Nightfall On The Grey Mountains

I HAVE THIS THING WHERE I GET OLDER BUT JUST NEVER WISER

117 notes &

LE DONNE, I CAVALLIER, L’ARME E GLI AMORI: L’EVOLUZIONE DELLE PRINCIPESSE DISNEY DAL 1937 AL 2013


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Questo post mi frullava in testa da mesi, ma non avevo mai avuto occasione di approfondire il frullamento. E nonostante continuassi a rimuginarci sopra perché trovo sia veramente interessante vedere in che modo sono cambiate, nel corso del tempo, le Principesse Disney (contestualmente a come è cambiata la concezione della donna con il progredire della società), liquidavo sempre l’idea con un “sì, un giorno”. Che è, presumo, la stessa frase con cui quelli dell’Academy liquidano la questione “Oscar a DiCaprio”. Ma vabbè. Dopo l’ennesimo rewatch di tutta la saga di Aladdin durante le feste di Natale e, ormai in modalità cartone, dopo essermi sparata anche Ribelle The Brave, mi sono detta che questa era la volta buona. E infatti eccoci qua. (e vista la recente nomination a DiCaprio, chissà che non sia la volta buona anche per lui)

Mi sono quindi tuffata in una maratona di film Disney che nemmeno Dorando Pietri nei suoi giorni migliori: undici più uno (più tre, perché già che c’ero mi sono vista anche una manciata di sequel), cioè tutti quei film in cui compaiono le principesse del regale franchise. Inutile dire che alla fine della maratona avevo gli occhi più a palla di Voltorb.

Undici più uno, comunque, perché attualmente le principesse ufficiali sono solo undici:

  • Biancaneve
  • Cenerentola
  • Aurora (La Bella Addormentata nel Bosco)
  • Ariel (La Sirenetta)
  • Belle (La Bella e la Bestia)
  • Jasmine (Aladdin)
  • Pocahontas
  • Mulan
  • Tiana (La Principessa e il Ranocchio)
  • Rapunzel
  • Merida (Ribelle The Brave)


ma pare che Anna ed Elsa di Frozen: Il Regno di Ghiaccio verranno incoronate, rispettivamente, dodicesima e tredicesima principessa (anche se, tecnicamente, Elsa è una regina). 


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Ed io, nel dubbio, Frozen me lo sono visto (a questo link la mia recensione, e a quest'altro una ulteriore analisi del film), perché prendo i miei doveri di blogger molto più sul serio di quanto prenda quelli di studentessa universitaria.

Non tutti i personaggi femminili sono stati elevati al rango di principesse, dunque, né tutte le principesse che erano già principesse - penso a Kida di Atlantis - vengono inserite in questa lista ufficiale. Ve lo preciso qualora vi sembrasse che i conti non tornino.

Fatti i dovuti preamboli, direi di cominciare.

[AGGIORNAMENTO: a questo link il post sull'evoluzione dei cattivi]


L’idea della donna nella società vista attraverso i film di animazione

Tra il 1937 - anno di uscita di Biancaneve, la prima principessa - e il 2013 - anno di uscita di Frozen - ci sono ben settantasei anni. E settantasei anni sono una vita intera. In quest’arco di tempo una persona nasce, cresce, vive, muore, prima figlio poi genitore, magari si prende un gatto. E se per il singolo il cambiamento di mentalità, di moralità, del modo di percepire la realtà è sicuramente meno pregnante in termini di ordine delle cose, grande disegno o come volete chiamarlo, tale non è invece nel contesto della società, intesa come aggregato di tante singole individualità. In settantasei anni, infatti, la società cambia e si evolve in maniera molto più veloce e molto più significativa. La tecnologia, l’arte, la moda, la spiritualità, i diritti fondamentali degli individui, tutto è in costante divenire e, nel corso dell’arco di tempo in esame (o addirittura più breve), la società è in grado di pervenire a posizioni diametralmente opposte. Un esempio su tutti: nel 1955 Rosa Parks veniva arrestata per essersi rifiutata di cedere il suo posto d’autobus ad un bianco, e nel 2008 Barack Obama diviene il primo presidente afroamericano nella storia degli Stati Uniti.

From a woman on a bus
To a man with a dream
Hey, wake up Martin Luther
Welcome to the future

Brad Paisley, “Welcome To The Future”


Quello che, in ogni caso, ci interessa in questa trattazione è il modo in cui la concezione della donna si sia modificata con il passare del tempo. Questo cambiamento è ampiamente documentato nei libri di storia - le suffragette e la loro lotta per vedersi riconosciuto il diritto di voto - e nelle leggi - ad esempio, in Italia, la scomparsa della cosiddetta “patria potestà” (in cui, come si intuisce dal nome, il padre aveva un ruolo centrale) in favore dell’egualitaria “potestà genitoriale”, dove entrambi i genitori hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri nei confronti dei figli.

Ma questa evoluzione si percepisce anche, e soprattutto, dal modo in cui i personaggi femminili vengono rappresentati all’interno dei film di animazione Disney. E anzi, è forse proprio grazie alla visione cronologica di detti film che il cambiamento si mostra in tutta la sua portata, perché lo spettatore si trova letteralmente di fronte ad una evoluzione tangibile della condizione della donna, cosa che secondo me non avviene se ci si trova a leggere “sterili” nozioni storiche e dati normativi. Ad esempio, se io leggessi in un libro di storia che in Italia le donne hanno votato per la prima volta nel 1946, o se leggessi l’articolo 3 della nostra Costituzione - pari dignità sociale senza distinzioni di sesso -, darei semplicemente per scontato l’attuale concetto di uguaglianza (perché, essendo io del 1989, nata e cresciuta in un’epoca in cui l’uguaglianza era già stata “normativizzata”), senza rendermi conto in alcun modo di come si sia giunti fin lì. Né mi renderei conto di quale fosse il ruolo effettivo della donna all’interno della società in un dato contesto storico-culturale (potrei unicamente intuire che non fosse positivo, se si è sentito il bisogno di consacrarne l’uguaglianza, penso anche all’articolo 51 Cost. sulle cosiddette “quote rosa”).

Analizzando invece i film di animazione Disney che vanno dal 1937 al 2013, ci si rende perfettamente conto di come venisse vista la donna settantasei anni fa, e come questa concezione si sia pian piano modificata, fino ad arrivare alla condizione femminile del tempo presente.

E si noterà pure che si tratta di un percorso che, anche qui, parte da una idea per arrivare al suo esatto opposto. Scrivevo nel post su Frozen che “è incredibile l’evoluzione che, in settantasei anni, ci ha portati dalle damigelle in attesa di essere salvate, alle damigelle che si salvano da sole (Anna dice “ciao”)”. E Anna si salva da sola perché il percorso di crescita da lei intrapreso nel film è meramente interno (e non esterno): l’atto di vero amore che le scioglie il cuore ghiacciato, infatti, è il suo (e non del principe), e ciò le è stato possibile perché è lei stessa pervenuta, dopo una vita di illusioni, ad una idea matura dell’amore (cfr. La principessa indipendente” - Riflessioni su Frozen).

In ogni caso, la questione della condizione femminile affonda le sue radici molto indietro nel tempo, addirittura alla Grecia antica. Aristotele, ad esempio, riteneva le donne inferiori all’uomo sotto praticamente qualsiasi aspetto, sia fisico, che etico e mentale. Ed Esiodo con Pandora (come d’altronde la Bibbia con Eva) ritiene la donna l’origine di tutti mali. Sofferenza, dolore, morte, fatica, gelosia, pazzia, carta igienica girata al contrario, connessione wi-fi lenta, nominate un male a caso e yep, la colpa è la nostra.

In ogni caso, quell’antica immagine di sottomissione e di inferiorità si è tramandata fino ai nostri giorni (sebbene attenuata, purtroppo permane tuttora). I fatti di cronaca che hanno ad oggetto la violenza sulle donne (dallo stalking allo stupro all’omicidio), infatti, non solo non sembrano diminuire, ma al contrario pare aumentino esponenzialmente. Solo nella mia regione, le Marche, si sono avuti ben sei omicidi nel solo 2013. Cioè sei omicidi di troppo, e tutti legati a questa idea inquietante di possesso che l’uomo crede di avere sulla donna, vantando chissà quale diritto naturale di superiorità.

