VOCI DELLA GUERRA CIVILE 1943-'45

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Luigi Ganapini

Voci dalla guerra civile

Storie di italiani 1943-1945

Società editrice il Mulino

MANCANO I LOGHI

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ISBN 978-88-15-23785-9

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Nota dell’autore p. 7 I. Sul limitare 9 II. Le eredità del passato 29 III. Il nemico 53 IV. Nella cospirazione e nelle carceri 73 V. Partigiani 93 VI. Nelle file della Repubblica 121 VII. Vite quotidiane 153 VIII. Un mondo rurale 179 IX. Amori e lontananze 191 X. Deportati: gli Internati Militari Italiani 207 XI. «...si fa presto a dire lager...» 233 XII. La persecuzione e la deportazione degli ebrei 251 XIII. La guerra è finita 277 Nota bibliografica 291 Indice delle autrici e degli autori dei diari 301 Indice

Nota dell’autore

In verità non è l’autore colui che scrive questa nota; è solo colui che ha avuto il compito di raccogliere e inserire brani di diari e di memorie tratti dall’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano nella trama dei «grandi» eventi del 1943-1945.

Sono oggetto di innumeri ricostruzioni storiche documentarie, di libri di ricordi, di polemiche e di accaniti dibattiti quegli anni in cui, con la guerra, si chiuse per l’Italia la tragedia del fascismo. I diari e le memorie raccolte nell’Archivio di Pieve Santo Stefano aggiungono colore e vita a vicende che, troppe volte narrate, discusse, contestate, sembrano a molti lontane dalla realtà di oggi, del tutto estranee alla nostra coscienza e alle nostre necessità di conoscere; tanto che rievocarle può apparire un esercizio retorico.

Nelle scritture che ho letto e collazionato è invece possibile trovare ancora il senso della scoperta, del subitaneo apparire di prospettive lontane nel tempo ma ancora significative per la coscienza e la memoria degli italiani. Non sono «colore» nel banale significato corrente; ma «colore» come riflesso di sentimenti ed esperienze di vita, di virtù e di errori, il cui insieme ha costituito la base profonda su cui è stato eretto il futuro di una nazione che nell’autunno 1943 pareva destinata a scomparire. Non sono diari e memorie che pretendano di narrare ciò che gli «storici» non avrebbero mai detto, come dicono di voler fare talora alcuni romanzieri insoddisfatti. Queste testimonianze presentano brani di esperienza per ricostruire di ciascuno il passato e per ritrovare di ciascuno il senso della sua stessa vita: vicende intime quindi che occorre accostare con rispetto. La loro collocazione in un quadro storico compiuto è incerta e precaria. Ma del resto non pretendono di esser giudicati e catalogati. Basta ricordarli.

In questo lavoro di raccolta e di riflessione sui diari e le testimonianze conservati a Pieve Santo Stefano ho ricevuto un aiuto insostituibile da Daniela Brighigni e da Natalia Cangi; e quest’ultima, appassionata madrina di tutte le memorie dell’Archivio creato da Saverio Tutino, mi ha molto aiutato a trattare con attenzione e rispetto ricordi e sentimenti contenuti negli scritti. Su tutto il lavoro ha vegliato l’alta figura di Camillo Brezzi, ideatore dell’impresa, da lungo tempo amico. Spero di non aver guastato, con errori di cui evidentemente sono il solo responsabile, il risultato dell’impegno di persone verso le quali ho un debito grande di riconoscenza.

8 Luigi
L.G.

I. Sul limitare

Era un teatro di macerie materiali e morali, un luogo di disillusioni, quell’Italia dell’estate 1943.

Nella memoria degli italiani gli eventi del pur breve periodo tra il 25 luglio, che segnò la defenestrazione di Mussolini, e il successivo 8 settembre, in cui in un pugno di ore l’Italia si arrese e fu occupata da soldati di tutti i continenti, hanno assunto un valore periodizzante. E le date cruciali che lo hanno scandito si sono caricate di significati intensi, fino a diventare «luoghi della memoria» profondamente simbolici: il 25 luglio, oggi metafora di rovinosa inattesa caduta del potente; e l’8 settembre, resa senza onore, sconfitta irrimediabile, scomparsa della nazione.

Ma i diari e le memorie, che registrano impressioni e riflessioni della gente comune in quei giorni, a tutta prima sembrano rispecchiare solo lo sconcerto e il disorientamento che colgono un popolo a cui venti anni di dittatura hanno tolto la capacità di elaborare giudizi autonomi di fronte a fatti inattesi e di grande portata. E del resto, il cataclisma politico istituzionale che scompaginava il paese si collocava in una sequenza di eventi straordinariamente tragici che avevano sconvolto il quadro mentale degli italiani, mettendo in crisi (ma non eliminato del tutto) le illusioni create dal fascismo e dal suo apparato propagandistico e infine la percezione stessa del conflitto in corso.

La guerra era certo dal giugno 1940 il fatto dominante nella mente e nella vita stessa degli italiani: era stata affrontata sull’onda degli artificiosi entusiasmi per la conquista dell’Impero nel 1936, con una baldanza sorretta soprattutto dalla certezza di affiancarsi alla potenza militare più efficiente del mondo, alla Germania nazista. La convenienza dell’alleanza non aveva potuto tuttavia sopperire alle diffidenze e ai rancori contro «il tedesco», nemico secolare secondo un diffuso senso comune, alimentato

dalla memoria delle Grande Guerra e dallo stesso fascismo che da quel conflitto aveva tratto origine, simboli, mitologia.

Né le diffidenze si erano dissipate con il passare del tempo e con il succedersi degli eventi; avevano toccato il culmine quando nel 1942 erano stati resi noti i piani per l’Ordine Nuovo del dopoguerra elaborati dal ministro dell’Economia del Reich, Walter Funk: nello spazio economico europeo futuro all’Italia spettava un ruolo gregario, insignificante rispetto alla potenza del popolo dei signori, l’Herrenvolk. Nell’opinione popolare s’era aggiunta nello stesso torno di tempo la preoccupazione suscitata dall’apparire nelle città di reparti tedeschi della contraerea, chiamati a sostenere le deboli difese italiane; ma immediatamente sospettati dalla voce diffusa di essere solo l’avanguardia di una imminente invasione. Di fronte a queste prospettive, le valutazioni dei ceti dirigenti economici e il sentire popolare convergevano verso una comune, tacita e mugugnante dissociazione.

La fiducia nella vittoria militare, riassunta nel motto «Vincere!» ossessivamente ripetuto nelle scritte murali, sulla carta da lettera del Partito e utilizzata financo come forma di saluto nei rapporti interpersonali, vacillava poi in misura crescente sotto l’incalzare di notizie e di segnali sempre più negativi. La «campagna di Grecia», intrapresa nell’ottobre 1940 all’insegna di una delle più ribalde dichiarazioni mussoliniane – «spezzeremo le reni alla Grecia» –si impantanava sui monti dell’Epiro. Accorse in aiuto l’alleato tedesco, mentre in Italia si apriva una crisi ai vertici militari, con l’allontanamento del Maresciallo Badoglio sul quale il duce scaricò le responsabilità delle sconfitte. Il paese interpretò il fatto come una crisi politica del regime e sciaguratamente prese a pensare a Badoglio come un’alternativa alla dittatura di Mussolini.

Con la fine del 1942 l’Italia e la Germania inanellavano poi una serie di sconfitte: in Russia e in Africa le due alleate erano sanguinosamente battute e obbligate a ritirate rovinose. I reduci italiani dalla Russia narravano inoltre della prepotenza e tracotanza delle truppe tedesche, che avevano abbandonato i fanti alleati nel gelo dell’inverno russo.

E questa congiuntura, tra la fine del 1942 e gli inizi del 1943, che per gli angloamericani è segnata dalla conquista dell’Africa settentrionale, dà l’avvio a quella decisiva fase della guerra che veniva definita come «attacco alla fortezza Europa».

E dell’attacco, dalle basi aeree del Nord Africa, partirono i primi duri colpi contro il nemico più debole: dall’autunno del

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1942 le incursioni aeree presero a martellare l’Italia settentrionale prolungandosi ed estendendosi nei mesi successivi all’intero territorio nazionale; uno dei segnali più terrificanti fu il bombardamento di Roma, la Città ritenuta inviolabile per il suo carattere religioso e culturale, ma su cui si rovesciarono il 19 luglio 1943 oltre 9.000 tonnellate di bombe.

Aggiungiamo a tutto ciò le pene e le miserie materiali: dagli alimentari ai vestiti, al carburante per i mezzi di locomozione, ai fertilizzanti per la coltivazione dei campi. Ciascuna di queste voci comportava non solo le privazioni dirette, ma anche fatiche e pene per procurare almeno quanto potesse servire alla sopravvivenza.

Sullo sfondo di tali sovvertimenti – che non erano solo politici o istituzionali o economici ma che investivano anche la vita materiale ed emotiva dell’intero paese – si può intendere lo spaesamento e lo sbigottimento di quanti si trovarono immersi in una realtà tanto lontana da quella che fino ad allora avevano percepito. Avere informazioni certe, capire, orientarsi sembravano atti impossibili poiché erano effimeri gli strumenti di una coscienza civile e politica che stentava a farsi strada in una popolazione che per due decenni non aveva avuto modo di decidere da sé, di sé e per sé. «Dalla finestra aperta giunge il rumore intensissimo di treni in manovra, non si può capire né dove andranno, né come», scrive nel suo diario alla data del 10 settembre 1943 Michelina Michelini, una delle tante donne che guardano con angoscia al susseguirsi degli eventi e che cercano un bussola per orientarsi. Le sue parole sono quasi una metafora della vita di quegli anni 1943-1945.

Certo non manca chi sembra godere di un temporaneo sollievo se si trova in una condizione che esenta pur provvisoriamente dalla partecipazione stretta agli eventi. Con qualche intento letterario Irene Paolisso, studentessa non ancora ventenne, rifugiata con la famiglia a Formia, costruisce un’antitesi tra l’atmosfera di un tiepido 1° settembre 1943 in cui lei vive e la realtà della guerra in cui vivono parenti o amici: «Dolce tepore di settembre. Trasparenza di acque limpide come certi pensieri che si rispecchiano in esse e hanno il potere di estraniare dall’uragano della guerra, dove rimangono ad affannarsi e a morire i nostri cari». A onta dei toni idilliaci, l’inquietudine tuttavia l’assedia, come avviene per tutti: «Io continuo la mia opera di ripetitrice a buon mercato; studio pochissimo. Finché durerà questo maledetto stato di provvisorietà, niente pare avere senso». E poco

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più avanti aggiunge: «L’entusiasmo delle settimane scorse per la caduta del regime si è spento definitivamente: ma ancora è il cuore più che la ragione ad avvertire la tempesta». Irene è una giovane donna che nel suo diario, tra la registrazione accurata degli eventi pubblici e privati, dà anche ampio spazio ai propri stati d’animo, spesso espressi in momenti contemplativi, fondati sul contrasto tra natura e storia – la storia tragica che lei stava vivendo. Ogni giorno di sole è per lei motivo di speranza e di consolazione, anche se spesso acuisce il suo dolore per il presente. Altre sono le annotazioni di un suo coetaneo che si trova al centro egli eventi bellici nell’area di Salerno nei giorni tra l’armistizio e lo sbarco angloamericano. Nelle regioni meridionali più vicine al fronte la violenza della guerra non sembra lasciargli spazio per alcuna riflessione che vada al di là della registrazione degli avvenimenti. Ha compiuto diciott’anni da un mese Pietro Sorrentino, quando l’armistizio lo coglie nella casa degli zii a Pagani, dove decide di restare prima di tornare a Castellabate, nella casa dei genitori con cui abita. «In questo periodo di tempo si visse in una confusione diffusa: non si sapeva bene cosa stesse avvenendo. La decisione di rimanere mi salvò la vita. Certamente non furono estranee le incessanti preghiere di mia madre, donna animata da una fede profonda». Nella «forzata parentesi» del soggiorno a Pagani decide di scrivere un diario, che gli consenta in futuro di rivivere la realtà di quei tempi. «Lasciare una testimonianza mi sembra giusto, opportuno e non solo per far conoscere ai nipoti le angustie di quei lunghi, terribili giorni, il clima di confusione e paura che si respirava, le file noiose per procurarsi i beni di prima necessità. La storia scritta da chi l’ha vissuta è ben altra cosa dal racconto dei fatti riportato dai libri di scuola».

La giovane età gli detta osservazioni che non vanno oltre l’orizzonte immediato; ma proprio per questo attraverso di lui la miseria e il vuoto dell’animo degli italiani si presentano con terrificante crudezza.

Si aspetta l’evolversi della situazione. I combattimenti in direzione Salerno sono traditi dal rumore degli aerei che, in continuazione, passano sulle nostre teste. Esso è ben distinto da quello dei cannoni che tuonano ad una ventina di chilometri. Decido di tenere il diario, per lasciare qualche traccia degli avvenimenti maggiori, con qualche commento. Non si sa cosa stia esattamente accadendo e corrono molte voci. La gente ha tanta paura ma tutti sperano che arrivi presto la fine di quei colpi di cannone; i più grossi producono fortissime esplosioni nelle campagne vicine. In casa ci

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sono alcune provviste e ci si augura possano bastare per alcuni giorni. Si può comprare qualche pezzo di pane alla borsa nera ma occorre pagarlo molto. I negozi sono tutti chiusi e non si distribuisce nulla. Il cannone tuona in continuazione.

Lo smarrimento non risparmia nemmeno chi aveva la maturità e gli strumenti culturali per affrontare l’enigma degli avvenimenti di quell’estate: «Nessuno sospettava – scrive Mario Tutino nel suo diario, alla data del 27 luglio 1943 – benché tutti avessero la sensazione, sia pur vaga, dell’imminenza di un rivolgimento». Sensazioni, non certezze: su questa base anche il giudizio sulla crisi della dittatura sembra riflettere le valutazioni di anni lontani, quando tutto il mondo moderato e conservatore italiano aveva pensato che le camicie nere fossero solo una pur intemperante reazione alle debolezze dei governi liberali e alle violenze dei rossi. Il regime fascista era giunto – ragiona dunque Tutino – a «Disfacimento, vecchiaia». Un processo quasi biologico, che aveva dissolto il puro ardore della giovinezza.

La grandezza, gli onori, la ricchezza avevano corrotto quelle che furono le forze giovani della rivoluzione; i venti e più anni di politica errata, avevano distrutto tutto quanto di sano era nella nazione; la gioventù o lontana o ostile, ogni autorità abbattuta, il paese prostrato da una guerra aborrita, crudele, una rissa furibonda più che una guerra; dovunque ira, rancore, dissidi atroci.

La risposta più diffusa agli avvenimenti sconvolgenti di quella fine luglio, la spiegazione del subitaneo sgretolarsi del regime i più la ricercano nella sua degenerazione morale e nella sua corruzione.

Non è certo estranea all’elaborazione di questo giudizio la campagna di stampa che, dopo la caduta di Mussolini, scatena una sorta di guerra dei dossier volta a screditare con ogni mezzo l’establishment fascista. A una identica prassi si era del resto conformato lo stile della lotta politica nel corso del ventennio: sotto la dittatura l’impossibilità di aprire il dibattito politico vero e proprio aveva incentivato l’uso della denuncia e della delazione, della denigrazione e della calunnia, nei confronti di ogni avversario o concorrente, come arma per affermare le proprie ambizioni personali o i propri disegni e le proprie tesi politiche. Alla caduta del fascismo l’Italia legale non si rivela capace di andare oltre quella guerriglia poco dignitosa di scandali e rivelazioni

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meschine; è nel carattere di Badoglio che in quel clima aveva vissuto e prosperato; ed è anche nel carattere di una generazione di giornalisti e pubblicisti ai quali la divulgazione di dossier e il volgare scandalismo offrono una comoda via di fuga per tacere su compromissioni più profonde con il regime e la sua politica.

Tanto più che la denuncia degli «illeciti arricchimenti» dei gerarchi, nodo centrale dello scandalismo dei quarantacinque giorni (quelli intercorsi tra la cacciata di Mussolini e l’armistizio), ha un sapore amaro sotto il governo di un maresciallo, che è in sostanza un dittatore militare, i cui trascorsi nel regime e i lauti guadagni che ha accumulato sono ben noti a tutta l’opinione pubblica italiana.

Il successore di Mussolini infatti non ha alcun titolo per incentivare più nobili speranze. Pietro Badoglio governa con pugno di ferro, non fa concessioni alle opposizioni antifasciste, che si sforza di ingannare con misere astuzie assicurando di mirare alla rottura dell’alleanza con Hitler; ma non abroga le leggi «razziali» e libera solo in parte i detenuti antifascisti (gli appartenenti alle sinistre non possono uscire dalle carceri prima del 23 agosto). E, mentre rassicura i tedeschi impegnando la sua parola di Maresciallo più anziano d’Europa (dopo Pétain) che resterà loro fedele, fa sparare sulla folla che chiede pace e libertà: nei quarantacinque giorni del suo governo sono 83 i morti, 516 i feriti che cadono sotto le pallottole dei militari italiani e che si aggiungono a quelli dovuti alle spietate incursioni effettuate dagli angloamericani sull’Italia settentrionale nel mese di agosto. Il disastro non poteva essere più grande per un popolo che nella sua maggioranza si era lasciato condizionare dai miti imperiali e dalle parate di cartone, senza cogliere la radice della debolezza etica e culturale del regime. Qualche spiraglio si intravvede tuttavia, che lascia capire come non in tutti fosse venuto meno ogni sentimento di dignità, o la speranza di tornare a essere una nazione.

Le riflessioni di Tutino, uomo maturo e colto, vanno proprio in questa direzione: rivelano una percezione dolorosa del ruolo secondario dell’Italia nella tragedia che si va profilando; ma allo stesso tempo fanno emergere uno scatto d’orgoglio, o almeno l’aspirazione a tornare a possedere un orgoglio, anche se di Badoglio Tutino non sembra saper valutare la pochezza.

Mai come in questo momento è apparsa chiara la funzione secondaria che in tutto il dramma ha avuto l’Italia. Siamo, nei calcoli degli uni e degli

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altri, un mezzo, un passaggio, il terreno di nessuno, oramai. Si tratta, questo è il compito del Maresciallo [Badoglio], di far sentire agli uni e agli altri che il terreno di nessuno è occupato da un popolo che non vuole perire e che vuol restare una nazione. [La guerra] sembra a tutti perduta. Si tratta di uscirne non dico col minor danno, ma senza disonore. Il popolo è contro la Germania, e l’esercito – sembra – anche, e forse più.

Ma intanto, afferma, occorre temporeggiare, per ricostruire un’immagine dell’Italia più degna: «Guadagnar tempo; ogni giorno che passa, con il lavoro che si compirà, con le opere che cementeranno la figura dell’Italia nuova genereranno forze morali che non potranno non agire a nostro favore».

A un diverso livello di coscienza, forse anche più acuto per la sensibilità stimolata dalle esperienze dell’ambiente popolare in cui è vissuta, esente dalle illusioni dei ceti borghesi, avvertiamo la speranza di Albertina Tonarelli. Il 25 luglio, ricorda:

Si scese in piazza allora venne un po’ meglio fuori come uno la pensava. E ci si sentiva badogliani, perché sembrava che lui potesse fare davvero qualcosa. I fascisti restarono zitti, non sapevano che fare, non ci fu reazione di nulla, restarono come bastonati. Le persone in quel momento o erano felici per quanto accaduto, dimostrando così di non essere mai state di fede, o rimanevano ammutolite. E quelli erano i fascisti.

Un mondo che finalmente si rivelava, diviso tra i buoni e i cattivi.

Badoglio tuttavia teneva in sospeso l’intero paese, con la sua violenza militare impediva che, sotto la necessità della prudenza e sotto il ricatto dell’amor di patria, i sentimenti degli oppressi operassero davvero come discriminanti. Fu perciò l’8 settembre il momento della prova decisiva e dell’inconfutabile frattura nel corpo sociale e politico e nella morale dell’Italia del 1943.

Nei giovani quell’annuncio di un armistizio, accende un tumulto di sentimenti contrastanti, a cui tuttavia l’invasione tedesca finisce per dare un senso preciso. Rammenta una recluta di allora, il torinese Ercolino Ercole, figlio di operai che nei suoi ricordi rivela sensibilità e coscienza non comuni: alla fine di quello sconvolgente otto settembre nella sua caserma a Marina di Massa, ove prestava servizio di leva, suonò il silenzio; ma per lui

Il sonno tardava: ritorno a casa a Torino, in Borgo San Paolo. Una nuova vita nella pace, nel lavoro: la famiglia ricomposta, ritrovare i vecchi

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amici, le ragazze ormai donne, rifare il nostro piccolo mondo. Quale casa, quale famiglia! I genitori invecchiati anzitempo, logori, bisognosi di cure, vergognosi delle loro bocche sdentate. La casa sinistrata, finestre senza vetri, sostituite da fogli di legno compensato. Chi mi ripagherà delle sofferenze subite, della gioventù persa prima di averla vissuta. Solo doveri e rinunce, solo obblighi. Fui preso da un desiderio di ribellione contro tutto e contro tutti.

Il giorno dopo, prosegue il racconto di Ercolino, arrivarono i tedeschi che attuarono il disarmo delle truppe senza alcuna resistenza da parte italiana.

Al mattino si sparse la notizia della fuga del Re e dei suoi generali. A mezzogiorno arrivarono cinque soldati tedeschi con un caporale su due motocarrozzelle con mitragliatrici. Intimarono l’adunata in cortile, la consegna delle armi, il disarmo degli ufficiali. Tutto si svolse nel giro di pochi minuti. I fucili e le munizioni del corpo di guardia furono gettati ai piedi dei tedeschi. Gli ufficiali corsero nei loro alloggiamenti e riportarono pistole, fondine e pallottole sciolte nel palmo della mano. Un ufficiale aggiunse lo spadino della divisa di gala. Un giovane soldato tedesco sputò di disgusto. In quel momento mi ritornarono alla memoria le parole della «Preghiera del marinaio»: «[...] fa che il mio petto sia più forte del ferro che cinge le nostre navi». Tutto fu chiaro: la guerra, il fascismo, la patria, la classe dirigente, il mio modo di essere e di capire le cose.

E, allora, indignato per la viltà degli ufficiali che si sono piegati senza reagire, nella notte il giovane fugge, e dopo venti giorni raggiunge Torino da Marina di Massa. Quando arriva a casa è «pieno di rabbia, conscio di esser stato fregato dal libro “Cuore”, dal re vittorioso, da “Giovinezza”, dal “Dio, patria, famiglia”, dall’ottuso senso del dovere della piemontesità, dal “Piccolo Alpino”, dal Corriere dei Piccoli, da tutto quel ciarpame».

Felice Malgaroli ha diciannove anni ed è nato a Broni, in provincia di Pavia. Anche lui è militare e alla caserma Cairoli di Pavia impara a conoscere l’inefficienza dell’esercito e la tracotante improntitudine degli ufficiali superiori. Nel corso della sua esperienza nell’esercito regio lo indigna in particolare il pistolotto che il colonnello comandante indirizza a un giovane ufficiale, il quale suggerisce che nelle esercitazioni a fuoco sia impiegata anche l’artiglieria:

«pochi obici,» – chiede il giovane ufficiale – «tanto per rendere l’idea a tutti questi ragazzi che vanno in guerra, senza mai aver sentito il cannone».

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«Lei signor tenente» – replica il colonnello – «si leghi un manico di scopa alla schiena e raddrizzi la spina dorsale, ma cosa crede? Dell’artiglieria non ci si può fidare e poi i miei fanti non hanno paura, baionetta in canna ed avanti!, come nel ’18». Mi vennero i brividi ed il magone per essere nelle mani di un simile bastardo.

La rovina così presagita si compie nei giorni seguenti in modi che Felice non avrebbe mai immaginato.

Un mattino in caserma c’è un brusio strano, diverso dal solito, molti parlano concitati e mi occorre tempo prima di capire che gli ufficiali sono scappati. «Quel» colonnello e tutti gli ufficiali superiori sono fuggiti. Due giovani tenenti e qualche graduato di truppa radunano le compagnie nel cortile, dicono che bisogna combattere, subito! Il nemico da questa mattina, sarà l’esercito tedesco. Come mai? È l’otto settembre 1943, dicono addirittura che il Re è scappato! non ci credo, al Re noi gli abbiamo prestato giuramento il mese scorso! Come può fuggire? – Lui stesso ha decretato che chi fugge in guerra compie alto tradimento e merita la fucilazione. Via! Il Re no, non è possibile […]. È fuggito davvero! Ma questo lo verificheremo poi, intanto qualcuno preleva i moschetti dalla armeria ma le munizioni sono sparite, non c’è un caricatore (salvo quelli del corpo di guardia), tradimento nel tradimento e quando due, dico due soli uomini, soldati tedeschi, entrano dal portone in assetto di guerra e con un panzer all’esterno, ci sbandiamo tutti in preda a tangibile paura Nel pomeriggio, siamo già tutti incolonnati verso la stazione ferroviaria, scortati dai tedeschi […].

Felice riesce a sbandarsi e di lì a poco intraprende la sua vicenda di partigiano, ispirato da sentimenti e idee che ha appreso, come vedremo, nell’ambiente famigliare dell’infanzia e dell’adolescenza.

L’agire di Badoglio durante i quarantacinque giorni del suo governo non ha certo la virtù di rassicurare. Alla vigilia dell’annuncio dell’armistizio la parola ricorrente nei diari è «incubo»:

il risveglio, dopo una notte di incubi – annota Bruna Talluri, che di lì a poco prese posto nelle fila della cospirazione – non ha dissipato i miei timori e neppure la penosa incertezza del domani. Molti parlano di tradimento. Noi non abbiamo tradito nessuno, mentre siamo stati traditi dai fascisti prima e poi dai nazisti. Gli inglesi in Calabria; i Tedeschi nel Lazio e sul Po. Povera Italia, quali mortali ferite ti hanno inferto i banditi delle glorie imperiali! Io credo che le truppe alleate non abbiano nessun interesse a piantare le tende nelle regioni italiane, ma se questo dovesse avvenire si risveglierebbe in noi lo spirito, da troppo tempo assopito, delle tradizioni

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rivoluzionarie e avremo la forza di gridare: «Vai fuori d’Italia, vai fuori o straniero». Noi vogliamo la libertà dei popoli e l’associazione dei popoli liberi. Oggi dobbiamo combattere contro i nazisti, che sono i nostri veri nemici. Noi non abbiamo tradito nessuno, mentre siamo stati traditi dai fascisti prima e poi dai nazisti.

Possiamo qui riconoscere un pensiero, che si farà nel tempo giudizio dominante, teso ad assolvere gli Italiani dalle responsabilità del fascismo, della guerra, del voltafaccia dell’8 settembre. Più volte, nella tragedia italiana, i diari e le memorie toccano questa corda. L’autoassoluzione si avvale di due argomenti, più emotivi che razionali: da una parte la torva presenza tedesca, incarnazione della violenza e della sopraffazione, al cui cospetto gli italiani sono vittime innocenti; dall’altra l’oppressione sofferta ad opera del fascismo, che ha impedito ogni libera espressione di dissenso. Dalla pressione di questi argomenti concomitanti scaturisce la sofferenza dell’intera nazione. Ed è questa la strada per raggiungere uno stato di innocenza, secondo uno schema penitenziale forse inconsciamente mutuato dalla prassi cattolica.

La sorella di Bruna Talluri, Maria, registra quanto fosse diffusa una percezione falsata del corso degli eventi:

la parentesi badogliana si rivelò un pericoloso trabocchetto per gruppi clandestini che rinunciarono, in quella breve estate, alle consuete misure di sicurezza, permettendo a fascisti, in attesa della rivincita, di contare uno per uno i loro avversari. […] Ma in quel luglio caldo e felice, aperto alla speranza, pensavamo soltanto che la guerra doveva finire, anche se le disposizioni del maresciallo Badoglio ci apparivano incomprensibili e se le armate tedesche affluivano sempre più numerose, dai valichi alpini dell’Italia del Nord.

A Libero Evangelista, viceversa, la data dell’8 settembre richiama scene di tumulti che non possono rientrare in alcuna categoria di coscienza politica, anche se l’autore della memoria, tornato più tardi nella natia Romagna, scelse di battersi nella Resistenza.

«Garzone di bottega» di un famoso artigiano già da tempo trapiantato a Roma dalla Romagna, ho vissuto l’8 settembre 1943 quando, non ancora diciottenne, risiedevo nella capitale ormai da cinque anni. Abitavo in un misero alloggio a Villa Glori, il celebre ippodromo romano proveniente, solo e povero, da Cesena. Il ricordo di quella drammatica

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giornata dell’armistizio è in me ancora piuttosto netto, anche se non saprei ora cogliere, di quel momento, tutti i contorni del mio animo sconvolto, pieno di speranza ma anche di paura. Le parole «la guerra è finita» urlate dalla gente le ricordo assai bene. Nel quartiere Flaminio le strade non tardarono a colmarsi di vocianti romani (soprattutto romane) convinti, come lo ero io, che la guerra fosse veramente finita. Questa illusione, come si sa, durò poco: appena il tempo necessario ai tedeschi di riorganizzarsi e di occupare l’intera città.

Di quella giornata ricordo ancora i soldati italiani scappare da ogni parte, le armi abbandonate nelle strade ed io stesso che, forse presago degli eventi successivi, raccolsi una luccicante pistola che portai con me a Cesena, ed ho poi conservato per tutto il periodo della Resistenza cui ho partecipato nella 29ª Brigata GAP «Gastone Sozzi». Ricordo anche il rumore cupo della battaglia di Porta San Paolo tra tedeschi e soldati italiani lasciati soli contro l’invasore, traditi dalla vigliaccheria del re, di Badoglio e degli alti gradi militari fascisti. Trascorsi quell’8 settembre ’43 quasi interamente nella trattoria «Gigetto», all’Acqua Acetosa, ove si riunirono subito alcuni antifascisti. Seppi a guerra finita chi fosse in effetti Gigetto: un compagno comunista attivo anche sotto la dittatura, divenuto poi amico personale di Palmiro Togliatti e di altri esponenti del Partito. Nella trattoria «Gigetto» vi era sempre qualcosa da mangiare nonostante il razionamento. La sua generosità giungeva a saziare anche quelli, come me, che non sempre potevano pagare il conto. Ma ciò che riempie il ricordo del mio 8 settembre ’43 è un episodio straordinario: l’assalto dei romani al campo Dux per accaparrarsi di un tozzo di pane e di qualche chilogrammo di fettuccine. Il campo Dux era situato tra Ponte Milvio e lo stadio Flaminio. L’accampamento accoglieva giovani fascisti avviati al credo mussoliniano. Alla notizia che la guerra era finita i baldi giovanotti ed i loro imboscati istruttori scapparono tutti a gambe levate tra i lazzi dei presenti e qualche scapaccione. Io mi trovai sul posto e fui tra i primi a buttarmi nella mischia: in un baleno il campo cominciò a brulicare di gente rumorosa, principalmente donne e ragazzi, che arraffava tutto ciò che capitava a portata di mano. Negli assalitori non vi era nessun intendimento bellicoso: obiettivo dell’«aggressione» era la dispensa dell’accampamento che sapevamo stracolma di ogni ben di Dio: pane, pasta, farina, salumi, scatolame, eccetera. Porto ancora nitido il ricordo di una giovane donna e dei suoi tre figli mentre gioiosamente sgranocchiavano una grossa pagnotta di pane rassodato. In poco tempo – forse un’ora, forse meno – l’intero campo fu messo a soqquadro. Io vissi quel momento frenetico tutto preso dall’entusiasmo, inconsapevole di quanto doveva poi avvenire nelle ore e nei giorni successivi. Una specie di torpore susseguente all’«assalto» (forse dovuto al fatto di aver trangugiato con avidità e in grande quantità tutto quanto avevo poche ore prima razziato) svanì presto, sopraffatto dal rumore dei cingolati tedeschi. Da quel momento Roma cadde sotto il terrore nazista.

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Per molti, tra le ansie e le paure, sembrano emergere anche certezze, orgoglio, volontà di riscatto. È difficile tuttavia valutare quanto la memoria riproduca stati d’animo e cambiamenti effettivamente vissuti in quei momenti e quanto invece non ceda alla suggestione che la fa adeguare a scelte e convinzioni più tarde.

E in quel tumulto di emozioni e sentimenti si impongono immagini e persone inconsuete, destinate a risvegliare sentimenti di solidarietà e di affetto rivolte a sventurati sconosciuti. È la voce di una donna, Michelina Michelini, che abbiamo già incontrato quando descrive l’insensato muoversi dei treni nella stazione di Firenze, a portare in primo piano questo sentire. «La giornata passa in una tensione immensa, i treni passano carichi di uomini, uomini vestiti con pantaloni corti e maglietta, ai piedi scarponi militari, si dice che sono soldati scappati in tempo ai tedeschi, tutto si dice e tutto viene taciuto».

Michelina ha profondi motivi personali per essere sensibile a quella visione, un fondo di speranze individuali, legate ad affetti e a legami che la guerra ha brutalmente sospeso: «Non dimenticherò mai la sensazione che mi pervase», quando la raggiunse la voce che

arrivava la pace, la fine di tutto, di tutti gli orrori, oh! finalmente, ecco il momento tanto atteso, l’esercito smobilitato, questione di giorni, di poco tempo, poi tutti a casa, le famiglie riunite, i bimbi con i loro papà, il sorriso sulle labbra di tutti, finisce l’orrore della guerra, l’angoscia di quella lontananza che sfibra... e la voce della radio continua: «Sarà preso le armi contro chiunque ostacoli la nostra pace». E una domanda viene istintiva: E i tedeschi? Che faranno i tedeschi? Ma Badoglio avrà pensato certamente anche a questo, via finalmente i tedeschi, pace completa tutti a casa! E il cuore batte, freme di gioia, di speranza, di amore. Mino batte le mani, pallido di gioia come me: questa volta la «guella» è finita davvero! Povero piccinino, ricorda la falsa notizia divulgata ai primi di agosto, che aveva suscitato in lei e nel bimbo la speranza che la pace fosse arrivata e che il padre e marito stesse per ritornare.

Quei giorni e quelle ore dell’8 settembre 1943 sono i momenti più torbidi. Nei diari spesso è difficile scorgere quel filo di una speranza che era sembrato potesse emergere dalle manifestazioni di strada, dagli scioperi operai della fine luglio e della metà agosto 1943 – non più nascosti dalla stampa, come era avvenuto nel marzo precedente – e dal pubblico dichiararsi di una opposizione politica che voleva fermare la sciagurata deriva di una sconfitta

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senza rimedio e di una prigionia sotto il tallone tedesco. Diari e memorie parimenti sembrano ignorare per lo più quei fatti, sottaciuti o di scarso peso nella vita quotidiana. Il solo dato positivo è la solidarietà nascente dalla comune sventura, che rappresenta l’ancoraggio più saldo e concreto. «Giornate dell’ansia e dell’affratellamento», – le definisce ancora Mario Tutino che aggiunge a rafforzare e suggellare la volontà di tornare a essere nazione per vie ben diverse da quelle praticate dal fascismo:

Per ognuno è carità anche la parola raccolta per via dallo sconosciuto, dall’umile; ecco che finalmente l’uomo cerca l’uomo. Ma le notizie che giungono via via sono tali da stemperare e dissolvere tutto ciò che nell’intimo reggeva ancora come cemento di una idea profonda o meglio di una profonda intuizione dell’unità sociale a cui s’apparteneva, (qualche cosa, ma qualche cosa di essenzialmente diverso si va sostituendo tuttavia, e suggerisce che a quell’unità apparteniamo ancora).

Tutto si svolge nell’incertezza e nell’inquietudine. L’annuncio dell’armistizio scatena le reazioni più traumatiche, e non meno drammatica e profonda è la successiva disillusione.

Badoglio annuncia alla radio che l’Italia si è arresa al nemico, la guerra è finita, tutta la popolazione si riversa per le strade, felici ci abbracciammo. L’incubo era finito, finalmente si pareva tornare a casa: illusione! il giorno dopo avvenne l’invasione tedesca con i carri armati, mitra puntati, rappresaglie e deportazioni.

Alle tre del pomeriggio un treno pieno di Alpini, si ferma alla stazione del Campo di marte, vengono da Tolone,

ricorda Michelina Michelini, angosciosamente aggrappata al suo pensiero dominante del ritorno del marito, del padre del suo bambino.

Scappano davanti a chi, a che cosa? Molti non tornano nei vagoni da cui sono scesi, hanno trovato abiti borghesi, torneranno alle loro case e saranno salvi. E così comincia la vera attesa. Arriverà anche Gigino? Rientreranno subito? Intanto fuori circolerà la voce che Hitler ha chiesto anche lui l’armistizio e si parla di pace vera... si saprà domani che è tutto falso.

I treni tuttavia camminano e – per quanto possa sembrare incredibile – gli italiani intraprendono anche in questa stagione, in queste circostanze, viaggi resi necessari dall’urgenza di proteggere se stessi, le famiglie, i bambini dalle vicende belliche.

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Ed ecco il primo dei tanti viaggi che i diari ci tramandano:

Quando arrivammo a Borgo Panigale [la protagonista viene da Firenze per accompagnare a Bologna una bambina sua parente] ci fermarono perché i treni non entravano in città. […]. Si scende tutti in una confusione totale, con delle valigie pesantissime, con questa bambina per mano, una città che non conoscevo... Tutta gente che correva, solo camionette con fascisti e tedeschi; giovani non ne vedevi, fermavi qualcuno e quello ti diceva: «Non sono di qui» ed erano militari che scappavano vestiti in borghese, perché la popolazione li aveva aiutati.

È il ricordo di Albertina Tonarelli, giovane sarta ventiduenne di Sestaione, frazione del comune di Cutigliano (Pistoia), che esercitava il suo mestiere a Firenze.

Il racconto, singolarmente vivace, ci porta nel mezzo di una folla variopinta e sbandata, nella quale nessuno è quello che sembra. Prosegue Albertina Tonarelli,

Chiesi a due uomini in tuta da lavoro se sapevano quando sarebbero ripartiti i treni. Essi mi risposero: «Eh, signorina, anche noi si vorrebbe sapere!» «Perché?» «Perché siamo ufficiali dell’aviazione – bisbigliarono e aggiunsero – Sarebbe disposta a portare del pane al campo d’aviazione?» «Io sì, però da sola quanto pane posso portare? Come avete fermato me, si può fermare della altre ragazze. Se il pane ce l’avete…» «Il pane c’è: c’è un fornaio che ce lo dà». Nel tempo che si discuteva questa cosa, arriva uno in bicicletta con una tuta da imbianchino e questi dicono, sempre a bassissima voce: «Ecco il nostro comandante». Questi si avvicina a loro «Comandante, ci dica!» e lui: «E questa chi è?» Non ebbi tempo di parlare che risposero «No comandante, lei è dei nostri. Ci dica che cosa si deve fare». «Ragazzi, il campo d’aviazione è blindato, hanno portato via tutti quelli che c’erano, disarmati, degradati e messi su camion. Voi andate dove potete, raggiungete le vostre case. Andate via perché qui è un caos, ognuno per conto suo».

«Come sempre accade quando gli avvenimenti assumono una certa tragicità, tutti siamo oltremodo impressionati», riflette da Firenze Maria Alemanno, parimenti angosciata per la lontananza di un amore,

anche l’Ada ha dovuto ricredersi della fugace gioia del primo momento [per l’armistizio] e convenire che è peggiore il rimedio del male. […] Già da ieri correvano le voci che autocolonne tedesche erano in marcia verso Firenze, ci illudevamo che al momento dell’invasione ci avrebbero avvertiti per darci tempo di rifugiarci nelle nostre case, ma sempre

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pensiamo cose che non accadano mai: i Tedeschi sono entrati calmi e tranquilli e hanno preso possesso della città senza che nulla sia avvenuto, forse è meglio così! Certo è stato impressionante lo stesso, qua in centro non ne sapevano niente, verso le 11 di questa mattina mia sorella mi ha telefonato dicendomi di andare subito a casa perché i Tedeschi erano in P.zza San Marco al Comando. Non lo nego, un certo tuffo al cuore l’ho avuto, anche perché, consapevole dei conflitti avvenuti nelle altre città, mi aspettavo qualcosa di simile anche a Firenze. Ma i Fiorentini sono dei buoni, poveri diavolacci e prendono tutto con filosofia.

Sono commenti per certi versi ingenui, e probabilmente costituiscono un saggio rappresentativo della percezione che la gente comune ebbe degli accadimenti: «C’è in giro un’aria di sgomento che innamora: si parla di fame, di carestia, di guerra vicina, la vera guerra, di depredazioni furti e peggio! Sarà vero?

Cerchiamo di mettere in casa delle provviste di quel poco che si trova». E di fronte allo sciamare degli uomini del disciolto esercito, commenta: «Tutti tornano disarmati, avviliti, stanchi con un gran sgomento nel cuore. Poveri ragazzi! Il governo Badoglio pare si sia rifugiato a Palermo. Possibile che ci abbia gettato in questo immane disonore?? Chissà qual è la verità!»

A lei fa da contrappunto, l’11 settembre, con una reazione emotiva come sempre molto pronunciata, Michelina: «A mezzogiorno le strade sono deserte, tutti sono terrorizzati dai tedeschi. Nessuno deve uscire, tutti in casa, la paura è grande e cominciano a passare anche da via Marconi le prime macchine di guerra, quei soldati ti guardano in faccia come se fossero loro i padroni della nostra terra».

Da Torino invece la figlia di una famiglia di buona borghesia, Maria Assunta Fonda, che più tardi nella Resistenza militò nel Movimento Lavoratori Cristiani, ci racconta un tentativo fallito di opporsi all’occupazione della Wehrmacht:

il 9 settembre vidi tutti i soldati della «Provvidenza» [una caserma di Torino] uscire armati dalla loro caserma ed appostarsi sul sagrato della Chiesa, dietro i platani e sotto le panchine di pietra, con a capo i loro tenenti, ben decisi e pronti a far fuori tutti i Tedeschi che si fossero presentati per occupare la loro caserma. S’appostarono lì alla mattina verso le dieci e rimasero inchiodati tutto il giorno ai loro posti, senza mangiare e senza riposare. Noi li guardavamo con ansia dalle fessure del cancello, col cuore in gola, aspettando ad ogni istante di veder comparire dalla salita i mezzi corazzati tedeschi e di sentire scoppiare ad un tratto la sparatoria sulla piazza. Anche noi restammo lì dalla mattina a sorvegliare il sagrato

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fino alle cinque del pomeriggio. Alle cinque suonò il telefono in caserma, arrivava l’ordine di un maggiore o di un colonnello traditore da Pinerolo agli ufficiali della compagnia, di rinchiudere i soldati in caserma e di disarmarli, in attesa di altri ordini. Gli ufficiali ubbidirono, fecero rientrare i soldati sgomenti e preoccupati, perché avevano capito ancora prima dei loro superiori che cosa sarebbe loro capitato. In tutta l’Italia successe così.

Lontano dalle città la percezione degli avvenimenti è ancora più complessa e penosa. Margherita Ianelli, contadina quasi analfabeta che a cinquant’anni ha imparato a scrivere e che ha redatto una lunga memoria della sua vita, ricorda come il marito – che lei ha sposato nell’aprile 1943 – fosse stato richiamato alle armi poco dopo il matrimonio.

Un’altra retata di uomini anche se non validi vennero richiamati alle armi, anche se in condizioni fisiche non troppo buone, ma quelli restavano a far servizio in Italia. Erano gli ultimi sforzi che faceva il Duce per raggiungere a quella benedetta vittoria che le stava sfuggendo sempre di mano. Mio marito fu mandato a Modena; ma dopo una quindicina di giorni ci fu un ripensamento, forse il Duce si era ricordato della battaglia del grano, in quelle famiglie di contadini che a casa non [avevano] nessun uomo; furono mandati a casa con una licenza di un mese. […] per il Duce fu l’ultima battaglia del grano perché la fine di luglio si seppe che il Duce non era più il grande capo; ma addirittura l’avevano imprigionato. Fu una notizia che arrivò su tutti i punti della terra. Nella nostra zona la gente si riversò nei paesi, tutti urlavano a più non posso. Chi gettava le immagini del Duce dalle finestre e altri le calpestavano e gli sputavano sul viso Ma l’urlo immane fu quello che tutti dicevano: «Finalmente siamo liberi e potremo parlare».

Nella memoria quell’entusiasmo non la contagia. Margherita è una donna che ha molto sofferto fin dalla prima infanzia, adusata a non farsi illusioni, conscia della fallacia delle speranze.

La guerra continuava, le notizie giungevano confuse. Chi diceva che il potere era passato nelle mani del Re, chi invece diceva nelle mani di Badoglio. Ma sicuramente nessuno dei due aveva sicuramente il potere, perché l’otto settembre successe il vero patatrac. Che strano giorno che fu per noi montanari! Quel giorno fu la gente del paese a correre per le campagne e a urlare: «È finita la guerra!» […]. Quei pochi uomini che c’era andarono a suonare le campane. Ma quando arrivammo alla chiesa di Monzuno [un paese a circa trentasei chilometri da Bologna, 600 metri di altitudine, nella zona di Monte Sole dove avvenne un anno dopo la più nota delle stragi di civili] Don Castelli disse: «Ragazzi, andate pure a

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suonare ma la guerra deve ancora incominciare per noi italiani». Ci furono di quelli che sentendo le parole di quel prete gettavano le braccie all’aria dicendo che non era vero. Altri gli chiedevano il motivo perché la guerra doveva ancora incominciare, lui disse: «Sono stato in paese a comprare il giornale e parlano delle nostre truppe allo sbando, il Re e Badoglio hanno voltato le spalle alla Germania e sono andati con gli alleati. I tedeschi ci dicono che siamo dei traditori e stanno invadendo l’Italia». Quel giorno fra tanto chiasso finalmente venne la sera, ma le campane ancora suonavano a festa. Poi subentrò la notte e anche il silenzio. […] ma a me le parole di Don Castelli mi facevano meditar; lui aveva studiato e ci vedeva lontano, non era dei zappaterra come noi.

E in effetti nei mesi seguenti Margherita deve affrontare esperienze tragiche: vive nella zona di Monte Sole, nel cuore di un’area che diventò cruciale per le organizzazioni partigiane e per le truppe tedesche quando dovettero impegnarsi nella difesa della Linea gotica. Nulla di questo sarebbe stato prevedibile, allora, ma Margherita proietta le sensazioni del futuro su quei giorni cruciali. Tra la sua vicenda personale e lo sfacelo collettivo si instaura una relazione che nei mesi seguenti guidò il suo sentire e le sue scelte, il cui carattere è già avvertibile nella freddezza accompagnata a pietà con cui guarda ai soldati italiani in fuga.

Il mio stato di gravidanza era avanzato, avevo avuto anche il premio di cinquecento lire, che il Duce donava alle mamme in attesa […]. Così dopo un paio di giorni di tutto quel chiasso, mi recai in paese con le mie cinquecento lire a comprare un corredino per il nuovo [figlio] in arrivo. […] vidi un gruppetto di militari, che stavano togliendosi le divise, altri uomini gli davano abiti borghesi. Appena cambiati andavano via di corsa lasciando a terra armi a terra. Un uomo più anziano raccoglieva armi e munizioni e tutto metteva sopra a un carretto, man mano che le caricava diceva: «Queste armi serviranno ancora!» Altri dicevano: «Te le pianterai nel sedere, sono bastati più di tre anni di guerra che vedremo se qualcun’ altro ce le farà riprendere in mano». Mi fermai un attimo a guardare quella scena, poi ripresi il cammino, strada facendo vedevo altri militari scappare, alcuni avevano ancora la divisa, altri vestivano con abiti civili. Camminavano fuori strada, per i campi, lungo i boschi.

Tra le truppe dislocate all’estero lo sconcerto e il disorientamento sono ancora più grandi e hanno risonanze ancor più drammatiche che non nel territorio metropolitano. In Dalmazia, ricorda Aurelio Bernardi, soldato della divisione Emilia, l’annuncio di Badoglio dà il via a una «baldoria» ma anche ai «contrasti

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tra gli ufficiali»: «c’è chi vuole essere fedele al Duce, chi vuole seguire le direttive di Badoglio, altri che non vogliono sapere né dell’uno né dell’altro e pensano solo alla pelle». Un piccolo campione dell’Italia misera, a cui tuttavia nemmeno manca l’ultima e più nobile parte: nel «fuggi fuggi generale […] qualcuno con mia sorpresa va verso i monti dai partigiani». È forse la prima traccia di «un’Italia stracciona, dolente, ma generosa e viva», come la rievoca Ercolino Ercole nei suoi «Ricordi», dopo il tragico 8 settembre?

Lontani dall’Italia, sui fronti di guerra, i giovani inquadrati nelle truppe d’occupazione nei Balcani devono affrontare una situazione di cui loro, soldati semplici, non sanno nulla: «non riesco a capire perché [i tedeschi] ci stanno sempre alle calcagna, oggi 20 agosto [1943] ad esempio, la guardia Tedesca non mi rivolge più la parola, mi guarda con distacco, direi con rabbia e più tardi quando smonta di guardia, mi fa il nome di Badoglio e sputa in terra in segno di disprezzo», scrive Aurelio Bernardi, che compì poi un percorso quanto mai doloroso verso i campi di internamento, uno dei seicentomila Internati Militari Italiani. Con l’annuncio dell’armistizio all’8 settembre, i dubbi si dileguano e di lì a pochi giorni, per l’unità in cui Aurelio Bernardi è inquadrato, si apre un vero e proprio confitto armato, che dura tre giorni, con le truppe del Reich.

La maggior parte dei soldati rimane unita, è scioccata dagli eventi e non sa se seguire il dovere o lo sfacelo, c’è di che piangere ed io ho pianto. Per fortuna il mio Battaglione rimane compatto al comando del Colonnello Manzelli di Mercato Saraceno. Vuole condurci nel porto di Cattaro dove ci sono due navi dirette in Italia. Durante la marcia, all’alba del 12 settembre i Tedeschi ci bloccano la strada e pretendono la nostra resa. Intanto sappiamo con certezza che il comando generale si trova già al sicuro in Italia. Il nostro Colonnello con qualche altro ufficiale cerca di serrare le fila e ci ordina di appostarci sulle colline di Igolo per dare una risposta ai Tedeschi dal momento che ci hanno impedito il rientro in Italia. Sono le ore 20, gli ufficiali ci avvertono che l’attacco ai Tedeschi è fissato per le ore 2 dopo la mezzanotte, e mentre cerchiamo di riposarci alla meglio tra le rocce, penso con angoscia allo scontro che sarà senz’altro duro. All’ora esatta prevista inizia lo scontro a fuoco; una batteria sul paese di Cruda, dove c’è il comando Tedesco e dove sono prigionieri una parte del nostro battaglione. Noi siamo disposti in questo modo: una compagnia sulla pianura tra i vigneti, una compagnia sul lato del monte e la mia disposta lato a mare. Quando siamo arrivati vicino al paese troviamo i Tedeschi già piazzati, coperti da muretti di pietra, che iniziano a fare fuoco con le loro

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armi automatiche. Cadono sul terreno molti compagni, a me cade vicino ai piedi un amico di Perugia crivellato di colpi alla nuca, ed io sconvolto non riesco ad essere più sicuro di quello che faccio, non riesco a fare più niente, in questo momento potrei essere ucciso facilmente e per fortuna non mi è successo niente ed è incredibile. Adesso andiamo avanti allo sbando, vedo Tedeschi a non più di 30 metri che lanciano bombe a mano, altri che sparano da sopra i tetti, i feriti invocano aiuto. Ci muoviamo in mezzo a questo fuoco, trascinandosi dietro la mitraglia completamente inefficiente, e quindi ingombrante. Il tenente Vannucci, Toscano, mi ordina di piazzare la mitraglia sul campo di aviazione, ha visto dei tedeschi che fuggono in fila indiana. Mi chiede se li vedo ed io rispondo che sono dei nostri, senz’altro quelli della 3ª Compagnia che tentano di accerchiare il campo. C’è una confusione tremenda. Il tenente non ha dubbi dice che sono Tedeschi e mi impone di nuovo di fare fuoco, ma mi accorgo all’improvviso che non riesco a sparare, non so cosa mi succede, non riesco, è più forte di me; dò un calcio alla mitraglia e subito dopo l’attendente del Tenente impugna l’arma ma ormai è già tardi, sono tutti sfilati via. Sono le ore 15 del 14 settembre 1943, i Tedeschi si ritirano verso Ragusa [Dubrovnik], ma prima fanno saltare in aria la nostra polveriera. Io e il mio plotone siamo dentro il recinto della polveriera e tentiamo di disperderci tra gli scoppi tremendi. Quando si fa sera, tutto ritorna calmo, c’è silenzio tra i vivi […]. Al mattino del 15 settembre quando ancora è buio i Tedeschi passano al contrattacco di sorpresa e dopo violenti combattimenti ci mettono in ritirata per mancanza di comando. Siamo ormai allo sbando generale, continuamente martellati da 4 Stucas che ci sorvolano mitragliando 2 alla volta. C’è stanchezza, ma più che mai sfiducia nelle nostre possibilità perché ci manca il comando. […]. La notte fra il 15 e il 16 settembre ci troviamo tutti a Igolo ci sono anche molti Alpini; siamo forse mille o più non so; quello che so è che non c’è più nessuno che ci comanda. Appena è l’alba abbiamo ancora sulla testa i due Stucas pronti a fare una carneficina; […]. Ma solo venti minuti più tardi […] ci lanciano dei manifestini con questo comunicato: «Tutti gli Italiani da Atene a Fiume si sono arresi ai Tedeschi solo la divisione Emilia fa resistenza, arrendetevi altrimenti non adopreremo clemenza!»

Per noi ora è finita, non abbiamo scampo, finiscono cosi tre giorni di scontri e mentre gli Stucas sfrecciano minacciosi sul litorale, decidiamo tutti assieme la resa alzando asciugamani e fazzoletti. Dopo un’ora arriva un generale Tedesco con autoblindo che parlandoci in italiano ci assicura di volerci fare rientrare in Italia via Fiume, e ci avverte che le nostre armi devono essere consegnate a Cruda la sera stessa.

Il racconto non si discosta dalle linee note della tragedia, in cui i soldati semplici lasciati a se stessi tentano anche reazioni in difesa del proprio onore e della propria vita, ma restano abbandonati – salvo eccezioni – e devono arrendersi alla superiorità militare tedesca.

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Qui si raggiungono i punti più alti dello sconforto, tanto più doloroso in quanto – lontani dal paese – i soldati non possono in alcun modo sapere quali siano le reazioni dei loro compatrioti. E questa solitudine «collettiva» dei soldati italiani all’estero e l’impotenza che ne consegue sono in certo modo la metafora più evidente della condizione umana dell’intero paese. Di questa condizione le fondamenta sono in realtà più lontane di quanto la memoria non suggerisca ai singoli. In ciascun italiano c’è un passato, c’è il rapporto con il regime fascista e con l’Italia che l’aveva accettato: ed è questo che pur in vario modo lo vincola. La coscienza che ciascuno ha del proprio passato, il cumulo delle esperienze sono tasselli decisivi nell’identità dell’Italia del 1943.

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II. Le eredità del passato

La memoria del fascismo è il campo di una battaglia ideale in cui ancor oggi si affrontano gli opposti schieramenti del fascismo e dell’antifascismo; ma in quegli anni decisivi fascisti e antifascisti erano inframmezzati dai plotoni degli indecisi, dei neutrali, e di coloro che serbavano la loro fedeltà per valori diversi, non necessariamente più alti o, al contrario, meno degni di rispetto. Negli anni cruciali del 1943-1945 questa complessità di idee e di scelte si è fissata in modelli ripetuti nei decenni seguenti, e nemmeno la distanza del tempo ha stemperato l’acredine dei vinti o la collera dei vincitori.

I diari e le memorie riflettono l’universo primigenio da cui è nata la coscienza degli italiani nel dopoguerra; e rileggere e ripensare queste testimonianze aiuta anche a capire sia le incertezze, sia le indecisioni della coscienza civile degli italiani, sia la violenza e la tenacia delle certezze acquisite. Sovente sono quanto mai labili e confusi i ricordi della vita prima del conflitto. Per la gran parte, benché non per tutti, agisce una idealizzazione del passato, che si manifesta in modi anche opposti, con l’inasprimento o l’addolcimento dei sentimenti e delle stesse circostanze in cui i ricordi si collocano, soprattutto quando affiorano temi cruciali per comprendere la collocazione personale e ideale delle persone. Nemmeno su quello che sembrerebbe dover essere il cuore della memoria per il periodo fascista (il si o il no alla dittatura) è facile cogliere se ci sia stata e che valore abbia avuto l’adesione al fascismo, alla sua cultura e alla sua ideologia. O se ci sia stata partecipazione all’attività organizzativa del regime. Né è più semplice capire quale sia stato l’orientamento nei confronti delle opposizioni antifasciste.

Se si fa eccezione per coloro che hanno sperimentato una presenza attiva nell’antifascismo fin dagli anni del regime trionfante

(ma sono una minoranza), verso il regime prevale un giudizio che per lo più sottolinea i dati grotteschi della dittatura, senza esprimere con nettezza il rifiuto e il distacco. Pochi hanno avuto la possibilità di conoscere identità o programmi dei gruppi antifascisti; hanno maggior valore le esperienze personali, i dati affettivi, le condizioni sociali: son tali requisiti ad aver posto le premesse perché le donne e gli uomini potessero scegliere un campo o l’altro.

Nei diari e nelle memorie dell’Archivio di Pieve Santo Stefano, dominano gli aspetti più strettamente personali, le esperienze infantili e giovanili, le quali diventano quasi senza eccezione il motore delle scelte adulte. «Da bambina mi trovai adulta». Così leggiamo in una memoria femminile, di Fidalma Gatto, livornese, figlia di una famiglia di modesta condizione:

La guerra portò la carestia, mamma andava a fare la fila per poterci comperare qualcosa da mangiare. La notte si alzava da letto alle ore 03:00 per mettersi in fila per il carbone. Io naturalmente mi occupavo del piccolo Roberto e con tanto amore. Finisco la seconda elementare, la maestra De Lucchese mi boccia per la condotta – perché parlavo troppo. Ci rimasi molto male ma nello stesso tempo ero contenta perché non l’avrei avuta l’anno successivo e non avrei più subito le sue bacchettate sulle mani. Ricordo con affetto la nuova maestra. Superai l’anno brillantemente, fui figlia della lupa e mi piaceva molto.

E Bruna Talluri, che dalla famiglia aveva ricevuto stimoli critici verso la dittatura, sintetizza così il tono dell’educazione scolastica: «La mia generazione è cresciuta al rullo dei tamburi, insaccata nelle divise nere, con l’incubo di non essere abbastanza spartana per seguire, armi a tracolla e petto in fuori, il passo della rivoluzione».

Tuttavia nella scuola, luogo di socializzazione per eccellenza, sono in tanti a cogliere, specialmente se di condizione modesta, il sapore amaro dell’emarginazione, conseguenza di una discriminazione politica o sociale, su cui torneranno a riflettere nei momenti cruciali dell’estate 1943. E discriminazione politica o sociale spesso non sono separabili perché la spesa dell’iscrizione al Fascio non può essere affrontata alla leggera dalle famiglie più povere.

La scuola l’ho frequentata a S. Giorgio di Piano [in provincia di Bologna], al tempo in cui eravamo già braccianti ed abitavamo a Stiatico – scrive Zelinda Resca, in futuro staffetta partigiana – Abitavamo a circa

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tre chilometri da quella frazione, in una vallata piana con al centro una casetta che ognuno chiamava come voleva. Un tempo era stata la casa del custode della vigna e tutto intorno c’erano dei filari di uva bianca e nera. Da casa nostra a S. Giorgio c’erano più di quattro chilometri da fare quasi sempre a piedi: qualche volta, lungo la strada, incontravo mia sorella che tornava dal turno del mattino e mi dava la bicicletta, l’unica bicicletta di tutta la famiglia. Quando potevo averla si andava molto bene. In quel tempo eravamo in pieno periodo fascista. Tutti i giorni, durante le lezioni, si usciva un’ora all’aperto per fare ginnastica: poiché la scuola era vicina alla chiesa ci facevano correre intorno al campanile. Ci seguiva un Maestro Caposquadra che non ci dava tregua. Voleva che andassimo sempre più veloci. Quando, assieme alle altre bimbe, giocavo a «Madama Dorè», la prescelta era sempre la figlia del Podestà; a me non toccò mai una volta: ero oggetto di discriminazione, come del resto anche mia sorella e la ragione era che non avevamo la divisa da «Giovane e Piccola Italiana». In casa nostra nessuno l’ha mai avuta e di conseguenza, in ogni circostanza, eravamo sempre le ultime.

Per Maria Talluri, viceversa, i ricordi di quegli anni sono materia di riflessione, un monito a non considerare quella come un’esperienza da dimenticare, conscia quanto essa abbia inciso nella vita dell’intera nazione.

Mentre scrivo mi chiedo se questi racconti possono servire ad illuminare, nella loro semplicità, un periodo tormentato della storia del nostro paese, filtrato attraverso le esperienze soggettive di molti di noi, che, sia pure non protagonisti degli eventi più significativi della nostra storia, subirono il contraccolpo delle vicende drammatiche che sconvolsero il mondo. Per quel che mi riguarda, scriverò quanto la mia memoria ha conservato intatto di quegli anni, testimoniando con questo breve racconto che anche nella vita di ogni giorno il fascismo e la guerra avevano lasciato il segno in ognuno di noi.

Per Maria il processo di ripensamento e il successivo rifiuto del fascismo si apre quando,

nel giugno del 1940, fummo radunati in piazza ad ascoltare il discorso del Duce. Mussolini annunciava l’entrata in guerra dell’Italia al fianco della Germania e questa notizia provocò in me un effetto sconvolgente, convinta fino allora che Mussolini, nella sua «politica illuminata» non avrebbe spinto il paese nell’avventura della guerra. Dopo aver ascoltato il discorso roboante [sic] del Duce mi sentii tradita. Il confronto fra quanto ci avevano insegnato e ciò che stava accadendo mi indusse a mettere tutto in discussione.

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Sembra un percorso del tutto ingenuo, una rivelazione improvvisa davanti a una realtà inattesa. Ma le stesse memorie rivelano altri particolari, che mettono in dubbio l’ingenuità del risveglio e del passaggio da «tutte le implicazioni legate alla retorica del regime a una realtà diversa da quella che gli adulti mi avevano insegnato mediante il continuo bombardamento psicologico che avevo subito a scuola». È la madre, con i ricordi della prima guerra mondiale e delle sofferenze che ha dovuto subire, ad accendere la miccia che porta alla rottura col mondo fino ad allora consueto ed accettato:

Tornata a casa – dopo il discorso di Mussolini – trovai la mia mamma in grande agitazione. Aveva ascoltato il discorso trasmesso per radio e già intuiva ciò che sarebbe successo dopo. Sapeva benissimo quello che ci aspettava, lei, che nata e vissuta in Friuli, aveva subito durante la prima guerra mondiale le alterne vicende degli eserciti austriaci e italiani che si rincorrevano nelle pianure del Piave e del Tagliamento, costringendo gli abitanti a fuggire e vivere da profughi a sud o a nord delle linee di combattimento.

E infine l’evento veramente decisivo per la sua scelta.

Frequentavo la prima liceo classico. Quel giorno […] tornata a casa […] suonò il campanello: era mio zio, fratello del mio babbo, che appena entrato in casa ci disse: «state calmi, non è successo niente di grave», le solite frasi preliminari per annunciare spiacevoli avvenimenti che in luogo di calmare gli animi suscitano immediate reazioni di allarme. La frase successiva venne fuori dopo qualche secondo: «Gigi [il padre di Maria] è stato arrestato stamattina e portato al carcere di Santo Spirito, è accusato di antifascismo». Ci guardammo l’un l’altra, mia mamma, mia sorella ed io, smarrite e incredule, chiedendoci e chiedendo: «Ma che cosa ha fatto?» «Niente, cioè poco», rispose mio zio, «sembra che dal barbiere si sia lasciato andare a parlar male di Mussolini sostenendo che ci avrebbe portato alla rovina. Nel negozio c’era una spia fascista che lo ha denunciato e così, per dare un esempio alla cittadinanza, lo hanno preso e portato in prigione». Quel giorno di marzo, che pareva un giorno come un altro, segnò la mia vita, segnata dalla presa di coscienza di una realtà fino allora impensata.

Nel ricordare le cerimonie del regime Ester Maimeri riesce a svelare anche la natura del loro fascino per i giovani e per i giovanissimi in quanto quei riti erano capaci, con il loro corredo di falsi gradi e di orpelli, di catturare la vanità o forse solo il desiderio di una bambina di essere accettata e valorizzata.

Ester ricorda le parate e i raduni obbligatori della sua infanzia

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con contraddittoria ironia: riflesso di una contraddizione più grande perché tutto il suo racconto dell’esperienza della guerra in Valdossola (sedicenne opera come staffetta dei partigiani) si conclude, a oltre cinquant’anni di distanza, con una riflessione «pacificatrice» che si direbbe scaturire dai tragici episodi di cui è stata testimone. Racconta quindi:

Le adunate. È buffo, le rimpiango. Non mi dispiacevano anche se suscitavano il disprezzo mal represso di mio padre. Il sabato dovevamo essere sempre in divisa: a scuola la mattina, all’adunata nel pomeriggio. Siccome abitavo in albergo, un luogo pubblico, dovevo restare in divisa anche a tavola, durante la colazione ed il pranzo. Papà borbottava, non voleva mangiare avendo al suo tavolo una «vestida de pajasc». Le prime volte ero andata, con mia somma gioia, a mangiare di là, con Carla e Mario, i figli dei padroni. Poi si era rassegnato ed ero tornata a tavola con loro. Come ho detto, le adunate non mi dispiacevano, anzi, mi ritrovavo con le mie compagne di scuola nella palestra pubblica, finalmente lontane dagli occhi sempre vigili delle [suore] «Rosminiane» [di cui frequentava la scuola]. Passavamo il pomeriggio quasi sempre a giocare, a fare ginnastica, a far fare passeggiate su per il Calvario […]. D’inverno, quando era brutto, me ne stavo al riparo a sferruzzare completini destinati all’Opera Maternità e Infanzia. Come ero diventata «Giovane Italiana», mi ero messa in lista per gli esami di «capo squadra», dopo un anno avrei fatto quelli di «capo manipolo». I miei fratelli erano ufficiali (uno quasi), ed anch’io volevo un grado. Il pomeriggio degli esami attendo un po’ trepidante di essere chiamata. I comandi li so bene, in ginnastica sono tra le migliori. «Dimmi il giuramento del fascista.» mi dice un’amica anche lei in attesa. Accipicchia, non lo so, mi sono dimenticata di studiarlo. «Dillo tu», rispondo. «Nel nome di Dio e dell’Italia giuro di eseguire gli ordini del Duce...» veniamo interrotte dalla professoressa di ginnastica. «Maimeri, vieni, ho bisogno di te. Una ragazza della Iª liceo si è ammalata, ho bisogno di un rimpiazzo per gli esercizi.» Accidenti, domani al campo sportivo ci sarà il saggio ed io, oltre agli esercizi obbligatori della mia classe, avevo già dovuto imparare in fretta e furia anche quello della II media per sostituire una ragazza ammalata. «Devo fare gli esami, come faccio?» «Stai tranquilla, li farai, ci penso io, vieni che abbiamo poco tempo!»

È molto agitata. Ma non poteva trovare un parente più prossimo? Sono davanti a lei cercando di ricordarmi tutte le sequenze di un esercizio col cerchio. Una confusione: io pasticcio distratta anche dall’idea di non fare in tempo a fare l’esame, lei, agitata, mi confonde. Vedo che dalla palestra non esce o entra più nessuno. «E i miei esami? Mi pare che abbiano finito» dico timidamente. «Hai ragione, aspetta.» Va nella palestra e dopo un minuto mi fa cenno di entrare. Mi trovo davanti ad una commissione che sperava di avere finito. Sono piuttosto seccati. «Per prima cosa dì il giuramento del fascista.» Ci siamo, proprio quello per primo – Lancio un’occhiata di aiuto alla professoressa. «Nel nome di Dio e dell’Italia – attacco, un’altra

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occhiata – giuro, hmhm, giuro di eseguire – occhiata disperata – gli ordini del Duce e...» mi fermo facendo finta di riprendere fiato, tossicchio, non so il resto ma la professoressa arriva in mio aiuto, mi interrompe, spiega che ha assolutamente bisogno che finisca di imparare gli esercizi, altrimenti domani non potrà presentare la squadra col cerchio e devo ripassare anche quello della II media. «Come, fa gli esercizi di tre classi?» «Si, è un ottimo elemento, ma abbiamo poco tempo.» «Allora andate, via!» «E gli esami?» oso chiedere. «Non preoccuparti, pensa a fare il tuo dovere di Giovane Italiana e…» una pappardella, uno sproloquio, manco che il destino dell’Italia fosse nelle mie mani. Fu così che divenni «capo manipolo» (gli esami di capo squadra erano già stati messi a verbale e chiusi) e fu così che riuscii a mandare in tilt l’intera squadra col cerchio.

Un birichino rifiuto infantile si unisce così al disgusto per la vacuità dei cerimoniali, che il padre le trasmetteva.

Nei diari non mancano, com’è naturale, argomentazioni defensorie, modellate sull’autogiustificazione che imperversò nel cinquantennio seguente, e che per molti aspetti non si è più esaurita. È esemplare il comportamento di Domenico Sciamanda, notaio, arrestato da Bardi e dalla banda Pollastrini a Roma nell’autunno 1943 e tradotto in questura (viveva nello stesso stabile di un «certo» Claudio Pavone, pure lui arrestato negli stessi giorni per aver diffuso volantini sovversivi).

Sottoposto a interrogatorio, Sciamanda deve giustificare davanti a Bardi e a Pollastrini il proprio virare verso l’antifascismo; ma dall’altra parte deve anche giustificare, davanti alla propria coscienza, l’iscrizione al PNF.

Quando fu la mia volta, egli [l’autoproclamato federale Bardi] seduto alla scrivania con a lato il famigerato Pollastrini che faceva le funzioni di cancelliere, mi fissò negli occhi e dopo alcuni attimi: «Voi eravate iscritto al partito. Negate?» «Perché dovrei negarlo?» «Risponderete del vostro tradimento» «Traditore dell’idea!» confermò Pollastrini. Caddi dalle nuvole: «Io traditore dell’idea? – pensai – quale idea?» Sì ero iscritto al partito anch’io come milioni di italiani, avevo chiesto la tessera e indubbiamente quell’iscrizione era stata un atto di debolezza, sia pure con l’ultima anzianità del 31 luglio 1933. Allora funzionario statale avevo sperimentato nell’impiego – che era pane per me e per la mia famiglia – il significato della mancanza della tessera. Da quella debolezza ho cercato sempre di riscattarmi: malgrado i consigli e i pareri di amici non avevo mai voluto chiedere la retrodatazione dell’anzianità fascista al primo gennaio 1925, come me ne avrebbe dato diritto la qualifica di ex combattente, e solo di autorità ero stato iscritto alle associazioni del dopolavoro e del pubblico impiego. «Io traditore dell’idea? Quale idea?» riflettevo tra me.

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Nel resoconto di questo dialogo è palese il disagio di chi deve ammettere, dopo la fine della guerra, di avere aderito al Partito Nazionale Fascista; e di conseguenza Sciamanda sottolinea la sua estraneità sostanziale all’ideologia e alla fede fascista, ma aggiunge anche una sorta di chiamata di correo rivolta all’intero popolo italiano: «Mi ero iscritto al partito anch’io come milioni di italiani».

Tra quanti erano in giovane età, come Felice Malgaroli, è più facile incontrare ammissioni franche di aver condiviso i miti del regime. Figlio di un antifascista, Felice confessa di essere caduto nella rete delle mirabolanti promesse di grandezza e di gloria:

Le poche cerimonie politiche, non mi sembravano dannose, il sentirmi dire che saremmo diventati i futuri legionari del nuovo impero romano mi inorgogliva un po’ anche se dentro di me non mi sono mai sentito un guerriero. In fondo, ad una futura grande patria un po’ ci credevo, volevo bene a mio padre, ma il vecchio a fare il sovversivo forse si era sbagliato, infatti sapevo che noi avevamo i migliori aerei del mondo, i nostri fucili erano i più potenti ed i soldati italiani erano sempre stati eroici, gli ufficiali dei valorosi.

Anche per Felice, come per altri suoi coetanei nelle stesse sue condizioni di militari, la tragedia dell’8 settembre apre la strada al ritorno di ricordi, suggestioni, sentimenti percepiti nell’ambiente famigliare e sociale. Da cui verrà la spinta decisiva per una scelta di campo. Per i giovani allora militari sembra più facile che per altri fissare le cadenze e i momenti attraverso cui sono passati. Sono comuni per la maggioranza degli altri il sovrapporsi e il mescolarsi di reminiscenze. Sono spesso ricordi tutti negativi e luttuosi: i bombardamenti, l’insicurezza di una vita perpetuamente esposta alla delazione, la violenza dei «tedeschi» che compaiono nei ricordi come perennemente presenti, anche quando la cronologia del racconto vorrebbe che non fossero ancora insediati in Italia come occupanti; in taluni casi troviamo fortemente retrodatati anche i Comitati di Liberazione Nazionale, oppure l’avvio della guerriglia.

Più preciso quindi, anche per questi aspetti, il ricordo in chi ha vissuto la mobilitazione bellica. Le cesure sono nette e scandite dai tempi del servizio militare; e il servizio militare stesso segna un passaggio cruciale nella maturazione del rifiuto del regime. Racconta Aurelio Bernardi che nel gennaio 1943 viene richiamato e spedito a Padova:

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qui a Padova mi accorgo in maniera evidentissima della enorme differenza che corre tra la propaganda del Regime e la realtà. […] La tanto decantata efficienza è un fucile Modello 40 consegnatomi inefficiente seppur nuovo, una divisa rilasciata senza neppure provare la taglia ed in compenso durissimi esercizi di guerra tanto spinti da rischiare di rompersi l’osso del collo ogni volta, il tutto eseguito con lo stomaco più o meno sempre vuoto.

La vicenda dei richiamati è devastante per il morale dei coscritti, e Aurelio Bernardi nel suo diario ne dà un articolato ragguaglio: tre mesi di addestramento a Padova sono sufficienti per fargli comprendere che equipaggiamento e armamento sono difettosi e che gli ordini arrivano confusi. Quando poi il reggimento si muove da Padova per imbarcarsi e raggiungere il teatro d’operazioni nei Balcani, la truppa avverte che i trasporti sono malsicuri perché sulla nave che li porta da Fiume alla costa jugoslava i salvagente non sono sufficienti per tutti i soldati imbarcati; e, giunta a destinazione, apprende quale sia la violenza della guerra attraverso la sofferenza inflitta a popolazioni innocenti. Dalla costa jugoslava i coscritti vengono spediti sulle montagne del Montenegro, ad alta quota.

Vicino al nostro campo c’è un paese di vecchie case ricoperte con lastre di pietra. Questa povera gente ci guarda impietrita di dolore e di odio e mi rendo conto che ci sono validi motivi per averne […]. La permanenza dei tedeschi nella zona del nostro presidio provoca tensione fra la popolazione civile; almeno noi crediamo che dipenda da loro, anche perché non perdono tempo a fucilare gente innocente.

Sono tasselli decisivi del processo che porta allo sgretolamento dei miti della guerra e degli obiettivi indicati dal Fascio alla gioventù italiana. E diversi sono i temi che vi si intrecciano. Il carattere spietato della guerra tedesca si somma all’inefficienza dell’equipaggiamento italiano, per creare un senso di insicurezza, di inferiorità, di impotenza, da cui non tarderà a germinare la sensazione di essere «vittime e non aggressori», destinata a farsi giudizio autoassolutorio nel dopoguerra: «Il 10 maggio arriviamo sulla piana di Cracovia ed anche qui acqua e fango ci paralizzano completamente; abbiamo tutte le armi inceppate e temiamo un attacco dei partigiani». La vacuità dei cerimoniali militari italiani stride con la disciplina degli alleati.

All’arrivo [a Nischic recte: Niksic] per ricompensarci di tante fatiche il nostro comando ci accoglie con la banda militare che suona la Marcia

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Reale; e così stanchi come siamo dobbiamo anche fare un giro in più attorno alla cittadina per rendere omaggio; ancora una volta mi rendo conto che viene dato molta importanza alle esteriorità, ma continuano a mancare le cose più importanti. Nel nostro presidio sono arrivati anche i Tedeschi: si parla che si dovrebbe fare una grossa operazione di rastrellamento congiunto con loro per liberare molti dei nostri soldati della divisione «Venezia» prigionieri dei partigiani. I Tedeschi sono bene armati e molto meglio equipaggiati di noi, ho visto con i miei occhi che gli ufficiali Tedeschi fanno la fila con i soldati semplici durante la distribuzione del rancio; da noi i sottufficiali per metà analfabeti, hanno preteso una loro mensa separata da noi soldati. Con tristezza rabbia e confusione annoto questi particolari che mi fanno stare male e sento che a poco a poco mi stanno cambiando dentro.

In molti dei protagonisti delle memorie sedimentano sentimenti e suggestioni che sono nati negli ambienti originari, nell’infanzia e nella prima gioventù. Ne è un lucido e affascinante esempio Ercolino Ercole, la cui fuga dalla caserma dopo la resa ignominiosa assume alla luce dei suoi ricordi un significato più profondo.

L’infanzia di Ercolino si svolge a Torino nel quartiere operaio di Borgo San Paolo, ed egli rievoca quanto ha appreso dal padre e dai compagni di lavoro di lui nel corso delle annuali scampagnate primaverili, quando si muoveva l’intera comunità del caseggiato.

Le donne parlano di figli, malattie, problemi scolastici, gli uomini di lavoro, politica, sindacalismo. Io partecipavo volentieri ai discorsi dei grandi rimanendo, accanto a mio padre, incurante degli inviti dei miei coetanei. Erano discorsi seri: si parlava di lavoro, d’officina, contrasti con i superiori, ingiustizie subite, ricerche d’impiego per migliorare i guadagni, cottimo, sistema Bedaux. Era un mondo sconosciuto ma affascinante, rievocato senza retorica, dove l’impegno professionale e l’orgoglio della specializzazione d’officina si fondevano con la sete di giustizia e di libertà. Rare volte erano racconti di vittorie della loro dignità di uomini e lavoratori sulle prevaricazioni del potere.

Sono il lievito da cui si intuisce sarà generata la ribellione di Ercolino.

Analoghe le origini di Felice Malgaroli, anche se l’educazione scolastica e un conformismo sociale, sgorgante dalla necessità di accettazione propria dell’età infantile, sembrano tacitare i fermenti instillati dall’ambiente famigliare. Ma il contatto con la realtà dell’esercito riporta a galla i ricordi di quanto ha appreso sulle convinzioni del padre e sul fascismo:

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con mio padre e altri due zii al confino, la famiglia era piuttosto antifascista, ma in casa non si faceva motto contro il regime, affinché nulla uscisse dai muri di casa per bocca dei bambini – ricorda nelle prime pagine della sua lunga e complessa memoria – Tuttavia qualcosa si dice e solo in chiave ironica: quando gli altri bambini mi chiedevano perché mio padre fosse in prigione, non sapevo cosa rispondere sinché il nonno, venuto a conoscenza del problema, mi disse: «Tuo papà è in prigione perche ha detto che il latte è bianco», e da allora sempre risposi con quella frase che lasciava agli altri bimbi un interrogativo da portarsi a casa.

Ci sono anche altre occasioni che ne fanno il bersaglio delle autorità, malgrado le ingenue precauzioni degli adulti.

La parola Mussolini non veniva mai pronunciata, tuttalpiù i grandi, parlando tra loro, mormoravano «il buce», cosi come il federale diventava «funerale». Secondo loro i bambini non avrebbero dovuto capire, infatti noi non si capiva, ma si sentiva benissimo. Alla scuola c’è l’inaugurazione di una mensa che grazie al patronato scolastico fascista, distribuisce la minestra di mezzogiorno ai bambini poveri. Il primo mestolo di zuppa verrà distribuito in presenza del federale venuto apposta da Pavia, per ricordarci che quell’avvenimento era opera del partito fascista voluto del duce. Il giorno dopo dobbiamo farne un tema, nel quale il Lucio [il cuginetto di poco minore per età, autore di esilaranti strafalcioni], tra l’altro scrive «È venuto a scuola il funerale per darci la minestra che ha fatto il buce…». Finì in castigo ed io con lui che pur non c’entravo ed ero in un’altra aula, ma eravamo all’indice e fu solo grazie alla mia maestra, la buona signora Calvi (la quale portando l’attenzione degli inquisitori sui precedenti sproloqui di Lucio), salvò la famiglia da ulteriori angherie del regime.

Le punizioni e le ramanzine connesse a queste involontarie beffe non inficiano l’influsso che l’educazione scolastica esercita su Felice:

per noi bambini, questi fatti non erano che incidenti di percorso, peraltro incomprensibili. Infatti a me piaceva sentirmi dire che appartenevo ad una grande patria militare discendente dall’impero romano e mi piaceva quando, una volta la settimana, veniva in classe un tizio in divisa a raccontarci di grandi battaglie dove gli italiani erano stati tutti eroi. Raccontati in modo che per me Garibaldi ed Orazio Coclite diventavano più o meno contemporanei. E quando il tizio raccontava che i sovversivi (sottinteso tra cui mio padre) incendiavano i campi di grano e non permettevano di mungere le mucche, io mi rifugiavo nel fatto che da noi a Broni [provincia di Pavia], c’erano essenzialmente vigneti eppoi a casa della mia nonna, il grano veniva raccolto e spigolato gelosamente, poi nella stalla c’era solo l’asino ed una capra la quale veniva munta mattino e sera. Mi piacevano le

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uscite dalla scuola, quando tutti in fila, classe dopo classe, si camminava, «al passo» attraverso il paese, cantando tutti insieme. Mi piaceva perché ai bambini piacciono queste cose, forse a me piacevano di più perché in quei momenti non mi sentivo diverso dagli altri anzi, con orgoglio, con i miei zoccoli di legno (non ero il solo) battevo il passo meglio di quelli più «ricchi» che portavano scarpe di cuoio.

Svolta decisiva per Felice è il ritorno del padre dal confino e la sua successiva decisione di trasferirsi a Torino, dove apre un negozio; ma di lì a poco la moglie muore, dopo aver dato alla luce un bimbo e Felice abbandona la scuola avendo compiuto il secondo ciclo delle medie (l’avviamento al lavoro):

appena mio padre si risposa vengo da lui «messo a bottega», lo devo aiutare, la perdita di mia madre è stata anche il crollo della piccola azienda. In chiesa, dopo la morte della mamma, non andavo più. E senza la scuola, l’unico punto di ritrovo dei giovani dopo il lavoro era il circolo rionale fascista. Mio padre non vedeva di buon occhio la faccenda, ma d’altronde non vi si faceva altro che combinare gare sportive tra un rione e l’altro ed io ero in una squadra ciclistica.

Fin qui, dunque, nulla lascia sospettare che in lui sia prossima l’ora del rifiuto, ma gli eventi del settembre 1943 scatenano in lui, come per Ercolino, la ribellione; sorretta dai ricordi infantili:

Della guerra avevo sentito parlare da bambino, a Broni quando nelle sere d’estate si stava seduti fuori sulle panche davanti casa. C’era un certo Gabetta, detto «il mosca» che raccontava bellissime fiabe a noi bambini, ma non erano le storie degli gnomi e delle fate, bensì ricordi della sua vita da emigrante arricchite da una fervida fantasia; il viaggio in America lo aveva fatto su una di quelle navi spinte a motore od a vela secondo il caso. Lui la descriveva come un fenomeno di modernità. Raccontava di mostri marini con sette teste, contro cui lui aveva combattuto durante i viaggi, delle sirene metà donna e metà pesce che aveva visto e sentito cantare lungo i grandi fiumi del Sud e sempre concludeva spiegando come al suo ritorno, con la valigia piena di dollari d’argento a questa le si era rotto il manico ed era caduta in mare lasciandolo povero in canna. Quest’ultima era forse l’unica verità, cioè che era povero in canna – lo era sempre stato.

Il ritratto dell’uomo è gustoso e la descrizione di cui Felice si compiace prelude al dischiudersi dei ricordi che perfettamente s’attagliano a quanto va conoscendo dell’esercito e della mentalità militare. Il Mosca

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era un gran conversatore e sovente con lui alla sera c’erano anche altri anziani che invariabilmente finivano per parlare delle loro dure esperienze, sofferte nella prima guerra mondiale. Ricordavano come tutte le famiglie del circondario, più o meno l’avessero subita e diverse ricordassero un caduto. Raccontavano come la propaganda interventista avesse promesso la terra ai contadini ma di questa, ne era stata data solo qualche palata ai morti. Raccontavano di certi loschi ufficiali che mandavano avanti contro mitragliatrici fanti con la baionetta in canna e come facilmente decretassero fucilazioni se non venivano obbediti ciecamente ed a volte per molto meno Raccontavano di fame, freddo, fango e pidocchi. I loro discorsi facevano poca presa su noi bambini erano poco credibili perché entravano nelle nostre orecchie, mischiati alle favole del Mosca eppoi era gente rozza che parlava intercalando bestemmie che offendevano il nostro udito di piccoli e devoti credenti. Per di più dalla scuola «sapevamo» che i soldati ed ufficiali italiani erano tutti dei valorosi, le nostre armi insuperabili.

Ma le convinzioni istillate dall’educazione fascista non reggono a lungo di fronte alla realtà del servizio militare; svaniscono e confermano la verità di quei racconti serali ascoltati nell’infanzia:

Sono alla caserma Cairoli di Pavia, sede del terzo reggimento dove vengono distribuite le divise di panno grigioverde con pantaloni alla zuava e fascie [sic] per i polpacci. Gli scarponi sono chiodati alle suole e fanno un grosso fracasso camminando. La mia fede patriottica è ormai andata in crisi. Quanto ci veniva raccontato al circolo rionale, sappiamo da tempo che erano panzane.

Sono i primi segnali che stanno riemergendo dal passato spunti che, come vedremo, daranno i loro frutti.

Per Enea Gibertoni (che nasce in provincia di Modena) la rivelazione sulla natura del fascismo viene molto presto, sollecitata da un’umiliazione infantile e fa parte quasi di una vocazione comunitaria.

A non piacermi i fascisti ho cominciato da bambino, quando un giorno noi ragazzini di 12 e 13 anni giocavamo davanti alla «OSTERIA DELLA GEMMA» e lì tutti i giorni alle ore 18 veniva messo davanti alla finestra su richiesta di un gruppo di fascisti di Limidi la radio per fare ascoltare il bollettino di guerra perché loro ci tenevano tanto a far sentire le loro vittorie! Noi ragazzi eravamo lì a giocare con il pallone, quando un fascista mi chiamò e senza dire una parola mi ha dato un calcio nel sedere da farmi vedere le stelle, domandai il perché e lui mi disse che durante il bollettino di guerra non si doveva giocare e non si doveva tenere il berretto in testa, che io tenevo quasi sempre, e quell’atto non lo dimenticai

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mai. Ho cominciato a fare il partigiano parlando con un amico che era già nel movimento. Ci trovavamo in campagna alla sera, e la mia prima azione con un po’ di paura e con un fucile da caccia io e cinque sei amici portavamo volantini di notte in tutte le case.

Non molto diversamente da Felice e da Enea, Severina Rossi, di Soresina in provincia di Cremona, apprende dall’ambiente famigliare e locale i rudimenti di un antifascismo istintivo fondato sul sentimento di rivolta verso le ingiustizie e le disuguaglianze sociali.

Io sono nata nel 1920 da madre ex filatrice e da padre cantoniere comunale. Sono la quinta di cinque sorelle e un fratello. Mi chiamarono Severina […]. Mia madre mi raccontava di non essere mai stata a scuola, a fatica sapeva fare la sua firma e leggeva a stento qualche parola imparata dai suoi figli in età scolare, perché lei a sei anni, faceva la forestiera. Si recava in filanda a lavorare e, siccome non arrivava alla bacinella dell’acqua bollente, stava in piedi su uno sgabello. Dal paese di S. Bassano dov’era nata, si recava a piedi a Soresina tutti i giorni feriali, trotterellando sempre dietro le più grandicelle che avevano il passo lungo. Partiva da casa col buio e tornava che era un’ altra volta buio e, spesso, piangeva di paura. Si portava dietro polenta e fichi secchi, un panino fatto in casa il giovedì.

Le sorelle maggiori di Severina vanno poi, a loro volta, in filanda: «tornavano a casa con le dita piagate e le mani sembravano cotte nell’acqua, ma fortunate loro, nonostante il grande vapore emanato da tutte le bacinelle in ebollizione, non avevano contratto la tubercolosi come altre e avevano un posto “quasi sicuro”». Il padre, reduce dalla Grande Guerra, le racconta soprattutto le sue vicende militari, ma le insegna anche tolleranza, comprensione e generosità per la sventura. Di questo insegnamento Severina ci dà un esempio: una notte d’estate si reca con il padre a fare la guardia nel campo di granoturco coltivato dalla famiglia, per impedire che venisse saccheggiato dai tanti che, per miseria, si davano al furto campestre.

A un tratto, facendomi segno di tacere [mio padre], mi prese per mano e, quatti quatti, ci nascondemmo tra le zolle fitte dei fusti. Sentivo il fruscio delle foglie e lo strappo netto delle pannocchie, che testimoniavano la presenza di qualcuno che raccoglieva e insaccava il grano. Lo sfortunato uomo venne proprio a nascondere il sacco dove noi eravamo nascosti. Ci fu un attimo di imbarazzo, poi mio padre disse: «Vai pure, hai figli anche tu, portatelo via», e rivolto a me: «Non lo dire a nessuno». L’uomo se ne

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andò col suo sacco, ma prima disse che non sarebbe più venuto nei nostri raccolti perché sapeva che eravamo poveri come lui.

A scuola Severina è brava e scrive componimenti che la maestra legge a tutta la classe:

nelle classi elementari, facevo temi che le mie compagne ricordano nonostante il tempo trascorso, perché la maestra li leggeva e loro si commuovevano. Eppure non ero una bambina infelice. Annotavo fatti tristi perché non ne conoscevo altri. Diversi miei amici venivano a scuola con gli zoccoli e i calzoni lungamente rattoppati, erano sorretti da una corda. Erano sempre i primi ad assaporare le bacchettate della maestra ed erano più volte ripetenti. Due fratellini occupavano due banchi separati in fondo all’aula, un po’ discosti dagli altri, forse perché disturbavano. […] Uno dei due fratelli era ripetente per la terza volta, l’altro per la quarta. Entrambi avevano i pidocchi. Avevano i capelli rossicci molto stinti e maltagliati, le scarpe non le avevano mai provate. Calzavano zoccoli molto consumati. D’inverno, un cappotto non l’avevano e camminavano con le manine in tasca, intirizzite dal freddo e spesso sporche perché in famiglia non avevano soldi per comprare il sapone. […] Piccoli bimbi denutriti, dalle occhiaie profonde e gli occhioni dallo sguardo smarrito senza gioia, come se la vita fosse una sciagura, non vedranno i monti e il mare anche se la loro salute sarà tanto debilitata e nessuno penserà a loro, nessuno penserà di strappare un piccolo stanziamento per l’infanzia, piccoli figli d’Italia sconosciuti e dimenticati, ma di loro, più in là, a tempo debito, si ricorderà l’ufficio delle tasse e il distretto militare.

Da questa sua sensibilità alle esperienze della miseria nasce il rifiuto del fascismo, che, pur non conclamato, era parte dell’etica famigliare, come si intuisce dal fatto che né lei né le sue sorelle erano iscritte alle organizzazioni giovanili fasciste.

La mia insegnante, alla fine delle elementari, disse ai miei familiari che era un delitto non farmi studiare, però, aggiunse, non potevo accedere a concorsi perché non ero una «Piccola Italiana», cioè non ero iscritta al Partito Nazionale Fascista. Già un’altra volta, su richiesta della mia maestra, partecipai a un concorso che mi fu negato per lo stesso motivo.

Giorgio Santarelli è invece figlio di un tecnico. Vive a Firenze in un ambiente piccolo borghese più che popolare. Il padre è persona moralmente rigorosa, rispettosa delle idee di chi dissente, anche se rifugge dall’assumere posizioni aperte. È tuttavia un uomo che, invitato a testimoniare davanti al Tribunale Speciale contro un operaio accusato di aver diffuso volantini antifasci-

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stici, e pur sottoposto a pressioni da parte della direzione di fabbrica, si rifiuta di accusarlo perché lo ritiene un «brav’uomo». Nel padre di Giorgio prevale quindi il buon senso del padre di famiglia, che lo spinge a suggerire agli oppositori di tenere per sé le proprie idee; ed è sulla scorta di questi insegnamenti che il figlio si regola. In un’occasione il ragazzo, suggestionato dalla propaganda fascista, viene quasi alle mani con un compagno, nipote di un antifascista, perché questi ha riferito un giudizio del nonno, secondo il quale i volontari italiani in Spagna vanno a combattere contro altri italiani. Il padre mette in guardia Giorgio dal frequentarlo: «Dice che a stare con certa gente non si sa mai che cosa possa capitare e forse ha ragione perché suo nonno [del compagno] è già stato arrestato dalla polizia politica un paio di volte». Ma Giorgio segue il suo istinto e ragiona e decide per conto suo, pur utilizzando in modo positivo i parametri etici del padre: «Eppure sembra un brav’uomo e quando lo incontro mi fa un sacco di feste. Domani a scuola durante l’intervallo farò pace col mio amico perché è davvero un bravo ragazzo».

Anche delle leggi antiebraiche finisce per avere una conoscenza diretta perché nella sue classe: «Ci sono […] due sorelle gemelle, una si chiama Lea e l’altra Miriam e sono ebree. Non avevo mai conosciuto gente ebrea, ma sono brave ragazze, solo che quando arriva l’ora di Religione loro escono classe». Più avanti una delle due gemelle gli confida che la sua famiglia sta per partire per l’America perché in Germania si è scatenata la persecuzione e il loro padre è convinto che non diversamente accadrà in Italia: «a me sembra impossibile che in Italia debba accadere quello che lei dice succede in Germania. È vero che da un po’ di tempo la propaganda si è scatenata contro gli ebrei, ma che il nostro governo arrivi a lasciarli senza lavoro e a sequestrare le loro cose mi sembra davvero impossibile». Successivamente scompare dalla scuola pure un professore di francese, ebreo. Giorgio apprende da un incontro casuale con il professore stesso che l’uomo è stato escluso dall’insegnamento a causa della sua «razza». Nessuno ne sapeva nulla: «perché non è che uno ce l’abbia scritto in fronte di che religione è». Il solo che parla a scuola «in difesa della libertà di culto» è un giovane prete, professore di religione. Giorgio non specifica se il coraggioso discorso si estendesse fino a condannare la legislazione razzista di Mussolini.

Probabilmente è un’esperienza esemplare, quella di Giorgio

Santarelli: ci racconta di un destino non indegno; ma è il destino

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di un giovane che non riesce a uscire dai parametri fissati dalla famiglia, benché intuisca che ci sono scelte diverse. A fronte dell’esempio del padre, uomo giusto, chiuso tuttavia nella tutela della sicurezza sua e della famiglia, si trova un po’ solo a far fronte alle lusinghe del regime. La prima tentazione offertagli dal fascismo è quella di un ruolo di comando riconosciuto: alla scuola media riceve la nomina di caposquadra moschettiere.

