Il frate

di R. RUSCONI, Predicatori e predicazione (secc. IX-XVIII), in R. ROMANO, C. VIVANTI (eds.), Storia d’Italia, Torino 1981.

Nel XIII secolo la figura del monaco, chiuso in convento e dedito agli studi e alla vita contemplativa, perde l’egemonia nella vita religiosa. L’organizzazione tradizionale della Chiesa, strutturata secondo le esigenze di una società rurale, entra in crisi con lo sviluppo della società urbana, la cui popolazione avverte il fascino della lotta condotta dagli eretici contro la corruzione e il potere politico del clero. La necessità di rispondere agli attacchi ereticali acquistando capacità di presa sulle masse cittadine spinge dunque la Chiesa alla creazione degli ordini mendicanti.
Nasce una figura nuova di religioso: il frate, da fraterculus (diminutivo di frater, «fratello»), a differenza del chierico (dal greco klēros, «parte scelta del popolo») già nell’etimologia mostra il carattere familiare e popolare del suo ruolo di volgarizzatore delle Sacre Scritture presso gli strati illetterati della popolazione.
Egli proviene dai nuovi ceti sociali urbani, ha una preparazione teologica e religiosa appropriata, partecipa alle dispute, controbatte le posizioni non ortodosse e soprattutto predica nelle piazze alle folle cittadine. Anche il movimento francescano, dopo l’iniziale scelta del suo fondatore, che aveva privilegiato la campagna, concentra la sua attività nelle città, prestando maggior attenzione alle esigenze religiose della borghesia mercantile. Si creano ampi spazi davanti alle chiese per accogliere la popolazione che accorre alle prediche comuni come a uno spettacolo (si veda l’enorme piazza davanti alla chiesa di S. Croce a Firenze).

Oxford, Bodleian Library. MS. Bodl. 264 (1338-1344 c.), Roman d’Alexandre, f. 22r. Dei frati giocano a palla con alcune suore.

La predica acquista un’importanza fondamentale come unica fonte di istruzione popolare ed efficacissimo canale di comunicazione e di persuasione di massa. È strumento di lotta contro le eresie e insieme, indirettamente, di contenimento delle tensioni sociali. Di qui l’attenzione riservata all’arte della predicazione, che richiedeva dottrina e abilità tecnica, ed era oggetto di studio soprattutto nell’ordine domenicano. La necessità di catturare un uditorio semplice esigeva anche l’adozione di tecniche giullaresche di recitazione che trasformavano la predica in vero e proprio spettacolo. Il prestigio e il potere dei frati si basava soprattutto sull’efficacia di questa intensa predicazione che permetteva loro di controllare i movimenti religiosi di massa – come quello dell’Alleluja, nato nel 1233 spontaneamente sotto l’impulso dei predicatori isolati e irregolari, così più tardi quello popolarissimo dei flagellanti.
Il frate, che ha scelto la povertà, che vive di elemosine, dedito alla carità e all’assistenza dei malati (i francescani soprattutto), che istruisce e sostiene moralmente, ma anche diverte con la sua capacità di intrattenere il pubblico, durante le prediche e le processioni, animatore di tutte le manifestazioni religiose di massa, è una figura estremamente popolare. Maestro di devozione, questuante, attore, è anche una figura ambigua, che assume connotazioni positive e negative.
Soprattutto dopo la fine della fase più intensa della lotta anticlericale e la crisi dell’ordine francescano, egli perde il carattere innovatore e prestigioso che aveva all’inizio, mentre gli ordini mendicanti mirano anch’essi a posizioni di potere nella Chiesa e nella società tramite il controllo dei centri di cultura, soprattutto delle università.

Beato Angelico, San Domenico in preghiera. 1438-1450. Firenze, San Marco.

Costretto inoltre a vivere a contatto con la vita quotidiana della gente comune, il frate era più esposto a essere coinvolto dalle attrazioni mondane.
Nella novellistica, non solo italiana, del Trecento la figura del frate è la più bersagliata; da frate Cipolla nel Decameron all’Indulgenziere nei Racconti di Canterbury l’accusa ricorrente è di corruzione, di ipocrisia e di avidità. Già il Romanzo della Rosa, nella seconda metà del Duecento, conduce un aspro attacco, nella figura di Falsosembiante, contro il potere e la falsa povertà degli ordini mendicanti, che si arricchiscono con le elemosine. Né la polemica resta sul piano del costume: interessi diversi oppongono questi ordini agli altri ceti cittadini e agli altri membri del clero. Una dura lotta si accende all’università di Parigi fra frati e intellettuali laici e trova un’eco polemica (Parigi ha distrutto Assisi) anche nella poesia di Jacopone da Todi. Domenicani e francescani, potendo rinunciare allo stipendio, insegnavano gratis, arrivando anche per questa via a egemonizzare l’insegnamento universitario.
Il Fiore, un volgarizzamento italiano del Romanzo della Rosa da molti attribuito a Dante, così si scaglia contro la pratica delle elemosine e il motivo della povertà, il tema più nuovo e popolare che aveva caratterizzato la nascita degli ordini mendicanti:

Tanto quanto Gesù andò per terra,
i suo’ discepoli e’ non dimandaro
né pan né vino, anzi li guadagnaro
con le lor man, se lo scritto non erra.

San Francesco e il «Cantico di frate Sole»

di G. Petrocchi, in E. Cecchi, N. Sapegno (dir.), Storia della Letteratura Italiana, I. Dalle origini al Duecento, Torino 1970, pp. 632-642.

 

La novità del movimento spirituale creato da san Francesco d’Assisi non risiede in una forte contrapposizione di diverso modo di sentire e d’operare cristiano rispetto ai motivi ascetici e morali che avevano promosso così largo moto di spiritualità nel secolo precedente, ma nell’aver condotto ad unità tutti quegli elementi, nell’avervi impresso un’energia costante e fervidissima. La predicazione itinerante era già nei movimenti religiosi precedenti, e così l’assiduo richiamo alla povertà evangelica e alla purezza di vita del tempo apostolico. I seguaci di Arnaldo da Brescia giungevano a considerare inefficaci i sacramenti impartiti da sacerdoti che non praticassero la povertà assoluta. Gli Umiliati insegnavano a vivere allo stesso modo dei cristiani primitivi, traendo dal lavoro i mezzi di sussistenza e nulla possedendo in proprio. Altrettanti motivi avevano alimentato le sette apostoliche, numerosi altri gruppi riformistici, e i Valdesi, e i cosiddetti Poveri Cattolici. Un analogo spirito di rinuncia ai beni terreni era a fondamento dell’operato di san Domenico, e accanto ai vari interessi dottrinari sollecitava alla creazione dell’ordine dei Frati Predicatori. San Francesco ha saputo organizzare in una severa disciplina e in una forma comunitaria più moderna queste diverse e spesso confuse aspirazioni che egli trovava vive nell’ambiente religioso tra il secolo XII e il XIII. Ha inteso convogliare gli intenti riformistici in un programma più moderato, senza contrapporsi all’autorità della Chiesa. Conformandosi ad essa, voleva penetrarvi col suo entusiastico insegnamento: riformare dall’interno, senza assumere alcuno di quegli atteggiamenti di protesta clamorosa che avevano contraddistinto i precedenti moti d’idee o di raggruppamenti regolari; in uno spirito di conciliazione, di «serenità», di «letizia», che rispondeva ad una delle più schiette caratteristiche della sua indole umana.

 

Bonaventura Berlinghieri, San Francesco e le storie della sua vita. Tavola lignea dipinta, 1235. Pescia, Chiesa di San Francesco (PETROCCHI, p. 633).

 

La vita del santo è troppo nota perché qui si debba descriverla analiticamente; ma potrà essere utile ricordare alcune vicende fondamentali. Anzitutto la sua origine borghese. Nato ad Assisi nel 1181 o 1182, fu battezzato col nome di Giovanni, ma il padre, ricco mercante di panni, Pietro di Bernardone, volle chiamarlo Francesco per ricordare la nascita «francese» di sua moglie, madonna Pica, che egli, solito a recarsi in Francia per ragioni del suo commercio, aveva conosciuto forse in Provenza. Borghese benestante, dunque, Francesco da ragazzo studiò un po’ di latino e di francese, e imparò a scrivere, ma mediocremente: anche da adulto preferiva firmare con un segno di croce. Così lo descrive Tommaso da Celano nella sua Legenda prima:

 

Facundissimus homo, facie hilaris, uultu benignus, immunis ignauiae, insolentiae expers. statura mediocris, paruitati uicinior, caput mediocre ac rotundum, facies utcumque oblonga et protensa, frons plana et parua, mediocres oculi, nigri et simplices, fusci capilli, supercilia recta, nasus aequalis, subtilis et rectus, aures erectae sed paruae, tempora plana, lingua placabilis, ignea et acuta, uox uehemens, dulcis, clara atque sonora, dentes coniuncti, aequales et albi, modica labia atque subtilia, barba nigra, pilis non plene respersa, collum subtile, humeri recti, breuia brachia, tenues manus, digiti longi, ungues producti, crura subtilia, paruli pedes, tenuis cutis, caro paucissima, aspera uestis, somnus breuissimus, manus largissima[1].

 

Visse la sua giovinezza con una brigata di nobili gaudenti e scialacquatori; ma dovette abbracciare le armi quando Assisi venne a guerra con Perugia (1204); fatto prigioniero, cadde ammalato. Ritornato in libertà, tentò di nuovo di darsi alla carriera militare, cercando di raggiungere in Puglia le truppe di Gualtieri di Brienne. Durante questo periodo cominciò a maturare in lui una profonda crisi spirituale, che ben presto culminerà nella conversione (1206); che fu sì, com’è stato detto, «la sublimazione dei suoi istinti naturali», ma anche la consapevole accettazione di una vita nuova, in netto distacco dal precedente ambiente familiare e sociale.

Si ritira in un eremo, onde confermarsi nella sua vocazione, e invano il padre lo cerca, per farlo desistere dai suoi propositi. Tornato ad Assisi, il padre lo cita in giudizio davanti al vescovo, e Francesco si spoglia anche degli abiti che ha indosso, dichiarando che non avrebbe più invocato il padre Pietro ma il «Padre che è nei cieli» (aprile del 1207). Da allora rapida procede la sua nuova vita religiosa, impegnata non nella solitaria meditazione ma in un’incessante opera di proselitismo. Comunica ai primi compagni (Bernardo da Quintavalle, Egidio d’Assisi, Pietro Cattani, Angelo Tancredi, Masseo e Leone) la sua decisione di costituire una comunità, scegliendo a programma la missione stabilita da Cristo ai dodici apostoli: predicare il Verbo in assoluta povertà. Chiede l’approvazione ad Innocenzo III, che la concede e dà a Francesco la tonsura; ritorna ad Assisi, stabilendosi dapprima a Rivotorto e poi alla Porziuncola, ove concede l’abito a santa Chiara (1212). Dopo un primo sfortunato tentativo (1213 circa; una tempesta lo getta sulle coste dalmate, ed è costretto a tornare in patria), tenta ancora di sbarcare in Africa, nel Marocco, ma in Spagna una grave malattia lo fa desistere (1215 circa) dall’impresa di evangelizzare le genti d’Africa. Vi riesce solo nel 1219, giungendo a Damiata, assediata dai Crociati, e presentandosi poi al sultano al-Malik al Kāmil, che non riuscì a convertire ma che lo trattò benevolmente, consentendogli di recarsi in Terrasanta. È costretto quasi subito (1220) a rientrare in Italia, perché gli giungono notizie che in seno all’Ordine, ormai assai accresciuto, si stanno verificando gravi lotte e dissidi intorno all’interpretazione del messaggio evangelico. Nell’Ordine erano entrati uomini di condizione sociale diversissima: popolani incolti e uomini dotti, laici e sacerdoti, uomini vocati alla pura contemplazione e uomini d’azione. E la curia romana, preoccupata dalla grandiosa ma disordinata proliferazione degli accoliti, cerca di disciplinare il movimento col porlo sotto il controllo della sua gerarchia. E vi riesce, mercé anche l’aiuto di Francesco, che affida la carica di superiore generale prima al Cattani, e alla morte di questi (1221) a frate Elia, serbando per sé la direzione spirituale; ma non accetta il consiglio di adottare per i suoi frati una delle regole tradizionali (quella di san Benedetto o quella di sant’Agostino) e, dopo due tentativi non riusciti, è finalmente in grado di dettare una regola nuova, capace di conciliare l’originale fisionomia del suo Ordine con le esigenze della curia. La Regola è approvata da Onorio III il 29 novembre 1223.

Pieno di sofferenze, di amarezze e di mirabili esperienze mistiche è l’ultimo periodo della vita del Santo: il corpo è minato da varie malattie e indebolito dalla rigorosissima austerità di vita. Diviene quasi cieco. Recatosi più d’una volta in meditazione sul monte della Verna (che un nobile, Orlando de’ Cattani, gli aveva donato), riceve nel 1224 le Stimmate; si reca poi, ancor più gravemente ammalato, nella valle di Rieti; risiede qualche tempo nell’episcopio di Assisi, e infine si reca a morire alla Porziuncola, congedandosi dai suoi frati con un Testamento, che volle fosse divulgato in appendice alla Regola, vietando che a questa e a quello fossero apposte chiose e interpretazioni di sorta (e nel Testamento è dato ritrovare più d’un riflesso delle ultime sofferenze e inquietudini in specie relativamente alle difficoltà dell’Ordine). Il transito avvenne al tramonto del 3 ottobre 1226.

 

Bologna, Museo Civico. Corale 24 (inizi XIV sec.), Antifonianum, f. 66v. Le stimmate di san Francesco (PETROCCHI, p. 638).

 

Oltre alla Regola e al Testamento, Francesco lasciò altri scritti in latino: anzitutto la cosiddetta “prima Regola” (che, in realtà, fu il secondo suo tentativo: presentata nel Capitolo del 1221) e frammenti di quella che era stata, in realtà, la prima; varie admonitiones ai frati (in numero di 28), una lettera del 1223 a un ministro dell’Ordine, un’altra lettera diretta a tutti i fedeli per raccomandare loro il rispetto dei dodici precetti, la benedizione a frate Leone, una preghiera alla Vergine, le Laudes de virtutibus, le Laudes Dei. In volgare, il Cantico di frate Sole, ovvero Laudes creaturarum.

Restringendo il nostro discorso all’attività letteraria di san Francesco, si potrà anzitutto osservare che egli riuscì lucido e caldo prosatore latino, nonostante non si proponesse alcun fine retorico e raccomandasse ai suoi fraticelli di schivare «locutionum aenigmata et uerborum phaleras». La sua cultura non fu certamente estesa, ma senza dubbio solida per quel che riguardò la conoscenza del Vangelo e, in genere, dei Libri Sacri e della dottrina cristiana; le tre lingue che poteva leggere e parlare, la latina, l’italiana e la francese, il continuo contatto con gli ambienti di cultura e con gente proveniente da ogni parte d’Europa, i viaggi fuori d’Italia, ecc. contribuirono ad accrescere la sua esperienza delle lettere e della teologia, in parte anche delle scienze; così che Tommaso da Celano potrà scrivere che il Santo «nullis fuerit scientiae studiis innutritus», al contrario di quanto Francesco aveva detto di sé: «illetterato, incapace d’esprimersi, rozzo e puerile».

Negli scritti latini, i cosiddetti Opuscula, tal grado di esperienza si esprime in una saggia riflessione morale, in una limpida capacità d’esposizione e di persuasione, non disgiunte però da garbata freschezza espressiva, sì da voler riuscire non soltanto d’ammaestramento ma anche di consolazione. Il segreto della eloquenza francescana, come ci viene descritto dai biografi, consisteva infatti in una notevole dote di arricchire con garbo il discorso pur mantenendolo sempre molto semplice e piano; alle improvvise elevazioni di tono teneva subito dietro un conversare amabile, familiare. Dice ancora il Celano:

 

Licet autem euangelista Franciscus per materialia et rudia rudibus praedicaret, utpote qui sciebat plus opus esse uirtute quam uerbis, tamen inter spirituales magisque capaces uiuifica et profunda parturiebat eloquia. breuibus innuebat quod erat ineffabile, et ignitos interserens gestus et nutus, totos rapiebat auditores ad caelica. non distinctionum clauibus utebatur, quia quos ipse non inueniebat, non ordinabat sermones. dabat uoci suae uocem uirtutis uera uirtus et sapientia Christus. dixit aliquando physicus quidam, uir eruditus et eloquens: Cum caeterorum praedicationem de uerbo ad uerbum retineam, sola me effugiunt quae sanctus Franciscus eructat. quorum si aliqua committo memoriae, non illa mihi uidentur quae sua prius labia distillarunt[2].

 

Più che nella Regola definitiva, redatta spesso in un tono curialesco che si deve alla revisione operata dal cardinale Ugolino (il futuro Gregorio IX), è nelle lettere e nelle Laudes e nel Testamento che riusciamo a cogliere qualche elemento del fascino oratorio di Francesco. I temi consueti del suo insegnamento, la povertà, l’umiltà, l’amore di Dio, la carità, la penitenza, la rassegnazione nelle sofferenze del corpo e dell’anima, appaiono ripresi con garbo squisito, offerti all’attenzione dei fraticelli come altrettanti doni dello spirito; non per nulla egli ebbe a chiamare odorifera uerba Domini mei gli scritti che lasciava in eredità ai suoi compagni. Così quando insegna a pregare e a capire il Pater noster, quando raccomanda ai fraticelli di recitare l’Ufficio, ovvero di non predicare avventatamente ma di sottoporsi prima all’esame dei superiori, o anche quando, al termine della Regola prima, con fervore d’ispirazione rivolge il suo ringraziamento al Creatore, o infine, allorché nel Testamento ricorda ai Frati Minori gli intenti ai quali aveva informato la creazione della comunità religiosa:

 

Et postquam Dominus dedit mihi de fratribus, nemo ostendebat mihi, quid deberem facere; sed ipse Altissimus reuelauit mihi, quod deberem uiuere secundum formam sancti Euangelii. et ego paucis uerbis et simpliciter feci scribi; et dominus papa confirmauit mihi. et illi qui ueniebant ad recipiendam uitam, omnia, quae habere poterant, dabant pauperibus; et erant contenti tunica una, intus et foris repeciata, qui uolebant, cum cingulo et brachis. et nolebamus plus habere. officium dicebamus clerici secundum alios clericos, laici dicebant Pater noster; et satis libenter manebamus in ecclesiis. et eramus idiotae et subditi omnibus. et ego manibus meis laborabam, et uolo laborare; et omnes alii fratres firmiter uolo quod laborent de laboritio, quod pertinet ad honestatem. qui nesciunt, discant, non propter cupiditatem recipiendi pretium laboris, sed propter exemplum et ad repellendam otiositatem. et quando non daretur nobis pretium laboris, recurramus ad mensam Domini, petendo eleemosynam ostiatim […]. sicut dedit mihi Dominus simpliciter et pure dicere et scribere regulam et ista uerba, ita simpliciter et pure (sine glossa) intelligatis et cum sancta operatione obseruetis usque in finem. et quicumque haec obseruauerit, in caelo repleatur benedictione altissimi Patris et in terra repleatur benedictione dilecti Filii sui cum sanctissimo Spiritu Paracleto et omnibus uirtutibus caelorum et omnibus sanctis. et ego frater Franciscus, paruulus uester seruus, quantumcumque possum, confirmo uobis intus et extra istam sanctissimam benedictionem. Amen[3].

 

L’innata disposizione ad ordinare il proprio mondo spirituale in immagini schiette e affettuose, a cogliere gli aspetti più significativi della natura in quanto riflessi dell’amore del Creatore verso le creature, emerge anche nelle Laudes in latino, sovente parafrasi di espressioni delle Sacre Scritture, ma sempre con l’intervento diretto di quella eccezionale personalità di asceta, con una partecipazione commossa e pura. Del resto, la lettura di questi componimenti laudativi, in specie delle Laudes Dei scritte dopo aver ricevuto le Stimmate, è assolutamente necessaria per penetrare nel mondo affettivo e spirituale che il Santo esprimerà in termini di alta poesia nel Cantico di frate Sole.

 

Bologna, Museo Civico. Miniatura della fine del XIII secolo. San Francesco e i confratelli.

 

Secondo le antiche fonti francescane, il Cantico sarebbe stato composto nella chiesetta di San Damiano, presso Assisi, nel 1224, dopo una notte di tribolazioni al termine della quale una visione divina avrebbe promesso a Francesco la beatitudine eterna. Il componimento è in versetti di intonazione biblica, assonanzati ma non riconducibili ad un metro preciso, e con tutta probabilità seguenti il cursus; scritto in volgare umbro, ma con una veste non decisamente dialettale, tranne alcune precise o interessanti particolarità. Il Santo si sarebbe dapprima limitato a dettare le lasse iniziali; quindi, avrebbe aggiunto quelle della rassegnazione e del perdono, in seguito ad una controversia avvenuta tra il vescovo e il podestà d’Assisi; salvo poi completare il cantico poco prima della morte. Tuttavia, il Cantico si presenta mosso da un’ispirazione unitaria, sia poeticamente sia nei temi di esaltazione e di meditazione religiosa: le fonti bibliche (un passo di Daniele e un luogo del Salmo 148) restano soltanto una traccia sopra la quale Francesco ha impresso il segno di una personale creazione lirica.

Anzitutto leggiamo per intero e commentiamo il testo, secondo la più recente e accreditata ricostruzione critica, ad opera del Contini:

 

                   Altissimu[4], onnipotente, bon Signore,

tue so’[5] le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.

Ad te solo, Altissimo, se konfano[6],

et nullu omo ène dignu te mentovare[7].

5        Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature[8],

spetialmente messor lo frate sole,

lo qual’è iorno[9], et allumini noi per lui[10].

Et ellu è bellu e radiante[11] cum grande splendore:

de te, Altissimo, porta significatione[12].

10        Laudato si’, mi’ Signore, per[13] sora luna e le stelle:

in celu l’ài formate clarite[14] et pretiose et belle.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento

et per aere et nubilo[15] et sereno et onne tempo,

per lo quale a le tue creature dài sustentamento.

15        Laudato si’, mi’ Signore, per sor’acqua,

la quale è multo utile et umile et pretiosa et casta.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu,

per lo quale ennallumini[16] la nocte:

ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

20        Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,

la quale ne sustenta[17] et governa,

et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.

Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore

et sostengo[18] infirmitate et tribulatione.

25        Beati quelli ke ’l sosterranno in pace,

ka[19] da te, Altissimo, sirano incoronati.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale[20],

da la quale nullu homo vivente pò skappare:

guai a cquelli ke morrano ne le peccata mortali;

30        beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati,

ka la morte secunda[21] no ’l farrà male.

Laudate[22] et benedicete mi’ Signore et rengratiate

e serviateli[23] cum grande umilitate[24].

 

 

L’intento che si proponeva Francesco nel dettare il Cantico era anche di natura pratica: offrire ai suoi fratelli un testo da cantare a lode del Signore e da insegnare alla gente devota. Ciò spiega la semplicità d’impianto dell’inno, il ricorso a cose grandi e piccole della natura e a concetti facilmente comprensibili dai devoti: l’appartenenza al Creatore di quel che a Dio, nella preghiera, gli uomini richiedono; l’onnipotenza di Esso, l’umiltà dinanzi al quale è accettata come riconoscimento sereno e assoluto; l’omaggio filiale che gli esseri del creato tributano al Creatore; la manifestazione dell’amore divino nell’aspetto benefico che assumono le varie forze della creazione; il significato che ciascheduna di queste realizza in sé e nel proprio rapporto con Dio. La visione dell’universo non ha nulla di drammatico e di inquieto, ma è calma, riposante, lieta distesa di cose bellissime, celebranti all’unisono la lode al Creatore. È bello anche il nubilo, in quanto rende più varia e affascinante la volta del cielo; è bello il vento, che muove più che sgombrare la coltre delle nuvole; ed è bello il sereno, la serenità degli spazi: giacché dalla varia disposizione e natura di tutte le cose l’anima devota trae motivo per glorificare la molteplicità degli esseri creati e per comprendere la loro necessità, in quanto dai vari elementi e dalle varie vicende l’uomo riceve ciò di cui ha bisogno per sostentarsi, per vivere. E così, infine, dalla contemplazione del cosmo la lode scende alla visione dell’umanità, che in terra patisce dolori e malattie, ma da Dio riceve forza per sopportarle e per perdonare le offese. Si attua dunque, nel Cantico, un continuo passaggio dal cielo alla terra, dall’infinità degli esseri creati alla vita spirituale del singolo uomo; secondo un’universale riconciliazione, ma, al tempo stesso, senza alcun ideale di specie panteistica, e senza che il contemplante dalla vastità della sua visione tragga motivo per compiacersi di sé, per sentirsi orgoglioso protagonista di questa grandiosa vicenda di cieli e di terre.

 

Assisi, Biblioteca del Sacro Convento. Ms. Assis. 338, Canticum fratris Solis (XIII sec.), f. 33r.

 

Nell’abbraccio fraterno al creato c’è un atto totale d’amore, quasi un ricambio dell’amore col quale e per il quale Iddio ha generato il mondo: e in tal ricambio la prova di un’umiltà, di una soggiacenza, anzi di un annullamento nei voleri del Creatore. Eppure, il motivo dell’amore non è espresso da san Francesco in forme astratte, in concetti, ma propriamente in immagini, visivamente colte e intese. Si suole solitamente riscontrare nel modo squisito di dipintura di tali immagini quasi una prova indiretta della cecità dalla quale il Santo era afflitto negli ultimi anni: le figurazioni dell’universo sono viste piacevolmente, come accarezzate con gli occhi della mente, o come amorosamente contemplate per un’ultima volta. L’idea di un universo bellissimo nasce dalla consapevolezza che esso è frutto di volontà divina; essendo Iddio il sommo Bello, gli elementi della sua creazione debbono esser visti soprattutto o esclusivamente nella loro parvenza di splendore divino, nella loro simiglianza al Bello supremo. Ma Francesco sa di parlare a gente semplice, che “vede” piuttosto con gli occhi del corpo, e, quindi, è trasportato ad idoleggiare fisicamente la natura. Saranno queste le sue concessioni alle leggi della poesia? Si può rispondere anche di sì, ché in questa celebrazione visiva si realizza il senso innato della forma poetica che Francesco aveva, e che la lettura della Bibbia e degli inni della Chiesa aveva arricchito, come pure l’amore che egli nutriva verso il canto e la musica. E, infatti, il Cantico possiede anche una sua linea musicale, come ha scritto il Benedetto: «Una dolce litania di note lente e pacate su cui di tanto in tanto si stacca, senza turbare l’impressione generale di calma devota, una nota più chiara e più alta».[25] Tale linea musicale è affidata anche al ritmo particolare del Cantico, che è di ispirazione salmistica, ma anche litanica, con la possibilità di ripetere, nel canto, la melodia in un tempo più breve o più lungo, a seconda della misura sillabica del singolo verso.

 

Note:

[1] Cfr. ed. Desclée, Roma 1906, pp. 84-85: «Era un uomo facondissimo, di aspetto gioviale e sguardo benigno, senza viltà e senza insolenza. Era di statura media, più vicina alla piccola, aveva la testa proporzionata e rotonda; il viso piuttosto ovale e proteso; la fronte piana e piccola; gli occhi regolari, neri e pieni di semplicità; capelli scuri, sopracciglia ben delineate; naso giusto, sottile, dritto; orecchie dritte, ma piccole; le tempie piane; la lingua volta a volte di miele, di fuoco e acuta; la voce veemente, dolce, chiara e sonora; denti ben connessi, uguali e bianchi; labbra piccole e fini, barba nera e rada, il collo sottile, le spalle dritte; corte le braccia, scarne le mani, lunghe le dita, prominenti le unghie; snelle le gambe, piccoli i piedi, pelle delicata; pochissima la carne, aspra la veste, brevissimo il sonno, generosissima la mano». Trad. it. di L. Macali, Roma 1954, p. 108.

[2] Cfr. Legenda secunda, LXXIII, ed. cit., p. 251: «Quantunque l’evangelista Francesco, convinto com’era che c’è più bisogno di virtù che di parole, predicasse con esempi ed espressioni comuni a uomini incolti, pure dinanzi a uditori più spiritualmente preparati e più capaci di intenderlo, pronunziava parole piene di vita e di profondità. Con brevissimi tratti esprimeva l’ineffabile, e, aiutandosi con gesti e movimenti di fuoco, trasportava tutto l’essere degli uditori all’amore delle cose celesti. Non faceva uso di distinzioni e di divisioni, perché non lavorava molto a ordinare le prediche, che egli, del resto, non componeva da sé. Imprimeva alla sua voce il timbro inconfondibile della virtù, della vera virtù e sapienza, che è Cristo. Ed ecco quanto un medico colto ed eloquente, una volta, ebbe a dire in merito: “Mentre son capace di ricordare parola per parola le prediche degli altri, solo quando parla san Francesco non riesco a ritenerne una sillaba. E se qualche cosa mi rimane in mente, quando la ripeto mi pare del tutto diversa dal come è uscita dalle sue labbra”». Trad. it. di L. Macali cit., pp. 309-310.

[3] Cito dalla edizione Quaracchi, 1949. Nel volgarizzamento trecentesco (ed. D.M. Manni, Firenze 1735; vedi anche la ristampa a cura di L. Amoni, Roma 1888, e il Florilegio francescano di G. Battelli, Torino 1923, pp. 136-138), il testo è così reso: «E poiché il Signore m’ha dato la cura dei frati, niuno mi mostrava quello che io dovessi fare, solamente l’altissimo Iddio mi ha rivelato ch’io debba vivere secondo la forma del santo Vangelo, e io con poche parole e semplici l’ho fatta scrivere, e messer lo Papa me l’ha confermata. E coloro che venivano a ricevere questa vita, tutto quello che avevano e avere potevano, davano ai poveri, ed erano contenti d’un solo vestimento, dentro e di fuori rappezzato e racconciato, con il cingolo e le brache, e più non volevano avere. L’officio noi chierici dicevamo secondo gli altri chierici, e i laici dicevano il Pater nostro. E molto volentieri stavamo nelle chiese ed eravamo ignoranti e sottoposti a tutti. Ed io con le mie mani lavorava, e voglio affaticarmi a lavorare; e tutti gli altri frati fermamente voglio che lavorino del lavorio che sia onesto e ad onestà s’appartenga. E coloro che non sanno, imparino, non per desiderio di riceverne alcun prezzo della fatica, ma solo per dare bono esempio e per scacciare l’ozio. E quando non c’è dato premio della fatica, ricorriamo alla mensa del Signore, domandando limosina a uscio a uscio… Come il Signore Iddio a me ha dato di semplicemente e puramente dire e scrivere la Regola, e queste parole, così semplicemente e puramente (senza alcuna glossa) intendere la dobbiate, e con operazioni sante osservarla infino alla fine. E ciascuno che la osserverà sia ripieno in cielo della benedizione dell’Altissimo Padre, e in terra sia ripieno delle benedizioni del dilettissimo suo Figliuolo, con il santissimo Paraclito Spirito, con tutte le virtù de’ cieli, con tutti i Santi. Ed io, frate Francesco, minore, e piccolino vostro servo, per ciascheduno modo e quanto a me è possibile, confermo a voi entro e fuora questa santissima benedizione, a laude e gloria del glorioso Iddio. Amen».

[4] Altissimu: con la -u finale, tipicamente umbra, non riappare successivamente; vedi poi nullu, dignu, e quindi messor per “messere”, ecc.

[5] tue so’: sono tue, spettano a Te.

[6] se konfano: si confanno, si addicono.

[7] et nullu… mentovare: e nessun uomo è degno di menzionarti.

[8] cum tucte le tue creature: così come tutte le tue creature (o, secondo altri, cum vale “da”).

[9] è iorno: è luce diurna.

[10] et allumini… lui: e illumini noi per mezzo di lui.

[11] radiante: raggiante, splendente.

[12] de te… significatione: reca, contiene il tuo segno, o Altissimo.

[13] per: varie sono le interpretazioni che sono state date di questo e dei successivi per, ma la più accettabile è la più semplice: per causale, come il propter latino: “a causa di”, “a motivo di”.

[14] clarite: splendenti.

[15] nubilo: le nuvole.

[16] ennallumini: illumini.

[17] sustenta: sostiene, alimenta (e altrettanto vale governa).

[18] sostengo: sostengono.

[19] ka: poiché.

[20] morte corporale: morte del solo corpo.

[21] morte secunda: la morte dell’anima, la dannazione.

[22] Laudate: ora il Santo si rivolge direttamente ai fedeli.

[23] serviateli: servitelo.

[24] Cfr. ed. di G. Contini, Poeti del Duecento, Milano-Napoli 1960, t. I, pp. 33-34.

[25] L.F. Benedetto, Il Cantico di frate Sole, Firenze 1941.

La novella di Ciappelletto

di G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Milano 19923 [=1980], pp. 55-81 (testo e note)

introd. di G. Ferroni et alii, Storia e testi della letteratura italiana: la crisi del mondo comunale (1300-1380), Città di Castello 20128 [=2002], pp. 611-628 (introd.)

 

La prima novella del Decameron (il cui contenuto viene sintetizzato, come accade per tutte le novelle del Decameron, nella rubrica iniziale) viene narrata da Panfilo. Essa è preceduta da un ampio preambolo (il racconto vero e proprio inizia solo dal paragrafo 7), che afferma la necessità di iniziale ogni cosa dal nome di Dio. È a causa di tale bisogno che il «novellare» prende avvio da una delle «cose» di Dio, cioè dal tema della santità, dal riferimento ai santi come mediatori tra Dio e gli uomini: mediatori perché, memori della loro esperienza di vita sulla terra, sono gli interlocutori degli uomini allorché questi indirizzano le loro richiese a Dio. Ma tale collegamento della novella al nome di Dio (e quindi l’inserzione di tutto il narrare appena iniziato nel piano dell’ordine del mondo, al cui vertice è appunto Dio) si svolge in modo paradossale, con un vero e proprio rovesciamento. La prima novella vuole infatti mostrare che, nel loro rivolgersi ai santi, gli uomini possono ingannarsi, fino al punto di credere che sia santo qualcuno che invece è dannato: dopo aver precisato che ciò non intacca la validità della preghiera fatta in buona fede, Panfilo racconta l’incredibile vicenda di ser Ciappelletto, un notaio vizioso e corrotto, che si confessa sul letto di morte a un frate, al quale fa credere con finta contrizione di penitente, spinta fino alla parodia, di essere un sant’uomo, un perfetto cristiano. Egli intende così tener nascosta la sua fama di furfante e proteggere dal biasimo e, quindi, dalla rovina economica due usurai fiorentini che lo ospitano in terra di Borgogna. E la sua falsa confessione fa sì che egli venga ritenuto addirittura santo: sepolto in un convento, è venerato da tutta la popolazione, che si rivolge a lui per vedere esauditi i suoi voti.

La novella introduce il lettore in un mondo governato dalla logica dell’inganno e dell’impostura: la finzione e la recitazione, l’uso accorto delle parole e dei gesti fanno sì che l’apparenza rovesci la realtà, che chi nella sua vita ha sempre operato il male possa far credere di aver sempre esercitato il bene. Le intenzioni morali del narratore (ribadite anche nella conclusione) mirano a sottolineare il problematico rapporto tra i disegni di Dio e le azioni degli uomini, e a mettere in evidenza il trionfo della imperscrutabilità divina sull’inconsapevolezza umana. Ma nel racconto balzano in piena evidenza la negatività della figura del notaio, modello estremo e quasi diabolico di furfante, e il gusto perverso che egli prova, anche in punto di morte, nell’esercitare la sua furfanteria ai danni del confessore, facendosi credere il contrario di ciò che è: egli è come un sinistro artista della finzione, che davanti alla morte mette in atto il suo supremo inganno, quasi con una disinvolta provocazione a Dio (provocazione che si prolunga dopo la sua morte, nella fama della sua santità, nel culto suscitato dalla sua memoria).

La beffa di Ciappelletto, l’impegno e il divertimento che egli mette nella sua recitazione davanti al frate (di cui vengono a essere spettatori gli usurai fiorentini che spiano la confessione) hanno qualcosa di eccessivo (e si pensa ad altri personaggi letterari che sfidano la trascendenza, come don Giovanni); e chiamano in causa giocosamente la morte, all’inizio di un’opera come il Decameron che vuol essere anche una liberazione dal tempo mortale della peste. Il libro è così suggellato dal nome di Dio, secondo la dichiarazione di Panfilo, ma anche da una suprema immagine del male come finzione e recitazione, della menzogna come arte e sfida; dannazione e santità, male e bene mostrano beffardamente il loro misterioso rapporto, il loro intreccio. Ci viene mostrato che è sempre possibile scambiarli e confonderli sotto il segno dell’apparenza.

Una prima parte della novella (paragrafi 7-29) contiene l’antefatto della beffa, presentando il personaggio del protagonista, legato all’attività dei mercanti italiani in Francia e in Borgogna (segnata da vari contrasti con le popolazioni locali); su questo sfondo (descritto in modo molto circostanziato), la malattia di Ciappelletto suscita la preoccupazione dei suoi ospiti e la decisione del malato di confessarsi. Al paragrafo 30 entra in scena «un frate antico di santa e buona vita» e ha inizio il corpo centrale e più ampio della novella (paragrafi 30-80), che si svolge per lo più in forma dialogica (tra Ciappelletto e il frate), con un fortissimo ritmo teatrale (e i mercanti che ospitano Ciappelletto fungono proprio da spettatori, assistendo di nascosto alla scena). Le menzogne di Ciappelletto sono sostenute dai suoi gesti e dai suoi atti; il suo calcolato capovolgimento di ogni verità si svolge con un ritmo rapido e vivace, con notevoli effetti di comico (e dà «gran voglia di ridere» ai due usurai che beneficano dell’azione di Ciappelletto). La parte finale (paragrafo 81-fine) è dedicata agli effetti che seguono alla morte del beffatore, ritenuto santo per ciò che ne racconta il confessore beffato: la beffa così «diabolica» finisce per incrementare, nonostante la malvagità delle sue premesse, lo stesso sentimento religioso delle persone e, così, suo malgrado, a corroborare la moralità di cui essa è estrema infrazione. Si ha insomma alla fine un secondo livello di ironia: è come se il rovesciamento del sacro operato da Ciappelletto venisse capovolto a sua volta dagli effetti della sua santificazione, che esalta il valore delle pratiche religiose; la verità divina è mantenuta nonostante, anzi in virtù della falsità umana. In fondo, nella sua fama postuma il furfante è come condannato a passare per santo.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Palat. lat. 1989, f. 11r. La vicenda di Ser Ciappelletto, in Decameron I, 1.

 

[1] Ser Cepparello con una falsa confessione inganna uno santo frate, e muorsi; ed essendo stato un pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato san Ciappelletto[1].

 

[2] – Convenevole cosa è[2], carissime donne, che ciascheduna cosa la quale l’uomo fa, dallo ammirabile e santo nome di Colui il quale di tutte fu facitore le dea principio. Per che, dovendo io al nostro novellare, sì come primo, dare cominciamento, intendo da una delle sue maravigliose cose incominciare, acciò che, quella udita, la nostra speranza in lui, sì come in cosa impermutabile[3], si fermi e sempre sia da noi il suo nome lodato. [3] Manifesta cosa è che, sì come le cose temporali tutte sono transitorie e mortali, così in sé e fuor di sé esser[4] piene di noia e d’angoscia e di fatica e ad infiniti pericoli soggiacere; alle quali senza niuno fallo né potremmo noi, che viviamo mescolati in esse e che siamo parte d’esse, durare né ripararci[5], se spezial grazia di Dio forza e avvedimento non ci prestasse. [4] La quale a noi e in noi non è da credere che per alcuno nostro merito discenda, ma dalla sua propia benignità mossa e da prieghi di coloro impetrata che, sì come noi siamo, furon mortali, e bene i suoi piaceri[6] mentre furono in vita seguendo, ora con lui etterni sono divenuti e beati. Alli quali noi medesimi, sì come a procuratori informati per esperienza della nostra fragilità, forse non audaci di porgere i prieghi nostri nel cospetto di tanto giudice[7], delle cose le quali a noi reputiamo opportune gli[8] porgiamo. [5] E ancora più in Lui, verso noi di pietosa liberalità pieno discerniamo[9], che, non potendo l’acume dell’occhio mortale nel segreto della divina mente trapassare in alcun modo[10], avvien forse tal volta che, da oppinione[11] ingannati, tale dinanzi alla sua maestà facciamo procuratore, che da quella con etterno essilio è scacciato. E nondimeno Esso, al quale niuna cosa è occulta[12], più alla purità del pregator riguardando che alla sua ignoranza o allo essilio del pregato[13], così come se quegli fosse nel suo conspetto beato, esaudisce coloro che ’l priegano[14]. [6] Il che manifestamente potrà apparire nella novella la quale di raccontare intendo; manifestamente dico, non il giudicio di Dio, ma quel degli uomini seguitando.

[7] Ragionasi[15] adunque che essendo Musciatto Franzesi[16] di ricchissimo e gran mercatante in Francia cavalier divenuto e dovendone in Toscana venire con messer Carlo Senzaterra, fratello del re di Francia, da papa Bonifazio addomandato e al venir promosso[17], sentendo[18] egli gli fatti suoi, sì come le più volte son quegli de’ mercatanti, molto intralciati in qua e in là e non potersi di leggiere né subitamente stralciare[19], pensò quegli commettere[20] a più persone; e a tutti trovò modo; fuor solamente in dubbio gli rimase cui lasciar potesse sofficiente a[21] riscuoter suoi crediti fatti a più borgognoni. [8] E la cagion del dubbio era il sentire li borgognoni uomini riottosi e di mala condizione e misleali[22]; e a lui non andava per la memoria chi tanto malvagio uom fosse, in cui egli potesse alcuna fidanza[23] avere che opporre alla loro malvagità si potesse. [9] E sopra questa essaminazione[24] pensando lungamente stato, gli venne a memoria un ser Cepparello da Prato, il qual molto alla sua casa in Parigi si riparava[25]. Il quale, per ciò che piccolo di persona era e molto assettatuzzo[26], non sappiendo li franceschi che si volesse dir[27] Cepparello, credendo che “cappello”, cioè “ghirlanda”[28], secondo il loro volgare, a dir venisse, per ciò che piccolo era come dicemmo, non Ciappello, ma Ciappelletto il chiamavano; e per Ciappelletto era conosciuto per tutto, là dove pochi per ser Cepparello il conoscieno.

[10] Era questo Ciappelletto di questa vita: egli, essendo notaio[29], avea grandissima vergogna quando uno de’ suoi strumenti (come che pochi ne facesse) fosse altro che falso trovato; de’ quali tanti avrebbe fatti di quanti fosse stato richiesto, e quelli più volentieri in dono che alcun altro grandemente salariato[30]. [11] Testimonianze false con sommo diletto diceva, richiesto e non richiesto; e dandosi a que’ tempi in Francia a’ saramenti[31] grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante quistioni malvagiamente vincea a quante a giurare di dire il vero sopra la sua fede era chiamato. [12] Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava[32], in commettere[33] tra amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali, de’ quali quanto maggiori mali vedeva seguire tanto più d’allegrezza prendea. [13] Invitato ad un omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai, volenterosamente v’andava; e più volte a fedire e ad uccidere uomini colle propie mani si trovò volentieri. Bestemmiatore di Dio e de’ santi era grandissimo; e per ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcun altro era iracundo. [14] A chiesa non usava[34] giammai; e i sacramenti di quella tutti, come vil cosa, con abominevoli parole scherniva; e così in contrario le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli. Delle femine era così vago come sono i cani de’ bastoni[35]; del contrario più che alcun altro tristo uomo si dilettava. Imbolato avrebbe e rubato[36] con quella conscienzia che un santo uomo offerrebbe[37]. Gulosissimo e bevitore grande, tanto che alcuna volta sconciamente gli facea noia. Giuocatore e mettitor di malvagi dadi[38] era solenne[39]. [15] Perché mi distendo io in tante parole? Egli era il piggiore uomo forse che mai nascesse[40]. La cui malizia lungo tempo sostenne la potenzia e lo stato[41] di messer Musciatto, per cui molte volte e dalle private persone, alle quali assai sovente faceva ingiuria, e dalla corte[42], a cui tuttavia[43] la facea, fu riguardato[44].

[16] Venuto adunque questo ser Cepparello nell’animo a messer Musciatto, il quale ottimamente la sua vita conosceva, si pensò il detto messer Musciatto costui dovere essere tale quale la malvagità de’ borgognoni il richiedea; e perciò, fattolsi chiamare, gli disse così: [17] «Ser Ciappelletto, come tu sai, io sono per ritrarmi del tutto di qui, e avendo tra gli altri a fare co’ borgognoni, uomini pieni d’inganni, non so cui io mi possa lasciare a riscuotere il mio da loro più convenevole di te; e perciò, con ciò sia cosa che tu niente facci al presente[45], ove a questo vogli intendere, io intendo[46] di farti avere il favore della corte[47] e di donarti quella parte di ciò che tu riscoterai che convenevole sia».

[18] Ser Ciappelletto, che scioperato si vedea e male agitato delle cose del mondo[48] e lui ne vedeva andare che suo sostegno e ritegno[49] era lungamente stato, senza niuno indugio e quasi da necessità costretto si diliberò[50], e disse che volea volentieri. [19] Per che, convenutisi insieme, ricevuta ser Ciappelletto la procura e le lettere favorevoli del re, partitosi messer Musciatto, n’andò in Borgogna dove quasi niuno il conoscea; e quivi, fuor di sua natura[51], benignamente e mansuetamente cominciò a voler riscuotere e fare quello per che andato v’era, quasi si riserbasse l’adirarsi al da sezzo[52].

[20] E così faccendo, riparandosi in casa di due fratelli fiorentini, li quali quivi ad usura prestavano e lui per amor di messer Musciatto onoravano molto, avvenne che egli infermò. Al quale i due fratelli fecero prestamente venire medici e fanti che il servissero e ogni cosa opportuna alla sua santà[53] racquistare. [21] Ma ogni aiuto era nullo[54], per ciò che ’l buono uomo, il quale già era vecchio e disordinatamente vivuto, secondo che i medici dicevano, andava di giorno in giorno di male in peggio, come colui ch’aveva il male della morte; di che li due fratelli si dolevan forte.

[22] E un giorno, assai vicini della camera nella quale ser Ciappelletto giaceva infermo, seco medesimi cominciarono a ragionare: [23] «Che farem noi – diceva l’uno all’altro – di costui? Noi abbiamo de’ fatti suoi pessimo partito alle mani[55]: per ciò che il mandarlo fuori di casa nostra così infermo ne sarebbe gran biasimo e segno manifesto di poco senno, veggendo la gente che noi l’avessimo ricevuto prima, e poi fatto servire e medicare così sollecitamente, e ora, senza potere egli aver fatta cosa alcuna che dispiacer ci debbia[56], così subitamente di casa nostra e infermo a morte vederlo mandar fuori[57]. [24] D’altra parte, egli è stato sì malvagio uomo che egli non si vorrà confessare né prendere alcuno sagramento della Chiesa; e, morendo senza confessione, niuna chiesa vorrà il suo corpo ricevere, anzi sarà gittato a’ fossi a guisa d’un cane[58]. [25] E, se egli si pur confessa[59], i peccati suoi son tanti e sì orribili[60] che il simigliante n’avverrà[61], per ciò che frate né prete ci sarà che ’l voglia né possa assolvere; per che, non assoluto, anche sarà gittato a’ fossi. [26] E se questo avviene, il popolo di questa terra, il quale sì per lo mestier nostro, il quale loro pare iniquissimo e tutto ’l giorno ne dicon male, e sì per la volontà che hanno di rubarci, veggendo ciò, si leverà a romore[62] e griderà: “Questi lombardi cani[63], li quali a chiesa non sono voluti ricevere, non ci si voglion[64] più sostenere[65]”; e correrannoci alle case e per avventura non solamente l’avere ci ruberanno, ma forse ci torranno oltre a ciò le persone[66]; di che noi in ogni guisa stiam male, se costui muore».

[27] Ser Ciappelletto, il quale, come dicemmo, presso giacea là dove costoro così ragionavano, avendo l’udire sottile, sì come le più volte veggiamo avere gl’infermi, udì ciò che costoro di lui dicevano; li quali egli si fece chiamare, e disse loro: «Io non voglio che voi di niuna cosa di me dubitiate[67] né abbiate paura di ricevere per me alcun danno. Io ho inteso ciò che di me ragionato avete e son certissimo che così n’avverrebbe come voi dite, dove così andasse la bisogna[68] come avvisate; ma ella andrà altramenti. [28] Io ho, vivendo, tante ingiurie fatte a Domenedio che, per farnegli io una ora in su la mia morte, né più né meno ne farà[69]; [29] e per ciò procacciate di farmi venire un santo e valente frate, il più[70] che aver potete, se alcun ce n’è; e lasciate fare a me, ché fermamente io acconcerò i fatti vostri e’ miei in maniera che starà bene e che dovrete esser contenti».

[30] I due fratelli, come che molta speranza non prendessono di questo, nondimeno se n’andarono ad una religione[71] di frati e domandarono alcuno santo e savio uomo che udisse la confessione d’un lombardo che in casa loro era infermo; e fu lor dato un frate antico[72] di santa e di buona vita e gran maestro in Iscrittura e molto venerabile uomo, nel quale tutti i cittadini grandissima e spezial divozione aveano, e lui menarono. [31] Il quale, giunto nella camera dove ser Ciappelletto giacea e allato postoglisi a sedere, prima benignamente il cominciò a confortare, e appresso il domandò quanto tempo era che egli altra volta confessato si fosse.

[32] Al quale ser Ciappelletto, che mai[73] confessato non s’era, rispose: «Padre mio, la mia usanza suole essere di confessarmi ogni settimana almeno una volta, senza che assai sono di quelle che io mi confesso più; è il vero che poi ch’io infermai, che son presso a otto dì, io non mi confessai, tanta è stata la noia che la infermità m’ha data».