E non solo nella realtà gli uomini hanno questa ben poco lusinghiera percezione della donna, ma anche alcuni personaggi di finzione, tanto nei film live-action…

John Hammond: “Dovrei essere io ad andarci…”
Ellie Sattler: “Perché?”
John Hammond: “Io sono un… lei invece è una…”
Ellie Sattler: “Senta, parleremo della discriminazione sessuale nei casi di emergenza quando ritorno.” (Jurassic Park)

“Si fanno guidare da una donna. Che cosa può sapere, una donna?” - Allen Chamberlain (La Mummia)

…quanto nei film di animazione

“Non è giusto che una donna legga. Le vengono in testa strane idee, e comincia a pensare.” - Gaston (La Bella e La Bestia)

“È una donna, una cosa che non varrà mai niente.” - Chi-Fu (Mulan)

Se non altro, in tutti e quattro i casi menzionati, nessuna delle pulzelle in questione ha dimostrato di mancare di coraggio, spirito di iniziativa o intelligenza, né di essere inutile: una è andata a riattivare le recinzioni col rischio di venir mangiata da un paio di Velociraptor, un’altra, vabbè, dopo aver per sbaglio svegliato una mummia, ha dato un contributo essenziale alla sua sconfitta, un’altra ancora ha tenuto testa alla Bestia nemmeno fosse stato un docile Scottish Fold, e l’ultima ha… sai, giusto salvato l’impero cinese. Ordinaria amministrazione.

Ma per arrivare a questi livelli, ne è dovuta passare di acqua sotto ai ponti. Biancaneve, per esempio, sarebbe morta di crepacuore solo a vedere la Bestia in fotografia, e di sicuro avrebbe potuto salvare la Cina soltanto se il problema che l’affliggeva non erano gli unni ma l’organizzazione delle faccende domestiche.

A tal proposito, mentre mi documentavo per scrivere questo coso, ho notato che è opinione diffusa, presso il pubblico degli intellettualoidi, che i vecchi film Disney forniscano un’idea sbagliata della donna: rappresentata in modo passivo, solo in attesa di essere salvata, viene vista come un oggetto da donare al principe, per premiarne il coraggio. E non è che sia un discorso completamente fuori dai binari: vale per Biancaneve, vale per Aurora, vale anche, e addirittura, per Ariel e Jasmine (ovviamente in ognuno di questi film la questione assume sfaccettature e sfumature assai diverse: Ariel e Jasmine, per dire, non sono certo “passive”). Però, forse, è un discorso un po’ affrettato.

Perché si tratta senz’altro di una idea sbagliata, eppure tuttavia coerente con il contesto storico di riferimento, cioè il periodo in cui il film è uscito (non quello in cui è ambientato). Ed è questo un fattore che va assolutamente considerato, ma che invece sfugge ai più. Se ci calassimo nel tessuto culturale di quel periodo, infatti, profondamente radicato su una certa visione del mondo, noteremmo che sarebbe stato impensabile anche solo immaginare che Biancaneve prendesse la mela e la tirasse in testa alla regina. E questo perché era più che pacifico, all’epoca, che la donna dovesse badare alla casa e alla prole, giammai si sarebbe potuto contemplare che le fosse concesso di prendere direttamente in mano il proprio destino.

“Deve diventare oggetto di disapprovazione la donna che lascia le pareti domestiche per recarsi al lavoro, che in promiscuità con l'uomo gira per le strade, sui tram, sugli autobus, vive nelle officine e negli uffici. […]” - Ferdinando Loffredo, Politica della famiglia, 1938

Il regime fascista, peraltro, celebrava (con incentivi statali) la donna come moglie e come madre. Ma è questo il punto: solo come moglie, e solo come madre.

“La indiscutibile minore intelligenza della donna ha impedito di comprendere che la maggiore soddisfazione può essere da essa provata solo nella famiglia […]” - Ferdinando Loffredo, Politica della famiglia, 1938

Emerge quindi una visione assolutamente maschilista della società ad oggi totalmente anacronistica. Mi immagino il colpo apoplettico che verrebbe al Loffredo se qualcuno gli facesse leggere la classifica di Forbes sulle cento donne più potenti del globo. Più che altro, mi immagino lo shock che gli deriverebbe solo a scoprire che in quella lista risultano influenti figure politiche (al momento è Angela Merkel a dominare la classifica, seguita dalla presidente del Brasile Dilma Rousseff), dirigenti d’azienda, amministratori delegati e via dicendo. Per lui che riteneva che la donna si e no potesse mettere il naso fuori di casa, pensate che smacco vederne una alla guida di una intera nazione.

Ciò non toglie - in questo ping pong di rimandi dal passato al presente e viceversa - che se mettessimo Biancaneve e Merida nella stessa stanza, nessuna delle due riuscirebbe a capire l’altra: per come è Biancaneve, infatti (o, perlomeno, per il modo in cui io l’ho inquadrata), la circostanza che Merida sia arrivata addirittura a puntare una freccia contro suo padre pur di perorare la sua causa costituirebbe un comportamento inconcepibile. Biancaneve, infatti, non solo non hai mai operato personalmente e attivamente affinché le sue sorti cambiassero, ma probabilmente non ha nemmeno mai pensato che dal suo ruolo sottomesso avrebbe potuto elevarsi. Perché la condizione di Biancaneve si aggiusti, infatti, è necessario l’intervento del principe. Merida, d’altro canto, non riuscirebbe certo a comprendere l’apatica passività della prima principessa, dato che in gioco è il suo stesso destino. Ma, d’altronde, tra Biancaneve e Merida c’è una vita intera.

(credo che, tra l’altro, Merida un bel calcio nel deretano del signor Ferdinando Loffredo lo avrebbe dato volentieri)

In ogni caso oggi, nel 2014, queste teorie così convintamente antifemministe ci paiono totalmente prive di qualsiasi ragion d’essere, perché abituati a pensare il mondo in tutt’altri termini, termini dove l’emancipazione non è più un concetto così fantascientifico (piccola precisazione: io ho deciso di essere ottimista in merito, ma mi rendo tristemente conto che, allo stato della società attuale - ancora fortemente maschilista - il condizionale è più appropriato: "dovrebbero apparirci totalmente prive di […]“, ”non dovrebbe essere un concetto così fantascientifico").

E i “recenti” (virgolettato, perché il 1989 comincia ad essere lontanuccio) film della Disney hanno iniziato ad appropriarsi di questa nuova concezione, consacrando questo trend positivo con la creazione di alcuni personaggi femminili assolutamente fenomenali (personalmente, ho sviluppato una cotta intellettuale assurda per Anna ed Elsa).

Ma come ci accorgiamo, quindi, che la società è finalmente progredita, almeno per quanto riguarda l’intendere la donna al suo interno? Nel modo in cui sono cambiati - nel corso degli anni - la personalità e il carattere delle principesse in questione, fino a rispecchiare sempre di più la donna attuale (una donna, cioè, dotata di proprie opinioni e di libero arbitrio).

Le principesse, quindi, rappresentano l’esempio più popolare e comprensibile (perché veicolato dal mezzo artistico, che è alla portata di tutti) di come la società si è oggettivamente evoluta, in quanto ogni film è perfettamente calato nel contesto storico della società che lo fruiva/fruisce.

Quella stessa evoluzione che troviamo nero su bianco nella carta costituzionale e nei libri di storia, ma che non riusciamo a “percepire”.

Partiamo da un concetto generale.

Le principesse di questi dodici film si possono racchiudere in tre macrocategorie:

  • quelle che aspettano il principe azzurro (*citazione del quivis de populo a caso* Dei fermaporta, in pratica - casalinga di Voghera)
     
  • quelle che anelano l’indipendenza ma hanno ancora bisogno di essere salvate (*citazione letteraria a caso* Nessuno si salva da solo - Margaret Mazzantini)
     
  • le eroine della loro stessa storia (*citazione cinematografica a caso* Be your own hero - Whip It, regia di Drew Barrymore)


 

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In merito alla prima categoria, vorrei porre l’accento sulla parola “aspettano”. Aspettare il principe, infatti, potrebbe essere interpretato anche come sinonimo di “sognare” il principe, ma ritengo ci sia una differenza fondamentale tra le due cose, sebbene, all’apparenza, sottile. Almeno per me, infatti, l’atto di aspettare il principe assume un’accezione statica negativa: sembra che queste ragazze non facciano altro, a parte star lì ad attendere che qualcuno le salvi. Altro che il “sono una donzella, sono in difficoltà, me la cavo da sola. Buona giornata.” di Megara (Hercules). Insomma, aspettare è l’unica cosa che sono in grado di fare. Al contrario, e in accordo a questo ragionamento, Anna di Frozen sogna il principe azzurro, non lo aspetta. Pensava di averlo trovato, si sbagliava, ma la sua vita non è che si è esaurita lì. Frattanto che il principe giusto arrivi, infatti, lei trova anche tempo e modo di salvare il regno di Arendelle dall’inverno perenne.