[…] la mia è proprio la prima squadra, quella che marcia subito dietro il capo manipolo, e dovrò stare fuori dalle righe e toccherà a me fare il saluto romano quando sfileremo di fronte alle Autorità. Quando l’hanno saputo i miei genitori il babbo mi ha sì detto «bravo», ma non mi è parso troppo contento. La mamma invece mi ha subito cucito il grado sulla manica dell’uniforme e ha detto che è sempre bene cercare di emergere nella vita. E forse ha ragione.

A disincantarlo in materia di belle parate arriva – qualche anno più tardi, quando oramai è al liceo – una broncopolmonite: la deve a un professore di ginnastica, fascista fanatico, che porta le classi a marciare in mezzo alla neve «per mostrarsi degni dei nostri soldati che Russia hanno certo più freddo di noi. È un esaltato che crede di farsi bello così», commenta nel suo diario. La madre alimenta la sua ostilità al regime quando si rifiuta di donare il rame alla patria perché – dice – le sue pentole sono anche ricordi di famiglia.

È, a suo modo, una lezione esemplare, coerente con il comportamento di famiglia: al patriottismo di regime si contrappongono l’ambito domestico, i valori famigliari, il decoro e il rispetto di se stessi. Nella primavera 1943 Giorgio annota il furore del padre perché in fabbrica la Direzione (tutti fascisti fanatici, li definisce) vorrebbe che lui facesse la spia a carico degli operai insubordinati. Il padre, con coerenza, si rifiuta e Giorgio rileva che in effetti l’indisciplina è cresciuta e la presa del regime sulla società si sta affievolendo: «a dare il colpo di grazia al malanimo che serpeggiava in fabbrica sono stati gli scioperi della Fiat e delle altre aziende di Torino e di Milano perché, anche se i giornali lo hanno appena accennato, tutti o quasi tutti ascoltano ormai Radio Londra e così sanno per filo e per segno degli scioperi degli arresti e di tutto il resto».

Di lì a pochi mesi il giovane, ormai diciottenne, è di fronte alla scelta decisiva. Dopo l’occupazione tedesca, dopo la liberazione

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di Mussolini dalla prigione del Gran Sasso e la costituzione della RSI, incombe la chiamata alle armi della repubblica fascista. La sua vita aveva assunto nel frattempo un andamento singolare già dagli inizi del liceo. Aveva stretto amicizia con un coetaneo, figlio di un ricco industriale che si dimostra particolarmente felice di quella amicizia e che non ha alcuna riserva per la differente condizione sociale di Giorgio e della sua famiglia; anzi, accoglie più volte l’amico del figlio (Giorgio resta abbagliato dal benessere, pur non ostentato, di quella famiglia); allo scoppio della guerra, avendo appurato che Santarelli padre è un abile tecnico meccanico, lo assume nella sua azienda perché questa, in quanto di interesse bellico, garantisce l’esenzione dalla chiamata alle armi; e quando si tratta di sottrarre il proprio figlio all’esercito di Mussolini procura per lui (che si rifiuta di partire da solo) e per l’amico documenti falsi che consentono l’espatrio in Svizzera. Ancora un volta la vita di Giorgio non ha conosciuto scelte autonome. E lui stesso, nel chiudere il diario, si chiede se non sarebbe stato più giusto scegliere l’altra strada, quella della montagna che era stata intrapresa da un altro amico, il quale aveva seguito il padre, vecchio socialista.

Albertina Tonarelli – di cui abbiamo già seguito le avventure del suo viaggio a Bologna – ci riporta invece a un ambiente popolare, a Ponte Sestaione, nell’Appennino tosco – emiliano che prende il nome da un ponte costruito alla fine del ‘700 su progetto del gesuita Leonardo Ximenes. Distrutto durante la seconda guerra mondiale, fu ricostruito nel 1948 ad opera dell’architetto cutiglianese Alidamo Preti, «antifascista e staffetta partigiana dell’XI zona», che Albertina ricorda nelle sua memorie. E proprio presso il ponte si verificò un episodio che portò sul padre la nomea di comunista:

Quelli erano anni di grande buriana e mi ricordo che in casa si raccontava questo episodio: un giorno un gruppo di fascisti in mezzo al Ponte cantava: «botte, botte / fino alla mezzanotte, / da mezzanotte in là, / carezze di pugnal». Babbo si trovava lì; era un pacifico e queste frasi non li piacquero, cosi esclamò: A voi, andrebbero date! Questi giovinastri allora fecero cerchio intorno a lui per dargliele. Babbo, che era un uomo grande e forte, prese un bastone e disse: Venite pure avanti! Quanti venite e quanti ne prendo. Alla casa, mamma e sua sorella, zia Caterina avevano visto tutto e zia Caterina prese due brocche di rame come per andare di là dal Ponte a prendere l’acqua alla fontana, e arrivata li incominciò a dar broccate a questi fascisti che si dispersero. Il giorno dopo sui giornali

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c’era scritto che i fascisti di Cutigliano avevano picchiato un comunista al Ponte Sestaione; partì di lì che babbo era comunista, ma non era vero.

Benché nessuno in famiglia avesse mai preso la tessere del Fascio (il nonno materno era e rimase socialista fino alla morte) ad Albertina toccò l’iscrizione alle organizzazioni del regime.

Quando ho cominciato ad andare alle scuole elementari, per prima cosa c’era l’iscrizione obbligatoria al Fascio; si pagavano 5 lire di tessera e questi soldi andavano al partito. Le mie sorelle, invece, che erano nate, Vittoria nel 1911, Foresta il 1912, Anita nel 1915, non erano iscritte perché non c’ era quest’obbligo quando andarono in prima elementare. […] Naturalmente, frequentando la scuola crebbi con le idee fasciste. In casa mia di politica si parlava poco o niente perché il babbo, ritenuto un antifascista, era piuttosto un apolitico per natura, non si interessava di nulla e non parlava di niente e non ci proibiva di andare alle adunate perché non voleva noie. Non ebbe mai tessere, tranne quella come reduce dei combattenti della Guerra ’15-18.

A 14 anni fu mandata a Firenze a imparare il mestiere di sarta, anche lei come Severina: a differenza di costei, lavorava in un ambiente ricco, ebreo, e antifascista. E fu questo ambiente, in uno con la constatazione della miseria e il senso di dignità assorbito nella famiglia, a indicarle la strada per uscire dalla gabbia del fascismo. Aiutata in ciò anche dal beffardo umore popolare, di cui ci offre un piccolo saggio, innescato dalla parola d’ordine fascista «Vincere!» «Ricordo che questi disperati di livornesi [sfollati a Cutigliano], per la fame che avevano, rubarono delle patate piccole piccole, ancora da crescere e poi misero nel campo un bel cartello “Vincere! Vinceremo! Seminate, che noi torneremo”». E poi, aggiunge ancora Albertina, c’era la constatazione dei sacrifici che la guerra andava imponendo all’intero paese, gravando sulla popolazione più misera.

La guerra partì abbastanza in sordina. Nel ’40 la gente aveva provviste in casa, la fame nera, proprio nera, non iniziò che nell’inverno del ’41, anche perché quell’anno ghiacciarono di settembre le castagne, il mangiare di tutti. Le notizie si avevano attraverso i giornali e le radio nei bar, noi non ce l’avevamo, in casa. Naturalmente partirono i soldati per il Fronte, ma dei miei non partì nessuno, si era tutte femmine e gli uomini erano troppo anziani. […] Di roba un po’ ce ne avevamo. Invece c’era gente, poverina, che venute a mancare le castagne, non essendoci nulla da comprare, era dimagrita di 20-30 chili, perdeva la roba indosso: a Silio, il

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nostro vicino di casa, gli ballava perfino il cappello in testa. Dopo invece cominciò il mercato nero dal Modenese: era la fine del ’41 e incominciò ad arrivare grano, carne, burro… e allora chi aveva soldi mangiava. E chi non li aveva continuò la fame nera.

Ma anche la fame e l’atmosfera da tregenda che grava sull’Italia possono avere un versante comico. Albertina Tonarelli racconta che attorno al 10 settembre 1943 (quando incontra gli avieri che cercano di mimetizzarsi per non essere catturati dai tedeschi), terminata la sua missione di accompagnare a Bologna presso una casa patrizia la nipotina Giuliana, le viene richiesto dal padrone di casa di portare una lettera all’Abetone, dove villeggiava una sua parente, la marchesa G.S., residente in piazza Duomo a Firenze. Ma nel congedarla l’uomo avverte: «Non ti spaventare se vedrai una donna tutta vestita di nero a letto, e tutto intorno candele; perché è fissata che deve venire la fine del mondo; ma tu non ti preoccupare, sta meglio di te».

E in effetti la marchesa, dopo avere offerto «un te con i pasticcini», «una vera pacchia», «si mise a raccontarci tutte le profezie circa la fine del mondo […]». Per Albertina è motivo di turbamento comprendere che la povera donna soffriva di gravi turbe; ma l’arguzia toscana appronta il rimedio di un sorriso:

essa aspettava la fine del mondo da non so quanti anni. Viveva nel letto vestita, pronta, aspettando la morte. Quando scoppiò la guerra, a Firenze cominciarono a coprire tutti i monumenti con sacchi di sabbia, perché non fossero danneggiati dai bombardamenti. Allora il figlio che era alto alto, magro magro, vestito anche lui sempre di nero, andò dalla madre per convincerla a fare una passeggiata per la città, prima che questi bei monumenti non si potessero più vedere. Il maggiordomo ci raccontò che lei si alzò dal letto e come due fantasmi, secchi come stecchi, uscirono dal palazzo di piazza del Duomo. E i fiorentini, scanzonati come sono, quando li videro passare dissero: «Madonna! Ma quelli l’hanno sentita davvero la fame!»

Il rifiuto del fascismo, dice invece Giuseppe Biagi, gli viene forse dal culto della libertà ereditato degli uscocchi, che avevano trovato ospitalità in un lontano passato nel borgo di San Zuanut (che sarebbe San Giovanni, presso Cormons nel Friuli), dove lui trascorre l’infanzia. Una «tana per lupi», lui chiama il paese, che «durante gli anni del fascismo, i mass media di allora definirono […] un covo eversivo dove pullulano indisturbati

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comunisti, puttane e ladri». Da San Zuanut, ricorda, mossero le prime manifestazioni di ostilità al fascismo ancora negli anni Trenta; e proprio nel paese, ancora ragazzo, incontra un operaio sommergibilista di Monfalcone che gli spiega il significato dei volantini antifascisti. I suoi rapporti con le autorità non sono tranquilli: anche con il parroco – che fa la spia per conto dei fascisti – ha uno scontro molto duro. Cose da ragazzi, in cui però vive uno spirito ribelle che si sviluppa negli anni successivi quando va a lavorare (nel 1941, compiuti i 14 anni) in una fabbrica di Sagrado come modellista-cementista. Instaura un rapporto stretto con gli operai, attraverso cui percepisce la crisi del regime e condivide il crescente rifiuto popolare. Il 25 luglio lo vede attivo nel suo paese come distruttore di emblemi fascisti; il successivo ritorno dei fasci nel settembre lo costringe a prendere la strada della montagna.

Queste storie di gente povera sembrano indicare che chi ha conosciuto indigenza e miseria debba vedere nel fascismo un oggetto di rifiuto immediato e naturale; mentre verso l’antifascismo debba esserci una corrispettiva spontanea adesione.

Margherita Ianelli costituisce quasi un’eccezione. Non c’è passione né sdegno nei suoi racconti quando parla dell’inganno che vede perpetrato dal fascismo ai danni suoi o degli altri. È inserita in un mondo mentale incentrato sulla sua personale sofferenza. La sua infanzia ha avuto toni tragici: dopo la morte della madre, il padre la porta alla famiglia degli zii e lì la abbandona senza una parola di spiegazione. Margherita ne è sconvolta, tanto che a lungo non riesce a parlare e ad avere rapporti normali con la famiglia che la ospita; la quale ricambia con scarso affetto e con nessuna cura delle sue necessità, anche le più elementari e vitali. È una bambina sola e senza amici; ogni volta che stabilisce una relazione con altri bambini o con adulti (come con la sua prima maestra, per esempio) qualche evento la allontana da loro. La sua dolorosa e lenta maturazione ne fa un carattere forte, lavoratrice instancabile e gelosa della propria dignità e indipendenza. Nella campagna, dove vive, non ha modo di cogliere la realtà della dittatura: più gravi e assorbenti sono il senso di emarginazione e l’umiliazione che le viene dall’essere malvestita, derisa dai compagni di scuola, esposta alla falsa e maligna pietà dei compaesani.

Ma, quando a 14 anni va a servizio da una maestra, in un paese vicino a Marzabotto, Sibano, comincia a vedere una realtà nuova:

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era un paesino composto da famiglie quasi tutte operai, che quasi tutti avevano lavorato nella grande ferrovia [la linea Firenze-Bologna], inaugurata circa nel 1934. In quell’occasione ci fu una grande festa, i treni passavano lenti imbandierati e sopra uomini con la divisa fascista cantavano. Ma finito il lavoro della ferrovia, anche a Sibano, gli operai rimasero senza lavoro. […] A tener su il morale della gente senza lavoro ci pensò la signora maestra. Eravamo all’inizio del 1936 e la guerra in Africa era al culmine. La maestra teneva informato tutto il paese, le riunioni si tenevano nella scuola. Molti partecipavano, in un primo momento iniziò a parlare di «sanzioni». […] Ma la signora maestra incoraggiava tutti e diceva: «Dobbiamo fare dei sacrifici, vedrete che con la vittoria della guerra d’Africa le cose cambieranno». Nella scuola giungevano parecchi giornalini illustrati, dove si vedeva i nostri soldati man mano che avanzavano, trovavano dei minerali preziosi come oro, argento. […] Quelle parole dette dalla maestra erano molto convincienti, forse la miseria, la fame, chissà quante illusioni portava. Il fatto fu, che la persuasione della maestra prendeva piede, lei per prima era convinta, sentiva i bisogni della gente, molti bussavano alla sua porta e non li mandava mai via a mani vuote, sempre con la speranza di un domani migliore. […] Venne la primavera, la guerra in Africa ebbe fine con la vittoria degli italiani. La maestra e altri erano in attesa di quel benessere che non arrivava mai. Molti per risolvere il problema del lavoro andarono a lavorare in Abissinia. Anche il marito della maestra prese quella via e partì. Ma quando scriveva e la moglie leggeva la posta con i figli diceva: «Cara moglie, qui si sta molto peggio che in Italia. Ovunque c’è pericolo. Ci sono le belve che se ti prendono ti sbranano, ci sono gli abissini che se ti trovano da solo ti fanno fuori con la scimitarra. Qui non esiste nessuna ricchezza, soltanto sabbia e un sole che ti brucia la pelle, non vedo l’ora di finire il contratto per ritornare nella amata Italia». Anche la moglie, delusa da quelle parole, cominciava a pensare quale ricchezza arrivasse dall’Africa. Tutti i generi di consumo continuavano [ad] aumentare, il suo stipendio era sempre a quel livello, non riusciva più a darmi le trenta lire mensili, così un giorno disse: «Vai a casa tua che di te posso fare a meno».

Non c’è alcuno sdegno per la menzogna costruita dal fascismo, che alla resa dei conti colpisce sia pure indirettamente anche lei: tutto ciò è solo una parte di una usuale e generalizzata povertà. Ad anni di distanza, nel raccontare le sue vicende, fa risuonare soprattutto la nota dolente della sua irreversibile indigenza.

Analoga è la cifra della narrazione di ciò che può vedere fuori dal mondo ristretto della campagna, a Bologna, dove è andata «a servizio» presso una famiglia di signori. Il lavoro domestico comprendeva anche portare a spasso il bambino della coppia, e nei giardini pubblici per lei era possibile intessere qualche ami-

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cizia con altre ragazze della sua stessa condizione. Erano i luoghi della sua libera uscita, che frequentava con assiduità.

Di sabato era difficile entrare nei giardini pubblici, c’erano le sfilate fasciste. Partivano dalla piazza del Tribunale, percorrevano i viali, poi entravano nei giardini. Però io con il piccolo Franco [il bambino della coppia], uscivo ugualmente, restavo ai lati dei viali, mi divertivo a guardare quella marea di gente, così inquadrati e marciavano con ordine. Tutti indossavano la divisa, ma erano divisi in categorie. In testa c’erano i giovani fascisti quelli dai vent’anni in su. Poi c’erano gli avanguardisti sotto ai vent’anni. Poi i balilla dai dieci anni in avanti. Poi i figli della lupa, sotto i dieci anni. Anche le ragazze marciavano separate dagli uomini. Ai lati dei viali gruppi di persone non in divisa a voce bassa facevano le critiche ai marciatori. Un giorno un gruppo di uomini seduti sopra un muretto, ed io ero poco lontano da loro. Quando uno disse: «Guarda, guarda, là in mezzo a marciare c’è quel nostro amico, che ha sempre detto di odiare la divisa». Un altro disse: «Tu parli bene, anch’io sono della tua idea. Noi lo possiamo fare, perché lavoriamo in proprio. Per il momento non siamo tartassati, ma se andiamo avanti di questo passo, tutti gli italiani dovranno diventare fascisti. Quel nostro amico, lavora all’Arsenale, dove costruiscono merce militare. Se voi [vuoi] lavorare lì dentro devi prendere la tessera del fascio che costa dieci lire e devi andare a marciare tutte le volte che te lo chiedono». […] Sempre quel tizio continuava a dire: «Mia moglie fa la maestra e anche lei ha dovuto prendere la tessera, e dovrebbe fare persuasione fra gli alunni di prender la tessera da balilla. […] Tutto si fa pur di avere un lavoro».

Qualche tempo dopo Margherita segue a Riccione, in vacanza, la famiglia di Bologna; e a Riccione ha un incontro singolare, che avrebbe potuto essere rivelatore.

Un altro giorno sulle quattro del pomeriggio, sulla piaggia passarono gruppetti di fascisti e incitavano a tutti di andare in piazza centrale di Riccione che all’Aradio parlava il Duce. […] In quella piazza gremita di gente, con un sole che picchiava contro il palazzo e i riflessi si riversavano sopra alla gente. Sul balcone del grande palazzo, avevano installato un Aradio, il Duce puntuale attraverso l’Aradio parlava alla grande folla. La folla a quelle parole applaudiva a tutto volume, da confondere le parole che pronunciava il Duce, in modo che non si capiva niente. […] Piano piano uscii dalla folla; infilai una stradina tutta ombreggiata. […] C’era un muretto che circondava la stazione, mi sedetti lì sopra […]. C’era silenzio, non si vedeva anima viva. Dopo un po’ di tempo passò un uomo sui quarant’anni, si fermò e disse: «Sono tutti là in quella piazza, ad applaudire il Duce e tu com’è che sei qui?» Risposi: «Ma veramente, io non ci capisco niente di quelle parole, in più con un caldo opprimente, preferisco il silenzio e

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tanta ombra attorno a me». Lui disse: «Ragazzina mia, capisci di più tu che dici di non capire, che quelli là, che applaudono credendo di capire». […] Allora anch’io chiesi a lui il perché non era fra quella folla, lui disse: «[…] Io prima della marcia su Roma ero un libero socialista, lottavo per delle cose giuste. Ero un capo e la gente mi seguiva. Ma con l’avvento del fascismo mi sono trovato solo, poi iniziarono le persecuzioni, da parte dei fascisti, non serviva neanche restare in silenzio. Ogni qualvolta che il Duce si recava dalle nostre parti, venivo arrestato; per paura ch’io organizzassi qualche attentato, mi rinchiudevano in prigione, per diversi giorni. Il fatto che mi hanno reso la vita impossibile, non sono mai riuscito a svolgere un vero lavoro. Vivo da solo, come lavoro, vado alla ricerca di erbe speciali per fare dei medicinali.» Dopo quel colloquio ci salutammo e se ne andò per i fatti suoi, ed io ripresi la via di casa.

Di questo episodio è singolare l’anonimato in cui resta avvolto quell’«uomo sui quarant’anni». Non un tratto del viso, del corpo, del vestire o una caratterizzazione del parlare. È una voce che racconta una storia antica ed estranea, che non suscita alcuna emozione.

Non dobbiamo pensare a una insensibilità di Margherita, ma alla ragione del suo scrivere, che è la chiave per intenderne il valore. Confrontiamola ad esempio con Maria Talluri:

La storia è fatta anche di piccoli fatti, la mia storia è scritta in queste pagine che segnano ricordi limitati ad episodi che non possono essere disgiunti da avvenimenti più grandi. È un tassello che preso a sé, segna momenti intensi ove si sono intrecciati i particolari della quotidianità con le vicende drammatiche nelle quali la nostra quotidianità si era venuta a scontrare. Ripensare e raccontare la storia privata, all’interno della storia grande che unì in un unico dramma il mondo, così come è andata scorrendo parallela alle vittime del destino, è un modo per vivificare il passato offrendo alle nuove generazioni l’opportunità di riflettere sul passato in tutte le sue impercettibili sfumature. Dentro queste vicende si colloca la lotta partigiana che si svolse nella montagnola senese, le rappresaglie tedesche che portarono all’incendio di numerosi villaggi sparsi sulle pendici della montagna, le risposte dei partigiani alle truppe tedesche ed ai fascisti loro complici delle persecuzioni.

È evidente e dichiarata l’intenzione ammaestratrice di Maria

Talluri, vivificata dalla passione politica. Margherita Ianelli invece scrive per altre ragioni. A cinquant’anni decide di imparare a scrivere per tenere vivo il ricordo di ciò che è stato. Le interessa solo la vita: i segni del passato devono essere salvati perché solo così lei potrà continuare a capire il mondo, il senso della sua vita

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e il senso della vita delle generazioni che verranno. Come spiega lei stessa alla maestra a cui chiede aiuto per tornare a studiare:

Quando vado nella zona nativa, nei paraggi di Monte Sole, vedo il mio mondo di allora cancellato dalla memoria, ricordo come si viveva su quei monti e la fine che fece quella povera gente. Così, trovandomi lassù nel più completo silenzio, mi viene da pensare: «il mondo in cui vivevo non lo riconosco più, l’avvenire cambia talmente in fretta che ci capisco ancora meno e quando i figli saranno tutti diplomati e sposati non capirò più neanche loro». Perciò vorrei imparare qualcosa ma non so da quale parte iniziare.

Ancora diversa è la motivazione di Irene Paolisso, che nel rivelare la radice del suo scrivere ci offre anche la chiave per penetrare la sincerità del suo lirismo.

Ho fatto l’acquisto di due grossi quaderni – scrive il 4 novembre 1943 – e mi riprometto di distrarmi a ricostruire un passato da sovrapporre a questi giorni assurdi e inumani. Molti episodi della normalità hanno assunto significati impensati, profondi, da non disperdere nella dimenticanza del tempo che inesorabile trascorre su di noi. Ma non sono certa di riuscire nel mio proposito, perché oltre la calma necessaria manca la disponibilità accondiscendente degli altri. Datemi un’isola, un’isola tutta per me!

E cinque giorni più tardi ribadisce il valore intimo e liberatorio dell’immergersi nella descrizione della condizione presente: «Scrivere mi permette di scaricare i pesi più riposti, alleggerisce di ansie altrimenti insopportabili. Così una volta anche il canto, quel mio solitario esercitarmi a dire al vento e al silenzio della campagna gli slanci mai esternati né confessati ad anima viva».

Motivazioni individuali, esigenze irripetibili: sono le donne che le portano alla superficie e che ci permettono di vedere le fratture interne emergenti nella società dilaniata dalla guerra, e le sofferenze individuali, con ben maggiore nitidezza che non gli scritti dei maschi, catturati dalle aspre vicende e dall’urgenza delle loro tragedie.

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III. Il nemico

«Domenica, 12 settembre 1943 ore 12. Ho veduto per la prima volta i Tedeschi, non come ne avevo veduti tanti fino ad ora, ma nella loro esecrabile parte di invasori e padroni, capisco che si possano odiare, o traditi o no, che questo non ce lo dice nessuno perché la verità chissà dov’è, sono nemici, che hanno preso possesso della nostra bella città», annota Maria Alemanno da Firenze. E il giorno successivo:

Giornate sempre piene di sgomento e di angoscia. Per radio torna a farsi udire l’inno dei fascisti, si affacciano un po’ titubanti per riprendere potere all’ombra della protezione tedesca. Comandi tedeschi, ordini tedeschi, tutto tedesco. Cominciamo a guardarli con un po’ di timore. Passano e ripassano autocolonne intere, un frastuono assordante, continuo per la città. Io sono nervosa; tutto mi dà noia.

Al fastidio iniziale si sostituiscono presto timore, paura, terrore: «A mezzogiorno le strade sono deserte, tutti sono terrorizzati dai tedeschi. Nessuno deve uscire, tutti in casa, la paura è grande e cominciano a passare anche da via Marconi le prime macchine di guerra, quei soldati ti guardano in faccia come se loro fossero i padroni della nostra terra».

L’invasione tedesca sorprende gran parte degli italiani: sembra che pochi si aspettassero da parte dei potenti alleati una reazione tanto pronta, favorita peraltro dalla latitanza dei comandi militari e delle autorità politiche italiane. Sorpresa, da una parte, ma anche sentimenti di ripulsa e di paura, che testimoniano nei più un’avversione che va oltre le contingenze. Non manca certo chi sposa la causa dell’alleato d’un tempo, e anche di costoro leggeremo memorie e testimonianze. Ma nella maggioranza si avverte il riemergere prepotente di un sottofondo di ostilità

antitedesca che viene da lontano, dall’educazione patriottica e dal culto della Grande Guerra (l’abbiamo già ricordato) nella quale il tedesco aveva recitato il ruolo del «nemico secolare». Il fascismo aveva tentato di cautelarsi contro l’ostilità popolare imponendo ai giornalisti di evitare l’uso dei termine «tedeschi» e di sostituirlo con «germanici». La direttiva fu osservata con rigore, come è possibile constatare attraverso la lettura della stampa; ma l’esorcisma non ebbe grande effetto.

Ciò che gli italiani, o almeno i nostri testimoni, vedono è la faccia pubblica, la violenza e la tracotanza, certamente gli aspetti più inquietanti dell’azione dell’esercito straniero che si va installando nel paese. Ma ben più allarmante sarebbe stato sapere gli obiettivi della potenza che stava alle spalle di quelle truppe e che si apprestava a vendicarsi di un alleato che aveva sempre disprezzato e a cui addebitava un tradimento imperdonabile. Il disegno che presiedette all’occupazione dell’ Italia era infatti già delineato nella primavera del 1943, per quanto, pochi mesi dopo, l’esautorazione di Mussolini abbia colto di sorpresa tutti i dirigenti tedeschi. Ma lo sconcerto non ebbe lunga durata: in attuazione di un piano detto Alarich per l’occupazione della penisola, in Italia vennero fatte affluire le divisioni necessarie (quattordici, che si aggiunsero alle sei già schierate nell’Italia meridionale); e pochi giorni dopo il colpo di stato, alla fine di luglio 1943, l’invasione era di fatto già in atto, senza che militari e governanti italiani avessero la forza di opporsi, occupati com’erano a nascondere il loro doppio gioco.

Nei mesi che seguono l’invasione militare, la struttura di dominio si articola in una pletora di centri di potere – che riflettono anche le contraddizioni e le rivalità interne alla Germania nazista. Sugli italiani le contese tra i vari comandi e tra i ministeri tedeschi si riversano con l’effetto di ulteriori pretese, prepotenze, angherie. I nazisti hanno bisogno di conseguire risultati economici, quali il trasferimento di macchinari in Germania e, successivamente, si propongono lo sfruttamento di tutta la produzione italiana; intendono attuare la cattura di tutti gli uomini validi per deportarli e farli lavorare nelle industrie e nelle campagne del Reich (per mesi parlano di oltre un milione di lavoratori da catturare); si propongono la rapina della derrate alimentari e di gran parte della produzione agricola, attuata anche con il sostegno degli organi tecnici della Repubblica fascista; e non intendono certo trascurare gli obiettivi della loro politica

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razzista, la caccia agli ebrei, e infine, collegata con questa, la repressione politica. È un meccanismo gigantesco, articolato e spietato, che alla gente comune si presenta con la sembianza del soldato teutonico, guerriero barbaro e spietato, ricalcata sull’immaginazione popolare.

L’ostilità degli italiani l’aveva registrata anche Maria Assunta Fonda, nata e educata in una famiglia torinese, dalla quale ha mutuato un patriottismo e un antifascismo di marca risorgimentale. Scrive, in un brano che suona quasi come introduzione alla già citata resistenza dei soldati della caserma Provvidenza, a Torino.

Il popolo italiano odiava Tedeschi, soprattutto i nazisti; i soldati erano pronti a volgere le armi contro di loro. Li odiava perché li considerava senza pietà, li detestava per quello che avevano fatto agli Ebrei, anche se non si sapeva tutta la verità sui forni-crematori e sulle camere a gas, per i racconti che avevano fatto i reduci sulle crudeltà perpetrate in Russia e altrove non solo contro i Russi, ma soprattutto contro gli alleati italiani. Li odiava per il loro atteggiamento di superiorità e di disprezzo verso tutti, ma principalmente verso gli Italiani, di cui si erano serviti come carne da macello, ed aspettava solo un ordine, un cenno per combatterli con tutti i mezzi a disposizione.

C’è qui, probabilmente, anche una disposizione a ingrandire ed esaltare la coscienza popolare di quello che decenni più tardi sarà detto «il Male assoluto» e a dedurre da tale sentire una chiara volontà combattiva. Maria Assunta aggiunge tuttavia un elemento, che in sostanza fu quello che iniziò a coagulare sentimenti e volontà fino allora incerti.

Quando i soldati furono rientrati alla «Provvidenza» io e mia sorella corremmo su nella vigna, perché il retro dell’edificio aveva parecchie finestre, che davano su di essa e vedemmo quei poveri ragazzi aggrappati alle inferriate. Ci chiamarono disperati e ci supplicarono di aiutarli a fuggire volevano tutti scappare prima che arrivassero i Tedeschi a prenderli prigionieri. Ci spiegarono che gli ufficiali avevano chiuso a chiave gli armadi dov’erano riposti i loro abiti civili e che loro non se la sentivano di fuggire in divisa, perché sarebbero stati subito riconosciuti e fatti prigionieri. […] Infatti andammo in casa, radunammo tutti gli abiti e le camicie vecchie di mio padre e di mio fratello che trovammo, poi andammo a bussare alle porte dei vicini di cui sapevamo di poterci fidare e chiedemmo anche a loro se potevano darci qualcosa. Tutti dettero il loro contributo anche il parroco, che anzi quando bussammo alla canonica, si offrì di nascondere un ragazzo che avesse avuto la casa troppo lontana per poterla raggiungere.

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In difesa dei compatrioti si delinea insomma un fronte unico, animato – è vero – soprattutto dallo spirito materno delle donne verso quei giovani, in cui ciascuna vede un figlio, un fratello, un amante; ma che è sollecitato per gran parte dalla visione della miseria in cui è precipitato l’esercito, e con esso il paese. Non è molto diverso quanto scrive Irene Paolisso dal paesino, Trivio di Formia, in cui la sua famiglia si è rifugiata.

14 settembre (martedì) [1943]. Arrivano dal nord giovani una volta soldati, decisi a raggiungere il sud per ricongiungersi con le proprie famiglie. Fanno la strada dei monti per non incontrare tedeschi, che hanno già fatto la loro comparsa anche qui. Ci si gela il sangue non appena ne vediamo comparire uno. Che razza di essere vivente è ormai un tedesco per noi? Uomo no, non più. Non riusciamo ad immaginare niente di più pericoloso di un tedesco. E trovo addirittura incredibile il fatto che Lina e la madre camminino al fianco di due o più tedeschi per la via principale di questo paesino, sotto gli occhi di tutti: sicure e quasi allegre, come se finalmente la guerra abbia dato loro la fortuna di trovare degli amici nella loro assoluta miseria.

Accanto al nemico segnala, come si vede, anche i cedimenti della parte più debole della popolazione.

La descrizione degli avvenimenti è, come sempre nel diario di Irene, vivace e a tratti immaginifica. Il 9 settembre segna per lei una svolta nel modo di vedere gli uomini, il giorno in cui si manifesta una degradazione che a poco a poco contagerà tutti.

Ecco che da oggi, propriamente da questa mattina all’alba, gli uomini hanno cessato di essere uomini: si sono trasformati in lucertole che strisciano fra le erbe e le piante, che si annidano dietro massi e cespugli in attesa. Tutti siamo in attesa, nessuno sa di cosa. Siamo riusciti a spostarci dal sottoscala cauti e guardinghi, sette in uno ormai. Abbiamo fatto un piccolo tentativo di aprire uno spiraglio sul mondo ma subito abbiamo desistito: abbiamo però scorto gli uomini lucertole appostati tutto intorno alla casa, come se proprio questa fosse il bersaglio della loro azione di accerchiamento. Torniamo però indietro di qualche ora. Alle quattro e trenta di questa mattina siamo saltati dal letto destati da uno squarcio improvviso: una voragine di paura ci ha inghiottiti e non ricordo già più come ci siamo ritrovati insieme nel sottoscala. Come ci si sente affiatati nei momenti più tragici. Non ci eravamo mai abbracciati con tanto slancio. «Insieme, moriamo insieme!» non faceva che ripetere nostro padre che era stato soldato, nella guerra che lo ha visto eroe, dove si è anche meritato un paio di medaglie. Abbiamo atteso a lungo e non è accaduto nient’altro di nuovo. Ancora però non sappiamo da chi ci si debba difendere, così isolati dal mondo, rinchiusi in questa nostra tana, coi soldati italiani là fuori.

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E nel pomeriggio aggiunge:

Hanno bussato, ci hanno chiesto abiti borghesi: non vedevano l’ora di buttar via le divise. Volevano scappare, avevano fretta di scomparire. Hanno però spiegato che andranno sui monti, dove ci si prepara a far resistenza, anche se è difficile, perché gli ufficiali sono già scomparsi tutti. Non ho avuto il coraggio di mettere il naso fuori dall’uscio: a un tratto odio la luce del sole e la campagna sconfinata e infida. Di tanto in tanto ci giungono colpi di mitraglia: qualche soldato scarica, sparando a vuoto, le sue armi.

Le «lucertole» insomma tornano uomini e la loro scelta di «andare sui monti» li nobilita, tanto più che il dileguarsi degli ufficiali conferisce loro la piena responsabilità dei loro atti. Al contrario si fa animale il nemico occupante. «I tedeschi hanno assunto una maschera fredda e inumana, che ne fa in apparenza dei temutissimi mostri. E non sono soli in questa loro parte: li aiutano certi neri figuri, venuti fuori con una burbanza ben più decisa e pericolosa dei tempi della “normalità”». La violenza è tuttavia contagiosa, nel clima della guerra che tuona minacciosa sulle teste degli sfollati.

Ieri sera, una razione abbondante di morte: un’ora e tre quarti di bombardamento aereo sulla città, con razzi, sordi rombi, ora più lontani, ora più vicini, squarci di bombe, e i cuori impazziti. Ce ne siamo stati in piedi sulla soglia, stretti gli uni agli altri, in attesa che si compisse la nostra sorte. E cosa ne è derivato? Nient’altro che l’invasione di pericolose ombre di uomini non più uomini per noi ma mastini, che hanno infestato il paese entrando nelle case e frugando in ogni angolo alla caccia degli uomini lucertole, che ora strisciano tra rocce e cespugli in cerca di un rifugio sicuro: Igino, Gino e gli altri. Giovanni C. è caduto in mano ai tedeschi e ha così risolto il suo problema accettando di lavorare per loro. Molti altri sono stati presi, incolonnati e condotti a collaborare giù in città, per rimuovere le macerie e per piazzare cannoni e mine.

All’aggressività dei tedeschi si aggiunge quella degli italiani stessi residenti nel villaggio, insofferenti per la presenza di tanti sfollati a cui addebitano le responsabilità della miseria; una violenza che a lei appare sproporzionata e insensata.

Uno sfollato, sorpreso a tagliare un ulivo, è stato inesorabilmente freddato da un paesano. Ho paura che saremo prima o poi travolti tutti da pazzia collettiva. Ho chiesto a mia madre, figlia di contadini, quanti anni occorrano perché un ulivo dia frutti. Mi ha solo risposto: «Una pianta

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per il contadino rappresenta l’eternità, la vita al di là della sua vita». Una cosa sacra, dunque, che va difesa anche col sangue del fratello?

Nei mesi successivi gli affanni e le sofferenze dei rifugiati si fanno progressivamente più acuti, resi più crudi dalla persecuzione messa in atto dagli occupanti: «8 ottobre (venerdì) [1943]. I tedeschi si sono fatti ancora più audaci: hanno perfino mostrato i denti coi fucili e i mitra puntati contro di noi, dopo essere entrati nelle nostre case per scovare uomini e portarli al lavoro». Il diario di Irene ci fa seguire il crescendo dell’oppressione e della spoliazione.

17 ottobre (domenica). Stamane ci hanno destato i colpi di fucile sparati a breve distanza da noi: erano loro, gli accalappiauomini, giunti di buon’ora per sorprendere tutti nel sonno. Qualcuno ha sparato persino verso le donne che spiavano alla finestra. Se ne sono andati dopo qualche ora portandosi avanti una trentina dei nostri uomini sotto la minaccia di fucili. Ieri sera erano venuti a chiederci bestie da macellare, ritenendoci allevatori o facoltosi agricoltori. Abbiamo cercato di spiegare la nostra reale situazione, e per fortuna non hanno perso la pazienza.

Ma la ferocia dell’occupante si scatena dopo poco più d’un mese.

27 novembre (sabato) [1943]. Ne parlerà un giorno la storia? I cuori pietrificati delle madri, delle mogli, dei padri dinanzi agli uomini che cadono sotto le raffiche di mitra, la rabbia del giustiziere che scarica il suo odio sugli inermi, sui giovani che hanno detto no o non hanno avuto la forza né il tempo di dire no, il corteo dei vecchi, dei malati, degli storpi incolonnati per essere portati a piedi non si sapeva dove, guardati a vista da rabbiosi segugi coi mitra puntati su quella folla di straccioni. È cominciato ieri mattina all’alba, quando all’improvviso camionette, camions e autoblindo hanno vomitato colossi armati fino ai denti e in perfetto assetto di guerra, pronti a sgominare un fantomatico esercito di nemici. Hanno quindi dato inizio all’opera facendo saltare le serrature e sorprendendo a letto la maggioranza dei civili. Un colosso ha cacciato fuori del letto papà senza ascoltare ragioni: papà barbuto, gonfio, tremante. Tutto intorno a noi, spari, grida, minacce. Questa volta l’azione di rastrellamento era affidata a corpi delle SS della più pura specie, ben nutriti, ben equipaggiati. Altre SS salivano per le montagne sparando a vista e lanciando grida e minacce. Igino e Gino avevano appena fatto in tempo a saltare dalla finestra verso i monti: e in tanto inferno pensavamo anche a loro, e ad ogni sparo che proveniva dalle alture era per noi uno sparo nella loro direzione. Senza parlare, ci guardavamo pallidi e impietriti. Non abbiamo saputo nulla fino

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a sera inoltrata, senza più sperare nemmeno per papà, che s’erano portato via con gli altri malati e storpi. Igino e Gino hanno raccontato poi di essersi salvati per puro miracolo: rimanendo immobili, rannicchiati ore e ore in una specie di cunetta sotto un pietrone, sul quale passavano e ripassavano i tedeschi. Ma altri non sono più in grado di raccontare. Sul Redentore, nella cappella di San Michele, erano raccolti in dodici: avevano lasciato le famiglie in paese ed erano andati a stare lassù non appena avevano avuto inizio i rastrellamenti. Scendevano di tanto in tanto in paese per lavarsi, per cambiarsi, per prendere qualche provvista. Così la sera precedente era venuto giù Salvatore Marciano, e, sorpreso dal maltempo, non se l’era sentita di risalire la notte stessa: era rimasto, come faceva di tanto in tanto, per riposare accanto al bambino di quattro anni e alla piccolina di appena nove mesi, abbracciato alla moglie, la giovane bionda tante volte ammirata mentre se ne stava sulla soglia del suo negozio di alimentari, in centro. La mattina dopo, invece, l’inferno anche per lui. Era riuscito a scappare come gli altri, a tornare su dai compagni, dove però li hanno raggiunti i segugi e li hanno fatti fuori tutti insieme, i banditen. È stata la moglie a raccontare ogni particolare, dopo averlo riportato giù disteso senza vita su una scala, aiutata dalla suocera, ancora caldo. Sappiamo ora che qualche sera fa, qui in paese, un italiano ubriaco ha ucciso un soldato tedesco: ed è scattata l’azione di rappresaglia, soprattutto con l’intento di fermare le probabili intenzioni di guerriglia armata da parte dei nostri, organizzati sulle montagne. E altri sette li hanno presi, costretti a stendersi a terra, in piazza, tra la folla atterrita: li hanno finiti scaricando loro addosso i mitra, proprio sotto gli occhi delle donne e dei bambini. Invano il parroco li scongiurava: è arrivato anche a lui, alla fine, un calcio allo stomaco ed è stramazzato come morto. Altri cadaveri sono poi andati a raccogliere le donne e i vecchi su per i monti: i banditen, i traditori, avevano ricevuto la loro lezione. Solo a sera, con altri invalidi e vecchi cadenti, è tornato papà, scalzo e stanco, ma orgoglioso di avercela fatta. Abbiamo ricevuto un ulteriore ordine di sfollare, di lasciar libera la zona per le operazioni di guerra. Non si fidano, i tedeschi; affermano che questo ormai deve considerarsi il fronte, pertanto è pericoloso rimanere. Ci hanno dato tre giorni di tempo. Non sappiamo ancora quale direzione scegliere per la nostra partenza […].

Nel tempo – in quel tempo – ogni emozione e ogni amore sembrano destinati a essere sospesi: «26 dicembre [1943] Da quando siamo salite quassù, abbiamo perfino cessato di essere donne: si sono improvvisamente interrotti i nostri cicli; arriviamo a scherzarci sopra accusandoci a vicenda di aspettare un figlio concepito per opera e virtù dello spirito santo».

Queste sono le prime testimonianze di una tragedia che si prolunga per un arco di tempo che è variabile, fino a quando

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almeno – ma non sempre – all’occupazione tedesca segue quella alleata. Altre paure e altre angosce per molti si sostituirono allora a quelle derivanti dalla barbarie del «nemico secolare». Nella Toscana, su cui l’Archivio offre il maggior numero di testimonianze, è ben avvertibile il dramma della violenza nazista, che nell’estate e nell’autunno 1944 tocca il suo culmine. Dalle città si riversa nelle campagne un flusso ininterrotto, che pare addirittura crescente, di donne e uomini alla disperata ricerca di un qualsivoglia rifugio.

Non passava giorno che non arrivassero nuovi sfollati, tutti fuggivano dai paesi e dalle città, i nuovi arrivati raccontavano cose spaventose, di gente uccisa per rappresaglia, anche vecchi e bambini, e di treni carichi di persone, chiuse nel vagone come bestie, e deportate nei campi di concentramento in Germania – racconta Norma Guerri – Poche persone si fermavano alle case lungo la strada, chi non aveva un rifugio cercava di andare in posti più remoti, ma l’avanzata degli americani percorreva le zone brulle della campagna, nessuno era sicuro, il pericolo degli scontri col nemico potevano capitare dovunque.

«La vita era impossibile fra bombardamenti, fame e tedeschi che deportavano gli uomini», ricorda Fidalma Gatto, figlia di un ferroviere, rifugiata a Livorno con la famiglia che nella cittadina toscana prende dimora perché la madre rifiuta di andare al sud, in quelle che sembrano zone più sicure dove il marito ferroviere, per non lasciare il suo lavoro, non avrebbe potuto seguirle.

I miei fratelli più grandi, il babbo e lo zio che aveva 26 anni, se ne stavano sempre nascosti. I tedeschi sempre più sanguinari e pericolosi tenevano i mitra puntati verso le donne e i bambini. Per questo sono convinta di soffrire attualmente di «stitichezza» a causa di tutte le paure subite durante quegli anni della mia adolescenza anche perché allora era tutto il contrario.

In questo mondo di sciagure e sventure ci sono tuttavia anche isole che sembrano assicurare una relativa tranquillità; e ci sono persone che pur precariamente riescono a vivere brani di una lieta giovinezza e a stabilire cordiali rapporti con alcuni degli invasori. Tra il 15 e il 17 giugno 1944 la quiete un po’ monotona di una villa toscana, in cui con la famiglia benestante fiorentina di Perla Cacciaguerra si sono rifugiati tre giovani (due cugine e il fratello di una di queste), è interrotta da una inattesa invasione.

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Stasera sono arrivati qui due soldati che hanno requisito due nostre camere – scrive nel suo diario Perla Cacciaguerra – Sono buoni e non danno noia e quello che è bello stanno per conto loro. Uno è un bravissimo pianista e si chiama Gherardo Otto e ci ha fatto sentire alcune sue composizioni che sono molto graziose. È stato alunno del grandissimo N... e quindi si può dedurre che non è un pestanote qualunque. Ci ha fatto trascorrere un’ora piacevole. È appassionato della musica e quando suona non si riconosce più tanto è preso dall’entusiasmo di quello che fa. Non è bello, anzi è brutto e piccolo, deve avere una quarantina d’anni e ha degli occhi degni di un personaggio da romanzo russo; profondi e ornati da folte sopracciglia. Direi che sono quasi magnetici ed emanano una profonda tristezza. Deve essere molto duro per una persona così essere ridotta a fare il semplice soldato e lo si vede.

Un facile romanticismo giovanile orna di pace e serenità il ricordo. E ben presto la vita dei tre giovani deve conoscere di lì a poco altri, pur innocenti, diletti.

Non so, non ricordo più com’è cominciato ma fatto sta che un giorno mi sono svegliata e ho trovato in casa una invasione di tedeschi. C’erano la bellezza di dieci giovani tra i quali alcuni paracadutisti, altri radiotelegrafisti e due che sono arrivati misteriosamente, sono restati due giorni senza farsi notare (la nostra casa è grande, ha più di 40 stanze) e si sono allontanati altrettanto misteriosamente. […] abbiamo fatto amicizia con tre paracadutisti che si chiamano Heinz, Josef e Hartmut, 24, 20 e 23 anni. Pieni di vita, simpatici, allegri. Abbiamo giocato all’omo nero, fatto piacevoli e ingrate penitenze, cantato e conversato. In pochi giorni il mio tedesco è migliorato sensibilmente.

Siamo lontani dalla coscienza dei pericoli e delle violenze che agitano l’animo di donne più mature, o almeno di quelle donne che, sia pure per la prima volta, affrontano una dura situazione di miseria e fame e violenza. Le due cugine hanno il privilegio di poter lasciare sullo sfondo la tragedia e cercano di vivere con naturalezza relazioni proprie della loro età.

Il «cattivo» non tarda però a presentarsi sulla scena:

un bel giorno mentre spensierati giocavamo nel salone ha fatto la sua comparsa un tronfio ufficiale della polizia, tutto in ghingheri e piattini, il quale dopo aver salutato tutti in maniera austera è andato di sopra a parlare con Papà nel suo appartamento. I visi dei tre camerati si sono rabbuiati e con una scusa qualsiasi se la sono svignata in camera da pranzo loro usuale residenza. Noi non abbiamo fatto gran caso alla faccenda ma poco più tardi mentre passavo per il corridoio scarsamente illuminato sono apparsi

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i tre soldati tutti apparecchiati e pronti a partire. Naturalmente ho chiesto: «Dove andate? Perché partite?» Heinz ha bisbigliato sottovoce: «Dobbiamo partire ma torniamo, torniamo senz’altro». Dopo di che silenziosamente hanno sceso lo scalone e scavalcando il muro di cinta del giardino hanno preso la via dei campi sotto una pioggia sottile e noiosa. Dopo pranzo Papà ci ha convocato nel suo appartamento per ascoltare di nuovo il professore di piano suonare qualche pezzo di musica classica e su abbiamo trovato il tronfio poliziotto che si dava un sacco d’arie e mostrava il petto guarnito di bubbole come un tacchino impaziente di conquistare. Dio mio come sono odiosi gli uomini che fanno così! Mentre ascoltavo la musica il mio pensiero correva sovente verso i tre amici e non mi potevo immaginare perché erano scappati e dove diavolo si erano cacciati. In fin dei conti mi dispiaceva che fossero andati via così presto perché erano simpatici e cordiali.

Allontanatosi il severo tutore dell’ordine, complessivamente personaggio innocuo, i tre paracadutisti ricompaiono, e

L’indomani abbiamo ripreso le piacevoli conversazioni con i tre camerati i quali hanno spiegato in poche parole che non avevano il permesso di rimanere qui e ci hanno fatto capire che sono sbandati, desiderosi solo di riposare per qualche tempo. Abbiamo cercato di svagarli come meglio potevamo e credo che ci siamo riusciti. Alla sera hanno cantato e suonato pezzi caratteristici molto malinconici. Sono davvero tre simpatici ragazzi e si vede lontano un miglio che sono stufi della guerra e anelano solo a tornarsene a casa propria. Mi hanno regalato delle medaglie e Josef che è viennese mi ha dato il suo bastone augurandomi ogni bene e fortuna. Heinz, un bel ragazzone biondo mi ha dato una piccola medaglia e mi ha detto di ricordarlo sempre e di pregare per lui. Mi ha anche baciato in fronte e mi batteva il cuore.

La storia tuttavia non si chiude su queste note romantiche.

La sera stessa della partenza dei tre paracadutisti siamo andati a letto abbastanza presto non avendo niente altro di meglio da fare e verso le una siamo state svegliate indovinate da chi? Nientedimeno che dai tre amici o meglio da due che ci informano brevemente che vogliono prendere la macchina del Dottor Fabbri requisita dalla polizia e andare al Comando di Arezzo per avvertire che la Polizia Militare combina soprusi e mettere termine a tutti questi pasticci. Immaginarsi la confusione che è regnata in casa durante la notte. Nonna ha pianto e si è strappata i capelli urlando che Papà era rovinato e che ormai era belle e morto; mammà ha sbraitato incolpando mia cugina ed io stessa di avere avuto rapporti troppo amichevoli con i tre soldati e si è scagliata contro mio fratello dicendo che era tutta colpa sua se succedevano simili fatti. […] Invece alla mattina sono ricomparsi i tre restituendo la macchina e sono stati trattati a male parole

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da Nonna e Papà. Cionondimeno Nonna ha dato loro da mangiare ed io ho avuto l’occasione di parlare con Heinz che moriva di sonno essendo stato sveglio tutta la notte. […] Li ho salutati con dispiacere ma mi hanno promesso di tornare quanto prima. Non mi hanno però dato molto affidamento poiché i soldati quando partono promettono di tornare e poi chi si è visto si è visto. Intanto la Gendarmeria si è fatta vedere varie volte e con una scusa o con l’altra non ci hanno lasciato in pace. Mi ricorderò sempre di questi giorni perché sono accaduti diversi fatti che non posso raccontare ma che rimarranno indelebili nel mio cuore.

E tuttavia la guerra, se pur lasciata sullo sfondo, è sempre presente e la sua eco arriva anche a Perla.«Frattanto nei nostri paraggi avvengono soprusi e saccheggi di ogni sorta da parte dei tedeschi; vanno di continuo nelle case dei contadini e prendono quello che trovano; ora un prosciutto, ora delle vacche oppure oche e così via».

Non distante di lì, in quello che apparirebbe quasi un mondo lontanissimo, accade qualcosa di simile, benché in toni assai più drammatici di quelli che caratterizzano la vita delle due cugine.

l’irruzione del «tedesco buono», personaggio invero non raro nelle memorie del tempo, in un paese che le imperscrutabili strategie del terrore si apprestano a distruggere: «Arrivarono in paese al mattino presto e non fu possibile scappare. I primi scoppi furono nel paese alto e poi si diffusero ovunque, 65 case vennero bruciate, molte persone uccise». Il provvidenziale e imprevisto intervento di un «tedesco buono» impedisce però che la tragedia colpisca anche la famiglia di Nicolette, autrice di questa memoria:

Anche questa volta qualcuno ci aiutò. Arrivarono tre soldati nella nostra casa. Due erano mongoli e presero quel poco che trovarono poi uscirono per visitare le case vicine. Il terzo, tedesco, era molto giovane ed aveva un viso buono. Ci fece entrare tutti e cinque in una stanza dicendoci che aveva l’ordine di uccidere, ma che egli non l’avrebbe eseguito. (Parlava stentatamente l’italiano, ma si faceva capire abbastanza). Poi volle legna e fascine e, dopo averci chiusi nella stanza, dette fuoco alla legna che bruciando, faceva alzare dense nuvole di fumo. Allora aprì la porta di casa in modo che il comandante passando, vedesse ovunque fiamme e fuoco! A pericolo scongiurato, venne al fiume con me, a prendere l’acqua necessaria per spegnere l’incendio da lui stesso appiccato. È un errore dire che i tedeschi furono tutti crudeli o meglio non tutti lo furono, come non tutti i partigiani furono saggi e onesti. Non sono gli uomini, vedi, che debbono essere condannati, bensì la guerra. La guerra che inevitabilmente crea odio e vendetta, morte e distruzione.

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È

Benché sia sincera la voce di Nicolette, il racconto non può non suscitare perplessità sia perché sarebbe stato troppo semplice e troppo facile da smascherare l’espediente ideato del giovane tedesco per salvare la ragazza e la sua famiglia, sia perché il ritorno del giovane sembra cozzare contro ogni idea di disciplina della Wehrmacht. Dobbiamo forse supporre che queste memorie, e tante altre simili che mitigano fortemente il crudo ritratto del tedesco invasore, siano quasi un tentativo di proteggersi a posteriori da una malvagità incomprensibile.

Irene Paolisso, pur nel teatro angoscioso del piccolo gretto paese in cui vive con la famiglia, ha egualmente occasione di assistere a qualcosa che sia pur transitoriamente la concilia con l’umanità degli invasori.

22 ottobre (venerdì). […] Abbiamo scorto sulla via il parroco del paese camminare tra due tedeschi giunti quassù in motocicletta: li teneva a braccetto come a bada, con fare amichevole e bonario. A un tratto due donne si sono parate davanti ai tre e hanno supplicato i tedeschi di restituire la loro biancheria. In quel momento non abbiamo visto che due uomini come noi: uno di essi ha addirittura abbracciato la più giovane delle due. Hanno promesso sorridendo, hanno anche assicurato che domani riporteranno la metà degli uomini presi. Ho visto nei due tedeschi Nino, le cui lettere, lette e rilette in questi giorni, mi danno l’idea di tante altre lettere di soldati lontani alle madri, alle sorelle, alle ragazze. Questi, li hanno educati a principi che di certo sfuggono alle loro coscienze, così presi nelle spire di una follia che farà rabbrividire molte generazioni.

In altri casi Irene può registrare la presenza, tra le truppe del Reich, di ufficiali e soldati, stanchi della guerra, che condividono con lei il rifiuto di quel mare di inumanità; ma subito dopo è costretta a riflettere che essi sono irrilevanti nella massa umana che si adegua alla volontà della dittatura.

Un giovane, proveniente con altri da Frosinone, ha riferito che sei tedeschi sono venuti via con loro, stanchi della guerra e di Hitler. Pare che non giungano ormai più ordini dalla Germania. Abbiamo poi discusso a lungo tra noi, ridimensionando momentaneamente il concetto negativo che ci siamo fatti in questo periodo dei tedeschi in genere. Sì, potrebbe anche essere che siano stanchi e maledicano la guerra e chi l’ha voluta, come noi. Ma che contano sei uomini in confronto alle infinite schiere ancora fedeli al Reich?

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L’incontro per lei più significativo avviene quando la famiglia, in fuga dalla montagna e in viaggio verso Roma, incontra in un casolare diroccato un tedesco isolato (un «venticinquenne fratello biondo»).

Poi, già sfiniti, abbiamo sostato in una casa semidiroccata del rione Castellone, dove ci si è offerta l’occasione di incontrare per la prima volta, dopo tanti mesi, un vero uomo tedesco: un venticinquenne fratello biondo, professore a Berlino, stanco come o più di noi. Si era rifugiato in quella casa per il bisogno momentaneo di vivere un’illusione, ci ha confessato, con tanta nostalgia dei suoi, della sua città, di una vita normale. Era bello come solo gli albioni sanno essere: finalmente non più un nemico. E con quell’immagine bene augurante nella mente ci siamo allontanati, percorrendo gli otto chilometri fino a Itri, sull’Appia, con il rischio continuo di essere mitragliati.

E l’incontro con il tedesco «buono» non riguarda solo donne inermi, persone in fuga, famiglie minacciate: molto tempo e una grande distanza dividono gli accadimenti narrati da Perla Cacciaguerra, da Nicolette o da Irene Paolisso rispetto a quanto racconta una staffetta, o meglio una partigiana combattente, Cesarina Veneri. Nasce in una famiglia povera, antifascista e legata alla tradizione rivoluzionaria romagnola; il padre è un repubblicano. Nel 1944 torna nella natia frazione di Carraie dalla vicina Ravenna, dove aveva vissuto dall’età di cinque anni; e a Carraie entra nella Resistenza, assolvendo a funzioni di staffetta e rivestendo al contempo un ruolo di riferimento per le donne nel piccolo paese. E in questa veste assiste al primo episodio che ha per protagonista un tedesco in cui riconosce tratti di solidarietà umana.

La casa di E Mario De Froll (nonostante il nome E Mario era una donna) era una strana casa, con la porta sempre aperta; tutti potevano entrare, ascoltare la radio, anche quando E Mario ed i suoi cinque figli non c’erano. Nel suo orto c’era un deposito di armi formato con tavole di legno e ricoperto di terra. In un rastrellamento notturno i tedeschi trovarono tre dei suoi figli e li portarono via. Io mi recai subito a casa sua per consolarla e rimasi con lei tutta la notte. Il mattino dopo arrivarono due soldati tedeschi ed uno di loro cominciò a scavare nell’orto. E Mario, che nel frattempo urlava in continuazione «I miei figli, i miei figli», quando vide che i tedeschi si avvicinavano alla buca-deposito, all’improvviso, si ammutolì. Io, che sapevo della presenza delle armi, mi misi a parlare, per distrarre il sergente che seguiva il lavoro. Mi accorsi che l’altro con la vanga

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aveva quasi scoperto un angolo della buca. Mi frapposi tra il sergente ed il soldato che scavava nel punto in cui c’era la buca. Il primo, accortosi della mossa, gentilmente mi spostò, e visto che il soldato con la vanga prendeva la terra e copriva la parte che aveva prima scoperto, gli chiese in tedesco cosa stava succedendo. Intesi che l’altro si giustificò dicendo che aveva sentito la terra tenera e che non era necessario scavare ancora perché non c’era niente di particolare. Sono sicura che quel tedesco si accorse della buca ed intenzionalmente la coprì per proteggere quella famiglia. I partigiani, nei giorni successivi, cercarono inutilmente, di rintracciarlo per offrirgli ospitalità e protezione, nel caso avesse voluto disertare.

Il secondo episodio, che ha implicazioni sentimentali più profonde, si riferisce agli ultimi giorni di guerra, quando il fronte è oramai giunto a pochi chilometri da Carraie.

Alcuni giovani soldati [tedeschi] requisirono una stanza della nostra casa per dormirci. – scrive nella sua memoria – Erano sei, ma io ne ricordo solo due, Fritz e Paolo. Quando non erano impegnati stavano in casa mia, mangiavamo insieme, scherzavamo e ridevamo come tutti i giovani della nostra età. Paolo era un bel ragazzo e si era innamorato di me. Alcune sere, quando dovevo consegnare del materiale a Campiano, mi accompagnava con la bicicletta, credendo che io dovessi solo ritirare il latte ed ignorando che portavo roba clandestina. Un pomeriggio rientrarono in casa ed in fretta raccolsero le loro cose; mi dissero che dovevano partire per il fronte, che era a circa dieci-dodici chilometri. Paolo mi chiese delle mie foto e mi consegnò alcune delle sue, che poi ho perso. Mi regalò anche una piccola rivoltella con qualche proiettile perché potessi difendermi dai primi soldati alleati. Si raccomandò che io stessi nascosta per qualche giorno, perché le prime truppe, quasi esclusivamente di colore, al loro arrivo, rubavano e soprattutto violentavano le donne. Mi diede un bacio sulla guancia e se ne andò. Verso le 23 sentimmo bussare alla porta. Era Paolo. Voleva vedermi ancora e mi chiese un bacio, un bacio vero. Mi disse che finita la guerra sarebbe venuto a prendermi per portarmi nella sua Germania. Questa volta partì davvero. Al mattino dopo Carraie era piena di soldati tedeschi feriti che attendevano di essere trasportati negli ospedali di Ravenna. Vidi una barella con un soldato con la testa fasciata. Era Fritz. Lo chiamai e chiesi di Paolo. Con le lacrime agli occhi mi disse «Paolo è morto, il suo carro armato è stato incendiato». Provai un vuoto dentro e piansi: era il mio nemico, ma prima di essere nemico era un ragazzo come me, che sperava, come me, che la guerra finisse presto. Avevamo bisogno di amore, non di odio. Fui contenta di averlo baciato, l’avevo reso per un momento felice.

Nella sua riflessione sull’umanità del giovane a cui ha donato un bacio, risuona così anche un sentimento più universale, che

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diverse giovani donne ricordano con struggimento: «Avevamo bisogno di amore, non di odio».

Non sono «tedeschi buoni» invece quelli che compaiono in un casolare toscano, dimora di una famiglia agiata al centro di una fattoria, detta «la Casaccia», nella campagna senese: «I tedeschi apparivano stanchi e più che mai ferocemente esasperati. Forse, chissà? Questo non lo sapremo mai, ma potevano essere proprio coloro che vi avevano lasciato quei lutti indimenticabili, passati alla storia delle atrocità naziste». La narratrice, Dina Brogi, all’epoca, era ancora una bambina.

Tutto il personale che si trovava attorno all’azienda per finire la giornata lavorativa, fu requisito per le loro necessità compresi i miei genitori. Si stava facendo tardi e non vedendoli tornare per la cena, sia io che la nonna cominciammo a sentirci preoccupate. Scesi le scale per vedere se in mezzo a quel caos che vi regnava riuscissi a scorgere qualcuno dei miei, ma fui io invece ad essere vista da un tedesco. Mi comandò, con quell’imperativo a cui erano abituati, di avvicinarmi e mi depose tra le mani due enormi secchi a campana, come quelli che servono ad abbeverare i cavalli. Mi fece capire a gesti che dovevo riempirli e seguirlo alla villa; i secchi erano pesanti e dondolando per la fatica, l’acqua ne usciva e mi cadeva nei piedi, così, con le scarpe bagnate, io scivolavo e di acqua ne usciva sempre di più. Il tedesco mi sgridava imprecando, mentre mi indicava dove dovevo portarli. Girammo l’angolo sul retro della villa e vidi il babbo ed altri uomini, su di un vitello appena ucciso che lo stavano scuoiando sotto gli occhi minacciosi di alcuni tedeschi armati. Il sangue era schizzato dovunque, anche gli uomini ne erano stari investiti. A quella vista cacciai un urlo; il babbo alzò lo sguardo e mi fece un cenno che significava scappa via da qua.

Per Dina non è possibile eseguire il consiglio del padre.

Nel piazzale della villa regnava una confusione indescrivibile: ufficiali che urlavano dando ordini ai militari, carri armati che si spostavano per fare posto al altri mezzi, camion che trascinavano grossi cannoni. Quella zona così amena e bella e la stessa villa, sobria ma luminosa e panoramica, l’avevo sempre considerato un paradosso, quasi un dispregiativo il suo nome: Casaccia. Ora i tedeschi avevano voluto che quel posto corrispondesse appieno al nome che portava; anzi più che Casaccia si poteva definire Casamicciola 1 o l’inferno stesso. Si stava facendo buio, – prosegue nel suo racconto Dina – qualcuno mi disse che la mamma l’avevano portata con altre operaie, prima a scavare patate e poi a sbucciarle, mentre io, sempre

1 «Casamicciola» espressione ancor oggi corrente in alcune aree della Toscana, che forse rimanda al ricordo del terremoto di Casamicciola del 1883.

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con il tedesco alle costole, portavo continuamente l’acqua per lavare la carne della bestia uccisa. Ero stremata dalla fatica, non ce la facevo assolutamente più: mi feci coraggio e chiesi anch’io a gesti, al tedesco, se mi dava dei secchi più piccoli, lui conosceva qualche parola d’italiano, ma lo capiva un po’ meglio. Mi fece capire che i secchi me li avrebbe cambiati, ma dovevo portare l’acqua nella villa; sarebbe servita per gli ufficiali, affinché si potessero lavare.

Ogni donna e ogni uomo, perfino una bambina, sono utilizzati come servi senza alcun riguardo all’età o al sesso.

Nel frattempo avevano preso anche la moglie dell’uomo che fungeva da fattore; in un viaggio alla pompa dell’acqua, io e la donna ci incontrammo. Ella mi disse: «Dina, la tua mamma ti stava cercando in questo inferno». Le risposi: «E voi perché non le avete detto che mi avevano costretta a portare l’acqua?» «Ma io non sapevo, non ti avevo mica visto con un simile macello, e con questo buio; ma non ti preoccupare, qualcuno glielo farà sapere». Anche il babbo non vedendomi più a portargli l’acqua, era andato a cercarmi prima a casa e poi un po’ dovunque insieme alla mamma. Se il tedesco mi aveva dato i secchi più piccoli, ora però dovevo salire le scale. Gli ufficiali erano al piano cosiddetto nobile, sotto al quale c’era il salottino floreale e la stanza dei limoni nonché gli scrittoi e di conseguenza c’era una discreta rampa di scale da salire, mentre per portare l’acqua ai militari semplici era ancora peggio perché erano all’ultimo piano, quello della servitù, con molte scale e disagevoli. Il tedesco mi fece cominciare dagli ufficiali, io da una parte e la donna dall’altra. Era notte fonda, le stanze, fiocamente illuminate per via dell’oscuramento e anche per mancanza di luce elettrica. Anche gli automezzi nel piazzale e nei campi adiacenti,venivano spostati al buio. Con quel suo italiano storpiato e quell’asprezza che mi faceva tanta paura, il tedesco mi disse di lavare le spalle agli ufficiali. Gli risposi di si con un filo di voce per la stanchezza; mentre mi porgeva una brocca che faceva parte del corredo insieme al catino ed allo specchio del lavamano di una delle camere, presi la brocca, ma mentre la sollevavo per versarla sulle spalle dell’ufficiale denudato fino alla cintura, urtai il lume a petrolio posto sul davanzale della finestra. Cadde e si ruppe; l’ufficiale voltatosi mi allungò un ceffone che per fortuna schivai. Allora il tedesco che mi faceva da guardiano, prese una torcia a dinamo. Avevo tanta paura a gettare l’acqua sulle spalle all’ufficiale, mi pareva quasi di fargli un torto. Il soldato notò quella mia titubanza e mi incitò con asprezza. Mi feci coraggio e piano piano gettavo l’acqua, mentre l’ufficiale mi porgeva il sapone, sentivo che emetteva dei gemiti di sollievo, specialmente quando lo insaponavo. Era perché ne aveva veramente bisogno; erano tutti sporchi di grasso delle macchine, misto con il sudore e la polvere. Lo asciugai e per un attimo fugace mi parve di scorgere nel suo sguardo un grazie, poi mi fece capire di andarmene, si chiuse dentro e probabilmente continuò

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a lavarsi più intimamente. Lo stesso rituale mi toccò di doverlo fare con altri ufficiali, i quali come il primo erano molto arroganti se non di più ma a dire il vero, molto pudichi. Con molto meno pudore e anche più arroganti si mostrarono i soldati nelle stanze più in alto i quali, oltre ad essere sgarbati e prepotenti, stavano quasi nudi in mia presenza. Il soldato che mi seguiva in ogni stanza perché non scappassimo sia io che la donna, disse loro di coprirsi un po’, ma per tutta risposta essi si misero a schernirlo. Mi sembrava di essere sola in mezzo alle belve e a quel punto fui presa dal panico, come mai prima avevo provato in vita mia. Cercavo di poter parlare con la moglie del fattore e non vedendola, pensai che lei fosse riuscita a squagliarsela. Allora il sospetto di essere sola davvero in mezzo a tutta quella violenza, mi faceva venire la tentazione di gettarmi da qualche finestra. Era quasi mezzanotte quando finalmente la incontrai mentre entrambe ci stavamo dirigendo ancora una volta al pozzo. Il tedesco si era allontanato per un attimo e noi due ci dicemmo, con lo sguardo, di scappare. Lasciammo lì i secchi e ce ne andammo con un balzo nel campo che era al lato del piazzale della villa. C’era però un inconveniente: il grano già maturo faceva rumore scostandolo perché le spighe battevano insieme le une contro le altre. Allora ci fermammo per un attimo e sentimmo che il tedesco urlava; si era accorto dei secchi lasciati vuoti in fondo alle scale. Io e la donna, strisciando, arrivammo ad un filare di viti dove c’era lo spazio necessario perché i nostri corpi non toccassero il grano. Dopo un po’ sentimmo degli spari, forse a scopo intimidatorio? Ma subito sentimmo una sventagliata di mitra, ma per fortuna eravamo già abbastanza lontano perché i proiettili potessero colpirci. Sempre continuando e strisciare per i campi, attraversammo la strada maestra e poi di nuovo nei campi. La donna era di età compresa tra i cinquanta ed i cinquantacinque anni ed io ovviamente, anche se stanca, ero più abile di lei per strisciare, ma naturalmente dovevo fare piano per aspettarla. Ci eravamo dirette verso la casetta dove ero andata a dormire qualche settimana prima e là trovammo i miei genitori e il marito della donna in cerca di noi.

Le protagoniste di questi racconti si muovono in una società che conserva tracce di un ordinamento ottocentesco, avvezzo al rispetto per le gerarchie sociali. Non di rado il compito di tenere testa alla prepotenza dell’invasore è assegnato, nei racconti, a qualche «vecchia signora» il cui alto lignaggio si intuisce dalla reverenza di cui è circondata da parte dei più giovani italiani o dai villici. Paradigmatico è quanto racconta ancora Dina Brogi a proposito della sua permanenza nella villa dei «signori», la Casaccia. L’episodio è anteriore all’invasione della truppa riportato più sopra.

Sentimmo il rombo di una moto che arrancava sulla salita poi la stessa imboccò il viale dei ciliegi e si fermò sul piazzale. Era una moto

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con il sidecar; ne discese un ufficiale delle SS ed il guidatore rimase al suo posto. L’ufficiale chiese ai due giovani in un italiano gutturale ed incerto, chi fosse il padrone della villa. «La nonna» – rispose il nipote indicando la signora sotto il pergolato. Il tedesco le andò davanti battendo i tacchi con falsa deferenza, fece un secco saluto con la testa. Io capivo solo dai gesti quello che l’ufficiale chiedeva alla signora e lo riferirò con le mie parole: «Signora, sono venuto per chiederle con i dovuti rispetti, di concedermi per un breve periodo di poter usare la sua villa. I miei soldati sono stanchi e tutti reduci dal fronte, hanno combattuto a Cassino e altrove, molti di loro sono feriti ed hanno bisogno di riposare sotto un tetto e in un letto». La signora lo ascoltava trasognata; poi si mise ad elencargli tutte le scomodità della villa: l’acqua corrente che non c’era ed era così in effetti, di bagni ce ne erano alcuni ma senza accessori, la luce elettrica mancava perché erano saltati tutti i tralicci, ecc. Il tedesco non demordeva: quanto più lei gli elencava le scomodità, tanto più lui insisteva. La signora allora lo guardò dritto negli occhi e gli disse: «Che forse questa l’hai scambiata per una caserma?» Il tedesco si fece duro e arrogante e le disse: «Io esigo! ...». La signora non gli fece finire la frase e lo abbordò dicendogli: «Così tu esigi vero? Ma certo, i tedeschi esigono sempre. Sai che ti dico – continuava a dargli del tu – lo vedi là quel bosco? – e con il braccio gli indicò il promontorio boscoso […] è pieno di partigiani e se non ci credi sei uno stupido». Non l’avesse mai detto! Lui si mise a battere i tacchi con stizza e girò su di essi e se ne andò, ma aveva gli occhi di fuoco. Essa l’aveva offeso in due modi: prima verbalmente dicendogli stupido, poi per avergli detto dei partigiani nei quali, forse, non aveva creduto.

Il dialogo tra la «signora» e l’arrogante invasore è frutto di una interpretazione, come confessa candidamente l’autrice quando annota: «Io capivo solo dai gesti quello che l’ufficiale chiedeva»; ma il racconto suona comunque come rivendicazione di dignità, tanto più efficace in quanto affidata a un soggetto debole, che può contare solo sul proprio ascendente morale. La signorilità dell’anziana proprietaria della villa viene poi ribadita per contrasto dalla volgarità della soldataglia che, a dispetto della proprietaria, verrà ad occupare la villa lasciando alla fine ogni lordura a testimonianza di vandalismo gratuito.

Anche nelle città, come avviene nel luglio-agosto 1944 in Firenze, la pressione dell’occupante si fa intollerabile proprio quando la guerra sembra avviarsi alla fine con la ritirata della Wehrmacht: ci descrive gli ultimi giorni nella città occupata Marisa Corsellini, allora diciassettenne, che condivide con la famiglia i disagi, i timori, le ansie di quei giorni risolutivi.

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Tutta la città durante la notte è stata privata dell’acqua e della luce per mezzo di mine. Per fortuna avevamo delle riserve, però se stiamo molto tempo chissà, forse rimarremo senza. Stamani non si vedevano altro che gente coi fiaschi a prendere acqua dagli acquedotti che ci sono per terra. Noi siamo andati alla pompa che c’è nell’ospedale di S. Maria Nuova. Speriamo con tutto il cuore che questa pompa non secchi altrimenti sono seri guai. Questi tedeschi non potevano essere più vigliacchi, poiché togliere l’acqua ad una città popolata come Firenze è la maggior infamia che un popolo civile possa compiere. Speriamo che arrivino presto gli inglesi così si metteranno subito a rifare gli impianti.

Dal rifiuto spontaneo verso il «nemico secolare» all’odio nascente dal terrore creato dall’occupante, attraverso una miriade di sentimenti dai quali nemmeno sono esclusi – non appena se ne presenti il destro – solidarietà, comprensione o impulsi amorosi, la figura del tedesco occupa lo spazio centrale nella percezione della guerra e della fase storica che l’Italia attraversa. I tratti di inumanità che caratterizzano gli occupanti sono, malgrado la varietà delle situazioni e dei sentimenti, la sigla che meglio di ogni altra li caratterizza, così da costituire un parametro di giudizio che si risolve in una autoassoluzione del popolo italiano, vittima della storia. Come li ha descritti con profonda convinzione Irene Paolisso: «Visi torvi, atteggiamenti di scherno nei confronti dei traditori di una causa che in verità non abbiamo mai conosciuta e tanto meno voluta».

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IV. Nella cospirazione e nelle carceri

La «presunzione di innocenza» del popolo italiano ebbe nei decenni della Repubblica democratica riflessi negativi per la cultura del paese e per la sua autorappresentazione: impedì una serio esame delle cause storiche che portarono all’affermarsi del regime mussoliniano, favorì le interpretazioni di stampo moderato presso larga parte dell’opinione pubblica, mentre presso le stesse forze intellettuali e politiche più responsabili e colte servì solo rafforzare quella immagine del fascismo, che fu detta «demoniaca», in una inefficace contrapposizione che non valse a cancellare l’influenza delle interpretazioni moderate. Benché tutto ciò sia vero, tanto che ancor oggi se ne può cogliere l’eco nelle ridicole esaltazioni del «buon uomo Mussolini», occorre anche riflettere al fatto che senza quella pur erronea percezione sarebbe stato ben più difficile mettere in campo un movimento di massa disposto a rischiare gli averi e la vita per opporsi alle forze armate del Reich. Un popolo, che in quei momenti avesse dovuto riconoscere di essere corresponsabile degli orrori del nazismo e di avere generato per primo quella forma di dittatura totalitaria, avrebbe avuto probabilmente solo due scelte: o ribellarsi a chi lo metteva davanti alle sue responsabilità e riaffermare la coerenza dell’alleanza con il Reich e la giustizia dei suoi ideali, come in effetti fece quella parte del popolo italiano che si schierò nelle file della repubblica fascista; oppure lasciarsi opprimere dal senso di colpa e accettare passivamente un destino di umiliazione e sofferenza.

Chi invece scelse si impegnarsi nella lotta e nella cospirazione lo fece anche con la coscienza di essere parte di un popolo che era stato conculcato e che di ciò aveva sofferto: quello che oggi può sembrarci un autoinganno è stato anche il piedistallo da cui è scaturita la forza della ribellione. Per molti degli autori delle

memorie e dei diari il 1943-1945 è infatti il tempo della lotta e della persecuzione. E nei loro testi possiamo trovare tracce consistenti del travagliato processo che li guida, dallo sgomento e dalle incertezze iniziali, verso scelte che diventano irrevocabili.

Per alcuni la portata etica e politica delle proprie esperienze è un valore centrale da trasmettere e da valorizzare; altri tentano invece altre strade, più complesse e meno esaltanti; e forse anche più modeste. In relazione a queste scelte non occorre, né sarebbe giusto, stilare graduatorie di merito. Come vedremo, la riflessione che ciascuno elabora ha valore per molti e diversi aspetti e ciascuno illumina prospettive cangianti, qualche volta incerte, sempre specchio di una vita intera.

Nell’Italia confusa e smarrita dell’autunno 1943 sono tuttavia numerose le testimonianze che rivendicano una vocazione immediata e spontanea per l’opposizione antifascista. Tra le memorie che raccontano gli inizi della partecipazione alla cospirazione e alla Resistenza quella di Nada Martelli è una delle più decise nell’affermare che l’adesione alla lotta antifascista fu immediata, anche se la forma di questa adesione è per certi aspetti singolare e ci fa intravedere con molta evidenza quanti e quali fossero i margini di incertezza nella diagnosi e nella valutazione degli obiettivi. I suoi ricordi hanno anche un valore di testimonianza non solo soggettiva perché offrono elementi di conoscenza su un episodio, noto alla storiografia corrente ma poco approfondito.

Sono i tempi, quelli dell’ottobre-novembre 1943, in cui la nuova Repubblica di Mussolini va tracciando le sue linee istituzionali e programmatiche; la discussione si muove a tutti i livelli, nel vuoto di autorità riconosciute e di strumenti di controllo. In questa fase si fa luce un autonomo movimento giovanile repubblicano (fu chiamato «Movimento giovani italiani repubblicani») non aderente al «nuovo» fascismo. All’epoca, nell’autunno 1943, sollevò sospetti e aspre discussioni all’interno del nascente ordine fascista repubblicano; e, benché la tendenza fosse limitata a Firenze, raccolse anche altrove attenzione e consensi. Si tratta di un gruppo di giovani che sembrano prendere sul serio la promessa di rinnovamento morale del rinato fascismo e che contano sulla possibilità di tenere vivo un dialogo tra gli italiani per scongiurare le divisioni, i conflitti, le prospettive di guerra civile e creare un fronte unico contro gli stranieri invasori, contro tutti gli stranieri. In parte si presentano come idee ingenue di giovani sprovveduti, in parte sembrano piuttosto il prodotto dell’incer-

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tezza diffusa e dell’incapacità di valutare realisticamente il peso della presenza tedesca e del suo legame con la Repubblica del Nord. Si aggiungono poi ai giovani anche coloro che pensano, fors’anche in buona fede, che questo movimento possa contribuire a costruire una alleanza tra italiani disposti a battersi a fianco dei tedeschi sotto bandiere italiane, in nome di un ideale patriottico. Tra coloro che si collocano in quest’area anche personalità del peso di Giovanni Gentile. I «nuovi» fascisti, quelli hanno scelto la RSI in nome della fedeltà alle tradizioni squadriste e all’ideologia razzista, rumoreggiano invece contro i giovani eretici che giudicano come traditori dell’idea vera del fascismo, potenziali alleati dell’antifascismo e degli angloamericani: in prima fila quelli che, nella terminologia un po’ approssimativa dello storico britannico Frederick W. Deakin (che è tuttavia il primo vero studioso della Repubblica), vengono definiti gli «estremisti» – da Pavolini a Farinacci, seguiti dalla massa dei miracolati della base plebea, ansiosi di prendersi la rivincita per i vent’anni di silenzio che Mussolini ha loro imposto. Né maggior credito sembra sia concesso al nuovo movimento dalle forze antifasciste organizzate, attente a ben altri fenomeni di aggregazione politica. Nada Martelli – che di lì a poco entrerà nelle fila delle cospirazione antifascista – così rievoca nell’autunno 1943 le vicende del movimento fiorentino.

Il «Movimento giovani italiani repubblicani» ingrossa le fila con sorprendente celerità: è una voce nuova, limpida e generosa che attrae studenti universitari, combattenti delusi, fascisti e antifascisti desiderosi di rinnovamento, giovani e anche meno giovani che si avvicinano con curiosità e speranza. È aperto a tutte le persone di buona volontà indipendentemente dalle loro ideologie, basta intendersi su un punto: gli eserciti stranieri in Italia sono, comunque, da considerare «invasori». Gli italiani devono difendere la propria dignità e riconoscersi in quei valori che avevano caratterizzato il nostro Risorgimento. Soprattutto il M.G.I.R. vuole esprimersi alla luce del sole e rivendicare il diritto palese alla propria autonomia. Per questo, subito dopo la liberazione dal Gran Sasso, quando col suo discorso da Monaco Mussolini traccia le linee programmatiche del rinascente fascismo, alcuni esponenti del movimento indicati dal gruppo, si recano a Roma da Pavolini, si fanno riconoscere come quelli della «Giovane Armata» già in contrasto col regime, gli dicono che intendono camminare per la loro strada e che si opporranno a qualunque tentativo di dittatura in nome del popolo italiano libero. Pavolini sta riparando i cocci del mutilato esercito di camicie nere, cerca, impavido, di resuscitare l’antico prestigio, si prepara alla riscossa e forse capisce che non gli conviene inimicarsi subito questi

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ragazzi ingenui e fieri. Sembra accomodante, ma non può fare a meno di dire: «Risponderete con la testa delle vostre azioni».

La risposta è tracotante e suscita la reazione immediata ed esasperata di uno dei rappresentanti dei giovani.

Luigi – racconta Nada riferendosi a uno dei suoi amici, tra i più attivi promotori del movimento, suo futuro marito – avverte la violenza del linguaggio come una provocazione intollerabile e si avventa furibondo su di lui afferrandolo per la cravatta e urlando: «Sei tu che risponderai con la tua testa delle tue azioni!» Escono dal tempestoso colloquio soddisfatti, si sentono in pace con se stessi. Franca ed io siamo ad aspettarli alla stazione, ci raccontano com’è andata e ai rimproveri concettuosi di Enzo per l’inopportuna e pericolosa irruenza di Luigi fanno eco le fragorose risate di Argante. Abbiamo portato qualche panino nero e una scatoletta di sardine, i nostri eroi affamati spolverano tutto in un batter d’occhio.

Non ci sono altri riscontri di questa singolare testimonianza. A noi può interessare il clima da gita fra amici che accompagna l’andata a Roma, a conferma del carattere disarmato e velleitario del «movimento»; ed è anche significativo il modo stesso con cui i giovani vedono (o immaginano) il comportamento di Pavolini. L’aggressività di costui, reale o percepita a distanza, sprona i giovani fiorentini a procedere per la loro strada come per una sfida irrinunciabile.

Ora si deve pensare a distribuire volantini e attaccare manifesti perché fra pochi giorni ci sarà il comizio che dovrà far conoscere a tutta la cittadinanza l’esistenza del M.G.I.R. Intanto si lavora alacremente al primo numero del giornale «La Patria» per stampare il quale Renato che lo dirige dilapida i pochi risparmi faticosamente realizzati negli ultimi anni e suscita lo sgomento della giovane moglie che ha avuto da poco un bambino. Sempre Renato si dà da fare per ottenere i permessi necessari e offrire a chi di dovere le garanzie richieste. Il proprietario del «Supercinema»

è malato all’ospedale, alcuni ragazzi lo vanno a trovare, gli spiegano di cosa si tratta e riescono a fargli firmare il permesso di usare la sala cinematografica. Il 12 ottobre ’43, nel primo pomeriggio, Margherita, Franca ed io siamo davanti all’ingresso del Supercinema e distribuiamo volantini e delucidazioni alle numerose persone che desiderano entrare. Abbiamo appuntata sul petto la coccarda tricolore. Ci sono stati accordi precisi: dovremo cantare soltanto l’inno di Mameli «Fratelli d’Italia».

Da bravi ragazzi e da profeti disarmati, quali sono, si aggrappano all’illusione di poter fare leva sull’amore di patria, tanto

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calorosamente invocato anche da chi vuole tornare alle armi per lavare l’onta del tradimento badogliano.

La sala è gremita, il silenzio assoluto acuisce la tensione dell’attesa. Trovo posto in platea, in terza fila, non vedo più Franca e Margherita, seduti ai miei lati ci sono due uomini non giovanissimi e piuttosto robusti. Ecco, sul palco disadorno appare il nostro oratore: è un prestante capitano in divisa grigioverde con croci di guerra e decorazioni sulla giacca attillata, è una medaglia d’oro al valore militare, ha un braccio amputato. Scrosciano gli applausi, calorosi come fremiti di una incontenibile emozione. Il capitano Alberti inizia a parlare e si capisce subito che non ha voglia di usare la prudenza tante volte raccomandatagli da Renato. L’analisi sulla conduzione della guerra «voluta dal fascismo e non dal popolo» è dura e lucida, la platea ascolta in un silenzio saturo di entusiasmo e paura; ora la voce si fa più tagliente mentre cadono come macigni le parole: «abbiamo pugnalato alle spalle la Francia». Immediatamente un ordine secco in lingua tedesca spegne ogni illusione e un ufficiale teutonico con seguito bene armato compare sul palco per allontanare Alberti e dichiarare con aspetto minaccioso e parole incomprensibili, ma chiare, che il comizio è terminato e la sala deve essere sgombrata. È il momento della verità: L’uomo alla mia sinistra si alza di scatto e intona «Giovinezza», gli tiro un lembo della giacca per ricordargli che dobbiamo cantare l’inno di Mameli, ma lui mi dà un violento strattone e allora capisco che è un fascista provocatore; dalla galleria una bellissima donna bruna urla, sbracciandosi, parolacce ai tedeschi, sembra impazzita: è la compagna del capitano arrestato, in sala c’è il caos, molti si precipitano all’uscita, sento Luigi che grida «Nada dove sei? Dove sei?!»... Sono dolorante inchiodata alla poltroncina con i due energumeni in piedi che cantano a squarciagola «Giovinezza», ma perché nessuno canta «Fratelli d’Italia»?

All’improvviso si alza un coro potente che sovrasta tutte le voci: «Va fuori d’Italia, va fuori stranier...!» Si sente il sinistro sibilo di un colpo di rivoltella, hanno sparato al soffitto, ora il panico aggredisce tutti e il teatro si vuota fra canti e imprecazioni.

Il teatro viene sgombrato; ma i giovani organizzatori possono constatare che attorno a loro c’è una grande solidarietà, che li rassicura e li conforta. Al momento, in verità, non sembrano avvertire che tutto il loro programma di pacificazione nazionale si è rivelato un castello di carta: «In piazza Signoria ci sono molte persone che erano in teatro, si avvicinano e ci dicono: “Bravi, bravi, continuate a lottare, siamo tutti con voi”. Luigi improvvisa un supplemento di comizio, ma gli amici lo fermano e ci disperdiamo. Pochi giorni dopo arriva da Pavolini l’ordine di sciogliere il Movimento e sopprimere il giornale».

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Nella categoria di una cospirazione «perbene», complessivamente lontana dalle durezze e dalle sofferenze che vedremo caratterizzare la vita di altri testimoni, è la vicenda della prigionia del notaio Sciamanda. Anche lui, abbiamo visto, deve sperimentare la violenza fisica esercitata da una delle tante polizie irregolari della Repubblica, la banda Pollastrini – Bardi, che si è insediata nella sede del Partito Fascista Repubblicano a Roma per esercitarvi un’attività che, più che repressione politica, può essere definita di grassazione sistematica. Furono poi i tedeschi a intervenire e a far sloggiare Bardi e i suoi utilizzando gli uomini della Polizia dell’Africa Italiana, incarcerando la banda nel dicembre 1943, segnando con ciò la fine della carcerazione di molti antifascisti, tra cui appunto Domenico Sciamanda.

Rinchiuso nel Sesto Braccio di Regina Coeli dal 24 ottobre al 5 dicembre 1943, il notaio racconta i particolari di una vita carceraria caratterizzata certo da privazioni, ma alleviata dai pacchi che i parenti possono far pervenire; le sofferenze sono sopratutto morali: la lontananza dalla moglie, dalle figlie e dalla famiglia. C’è anche ansia per l’incertezza della sorte che lo attende perché non sono note le accuse che lo hanno incriminato; ma la moglie può interloquire con personalità di rilievo, da cui riceve rassicurazioni: la «lotta tenace, per quanto cauta» che Sciamanda dice di aver condotto nei mesi precedenti non sembra poterlo esporre a particolari ritorsioni. Tuttavia egli afferma di avere avvertito nella città, fin dai primi giorni dell’occupazione nazista, un clima che lo aveva spaventato.

Voci paurose circolavano per la capitale: scomparse misteriose di cittadini, sequestri di persone, soprattutto di giovani nelle piazze e nelle vie, razzie, deportazioni, assassini, violazioni a mano armata di domicili, delazioni e vendette, le carceri piene dei fautori del regime Badoglio: […] l’ambiente saturo di terrore si rifletteva sul mio animo tanto che, verso la fine della prima quindicina di ottobre, mi sembrò che le ombre cominciassero a prendere sostanza e che un pericolo mi sovrastasse.

Nel carcere invero si trova circondato da personalità dell’antifascismo romano (come Federico Comandini) non sempre di grande peso, ma comunque legate ai suoi ambienti professionali e con cui condivide linguaggio e sensibilità; anche se può accadere che nel Sesto Braccio entri un detenuto eccellente quale Giuseppe Saragat. Agli occhi di Sciamanda si svela un mondo per

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molti aspetti paradossale: i detenuti passeggiano liberamente per i corridoi perché le celle non possono essere chiuse in quanto le porte sono state scardinate nel corso delle rivolte del venticinque luglio, quando «il popolo» venne a liberare i detenuti. Gran parte dei politici, a differenza dei comuni, si rifiutò di cogliere l’occasione «nell’attesa di un provvedimento generale di giustizia per uscire con i documenti in regola: il provvedimento fu promesso, i giorni passarono e noi siamo ancora qui», gli racconta un giovane vicentino condannato un anno prima da un tribunale «per spionaggio». Inoltre i detenuti possono disporre di celle a pagamento e a pagamento procurarsi un vitto migliore di quello fornito dal mensa del carcere. A Regina Coeli insomma sembra quasi svolgersi una vita mondana, con discussioni che vertono sulle possibilità di liberazione, sulle prospettive della guerra che tutti danno per persa e destinata a chiudersi in pochi mesi. Ma gli uomini a cui Sciamanda presta maggiore attenzione nel corso della sua prigionia sono i membri del Gran Consiglio del fascismo e gli esponenti del regime incarcerati a Roma prima di essere trasferiti al Nord. Verso di loro soprattutto si indirizza la curiosità di Sciamanda, con un atteggiamento che anticipa l’attenzione ossessiva che dal 1943 in poi ha sempre circondato «la notte del Gran Consiglio». «I ministri Pareschi, Cianetti, il sottosegretario Marinelli, il presidente della confederazione dei lavoratori dell’industria, Gottardi, il capo della polizia fino al 25 luglio, Chierici [...]», dimorano nello stesso Sesto Braccio, apprende dai suoi compagni di galera.

Cianetti: vivace e gesticolante, impegnato in una discussione con un operaio comunista; Marinelli: «a parte la divisa da caporale d’onore, quest’uomo me lo immaginavo diverso: alto, ben portante, con una bella barbetta brizzolata, come mi era sembrato di ricordarlo su una stampa. È invece uno straccio, o meglio, una lumaca chiusa nel suo guscio»; Pareschi: «Mi sembra un po’ preoccupato e che risenta di un tic nervoso». Sono piccole notazioni, che si chiudono con la partenza per il Nord dei detenuti eccellenti; solo verso il 20 novembre, con l’ingresso nel carcere dei redattori di «Italia libera» (Manlio Rossi Doria, Mario Fiorentini, Gianturco e in seguito Carlo Muscetta) si apre una fase di discussioni politiche, che non vanno oltre tuttavia il modesto livello di previsioni sul futuro dell’ Italia, sulla necessità di rigenerazione morale, sui timori per le distruzioni che la guerra porterà nell’intera penisola.

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cospirazione e nelle carceri

Di tutt’altra stoffa l’adesione alla Resistenza di Severina Rossi. Ha vissuto una infanzia che, pur dolorosa e povera come abbiamo visto, le ha insegnato valori di solidarietà popolare e di comprensione per la miseria; ha saggiato da vicino la violenza dei fascisti che spadroneggiano e impongono i loro riti; ha visto giovani, estranei al fascismo partire per la guerra di Spagna («giovani appartenenti a famiglie che vivevano disoccupazione e miseria») e tornare feriti «nel fisico e nell’orgoglio. Il popolo non odiò questi giovani, ma nessuno se la sentì di festeggiarli, perché il loro compito in Spagna, fu quello di combattere per soffocare la rivolta sociale di altrettanti fratelli lungamente sfruttati». E infine si è resa conto delle brutture della persecuzione razziale, quando ha saputo che era scomparsa, dopo una serie di prepotenze, una giovane farmacista amica, «una piccola brunetta dagli occhi neri ed intelligenti che, nonostante il suo abituale sorriso, si portava dietro un’infinita tristezza».

Con tutti quei frammenti di vita incisi nel mio cuore, sentivo l’animo gonfio e angosciato, sentivo che stava succedendo qualcosa dentro di me e i miei compaesani. La somma di tutte le infelicità ancestrali, che nemmeno l’entusiasmo per la vita [dei giovani] riusciva a nascondere, stava esplodendo. […] A colmare il vaso e a scuotere le coscienze fu la guerra, tremenda, catastrofica, inutile, che ci coinvolse tutti, grandi e piccini, percorrendo il suo cammino inesorabile, seminando guai a destra e a sinistra e, in quell’occasione, il governo si ricordò di tutti, specialmente dei poveri, dei disoccupati. Tutti chiamati alle armi. Certo, i possidenti, in buona parte si scoprirono inabili al servizio militare e anche insostituibili ai loro posti di responsabilità. […] Mia sorella Luigia, stremata dalla disoccupazione e dalle vicende della vita, con un matrimonio fallito alle spalle, incoraggiata da false lusinghe della propaganda, nella speranza di qualcosa di meglio, partì con un gruppo di donne a lavorare in Germania, sottoposte a duro lavoro, sotto i bombardamenti a catena. […] Tornarono tutte, alcuni anni dopo a guerra finita, umiliate, buona parte incinte, piene di tristezza e con un fardello di esperienze amare che difficilmente cancelleranno dalla loro vita.

Nelle file della cospirazione Severina decide di entrare per scelta autonoma, non sollecitata da dirette influenze amicali o parentali. Anche se non è del tutto chiaro quale sia effettivamente il momento della sua adesione, sembrerebbe di capire che abbia trovato i suoi contatti prima della caduta del fascismo.