[33] Disse allora il frate: «Figliuol mio, bene hai fatto, e così si vuol fare per innanzi[74]; e veggio che, poi[75] sì spesso ti confessi, poca fatica avrò d’udire o di domandare».

[34] Disse ser Ciappelletto: «Messer lo frate[76], non dite così; io non mi confessai mai tante volte né sì spesso, che io sempre non mi volessi confessare generalmente[77] di tutti i miei peccati che io mi ricordassi dal dì ch’i’ nacqui infino a quello che confessato mi sono; e per ciò vi priego, padre mio buono, che così puntualmente[78] d’ogni cosa mi domandiate come se mai confessato non mi fossi; [35] e non mi riguardate perch’io infermo sia, ché io amo molto meglio di dispiacere a queste mie carni che, faccendo agio loro[79], io facessi cosa che potesse essere perdizione della anima mia, la quale il mio Salvatore ricomperò col suo prezioso sangue»[80].

[36] Queste parole piacquero molto al santo uomo e parvongli argomento di bene disposta mente; e poi che a ser Ciappelletto ebbe molto commendato questa sua usanza, il cominciò a domandare se egli mai in lussuria con alcuna femina peccato avesse[81].

[37] Al qual ser Ciappelletto sospirando rispose: «Padre mio, di questa parte mi vergogno io di dirvene il vero, temendo di non peccare in vanagloria».

[38] Al quale il santo frate disse: «Di’ sicuramente[82], ché il ver dicendo né in confessione né in altro atto si peccò giammai».

[39] Disse allora ser Ciappelletto: «Poiché voi di questo mi fate sicuro, e[83] io il vi dirò: io son così vergine come io usci’ del corpo della mamma mia».

[40] «Oh benedetto sie tu[84] da Dio! – disse il frate – come bene hai fatto! e, faccendolo, hai tanto più meritato, quanto, volendo, avevi più d’arbitrio di fare il contrario che non abbiam noi e qualunque altri son quegli che sotto alcuna regola sono costretti»[85].

[41] E appresso questo il domandò se nel peccato della gola aveva a Dio dispiaciuto; al quale, sospirando forte, ser Ciappelletto rispose del sì, e molte volte; per ciò che, con ciò fosse cosa che egli, oltre alli digiuni delle quaresime[86] che nell’anno si fanno dalle divote persone, ogni settimana almeno tre dì fosse uso di digiunare in pane e in acqua, con quello diletto e con quello appetito l’acqua bevuta avea, e spezialmente quando avesse alcuna fatica durata o adorando[87] o andando in pellegrinaggio, che fanno i gran bevitori il vino; e molte volte aveva disiderato d’avere cotali insalatuzze d’erbucce[88], come le donne fanno quando vanno in villa[89], e alcuna volta gli era paruto migliore il mangiare che non pareva a lui che dovesse parere a chi digiuna per divozione, come digiunava egli[90].

[42] Al quale il frate disse: «Figliuol mio, questi peccati sono naturali e sono assai leggieri; e per ciò io non voglio che tu ne gravi più la conscienzia tua che bisogni. Ad ogni uomo addiviene, quantunque santissimo sia, il parergli dopo lungo digiuno buono il manicare[91], e dopo la fatica il bere».

[43] «Oh! – disse ser Ciappelletto – padre mio, non mi dite questo per confortarmi; ben sapete che io so che le cose che al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte nettamente e senza alcuna ruggine[92] d’animo; e chiunque altrimenti le fa, pecca».

[44] Il frate contentissimo disse: «E[93] io son contento che così ti cappia[94] nell’animo, e piacemi forte la tua pura e buona conscienzia in ciò[95]. Ma, dimmi: in avarizia hai tu peccato, disiderando più che il convenevole, o tenendo quello che tu tener non dovesti?».

[45] Al quale ser Ciappelletto disse: «Padre mio, io non vorrei che voi guardasti[96] perché io sia in casa di questi usurieri[97]: io non ci ho a far nulla; anzi ci era venuto per dovergli ammonire e gastigare[98] e torgli da questo abbominevole guadagno; e credo mi sarebbe venuto fatto, se Iddio non m’avesse così visitato[99]. [46] Ma voi dovete sapere che mio padre mi lasciò ricco uomo, del cui avere, come egli fu morto, diedi la maggior parte per Dio[100]; e poi, per sostentare la vita mia e per potere aiutare i poveri di Cristo, ho fatte mie piccole mercatantie[101], e in quelle ho desiderato di guadagnare, e sempre co’ poveri di Dio quello che ho guadagnato ho partito per mezzo[102], l’una metà convertendo né miei bisogni, l’altra metà dando loro; e di ciò m’ha sì bene il mio Creatore aiutato che io ho sempre di bene in meglio fatti i fatti miei.

[47] «Bene hai fatto – disse il frate – ma come ti se’ tu spesso[103] adirato?».

[48] «Oh! – disse ser Ciappelletto – cotesto vi dico io bene che io ho molto spesso fatto. E chi se ne potrebbe tenere, veggendo tutto il dì gli uomini fare le sconce cose, non servare i comandamenti di Dio, non temere i suoi giudicii[104]? [49] Egli[105] sono state assai volte il dì che io vorrei più tosto essere stato morto che vivo, veggendo i giovani andare dietro alle vanità e vedendogli giurare e spergiurare, andare alle taverne, non visitare le chiese e seguir più tosto le vie del mondo che quella di Dio»[106].

[50] Disse allora il frate: «Figliuol mio, cotesta è buona ira, né io per me te ne saprei penitenzia imporre. Ma, per alcuno caso, avrebbeti l’ira potuto inducere a fare alcuno omicidio o a dire villania a persona o a fare alcun’altra ingiuria?».

[51] A cui ser Ciappelletto rispose: «Ohimè, messere, o[107] voi mi parete uom di Dio: come dite voi coteste parole? o[108] s’io avessi avuto pure un pensieruzzo di fare qualunque s’è[109] l’una delle cose che voi dite, credete voi che io creda che Iddio m’avesse[110] tanto sostenuto? Coteste son cose da farle gli scherani[111] e i rei uomini, de’ quali qualunque ora[112] io n’ho mai veduto alcuno, sempre ho detto: “Va, che Dio ti converta”».

[52] Allora disse il frate: «Or mi di’, figliuol mio, che benedetto sia tu da Dio: hai tu mai testimonianza niuna falsa[113] detta contro alcuno o detto mal d’altrui o tolte dell’altrui cose senza piacer di colui di cui sono?».

[53] «Mai, messere, sì[114]– rispose ser Ciappelletto – che io ho detto male d’altrui; per ciò che io ebbi già un mio vicino che, al maggior torto del mondo, non faceva altro che battere la moglie, sì che io dissi una volta mal di lui alli parenti della moglie, sì gran pietà mi venne di quella cattivella[115], la quale egli, ogni volta che bevuto avea troppo, conciava come Dio vel dica[116]».

[54] Disse allora il frate: «Or bene, tu mi di’ che se’ stato mercatante: ingannasti tu mai persona così come fanno i mercatanti?».

[55] «Gnaffe[117] – disse ser Ciappelletto – messer sì; ma io non so chi egli si fu, se non che uno, avendomi recati danari che egli mi dovea dare di panno che io gli avea venduto, e io messogli in una mia cassa senza annoverare[118], ivi bene ad un mese[119] trovai ch’egli erano quattro piccioli[120] più che essere non doveano; per che, non rivedendo colui e avendogli serbati bene uno anno per rendergliele[121], io gli diedi per l’amor di Dio».

[56] Disse il frate: «Cotesta fu piccola cosa; e facesti bene a farne quello che ne facesti».

[57] E, oltre a questo, il domandò il santo frate di molte altre cose, delle quali di tutte[122] rispose a questo modo. E volendo egli già procedere all’assoluzione, disse ser Ciappelletto: «Messere, io ho ancora alcun peccato che io non v’ho detto».

[58] Il frate il domandò quale; ed egli disse: «Io mi ricordo che io feci al fante mio un sabato dopo nona spazzare la casa, e non ebbi alla santa domenica quella reverenza che io dovea»[123].

[59] «Oh! – disse il frate – figliuol mio, cotesta è leggier cosa».

[60] «Non[124] – disse ser Ciappelletto – non dite leggier cosa, ché la domenica è troppo da onorare, però che in così fatto dì risuscitò da morte a vita il nostro Signore».

[61] Disse allora il frate: «O altro hai tu fatto?».

[62] «Messer sì – rispose ser Ciappelletto – ché io, non avvedendomene, sputai una volta nella chiesa di Dio».

[63] Il frate cominciò a sorridere e disse: «Figliuol mio, cotesta non è cosa da curarsene: noi, che siamo religiosi, tutto il dì vi sputiamo».

[64] Disse allora ser Ciappelletto: «E voi fate gran villania, per ciò che niuna cosa si convien tener netta come il santo tempio, nel quale si rende sacrificio a Dio».

[65] E in brieve de’ così fatti ne gli disse molti, e ultimamente cominciò a sospirare, e appresso a piagner forte, come colui che il sapeva troppo ben fare quando volea.

[66] Disse il santo frate: «Figliuol mio, che hai tu?».

[67] Rispose ser Ciappelletto: «Ohimè, messere, ché un peccato m’è rimaso, del quale io non mi confessai mai, sì gran vergogna ho di doverlo dire; e ogni volta ch’io me ne ricordo piango come voi vedete, e parmi essere molto certo che Iddio mai non avrà misericordia di me per questo peccato».

[68] Allora il santo frate disse: «Va via[125], figliuol, che è ciò che tu dì? Se tutti i peccati che furon mai fatti da tutti gli uomini, o che si debbon fare da tutti gli uomini mentre che[126] il mondo durerà, fosser tutti in uno uom solo, ed egli ne fosse pentuto e contrito come io veggio te, si è tanta la benignità e la misericordia di Dio che, confessandogli egli[127], gliele perdonerebbe liberamente[128]; e per ciò dillo sicuramente».

[69] Disse allora ser Ciappelletto, sempre piagnendo forte: «Ohimè, padre mio, il mio è troppo gran peccato, e appena posso credere, se i vostri prieghi non ci si adoperano, che egli mi debba[129] mai da Dio esser perdonato».

[70] A cui il frate disse: «Dillo sicuramente, ché io ti prometto di pregare Iddio per te».

[71] Ser Ciappelletto pur piagnea[130] e nol dicea, e il frate pur il confortava a dire. Ma poi che ser Ciappelletto piagnendo ebbe un grandissimo pezzo tenuto il frate così sospeso, e[131] egli gittò un gran sospiro e disse: «Padre mio, poscia che voi mi promettete di pregare Iddio per me, e io il vi dirò[132]: sappiate che, quando io era piccolino, io bestemmiai[133] una volta la mamma mia». E così detto ricominciò a piagnere forte.

[72] Disse il frate: «O figliuol mio, or parti questo così grande peccato? o gli uomini bestemmiano tutto ’l giorno Iddio, e sì[134] perdona egli volentieri a chi si pente d’averlo bestemmiato; e tu non credi che egli perdoni a te questo? Non piagner, confortati, ché fermamente, se tu fossi stato un di quegli che il posero in croce, avendo la contrizione ch’io ti veggio, sì ti perdonerebbe Egli».

[73] Disse allora ser Ciappelletto: «Ohimè, padre mio, che dite voi? La mamma mia dolce[135], che mi portò in corpo nove mesi il dì e la notte e portommi in collo più di cento volte! troppo feci male a bestemmiarla e troppo è gran peccato; e se voi non pregate Iddio per me, egli non mi sarà perdonato».

[74] Veggendo il frate non essere altro restato a dire a ser Ciappelletto, gli fece l’assoluzione e diedegli la sua benedizione, avendolo per[136] santissimo uomo, sì come colui che pienamente credeva esser vero ciò che ser Ciappelletto avea detto: e chi sarebbe colui che nol credesse, veggendo uno uomo in caso[137] di morte dir così? .

[75] E poi, dopo tutto questo, gli disse: «Ser Ciappelletto, coll’aiuto di Dio voi[138] sarete tosto sano; ma se pure avvenisse che Iddio la vostra benedetta e ben disposta anima chiamasse a sé, piacevi egli[139] che ’l vostro corpo sia sepellito al nostro luogo[140]?».

[76] Al quale ser Ciappelletto rispose: «Messer sì; anzi non vorre’ io essere altrove, poscia che voi mi avete promesso di pregare Iddio per me: senza che[141] io ho avuta sempre spezial divozione al vostro Ordine. E per ciò vi priego che, come voi al vostro luogo sarete, facciate che a me vegna quel veracissimo corpo di Cristo, il qual voi la mattina sopra l’altare consecrate; per ciò che, come che io degno non ne sia, io intendo colla vostra licenzia di prenderlo, e appresso la santa e ultima unzione[142], acciò che io, se vivuto son come peccatore, almeno muoia come cristiano».

[77] Il santo uomo disse che molto gli piacea e che egli dicea bene, e farebbe che di presente[143] gli sarebbe apportato; e così fu.

[78] Li due fratelli, li quali dubitavan forte non ser Ciappelletto gl’ingannasse, s’eran posti appresso ad un tavolato, il quale la camera dove ser Ciappelletto giaceva divideva da un’altra, e ascoltando leggiermente[144] udivano e intendevano ciò che ser Ciappelletto al frate diceva; e aveano alcuna volta sì gran voglia di ridere, udendo le cose le quali egli confessava d’aver fatte, che quasi scoppiavano. [79] E fra se’ talora dicevano: «Che uomo è costui, il quale né vecchiezza né infermità né paura di morte alla qual si vede vicino, né ancora di Dio dinanzi al giudicio del quale di qui a picciola ora s’aspetta di dovere essere, dalla sua malvagità l’hanno potuto rimuovere[145], né far ch’egli così non voglia morire come egli è vivuto?». [80] Ma pur vedendo che sì aveva detto che egli sarebbe a sepoltura ricevuto in chiesa, niente del rimaso[146] si curarono.

[81] Ser Ciappelletto poco appresso si comunicò: e peggiorando senza modo, ebbe l’ultima unzione e poco passato vespro, quel dì stesso che la buona confessione fatta avea, si morì. [82] Per la qual cosa li due fratelli, ordinato di quello di lui medesimo[147] come egli fosse onorevolmente sepellito, e mandatolo a dire al luogo de’ frati, e che essi vi venissero la sera a far la vigilia[148] secondo l’usanza e la mattina per lo corpo, ogni cosa a ciò opportuna dispuosero.

[83] Il santo frate che confessato l’avea, udendo che egli era trapassato, fu insieme[149] col priore del luogo; e fatto sonare a capitolo, alli frati ragunati in quello mostrò ser Ciappelletto essere stato santo uomo, secondo che per la sua confessione conceputo[150] avea; e sperando per lui Domenedio dovere[151] molti miracoli dimostrare, persuadette loro che con grandissima reverenzia e divozione quello corpo si dovesse[152] ricevere. [84] Alla qual cosa il priore e gli altri frati creduli s’acordarono: e la sera, andati tutti là dove il corpo di ser Ciappelletto giaceva, sopr’esso fecero una grande e solenne vigilia; e la mattina, tutti vestiti co’ camici e co’ pieviali[153], con libri in mano e con le croci innanzi, cantando, andaron per questo corpo e con grandissima festa e solennità il recarono alla lor chiesa, seguendo quasi tutto il popolo della città, uomini e donne. [85] E nella chiesa postolo, il santo frate che confessato l’avea, salito in sul pergamo, di lui cominciò e della sua vita, de’ suoi digiuni, della sua virginità, della sua simplicità e innocenzia e santità maravigliose cose a predicare[154], tra l’altre cose narrando quello che ser Ciappelletto per lo suo maggior peccato piagnendo gli avea confessato, e come esso appena gli avea potuto mettere nel capo che Iddio gliele dovesse perdonare, da questo volgendosi[155] a riprendere il popolo che ascoltava, dicendo: «E voi, maledetti da Dio, per ogni fuscello di paglia che vi si volge tra’ piedi bestemmiate Iddio e la Madre, e tutta la corte di Paradiso[156]».

[86] E oltre a queste, molte altre cose disse della sua lealtà e della sua purità: e in brieve con le sue parole, alle quali era dalla gente della contrada data intera fede, sì il mise nel capo e nella divozion di tutti coloro che v’erano che, poi che fornito[157] fu l’uficio, colla maggior calca del mondo da tutti fu andato[158] a basciargli i piedi e le mani, e tutti i panni gli furono indosso stracciati, tenendosi beato chi pure un poco di quegli potesse avere[159]: e convenne che tutto il giorno così fosse tenuto, acciò che da tutti potesse essere veduto e visitato. [87] Poi, la vegnente notte, in una arca di marmo sepellito fu onorevolmente in una cappella, e a mano a mano[160] il dì seguente vi cominciarono le genti ad andare e ad accender lumi e ad adorarlo[161], e per conseguente a botarsi[162] e ad appiccarvi le imagini della cera[163] secondo la promession fatta. [88] E in tanto[164] crebbe la fama della sua santità e divozione a lui, che quasi niuno era, che in alcuna avversità fosse, che ad altro santo che a lui si botasse, e chiamaronlo e chiamano san Ciappelletto; e affermano molti miracoli Iddio aver mostrati per lui e mostrare tutto giorno[165] a chi divotamente si raccomanda a lui.

[89] Così adunque visse e morì ser Cepparello da Prato e santo[166] divenne come avete udito. Il quale negar non voglio essere possibile lui[167] essere beato nella presenza di Dio, per ciò che, come che la sua vita fosse scelerata e malvagia, egli poté in su lo stremo[168] aver sì fatta contrizione, che per avventura Iddio ebbe misericordia di lui e nel suo regno il ricevette[169]: ma, per ciò che questo n’è occulto, secondo quello che ne può apparire ragiono, e dico costui più tosto dovere essere nelle mani del diavolo in perdizione che in Paradiso[170]. [90] E se così è, grandissima si può la benignità di Dio cognoscere verso noi, la quale non al nostro errore, ma alla purità della fede riguardando, così faccendo noi nostro mezzano[171] un suo nemico, amico credendolo, ci esaudisce, come se ad uno veramente santo per mezzano della sua grazia ricorressimo[172]. [91] E per ciò, acciò che noi per la sua grazia nelle presenti avversità[173] e in questa compagnia così lieta siamo sani e salvi servati, lodando il suo nome nel quale cominciata l’abbiamo, lui in reverenza avendo, né nostri bisogni gli ci raccomandiamo, sicurissimi d’essere uditi –.

[92] E qui si tacque[174].

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Note:

 

[1] La novella trasse probabilmente origine da narrazioni e da dicerie venute dalla Francia sulla mala vita e le male arti dei prestatori italiani; e il Boccaccio, insieme ad altre inventate o derivate suggestioni letterarie, le attribuì a un personaggio realmente esistito, che aveva trafficato in quelle terre, ed era stato in rapporto con i fratelli Franzesi, prototipi, per la storiografia fiorentina, dei loschi affaristi. Difatti un Cepparello o Ciappelletto Dietaiuti da Prato appare in documenti della fine del ‘200 come ricevitore di decime e di taglie, per conto di Filippo il Bello, re di Francia, e di Bonifacio VIII, nel contado venosino ecc. (ma non era notaio, era ammogliato e aveva figli, era ancora vivo, a Prato, nel 1304). Il suo libro di conti è uno dei più antichi documenti volgari (Testi fiorentini del Dugento e dei primi del Trecento, a cura di A. Schiaffini, Firenze 1926, pp. 244-259). «È pittoresco – nota Contini – che in un suo libro di conti relativo agli anni 1288-1290, dove sono documentati fra l’altro i suoi rapporti con Biccio e Musciatto (i loschi fratelli Franzesi) e non mancano menzioni di località borgognoni (come Mâcon), sia registrata anche una modesta elemosina» ai francescani e ai domenicani. Episodi simili alla novella erano in testi medievali: nella Vita di San Martino di Sulpizio Severo (XI: la tomba di un brigante presso Tours è venerata come quella d’un santo), nella Storia di Spagna di Juan de Mariana (con pseudomiracoli gli eretici inducevano il popolino a venerar la tomba del loro compagno Arnaldo); e in generale in tutte le frequenti raffigurazioni e satire di ipocriti, da quelle del Fiore a quelle della Divina Commedia. È tema del resto diffuso nella novellistica (Rotunda, U II6*). Cfr. C. Paoli, Documenti di Ser Ciappelletto, GSLI 5 (1885), pp. 346-360; A. Neri, Una lettera di G. Bianchini, ibid. 6 (1885), p. 305; C. Giani, Cepparello da Prato (lo pseudo Ser Ciappelletto) secondo la leggenda boccaccesca e secondo i docum. degli archivi Pratese e Vaticano, Prato 1915, e Ancora due parole su Cepparello, Prato 1916; L. Fassò, Saggi e ricerche di storia letteraria: da Dante al Manzoni, Milano 1947; V. Branca, Boccaccio medievale e nuovi studi sul Decameron, Firenze 1956, pp. 71-99.

[2] La prima novella di ogni giornata comincia sempre, contrariamente alle altre, senza azione alcuna nella «cornice», proprio perché tale azione è compresa nella introduzione alla giornata.

[3] Non soggetta a mutamenti.

[4] Per questa costruzione cfr. Intr. 41 n., I 4, 3 n. Le considerazioni sulla caducità divulgate in forma simile da testi autorevoli (per es. Ecclesiaste I 2-13; Seneca, De constantia 20, 8) erano state rese proverbiali dall’«Omnia vertuntur» (H. Walther, Proverbia sententiaeque Latinitatis Medii Aevi, Göttingen 1963, III, p. 622; e anche L. De Mauri, Flores sententiarum: raccolta di sentenze, proverbi e motti latini di uso quotidiano, in ordine per materie, con le fonti indicate, schiarimenti e la traduzione italiana, Milano 1967, p. 77).

[5] Resistere né evitarle. E nota i due cursus veloces che concludono i due membri del periodo.

[6] Le sue volontà. «Coloro» (nella riga precedente) sono i santi.

[7] Tutta la frase «forse … giudice» è apposizione di noi «medesimi».

[8] Cioè «i prieghi».

[9] E in Lui, che è pieno di pietà e di liberalità verso di noi, scorgiamo qualcosa anche di più grande, di più liberale.

[10] Par. XIII 141: «Vederli dentro al consiglio divino»; cfr. Par. VI 121-123, Purg. VIII 67-69; Esposizioni IX litt. 72: «la profondità della divina mente, la quale è tanta e sì nascosa che occhio mortale non può ad essa trapassare».

[11] Oppinione (la doppia è consueta nell’antico toscano: dal lat. med. Oppinio) è «sentenza dubbiosa, e non certa, ingannata dal parere» (Da F. Buti, comm. a Purg. XXVI 2): II 6, 54 n. e IV intr. 39 n.: «gli lascerò con la loro oppinione».

[12] Par. XXI 50: «Colui che tutto vede».

[13] Cioè al fatto che il pregato è all’Inferno: Inf. XXIII 126 e Purg. XXI 18: «ne l’etterno essilio».

[14] È un concetto che anche Dante accenna (Ep. VI: «qui divine volutati reluctatus est et sciens et volens, eidem militet nesciens atque nolens»), e che sarà ripreso ampiamente nel finale (89-91).

[15] Si narra.

[16] Musciatto di Messer Guido Franzesi, «nostro contadino», secondo il Villani, accumulò grandi ricchezze trafficando in Francia, e fu dei più ascoltati e malvagi consiglieri di Filippo il Bello, inducendolo a falsificare moneta e a razziare i mercanti italiani (Cronica VII 147 e VIII 49, 56, 63). Anche il Compagni: «cavaliere di gran malizia, picciolo della persona… corrotto» (II 4). Era già morto nel 1310 (cfr. la nota di I. Del Lungo al citato luogo del Compagni): e fu realmente in stretti rapporti d’affari con Cepparello, come testimoniano i documenti di cui alla n. 1 di p. 49. Da notizie manoscritte cui si riferiscono il Manni e il Giani, risulta che fu Podestà e Capitano del Popolo a Prato e poi Capitano della Taglia Toscana nel novembre del 1301; e che i fratelli Franzesi, prima Lombards soggetti alla taille, erano divenuti gentilshommes, receveurs, trésoriers del Re. Cfr. in gen. F. Bock, Musciatto dei Franzesi, DA 6 (1943), pp. 521-544; R. Davidsohn, Storia di Firenze, Firenze 1965, VI, pp. 625-636. «Musciatto» è soprannome da «Moscia», forma francese di «Mosca».

[17] Sollecitato, indotto. Anche questo cenno alla calata in Italia nel 1301 di Carlo di Valois è storico: è l’episodio che porterà all’esilio Dante (Purg. XX 70 ss. e Trattatello I 165 ss.). Il soprannome di Senzaterra (cui allude anche Dante, Purg. XX 76) era rimasto a Carlo, fratello di Filippo il Bello, dal tempo in cui non godeva di proprio appannaggio o dall’aver avuta solo nominalmente corona e dai suoi vani tentativi di procurarsi un regno.

[18] Conoscendo, sapendo, alla latina, come in Intr. 57: «sentono gli essecutori di quelle o morti o malati»: e cfr. II 6, 58 n.; II 8, 4 n. ecc.

[19] Sbrogliare, o forse, modernamente, liquidare.

[20] Affidare: II 7, 70 n.

[21] Idoneo, capace di.

[22] Litigiosi e di malvagia indole (morale) e sleali, falsi. «I Borgognoni avevano cattiva fama anche in Francia. Nel poemetto Tournoiement Antecrist di Huon di Mery (1234) la schiera guidata da Fellonia n’è piena, v. 701: “Felonie, qui her pitié avoit Bourgoignons a plenté”» (Zingarelli). A colorire l’ambiente sono usati due francesismi (riottosi e misleali: e cfr. riotta II 7, 42). Cfr. in generale per l’ambiente mercantile italiano in Borgogna: L. Gauthier, Les Lombards dans les Deux-Bourgognes, Paris 1907; e A. Sapori, Studi di storia economica. Secoli XIII-XIV-XV, Firenze 1955, I, pp. 100 ss.; R. Davidsohn, op. cit., VI, pp. 649 ss.

[23] Fiducia: cfr. IV 6, 40 n.

[24] Disamina, indagine: usato soprattutto per gli esami processuali, non senza ragione il vocabolo è impiegato proprio qui.

[25] Si rifugiava, albergava: cfr. II 8, 33: «nella corte del quale … molto si riparavano» e 77: «cominciò come povero uomo a ripararsi vicino alla casa di lei»; e più avanti, 20.

[26] Agghindato, di un’eleganza un po’ affettata: cfr. Vita di Sant’Antonio (C.): «Era una giovine balda e tutta piena d’arditezza, e tutta assettatuzza e atteggevole»; e Dante, Rime dubbie, VI 4. «Il Boccaccio s’impadronisce magistralmente di questo suffisso istituzionale nella poesia burlesca» (Contini): e cfr. qui 41, 51.

[27] Riflessivo corrente allora nelle interrogative o dubitative dipendenti da «non sapete» ed espressioni equivalenti: cfr. per es. I 4, 15; II 3, 16; II 5, 55; II 7, 11 e 16 e 22 e 46; III 7, 23 e 51 e 73 e 99; III 8, 38; III 9, 35; IV 2, 48 ecc.; e F. Brambilla Ageno, Il verbo nell’italiano antico: ricerche di sintassi, Milano 1964, pp. 149 ss.

[28] Il francese «chapel» aveva il suo diminutivo assai comune in «chapelet», cioè «ciappelletto» pronunziato alla toscana: e anche in italiano «cappello» s’usava per «corona, ghirlanda» (Par. XXV 9 e cfr. C. Merkel, Come vestivano gli uomini del Decamerone. Saggio di storia del costume, Roma 1898, pp. 81 ss.). Forse il Boccaccio riteneva che «Cepparello» derivasse da «ceppo», mentre con tutta probabilità non era che un diminutivo di Ciapo (Ciaperello), deformazione di Jacopo: a meno che non provenga dall’identico toponimo. A Prato esisteva ancora nel Settecento una famiglia Cepparelli. «Franceschi» era corrente per francesi: cfr. II 6, 77 n.

[29] Per questa qualifica che, come abbiamo visto, non aveva Cepparello Dietaiuti, gli è attribuito il titolo di Ser. Il termine «strumenti» sta per atti notarili.

[30] Compensato. Questa volontà gratuita di male sembra riecheggiare da un famoso topico ritratto di malvagio, Catilina, tracciato dall’ammiratissimo Sallustio: ritratto certo presente al Boccaccio in questa pagina («Huic… caedes, rapinae, discordia grata fuere… testes signatoresque falsos commodare… gratuito potius malus atque crudelis erat»: I 5 ss.).

[31]  Giuramenti: II 8, 20 n.: e cfr. Annotazioni, VII.

[32] Fortemente vi si appassionava.

[33] Introdurre, intessere: Inf. XXVII 136: «quei che scommettendo acquistan carco».

[34] Non soleva andare: I 6, 19 n.

[35] Anche di un altro sodomita, Pietro da Vinciolo, la moglie dice «se’ cosi’ vago di noi [donne] come il can delle mazze» (V 10, 55); e il Sacchetti: «vago delle femmine, come i fanciulli delle palmate» (CXII): quasi proverbio «già usato nella precedente poesia giocosa, della quale in questa pagina ritornano alcuni tratti fondamentali» (Marti). Comincia l’insistenza iterativa, di evidente valore allusivo-deprecativo per Cepparello, su «cane» (14, 25, 26).

[36] Il primo verbo indica il portar via di furto; il secondo rapire con violenza (II 4, 8 n.).

[37] Con la quale… offrirebbe denaro in elemosina: era corrente «offerere», assoluto: 11 6, 53; Par. V 50, XIII 140. Nota una di quelle sincopi, frequenti in casi simili (per es. II 5, 34; IV 9, 9) come le metatesi (per es. «enterrai» II 5, 76). E per l’omissione della preposizione dinanzi al relativo dipendente da un sostantivo preceduto da un dimostrativo, cfr. Mussafia, pp. 517 ss.

[38] Dadi truccati, cioè era baro: cfr. Sacchetti, XLII. E cfr. Intr. III n.

[39] Ultimo di quegli aggettivi – o espressioni – usati di solito in senso positivo e qui stravolti in negativo di cui è punteggiato questo ritratto. Il quale introduce così proprio il grande tema dello «stravolgimento», che è centrale alla novella, e il suo linguaggio antifrastico che trionfano coerentemente nella conclusione (cfr. V. Branca, op. cit., pp. 94 ss.).

[40] Cfr. Mt 26, 24; Mc 14, 21: «Bonum erat et si non esset natus homo ille» (per Giuda); e cfr. IX 1, 8; Corbaccio, 384: «Perché mi vo io in più parole stendendo?».

[41] Protesse, salvaguardò la potenza e il grado, la condizione: cfr. I 1, 30 n.; II 8, 33 n.; V 2, 35: «venne … in grande e ricco stato».

[42] Polizia, giustizia.

[43] Continuamente: vd. anche I 4, 8 n.; II 2, 15 n.

[44] Fu risparmiato, gli fu usato riguardo: cfr. più avanti, 35: «E non mi riguardate perché io infermo sia»; II 1, 12 n. Questo ritratto sinistro di ser Ciappelletto ben si accorda a quelli di Biccio e Musciatto Franzesi tracciati dal Villani (loc. cit.).

[45] Non esiste attività di Cepparello per il 1301: difatti più sotto si dice scioperato (Dante, Rime LXXV 13).

[46] «Intendere» vale la prima volta badare, la seconda ho intenzione, ho in animo. È segnalata la biforcazione, la ambiguità di una stessa parola usata in due significati diversi.

[47] Corte reale: difatti più sotto si parla delle lettere favorevoli del re, cioè di lettere commendatizie. Gli affari di Musciatto in Borgogna riguardavano la riscossione di imposte. Si noti che dal libro di conti di Cepparello risulta che già era stato esattore.

[48] Disoccupato… e in non buone condizioni economiche.

[49] Protezione, difesa.

[50] Prese una deliberazione, si decise.

[51] Contrariamente alla sua indole.

[52] Da ultimo: cfr. VI 9, 2; Teseida VIII 79; Inf. VII 130.

[53] Sanità; «santà» è forma più popolare (cfr. fr. santé). «Come di norma, la preposizione che regge l’infinito (a) è fusa con l’articolo dell’oggetto anteposto» (Contini): cfr. Intr. 20 n.

[54] Mezzo, rimedio (cfr. anche II 8, 47 n.) era inutile.

[55] Cioè ci troviamo con lui (o per causa di lui) a mal/a pessimo partito.

[56] Forma corrente, accanto a debba, nel toscano del Duecento e Trecento e nel Decameron stesso (per es. II 8, 13 e 9, 39; IX 5, 4; X 10, 35; G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, 3 voll., Torino 1966-69, col. 556).

[57] Anacoluto. Era da aspettarsi «lo mandiam fuori», (dipendendo da «veggendo la gente che noi»; invece il Boccaccio torna col pensiero al costrutto «il mandarlo fuori», oppure coordina col gerundio procedente «veggendo».

[58] G. Villani, Cronica VI 62: «feciono … il corpo… gittare a’ fossi». Nei fossati che cingevano le mura della città si gettavano i cadaveri dei suicidi, degli eretici, degli scomunicati (IV 6, 26) e anche degli usurai (Thompson, P 435; V 22).

[59] Iperbato col pronome atono, comunissimo in quell’età (cfr. per es. Vita Nuova XL 4: «io li pur farei piangere»).

[60] Purg. III 121: «Orribil furon li peccati miei», dichiara Manfredi, che infatti non ebbe sepoltura in terra consacrata.

[61] Ci accadrà la stessa cosa.

[62] Tumulto: cfr. II 5, 77 e n.

[63] Lombardi erano chiamati in Francia tutti gli Italiani della parte settentrionale della penisola, Toscana inclusa (Purg. XVI 125-126): e ‘lombardo’ era sinonimo di prestatore e usuraio, cui si accompagnava spesso il dispregiativo di ‘chien’. Ancor oggi a Parigi esiste una rue des Lombards e a Londa una Lombard Street. Cfr. A. Segre, Manuale di storia del commercio, Torino 1923, I: dalle origini alla Rivoluzione francese, pp. 215 ss.; A. Sapori, op. cit., pp. 107, 180 ss., 688, 866 ss., 1051 ss.

[64] Non si lasciano nemmeno entrare (o non si vogliono ricevere) in chiesa, «non ci (cioè qui) si devano …» con costruzione personale: uso non comune ma ripetuto nel Boccaccio: cfr. per es. V 10, 45: «elle si vorrebbero uccidere, elle si vorrebbon vive vive metter nel fuoco»; Amorosa Visione I 67 ss.: «Più mirabil cosa | Veder vuoi prima che giunghi lassuso»; cfr. Mussafia, pp. 447 ss., 473; A. Segre, op. cit.

[65] Tollerare: cfr. Proemio, II n.

[66] La vita: cfr. II 5, 60 n.

[67] Di nulla temiate a causa mia: cfr. Intr. 55 e n.

[68] La faccenda: II 7, 90 n.; e Inf. XXIII 140: «Mal contava la bisogna».

[69] Non ne farà maggior caso, non ne terrà neppur conto, cioè mi tratterà allo stesso modo. Altri interpreta impersonalmente non sarà nulla, non farà nulla. E cfr. Par. XXX 121: «Presso e lontano, lì, né pon né leva».

[70] Sottinteso: santo e valente.

[71] Convento; Sacchetti, CI: «andando… fuori di Todi a una religione di frati».

[72] Vecchio e austero. L’aggettivo conferisce grave dignità a questo frate che sarà vittima delle fandonie di Ciappelletto.

[73] L’inverosimile iperbole è armonica alla vituperatio che modula tutta la presentazione di Ciappelletto.

[74] Si deve fare d’ora in poi.

[75] Poiché, secondo l’uso comune nel Duecento e Trecento.

[76] L’articolo lo era corrente dopo la r. e nota il messere e il voi di rispetto usato a ragion veduta da Ciappelletto contro il figliuolo e il tu paterno del frate. Ma cfr. 75; e in generale S. Zini, Il «tu» e il «voi» nel Decameron, LN 3 (1941), pp. 121-127.

[77] Cioè fare quella che la Chiesa chiama la confessione generale. Giordano da Pisa, Quaresimale fiorentino, XX 26: «l’omo è tenuto di confessarsi generalmente di tutti i peccati…».

[78] Punto per punto, minutamente. Da Buti, Commento, intr.: «come apparirà quando si esporrà la lettera puntualmente» (punctualmente, latino scolastico).

[79] Avendo riguardo al loro comodo, indulgendo loro.

[80] È la traduzione di un versetto del Te Deum: «quos pretioso sanguine redemisti [tu, Christe]».

[81] «Deh, di femine non era e’ ghiotto troppo». (M.). Incomincia la confessione che con ordine si svolge prima ai peccati di incontinenza (accidia, lussuria, gola, avarizia, ira: trascurate superbia e invidia come meno facili alla qualità del confessato), poi a quelli di malizia.

[82] Anche Beatrice per togliere timore a Dante: «Di’, di’ sicuramente» (Par. V 122-123).

[83] Ecco che io: uso paraipotattico frequente nel Boccaccio: vd. anche II 9, 32 n.; III 5, 23 n.; V 10, 32: «Essendo noi già posti a tavola, Ercolano e la moglie e io, e noi sentimmo presso di noi starnutire»; cfr. V 8, 37 n.; VII 7, 20.

[84] Formula amata dal Boccaccio per la sua solennità: si vd. Amorosa Visione VI 4; Filocolo IV 130, 4; e anche qui 52.

[85] Da alcuna regola monastica, religiosa, sono retti e moderati. Qualunque era usato correntemente col plurale (qui riferito ai religiosi).

[86] Evidentemente qui non si allude solo alla Quaresima propriamente detta, cioè al digiuno di 46 giorni in preparazione alla Pasqua; ma ai vari periodi di digiuno, di lunghezza diversa, osservati dai fedeli o per prescrizione della Chiesa (per es. nell’Avvento e nelle Tempora) o per devozioni particolari. Quest’uso generico di «quaresima» è frequente: cfr. S. Sigoli, Viaggio al monte Sinai, a cura di C. Angelini, Firenze 1944, p. 189: «i Saracini fanno l’anno una quaresima… e basta 30 dì e tutto il dì stanno che non mangiano e non beono»; F. Belcari, Vita del beato Giovanni Colombini da Siena, Verona 1817, p. 224: «Essendo andato il Bianco a Nanni da Terranuova a fare la quaresima dello Spirito Santo…».

[87] Pregando, facendo le divozioni; vedi più innanzi, 87: «cominciarono le genti… a adorarlo»; e Sacchetti, CXCVIII: «uno Juccio… che adorava». E per l’uso frequente nel Decameron di gerundi in coordinazione cfr. S. Skerlj, Syntaxe du participe présent et du gérondif en vieil italien, Paris 1926, pp. 748 ss.

[88] I diminutivi hanno sempre nel Boccaccio un valore affettivo: e questa novella ne è punteggiata fin dal principio. E cfr. anche 9 n.

[89] In campagna, come a VIII 6, 40.

[90] La ripetizione di «parere» (tre volte) e di «digiunare» è una di quelle sottigliezze linguistiche cui il Boccaccio ricorre spesso per esprimere situazioni interiori (qui la untuosa complicatezza dell’ipocrita; e vd. altri esempi simili più sotto). Cfr. 51 e n.

[91] Mangiare: la forma arcaica, debole («manducare» livellato in «manucare», o «manicare») viva ancor oggi in «manicaretto», è usata dal Boccaccio promiscuamente a quella più comune – di origine francese – «mangiare»; si vd. a questo proposito, per es. I 10, 17; II 5, 82 n.; VIII 7, 128; IX 7, 10.

[92] Macchia: «indica molto bene ciò che toglie splendore all’anima che opera in servizio di Dio» (Momigliano): è termine del linguaggio pio.

[93] Enfatico, quasi etiam: usato di frequente dal Boccaccio (per es. VII 2, 21; X 10, 44).

[94] Ti stia nell’animo, cioè che tu la pensi così: cfr. I 10, 12 n.; VI 6, 5: «secondo che nell’animo gli capea»; VI 9, 8: «sapeva onorare cui nell’animo gli capeva»; Purg. XXI 81.

[95] «Conscientia bona e (separatamente) pura sono sintagmi paolini» (Contini).

[96] Steste in guardia, sospettaste (per la eccezionale ma corrente terminazione in -i, cfr. G. Rohlfs, op. cit., col. 560).

[97] Gallicismo frequente: cfr. per es. Inf. XI 109.

[98] Biasimare, rimproverare: cfr. II 4, 11 n. «Dovergli» è qui pleonastico, col valore di con l’intenzione di/allo scopo di (come a II 2, 20; III 7, 80; III 9, 57; VII 8, 14; VIII 7, 64 e I 5, 12; II 8, 63; III 3, 20; V 7, 17; VI 10, 31; X 2, 25). Cfr. F. Brambilla Ageno, op. cit., p. 447.

[99] È termine proprio al linguaggio devoto per indicare che le tribolazioni sono una grazia di Dio, come mezzo di perfezionamento morale: cfr. B. Giamboni, Introduzione alla virtù, Firenze 1810, p. 14: «dee pensare l’uomo che Dio l’ami, quando di tribolazioni da Dio è visitato»; Job VII 18; Ps. XVI 3. Il singolare costrutto passivo non è unico (si vd. anche III 6, 38; V 5, 29).

[100] Per amor di Dio, cioè in elemosine, in carità: cfr. II 8, 77 n.; IV intr. 15: «data ogni sua cosa per Dio».

[101] Negozi, affari: per la forma cfr. Intr. 42 n.

[102] Diviso a metà, come san Martino il suo mantello, e non riservando alle elemosine solo il dieci per cento, come si faceva ordinariamente. Anche la frase seguente è pietisticamente allusiva all’evangelico «date e vi sarà dato».

[103] Quanto spesso, quante volte ti sei.

[104] Punizioni, castighi. È l’ira lodata nelle Esposizioni, VIII litt. 48 ss.

[105] «Soggetto grammaticale del verbo preposto, qui neutro (invariabile) nonostante l’accordo del participio (incontro mentale di egli è stato e sono state)» (Contini).

[106] Altra frase proprio del linguaggio di devozione.

[107] Uso fiorentino, popolare dell’o esclamativo: qui quasi eppure.

[108] Altro uso toscano di o per introdurre l’interrogazione dubitativa (cfr. più avanti 61; VII 3, 14 n.).

[109] Per simili forme stereotipate di riflessivo di «essere», con si ridondante, cfr. III 7, 47 e F. Brambilla Ageno, op. cit., p. 152.

[110] Avrebbe: l’imperfetto congiuntivo invece del condizionale era d’uso in proposizioni dipendenti potenziali o condizionali. Si vd. VI concl. 12. Si noti il bisticcio su «credere» spesso usato dal Boccaccio (per es. II 9, 14 e17; III 6, 20; VI 5, 14 e 15; VIII 7, 97 e 105) e già dantesco (Inf. XIII 25).

[111] Malandrini, facinorosi, assassini.

[112] Ogni volta che.

[113] Anche qui ritorna la formula consacrata nel Decalogo.

[114] Signorsì, senza dubbio. «Mai», in unione a «sì» o «no», funge da raffozativo: cfr. III 3, 36 n.: «Mai si’ che io le conosco»; IX 8, 20: «Rispose Biondello: Mai no; perché me ne domandi tu?»; e cfr. III 3, 24 n.

[115] Disgraziata, infelice, poveretta: aggettivo usatissimo dal Boccaccio (cfr. passim II 5, IV 7, V 7, VIII 7 ecc. e Filostrato, VIII 14).

[116] Come solo Dio vi potrebbe dire, cioè come solo Dio sa; cfr. Par. III 108.

[117] In fede mia («mia fé»): antica interiezione toscana su cui E.G. Parodi, Lingua e letteratura, a cura di G. Folena, Venezia 1957, p. 603; e G. Rohlfs, op. cit., col. 281.

[118] Contare: VI concl. 27 n.; sottinteso «-gli», come prima di «messigli avendo».

[119] Dopo un mese buono: cfr. E. De Felice, op. cit., pp. 267 ss.

[120] Secondo l’uso monetario carolingio la lira – che era moneta immaginaria, di conto – era divisa in venti soldi, il soldo in dodici denari (o piccoli, o ancora piccioli). Nel 1252, quando a Firenze si coniò il fiorino (su una faccia il giglio fiorentino, sull’altra San Giovanni), lira e fiorino stavano alla pari: ma poco dopo ebbe inizio la svalutazione della moneta spicciola, dei piccioli: sicché per un fiorino nel 1300 occorrevano soldi 46 ½, nel 1318 soldi 68, e così via. Cfr. per tutto A. Sapori, op. cit., pp. 316 ss.; C.M. Cipolla, Moneta e civiltà mediterranea, Venezia 1957, pp. 40 ss.

[121] Corrente «gliele» indeclinabile, composto dal dativo maschile gli e dell’indeclinabile le (in fiorentino moderno gliene): usato spesso anche isolato dal Boccaccio (cfr. per es. più avanti, 68)

[122] Di tutte le quali («di tutte» è apposizione di «delle quali»).

[123] Poiché la celebrazione della festa e quindi il riposto festivo cominciavano dal vespro del sabato (cfr. II concl. 5 ss; M. Barbi, Il sabato inglese dell’antichità, Pan 3 (1935), Ciappelletto spinge il suo zelo fino allo scrupolo di aver fatto lavorare il suo servo nell’ora immediatamente precedente il vespro (cioè la «nona»: cfr. Intr. 102 n.): in un’ora cioè che considerava già sacra per la vicinanza alla festività.

[124] Per il semplice «no», secondo l’uso trecentesco, vd. V 7, 25 e 30; Inf. XII 63; Par. IV 129 (o forse non reduplicato enfaticamente).

[125] Modo di disapprovare in tono bonario e confidenziale, quasi per confortare. Cfr. III 7, 93: «Va via, credi tu che io creda agli abbaiatori?».

[126] Finché: cfr. II 9, 74 n.; Inf. XXVI 80.

[127] Qualora egli li confessasse: gerundio con valore ipotetico.

[128] Volentieri, di buon grado: cfr. II 8, 35 n.; Inf. XIII 86; Purg. XI 134.

[129] In dipendenza da verba sentiendi «dovere» è, talvolta, pleonastico così scolorito da equivalere pressappoco a potere, come più avanti a 85. Cfr. F. Brambilla Ageno, op. cit., p. 433.

[130] Col solito senso di continuità (come nella stessa riga): continuava a piangere.

[131] Paraipotattico, come più sotto: cfr. Intr. 78 n. e I 1, 39 n.

[132] Cfr. 39 n.

[133] Maledissi, ingiuriai: cfr. IV concl. 14 n.

[134] Eppure.

[135] «Di valore attenuato, alla francese (dove douce mere significava “dolce mamma”, o semplicemente “mamma mia”)» (Contini): pargoleggiando.

[136] Stimandolo, ritenendolo.

[137] In punto, in pericolo.

[138] Il frate passa dal tu usato nella confessione, come da padre a figlio, al voi per rispetto a chi considera ormai «santissimo uomo». Cfr. S. Zini, op. cit.

[139] Siete contento.

[140] Convento: cioè nella chiesa o nel cimitero del nostro convento. Cfr. I 7, 13 n.: «a un suo luogo»; cfr. anche Trattatello I 87: «al luogo de’ frati minori in Ravenna».

[141] Senza dire che, senza contare che: cfr. I 2, 13 n; II 8, 70 n.

[142] L’estrema unzione è da mettere in relazione con «vegna» come secondo soggetto.

[143] Subito, senza indugio: cfr. II 7, 102; V 1, 65; VII concl. 8.

[144] Facilmente, comodamente: cfr. II 2, 33 n.; II 5, 71 n. ecc.

[145] Ciappelletto non era dunque ateo o scettico. Si noti la ripresa, frequente nel Decameron, del relativo con un dimostrativo (il quale… l’hanno).

[146] Del rimanente, del resto. Cfr. II 8, 70 n.

[147] Cioè adoperando i denari di lui stesso; cfr. VII 8, 22.

[148] La veglia funebre, cioè a cantare la notte i salmi d’uso attorno a un morto.

[149] Ebbe un colloquio, si accordò.

[150] Arguito. Desinenza del participio normale nel Decameron: cfr. III 6, 33; IV intr. 13.

[151] Un «dovere» pleonastico, con valore di accenno al futuro, dopo verbi indicanti speranza e aspettazione: cfr. F. Brambilla Ageno, op. cit., p. 436.

[152] Un altro uso di «dovere» pleonastico dopo verbi di «consigliare», «pregare»: cfr. F. Brambilla Ageno, op. cit., pp. 442 ss.

[153] Coi camici e coi piviali (esisteva la forma «camiscio» accanto a «camice»); Sacchetti, CIV: «quando uno è portato alla fossa, … molti innanzi vanno in camicio cantando».

[154] Secondo le artes predicandi, il discorso è bipartito: le virtù di Ciappelletto e i vizi degli ascoltatori.

[155] Prendendo occasione, muovendo. E si noti prima il «futuro del passato» espresso dal condizionale semplice «dovesse» secondo un uso sintattico corrente nel Trecento che escludeva il «futuro del passato» dopo i verba credendi, sentiendi: cfr. F. Brambilla Ageno, Annotazioni sintattiche sul Decameron, StB 2 (1964), pp. 217-233.

[156] Cioè i santi, come «corte del cielo» in Dante (Inf. II 125; Par. X 70).

[157] Terminato, compiuto, come in II 3, 40 n.; II 9, 30 n. ecc.

[158] Si andò, tutti andarono. Il passivo impersonale di un intransitivo (alla latina) era d’uso: cfr. infatti Inf. XXVI 84 «Dove, per lui, perduto a morir gissi».

[159] Una scelta simile è anche nella II 1. Cfr. anche Guittone d’Arezzo, Lettere, a cura di F. Meriano, Bologna 1923, VIII 15.

[160] Successivamente, subito: Intr. 73 n. E per «arca» si vd. II 5, 71; VI 9, 10 n.

[161] Pregarlo (cfr. 41 n.).

[162] Far voti per ottenere una grazia: cfr. VII 6, 16 n.