Insomma, si può aspettare il turno alle poste o che l’acqua della pasta bolla, ma non il principe azzurro.

(quand’anche fare la fila alle poste - per antonomasia luogo di perdizione e tormento - potrebbe segnarvi psicologicamente per il resto della vita)

La seconda categoria è interessante: collocata esattamente a metà del percorso evolutivo, ci mostra come i personaggi in questione stiano pian piano acquisendo una loro individualità, come stiano per la prima volta concretamente agendo affinché la loro vita sia il risultato delle loro scelte, e non delle scelte degli altri.

La terza categoria, invece, è l’apice: quello che la seconda accennava appena, qui lo si consacra. Personaggi, finalmente, demiurghi del loro stesso destino. Il che, attenzione, non significa certo che abbiamo a che fare con gente superiore e/o perfetta: per quella c'è la macrocategoria della “irrealtà mista a noia”.


Le principesse


- Biancaneve (1937)

“[Vorrei un principe che] sul suo cavallo bianco mi porti al suo castello, per vivere per sempre felici e contenti.”

Biancaneve ha costituito per un lungo periodo di tempo lo “standard” di come doveva essere la principessa. I tratti della personalità di Biancaneve prima, di Cenerentola poi, fino ad arrivare ad Aurora compresa, sono infatti straordinariamente simili, così come le loro storie (soprattutto Biancaneve e Cenerentola, costrette a fare le colf).

Biancaneve, anche per rifarmi a quanto ho detto sopra citando il Loffredo, è esattamente il tipo di donna che la società degli anni ’30 predicava: umile e sottomessa, il suo più grande talento è fare le faccende di casa, badare ai figli (in questo caso, i nani) e cucinare la crosmata di tele crostata di mele. Mia nonna da parte paterna, che è del 1928, conferma questo esatto concetto: di mentalità davvero aperta, di tanto in tanto mi cade quando dice “queste donne che pretendono questo, pretendono quello…”. Insomma, è la prova tangibile della diversità di cultura che intercorre tra il periodo in cui è cresciuta lei (il periodo di Biancaneve), e il periodo in cui sto crescendo io, diversità di cultura che si traduce, tra le altre cose, in una diversa percezione della condizione femminile. Provate a dire a me che non mi è permesso (permesso: come se si trattasse di una magnanima concessione di un essere “superiore”) di fare/aspirare/chiedere qualcosa adducendo a giustificazione nient’altro se non il mio mero essere donna, e mi assicurerò personalmente che il vostro cadavere costituisca un monito per tutti gli stolti che verranno dopo di voi.

Comunque, il comportamento di Biancaneve si riallaccia perfettamente a questo ragionamento: nonostante sappia di essere una principessa, nonostante sappia che la condizione a cui è stata costretta sia ingiusta e sbagliata, e nonostante sappia che il suo ruolo a corte le è stato usurpato dalla matrigna, è come se accettasse la sua sottomissione di buon grado, tanto alla fine basta cantare per non pensare più ai dispiaceri. Non ha altre aspirazioni, non ha altri interessi (uno potrebbe essere, che so, cacciare la matrigna: avrà pure delle responsabilità, nei confronti del suo popolo!) che non siano quelli di trovare il suo principe, col quale vivere per sempre felice e contenta.


- Cenerentola
(1950)

“Meno male che nessuno può impedirmi di sognare.”

Tredici anni dopo Biancaneve, Cenerentola costituisce un timido passo in avanti. Anzi, per citare un meraviglioso film Disney, Pomi d’ottone e manici di scopa, un “passo nella direzione giusta”. Dicevo che ha molto in comune con Biancaneve, a cominciare dall’essere costrette entrambe a fare le serve, ma a differenza di Biancaneve ha una personalità più pronunciata. Per esempio, quando fallisce il primo tentativo di andare al ballo (dopo cioè aver chiesto il permesso alla sua matrigna), Cenerentola è audace abbastanza da andarci di nascosto (Rapunzel anyone?).

Cenerentola, nonostante le avversità che la vita le ha riservato, continua ad essere buona e gentile perché - chissà se ai tempi di Perrault c’era già il concetto di “karma” - prima o poi la sorte deve girare (e gli infami fanno sempre la fine che meritano, perlomeno nella finzione).

Tuttavia anche lei, come Biancaneve, è per lo più fortunata e basta. Una serie di circostanze hanno giocato a suo favore (probabilmente è il karma di cui sopra), non è che lei abbia attivamente fatto qualcosa al riguardo. La stessa fata madrina altro non è se non un deus ex machina. È pur vero, però, che molto dell’aiuto che l’ha portata al suo lieto fine le è derivato dai suoi amici animali, che lei ha sempre trattato gentilmente senza secondi fini: insomma, si può dire che la sua disinteressata purezza di cuore l’abbia, giustamente, ripagata. Per dire, Biancaneve decide di offrire le sue competenze di economia domestica ai nani perché “forse così mi faranno restare”. Biancaneve è ingenua e certo non è una tipa calcolatrice (semplicemente non le va a genio il farsi aiutare senza nulla in cambio, e onestamente mi sentirei a disagio anche io), e forse questa situazione non è davvero un do ut des, ma ci giriamo intorno.

In definitiva, sebbene con Cenerentola siamo già un passo avanti, trovo che tutto sia ancora troppo affidato al caso, o all’intervento di un terzo, perché il suo personaggio possa essere davvero significativo.


- Aurora  (1959)

“Ma perché mi trattano ancora come una bambina?”

Non pervenuta. L’unico sprazzo di personalità che di Aurora si riesce a cogliere è l’insofferenza nei confronti del fatto che debba essere protetta da tutto il mondo esterno. È vero, le circostanze lo richiedevano, ma lei non poteva saperlo. E poi niente, dorme e basta.

Rispetto a Biancaneve, però, è di sicuro più “spigliata”. Se la prima, infatti, a inizio film scappa dal principe come la volpe in Mary Poppins scappa dai cani da caccia, Aurora non ha problemi a “buttarsi” tra le braccia di un perfetto sconosciuto (ma principe anch’egli, Filippo). Il che penso sia perfettamente coerente col fatto che il “cosa fare/chi incontrare” impostole da Flora, Fauna e Serenella le andasse piuttosto stretto. È un po’ quello che accade con Ariel…


- Ariel  (1989)

“Io non vedo le cose nel modo in cui le vede lui.”

Trent’anni dopo la bella addormentata, dando avvio al cosiddetto “rinascimento Disney”, Ariel si discosta in maniera notevole da coloro che l’hanno preceduta, tanto da risultare uno dei termini di paragone che utilizzerò più di frequente nel corso di questa trattazione.

Se Biancaneve è la prima principessa in generale, si può dire che Ariel è la prima principessa finalmente attiva e non meramente passiva, sebbene la sua smania di prendere in mano la sua vita la conduce in più di un guaio. A me La Sirenetta non è mai piaciuto troppo (non ho mai prediletto i film con gli animali parlanti), ma il personaggio di Ariel è davvero molto interessante.

Ariel, come Cenerentola, non è fan della vita che conduce ma, a differenza della seconda, si impegna attivamente perché qualcosa cambi, non si limita a sognare l’eventualità che qualcosa, prima o poi, cambi. Certo, nel far ciò fa più danni che altro, ma lo sforzo è ammirevole. Tanto più che è re Tritone il vero guastafeste, sebbene animato da buone intenzioni, quelle cioè di proteggere la sua bambina.

Ariel, infatti, ha sedici anni, e a sedici anni ci può stare. L’idea di saperne di più dei nostri genitori, la convinzione che non ci capiscano, che non ci ascoltino e facciano di tutto per ostacolarci. Ci siamo passati tutti. Ariel non sarà una sirena dotata di particolare buon senso (ascolta il consiglio di due tipi notoriamente loschi - le murene - e si fa aiutare da una tipa notoriamente losca, Vanna Marchi Ursula) ma secondo me nemmeno suo padre è tanto migliore. Tritone, infatti, potrebbe anche concederle il lusso di farle fare i suoi sbagli, così che possa davvero imparare qualcosa. Tenere i figli sotto una campana di vetro, infatti, è dannoso e basta, e il film lo dimostra: per impedirle che con la sua voglia di visitare il mondo degli umani ci rimettesse le penne, ha fatto sì che ci rimettesse le… pinne (e la voce).