Da tempo, all’insaputa di tutti, mi ero messa alla ricerca ed in contatto con i vecchi socialisti, uomini stimati, di grande levatura morale, di grande

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umanità, fedeli a un ideale non violento e democratico, a un sistema pluralistico di rispetto per le altrui idee. Alcuni di loro erano stati in carcere per il loro manifesto desiderio di giustizia e vivevano sotto il controllo dei fascisti, allo stato d’eroismo. Quando avveniva lo spostamento e il passaggio di qualche gerarca importante, qualche giorno prima venivano imprigionati e dimessi qualche giorni dopo. «Per ragioni di sicurezza», dicevano i fascisti.

La sua attività nel periodo della Resistenza consiste nella distribuzione della stampa clandestina, che va a ritirare a Milano per portarla nelle sue zone, in provincia di Cremona.

Una volta, la vidi brutta. Salita in tram a Milano, dopo di me salì un gruppo di tedeschi con due SS. Ispezionarono, aprendole, tutte le borse dei presenti, che erano tutte donne, tranne qualche anziano. Fingendo una grande disinvoltura, mi accodai al gruppo e mi misi a parlare del tempo con un SS come se fossi stata una di loro. Cercavo di rimandare e di conquistarmi la simpatia, ma capivo che era tutto inutile, ancora qualche attimo e sarebbe toccato a me. Avevo una Beretta calibro nove. Mi fu provvidenziale il tempo perduto perché mi venne in aiuto l’allarme con le sue sirene e il tram si fermò con un fuggi fuggi dal quale sparii, con il cuore in gola, in direzione opposta.

Nonostante la fortuna le sia amica in questa e in altre occasioni, la polizia politica infine la individua e la arresta a Soresina.

Mi portarono via. Era quasi l’alba di un giorno d’ agosto, afoso e umidiccio. Le finestre delle case erano ancora chiuse e il paese silente dormiva. Solo la chiesa di S. Siro stava aprendo i suoi battenti. Io guardavo la mia Soresina che stavo per lasciare e mai mi era parsa così bella. Sentivo una fitta al cuore, ma cercavo con tutto il mio essere di non perdere la calma e mantenere il massimo dell’efficienza intellettiva. Mi sentivo veramente responsabile della mia vita e di quella altrui. Guai a sbagliare! Camminavo circondata da uomini armati senza farne trasparire l’emozione, tesa nel grande sforzo di apparire serena e quindi non colpevole.

Gli interrogatori sono tormentosi, punteggiati da minacce di morte. L’orgoglio, e l’intuizione che la sua stessa vita dipende dall’essere depositaria di informazioni che i carcerieri ritengono importanti, le consentono di tener duro e di non rivelare alcun nome e nessun indizio:

Dopo circa un’ora di sosta nella caserma dei carabinieri, mi tradussero a Cremona a Villa Merli, sede dell’Ufficio Politico Investigativo (UPI). Mi

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fecero entrare in uno stanzone dove accatastate, a occhio e croce, c’erano duecento radio circa, frutto di sequestri a persone che, trasgredendo, udivano le trasmissioni di radio Londra. Subii parecchi interrogatori e le minacce di morte facevano da sottofondo a tutti i discorsi. Mi rendevo conto che bisognava tener duro e che la mia segretezza costituiva uno scrigno da custodire. C’era tutto l’interesse a mantenermi in vita con la speranza che mi decidessi a parlare, a raccontare. Se avessi ammesso e raccontato allora sì che sarebbe stata la fine per me e per gli altri. Dopo qualche giorno di digiuno, all’UPI mi diedero pane e marmellata che poi mi sforzai di vomitare perché mi sovvenne che una sventurata, in carcere, mi disse che durante gli interrogatori veniva incluso nelle vivande, qualche farmaco che faceva perdere il controllo. Facevo la spola dal carcere all’UPI, venivano a prendermi al mattino e non sempre mi riportavano la sera. Camminavo tra militi armati e truci al centro della strada e mi meravigliavo di me stessa. Non so se era coraggio o incoscienza. Ero fiera, camminavo a testa alta senza rimpianti e notavo che qualcuno tra la gente mi guardava con simpatia. Sui marciapiedi ai bordi della strada, militi in borghese si rivolgevano ai passanti: «Camminare, camminare». Talvolta per l’occasione suonavano l’allarme, per evitare il traffico cittadino e perché con le strade libere, era più facile mantenere il controllo della situazione. Eppure c’era sempre qualcuno che guardava, forse erano poliziotti. […] Gli interrogatori furono molti perché molti non risparmiarono il mio nome. Avvenivano sempre con uomini armati e qualche volta addirittura con le armi in pugno come se stessero per fucilarmi. Volevano dimostrarmi che non scherzavano. Quelle facce sinistre che ho ben chiare nella mente, quei fessi, chissà se sapevano cosa vuol dire servire un ideale!

Ci sono momenti in cui le sembra che ormai la fine sia vicina.

Quella notte l’interrogatorio incominciò così: «Qui ci sta la vita e qui ci sta la morte, per chi non ci aiuta non possiamo far niente» ... e più volte corse la parola fucilazione. […] «Mettetela al muro, facciamola finita!» e vidi caricare le armi. «Oh Dio», mi dissi, «sto per morire». Mi accorsi di non sentir bene le gambe e le spalle erano così pesanti da compromettere il respiro. Il cuore batteva velocemente e la mia mente era stanca, le orecchie fischiavano. La voce veniva dal profondo di un abisso, a monosillabi. Che fatica apparire serena; era dura, ma resistevo.

Nel corso di quell’interrogatorio esplode, elemento degno di una scenografia romantica, la furia della natura.

Nel cielo s’era scatenato un grande temporale, tuoni e lampi non si risparmiavano, sembrava che tutto l’universo stesse per cadere sulla terra. Grandine e acqua picchiettavano i tetti e i cani dell’UPI latravano irrequieti. Notte d’inferno. Non mi fu offerto nemmeno il tavolaccio per

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dormire, ma nessuno dormì. Non fui riportata in cella fino al mattino. Un interrogatorio che durò un secolo.

Dopo la pena degli interrogatori, il carcere. Ma il carcere, ripete più volte, è per lei anche una grande scuola di vita, uno stimolo per riflettere e per approfondire il significato delle sue scelte.

Valutavo la scelta che avevo fatto nella vita. Il carcere era la mia università. Mi sentivo promossa socialista e non poteva essere diversamente, perché il mio ideale era nato con me con la presa di coscienza, cresciuto con me, scorreva nel mio sangue e nella vita bistrattata di tutta la mia gente per la quale nutrivo un amore così grande, viveva negli occhi di chi soffriva, negl’episodi quotidiani da valutare umanamente. È vero che di amore ne parlano le religioni, ma quelle leggi sono nulla sulla terra, gli uomini ne parlano ma non le mettono in pratica se non sono scritte nel codice del legislatore che le legittima e ne fa rispettare l’applicazione. Tutti hanno il diritto e il dovere dell’assistenza reciproca e sociale, ma non si deve delegare solo alla carità, sulla quale non si può contare, non coincide mai con i bisogni ed è il contrario della sicurezza sociale. Forse era questo il punto che richiamava la mia attenzione e il mio confronto.

Oltre la riflessione politica, c’è l’incontro con una umanità varia, tanto umiliata quanto coraggiosa, quasi sempre vittima di una vita dura e miserabile. Ne fanno parte le detenute comuni, a differenza delle quali le detenute politiche conservano una grande vitalità; non sono tristi e depresse, come spesso sono le «comuni»: la loro sorte le «politiche» l’hanno scelta, mentre le altre, agli occhi di Severina, ne sono vittime; e di qui nasce per lei e le sue compagne di fede una capacità di reagire che si spinge fino ad architettare una beffa anche nelle circostanze estreme della detenzione, sotto la minaccia di ogni genere di violenza.

Un giorno mi accordai con la Piera, che con il pacco della sussistenza si fece arrivare da casa un abito rosso con una spiga ricamata sul taschino. Eravamo sul terrazzo al quinto piano per l’ora della cosiddetta libera aria. Nel cortile sottostante, ai piedi della guardiola, i nostri compagni si sgranchivano le gambe alla stessa ora. Io mi improvvisai acrobata, salii sulle mani incrociate della Piera, poi sulle sue robuste spalle, poi rizzandomi sulle punte dei piedi mi aggrappai al cornicione del muro e con l’aiuto di una scopa sventolai quell’abito come una bandiera. Svelta scivolai giù spellandomi il naso e il mento. Era fatta. Udimmo un urlo unanime. I compagni avevano visto. Era la prima bandiera rossa. Quando le guardie

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si girarono non videro nulla, ma vennero ugualmente a costatare di persona insieme a un fascista. Conclusero che la cosa era impossibile. Anche le altre detenute trassero le loro conclusioni, dissero che ero un artista, un’acrobata e qualcuna giurò di avermi vista con i propri occhi, una volta in un teatro e una volta in un circo equestre. Chissà se c’erano mai state.

Un sorriso, vuoi affettuoso, vuoi amichevole o ironico, accompagna sovente i suoi ricordi.

Ciò non inficia il rigore della sua riflessione.

Il 25 luglio ’43, con la destituzione di Benito Mussolini, molti militari fuggirono dalle caserme per non combattere a fianco dei tedeschi, ma non era ancor finita la loro odissea. Fra gli italiani vi fu una confusione tale che ci volle tempo per schiarirla. Una buona parte si diede alla macchia, altri riuscirono a mettersi in contatto con i partigiani e, con l’otto settembre, altri ancora seguirono la loro sorte col maresciallo Badoglio, altri aderirono alla repubblica di Salò, e il corso della storia non fu mai così avvilente. Le guerre sono tutte catastrofi, per chi le perde e per chi le vince. È giusto che gli uomini si organizzino per bloccarle, ma per bloccarle bisogna discutere e per poter discutere occorre democrazia. La democrazia e la libertà non si possono disgiungere, sono beni che devono essere connaturali all’uomo. È un delitto sopprimerle. Noi giovani non avevamo ancora conosciuto la libertà e la democrazia, ma i fermenti c’erano tutti. La ragione a lungo soffocata incominciava a imporsi.

Anche per Severina il carcere significa freddo, sporcizia, pidocchi, fame e disgusto per il cibo che le viene somministrato (sempre riso, sempre riso fino alla repulsione), e incontro con un’umanità disperata; ma per lei – ricorda – c’è anche il sogno, che addolcisce il dolore per la separazione dai suoi cari.

Di notte le ore non passavano mai, però se dormivo, avevo delle ore belle, sognavo la vita normale e rivedevo i miei familiari e tutte le persone da me conosciute senza rendermi conto di essere in carcere. Vagavo con il pensiero nel ricordo dei miei amici d’infanzia, mentre correvo in cortile e univo la mia voce agli schiamazzi degl’ altri e tutta sudata mi dissetavo all’acqua fresca della pompa. Mio fratello Osvaldo, grande amico dei miei giuochi, mi seguiva come un’ombra. Se mia madre allungava una sberla a me, piangeva lui, se allungava una sberla a lui, piangevo anch’io. Quanto giocare e, com’eravamo stanchi prima di sera! Al mattino facevamo una gran fatica ad alzarci. Mia madre gridava forte i nostri nomi e doveva scuoterci. Nei mesi di vacanza ci trascinava nei campi, nei pressi di Olzano, dove potevamo avere una grossa sorpresa, perché lei di soppiatto, appendeva le ciliege sui rami di un platano facendoci credere che era un ciliegio vero,

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che potevamo mangiarle fin che ne volevamo «anche tutti». Io non credevo a quella storia, ma stavo zitta e provavo angoscia. Mio fratello, che aveva due anni meno di me, andava ripetendo: «Ma proprio tutti? Tutti tutti?»

Poi mentre mia madre lavorava nei campi, noi correvamo felici in mezzo al verde a piedi nudi senza sentir male. Conoscevamo i nomi di tutte le erbe, delle piante, dei fiori e dei fossi. Mangiavamo le foglie dell’erba salina, acidosa e umida e incollavamo i petali colorati sulla fronte e sul dorso delle mani con la saliva. Conoscevamo il canto degli uccelli e sapevamo dove nidificavano. Guardavamo le nuvole che nei campi sembravano immense, solenni e prendevano forme di animali o di cose strane. Alle volte si presentavano minacciose e nere e al primo soffiar del vento, le erbe tremavano e le chiome degli alberi ondeggiando si scuotevano arrabbiate. Allora mia madre ci portava a casa in fretta. Talvolta, se imperversava il temporale, tutta la famiglia interrogava il cielo con angoscia. Poteva cadere la grandine e distruggere il raccolto. Allora, per scongiurare la sciagura, mi veniva consegnato un rametto di ulivo, oppure una manciata di sale da spargere in cortile mentre gli adulti recitavano una preghiera senza convinzione. «Dai, dai, prova, prova», mi esortavano, ma forse nessuno ci credeva. Per un attimo, sotto il divampare impetuoso, mi sentivo in contatto diretto con l’universo, con l’acqua e la tempesta, con i lampi, con i tuoni e l’ira del diavolo che bastonava violentemente Proserpina sua moglie, e tutte le lacrime, scrosciando fitte fitte, inondavano la terra, mischiandosi a quelle degli uomini, impotenti, pieni di paura, indifesi e colmi di solitudine. Quando giocavo in cortile, mio fratello guardava attraverso le fessure del cancello e scimmiottava il «Girulet», il gelataio che faceva il giro del paese con un carretto a bicicletta a tre ruote. Suonava una tromba per richiamare l’attenzione dei bambini, con rammarico delle mamme, che nell’intento di screditarlo, dicevano: «Girulet, cul gelato cul calset», che voleva ricordare che gli avevano trovato una calza nel gelato. Se fosse vero non si sa. Mio fratello ripeteva: «Enduet Girulet, cul gelato cul calset, edet mia che fa fret?», che significava: «Dove vai Girulet, con il gelato con la calza, non vedi che fa freddo?» Intanto il gelato non si comprava e mio fratello rimaneva ancora un po’ attaccato al cancello a sentire il richiamo della tromba, finché moriva lontano lontano. Nei miei pensieri c’era tutta la gente del mio paese, dai più cari a quelli meno conosciuti e me li trascinavo da un carcere all’altro senza potermene liberare. Forse non li avrei più rivisti.

E infine nel carcere ci sono esseri umani la cui sorte la commuove profondamente e per i quali si sente chiamata a dare un aiuto.

In una piccola cella affollata all’inverosimile, arrivò una giovane donna con in braccio un bambino di pochi giorni. Il medico della clinica che la ospitava [in attesa del parto] si era rifiutato di consegnarla ai fascisti ed essi l’attesero imperterriti all’uscita, finché otto giorni dopo il parto,

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l’arrestarono. Era lì con la sua creaturina in ostaggio al posto del suo partner. Quando nel carcere si spandeva la vocina debole di quel pianto innocente, le celle zittivano d’incanto. Intorno a quell’avvenimento disumano, gravitavano gesti di umanità, di amore, di speranza nell’uomo. Le detenute si prestavano per rendere meno difficile quella convivenza inaspettata, specialmente quando necessitava asciugare i pannolini, che spesso si asciugavano sul ventre o sotto il sedere per abbreviare i tempi, oppure ci si dormiva sopra. Nessuno si tirava indietro. Fu una permanenza di qualche mese proprio nel rigore dell’inverno, in quel carcere crudele privo delle più elementari attrezzature, senza rubinetti e senza gabinetti. Quando madre e bimba se ne andarono, tirammo un sospiro di sollievo, ma vi fu anche tristezza, come se quella creaturina esile fosse stata di tutti. Nel nostro subcosciente rappresentava la pulizia morale, il perpetuarsi della vita, la vita che scorreva inesorabile nonostante tutto.

Certo è impossibile per tutte le detenute non provare pietà per la madre indifesa e per la sua creatura. Ma ci sono anche casi che mettono alla prova più severamente il sentire comune.

Nella cella accanto alla mia, viveva una donna con gli occhi azzurri e una faccia d’angelo, era condannata per infanticidio e piangeva sempre. Un giorno che pioveva e la tristezza era favorita dal tempo, mi raccontò la sua tragedia. Aveva due bambini piccoli, il marito era partito per la guerra, una sorella si era fatta suora. Dovendo curare i campi e accudire gli animali, si fece aiutare da un uomo che aveva disertato l’esercito e dormiva nella sua stalla. Tra loro nacque qualcosa di più di una solidarietà umana. La mise incinta. Lei si vergognava da morire e temeva il tremendo giudizio della gente aggiunto all’angoscia per il marito soldato. Non disse nulla a nessuno e quando fu il momento del parto, tolse di mezzo angoscia e pregiudizi rappresentati da un piccolo esserino innocente, seppellendo tutto nell’orto. Ci pensò un cane, raschiando per terra, a portare a galla il corpo del reato. Ora era lì, con una lunga pena da scontare, esclusa da tutti gli affetti, senza poter vedere i suoi piccoli che «chissà se chiedevano di lei, e di quante e quali cose avevano bisogno». Raccontava la sua sofferenza e piangeva a calde lacrime. Le presi una mano per rincuorarla e lei mi disse: «Nessuno può immaginare come soffro per aver aggiunto uno sbaglio a un altro sbaglio». Chiederà perdono al marito, che più tardi, tornato dal fronte, la perdonerà mettendo tutto nell’inventario triste della guerra.

Con lei e con le altre donne si abitua a convivere; le sue compagne detenute comuni sono in vario modo e misura esempi di emarginazione e di sofferenza, «sventurate, ognuna con una storia diversa alle spalle, che rappresentava il risultato di una società violenta e menefreghista, tormentata, trascurata, complessa:

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senza scuole adeguate, senza validi esempi, con i valori calpestati e la ragione soffocata».

Anche Ercolino Ercole entra nella Resistenza e anche lui viene imprigionato: è noto come un antifascista e resta in carcere come ostaggio, fino a quando, inserito in una squadra di carcerati destinata rimuovere le macerie, riesce a fuggire. La «memoria» di Ercolino è suddivisa in «quindici episodi – precisa lui stesso nella scheda di presentazione del suo lavoro del 1989 – di vita operaia, vita militare, vita partigiana, di antifascista. I racconti elaborati sin dal 1946 sono rimasti sepolti nel cassetto sino a pochi mesi fa e rimessi in luce da un tardivo atto di coraggio». Non c’è motivo di credere che la narrazione si discosti molto dalla realtà. E la vita del carcere è uno dei motivi centrali della sua memoria. Su di lui grava l’incertezza della sua posizione giudiziaria; a lungo non riesce a capire quali accuse lo abbiano condotto a quel punto, fino a quando una misteriosa «voce» che dal corridoio all’esterno della cella lo ammaestra sulle norme di vita carceraria e sui modi di sopravvivere, gli comunica anche che è un ostaggio. Nella permanenza incontra anche un altro antifascista, uomo buono e innocente, fervido credente (Ercolino non lo è), il quale verrà liberato, ma solo per essere ritrovato il giorno seguente crivellato di colpi…

I politici, come ha illustrato anche Severina Rossi, vivono a contatto con i delinquenti comuni, e tra questi Ercolino incontra una persona singolare, davanti alla quale è costretto a fare appello a tutta la sua capacità di comprensione umana per adeguarsi e riconoscerne la dignità.

Giorgina era un recluso condannato a 15 anni di carcere per violenza carnale e omicidio di minorenne. Aveva circa quarant’anni. Non molto alto, i capelli lisci pettinati e lucidi per la brillantina. Sul viso un cerone di bianca crema metteva in risalto gli occhi neri e profondi. Due nèi posticci, uno sotto l’occhio destro, l’altro sul mento, due vezzosi riccioli sulla fronte, ricavati da ciocche di capelli piegati ad arte, completavano il suo viso donnesco. Il collo scarno e rugoso era nascosto da un’alta striscia di tessuto nero fissato con una spilla luccicante. Indossava la divisa a strisce dei detenuti con la giacca modificata: priva di colletto e risvolti con ampia scollatura su una carnagione lattea. Una cintura stretta alla vita modellava il corpo snello e flessuoso dalle movenze aggraziate. Godeva di massima libertà e circolava nel corridoio parlando con i detenuti attraverso lo spioncino. Era addetto alla distribuzione della minestra. All’apertura della cella salutava con «ciao bello» o «Tesoro mio», muovendo oscenamente

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la lingua. La presenza di quell’uomo incredibile mi metteva a disagio: ma avevo notato che nello scodellarmi la minestra pescava sul fondo per favorirmi con una razione più densa e consistente.

Una mattina, ottantesimo giorno di reclusione, la guardia mi annunciò la concessione di un’ora di aria. Tornavo a rivedere il sole, il cielo! Fui introdotto in un piccolo cortile con altri quindici reclusi. Oltre il muro si vedeva la cinta con il camminamento e la sentinella al turno di ronda. Era una fredda giornata di sole. Appoggiato al muro, con gli occhi chiusi, godevo il tepore e la gioia di essere vivo.

Arrivò Giorgina accolta da applausi.

Mi si avvicinò e compitamente si presentò: «Giorgina». Allungò la mano all’altezza del mio viso come invito al baciamano, la scostai con gesto brusco.

Una voce dal gruppo disse: «Giorgina, fai la sceneggiata!»

Assentì e tutti fecero circolo. Alternando il timbro di voce ora baritonale, ora in falsetto, interpretò con verosimiglianza il congedo, alla stazione, di un marito alla moglie in partenza per le vacanze.

«Ciao cara, riposati».

«Mi raccomando, amore, bagna i fiori, rigoverna la casa, non tradirmi».

«Non fare imprudenze, non bere acqua ghiacciata, scrivimi!».

«Rincasa presto, paga la donna di servizio, ritira la posta, pensami!».

«Arrivederci!».

«A presto!».

A questo punto Giorgina rivolge le sue attenzioni a Ercolino.

Il suo viso era a pochi centimetri dal mio. Un lezzo disgustoso saliva dal suo corpo Lo respinsi. Si girò e piegando il busto in avanti arretrò sino a strofinare il suo sedere contro il mio basso ventre.

Tutti ridevano: ero confuso, umiliato.

Lo colpii con un pugno: si afflosciò con un lamento e svenne. Un colpo duro, troppo. Due o tre reclusi si precipitarono su di me: fui aggredito pesantemente. Mi difesi a stento finché la guardia mi salvò, riportandomi in cella.

«Cristo» disse «cosa hai fatto: è la loro donna! Non potrai più uscire, sarebbe troppo pericoloso».

Compresi di non essere stato spiritoso, né tollerante. Rimase assente due giorni. Quando riprese servizio, lo guardai fisso negli occhi. Dissi: «Perdonami, ho perso la testa. Non lo farei più. Sono mortificato!» Annuì, mentre i suoi occhi si riempirono di lacrime: il mio rimorso crebbe. Qualche giorno dopo suonò l’allarme per un’incursione aerea. Si aprirono le celle e fui fatto uscire con gli altri.

Improvvisamente un pensiero: altre volte l’allarme era suonato, nessuno si era preoccupato di farmi uscire dalla cella. Perché oggi? L’idea di rimanere nel rifugio, forse per ore, con i miei nemici mi atterrì. Rallentai il

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passo, mi misi in coda al gruppo vicino alla guardia. Entrai con esitazione nel lungo corridoio.

Tutti erano seduti sulle panche lungo le pareti e mi fissavano, sentivo la loro ostilità. Improvvisamente Giorgina mi prese sottobraccio, mi portò in mezzo a loro, mi abbracciò e mi baciò sulla guancia. Non lo respinsi anche se disgustato.

Poi si sciolse: «Vi presento il mio nuovo amore. Abbiamo avuto contrasti: succede tra innamorati! Bruto!!» disse toccandosi la mascella tumefatta. Qualcuno rise. Giorgina chiese spazio, mi fece sedere e sparì al fondo del corridoio. Uno di loro mi offrì una sigaretta. Attutiti si udivano gli spari della contraerea. […]. Improvvisamente una mano mi strinse la nuca con forza, fui alzato quasi di peso e spinto sul fondo del corridoio. Di là giungevano voci e risate.

Fui introdotto in una cella. Una voce dietro di me urlò: «Impara a vivere coglione! Toh!!» Giorgina era in piena attività con un cliente, altri erano in attesa. Fui riaccompagnato al mio posto tra le risate di scherno; ero composto e tenevo gli occhi bassi, vergognoso.

Se si pensa all’intensità dell’omofobia dell’epoca, certamente superiore perfino a quella di oggi, il comportamento di Ercolino da una parte rivela quanto lo condizionasse il costume sociale, ma dall’altra testimonia una sensibilità che gli consente di acquisire rispetto anche per i diversi.

Colta, bene inserita nella società romana grazie alle parentele, legata ad ambienti intellettuali antifascisti, Filomena Lina Trozzi, (Filomena Lina Trozzi Spellanzon, morta a Roma nel 1995), entra anch’essa quasi naturalmente nelle fila della cospirazione; viene arrestata dalle SS a casa di Gioacchino Gesmundo, fucilato poi alle Fosse Ardeatine. Reclusa nel carcere di via Tasso, e successivamente a Regina Coeli e infine, dopo una condanna a dieci anni di carcere duro viene deportata per scontare la pena in Germania, da dove torna solo alla fine della guerra. Ci ha lasciato una lunga memoria da cui risalta la sua ostinazione nel difendere la propria dignità e la rivendicazione dei propri ideali. La prima tappa della deportazione, ai primi di maggio, è

Dachau: «Quello che non dimenticherò mai sono gli occhi del comandante del campo, seduto ad una scrivania con ai lati due pastori tedeschi. Agghiacciante» La condanna a dieci anni di carcere duro le risparmia le atrocità nei campi di concentramento, dove la disciplina, lo sfruttamento e l’accanimento vessatorio erano più selvaggi di quanto dalla sua memoria non appaia la prigionia nelle carceri tedesche. Ma è comunque un destino denso

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cospirazione e

di asperità, di privazioni e di angosce. Dopo un breve soggiorno a Dachau, in una «baracchetta» allestita appositamente per lei e per le sue due amiche (non c’era più posto nelle camerate), viene trasferita a Stadelheim, un penitenziario presso Monaco. Qui deve lavorare dieci ore al giorno: sono lavori di sartoria, come quello di cucire la palma di feltro a vecchi guanti militari. E anche in questa situazione lo spirito combattivo comune alla prigioniere «politiche» la sostiene, tanto che riesce a beffarsi della sorveglianza e dell’organizzazione del carcere.

Invece di fare semplici cuciture, io facevo il «cordoncino» come una perfetta ricamatrice. Il risultato era che invece di riparare venti guanti, quanto era la media giornaliera delle altre, io ne riparavo uno. Non solo: ma ero circondata dall’ammirazione delle «vacche» [le sorveglianti, nel linguaggio delle prigioniere] che chiamavano perfino le colleghe, alla fine della giornata, per far vedere com’era bello il guanto che avevo cucito io.

Nel giugno 1944 il penitenziario è colpito dalle bombe angloamericane; le incursioni sono un ricorrente motivo di terrore perché le donne vengono trasferite nei sotterranei e lì rinchiuse; più avanti Lina viene trasferita a Landshut (nella Bassa Baviera), in un carcere che ironicamente definisce «di famiglia» perché «ogni tanto i figli del direttore venivano a curiosare su queste strane donne rinchiuse dietro le sbarre, come bestie, facendo i loro commenti». Viene trasportata successivamente in un penitenziario femminile ad Aichach (un altro distretto rurale della Baviera), dove ripete, in altra forma, la beffa ai carcerieri: ricorda che «dovevamo attaccare fibbie alle ghette dei soldati, fibbie che naturalmente erano sorrette da una striscia di cuoio. Noi riducevamo il più possibile il cuoio, perché si rompesse presto, e sotto scrivevamo: W Stalin». Anche per lei, come per Severina, il carcere significa pure incontri con persone buone, disposte ad aiutare, che le sono di conforto: non solo compagne di prigionia di tutte le nazionalità, ma perfino alcune delle sorveglianti. Ma soprattutto la sorregge un indomito spirito ribelle che le consente di resistere anche alle tante notizie deludenti, alla caduta di speranze che, negli ultimi mesi di guerra, si affacciano ogni giorno all’orizzonte solo per essere presto smentite. Ad esse può contrapporre, grazie alla sua abilità ricamatrice, un simbolo da esibire a chi, in un modo o nell’altro, porrà fine alla sua prigionia.

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Con il passare del tempo, nel ’45 radio bugliolo ha annunciato almeno quattro volte che gli alleati avevano preso Berlino e che si avvicinavano. Io, a ogni buon conto, ho provveduto a confezionarmi, col sistema del merletto ad ago, una stella rossa e un bandiera italiana, per appuntarmela sul petto, tanto se fossero arrivati gli alleati che se fossero arrivati i nazisti per farci fuori.

La lunga detenzione non l’ha piegata: un percorso che molti conoscono e testimoniano nei loro scritti.

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V. Partigiani

Non c’è una relazione diretta, un passaggio immediato tra la scelta cospirativa e la scelta di imbracciare le armi. È un atto che viene spesso, ma non sempre, in tempi diversi, per ragioni e circostanze che variano da persona a persona. D’altra parte costruire un movimento armato antifascista è stata una scelta tormentata, un impegno difficile. Non c’è stato un insorgere spontaneo e immediato di tutto un popolo, anche se indubbiamente l’ostilità antitedesca fu viva e ampia, così come il rifiuto del fascismo e il rifiuto della guerra. Ma ciascuno di questi temi influenzò e determinò le scelte di donne e uomini in stretta relazione con altri imponderabili fattori di natura soggettiva o di ambiente. Se si affrontano le memorie e i ricordi, la realtà compatta e gloriosa disegnata nelle celebrazioni ufficiali si frantuma in tante vicende tra loro simili e diverse al tempo stesso. Simili per l’impegno e per le scelte di fondo; diverse per la varietà delle motivazioni e delle circostanze e per il teatro entro cui prendono vita. Ogni villaggio, città o campagna dell’Italia occupata, si può dire, conosce qualche forma di resistenza e di rifiuto dell’occupazione, conosce il ripudio verso quei concittadini che ai più appaiono ormai come stranieri perché accettano la fedeltà al duce e al suo alleato. Ma ogni paese, ogni comunità, ogni cittadino o cittadina conduce quel pezzo di vita e di lotta in tempi e modi specifici, portando progressivamente alla luce elementi che vengono da lontano e che sono determinanti per l’intero corso della storia.

L’organizzazione dalla resistenza armata è stato un processo lungo e complesso, in buona parte dedicato a coordinare e disciplinare forze spontanee, ricche di generosi entusiasmi, ma non sempre capaci di reggere all’urto delle preponderanti forze nemiche e al peso delle fatiche e delle responsabilità. L’opera dei tradizionali partiti antifascisti si affianca al richiamo delle fedeltà

monarchiche, creando un composito esercito in cui militano, anche con divisioni e contrapposizioni profonde, «badogliani» e socialisti e cattolici e comunisti e uomini del liberal-socialista partito d’azione e infine uomini e donne mossi soprattutto dallo sdegno per la violenza dell’invasore e dei suoi alleati. Non è un blocco unitario, malgrado gli sforzi di molti dei dirigenti; l’unità è forse data solo dal carattere necessario e in certo senso corale dell’impegno che ciascuno si assume: dalle memorie e dai ricordi possiamo cogliere quanto sia ininfluente l’opzione ideologica nel sospingere verso la scelta delle armi.

Per molti, pur lontani dalla cospirazione durante il fascismo, la scelta appare ovvia e immediata, prima di tutto con un carattere sentimentale e ideale e poi, a seconda dei casi, come partecipazione attiva cui si accompagna spesso, ma non sempre, una crescente partecipazione politica. È il caso di Albertina Tonarelli che scrive: «La mia trasformazione da fascista a partigiana avvenne per un moto dell’anima, perché volevo aiutare giovani che come me sognavano la pace». Anche se non priva di contraddizioni (nel suo diario non dice mai di esser stata fascista) l’affermazione di Albertina illumina sulle motivazioni, soprattutto femminili, della scelta. Non solo elementi di riflessione politica e culturale, ma spesso, e forse in modo preponderante, componenti emotive e affettive, famigliari, comunitarie.

Questo suggeriscono anche altre memorie, quelle soprattutto di coloro che erano molto giovani: è il caso di Maria Pagani, che vive a Saronno, una cittadina a venti chilometri di Milano che contava tra tredici mila e sedici mila abitanti a metà degli anni Trenta. Cittadina di provincia, Saronno in quel tempo sembra conservare in un contesto industrializzato, secondo la memoria di Maria Pagani, il carattere di un agglomerato popolare ancora lontano dalla disarticolazione individualistica della città industriale, quasi un frammento di società patriarcale.

In tale ambiente il fascismo si presenta fin dalle prime battute della memoria di Maria come un elemento estraneo, anche se la giovane non avverte il significato di comportamenti di protesta privati, contenuti nell’ambito famigliare.

Il sabato tutti, insegnanti, alunni ed operai, dovevano indossare la camicia nera. In casa mia questo evento era vissuto come un dramma, infatti, mentre noi ragazze eravamo raggianti nelle nostre divise, mio padre litigava con mia madre, perché lui la camicia nera con i bottoni neri proprio non

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la voleva mettere. Voleva quella con i bottoni bianchi ed io e mia sorella Ida non capivamo il motivo dei rimbrotti di mio padre.

La realtà opprimente del regime non la tocca direttamente; Maria si avvia sulla strada consueta delle ragazze sue coetanee: «Nel giugno del 1943, a quattordici anni ho cominciato il mio primo lavoro: stampatrice nella ditta Bracco. Eravamo in piena guerra, ma questo non mi ha impedito di fare tante amiche ed essere felice nonostante il tesseramento, la gran fame (figuriamoci che avevamo un etto e mezzo di pane al giorno) e la guerra». Forse è la lontananza nel tempo che rende dolce il ricordo; tuttavia è proprio delle memorie femminili questa capacità di ricordare di essere state felici malgrado la durezza dei tempi.

L’ambiente in cui Maria vive è dunque quello di una periferia popolare, povera e segnata da una grande solidarietà, comunanza di interessi, condivisione di divertimenti e di relazioni con il mondo esterno.

In quegli anni, la radio era un lusso e pochissimi erano i fortunati a possederla. Nel cortile dove abitavo una famiglia l’aveva, ed il 25 luglio, alla caduta di Mussolini, eravamo tutti assiepati intorno a questo apparecchio per sentire il grande evento. In quel giorno venni a sapere che mio padre era un’antifascista già nei tempi che furono, era stato un socialista convinto con tutte le conseguenze che aveva dovuto sopportare (manganello e olio di ricino). Ma l’euforia di quei giorni durò poco perché l’8 settembre 1943 fu proclamata la repubblica di Salò. Oramai però l’esercito era sfasciato, tanti soldati presero la via dei monti, altri si nascosero nelle case, nei campi e nelle cascine. La stampa era denigratoria verso questi giovani, scrivendo che erano banditi, invece erano le prime formazioni partigiane, e guai a chi avesse dato rifugio agli sbandati. Di tutto questo si parlava animatamente e segretamente in casa dell’amica Rosina.

La scelta almeno sentimentale dell’antifascismo sembra così nascere dal clima di amicizie che domina la piccola comunità. Certamente qualche segnale le era giunto, come abbiamo visto, ma era rimasto coperto dalla grande prudenza imposta dai tempi, anche in famiglia.

Il passo decisivo dell’adesione alla Resistenza avviene su sollecitazione del fratello di Rosina, la sua più cara amica, seguendo ancora il copione della trasmissione amicale e comunitaria. Gerolamo, «reduce dal fronte russo, che lavorava, in quanto esonerato dall’esercito, presso le fonderie dell’Isotta Fraschini», assisteva

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ai loro parlari e «si commuoveva e mi pregava di fare molta attenzione quando inveivo contro fascisti e tedeschi»; un giorno le rivela in gran segreto «che lui era un antifascista ed era capo di un gruppo di operai dell’Isotta Fraschini». Da questo colloquio prende avvio una collaborazione, che coinvolge tutta la famiglia. La madre accetta di ospitare «due ragazzi» renitenti alla leva per sollevare dal pericolo una vicina, che a sua volta nascondeva in casa un figlio. Reclutata come staffetta, Maria viene condotta in una missione che avrebbe dovuto essere breve; ma, dopo un lungo percorso in bicicletta, è costretta a passare una notte fuori casa.

Nel dramma della guerra e nel tumulto di scelte radicali si inserisce a questo punto il tema della fedeltà a codici morali tradizionali; lo incarna la mamma di Maria. Al ritorno dalla missione,

Arrivai a casa mia verso mezzogiorno, e in cortile c’era mia madre ad aspettarmi, (lei era stata avvisata alla sera dalla madre di Gerolamo che io non sarei rientrata, dando spiegazioni in proposito). Appena vicina a lei sono volati degli schiaffoni che hanno lasciato il segno. Portandomi in casa di peso, mi urlò che ero la rovina di casa sua e che mettevo in pericolo oltre la famiglia anche quel ragazzi nascosti in casa nostra. Per fortuna in cortile eravamo tutti uniti!

Alla scenetta famigliare si aggiunge tuttavia anche un particolare che sa quasi di commedia.

A sera, la signora Nina Renoldi [una vicina] chiamò mia madre dicendole che c’erano due signori che la volevano: erano Ferro e Gustavo [i partigiani che avevano portato in missione Maria]. Riconosciuta la loro voce scesi anch’io con mia madre: loro prendendomi nel mezzo mi puntarono una pistola alla tempia dicendo a mia madre: «Dal momento che lei mi proibiva di fare parte della staffetta, ed io sapevo luoghi e nomi, per paura che parlassi, dovevano chiudermi la bocca in tempo». Figurarsi mia madre: chiamò papà e messo al corrente della situazione la sua risposta fu: «Mia figlia ha le mie stesse idee, io non nego la sua volontà».

Di fronte a questo, mia madre diede il suo permesso, ma con un preciso orario, cioè: partire il mattino alle 5 e rientrare alle 12 o al più tardi alle 14, e così si è sempre fatto.

Ester Maimeri ha un’altra storia da raccontare: il padre, di cui aveva già narrato il disdegno verso le liturgie del regime, non era iscritto al partito, aveva sempre lavorato liberamente, occupando posti molto importanti. Pur non dedicandosi alla politica, era un convinto

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antifascista, non lo nascondeva, ed io non facevo altro che seguire pedissequamente le due idee, anche senza capire nulla.

E lei in effetti si ispira all’esempio paterno nel corso dell’occupazione nazista; ma la storia della staffetta partigiana Ester, che agisce nei pressi di un paese della bassa Ossola, Vogogna, assomiglia per molti aspetti al racconto della vacanza avventurosa di una giovinetta di buona famiglia nella società italiana degli anni ’40. La presenza dei tedeschi e dei fascisti è da lei vissuta come un ostacolo alla libera frequentazione di amici partigiani e per questo si schiera con ribelli; ma la sua collaborazione alla Resistenza e i pericoli, che pure affronta, non rivelano precise motivazioni etico-politiche. È soprattutto il riflesso del comportamento del padre, severo e corretto gestore di una fabbrica e dei suoi operai, che si sente per dovere impegnato a difendere anche a rischio della propria sicurezza e della propria vita. Per la figlia invece partecipare alla Resistenza è quasi una affascinante avventura.

Non è la sola ad avvertire come un’avventura e come un naturale portato dell’educazione famigliare l’impegno nella Resistenza. Pur con una diversa caratura anche un suo coetaneo, Giuseppe Biagi, il modellista-cementista friulano che vantava le origini uscocche del suo spirito libertario di cui abbiamo già discorso, ricorda la sua adesione a una banda partigiana come l’avvio di un’avventura, conseguenza naturale del suo modo di vivere con gli amici nel paese d’origine, ineluttabile prosecuzione della sua giovinezza ribelle. Ma il suo impegno lo porterà ben presto lontano dal suo paese, fisicamente e moralmente. Giuseppe si muove in una terra (il Friuli Orientale) che, per la presenza e l’attività degli sloveni, aveva conosciuto i primi fenomeni di insorgenza partigiana già dalla primavera del 1943. Dopo l’8 settembre, essendo conosciuto nel paese natale di San Giuanut come un antifascista, Giuseppe decide di darsi alla macchia.

Assunsi il nome illegale di Pino e fui assegnato alla IIª compagnia del 1° battaglione Garibaldi, con il compito di corriere o staffetta partigiana. Comandante della mia compagnia era un tenente dell’E.I. di origine greca, Alex. Il commissario il cormonese Cucit Ermenegildo, già comandante del Tribunale Speciale Fascista, un uomo docile, umano, ma rigido nei propri ideali. Vice commissario un certo Bruno di S. Pier d’Isonzo, già componente il primo nucleo di partigiani italiani, fin dal marzo 1943.

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La sua giovane età non sembra però una bella qualità a chi è responsabile della formazione:

Eravamo seduti presso un casolare, intenti a parlare, quando arrivò un partigiano grande e grosso che vedendoci armati disse: cosa fanno qui questi mocciosi!? Non è posto per loro questo! Via, a casa! La sua voce grossa e baritonale incuteva timore, anche del modo com’era vestito e armato. Dapprincipio nessuno aprì bocca, poi in coro protestammo, mentre giungeva il comandante del battaglione che spiegò al grosso partigiano la nostra situazione. La lite si appianò. Dopo di che, l’uomo volle sapere. Mentre gli si spiegava le nostre traversie e i nomi dei nostri genitori, diventò più affabile.

Anche se al «partigiano grande e grosso» quei giovani apparivano dei «mocciosi», loro si sentivano ben diversi, avverte Pino. La loro scelta aveva un carattere di necessità tanto materiale quanto morale.

Quale scelta ci era consentita in quel drammatico contesto? Andare con i partigiani o con i tedeschi. Altre vie non esistevano per nessuno. La neutralità toccava solamente coloro che nulla avevano fatto, restando in disparte, covando nei loro cuori gli stessi ideali di libertà e di democrazia, moralmente solidali e spiritualmente partecipi, come lo dimostrarono durante i due lunghi anni di occupazione nazista.

C’è tuttavia anche una componente ludica e avventurosa nel suo entusiasmo, che non sembra frenato in modo significativo dalle considerazioni più serie riguardo ai pericoli che lo attendono.

Le mansioni di corriere mi permisero di percorrere da un estremo all’altro la catena montagnosa delle Prealpi Giulie: dalla Carnia al Collio Orientale. L’intera attività partigiana mi affascinava e allo stesso tempo mi incuteva paura. Una paura dovuta a quello stato anomalo delle cose, per tutti quegli avvenimenti improvvisi, che creavano in me non poca confusione e destavano dei dubbi. Dubbi che erano sempre fermi, lì, con i loro grossi interrogativi: due anime si scontravano ed emergevano con più chiarezza durante la notte, sdraiato nei fienili di montagna, dicendomi: sei appena un ragazzo e i tedeschi nemmeno lo sanno che tu hai giocato con le armi! Ritorna a casa tua. Ti rendi conto che hai peggiorato la tua situazione?

È un campione rappresentativo di una parte dei giovani che «vanno in montagna», questo ragazzo friulano: con la generosità di un ideale etico che non ammette scorciatoie o vie di fuga, ma

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senza dogmatismi; con una forte diffidenza verso le arti e gli artifici della «politica». La dimensione politico-ideologica del conflitto sembra toccarlo poco, è anzi avvertita con fastidio. I momenti di educazione politica nella formazione lo annoiano, ben diversamente dalle esaltazioni che ne hanno fatto altri memorialisti e storici.

Arrivai al comando proprio nel momento in cui i commissari del popolo tenevano l’ora politica. L’«ora» la seguivo annoiato ed assente, in quanto era un linguaggio nuovo, sconosciuto. Lo paragonavo alle prediche dei «gerarchi». Non apprezzavo i metodi espressivi contorti e sfuggenti, pieni di ambiguità, imperfetti, che nulla dicevano sul sistema sociale che ci saremmo dati dopo la fine della guerra, ma solo delle roboanti accuse (giustificate) contro il fascismo.

Con la realtà della politica deve tuttavia fare i conti; la sua estraneità ai termini della complessa situazione del confine orientale è evidente e addirittura ingenua. Lo sorregge solo un nativo sentimento patriottico, in forza del quale guarda con indifferenza e diffidenza al legame che si va instaurando (siamo ancora nell’autunno 1943) con le forze dell’Esercito di Liberazione jugoslavo, la difficile e controversa alleanza sostenuta soprattutto dai comunisti in nome della lotta antifascista.

Il giuramento del battaglione Garibaldi e un’unità partigiana slovena, erano le voci che circolavano fra i partigiani. Momenti importanti e altamente qualificanti, secondo alcuni, per legittimare e disciplinare il movimento armato partigiano nel segno della amicizia fra i popoli, e per rafforzare l’assetto strutturale-organizzativo delle formazioni nella guerriglia contro l’occupatore nazista, ma soprattutto per impegnare moralmente i partigiani alla loro fedeltà nel nuovo esercito del popolo. Le tattiche e le strategie da adottare e perseguire non erano unanimi: alcuni capi dei partigiani affermavano che la guerriglia delle formazioni italiane doveva avvenire sul suolo italiano, in forma autonoma e in collaborazione con le formazioni slovene e non alle loro dipendenze. Altri, invece, caldeggiavano ed operavano per incorporare tutte le forze italiane nel IX Corpus Jugoslavo, alle dirette dipendenze e agli ordini del comando jugoslavo, cambiando perfino i simboli! In qualità di corriere assistetti spesso a questi endemici e rinunciatari principi di autonomia espressi da alcuni che, in più occasioni, sfociavano in litigi molto cruenti, con scambi di invettive poco ortodosse per dei capi militari, investiti da grosse responsabilità storiche. Appariva con evidente chiarezza che il sottofondo di tutta la disputa era «ideologico». Il 27 settembre del 1943, i battaglioni erano schierati sul monte Korada pronti a giurare. Non mi ricordo in nome di che cosa si

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giurava, so solo che parlò lo sloveno seguito dall’italiano, poi un boato: lo giuro! Il giuramento prestato, era un preciso impegno per liberare il suolo italiano dalla occupazione tedesca, oppure per sottomettere i territori del Friuli-Venezia Giulia e dell’Istria alla mercé della «nuova» ideologia? Chi erano costoro e a che titolo vantavano dei diritti territoriali su queste terre lo dirà la storia! Però, s’ingigantisce a dismisura il dubbio che all’interno del movimento partigiano italiano si annidava una «quinta colonna» che operava alla stregua di quel famoso prete Ballaben (agente austriaco) a favore questa volta della «settima»… e… D’altronde, come spiegare certe collocazioni, posizioni e dichiarazioni di alcuni grossi capi italiani?

Il prete Ballaben era il parroco di San Zuanut con il quale lui ragazzo ebbe feroci contrasti: dopo essere stato agente austriaco costui faceva la spia dei fascisti. È impietoso e bruciante il paragone tra i comunisti filo-jugoslavi e il prete doppiogiochista e traditore. Resta il dubbio se questo giudizio non sia nato sulla scorta del «dopo», quando la tragica pregnanza di quelle alleanze assumerà rilievo e significato nel contesto del conflitto postbellico tra le due superpotenze vincitrici.

E infine c’è lo scontro armato, esperienza nuova e traumatizzante per Pino, così come fu per altri, che nelle memorie lasciarono segni importanti di questa loro vicenda. Pino ha l’intelligenza e la sensibilità per osservare in sé e negli altri mutazioni straordinarie.

L’attacco avvenne nei tempi e nei termini stabiliti, con successo per i partigiani, senza morti o feriti. I tedeschi, invece, lasciarono sul terreno molte vittime. Era la prima volta che partecipavo ad un vero attacco frontale contro i tedeschi, e il mio cuore sussultava come un compressore e un brivido lancinante trapassarmi la spina dorsale. Sembrava che le pallottole penetrassero nel mio corpo fracassandolo e, nello stesso tempo gli arti irrigidirsi, poi, poco a poco, nel culmine dello scontro tutto divenne quasi normale. Com’è strana la guerra e come cambia l’uomo facendolo diventare una bestia. Salvatore, un ex soldato dell’E.I., «siculo», dal lato destro correva e urlava come un ossesso, sembrava che dovesse frantumare le colline, distanziando tutto il suo gruppo, sparando all’impazzata, creando scompiglio fra i tedeschi che, vistisi circondati, si difendevano alla meglio. Il siciliano coltivava una lunga e folta barba, alto e asciutto come una canna, sempre taciturno, di poche parole, dalle sembianze di un povero «cristo», aveva dato una lezione a tutti.

Più baldanzosa e meno problematica, ma ugualmente intrisa di un giovanile spirito ribelle, è la storia che ci narra Enea Gibertoni: vive anch’egli la sua vita partigiana (a cui l’ha predisposto la

prepotenza di un gerarchetto locale, che abbiamo già ricordato) come proseguimento della sua adolescenza nel paese d’origine, Bomporto in provincia di Modena.

Io come S.A.P. facevo parte della brigata IVANO, un glorioso partigiano gappista caduto a Zozzigalli. A Limidi la guerra partigiana era dura, rastrellamenti continui, il primo fu in luglio, una domenica del 1944 nel pomeriggio e durò fino sera inoltrata, mi presero con i miei amici. Il rastrellamento fu condotto dai tedeschi e dai reclutati italiani e quando alla sera stavano per caricarci su un camion per portarci nel campo di concentramento di Fossoli e poi in Germania, io scappai per la campagna e prima di arrivare a casa un soldato italiano mi prese. Egli mi domandò «dove corri?» gli risposi a casa e lui mi disse «allora ti ci porto io». E mi portò a letto dicendomi che presto sarebbe fuggito anche lui dall’esercito Repubblichino. I miei amici fecero quasi un anno in campo di concentramento in Germania.

L’esordio permette di cogliere il tono quasi casalingo di tutta la sua vicenda – che pure non fu priva di componenti tragiche. Enea sembra far parte di una piccola formazione, composta di giovanissimi, i quali ignorano le più elementari norme della guerriglia che stanno conducendo, tutti presi come sono dal gioco avventuroso in cui si sentono inseriti.

I giorni li passavamo nascondendoci nei rifugi o nelle case dei contadini. Quasi tutte le sere si usciva per sorvegliare le cascine, dalle ruberie dei tedeschi e dei Repubblichini o per trovare armi da una parte all’altra per le grandi battaglie che dovevano venire. (Come quella di Cortile che siamo stati impegnati una giornata intera o come quella di Rovereto). Una sera che nevicava, mentre andavamo in perlustrazione ci siamo messi a cantare, con l’allegria di noi giovani, eravamo all’incrocio di via Martiri con via Grande Rosa, e all’improvviso, ci siamo trovati circondati da un gruppo di uomini tutti vestiti di bianco, con la neve già alta non li avevamo visti, per fortuna non erano né tedeschi né repubblichini. Erano i nostri comandanti, che ci diedero una bella lavata di testa così per sempre smettemmo anche di cantare. Capimmo quindi di avere rischiato molto, potevano anche essere nemici.

Alla leggerezza dei comportamenti si aggiunge l’inesperienza: sotto «un grosso temporale» una ventina di loro si appresta a «far saltare con l’esplosivo grosse piante» per bloccare il passaggio di una colonna di camion tedeschi; ma la pioggia ha bagnato l’esplosivo e quando provano a far saltare un albero, l’esplosivo fa

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solo un grande fuoco senza esplodere, ma quel fuoco lo vide anche PIPPO un apparecchio americano che tutte le notti sorvolava qui da noi vista la luce cominciò a bombardarci, noi ci buttammo distesi per terra nei fossati, per fortuna nessuno rimase ferito, tutti bagnati e delusi prendemmo la via del ritorno, arrivati al rifugio delle armi ci dividemmo.

Come se non bastasse, poco dopo il compagno che con Enea si sta prendendo cura delle armi per nasconderle viene ferito dal colpo di un «fucile da caccia» che qualcuno ha trascurato di scaricare.

Pioveva a dirotto, vedendo tanto sangue presi un filo di ferro da un albero e gli legai stretto la coscia e corsi a chiamare aiuto i miei compagni che vennero subito. Con una carriola passando dai fossati pieni di acqua e con grande sacrifici lo portarono in un rifugio sicuro. Quando accadevano questi episodi che uno di noi rimaneva ferito, ci rimanevamo molto male ma purtroppo allora la vita era così. Noi giovani di un tempo ci volevamo molto bene, eravamo sempre insieme e con poco ci divertivamo.

Non c’è verso, insomma, di porre rimedio alla sventatezza del gruppo, che di lì a poco viene confermata.

Una domenica pomeriggio arrivò presso la piazzola antistante Righetti [il loro luogo di ritrovo] un tiro al bersaglio, appena visto noi ragazzi con le nostre amiche corremmo subito per giocare e centrare qualche colpo per divertirci un po’ ma ahimè era una trappola per incastrare qualche giovane partigiano, e fu proprio così, perché dopo 15 minuti le nostre amiche lanciarono un grido «ci sono i fascisti» arrivarono camion da destra e da sinistra, noi appena visti scappammo come lepri verso la casa di Pini, io mi infilai in un campo di granturco e correvo come un pazzo. I repubblichini sparavano da tutte le parti, le pallottole fischiavano sopra la nostra testa. Io saltai un fiumicello pieno d’acqua e vidi un carro pieno di fieno che veniva da via Martiri e ci saltai sopra, il contadino mi coprì con del fieno e riuscii ad arrivare a casa. I miei amici furono presi tutti e portati in caserma a Carpi e picchiati, furono rilasciati dopo una settimana. Le mie amiche dopo mi dissero che c’erano due siepi che saltai erano alte più di un metro e le saltai senza vederle, persi anche le scarpe e mia zia le ritrovò il giorno dopo in mezzo al granturco.

Per Felice Malgaroli la vicenda ha aspetti meno grotteschi e la strada per raggiungere i partigiani e il suo destino nella guerra è più lineare. Nella sua caserma a Pavia (riprendiamo il filo del suo racconto dall’8 settembre 1943) «due, dico solo due uomini, soldati tedeschi entrano dal portone in assetto di guerra e con un

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panzer all’esterno, ci sbandiamo tutti in preda a tangibile paura»

E lui incomincia la sua avventura: «Ho una zia con tutta la sua famiglia a Case Marioli, una borgata senza servizio stradale né linee elettriche, posizionata alle falde del monte Penice. Mi accolgono con gioia e divento subito uno della famiglia». In quel luogo viene invaso da sentimenti che anche in seguito ritroverà: la sensazione di pace e di comunione con la natura, in palese antitesi con l’affanno della vita che è costretto a condurre: «respiro e non solo perché siamo tra i boschi. La vita tra i lavoratori di quella terra mi sa di eternità, i loro gesti lenti e precisi sono ovvii come il piegarsi dei rami sotto la forza del vento».

Ma ci sono anche altri stimoli e altre esigenze che lo spingono verso il suo destino di ribelle, conoscenze risalenti alla prima gioventù, ereditate dal padre, come quella con Giannini, di cui ci ha lasciato solo il cognome e un breve ritratto.

Con Giannini avevo già parlato quando ero militare a Pavia. Era un compagno del ’21, amico di mio padre. Già sui cinquant’anni, era stato per me un sovversivo a cui prestare poca attenzione, ma nella situazione attuale, mi tornano alla mente i suoi discorsi di ribellione, essi non mi sembrano più tanto assurdi e mi incuriosisce sentire cosa c’è di nuovo. In fondo la Patria non si capiva più che cosa fosse, i tedeschi comandavano ormai dappertutto e sparavano facilmente. In quel giorni, un drappello era giunto anche a Zavattarello (il capoluogo), guidati da alcuni fascisti ed avevano arrestato alcuni sbandati dall’8 settembre che stavano a casa per i fatti loro.

Con Giannini partecipa quindi a una riunione politica clandestina a Barcella, borgata presso Pavia, e di qui comincia un’attività nuova, dapprima nel Pavese e poi nel viaggio verso la casa paterna, a Torino.

Ritorno su in vallata due giorni dopo. Porto con me diversi volantini ciclostilati inneggianti al nuovo risorgimento. Sulla testata c’e scritto

L’UNITÁ. […] Se mi fermavano per strada con quella roba addosso ero finito. Invece mi prendono ad Alessandria mentre «pulito», vado a Torino per ritornare a casa con l’intenzione di aiutare mio padre. Non sapevo ancora dei posti di blocco dei rastrellamenti, cosi come non sapevo nulla dello spirito di ribellione nascente in ognuno e non solo nei comunisti. Infatti, ad Alessandria c’e molto transito di sbandati ed il milite che provvisoriamente ci sorveglia dice «Dai filate io guardo verso strada, sono un ex carabiniere».

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Il «milite» vestiva evidentemente la divisa della GNR, in cui era stato d’autorità collocato, alla pari con tutti i carabinieri nel territorio della RSI; ma nutriva fedeltà ben diverse – come del resto avevano intuito i tedeschi che provvidero a spedire in Germania la massima parte dei suoi commilitoni. Anche questo è un indizio che conferma a Felice quanto grande sia la vastità del consenso attorno a chi si ribella. Giunto a Torino, a casa

mi rendo conto che mio padre aveva malvalutato la situazione e c’è pericolo. In ogni parte della città fanno rastrellamenti bloccando parti di quartiere. Quando mi prendono ho la fortuna di non incappare in una azione di rappresaglia ma di essere accompagnato al distretto in Via Verdi da dove esco inquadrato e spedito in caserma dove avrò sulla divisa le mostrine del genio telegrafisti un’altra volta. Ma non sarà telegrafo. A picco e pala ci ritroviamo in Toscana a ricomporre terrapieni e binari bombardati dagli aerei.

La compagnia in cui è stato arruolato per il servizio del lavoro rischia più volte la vita sotto i bombardamenti degli Alleati; lui stesso si salva solo perché un uomo gli si butta sopra, nella cunetta in cui aveva cercato rifugio, così che una scheggia colpisce e uccide colui che lo copre, ma lascia illeso Felice. Per i lavoratori è una decimazione continua e solo dopo alcuni terribili giorni egli riesce a fuggire con tre compagni, prendendo la strada della campagne verso il Nord, verso Broni. È un viaggio difficile: sugli Appennini, che devono valicare, la neve è già alta e loro devono andare senza vestiti o scarpe adatti e senza nemmeno un bastone per aiutarsi; i contadini sono disposti ad soccorrerli ma la loro diffidenza è grande perché

la brigata nera manda in giro gente conciata come noi allo scopo di scovare collaborazionisti della resistenza. La campagna è affollata di sbandati, ribelli generici e partigiani di formazione. Chi li aiuta rischia la casa bruciata ed anche la vita. […] Siamo stracciati e pieni di pidocchi, il terrore della gente ci si trasmette ingigantito dalla fame ed attraversiamo la provincia di Piacenza di volata. L’ultima notte abbiamo dormito in una stalla in cui siamo entrati di straforo sul tardi e prima dell’alba, il «bergamino» ci scopre stesi sul letto del bestiame che deve rifare. Torna subito con una pagnotta e una frase «Via presto, c’e la brigata nera nel paese».

Significativo il ripetuto uso del termine «brigata nera» per indicare i fascisti, benché nel periodo di cui tratta le BN non esistessero ancora (furono create solo nell’estate 1944); è eviden-

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Luigi Ganapini

temente un termine mutuato da un uso più tardo, testimonianza del terrore sparso da quelle formazioni.

Ritornato a Broni, Felice matura la sua decisione definitiva: «Comunque non ci sono scelte né indugi, andrò con i partigiani ma in Piemonte, vicino casa. Non mi sento proprio un guerriero, non mi sono mai sentito tale, ma stavolta la scelta non è forzata, andrò con i partigiani, mi pare sia l’unica cosa giusta da fare».

Con toni ben diversi da quelli usati da Enea Gibertoni, Felice descrive l’esperienza nella guerriglia: «Sono al distaccamento Dardo su al Montoso, circa trenta uomini comandati da “Lupo” (abbiamo solo nomi di battaglia). È un ex graduato di truppa che s’è fatta la ritirata di Russia ed ha la testa sul collo, stare con lui è stata una fortuna». C’è anche una sorta di rituale di arruolamento che descrive con un sorriso ironico, come se lo reputasse superfluo in quel frangente:

«che nome scegli?» – «Orso, va bene?» – così riferisce il dialogo con colui che nel distaccamento svolge il compito di furiere – «Sì va bene non ci sono altri Orsi qui (ride) che partito preferisci?» – «Comunista» – Scrolla la testa disapprovando e chiede:– «Ma sai cosa vuol dire comunismo?» – «Certo!, vuol dire giustizia e libertà». Ride fragorosamente e scrive «comunista» sulla mia scheda e mi congeda con una pacca sulle spalle. Quello ride sempre, beato lui.

La scelta ideologica è anche in questo caso assai generica; il giovane non ha gli strumenti culturali e l’esperienza per valutare che cosa significhi quella fascinosa parola «comunismo». La riduce, giustamente alle componenti essenziali delle sue aspirazioni. Ma anche questa, per quanto sia poco articolata, è una scelta significativa.

Nella formazione in cui è inserito Felice l’armamento è ridotto, l’equipaggiamento ancor più misero; ma a differenza di quanto era avvenuto nell’esercito, né lui né i suoi compagni sentono come frustrante la loro condizione: « Al distaccamento Dardo sono giunto inviato dal distretto e munito di tascapane, coperta e fucile modello 1891 corredato di 2 caricatori (undici colpi in tutto). È peggio che sotto la naia ma il morale ce lo teniamo su l’un l’altro».

E infine anche per lui, come per Giuseppe Biagi, viene il giorno del primo scontro a fuoco, ai primi di settembre, che gli lascia un tragico indelebile ricordo.

Ancora oggi ricordo quel giorno di settembre. La valle era stata bloccata

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dai tedeschi ad ogni sbocco. Le nostre pattuglie hanno individuato molte divise grigie azzurre e nere, dicono più di mille soldati, eppoi cannoni, mortai, camion, cingolati, mezzi con un potenziale di fuoco insostenibile, per la nostra formazione. Siamo pochi, non tutti hanno un’arma, molti hanno finite le munizioni ieri, quando alleata la nebbia abbiamo respinto il primo attacco. […] Il primo combattimento! Ne avevo sentite tante sul battesimo del fuoco, dai banchi di scuola alle caserme, poi c’era stata, la Toscana con i bombardamenti ma qui la realtà è diversa da ogni immaginazione. Non provavo emozioni, sentivo solo stupore ed incertezza perché tutti sparavano ed io non vedevo niente […] ero lì disteso ad occhi ben aperti con il 91 ben imbracciato in posizione giusta come ai tiri, guardavo giù e non vedevo niente. L’indomani ancora distesi appostati, abbiamo la consegna di osservare la strada che sale al Montoso, fare da rincalzo mentre il resto del distaccamento distribuisce il carico, nasconde gli attrezzi, prepara la ritirata. […] Davanti a noi giù a valle, nebbia e silenzio e così disteso penso alla grossa croce sulla vetta alle nostre spalle che mi sa di tomba e malaugurio… penso ai nostri anni giovani, al Sordo caduto prigioniero ed appeso al gancio in piazza a Saluzzo… alle altre cose che si raccontano: di orrori e torture a chi cade prigioniero, a mio cugino Lucio bruciato vivo in Valpellice dai tedeschi… al mio vestito umido, ai pidocchi, alla famiglia lontana e senza notizie e divago pensando a quelle case laggiù in pianura dove c’è gente che vive ancora intorno alla propria casa… una vita normale… da gente che lavora e come sarebbe splendido tornare stanchi alla sera e dire ciao, così senza guardarci in faccia che tanto siamo sicuri del nostro affetto e fra poco sarà la gioia di ritrovarci seduti tutti insieme davanti ad un piatto fumante e ad un bicchiere di vino […], là! là! «guarda i moru», è Foglia che mi scuote, laggiù a poche decine di metri il vento ha strappato la nebbia e le divise si vedono improvvisamente allo scoperto… il 91 spara secco una volta sola e tutti quelli scompaiono, solo un soldato con un viso da ragazzo, lascia cadere l’arma, porta le mani al petto come in un attacco di tosse e poi cade all’indietro, sulla schiena, e così disteso rimane, agitando le gambe in una corsa disordinata come volesse raggiungere un luogo che ormai non vedrà mai più. Sogno sovente quel giorno di settembre.

È una guerra fuori dalle regole quella che sta combattendo in brigata, come spiega a un giovane intellettuale salito in montagna (ne ricorda il pallore, conseguenza della lunga reclusione in casa per sfuggire alle retate fasciste e tedesche); e lui stesso non è certo di comprenderne il significato. E tuttavia il senso della sua scelta torna ad emergere, dopo una fase di sbandamento della formazione, nel corso della quale deve cercare un rifugio provvisorio e lo trova là dove incontra anche un singolare amore per una donna che vive con tre figli bambini in un casolare; e

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dalla quale sente poi di doversi staccare per tornare alla vita di guerriglia.

La scelta è sofferta e lascia tracce profonde in lui. È motivo di tormento non solo per aver abbandonato la donna, ma soprattutto perché avverte una separazione incolmabile, rispetto al mondo verso cui andrebbero i suoi desideri più profondi, che in quell’amore passeggero aveva in qualche modo sperimentato. «Quando di notte, armati, camminiamo di pattuglia, tutto sa di freddo e quando capita di passare cosi vicino ad una casa abitata essa ci sembra lontana e come separata da una barriera invalicabile». La tentazione della vita semplice e densa di affetti, così viva in lui, sempre presente anche nei momenti di maggior tensione, come abbiamo visto nella descrizione del suo battesimo del fuoco, lo riafferra quando costeggia la casa di amici o la casa del suo breve amore. Ma sente di non potersi fermare.

Proseguo la mia strada verso Barge e comprendo cos’è quella barriera. È il sapere d’essere «fuori». Fuori da tutto, dalla vita nelle famiglie, dal lavoro e soprattutto dalla legge (la legge germanica a casa nostra). Per questo siamo volutamente fuorilegge per un’idea di indipendenza dal tedesco invasore. So che nel giusto siamo noi e che gli altri capiscono, ma fino a che punto capiranno?

Senza fronzoli e senza esaltazioni retoriche, Felice sente confermata la sua scelta come «giusta», punto d’arrivo di una riflessione che si era aperta con l’amara esperienza nell’esercito e con la disperante scoperta del tradimento regio.

«Nonno Ettore» (Ettore Zucchelli) ha lasciato un testimonianza diversa: una memoria manoscritta della sua vita indirizzata ai nipoti Matteo e Yari per ricordare loro che «ogni ONORE và meritato tanto nella Societa come nella Famiglia». È un lungo testo vergato con una calligrafia incerta, illetterata come la sintassi e l’ortografia; e tuttavia ci offre una variante significativa dell’adesione alla lotta partigiana.

Non ha avuto una vita facile fin dall’infanzia, nonno Ettore, nato in una famiglia contadina numerosa e povera della Bassa Bolognese. Dagli 11 ai 15 anni è messo a servizio come garzone in un podere di proprietà di una ricca famiglia; ha lavorato nei campi quindici o sedici ore al giorno, soprattutto d’estate; oltre alla fienagione, al rigovernare le stalle, e alla mietitura del grano, c’è il lavoro della canapa, la semina, la mietitura, la lavorazione

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successiva. Ma, aggiunge, «non era il lavoro nonostante lavoravo come una Bestia, mà mi mancava l’Affetto, mi sentivo solo, abbandonato da tutti». Una domenica, una di quelle che ogni tre settimane gli veniva lasciata libera al pomeriggio, decide di tornare a casa per «Mangiare assieme» ai suoi. La strada tra la sua casa e il casale dove lavora è lunga e lui, costretto a farla a piedi, arriva tardi per il pranzo:

la prima a vedermi fù mia Madre, la prima cosa che mi disse fu questa! Noi abbiamo già mangiato, NON C’É più nulla, spero che tu abbi già mangiato, io confermai, mà il Dolore che avevo dentro era ben altro, Nessuno M’aveva chiesto… COME STAI nessuna manifestazione di gioia nel vedermi solo mio Padre mi disse, Ettore in settimana vengo a prendere il grano che ai guadagnato quest’anno, poi uno da una parte l’altro dall’altra, solo mia Madre rimase per raccomandarsi che continuassi a comportarmi bene e a fare il mio dovere, per paura che perdessi il lavoro.

Aveva solo 13 anni Ettore e il dolore per l’assenza d’affetto da parte dei famigliari gli suggerisce pensieri di morte.

Queste carenze affettive non gli impediscono di affrontare coraggiosamente la vita: dapprima accettando, attratto dalla paga, un lavoro di artificiere, impegnato nel recupero di bombe inesplose a Bologna (è anche questo un tema della «vita quotidiana» a cui daremo attenzione) e poi nella guerriglia del Bolognese, alcuni anni più tardi quando ne aveva 17.

Siamo nel luglio 44 – esordisce nella parte che racconta la sua esperienza di guerriglia – la lotta dei Partigiani si intensificava, Tedeschi e Fascisti facevano rastrellamenti a tappeto nelle campagne della Bassa Bolognese, bruciando case dove sospettavano ci fosse Partigiani, portando il terrore nella Popolazione, i miei fratelli Alfredo Libero e Aris erano già aderenti al corpo Partigiani.

Chiamato dal fratello accetta di collaborare: «perché a suo parere [di Alfredo] si trattava di pochi mesi e la Guerra sarebbe finita. Io ne fui orgoglioso di aderire, da quel giorno tutto ciò che mi veniva chiesto ero felice di svolgere, poi a 17 anni si vuole essere più adulti e desiderosi di mettersi in evidenza». Sono motivazioni esposte con grande sincerità: ma non si avvertono tracce di cultura politica o di scelte coscienti tra i due schieramenti ideali. Anche lui si muove trascinato dalla solidarietà famigliare e non ha bisogno di indottrinamenti per seguire i fratelli. La sua

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vicenda è un seguito di avventure dal sapore quasi rocambolesco: l’uccisione di un ufficiale tedesco per rubargli una pistola; la fuga conseguente, la necessità di nascondersi e il ritorno a casa; dove però è catturato dai fascisti, dai quali riesce a fuggire, vagando per il Bolognese con il fratello Aris alla ricerca di un rifugio. Quando infine i due raggiungono i partigiani sull’Appennino, questi non si fidano di loro e li avviano oltre le linee del fronte, con un folto gruppo di prigionieri fascisti e tedeschi, consegnandoli agli Americani. Liberato e collocato presso una fattoria, si trova con sua sorpresa a essere festeggiato come un eroe. «Il fatto era», commenta «che la Gente Toscana quando parlava di noi Bolognesi aderenti alla lotta Partigiana, eravamo proprio considerati eroi della Resistenza, poi i Patrioti della 7ª BRIGATA GAP erano considerati EROI NAZIONALI in quanto tutti i giorni erano in lotta col Nemico ed ebbero una Mortalità grandissima». L’intera narrazione è improntata a una grande modestia, e il suo entusiasmo esplode solo quando vede esaltata dagli altri l’importanza delle battaglie a cui ha partecipato. Di ben diverso tenore le memorie di Walter Benincasa. Si tratta del diario di una formazione partigiana, la «Formazione Walter», di cui il Benincasa è il promotore e il comandante. Opera nella zona dell’Appennino tosco emiliano, gravitando anch’essa sul bolognese, in zona collinare, a ridosso della linea gotica: dal giugno al novembre 1944 fino alla «battaglia di Benedello» (frazione di Pavullo nel Frignano) al di qua delle linee tedesche e fasciste; e successivamente a fianco delle truppe alleate nella zona di Castel Daiano. Il racconto ha lo stile e le cadenze proprie delle relazioni sulla guerra partigiana, con toni celebrativi, con scarsa attenzione a tutto ciò che non tocchi la condotta della guerriglia e i suoi problemi: da quelli politici dei rapporti con le formazioni d’altra ispirazione politica (Walter è comunista ma non ci dice nulla sul proprio reclutamento e sull’educazione), alle preoccupazioni per le vettovaglie e per l’armamento. Ha piuttosto cura di mettere in evidenza quanto fossero importanti i rapporti con le popolazioni locali, l’aiuto prestato da lui e dai suoi anche nella conduzione dei lavori agricoli, il rispetto che riescono a guadagnarsi tra i contadini nel quadro della guerra di liberazione nazionale.

Tutte queste memorie non concedono molto spazio ai fascisti italiani. Sono – tutto sommato – nemici di seconda scelta, ombre fugaci e minacciose su cui lo sguardo indugia soprattutto per

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constatarne l’inadeguatezza o l’età troppo giovane. «[…] tutti quei ragazzi dico io», ricorda nonno Ettore, allora diciassettenne, descrivendo i componenti della formazione di cui è per alcuni giorni prigioniero, «il più vecchio avrà avuto 15 Anni; per mé li avevano presi dal riformatorio». Altri ne riferisce con orrore l’incredibile ferocia.

Vi voglio raccontare quanto erano selvaggi i repubblichini di Salò –scrive Enea Gibertoni, che in questo modo porta una nota cupa e dolorosa nelle memorie delle sue vicende giovanili – un giorno di metà novembre io e un mio compagno armato di pistola a tamburo ci mettemmo in via Carpi Ravarino vicino la cantina di Limidi e aspettammo qualche tedesco di passaggio per disarmarlo ma all’improvviso sbucò da via Torchio un camioncino carico di fascisti repubblichini che cantavano «giovinezza» a squarciagola. Noi ci nascondemmo e quando furono vicino alla segheria di Casarini il camioncino si fermò e smontarono in una decina armati fino ai denti, con mitra e pistole, tirarono giù un sacco buttandolo malamente per terra poi svelti montarono sopra al camioncino e partirono cantando. Uno di loro era seduto sul cofano sbraitava a tutta gola per farsi sentire (abbiamo ucciso un vostro partigiano) e appena il camioncino si allontanò io e il mio amico che ora è morto corremmo a vedere cosa c’era dentro al sacco; vidi una cosa ORRIBILE c’era dentro un nostro compagno non l’avevano ucciso ma l’avevano torturato barbaramente a morte (gli mancavano gli occhi). Io che poche sere prima l’avevo visto non l’ho riconosciuto, era irriconoscibile. Nel frattempo accorse altra gente anche sua sorella una bravissima staffetta, e mi chiese Enea l’hai riconosciuto, io gli risposi di no, in effetti non l’avevo riconosciuto, ma appena arrivata vicino sua sorella fece un urlo ma è Sarno lo riconosco per le scarpe e per il gilè, neanche lei sull’istante l’aveva riconosciuto era Sarno Righi, uno studente, un bel ragazzo, abitava vicino a me in via Martiri Partigiani.

Ma anche se è profondo, e a sua volta generatore di odio, l’orrore per le sevizie che la camicie nere infliggono alle loro vittime, ci sono momenti in cui emerge, di fronte a manifestazioni di coraggio o di coerenza o anche solo di spavalderia, una sorta di riconoscimento cavalleresco se il nemico rivela inaspettate virtù. Racconta Giuseppe Biagi, Pino:

Un giorno dei civili denunciano dei furti subiti dai partigiani, consistenti in denaro e oro. Dopo due giorni di ricerche l’inchiesta sembrava arenarsi senza un nulla di fatto, quando per un caso fortuito, vennero scoperti i due responsabili e immediatamente processati. Dagli atti dell’interrogatorio, da ulteriori conferme pervenutici dalle formazioni GAP e SAP e altre fonti, i due risultavano delle spie fasciste, infiltratesi nel movimento. Furono

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condannati alla fucilazione. La sentenza esecutiva immediata. Fu schierato il battaglione e formato il plotone di esecuzione. Le spie furono accompagnate in una piccola radura e poste vicino a un grosso albero, mentre il plotone prendeva posto. La spia più piccola, di fronte al plotone, si mise a piangere e a gesticolare, tremando dalla paura, invocando pietà; fu più volte alzata dal suolo e risistemata vicino all’albero. Dopo alcuni secondi di quella tragica farsa melodrammatica, il suo compagno si sbottonò la camicia gridando: vigliacco, alzati! E voi – gridava al plotone levandosi la camicia, restando a petto nudo – sparate! Siete dei codardi, sparate! Ne aveva del coraggio quella spia fascista spregiudicato e temerario!

Ciascuno dei diari o delle memorie che fin qui abbiamo esposto ci racconta vicende che scaturiscono da punti di vista fortemente omogenei. Anche se con accenti tra loro diversi –con toni in parte eterodossi Pino, con più forte adesione alla retorica partigiana Enea Gibertoni, (entrambi tra i quindici e i sedici anni), mentre con altre, diverse, quasi tra loro opposte, sensibilità parlano Malgaroli o Walter Benincasa, e nonno Ettore non abbandona mai il suo pacato discorrere didattico – quelle che fin qui abbiamo visto sono storie che si muovono all’interno del mondo mentale di chi ha accettato e scelto la partecipazione alla guerra, guerra di liberazione e guerra civile. Ma c’è anche un altro modo di guardare ai partigiani e di raccontare le loro storie. Non certo quello dei pennivendoli che hanno scoperto cinquant’anni dopo che i partigiani non erano un’associazione di beneficenza. Ma lo sguardo atterrito delle donne – sono soprattutto donne che ne scrivono – rivolto al sangue che vedono spargere in modo inumano.

12 agosto - sabato - [1943] (Monticolegno). Oggi è stata una giornata terribile degna di essere chiamata «nera». Mi sembra d’avere la febbre tanto sono successi dei fatti che mi incutono orrore anche a pensarci –scrive Adele Giannoni – Stamani all’alba i tedeschi della S.S. sono saliti a Capezzano [nella Versilia non lontano da Sant’Anna di Stazzema], hanno preso alcuni civili, che imprudentemente cercavano di andare alle loro case, sia uomini che donne. Dal gruppo degli uomini ne hanno scelti dieci i quali appena arrivati in una selva sono stati fucilati. Mentre scrivo sento le grida disperate, strazianti, che lacerano il cuore di una povera mamma il cui figlio giovanissimo è stato trucidato e che lei lo ha visto con la testa sfracellata. Poi dicono che anche a Valdicastello ne hanno ammazzati ma non sappiamo se è veramente la verità; corre anche la voce che il paesello di S. Anna sia stato completamente bruciato come Farnocchia. Non sappiamo il perché di tutto questo ma certo è a causa dei partigiani tanto più che

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tutte le case di Capezzano sono state sfondate e perquisite, certo per vedere se c’erano nascoste armi e cose che rivelassero complicità con i ribelli. Indicati fin qui come responsabili solo indiretti, i partigiani assumono comunque un volto inquietante, che negli anni successivi scaverà un fossato tra le opposte memorie della guerra. La rappresaglia tedesca non riceve certo in questa testimonianza alcuna giustificazione; ma l’elemento che la scatena, rappresentato dalla presenza dei partigiani e dalle loro azioni di guerra, è un dato estraneo, non una presenza verso la quale sempre si manifesti partecipazione. Fino a proporsi, negli anni del dopoguerra, come un elemento di divisione e di recriminazione.

La memoria delle stragi di civili nella Toscana e sugli Appennini nell’estate 1944 è una «memoria divisa»: tra chi le ricorda come l’espressione più feroce della disumana violenza nazista e chi, invece, le addebita all’incoscienza e alla superficiale baldanza con cui si sono mossi i partigiani. Distinguere le responsabilità o prender partito per l’una o per l’altra visione è complesso e forse impossibile; e nemmeno è legittimo perché attorno alle tragedie di questa guerra si addensano troppi elementi sentimentali e affettivi, nonché degnissime fedeltà ideologiche. Una cosa tuttavia va ribadita, nello sconcio di questo paese che insulta i pochi momenti davvero degni della sua storia: la lotta armata nella Resistenza fu una necessità e un dovere a cui tanti risposero con coraggio e coerenza. Le conseguenze e gli errori di quell’impegno non possono valere come elementi di condanna o – peggio – essere usati per giustificare i crimini di chi a quella guerra aveva trascinato l’Italia, con quell’alleato; e che, nel cruciale autunno 1943, aveva lanciato l’appello alla guerra civile, per rivendicare l’onore e la fedeltà al nazismo. Nelle memorie nei diari che abbiamo a disposizione ancora non sembra che si delinei precisa l’accusa di imprudenza, di incoscienza, di aver mancato di rispetto per la vita dei civili con l’arroganza di una guerriglia condotta in modo improvvido; ma già c’è chi intuisce gli effetti perversi della memoria di guerra, e già riconosce i segnali di un rovesciamento della prospettiva nelle figlie e nei figli delle vittime stesse dei nazisti: «Vedere quelle povere mamme», scrive Tosca Ciampelli «con i capelli sciolti che si disperavano a chiamare i loro figli ad alta voce. Una di queste aveva due bambine. Ora non si ricordono più di suo padre. Addirittura sono a favore di chi ha ucciso questa povera gente innocente».

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Abbiamo saputo certe cose da far rabbrividire di raccapriccio – riprende a narrare Adele Giannoni – S. Anna è stata completamente bruciata e l’orribile è che tutta la gente vi è morta. Una povera donna alla quale vi è rimasta una sorella e la nipote e che lei è riuscita a salvarsi per una combinazione ha detto cose da sembrare inverosimili. All’alba i soldati della S.S. sono giunti lassù, hanno cominciato a frugare nelle case e trovando armi e indumenti appartenenti ai partigiani, confermando così il dubbio che avevano, si sono imbestialiti (infatti a S. Anna si può dire che c’era il quartier generale dei partigiani) e presa parte della popolazione l’hanno condotta sulla piazza della chiesa e dopo averli mitragliati ne hanno fatto un rogo gettando loro addosso le panche della chiesa e dandogli fuoco. Quasi tutti sono morti per non dire tutti affatto. Non si può pensare allo strazio e alle sofferenze di quella povera gente. Sono perite famiglie intere fra le quali molte di Pietrasanta che vi erano sfollate Non so proprio capire perché non erano andati via dato che avevano ricevuto l’ordine di sfollamento quanto noi. Se tutti avessero ubbidito come abbiamo fatto noi oggi S. Anna non sarebbe ridotta in un cimitero.

A Sant’Anna di Stazzema si accosta, nelle memorie dell’Archivio di Pieve Santo Stefano, la strage del Padule di Fucecchio del 23 agosto 1944 (176 vittime, per gran parte donne bambini e vecchi). Fu eseguita da soldati tedeschi, certamente con l’appoggio di fascisti repubblicani, nell’ambito delle violenze perpetrate in gran parte dell’Italia centrale durante la ritirata dell’estate 1944. Su di essa indagarono (come per Sant’Anna) le autorità Alleate e, nei processi del dopoguerra, la responsabilità fu contestata al Feldmaresciallo Kesselring e al colonnello Crasemann, comandante della 23° divisione corazzata tedesca nonché al maggiore Strauch, i quali applicarono e materialmente eseguirono gli ordini del generale comandante la Wehrmacht in Italia.

Le truppe tedesche avevano effettuato l’accerchiamento del Padule, racconta Iliana Petrini:

Colà si trovavano come già dissi, centinaia di persone senza contare ogni sorta di animali e bestie. Ci è stato facile indovinare questo, in seguito ad un fatto avvenuto un giorno prima che aveva lasciato tutti assai preoccupati. Pare che, la sera del 21, una camionetta di soldati Tedeschi si fosse avvicinata nei pressi del Padule e di lì si fossero poi inoltrati a piedi nei dintorni dove già si potevano scorgere le anatre, i paperi e altri animali nei primi fossi: avendo questi [tedeschi] sparato contro, si sentirono di lì a poco rispondere con colpi di pistola provenienti dai nascondigli del Padule; seguì infatti una breve sparatoria da parte di entrambi, ma solo così a caso, dopo di che, i Tedeschi fuggirono riportandone uno dei suoi ferito. Ciò spaventò molti di quelli che erano andati a nascondersi a

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proteggere le proprie bestie in Padule, e così che, prevedendo tra l’altro, qualche brutta conseguenza, decisero di tornare un po’ a casa, compreso Goffredo che fu bene ispirato! Ecco infatti come i più potenti si organizzarono: l’accerchiamento ai passi obbligati con mitragliatrici, mentre dalla collina vicina sparavano là dentro con cannoncini piccoli. Fu un’ora di terrore e di apprensione per tutti: dalla finestra di camera che guarda da quella parte, mi pareva di sentire voci umane che gridavano implorando. Rimanemmo con la porta chiusa aspettando la fine. E venne la fine: e dopo due ore che precedettero la tragedia, incominciamo a sentire gli echi per mezzo di notizie terribili! Una trentina di persone di nostra conoscenza vi avevano pure lasciato la vita; uomini, vecchi e ragazzi che si trovavano nei pressi della propria casa e che tentavano di fuggire a un così tanto vicino pericolo, furono annientati. Dappertutto spargimento di sangue: fra le vittime c’erano pure otto donne che si trovavano sfollate nella Tabaccaia vicino al Padule ed alle quali era stato imposto di uscire dal letto, minacciando di minare la casa; proprio mentre queste, si disponevano ad uscire, servirono di piacevole bersaglio a quegli assetati di sangue. Cara mamma e babbo, temo tanto di non poter uscire incolume da tutti questi pericoli, mi accorgo che la situazione si prolunga in modo inesorabile ed io, forse, finirò qua senza potervi rivedere. C’è un’aria di morte sul viso di tutta questa gente che più o meno, è rimasta colpita da lutto… perché l’abbassamento del morale avviene piano piano in tutti, compresa la nostra famiglia.

Ancora una volta tocca tuttavia a Margherita Ianelli di darci la visione più disincantata e più cruda delle vicende di quei mesi, proprio attorno a quello che diverrà uno dei luoghi – simbolo più noti delle stragi naziste: Monte Sole.

La guerra continuava nei peggiori dei modi, gli uomini per non essere le vittime dei tedeschi che se li pescavano li spedivano in Germania pensarono di darsi alla macchia, così si formarono i partigiani. In un primo momento, anche quel sistema consisteva di stare nascosti nel bosco, noi donne gli portavamo i viveri di nascosto. Ma la cosa non doveva andare avanti in quel modo. Molti fuori usciti da ancora quando avvenne la marcia su Roma, per salvare la pelle e rimasero all’estero fino alla caduta del Duce. Ritornarono in patria, forse volevano vendicarsi di quel triste passato. Formarono i comitati di liberazione, incitarono la gente del bosco a riprendere le armi e fare la guerriglia contro i tedeschi e contro i repubblichini. In quel modo il pericolo aumentava, noi donne dovevamo far fronte a tutto.

Margherita, a somiglianza di tanti, si muove in un mondo che è lontano dalle tematiche politiche. Il suo raccontare, come

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abbiamo visto, ha il solo obiettivo di ricordare la vita e gli umani che l’hanno popolata. Non coglie le ragioni della lotta contro la dittatura fascista e contro i tedeschi, se non nella dimensione famigliare e in quella della solidarietà comunitaria. Non è detto che questo sia un limite; basta sapere che i suoi giudizi hanno questa prospettiva:

La mia famiglia d’origine e quella che facevo parte iniziammo a collaborare con i partigiani, ma non credevamo d’imbarcarci in una tale tragedia. Il primo gruppo si formarono a casa dei miei fratelli. Fino all’inizio il gruppo era stato nascosto per alcuni mesi, a far progetti. Noi accettammo la collaborazione con l’intento che non finissero nelle mani dei tedeschi. L’abitazione dov’ero andata sposata era poco lontana a quella dei miei fratelli, in più completamente fra il bosco. Una sera mio fratello venne a casa nostra, per accordarsi con mio marito e l’altro fratello per collaborare perché il gruppo si era ingrandito e uno dei nuovi arrivati l’accompagnarono a casa nostra e si chiamava Edmondo, era un ebreo, anche lui fuggitivo dai tedeschi e da morte sicura. Era un ungherese, ma parlava un italiano corretto più di noi montanari. Era un uomo di mezza età laureato in ingegneria meccanica con tanti anni di lavoro. Restava nascosto in silenzio nei posti da noi assegnati. Ogni giorno gli procuravamo il giornale che lui diceva di leggerlo in un paio d’ore, ed io capii quanto fosse approfondita la sua cultura.

Ma Edmondo non resta a lungo: la stessa famiglia di Margherita, considerando «il comportamento di molti partigiani non adeguato al nostro modo di pensare», cerca di liberarsi di lui e avverte un «contatto» partigiano. L’uomo viene effettivamente allontanato; ma Margherita deve anche constatare con dolore che ciò avviene ai danni di Edmondo, minacciosamente accusato di comportarsi in modo inadeguato, mentre lui rimprovera agli altri l’imprudenza delle azioni militari.

Ragazzi in questo modo state sbagliando – dice – Non è il momento di fare guerriglia, non serve a uccidere un tedesco, anche dieci. Loro prenderanno in ostaggio i civili poi li uccideranno; conosciamo le loro leggi. Siete ancora in tempo, datemi retta, accettate il mio consiglio […]. Conservate il materiale per non arrivare alla fine sprovvisti di tutto. Allora le armi saranno necessarie, per scacciare i tedeschi.

Nel contrasto non intervengono né Margherita né i suoi famigliari; Edmondo viene condotto via con maniere brusche e di lui «non sapemmo più nulla».

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A Margherita l’agire dei partigiani appare improntato a una spavalderia inescusabile.

I partigiani avevano preso dimora nella zona di Monte Sole, ma spesso venivano nella nostra zona, a ritirare armi e altro materiale. [Venivano] anche per dire ch’erano imbattibili, che avrebbero pensato loro a far fuori tedeschi e repubblichini, molti ci credevano e si unirono a loro. Anche mio cognato, una sera partì e raggiunse la zona di Montesole. Mio marito molto più dubbioso, lui diceva di aver visto in Iugoslavia come agivano i partigiani, «si udivano gli spari e mai visto uno di loro e ogni sparo era un morto fra noi». Decise di restare nascosto nel bosco senza armi. Infatti anche il cognato quando giunse in quella zona ebbe modo di capire quante cose non rispondessero al vero. Di vero era sempre il contrasto fra i due gruppi. […] Dal momento che accettammo la collaborazione, dovevamo accettare anche le conseguenze, così quando venivano nella nostra zona, la prima casa era sempre la nostra. Per il fatto che il ritorno avveniva sempre di notte, allora ci eravamo accordati di un segnale per farsi riconoscere. Con una pertica dovevano battere tre colpi alla finestra e dire: «Siamo quei ragazzi». Mi alzavo, andavo aprire la porta, loro entravano ci accordavamo per fare da mangiare e portarlo nel bosco e dovevano restare nascosti. Ma questa regola non veniva mai rispettata, e uno o l’altro era sempre un via vai, dentro e fuori casa.

L’intera famiglia si trova così coinvolta nella tragedia di una guerra sempre più spietata.

Chi lasciava la banda veniva scambiato per spia fascista. Molti venivano accusati, per tale motivo tanti ci lasciarono la pelle da innocenti. La nostra famiglia e quella dei miei fratelli, eravamo stati i primi a collaborare con loro, ma mai ci aspettavamo fatti simili. Anche noi volevamo slegarci da tali impegni, ma non fu facile, un legame fummo costretti a tenerlo fino alla fine. I partigiani dopo che avevano ucciso un tedesco se la davano a gambe. Fintanto che uccidevano uno dei nostri, se la cavavano bene, per qualsiasi motivo veniva accusato di spia fascista, gli facevano la buca e lì veniva sepolto e tutto era finito.

Se la guerriglia sta adottando regole feroci, nessuno può ignorare che dall’altra parte i nazisti seguono codici spietati.

Ma un giorno uccisero un tedesco, la regola dei tedeschi era che per uno di loro ucciso prendevano dieci civili in ostaggio, li tenevano per diversi giorni, se non si presentava il colpevole venivano tutti uccisi. Quel giorno sulle alture sopra il paese di Vado i partigiani uccisero un tedesco, come si sparse la notizia i tedeschi avevano già preso in ostaggio dieci civili.

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Noi eravamo angosciati, più volte i tedeschi dicevano: «Uccidere uno di noi, fare kaput dieci di voi». Quel giorno assistevamo alla loro vendetta. Dopo gli ostaggi iniziarono a sparare con la contraerea lungo a tutta la zona e molte case venivano incendiate. Insomma per un tedesco ucciso quel giorno successe il finimondo. In casa nostra nessuno mangiò, andavamo sulle alture a vedere quello che succedeva dall’altra parte del fiume. Eravamo tristi e silenziosi, quasi ci sentivamo in colpa per tanto misfatto. Poi venne la tanto desiderata sera, tutto si fece silenzio, noi entrammo in casa, gli uomini nel rifugio e nessuno mangiò.

Nel corso di quei mesi non sempre ci sono soluzioni chiare e distinte, scelte di campo nette e prive di dubbi. Avviene spesso, come emerge dal racconto di Elsa Guidelli, che decisioni ispirate da scelte di campo ideali si contrappongano a sentimenti derivanti da legami famigliari.

Un giorno scesero dei partigiani dalla montagna, – racconta Elsa –quattro di essi vennero lì alla scuola con un elenco in mano di nomi, fra i quali vi era anche quello di Bettini Galliano, mio zio, e di Anna Maria, mia cugina. […] Mi bastò quella parola «prelevare» per comprendere che avrebbero portato via sia mio zio che mia cugina perché da alcuni discorsi che facevano fra loro, era perché mio zio da giovane aveva fatto l’entrata su Roma con Mussolini e mia cugina era fidanzata con uno degli SS. Erano successi già dei brutti fatti, cioè avevano sequestrati uomini fascisti, che non avevano fatto ritorno, mentre le ragazze erano state rapate e le avevano messo del minio in testa prima di rimandarle a casa

La zia e la mamma di Elsa decidono di fuggire con lo zio e con la cugina, ma Elsa è combattuta da opposti sentimenti.

Io sarei voluta rimanere lassù, anche perché odiavo i fascisti che avevano ucciso mio padre; ma per amore di mia zia e mia cugina e anche perché mio zio Galliano era buono, non potevo abbandonarli. […] Stanche, impaurite arrivammo alla stazione dove trovammo mio zio e mia cugina, anche loro pallidi e ansiosi per la nostra sorte. Stemmo a Pontremoli un po’ di giorni con una paura in cuore da non si dire in quanto il pericolo non era scongiurato. La persona che stavano cercando quando erano venuti i partigiani a prelevare mio zio era riuscita come noi a scappare a Pontremoli, ma, purtroppo una mattina proprio nella piazza del paese era stato raggiunto da una pallottola e ucciso senza sapere chi avesse sparato: così, camminando per la strada avevamo la paura che da un momento all’altro sparassero anche a mio zio. In ragione di ciò sia lo Stato sia il comando fascista, stabilirono che la famiglia di mio zio e altre due famiglie ugualmente minacciate, ci avrebbero portati con un camion a Brescia. Fu un

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viaggio anche quello disastroso interrotto da continui bombardamenti che ci costringevano fermarsi e scappare nei campi. Anche se in quel periodo ero molto coraggiosa, forse più dei miei parenti, il pensiero di essere in un camion dei fascisti mi faceva accapponare la pelle. Finalmente arrivammo a Brescia. In un primo tempo ci depositarono in una chiesa perché nel palazzo dei profughi dove avrebbero ospitato le nostre famiglie, ancora non vi era possibilità di andarci. Ci avvertirono però che per mio zio, zia e cugina, il giorno dopo avrebbero avuto una piccola stanza, dove io non avrei potuto andare in quanto non facendo parte della famiglia Bettini e anche perché per quattro persone non vi era posto.

Per sua fortuna Elsa incontra «una signora tanto buona» che la ospita, in cambio di un affitto, a casa sua.