[163] Sono gli ex voto. Cfr. VII 3, 37. Per questa costruzione del complemento di materia (Par. XVI 110: «le palle de l’oro»), che nel Boccaccio e nel Decameron si alterna all’altra con preposizione semplice (cfr. anche qui, subito prima, «arca di marmo»), cfr. B. Migliorini, Saggi linguistici, Firenze 1957, pp. 156 ss.

[164] E tanto.

[165] Sempre, spesso. Cfr. II 3, 20 n.; VIII 9, 4.

[166] «Qui, con la forma solenne della chiusa delle sacre leggende, riappare il suo nome col soprannome della terra» (Zingarelli). A parte che, naturalmente, il nome di Ciapparello non appare in alcun elenco di santi, va ricordato che nel Trecento la canonizzazione non era ancora riservata alla Curia pontificia, né richiedeva il rigoroso processo d’oggi.

[167] Questo pronome è pleonastico, ma giova all’evidenza: cfr. Mussafia, pp. 452-453; e 79.

[168] In punto di morte.

[169] Cfr. Purg. III 121 ss., V 100 ss.

[170] Così più che alle figure di Manfredi e di Bonconte (evocate nella nota precedente) quella di Ciapparello si assimila a quella dannata di Guido da Montefeltro (Inf. XIX).

[171] Intercessore, intermediario (cfr. I 6, 9 n.).

[172] Come abbiamo già rilevato, nel finale è ripreso il concetto accennato a par. 4-5 nn. ed è sviluppato il mea dello ‘stravolgimento’ (15 n.). L’empio e il bestemmiatore, che anche negli estremi suoi momenti aveva voluto sfidare Dio con un sacrilegio e beffare un suo candido e «santo» ministro, suscita invece col suo stesso sacrilegio una vasta ondata di entusiasmo religioso, gradita a Dio e da Dio sollecitatrice di grazie e di miracoli. Tra il falsario apparentemente vincitore e Dio e i suoi devoti apparentemente ingannati, sono in definitiva questi ultimi ad ottenere successo e vittoria, mentre egli è punito per aver voluto ingannare (nell’ep. IV di Dante prima del passo citato a par. 5: «… ut inde digna supplicia impius declinare arbitratur, inde in ea gravius precipitaretur»).

[173] Cioè durante la peste.

[174] È l’unico caso in tutto il Decameron in cui alla fine della novella riappaia, in qualche modo, il narratore. A proposito del tema della novella, si tengano presenti le polemiche del tempo contro coloro che veneravano i defunti prima dell’autorizzazione della Chiesa (cfr. per es.: Salimbene, Cronaca, pp. 733 s., 864 ss.; Sacchetti, Lettere, pp. 101 ss.).

Il “mal de vivre” nel Medioevo

di G. Minois, Histoire du mal de vivre. De la mélancolie à la dépression, Paris, Éditions de La Martinière, 2003; trad. it. di M. Carbone, Storia del mal di vivere. Dalla malinconia alla depressione, Ed. Dedalo (2005), pp. 36-41.

 

Nascita dell’accidia negli ambienti eremitici

 

[…] L’asceta, indebolito dalle privazioni, sfinito dal sole a picco, cade nel più completo stato di abbattimento; viene colto dal disgusto, dalla nausea; tutto gli sembra immobile, persino l’implacabile sole che sembra fermarsi; la sua mente inizia a divagare; egli è assalito dalle visioni e attende la morte come una liberazione. Questa immensa tristezza e il languore provato dal solitario si accompagnano ad una noia profonda, nel senso di inodiare (avere in odio): collera contro questo luogo, contro la decisione di esservici recato, contro coloro che hanno scelto l’esistenza stessa. «Alla fine, scrive Sant’Evagrio, [l’accidioso] scivola in un sonno profondo, poiché la fame risveglia la sua anima e la fa sprofondare nuovamente nelle sue ossessioni». Le tentazioni infatti si moltiplicano, in particolare i pensieri erotici. Secondo un suo discepolo, Sant’Evagrio aveva preso la via del deserto per sfuggire alla seduzione di una donna. Poco prima di morire, il santo stesso ammette che il desiderio carnale lo aveva abbandonato solo da poco. È evidente che dietro questo languore si celi il demone di mezzogiorno, che colpisce fra le dieci del mattino e le due del pomeriggio. Questo “diavolo meridiano”, come viene anche chiamato, tenta di esasperare il cenobita, approfittando della sua debolezza fisica, per ispirargli il disgusto della sua condizione. Sant’Evagrio Pontico stesso avrebbe sperimentato la visita del demone di mezzogiorno in un’allucinazione: «Tre diavoli un giorno gli andarono incontro sotto forma di ministri della Chiesa nel calore di mezzogiorno, e si conciarono in modo da non farsi riconoscere»[1], narra una versione copta della Vie d’Évagre. Altri testi lo descrivono con una precisione clinica: «Alla terza ora, il diavolo dell’accidia ci dà i brividi, il mal di testa e persino dolori alle viscere […]. Quando è in preghiera, il diavolo lo fa ancora scivolare nel sonno e lacera ogni versetto con sbadigli intempestivi»[2]. Paul Bourget nel 1914 e Jean Guitton nel 1955 forniranno una versione laica del diavolo di mezzogiorno, assimilandolo all’insorgenza delle pulsioni sessuali nell’uomo che, entrando nell’autunno della vita, cerca di dar fuoco alle ultime micce mentre è contemporaneamente assalito da tendenze depressive[3].

Gerusalemme, Biblioteca del Patriarcato Armeno, Ms. 285 (1430 ca.), Historia Monachorum in Aegypte. Sant’Evagrio Pontico.

Nel V secolo un altro cenobita egiziano, San Nilo, fornisce una descrizione pittoresco del monaco colpito da acedia, in cui ritroviamo i sintomi menzionati da Sant’Evagrio:

 

Il malato ossessionato dall’accidia tiene gli occhi fissi sulla finestra e la sua immaginazione crea per lui un visitatore fittizio; al minimo cigolio della porta egli scatta in piedi; al rumore di una voce corre a guardare della finestra; ma, invece di scendere in strada, torna a sedersi al suo posto, intorpidito e come colto da stupore. Quando legge viene interrotto dall’inquietudine e scivola quasi subito nel sonno; si strofina il viso con due mani, si stira le dita e, trascurando il suo libro, fissa gli occhi sulla parete; quando li riporta sul libro percorre poche righe, farfugliando la fine di ogni parola che legge; allo stesso tempo si riempie la testa di calcoli oziosi, conta le pagine e i fogli dei quaderni, finisce per richiudere il libro per farne un poggiatesta; cade quindi in un sonno breve e leggero, da cui trae una sensazione di privazione e di fame imperiosa[4].

 

 

Giovanni Crisostomo. Bassorilievo, steatite, XI sec. Paris, Musée du Louvre.

 

Lo studio dell’accidia monastica, tuttavia, resta legato soprattutto al nome di San Giovanni Cassiano (365-435). Dopo aver trascorso lunghi anni nel deserto egiziano, dove incontra le celebrità della solitudine, Cassiano viaggia in Oriente; viene ordinato diacono da San Giovanni Crisostomo, si stabilisce a Marsiglia dal 410 al 435 dove fonda due monasteri, fra cui quello di Saint-Victor; redige tre opere, fra cui le De institutis coenobiorum (418), in cui descrive l’organizzazione della vita monastica. In quest’opera egli enumera la lista degli otto vizi che minacciano i monaci: la golosità, la fornicazione, l’avarizia, la collera, la tristezza, l’accidia, la vanagloria e l’orgoglio[5], e accosta l’accidia al taedium vitae pagano.
Egli non la considera una malattia fisica legata alla bile, come la malinconia, ma un peccato ispirato dal diavolo, che riguarda anzitutto il disgusto per i beni spirituali. Ma se togliamo il contesto cristiano, l’accidioso assomiglia molto al depresso: ecco infatti come Cassiano descrive l’azione del demone dell’accidia:

Non appena questo male si è insinuato nell’animo del monaco vi produce l’avversione per il luogo, il fastidio per la cella e perfino la disconoscenza e il disprezzo per i fratelli che vivono presso di lui o lontani da lui, come se fossero dei negligenti e delle persone poco spirituali. Lo rende inoperoso e inerte di fronte a tutti i lavori da eseguire dentro le pareti della sua cella, e non gli consente di risiedere nella cella e di attendere alla lettura. Egli si lamenta assai di frequente di non aver conseguito alcun profitto; deplora e si rammarica di non ricavar alcun frutto finché rimarrà legato a quella comunità. S’affligge di trovarsi, in quel posto, del tutto privo di ogni profitto spirituale, proprio lui che, pur potendo reggere gli altri e giovare a molti, non è stato in grado di edificare nessuno e neppure di guadagnare qualcuno attraverso la sua condotta e la sua personale dottrina. Egli esalta i monasteri posti in regioni lontane e, in più, configura quei luoghi come maggiormente vantaggiosi al progresso dello spirito e più efficaci per la salvezza; egli dipinge pure le comunità dei fratelli che vi dimorano come viventi in piena cordialità e tutte introdotte in una convivenza spirituale. Al contrario, tutto ciò che gli viene per le mani gli diviene gravoso, e non solo non trova nessun lato di edificazione nei fratelli che vivono in quel luogo, ma va dicendo che neppure si può avere il vitto sufficiente per sopravvivere, senza una dura fatica. Infine egli finisce per persuadersi di non potersi salvare, restando in quel luogo, a meno che, abbandonata quella cella, con la quale, rimanendovi ancora, sarebbe destinato a perire, egli non si decide a liberarsene quanto prima. In seguito, le ore 11 e quelle del mezzogiorno producono in lui una spossatezza fisica e un’esigenza di cibo così intensa da procurargli la sensazione di essere ridotto allo stremo e alla stanchezza provocata da un lungo viaggio o da una gravissima fatica o come se egli avesse differito il momento di prendere cibo per un digiuno durato per due o tre giorni. In quello stato egli si mette allora a guardare tutto ansioso qua e là, deplorando che nessuno dei fratelli venga a fargli visita, e così più esce dalla cella e vi rientra, e osserva frequentemente il sole, come se quello volgesse al tramonto troppo lentamente. E in realtà egli si sente sorpreso, senza rendersene ragione, da certa quale confusione di mente, come avvolto da tetra caligine, divenuto ormai apatico e negato ad ogni attività dello spirito[6].

Se questa passione, in momenti alterni e coi suoi attacchi d’ogni giorno, variamente distribuiti secondo circostanze impreviste e diverse, riuscirà a prendere il dominio della nostra anima, ci separerà un po’ alla volta dalla visione della contemplazione divina fino a deprimere interamente la stessa anima dopo averla distolta da tutta la sua condizione di purezza. […] Questo vizio impedisce di essere tranquilli e miti con i propri fratelli e rende impazienti ed aspri di fronte a tutti gli uffici dovuti ai vari lavori e alla fede. Perduta così ogni facoltà di buone decisioni e compromessa la stabilità dell’anima, quella punizione rende il monaco come disorientato ed ebbro, lo infiacchisce e lo affonda in una penosa disperazione[7].

 

A volte questa disperazione porta al suicidio: «Esiste anche un altro genere di tristezza, più detestabile, che non porta il colpevole a redimere la propria vita o a correggere i vizi, ma ad una disperazione mortale: tale tristezza ha impedito a Caino di pentirsi dopo l’assassinio di suo fratello e ha spinto Giuda, dopo il tradimento, ad impiccarsi per disperazione, invece che a riparare al danno causato»[8]. La causa può essere la collera, una speranza delusa, una frustrazione, o ancora l’azione del diavolo: «La malizia del Nemico ci opprime repentinamente con un’afflizione tale per cui non riusciamo nemmeno a ricevere, con la nostra affabilità naturale, le persone che ci sono care o che dobbiamo incontrare»[9].

Il rimedio esiste ed è il lavoro, ma senza eccessi, poiché anche in questo caso il diavolo è in agguato! Cassiano ha conosciuto un monaco che si dedicava anima e corpo ai lavori manuali: non smetteva mai di costruire case, con un etiope (vale a dire con un’immagine del diavolo) «che dava con lui colpi di martello, poi lo spingeva a continuare questo lavoro forsennato […]. Il fratello, spossato dalla fatica, voleva riposare, mettere fine al lavoro. Ma lo spirito maligno lo incitava e lo animava»[10].

Dijon, Bibliothèque Municipale. Ms. 170, Morales sur Job de Cîteaux (1109-1111), f. 59v. Due monaci tagliano la legna, raffigurati in una Q.

L’accidia: la depressione dei monaci

Alla fine del IV secolo l’accidia è talmente diffusa che il poeta Ausonio descrive il monaco tipico come un «Bellerofonte triste, indigente, che abita luoghi deserti, che vaga taciturno […] fuori di sé»[11]. Il mondo laico, ritornato ad una certa barbarie, è all’epoca troppo occupato da questioni vitali di sopravvivenza per preoccuparsi dell’introspezione. Ma diverse ragioni contribuiscono a rendere i monasteri veri e propri focolari di accidia: un genere di vita che favorisce un costante ritorno a se stessi, la presenza minacciosa dei demoni e la paura dell’inferno. L’ossessione per l’aldilà, la negazione al proprio corpo della minima soddisfazione dei suoi bisogni naturali e il pesante senso di colpa, portano i monaci dell’Alto Medioevo a cadere facilmente nella trappola del mal di vivere, già considerato come una colpa morale o della tristitia, la cattiva tristezza.

La distinzione fra accidia e tristezza sembra allora molto labile, se non puramente formale, come testimoniano le opere di un monaco divenuto papa alla fine del VI secolo, Gregorio Magno. Egli, con il suo temperamento malinconico, inquieto, forse persino paranoico[12], affetto da dolori gastrici […] si è naturalmente interessato al mal di vivere e ha dedicato una grossa opera, i Moralia, a Giobbe. La tristezza, che egli conosce palesemente bene e che include nella sua lista personale dei sette vizi, è a suo parere un male di origine spirituale. Egli afferma che dalla tristezza derivano la disperazione, la pusillanimità, il torpore nei confronti dei doveri, la debolezza di fronte alle tentazioni, il rancore, la malizia, la pesantezza del cuore, il languore, il taedium. Scrive Bernard Forthomme: «La figura del Cristianesimo cupo e contagioso […] prende forse da qui la sua origine nascosta»[13].

Sono numerosi gli autori spirituali di quest’epoca oscura che si sono accostati alla tristezza e all’accidia, pur senza assimilarle completamente. Già Sant’Evagrio riteneva che la tristezza rappresentasse un terreno favorevole all’accidia; nel V secolo, l’anonimo Vie de Synclétique afferma che il diavolo è responsabile di una tristezza assolutamente irragionevole che alcuni hanno denominato accidia; nell’VIII secolo Teodolfo d’Orléans utilizzerà l’espressione «accidia oppure tristezza» e Alcuino parlerà di tedio del cuore.

Tristezza senza causa apparente, languore e disgusto, l’accidia si manifesta allo stesso tempo con una propensione alla dispersività, alla distrazione superficiale e persino al riso, che non è meno pericoloso della tristezza, secondo le regole monastiche e gli scritti spirituali[14]. «Scoppiare a ridere e essere scossi dai singulti non fa parte dell’animo tranquillo», scrive San Basilio nelle sue Grandi Regole. Nella Vita di Eutimio, padre del deserto nel IV-V secolo, un vecchio monaco riprende un compagno che è scoppiato a ridere: «Il demonio, fratello, si è preso gioco di te. Il tuo riso non ha senso né ragione. Sappi dunque che spettegolare o ridere fuori luogo è follia per un monaco». […]

 

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Note:

 

[1] Cit. da B. Forthomme, De l’acédie monastique à l’anxio-dépression. Histoire philosophique de la transformation d’un vice en pathologie, Le Plessis-Robinson, Sanofi-Synthélabo, Paris 2000, p. 528.

[2] Apophtegmes e Scala paradisi, in B. Forthomme, op. cit., p. 582.

[3] P. Bourget, Le démon de midi, Plon-Nourrit et C.ie, Paris 1914; trad. it., Il demone meridiano, Salani, Firenze 1956; J. Guitton, L’Amour humain; suivi de deux essais sur les relations de famille et sur le demon de midi, Aubier, Paris 1955; trad. it., Saggio sull’amore umano, Morcelliana, Brescia 1974.

[4] San Nilo, De octo spiritibus malitiae, cap. 14.

[5] Giovanni Cassiano, Le istituzioni cenobitiche, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia, Bresseo di Teolo (PD) 1989, libro V, p. 141.

[6] Giovanni Cassiano, Le istituzioni, cit., X, 2, pp. 247-248.

[7] Giovanni Cassiano, Le istituzioni, cit., IX, p. 240.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] Id., Collationes, IX, 6.

[11] Ausonio, Epistula 22, 70, in Epistole, Il Cardo, Venezia 1995, p. 52.

[12] B. Forthomme, De l’acédie…, cit., p. 449.

[13] Ivi, p. 456.

[14] G. Minois, Histoire du rire et de la dérision, Fayard, Paris 2000, pp. 95-134; trad. it., Storia del riso e della derisione, Dedalo, Bari 2004.

Cantico di Frate Sole

di G. Ferroni – A. Cortellessa – I. Pantani – S. Tatti, Storia e testi della letteratura italiana. Dalle origini al 1300, Milano 2002, pp.171-175. [cfr. G. Contini, Poeti del Duecento (a cura di), Milano-Napoli 1960, vol. I].

Giotto di Bondone, Predica agli uccelli. Affresco, 1295-1299 ca. Assisi, Basilica Superiore.

 

Il titolo Cantico di frate Sole (Canticum fratris Solis) è attestato dalla più antica vita di san Francesco, attribuita al suo discepolo frate Leone, la Legenda antiqua o Speculum perfectionis, che racconta che esso sarebbe stato composto dal santo due anni prima della morte, nella chiesetta di San Damiano, nel 1225, presso Assisi, dopo una notte di sofferenze e di patimenti, al termine della quale Francesco avrebbe avuto una visione di Dio che gli prometteva la beatitudine eterna: la Legenda motiva il titolo con il proposito di mostrare che «sol est pulchrior aliis creaturis, et magis potest assimilari Deo» (“il sole è più bello di tutte le altre creature e più di tutte può assimilarsi a Dio”). Sia questo titolo sia l’altro con cui questo primo testo della tradizione poetica italiana è stato presto designato (Laudes creaturarum o Cantico delle creature) mostrano il suo legame con varie espressioni della poesia religiosa, e in particolare con la poesia della Bibbia, specie con i salmi dedicati alle lodi (laudes) di Dio, dove variamente è ripetuto l’imperativo Laudate (essi erano molto usati nella liturgia della Chiesa). Notevole la consonanza (indicata già da uno dei primi biografi di san Francesco, Tommaso da Celano) con il Cantico dei tre giovani alla fornace contenuto nel Libro di Daniele (3, 51-89), basato su versetti a coppia di lodi a Dio, il primo introdotto dall’imperativo Benedicite e indirizzato volta per volta alle diverse forme del creato, il secondo costituito dalla ripetizione costante di una stessa formula di lode (per esempio: «Benedicite, sol et luna, Domino,/laudate et superexaltate eum in saecula./Benedicite, stellae caeli, Domino,/laudate et superexaltate eum in saecula./Benedicite, omnis imber et ros, Domino,/laudate et superexaltate eum in saecula…»). D’altra parte san Francesco aveva già composto varie preghiere in latino, proprio sul modello dei cantici biblici, tra cui la Exhortatio ad laudem Dei e le Laudes ad omnes horas dicendae, basate proprio sulla ripetizione di formule come laudate, laudemus ecc.
Il manoscritto riconosciuto come il più antico è conservato nella Biblioteca comunale di Assisi (con il numero 338): esso ha una forma linguistica umbra, ma di tipo moderato (come mostra l’oscillazione tra le desinenze più arcaiche di tipo umbro in –u e quelle più «toscane» in –o, esplicitata tra il v.8, «Et ellu è bellu», e il v.19, «ed ello è bello») con la presenza di molte forme colte latineggianti. Il testo che presentiamo si basa sul manoscritto di Assisi: ma alcuni studiosi pensano che quest’ultimo non rappresenti la forma originaria del Cantico, ma una sua trascrizione in zona umbra, e preferiscono dare al testo una forma linguistica più vicina al toscano. I vari editori discordano anche sul raggruppamento dei versetti in lasse diverse e sulla punteggiatura: e in passato qualcuno ha anche tentato di ridurre i versetti stessi a misure metriche regolari. Ma appare evidente che non si tratta di versi regolari, ma di versetti prosastici, sul modello del latino biblico dei salmi, quasi uguali tra loro per estensione, messi in rapporto dal forte effetto di ripetizione, da alcune rime e soprattutto da molte assonanze, con delle cadenze in chiusura di frase che sono quelle tipiche del cursus musicale (come mostra il manoscritto di Assisi, che nella parte iniziale è disposto in modo da dar spazio alle note musicali).
La composizione, oscillando fra la preghiera ed il canto di lode, si presenta con una sua originalità e coerenza che non viene intaccata da certe ipotesi (prive però di ogni fondamento) che fanno riferimento ad una sua stesura in più tempi: secondo questa ipotesi i versi del perdono (vv.23-24) e quelli della morte (vv.27-31) sarebbero aggiunte più tarde (e gli ultimi sarebbero stati composti dal santo poco prima della morte).

 

Altissimu, onnipotente bon Signore,
tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.

Ad te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.

Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,
spetialmente messor lo frate sole,
lo qual’è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de te, Altissimo, porta significatione.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le tue creature dài sustentamento.

Laudato si’, mi’ Signore, per sor’acqua.
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.

Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore
et sostengo infirmitate et tribulatione.

Beati quelli ke ‘l sosterrano in pace,
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a•cquelli ke morrano ne le peccata mortali;

beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ‘l farrà male.

Laudate et benedicte mi’ Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.

 

Assisi, Biblioteca del Sacro Convento. Ms. Assis. 338, Canticum fratris Solis (XIII sec.), f. 33r.

 

Si tratta, nel complesso, di un invito ad innalzare una lode a Dio, attraverso le sue creature. Si comincia con una dichiarazione di umiltà: nessun uomo è degno di nominare il nome di Dio e quindi neanche di lodarlo. Quindi si avvia la serie dei gloria a Dio: ma per l’interpretazione del tema della lode (e quindi di tutto il componimento) è essenziale la spiegazione della preposizione per, che introduce i nomi delle creature che accompagnano la lode di Dio («Laudato si’, mi’ Signore, per …», salvo la prima volta, al v. 5, «Laudato sie, mi’Signore, cum tucte le tue creature»). Queste le interpretazioni principali: per con valore causale (lodato a causa delle creature, in ragione delle loro qualità), per con valore strumentale (lodato dall’uomo per mezzo delle creature), per con valore d’agente (lodato dalle creature), per con valore mediale (attraverso le creature).
Secondo G. Pozzi il Cantico si inserisce in una vera e propria «teologia della lode», per cui, come dichiarano appunto i versi iniziali, solo di Dio sono le stessi lodi, solo Dio è nello stesso tempo destinatario e autore della lode: il creato e l’uomo stesso non sono altro che il tramite, la via attraverso la quale la lode percorre l’universo, partendo da Dio e tornando a Dio. Ciò spiegherebbe tra l’altro l’uso della forma passiva (Laudato si’), che fa del Signore allo stesso tempo il soggetto che riceve la lode e l’agente della lode stessa: e condurrebbe in definitiva a dare a per un valore strumentale (la lode di Dio si afferma per mezzo delle creature) o mediale (essa si svolge attraverso le creature). Molto precisa e ordinata è l’elencazione delle diverse creature che partecipano alla lode divina; prima il firmamento, sole, luna e stelle; poi quattro elementi dell’antica filosofia, aria, acqua, fuoco, terra; quindi gli uomini che in nome di Dio sono capaci di perdonare e sanno soffrire con pazienza; e infine la morte del corpo, da non temere, mentre va temuta solo quella dell’anima, frutto del peccato mortale e ingresso nella dannazione eterna. L’insieme mostrerebbe, secondo Pozzi, una sottile disposizione numerica: «3 elementi celesti, 4 sublunari, 2 antropologici», che, sommati, danno luogo al numero 9, a cui la cultura medievale attribuisce un valore essenziale, collegandolo tra l’altro alla Trinità (risultato di 3×3). La conclusione è segnata dal tema dell’umiltà, essenziale in tutta l’azione e la predicazione di san Francesco.
Dominato da una forte carica emotiva, il linguaggio intenso e «umile» del Cantico evoca l’intera creazione per rendere testimonianza dell’infinita misericordia di Dio; tutta la bellezza del creato e anche ciò che può apparire male (la morte) sono strumenti di realizzazione dell’infinito Amore, verso cui Francesco mostra la sua gratitudine: ma la carica emotiva si regge su una sapiente scelta delle immagini e degli aggettivi, che accompagnano i nomi delle diverse creature. La scelta del volgare dà voce ad un rapporto più diretto, «umile» e fraterno (si noti l’uso dei termini frate e sora) con le forme della natura: e, secondo alcuni critici, si lega anche ad un esplicito obiettivo polemico, quello di esaltare la bontà del creato e di ricordare la minaccia della dannazione eterna contro le posizioni di quegli eretici (in primo luogo i Catari), che affermavano la natura «cattiva» e diabolica del mondo fisico e la bontà della sola realtà spirituale e oltremondana (negando tra l’altro l’esistenza dell’inferno) e la resurrezione dei corpi.

Paolo Diacono

di L. Capo, s.v. PAOLO Diacono, DBI 81 (2014).

 

 

Paolo Diacono. – La vita di Paolo è nota solo per tappe essenziali, senza tempi e nessi certi: pochi dati, presenti nelle sue opere e nel suo epitaffio, scritto dall’allievo Ilderico a Cassino (ed. D. LVI, N. XXXVI), sulla cui autenticità sono stati avanzati dubbi, ma non stringenti.

Paolo nacque a Cividale tra il 720 e il 730, da una famiglia longobarda che Ilderico (vv. 9-13) e lui stesso dicono nobile: il termine nobile indica uno status fluido, legato a un prestigio familiare di lunga data e a un buon livello economico, che Paolo, nel carme Verba tui famuli (D. X, N. XI), con cui chiede a Carlo Magno la liberazione del fratello Arechi, prigioniero in Francia dopo la rivolta del duca Rotgaudo del Friuli, considera «venuto meno» (v. 21) con l’esilio e la conseguente povertà. Nella Historia Langobardorum (HL), IV 37, egli traccia la propria genealogia: Leupchis, giunto in Italia con Alboino (568/569), Lopichis, Arechi e Warnefrit, che da Teodolinda ebbe Arechi e Paolo (e una figlia). Il numero delle generazioni è forse difettoso (Cammarosano, 1993), ma la saga su Lopichis prova l’importanza e la vitalità di una tradizione orale familiare di tipo storico, portatrice di valori morali e sociali caratterizzanti.

Il periodo friulano non durò forse molto, ma in esso Paolo compì studi di rilievo: nel carme Sensi cuius (D. XII, N. XIII) ammette, pur dicendo di non ricordarne più niente, di aver appreso qualcosa di greco e di ebraico in scolis, da puerulus, e dà la traduzione latina di un carme dell’Antologia Palatina (anche se non c’è traccia nella sua opera di conoscenze letterarie greche). Questi studi infantili devono essere stati condotti a Cividale, in vista di una carriera ecclesiastica o piuttosto di attività legate ai rapporti dell’area con il mondo greco e orientale. Niente prova un legame diretto con l’allora patriarca di Aquileia, Callisto, citato senza calore in HL VI 45 e 51, e nemmeno con il duca Pemmo e il figlio Ratchis, di cui Paolo parla bene, ma non in modo che suggerisca una sua appartenenza alla loro corte.

Presto – così Ilderico – sarebbe stato accolto nel palazzo regio per esservi allevato, e lì, in un secondo tempo sarebbe stato indirizzato allo studio della sacra sophia da re Ratchis (744-749): quindi i suoi studi e la sua personale carriera non erano fin dall’inizio volti alla Chiesa. A Pavia, che conosce benissimo, e alla corte regia, dove lui stesso dice di essere stato (HL II 28), Paolo ricevette la piena formazione: qui sviluppò le due valenze che si intravedono nel poco che sappiamo della sua infanzia: la memoria longobarda e la scuola.

Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Plut. 65, 35, f. 34r. Ritratto di Paolo Diacono.

La corte regia era il luogo che più di ogni altro conservava e plasmava una tradizione storico-politica di gens che Paolo raccoglierà nell’HL; al tempo stesso i re avevano da subito riconosciuto l’utilità della collaborazione culturale che l’ambiente italico offriva, volgendola sia a costruire strutture di governo, sia a nutrire e manifestare una loro specifica visione politica, incentrata sulla funzione regia, espressione e guida della società, e su una consapevolezza di sé radicata nel passato longobardo. Tale impostazione aveva già prodotto una legge scritta per il Regno (l’Editto di Rotari, 643), che ne era insieme un grande frutto e un rafforzamento, e una cultura cristiana e politica, che era nella fase più creativa quando Paolo giunse a corte, verso la fine del regno di Liutprando (712-744). Egli ne fu segnato in profondità: tutta la sua opera si sviluppa su tale cultura, che aveva coniugato autocoscienza longobarda e scuola latina in una visione propositiva, in cui lo studio era strumento per dare voce e indirizzo al presente, nella sua doppia radice. È del resto ormai nota l’importanza dell’età longobarda e delle corte (soprattutto quelle di Pavia e di Benevento, ducato quasi autonomo) per la valorizzazione degli studi di matrice tardoantica, che avevano più possibili sbocchi e un significato né elitario né classicista (Scivoletto, 1965; Capo, 1990; Villa, in Paolo Diacono… 2000 e Villa 2008).

A corte Paolo fu forse indirizzato a una carriera civile, con una formazione anche giuridica: mostra di conoscere il Corpus iuris di Giustiniano (HL I 25), cita tutti gli interventi normativi dei re longobardi, ha consultato più di un ms. delle leggi. La sua preparazione teologica non pare invece profonda: nell’HL. le sue affermazioni dottrinarie sono piuttosto sfocate, e non solo nel caso difficile dello scisma dei Tre Capitoli, su cui le fonti potevano confonderlo, ma anche in quello del monotelismo (VI 4). Se questa debolezza non è da attribuire, come è possibile, a una svalutazione cosciente della dottrina, che Paolo espone (VI 4, IV 42) ma non sembra ritenere discriminante per la salvezza, la non piena consistenza della sua teologia confermerebbe quanto dice Ilderico, per il quale la sacra sophia fu solo una seconda tappa nella sua formazione.

Deve essere stato comunque presso la Chiesa pavese (non risulta un suo ritorno ad Aquileia) che Paolo divenne diacono, titolo che gli è sempre attribuito, lasciando poi questa strada per farsi monaco a Cassino (huc), secondo Ilderico, che parla di una scelta compiuta mentre la fama della sua dottrina illustrava le genti settentrionali e la gloria del secolo lo arricchiva (vv. 23-29): dunque prima della caduta del Regno (774), perché il mondo che gli rendeva onore è nel testo quello longobardo, e di Carlo e della conquista franca non c’è menzione.

La conversio è del resto anche l’ultimo avvenimento citato da Ilderico, che si concentra poi sulle virtù monastiche di Paolo, tali che, grazie ai suoi exempla – non si parla di scienza – la comunità sacra cominciò a risplendere (vv. 30-31). L’affermazione esplicita dell’epitaffio a favore di una vera vocazione non ha avuto successo negli studi, che hanno per lo più posto la monacazione di Paolo in rapporto con un evento politico: il ritiro a Cassino di Ratchis (749, o 757, quando fu costretto a rientrarvi dopo il secondo breve periodo regio, in lotta con Desiderio), oppure la caduta del Regno, semmai vedendovi un’imposizione di Carlo per un suo presunto coinvolgimento nella rivolta del 776. È possibile eliminare le datazioni al tempo di Ratchis, perché Paolo, in HL V 6 dice di aver visto (conspeximus) prima di questa la basilica di S. Giovanni a Monza amministrata da preti indegni: doveva dunque stare ancora in area pavese al tempo di Desiderio. La monacazione dopo il 774 è in non facile accordo con l’epitaffio e i dati che lo dicono in rapporto con i duchi di Benevento fin dal 763, e l’esilio imposto da Carlo si basa solo sulla lettura, non vincolante, che Karl Neff ha dato del carme Angustae vitae (D. V, N. VIII), in cui Paolo scrive a un pater, che pare avergli chiesto dei versi, che non è appropriato alla sua nuova condizione comporre carmi e inseguire le Muse, che non vogliono strettoie e chiusure: niente infatti impedisce che tali strettoie fossero proprio quello che egli allora voleva, messe da parte le Muse.

Dunque, l’indicazione dell’epitaffio resta nella sua genericità preferibile, pur se è vero che Ilderico, nella sua ottica monastica, potrebbe voler accentuare la libertà della scelta di Paolo, tacendo possibili pressioni esterne, quali che fossero; non c’è però nulla che contrasti con la sua presentazione negli scritti di Paolo, anzi la sua vocazione appare serena e costante (Costambeys, in Paolo Diacono…, 2000). Il ridotto spazio che ha Benedetto nella sua Historia Romana (HR, XVI 20 e 22)scritta prima del 774, non esclude che fosse già monaco (così Crivellucci, prefazione all’ed. 1914p. XXXV, n. 3), perché comunque il poco che dice è significativo; e le formule di umiltà con cui la dedica ad Adelperga (Paulus exiguus et supplex), le stesse che usa quando è certo monaco, se non provano che lo fosse allora, di sicuro non provano il contrario.

Il carme Angustae vitae ci dice comunque che Paolo prima di farsi monaco aveva scritto dei versi, e che qualcuno li aveva apprezzati. In realtà la sua opera poetica precedente l’incontro con Carlo è assai scarna: l’epitaffio di una giovane nipote, uno dei suoi testi migliori (D. IX, N. X), i versi sul lago di Como (D. IV, N. I), forse scritti quando si era già accostato alla sacra sophia; due carmi su s. Benedetto, poi inseriti in HL I 26 (oppure scritti proprio per l’HL, e quindi assai più tardi: Smolak, in Paolo Diacono…, 2000); infine alcuni testi prodotti per i duchi di Benevento, Arechi II e Adelperga, figlia di Desiderio, tra cui potrebbe essere anche l’epitaffio di Ansa, moglie del re (D. VIII, N. IX), forse non un vero epitaffio, ma piuttosto un elogio scritto quando la regina era in vita. I versi di Paolo giustificano l’apprezzamento dei contemporanei e dei posteri perché uniscono a una buona fattura tecnica un gusto lessicale sobrio e sicuro e una notevole limpidezza formale. Ma un giudizio solido sulla poesia di Paolo e sul suo posto nella produzione altomedievale è prematuro: si tratta infatti di uno dei campi in cui gli studi stanno dando risultati più interessanti (v. Mastandrea – Stella in Paolo Diacono…, 2000); il suo stesso corpus poetico potrebbe essere più ampio di quanto ammesso da Neff, e comprendere testi significativi come l’inno al Battista (D. LIV); i carmi alfabetici sui buoni e cattivi sacerdoti (D. LI e LII); i versi sui vescovi di Metz (D. XXV, N. V).

È possibile che siano state queste qualità di uomo di scuola e di buon versificatore a raccomandarlo alla corte di Arechi, nominato duca da Desiderio nel 758; che Arechi fosse friulano è spesso detto negli studi, ma non è dimostrabile: la successiva storiografia del sud lo considera beneventano, e Paolo, nell’epitaffio per lui, lo dice stirpe ducum regumque satus (D. XXXIII, N. XXXV, v. 7), forse collegandolo alla dinastia ducale di Grimoaldo, che era stato anche re.

La prima prova di tali rapporti è il carme sulla cronologia del mondo, datato al 763 (D. I, N. II), che si chiude con la preghiera che Dio accolga tra i beati Arechi e la moglie, stirpe nata regia, cioè figlia di re. A questo primo scritto, connesso con la storia universale, segue una vera opera storica, l’HR, dedicata sempre ad Adelperga, madre ormai di tre figli (non citati nel carme del 763), lettrice avida e interessata alla cultura, «a imitazione» del marito, «che, nella nostra età, solo quasi tra i principi, tiene la palma della sapienza» (dedica: pp. 3-4).

München,  Bayerische Staatsbibliothek. Clm 29471, 1 (IX sec.), Paolo Diacono, Homiliarius – Fragmentum.

A lei Paolo, «sempre fautore della sua istruzione (elegantia)», aveva fatto leggere il Breviarium di storia romana di Eutropio, ma la duchessa lo aveva giudicato troppo scarno e senza collegamenti con la storia sacra. Paolo dunque glielo ripresenta integrato con questi raccordi, ampliato con notizie da altre opere e proseguito, in sei libri, fino alla vittoria di Giustiniano sui Goti (553), con la promessa di portarlo al tempo presente se avesse trovato le fonti (Mortensen, in Paolo Diacono…, 2000).

L’HR ha meriti di chiarezza, equilibrio, visione storica che le hanno assicurato un notevole successo, e soprattutto nelle epoche di maggior cultura latina, come il XII e il XV secolo; ma ci guida pure alla comprensione culturale e politica dell’ambiente per cui fu scritta, perché documenta un interesse verso la storia romana senza polemica né contrapposizione: Paolo usa Orosio, che scrive «contro i pagani», e quindi anche contro la storia antica di Roma, ma lo spoglia proprio di questo carattere di contrasto; al tempo stesso modifica la prospettiva di Eutropio: aggiungendo alcune pagine di notizie preromane inquadra la stessa vicenda di Roma in una storia italiana, in cui i Longobardi si sarebbero potuti inserire con naturalezza grazie alla condivisione con gli italici del territorio e dei valori pubblici civili.

Questo atteggiamento verso la storia romana non si conserva negli ultimi scritti di Paolo prima del suo viaggio in Francia, cioè nei versi per le costruzioni di Arechi a Salerno (palazzo e chiesa): una commissione importante e realizzata in forme solenni. Il testo principale, in esametri, l’Aemula Romuleis (D. VI, N. I V1), mostra due tematiche, una positiva, che pone questi carmi in continuità con l’HR, e una negativa, che invece li differenzia: da un lato si espone, in termini affini ai testi liutprandei, il felice rapporto tra Arechi e il suo popolo, distinto dall’origine diversa, ma unito nella responsabilità e nella cura del principe, detto «gloria della gente latina e culmine dei Bardi». Dall’altro appare una contrapposizione dura e netta tra la Roma antica, con i suoi splendori pagani, frutto delle rapine compiute in tutto il mondo, e la Salerno di Arechi, edificata da un potere davvero cristiano e in modo onesto. La storia dei Longobardi radicati in Italia, cristiani e civili, si pone dunque non in continuità bensì in contrasto con quella romana, rifiutata per il paganesimo e ancor più per l’imperialismo. Questa polemica è certo in rapporto con il carattere anti-longobardo dell’ambiziosa politica dei papi e le sue conseguenze: la caduta del Regno e l’apertura dell’Italia alle mire imperialistiche di Carlo (come le stesse fonti franche sentono la dilatazione del loro Regno con i Pipinidi).

Dunque l’HR, prodotto di un contesto sereno, fu scritta entro il 774 (o il 771, quando Carlo ripudiò la sorella di Adelperga: in sostanza già una dichiarazione di guerra), tra il 766-767 e il 771-774; il carme tra 774 e 781-782, quando Paolo partì per la Francia e avviò una conoscenza di quel mondo che rese più articolate anche le sue idee sull’operato del re.

Questi dati indicano una presenza, plausibilmente continuativa, di Paolo al sud tra il 763 e il 781-782. La collaborazione con i duchi non esclude l’appartenenza a Cassino, perché non impone che egli vivesse a corte, ma solo che avesse dei rapporti con i duchi, coltivabili tramite visite occasionali o intermediari; e il numero di testi usati nell’HR potrebbe meglio spiegarsi con l’uso delle biblioteche sia dell’abbazia che della corte. Un periodo così lungo giustifica il ruolo fondamentale per Cassino che gli attribuisce l’epitaffio e sia in termini culturali gli riconoscono gli studiosi del cenobio, legando in buona misura al suo apporto e alla sua scuola il fatto che l’abbazia, ricostruita solo nella prima metà del secolo VIII su basi modeste, sia presto diventata uno dei maggiori centri della cultura monastica occidentale. La sua fama di maestro è del resto sicura: il vescovo di Napoli Stefano (766/67-799) invia chierici a studiare da lui (Paulo lęvitae) a Cassino (Gesta Episcoporum Neapolitanorum = GEN, 42, p. 425); e papa Adriano I in una lettera parla di «Paolo grammatico» (Codex Carolinus = CC, 89, p. 626, aa. 784-791).

Nel 781-782 la vita di Paolo ebbe una svolta: per ragioni non note, forse per una serie di circostanze favorevoli (l’abate era dal 778 un franco, Teudemaro; a Cassino, prima del 780, era stato per qualche tempo un cugino di Carlo, Adalardo, poi abate di Corbie, di cui Paolo fu amico; nell’aprile 781 il re era venuto in Italia, per regolare con il papa dei contenziosi territoriali, ma anche reclutare eruditi per la sua corte), Paolo decise di chiedere al re la grazia per il fratello, forse dopo un incontro di persona a Roma (Goffart, 1988, p. 341), e ottenne da Teudemaro il permesso di recarsi in Francia. Lì trovò ospitalità presso un abate – non ne fa il nome, ma ne ricorda i meriti nella lettera a Teudemaro (Pauli ep. 10) – e fece avere al re il già citato carme di supplica (Verba tui famuli), datato alla primavera 782. Il carme, poeticamente efficace, umile e dignitoso, in cui Paolo riconosce la giustizia della punizione e insieme, assumendosi – lui e tutta la famiglia – una responsabilità che non avevano, invita il re a una misericordia altrettanto giusta, ottenne il suo scopo (forse anche a favore di altri: all’abate egli parla dei «miei prigionieri», al plurale), ma con modalità e tempi non noti. La lettera a Teudemaro, del gennaio 783, mostra che la grazia non era ancora stata concessa e che Paolo, pur trattato benevolmente, si sentiva come in carcere al palazzo; ma già la presuppone lo scambio di versi con Carlo (Paule, sub umbroso Sic ego suscepi: D. XIII-XIV, N. XXI-XXII), scritto entro il 30 aprile 783, data di morte della regina Ildegarda, citata come vivente in un altro carme dello stesso momento (Cynthius occiduas: D. XVII, N. XVIII). In Francia egli fu spesso alla corte (itinerante) di Carlo, pur non vivendo al suo interno, in rapporto con i dotti che la frequentavano – in particolare con Pietro da Pisa, anche lui grammatico, maestro personale e portavoce in versi di Carlo (che cercava di imparare a leggere e scrivere il latino) – coinvolto in giochi letterari, come gli indovinelli in versi, e in un’atmosfera di entusiasmo e di convinzione di attuare una vera rinascita culturale con cui faticava a entrare in sintonia.

Wolfenbüttel, Herzog-August-Bibliothek. Cod. 45 M I 496 (XI sec.). Paolo Diacono, Historia Langobardorum, III 15-19.

Lo mostrano i primi due carmi scambiati con Pietro, cioè con Carlo (D. XI-XII, N. XII-XIII), scritti prima della grazia: Pietro esalta senza misura le capacità letterarie e la cultura di Paolo, chiedendogli di insegnare il greco ai chierici da inviare a Bisanzio con la figlia del re, promessa sposa all’imperatore. Paolo risponde con un carme (Sensi cuius) in cui, pur dicendo di capire benissimo da chi gli vengono i versi, respinge quasi con violenza le lodi, sentite come un’irrisione, proclama la propria ignoranza delle lingue, prende le distanze dai grandi autori dell’antichità cui era stato paragonato, che arriva ad assimilare a cani (perché, non cristiani, seguivano piste sbagliate), e afferma di ritenere le lettere solo un mezzo per guadagnarsi da vivere e di non avere altro da offrire al re che il suo amore. Il carme denuncia con chiarezza l’estraneità iniziale di Paolo rispetto al clima di corte, ma la gratitudine dovette aiutarlo ad abituarsi ai suoi riti e ancor più a capire qualcosa delle potenzialità della creazione politica di Carlo: di fatto Paolo, trattenuto in Francia dallo stesso favore del re, cominciò a collaborare ai suoi progetti, che erano culturali e non solo. Il cambiamento, graduale, ma chiaro, del suo giudizio sul re e la sua azione (Gandino, in Paolo Diacono e il Friuli…, 2001) significò per Paolo una pacificazione intima nei confronti della storia e una disposizione dello spirito utile per conoscere, sperimentare, imparare da un mondo diverso, così che il soggiorno in Francia finì per costituire per lui un notevole accrescimento umano e culturale, messo poi a frutto nell’HL.

Lì Paolo lesse e portò poi con sé a Cassino i Libri Historiarum (LH) di Gregorio di Tours, fondamento della sua conoscenza del VI secolo, nella rara versione integrale in dieci libri (Bourgain, 2004, p. 154); probabilmente lo stesso fece con l’Historia ecclesiastica gentis Anglorum (HEGA) di Beda, che sarà per l’HL fonte di notizie, modello compositivo e stimolo a riflettere sulle finalità della scrittura di una storia nazionale. Forse lesse anche la cronaca, di taglio politico e larghissimo orizzonte, del cosiddetto Fredegario, scritta in ambito burgundo a metà VII secolo: diversi tratti e vicende sono comuni alle due opere, ma le differenze sono troppo forti per pensare che Paolo l’avesse con sé mentre scriveva. Trovò a corte pure una copia della Naturalis Historia (NH) di Plinio il Vecchio più ampia di quella che aveva scrivendo l’HR (lì ne ricavò un solo, ma certo, passo: HR III 7, da NH VII 3, 35). Non solo Paolo nell’HL usa e cita Plinio (I 2), ma riempie con glosse tratte dalla NH il proprio ms. delle Etymologiae di Isidoro (Villa 1984). E molte note vi aggiunge dai glossari anglosassoni – in origine sussidi per la comprensione della Bibbia, diventati poi lessici bilingui a sé stanti (Lendinara, in Paolo Diacono…, 2000) – che dovette conoscere sempre a corte.

Dunque Paolo trovò in Francia testi utili per riprendere l’antico progetto di proseguire l’HR, ma anche ragioni e stimoli nuovi per ripensarlo. E in Francia fu coinvolto in una più intensa attività di scrittura, con molte richieste di lavori, in parte compiuti lì, in parte svolti o terminati dopo il suo ritorno a Cassino.

In primis gli epitaffi in versi: un genere tardoantico e cristiano, attestato in Burgundia fino alla prima metà del VII secolo e poi venuto meno in tutto l’ambito gallico; proseguito invece in Italia e anzi diventato per i re e l’aristocrazia uno strumento privilegiato di comunicazione ideologica, e per i pellegrini diretti a Roma, ormai numerosi, un oggetto di particolare interesse, come provano le loro raccolte di iscrizioni, datate a partire dall’VIII secolo (De Rubeis, in Paolo Diacono…, 2000). In Francia Paolo fu considerato lo specialista del genere. L’abate Apro di Poitiers, dove era andato a pregare, gli chiese un epitaffio per il vescovo e poeta Venanzio Fortunato, che Paolo poi copiò in HL II, 13 perché i concittadini del veneto Venanzio non ignorassero tutto de tanto viro; e soprattutto glieli chiese Carlo, per cinque donne della sua famiglia sepolte nell’oratorio di S. Arnolfo a Metz (D. XX-XXIV, N. XXIV-XXVIII), tra cui la moglie Ildegarda e due figlie molto piccole, per le quali Paolo riuscì a scrivere versi delicati. Il rapporto con il re era dunque diventato più stretto, e Carlo non solo stimava, ma sentiva vicino il suo ospite (e vero calore d’affetto mostrano i carmi che Carlo invierà a lui, o a lui e a Pietro dopo il loro rientro in Italia: D. XXXV-XXXVIII, N. XXXIII-XXXIV e XXXVIII).

Per uno degli uomini più autorevoli del Regno, Angilramno, vescovo di Metz e dal 784 capo della cappella palatina, Paolo scrisse nel 784 il Liber de episcopis Mettensibus Gesta episcoporum Mettensium, in parte modellato sul Liber Pontificalis (LP) papale, che Paolo aveva già usato nell’HR e che del resto era stato diffuso in Francia dai papi stessi, almeno da metà secolo VIII: l’interesse per il LP è in rapporto con la volontà di armonizzare la cultura ecclesiastica franca con quella romana che i Pipinidi mostrarono prestissimo, senza per questo arrivare mai a una accettazione totale e acritica, né in campo liturgico (Hen, in Paolo Diacono…, 2000), né in campo dottrinario.

