasi di fiori, e li adagiava dentro ad un grande cassettone di legno che si trascinava dietro.

“Tu non si capisce più chi sei; sei tutto bruciato, pover’anima sfortunata. Tu invece eri Maso. Quanto avrei voluto dirti che fra le gemelle, avresti dovuto scegliere la Bice. Sarebbe stata più adatta a te, sai? Ma ormai, tesoro caro, le hai lasciate tutte e due. E tu, dal Paradiso, vedi di proteggere il tuo bambino ‘ché la Lorenza è incinta. Lei non lo sa, ma lo capirà alla prima luna piena. Sarà spaventata. Metti una parola buona per lei, col Creatore. Oh, Baccio, povero Baccio, quella buona minestra non te la potrai più mangiare...”

Nedo le si avvicinò col viso rigato di cenere e lacrime.

“Brutta... ti prego, Brutta, dimmi come ti chiami”.

La vecchia s’accasciò a terra, sulle ginocchia, concedendosi finalmente alla disperazione.

“Degna, mi chiamo. Degna”.

Le donne si avvicinarono ed iniziarono ad aiutarla a trasportare i cadaveri dei loro uomini, trascinandoli con l’ausilio del cassettone di legno; cassettone dove la Brutta, nella vita, aveva accumulato un corredo che non le era mai servito. Sposa di nessuno, si sentiva ora sposa di tutti quei poveri corpi bruciati. Il cassetto, dove da ragazza aveva riposto sogni e speranze, aveva adesso trovato un triste utilizzo: trasportava cadaveri; trasportava per l’ultima volta gli uomini di Meleto.

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“Nonno, me lo compri il gelato?”

Il vecchio prese il piccino per mano. Era ora di pranzo e il caldo bruciava la pelle. Due giapponesi sorridenti fotografavano le sculture commemorative, senza sapere, e quattro tedeschi s’ubriacavano di vino e di sole su una panchina.

“Metti il cappellino, Neri, o ti brucerai”.

“Quando me lo compri il gelato?”

“Dopo”.

Camminarono. Un delicato armeggiare di stoviglie proveniva dalle finestre aperte.

L’anziano sfiorò un muro con la faccia triste. I palmi appoggiati come per una carezza.

“Cosa sono questi buchi?” domandò il bambino inserendo le piccole dita nelle cavità.

“Un ricordo”.

Poi l’uomo proseguì per un breve tratto e il bambino gli trotterellò accanto.

Non era più come prima. I colori, gli odori, non erano gli stessi, ma... il vecchio si accucciò e raccolse una manciata di terra.

“Guarda, Neri... toccala! Annusala! La terra è vita. Questa è la tua terra. Questa è la tua vita. Mettine un pizzico in tasca. Ti farà compagnia”.

Il piccolo rise e se ne riempì le tasche, saltellando in cerchio.

“Ora me lo compri il gelato, nonno?”

Un chicchirichì riecheggiò nell’assenza di vento. Il vecchio sorrise e insieme, canticchiando, s’incamminarono verso il bar.

249 ***

Il corto mitra appoggiato in un angolo buio

“Ehi, rossa...”

Silvia non l’aveva visto, mentre camminava soprappensiero. Amos era appoggiato al muro di una casa, lì dove iniziava il paese; lì dove le case si addossavano le une alle altre, in fila lungo la strada principale. Silvia lo aggredì:

“Perché non sei a lavorare?”

“Ho fatto un bel pezzo di strada per andare a sentire un comizio sindacale e ad ascoltare le ultime novità.”

“Te sei bravo solo a fare delle chiacchiere. Meno male che non ti sposi.”

“Perché non mi sposo?”

“Perché sei un perditempo. Sei senza casa. Non hai un pezzo di terra dove fare il fittavolo. Per fortuna hai un fratello generoso: se ne ha, ti fa lavorare; altrimenti ti tocca andare a ore come una ragazzino. E, quando non lavori, vai in giro a mettere i grilli nella testa ai giovani del paese; a parlare di padroni e servi. E adesso, ancora? Come se non ne avessimo passate abbastanza, eh? Non ce n’è stata abbastanza di guerra? Basta, smettila anche tu; ne abbiamo appena finito con le squadre nere che terrorizzano tutti, con il reclutamento obbligatorio e la pena di morte! E abbiamo appena finito con voi che siete andati in montagna e siete tornati a fare i cretini.”

“Ehi, rossa, cos’è che ti ha fatto scaldare tanto? Hai litigato con Duilio?”

“Cosa non abbiamo passato a tenere nascosti i nostri uomini! Tu non c’eri, eri in villeggiatura. Cosa non abbiamo patito quando quelli, che sospettavamo delatori, passavano vicino a casa o nei campi. E se il delatore riconosceva Duilio nei campi? E quando le squadracce venivano a perquisire casa, con Duilio e Manlio nascosti sotto terra, sotto la porcilaia: meglio nella merda, che a combattere per Salò. Ma adesso... adesso è finita. Adesso basta. Invece, tu torni in paese e ricominci a parlare di combattere la guerra dei proletari. Ma che vuoi? Vattene dal paese.”

“Devi sapere, rossa, che adesso c’è il governo Parri, il governo del presidente dei partigiani!”

“E allora?”

“E allora, potremo avere un risarcimento per tutti questi anni di

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sofferenze.”

“E cioè?”

“Che so! Non ti piacerebbe avere l’acqua corrente in casa? Per bere, lavarsi, far da mangiare? Un tubo di fontana dentro casa, invece che quel secchio che ti spezza la schiena, quando vai al pozzo...”

“Roba da ricchi!”

“No, se lo fa il governo. E addio alla mezzadria! Riforma agraria e riforma delle tasse sulla terra per i piccoli coltivatori.”

“Sogna, sogna. È così che perdi tempo, invece di guadagnare il pane per te e per i tuoi.”

“Va beh. A te ti hanno tirato su ad aceto, non a latte! Ciao, rossa.”

“Io vado che c’ho il mio daffare. Ho perso anche troppo tempo a darti retta!”

Sull’aia di casa ruzzolavano delle galline sfaticate che cercavano pigramente cose da ingerire, ma non ne trovavano. Anche altri animali corsero verso lei affamati. Il vecchio Bubbla se ne era andato per una brutta malattia e, dietro di lui, rapida, anche la moglie, quasi senza farsi sentire. Lui, Bubbla, non aveva lasciato casini. I due figli grandi, Duilio, Bubbla il giovane e Manlio, vivevano in casa, con le mogli Silvia la rossa, e Neris. Vivevano assieme a Renzo, il ragazzino ed Elide la zia Putta, la zia zitella che era una benedizione: lavorava sodo, dava una mano alle altre donne fertili e non poteva pretendere nulla per sé.

Silvia entrò in casa come una furia, afferrò la cognata per i capelli e strillò.

“Tu mi fai ammazzare i miei animali. Ma, prima, ti do in pasto al maiale. Deficiente.”

La cognata, Neris, afferrò i capelli sbiaditi della rossa e li tirò forte, sentendo l’altra che accusava il colpo.

“Ah, sì? I tuoi animali? Ah, così in questa casa io non sono una delle padrone? Sono quella che fa la serva alla donna prepotente. Ah, se Duilio si stufasse di te! E ti cacciasse con una pedata! E se gli animali sono tuoi, te li governi tu!”

“E tu mangi solo quando tuo marito Manlio porta a casa della moneta sonante!”

La rossa, con ancora in mano i capelli della Neris, diede uno strattone così forte che la fece vacillare e con un colpo d’anca la buttò a terra. Intanto che cadeva, Neris riuscì a sfoderare le unghie e a graffiare Silvia sotto la gola. Tre lunghi segni rossi sulla pelle lampeggiavano. Silvia si toccò e poi,

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con la mano ad artiglio, cercò vendetta gettandosi a casaccio contro il viso di Neris e segnandola con le unghie con due righe rosse sotto gli occhi.

Renzo era andato a chiamare gli uomini, Duilio e Manlio, che erano nei campi poco lontano. Ciascuno calmò la propria donna assestandole due ceffoni in viso. Entrambe le donne si rialzarono lentamente. Pulirono con aria mesta la gonna e rimasero ferme, con la testa bassa, ad aspettare ordini.

Intanto la campana aveva suonato il vespro. Duilio ruggì: “Andate a mettere in tavola e guai se sento parole arrabbiate.”

Finita la cena, gli uomini discussero del loro padrone, il cavalier Massari, dal quale stavano a mezzadria e di come comprare una altra vacca, tutta loro. Renzo, che armeggiava col fuoco, disse la sua.

“Dopo il 25 aprile il cavalier Massari ha le orecchie basse. Per la vacca bisogna però mettere per scritto le cose, perché altrimenti, se la compriamo noi, quello dopo rivendica che la vacca è sua, come i filari, la vite, il macero e le piante selvatiche che ci crescono sopra.”

Renzo fece un piccolo sorriso. Lui era stato una staffetta partigiana e di tante cose aveva parlato in questi anni. Renzo continuò:

“Lo sapete che parlano di riforma agraria? Di dare i terreni ai contadini? Davvero. Sarà il primo atto del nuovo governo dopo le elezioni.”

Manes sospirò: “Un sogno lungo cinquant’anni! Ah, se non dovessimo più fare a metà. Pensate proprietari del nostro terreno. Dopo tanti anni e tanta fatica.”

Duilio, accendendo una sigaretta sulle braci: “Ci penso. Dopo tre generazioni che siamo qui, non ci abbiamo messo da parte nemmeno un vestito buono. E abbiamo una bicicletta sola per tutta la famiglia. Ma se il podere fosse tutto nostro?”

Renzo riprese: “Pensa, con due anni di frumento mettiamo giù un filare di pere. Nessuno che ce lo vieta, nessuno recrimina. Nessuno pretende. Avremmo i pasti assicurati. Anche quando la stagione ci tradisce. E potreste rimanere a vivere sul podere. No. Io no. Farò la scuola di partito. Farò l’operaio. E c’è chi parla dell’estero. Io ho detto: Prendetemi, sono pronto.”

Duilio non commentò, ma era contrariato e disse: “Dai, metti la cenere sul fuoco, coprilo bene che andiamo. Andiamo alla stalla del Baruzàt. Ci sarà un po’ di gente.”

I fratelli andarono con la bicicletta e Renzo prese per i campi. Era buio, ma lui conosceva quei posti troppo bene per essere in difficoltà. Dopo poco, arrivò alla stalla. Il cortile era pieno di biciclette.

Era una stalla grande. Dentro c’erano molte mucche e solo alcune

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poste erano vuote, nonostante la guerra. Al centro della stalla c’era una lampadina e sotto sedevano su sgabelli per mungere le donne di casa, di tutte le età, dalla più anziana alle più giovani. Le ragazze erano molto belle e questo portava alla stalla molti ospiti. Le donne passavano il tempo a sferruzzare o ricamare e a chiacchierare.

Renzo facendo un cenno di saluto verso le donne, si unì al gruppo degli uomini e salutò Baruzàt. Il vecchio se ne stava ad ascoltare Amos. Renzo, invece, continuava a guardare la più giovane delle donne, Rina. Aveva il collo lungo e una splendida chioma bionda. Lei, come se avesse sentito il suo sguardo, si girò e lo ricambiò.

La voce del vecchio Baruzàt lo scosse dicendo: “Vero, Renzo?” Poi, gli diede un colpetto sullo sterno e aggiunse: “Ti piace la Rina, eh? È che non ci state in tre famiglie nel fondo dove sei. Se no, era cosa fatta. Figurati, il figlio di Bubbla... Nessun problema. Ma così, come si fa? Vediamo cosa porta l’anno nuovo, poi ci pensiamo.”

Amos trascinò il ragazzo vicino a sé con una mano forte come l’acciaio; e lui notò che intorno al collo aveva un lungo fazzoletto rosso. Stava dicendo:

“Non abbiamo solo combattuto, sopratutto abbiamo fatto esperienza della politica del popolo. Dove? Ma nelle repubbliche partigiane! Abbiamo fatto l’autogoverno democratico. Ma abbiamo imparato a governare anche tenendo in piedi il movimento partigiano, potrei dire. Come lo abbiamo fatto nelle leghe sindacali, nei Comitati di Liberazione Nazionale. Durante il periodo della lotta clandestina, noi, anche se appartenevamo a forze politiche diverse, dentro ai comitati di liberazione abbiamo imparato a diventare la rappresentanza dei cittadini. Per questo, adesso pretendiamo che solo le forze del Cnl partecipino al compito di costruire il nuovo Stato italiano.”

“Vorrei ben vedere!”

“Noi siamo quelli che possono dare alla costituzione e al governo l’impronta del popolo. Siamo quelli che possono imporre che la politica italiana si adegui alla situazione nuova. Siamo il secondo Risorgimento.”

“Ma che vuoi fare?”

“Fare quello che stanno facendo gli stati vincitori della guerra!! La monarchia della Gran Bretagna... la Francia. Cosa fanno? Nazionalizzano i settori dell’energia elettrica, della sanità, dell’acqua, dei trasporti; estendono la mutualità! C’è la Sécurité sociale, in Francia per le pensioni!”

“Cosa vuol dire?”

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“Cosa vuol dire per noi? Vuol dire fogne, elettricità, riscaldamento, acqua corrente, telefono. In tutte le case. E mutua per malattia e pensioni. Pagate dallo stato. ”

“Ma perché sei tutto contento! Queste cose le fanno in Francia, non da noi!”

“Perché adesso le faranno anche da noi. C’è il governo Parri. Lui farà rispettare lo spirito dei comitati di liberazione.”

“Ma scusa. I partiti storici? E i padroni? Che diranno?”

“Ecco! Proprio lì volevo andare! Loro hanno perso la guerra! Ma a volte, questo non vuol dire niente! C’è una cosa che ci può fregare: la Continuità! Vuol dire che continuano a governare quelli di prima: gli stessi addetti ai ministeri, gli stessi giudici del fascismo, gli stessi uomini nei militari, quelli della milizia, gli stessi carabinieri che ci hanno sparato fino a ieri, gli stessi addetti alla corrente, al gas, al telefono, alle scuole, agli ospedali.”

Baruzàt si mise le mani sui fianchi e respirò a fondo.

“Sai che ti dico? Che mi hai convinto. Io do il mio sostegno a Parri. Dimmi quello che devo fare e vedrai che lo faccio. Basta che non mi chiedi di sputare sulla bandiera rossa!”

Risero tutti. Renzo girò gli occhi: Rina gli stava sorridendo.

La domenica mattina Renzo correva. C’era, sul grande canale, un angolo dove le canne altissime e ormai secche rimanevano fino primavera e, aperte un po’ sotto, formavano una nicchia perfetta per due. Lì c’era silenzio; lì non passavano contadini e pescatori, solo si vedeva l’acqua che scorreva lentamente e l’unico rumore lo faceva qualche pesce che passava distratto in superficie.

Renzo si buttò dentro nella nicchia, Rina arrivò subito dopo. I suoi capelli biondi erano rugiadosi di sudore; la sua pelle bianca era arrossata, in alcuni tratti vermiglia, in altra rosa, come alcuni fiori di primavera, o come le pesche che maturano. Presero fiato senza dire nulla.

Quando fu il momento, Renzo non poté che guardare le labbra di Rina, rosse, turgide, appena socchiuse. E d’impulso, si accostò baciandole. Anche le sue labbra erano carnose, calde, sanguigne. Rina sentì il calore di quelle labbra passare sulle sue; aprì la bocca e permise a Renzo di prendere il suo labbro inferiore e di succhiarlo e morsicarlo leggermente. Rimasero ad esplorare le loro labbra per un sacco di tempo, senza che alcun altro muscolo si muovesse. Lei disse: “Ma chi sei tu? Sei solo un altro Bubbla?”

Lui: “No, io sono il tuo orizzonte di una vita diversa, nuova, per la quale abbiamo combattuto”. Lei: “Ma adesso dobbiamo prenderlo e viverlo

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questo futuro.”

Si assopirono.

Elide lo chiamò: “Renzo, va’ a raccogliere gli spaventapasseri vecchi, che stasera li portiamo in piazza quando c’è da bruciare il Vecchione.”

Elide, con i marmocchi attaccati alla sottana, lo mandò via con un gesto, che facesse in fretta.

“Dai, Elide, è la fine dell’anno, mica la fine del mondo!” “Su, non fare lo sciocco. Che so, perché sei cosi contento.”

“Ormai lo sanno tutti. E fanno finta di niente. Meglio così: meno complicazioni.”

“E stanotte? Come farai a farle gli auguri?”

“Ci sarà anche lei in piazza a bruciare il Vecchione. Troveremo il modo.” Avevano passato il loro primo Natale liberi e avevano fatto festa fino a capodanno. Ad ogni pasto abbondante e con carne si sentivano una grande felicità dentro... Venne scuro e da fuori arrivò della musica. Le donne si bardarono per tenere lontano il freddo e uscirono sull’aia.

Dalla strada arrivava una banda di uomini che cantava ed urlava, malamente accompagnati da una fisarmonica ed una tromba. Era una delle squadre che andavano di casa in casa a portare il buon anno.

Il nuovo anno sembrava quasi un prodigio e, elettrizzati, si ritrovarono tutti in piazza. Arrivando, i suonatori andavano con i suonatori, gli urlatori, con gli urlatori, le ragazze tra loro, gli adulti vicino al fuoco, i ragazzi a lato con le carriole.

Appena le squadre del buon anno furono tutte tornate dal giro per le case, il mastro del fuoco, diede l’ordine di incendiare il covone. Ritto in mezzo alla piazza, dominava questo mucchio di paglia e i rami selvatici che i ragazzi del paese avevano raccolto in giro nelle zone non coltivate, col permesso del cavalier Massari; aveva la forma di un cono, con due lunghe pertiche che, infilate nel centro del covone, andavano fino a terra per sostenerlo. Proprio in cima gli avevano messo una specie di enorme cappello. Bene o male sembrava il busto di una persona anziana, grassa, brutta e malevola. Al grido di “Brucia, vecchione, brucia, porta via questo anno infame e pieno di tormenti”, il fuoco si alzava e ardeva sempre più velocemente. All’improvviso, quando il cuore del covone fu esausto, il vecchione crollò su se stesso, producendo un circolo infuocato molto largo.

Si fecero avanti i ragazzi con le loro carriole, il più vicino possibile e lanciarono il loro carico dentro il cerchio, cercandone il centro. Con un bell’arco, finivano tra le braci spaventapasseri, vecchie seggiole marcite,

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stracci inservibili pieni di tarme, sportelli di madie o di armadi rimasti nell’umidità per troppo tempo. E sterpaglie raccolte qua e là in casa o tra i campi.

Così il fuoco durava ancora e bruciava a lungo, ma più lentamente, cambiando colore a seconda delle cose che venivano gettate dentro. Il fuoco era più lento e la gente uscì dalla trance con uno scoppio di allegria; ricominciava la musica, riprendevano le urla, quasi di vittoria, per la sconfitta del vecchione malevole ed infame. Renzo abbracciò Rina e la tenne stretta; respirò il suo odore; sentì con le mani il suo corpo, più pieno, più femminile, più esaltante di soli pochi mesi prima. Le sussurrò all’orecchio: “Ti amo.” E pensò: “Per sempre.”

Baruzàt gridò a tutti: “Adesso andiamo nella mia stalla a scaldarci e a bere un buon bicchiere di vino caldo.” Arrivati, portarono dalla casa un paiolo ancora fumante di vino rosso, odoroso e aromatico. Con un mestolo riempì a tutti il bicchiere. I bicchieri scottavano, tanto che prima di poter bere bisognava palleggiarselo da una mano all’altra. Ma ne valeva la pena: era buono e produceva un caldo ed un’ebbrezza che non si provava con il vino a tavola. Le donne si fecero portare da bere due volte.

In quel momento, entrò Amos. Aveva una faccia terrea. Era vestito da partigiano; un tascapane e uno zaino colmo di roba, come quando era partito per andare in montagna. Non era difficile immaginare che avesse una pistola nascosta nel largo pastrano e che fuori avesse appoggiato in un angolo buio un corto mitra.

Renzo ebbe una scossa di paura. Amos portò Baruzàt e Renzo in disparte a parlare fitto con loro. Qualcuno fece stoppare la musica e azzittire tutti i presenti e disse.

“Amos, vuoi dire anche a noi cosa sta succedendo e perché hai il tascapane e la tenuta da montagna?”

Amos si interruppe e si mise al centro. Li guardò tutti con i suoi occhi pieni di fuoco, di umiliazione, di rabbia e un filo di paura. Una paura che nello sguardo di Amos non si era mai vista, nemmeno sotto il fischio della mitraglia tedesca.

“Il governo Parri è stato rovesciato e il Presidente si è dovuto dimettere. Il suo posto è stato preso da De Gasperi. È un tradimento... un colpo di stato. Io riprendo le armi, amici ed entro in clandestinità.”

Ci fu un suono sordo di sgomento, non fatto di parole, ma di grugniti e di respirazione affannata. I cuori di tutti, in un secondo, erano ripiombati dentro quei due anni così difficili, nei quali la guerra si era infilata dentro

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le case. Case spogliate dal reclutamento forzato, o dalla fuga in montagna degli uomini. Case profanate dai combattenti di tutte le parti, stranieri ed italiani, simpatici o antipatici, rispettosi o violenti. Cantine ingravidate di uomini di casa da nascondere, perché non fossero portati via, rastrellati, trascinati sulla via o sulla piazza, massacrati, appesi ai lampioni o ai pali della luce, o messi su un treno per la Germania. Cantine violentate da paracadutisti inglesi ed americani che cercavano di sopravvivere, nascosti per far vivere la speranza. Cantine svuotate per sfamare la famiglia, per aiutare chi non ce la faceva con la tessera, per rifornire i partigiani, o depredate per la fureria di tutti gli eserciti che passavano di lì. Case tradite dai morti nella loro promessa di tornare: morti come soldati sul fronte, morti come civili puniti, morti come partigiani, morti come poveracci per le febbri e gli stenti. Case accecate dal coprifuoco. Case illuminate dai bombardamenti degli aerei dei nuovi alleati. Case aperte dalla forza delle nuove bombe più crudeli ed asettiche dei vecchi alleati. Case che si ingrassavano di fame grazie alle tessere del razionamento. Case derubate dei piccoli tesori che custodivano per comprare cibo al mercato nero. Case zittite dai delatori, che spifferavano e portavano dietro di sé il vento gelido della morte; informavano tedeschi e repubblichini dov’erano nascoste le persone, dov’erano stati viste le colonne partigiane, dove c’erano cibo ed armi. Case che avevano visto l’ultimo sangue schizzare dalle ferite dei delatori; sangue che aveva permesso di lavare questo sordo dolore per il tradimento di uno di noi, uno del paese, quasi un amico, uno al quale non era mai stato rifiutato un attrezzo agricolo, o un aiuto nei campi.

Ed ora, tutto ricominciava. Le donne piangevano, le loro nuove speranze erano state strappate. E Amos proseguì:

“Adesso sappiamo che il nostro straordinario movimento popolare, la Resistenza, non avrà nessuno ruolo nel rinnovare la struttura dell’Italia. Ovunque in Italia stavamo appena godendo di questo soffio di vitalità, portato dalla Resistenza. Ne abbiamo goduto nelle case, nelle fabbriche, sul lavoro o nel governo dei comuni.”

Amos tossì, preso da un eccesso di emozione e di un rivolo di pianto che gli strozzava la gola.

“È ritornato il vecchio mondo. Ritorna la magistratura, i burocrati, i notabili, i funzionari di carriera dentro i partiti, i professionisti. Loro si stanno insediando di nuovo e ci schiacceranno, perché loro sanno far funzionare le cose: i ministeri, le professioni, le fabbriche e l’economia. È il vecchio stato che torna, quello che non ha mai guardato al popolo, ma

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che lo usa. E allora, addio agli eroi. Gli eroi della guerra partigiana, i civili che piangono i morti, i fucilati, gli impiccati, i torturati; le donne che ancora accudiscono le febbri dei feriti, e la fame e le lacrime degli orfani. I contadini e gli operai o i bottegai e gli impiegati che con mille mezzi sono rimasti aggrappati al lavoro e hanno portato a casa il pane. Le madri che non vedevano l’ora della pace. I giovani che hanno visto le persone care passare anni nelle prigioni e nei campi di concentramento.”

Il silenzio angoscioso aveva contagiato tutti... fermi impietriti seguivano le parole di Amos. Ed ora, sopra i nuovi eroi, pendeva la vendetta di uno stato, non nuovo, ma vecchio, con tutto il rancore di un vecchio che si risveglia graziato da morte e rimesso sul trono dalla vita.

“Voglio avvisarvi tutti. È iniziata di nuovo la Resistenza. Chi vuole, venga con me. Pensiamo di andare all’estero per un po’, in qualche posto in Cecoslovacchia, per lavorare nelle fabbriche del socialismo, per fondare una scuola per i nuovi amministratori e costruire una radio di contro informazione. Vi state chiedendo perché l’estero? Perché si sta scrivendo una legge sull’amnistia per chiudere il capitolo epurazione. La sta scrivendo Togliatti. Ma intanto i carabinieri hanno già ricevuto l’ordine di mettere in galera tutti quelli che hanno fatto violenze durante la dittatura e anche dopo la fine della guerra. Vi immaginate cosa faranno carabinieri e magistrati che hanno fatto carriera sotto il fascismo? Pensate che saranno più indulgenti con me o con il podestà di questo piccolo paese? Io ho già scelto la via dell’estero. Renzo è già iscritto d’ufficio. Chi altri?”

Amos fece un cenno di saluto circolare ed usci. Mentre passava, afferrò saldamente per un braccio Renzo e sussurrò: “Rimanda a domani i saluti”, e lo trascinò via con sé. Rina era scossa, ma rimase folgorata dal vedere che Renzo obbediva ad Amos e partiva con lui senza nemmeno parlarle, né fermarsi a discutere con lei del loro futuro, che, fino a pochi istanti prima, era immaginato insieme in pace.

Ora? Rina uscì nella notte e cominciò a correre. Fuori era freddo e nero, in quelle prime ore del nuovo anno. Il terreno era duro e si era ghiacciato perché durante la giornata le temperature si erano abbassate. Sapeva dove dirigersi. Lo fece tagliando per i campi per fare prima; aveva fretta; non voleva che Renzo ed Amos prendessero delle decisioni senza di lei. Doveva dire la sua il prima possibile. Era sicura che Renzo non si sarebbe allontanato per sempre senza spiegarle, senza farle delle proposte, senza promettere l’eternità, che sempre le prometteva con le sue dolci parole e col suo sguardo. Stavano facendo dei piani anche per lei e lei voleva dire la

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sua, prima che fosse troppo tardi; prima che Renzo promettesse o si facesse influenzare dalle necessità della storia.

Rina correva senza risparmiarsi, ignorando le cadute e i lividi e le piccole escoriazioni sulla pelle. Renzo correva dietro Amos per raggiungere il deposito dove erano nascoste le armi, le divise, le attrezzature da campo e da viaggio, le provviste. Il deposito era stato costituito, quando fu ordinato di consegnare le armi, in un luogo segreto e mantenuto in ordine; le armi erano oliate e funzionanti; c’erano abbastanza munizioni in caso di necessità.