Ma infine nella Toscana i tedeschi iniziano una ritirata, che non porta pace alle popolazioni più a Nord, nella Padana, dal crinale degli Appennini alle Alpi; ma permette alle popolazioni della Toscana, che fino a quel momento più hanno sofferto gli effetti della guerra, di tornare a dimensioni più umane di vita. E per molti il primo segno di questa ritornata normalità è quello di incontrare partigiani in carne ed ossa, di riconoscere in loro non solo esseri umani ma bonari fratelli di sventura.

9 settembre 1944. Siamo scese – scrive Laura De Grandis rievocando quegli ultimi giorni della guerra che lei ha vissuto sulle pendici dell’Appennino non lontano da Viareggio – sino quasi a Valpromaro con Paolo, passando per i boschi. I partigiani girano liberamente armati sino ai denti; di tedeschi neanche più l’ombra. A Valpromaro diverse case sono scoperchiate e una donna è stata ferita alla spalla da una scheggia. Verso le tredici, mentre torniamo verso casa, cadono vicino a Panicale quattro o cinque cannonate. Ieri ne sono cadute due qui sul viottolino della Caldaia, dove andiamo a prendere l’acqua. Alle sedici ne è caduta un’altra a Pioppetti. Questa sera verso le diciassette una squadra di partigiani ha fatto il suo ingresso in paese. Sono circa settanta ragazzi di età fra i quindici e i venticinque anni; hanno una divisa verde-kaki, con splendidi maglioni di lana e fazzoletti, chi giallo, chi verde, chi rosso (tutti ricavati dai paracadute dei lanci). Sono armati di Sten o fucili mitragliatori, di pistole e bombe a mano. Dire che hanno una fisionomia di briganti sarebbe troppo brutto, ma quelle barbone, quell’aspetto di uomini di bosco li rendono ai nostri occhi molto strani. Questa è la banda di Ottorino (nome di battaglia) con due plotoni guidati, uno da Villa e l’altro da Lalli. Sono personaggi da romanzo!

Attorno a questi personaggi, che si presentano quasi come incarnazione di un mito, la mobilitazione è immediata. Qui

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non si coglie alcuna riserva verso gli uomini che hanno messo in campo una guerra che ha toccato e ferito e colpito a morte anche gli stessi civili: c’è un sollecitudine quasi materna, che la donna racconta in termini semplici, da cui scaturisce il bisogno di sopperire alle loro esigenze più immediate.

Stiamo facendo il pane ed inforniamo dal prete, quindi dal terrazzino sto ad osservare le mosse di queste «bestie rare»: vanno, vengono, bestemmiano come turchi. Sono quasi tutti di Viareggio, Forte dei Marmi e zone limitrofe; molti sono conosciuti e trovano qui amici; di Spezia ce n’è solo uno, che è il nipote di quelli dell’agenzia di giornali di via Prione. I paesani si danno tutti da fare per procurar loro da mangiare e in quattro e quattr’otto trovano pane, patate che i ragazzi condiscono poi tutto con buon appetito. A tarda sera si rifugiano nei pagliai, nei fienili e passano la notte.

La convivialità non esaurisce con i primi incontri, ma si prolunga nei giorni successivi.

10 settembre 1944. Questa mattina, domenica, il prete ci suggerisce di invitare a pranzo due partigiani per famiglia per dar modo a questi poveri ragazzi di potere, dopo tanti mesi di bosco, rivedere una tavola apparecchiata. Cominciamo a mettere sul fuoco le patate perché in questo periodo non si trova neanche più un briciolo di carne e decidiamo di fare gli gnocchi al sugo (!?) e un po’ di frutta. Entrano in cucina due partigiani e ci chiedono il favore di far loro scaldare una goccia di latte condensato, dato che uno di loro è ammalato con la febbre. Li facciamo sedere e ci raccontano di essere tutt’e due del Forte, amici da tanto e stanchi dei monti dopo tanti mesi di eremitaggio. Quello con la febbre ha anche una ferita sul sopracciglio e quindi ha l’occhio bendato. Non riesco a ricordarmi il suo nome, l’altro è Lalli, bel ragazzo dall’aspetto risoluto, con due occhi azzurro acciaio che stupiscono; è di poche parole e si direbbe quasi timido se non lo si sentisse parlare con i suoi con una certa padronanza di sé e decisione; ha un ciuffo di capelli sugli occhi ed una stelletta sulla maglia di lana, alla spalla ha sempre attaccato il suo Sten. Arriva Paolo e invita Elsa a casa sua; intanto visita il ferito; gli trova anche una tonsillite ed una bronchite ed essendo la febbre abbastanza alta lo consiglia di cercarsi un letto per meglio curarsi. Alle tredici arrivano gli invitati che sono due giovani, uno di Napoli, cuoco, e l’altro di Avellino; ci raccontano le loro avventure di guerra: hanno subito sul Matania cinque attacchi tedeschi sono stati a Farnocchia e a Sant’Anna (paesi incendiati); hanno perduto una loro partigiana… e via di questo passo. Sono molto educati e gentili e vogliono a tutti i costi regalarci una scatola di fiammiferi per ringraziamento. Tutto il pomeriggio stiamo alla finestra a vedere ed ascoltare tutto quello

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che fanno i partigiani: tutto per noi, è distrazione! Ogni tanto parte una pattuglia in perlustrazione e ritorna con le solite notizie: ci sono ancora tedeschi a Liceto, a Montemagno e alle Vallette (fra Panicale e Pitoro); ogni mezz’ora qualche colpo ci toglie dalla monotonia: sono a volte i nostri, a volte i tedeschi. Sappiamo che altri centotrenta partigiani si trovano sul Col di Lanci, quasi a Montigiano: tutti fanno parte di questa banda. Quando alle diciannove con Nori vado a prendere il latte incontriamo Lalli il quale ci domanda se sappiamo dove abbiano portato il suo amico malato: noi lo conduciamo dalla Adelma. Verso le ventuno siamo tutti tranquilli quando sentiamo vicinissima una sparatoria infernale; tutte le più terribili supposizioni ci vengono alla mente. Dopo circa quindici minuti arriva Giorgio a dirci che i partigiani fanno una finta manovra, cioè sparano per sentire se i tedeschi rispondono e da dove, per individuare bene le loro posizioni. Invece tutto tace; finalmente andiamo a letto.

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È una conclusione pacificatrice, è l’espressione più chiara e in certo modo ingenua di un desiderio sotteso a gran parte delle narrazioni partigiane fin qui incontrate: la nostalgia per il tempo della pace e dei sentimenti sereni.

VI. Nelle file della Repubblica

Inebriati di canti, di sogni, di gloria, di morte eroica, e di vittoria, i giovani che andarono a combattere nell’esercito di Salò: così recita la fama che li circonda. E la forza trascinatrice promanante dai miti che li avevano ammaliati è stata riconosciuta da scrittori, da memorialisti e da romanzieri che avevano fatto parte di quel mondo, pur dopo averne riconosciuto l’inganno. Ma non furono solo «balilla», non furono solo giovani trascinati dai seducenti cori della propria adolescenza, quelli che andarono a Salò: accanto a loro – sopra di loro, a comandare –c’erano tanti spettri del passato; e tuttavia furono certamente i giovani quelli che indossarono la divisa e imbracciarono le armi: erano accorsi ad offrire il loro sangue al richiamo del duce idolatrato per vent’anni dall’Italia intera; per vendicare la vergogna d’Italia – il rovesciamento dell’alleanza ai danni della Germania nazista, l’onta della resa incondizionata, la fuga del re, del suo governo, l’ignavia degli alti comandi dell’esercito. Avevano aderito alla dichiarazione di guerra civile enunciata dal deposto dittatore il 18 settembre 1943 da una stazione radio sita in Monaco di Baviera. Lui aveva invocato il «sangue», l’aveva invocato come il solo rimedio che «può cancellare una pagina così obbrobriosa nella storia della patria». E in nome dell’onore da rivendicare, tornando a morire a fianco delle truppe di Hitler, il sangue lo sparsero veramente: il loro e quello di tanti italiani che in nome di opposti ideali – libertà democrazia giustizia – scelsero la strada della guerriglia partigiana e della cospirazione antifascista.

Ma per molti la guerra al servizio della Repubblica non fu un’eroica avventura; fu anzi una vicenda per nulla gratificante, amara e intrisa di rancore per la gran parte dei coscritti, di tutti coloro che risposero ai bandi di chiamata alle armi emanati dalla Repubblica e non ebbero la volontà di scegliere la renitenza.

Scrive uno di loro, dopo aver trascorso mesi nei campi di addestramento in Germania.

Alla vigilia della partenza [per l’Italia], do un’occhiata retrospettiva, con animo completamente obiettivo (mi costa fatica, ma voglio essere giusto), alla mia vita militare in Germania. Siamo partiti dall’Italia il 5 marzo [1944], con le orecchie risuonanti di promesse e di panzane (bastone e carota come direbbe Mussolini). Avrete equipaggiamento perfetto, vitto ottimo, trattamento lusinghiero, organizzazione massima. Starete lassù sei settimane al massimo (Graziani, Vercelli, 28 febbraio 1944). E tornerete come nuova forza dell’Italia repubblicana. Noi partimmo, gregge di pecore al macello. Scalcinati, privi delle cose più necessarie, equipaggiati alla meglio, con vestiti leggeri, siamo giunti nella zona più gelida di tutta la Germania.

Scrive queste pagine dal campo di Munsingen, presso Reutlingen nel Baden-Württemberg, dove ha compiuto tre mesi di addestramento sotto la guida degli istruttori della Wehrmacht, l’alpino della divisione Monterosa – appartenente alle Forze Armate della RSI – Danilo Durando, allora ventiduenne. Nell’esercito della Repubblica era entrato nel febbraio 1944 a seguito del «decreto in data 18/2/44 in cui si dice che disertori e renitenti alla leva saranno passati per le armi, se entro quindici giorni non regolarizzeranno la loro posizione». Le sue note testimoniano una rassegnata indifferenza al carattere della scelta che ha compiuto, nessun cenno alle implicazioni etiche e politiche.

24 febbraio [1944], giovedì. Oggi comincia la vita dell’Alpino Danilo Durando, 5° Alpini, Batt. Morbegno, 44ª Compagnia. Stamattina ho dovuto consegnarmi all’ammasso statale [sic] per vestire il grigioverde (non tanto glorioso) repubblicano. Stupore! Nessuna anticamera, pratiche burocratiche ridotte a una sola firma (ahi, ahi, nel modulo era scritto: il volontario tal dei tali chiede...) e alla dichiarazione delle generalità. Poi… comincia il brutto. Il signor alpino sottoscritto, ormai passato in ruolo come recluta sporca, viene spedito in magazzino, onde prelevare vestiario e altri aggeggi. La storia comincia a seccare, giacché si minaccia un’attesa di due ore e più, ragione per cui il sopracitato militar soldato pensa bene di squagliarsela. Il che avviene senza incidenti incresciosi, grazie a una ammirevole faccia tosta, in barba al capoposto. Una giornata in meno di «naja».

Una sorta di spirito goliardico, espresso in toni molto contenuti, amari, rassegnati e tristi. Il racconto è dominato dallo

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squallore dell’improvvisato esercito mussoliniano, che par proprio corrispondere al deserto di sentimenti e di etica. Al momento di partire per i campi d’addestramento tedeschi: «Sembriamo un esercito di irregolari. All’infuori del cappello alpino, ognuno è vestito in foggia diversa. Le scarpette sono francesi, scamosciate. Le giubbe sono usate, piccole e leggere. Un solo maglione, di cotone. Né camicia, né calze, né mutande. Un fazzoletto, un asciugamano. Basta».

E con rassegnazione è parimenti vissuto il viaggio verso il paese alleato. La Repubblica aveva circondato queste truppe di un alone romantico, indicandole come le rinnovate «legioni» della risorgente Roma imperiale.

Sveglia alle 4,30 – ricorda Durando – Alle 8,30 il Battaglione MorbegnoVarese si avvia per la stazione. La gente ci guarda. Pochissima allegria. Sembriamo una massa amorfa di prigionieri. Vani tentativi di stupidissime ragazze del PFR […] di ornarci di pini, anzi, si minaccia un tafferuglio se non spariscono subito dalla circolazione. […] Si ode solo lo sferragliare della locomotiva di manovra, che sta attaccando al nostro convoglio dieci vagoni tradotta di fanteria. Su di essi è scritto in gesso: MUNSINGEN. Si parte per Milano. A Lambrate ci si ferma per il rancio, che soddisfa tutti. Carne in scatola, burro, sigarette, formaggio, 1 kg di pane, mele, cognac. Quindi partenza. Fermate a Brescia, Verona, Trento. A Bolzano si giunge alle 24 e ci viene distribuita una tapioca calda: a metà la buttano via. A me piace. Poi, si ricomincia a dormire, gli uni sugli altri, stesi sulla paglia. Fa freddo.

Non molto diversa da quella di Danilo Durando è l’esperienza di Abele Antonione: un diciottenne di Novara «talmente magro ed esile» che viene dichiarato rivedibile alla visita nel 1943 (presumibilmente prima del 25 luglio); ma è dichiarato abile alla visita dell’anno successivo. Quando la classe 1925 è richiamata alle armi dalla RSI, dapprima non si presenta, vagheggia anzi di prendere «la strada dei monti» come molti suoi amici; ma infine «pressato dai miei famigliari che temevano per la mia vita», si costituisce. Lo trasporta verso la Germania una teoria di carri bestiame, in cui sono ammassati tanti altri giovani coscritti, sorvegliati da militari tedeschi.

Ogni due vagoni, vi era un tedesco, sorridente, gioviale (eravamo ancora in Italia). La giovialità ed il sorriso sparivano a mano a mano che il convoglio si avvicinava al Brennero. A Fortezza notai che i nostri angeli

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custodi erano raddoppiati: un tedesco di guardia ogni vagone. […] Leggevamo i nomi delle stazioni dalle fessure delle porte dei vagoni. Queste erano sprangate dall’esterno.

A Innsbruck trovano, sul binario accanto al nostro, un altro treno, lungo, carico di alpini italiani diretti certamente ai campi di concentramento. Provenivano dalla Grecia, dall’Albania. Ci cercavano acqua, pane. E noi, quel poco che avevamo glielo demmo volentieri, anche se le sentinelle tedesche cercavano di impedirci di avvicinarci a loro. […] Altri giovani che andavano a patire, alla morte, dopo che ebbero patito e sfiorato la morte sui campi di battaglia, all’ombra della bandiera tricolore.

Anche lui viene dislocato nel Baden-Württemberg, a Falstetten, non lontano da Munsingen. Non diversamente da quanto narra Danilo Durando (e come emerge da tutte le memorie delle reclute delle divisioni della Repubblica), anche per lui l’addestramento è durissimo, nel clima gelido dell’inverno tedesco. All’inclemenza del clima e al rigore della disciplina si aggiungono lo scarso cibo, le condizioni disastrose degli alloggi, la gratuità di punizioni umilianti.

Quando c’era l’adunata, in cortile, chi arrivava in ritardo veniva punito. Anch’io, una volta, mi aggiunsi al battaglione dei puniti. Ci misero in fila. «A terra». E noi giù di scatto fra il fango. «Avanti a carponi». E noi, a lavorare di gomito. […] avanzando in quel modo ci trovammo […] ai margini di una grande buca, profonda due-tre metri, dentro la quale venivano messi i rifiuti di tutto il campo. Noi cerammo di deviare, chi a sinistra, chi a destra. Ma il tedesco inflessibile ci ordinò di andare avanti. E noi… giù… a rotolare dentro… nell’immondezzaio. Dal di sotto, nelle diverse posizioni in cui ci trovavamo la faccia del «tudar» era più segaligna. Pareva uno dei demoni, intenti a cacciare i reprobi nella melma puzzolenta di una delle bolge dantesche.

Al rifiuto per la disciplina militare si aggiunge così una crescente ostilità verso i tedeschi: «Sentivo ribrezzo verso i nostri “alleati” tedeschi, i quali però, presi ad uno ad uno, eran il più delle volte della brava gente, dimostrandosi unicamente degli esecutori di ordini impartiti dall’alto». A uno di loro, che gli confessa di non credere più alla guerra e che «anche lui, come tanti commilitoni, era stanco di una simile vita» chiede perché non tentassero

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«di sovvertire l’ordine delle cose, disobbedendo o dandovi alla macchia?»

La risposta era pronta e inequivocabile: avevano famiglia in patria e desideravano, un giorno, ritrovarla sana e vivere in essa tanti anni ancora. Del resto le sue idee in proposito collimavano con le mie, quando avevo deciso di costituirmi, dopo che ero rimasto per diversi mesi renitente. Proprio io ero in grado di potergli rivolgere tale domanda? Avrebbe potuto rispondere: «E tu perché non fai altrettanto?».

Una fiammata autocritica, per quanto lieve e presto obliata: riesce a tornare in Italia grazie all’aiuto di un buon medico che gli certifica un soffio al cuore; e poi mesi di guarnigione senza scopo tra la natia Novara e Vercelli. Negli ultimi mesi di guerra abbandona il servizio e – casualmente fermato dai partigiani mentre vaga sbandato – risolve di unirsi a loro. «Potevo finalmente rendermi utile per la libertà!», scrive in chiusura delle sue memorie non senza una palese contraddizione.

Analogo per Danilo Durando il termine della vicenda, penoso quant’altri mai, come emerge dalle pagine che redige nei primi mesi del 1945, dal fronte delle Alpi occidentali dove gli alpini della Monterosa sono stati schierati.

Sabato, 24 febbraio 1945. Scade un anno da che mi sono presentato all’ammasso militare della repubblica. Da allora, quante ne sono passate! Per Giove, meglio non pensarci. Spara il 420 mm. Un urlo, un rombo sbigottito delle valli, e poi il ronfare lunghissimo del grosso viaggiatore sulle nostre teste. A volte, pare lo sferragliare di un treno, poi il ronzio discontinuo di un aeroplano, infine, un urlo di bestia ferita. un attimo di calma (mentre appena appena si spegne il ritmico rimbombo della montagna) ed ecco laggiù, verso Briançon, giunge l’eco dell’esplosione. Pare che gli stessi monti tremino […].

Mercoledì, 18 aprile. La situazione si sta rannuvolando in modo catastrofico. I partigiani scendono a valle. Qui non si può capire nulla, ma forse è giunta la famosa ora X. Venerdì, 20 aprile La Divisione si accinge a ritirarsi. Crolla tutto: ogni idealismo finisce, muore. Il dualismo fra «dovere verso la patria» e «dovere verso i poveri perseguitati dai fascisti» scompare. Rimane ora solo il dovere di vendicare in primo luogo i soprusi dei repubblichini nei confronti dell’Italia, poi tutto quello che i Tedeschi e la Repubblica Sociale mi han costretto a subire.

Così come era iniziata, la vicenda si chiude sulla contemplazione del destino del protagonista, che della grande tragedia riesce a cogliere solo quello che riguarda il suo privato disagio, rifiutando di riconoscere il coraggio di chi una scelta l’ha fatta:

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Approfitto di un momento libero per andare a conferire dai partigiani (sono io l’esponente di noi otto alpini, perché il sergente non si può compromettere), e ci mettiamo d’accordo così: rimaniamo in stretto contatto con loro, poi, quando verrà il momento di combattere, li raggiungeremo. Da oggi quindi passo ai partigiani: finisce l’alpino Durando e inizia la vita del partigiano Danilo, detto il Moro. Ma francamente sono tornato deluso: questi partigiani, gente di fegato, sì (fin troppo, direi,), ma gente più ignorante e cafona non ne avevo conosciuta prima. Bah, è naja!

Nelle fila della Repubblica ci sono tuttavia persone che hanno avuto la forza di ricordare le proprie scelte, senza accampare scusanti e senza rinnegarle. È il caso di una donna, Zelmira

Marazio: nel 1943 aveva ventidue anni.

In un mercato nella natia Torino ascolta, a metà settembre, commenti popolari sulla sorte di Mussolini ispirati da disprezzo e sfiducia: «– Lo hanno liberato? Sarà vero? – No è tutta propaganda. È morto da un pezzo! – Ma sì, “à fa tera; l’è mort ’l teston”»1 .

Così sente dire da alcune donne al mercato: «Ma qualche giorno dopo» – rievoca con una emozione che traspare anche dallo scritto – «riudimmo la sua voce. Più debole, come esitante, ma era la sua, inconfondibile, amata, rassicurante. Con lui rinasceva la speranza». E allora Zelmira cerca un modo per collaborare alla vita della Repubblica, lei studentessa universitaria.

La Federazione del Fascio Repubblicano aveva sede a Casa Littoria, palazzo Campana, l’antica sede, devastata e saccheggiata nei tragici giorni di luglio. Le vaste sale erano disadorne, nude, le pareti affumicate dai roghi che vi erano stati appiccati. Mi fu dato un tavolino con la macchina da scrivere e una scrivania in uno stanzone vuoto che prospettava con grandi finestre su via Carlo Alberto. Non avevo ancora un lavoro definito. Ogni tanto qualcuno veniva e mi porgeva qualcosa da battere a macchina: comunicati, relazioni, articoli da pubblicare. La Federazione era tutta da organizzare. Era un continuo andirivieni di persone, di tutte le età e condizioni, vestite nei modi più disparati.

La descrizione conferma il carattere improvvisato e provvisorio dei primi passi della Repubblica e delle sue strutture; e anche il ruolo che alle donne viene automaticamente assegnato. Dattilografa, quindi; ma donna che esercita anche il suo spirito d’osservazione e che è capace di notare una caratteristica che sarà

1 L’ ultima frase significa: «si è ridotto in polvere, è morto il teston».

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costante del mondo fascista del periodo: «persone [...] vestite nei modi più disparati». Il caleidoscopio di uniformi e divise, che caratterizzò la Repubblica, sembra inglobare, in questo brano, anche la varietà dei vestiti dei civili, imposta dalla dissoluzione dell’intera società italiana.

Dietro le apparenze di miseria e di confusione anche Zelmira sembra percepire un disordine più profondo, la perdita di ruolo e di prestigio di quel regime a cui continuava a prestare fede. Ma per lei quel vuoto non deriva da una crisi interna del fascismo. È il prodotto del rifiuto di cui gli italiani vanno facendo mostra, è il tradimento degli ideali della Patria e rappresenta un crollo di tutti i valori, che travolge anche le stesse solidarietà amicali.

Nei primi mesi dalla nascita della Repubblica Sociale aspettavo di giorno in giorno di veder arrivare tra noi alcune delle mie compagne di scuola, dell’istituto magistrale e dell’università, che erano state ferventi fasciste, avevano ricoperto incarichi nei fasci femminili, compagne della cui sincera fede non avevo mai dubitato. Ma non vidi nessuna di esse varcare la soglia di Casa Littoria. Alcune, con cui avevo avuto più lunga dimestichezza e amichevoli legami fin dagli anni della fanciullezza, si erano raffreddate con me e non ci frequentavamo più.

La solitudine di lei «credente» si rende sempre più evidente, al punto da costringerla a rinunciare a un incarico di insegnamento ottenuto nella provincia nei mesi successivi. Alla madre, delusa dalla sua scelta, spiega la sua decisione in termini che rivelano quanto grande fosse il vuoto creatosi attorno ai fascisti.

Sarei finita male, mamma, lo sento. Un giorno o l’altro avrei parlato, mi sarei rivelata per quello che sono e avrei avuto tutti contro. Nei paesi, lo sai, chi fa aperta professione di fascismo è sfuggito come un lebbroso e poi, appena possono, lo ammazzano come un cane – un grande abbraccio mise il suggello alla questione.

Zelmira Marazio torna quindi alla Federazione del Partito e qui:

Una sera del ’43, uscendo dal bar vicino a Casa Littoria (dove avevamo bevuto un caffè insieme ai colleghi), Elena, Elvira ed io, insieme con un amico che frequentavamo da tempo, milite della Guardia Nazionale Repubblicana, sentimmo il bisogno di consacrare con un giuramento il nostro impegno fascista. Sapevamo di molti giovani le cui convinzioni erano barcollanti, che venivano per qualche tempo da noi per poi passare tra gli

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avversari, e, per affermare la solidità delle nostre convinzioni, volevamo solennemente suggellare, almeno tra noi, la fedeltà al nostro ideale. Nel buio della piazza, poco lontano dal monumento a Carlo Alberto stendemmo contemporaneamente la mano giurando di restare fedeli alla repubblica di Mussolini fino alla morte. […] Far parte del Partito Fascista Repubblicano era per me una necessità, un’esigenza vitale.

Il passo è significativo perché da esso emergono gli elementi ricorrenti nella memorialistica femminile della RSI. L’adesione politica è fede, passione irrazionale, intima irrinunciabile esigenza. Non troviamo mai riferimenti a quegli obiettivi di rinnovamento sociale o politico che pure costituivano parte consistente della propaganda fascista repubblicana. Fede in Mussolini, onore e Patria; e infine l’oscuro desiderio di morte. Affidato soprattutto, scrive Zelmira Marazio, a un cartello che lei stessa aveva appeso nella sua stanza di lavoro alla sede della Federazione torinese del PFR: «Abbiamo i colori della morte, ma siamo la più fiera espressione della vita. Mussolini».

Mussolini: Zelmira (Mirella la chiamava però la madre) racconta che attorno a quel nome, ripetuto e osannato ovunque in Italia, nasce e matura la sua passione fascista fin da bambina. Attorno a Mussolini, alle cerimonie di massa e alle sfilate; e ai canti. La madre, maestra, alla sera ricanta per lei le canzoni che ha fatto cantare alla sua classe.

C’erano, tra quelle, «Miniera», «Soldatini di ferro», «La marcia della Marina», ma la mia preferita era la canzone dei balilla. – «Fischia il sasso…» La cantavo festante nelle mie scorribande in cortile coi miei compagni di gioco che sia caso sia scelta, erano tutti maschietti. […] Meno piacevole –almeno per me – era cantare l’inno delle Piccole Italiane. Mentre la canzone dei balilla era vibrante di orgoglio e prefigurava un futuro di ardimento e di gloria, quella delle bambine mi pareva melensa e mortificante. «Siamo nembi di semente / siamo fiamme di coraggio / per noi canta la sorgente / per noi brilla e ride il maggio», cantavano i balilla. Di contro, il miglior aggettivo regalato a noi bambine era «vispe». Il nostro compito era quello di pregare Iddio «come augellini gorgheggianti» per la salvezza del duce; la nostra ambizione di crescere «forti e soavi insieme»; il nostro futuro di lavorare per la Patria nei nostri focolari. Erano mete che già allora sentivo di non condividere appieno, perché troppo riduttive, rispetto alle mie aspirazioni, per quanto fossi d’accordo con la necessità di pregare per il duce. È quindi nella sua stessa natura, nel suo carattere, volere un ruolo battagliero e dinamico.

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E il desiderio di combattimento e di sacrificio trova infine sbocco nella possibilità di aderire al Servizio Ausiliario Femminile (SAF). Un’adesione (Marazio forse lo ignora e comunque non lo dice) che per gran parte delle militanti, vale a dire per tutte le dipendenti dei Ministeri, era obbligatoria, pena il licenziamento. Nel suo scritto l’annuncio della creazione del SAF viene proposto in termini quasi burocratici, ma subito dopo esplode la piena dei sentimenti.

Il 18 aprile 1944 un decreto ministeriale istituiva il Servizio Ausiliario Femminile. Le donne avrebbero sostituito gli uomini nelle attività ausiliarie delle forze armate, nei servizi postali, telegrafonici, sanitari, antiaerei, uffici stampa e di vettovagliamento. Elena ed io esultammo, al colmo della felicità. Si avverava finalmente il nostro sogno, quello che avevamo covato dentro di noi, senza esprimerlo, fin da fanciulle: servire la Patria anche noi, in grigioverde. Avremmo preso il posto degli uomini vili e renitenti che avevano rinnegato la Madre. […] La fede mia e delle ragazze che frequentavo non aveva tentennamenti. Il corso della nostra vita aveva preso quella direzione come per una forza ineluttabile: ogni fiume va verso la foce spinto dall’impeto delle sue acque. Così era di noi.

Eravamo cresciute nel fascismo e il suo credo ci era entrato fin nelle midolla, non potevamo essere diverse da quel che eravamo sempre state. Fasciste, abituate a credere e obbedire e, ora, pronte a combattere. Sapevamo che i renitenti alla leva erano migliaia, li consideravamo devianti, illusi dalla propaganda, vigliacchi senza bandiera – come li definiva una nostra canzone –, giovani che avevano preferito darsi alla macchia anziché correre a difendere la patria invasa dal nemico. Le violenze che essi compivano ci facevano inorridire; ogni giorno cresceva il numero dei nostri caduti, morti in combattimento o assassinati proditoriamente in agguati, imboscate, colpi alle spalle e spesso dopo la morte ancora straziati e vilipesi.

Ma questa coerenza e fedeltà ideale le costa un isolamento che non può non pesarle e provocarle sofferenza.

Un pomeriggio di primavera salii sul mezzo pubblico al capolinea di piazza Hermada. La vettura era semivuota. Io portavo, come sempre, appuntato sul bavero della camicetta di cotone, il distintivo con la scritta

P.F.R. Scendendo verso la città, il tram si andava riempiendo. Diversamente dal solito, quel giorno non avevo nulla da leggere e pensavo ai fatti miei. Ad un tratto percepii attorno a me un’atmosfera strana. Decine di sguardi

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È il momento nel quale Zelmira vuole confidare al suo diario il suo percorso ideale ed emotivo.

erano appuntati sulla mia persona. In un innaturale silenzio quegli sguardi mi pesavano addosso, cupi, minacciosi. Avvertii concretamente, per la prima volta in vita mia, una carica di odio diretta contro di me.

La caduta della Repubblica fascista nell’aprile 1945 è per lei la fine del suo mondo, ma non assume colori tragici. Non ci sono nemmeno accenni a morti violente. Il racconto è mantenuto sui toni malinconici e intimisti che ha seguito fino a quel momento.

Da tempo gli amici mi avevano avvertita che le colline brulicavano di partigiani. Non era prudente che io continuassi a pernottare a casa mia. Infatti le periferie della città erano le zone primarie dell’azione gappista. Tornare a casa ogni sera era un rischio costante. Così decisi che avrei dormito a Casa Littoria. Mi fu apprestata una brandina accanto a quelle di altre ragazze. Andavo a salutare mia madre e le sorelle al mattino presto, prima del lavoro, quando la città era ancora addormentata. Io mi mostravo serena e forse lo ero veramente, convinta com’ero che tutto non poteva finire in tragedia. Le ragazze della segreteria erano abituate ad ascoltare da me discorsi infiammanti, assicurazioni di vittoria, rimproveri per il diffuso pessimismo, incoraggiamenti ad aspettare il trionfo finale. P.F.R. la sigla del nostro partito era divenuta oggetto di dileggio da parte della gente, per cui significava: Pochi Farabutti Rimasti o, con un po’ di indulgente commiserazione, Pochi Fessi Rimasti. Ed eravamo proprio pochi, i rimasti. Negli uffici non c’era quasi più nulla da fare. Le mie colleghe, confuse, preoccupate, mi pregavano di confortarle.

E infine, a suggellare la mesta conclusione del tutto, le vestali dell’Idea celebrano un rito che, se pur non intenzionalmente, ha sembianze purificatrici. A seguito di un ordine di bruciare tutta la documentazione, accese le caldaie del riscaldamento, si passano di braccia in braccia le carte per spingerle infine nel rogo.

Si cominciò con le carte dell’ufficio matricola e si continuò per gran parte della notte. Presi anch’io la pala per spingere nel fuoco tutte le carte del Tribunale Straordinario e della segreteria, il mio lavoro di tanti mesi. Davamo un addio a tutto. Piangevamo alimentando le fiamme. Negli uffici gli uomini erano pochi. Vedevamo camion di armati andare e venire. Solaro (federale fascista) era sempre in movimento, da un reparto all’altro, da un caposaldo all’altro. Non si sa come trovasse il tempo di mettersi a tavolino. Fu infatti il 21 aprile che comparve sui giornali l’ultimo, drammatico appello del nostro comandante alla cittadinanza torinese. Solaro ricordava l’ondata di terrore che negli ultimi giorni si era abbattuta sulla città.

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La patina melanconica e sentimentale non è tuttavia priva di una forza polemica. Lo si vede bene quando entra in scena Solaro, il federale di Torino. In queste ultime pagine l’uomo –mai prima nominato – assume parvenze quasi eroiche, pur su uno sfondo di miseria, squallore e desolazione.

La nostra bella Torino – scrive Zelmira – offriva l’aspetto di una città morta, abbandonata dagli abitanti, in attesa di una tragedia. Aggirandoci per le strade vuote, trovammo una salumeria aperta ma dentro non c’era nulla. Dovemmo accontentarci di acquistare ciò che il negoziante ci offriva con faccia desolata: un po’ di cetriolini sottaceto. Tornammo in Federazione. Qualcuno aveva scovato un po’ di pane raffermo e lo consumammo con quei cetriolini tanto aspri da parere velenosi.

Ma i particolari di quei momenti desolanti devono venire cancellati dall’irruzione

del segretario federale.

Fu in quel giorno, il 27 aprile, un venerdì, che Solaro ci convocò tutti nel suo ufficio. Era un locale imponente e quel giorno mi parve più che mai vasto e solenne. Sulla parete, dietro l’enorme scrivania, campeggiava un ritratto del Duce. Vestito della divisa di comandante della Brigata Nera, Solaro ci attendeva in piedi, rannuvolato in volto. Quando la sala fu piena incominciò a parlare. «Camerati, vi riunisco per l’ultima volta. Non c’è più speranza per noi. I tedeschi hanno trattato la resa. Siamo uno degli ultimi gruppi di fascisti ancora liberi ed in armi. Milano è in mano ai partigiani. Non abbiamo più un governo. Il Duce ha abbandonato Milano e non sappiamo dov’è. Forse in fuga verso la Svizzera. Io vi ringrazio per la vostra fedeltà e vi sciolgo dal giuramento fatto alla Repubblica. Oggi essa è morta». Ascoltavamo in silenzio, alcuni piangendo, altri serrando le mascelle per non cedere alla commozione. Quelle parole aprivano un baratro davanti a noi. Fino a quel momento facevamo parte di un esercito, eravamo entro la legittimità di uno stato, circondati da forze ostili ma ancora uniti ed in grado di combattere. Ora eravamo soli, abbandonati a noi stessi, orfani della Repubblica.

Nel quadro di isolamento che sembra circondare tutti gli aderenti al «nuovo» fascismo, le donne appaiono, nei diari, come i soggetti più esposti al ludibrio e allo sprezzo. Raramente incontriamo per loro parole di pietà, come quelle che Irene Paolisso, in una riflessione su quanti sono forzati ad accettare forme di collaborazionismo, dedica a due donne del paese in cui s’è rifugiata con la famiglia.

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30 novembre [1943] Molti dei rastrellati sono rimasti in città a collaborare coi tedeschi, anch’essi spinti dalla fame e stanchi di fuggire. Condanniamoli, se ne abbiamo il coraggio. E condanniamo Lina, e la madre che l’ha costretta a prostituirsi coi tedeschi, entrambe sole e abbandonate. È vero, non ho la forza di fermarmi a parlarle come facevo prima dell’inferno. Così minuscola, così miserabile anche fisicamente, per nulla attraente, con l’immancabile madre, che immagino pronta a suggerirle la maniera più idonea di affrontare le situazioni più incresciose, nelle retrovie e in prima linea, senza mai guardarsi avanti né intorno, entrambe tese a risolvere il fondamentale problema della sopravvivenza.

Le vicende delle Forze Armate della RSI non ci sono raccontate solo da reclute riottose e poco convinte: abbiamo anche i racconti di ufficiali del Regio Esercito che, fatti prigionieri dai tedeschi, a differenza di altri, non scelgono la deportazione, ma optano per aderire alla Repubblica fin dal primo momento. Hanno motivazioni significative e ovviamente opposte a quelle – che più avanti vedremo – di coloro che decideranno di farsi internare anziché arruolarsi nel «nuovo esercito italiano».

Da dove nasca, con quali motivazioni e con quali percorsi, la volontà di combattere con la Repubblica ce lo illustra il diario del tenente Francesco Celentano, comandante di una sezione della 1518ª batteria contraerea dell’E.I. L’armistizio lo coglie all’aeroporto di Salonicco, che è presidiato dalle truppe tedesche. La notizia gli arriva la mattina del 9 settembre e quello stesso giorno lui e gli altri comandanti italiani vengono invitati a pranzo dal comandante tedesco della Luftwaffe.

Alla fine del pranzo il comandante tedesco prese la parola e ci informò che l’Italia aveva chiesto l’armistizio, cosa grave e dolorosa; egli però, avrebbe provveduto a farci rientrare in Patria. Fingemmo stupore per la notizia, anche perché da parte degli altri comandi italiani (pur non presenti in zona) non ci era pervenuta nessuna informazione e ci congedammo. Nel riprendere agli appendiabiti i nostri cinturoni con pistole, ci accorgemmo che erano più leggeri! Erano stati sottratti tutti i caricatori! Il S. Tenente Di Colbertaldo, che parlava correttamente il tedesco, tornò indietro con noi e fece una vibrata protesta per l’affronto subito. Il comandante tedesco però, che aveva certamente prevista la nostra reazione, con molta diplomazia, ci spiegò che aveva ordinato la neutralizzazione delle nostre armi a fin di bene, in quanto, era cosciente che le notizie gravi che ci aveva comunicato, potessero indurre qualcuno di noi, o addirittura tutti, a gesti inconsulti. Con la stessa diplomazia lo ringraziammo e prendemmo congedo.

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Nel gioco delle galanterie «diplomatiche» gli ufficiali italiani sembrano non intendere che non si tratta di affronti personali, ma di un vero e proprio atto di guerra che fa di loro dei prigionieri. Senza nessun gesto di opposizione accettano l’invito a trasferirsi in un albergo a Salonicco, lasciando i rispettivi reparti.

I soldati e i sottoufficiali della guarnigione, lasciati a se stessi, provvedono a spedire loro il bagaglio, che al tenente Celentano giunge accompagnato dalla lettera di un sottotenente, significativa testimonianza del legame che univa ufficiali e soldati, secondo un modello che ci è stato narrato da uomini come Lussu o Rigoni Stern. A Celentano scrive il sergente Zanutto:

Compiangiamo tanto il Vostro distacco dalla Batteria e dalle Sezioni; questo è il più grande dolore che noi tutti sopportiamo, ma il coraggio da veri italiani l’abbiamo sempre più. Viva l’Italia e viva il Re! Speriamo di riunirci al più presto possibile a Voi tutti che siete i nostri padri! Con grande dolore noi tutti della 2ª Sezione Vi auguriamo di tutto cuore buona fortuna. Firmato Serg. Zanutto Vittorio.

È una fedeltà che il tempo non attenua, tanto che l’11 marzo 1944 Celentano, ormai in campo di addestramento tedesco per le truppe RSI in Germania, riceve dal «suo» sergente questa lettera: «Sig. Tenente ho molta fiducia in voi, se avete la possibilità di farmi venire con Voi sotto i Vostri ordini, sarò lieto di impugnare nuovamente le armi e combattere fino all’ultima goccia di sangue… vogliamo essere soldati e non prigionieri!!!» Lealtà e dignità che gli ufficiali non sembrano conoscere se non nella forma dell’onore e della fedeltà nell’alleanza al nazismo. Caricati, con la promessa di essere portati in Italia, su un vagone di terza classe (che è comunque meglio dei carri bestiami su cui viaggia la truppa rastrellata nella Grecia e nei Balcani) gli ufficiali sono portati, dopo lungo viaggio, a Trier, in Alsazia, nello Stammlager XII D. Bastano pochi giorni perché la scelta di Celentano e dei suoi si delinei precisa.

La propaganda fatta dagli ufficiali italiani, giunti dall’Italia, non ci trovò impreparati ed il senso di amarezza, per quanto accaduto, l’aver vista sgretolata l’armata di Grecia, che pur era in perfetta efficienza operativa, senza che dagli alti comandi venisse un ordine, la fuga indecorosa del Re e di Badoglio, il senso di colpa verso gli alleati tedeschi, l’avvilimento per aver visto dal di dentro un campo di concentramento, ci portarono alla decisione di aderire alla RSI; i miei colleghi aderirono al completo. Non

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pensavano più che avremmo vinto la guerra, ma consideravano doveroso di vender cara la pelle e di ridare il senso dell’onore all’esercito italiano cosi duramente vilipeso!

Dallo Stammlager vengono inviati perciò a un enorme campo di addestramento militare, nel Baden-Württemberg, in una località chiamata Stetten am kalten Markt.

Le giornate passavano veloci impegnati in un addestramento a mo’ di reclute, sotto il comando di un ufficiale tedesco, coadiuvato da alcuni suoi subalterni. […] Il rancio, con cibo tedesco, era scarso, per cui la sera, in libera uscita, il più delle volte si correva al Gasthaus a mangiare un piatto di patate all’insalata ed a bere un boccale di birra. Come diversivo, si andava dalla panettiera che ci vendeva un panino di buon pane bianco e ben volentieri accettava denaro italiano. Questa signora suonava assai spesso il pianoforte; sia il suono armonioso, sia il profumo del pane caldo erano una forte attrattiva.

Rispetto alla condizione degli altri Internati Militari, quelli non aderenti, di cui leggeremo più avanti diari e memorie, la vita di questi uomini si prospetta più che sopportabile. Anche il loro addestramento non ha caratteri di severa repressione a cui erano sottoposti i militari di truppa – così come ci hanno raccontato Durando e Antonione. Nel febbraio 1944 arrivano dall’Italia le reclute destinate a formare la Divisione «Italia» e gli ufficiali aderenti alla RSI ne diventano gli istruttori. (Da altre memorie invece risulta che il ruolo degli ufficiali italiani in questo addestramento è del tutto secondario rispetto a quello dei tedeschi). Il 21 aprile 1944 il campo è onorato addirittura dalla visita di Mussolini, che con Hitler si presenta per consegnare le bandiere ai reparti. Occorre tuttavia attendere gli inizi di dicembre 1944 perché la divisione sia condotta in Italia. Al Brennero il tenente Celentano scopre «che la Germania si era annessa quella provincia italiana». Non sembra che la notizia lo scuota in profondità: della strategia tedesca non intende più di quanto non avesse inteso a Salonicco; si limita a un gesto simbolico, quasi un beffa goliardica: a Termeno (in provincia di Bolzano) fa cantare alla sua truppa «Fratelli d’Italia». Vale la pena di ricordare che negli stessi giorni a Gorizia i marò della Decima MAS imbandierano la città di tricolori, come protesta per la politica anti italiana del Reich. La divisione «Italia» si schiera allo sbocco della Garfagnana, sul fronte del Serchio. Il compito del tenente è quello di

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controllare, da una postazione presso Castelnuovo, i movimenti delle truppe alleate nella pianura, comunicarli al comando delle batterie e dirigere il tiro. Dopo oltre tre mesi, alla metà di aprile 1945, comincia la ritirata al seguito dei tedeschi che si conclude il 28 aprile quando generale Carloni scioglie gli uomini dal giuramento. Celentano tenta di dileguarsi, in borghese, con un commilitone, ma il giorno stesso i due vengono intercettati da

tre masnadieri che vedo benissimo uscire da una casa e tagliarci la strada. Fingo di non vederli. Uno di essi impugna una pistola a tamburo arrugginita che gli trema in mano. Gridano mani in alto, si forniscono di sigarette dal sacchetto di Betti [un suo collega] e ci perquisiscono. Queste tre staffette ci portano in un altro casolare e di qui insieme ad altri «rastrellati» ci si avvia, con altra scorta, verso le prime linee brasiliane. […] La scena del mitra e della pistola ci dà la netta sensazione della preparazione militare dei partigiani. Le domande che ci fanno ci convincono della grettezza della loro mentalità. Si ha così il primo contatto con i Brasiliani, anche questi soldati per sport. Seconda perquisizione per opera di «Stalin» nome di battaglia di un partigiano. Una bionda ragazza sorride ad un soldato di colore! Ci si incolonna per Sala Baganza e ci rinchiudono nel Macello.

La drammaticità della situazione spinge Celentano a un atteggiamento sprezzante verso chi l’ha fatto prigioniero, con espressioni che sono l’epitome di una sensibilità etico-politica propria di una persona formatasi in una cultura militare fondata solo sul presunto «onore». Di lì in avanti comincia la prigionia di Celentano in mano alleata.

Di altra estrazione sociale, rispetto a Celentano, Gustavo Tomsich: ci narra la peripezie di una vita integralmente plasmata nella disciplina e nell’ideologia del fascismo mussoliniano. La madre è istriana, nubile, e il padre è croato, ma Gustavo non lo conosce né il suo nome compare nei documenti del ragazzo. Studia in Italia e dai sei ai dodici anni è educato in un collegio religioso a Viggiù, presso Varese. Le strutture educative del regime (le colonie marine della GIL e della GILE) rappresentano per lui una fuga dall’ambiente oppressivo e violento e cupo delle istituzioni caritative confessionali cattoliche, a cui era stato consegnato. Le angherie piccole e grandi da lui subite in quegli ambienti hanno fine quando viene accolto dalla GILE, Gioventù del Littorio all’Estero; anche se deve difendersi da altri ragazzi, provenienti da paesi di tutto il Mediterraneo, che gli sono ostili o perché slavo o semplicemente perché è più debole. Viene

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«dalla Slovenia» – così lo presenta al capo manipolo un suo compagno – «un paese vicino alla Finlandia dove c’è il libero amore e ogni anno è notte per sei mesi di seguito»; cognizioni storico geografiche opinabili, che non impediscono al giovane di apprezzare la scuola per «marinaretti», che è il suo primo rifugio dopo esser sfuggito al collegio religioso. La sua vita successiva si svolge alternatamente in convitti gestiti dalla Chiesa e in strutture educative del fascismo. E le attività di queste ultime hanno per lui un fascino ben più grande delle pratiche religiose: gli inni della gioventù fascista sono ben più coinvolgenti che non quelli chiesastici, le marce e le parate del regime sono animate da una vitalità incomparabile con le modeste gite fuori porta organizzate dai preti. E poi i canti: quelli fascisti sono più amati: «Giovinezza, giovinezza» faceva aggio anche sulla «Marcia reale». L’inno fascista è «il nostro inno, il più bello del mondo che cantavamo per intero con l’appendice

“Per Benito Mussolini, eia eia, alalà”». Il programma educativo, nella scuola della GILE prevede anche due ore alla settimana di mistica fascista:

I centurioni ci raccontavano come era nato il fascismo, perché esso governava l’Italia e in avvenire avrebbe governato chissà quanti altri paesi, quali erano le sue realizzazioni dalla Marcia su Roma in poi. […] Tutti insieme ripetevamo i motti del Duce per impararli a memoria. Mussolini era sicuramente l’uomo più coraggioso del mondo, se sapeva pensare come Tremal Naik e Tarzan: «Molti nemici, molto onore», «Meglio un giorno da leone che cent’anni da pecora», «Me ne frego», «Tireremo dritto», «Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi», «Credere, obbedire, combattere e se necessario morire.» Venimmo così a conoscenza di una quantità di cose che non sapevamo, tra le quali che Nizza, la Savoia e la Corsica dovevano ritornare italiane, che gli inglesi erano il popolo dei cinque pasti; che gli americani erano dei pazzoidi plutocrati, che gli ebrei erano peggiori nemici del fascismo, che i comunisti eran dei sanguinari senza dio. Erano tutte cose vere e sacrosante, nessun ne dubitava, nemmeno i ragazzi venuti da Parigi che erano i più considerato dai superiori.

Il ricordo non sembra privo di qualche ironia, percorso com’è da un divertito distacco rispetto alla fede a cui Gustavo è stato educato. Ma questo non toglie che, alla caduta del fascismo, il giovane Tomsich non sappia reprimere sdegno per i voltafaccia di cui è spettatore. A quell’epoca vive a Roma, poiché tra la fine del 1941 e primi mesi del 1942 aveva partecipato «a un corso

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biennale indetto dalle GILE unitamente alle società Italcable e Italoradio per la formazione di radio cablografisti». Terminato il corso, si trova a lavorare presso il Ministero della Cultura Popolare: «Il lavoro scorreva veloce […] consisteva nell’intercettare le trasmissioni radio delle agenzie di stampa di Paesi nemici». È lì che lo coglie il 25 luglio.

Il pomeriggio io giravo nel centro di Roma per osservare cosa stava accadendo: i gerarchi fascisti di rilievo venivano perseguitati e malmenati; quelli minori si dimostravano in massa pronti a tradire, comportandosi come un gregge senza onore e senza coraggio. La mattina presto, rientrando dal ministero alla pensione, percorrevo vie i cui marciapiedi durante la notte erano stati disseminati di uniformi fasciste di ogni genere e grado, di ritratti di Mussolini e di altri esponenti del PNF, di decorazioni, distintivi, medaglie mostrine. E si preferiva lanciarli dalle finestre e dai balconi: raggiunto il pavimento stradale diventavano anonimi e un vigliacco di più si sentiva al sicuro. Vedere quel massacro di ricordi che fino a pochi giorni prima sarebbero stati difesi a oltranza, mi dava un senso di impotente disperazione. Mi confortava la certezza che Mussolini sarebbe ritornato e avrebbe punito i traditori fucilandoli, a cominciare dal re e da Badoglio. Intanto, venivano abbattute le statue del regime e scalpellate le sue insegne. E infine il momento della scelta definitiva: Il 17 settembre il Duce proclamava da Monaco la fondazione della Repubblica Sociale Italiana. I tedeschi arrestavano i giovani in età di servizio militare senza andare per il sottile, avviandone a migliaia nei campi di lavoro in Germania o ai cantieri della Todt. Il paese era terrorizzato dal nuovo flagello e le retate non venivano risparmiate nemmeno a Roma. Il ministero provvide a fornire ai dipendenti un lasciapassare dell’ambasciata di Germania […]. Insomma, a fine luglio era crollato un partito e in poche settimane sembrava crollato anche il Paese. Nel caos generale, alcune strutture funzionarono senza interruzioni, come l’ufficio radiointercettazioni del Ministero della Cultura Popolare, il cui lavoro tuttavia non serviva a nessuno. A pochi giorni dal discorso del Duce a Monaco, fu nominato ministro Mezzasoma che ci diede un nuovo redattore capo: si chiamava Giorgio Almirante e si sapeva soltanto che veniva dai GUF (Gruppi Fascisti Universitari) ed era sottotenente di fanteria. Dopo avere distribuito una ricca gratifica, Mezzasoma passò a ingaggiare volontari per il nuovo governo che avrebbe avuto sede al nord, non si sapeva esattamente dove. Il mio capo servizio, Maimone, mi chiese cosa intendessi fare. «Naturalmente andrò al nord con Mussolini». «Ma chi te lo fa fare? Qui la guerra finirà presto perché Roma è destinata a cadere entro pochi mesi, ma al nord quando finirà? E poi, non sai nemmeno dove andrete a finire. Dai retta a me, rifletti bene prima di fare questo passo». «Io andrò al nord comunque». «Perché questa determinazione a priori?» «Abbiamo giurato fedeltà al fascismo». «Il governo e il re hanno esonerato tutti dal rispetto dei giuramenti a favore

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del fascismo e delle sue organizzazioni di qualunque genere». «Non ci ha esonerati Mussolini». «Testa dura, vero?» «È questione di onore».

Inizia così la sua avventura nelle file della Repubblica.

I volontari, ci trovammo in una riunione indetta da Almirante. Gli altri erano tassativamente esclusi. Egli spiegò cosa significasse andare al nord, il perché della Repubblica Sociale Italiana, perché a Roma rimanevano i poco di buono, quelli che sarebbe stato meglio perdere molto tempo prima. La riunione si concluse in un clima di entusiasmo con il saluto alla voce: «Duce! A noi. Vincere e vinceremo». E sembrava di essere tornati indietro di anni, a prima della guerra.

A Venezia prendemmo alloggio al Lido, nel casinò requisito. Era una vacanza con pranzi e cene nei migliori ristoranti del centro che ci rivelarono le risorse della cucina veneziana nel preparare piatti di pesce e di crostacei. Gli svaghi gastronomici erano intercalati a gite in vaporetto ricalcando gli itinerari dei turisti in tempo di pace. Allegria ed entusiasmo non si esaurivano ma cominciavano a serpeggiare dei dubbi perché non si faceva nulla che servisse mentre il Paese era sotto i bombardamenti e i veneziani raccontavano terrorizzati le vicissitudini di Verona che le fortezze volanti attaccavano giorno e notte.

Poco più tardi gli uffici sono trasferiti presso Salò. La capitale «segreta» della Repubblica li ospita in un clima rilassato e gaudente, ma l’animo dei giovani è fervidamente fascista.

Tutti si dicevano convinti che al nord erano venuti i migliori, ma non era ammesso aggiungere altro. Eravamo i migliori per fedeltà, questo sì, ma non per capacità organizzative. Era stata montata una macchina di governo che avrebbe funzionato anche in seguito in modo precario, ma che avrebbe comunque funzionato. L’entusiasmo non era per quella macchina ma per la rifondazione del fascismo che sarebbe avvenuta poco dopo, partendo dalle sentenze di Verona. Aspettavamo con impazienza quelle sentenze e ci sembrava venissero ritardate ad arte, per favorire qualcuno. Le volevamo tutte uguali, senza clemenza. E nessuna clemenza specialmente per Galeazzo Ciano che consideravamo il prototipo del verme traditore. Numerosi reparti della Muti, della Decima Mas e delle Brigate Nere erano pronti a fare chissà cosa se la sentenza non fosse stata la pena di morte mediante fucilazione alla schiena. Nel gennaio 1944, quando Ciano venne fucilato, molti brindarono all’evento, convinti che Mussolini

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L’entusiasmo non sembra trovare tuttavia corrispondenza nel lavoro cui sono chiamati. La prima sede è Venezia.

non era cambiato, che era sempre il Duce del «Noi tireremo diritto» e del «Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi». Noi sapevamo di non andare più verso la vittoria, che molto probabilmente saremmo stati sconfitti e avremmo espiato per la nostra fedeltà a oltranza. Al punto in cui ci trovavamo, saremmo andati avanti anche senza Mussolini, in una direzione autonoma. […] In quel periodo tutti eravamo animati da una gran voglia di batterci per il Duce e il fascismo purificato. Per noi della GILE, all’inizio della guerra i motti di Mussolini erano un impegno sacro e lo era specialmente quello fondamentale: «Credere, obbedire, combattere e se necessario morire». All’esterno, pochi credevano nella nostra determinazione e i primi a considerarci con commiserazione erano proprio gli alleati tedeschi. Ma la nostra disponibilità a morire era autentica, come era autentico il nostro desiderio di vivere.

La posizione sua e dei suoi compagni del servizio intercettazione radio è singolare.

Noi eravamo a conoscenza dell’effettivo andamento delle operazioni militari su tutti i fronti, in terra, in cielo e in mare e potevamo comparare i bollettini dei comandi per stabilire quali erano i più veritieri. Le dichiarazioni degli uomini politici dei paesi nemici e le corrispondenze dei loro giornalisti ci indicavano le previsioni sugli sviluppi futuri della guerra, e ogni giorno le speranze di una ripresa dell’Asse per noi impallidivano mentre prendevano forza quelle di una definitiva sconfitta. Ma fedeli alla consegna affermavamo il contrario e se parlavamo di Radio Londra era per definirla la «fabbrica delle frottole». E con uguale fervore a quello che ci vedeva cantare gli inni nazionali quando eravamo avanguardisti, cantavamo Camerata Richard, la marcia dedicata all’indistruttibilità dell’alleanza italo-tedesca: «Camerati di una guerra, / Camerati di una sorte, / dividete pane e morte...».

L’esperienza a Salò ha quindi per lui il sapore di una vita sdoppiata tra la coscienza della realtà tragica e le speranze e i sogni di tutta la sua vita. Fu una condizione condivisa dai più.

Tranne per i colori, Salò, Gardone, Manerba, Gargnano e le altre località ministeriali, non erano allegre. Sonnecchiavano e sbadigliavano, in una vita metodica e quasi severa, tra lavoro e casa, senza slanci di nessun genere e senza impegni ideologici. Sembrava che a tutti interessasse solo tirare innanzi in attesa di eventi negativi che molti sentivano ineluttabili come fossero fatalità, ma dei quali nessuno parlava […]. E più la guerra sembrava avviata a un triste epilogo, più speravamo nelle armi segrete tedesche,

di cui era fervido propagandista Luigi Romersa, noto giornalista di regime. Costui spaccia per buone le confidenze fantasiose e

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ridicole di Goering che ebbero allora largo corso a quel tempo e che alcuni tuttora ritengono fondate. Lo disillude Corsi, un anziano funzionario del ministero degli Esteri.

«Macché armi segrete e armi segrete» – mi disse un giorno il vecchio Corsi dandomi un dispiacere che non immaginava – «Fra poco mancheranno anche le armi convenzionali, i fucili e le munizioni. Essere fedeli e pronti a combattere è una cosa e non corrisponde forzatamente a bere le sciocchezze che chiunque può inventare. Si può rimanere fedeli anche nella certezza di essere perdenti».

A rompere il sortilegio di una vita vuota (Filippo Anfuso, ambasciatore a Berlino e poi Sottosegretario agli Esteri, ha parlato di clima «klingsoriano» a Salò), infine, una decisione che trascina anche Gustavo e i suoi commilitoni nell’avventura della guerra: viene decisa la costituzione di «una Brigata Nera interministeriale per dimostrare che i dipendenti dei ministeri non erano degli imboscati come la gente mormorava ma veri fascisti capaci di prendere le armi per difendere la Repubblica Sociale. Nella Val d’Ossola i nemici interni avevano proclamato una loro minuscola repubblica e la Brigata nera interministeriale l’avrebbe smantellata». La Brigata Nera ministeriale giunge un po’ tardi sul teatro delle operazioni: «La cosiddetta Repubblica dell’Ossola non era durata un mese, ma gruppetti di ribelli potevano ancora annidarsi qui e là sui monti». La missione dei nuovi arrivati non si concretizza tuttavia in alcuno scontro armato: «le marce, per quanto lunghe, avevano avuto […] l’aria di un gioco, una specie di guardie e ladri con vere armi. Le guardie eravamo noi e sembravamo fare sul serio ma i ladri erano ipotetici perché non ne vedemmo uno, quanto bastava per indurci a credere che la nostra brigata incuteva paura mentre era vero il contrario».

La spedizione è guidata da Almirante, che ha l’abitudine di incoraggiare i suoi lanciando un grido, sempre lo stesso: «Quando stavamo per cadere nel sonno lanciava il suo grido preferito: “Viva il Duce. Vincere e vinceremo”, al quale aspettava una risposta che di tanto in tanto mancava». Col tempo, nelle more di una missione che sembra non avere scopo e che non conosce eventi minimamente significativi, quel grido diventa un rituale che non anima più nessuno: alla mattina

Almirante si annunciava dalle scale con il solito grido ma ora scanzonato, non energico o imperativo come durante le rimanenti ore della

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giornata. Era divenuto per tutti un’ossessione. Il raptus poteva coglierlo in qualsiasi momento, più spesso a tavola, quando si era al completo. Scattava in piedi, si irrigidiva in un fulmineo saluto romano e via con «Viva il Duce. Vincere e vinceremo». Poi si guardava intorno per vedere chi rispondeva e chi no, o forse ormai non ne teneva più conto.

Con Tomsich Almirante ha un rapporto cordiale; ma l’accordo si rompe quando Gustavo, per evitare di partire per l’alta valle con la Brigata, si finge ammalato. Il giovane ha incontrato due sorelle, con le quali stringe amicizia: non è chiaro, dalle pagine del diario, quanta e quale sia l’intimità tra loro; ma lui dichiara che: «Stringere una mano di Carla mentre ne carezzavo una di Ninì era divenuta per me una cosa naturale che prima non avrei potuto ammettere. L’atmosfera di tenerezza che assaporavo ogni sera mi faceva sentire bene al mondo, ed era la prima volta». Per restare con loro inscena la commedia di una falsa malattia, per la quale incorre in una punizione atroce: un’iniezione lombare. «“È una puntura nella colonna vertebrale che fanno per punire i militari che ne hanno combinate di grosse” – ci disse un degente. – “La facevano anche nella guerra ’14-’18. Paralizza per almeno un mese con dolori infernali. Meglio qualche giorno di galera”».

E la pena è infatti feroce, ma Gustavo, immobilizzato, viene assistito dalle due ragazze finché non guarisce, e a Capodanno: «accendemmo un gran fuoco di legna nel giardino e poi raggiunsi Almirante a Macugnaga, in treno e con mezzi di fortuna. Mi presentai e lui non mi ricordò l’episodio di Vogogna». Seguono altri mesi di inutile guarnigione in mezzo alla neve; e a metà marzo 1945 – quando i ribelli sono tornati «totalmente padroni della Valle Anzasca – a Intra restituimmo le armi al comando della brigata che funzionava ancora».

Ritornano sul lago di Garda, alla sede del Ministero.

Erano trascorsi cinque mesi e nulla era cambiato nelle abitudini ministeriali: stesse persone, stessa vita pigra senza problemi. Erano cambiate solo le prospettive della guerra con gli americani oltre il Reno e i russi all’assalto dell’Austria: una settimana dopo il rientro sferravano l’attacco finale contro Vienna. Stavamo precipitando verso la catastrofe ma negli ambienti ministeriali non c’era aria di disperazione. Nel servizio radiointercettazioni il funzionamento era normale e la sola differenza con il passato era che della guerra si parlava meno.

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Ai primi di aprile vengono trasferiti tutti a Milano e lì Gustavo vive i giorni dell’insurrezione, senza che nessuno torca un capello a lui – che pure non nasconde la sua qualifica di funzionario del Ministero della Cultura Popolare.

Anche il ventenne Fernando Togni, fiorentino, si sente vincolato come Tomsich alla fedeltà al duce e al fascismo nei momenti cruciali del settembre 1943. «Sullo stendardo del mio battaglione c’è scritto “Siamo quelli che siamo – Per l’onore d’Italia”. È ciò che mi è bastato ieri, e spero che mi basterà anche domani», risponde al tenente inglese che, dopo la cattura in combattimento, lo interroga nel campo di concentramento dei prigionieri italiani ad Aversa chiedendogli se è andato in guerra con l’illusione della vittoria italo-tedesca.

Lo scritto di Togni contiene diario, memoria di guerra e lettere, soprattutto alla madre. È figlio unico e compie la sua scelta consapevole che la madre, vedova da pochi mesi, non la condivide forse non per motivi ideologici ma solo per ragioni affettive. La sua è una scrittura pacata e riflessiva, ma senza pentimenti per le scelte fatte, redatta oltre quarant’anni dopo gli avvenimenti. Lo ha trascinato nell’esercito fascista l’atto di Valerio Borghese, tornato «a levare in alto» lo stendardo della «meravigliosa X flottiglia Mas». Si scusa, nel suo scritto, se la frase è «retorica»; ma, aggiunge, rievocando l’emozione provata a quella notizia, «senza chiasso ne sono fiero e mi commuove ancora, non per nostalgia, ma perché per ciascuno certe cose diventano simbolo e testimonianza che illuminano i ricordi, pudichi, legati a fatti, volti, sofferenze, sentimenti». Non un resoconto nudo dei fatti, ma piuttosto una riflessione, pur non sempre facile da intendere; che ha anche valore di testimonianza fattuale perché tocca uno degli episodi cruciali della guerra dell’esercito di Mussolini: i combattimenti ad Anzio, cui prese parte il battaglione «Barbarigo», a fianco dei camerati «germanici», per contrastare la testa di ponte stabilita dalla 5ª Armata dopo lo sbarco del 22 gennaio 1944. Nel suo meditato ragionare sugli avvenimenti, che ha anche il pregio di non lasciare spazio a rancori, c’è tuttavia un lato nutrito dai miti, c’è la magia delle canzoni, richiamate a segnare i momenti cruciali: dal «Canto del volontario» («Quando la bella mia m’ha salutato…»), alla canzone della Decima («Quando pareva vinta Roma antica / sorse l’invitta X legione…»), alla più nota «Le donne non ci vogliono più bene». Anche per lui, che pure ha atteggiamenti molto razionali, questa è una compo-

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nente determinante per il suo modo di intendere il mondo e il proprio ruolo.

La sua avventura militare inizia a La Spezia, a metà dicembre 1943, dove è richiamato dalla fama di Borghese: nei quartieri della Marina, in mezzo a una «notevole confusione» viene sottoposto alla visita medica, segue una trafila burocratica e «tra chiasso, disordine e poco entusiasmo mi trovai finalmente arruolato nel reggimento S. Marco della X Flottiglia MAS». Trascorre il mese successivo a casa, e il 15 gennaio 1944 si ripresenta a La Spezia per essere immatricolato e ricevere il corredo, per ritirare il quale si perde la cerimonia del giuramento. Al corredo mancano i fregi (se li fa attaccare da una «brava donna» in un «negozietto»):

sul basco un bello stemma della Marina, con l’ancora; il filetto d’oro di allievo ufficiale intorno al colletto della giubba; il nastrino di volontario, il gladio dei reparti d’assalto sulla manica; e le grandi mostrine rosse con i leoni di S. Marco sul collo della giacca. Il nostro leone era in guerra, perciò secondo la tradizione della Serenissima aveva il libro chiuso e sotto il motto «Iterum rudit leo».

E ci fu un’altra cosa, che francamente diede ancor più i brividi, venne dato al battaglione anche il suo stendardo, rosso scuro come quelli della Serenissima. Da una parte portava in oro questa scritta: X MAS – per l’onore d’Italia; dall’altra, il leone e sotto: Battaglione Barbarigo – siamo quelli che siamo. La più bella frase che potessero scrivere. La indossai allora e la usai come firma in tante occasioni, in tanti anni. Come soldato non le ho mancato di parola, anche se non avevo giurato. Come uomo, senza nostalgie di alcun genere […] l’ho nel cuore fino ad oggi, perché è bellissima ed è stato difficile tenerla ferma come un’etica, dentro di sé senza che te lo facessero fare, senza alcuna colorazione, in disparte; come uno stendardo appunto.

Non c’è motivo di dubitare della sincerità di quanto scrive Fernando Togni, della sua professione di una identità per certi aspetti un po’ oscura; ma è da notare quanto tutto ciò sia conseguente ai caratteri della «fede» esibita con tanto ardore in molte memorie (come quella Zelmira Marazio) e, con maggiore discrezione, nello scritto di Togni stesso. La testimonianza di una coerenza espressa in forma di un irriducibile aggrapparsi a sé stessi emerge anche da altri segnali della cultura del fascismo repubblicano: si veda ad esempio il titolo del periodico della Legione Autonoma Ettore Muti a Milano, che suona «siam fatti così!», portavoce degli arditi della legione autonoma «Ettore Muti», e porta il motto «Prendeteci come siamo e quando vogliamo».

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Il 23 febbraio 1944 il «Barbarigo» viene «imbarcato su una lunga fila di corriere requisite» per scendere verso Anzio, dove avrebbe «dato il cambio» ad alcuni reparti della divisione corazzata Hermann Goering «che da otto mesi stava combattendo risalendo dalla Sicilia». Quando muovono dall’ultima base prima del fronte, da Sermoneta, Togni ricorda:

Gli uomini e i reparti erano più silenziosi, vivevamo davvero la vigilia d’armi, ciascuno con il suo stato d’aspettazione […]. Avevamo vent’anni, anche meno e, in fondo soltanto della fede per darci coraggio […]. Ci avevano dato anche i nuovi distintivi da mettere sulle mostrine: due gladi in un cerchio d’alloro, al posto delle vecchie stellette.

Proprio in quelle ore tuttavia sembra affacciarsi per Fernando Togni la sensazione più raggelante per chi combatteva in nome della propria fede, una fede nella patria: solo allora avverte che l’impresa di tutti loro si sta svolgendo senza la partecipazione degli italiani, dei loro concittadini.

Quel giorno non c’erano […] né fanfare né bandiere, mentre tutti venivamo da anni di fanfare e di bandiere, scrive rivivendo lo stato d’animo di quella gioventù: posso dire che quel lunedì 6 marzo 1944, per quei pochi ragazzi che scendevano da Sermoneta più con fede che con suggestioni ed armi contro gli Americani sbarcati ad Anzio, le fanfare e le bandiere mancanti non erano tanto quelle che si intendono con queste due parole, ma erano l’appoggio, l’affetto, la determinazione del mondo, degli uomini che avevamo dietro le spalle. […] In fondo, pure quei ragazzi stavano giocandosi la pelle e di più non potevano fare.

La marcia di avvicinamento per occupare i punti strategici loro assegnati si svolge sotto il fuoco delle artigliere americane: «un andare fatale tra le cannonate sempre più vicine». Per oltre un mese lui e i camerati tengono le loro posizioni: della guerra, ammette lui stesso, racconta poco. Ma lascia intendere la sua sofferenza, il desiderio di pace che lo accompagna e che si esprime in bucoliche contemplazioni della natura, nei momenti di pausa.

io ho voluto sottolineare piccole cose di uomini in guerra; uomini che stavano da una parte, in quella atmosfera, uomini che si vorrebbero far dimenticare come se non fossero mai esistiti. […] In prospettiva, oggi, proprio quelle piccole storie di uomini stanno a indicare che non ha più molta importanza da che parte essi stessero. Erano tutti uomini che in buona fede rischiavano e lasciavano la vita, che hanno imparato a odiare

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la guerra perché l’hanno provata, ma si sono comportati con dignità e sono meritevoli di rispetto.

Il «Barbarigo» gode di qualche giorno di riposo alla fine di marzo e l’11 aprile torna al fronte. Fernando è destinato a uno dei tre distaccamenti che costituiscono la prima linea dello schieramento italo-tedesco. Quattro giorni dopo, un’incursione dei carri armati della 5ª armata, favorito dal tradimento di due sottufficiali (come lui stesso narra), riduce all’impotenza i tre avamposti del «Barbarigo»: il 15 aprile, il giorno in cui a Firenze veniva ucciso il filosofo Giovanni Gentile – annota lui stesso –, Fernando Togni è prigioniero.

Quella sera, pur stanco morto, prima d’addormentarmi sulla nuda terra sotto una coperta che ci avevano dato e col solito accompagnamento di botti in arrivo e in partenza, era logico che ci fosse nella mia mente […] una pausa […] di riflessione. Com’era lontana la realtà anche solo di ieri […] era calato un filtro e lo stesso uomo guardava due mondi lontanissimi. […] ciò che lasciavo mi appariva lontano, quasi immobilizzato come fotogrammi di un tempo remoto. Ero finito in una altro mondo: la mia vicenda di ieri, la mia casa, mia madre, tutto il mio pianeta erano al di là di una nebbia, silenti, e una specie di ovatta ti pesava addosso […]. Poi venne, pietoso, il sonno.

Si chiude così con una sorta di dissolvenza la memoria di Fernando Togni: segnala una cesura pressoché definitiva rispetto una fase della vita relegata in una regione della memoria che non consente ripensamenti. È una sorte cui frequentemente vanno incontro i ricordi di coloro che sono stati trascinati nel gorgo degli avvenimenti di quegli anni terribili, senza occuparvi ruoli determinanti.

Costituisce perciò un’eccezione la lunga memoria di Ugo Piazzi, nel 1943 ufficiale delle truppe italiane a Creta, aderente alla Repubblica Sociale; che nel dopoguerra, senza apostasie clamorose, assume nelle ACLI un ruolo significativo che lo porterà alla Presidenza nazionale nell’aprile 1960, fino al dicembre 1961. Il suo ingresso nell’organizzazione cattolica lo spiega così:

incontrai nel dopoguerra – scrive – per caso il mio dirigente della Federazione Universitaria Cattolica che, conoscendomi come uno dei «fucini» picchiati negli scontri del ’31 nel conflitto tra PNF ed associazionismo cattolico, mi valorizzerà nelle ACLI fino a portarmi alla presidenza na-

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zionale, con conseguente successiva elezione da parte del Parlamento a giudice aggregato alla Corte Costituzionale.

La vicenda sembra in realtà meno casuale. Nella famiglia ha ricevuto un’educazione tradizionalista e cattolica, sensibile ai richiami del nazionalismo, per una tradizione di patriottismo risalente alle guerre risorgimentali. Laureato in legge, afferma di essersi convertito al fascismo «non per paura: per ambizione. Ognuno ha il suo debole, il mio è questo». Al momento del primo ingresso nelle organizzazioni fasciste, la sua ambizione è in verità solo quella, modesta, di un ragazzo che vuole sentirsi valorizzato e che commenta, la propria nomina a comandante di un plotone della «vasellina» con queste parole indubbiamente autoironiche: «Così giovane già così comandante!» Nei diari di altri suoi coetanei, anche di quelli che compiranno scelte diverse, troviamo in effetti analoghe ingenue aspirazioni, prive di effettiva colorazione politica.

Tutta la sua educazione ha tuttavia una forte connotazione patriottica e militarista.

Le tappe iniziali della mia formazione di cittadino sono contrassegnate da una profonda partecipazione emotiva alle vicende nazionali. Ricordi di infanzia: a Siena feriti reduci dal fronte, tra cui mio Padre, soldati che partono per la guerra, conferenze patriottiche di Papà. La mia fantasia bambina si nutriva di eroi che morivano immancabilmente al grido di «Viva l’Italia», o, in via subordinata, di «Viva il re!» Impazzivo per la fanfara dei bersaglieri, piangevo quando passava la bandiera. Detestavo i disfattisti e gli imboscati.

Resta in lui anche dopo la seconda guerra mondiale quasi un rimpianto per quella sorta di innocenza perduta, per quella fede patriottica ignara di ogni bruttura.

È difficile oggi capire la mentalità di un giovane di allora, nato come me intorno al 1912, e cresciuto, dai dieci anni in poi nel clima fascista. È difficile perché oggi la guerra è stata spogliata dalla sua aureola gloriosa del passato. Il suo mito si è consumato e dissolto: gli orribili massacri di massa, la distruzione del confine tra prima linea e popolazione civile – che ha strappato al maschio il monopolio del martirio –, la bomba atomica, hanno oscurato gli aspetti nobili del conflitto, hanno spento lo spirito di crociata delle guerre precedenti, ne hanno dato una visione più realistica, più repellente, hanno provocato un senso di impotenza, di repulsione, di dissuasione. Sono crollati anche miti e simboli ispirati al culto della nazione.

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È una riflessione certamente onesta, disillusa, ma non spinta fino in fondo nelle sue conclusioni. È il modello a cui si rifà anche nei suoi comportamenti pratici: viene richiamato alle armi due volte (per la guerra contro l’Etiopia e in occasione del patto di Monaco: quindici giorni in Sardegna) senza dover partire per il fronte.

La mia principale esperienza di vita, la più intensa, la più dolorosa è stata quella della seconda guerra mondiale. Andò cosi. Chiesi di andare volontario in guerra il giorno delle dimissioni di Badoglio [4 dicembre 1940]. Mi sembra che un buon cittadino debba farsi avanti quando le cose vanno male. E le dimissioni di Badoglio, il cui opportunismo è noto, significa che le cose vanno assai male. La mia domanda viene accolta con sorprendente rapidità.

Sul fronte greco – albanese, cui è destinato, fa la conoscenza con un esercito disordinato, disorganizzato, scoraggiato, comandato da ufficiali privi di prestigio e di coraggio. I soldati sono

stressati dalle ritirate precipitose, dalle veglie sosta, dalle marce nel fango, dalla mancanza di viveri, […] tutti affetti da una feroce dissenteria. […] Al comando mi spiegano che il reggimento è qui in ricostituzione essendo rimasto semidistrutto nella ritirata. È stato spedito in Albania precipitosamente, attorno a Natale, trasferito a pezzi, buttato a ricucire il fronte rotto in più punti dopo la prima avanzata. E ricacciato indietro nel momento dello sfascio, del caos. Ha perduto gran parte della truppa ed un gran numero dei suoi ufficiali. Me ne rendo conto dopo poche ore, quando prendo in mano il giornale di contabilità della compagnia affidata al mio comando. La prima pagina riservata all’elenco degli ufficiali, mi dà un brivido. Le caselle dei nomi sono attraversate diagonalmente da righe rosse su cui è annotato in nero «deceduto in combattimento», una lugubre nota ripetuta dal principio alla fine della pagina. Le perdite della truppa sono proporzionalmente assai minori. Ne domando la spiegazione al sergente furiere, uno dei sopravvissuti. – Semplice, signor tenente. In genere i soldati aspettavano che l’ufficiale fosse colpito per avere un motivo per ritirarsi. Era la consuetudine, durante la ritirata. Niente ufficiali, niente combattimento.

Il contatto con questa realtà lo sprona a cercare di avvicinarsi alla truppa, secondo il modello paternalistico dell’ufficiale ispiratogli da suo padre e da tutta la tradizione militare di famiglia. E sarà questa la sua linea di condotta anche quando, dopo una licenza in Italia durante la quale frequenta i corsi dell’Istituto

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superiore guerra (ne esce con i gradi di capitano), viene infine destinato al Comando truppe italiane a Creta nel giugno 1943.

E a Creta si trova ad affrontare la scelta tragica dell’8 settembre, quando decide di schierarsi a fianco dei tedeschi e di aderire alla RSI. Non si sofferma sui dettagli delle sue vicende nel periodo successivo perché altri sono i temi su cui intende esercitare la propria riflessione critica: la natura della propria adesione al fascismo e le motivazioni della scelta compiuta a Creta. Entrambe le questioni hanno lasciato in lui un traccia profonda, che lo impegna a una esame di coscienza da lui inteso in prospettiva come un impegno di vita.

Delle sue vicende dopo l’8 settembre sappiamo solo che ha dovuto arrendersi agli inglesi il 5 maggio 1945, quando era «al comando di un battaglione in prima linea a difesa della testa di sbarco di La Canea». Rientrato in Italia il 1° aprile 1946 «vengo consegnato dalle autorità militari inglesi del campo “S” di Taranto a quelle italiane. E provvisoriamente discriminato dalla commissione interrogatrice reduci Balcani». Ma questi suonano nel suo racconto come adempimenti burocratici, di scarso rilievo di fronte alle questioni fondamentali.

Sono stato fascista o no? Certo ho portato la camicia nera. Forzatamente, […] all’inizio, da avanguardista. Poi per conformismo, adattamento all’ambiente e alle sue opportunità da giovane fascista, milite universitario, corporativista. Infine in guerra con profonda convinzione trattandosi di servizio alla patria. Senza dubbio non mi sono mai ribellato al regime, ne ho condiviso in larga parte gli ideali perché il fascismo era anche nazionalismo ed io ho ricevuto una educazione nazionalistica dalla famiglia e dalla società fascista. Certo, in parte sono stato vittima di quella massiccia campagna di persuasione cui solo una ristrettissima minoranza di italiani poteva sottrarsi.

La sua non è tuttavia, bisogna riconoscerlo, una chiamata di correo verso i connazionali o una giustificazione banale. Lui sente anzi il dovere di ricordare che la sua posizione gli avrebbe consentito di alzare la testa e di guardare con onestà alle tesi degli avversari del fascismo.

Debbo confessare che io ho una aggravante nella mancata acquisizione di una coscienza antifascista, rispetto ai miei connazionali dell’epoca. Perché ero autorizzato a leggere e poi a bruciare – come capo ufficio stampa della mia confederazione – i periodici degli antifascisti all’estero, che

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giungevano al mio presidente. Ma li trovavo talmente menzogneri rispetto alla realtà italiana che era sotto i miei occhi, cosi stupidamente faziosi da non dare loro alcuna importanza. E quando ho finalmente trovato una pubblicazione «critica del fascismo» francese o svizzera, seria, obiettiva, scientifica, [durante la campagna di Grecia], ho appena scorso l’indice e letto qualche passo per riporlo, dopo un quarto d’ora nel tascapane per poi essere costretto a bruciarlo nella palude per difendermi dalle zanzare […]. Comunque non c’è dubbio che io sia stato uno di quei giovani che nutriti di studi classici, hanno creduto al mito del popolo di santi e di eroi, della grandezza della patria, del diritto al posto al sole, della vittoria mutilata, della composizione dei conflitti di classe attraverso il corporativismo e via discorrendo. Non c’è dubbio però che parte della mia benevolenza verso il defunto regime sia dovuta ai benefici che esso mi ha assicurato. Sono tra quelli che il regime ha aiutato a risolvere problemi familiari e personali: casa in proprietà attraverso una cooperativa di impiegati statali, alleggerimento delle tasse scolastiche come famiglia numerosa. E poi rapida sistemazione con conseguente possibilità di aiuto a mio padre, brillante carriera nella promettente struttura corporativa, ambiti riconoscimenti militari, esperienze altamente gratificanti, specie per un carrierista come me.

E soprattutto, non lo nasconde, l’impiego nella Confederazione fascista degli Agricoltori lo aveva portato a ruoli via via più importanti, pur senza farlo accedere ai più alti gradi. Era stato tuttavia alla guida di una delegazione in Germania (si direbbe agli inizi del 1938), accolta con grandi onori e illustrata anche dalla visita di Rudolf Hess, allora vice di Hitler: «Alto, distinto, curatissimo nella persona e nella divisa, attraversa il giardino, ci vede, ci viene incontro, ci augura buon lavoro. E, cosa ben più importante per me, si fa fotografare con noi». Nell’effimero teatro del regime questo vale a fare di lui un dirigente di prestigio.

È un esame di coscienza dal quale Piazzi non defalca nulla della sua esperienza e di tutto ciò di cui si ritiene responsabile, nel contesto di un giudizio che risente dell’orientamento moderato e conservatore del dopoguerra; compresa l’acrimoniosa denigrazione del nuovo ordine democratico e una veemente denuncia del nuovo conformismo e della retorica antifascista.

Netta e senza ripensamenti è invece la sua difesa della scelta compiuta a Creta nel 1943,

di aderire alla Repubblica sociale italiana per motivi di onore nazionale e in quanto responsabile […] di novecento italiani inquadrati nella mia unità Mi sono spesso domandato se le mie scelte in relazione ai loro interessi – che salvo poche eccezioni, nulla avevano a che fare con l’onore

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nazionale e molto con la sopravvivenza immediata – siano state efficaci ai fini del conseguimento – latitante il re – del «bene della patria» che per me consisteva nel salvataggio della truppa italiana dal massacro.

Nello stile degli ufficiali del Regio Esercito, tiene a ribadire il legame paternalistico che lo unisce alla truppa: «I soldati che si sono affidati [a me] prima con fiducia e poi con affetto, li ho riportati in patria sani e salvi, sempre tutti uniti sotto bandiera italiana, ancorché repubblicana, ignari per fortuna loro, della guerra civile in corso in Italia». È l’argomentazione più forte che si sente di accampare a sostegno della correttezza del proprio operato: e, a riprova, ricorda come coloro che, viceversa, si erano risolti all’internamento erano caduti in un meccanismo perverso: ai tedeschi urgeva sgomberare l’isola da personale non più affidabile e difficile da approvvigionare, per cui imbarcavano gli internati per il continente; agli inglesi urgeva affondare, approfittando del ritiro della flotta italiana, ogni mezzo navale in uscita. Vittime dell’ingranaggio gli italiani concordemente disprezzati da ambedue le parti. Il bilancio fu: «Circa diecimila soldati italiani morti per mare a Creta, seimilacinquecento a Rodi».

Le strade alternative avrebbero potuto essere prigionieri in Germania ovvero unione con le bande partigiane; ma entrambe

erano impraticabili ai fini della sopravvivenza della truppa. Per la prima, migliaia di nostri fratelli morti per mare ne attestavano la estrema pericolosità, per la seconda la povertà dell’isola, le cui risorse alimentari non erano sufficienti a nutrire i suoi abitanti, la inaffidabilità delle bande partigiane, tra l’altro in lotta fra loro, e comunque animate da sentimenti ostili agli italiani già invasori ed occupanti, costituivano fattori negativi che sconsigliavano questo percorso. La scelta della RSI fu, per la massa degli oltre cinquemila volontari – contro i 150 del primo momento –determinata dall’affondamento da parte inglese delle navi cariche di prigionieri italiani – considerato prova del disprezzo per gli italiani – e dell’accogliente, corretto comportamento dei tedeschi, con i quali si era sviluppata una precedente convivenza cameratesca. Nessun contatto – se si esclude un telegramma di compiacimento di Mussolini, rimasto senza alcun seguito – si ebbe dall’otto settembre ’43 al 5 maggio ’45 da alcun comando italiano, né della RSI né del Regno del Sud col Comando del Reggimento Volontari Italiani in Creta.

Su questi temi ritorna a più riprese, con un palese tormento che lo spinge a sottolineare, definendosi «l’italiano modello

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1912», la sua adesione agli ideali di un’Italia del passato (quella che proprio il fascismo aveva stroncato).

Quando è scoppiato l’armistizio, realizzato in modo cosi ignobile, l’italiano modello 1912, – scrive parlando ora di sé in terza persona – soldato da sette anni, ha subito una ferita psicologica profonda e bruciante, che brucia ancor oggi. Era inconcepibile per lui perdere la guerra in cui aveva investito gli anni migliori della una giovinezza, in cui aveva visto cadere tanti suoi coetanei. Era un tradimento verso i morti. Ed era atroce perderla in modo cosi vergognoso per gente vissuta per anni nella convinzione di essere eredi della grandezza e della gloria di Roma.

L’onestà del discorso di Piazzi non toglie che la sua riflessione sconsolata sia incapace di sciogliere per lui stesso i dubbi sulla legittimità di tutte le sue scelte. È forse la rappresentazione più chiara, anche se poco enfatizzata, del carattere tragico della sorte a cui andò incontro la maggior parte degli aderenti alla Repubblica fascista: sovrastati da un destino più potente, dettato dalle origini, dall’educazione, dal costume sociale che non consentirono loro di uscire dai miti e dalle illusioni costruite nei vent’anni dell’equivoco totalitarismo mussoliniano.

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VII. Vite quotidiane

La perigliosa vita del partigiano e la tensione fanatica del milite della Repubblica fascista sembrano contrapporsi al grigiore della quotidianità. Così suggeriscono la narrazione accreditata, la retorica patriottica e le innumeri memorie dei combattenti. Le vite quotidiane hanno invece drammaticità e pregnanze non meno consistenti. Ma non sono momenti astratti dal contesto della guerra. Si sfiorano e si intrecciano con il confronto eroico e tragico di chi si va battendo nella guerra civile, tanto sull’uno quanto sull’altro dei due fronti che si sono delineati a partire dal settembre 1943.

Nelle città e nelle campagne pericoli d’ogni genere assediano la popolazione: ma sono i bombardamenti il fatto più devastante. Non ci sono rifugi che assicurino protezione; non è possibile prevedere quando e come le flotte aeree nemiche colpiranno. L’evento stordisce, avvolge tutti in una cupa impotenza, annulla in ciascuno la capacità di pensare e di sentire. Fuggire, fuggire in qualunque luogo prometta qualche sicurezza, nella fallace speranza che la guerra – quella guerra che tutti si illudono di non aver voluto – possa risparmiare qualche angolo dell’Italia sconfitta. Gli spostamenti della popolazione, che il fascismo ha tentato di scongiurare fino al dicembre del 1942, quando dà il segnale con un discorso in cui Mussolini invita a lasciare i centri urbani, avvengono nel modo più anarchico e improvvisato. A differenza di altri paesi – primo di tutti la Gran Bretagna – che hanno pianificato lo sfollamento dalle città fin dagli inizi del conflitto mondiale, avendo compreso la lezione delle pur ridotte incursioni aeree della guerra precedente, l’Italia non ha alcun disegno organico per guidare il fenomeno ed esso si frammenta in una infinità di improvvisati esodi più o meni massicci. Chi, nelle sue memorie, ricorda le proprie esperienze infantili mette

in evidenza non solo i disagi materiali, che sono la parte più ovvia e più scontata di quella vicenda, ma soprattutto la pena di essere strappato a consuetudini, amicizie e ricordi tra i più cari dell’infanzia.

1943: l’anno scolastico finì prima del previsto perché si prevedevano bombardamenti su Livorno, e così il 28 maggio più di 100 aerei, in due ondate, bombardarono il porto e la città compresa la raffineria Stanic. La città fu avvolta dal fumo e dalle fiamme; i miei fratelli grandi, da alcuni giorni, dato che le scuole erano chiuse, lavoravano alla raffineria e si salvarono per miracolo: babbo decise di farci sfollare in Calabria, mamma si oppose dicendo «o tutti o nessuno» questo perché babbo doveva restare in servizio in ferrovia e quella decisione ci costò molto cara. La signiora Nella, nostra cara vicina di casa, ci propose di partire con lei nel suo paese di San Piero a Grado (Pisa): ci fu l’addio straziante per le mie due care amichette Lena e Clata, loro partivano per un’altra destinazione: mi mancarono molto. Dalla brace si cadde nel fuoco! Trovammo una casa con due stanze e cucina, ma il bello doveva ancora venire.

Così Fidalma Gatto, allora bambina, ricorda che il pericolo e la morte non risparmiavano nessuno.

Si subisce tutti i bombardamenti di Pisa e di San Giusto – ora aeroporto G. Galilei, senza contare i mitragliamenti ai treni con il mio babbo sopra: non sapevamo mai se sarebbe tornato a casa vivo. La notte non si dormiva mai. Arrivarono gli aerei e sganciavano i bengala e tutto si illuminava a giorno: non sapevamo dove scappare, io ero molto esperta nel riconoscere dal rumore dei motori gli aerei inglesi e per noi era un vantaggio in quanto a differenza di quelli americani che bombardavano a tappeto, colpivano solo obiettivi militari.

Il ricordo accoglie informazioni forse diffuse al tempo, ma che appaiono oggi in parte superate alla luce di quanto ha documentato la più recente ricerca storica: in realtà inglesi o americani (o polacchi o francesi) senza distinzione buttavano le bombe con un intento selvaggio di distruzione; e nulla attutiva la loro volontà di annientare un popolo che era ancora identificato come nemico, e che condivideva l’onta dei massacri compiuti dalla Luftwaffe.

E infine la luce delle memorie ci porta a vedere da vicino le realtà delle incursioni aeree: tra le descrizioni più vivide, quella di Elio Galletta, secondogenito di una famiglia di Livorno, impiegato presso un’agenzia di recapito postale.

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Il 28 Maggio 1943, avevo 16 anni. Quella mattina avevo la «gita» del Viale. Comprendeva tutta la zona del viale del mare, fino all’Accademia Navale. Verso le 10,30 suona l’allarme aereo, ero abituato a questo suono lugubre che si sentiva ogni volta al passaggio dei bombardieri americani che andavano altrove. Accelerai la consegna della corrispondenza, la gente correva nei vicini rifugi. La Controaerea incominciò il suo sparare, i cavalli attaccati ai barrocci od alle carrozze correvano impazziti, cani ululanti li seguivano. Nel consegnare i telegrammi, vedevo nei portoni donne con i bambini in braccio che non avevano fatto a tempo ad andare nei rifugi. Erano in fondo alle scale sotto gli archi. In mano tenevano un rosario che lo facevano girare, pregavano, piangevano. Il cielo in cominciò a riempirsi di buio, erano i fumogeni che cercavano di nascondere la città ai piloti nemici. Alzai gli occhi al cielo, vidi non molto in alto, più bassi del solito, una formazione di Fortezze Volanti, americana chiamata anche «Liberator» che venivano a liberarci uccidendoci. Le loro ali con la stella disegnata, luccicavano al sole. Il rumore dei loro motori si era fatto minaccioso, compresi che questa volta sarebbe toccato a noi. Arrivai all’Accademia Navale verso le 11,20, dove era l’ultima e più importante consegna. Detti tutto al Capo, ed in quel mentre incominciò la sinfonia della morte. Con la mia bicicletta entrai come un razzo in un piccolo rifugio situato nei pressi dell’entrata, il Capo mi seguì, per un’ora in quella stanza avvenne l’inferno. Le bombe che cadevano sulla città facevano tremare le mura, il pavimento sussultava. A sedere in terra, con le mani sopra la testa, e gli occhi chiusi pensavo. Vedevo la mia famiglia, per mia madre, in un attimo la mia poca vita mi passò davanti agli occhi, sapevo cosa voleva dire, poi fu la fine. Uscii di corsa con la bicicletta sulle spalle, era fredda, sembrava che mi volesse dire qualche cosa. Il Capo, mi guardò dritto negli occhi, mi baciò in fronte.

Il suo terrore individuale è solo il preludio alla visione delle macerie nella città, dei morti, dei feriti e della popolazione sconvolta, all’angoscia per la sorte dei famigliari, alla disperazione quando teme siano morti.

Per strada, in terra, sulle case il finimondo. Macerie, fili della luce, travi di case, facevano una barriera insieme a dei filobus sventrati, fumanti, con dei morti a sedere nei loro posti. A destra dalla strada, una casa distrutta mandava in cielo le fiamme della maledizione. In un altro mezzo palazzo un letto ed un armadio stavano in bilico nel vuoto. Un crocifisso pendolava, forse voleva dire molte cose. Andai, a casa, la porta era aperta, non c’era nessuno. Calcinacci e vetri da tutte le parti, la casa era salva. Sapevo che i miei, in caso di allarme andavano in un rifugio sugli Scali d’Azeglio; non era proprio un rifugio, si trattava del Circolo dei Canottieri o deposito di barche, Il rifugio era stato colpito. Vidi tanti morti coperti di pietre, la maggior parte erano morti per lo spostamento

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d’aria. Erano tutti scuri, gonfi, bambini ed anziani, uniti nel loro silenzio. In fondo al rifugio vi era una donna viva. Era in piedi appoggiata al muro, gli occhi sbarrati. La presi per mano, uscimmo da quell’inferno. Un marinaio dal muretto della strada gettò una corda, la legai, fu issata. Incominciai a scavare con le mani per cercare i miei familiari, scavavo e piangevo, piangevo e scavavo, Le dita incominciarono a sanguinarmi, ero solo, nessuno mi aiutava. Ad un tratto rovesciai un morto, sembrava mio padre, aveva i baffi. Mio padre no, Guardai il cielo e dissi forte: Dio dove sei? Da quel giorno diventai un ateo.

La famiglia tuttavia è salva, la ritrova a casa; e il giorno successivo Elio riprende a girare per la città.

Vidi tante case e palazzi sventrati che facevano vedere il proprio dolore. Le persone facevano capannello, insieme avevano meno paura, Commentavano atterriti con gli occhi di pianto, chi chiedeva notizie di parenti, chi con la testa fra le mani seduto sul marciapiede, piangeva. Il dolore di tanta povera gente con tanta miseria ma con tanta ricchezza dentro faceva male, non erano potuti sfollare per mancanza di denaro, altri avevano potuto. In via Serristori, l’uscita era stata bloccata dalle macerie di due palazzi che erano crollati insieme. Una bandiera tricolore era stata messa sopra al cumulo di macerie e sventolava ai tanti significati che si voleva dare. Achille Beltrame, disegnatore della «Domenica del Corriere», disegnò questo avvenimento. […] Da via del Porticciolo, venivano da Marittima, in piazza Grande, dei marinai. Correvano, erano in mutande e dorso nudo, qualcuno senza niente indosso, la loro nave era stata affondata in porto, diversi loro camerati non correvano più. In via delle Galere al n° 16 una famiglia di quattro persone era rimasta sotto le macerie, non potevano essere liberati. Si sentivano le voci che chiedevano aiuto. L’indomani fu il silenzio. Di questi casi ce ne furono molti, macerie che sotterravano i vivi.

Più avanti racconta un’ulteriore avventura sotto un bombardamento: questa volta il teatro è la campagna tra Lucca e Pescia fiorentina percorsa da un tram, che Elio prende ritornando dall’ospedale di Lucca, dove una delle sue sorelle era stata ricoverata per tifo.