Lo stesso Liber di Paolo è solo in piccola parte imitazione del modello romano, e ha forme e ragioni diverse, che riguardano l’idea di sé della Chiesa di Metz, apostolica e legata alla dinastia pipinide, e l’immagine pubblica della dinastia stessa. Di quest’ultima Paolo espone la genealogia, in cui si incontrano il piano della storia e quello della provvidenza, il tempo antichissimo e il futuro, grazie all’origine troiana e ai rapporti con la Chiesa di Metz (dati dalla figura chiave di Arnolfo, vescovo di Metz e capostipite della famiglia), e con la funzione regia, di cui i Pipinidi erano stati tutori e poi detentori benedetti da Dio. Le diverse interpretazioni proposte (Goffart, 1986; Sot, in Paolo Diacono…, 2000; Kempf, 2004) mostrano tutte l’importanza di questa operetta, di diffusione modesta (pochi testimoni, solo di ambito lorenese: Chiesa – Stella, 2005, pp. 495 s.), ma pensata per dotare Chiesa e dinastia di una lettura del passato unitaria, funzionale al presente e al futuro. Per un progetto così ambizioso Angilramno ricorse a Paolo – che doveva conoscere di persona (dal Liber Paolo risulta essere stato a Metz, forse dopo la morte di Ildegarda) – plausibilmente contando che i suoi meriti letterari e la sua estraneità all’ambiente garantissero una esecuzione fedele ed efficace; da parte sua Paolo ha sottolineato il suo ruolo di letterato inserendo nel Liber gli epitaffi che aveva composto per il re. Ma ha anche espresso un’idea propria – pur se certo non in contrasto con il committente – e cioè che Carlo, conquistando il Regno Longobardo, ne avesse rilevato pure il progetto politico: l’unificazione dell’Italia e la «responsabilità nei confronti dei Romani, incubo dei papi dell’VIII secolo» (Gandino, 2008, p. 377). In effetti nel Liber la grandezza politica di Roma è tutta al passato, e con la vittoria del 774 Carlo ha posto sotto di sé sia il Regno sia Roma; concetti riaffermati in HL, II, 16 (Roma olim totius mundi caput)e nella dedica al re dell’Epitome di Festo (Pauli ep. 11civitatis vestrae Romuleae). Sul piano politico i papi non esistono: Paolo ne ignora le pretese territoriali, non cita mai i loro interventi in ambito urbano, che sono anche un’espressione di potere e riempiono le pagine del LP (unica eccezione il lastricato dell’atrio di S. Pietro, opera di papa Dono, che ricorda a V 31, aggiungendo al LP la nota che i marmi erano candidi: plausibile indizio del fatto che almeno una volta a Roma c’è stato), e soprattutto allude ai papi che si erano impegnati a produrre la rovina del Regno Longobardo e insieme il proprio dominio temporale, denunciandoli, in maniera indiretta ma chiarissima, come non innocenti, non timorati di Dio, colpevoli di essersi «immischiati nella morte» di cristiani (HL IV 29). Dunque il Liber è per Paolo anche lo stimolo a una riflessione sulla fine del Regno e l’intervento di Carlo in Italia: diversa, ma non in tutto, rispetto a quella sottesa al carme Aemula Romuleis.

Al periodo franco possono risalire altre opere, non datate, come l’Expositio Artis Donati, plausibilmente scritta in Francia perché usa grammatiche insulari (Law, 1994), e nota da un unico ms. di Lorsch: Paolo però ne aveva un esemplare con sé, perché la utilizzerà Ilderico per la sua Ars grammatica, in cui figura anche la suddivisione dell’oratio in sette parti presente in una delle glosse paoline a Isidoro (Dell’Omo, 2004). Sembra di questi anni pure la copia, parzialmente rivista, della raccolta di cinquantaquattro lettere di Gregorio Magno, detta Collectio Pauli (P), ma non composta da lui, che ne ha solo curato una trascrizione per Adalardo di Corbie: anzi, la collezione era certo presente in ambito franco, perché Paolo invita l’amico a confrontare i passi corrotti con un esemplare migliore «se ne avrà l’occasione» (cosa che poi Adalardo farà: Dobiaš-Roždestvensky, 1930, pp. 138 s., che identifica con quello di Paolo il ms. Sankt-Peterburg, Publičnaja Biblioteka F. v. I. 7, fine secolo VIII, da Corbie; più incerta è l’autografia delle prime dodici righe della lettera e di alcune correzioni al testo: Hoffmann, 2001, pp. 17-19).

Secondo Dobiaš (1931-1933) il lavoro sarebbe stato fatto in Friuli, dove Paolo si sarebbe recato tornando dalla Francia, ma, anche se i copisti fossero dell’Italia del nord (ne dubita E.A. Lowe, Codices Latini Antiquiores, XI, Oxford 1966, p. 6 n. 1603), è più probabile che essi abbiano operato in Francia: non ha attestazioni in Italia, come non ne ha un ritorno di Paolo in Friuli. La lettera non parla di un rientro in Italia, mentre cita un viaggio l’estate precedente dalle parti di Corbie, in cui Paolo aveva sperato di vedere l’amico, e spiega il ritardo del lavoro con una malattia durata da settembre a Natale e con la povertà (pauper et cui desunt librarii): povertà non plausibile a corte, a Cassino e forse pure a Cividale, assai meno se era ospite di qualche monastero. La copia pare dunque essere stata fatta in Francia, dove Paolo deve aver trovato un codice della raccolta, che Adalardo non aveva o sperava di avere in una veste migliore se l’amico ne avesse curato l’edizione. Ma Paolo ha qui potuto fare poco, correggendo solo le sviste evidenti e segnando con una Z i passi da emendare: per apprezzare le sue qualità di editore di testi bisogna vedere piuttosto la glossa grammaticale alla Regula di Benedetto, che accompagna la copia fedele, chiesta da Carlo, del presunto autografo del santo (glossa in apparato all’ed. de Vogüé – Neufville della Regula, che conferma non suo un Commento alla Regola, basato su un testo interpolato, a lungo attribuitogli).

Saint-Gilles, Biblioteca abbaziale. Manoscritto francese della Regula Benedicti (1129). San Benedetto consegna la Regola a San Mauro.

Ma il rapporto di Paolo con le lettere di Gregorio e le loro raccolte non si limita a questo. Nell’HL egli riprende da P un solo scritto, però importante: l’ep. V 6, da cui ricava la prova dell’innocenza di Gregorio (e della colpevolezza dei papi del proprio tempo); è verosimile che si sia copiato in Francia almeno la lunga frase che poi ha citato in HL IV 29, con differenze minime. Lo stesso deve aver fatto, evidentemente già pensando di scrivere l’HL, con tre lettere a tema longobardo (al re Agilulfo, alla regina Teodolinda, ad Arechi I di Benevento: HL IV 9 e 19), che prende da un’altra collezione, quella di duecento epistole, che ha una scarna tradizione, solo di area tedesca. Ha infine conosciuto anche la più ampia delle raccolte antiche, quella inviata da Adriano I a Carlo in data ignota, l’unica che abbia l’ep. I, 42, da cui attinge (secundum Gregorium) una glossa sul moggio (ed. Whatmough, p. 159, n. 16; Villa, 1984, p. 75). È dunque stato forte il suo interesse per gli scritti di Gregorio legati alla pratica amministrativa e alla realtà politica; ma non è su di essi che Paolo costruisce l’opera che gli dedica, la Vita Gregorii, evidentemente perché, come scrive ad Adalardo, giudica le lettere un materiale non adatto a tutti, propter aliqua, quae in eis minus idoneos latere magis quam scire convenit (Pauli ep. 12, pp. 508 s.); e infatti la Vita le usa solo in un paio di passi e si fonda invece su testi in cui non c’è niente che possa essere frainteso da un pubblico non preparato.

La Vita, che in HL III, 24 Paolo dice composta qualche anno prima, e che non può precedere (ma può seguire) il periodo franco, perché usa fonti conosciute allora, trasmette un messaggio chiaro e, pur costruita quasi per intero su scritti altrui (LH, HEGA; Gregorio Magno: Regula Pastoralis, Homiliae in Ezechielem, Dialogi, Moralia), ha una precisa personalità. Essa ebbe una buona diffusione (90 mss. censiti), accresciuta dopo che, alla fine del IX secolo, vi furono aggiunti i miracoli. Nella Vita il grande papa è tale non per i fatti che ha compiuto (e solo l’evangelizzazione degli Angli risulta qui una sua scelta), ma perché è stato fino in fondo un maestro di vita cristiana, vigilante in primo luogo su se stesso e costantemente impegnato per la salvezza spirituale dei suoi figli; perché è riuscito a passare indenne attraverso la storia, esercitando l’ecclesiasticum regimen senza farsi coinvolgere da ragioni profane; perché ha usato una cultura già straordinaria al suo tempo, per esprimere i concetti più elevati facendosi comprendere da tanti. Il testo è dunque un invito a riflettere sulle virtù di un papa che non ha cercato la gloria del mondo (e non si è immischiato nella morte di cristiani, come dirà nell’HL), ma ha la sua gloria nell’essere stato cristiano in prima persona e nell’essersi in molti modi adoperato perché lo fossero anche gli altri; ed è una dichiarazione di amore per lo studio e la scrittura, che permette che la memoria di un uomo sopravviva alla sua morte e soprattutto sopravviva l’utilità di ciò che ha pensato e scritto. Non pare da escludere per la Vita un contesto cassinese, liturgico o di scuola.

Il ritorno di Paolo avvenne non oltre l’autunno 786, quando Carlo stesso, finalmente in pace su ogni fronte – così gli Annales Regni Francorum, pp. 72 s. – partì per sistemare causas italicas e a Natale era già a Firenze: se la lettera di Adriano sul sacramentario richiesto iam pridem da Carlo tramite Paulus grammaticus (CC 89) si riferisce a lui, Paolo si recò a Roma indipendentemente dal re; e poiché sembra che nel 784 scrivesse il Liber e non fosse sulla via del ritorno, la copia per Adalardo dovrebbe essere stata fatta nel 785, in Francia, ma non a corte. Paolo non può avere avuto la licenza regia, indispensabile per partire, prima del Natale di quell’anno, che Carlo passò in Sassonia, dove è da escludere egli andasse: è probabile quindi che sia partito nella primavera 786, passando forse da Roma per il sacramentario.

Tornato a Cassino, Paolo non interruppe i rapporti con Carlo né il lavoro per lui: anzi il suo maggiore contributo agli sforzi del re per la correctio della vita religiosa fu compiuto dopo il suo rientro. Si tratta dell’Homiliarius per l’ufficio notturno, inviato da Carlo a tutte le chiese dei suoi domini (Capitularia I 30, pp. 80 s., aa. 786-800). Paolo lo accompagnò con una dedica (D. XXXIV, N. XXXII) scritta a Cassino (si dice aiutato dai meriti di s. Benedetto e dell’abate: vv. 7-9), ma l’opera deve essere stata iniziata in Francia, come suggerisce il largo uso di omelie di Beda. Carlo gli aveva chiesto non solo di correggere i lezionari precedenti dagli «infiniti errori» dovuti all’imperizia di copisti, ma di percorrere catholicorum patrum dicta e scegliere quaeque essent utilia, quasi sertum: compito che Paolo, volendo devote parere, aveva pienamente assolto. A questa fiducia del re nelle sue capacità di giudizio Paolo rispose con un lavoro personale e abbastanza innovativo.

Su propria iniziativa e plausibilmente da Cassino, Paolo inviò al re l’epitome dell’opera antiquaria di Sesto Pompeo Festo, a sua volta epitome del de Verborum significatione di Verrio Flacco (I secolo d.C.), con cui gli offriva un patrimonio di notizie riguardanti soprattutto la città di Roma, ora diventata sua.

Il dono, di scarsa utilità pratica, è forse significativo sul piano politico-culturale, perché la consapevolezza della profondità del tempo storico che stimola aveva avuto il suo peso nell’incontro tra longobardi e italici; è possibile quindi che Paolo intendesse così favorire l’assimilazione dell’orizzonte culturale italiano da parte dei franchi: un’ottica in cui anche l’HL potrebbe in parte rientrare.

Paolo tornò a Cassino in un momento politico difficile, durante la crisi dei rapporti tra Carlo e Benevento prima e dopo la morte di Arechi (26 ag. 787), e forse vi ricoprì un ruolo, come persona stimata da tutti, indirizzando il confronto verso il riconoscimento della sovranità franca da parte del duca e una sua sostanziale autonomia di governo. Di questo non ci sono prove dirette, ma nell’epitaffio per Arechi Paolo esprime chiaramente la sua vicinanza alla vedova del duca e il rimprovero alla Gallia dura che trattiene in ostaggio il figlio superstite, Grimoaldo (vv. 39-44); e Carlo in effetti lo rinviò in patria (nonostante il papa accusasse Benevento di trame con Bisanzio per rimettere sul trono l’esule Adelchi, figlio di Desiderio: CC 80, 82-84), ottenendo del resto che Grimoaldo respingesse Adelchi e le forze imperiali (788).

Da parte sua Paolo nell’HL non presenta mai il ducato come una realtà indipendente dal Regno e tratteggia i suoi rapporti con i re nel senso dell’accordo del 787: un buon grado di autonomia, entro una sovranità riconosciuta e un rispetto reciproco.

A Cassino prese infine forma l’idea dell’HL, così a lungo maturata.

Si tratta di un lavoro essenziale per la nostra conoscenza dell’età longobarda e di un testo letterario di qualità, scritto in un latino colto, ma fluido e naturale, e anche per questo letto e copiato tante volte nell’Europa latina (almeno 115 i mss. rimasti, oltre a quelli di cui abbiamo notizia tramite autori che l’hanno usato: Pohl, 1994; Pani, in Paolo Diacono…, 2000); e un’opera complessa, oggetto di molte interpretazioni, di cui non si potrà rendere pienamente conto qui, limitandoci ad alcune osservazioni.

I dati certi che abbiamo sull’HL sono pochi: fu redatta a Cassino, dove Paolo dice di star scrivendo sia nel I libro (26) che nell’ultimo (VI, 2 e 40), e dopo il soggiorno in Francia, esperienza ricordata come conclusa a I, 5 e altrove.

Il testo ebbe immediata fortuna, in particolare nell’Italia settentrionale, da cui provengono tutti i nostri più antichi mss.: un dato che ha nutrito l’ipotesi (McKitterick, in Paolo Diacono…, 2000 e 2004) che l’opera sia stata scritta nel Regno Italico, su impulso di Carlo e di Pipino re d’Italia, per facilitare la conoscenza e la comprensione reciproca di Franchi e Longobardi. L’idea ha un’utilità e un senso: è plausibile un interesse franco verso l’HL e sono reali l’attenzione di Paolo alla prospettiva carolingia e la sua accettazione del Regno Franco in Italia. Ma ciò non può portare a cancellare altre sicure ragioni del testo né le indicazioni che l’autore stesso dà sui tempi e luoghi della sua scrittura. La diffusione dell’HL al nord si spiegherà con i rapporti di Cassino con l’Italia tutta, la fama personale di Paolo e l’interesse che per una storia che riguardava in primo luogo il Regno Longobardo poteva nutrire non solo la corte franca, ma anche la popolazione del Regno. È del resto falso che l’HL non circolasse subito pure nel centro-sud, come è già stato rilevato (Chiesa, 2001; Pohl, 2010). Sebbene manchino mss. antichi, le molte e antiche attestazioni d’uso provano l’importanza dell’HL per la cultura storica dell’area e il suo irraggiamento da Cassino, da dove è certo giunta a Napoli la copia usata dai GEN agli inizi del IX secolo, e dove, nello stesso secolo, il testo è stato citato e proseguito in più forme, mentre nel X è stato modello del Chronicon Salernitanum, fonte dell’Historia miscella di Landolfo Sagace e compare in un inventario di Farfa (Chronicon Farfense, I, p. 326).

Per i tempi di scrittura, sappiamo che il I libro fu composto entro il 796, perché a I 26 Paolo sembra ignorare la fine del Regno Avaro, distrutto allora da Pipino (Pohl, 1994, p. 376); ma tale termine può non valere per tutta l’opera, che avrà preso molto tempo, né ci dice niente sul suo avvio, che non è detto seguisse subito il rientro a Cassino: quindi il contesto storico-politico in cui l’HL fu scritta non può essere meglio precisato.

Ciò rende più difficile metterla in stretto rapporto con i duchi di Benevento (Krüger, 1981; Goffart, 1988), dall’orientamento politico allora mutevole, ipotesi comunque basata sulla sopravvalutazione dello schema e della struttura del testo, che non sono gli unici elementi validi per capire le intenzioni e le ragioni di un’opera storiografica, scritto volontario e consapevole in ogni sua parte. Dubbio è anche il punto finale previsto da Paolo: l’HL manca di dedica, prologo, epilogo, è meno curata linguisticamente negli ultimi libri, non giunge alla caduta del Regno indipendente né al tempo della sua scrittura, ma solo alla morte di Liutprando (744), di cui l’ultimo capitolo (VI, 58) traccia un grande ritratto. I dati formali fanno pensare a un’opera non licenziata dall’autore (Chiesa, in Paolo Diacono e il Friuli…, 2001), pur se la veste grammaticale e ortografica poco corretta, che ha l’intero testo nei mss. più antichi, potrebbe rinviare a una sua scelta di pubblico più ampio e meno colto (Pohl, 1994, p. 390). Si può escludere che Paolo si sia fermato per non narrare la fine del Regno, troppo dolorosa e negativa (così il cassinese Erchemperto, cap. 1, e Vinay, 1978, pp. 127-129), perché su di essa aveva già espresso con molta chiarezza il suo giudizio, sia per le responsabilità longobarde (V 6), sia per quelle dei papi (IV 29). E non è prova sicura della volontà di terminare al 744 l’osservazione, più volte fatta, che la conclusione dell’ultimo libro sulla morte di Liutprando è in netto contrasto con quanto fatto fino allora da Paolo, che aveva sempre suddiviso su due libri i regni dei maggiori sovrani, usandoli come ponti tra le scansioni della storia scritta, perché il contrasto è logico, dato che Paolo riteneva che dopo Liutprando il regno avesse preso una piega degenerativa, che l’avrebbe portato alla perditio (V 6): la fine del libro sulla sua morte marca con forza questa cesura, tra un prima presentato in luce positiva, e un poi che non può più esserlo. Anche il cenno nell’ultimo capitolo a miracoli compiuti dal vescovo pavese Pietro posteriori tempore (cioè dopo il 744), che Paolo dice porrà in loco proprio, fa propendere per una prevista prosecuzione dell’HL, sia per l’imprecisione inusuale del riferimento a un’altra opera, sia per la non plausibilità intrinseca di tale opera, che sembra dovesse essere agiografica.

Chiarissima è invece l’impostazione di questa storia, molto diversa da quanto Paolo pensava scrivendo l’HR. Non si tratta più di una storia d’Italia, in cui i Longobardi, nel VI secolo, si sarebbero inseriti, ma di una storia della gens, dalle sue mitiche origini scandinave fino alla creazione e allo sviluppo del suo regno felice. Questo percorso è parte di un quadro storico vastissimo e coerente, che va oltre la necessità dei rapporti con i protagonisti (spesso assenti) ed è ricostruito attraverso fonti esterne, mentre la vicenda centrale è delineata soprattutto sulla base di fonti longobarde, in gran parte orali, che Paolo tratta con lo stesso rispetto e la stessa critica che ha per quelle scritte. Grazie a questi materiali e alla prospettiva storica con cui si pone nei loro confronti – maggior distacco verso quelli più antichi, maggior sintonia verso i più recenti – Paolo viene disegnando una storia anche culturale dei Longobardi: un risultato unico nella storiografia dei regni romano-germanici. Ciò non significa una storia autentica e oggettiva, perché è certo che essa è interpretata e rivista secondo le personali idee e convinzioni maturate da Paolo, che ricostruisce, giudica e commenta le vicende del passato. Non è però nemmeno arbitraria o legata solo alle sue personali ragioni e finalità (o a quelle dei suoi committenti), perché si dimostra coerente non solo con la cultura e l’ideologia regie, che hanno lasciato fonti dirette di cui l’HL può essere considerata l’organizzazione in un racconto storico, ma anche con i sentimenti, i valori e le pratiche sociali che a vari livelli appaiono nelle fonti a noi giunte da questo mondo. Di esso Paolo è effettivo testimone, e la sua opera si articola su un patrimonio di idee, in particolare politiche, che è longobardo e che non è affatto rinnegato né travestito alla ‘moda franca’ (la funzione prevale sulla dinastia, il rapporto della Chiesa con il potere pubblico, tipico del mondo franco, è quasi assente, il modello storiografico è longobardo: Capo, in Paolo Diacono…, 2000; del resto analoga indipendenza Paolo mostra in altre materie rilevanti: è il caso dell’iconoclastia, contro cui a VI, 49 prende una posizione netta, non in sintonia con Carlo: Heath, 2013, n. 678). Con l’HL Paolo ha dunque inteso ‘conservare’ i Longobardi, in primo luogo a loro stessi (e così l’HL è stata recepita dalla successiva tradizione longobarda), e ha reso a loro favore una testimonianza che la bella forma latina destinava a contrastare per sempre l’immagine nera tracciata dalla propaganda papale. Ma già questo ci dice che il pubblico cui pensava non era solo longobardo. Accanto e attraverso il percorso dei protagonisti, Paolo dà legittimazione storica a tutti gli altri attori (Impero bizantino compreso; esclusi i soli Saraceni, resi incompatibili dalla diversa e contrapposta religione) di questi secoli turbinosi, ma fondativi in cui si consuma il modello politico antico per far posto a organismi politici diversi, ognuno con una propria vicenda, ma tutti con una sostanziale affinità, data dalla somiglianza dei problemi di fondo affrontati: quelli della costruzione di una convivenza proficua tra genti di origini e storie diverse e di una configurazione stabile delle nuove società. L’HL. prende atto di questo grande processo e disegna una storia che è realtà e conquista di tutti (e anche per questo ha avuto un successo generale: Pohl, 1994 e Pohl, in Paolo Diacono…, 2000).

A capire ed esprimere questi caratteri comuni Paolo giungeva da più strade: la sua formazione culturale, che favoriva la molteplicità e non l’univocità perché orientata sulla curiosità verso le cose umane e su un’idea di erudizione come mezzo attivo di comprensione e comunicazione tra le genti; il suo soggiorno in ambito franco, che lo aveva portato a conoscere altre storie e altre esperienze, a comprendere l’affinità dei diversi percorsi, e quindi anche la possibilità, forse l’utilità, della loro confluenza in un unico insieme, che sapesse riconoscere e rispettare le particolarità e i risultati di ciascuna; la fede cristiana, cui tutte le gentes erano o sarebbero giunte (I, 4), che gli dava la certezza dell’unità di storia e destino del genere umano, aiutando a vedere gli elementi che uniscono come ad apprezzare ciò che distingue e non divide. A questa unità risponde anche la sua interpretazione complessiva della vicenda longobarda, esemplare del rapporto con Dio e con la storia degli uomini, che la costruiscono con le proprie mani, meritando di averla finché ascoltano Dio, meritando di perderla, quando – come i Longobardi degli ultimi tempi – permettono che la loro fede degeneri.

Paolo morì il 13 aprile o il 21 luglio (cfr. necrologi cassinesi) di uno degli ultimi anni del secolo VIII: solo convenzionale è la data del 799, scelta perché nella sua opera non c’è traccia dell’incoronazione imperiale di Carlo, avvenuta nel Natale dell’800.

 

Opere. Carmi: Pauli et Petri Diaconorum carmina, in MGHPoetae latini aevi Carolini, a cura di E. Dümmler, I, Berolini 1881, pp. 27-80Die Gedichte des Paulus Diaconus. Kritische und erklärende Ausgabe, a cura di K. Neff, München 1908 (ed. N); Epistole: Pauli Diaconi epistolae, in MGH, Epistolae, IV, a cura di E. Dümmler, Berolini 1895, pp. 506-516. Epitome di Festo: Sexti Pompei Festi de verborum significatu quae supersunt cum Pauli epitome, a cura di W.M. Lindsay, Lipsiae 1913, pp. 1-520; Expositio Artis Donati seu Incipit Ars Donati quam Paulus Diaconus exposuit, a cura di M.F. Buffa Giolito, Genova 1990; Glossa alla RegulaLa Règle de st. Benoît, a cura di A. de Vogüé – J. Neufville, in Sources Chrétiennes, 181-186 bis, Paris 1972-77 (in apparato); Glosse a Isidoro: Scholia in Isidori Etymologias Vallicel-liana, a cura di J. Whatmough, in Archivum Latinitatis Medii Aevi, II (1925-1926), pp. 57-75, 134-16; Historia Langobardorum, a cura di L. Bethmann – G. Waitz, in MGH, Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, Hannoverae 1878, pp. 12-187 (revisione, con traduzione e commento: Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, a cura di L. Capo, Milano 1992); Historia Romana: a cura di A. Crivellucci, in Fonti per la Storia d’Italia, 51, Roma 1914; Homiliarius, a cura di J.-P. Migne, Patrologiae cursus completus, series latina, XCV, Parisiis 1861, coll. 1159-1566; Liber de episcopis Mettensibus (Gesta episcoporum Mettensium), a cura di G.H. Pertz, in MGH, Scriptores, II, Hannoverae 1829, pp. 260-268; nuova ed. a cura di D. Kempf, Paris 2013.

Fonti e Bibl.: Erchemperto, Historia Langobardorum Beneventanorum, a cura di G. Waitz, in MGH, Scriptores rerum Langobardicarum, Hannoverae 1878, pp. 231-264Gesta Episcoporum Neapolitanorum, a cura di G. Waitz, ibid., pp. 398-439Capitularia Regum Francorum, I, a cura di A. Boretius, in MGH, Legum sectio II, Hannoverae 1883Le Liber Pontificalis, a cura di L. Duchesne, Paris 1886-1892 (2a ed. a cura di C. Vogel, Paris 1955-1957); Gregorii Magni, Registrum epistolarum, a cura di P. Ewald – L. Hartmann, in MGH, Epistolae, I-II, Berolini 1887-1899Codex Carolinus, a cura di W. Gundlach, in MGH, Epistolae, III, Berolini 1892, pp. 469-657Annales regni Francorum, a cura di F. Kurze, in MGH, Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, 6, Hannoverae 1895Il Chronicon Farfense di Gregorio da Catino, a cura di U. Balzani, in Fonti per la storia d’Italia, 33-34, Roma 1903I necrologi cassinesi. I, a cura di M. Inguanez, in Fonti per la storia d’Italia, 83, Roma 1941; Gregorii Magni, Registri epistolarum, a cura di D. Norberg, in Corpus Christianorum, series Latina, CXL-CXL A, Turnholti 1982; Beda, Historia ecclesiastica gentis Anglorum (Storia degli Inglesi)a cura di M. Lapidge – P. Chiesa, Milano 2008-2010.

Saranno qui citati solo gli studi essenziali e quelli cui ci si riferisce nel testo. Fino al 2001 un’ampia rassegna è data dalla voce Paulus Diaconus, in Repertorium Fontium Historiae Medii Aevi, VIII/4, Romae 2001, pp. 521-527; O. Dobiaš-Roždestvensky, La main de Paul Diacre sur un codex du VIIIe siècle envoyé à Adhalard, in Memorie storiche Forogiuliesi, XXV (1930), pp. 129-143; Ead., Itinéraire de Paul, fils de Warnefride en 787-788 et les premiers pas de la minuscule de Cividale en Frioul, ibid., XXVII-XXIX (1931-1933), pp. 55-72; L.J. Engels, Observations sur le vocabulaire de Paul Diacre, Nijmegen 1961; N. Scivoletto, Saeculum Gregorianum, in Giornale Italiano di Filologia, XVIII (1965), pp. 41-70; E. Sestan, La storiografia dell’Italia longobarda: Paolo Diacono, in La storiografia altomedievale, Settimane di Studio del CISAM, 17, Spoleto 1970, pp. 357-386; H. Bloch, Monte Cassino’s Teachers and Library in the High Middle Ages, in La scuola nell’occidente latino dell’alto medioevo, Settimane di Studio del CISAM, 19, II, Spoleto 1972, pp. 563-605; G. Cavallo, La trasmissione dei testi nell’area beneventano-cassinese, in La cultura antica nell’occidente latino dal VII all’XI secolo, in Settimane di Studio del CISAM, 22, I, Spoleto 1975, pp. 357-414; R. Cervani, L’Epitome di Paolo del “De verborum significatu” di Pompeo Festo. Struttura e metodo, Roma 1978; O. Limone, La vita di Gregorio Magno dell’Anonimo di Whitby, in Studi medievali, s. 3, XIX (1978), pp. 37-67; C.L. Smetana, Paul the Deacon’s patristic anthology, in The Old English Homily and its Backgrounds, a cura di P.E. Szarmach – B.F. Huppé, Albany (NY) 1978, pp. 75-97; G. Vinay, Alto Medioevo latino. Conversazioni e no, Napoli 1978; L. Zurli, Le “proprietà” del motivo dello “scambio di persona” nella narrativa classica e nel “racconto storico” di Paolo Diacono, in Materiali e contributi per la storia della narrativa greco-latina, II (1978), pp. 71-104; R. Grégoire, L’Homéliare de Paul Diacre, in Id., Homéliaires liturgiques médiévaux. Analyse des manuscrits, Spoleto 1980, pp. 423-478; F. van der Rhee, Die germanischen Wörter in der “Historia Langobardorum” des Paulus Diaconus, in Romanobarbarica, V (1980), pp. 271-296; K.H. Krüger, Zur “beneventanische” Konzeption der Langobardengeschichte des Paulus Diaconus, in Frühmittelalterliche Studien, XV (1981), pp. 18-35; O. Capitani, La storiografia altomedievale: linee di emergenza della critica contemporanea, in La cultura in Italia tra Tardo Antico e Alto Medioevo, Atti del Congresso… 1979, I, Roma 1981, pp. 123-147; C. Villa, Uno schedario di Paolo DiaconoFesto e Grauso di Ceneda, in Italia medioevale e umanistica, XXVII (1984), pp. 56-80; W. Goffart, Paul the Deacon’s “Gesta episcoporum Mettensium” and the Early Design of Charlemagne’s succession, in Traditio, XLII (1986), pp. 59-94; Storia di Pavia, II, L’Alto Medioevo, Pavia 1987; P. Godman, Poets and Emperors. Frankish Politics and Carolingian Poetry, Oxford 1987, pp. 49-55; M. Oldoni, P. D., in Montecassino dalla prima alla seconda distruzione. Momenti e aspetti di storia cassinese (secoli VI-IX), Atti II Convegno di studi sul Medioevo meridionale…, 1984, a cura di F. Avagliano, Montecassino 1987, pp. 231-258; W. Goffart, The Narrators of Barbarian History (A.D. 550-800). Jordanes, Gregory of Tours, Bede and Paul the Deacon, Princeton 1988, pp. 329-437; A. Lentini, Medioevo letterario cassinese. Scritti vari, Montecassino 1988, pp. 451-476; L. Capo, P. D. e il problema della cultura dell’Italia longobarda, in Langobardia, a cura di S. Gasparri – P. Cammarosano, Udine 1990, pp. 169-235; P. Delogu, Longobardi e Romani: altre congetture, ibid., pp. 136-145; H. 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Law, The Sources of the “Ars Donati quam Paulus exposuit”, in Filologia mediolatina, I (1994), pp. 71-80; W. Pohl, Paulus Diaconus und die “Historia Langobardorum”. Text und Tradition, in Historiographie im frühen Mittelalter, Symposion Zwettl 1993, a cura di A. Scharer – G. Scheibelreiter, Wien 1994, pp. 375-405; S. Cingolani, Le storie dei Longobardi. Dall’Origine a Paolo Diacono, Roma 1995; S. Kiss, Cohérencerupture de continuité et structure textuelle dans les chroniques latines du Haut Moyen-Age, in Latin vulgaire, Latin tardif, IV. Actes du 4e colloque international sur le latin vulgaire et tardif, Caen…, 1994, a cura di L. Callebat, Hildesheim-Zűrich-New York 1995, pp. 505-511; F. Stella, La poesia carolingia, Firenze 1995; F. Curta, Slavs in Fredegar and Paul the Deacon: medieval gens or “scourge of God”?, in Early medieval Europe, VI, (1997) 2, pp. 141-167; R. Savigni, Europa e nazioni cristiane nella prima età carolingia: P. 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Smolak, M. Sot, F. Stella, C. Villa); H. Hoffmann, Autographa des früheren Mittelalters, in Deutsches Archiv f. Erfoschung des Mittelalters, LVII (2001), pp. 17-19; Paolo Diacono e il Friuli altomedievale (secc. VI-X). Atti XIV Congresso internazionale…, Cividale del Friuli-Bottenicco di Moimacco, 1999, Spoleto 2001 (in partic. gli studi di O. Capitani, P. Chiesa, G. Gandino, P. Peduto); S. Palmieri, P. D. e l’Italia meridionale longobarda. Identità e memoria del ducato di Benevento nella Historia Langobardorum, in Studi per Marcello Gigante, a cura di S. Palmieri, Bologna 2003, pp. 249-324; P. Chiesa, Storia romana e libri di storia romana fra IX e XI secolo, in Roma antica nel Medioevo. Mito, rappresentazioni, sopravvivenze nella ‘Respublica christiana’ dei secoli IX-XIII, Atti della XIV Settimana internazionale di studio, Mendola, 24-28 agosto 1998, Milano 2001, pp. 231-258; L. Pani, La trasmissione della Historia Langobardorum di P. 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Valtorta, Firenze 2006, pp. 196-219; C. Villa – F. Lo Monaco, Cultura e scrittura nell’Italia Longobarda, in Die Langobarden. Herrschaft und Identität, a cura di W. Pohl – P. Erhart, Wien 2005, pp. 503-523; A. Plassmann, Mittelalterliche origines gentiumPaulus Diaconus als Beispiel, in Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken, LXXXVII (2007), pp. 1-35; W. Pohl, Heresy in Secundus and Paul the Deacon, in The Crisis of the “Oikoumene”. The Three Chapters and the failed Quest for Unity in the Sixth-Century Mediterranean, a cura di C. Chazelle – C. Cubitt, Turnhout 2007, pp. 243-264; G. Gandino, La storiografia prima e dopo il 774, in 774. Ipotesi su una transizione, Atti del Seminario di Poggibonsi, 16-18 febbraio 2006, a cura di S. Gasparri, Turnhout 2008, pp. 365-385; C. Villa, La produzione libraria, prima e dopo il 774, ibid., pp. 387-401; W. Pohl, Paul the Deacon -between sacci and marsuppia, in Ego Trouble. Authors and their Identities in the Early Middle Ages, a cura di R. Corradini et al., Wien 2010, pp. 111-123; Ch. Heath, Narrative Structures in the Work of Paul the Deacon (Ph.D. Thesis), Manchester 2013.

Il Regno dei Goti in Italia

di C. Azzara, L’Italia dei barbari, Bologna 2002, pp. 43-91.

 

La regalità di Teoderico

Il regno instaurato in Italia dal goto Teoderico dopo la sua vittoria su Odoacre rappresentò un’esperienza complessa, costituzionalmente inedita per la penisola (ma non per l’Occidente già romano nel suo insieme), in cui gli aspetti innovativi si innestarono su moduli tradizionali; l’esito fu contraddistinto da un elevato tasso di sperimentazione politica, che rende tale realtà difficilmente inquadrabile secondo schemi preordinati e facili classificazioni.

Mappa dell'Europa occidentale nel 534.
Mappa dell’Europa occidentale nel 534.

Nel considerare i fondamenti politici e istituzionali, le forme d’espressione e di rappresentazione, nonché la stessa formula teorica del regno goto in Italia, la moderna critica ha di regola fatto ricorso, per indicare l’aspetto connotante del potere di Teoderico e dei suoi successori, a termini e concetti quali «ambiguità», «duplicità», «ambivalenza», e altri afferenti ai medesimi campi semantici. Questi corrispondono bene a una vicenda contraddistinta da una spiccata eterogeneità di elementi, in relazione a un potere monarchico che affondava le proprie radici nella tradizione di una stirpe barbarica e nella legittimazione da essa derivante, che si espresse però in un territorio già appartenuto all’Impero romano d’Occidente (anzi, nella culla di questo), su gruppi etnici diversi e mantenuti giustapposti e distinti, in un rapporto mai pienamente chiarito con l’Impero di Costantinopoli (di subordinazione ideale, ma di fatto anche di emulazione) e facendo infine ricorso, per definire se stesso, a stilemi «ideologici» di natura differente. Prospettive variegate circa la fisionomia della regalità ostrogota in Italia sono del resto riscontrabili già nelle testimonianze più antiche, basti pensare alle interpretazioni offerte dai principali autori coevi, dall’Anonimo Valesiano a Cassiodoro, da Ennodio a Giordane. Una sostanziale indeterminatezza contraddistingue la regalità teodericiana sin dal momento stesso dell’ingresso dell’Amalo nella penisola e dal primo consolidarsi del suo potere sulla stessa. Quando venne inviato da Zenone a rovesciare il regime di Odoacre, Teoderico univa alla sovranità di carattere militare, di stirpe, ereditata dal padre, i titoli di patricius e di magister militum praesentialis, che gli erano stati concessi dall’imperatore con il consolato e con la cittadinanza romana. È da rammentare che il Goto aveva soggiornato a lungo a Costantinopoli da giovane, potendo così acquisire familiarità, oltre che con la corte imperiale, con le diverse espressioni della civiltà romana, che del resto i Goti da tempo frequentavano in misura superiore ad altre stirpi barbariche. Dopo la vittoria su Odoacre nel 493, come già ricordato, Teoderico si era fatto proclamare rex a Ravenna dal suo exercitus, che nella prospettiva dei Romani era un esercito di foederati. Per governare oltre agli Ostrogoti immigrati con lui anche i Romani, largamente maggioritari per numero nel suo nuovo regno, l’Amalo doveva tuttavia ottenere la legittimazione imperiale, per cui richiese a Costantinopoli la vestis regia, che ricevette nel 498. Una simile legittimazione figurava necessaria in quanto il regno goto era pur sempre, de iure, una pars dell’Impero, unico e indivisibile, sulla quale il monarca barbaro era chiamato a governare per delega imperiale, secondo un modello condiviso da diversi regni sorti in Occidente dopo il 476.

Assedio di Verona. Bassorilievo tratto dall'Arco di Costantino (312 ca.). Fra l'epoca costantiniana e quella di Odoacre nelle armate imperiali il numero dei coscritti barbari era aumentato notevolmente.
Assedio di Verona.
Bassorilievo tratto dall’Arco di Costantino (312 ca.). Fra l’epoca costantiniana e quella di Odoacre nelle armate imperiali il numero dei coscritti barbari era aumentato notevolmente.

Il titolo che consentì a Teoderico di muovere legittimamente contro Odoacre e la stessa valenza della carica di rex conseguita nel 493 sono oggetto delle congetture più disparate, senza che sia possibile giungere ad una soluzione certa. In riferimento al primo punto, ad esempio, si è potuto ipotizzare la creazione ad hoc di un onore di magister militum per Italiam, di cui peraltro non vi è traccia nelle fonti, sia immaginare uno specifico valore, modellato su misura per la circostanza e per la persona, della dignità di patricius, con il senso di «rappresentante dell’imperatore». La proclamazione a rex, d’altro canto, è stata interpretata ora come un «colpo di Stato», segno della volontà di autonomia dall’Impero, ora, in modo più sfumato, come una «mossa ambigua», mirata forse a sollecitare un pronunciamento chiaro di Costantinopoli dopo l’uscita di scena di Odoacre. Si è anche pensato che a Ravenna Teoderico fosse stato proclamato dai suoi thiudans, titolo goto di forte valenza costituzionale, traducibile con il latino rex, mentre in precedenza egli sarebbe stato soltanto un reiks, vale a dire un notabile, un grande della sua stirpe: l’Anonimo Valesiano rende infatti reiks con dux, che nel lessico tardoromano individuava semplicemente un capo militare. Se resta insolubile il problema dell’esatta calibratura di titoli il cui significato preciso continua a sfuggire, non si può non notare come il fatto stesso di aver condotto i Goti alla vittoria militare sul nemico, al termine di una grande impresa che aveva coinvolto l’intera gens, dandole una nuova patria, forniva una giustificazione al governo in Italia di Teoderico, anche se ciò non presupponeva affatto una contrapposizione nei confronti dell’Impero, una rivendicazione di indipendenza dallo stesso; al contrario, tutto ciò contribuiva, per la sua parte, a ribadire una forma di simbolica correlazione subordinata del re barbaro vittorioso all’imperator invictus, l’augusto sempre invitto e invincibile, come di un figlio rispetto al proprio padre. Il rapporto veniva insomma espresso, nel quadro di una gerarchia ideale, come costituito al contempo da dipendenza e da compartecipazione a un medesimo sistema di valori e di prerogative.

Leiden, Universitaire Bibliotheken. Ms. vul. 46, Gesta Theodorici Regis (1177), f. 1v. Teoderico il Grande.
Leiden, Universitaire Bibliotheken. Ms. vul. 46, Gesta Theodorici Regis (1177), f. 1v. Teoderico il Grande.

 

Nella formula adottata dal regno teodericiano rientrava incontestata la subordinazione dell’imperatore, al quale era riconosciuta senza incertezze una preminenza, quantomeno onorifica. Contestualmente trovava peraltro spazio un malcelato sforzo di emulazione nei confronti della stessa carica imperiale, in virtù della pretesa di un rapporto speciale, dal quale discendeva un sentimento di superiorità del re Amalo su tutti gli altri sovrani barbari. Questo appare sintetizzato con efficacia nel testo di una lettera ben nota, databile attorno al 508 e scritta per conto di Teoderico dal suo ministro romano Cassiodoro, con destinatario l’imperatore Anastasio[1]. In essa, il regno dell’ostrogoto era presentato come un’imitazione dell’unico Impero, al cui eccelso esempio dovevano rifarsi indistintamente tutti i regnanti, ma tanto più chi, come Teoderico, era tenuto ad esercitare autorità di governo anche su sudditi romani. Proprio la perfetta rispondenza a un simile modello, favorita dalla compartecipazione a un comune sistema di valori, ereditato dalla tradizione di Roma, giustificava la superiorità del regno teodericiano su quello di tutti gli altri re di stirpe, nella consapevolezza che «regnum nostrum imitatio vestra est, forma boni propositi, unici exemplar imperii: qui quantum vos sequimur, tantum gentes alias anteimus». Insomma, presentandosi come filius del pater imperiale, Teodorico pretendeva di rifletterne la luce, elevandosi di conseguenza su tutti gli altri monarchi. Nell’esercitare in Italia un potere che non si configurava in termini etnici, ma che si estendeva in pari modo sui Goti e sui Romani residenti nella Penisola (e per questo motivo nella titolatura ufficiale si preferì la formula romanizzante di Flavius Theodericus rex a quella di rex Gothorum), l’Amalo, pur senza mai assumerne il titolo, finì per svolgere di fatto funzioni proprie di un imperatore, di un princeps Romanus che rivendicava un rapporto di continuità diretta con gli imperatori romani d’Occidente del passato, considerandosi emulo di costoro. L’interpretazione di Teoderico quale «imperatore senza titolo» risulta corrente nella moderna storiografia e appare suffragata da specifici comportamenti da lui adottati che sono tipici della sovranità romana, carichi di un forte impatto «propagandistico» sul ceto senatorio e sulle masse italiche, dall’allestimento dei giochi nel circo in occasione di un soggiorno nell’Urbe all’ostentata cura dell’edilizia urbana e dei resti monumentali della classicità, fino all’impiego della porpora. Configurata in simili termini, la sovranità di Teoderico presenta un indubbio carattere di complessità, per le molte e diverse componenti che concorrevano alla sua definizione e che appaiono intrecciate tra loro in un modo tale da risultare difficilmente isolabili: sull’originaria connotazione etnica del rex gentis, che fondava il proprio predominio politico sulle armi dei Goti, si erano stratificate, infatti, varie attribuzioni tipiche del principato romano, opportunamente e accuratamente amplificate da un’abile propaganda. Ne risultava un modello della regalità peculiarmente connotato e privo di una definizione costituzionale troppo rigida, segnato – per l’appunto – da un’«ambiguità» alimentata, probabilmente, anche dal desiderio di lasciare in sostanza imprecisato il rapporto con l’imperatore, nei cui riguardi ci si proponeva, al di là del riconoscimento formale di una superiore potestà di quello, come concorrenti di fatto. Ma tale carattere polivalente del potere del re degli Ostrogoti, indeterminato se non addirittura contraddittorio sul piano teorico e costituzionale, deve essere spiegato, piuttosto che con l’ipotesi di una condotta scaltra e «opportunistica», che sembra adagiarsi nello stereotipo romano del barbaro, con l’assoluta singolarità della contingenza storica in cui cadde l’esperienza del Regnum Gothorum in Italia; in un frangente, cioè, in cui fortissimo appare il carattere di sperimentazione di nuove forme di inquadramento politico delle popolazioni occidentali e più intensa la ricerca di diversi assetti istituzionali. A queste realtà senza precedenti risultava difficoltosa l’applicazione di modelli, formule di legittimità e persino di terminologia tradizionali (e lo stesso lessico appare incapace di definire con esattezza i nuovi equilibri, come se si trovasse «in ritardo» sulle loro manifestazioni); ogni formulazione teorica e ogni ordinamento politico del tempo non potevano non tradire un’inevitabile natura empirica, procedendo per approssimazioni e senza necessariamente prefigurare sbocchi bene individuati.

Lo stanziamento dei Goti in Italia e le forme dell’insediamento

Fibula ornitomorfa ostrogota. Oro e cloisonné, V sec. dal Tesoro di Domagnano (Italia settentrionale). British Museum.
Fibula ornitomorfa ostrogota. Oro e cloisonné, V sec. dal Tesoro di Domagnano (Italia settentrionale). British Museum.

Per i Goti l’Italia fu l’ultima tappa di una plurisecolare catena di spostamenti, non facile da ricostruire. Secondo una tradizione raccolta e fissata proprio nell’Italia del VI secolo da Cassiodoro (nel suo lavoro perduto De origine actibusque Getarum) e da Giordane (nell’opera dallo stesso titolo, conservata, che molto trae proprio da Cassiodoro), la remota origine della stirpe dei Goti sarebbe da rintracciarsi nell’isola di Scanzia (in un ambito, cioè, presumibilmente scandinavo). In seguito, in un’epoca imprecisabile, la tribù avrebbe soggiornato sul Baltico, mentre nel I secolo autori romani come Plinio e Tacito individuavano i Goti nella Germania nordorientale, anche se tali fonti sovrappongono e confondono spesso stirpi diverse; in realtà tutti questi differenti stanziamenti restano di fatto indimostrabili, mancando oltretutto sicuri riscontri archeologici. Tra il II e il III secolo i Goti si sarebbero spinti in direzione della steppa pontica, collocandosi sul lato nordoccidentale del Mar Nero; a questa data la loro dominazione si estendeva tra i Carpazi, il Don, la Vistola e il mare d’Azov, avendo come asse centrale la valle inferiore del Dnepr. In un simile bacino essi convivevano con altre, eterogenee, tribù, compresi gli antenati degli Slavi, e subirono una pesantissima influenza culturale da parte dei popoli delle steppe, modificando in modo significativo il proprio costume. I Goti divennero infatti cavalieri seminomadi, dai tratti marcatamente orientali, tanto è vero che gli osservatori greci e romani del tempo erano portati a confonderli con stirpi iraniche, come gli Sciti e gli Avari. È notevole come una stirpe che è stata percepita e presentata dalla cultura moderna, soprattutto ottocentesca e primonovecentesca, come «tipicamente» germanica (e anzi come una sorta di popolo «campione» di presunti valori «germanici») fosse invece ricondotta dagli antichi nel novero delle etnie orientali; ciò ben sottolinea al contempo la fortissima contaminazione culturale – ora riconosciuta dalla storiografia – delle stirpi tardoantiche e altomedievali e, di conseguenza, l’improponibilità delle rigide classificazioni, del tutto convenzionali, cui si è stati per lungo tempo abituati (e dalle quali si fatica ad emanciparsi). Alla famiglia delle gentes germaniche i Goti possono essere ricondotti solo sulla scorta della lingua che essi parlavano e che era di ceppo germanico. A differenza di quanto accade per gli altri idiomi dei barbari, il goto ci è conservato in modo integrale, grazie alla traduzione che in tale lingua venne fatta della Bibbia, per iniziativa del vescovo Ulfila, verso la metà del IV secolo. Al III secolo sembra risalire la bipartizione della gens dei Goti in due gruppi, denominati dapprima Tervingi e Greutingi, e poi Visigoti e Ostrogoti, senza che per questo venisse meno un sentimento di appartenenza comune e l’unità di lingua. L’episodio, riferito da Giordane, viene messo in dubbio, almeno nei termini in cui è riportato, da diversi studiosi, che pensano piuttosto a una razionalizzazione a posteriori, nelle fonti, della differente distribuzione dei Goti all’epoca della migrazione verso Occidente, con quelli che vennero denominati Visigoti, diretti in Gallia e poi in Spagna, e gli Ostrogoti, indirizzati verso l’area balcanica e, infine, in Italia.

Illustrazione ricostruttiva della divisa di un guerriero visigoto (V-VI sec.), di A. Gagelmann.
Illustrazione ricostruttiva della divisa di un guerriero visigoto (V-VI sec.), di A. Gagelmann.

L’exercitus ostrogoto che Teoderico guidò in Italia doveva essere composto da circa venti-venticinquemila guerrieri, per un totale di cento-centoventicinquemila individui (compresi, cioè, coloro che non combattevano: le donne, i minori), in massima parte (ma non in via esclusiva) di stirpe gota. Nell’insieme si trattava di una quantità relativamente modesta e di certo largamente minoritaria rispetto alla copia dei Romani, con cui i Goti si trovarono a convivere, anche se l’impatto dei nuovi immigrati deve essere calcolato in proporzione non tanto alla massa degli abitanti della penisola, quanto, piuttosto, al ceto dei possessores, cioè al ceto dirigente romano, al quale essi si affiancarono per rango e funzioni. Gli Ostrogoti si insediarono sul territorio italico in ragione del criterio dell’hospitalitas, vale a dire dell’acquartieramento militare, tradizionalmente applicato dall’Impero ai propri foederati barbari: per il servizio prestato, essi avevano diritto a un terzo delle terre della penisola, secondo una distribuzione del cui svolgimento fu incaricato il prefetto del pretorio Liberio, che operò con l’aiuto di una rete di delegatores, i quali, eseguiti i calcoli e le opportune ripartizioni, rilasciavano ai beneficiati regolari titoli di possesso, denominati pittacia. Nei casi in cui l’insediamento dei Goti sulle terre loro assegnate secondo l’istituto della tertia non aveva luogo, i proprietari romani pagavano al destinatario goto un fitto per quel terzo reso comunque disponibile, anche se non occupato effettivamente. Secondo una chiave di lettura che si è fatta strada in tempi relativamente recenti, soprattutto in seguito agli studi di Walter Goffart, e che è tuttora fonte di discussione, nel caso dell’acquartieramento in Italia dell’exercitus dell’ostrogoto Teoderico non si sarebbe avuta una reale cessione di un terzo delle terre ai barbari federati, ma piuttosto la concessione a costoro di una quota dell’imposta fondiaria, già versata dai possessores allo Stato romano, corrispondente al terzo teoricamente alienabile per l’hospitalitas. Ciò spiegherebbe, secondo i sostenitori di tale interpretazione, l’assenza nelle fonti del tempo di qualsivoglia lamentela, da parte degli espropriati, che non avrebbero, dunque, dovuto subire una perdita di proprietà, né un aggravio fiscale aggiuntivo, ma che avrebbero semplicemente corrisposto a un diverso percettore il terzo di un’imposta che essi pagavano in ogni caso. La soluzione sarebbe stata vantaggiosa pure per i Goti, i quali avrebbero beneficiato di un provento sicuro senza accollarsi l’onere del versamento dell’imposta fondiaria, cui sarebbero stati tenuti se fossero diventati possessori effettivi di un terzo delle terre italiane. In assenza di argomenti decisivi, che permettano di sciogliere il nodo circa l’autentica configurazione della tertia concessa agli Ostrogoti in Italia, le diverse ipotesi rimangono aperte al vaglio critico; resta un punto fermo che l’insediamento goto nella penisola non si svolse affatto in forme violente e arbitrarie, ma seguì i consolidati e ordinari meccanismi dell’hospitalitas, da tempo familiari sia al mondo romano sia alle stirpi barbare.