Rina correva; stava per raggiungere il deposito dei partigiani. Lei lo sapeva dove stava. Qualche tempo addietro, si era trovata in un angolo della cucina a raschiare un paiolo per la polenta che si era seccato. Stava lavorando con lena contro queste incrostazioni dure, quando, sulla soglia di casa, era venuto un uomo. Non sapeva chi fosse, ma suo padre Baruzàt lo conosceva e si misero a parlare fitto. Così aveva saputo.

Renzo correva, ma la sua vera preoccupazione era di trovare il momento e il fiato per parlare ad Amos. Ma, appena si schiariva la voce per affrontare l’argomento, Amos subito lo zittiva. Lo faceva con gesti spazientiti; o con gli occhi che, nel buio, riuscivano ad esprimere un ordine preciso: “Taci, una buona volta.”

Rina si vedeva già arrivata al deposito, ormai davanti a Renzo ed Amos, e l’unica sua preoccupazione era dire che le andava bene di seguirlo via dall’Italia: “Se fate piani, fateli con me dentro.” E a Renzo voleva dire: “È un enorme sacrificio, ma io sono disposta a farlo, perché il senso di lontananza dalla famiglia sarà più che colmato dai tuoi baci.” Renzo: “Il nostro amore si troverà bene, ovunque, anche laggiù.” Renzo era impaziente di dire ad Amos che era entusiasta di ricominciare la resistenza, da combattente, questa volta. Ma aveva una condizione. Rina. Rina era una fidata. Rina era determinata e tosta. Rina era la sua compagna. Arrivarono. Amos accese la luce e offrì in un solo sguardo a Renzo tutta la roba conservata lì.

Rina stava ancora correndo e pensava alle cose da preparare per andarsene. Ripercorreva le cose in casa: il corredo che si stava preparando, gli oggetti nel suo cassetto. No, non aveva nulla da portarsi dietro.

A Renzo, Amos illustrava tutte le cose da preparare per la clandestinità. “Ho bisogno di uno come te, Renzo, con la tua prontezza di riflessi e forza di carattere, per riuscire a portare lontano, in modo discreto, dei civili non addestrati e non allenati alla disciplina.”

Rina pensava che le bastavano pochi secondi per raggiungere il suo

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Renzo. Si trovava davanti alla scuola del paese. Era lì che i partigiani avevano il loro deposito. La scuola era chiusa da tempo, ma era stata usata per tenere alcuni prigionieri, per fare degli interrogatori, ed anche, per un po’, come sede del comando di zona dei partigiani. Per questo era stato facile usare gli scantinati come deposito. Erano ben interrati e, come aveva sentito, ben chiusi da robuste porte. La porta d’ingresso della scuola, per fortuna, era aperta, ma dentro era tutto buio.

Renzo finalmente ebbe il suo momento: Amos era pronto ad ascoltarlo. E Renzo lo disse: “Quello che mi preme di più è Rina, la figlia di Baruzàt... Voglio che venga con me.” Amos sorrise. Poi gli rispose che l’aveva immaginato e ne aveva tenuto conto.

Rina spalancò la porta d’ingresso ed entrò nel buio. C’era solo silenzio ed oscurità. Si ricordava bene come erano fatte le scuole e, mettendo avanti le mani, trovò il corridoio che portava alle aule e, subito a destra, le scale, che scendevano negli scantinati. Chiamò Renzo un paio di volte. Comunque continuò a scendere in basso. Come ricordava c’era subito una porta... era aperta sul nero. Chiamò Renzo e il nome rimbombò. Deglutì amaro, mentre pensava che si era sbagliata, non erano qua; forse erano passati, per prima cosa, da qualche altra parte; ma qui dovevano venire e qui li avrebbe aspettati. Dentro la porta non riusciva più ad orientarsi, ma in qualche modo doveva farlo, perché le servivano subito degli indumenti più pesanti. Il freddo le era arrivato dentro e stava divenendo un problema. Renzo era eccitatissimo per la notizia. Scalpitava e si agitava. Amos gli ordinò di prendere un quaderno e fare l’inventario. Rina aveva freddo e non riusciva ad orientarsi dentro gli scantinati bui. Neppure si fidava a sedersi, avrebbe potuto inciampare su una granata o appoggiarsi a qualche lama tagliente. Rifece le scale e si portò sopra, dove, invece di girare per le aule, fece il pezzo di corridoio che portava alla segreteria. Esplorando l’ufficio con le mani e usando il proprio ricordo, ritrovò la scrivania della segretaria; era ancora là dove era sempre stata, sopravvissuta alla guerra, alla lotta partigiana e alle esigenze organizzative. In un cassetto trovò un mozzicone di candela e due fiammiferi. Arrivò negli scantinati. Era tutto vuoto. Tutto ripulito, come se avessero fatto le pulizie di Pasqua. Renzo identificava, contava e scriveva diligentemente le cose nel suo inventario. Lo sapeva che così Amos l’aveva bloccato tutta la notte dentro il magazzino. Ma pensava a Rina che stava nel suo letto a pensare a lui. Certo, in quel momento, doveva provare un po’ di inquietudine, perché si poneva un sacco di domande, sentendo freddo ai piedi nel letto: “Dov’era Renzo?

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Che cose le avrebbe proposto? C’era posto per lei? Che vita li aspettava in clandestinità?” Ma Renzo si consolava che dopo poco era ormai mattina e lui sarebbe corso a raggiungerla di nascosto nella stalla e a spiegarle tutto.

Rina non aveva più niente da fare nella scuola. Si era anche alzato un vento gelido, in mezzo alla campagna. Allora, per tenersi più riparata, passò per le strade del paese, dove l’aria fredda era rallentata dalle case. Passò per la piazza dove ancora qualche piccola brace arrossava il buio. Poi una luce le si fece incontro. Era un piccolo lume a petrolio tenuto da un uomo col tabarro. Rina prese paura. E cercò di nascondersi in un androne. Niente da fare, l’uomo la raggiunse in un attimo e la salutò con voce gentile, giovane e molto educata. Alzò il lume in modo da essere riconosciuto e strappò a Rina il suo nome, pronunciato con sorpresa ed angoscia.

“Padroncino Massari!”

E lui. “Mi sei venuta a trovare, Rina? Sei proprio sotto casa mia. Ah, ma tremi. Seguimi sopra, dove il camino è acceso.”

Rina si lasciò accompagnare al piano nobile dove un grande camino scoppiettava,manessunonestavagodendo.Rinaavevapaura,manemmeno tanto. Il figlio del cavalier Massari, Paolo, aveva una buona reputazione, talmente buona che dopo la resa agli alleati non era nemmeno scappato e nessun partigiano l’aveva minacciato. Il cavalier Massari possedeva moltissime terre intorno al paese e tutte coltivate a mezzadria. Mise Rina a suo agio. E lei si rilassò al tepore di quel camino che irradiava luce e calore nella stanza anche abbastanza lontano. Paolo tornò e le mise sotto il naso un bicchiere di vino caldo. Rina sussultò e guardò negli occhi quel giovane così gentile. Era bello. Il più bello della zona, dopo Renzo. Bevve. Un languore la conquistò e le sue fantasie corsero a Renzo, a quando si incontravano di nascosto. Cercò di riprendersi e abbandonare quei pensieri liquidi che non arrivavano da nessuna parte.

Poi, Paolo allungò una mano per sistemarle una ciocca di capelli. Rina sentì una scossa elettrica alle spalle e al ventre. Provò dolore e tornò lucida.

“Debbo andare. Cosa penserà mio padre?”

“Se torni adesso, ti chiederà subito dove stavi andando nella notte, non accompagnata; probabilmente non hai una buona risposta. Invece potresti dire, domani quando torni, che mi hai incontrato al falò e io ti ho invitato a scaldarti a questo grande camino, perché i tuoi vestiti erano troppo leggeri per stare all’aperto a lungo.”

“Ma padroncino! Sarebbe un disastro, dire questo.”

“Non vedo perché!”

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“Ma padroncino, dire che ho passato la notte da sola, con un uomo che non conosco...”

“Dirai che eri qui con me.” “Ma cosa dite?” “Io pensavo che vostro padre Baruzàt te ne avesse parlato...” “Parlato? E di che?”

“Mi ha detto che te ne avrebbe parlato ieri sera; gli pareva fosse di buon augurio dirti della vostra nuova vita, proprio quando si apre il nuovo anno!”

“Siete misterioso e mi preoccupo.”

“Baruzàt doveva parlarti della mia proposta di fidanzamento!”

“Ma che dite!” “Lo sai che da tempo ho un debole per te! No?”

“Ma io sono la figlia di un mezzadro, padroncino, come fate a parlare di una proposta di fidanzamento!”

“Le tue qualità mi hanno convinto. E poi, come si dice, al cuore non si comanda.”

“Non vi credo.”

“Ne dubiti?”

“Certo. Tutti sanno che in città vivete avventure di tutti i generi...”

“Sono solo voci. Non c’è nulla di vero. Io in città vado per seguire il gruppo di attività politica e sociale di don Benigno. Non credete a tutto quello che si dice, sono parole fatte per ferire.”

“Comunque sia, io non sono la vostra fidanzata.”

“È vero! Questo è l’anello di fidanzamento ed ecco la mia proposta: Rina vuoi diventare mia moglie? Sei mesi di fidanzamento e a giugno ci sposiamo.”

“Ma siete impazzito?”

“No. Rina, ti chiedo di sposarmi con tutto me stesso. Sarai la mia sposa e vivrai onorata e riverita in paese. Avrai dei figli che saranno istruiti ed agiati.”

“Lasciatemi. Non sono la vostra fidanzata e non lo sarò mai!”

“Bene, vai da tuo padre e discutine con lui. Sono sicuro che ha ottimi argomenti per convincerti.”

“Non ci penso nemmeno. Io sto per andarmene e non mi vedrete mai più in paese. Addio.”

“Fermati.” “Non mi toccate.”

“Lascia che ti spieghi qual’è la situazione. Con piena franchezza.”

“Che c’è da dire? Voi volete, io non voglio. L’affare non si fa!”

“Non è così semplice... e ci sono accordi che non si possono disfare adesso.”

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“Che accordi?”

“Quelli per i quali tu devi obbedire a tuo padre e sposare me. Era meglio se te li spiegava lui. Ma se non hai intenzione di passare da casa, sarà meglio che ti illustri io le faccende come stanno! E perché non puoi rifiutarti di divenire mia moglie.”

“Ne ho abbastanza di voi e dei vostri affari.”

“Sono anche affari tuoi e della tua famiglia. Se Baruzàt non rispetta gli accordi finirà senza lavoro e senza nulla da mangiare.”

“Ma?”

“La situazione è questa. Apri bene le orecchie e cerca di capire al volo la serietà della situazione. Col nostro matrimonio, io e Baruzàt diventiamo parenti. Con una piccola operazione legale, io intesterò una parte dei miei terreni a tuo padre. Inoltre lui diverrà il fattore di altri terreni ancora.”

“Non capisco...”

“Rimani attenta. Tu ricca, tuo padre ricco. E tutto rimane in famiglia: roba mia, roba vostra, come mia moglie, roba dei nostri figli.”

“Ma mio padre potrebbe...”

“No! E, alla sua morte, tutti i terreni torneranno nelle mie mani e in quelle dei miei figli. Tutto torna e si risolve!”

“Ma perché?”

“Perché a breve io sarò tra i promotori della riforma agraria. E così non perderò i miei possedimenti; non lascerò che li spartiscano ai miserabili che lavorano per me.”

“Io non sono disponibile a questa cosa. Non sono disponibile a sposarvi.”

“Credo che Baruzàt ti saprà convincere. Se dovrà perdere tutto, piuttosto ti ammazza.”

Rina mormorò, ‘Renzo’ e cadde svenuta. Quando riaprì gli occhi, intorno a lei c’era il padroncino, Baruzàt e un prete col suo chierichetto. La misero seduta comoda su una poltrona e le diedero un liquore medicinale per rianimarla. Suo padre le stava vicino, dandole il medicinale da un bicchiere. Un ragazzo entrò di corsa nel salone del caminetto. Affannato, disse: “Padrone, ho una notizia da riferirvi: è appena capitato un guaio in paese; sono arrivati dei carabinieri che volevano arrestare alcune persone legate ad azioni partigiane avvenute dopo la fine della guerra; ne hanno arrestate due; Amos, si dice, sia riuscito a fuggire correndo come una lepre per i campi; invece Renzo ha provato a scappare, ma un carabiniere ha sparato per intimorirlo; purtroppo l’ha colpito; è morto pochi minuti fa.” Rina era caduta, svenuta, dalla poltrona. La rianimarono col medicamento

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liquoroso, molto dolce, confortante e ricostituente.

Paolo la fece bere ancora, poi comandò al prete di avvicinarsi e quello iniziò il rito. Rina, annebbiata, cominciò a rendersi conto che si trattava di una cerimonia di matrimonio. Ed infatti, dopo poco il prete le chiese se voleva sposare Paolo. Il padroncino, che le teneva la mano, la strinse in una morsa dolorosissima, lei aprì la bocca in un atto di sorpresa e di dolore. Il prete lo prese per un sì. Ripeté la domanda a Paolo e lui emise un sì, chiaro, rotondo, baritonale. Quindi furono dichiarati marito e moglie. Vennero redatti i documenti ufficiali, entrarono due persone che facevano da testimoni e firmarono i documenti e il prete se ne andò.

A Rina fu somministrato un altro po’ di medicinale e si addormentò. Fu portata nella camera matrimoniale e Paolo e Baruzàt si misero a tavola, mentreservivanoilpranzo.Nonlontanodalì,Amosediversialtricompagni avevano preso un autobus che lentamente li stava portando fuori dai confini del Paese e lontano dal loro piccolo borgo. Amos teneva stretto per le spalle Renzo, ancora in preda ad un dolore incoercibile. Erano arrivati carabinieri in paese con le armi spianate e si erano messi a cercare diversi partigiani, girando di casa in casa, nella notte. Per fortuna, i partigiani che loro cercavano non erano mai tornati a vivere in paese. Come erano venuti, i carabinieri se ne erano andati senza provocare gli abitanti.

Amos aveva deciso di partire subito, prendendo la prima corriera pubblica del mattino. Era andato da Baruzàt per prendere Rina. Il vecchio era davanti casa con la doppietta in mano e circondato da altri tre uomini armati. Amos non capì, ma Baruzàt glielo spiegò subito. Gli disse di andarsene per i fatti suoi e subito, se ci teneva alla pelle; che Rina era promessa sposa da tempo e il matrimonio era fatto. Detto, sparò un colpo col fucile in modo che i proiettili finissero vicino ai piedi di Amos. Amos non aspettò il secondo colpo.

Presero una corriera di linea. Ci vollero due di loro per portare Renzo a bordo della corriera. Partendo, tutti versarono lacrime, ma Renzo di più, tante finché non ne fu stordito e si addormentò.

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Natività

La pianura si estendeva intorno, così ghiacciata che la terra non si poteva lavorare e poco restava da mangiare. Nel cortile, l’aria fredda correva e spazzava ogni piccolo spazio lasciato vuoto tra gli attrezzi, resi lucidi dal devoto lavoro quotidiano. Il vento entrava sotto i portici, lottava contro le assi stremate e sbattute dei portoni. Sibilando a tradimento, si infilava sotto le porte e, sottile come la lama di un coltello, ti accarezzava il collo e lasciava, col suo lento lavorìo, segni che avrebbero presto o tardi presentato i loro conti. Coperti e seduti attorno al camino, ogni storia era buona per far passare un po’ più veloce il tempo che, si sa, d’inverno si ostina ad inciampare e a trascinarsi per le lunghe ore che non finiscono mai.

“Prendi…”, una manciata di riso, cotto nel latte annacquato della Bianchina, finiva dal pentolone affumicato e incandescente dritto nelle scodelle sbeccate e pesanti. La Bianchina era la mucca che ancora i soldati tedeschi non avevano sequestrato alla loro famiglia e che sopravviveva, a loro soli, nell’intero villaggio. Per questo, spesso venivano nel loro cortile, di nascosto, le madri, anche dai paesi vicini, come in processione, a chiedere un poco di latte per sfamare i più piccoli. E ognuno riceveva la sua dose. Zuppa riscaldata del giorno prima, che scendeva giù e rincuorava l’anima e il corpo. Il pane era duro e giaceva nascosto sulle assi, poste a mo’ di scaffali appena al di sotto del soffitto, per raccogliere il tepore del camino, e le corse dei ratti che fuggivano da una parte all’altra.

“L’altra notte… ha seppellito la donna…”

“Ma che… è fuori di testa quello… non sa neanche quello che fa!”

“Voi ringraziate il Signore, perché anche oggi riempite la pancia e state al caldo, e quello là… quello là lasciatelo stare!”

I tre bambini erano intenti a finire la zuppa mentre era ancora fumante. Le parole del padre cadevano pesanti e troncavano ogni discorso dei bambini, ma le loro fantasie, quelle no: correvano non troppo lontano, nella grande aia ghiacciata di fianco alla loro. Il fuoco, nell’enorme camino incorniciato da grossi sassi neri, si stava lentamente spegnendo e lentamente stava cedendo tutto il suo calore. Il freddo cominciava a pungere le gambe di Pinotta.

“Dai mamma… dammi ancora un po’ di lardo!”

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Sempre lo stesso pezzo bisunto di un lardo invecchiato e dall’odore forte, che veniva strofinato sul tozzo di pane, reso rovente dalle ceneri del camino per lasciare un po’ di sapore. Non finiva mai, era come se si rigenerasse. O era la mamma, che, di nascosto, ne procurava di nuovo. Lo chiamavano lardo, ma erano in realtà le cotenne di un maiale stento, l’ultimo, che fu ammazzato prima del tempo e di nascosto, per paura di un sequestro.

“No… via… andate nella stalla che è più caldo e finite di mangiare!” Spentoilcamino,stareaccoccolatinelfienovicinoallamuccaeracertamente il modo migliore per trovare un po’ di calore, e, anche in questo caso, era già una fortuna non da poco avere ancora la Bianchina. Un tempo, Pinotta se lo ricordava a malapena, la stalla accoglieva otto, dieci bestie. E la sua famiglia era per questo tra le più ricche del paese. Non mancava mai cibo e lavoro, e lei, la più piccola e l’unica figlia femmina, era coccolata come una principessa. Poi era arrivata la guerra. I fascisti sempre più inquieti e vendicativi. E infine i tedeschi, spietati. Lo diceva lo zio, che andava ancora a lavorare in fabbrica in città. La fabbrica era stata riconvertita e produceva armi e bombe a mano. Rientrando nelle campagne, ogni giorno superava i posti di blocco, e riportava i racconti di quegli occhi gelidi e senza anima, come il demonio.

Pinotta, nonostante fosse la più piccola, guidava la piccola processione verso la stalla, posta giusto un poco più in là, sotto il portico pencolante. I capelli lunghi e neri, gli occhioni scuri, e quel fiocco nei capelli che, per puro vezzo femminile, non voleva mai levarsi, la rendevano pur sempre la reginetta di quel povero cortile. Dietro, i due fratelli più grandi, Abele e Nando, uno a tirar calci all’altro. Nando, il maggiore, aveva lo sguardo severo, e il corpo già scolpito dai primi lavori nei campi. Abele lo seguiva come un’ombra: lo sguardo più dolce, i lineamenti più docili, troppo bambino ma non ancora adulto.

Per raggiungere la stalla bisognava uscire e fare un pezzettino di strada rasenti al muro per non scivolare. Le tre piccole ombre si muovevano leste alla luce velata di una luna d’inverno, che sembrava stufa di starsene appollaiata in cielo.

“E… muoviti!”

“Mi fai cadere! Smettila, Nando!”

D’un tratto, nel cielo senza quasi stelle, un urlo tagliò la notte fredda. Grida sofferenti, che facevano gelare il sangue, provenivano da non molto lontano, dalla stalla che confinava con il loro cortile.

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“Guarda là…” stava indicando la finestrella della stalla del vicino che dava sul loro cortile “… sta disseppellendo la donna che ha sotterrato ieri!” disse ghignando Nando, che era così grosso che nessuno osava contraddirlo. Versi stranissimi, urla, gemiti arrivavano attutiti alle loro orecchie.

“Ancora siete lì? Dentro, veloci!” Era il padre che li sentiva vociferare.

A piccoli passi, le gambette coperte dai calzettoni di lana di Pinotta avevano già superato la porticina della stalla. Dentro, la accolse subito il muggito della mucca Bianchina, che, buttata sulla paglia, stava dormendo. Nel buio, gli occhioni bianchi della bestia si spalancarono all’unisono, riflessi candidi in quel cielo senza stelle.

Abele aveva portato una candela, la luce si sparse sul dorso della bestia, abituata a quel genere di incursioni notturne, e illuminò le nuvole di vapore che uscivano dalle grosse narici umide. Pinotta si sedette vicino alla Bianchina. Abele e Nando tornarono indietro a prendere le scodelle, sperando che la mamma le avesse, nel frattempo, riempite ancora. Pinotta restò sola. Aveva all’incirca dieci anni, ma non aveva certo paura di stare lì nella stalla, gli occhioni della Bianchina la confortavano. I suoi pensieri si infittivano in una rete di invenzioni sui rumori lontani che provenivano dalla finestrella laggiù, in fondo al cortile.

“Quel pazzo starà dissotterrando la donna che ha ucciso ieri…” parlava alla Bianchina come se stesse parlando alla sua amica Mafalda “Oppure ieri l’aveva seppellita viva e adesso la sta tirando fuori… senti come urla!” Arrivavano, tagliando l’aria fredda, dei gemiti, delle grida quasi umane. Un brivido le passò tutta la schiena, vertebra dopo vertebra, e le arrivò fino alla punta dei lunghi capelli pece.

“Sveglia! Tieni qua!” Nando era tornato e le stava davanti con il piatto della zuppa da finire. “Che fai? Dormi già?” Come al solito le buone maniere non erano il suo forte, ma lui lavorava già nei campi e aveva ormai quasi scordato come si faceva ad essere bambini. Nel frattempo, anche Abele era rientrato. Pinotta si mise a mangiare seduta sul fieno, con la coda della Bianchina che andava di qui e di là lanciando briciole di letame anche nella sua scodella. Ma la fame era tanta e ancora più grande era la miseria: le sue dita lavoravano veloci nella penombra per togliere quel che cadeva e poi, giù tutto.

Erano ancora tutti e tre intenti a finire la loro scodella, quando un urlo atroce li prese di sorpresa. Un muggito lugubre, lungo e sofferente, arrivava triste alle loro orecchie: anche quella notte suonava la sirena, che ormai da qualche tempo annunciava che era imminente un probabile attacco.

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“Il Pippo!” Il nomignolo familiare era uscito dalla bocca piena di Pinotta. Era come quando si aspettava qualcuno e si sperava tanto che non arrivasse: questo era ormai diventato il coprifuoco e l’incursione aerea notturna.

“Sta zitta!” Nando non sopportava il mal celato entusiasmo della sorella. “… adesso ti sente e viene giù a prenderti!” La sirena ammutolì lentamente. La pausa di un attimo. Un silenzio che durò un’eternità calò, come se tutto fosse imminente. Ma niente. Niente, bisognava aspettare.

“Scema! La candela! Spegni la candela! Cosa vuoi che il Pippo ci sganci giù qualcosa sulla testa!” le parole di Abele erano sempre le più giuste “… e muoviti!”

Puff… un soffio si ingoiò via la poca luce. Pochi istanti, e poi gli occhi di Pinotta si abituarono all’oscurità. “E adesso… che si fa?” chiedeva con l’aria tra l’innocente e il malizioso. Avevano finito di mangiare.

“Adesso si dorme. Lo sai, non si può fare nient’altro. Per oggi si dorme sul fieno… al caldo… con la Bianchina!”, ancora le parole di Abele mettevano fine ad ogni possibile discussione.

“Lo senti?” Nando non aveva proprio voglia di dormire. “Lo senti anche tu?”

“Ma che cosa?” Pinotta stette zitta zitta un attimo, si mise tutta concentrata ad ascoltare ,“… non c’è il Pippo, cosa dici!”

“Ma non il Pippo, senti… qualcuno che sta male… è lui… è la donna viva che ha dissotterrato… l’ha imbavagliata!”

Prestando attenzione, si potevano udire degli strani mugolii, come di qualcuno imbavagliato che si stava dimenando. Subito Pinotta si alzò, avanzò sicura nel buio verso la finestrella, prese il secchio che la mattina usava per mungere, lo ribaltò e ci saltò sopra. Poteva appena appena vedere il cortile stando in punta di piedi.

“Ma guarda là, è pazzo! Così lo scopriranno tutti!” Aveva la scontentezza dipinta sulla faccia. Nando, pensieroso, si affacciò alla finestrella. Forse la sorella bisbetica stava scherzando.

No, era tutto vero! Il sottilissimo vetro, che si muoveva malsicuro negli infissi di legno della finestra, lasciava vedere, tra gli aloni e la condensa di vapore, la finestrella illuminata del vicino, dall’altra parte del cortile. Non c’era dubbio: nella stalla del vicino, da dove provenivano quei cavernosi suoni, era accesa una candela o una lampada… dopo il coprifuoco! Era matto! Dopo che la sirena aveva suonato e tutti i paesi intorno erano finiti nel buio più completo, quel minuscolo lumicino era un invito a nozze per

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il Pippo, e, tutta la cascina, il cortile, la loro casa, erano diventati facili bersagli. Dall’alto di un aereo, una terra nera, nella più completa oscurità e poi una piccola stella tremante di luce: la stalla del matto vicino.

“Dai… andiamo a vedere!” le parole di Pinotta furono veloci, ma ancora più veloci furono i suoi passi. Era in mezzo al cortile quando Abele, l’unico forse consapevole del pericolo, tentava di fermarla. Nando correva dietro alla sorella, la curiosità era grande e bisognava saziarla. Presto anche Abele si rassegnò, in fondo era solo una sbirciatina veloce.

Intanto i gemiti continuavano e diventavano sempre più forti e strazianti.

“La sta uccidendo adesso…”

“… chi?”

“… la donna che aveva seppellito viva e che poi ha tirato fuori… adesso la sta uccidendo!”

“La sta torturando… senti come urla…” La paura non era neanche contemplata nella gamma di sentimenti di Pinotta, sempre avanti a testa alta e pronta a far a pugni con il mondo intero. Non si poteva nascondere, però, uno strano senso di sospensione, di mistero, ma era anche quella una sfida, una prova da superare. Attraversarono l’aia camminando rasente al muro di cinta, che separava il loro cortile da quello del vicino, e arrivarono al muro dove si affacciava la finestrella illuminata.

“Uffa… è troppo alta!” Pinotta non sapeva cosa fare, i rumori continuavano e loro lì, impotenti. Quel pertugio era troppo alto anche per Nando e Abele. Ma i gemiti continuavano, non si capiva bene da dove provenissero neanche da così vicino, e continuavano sempre più forti.

“Questa è la donna! Sta tirando le ultime!” Nando ghignava soddisfatto. Era la condizione perfetta per fantasticare: la verità lì, ad una cinquantina di centimetri, oltre il muro, e l’impossibilità d’averla.