Questo tram da Lucca andava fino a Pescia, la strada si chiamava Pesciatina. Le rotaie erano situate alla sinistra della strada, vicino c’erano le prode. Non erano altro che la terra dei poderi che avevano fine, alte circa un metro. Fra questa delimitazione e la strada, c’era una cunetta per l’acqua. In mezzo alla strada, e dall’altra parte, in basso, altra campagna lavorata. Il mezzo pubblico era strapieno, persone e valigie da tutte le parti, tutti civili, ad un tratto sentii il rumore lontano di aerei. Da un finestrino

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vidi due aereoplani inglesi, erano due caccia bombardieri; il loro nome era «SPIT-FAIRE» sputafuoco. Sotto le ali avevano i cerchietti colorati, ed una bomba sotto la fusoliera. Incominciarono a far dei cerchi come dei falchi intorno al tram che si fermò. Fu un attimo. Abbassarsi ed uno dietro l’altro incominciarono a mitragliare, divenne un secondo. Urla e feriti furono una unica cosa. Uscii, mi buttai subito in terra, nella cunetta, e strisciando mi allontanai dal tram che stava prendendo fuoco. I due caccia facevano il giro della morte, abbassandosi velocemente mitragliavano tutto ciò che si muoveva. Le donne che in preda al terrore gridavano e fuggivano dall’altra parte dei campi, erano la preda preferita. Non importava che i vestiti estivi pieni di colore che indossavano, le facevano riconoscere come donne, e non come soldati. L’importante era uccidere. Io, sempre sdraiato nella cunetta, sentivo la polvere bruciata delle pallottole espulse dalle mitraglie, che mi dava calore alle ciglia. Ad un tratto una persona, scusandosi, si distese sopra il corpo, non aveva altro riparo. Dissi di stare più appiattito che poteva, io, fui tutt’uno con la terra, Ad un tratto sentii un gran caldo alla gamba destra, guardai. Il pantalone era tutto pieno di sangue, non sentivo dolore. Sapevo che in questi casi il dolore si sente dopo, ma ero tranquillo. La gamba si faceva sempre più calda. Il corpo della persona sopra di me si fece più pesante, guardai, una pallottola perforante lo aveva colpito alla schiena uccidendolo. Il sangue usciva da quel foro gorgogliando come una fontanella, lentamente lo levai di dosso. Sempre strisciando mi avvicinai ad una casa colonica, i caccia seguitavano il loro valzer di sangue. Vi era una stalla aperta, due buoi legati muggivano, nei loro occhi c’era il terrore, Altre persone erano sdraiate in terra sopra la paglia, la testa fra le ginocchia e le mani sopra. Poi venne il silenzio, in un attimo tutti fuori. La strada era piena di morti e feriti, i due distruttori si allontanavano in alto, non avevano tirato la propria bomba. Sentivo il sapore dolciastro del sangue sulla gamba, e mi ricordai della persona uccisa sul mio corpo, che forse mi aveva salvato la vita.

Non è il solo, Elio Galletta, a dover la vita a circostanze del genere: anche Felice Malgaroli conosce una ventura simile, nel corso di una incursione aerea effettuata dagli aerei alleati per colpire gli uomini della squadra di lavoro che in Toscana sta riattando le vie di comunicazione. Quella tuttavia era un’azione di guerra, mentre questa è una delle tante gratuite stragi operate coscientemente ai danni di civili indifesi.

A Elio Galletta, a differenza di Felice Malgaroli, che pur coglie l’occasione del mitragliamento per fuggire dalla schiavitù, il destino offre una sorta di risarcimento per l’incubo che ha vissuto.

Qualcuno mi fece sedere sul sellino posteriore di una motocicletta, mi portò verso casa. Scesi un poco prima, entrai in una abitazione mi lavai il

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sangue, una ragazza di circa 15 anni mi guardava in silenzio. Ringraziai e mi avviai. Una mano lieve mi toccò la spalla, era la ragazza. Fra le braccia teneva un grosso pane, le distese, e come se fosse un bambino me lo porse in silenzio. Mi guardò negli occhi diventati improvvisamente da donna.

Su Roma le bombe caddero un giorno di luglio: «Era metà mattina di uno dei primi giorni di luglio [1943, ma era il 19 luglio, N.d.A.]», racconta Gustavo Tomsich, allora operatore radio presso il Ministero della Cultura Popolare.

Faceva già caldo dopo una notte di sudore. […] Ormai a quel puntuale allarme dato contemporaneamente da innumerevoli sirene, eravamo abituati. Dopo sole tre ore di sonno, mi voltai per continuare come sempre a dormire. Ma quella mattina Germani [il compagno di stanza] si alzò di scatto e si gettò qualcosa addosso. «Svegliati. Scendiamo. Oggi bombardano» mi disse con voce alterata come se già udisse gli scoppi delle bombe. […] Corsi verso il migliore dei rifugi, Villa Borghese, chiedendomi perché mai proprio quel giorno gli americani avrebbero dovuto bombardare. Napoli, Palermo e altre città erano già state duramente colpite dalla fortezze volanti, ma a Roma i più eravamo convinti che la città sarebbe stata risparmiata per la presenza del papa e per rispetto dei monumenti antichi. La gente era relativamente tranquilla e al suono delle sirene, dopo tanti allarmi senza seguito, anche quel giorno non si precipitò nei rifugi che vennero frequentati massicciamente solo in seguito. Ero uno dei pochi a correre e con una decina di persone mi trovai sotto il tempietto vicino a piazza di Siena. Dal cielo scendeva un ronzio da brividi e cominciammo tutti a scrutare in alto. «Eccoli» annunciò una signora, e nel punto che indicava tra le chiome dei pini, apparvero cinque aerei disposti a punta di freccia. Avevano quattro motori, erano argentati, volavano lenti e al sole lucevano negli stessi punti della carlinga e delle ali. Dopo la prima punta di freccia ne seguirono altre due e poi altri gruppi ancora. Ci si chiedeva dove fossero diretti tutti quegli aerei ai quali ormai stavano sparando centinaia di cannoni e di mitragliatrici facendo un rumore assordante. Impressionavano specialmente le raffiche delle mitragliatrici che sparavano da postazioni molto vicine, forse dalle Mura Aureliane. «Sono fortezze volanti americane. Vengono dalla costa e vanno verso Tivoli» spiegò un ufficiale di marina. Aveva appena finito di parlare che tra gli spari della contraerea si inserirono dei sordi tonfi. «Queste sono bombe. Grosse bombe sganciate su Roma» riprese l’ufficiale circondato da volti increduli e costernati. «Bombe da una tonnellata» aggiunse. «Su quale quartiere?» «Se le squadriglie non hanno cambiato rotta all’ultimo momento, su qualche parte della via Tiburtina. Servirà aiuto. Chi se la sente di fare un’opera buona, corra in quella direzione». «E se bombardano ancora?» «Dopo tre ondate come quelle che ci sono passate sulla testa, di solito non accade. Ma non si sa mai. Ci vuole coraggio».

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Pur disorientato dall’evento imprevisto e terribile, Gustavo non esita a buttarsi a portare aiuto là dove gli hanno detto che era necessario.

Feci di corsa la strada inversa: Corso Italia, Via Castro Pretorio e Via Pretoriana. Qui l’aria aveva un odore acre che si levava dalla stazione Termini, ma verso il popolare quartiere di San Lorenzo era cento volte peggio. Procedendo si era costretti a deviare per viale Regina Elena. In fondo al viale molta gente correva in un’atmosfera nebbiosa di polvere e di fumo. La basilica di San Lorenzo fuori le Mura era in parte crollata e avvolta di polvere: fu la mia prima visione degli effetti di un bombardamento aereo. Ma anche molte case del quartiere, verso lo scalo ferroviario, erano devastate. Tra lo scalo e i binari provenienti da Termini la confusione era incredibile, punteggiata di ordini, grida e pianti. E la stessa scena si ripeteva nel tratto fino alla stazione Tiburtina. I binari erano qui e là interrotti dai crateri delle bombe e un treno era stato mitragliato. Aiutai a estrarre feriti e morti dalle carrozze. I feriti venivano avviati subito al vicino Policlinico; i morti allineati sulla pensilina lungo le carrozze mitragliate ed erano molti. Una donnetta era morta con un cesto di uova in mano, ora vuoto, che stringeva a sé disperatamente. Giungevano continuamente volontari: chi soccorreva i feriti con le lettighe, chi trasportava in coppia i morti in lenzuola sostenute per gli angoli, chi sgombrava i detriti per liberare i binari, per creare dei passaggi. Molte erano le camicie nere. Dopo avere spostato con le mani i detriti più grossi, si raccoglievano gli altri con la pala per gettarli in disparte dove formavano accumuli. Ogni palata era una nuvola di polvere di calce. Corse voce che il Duce era già arrivato sul posto ma evidentemente non era passato nei paraggi. Altra voce improvvisa fu: «Il papa. Arriva il papa». Nel biancore accecante sotto il sole, apparve di lì a poco, ancora più bianco, papa Pacelli seguito da prelati, gerarchi e militari di alto grado. Per me era un evento: non lo avevo mai visto e passò a pochi metri ma nemmeno allora smisi di spalare. Il papa benediceva in ogni direzione camminando lentamente. Sostò con espressione veramente addolorata davanti alla fila di morti e benedisse più volte anche loro. Dove passava si faceva silenzio. Tranne le parole che aveva mormorato davanti ai morti, di certo una preghiera, non disse nulla e scomparve con il seguito nella polvere verso la stazione Termini. Proseguii il lavoro di spalatura fin tardi, quando fu sicuro che le linee ferroviarie erano ripristinate e che alcuni treni sarebbero transitati nella notte. Si diceva che i morti erano migliaia: solo lungo la pensilina ne avevo contati più di cento. Invece il bollettino di guerra del giorno seguente ne denunciava meno di quattrocento. Le ultime ore eravamo andati avanti per inerzia, assetati e poi anche affamati. Nessuno aveva provveduto a un rifornimento di acqua e di cibo. Così divenimmo meno numerosi e operosi, finché al crepuscolo eravamo rimasti pochi. Con il buio rimasero in prevalenza i militari e i vigili del fuoco.

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Da un altro centro, di cruciale importanza quale Milano, abbiamo il resoconto di una delle più tragiche incursioni che colpirono la capitale del Nord.

I bombardamenti aerei aumentavano di intensità e violenza sulle città del nord in mano ai tedeschi – scrive Luigi Gironi allora sedicenne impiegato alla Pirelli di Milano, che era stato testimone della cattura di oltre cento operai che avevano scioperato – Era il 20 ottobre 1944, una giornata limpida di autunno. L’anno scolastico era iniziato da pochi giorni. Mi alzavo presto al mattino per riordinare le idee sulle lezioni, rivedere i compiti. Alle 7 dovevo uscire di casa per recarmi in ufficio. Consumavo velocemente la mia colazione a base di caffè di orzo, latte condensato e pane nero. Le solite raccomandazioni di mia madre, un saluto, la cartella con i libri e via a prendere il tram. Anzi due tram, un vero viaggio, aggrappato alle portiere per non cadere, tra grappoli umani in bilico sui predellini. Lavoravo all’Ufficio Manodopera – liquidazione paghe operai. […] Il lavoro non ammetteva soste perché a fine quindicina bisognava pagare i salari. Causa i ripetuti allarmi aerei (se ne contavano sino a undici in un giorno), la Direzione aveva cercato dei volontari per continuare il lavoro anche durante le interruzioni per andare nel rifugio. Io avevo aderito alla richiesta, non per fare l’eroe, ma per guadagnare in più: £. 40 per ogni piccolo allarme, £. 60 per il grande allarme. A fine mese mi trovavo un arrotondamento dello stipendio. I viveri erano razionati. Avevamo le tessere annonarie con tanti bollini multicolori che servivano per acquistare un uovo, un etto di carne; pochi grammi di burro, qualche panino di segale; tutto era scarso e scadente di qualità. Con quello che davano non si poteva vivere, così la gente acquistava alla «borsa nera» generi alimentari, che costavano moltissimo, e spendevamo così tutti i soldi faticosamente e pericolosamente guadagnati. Il mio modesto stipendio ed il salario di mio padre, servivano solo per il cibo, anche perché dovevamo mandare dei pacchi viveri a mio fratello prigioniero in Germania. Così, inconsapevolmente, ero diventato un «volontario della morte». Durante il grande allarme, dovevamo caricare le macchine contabili su dei carrelli, spingere questi su montacarichi e portarli nel rifugio ove era sistemato anche l’archivio. Alle ore 11,25 suonò il piccolo allarme, pochi minuti dopo il grande allarme. Il suono intermittente della sirena venne coperto dal rombo di una grossa formazione di bombardieri americani. Ci precipitammo alle finestre e li vedemmo luccicare alti nel cielo, con le strisce bianche che lasciano i gas rarefatti. Una confusione indescrivibile regnava nell’ufficio, tutti fuggivano terrorizzati nel rifugio. Io, prima di scappare, stavo tentando di mettere le macchine contabili sul carrello! Poi un terribile boato, come un terremoto, uno schianto! Migliaia di tonnellate di esplosivo si stavano rovesciando sulla città! Non so come, mi ritrovai nel rifugio, al buio, accatastato sul corpo di altre persone che non vedevo, sepolto dai raccoglitori dell’archivio, tra calcinacci, vetri infranti, porte scardinate dall’esplosione. Un

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momento tremendo! Tutto sembrava crollare. Il bombardamento durò a lungo. Gli aerei arrivavano a ondate successive e vomitavano il loro carico mortale di bombe. Era spaventoso, gli scoppi si succedevano e la terra tremava! Quell’inferno durò alcune ore. Poi il silenzio si stese, profondo, lugubre. Noi eravamo ansimanti per la polvere e l’acre odore che invadeva il sotterraneo. Alle 15,30 suonò il cessato allarme. Brancolando nel buio, con le gambe che ci tremavano dalla paura, scavalcando scaffali, registri, sacchetti di sabbia sfasciati dallo spostamento d’aria, uscimmo all’aperto. Una scena sconvolgente apparve ai nostri occhi!

È agghiacciato da quanto vede di primo acchito, ma non sa che l’orrore più grande lo attende oltre le prime rovine.

Il fabbricato di fronte alla Manodopera, reparto smalteria, era ridotto ad un cumulo di macerie. Arrivavano all’infermeria, su barelle portate da volontari, corpi straziati dalle bombe e dalle macerie. I pompieri stavano lottando per domare numerosi incendi nella fabbrica. Diversi reparti erano stati colpiti dalle bombe e molte persone erano rimaste sotto le macerie. […] Un grosso incendio stava divorando un deposito di gomma ed il fumo nero e puzzolente si diffondeva sullo stabilimento. Era una scena infernale. Sono fuggito inorridito fuori dalla fabbrica. Correvo verso casa mia e pensavo a mia madre. In direzione di Precotto, Gorla e Turro, la zona ove abitavo, si levavano lunghe colonne di fumo. La stazione di Greco era stata colpita, i vagoni fermi allo Scalo erano sventrati e molte locomotive bruciavano. Correvo, correvo forte col cuore in gola, in ansia per mia madre e mio padre che lavorava all’Autobianchi, in città. Via Rucellai, via Cislaghi, Viale Monza, case crollate. La gente vagava per le strade come impazzita, inebetita dal terrore. Molti scavavano tra le macerie per salvare i loro congiunti o ricuperare le poche cose rimaste. I fili del tram divelti ma ancora in tensione, sprizzavano scintille mentre battevano sulle rotaie, molte vetture erano sfasciate. Persone irriconoscibili uccise dalle schegge e denudate dallo spostamento d’aria giacevano sull’asfalto. Sempre di corsa verso casa, inorridito da quegli spettacoli. Giunsi a Gorla. Molte persone, sconvolte, erano per la strada. Parlavano concitate. La scuola elementare, con più di trecento bambini dentro, era stata colpita in pieno dalle bombe! Mi recai a vedere trascinato come istintivamente verso quella visione orrenda! Sul posto vi erano autolettighe, camions, molti uomini che stavano scavando tra le macerie. Decine e decine di piccoli corpi straziati dalle bombe e dal crollo, venivano portati alla luce, strappati a quelle aule maledette, che sino a qualche ora prima, erano riempite di vocine gioiose e felici di bimbi spensierati, pur nel dramma che i grandi vivevano per la guerra. Tenere creature che erano tutto per i loro genitori, speranza e vita, in un minuto sono state barbaramente uccise. I loro cadaveri venivano adagiati sui camions e portati al cimitero di Greco. Scene strazianti ed indescrivibili di dolore dei loro parenti impazziti dal

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dispiacere. Scavavano, scavavano con le mani sanguinanti tra le macerie, piangevano, gemevano, ma tutto era ormai inutile. Il demone della guerra e della morte aveva trionfato! Con il cuore gonfio, soffocato dall’emozione e dal pianto, fuggendo da quella enorme tragedia, sono arrivato in via Rovereto. La mia casa era ancora in piedi. Sono volato sulle scale. La mamma mi aspettava tremante e pallida. Mi ha preso tra le braccia e mi ha stretto forte, mi ha baciato a lungo e io piangevo, in silenzio... Ero il suo ultimo figlio ed ero ancora lì con lei, vivo!

Ma la tragedia dell’ottobre non è seguita da una sosta nella guerra aerea, che anzi sulla città sembra farsi più spietata.

6 febbraio ore 8,30 – Improvvisamente, senza allarme, caccia bombardieri fanno un carosello sulla Bicocca. Partono in picchiata sulla Pirelli. Sganciano bombe a bassa quota che sibilano nell’aria. La ciminiera colpita in pieno vola in pezzi, resta solo un mozzicone. Riprendono quota, gli aerei, e picchiano ancora. Noi dal cortile della Manodopera, incoscientemente, osserviamo il carosello infernale. Eravamo così abituati a queste cose che oramai non ci facevano più paura! Carri ferroviari carichi di coperture vengono centrati e le gomme volano via, a centinaia di metri di distanza. Febbraio - marzo, l’attività aerea è incessante contro convogli e installazioni militari. Un aereo solitario sorvola tutte le notti Milano e sgancia qua e là bombe causando danni e morti. La gente lo chiamerà «Pippo».

E sulla terra tormentata quel popolo moriva anche di fame. In Italia i razionamenti alimentari avevano già avuto i prodromi con la politica autarchica, avviata nel 1935 come risposta alle sanzioni economiche inflitte dalla Società delle Nazioni per l’aggressione italiana all’Etiopia. La partecipazione alla guerra mondiale segnò l’avvio di una politica di più rigido controllo delle risorse anche in questo settore: la produzione agricola fu sottoposta al regime degli ammassi obbligatori e successivamente vennero misure di razionamento anche per i consumatori. Uno dei primi prodotti razionati fu il caffè; nell’ottobre 1941 fu introdotta una tessera annonaria individuale munita di bollini che stabilivano il consumo mensile di pasta, olio, zucchero; erano esclusi il pane, distribuito giornalmente all’inizio non più di 500 g che scesero poi fino a 100 g; e il latte, previsto solo per i bambini. Il sistema, anche per la cattiva organizzazione della distribuzione, viene ben presto affiancato da un mercato illegale – la «borsa nera» – che diventa il mezzo attraverso cui i cittadini, purché possano contare su risorse in denaro o in beni pregiati, riescono a sopravvivere ai livelli, pur non eccessivamente prosperi, degli anni precedenti il conflitto.

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E c’è, tra i tanti, un diario che descrive una condizione estrema ma – allo stesso tempo – quasi normale nei tempi apocalittici che gli italiani stanno vivendo: la vita in una città occupata, assediata, collocata sulla linea del fronte, Firenze 1944. Cesare Staderini, impiegato del Credito Italiano, deve abbandonare il 29 luglio, con la famiglia e con tutti gli abitanti della zona, la sua casa sul Lungarno, dietro l’intimazione di sgombero proveniente dai comandi tedeschi d’occupazione. Attorno a lui disordine e sbigottimento.

Già da diversi giorni mucchi di spazzatura si ammassavano per le strade ogni pochi passi ed inoltre ora c’era anche tanta folla, quasi come ci fosse stata qualche manifestazione propria di un giorno festivo, ma aria di festa non appariva sul volto di nessuno; l’esodo dalle case di chi era costretto ad abbandonarle era cominciato. Barroccini e barrocci di ogni tipo e dimensione pullulavano; anche di quelli adatti alla trazione animale, ma erano tirati da uomini al posto delle bestie; sostavano davanti alle porte delle case ove venivano caricati, sbucavano ad ogni cantonata ed erano ricolmi di un po’ di tutto, dalla rete del letto alla gabbia dell’uccellino, ma soprattutto ed immancabilmente di materasse: bianche, colorate, nuove, sporche, scucite, rattoppate, di ogni foggia insomma possibile ed immaginabile. Su qualche barroccio non erano soltanto masserizie, ma anche persone vecchie o visibilmente ammalate; due vecchie signore sedevano su poltrone, poste poi su di un barroccino e parevano assise su di un trono grottesco, qualcosa di surreale. Per il movimento che c’era non si avvertiva gran confusione, pareva che su tutto incombesse il silenzio che precede le grandi calamità.

Nei giorni successivi la vita nell’abitazione di fortuna (il Teatro Nazionale) dove la famiglia Staderini è costretta ad alloggiare presenta non pochi problemi; ma il maggior motivo d’ansia è la ricerca degli alimenti. Nella sventura generalizzata ci sono anche diversi esempi di commercio creativo.

mi spinsi sino alla farmacia Paglicci in via della Scala; ero un po’ raffreddato e comprai un flaconcino di endrina [uno sciroppo di prugnolo]. Mentre mi trattenevo nel negozio, arrivò un fornitore che iniziò subito a scaricare con gran lena, diverse casse da un barroccino; nell’andare e venire con il carico, parlava a fatica, ma non desisteva dal decantare la sua merce, dicendo al farmacista: «Vedrà che questo lo dà via in un momento, sostituisce bene la pastasciutta, le bistecche, insomma un po’ tutto!» Di cosa si tratterà mai? Pensai incuriosito e restai lì per vedere. Il farmacista tolse da una delle casse alcuni pacchetti sui quali era stampata in colori sbiaditi, rossi o turchini, la testa di un bimbo e sotto vi si leggeva la parola

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«VIGOR»; compresi allora che si trattava di una sorta di alimento da bambini; evidentemente consideravano che data la carestia, potesse andar bene anche per i grandi! Ne avrei comprato volentieri qualche pacchetto, mi sembra di ricordare che costassero trenta lire l’uno, ma ritenni opportuno proporlo prima in casa.

Altri commercianti hanno minori possibilità di proporre nuovi standard dietetici e si devono accontentare di esporre la propria merce in luoghi centrali della città, non senza scandalo per i cultori della bellezza e del decoro patrio.

In piazza Strozzi fui colpito dalla scena a cui dava luogo un ortolano improvvisato, il quale aveva esposti cavoli, insalate e pochi altri ortaggi sul sedile di pietra che circonda il palazzo. La vendita era attiva e visibilmente lui aveva premura di far presto a finire la mercanzia; così pure i compratori apparivano molto frettolosi. […] Un erbivendolo in quel luogo era cosa del resto insolita anche per la vita contemporanea della città, d’altra parte, in quel momento, imbattersi in un cavolo, in qualsiasi posto fosse, era una fortuna insperata, anche se stringeva il cuore vedere il centro ridotto così!

Ma l’invadenza dello sconosciuto «Vigor» è ben maggiore di quanto Staderini potesse supporre; moglie e sorella che si recano puntualmente dal fornaio, scoprono ben presto una realtà inattesa: recandosi con regolarità nella bottega del fornaio, si accorgono che

anche lui era ben fornito di quei famosi sacchetti di «Vigor» che io avevo visti dal farmacista di via della Scala; considerando allora che le nostre riserve alimentari andavano sempre più assottigliandosi, ritennero opportuno far provvista di quei sacchetti e ne accertammo così il contenuto che era una specie di farina di legumi secchi malamente macinati; cotti nell’acqua restavano tuttavia piuttosto duri ed avevano un sapore indefinibile, assai sgradevole. Non potendo prevedere quanto poteva prolungarsi la situazione, il fornaio avvertì che né lui, né gli altri potevano garantire la continuità della fornitura di pane data l’impossibilità dei rifornimenti sia di farina che della legna per il forno; sentendo quest’antifona, la Milena e la Bruna comprarono tanti mai di quei sacchetti che son durati anche un bel po’ di tempo dopo il ritorno alla quasi normalità e non è da dire che nel periodo critico se ne facesse economia! Si può dire anzi che quella roba costituisse l’alimento principe: si cominciava col mangiarne una discreta scodella appena svegliati e poi anche a colazione e la sera. Nonostante la poca appetibilità della vivanda, come dicevo piuttosto disgustosa, con quei pezzettini di lenticchie e di piselli stantichi [recte: stantii] che rimanevano fra i denti, ci sembrò, in quei giorni, di aver scoperto un cibo prelibato; il

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pensiero di trovarsi davanti delle scodelle fumanti di roba subito pronta e che anche senza condimento, riempiva lo stomaco, ci fu di aiuto a superare la forzata astinenza a cui si era costretti da quell’incredibile sorta di detenzione!

Sono, si sarebbe tentati di commentare, guai e disagi di scarso momento a petto delle privazioni di altri strati sociali e di altre aree geografiche. La memoria di queste privazioni è tuttavia viva in tutti; ma è circondata da molta più amara sofferenza in coloro che, venendo da ceti umili, sono i più colpiti da questa nuova forma di carestia. Il ricordo sembra addolcirsi solo quando interviene qualche motivo d’affetto, spunto per un sorriso indulgente, come affiora dal ricordo di Fidalma Gatto.

La fame era tremenda: io andavo a fare la fila per tutto con quelle maledette tessere annonarie. Ricordo quanto era difficile prendere il latte, molto importante per il piccolo Roberto. Mamma pesava solo 39 Kg... Nel frattempo divenni amica di una bambina figlia di contadini chiamata «Chicchera»: una delle persone più care che ricorderò per sempre. Ella mi diceva: Fidalma a cosa si gioca oggi? Io le rispondevo sempre uguale «alle botteghine», così lei andava in casa e prendeva il pane ed altre cose e potevo mangiare. Mio fratello Giovanni pur di mangiare aiutava i contadini a far di tutto per una pagnotta di pane alla settimana. Era sempre col forcone a togliere il concime da sotto i buoi: nel pisano il concime viene chiamato sugo, nome che mio fratello Vincenzo, nei momenti di rabbia, attribuiva a Giovanni. Vincenzo assai differente da Giovanni preferiva la fame anziché sottomettersi ai lavori del genere. Ricordo che passava le giornate ad intarsiare un legno con un chiodo. La sera ci si riuniva tra amici di nascosto per ascoltare Radio Londra, anche quel «tun tun tun –qui Fiorello la Guardia» mi è rimasto abbarbicato alla memoria.

Nelle campagne l’offesa bellica e la fame vanno di pari passo; nei ricordi di Fidalma il mondo pare raggelarsi in mute posture sotto la minaccia che viene dal cielo.

La vita nella valle si era fermata, le case vuote e silenziose, i pochi animali da cortile erano prede ambite da soldati e civili, il grosso del bestiame era in luoghi lontano dalle strade, cercavamo di dare a questi cibo a volontà, affinché non tradissero la loro presenza con ragli e muggiti, conigli e polli erano con noi dentro a stie e grandi cesti, le galline erano preziose, le loro uova erano per noi un alimento completo anche senza cucinarle, accendere dei fuochi era molto pericoloso per più motivi, ed allora molto cibo lo consumavamo freddo.

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Già dagli inizi del conflitto, ancor prima della catastrofe del 1943, la pacifica e povera normalità della sopravvivenza nei tempi passati è solo un ricordo, come emerge in trasparenza dalle memorie contadine di Maria Assunta Italia Liberata Notini che vive presso Barga, in stretta prossimità di quella che divenne la linea del fronte.

Le castagne per un mese circa, furono il nostro alimento, ballotte che le pelavo per il bimbo sfacendole con latte, come una pappina, le mondine, cioè caldarroste, per noi grandi, per quasi due mesi fu l’unico corpo estraneo che entrò nello stomaco. I bimbi con l’aiuto del cielo crescevano sani loro si divertivano, né il freddo sentivano, per la sua innocenza quello era un’avventura in più.

Certo, c’è anche chi in apparenza ha qualche privilegio; per le famiglie che avevano i maschi al fronte il fascismo aveva provveduto qualcosa in più.

Con l’entrata in guerra, – ricorda Margherita Ianelli – il regime istituì anche un sussidio per quelle famiglie che avevano dei figli in guerra. Tale sussidio era uguale per tutti anche per quelle famiglie che avevano più di un figlio a far la guerra. Per molte famiglie di operai senza lavoro, quel sussidio portò un po’ di sollievo, per un po’ riuscivano a comprare il pane, ma fu un sollievo che durò poco. Tutto venne razionato e distribuito con la tessera, un etto di pane al giorno per ogni persona, un mezzo o [un] etto di pasta, pochi grassi niente carne, la merce si trovava solo a mercato nero e quel po’ di sussidio non bastava più neanche per comprare il pane. I prezzi aumentavano, la merce introvabile e i soldi mancavano, nel giro di pochi mesi tutto divenne introvabile, ed ecco che i contadini venivano guardati come dei gran signori.

E infatti,

Nella nostra famiglia da alcuni mesi non si faceva più la fame. Il giorno della trebbia ci assicurammo il grano per l’intero anno. Poi c’era in vista il granturco, le castagne, l’uva e ortaggi. Facevamo il formaggio e un bel maialetto nel porcile che cresceva fino arrivare Natale e ci procuravamo anche un po’ di companatico. Con i sussidi che ci passava il regime comprammo i letti, i materazzi lenzuole e tutto il resto che ci mancava in casa persino i piatti per mangiarci dentro. Un po’ di stoffa la trovammo per vestirsi, ma in cambio ci voleva cibo da mangiare. In quel modo iniziò poi un certo scambio di merce, chi aveva il sale chiedeva in cambio la farina, chi aveva lo zucchero chiedeva le uova.

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In questa economia di baratto il contado sembra avere la meglio. È un equilibrio per molti aspetti transitorio che viene meno con il progredire del conflitto; e se talvolta perdura non è privo di pesanti contrappesi. Ed è infatti una fase breve quella della prosperità dei coltivatori agricoli: dagli inizi del tesseramento più stretto (1941) fino all’8 settembre. Le succede lo sfaldamento di ogni struttura di vita organizzata per i civili, abbandonati da allora in poi alle vicende del conflitto sulla loro terra; coloro che godono di una abbondanza solo relativa diventano oggetto delle grassazioni tedesche e di quelle della Repubblica fascista. Nelle memorie di questa drammatica fame qualche volta, i racconti si tingono di una ironia capace ancor oggi di suscitare qualche sorriso, pur quando toccano il tema delle privazioni diffuse: come ci testimonia la narrazione, che abbiamo già visto, di Albertina Tonarelli sulle follie di una nobildonna fiorentina. Ogni sorriso è un tuttavia atto fugace, vissuto nel «dopo», rispetto a quel terribile presente che assediava e colpiva senza tregua.

I tedeschi – scrive ancora Fidalma Gatto – decisero di far saltare il campanile della chiesa di S. Piero a Grado [costruzione duecentesca, fu minato il 22 luglio 1944] e il babbo ritenne opportuno di scappare nella macchia vicina di Tombolo. I miei fratelli e lo zio, di nascosto ai tedeschi, costruirono una capanna e mentre tagliavano un albero babbo venne assalito al volto e alla testa da un vespaio restando svenuto per mezz’ora circa. Si riprese quando non ci speravamo più, ma gonfio da far paura: la cosa sembrò però risolta. Si scappò di nuovo due alla volta nella macchia: si viveva nella capanna tra bestie e cannonate che scoppiavano a breve distanza. Ero terrorizzata, i tedeschi ci mandarono a dire di rientrare tutti in paese. Con noi c’erano molte altre persone. Andarono in tre per parlare ma non tornarono più perché furono fucilati nelle strade del paese. Si moriva di fame, non avevamo assolutamente niente da mangiare e cosi fu deciso di andare io e mamma passando dai campi per non farci vedere dai tedeschi alla «Vettola» rione dopo San Piero a Grado. Dopo tanto cercare trovammo dai contadini in cambio dello zucchero della nostra razione, un pezzo di formaggio pecorino e un po’ di crusca. Nel tornare indietro trovammo un posto di blocco militare: tedeschi seduti in mezzo alla strada con i mitra puntati verso di noi, Mamma, con sangue freddo mi ordinò di stare zitta ma piangevo e dicevo «mammina, mammina», Si andava avanti con il cuore che mi scoppiava, appena si sorpassarono i partigiani, che vedevano tutta la scena, e fra questi c’era anche mio padre e mio fratello Vincenzo, i tedeschi si misero a sparare e noi ci buttammo in un campo di grano e mia madre mi fece scudo con il suo corpo: ci salvammo!

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Le insidie sono infinite sia per l’aggressività indiscriminata dell’esercito occupante sia per le trappole mortali, le mine, sparse a piene mani quale deterrente contro ogni sorta di nemico.

Si partì tutti in fila indiana, ognuno con il suo fagotto, Babbo in prima fila ci diceva dove mettere i piedi perché c’erano le mine sparse ovunque, Il bosco era impressionante: nella ritirata i tedeschi avevano lasciato di tutto: bombe a mano, cartucce e molte mine, c’era un silenzio di morte, Ricordo di non aver mai udito alcun cinguettio di uccellini.

E infine gli inganni e le piccole ruberie da parte degli stessi compatrioti che in cambio di un aiuto riescono a frodare anche gli sventurati che hanno sperato nel loro soccorso: « Prima del buio si arriva al fosso dei Navicelli ove si incontrano due persone conosciute con la bicicletta, Mamma chiede loro di portarci in canna io e Roberto fino al ponte, loro accettano e ci caricano e ci lasciano al punto stabilito ma ci portano via le due borse piene di calzini e maglie di tutta la famiglia», rievoca ancora Fidalma. Nella guerra civile si perde ogni virtù e ogni pietà. I civili sono ostaggio di una lotta di tutti contro tutti, ricorda Maria Assunta Italia Liberata Notini, da Barga, sulla linea del fronte.

Passarono quattro, terribili mesi isolati dal mondo, dalle nostre case, dal paese, dagli amici e parenti, una cosa era certa, la guerra seguitava, sulla linea del mio paese si scatenavano cannonate e incursioni aeree, la situazione peggiorava ad ogni momento, quanto ancora, potevamo sopportare, i partigiani erano scesi verso Tiglio [frazione di Barga], avvicinandosi agli altri uomini, unendosi per lottare contro lo stesso nemico, gli scontri con le squadre Nazifasciste erano ormai a corpo a corpo, rappresaglie, assassinati, vandalismi condotti dai nostri fratelli fascisti che invadevano le proprietà massacrando senza pietà vecchi e bambini, violando le donne, incendiando e svaligiando le case. Furono mesi di panico, terrore smisurato, incontrollabile, dalle valli arrivavano i boati delle cannonate, e lo scripitio delle mitraglie nei colletti sottostanti a. noi, ogni tanto veniva mio fratello per informarci, gli americani avanzavano, i tedeschi retrocedevano, nella ritirata assalivano con odio e sadismo, peggio che il sanguinario Attila della storia.

Una fuga senza tregua nella Toscana: quando le truppe tedesche sono scacciate da una zona, molte famiglie restano divise tra loro perché i movimenti delle truppe tagliano le linee di comunicazione e una parte resta o imprigionata nel territorio non ancora liberato o intrappolata nella terra di nessuno. Angoscia ed ansia da entrambe le parti, come si evince da un brano delle

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Luigi Ganapini

memorie di Maria Antonietta Garetto. Per lei, nata in Argentina da un medico italiano emigrato, lo sfollamento nelle campagne lucchesi significa un doppio esilio, per aver dovuto andarsene dal suo primo approdo in terra italiana ad affrontare le vicende della guerra nelle campagne lucchesi. L’avanzata delle forze angloamericane taglia le comunicazioni tra la piana e il monte e la isola dai suoi.

Ma se per noi la guerra era veramente finita, tra le montagne continuava crudele. In una tragica contraddanza un po’ avanzavano le truppe alleate, allora sul nostro paese, divenuto terra di nessuno e di tutti, cadevano le bombe tedesche, un po’, dalle loro postazioni sui monti, scendevano i tedeschi ed i fascisti e allora era la volta delle bombe americane. Mio padre e gli altri familiari erano rimasti bloccati lassù e vissero per settimane nei sotterranei del convento delle monache, un tempo passaggi sotto le antiche mura, insieme a tutti quelli che erano riusciti a trascinarsi dietro. Era un dicembre freddissimo e piovoso e dalle pareti di pietra l’umidità colava a rivoli sul pavimento. I viveri scarseggiavano, mio nonno si ammalò gravemente e mio padre fece miracoli per assistere malati e feriti col poco materiale medico di cui disponeva. Non sembrava esserci via di scampo ad una situazione che si faceva sempre più insostenibile e tragica, finché un giorno la lugubre contraddanza ebbe una pausa e di questa approfittarono gli infelici rifugiati nei sotterranei del convento. Fuggirono nelle campagne verso Lucca cercando di raggiungere il fronte alleato, alcuni riuscirono, altri sorpresi dai bombardamenti ed esausti per la debolezza e la fatica si rifugiarono nei casolari abbandonati. Fra questi ultimi, i miei nonni, che, nella confusione, si erano persi. Non so come mia madre venne a saperlo. Sembra incredibile, ma allora le notizie circolavano quasi con la rapidità di una telefonata e certo più velocemente di tanti servizi postali: una specie di tam-tam perfezionato durante secoli di invasioni, il cui suono si udiva a grandi distanze e la cui eco risuonava e si prolungava per monti e valli.

Chi fugge alla ricerca di una protezione nelle campagne potrebbe forse invidiare la sorte dei cittadini, ma nelle città l’esistenza è non meno dura. Lo sa bene «nonno Ettore» (Ettore Zucchelli) nel suo lungo scritto indirizzato ai nipoti. Fino ai primi mesi del 1944 la guerra sembra passare su di lui senza condizionare la sua vita, che soffre soprattutto per la povertà: eppure la guerra modella il suo destino. Ai primi del 1944 il fratello maggiore, Alfredo, gli dice che a Bologna sono rimaste «tante BOMBE inesplose e Pagano £ 500 ogni Bomba levata e disinnescata». Non c’è altro lavoro e per questo motivo il quindicenne segue il fratello e inizia la sua attività con lui e con un amico

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chiamato Cantelli Arrigo. Trovammo un terreno pieno di BOMBE INESPLOSE erano Bestie di 4 o 5 quintali, molte rimanevano in superficie, mà molte altre profonde anche a 4-5 metri, dipendevano come cadevano, se allo stacco del governale, che è un’elica che dà la direzione alla BOMBA fino a 100 MT dal suolo, per poi sganciarsi, se nello sganciarsi perdeva la traiettoria, poteva cadere di pancia e non battendo la spoletta rimaneva inesplosa, oppure potevano avere dei difetti, allora potevano entrare nel terreno appunto come ò detto 4 o 5 metri di profondità e non esplodere.

La descrizione è precisa e introduce a una parte che si fa appassionante e terribile.

A quel punto – prosegue il racconto – il foro d’entrata, poteva essere anche di 2 MT di circonferenza, e in base alla traiettoria d’entrata, bisognava scavare anche a 5 MT dal foro d’entrata per trovarla perché la traiettoria orizzontale d’entrata la portava così in avanti, in 3 che eravamo ci si metteva anche 2 giorni per trovarle, si faceva un buco che ci stava un porcile per maiali dentro, una volta trovata era un gioco, si svitava la spoletta, ci, si agganciava un gangio forte con un anello tipo quelli che si trainano le macchine, e con una tagliola che era un atrezzo con 3 piedi fatto a carrucola e la si tirava fuori, quante altre Bombe che rimanevano a circa un MT, una volta pulito il terreno d’entrata mio Fratello e Cantelli mi legavano con una corda i piedi e mi calavano, dato che ero il più piccolo e mingherlino, io a quel punto cosa facevo; dovevo togliere la spoletta e come si è detto prima togliere il gangio per tirarla fuori, voglio dire una cosa molto importante, molte spolette o erano dure per sé stesse o il colpo dell’impatto col terreno le deformava, appunto cosa bisognava fare, si prendeva un chiave inglese, così è chiamata la si stringeva attorno alla spoletta con forza con il martello si picchiava fino a che si svitava, questo era un compito che si faceva a turno, ogni 3 Bombe, se ne sfilettava una a testa, anche perché se fosse esplosa nel togliere la spoletta moriva uno solo.

Dalla memoria di Ettore Zucchelli non emerge alcun senso di paura; almeno fino a quando «il venerdì Santo del 1944» su Bologna, mentre lui e gli altri stanno lavorando, si scatena «un inferno». Non troviamo una descrizione minuta e partecipe come quella di Elio Galletta, ma ne ricaviamo il senso del terrore che può invadere un ragazzo come Ettore, che pure i pericoli li affrontava quotidianamente. Da un’altezza di otto o diecimila metri diverse formazioni di fortezze volanti bombardano la città e lui, sotto la violenza di quella incursione, si ritrova «come impazzito di paura» e, senza le scarpe («sarà stato il spostamento d’aria»), corre fin quando non giunge a Granarolo, a sei chilometri da Bologna. Il suo lavoro di artificiere termina nel luglio 1944 e da

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allora prende le mosse un’altra fase, quella della collaborazione con la Resistenza (l’abbiamo già ricordata) a cui prende parte senza mostrare una volta di più, nei ricordi, alcuna traccia di sgomento davanti ai pericoli che pure incontra. I bombardamenti sono quindi causa di un terrore incontrollabile, capace di buttare nel panico anche persone che pure la morte l’affrontano senza tremare, quasi una secondaria conseguenza di un lavoro rischioso che hanno accettato per necessità. Tuttavia nel racconto di nonno Ettore ritorna, dopo la parentesi partigiana, il lavoro dello sminatore. È spinto dalla necessità di aiutare il padre a sfamare sei fratelli minori di diciotto anni e la madre. Il lavoro di muratore, che lo aveva occupato subito dopo la fine della guerra, non dà una remunerazione sufficiente. Il mestiere è pericoloso, ma la paga è alta e sulla decisione non ha dubbi. «Sì perché a 18 anni e non aver mai visto un soldo, e sentirsi dire, ogni mese porti a casa 90 MILA £ mentre un operaio comune prendeva 20 Mila circa – e con tanta miseria sulle spalle, chi pensava che si poteva anche morire. Ricordo che dissi a me stesso?» Della compagnia Bonifica Campi Minati, alle quale viene aggregato, facevano parte settanta persone; «siam rimasti viventi in 13 tra i quali 5 Grandi Invalidi». Tra le vittime il padre dello stesso Ettore.

Sono ugualmente parte di questa vita di guerra le memorie di Marisa Corsellini, incentrate su minute vicende e minuti bisogni nella Firenze dell’agosto 1944, benché prive di aspetti particolarmente crudeli:

Mercoledì 2-8-44. Ora la vita diviene sempre più difficile. L’acqua manca sempre e bisogna fare lunghissime code per prenderne un po’ da bere. La razione del pane è stata diminuita più della metà; basti dire che in tre persone ci tocca un filoncino e mezzo di pane che equivale a 250 grammi. Alcuni dicono che domani non ce ne daranno per niente. Le mine messe sotto i palazzi dai tedeschi continuano a saltare non lasciandoci assolutamente dormire. Ora sono già due giorni che il cannone non si sente più, pare che gli inglesi siano lievemente retrocessi per attendere le altre colonne che avanzano dai lati, così tutti insieme accerchierebbero la città. Forse lo fanno per risparmiare la nostra bella Firenze […]. Giovedì 3-8-44. Oggi finalmente sono stati appesi i manifesti indicanti lo stato di emergenza. Da oggi nessuno può più mettere il naso fuori della porta fino a che non siano passati gli inglesi. Ma speriamo che facciano presto perché così non si resiste più. Manca di tutto. Acqua, luce, gas, carbone, alimenti; basti dire che oggi non hanno dato neppure quel po’ di pane che ci tocca perché non hanno mulini per macinare il grano. Non so come si andrà a

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finire. Le cannonate fischiano da tutte le parti. I tedeschi hanno piazzato i cannoni anche in Piazza Giudici, presso P. Signoria e alla Fortezza da Basso; quando sparano trema tutta la casa.

La speranza tuttavia torna ad affacciarsi sotto la specie dell’arrivo «degli inglesi», che Marisa individua come i protagonisti dell’avanzata finale degli Alleati.

Però io nonostante tutto sono felice di essere in stato di emergenza poiché almeno, dopo questi giorni sarà finito questo assillante pensiero del passaggio delle truppe. Speriamo che il Signore ci protegga tutti quanti e salvi la nostra città così a cose fatte potremo tutti uscire liberamente e rivedersi. […] I tedeschi hanno cominciato nella notte ed hanno continuato per quasi tutto il giorno a far saltare mine. Nessuno ha potuto dormire tanto tremava la casa. Figurarsi che si sono rotti anche i vetri alle finestre di fronte alle nostre. Dopo ogni esplosione si alzava in aria un nuvolone di polvere così denso da non poter quasi respirare. […] Domenica 6-8-44. Siamo sempre nelle stesse, pietose condizioni. Se non finisce questo stato finiamo noi. I tedeschi si sono fortificati su tutte le colline circostanti la città e hanno piazzato i cannoni nella città. La notte non dormiamo quasi mai e sempre accampati come tanti zingari. Se gli inglesi non fanno presto ad arrivare non so come andremo a finire.

Gli ultimi giorni della guerra sono i più convulsi, nelle città e nelle campagne. E anche Perla Cacciaguerra è trascinata nel gorgo della condizione comune.

Non sto a dire che passiamo le giornate in uno stato d’animo d’angoscia e tormento indescrivibile e di notte si salta giù dal letto ad ogni colpo secco che sentiamo dicendo in cuor nostro «l’ora è giunta». Ormai siamo alla fine di tutto: o moriremo oppure finalmente saremo in pace. Dio salvaci! Fa che io viva! Sono così giovane e non ho voglia di morire! Molta gente è partita. Giovanni, il nostro sottofattore, ci ha lasciati dopo cinque anni di servizio e prima della partenza ha pianto come un bambino per il dolore di lasciare il posto dei ricordi più belli della sua gioventù. Anche i tedeschi della Propaganda ci hanno abbandonato con rimpianto e nostalgia. Sono subentrati dei tedeschi arroganti e cattivi che ci hanno dato qualche spavento e poca noia.

Non si può sottovalutare di Perla l’intima speranza di una vita gioiosa, di sentimenti sereni e di rapporti affettuosi. Sembra farle eco la memoria di Nicolette, di cui non conosciamo l’identità e che vuole essere citata solo con questo nome, esprimente questa disperazione in termini espliciti e appassionati.

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Ma il momento era veramente tragico e vivere era sempre più difficile. Bisognava resistere. Mancava tutto e pur di avere un pugno di farina o un po’ di latte, ci si privava di ogni cosa cara rimasta. E fu allora che la fame cominciò a farsi sentire veramente. Com’era amaro il caffè fatto con ghiande tostate e macinate dove anziché pane c’erano i «borghi» castagne sbucciate e poi fatte bollire! Quante volte io e Carla ci alzavamo all’alba per metterci in fila al mulino o al frantoio, per avere un pugno di farina o una bottiglietta di olio! Era freddo e buio tuttavia noi eravamo lì, tremanti di freddo e piene di sonno, ma sempre presenti. La guerra con i suoi tragici avvenimenti, aveva cancellato in noi ragazze ogni lecito sogno, ogni desiderio, ogni modo di vivere serenamente quello che era il periodo più bello della nostra vita. Non avevamo più nulla da confidarci e quando ci incontravamo, mentre la vita procedeva tra insidie e paura, gli argomenti di cui parlare erano sempre gli stessi: rastrellamenti, fame, morte. Perché a noi non era concesso sorridere, amare, gioire? Ce lo chiedevamo spesso ma c’era la guerra. Ed anche se nei nostri cuori palpitava la speranza di un’era migliore, la realtà era quella. C’era ancora la guerra con la sua tragica tristezza.

La tragedia è sempre in agguato, ci ricorda Margherita Biagini quando rievoca episodi della sua infanzia contadina.

Era il luglio del 44, i nazisti dopo avere fatto saltare i ponti sull’Arno si erano ritirati a nord della città. Gli alleati posizionati alla Certosa, cannoneggiavano a più non posso senza preoccuparsi troppo dove andassero a finire i proiettili. Le bombe cadevano a casaccio, colpendo la popolazione, facendo decine di vittime. Nelle case non vi erano viveri da giorni, solo un po’ d’acqua che prendevamo da un pozzo vicino facendo code interminabili. La fame era diventata la nostra compagna, la paura invadeva la nostra vita, l’esistenza era limitata nel tempo e nello spazio, le giornate scorrevano con una lentezza soffocante nell’attesa della liberazione, i movimenti per i tanti pericoli erano limitati alla casa ed ad un piccolo tratto di strada. I nostri giuochi interrotti, la spensieratezza consumata dalla fame. Quella mattina ci fu detto che se fossimo andati da Zulimo, un contadino del Galluzzo, avremmo potuto avere un chilo di pane: la strada però era quella che portava alla Certosa, perciò c’erano da mettere in conto i cannoneggiamenti degli alleati, l’impresa era rischiosa ma non era possibile fare diversamente. Vedo ancora mio fratello maggiore esultare per poter finalmente addentare del cibo. Si offrì immediatamente di andare e scherzando disse che avrebbe camminato a zig zag per scansare le cannonate. Mia madre non lo permise e decise che sarebbe stata lei ad andare. Lasciò a me ragazzina di dodici anni mia sorella e mio fratello più piccoli e partì con la promessa che avremmo avuto del pane per cena. Era una giornata estiva, il cielo era chiaro e pulito, tanto che al guardarlo si poteva dimenticare lo scempio che ci imprigionava. Ninnavo mio fratello piccolo «fate la nanna coscine di pollo», la cucina

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era priva di odori perché da tempo non si cucinavano cibi, «che il babbo è tornato da Roma», cantavo, mi sentivo irrequieta, ansiosa, senza capire il perché, «vi ha portato una bella corona» seguitavo, accarezzando la guancia di mio fratello, un’agitazione interna si era impadronita di me come per un presentimento, per calmarmi mi affacciai alla finestra e guardai il cielo, appunto. Dopo poco udii delle voci alte, agitate, voltai lo sguardo e vidi degli uomini che trasportavano una barella con sopra adagiata mia madre; presto, presto, gridavano, dirigendosi verso una specie di ospedaletto allestito per accogliere i tanti feriti. Era stata colpita dalle schegge di una granata. Urlai, urlai tanto; vidi mia madre che piangendo si copriva il viso con la coperta per impedire che noi la vedessimo.

L’episodio ha una valenza profondamente tragica, tanto più percepibile se si pensa che chi lo vive è una bambina non ancora decenne. Ma forse l’aspetto più inquietante delle vite che memorie e diari ci tramandano è dato dall’incertezza, dalla precarietà quotidiana e dalla imprevedibilità del potere. Lo racconta Angelo Cesare Perduca, di Busto Arsizio, allora diciottenne.

Ottobre-Novembre 1944. Ero tornato da qualche giorno da una risaia di Trino Vercellese dove ero stato un mese, da settembre ottobre per la raccolta del riso. Mentre uscivo dal portone di casa di piazza G. Garibaldi per andare a Castellanza, dove un amico mi avrebbe venduto del granturco a sei lire al chilo, vidi venire dalla via D. Crespi, nella mia direzione, due militi delle GNR. Mi fermarono, mi chiesero i documenti, chiesero se lavoravo, dov’ero diretto e sentendo che per il momento ero senza lavoro, mi dissero di seguirli che mi avrebbero portato in Germania. Non potevo certo opporre alcuna resistenza. Mentre a piedi ci incamminavamo verso la stazione dello stato, lungo la via Mameli vidi un mio compagno, gli dissi quanto mi stava succedendo e lo pregai di avvisare mia madre. Arrivammo a Varese verso mezzogiorno. Avevo una gran fame. Quei militi, prima di consegnarmi ai loro superiori, andarono in mensa, mangiarono, mentre io li osservavo in assoluto silenzio. Uno di loro mi allungò un poco di pane e marmellata. Poi mi portarono da altri militi, mi interrogarono, non avevo nulla in particolare da dire, mostrai loro la cartolina che mi era stata mandata dalla Capitaneria di porto di Genova, dove stava scritto: «...in caso di chiamata alle armi, presentarsi a questa capitaneria di porto». Ma non risolse niente.

Il senso di quella improvvisa persecuzione gli si chiarisce nel giro di ventiquattro ore.

Un graduato tedesco, dopo l’interrogatorio, mi disse categoricamente che mi avrebbero deportato in Germania. Presente al colloquio c’era mia

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madre giunta nel frattempo. Con altri sbandati mi portarono al carcere Miogni di Varese, mi misero in cella e così passai quel giorno. Il giorno successivo venni chiamato in parlatorio. Uno stretto corridoio era diviso da una grata di ferro e lì passava la sentinella con il mitra in spalla, che camminando avanti e in dietro, controllava tutto quanto si dicevano i visitatori e i detenuti. Piangevo, non certo per paura; ed a un certo punto, mia madre mi disse che era più opportuno che aderissi alla GNR, restando così in Italia anziché essere deportato; mi consigliava di iscrivermi in un corpo militare italiano, tanto più che avevo un documento della marina. Risposi di no: non mi sarei mai iscritto in un corpo fascista. Il militare che ascoltava il colloquio si fermò, mi disse: «Tu sei un cretino. Tua madre ha ragione. Iscriviti in un corpo fascista, così non vai in Germania, poi, se vuoi, puoi scappare, sono affari tuoi!» Queste parole mi convinsero. Mia madre uscì. Dopo mezz’ora venni chiamato nuovamente, ma questa volta mi portarono in un ufficio del carcere. Entrai. Mi aspettavano due ufficiali della SS; uno italiano e l’altro tedesco. Mi misero sull’attenti. L’ufficiale italiano mi fece una quantità di domande, in particolare, oltre alle mie generalità, mi chiese i nomi di «tutta» la mia parentela: sorelle, zii, cugini che trascriveva diligentemente su un notes. Cosa da pazzi! Ciò dimostrava che se io, dopo essermi iscritto in un loro corpo, me ne fossi scappato, avrebbero certamente annientata la mia «razza!»

Il giovane, insomma, passa attraverso una trafila che gli rivela quanto sia efficace la trappola nella quale è stato attirato. E da questo osservatorio possiamo anche cogliere l’ambiguità che impregna tutto il clima della Repubblica: il disprezzo per chi non si fa furbo, che non sa sfruttare la possibilità (pur aleatoria, come intende ben presto Angelo dall’interrogatorio dei due ufficiali) di compiere una scelta per rinnegarla, secondo le convenienze.

Dopo fu la volta dell’ufficiale tedesco, uomo imponente, se ne stava a gambe divaricate frustandosi con molta calma uno stivale, portava il monocolo all’occhio destro. Mi guardò gelido. Disse, in buon italiano: «Tu credere nella vittoria finale dell’Asse?»; calmo, sempre sull’attenti, risposi risoluto: «Io non credo alla vittoria finale dell’Asse!», e quello con maggior calma: «Te la faremo venire noi la fede!», e non aggiunse altro. Se ne andarono, mi lasciarono solo.

Il giovane viene portato al carcere di San Vittore a Milano, dove, pur dovendo subire pidocchi e fame, ha almeno la fortuna di non essere oggetto di torture o di angherie. E alla fine, per l’intercessione di un industriale tedesco di Busto Arsizio, viene rinviato a casa. Il carattere lineare di questa storia, che sembra a tratti contrastare con il clima di terrore diffuso, ci rivela tuttavia

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la fragilità di ogni condizione, il pericolo, sempre in agguato, di essere travolti da una macchinazione ignota a cui è impossibile resistere; e mette infine in piena luce la rassegnata ambiguità di una Repubblica che sa quanto sia facile eludere le sue regole, ma che proprio su questa ambiguità fa leva per piegare chi voglia sottrarsi alle sue disposizioni.

Anche altre disposizioni vengono tuttavia violate, nella prospettiva di una rapida liberazione. Torniamo nella Toscana negli ultimi giorni dell’occupazione, seguendo il racconto di Norma Guerri.

La speranza di essere liberati era così forte, che in quei giorni non avevamo più tanta paura, e facevamo cose da incoscienti come quella di macellare i vitelli nelle cantine, l’ideatore di questa impresa era un macellaio sfollato dalla città, alcuni contadini procuravano il bestiame, lui lo macellava selezionandolo a dovere, e noi ragazzi eravamo incaricati di vendere, le persone non erano alle case, ma nei rifugi o nei casolari molto isolati, in apparenza la valle pareva disabitata ma noi scoprimmo moltissima gente nascosta, affamata e bisognosa di tutto. A noi ragazzi la carne veniva consegnata incartata, e con il prezzo già segnato, avevamo carne da basso prezzo, ma anche bistecche e magro, in panieri o cesti sistemavamo la merce, che coprivamo con verdure ed erbe, ancora in giro c’erano tedeschi e repubblichini, se ci avessero scoperti potevamo passare dei momenti molto brutti, noi conoscevamo sentieri e viottoli fra campi e boschi, e nessuno ci fermò, la prima volta che arrivammo ad un rifugio ero con mio fratello, la gente arrivava a frotte, e chiedevano se avevamo frutta e verdura, quando le facemmo vedere la carne, non credevano ai loro occhi, non guardavano neanche al prezzo, in poco tempo finimmo tutta la merce, prendendo molti soldi e tante ordinazioni, c’erano donne con bambini piccoli che pregavano di portarle del latte, a qualsiasi prezzo, ma questo incarico durò solo pochi giorni, il bestiame non fu più reperibile, il fronte si avvicinava di giorno in giorno, il nostro macellaio sparì come neve al sole, portandosi via un bel gruzzolo, e lasciando per noi solo le briciole.

Nella sua descrizione di Soliera in guerra Severina Rossi aggiunge un particolare molto significativo, che mette in evidenza un fenomeno di rinascita di forme di superstizione, sollecitate dalla disperazione per la tragedia.

Le donne pregavano, pregavano. Sembrava che anche il buon Dio le avesse abbandonate. Dal mio paese con carretto e cavallo, partivano in comitiva dirette ai santuari dove, in un recinto apposito, porgevano offerte e fotografie dei loro cari. Le offerte erano tante quante le lacrime e le fotografie altrettanto. Si recitava la preghiera del soldato. Alla sera veniva

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tutto ripulito e il giorno seguente il rito si ripeteva con altra gente. Anche le indovine ebbero i loro giorni di gloria. Tutto per un filo di speranza!

Sembra un mondo privato di ogni aspettativa, da cui è sparita ogni traccia di solidarietà umana. Ma non tutti i sentimenti di pietà e di fratellanza sono inariditi. Ce lo narra Tosca Ciampelli, scampata alla strage del Padule, al termine di una fuga con mezzi di fortuna: «Arrivati in un paese chiamato Ranchio, abbiamo trovato tutte le case vuote con la scritta sulle porte lascio questa casa, alla buona gente e al sole»

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VIII. Un mondo rurale

Teatro di molta parte delle memorie che andiamo leggendo è la Toscana: nei loro scritti molte tra le donne la esaltano come una cornice straordinaria, fecondo luogo di incontro tra bellezze naturali e armonia delle opere umane; così che le testimoni del tempo vivono con grande sofferenza il contrasto che vedono crearsi tra la sua bellezza e la violenza dispiegata dalla guerra. La distruzione materiale accompagna quella dei valori e di tutti normali rapporti umani, di pari passo con la devastazione dei sentimenti e dei ricordi più sereni e lieti. Ma c’è anche un altro motivo di conflitto interiore: magnificenza delle opere umane e rigoglio della natura – decantati nei diari in termini spesso ingenuamente letterari – si compongono nella Toscana degli anni ’40 in un quadro intonato a un ordine antico. È un ordine che si manifesta in forme di rispetto e di sottomissione ai ceti possidenti, atti che a coloro stesse che li hanno narrati appariranno più tardi ingiusti, dopo l’uscita da quella guerra e dal clima complessivo di quella società. Tuttavia anche questo ordine antico, pur nella sua ingiustizia, sembra far risaltare l’aspetto dolorosamente sovvertitore della guerra.

Era una sera di Maggio, in un pomeriggio tiepido e dolce, la campagna anche se non curata alla perfezione, era di nuovo esplosa facendo emergere dalla terra i soliti tappeti dal fondo verde punteggiato di un’infinità di colori, come il Maggio riesce a far nascere ed a mantenere senza farli appassire troppo in fretta. Il bel viale del ciliegi si era fatto bello per le chiome in fiore delle sue piante, le quali, toccandosi le une con le altre dai due lati, formavano quel tunnel che dai bellissimi fiori passava al verde delle foglie punteggiato poi di grappoli rossi. La natura aveva ancora una volta riaperto il proprio scrigno mostrando quanto di più bello aveva custodito nel suo grembo protettivo durante il lungo inverno.

Dina Brogi, a primi di maggio del 1944, sta smaltendo i postumi di una commozione cerebrale, che si era procurata il giorno precedente, quando non avevano funzionato i freni di una bicicletta nuova fiammante (incautamente non oliati), al termine di una discesa vertiginosa che l’aveva scagliata contro un muro. Per lei, ancora convalescente, è un momento sospeso di torpore che consente una trasognata contemplazione della primavera. Ma è anche il momento in cui irrompe la prepotenza dell’ufficiale tedesco – come abbiamo visto in un brano precedente – che impone alla «signora» della Casaccia l’occupazione della villa padronale: quella stessa villa dove, un mese più tardi, reparti della Wehrmacht in ritirata spadroneggeranno imponendo lavori servili a tutti gli italiani presenti.

La primavera toscana rievoca trascorsi costumi semplici e appaganti, annota Walma Montemaggi nella sua breve memoria.

Da noi, nell’empolese, in primavera e in autunno era tradizione fare «scampagnate» nelle boscose colline di Botinaccio oppure a Pietramarina sul Montalbano. Erano occasioni felici di incontro in cui prorompeva la gioia di vivere dei giovani e delle ragazze, ma non solo la loro. Lo ricordate? Si facevano i cori e i balli al suono delle fisarmoniche e la musica faceva da sottofondo allo sbocciare degli amori. La guerra aveva distrutto anche questi momenti semplici ma felici. Per tanti nostri coetanei in divisa, alle «scampagnate» si erano sostituite le tragiche «campagne» di Russia, d’Africa, dei Balcani, dove in tanti sono rimasti sotto un palmo di terra. Sui monti di casa nostra, all’inizio del ’44, c’era anche mio fratello. Si era dato «alla macchia» assieme ad un’altra trentina; erano per lo più giovani «renitenti» che non volevano andare a morire combattendo a fianco dei «nazi» e dei «repubblichini». Con loro erano partiti anche uomini più maturi: antifascisti che avevano conosciuto persecuzioni e galera, dalla quale erano stati liberati solo dopo la caduta di Mussolini il 25 luglio 1943. La loro era stata una scelta coraggiosa ma carica di incognite e noi stavamo in ansia.

La guerra ha distrutto anche le giovanili e ingenue evasioni, di cui la primavera fa affiorare i ricordi. Crudele per le autrici delle memorie è il contrasto tra la stagione in fiore nelle campagne, la bellezza della natura, i ricordi dei momenti di pace e di bellezza, da una parte, e dall’altra l’irruzione improvvisa dell’ansia e del terrore portati dalle brutture della guerra. «Si preannunciava una bella giornata, la prima di primavera con il cielo azzurro, il sole e l’aria quasi mite», ricorda Liliana Bandini, sfollata con la famiglia a Poggibonsi.

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Eravamo seduti nell’aia, facevamo dei commenti sulla primavera, sulla campagna e intanto ci scaldavamo al sole, quando udimmo in lontananza l’ormai noto lugubre rumore degli aerei. Stavamo guardandoli, cercando di capire la loro direzione. Giù al paese avevano già sganciato la solita «porzione quotidiana» e quindi quasi tranquilli li osservavamo. Ad un tratto vicino a noi, sembrò che si alzasse all’improvviso un forte vento, ma fu un attimo perché quasi nel medesimo tempo incominciammo a sentire forti scoppi e la terra tremare al punto che non riuscivamo più a stare in piedi. Il fumo che da ogni parte ci avvolgeva ci impediva di vedere e di respirare; istintivamente ci buttammo a terra, io mi coprii la testa con le braccia, mentre lo spostamento d’aria mi sbalzava di qua e di là, il mio pensiero in quel momento fu che di lì non mi sarei più rialzata.

Atroce è il racconto di Luana Bonaiuti, sei pagine in cui narra (lei testimone-bambina) una delle stragi efferate che nell’estate 1944 segnarono la ritirata della Wehrmacht.

Era spuntata da poco l’alba, la giornata si presentava calda, le cicale frinivano, la natura era risorta in tutto il suo splendore, gli alberi si erano nuovamente rivestiti di tenere foglie color verde chiaro. I primi fiori spuntavano qua e là nell’erba verde dei prati. I frutti del pomario avevano già i fiori e da questi si poteva capire quale era il mandorlo, quale il pero, quale il pesco. Era una natura meravigliosa: l’aria era salubre. Gli uccelli faceva udire i loro canti. Non parliamo poi del «re del pollaio» il gallo con tutti i suoi sudditi.

Ma il paesaggio bucolico è la cornice di un crimine disumano, compiuto con particolare ferocia: all’alba un pugno di fascisti italiani e soldati tedeschi irrompono là dove ancora dormivano bambini e donne, li buttano giù dai letti sotto la minaccia delle armi.

Pensai di trovar rifugio tra le braccia di mio padre, ma un fascista mi gettò a terra col calcio del fucile. Come me, i miei cugini, alcuni più piccoli, urlavano e chiamavano i loro babbi che non erano presenti a quella scena, ma a far legna nel bosco sovrastante, per mantenere il fuoco semprevivo e scoppiettante. Richiamati dalle urla scesero dal poggio, con l’accetta sulle spalle, ignari di tutto. Furono afferrati all’istante pure loro e ben piantonati. Questa squadra di delinquenti veniva da Sesto F.no [Fiorentino], ed avevano già catturato una giovane guardia giurata, Cavini Angelo. Abbiamo saputo dopo del tempo che i partigiani avevano ucciso un tedesco e quindi 7 italiani dovevano pagarne il fio. Così avvenne. Lì, sotto i miei occhi, uccisero la mia bella gatta che pareva un ghepardo. Dopo aver fatto il loro comodo e straziato i nostri cuori, fecero andare avanti i 4 giovani e loro dietro, lasciando tutti noi nella più grande di-

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sperazione. Io seguii con lo sguardo mio padre fino al «poggiolo» e poi esclamai «Mamma, il babbo non ritorna».

I tedeschi aggiungono poi al gruppo altri tre giovani e li conducono «tutti e 7 su nel poggio ed alle ore 10 del 10 aprile ’44, non erano partigiani, solamente padri premurosi ed onesti cittadini»; le donne odono «una forte mitragliata» e tutti sono invasi dal presentimento della tragedia. I tedeschi e i fascisti che avevano compiuto l’azione si allontanano verso un paese vicino. E le famiglie cominciano a peregrinare alla ricerca degli uomini, vanno alle carceri di Firenze, dove ricevono risposte beffarde e la rassicurazione che i padri e i mariti e i figli sarebbero tornati di lì a poco.

Tocca a una delle madri scoprire che cosa sia avvenuto, quando si reca alcuni giorni dopo al «poggetto» da cui era sembrata provenire la «mitragliata» in quella incantevole e tragica mattina.

I piedi di suo figlio il quale aveva calzato, al mattino, scarponi da campo, si presentarono ai suoi occhi. Le urla furono udite, in quella quiete campestre, a lunga distanza. Cominciò a razzolare con le mani piene di sangue. Tutti accorsero tranne che noi: bambini e donne che erano in preda ai continui svenimenti. Erano le ore 15 del venerdì. I 7 corpi erano l’uno sull’altro nella Ruchetta che tutt’oggi è ben evidente; lì scorre l’acqua del poggio e viene incanalata. C’è una porta di ferro dentro la quale si ode il mormorio continuo dell’acqua che scende dal Monte Morello. […] I corpi erano stati ricoperti con poche zolle di terra. Il calore di quei giorni caldi aveva fatto il suo effetto: erano irriconoscibili, putrefatti.

Quattro mesi più tardi la furia omicida dei nazisti investe i paesi ai piedi dell’Appennino.

La guerra arrivava anche sulle Apuane meravigliose, che si tingevano di rosa al tramonto, e che innalzavano cupe le loro cime verso il cielo stellato, nella notte – ricorda Nicolette – Quel giorno a Vinca [presso Fivizzano] ci fu una vera carneficina. Donne, bambini, neonati vennero uccisi selvaggiamente. Le vittime furono 174 fra cui il Parroco del paese, suo padre e la giovane sorella. Il sacerdote don Luigi Janni fu catturato sul monte Sagro insieme a suo padre e ad un vecchio pastore; furono condotti a Monzone e poi uccisi sul ponte di S. Lucia. La sorella fu uccisa nel paese con tante altre donne. E il 25 Agosto toccò a Monzone.

Mentre s’avanza la furia distruttrice, si dilegua pure ogni traccia della pace campestre che si era insinuata perfino nella

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città, in Firenze, luogo deputato al culto della bellezza e dell’armonia. E a Firenze, nella sua casa che sta arredando con amore e passione, l’inglese Violet Whitby, figlia di una ricca famiglia, ha incontrato un amore, per il quale sceglie di collaborare con i partigiani. Ma non sono le responsabilità della partecipazione alla Resistenza ad angosciarla nelle ultime sere dell’occupazione tedesca. La intimoriscono le minacce devastatrici della Wehrmacht, tanto più grevi per lei in quanto in quei luoghi la accompagna il ricordo di altre giornate e di altre sere, quando le tenevano compagnia profumi di fiori e romanze pucciniane, proprio là ove ora si sente prigioniera.

Sono stanchissima, vado a letto, leggo un po’ per cambiare i pensieri e cercare di dormire, la luce si spegne. Sono già diversi giorni che si sente in continuazione il rombo del cannone, ma adesso mi pare che si avvicini di momento in momento, intercalato con esplosioni violentissime. Nei pochi attimi di silenzio odo camminare pesantemente i tedeschi su e giù per il Lungarno e gridare ordini. Hanno voci rauche, concitate. E sempre queste cannonate, ed a periodi regolari un fuoco fitto fitto! Ho tanta paura. A un certo momento mi alzo, ho sentito una voce di donna dal cortile, mi affaccio. Ci confidiamo il nostro terrore. Ma lei non è sola, io sì. Nei primi giorni che ho abitato qua, il cortile, adoperato da un fioraio come deposito, era pieno di gigli. Il profumo era inebriante. E da un quartiere in alto, un maestro di musica dava lezioni di canto. Sempre una romanza, bellissima, dalla Turandot di Puccini. L’allieva aveva una bella voce, ma io aspettavo trepidante l’ultimo acuto. Era un altro mondo. Questa notte non finirà mai, non c’è luce, ho solo una candelina, e non ho neanche il cuore di tentare di metter via ancora qualche cosa; sono stanca, svogliata. I comandi gridati in tedesco sono seguiti da queste tremende esplosioni, preparano le mine per far saltare tutto. Mi si ghiaccia il cuore. Ho tanta paura. E le ore non passano mai. Finalmente albeggia.

La guerra si annuncia nei momenti e nei modi più inaspettati: mezzi militari e strumenti di morte, bombe ed esplosivi di ogni tipo irrompono nella vita di donne e uomini del tutto estranei alla realtà di un conflitto armato.

Dopo alcuni giorni, vedemmo volare all’orizzonte sud, uno strano aereo, teneva una quota molto bassa, spesso era come sospeso nell’aria, andava su e giù come se il suo spazio fosse limitato, appariva improvvisamente e subito scompariva, non avevamo mai visto un velivolo simile, poi incominciammo a sentire in lontananza un sordo brontolio come se un temporale si avvicinasse, ed un signore ci spiegò che l’aereo sorvegliava il fronte, e lo chiamavano «la cicogna».

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Il ricordo sembra attutire ogni contrasto, ma c’è anche chi, come Dina Brogi, riflette pur a distanza di tempo in termini molto critici sui rapporti sociali dominanti in quel tempo e in quelle terre.

A quel punto – riprende Dina rievocando il ritorno alla villa (la Casaccia) che i tedeschi avevano occupato e sconciato malgrado la sdegnosa opposizione della proprietaria – la signora manifestò caparbiamente di voler tornare; essa era più che mai decisa a difendere la sua casa da simili barbarie così offensive. Però restava il problema di come fare il viaggio di ritorno, ora che i tedeschi si erano presa la macchina di suo genero, la prudenza suggeriva di non mettere a rischio anche quella di famiglia. E non c’era solo il rischio dei furti, ma anche quello peggiore dei mitragliamenti. Era veramente un incanto quel periodo: gli alleati dall’alto, i tedeschi da terra e la guerriglia nei boschi che già stava prendendo forza anche da noi. Con quella caparbietà che la distingueva, allora decise di venire a piedi, magari se uno dei suoi operai la fosse andata a prendere per darle all’occorrenza il braccio. Aggiunse che avrebbe preferito Rizieri, mio babbo, perché era il più forte e quello che le dava più sicurezza di poterla sorreggere. Il babbo lusingato di essere stato il preferito, partì di buon ora perché quindici chilometri doveva fare a piedi per raggiungere la località situata lungo la strada di Siena, ma più vicina alla città che alla villa. Negli ultimi tempi le gambe della signora si erano gonfiate ancora di più e camminava con difficoltà, nonostante che il babbo dandole il braccio quasi la sostenesse di peso, ma erano costretti a passare per scorciatoie, tra campi e boschi, molto più disagevoli delle strade maestre allora anch’esse poco agibili perché a sterro e sempre piene di buche. Si stava facendo quasi notte e la signora non camminava più; il babbo con decisione, come faceva a noi bambini quando eravamo piccoli, prese la signora a saccaceci, come si dice in Toscana e camminando tutto in salita, arrivò che era già notte fonda, stanco ma felice perché aveva aiutato la sua padrona alla quale voleva bene. Qui voglio fare una breve riflessione riguardante il comportamento di mio padre e non voglio essere polemica perché quelle circostanze richiedevano solidarietà tra gli uomini; questa era tutto ciò cui potevamo aggrapparci ed aiutarci gli uni con gli altri. Però più tardi ho riflettuto a lungo su quel particolare viaggio dell’uomo che fungeva da mulo in quella circostanza, mansione non inclusa nei suoi doveri di operaio. C’era però il lato affettivo oltre che umano, i quali potevano farlo rientrare nei canoni civili di solidarietà verso una persona anziana e sofferente ed io ho voluto sempre cercarvi questa giustificazione evitando di credere ad un residuo di mentalità schiavista da parte di colei che lo permetteva. Perché aveva scelto l’operaio più forte e resistente alle fatiche?

La famiglia padronale tuttavia non è solo fonte di autoritarismo; può anche essere un aiuto, seguire comportamenti solidali e offrire comprensione.

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Nel tardo pomeriggio – ricorda Maria Assunta Italia Liberata Notini tratteggiando le vicende del ritorno suo e della famiglia alla loro fattoria – arrivammo in Fraia, la casa di Clementina era stata aperta, il pollaio distrutto, le gabbie dei conigli rotte l’uragano era passato lasciando l’impronta degli sciacalli nella povera casa, tutto sotto sopra, non si poteva. far niente. Domenico con pezzi di tavole e legna accese il fuoco, il problema, Cosa mangiare?? L’unica cosa era andare alla casa del padrone, distante una mezzora e chiedere un poco di alimento, difatti fu una buona idea ritornarono con un sacchetto ricolmo, di pane, latte, farina di mais e di grano, patate, un salamino, un po’ di formaggio pecorino, un pane di burro, involto con frasche di castagno e una bottiglia di olio, puro di oliva... per noi rappresentava tutto, non si poteva chiedere di più, la padrona quasi gli chiese scusa per non poterle dare una quantità maggiore, non disse il perché ma noi sapevamo che aiutava i partigiani, una maniera di far Patria.

La munifica casa del «padrone», la «caparbia» volontà della «signora», il dispotico regnare dell’anziana nonna nella ricca villa di Perla Cacciaguerra: segnali di una società rurale e signorile che ancora negli anni Quaranta sembra prosperare nella Toscana, terra di mezzadria e di proprietà nobiliari. È una società più che benestante che per un certo periodo, anche dopo il fatale 1943, riesce a non soffrire di privazioni. (Anche altri ricordi e memorie, da ambienti diversi da quelli che qui andiamo leggendo, testimoniano che per molti italiani delle classi più ricche le restrizioni alimentari erano solo una minaccia lontana e che ricchezze materiali e prestigio sociale assicuravano ai membri delle classi «alte» raffinatezze e agi del tutto proibiti a gente comune). Chi ne ha potuto godere esprime un’acuta nostalgia per il passato e c’è chi, come Amalia Righelli, giovane signora di famiglia più che benestante, sa costruire della propria vita e delle vicende di quegli anni un fascinoso racconto capace di far rivivere a fondo il contrasto tra pace, bellezza e durezza dei tempi, nell’ambito di un ordine antico che, inconsapevole, è al tramonto. Il suo rifugio dalle paure della guerra è la casa della suocera, nei pressi di Sansepolcro, a cui giunge dopo un viaggio incantato.

Ad Arezzo questa volta c’era una piccola locomotiva sbuffante che faticosamente si inerpicava sull’Appennino ed io vedevo i rami degli alberi che sfioravano il finestrino ed entravano nell’arco aperto della pensilina. Tutto quel verde e poi l’accogliente ampia valle del Tevere cosparsa di un roseo pulviscolo di case, mi dettero la sensazione di andare in villeggiatura e per molto tempo la vita in campagna mi apparve tale, o a volte un esilio, in una continua scoperta di quel mondo contadino.

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E la meta – una costruzione del Seicento, casino di caccia nobiliare nei pressi di Sansepolcro – si rivela pari alle suggestioni evocate dal viaggio con la «piccola locomotiva sbuffante».

La casa aveva un perimetro ottagonale e il salone centrale ripeteva la stessa figura geometrica con quattro porte diametralmente opposte, e quattro pareti che ugualmente si fronteggiavano. Intorno al salone erano simmetricamente disegnate quattro stanze rettangolari e quattro ottagonali, a raggiera dal centro e tutte erano comunicanti fra loro. Questa planimetria aveva lasciato adiacenti ad ogni stanza del piccoli vani triangolari che avevano la funzione di spogliatoi. Uno di essi, quello situato tra la stanza d’ingresso ed il «salottino buono» alla sua destra, costituiva una piccola cappella con altare completo di una pietra consacrata […]. La cappellina aveva un’apertura ad altezza d’uomo che dava nell’ingresso. Così quando il prete veniva a celebrar la Messa si poteva seguire il rito oltre che dal piccolo salotto, anche da quella finestrella e vi affluivano le donne della casa colonica e di quella del casiere Mattio, la moglie Marietta, tutti abitanti di quella specie di «villaggio Righelli».

Un seminterrato ospitava «un enorme focolare, l’anticucina e la dispensa». Nella maestosa e affascinante costruzione seicentesca della famiglia Righelli si officiano così i riti religiosi in forme intonate a una società d’altri tempi: alla celebrazione dei sacri misteri la folla dei villani assiste occupando uno spazio secondario, simile alla plebe che sta sullo sfondo nel dipinto d’una chiesa barocca.

La vita della giovane Amalia, fin quando è madre felice di una bambina, si svolge in serenità, a contatto con la magica terra aretina.

Io ero imbevuta di odori di erbe, di terra, di stagni. Si saliva alla macchia di Cecio, o alla vicina villa Silvestri, dialogavo con le piante, conoscevo ogni arbusto ed ogni zolla di quei campi. Giù con i bambini a correre per i pendii, a chinarsi sulle piccole pozze e guardare rane e girini nei piccoli boschi, e sulla terra arata in un’orgia di sole.

Per dovere sociale e familiare inizia a frequentare, senza entusiasmi (racconta), la borghesia ricca e la piccola nobiltà locali.

Tutti erano sorridenti, ammiccanti e stavano benone, nella salute più florida. […] Tutti più o meno soffrivano bovarismo, tutti esprimevano l’insopportazione per esser confinati in provincia. «Cosa facciamo qui?» mi disse una volta incontrandomi l’affascinante ed elegantissima Giuliana

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che pur era brillante ed acuta e tra le altre più affine ai miei interessi culturali. «Cosa facciamo qui?», aveva una treccia bionda adagiata a corona sull’armoniosa testa, occhi azzurri da gheisha, avrà avuto poco più di vent’anni. Si sentiva sprecata. Ma non sapeva che c’era la guerra? A Sansepolcro anche suo figlio, come i miei, avevano da mangiare. Per me allevare i bambini era l’impegno più urgente […]. E allora? Stare qui o a Roma o a Parigi sarebbe stato meglio o peggio o forse la stessa cosa? Da quale parte la guerra ti aggredisce e ti colpisce, quante probabilità hai di evitare le insidie del tempo insanguinato da un conflitto?

Rispetto a tali vicini Amalia ha maggiore coscienza delle traversie e delle sventure di quel mondo in guerra. Ciò non impedisce che perfino lei viva senza allarme i primi episodi che segnalano come il centro dello scontro militare si stia avvicinando.

I sintomi dell’arrivo del fronte cominciavano a delinearsi; ma eravamo ancora fuori del ciclone che doveva raggiungerci ed eravamo così giovani che ci pareva normale in gruppo far gite a piedi ai Prati Alti o a Montecasale per le scorciatoie, a far merenda scaldati dalla fiamma alta e vivida di fascine scoppiettanti che ho imparato a chiamar «baldora». O in bicicletta sull’argine del Tevere. […] Un aereo sorvolò il nostro corteo di ciclisti a bassa quota. Vedevamo il pilota sporgersi a cercar qualcosa, ridevamo come ad un passante che ci guardasse curioso e poi quando l’aereo si schiantò su di un’aia e le schegge ferirono una donna, tutti a correre per vedere, vedere il piccolo pilota dai tratti asiatici, semicarbonizzato, cadavere. Tutti a curiosare nella carlinga incuranti delle armi che erano a bordo e del serbatoio che poteva incendiarsi ed esplodere. Con uno degli amici mi affrettai a raggiungere la Caserma dei Carabinieri di Sansepolcro portando il bottino di due scatole, non so se di nastri o di foto. Il maresciallo ci redarguì: «Non bisogna toccar nulla!» Ma quando la voce si sparse in paese, ci fu una lunga teoria di gente che, come formiche, andavano a saccheggiare l’aereo caduto per strappare un pezzo di pelle dai sedili per far delle scarpe, e prendere ogni cosa utilizzabile con la fame che c’era di tutto, nella carenza generale di materiale di ogni genere.

Altre più pressanti presenze, cui Amalia non nega la sua simpatia, si muovono tuttavia nella campagna toscana, in fiera risposta all’occupazione tedesca.

E intanto sui Monti dell’Alpe della Luna vegliavano i giovani partigiani. Uno dei loro capi, l’architetto Claudio Longo, abitava in paese nella villa Catalino a tre o quattrocento metri da casa mia […]. Claudio, presidente del Comitato di Liberazione Nazionale di Sansepolcro, non mi aveva mai parlato della sua attività clandestina, ma si intuiva dai sobbalzi e dalle

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affrettate fughe in un nascondiglio, ad ogni bussar di porta, che viveva nel timore di essere scoperto. Così aveva richiesto di potersi nascondere in casa nostra e ne avevamo condiviso le angosce, salvandolo da morte sicura.

Sono ormai i tempi, nell’estate 1944, in cui la tensione si fa più alta, i pericoli più vicini e sensibili: mentre il marito Vittorio, pilota aeronautico, si reca a Padova, al suo comando, con l’intento di sanare la sua situazione in quanto non ha ripreso servizio nell’aeronautica repubblicana, una Kommandantur tedesca si insedia nella villa ottagonale, che con la sua struttura imponente attira l’attenzione e gli appetiti degli ufficiali della Wehrmacht: «La vecchia nonna li trattava come ospiti, con la sua grazia ottocentesca, come faceva ed avrebbe fatto con chiunque. La nostra indifesa incoscienza disarmò quei servi della guerra che risposero con comportamento amichevole e gentile. Non capii neanche che avevano paura, una gran paura, dei partigiani». Dal gruppo degli occupanti sembra staccarsi per gentilezza d’animo un tenente, che parla francese e che «mi pareva mite ed amico quando faceva giocare le bambine e disegnava angeli e trenini per loro. La sua professione, in tempo di pace, era quella di musicista […]». Ma quella faccia mite e civile copre un animo che d’improvviso ad Amalia si rivela spietato.

Un giorno, mentre eravamo in giardino, arrivò una motocicletta con degli uomini affannati e furiosi che dissero concitatamente qualcosa col loro accento martellante, al che il tenente rispose in fretta con tono d’ordine secco e sferzante e una voce che non gli riconoscevo. Gli chiesi spiegazioni (io non conosco una parola in tedesco) ed egli mi disse che in un paese della zona […] alcuni partigiani avevano ucciso dei soldati tedeschi ed egli aveva assentito all’ordine di bruciare il paese e fare uccidere gli uomini. Rimasi allibita, non seppi che protestare «c’est pas juste» e lo ripetei più volte. «Oui, c’est juste» rispondeva lui ripetutamente. A me sembrava un’orribile incredibile favola, non poteva esser vera. Quale fu quel paese e come avrei potuto io prevenire, annunciare quell’eccidio?

Agli abitanti della casa ottagonale torna ad aggiungersi infine anche Vittorio, dopo un fortunoso rientro da Padova: egli viene accolto dagli ospiti (ignari del suo rifiuto di tornare in servizio) come esponente delle forze armate della repubblica fascista. Ma di lì a poco ha inizio la ritirata tedesca e la famiglia a stento riesce a sottrarsi alle premurose offerte tanto dei tedeschi quanto dei fascisti locali che li vorrebbero portare «in salvo» al nord.

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Il fronte intanto s’approssima e la famiglia decide di rifugiarsi sulle alture di Montecasale, non lontano da un antico monastero francescano. Amalia è di nuovo incinta e per di più soffre per un’appendicite e per gli ascessi procurati dalle iniezioni, come frequentemente avveniva all’epoca; dopo un viaggio faticoso ottiene una sistemazione privilegiata: attorno a lei, rimasta sola perché Vittorio è catturato e trascinato in una colonna di deportati civili, veglia la solidarietà del contado, che si dimostra particolarmente sollecito per le sventure della «signora».

A me fu concesso di abitare una cameretta al pianterreno dell’unica villa lì esistente, Villa Monti. La mia unica possibilità di sopravvivenza nel mio stato patologico era quella di starmene sdraiata su di un lettino implorando qualche iniezione che calmasse i dolori atroci appendicolari. Rimanevo così distesa sola per giornate intere cercando di capire dai rumori cosa succedesse fuori, guardando dalla porta aperta su di un piccolo giardino la mia bambina ignara che giocava con gli altri bimbi. Per loro la realtà che vivevamo era quella di sempre, l’unico desiderio poter giocare.

E in questo quadro parzialmente pacificato, l’incursione allarmante di un orco.

Un giorno vidi apparire nel riquadro dell’unica finestrina, che si apriva sul muro alla mia destra, la grossa testa rotonda e rasata di un militare dalla faccia sanguigna e un ghigno indecifrabile, un tedesco che mi guardò con espressione seria e decisa. Ormai nel mio animo avevo superato il limite della coscienza del pericolo: tutto e nulla poteva esserlo. Un ottimismo provvidenziale mi dava la freddezza di affrontare qualunque cosa. Il militare entrò nella mia camera armato fino ai denti e subito tutta la sua attenzione fu per il mio stato di salute: «Malata? – disse – operazione? Anche io avere donna malata. Tu hai buono letto, si?» E toccava con competenza i materassi: «Tu avere da mangiare? Ora io penso a tuo mangiare».

A differenza del tenente di belle maniere, che si rivela un freddo massacratore, l’unno dall’aspetto belluino dà prova di pietà e di sollecitudine, anche se, per esplicare il compito che si è proposto, terrorizza la povera donna che stava appunto accudendo ad Amalia. E, più tardi, ancora altri contrasti di immagini e di personalità: nella loro imperscrutabile volontà annientatrice i tedeschi decidono la deportazione del piccolo gruppo di rifugiati a Montecasale. Una nuova terribile prova, per Amalia incinta e malata, appena in grado di reggersi e forzata a seguire a piedi la sorte della piccola comunità.

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Non avevo la forza neanche di dare la mano alla mia bambina, e mi raccomandavo perché altri lo facessero. E giù per le rive e i greti dei ruscelli, su per i greppi. Un ufficiale che aveva sul braccio destro un mitra, prese sull’altro la mia Pucci e con quei due carichi così diversi, l’uno cosi temibile per l’altra, si arrampicava con agilità come una capra sui punti più aspri e rocciosi, precedendoci. Ogni tanto si i fermava a guardarci dall’alto con un piede già pronto per salire e il ginocchio piegato sembrava una statua alla violenza e alla pietà insieme […].

Sarà la fortuna, aiutata dall’umanità dei villici, a preservare Amalia, la piccola Pucci e l’intera famiglia dal destino di ostaggi della Wehrmacht in ritirata.

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IX. Amori e lontananze

«La guerra non impediva che fiorissero idilli. Nacque una amorosa simpatia fra la giovane Giuliana e Claudio. Uno slavo, piovuto non so da dove, faceva la corte alla Liliana. Amori platonici, attaccamento alla vita quando la morte incombe sui giovani». Così Amalia Righelli, in un brano che accompagna la sua rievocazione del tempo sospeso prima che il fortunale sconvolga le vite di tutti.

E molti segnali ci confermano la forza di questa esigenza sentimentale insopprimibile, per quanto l’intero mondo sembri congiurare per sopprimerla; e perfino per chi è impegnato nella cospirazione c’è lo spazio per vicende sentimentali. Ce ne dà un saggio Nada Martelli in questa sorta di elzeviro, ironico e commosso capitolo della sua memoria personale.

«Ego vos coniungo...» È piccola la chiesina sul Lungarno. Al mattino, prima di infilarmi nel portone dell’ufficio mi ci fermo un po’ sono quasi sempre sola. Una candela accesa accanto al tabernacolo è la tranquilla custode del tesoro a disposizione di tutti. Le parole e i gesti della breve preghiera, sempre la stessa, li sento ogni volta nuovi, mai sterili. In questi primissimi giorni di ottobre ho bisogno di sostarvi più a lungo per mettere ordine nel tumulto improvviso di emozioni e propositi forti e urgenti. Mi sono innamorata. Luigi è intelligente e sincero, mi ha contagiato con il suo entusiasmo mi dedica bellissime liriche e vuole che la vita sia una corsa gioiosa in un giardino perennemente in fiore. Ci siamo fidanzati e per dare solennità all’avvenimento chiediamo al parroco della chiesina delle Grazie di benedirci perché «ci dobbiamo sposare». Sono con noi Franca ed altri amici del «Movimento» [il «Movimento dei giovani italiani repubblicani» di Firenze] tutte persone dall’aspetto piuttosto ieratico. Il sacerdote, molto vecchio, esile e longilineo, forse un po’ sordo chiede a Luigi «le carte» per la cerimonia. «Ma quali carte!» – e mi dispiace il tono autoritario e sbrigativo. Siamo in ginocchio davanti all’altare e dopo la recita del santo Rosario rispondiamo puntualmente alle litanie. Ora la funzione è terminata

e il vecchio prete ci benedice mentre legge in latino una preghiera che non conosco, ma sobbalzo di stupore quando sento: «Ego vos coniungo in matrimonium...». Il sacerdote scompare in sacrestia, gli amici si fanno incontro festosi e Franca, ridendo divertita, mi porge un mazzo di fiori. Lentamente percorriamo il Lungarno e il fiume è davvero d’argento in questo stupendo, luminoso pomeriggio del 7 ottobre ’43. Devo andare a casa e dire ai miei amici che mi sono fidanzata, anzi «sposata» insiste Luigi. Non voglio che lui mi accompagni perché non so come la prenderanno. Verrà domani. Ci salutiamo con grandi effusioni e il treno non mi pare più lo stesso: i compagni di viaggio persone immobili, soltanto io, fanciulla privilegiata, in cammino per sentieri allettanti e misteriosi.

Niente affatto trasognato, ma con un tocco di malinconica tenerezza, è invece il racconto di un amore in una formazione partigiana, che ci viene consegnato nella memoria di Ercolino Ercole.

Tracagnotta, con gambe muscolose, mani tozze. Venti anni: originaria della Valsusa, orfana di genitori, aveva perso un fratello in Russia. Era aggregata alla nostra brigata partigiana come staffetta. Svolgeva il suo dovere con caparbia e serietà, dava poca confidenza, era ignorata ma rispettata. Era decisamente brutta: il suo corpo, il suo viso non portavano tracce di femminilità; goffa per la sua andatura ondeggiante, tipica dei montanari avvezzi a portare pesi, per la mancanza di qualunque civetteria utile a rimediare alle ingiurie della natura. […] Anna a giorni alterni ci portava pane, scatolame, frutta. Di solito era puntuale e il suo arrivo veniva accolto festosamente. Un giorno voltandomi di scatto la sorpresi mentre stava fissandomi, arrossì e si allontanò. Sentivo di dover essere gentile con lei, con piccole attenzioni, sorrisi di solidarietà e gratitudine. I miei compagni andavano a gara nell’immaginare quale indennità avrebbero preteso per un’ora d’amore con Anna; milioni, sacchi d’oro, a nessun prezzo. Una notte, finito il turno di guardia, la incontrai forse non per caso. Era buio, mi accompagnò per un breve tratto: improvvisamente mi fermai e la baciai. Passarono giorni: una sera, libero dal servizio, la cercai al comando: era in missione ed il suo rientro non doveva tardare. […] Arrivò mentre il sole stava calando, mi riconobbe e sorrise. La presi per mano e mi diressi verso il bosco di betulle. Giacemmo vicini sull’erba, mi sussurrò: «È la prima volta» e si abbandonò fiduciosa. Mi sentii svuotato, intenerito per il dono insperato: fui dolce, premuroso. Uscendo dal bosco incontrammo una pattuglia al rientro. Ci riconobbero nonostante i goffi tentativi per nasconderci. Il giorno dopo, complice un furiere, un falso ordine del giorno con tanto di timbro e firma annunciava ai compagni il conferimento al partigiano Cico (questo il mio nome di battaglia) di medaglia al valore «per il coraggio dimostrato durante un’azione particolarmente pericolosa nel bosco di betulle». Trovai una medaglia di cartone con nastrino tricolore e la scritta «al valore» appuntata

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allo zaino. Protestai col comandante e questi mi cacciò ridendo. Per più giorni, durante le marce, una voce dal fondo della fila indiana richiamava la mia attenzione su tutte le donne brutte che incontravamo, che fossero vecchie o giovani. Rividi Anna ancora una volta: giacemmo in un fienile, al buio per tutta una notte. Il suo desiderio era di fare l’amore in una camera calda e luminosa, tra lenzuola di lino ricamate, con una camicia da notte orlata di pizzi. All’alba, al risveglio, la sorpresi mentre contemplava la mia mano: «mano da signorino» disse. L’avvicinò al volto, la tenne premuta alla guancia, la baciò, si sciolse dall’abbraccio e andò via. Passarono due settimane.

La notizia venne letta dal comandante alla truppa schierata. Arrestata durante una missione era stata fucilata sul posto.