Ariel, nonostante sia per metà pesce, inizia ad essere anche quella più tipicamente umana: Biancaneve, Cenerentola e Aurora, infatti, sono donne estremamente idealizzate, qualcosa di assolutamente etereo e perfetto (poeti stilnovisti di tutto il mondo, unitevi!), tanto da risultare qualcosa di totalmente lontano dalla realtà. Ariel, invece, è testarda, è curiosa, è ribelle, è intraprendente, e anche egoista. Con tutti i suoi pregi e difetti è, in definitiva, una persona vera.

Tuttavia, di Ariel non mi piace il fatto che sia disposta a mollare tutto (voce, famiglia e mondo di provenienza) per Eric, un tipo che nemmeno conosce, quando ha ancora tutta una vita davanti per decidere cos’è che vuole veramente.


- Belle (1991)

“Prenda me al suo posto!”

Nell’immagine che illustra le tre macrocategorie da cui ho preso spunto per questa trattazione, Belle viene collocata nella seconda, cioè tra quelle che “hanno ancora bisogno di essere salvate”. Personalmente non sono tanto d’accordo, perché se in questo film c’è qualcuno che realmente ha bisogno di essere salvato, quel qualcuno è la Bestia. E di questo salvataggio Belle è, secondo me, l’autrice e non l’oggetto. Ma andiamo con ordine.

Intanto, Belle è una principessa “intellettuale”, sempre immersa nei suoi libri. Quegli stessi libri “senza figure” tanto disprezzati da Gaston. Belle è la prima principessa ad essere inquadrata per il suo modo d’essere, e non per il modo in cui appare (anche se non si manca di far notare il fatto che sia comunque una bella ragazza). Tuttavia, a differenza di quello che accadrà per Jasmine, le sue qualità intellettuali non le procurano l’approvazione dei suoi concittadini, che anzi la ritengono per questo “strana”, tanto che lei stessa arriva a chiedere al padre se sia strana per davvero.

I tratti salienti di Belle sono l’altruismo - si sacrifica per il padre - e il coraggio - tiene testa alla Bestia come se niente fosse:

- Le ho detto di stare fermo!
- Ma fa male!
- Se stesse fermo farebbe meno male!
- Beh, se non fosse fuggita questo non sarebbe successo!
- Se lei non mi avesse spaventata io non sarei fuggita.
- E lei non sarebbe dovuta andare nell’ala ovest.
- Beh, allora dovrebbe imparare a controllarsi.


Possiamo dire che Belle è la prima a far innamorare qualcuno per la sua personalità. Fino ad Ariel, infatti, tutti i principi hanno badato all’aspetto fisico: per esempio, il principe di Cenerentola si innamora appena la vede (certo, se lo standard del regno era costituito da Genoveffa e Anastasia, non lo si può biasimare), ed Eric si fissa che avrebbe sposato solo la persona la cui voce aveva sentito dopo il naufragio (e la voce, per quanto evanescente, è pur sempre qualcosa di bello esteriormente). E secondo me è la personalità di Belle ad essere veramente affascinante, tanto da spingere la Bestia a diventare migliore. 

Belle, inoltre, non ha pregiudizi: solo dopo aver effettivamente imparato a conoscere la Bestia (non si è limitata, insomma, a seguire pedissequamente l’opinione degli altri, e lo vedremo poi anche in Pocahontas) riesce ad amarla per quello che è, pregi e difetti compresi (come poi farà Tiana con quel farfallone di Naveen).


- Jasmine (1992)

Come vi permettete tutti quanti? Ve ne state lì a decidere del mio futuro! Io non sono un trofeo da vincere!”

Sebbene Belle abbia fatto da apripista, possiamo senz’altro affermare che la prima ad essere davvero descritta innanzitutto per la sua personalità, e solo dopo per il suo aspetto, è proprio Jasmine. E questo perché, rispetto a Belle, si tratta stavolta di una cosa positiva.

- Beh, ci sarebbe una ragazza…
- Errore! Non posso fare innamorare nessuno! Te ne sei dimenticato?
- Ma Genio, lei è intelligente, e spiritosa, e…
- Carina?
- Stupenda! Ha due occhi che sembrano… e i capelli, wow, e il sorriso!


Di Jasmine sappiamo, per sua stessa ammissione, che si sente costretta. E lo odia. Lei vorrebbe essere libera, vedere il mondo, ma la sua condizione di principessa la frena. La sua vita, infatti, è determinata dal volere di qualcun altro. Se per Ariel era il padre, per lei è la legge, che la costringe a sposarsi.

Beh, allora forse non voglio più essere una principessa.

Jasmine è una ragazza che sa perfettamente quello che vuole, ed è disposta ad ottenerlo, costi quel che costi. Così, non ci pensa due volte e scappa dal palazzo, sebbene la vita al di fuori di esso le risulti fin da subito estranea e ingestibile.

Non posso restare qui e lasciare che decidano della mia vita.

Quello che mi piace di Jasmine è il fatto che non ha paura di dire quello che pensa, come quando, nella frase che ho riportato all’inizio del paragrafo, in un colpo solo zittisce il sultano, Jafar e Aladdin (in quel momento nelle vesti del Principe Alì), tutti e tre che si arrogavano il diritto non tanto di decidere cosa fosse meglio per lei, ma proprio di sapere cosa fosse meglio per lei, come se Jasmine non fosse in grado di deciderlo e di capirlo con la sua testa.

Nonostante il suo essere combattiva e fiera, comunque, Jasmine ha ancora davvero bisogno di essere salvata: non tanto dalla clessidra in cui Jafar l’aveva rinchiusa, ma dalle costrizioni che il suo essere principessa le procura. La legge che prevede che la figlia del sultano si sposi entro il suo prossimo compleanno, infatti, è ancora in vigore. Ed è un salvataggio che le proviene dal padre: poiché essere un sovrano assoluto ha i suoi indubbi vantaggi, la legge viene abolita, consentendo così alla principessa di sposare chiunque ella desideri. E lei sceglie Aladdin che, per il coraggio e il valore dimostrato, praticamente si cucca la ragazza “in premio” (perlomeno dal punto di vista - comunque in buona fede - del Sultano).

- Il tuo valore ce lo hai dimostrato, questo è più che certo. È quella legge, il vero problema.
- Padre?
- Beh, ma insomma, sono o non sono il sultano? Da questo momento in poi, la principessa potrà sposare chiunque ella riterrà degno della sua mano.

E l'abbiamo già visto con Ariel. Se Jasmine non voleva più essere una principessa, Ariel non voleva più essere una sirena, e suo padre Re Tritone le fa il dono di trasformarla in una umana, salvandola così da una condizione di infelicità. E anche Eric ringrazia.

Se non altro, quello che Jasmine voleva era essere lasciata libera di “scegliere”. Poco importa che per far sì che riuscisse a farlo sia stato necessario l'intervento del padre, perché quello che è veramente interessante è che la sua opinione conta. Poteva anche scegliere di unirsi al Circo Orfei (la tigre poi già l'aveva) al posto di Aladdin, o qualsiasi altra cosa, ma il punto è proprio questo, signori: che finalmente ha scelto lei. (se vi è venuto da leggerlo con il tono della Regina de La Leggenda Di Un Amore, avete colto la citazione)


- Pocahontas (1995)

“Ma-ta-que..na-to-rath, wingapo.”

Per ogni principessa ho messo una frase che la rappresenta, ma siccome Pocahontas non dice nulla di veramente significativo, ho estrapolato qualche parola a caso del linguaggio della sua tribù e ce l’ho ficcata. Probabilmente c’è scritto: “non capisco una cippa di quello che stai dicendo, invasore bianco con i capelli usciti dagli anni ‘80, ciao.

E vi confesso, considerata la circostanza che dà il nome al film, che pensavo (oppure ricordavo in modo erroneo) che Pocahontas avesse un ruolo più preponderante o, quanto meno, più pregnante. Non è così, ma leggendo comunque un po’ tra le righe, si intuisce l’importanza di questo personaggio: intanto, rappresenta la superiorità dei valori morali del suo popolo rispetto a quelli, meramente materiali, degli arraffoni bianchi.

- Perché secondo te quei barbari insolenti ci hanno attaccato?
- Perché gli abbiamo invaso la patria, tagliato gli alberi e scavato il terreno?