“Ssstt! Taci! Se ti sente!” Abele era sempre perentorio e duro. Voleva anche lui andare fino in fondo alla faccenda, e non era il caso di farsi beccare.

“Zitti! Si muove!”, sibilò Pinotta, e tutti e tre si schiacciarono al muro freddo e bagnato per confondersi tra le ombre. Da dentro si sentirono dei passi pesanti e poi la luce divenne più fioca.

“Ha sentito qualcosa!”

“… e allora?”

“… allora… allora ha coperto la finestra con qualcosa… un sacco, non so…”

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“Uuuuh… senti come grida!” I suoni strazianti continuavano sempre più forti, violenti, cupi come il buio di quella notte.

“Ehi! Guarda là!” C’erano ammucchiate vicino a loro delle cassette di legno, pronte per essere rotte per far legna da mettere nel camino.

“Prendile!” L’eccitazione di Pinotta non aveva più freni. Svelti, Nando e Abele presero le cassette e le misero una sopra l’altra sotto la finestrella.

“E adesso? Chi sale?” chiese ansioso Nando.

“Tu no di certo…” Abele era deciso .“… deve salire lei, che è la più leggera!”

“Sì, io!” Pinotta non stava più nella pelle e non aveva certo timore o paura di dare una sbirciatina, anzi, che colpo grosso aveva tra le mani! La sollevarono di peso, Nando e Abele, uno a destra e l’altro a sinistra, e l’appoggiarono delicatamente sulla torre di cassette. Non era di certo un peso piuma Pinotta, per niente magra, nonostante i tempi di guerra. Le gambette coperte dalle calze di lana facevano scricchiolare la precaria costruzione, ma le urla che venivano da dentro erano sempre più feroci e coprivano ogni sussulto. Le sue mani arrivavano appena ad una specie di davanzale primitivo da cui si apriva la finestrella. Doveva fare uno sforzo per issarsi un po’ più su per vedere qualcosa.

“Daiiii! Alzatemi un po’… così non vedo!”, le parole uscivano appena squittite dalla bocca, ma avevano una certa loro durezza. Nando e Abele, sempre uno a destra e l’altro a sinistra, come due angeli custodi, presero i piedi della sorella. Stavano per issarseli sulle spalle quando un altro rumore, ben più temibile, cominciò a farsi strada nel buio: un rombo assordante che aumentava ogni istante.

“È il Pippo! Via! Scendi giù!” Abele era terrorizzato, sapeva che con quella lucina tremante della finestra, era come se fossero nel centro del bersaglio.

“Nooo! Adesso vedo!” Pinotta si lamentava, non ne voleva sapere di scendere, aveva lì, a portata d’occhio, il pazzo e la donna che aveva dissotterrato che urlava come un animale agonizzante, mancava giusto qualche centimetro per vedere al di là.

Nando lanciò uno sguardo ad Abele, i due si intesero e con un colpo secco presero Pinotta che si dimenava ancora, uno per la gamba destra e l’altro per la gamba sinistra, facendola cadere dal suo trespolo e agguantandola al volo. Si lanciarono nella folle corsa verso la loro stalla scivolando sul ghiaccio. Intanto il Pippo si sentiva sempre più vicino, il rombo assordante di quell’uccello malefico faceva già tremare le tegole sui poveri tetti delle

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cascine.

Nonostante Pinotta continuasse a dimenarsi, Abele e Nando raggiunsero in un lampo la stalla, aprirono la porta, con l’ansia e l’angoscia nel sangue, buttarono la sorellina sul fieno e si precipitarono alla finestra. I vetri sottili tremavano come fogli di carta da giornale e sembrava che tutto, il vento, le galline lontane nel pollaio, la gatta che vagava nella notte, tutto si fosse in un momento azzittito per una sincera e muta preghiera di grazia.

“Oh! Che modi!” Pinotta continuava a lamentarsi, ma si era già alzata ed era in mezzo ai fratelli, tra l’anca ossuta di Abele e il forte braccio di Nando, pronta a sbirciare fuori.

“Senti com’è basso! Ci tira via il tetto da sopra la testa!” Il rombo rimbalzava tra le povere case e le cascine pronte a cadere anche solo al vento mosso dal passaggio del Pippo. “… guarda là!” Pinotta non aveva paura, era estasiata. Nel cielo una scia di stella cometa era apparsa, fulminea e splendida, proprio sopra la stalla del vicino. Ma, subito dopo, un boato. Un tonfo, le grida, le urla… e poi più niente.

“Oh! State bene! Grazie a Dio!” Era la mamma, Nando, Pinotta e Abele stavano accasciati uno sopra l’altro, coperti di fieno e letame. La Bianchina avrebbe potuto con un solo calcio tramortirli tutti e tre, ma lo stesso risultato lo aveva prodotto l’onda d’urto della stella cometa lanciata dal Pippo.

“Ma cosa è successo? Cosa… cosa…” Abele farfugliava, mentre Pinotta e Nando si erano subito alzati in piedi ed erano scappati fuori. Una densa polvere copriva ogni cosa e delle fiamme si alzavano qua e là dal tetto della cascina del matto vicino.

Pinotta riconobbe subito il papà che stava lavorando con gli altri uomini per spegnere quelle poche lingue di fuoco, che, per fortuna, sembravano destinate ad essere soffocate dalle secchiate d’acqua e dalla buona volontà degli uomini.

“Via! Scappa via che è pericoloso!” le stava urlando qualcuno, ma era ostinata a raggiungere il suo papà.

“Papà!”

“Stai bene piccola?Vai via, vai via che non è posto per bambini questo…”

“… ma cosa… cosa sono quelle fiamme?”

“… è stato il Pippo! Ci ha lanciato giù una bomba! Quello scemo aveva

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***

la lampada accesa nella stalla… per fortuna la bomba non è esplosa… se no… Ma fila via adesso… vai!”

Pinotta non capiva, non capiva più niente: la luce, le grida, la corsa, il Pippo, il tonfo… e poi più niente. La bomba. Il Pippo aveva lanciato una bomba e non era esplosa. Sentiva le voci della folla che accorreva, tutti parlavano di miracolo: “Il Signore ci ha graziati!”, “Gloria a Dio!”, “Il Signore ci ha graziati!”

E la donna dissotterrata? Era ancora là? Approfittando della confusione, e dimenticandosi in fretta dello spavento, come spesso fanno i bambini quando non capiscono il pericolo appena passato, si fece strada tra le gambe degli uomini che erano lì attorno. Adesso poteva vedere cosa era nascosto in quella stalla. Forse la donna disseppellita era scappata, o forse era morta per lo spavento. Lei no, paura non l’aveva.

La porticina era aperta e sbatteva contro il muro. Qualche timido passo, e subito fu dentro. L’accolse la luce, tremante e malferma, di una candela. Nell’interno di buio dipinto dalla luce calda, un muggito: un vitellino, tutto bagnato e sporco, succhiava avidamente dalle mammelle materne, sembrava appena nato. La madre, stanca e sommessa, sonnecchiava con le corna legate. Nessuno era a conoscenza del fatto che il matto vicino stesse nascondendo ancora un’ultima bestia. Forse non voleva condividerne il latte con i compaesani.

D’un tratto il vitellino si girò, si era accorto della sua presenza. Smise per un attimo di mangiare, la fissò dolce. Un muggito della madre la scosse da quello stato di pace.

Pinotta guardò fuori. Cadeva qualche fiocco di neve. Tra qualche giorno sarebbe stato Natale.

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Il giorno della memoria

Il cielo è carico di nuvole, ogni tanto cade qualche goccia, ma non piove. Tre musici di fronte al sacrario di Castelnuovo intonano le note della ballata che ricorda l’eccidio del ’44 e mi sembra di vedere tutti quegli uomini, addossati allo sprone di roccia su cui si erge la chiesa, ricevere il viatico da Don Ferrante prima del crepitio mortale della mitraglia nazista ed il Dini mettersi fortunosamente in salvo, insieme ad un compagno, attraverso la porta di casa Tanzini lì accanto.

Inizia così la camminata del giorno della memoria.

Sulla prima rampa della salita che porta alla piazza della chiesetta delle suore (immortalata anche in un film), mi fermo e mi volto a guardare e rivedo le case lungo la vecchia strada che saliva fin lassù, dove ora c’è il ponte nuovo. In basso, a sinistra, la casa rossa del frantoio Pieralli, la terrazza dei Corrà.

Poco più in là, la stradina che porta a Le Màtole con la casa colonica dei Casucci, poi dei Tinti, dove, da ragazzi, andavamo, nelle serate d’inverno, a vedere il teatro dei burattini di Elio e, ai primi d’estate, a portare la “lolla” nel fienile durante la battitura del grano. Che festa quel giorno!

Mi affaccio al muretto e vedo la strada che portava a Castello basso. A sinistra, riconosco la porta del barbiere, quella della bottega di Giorgio, la falegnameria del Manchisi, poi la casa dove centinaia di anni fa c’era stato il sommo Andrea Del Sarto, e dove per le scale abitava l’Innocenti che sapeva riparare gli orologi. In alto, cerco la finestra da dove si affacciavano, per salutarmi, le amiche del cuore, lì per imparare a cucire, la riconosco, ma ora è solo un buco nero.

A destra, più in basso, dove c’era il grande edificio delle scuole non c’è più nulla, nulla… nulla che possa ricordare lo sciamare festoso di noi, scolari, col classico grembiule nero e con, ai piedi, quasi tutti, solo zoccoli di legno.

Nella piazzetta rivedo dove c’era la parrucchiera e la casa dei Cristofani (il loro figlio Ivo, giovane seminarista, fu ucciso nell’eccidio… un angelo volato in cielo), poi ecco l’arco delle scalette, una scorciatoia, dove nell’antro di lato, abitavano i Nannini ed i Garinni.

La porta della chiesetta è aperta, dentro non ci sono più le lucide

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panche ben allineate verso l’altare, ma solo calcinacci. Nell’aria, il tanfo dell’umidità che trasuda dagli intonaci ammuffiti e non il profumo dei gigli, sempre presenti sull’altare, che sentivo la domenica alla messa delle nove.

Passata la porta dell’asilo, in alto le case di Castello vecchio, eccomi nel giardino delle suore dove c’era una giostra in ferro, ora al nuovo asilo, e dove, per anni, si faceva festa per la Cresima o la Prima Comunione con l’immancabile fotografia di gruppo.

Da un lato, verso valle, a ridosso di un muretto con solida inferriata, un piccolo altare dedicato dai fedeli a Maria Ausiliatrice; dall’altro, la porta del teatrino delle suore dove da piccoli siamo stati, giulivi, attori e spettatori.

Più sotto, ritrovo le scalette a ridosso di uno slargo dove c’era la casa degli Zugheri ed il Macello. Poi, una curva che, in salita a sinistra, portava alle scuole, ora demolite.

A destra, c’era la casa del Caroli ed il negozio del fotografo… il Virboni con gli occhiali che sembravano fondi di bicchiere! In discesa, a sinistra, c’era la casa dei Polverini ed a destra quella dell’Eroina.

Dopo qualche decina di metri, dove ora c’è una ripida discesa ed una folta ed incolta vegetazione, c’era il centro del paese, là dove la strada si snodava… il centro del mondo!

A destra, il bar del Caselli e, proprio in angolo, l’edicola di “Bandiera”. Più in là, in via Nuova, la casa dei Maddii (come non ricordare Florindo ed il suo “pullman”, perennemente profumato di… nafta) con l’autorimessa. Di fronte la casa dei Ciambellini, di Orlando, della levatrice e del collocatore.

Poi uno spazio grande, dove noi ragazzi giocavamo a muretto, con le figurine, le palline di vetro, al giro d’Italia con i tappini o le bilie mentre, poco più in là, le bambine giocavano “ a campana”.

In fondo, continuava via Nuova, abituale passeggiata dei castelnuovesi, con un filare di cipressi, solo sul lato valle, fino alla curva prima della Casina. A metà, dopo una curva utilizzata come discarica, una stradina nel bosco portava al “ Nido Azzurro”, famoso dancing estivo della zona.

Sulla destra dello spazio, c’era la stradina che portava alle scuole, poi la casa di Arrigo dove si acquistavano tessuti ed abiti e, contigua, la casa del Mannelli dove, nei fondi, videro la luce le prime betoniere a motore.

Poco più in là, nel ventre di una parete rocciosa, seminascosto dal vespasiano pubblico, c’era il rifugio a due aperture contro le bombe della guerra.

A sinistra dello snodo, scendendo, una stradina era la scorciatoia per

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andare alle Muccherie; poi via Matteotti, la via principale del paese, con, da un lato, le case del Bartoli, di Gigi l’acquaiolo, l’ambulatorio, l’ufficio postale,lamacelleriadelBoni(comenonricordarel’annualefantasmagorica esposizione degli animali macellati ), la casa dei Fratini, dei Mugnai, dei Righi, dei Caselli, la cooperativa, la casa Mrakic, il tabacchino, il negozio di “ Frinzello”, le abitazioni dei Paciscopi, Pierazzi, Tarchi ed altri fino alla curva dove c’era il distributore di benzina del Borgogni.

Sull’altro lato della strada, c’era la farmacia (nei pressi della quale come non ricordare il comizio che tenne l’ onorevole Fanfani e, oserei dire, “coraggiosamente”, stante da sempre la “rossa” Castelnuovo).

Poi, dopo un alto dislivello del marciapiede, la cartoleria Camici (Leo, il titolare, per anni, è stato l’editore esclusivo delle cartoline del paese).

Subito dopo, la macelleria Tanzini, il negozio di Armandino (con sulla porta un orologio circolare a sbalzo, testimone implacabile dello scorrere della vita paesana, dai cortei alle processioni, una delle quali, quella della “Madonna Pellegrina”, eccezionale), le abitazioni Filippeschi, Tognazzi, Calzeroni, Pampaloni, la “mescita” Camici, la botteghina, la casa del “Cimpe” e dei Badii col loro negozio di barbiere (più che una barberia era il ritrovo abituale di noi giovani) e l’autista di piazza, Silvano. In ultimo, il Circolo Enal con annesso cinematografo/sala da ballo, poi Caserma dei Carabinieri.

Lì davanti, quante manifestazioni dei minatori in lotta, quanti comizi e quanta gente nei giorni di festa. Or mi sovviene anche un ricordo particolare: quello del meccanico “ Zuppo” che, nella piazzetta antistante il circolo, mi parlava delle sue invenzioni - il motore ad acqua – e delle sue intuizioni sull’energia solare.

Di fianco, una ripida stradetta (dove si apriva il cinema all’aperto, l’unico di tutto il Valdarno con lo schermo parabolico per l’allora cinemascope) conduceva al frantoio Camici. Poi, scavalcando con un ponticello il borro Percussente, arrivava al campo da tennis e subito dopo al campo di calcio della Castelnuovese. Di lato, diramazioni per la Dispensa, la casa colonica del Roschi, il Basi e, percorrendo un ripido sentiero a ridosso di Montetermini, dalla caratteristica terra rossa per la combustione della lignite sottoterra, si arrivava anche al Ronco.

Che squadra la Castelnuovese e che giocatori: dal Catalani con “Netto”, al Gori, al Boni, al Tanzini, al Betti, al Fusini e tanti altri valentuosi “amaranto”!

In fondo a via Matteotti, prima della curva, c’era l’aia del Beccastrini

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(come non ricordare lì il cimentarsi di tanti sul “palo della cuccagna” durante il Perdono), di lato la colonica in una stanza della quale Natale Beccastrini, invalido della Grande Guerra, passava le giornate tra tanti libri in braille. A piano terra, c’era un pertugio adibito a latteria, prima dal Bruttini, poi da “ Anacleto”. Accanto le case dei Mugnai, del Gatteschi, dei Tani e altri.

Sull’aia fu poi edificata la nuova Casa del Popolo.

A ridosso dell’aia, prima della viuzza che portava alla Dispensa, c’era il negozio della fruttivendola, che, si diceva, abilissima a trovare i tartufi. Nell’altro lato, la casa della maestra Ape Tiossi, che insieme alle altre maestre di allora, Tosella Tanzini e Bruna Pasqui Maioli, ha insegnato a noi fanciulli non solo a leggere ed a scrivere, ma a diventare uomini “ veri”. Una ripida discesa portava alla Cooperativa di sotto con le case del Moneti, del Gualdani, del Nastri e altri.

Accanto al distributore, una stradetta dove c’era l’officina di “Beppe” e, più in là, la casa del Cortesi.

La strada principale svoltava a sinistra, su un lato ricordo una falegnameria e la casa del Cottoni. Sull’altro, successivamente, le case popolari e le nuove costruzioni.

Poi le Muccherie dove, prima del ponte, a destra, lo snodo per la Miniera, la Centrale vecchia, Le Carpinete. A diritto, dopo altre case, tra cui quella del Moracci, mitico conduttore di locomotive a vapore della miniera, si andava per il Poggio d’Avane (con le piagge dove le nostre mamme andavano a fare l’erba per i conigli e dove per il Perdono di Agosto – quanto cocomero si mangiava - facevano le corse coi cavalli) fino alla chiesetta millenaria di S.Maria in Avane e poi a Bomba.

Lo svincolo a sinistra, in salita, portava alla casa di Ussi, ai Villini ed alla Pian di Colle .

Mi fermo, mi guardo in giro: non c’è più nulla. Solo macchie, sassi e terra smossa. Vedo lontano carcasse di macchine mastodontiche, quelle che hanno distrutto tutto, ora distrutte anch’esse.

In alto, vedo solo il retro della chiesa ma solo quello, il mio paese non esiste più!

Mi par di sentire il crepitio della mitraglia, di vedere il fumo delle case che bruciano insieme ai corpi dei martiri. Mi rivedo bambino, spaurito, tremante dal freddo, dalla fame, dalla paura, dentro un rifugio buio ed umido, fatto dai miei familiari nella sponda di un fosso pieno di rovi, poco lontano dalla mia casa, all’epoca occupata dai militari tedeschi. Risento il

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fischio del mio babbo, che, alla macchia con i partigiani, ma al momento nascosto tra le piante di granoturco nella piana sotto le Querciole, ci avvisava che era nei pressi, pronto a difenderci in caso di necessità. Rivedo la sora Maria, una “signora” di Castello che, venendo al rifugio, racconta dell’eccidio e delle case incendiate tra le quali anche quella del Fascio. Rivedo la scena di quando, con mia madre e mia nonna, tornando alla nostra casa, abbiamo visto il nostro pentolone messo sul fuoco pieno di polli con tutte le penne e la nonna inveire contro i tedeschi per quello scempio, e uno di questi, con grida incomprensibili, ma colpendola col calcio del fucile, mandarla via e, meno male, solo quello!

Mi riecheggiano le urla strazianti delle donne de “Le Màtole” per i loro uomini uccisi dai tedeschi poco lontano dal nostro rifugio e ricordo di aver saputo di Angelo Redditi, marito di un’amica della mamma, che, preso insieme agli altri, aveva tentato la fuga, ma raggiunto alle spalle da una raffica di mitra, ferito, si era nascosto in una fogna della strada e lì trovato morto qualche tempo dopo; mentre “Piciullo” – l’altro che era fuggito con lui – si era miracolosamente salvato, gettandosi giù da un ponte poco distante.

Ricordo il racconto della battaglia che c’era stata tra tedeschi e partigiani tra Secciano e la Casa al Monte con la morte del giovane russo Nicolay Bujanov, immolatosi per salvaguardare le posizioni partigiane.

Sento il rumore sordo delle cannonate ed il sibilo delle bombe, lanciate dagli aerei sulla miniera.

Rivedo le notti coi lampi dei bengala e sul cielo, di giorno, bianchi ombrelloni di seta, che danzando nel vento ci portavano aiuti.

Qualche tempo dopo ho visto arrivare gli alleati.

Ancora la nostra casa come presidio e sulla strada, nel frattempo sminata da un ingegnere delle miniere, tanti carri armati e camionette. Per la prima volta vedo un soldato nero che, sorridendo, mi fa mangiare della carne presa da una scatoletta, mentre un altro – credo neozelandese – mi dà una cosa scura, di una dolcezza mai sentita: la mia prima cioccolata !

Un groppo mi assale, sento il profumo della lignite messa nei piazzali ad essiccare e l’odore acre del “ foco” che arde sotto terra e che mi soffoca. Ho le lacrime agli occhi. Fuggo.

Mi ritrovo sotto Meleto, ecco casa Carusi, eccomi nell’aia Pasquini dove anche qui la mitraglia nazista fece altri morti innocenti. Altri nell’aia del Rossini e altrettanti nelle aie del Benini e del Melani . Due meletani sfuggirono alla morte: uno, vedendo quello che stava accadendo, si

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nascose tra la cenere del forno; l’altro, sfilatosi dal gruppo dei rastrellati, nascondendosi dentro un orcio vuoto.

Oltre 90 furono i trucidati, praticamente tutti gli uomini del paese e, anche qui, case sventrate e bruciate!

Una rabbia sorda mi attanaglia e penso: prima la guerra che ha portato lutti e rovine, una tragedia immane; poi, molti anni dopo, la mano dell’uomo che, per sfruttare le risorse plioceniche della natura, ha distrutto un paese (Castelnuovo, il mio paese) e tante frazioni: dal Ronco a Bomba, da S. Donato – passando per Pianfranzese col suo castello – a S. Martino, sparpagliando famiglie in qua ed in là, annullando le comunità di allora.

Per riparare hanno costruito in Camonti un paese. Nuove le case, nuovo il Circolo e la Chiesa, nuovo il campo sportivo e le scuole. Pur pieno di vita lo trovo anonimo, non è più il mio paese: non è Castello!

Una musica tante volte sentita da ragazzo mi scuote, mi riporta alla realtà.

Le persone presenti cantano in coro “ Bella Ciao”, la canzone dei partigiani !

Il cuore inizia a battere forte, ecco la svolta, ecco un lampo di luce, è vero: hanno distrutto tutto, ma non la memoria!

La memoria… un’energia immensa, indistruttibile, che magari come nei sogni ti può far confondere dati e nomi, ma che, se pur vecchio - ma non mi sento tale - mi aiuta ancora a lottare per un mondo migliore!

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Il sole splendeva

Le scelte si fanno in pochi secondi e si scontano per il tempo restante. (Paolo

Succede sempre così. Ogni sera, mi ritrovo a pensare a quella storia. Qualcosa mi prende lo stomaco, mi attanaglia. Mi sento rapire e portare lontano, indietro nel tempo. Vengo trascinato a quando ero giovane, a quel settembre del 1944.

Da principio, aleggia una specie di rimorso. Un brutto pensiero mi penetra nel cuore e mi ottenebra la testa.

Lo conosco bene. È il solito rimpianto per aver fatto qualcosa di irreparabile che ha portato alla perdita di due vite incolpevoli.

Nel corso degli anni è tornato talmente tante volte, quel senso di amaro, che adesso credo di desiderarlo. Quando non c’è, quasi ne sento la mancanza. Quando compare, quelle anime innocenti rivivono dentro di me.

In fin dei conti, è doveroso scavare nella memoria di quei giorni passati. Così, nel tentativo di incollare tra loro tutte le istantanee, si può provare a dare un senso a ciò che è stato.

Ogni volta, però, devo aspettare che sia notte inoltrata. Devo attendere che gli antidolorifici facciano effetto perché la mia mente e la mia carne possano ritrovare qualche attimo di sollievo e di lucidità.

Anche stasera le fitte sono state intense. Ho vomitato. Ho sudato freddo.

Il corpo, tutto quanto, mi ha fatto un gran male, ma ora, saranno le tre, si è tutto dissolto. Mi è bastato abbandonarmi sulla poltrona fino a che anche l’ultimo spasimo non è sparito e adesso, finalmente, posso alzarmi per guardare là fuori.

Solo così riesco a sentirmi libero e leggero, osservando fuori dalla finestra, dove è ancora pieno di luci.

Pallide, cupe, giallastre luci. È quello che si riesce a vedere a quest’ora.

Il tumore mi sta uccidendo, e solo in questi momenti non c’è il dolore per questo corpo malato.

Nella mente, rimane un leggero senso di apnea. Negli occhi, si staglia il bagliore dei fari di un’auto che gioca con i contorni netti e decisi dei

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palazzi vicini.

Alzo lo sguardo. Le luci della città si intrecciano in cielo. Non ci sono più ostacoli o distanze.

È bellissimo quello che la notte mi offre quando scosto le tapparelle, ogni volta che con un gesto delicato della mano, divaricando le mie dita, lascio entrare il mondo, ancora assopito, dentro la stanza.

La mia testa è invasa dalla potenza della città dormiente, ma che non riposa del tutto.

Il mio corpo è stroncato, ma con lo spirito mi muovo per le vie della città.

Sono lo spazzino e il fornaio che vanno al lavoro, la volante della polizia che veglia sul sonno della gente, la prostituta che rientra a casa poco prima che il resto del creato si desti. Sono qui, solo. Come lo ero nel ‘44.

La mia mente divaga. Un disordine di pensieri. Proprio come tanti anni fa.

Da bambino, ho osservato centinaia di volte fuori dalla mia finestra, nella casa in cui vivevo con la mia famiglia, per scagliare lontano la monotonia e la solitudine che mi accompagnavano.

Specialmente da ragazzino, in quegli anni di violenza e di odio, scrutare fuori è sempre stata la mia libertà più grande. Le luci erano diverse. Nella sera brillavano i caldi bagliori dei camini, le luci soffuse che, rincorrendosi, mostravano, attraverso le finestre delle case, tutta la forza di quella vita semplice e modesta.

Ecco, la mente mi trasporta indietro nel tempo fino a riportarmi a Marlia, piccola realtà di paese che giace assopita lungo la sponda sinistra del fiume Serchio.

Mi ritrovo in quella corte contadina alle porte della città di Lucca, nella casa di pietra dei miei antenati, ormai disabitata e chiusa, per riempirla nuovamente di voci, suoni, colori, odori.

Ero ancora giovane e sano. Ancora potevo correre, muovermi, saltare.

Il lume della candela la sera, il chiarore del camino, il pigolare dei pulcini nell’aia, l’odore del pane fatto dalla mia mamma. L’immaginazione mi porge con dolcezza le chiavi e in un secondo ho nuovamente dodici anni e mi ritrovo nella mia stanzetta, in cima alle strette scale.

Proprio come allora, quell’angolo di casa è sicuro, accogliente, caldo. È il mio rifugio e dalla piccola finestra posso spiare il mondo che scorre lì fuori, gli olmi che si stagliano alti verso il cielo, il verde dei campi che sfuma pian piano in un giallo vivo.

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Di sotto, è sempre la solita storia.

Mio padre urlava e berciava a mia madre che aveva lasciato freddare la minestra. Non era mai stato molto gentile con lei. Lavorava tutto il giorno e si arrabbiava quando non trovava un piatto caldo in tavola. Ogni sera, come sempre, tornava e gettava gli abiti sporchi davanti al camino.

In quei momenti, anziché chiamarla per nome, si rivolgeva a lei canzonandola con qualche nomignolo che inventava sul momento. Mia madre, come sempre, abbozzava un sorriso di sottomissione, raccoglieva in silenzio i vestiti e li metteva con cura in una tinozza.