Ma c’è un altro capitolo forse più struggente e vero nella storia dei sentimenti amorosi nella guerra, ancor più diffuso e sentito di ogni storia di innamoramento. È la parte dell’attesa, dell’attesa femminile – i maschi non ne parlano – di un ritorno reso problematico dalle sorti del conflitto.

Ogni sera e per essere più giusti ogni momento, tormentiamo la radio per avere delle notizie: Roma in mano di questo e di quello, ordini e contrordini, Milano in guerra, i Balcani il punto per me più interessante che mi fa ascoltare senza fiato quel po’ che ci dicono. Tirana resiste... ecco quello che dicono!! Là c’è la guarnigione italiana, il comando, lui… Che farà??

scrive Maria Alemanno, tormentata da un’attesa che va oltre le contingenze belliche, angosciata dal non sapere quali siano i sentimenti del suo amore:

Nessuna speranza di ricevere posta: ordine tassativo di proibizione per la corrispondenza privata, ordine del comando tedesco, niente da fare! […] Mi hanno strappato qualcosa dal cuore a viva forza, la posta era per me tutto, l’ho sempre attesa con ansia, ora più niente. Ho l’impressione di vederlo apparire da un momento all’altro. Sono qui e lo aspetto.

È un giovanile amore deluso, viceversa, non privo di una sorta di divertita autoironia quello narrato in uno dei suoi scritti autobiografici da Enrico Freyrie, ventenne studente di architettura rifugiato con la famiglia nella Brianza.

C’era la guerra, ero affamato, rischiavo, come tutti, ogni giorno, un bombardamento ma, studente del Politecnico, avevo gli occhi vicini tra di loro, come tutti quelli dei Freyrie, attenti anche alle ragazze. Si posarono per caso su Catherine, una «sfollata» a Galliano. La incontrai per la prima

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volta a messa, ne rimasi turbato. Aveva due genitori impegnati, intelligenti, con amicizie internazionali e molto affiatati tra loro. Meno affiatati con gli altri simili capitati in Brianza. Ripensando ai loro rapporti con il prossimo, mi sono chiesto le ragioni del distacco dagli altri. Si trattava, forse, di differenza di classe sociale? O altro? […] Io, nei rapporti con Catherine, facevo parte di una sottoclasse della sua e non venni mai del tutto accettato dai suoi genitori, nonostante che, diplomaticamente, non lo dessero a vedere. Almeno, allora, mi parve così.

Nella «bella casa settecentesca», «dependance della villa Rocca, il cui parco era il più importante ed esteso di Eupilio», dove si sono installati Catherine e i suoi genitori, il giovane Enrico si impegna per adeguarsi «ai gusti della famiglia».

Mi iscrissi alla stagione dei concerti del Conservatorio di Milano e della Scala. Lessi, con molta fatica, quanto potei di Bergson e Pascal e feci un corso accelerato nozionistico musicale. Il risultato, dapprima, fu lusinghiero. Venivo considerato uno di loro. Ricordo, una volta, un mio amico, che di musica ne ascoltava almeno quanto me, venne giudicato, di fronte a tutti, come quello a cui «...non piace Bach» e fu definitivamente squalificato agli occhi di Catherine.

Tuttavia, il giovane Enrico ha un problema non secondario: «Di soldi in tasca ne avevo pochi. Come succede in questi casi, cercai di far colpo curando il mio aspetto». Il risultato è originale, e si rivela anche utile, se pur non allo scopo per il quale era stato cercato.

Da un quadro del cinquecento copiai i baffi e la barba curata di un gentiluomo. Da mio padre mi feci dare la vecchia lunga mantella nera da ufficiale di artiglieria. A Milano, da un cappellaio, ordinai, su misura, un cappellaccio grigio peloso molto alto di cupola, con ali larghissime e una fascia di seta nera attorno. Non portavo la cravatta. Avevo, tutto sommato, l’aspetto di un artista «fin de siécle». Questa mia divisa doveva, più tardi, tornarmi utile. Infatti, essendo «renitente alla leva» e avendo i fascisti catturato e portato in caserma a Como i miei genitori, che non sarebbero stati rilasciati fintantoché non mi fossi presentato, dovetti consegnarmi e, allora, non trovai di meglio che farmi passare per pazzo.

E le indagini dei carabinieri confermano, sulla scorta del suo abbigliamento,

che non ero del tutto sano di mente. Ero nel periodo in cui Catherine ed i miei amici dicevano in giro, e se ne autoconvincevano, che ero molto

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originale e molto in gamba. Quello che si dice un giovane di sicuro avvenire. Studiavo con molta serietà, lavoravo in Ditta, e dopo pochi mesi decisi di fidanzarmi. Si sa, durante la guerra certe cerimonie sono quelle che sono, ma la mia fu davvero particolare. Fui invitato a cena, i miei genitori mi avrebbero raggiunto per il caffè. Attraversavo Galliano, con il mio mantello e il mio copricapo, quando una suola Vibram, male avvitata, si staccò completamente dalla punta fino al tacco. Ero in ritardo. Cercai in giro una qualunque utile cosa. Trovai uno spago, me lo legai al piede ed entrai dai miei futuri suoceri con una scarpa legata «alla barbona». Come regalo avevo trovato, dal ferramenta Nava, un oggetto che pensavo avrebbe fatto colpo su Catherine. Si trattava di un martello cromato il cui manico si svitava. Al suo interno c’erano un cacciavite, un succhiello, uno scalpello che potevano alternativamente innestarsi sul manico. Forse il regalo fu troppo originale. Forse i genitori di Catherine si aspettavano un anello, con brillanti. Forse si fece avanti qualche pretendente più gradito di me. Certo è che ci furono grandi sorrisi ma, da quel momento, la mia credibilità scemò notevolmente.

È la Liberazione a segnare la fine dell’amore, la fine non solo di una infatuazione, ma la fine di un modo di vivere:

Catherine, per sganciarmi, mi mandò a dire che aveva avuto una crisi religiosa, probabilmente si sarebbe fatta suora. Io, invece, sapevo che andava, e non da sola, in barca a vela sul lago di Como. I rapporti tra la gente, terminato il conflitto, stavano rapidamente cambiando. Si riparlava di pranzi, di giochi, di inviti, di feste da ballo. C’era in giro una gran voglia di divertirsi. Aprirono le prime «balere» o si ballava in piazza. Io ero rimasto con la mia mantella nera, quando attorno a lei roteavano ufficiali di marina con le loro fascinose divise blu con i gradi oro. Solo, mi sentii l’uomo più meschino della terra. Mi arresi all’evidenza dei fatti. Fu la prima, grande delusione della mia vita […].

Se per Enrico quell’amore adolescenziale è solo un ricordo intessuto di ironia, per altri un amore per certi versi parimenti immaturo si inserisce invece in una terribile tragedia: è la vicenda del diciottenne romano Orlando Orlandi Posti. Di lui presso l’Archivio di Pieve, si trova un diario e un pugno di lettere alla madre, scritte nel carcere di via Tasso.

Orlando è un ragazzo che si fa partigiano andando spontaneamente a combattere contro i tedeschi sull’Aniene il 10 settembre 1943; e che poi partecipa all’attività di resistenza del partito d’azione e alle manifestazioni dei giovani antifascisti, sparge chiodi a tre punte sul percorso dei tedeschi, collabora al trasporto di armi. Il 3 febbraio 1944, dopo aver salvato i compagni da un

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retata tedesca, viene arrestato dai nazisti e rinchiuso nel carcere di via Tasso. Il 24 marzo 1944 Orlando è prelevato dal carcere e fucilato alle Fosse Ardeatine.

Dell’attività politica né il diario né le lettere alla madre contengono alcun cenno: dal carcere Orlando vuole informare soprattutto sulla sua situazione e sul suo stato d’animo. Le lettere, scritte su piccoli fogli con mozziconi di matita, giungono alla madre nascosti nella biancheria da lavare. Una parte importante è costituita da pensieri e parole rivolti alla ragazza di cui era innamorato, alla quale spesso si rivolge direttamente; anche se non ci è dato di sapere con certezza se i messaggi le siano stati effettivamente recapitati.

Nelle lettere troviamo la descrizione della prigione e dei maltrattamenti subiti; i temi dominanti sono la fame intollerabile che lo tormenta, i ricordi del passato e i propositi per la vita futura: «Marcella non ne posso più!», scrive rivolgendosi esplicitamente alla ragazza:

Oggi è un mese che vivo in questa tomba conducendo un’esistenza d’inedia e un continuo torpore. Questa mattina come mi sono svegliato sono stato assalito da una forte nostalgia da cui nulla mi ha distratto né la minima razione di minestra che attendo ogni giorno con ansia febbrile, né il continuo ripetersi degli allarmi aerei che fanno pensare ad un movimento prossimo inglese […]. Ho ricordato con ogni minimo particolare ciò che ho fatto la mattina che mi arrestarono, 3 gennaio [recte: febbraio] quando mi hanno fatto attraversare la piazza Sempione con le mani in alto con la pistola puntata nei fianchi come il peggior bandito, a quando è venuta mamma piangendo disperata, a quando sei passata tu spaventata, insieme a Franca e Teresa, mi ricordo come se ti vedessi adesso, non avevi il coraggio di guardare verso la macchina dove ero stato condotto, poi ti sei fermata quasi di fronte a noi a parlare con Luca e guardasti tutta timorosa, poi vidi zia Olga ed anche lei vidi che si era un po’ spaventata, dopo qualche minuto vennero Liana e Peppina e allora ti armasti di coraggio e passaste tutte e tre vicino a noi. Quando arrivaste alla altezza della macchina tu per prima ti volgesti verso di me e vidi il tuo viso spaventato, perché Lella credevi che mi avessero picchiato, non era venuto ancora il momento.

Il momento venne più tardi, il 10 febbraio 1944, quando Orlando è picchiato durante un interrogatorio e la sola cosa che gli permette di «resistere al sanguinoso flagello inflittomi» è una frase, da lui scritta a stampatello in un biglietto nel pomeriggio precedente: LELLA . FA . CHE . IL . TUO . PENSIERO . VENGA . A .

ME . E . MI . SORREGGA . NEI . MOMENTI . PIÙ . TRISTI .

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CHE . POSSO . INCONTRARE . IN . QUESTA . TOMBA . DI .

VIVI . La frase dell’innamorato ha il tono della giaculatoria e in fondo ben riflette il carattere del sentimento d’amore di Orlando. Analoghe sono infatti alcune frasi che troviamo nel diario, risalente al gennaio 1944 (prima quindi dell’arresto): questo registro, tra il letterario e il devozionale, può forse indicare che il rapporto di Orlando con Marcella, e il dialogo contenuto nelle lettere dal carcere, fossero immaginari. «Dolce è il nome Marcella e cara è la persona che lo porta»: una frase modulata – si direbbe – sull’invocazione a una divinità. Quasi creatura angelica, nello scritto di Orlando, Marcella lo esorta a incamminarsi «sulla via buona», dopo che egli è stato traviato da «la cattiveria degli uomini corrotti dal vizio (prima i miei cattivi compagni poi Cinecittà e il resto)». Non ci sono nelle pagine di Orlando elementi per capire quale sia stata la strada di perdizione; che forse dobbiamo supporre anch’essa più concepita con la fantasia che reale, in considerazione della giovanissima età del protagonista.

Ma il destino forse non voleva che io, chi lo sa, cadessi così presto nel male e così fece pronunciare quelle sante parole dalla tua ingenua bocca e bastarono queste per salvarmi da una caduta in un abisso profondo da cui non sarei più stato capace di uscire. E sapessi quanto ti ho invocata quanto ti ho chiamata e quanto ho rimpianto la mia trascuratezza verso di te. Ma purtroppo il tuo cuore sembra che sia occupato e mi sto domandando, cosa spero io da te? Ma! Non saprei dirlo.

È, possiamo supporre, un amore a senso unico, quello per cui Orlando si strugge, nella contemplazione dell’oggetto dei suoi sogni, attorno a cui intesse anche propositi di vita operosa, indirizzati a un’ascesa sociale che gli permetta di offrire a Marcella, di famiglia più ricca che non la propria (è orfano di padre), un tenore di vita a lei più consueto.

vorrei non farti rinunciare a tutti quegli agi a cui sei abituata, vorrei anzi farti vivere se non in migliori condizioni almeno nelle identiche alle tue […]. Ma c’è il mio cuore che a sua volta cerca di allontanare di offuscare questa voce, facendomi pensare, solo Marcella può comprenderti, confida ad essa tutto quello che passa per la tua mente parlale, tu sei giovane e potresti benissimo, qualvolta ella ti volesse bene, arrivare presto ad un buon punto della tua strada e così farla vivere come tu vuoi, e sappi mi suggerisce ancora che la felicità sta nel sapere affrontare così tutti gli

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ostacoli, i sacrifici e le rinunce che la vita terrena ci presenta fondendo le vostre anime e i vostri ideali.

È probabile che questo diario sia venuto (più tardi) in possesso della ragazza, che vi ha aggiunto una sua annotazione: «Questo quaderno, dove tu hai scritto tutto quello che internamente io capivo, mi aiuterà a non dimenticarti»; e anche questa è una frase da cui si può dedurre che Marcella ignorasse l’amore di Orlando. Ma su questo tenero vagheggiare piomba la condanna a morte, di fronte alla quale Orlando, quasi si risvegliasse da un sogno, in una ultima lettera che gli è consentito di scrivere, svela a Marcella l’arcano della sua vita.

Cara Marcella quando leggerai questa che sarà l’ultimo mio contatto con te, io sarà nel mondo dove almeno troverò un po’ di pace se il buon Dio che tutto può lo permette. Dunque Marcellina mia quando la leggerai non voglio assolutamente che il tuo caro visino venga rigato dalle lacrime solo ti prego di ag[giungere] alle tue preghiere serali una piccola preghierina per l’anima mia te lo chiedo perché so che questo non ti costerà nessun sacrificio. Ora vengo a giustificare questo mio scritto, sappi Marcella che ti volevo bene, ma molto bene e da molto tempo solo ho saputo far tacere il mio cuore, perché non ero degno, secondo la mia idea, fino a che non avessi avuto aperta la via di un avvenire sicuro per poter raggiungere il mio ideale, perciò cara ora che è impossibile che possa realizzare il mio sogno ho voluto confidarti il mio segreto.

Autore di una delle memorie più delicate degli amori in tempo di guerra civile è Felice Malgaroli, non molto più anziano di Orlando ma certo ormai uomo maturo. La formazione partigiana in cui si è aggregato deve disperdersi dopo uno sfortunato scontro con i tedeschi; Felice trova rifugio presso una casa di contadini, dove vive una donna con tre figli (il marito è scomparso in Russia). Ospite nella casa, deve aiutare nel lavoro:

inizio subito e penso come avrà fatto quella donna da sola… è lì che sembra uno stecco, callosa e dura come un uomo da cui si distingue solo per i vestiti e la crocchia di capelli, lavoriamo fianco a fianco sino a notte quasi senza parlare… quando rientriamo, nella casa buia c’è un solo lume, Ada ancora indaffarata mette sul fuoco il paiolo grande; ho le bolle alle mani. […] Scendo con i due secchi lungo il sentiero buio, ed il fastidio di quella donna vecchia con tre bambini è tanto forte che mollerei i secchi per sparire. Quando rientro con l’acqua i bimbi sono già a dormire, sul tavolo c’è pane, mele cotte, formaggio, caffè d’orzo fumante

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e lei seduta ad attendere. Finalmente! è la prima scena normale che mi appare dopo quella giornata massacrante, poi lei si aggiusta la crocchia dei capelli appena ravviati con un gesto calmo e sereno. Mangiamo lentamente, in silenzio, senza guardarci. «Sai Ada, sono abituato per terra, dormirò bene stanotte sul fienile» «Perché?» Più delle parole sono i suoi occhi che interrogano, muti e lucidi, quasi di pianto. Occhi che vedono paura e sgomento nei miei, nel mio gestire impacciato di uomo ancora inesperto. Improvvisamente forse comprende e la sua voce ha un tono dolce, giovane, inaspettato. «Vieni, sono tanto brutta?» Vedo finalmente i suoi grandi occhi, morbidi e pieni di luce, li vedo per la prima volta ed occupano tutto il mondo che ho dinanzi.

Il letto è un modesto saccone di foglie di meliga, le lenzuola pulite e tutto diventa naturale. Un uomo ed una donna nel gesto più naturale dell’eternità.

Dimentichiamo tutto, guerra fame paura svaniscono, lei ride della mia inesperienza e nella lunga notte le racconto della mia vita militare prima e del Montoso poi, del mio zaino perso, delle notti a camminare, delle imboscate, dei rastrellamenti e della paura che portano appresso. Ma lei sa dare anche coraggio, speranza, parla di un progetto per me, restare lì con lei, tutto l’inverno, al sicuro nella casa calda sino in primavera quando finirà la guerra.

Ada gli racconta le sue speranze in un dialogo che crea in lui la sensazione di essere inadeguato.

«In primavera finirà, vedrai, lo dicono tutti» «Di’, Ada, quanti anni hai?» «Sembro vecchia neh? Ne avrò ventitre a dicembre». Abbraccio muto con la gola chiusa quella donna pelle ed ossa ma tanto dolce e tanto forte. Sento in lei qualcosa di grande e superiore alla mia comprensione, non sono capace di darle nulla, nemmeno una dolce bugia per qualche giorno.

E il sogno di Ada non si avvera: Felice, per fedeltà ai compagni, decide di allontanarsi per tornare alla brigata partigiana. La donna resterà sola, senza che Felice abbia nemmeno il coraggio di congedarsi da lei.

«Ho fatto un pane speciale con dentro pezzetti di mela». Tutto è festa quella sera dice: «Sai? Adesso che ho tempo, avremo pane fresco più sovente vedrai come staremo bene qui poi con la neve non arriva più nessuno, starai al sicuro». Le rammento che non ho spostato la lesa del camino affinché entri fumo nel sottotetto a conservare le castagne. Quando scendo dalla scala a pioli, la riporto nel portico, poi non entro in casa, ma mi incammino verso Barge, raggiungerò il distaccamento Balestrieri, in zona Gabbiela e domani sarò al Dardo su alla Madonna della neve.

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Di Ada porto in tasca un pezzo di pane alle mele ed un ricordo caldo di pace, pulizia e dolcezza senza limiti.

Malgaroli riprende la strada della montagna, la strada dei pericoli mortali della guerra partigiana e le sue vicende si segnalano, pur dopo questo intermezzo sentimentale, perché segnate da sofferenze sempre più grandi.

È difficile, anzi pare impossibile coltivare sentimenti d’amore nel corso di quegli anni tremendi, come aveva ricordato Nicolette: «Perché a noi non era concesso sorridere, amare, gioire? Ce lo chiedevamo spesso ma c’era la guerra. Ed anche se nei nostri cuori palpitava la speranza di un’era migliore, la realtà era quella. C’era ancora la guerra con la sua tragica tristezza».

Una condizione accomuna la gran parte delle testimonianze femminili: l’assenza dei maschi della famiglia richiamati in guerra.

I miei fratelli erano via da tre mesi – scrive Margherita Ianelli –, avevano scritto diverse volte, mi chiedevano anche come avevo risolto il problema della miseria. Dicevano che se fossero ritornati, sarebbero stati diversi, che avrebbero lavorato perché in guerra si stava peggio che a casa a patir la fame. Gli rispondevo che tutto andava per il meglio e che fossero stati tranquilli. Ma con l’entrata in guerra dell’Italia la vita militare si fece più dura; un mio fratello fu mandato in Grecia, l’altro ai confini con l’Yugoslavia, uno era nel corpo dei bersaglieri e l’altro in quello degli artiglieri. Ma le loro lamentele, come quelle degli altri militari, per poco tempo giunsero alle loro famiglie, perché venne istituito un sistema chiamato: «Posta militare». Era un sistema che la posta dei militari veniva tutta controllata e quelle frasi che non erano aderenti al regime venivano cancellate. Insomma tutti i militari dovevano scrivere che a far la guerra si stava bene. Ma presto si abituarono a scriverlo, altrimenti la posta giungeva alle famiglie illeggibile.

Non è solo la lontananza, quindi; soprattutto con il passare del tempo l’assenza di notizie diventa il problema più grave, la maggior fonte di sofferenza. Ad alcune madri, quelle almeno cui sono affidati bimbi già in età tale da poter ricordare il padre lontano, questi figli danno consolazione, ma aggiungono anche angoscia.

L’altra notte c’è stata un’incursione vicina – scrive Michelina Michelini –, erano le otto di sera, siam dovuti uscire con i bengala che illuminavano a giorno, distesi all’ombra dell’ulivo che sembrava ci dovesse riparare, ci si disponeva sempre nella zona di ombra che la chioma della pianta riusciva

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a creare, fino a che il cielo fu interamente illuminato e nessuna ombra si poteva più formare. Maria dormiva placidamente, Tettina poppava calma, calma, Mino l’unico in grado di capire bene, era terrorizzato stretto a Ciccillo tremava come una foglia. Gigino, siamo stati due ore circa, sotto il rombare disordinato degli aerei, sotto la luce viva dei bengala che via via si accendevano mentre gli scoppi delle bombe che cadevano vicino ci terrorizzavano. Quella sera, per la prima volta ho pensato che tu potresti tornare e non trovare più noi, o qualcuno di noi ad attenderti. Quando finirà questa situazione? Il lunedì e il venerdì alla radio ascolto i nomi di quelli che mandano i saluti tramite croce rossa o Vaticano, ma purtroppo nessuna notizia, dove sarai? Che ti sarà successo?

Michelina intreccia a questo punto, nel suo diario, un dialogo a distanza con il marito, surrogato di quello scambio epistolare che le è negato:

non sai più niente dei bambini, proverò a raccontarti la trasformazione di tuoi figlioli in questi cinque mesi di lontananza. Il nostro maschietto è tanto cresciuto, non è ingrassato, anzi è assottigliato, ma a me sembra molto più cambiato nel morale che nel fisico. Rare volte in questi ultimi tempi parla spontaneamente di te, guarda spessissimo il tuo ritratto e si mette allora a raccontare i fatti... «tuoi» dice lui, di quando lo portavi fuori, di quando giocavi con lui, sospira ed è allora che mi accorgo che gli manchi veramente tanto, come né io, né tu si può immaginare. Una notte ti ha sognato, mi ha svegliato subito e me lo ha detto tutto trionfante e felice. L’altro giorno mi ha detto sorridendo: «Se si vede papà arrivare dalla strada di Bagno a Ripoli che va a Firenze, noi si corre a Firenze e si porta a Bagno a Ripoli». Il suo terrore è che tu possa arrivare in Via Marconi e, non trovandoci, tu ci possa perdere. Eppure glielo ho detto in tutti i modi che sul portone c’è il biglietto con l’indirizzo! Ormai non si fa più leggere le tue ultime lettere, le sa a mente. Una volta che al solito insisteva perché le rileggessi, mi venne da piangere, andò su tutte le furie e gridando: «Se fai così non mi fai capire nulla»! […] 23 dicembre ormai Tettina chiama Mamma! e ieri sera siamo riusciti, con la tua foto grande in mano, a fargli dire Papà. Puoi immaginare la gioia di Mino e Maria, saltavano come pazzi per la contentezza! Pensa che in questi giorni sui giornali riportano sempre che i bambini italiani in Sicilia, vengono strappati alle loro mamme e portati in Russia. Dicono che prendono i bimbi dai 4 a 16 anni! Ma che bestialità possono esistere? Cosa possono arrivare a dire? Io però, anche se non voglio, non credo, io ci penso e non so quello che arriverei a fare se si presentasse una situazione simile. 25 dicembre… il primo Natale lontani da te, è stata una cosa tristissima, ho pianto in Chiesa di Baroncelli, eravamo in tanti a piangere, è così naturale di questi giorni, in questi tempi! Ho pianto a tavola durante il parchissimo pranzo, poi mi sono fatta forza quando ho visto Mino pensoso. «A che pensi»?

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gli ho chiesto. «A Papà» ed io «Ma cosa pensi?» «Se lo avessi vicino lo abbraccerei forte, forte!».

E uno scambio epistolare virtuale intreccia anche Maria Alemanno, che alla sofferenza della lontananza aggiunge il tormento per l’incertezza d’essere amata.

Ora ti parlo come se tu dovessi leggere tra poco queste parole e mi sento nel cuore una dolce speranza a parlarti così, un giorno se non ci sarò più, quando troverai questo quaderno, leggerai queste pagine scritte malamente così come vengono ma vere e spontanee come escono dal cuore e forse capirai interamente cosa sei stato per me! Quando leggerai penserai a questi miei giorni che siamo stati più di sempre lontani, divisi da tutto. Chissà se sai che in questo momento si combatte a Sud di Firenze, che la guerra è qui e ne sentiamo già il fragore. Lo sai quello che accade da noi? Io di te so che hanno deciso di far lavorare gli internati in Germania, anche tu come gli altri? Come vorrei saperlo! E so, un tenue filo che mi tiene attaccata alla speranza, che forse tutto questo flagello può finire tra poco! E tu che sai? Forse qualcosa e tante cose le immaginerai anche più crude di quelle che sono. Qua non ci sono cose terrificanti, Firenze è città aperta, forse verrà rispettata e benché sembri una città morta non c’è niente che faccia paura, per ora. Il rombo delle mine, quello sì, tutto salta in aria ma non in città. La contraerea picchia e gli aerei si abbassano a mitragliare vicini ma sempre nelle periferie. Ma da lontano sentir parlare di Firenze come zona di guerra deve fare impressione.

La descrizione di Firenze è forse troppo ottimista, a petto di quanto stava avvenendo e di quanto si andava preparando; ma Maria ha ben altro nel cuore e nel suo immaginario colloquio a distanza finalmente riesce a sciogliere ogni riserbo e a esporre i propri segreti timori, le aspirazioni, le delusioni cocenti – in quel tempo, in quella società – di un amore fuori dalle regole.

Ho nel cuore le parole carissime di tua madre, ora che sono in pericolo teme per me, mi considera come una figlia e crede di poter, al tuo ritorno, potermi avere davvero come una figlia. […] So che non mi vuoi sposare e so che tutto sarà pianto per me. Come subire di fronte ai tuoi, a tua madre specialmente, la grande umiliazione di essere creduta solo la tua amica!! Ma dovrai capire da solo perché io non te ne parlerò mai di queste mie sofferenze. Se tu avessi capito prima di tanto sfacelo, oggi non sarei costretta a lavorare come una disperata per guadagnare poco e male, vivrei con i tuoi, lavorerei lo stesso ma in un altro modo. Sono dei rimproveri che ti faccio, te li meriti, ma non per questo ti voglio meno bene, solo che ho sempre sofferto tante umiliazioni e la mia gioia, anche

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nelle tue brevi licenze, è sempre stata piena di questo veleno: camere di albergo, camerieri che ti guardano come una di quelle e che dicono «è sempre la stessa?» come accadde nell’ultima licenza e tu non hai mai capito. Di questi ho nel cuore il rancore e rimarrà se tu non vorrai capire.

Non ci sono frontiere politiche o ideologiche, distinzioni tra fascisti o antifascisti: tutti – o meglio tutte – sono coinvolte in tragedie che nascono dalle separazioni forzate, incrudelite dal sangue e dalle uccisioni.

Elvezia Marcucci, moglie di un segretario del Partito fascista repubblicano, vive a Grosseto «in Via Roma, e nella casa c’era un appartamento per ciascuno di noi figli e quello di mia madre. Noi eravamo al secondo piano. Era arredato bene, con finestre grandi ben esposte, allora, al sole primaverile». La storia che lei racconta prende le mosse da un avvenimento che sorprende la popolazione, ma che probabilmente non era affatto imprevedibile:

Eravamo nel giorno di Pasqua quando per la prima volta gli apparecchi americani, vennero a bombardare Grosseto dove c’era l’aeroporto militare, allora credo che ci fossero i tedeschi che l’occupavano. I grossetani erano fuori a festeggiare la Pasqua, i bambini nelle giostre di Portavecchia e furono bombardati, ci furono ovunque tanti morti. Noi tutti a casa, giù nell’atrio perché ci pareva meno pericoloso, dato che non c’erano rifugi e stare giù a pianterreno. In quel giorno, dopo che gli aerei se ne andarono, quasi tutta la popolazione rimasta, si allontanò da Grosseto, rifugiandosi nei paesi vicino della provincia.

Come tanti altri concittadini, la famiglia di Elvezia cerca un più sicuro asilo.

Ricordo Silio [il marito] ci portò a Montemassi mentre le nostre famiglie andarono in altri paesi dove avevano parenti e conoscienti. A Grosseto rimasero quelli che per ragioni personali furono costretti a rimanerci. Silio poté usufruire del Castello di Montemassi, per me ed i bambini, mentre lui andò a Monteverde dove c’era la Federazione Fascista Repubblicana. Combattevano allora contro i partigiani, per quanto sapessi poco di quello che lui faceva al di fuori di casa nostra. Da qualcuno seppi più tardi, che Silio era segretario del Fascio di Grosseto, Triunviro Federale e poi Presidente delI’E.P.F.A. ed aveva una squadra «Ettore Muti», ed era Silio che comandava tutte le spedizioni rischiose contro i Partigiani, tutte cose che io non ci capivo niente, istintivamente certamente non approvavo. Ma lui faceva sempre quello che lui voleva fare.

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Non appartiene a lei, insomma, il controllo della situazione e lei inconsapevole è destinata a esserne vittima.

Eravamo sempre a Montemassi, dicevo, i due figli ed io, quando mi giunse una lettera da un partigiano, dicendo che alcuni di loro cospiravano di portarmeli via. Chi sarà stato quel partigiano per avvertirmi di una cosa simile?! Ero disperata ed avevo paura di dirlo a Silio, ma non avevo altro modo, solo lui poteva aiutarmi! Aspettai che venisse a Montemassi e fu il giorno dopo aver ricevuto quella terrificante lettera. Insieme pensammo il modo per mettere i nostri figli in un posto lontano da questo pericolo, tenendolo segreto anche dalle nostre famiglie. Avevamo due persone, moglie e marito, che ci avrebbero aiutato, essendo nostri amici da anni. Loro avevano molte tenute, anche fuori dalla nostra provincia, pensammo a loro almeno per Mirella. Furono felici di poterlo fare e segretamente, una sera vennero a prenderla per portarla con loro, in una tenuta a tutti poco conosciuta. Così nostra figlia sarebbe stata con loro fuori da ogni pericolo. Per Enrico ci fu un altra possibilità di salvezza, Silio doveva andare a Milano per affari del suo partito. Mia suocera aveva a Como suo fratello con la moglie, allora pensammo a queste due persone anziane, ma ancora sani e pieni di spirito, che avrebbero compreso questa nostra. Non volevamo dire nulla a nessuno Silio stesso ci avrebbe portato Enrico da loro, e se non l’avessero voluto, lo avrebbe riportato con sé a casa, provando altrove. Ripartì per Monteverde per prendere i documenti occorrenti per il suo lavoro a Milano senza dire a nessuno della lettera del partigiano naturalmente e le nostre conseguenze. Ritornò a Montemassi con la sua macchina che aveva lasciato lontano dal Castello, per non dare ogni sospetto alla gente del paese, lui si avviò prima ed io con Enrico lo raggiungemmo a piedi, ed io, per la centesima volta gli ripetevo «Mi raccomando Silio, se quei parenti di Como, non accettassero volentieri Enrico, riportalo indietro, mi raccomando». Finalmente mi rispose «Stai tranquilla, è anche figlio mio!» e partirono. Tornai a casa e mai m’ero sentita così sola, come allora, e sgomenta come allora. Lo sforzo che facevo quando qualche nostro conoscente venivano a trovarmi dovevo nascondere la mia tristezza dicendo che mi sentivo male di salute ed avevo mandato i miei figli dalle nonne. Naturalmente in quel periodo, non c’erano mezzi di comunicazione dato i tempi di guerra fra fascisti e partigiani. Dovevo aspettare il ritorno di Silio, da lui avrei saputo se Enrico fosse ritornato indietro da me a Montemassi, o rimasto a Como dai parenti di nonna Pia. Se fosse ritornato indietro con suo padre, allora dovevamo mandarlo in qualche altro posto in salvo, come aveva consigliato quel partigiano nella sua lettera.

L’angoscia di Elvezia, la sua impotenza, che il marito sottolinea con quel «stai tranquilla, è anche figlio mio!» sono ora solo un timido assaggio dei terrori che di lì a poco arrivano ad assediarla.

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Non ricordo chi fossero, quei due signori che vennero da Monterosa, per darmi quella terrificante notizia che era stata trovata vicino alla Federazione la macchina di Silio, bruciata, con il cadavere di Silio carbonizzato! Mi dissero che lui era solo nella macchina e doveva essere lui stesso a guidarla. «Era solo? Siete sicuro che era solo?» domandai fra le lacrime, mi risposero. «Si, era solo, povero Silio!» Stettero con me a lungo, cercando di calmare il mio dolore per la morte di Silio, e loro non sapevano, il dubbio che Enrico fosse ritornato con suo padre, mi faceva impazzire. Poi mi pregarono di farmi forza, per andare con loro a Monteverde, dove si sarebbe svolto parte il funerale di Silio, aveva solo trentaquattro anni!

I signori continuavano a parlarmi dicendomi che avrebbero pensato loro ad avvertire la famiglia Monti, e continuare il trasporto fino al cimitero di Grosseto dove aveva preso il «forno» al Cimitero di Sterpeto. Quando questi due signori mi parlavano io approvavo senza esattamente sentire quello che dicevano. Non sapevano che oltre il dolore per l’atroce morte di Silio, avevo il penoso pensiero domandando a me stessa cosa fosse accaduto al mio bambino. Non volevo dire a nessuno che Silio lo aveva portato con sé. Sono tutt’ora confusa ricordare tutto quanto avveniva in quel periodo cosi drammatico per me.

Il primo atto, il primo avvio per lo scioglimento del dramma, è il ritorno della figlia alla fine del conflitto: «Mirella fu riportata da me da quegli amici che l’avevano ospitata dato che con la morte di suo padre il pericolo del rapimento era passato» Si direbbe che in quel rapporto tra i coniugi tanto squilibrato a favore dell’autorità maschile – ma anche tanto normale per l’epoca – il sentimento amoroso della donna per il marito sia molto flebile; anche se certamente dobbiamo fermarci sulla soglia di questi sentimenti, forse non dichiarati per pudore; e possiamo solo constatare che il modello di madre le impone prima di tutto i doveri verso i figli.

Non sapevo ancora nulla di Enrico, ma lo pensavo ancora a Como, dato che non c’erano tracce che lui fosse tornato indietro con suo padre. Io cercavo disperatamente di andare a Como, ma non riuscivo a trovare il mezzo per andarci quando venne a trovarmi a Grosseto, dopo il funerale di Silio, un uomo da Roccastrada che non conoscevo, ma lui mi disse d’essere amico della nostra famiglia e si offrì di portarmici in motocicletta. Accettai subito per la paura che cambiasse idea, dato i pericoli che potevamo trovare in un viaggio simile con le strade rovinate dei bombardamenti, ormai passati perché la seconda guerra mondiale era finita. Indossai una sottana grande ed abbastanza lunga coprendomi come meglio potevo, a quei tempi le donne non indossavano i pantaloni e salii in quella moto, sognando di rivedere presto il mio bambino appena dodicenne. Partimmo

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la mattina presto, e dopo qualche chilometro in quelle strade malconce la motocicletta si fermò, davanti a noi c’era un grosso cartello. «Vietato il passaggio». Questo uomo mi disse: «Non si può andare avanti, mi dispiace, ma bisogna tornare indietro» ed aggiunse: «Non pianga, vedrà che suo figlio troverà qualcuno che lo riporterà a Grosseto da lei, ci saranno altre strade libere da Como, per ritornare qua». Arrivammo a casa mia e lui voleva andarsene ma io mi sentii il dovere di farlo entrare per offrirgli almeno una tazza di caffè, ed ebbi così il modo di osservarlo. Era un uomo distinto e si presentò sorridendo dicendomi. «Io mi chiamo Ettore Marcucci e sono un lontano parente dei Marcucci che vivono a Roccastrada, da loro ho saputo di lei». «Anche io sono una Marcucci, ed ho sentito parlare dal mio povero babbo, quando ero più giovane, di questi parenti di Roccastrada. Allora anche noi due siamo parenti!» Ci promettemmo di rivedersi, di fare conoscenza con sua moglie ed i suoi due figli. Ringraziandolo ancora per il suo generoso gesto d’aiuto, lo abbracciai affettuosamente.

La fine della guerra è quindi un incidente di ben poco conto in tutta la vicenda, anche se la conclusione delle sventure era strettamente legata ad essa. E infatti,

Il giorno appresso mi sentii più tranquilla e fiduciosa che il mio Enrico tornasse presto, e così fu. Me lo riportò un amico del suo povero babbo. Enrico stava bene di salute. Aveva già saputo della atroce morte di suo padre mi chiese di andare al cimitero per portargli i fiori.

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X. Deportati: gli Internati Militari Italiani

Deportate e deportati per ragioni politiche (antifascisti, partigiani, operai coinvolti negli scioperi) o per ragioni di razza o religiose (ebrei, sinti, seguaci di Jeovah) o militari del regio esercito catturati dopo l’8 settembre, oppure ancora uomini rastrellati a caso nel corso delle retate appositamente organizzate dalla Wehrmacht e dalle SS – in ogni caso e sempre con la fattiva collaborazione dei corpi armati della RSI – diverse categorie di vittime e di avversari del fascismo che vanno nei campi di concentramento e di internamento, per costituire forza lavoro a disposizione delle industrie tedesche, dell’agricoltura, di ogni ente economico che pensi di poterne fare un uso produttivo. Ventitremila furono i deportati italiani di entrambi i sessi per ragioni politiche: partecipazione ai partiti antifascisti, appartenenza a banda partigiana, scioperanti o comunque sospetti e invisi alle autorità fasciste. Gli ebrei italiani deportati assommarono a circa diecimila: i numeri, in entrambi i casi, sono probabilmente in difetto rispetto alla realtà.

I campi di sterminio propriamente detti (quelli della Polonia) nel settembre 1943 erano già stati chiusi. Funzionava ancora solo Birkenau, una sezione di Auschwitz che protrasse la sua attività di morte fino alla liberazione da parte delle truppe sovietiche, nel gennaio 1945. Ma la chiusura dei campi di sterminio si era accompagnata alla decisione di utilizzare, come metodo di annientamento, lo sfruttamento attraverso il lavoro; e comportava anche che la morte immediata attendesse all’arrivo i soggetti inabili, i vecchi, i bambini e le madri. Dal 16 marzo 1942 a capo dell’ufficio delle SS per le questioni economiche e amministrative, il generale SS Oswald Pohl il 30 aprile dello stesso anno diramava una circolare a tutti i comandanti dei campi in cui fissava le regole per l’impiego dei deportati e codificava la prassi dell’«annientamento mediante il lavoro». L’eliminazione immediata degli inabili, attuata

all’arrivo nei lager, rispondeva al criterio di mantenere in vita solo quanti potessero essere utilizzati come «lavoratori schiavi». Minime erano comunque per questi ultimi le possibilità di sopravvivere in un regime lavorativo severo, durissimo, costellato di punizioni arbitrarie e spietate, con risorse alimentari ridottissime, esposti a un clima rigido e senza possibilità di proteggersi. Sono circa centomila infine gli italiani che tra il 1938 e il 1945 arrivano in Germania come lavoratori; tra i quali sono conteggiati sia quanti erano stati reclutati in base ad accordi bilaterali italo tedeschi del 1937, sia quanto dopo l’8 settembre avevano accettato volontariamente le proposte di ingaggio propagandate dagli uffici aperti nell’Italia occupata dal Plenipotenziario generale germanico del Lavoro in Italia, Ernst Friedrich Christoph «Fritz» Sauckel, sia coloro che furono reclutati a forza. I primi avevano risposto all’invito, diffuso dalla stampa fascista repubblicana, ad andare in Germania, dietro la promessa che i tedeschi avrebbero assicurato a tutti lavoro e trattamento equi e dignitosi. A Mussolini stesso una lunga dichiarazione di Sauckel assicurava il 20 aprile 1944: «La collaborazione delle due nazioni sul piano del lavoro, oltre che su quello delle armi, costituisce la premessa indiscutibile del successo: e in Germania le maestranze italiane troveranno quell’equo trattamento che rispetta la personalità e garantisce un tenore di vita dignitoso ed equilibrato». Le promesse si rivelarono ben lontane dalla realtà.

In quanto ai deportati, essi furono tenuti nei campi di lavoro, messi a disposizione di varie imprese, in condizioni ben diverse da quelle magnificate nelle parole dei rappresentanti tedeschi in Italia. La loro distruzione fisica fu la meccanica conseguenza del regime schiavistico imposto a tutti i deportati nel Grande Reich.

Ai deportati si aggiunge infine gran parte dei seicentomila militari catturati dopo l’8 settembre in Italia, nei Balcani, in Grecia: obbligati al lavoro i soldati, blanditi e minacciati in ogni modo gli ufficiali perché scegliessero di tornare a combattere con la nuova Repubblica o almeno affiancassero lo sforzo produttivo del Reich (e negli ultimi mesi furono costretti al lavoro con la forza, in spregio a ogni trattato internazionale), sottoposti tuttavia gli uni e gli altri allo spietato regime dei lager. Nella loro grande maggioranza ufficiali e soldati tennero duro e si rifiutarono di collaborare in qualsiasi modo allo sforzo bellico del Reich.

Questa è una parte dell’Italia in guerra: le esperienze in terra tedesca non possono essere ignorate come eredità del conflitto.

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Diari e memorie sono per lo più ricostruiti dagli internati stessi spesso grazie agli appunti che durante la prigionia avevano redatto non senza gravi rischi perché, se scoperti, sarebbero incorsi nella pena capitale. Non posso usare tutte le fonti di questo tipo che l’Archivio offre (e forse neppure posso compiere una scelta ponderata e significativa) perché il materiale è vastissimo e articolato nei modi più vari. Nella mia scelta c’è un tasso di arbitrarietà e di casualità superiore a quello di altre parti, ma credo siano memorie e testimonianze utili da proporre perché segnalano temi e problemi che ebbero non scarso rilievo nel modellare la percezione e il ricordo della guerra.

Nello scenario di morte dei lager nella Polonia e nella Germania orientale i militari italiani sono abbandonati a se stessi. La propaganda fascista in Italia tende fin dall’inizio a presentarli alle stessa stregua dei lavoratori recatisi in Germania volontariamente:

«Per ordine del Führer, il delegato generale per la manodopera, Gauleiter Sauckel, ha preso sotto speciale protezione le centinaia di migliaia di soldati italiani sicuro di un loro rendimento soddisfacente e ha dato disposizioni ai Comandi militari germanici agli uffici civili e alle fabbriche germaniche, di accogliere questi soldati con la massima benevola considerazione», assicurando loro «retribuzioni favorevoli e una abbondante alimentazione», scriveva un giornale fascista del Piemonte nel dicembre 1943. Nei mesi successivi la propaganda non mutò sostanzialmente registro ma anzi accentuò il trionfalismo e l’entusiasmo per la generosa ospitalità germanica. Ai parenti e agli amici che ansiosamente cercavano loro notizie, le autorità della Repubblica Sociale non solo rispondevano che gli internati erano trattati bene, ma addirittura adombravano l’idea che fossero dei privilegiati perché godevano dei piaceri di una sorta di vacanza invernale.

Nella realtà di quella deportazione invece, per sfuggire alla fame e al freddo dei mostruosi lager, occorreva accettare di piegarsi alla repubblica di Mussolini; e anche quando gli internati furono dichiarati «lavoratori liberi» nell’agosto 1944 (ci fu a Berlino addirittura un cerimonia simbolica con l’abbattimento delle porte di un campo) lo sfruttamento lavorativo, per i soldati e per gli ufficiali – sia per quelli che lo accettarono, sia per quelli che vi furono obbligati sotto minaccia – fu integrale e di fatto segnò l’assimilazione degli internati con i deportati. Per di più gli Internati Militari furono il primo oggetto su cui si scatenò l’ira e il disprezzo, il rancore e l’odio della Wehrmacht verso l’alleata

infedele, già da tempo del resto sospetta. L’addetto militare e capo missione militare della RSI in Germania, generale Umberto Morera, denunciava (probabilmente nell’autunno 1944) che la situazione degli stessi italiani che si erano piegati a entrare nella Wehrmacht o nelle SS era tragica.

Considerati ingiustamente dei traditori, e come tali trattati, mentre non sono stati che dei traditi, il loro arruolamento nelle FFAA germaniche fu dovuto assai spesso più che a cosciente convinzione a necessità momentanee di risolvere comunque la propria insostenibile posizione di sbandati; di trovare comunque un inquadramento che consentisse loro di raggiungere al più presto la Patria, di riprendere servizio nei ranghi dell’esercito repubblicano. [...] Sono stati frequentemente oggetto di gravi maltrattamenti e di continuo esasperante vilipendio, soprattutto da parte di sottufficiali e di uomini della bassa forza cui rimasero affidati, senza alcuna possibilità di reazione e di difesa. Fenomeno spesso acutizzato quando alla incomprensione si sono aggiunti la prevenzione, l’astio, l’odio fomentatore di inconsulto spirito vendicativo di sottufficiali e di uomini di bassa forza, e talora anche di ufficiali, per tradizione animati da ingiustificati sensi di risentimento e di insanabile disprezzo verso l’elemento italiano.

Se questa fu la condotta tedesca verso coloro che avevano accettato di tenere fede all’alleanza, facilmente s’intende quanto più spietato sia stato il comportamento dei tedeschi verso coloro che vi si rifiutarono.

Gli internati erano i militari rastrellati e catturati dopo l’8 settembre: tanto i coraggiosi superstiti degli episodi di resistenza, quanto gli inconsapevoli fanti di tutte le guerre, incolpevoli strumenti delle strategie dei capi. Ci fu un certo numero (nettamente minoritario) di reparti di Camicie Nere che, soprattutto nei Balcani, scelsero di battersi a fianco dei tedeschi. Gli altri furono avviati in Germania in condizioni di trasporto che si rivelarono bestiali. Nel giro di meno di tre settimane si ritrovarono, anziché in Italia, come era stato promesso al momento della resa, nei lager della Polonia e della Germania, trasformati in «Internati Militari Italiani», in base a un preciso ordine di Hitler (20 settembre 1943).La denominazione fu escogitata dopo la liberazione di Mussolini e dopo la nascita della Repubblica sociale. La nuova condizione pose i militari nella condizione di non potere ricevere aiuto né dalla Croce Rossa né da nessuna organizzazione umanitaria. La sola via d’uscita sembrava quella di sottoscrivere un «impegno solenne» – non è formulato come

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un giuramento in nessuna delle versioni che conosciamo – che li vincolava a battersi per i destini indissolubili della Germania nazista e dell’Italia fascista repubblicana. Se firmavano quell’impegno, li attendevano o l’aggregazione a reparti tedeschi o i campi di addestramento per le truppe RSI in Germania. Quegli stessi campi furono destinati nei mesi successivi ad accogliere anche i volontari e i coscritti provenienti dell’Italia che formarono le quattro divisioni del nuovo esercito mussoliniano, inviate in Italia a partire dall’agosto 1944. Bisogna anche aggiungere che dai diari e dalle memorie si evince che lo schema normativo delineato più sopra e gli stessi tempi della sua applicazione furono violati dai tedeschi o comunque ricevettero applicazioni molto varie, per lo più riduttive e punitive per gli internati stessi. I tedeschi li consideravano soprattutto una riserva di forza lavoro – come pur sapevano benissimo i capi della Repubblica; e per sovrappiù erano animati da una spietata volontà di vendetta, indirizzata non solo alle «Badoglio-truppen»; ma all’intero popolo italiano. L’intero popolo italiano doveva apprendere dai nuovi dominatori, nel modo più duro e più rude, quale fosse il suo dovere. Per questo i sottoufficiali e gli uomini di truppa, assoggettati al lavoro coatto (da cui gli ufficiali per qualche tempo furono esentati, limitandosi la punizione alla fame e al freddo), dovevano conformarsi al modello tedesco di comportamento, come ha scritto una studiosa tedesca, Gabriele Hammermann: obbedienti, rispettosi precisi (alla stessa stregua – disciplina rigidissima e vitto scarso e inadeguato – vennero trattati i soldati, volontari o coscritti, dei campi di Münsingen e di Grafenwohr, i futuri soldati delle divisioni San Marco, Littorio, Italia, Monte Rosa. I soldati in addestramento lo percepirono con chiarezza e denunciarono le umiliazioni di cui erano vittime. Ma lo sapevano bene anche i rappresentanti diplomatici dell’Italia fascista e repubblicana). Non molte all’interno dei lager sono dunque le possibilità di scelta per gli Internati Militari: il ricatto imposto dai carcerieri richiede, per essere respinto, un impegno profondo e una partecipazione etica alle ragioni del rifiuto di collaborare. La fame, il freddo, l’isolamento pressoché assoluto dall’Italia, dalle famiglie, da ogni notizia certa sugli eventi che si susseguivano in patria costituiscono mezzi formidabili di pressione cui è difficile resistere.

Per buona parte degli uomini la scelta di negarsi all’alleato è immediata e spontanea; ma il tempo e le sofferenze incentivano i ripensamenti. Dei dubbi e delle incertezze degli ufficiali ci

offre una realistica testimonianza Giorgio Crainz, autore di un amaro Diario di prigionia. È un ventottenne sottotenente del 65° Rgt. di fanteria «Valtellina»; dall’Africa settentrionale, dove il reggimento combatte fino al 1943, torna in Italia – da quel che s’intende a causa di una ferita – prima che la sconfitta in Africa porti a sciogliere il reggimento. Guarito e tornato in servizio, si trova a Milano nei giorni successivi all’armistizio, agli ordini del generale Ruggero, comandante della piazza; quest’ultimo gli dice di essere «costretto ad accettare le condizioni imposte dall’Oberleut tedesco e mi consiglia di dire agli uomini di non tentare la fuga». Solo il 24 settembre, durante la deportazione, un colonnello «della difesa di Milano» lo informa che lui e i suoi commilitoni nella notte tra l’11 e il 12 sono stati «in certo qual modo traditi dal Gen. Ruggero». La notizia non sembra suscitare né meraviglia né una ulteriore indignazione.

Le condizioni della sua vita nel corso della deportazione sono comuni a tutti gli ufficiali: prendono l’avvio con un lungo viaggio in treno, angoscioso per l’assoluta ignoranza della destinazione, su vagoni sempre più disagiati, con il tormento crescente del freddo e della fame.

Di questo viaggio ci ha lasciato un vivo racconto anche il pavese Luigi (Gino) Gobetti: ne Il bivio – così si intitola il suo diario – il diciannovenne militare di leva rievoca «il ricordo dell’obbrobrio del quindici settembre millenovecentoquarantatre», quando i tedeschi spogliano i militari italiani di tutti i loro averi, nella città greca di Larissa. Pronti a battersi, i fanti sono disarmati da un ordine del Comando di Divisione. Caricati, trenta alla volta, su vagoni merci lasciano la Grecia «contenti di non rivederla più», illusi di essere diretti in Italia. Nel viaggio altre illusioni li accompagnano: dovunque il treno passi i «villici» li salutano con grande «effusione di saluti»; è il segno, dice Gobetti, di quanto l’italiano sappia sempre suscitare «simpatia profonda e radicata». Ai nostri occhi è l’auto-rappresentazione dell’«italiano brava gente» su cui prospererà nel dopoguerra l’autoassoluzione nazionale.

Ma pur tra quelle disarmanti illusioni si inserisce una nota d’ansia progressivamente più angosciante: dove va il treno? Gli uomini – tutti i militari catturati – non hanno elementi certi cui appigliarsi, ci sono solo le vaghe rassicuranti affermazioni dei tedeschi. Tentano di capire quale sia la direzione presa in base a elementi approssimativi. E dopo Belgrado comincia «la dolorosa

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storia del bivio. Man mano che si procedeva sulla strada ferrata consultavamo la carta geografica De Agostini gelosamente sottratta agli occhi tedeschi pensando a quello che avrebbe potuto servire. Rilevammo che a pochi chilometri dal punto dove ci trovavamo c’era un bivio, il primo del nostro viaggio, primo di una lunga serie». Se a quel bivio il treno avesse girato a sinistra, verso occidente, ciò avrebbe significato prendere la strada verso l’Italia; ma: «Il bivio è raggiunto e noi si gira a destra: la destra, la nostra ossessione per i rimanenti giorni del viaggio. Tutti i bivii incontrati portavano a casa se si girava a sinistra. Ed abbiamo sempre girato a destra, purtroppo». Dalla Croazia il treno si dirige in Ungheria, entra «nella vecchia Ungheria, nell’Ungheria agricola e pittoresca dalle vaste campagne e dalla putza sulla quale galoppano i migliori puro-sangue d’Europa». Queste notazioni accompagnano una dopo l’altra le delusioni: il bivio diventa il simbolo di una vicenda ingovernabile nel corso della quale non ha alcun peso la volontà dei deportati.

Man mano che si avanza il grigiore dell’ambiente diventa sempre più pesante. Le stazioni sono più cupe, i fiori scompaiono dalle finestre, i muri delle case sono grigi od addirittura neri, per ogni dove fumano camini di fabbriche ed anche la gente è più chiusa e taciturna e frettolosa. L’aria del Nord si fa sentire: è umida e pesante. Fumo e nebbia formano un’atmosfera greve ed irrespirabile per gente abituata al caldo riflesso del sole ed alla limpida aria.

Su convogli simili a quelli di Gobetti e di Crainz viaggia anche Aurelio Bernardi, che abbiamo già visto in Dalmazia, inquadrato nella divisione «Emilia», che si è battuta sull’altopiano a Cruda e i cui soldati, dopo la resa, sono stati costretti a una lunga penosa marcia verso Ragusa, nel corso della quale «chi resta indietro viene fucilato sul momento» dai tedeschi. A Ragusa si diffonde la voce che tutti gli ufficiali sono stati fucilati. Il 21 settembre la truppa è caricata sui malandati carri di un lungo convoglio. «[…] i Tedeschi ci chiamano Badogliani e non perdono occasione per aggredirci e demoralizzarci». Alla violenza si aggiunge l’angoscia di ignorare la destinazione.

Ma dove siamo diretti? Perché tanta strada? […] Oggi dopo 10 giorni e 10 notti di viaggio ci fanno scendere da questo treno della morte; questi fanatici aprono le porte dei carri urlando con rabbia come pazzi, colpiscono con il calcio del fucile a dritta e a manca e chi ne fa le spese

sono sempre i più deboli; dobbiamo uscire in fretta ma nessuno riesce ad alzarsi in piedi; io riesco a trascinarmi fuori dal vagone in tempo per non essere colpito; mi gira la testa, vedo tutto annebbiato.

Sono arrivati nella Prussia orientale. Raggiunta la meta finale, tutti gli internati conoscono una serie di successivi spostamenti da un lager all’altro, accompagnati da perquisizioni e disinfestazioni eseguite all’aperto nel gelido clima invernale. Fin dai primi momenti ciascuno deve costatare di essere nelle mani di un nemico spietato. Il sottotenente Giorgio Crainz scrive: «1° Ottobre. Ci viene comunicato ufficialmente che siamo considerati internati. Se però qualcuno si accosta a meno di 4 metri dai reticolati, le sentinelle spareranno senz’altro!» Qualche mese più tardi (25 aprile 1944) annota: «4 Russi sono stati uccisi da una sentinella al confine tra il blocco 1 e il blocco russo, senza apparente ragione. Ieri un altro è stato ucciso all’Abort. Il lager mi sembra ormai una riserva di caccia». Più che nei confronti dei suoi carcerieri, il sottotenente Giorgio Crainz sembra provare tuttavia ira e disprezzo verso i superiori e verso buona parte dei suoi pari grado italiani, il cui comportamento gli appare indegno: «Siamo prigionieri dei tedeschi, ma tutte le angherie le riceviamo dagli italiani. Questi cretini che prima hanno tradito Mussolini e la causa della Vittoria, poi Badoglio ed i propri inferiori, hanno ancora il coraggio di parlare, dare comandi, fare camorra, ecc.?»

In questo sentire troviamo concordi i diari e le memorie (editi e inediti) di tutti gli internati, nessuno dei quali giustifica a cuor leggero la defezione dei compagni né soprattutto dimentica le vicende del tradimento perpetrato dagli alti comandi quando hanno lasciato soli e senza ordini i soldati dell’intero esercito.

Di fronte al quesito fondamentale per tutti gli internati, se aderire o meno alla repubblica di Mussolini, la risposta di un ufficiale come Crainz è decisa: «12 Ottobre [1943] Ore 15 – Il comandante dei campi chiede nuovamente se ci sono Ufficiali che vogliano andare in Italia per combattere, ecc. – Nessuno si fa avanti […]». E il 4 novembre:

ore 15. Consueto appello pomeridiano. Arriva un’auto. Scendono un Col. italiano ed un Uff. degli alpini accompagnati dalla Commissione tedesca che già questa mattina venne a visitare i nostri alloggiamenti. Il Colonnello, che, come vengo a sapere più tardi, è il Col. Carloni, molto conosciuto

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negli ambienti militari, abbraccia il Col. De Micheli e quindi prende la parola. Raffiche di nevischio ci investono. Scopro le orecchie per sentire meglio, ma la sofferenza è atroce. Si tratta del solito pistolotto di propaganda, ma questa volta si parla anche di ordine di tornare a combattere. In contraddizione con l’ordine che diceva di partire, il Carloni invita chi vuole a firmare una dichiarazione con la quale si impegnerebbe a riconoscere il Governo repubblicano fascista ed a combattere su qualsiasi fronte, in reparti italiani, comandati da italiani, sotto il supremo comando italiano o tedesco. Due ore di tempo per dare una risposta. «Signori ufficiali, in libertà». – «Viva il re!» grida tutto il lato sud dello schieramento. Io corro verso il Carloni per gridargli che la risposta posso dargliela subito, ma è già circondato da un centinaio di ufficiali. Dato il freddo me ne torno in camerata dove viene subito intonato «Il Piave» accompagnato da mandolini.

Successivamente annota con commozione che il colonnello De Micheli organizza una muta cerimonia per «celebrare il genetliaco di S. M. il Re», seguita dal giuramento di una cinquantina di ufficiali di prima nomina e di aspiranti guardiamarina. A seguito di queste iniziative De Micheli viene allontanato dal campo e gli ufficiali e i guardiamarina sono degradati. Giorgio Crainz riferisce con grande partecipazione la cronaca di questi avvenimenti e suggella il racconto con uno sprezzante riferimento al giornale «La Voce delle Patria» – il giornale pubblicato dai rappresentanti della RSI in Germania – che: «Per gli articoli che molti italiani, evidentemente non più prigionieri, vi hanno pubblicato, potrebbe essere intitolato più propriamente “La voce della pagnotta”». Non diversamente dagli ufficiali con cui Crainz condivide la prigionia, si comportano i soldati con i quali Gobetti ha compiuto il suo angoscioso viaggio. Il campo cui sono stati destinati è lo Stalag VI° D e sta presso il centro industriale di Dortmund (sul Reno, nella Westfalia settentrionale). Dopo qualche giorno di monotonia senza pari: sembra di essere cani in gabbia in attesa di qualche cosa che modifichi il lento passare del tempo […] Giungono vari ufficiali tedeschi ed un borghese che comincia a salutare a destra ed a manca in perfetto italiano […] il borghese s’avvicina al microfono ed incomincia con il darci il suo saluto; continua poi con l’affermare d’essere incaricato di vedere se fra noi soldati c’è qualcuno che, sentendosi veramente italiano e fascista [sic], voglia volontariamente mettersi a disposizione del comando tedesco per formare reparti italiani che, dopo una preventiva istruzione in caserme tedesche, saranno avviati a combattere in Italia. Espone argomenti che, a parer mio, sono odiosi ed innominabili per convincere qualcuno a seguirlo. […] Si son messi in gioco i sentimenti ritenuti sacri del cittadino

e del soldato. La massa ha compreso e non ha risposto. […] La decisione d’ognuno è uguale: prigionieri senza limite di lavoro e senza misura di cibo piuttosto che impugnare le armi e portare la guerra civile a casa nostra.

I cedimenti sembrano più facili tra gli ufficiali che stanno attorno a Giorgio Crainz. Le motivazioni su cui si basa l’accettazione del ricatto tedesco provocano in lui una desolante sensazione di tracollo.

29 Dicembre [1943] […] ore 20 – Ancora una volta discuto con colleghi, alcuni dei quali hanno optato ora. Ne ricevo una impressione penosa. Ho proprio la sensazione che l’Italia non esista più, non esistendo più italiani. Non uno tra gli optanti o tra i restanti ha messo sulla bilancia un briciolo di idealismo per prendere la sua decisione. Lo strano è che tutti ci tengono a dichiarare che hanno preso in considerazione soltanto il loro interesse immediato. Alcuni si atteggiano ad idealisti affermando che l’hanno fatto per la Famiglia, cioè per la Patria in quanto la Famiglia ne è una cellula. La Rocca, che sembra uno degli elementi più colti, dice che abbiamo il dovere di salvare la nostra pelle perché se gli Italiani muoiono non resterà più l’Italia!! Quando espongo le mie idee e faccio osservare che solo se la massa degli Italiani si schiera subito dalla parte del nemico di ieri e probabilmente vincitore di domani, si può sperare di salvare l’Italia, che quindi ognuno ha il dovere di collaborare con il Re, chi lo può combattendo, chi si trova in territorio occupato, facendo ostruzionismo alla Germania, noi rifiutando la libertà per non andare a combattere a fianco dei Tedeschi, gli altri rispondono «Hai ragione!» con l’aria di chi sente per la prima volta un ragionamento pur così elementare. A quest’ora avranno già ripreso a calcolare quanto pane si può mangiare ogni giorno a Pikurize! Non c’è nulla da fare. È finita!

Il comportamento del sottotenente Giorgio Crainz è fondato, come abbiamo visto, sulla fedeltà alla monarchia. Nella sua mente il futuro che attende l’Italia ritiene molto delle profezie diffuse dal fascismo, e tuttavia il fascismo ne è escluso, mentre lo domina l’ossessione del comunismo.

Quella che sembra che stia per finire – scrive il 25 ottobre 1944 –non è la guerra ma molto probabilmente solo la prima fase del conflitto; la seconda, quella che darà un significato a tutta la guerra, sta solo ora delineandosi, il conflitto tra liberalismo anglosassone e il comunismo russo. […] Egoisticamente, come borghese, preferirei la vittoria del liberalismo, ma non posso nascondermi le forti possibilità di successo del comunismo, che solo può tentare di risolvere gli infiniti problemi politici e sociali che travagliano da decenni l’Europa e che il liberalismo non può risolvere.

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La sua preoccupazione principale è dover rinunciare a molti privilegi e, date le condizioni nelle quali in questo momento viviamo, ai continui sogni di futuro benessere e di comodità: «Io, a questo proposito, alle volte penso a sali profumati da mettere nella vasca da bagno […]». Il passaggio dalle prospettive epocali ai sali da bagno può sembrare sconcertante: ma va inteso come il sintomo di quanto la condizione estrema influisca sugli uomini e ne indebolisca il senso delle proporzioni. Giorgio sente che l’equilibrio mentale di tutti è instabile e in qualcuno comincia a coglierne segni.

V** – scrive a proposito di un commilitone – mi sembra presenti dei sintomi di alienazione mentale. Gira con un taccuino e non fa che annotarvi liste di colazioni e pranzi. Mi chiede continuamente se a mio parere con l’acciuga affumicata a prima colazione ci sta meglio il marsala o il vermut, o che differenza c’è tra ravioli e agnolotti, tra pasticcio di maccheroni e timballo di maccheroni.

E lui stesso è inseguito dall’ossessione del cibo: «Quasi ogni notte, vado a casa e mi sfamo. Il lato brutto di questi sogni è l’incomprensione che trovo nei Miei per le sofferenze provate».

È quasi un presagio di quanto lui e i suoi commilitoni sperimenteranno al ritorno in Italia.

Alcuni momenti temo che se anche la salute mi assisterà, possa andarsene la ragione. Ore, ore ed ore trascorse senza far niente, non pensando altro che a roba da mangiare, rinfreschi, banchetti. Adesso anche il pensiero continuo del tabacco. Mi sorprendo spesso che mi sto guardando intorno valutando ogni oggetto dal punto di vista del suo rendimento in fumo, in altri termini se è fumabile.

Per Luigi Gobetti invece e per gli altri militari di truppa l’incubo della pazzia sembra risparmiato. Gli ufficiali devono affrontare giorni e giorni di inerzia, abbandonati ai propri pensieri e alla elucubrazioni sul proprio destino e su quello dei famigliari; e soprattutto agli ossessivi pensieri concernenti la loro sopravvivenza, il cibo e il freddo. I soldati hanno altri crucci non meno penosi e materialmente più dolorosi: sono sottoposti a lavori pesantissimi, i sorveglianti sono spietati, ogni mancanza diventa pretesto per maltrattamenti e angherie. E soprattutto le energie vengono meno a causa dell’inedia.

Nel caso di Gobetti tuttavia si prospetta una situazione meno cupa rispetto alla sorte della maggioranza dei deportati: per lui

personalmente, che viene scelto come interprete e che quindi gode di una minima libertà di movimento, e per tutto il suo contingente, destinato a Aplerbeck, nei dintorni di Dortmund, per lavorare in

una fabbrica di piccoli pezzi: perciò niente lavori pesanti […]. Veniamo alloggiati in una casetta rustica isolata da qualche centinaio di metri di terra incolta. Siamo stretti in duecento ma ci dicono che a giorni ne resteranno qui una settantina trasferendosi gli altri in una baracca in costruzione e quasi ultimata. È appena avvenuta la sistemazione che arriva il rancio abbondantissimo e gustoso se confrontato a quelle avuto da sette giorni a questa parte allo Stalag. Si mangia di buona voglia contenti di essere capitati in un luogo meno brutto degli altri.

È il luogo di una «strana prigionia»:

In officina il lavoro non è pesante ma molte sono le ore lavorative e molta è pure l’attenzione che si deve prestare. Le due centinaia d’italiani sono sparse fra le macchine, ai forni e, in piccola parte, ai trasporti. […] Suona la sirena di fine lavoro. Son le dodici e mezza e c’è un’ora di tempo per poter consumare il rancio di broccoli e patate ed il pane con i dieci grammi di margarina. La baracca che ci ospita l’abbiamo abbellita noi con quadretti e calendari, ci accoglie ora in rumorosa brigata e subito si ode rumor di gavette e di cucchiai. È una ora che passa veloce prima di riprendere il lavoro fino alle cinque del pomeriggio. Alla sera, al ritorno, s’incontrano i compagni del turno notturno e si augura loro buon lavoro mentre essi guardano quasi con invidia quelli che fra non molto potranno coricarsi.

Nella descrizione di una realtà che potrebbe apparire quasi serena, si inseriscono tuttavia momenti di «sconforto», nascenti nei rari momenti d’ozio domenicale; la cui calma è del resto turbata dalla prepotente irruzione di un sorvegliante tedesco che pretende venga fatto rigoroso ordine e pulizia nella baracca. E il lavoro stesso non sempre appare tanto gratificante e leggero quando è il turno di notte, con sorveglianti dai modi «rudi, privi di fronzoli, bruscamente espressivi» che ricorrono a spintoni e a calci. Malgrado una condizione meno tragica di quella di altri, il dato di fondo non muta: «Prigionieri –registra Luigi Gobetti – È triste la constatazione della nostra impotenza e del nostro annullamento di fronte alla soperchieria alemanna. Ma poco durerà. Forse nemmeno tutto l’inverno. È il nostro voto, è la formulazione costante del nostro assillante

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pensiero». La prigionia insomma incide sulla vita degli uomini in modo decisivo e sembra equiparare nella sofferenza tutti gli abitanti dei lager.

Per Aurelio Bernardi viceversa si prospetta una situazione per alcuni aspetti diversa: non sembra che a lui e ai suoi compagni i tedeschi o i collaborazionisti italiani offrano la possibilità di aderire alla RSI; evidentemente o i loro carcerieri sono certi che la Divisione Emilia non accetterà, oppure Aurelio non prende nemmeno nota dell’avvenimento. Solo più tardi offriranno di farli diventare lavoratori civili. A lui, come militare di truppa, nel lager viene subito assegnato un lavoro. Ed è dapprima – incredibilmente – un lavoro gradevole: attraverso un foresta che gli appare sterminata, viene condotto a un grande spiazzo dove ci sono abitazioni e capannoni; la gente che abita qui esce tutta fuori e mi guarda, una ragazza mi porta pane e burro; vista la mia fame si mettono a ridere, si divertono a sfamarmi, mi chiedo continuamente quale mano santa mi abbia protetto; ora trovarmi qui con questa gente senza guardie, mi sembra un sogno, mi pare di essere su un altro pianeta; il lavoro che devo svolgere non è pesante e consiste nell’accudire i cavalli e fare dei trasporti locali con la slitta; io lo faccio con passione e con competenza perché conosco i cavalli, perciò sono bene rispettato e mi accordano fiducia. Una ragazza mi confida che loro son Lituani e ci tiene molto a osservare questa distinzione. Il 15 novembre un ordine mi comanda di rientrare in fretta per radunarci e sfollare a causa del fronte Russo che avanza.

La prigionia di Bernardi ha un inizio felice; ma è un periodo brevissimo: incominciano gli spostamenti (a Chenisberg – probabilmente Könisberg e poi Küstrin – probabilmente Kostrzyn nad Odrą nella Polonia orientale alla confluenza tra i fiumi Oder e Warta). Riprende il tormento della fame e dello sfinimento a seguito di lavori da «schiavi», ai trasferimenti nel gelo, «i piedi avvolti con degli stracci per non congelare»; a Küstrin assiste, dai finestrini della sua baracca, a una sfilata di «lunghe file di prigionieri in abiti civili compresi donne e bambini; è un strazio vedere come sono sospinti con brutalità dalle SS questi bambini in mezzo alla tormenta di neve». Sono «Juden», apprende più tardi dalle guardie del campo. Condotto infine a Schneidemuhl, sulle rive del Baltico, ha un’avventura strana, che assomiglia a una allucinazione: una sera una voce «debole ma chiarissima» lo invita a uscire dal campo e a cercare qualcosa da «mettere

nello stomaco». Esce dalla baracca, si avvicina a una sentinella, che è un giovane della sua età, e gli chiede di farlo uscire; il giovane sorridendo gli apre il cancello, lo esorta a non allontanarsi oltre il limite dei pini «perché lì ci sono altre guardie con l’ordine di uccidere». Sotto i pini individua una buca recente e vi trova tante bellissime patate, che porta nel campo; ma davanti alla giovane guardia le patate gli cadono, «la guardia mi fissa stupita, forse fanno gola anche a lui, poi mi aiuta a raccoglierle con una calma sconcertante poi mi sorride e chiude il cancello». Commenta con i compagni di baracca l’episodio e, per capirne il senso, tutti insieme decidono di investigare su chi sia la giovane guardia: ma tra le guardie del campo «non c’è nessuno della mia età. […] Ma non mi arrendo, cerco di vederlo in fabbrica, nei luoghi di lavoro dei prigionieri, corro quando passano dei soldati, ma niente da fare; non sono più riuscito a vedere quel volto così ben stampato nella mia mente». Un episodio al limite del sogno, che non trova spiegazione razionale perché le patate erano vere.

Il lavoro da svolgere continua a essere durissimo: le SS danno la sveglia alle tre della notte per caricarli su un treno che parte tre ore più tardi per la fabbrica; l’attesa al freddo, vestiti di stracci, è una tortura. «Alle guardie chiediamo perché non ci passano per le armi, e ci rispondono che sarebbe troppo comodo». Il 23 febbraio 1944 vengono condotti alla stazione per scaricare alcuni vagoni sigillati: i prigionieri si attendono materiale militare o generi alimentari – con una tenue speranze di recuperare qualcosa di commestibile. Ma…

quando aprono i portelloni ci si trova di fronte a uno spettacolo agghiacciante, tutti i vagoni sono carichi di soldati Russi assiderati ed accatastati gli uni sugli altri […] i criminali delle SS sono doppiamente divertiti, soddisfatti del nostro imbarazzo tanto da schernirci con staffilate e spintoni; l’ordine è di scaricare i morti e disporli a cataste lungo il marciapiede.

Nulla tuttavia sembra piegare la volontà di questi uomini: e quando l’11 maggio 1944 l’ufficiale SS tramite l’interprete ordina di fare un passo avanti

a tutti coloro disposti a firmare per passare civili dicendoci di venire parificati nel trattamento agli stessi operai tedeschi; un silenzio cupo ha bloccato tutta la fabbrica, nessuno ha mosso un piede, tutti come inchiodati a terra; l’ufficiale ha ricevuto una risposta compatta e negativa e questa

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cosa lo manda letteralmente su tutte le furie infatti ha cominciato a urlare imprecando contro l’Italia e contro gli Italiani; molto rapidamente tutti coloro che erano alle porte si sono ritirati all’interno e le guardie hanno cominciato a picchiarci con i calci dei fucili.

Da quel momento in avanti lo scritto di Bernardi deve registrare l’incrudelirsi delle angherie; ma anche comincia a intravedere qualche smagliatura nel sistema di dominio nazista, che gli fa sperare nell’avvicinarsi del crollo e della liberazione.

E la prospettiva del ritorno in patria domina infatti i sogni di tutti, dei soldati e degli ufficiali, pur apportando a qualcuno, come Giorgio Crainz, anche elementi di dubbio e di ansia.

Questa notte mi sono sognato che tornavo a casa e che Mammà mi informava subito che Papà era decisamente repubblicano e filotedesco. A me mi prendeva un accidente ed esclamavo: «Ma come? Ed io sono rimasto un anno in quell’inferno per timore di prendere un atteggiamento contrario a quello della mia famiglia?!» Ma questo sogno è un’assurdità! Sono sicuro che il pensiero di Papà ha seguito la stessa evoluzione del mio…

Non è facile discernere il senso di questi pensieri. Da una parte attestano una adesione profonda all’ordine tradizionale, ai valori famigliari e patriottici, coerenti con la fedeltà monarchica, ma da un’altra parte sembrano prodotti dal disorientamento e dalla sofferenza del lager; c’è il bisogno di un conforto esterno, di un viatico che sostenga la scelta, come si evince da quanto Giorgio Crainz suggerisce a un commilitone.

30 dicembre […] V** mi manda a chiamare. Ha ricevuto una lettera da casa. Il padre scrive fra l’altro: «il nostro alleato al quale ci sentiamo sempre legati da fedeltà […]» – Miezzeca! Contro quelle che sono le mie idee, lo consiglio quasi di aderire. Io, ricevendo una frase simile da Papà, specie se in risposta alla lettera nella quale parlo di orientamento, forse sarei in dubbio se fare lo stesso.

La scelta di non aderire e di non cooperare non è affatto semplice al punto che, di fronte all’abbrutimento e all’umiliazione, alle sofferenze di una prigionia senza dignità, le proposte tedesche di accettare una collaborazione lavorativa che non comporti il riconoscimento esplicito della legittimità della RSI e non siano un contributo al rafforzamento del Reich, appaiono a molti una soluzione se non onorevole almeno accettabile.

il fatto che questa volta – scrive tuttavia Crainz il 24 gennaio 1944 – non sia richiesta l’opzione non significa nulla: dare il proprio contributo alla Germania è molto di più e rende implicito qualunque riconoscimento o opzione. Perché dunque dovrei mettermi a lavorare per i tedeschi? Cosa è cambiato? I maggiori sacrifici? Non è una ragione. Le aumentate probabilità di non tornare mai a casa? No! Il fatto che tutti colleghi siano favorevoli? No! No! No!

Ma la triplice negazione vacilla di fronte a soluzioni più sottili. che finiscono per aprire una breccia, pur relativa, nella decisione del giovane. Le autorità tedesche principiano a offrire lavori non solo non condizionati dall’opzione in favore della RSI, ma anche apparentemente ininfluenti sul potenziale produttivo del Reich:

Oggi 29 [febbraio 1944] è arrivata una richiesta di 200 impiegati bancari. Bisogna essere o essere stati impiegati in qualche Banca. Cinotti e io ci siamo messi in lista. Ho detto di essere stato impiegato alla B.C.I. – Ufficio Cambi dal novembre 1939 al maggio 1940. Ho aderito senza incertezze in quanto si tratterebbe di lavorare per i lavoratori italiani; mi sembra quindi che non si dia alcun aiuto né diretto né indiretto, ai crucchi.

Quindici giorni più tardi, annota: «Oggi è arrivata una richiesta per Ufficiali disposti a lavorare nei boschi. […] Se non fosse stato per l’aiuto troppo diretto ai crucchi mi metterei in lista anch’io e con enorme entusiasmo. Mi sembra una occupazione bellissima». Compiere una scelta coerente, dignitosa, efficace appare molto difficile anche perché le notizie sulla situazione italiana sono poche e malcerte. A Crainz la famiglia non dà alcuna indicazione sulla scelta da compiere. Questo silenzio, probabilmente, indicava che nessuno pensava lui potesse aderire alla RSI; mentre l’idea di inviagli un esplicito incoraggiamento a perseverare era frenato dal timore di incappare nella censura; ma stranamente Giorgio non se ne rende conto, come se ignorasse l’esistenza di apparati di sorveglianza su tutta la corrispondenza. Dall’Italia le voci che giungono nei lager per consigliare all’uno o all’altro una scelta sono solo quelle delle famiglie che incitano a optare. «G**, in risposta al famoso quesito “Mio orientamento all’oscuro ecc.” dettatogli da me, ha ricevuto dal padre un invito a rientrare in Italia, “quando la casa brucia si lavora tutti a spegnere l’incendio, poi, si ricercano le responsabilità”. Non si sa più che pensare». E un altro compagno di prigionia «[…] mi fa leggere una lettera da Sinigallia, nella quale i suoi lo invitano a rientrare e comunicano

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che i fratelli, benché di classi anziane, si sono tutti ripresentati al nuovo esercito. Che si deve fare?» La situazione è difficile anche perché i tedeschi non mantengono la parola e, dopo aver promesso di non richiedere l’adesione formale, «Questi fetenti di crucchi all’ultimo momento hanno fatto firmare loro [a quelli che hanno accettato il lavoro] una formula di fedeltà al Governo Repubblicano». L’11 aprile 1944 Giorgio deve annotare che scegliere diventa per lui ogni giorno più angoscioso.

Da ieri mi dibatto in una crisi spirituale provocata dalla notizia del fallimento della faccenda dei bancari. Che devo fare? Chiedere di essere trasferito al Blocco 1? [in cui sta chi rifiuta sia l’opzione sia il lavoro] Questo, si dice, mi costerebbe 14 giorni di prigione, ma se fossi sicuro che questo è il mio dovere, non mi spaventerebbe. Forse anche un lavoro del genere di quello delle pellicce pregiate [altra occupazione offerta da un civile tedesco] è un aiuto alla Germania, anche se molto indiretto. Contribuirei alla soluzione della crisi della mano d’opera nelle industrie non belliche. Ma il governo del Reich lascerebbe fallire industrie del genere piuttosto che congedare degli operai richiamati. […] Tornando tra i nonlavoratori sicuramente non sbaglierei del punto di vista politico, ma, se è nel mio diritto di andare a lavorare, non è forse anche un mio dovere? verso me stesso, verso la Famiglia, verso la Patria? Andando al Blocco 1 non ne potrei più uscire fino alla fine della guerra, […].

La propaganda tedesca peraltro diffonde notizie dirette a influenzare gli internati politicamente più moderati.

Un paio di giorni fa il notiziario tedesco comunicava che il Gov. Badoglio era formato tutto da comunisti. Che sta succedendo in Italia?

[…] Nei primi tempi potevo ben cercare di immaginare la situazione sulla base di quello che avevo lasciato, ma ora, dopo 7 mesi di completa oscurità, rotta solo da qualche voce incontrollabile, che posso più capire? […] Essere assenti e all’oscuro mentre il nostro Paese sta traversando una delle più tragiche crisi della storia, è terribile.

Sul tema il giovane sottotenente ritorna anche più tardi, con una riflessione complessa.

Notti fa ho sognato che, finita la guerra, partecipavo a una sfilata in camicia nera per Roma. Nonostante fossimo scortati da pizzardoni, finivamo per prendere un sacco di legnate. Il sogno risponde alle mie idee in questo: se in Italia domani si vorrà effettivamente ricostruire, bisognerà riconoscere pubblicamente che chi ha militato nel Fascismo con purità di intenti e di opere, senza cioè tradire il Fascismo stesso, merita l’ammira-

zione non l’odio della Patria. Alcuni qui si vantano di essere sempre stati antifascisti. A me fanno schifo. A gente così io dichiaro sempre di essere stato fascista, ciò che non era poi del tutto vero.

È un brano significativo della mentalità di un conservatore lealista, istintivamente ostile a quell’antifascismo che il regime gli ha insegnato a odiare, senza comprenderne in realtà le radici e il significato. In fondo non disdegnerebbe una soluzione radicale, anche se nelle sua condizioni appare del tutto astratta.

Sempre più vivo è in me un sentimento di invidia – aggiunge di seguito – per tutti quelli che in questo periodo sono nelle file dei partigiani italiani. Una vita del genere, certo sacrificantissima, so che mi darebbe molte soddisfazioni. Sarei certo tra i più attivi. Avrei anche potuto così soddisfare quelle aspirazioni alla vita di avventure e all’aria aperta che porto sempre con me. Non si dovrebbe però dimenticare che una forte percentuale dei partigiani sono poi quelli che hanno consegnato l’Italia ai Tedeschi.

E il 26 agosto – sull’onda delle notizie che arrivano dalla Francia: «I partigiani francesi combattono a Parigi. È il momento dei partigiani. Che cosa non darei per trovarmi tra loro». Non diversamente da alcuni dei suoi coetanei che in Italia quella scelta l’hanno effettivamente compiuta, egli pensa la guerriglia come un’avventura; ma le sue fantasie eroiche non l’aiutano a mutare la diffidenza e l’ostilità che il fascismo gli ha istillato verso l’antifascismo.

Le motivazioni del soldato Gobetti appaiono per molti versi più salde, pur non avendo nemmeno lui riferimenti ideologici o politici: sono scelte etiche nette, fondate sulla coscienza della propria dignità, profondamente coerenti con quelle che hanno mosso Bernardi e i suoi compagni.

Avevo, nei giorni scorsi ricevuto lettere datate dalla fine d’aprile dalle quali avevo appreso che alcuni miei amici s’erano fatti volontari. Ho voluto quindi mettere in chiaro la situazione mia dinanzi a mio padre. Gli ho scritto in modo che il censore non possa aver nulla da dire ma ho scritto in modo chiaro, inconfutabile. Le ragione della mia determinazione di otto mesi fa, di restare cioè in prigionia «lavorando nelle fabbriche senza limiti di lavoro né di sacrifici» piuttosto che aderire al volontariato nelle SS germaniche, non era stata determinata da una meschina paura per il combattimento o da una vergognosa mancanza di fede nei destini della Patria. No. I sacrifici, gli affronti le pene che in breve lasso di tempo c’han fatto sopportare i tedeschi, quello che abbiam potuto vedere con

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gli occhi nostri nel viaggio doloroso, l’evidenza della situazione caotica ma già delineata, la constatazione che il fascismo ha fatto a noi più male che bene e che la nuova Repubblica Italiana non è che un pupazzo nelle mani tedesche, hanno indicato a noi questa via. Che poi ora i tedeschi ci considerino, in alcuni casi da un lato migliore, questo è perché abbiamo potuto dimostrare di valer qualcosa, anche in queste misere condizioni. E non c’è più alcuno, salvo i soliti gretti ed ignoranti, che con sorrisi di scherno ci indichino come «soldati di Badoglio».

Nei mesi della primavera e dell’estate 1944 la vita nei lager – in quelli almeno di cui abbiamo qualche conoscenza memorialistica – conosce alterne vicende di miglioramenti e peggioramenti: in un primo tempo la «sbobba» (la zuppa o «sboba», come scrive altri) migliora, si fa più sostanziosa e ricca; ma non molto dopo le razioni di pane e di patate rincominciano a essere ridotte e la «sbobba» perde sostanza e soprattutto si riduce di quantità. È la conseguenza del rifiuto opposto dagli ufficiali dei campi alle richieste tedesche di manodopera «per le industrie belliche». I toni dei tedeschi si fanno progressivamente più minacciosi ed esplodono infine in minacce aperte: nell’autunno 1944 un capitano tedesco sta arringando gli ufficiali (tra di essi Crainz), ma di fronte alla testarda resistenza di questi ultimi «s’incaglia: “Miei signori, la Germania non può, in questi momenti, stare a vedere gente che non fa nulla. Probabile venga l’ordine di farvi lavorare volenti o nolenti”». Ed è quello che effettivamente avviene: gli ufficiali sono obbligati al lavoro.

Molto vicina a quella di Crainz l’esperienza della prigionia e del lavoro coatto vissuta da un altro ufficiale, Antonio Rossi, fatto prigioniero a Larissa. È un trentaduenne tenente di complemento, agricoltore; nel suo diario racconta di un rapporto con i suoi uomini, fatto di reciproca confidenza e fiducia; per parte sua afferma di essersi sentito responsabile della loro sorte, ricevendone attestazioni di fedeltà, li ha incoraggiati e li ha confortati nei momenti tragici della resa ai tedeschi: «L’ex tenente Rossi è divenuto la balia del reparto», commenta autoironicamente. E quando vede un ufficiale che il 15 settembre si arma con una pistola, intimorito dalla tensione e dall’atteggiamento insubordinato dei suoi soldati, commenta: «Anche quando tutto intorno crolla, la pistola, a me, non serve. L’affetto dei miei ragazzi mi resta intatto».

All’arrivo al campo di concentramento dopo tredici giorni di viaggio lui e i suoi soldati vengono accolti da un capitano

italiano che li invita a passare o alla RSI o agli ordini dei tedeschi: Antonio Rossi rifiuta, anche se una parte degli ufficiali cede, pur con molti dubbi e con la tentazione di ritornare sui propri passi; ma i tedeschi vigilano e impediscono ripensamenti. Restano in sette, gli ufficiali del reparto di Rossi; poco più tardi i soldati sfilano davanti a loro, al di là di una rete di filo spinato: «“Signor tenente, sono venuti gli altri ufficiali della batteria a farci propaganda. Solo cinque sono andati” – annuncia al tenente il suo furiere – “Signor tenente state tranquillo, ci siamo tutti, abbiamo chiesto di voi, la parola è una sola”», gli gridano i suoi «ragazzi» sfilando per l’ultima volta, e a lui «fanno sorridendo l’ultimo attenti a destra».

Nel lager anche lui soffre per una vita condotta in un sovraffollamento che in tutti provoca comportamenti isterici, in ambienti che sembrano o «una conigliera o un piccolo padiglione di zoo» o addirittura «una cella ossaria di cimitero», perseguitati dalle piccole vessazioni disciplinari, dalle arbitrarie riduzioni delle assegnazioni di cibo e di sigarette. «Arrivano poi spesso le commissioni private tedesche per arruolare lavoratori. Pochissimi ci vanno per ora». Nel campo lui e i compagni hanno la possibilità di ascoltare segretamente Radio Londra, grazie a un apparecchio radio costruita dai prigionieri; condivide molte discussioni con Enzo Paci, il filosofo a cui molti fanno spesso riferimento come a uno degli animatori della vita cultura dei lager; o con Piero Rebora, gentile figura di poeta che a lui e ad altri, che lo hanno testimoniato, offre conforto di calda umanità. I rapporti non sono tuttavia facili con nessuno, e quelli con Paci o con altri, che pure resteranno suoi amici, non fanno eccezione. Lo tallona da vicino la paura della pazzia: «L’ansia mi spezza il petto ho fame e non ho da mangiare. Vorrei fumare e non ho tabacco».

Il tornante decisivo nella vicenda degli IMI avrebbe dovuto essere segnato dal 23 agosto: gli accordi tra RSI e Reich prevedevano che appunto da quel giorno essi diventassero lavoratori liberi, vale a dire godessero della condizione di coloro che volontariamente erano andati a lavorare in Germania, con tutte le conseguenze contrattuali e di condizione civile.

La realtà che si trovano a vivere è profondamente diversa, come ci narra Luigi Gobetti. Il 30 di agosto

verso le due pomeridiane è arrivato in motocicletta il capitano comandante la compagnia di Landschützen che fa servizio nei Lager viciniori. […]

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M’ha fatto chiamare [in quanto interprete] dicendomi che era venuto per prelevare le sentinelle dato che con il primo settembre noi diventavamo tutti dei borghesi. Ha quindi levato da una cartella di cuoio un fascio di carte. Erano i moduli per le firme. Mi spiegò ciò che si doveva firmare e cioè un contratto di lavoro o, almeno, una dichiarazione che impegnava a lavorare in Germania fino alla fine della guerra. Una seconda carta implicava la rinuncia dei diritti dell’internamento. Davanti a tali condizioni la maggior parte di noi ha rifiutato di firmare sorprendendo il capitano tedesco. La discussione fra di noi è stata molto accesa e tutti gli aspetti della questione sono stati esaminati. I pochi, nove su centosei, che han firmato l’han fatto trascinati dall’idea di libertà e di pane senza pensare ai fattori morali che con la firma andavano a distruggere. Intanto noi, non firmatari, eravamo passati da internati militari a prigionieri di guerra. Niente di male: come internati siamo sempre stati trattati peggio dei prigionieri ma con minori diritti quindi, in definitiva, venivamo a guadagnarci anche dal lato pratico. […] Al sei settembre i «civili» sono ancora chiusi come noi contrariamente a quanto speravano cioè una immediata liberazione.

A metà settembre sono i tedeschi a dover cedere.

Non s’è mai registrato nella storia che masse di centinaia di migliaia di persone rifiutino la libertà a loro concessa dopo un anno di prigionia. Ma per noi, Internati Militari Italiani, come siamo comunemente chiamati si è proceduto oltre. Visto e considerato che ben pochi hanno aderito, firmando, al loro ordine d’idee, siamo stati passati in massa a «liberi lavoratori» senza convenzioni di sorta o firme di contratti impegnativi.

Radunati i soldati del campo, il Lagerführer annuncia loro che essi diventavano «liberi lavoratori inquadrati nel fronte tedesco del lavoro». Quando Gobetti traduce il discorso, i soldati accolgono l’annuncio con la più assoluta indifferenza. E, a confermare il loro scetticismo, l’ingegnere capo della fabbrica, poco dopo, nega loro la possibilità di ricoverarsi durante gli allarmi aerei nei normali rifugi della fabbrica, anziché essere costretti a restare nei sotterranei.

La domenica successiva una passeggiata a Dortmund, la prima da uomo «libero», mostra a Gobetti la realtà della maggioranza degli IMI: fanno «pietà con i vestiti a brandelli, gli zoccoli di legno, l’aria stanca e lo sguardo assente: li han ridotti così un anno di lavoro nelle fabbriche e nelle miniere senza altro indumento che la divisa militare, subendo soperchierie di ogni sorta, esposti alle intemperie e ai bombardamenti a tappeto senza altro ricovero che una baracca sgangherata».

Lo conforta solo la diversità della situazione sua e dei suoi «cento compagni» che passeggiano per la cittadina: «Lo sguardo è triste ma limpido e non vergognoso. Abbiamo ancora una dignità nostra e non dobbiamo vergognarci di noi stessi». E il diario di quest’uomo, che potrebbe dirsi «un internato fortunato», si chiude infatti ai primi di ottobre 1944, dopo uno spaventoso bombardamento inglese, con una nota di speranza nell’umanità.

Eppure gli angeli ci sono ancora. Ed anche in questa dura terra tedesca acre di fumo, ferrigna e tumultuosa. E l’angelo è vestito di bianco con una rossa croce sul petto e sulla fronte. Un essere piccolo piccolo che si annulla fra i muri tanto alti ed austeri della fabbrica. Un viso triste con due occhi sfavillanti: una figurina debole ma una volontà più dura dell’acciaio che si tempera nei forni della Edelstahlwerke. Quest’angelo è Schwester Elzbeth [sic] la nostra crocerossina. È tedesca oriunda della Selva Nera ma deve avere nelle vene qualche goccia di sangue latino, tutto il suo modo di fare sembra nostro, latino. E vuol bene agli italiani, li aiuta in tutto quelle che può, li cura amorevolmente quando s’affidano alle sue cure; li difende di fronte al dottore tedesco per il riconoscimento delle indisposizioni passeggere e ne perora la causa per i ricoveri ospitalieri e per le visite superiori. È di valente aiuto anche nelle questioni che ho giornalmente con i dirigenti della fabbrica. Ha molta voce in capitolo e se ne serve largamente in nostro favore.

Molto più amara l’esperienza del tenente Antonio Rossi. A dicembre 1944 cominciano a circolare le voci di lavoro obbligatorio, malgrado i reboanti annunci che tutti gli internati avrebbero dovuto diventare, dal settembre 1944, lavoratori liberi.

I tedeschi comunicano che si possono impiegare al lavoro gli ufficiali, e che per ora prenderanno le classi giovani fino al ’14 salvo poi a proseguire. Questo è finora ufficiale. Ma intorno a questa è stata costruita una spaventosa babele di voci, pettegolezzi, anzi paure. Moltissimi costruiscono questa torre per giustificare la propria volontà di cedere e di farla finita.

Un mese più tardi il rappresentante del Servizio Assistenza Internati (della RSI, la cui attività resta largamente carente ma si era animata almeno sul piano della propaganda a partire dalla primavera del ’44) chiarisce che «non c’è obbligo» di lavoro.

I tedeschi pare che ci siano rimasti male e pare che hanno dovuto chiarire l’equivoco. Essi possono portarci in fabbrica ma non possono obbligarci a lavorare. L’ambiguità della posizione li ha molto favoriti finora.

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Per tutti gli internati il dilemma si fa cogente. Con Paci e con Rebora, Antonio Rossi individua due soluzioni:

o accettare il sopruso con la giustificazione della costrizione o reagire ed esporsi a qualsiasi grave eventualità. E se reagire farlo nel campo o in fabbrica? […] Non sono sicuro insomma se accetterò magari la morte la morte piuttosto che un simile arbitrio violento. Temo che non avrò il coraggio di espormi agli urli, ai calci ed alle pistolettate di qualche soldato tedesco, temo che mi piegherò pur sapendo che questo mi farà disprezzare per tutta la vita.

Nel campo, come in tutti i campi degli Internati Militari esisteva anche un Comando militare italiano con compiti organizzativi e di rappresentanza e collegamento con i tedeschi: è a tale Comando che nella congiuntura del febbraio 1945 si riferiscono gli ufficiali per assumere una decisione collettiva, ricevendone una direttiva «ufficiosa»:

1° che gli ufficiali precettati protestino per appoggiare la sua [del Comando] azione. 2° che le proteste saranno notate. 3° nessuna azione di resistenza materiale nel campo. 4° libertà di iniziativa nei limiti della coscienza militare fuori del campo. In sostanza resistenza in fabbrica ed io sono entrato in quest’ordine di idee. Oggi sono tranquillo.