Ed è una cosa, questa, che in sede di interpretazione (applicandola cioè alla nostra realtà) assume un significato molto più vasto ed attuale (perché nessuno di noi ha mai invaso la patria di qualcuno, ma di certo corre dietro al cellulare ultimo modello, quando magari quello vecchio funziona ancora, e via dicendo. Il mio, comunque, non funziona nemmeno se viene giù il Padreterno ma me lo tengo lo stesso perché sono oltremodo tirchia, il che è un’ulteriore esemplificazione del discorso). E non solo questo: a differenza degli invasori, Pocahontas è matura al punto da sapere che una cosa, prima di poterla giudicare, va compresa. Per i coloni, infatti, gli indigeni sono “cattivi a prescindere”. Pocahontas, invece, concede ai visi pallidi il beneficio del dubbio (cosa che invece non è in grado di fare suo padre): potrà pervenire ad un giudizio - positivo o negativo che sia - solo dopo averli effettivamente conosciuti. Il che è un grandissimo insegnamento.

In ogni caso, quello che veramente distingue Pocahontas è il tema della rinuncia, che ha in comune con Ariel: ma se Ariel rinuncia alla sua vita marina per Eric, Pocahontas rinuncia a John Smith per la vita con il suo popolo. Per la prima volta vediamo una principessa il cui travaglio interiore non riguarda il mondo a cui appartiene (era così per Cenerentola, per Ariel e per Jasmine), ma il modo in cui a questo mondo lei può essere utile. Posta davanti alla dicotomia “dovere - questioni di cuore”, Pocahontas privilegia il primo rispetto alle seconde, mostrando di possedere spirito di abnegazione e maturità (qualità invece mancanti nella sirenetta). In definitiva, Pocahontas è ben consapevole del suo ruolo nella comunità, ruolo a cui conferisce dignità nel momento esatto in cui impedisce che il bene egoistico del singolo (cioè lei stessa) vada a pregiudicare quello - più grande - di molti (la sua tribù). Vi prego, qualcuno faccia vedere questo film ai nostri parlamentari!


- Mulan (1998)

“Forse non l’ho fatto per mio padre. Forse quello che volevo veramente era dimostrare che riuscivo a cavarmela, e guardandomi allo specchio avrei visto qualcuno che valeva.”

Mulan è una principessa decisamente sui generis dato che la “regalità” - elemento  costitutivo per ogni principessa - non le deriva né per retaggio, né per acquisizione. Ciò nondimeno è stata inserita nel franchise (forse lì alla Disney non avevano intenzione di attaccar briga con un una ragazza con addestramento militare!).

Sebbene provenga da un’epoca storica e da una cultura convinte che l’unico modo per portare onore alla famiglia fosse quello di diventare una buona moglie, Mulan dimostra come vi siano in effetti altri modi per farlo. Ad esempio, salvando la propria nazione da un’invasione di Unni.

Dotata di notevole coraggio e particolare spirito di iniziativa, Mulan è la prima, vera, eroina d’azione. In quello che è uno dei miei film preferiti in assoluto, Master & Commander, c’è una frase, pronunciata dal capitano Jack Aubrey, che mi piace molto: “a pronto comando, pronta risposta.”. E il bello di Mulan è che “il comando” e la relativa “risposta” se li dà da sola. Come quando strappa di mano l’artiglieria ad un suo commilitone e la dirige contro una montagna al fine di provocare una valanga che servirà a fermare l’avanzata unna.

Mulan dà prova del suo valore in più di un’occasione, prima nei panni di Ping e poi nei panni di se stessa, dimostrando così che non è tanto la confezione ad essere importante, quanto il prodotto in essa contenuto. In definitiva, Mulan fissa chiaramente il concetto che la grandezza di una persona si valuta secondo parametri ad essa intrinseci, e non certo per il genere a cui questa persona appartiene. A dimostrazione, quando l’imperatore e tutta la Cina si inchinano al suo cospetto, in quel momento lei è Mulan, non Ping.


- Tiana (2009)

“L’unico modo per ottenere qualcosa nella vita è lavorare duramente”.

Tiana costituisce uno dei personaggi assolutamente più significativi non solo all’interno del cinema d’animazione, ma nel contesto della società nella sua interezza. Il messaggio di cui si fa portavoce, infatti, oltre ad essere umanamente universale (cioè applicabile a qualsiasi persona che abbia mai camminato e camminerà sulla Terra) è anche universale in riferimento a qualsiasi aspetto della vita. Sono anche io fermamente convinta, infatti, che il mondo non ci debba niente, e che sia necessario impegnarsi a fondo per ottenere qualsiasi cosa (un concetto di meritocrazia in Italia ampiamente disatteso).

Assolutamente ossimoriche, a questo proposito, le personalità di Tiana e della sua amica Charlotte: la prima è pragmatica e motivata ad ottenere quello che vuole con il suo solo impegno e i suoi soli meriti, mentre la seconda è viziata e abituata ad avere tutto perché è il suo ricco padre a procurarglielo.

Il personaggio di Tiana è, oserei dire, stimolante: ti fa capire che non c’è nulla che non sia alla tua portata, se ti impegni per ottenerlo. E qualora tu non l’ottenga, almeno ci hai provato e, secondo me, sapere di aver fatto tutto il possibile è già una vittoria di per sé (e chi non prova affatto perde in partenza: è per questo che la mia filosofia universitaria è quella di provare gli esami per sport, che se vanno vanno, altrimenti ci si rivede alla sessione successiva).


- Rapunzel (2010)

“Sentite! Io non so dove mi trovo, e ho bisogno che lui [Flynn] mi accompagni a vedere le lanterne perché è il sogno più grande della mia vita. Ritrovate un po’ di umanità! Nessuno di voi ha mai avuto un sogno?”

Come Ariel, anche Rapunzel è un personaggio con cui è facile identificarsi e, con Ariel, condivide alcuni tratti fondamentali, a partire dalla figura del genitore (o, nel caso di Rapunzel, di chi ne fa le veci). È senz’altro vero che madre Gothel sia l’antagonista, la cattiva, ma lasciate un momento stare il suo tornaconto personale, i motivi del rapimento di Rapunzel e il perché la tenga rinchiusa: in un ragionamento ovviamente metaforico e di ampio respiro, madre Gothel è facilmente assimilabile al genitore iperprotettivo (dopotutto, le fiabe servono a interpretare la realtà). Mi viene in mente una cosa che disse la mia prof. di latino in quinto ginnasio: i figli degli italiani in vacanza all’estero li riconosci subito, perché sono quelli imbacuccati dentro a otto felpe quando è la madre ad aver freddo. E sono anche quelli a cui le madri urlano costantemente “non fare quello che ti fai male, non fare quello che ti sporchi, non fare quello che ti ammali”. E, sulla scorta di questo ragionamento metaforico, il comportamento ribelle di Rapunzel viene di conseguenza (dopotutto, lei non aveva idea che sua madre fosse “cattiva” nel vero senso del termine). In fondo, è nella natura umana fare il contrario di quello che ci è proibito. Prendete Belle. Non può andare nell’Ala Ovest perché? Perché è proibita. La Bestia le conferisce quel tanto di mistero che serve a incuriosirla, e infatti Belle che fa? Va nell’Ala Ovest. Se la Bestia le avesse detto “non può andare nell’Ala Ovest perché c’è un’infiltrazione d’acqua e sto aspettando l’idraulico, l’ho già chiamato tre volte ma a quanto pare c’è sciopero della categoria, e intanto mi si sta allagando tutto, e non mi faccia pensare al preventivo, mi si rizza il pelo alla sola idea!”, Belle ci sarebbe andata? Io dico di no.

In questo film, trovo che il rapporto principessa-principe (beh, in questo caso meglio “furfante”) sia finalmente paritetico, se non addirittura sbilanciato a favore della prima. È Rapunzel, infatti, ad avere la… padella dalla parte del manico, e Flynn aka Eugene non è il fine ultimo del suo sogno (non all’inizio, perlomeno) ma strumento per arrivarci. Rapunzel, infatti, sogna di vedere le luci fluttuanti, sogna in poche parole la libertà, non qualcuno che la salvi dalla sua esistenza di reclusione. Il “principe” le capita per caso, ed è proprio questo il punto: non è che se lo sia andato appositamente a cercare, o pensasse di farlo (o credesse di doverlo fare). E c’è anche da dire che è ella stessa l’artefice concreta della sua libertà: non è Flynn a farla uscire dalla torre, ma è lei ad uscirne da sola, usando i suoi capelli come fune-liana-whatever. La provvidenziale presenza di Flynn le ha solo dato il pretesto, finalmente, per prendere in mano il suo stesso destino.