Presto sarebbe andata a lavarli fuori dal paese, al ponticello sul rio Caprio.

Fu in uno di quei giorni d’estate, quando lei decise di portarmi con sé, che accadde qualcosa che avrebbe cambiato per sempre la mia vita.

I miei tre fratelli maggiori erano, come la maggior parte degli uomini di Marlia, a lavorare la terra nei pressi della Pieve.

Io non ero ancora pronto per quello. Non ero ancora l’uomo che mio padre voleva ch’io fossi. Per fortuna, non lo sarei mai diventato.

Quel giorno ci saremmo imbattuti, prima di imboccare la via del ritorno, in una giovane donna e suo figlio, Ippolito. Lui era un ragazzino biondiccio, esile e buffo non meno del nome che portava.

Rammento che, quando lo incontrai, aveva una camicia bianca di qualche taglia più grande, con le maniche arrotolate e un paio di pantaloni corti tenuti su da vistose bretelle nere.

I suoi piedi erano scalzi mentre io indossavo un paio di vecchi sandali, ma solo perché avevo la fortuna di essere l’ultimo di quattro fratelli. In quegli anni ci vestivamo davvero con poco.

Alla scuola elementare del paese, comunque, non l’avevo mai visto. Solo ogni tanto, mi era capitato di notarlo durante la messa domenicale.

Comunque, negli ultimi tempi, non ero uscito molto spesso. Neanche per andare a scuola.

Secondo mio padre, sarebbe stato troppo pericoloso. Da molti mesi a quella parte, infatti, in alcune zone della Lucchesia, gli scontri tra fascisti e partigiani si erano fatti sempre più violenti.

I primi erano diventati ancora più pericolosi di quanto non fossero stati in precedenza, perché messi alle strette dall’intensificarsi dell’azione partigiana e dalla incalzante avanzata degli Alleati. Tutta la zona era un crocevia di violenza.

L’undici luglio del 1944, nei pressi di Monte San Quirico, non

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lontano da casa mia, molte persone erano state fucilate dai tedeschi, come rappresaglia a seguito dell’uccisione di due loro soldati.

Nello stesso periodo Don Ferruccio Crecchi, parroco di un paesino nei pressi di Stazzema, venne messo al muro dalle truppe alleate dopo che qualcuno lo aveva indicato come fiancheggiatore dei fascisti.

Le voci giravano velocemente e, anche se i grandi facevano di tutto perché le orecchie dei piccoli non udissero certe nefandezze, in un modo o nell’altro, anche noi bambini ne venivamo sempre a conoscenza.

Una volta, sentii il prete che parlava con un uomo appena giunto dalla provincia di Siena. In quel periodo, di tanto in tanto, servivo messa e, così, mi capitava di trattenermi qualche minuto oltre il termine della funzione.

Fu proprio in una di quelle occasioni che ebbi modo di ascoltare quello che i due si dicevano, dopo che si erano infilati in sacrestia, ignari del fatto che stessi origliando.

Rabbrividii nell’ascoltare le parole concitate del forestiero che filtravano dalla porta socchiusa.

Lui, il proprietario di una cascina nei dintorni di San Quirico d’Orcia, aveva portato con sé le sue figlie perché, a quanto diceva, soldati marocchini, giunti con l’esercito francese per liberare la zona, se ne andavano in giro commettendo violenze di ogni genere. Appresi così che avevano stuprato ed ucciso diverse donne e ragazzine del luogo.

Tempo dopo, nel periodo immediatamente successivo alla fine della guerra, sarebbe cominciata la sanguinosa resa dei conti dei vincitori sui vinti.

E così, certe storie tristi e orrende, che parlavano di linciaggi e omicidi, sarebbero continuate a giungere fino a noi anche a distanza di tempo.

Sembrava che il clima di odio e di caos di quegli anni non dovesse più avere una fine. Senza dubbio, mio padre prese la decisione più giusta quando stabilì che la nostra famiglia, per quanto possibile, si sarebbe tenuta fuori da tutto.

Viste le restrizioni e le limitazioni di quei giorni, fui dunque molto felice di poter trascorrere quella mattina assieme a mia madre e tentai di godermi più che potevo il privilegio raro che mi era stato concesso.

Ricordo che, lungo la strada sterrata che conduceva fuori dal paese, c’erano un laboratorio di cesteria e la bottega di un conciabrocche Conoscevo molto bene il posto, perché mia madre mi ci mandava spesso per far riparare col mastice quel piatto o quella pignatta che mio padre aveva puntualmente fracassato contro il muro.

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Superammo la bottega del calzolaio e da lì ci mettemmo diversi minuti prima di arrivare al torrente. Percorremmo almeno quattro chilometri.

Ebbi così modo di guardarmi intorno e devo dire che mi innamorai di ciò che mi si andava parando davanti agli occhi, momento dopo momento. La vegetazione di quella campagna, tipicamente toscana, era verde e rigogliosa. La quiete era assoluta.

In lontananza, degli uomini lavoravano con la zappa ed un carro restava in attesa di essere caricato coi frutti della terra. Naturalmente, tutte le bontà raccolte ben presto sarebbero state portate in paese o in città per essere vendute.

Diverse persone lavoravano nella vicina cartiera di via del Fanuccio, ma la maggior parte delle famiglie, come la mia, campava così. Per arricchire il reddito, il più delle volte, nelle corti si allevavano polli e maiali.

Mentre procedevamo verso il corso d’acqua, quel giorno, pensavo a tutto questo. Mi chiedevo se anche io avrei mai affrontato una vita dura, con la schiena sempre ricurva, fatta di lavoro nei campi sotto il sole cocente. La schiena ricurva in avanti l’aveva anche mia madre mentre camminava davanti a me, in silenzio.

Provavo tenerezza per lei. Mi pareva sempre infelice. Dava l’impressione, con quel suo sguardo sempre avvolto di luce offuscata, di essere rassegnata a vivere in una lenta agonia, a trascorrere una vita priva di amore. Ancora oggi sono triste per lei, per la sua esistenza vissuta sempre in disparte, sottovoce.

Ad un certo punto, svoltammo a destra e prendemmo a costeggiare il bordo di un fossato e poi l’argine del torrente fino a che il sentiero non ci portò in basso, al livello dell’acqua.

Grazie al periodo di magra, si era formata una piccola spiaggetta fatta di ciottoli e sabbia finissima.

Ci inginocchiammo e ci concedemmo alcuni minuti di gioco, spruzzandoci l’un l’altra con l’acqua prima di metterci a fare i panni. Ricordo che fu una mattinata felice.

Un’ora più tardi imboccammo la strada del ritorno.

Rammento che avevo la cesta del bucato tra le mani e che camminavo a testa bassa per assicurarmi di non inciampare.

Ad un tratto, mia madre salutò qualcuno.

“Buongiorno, Carmina!” esclamò.

Levai lo sguardo e fu in quell’istante che riconobbi la signora Matteucci e suo figlio Ippolito.

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Istintivamente, seguii l’esempio di mamma e salutai anche io.

Lui non ricambiò il saluto, ma per un attimo mi fissò intensamente con i suoi occhi chiari.

Il suo atteggiamento, semplice e sincero, mi colpì immediatamente. Inspiegabilmente, provai un strano senso di felicità. Immaginai, per me e mia madre, una vita diversa, limpida come il cielo pieno di nuvole libere e leggere, come i suoi occhi luminosi ed espressivi. Sognai la vita che avrei voluto per noi.

Fu in quel momento che vidi qualcosa cadere a mezzo metro da lui e scivolare verso il basso, andando a finire dietro un ciuffo d’erba alta.

Sul momento, mi sembrò un quaderno scolastico “Opera Balilla”, uno di quelli che anche io e i miei compagni usavamo in classe, ma mi accorsi ben presto che si trattava di un piccolo diario rilegato in pelle che il bambino teneva infilato nei calzoni e che aveva perduto per via del passo troppo arzillo e saltellante.

Temporeggiai per qualche secondo e attesi quindi che fosse abbastanza distante per poterlo raccogliere senza essere visto.

Sapevo che stavo per fare qualcosa di sbagliato. Qualcosa mi diceva che avrei dovuto chiamarlo per restituirgli subito ciò che era suo, ma non lo feci. Volutamente rallentai il passo e, senza ulteriori indugi, posai a terra la cesta coi panni, afferrai il diario e lo nascosi sotto la camicia.

In verità, non lessi mai ciò che quelle pagine custodivano.

Non era mia intenzione violare in maniera così subdola la sua vita.

Speravo soltanto, fortemente, che lui un giorno si presentasse alla mia porta. Magari, in quell’istante, gli avrei chiesto che cosa vi avesse scritto.

Avrei voluto essere un suo amico. Magari, il suo miglior amico.

Un sabato di poco tempo dopo, mi resi conto che quella era soltanto una mia stramba fantasia.

Realizzai che non sarebbe mai arrivato e decisi così che, se avessi voluto avere una possibilità, sarei dovuto andare io da lui.

Quando arrivai alla Pieve di San Donnino, dove abitava la sua famiglia, non trovai nessuno in casa. Così lasciai sull’uscio un biglietto con su scritto: “Ho il tuo diario. Vieni a cercarmi domani a messa. Lucio.”

Il giorno seguente, il ventiquattro settembre di quell’anno, era una domenica.

Il sole splendeva nel cielo e i suoi raggi gentili accarezzavano i campi coltivati, che si allungavano dolcemente sulla piana lucchese.

Ippolito, quella mattina, uscì di casa con sua sorella Angela per venire

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a messa.

Io e mia madre ci andavamo sempre e, di tanto in tanto, anche mio padre e i miei fratelli si univano a noi. Quella volta, c’eravamo tutti.

La chiesa era gremita.

Ricordo che, ad un certo punto, improvvisamente, parecchia gente si spostò repentinamente verso l’uscita e si precipitò all’esterno ammassandosi sul sagrato vociando e gesticolando.

Mi resi conto immediatamente che doveva essere successo qualcosa di grave. Noi, che eravamo seduti proprio di fronte all’altare, sulle prime rimanemmo fermi in attesa di capire meglio come stessero le cose, ma poi, quando anche il parroco lasciò il suo posto per andare a vedere cosa fosse successo, lo seguimmo tutti.

Una volta fuori, guardando verso ovest, si poteva osservare una coltre di fumo denso e nero levarsi verso il cielo. In molti, come mio padre, corsero in quella direzione, mentre mia madre riportò me ed i miei fratelli a casa.

Ebbi allora un brutto presentimento.

Cercai subito di allontanarlo dalla mia mente, ma, col passare dei minuti, si faceva sempre più prepotentemente strada nel mio cuore l’idea che fosse successo qualcosa ad Ippolito.

Infatti, nonostante durante la messa mi fossi voltato più volte per assicurarmi del suo arrivo, non lo avevo mai visto varcare la soglia.

Quando mio padre tornò, nel primo pomeriggio, spiegò a mia madre che cosa fosse accaduto.

Io e i miei fratelli rimanemmo seduti in disparte, in silenzio.

Non compresi tutto ciò che si dissero, ma ricordo ancora che la voce del babbo, solitamente sicura e vigorosa, si era fatta tremula ed incerta.

I suoi occhi erano colmi di angoscia e sono sicuro che, da quel giorno, qualcosa nel suo animo cambiò per sempre.

A distanza di molti anni, quando ero ormai diventato un uomo, ebbi il coraggio di chiedergli che cosa avesse visto quel giorno.

Non ha mai risposto alla mia domanda. Quella volta, fissando nei suoi occhi, vidi la sua sicurezza vacillare e riconobbi la tristezza che oggi accompagna anche me.

Forse, quello che vidi fu un senso di rimorso e sofferenza per non aver potuto fare niente di più che raccogliere quei poveri resti carbonizzati e dar loro una degna sepoltura.

In quel terribile giorno di inizio autunno, mentre Ippolito ed Angela percorrevano il ciglio della strada, niente avrebbe fatto presagire ciò che

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di lì a poco sarebbe accaduto. Ancora oggi, continuo ad immaginarli che camminano sorridenti, mano nella mano. Mi sembra proprio di vederli.

Timide viti e pioppi imponenti sfilano silenziosi al loro fianco mentre, sopra le loro teste, il cielo è appena segnato da nubi bianche e leggere.

Improvvisamente, il rombo cupo di un aereo compare nell’aria.

Si fa sempre più vicino, squarciando la quiete, graffiando in maniera straziante la pace che c’è.

Così, la bomba americana cade, all’improvviso, su quella strada del nostro paese.

Un fienile, sulla via per la Chiesa di Santa Maria Assunta, è completamente raso al suolo dall’esplosione. Il boato ed il fragore sono immensi e fanno tremare la pianura.

Vengono uccise molte bestie e i poveri ragazzi sono investiti da una scarica di schegge e detriti che troncano in un attimo la loro vita.

Ecco.

Quella bomba spezzò la loro verde primavera e cambiò, per sempre, la mia esistenza.

Ippolito, quando morì, aveva solamente tredici anni ed io non sono più riuscito a levarmi dalla testa il pensiero che, se non avessi preso quel diario, se non avessi dato ad Ippolito quell’appuntamento, forse, adesso, lui e sua sorella sarebbero ancora vivi. Fui io a indirizzarli verso la fine e vivrò con questo rimorso per il resto dei miei giorni.

Magari, prima o poi, incontrerò di nuovo quel ragazzino e allora potremo parlare, correre, giocare come non abbiamo mai fatto.

Non mi resta altro che aspettare, ancora un poco, la fine della mia agonia.

Ben presto, sarà la timida luce del sole. Tiepida, ma seducente luce. Già sento tornare la febbre, prima di riuscire a trovare il mio sonno. È come se il sole già mi baciasse, come se già accarezzasse la mia pelle. Tra poco tornerà a splendere alto nel cielo. Proprio come quel giorno.

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Ca’ Berna

Era stata zia Lise a trovare il nonno, il mattino seguente. Quando arrivai, insieme a mia madre e mia sorella, il medico era già lì, ma non c’era nulla da fare se non constatare il decesso.

Quella sera, mentre sedevamo avviliti in cucina, zia Lise mise sul tavolo alcuni oggetti. Era il contenuto del comodino in camera del nonno, disse, e dovevamo decidere come disporne. Fu naturale che le fedi andassero come ricordo alla mamma e alla zia, a mia sorella Gretchen l’anello di fidanzamento di nonna e a me l’orologio di nonno, un Patek Philippe degli anni Trenta, gelosamente custodito e caricato con cura, giorno dopo giorno.

Alla fine, sulla tovaglia rimasero una scatoletta di pastiglie alla menta e una foto ingiallita, che mostrava un bambino di pochi anni sullo sfondo di un’abbazia circondata da grandi alberi. La breve didascalia sul retro diceva soltanto: Romolo Ugolini, 1943.

«Un nome italiano» riassunse Gretchen il primo pensiero di tutti noi.

«Ma, papà combattette in Italia solo nel ‘44» replicò zia Lise, come per troncare sul nascere il seguito logico delle nostre riflessioni, perché si sa cosa combinino i soldati in guerra, lontani da casa e dalle mogli. Solo che quel bambino in nessun caso poteva essere figlio naturale del nonno, il periodo temporale non corrispondeva, per non parlare dell’assoluta mancanza di somiglianza.

Ma allora chi era?

Della guerra, che lo aveva reso zoppo a vita, nonno non parlava mai. Nemmeno con me, che gli ronzavo sempre intorno e lo aiutavo nella falegnameria.

«Ci sono altre foto di quel periodo?» chiesi incuriosito.

Zia Lise scosse la testa. Rientrato dall’ospedale militare dopo l’amputazione della gamba, il nonno aveva gettato nel fuoco le lettere e le fotografie inviate man mano dal fronte. Tutto, ogni foglio riferito al suo servizio militare, persino i documenti, le tessere e i libretti.

«Ma perché?» domandai perplesso.

«È ovvio,» rispose Gretchen, «voleva distruggere ogni ricordo. Che ti credi tu, che la guerra sia un gioco divertente? Specialmente quella guerra!»

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«La mamma era piccola,» dissi allora io, «ma tu, zia, qualcosa dovrai pur ricordare qualcosa. Avrai visto le foto, la nonna ti avrà letto le lettere. Non dicevano nulla di questo bambino?»

Zia Lise scosse la testa. «So solo che papà fu ferito in Italia il 28 settembre del ‘44, ricordo la data perché era il giorno del mio undicesimo compleanno, una coincidenza che, quando arrivò la comunicazione, mi fece sentire tremendamente in colpa. Mia madre, però, mi tranquillizzò, dicendo che invece era stata una fortuna. Papà sarebbe tornato a casa presto, invalido, ma vivo, ed era molto meglio che lo avevano colpito alla gamba e non al braccio come quell’ufficiale del suo reparto che poi era tornato al fronte. E la mamma mi mostrò una foto dove, fra i commilitoni di papà, si vedeva, appunto, un ufficiale che aveva la manica della divisa vuota e penzolante. Devo essere rimasta molto impressionata, perché ancora oggi me la ricordo benissimo quell’immagine, che qualche mese dopo finì nel camino insieme a tutto il resto. E mai più se ne parlò.»

«Posso tenerla io, la foto del bambino?» domandai d’impulso.

«Perché? Cosa ci vuoi fare?» chiese subito mia sorella, sospettosa come al solito.

Alzai le spalle. Non avevo idea perché la volevo, però ero geloso di quel piccolo volto, custodito con cura per decenni.

Infilai la foto in tasca e una volta a casa, la misi nel cassetto della scrivania, ma il giorno dopo la ripescai per riporla nel portafogli. Quegli occhi neri mi perseguitavano, sentivo il dubbio rodermi dentro come un tarlo. Mio nonno non era mai stato un uomo sentimentale, persino con me, il nipote maschio che avrebbe perpetuato il suo sangue, il suo cognome e il suo mestiere. Era sempre stato corretto, ma taciturno e severo. Era la sua natura, e a me stava bene così, però all’improvviso iniziavo a vederlo sotto una luce diversa. Non era più l’uomo tutto d’un pezzo che credevo di conoscere, bensì uno estraneo carico di segreti.

Tornai da zia Lise.

«Non è possibile che non ricordi altro oltre quell’ufficiale monco!» l’affrontai agitato.

«Monco come un pirata,» sorrise mia zia, «ecco, fu proprio questo che pensai ai tempi, perché sullo sfondo della foto si vedeva il mare.»

«Il mare? Quale mare? L’Adriatico?»

Zia Lise scosse la testa. «No, il Tirreno. Questo me lo spiegò la maestra quando portai la foto per farla vedere a scuola. Ne ero orgogliosa, nessuno dei miei amici aveva mai visto il mare, eravamo figli di gente povera, piccoli

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artigiani come tuo nonno, operai e contadini.»

Mi recai in biblioteca e feci delle ricerche, basandomi sui pochi dati che avevo: l’area delle coste tirreniche nell’estate-autunno del ‘44. Se a scuola, durante le lezioni di storia ero stato piuttosto distratto, ora studiai con diligenza gli spostamenti delle truppe del feldmaresciallo Kesselring lungo le linee Caesar e Gotica. Quasi quarantamila fra morti, feriti e dispersi, e diecimila prigionieri in pochi mesi di combattimento. D’un tratto, mi rendevo conto che mio nonno era stato un miracolato.

Naturalmente non scoprii nulla che potesse svelare il mistero della foto. I libri di storia non offrivano nessuna risposta, e cercarla, recandomi direttamente sui luoghi della guerra a distanza di tanto tempo, sarebbe servito a poco, però bastò per motivarmi. I miei genitori non si opposero a quel viaggio che presentai semplicemente come una vacanza italiana di mare e divertimento.

Avevo diciannove anni e dovevo decidere cosa fare della mia vita. Avevo chiuso con gli studi, ma ero considerato un ragazzo serio e laborioso, quindi molto probabilmente, come mio nonno, sarei invecchiato nella falegnameria, allora perché non concedermi un’ultima boccata d’aria fresca, prima di impegnarmi definitivamente fra lavoro e famiglia.

Volevo rifare il viaggio di mio nonno, così ad agosto dell’81 arrivai sulle spiagge di Anzio e man mano, in treno oppure in autostop, risalii verso nord, godendomi la selvaggia bellezza delle coste maremmane, il fascino liberty del lungomare labronico e la movimentata vita notturna della Versilia. Mi arrangiavo gesticolando e masticando un inglese stentato, ma avevo imparato a scandire una frase in italiano:

«Lei conosce questo bambino?»

Mostravo la foto, poi la giravo per far vedere la scritta. Le persone guardavano incuriosite, alzavano le spalle, alcuni mi facevano domande che non capivo, e allora ero io ad alzare le spalle. Non mi aspettavo un miracolo, in fondo mi bastava seguire le orme di mio nonno, calpestare la stessa sabbia e inalare la stesse boccate di vento salmastro, mentre il sole calava fra le onde, rosso come una mela infuocata. E lentamente, fra tuffi mozzafiato dalle scogliere, manciate di fichi dolcissimi, colti direttamente dai rami ronzanti di vespe, notti solitarie in spiaggia, cullato nell’amaca opalescente della Via Lattea, iniziavo a venire a patti con quell’imbronciato bambino di nessuno, che, chissà come, era riuscito a guadagnarsi l’amore del nonno.

Poi, in una gelateria di Marina di Pietrasanta, conobbi Ingrid, una

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ragazza di Hannover. Facemmo amicizia e, quando le rivelai lo scopo del mio viaggio, incuriosita dalla vecchia foto, volle portarmi con sé a Firenze. Era il luogo più adatto per cercare informazioni, dichiarò. Ribadii, scettico, che in mancanza di qualsiasi dato certo, un posto valeva l’altro, ma una volta giunti a Palazzo Spinelli, che ospitava l’Istituto d’arte dove Ingrid stava per concludere un corso di restauro, finalmente compresi la sua idea. Ingrid non intendeva affatto puntare sulle cose più ovvie, tipo il volto e il nome del bambino, come avevo fatto io e come probabilmente avrebbe fatto chiunque, no, a lei interessava, invece, l’edificio sullo sfondo, una specie di agglomerato di piccole case addossate una all’altra e capeggiate da un semplice campanile squadrato.

La nostra ricerca si concluse in maniera inverosimilmente semplice. Bastò bussare alla porta del professore di storia dell’arte medievale e un tizio occhialuto e barbuto fu più che felice di aiutare la mia perspicace amica. Si trattava del Santuario di Madonna dell’Acero, nei pressi di Lizzano in Belvedere sull’Appennino Bolognese, sentenziò, compiaciuto della propria cultura.

«Sono meno di cento chilometri da qui!» esclamò Ingrid, dopo aver consultato la cartina, e dal canto mio fui felicissimo di accettare la sua proposta di accompagnarmi. Aveva la macchina, una piccola cinquecento verde, ma sopratutto sarebbe stata insostituibile come traduttrice.

Nella tarda mattinata del giorno seguente, eravamo già davanti al Santuario. Il tempo, in quelle fitte foreste di faggi e abeti, sembrava essersi fermato e l’edificio pareva identico a quello nella foto. Un anziano sacerdote ci guidò nella visita della cappella, dove lasciammo una modesta offerta. Una volta fuori, di fronte ad un maestoso acero alto quasi venti metri, ci raccontò la leggenda dei due pastorelli sordomuti, che nel Trecento si ripararono qui da un temporale e proprio sotto quello stesso albero ebbero la grazia della Madonna e riacquistarono voce e udito. Ringraziammo per la storia e per la disponibilità e Ingrid, speranzosa, mostrò la foto in cerca di informazioni. Davanti all’immagine del santuario, il religioso sorrise, però alla vista del nome sul retro, il suo volto improvvisamente si rabbuiò. Percepii che era sul punto di rispondere con una domanda ai nostri interrogativi, ma poi si trattenne e disse solo che ai tempi della guerra una famiglia di nome Ugolini abitava a Ca’ Berna, a un paio di chilometri da lì. Se volevamo sapere di più, avremmo dovuto recarci laggiù e chiedere di una certa signora Bernardini. Poi, senza nemmeno salutare, il sacerdote si voltò e sparì nella sua chiesa.

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Ca’ Berna si rivelò un tetro gruppo di casolari di pietra raccolti nella conca di una radura e, anche se oggi conosco la Val Dardagna come le mie tasche, ricordo che mi sentii sperduto, come schiacciato dall’imponenza torva dei monti.

Fu un ragazzino di sei o sette anni ad aprire la porta.

«Nonna!» gridò verso l’interno e Antonia Bernardini comparve, accaldata e indaffarata, asciugandosi le mani bagnate con uno strofinaccio. Aveva sui cinquant’anni, ai tempi, ed era una donna magra e taciturna, dalla pelle di montanara, arrossata da sole e vento.

Salutammo quindi, e Ingrid disse qualcosa che non capii, ma mi sentii comunque rassicurato dal suo tono gentile. Antonia Bernardini annuì senza sorridere, ma anche senza diffidenza, e carezzò la testa del nipotino che ci osservava con vivace curiosità. Poi la mia amica tese la foto. Vidi la donna oscillare, poi sgridare con voce stridula il bambino che, più spaventato che obbediente, corse verso l’interno. Antonia Bernardini chiuse di colpo la porta, come per proteggere la sua casa, poi le sue gambe si fecero molli e la vidi appoggiarsi al muro, la foto stretta con forza fra le dita. Da stridula, la sua voce si era fatta roca e dolorante:

«Era il 27 settembre del ‘44... pioveva a dirotto e dal monte scendevano sfilacci di nebbie fredde, così ce ne stavamo tutti dentro, a badare alle faccende di casa, quando da lontano arrivarono degli spari. Come si seppe poi, erano stati i partigiani, Paolo e Carlo Castelli insieme ad un ragazzo bolognese, un barbiere di nome Walter, che dal crinale avevano aperto il fuoco contro una pattuglia tedesca di passaggio. Solo che come raccontò poi Arno, voglio dire il Bugni Ermenegildo, detto Arno, che stava osservando dall’alto col binocolo, quella che saliva dall’Acero non era una semplice pattuglia, ma la testa di una colonna di centinaia di tedeschi che venivano dalla Toscana. Passarono pochi minuti e da Pian d’Ivo si rovesciò sopra le nostre case il fuoco dei mortai, poi arrivarono i soldati, capeggiati da un ufficiale monco, che pareva assatanato, sparava e urlava: Alles foues, alles kaputt! Sentii mia madre urlare: Scappate! Scappate! Stavo giusto sull’uscio di casa e mi lanciai a rotta di collo verso la macchia, quando arrivò una raffica alle mie spalle... poi sono caduta e non ricordo più nulla. Il resto me lo raccontò in seguito mio cugino Claudino che era riuscito a rotolare in fondo al fossato. Trucidati come bestie, tutti! Mia madre, mia sorella Delia e mia sorella Lia, le mie zie, i cuginetti... Più tardi, quando scesero i partigiani, trovarono il piccolo Romolino, figliolo di zio Angiolino e di zia Augusta, che respirava ancora anche se aveva un proiettile fermo nella

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testa. Così lo misero fra le braccia della mamma morta, da un lato lui, dall’altro il fratellino Sergio di dodici anni, morto anche lui. Ventotto persone... vecchi, donne e bambini... Il mio piccolo cuginetto, povera anima innocente!»