La tranquillità del tenente non è di lunga durata perché lo assillano i timori di non avere la forza di reggere; ma l’uscita dal campo per raggiungere il luogo di lavoro (meccanica fine, gli viene detto) a Celle presso Hannover provoca una inattesa euforia in lui e negli atri internati che lo accompagnano: «ci prende l’allegria di bambini che marinano la scuola» in quanto formalmente sono liberi di muoversi, anche se il percorso verso il luogo di lavoro è rigorosamente predeterminato. La felicità è data dall’essere sfuggiti a un disciplina che li costringeva in ogni momento a comportamenti obbligati. Hanno ricevuto una dotazione di circa un migliaio di marchi, con i quali cercano di sfamarsi in qualche ristorante in quel villaggio che, non toccato dai bombardamenti sembra testimoniare una vita linda e pacifica (l’aviazione Alleata l’aveva risparmiato perché luogo d’origine della dinastia degli Hannover, dal 1714 sovrani di Gran Bretagna, e che nel 1917 mutarono il nome in Windsor); ma l’impresa di ottenere un pasto soddisfacente si rivela difficile e fallimentare perché, malgrado dispongano di denaro, ciò che trovano è molto

poco. Un italiano, maresciallo dei carabinieri deportato, incontrato per caso, racconta loro di «soldati italiani morti a migliaia di tubercolosi, di disagi, di bastonate e di fame». Tra i tedeschi, dice, stanchezza, depressione, abbattimento; ma ordine e disciplina mostruosi. Organizzazione fra gli schiavi: per carità non bisogna nemmeno parlarne mi dice, e gli leggo la paura negli occhi, soprattutto la paura di me. Anche qui disciplina mostruosa. Ed in caso di invasione? Ordine di sgombero anche agli operai. Si può tentare di restare, ma se ritornano i padroni questi sparano senza remissione e «senza timor di pena».

Alla sera vengono collocati nella caserma di un campo di aviazione, a Dedelsdorf (Bassa Sassonia), all’apparenza dignitosa e confortevole, ma di lì non possono uscire. All’indomani sono accompagnati sul luogo di lavoro dal «negriero» – vale a dire il civile che gestisce il loro impiego: «giungiamo in un bosco dove dovremo segare legna e spalare terra (meccanica leggera [nota ironicamente]). Per dieci ore al giorno. Anche quelli decisi al lavoro incrociano le braccia». È il primo round di una partita che si prolunga in modo esasperato nei giorni successivi, al termine della quale agli internati rei di insubordinazione viene negato il cibo e restano digiuni per trenta ore il 19 e il 20 febbraio; il 21 redigono una protesta indirizzata al comando dell’aeroporto in cui ribadiscono che, in quanto ufficiali, non possono essere impiegati in lavori di sorta se non su richiesta loro e che «qualsiasi prestazione di lavoro a favore della nazione detentrice è vietata all’ufficiale italiano prigioniero del Co. Mil. cui è vincolato». Il 24 febbraio il comandante del campo, coadiuvato da un uomo della Gestapo e da due civili, carica su un camion una quarantina di «lavoratori liberi», tra i quali Antonio Rossi, li porta in uno Straflager (campo di punizione) a Unterluss (ancora nella Bassa Sassonia) dove vengono picchiati, privati delle stellette e tenuti per ore in piedi all’aperto, al freddo. L’ambiente in cui vengono ora rinchiusi è terribile: «Ci troviamo in mezzo a 200 detenuti di tutte le razze, di tutte le nazioni. Vige la legge della jungla. I tedeschi si valgono dell’aiuto di secondini russi, aderenti alle SS che bastonano continuamente con furia disumana». I soldati italiani, spettatori di tante umiliazioni, si stringono attorno ai loro ufficiali «affettuosamente»; e con «affetto e compatimento» li guardano anche gli operai italiani che lavorano nella fabbrica cui vengono inviati. Eppure loro stessi, gli operai, sono «la maschera

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Deportati: gli Internati Militari Italiani 231

del dolore e dell’abbruttimento». Il 3 marzo Rossi, che i suoi compagni deve scontare nel campo di punizione cinquantasei giorni, annota:

Abbiamo lavorato assieme a ebree ungheresi marchiate con la stella [a sei punte] e vestite a strisce gialle e blu. Facevano il nostro stesso lavoro, ed il loro volto era segnato da infinti patimenti. In una pausa del lavoro mentre seduti per terra invocavamo dal sole la vita, lontano, da un gruppo di ebree si è levata, limpida, una canzone italiana cantata in italiano. […] Ciò che vedo è veramente mostruoso: solo così mi appare la ferocia fanatica di un popolo contro una razza intera, in questo paese che è tutto un immenso spaventoso campo di lavori forzati. La maledizione sorge spontanea alle labbra. Oggi l’oppressione di quelle povere donne più che la mia stessa sofferenza mi hanno inferocito.

Le giornate di lavoro forzato (dodici ore consecutive sotto neve e pioggia) si susseguono, inframmezzate da «calci, pugni e schiaffi». Alle violenze fisiche si aggiungono altre forme di mortificazione: il 18 marzo: «Ci impongono l’umiliazione della crociera sulla testa. Tagliano cioè con la macchina due strisce di capelli in croce. Noi otteniamo da un aguzzino, dietro promessa di sigarette, mai mantenuta, di farci tagliare i capelli a zero». Le violenze gratuite e sadiche si moltiplicano nei giorni di marzo e di aprile, le bastonature riducono in fin di vita più d’un prigioniero.

A questo punto – siamo agli inizi del marzo 1945, quando molti, benché non tutti, avvertono imminente il crollo del Reich – sono i tedeschi a mostrarsi più umani delle guardie che loro stessi hanno scelto. Un medico tedesco si dichiara «molto arrabbiato per i sistemi inumani dello Straflager e pare che abbia energicamente telefonato a vari enti». Ciò non significa che ci sia qualunque allentamento nello zelo con cui SS e sorveglianti si accaniscono contro i prigionieri, e in particolare contro i detenuti nello Straflager. Al ritorno dal suo turno di lavoro, Antonio Rossi

annota il 25 marzo 1944,

ho ritrovato notizie di questo genere: cento frustate sulla schiena di un soldato italiano […] le spalle di un russo ridotte a due piaghe sanguinolente […] l’olandese portato via e sepolto ancora moribondo […] un russo impiccato alla chetichella nel bosco […]: ma tutto ciò non ci spaventa più ormai. Una stanchezza mortale ed una totale indifferenza ci opprimono.

[...] In un angolo i Russi suonano l’organino. Gli italiani tacciono, non cantano, non guardano le donne: i tedeschi in due anni di schiavitù ci hanno spento.

E due giorni dopo: «Tutto è incredibile. Ma questa arida realtà, scritta senza commento, è molto inferiore alla realtà vissuta. Tornato in camerata assisto alla feroce bastonatura di un detenuto. Peter, il nuovo aguzzino serbo, picchia con sadismo bestiale. Intorno a lui una muta di russi imbestialiti».

Il diario di Antonio Rossi, «scritto ora per ora», si chiude il 3 aprile: «Il seguito non avevo la forza di scriverlo». E come lui anche gli altri nostri testimoni sembrano non essere in grado di procedere con la rievocazione dei loro tormenti, quasi assillati dal desiderio di chiudere definitivamente con il lascito di quell’esperienza, sfiduciati della possibilità di comunicarla. Così Luigi Gobetti, che dopo avere rievocato l’immagine della buona infermiera, chiude i suoi «scorci di vita vissuta» al settembre 1944: «Tanto, a che vale continuare? La vita procederà grigia e monotona fino alla fine della guerra. Si ripeteranno tante cose trascorse ed il nostro animo si farà sempre più amaro. La nostra non è che un’attesa spasmodica. Tutta la vita è attesa ed il meglio lo si cerca sempre nel futuro». Ancora più rassegnato di loro, Giorgio Crainz non sembra voler assegnare alcun valore esemplare alla sua prigionia e si limita a una nuda cronaca del ritorno, nel maggio 1945. E Aurelio Bernardi, raggiunta finalmente l’Italia e la casa paterna, conclude: «Sono molto felice; un grande sollievo che mi apre il cuore, lasciandomi alle spalle una triste realtà con la quale però dovrò sempre convivere».

E già da queste meste note sembra potersi intuire la fatica di esporre una vicenda di cui si sentono esclusivamente vittime, soggetti passivi, privati di ogni virtù, malgrado il coraggio della loro resistenza.

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XI. «...si fa presto a dire lager...»

Diverso tono hanno le memorie di altri due deportati, due partigiani catturati in Italia e fortunosamente sfuggiti alla fucilazione immediata. Il primo è Giuseppe Biagi, che aveva assunto il nome di «Pino» nella formazione partigiana che opera sul Collio, presso Mulinut, nel Friuli orientale, aggregata alla seconda compagnia del 1° battaglione Garibaldi; e l’altro è Felice Malgaroli, «Orso», che si era arruolato in una formazione che opera in provincia di Cuneo, con base a Montoso. Di entrambi abbiamo già seguito le vicende fino alle soglie della cattura. Giuseppe Biagi cade in mani tedesche alla fine del 1943, durante un attacco della Wehrmacht favorito dall’intrusione di una spia, una ragazza la cui bellezza colpisce profondamente il giovane. (Forse con qualche elemento di colore…). Felice invece è catturato nel corso di un rastrellamento dell’autunno 1944, che coglie di sorpresa il distaccamento di Dardo, cui appartiene, e viene spedito a Mauthausen nel gennaio 1945.

Forse perché la loro prigionia è più breve di quella degli IMI (ma la differenza per Giuseppe Biagi è limitata a qualche mese), o forse perché essa è la conseguenza di comportamenti attivi, anziché di un doppio tradimento di cui sono stati oggetto, entrambi sembrano non cedere allo scoramento, con un piglio che è forse frutto di una maggiore fiducia nella validità del loro operare. Ma questa è una considerazione che non inficia il valore della resistenza dei militari nei lager: stilare graduatorie dei tormenti o del coraggio o della perseveranza non è il compito di uno studioso di storia, come sembrano credere alcuni.

La destinazione di entrambi è Mauthausen; e anche per la comune localizzazione della prigionia i loro racconti si integrano fino quasi a sovrapporsi.

«Era notte fonda», scrive Giuseppe Biagi, che dal carcere del Coroneo, a Trieste, era partito già afflitto da broncopolmonite, quando il convoglio, formato da una decina di vagoni, lentamente si fermò. Durante il tragitto aveva fatto diverse soste e spostato o agganciato altri carri «bestiame» in località sconosciute. Vennero aperti i portelloni, dandoci ordine perentori[o]: scendere in fretta e con il massimo silenzio, inquadrarsi per cinque. Alcuni cani lupo al guinzaglio della SS presero posto ai lati della colonna. Appena sistemati, diedi uno sguardo al paesaggio. Non esisteva l’ombra di una casa; tutt’attorno una vasta pianura ondeggiante, e al lato nord una collina. Si spensero anche le fievoli luci del treno, sostituite dalle torce della SS, iniziando la nostra marcia su una strada di campagna, attraversata dal tronco ferroviario, abbastanza larga e conservata bene, circondata da prati, cespugli, e larghe macchie di bosco.

È un primo approccio in apparenza neutrale; ma un colpo di scena ne muta di colpo il colore e ne incupisce drammaticamente i toni.

Nella fila avevo alla sinistra il partigiano Argo, alla mia destra un signore anziano, di statura piccola però robusto e tarchiato, dal viso quadrangolare, ruvido e arcigno. Parlava francese e contemporaneamente inseriva delle frasi in bergamasco, per cui era difficile capirlo o quantomeno decifrare correttamente il suo strano linguaggio. Giunti a metà collina, il bergamasco scandiva: «Mon Dieu, mon Dieu! Non è possibile!» Continuò a biascicare, fino a che un SS gli diede un colpo con il calcio del fucile, dicendogli: «silenzio maledetto o t’ammazzo!» Per ancuni [alcuni] minuti nessuno osò parlare e tanto meno bisbigliare. Poi una voce: «lassù, guardate lassù!» Fra il verde della collina s’intravvedeva una costruzione simile a una roccaforte. Eravamo ancora lontani per visualizzare appieno quella forma di edificio che si presentava imponente alla nostra vista. Dopo il colpo ricevuto, il bergamasco non parlò più; osservava intensamente il paesaggio scuotendo la testa, masticando fra sé bisbigli sconnessi, indecifrabili. Poi esplose: «non è possibile non credo ai miei occhi! Je ne me trompe pas» «Non m’inganno! Su questa collina ci sono stato nella guerra 1915-18, come prigioniero di guerra degli austriaci. Però il campo di concentramento si trovava a valle, sulla riva del Danubio, dove c’era una cava di pietra. Lo so, sono stato prigioniero per ben nove mesi in quella cava maledetta a spaccare pietre. Quanti compagni di prigionia di allora ho lasciato nella cava, morti di stenti e di fame! Che destino il mio, mon Dieu, mon Dieu. È la fine per tutti, questi tedeschi sono delle belve assettate di sangue, delle carogne maledette da Dio! Da Mauthausen non si esce vivi!» Un silenzio generale calò sulla colonna dopo le parole del bergamasco.

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Le reminiscenze del compagno di sventura innescano in Pino ulteriori riflessioni, quasi un compendio delle variabili fortune degli Italiani nelle terre di confine.

Procedendo lentamente, pensavo al nome pronunciato dal bergamasco: Mauthausen! Mi ritornarono in mente i racconti di guerra di nonno Sef, soldato dell’Impero Austro-Ungarico, che durante la campagna di guerra, fu ferito e venne trasferito nel campo di Mauthausen, di guardia ai prigionieri di guerra italiani, dove appunto si trovava anche il bergamasco. Rabbrividii per l’ironia della sorte; accomunare il nipote della guardia del campo dei prigionieri italiani della guerra 1915-18, con il prigioniero di allora che ritornava ad essere prigioniero dei tedeschi, assieme al nipote del suo guardiano nella seconda guerra mondiale! Ero ancora preso dalle mie profonde riflessioni su certe fattalità [recte: fatalità] storiche quando, fra lo stupore di tutti – in modo particolar del bergamasco – la costruzione apparve alla nostra vista come un mostro, pronto ad ingoiarci. L’assetto strutturale dell’edificio si affacciò con tutta la sua maestosa mole: i muri perimetrali interamente costruiti in pietra a forma di bugna, il tetto dell’ingresso molto pendente e con dei finimenti ornamentali da sembrare una pagoda indiana. L’enorme portone costruito in legno noce massello, dalle doghe larghe a forma di rombo, rafforzate da grossi bulloni di ferro, la cui testa ribattuta assumeva l’aspetto di un prisma. Il tutto formava un paesaggio freddo e uggioso, grottesco. La febbre non mi lasciava, stavo male e le gambe mi tremavano, assalito da un’indescrivibile angoscia appoggiandomi alle spalle di Argo che mi rincuorava.

E di qui comincia la sua dolorosa prigionia.

Le prime luci di quella tragica alba rischiaravano nitidamente la fortezza sulle cui mura poteva percorrere un cannoncino [forse: camioncino], e nei punti nevralgici si ergevano delle garitte in pietra e in legno dove erano piazzate le mitragliatrici pesanti. Mauthausen ci accolse sul suo piazzale centrale. Udii il cigolio del portone chiudersi alle nostre spalle. Ordini secchi e marcati da voci alte e stridule ci fecero capire che dovevamo spogliarci, restando completamente nudi; deponendo tutti i nostri averi su un mucchio. Mi spogliai lasciando il mio bel vestito con i pantaloni alla «zuava» sul cumulo di abiti e masserizie, rimanendo un attimo ad ammirarlo. Lasciai il cumulo con copiose lacrime. Era un senso di frustrazione mai provato, mi sembrava di essere un nudo animale nelle grinfie del cacciatore.

Dodici mesi più tardi Felice Malgaroli si avvia a ricalcare le tracce del più giovane compagno, a lui sconosciuto (né risulta che si siano incontrati più tardi).

«...si fa presto a dire lager...» 235

Sono il n.° 115577 deportato in un sottocampo di Mauthausen chiamato Gusen 2. Faccio parte di una squadra di lavoro che 12 ore su 24 le passa nelle gallerie di Sant Georgen [Sankt Georgen an der Gusen] al lavoro forzato. Ogni 15 giorni abbiamo un inversione di turno dal giorno alla notte che ci avvantaggia di 8 ore di riposo. In quei momenti, seduti per terra tra la baracca 18 e la 19, vediamo la strada che dal paese di Gusen porta a Sant. Georgen dove la domenica le SS ed i pacifici borghesi vanno a messa od a passeggiare. Il mio trasporto è partito da Bolzano ai primi di gennaio del 1945 e siamo stati liberati il 5 maggio dello stesso anno dalle truppe americane. Solo 4 mesi di deportazione, ma partiti in 501 persone, dopo quei quattro mesi eravamo sopravvissuti in 56 (cinquanta sei). A Mauthausen c’e una cava di pietra che i primi deportati spagnoli chiamavano «La cantera» (appunto bacino nella loro lingua). Esservi destinati è la peggior sorte che può capitare, l’orrore della camera a gas ed il crematorio sono poco al confronto di scavare e portare pietre enormi su per la interminabile scala la fatica brucia in pochi giorni le energie di un ventenne. Si finisce schiacciati dalla fatica, chi barcolla, o porta pietre troppo piccole, viene semplicemente abbattuto sul posto con un calcio a metà salita e mandato a schiantarsi in fondo alla scarpata.

Anche Giuseppe Biagi aveva visto l’orrore della «cantera»; ma prima aveva dovuto passare attraverso i rituali umilianti della disinfestazione e della vestizione.

Eravamo completamente nudi per ore e ore, inquadrati per cinque; un’aria gelida penetrava i nostri corpi intorpidendogli e obbligandoci a muovere gli arti, fermi sul posto. I kapò ci colpivano in continuazione, senza alcun motivo, mentre le SS, ci passavano in rassegna, come dei felini che annusavano le loro prede pronti a sbranarle; i loro occhi esprimevano un sadico compiacimento per avere a disposizione della nuova carne umana su cui sfogare le loro infauste dottrine. Finalmente giunsero due deportati con un secchio e dei pennelli di soia; iniziò la disinfezione a base di creolina, pennellandoci a dovere tutte le parti del corpo dove dovevano rasarci o tosarci: fra le gambe, le ascelle [...]. Dall’altra parte un deportato aveva il compito di rasarci, un altro ancora di tosarci. Venne il mio turno e subii lo stesso trattamenti dei miei compagni più anziani, anche se mi erano appena spuntati due peli, oggetto della mia curiosità; non potevano certamente essere un rifugio ideale per i pidocchi. Passarono alla rasatura dei capelli con una comune macchina. Con un rasoio praticarono poi una rasatura longitudinale larga circa quattro centimetri; attraversava la testa dalla fronte al granio [cranio], di modo che con la crescita dei capelli, la fascia rasata rimaneva più bassa rispetto alla parte tosata, dandoci un aspetto tribale dei famosi «zulù». Ultimata l’operazione tosatura, a gruppi di cinquanta ci fecero scendere, attraverso una decina di gradini, nella sala delle docce. Entrai con il primo gruppo assieme al bergamasco.

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A questo punto il rituale delle operazioni si trasforma in esercizio di gratuito sadismo esercitato dai guardiani del campo.

Il kapò disse: «siete tutti obbligati a fare la doccia restando al centro della sala. È proibito appoggiare i piedi sul cordolo perimetrale. Coloro che non rispetteranno le norme verranno frustrati [frustati].» Mentre continuavano a darci degli ordini, alzai gli occhi al soffitto ed osservai la disposizione delle docce: dei tubi di ferro appesi al soffitto in forma rudimentale, con dei ganci di sostegno, disposti e sistemati in forma quadrangolare si raccordavano al centro, formando una specie di puzzle. Diedero il segnale e l’acqua sgorgò tiepida, poi sempre più calda, infine bollente. Prontamente tutti saltarono sul cordolo rialzato dove non si veniva raggiunti dagli spruzzi dell’acqua bollente e dove i kapò a colpi di frusta ci indussero a ritornare al centro, quando ormai l’acqua usciva fredda. Nuovamente sul cordolo fra i colpi della frusta e dei tubi di gomma dei kapò, in un andirivieni di salti, bastonate e spruzzate d’acqua bollente e fredda. L’operazione docce non finiva mai. Finalmente ci fecero uscire all’aperto grondanti d’acqua e i segni evidenti delle sferzate ricevute, in riga per cinque attendere l’arrivo dei vestiti, battendo i denti dall’intenso freddo, in una bolgia infernale di caroselli, fra i colpi di frusta dei kapò. Giunsero i vestiti. Dei miseri stracci difformi: grandi e larghi per alcuni, stretti e piccoli per altri, confezionati da una pessima tela a strisce grigioazzurra. «Presto, diceva il kapò, vestirsi in fretta e seguirmi in riga per cinque!» Los, Los scandivano i kapò! Fui preso da un kapò e scaraventato in un gruppo qualsiasi. Volsi lo sguardo attorno rendendomi conto che ero l’unico italiano in mezzo a deportati di altre nazioni. Nemmeno negli altri gruppi che s’avviavano verso altre baracche, individuai i miei compagni. Dove diavolo gli avevano sistemati? Un nodo serrava la mia gola. Piangevo senza piangere, camminavo disperato assieme a degli sconosciuti senza conoscerne la lingua od essere legato da particolari amicizie.

La solitudine che avvolge Pino è solo un prologo alla disperazione e al dolore che di lì a poco deve affrontare.

Volgevo lo sguardo attorno per sfuggire a quella tremenda angoscia, osservando lo scenario del lager: alla mia destra una grossa costruzione con al centro una scalinata, più avanti un grande camino, simile a quello delle fornaci della mia cittadina; più in basso uno scivolo di cemento; di lato, alcuni deportati trainavano un carretto a due ruote sopra il quale erano accatastati alla rinfusa corpi umani completamente nudi, ridotti a degli scheletri, i cui arti oscillavano in continuità per gli scossoni del carretto. Si fermarono vicino al scivolo e due deportati afferrarono quei miseri resti di pelle e ossa per le mani e per le caviglie, sbalzandoli sul mucchio di cadaveri sottostanti, come fossero delle tavole legno. Rimasi sconvolto!

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Lo attende intanto il periodo di quarantena, che si configura come una fase di addomesticamento e di punizione.

Alla mia sinistra una fila interminabile di baracche, il tutto avvolto da un silenzio irreale, impensabile, come fosse un presagio di morte. Travolto e smarrito da quelle visioni, ci fermarono davanti a una baracca tana della nostra quarantena. Sempre inquadrati, passarono all’istruzione comportamentale, le [la] disciplina del lager, le punizioni previste per coloro che trasgredivano gli ordini, le norme stabilite e una serie di intimidazioni. Consegnarono ad ognuno il proprio numero che veniva attaccato sulla giacca e sui pantaloni. Il triangolo rosso spiccava al centro con la sigla IT e sotto il mio numero 50848! Esercizi per ore e ore per memorizzarlo, poiché non eravamo più esseri umani, ma solo dei semplici numeri. Ebbi la fortuna di frequentare la scuola media dove la lingua tedesca fu imposta dal fascismo, per cui mi è stato abbastanza semplice introdurmi con un rudimentale linguaggio. Dopo un’interminabile esercitazione di tedesco e mitzen ab e mizen auf [recte: mützen] (berretto giù, berretto su) ci fecero entrare nella «stube», sul cui pavimento c’era della paglia sparsa ai lati e al centro. Ci accatastarono come sardelle: uno a linz [recte: links], due a rex [recte: rechts], imponendoci l’assoluto silenzio e il divieto di uscire dalla stube per qualsiasi motivo, pena la morte. Ebbe così inizio la quarantena tra deportati sconosciuti, molto più anziani e un odio congenito nei confronti degli italiani: fascisti, traditori e badogliani. Il loro animo era cattivo e malvagio, in modo particolare i polacchi e anche alcuni russi. Comunque, eravamo malvisti da tutti i deportati d’Europa! Gli insulti e le angherie nei nostri confronti erano ormai episodi che si ripetevano giornalmente e in ogni occasione. Spesse volte dovevo sopportare indifeso le calunnie, altre – conforme i casi – mi ribellavo.

Una notte, più notti, tantissime notti, – racconta ancora Giuseppe Biagi – appariva un ufficiale delle SS dei squadroni della morte, lo «sparviero». Si presentava sulla porta della stube, fermandosi sulla soglia, con le gambe divaricate, alzando e abbassando i tacchi degli stivali, quasi ritmicamente. Indossava un ampio mantello nero, molto lungo. Gli stivali neri e lucidissimi e sul berretto dalla larga visiera – tipica delle SS – aveva impresso un grosso teschio color argento. Nella mano sinistra impugnava una frusta che muoveva leggermente. Restava fermo in quel la posizione per alcuni minuti, sulla nuda soglia, facendo roteare i suoi occhi verdi e cristallini, [...] poi, come fosse preso da un raptus, avanzava calpestando i deportati, urlando ed imprecando, colpendo con furia in tutte le direzioni con la sua micidiale frusta di coda di bue, lacerando le carni di molti deportati, gridava come un ossesso: «kaputt, kaputt!» Usciva dalla stube come un forsennato, un pazzo, o un demone.

Tutto il periodo della nostra quarantena, a notti alterne, dovevamo sopportare le sevizie di quel paranoico criminale. Si diceva che fosse originario

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Luigi Ganapini

di Bolzano e che avesse perso il braccio destro sul fronte russo. Nessun deportato lo vedeva durante il giorno, nonostante la sua figura longilinea da atleta, viso ovale, naso aquilino, labbra sottili e zigomi sporgenti, molto evidenziati, da sembrare veramente uno sparviero della morte, in quanto la stessa era segnata indelebilmente sul suo volto. Lo sparviero provocò diversi feriti gravi che furono ricoverati nell’infermeria (revir [revier = infermeria]) e successivamente nel forno. Nel frattempo il tempio del terrore si ampliava e i bersagli da colpire si trovavano ovunque. Non era un riposo notturno naturale, in quell’inverno 1943-44 nella spasmodica attesa che il pazzo massacratore ritornasse a calpestarci e a lacerare le nostre carni. Alcune notti nel silenzio totale ove tutto sembrava cheto, interrotta sporadicamente da qualche singhiozzo, urla e gemiti strazianti giungevano dalle baracche delle donne, site a poca distanza dal nostro blocco, divise da un doppio reticolato. Quali orrende atrocità dovevano subire quelle donne da parte dei nostri aguzzini? Non resistevo a tanto strazio cercando di otturare le orecchie pressandole con le dita, per non udire quelle poverette invocare la morte prima della violenza sulla carne.

Felice Malgaroli dedica diverse pagine all’incubo centrale dei detenuti nei lager: la fame.

La fame – scrive – era un entità che sovrastava ogni cosa, vista, pensiero, udito, sentimenti, era anche un pericolo. Per fame potevi ingollare qualunque cosa anche dannosa per l’organismo come: muffe verdi del pane, masticare catrame, erba, colla da falegname (se riuscivi a rubarla) gesso. Per fame, se vedevi uno spiraglio rischiavi e non era grave quando correvi un rischio calcolato per placare lo stomaco, il pericolo era quando ti buttavi allo sbaraglio: lo feci due volte, vi fu un periodo in cui nel prato situato tra Gusen uno e Gusen due, avevano dissotterrato le patate messe a conservare (ad uso militare non per noi). Ogni mattina un gruppo di deportati veniva inviato di corvée per sceglierle, pulirle ed immagazzinarle: questa operazione permetteva di saziarsi di patate (crude) durante il lavoro, gli addetti venivano scelti in parte tra i tirapiedi dei kapò i quali riportavano ai loro signori una parte del bottino (patate tagliate a fette e nascoste negli zoccoli ed altre piccoline dove capitava, una in bocca). Il grosso della corvèe era però costituito da quelli che marcavano visita al mattino e che sarebbero poi stati inviati al revier alla sera. Avevo sempre presente M. Ezio che per aver marcato visita nei primi giorni di lager, era finito alla cantera, ma la fame non la tenevo più a bada e rischiare di morire con la pancia piena di bella polpa bianca di patate crude non mi faceva più paura. Rischiai ed alla sera riuscii a scamparla […]. Ero riuscito come tutti a far passare un po’ dì fette di patate crude tra la pelle e la cintura dei pantaloni, un po’ ne distribuii, e nel gruppo degli italiani facemmo un po’ di festa. La mattina dopo mentre si andava al lavoro, e come al solito in fila per cinque, tirai fuori la mia colazione di lusso, uno

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sgorbio di patata, l’ultima, più piccola di una noce (l’avevo portata in lager nascosta non so più come) e tutti gli altri quattro me ne chiesero un pezzetto. Sentii rabbia, vergogna ed impotenza a fare qualcosa di giusto ed allora lanciai come una silenziosa bestemmia buttando con tutta la forza che avevo la patata fuori dal reticolato.

È quasi un recupero di dignità, quel gesto inconsulto; ma a ridare forza a Felice serve maggiormente l’aiuto che gli viene da alcuni internati militari italiani che nel vicino lager di Grein donano un «pastone sostanzioso» a lui e ai suoi compagni di sventura, sacrificando evidentemente parte delle loro razioni.

Il «commando» di Grein contribuì a darci qualche settimana in più di sopravvivenza. C’era un deposito di lamiere ed altri materiali per la costruzione dei portelli situati sotto le ali degli aerei. Il nostro lavoro consisteva nel rigenerare le lamiere danneggiate dall’acqua, lucidandole con stracci e sabbia. Altri facevano lavori analoghi e tutti di recupero: certo si trattava di un complesso di macchine e materiali danneggiati dalla guerra. Sul posto di lavoro c’erano civili tedeschi, austriaci ed anche internati militari italiani i quali dormivano in un campo separato dal nostro da una sola cinta di filo spinato: di notte essi ci passavano un secchio di zuppa con pezzetti di pane ed avanzi di patate, era un pastone sostanzioso e quei ragazzi si erano razionati il loro magro pasto per aiutarci. Noi eravamo italiani, russi e polacchi: dividemmo in parti uguali per qualche giorno, poi ancora ignari del peggio, facemmo troppo rumore. Finì la cuccagna. Uno di noi che osò reclamare direttamente ad un SS parlando di fame, fu messo a sedere in un rialzo perché lo vedessero tutti e poi costretto a mangiare zuppa sino alla morte. A Grein non prendemmo botte, godemmo della solidarietà degli I.M.I. (Internati Militari Italiani) ma durò poco: un giorno noi fummo inviati a Gusendue e quelle macchine e lamiere ce le trovammo nelle gallerie di Sant Georgen. Eravamo entrati a far parte del complesso produttivo della Messershmith [recte: Messerschmitt].

Qui, benché il lavoro sia condotto senza soste, riesce a stabilire un prezioso contatto umano.

Il lavoro è alla Messershmith, la fabbrica di aerei – sono in coppia con Ivan un russo della mia età. Al primo incontro mi becco il saluto tradizionale: «curva italiansko musolini fasista» – Lui non parla né tedesco né italiano così come io non so di russo né di tedesco, cerco di farmi capire a gestì e parole in gergo di lager, sinché riesco a spiegarmi. Infine quando ha capito e ci crede dice: «partizan tavarish»: diventiamo amici per quanto si possa esserlo in quelle condizioni. Parliamo un linguaggio nostro, 12 ore insieme a limare le sbavature di un portello metallico sono

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lunghe. Uno di fronte all’altro ci aiutiamo, abbiamo imparato a riposare in piedi appoggiati alla lima in posizione di lavoro con gli occhi chiusi, uno due minuti sono un risparmio di energia forse un’ora di più di vita, lo facciamo una volta ciascuno quando non vi sono SS in vista ed il Kapò cammina voltandoci le spalle. Ad ogni turno faccio bollire un po’ d’acqua facendovi passare la corrente elettrica allacciandomi alle sbarre del quadro elettrico situato alle mie spalle. Se ci prendono ci impiccano sul posto col fil di ferro per sabotaggio, ma la sete è sempre il nemico più temuto, così rischiamo: anche quell’acqua forse sarà un’ora od un giorno di vita in più.

Guadagnare «un’ora di vita in più» è una necessità che spinge a rischiare ogni cosa.

Un’altra volta – è ancora Felice che parla – vidi, entrando in galleria, del radicchio selvatico che stava spuntando a circa venti metri dal nostro camminamento, cioè a metà distanza tra noi ed il reticolato: era impossibile raggiungerlo durante il passaggio all’entrata ed all’uscita in fila «Zu funf» [recte: fünf] con SS e kapò. Ed allora semplicemente abbandono il posto di lavoro chiedendo di andare alle latrine, passo in reparti che non mi competono camminando calmo con una scopa in mano, esco all’aperto e vado verso il radicchio (ed il reticolato di cinta) e quando dalla torretta cominciano a notarmi sono già alla meta, strappo il radicchio e me lo mangio sulla via del ritorno. Era il giorno di Pasqua del 1945 ma in lager non cambiava nulla, se mi avessero fermato sarebbe stata la fine. Ho raccontato questi avvenimenti non per narrare le mie avventure ma per spiegare come mai molti di noi venivano eliminati improvvisamente anche a causa di queste cose: poteva andarti male, perché rischi così li affrontavano in molti. Di quel radicchio selvatico ne portai un po’ ad Ivan il quale riuscì, non so come, a riportarlo cotto in un po’ d’acqua e ce lo mangiammo insieme, una parte la lasciammo a due polacchi i quali alla sera ci inclusero come aiuto eccezionale nel trasporto delle marmitte e così ricevemmo un mezzo mestolo supplementare. Onestamente e senza ombra di ironia debbo dire che fu una buona Pasqua perché la pancia piena mi fece tornare più forte la speranza.

Il lager ha le sue precise gerarchie e all’interno dei prigionieri l’autorità è detenuta dai kapò.

I kapò formavano un gruppetto per ogni stube (o baracca), era gente condannata per reati gravi e se lo fossero stati per assassinio non aveva per noi nessuna importanza poiché nel lager assassini lo erano diventati: avevano un capo che era l’interlocutore tra la SS e gli altri. Godevano di uno spazio comodo e separato esclusivo per loro vicino alla stufa sulla quale scaldavano a volte qualche vivanda allo loro dipendenza, secondo la scala gerarchica c’era lo Schreiber che essenzialmente teneva la conta-

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bilità dei morti in uscita e dei nuovi arrivi. Nella nostra baracca era un polacco di sesso dubbio e per questo gradito ai kapò, voglio dire che non godeva dei suoi privilegi per praticata violenza, ma per altri motivi che a noi schiavi non passavano manco per la mente ma erano importanti perché non picchiava e a noi andava bene [si tratta probabilmente del polacco che distribuiva le razioni del cibo e occasionalmente selezionava i prigionieri per il revier]. Poi c’erano: il capo barbiere che organizzava la rasatura settimanale reclutando gli aiutanti tra di noi e compensandoli con un mezzo mestolo di zuppa. C’era il capo scopino, […] violento ed assassino che alla liberazione se l’è svignata. Anche lui era come gli altri una autorità assoluta: reclutavano aiutanti di corvèe a loro giudizio. Alcuni aiutanti erano fissi, altri saltuari. Essere scopino o gregario addetto a servizi in baracca significava avere un supplemento di zuppa e non andare al lavoro forzato: era un modo di vivere forse più a lungo, ma non sempre era una fortuna e per questo essere un gregario fisso di kapò non l’ho desiderato mai.

All’arbitrio dei kapò è sempre sottoposta la vita di ogni deportato e non esistono luoghi in cui sia possibile sfuggire al loro imperscrutabile e sadico arbitrio.

La baracca (o stube) qui a Gusen è costruita in legno, vi sono finestre con vetri rotti e spifferi dappertutto, ma rispetto agli altri nostri ambienti non fa freddo. Siamo talmente pigiati che il calore è quello della stalla e a proposito mi è venuto sovente da pensare com’era gradevole il buon odore di stallatico nelle nostre campagne a confronto del fetore della baracca dove nessuno di noi ha possibilità di lavarsi da mesi. Tuttavia è l’unico luogo dove puoi avere qualche ora di riposo, la massa inoltre ti difende: cerchi sempre di stare in mezzo al gregge, lontano dalla portata del «gummi» [nel gergo del lager: un pezzo di cavo elettrico lungo oltre un metro, grosso un dito, usato a mo’ di frusta], bisogna stare defilati, lo sanno tutti perciò non è facile. Uno dei kapò circola, osserva e seleziona, apparentemente senza motivo, invia alcuni di noi nel settore prossimo alla zona riservata ai kapò: sono tra i selezionati. Riesco a svignarmela e tornare nel gregge, ma la cernita non è ancora finita e vengo ancora spedito tra i selezionati: sono all’inizio della fila e vedo subito cosa ci aspetta, venticinque frustate vibrate sul sedere nudo con un cavo elettrico grosso quanto un dito, le urla di quelli che mi precedono provocano il battitore ancora di più. I kapò osservano lo spettacolo come fosse un gioco, quando tocca a me provo a non gridare e dalla mia bocca non esce un lamento stringo solo i denti e di frustate ne conto «solo» dodici (Maggiorotto mi dirà poi che mi aveva già dato per morto) una battuta così si ricorda per tutta la vita: nel senso che ogni qualvolta si vede o si subisce violenza (anche solo morale), rivedi quel momento e nell’offensore un sadico kapò. Ad esecuzione avvenuta un kapò spiega che le maglie sono «verboten» e che io ero tra quelli che

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avevo (non so come) trovato il modo di averne una, di cotone e senza maniche. Il lager veniva governato in questo modo, le nuove leggi venivano precedute dalla punizione – la spiegazione arrivava dopo. Ma da quella battuta molti non si alzarono più e vennero buttati sul mucchio.

Erano i kapò a sorvegliare l’osservanza dell’ordine stabilito.

La disciplina è metodo, una sapiente arte di eliminazione – tanto di prigionieri freschi ne arrivano sempre ma bisogna comunque resistere malgrado costoro – resistere e non morire è la nostra lotta – senza mezzi, senza esperienza, imparando ogni momento il pericolo poiché una scarica di «gummi» può arrivarti sulla pelle ad ogni istante e per motivi che apprenderai poi se ne sopravvivi. Dopo la tirata di 12 ore forzate al lavoro ce n’è un’altra di un paio d’ore, uscendo dalla galleria ancora «zu fumf» [recte: fünf] (per cinque), ancora le SS contano, i Kapò contano e giù botte e questa volta con un motivo in più, chi muore avanzerà le razioni (a favore dei Kapò) e sul mucchio dei morti sarà scaricato domani. All’arrivo in baracca altra conta e corvée varie […]. Poi verrà la sospirata distribuzione di «pane», è nero chiaramente integrato con segatura e polveri vegetali inimmaginabili, sempre con strati e crepe sature di muffa, sicuramente insidioso per qualunque organismo, ma per noi è soltanto agognato e sempre troppo poco […]. Alla sera un solo pensiero, in quanti saremo a dividere?

La spartizione è un rito: uomini di razza e lingua diverse stanno attorno ad una coperta su cui uno viene delegato a fare le parti, tutti guardano le briciole che vengono spostate da un mucchietto all’altro tra cenni di assenso, poi ad ognuno viene assegnato un numero in tedesco, chi ha fatto le parti si volta con le spalle al pane ed un altro possibilmente di nazionalità diversa indica una porzione e dice «camu?» (in slavo) e l’altro dice i numeri a caso senza guardare, così ognuno prende la sua razione e chi ha fatto le parti resterà ultimo. Mangi il tuo pane adagio, cerchi di farlo durare perché sai che sino a domani (fra 15 o 16 ore) non avrai più nulla. Cerchi di sistemarti al posto per dormire. La notte dura poco, dopo un paio d’ore di sonno sveglia, tutte le sere ce n’è una, una volta il «Laus [pidocchi] controll», un’altra «numeri controll», l’altra ti fanno la barba (ed io che come tanti altri non avevo un pelo sulle guance dovevo comunque alzarmi, fare la coda dal «friseur» e sottostare alla rasatura) –L’importante era romperci il sonno. Un’altra volta ci passavano il rasoio sulla «strasse» (la striscia rasata dalla fronte alla nuca) – erano regole di disciplina – qualche volta in piena notte dovevi spogliarti, fare un mucchietto dei tuoi stracci e correre verso il «baden». Oltre trecento uomini scheletrici, nudi, corrono d’inverno sotto ad una tettoia: quando vi saranno ben allineati riceveranno una doccia d’acqua naturale così come arriva dal Danubio – niente saponi, niente asciugamani, è solo un insulto di freddo. Al ritorno i deboli cadono secchi; ogni volta sono sette od otto. Quando

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arrivi in baracca se entri con i piedi infangati sarai punito oppure dopo vestito potrai essere mandato di corvée a raccogliere quelli che sono caduti.

Le esecuzioni capitali costituiscono una costante, utilizzate sia come punizione sia come esempio ammonitore. Racconta Malgaroli:

Alla prima settimana di lager assistemmo a qualcosa di tremendo proprio nel campo principale. Vi fu un tentativo di fuga da parte di un gruppo di segregati – essi erano chiusi in un recinto speciale situato nell’angolo in fondo a sinistra (per chi guarda con le spalle al Portone) e dietro il blocco quarantena dove stavamo noi – non sapevamo chi fossero, vedevamo solo il mucchio dei morti lividi di botte e scheletrici che veniva rinnovato ogni mattina appena fuori dal loro recinto. La notte che tentarono la fuga in massa, noi sentimmo solo urla e spari. Verso l’alba misero tutti noi nudi all’aperto (era la seconda metà di gennaio 1945) e così restammo per punizione fino a quando le SS fecero passare dinnanzi a noi uno dei fuggiaschi: gli avevano messo appeso al collo un cartello irridendo alla sua fuga, era pesto, lacero nella pelle, sanguinante ma sorrideva. Lo ricordo ancora, medio basso di statura, a testa alta, con quel sorriso duro forzato e beffardo, sapeva di avere poche ore di vita e tra le SS che lo accompagnavano con i cani andava a sicura morte ma non dava la impressione di un perdente. Tutto era accaduto a meno di venti metri da noi ma il lager era tale che solo molto tempo dopo sapemmo di quel tentativo di fuga, di come le SS sparavano mentre quei disperati a centinaia passavano sulle coperte buttate sul filo spinato e seppi poi che quel prigioniero ricatturato fu fatto morire sotto getti di acqua gelata sinché suoi vestiti divennero di ghiaccio.

Aggiunge Malgaroli in una nota a pie’ di pagina: «Quell’uomo si chiamava Karbiscev Dimitri Mihailovich ed era un ufficiale russo». Al suo racconto si affianca anche un episodio narrato da Pino.

All’appello mancava un russo. Era introvabile: SS e cani sguinzagliati alla sua ricerca senza alcun risultato, sembrava si fosse volatilizzato. Dovemmo sostare in piedi tutto il giorno, senza ricevere le rape, fra un’ interminabile berretto giù, berretto su. Verso sera ci fecero entrare nella stube. Al mattino, mentre uscivamo, un tonfo attirò la nostra attenzione: il russo ricercato era caduto dall’abaino [sic] nel centro del pavimento in legno della stube. Si era nascosto nello stretto anfratto, (solo lui sa come) forse attorcigliandosi attorno all’apertura quadrangolare, fino a perdere le forze e cadere. Lo presero i kapò, che agli ordini delle SS inviperite lo tempestarono di botte, accompagnandolo sul piazzale dove la forca si ergeva

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su di un alto basamento che si raggiungeva attraverso una scala. Il braccio lungo di legno pareva vibrarsi al cielo, lambito da nuvole sfilacciate, come fossero uscite dalle vesti degli spettri che s’aggiravano indisturbati. Dopo una mesta cerimonia, confortata dalla piccola orchestrina, composta da deportati che magistralmente facevano piangere le corde dei violini, consapevoli che un’altro essere veniva immolato sull’altare dell’ordine, alla presenza di centinaia di deportati, debitamente inquadrati, lo impiccarono. Mentre il russo dondolava, il comandante del lager fece il suo discorso ammonitore.

Sevizie ed esecuzioni perpetrate nei modi più crudeli non conoscono tregua nemmeno quando la fine del nazismo è oramai imminente e da tutti avvertita.

Nella seconda metà di aprile ’45 le razioni di pane sono così scarse che i Kapò hanno inventato un nuovo modo per rubare. Ogni otto individui riceviamo la razione sbriciolata e versata dentro ad una coperta – queste non sono mai state lavate, portano le tracce del malati di piaghe e dissenteria inoltre il peso del pane è chiaramente frodato. Uno osa reclamare, è un italiano, veneto di nome Vincenzo, non è una protesta chiassosa, poco più di un mugugno ed il kapò indica con il dito e l’esecutore è Paul il bolzanino capo scopino della baracca. Vincenzo viene buttato a terra tra due castelli ai quali Paul si sostiene con le mani per prendere slancio mentre salta con tutto il suo peso ed assassina l’uomo sotto di lui davanti a noi tutti che vediamo la carne ed il sangue uscire, vediamo le ossa che si rompono e le urla di Vincenzo «Paul no, Paul pietà, la mia bambina». Si moriva anche così ed erano cause e casi comuni.

Su Giuseppe Biagi il regime di terrore ha effetti devastanti, da cui può salvarsi solo grazie all’intervento di un altro deportato, di maggiore anzianità.

Non era tanto un senso di paura o di terrore, oppure di un annichilimento ottuso, quanto l’impressione di essere pervaso da un gelo crescente, che andava sempre più diffondendosi, invadendomi completamente. Sentire quelle strazianti urla, il pazzo massacratore frustarci e calpestarci come delle bestie, mi sembrava che raggelasse tutta la mia esistenza, passata e presente, coinvolgendo il mio mondo, piccolo e insignificante; e in quella circostanza s’alternavano frantumate le immagini della mia scarna vita, segnata da povertà e da piccolissime e talvolta inutili cose, con grande rimpianto per tutte le persone amate. Sentivo che quel profondo gelo spezzava per sempre i miei sogni […]. Spesso piangevo in silenzio, in qualsiasi angolo, in fila, nella conta, durante la notte, e in tutti i posti che non potevo essere osservato; mi sembrava di rincuorarmi. Durante la notte i singhiozzi si facevano più marcati, non solo i miei, altri piangevano, molto più anziani di me, nella

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nostra intimità violentata, per i morsi della fame che picchiava inesorabile nelle pareti del nostro stomaco. Non era facile autocontrollarsi in un mondo dove tutto ti crolla addosso e la morte è in agguato ovunque. Un mattino al lavatoio, dopo essermi lavato a dorso nudo, nemmeno indossai la giacca, che improvvisamente altre lacrime bagnarono il mio volto, spostandomi all’angolo per non essere visto. Un’ombra si presentò alle mie spalle, girandomi e appioppandomi due sonori ceffoni da farmi traballare intontito. Era il capo del blocco! [Il capo blocco era un prigioniero responsabile, davanti ai tedeschi, dei detenuti nella baracca] Disse: «sono giorni che ti osservo attentamente, piangi sempre! L’altro giorno se c’era nella vicinanze un SS ti avrebbe fatto fare una brutta fine! Hai capito!? Kaputt; kaputt! Ora basta non devi piangere più! Con forza continuò: devi assolutamente metterti in testa che sei un ragazzo ancora sano e sei appena entrato nel lager. O superi la tua crisi o per te è la fine. Devi scordarti della tua famiglia, pensando solo a te stesso! Qui non hai nessuno, sei solo un numero fra migliaia di altri numeri, non sei niente! Lo capisci che sei in un campo di sterminio, come me, come tanti, e che possono ammazzarci da un momento all’altro?» Mi consegnò ancora un ceffone, andandosene piano piano con le spalle ricurve. Forse soffriva anche lui, o forse gli avevo fatto pena. Seppi che si chiamava Karl ed era di Innsbruck, triangolo verde, socialista? Portava un numero che non arrivava alle migliaia, per cui era approdato nel lager fra i primi prigionieri tedeschi. Karl, piccolo e gracile, duramente provato dalla lunga prigionia, dall’apparente età di circa quarant’anni, andandosene in quel modo, quasi colpevole per quanto avveniva, mi fece molta pena e alquanta tristezza, come se nel mio animo frustrato si scatenasse una reazione interiore, tesa a comprenderlo e a stimarlo. Nei giorni che seguirono, piangevo sempre meno. La sua immagine era sempre lì ed avevo la vaga sensazione che quei ceffoni avessero avuto la facoltà di far uscire al mio corpo l’anima perversa che mi portava gradualmente alla disperazione totale, alla sicura morte. Piano piano, con il passare dei giorni non piansi più e cercai di adattarmi a vivere in quella realtà, facendo emergere il proprio IO. Diventai sprezzante ed offensivo con i compagni della stube, rispondendo alle accuse di fascista traditore, con durezza e vigore, aspro e risoluto, ottenendo qualche piccolo e significativo rispetto.

Indurirsi di fronte alle sofferenze proprie e altrui, dimenticare gli affetti e le persone della vita passata: è la sola ricetta, come molti testimoniano, che consentiva di non essere moralmente distrutti.

Per gli italiani il lager significa una prova ancora più dura a causa della loro stessa nazionalità: «Essere italiani all’estero è sempre stato difficile, persino in lager dove si era tutti disgraziati allo stesso livello», dice Malgaroli. Tuttavia, aggiunge, nei lager era possibile salvaguardare qualche isola di reciproca lealtà.

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I rapporti umani – ricorda – seguivano un codice non scritto: tra di noi schiavi al lavoro forzato c’era una specie di codice d’onore per cui non si litigava mai. Il momento più cruciale della distribuzione pane, lo assolvevamo nella più assoluta pacatezza, ma se uno avanzava un pezzo di pane per l’indomani e glie lo rubavano, il fatto veniva accettato come normale. Ci si aiutava solo tra gruppi etnici dello stesso tipo, salvo casi di lavori in coppia come tra me Ivan. Tra un gruppo e l’altro c’era una certa barriera che però spariva quando appariva il pericolo, un nemico di classe. Se si avvicinava un diverso, fosse uno scopino, un kapò od un privilegiato qualunque, cadeva il silenzio e la barriera si elevava verso l’intruso. Alla notte per ogni bisogno, occorreva uscire dalla baracca e raggiungere le latrine, prendendo freddo ed in difficoltà al ritorno, per reinserirsi tra gli altri due della medesima cuccetta. Avevamo preso l’abitudine di fare pipì diretta mente dalla baracca attraverso i vetri rotti delle finestre. Una notte il faro della torretta raggiunge la finestra mentre sto assolvendo il mio bisogno. La SS manda un kapò il quale ci fa uscire tutti, indica la pipì fresca e vuol sapere chi è stato menando botte con un’asse di circa un metro per dieci centimetri. Tutti del gruppo prendono le botte, ma nessuno parla, eravamo italiani, russi, polacchi, un ebreo e forse anche un francese, diciotto disgraziati, uno s’è preso una brutta botta sulla schiena ed abbiamo dovuto portarlo a braccia in baracca ma nessuno ha parlato. Ci hanno imposto di denunciare il colpevole all’alba oppure «alles krematori», ma al mattino siamo andati al lavoro e nessuno ci ha disturbati più. Resistere agli «altri» era più che solidarietà, era un bisogno di sentirsi ancora vivi ancora forti o forse solo il disperato bisogno umano di appartenere ad una forma di mondo, l’unico che ci rimaneva.

Nelle gerarchie del lager i più anziani erano i «preminent», che non c’erano a Gusendue dove la morte era più precoce, ma solo nel campo principale.

Nella prima settimana che fui a Mauthausen – racconta Malgaroli – ebbi modo di vedere qualche «preminent», uno di costoro venne a cercarmi e mi accompagnò da uno che seppi poi essere Giuliano Paietta (allora quel nome non mi diceva nulla), ma compresi che si trattava di un collegamento importante ed a sua richiesta gli raccontai quello che sapevo della vita partigiana, dell’andamento del fronte, del morale e delle speranze del popolo in Italia. L’incontro avvenne su di un ciglio di scarpata sopra la cantera dove vedendo i disgraziati che vi lavoravano imparavo qualcosa di lager.

Credo che Paietta l’avesse fatto con quella intenzione e poi mi congedò regalandomi due fascie per le caviglie. Avrei preferito un pezzo di pane ma comunque fu qualcosa incontrarsi una volta con «l’organizzazione».

Dopo qualche giorno fui aggregato ad un commando destinato a Grein [cittadina austriaca poco distante da Mauthausen] e di là poi a Gusendue dove contatti con organizzazioni interne non ne ebbi più.

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La «cantera» che Pajetta implicitamente mostra a Felice è nota a tutti i deportati a Mauthausen; Giuseppe Biagi ne sperimenta l’orrore fin dagli inizi della prigionia.

Quasi al termine della quarantena, per alcuni già finita, ci svegliarono ch’era buio e in fila per cinque, scendere nella cava, caricarci dei massi di pietra sulle spalle e sempre inquadrati salire i centottantasei gradini informi, che dalla cava portavano sul colle e, alle nostre spalle le acque limacciose del «Danubio blu» correvano tumultuose a valle. Giunti sul colle ci fecero depositare i blocchi presso un cantiere di lavoro, quasi a ridosso dalle baracche delle donne. Un fremito mi colse per l’orrendo spettacolo che apparve ai miei occhi: due donne appese ai reticolati folgorate dalla corrente elettrica; altre gesticolavano all’interno del piccolo spiazzo prese da un’indicibile disperazione. Vestivano come noi, rapate a zero e dai loro lineamenti traspariva inequivocabilmente che erano delle ragazze molto giovani; le stesse che durante le notti emettevano quelle allucinanti grida di angoscia e di terrore. «Loss, loss, scandiva il kapò, accatastare i blocchi in linea! loss, loss!» Ci ricondussero nella cava rischiarati dalla luce del mattino, terribilmente provati dal peso dei blocchi e dallo sforzo nel salire difformi gradini, angosciati dalla vista di quelle ragazze torturate e sulla soglia della pazzia. Scendendo nella cava vidi tutta la lunga colonna dei deportati risalire la scalinata con un masso di pietra sulle spalle, erano i «puniti» addetti a tali mansioni.

Per quante settimane o mesi erano costretti a tali mansioni nessuno di noi lo sapeva. Osservavo quei miseri resti che mi passavano accanto, le cui facce spettrali erano seminascoste dai massi di pietra e le cui sembianze davano l’aspetto di orribili maschere; facce spente e paurosamente prosciugate fin dentro il midollo. Vidi quegli esseri muoversi arrancando lentamente, come delle comparse del purgatorio, il cui corpo ricoperto di piaghe e di ferite sanguinanti, rasentava la biblica rappresentazione del «Cristo». Vidi quegli occhi che non erano solo gli occhi di un essere stravolto dalle sofferenze, ma già sradicato dalle comuni cose del mondo. Occhi che avevano ormai appreso il senso della morte: vuoti vaneggianti e folli, come un corpo senz’anima e senza dignità, vaganti, assenti e vacillanti nell’inferno della cava e sui centottantasei scalini. Forse le bestie hanno simili occhi nell’estrema angoscia della morte, forse no, e ogni concetto comprensibile s’era disperso nei lager, come il concetto «uomo»!

Al termine di quella terrificante giornata da incubo, ci ricondussero nello spiazzo antistante il nostro blocco della quarantena dove, dopo l’appello di qualche ora, il maresciallo delle SS disse: «Domani sarete trasferiti in un altro lager per eseguire tutti quei lavori che vi verranno comandati e che dovranno essere svolti nel migliore dei modi e conforme le istruzioni che riceverete. Coloro che trasgrediranno agli ordini, verranno severamente puniti. Perciò state attenti in quanto potreste ritrovarvi nella cava a trasportare i massi, e a vostro gradimento spiccare il “volo

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Luigi Ganapini

degli angeli”! Mizen ab, mizhen auf ! Los, Los!» Ci fecero rientrare nella baracca ch’era notte e più tardi seppi che gli «angeli» erano i deportati, giunti ormai allo stremo delle loro forze, raggiunta la cima del colle, sul lato destro della cava si stagliava a strapiombo la parete, fatti pochi passi, si lanciavano con il proprio masso nel vuoto sfracellandosi al suolo!

L’orrore si ingigantisce se lo si confronta con gli sprazzi di una tranquilla e serena vita quotidiana: quel poco che dal lager Felice Malgaroli ha già visto, e che sente il bisogno di ribadire, a implicita condanna della cecità dell’intero popolo tedesco: «Intanto le SS, gli sfollati tedeschi ed i buoni borghesi passavano ogni domenica a non più di trenta metri dalla nostra baracca e con i loro figli per mano andavano a messa od a passeggiare». E per Malgaroli raccontare di quegli orrori diventa una necessità, per uscire in qualche modo dall’incubo, che gli è entrato nell’anima.

Ogni ricordo si lega ad un fatto avvenuto prima o dopo in tempi lontani. Nel mio racconto vado avanti e indietro nel tempo perché non riesco a ricordare in altro modo. Anche i sogni tornano di notte ma i ricordi vi rimbalzano da una zona all’altra dove i fatti si collegano quando lo scenario non era il medesimo, ma il risveglio è sempre laggiù a Gusendue. Apro gli occhi ed anche al buio passa subito l’incubo. Non leggo racconti di deportazione, perché tutti sin dalle prime pagine mi sembrano lontani da quella che è stata la mia realtà In essi, quasi sempre vi si trascura un gradino direi «sociale» del lager, ma nemmeno si può chiamare così, lager è lager, e dentro vi erano sì differenze di condizioni di vita al disotto di SS e kapò, ma piuttosto di gradini sociali, li chiamerei «canali» a velocità variabili più o meno forti verso il crematorio. Di questo avevo tentato di scriverne già nel 1969 quando lavorando con Primo Levi ci si incontrava qualche volta e si parlava. Era un tipo dolce e difficile, per capirlo lessi poi i suoi libri, ma di questi nessuno ne lessi sulla deportazione. Ho un ricordo del lager che non voglio inquinare con altri racconti di cronache, un ricordo che mi dà ancora dolore per la vergogna del consorzio umano che tutto aggiusta e plasma a comodo della propria cosiddetta coscienza, non penso vi si possa nemmeno dare giudizi non esistendo a mio parere, né leggi adeguate né linguaggio per descrivere limiti così bui. Io racconto solo ciò che gli occhi hanno visto, la pelle e la carne hanno sofferto la gola e lo stomaco hanno patito. Ma il tutto ha formato un mostro dentro di me che potrò togliere solo raccontando tutto senza nascondere nulla almeno a me stesso ed a queste memorie alle quali debbo dire tutto in questo mio modo di dire lager. In genere in esso vi si trova tutto il tessuto di una società. Ma società aberrante dove ciascuno appare con il proprio istinto e ruolo naturali tesi al massimo ed evidenziati come artigli per

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sopravvivere. Ciò nonostante, la macchina nazista: lager-eliminazionecrematorio, macinava chiunque, forti o deboli che fossero, a meno che la sorte concedesse opportunità di entrare nel ciclo di morte lenta, e costretti a svolgere ruoli necessari al sistema nazista. Credo vi siano stati canali innumerevoli io racconto appunto «solo» quelli visti. Per dirlo (lager) il più delle volte si racconta dei grandi muraglioni grigi, il reticolato sostenuto da isolatori e percorso da corrente elettrica, tetre torrette con sentinelle mitragliatrici, SS con cani lupo al guinzaglio, i kapò scelti dalle SS tra feroci delinquenti tolti dalle galere e messi a gestire le baracche (o stube – block – capannone) che dir si voglia. Si aggiunge la grande distesa di queste baracche dalle quali vicino o lontano si vede fumare il crematorio. Aggiungi il mucchio dei morti ogni mattino, la fame, la sete, la paura: e non hai ancora percepito nulla.

In questi brani di memorie – riprende più avanti quasi a conclusione della narrazione della sua intera vicenda, dalle memorie infantili alla fine della guerra – ho voluto raccontare di Gusen due, raccontarlo dall’angolazione più bassa, quella dello schiavo senza collegamenti e senza speranza che in sé stesso e nella fortuna. Il mio intento è stato solo di raccontare come «non» si viveva in quel lager, spiegare cosa erano diventati gli uomini, noi deportati da una parte e kapòs ed SS dall’altra, legata da una sorte infame voluta da una motivazione politica nazifascista che presumeva di imporre ordine e civiltà. Ho cercato di esprimere, come anche nei sopravvissuti tutto fosse già morto fuorché la larvata vitalità animale che ci sosteneva ed insisto su questo, perché si comprenda come a pochi di noi sia stato possibile rinascere completamente […].

Ho scritto tutto questo basandomi sulla memoria; come avrete compreso a Gusen due non si scrivevano appunti. Sovente mi sono chiesto come raccontare, come iniziare e quel pensiero persisteva come quando svegliandoci di notte si vuole scrivere una lettera iniziando con «caro» o «cara». Ma quello che volevo dire non è una lettera dove basta mettere sulla carta un saluto, una richiesta, un pensiero o un aneddoto famigliare. Si può raccontare tutto di una vita normale per la quale già esiste un linguaggio, ma per «quel lager» non esistono espressioni e forse per questo non sono riuscito a descriverlo. Ma a raccontare il lager dal punto di vista più basso, quello dello schiavo-forzato credo di esserci riuscito, o almeno a fare meditare un momento prima di dire lager.

XII. La persecuzione e la deportazione degli ebrei

Non sono molte le memorie di deportati ebrei nell’Archivio dei diari. Tra di esse spicca l’intervista di Shlomo Venezia rilasciata nel 2005 a Sonia Lipani e pubblicata l’anno seguente. È un racconto impressionante perché Shlomo, ebreo di Salonicco, ricorda una vicenda particolarmente crudele: nel campo di Auschwitz, dove viene deportato alla fine del marzo 1944 dalla città natale, è assegnato a un Sonderkommando (uno dei gruppi di deportati che dovevano collaborare con le SS) con il compito di procedere alla rimozione dei cadaveri e portarli al Crematorio. Spesso al Sonderkommando di Shlomo veniva imposto anche di collaborare, sostenendo le vittime, alla loro uccisione.

È un lungo doloroso racconto, esemplare della violenza estrema e della degradazione umana innescate dalla persecuzione razzista. Ho deciso di limitarmi a menzionarlo, senza condurre un’analisi dei suoi contenuti, sia perché l’intervista ha caratteri ben diversi da un diario o da una memoria sia perché di Shlomo Venezia esiste anche un’altra intervista, concessa a Béatrice Prasquier nel 2006, edita in Francia e in Italia nel 2007. Non sono molte le differenze tra i due testi, ma mi è sembrato che, anche per grande rispetto per Shlomo Venezia, non rientrasse in questa raccolta di diari e memorie, un’analisi filologica di confronto tra documenti di tal tipo, sui quali del resto è inevitabile si sia riflessa anche la personalità dell’intervistatore esterno.

Pur senza eguagliare la crudezza della narrazione di Shlomo, anche un’altra memoria, quello di Dora Klein ci introduce con straordinario vigore alle esistenze dei perseguitati, alle loro sofferenze e allo stesso tempo alla loro volontà di difendere dignità e vita. In questo, così come nelle pagine di Eugenia Servi, di cui parlerò più avanti, si coglie come la persecuzione e la deportazione si inseriscano in vite complesse e contribuiscano a modellare e

determinare caratteri e destini di quelle che avrebbero potuto essere semplicemente docili vittime.

Dora, nata in Polonia nel 1913, è una donna che sa condurre la sua vita con dignità, con coraggio e con determinazione, al di fuori delle sclerotizzate convenzioni della società del tempo; non è una vittima docile e rassegnata; e di conseguenza è doppia l’esclusione che deve fronteggiare: come donna e come ebrea.

Ebrea polacca, non praticante, conosce fin dall’infanzia l’antisemitismo del suo paese natale ma ne viene colpita direttamente solo dopo la morte del maresciallo Józef Pilsudski, nel 1935, quando la Polonia decreta per gli ebrei l’interdizione della frequenza a diverse facoltà universitarie, prima fra tutte quelle di medicina. E Dora, che alla laurea in medicina aspira, deve recarsi a studiare dapprima in Cecoslovacchia, a Bratislava da cui viene presto espulsa per la sua attività politica poiché già in Polonia, per reagire ai «soprusi del nostro governo», aveva abbracciato «con fervore l’ideale comunista».

La giovane donna decide allora di andare a studiare all’Università di Bologna, essendo del tutto ignara, come tanti, delle implicazioni razziste del regime fascista. Agli inizi può anzi godere anche delle facilitazioni che l’Italia fascista offre in quel torno di tempo agli studenti stranieri. E nel 1936, durante una breve vacanza a Fiume, incontra «Lui».

«Chiuso nella divisa bianca da ufficiale di marina, alto e slanciato, emanava un fascino, una specie d’incanto che faceva vibrare certe corde sensibili del mio animo». La passione che di lì a poco unisce i due amanti non trova ostacoli solo nelle ripetute lontananze imposte dai doveri militari del giovane ufficiale. La turba soprattutto il rifiuto ostinato di lui a legarsi in un vincolo stabile, anche quando nasce una bambina – che lui peraltro riconosce e legittima. Il diario di Dora ripercorre ostinatamente le vicende della relazione, formula congetture, fa rivivere sospetti e timori, alla ricerca di spiegazioni per un rifiuto, a lei incomprensibile, che non tocca gli aspetti formali ma investe la sostanza del loro rapporto. Certo ci sono ostacoli esterni – la sua condizione di ebrea straniera – ma sembra determinante il carattere stesso della donna, lontana da ogni modello consueto nell’Italia borghese in cui vive B. (la sigla con la quale Dora lo identifica).

Così come avviene per Maria Alemanno, la vicenda di Dora sembra testimoniare qualcosa di più che il pervicace maschilismo dell’Italia d’allora. Il comportamento degli uomini coprotagonisti

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di queste due vicende è intriso di un disprezzo profondo verso le loro donne che confina con la misoginia. E Dora vive quindi la sua maternità da sola, con rari momenti di conforto da parte del suo «marito» (il quale così si qualifica negli sfoghi epistolari), con riconciliazioni e rotture sempre legate alla collocazione eterodossa di Dora nel modello sociale e morale dell’Italia del tempo. Dopo la nascita della figlia si ritrova anche in gravi difficoltà economiche, perché il conseguimento della laurea non le apre, nell’Italia delle leggi antiebraiche, l’esercizio della professione. La tormentata vicenda sentimentale si era infatti appesantita nel 1938 con l’emanazione della legislazione persecutoria. Uno spiraglio sembra aprirsi quando B., seguendo il suo tortuoso modo d’agire, sembra acconciarsi all’idea di una unione formale e in questa fase si risolve ad avanzare alle superiori autorità militari una domanda di permesso per un matrimonio «misto»; ma nel giro di pochi mesi la richiesta è respinta dalla Marina in omaggio alle leggi antiebraiche. (Per quanto Dora debba riconoscere che l’orientamento politico dell’arma, tradizionalmente monarchica, suggerisce ai superiori diretti comportamenti rispettosi verso la coppia irregolare).

Ma all’interno della coppia sono le tensioni nascenti dall’animo tradizionalista e autoritario dell’uomo a impedire rapporti sereni che si protraggano a lungo. Basta che «Lui» trovi in casa, solo con lei e la bambina, un uomo – Oskar, un comune amico, internato perché ebreo – per aprire una crisi irrimediabile. Ciò avviene nei primi mesi del 1943 nel corso di un soggiorno a Borgotaro, dove li ha portati la girovaga carriera dell’ufficiale, di stanza a Palmaria, isola del golfo di La Spezia, da dove nei giorni di licenza può raggiungere agevolmente Dora e la figlia.

Si dava il caso che B. non nutrisse affatto sospetti circa la natura dei miei rapporti con Oskar, «Non rimarrei con te neppure un momento se pensassi ad un legame tra di voi» – confessò egli stesso. […] La pulsione che lo dominava in quel momento non era di natura fisica e carnale, ma una più sottile inconfessabile variante mentale di potestà perduta. Il suo orgoglio ferito non ammetteva alcun ragionamento e tanto meno concedeva a me la facoltà di agire in modo non consono ai suoi pregiudizi.

È la fine di agosto 1943. La licenza è scaduta e B. se ne va.

Ai primi di settembre, dopo l’armistizio, svanite le speranze dei quarantacinque giorni badogliani, Dora rimasta sola avverte il

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pericolo che si addensa su di lei: «La situazione stava diventando insostenibile per noi. Decisi come primo provvedimento di allontanare mia figlia da me, e fu un’intuizione davvero eccezionale che salvò la vita ad entrambe. […] Scrissi dunque alla famiglia di B., esponendo il pericolo che incombeva su mia figlia. In risposta venne mio cognato la portò con sé a Udine». In realtà i suoi precedenti rapporti personali con la famiglia del marito erano stati molto difficili: Dora è respinta per motivi non tanto moralistici (la sorella di B. era lei stessa una ragazza-madre), ma più probabilmente per gelosia verso un’estranea. A malincuore dunque manda la figlia presso i parenti, e resta a Borgotaro per affrontare il suo destino: una lucida scelta piena di coraggio, anche se non prudente.

Verso la fine di dicembre, passato il Natale, dalla caserma dei carabinieri arrivò l’ordine per me di… preparare la valigia. Quando giunsi alla stazione, scortata da un carabiniere, trovai ad attendermi l’amica Pina col viso rigato di lacrime. […] Io invece avevo gli occhi asciutti e conservavo una calma singolare, viste le incresciose circostanze in cui mi trovavo. Evidentemente stavo già calandomi nella fase di estraniazione da me stessa, in una sorta di «trance» che mi avrebbe poi sorretta durante le drammatiche traversie degli anni successivi. Con il mio accompagnatore giunsi a Monticelli Terme, ove il vecchio castello di Montechiarugolo era stato trasformato in centro di raccolta per donne ebree residenti nella regione.

La detenzione nel «castello-prigione di Montechiarugolo» è il primo passo della sua vita nei lager.

Quasi un preludio, mantenuto ancora nei toni sommessi per sfociare via via in una sinfonia dal timbro diverso e con finale a sorpresa inimmaginabile. […] Un piccolo parco circondava il castello, con alberi che lamentavano abbandono e trascuratezza; inoltre vi abbiamo passato i due mesi più rigidi dell’inverno per cui non l’abbiamo quasi mai frequentato. Saliti i pochi gradini dell’ingresso, si accedeva ad un vasto soggiorno ove si radunavano le internate: donne ebree, provenienti da diverse parti d’Europa. In questo locale, provvisto di una vecchia stufa, risiedevamo abitualmente, consumavamo i pasti e chiacchieravamo sempre a bassa voce per non creare confusione e non essere redarguite dal direttore della comunità. Il quale direttore, uomo miserello, figura scialba e grigia, non era certo in grado, forse anche di propria volontà di incuterci paura. Ne aveva una buona dose egli stesso, come ci accorgemmo ben presto. La maggioranza delle donne erano jugoslave, fuggite dal loro Paese all’incalzare dell’esercito germanico. Seguivano le italiane, tra le quali era stata reclutata «la fiduciaria» signora C., moglie di un rabbino, incaricata di tenere i contatti tra le internate e il direttore; relazioni non molto conflittuali a dire il vero. La signora C,

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donna di temperamento vivace ed allegro, per quanto si poteva esserlo nella nostra situazione, era accompagnata da due figli. Essa non pareva affatto la moglie di un rabbino, o forse solo io avevo impressa in mente una tale immagine conosciuta in Polonia: figura complementare al marito, ligia custode dei rituali religiosi dell’ortodossia ebraica. La signora C. era provvista di una carica di umanità che riversava su tutte noi. Riuscirò mai a dedicarle un pensiero di particolare commozione ed evitare accenti macabri legati al suo destino? Sono stati i suoi due figli, con la sola presenza, a decretare la morte propria e quella della loro madre: di Auschwitz non hanno neppure varcato il cancello. Questa era l’incredibile spietata regola: alle donne accompagnate dai figli non si concedeva il diritto all’esistenza, imboccavano subito la scorciatoia verso la morte.

La commossa rievocazione della «signora C.» fa emergere dalle memorie di Dora un carattere fondamentale, che la rende una figura ancor più singolare di quanto non suggerisca l’intera sua vicenda personale: è sempre attenta a cogliere ogni traccia di bontà e di dolcezza, di disponibilità umana ed emotiva, anche quando il clima cupo e disperante del destino suo e delle sue compagne sembra calare ogni sentimento in un universo di negazione.

Così avviene anche dopo il trasferimento da Montechiarugolo a Fossoli, vera e propria introduzione alla prigionia concentrazionaria.

La vita al castello-prigione, con i suoi limiti e le sue inevitabili privazioni, aveva pur sempre conservato dei punti in comune con quella condotta fuori delle sue mura: una casa, una mensa, un letto decente. Ma il presagio che così non poteva continuare a lungo era sempre presente dentro di noi. Fossoli infatti, era ben altra cosa: poteva essere già considerata l’anticamera dei campi di concentramento nazisti.

Ma anche a Fossoli Dora riesce a individuare e valorizzare due figure positive. La prima è una singolare interprete.

I tedeschi si facevano sempre accompagnare da un’interprete, una bella signora italiana, dai modi distinti, che essi trattavano con evidente riguardo. Quando, dopo la fine della guerra, feci ritorno in Italia e lessi il libro «Il Giardino dei Finzi-Contini», mi parve, ora ne sono quasi certa, che l’efficiente interprete di Fossoli non fosse altri che Micol, la radiosa e consapevole protagonista del libro. […] La presunta Micol non somigliava affatto allo stereotipo di «interpreti», tramandato nella memoria collettiva dei sopravvissuti come quello di «vendute», tendenti sempre dalla parte dei persecutori. […] La sera stessa del nostro arrivo, complice la semioscurità dell’ora, si era introdotta cautamente nella nostra baracca

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per infonderci coraggio e per fornirci consigli semplici ed efficaci, dei quali il più prezioso fu quello di rivolgersi a lei per qualsiasi necessità. […] Sia essa stata o meno la Micol del famoso romanzo, il ricordo della sua persona rimarrà per noi, durante tutta la deportazione, come un riferimento quasi simbolico cui ricorrere per non abbandonarsi al più nero pessimismo circa la natura umana.

L’altra persona è Marcel.

Caro, povero, amico Marcel! Egli mi aveva aiutata ad attraversare la prima tappa concentrazionale senza che la mia forza d’animo e la resistenza dello spirito si fossero affievolite, prima ancora di affrontare le future, terribili traversie. Quel dannato percorso che egli non sarebbe riuscito a superare. Di Marcel dopo la guerra non seppi nulla, salvo che dai lager non fece ritorno. Era scomparso con altri milioni di esseri umani in un vento di tempesta innominabile.

Lo aveva conosciuto nel viaggio di trasferimento verso Fossoli, figlio di un’altra internata di Montechiarugolo. Tra loro si stabilisce un’intesa «spontanea e amichevole», priva di ogni implicazione sentimentale: «tra Marcel e me non ci sarebbe stata alcuna banale avventura, né egli avrebbe mai soppiantato B. nel mio cuore». I loro colloqui erano fitti, condotti «in una miscellanea di svariati idiomi», in cui all’italiano, zoppicante per entrambi (Marcel era serbo), si mescolavano francese, tedesco e «perfino parole del serbo e del polacco».

Importante era riuscire a comunicare e soprattutto ad erigere una barriera contro lo sconforto, sempre in agguato nelle nostre esistenze. Capitava anche, specie al calar della giornata, di rimanere seduti in silenzio; a volte Marcel prendeva la mia mano tra le sue e sussurrava un’espressione amorosa usuale nei nostri paesi: «anima mia». Io ne rimanevo commossa e toccata: non ero mica fatta di pietra.

Perfino ad Auschwitz, destinazione finale per tutti i detenuti di Fossoli, si rivela la capacità di Dora di aprire un dialogo con le persone di primo acchito più distanti o ingrate. Sul viaggio che la porta da Fossoli ad Auschwitz Dora spende poche parole, perché esso è stato descritto – dice – molte volte. E sommariamente descrive anche i riti d’ingresso, la spogliazione, le docce, la rasatura; la sua attenzione si rivolge piuttosto alle donne che sovraintendono a queste «ingrate mansioni»:

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prestavano la loro opera deportate particolari, recluse ad Auschwitz da molti anni. Per lo più ebree cecoslovacche, seguite da quelle polacche, i cui paesi d’origine erano stati tra i primi ad essere invasi dalla Germania. Dopo aver vissuto tragedie inenarrabili, assistito allo sterminio delle proprie famiglie, esse si erano rifugiate nell’oblio che faceva loro perdere ogni memoria del mondo esterno. Il lager diventava l’unica realtà immaginabile e concreta. E in esso cercavano di conquistare condizioni di vita al meglio possibile. Col tempo passavano alla categoria dei «numeri vecchi» e come tali costituivano la classe privilegiata delegata dai nostri aguzzini a dominare sulle masse amorfe delle altre. Ma quanto erano sbrigative, arroganti, ruvide e violente con noi, appena arrivate! Un modo per vendicarsi del tempo di libertà goduto, secondo loro, mentre esse si trovavano di già rinchiuse nel lager. Come non comprenderle! Si, ma non allora, nel momento in cui, frastornate dall’impatto con l’allucinante realtà, ci saremmo attese invece un aiuto da parte loro. Solamente una, Halina, si rivolgeva a noi in modo tranquillo, incoraggiante, protettivo. Mi sono azzardata, ché di un gesto temerario si trattava, a chiederle il motivo del suo atteggiamento cosi diverso dalle altre. La risposta che diede fu un messaggio di solidarietà umana che non avrei mai voluto scordare. «Il fatto è» – disse – «che malgrado tutto non ho mai perso la fiducia nel mio prossimo». Cara, dolce, indimenticabile Halina!

Ai riti dell’ingresso segue il durissimo periodo della quarantena, nel corso del quale Dora comincia ad apprendere le verità del lager; dalla soppressione immediata, all’arrivo nei campi, di tutte le donne con i figli, di quelle inabili o per malattia o per età avanzata, fino a cogliere il lato per lei più disumanizzante di quella condizione:

già durante la quarantena molte di noi avevano capito quanto sarebbe stato sbagliato credere che il ricordo di persone care e degli affetti provati potesse essere di conforto. La fatica di vivere giorno per giorno ci assorbiva completamente, imponendo di recidere il filo che ci legava alla vita precedente; ché altrimenti avrebbe potuto infiacchire e annullare la nostra capacità di resistenza, rendendoci troppo vulnerabili per il presente.

A lei è tuttavia concessa l’opportunità di assumere un ruolo diverso e di salvaguardare non solo la propria vita fisica ma anche la propria dignità umana.

Un giorno, improvvisamente, risuonarono tra le mura del blocco due numeri: quello di una ebrea romena e il mio. Con consueto pungolo «schnell, schnell» fummo introdotte in una specie di stamberga, ove due ufficiali SS ci chiesero di confermare la nostra qualifica professionale.

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La sua laurea in medicina Dora l’aveva dichiarata, proprio quando era arrivata ad Auschwitz, allo stesso dottor Mengele – il quale aveva chiesto se nei gruppi che stavano scendendo dal treno ci fosse qualche medico; successivamente Dora aveva tolto dal proprio bagaglio (da cui era consentito prendere una cosa sola, tanto piccola da poter stare nel pugno della mano) il certificato di laurea e l’aveva conservato.

Con gesto istantaneo tolsi dal vestito ove lo custodivo il mio certificato di laurea sottoponendolo alla verifica degli SS. Questo documento produsse una sorprendente impressione sui due. L’Università di Bologna, nota in tutto il mondo, e l’enfatica dicitura: laureata in «medicina e chirurgia» fecero il resto. […] Non solo fui scelta io tra le due, ma fui subito gratificata con il titolo di Ärztin (dottoressa), il che mi lasciò allibita dalla sorpresa. Mi fu assegnata un’altra uniforme con le identiche strisce grigio-blu e la Stella di Davide sul petto, un paio di scarpe, il tutto più conforme alle mie dimensioni e, con il Posten [la guardia] appresso, via in cammino! Dopo circa un’ora di marcia arrivammo ad un piccolo distaccamento, soprannominato «Budy» dal villaggio presso cui era situato. Si trattava di un piccolo campo di concentramento un poco più vivibile di BirkenauAuschwitz. Quattrocento donne circa, in maggioranza russe, seguite da polacche, ebree polacche e qualche tedesca, vivevano ammassate in un unico grande blocco, con i soliti letti a castello attaccati alle pareti e in mezzo un corridoio con qualche tavola e poche sedie. All’alba, dopo il «Zehl-Appel», la conta, qui alquanto rapida, ma sempre scrupolosa, i «Komandos» [recte: Kommandos] raggiungevano le terre dei dintorni per coltivarle, bonificare quelle ancora paludose, tagliare alberi. Verso sera i «Komandos» rientravano nel lager, accompagnati dai Posten con i loro spaventosi cani lupo, ben addestrati all’uopo.

Prima di poter assumere a Budy le sue funzioni di medico, Dora deve affrontare l’ostilità dell’infermiera che occupava il posto, una bionda tedesca incompetente e profittatrice, che portava il triangolo nero delle prostitute e che era sorretta da una «cricca che l’attorniava, composta in prevalenza di ebree polacche (“numeri vecchi”) adibite alle pulizie interne del blocco». Per Dora l’episodio è soprattutto rivelazione dei meccanismi dai quali erano governati i lager, dell’intreccio tra la miseria e l’opportunismo, dei legami tra vittime e carnefici e infine dello sfruttamento delle rivalità interne ai gruppi stessi dei perseguitati.

Anche a Budy, come in tutti i lager, imperavano tra le deportate non solo sentimenti antisemiti, ma anche rancori nazionalistici di ogni

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genere. Era nota l’insofferenza esistente tra le polacche e le russe che si gratificavano reciprocamente con appellativi tra i quali i più comuni erano «parassite bigotte» le prime e «razza selvaggia» le seconde. Perfino tra le russe della Grande Russia e le ucraine correva un sotterraneo antagonismo. Tali deplorevoli pulsioni furono sempre fomentate e sollecitate dalle SS, per le quali costituivano fonte di inesauribile, gratuito divertimento. Come esultavano i Posten ad osservare due detenuti darsele di santa ragione, senza altro motivo che quello di venire da loro aizzati uno contro l’altro.

Per quanto lei stessa sia investita dai pregiudizi antiebraici, particolarmente forti e dolorosi perché spesso provengono dalle sue compatriote polacche deportate, riesce a dominare i sentimenti di ripulsa e a mantenersi al di sopra delle piccole malvagità. Ben più importante per lei il suo compito di «Ärztin», di cui non riesce a cogliere il senso in un campo di concentramento, fino a quando non viene a conoscere

a quale «glorioso futuro» era destinato il piccolo, insignificante, periferico lager di Budy. Secondo questi piani Budy avrebbe dovuto diventare nientemeno che un lager modello da esibire se fosse accaduto il peggio, alle forze armate nemiche, che si sapeva ormai non molto distanti. La presenza di una «Ärztin» là dentro rendeva il progetto molto «stile umanitario» e costituiva forse il punto di partenza per la sua attuazione.

Dora è conscia dei limiti della sua preparazione medica; ma, mentre questo non viene minimamente percepito dai suoi sorveglianti, lei si impegna a svolgere il suo compito con rigore ed equanimità.

Malgrado la mia scarsa, quasi inesistente esperienza nella pratica medica, dovuta alle prolungate, sfavorevoli circostanze del mio passato, nessuno del medici SS, nelle loro fuggevoli ispezioni, fu sfiorato dal sospetto che proprio a Budy ebbe inizio per me l’esercizio della professione medica. Con ogni probabilità per alcuni di loro, forse per la maggior parte lo «status medico» li collocava ad un gradino inferiore al mio. Io, almeno nella teoria medica, ero molto ferrata. […] Io mi ero deliberatamente prefissa di trattare tutte alla stessa stregua, a prescindere dalla loro origine nazionale o di «razza»: lo ritenevo mio preciso e naturale dovere. Col tempo tra me e le ricoverate si instaurò un clima di intesa del tutto particolare, sfiorante a volte una vera complicità. Nessun limite o tabù era posto alle parole che sgorgava dai nostri cuori: parlavamo ovviamente degli argomenti riguardanti la salute, davamo libero sfogo ai ricordi personali e, con molta circospezione, dai nostri discorsi non furono escluse neppure le questioni riguardanti l’odio razziale e l’andamento della guerra.

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Tuttavia, nella macchina infernale del lager, nemmeno a lei è lecito di sottrarsi ai compiti disumani imposti a tutti coloro che ne facevano parte.

Occorre annotare che al Revier di Budy di malattie gravi non ce n’erano e, se capitavano, correva I’obbligo all’assistente sanitario di denunciarle. Si trattava nella maggior parte dei casi di malaria, mai del tutto debellata su quelle terre. Le sfortunate venivano spedite a Birkenau con le tragiche conseguenze che tale fatto comportava. Fin quando le crisi del male non diventavano troppo gravi e frequenti cercavamo, spesso con la complicità del sanitario1, di trattenerle a Budy, somministrando loro il chinino, quando si riusciva a procurarlo. Le ho ancora presenti quelle povere donne punte dalle temibili zanzare delle paludi, scosse da brividi di freddo che sembrava facessero crollare il letto-castello su cui giacevano prive di conoscenza, in preda a febbre altissima. Quando invece la denuncia si rendeva inevitabile e non rimaneva che aspettare l’ordine di trasferimento, allora su di noi piombavano come una cappa lo sconforto e la disperazione. Una sensazione angosciosa coglieva pure me, incaricata di accompagnare le povere donne, ma con grande sforzo di volontà cercavo di non palesarlo. In quella giungla feroce che fu Birkenau-Auschwitz, sarebbe stata cosa da nulla smarrirsi, sempre e per chiunque, compresa la Ärztin, anche se affiancata dal solito Posten. […] Nella memoria collettiva dei superstiti i ricordi più roventi sono legati alle disumane condizioni dei ricoveri nei vari Revier di Birkenau, ricoveri funestati da improvvise, drastiche selezioni senza scampo per le vittime designate. Mai mi era capitato di assistere ad un ritorno a Budy di una delle vittime spedite a Birkenau; laggiù un Moloch inesorabile e potente dominava incontrastato.

Sopravvivere nel lager non può essere solo sopravvivenza fisica; Dora ce lo fa intendere attraverso la sua storia e attraverso le scelte che deve compiere. È terribile per lei dover inviare a Birkenau donne che sa non torneranno più indietro; ed è anche profondamente doloroso dover scegliere, ogni mattina, chi può essere esentata dal lavoro nei campi.

Compito [niente] affatto semplice il mio, quello di conciliare le ferree leggi del lager («Qui non siamo in un sanatorio» – mi ammonivano le sorveglianti SS) con i mali delle donne e decidere a colpo d’occhio quale

1 L’assistente sanitario era un SS che doveva sorvegliare il medico. In quel particolare momento era un SS d’origine cecoslovacca, che «faceva parte della fitta schiera dei “Volksdeutsch”, come erano chiamati tutti coloro in grado di ripescare dal passato un antenato tedesco» e che, proprio per le sue origini razziali aveva ricevuto la possibilità di entrare nella NSDAP.

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Luigi Ganapini

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di loro esentare e a quale rifiutare tale concessione. Devo ammettere che le ucraine erano spesso delle simulatrici di talento. Talvolta, quando il gruppo si presentava troppo popolato, intavolavo in quei pochi minuti dei discorsi che ora potranno sembrare grotteschi, improbabili e soprattutto irreali: «Vi prego» – dicevo – «Vi prego, per il bene di quelle che soffrono veramente, riducete il numero, altrimenti la SS vi manderà tutte nei campi». Erano quasi sempre parole gettate al vento, finché ascoltando certi colpi di tosse troppo cavernosi per essere veri e osservando atteggiamenti pietosamente curvi, mi toccava ricorrere ad un pizzico di energia: «Tu si – e tu no». E Dio solo sa le volte in cui il mio così sommario giudizio medico era indovinato oppure no. Le ucraine però in fondo capivano la mia posizione e non mi serbarono mai rancori; conoscevano bene il modo brutale in cui queste «scelte» accadevano a Birkenau e altrove.

La sua riflessione sul sistema concentrazionario nazista la porta a riflettere anche sulla natura degli uomini preposti allo sterminio.

È notorio che nelle file delle SS si era riversata una valanga di gente proveniente da varie nazioni, non solo di tedeschi della Germania, ma tramite i Volksdeutsch, la feccia dell’umanità di gran parte dell’Europa. Individui malvagi, sadici, psicopatici, ma non solo e non soprattutto questi. Fossero stati tutti dei mostri, sarebbe stato risolutivo abbatterli e farli passare come tali nella storia. Molto più difficile si era dimostrata, come gli eventi successivi avrebbero ampiamente confermato, l’impresa di debellare per sempre ogni regime che ponesse come norma di vita il fanatismo, l’oscurantismo culturale, la violenza e la cieca ubbidienza ad un capo: stimmate di ogni regime totalitario.

Questa meditazione precede l’entrata in scena di un nuovo personaggio, l’assistente sanitario che sostituisce il cecoslovacco.

Un tipo balordo, più spesso su di giri per lo «Schnaps» (Vodka) ingurgitato che totalmente sobrio. Si chiamava Ernst (serio) [….] Buontempone, sempre giulivo, battuta pronta, dava l’impressione di appartenere alla lunga fila dei «senza arte né parte». Del resto lo ammetteva egli stesso, tra le varie e mai lesinate confidenze.

Ma proprio questo personaggio falso e mediocre offre a Dora l’occasione per assumere un atteggiamento che ricorda, pur in un contesto meno drammatico, il rifiuto del perdono a un ufficiale nazista, di cui narra Wiesenthal2. Una mattina Ernst si presenta

2 S. Wiesenthal, Il girasole. I limiti del perdono, Milano, Garzanti, 2000.

all’ambulatorio alla ricerca di un conforto per quanto ha dovuto compiere la notte precedente.

«Ieri notte è toccato a me scortare LORO, ed erano tanti, lei sa in quale luogo, è vero?» E mentre io continuavo a tacere egli seguitava concitato: «No, non sarò capace di sopportarlo, mai, mai più». Mi rendevo ben conto che dopo una simile confessione, ché di un corteo di ebrei portati verso le camere a gas si trattava, avrei dovuto essere investita da un sussulto di commozione e di disperazione. Avrei dovuto scagliare contro di lui i peggiori insulti, gridandogli in faccia quel che si meritava. «E a me vieni a raccontarlo, su di me vuoi scaricare i rimorsi per i delitti di cui sei complice diretto ed attivo?» […] Le parole da lui pronunciate non costituivano, ahimè, alcuna rivelazione: conoscevo di certo il destino degli ebrei appena arrivati con i convogli, anche se all’epoca non potevo prevedere la spaventosa dimensione del crimine. Ma con questo abominio toccava convivere e per accettarlo non rimaneva che estraniarsene, rimuovendolo dal livello della consapevolezza quotidiana, fino al termine della deportazione oppure della morte nel lager. In quanto a lui, Ernst, non nutrivo alcuna illusione sul suo conto, malgrado egli si sforzasse sempre di apparire diverso dai suoi compari. Lo sapevo coriaceo abbastanza da poter adempiere ancora a questa orrenda mansione, e, ancora… tutte le volte che glielo avessero comandato. Per nulla al mondo sarei stata disposta a fargli da cassa di risonanza dei suoi sensi di colpa, né gli avrei concesso di cercare da me comprensione, assoluzione o perdono di alcun genere. Perché era proprio questo che egli si aspettava da me, e nel suo sfogo sconnesso e confuso l’aveva pure confessato. Io continuavo a tacere, ma nel mio intimo avevo formulato una risposta categorica: «No, questo non l’otterrai mai, è già troppo avermi obbligata ad ascoltarti. Annega pure nei barili di alcool i tuoi rimorsi, veri o presunti che siano, mai proporzionati agli atti criminali commessi».

Malgrado l’intimo incancellabile tormento che la accompagna, Dora deve ammettere che il campo di Budy è una parentesi nell’inferno, una sorta di sospensione di pena che le permette di accumulare pur scarse energie per sopravvivere all’ultima tremenda prova: «il 18 gennaio del 1945, dal buio del campo emersero i Posten con i loro cani, mentre noi, rigorosamente incolonnate, oltrepassammo i cancelli dei reticolati».

Quello che segue – la «marcia della morte» dei detenuti nei lager al fine di nasconderli all’avanzata degli Alleati – è ricordato anche in altre memorie; ma nel racconto di Dora assume i contorni più precisi e impressionanti.

All’approssimarsi delle armate alleate che stringevano la Germania in una morsa dall’Est all’Ovest, venivano progressivamente evacuati tutti i

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campi di concentramento nei pressi delle linee di combattimento. Pareva una allucinante migrazione dei dannati dell’Europa intera da un lager all’altro, su territori ancora occupati dai tedeschi. […] Attraversammo città e paesi, contrade ed autostrade, senza distinguerli, senza neppure vederli, percorrendoli per la maggior parte a piedi oppure in vagoni merci. La notte e il giorno, l’alba e il crepuscolo si avvicendavano confondendosi tra loro; e a noi pareva di essere immerse in una matassa scura dentro la quale eravamo sospinte a proseguire senza scopo e senza meta. Ogni tanto ci giungevano echi di colpi di fucile: erano le SS che sparavano contro quelle che si fermavano oppure ammazzavano chi per estrema stanchezza cadeva a terra.

Il ricordo di tutta la marcia è confuso e dell’incubo emergono solo brandelli: soprattutto le tornano alla mente gli attimi in cui, stremata e sfinita, sta per abbandonarsi sulla strada e morire; ma sono le ucraine ora ad aiutarla, a sorreggerla, a proteggerla, a spingerla di nuovo verso la vita: «senza il loro generoso sostegno non avrei forse potuto narrare questa storia»

Ma dal viaggio emergono anche altri ricordi e riflessioni, occasione per un duro giudizio sul popolo tedesco.

Stranamente, durante tutto il nostro peregrinare mai abbiamo scorto il viso di un tedesco, né ai bordi delle strade, né sulle vie delle città e dei paesi, e ciò conferiva alla Germania e alle terre da essa occupate l’aspetto di un luogo disabitato o addirittura deserto. In realtà ovviamente così non era stato. Viene da pensare invece che la gente si ritraesse o si nascondesse per non assistere al miserevole spettacolo di una lunga serpentina di galeotte trascinate da un luogo ignoto ad un altro. Il rigoroso «Mai visto, mai saputo nulla» riferito a quegli accadimenti che pur si svolsero non molto lontano dalle loro case, esprime tutta l’ambiguità e l’equivoco insito nella memoria collettiva di un’intera generazione di tedeschi.

E più avanti si chiede: «[…] per quali ragioni i capi SS, in una situazione ormai senza speranza per la Germania, si sobbarcarono il gravoso compito dei continui trasferimenti delle popolazioni custodite nei lager, invece di scappare per aver salva la vita, abbandonando i reclusi alla loro sorte».

Le testimonianze e le memorie dei sopravissuti conducono a individuarne la ragione nel legame che unisce l’aguzzino ai suoi sudditi inermi, un

attaccamento selvaggio e morboso, ma non per questo meno forte. Chi non ricorda la meticolosa ed affannosa ricerca quando tra centinaia di

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migliaia di deportati ne mancava uno solo, «Ein Stück» (un pezzo) durante il «Zehl-Appel», facendoci rimanere ore ed ore in piedi fino allo sfinimento? Si trattava davvero solo di un conto che non tornava? È indubbio che detenere il ruolo di arbitro inappellabile dell’esistenza del tuo prossimo, dei suoi incubi, delle sue umiliazioni e delle sue speranze, in sintesi della vita e della morte non può non suscitare una sottile vena sadico-consolatoria alla quale rimane difficile rinunciare. D’altronde, immersi nei miti dell’onnipotenza nazista, che altro avrebbe potuto soddisfare la componente deteriore dell’animo se non l’incidenza [sic] di trarre godimento dalle sue follie delittuose?