Un capo militare goto. Ricostruzione di A. McBride.
Un capo militare goto. Ricostruzione di A. McBride.

Il regno di Teoderico, centrato sull’Italia con la Sicilia, comprendeva pure le due province retiche e quelle noriche, la Pannonia Savia e la Dalmazia; dopo il 505 il monarca goto acquisì il controllo dell’intera Pannonia e, dal 508, cadde in suo potere anche la Provenza. Un’accorta politica diplomatica gli permise inoltre di esercitare un sufficiente grado di autorità – almeno a tratti – perfino su regioni esterne al suo regno, dal Danubio fino ai Pirenei, con particolare riguardo per il regno dei Visigoti, sulla cui massima carica giunse a detenere per un certo periodo un forte ascendente. Lo stanziamento effettivo degli Ostrogoti non si verificò, peraltro, in modo ovunque omogeneo; nella stessa penisola italiana rimasero sostanzialmente estranee alla presenza gota le regioni meridionali, salvo alcuni presidi circoscritti. La testimonianza che proviene dalle fonti letterarie non indica alcun numero apprezzabile di Goti in province quali l’Apulia o la Calabria e, in genere, non è possibile riscontrare l’esistenza di loro insediamenti di una qualche entità a sud della linea Roma-Pescara, se si fa eccezione solo per alcune guarnigioni (non particolarmente nutrite) collocate a tutela di alcuni centri di primario rilievo strategico: Cuma, Napoli, Benevento, Acerenza, Rossano, Siracusa, Palermo. Le città meridionali sede di guarnigione, come quelle elencate, erano dotate di strutture difensive, mentre le altre non avevano fortificazioni. Contingenti di Goti maggiormente numerosi, rispetto al sud, si trovavano nell’Italia centrale, specie in ambito appenninico, nelle odierne regioni dell’Umbria e delle Marche, ma anche più su, lungo la fascia costiera adriatica di particolare rilievo strategico, ma anche di insediamenti estesi. Importante risulta esser stata la presenza gota ad Osimo, che fungeva da porta d’accesso a Ravenna; tale ruolo appare esaltato in chiave strategica, tra l’altro, nelle vicende della guerra tra l’Impero e gli Ostrogoti, scoppiata nel 535 e che, dopo diciotto anni di combattimenti, pose fine al regno di questi ultimi. Un nucleo ostrogoto era sicuramente presente a Rimini e altri sono riscontrabili soprattutto nell’area compresa tra Ascoli Piceno e Ancona. Le zone di massimo popolamento degli Ostrogoti erano però quelle dell’Italia settentrionale, nella pianura del Po e lungo la fascia prealpina compresa tra Brescia e Belluno. L’odierna Lombardia ospitava centri di assoluto rilievo, come Milano e Ticinum-Pavia, nella quale risiedeva il monarca ed era custodita una parte del tesoro regio. Lo stesso re Teoderico aveva ubicato la propria residenza, oltre che a Pavia, a Ravenna, in passato sede imperiale, mentre un’altra città alla quale era legata la sua figura fu Verona (dove egli aveva riportato la prima e determinante vittoria su Odoacre, come sottolineato dal panegirista Ennodio[2]), al punto che nelle leggende fiorite intorno alla sua memoria il re goto divenne – come si dirà – Diderik von Bern, cioè «Teoderico di Verona». Le tre città regie (Pavia, Ravenna e Verona) erano accuratamente collegate fra loro da un sistema viario che faceva perno sul nodo di Ostiglia; per il rifornimento della mensa del re a Ravenna continuava a funzionare anche un vecchio itinerario via mare, che portava le derrate dall’Istria, dapprima lungo la costa altoadriatica e quindi attraverso le lagune che si susseguivano tra Altino e Ravenna.

Fibula ostrogota. Bronzo, VI sec. Cleveland Museum of Art
Fibula ostrogota. Bronzo, VI sec. Cleveland Museum of Art

In generale i Goti privilegiarono città già significative in età romano-imperiale, con minimi aggiustamenti, che potevano dipendere da fenomeni di riassetto degli equilibri territoriali complessivi. Per esempio nel vitale scacchiere nordorientale crebbe l’importanza di un centro come Treviso, non così rilevante in epoca anteriore, che invece acquistò nel regno goto una centralità legata alla sua collocazione di peculiare interesse militare, nel cuore della Venetia e sulla direttrice che conduceva verso il Friuli, e quindi verso il cruciale confine orientale. Treviso (come anche Cividale, Aquileia, Concordia, Trento, Tortona, Pavia, Ravenna) ospitò un horreum, cioè un granaio pubblico, al quale si ricorse tra l’altro per soccorrere le popolazioni colpite dalla carestia negli anni 535-536. La presenza in una città di magazzini pubblici implicava come necessaria conseguenza la dislocazione di guarnigioni e l’esistenza di opere fortificate per la protezione degli stessi, incrementando in tal modo la consistenza delle infrastrutture e della densità demografica del medesimo centro. La continuità sostanziale del sistema produttivo e della rete stradale della tarda romanità non richiese alcuna ricollocazione dei centri urbani di epoca gota: le città che primeggiavano nel basso Impero continuarono dunque ad eccellere (a cominciare da Ravenna), mentre fenomeni di parziale declino – peraltro sempre difficili da apprezzare compiutamente – che sono stati attribuiti al regno goto, sembrano doversi intendere, invece, come avviati in epoca anteriore. Anche sotto il profilo strategico-militare, del resto, i Goti non fecero certo registrare alcuna trasformazione di sostanza, perpetuando il generale orientamento verso nord, con le sue conseguenze sulla trama urbana, che era già in vigore da tempo. Non si deve dimenticare, inoltre, che nel meridione la presenza gota fu scarsissima, e che quindi non ebbe modo di incidere sui vecchi equilibri. La testimonianza delle fonti scritte, in primo luogo (ma non esclusivamente) Cassiodoro, insiste sugli interventi edificatori che Teoderico avrebbe compiuto nelle città, a cominciare da quelle in cui risiedeva, per restaurare gli antichi edifici in rovina, consolidare le difese, procedere a nuove costruzioni. Gli esempi al riguardo sono molteplici. A Ravenna, vengono attribuiti a Teoderico, tra gli altri interventi, l’erezione di una cappella palatina, il restauro della basilica Herculis, il ripristino dell’acquedotto, che alimentava anche i bagni pubblici. A Verona, oltre al potenziamento delle strutture difensive e al ripristino, anche qui, dell’acquedotto, è segnalata la costruzione di un palazzo collegato alle mura da un lungo portico e di nuovi impianti termali. Con una lettera poi raccolta nelle Variae[3], il re incaricò l’architetto Aloiosus di restaurare l’intero centro termale di Abano, splendido in epoca romano-imperiale e al tempo presente ridotto in uno stato di deplorevole abbandono, con palazzi vetusti e trascurati, sterpaglie che invadevano strade e piazze, gli impianti delle terme inutilizzabili per la prolungata carenza di manutenzione.

Maestro di S. Apollinare Nuovo. Mosaico raffigurante il Palatium di Teoderico il Grande. 526 ca. Cappella di S. Apollinare Nuovo, Ravenna.
Maestro di S. Apollinare Nuovo. Mosaico raffigurante il Palatium di Teoderico il Grande. 526 ca. Cappella di S. Apollinare Nuovo, Ravenna.

L’attività edilizia del re riguardava principalmente edifici pubblici, civili ed ecclesiastici, concentrati nelle città più importanti, oltre alle strutture difensive, urbane e non; occasionalmente sono testimoniate pure iniziative riguardanti costruzioni private, come quella di Matasunta e del suo sposo Vitige, che, nel 536, fecero innalzare a Ravenna una residenza in cui abitare. Alla luce delle attuali conoscenze, rimane assai difficile stabilire la portata reale degli interventi edificatori attribuiti a Teoderico. Pur nella difformità delle posizioni critiche, è stato ampiamente e convincentemente fatto notare come le fonti scritte siano condizionate, in merito, da palesi intenti propagandistici, che sollevano dubbi sull’autenticità delle loro informazioni. L’insistenza di autori come Cassiodoro, Ennodio, lo stesso Anonimo Valesiano, sullo zelo edilizio di Teoderico (Cassiodoro giungeva a dire che con il re goto si erano erette città, castelli, palazzi che superavano per bellezza quelli del passato), intendeva far rientrare la figura del monarca goto nel modello ideale del princeps romano, del quale l’evergetismo costituiva uno dei tratti salienti; in tale prospettiva, nel costruire e nel restaurare, Teodorico si uniformava alla condotta degli imperatori e dimostrava ai Romani il proprio rispetto per il patrimonio di monumenti che egli aveva ereditato e di cui voleva essere garante. Insomma le iniziative dichiarate da simili testimonianze sembrano rispondere più a intenti di ostentazione di un ruolo che a realizzazioni effettive, anche se bisogna riscontrare ogni singola attestazione con la controprova archeologica, laddove disponibile. L’identificazione del settentrione quale luogo privilegiato dell’insediamento ostrogoto in Italia trova conferma nelle testimonianze letterarie, come per il passo di Agazia di Mirina che, nel riferire della conclusione della guerra tra i Goti e l’Impero (535-553), narra il rientro alle proprie basi dei Goti sopravvissuti alla sconfitta finale, incassata dal loro ultimo re Teia ai monti Lattari, precisando come «quelli che prima vivevano al di qua del Po fecero ritorno in Tuscia e Liguria […] mentre quelli da oltre il Po attraversarono il fiume e si dispersero verso la Venetia e verso i centri e le città di quella regione, dove avevano vissuto in precedenza[4]». Proprio alcuni particolari legati allo svolgimento del conflitto ribadiscono la peculiare dislocazione del popolamento goto. Allo scoppio delle ostilità il generale imperiale Belisario decise di sferrare l’attacco da sud, sbarcando in Sicilia e risalendo con facilità, in pochi mesi, il Mezzogiorno continentale fino a Napoli, proprio perché il nemico era tutto concentrato nel settentrione (e presidiava piuttosto il confine nordorientale, aspettandosi un’avanzata da Oriente); quando invece nel 540, dopo i primi cinque anni di combattimenti, si ricercò un accordo di pace (che non resse), venne proposto che agli Ostrogoti fosse lasciata l’Italia transpadana, dove erano ammassati, e all’Impero fosse restituito il resto della penisola.

Ricostruzione dell'Edificio IV (una fornace) del Parco Archeologico Monte Barro (Lc). Illustrazione di A. Monteverdi.
Ricostruzione dell’Edificio IV (una fornace) del Parco Archeologico Monte Barro (Lc). Illustrazione di A. Monteverdi.

Le indicazioni che provengono dalle testimonianze scritte circa la distribuzione dei Goti in Italia trovano una conferma di massima nei riscontri archeologici, concentrati nelle regioni padane, in Romagna, nelle Marche, mentre risultano pressoché assenti nel Mezzogiorno continentale e in Sicilia, lungo la fascia tirrenica e anche nel nord-ovest. Il carattere probatorio di tali incroci di documentazione deve pur sempre tener conto della disorganicità della ricerca archeologica sul territorio; tuttavia, è possibile ricostruire una mappa degli insediamenti ostrogoti sufficientemente corretta. Il motivo di una diffusione tanto parziale della gens Gothorum sul suolo della penisola è senz’altro da individuarsi nel numero esiguo dei suoi componenti e quindi nell’ineludibile necessità per costoro di concentrarsi nelle zone di maggior rilievo strategico, piuttosto che rimanere inutilmente dispersi su aree più vaste (che sarebbero rimaste incontrollabili). Per questo si preferì ridurre al minimo la propria presenza nel centro-sud, per coagularsi piuttosto nella pianura Padana e a ridosso della catena alpina, la quale costituiva il limes rispetto alle stirpi che potevano a loro volta far irruzione in Italia, forse con un orientamento privilegiato in direzione nord-est (che potrebbe spiegare il più intenso popolamento della dorsale adriatica rispetto a quella tirrenica), cioè verso quel valico orientale da cui i Goti stessi erano entrati e che da secoli ormai costituiva il corridoio più favorevole per quanti volevano penetrare nella penisola. Da notare, peraltro, che il confine nordorientale fu consolidato con l’acquisizione del successivo controllo della Dalmazia e della Pannonia e che, da quel momento in poi, l’attenzione sembrò spostarsi piuttosto sui settori centrale e occidentale, dove si doveva far fronte alla minaccia rappresentata da stirpi come quelle dei Burgundi, degli Alamanni e, in particolare, dei Franchi. Buona era la presenza gota anche nella fascia appenninica, a controllo delle vie verso il Meridione e del canale di collegamento fra Ravenna e Roma. La salvaguardia del confine alpino rappresentò dunque uno dei principali motivi di polarizzazione della presenza gota nella penisola italiana e ricalcò, nell’opzione strategica generale che postulava, il modello difensivo romano, tutto orientato a nord. Nell’area alpina gli Ostrogoti ereditarono l’impianto difensivo fortificato della romanità, quel Tractus Italiae circa Alpes, destinato a durare anche nelle epoche successive. Teoderico sembra aver potenziato specialmente la trama dei castelli che si collocavano al margine meridionale delle zone alpine, insistendo forse – come s’è detto – soprattutto sullo scacchiere centro-occidentale da una certa data in avanti. Per la gran parte di questi castra e castella si disponevano in corrispondenza delle clausurae alpine, vale a dire degli sbarramenti che erano collocati ai valichi per presidiare le vie d’accesso alla penisola. Le clausurae, già presenti nel tardo Impero e testimoniate ancora in età longobarda e oltre, in aggiunta al ruolo di prima barriera contro eventuali attacchi in forze dei nemici, fungevano pure da elemento di controllo alla frontiera per tutti gli stranieri che si recavano nella penisola, allo scopo di verificare – come ben documentano le posteriori leggi longobarde, ma anche una lettera di Cassiodoro[5] – che non si trattasse di fuorilegge, di spie, o magari di servi fuggitivi. Come già nel tardo Impero, molte fortezze servivano a dare ricetto, in caso di attacco nemico, alle popolazioni distribuite sul territorio circostante, che abitavano in insediamenti rurali aperti e indifesi; le incursioni, infatti, erano spesso mirate a razziare esseri umani, da tenere poi o da vendere come schiavi. Così, ad esempio, in anni compresi tra il 507 e il 511, Teoderico esortava i Goti e i Romani residenti in insediamenti sparsi attorno al castello di Verruca (da individuarsi, probabilmente, con la località di Fragsburg, presso Merano) a riparare entro la fortificazione, per prevenire possibili, imminenti, pericoli. L’erezione di simili strutture protettive in età gota potrebbe essere stata iniziativa anche di privati proprietari, desiderosi di tutelare la loro manodopera, secondo un costume diffuso oltralpe (dove la capacità difensiva pubblica era precocemente venuta meno) sin dal IV secolo. In casi come quello documentato da una direttiva di Teoderico rivolta ai possessores di Feltre e a quelli di Trento, verso il 523-526, è testimoniata l’azione congiunta dell’autorità regia e delle comunità locali: nella circostanza, infatti, il monarca sollecitava i proprietari della zona a procedere concordemente alla realizzazione di una nuova civitas, probabilmente in Valsugana, cioè lungo una direttrice allora esposta alla latente minaccia franca.

Castrum tardoantico. Parco Archeologico di Castelseprio e Torba (Va)
Castrum tardoantico. Parco Archeologico di Castelseprio e Torba (Va)

Teodorico valorizzò, pertanto, l’eredità tardoromana, consolidando le clausurae alpine i castelli allo sbocco delle valli e le antiche città fortificate che sorgevano sulle principali vie che dalle Alpi scendevano alla pianura, come Cividale, Trento, Ivrea, Susa. Rimane tuttavia impossibile stabilire concretamente, alla luce delle attuali conoscenze e in assenza di puntuali riscontri archeologici, quale sia stato il reale grado d’intervento dell’Amalo, cui le fonti scritte attribuiscono propagandisticamente non solo il restauro delle vecchie strutture ma anche la costruzione di nuovi centri fortificati. Come per gli interventi nelle città di pianura sopra ricordate, anche in questo caso le realizzazioni concrete venivano deformate da un’enfasi esaltatrice, che si preoccupava di rinviare Teoderico ai modelli degli imperatori romani, costruttori e difensori; il mascheramento retorico della realtà del regno goto sotto il velo di un’idealizzazione romaneggiante si ricava bene dall’encomio di Cassiodoro per la funzione assolta dai castelli voluti da Teoderico, e da un’intera regione come la Raetia, quali barriere contro le «ferae  et agrestissimae gentes» che premevano al di là delle Alpi[6]; quasi si trattasse di una riproposizione dell’antico limes della romanità. L’entità reale degli interventi teodericiani in questo campo non emerge, dunque, con sufficiente chiarezza dalle ricerche archeologiche condotte negli ultimi decenni, e non si offre quindi l’opportunità di verificare con i dati materiali le impressioni provenienti dai testi scritti. Attività di scavo in relazione a centri fortificati sono state svolte (o si vanno svolgendo) soprattutto nella Lombardia settentrionale (Monte Barro), nella zona del Garda (Gaino e Sirmione), in Friuli, nella Val Belluna, in Piemonte (dove sono stati rintracciati degli abitati fortificati, come Montefallonio e S. Stefano Belbo). Per tutti questi esempi resta in genere assai problematica una corretta datazione: le strutture sono di norma anteriori all’età gota e non è agevole stabilire quale rapporto originale tale epoca vi abbia apportato. Anche le città maggiori erano in genere munite, almeno a nord, di opere difensive; sovente mancavano mura vere e proprie, ma vi erano ridotti fortificati, collocati nella parte più alta del centro, che potevano proporsi come nuclei di resistenza estrema nel caso la città bassa fosse invasa. Tali ridotti si trovavano nelle città che risultano sprovviste all’epoca di cinta muraria, da Tortona ad Asti, da Trento ad Adria, da Padova ad Ancona; ma anche in quelle che le mura le avevano, come Verona, Brescia, Bergamo. Probabili rafforzamenti della cinta muraria in epoca gota, confermati dall’evidenza archeologica, avvennero, oltre che nelle citate Verona, Brescia e Bergamo, almeno anche a Como, Bologna, Aquileia e Altino, sebbene la datazione delle strutture resti pur sempre incerta. La ricordata postazione militare sul Monte Barro, all’estremità meridionale del lago Lario, costituisce l’unico insediamento ostrogoto significativo fino ad oggi ritrovato. Scavi condotti tra il 1986 e il 1997 hanno portato alla luce un complesso fortificato esteso per almeno sei ettari, cinto da una muraglia difesa da tre torri, con un grande edificio residenziale e altre strutture di complemento. L’insediamento, datato alla prima metà del secolo VI, sembra potersi interpretare come un impianto teso a fornire rifugio, in caso di emergenza, alle popolazioni della pianura sottostante, piuttosto che come la sede permanente di un contingente militare numeroso. Per il resto i reperti archeologici trovati in Italia e attribuibili ai Goti provengono quasi esclusivamente da tombe o da tesori.

Fibula ostrogota con svastica. Oro e vetro, VI sec.
Fibula ostrogota con svastica. Oro e vetro, VI sec.

Va tenuto presente che risulta difficile classificare cronologicamente ed etnicamente le varie presenze barbariche in Italia sulla base dei corredi funerari. Prima di Odoacre non c’era nella penisola una presenza significativa di barbari, tranne i gruppi che militavano nell’esercito romano; con il vincitore di Romolo «Augustolo» si coagulò un nucleo barbarico composto per lo più da Sciri, Rugi ed Eruli. Non è tuttavia possibile discernere archeologicamente il seguito di Odoacre da coloro che immigrarono con Teoderico, sia per la cronologia assai ravvicinata delle due migrazioni sia per l’indistinguibilità dei rispettivi corredi. È invece naturalmente possibile separare i singoli barbari, sepolti con il corredo, dai Romani, che non seguivano tale uso. In generale fattori quali la scarsa distinguibilità dei manufatti goti rispetto a quelli di altre stirpi presenti in Italia in periodi vicini, la prassi presto adottata dai Goti di non seppellire più con il corredo, confondendosi così con i Romani, la difficoltà di datare con sicurezza gli edifici loro attribuiti, tenendo anche conto del fatto che il peridio goto della storia italiana durò appena sessant’anni, rendono problematica l’esistenza stessa di un’archeologica «gota» per la penisola. I corredi goti antichi sono ascrivibili alla tipologia delle stirpi germano-orientali, alla cui categoria i Goti sono rinviabili. Si trattava di culture pesantemente influenzate dai popoli delle steppe e diverse perciò dalle gentes germaniche occidentali, quali ad esempio i Franchi. Il costume femminile tipico delle stirpi germano-orientali (tra cui dunque i Goti) prevedeva la presenza di una coppia di fibule sulle spalle, per fissare al vestito un mantello, e di una grande fibbia alla cintura. Tale costume, formatosi già intorno alla fine del IV secolo, venne mantenuto in tutte le regioni in cui i Goti si diffusero, tra il V e il VII secolo, e si ritrova anche presso i Visigoti della penisola iberica; esso distingueva le donne gote da quelle delle stirpi occidentali. Le fibule e la fibbia da cintura erano decorate e talora impreziosite da pietre; le donne gote portavano anche orecchini e bracciali. Nel corredo funebre goto mancavano altri oggetti d’uso quotidiano, come pettini o recipienti per cibi e bevande, che erano presenti invece in altre culture barbariche. Il noto tesoro scoperto casualmente nel 1893 a Domagnano, nella Repubblica di San Marino, composto di ventidue pezzi tra oreficeria e suppellettili, e considerato uno dei più importanti ritrovamenti archeologici dell’Italia gota, offre l’esempio di un corredo di lusso, che contraddistingueva un individuo di sesso femminile di alto lignaggio. L’esatta interpretazione del tesoro resta difficoltosa, per il mistero che circonda le vicende del ritrovamento e i successivi itinerari dei reperti, a lungo trattati da antiquari e commercianti poco sensibili al dato scientifico; si ritiene comunque assai probabile la provenienza dei pezzi conservati da un unico ritrovamento isolato, databile al V o forse agli inizi del VI secolo. Gli accessori, tutti in oro, comprendono due tipiche fibule a forma di aquila, una fibula ad ape, due spilli per l’acconciatura (per reggere una cuffia o un velo), una parure composta da un largo pettorale, da una coppia di pendenti e da un anello, più una borsa con applicazioni in oro cloisonné e un astuccio per coltello con la punta in oro. Sia l’impiego della cuffia, o del velo, sia la particolare decorazione dei gioielli rinviano palesemente a usi e stili del mondo mediterraneo, sottolineando un forte grado di acculturazione.

Spagenhelme ostrogoto. Ferro e cuoio, VI secolo, da Ravenna.
Spangenhelm ostrogoto. Ferro e cuoio, VI secolo, da Ravenna.

Il corredo maschile goto tipico, invece, si era fissato sin dal I secolo; piuttosto povero, esso era composto da fibbie da cintura e da fibule (tra cui quelle caratteristiche ad aquila), mentre era privo di armi, che sono invece presenti nelle sepolture di altre stirpi (per l’Italia si pensi ai Longobardi). Le armi gote che sono giunte a noi, come l’elmo «a fasce» (Spangenhelm) di Montepagano (Teramo), o quello di Torricella Peligna (Chieti), non sono state dunque ritrovate in tombe, bensì in tesori. La rarefazione dei siti archeologici dei Goti in Italia, rispetto a quelli presenti al di fuori della penisola e databili fra il I e il IV secolo, è conseguenza del fatto che almeno dalla fine del IV secolo, e poi durante tutto il V, mutarono gli usi funebri della stirpe: solo pochi individui, appartenenti ai ceti più elevati, continuarono a trovare sepoltura in tombe isolate, o raggruppate in piccole necropoli a parte, con l’abito e gli accessori, anche se senza il corredo di stoviglie, pettini e altri utensili. Gli individui meno eminenti vennero invece sepolti separatamente e senza corredo, divenendo perciò indistinguibili per l’archeologo. Questa tendenza appare già ben consolidata al momento dell’arrivo in Italia e fu ulteriormente esasperata dalle disposizioni di Teoderico, databili agli anni 507-511 e interpretabili come la probabile sanzione normativa di meccanismi già da tempo in atto; con tali leggi, si vietava l’uso di qualsiasi corredo funebre, condannandolo quale retaggio di credenze pagane circa l’aldilà (che necessita di oggetti di uso quotidiano, in quanto percepita come prosecuzione della vita terrena). Gli usi funerari goti venivano così definitivamente uniformati a quelli della popolazione romana, come ribadito pure dall’invito di Teoderico a ornare, piuttosto, le sepolture con mausolei, alla moda dei Romani.

Fibula ostrogota a forma di aquila. Oro e gemme, fine V sec. d.C. Germanisches Nationalmuseum, Nürnberg.
Fibula ostrogota a forma di aquila. Oro e gemme, fine V sec. d.C. Germanisches Nationalmuseum, Nürnberg.

Le tombe gote presenti in Italia divennero, pertanto, non identificabili; la loro stessa ubicazione non sembra rispondere ad alcun criterio specifico, trovandosi esse, indifferentemente, in gruppi autonomi o all’interno di un cimitero romano e, in questo secondo caso, un poco discoste dalle altre sepolture o anche frammiste a quelle diverse tombe identificate come gote sono state ritrovate in cimiteri romani suburbani, oltre che in porzioni abbandonate di edifici: per esempio nella grande necropoli paleocristiana extra moenia di porta Vercellina, a Milano, è stata scoperta una sepoltura femminile contenente una fibula ad aquila, quindi interpretata come gota. In assenza di corredi etnici o di dislocazioni particolari, le sepolture di Goti possono essere ricercate attraverso altri indicatori, come le iscrizioni funerarie, che riportino nomi goti: è questo il caso, soprattutto, di sepolture ubicate in rilevanti centri urbani (Milano, Pavia, Ravenna, Roma), contrassegnate da nomi di membri della classe dirigente gota: il comes Tzita, il vir sublimissimus Seda, tale Viliaris, nipote del magister militum Trasaric, o Agate, figlia del comes Gattila. L’onomastica va comunque sfruttata con cautela, in quanto un nome, da solo, non identifica con assoluta certezza l’origine etnica di chi lo portava: con la convivenza di scambi di nomi divennero fenomeno tutt’altro che raro. Allo stesso modo, non si deve escludere in via di principio che gli stessi Romani potessero all’occasione adottare elementi culturali dei barbari, percepiti come distintivi di un ceto dominante; questa considerazione potrebbe adattarsi a ritrovamenti come quello, per restare a un caso citato, di Porta Vercellina, inducendo a chiedersi se la presenza di una sola fibula «etnica» in una tomba, collocata in un contesto romano, debba essere per forza un elemento sufficiente a individuare come gota la sua portatrice, senza porsi per niente il dubbio che si potesse anche trattare di una donna romana, che aveva adottato un modulo ornamentale proprio di un’élite sociale.

Gli ordinamenti del «regnum Gothorum»

Il regno di Teoderico sostanzialmente conservò inalterata l’impalcatura burocratica e amministrativa di tradizione romana, giustapponendo ad essa un organigramma goto, che si riservò in via esclusiva la competenza militare. D’altra parte l’alternativa che si pose agli Ostrogoti all’atto del loro ingresso in Italia era quella tra il venire a patti con il ceto politico romano, l’aristocrazia senatoria, oppure il produrre una rottura traumatica e un’eversione radicale degli ordinamenti vigenti attraverso la distruzione fisica di tale ceto, secondo l’esempio fornito in Africa dai Vandali, autori di persecuzioni su vasta scala dei possessores romani e della Chiesa cattolica, nonché di confische sistematiche dei loro beni (così come nella stessa Italia avrebbero fatto più tardi i Longobardi). I Goti, che si erano portati nella penisola non per iniziativa autonoma ma su delega dell’imperatore, optarono per la soluzione già adottata da Odoacre, vale a dire per una convivenza tra l’elemento barbaro di nuova immigrazione, che si proponeva come detentore esclusivo della forza militare, e i quadri eminenti della società romano-italica, nelle cui mani erano concentrati il potere politico-amministrativo e quello economico. La convivenza tra Romani e Goti si poneva, peraltro, in termini di coesistenza sullo stesso territorio di due organismi mantenuti distinti, nelle funzioni (rispettivamente, civili e militari), nel diritto (ius imperiale per gli uni, consuetudini nazionali per gli altri), nel credo religioso, che costituiva un fondamentale elemento d’identità (cattolici i Romani, ariani i barbari), senza alcuno sforzo apprezzabile di assimilazione e di fusione reciproca. Per questo si è potuto parlare di «dualismo», di «bipolarismo», a proposito dei modi di espressione politico-istituzionale (ma anche sociale e culturale) di tale convivenza tra due popoli che restarono separati, anche se indotti alla collaborazione. Soprattutto in raffronto al caso vandalo in Africa, o alla futura soluzione longobarda in Italia, l’età teodericiana ha quindi potuto essere letta come caratterizzata da una sostanziale continuità con gli assetti antichi, come il tratto finale di un’esperienza anteriore, una sua evoluzione, anziché come l’inizio di un ordine radicalmente nuovo. Tale impressione, condivisibile nel suo complesso, non deve però indurre ad accettare supinamente l’immagine di una continuità indistinta e generalizzata tra l’Italia tardoimperiale e quella teodericiana, che avvenga per pura «inerzia»; sembra opportuno parlare piuttosto di «mutamenti nella continuità», della ricerca cioè di nuovi equilibri e di nuove soluzioni all’interno di un quadro di riferimento tradizionale e di valori consolidati.

La corte del re germanico. Illustrazione di A. McBride
La corte del re germanico. Illustrazione di A. McBride

Il voler inserire il regno di Teoderico nel solco di una continuità sostanziale con la tradizione antica ha generalmente portato a sottolineare tutti gli aspetti di più evidente analogia con l’assetto politico-amministrativo tardoromano. Sono stati così rimarcati, accanto all’ossequio dimostrato dal re ostrogoto per il Senato e al mantenimento della struttura burocratico-amministrativa romana (cui si aggiunsero ufficiali goti con proprie mansioni specifiche), anche la continuità nel campo fiscale e giuridico e persino in settori particolarissimi e connessi con le prerogative di un princeps romano, quali quello dell’impegno per la cura del cursus publicus, dell’impulso dato all’agricoltura, dell’attività edilizia pubblica, direttamente promossa dal monarca. La particolare insistenza con cui le fonti coeve, spesso di carattere apertamente encomiastico (dall’esplicito Panegirico di Ennodio, alle stesse Variae di Cassiodoro), riportano gli interventi di Teoderico in questi ambiti induce a ritenere di trovarsi di fronte, in buona sostanza, a una deliberata ripresa e sottolineatura da parte della stessa corte ostrogota e dei suoi canali di propaganda di connotazioni peculiari della sovranità tardoromana, cioè all’assunzione e alla proiezione a opera del medesimo regime teodericiano di modelli della regalità (implicanti precise funzioni e comportamenti del sovrano) capaci di suscitare echi a lui favorevoli presso la popolazione romana e il suo ceto dirigente. Di una simile ricerca di consenso offre un buon esempio la condotta dell’Amalo in occasione della sua visita a Roma nell’anno 500, dopo che lo stesso monarca aveva assecondato le richieste dei romano-cattolici di farsi arbitro nella contesa fra il papa Simmaco e l’antipapa Lorenzo, promuovendo la convocazione di un sinodo che sanasse la frattura. Dopo l’esito del concilio, favorevole a Simmaco (sebbene la polemica fosse destinata a riaccendersi un paio di anni più tardi), Teoderico fu accolto trionfalmente nella città di Pietro dal papa, dai senatori e dal popolo. Nella circostanza, egli si preoccupò di recarsi in Senato, promettendo di conservare intatto quanto gli imperatori romani del passato aveva costruito, come informa puntualmente l’Anonimo Valesiano[7]; presa quindi residenza nel palazzo imperiale, il monarca barbaro celebrò un trionfo di un mese, offrendo ai Romani spettacoli circensi, stabilendo elargizioni annue di cibo ai poveri e stanziando delle somme, tratte dal gettito fiscale, per il restauro dello stesso palazzo imperiale e per il rafforzamento delle mura cittadine. Riassetti anche significativi, pur nella continuità di fondo rispetto al passato tardoimperiale, si possono riscontrare nell’ordinamento delle province. Queste furono sempre affidate a consolari romani e a governatori di rango inferiore, ma essi vennero affiancati da Goti, allo stesso modo in cui, nel governo centrale, vicino al re operavano assieme a romani come Cassiodoro anche ufficiali goti. Il monarca era infatti assistito non solo da funzionari civili romani, ma anche da una «casa» barbarica, composta dai cosiddetti maiores domus regiae. Nelle province, accanto al governatore civile, la cui corte amministrava la giustizia della popolazione romana, agivano comites goti, con funzioni precipuamente militari, non disgiunte da compiti giudiziari. In quanto foederati, ai Goti era riconosciuta la facoltà di conservare le loro consuetudini nazionali a titolo di ius singulare, ma essi avevano contestualmente l’obbligo di garantire alla popolazione romana la facoltà di vivere secondo il diritto imperiale. Teoderico mantenne perciò l’impegno di far osservare lo ius romano; gli editti che emanò per i Romani del suo regno restarono entro i limiti dei poteri di un magistrato imperiale (quale egli figurava in quanto magister militum praesentialis), cui spettava il compito di dare esecuzione alle leggi imperiali e di farle osservare. Gli Ostrogoti continuavano a regolarsi in virtù delle antiche consuetudini nazionali orali, le cosiddette bilagines. A lungo gli studiosi hanno ritenuto che nel regno teodericiano vi fosse anche un codice scritto di diritto goto, il cosiddetto Edictum Theodorici regis, che, invece, viene ora dai più attribuito ad un altro monarca, omonimo dell’Amalo, il re dei Visigoti di Tolosa Teodorico II. L’Edictum Theodorici regis sarebbe pertanto da datarsi al 460-461 e, prodotto in tutt’altro contesto, naturalmente non avrebbe avuto vigore in Italia.

Teoderico (in nome di Anastasio I). Solidus, Roma 493-526. Au 4,15gr – Recto: Vittoria alata stante, verso sinistra con lunga croce.
Teoderico (in nome di Anastasio I). Solidus, Roma 493-526. Au 4,15gr – Recto: Vittoria alata stante, verso sinistra con lunga croce.

Così come erano due, nel regno ostrogoto d’Italia, i sistemi normativi, due erano pure le giurisdizioni: lo iudex romano e il comes goto. Le liti tra Goti e Romani venivano sottoposte al comes, coadiuvato per l’occasione da un Romano esperto del proprio diritto. In questo modo Teodorico rovesciava la norma imperiale, secondo la quale il cittadino romano in lite con un militare (tali erano infatti tecnicamente gli Ostrogoti nella penisola) doveva essere giudicato sempre da un giudice civile assistito da un comes (cioè da un comandante militare). Un Goto era sempre giudicato, invece, da un suo connazionale. Dopo la fine del regno ostrogoto, l’imperatore Giustiniano interverrà per annullare tale disposizione teodericiana, riconducendo i cives sotto la giurisdizione civile. Casi di violazione dell’equilibrio giuridico sono testimoniati in modo sporadico dalle fonti, soprattutto dopo la morte di Teoderico. Cassiodoro ricorda, ad esempio, come durante il regno del giovanissimo Atalarico, sottoposto alla tutela della madre Amalasunta, il comes Gothorum di Siracusa, oltre a rendersi protagonista di diverse vessazioni soprattutto nella riscossione dei tributi, avesse preteso di giudicare impropriamente le liti tra Romani[8]. Un altro re, Baduila, meglio noto come Totila nelle fonti imperiali e nella moderna storiografia, violò apertamente il diritto ufficiale negli anni della guerra, proclamando la liberazione degli schiavi di padroni romani che accettassero di combattere a fianco dei Goti e rendendo legittimi i matrimoni tra individui liberi e schiavi. Tutti questi provvedimenti furono dichiarati nulli da Giustiniano con la Pragmatica sanctio de reformanda Italia del 554, che ripristinò la situazione anteriore agli stravolgimenti operati da Totila. Notevole appare, da ultimo, un ulteriore fenomeno giuridico, riscontrabile nella testimonianza dello stesso Cassiodoro: quello di un progressivo allontanamento della prassi dal diritto ufficiale, soprattutto in sfere quali quella dei reati sessuali o quella della dipendenza servile. Sebbene il re goto si facesse dunque garante del diritto ufficiale, era la prassi che tendeva spontaneamente a discostarsi da quello, per una spinta «spontanea» in atto da tempo, mentre le autorità stesse, in più di un caso, trascuravano di applicarlo correttamente. I sopraccitati comites goti possono essere suddivisi, in linea di massima, in almeno tre livelli (anche se non si devono immaginare piramidi gerarchiche troppo rigide). Al più alto grado si collocavano i comites provinciarum, presenti solo in alcune province, con compiti vari, prevalentemente di polizia, per il mantenimento dell’ordine pubblico. A costoro facevano seguito per dignità i comites civitatum, posti a capo delle guarnigioni cittadine, oltre che gravati di funzioni amministrative e giudiziarie; e, infine, vi erano i comites Gothorum per singulas civitates, con mansioni prevalentemente giudiziarie. Nei rapporti con le istituzioni provinciali il re si avvaleva non solo di ufficiali romani (i comitiaci), ma anche dei saiones, i «seguaci» del sovrano in senso barbarico del termine, che operavano in qualità di suoi messaggeri e agenti personali: comitiaci e saiones venivano in sostanza a svolgere funzioni che nel tardo Impero erano state proprie degli agentes in rebus. In genere i saiones avevano però anche significativi doveri militari: curavano, ad esempio, la leva e i rifornimenti delle truppe. La bipartizione tra magistrature civili e magistrature militari si definiva su base etnica, coerentemente con il carattere di esercito federato applicato alla gens Gothorum stanziata nella penisola.

Mosaico raffigurante un dominus. IV-VI sec. ca. Villa del Casale (Piazza Armerina).
Mosaico raffigurante un dominus. IV-VI sec. ca. Villa del Casale (Piazza Armerina).

Durante il tardo Impero una linea di tendenza piuttosto netta, almeno in Occidente, era stata quella di un progressivo sviluppo del particolarismo provinciale, a fronte dell’indebolirsi del centro politico, con una scelta sempre più frequente dei funzionari all’interno dei ceti eminenti locali e con una spinta all’isolamento economico delle singole province. Con Teoderico, pur partendo da tale situazione, ci fu il tentativo di correggerla, aumentando il peso dell’intervento regio negli ambiti locali: i funzionari centrali erano messi in condizione di intervenire nella vita delle province con ampia discrezionalità, ancorché in modo legittimo, mentre la stessa carica di rector delle singole province, pur venendo definita in termini tradizionali, conobbe un funzionamento irregolare, anche con un’occasionale ampliamento della sfera di competenza territoriale, che poteva trascendere i confini della provincia per coprire un’area più estesa, a giudizio del governo centrale. Veniva inoltre acquistando un ruolo sempre più rilevante nella vita provinciale il cancellarius, ennesimo caso di funzionario nominato dal centro, dotato di poteri assai ampi. Nel regno ostrogoto d’Italia, dunque, a fronte di una continuità dell’ordinamento amministrativo e dell’organizzazione provinciale, che ci fu anche se appare talora volutamente ostentata e amplificata, vennero quindi a realizzarsi, per vie come quelle descritte, trasformazioni di fatto destinate a mutare in modo tutt’altro che secondario il funzionamento interno delle province stesse, il tenore dei loro rapporti con l’autorità centrale e quindi, in definitiva, gli assetti generali del regno.

Società ed economia

L’insediamento della gens degli Ostrogoti in Italia e la conseguente introduzione di un nuovo regime politico non sembra abbia inciso in modo apprezzabile sui meccanismi della società e dell’economia rurali e sugli assetti della proprietà. Il modello produttivo di quest’epoca fece registrare una sostanziale continuità rispetto agli assetti del tardo Impero, proseguendo nello sviluppo di fenomeni già ben avviati: il decentramento della produzione, la preferenza per la gestione fondiaria indiretta, che divenne prevalente, l’accentramento della rendita nelle mani dei possessores. Tali dinamiche acuirono la subordinazione dei contadini, con gradi di sfruttamento che aumentavano quanto più nutrito era il numero degli intermediari fra il proprietario e i lavoratori. La larga maggioranza della popolazione rurale coltivava terra non propria, in qualità di affittuaria; persisteva anche l’impiego di schiavi, i quali, alla luce di recenti stime quantitative (che restano comunque sempre assai precarie), dovevano essere più numerosi di quanto tradizionalmente non si credesse, aggirandosi forse attorno a una percentuale del 15% sul totale dei lavoratori della campagna. Le fonti, se documentano abbastanza bene le aziende di maggiori dimensioni, coltivate da affittuari o da schiavi mantenuti dal proprietario, lasciano invece più in ombra il ceto dei contadini proprietari, dei quali sfuggono pertanto l’esatta fisionomia e la quantità complessiva. La struttura dei latifondi, di cui c’è buona testimonianza, prevedeva una suddivisione degli stessi in massae, amministrate da actores, e lavorate, per l’appunto, da contadini dipendenti.

Giuseppe presiede al controllo del grano. Placca d’avorio, 552, dal Trono dell’arcivescovo Massimiano, Ravenna.
Giuseppe presiede al controllo del grano. Placca d’avorio, 552, dal Trono dell’arcivescovo Massimiano, Ravenna.

La stratificazione dei rustici, secondo criteri sociali ed economici, risulta esser stata molto accentuata, al di là dell’immediata distinzione giuridica tra gli individui che godevano dello status di libero e quelli che invece ne erano esclusi. Sul piano giuridico, contadini liberi e schiavi rimanevano ovviamente ben separati, ma dal punto di vista della percezione del loro ruolo sociale ed economico una simile differenziazione si affievoliva; una fortunata formula del noto giurista Ulpiano, «servus quasi colonus est», portava ad intendere che il lavoro fornito da un colono e quello prestato da un servo fossero in buona sostanza identici dal punto di vista del padrone, con la conseguenza che le due figure tendevano a sovrapporsi. Inoltre una quantità crescente di liberi era spinta a decadere nello status servile, dal momento che l’estrema indigenza di molti contadini li costringeva a vendere come schiavi i propri figli per sopravvivere, oppure a dare se stessi in servitù a un qualche padrone, che assicurasse loro il soddisfacimento dei bisogni primari e li soccorresse nelle emergenze. Meno frequente risultava un passaggio di condizione in senso opposto, con l’affrancamento di soggetti schiavi. Questo poteva verificarsi per istanze individuali, piuttosto che per meccanismi strutturali della società e dell’economia, nei casi, cioè, di ascesa di singoli individui non liberi particolarmente intraprendenti, ovvero per scelte dei padroni condizionate dalla morale cristiana (un servo affrancato costituiva un’offerta a Dio e poteva essere impegnato a pregare per l’anima dell’ex padrone); oppure, ancora, per interventi delle autorità ecclesiastiche, spalleggiate dall’autorità pubblica, come nella manomissione di schiavi cristiani sottratti a padroni ebrei. Si trattava comunque di esiti difficili da raggiungere e, oltretutto, non necessariamente desiderabili, poiché la tutela padronale insita nella condizione servile poteva addirittura essere preferita a una libertà esposta alla miseria.

Codex Vaticanus lat. 3225 – Vergilius Vaticanus, f. 7v (400 ca.). Scena di vita agreste.
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Vat. Lat. 3225, Vergilius Vaticanus (V sec.), f. 7v. Scena di vita agreste.

Come negli usi tardoimperiali, lo sfruttamento dei lavoratori rurali era massimo ed eventuali elementi di moderazione in tale sfruttamento potevano scaturire non tanto da scrupoli umanitari, quanto da una percezione del tutto empirica che vi era un limite invalicabile di sopportazione della fatica. Insomma si capiva che era meglio non gravare di lavoro oltre una certa soglia un contadino, perché altrimenti questo si ammalava, o magari moriva, arrecando un danno economico al proprietario. L’estrema fragilità dei ceti rurali risultava drammaticamente evidente in occasione di calamità, quali le carestie. Nel modello economico tardoromano, perpetuato nell’Italia gota, era fisiologica la sottrazione ai contadini dell’eventuale surplus di produzione, negando così la possibilità a costoro di costituirsi delle riserve per fronteggiare la crisi. A fronte di una produzione agricola che rimaneva sempre fluttuante, la domanda dello Stato, e delle città, era inelastica: la fiscalità prescindeva dalle variazioni della produzione agricola e in occasione delle crisi alimentari si aggiungevano interventi speculativi e tentativi di espansione della grande proprietà a danno dei più deboli ed esposti. Gli episodi di carestia sono ripetutamente attestati: particolarmente severa fu, per esempio, la penuria alimentare che colpì l’Italia settentrionale negli anni trenta del VI secolo, costringendo le autorità a prendere misure di emergenza, con il ricorso ai granai pubblici per sfamare le popolazioni colpite. La stessa percezione culturale dei rustici da parte dei ceti proprietari, cittadini e colti, era contraddistinta da una connotazione fortemente spregiativa nei riguardi dei primi (peraltro non nuova, e destinata a ulteriori evoluzioni), che ben si evince dalle principali fonti del tempo, le quali ovviamente riflettevano il pensiero delle élite dominanti. In autori quali Ennodio o Cassiodoro il rusticus appare raffigurato come un individuo non soltanto rozzo e ignorante, ma anche ostile verso le persone per bene, nei riguardi delle quali, con biasimevole impudenza, egli si dimostra minaccioso e aggressivo, giungendo, in taluni casi, perfino all’attacco fisico, magari in banda organizzata. Le mura delle città erano perciò salutate come un provvidenziale elemento di cesura tra il mondo della civilitas urbana e la violenta grossolanità dei lavoratori dei campi, così come si auspicava che pure i costumi di vita – persino la dieta alimentare – di contadini e cittadini non avessero giammai modo di confondersi. Nel ceto dei proprietari, accanto alle grandi famiglie romane, si inserirono anche Goti, che adottarono i modelli di gestione fondiaria propri dell’aristocrazia romana. Le acquisizioni di terre da parte degli Ostrogoti (fatto salvo quanto s’è detto sulla tertia) avevano luogo tramite acquisti privati, magari non senza l’occasionale ricorso a forme di pressione violenta (almeno in taluni casi). Procopio ricorda come Teodato, figlio della sorella del re Teoderico, Amalafrida, e destinato a divenire egli stesso re (oltre che assassino della regina Amalasunta, che aveva sposato), malgrado fosse divenuto «padrone della maggior parte delle terre di Toscana», cionondimeno «si dava un gran da fare per strappare con la forza anche il resto ai legittimi proprietari», dal momento che per lui «avere un vicino era una disgrazia»[9]. Il goto Teodato era dunque uno dei principali latifondisti del regno, e il suo non doveva essere un caso isolato; naturalmente sulle terre detenute in proprietà anche i possessores ostrogoti pagavano l’imposta. Ampie assegnazioni di terre furono poi garantite a beneficio della famiglia reale e dalla chiesa ariana, ma questi appezzamenti erano tratti dal demanio e non sottratti a privati proprietari. Che il trasferimento di proprietà dai Romani ai Goti si fosse verificato in forme complessivamente ordinate e legittime si ricava anche dal fatto che, nel momento in cui procedette al riordino dell’Italia reintegrata nell’Impero, nel 554, Giustiniano non fu costretto ad adottare misure drastiche (con l’eccezione di ciò che riguardava gli atti compiuti da Totila), a differenza di quanto dovette invece fare nell’Africa strappata ai Vandali.

Mosaico raffigurante il Trionfo di Nettuno sulla quadriga. Dettaglio - La raccolta dei frutti. Da Chebba (Sfax), III secolo d.C. Musée du Bardo.
Mosaico raffigurante il Trionfo di Nettuno sulla quadriga. Dettaglio – La raccolta dei frutti. Da Chebba (Sfax), III secolo d.C. Musée du Bardo.