Antonia Bernardini si asciugò gli occhi, si ricompose e ci chiese chi eravamo e come mai avevamo quella foto. Pur sapendo la risposta, Ingrid mi tradusse la domanda e attese in imbarazzato silenzio. Come facevo a confessare di essere il nipote di uno di quei soldati assassini? Sentivo come un macigno dentro, mi mancava l’aria.

«Dille che sono uno studente di giornalismo... che sto facendo delle ricerche per un articolo e ho trovato la foto negli archivi.»

Ingrid si limitò a tradurre velocemente, senza guardarmi.

Antonia Bernardini annuì mestamente e mi porse la foto. «Dille che può tenerla,» mormorai, «e che le siamo grati, molto, ma ora dobbiamo andare, dobbiamo andare via!»

Non vedevo l’ora di fuggire, di nascondermi il più lontano possibile.

Una volta giunti a Firenze, scesi alla stazione centrale e a nulla servirono gli inviti e le parole di consolazione di Ingrid. Ero confuso e inorridito, mi sentivo maledettamente in colpa.

Rientrato a casa, ripresi le ricerche in biblioteca, stavolta con più metodo, e così arrivai allo sturmbahnfurer dall’avambraccio amputato, Walter Reder, comandante di SS Panzer Aufklarung Abteilung 16, Sedicesimo reparto corazzato di ricognizione. Fuggito in Baviera alla fine della guerra, catturato dagli americani ed estradato in Italia, nel ‘51 era stato giudicato colpevole e condannato all’ergastolo per i massacri di civili nella zona di Monte Sole. Mi imbattei, incredulo, nella notizia che solo un anno prima del mio viaggio in Italia, con un’ordinanza del tribunale militare di Bari che lo definiva fra l’altro “valoroso combattente di guerra”, gli era stata concessa la libertà condizionale. Mi ributtai nei libri di storia e, fra le pagine dei giornali che riportavano i processi per crimini di guerra, rilessi i dati riguardanti le stragi di Marzabotto, Monzuno e Grizzana Morandi dove in soli sei giorni, fra il 29 settembre e il 5 ottobre del ‘44, erano state trucidate più di settecento persone, però non trovai menzionati da nessuna parte le vittime di Ca’ Berna. Continuavo a sentirmi in colpa per mio nonno e per i suoi commilitoni, almeno era quello che credevo, finché una notte non rividi in sogno il volto scarno e gli occhi sofferenti di Antonia Bernardini. Mi svegliai, turbato e sudato, ma con il dono di una nuova consapevolezza: non erano i fatti compiuti da mio nonno a farmi

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stare male. Di quelli io non ero responsabile, ma delle mie proprie azioni lo ero, eccome. Mi ero comportato da vigliacco e da bugiardo, e proprio con la donna a cui dovevo tutto il mio rispetto!

Tre settimane dopo, giungevo di nuovo a Lizzano in Belvedere, ma non salii subito a Ca’ Berna. Trovai lavoro come tagliaboschi, di notte stavo sui libri d’italiano e quando, il 27 settembre dell’82, bussai alla porta di Antonia Bernardini, indossavo il mio completo migliore, avevo le scarpe lucidissime e parlavo un italiano se non perfetto, perlomeno comprensibile. Se dopo la mia confessione, mi avesse buttato fuori di casa sua, l’avrei capita e non avrei obiettato, me ne sarei andato a testa bassa... ma dopo avermi ascoltato, in maniera semplice e cordiale, Antonia mi accolse a tavola, insieme alla sua famiglia. E, finalmente, respirai liberamente...

Rimasi a vivere a Lizzano. Sposai una ragazza del posto, ebbi due figli. Il più grande fa il geometra, il secondo, per la gioia della nonna paterna, ha aperto una gelateria in Germania. Uno dei nipoti di Antonia, invece, lavora in falegnameria con me, perché la vita è così, sorprendente e variegata.

Tornando all’ufficiale senza braccio, nell’85 viene scarcerato definitivamente e rimpatriato in Austria, dove dichiarò di non aver bisogno di giustificarsi di niente e ritrattò la richiesta di perdono espressa vent’anni prima agli abitanti di Marzabotto. Morì a Vienna nel ‘91.

Nel ‘94 un procuratore militare, che si stava occupando del processo contro Erich Priebke, trovò in uno sgabuzzino di Palazzo Cesi a Roma un armadio rimasto per anni con le ante rivolte verso il muro, nel quale c’erano documenti archiviati “provvisoriamente” decine di anni prima. Fu chiamato “l’armadio della vergogna” e conteneva indagini e testimonianze dirette delle più atroci stragi naziste, fra le quali anche gli eccidi dell’alto Reno, compreso l’eccidio di Ca’ Berna. In tutto, circa settecento fascicoli processuali, che raccontano un’agghiacciante marcia della morte, costata la vita di quasi duemila persone fra cui più di duecento bambini.

Fu istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle cause dell’occultamento dei fascicoli, però i responsabili della strage di Ca’Berna non furono mai puniti.

In memoria delle vittime di Ca’ Berna:

Romolo Baratti

Ofelia Bernardi, 19 anni

Antonia Bernardi, 14 anni

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Lia Bernardini, 21 anni

Maria Bernardini, 55 anni

Maria “Delia” Bernardini, 23 anni

Domenica Gelsomina Burchi, 41 anni

Giuseppina Cantelli, 17 anni

Olimpia Castelli, 41 anni

Olindo Castagnoli, 58 anni

Anna Demaldè, 41 anni

Corinna Ferrarini, 24 anni

Novella Franci

Maria Giacobazzi, 21 anni

Pietro Pelotti, 21 anni

Erminia Piovani, 61 anni

Maria Grazia Tugnoli

Rina Tamburini, 23 anni

Attilio Ugolini, 68 anni

Romolo Ugolini, 5 anni

Sergio Ugolini, 12 anni

Elio Vitali, 16 anni

Giorgio Vitali, 14 anni

Italia Vitali, 22 anni

Laura Vitali, 18 anni

Ada Zanacchini

Maria Zanacchini

Annunziata Zanacchini, 46 anni

I partigiani Armando Zolli, 34 anni, medaglia d’oro al valore e Dante Benazzi, 22 anni, medaglia d’argento al valore.

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Estate 1944. “Passaggio del fronte”

I mesi del passaggio del fronte a Firenze – luglio/agosto 1944 – furono terribili.

Avevo tra i sedici e i diciassette anni e questa mia gioventù mi ha molto aiutato, in quel periodo, a vivere una vita quasi normale in una situazione niente affatto normale, facendomi accettare senza grosse paure e senza traumi, per esempio, la scarsità di cibo, il cannoneggiamento continuo da parte dei tedeschi in ritirata verso il nord, la distruzione dei ponti, dei bellissimi ponti di Firenze. Fu risparmiato, chissà per quale “delicatezza”, da parte dei tedeschi, il Ponte Vecchio. Non così fu per il nostro “personalissimo” Ponte Rosso a pochi metri da casa nostra che fu, come gli altri, distrutto.

Noi abitavamo al piano terreno di un palazzo di otto piani per cui il risveglio, non ricordo se in piena notte o sul far del giorno, fu drammatico. Dormivo in quel periodo con mia cugina Giuliana che, con i suoi genitori, era ospite in casa nostra e ci ritrovammo letteralmente sepolte da una montagna di vetri che formavano come una pesantissima coperta sui nostri corpi, senza lasciare, incredibilmente e fortunatamente, neppure un piccolo graffio. Eppure tutto l’appartamento fu sconvolto, porte e finestre scardinate, tanto che per parecchio tempo, non potendo più usare la porta di casa, si entrava e si usciva da una finestra.

Penso che tutte le case di via Berchet fossero più o meno nelle stesse condizioni e che noi ragazzi, gli amici del numero cinque e quelli del numero nove (noi stavamo al numero sette) adoperassimo più del dovuto quella finestra per entrare o uscire di casa. Così, per divertimento.

Ma la tragedia che veniva vissuta in tutta Italia arrivò presto anche in via Berchet: Sergio, uno dei ragazzi Padula, nostri vicini di casa e di giardino, fu ucciso non molto tempo dopo, forse giocando non so dove, da una bomba inesplosa.

Da mangiare, come detto, c’era ben poco e gli adulti, di buon mattino, andavano di là d’Arno, attraversando il fiume, ove si poteva, camminando sui ciottoli dei ponti divelti, alla ricerca di qualcosa. Il nostro giardino di via Berchet era abbastanza grande e ben curato dal babbo che seguiva, oltre ai suoi amati fiori ornamentali anche, direi affettuosamente, una pianta,

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credo spontanea e quasi infestante ricoperta di bei fiori gialli, i cui tuberi erano e sono commestibili. Il “Topinanbur.” Mio padre li faceva lessare come le patate, arricchendo così la nostra magra cena.

Più tardi, quando gli alleati furono finalmente arrivati a Firenze, ci venivano distribuite scatolette di piselli di cui risento ancora il sapore dolciastro e stomachevole. Le tessere annonarie per il pane e altri generi di prima necessità le avevamo avute prima o anche dopo il passaggio del fronte? Non rammento assolutamente.

Buffalamemoria:alcuniricordisonoindelebili,altriseppureimportanti, sono rimasti come avvolti da una nebbiolina che, però, senza cancellarli del tutto, li fa solo affiorare in una misteriosa evanescenza.

Io e mia cugina Giuliana eravamo addette alla ricerca dell’acqua essendo i rubinetti molto parchi, limitandosi a farne scorrere solo qualche goccia, se erano di buon umore, ma il più delle volte lasciandoci letteralmente... all’asciutto.

Un giorno, era l’undici agosto, durante questa nostra ricerca dell’acqua, che quotidianamente ci portava al di là delle Cure dove avevamo scoperto una generosa fontanella, facemmo un “incontro” molto particolare.

In fondo a via Berchet, all’angolo tra il Convento delle Suore Francesi (Suore Ausiliatrici del Purgatorio, dove anni prima avevamo ricevuto la nostra Prima Comunione) e la ferrovia, vicino al passaggio a livello delle Cure, un signore distinto, ben vestito, sbarbato di fresco, con il pizzetto brizzolato, era disteso per terra, a braccia spalancate. L’abbiamo ritrovato per giorni e giorni, sempre allo stesso posto e, paurosamente, sempre più gonfio. Nessuno aveva potuto rimuoverlo e il caldo torrido di quell’agosto agiva inesorabile su quel povero corpo.

Solo decenni e decenni più tardi, leggendo “Liberazione di Firenze” di Giovanni Frullini, a pagina 166, ho saputo che quel signore distinto “incontrato” durante la ricerca dell’acqua, si chiamava Ettore Gamondi, uno dei direttori delle Officine Galileo, ed era stato ucciso, riporta il libro, verso le nove del mattino. Forse pochi minuti prima del nostro passaggio, così abituale ogni mattina.

Ecco come Frullini, nel libro sopra citato, descrive l’episodio:

“Gamondi ... dimorando nei pressi di Piazza Ciano, stamani ha esitato per qualche tempo prima di prendere una iniziativa; fino a quando, sono circa le nove, non ha visto dalla propria finestra una squadra di patrioti in azione. Allora ha preso il fucile che teneva nascosto in casa, si è unito a quei patrioti, si è messo anzi alla loro testa lungo via Madonna della Tosse

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e infine ha addirittura proseguito da solo fino all’imbocco di via Berchet. Dove è stato freddato dai tedeschi postati sulla ferrovia: anche il suo corpo resterà abbandonato per più giorni.”

Non avevamo mai avuto la cognizione che la nostra elegante via Berchet, tra via Madonna della Tosse e la ferrovia che attraversava Piazza delle Cure, fosse in quel periodo il fulcro dei combattimenti tra tedeschi e patrioti e cecchini e, purtroppo, la tomba di molti di essi.

Noi eravamo allora quasi bambine, ma “quel” ricordo è rimasto chiaro e incancellabile fino ad oggi. E sono passati oltre settanta anni!

La guerra aveva diviso la nostra famiglia.

Mio Padre, Ufficiale di complemento, era per me un essere superiore. Bello, forte, intelligente, colto e coraggioso.

Aveva combattuto nella Prima Guerra Mondiale, conquistandosi due Medaglie al Valor Militare, una d’argento: “… da Cavriglia (Arezzo), tenente 14 reggimento bersaglieri (M. M). Comandante di una compagnia di retroguardia, in tutti i fatti d’arme cui prese parte, per 5 giorni consecutivi dava mirabile esempio di coraggio, calma e avvedutezza nel disimpegnare ordinatamente il proprio reparto dai decisi attacchi nemici, concorrendo così validamente al buon esito del compito assegnato al battaglione. Difendendo il ponte di una città attaccata dall’avversario per due giorni e due notti dava impareggiabili prove di valore, nel ripiegamento si ritirava per ultimo dalla posizione, assolvendo brillantemente il proprio mandato. Sacile 7 novembre 1917”.

La medaglia di bronzo la conquistò a Monte Maio (Val Posina) il 20 agosto 1917.

(da: Istituto del Nastro Azzurro tra Combattenti e Reduci).

Il “dopo guerra 1915/1918”, dopo qualche anno di incubazione, portò al Fascismo e mio padre, non so fin da quando, vi aderì.

Non fu mai un gerarca fascista, ma un ufficiale che aveva prestato giuramento al Re e all’Esercito Italiano, e fu con la sua divisa grigioverde che nel 1940, non più giovane (aveva 52 anni), fu richiamato alle armi e mandato in Africa Settentrionale.

Solo nel 1942, alla morte di sua madre, gli fu concesso di rientrare brevemente in Italia.

Non gli era stato possibile, invece, ritornare un anno prima, nel 1941, quando suo figlio, non ancora sedicenne, fu portato via da un male incurabile.

Restano ancora, ben catalogate, numerose lettere che padre e figlio si

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scambiarono tra il fronte libico e il letto di dolore del ragazzino malato, che tutto voleva sapere della guerra e delle gesta del padre, da lui considerato un autentico eroe. Qui troviamo anche una tenera, ma consapevole richiesta: avvicinandosi la Pasqua del 1941, chiese al babbo non praticante un regalo prezioso; lo pregò di Confessarsi e Comunicarsi. Il padre non volle deludere il figlio, alla fine della sua breve vita, e gli assicurò di avere ubbidito alla sua preghiera partecipando alla Funzione officiata dal cappellano militare nella Chiesa da campo, nei pressi di Tobruk, ricevendo i Sacramenti.

Ed è rimasto, anche in me tredicenne, il ricordo straziante delle sofferenze del fratello, ma anche dei pomeriggi passati a fargli compagnia aspettando con ansia l’arrivo del Curato tedesco che ogni giorno veniva quasi furtivamente dalla Madonna della Tosse, nascondendo sotto il mantello nero la chitarra che avrebbe un poco allietato quella tristissima casa.

Toccò a me, per fatalità o per Grazia, perché avrei dovuto essere ancora a letto alle 6 di “quella” mattina, raccogliere l’ultimo sorriso e l’ultimo respiro di mio fratello mentre la sua mano, ormai fredda, si abbandonava tra le mie, e la mia mamma, come impazzita, girovagava di stanza in stanza, senza una meta.

Questa perdita è stata per tutti noi il punto fermo che ha condizionato le nostre vite; per noi due, per mio fratello maggiore e per me, è stato anche il punto di partenza che ci ha indicato il cammino.

La sorella della mamma, la zia Gina, che era stata forse tutta la notte a vegliare questo giovanissimo nipote, non poteva certamente immaginare che di lì a poco avrebbe dovuto anche lei attraversare quello stesso dolore, in maniera diversa ma forse più atroce. Suo figlio Leopoldo, o meglio Poldino, come veniva chiamato, già adulto, fu prelevato un giorno da casa, in quei mesi di rivendicazioni, di punizioni, di certezze vere o fasulle, da alcuni uomini forse patrioti, forse partigiani, e mai più tornato. Mai più.

Sono le atrocità della guerra che non sono mai, purtroppo, di esempio per i cosiddetti “buoni” né per i cosiddetti “cattivi”; continuano ad esistere e il mondo scrolla le spalle e va avanti.

L’8 settembre 1943 colse mio padre in servizio a Verona, responsabile delle truppe in partenza per la Russia e, a Verona, fu fatto prigioniero dai tedeschi e spedito in Polonia dove rimase per ben sette mesi prima di decidersi ad accettare l’adesione alla Repubblica di Salò.

Non posso dire con quale animo mio padre prese quella tormentata decisione, ma posso immaginarla: un figlio morto adolescente, l’altro

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figlio, di leva all’epoca, separato dalla famiglia, mandato chissà dove, in quell’Italia divisa a metà.

Posso però immaginarlo il suo tormento, perché glielo vidi stampato addosso e sulla faccia, quando un giorno di aprile del 1944 andai ad aprire la porta di casa, allo squillo del campanello, e mi trovai davanti quest’uomo magro ed emaciato, di un colore verdognolo, che non aveva quasi nulla a che vedere con il babbo che tanto amavo. Nessuno, nemmeno lui, ci aveva avvertito del suo ritorno. E fu un vero shock, per me e per la mamma, tanto che io ebbi, per qualche notte, anche delle manifestazioni di sonnambulismo, che lasciarono disorientati e preoccupati i miei genitori.

Ci portò in dono, dalla prigionia, un pacchetto di gallette tanto dure da non poterle neppure mangiare.

Come tutto è chiaro per me e come è vivo questo ricordo!

Mia madre, dopo il ritorno del babbo, con il quale io rimasi a Firenze, volle ritornare a Cavriglia per non prolungare l’abbandono della nostra casa che sapeva essere stata occupata, prima dal Comando tedesco, poi da quello inglese ed infine da soldati italiani risaliti, presumo dal sud, con l’Esercito Alleato.

In quel lungo periodo di occupazione militare, la mamma fu ospitata dalla famiglia dei contadini. Non di buon grado forse, ma generosamente, perché i tempi erano duri e non era facile schierarsi. Del resto con loro i miei genitori erano sempre stati in armonia, in una familiarità che portava sempre alla reciproca fiducia e alla stima. Io, anche oggi, li ricordo tutti uno per uno. Il Nai, che mi chiamava la “fatina”, la massaia Cesira, Arduino che si vantava sempre di essere andato in bicicletta a Montegonzi, di aver messo la levatrice sulla canna e corso a rotta di collo, perché io stavo per nascere; e gli atti e le faccende ed il profumo del pane appena sfornato che faceva venire l’acquolina in bocca.

A Firenze il babbo ed io e tutti gli altri inquilini passavamo la notte in cantina per evitare eventuali conseguenze dei cannoneggiamenti. Avevamo come dei posti fissi per dormire, su dei materassi sul pavimento, ed io ricordo specialmente i nostri vicini del pianterreno, padre, madre e il figlio Rinaldo, un poco più grande di me. È un ricordo un poco “amaro”, è il caso di dirlo, perché la signora V. tirava sempre fuori dalla tasca delle zollette di zucchero e mai me ne offrì una. Lo scricchiolio dei loro denti mi dava proprio fastidio. Un rumore veramente insopportabile.

Firenze fu finalmente liberata, il passaggio del fronte poteva considerarsi esaurito e la mia mamma, nell’ansia di sapere di noi e soprattutto di

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rivederci, non esitò a lasciare Cavriglia e raggiungerci.

Come fece, dato che non esistevano mezzi di trasporto? Semplicemente: i circa sessanta chilometri che separavano Cavriglia da Firenze, la mamma eroica se li fece a piedi. Io non so quanto tempo impiegò né dove trovò rifugio nella notte, nel suo lungo cammino. Non so, o forse non li ricordo i dettagli: probabilmente la gioia per il suo arrivo fu tale che trovai tutto naturale.

Eravamo riuniti parzialmente, perché nessuna notizia si ebbe mai del mio fratello maggiore: dove era, se era salvo. Sapemmo soltanto dopo, al suo ritorno, come, durante il suo anomalo servizio militare, non avesse mai smesso di studiare e avesse invece, cocciutamente, potuto dare molti esami nelle sedi universitarie del Nord Italia.

Verso ottobre, mi pare, la mamma decise che era necessario ritornare a Cavriglia, e questa volta tornai con lei. Con quali mezzi andammo? Sicuramente con qualche mezzo militare che da Firenze andava verso Roma, Non so, non ricordo.

Ma ricordo perfettamente, perché scolpito nella mia mente, il nostro arrivo a casa.

Ecco: il trauma che non avevo avvertito in maniera catastrofica durante il passaggio del fronte a Firenze, lo accusai lì nel nostro giardino, davanti alla casa dove ero nata, che era stata vilipesa, deturpata dalle varie truppe, violata, indifesa e, infine, umiliata.

Umiliata. Sì.

La porta, le porte finestra, le finestre, qualsiasi entrata era stata sigillata con lugubri drappi neri.

Mia mamma, povera donna, si accasciò annichilita su una panchina.

Io, nell’irruenza della gioventù, senza valutare ciò che si poteva o non si poteva fare, strappai ad uno ad uno tutti i sigilli del piano terreno e, dalla porta finestra sul davanti della casa, che evidentemente non era stata chiusa bene, entrai. Salii di corsa le scale e spalancai con rabbia, tutte le finestre delle stanze del piano di sopra.

Quando tornai giù, mia mamma non si era mossa da quella panchina di legno, verniciata di verde, posta tra la porta di casa ed il granaio. Un rumore secco e continuo, come il cadere di grosse gocce sul terreno, ci distrasse per qualche momento, ma presto capimmo cos’era quel ritmo cadenzato.

Di fronte alla panchina, alla distanza d’una cinquantina di metri, si ergevano tre grossi ippocastani che lasciavano cadere i ricci dei marroni

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d’India, (come venivano chiamati), che si schiantavano al suolo liberando i bei frutti di un marrone lucidissimo che, ahimè, non potevano essere utilizzati in alcun modo se non, secondo qualcuno, come portafortuna. Soltanto alla prossima primavera, quando sarebbero stati nuovamente ricoperti di fiori bianchi e rosa, il loro scopo si sarebbe pienamente manifestato esclusivamente nella loro bellezza, perché è “la bellezza che salverà il mondo”. Lo dice il grande scrittore russo e voglio crederlo anch’io.

La cosa miracolosa che mi appare in questo momento, mentre ricordo e scrivo, e che tanto mi commuove dopo tutti questi anni, è che è bastato il ticchettio della caduta dei marroni d’India di oggi perché tutto mi sia apparso ancora così vivo e vero, mentre invece soltanto loro, gli affetti, siano irrimediabilmente passati.

Era di pomeriggio e la luce ottobrina intiepidiva il giardino, che miracolosamente era tutto in fiore sebbene fosse già autunno. L’estate di guerra a Firenze era stata torrida. Forse in settembre era caduta della benefica pioggia e il giardino era rifiorito. Mi viene in mente qui, e voglio trascriverla, una lettera che mio padre scrisse a sua madre, la mia nonna Caterina, nel lontanissimo 1916:

“Cara mamma, non puoi immaginare con che desiderio io penso a voi tutti e al … La nostalgia mi invade.

Il bel sole del … qua non lo si sogna neppure. Ed i miei fiori?...

Non so quel che darei per poter ritornare a godere un po’ di vita di campagna, a bevere un po’ d’aria nativa.

Io credo che se mi portassero bendato costà, senza che io ne sappia niente e mi domandassero dove sono, direi senza esitare “sono al …” Quell’aria non si scorda.

Zona di guerra 9.7.916”

Non saprò mai come fecero, i custodi della Legge, ad arrivare immediatamente da noi ed a sapere che ero stata io e non la mamma a strappare i sigilli. Evidentemente qualcuno bene informato aveva fatto il suo dovere.

Avevo forse commesso un reato. Lo seppi ben presto.

Fatto sta che fui “convocata” a presentarmi il mattino dopo presso l’albergo “L’Appennino” di Cavriglia per un “interrogatorio”.

Per fortuna ci dettero anche il permesso, alla mamma e me, di entrare

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liberamente in casa, dove avremmo potuto dormire.

Furono forse “inteneriti” dal fatto che la padrona di casa era una donna distrutta e sua figlia una ragazzetta tanto sciocca da giocare con dei sigilli apposti da una qualsiasi Autorità?

Non pensarono che una minorenne non poteva essere convocata per un interrogatorio?

Evidentemente non pensarono a tutto questo, troppo compresi nel “ruolo” che si erano scelti.

La stanza dell’albergo dove fui introdotta era talmente piena di fumo che mi pare di sentirne ancora l’aria irrespirabile e le figure che si accalcavano intorno ad un tavolo apparivano come avvolte nella nebbia. Erano tutti uomini di un qualche Comitato di Liberazione. Uno di questi era un giovane di ventidue anni (lo so di preciso, perché lo riconobbi) ed era lui che conduceva l’interrogatorio con argomentazioni che si riferivano, dopo un sermoncino sul grave reato da me commesso, esclusivamente alla “colpa” di mio padre, al suo essere stato fascista.

Non mi intimidii affatto di fronte a lui e agli altri che non conoscevo.

La mia difesa personale e solitaria la feci con la stessa foga con cui avevo strappato i sigilli che avrebbero dovuto annientarmi per la vergogna, e si concentrò soltanto sulla figura dell’uomo integerrimo quale era stato mio padre, su quanto aveva fatto nei vari incarichi da lui sostenuti, durante il Fascismo, per il Comune di Cavriglia, per la sua condotta nelle guerre che aveva combattute, per le medaglie ricevute, per la linearità della sua vita.

Fu uno scontro piuttosto violento che si risolse, credo, in una “assoluzione” sebbene io non abbia mai visto uno scritto, né prima né dopo, nei miei riguardi e non abbia mai saputo se ci sia mai stato un verbale. L’episodio si concluse lì.

L’unica, a mio parere, conseguenza di quella giornata fu l’ostracismo, già sicuramente e ovviamente deliberato da altri più in alto, nei confronti di mio padre. Un ostracismo che durò non poco tempo.

Per me fu una esperienza che, come tutte le altre di quel periodo, mi ha aiutato a crescere, a diventare una donna. Piuttosto saggia, dicono.

Non ho serbato alcun rancore. Fu come una farsa: ma a ripensarci ora, non mi dispiace che faccia parte del bagaglio che mi porto dietro.

In una terra come Cavriglia, insanguinata dai lutti della seconda Guerra Mondiale, questo mio racconto avrà forse un sapore un poco diverso, perché la tragedia di quegli anni è stata vista attraverso gli occhi di una ragazzina la cui famiglia apparteneva ai “perdenti” della storia. Tra costoro vi furono le

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figure bieche e disumane per le quali la condanna è e rimarrà senza appello, ma vi furono anche le persone oneste, in buona fede, che non fecero del male a nessuno e che pagarono sulla propria pelle il fatto di avere servito lo Stato nel modo che ritenevano giusto. Credo che l’elaborazione della scelta fatta, dei suoi significati iniziali e dello stravolgimento che ne seguì durante gli anni del Fascismo sia stata compiuta anche dai protagonisti di questo mio racconto, in modo sincero, con tutta l’umanità che posso testimoniare e che mi è rimasta nel sangue.