Certo, ciò le provoca giusto un po’ di conflitto interiore:

Non posso credere di averlo fatto! Non posso credere di averlo fatto! Non posso credere di averlo fatto! Mamma sarebbe furiosa. Ma non fa niente perché se non lo sa non soffrirà. Giusto? Ma cosa ho fatto? Questo potrebbe ucciderla! È troppo divertente! Sono una pessima figlia. Torno indietro. Non tornerò più indietro! Sono un essere spregevole. Uh-oooh, il giorno più bello di sempre!

Anche se Flynn ha decisamente ragione quando dice che:

Fa parte del crescere: un po’ di ribellione, qualche avventura. È salutare, addirittura.

Salutare soprattutto se consideriamo il modo orribile in cui madre Gothel tratta Rapunzel: non fa che smontarla, nemmeno fosse un mobile Ikea. Non fa che dirle che non vale niente, non l’ha mai valorizzata, e anzi le fa capire (ma non riesce mica a convincerla!) che l’unica cosa che ha di speciale sono i suoi capelli magici.

Sei un po’ svampita / piena d’ansia e dubbi / anche un po’ distratta, vedi? / In più non sei nemmeno bella / senza che ti arrabbi / sai mia cara che ti adoro…


- Io credo di piacergli.
- Piacergli? Ma dai, Rapunzel, che vai a pensare.

- Ma, madre, io…
- […] Come puoi piacergli tu? Ti prego, ragazza! Guardati un po’, credi che sia rimasto colpito?


Così, giustamente, a un certo punto Rapunzel dice basta: ha imparato a farsi strada a padellate, e quando capisce di essere lei la principessa perduta, affronta madre Gothel a testa alta, con un cipiglio combattivo e deciso, ben lontana dall’insicurezza mostrata nei suoi confronti all’inizio del film (perché quando propone il patto a Flynn mi è sembrata tutto fuorché insicura). Biancaneve, che pure sapeva di essere una principessa, non ha mai fatto nulla di tutto questo.

Prima mi sono trovata a citare Belle, e c’è un’altra cosa che accomuna le due principesse: l’altruismo. Se la prima sacrifica la sua libertà per quella del padre, Rapunzel sacrifica la sua libertà per la vita di Eugene, ferito a morte da madre Gothel. E sembrerebbe fondamentalmente la stessa situazione, ma non è proprio così, anzi: al contrario di Belle, che è costretta ad accettare una situazione già data, qua è Rapunzel a dettare le condizioni del patto

- Smettila di ribellarti!
- No! Non smetterò mai, in ogni minuto che resta della mia vita io mi ribellerò. E mai, giuro che mai smetterò di tentare di scappare. Invece, se mi permetterai di salvarlo, verrò via con te. Non fuggirò mai. Non cercherò in alcun modo di scappare. Lascia che adesso guarisca la sua ferita, e resteremo insieme per sempre.

costringendo in definitiva madre Gothel ad accontentarsi dell’opzione meno peggiore tra quelle proposte. Long story short: Rapunzel vince.


- Merida (2012)

“Alcuni dicono che al destino non si comanda, che il destino non è una cosa nostra. Ma io so che non è così. Il nostro destino vive in noi, bisogna soltanto avere il coraggio di vederlo.”

Regalità targata Pixar. Merida, infatti è la prima principessa di questa casa di produzione, acquistata dal gruppo Disney nel 2006.

Merida è stata fin da subito celebrata quale emblema del femminismo, perché per la prima volta i suoi sogni non riguardano dei cromosomi XY su di un cavallo bianco (come Rapunzel all’inizio: il suo nuovo sogno poi è Eugene). Per dire, il fine ultimo della mia vita è diventare una gattara scorbutica e telefilmdipendente, ma questo non mi impedirebbe certo di offrire rifugio a David Boreanaz se me lo trovassi sul pianerottolo a invocare asilo politico. Aspetta, che?

Ma vabbè, tornando a Merida. Se ci pensate, lei non è affatto così unica: Cenerentola non ha mai detto in modo esplicito che sognasse il principe azzurro. Certo, alla fine l’ottiene e tanto di guadagnato, ma quello che a lei davvero premeva era avere una svolta nella sua vita. Poi, che questa svolta sia infine arrivata con le fattezze di un damerino con lo stesso stilista di Francesco Giuseppe d’Austria, non è importante. Stesso discorso si può fare in parte per Jasmine, e per Pocahontas, Mulan, Tiana, Rapunzel. La differenza con Merida è che lei è l’unica tra quelle citate a non accasarsi con qualcuno (Pocahontas, vi ricordo, sposerà John Rolfe). Mi sembra, insomma, che l’urgenza dei media di attribuirle un ruolo preciso abbia portato a dimenticare il percorso pian piano intrapreso da chi l’ha preceduta, così dimenticando - e per ciò stesso delegittimandolo - il contributo fondamentale fornito dalle altre principesse, che ha permesso di arrivare fin proprio a Merida.

Merida e Ariel non condividono solo la chioma rossa: la frase “io non vedo le cose nel modo in cui le vede lui.”, pronunciata dalla sirenetta, non sfigurerebbe se a dirla fosse stata l’erede al trono del clan dei Dunbroch. L’unico accorgimento sarebbe quello di cambiare il pronome “lui” con “lei”: in questo film, infatti è la madre ad avere il fall out con la figlia. La regina sta organizzando il matrimonio combinato di Merida, la quale non ne vuole sapere. Agli occhi della madre, infatti, la ragazza ha - in quanto principessa - delle responsabilità nei confronti del regno, e deve comportarsi di conseguenza. Per Merida, invece, il matrimonio costituirebbe, oltre che una intollerabile coercizione, la fine della sua stessa vita, dato che per lei vita e libertà sono praticamente sinonimi. Insomma, due modi di vedere le cose completamente divergenti: responsabilità da un lato, libero arbitrio dall’altro.

Non possiamo voltare le spalle a ciò che siamo!

Questa storia del matrimonio è quello che vuoi tu! Ti sei mai chiesta che cosa voglio io? No! Non fai altro che dirmi che cosa devo fare, che cosa non devo fare… cercando di farmi diventare come te! Beh, io non voglio diventare come te!

È interessante vedere come si sviluppa il rapporto tra Merida e la madre perché fondamentalmente il film non ruota - come si potrebbe pensare, e come forse si è pensato - attorno al fatto che Merida non si voglia sposare o che non abbia bisogno di un ragazzo per essere completa. Sarebbe una imperdonabile semplificazione liquidare la questione in questi termini. No, il film ruota tutto intorno a due persone che non riescono a capirsi, che non riescono a “vedersi”.

Credo che capiresti se solo tu mi… ascoltassi.

Credo che riuscirei a farti comprendere se soltanto tu mi… ascoltassi.

Da un lato, infatti, la regina non riesce a cogliere le esigenze di sua figlia, dall’altro Merida non riesce a capire le ragioni della madre.

Eppure è chiaro che tutte e due hanno bisogno l’una dell’altra, tanto più che nessuna ha intenzione di rinunciare al loro rapporto: è solo questione di capire come prendersi. Merida vorrebbe che sua madre riuscisse ad apprezzarla per quello che è, non per quello che è destinata a diventare, e la madre vorrebbe che sua figlia capisse che la vita è fatta molto spesso di compromessi, e che per un bene più grande a volte è necessario compiere dei sacrifici che ci paiono intollerabili.

E alla fine del film, superate non poche difficoltà, le due riescono finalmente ad accettarsi a vicenda in quello che è un rapporto più maturo da entrambe le parti. La frase, detta nell'episodio 9x13 di Bones, “A volte devi solo ballare con la musica che ti viene data.” potrebbe costituire una efficace sintesi del concetto: sbagliavano entrambe quando insistevano ad imporsi a vicenda i propri punti di vista, e hanno avuto entrambe ragione quando si sono rese conto che non si tratta di cambiare l'altra persona, quanto piuttosto di comprendere quello che l'altra persona è, e da lì ripartire per appianare le divergenze.


- Anna & Elsa (2013)

Nelle precedenti stesure del post avevo iniziato a trattare Anna ed Elsa contemporaneamente, sia perché ci hanno messo così tanto a ritrovarsi che mi dispiaceva separarle di nuovo, sia perché la loro evoluzione corre su binari strettamente paralleli. Siccome poi mi sono resa conto di non riuscire a gestire la cosa, anche perché trovo che ci sia tantissimo da dire, ho pensato di fare all’inizio un discorso generale, e poi di andare nello specifico separatamente. Tanto più che, per inquadrare Anna ed Elsa nel modo in cui voglio io, è necessario un discorso piuttosto ampio (e di loro parlo anche in questi altri due post: qui e qui i link).