L’equilibrio economico complessivo tra i possessores romani e i nuovi proprietari goti, sostanzialmente mantenutosi per tutto il regno di Teoderico (ma, com’è verosimile, non senza graduali alterazioni), potrebbe forse essersi spezzato in modo definitivo e irreparabile negli anni immediatamente successivi, a causa dell’incapacità, sul lungo periodo, di un sistema che restava strutturalmente debole (anche se poteva apparire congiuntamente florido) di sostenere i costi sempre più onerosi dell’apparato goto e della politica regia. La propaganda alimentata dal regime teodericiano, tanto ben modulata nello stile della miglior retorica classica da un Ennodio o da un Cassiodoro, fu tesa a proporre e diffondere l’immagine del regno dell’Amalo come un’epoca di felicitas: un’età non solo di concordia e pace, ma anche di prosperità per l’economia. Fatte salve le intenzionali esagerazioni delle fonti, si deve tener presente che con il re goto si ebbe un significativo mutamento rispetto agli equilibri del tardoimpero: nel mondo romano vi era una forte polarizzazione tra le aree che pagavano tributo (come la penisola Iberica o l’Africa) e le aree consumatrici (quelle che ospitavano il grosso dell’esercito, come la regione renano-danubiana, o quella che dovevano sostentare il comitatus imperiale, come l’Italia). L’Italia ostrogota sembra essersi invece proposta come una provincia che, al medesimo tempo, versava i tributi e consumava: lo stesso esercito goto, stanziato nella penisola, reinvestiva qui i suoi proventi, dando stimolo alla produzione manifatturiera e ai commerci. Insomma finché l’equilibrio si mantenne, ossia fintanto che i costi della macchina politico-militare ostrogota non si fecero eccessivi per le risorse italiane, si può pensare a una congiuntura accolta in modo positivo dalle parti in causa. La sostanziale continuità in campo economico e produttivo fatta registrare dal periodo goto rispetto all’età anteriore appare confermata anche dalle fonti materiali, che mostrano, a loro volta, il perdurare degli assetti antichi, individuando un momento di parziale trasformazione, semmai, in precedenza, cioè attorno all’inizio del V secolo: si tratta, peraltro, di fenomeni complessi e in buona parte ancora sfuggenti. In alcuni casi il dato archeologico rischia addirittura, se non viene ben interpretato e confrontato con altri riscontri, di offrire prospettive ingannevoli (ma la stessa avvertenza vale, beninteso, per la testimonianza scritta): per esempio l’archeologia mostra un declino edilizio delle ville, nel corso del V secolo, che sfocia nel tendenziale superamento di un simile modello abitativo alla fine del VI secolo (fatte salve le specificità regionali). A tale apparente decadenza delle strutture materiali, che va comunque letta in tutta la sua complessa articolazione (si tratta, cioè, non di mera rovina generalizzata, ma piuttosto di ristrutturazioni, suddivisioni, abbandono selettivo di alcuni settori), non corrisponde alcuna crisi parallela dei ceti proprietari, né alcuno stravolgimento dei moduli produttivi, per cui bisogna immaginare, semmai, processi di ricollocazione dei centri gestionali e amministrativi nelle campagne, che sono ancora tutti da approfondire. Poco probandi anche le notizie sui villaggi, dal momento che gli esempi conosciuti sono troppo scarsi per suggerire indicazioni generali (tali casi lascerebbero intendere una tendenza alla contrazione dell’abitato, dal V secolo). Possibili spie archeologiche di una crisi della trama insediativa di tradizione romana, dal secolo V, quali l’apparente declino delle ville o il restringimento dei villaggi, sono poi contrastate da indicatori di segno opposto, come il proliferare di luoghi di culto, anche in ambito rurale, che insistono sovente su strutture preesistenti, a ribadire una continuità dei bacini insediativi e una persistente disponibilità di capitali da investire in simili realizzazioni. Insomma le testimonianze archeologiche e quelle scritte, da sole potenzialmente ingannevoli, si possono compensare e «correggere» nel reciproco incrocio, lasciando emergere un quadro, per l’Italia rurale d’età gota, di sostanziale tenuta rispetto agli ultimi tempi dell’Impero d’Occidente, facendo spostare semmai in avanti eventuali cesure e lasciando intendere, comunque, come i processi di trasformazione si siano dipanati su tempi molto lunghi. Tali conclusioni sembrano corroborate anche da ulteriori specialismi, quali la zooarcheologia, che nello studiare i resti degli animali d’allevamento indica il permanere, ancora nel VI secolo, degli antichi usi zootecnici e del tradizionale equilibrio fra il pascolo e il coltivo.

La parabola politica del regno

La cooperazione fra Teoderico e il ceto dirigente romano nell’opera di governo dell’Italia comportò anche lo svolgersi di un rapporto diretto tra il re goto, ariano, e la Chiesa cattolica. Come detto, la diversità di confessione religiosa venne mantenuta quale tratto di identità etnica dell’exercitus barbaro stanziato nella penisola e di distinzione rispetto alla maggioritaria popolazione autoctona. La Chiesa ariana aveva i propri edifici di culto, il proprio clero, le sue proprietà; nei medesimi centri urbani in cui Goti e Romani coabitavano, coesistevano le chiese ariane per i primi e quelle cattoliche (ben più numerose), rivolte ai secondi. A Ravenna, per esempio, vi era una grande cattedrale urbana con un battistero, oltre a una cappella palatina, consacrata al medesimo culto. Pur nel rispetto di una simile separatezza, Teoderico fu chiamato a intervenire in questioni, anche assai rilevanti, che concernevano i cattolici, in quanto dovere connaturato alla responsabilità di governo di sudditi romani che gli era stata affidata; allo stesso tempo ricercò il sostegno delle élite ecclesiastiche cattoliche, perché ciò poteva costituire un ulteriore elemento di legittimazione dalla sua carica agli occhi dei Romani. Dal suo canto la Chiesa doveva vedere nel monarca Amalo non solo un motivo di stabilità istituzionale comunque vantaggiosa in generale, ma anche, data la sua appartenenza a un’altra confessione cristiana, una garanzia di non ingerenza nel delicato ambito della definizione del dogma: a differenza di quanto invece aveva dimostrato di voler fare l’imperatore di Costantinopoli, sin dall’emanazione dell’Henotikon con Zenone nel 482, per congelare il dibattito anti-monofisita in termini risultati sgraditi a Roma.

Battistero degli Ariani (VI sec.). Ravenna.
Battistero degli Ariani (VI sec.). Ravenna.

Sin dai primi anni di regno è attestato un cordiale rapporto di Teoderico con il papa Gelasio I, di cui restano alcune lettere al monarca ostrogoto e una a sua madre, Ereleuva, nelle quali il pontefice, chiedendo agli interlocutori piccoli favori (come il sostegno di ecclesiastici incaricati di sbrigare affari urgenti), si dichiarava certo della benevolenza di Teoderico per la Chiesa cattolica e per la sede petrina, in quanto erede di tutte le prerogative degli imperatori romani d’Occidente e attento custode delle leggi da loro emanate, anche in materia religiosa[10]. Un coinvolgimento ben più impegnativo di Teoderico nelle vicende della Chiesa di Roma si ebbe in occasione del cosiddetto scisma laurenziano, allorquando, alla morte di papa Anastasio II, nel 498, vennero eletti contemporaneamente, in veste di suoi successori, il diacono Simmaco e l’arciprete Lorenzo, sostenuti da opposte fazioni dell’aristocrazia romana. Per sciogliere il nodo le parti chiamarono in causa il re, il quale, in conformità con le norme ecclesiastiche, rinviò il giudizio a un concilio, indicando che si doveva riconoscere come papa colui che fosse stato ordinato per primo, ovvero chi potesse contare sulla maggioranza dei consensi. Solo la testimonianza della fonte che rispecchia il pensiero dei partigiani di Lorenzo, il quale uscì sconfitto, vale a dire il cosiddetto Frammento laurenziano contenuto nel Liber Pontificalis, biasima la condotta dell’Amalo, accusato di essersi lasciato corrompere dai simmachiani. In realtà Teoderico mantenne nella circostanza un contegno di assoluta correttezza costituzionale, assai opportuno anche sotto il profilo politico, dal momento che gli permise di conservare una posizione equilibrata al cospetto dell’Impero e delle élite romano-cattoliche: trascinato in una vicenda delicatissima, in cui, in quanto re barbaro e ariano, rischiava facilmente di apparire un intruso e un prevaricatore, egli si comportò nel pieno rispetto del diritto, eseguendo quanto ci si sarebbe aspettati da un princeps romano. I padri, riuniti nel sinodo che, nel marzo del 499, rimosso Lorenzo, poterono così acclamare Teoderico nel nome di Cristo, mentre l’anno seguente il Goto fu accolto trionfalmente a Roma dal papa e dal Senato, durante una visita – già ricordata – tutta intrisa di simbolismo imperiale. La contesa tra Simmaco e Lorenzo non si esaurì con il pronunciamento del 499, poiché presto i laurenziani ebbero modo di accusare il pontefice di irregolarità liturgiche nella datazione della Pasqua e, contestualmente, di tenere una condotta scandalosa. Nuovamente il re fu sollecitato ad intervenire: rifiutandosi Simmaco di rispondere a una convocazione a Ravenna, Teoderico inviò a Roma, considerata a quel punto sede vacante, un visitator, il vescovo di Altino, Pietro, uniformandosi a quanto già fatto, ad esempio, dall’imperatore Onorio nel 418-419, all’epoca del contrasto fra Bonifacio I e l’antipapa Eulalio. Un intervento tanto risoluto fu suggerito al monarca, supremo responsabile dell’ordine pubblico in Italia, dalla preoccupazione che potessero scoppiare dei tumulti tra le due fazioni in campo; peraltro egli si astenne ancora una volta dal formulare giudizi di merito, di natura dottrinale o disciplinare, rimettendo ogni decisione a un apposito concilio, convocato nel 502. A questo, nel sollecitare una pronta risoluzione del caso, Teoderico dichiarava apertamente di essere stato costretto alle azioni che aveva intrapreso per il dovere di reintegrare la pax, l’unitas e la tranquillitas della Chiesa, di fronte alla drammatica confusio in cui essa versava, in ossequio alla tradizione degli imperatori romani cristiani e allo stesso dettato evangelico, investendo il concilio di quei compiti che non rientravano nelle legittime competenze del monarca.

Mosaico raffigurante papa Simmaco (484-514) trionfante su Lorenzo. Sant'Agnese fuori le Mura, Roma
Mosaico raffigurante papa Simmaco (484-514) trionfante su Lorenzo. Sant’Agnese fuori le Mura, Roma

Solo nel 506 la complessa questione fu risolta in via definitiva a favore di Simmaco, che il Senato reintegrò nelle sue chiese e proprietà su precisa richiesta del re. Teoderico si sforzò, dunque, in tutta la lunga vicenda, di mantenersi super partes, consolidando la propria delicata posizione con la forza del diritto, scrupolosamente osservato, e legittimandosi agli occhi dei sudditi romani con una condotta che rispondeva alle loro attese, in qualità di «facente funzione» dell’imperatore. Appaiono meno facilmente dimostrabili, invece, calcoli politici da parte sua, pure intravisti da alcuni studiosi, legati a una pretesa polarizzazione degli schieramenti a favore dei due candidati al soglio papale (filo-costantinopolitani i partigiani di Lorenzo, su posizioni più «occidentali» i simmachiani), su cui Teoderico avrebbe giocato, nella sua complessa dialettica con Costantinopoli. L’equilibrio politico che per la maggior parte del regno di Teoderico si era conservato, tra i Goti e i Romani all’interno del regno e tra il regno e l’Impero sul piano internazionale, si incrinò drammaticamente a partire dal decennio 520-530, aprendo la strada a un processo che portò rapidamente alla guerra e alla fine dell’esperienza politica ostrogota nella penisola, oltre che alla scomparsa degli Ostrogoti in quanto gruppo etnico con una propria specifica identità. I fattori che condussero a un simile esito furono molteplici: al fondo vi era senza dubbio il nodo della mancata fusione tra Goti e Romani, con il mantenimento di una società bipartita, in cui alla forzata cooperazione si accompagnava pur sempre una sostanziale estraneità, se non un latente antagonismo. Gli Ostrogoti, ragionando nei termini classici di un esercito di foederati, si erano affiancati alla popolazione italica senza volersi mischiare a questa, svolgendo prerogative loro esclusive (quelle militari) e serbando la propria identità di gruppo; i Romani avevano accettato i Goti in quanto situazione ineludibile in quel frangente, cercando di trarre i vantaggi (di stabilità politica, istituzionale, militare) che dalla loro presenza poteva derivare, ma senza percepirli  come una scelta né ottimale né irreversibile. L’iniziale collaborazione si era probabilmente trasformata ben presto in competizione, con il ceto dirigente romano che si vedeva incalzato dai Goti sia nelle responsabilità amministrative (malgrado la teorica suddivisione dei compiti, le sovrapposizioni di fatto, o anche gli espliciti arbitrii, non mancavano certo), sia nel controllo della ricchezza, mano a mano che i notabili goti andavano acquisendo proprietà e il potere su uomini e cose che da quelle discendeva. Per quanto sia impossibile scrivere la Storia sulla scorta delle ipotesi, si può anche pensare che simili difficoltà avrebbero potuto essere superate con il tempo, portando alla lunga ad una fusione tra barbari e Romani, e quindi alla nascita di una nuova società e di un nuovo assetto istituzionale, come accadde, in momenti diversi, in Gallia con i Franchi o in Spagna, con i Visigoti, oltre che con gli stessi Longobardi in Italia. Invece, ogni possibile processo di integrazione venne stroncato dal volgere del quadro politico internazionale, in seguito alla determinazione dell’imperatore Giustiniano, salito al potere nel 527, di procedere al recupero dei territori occidentali detenuti da re barbari (l’Africa vandala, la Spagna visigota, l’Italia ostrogota), per ripristinare l’unità dell’Impero. Il disegno giustinianeo, ispirato da una chiara visione politico-ideologica e reso possibile anche dalle capacità di investire in Occidente risorse umane e finanziarie, in genere immobilizzate sul fronte persiano, fornì alle élite italiche una validissima sponda cui appoggiarsi per superare la necessità della presenza ostrogota nella penisola, intravedendo la chance del reintegro di un governo imperiale diretto. Va tenuto pure presente che, nel medesimo momento, la speranza di Teoderico di crearsi una forte base d’appoggio presso gli altri capi barbari occidentali, attraverso un’accorta politica di alleanze perseguita anche con matrimoni mirati, per raccogliere attorno a sé una solidarietà e un concreto sostegno militare che irrobustissero la sua posizione, fu spezzata dal rapido e prepotente emergere del re franco Clodoveo, il quale, negli ultimi anni del V secolo, riuscì a conquistare quasi tutta la Gallia (in buona parte a danno dei Visigoti, alleati di Teoderico), guadagnandosi l’appoggio delle aristocrazie galloromane anche in virtù della sua conversione al cattolicesimo. La nascita di un forte regno franco, in cui barbari e galloromani andavano rapidamente avvicinandosi, nel segno di una fede religiosa e di un sistema di valori condivisi, e alleato con l’Impero, fece saltare la pretesa di leadership occidentale del re ostrogoto, indebolendolo anche di fronte alle nuove mire giustinianee.

Il cosiddetto Avorio Barberini (prima metà del VI secolo). Raffigurazione a rilievo (al centro) di un imperatore romano vittorioso. Musée du Louvre. Secondo alcuni si tratterebbe di Anastasio I; secondo altri di Giustiniano I.
Il cosiddetto Avorio Barberini (prima metà del VI secolo). Raffigurazione a rilievo (al centro) di un imperatore romano vittorioso. Musée du Louvre. Secondo alcuni si tratterebbe di Anastasio I; secondo altri di Giustiniano I.

La crisi era precipitata in conseguenza dell’avvio di una persecuzione da parte di Giustino (518-527), il predecessore di Giustiniano, degli ariani residenti nelle regioni dell’Impero; a costoro venivano sottratte coattivamente le chiese, le quali erano consegnate ai cattolici, per essere da loro riconsacrate e riutilizzate. L’azione assunta da Giustino rientrava in un quadro di ricerca dell’uniformità religiosa, proseguita e anzi intensificata dal suo successore e tesa a porre termine a una lunga stagione di controversie teologiche (principalmente, intorno alla natura di Cristo) e dottrinali, oltre che corrispondente a una più generale pretesa di uniformità culturale e «ideologica» della res publica. L’unità e l’univocità della fede si identificavano, infatti, con l’unicità dell’Impero e del suo reggente, e, quindi, ogni forma di dissenso religioso finiva con il coincidere con il dissenso politico contro la potestà imperiale. Dopo gli ariani, con Giustiniano furono duramente perseguitati i seguaci di altre espressioni ereticali del Cristianesimo e i fedeli di religioni diverse, dai montanisti ai samaritani, dagli Ebrei ai pagani (molti dei quali si potevano ancora rintracciare tra i ceti più elevati e colti della società imperiale, come per i professori della scuola neoplatonica di Atene, che fu allora chiusa con la forza). Le misure intraprese contro i non cattolici andavano alla chiusura dei loro luoghi di culto all’espulsioni dalle funzioni pubbliche da molte professioni, dalla limitazione dei diritti giuridici alle confische patrimoniali, fino al carcere e alla pena di morte. Teoderico rispose alle iniziative orientali con analoghi provvedimenti a danno dei cattolici, molte delle cui chiese in Italia vennero chiuse, espropriate o distrutte. In questo modo, il re si faceva garante della causa ariana, suscitando il favore della componente gota del suo regno, alla quale egli era ora indotto ad appoggiarsi in modo più esplicito, e tendenzialmente esclusivo, a fronte di una palese crisi del legame con i Romani. In una tale frattura sfociavano tutte le contraddizioni irrisolte dalla forza coesistenza nella penisola di Romani e barbari, mai condotti a una reale fusione, e le diffidenze derivanti dalle nuove opzioni politiche possibili. I Goti erano evidentemente allarmati per il riavvicinamento in atto fra l’imperatore e le élite romane, sempre più fiduciose in una disponibilità del princeps a un intervento diretto in Italia, alla luce delle rinnovate mire sull’Occidente da costui manifestate, e avvertivano, perciò, l’impossibilità di proseguire nella collaborazione politica con quelle. Romani eminenti, come il filosofo Severino Boezio e suo suocero Simmaco, già valenti collaboratori del regime teodericiano (il primo era stato console e magister officiorum), furono accusati di tradimento, per collusione con quello che ormai si percepiva e indicava come un nemico, vale a dire l’Impero, e vennero condannati a morte. Boezio scrisse la sua opera più celebre, la Consolatio philosophiae, in carcere, dove era stato gettato per aver preso le difese del Senato e di Albino, vittima di accuse ingiuste, nell’anno 524, lo stesso del suo assassinio.

Mosaico della cupola del Battistero degli Ariani (VI sec.). Ravenna.
Mosaico della cupola del Battistero degli Ariani (VI sec.). Ravenna.

Per convincere Giustino ad arrestare la persecuzione degli ariani, in uno scenario quale quello sopra descritto, nel quale erano saltati tutti gli equilibri politici e istituzionali fra Goti e Romani, Teoderico costrinse a recarsi in missione per suo conto a Costantinopoli lo stesso papa Giovanni I, paradossalmente chiamato a farsi portavoce e scudo degli eretici. L’episodio, che viene tramandato da fonti sostanzialmente avverse ai Goti, come la biografia del pontefice riportata nel Liber Pontificalis, è stato diversamente interpretato dalla critica moderna quale atto di deliberata umiliazione del papa ad opera di Teoderico, nella sua aperta sfida ai romano-cattolici del regno; oppure, al contrario, come un tratto di continuità nel rapporto di cooperazione, consueto e sperimentato, fra il re e il vescovo di Roma, il quale, soprattutto a partire dal pontificato di Ormisda (514-523), si sarebbe offerto in veste di canale privilegiato delle relazioni tra Ravenna e Costantinopoli, facendosi preferire allo stesso Senato, la cui fedeltà appariva, in quei frangenti, meno certa. Che i contatti fra Teoderico e l’Impero, circa le cruciali questioni religiose, non prive di riflessi più ampiamente politici, si svolgessero per il tramite dei pontefici, sembra confermato da notizie quali quelle, sempre desunte dal Liber Pontificalis, che si riferiscono alle missioni a Costantinopoli dei vescovi di Pavia, Ennodio, e di Capua, Germano, tese a sanare lo scisma acaciano e decise, secondo la fonte, da papa Ormisda in accordo con Teoderico[11]. Se ancora negli anni di Ormisda poteva funzionare un equilibrio politico-istituzionale che vedeva svolgersi attraverso la naturale mediazione pontificia il dialogo fra l’Impero e il re dei Goti d’Italia, specie in materia religiosa, la vicenda di Giovanni I appare costituire, invece, un momento di drammatica e irreversibile rottura di tale equilibrio; questa è almeno l’interpretazione della vicenda che risulta codificata nella testimonianza delle fonti papali, ma anche nell’Anonimo Valesiano, e che si fissò, dunque, come memoria «ufficiale» dell’evento per i Romani, sancendo la definitiva condanna di Teoderico, ora respinto nella dimensione, quasi uno stereotipo, del re barbaro, eretico e persecutore. Giunto a Costantinopoli con un seguito di prelati e di senatori, Giovanni sarebbe stato accolto con il massimo onore dall’imperatore, che lo ricevette con rispetto e devozione, inchinandosi davanti a lui, tanto da indurre l’estensore della biografia del pontefice nel Liber Pontificalis a rievocare l’atteggiamento di Costantino I per papa Silvestro, vale a dire lo stereotipo, l’idealizzazione, del rapporto fra l’imperatore cristiano e il vescovo di Roma[12]. Con toni volutamente opposti viene dipinto, nel medesimo testo, il ritorno in Italia del papa: Teoderico, convinto del tradimento di Giovanni che da Giustino aveva ottenuto la cessazione delle persecuzioni contro gli ariani ma non la facoltà di ritornare all’arianesimo per chi nel frattempo era stato costretto ad abbracciare l’ortodossia, e ricavandone la conferma della nuova sintonia che i ceti dirigenti romani del regno andavano instaurando con il princeps, a minaccia per i Goti, lo gettò in carcere, sottoponendolo a violenze fisiche e morali che lo portarono presto alla morte per stenti, nel maggio del 526.

August Vogel, Il vescovo Ulfila. Marmo, 1894.
August Vogel, Il vescovo Ulfila. Marmo, 1894.

La violenza compiuta contro il papa Giovanni I si accompagnava agli assassinii di Simmaco e di Boezio, alle accuse di tradimento mosse al ceto senatorio e alle confische delle chiese cattoliche nel rendere evidente una secca svolta della politica teodericiana, maturata nel tratto finale del suo regno, che, come s’è detto, era frutto del fallimento di un assetto dell’equilibrio sempre precario, all’interno e sul piano internazionale, messo infine in crisi dall’evolvere della situazione generale; e che venne invece dipinta nelle testimonianze coeve, come si vedrà anche più sotto, nei termini di una sorta di crisi improvvisa di follia, o perfino di possessione diabolica, di un re che fino ad allora aveva mantenuto un comportamento accettabile dal punto di vista dei Romani. Teoderico non sopravvisse a lungo alle sue vittime, morendo egli stesso nel corso dell’anno 526. A succedergli fu chiamato il nipote Atalarico, che però era ancora un bambino, costringendo la madre Amalasunta (da tempo rimasta vedova) ad assumere la reggenza in suo nome. Dopo la prematura scomparsa dello stesso Atalarico, nel 534, Amalasunta associò al trono, sposandolo, il cugino Teodato, uno dei più insigni e ricchi esponenti dell’aristocrazia gota. Non più giovane, Teodato s’era sino a quel momento distinto soprattutto per la propria abilità negli affari, dotandosi, come s’è visto, di vastissime proprietà in Tuscia; in grado di parlare latino e dirozzato nella filosofia platonica, ma poco esperto delle cose di guerra, dimostrava una fisionomia più prossima a quella di un aristocratico romano che non a quella di un guerriero di stirpe gota. L’aristocrazia gota si trovò, allora, di fronte a un bivio: cercare di ricucire il rapporto con i Romani e con l’Impero, superando la crisi emersa negli ultimi anni del regno di Teoderico, oppure completare lo strappo, esasperando la tensione, perseguendo il predominio sui Romani del regno e sfidando militarmente l’Impero, di cui, forse, si dubitava della capacità effettiva di intervenire in armi in Italia in modo massiccio. Secondo quanto si apprende dalle fonti, Amalasunta avrebbe preferito il primo indirizzo e si sarebbe fatta perciò scrupolo di contrastare ogni prevaricazione a danno dei Romani, fino a risarcire gli eredi di Simmaco e Boezio, mantenendo aperto il dialogo con il ceto senatorio. Teodato, invece, al di là di un atteggiamento ambiguo nel momento della salita al trono, si dimostrò in sintonia con la parte dell’aristocrazia di stirpe che caldeggiava lo scontro, esaltando i valori tradizionali goti, motivo di identità dell’exercitus Gothorum quale gruppo separato e dominante, e verosimilmente allettata dalla prospettiva di rapidi arricchimenti attraverso più facili appropriazioni e confische di beni.

Ms. Hunter 374, V 1, 11, f. 4r (1384-1385). Pagina manoscritta e miniata dal De Consolatione Philosophiae cum Commento di Boezio.
Ms. Hunter 374, V 1, 11, f. 4r (1384-1385). Pagina manoscritta e miniata dal De Consolatione Philosophiae cum Commento di Boezio.

L’alternativa politica sembrava esprimersi, dunque, in un’alternativa anche culturale: di ciò è evocatore (fatte salve le deformazioni dovute alla stilizzazione letteraria e alla prospettiva tutta imperiale dell’autore) il resoconto che offre Procopio circa il contrasto che si verificò per l’educazione del piccolo Atalarico[13]. La madre, aspirando a rendere il figlio un emulo dei principes romani, lo affidò a tre vecchi pedagoghi goti che dovevano istruirlo nelle lettere, mentre gli aristocratici di corte volevano per lui un’educazione tradizionale di stirpe, che trascurasse l’apprendimento delle scienze umane, per essere piuttosto rivolta all’esercizio fisico e all’addestramento militare. Procopio dipinge secondo stereotipi romani la contrapposizione, opponendo la raffinatezza dell’istruzione ricercata da Amalasunta alla rozzezza barbara del modello goto, che spinse Atalarico ad abbandonare i libri e i saggi maestri per vivere selvaggiamente con suoi coetanei, tra bevute smodate, commerci carnali con donne e giochi violenti, fino a morirne. L’episodio, pur nelle sue convenzioni, rende comunque l’idea dello scontro in atto all’interno del ceto dirigente ostrogoto, con la parte che si riconosceva in Amalasunta messa ben presto in minoranza. La regina, vieppiù isolata, cercò dapprima di indebolire il partito avverso spedendo lontano dalla corte alcuni suoi esponenti di punta, con incarichi di vario genere; quindi, per irrobustire il potere regio, si risolse a sposare Teodato, che forse pensava (erroneamente, come risultò dai fatti) vicino alle proprie posizioni. Soprattutto, però, ella si era preoccupata di richiedere, ottenendola, la protezione di Giustiniano, preparandosi anche a una fuga a Costantinopoli, in caso di necessità. L’esplicitarsi del legame tra la figlia di Teoderico e l’imperatore, insieme alla palese inconciliabilità di posizioni politiche ormai radicalizzate, alimentate anche da moduli ideologico-culturali antitetici, precipitò gli eventi: nel 535 Teodato depose la consorte, facendola relegare prigioniera in un’isola del lago di Bolsena, dove ella, poco dopo, venne fatta strangolare. L’omicidio offrì a Giustiniano, in forza della protezione che egli aveva accordato alla regina gota a lui commendatasi, il motivo formale per muovere guerra al regno ostrogoto, allestendo, in quello stesso anno, una spedizione agli ordini del comandante Belisario (che aveva già condotto con successo la campagna contro i Vandali in Africa), diretta a rovesciare la dominazione barbara in Italia e a reintegrare la penisola nell’Impero.

La guerra

Mausoleo di Teoderico il Grande. Pietra d'Istria, 520 ca. Ravenna.
Mausoleo di Teoderico il Grande. Pietra d’Istria, 520 ca. Ravenna.

La consapevolezza che l’esercito ostrogoto era ammassato nelle regioni centro-settentrionali della penisola italiana convinse l’Impero a sferrare l’attacco contro l’Italia muovendo da sud. Nel mese di giugno del 535 circa diecimila soldati, guidati direttamente da Belisario, sbarcarono in Sicilia e conquistarono rapidamente l’isola, mentre un altro esercito imperiale, condotto dal magister militum Mundo, occupava la Dalmazia. L’irresolutezza del re goto Teodato, sorpreso dal precipitare degli eventi, convinse Belisario a insistere nell’offensiva, attraversando lo stretto di Messina e proseguendo senza ostacolo fino a Napoli; quest’ultima città, che ospitava un presidio goto, oppose invece una strenua resistenza e fu presa solo dopo un assedio, cui seguì un duro saccheggio, primo episodio delle ripetute violenze che le popolazioni dell’Italia dovettero subire nel corso del lunghissimo conflitto per mano di entrambi i contendenti. Teodato fu accusato dai suoi di non aver saputo contrastare con efficacia il nemico, e venne perciò assassinato e sostituito con Vitige. Fu a Roma che, nel corso del 537, si svolse uno dei fatti d’arme più significativi della guerra. La città, presa senza fatica dagli imperiali dopo che i Goti l’avevano evacuata, fu sottoposta a un infruttuoso, prolungato, assedio ad opera di Vitige; mentre il grosso delle forze ostrogote restava impegnato attorno all’Urbe, gli imperiali si spinsero nelle Marche, in Romagna, in Emilia, espugnando numerose piazzeforti, e riuscirono temporaneamente ad occupare anche Milano, presto riconquistata, però, dai Goti, che la devastarono per punizione, accusando i milanesi di essere in combutta con i nemici. Nel maggio del 540 Belisario riuscì ad entrare a Ravenna, dopo trattative che avevano previsto una spartizione della penisola italiana tra l’Impero (cui sarebbe dovuta andare tutta la porzione a sud del Po) e gli Ostrogoti (che sarebbero rimasti nelle regioni a nord del fiume). Vitige fu condotto, con molti aristocratici della sua stirpe, a Costantinopoli, mentre Belisario si spostava a combattere sul fronte persiano.

Maestro si S. Vitale in Ravenna. Mosaico raffigurante il generale Belisario (dettaglio), 547. Basilica di S. Vitale, Ravenna.
Maestro si S. Vitale in Ravenna. Mosaico raffigurante il generale Belisario (dettaglio), 547. Basilica di S. Vitale, Ravenna.

Il conflitto si era solo apparentemente così risolto. Le difficoltà sopravvenute nell’esercito imperiale, per l’inadeguatezza del comando e l’irregolarità della paga, e il malcontento degli Italici verso l’esosità del fisco fecero intravedere ai Goti i margini per una riscossa politica e militare, che si concretizzò, dopo i brevi regni di Ildibado e di Erarico, nell’elezione a re di Totila, già comandante del presidio di Treviso, nel 541. Totila innanzitutto riorganizzò le sue truppe, irrobustendo la propria flotta (in precedenza pressoché inesistente) e adottando una strategia che evitava di impegnarsi in lunghi e faticosi assedi delle città, per ottenerne piuttosto la resa attraverso trattative; nei centri in tal modo conquistati si abbatteva la cinta muraria, per scongiurare l’eventualità che i nemici potessero in futuro tornare a servirsene. Inoltre egli colpì sul piano economico la grande aristocrazia romana, fedele all’Impero, espropriandola dei suoi latifondi (il fisco regio si fece percettore non solo delle imposte ordinarie, ma anche delle rendite) ed affrancando gli schiavi, che vennero convinti, in cambio della libertà, a combattere a fianco dei Goti. In breve volgere di tempo Totila trascinò i suoi a ripetuti successi, che gli consentirono di spostare il fronte nel Mezzogiorno, procedendo alla presa di importanti città, quali Benevento o Napoli. Per qualche mese, tra la fine del 546 e la primavera del 547, i Goti rioccuparono pure Roma, teatro in seguito di contese dall’esito alterno, nel mentre la popolazione era ridotta ai minimi termini, per numero e per condizioni di vita. Solo nel 550, dopo che i Goti erano sbarcati in Sicilia, l’imperatore Giustiniano si decise a produrre il massimo sforzo per risolvere la guerra in Italia, laddove in precedenza le risorse erano state impegnate prevalentemente sul fronte persiano. Allontanato definitivamente dal teatro italiano Belisario, il comando dell’esercito imperiale fu affidato al praepositus sacri cubiculi e sacellarius Narsete, privo di grande esperienza militare, ma abile politico; al suo fianco il generale Giovanni detto il Sanguinario, provato combattente. L’esercito guidato da Narsete, forte di trentamila uomini, in gran parte ausiliari barbari, ben equipaggiato e finanziato, mosse dalla Dalmazia nella primavera del 552 ed entrò in Italia attraverso il suo confine nordorientale, scendendo lungo l’arco altoadriatico, per puntare allo scontro risolutore con il grosso delle truppe nemiche, che erano concentrate nelle regioni centrali della penisola. La battaglia decisiva avvenne in località Busta Gallorum, presso Gualdo Tadino (Taginae), dove i Goti furono sbaragliati e lo stesso Totila cadde ucciso; il suo successore, Teia, cercò un’estrema riscossa, portandosi da Pavia ai monti Lattari (Mons Lactarius), ma fu a sua volta battuto; con la sua morte l’esercito goto si dissolse, i superstiti ripararono disordinatamente nelle proprie sedi di provenienza e il regno ostrogoto in Italia ebbe la propria conclusione. I Goti sopravvissuti «scomparvero» tra le fila della popolazione della penisola, confondendosi del tutto con essa e quindi perdendo da quel momento, anche agli occhi dello studioso moderno, ogni connotazione identitaria di gruppo a sé stante.

Gli Ostrogoti attaccano il Mausoleo di Adriano, difeso da Romani e Bizantini, 537 d.C. Illustrazione di A. McBride.
Gli Ostrogoti attaccano il Mausoleo di Adriano, difeso da Romani e Bizantini, 537 d.C. Illustrazione di A. McBride.

Il 13 agosto del 554 Giustiniano, emanando il testo di legge noto come Prammatica Sanzione, poté sancire il reintegro formale dell’Italia nell’Impero, annullando, tra l’altro, tutti i provvedimenti adottati da Totila contro la proprietà. Fatti d’arme proseguirono nella penisola almeno fino al 561, sia per la disperata resistenza di qualche ultima piazzaforte gota (come Brescia o Verona) sia per la permanenza nella penisola di bande di altre stirpi, che erano intervenute nel conflitto come truppe mercenarie, ma che avevano finito con l’approfittare del disordine complessivo per condurre razzie a proprio esclusivo vantaggio. Già attorno al 539 guerrieri franchi, guidati dal loro re Teodeberto, avevano scorrazzato per l’Emilia e per la Liguria, saccheggiando anche Genova, ed erano infine stati debellati più dalla carenza di viveri e dall’esplodere di un’epidemia che dal contrasto di qualcuno. Teodeberto cercò anche di rivendicare, infruttuosamente, di fronte all’imperatore, un proprio diritto a governare l’Italia del nord, per averla sottratta ai Goti e come ricompensa per il suo intervento militare a favore della causa imperiale. Nell’estate del 553, gruppi di Franchi e di Alamanni, alla cui testa erano due fratelli, Butilino e Leutari, percorsero la penisola fino allo stretto di Messina, depredando tutto ciò che capitava loro a tiro, prima che le truppe imperiali riuscissero a sconfiggerli (Volturnus) e un’epidemia falcidiasse i superstiti, riparati nella loro roccaforte di Ceneda, nella Venetia. Alla restaurazione del potere imperiale sull’Italia si accompagnava la pretesa di ripristinare lo status quo politico, amministrativo, sociale, economico, anteriore all’esperienza teodericiana; ma la penisola usciva da un ventennio di guerra stravolta in modo irreparabile, tanto che il conflitto tra gli Ostrogoti e l’Impero, con tutte le sue implicazioni e conseguenze, può in qualche misura essere assunto come un significativo momento di cesura tra gli assetti dell’Italia tardoromana e quelli che il paese doveva conoscere nell’età medievale. La Prammatica Sanzione aveva annullato gli espropri e le manomissioni di schiavi di cui era stato artefice Totila, rendendo all’aristocrazia senatoria la propria ricchezza e il proprio predominio sociale; tuttavia, questo ceto risultava decimato dal lungo conflitto e molti dei suoi beni erano comunque spogliati e in rovina. Narsete, investito di ampi poteri per la ricostruzione, si sforzò di restaurare le città, fece erigere nuovi castelli per meglio proteggere il confine alpino, riordinò i comandi militari, ristabilì l’antico ordinamento amministrativo, anche se ora furono amputate all’Italia la Sicilia (posta alle dirette dipendenze di Costantinopoli), la Sardegna e la Corsica (entrambe assegnate all’Africa) e la Dalmazia (attribuita all’Illirico). Malgrado simili interventi, l’aspetto complessivo del paese restava miserevole rispetto a un passato non troppo remoto: la popolazione era drasticamente ridotta (anche se calcoli precisi rimangono impossibili), esposta a carestie ed epidemie, e vaste regioni erano interamente disabitate. I campi coltivati erano di conseguenza arretrati di fronte all’incolto, con l’estendersi di boschi e acquitrini, che modificavano profondamente il paesaggio modellato nei secoli dell’Impero romano per opera dell’uomo, alterando le condizioni generali di vita. Molte delle grandi strade romane caddero in disuso, per lo svuotamento dei territori che attraversavano; nei centri urbani, la scarsità dei residenti comportò una ridefinizione degli spazi, con cambi d’utilizzo per interi quartieri, non più necessari a fini abitativi, e perciò reimpiegati, volta per volta, come serbatoi di materiali da costruzione, tratti degli antichi edifici in rovina, o magari come discariche, come aree di attività manifatturiere, o, ancora, come spazi destinati alla coltivazione o all’allevamento. Accanto alle trasformazioni degli aspetti materiali (poco documentabili dall’archeologia, per l’eccessiva ristrettezza dell’arco cronologico in questione), si registrarono anche profondi mutamenti nelle istituzioni. Ogni concreta autonomia amministrativa della penisola rispetto a Costantinopoli venne di fatto annullata: la carica di prefetto del pretorio, che era sempre stata di un Romano, fu ora riservata a un funzionario orientale, così come di provenienza orientale furono molti burocrati. Tale tendenziale estromissione degli Italici dai gradi più rilevanti dell’amministrazione concorse con altri eterogenei fattori, quali l’onerosa fiscalità o, più in generale, la crescente divaricazione culturale tra le antiche parti occidentale e orientale dell’Impero romano, a far sentire la restaurazione giustinianea da parte degli abitanti dell’Italia più come l’imposizione di un governo esterno, se non palesemente «straniero», che come l’effettiva rinascita di una perduta unità politica «romana». Un simile scollamento di intenti, e di sentimenti, unito allo stato di debolezza sociale, economica e militare in cui versava la penisola, lasciò campo aperto all’invasione longobarda, che ebbe luogo appena quindici anni più tardi.

La memoria di Teoderico

Teodorico (in mone di Giustino). Quarto di siliqua, Roma 518-525. Ar. 0,73gr. – Dritto, D.N.IVSTINVS.AVG. Testa diademata di Giustino I.
Teodorico (in nome di Giustino). Quarto di siliqua, Roma 518-525. Ar. 0,73gr. – Dritto, D.N.IVSTINVS.AVG. Testa diademata di Giustino I.

Se nel suo complesso l’esperienza del regnum Gothorum, durata un sessantennio, non ha lasciato una traccia particolarmente incisiva nella memoria storica dell’Italia, né negli assetti sociali, economici, istituzionali di questa, ben altra fortuna ha conosciuto, non solo nella penisola, la figura individuale del re Teoderico. Costui ha infatti perpetuato un ricordo di sé che è durato nel tempo e che ancora non si è del tutto spento, almeno nella forza suggestiva del nome; tuttavia il Teoderico tramandato ha poco a che fare con il personaggio storico, dal momento che è il frutto di pesanti deformazioni e trasfigurazioni, siano esse d’intento polemico oppure di semplice elaborazione letteraria. Per un verso Teoderico appare presente nella tradizione delle ballate danesi, svedesi e norvegesi, giunte fino a noi per lo più in manoscritti del XVI secolo, e nelle saghe svedesi e norvegesi, redatte soprattutto a partire dal XIII secolo, sulla base di materiali anteriori. Non è immediato percepire come la fama di un re divenuto famoso in Italia, tra V e VI secolo, abbia potuto giungere a radicarsi nell’estremo nord del continente europeo, a tale distanza di tempo. È plausibile che racconto su Teoderico, di aperta esaltazione della sua figura, si siano diffusi dall’Italia nelle regioni immediatamente oltre le Alpi all’indomani della caduta del regno ostrogoto, mediante i Goti superstiti trasferitisi in nuovi paesi o i diversi canali di parentela e amicizia fra le aristocrazie gote e quelle di altre stirpi barbare. Dalle regioni transalpine, nel corso dei secoli, i canti su Teoderico, continuamente rielaborati, sarebbero risaliti, grazie a cantori itineranti, fino alle corti scandinave, dove avrebbero trovato una codificazione scritta. Nelle ballate e saghe nordiche Teoderico diventa Diderik af Bern, «Teodorico di Verona», signore di quella città cui, come si è visto, già gli autori antichi lo avevano strettamente associato, perché lì aveva ottenuto il successo decisivo su Odoacre che gli aveva assicurato il governo sull’Italia. Nei diversi testi Diderik è reso protagonista di vicende mirabolanti, di pura fantasia, in cui si mischiano differenti narrazioni e personaggi letterari. In una famiglia di ballate, egli guida una spedizione contro il paese di Birtingsland (forse la Bretagna di Artù?) e si batte con il re Isak, che è difeso da un gigante, Risker, contro il quale Diderik impiega il proprio campione Vidrik Verlandsson, identificabile con il Wittrich, o Witke, di varie saghe tedesche. In un altro racconto Diderik combatte addirittura a fianco di un leone contro un drago, che piega in virtù di uno stratagemma; invece in un ultimo canto egli invade lo Jutland del ribelle Holger, che rifiuta di sottomettersi al suo potere, finendo però, questa volta, con l’essere sconfitto rovinosamente, visto che il suo esercito viene interamente distrutto.

Codex Pal. germ. 359, f. 1v (1420 ca.). Duello fra Diderik e Sigfrid dal Rosengarten zu Worms.
Codex Pal. germ. 359, f. 1v (1420 ca.). Duello fra Diderik e Sigfrid dal Rosengarten zu Worms.

In un caso come quello rappresentato da quest’ultima ballata, molto tarda, sembra evidente la trasposizione in un’epoca immaginaria e pregna di echi letterari di vicende contemporanee, dal momento che la lotta di Holger (una figura tratta dal ciclo di Carlo Magno) pare proprio simboleggiare le guerre dinastiche della Danimarca del XVI secolo; Diderik è qui ridotto a emblema del re straniero e oppressore, senza alcuna correlazione superstite non solo con la figura storica del re ostrogoto, ma nemmeno con la sua trasfigurazione eroica, propria delle saghe anteriori. In opere precedenti, pur senza poter negare la fondamentale rielaborazione letteraria avvenuta, alcuni critici vedono invece il permanere di tracce di vicende storiche reali legate al vero Teoderico: se così, si dovrebbe allora pensare che i cantari più risalenti abbiano tramandato imprese autentiche dell’Amalo, e che solo in seguito esse siano state trasformate poeticamente, contaminandosi con altre tradizioni. In tale prospettiva, ad esempio, la spedizione in Birtingsland sarebbe il calco della spedizione condotta da Teoderico in Asia Minore nel 484, su ordine dell’imperatore Zenone, per stroncare l’insurrezione dell’Isauria; lo scontro finale con Isak rappresenterebbe la battaglia di Cherreos, che vide Teoderico assediare il rivoltoso Illus e Verina, suocera dello stesso Zenone. Nella ballata, Verina potrebbe essere rappresentata da una strega, presente nella narrazione. Alla rivolta di costei contro il potere imperiale legittimo potrebbe riferirsi allegoricamente anche la storia della lotta tra il drago e il leone, partecipe Diderik/Teoderico, visto che Verina era vedova dell’imperatore Leone e aveva cercato di condurre al trono l’usurpatore Basilisco («il drago», in lingua greca), contro il legittimo erede Zenone. Allo stesso tempo, però, non si può omettere di segnalare come la lotta con il drago/serpente sia una costante in contesti culturali diversissimi, dai gveda indiani all’Avestā persiano, fino alle saghe germaniche di Beowulf o di Sigfrid e alla Bibbia. Anche prescindendo dalla plausibilità di simili derivazioni e richiami, che restano ben difficili da dimostrare, rimane la constatazione di quanto poco abbia a che fare, nel complesso, Diderik con Teoderico. Uno stravolgimento, anche se di natura totalmente diversa, della figura dell’Amalo si riscontra pure nella tradizione generatasi in seno all’ambiente romano-cattolico, dove Teoderico e gli altri re degli Ostrogoti divennero una sorta di emblema del re barbaro eretico e persecutore, nemico della cattolicità e dei valori romani. Nelle fonti di origine pontificia, in particolare nel Liber Pontificalis, l’intera epoca dei Goti in Italia viene bollata come un periodo di arbitrio e di persecuzione, anche se è in particolare Totila, il più pericoloso eversore della proprietà e del diritto agli occhi del ceto senatorio, ad attirare i maggiori strali. Totila diventa l’espressione migliore della crudeltà e dell’empietà barbariche, il tyrannus che spregia il diritto e al quale i Dialoghi di papa Gregorio Magno attribuiscono, a posteriori (l’opera venne redatta tra il 593 e il 594), svariati episodi di soprusi contro la proprietà della Chiesa e la vita degli ecclesiastici, da lui umiliati, torturati, assassinati. Connotazione fortemente negativa assume anche la figura di Teodato, non solo perché omicida di Amalasunta, ma anche per aver voluto nel 536 come papa, Silverio, sgradito a Costantinopoli.

Codice Chigi L VIII 296, f. 36r (XIII sec.). Giovanni Villani, Cronica Nuova. Totila distrugge le mura di Firenze.
Codice Chigi L VIII 296, f. 36r (XIII sec.). Giovanni Villani, Cronica Nuova. Totila distrugge le mura di Firenze.

Il giudizio su Teoderico resta meno netto, rispetto alla condanna irrimediabile e perpetua che si poté pronunciare su Totila. In fondo ciò che non tornava nel bilancio sull’Amalo era, come detto, lo scarto tra una prima parte della sua attività di governo sostanzialmente accettabile dai Romani e dalla Chiesa (come durante lo scisma laurenziano) e una «svolta» successiva, di segno ostile; colpiva soprattutto l’apparente repentinità di tale mutamento, tanto che l’Anonimo Valesiano poteva ben fare riferimento alla possessione diabolica per spiegare le «improvvise» misure contro i cattolici assunte da Teoderico, a cominciare dalla distruzione di una chiesa a Verona, ma anche dalla protezione accordata agli Ebrei. Il racconto che in modo più efficace fissò per i posteri l’immagine di Teoderico dal punto di vista della Chiesa, suggellandone la memoria, è però il noto brano contenuto nei Dialoghi di Gregorio Magno, altrimenti, come s’è visto, accaniti soprattutto contro Totila. Nella narrazione gregoriana, si riferisce la testimonianza, che lo stesso papa dichiarava di aver ricevuto da tale Giuliano, secundus defensor della Chiesa di Roma, circa la visione profetica avuta, molti anni prima, da un santo eremita nell’isola di Lipari; a questi, proprio nell’istante in cui il re goto moriva a molti chilometri di distanza, Teoderico era apparso scalzo e poveramente vestito, con le mani legate e scortato dalle sue vittime Simmaco e papa Giovanni I, per essere infine gettato dentro il cratere di un vulcano, dove lo attendeva il fuoco eterno[14]. Tale immagine, d’immediato impatto visivo nella sua drammatica plasticità, sintetizzò al meglio il bilancio ultimo stilato dai ceti dirigenti romani e cattolici (di cui Gregorio Magno era ottimo esponente) sull’esperienza teodericiana, consegnando in via definitiva il barbaro persecutore della Chiesa e del Senato al biasimo perpetuo di quanti continuano a riconoscersi nei valori della tradizione romano-imperiale.

 

Note all’articolo

[1] Magni Aurelii Cassiodori Variarum libri XII, ed. A.J. Fridh, Turnholti 1973 (Corpus Christianorum, Series Latina, 96), I, 1 (d’ora in avanti, Cass. Variae).

[2] Magni Felicis Ennodi Panegyricus dictus clementissimo regi Theoderico, in Eiusd. Opera omnia, ed. W. Hartel, Vindobonae 1882 (ristampa anastatica New York-London 1968) (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 6), pp. 262-286, alle pp. 271-272: rivolgendosi a Teoderico, gli indica come «tua» la città di Verona, perché fortunato teatro di successo su Odoacre.

[3] Cass. Variae, II, 39.

[4] Agathiae Myrinaei Historiarum libri quinque, ed. R. Keydell, I-II, Berolini 1967 (Corpus Fontium Historiae Byzantinae, 2), I, 1, 6.

[5] Cass. Variae, II, 19.

[6] Cass. Variae, VII, 4.

[7] Fragmenta historica ab Henrico et Hadriano Valesio primum edita (Anonymus Valesianus), ed. R. Cessi, in Rerum Italicarum Scriptores, nuova edizione, XXIV/4, Città di Castello 1912-1913, 17 (d’ora in avanti, Anonymus Valesianus).

[8] Cass. Variae, IX, 14.

[9] Procopii Caesariensis De bello Gothico, in Eiusd. Opera omnia, II edd. J. Haury – G. Wirth, Lipsiae 1963 (Bibliotheca Scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana), I, 3 (d’ora in avanti, Proc. Bell. Goth.).

[10] Epistolae Theodericianae variae, ed. T. Mommsen, in Monumenta Germaniae Historica, Auctores antiquissimi, XII, Berolini 1894, pp. 387-392: 1, 3, 6 (a Teoderico); 4, 5 (a Ereleuva).

[11] Le Liber Pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1955, pp. 269-270.

[12] Ivi, p. 276. Si veda anche Anonymus Valesianus, pp. 20-21.

[13] Proc. Bell. Goth. I, 2.

[14] Grégoire le Grand, Dialogues, ed. A. De Vogué, Paris 1980, IV, 31.

Emergere di una coscienza distintiva

di A. Roncaglia, Trascendenza e immanenza, in Storia della letteratura italiana (dir. E. Cecchi – N. Sapegno), I. Le origini e il Duecento, Torino 1970, pp. 153-165.