Oggi sono tra coloro che ogni anno partecipano alle celebrazioni in memoria dei martiri di Meleto e di Castelnuovo dei Sabbioni, e so che questo orrendo passato non può in alcun modo essere confuso con i miei affetti più cari, che moralmente sono lì, insieme a me, a chiedersi come la ferocia dell’uomo possa arrivare a tanto.

Mi rendo conto che in questa “memoria” scritta tanti e tanti anni dopo gli avvenimenti, vi siano sicuramente tanti omissis e troppi “non ricordo”.

Molto è stato dunque dimenticato?

No, tutto è tornato vivo nella mia mente.

Niente è stato dimenticato.

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La pace in mare

C’è un confine subacqueo, poco al largo delle coste di Pianosa, che i pescatori elbani di rete e palamito conoscono bene.

La linea rossa, così viene chiamata, segna il limite delle acque territoriali dell’isola di Pianosa entro le quali non si può pescare né navigare, in quanto area protetta. Al di fuori di essa, il fondale marino misto di roccia, fango e distese di posidonia, crea l’habitat ideale per molte specie di pesci. Una su tutte alimenta le speranze dei pescatori e ne accende l’entusiasmo: il dentice reale.

Cinque, sette, dieci chili di peso. Forti e lucenti, i dentici reali amano cacciare ai bordi delle cigliate, tratti di fondale scosceso caratterizzati da un brusco salto di profondità, da tagli verticali di roccia e cavernosi anfratti. Circoscrivono un territorio di caccia e si muovono in corrente con quel nuoto sicuro e potente che li contraddistingue, pronti a gettarsi famelici su tutto ciò che davanti a loro si muova o brilli. Sugarelli, occhiate, sgombri e i prelibati totani sono le vittime designate. Ma anche aguglie, triglie, boghe, saraghi e pagelli possono finir spezzati dalle affilate mascelle di un dentice, padrone incontrastato di quei fondali ancora ricchi.

Dal golfo di Procchio, da Marciana Marina, da Capo Sant’Andrea, da ognuno di questi approdi di antica marineria, si muovono all’alba i pescatori elbani. Le montagne si ergono nitide alle loro spalle, orlate d’argento. Un vento lieve scende dalle cime di sasso fasciate di pini. Fresco e dolce all’odore, alita sulle pendici boscose di querce e castagni recando a valle, fino alle spiagge ghiaiose, il sentore pulito delle felci, l’aroma di terra e foglie bagnate. La sabbia è fredda sotto i piedi nudi dei pescatori, che in silenzio allestiscono le barche con gesti sapienti, che si ripetono intatti da generazioni.

Caricano a bordo i segnali con le aste e le bandierine gialle, la voluminosa ghiacciaia, le cassette di sardine da scongelare in mare, le funi, i pesi e le ceste di vimini contenenti le denticiare: palamiti col filo madre in cordino e i braccioli di nylon pesante, gli ami d’acciaio brunito appuntati sul bordo di sughero e pronti all’innesco. Così le barche si staccano dalla riva e prendono il largo. Dapprima a remi, perché d’estate lo impone la legge per via dei bagnanti, ma anche nelle altre stagioni, per vecchia abitudine.

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Il mare sotto gli scafi è vetro trasparente che lascia intravedere il celeste della sabbia, le macchie scure di alghe, le rocce incrostate di concrezioni marine. Poi, la profondità aumenta e la fisionomia del fondale svanisce. Il tuffo dei remi tace. Silenzio. Null’altro che il rollio della barca nella quiete immobile del primo mattino. Fino all’attimo in cui si accende il motore, e allora il rumore, il fumo azzurrino, l’odore di gasolio frammisto al salmastro introducono un linguaggio diverso da quello naturale del legno, della forza del braccio e del remo, del canto disarmonico dei gabbiani sul nascere del giorno. È la meccanica applicata alla navigazione e alla pesca, attraverso la quale si è realizzata la conquista dei mari da parte dell’uomo.

Ha inizio la traversata verso Pianosa, il cui tempo varia a seconda della potenza dei motori. Ma non cambia mai la bellezza degli scogli grigi sovrastati dalla macchia mediterranea, le pareti di roccia più ripide e frastagliate, le insenature deserte, le baie profonde avvinte dai cespugli di ginestra, dai lecci e dai lentischi. È la costa settentrionale dell’Elba: Punta del Nasuto, La Cala, Punta della Madonna...

Se a bordo c’è un amico che non è dell’isola e i suoi occhi si riempiono di stupore dinanzi a quella selvaggia bellezza, uno dei pescatori piega il capo verso di lui e punta l’indice sulle scogliere di Capo Sant’Andrea. Così fa Paolo con me. Gli occhi si socchiudono al ricordo e una ragnatela di fitte rughe bianche gli si disegna agli angoli delle palpebre, sulla pelle abbronzata. Un giorno d’autunno, io e un compagno stavamo facendo traina in queste acque, quando a tribordo spuntano una balena col suo cucciolo. La madre lunga una decina di metri e il piccolo che le nuotava a fianco. Restiamo a osservarli incantati, finché non scompaiono. Pensavamo puntassero al largo. Invece no. Pochi minuti dopo riemergono a babordo, tra noi e la costa, a non più di duecento metri dagli scogli... Eccole là!, grido. Chi era in barca con me, di mare in vita sua ne aveva visto tanto. Ma lo vedo sbiancare in faccia e guardare dall’altra parte. Mi volto, e dove prima c’erano la femmina e il cucciolo, adesso c’è il maschio che ci sfila accanto con un movimento senza tempo, vicinissimo e immenso, lungo forse il doppio di lei...

Durante la navigazione i pescatori, che per propria natura non perdono mai di vista il mare, studiano il volo dei gabbiani e osservano la superficie in cerca di mangianze. Per vedere se un branco di barracuda, o le lecce o le palamite fanno sciamare fuor d’acqua il pesce azzurro in un semicerchio di luce argentata, improvviso e bellissimo, che per un attimo ti ferma il cuore. E riflettono su ciò che vedono. Se ci sono predatori in caccia o se la stagione buona è in ritardo per via delle acque ancora fredde o per chissà

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quale altra ragione... Oppure pensano alla terraferma e a ciò che vi hanno lasciato. Alla loro casa, alla famiglia, alle gioie e alle asperità del vivere quotidiano. Alle nascite e ai lutti. A come si è svolta la loro vita sull’isola, da pescatori. Come Piero. Le mani brune segnate dalle lenze, dalle corde, dal sale, dalle dure spine dei pesci. Estate e inverno. Tramontana o maestrale. Tramagli, nasse, palamiti e mezzo secolo di ricordi sparsi sulle acque del Mar Tirreno, tra le secche e gli approdi dell’arcipelago. O lontano dall’isola. Così Paolo, settant’anni e una vita di lavoro lontano, a Milano e poi in Africa, a costruire strade e ponti in Nigeria, Tanzania, Kenya, Marocco. Poi il ritorno all’Elba e la pesca con Piero, suo cugino, quasi tutti i giorni come facevano da ragazzi...

Questo fino a Punta della Zanca. Raggiunta la quale, le barche dirigono decise a sud, alla volta di Pianosa. Che geograficamente è un’isola; fisicamente è un bastione di terra che emerge dalle acque tirreniche, ma per i pescatori assume il valore di un luogo dello spirito. Su di essa, infatti, si concentrano tralasciando ogni altro pensiero o affanno. La terraferma è pur sempre terra, amata e sofferta, dolorosa o grata. Mentre loro, adesso, navigano in mare aperto guidati dall’urgenza interiore di confrontarsi con tutto quel blu. Sono uomini nelle cui vene scorre un’intensa passione, consacrati al mare e al contempo condannati ad esso. Sono i silenziosi adepti di una religione naturale, più simile a quella degli indiani d’America (per i quali sacri erano il vento e la terra, l’acqua dei fiumi e il bisonte) che alla feroce devozione dei coloni europei, che li sterminarono a fucilate con la Sacra Bibbia riposta nella bisaccia delle selle. E laggiù s’intravede ormai il tempio al quale i pescatori si stanno recando fiduciosi, con le loro strane orazioni di lenze pesanti e ami da deporre ai piedi di un altare profondo quaranta metri.

Quel piatto profilo lontano, appena visibile sull’orizzonte marino, assume consistenza col trascorrere dei minuti. La sagoma celestina e indistinta dell’isola si delinea ai bordi, che si rivelano ripidi come falesie. La linea rossa si avvicina, così come i fondali buoni per la pesca del dentice, e un sottile fremito coglie i pescatori sulla punta delle dita. Un’esultanza da fanciulli li invade, li fa quasi sorridere come una musica mischiata al vento, qualcosa di gioioso che gorgheggia nell’aria come un campo pieno di allodole d’estate.

La barca rallenta, gli occhi studiano l’ecoscandaglio. L’isobata è quella dei sessanta metri. Risale fino a cinquanta, quindi comincia a oscillare tra i quarantacinque e i quarantadue metri. Ci siamo. Il punto è giusto.

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Quello dove altri dentici e cernie sono stati pescati nelle uscite precedenti. Il motore tace. Una brezza fresca che spira da Pianosa circonda la barca, sollevando intorno brevi onde inframezzate di schiuma.

I pescatori si sporgono dal bordo della barca e guardano giù, dove la luce bassa del sole non ha ancora sciolto i nodi del colore nell’acqua simile a un drappo di velluto blu, quasi viola, cullati da una piacevole ipnosi. È come guardare dentro un grande fuoco. Non si vede niente, e tuttavia è difficile distoglierne lo sguardo.

Poi ha inizio il momento più delicato: la cala del palamito. Una grande concentrazione s’imprime allora sulla faccia di tutti. Bisogna far bene, adesso, perché questo è ciò che conta. Che i dentici rimangano allamati oppureno, è una questionediversae imponderabileche non dipendepiù dai pescatori. Le leggi che regolano i fondali sono capricciose e imprevedibili. È la pesca, con le sue alterne fortune. Ma il palamito dev’essere messo in mare bene, perché gli uomini si sentano a posto con se stessi.

Mentre uno comanda la barca, passando dal folle a una marcia avanti leggera per seguire il percorso subacqueo indicato dall’ecoscandaglio, altri due, in piedi a poppa l’uno accanto all’altro, calano. Il trave in cordino sprofonda attaccato alla fune della prima zavorra, poco al di sopra del peso, perché la denticiara dovrà lavorare adagiata sul fondale; le sue spire escono dalla cesta insieme al primo amo, che viene prontamente innescato con una sardina infilzata per l’occhio e gettato in mare; poi il secondo, il terzo, il quarto amo e così via, finché la zavorra non tocca il fondo.

Paolo bagna con un secchiello la cassetta delle sardine, un poco alla volta, per allentarne la congelatura affinché l’amo possa trafiggerle. Al suo fianco, Piero maneggia il cordino e i braccioli di nylon con delicatezza perché il palamito si dispieghi in mare senza nodi né spire. Decimo amo e avanti così, piano, con le impervie pareti di Pianosa davanti agli occhi.

Arrivano i gabbiani. Le lucenti sardine li hanno attratti sopra la barca. Impavidi, si gettano a tuffo sull’esca nei pochi attimi in cui essa resta sospesa a fior d’acqua prima che il peso del palamito la faccia affondare. Talvolta la strappano verso l’alto, afferrando una sardina con le zampe palmate, ma al primo accenno di resistenza del nylon la mollano facendola ricadere in acqua. I più incauti tentano di prenderla col becco, rischiando d’incorrere nella punta dell’amo.

“Sció!” si leva alto l’urlo dei pescatori per far desistere gli uccelli dalle loro avventate manovre. I gabbiani protestano, fanno ressa su quel fazzoletto di mare, tentano ancora e di nuovo vengono scacciati. Abituati a perdere,

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tuttavia non si arrendono. Altri ne giungono da diversi angoli del cielo, su ali candide, e sempre vengono scacciati.

Centesimo amo. È trascorsa quasi un’ora. La vivace brezza del mattino è calata, e ora un alito di vento sussurra all’orecchio degli uomini tutta la dolcezza della stagione, perché siamo alla metà di giugno. Alle loro spalle l’Elba si bagna nella giovane luce del sole. Il lavoro procede bene fino all’ultimo amo. Fune, zavorra e la seconda boa vola in acqua con l’asta e la bandierina che facciano da segnale. Così la prima denticiara è in pesca. Duecento ami.

Piero si toglie l’incerata e beve un sorso d’acqua. La sua soddisfazione è la stessa di un contadino che sa di aver arato e seminato bene un campo. Paolo si guarda intorno, e dopo tanto viaggiare nella vita, i suoi occhi abbracciano la prospettiva di mare tra le due isole che per lui è casa, e un sorriso lieve affiora e sparisce più volte nel suo sguardo.

Ci si sposta a velocità ridotta in cerca di una nuova cigliata lungo la quale calare l’altro palamito. Là, dove l’ecoscandaglio rileva un discreto salto di fondale, la barca si arresta a motore acceso. Si riparte daccapo con rinnovata solerzia. Un’ora e mezzo dopo, anche la seconda denticiara è stata calata.

Piero, che durante la vita ha pescato e venduto pesce per professione, adesso non pesca più per denaro, ma solo per passione, per un richiamo del sangue, per rinnovare ogni volta il suo senso di appartenenza all’isola. Quel che resterà agganciato agli ami delle denticiare non frutterà soldi a nessuno, ma soltanto allegria; sarà gioia per la famiglia di Piero, per sua moglie, le tre figlie e i vari nipoti, per Paolo e altri amici e conoscenti del paese, quando la sera il fumo di brace si leverà alto davanti alla casa insieme al profumo del pesce che si sta arrostendo, la lunga tavola già apparecchiata, le bottiglie di vino bianco in fresco e un carosello di gabbiani nella quiete del crepuscolo: un lento sfumare di luce sul golfo della Biodola. Ma questa semplicità di valori, quest’armonia, non sempre sono state possibili. È esistito un tempo, all’Elba, in cui la mitezza del maestrale, che quasi ogni pomeriggio blandisce le coste settentrionali dell’isola, ha ceduto a un vento gelido che dalla Germania si è propagato attraverso l’Europa seminando ovunque distruzione e morte. Un vento spietato e terribile, che la storia ha chiamato nazismo

Nei primi tre anni di fuoco, dal 1940 al ‘43, la Seconda guerra mondiale, l’Elba, l’aveva solo sfiorata. Nonostante già dal 1931, in virtù della sua

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posizione strategica nel cuore del Mar Tirreno, l’isola fosse stata annoverata tra le zone militarmente importanti di prima categoria e Mussolini, nel corso di una sua visita a Portoferraio, avesse coniato la tragicomica espressione “Elba sentinella avanzata dell’impero”, non si registrarono nel triennio combattimenti significativi né perdite in termini di vite umane.

La batteria E 132 delle Grotte non venne impegnata che due volte, la prima nel giugno del 1940 per respingere un attacco aereo alleato con bombe incendiarie, che non provocò né danni gravi né vittime, la seconda pochi giorni dopo per allontanare un apparecchio inglese in procinto di sganciare altre bombe. Per il resto l’isola servì da base per esercitazioni militari e nient’altro. La popolazione civile proseguiva la propria vita normale nei limiti consentiti dallo stato di guerra; ancora nell’estate del ‘43 soldati e ufficiali si stringevano sotto il sole per farsi ritrarre in foto di gruppo, a testimonianza di un clima di relativa tranquillità.

“Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo…”

Dopo il proclama dell’armistizio, annunciato via radio dal Generale Badoglio, l’8 settembre del 1943, la situazione sull’isola cambiò bruscamente. Le temute ritorsioni da parte dell’ex alleato nazista non si fecero attendere.

La mattina del 9 settembre, a poche ore dall’annuncio di Badoglio, i tedeschi fecero scattare ovunque l’Operazione “Achse”, «Asso», il cui scopo era quello di occupare militarmente il Paese, rendere inoffensive le milizie italiane e sequestrarne gli equipaggiamenti e le armi.

All’isola d’Elba, gli aerei della Luftwaffe sganciarono volantini il cui messaggio era chiaro: chiunque avesse assecondato il tradimento di Badoglio sarebbe stato considerato un nemico e ne avrebbe pagato le immediate conseguenze.

La risposta dei militari elbani fu altrettanto chiara: Resistenza, e il fuoco della batteria di Capo d’Enfola non esitò a respingere alcuni ricognitori della Luftwaffe. Allorché gli ufficiali italiani ribadirono ai tedeschi che l’Elba non avrebbe ceduto le armi, a metà mattina del 16 settembre, una formazione di bombardieri Stukas incrociò il cielo sopra Portoferraio sganciando tonnellate di esplosivo, che distrussero parte del centro

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storico e gli altiforni. Con quella mancanza di onore, tipica delle azioni di guerra naziste, gli Stukas planarono bassi sulla popolazione civile in fuga mitragliandola senza pietà. Fu una carneficina. Più di cento uomini, donne e bambini giacquero morti; in duecento restarono a terra feriti e sanguinanti, bisognosi di un soccorso immediato, che nessuno poté dargli. La batteria antiaerea delle Grotte tentò di rispondere al fuoco, ma venne zittita da una bomba che la centrò in pieno uccidendo quindici marinai. Così la guerra mostrò all’isola d’Elba il suo volto più duro. E nei mesi di occupazione che seguirono, i nazisti non esitarono a spargere altro sangue. Vi furono rastrellamenti e deportazioni nei campi di concentramento, brutali pestaggi ed esecuzioni sommarie. Supportati dalle camicie nere, dai ruffiani del regime, dagli odiosi esponenti del Fascio di Portoferraio, i nazisti perseguirono e fucilarono anarchici e operai. Misero al muro i minatori dagli occhi duri, con le inforcature dei pollici nere come graffite, e li giustiziarono. Morì il pescatore: lo fucilarono fra le nasse e le reti. Morì il contadino impiccato nell’uliveta. Uccisero l’apicoltore, e il suo sangue uscì dolcemente come fosse miele. E avvenne allora, tra le altre vergogne, l’eccidio di Procchio. Il luogo è Pianosa, ma non come oggi mèta dei pescatori di palamito della vicina Elba, obiettivo e fonte delle loro speranze, isola madre dai generosi fondali. Pianosa carcere, piuttosto. Luogo di segregazione e condanna, scoglio delle solitudini.

Tra l’8 e il 23 settembre del 1943, in quei giorni di grande fermento, entro le mura del carcere di Pianosa avvenne una sommossa di detenuti. Le guardie carcerarie individuarono diciannove caporioni, responsabili a loro avviso di aver sobillato gli altri carcerati, e decisero di consegnarli a un reparto di tedeschi presenti sull’isola.

A seguito del primo violento pestaggio, dei diciannove accusati ne morirono cinque. I restanti quattordici, malconci e sanguinanti, vennero imbarcati su un rimorchiatore con destinazione Elba.

Escluso il carcere di Pianosa, dal quale erano stati prelevati, le uniche due strutture in grado di accogliere i detenuti erano il carcere di Portolongone e quello di Portoferraio. Ma per scarsità di viveri e di locali liberi, entrambi si dimostrarono impossibilitati nell’accettare nuovi prigionieri.

Dopo alcuni tentativi risultati vani, i tedeschi, non sapendo a chi consegnare i quattordici uomini, decisero di far ritorno a Pianosa. Ma un improvviso guasto al motore del rimorchiatore rese impossibile la traversata. A nulla valsero gli interventi di riparazione in mare, ai quali parteciparono gli stessi detenuti, e venne richiesto l’intervento di una

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motobarca di soccorso.

Pianosa era lontana. Il porto più vicino era quello di Marina di Campo, e là si diresse la motobarca col suo carico di prigionieri stremati e bisognosi di assistenza. Ma a Campo, tutti lo sapevano, non c’erano carceri né luoghi di detenzione.

Il 13 ottobre, dopo venti giorni di penosa peregrinazione, i detenuti furono scortati sulla spiaggia di Procchio. Là, gli venne ordinato di scavare una trincea. A lavoro eseguito, li fecero inginocchiare lungo il bordo della fossa. I tedeschi li circondarono e spianarono su di loro le bocche dei mitra. Pochi attimi di silenzio, e poi il fuoco: quattordici uomini inermi furono massacrati a sangue freddo. Li crivellarono alla schiena di modo che cadessero faccia in avanti nella fossa. Poi li ricoprirono con la sabbia umida dell’autunno, come se nulla fosse accaduto. Gettando sabbia negli occhi ancora aperti dei morti, nelle bocche spalancate che gridavano mute. Ora. Prelevare da un carcere uomini che nello scontare una condanna sono pur sempre sotto la protezione della legge, privarli di qualsiasi diritto e picchiarli fino a ucciderne cinque, trasportare i superstiti da un porto a un altro e infine massacrarli a colpi di mitra, gettarne i poveri corpi in una qualsiasi fossa scavata nella sabbia, questo è qualcosa che va al di là della guerra. È una condotta criminale e senza onore, paragonabile alla disumana violenza degli Stukas che, dopo aver bombardato Portoferraio, presero di mira la popolazione in fuga falcidiandola con le mitragliatrici. È una ferocia che rivela il più assoluto disprezzo per la natura umana. Sono crimini irrecuperabili, per i quali non esiste assoluzione. Eppure queste atrocità sono accadute, se non ieri, ieri l’altro, appena tre generazioni di uomini fa, nel medesimo specchio di mare tra le due isole dove oggi, in tempo di pace, pescatori elbani, come Piero e Paolo, si spingono su fragili imbarcazioni per calarvi lenze invisibili che vincano la diffidenza dei grandi pesci. Con un senso di libertà e di amore. Perché più pesce resterà agganciato agli ami delle denticiare, più parenti e amici si potranno invitare per trascorrere la serata tutti insieme e godere della convivialità di un piatto di spaghetti ai frutti di mare e di una trancia di dentice o cernia cucinati alla brace con null’altro che limone, un pizzico di sale e un filo d’olio a crudo. Perché il pesce, quand’è fresco e pregiato, non richiede altro per risultare squisito.

Sono trascorse più di tre ore dalla messa in pesca del primo palamito. È dunque arrivato il momento di salparlo. Il momento della verità. Bisogna ritrovare il primo segnale, individuare la bandierina gialla che sventola

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sulla superficie del mare e raggiungerla, con gli occhi socchiusi perché la barca procede controsole.

Individuato il segnale, ci si avvicina manovrando piano fino a sfiorare la boa col fianco della barca. Si afferra il segnale per l’asta e lo si trae a bordo, procedendo a recuperare la corda fino all’aggancio col cordino che è l’inizio del palamito. Slegato il nodo, si ripone nella cesta il primo giro di lenza madre e si comincia a salpare. È Piero a occuparsene. Paolo, accanto a lui, osserva. I primi dieci ami salgono vuoti. Segno buono, significa che il pesce ha mangiato. Al quindicesimo amo la prima cattura. Il progredire del sole sull’asse del mattino ha conferito alla luce in acqua una profondità diversa. La sagoma del pesce appare sottobarca, ancora lontana nell’azzurro intenso del mare; risale man mano che Piero recupera senza soste, con un ritmo lento e regolare. Appare il ventre latteo del pesce, poi il dorso color nocciola, stretto e maculato. È un gattuccio di una quarantina di centimetri. Piero lo solleva dal bracciolo di nylon, che Paolo taglia subito sopra l’amo restituendo la libertà al gattuccio.

Il recupero prosegue, e il mare restituisce una successione di ami vuoti. Su alcuni sono rimaste attaccate concrezioni dalle forme bizzarre, fragili manufatti di creta che si sbriciolano al contatto con la mano; su altri un ciuffetto di posidonia o una stella marina. Piero, Paolo, appaiono soddisfatti perché queste «catture» rivelano che il palamito ha pescato su un tipo di fondale adatto ai dentici.

Al cinquantesimo amo, un altro gattuccio, più piccolo del primo, poi una murena aggrovigliata nel nylon del bracciolo. Ancora ami vuoti. Una stella marina, larga come un piatto di porcellana, ha divorato una sardina intera, restando agganciata. È dura e ruvida come carta vetrata sotto le dita di Paolo, che la libera e la ributta in acqua. Sale alla superficie una seconda murena. A furia di contorcersi all’amo, le si è annodata la coda.

“Porta fortuna.” scherza Paolo, mentre con un rapido colpo di forbice recide il bracciolo facendola ripiombare in acqua.

Piero annuisce. Anche le murene sono un indicatore positivo, poiché il fondale che frequentano è lo stesso dei dentici e delle cernie.

È la volta di due tracine, a pochi ami di distanza l’una dall’altra. La seconda supera il mezzo chilo di peso. Arriva sottobarca un gattuccio di mezzo metro con la sua bocca da squaletto serrata sul gambo dell’amo, poi una murena sul chilo, chilo e mezzo di peso. Tutti ributtati in acqua. Sembra che ai pescatori non interessi trattenere nulla, che si siano spinti fin là per ridare la via del mare a tutto ciò che è rimasto ferrato ai loro ami.

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Adesso Piero impreca silenziosamente.

“S’è incagliato,” dice tra i denti. La pressione del cordino gli crea una riga bianca che dal pollice attraversa il dorso della mano, mentre lui tira, stringendo le labbra.

“Questa è una cernia che s’è intanata” dice a mezza voce. Tira, finché il palamito non viene. Quando gli giunge in mano il bracciolo spezzato, lo guarda con disappunto.

“Un pesce perso.” commenta amaro, e con «pesce» non intende un gattuccio, né una tracina o una murena. La volta prima hanno pescato una cernia di venti chili. Quella e un denticiotto, e nient’altro. Due pesci buoni su quattrocento ami, perché il mare centèllina i suoi doni più preziosi.

Ma una cernia di venti chili… A riva, per sezionarla, hanno dovuto usare una motosega. “I pesci persi non contano,” taglia corto Paolo, con la consueta ironia. “Non sono nemmeno pesci.” Mi guarda. “Conosci una specie chiamata pescepèrso?”

Io sorrido, ma Piero no. Il palamito è di nuovo incagliato. Lo osservo di spalle, grosso, burbero, bonario, che scuote la testa. “Si sono fatti furbi…” dice, e impreca tranquillo, senza malanimo.

Mancano una quarantina scarsa di ami alla fine del primo palamito. Viene a bordo un bracciolo tagliato, quello dell’incaglio che Piero ha appena forzato. Poi una grossa murena, sarà più di due chili, con l’amo piantato nel labbro e il lungo corpo flessuoso imprigionato nelle spire di nylon. Due ami dopo, una tracina enorme, irta di spine velenose, arriva sottobarca ancora piena di forze, pronta a guizzare e a ferire. È un pesce di tutto rispetto. Lessa e condita con un filo di maionese, a tavola non teme confronti. Stavolta infilo il secchio sotto la tracina, quando Paolo taglia il nylon del bracciolo. Mi sorride e dice: “Bada bene che non salti fuori dal secchio. Sembrano morte e poi sbàm, un colpo di coda e te le ritrovi sui piedi nudi con quella baionetta inastata che ti fa vedere e contare una a una tutte le stelle del firmamento. E ti piombano addosso sempre dalla parte del dorso, dov’è l’aculeo, mai di pancia. Un po’ come quando ti casca di mano il pane con la marmellata: non casca mai dalla parte del pane.”

“Eccolo,” dice Piero a un tratto, e il respiro di tutti, per un istante, si ferma.