La destinazione finale è Bergen nella bassa Sassonia. Le deportate da Auschwitz hanno in sostanza attraversato in una settimana, nella loro marcia della morte, l’intera Germania da sud est a nord ovest. E il punto d’arrivo è un lager privo di ogni attrezzatura per la sopravvivenza umana. Uno sterminato ammasso di esseri umani, denutriti e sudici, invasi da parassiti, senza possibilità di ripulirsi in nessun modo, mancando quasi completamente l’acqua anche solo per bere. In breve il tifo petecchiale comincia a falcidiare le vite delle deportate: alla Ärztin risulta impossibile, per la mancanza di ogni mezzo, provvedere a qualunque tentativo di cura, e deve limitarsi a un compito di consolazione e rassicurazione, fino a quando almeno le forze l’assistono.

È l’ultima prova. Averla superata senza abbandonarsi alla disperazione le lascia una preziosa certezza di sé, al seguito della quale tuttavia procede anche la coscienza di quanto profondamente quella sofferenza l’abbia segnata.

Mi aggiravo stranita tra le cataste e i mucchi di cadaveri, la maggior parte ischeletriti; altri che conservavano ancora qualche sembianza umana, venivano trascinati per un braccio o per una gamba verso i cumuli già esistenti, allo scopo di sgomberare il terreno e lasciare qualche passaggio libero. Era la prima volta che contemplavo quell’orrido risultato di un campo di battaglia ingaggiata da un popolo «civile» con l’ausilio della feccia dell’Europa intera contro milioni di inermi, incolpevoli innocenti. Dentro di me sembrava nulla più si agitasse: un deserto di pensieri e di emozioni. Riuscivo ad imbrigliare quell’inopportuna immaginazione che avrebbe potuto indurmi all’identificazione con le povere vittime, arresesi all’implacabile destino dopo chissà quanti immani sforzi per resistere. Per incredibile e detestabile che fosse – ci riuscii. A guerra perduta da chi al cospetto dell’umanità aveva l’obbligo di perderla, mi sarei resa conto che non era proprio così. Ciò che avevo vissuto, e a cui avevo assistito scendeva nel mio intimo e lì si sedimentava per non disperdersi mai, mai più.

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Faticoso e difficile fu anche il ritorno in Italia, l’incontro con la figlia e in modo particolare con il «marito»: che l’accoglie con una «disattenzione», che fu «un primo campanello d’allarme riguardo alla “disattenzione” di cui furono oggetto quelli che si erano trovati nella situazione analoga alla mia». Anche queste difficoltà vengono infine superate.

mi ci volle più di un attimo per riprendere il contatto con la vita reale, e cioè la mia presenza nella casa a Udine accanto a mio marito e nostra figlia. In quel momento riacquistavo la speranza, anzi, a quel tempo la certezza, di riuscire ad ovviare in breve agli screzi e alle incomprensioni, e soprattutto a colmare il senso di estraneità insinuatosi non a caso tra noi. Pronostico questo, sorretto e stimolato certamente da quell’ottimismo di fondo a me consueto in tutta la vita, anche quando non me ne rendevo conto. Non ogni cosa in seguito si sarebbe svolta secondo i miei auspici. Ma queste sono storie appartenenti ad altre epoche, non attinenti, se non emotivamente, alla cattività subita.

Non ha la stessa drammatica intensità di quello di Dora Klein il racconto di Eugenia Servi, ebrea di Pitigliano, paese sede di una delle maggiori comunità ebraiche toscane fino all’800. L’aspetto più originale e importante di questa memoria è mostrarci l’oppressione degli ebrei attraverso gli occhi di una bambina; ma non è uno scritto principalmente destinato a rievocare il suo passato di perseguitata ebrea, quanto piuttosto a raccontare la sua «liberazione» da un paese e da un ambiente in cui non riusciva a riconoscersi.

Era una bambina di otto anni bruna ed esile, dai grandi occhi3, come compare in una fotografia di gruppo di ebrei di Pitigliano, 27 settembre 1937, in occasione del Bar Mitzvah di Italo Servi: Eugenia apre il suo racconto a partire da un anno dopo la fotografia, e ricorda la persecuzione come inizio della sua solitudine.

Nel Settembre del 1938 con le prime discriminazioni viene subito colpita la Scuola; gli ebrei non rientreranno, né come insegnanti né come studenti. A Pitigliano le Autorità locali – arbitrariamente – decidono che non dovevamo più frequentare un Bar, un cinematografo, e gli Ariani non dovevano più salutarci. Così, dalla sera alla mattina, Insegnanti e bambini,

3 La foto sta in A. Paggi, Un bambino nella tempesta. Ricordi di un bambino durante il periodo razziale a Pitigliano, Livorno, Simone Belforte & C., 2009, pp. 24-25 e 26-27.

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compresi quelli della mia stessa classe mi tolsero il saluto. Se, raramente, volevo andare al cinema […] data letà [sic] […] mi lasciavano entrare, però da sola (non avrebbero fatto entrare la mamma o altri) ed io mi ritrovavo in una sala completa di gente che mi conosceva ma nessuno mi rivolgeva la parola: mi sentivo «un fantasma» perché tutti mi ignoravano come se non ci fossi. È inutile, in una rievocazione di 50 anni dopo, cercare di capire se l’obbedienza al Regime fu «per convinzione, per convenienza, per paura»; io, allora, li ho odiati e questo non si cancella più. Non potrei spendere una parola sull’invidia o la gelosia, perché non le conosco; posso però assicurare che l’odio che può covare una bambina è feroce e difficile da capire perché non si verifica con la stessa convinzione negli adulti. Per tutta la durata della guerra, non ricordo di aver avuto paura dei bombardamenti, né di aver sofferto la fame o il freddo per aver trascorso qualche inverno con i sandali e calzettoni di pecora: mancavano le scarpe, ma da ragazzi ci si adatta a tutto. Quello che non ho mai perdonato é stata l’espulsione dalla Scuola e questo primo periodo di emarginazione.

Due persone fanno eccezione: «la mia ex maestra di Iª e 2ª elementare, la sig. Giselda Cecchini Dainelli e il custode dalla Scuola, il Paoli; questi mi salutavano e mi fermavano sempre per fare due parole […]».

Anche nel diario di un’altra giovane ebrea, la ferrarese Eugenia Bassani, troviamo annotato che, dopo l’emanazione delle leggi del 1938: «Le mie compagne di scuola non solo non mi frequentavano più, ma neanche mi salutavano più se mi incontravano per la strada. Eccetto una cara ragazza che si chiamava Elena Sgarbi». Questi segnali di un’ostilità latente negli italiani verso gli ebrei affiorano in modo più o meno esplicito in molte memorie, non senza qualche cenno polemico verso la versione bonaria che prese voga nel dopoguerra: «Ora si dice che essere ebrei allora non creava differenze, eppure ricordo che una volta mi chiesero se avevamo la coda», scrive Adriana Luzzati. La quale aggiunge che anche per lei, allora decenne, l’avvio della persecuzione significò essere emarginata dalle sue compagne: «In principio pensai che avrei potuto rimanere amica delle mie compagne e andare ad aspettarle all’uscita della scuola, ma ben presto mi accorsi che non era possibile, non perché loro non mi volessero, ma perché conducevano una vita diversa dalla mia e non avevamo più niente in comune».

Per rimediare all’impossibilità di frequentare le scuole regolari le varie comunità in tutta Italia istituirono scuole per i giovani esclusi dalle statali. Così anche a Pitigliano, dove la scuola è

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retta dalla moglie del rabbino, Berta Disegni: sono sei i bambini ebrei di Pitigliano e dintorni. Eugenia ricorda con ammirazione l’opera della maestra:

doveva insegnare contemporaneamente a 6 bambini con 5 programmi diversi, dalla Iª alla 5ª elementare; la Scuola poteva, aprire soltanto 5 giorni alla settimana, perché dovevamo far vacanza la domenica e, ovviamente, anche il sabato. Inoltre, c’erano tutte le feste nazionali e quelle religiose cattoliche, aggiunte alle festività ebraiche. C’erano poi il Rabbino che voleva spazio per fare lezione di ebraico, che vuol dire religione, storia, lingua: ci insegnava anche l’ebraico corsivo e la traduzione.

L’espulsione dalle scuole con il corredo di una diffusa ostilità antiebraica colpisce anche

mio fratello Bruno, 12 anni, [che] per poter accedere a studi superiori in città, stava facendo il Ginnasio privatamente. Veniva a dargli lezione a domicilio un prete, Don Giovanni, e nessuna legge di Stato impediva di proseguire su questo programma, ma le Autorità Politiche locali proibirono a Don Giovanni di frequentare la nostra famiglia. Bruno fu mandato a Gallarate, presso lo zio Aldo: lui Ingegnere e la figlia, Apulia, maestra elementare; insieme, hanno dato a Bruno la preparazione necessaria, e due anni dopo superò gli esami come privatista a pieni voti.

Per la sorella maggiore Bianca, di 15 anni, non ci sono problemi: «aveva terminato gli studi: tre anni di frequenza dopo le elementari, alla Scuola di Avviamento al Lavoro, ed era il massimo che offriva allora il paese, e le bambine non aspiravano a più di tanto».

La persecuzione si riverbera in modo egualmente pesante sulle condizioni lavorative. La famiglia di uno zio, Angelo, resta senza lavoro: lui agente di banca, la moglie maestra elementare; avevano due figlie di 10 e 15 anni. Si aggiunge ai licenziamenti una denuncia a carico di Angelo Servi da parte del suo barbiere il quale dichiarava che lo zio – nella sua bottega – «aveva detto male del Duce», e soltanto su questa accusa venne proposto per il confino. Per fortuna, il Maresciallo dei carabinieri andò in trasferta per un mese ed il sostituto era un po’ meno fascista e un po’ più onesto; quando lo zio Angelo andò in Caserma a difendersi negando tutto, fece anche osservare che in una bottega di barbiere sarebbe molto strano che non si trovasse presente un testimone; la denuncia venne stracciata.

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Lo zio Angelo, aggiunge Eugenia, «era stato combattente nella guerra mondiale del 1915-18, ed era tornato ferito; ha portato per tutta la vita una cicatrice sul viso. Era stato decorato con la Croce di Vittorio Veneto. All’inizio del fascismo, era tra quelli che ci avevano creduto e si sentiva Italiano al 100%; per lui, l’amore di Patria, non era una banalità!» Come tanti, anche lui aveva creduto che il suo stato di servizio gli avrebbe valso la «discriminazione». Un segno, anche questo, di quanto debolmente fosse percepito dall’intera comunità ebraica italiana la violenza della persecuzione nell’Italia fascista; e la grande cecità di fronte all’atteggiamento ipocrita o indifferente della maggioranza degli italiani (è significativo che a più riprese anche da varie di queste memorie emergano giudizi che addebitano al perfido camerata tedesco la responsabilità di avere traviato il buon uomo Mussolini.)

Intanto il padre di Eugenia, che da anni lavorava presso una ditta di trasporti che con autobus collegava il paese, situato in collina su balze di tufo, «con le stazioni ferroviarie più vicine, Orvieto e Orbetello», viene licenziato.

Le leggi razziali prevedevano il licenziamento degli ebrei dalle fabbriche che lavoravano materiale bellico, quindi una società di trasporti non rientrava nella legge ma – come ho già detto – a Pitigliano l’esplosione di antisemitismo non aveva limiti, e il babbo e lo zio Adelmo furono licenziati. I Desideri [proprietari della società di trasporti presso cui lavorava il padre di Eugenia], costretti a subire una imposizione così ingiusta, si offrirono di portare a casa la busta-paga in attesa di tempo migliori, ma il babbo non ha accettato, pur apprezzando la loro stima e generosità.

Decide allora di mettersi in proprio, trasportando merci con un vecchio camion di cui adatta il motore «da motore a gasolio, a motore a gassogeno… a legna… Il gasolio scarseggiava ed anche gli autobus marciavano a legna».

La situazione cambia con la guerra mondiale ed Eugenia attribuisce all’umore dell’opinione pubblica cambiamenti significativi, che forse solo in parte appartengono a quei primi anni.

La guerra non viene accolta bene nemmeno dalla popolazione «ariana» malgrado la propaganda fascista; non c’era quell’amore di Patria, quel senso del dovere che anima di solito i popoli coinvolti in un conflitto. La prima guerra mondiale del 1915-18, era molto sentita; anche se a posteriori è stata definita dagli storici «un inutile massacro», tuttavia sul momento tutti gli uomini che partivano per il fronte si sentivano degli eroi; le famiglie si

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rassegnavano con orgoglio. Ora no, questa guerra a fianco della Germania non la voleva proprio nessuno, e c’era inoltre un nuovo pericolo: i bombardamenti aerei […]. Molti si sono ribellati e si sono formate le Brigate Partigiane che hanno incominciato la loro battaglia clandestina contro il Regime di Stato. La gente di campagna, era tutta dalla loro parte.

Sembra difficile pensare che queste valutazioni non siano state influenzate dagli avvenimenti successivi, con uno sfasamento dei tempi reso evidente dalla retrodatazione della guerriglia e da un successivo ricordo. Narra infatti che un aereo Alleato viene abbattuto, i piloti si gettano con il paracadute, le milizie fasciste si precipitano alla loro ricerca, ma:

I contadini, veloci come fulmini, nel nascondere tutto e tutti, negano di sapere il posto esatto dove sono atterrati i piloti e i Militi sono costretti ad arrendersi e tornare indietro. […] I nostri piloti americani trascorrono poi indisturbati tutti gli anni di guerra, grazie a quei contadini che li hanno tenuti nascosti bene, sfamati e rivestiti; sono tornati in America alla fine della guerra.

Sembra più coerente il prosieguo della narrazione, che si inserisce nel solco delle memorie della generosità popolare.

Il compito di nascondere i ricercati ed aiutare tutti, è nelle mani della gente di campagna, e a questo punto non fa più distinzioni: spontaneamente vengono aiutati i partigiani, i prigionieri, e gli ebrei quando per noi incomincia il pericolo delle deportazioni. Infatti, è proprio ora che gli ebrei vengono chiamati a presentarsi in campi di raccolta, che si organizzano in ogni regione con l’intenzione di trasferirli poi sempre più al nord, fino in Germania. Nella nostra zona, il Vescovo di Grosseto, Monsignor Galeazzi, mette a disposizione la sua villa in montagna, a Roccatederighi (Siena). Questa villa di solito ospitava i seminaristi di Grosseto nelle vacanze estive ma al momento vi si erano trasferiti il Vescovo con una sua sorella, due preti e alcune suore per i servizi, allo scopo di sfuggire ai bombardamenti di Grosseto.

Ma nella comunità ebraica la scelta di accettare o meno l’internamento provoca una scissione nella comunità, addirittura all’interno stesso di alcune famiglie, tra quanti decidono di presentarsi al Campo e quanti si danno alla macchia.

Tra gli ebrei di Pitigliano ci furono reazioni diverse e non tutti risposero alla chiamata di presentazione al Campo di Concentramento.

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Alcune famiglie si nascosero in varie località di campagna […]. Il babbo e lo zio Adelmo vanno a consigliarsi col Maresciallo dei Carabinieri il quale li rassicura che lo scopo di questi Campi di raccolta è di tenere gli ebrei separati dagli altri, ma che alla fine saremmo tornati tutti a casa. Forse lo dice in buona fede, ma in seguito abbiamo capito quanto fosse stato ingenuo avanzare un’ipotesi come questa, e da parte nostra l’averci creduto. Comunque, in quel momento la decisione fu di presentarsi al Campo di Roccatederighi.

Per la giovane Eugenia (ha ormai quindici anni) quello che segue tuttavia è un periodo tutt’altro che infelice.

I due mesi che ho trascorso nel Campo di Concentramento – esattamente dal 2 dicembre del ’43 al 2 febbraio del ’44 – è stato sicuramente il periodo più importante di tutta la mia vita, ma non il più triste o disagiato come si potrebbe pensare. […] Per me, lasciare Pitigliano dopo 5 anni di emarginazione e ritrovarmi a convivere con altre 90 persone «uguali a me», è stato un ritorno al ghetto. Un Campo di Concentramento dovrebbe essere una specie di prigione; per me ha significato l’uscita da «quella prigione» che era stata Pitigliano per 5 anni, e dove poi è stato molto drammatico – psicologicamente – il mio ritorno. Arrivati a Roccatederighi, troviamo che dal livello stradale si sale una scalinata di oltre 100 scalini e si accede ad un grande parco che circonda la Villa. Il parco è cintato di filo spinato e alcuni carabinieri e soldati della Milizia avrebbero fatto i turni di guardia. Un Maresciallo della Questura in pensione il Cav. Riziello, era stato incaricato della Direzione del Campo. La prima impressione non è stata cattiva; con nostra sorpresa troviamo un’allegra accoglienza da parte di altre famiglie di ebrei di Grosseto – Servi e Nunes – che si erano presentati la settimana avanti.

Le condizioni di vita nel campo non le appaiono eccessivamente restrittive: avendo a disposizione un grande parco, non le pesa la proibizione di uscire dai reticolati; il vitto era «discreto» e le suore provvedevano a preparare e portare in tavola. […] Il buon trattamento che abbiamo avuto, si spiega con il fatto che non eravamo nelle mani dei tedeschi ma dei militari di leva, tutti molto giovani e non necessariamente fascisti e antisemiti! C’era la costante presenza del Vescovo che sorvegliava la pulizia, il vitto, e che non ci fossero maltrattamenti. Sicuramente è stato un Campo di Concentramento molto anomalo.

La buona disposizione di Eugenia nei confronti del Vescovo, contrastante con altri giudizi di memorialisti e di studiosi di storia che mettono sotto accusa la sua disponibilità verso i Tedeschi e

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la tolleranza verso le misure contro gli ebrei, trova la sua origine nella vicenda personale di Eugenia. «Per me questi due mesi sono stati un’esperienza indimenticabile e importante perché ha condizionato il resto dei miei giorni, ma per poter capire “la mia reazione” alla vita del Campo, è necessario tornare indietro e spiegare come avevo vissuto in precedenza». Apprendiamo così che Eugenia è stata una bambina molto isolata fin dai primi anni di vita perché la famiglia non la manda all’asilo e successivamente perché nella sua famiglia non era permesso andare a giocare in strada, con i coetanei. In estate le compagne di scuola o andavano in villeggiatura con la famiglia o andavano in colonia, a seconda dello status sociale.

Evidentemente, io stavo nel mezzo […] ho sempre passato l’estate senza allontanarmi dal paese e ricordo una noia mortale! La Scuola, era comunque l’unico ambiente dove mi sentivo a mio agio; affrontavo lo studio con molto interesse e buon profitto; avevo buoni rapporti con le compagne e con l’insegnante. Quando, con le prime leggi razziali del 1938 sono stata espulsa dalla Scuola, e allontanata dalle compagne, la reazione è stata di una sempre più crescente timidezza; non sapevo più tenere una conversazione, ero imbranata anche solo per dire Grazie, o Buon giorno […]. Arrivò presto anche il divieto di tenere un aiuto domestico; in casa c’era molto da fare perché eravamo 7 persone e non c’erano ancora gli elettrodomestici. Fra i 10 e i 12 anni sono diventata una esperta casalinga; ho imparato tutto, a pulire la casa, a preparare un pranzo, lavare e stirare; passavo i pomeriggi da una cugina sarta, Lida, per imparare anche a cucire. A poco a poco, mi sono sentita «sempre più stretta» nel mondo degli adulti perché la mia era una partecipazione forzata che non mi interessava più di tanto. Le mie ex compagne proseguivano negli studi, la sera si ritrovavano nella consueta passeggiata per il corso, andavano insieme al cinema, partecipavano alle feste popolari. Mentre loro crescevano, oltre che fisicamente, anche culturalmente e psicologicamente, io crescevo senza esperienze adeguate. Avevo la precisa sensazione del tempo che passava e che mi allontanava sempre di più dalle altre bambine quando loro hanno terminato [la] 3ª media, io mi sono sentita come se fossi rimasta «ibernata» alle elementari, e allora mi chiedevo: ma quali saranno i loro pensieri, i loro problemi, di cosa parlano fra loro? Non trovavo risposte, e stava diventando un incubo, perché sentivo i miei pensieri che stavano facendo la ruggine […].

Nel Campo invece Eugenia trova amicizie nuove che per lei sanno d’antico: sono quel retroterra sentimentale e affettivo che il carattere della famiglia le ha fatto mancare e che i divieti e le interdizioni del fascismo hanno definitivamente bruciato.

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La cosa più affascinante per me è stata la scoperta degli ebrei stranieri; sembravano arrivati da un altro mondo, da un’altra epoca. Tutti, ingegneri o artigiani, parlavano tante lingue,avevano una grande cultura di ebraismo, una qualità di carattere e abitudini, una filosofia di vita che non conoscevo e non avrei mai immaginato. Persone che da 5 anni vivevano esuli in Italia nei campi profughi, alcune famiglie dimezzate senza notizie dei parenti, e tuttavia c’era in loro una serenità, una modestia, una voglia di vivere fantastica. Avevo sempre saputo che per noi ebrei la cosa più importante, dopo la salute, è la cultura; ma noi italiani, nei loro confronti, eravamo poco più che analfabeti.

Tra di loro spiccano per Eugenia due personaggi.

Edita Singer aveva 13 anni, due meno di me ma tanta esperienza in più. Bellissima, occhi neri stupendi che non passavano mai inosservati. Era profuga dalla Iugoslavia, da Zagabria, insieme alla madre e ad una zia con il marito; del padre non avevano notizie. Siamo diventate amiche inseparabili. Gianni Turteltaub veniva dall’Austria, aveva 12 anni; con lui c’era il padre, Ingegnere, la madre e un fratello più piccolo, Gualtiero. Gianni era bello, biondo e lentigginoso; un viso aperto sempre sorridente, un carattere molto disponibile. È stato il mio maestro di scacchi: io ero alle prime armi, Gianni giocava già da campione, e tutte le sere, o nei pomeriggi di pioggia, abbiamo passato tante ore davanti alla scacchiera.[…] Edita e Gianni, alla fine sono stati deportati, senza ritorno. Per me sono rimasti un simbolo: Edita, è «la mia Anna Franch»; se nelle mie vacanze in montagna trovo un bambino che mi chiede di giocare a scacchi, in quel bambino rivedo Gianni… anche 50 anni dopo […].

Il suo internamento dura tuttavia solo due mesi: dapprima il padre e lo zio vengono liberati per intercessione del Comune. Devono sostituire gli autotrasportatori che rifiutano di viaggiare ancora sotto l’incombente pericolo dei bombardamenti; più tardi minacciano di interrompere il servizio se anche le famiglie non sono liberate. Per questo provvedimento – che salva le loro vite – Eugenia soffre disperatamente. Il ritorno a Pitigliano è per lei «drammatico» perché significa abbandono di una sorta di tana sicura, accanto a persone con cui ha rapporti profondi, e «forse […] c’era dentro di me un rifiuto per tutto un intero ambiente nel quale tuttora duravano le leggi razziali, dove le mie coetanee andavano a scuola, dove il Tempio non si poteva aprire, dove i fascisti ancora dominavano il paese». Ma soprattutto, confessa ricorrendo alle sue più tarde letture di psicanalisi, era dominata da una forma di «panico» assolutamente irrazionale. Riesce a

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superare la fase più acuta immaginando che, quando la guerra sarà finita, potrà fuggire dal paese. Di qui in avanti il racconto segue due linee che si intersecano: la sua personale vicenda interiore e quella della deportazione a Pitigliano. I tedeschi mettono in atto il trasferimento degli internati a Fossoli, utilizzando dapprima un autobus e un autista della ditta per cui lavorava il padre di Eugenia; ma quando l’autista, al ritorno, «ci racconta che il Campo di Carpi è l’anticamera della deportazione in Polonia e – dopo quanto ha visto – si rifiuta di fare altri viaggi», i proprietari della ditta di fronte a un’ulteriore richiesta degli occupanti affermano di non poter disporre degli autobus perché sono in riparazione; i tedeschi provvederanno a un secondo trasporto con un loro mezzo, su cui saliranno solo stranieri in base alla considerazione che gli italiani hanno più possibilità di mimetizzarsi nelle campagne. Un terzo trasporto viene infine boicottato dallo stesso arcivescovo.

Appena partito il camion tedesco con a bordo tutti gli stranieri, il Vescovo va a parlare con il Direttore del Campo e insiste per convincerlo che ormai la guerra è persa; se lascerà uscire gli internati, darà una possibilità di salvezza anche ai militari addetti alla guardia perché anche loro erano soggetti al trasferimento al nord. Suggerisce,inoltre, che il Direttore si nasconda anche lui di persona: alla fine della guerra tutto questo sarà un punto di merito a suo favore. Il Direttore Riziello accetta. Il Campo viene sgomberato, le varie famiglie si disperdono fra i contadini del luogo, ormai abituati ad accogliere tutti.

Né la sapienza curiale si esaurisce qui.

Quando ritorna il camion tedesco, la Villa ha ripreso il suo aspetto normale di Seminario. Il Vescovo accoglie molto cordialmente i tedeschi, e – mentendo con molta diplomazia – li informa che di ebrei non ce ne sono più perché un altro camion tedesco è già passato prima di loro; si dichiara meravigliato che ci sia stato un disguido fra i tedeschi al solito così ben organizzati. Nessuna obiezione da parte dei tedeschi, i quali ripartono per presentarsi al loro comando a Grosseto.

In questo ultimo periglioso frangente la famiglia di Eugenia, avendo compreso che anche a loro, se individuati, sarebbe toccata la deportazione, si rifugia, dopo un tragico bombardamento di Pitigliano, in una delle grotte naturali da cui «lo scoglio di tufo sul quale è stato edificato Pitigliano è tutto traforato» e

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qui trascorre una settimana «assolutamente indisturbati perché le autorità avevano ben altro da fare che pensare a noi». Fino a quando i tedeschi non abbandonano la zona.

La riflessione di Eugenia sull’eredità di quelle vicende si piega sul ricordo e la pena per quelli che non torneranno.

Un bilancio drammatico. E io? devo considerarmi fortunata? Si, certo, sono viva e ho tutta la mia famiglia […] però ora appartengo ai «sopravvissuti» ed incomincio ad interrogarmi: non rivedrò mai più Edita, Gianni e Gualtiero, Franca e Enzo Cava, la piccola Reginetta [...] che colpa avevano loro se non la mia stessa condizione di ebrea? Se io sono salva, che significa? Quale sarà ora il mio compito? Mi sento addosso quel complesso di colpa che allora non sapevo spiegarmi ma che ho poi ritrovato descritto molto bene nel libro di Primo Levi, e che è comune a tutti gli scampati da una catastrofe.

Per diventare infine il punto di partenza per la scelta del suo personale futuro.

La guerra è finita, ma si apre allora il conflitto con la famiglia, eguale ma anche diverso dagli usuali conflitti generazionali:

Per il babbo e la mamma – come per tutte le persone adulte – gli ultimi anni sono stati soltanto una brutta parentesi nella loro vita; avevano già alle spalle un passato vissuto e consolidato, avevano una loro opinione su tutto. Ora possono dire di aver vinto una difficile battaglia, perché sono riusciti a salvare la famiglia ed il babbo è tornato al suo lavoro. Per una persona che – come lui – aveva radici ben piantate e tutto il mondo cominciava e finiva a Pitigliano non c’erano dubbi: dava per scontato anche i figli non si sarebbero mai allontanati dal paese.

Ma, mentre il fratello e le sorelle hanno, ciascuno, un strada ben individuata e indipendente, solo lei è «sbandata», insofferente del paese, dei rapporti famigliari. La società aperta e ricca di sentimenti che ha conosciuto a Roccatederighi è un’esperienza che in lei sedimenta a lungo. E anche in grazia di quel passato cerca una propria indipendenza intellettuale attraverso le letture, e con la partecipazione alle attività della FGCI. Troverà infine anche la sua strada lavorativa lontano dalla casa paterna; così che al ritorno al paese natale, «non provavo più la solita paura […] il panorama di Pitigliano […] mi appariva ora come un paese qualunque, con le sue bellezze di cittadina medievale, e lo guardavo con l’occhio del turista che ritorna: nessun affetto,

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nessun odio, non mi revocava più il mio passato, me ne ero liberata!»

Per Eugenia la catarsi si è compiuta. Per lei, come per Dora Klein, persecuzione e deportazione (anche la domestica deportazione di Eugenia) provocano dolori, privazioni e sofferenze: entrambe le donne, se pur con evidenti differenze, difendono con determinazione dignità e vita e fanno di quelle esperienze componenti decisive dei loro caratteri e dei loro destini.

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XIII. La guerra è finita

Con animo e sentimenti tra loro diversi gli italiani accolgono la fine del conflitto armato: l’ora di una «fine» che non scocca contemporaneamente sull’intero territorio nazionale, ma che si sminuzza in una serie di eventi i quali suggellano la cessazione dei combattimenti in aree diverse. La Liberazione non è una data sola, ma è un avvenimento che si scagliona nel tempo, ritmato dal passo degli eserciti della Grande Alleanza antifascista, in sanguinosa ascesa verso il Nord della penisola. E non è nemmeno un evento che tutte e tutti vivano con lo stesso entusiasmo. In ogni luogo chi ha vissuto quei due anni di tregenda esprime passioni intonate alla propria individuale esperienza cosicché nell’affresco di esultanza attribuito convenzionalmente a quei giorni possiamo intravvedere patimenti o gioie che sono stati ignorati.

Guardiamo i vinti: la fine del conflitto segna per coloro che si sono schierati nelle forze armate della repubblica fascista una lacerazione definitiva nella loro vita. Le memorie che sono raccolte nell’Archivio dei Diari ci mostrano tuttavia che non vi fu una corale ribellione di fronte alla vittoria partigiana e alla loro stessa sconfitta; ma che ci furono reazioni diverse tra loro, che scompaginano i facili schemi in cui i fascisti repubblicani sono solitamente inquadrati.

Ci sono coloro che dall’ultimo fronte mussoliniano sono stati attirati in nome di ciò che sentivano come un dovere patriottico e che anche nella sconfitta ritengono di non avere soggettivamente sbagliato pur riconoscendo la legittimità della vittoria dell’altra parte. «[…]ho visto arrivare quattro camionette che si sono fermate nel centro della piazza e contemporaneamente ho sentito gridare: “Gli americani, sono arrivati gli americani! […]”», ricorda Franco Barracani, giovane pisano che si è arruolato nell’esercito fascista per «dovere», dovere non verso il fascismo ma verso l’Italia.

I soldati arrivati a liberare il villaggio non erano americani. Indossavano divise inglesi e portavano sulla manica sinistra del giubbotto uno scudo di stoffa bianco, rosso e verde con la scritta «ITALIA» in tutto simile a quello che avevamo noi sotto i tedeschi. Erano italiani aggregati all’esercito alleato che aveva vinto la guerra. Erano italiani che a sud del Senio e del Santerno avevano combattuto contro di noi. Italiani a sud con gli alleati, italiani a nord con i tedeschi. [….] Io ho appartenuto alla fazione perdente, ma ritengo di non avere sbagliato e mi sento la coscienza tranquilla. Ho avuto la fortuna di non uccidere nessuno e sono vivo! […]. Si, la guerra è veramente finita e sono vivo. E peraltro io sono convinto di avere «vinto» pur avendo combattuto dalla parte degli sconfitti.

Per altri, in età più matura, come Ugo Piazzi, si tratta di fare i conti con le scelte impegnative di una vita intera: e trovare la strada per uscirne con dignità e coscienza. Per altri ancora, come Gustavo Tomsich o Fernando Togni che hanno seguito i sogni e le illusioni della giovinezza, la sconfitta chiude una fase vissuta con convinzione, ma che di lì in poi si allontana fino diventare un ricordo che ormai non più richiede rimpianti.

O infine, per altri che hanno aderito con una profonda irrazionale passione, come Zelmira Marazio, è lo scoccare di un’era di lutto incancellabile.

Ascoltavamo in silenzio [il discorso di congedo del federale di Torino, Giuseppe Solaro, in un brano che ho già citato] alcuni piangendo, altri serrando le mascelle per non cedere alla commozione. Quelle parole aprivano un baratro davanti a noi. Fino a quel momento facevamo parte di un esercito, eravamo entro la legittimità di uno stato, circondati da forze ostili ma ancora uniti ed in grado di combattere. Ora eravamo soli, abbandonati a noi stessi, orfani della Repubblica.

Per altri, per i cittadini non direttamente impegnati nello scontro militare o politico, e soprattutto per le donne travolte dalla guerra in una fuga disperata, talora cieca, dalla distruzione e dalla morte, si apre d’improvviso la speranza.

Maria Antonietta Garetto così ricorda i primi momenti della propria liberazione e il proprio aggregarsi, nelle campagne toscane ancora solcate dalle cannonate, a una folla che, nel ricordo, sembra una inarrestabile composita fiumana.

Aspettavamo con ansia le truppe alleate, invece, al mattino dopo, spuntarono sul Fosso due soldatini smarriti e guardinghi: uno nero e uno bianco, erano brasiliani mandati in avanscoperta dagli americani. Non

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fecero a tempo a ricevere gli onori del trionfo che già cadevano le prime bombe tedesche e quelle della brigata Monte Rosa, ma nell’affrettato scambio di informazioni i due soldati ci avevano dato una notizia preziosa: la strada per Lucca era libera! […] di colpo mi prese un’angoscia, un’ansia folle di andarmene, di portar via mio figlio, di sapere cosa n’era stato, in quell’anno, della casa in Versilia. Non persi tempo, tirai fuori le biciclette dal nascondiglio in cantina, mia madre dissotterrò i gioielli […], li tolse dalla scatola e li cucì dentro una larga striscia di stoffa che si legò in vita sotto l’abito e il giorno dopo, all’alba, misi il bambino in uno zaino che mi caricai sulle spalle e partimmo. A mano a mano che scendevamo verso la pianura, da ogni via laterale, viottoli o fra i campi, stradina di campagna, la gente si univa a noi carica di ceste di polli, fagotti, panieri e trascinandosi dietro o pungolandoli, cani, pecore, maiali, mentre nella stretta gola montana rintronava cupo il rombo dei cannoni che, dal piano, sparavano in alto verso le postazioni nemiche, ma sulle nostre teste sembrava piuttosto che un’enorme boccia rotolasse in continuazione su un tavolaccio sconnesso. Per passare da una sponda all’altra, bisognava calarsi fra quell’ammasso di rovine, superarle e risalire: affidavo il bambino a mia madre che subito trovava mani protese a sorreggerla e guidarla nella difficile traversata, poi qualcuno aiutava anche me a far passare le biciclette, ma non v’era scambio di parole o accenno di sorriso, ognuno andava, chiuso in se stesso, come sospinto.

La fine delle ostilità e la Liberazione non per tutti significano sollievo per lo scampato pericolo, ma spesso sembrano segnare solo la sostituzione di un rischio con un altro. Non solo al Sud, dove gli Angloamericani sono stati preceduti da terribili bombardamenti e dalle truppe più selvagge del loro esercito, ma anche al Nord dove son giunti gli echi di quelle tragedie.

Questi soldati marocchini – ci racconta dalla Toscana Liliana Bandini – facevano parte delle truppe alleate, venivano per lo più impiegate in prima linea come reparti da sfondamento. Il loro comportamento veniva quasi tollerato, era come una specie di premio alla loro efficacia. Essi andavano in cerca di donne, casa per casa, l’età non aveva importanza, giovane o vecchia non faceva differenza per violentarle, e infine rapinavano qualsiasi persona di orologi, catenine e altri oggetti. Episodi questi che ebbero epiloghi tragici, che avevano suscitato l’ira della gente. Per questi metodi, barbari e incivili fu necessario ricorrere al comando per protestare; che questi fatti non si ripetessero di nuovo, farli cessare immediatamente, facendogli poi presente, se non avessero provveduto loro ci avrebbero pensato gli uomini della comunità a farsi giustizia. Da quel giorno le cose cambiarono, di marocchini non ne vedemmo più.

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In molti casi l’arrivo delle truppe alleate è associato a immagini di degradazione, all’emergere sfacciato di un costume che la società tradizionale aveva per lo più celato:

Intanto dietro il fronte arrivano le «Segnorine» famose in tutto il mondo. La maggior parte provenivano da Napoli. Per le strade ne ho viste di tutti i colori: donne abbracciate con neri e bianchi e i livornesi gli davano la caccia, quando le prendevano le rapavano a zero. Ricordo quel giorno che arrivai a casa molto contenta con un palloncino di forma lunga in bocca, mia madre inorridita mi fece lavare la bocca con l’aceto. Col tempo seppi che era un preservativo.

La felicità della pace si mescola insomma con nuove angosce e nuovi timori: «La guerra finì definitivamente il 25 Aprile 1945; cominciarono a ritornare i giovani, si sciolsero le armate partigiane, il paese fece presto a riempirsi di gente anche se a quel tempo eravamo solo tremila abitanti», annota dalla Toscana Laura Massini rievocando il momento in cui l’epoca della morte poteva dirsi chiusa.

Noi ragazzine si cominciò a fare amicizia fra di noi, piano piano venne qualche divertimento ed allora decisero di fare una festa da ballo nel magazzino Reale, così era chiamato il locale. Ma con gli americani in casa si doveva fare molta attenzione perché loro ci avevano liberato dai tedeschi e si sentivano padroni, specialmente nei confronti delle donne in genere. Insieme a loro c’erano anche truppe di colore che con prepotenza volevano costringere le ragazze a ballare con loro; io alla vista del primo negro della mia vita, presi paura perché pensavo a tutto quello che avevo passato con i tedeschi e mi convinsi che anche loro erano uguali! I giovani del paese erano amareggiati di questi comportamenti e così succedevano delle risse abbastanza forti; alcune ragazze di una certa età presero amicizia con gli americani e cominciarono a fare i soldi vendendo al mercato nero sigarette, zucchero, cioccolato e altre cose che gli americani davano a loro in cambio di certe prestazioni. Per queste donne fu una fortuna; per noi giovani no perché i nostri genitori non ci davano molta libertà e quindi la nostra fortuna fu lavoro e casa, ma meglio così!

Anche i festeggiamenti hanno tuttavia un contrappasso di pena.

Poco prima che gli sfollati se ne andassero decidemmo di fare una festa sull’aia, con il vecchio grammofono, tutti ballavano, grandi e piccini; dopo tanto soffrire eravamo contenti, il peggio era passato ed eravamo fiduciosi dell’avvenire, i giovani si scambiavano promesse di sincera amicizia ed

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anche di amore c’era in tutti tanta voglia di tornare alla normalità. Prima di mezzanotte la festa era finita […].

A turbare l’atmosfera interviene la constatazione di quanto gravi siano state le distruzioni e il prolungarsi sgradito dell’occupazione americana.

Dopo alcuni giorni, gli sfollati rientrarono ai loro paesi, dove trovarono le loro case saccheggiate, spesso dai civili, ed anche colpite dalle cannonate, tutti cercavano di aiutare i più sfortunati, c’era fra la gente tanta solidarietà, pensavamo che il fronte presto si sarebbe allontanato da noi, ora che i tedeschi erano in fuga, pensavamo ad una rapida fine della guerra, passavano i giorni e gli americani erano ancora al campo, tutti i giorni arrivavano grossi camion scaricando materiale di vario genere, poi un nostro amico italo americano ci spiegò tutto, disse che il campo era destinato ad essere ingrandito doveva servire come base di retrovia, e certamente la sua permanenza poteva durare a lungo […].

Ci sono quindi conseguenze inaspettate, fonti di delusione, perché la fine delle ostilità non significa la possibilità di abbandonarsi a progetti e speranze nuove; tanto più che le rovine sono immense, e stanno lì a ricordare quanti siano i motivi di sgomento e di sconforto che sovente sembrano cancellare la gioia di tornare a vivere. Così come testimonia Margherita Biagini da Firenze.

La guerra era finita per chi abitava di là dall’Arno, l’esercito di liberazione e la Vª armata americana avevano liberato quella parte della città spingendo i tedeschi a nord. Uscimmo dal luogo dove eravamo sfollati con la stessa gioia di chi fosse stato per tanto tempo al buio e ad un tratto rivedesse la luce. Il sole mi parve più caldo quel giorno, più splendente, il cielo sparecchiato delle nuvole era terso e compatto nel suo tenue celeste, mi sentivo avvolta in un pulviscolo luminoso. Dalla via Romana mi incamminai passando per P.zza Pitti verso il Ponte vecchio. Vidi i luoghi della mia infanzia, le strade che per anni avevano allargato il raggio della mia casa; abitavo alla Costa San Giorgio, la via Guicciardini, borgo San Jacopo, via dei Bardi, via Porta Santa Maria ridotte ad un cratere di calcinacci. Suppellettili, mobili, travi, ciondolavano abbrancati a dei pezzi di parete rimasti in piedi e come un’enorme bocca spalancata mostravano tutta la malvagità di cui era capace la stupidità umana. La guerra come una laida baldracca era entrata in modo osceno nel privato, si era abbattuta violentemente sugli esseri umani e sulle cose sconvolgendo e distruggendo il quotidiano, aveva cancellato in un sol colpo il vissuto, la memoria: là dove era scorsa la vita ora erano macerie. Le persone chiuse in una sorda disperazione guardavano attonite, incredule, inciampando nei ricordi

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annaspava o alla ricerca di un qualsiasi oggetto a loro appartenuto, nel tentativo di recuperare un frammento di quel vissuto, di memoria che gli erano stati sottratti.

E infine le tragedie delle esecuzioni sommarie, che da Torino Maria Assunta Fonda rievoca con pena e pietà. Maria Assunta – staffetta partigiana con la sorella – era divenuta segretaria del Movimento giovanile della Sinistra Cristiana e nei giorni dell’insurrezione opera anche come crocerossina in città. Il 24 aprile viene inviata in Corso Dante dove, con altre due ragazze, sue aiutanti, improvvisa una rudimentale infermeria, e lì resta alcuni giorni.

[…] nel pomeriggio [del 27 aprile, dopo una drammatica incursione notturna di un carro armato nemico] vidi entrare dal cancello un gruppo di gappisti che trascinavano un uomo ed una donna. L’uomo era ben vestito, molto pallido e camminava come un automa. La donna, ben vestita anche lei, era scarmigliata e si faceva trascinare, urlando e protestando. Furono sospinti in uno dei magazzini in fondo ed un partigiano, passandomi vicino, mi disse: «Sono dei fascisti; adesso gli facciamo il processo!» Io ebbi pietà per loro […]. Attesi circa un’ora vicino alla porta dell’ufficio, ogni tanto sentivo degli scoppi di voci venire dai magazzini. Alla fine vidi uscire cinque o sei partigiani col prigioniero in mezzo; costui aveva le mani legate dietro la schiena, era cadaverico e sembrava dovesse inciampare ad ogni passo. Vennero proprio di fianco all’ufficio; uno dei partigiani legò un fazzoletto sugli occhi dell’uomo e la squadra si mise in posizione davanti a lui. L’altra crocerossina si ritirò nella casa, io mi feci il segno della Croce ed iniziai una preghiera mentre risuonava l’ordine: «Fuoco!»

L’uomo cadde ma non era morto; si puntellò al terreno con una mano e cercò di rialzarsi protendendo l’altro braccio verso i suoi feritori. Allora quello che aveva dato l’ordine gli si avvicinò e gli sparò una sventagliata di sten lungo tutto il corpo. Il ferito ricadde e non si mosse più. I gappisti gli si avvicinarono ed uno di loro fece il gesto di togliergli le scarpe, allora io non mi tenni più, avanzai in mezzo e mi misi a gridare: «Dopo averlo ucciso volete anche derubarlo? Andatevene, rapinatori di cadaveri!» Avrei potuto capire se ci fossimo trovati in montagna, nel bisogno e nelle ristrettezze degli inverni precedenti , ma lì con l’Italia ormai libera e con la nostra vittoria, quello mi sembrava un atto di sciacallaggio. Quelli mi guardarono con aria meravigliata, però se ne andarono senza più toccare il morto. Allora io rientrai nell’ufficio, presi uno dei lenzuolini della branda ed andai a ricoprire il cadavere.

Nell’angustia di quei giorni c’è però, incontenibile, la gioia di avere riconquistato la libertà, che Bruna Talluri dipinge il 25 aprile 1945 in termini commossi.

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Abbiamo ritrovato il gusto di raccontare. Per tanti anni abbiamo vissuto in attesa del nemico: «Taci, il nemico ti ascolta». Rivedo il dito teso e minaccioso che spunta dal manifesto appiccicato sui muri. Per alcuni anni abbiamo evitato di parlare, di scrivere, imparando soltanto a tacere. Anche oggi se mi sorprendo a parlare di politica con un amico in mezzo alla strada, mi volto in giro preoccupata. Devo ritrovare tutti i ricordi sepolti o accantonati nella memoria per paura del «nemico»…

Possiamo tuttavia intuire che, pur nella letizia di quei giorni, serbasse nel cuore una riflessione amara che il 13 ottobre 1944 aveva consegnato alla sua Cronaca di una passione: «Sono abbastanza matura, purtroppo, per sapere che a ventun anni una donna che vuole fare “carriera” politica, deve accettare l’aiuto e la protezione di un uomo: è tollerata nella misura in cui lavora su commissione».

Ritrovare i ricordi, gustare i nuovi sentimenti se la nuova condizione d’altra parte non è facile perché restano ancora aperti interrogativi angosciosi sulla sorte di chi è stato trascinato lontano nel corso di quella guerra che pare impossibile allontanare definitivamente.

2 maggio [1945] – mercoledì. […] Ore 21. In questo momento suonano le campane a festa e si crede che sia per la fine della guerra. Dio mio! Abbiamo desiderato tanto questo giorno che quasi non sembra vero, non so ma mi sento così confusa che non so neanche raccapezzarmi. Ormai ci eravamo così abituati alla guerra che la pace sembra una cosa troppo bella, una cosa non degna di noi. Forse sarà perché non possiamo essere completamente felici fino a che non avremo notizie dei nostri cari lontani. E se i miei fratelli non ritornassero? Oh allora tutto sarebbe inutile... ma no, devono ritornare, devo essere sicura, sarebbe una cosa troppo orribile.

E lo sgomento e il dolore tornano ad assalire i superstiti, così come Bruna Cipriani ci racconta era avvenuto nei territori liberati alla metà del 1944.

Il 30 luglio del 1944, i Tedeschi se ne andarono. Arrivarono gli Anglo-Americani e la gente ricominciò a sperare. Io gironzolavo spesso nei campi degli alleati e ogni volta sgraffignavo qualcosa di buono. Mi piaceva specialmente il the mescolato con il latte condensato e ne bevevo un barattolo intero. Era buona anche la carne in scatola, dura, compressa, chiara [...]. E le tavolette di cioccolata nera e bianca... un vero godimento. Cose che non avevo mai visto, ma che non avevano visto neanche gli altri paesani. Molte ragazze prestavano servizi in cambio di viveri di ogni genere.

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Lavavano camicie e pantaloni, pulivano i pentoloni da campo, ricucivano, stiravano, e chiedevano the, zucchero, biscotti. Qualcuna s’innamorò e l’anno dopo aumentarono le nascite di bimbi biondi con gli occhi chiari. I liberatori, gli alleati, così li chiamava la gente, si erano stabiliti nei locali della scuola, altri erano attendati ai margini del paese, con i loro grossi camion Dodge e le divise mimetiche. […] Tra le rovine spuntavano reti, pezzi di comodino, acquai, vasi da notte, ante con schegge di specchi che continuavano a brillare, fotografando spicchi di cielo, oltre a poveri pezzi di oggetti ormai morti alla vita che un tempo li animava. Poi c’era un camino grande, di pietra annerita dal fumo, intatto e imponente come un altare sacrificale in cui si erano consumati gli avvenimenti dei tempi. Guardando quei resti si potevano immaginare tutte le stanze, tutte le cose, e con loro vedere figure umane, giovani, vecchi e bambini, fantasmi evocati dall’anima rimasta impressa nei sassi, nei ferri, nei legni, nei brandelli di vesti, di tende di frange che si muovevano all’aria aperta e bisbigliavano nel desiderio di raccontare i giorni del loro passato. Ritornai con il nonno nella casa che mi aveva visto crescere. La casa era malridotta e ferita in più punti, ma si poteva ancora abitare. I mattoni della cucina erano rotti in molte parti, per le botte ricevute quando, senza riguardo, ci veniva spezzata legna di ogni genere, da buttare sotto i paioli delle patate. [….]

La prima sera in cui ci dormii fu tremenda. Mi sorpresi a piangere e sì che avevo giurato di non farlo mai! La notte con le sue stelle luminose, vicine lontane, la notte con quei fantasmi che si allungavano dalla finestra senza ripari, la notte senza la mia nonna mi faceva tanta paura.

Margherita Ianelli narra il ritorno a casa dopo la guerra: il suo racconto, essenziale e pur ricco di riferimenti ai fatti e alle attività materiali, ci fa percepire come le ferite inferte siano pressoché inguaribili; offesa l’umanità, offesa la stessa natura, il nemico ha lasciato una insopprimibile traccia di dolore.

Eravamo all’inizio di aprile 1945 restammo in quel fienile ancora tre giorni dopo la partenza delle truppe. Le strade si erano riempite di automezzi, non era possibile mettersi in cammino. La stagione era buona, le strade erano tutte in terra battuta, il grande traffico sollevava un grande polverone che dava l’idea che fossero le nubi che dalla terra salivano al cielo. I ponti erano stati fatti saltare tutti dai tedeschi, ma gli alleati usavano una tecnica che in poco tempo costruivano un ponte. Avevano dei mezzi che assomigliavano a grandi tavolati con sostegni per fissarli alla base, in poco tempo venivano sistemati e gli automezzi transitavano veloci verso nord. Dopo tre giorni di traffico, noi abitanti dei luoghi eravamo liberi potevamo girare tranquilli. Noi ci mettemmo in cammino, si poteva girare con carro e buoi. Ci aiutavamo a vicenda con quelle poche bestie rimaste, perché i tedeschi dopo averle usate per lavoro se le mangiarono. Riuscimmo a ritornare sani e salvi. la nostra famiglia si era ricomposta, mancava il

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cognato che arrivò poco dopo alla fine della guerra. La prima sensazione che provai a guerra finita, fu il grande silenzio. Neanche gli uccelli cantavano, ancora impauriti di ogni tipo di scoppi di bomba. Sembrava una cosa da non crederci, ci eravamo tanto abituati al fracasso, che sembrava che ci mancasse qualcosa. Il 25 aprile 1945 fine della guerra, un grande sollievo per l’intera umanità. Ma quanta tristezza, quanti mancavano alla base, quanti ne periranno ancora […].

E infine, per una donna come Severina Rossi che nella cospirazione e nel carcere aveva conosciuto persone e vite tanto diverse dalla sua, il felice ritorno a casa comporta anche la necessità di fare i conti con costumi e con comportamenti che aveva abbandonato per scegliere la lotta: la sua condotta – come quella di tante donne in quegli anni – aveva infranto tabù e sovvertito ruoli sociali consacrati.

L’impatto con i miei non fu facile. Ero stata educata a dare del voi a padre e madre, non certo per ubbidire a Mussolini, ma per tradizione. Avrei voluto abbracciarli in una stretta liberatoria, ma il pudore di entrambe le parti ce lo impedì. Dovetti soffocare i sentimenti a beneficio degli usi e costumi della mia famiglia, quei costumi di sottomissione che avevo calpestato, che avevo infranto con l’irruenza dei miei anni. Avevo saputo che mio padre, quell’uomo mite dal cuore onesto, nel lontano giorno del mio arresto, era caduto a terra colpito da un collasso. Mia madre aveva sofferto moltissimo e mi disapprovava: «Non sono cose da donna». Sentivo che la sua sofferenza era ancora viva, ma sentivo anche dai suoi atteggiamenti, un continuo rimprovero. Inoltre, era sbalordita dagli eventi e non credeva ancora nella libertà, aveva ancora paura dei fascisti e mi era ostile nell’intento di proteggermi: «Il mostro tenterà di risorgere, cambierà vestito, il mostro, “el cagniis” (cane rabbioso)».

Ma anche in questo momento per lei tanto drammatico non viene meno in Severina la capacità di cogliere la nobiltà dei sentimenti altrui e di gioirne.

Mio padre sembrava un bambino e traspariva felicità in ogni sua parola. Mi disse che la rondine non era ancora tornata al nido sotto il portico1. Forse era in ritardo per la guerra. L’aspettava. Mi portò a vedere la coniglia con tutti i piccoli nati che s’aggrappavano a succhiare

1 Un nido di rondine – di quella rondine – era stato strappato da sotto il portico per metterlo sulla gola di Severina bambina al fine di guarirla da una tonsillite, secondo le indicazioni di una sorta di fattucchiera. Su quel nido distrutto Severina aveva pianto a lungo.

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il latte e alla nostra presenza tremavano impauriti. Mi mostrò i pulcini di pochi giorni che pigolavano senza sosta e facevano tenerezza per la loro fragilità. Pure i piccioni erano nati, tutt’intorno gli orti si vestivano di verde, i tralci delle viti erano già legati. Non sapeva più cosa farmi vedere per mostrarmi la sua gioia e io capivo che la vita avrebbe ripreso. Era pure primavera.

Per Cesarina Veneri, partigiana comunista, il dopoguerra si prospetta infine come l’inizio di un nuovo impegno, di natura diversa, ma coerente con le scelte etiche e politiche dalla sua Resistenza.

Togliatti venne a Ravenna a tenere un comizio nella sezione comunista C. Strocchi in Borgo San Biagio. Noi partigiani eravamo tutti presenti e ci disse cosa dovevamo fare, convinto che a lui avremmo ubbidito. «Consegnate le armi, tornate a casa, sposatevi, fate dei figli e fateli studiare». Sapeva che la maggior parte di noi aveva fatto solo la quinta elementare e disse che l’Italia aveva bisogno di intellettuali comunisti. «I vostri figli devono diventare medici, ingegneri, insegnanti e magistrati» […] in cuor mio promisi che avrei trovato marito, avrei avuto tanti figli ed uno sarebbe diventato magistrato. Allora la magistratura era aperta solo agli uomini e ad una minoranza privilegiata. Nessun figlio di operaio o di impiegato aveva potuto accedere a questa carriera. Incontrai Pino. Nel novembre 1947 ci sposammo. Nacquero nel 1948 Guido, nel 1951 Susanna, nel 1958 Eleonora. Solo su Guido potevo contare di fare un magistrato, era l’unico maschio. Ma intorno agli anni ’60 la magistratura fu aperta anche alle donne. Ora avevo tre possibilità di fare un magistrato. Niente da fare con i primi due. La più piccola ha realizzato il mio sogno, facendomi mantenere la promessa che avevo fatto.

E aggiunge, non senza toni di ingenua retorica:

Noi donne abbiamo combattuto, non solo per liberare il nostro paese dai tedeschi, ma anche per rivendicare i nostri diritti. Dovevamo continuare la lotta che avevano iniziato le nostre mamme e le nostre nonne, organizzandosi in Leghe contro gli agrari. Loro furono i pilastri dell’emancipazione della donna, noi fummo le colonne, le nostre figlie saranno le torri, sempre più in alto per ottenere le nostre rivendicazioni: il voto, tutte le carriere aperte, parità lavoro, parità di salario, e successivamente, aborto, divorzio, cioè quel progresso che esisteva già nelle grandi democrazie. Ho creduto in grandi valori e per un periodo della mia vita ho combattuto per realizzarli. Non ho rimpianti, ne rinnego nulla. Ci sono cose che non vorrei fossero avvenute: quella di avere accettato la violenza della guerra. Non ho ucciso nessuno, ma ho taciuto quando sapevo che si faceva, approvando. Ora mi giustifico dicendo che era la guerra che ci aveva fatto

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diventare cosi crudeli e per questo vorrei che i miei figli ed i miei nipoti non conoscano i suoi orrori. Ho visto combattere fratelli contro fratelli, ho visto morte, torture e violenze. È tutto.

Lontani d’Italia, i deportati dei campi di concentramento vedono finalmente crollare l’inumana struttura che li ha oppressi e torturati. Ancora in preda allo stupore per quell’evento atteso ma allo stesso tempo quasi incredibile, Giuseppe Biagi ci racconta gli ultimi giorni di Gusen e la follia che sembra invadere il campo.

Verso i primi giorni del mese di aprile del 1945, formarono un grosso convoglio trasferendoci nuovamente a Gusen, – stando alle voci che circolavano – dovevano rinchiuderci nelle gallerie a «gazarci». […] Il lager era superaffollato con migliaia e migliaia di deportati, molti dei quali morivano in ogni angolo, per fame, per dissenteria e per altre cause. Anche a Gusen non ci davano da mangiare, per cui tutti eravamo ormai giunti alla fine delle nostre sopportazioni umane. […]. Il giorno dopo vidi alcuni deportati con una fascia al braccio che timidamente tentavano di stabilire una qualche disciplina nel lager. Erano anche loro erano dei musulmani, deboli rinsecchiti appena in grado di reggersi in piedi, facevano quanto era nelle loro possibilità umane e con quella piccola forza che gli era rimasta. La guerra è finita! La guerra è finita! Un urlo immenso, totale, unanime e universale esplose come un gigantesco boato nel lager di Gusen. Erano le ore 16.30 del 5 maggio del 1945! Indescrivibile la gioia e la spaventosa pazzia dei deportati che, come un gigantesco rullo compressore formato da un’onda di ossa umane, travolgevano ogni cosa sul loro cammino verso la cucina. Come delle bestie feroci si avventarono su tutto quanto poteva sfamarli, asportando quanto era ancora rimasto; pochi viveri ormai restavano. Solo i primi s’impossessavano di qualcosa, derubati a loro volta da altri; accampandosi sul piazzale di Gusen a gruppi, per nazionalità, formando centinaia di bivacchi, cuocevano le patate e quant’altro in loro possesso. Fui travolto e costretto ad avanzare con loro entrando nella cucina, trovandomi disteso nel grande cassone dello zucchero di cui, in pochi attimi, rimanevano solo le tavole. Sembravano delle locuste umane! Uscii dal cassone inerme e tutto attaccaticcio e con poco zucchero nelle tasche, avviandomi verso l’uscita, lasciando all’interno un’infinità di morti calpestati dalla furia umana. All’esterno la marcia trionfale dell’Aida: canti, suoni, danze, fuochi, mentre le prime ombre della sera avvolgevano le bolge scatenate dei deportati, dando al lager un aspetto irreale, inenarrabile per la vitalità, l’entusiasmo e l’immensa gioia di tutti coloro che ritornavano in vita… indifferenti delle altre migliaia di morti sparsi per il campo, e altri ancora che continuavano a cadere stecchiti, dopo avere abbondantemente mangiato, ballato e cantato. Nessuno si preoccupava del suo prossimo, ognuno pensava a se stesso.

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La fuoruscita dall’inferno non è uguale ovunque, ma uguale è l’impronta che la prigionia ha scavato in ciascuno. E il ritorno non sembra premiare lo spasmodico amore per la patria, la famiglia, la vita di sempre che ha sorretto e animato la volontà di vita dei deportati. Di questa delusione, a lungo taciuta, la testimonianza di Alessandro Roncaglio ci lascia un ritratto efficace e profondo, in termini semplici e addolorati. Roncaglio è stato deportato dopo aver rischiato la fucilazione, accusato di partecipazione al movimento partigiano; come effettivamente era, collaborando con la rete cospirativa torinese: «L’inserimento nella società dopo quella triste esperienza fu facile e difficile nello stesso tempo. Fu semplice in un certo senso perché la ditta presso cui lavoravo [prima della deportazione] mi riassunse; risultando ufficialmente solo un assenteista dal lavoro e non un sovversivo essendo stato assolto per insufficienza di prove». Già questo è un prologo significativo dell’accoglienza riservata, fin dai primissimi tempi, ai reduci della deportazione.

La difficoltà maggiore invece la trovai proprio nell’inserimento nella società; nei compagni della vita e di lavoro. […] il mondo esterno, quello dei compagni quello dell’ambiente cittadino mi angosciava, vedevo intorno a me ruotare un mondo di interessi, di egoismi, se vogliamo anche di frenetica ripresa produttiva e mi sentivo trascurato, oggetto di indifferenza. La mia coscienza mi poneva su di un piedistallo non solo di innocenza ma di benemerenza politica e sociale. Invece ero umiliato da freddezza ed apatia; addirittura il mio nome era diventato «Mauthausen» pronunciato spesso con scherno e in tono canzonatorio. Sono addolorato nel dirlo: il tempo, gli affari, la vita quotidiana della gente stava spegnendo tutto mettendo sotto la cenere ricordi, martiri e morti. Su quella cenere nasceva la nuova Italia libera, come a Gusen sui morti si stavano costruendo le case, per nascondere l’ignominia.

Sono parole che riflettono in primo luogo la delusione e l’umiliazione dei deportati, fossero internati militari, deportati per ragioni di razza o per motivi politici, sui quali il silenzio dell’opinione pubblica, della memoria istituzionale e della stessa ricerca storica hanno gravato a lungo. Ma hanno anche una risonanza più ampia, se pensiamo quanto fragile nei decenni successivi sia stata l’incidenza della riflessione sul fascismo, sulla guerra, sulla Resistenza nell’etica politica nazionale.

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Nota bibliografica

Nota bibliografica

Le indicazioni bibliografiche che seguono si limitano a segnalare le opere di maggior rilievo e quelle che più mi sono servite per inquadrare il periodo. Non solo quindi non è una bibliografia completa, ma è addirittura quanto mai soggettiva ed arbitraria. Mi auguro tuttavia che essa, pur incompleta (o sovrabbondante?) possa fornire al lettore qualche eventuale strumento di confronto e di approfondimento. Per quanto riguarda l’importanza delle fonti diaristiche e memorialistiche non posso che rimandare alle introduzioni dei vari volumi pubblicati dall’Archivio dei Diari. In particolare: P. Gabrielli, Scenari di guerra, parole di donne. Diari e memorie nell’Italia della seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 2007 – che è stato per me una guida – e, della stessa autrice, Anni di novità e di grandi cose, Bologna, Il Mulino, 2011; M. Baioni (a cura di), Patria mia. Scritture private nell’Italia unita, Bologna, Il Mulino, 2011. Credo possa esser utile infine riflettere sui tratti distintivi delle fonti autobiografiche, sulla traccia degli scritti di Ph. Lejeune, Signes de vie: le pacte autobiographique, Paris, Seuil, 2005 e di D. Demetrio, Raccontarsi: l’autobiografia come cura di sé, Milano, Cortina, 2007.

I. Crisi del fascismo, allontanamento di Mussolini, governo Badoglio, armistizio e occupazione tedesca dell’Italia sono tra gli argomenti più ampiamente trattati e dibattuti dalla storiografia italiana degli ultimi decenni. Della vastissima produzione storiografica vedi: E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze, Bologna, Il Mulino, 2006; D. Bidussa, Il mito del bravo italiano, Milano, Il Saggiatore, 1994; R. De Felice, Mussolini l’alleato 1940-1945, vol. I: L’Italia in guerra 1940-1943, Torino, Einaudi, 1990; E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo stato nel regime fascista, Roma, Nuova Italia Scientifica, 1995; M. Isnenghi, La tragedia necessaria. Da Caporetto all’8 settembre, Bologna, Il Mulino, 1999; L’ Italia dei quarantacinque giorni 1943 25 luglio-8 settembre. Studio e documenti, Milano, Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, 1969; A. Melloni (a cura di), Otto settembre 1943. Le storie e le storiografie, Reggio Emilia, Diabasis, 2005; Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-1944, Milano,

Feltrinelli, 1974; P. Pieri e G. Rochat, Pietro Badoglio, Milano, Mondadori, 2002; P. Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, Bologna, Il Mulino, 1993; A. Ventura (a cura di), Sulla crisi del regime fascista 1938-1943, Istituto veneto per la storia della Resistenza, Venezia, Marsilio, 1996; R. Zangrandi, 1943: 25 luglio-8 settembre, Milano, Feltrinelli, 1964.

A queste opere prettamente storiografiche si aggiungono numerosi saggi di diversa ispirazione che ruotano attorno al problema dell’8 settembre e dell’identità nazionale: vedi ad esempio E. Galli della Loggia, La morte della patria: la crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 1999; G.E. Rusconi, Resistenza e postfascismo, Bologna, Il Mulino, 1995.

II. Il rapporto tra il popolo italiano e il fascismo è stato il tema di molti studi, interessati soprattutto all’organizzazione del consenso da parte del regime: P.V. Cannistraro, La fabbrica del consenso: fascismo e mass media, Roma-Bari, Laterza, 1975; F. Cordova, Il consenso imperfetto. Quattro capitoli sul fascismo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010; A. De Bernardi, Una dittatura moderna. Il fascismo come problema storico, Milano, Bruno Mondadori, 2001; R. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1929-1936, Torino, Einaudi, 1974, e Mussolini il duce. Lo Stato totalitario 1936-1940, Torino, Einaudi, 1981; V. De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista. L’organizzazione del Dopolavoro, Roma-Bari, Laterza, 1981; E. Gentile, Il culto del littorio: la sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Roma-Bari, Laterza, 2009; S. Lanaro, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia. 1870-1925, Venezia, Marsilio, 1979; S. Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Roma, Donzelli, 2000; L. Passerini, Torino operaia durante il fascismo, Torino, Einaudi, 1982; M. Salvati, Il regime e gli impiegati. La nazionalizzazione piccoloborghese nel ventennio fascista, Roma-Bari, Laterza, 1992; G. Zunino, L’ideologia del fascismo. Miti credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Bologna, Il Mulino, 1985.

III. Nessun fondato giudizio sull’Italia del periodo può prescindere dal ruolo dell’occupazione tedesca su cui esiste una densa storiografia che si va arricchendo: E. Collotti, L’amministrazione tedesca dell’ Italia occupata, Milano, Lerici, 1964; E. Dollmann, Roma nazista, Milano, Longanesi, 1949; G. Gribaudi (a cura di), Terra bruciata. Le stragi naziste sul fronte meridionale. Per un atlante delle stragi naziste in Italia, Napoli, l’ancora del Mediterraneo, 2005; L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia, Torino, Bollati Boringhieri, 1993; G. Schreiber, La vendetta tedesca, 1943-1945: le rappresaglie naziste in Italia, Milano, Mondadori, 2001; K. Stuhlpfarrer, Le zone d’operazione. Prealpi e Litorale Adriatico 1943-1945, Gorizia, Adamo, 1979.

292
Luigi Ganapini

IV. V. Ho adottato nel testo una distinzione tra attività cospirativa e lotta partigiana che mal si presta a indicazioni storiografiche separate perché tra le due gli studiosi giustamente hanno sempre visto una stretta continuità. In parte essa è rilevabile anche nelle memorie e nelle testimonianze che ho utilizzato; ma la mia scelta è stata funzionale a una esposizione più distesa dei problemi e delle vicende dei nostri testimoni, ed è stata diretta a far risaltare le motivazioni individuali di ciascuno. La storia dell’antifascismo, della cospirazione e della Resistenza armata resta tuttavia un capitolo unitario, su cui è sempre aperto un vivace e importante dibattito: R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana (8 settembre 1943-25 aprile 1945), Torino, Einaudi, 1954; R. Battaglia, Un uomo, un partigiano, Bologna, Il Mulino, 2004 (ed. or. 1945); C. Bermani, Pagine di guerriglia. L’esperienza dei garibaldini della Valsesia, Vercelli, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Vercelli «Cino Moscatelli», 1995; A. Buvoli e I. Domenicali, La zona libera della Carnia e del Friuli, Comunità Montana della Carnia, s.d.; C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991; M. Giovana, Guerriglia e mondo contadino. I Garibaldini nelle Langhe 19431945, Bologna, Cappelli, 1988; Istituto Storico della Resistenza in provincia di Novara e in Valsesia, Le zone libere nella Resistenza italiana ed europea Relazioni e comunicazioni presentate al Convegno internazionale di Domodossola 25-28 settembre 1969, s.n.t. 1974; M. Legnani e F. Vendramini (a cura di), Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, Milano, FrancoAngeli, 1990; M. Legnani, Politica e amministrazione nelle repubbliche partigiane, Milano, ISML, s.d.; M. Palla (a cura di), Storia della Resistenza in Toscana, Roma, Carocci, vol. I, 2006, vol. II, 2009.; G. Quazza, Resistenza e storia d’Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, Milano, Feltrinelli, 1976; N. Revelli, Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana, Torino, Einaudi, 2005; G. Rochat, E. Santarelli e P. Sorcinelli (a cura di), Linea gotica 1944: eserciti, popolazioni, partigiani, Milano, FrancoAngeli, 1986; S. Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Torino, Einaudi, 2004; P. Secchia e C. Moscatelli, Il Monte Rosa è sceso a Milano. La Resistenza nel Biellese nella Valsesia e nella Valdossola, Torino, Einaudi, 1958; M. Storchi, Combattere si può, vincere bisogna. La scelta della violenza fra Resistenza e dopoguerra, Venezia, Marsilio, 1988; G. Valdevit, Foibe. Il peso del passato. Venezia Giulia 1943-1945, Venezia, Marsilio, 1997; A. Ventura et al., Società rurale e Resistenza nelle Venezie, Milano, Feltrinelli, 1978; C. Winterhalter, Raccontare e inventare. Storia, memoria e trasmissione storica della Resistenza armata in Italia, Bern u.a., Peter Lang, 2010.

VI. La Repubblica Sociale Italiana rappresenta un nodo controverso, si potrebbe dire l’estrema formulazione della tragedia storica italiana, l’inevaso tormento di un paese che ha dato vita alla prima dittatura totalitaria di destra ma che su di essa non è riuscito a formulare un giudizio che lo liberasse dai fantasmi del passato.

Nota bibliografica 293

G. Bocca, La repubblica di Mussolini, Roma-Bari, Laterza, 1977; R. Chiarini, L’ultimo fascismo: storia e memoria della Repubblica di Salò, Venezia, Marsilio, 2009; F.W. Deakin, The brutal Friendship, trad. it. La Repubblica di Salò, Torino, Einaudi, 1963; A. Ferioli, Dai lager nazisti all’esercito di Mussolini. Gli internati militari italiani che aderirono alla Rsi, in «Nuova storia contemporanea», IX, settembre-ottobre 2005, n. 5, pp. 63-88; L. Ganapini, La repubblica delle camicie nere, Milano, Garzanti, 1999; D. Gagliani, Brigate Nere. Mussolini e la militarizzazione del Partito fascista repubblicano, Torino, Bollati Boringhieri, 1999; G. Pansa, L’esercito di Salò nei rapporti riservati della Guardia nazionale repubblicana, Milano, Insmli, 1968; V. Paolucci, La repubblica sociale italiana e il partito fascista repubblicano, Urbino, Argalia, 1979; di parte fascista: A. Tamaro, Due anni di storia, Roma, Tosi, 1948; G. Pisanò, Storia della Guerra civile in Italia, Milano, FPE, 1965.

VII. Il capitolo dei bombardamenti ha attirato molte attenzioni perché, come risulta dalle fonti utilizzate in questo lavoro, coinvolgeva e terrorizzava ogni strato della popolazione. Bisogna soprattutto ricordare che le incursioni alleate non erano limitate alle aree urbane, ma nel corso della campagna d’Italia hanno investito l’intero territorio provocando danni e sofferenze spesso dimenticati.

M. Gioannini e G. Massobrio, Bombardate l’Italia. Storia della guerra di distruzione aerea 1940-1945, Milano, Rizzoli, 2007; G. Gribaudi, Guerra totale. Tra bombe alleate e stragi naziste. Napoli e il fronte meridionale, 1940-1944, Torino, Bollati Boringhieri, 2005; M. Patricelli, L’Italia sotto le bombe. Guerra aerea e vita civile 1940-1945, Roma-Bari, Laterza, 2007; A. Rastelli, Bombe sulla città. Gli attacchi aerei alleati: le vittime civili a Milano, Milano, Mursia, 2000; A. Villa, Guerra aerea sull’Italia, Milano, Guerini e associati, 2009.

VIII. L’analisi della società rurale toscana negli anni della guerra mondiale è parte del mutamento aperto dalla la crisi del regime, che sbocca negli anni della «grande trasformazione» italiana nel secondo dopoguerra, da cui anche gli istituti tradizionali dell’agricoltura toscana sono prepotentemente investiti: G. Becattini, Riflessioni sullo sviluppo socio-economico della Toscana, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. La Toscana, Torino, Einaudi, 1986; P. Clemente (a cura di), Il mondo a metà. Sondaggi antropologici sulla mezzadria classica, Bologna, Il Mulino, 1988; Z. Ciuffoletti e G. Contini, Il destino sociale dei contadini toscani dopo la fine della mezzadria, in P.P. D’Attorre e A. De Bernardi (a cura di), Studi sull’agricoltura italiana. Società rurale e modernizzazione, Milano, «Annali» della Fondazione G.G. Feltrinelli, XXIX, 1993, pp. 267-282.

Per l’argomento più specifico del capitolo, l’occupazione e le stragi naziste nell’Italia centrale, disponiamo di una bibliografia che negli ulti-

294

mi vent’anni si è fatta cospicua: L. Baldissara e P. Pezzino, Il massacro: guerra ai civili a Monte Sole, Bologna, Il Mulino, 2009; C. Di Pasquale, Il ricordo dopo l’oblio: Sant’Anna di Stazzema, la strage, la memoria, Roma, Donzelli, 2010; G. Contini, La memoria divisa, Milano, Rizzoli, 1997; L. Paggi (a cura di), Storia e memoria di un massacro ordinario, Roma, manifestolibri, 1997; P. Pezzino, Anatomia di una strage. Controversia sopra una strage tedesca, Bologna, Il Mulino, 2008; M. Folin (a cura di), Popolo se m’ascolti… Per le vittime dell’ eccidio del Padule di Fucecchio. 23 agosto 1944, Reggio Emilia, Diabasis, 2005; L. Klinkhammer, Stragi naziste in Italia, (1943-44), Roma, Donzelli, 2006

IX. La storia dei sentimenti nella storiografia contemporanea rientra negli studi di storia della famiglia, sviluppatisi fin dagli anni Venti soprattutto negli USA, in Inghilterra e in Francia, e sono parte importante della storia dei mutamenti di mentalità e dei costumi. Sono tuttavia studi che sviluppano le loro tesi su un arco temporale ben più lungo di quello considerato in questo lavoro.

J. Bethke Elshtain, Donne e guerra, Bologna, Il Mulino, 1991; M.L. Betri e D. Maldini Chiarito, Scritture di desiderio e di ricordo: autobiografie, diari, memorie tra Settecento e Novecento, Milano, FrancoAngeli, 1992; M.L. Betri e D. Maldini Chiarito (a cura di), Dolce dono graditissimo: la lettera privata dal Settecento al Novecento, Milano, FrancoAngeli, 2000; G. Duby e M. Perrot, Storia delle donne in Occidente, vol. V: Il Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2003; P. Gabrielli, Scenari di guerra, parole di donne, Bologna, Il Mulino, 2007; L. Rocchi e S. Ulivieri, Voci, silenzi, immagini: memoria e storia di donne grossetane (1940-1980), Roma, Carocci, 2011; P. Sorcinelli, Il quotidiano e i sentimenti, Milano, Bruno Mondadori, 2002; tra le storie generali: Storia delle donne in Occidente, Roma-Bari, Laterza, 5 voll.; L.A. Tilly e J. Scott, Women, Work and Family, Holt, Rinehart and Winston, 1978.

Il diario e le lettere di Orlando Orlandi Posti sono state pubblicate con il titolo Roma ’44. Le lettere dal carcere di via Tasso di un martire delle Fosse Ardeatine, con introduzione di A. Portelli, Roma, Donzelli, 2004. Occorre infine segnalare che una ricca bibliografia è costituita dalle stesse pubblicazioni dell’Archivio Diaristico Nazionale, che per loro natura diaristica documentano con ricchezza questo versante della storia.

X. Inizialmente trascurati da un’Italia troppo immersa nei ricordi dei propri dolori per badare a coloro che erano stati trascinati lontano (vedi A. Bistarelli, La storia del ritorno. I reduci italiani del secondo dopoguerra, Bollati Boringhieri, Torino, 2007) gli Internati Militari sono stati oggetto di molte ricerche a partire dagli anni Ottanta, anche sull’onda dell’interesse per la cosiddetta «Resistenza senz’armi»: M. Avagliano e M. Palmieri, Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945, Torino,

Nota bibliografica 295

Einaudi, 2009; A. Bendotti et al. (a cura di), Prigionieri in Germania. La memoria degli internati militari, Bergamo, Il Filo di Arianna, 1990; A.M. Casavola, N. Sauve e M. Trionfi (a cura di), Sopravvivere liberi. Il no dei militari italiani internati nei Lager nazisti, Roma, Anei, 2005; G. Guareschi, Diario clandestino 1943-1945, Milano, Rizzoli, 1949; G. Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania,1943-1945, Bologna, Il Mulino, 2004; N. Labanca (a cura di), Fra sterminio e sfruttamento. Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (19431945), Firenze, Le Lettere, 1992; A. Natta, L’altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania, Torino, Einaudi, 1996; G. Procacci e L. Bertucelli (a cura di), Deportazione e internamento militare in Germania: la provincia di Modena, Milano, Unicopli, 2001 (che contiene un saggio di G. Hammermann, citato nel testo); G. Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, Roma, Stato maggiore dell’esercito, 1992; C. Sommaruga, Bibliografia ragionata dell’internamento e deportazione dei militari italiani nel Terzo Reich (1943-1945), Milano, Archivio dell’internamento Claudio Sommaruga, e Id., Una storia affossata. Gli italiani «schiavi di Hitler», traditi, disprezzati, dimenticati… e beffati dalla Germania e dall’Italia! 1943-2007, Quaderno-Dossier n. 3, 2007.

Anche in sede locale sono state condotte indagini interessanti: L. Baratter, Una memoria affossata: gli internati militari italiani 1943-1945. Il caso di Bolzano, Bolzano, Anpi, 2007; Resistenza senz’armi. Un capitolo di storia italiana (1943-1945) dalle testimonianze di militari toscani internati nei lager nazisti, Firenze, Le Monnier, 1984; R. Ropa, Prigionieri del Terzo Reich. Storia e memoria dei militari bolognesi internati nella Germania nazista, Bologna, CLUEB, 2008.

Si moltiplicano peraltro le raccolte di memorie e di testimonianze; ma bisogna avvertire che a molti decenni di distanza dagli avvenimenti è difficile discernere il pensiero originale e immediato dalla sedimentazione successiva.

XI. I deportati per ragioni politiche – i nostri esempi riguardano partigiani catturati e sfuggiti alla pena di morte – hanno forse ricevuto forse una minore attenzione storiografica, inglobati come sono nella storia generale della Resistenza: M. Avagliano e M. Palmieri, Voci dai lager, Torino, Einaudi, 2011; P. Caleffi, Si fa presto a dire fame, Milano, Mursia, 1968; G. D’Amico, G. Villari e F. Cassata (a cura di), I deportati politici, 1943-1945, Milano, Mursia, 2009, 3 voll.; M. Franzinelli (a cura di), Ultime lettere dei condannati a morte e di deportati della Resistenza, 1943-1945, Milano, Mondadori, 2005; L. Ricciotti, Gli schiavi di Hitler: i deportati italiani in Germania nella seconda guerra mondiale, Milano, A. Mondadori, 1996; G. Procacci e L. Bertucelli, Deportazione e internamento militare in Germania: la provincia di Modena, Milano, Unicopli, 2001; M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende identità persecuzione, Torino, Einaudi, 2007; Una storia di tutti: prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra mondiale, Milano, FrancoAngeli, 1989.

296

Notevole per l’accuratezza della ricerca è il volume: G. Valota, Streikentransport: la deportazione politica nell’area industriale di Sesto San Giovanni, Milano, Guerini e associati, 2008.

XII. Della vasta memorialistica e delle riflessioni elaborate attorno alla persecuzione razzista citerò solo le opere di Primo Levi, Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati (varie edizioni), a cui fanno speso riferimento anche le memorie di Pieve Santo Stefano. È bene ricordare che, come si evince facilmente anche dalle memorie selezionate in questo volume, un terribile silenzio circondò il ritorno dei deportati, IMI, deportati politici ed ebrei.

M. Avagliano e M. Palmieri, Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia: diari e lettere 1938-1945, Torino, Einaudi, 2011; R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1966; M. Flores et al. (a cura di), Storia della Shoah in Italia, Torino, UTET, 2010, 2 voll.; G. Mayda, Storia della deportazione dall’Italia 1943-1945: militari, ebrei e politici nei lager del Terzo Reich, Torino, Bollati Boringhieri, 2002; L. Paggi (a cura di), Le memorie della repubblica, Firenze, La Nuova Italia, 1999; L. Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia 1943-1945, nuova ed., Milano, Mursia, 2011, e Id. L’alba ci colse come un tradimento: gli ebrei nel campo di Fossoli 1943-1944, Milano, Mondadori, 2010; Il libro della memoria: gli ebrei della Toscana deportati nei campi di sterminio 1943-45; Firenze, Regione Toscana, 2003; M. Sarfatti, La Shoah in Italia: la persecuzione degli ebrei sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 2009; C. Vivanti (a cura di), Storia d’Italia, «Annali» 11, Gli ebrei in Italia. Dall’emancipazione a oggi, Torino, Einaudi, 1997, vol. II.

Le due interviste di Shlomo Venezia a cui si fa riferimento nel testo sono tratte da: S. Lipani, L’abisso e il silenzio, Roma, Edizioni LiberEtà, 2006; Sh. Venezia, Sonderkommando Auschwitz, a cura di M. Pezzetti e U. Gentiloni Silveri; da un’intervista di B. Prasquier, Milano, Rizzoli, 2008. Sulle persecuzioni in Toscana, cfr. L. Rocchi, Ebrei nella Toscana meridionale. La persecuzione a Siena e Grosseto, in E. Collotti (a cura di), Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI, Roma, Carocci, 2007, vol. I, pp. 254-318. Su Eugenia Servi vedi ancora L. Rocchi, A un passo dalla deportazione. Memorie di persecuzione nel territorio grossetano, in D. Gagliani (a cura di), Guerra Resistenza Politica. Storie di donne, Reggio Emilia, Aliberti, 2006. Alle divisioni interne della comunità dedica attenzione A. Paggi, Un bambino nella tempesta, Livorno, Belforte, 2009, che racconta non senza cenni polemici una storia quasi parallela a quella di Eugenia Servi. Un percorso analogo delinea E. Machlin Servi, Child of the Ghetto: Coming of Age in Fascist Italy, 1926-1946: a memoir, Crotonon-Hudson, Giro Press, 1995.

XIII. La conclusione del conflitto e i tempi immediatamente successivi alla Liberazione o – forse potremmo dire – alle Liberazioni è argomen-

Nota bibliografica 297

to affrontato sia sotto il profilo celebrativo (che qui trascuro) sia sotto quello polemico. In risposta al taglio celebrativo adottato dalla retorica ufficiale alcuni giornalisti (alcuni dei quali già intemerati e faziosi studiosi antifascisti) hanno aperto una polemica sulle uccisioni del dopoguerra e sulle stragi compiute dai partigiani ai danni dei fascisti repubblicani. Le loro ricostruzioni hanno distorto risultati di altre serie ricerche, di taglio interpretativo assolutamente diverso.

G. Crainz, L’ombra della guerra. Il 1945, Roma, Donzelli, 2007; M. Dondi, La lunga liberazione: giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Roma, Editori Riuniti, 1999; G. Fantozzi, Vittime dell’odio: l’ordine pubblico a Modena dopo la liberazione, 1945-1946, Bologna, Europrom, 1990; G. Pansa, Il sangue dei vinti, Milano, Sperling & Kupfer, 2003 (seguito da varie innumeri edizioni); M. Storchi, Il sangue dei vincitori: saggio sui crimini fascisti e i processi del dopoguerra, 1945-46, Reggio Emilia, Aliberti, 2008; M. Storchi, Uscire dalla guerra. Ordine pubblico e dibattito politico a Modena, 1945-1946, Milano, FrancoAngeli, 1995.

298 Luigi

Indice delle autrici e degli autori dei diari

Indice delle autrici e degli autori dei diari

Maria Alemanno

Venezia, 1900-1988

Titolo originale […] Oggi mi è saltato in mente di scrivere un diario Diario 1943-1944, pp. 26

Abele Antonione

Biandrate (Novara), 1924

Titolo originale Anni bui Memoria 1943-1945, pp. 33

Liliana Bandini

Poggibonsi (Siena), 1926

Titolo originale La mia piccola storia per non dimenticare Memoria 1943-1944, pp. 64

Eugenia Bassani

Ferrara, 1924-2004

Titolo originale L’anzulon

Memoria 1938-1945, pp. 50

J. Bassani Liscia, L’anzulòn, Signa, Masso delle Fate, 1997

Walter Benincasa

Castelvetro (Modena), 1921-2001

Titolo originale Brevi stralci politici militari sulla vita di una Formazione

Partigiana. La Formazione Walter Memoria 1944-1945, pp. 87

Aurelio Bernardi

Pietracuta di San Leo (Rimini), 1923

Titolo originale Diario di guerra

Diario 1943-1945, pp. 36

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Indice delle autrici e degli autori dei diari

Giuseppe Biagi

Cormons (Gorizia), 1927

Titolo originale Le ali di pietra

Memoria 1930-1945, pp. 90

Margherita Biagini

Firenze, 1931

Titolo originale Frammenti di memoria

Memoria 1940-1944, pp. 15

Luana Bonaiuti

Sesto Fiorentino (Firenze), [193-]

Titolo originale La Tragedia

Memoria 1944, pp. 6

Dina Brogi

Castelnuovo Berardenga (Siena), 1930

Titolo originale Le memorie di una adolescente

Memoria 1941-1945, pp. 82

Perla Cacciaguerra

Firenze, 1926

Titolo originale Vinceremo… Mah!!!

Diario 1943-1945, pp. 113

P. Cacciaguerra, Vinceremo… Mah!!! Diario di guerra 4 ottobre 19434 maggio 1945, Firenze, Ibiskos, 2000

Francesco Celentano

Portici (Napoli), 1921

Titolo originale Burro

Diario 1943-1945, pp. 73

Tosca Ciampelli

Badia Prataglia (Arezzo), 1924

Titolo originale Diario particolare

Memoria 1939-1945, pp. 52

Bruna Cipriani

Recanati (Macerata), 1935

Titolo originale Ai miei genitori

Memoria 1935-1946, pp. 104

Marisa Corsellini

Firenze, 1927

Titolo originale Diario di guerra

Diario 1944, pp. 70

Giorgio Crainz

Roma, 1915

Titolo originale Diario di prigionia

Diario 1943-1945, pp. 134

Laura De Grandis

La Spezia, 1924

Titolo originale […] Sono a scrivere sul tavolinetto

Diario 1944, pp. 25

Danilo Durando

Milano, 1923-2001

Titolo originale […] Ohimè, gente, udite!

Diario 1944-1945, pp. 86

Ercolino Ercole

Torino, 1922-1989

Titolo originale Ricordi

Autobiografia 1922-1945, pp. 50

Libero Evangelista

Cesena (Forlì), 1925

Titolo originale Raccontate il vostro 8 settembre 1943

Memoria 1943, pp. 3

Maria Assunta Fonda

Torino, 1925

Titolo originale C’era una volta Maria… alias Gianna

Memoria 1925-1951, pp. 161

Enrico Freyrie

Eupilio (Como), 1923

Titolo originale La Cetonia

Memoria 1923-1947, pp. 205

Elio Galletta

Palermo, 1926-2007

Titolo originale Livorno 1940-1943

Memoria 1940-1943, pp. 339

Indice
303
delle autrici e degli autori dei diari

304

Indice delle autrici e degli autori dei diari

Maria Antonietta Garetto

Jujuy (Ledesma, Argentina), 1921-2003

Titolo originale Oxalà

Autobiografia 1921-1991, pp. 65

Fidalma Gatto

Trebisacce (Cosenza), 1933

Titolo originale Quando gli anni difficili

Autobiografia 1939-1993, pp. 7

Adele Giannoni

Pietrasanta (Lucca), 1925

Titolo originale Diario di guerra 1944-1945

Diario 1944-1945, pp. 48

Enea Gibertoni

Bomporto (Modena), 1928

Titolo originale Come sono diventato partigiano Memoria 1940-1945, pp. 4

Luigi Gironi

Milano, 1928

Titolo originale Per Aspera ad Astra

Memoria 1943-1945, pp. 18

Luigi Gobetti Pavia, 1922-2003

Titolo originale Il Bivio

Memoria 1943-1944, pp. 82

Norma Guerri

San Miniato (Pisa), 1928

Titolo originale Quando ero contadina

Memoria 1930-1950, pp. 76

N. Guerri, Quando ero contadina, Milano, Jaka Book, 1997

Elsa Guidelli

Arezzo, 1914

Titolo originale Scuola, lavoro, pericoli scampati

Memoria 1920-1990, pp. 33

Margherita Ianelli

Marzabotto (Bologna), 1922-2011

Titolo originale Quando la mente iniziò a ricordare

Autobiografia 1927-1993, pp. 599

M. Ianelli, Gli zappaterra, Milano, Baldini e Castoldi, 1997

Dora Klein

Lodz (Polonia), 1913-2005

Titolo originale 1936-1945 vita di una donna ebrea in Italia

Memoria 1936-1945, pp. 345

D. Klein, Vivere e sopravvivere. Diario 1936-1945, Milano, Mursia, 2001

Adriana Luzzati

Asti, 1928

Titolo originale Adriana Luzzati: la mia vita

Memoria 1928-1945, pp. 59

Ester Maimeri

Milano, 1928

Titolo originale E se...

Memoria 1944-1945, pp. 126

E. Maimeri, La staffetta azzurra, Milano, Mursia, 2002

Felice Malgaroli

Broni (Pavia), 1924

Titolo originale Domani chissà

Memoria 1930-1963, pp. 113

Zelmira Marazio

Torino, 1921-2008

Titolo originale Il mio fascismo

Memoria 1921-1949, pp. 170

Z. Marazio, Il mio fascismo, Baiso, Verdechiaro, 2005

Elvezia Marcucci

Grosseto, 1910-2006

Titolo originale Le memorie di una novantenne smemorata

Autobiografia 1910-2001, pp. 216

Nada Martelli

Castelfiorentino (Firenze), 1924

Titolo originale Lampi nel percorso della memoria

Memoria 1928-1949, pp. 128

Laura Massini

Castiglione della Pescaia (Grosseto), 1930-2000

Indice delle autrici e degli autori dei diari 305

306

Indice delle autrici e degli autori dei diari

Titolo originale Domani è un altro giorno

Autobiografia 1940-1988, pp. 59

Michelina Michelini

Firenze, 1914

Titolo originale Tredici mesi senza notizie

Diario 1943-1944, pp. 28

Walma Montemaggi

Pontorme (Firenze), 1926

Titolo originale C’è Alfiero, c’è Alfiero Memoria 1943-1944, pp. 2

Nicolette

La Spezia, 1923

Titolo originale Come eravamo

Autobiografia 1923-1999, pp. 96

B. Orlandi, Ombre e luci, La Spezia, Edizioni Cinque Terre, 2003

Maria Assunta Italia Liberata Notini

Barga (Lucca), 1917

Titolo originale Sprazzi di episodi vissuti nella guerra Memoria 1943-1945, pp. 63

Orlando Orlandi Posti

Roma, 1926-1944

Titolo originale […] Oggi alle 14,30 in P. Sempione

Diario 1944, pp. 14

O. Orlandi Posti, Roma ’44, Roma, Donzelli, 2004

Maria Pagani

Saronno (Varese), 1929

Titolo originale La gioventù femminile saronnese nella resistenza Memoria 1943-1945, pp. 22

Irene Paolisso

Castelforte (Latina), 1923

Titolo originale Un diario

Diario 1943-1944, pp. 122

I. Paolisso, Un diario, in D. Sciamanda, L’autunno nero del ’43, Firenze, Giunti, 1993

Angelo Cesare Perduca

Busto Arsizio (Varese), 1926

Titolo originale In autunno cadono le foglie

Autobiografia 1930-1965, pp. 95

Iliana Petrini

Pisa, 1920

Titolo originale […] Mamma e babbo

Diario 1944, pp. 33

Ugo Piazzi

Roma 1912-1995

Titolo originale Un italiano modello 1912

Autobiografia 1912-1987, p. 150

Amalia Righelli

Avellino, 1912-1989

Titolo originale La casa ottagonale

Memoria 1915-1945, pp. 100

A. Righelli, La casa ottagonale, Venezia, San Marco, 1987

Antonio Rossi

Canosa di Puglia (Bari), 1912-2005

Titolo originale Due anni (settembre 1943-settembre 1945)

Diario 1943-1945, pp. 119

Severina Rossi

Soresina (Cremona), 1920-2010

Titolo originale Io cantastorie: libertà vo’ cercando

Memoria 1920-1945, pp. 132

S. Rossi Io, cantastorie, Firenze, Giunti, 1995

Zelinda Resca

Castello d’Argile (Bologna), 1924-1999

Titolo originale Un racconto sottovoce

Autobiografia 1924-1960, pp. 41

Giorgio Santarelli

Firenze 1925-2004

Titolo originale 1936-1943 Diario di un ragazzo

Diario 1936-1943, pp. 82

Domenico Sciamanda

Atri (Teramo), 1891-1958

Titolo originale Quarantatrè giorni a Regina Coeli

Memoria 1943, pp. 302

D. Sciamanda, L’autunno nero del ’43, Firenze, Giunti, 1993

Indice
307
delle autrici e degli autori dei diari

308

Indice delle autrici e degli autori dei diari

Eugenia Servi

Pitigliano (Grosseto), 1928

Titolo originale Ed ora, 50 anni dopo…

Memoria 1938-1995, pp. 49

Pietro Sorrentino

Castellabate (Salerno), 1925

Titolo originale Diario di guerra 1943

Diario 1943, pp. 12

Cesare Staderini

Firenze 1909-2004

Titolo originale Vedrete l’abominazione della desolazione

Memoria 1944, pp. 81

Bruna Talluri

Siena 1923-2006

Titolo originale Una staffetta nella Resistenza senese: testimonianze, cronache, commenti

Memoria 1930-1945, pp. 97

Maria Talluri

Siena, 1924

Titolo originale 1941: Ripudio del fascismo

Memoria 1940-1944, pp. 9

Fernando Togni

Bergamo, 1923

Titolo originale Avevamo vent’anni (anche meno)

Memoria 1941-1946, pp. 201

F. Togni, Avevamo vent’anni (anche meno), Milano, Virgilio, 1989

Gustavo Tomsich

Zagabria (Croazia), 1924

Titolo originale Cantavo Giovinezza

Memoria 1930-1945, pp. 347

G. Tomsich, Cantavo «Giovinezza», Firenze, Giunti, 1995

Albertina Tonarelli

Ponte Sestaione (Pistoia), 1921

Titolo originale Una storia nella Storia

Memoria 1921-1945, pp. 73

Filomena Lina Trozzi

Sulmona (L’Aquila), 1915-1995

Titolo originale Il mio passato «storico»

Memoria 1943-1945, pp. 31

Mario Tutino

Roma 1885-1968

Titolo originale […] Ha piovuto durante la notte Diario 1943-1945, pp. 805

Cesarina Veneri

Ravenna, 1923

Titolo originale Vostra nonna era così

Memoria 1940-1945, pp. 11

Violet Whitby

Livorno, 1909

Titolo originale Memorie, memorie

Autobiografia 1909-1994, pp. 107

Ettore Zucchelli

Minerbio (Bologna), 1927

Titolo originale Diario di un sopravvissuto

Memoria 1935-1948, pp. 51

Indice delle autrici e degli autori dei diari 309
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