Quindi.

Frozen non è il primo film a mostrarci che al mondo non esiste solo l’amore romantico, perché Brave prima di lui, così come Lilo & Stitch prima ancora, hanno già ampiamente quanto efficacemente esposto questo stesso concetto. Semplicemente, la particolarità di Frozen rispetto ai summenzionati film risiede nel fatto che i due tipi di amore in questione - romantico da un lato, familiare dall’altro - vengono giustapposti (giustapposti, badate, non contrapposti: non si attesta la superiorità morale del secondo sul primo) laddove, negli altri due film citati, l’amore romantico era pressoché assente. Forse, quello che di Frozen è rimasto tanto impresso, è proprio il fatto che il centro di tutto è proprio l’amore familiare - quello tra due sorelle, nello specifico - relegando l’altro in seconda posizione (dopotutto, dice Charlie Brown, “nessuno si ricorda mai chi si è piazzato ai posti d’onore!”). Ma non solo: emerge anche un’ulteriore esemplificazione del concetto, già vastissimo di per sé, di “amore”, ed è quello per se stessi. Ed è proprio da queste variegate estrinsecazioni dell’amore che dobbiamo partire.

La chiave per decifrare le due sorelle di Arendelle, infatti, ci deriva da Olaf, il quale, nel momento esatto in cui spiega cos’è per lui l’amore, dandone una definizione alquanto suggestiva, ci fornisce anche gli strumenti per comprendere le due principesse.

L’amore è mettere il bene di un altro prima del tuo. Sai, come Kristoff, che ti ha portata qui da Hans e ha rinunciato a te per sempre.

La frase di Olaf, sebbene abbia ad esempio Kristoff, descrive in modo assolutamente veritiero sia Anna che Elsa: quando Anna sacrifica la sua vita per salvare quella di Elsa, ha innegabilmente posto il bene della sorella prima del suo. Ugualmente, quando Elsa taglia qualsiasi rapporto con Anna, estromettendola dalla sua vita, lo fa perché cerca di proteggerla, anteponendo così l'incolumità della sorella al suo bisogno di godere del suo affetto. E se per Anna il discorso di Olaf è vero per il primo periodo, per Elsa è vero anche in riferimento al secondo: nel palazzo di ghiaccio, quando le ribadisce il suo desiderio di starle lontana, lei è perfettamente consapevole del fatto che sta rinunciando ad Anna per sempre. Ed è un gesto di amore estremo, per quanto meno eclatante di quello di Anna (che addirittura per questo si trasforma in una statua di ghiaccio), che infatti costituisce l’“atto di vero amore” necessario affinché il film possa avere il suo lieto fine.

A tal proposito, poiché Anna ed Elsa rappresentano - cronologicamente  - il gradino più alto dell’evoluzione, è bene tornare un momento alle origini, soprattutto alle due principesse che più di tutte hanno sdoganato l’idea dell’atto di vero amore tanto decantato.

È palese come per Biancaneve e Aurora si tratti di un gesto passivo, mentre in Frozen ci viene proposto dal suo lato “attivo”. L’amore non è qualcosa che ci si limita a ricevere passivamente, ma è anche qualcosa che si deve dare attivamente (1). Potreste obiettare: se c’è uno che riceve in modo passivo, c’è per forza uno che dona in modo attivo. Certo. Per Biancaneve e Aurora i soggetti attivi erano i principi. In Frozen, il soggetto attivo è, per la prima volta, la principessa (Anna, infatti, non è stata salvata dalla rinuncia di Kristoff - atto di vero amore anch'essa per uguale definizione). Ed ecco che l’ultima macrocategoria emerge in tutta la sua potenza: siamo finalmente arrivati al punto in cui le principesse - le donne! - sono le eroine della loro stessa storia. Qualcuno, cioè, reale artefice del suo stesso destino. Qualcuno che non attende che altri lo compiano in vece sua. Qualcuno che non attende passivamente il bacio, ma qualcuno che si prodiga attivamente per la salvezza sua e degli altri. Ed ecco ulteriormente spiegato il fatto che Anna si è salvata da sola: lo ha fatto perché è l’eroina della sua storia. Il pugno dato in faccia ad Hans lo dimostra pienamente. Rivelatosi infatti malvagio, ci si aspetterebbe che sia compito di Kristoff dare al gaglioffo quello che gli spetta, e invece è Anna a farlo. Perché? Esatto, perché è la sua storia, e non quella di Kristoff (2).

“How can you tell who the Hero of the story is? It’s the one punching the villain in the face.”


Anna

“Non devi proteggermi, io non ho paura! Non escludermi di nuovo dalla tua vita!”

La prima cosa che di Anna salta all’occhio è quanto sia ben lontana dalla “grazia sofisticata” delle principesse pre-rinascimentali (esclusa ovviamente Merida, che però in quanto prima principessa Pixar è quasi un discorso a parte). Perché Anna è sì carinissima e cucciolosissima, ma mentre dorme sbava e ha gli stessi capelli di Telespalla Bob. Se fosse stato così anche per Biancaneve e Aurora, credo che i loro rispettivi principi si sarebbero avvicinati per l’incombenza del bacio solo dietro ingiunzione del tribunale.

Imbarazzante. No, non tu… ma solo perché siamo… io sono imbarazzata, tu sei bellissimo. Aspetta, che?

Una cosa che ho amato tantissimo di questa principessa è che, con la sua goffaggine e leggerezza, risulta essere un personaggio “accessibile”. Per dire, Tiana, proprio per il suo essere così motivata, così ambiziosa e così pragmatica, ti viene forse da prenderla sul serio e basta. Non è un caso che Naveen le affibbi, all’inizio, l’epiteto di “parruccona”. Per farla breve: Tiana potrebbe essere quella persona che ti fa sentire a disagio perché lei è in pari con gli esami e tu no, mentre Anna quella con cui la pausa dallo studio di un quarto d’ora si trasforma in mezzo pomeriggio e non ti senti nemmeno in colpa neanche se poi va a finire che ti bocciano.

Ma Anna non si esaurisce solo nell’essere spiritosa e socialmente imbarazzante: è, in realtà, un personaggio molto più sfaccettato e caratterizzato. Proprio il suo essere - per usare l’espressione che avevo usato nella recensione di Frozen - “finalmente a tutto tondo” la rende molto più vera delle sopraccitate e idealizzatissime Biancaneve e Aurora (come è già avvenuto per Ariel).

Tanto più che Anna dimostra di essere un grande personaggio non solo - e non tanto - per il già stra-menzionato atto di vero amore, ma per cose molto più sottili e normali, e quotidiane. Ascoltando per la millesima volta “For The First Time In Forever (Reprise)” la mia attenzione si è infatti focalizzata su questi versi:

We can fix this hand in hand [possiamo risolvere questa cosa insieme] e

I will be right here [io sarò proprio qui],

soprattutto se letti specularmente al comportamento tenuto, nei confronti di Elsa, dai genitori. Perché se loro hanno pensato bene di “rinchiuderla” e di isolarla dal resto del mondo (convinti, certo, di agire per il meglio), non hanno fatto altro che alimentare in Elsa la convinzione che in lei ci fosse davvero qualcosa di sbagliato. E questa cosa l’ha quasi distrutta. Per non parlare del fatto che anche Anna ci ha quasi rimesso la vita (insomma, direi tutti il contrario dei propositi che si erano prefissati). Anna, invece, ragiona in modo inverso: si offre di restare al suo fianco per aiutarla a superare le difficoltà. E risiede in ciò la modernità di Anna, perché non posso fare a meno di pensare che Elsa, oltre a tutte le categorie di reietti sociali di cui l’hanno fatta portavoce (da quelli che vengono discriminati per il colore della pelle a quelli che vengono discriminati per le preferenze sessuali) possa anche essere accostata a chiunque abbia un qualsiasi genere di malattia mentale. Così, se prima - parlo dell'Italia - esistevano i manicomi in cui venivano rinchiusi i pazienti (allo stesso modo in cui Elsa si è dovuta rinchiudere nella sua stanza), nel momento esatto in cui si è scelto di chiuderli si è riusciti a dare una dignità ai malati (non più dei sub-umani, quindi, ma persone). Lo stesso Franco Basaglia, autore della legge abolitiva dei manicomi che porta il suo stesso nome, ebbe a dire:

Non è importante tanto il fatto che in futuro ci siano o meno manicomi e cliniche chiuse, è importante che noi adesso abbiamo provato che si può fare diversamente, ora sappiamo che c’è un altro modo di affrontare la questione; anche senza la costrizione.