Una quindicina di metri sotto lo scafo si è materializzata una lunga barra chiara sfumata di celeste, e fluttua immobile nell’azzurra trasparenza delle acque.

I riflessi di un dentice reale che sale alla superficie sono inconfondibili

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agli occhi di chi sa pescare. Piero rimane impassibile, se non per un accenno di sorriso che gli arriccia il labbro superiore.

Paolo mette mano al capiente guadino e lo appoggia di traverso al bordo della barca, pronto all’uso.

Adesso il dentice è quasi a fior d’acqua e scopre, agli occhi incantati degli uomini, il suo magnifico campionario di colori. Piero afferra il bracciolo e trascina il grande pesce, che stremato non oppone resistenza, verso la bocca del guadino. Ormai è dentro, e Paolo lo solleva a due mani: un pesante semicerchio nella rete gocciolante. Disteso sul fasciame della barca, il dentice boccheggia scoprendo i canini affilati.

Ha la coda larga e rosea dai contorni ampi; il celeste e l’argento si contendono la lucente livrea del fianco, mentre nella parte superiore del muso, sopra l’occhio vivo e marrone, si estende una chiazza scura screziata di turchese. Macchie e striature d’oro investono il candore della branchia, grande come una mano a dita distese, sotto la quale giacciono le potenti mascelle che per la prima volta non sono bastate a proteggerlo.

“Sette chili?” domando quasi commosso, senza riuscire a distogliere gli occhi da quello splendore. “Sei, sette chili.” conferma Paolo. “Gran bel pesce.” riconosce. Se ne sta in piedi in mezzo alla barca con la schiena piegata e le mani appoggiate alle ginocchia. Anche lui osserva ammirato il dentice. Alza gli occhi su suo cugino: “Chapeau” si complimenta con lui.

“Potevamo averne tre.” afferma l’incontentabile Piero. Ma anche lui sorride. Del resto non è finita. C’è sempre l’altro palamito da salpare, e altre giornate, ora che l’estate è al principio, in cui le acque di Pianosa accoglieranno le sue lenze.

Gabbiani sorvolano la barca. Il mare intorno è un immenso specchio di luce, increspato da piccole onde delicate, che non si frangono. Un alito di brezza spira gentile da sudovest e accarezza gli uomini come la benedizione di un dio di sale.

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Il tonfo sordo

Bambino mio, come vorrei illuminare i tuoi giorni, farli diventare luce e trasformarli in un sogno dove tu potrai decidere quando svegliarti dall’incubo o rimanere a vivere il sogno, se il sogno sarà piacevole. Io sono vecchia, avrei tante cose da raccontare, purtroppo spesso non trovo le parole, soprattutto non trovo qualcuno disposto ad ascoltarmi; i miei giorni futuri sono facili da contare, può succedere che siano sufficienti le dita delle tue mani. Sono la nonna che viene da un’altra epoca, da un universo che sembra lontanissimo, non ci crederai ma anch’io sono stata bambina, ho fiabe e ricordi da raccontare; a rievocare i ricordi rischiamo di morire, ma la memoria è un bagaglio reale di conoscenze da non disperdere. La vita non è stata, e non sarà mai per tutti uguale. Violenze, guerre, fame, se ci guardiamo intorno ancora esistono e noi le ignoriamo, purtroppo le ignorano anche le persone che come me hanno conosciuto e vissuto quelle tragedie indelebili. Quando eri piccolino, ti raccontavo fiabe: giocose, tristi come quelle scritte dai fratelli Grimm. A te piacevano ed io le avrei evitate, temevo che i fatti violenti che caratterizzavano quelle fiabe forgiassero in maniera errata la tua mente, ma i Grimm sapevano usare la fantasia e rendere irreali i loro racconti. La verità, ragazzo mio, è più triste e meno complicata. Ho sempre evitato di raccontarti la storia, la vera storia di una ragazzina che circa ottant’anni fa, aveva la tua stessa età. L’età in cui iniziamo a comprendere la vita, ma io a differenza di te a sette anni ero già adulta. La scuola per la maggior parte delle bambine della guerra era un tabù, non era né un diritto né un dovere, semplicemente non avevamo il tempo per frequentarla, le mani erano già adatte a lavorare e dovevamo usarle per aiutare la famiglia. A malapena imparai a leggere e scrivere. Ragazzo mio, studia, leggi, apri la mente alla conoscenza. La conoscenza porta al rispetto, alla tolleranza, non permettere che qualcuno ti chiuda in un recinto anche se dorato, fai sì che il tuo pensiero si evolva, soprattutto lascia spazio alla fantasia e in seguito alla maturità che col tempo ti apparterrà. Solo allora potrai insegnare le cose che anche tu avrai imparato attraverso i brevi, lunghi anni della vita. La fantasia! Che bel regalo, vivila, imparerai a volare, ti salverà dall’apatia. Mi raccomando: non negare la verità, fantasia e verità due opposti da rispettare. Da ragazzina, anch’io

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avrei voluto volare, ma avevo le ali di cera, non potevo dire le cose che pensavo, la libertà ci era negata, non potevamo esprimerci secondo coscienza, le nostre idee dovevano rimanere segrete, represse, se le rivelavamo il rischio era la morte e non era una fiaba, c’era un manto nero che ci opprimeva, nero come le menti malate prive di fantasia, assoggettate ad unico credo. Vuoi sapere cosa fantasticavo quando avevo la tua età? Un uovo al tegamino, un paio di scarpe anche risuolate, pregavo Dio e gli chiedevo di proteggere mio padre e la mia famiglia dalla furia fascista, ma in quegli anni non c’era un Dio capace di fermare le barbarie, e chissà se c’è mai stato e ci sarà! Mio padre non voleva indossare la divisa fascista, e rifiutava la tessera nera; raccontata così sembra una banalità, un normale diritto rifiutare qualcosa che non ci appartiene; nipotino mio, non era come tu puoi immaginare, quel no significò soprusi e violenze d’ogni genere nei confronti dell’intera famiglia. Mio padre fu più volte picchiato e dovette fuggire per salvarsi; ritornò, non poteva restare lontano dalla famiglia, era meglio se era rimasto nascosto! La sua fuga fu la mia condanna. Io non sapevo dov’era andato e, anche se l’avessi saputo, non l’avrei detto, ma quel non sapere mi costrinse a diventare involontariamente grande, più grande di ogni mia immaginazione, neppure la fantasia più sfrenata sarebbe arrivata a tanto: un uomo con la camicia nera usò violenza nei confronti della ragazzina, che adesso, vecchia, porta ancora pesanti cicatrici, ma per quello che mi successe c’era solo il silenzio di tutti a sanare l’offesa. Quell’anno nefasto avrebbe portato altri dolori con conseguenze insanabili. Non avevo ancora compiuto quindici anni, ero una bambina ed improvvisamente divenni vecchia. Mio fratellino, che all’epoca aveva poco meno di due anni, dopo alcuni mesi rimase per sempre bambino. Lo è anche adesso! È un uomo più giovane di me; quando andiamo a fargli visita tu lo chiami zio, a lui è rimasta l’ingenuità, la fantasia di un bambino per la vita intera, è stato fortunato! Mio fratello aveva compiuto due anni quando alcuni tedeschi ed un fascista lo usarono come palla, lo gettarono in aria: fu fortunato! il fascista, prima che mio fratello toccasse terra, non riuscì ad infilarlo con la baionetta, e lui continuò il suo giovane ed unico volo fino a toccare terra, un tonfo sordo sulle pietre dell’aia. Ragazzo mio, come avrei voluto che questa fosse solo fantasia, una fiaba anche violenta, ma falsa. “Il lupo e i sette capretti” dei fratelli Grimm, ricordi? Te l’ho letta molte volte, le povere caprette divorate da un lupo cattivo, poi la vendetta delle caprette! Una fiaba violenta, dura, ma rimane una fiaba ricca di fantasia, purtroppo la ragazzina di quindici anni non poté vendicarsi, come

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non si è vendicato mio fratello! Avrei voluto raccontarti storie di vita vissuta senza che mi scendessero ancora le lacrime, ma la vita riserva tante amarezze, specialmente per chi come me ha vissuto la guerra, gli anni duri del fascismo ed è stata costretta a bere litri e litri di veleno, giorno dopo giorno, anno dopo anno, senza spiragli di luce. Credimi, ragazzo mio, le coscienze si induriscono, diventano facile preda per attivare rancori e vendette. I rari momenti di serenità erano le piccole cose che ci ritagliavamo con i residui della giovinezza, qualche sorriso basato sul niente, inventato per sopportare il tempo senza tempo. Vorrei continuare a parlare di una bambina, di una ragazzina che anch’io sono stata, non ho un vocabolario ricco di parole, la mia cultura è limitata, vorrei farti comprendere gli orrori senza turbarti, semplicemente farti riflettere in modo che, quando sarai grande, tu possa tutelarti e difenderti, ti torneranno alla mente le storie che ti ho raccontato, ed allora lotterai per affermare i tuoi diritti. Ho ancora la forza della paura e della vendetta che mi permette di trovare le parole, non voglio che tutto quello che la mia generazione ha passato, possa un giorno tornare. I mostri sono difficili da sconfiggere, sono capaci di nascondersi per anni e poi tornare più feroci di prima. La potenza della volontà e delle idee imbevute di libertà e democrazia diventa un’arma potente, capace di distruggere i mostri e renderli impotenti. Il rispetto, la fratellanza, la pace, la libertà senza condizionamenti non sono valori da barattare. Dobbiamo difenderli ad ogni costo anche col sangue come abbiamo fatto noi. Non continuerò a tediarti con la vita che ha vissuto una donna vicino ai novant’anni. Da grande anch’io sono stata felice, ho conosciuto l’amore, sono nati i miei figli, sei nato tu, il gioiello più prezioso, mio nipote. Era già tardi, nelle notti insonni gl’incubi sono rimasti gli stessi. Prendiamoci un impegno reciproco: ogni volta che verrai a trovarmi, riempiremo un diario, due pagine affiancate l’una all’altra. Dobbiamo fare in fretta, non ho molto tempo, io ripercorrerò la mia fanciullezza, tu scriverai le tue impressioni giornaliere, faremo un confronto fra le nostre vite. Promettimi che, quando ti racconterò la mia storia, non piangerai e dovrai rimproverarmi, se mi cadono le lacrime. Non devo piangere, perché rispetto ad altre persone a me care, io sono stata fortunata: sono insieme a mio nipote a raccontare la mia storia, mentre molte persone che avrebbero avuto la mia età non hanno avuto la possibilità di raccontare, soprattutto non hanno avuto la possibilità di vivere, furono uccise. Dovremo semplicemente scrivere e raccontare le nostre memorie. La verità non va falsata o nascosta. A raccontare gli anni della mia giovinezza siamo rimasti in pochi; alle case

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bombardate, come a molte tragedie, hanno rifatto le facciate e messo addosso un nuovo vestito per nascondere le cicatrici e modificare la realtà. Tu mi racconterai dei tuoi giuochi per me sconosciuti, scriverai la debolezza e la forza di un bambino di quest’epoca per me troppo stretta, scriverai il dolce e l’amaro che forse noi non comprendiamo perché nati vecchi. A novant’anni imparerò a giocare! Ascoltatemi, come io riesco ad ascoltare le poche persone che hanno ancora la forza di raccontare le infamie del fascismo e della guerra. Non farti attaccare sul petto un triangolo, non permetterlo a nessun costo; ragazzo mio, hai un sorriso troppo dolce, la tua sensibilità ti fa sorridere, non ridere insensatamente, attenzione! Qualcuno potrebbe cucirti un triangolo sulla pelle per giudicarti, non permetterlo, lotta con caparbietà, fai valere le tue idee e vivi il tuo amore, comunque esso sia, quando lo vivrai! Io ho imparato a rispettare e a non giudicare, quando è vero amore va vissuto ad ogni età. Sei piccolo, non comprendi queste riflessioni, quando da grande leggerai le cose che scriveremo, capirai. La libertà, la libertà! Difendila ad ogni costo. Sono vecchia, ho la pelle rugosa, la schiena curva, tanti anni dietro le spalle, ma sarei pronta più d’allora a difenderti, a difendere la libertà, prima di vivere una vita in schiavitù. Avrei preferito morire, difendo ancora a spada tratta chi si è sacrificato per donarci la libertà e la democrazia, non falsificherò la storia per stare al passo con i tempi, i carnefici sono stati i fascisti.

Ho camminato, lasciato tracce e segni; ho navigato solitario nel pensiero.

Ho cercato di diventare un uomo.

Se avessi avuto la possibilità di vivere il mio tempo, quante cose avrei potuto raccontare? Sono rimasto bambino con negli occhi impresso un unico ricordo: il giorno in cui mi è stato impedito di diventare adolescente e poi uomo. Fu quel tonfo sordo, un rumore diverso da quello meccanico che recise le gambe di mio padre e la vita di altre persone. Molti credono che approfitti della fantasia per rimanere perennemente bambino, nella

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mia testa purtroppo è rimasta impressa una data oramai lontanissima: 8 luglio 1944, la data in cui il mio tempo si esaurì, la mia mente rimase a mezz’aria, un volo perenne a bassa quota. Vedo ancora mia madre in ginocchio, piangente, chiedere ai tedeschi di non sparare ai suoi cari, quelle lacrime e quei singhiozzi sono la colonna sonora della mia infanzia continuata. Io, a differenza di altri bambini, ho imparato a volare, un volo solitario chiuso nella gabbia della mia mente, priva di paura e di certezze. Quel giorno maledetto, la sera si avvicinava con prepotenza, come con prepotenza si avvicinarono le divise nere, poi all’improvviso arrivò nefasta la notte più nera. Chi mi ascolta, deve fare in modo che non ci siano occhi capaci di ignorare, né bocche pronte a mentire, la verità è dentro il mio sguardo assente, a volte riesco ad usare le parole, ma sono fendenti che scaglio contro di me. Guardatemi, ascoltatemi bambini della mia età, oramai uomini anziani, voi che avete avuto la possibilità di vivere non di sopravvivere, continuate a denunciare le nefandezze del fascismo e della guerra, e se ancora non lo avete fatto, nell’ultimo ritaglio della vostra vita, andate a raccontare con caparbietà cosa sono stati quegli anni di terrore, non minimizzate, non nascondete, soprattutto non dimenticate, dimentichereste anche me e tutti quei bambini che non hanno avuto la possibilità di diventare adulti, o gli uomini e le donne che per salvarci sono stati uccisi come animali. Se ignorate, se non volete ricordare né vedere nello sguardo passato, significa che anche la vostra coscienza è malata e diventate complici, non gonfiatevi di pietà per approfittarvi della fuga, con un sorriso che non sia di circostanza siate solidali nei confronti di chi soffre e senza fare domande, tendete la mano per sollevare chi ha bisogno; non è retorica, sollevarsi reciprocamente dall’abisso mettendo insieme le proprie forze dà dignità e coraggio ad entrambi. Vorrei che gli occhi giovanissimi che ebbi diventassero una pellicola da fare scorrere su un milione di video, uno spezzone di film che durò poche ore, ma che segnò la vita di molte persone: amici, parenti; fra loro c’era anche mio cugino di quindici anni, sfortunatamente quel giorno era venuto a trovarci, lo fucilarono per giuoco, per vendetta, per risentimento, nei confronti di chi? Che colpa aveva quel ragazzetto che era venuto a farci visita con la speranza di mangiare un piatto di pasta; a casa degli zii contadini, era certo che nel piatto avrebbe trovato qualcosa di buono per saziare la fame perenne. Noi di campagna, di solito, riuscivamo a mettere in tavola un misero pasto: una fetta di pane, qualche pomodoro, un uovo, di fame non morivamo, anche se le pance “rumicavano” chiedendo ancora cibo. Il grano era stato mietuto da poco e,

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come ogni anno, dalla città arrivavano gruppi di persone a cercare eventuali spighe dimenticate nei campi oramai secchi; papaveri e fiordalisi erano stati mietuti insieme al grano, era rimasto una distesa sterile; la fame era una brutta bestia, vi auguro di non provarla mai. Noi un poco di farina l’ottenevamo, la maggior parte la prendeva il fattore, di quella che rimaneva, una quantità rilevante la dovevamo barattare con le cose essenziali che noi non producevamo; l’inverno era gelido, ogni tanto un poca di stoffa per cucirci un vestito serviva! Il sale era essenziale, costava caro ed era difficile da trovare, lo zucchero sarebbe stato un lusso. Mio cugino fu sfortunato, per quella visita ai parenti e la speranza in un pasto, morì fucilato poco distante da casa insieme ad altri dieci uomini. Morì insieme a mio nonno. Tutti i maschi vicini di casa morirono dopo che ebbero visto come la mia mente era precipitata insieme al mio volo fortunato. Dopo che li ebbero messi in fila e fucilati, anche mio padre risultò fra i fortunati! Lo colpirono alle gambe e non gli diedero il colpo di grazia. Pensarono fosse morto sotto una coltre di carne umana, ce la fece a sfilarsi da sotto quella catasta di corpi, si svincolò come una serpe, aveva le gambe trivellate non le poteva muovere. Col tempo anche la sua mente cominciò a subire le conseguenze, sanguinava al ricordo, ferite che si riaprivano e riportavano alla luce quel giorno maledetto. La mia ferita si rimarginò chiudendo ogni via al sangue benigno che avrebbe dovuto alimentare il mio cuore, dare ossigeno ai polmoni, tenere sveglia la mente, in modo che fosse capace di raccontare. Selepersonechevisseroquelgiornodiventasserovocinarranti,metteremmo in scena una tragedia vera, più drammatica di quella che potrebbe elaborare la fantasia dello scrittore più geniale. Se le tragedie umane vissute in quegli anni fossero messe insieme e raccolte in unico racconto, per l’umanità intera non ci sarebbe perdono. Il sangue che mi uscì dal naso, col sole di luglio seccò immediatamente, lasciando sulla pietra una macchia nera come la camicia dell’uomo che accompagnava i tedeschi. Il sangue non lava le ferite, anche se ne fu versato a fiumi, deve rimanere un rivolo rosso vivo che corre fra le coscienze per tenerle vigili. Mamma svenne quando mi vide volare per aria come una palla spinta dalla volgarità dalle mani armate d’odio e di vendetta; nonna con coraggio riuscì a rianimarla invitandola a prendere suo figlio fra le braccia; Dio volle che non fosse stato infilato dalla lama avvelenata della baionetta, ero vivo anche se la mia vita non avrebbe avuto più senso. Se quello che avvenne aveva un senso: mia madre, donna di questa terra, quali sentimenti avrà maturato nei confronti di quegli assassini? Li avrà perdonati? Ricordare e raccontare per far sì che la ragione

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della memoria non sia sepolta. La stessa memoria che mio padre ha cercato di portare ogni giorno alla luce, un impegno che ha perseguito per tutta la vita, anche se la sua vita era stata recisa. Io parlo attraverso la loro memoria, la memoria di mia sorella e di tutte le donne che riuscirono a salvarsi. Come sarebbe stata l’umanità se le cose che racconto fossero state frutto della fantasia? Il mondo intero si sarebbe salvato la coscienza. Con il passare degli anni, la maggior parte delle persone hanno cercato un alibi al loro non agire; a quelle che furono le loro colpe, non ci sono alibi, come non c’era un Dio o qualche inutile Santo ad aiutarci. Le nostre famiglie furono distrutte, massacrate dalla violenza gratuita di falsi uomini, di esseri inanimati, sarebbe dispregiativo per gli animali paragonarli a loro, ma non voglio pensare che gli uomini che ce l’hanno fatta a diventare adulti, dopo che io sono rimasto bambino, siano diventati come quegli esseri. Se fossi diventato grande, dopo quello che avevo visto e sopportato, come sarei stato? Se avessi incontrato il fascista che mi gettò per aria, quale reazione avrei avuto? Quegli uomini privati della forza della divisa, dopo le atrocità che avevano commesso, sono tornati ad essere uomini? Hanno acquisito una coscienza ed un’anima materiale o spirituale che sia? È stato sufficiente il perdono di un Dio assente per renderli uguali agli uomini e donne che hanno subito soprusi, violenze, la morte? Se fossi diventato adulto ed avessi avuto la possibilità di guardare negli occhi l’essere che mi gettò per aria, e per errore non riuscì ad infilarmi con la punta del fucile, lasciandomi cadere con un tonfo sordo sulle pietre, con che occhi l’avrei dovuto guardare? Come mi sarei dovuto comportare? Sono ed ero un essere umano, anche Dio, essere soprannaturale, ci aveva ignorato ed accettava quei giuochi, ed io, bambino involontario, come dovrei guardare quel Dio che pregano per ottenere la grazia? Perdonare! Perdonare tutti, compreso Dio? No, io non perdono nessuno. Con il passare degli anni i ricordi si sono attenuati, cercano di giustificare, perdonare, ogni mia azione violenta, compiuta sull’assassino fascista senza divisa, si sarebbe chiamata vendetta, ritorsione, sarei stato giudicato, condannato. Quei morti chi li ha vendicati? Non chiederò tardiva vendetta, chiederò che la memoria rimanga vigile e dia la giusta riconoscenza ai fatti che avvennero, e gli uomini che si macchiarono di crimini dovranno essere giudicati senza mediazioni. Bambini, adulti non dimenticate. Mio padre mi aveva insegnato a cantare “Bella ciao”, “Bandiera rossa”: era una colpa?

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L’ 8 luglio del 1944 ero già vecchia, avevo conosciuto un’altra guerra con tutte le sue nefandezze e le orribili conseguenze. Quando il mio uomo era in guerra, temevo che non tornasse, il fronte era lontano e le notizie che arrivavano erano di morte, il peso della famiglia era sulle mie spalle, sacrifici, quanti sacrifici! Il mio uomo tornò, fummo fortunati! Nacquero i nostri figli, gioie ma anche dolori. Il mio latte li sfamava fin dove il mio seno magro e le mie forze lo consentivano. La fame apparteneva a tutti, i bocconi erano contati, ma un filo indissolubile di felicità e di fiducia ci univa, ci dava coraggio e forza. Poi, come pioggia nefasta, arrivarono i mostri, e le cose peggiorarono, giorno dopo giorno. I miei figli erano già grandi e ammogliati, per casa circolavano i nipoti: bambini e bambine a portare gioia e allegria, mi rallegrava la loro perspicacia quando iniziavano a scoprire la vita, ma temevo per il loro domani. Io la vita l’avevo già vissuta per intero, i giorni che stavo vivendo erano rubati al mio tempo esaurito. Non ho mai ringraziato Dio per gli anni vissuti in più, non è stato un dono ma una condanna. Io e il mio uomo eravamo le persone più anziane della famiglia, la vita ci aveva già dato tante gioie e altrettanti dolori, ma l’otto luglio il dolore divenne tragedia, superando ogni immaginabile ed atroce fantasia. Ancora una volta fui la fortunata! Avevo superato diversi parti, curato le malattie dei miei cari, con altrettanta veemenza gli avevo insegnato a rifiutare la camicia nera, cercavo di fare coraggio alle figlie quando la paura prendeva il sopravvento. Io, la donna fortunata sopravvissuta a quella data, vidi semplicemente morire i miei vicini, amici da una vita; come se non bastasse, vidi morire il mio vecchio compagno insieme ai figli che vivevano sotto il nostro tetto, fortunata! Sono viva, sentii il tonfo sordo di mio nipote che piombava a terra come una palla, anche lui fortunato, sopravvisse a quell’avventura; anche mia nuora fu fra le donne fortunate: vide portare via il suo uomo, raccolsi e gli posi suo figlio sanguinante fra le braccia dopo che l’ebbe visto volare per aria e sentito il colpo sordo, poi insieme a sua figlia di sette anni e le altre donne, che abitavano le due case coloniche vicine, furono chiuse nell’essiccatoio del tabacco. Era l’ultimo giuoco, non c’era rimasto nessun’altro su cui scaricare la rabbia, le avrebbero bruciate vive. Io ero la fortunata, una vecchia non serviva a farli divertire, camminavo a fatica, avrebbero dovuto spingermi, il loro giuoco avrebbe dovuto attendere; la spietatezza non concede riflessioni, qualcuno fra quegli esseri avrebbe potuto pensare che quei giocattoli erano esseri umani, ma loro non avevano un cuore, né una coscienza, non erano uomini, erano gelide macchine da

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guerra incapaci di pensare, non erano esseri umani anche se le sembianze potevano ingannare. Dopo avere visto portar via dieci uomini, mio nipote lasciato cadere per terra, avrei dovuto assistere al rogo delle donne, di tutte le donne che avevo curato, accudito, protetto. Io sarei dovuta ardere, non loro. Non avevo più parole per implorare, né occhi per piangere. Giocai l’ultima carta: la gentilezza verso chi non conosceva neppure il significato della parola “gentilezza”. Al tedesco, che era rimasto nella stalla incaricato di accendere il rogo che avrebbe ridotto in cenere donne e bambine, offrii un bicchierino di vinsanto, ad un essere che di santo non aveva niente. Lo spirito del vino fece il miracolo. Quel vino non era simile a quei santi che ci avevano abbandonati, e non guardavano verso questa terra fatta di sangue e di soprusi, loro che per essere beatificati e messi sul calendario avevano obbligatoriamente fatto almeno un miracolo, fatto il primo non erano più capaci, noi non eravamo persone degne di ricevere un misero miracolo, eppure eravamo buoni cristiani e non avevamo fatto del male a nessuno. Il tedesco gradì il bicchierino, lo trovò di suo gusto, me ne chiese un altro, io gliene servii uno dietro l’altro, per noi quel vino era oro, ma sapevo dove sarei potuta arrivare, ci speravo. Il tedesco beveva, rideva, scherzava volgarmente, dondolava, cadde, assonnato, seduto per terra. Le donne, chiuse dentro l’essiccatoio, piangevano un pianto silenzioso, non sapevano quale sarebbe stata la loro sorte; la nonna, la vecchia di casa era rimasta fuori, in che modo l’avrebbero uccisa? Loro come sarebbero morte? Peggio se violentate? Riflessioni amare di chi aspetta la fine, donne che contavano i minuti e vedevano soltanto le fascine di tabacco e la porta serrata dall’esterno, sentivano in lontananza le risate sguaiate del tedesco e la voce flebile della nonna. Come tutte le persone anziane che hanno alle spalle una vita vissuta, con sofferenza e coraggio tirai fuori l’arguzia e con perspicacia lasciai che il tedesco si scolasse tutto il fiasco, in modo che oltre alla follia che già gli occupava la mente, anche la forza semplice di un fiasco di vino offuscasse e sconfiggesse definitivamente il suo pensare vendicativo rendendolo impotente. Il prezioso nettare finalmente stordì il nazista, lasciandolo frastornato, disteso a terra. Io ci speravo, sapevo che oltre a quella non avrei avuto altra possibilità per salvare le mie donne. Usai quel che mi restava della mia vecchia forza da combattente atavica, mi spinsi zoppicando verso la porta dell’essiccatoio, con la potenza della ragione e sfrenata volontà ce la feci a sollevare il palo di legno che serrava la porta. Le donne non capivano cosa stesse succedendo. Quando sentirono aprire la porta, la paura si trasformò in tormento: né una parola in tedesco,

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né in italiano, chi stava aprendo? Cosa sarebbe successo? Si strinsero l’una all’altra aspettando la fine. Quando la porta si spalancò e apparve la donna canuta che, con carattere e la forza di una ragazzina coraggiosa, le invitò a fuggire. Mia nipote, la bambina, la donna più giovane di tutte mi prese per mano, io non volevo, sarei stata d’impedimento, non mi volle lasciare! Mia nipote mi sorreggeva più forte di un bastone. Erano tutte giovani donne potevano correre, fuggire velocemente. La corsa attraverso i campi non aveva una meta precisa, dovevano semplicemente fuggire da quel luogo e cercare i loro figli, i mariti, un posto dove nascondersi. Io avevo il passo incerto e dondolante che l’età mi imponeva, mentre ci allontanavamo pensavo alla casa che mi aveva ospitato per tutta la vita, la stavo lasciando, probabilmente non ci sarei ritornata. Ero di nuovo salva!