 

Il caso delle glosse di Kassel giova peraltro ad attirare la nostra attenzione sulla funzione che il bilinguismo esterno può svolgere, e svolge, nel favorire e accelerare all’interno del mondo «romanico» la presa di coscienza delle nuove condizioni linguistiche ormai venute a maturazione. Come nella Romània, anche in Germania la lingua superiore della cultura e della Chiesa era il latino tradizionale; ma là, a differenza di quel che accadeva nei paesi romanici, la parlata corrente non era una modificazione del latino, non poteva in alcun modo essere sentita come un diverso livello della stessa lingua: era una lingua autonoma. Lo stretto contatto fra il mondo germanico e il romanico, non poteva non determinare anche in quest’ultimo una spinta psicologica ad equiparare il rapporto verticale fra latino e parlata corrente al rapporto fra latino e tedesco. Per rendere accessibile indistintamente a tutti gli strati della popolazione una qualsiasi manifestazione di pensiero o di volontà elaborata in sede colta – poniamo, per fare un esempio – una predica religiosa, occorreva, in paese germanico, «tradurla» in tedesco. Perché dunque in paese romanico non si sarebbe dovuto far ricorso, per il medesimo scopo, ad un’analoga «traduzione» in volgare?

In questi termini il problema viene a porsi nel preciso momento che la riforma carolina, risollevando il latino della cultura verso i modelli antichi, dà la misura, e con la misura la coscienza, della sua distanza dalla parlata corrente: una distanza che quanti non siano passati attraverso uno specifico tirocinio scolastico (cioè ancora la grande maggioranza della popolazione) non sono ormai più in grado di valicare senza l’aiuto, appunto, d’una «traduzione»: dunque propriamente una distanza tra due «lingue», ciascuna in sé organicamente completa e funzionalmente autosufficiente. Possiamo dire che da questo momento è nato «il volgare», intendo che solo da questo momento è nata, chiara ed esplicita, «la coscienza del volgare».

London, British Library. Ms. Egerton 745 (metà XIV sec.), Vita Eustachii, f. 33v. Miniatura raffigurante papa Gregorio Magno mentre predica davanti ai fedeli.

 

L’atto di nascita, o per meglio dire, il certificato ufficiale di questa esistenza cosciente, ci è fornito dalla diciassettesima deliberazione del grande concilio tenuto a Tours nell’anno 813. Si tratta di un testo notissimo, che converrà tuttavia rileggere insieme alla solenne premessa degli atti conciliari:

 

Quantum piissimi Imperatoris nostri excellens animus divinae sapientiae fulgore sit irradiatus ad gubernandum praesentium rerum statum, ipsius imperii sibi a Deo dati liquido testantur negotia; quae quanta sint industria administrata quantaque prudentia ordinata, qui sapiens et intellegens est facile perspicere potest: et eo praecipue, quod his toto animo invigilat, investigando quae ad pietatem et veram religionem pertinent, quorum fructus hominem in bono beatitudinis collocat. His igitur intentus, pios ac religiosos Dei sacerdotes ecclesiae gubernacula in regno sibi divina largitate collocato tenentes saluberrimis exhortationibus admonuit, ut operam darent et actibus eminerent, quibus et se, bene operando, et sibi commissos verbis et exemplis instruendo regerent. Diffinitum itaque de locis et tempore, quando et ubi coadunari commodius et compendiosius metropolitani cum caeteris episcopis et electis quibusdam e clero possent, ad tantum opus, quod a tanto principe nobis iniunctum est, ad statuta loca convenimus. Siquidem urbe Turonis congregati episcopi, abbates et venerabilis clerus, pro parvitate nostra pauca, quae ad tantum opus pertinere animadvertimus et quae secundum canonicam regulam emendatione indigent, distincte per capitula adnotavimus, serenissimo imperatori nostro ostendenda.

… … …

XVII. Visum est unanimitate nostræ, ut quilibet episcopus habeat omelias continentes necessarias admonitiones, quibus subiecti erudiantur: id est de fide catholica, prout capere possint, de perpetua retributione bonorum et æterna damnatione malorum, de resurrectione quoque futura et ultimo iudicio, et quibus operibus possit promereri beata vita, quibusve excludi. ET UT EASDEM OMELIAS QUISQUE APERTE TRANSFERRE STUDEATIN RUSTICAM ROMANAM LINGUAM AUT THIOTISCAM, QUO FACILIUS CUNCTI POSSINT INTELLEGERE QUAE DICUNTUR[1].

 

London, British Library. Ms. Royal 10 E. IV (XIII-XIV sec.), Decretale di Gregorio IX con glosse di Raimond de Peñafort e Bernardo di Parma, f. 4v. Alti prelati in Concilio.

Il protocollo è solenne, e inserisce formalmente gli scopi conciliari nel vasto programma di riforma perseguito da Carlo. È stato lui, l’imperatore, a promuovere la convocazione del concilio – «tantus opus, quod a tanto principe nobis iniunctum est» – e a lui ne dovranno essere sottoposte le deliberazioni finali «capitula… serenissimo imperatori nostro ostendenda». Il certificato d’esistenza del volgare è insomma idealmente controfirmato da Carlomagno in persona, la cui politica mira, anche in questo, a stabilire una più salda coesione del corpo sociale. Si tratta di rafforzare nella coscienza popolare quei principi di ordine morale che la religione garantisce e che potrebbero indebolirsi ove il magistero ecclesiastico non li ricordasse continuamente e in modo a tutti comprensibile (non per nulla si suggerisce che, nell’istruire «de fide catholica» le plebi, «prout capere possint», i predicatori debbano insistere sul premio eterno di cui godranno immancabilmente i buoni e sull’eterno castigo cui non scamperanno i malvagi). Se a questo compito sono richiamati personalmente i vescovi («quilibet episcopus»), si è perché al clero inferiore ne mancava troppo spesso la capacità, verificandosi anzi non di rado il fatto ch’esso stesso, per difetto di cultura, non riuscisse più a leggere e capire senza difficoltà le Scritture, come attestano, una quindicina d’anni prima del concilio turonense, le raccomandazioni del vescovo Teodolfo d’Orléans «ad parochiae suae sacerdotes»:

 

Hortamur vos paratos esse ad docendas plebes. Qui Scripturas scit, praedicet Scripturas; qui vero nescit, saltem hoc quod notissimum est plebibus dicat… Nullus ergo se excusare poterit quod non habeat linguam unde possit aliquem aedificare[2].

 

London, British Library. Ms. Add. 20787 (fine XIII sec.), L’Espéculo a las Partidas di Alfonso X “el Sabio”, f. 92v. Un vescovo e il suo capitolo cattedrale.

Ma se c’era il rischio che il clero inferiore non riuscisse a svolgere le funzioni di mediatore tra le Scritture e le plebi, per le difficoltà che esso stesso incontrava nell’accedere al latino scritturale, c’era altresì il rischio reciproco: che il clero superiore, con il suo latino di scuola, non riuscisse a farsi intendere dalle plebi e magari nemmeno da quella parte del clero inferiore che partecipava all’incultura delle plebi. Si trattava, per questa parte, d’impedire che un eccesso di formalismo tradizionalistico – tanto più facile nel clima di restaurazione culturale entro cui respirava una ristretta aristocrazia sociale – compromettesse la piena efficacia dell’azione educativa e determinasse un pericoloso distacco fra i quadri ecclesiastici e gli strati più umili della popolazione, anzi addirittura fra alto e basso clero. Né doveva trattarsi di rischi teorici o remoti, ché anzi il concilio turonense si propone espressamente di correggere la situazione in atto, volgendo la propria attenzione a questioni concrete per le quali si richieda una modifica di direttive: «quae… emendatione indigent». L’attualità del problema e delle connesse preoccupazioni è del resto confermata dall’insistere d’altre disposizioni, nello stesso anno 813, sugli stessi due punti inseparabilmente connessi: assiduità e intellegibilità della predicazione episcopale.

 

De officio praedicationis: ut iuxta quod intellegere vulgus possit assidue fiat[3]:

 

questa è la parola d’ordine di Carlomagno. E la ripete il concilio di Magonza:

 

De officio praedicationis: si forte episcopus non fuerit in domo sua aut infirmus est aut alia aliqua causa exigente non valuerit, numquam tamen desit diebus dominicis aut festivi tatibus qui verbum Dei praedicet iuxta quod intellegere vulgus possit[4].

 

London, British Library. Ms. Egerton 745 (metà XIV sec.), Vita Eustachii, f. 46 v. San Dionigi predica davanti alla folla.

Quel che la formula del concilio turonense viene opportunamente a precisarci – come dato di fatto rispondente alla coscienza generale e contro cui nessuno può nulla obiettare («Visum est unanimitati nostrae») – è che la predicazione «iuxta quod intellegere vulgus possit» implica non più un semplice adattamento di livello stilistico all’interno di un sistema di lingua (adattamento che contrasterebbe, fra l’altro, alle ambizioni umanistiche della rinascita carolina), ma il passaggio da un sistema di lingua a un altro, quale è indicato dal verbo transferre: un vero e proprio «tradurre», giacché la distinzione fra i due sistemi è formalmente equiparata a quella fra latino e tedesco. Esasperata  per un verso dalla restaurazione della norma classicheggiante, che ritrae il latino delle persone colte a un modello ancor più arcaico e difficile di quello rappresentato dal latino scritturale, per il verso opposto dal degradarsi della parlata popolare, accelerato dalla crisi di trasformazione ed assorbimento sociale che aveva contrassegnato l’età merovingico-longobarda, la tensione fra trascendente immodificabilità della «lingua sacra» e necessaria immenenza della «lingua pastorale» è giunta al punto di rottura.

Ma l’adozione del volgare come lingua pastorale risveglia o acuisce altri problemi. Se sul fronte della cultura latina l’ortodossia religiosa doveva combattere gl’insidiosi allettamenti del pensiero filosofico e del sentimento poetico pagani, sostanza dei modelli classici, non meno essa doveva combattere, sul fronte dell’incultura volgare, quei residui storici e quei germi istintivi di paganesimo che nel sentimento e nei costumi, nelle superstizioni e tradizioni popolari avevano profonde radici. Ora, scendendo sul piano del volgare, non si rischiava di condiscendere a questo mondo? La legittimità conferita al suo linguaggio non avrebbe fornito un principio di legittimazione anche alla sua sostanza, favorendone il consolidamento? L’ordine impartito al clero superiore per evitare che la religione s’isterilisse in un astratto dottrinarismo teologico, senza più contatto vivo con l’anima popolare, non sarebbe suonato al clero inferiore come autorizzazione a trascurare lo studio dottrinale, licenza a confondersi ancor più con le plebi nel modo di pensare e nello stesso modo di vivere? A queste preoccupazioni il concilio di Tours risponde con tutta una serie di altre deliberazioni, contestuali a quella che giustamente ha fermato l’attenzione dei filologi, e non meno degne d’attirar l’attenzione di quanti siano convinti dell’impossibilità di separare la storia della lingua dalla storia della cultura. Anche di queste sarà dunque opportuno riportare qui il testo:

II. Ut omnes episcopi studiose operam divinae dent lectioni, sanctum evangelium et epistolas beati Pauli apostoli non solum crebro lectitent, sed etiam quantum possint memoriae studeant commendare sanctorumque patrum opuscula super eadem exposita devote frequentent. Similiter et de caeteris libris canonicis faciant.

III. Nulli episcopo liceat canones aut librum pastoralem a beato Gregorio papa editum, si fieri potest, ignorare, in quibus se debet unusquisque quasi in quodam speculo assiduae considerare.

… … …

VII. Quaecumque ad aurium et ad oculorum pertinent inlecebras, unde vigor animi emolliri posse credatur – ut de aliquibus generibus musicorum aliisque non nullis rebus sentiri potest –, ab omnibus Dei sacerdotes abstinere debent, quia per aurium oculorumque illecebras vitiorum turba ad animum ingredi solet. Histrionum quoque turpium et obscenorum insolentias iocorum et ipsi animo effugere caeterisque sacerdotibus effugienda praedicare debent.

… … …

XXI. Servandum presbyteris firmiter statuimus, ne tabernas ingrediantur come dendi bibendive causa. Quod si post haec statuta facere praesumpserint, canonica decernimus sententia feriendos.

… … …

XXIII. Canonici clerici civitatum, qui in episcopiis conversantur, consideravimus, ut in claustris habitantes simul omnes in uno dormitorio dormiant simulque in uno reficiantur refectorio, quo facilius possint ad horas canonicas celebrandas occurrere ac de vita et conversatione sua admoneri et doceri. Victum et vestitum iuxta facultatem episcopi accipiant, ne paupertatis occasione compulsi per diversa vagari ac turpibus se implicare negotiis cogantur dimissoque eclesiastico officio incipiant indisciplinate vivere et propriis deservire voluptatibus.

… … …

XLII. Admoneant sacerdotes fideles populos, ut noverint magicas artes incantationesque quibuslibet infirmitatibus hominum nihil posse remedii conferre, non animalibus languentibus claudicantibusve vel etiam moribundis quicquam mederi, non ligaturas ossuum vel herbarum cuiquam mortalium adhibitas prodesse, sed haec esse laqueos et insidias antiqui hostis, quibus ille perfidus genus humanum decipere nititur[5].

 

London, British Library. Ms. Royal 10 E. IV (XIII-XIV sec.), Decretale di Gregorio IX con glosse di Raimond de Peñafort e Bernardo di Parma, f. 114v. Un eremita s’induce al peccato frequentando la taverna.

Nessuna di queste disposizioni in sé è nuova; a tutte sarebbe facile addurre riscontri, anteriori e posteriori. Ma trovarle riunite in corpo e contestualmente associate all’adozione del volgare come lingua pastorale ci permette di meglio intendere lo spirito con cui si decideva tale novità, la situazione in cui essa s’inseriva. Situazione di rinascita umanistica, abbiamo detto; ma, dobbiamo precisare, tutt’altro che di lassismo religioso. Nessuna traccia di cedimento allo spirito della rinnovata cultura classica, nessun accenno (né sarebbe stato da attendersi in questa sede) a studi implicanti un accesso agli auctores profani; forse piuttosto (siamo al penultimo anno del regno di Carlo) qualche segno d’irrigidimento in senso rigoristico, giacché non solo s’insiste, com’è ovvio, sulla necessità di studiare a fondo i testi sacri e gli scritti patristici (II), ma anche si richiamano esplicitamente e con particolare energia gl’insegnamenti di papa Gregorio, «in quibus se debet unusquisque quasi in quondam speculo assidue considerare» (III). Nei confronti del mondo volgare, a parte quanto si riferisce al linguaggio delle prediche (non, beninteso, della liturgia), nessuna condiscendenza è ammessa. Da canti, spettacoli e divertimenti profani si deve rifuggire: e non solo da quelli più evidentemente grossolani, ma da qualsiasi svago onde potrebbe apparir menomata l’austerità di vita sacerdotale (VII). I preti sono severamente diffidati dal frequentare locali pubblici «comedendi bibendive causa» (XXI). Al clero cittadino è imposta vita comunitaria sotto il diretto controllo del vescovo (XXIII). Contro le credenze superstiziose è prescritta una lotta attiva e radicale (XLII). Ben s’intende che non vi sarebbe stato bisogno di ripetere tali ammonimenti, e in forma così circostanziata, se la situazione reale non avesse lasciato a desiderare proprio su questi punti. Ma non crediamo travalicare riferendo l’insistenza e la rigidità delle relative interdizioni e comminatorie anche alla sensazione dei pericoli connessi con la ricerca di contatti più diretti mediante l’abbattimento d’una barriera formalistica. Avvicinarsi al popolo senza confondersi con esso, parlargli nel suo linguaggio senza nulla concedere alla sua mentalità, accettare l’immanenza nel rapporto linguistico senza intaccare la trascendenza del proprio prestigio morale: questa sembra essere la parola d’ordine.

Wiligelmo, Cacciata dal Paradiso Terrestre. Rilievo, Marmo, 1099-1106 ca. dalla facciata del Duomo di Modena.

In tale quadro s’imposta la prospettiva linguistica sottesa al diciassettesimo canone conciliare, e risulta più chiaro il senso fondamentale della sua incidenza sulla definizione stessa del volgare. Questo si presenta a noi non tanto come forma spontanea della realtà popolare, quanto piuttosto come adattamento riflesso dei supporti che quella realtà offriva a un’azione pedagogica e disciplinatrice esercitata sul popolo dalla classe dirigente. Gli elementi enucleati dalla sfera dell’immediatezza «rustica» si compongono intorno a un pensiero che ha la sua genesi fuori di essa, nella sfera della cultura chiericale latina. Non è il mondo delle plebi a esprimersi creativamente in una libera ascesa; sono i suoi dati materiali che vengono piegati al servizio d’una «traduzione» didascalica.

Il volgare cui il concilio di Tours conferisce un crisma d’ufficialità non si definisce insomma dal basso e senz’altro come «lingua naturale del volgo», ma dall’alto e propriamente come «lingua intellegibile al volgo». Ciò implica un’azione selettiva e disciplinatrice della cultura sulla natura. La natura è cresciuta su se stessa giorno per giorno, punto per punto, senza consapevolezza delle strutture in cui consiste il suo essere né della direzione in cui muove il suo sviluppo: la cultura le offre luce di consapevolezza, riferimento saldo sul flusso della contingenza. Il latino si pone come coscienza del volgare, e fornisce al suo empirismo disordinato un principio d’ordine e di razionalizzazione, in forza del quale la «rustica Romana lingua» può cominciare a spogliarsi della propria rusticitas. La natura è molteplicità: la formula che designa dall’esterno il volgare dissimula la varietà effettiva delle parlate locali, ma per ciò stesso propone ad esse un’implicita prospettiva di conguaglio e di unificazione. La «rustica Romana lingua» si avvia così a delimitare e precisare in tipi regionali o nazionali la propria generica romanitas. A questo doppio processo – di «derusticizzazione» da un lato, di concreta definizione territoriale dall’altro: di superamento, insomma, sia della disgregazione dialettale in atto, sia dell’universalità astratta della nozione di lingua che s’incarna nel mediolatino – l’impulso decisivo non viene da chi parla e pensa soltanto in volgare, ma da chi accondiscende a parlare in volgare essendo tuttavia abituato a pensare in latino, cioè in primo luogo dai quadri politico-religiosi della società carolina.

Ma dal contesto della deliberazione conciliare s’intravvede anche la presenza di fermenti attivi in seno allo stesso mondo volgare: di forze in potenza o in embrione che, se non s’identificano materialmente con il volgo (nome sotto il quale non possiamo del resto assumere una collettività omogenea, dotata di consapevolezza unitaria e capace d’attività univoca), si pongono almeno idealmente come interpreti solidali della sua psicologia e dei suoi gusti, e questa psicologia e questi gusti contribuiscono di fatto a formare e indirizzare, fuori dal controllo e addirittura in oggettivo contrasto con lo sforzo disciplinatore dell’autorità ecclesiastica, tutrice della cultura superiore. Significativi sono in tal senso gli accenni delle deliberazioni conciliari di Tours – come, prima e dopo, di tante altre – a musici ed istrioni che allettano gli animi con la scoperta sensualità dei loro canti e con l’esibita scurrilità dei loro ioca (VII), o a chierici di povera condizione i quali evadono dalla disciplina ecclesiastica per condurre vita errante e disordinata.

London, British Library. Add. Ms. 42130, Salterio di Luttrell, (1320-1340), f. 23v. Un musico.

Si tratta di gruppi particolari, forniti d’una preparazione e d’una consapevolezza «professionale», ma volti ad utilizzare gli elementi «di scuola» in servigio d’un mondo «fuori della scuola». Si tratta di attività rispondenti da un lato a tradizioni antiche e diffuse, dall’altro a nuove e tipiche condizioni ambientali, e che proprio negl’incontri e negli adattamenti fra residui tradizionali e fermenti di novità già s’annunciano e più s’affermeranno mediatrici tra il mondo laico e la cultura, portatrici di sviluppi importanti per la costituzione della civiltà «volgare», ossia di nuove forme di cultura aperte al popolo.

Pensiamo, come è ovvio, ai «giullari» – termine semanticamente vago quanto storicamente specifico, attestato (nelle forme ioculatores, ioculares) fin dal V secolo –: quei «vanissimos ioculatores» che, intorno all’825, Agobardo di Lione accomuna nella riprovazione ad «histrionese» e «mimos turpissimos»; quei giullari con le cui facetiae non sdegnerà di scendere in gara, di lì a men che tre secoli lo spregiudicato duca d’Aquitania Guglielmo IX. Pensiamo, anche, a quei clerici vagantes che troveranno un terreno così favorevole nell’ambiente delle sorgenti università e al cui spirito si richiamerà la poesia goliardica del secolo XII. Questa poesia non darà voce latina ed espressione d’arte appunto a quel mondo volgare delle tabernae da cui il concilio turonense prescriveva che il clero si tenesse scrupolosamente lontano? E la promozione sociale non meno che artistica delle facetiae erotiche giullaresche ad opera d’un aristocratico scanzonato, non si collocherà addirittura alle origini d’un’autonoma tradizione lirica in lingua volgare?

Non anticipiamo i tempi. Ma, senza per questo ritornare alle posizioni del popolarismo romantico, è bene avvertire sin da ora che la reazione antiromantica non è, pur essa, esente da eccessi, quando tende a semplificare unilateralmente la complessità del processo formativo del mondo volgare col ritrarne tutte le premesse al polo della cultura superiore. Di fronte a questo, di fronte alla tradizione scolastica chiericale e alle sue rinnovate capacità d’iniziativa, non possiamo immaginare da parte dei meno colti ma socialmente rilevanti ceti laici e militari, da parte degli stessi più umili strati artigianali e rurali, una passività assoluta, né una mera ricettività. Anche senza le testimonianze indirette che se ne possono reperire nelle ripetute comminatorie delle autorità ecclesiastiche o in sporadici documenti epistolari e cronachistici, è facile pensare che in seno al mondo laico dovessero agitarsi fermenti espressivi d’un gusto diverso, spunti tematici rispondenti a interessi autonomi rispetto a quelli del mondo chiericale; ed è pur facile ammettere, come fatto naturale, che una vena d’elementare lirismo profano scorresse sotterranea nel mondo delle tradizioni popolari, integrata alla vista stessa del linguaggio nativo. In questo senso, se ci è consentita una ritorsione, non pare del tutto conseguente la posizione di certi rappresentanti dello storicismo idealista, i quali, pur continuando a sostenere il principio vichiano e crociano che identifica alle radici linguaggio e poesia, ripugnano poi al corollario che identifica le origini della poesia volgare con le origini stesse del linguaggio volgare. In verità, sembra eccessiva la tendenza di certa filologia postromantica a negare ogni impulso ascendente nella immancabile dialettica fra i diversi strati culturali e sociali, a ridurre e svalutare il ruolo di quelle forze intermedie e intermediatrici, come i «giullari», che avranno presumibilmente attinto o adeguato i loro moduli formali a una almeno elementare cultura scolastica, ma non si saranno certo astenuti, anche se il documentarlo ci risulta impossibile, dall’attingere spunti tematici e atteggiamenti mimici a quel mondo laico e popolare cui soprattutto s’indirizzava la loro produzione. Per questo ci è parso di dover sottolineare il riconoscimento, indiretto ma esplicito, che alla pressione di tali forze, all’esistenza di tali fermenti viene, in piena epoca carolingia, dal contesto delle deliberazioni adottate al concilio di Tours.

London, British Library. Ms. Royal 6 E. VI (1360-75), Omne Bonum di James le Palmer, f. 132v. Un arcidiacono e tre clerici.

Prima che tali mal repressi fermenti ascendano, attraverso il filtro della cultura scolastica, a spiegarsi in consapevoli e liberi movimenti artistici, passeranno, come s’è detto, quasi tre secoli. Ma già ai tempi di Carlo, un rappresentante dell’aristocrazia militare franca quale Angilberto – l’amante della principessa Berta, il «dulcis Homerus» dell’Accademia Palatina, l’abate laico di Saint Riquier – lascia in certo senso presagire gli atteggiamenti d’un Guglielmo IX, ostentando verso il mondo giullaresco degl’istrioni una compiaciuta condiscendenza che non manca di destare le preoccupazioni e i rimbrotti d’Alcuino («Unum fuit de histrionibus, quorum sciebam non parvum animae suae periculum imminere, quod mihi non placuit»[6]).  E fin da epoca merovingia può considerarsi un lontano precursore dello spirito goliardico l’anonimo copista che, fra il 751 e il 780, nella Francia orientale, aggiunge alla Legge Salica un capitolo burlesco, che contamina parodisticamente formule del latino giuridico ed espressioni calcate con intenzionale mimetismo sul vivo e sciolto uso volgare:

 

… ut si quis homo aut in casa aut foris plena botilia abere potuerit, tam de eorum quam de aliorum, in cuppa non mittant ne gutta. Se ullus hoc facere presumserit… sol. XV conponat; et ipsa cuppa frangant la tota, ad illo botiliario frangant lo cabo, a tillo scanciono tollant lis potionis[7].

 

In verità, come l’atteggiamento d’Angilberto verso il mondo giullaresco è antitetico a quello di Alcuino, così la prospettiva psicologico-linguistica in cui si proietta un testo quale la giocosa parodia della Legge Salica testé citata, pur schiudendosi all’interno d’una consapevole cultura scolastica, ci appare opposta a quella che si palesa nell’adozione del volgare quale è sancita dal concilio di Tours per la predicazione, e quale sarà poi attuata per un solenne atto politico nei giuramenti di Strasburgo. Da un lato, nella predicazione e nei giuramenti, il ricorso al volgare è dettato da necessità pratica: si tratta di rendere accessibile a tutto il popolo manifestazioni di pensiero e di volontà dei ceti dirigenti; il volgare è utilizzato come lingua, ma questa lingua è eteronoma: serve a tradurre un pensiero interamente latino, e sul latino si modella. Dall’altro lato, nella parodia, il richiamo al volgare avviene per un atto di creativa libertà fantastica: si tratta di rendere con immediatezza espressiva un’atmosfera di schietta vitalità comico-realistica; il volgare non è utilizzato come lingua, ma piuttosto come modulazione stilistica, sottesa e contrastante alla cornice di fittizia solennità rappresentata dal latino giuridico entro cui viene ad innestarsi: e tuttavia tale modulazione appare esteticamente e per certi aspetti anche strutturalmente più autonoma di quanto non sia il volgare-lingua della predicazione e dei giuramenti, perché questa volta è il latino a modellarsi sull’immanente spontaneità del volgare.

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Note:

[1] A. Werminghoff (ed.), Concilia aevi Karolini, I, 1, in MGH, Leges. III. Concilia, 2,1, Hannover 1906, pp. 286; 288: «Quanto l’alto spirito del nostro piissimo Imperatore sia illuminato dal raggio della divina sapienza nella sua attività di governo sull’attuale società, chiaramente attestano gli affari dello stesso impero da Dio concessogli; i quali con quanta prudenza regolari, facilmente può riconoscere chi è sapiente ed intelligente: soprattutto perché egli vi soprintende con intera dedizione, ricercando quanto attiene alla pietà e alla vera religione, i cui frutti assicurano all’uomo il bene della beatitudine. A ciò dunque intento, egli ha esortato i pii e religiosi sacerdoti di Dio, che reggono il governo della Chiesa nel regno a lui largito dalla grazia divina, ad adoperarsi e distinguersi in attività con cui dirigere se stessi, operando il bene, e i fedeli loro affidati, istruendoli con le parole e con l’esempio. Stabilite dunque le condizioni di luogo e di tempo, quanto e dove più comodamente e con minori difficoltà potessero adunarsi i metropolitani con gli altri vescovi ed alquanti eletti in seno al clero, per così alto scopo quale a noi da così alto principe è stato fissato, ci siamo radunati nei luoghi stabiliti. Pertanto, noi vescovi, abati e venerabile clero, riuniti nella città di Tours, abbiamo redatto partitamente in capitoli, da sottoporre al nostro serenissimo imperatore, poche cose, che secondo la nostra pochezza abbiamo riconosciuto pertinenti a così alto scopo e che secondo la regola canonica abbisognano di correzione.

… … …

XVII. All’unanimità abbiamo deliberato che ciascun vescovo tenga omelie, contenenti le ammonizioni necessarie a istruire i sottoposti circa la fede cattolica, secondo la loro capacità di comprensione, circa l’eterno premio ai buoni e l’eterna dannazione dei malvagi, e ancora circa la futura resurrezione e il giudizio finale, e con quali opere possa meritarsi la beatitudine, con quali perdersi. E che si studi di tradurre comprensibilmente le medesime omelie in lingua romana rustica o in quella tedesca, affinché più facilmente tutti possano intendere quel che vien detto».

[2] J. Hardouin, Conciliorum collectio regia maxima, Paris 1714-1715, IV 918 [cfr. ora P. Brommer, Capitula episcoporum, I, 1, in MGH, Leges, Hannover 1984, p. 125]: «Vi esortiamo ad essere preparati ad istruire il popolo. Chi conosce le Scritture, predichi le scritture; e chi non le conosce, dica al popolo quel che è più noto… Nessuno potrà scusarsi di non avere lingua onde possa edificare qualcuno».

[3] A. Werminghoff (ed.), Concilia aevi Karolini…, p. 296: «Circa il dovere della predicazione: che vi si adempia assiduamente adeguandosi alle capacità di comprensione del volgo»..

[4] Id., op. cit., p. 268: «Circa il dovere della predicazione: se per caso il vescovo non sia in sede, o sia ammalato, o sia impedito per qualche altra ragione di forza maggiore, non manchi tuttavia mai nei giorni domenicali o nelle feste chi predichi il verbo di Dio in modo adeguato alle capacità di comprensione del volgo».

[5] Cfr. Ibid., p. 268; p. 287:

«II. Che tutti i vescovi attendano studiosamente alla lettura sacra: il santo Vangelo e le epistole del beato Paolo apostolo, non solo facciano oggetto di frequente lettura, ma anche cerchino per quanto possono d’imparare a memoria; e le opere esegetiche dei santi Padri devotamente si facciano familiari, e così facciano nei confronti degli altri libri canonici.

III. A nessun vescovo sia consentito ignorare, se accader può, i canoni o il libro pastorale edito dal beato papa Gregorio, opere in cui ciascuno deve, come in uno specchio, assiduamente specchiarsi.

… … …

VII. Da ogni e qualsiasi allettamento uditivo e visivo onde possa sospettarsi un rammollimento della forza dell’animo, come si può pensare di certe specie di musici e di svariate altre cose, i sacerdoti di Dio debbono astenersi, perché attraverso gli allettamenti uditivi e visivi suole insinuarsi all’animo una folla di vizi. E la licenziosità dei passatempi offerti da istrioni inverecondi ed osceni debbono essi con tutto l’animo fuggire, e predicare agli altri sacerdoti che ne rifuggano.

… … …»; p. 289:

«XXI. Ai preti facciamo rigoroso divieto d’entrare nelle taverne per mangiare o bere. E se oseranno far ciò dopo il presente divieto, decretiamo che siano colpiti dalle sanzioni canoniche.

… … …

XXIII. I canonici del clero urbano, che vivono negli episcopii, riteniamo opportuno che dormano insieme in un solo dormitorio, come i claustrali, e insieme prendano i pasti in un medesimo refettorio, perché più facilmente possano raccogliersi a celebrare le ore canoniche e venire ammoniti e istruiti circa la loro vita individuale e collettiva. Vitto e vestito ricevano secondo le disponibilità del vescovo, affinché, spinti da contingente povertà, non siano costretti a vagare di luogo in luogo e ad implicarsi in affari disonesti, e non comincino, messi da parte i doveri ecclesiastici, a vivere senza disciplina e a servire i propri piaceri.

… … …»; p. 292:

«XLII. I sacerdoti ammoniscano il popolo dei fedeli a convincersi che le arti magiche e gl’incantesimi non possono portare alcun rimedio a qualsivoglia infermità umana, né medicare in alcun modo gli animali ammalati o azzoppati o magari moribondi, e che legamenti di ossi o di erbe applicati a un qualsiasi essere mortale non danno alcun giovamento, ma tutte queste cose sono lacci ed insidie dell’antico nemico, con cui quel perfido si sforza d’ingannare il genere umano».

[6] E.L. Dümmler, Alcvini sive Albini epistolae, 237, in MGH, Epistolae, IV, Berlin 1895, p. 381: «Una cosa non m’è piaciuta: la sua condiscendenza agli istrioni, da cui sapevo provenire non piccolo pericolo alla sua anima».

[7] Cfr. ora K.A. Eckhardt, Pactus legis Salicae, in MGH, Leges nationum Germanicarum, 4, 1, Hannover 1972, p. 254: «Se alcuno, in casa o fuori, si sia potuto procurare una bottiglia piena, sia di loro sia d’altri, non ne version goccia nel bicchiere. Se alcuno oserà far questo paghi, una multa di 15 soldi, e quel bicchiere lo rompano in frantumi, e a quel bottigliaio rompano la testa, e a quel coppiere tolgano le bevande».

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Bibliografia parziale:

Per il commento alle deliberazioni del concilio di Tours, cfr. A. Monteverdi, Manuale d’avviamento agli studi romanzi: I, Le lingue romanze, Milano 1952, pp 4 ss. D. Norberg, Syntaktische Forschungen auf dem Gebiet des Spätlateins, Hildesheim – Zürich – New York 1943, p. 16. G. Paris, Romani, Romania, lingua Romana, Romancium, «Romania» 1 (1872), pp. 1-22 [ora in Id., Mélanges linguistiques, Paris 1909, pp. 1-31]. V. Crescini, Romania e Romana lingua [rist. in Id., Romanica Fragmenta: scritti scelti dall’autore, Torino 1932, pp. 1-26; 27-41]. H.F. Muller, On the Use of the Expression “lingua Romana” from the First to the Ninth Century, «ZRP» 45 (1925), pp. 9-23. H.G. Koll, “Lingua Latina”, “lingua Roman(ic)a” und die Bezeichnungen für die romanische Vulgärsprachen, «ER» 6 (1957-1958), pp. 95-164. Id., Die französischen Wörter “Langue” und “Langage” im Mittelalter, Genève-Paris 1958, pp. 43-52. B. Mueller, Zum Fortleben von “Latinum” und seine Verwandten in der Romania, «ZRP» 79 (1963), pp. 38-73.

Sul mondo profane dei giullari: E. Faral, Les jongleurs en France au moyen âge, Paris 1910 [= 19642]. R. Menéndez Pida, Poesía juglaresca y orígines de las literaturas románicas, Madrid 1924 [= 19572]. A. Pagliaro, Poesia giullaresca e poesia popolare, Bari 1958. R. Morgan Jr., Old French “Jogleor” and Kindred Terms, «RP» 7 (1954), pp. 279-325. D.J.A. Ogilvy, Mimi, Scurrae, Histriones, Entertainers of the Early Middle Ages, Speculum 38 (1963), pp. 603-619.

Sulla parodia della Legge Salica: J. Pirson, Ein burlesker Pakt aus der Karolinger Zeit, in Festgabe der Philosophischen Fakultät der Friedrich-Alexander-Universität Erlangen zur 55. Versammlung deutscher Philologen und Schulmänner, Erlangen 1925, pp. 43-51. G.A. Beckmann, Aus den letzten Jahrzehnten des Vulgärlateins in Frankreich: Ein parodistischer Zusatz zur Lex Salica und eine Schreiberklage, «ZRP» 79 (1963), pp. 305-334. F. Sabatini, Tra latino tardo e origini romanze, «SLI» 4 (1963-1964), pp. 140-159. D’A.S. Avalle, Ancora sulla Parodia della “Lex Salica”, in Studi in onore di A. Schiaffini ( = «RCCM» 7), Roma 1965, pp. 29-61.

Lucca nel Duecento

di A. Poloni, in S.M. Pagano – P. Piatti (a cura di), Il patrimonio documentario della Chiesa di Lucca: prospettive di ricerca: atti del Convegno internazionale di studi, Lucca, Archivio arcivescovile, 14-15 novembre 2008, SISMEL Edizioni del Galluzzo, 2010, pp. 131-156.
Le immagini araldiche delle famiglie lucchesi sono tratte dal sito www.heraldrysinstitute.com

Lucca, Chiesa di San Frediano. Facciata con mosaico bizantino (XI sec.).

1. Una società in trasformazione: Lucca nei primi decenni del Duecento.

A Lucca nella prima metà del Duecento le istituzioni religiose potevano agire da canali di mobilità sociale in due modi. Il primo consisteva nell’accesso diretto di membri di famiglie in ascesa nel clero cittadino, nel capitolo della cattedrale e nei capitoli delle altre collegiate, nei monasteri urbani ed extraurbani. Il secondo consisteva invece nell’ingresso di tali famiglie nelle ramificate clientele di questi stessi enti religiosi.
Il primo aspetto solleva interrogativi ai quali è molto difficile rispondere. Raffaele Savigni ha sottolineato che per gran parte del XIII secolo è praticamente impossibile condurre uno studio prosopografico sistematico sulla composizione delle comunità monastiche lucchesi, soprattutto a causa dell’abitudine a non riportare il cognome di monaci e monache negli atti notarili. Poco di più si può dire, per gran parte del Duecento, sui vertici della chiesa cittadina, che a Lucca erano costituiti, oltre che dal vescovo, dal capitolo della cattedrale e dalle cosiddette chiese sedales, anch’esse officiate da comunità di canonici – S. Frediano, S. Reparata, S. Michele in Foro, S. Maria Forisportam, S. Pietro Maggiore, S. Donato – , le quali costituivano i cardini dell’organizzazione ecclesiastica cittadina. Sembra comunque che fino agli ultimi decenni del secolo la Chiesa lucchese mantenesse una notevole autonomia rispetto alle dinamiche di formazione, ricompensazione e trasformazione dei gruppi dirigenti comunali, che rimanesse cioè poco permeabile ai progetti di potere delle famiglie che dominavano la politica cittadina.
È vero infatti che dalla fine del XII secolo i vertici della Chiesa cittadina si aprirono ai membri di alcuni lignaggi dell’aristocrazia signorile del territorio e anche della militia urbana che proprio allora si stava definendo come ceto dotato di una propria fisionomia sociale e di una forte identità di gruppo. È anche vero però che fino agli ultimi decenni del Duecento non ci fu, da parte delle famiglie eminenti, alcuna corsa all’accaparramento delle cariche ecclesiastiche, e che queste ultime non furono utilizzate strumentalmente per ratificare un’egemonia ottenuta con altri mezzi, in particolare attraverso la lotta politica. Nei primi decenni del XIII secolo le istituzioni ecclesiastiche cittadine godevano di un’autonoma autorevolezza morale e culturale che, semmai, poteva aggiungere prestigio alle – più che derivare prestigio dalle – famiglie dei livelli più elevati della società comunale che riuscissero a stringere legami con esse. Alle stesse conclusioni sembrano del resto giungere gli studi relativi ad altre realtà cittadine, per esempio il recente lavoro di Michele Pellegrini su Siena (Chiesa e città. Uomini, comunità e istituzioni nella società senese del XII e del XIII secolo, Roma 2004).

[…] È sufficiente concludere che nella prima metà del Duecento l’ingresso nei capitoli della cattedrale e delle collegiate, e probabilmente anche nelle comunità monastiche, non era alla portata degli “uomini nuovi” che cominciavano il loro percorso di affermazione nella società cittadina, e che, dunque, da questo punto di vista, le istituzioni religiose non fungevano da canali di mobilità sociale. Può darsi invece che l’accesso al clero delle cappelle – le quali, proprio […] dall’inizio del XIII secolo, stavano acquisendo un’importanza sempre maggiore nell’organizzazione ecclesiastica cittadina – fosse più aperto a Lucchesi di estrazione sociale non particolarmente elevata. Questo problema, tuttavia, non è stato oggetto di indagini specifiche, e del resto la documentazione disponibile probabilmente non le consentirebbe […].
Del tutto diverso è il discorso relativo alla seconda strada attraverso la quale le istituzioni religiose potevano funzionare da canali di mobilità sociale, ovvero l’ingresso delle famiglie di origine recente nelle clientele del capitolo della cattedrale, delle chiese sedales e dei monasteri urbani ed extraurbani. L’appartenenza di un individuo o di una famiglia alla rete clientelare facente capo a un ente religioso è segnalata nelle fonti documentarie da una serie di indicatori. Il più importante è la concessione di terre, da parte dell’ente al gruppo familiare in questione, attraverso contratti di livello o di feudo, o più raramente di tenimentum. Un altro indicatore può essere considerato la frequente presenza di uno o più membri di una famiglia tra i testimoni convocati in occasione di atti conclusi dall’ente, o, in caso di legami particolarmente stretti, l’impegno diretto di una persona al servizio dell’ente stesso, nella veste di notaio, procuratore, rappresentante, o addirittura advocatus.

Arme della Respublica Lucensis.

Nel XII secolo l’integrazione nelle reti clientelari del capitolo, delle principali chiese cittadine e dei monasteri era fondamentale tanto per rafforzare e consolidare la posizione di famiglie già affermate, quanto come vero e proprio canale di mobilità sociale, per sostenere cioè l’ascesa di gruppi familiari provenienti da livelli sociali inferiori. Questa considerazione non è vera soltanto per la città, ma anche per le campagne intorno ad essa, come dimostrano le ricostruzioni prosopografiche proposte da Chris Wickham nel suo libro sulle Sei miglia lucchesi (Roma 1995).
Qualcosa cambiò tuttavia tra la fine del XII secolo e i primi decenni del XIII. Nell’ambito di una ricerca di recente pubblicazione, ho ricostruito i percorsi di affermazione sociale di un certo numero di famiglie che compaiono nelle fonti lucchesi a partire dall’ultimo ventennio del XII secolo: […] alcune di queste famiglie – comunque la minoranza – continuarono a perseguire anche nella prima metà del Duecento l’integrazione nelle strutture clientelari dei principali enti religiosi e a coltivare relazioni con essi. Si tratta di gruppi familiari come i Volpelli, i Guidiccioni, gli Incalocchiati, i Guerci e non molti altri.
Altre famiglie tuttavia – a quanto sembra, anzi, la maggioranza delle famiglie di origine recente –, più o meno dall’inizio del Duecento, cessarono di coltivare relazioni con le principali istituzioni religiose cittadine e, in pratica, uscirono dalle loro reti clientelari. Si tratta di gruppi familiari destinati ad avere un ruolo di primo piano nella vita politica della seconda metà del secolo: Onesti, Martini, Carincioni, Terizendi – questi ultimi un ramo dei Carincioni – , Peri, Rapondi, Fornari, Sartori e molte altre. Tra gli ultimi anni del XII secolo e i primi del XIII un numero crescente di “uomini nuovi” smise di puntare, per il miglioramento della propria posizione sociale, sull’integrazione nelle clientele dei più importanti enti ecclesiastici e monastici cittadini, e anche dei più influenti lignaggi della militia, per concentrarsi invece sul rafforzamento delle relazioni orizzontali. Molte famiglie cioè che avevano a disposizione risorse umane ed economiche per intraprendere percorsi di ascesa sociale cominciarono a impiegare queste risorse non per favorire il proprio ingresso nelle strutture clientelari dei potenti laici ed ecclesiastici, ma per consolidare, allargare e rendere più efficaci le reti di solidarietà e cooperazione orizzontale.

Arme della famiglia Carincioni.

L’esistenza di vincoli di solidarietà derivanti dalla convivenza in una vicinia, dalla frequentazione di una cappella, dall’abitudine a prestare servizio militare in una stessa unità operativa di pedites non è un fenomeno duecentesco, così come non può essere considerata una novità l’esistenza di veri e propri spazi d’azione collettiva. Si pensi per esempio alla partecipazione attiva dei vicini alla vita della propria chiesa rionale, attestata fin dal XII secolo, o alla proliferazione delle confraternite. Tra gli ultimissimi anni del XII secolo e i primi del XIII, tuttavia, alcuni Lucchesi, con una scelta veramente di rottura rispetto al passato, decisero per la prima volta di puntare su questa trama ampia ma fragile di relazioni per conquistarsi un posto di rilievo nella società cittadina.
È difficile esagerare la portata di quella che può essere considerata una vera e propria reinvenzione di queste reti di cooperazione, una ridefinizione totale del loro significato e delle loro finalità. Questo processo ebbe il suo momento principale nell’istituzione delle societates peditum, avvenuta a Lucca, secondo il cronista Tolomeo, nel 1197. Le società imposero una forma più compiutamente organizzata e una struttura gerarchica ai fluidi coordinamenti orizzontali di vicinia, trasformandoli in quadri di mobilitazione militare e strumenti di pressione politica.
Nei primissimi anni del Duecento le società dei peditum si confederarono nella cosiddetta “società della concordia dei pedites”, la prima organizzazione di Popolo lucchese. Possiamo dire quindi che la variazione delle strategie di affermazione sociale che si riscontra negli anni a cavallo tra XII e XIII secolo spinse famiglie come gli Onesti, i Martini, i Peri, i Carincioni, i Rapondi, i Sartori a porsi a capo del movimento di Popolo che proprio allora faceva la sua comparsa sulla scena politica cittadina. O, per meglio dire, tale variazione portò quelle famiglie ad assumersi l’iniziativa e la responsabilità di convogliare il malcontento diffuso presso ampi strati della cittadinanza in forme più strutturare di azione politica e militare.

La scelta di investire sulle relazioni orizzontali non si rifletteva però soltanto nell’appoggio al nascente movimento popolare. All’inizio del XIII secolo le famiglie di cui ci stiamo occupando tendevano a ricercare alleanze matrimoniali quasi esclusivamente all’interno del proprio ambiente sociale. Per fare soltanto qualche esempio, Bonagiunta di Fornario, figlio dell’eponimo dei Fornari, sposò Teodora, figlia di Guido Martini, l’iniziatore delle fortune dei Martini; Benetto di Onesto, figlio del capostipite degli Onesti, sposò Benvenuta figlia di Rapondo, capostipite dei Rapondi. Queste tendenze endogamiche rappresentano probabilmente la prova che queste famiglie stavano sviluppando una forte identità sociale di gruppo, ulteriormente rafforzata dalla co-residenza. Le due opzioni strategiche che abbiamo individuato sembrerebbero davvero alternative. Nessuno, a quanto pare, le praticò contemporaneamente: i Lucchesi che scommisero sul successo del Popolo non coltivarono le relazioni con gli ambienti ecclesiastici, mentre quelli che preferirono l’integrazione nelle clientele di chiese e monasteri non fecero carriera nelle organizzazioni popolari. La ragione è del resto facilmente intuibile: i primi due decenni del Duecento furono caratterizzati a Lucca da una forte tensione interna, da una vera e propria guerra aperta tra milites e Popolo, che conobbe episodi clamorosi come l’abbandono della città da parte dei nobili per ben due volte, nel 1203 e nel 1214. In questa fase le più potenti istituzioni religiose, il capitolo della cattedrale, le chiese collegiate, i grandi monasteri si schierarono a fianco dell’aristocrazia cittadina e rurale. In un contesto così conflittuale le scelte personali avevano conseguenze pesanti che potevano condizionare il futuro di chi le compiva e della sua famiglia.
Per dare maggiore concretezza a quanto fin qui detto, possiamo mettere a confronto i percorsi sociali di due famiglie che fecero scelte opposte: i Martini, che puntarono su quella che potremmo definire l’“opzione orizzontale”, cioè sul Popolo, e i Volpelli, che scommisero invece sull’“opzione verticale”, cioè sull’inserimento nelle clientele dei potenti.
I Martini discendevano probabilmente da un Guido del fu Martino che nel 1184 insieme al fratello ricevette in concessione libellario nomine dalla chiesa di S. Reparata un appezzamento non lontano dalla città di Lucca, «ubi dicitur via mediana». L’atto del 1184 si poneva al di fuori di una logica strettamente economica. Il canone che Guido e il fratello erano tenuti a versare annualmente non solo era molto basso (4 soldi), ma oltretutto era in denaro, circostanza eccezionale nella lucchesìa della fine del XII secolo, quando la forte inflazione aveva ulteriormente accelerato la tendenza, rilevabile fin dall’inizio del secolo, a convertire i canoni in denaro in rendite in natura. La concessione era probabilmente uno strumento per attirare due medi proprietari terrieri all’interno del sistema di relazioni che faceva capo all’importante ente ecclesiastico cittadino.

Lucca, Cattedrale di San Martino (XI sec.).

Negli ultimi decenni del XII secolo, dunque, i Martini avevano intrapreso un percorso di affermazione sociale del tutto tradizionale, che passava attraverso l’integrazione nelle clientele dei principali enti religiosi. Dall’inizio del Duecento, tuttavia, questo percorso fu totalmente abbandonato. Bonaccorso, probabilmente figlio di Guido, fu tra i protagonisti del movimento popolare, che nel primo ventennio del Duecento, grazie all’appoggio interessato della potente famiglia dei da Porcari, pareva destinato a sicuro successo. Quella stagione si chiuse nel 1219 con l’arbitrato del legato apostolico Ugolino da Ostia, che tentava di ripristinare lo status quo antecedente allo scoppio delle ostilità tra milites e populares. Tuttavia gli equilibri di potere erano ormai irreversibilmente mutati, e nel primo consiglio generale attestato dopo il 1219, quello del 1224, compaiono numerosi esponenti di famiglie in ascesa estranee al gruppo dirigente consolare, tra i quali Arrigo, fratello di Bonaccorso, e suo figlio Guido, che portava il nome del nonno.
Guido era destinato a una carriera politica folgorante, che coronò con un successo forse perfino inaspettato le ambizioni del padre e dello zio. Il figlio di Arrigo fu infatti console maggiore – la più alta carica cittadina – per due anni di seguito, nel 1236 e nel 1237. È probabile tuttavia che questo exploit fosse legato ancora alla scelta dei Martini di puntare sul Popolo. Dall’inizio degli anni ’30, infatti, si assistette a una ripresa dell’iniziativa popolare, che sfruttava un momento di indebolimento del gruppo dirigente cittadino causato da un grave conflitto con il Papato, e che culminò con una decisa affermazione del Popolo proprio negli anni 1236-1237. Sul lungo periodo la scelta, che i Martini perseguirono con tenacia e coerenza, di puntare sul Popolo si rivelò vincente. Essi furono infatti una delle famiglie più in vista dell’Anzianato che governò la città dal 1255 ai primi anni ’90.
Una strategia del tutto diversa perseguirono invece i Volpelli. Nei primi decenni del Duecento questa famiglia era strettamente legata al monastero di San Ponziano, tanto che uno dei suoi membri, Albertino di Graziano, agiva in veste di advocatus. I Volpelli erano ben inseriti negli ambienti ecclesiastici fin dall’inizio del secolo: nel 1219 Rolandino Volpelli, su sollecitazione del vescovo lucchese, donò al legato apostolico Ugolino da Ostia – che, come si è accennato, si trovata in città per intervenire nello scontro armato tra milites e pedites che durava, con poche interruzioni, ormai da due decenni – un terreno boscoso (silva) nella località di Gattaiola, sul quale sarebbe sorto il monastero femminile di Santa Maria. Sempre nella prima metà del secolo Guidone Volpelli si fece frate de ordine fratrum minorum.
La famiglia era inoltre vicina ai de Podio, un gruppo familiare aristocratico con basi signorili in Versilia e una posizione politica di primo piano nel Comune lucchese fin dagli ultimi decenni del XII secolo. Nel 1239 Gerarduccio Volpelli dispose che alla sua morte Labbro e gli altri suoi figli fossero affidati «in tutela cura et mundio» al fratello, al suocero Morettino de Fondora e a Tegrimo de Podio.