Ed è esattamente quello che è stata in grado di fare Anna. Il semplice fatto di aver visto Elsa come una persona e non come un mostro, la rende un personaggio assolutamente prezioso e moderno nel vero senso della parola.


∼ Elsa

“Il mio posto è qui, da sola. Dove posso essere me stessa, senza far male a nessuno.”

Nel gioco di rimandi tra principesse vecchie e principesse nuove, il risultato più paradossale è senz’altro accostare Ariel ad Elsa: “testa calda” la prima, austera la seconda, non potrebbero essere più diverse. Eppure, mentre ragionavo sul personaggio di Elsa, ho notato che proprio con la sirenetta condivide un aspetto fondamentale: il venire a patti con la propria natura. Ariel, a differenza di Elsa, non ci riesce, tanto che suo padre, alla fine, è costretto a renderla umana.

Per la prima, il problema è proprio essere una sirena, mentre per la seconda il problema non è tanto l’avere il potere della neve, quanto il non riuscire a controllarlo. Se dunque per Ariel era una questione ontologica, per la regina di Arendelle è semplicemente una questione di capacità. Capacità che, tra l’altro, è sempre stata lì, ma che lei stessa ha soffocato quando la paura di far male alle persone a lei care ha preso il sopravvento.

Da piccola, infatti, quando giocava con Anna, era perfettamente in grado di controllare il suo potere. Se è vero infatti, come scopriamo alla fine del film, che è l’amore la chiave per gestire il suo dono, è palese che all’inizio ciò le riuscisse perché, oltre ad amare la sorella, amava anche se stessa, cioè quello che era. Ed ecco che ritorna quello che ho detto nel paragrafo su Anna: non solo amore romantico e familiare, ma anche l’amore per se stessi. Perché sempre di amore si tratta(3).

Nel momento però in cui la paura prende il sopravvento, lei questa cosa la perde di vista, e infatti condanna per sbaglio il suo regno a vivere in un inverno perenne. È solo dopo essere riuscita ad accettarsi di nuovo - ad amarsi di nuovo - che riesce a invertire la magia. L’amore di Anna per Elsa ha sciolto il cuore di ghiaccio, ma l’amore di Elsa per Elsa ha sciolto tutto il resto. Il messaggio fondamentale di cui Elsa si fa portavoce - magnificamente espresso nel brano Let It Go - è infatti quello di accettare se stessi, checché ne dicano gli altri.

Insomma, è questo che di Elsa deve restare impresso alla fine del film: non tanto il fatto che alla fine non trovi il principe azzurro (non è da questo che si ricava la modernità del suo personaggio), ma il fatto che la vita è troppo grande per il solo principe azzurro. E che non avrebbe senso amare qualcun altro se prima non ci si ama da soli.

Ed è interessante notare che anche Elsa, come Anna, è l’eroina della sua storia: quando scappa da Arendelle per rifugiarsi nel suo palazzo di ghiaccio, riesce ad essere, almeno per un breve momento, l’artefice della sua vita. Sia che ce lo dica tra le righe in inglese

It’s time to see what I can do / To test the limits and break through / No right, no wrong, no rules for me / I’m free

sia che ce lo dica chiaro e tondo in italiano

Da oggi il destino appartiene a me

la sostanza resta la stessa. È la sua vita, ed è lei che deve decidere come viverla.


Conclusione

Prima di tirare le somme, un piccolo disclaimer. Quanto è scritto qui altro non è se non il frutto di mie personalissime considerazioni (a parte i punti, indicati dalle note, per i quali mi sono ispirata ad altri blogger) su di un argomento tanto vasto, articolato e popolare. Considerazioni che - per quanto abbia cercato di argomentarle il più esaurientemente possibile - derivano dal mio background culturale, dal mio modo di vedere le cose: sono, per ciò stesso, completamente opinabili. Tuttavia, che facciate parte della fetta di popolazione che concorda, di quella che dissente, o di quella che non sa/non risponde, poco importa. Mi preme, più che altro, non avervi annoiato. E se per qualsiasi motivo il post ha costituito uno spunto di riflessione sull'argomento, tanto di guadagnato.

                                                               ***

Credo che il bello di questa analisi risieda nel fatto che faccia emergere chiaramente come tutte le principesse non siano nate dal nulla, ma come ognuna di esse si sia in qualche modo forgiata sulla base di chi veniva prima di lei. Ogni principessa, infatti, è sicuramente legata a coloro che l’hanno preceduta, ed è altresì evidente che ogni principessa se ne è discostata a modo suo, contribuendo così a posare un mattoncino sulla strada dell’evoluzione della categoria, mattoncino da cui le principesse successive ripartiranno, e così via.

Emerge inoltre altrettanto chiaramente che si è trattato di un percorso armoniosamente graduale, senza bruschi strappi (eccezion fatta per il buco di ben trent’anni - un’enormità, in termini di progresso sociale  - che c’è tra Aurora e Ariel), rispecchiando così in modo assolutamente fedele il sentire della società in quella data circostanza storica. Come dicevo sopra mettendo a confronto Biancaneve e Merida, infatti, non avremmo potuto mai avere Merida negli anni ’30, così come non potremmo certo avere Biancaneve nel 2000.

Ogni principessa è, se così si può dire, l’emblema di un dato periodo storico, di un dato sentire della società, ma non per questo risultano personaggi cristallizzati. Credo che, infatti, ognuna di queste principesse dimostri di essere ancora fortemente attuale, nonostante il percorso evolutivo naturalmente intrapreso dalla società che, come dicevo in apertura, conduce a posizioni opposte rispetto a quelle di partenza. Così, che si fosse adolescenti negli anni ’90, o che lo si sia nel 2050, Ariel è un personaggio in cui ci si poteva identificare allora, e in cui ci si può identificare in futuro. Perlomeno, per quanto riguarda il suo desiderio di vivere la sua vita, senza che qualcuno ci dica cosa dobbiamo fare, o perché lo dobbiamo fare. Questo perché non credo che rinunciare a tutto pur di stare col proprio principe sia ancora particolarmente attuale (non è di sicuro attuale per me). Infatti, a tal riguardo c’è stato un passaggio di testimone: come detto, infatti, Elsa dimostra che la vita è molto più grande del solo principe azzurro, e che è fondamentale intanto stare bene con se stessi (per l’amore c’è sempre tempo). Ma per arrivare ad Elsa è stato necessario che Ariel avesse poggiato il suo mattoncino, dal quale poi Belle è ripartita, e dopo di lei Jasmine, e via dicendo.

Ritengo infatti che personaggi come Tiana, Merida, Anna, Elsa non sarebbero in nessun caso potuti nascere di punto in bianco, indipendentemente dal livello di modernità che la società - nella quale sono calate - avesse raggiunto in quel momento. Il contributo delle precedenti principesse è, infatti, fondamentale: hanno costruito loro l’impalcatura su cui poggiare, e da cui ripartire (cosa che, lo dicevo sopra, i media hanno deciso di ignorare alla grande con Merida - e adesso con Elsa).

Ma non soltanto attuale come sinonimo di “identificabile”: ognuna delle principesse continua tuttora ad insegnare qualcosa alle generazioni a lei successive. Prendete Biancaneve: per quanto io non sia in grado di “sintonizzarmi con lei, mi rendo perfettamente conto che ci fa capire che non bisogna mai perdere la speranza, non importa quanto buia ci sembri la nostra situazione. Ed è una cosa che valeva nel ‘37, vale nel 2014, e varrà in un qualsiasi futuro. Scusate se è poco.

In ogni caso, tale evoluzione ci permette anche di vedere come sono cambiati i parametri di valutazione nella società: se prima veniva messo in risalto l’aspetto (la matrigna di Biancaneve, per esempio, si sente minacciata dalla bellezza della figliastra, non certo dalla sua scoppiettante personalità), col passare del tempo vengono ad emergere fattori non superficiali, quali l’intelligenza, il coraggio, l’intraprendenza. È evidente dunque, alla fine di questa trattazione, che non si tratta di un cerchio che si chiude ma di un percorso lineare che guarda sempre in avanti, film dopo film e principessa dopo principessa, e mattoncino dopo mattoncino.


(Hey) Look around, it’s all so clear
(Hey) Wherever we were goin’, well we’re here
(Hey) So many things I never thought I’d see
Happening right in front of me

Welcome to the future. 


*Note 

(1)  A Tipsy Cat: “Love and agency in Disney’s 'Frozen’”

(2) People Getting Punched In The Face [informazione random: questo blog è la meraviglia]

(3) This Was Never My Design


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