Nonna avrebbe voluto che io l’abbandonassi e fuggisse da sola, sentiva di essere un impedimento alla corsa, nessuna di noi l’avrebbe abbandonata. La nostra storia di donne, dopo quella tragica avventura, cambiò repentinamente. Disperse in case diverse e lontane l’una dall’altra, inizialmente fummo ospitate da parenti e amici. Dopo la fine della guerra, tornammo nelle nostre case, ma niente sarebbe stato uguale. Gli uomini erano stati fucilati in un luogo poco distante da casa. Quando li trovarono, fra quei corpi non c’era quello di mio padre. La vita di tutte cambiò, attraversata per sempre da assordanti ricordi. Anche la mia breve storia di bambina era finita, se mai ero stata bambina? Lavoravo nei campi, aiutavo mamma in cucina. Sette anni erano pochi, purtroppo il periodo storico che mi ospitava non concedeva di meglio per le persone nate povere. Sapevo anche sorridere e, come per tutti gli altri membri della famiglia, il poco che avevamo ci sembrava il di più. Quell’otto luglio ero felice. Dalla città era venuto mio cugino a trovarci, sulla tavola ci sarebbe stato un poco di pane in più per tutti. Anche se fra me e mio cugino c’erano diversi anni di differenza, giocare con lui mi divertiva, conosceva giuochi diversi dai miei. Quella sera giocavamo al gioco più banale che da sempre ha divertito: ci rincorrevamo allegri sull’aia. Un gioco divertente! Ma quel gioco, abbinato ai pantaloni corti di mio cugino, visti da lontano e da dietro le lenti di un cannocchiale, fu interpretato in maniera diversa. Scene di vita quotidiana valutate da menti che conoscevano l’odio, la vendetta. Uomini che mascheravano la paura con la sfrenata arroganza. Le nostre corse

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giocose, unite ai pantaloni corti indossati dal ragazzo, divennero l’alibi per giustificare la loro incapacità di riconoscersi come esseri umani. Erano solo assassini, fascisti privi di pietà. Secondo la loro versione la corsa sull’aia l’avrebbe fatta un inglese che noi nascondevamo. Chi erano gli inglesi? Come erano fatti? Mio cugino parlava soltanto in dialetto stretto, noi non eravamo andati oltre il paese. La stupidità, coperta da una camicia nera e dalle divise arroganti e sconosciute che parlavano un’altra lingua, non ammetteva contraddizioni. Neppure l’uomo conosciuto, che parlava il mio stesso dialetto, accettava la verità. “Diteci dove si è nascosto l’inglese”. Con violenta determinazione ci chiedevano dove fosse l’inglese, dove l’avevamo nascosto? Le nostre verità non servirono a niente. Se la stupidità si fosse concentrata solo nel suo cervello e non si fosse dirottata anche nei suoi gesti, forse avremmo avuto anche pietà di quell’ometto nero in balia dei tedeschi. Agitava il fucile con inserita la baionetta, lo muoveva insieme alla sua bocca, un buco nero che portava diretto all’intestino, sicuramente il suo corpo non possedeva altro organo e quel buco nero era anche il suo cuore. Sotto la camicia nera non c’era nient’altro, solo carne che già puzzava, mentre sotto il cesto di capelli mediterranei c’era un cranio pieno di veleno. L’uomo e il fucile avevano la stessa capacità di pensare, erano fatti della stessa gelida materia. Le donne, preoccupate, stavano allineate al bordo dell’aia, la paura scivolava come lacrima sul mio viso snaturando i tratti fanciulleschi, la mano sudata di una vicina mi teneva stretta, anche la pelle come gli occhi versava lacrime silenziose, solo mia madre invocava pietà per il piccolino, aveva solo due anni, perché proprio lui doveva scontare la pena se i tedeschi non avevano trovato l’inglese inesistente? Gli uomini adulti erano stati fatti allineare dall’altro lato dell’aia, eravamo tutti pronti per assistere al più lugubre degli spettacoli. Il tonfo sordo arrivò, arrivò insieme ad un grido lacerante, l’urlo di mia madre gelò tutte le persone che avevano un cuore, la sua paura si trasformò in terrore, gli uomini in riga non potettero reagire, i mitra erano spianati, dopo il tonfo li portarono via come fossero in una processione priva di santo; in quella fila scomposta si notavano le gambe scoperte di mio cugino, l’unico ad indossare i pantaloni corti. Mio cugino, l’inglese! Non ci furono saluti mentre più di dieci uomini si allontanavano, per andare dove? Mia madre stringeva suo figlio quasi a soffocarlo, non avrebbe accettato che glielo prendessero di nuovo, sarebbero dovuti passare sul suo cadavere. Loro, gli esseri in divisa, a malapena tolleravano quell’affetto estremo. I tedeschi e il fascista erano fucili e mitraglie, dell’amore, del rispetto cosa sapevano?

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Erano fascisti, nazifascisti, non erano uomini. Il tragitto che noi donne dovemmo fare fu breve, non si ebbe il tempo di metterci correttamente in fila, anche noi eravamo prive di santi, eravamo solo materia terrena. Il tedesco rimasto ci accompagnò tenendo il mitra rivolto verso la prima della fila. Raggiungemmo l’essiccatoio situato dall’altra parte dell’aia. Mentre camminavamo, il nazifascista teneva il mitra disteso, come stesse impugnando una sciabola pronta a trafiggere la schiena della prima donna incolonnata; lei non era d’acciaio come quell’arma, ma con l’intensità del suo amore avrebbe potuto fondere il più gelido metallo, con dignitoso coraggio camminava senza tentennamenti tenendomi per mano, mentre a bassa voce mi sussurrava di non avere paura, di stare tranquilla che presto sarebbe finito tutto, come sarebbe finito non era dato saperlo. In quei momenti cos’era la tranquillità? Chi la conosceva? Era forse il pianto silenzioso e salato che rigava le nostre guance? Oppure il tremare improvviso come avessimo un corpo febbricitante? La perdita dei sensi di mia madre e il riprendersi immediato dopo aver sentito il tonfo sordo; il coraggio di mia nonna che sfidando la volgarità fascista raccolse mio fratello e lo pose fra le braccia di sua madre, neppure quella era tranquillità: era amore che dava coraggio, nel mezzo di quell’unica nota afona, si udì la risata ironica del tedesco, che sfotteva lo stupido italiano fascista incapace di infilare il bambino. Tranquilla! Adesso ero io la più piccola, il loro gioco come sarebbe continuato? La porta dell’essiccatoio si chiuse dietro di noi, di fronte avevamo una montagna di foglie secche, le donne che avevano legato i fastelli di foglie li riconoscevano uno per uno, sudavamo ma il sudore non era motivato dalla fatica. La paura era evidente, ma la dignità la sopraffaceva, ci supportavamo ed incoraggiavamo vicendevolmente, dovevamo aggrapparci ad un briciolo di speranza, mio fratello nonostante il tonfo sordo non era morto, le conseguenze ancora non le conoscevamo, gli uomini li avevano portati via ancora vivi: probabilmente per essere interrogati nella sede del fascio, al comando tedesco, nella peggiore delle ipotesi li avrebbero caricati su un treno con direzione Germania, comunque erano vivi, la speranza non doveva morire. Quello che a nostra insaputa avvenne negli stessi momenti in cui noi riflettevamo sul futuro di tutti, non lo volevamo pensare; nessuna avrebbe pronunciato la parola morte. Fra gli uomini portati via c’era mio padre, i miei zii, mio nonno, mio cugino, i vicini di casa, uomini legati fra loro a doppio filo da profonda stima e amicizia, mentre verso le donne ognuno di quegli uomini aveva un legame di estremo affetto e d’amore: padri, mariti, figli. Io ero una bambina

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di sette anni, piangevo e pregavo, lo facevo in silenzio come avrebbe fatto una donna adulta per non intimorire le altre, ma ero certa che avrei rivisto tutti quegli uomini. A sette anni non conoscevo la speranza, ma avevo fiducia in quegli uomini che mi sollevavano con una mano, non potevano morire: erano forti! Nonostante la povertà ero stata anche felice, il poco cibo era sufficiente, non ero grassa ma paffutella, correvo attraverso gli spazi che la campagna ci concedeva, giocavo con i giocattoli che di volta in volta la fantasia inventa, avevo imparato a curare il pollaio ed aiutavo mammanellefaccendedicasa;laseraquandoigenitorimiaccompagnavano a letto, come tutti i bambini sorridevo felice, mi sentivo protetta, nell’enorme camera c’erano anche i letti degli altri figli, e per tutti c’erano baci e carezze. Mi appigliavo a quei ricordi, mentre guardavo la porta chiusa dell’essiccatoio, mi faceva paura vederla chiusa, ma temevo si aprisse, dopo aver visto la ferocia che avevano usato nei confronti di mio fratello. Ero io la più piccola, avrei subito la stessa sorte? Le carezze e la titubanza delle donne erano per me, carezze per addolcire l’attesa, titubanza per chissà come si sarebbe conclusa l’attesa, cosa sarebbe stato di quella bambina ancora troppo piccola per sopportare la violenza che le strisciava addosso? Quella bambina oramai è diventata una donna anziana capace di raccontare, anche se i ricordi fanno morire, la memoria deve rimanere vigile alimentata dalla mente, la storia va raccontata per quella che veramente è stata. Noi vecchi che ancora lo possiamo fare, lo dobbiamo fare attraverso gli occhi veritieri di chi ha vissuto quei momenti drammatici, di chi ha vissuto sulla propria pelle i soprusi e le violenze del fascismo e della guerra nazifascista. Non dobbiamo, non possiamo tacere: è un dovere nei confronti di chi è morto, affinché non ci siano assoluzioni né mistificazioni nei confronti del fascismo e del nazismo. Sarà sufficiente narrare con semplicità, raccontare le violenze, i torti subiti. Ci hanno marchiato a fuoco l’anima e la coscienza, il perdono non potrà essere quello degli uomini, ed il cielo è sempre stato assente, io non assolvo neppure Dio. ***

Sentieri selvaggi ricamati di sassi, sul selciato ombre scure,

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tetto verde a nascondere il cielo. Passi lenti come la storia hanno superato pietre e coscienze; riflessioni amare come polvere da sparo a ricordare dimenticanze.

Non ho mai dimenticato il tonfo sordo di mio figlio quando piombò a terra, né l’urlo agghiacciante di mia moglie mentre il mio cuore perdeva i battiti. Furono i compagni a trattenermi, a salvarmi da una raffica di mitra immediata. Forse sarebbe stato meglio morire che sopravvivere al tempo che quel giorno si esaurì per tutti. Non cancellerò dalla mia pelle il sangue dei miei cari trucidati: il sangue dei miei fratelli, di mio padre, di mio nipote, dei vicini; quel sangue macchiò la mia pelle, la mia anima terrena e la mia mente, cos’è stata la vita rispetto alla morte? Lunghi anni di dolenti riflessioni, di amari ricordi, di cicatrici invisibili ed insanabili e di altre visibili e profonde ad alimentare il ricordo e le domande di chi mi vedeva ondeggiare. Nonostante i miei incubi ho continuato a denunciare con caparbietà le violenze, a marcare le differenze fra vittime e carnefici, i morti non sono tutti uguali e la guerra non fu uguale per tutti, ricordiamocelo. Nessuno deve guardare indietro facendo finta di non riconoscere la verità. Il giorno era assolato, fino dall’alba il lavoro nei campi era stato duro, mentre la sera si presentava piacevole, ci avrebbe visti tutti insieme conversare sull’aia. L’ombra nera, che oramai da troppi anni aleggiava cupa e tetra sulle nostre vite, all’improvviso, come si era materializzata in tante altre occasioni ma lontano dalle nostre case, quella sera senza preavviso si materializzò anche da noi con tutta la sua violenza. Le conseguenze furono drammatiche: il rispetto e la verità non era cosa loro, in poche ore distrussero tre famiglie senza risparmiare la ben che minima barbarie. Dieci uomini di tutte l’età, incolonnati e diretti verso una metà sconosciuta. Avevamo assistito allo spettacolo straziante di mio figlio, a noi cosa sarebbe toccato? L’importante era che gli assassini lasciassero in pace le nostre donne e i nostri figli. Fu un sollievo quando finalmente la pattuglia tedesca compreso l’italiano si mosse da casa, ci scortavano

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minacciosi per condurci chissà dove? A guardia delle donne rimase un tedesco, forse le nostre compagne avrebbero saputo difendersi, forse! Il tragitto non fu lungo: non prendemmo la direzione della caserma fascista, neppure quella del comando tedesco, ci dirigemmo verso il boschetto e ci fermammo poco prima di raggiungere gli alberi. L’italiano, vestito per metà con la camicia nera da fascista, l’altra metà con i pantaloni appartenenti alla divisa tedesca, ci interrogò con un italiano che conoscevamo bene, ripeté a tutti la stessa domanda: Siete italiani? L’unica nostra difesa fu quel solo: Sì, non ci concessero altre parole, il tempo a nostra disposizione era terminato. Prima d’essere benedetti per sempre dai loro mitra, fummo benedetti da un cappellano accondiscendente, una rapida benedizione con rito protestante a perdonare tutti, vittime e carnefici, che fortuna essere benedetti prima di cadere trucidati! La speranza di accedere al paradiso! A chi interessa? Una breve pausa dopo gli spruzzi santi, poi tre passi indietro e la musica sanguinaria dei mitra iniziò; prima furono colpite le gambe, poi i proiettili si diressero verso il cuore, noi a differenza di quelle bestie avevamo un cuore. Per assistere meglio allo spettacolo della mia morte mi era stata concessa la prima fila, dietro di me gli altri a masticare preghiere e bestemmie. Appena lo spettacolo di morte ebbe inizio, fui stretto da un abbraccio finale, i primi ad abbracciarmi furono mio padre e mio fratello, poi tutti insieme cademmo a terra. La rabbia convulsa e vendicativa, il dolore irresistibile ma ancora vigile di quegli attimi mi spingeva a cercare di reagire a difendermi, ad aiutare i mie amici, i miei cari… era troppo tardi, le mie gambe erano trivellate, caddi come morto sotto altri morti, solo a me fu concesso il miracolo! Poco distante dal luogo dell’esecuzione c’era una statua della Madonna, sarà stata lei a salvarmi? Perché proprio io? Avevo paura e soffrivo, sentivo i colpi dei cannoni ed i proiettili degli alleati che cadevano nelle vicinanze. I tedeschi per paura di essere colpiti si erano momentaneamente allontanati. Trovai la forza di uscire da quella situazione di morte. Vidi ferite e sangue, bocche prive di respiro in un silenzio assordante privo d’ossigeno, recepii un alito leggero quasi un vagito, mi avvicinai alla persona che lo emetteva: era un caro amico, un vicino di casa, si era salvato, non ero solo, un attimo e anche quel labile soffio si spense, non mi restava che cercare un nascondiglio perché di lì a poco sarebbero tornati a vedere se la mattanza era completa. Nelle vicinanze c’era un boschetto, non ricordo come feci ad arrivarci, ma non era sicuro, sarebbe stato il primo posto dove mi avrebbero cercato, trovai la forza per allontanarmi e con fatica mi trascinai fino al rio, spossato

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mi lascia nascondere dalle acque fangose. Da quella posizione protetta notavo i tedeschi che mi cercavano, arrivarono quasi a sfiorarmi ma non mi videro, proseguii la fuga, poggiandomi sulle braccia raggiunsi la riva opposta, mi legai le gambe con l’erba più lunga e con indomabile volontà mi trascinai per i campi, mi trovò un contadino, ero salvo. A quell’epoca ero forte! Non perdonerò, giurai di vendicarmi. Io fui fortunato! Riuscì a sfilarmi da sotto una catasta di corpi e sopravvivere per una vita intera. Non mi interessano le tracce dell’uomo che io fui, voglio che si conoscano i tracciati che caratterizzarono quel periodo: le violenze, i soprusi; voglio che sia chiaro di chi è stata la colpa, in questi lunghi anni di sopravvivenza non ho mai smesso di denunciare e raccontare la verità. Adesso per me è finita, tocca a voi, figli di dopo la guerra, raccontate le verità che noi vi abbiamo raccontato, fate che le nostre sofferenze, e la condanna del fascismo e del nazifascismo senza mezzi termini diventino una voce di popolo a salvaguardia della libertà.

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Seconda guerra mondiale 1940 / 1945. Racconti di vita

Al passaggio della guerra io ero piccolo, ma dalla mia mente mai saranno cancellati quei tristi e brutti ricordi. La mia famiglia era così composta: mio padre Brogi Lorenzo, la mamma Sottani Ida, mia sorella Nida, mio fratello Enzo, io ed un fratellino piccolo Pierluigi. Si abitava in campagna, vicino a Loro Ciuffenna, Provincia di Arezzo, località il Molinaccio. Ricordo benissimo quando dovemmo lasciare la nostra casa non più sicura. I Tedeschi erano molto vicini, i miei genitori raccolsero quelle poche cose che potevano servirci e andammo verso la montagna. Trovammo rifugio presso un contadino dove erano altri sfollati, molti erano anziani e bambini, le persone giovani dovevano stare ben nascoste per la paura di essere presi dai Tedeschi. Il problema era il mangiare, carne non mancava, ma il pane sì. Nessuno si poteva permettere di andare al mulino a macinare il grano, perché i Tedeschi prendevano tutta la farina, solo le castagne potevano essere macinate. A loro il pane fatto con la farina di castagne non piaceva, era dolce e così noi, non avendo altro, dovevamo per forza.

Un giorno la mamma, pensando che i Tedeschi avessero un po’ di cuore, mise un po’ di grano in dei piccoli sacchetti: uno lo diede a mio fratello, uno a me ed uno un po’ più grande lei. Andammo al mulino, ma non fu come lei sperava. I Tedeschi sembrava che aspettassero proprio noi. Ci presero i sacchetti con il grano e, senza dirci una sola parola, con la mano ci fecero il segno di ritornare da dove eravamo venuti. Fummo fortunati, tanto male non era andata con tutto quello che stava accadendo, un po’ di cuore lo avevano avuto, ma il desiderio di poter mangiare una fetta di pane era svanito. Mentre tornavamo a casa, guardavo il volto della mamma che stava piangendo stringendo le nostre mani. Allora non potevo capire il perché, oggi sì , anche io ho figli e per i figli si fa tutto ed a lei chissà cosa passava in quei momenti così brutti nella sua mente.

Quello che accadeva nel Valdarno e non solo, noi ragazzi si sentiva dire dagli adulti mentre parlavano fra di loro.

Un giorno, mentre io ed altri coetanei eravamo scesi al torrente, vedemmo un uomo con gli abiti intrisi di sangue che si stava lavando. Incuriosito, gli ho chiesto chi era e come mai era macchiato di sangue.

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Mi ha risposto che era un partigiano e di chiamarsi Turiddo, erano stati attaccati dai Tedeschi ed un loro compagno era stato ferito e lui lo aveva trasportato ad un rifugio, ma purtroppo poco dopo era deceduto.

Di giorno le donne giovani andavano in un rifugio vicino al torrente per non essere prese dai Tedeschi come era accaduto ad altre. Mia sorella ed altre ragazzette della sua età andavano spesso lungo il torrente sempre stando bene attente a non farsi vedere. Un giorno le ho chiesto se potevo andare con lei, ma non mi volle portare. Dopo un po’ di tempo, senza dire nulla a nessuno, sono andato a cercarla senza però riuscire a trovarla. Senza saperlo stavo per assistere ad un evento, forse quello per me è stato il momento peggiore.

Senza rendermene conto, anche perché piccolo, ma anche incuriosito nel vedere quelle persone molto indaffarate su un ponte, stavo per assistere ad un fatto che io non potevo certo immaginare, e quindi sono restato ben nascosto senza farmi vedere.

Trascorso un po’ di tempo, hanno fatto salire su un camion delle persone che avevano fatto lavorare e fra questi uno lo conoscevo, perché abitava dove abitavamo noi. Nessuno sapeva cosa gli fosse accaduto, non aveva più fatto ritorno a casa, ne restarono solo due con una moto, ma per poco tempo, per poi partire anche loro velocemente. Improvvisamente ho sentito delle forti esplosioni, le pietre cadevano da tutte le parti: avevano minato il ponte, proprio quello vicino a dove si abitava noi. Mi sono messo a correre piangendo e, quando sono arrivato dove eravamo noi sfollati, non riuscivo a parlare, a raccontare ciò che avevo visto, solo una cosa sono riuscito a dire bene, Giovanni era vivo. Con noi c’era la moglie con i suoi figli, lei mi ha abbracciato dicendomi grazie, grazie per avergli dato la buona notizia.

Passarono diversi giorni senza mai lasciare nemmeno per un istante la mia mamma. Anche la notte dormivo vicino a lei.

Una mattina sono passati dei partigiani e dissero che gli Alleati erano molto vicini e che a Loro Ciuffenna i Tedeschi avevano bruciato delle case ed impiccato delle persone.

Dissero anche che a San Giustino Valdarno erano state fucilate molte persone. Mia mamma aveva in quel paese la sua famiglia, ma loro dissero di non sapere i nomi dei caduti oppure non li vollero dire.

Dopo alcuni giorni la mia mamma venne a sapere che fra i caduti vi erano anche tre fratelli Sottani , proprio i fratelli suoi, cioè Santi, Sabatino che noi chiamavamo lo zio Sabo, e Giovanni. Un quarto fratello, Piero,

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si era salvato, raccontando che al momento della fucilazione si erano abbracciati, i suoi fratelli gli erano caduti addosso e lui per fortuna era rimasto ferito solo ad una spalla.

Quando i Tedeschi se ne furono andati, si alzò, chiamò i suoi fratelli, ma purtroppo per loro quello era stato l’ultimo giorno di vita. In seguito fece sapere alla famiglia che lui era salvo e si trovava all’ospedale militare.

I Tedeschi si erano molto avvicinati a dove eravamo noi sfollati e perciò non era molto più sicuro rimanere lì. Così dovemmo spostarsi ancora più in alto, in un paesino chiamato Gorgiti, sulle pendici del Pratomagno. Anche lì restammo per poco, perché i Tedeschi una notte dettero al fuoco un piccolo paesino chiamato la Rocca.

Eravamo tra due fuochi: da una parte i Tedeschi e dall’altra gli Alleati, che cannoneggiavano giorno e notte la montagna sapendo che lì si nascondevano i Tedeschi.

Ritornammo verso casa. Un giorno il mio fratellino, che era il più piccolo, poco più di un anno, si è sentito male. Dottori non si trovavano e così la mamma decise di portarlo in ospedale a San Giovanni Valdarno. Dopo alcuni giorni il babbo ci disse che il nostro fratellino piccolo (Pierluigi ) era morto e che la mamma si era fermata con lui dai nonni. La mamma raccontò cosa era accaduto: il nostro fratellino era guarito e poteva tornare a casa. I mezzi di trasporto non ce ne erano e così chi doveva tornare a casa, veniva riaccompagnato da un automezzo militare. Proprio quella sera che dovevano tornare loro, ci furono dei combattimenti fra gli Alleati ed i Tedeschi. L’automezzo militare era dovuto andare a prendere i feriti e loro sarebbero stati accompagnati il giorno dopo.

Durante la notte provata dalla stanchezza e dal poco mangiare, la mamma si era sentita male. Quando riprese coscienza, il suo bambino non era accanto a lei. Le dissero che durante la notte anche lui si era sentito male e purtroppo era morto senza dirgli altro, senza dargli nessuna spiegazione, dicendogli solo: “Ne muoiono tanti.” La cosa non era molto chiara, ma purtroppo erano tempi di guerra. Riuscì solo a sapere che il piccolo si trovava in una stanza mortuaria e che il giorno seguente lo avrebbero sepolto in un cimitero vicino.

Si fece dire dove era per andarlo a trovare, lo prese lo avvolse in un panno che aveva trovato, lo prese in braccio e cercando di non farsi vedere, riuscì a portalo via, voleva riportarlo a casa. Da San Giovanni Valdarno a Loro Ciuffenna la strada era lunga, ma a lei non importava e le persone che incontrava e le domandavano cosa avesse il piccolo, lei rispondeva:

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“Sta bene, dorme.”

Lo stesso giorno che è morto il mio fratellino, cioè il 6 Agosto 1944, a Talla ( AR ) in Casentino, veniva uccisa Sandroni Pasqualina in Simoni, di soli 39 anni lasciando sei figli, l’ultima di soli due anni. Mia moglie Milena restò viva solo per miracolo. Una mattina, mentre ero con mio padre a seminare della verdura in un campo vicino a casa, è passato un aereo e ci ha mitragliato. I colpi sono finiti sul tetto di una capanna vicino a noi.

Tanti altri fatti sono accaduti e non ricordo molto bene, visto l’età che avevo.

La guerra era finita, la nonna venne a trovarci e raccontò quello che era accaduto agli zii. Disse che la notte andavano a lavorare nei campi ed una mattina, mentre rientravano, furono presi dai Tedeschi. Qualcuno li aveva traditi, aveva fatto la spia.

Furono fatti salire su un automezzo, dove già si trovavano altri, e portati non molto lontano, sulla strada che porta ad Arezzo e lì fucilati.

Raccontò che lei stessa era andata a prendere i suoi figli, li aveva messi su un carretto e portati al cimitero.

In quel punto è stata messa una lapide a ricordo di chi è stato ucciso (falciato) brutalmente dai colpi dei mitra tedeschi.

Per noi la vita continua, dovevamo guardare avanti, gli adulti ricostruire ciò che la guerra aveva distrutto e noi giovani eravamo il domani.

Queste parole furono pronunciate da un signore che aveva assistito all’incontro con la nonna, ma non ricordo né il nome né chi fosse. Tutto quello che io ho raccontato, in altre parti del mondo accade ancora. Pensando che altri vivono gli stessi drammi, le stesse condizioni, il cuore mi si rattrista veramente.

La guerra

Cadono le case a terra centrate dai cannoni.

Pietà più non esiste per miseri e per buoni.

Ed al calar del buio, fra le macerie un pianto:

è quello di un bambino salvato dal destino.

Chi gli darà la mano,

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chi gli aprirà una porta se la sua mamma è morta?

Tutti devono sapere che in questo mondo infame le guerre portano solo triboli, morte e fame.

Questa poesia fa parte di una raccolta di poesie da me scritte.

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