Dall’inizio del secolo i Volpelli erano legati alla famiglia del tintore Ricciardo; quest’ultimo fu il fondatore, insieme al fratello, di una delle compagnie commerciali più importanti d’Europa, che fornì i propri servizi finanziari al Papato, agli Angiò e al re d’Inghilterra (Edoardo I Plantageneto). Fin dalla sua costituzione, forse negli anni ’30, i Volpelli rappresentarono insieme ai Ricciardi, ai Rosciompelli e ai Guidiccioni l’asse portante della società. La prima attestazione della proiezione internazionale della compagnia riguarda la presenza di un suo agente a Roma nel 1241. Mi sembra probabile che i contatti dei Volpelli con le alte sfere ecclesiastiche abbiano avuto un ruolo nell’introdurre la societas Ricciardorum nella cerchia dei prelati che ruotava intorno alla corte pontificia.
Non sorprende quindi constatare che nei primi decenni del Duecento i Volpelli non si impegnarono attivamente nello schieramento popolare. Tale disinteresse si spiega probabilmente proprio con la posizione raggiunta all’interno delle reti di relazioni che facevano capo ai più influenti enti religiosi lucchesi e a una potente stirpe nobiliare, che fornivano alla famiglia una base più che solida per il miglioramento della propria posizione sociale.

Wien, Österreichischen Nationalbibliothek. Cod. Vindob. s.n. 2644 (1370-1400), Tacuinum Sanitatis, f. 104v. Bottega del tessitore di lana.

Come si è visto, dunque, tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo molte famiglie lucchesi in ascesa sperimentarono una nuova strategia di affermazione, che si allontanava dai modelli tradizionali di azione sociale, incentrati sull’inserimento nelle reti clientelari dei potenti laici ed ecclesiastici. È necessario a questo punto chiedersi quali furono i fattori che favorirono, proprio in quel momento, l’apertura di un canale di mobilità sociale sostanzialmente nuovo.
Una delle possibili spiegazioni è semplicemente che le vecchie strategie funzionassero sempre meno. Il modello “clientelare” tradizionale, infatti, era finalizzato all’integrazione nella militia, il gruppo sociale che nel XII secolo e ancora nei primi decenni del XIII dominava la vita politica, economica e culturale della città. L’accesso a questo gruppo, tuttavia, diventava sempre più difficile. A partire più o meno dal 1170-1180, infatti, la militia acquistò una fisionomia sociale sempre più definita e selettiva, un’identità sociale sempre più connotata ed esclusiva, e cominciò a chiudersi agli apporti dall’esterno. Questo processo di irrigidimento del ceto eminente cittadino è stato messo in luce da vari studiosi, anche se le sue cause rimangono ancora in buona parte oscure. In questa sede, in ogni caso, interessano soprattutto i suoi effetti. Il ripiegamento elitario della militia rese sempre più incerto l’esito delle strategie tradizionali di affermazione sociale, e spinse molti “uomini nuovi” a cercare strade alternative.
Non bisognava tuttavia trascurare, per spiegare i fenomeni in atto tra XII e XIII secolo, l’importanza del fattore numerico. La scelta di puntare sul rafforzamento delle relazioni orizzontali acquista un senso soltanto se il numero delle persone impegnate in un percorso di ascesa sociale era talmente alto da rendere le nuove strutture organizzative davvero efficaci. L’unione, infatti, come si suol dire, la forza, ma deve essere l’unione di un congruo numero di individui. La creazione e la promozione delle società dei pedites, la conquista del consenso degli strati più deboli della cittadinanza, del resto, erano tutti impegni che richiedevano un forte investimento di risorse umane ed economiche. I costi dell’operazione diventano sostenibili soltanto se potevano essere ripartiti tra un alto numero di partecipanti.

Siamo di fronte a un punto cruciale. Quello che era in corso tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo non era un normale processo di mobilità sociale individuale, magari molto intensa. Si era invece formato un ingorgo senza precedenti di persone e di famiglie che premevano sulla barriera che le separava dai livelli più alti della società cittadina. Si trattava, cioè, di una forma collettiva di corrente ascendente di mobilità sociale. Le cause di questa spinta ascendente di gruppo sono forse da individuare in un’accelerazione dei normali ritmi di mobilità sociale, legata alla crescita demografica ed economica che interessava in quella fase le campagne e le città italiane. Ma la vera domanda a cui bisogna tentare di rispondere è perché questa mobilità non poté essere progressivamente assorbita attraverso i canali tradizionali senza provocare la formazione di un ampio gruppo di individui che spingevano per entrare nel ceto eminente cittadino, o addirittura per prendere il suo posto. Una spiegazione di quello che stava accadendo all’inizio del Duecento va cercata ancora una volta nella chiusura della militia. Questo fenomeno determinò infatti una vera e propria ostruzione dei normali canali di circolazione sociale che avevano funzionato per molto tempo, e impedì che la pressione si allentasse disperdendosi in correnti regolari e controllate, benché intense, di ascesa sociale.

Maestro delle Storie di Mosè. Consegna delle Tavole della Legge ad Aronne. Rilievo, marmo, 1150-75 ca. dalla Fontana lustrale. Lucca, Chiesa di San Frediano.

2.Una città in espansione: Lucca negli anni ’60 e ’70 del Duecento.

Una seconda ondata di mobilità sociale caratterizzò a Lucca gli anni compresi più o meno tra il 1255 e il 1275. In questa fase, come nel periodo a cavallo tra XII e XIII secolo, un grande numero di “uomini nuovi” riuscì a migliorare significativamente la propria posizione sociale e a raggiungere i livelli più alti della società urbana. Tra le famiglie che emersero in questo ventennio possiamo ricordare almeno i Fiadoni, i Melanesi, i Sandoni, i Moriconi, i Margatti, gli Asquini, gli Arnaldi.
La città, tuttavia, era profondamente cambiata rispetto all’inizio del secolo. Nei primi decenni del Duecento Lucca aveva vissuto la “sua” rivoluzione commerciale. Il decollo dell’industria serica e del commercio internazionale era stato frutto dell’iniziativa di molte di quelle stesse famiglie in ascesa che, come abbiamo visto, si erano divise tra l’“opzione verticale” e l’“opzione orizzontale”. Al boom economico si era accompagnata una rivoluzione politica. Il Popolo, dopo un primo effimero exploit negli anni ’30, si era definitivamente imposto al vertice delle istituzioni comunali alla fine degli anni ’50: Lucca era diventata un Comune di Popolo. Queste importanti trasformazioni non poterono che incidere
Se dovessimo cercare un principio unificante alla base delle pur diverse strategie di affermazione sociale dei Lucchesi alla fine del XII secolo e all’inizio del XIII potremmo individuarlo nella massima diversificazione, cioè nell’esplorazione simultanea di vari canali di mobilità sociale. Molte delle famiglie delle quali abbiamo parlato nelle pagine precedenti si impegnarono attivamente nell’avventura popolare, allo stesso tempo però non trascurarono di tentare un cursus honorum più tradizionale partendo dal servizio nelle curie giudiziarie cittadine, che a Lucca non richiedeva una specifica preparazione giuridica; si buttarono nel nuovo affare della seta, ma non abbandonarono le speculazioni sulle terre e sulle rendite; investirono risorse per avviare loro membri alle professioni di esperto di diritto e di notaio.
I tanti gruppi familiari che vediamo emergere tra la metà degli anni ’50 e la metà degli anni ’70 del Duecento, invece, accantonarono il principio della massima diversificazione. Essi non sembrano perseguire né l’inserimento nelle strutture clientelari di enti religiosi e casate aristocratiche né la creazione o il rafforzamento di nuove reti di solidarietà orizzontale. Appaiono poco interessanti alla vita politica, al di là del normale coinvolgimento nei consigli e nelle altre attività di aggregazione politica che il Comune di Popolo richiedeva a tutti coloro che godevano dei pieni diritti di cittadinanza. Non sembrano puntare con convinzione sull’istruzione dei loro rampolli – con la sola rilevante eccezione dell’apprendistato mercantile – avviandoli agli studi per la carriera di giudice o di notaio, non paiono neppure molto interessati a costruirsi un patrimonio fondiario nel contado. La maggior parte delle famiglie che emersero nel ventennio in questione investirono tutte le loro risorse umane ed economiche nel solo commercio internazionale.

Fu il commercio internazionale, a Lucca strettamente legato all’industria serica, l’unico canale di mobilità attraverso il quale passò l’ascesa di tanti “uomini nuovi” che si conquistarono un posto al sole tra il 1255 e il 1275, tra i quali possiamo annoverare Jacobo e Salliente Melanesi, Omodeo Fiadoni, i figli di Arrigo Moriconi, Margatto Margatti e i suoi figli, i figli di Arrigo Sandoni, Burnetto Asquini e tanti altri. La forte mobilità sociale di questi anni, infatti, fu innescata da un nuovo ciclo espansivo, da una vera e propria “seconda rivoluzione commerciale”, che fu legata a una serie di mutamenti degli equilibri politici ed economici internazionali sui quali non è questa la sede per soffermarsi.
In ambito economico, la diversificazione nasce dall’incertezza sull’esito degli investimenti, dal tentativo di minimizzare il rischio. La diversificazione che dominava gli investimenti di risorse umane ed economiche dei Lucchesi all’inizio del XIII secolo era una conseguenza dell’alto grado di incertezza che essi percepivano in un mondo soggetto a cambiamenti che apparivano ancora in gran parte imprevedibili. Molti “uomini nuovi” puntarono con decisione sul Popolo, ma, come si è detto, l’esito dell’avventura popolare appariva, nei primi decenni del Duecento, tutt’altro che scontato. Allo stesso modo, molti di essi intuirono la potenzialità di sviluppo dell’industria serica, ma la crescita del settore era appena all’inizio, e nessuno poteva sapere dove avrebbe portato. L’incertezza che dominava questa società in trasformazione è provata dal fatto che non tutte le famiglie in ascesa inserirono nel loro “portafoglio” di investimenti sociali entrambe le nuove possibilità che si delineavano all’orizzonte, l’ingresso nel fronte popolare e l’impegno nella manifattura serica. Numerose famiglie nuove preferirono continuare a perseguire l’inserimento nelle clientele dei potenti, invece che puntare sul rafforzamento delle reti orizzontali e di solidarietà vicinale, cioè sul Popolo. Molte di esse in questa fase mantennero un atteggiamento prudente nei confronti dell’esperienza del commercio internazionale.
L’abbandono della diversificazione da parte degli individui e delle famiglie che si affermarono tra il 1255 e il 1275 fu probabilmente legato al netto calo dell’incertezza. L’affare della seta appariva ormai un’opportunità del tutto sicura, il rischio sembrava sempre più basso, la crescita pareva durare per sempre. A più di mezzo secolo dalla prima rivoluzione commerciale, che aveva cambiato in profondità il volto della società cittadina, e in un momento di ulteriore forte espansione, il commercio era ormai in grado di sostenere da solo di desiderio di affermazione sociale degli uomini più dotati di ambizione e di capacità di iniziativa. Il commercio internazionale, legato strettamente all’industria serica, era diventato di gran lunga il più importante canale di mobilità sociale nella città di Lucca, cosa che non era stato affatto nella prima fase di cambiamento all’inizio del secolo.
Un altro elemento fondamentale da tenere presente è che quella in corso nei decenni centrali del Duecento rimase, a quanto sembra, un’intensa corrente di mobilità sociale individuale, non si trasformò ma in una corrente ascendente di gruppo come quella di inizio secolo. Numerosi individui provenienti da strati inferiori si integrarono nell’élite popolare, collocata ormai stabilmente ai vertici della politica e dell’economia lucchesi, senza dare vita a un raggruppamento separato lanciato nel tentativo di scalzarla dalle sue posizioni. La forte accelerazione della mobilità, insomma, non provocò, com’era accaduto nei primi anni del Duecento, l’esplosione di aspre tensioni sociali e di una sostanziale riconfigurazione della stratificazione sociale. Il mancato effetto destabilizzante delle trasformazioni degli anni ’60 e ’70 è probabilmente legato al buon funzionamento dei canali di ascesa sociale. Da una parte la forte crescita dell’industria e del commercio, che appariva ormai inarrestabile, apriva a tutti i Lucchesi abili e ambiziosi, anche a quelli dotati di scarse risorse economiche e relazionali, ampi spazi di affermazione economica e di successo sociale. Dall’altra, le istituzioni di Popolo, che governavano ormai il Comune, garantivano a tutti i nuovi arrivati un livello di partecipazione politica – per ora – soddisfacente.
In questa fase il canale di ascesa sociale rappresentato dall’ingresso di clientele delle principali istituzioni religiose cittadine rimaste del tutto inattivo. Come si è detto, il commercio internazionale pareva spalancare grandi opportunità per tutti i Lucchesi dotati di iniziativa, e nessuna famiglia in ascesa decideva di disperdere energie e risorse economiche nel perseguimento di una strategia della quale non si comprendevano più i vantaggi.

Maestro delle Storie di Mosè. Passaggio del Mar Rosso. Rilievo, marmo, 1150-75 ca. dalla Fontana lustrale. Lucca, Chiesa di San Frediano.

3.Una città in conflitto: Lucca a cavallo tra Due e Trecento.

L’ultimo periodo di intenso cambiamento che prenderemo in considerazione è quello dei due decenni a cavallo tra Due e Trecento. A partire dagli anni ’90 del Duecento si aprì per l’élite popolare una fase di profonda crisi. Tale crisi fu certo in qualche modo in relazione con la contrazione economica che la città sperimentò in questa fase, ma non può esserne considerata un effetto diretto. La crisi economica non caratterizzò l’interno ventennio in questione, e si manifestò anzi con particolare virulenza soltanto negli anni 1305-1308, quando l’implosione dell’élite popolare si era ormai consumata e aveva portato a conseguenze irreversibili. Una delle cause principali di questo fenomeno può probabilmente essere ricercata nell’imperfetta integrazione nel gruppo dirigente popolare delle tante famiglie alle quali pure, tra la metà degli anni ’50 e la metà degli anni ’70 del Duecento, il buon funzionamento dei canali di ascesa aveva consentito di raggiungere il livello più alto della società cittadina. Non mancano infatti segnali, a partire soprattutto dalla fine degli anni ’60, di un irrigidimento dei vertici politici del Comune di Popolo, che può avere ingenerato nel tempo una crescente insoddisfazione nelle famiglie di più recente affermazione. Tali famiglie si fecero interpreti e portavoce di una protesta che probabilmente aveva larga eco presso vasti strati del mondo popolare, e che premeva per un modo diverso di interpretare e di vivere la tradizione del Popolo lucchese.
Qualunque ne fossero le ragioni, all’interno del Popolo si delinearono due diversi schieramenti che andarono costruendo la propria identità tra la metà degli anni ’80 del Duecento e i primi anni del Trecento. Il primo schieramento, che solo all’inizio del XIV secolo acquisì il nome di “parte bianca” (o guelfi bianchi), era guidato dalle famiglie che si erano affermate tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, e che avevano dominato l’Anzianato, la massima magistratura popolare, fin dalla sua introduzione negli anni ’50 del Duecento: Martini, Onesti, Carincioni, Rapondi, Peri, Sartori. All’interno di questa parte politica un ruolo di vera e propria leadership era esercitato dai Mordecastelli, un gruppo familiare che aveva raggiunto un posto al sole soltanto negli anni ’50 del Duecento, ma che, grazie a legami particolarmente stretti con alcune casate aristocratiche, era riuscito in poco tempo a integrarsi ai vertici dell’élite politica popolare. A capo del secondo schieramento, che dall’inizio del Trecento prese il nome di “parte nera” (o guelfi neri), c’erano invece le famiglie che si erano affermate grazie alla seconda rivoluzione commerciale del ventennio 1255-1275: Fiadoni, Sandoni, Margatti, Dati, Melanesi, Moriconi, Araldi, Asquini, Gracci, Tegrimi. Ad esse si aggiungevano gruppi familiari, come i Rosciompelli, i Volpelli, i Guerci e gli Incalocchiati, che avevano raggiunto una posizione sociale di rilievo già nei primi anni del Duecento, ma erano rimasti sostanzialmente esclusi dal gruppo dirigente popolare perché a quel tempo avevano preferito l’“opzione verticale”, e avevano scelto di non investire nel movimento di Popolo.

Lucca, Chiesa di Sant’Alessandro. Capitello in stile corinzieggiante a fascia con rosette, marmo, IX sec.

Quella che era in corso negli anni a cavallo tra Due e Trecento, tuttavia, non era semplicemente la definizione di due fazioni politiche in conflitto. I due gruppi svilupparono identità non solo politiche, ma anche sociali fortemente contrapposte. Uno di essi – la parte bianca – accelerò la fusione con quanto rimaneva della militia, adottandone i modelli di comportamento e il sistema di valori. In questo schieramento erano infatti confluite alcune delle più potenti e prepotenti famiglie aristocratiche cittadine: gli Avvocati, gli Antelminelli, i de Podio, i del Bosco, i Berretani da Barga. L’altro raggruppamento – la parte nera – , al contrario, accentuò l’ideologia egalitaria e anti-nobiliare che aveva fatto parte del patrimonio culturale del Popolo, e tentò di elaborare un modello alternativo di eminenza sociale.
I leader di questo schieramento si fecero infatti promotori di un vero e proprio rilancio delle società delle armi, o società del Popolo, le associazioni eredi delle società dei pedites di inizio Duecento, che nella seconda metà del secolo avevano perso gran parte dell’originaria centralità ed erano state spinte ai margini della vita politica cittadina. All’inizio degli anni ’90 a capo di queste organizzazioni fu posto un nuovo organismo collegiale, i Priori delle società. Fin dal primo momento questa istituzione fu dominata dalle famiglie che si riconoscevano nella parte nera. I Priori entrarono subito in conflitto con l’Anzianato, che fino a quel momento aveva rappresentato il vertice delle istituzioni popolari lucchesi, e che era invece controllato dalle famiglie della parte bianca. I Priori combatterono la loro battaglia proprio sul piano della cultura politica popolare, affermando, attraverso una vasta e capillare azione di propaganda, l’idea che solo le società delle armi e i loro Priori erano depositari della più vera e genuina tradizione popolare, mentre gli Anziani avevano tradito il loro ambito sociale di riferimento compromettendosi con la nobiltà e abbandonandosi a una deriva oligarchica e autoreferenziale.

Gianni Giancillotti, Cavaliere italiano (XII sec.).

All’inizio del Trecento la parte bianca offre un esempio drammatico di mobilità sociale discendente collettiva: non solo essa perse la propria posizione al vertice della politica e della società cittadine, ma molti dei suoi affiliati furono addirittura costretti ad abbandonare fisicamente Lucca. Gli esuli, com’è noto, ripararono a Pisa. Rimasta sola a capo del Comune, la parte nera instaurò un regime di Popolo radicale, il cui culmine ideologico fu rappresentato dalla redazione degli Statuti del 1308, nei quali fu inserita una lista di casati magnatizi che, oltre ad essere esclusi da qualsiasi carica politica, erano soggetti a gravi discriminazioni giuridiche. Tra i magnati comparivano non soltanto tutti i maggiori lignaggi della militia cittadina, ma anche quelle famiglie, come gli Onesti, i Martini, i Peri, i Carincioni, i Sartori, i Fornari, i Mordecastelli, che in realtà avevano una fisionomia sociale e politica pienamente popolare, ma che, come si è visto, militavano nella parte sconfitta.
Dal nostro punto di vista, in ogni caso, l’aspetto più interessante è che il terremoto politico della fine del Duecento fu accompagnato dal prepotente ritorno delle istituzioni religiose come canali di circolazione sociale. In questa fase, inoltre, al centro delle strategie delle famiglie che avevano conquistato il potere non c’era tanto l’ingresso nelle clientele del capitolo della cattedrale, delle chiese più importanti e dei monasteri, quanto piuttosto l’occupazione diretta delle principali cariche ecclesiastiche. In questo senso, dunque, la nuova centralità degli enti religiosi segnava una forte rottura rispetto al passato, quando, come si è detto, era soprattutto attraverso le loro reti clientelari che tali enti riuscivano a indirizzare i percorsi di ascesa sociale, mantenendo però nel contempo una notevole autonomia e un sostanziale distacco rispetto ai processi di ricambio politico e di riconfigurazione delle élites.
Dopo l’espulsione della parte bianca, le famiglie che guidavano la parte nera lanciarono un vero e proprio assalto alle principali istituzioni ecclesiastiche, a partire da quella che, insieme al vescovo, rappresentava il vertice della Chiesa cittadina: il capitolo della cattedrale. Negli ultimi mesi del 1301 Bonifacio VIII, che aveva visto con molto favore gli eventi di Lucca, ordinò, probabilmente su sollecitazione dei leader dello schieramento vittorioso, che sei canonici della cattedrale fossero privati dei loro benefici. I canonici rimossi erano Guglielmo degli Antelminelli, Giovanni Ubaldi degli Antelminelli, Tommasino de Loppa, Ugolino del fu dominus Rocchigiano Ranieri, Michele Mangialmacchi e Bongiorno Fralmi, tutti membri di famiglie di primo piano della parte bianca. Le loro prebende furono poi assegnate dal papa a nuovi titolari: Enrico figlio di Adiuto Rosciompelli, Parentuccio di dominus Bonifacio da Porcari, Opezuccio figlio di dominus Bindo Simonetti, Rosso di Puccio Faitinelli, Lamberto di Ugolino Gracci, Tegrimo figlio del giudice Nicolao Tegrimi. Per quanto riguarda quest’ultimo, tuttavia, i canonici dichiararono di non poterlo accogliere perché con i cinque nuovi insediati si raggiungeva già il nucleo stabilito di sedici prebende.

Lucca, Cattedrale di San Martino (XI sec.). San Martino divide il suo mantello con un povero..

Parentuccio da Porcari e Opezuccio Simonetti appartenevano a casate aristocratiche che avevano appoggiato la parte nera. Enrico Rosciompelli, Lamberto Gracci e Tegrimo Tegrimi provenivano invece da alcune delle famiglie popolari più impegnate nello schieramento fin dal suo ingresso sulla scena politica lucchese.
Il capitolo della cattedrale era rimasto per tutto il Duecento una roccaforte aristocratica. A quanto sembra nessuna delle famiglie dell’élite dirigente popolare era riuscita, prima del 1301, a farsi ammettere in quello che era davvero un circolo esclusivo. Per i Rosciompelli, i Gracci e i Tegrimi, dunque, questo onore acquistava un significato particolare. Si trattava di famiglie di origine recente, che emergono nella documentazione lucchese nei decenni centrali del Duecento, prive quindi di una memoria familiare di un qualche spessore. L’accesso al capitolo era una straordinaria fonte di prestigio, capace di ribadire e di legittimare agli occhi dei concittadini la forte influenza esercitata da queste famiglie all’interno del nuovo gruppo di potere che si era definito tra gli anni ’90 del Duecento e i primi anni del Trecento.
Non sappiamo quando Enrico Rosciompelli e Tegrimo Tegrimi fossero stati avviati alla carriera ecclesiastica. L’unico per il quale disponiamo di qualche notizia è Lamberto Gracci, che compare come clericus in un atto del novembre del 1295 rogato nella chiesa di San Cristoforo. Possiamo forse ipotizzare che per queste famiglie la scelta di puntare anche sulle istituzioni ecclesiastiche per favorire il proprio radicamento ai vertici della società cittadina abbia coinciso con l’intensificazione della militanza politica negli anni ’90 del Duecento.
La strategia di controllo e di penetrazione nelle strutture di potere della Chiesa cittadina fu probabilmente più ampia di quanto le poche fonti a nostra disposizione ci consentano di vedere. Una pergamena priva di data, ma certamente posteriore al 1284 e forse anteriore alla fine del 1302, ci informa che Alamanno, già defunto al momento della stesura del documento, nipote ex frate del notaio Enrico Guerci, era stato canonico della chiesa collegiata di S. Reparata, un altro ente ecclesiastico di primaria importanza. Tra i chierici rimossi da Bonifacio VIII nel 1301 c’era anche Francesco Gonnella degli Antelminelli, canonico di Santa Reparata; è possibile che Alamanno Guerci avesse preso il suo posto. La famiglia del notaio Enrico, probabilmente imparentata con i Fiadoni, aveva svolto fin dagli anni ’90 un ruolo non secondario all’interno della parte nera.
Nel maggio del 1303, alla morte di Sarduccio da Fucecchio, rettore e amministratore dell’ospedale di Fucecchio, le monache del monastero di Santa Maria in Gattaiola, dal quale l’ospedale dipendeva, conferirono l’incarico a Guglielmo figlio di dominus Opizo del fu Guglielmo degli Opizi. Gli Opizi erano la famiglia aristocratica che più si era spesa a favore della parte nera. Le monache intendevano probabilmente in questo modo porsi sotto l’ala protettrice del nuovo regime.
L’aspetto più interessante è che fenomeni in tutto simili erano in atto anche negli altri grandi Comuni di Popolo toscani. Quasi impressionante, per esempio, è l’analogia degli avvenimenti lucchesi con quanto, proprio negli stessi anni, stava accadendo a Pisa. Dopo la caduta del regime di Ugolino della Gherardesca e Nino Visconti, nel 1288, la città marittima conobbe un rivolgimento politico non meno radicale di quello che poco prima avrebbe interessato Lucca. Le famiglie del gruppo dirigente del Primo Popolo, che aveva governato la città a partire dagli anni ’50 del Duecento, furono emarginate dal potere. Il profondo e assai rapido ricambio politico spinse al vertice delle istituzioni cittadine famiglie di origine piuttosto recente, con una fisionomia sociale per molti versi simile a quella dei Rosciompelli, dei Volpelli, dei Tegrimi, dei Fidoni, dei Gracci, dei Margatti, degli Arnaldi, degli Asquini e via dicendo: Bonconti, da Fauglia, Sampante, Fagioli, Cinquina, Gatti, Scacceri, Gambacorta, Alliata, Rau, dell’Agnello ed altre. Negli anni a cavallo tra Due e Trecento quattro di questi gruppi familiari – Bonconti, Sampante, da Fauglia e Fagioli – formarono quasi una élite nell’élite, concentrando poteri decisionali davvero notevoli.

Oxford, Bodleian Library. Ms. Holkham misc. 48 (Genova, terzo quarto del XIV sec.), Divina Commedia di Dante. Dante e Virgilio incontrano Nino Visconti (Pg. VIII, 52-54).

Anche a Pisa a partire dalla seconda metà degli anni ’90 del Duecento le principali posizioni all’interno della Chiesa cittadina divennero improvvisamente molto allettanti per le più influenti famiglie di Popolo giunte al potere dopo il 1288. Particolarmente interessante è, anche nel caso pisano, la corsa ai seggi del capitolo della cattedrale. Nel 1295 Gherardo Fagioli, uno dei popolari più potenti della città, ottenne da Bonifacio VIII l’assegnazione di una prebenda canonicale per il figlio Guido. Guido Fagioli fu il primo popolare a penetrare nell’esclusiva cerchia dei canonici della cattedrale: fino a quel momento i membri del capitolo di origine pisana provenivano senza eccezioni dalla nobiltà cittadina. Più clamoroso fu il caso di Ugolino, nipote ex frate di Banduccio Bonconti, in quel momento leader indiscusso del Popolo pisano. Ugolino fu avviato alla carriera ecclesiastica, portata avanti sotto la stretta supervisione del padre Francesco e dello zio, i quali ne ponderarono con attenzione ogni singolo passo. Nel 1305 infine Ugolino riuscì a entrare nel capitolo, attraverso una manovra non proprio trasparente. Il Bonconti ebbe la meglio su un altro pretendente che poteva vantare una provvisione di Bonifacio VIII. Nel luglio del 1305 Banduccio e Francesco promisero ai canonici 5000 fiorini d’oro se il loro rampollo avesse ottenuto la prebenda. Ugolino fu naturalmente accolto nel capitolo, nonostante l’opposizione dell’arciprete Jacopo Gualandi e di altri canonici. Anche Ranieri Sampante, un altro popolare particolarmente influente, nutrì l’ambizione di inserire il figlio Gualterotto tra i canonici della cattedrale, e infatti ottenne per lui una provvisione apostolica. Tuttavia nel 1303 alla sua candidatura fu preferita quella di Bondo di Ranieri di Alberto Rossi, membro comunque di una famiglia di artigiani e di mercanti.
Qualcosa di analogo dovette accadere anche a Siena dopo l’affermazione del regime popolare dei Nove nel 1287. William Bowsky ha notato che negli anni successivi si scatenò un vero e proprio accaparramento delle più importanti cariche ecclesiastiche, a partire ancora una volta dal capitolo della cattedrale, da parte sia delle più influenti famiglie che si esprimevano nell’istituzione dei Nove, sia, soprattutto, delle potenti casate magnatizie che appoggiavano il nuovo regime popolare.
A partire più o meno dagli ultimi decenni del Duecento in molte altre realtà, anche a sviluppo signorile, «i seggi più insigni e lucrosi della Chiesa cittadina – per usare le parole di Mauro Ronzani – vennero sempre più considerati alla stregua di strumenti vuoi di affermazione, vuoi di “resistenza”: un processo non del tutto nuovo, ma la cui brusca accelerazione era tale da pregiudicare seriamente il funzionamento delle istituzioni»; commentando proprio la situazione lucchese lo studioso osserva la «ormai comune equiparazione dei seggi e delle dignità ecclesiastiche alle cariche secolari».
Per quanto riguarda i Comuni di Popolo, si possono fare alcune ipotesi sulle ragioni di questo fenomeno. Per prima cosa, si può notare un evidente mutamento dello “stile di governo” e delle forme di gestione del potere dei gruppi dirigenti nei decenni a cavallo tra Due e Trecento rispetto alle fasi più precoci del dominio del Popolo, negli anni ’50, ’60, ’70 del XIII secolo. L’élite popolare estese rapidamente il proprio controllo non solo su tutte le istituzioni comunali, ma anche su ogni altra organizzazione e associazione fino a quel momento non sottoposta alla vigilanza della politica, su ogni singolo spazio di vita associata. Questa esigenza di sorveglianza e di disciplinamento nasceva soprattutto dalla necessità di governare la complessità e l’instabilità della società cittadina. Come si è detto, famiglie come i Rosciompelli, i Volpelli, i Fiandoni, i Margatti, i Tegrimi a Lucca o i Bonconti, i da Fauglia, i Sampante, i Cinquina, i Rau a Pisa avevano conquistato il potere in seguito a dure lotte politiche e feroci scontri fazionari, che certamente avevano lasciato focolai di dissenso e correnti di malcontento presso ampi settori della cittadinanza. A questo si aggiunga che i cittadini erano fortemente politicizzati. I Comuni di Popolo rappresentavano senza dubbio il livello più alto di “democrazia” raggiunto dalle compagini politiche medievali. Gran parte dei maschi adulti della città dotati di una minima base economica erano a vario titolo e a vari livelli coinvolti nella vita politica. Né i gruppi dirigenti popolari si potevano permettere limiti alla partecipazione. Come abbiamo visto nel caso di Lucca, le famiglie che presero il timone della città alla fine del Duecento avevano conquistato il consenso che aveva permesso loro di liberarsi dagli avversari attraverso una decisa radicalizzazione delle tematiche e del linguaggio politico del Popolo, che erano incentrati proprio sulla partecipazione e sulla lotta ai privilegi e alle violenze dei potenti.
L’incontro tra le frustrazioni di casate magnatizie e vecchie famiglie di Popolo escluse dal potere e i malumori di una popolazione cittadina dalla forte consapevolezza politica poteva dar luogo a una miscela esplosiva. Da qui la necessità di sottoporre a stretta sorveglianza politica ogni centro di incontro, ogni forma di espressione, ogni luogo di confronto, ogni spazio associativo che potesse prestarsi a dare forma organizzata al dissenso. È chiaro che in un certo contesto come questo il controllo delle principali istituzioni religiose, per l’influenza politica, economica e anche morale che erano in grado di esercitare a tutti i livelli della società cittadina, assumeva un’impotenza centrale.
Per tornare al caso lucchese, tuttavia, un’altra spiegazione – non alternativa, ma completamente alla precedente – alle vicende che segnarono la città tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, compresa la rinnovata centralità strategica delle istituzioni religiose, è da ricercare in un nuovo mutamento dei modelli di azione sociale. Un ruolo non secondario in questi sviluppi ebbe infatti il ritorno alle diversificazioni delle opportunità. Anche le famiglie più recenti, emerse a partire dagli anni ’50 del Duecento, che avevano utilizzato un solo canale di mobilità sociale, il commercio internazionale – Fiadoni, Melanesi, Moriconi, Sandoni, Margatti, Asquini, ecc. – , dagli anni ’80 elaborarono strategie di conservazione della posizione acquisita più complesse e articolate. Per cominciare, come si è detto, iniziarono a dimostrare un interesse nuovo per la politica ad alti livelli, e questo nuovo apprezzamento uno degli elementi che contribuiscono a spiegare glia avvenimenti politici di questi anni: molte di queste famiglie, come si è detto, videro nella disponibilità a raccogliere il malcontento di ampi segmenti del Popolo uno strumento per conquistare un ruolo politico di maggior peso. Più in generale, esse presero a impiegare una quantità crescente di risorse e di energie per la creazione e il rafforzamento di reti relazionali, tanto orizzontali quanto verticali, verso l’alto – cioè con alcune casate aristocratiche – e verso il basso. Fu di questi gruppi familiari, come si è detto, l’iniziativa di una vera e propria rifondazione delle società di Popolo. Anche i protagonisti della seconda rivoluzione commerciale cominciarono inoltre ad apprezzare i vantaggi di avviare i figli alle professioni giuridiche e notarili. Emerse infine in questa fase un nuovo canale di mobilità sociale, che era stato scarsamente praticato anche dalle famiglie in ascesa dell’inizio del Duecento: le carriere ecclesiastiche.
Le scelte a favore della diversificazione erano legate al ritorno dell’incertezza. Le difficoltà economiche che divennero sempre più evidenti a partire dall’inizio degli anni ’90 del Duecento, a causa di un contesto internazionale sfavorevole, colpirono pesantemente la sfiducia dei Lucchesi nelle possibilità di crescita del settore sul quale si fondava la loro fortuna, l’industria serica. I mercati davano segni di saturazione, l’ondata espansiva si andava evidentemente esaurendo, i fallimenti delle grandi compagnie, non solo lucchesi, coinvolgevano disastrosamente operatori di tutti i livelli. Il commercio internazionale non appariva più in grado da solo di sostenere una robusta mobilità sociale, ma soprattutto non appariva più sufficiente a garantire le famiglie che avevano già completato la loro scalata sociale contro i rischi della mobilità discendente. Più il gruppo familiare si espandeva più doveva trovare nuove fonti di benessere economico e di prestigio sociale, e il commercio internazionale sembrava sempre meno capace di assicurare l’uno e l’altro a famiglie in crescita numerica.
L’incertezza economica si coniugava poi a una fase di incertezza politica. Dalla metà del Duecento si era aperta una fase di pax popolare, che si era protratta per diversi decenni, e aveva consentito una totale ristrutturazione delle istituzioni comunali e degli strumenti di potere. Alla fine del secolo, tuttavia, questa lunga parentesi di stabilità si era bruscamente chiusa, e la città era piombata in uno stato di tensione politica e di fibrillazione anche peggiore di quello dell’inizio del Duecento. Le famiglie della parte nera avevano preso il potere grazie a questa rottura, e non potevano non essere consapevoli della fragilità e della precarietà della loro posizione. Con la parte bianca che tramava dalla nemica Pisa, esse sapevano che la loro situazione poteva cambiare da un momento all’altro. L’appartenenza all’élite politica, in altre parole, non era più, come era stata in precedenza, una garanzia di preminenza e un’assicurazione contro i rischi di un tracollo economico e sociale. Da qui la necessità, per le famiglie di più o meno recente affermazione, di ancorare la loro posizione a molteplici appigli, di piantare radici molto profonde in tutti i campi e i settori della vita cittadina, dalle società delle armi alla prestigiosa cerchia degli esperti di diritto, dalle Arti alle istituzioni ecclesiastiche cittadine. Queste ultime, anzi, anche grazie ai legami che consentivano di stringere al di fuori delle mura della città, fino alla corte papale, apparivano un sostegno particolarmente solido e in grado di portare consistenti vantaggi non soltanto politici, ma anche economici.

Lucca, Archivio di Stato – Biblioteca Manoscritti, Ms. 107 (XV sec.), Croniche delle cose di Lucca di Giovanni Sercambi. La città di Lucca.

4.Conclusioni.

Nelle pagine precedenti si è cercato di proporre qualche spunto di riflessione sull’evoluzione dei fenomeni di mobilità sociale nella Lucca del Duecento, partendo dall’analisi di uno specifico canale di circolazione sociale, le istituzioni religiose. Ne è emerso che una maggiore attenzione ai processi di mobilità sociale aiuta certamente a chiarire molte delle trasformazioni in atto nel XIII secolo, dalla crescita economica ai primi segnali di contrazione, dall’allargamento della partecipazione politica agli squilibri da esso generati, dall’ascesa di masse di “uomini nuovi” ai tentativi di chiusura oligarchica. Ma l’espetto più interessante è forse un altro. Lo studio della mobilità sociale non consente soltanto uno sguardo “oggettivo” sui mutamenti in atto della società lucchese, ma permette soprattutto di calarsi in una prospettiva “soggettiva”. Tale indagine offre cioè diversi squarci sulla percezione che di tali mutamenti avevano coloro che ne erano protagonisti, su come i Lucchesi vissuti in diversi momenti del Duecento pensavano il proprio tempo, su quali possibilità vi intravedevano, quali difficoltà vi intuivano, come si rappresentavano il proprio presente, il proprio futuro, le proprie opportunità.
Nel corso della trattazione, infatti, si è fatto più volte ricorso al concetto di “incertezza”, che rimanda all’ambito della percezione soggettiva, più che a quello della realtà oggettiva. Si è visto che dall’incertezza fiduciosa dell’inizio del Duecento, che portava le famiglie in ascesa a diversificare le proprie opportunità, sperimentando però anche nuove strade, innovando, cimentandosi in nuove avventure, si passò alla sicurezza ottimista dei decenni centrali, anni di boom economico, che convinse le nuove famiglie a concentrare tutte le proprie energie nel commercio internazionale, e infine all’incertezza pessimista di fine secolo, che determinò un ritorno alla diversificazione, venata però dal forte timore di perdere ciò che era stato conquistato e da un’inquietudine ansiosa che si riflette bene nella corsa all’accaparramento delle cariche ecclesiastiche. In conclusione, possiamo dire che indagini approfondite dei processi di mobilità sociale che caratterizzarono i diversi contesti geografici e politici nei secoli centrali del Medioevo potrebbero dare un contributo importante a quello studio della percezione e della rappresentazione del sociale che sembra oggi al centro dell’interesse della più avanzata storiografia internazionale.

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La vita religiosa nella Firenze del Duecento

di B. Beuys, La nascita del libero Comune. Né col Papa né con l’Imperatore in Firenze nel Medioevo. Vita urbana e passioni politiche (1250-1530), Milano 2000, pp. 31-34.

[…] Allorché, nell’ottobre 1226, Francesco giaceva moribondo sulla fredda terra della sua amata chiesa della Porziuncola, il suo sogno di una comunità povera e felice era svanito, il suo lavoro di una vita praticamente fallito. Francesco intese costruire una comunità di fratelli, e ognuno di essi avrebbe dovuto percorrere quelle terre predicando, vestendo di solo saio, senza beni di sorta – in denaro o in istruzione – e disprezzato come, prima di lui, Gesù e i suoi apostoli. Non voleva regole, né fondare conventi, tuttavia alla fine si piegò alla madre Chiesa. Frate Francesco diede infine l’assenso a una regola che contrastava con i suoi obiettivi iniziali, e fu testimone forzato dell’affermarsi di case religiose e di strutture conventuali, vide nascere un nuovo ordine religioso composto da uomini svincolati dalla sua cerchia.
Neppure i contemporanei del Fondatore s’accorsero che egli mirava ad altro. I frati mendicanti di Francesco apparvero loro un miracolo, un pegno di tempi buoni e promettenti. Sfuggì loro che proprio la gloria del mondo avrebbe presto distrutto l’ideale dei frati mendicanti. Il Duecento, secolo colmo di guerre, avido e mercantesco, bevve il messaggio dei nuovi frati come un assetato l’acqua: dovunque ci sarebbe stata pace, solidarietà con i più poveri e i più deboli. Non ci sarebbero più stati padroni e signori, solo amici e amiche in Cristo: nel mondo e nella Chiesa.

Quando Francesco morì, Domenico di Guzmán, di nobiltà terriera spagnola e fondatore di un ordine religioso, era morto da cinque anni. Radicali al pari dell’uomo di Assisi, Domenico aveva predicato ai suoi discepoli la povertà e una vita esemplare soprattutto per ridare credibilità alla Chiesa. Contrariamente a Francesco, Domenico aveva fondato espressamente un ordine che con profonda dottrina e argomenti convincenti dissuadesse dall’errore degli eretici che per la prima volta avevano scosso il solido edificio della Chiesa.
Firenze era un rifugio sicuro per gli eretici. I Catari, i «Puri», che si erano diffusi nel Mezzogiorno della Francia, avevano qui una sede episcopale clandestina e vivevano tranquilli in città, dove avevano conquistato alcuni cittadini influenti. La scomunica del vescovo cattolico aveva poco effetto poiché i Fiorentini non si curavano troppo della sua autorità, che d’altronde egli non imponeva con eccessiva severità. Finché nel 1232 intervenne il Papa. I frati di Domenico, innalzato in gran fretta all’onore degli altari nel 1234, presero in veste di inquisitori a dar la caccia agli eretici, come i cani alla selvaggina.

Beato Angelico, San Domenico in preghiera. 1438-1450. Firenze, San Marco.

 

Nel 1244 tocca a Firenze. Arriva sull’Arno il temuto cacciatore di eretici Pietro da Verona, un domenicano, che insieme con il confratello fiorentino Ruggero de Calcagni istruisce – in piena guerra intestina tra guelfi e ghibellini – un processo dopo l’altro, e i giudici ecclesiastici affidano i rei confessi al braccio della giurisdizione secolare. In quegli anni confusi che precedono la prima Repubblica fiorentina la giurisdizione secolare è filo-imperiale e quindi anti-papale. Ma i Domenicani non hanno scrupolo, al mattino, di patteggiare con gli imperiali ai danni degli eretici per poi, al pomeriggio, azzuffarsi a sangue con quelli sulle barricate. Quando due anni dopo Pietro lascia Firenze i pochi eretici sopravvissuti sono ridotti alla clandestinità e non si riprenderanno più, e i cittadini useranno le loro energie per altre battaglie. Dopo la vittoria del governo popolare nel 1250 gli eretici non hanno più storia e i frati mendicanti in semplice saio diventano una presenza familiare in città, anche se Santa Croce e Santa Maria Novella, le rispettive chiesette dei Francescani e dei Domenicani, si trovano fuori le mura del tempo. In Firenze devono essere allargati gli spazi pubblici perché possano contenere la moltitudine che accorre alle prediche dei frati mendicanti. Il nuovo ideale di povertà acquista grande favore, sicché in poco tempo sorgono una mezza dozzina di comunità religiose di mendicanti che la società cittadina accoglie senza distinzione come ospiti benvenuti.

Firenze è fiera dell’ordine mendicante locale dei Serviti o Servi di Maria, che hanno eretto il loro convento nel Cafaggio, una zona a nord-est del Duomo e del Battistero. La storia di questo singolare ordine fiorentino si inizia con sette laici, altrettanti mercanti danarosi che in quegli agitati anni ’40 d’un tratto ai beni terreni antepongono quelli celesti e fondano una comunità monacale per appoggiare la lotta della Chiesa romana contro gli eretici. Nel 1251 i Serviti son in grado di posare accanto al loro convento la prima pietra di una chiesa dedicata alla Santissima Annunziata. Nel medesimo anno gli eremiti Agostiniani che avevano un monastero nel contado si trasferiscono in un terreno urbano sulla sponda meridionale dell’Arno donato loro da un ricco cittadino. Qui esistono ancora le tracce della chiesa e del monastero di Santo Spirito distrutti da un incendio.
I nuovi ordini esercitano una grande attrattiva e suscitano fiducia perché non pretendono di imporre a tutti il loro rigoroso ideale, anzi dimostrano stima per le attività profane dei cittadini. A chi non se la sente di abbandonare tutto per servire unicamente a Dio i frati mendicanti offrono la possibilità, fin’allora impensabile, di partecipare attivamente alla vita spirituale e nel contempo di impegnarsi altruisticamente per il bene del Comune. Le prime due importanti confraternite fiorentine risalgono al 1244 e sono opera di Pietro da Verona, il quale le ideò come sostegno laico ai capi spirituali impegnati nella lotta contro i nemici della Chiesa romana. L’una – detta confraternita della Fede – si scioglie logicamente quando circa due anni dopo gli eretici vengono debellati. L’altra – la Compagnia maggiore della Vergine Maria – si sdoppia. Ne nasce la confraternita di Santa Maria del Bigallo, dalla quale cresce la celebre confraternita della Misericordia con il suo palazzo a sud del Battistero, un palazzo in cui parla tanta tradizione. Ancor oggi per i Fiorentini costituisce un punto d’onore impegnare il tempo libero nell’assistenza ai malati e ai moribondi: lo vuole la loro adesione alla Misericordia. Nella seconda di queste più antiche confraternite – la compagnia delle Laudi di Santa Maria Novella – si riconoscono ancora gli stretti legami con il convento dei Domenicani.

Processione religiosa con monaci benedettini, Ospitalieri di Santo Spirito, camaldolesi, francescani ed eremitani di Sant’Agostino. Affresco (frammento), XIV sec. Fabriano, Pinacoteca Molajoli.

Le due confraternite sono esempi di un’istituzione che – sotto la guida dei Domenicani e dei Francescani – ha sempre attirato gran numero di uomini delle cerchie dominanti della città. Le confraternite sono organizzate sul modello del governo cittadino: un microcosmo con priori, capitani, consiglieri, tesorieri, stemmi e processioni propri. Ogni confraternita ha i suoi santi particolari e la propria chiesa che è luogo di ritrovo quotidiano. Ma i partecipanti non sono mute presenze al sacrificio della messa, separate dal sacerdote da un’altra transenna; si stringono intorno all’altare come semplice popolo della Chiesa e con reale partecipazione. La compagnia delle Laudi esprime nel nome la caratteristica che contraddistingue anche le altre confraternite: nelle devozioni in comune vengono cantate le laudi, antichissimi inni in onore della Vergine Maria e di tutti i Santi, canti liturgici fin’allora riservati al clero e che ora, grazie alla partecipazione dei laici, ancor prima della fine del Duecento vengo trascritti in volgare.
Le pratiche devozionali comuni in giorni fissi sono soltanto una delle attività delle confraternite. Infatti ai loro membri non è chiesto di pensare esclusivamente all’aldilà, essi devono meritarselo qui sulla terra con le buone opere. L’attrattiva di tali unioni sta appunto in questo, nell’offrire ai loro membri una comunità in cui essi svolgono un’attività al di fuori degli ambienti di chiesa e della cerchia familiare. È un crescendo di iniziative pubbliche, soprattutto sociali. una confraternita si prende cura dei malati o assiste i condannati a morte; un’altra soccorre i concittadini poveri o provvede a seppellire i morti. Sono tante le cose da fare in un Comune che non conosce altra rete sociale al di fuori della famiglia e dell’amore per il prossimo in ambito ecclesiale. Quando muore un membro della confraternita i confratelli lo avvolgono nel loro stendardo e lo accompagnano alla tomba al lume di fiaccole e ceri. E le preghiere della comunità ne mantengono viva la memoria molto oltre la sua morte.
Gli statuti della confraternita chiedevano una vita devota e regolata: proibivano i giochi a carte e ai dadi, la regolare frequentazione delle taverne, gli amori segreti, e chiedevano l’obbedienza ai pastori d’anime. Comandamento supremo era il rifuggire dalle discordie con i vicini e dalle zuffe cruente per le strade. L’adesione alle confraternite era motivo per cui un numero sempre crescente di cittadini si ritrovasse regolarmente alle messe per la pace. Le virtù religiose e gli ideali della nuova comunità cittadina s’intrecciavano con naturalezza. Più concrete, più tangibili delle comunità dei frati mendicanti, le confraternite divennero il modello per una città lacerata da discordie e odi. Esse crearono un’identità sociale su una base religiosa. Dimostrarono che fratellanza, pace e concordia non sono un’utopia astratta, ma possono rappresentare un’alternativa stimolante e praticabile.
Il fascino dell’utopia è tanto più forte quanto più ampio è il solco che separa dalla realtà. Oppure si tratta di una lettura troppo ottimistica dei motivi che agitano, sollecitano e cambiano gli uomini? Le immagini speculari di una vita diversa e migliore non sono forse semplicemente parte di ogni quotidianità, una contraddizione scontata, testimoni liberatori di una società troppo umana?

Lorenzo Vaiani detto ‘Sciorina’, Battaglia tra cattolici ed eretici al tempo di San Pietro Martire. Affresco, XVI sec. dal Chiostro Grande. Firenze, Santa Maria Novella.