Poesie tra un millennio e l’altro

Poesie tra un millennio e l'altro copertinadi Mario Mantelli, 30 novembre 2017

Introduzione

La storia con la esse minuscola

Corso del Novecento

Una piazza e una via

Piazza Cristoforo Colombo

Via Lorenzo Perosi

Viaggio in Italia

Cortona

Firenze

Alte stagioni

Inizi d’estate I

Inizi d’estate II

Ricominciare d’agosto

Settembre

Ognissettembre

Piccole vacanze

Ferragosto in città di pianura

Agnizione cercata

Stendhal a rovescio

Resoconto del mio paese

Expertise in giardino

Fondo di via Broda  I

Fondo di via Broda  II

Fondo di via Broda III

Piazza Roma

Da la cruz (Dalla croce)

Ant u Rut (Nel Rotto)

Stra du simitéri vègg (Strada del cimitero vecchio)

San Fliz él Vègg (San Felice il Vecchio)

Più breve è il giorno

Ponte dei Morti

Uroboros

Mattini

Giovedì Santo

Restituzione

Ripresa

La luna che predice il lunedì

Convegno dei sogni

Circonvallazione dell’Ade

Tappa d’avvicinamento

Scuola notturna

Sogno subito dopo l’anno sabbatico

Tante belle cose

Pensiero vagante

In prossimità del santo onomastico

Amor perennis

Sala d’aspetto

Dopo la scepsi

Accanto al camino

Orto dei matti

Il Qualcosa

Le stagioni dalle nostre parti

Inverno in Alta Italia (Al centro del quadrangolo)

Primi di gennaio in Monferrato

Araldica di primavera

A  D. M.
Al  CM

Introduzione

Mi è caro questo volumetto perché può essere messo in relazione con il suo antecedente e parallelo Poesie tra i Settanta e gli Ottanta (medesimo editore, medesima collana). Sempre di poesie tirate fuori dal fondo del cassetto si tratta, ma c’è il gusto di incasellarle in scaffali a volte identici (La storia con la esse minuscola, Viaggio in Italia, Uroboros, Tante belle cose) conservando così una continuità nel cambiamento. Il cambiamento tuttavia c’è anche perché esiste un preciso punto di discrimine. Fra una raccolta e l’altra ho incominciato a fare gli haiku, detto così, come si dice di una malattia. Un malanno che potremmo definire dermo-letterario. Infatti un bravo critico, Nicola Gardini, definisce gli haiku come un’acne. Un’avvisaglia c’era già nell’ultima composizione di Poesie tra i Settanta e gli Ottanta (Calendarietto). Ma non tutto il male viene per nuocere. Come ne sono uscito si vede da qui. Ho puntato spesso su testi più brevi, sono stato più attento alle caratteristiche delle stagioni (Alte stagioni, Le stagioni dalle nostre parti). Lo haiku certamente non ha una forma esaustiva, è solo un accenno e forse non va preso troppo sul serio, come d’altronde hanno fatto i suoi stessi cultori, a partire dal grande iniziatore Bashō per arrivare a Sōseki che ci ironizza su oppure a Shiki, critico accanito di Bashō. Ma bisogna riconoscere che lo haiku insegna veramente tante cose: il conteggio sapiente delle sillabe, la capacità di contenitore che ha il verso nei confronti dell’emozione, il coinvolgimento con la natura e con la vita, la poesia come conserva della vita o come talismano.

Oltre a ciò le Poesie tra un millennio e l’altro continuano (in Uroboros) il tema dell’ossessione della routine, sia quella quotidiana-settimanale, sia quella dei ricorsi stagionali, si approfondisce la conoscenza dei luoghi vicini a casa (Piccole vacanze, Il mio paese) e si libera la risorsa del sogno (Convegno dei sogni) bruciando nelle sue consolazioni l’assillo delle maledette domande sul vuoto della vita.

Vorrei far notare ancora due stupidaggini, che testimoniano però il mio amore per la poesia che, come dice Donatella Bisutti in un titolo famoso, “salva la vita”. La prima è che la metrica di Settembre è ricalcata su quella dell’omonima poesia di Attilio Bertolucci che fa parte de La capanna indiana. La seconda è che nella poesia Ferragosto in città di pianura, oltre alla riconoscibilissima citazione di Clemente Rebora, mi sono permesso di sfidare Borges, che in un suo scritto giovanile (Inquisizioni, Adelphi, Milano 2001) condanna a morte tre parole: ineffabile, mistero e azzurro. Verso la fine della poesia mi sono sforzato di usarle tutte e tre.

P.S. Per la dedica A D.M. Al CM ricorre, come nella precedente raccolta, un piccolo gioco di parole, anzi di lettere. Il primo destinatario è Domenico Mantelli, mio fratello, alle cui poesie (e prose) devo davvero molto. Ne è stata curata una pubblicazione dai suoi famigliari: Solo sostenevo l’attacco dei ricordi. Poesie e prose, I Grafismi Boccassi, Alessandria 2013, con scritti di Riccardo Brondolo e Marco Grassano e immagini di Enzo Bruno. Il secondo destinatario è il Novecento in numeri romani, nella cui bagna (fatta di poesia e di guerre, di bellezza e disastri) siamo ancora ampiamente immersi.

 

La storia con la esse minuscola

 

 

Corso del Novecento

Di una grata estate di giugno

i freschi mattini ci innalzano

sul corso quasi in volo

tra margherite di ferro

api e rose in cemento

dell’epoca bella con fede

nel motto: “Di guerre mai più!”.

Poi come a un giro più forte

di vento si disvela la chiesa

in rossi mattoni che sorse

in suffragio di morti di guerra,

l’ultimissima dell’umanità.

Dunque la colpa è mia:

ho consumato io la lunga

pace che agli abitanti

di tutte queste case fu promessa

per ben due volte, a loro,

dai loro frutti d’oro sotto le cimase,

dalle loro protomi

vigilanti e gentili.

(estate-autunno 2011)

Una piazza e una via

Piazza Cristoforo Colombo

Come incauta speranza

nei sogni ospitalieri

riluceva negli anni

la piazza porticata

Cristoforo Colombo, tempestata

di caramelle d’orzo

ed altre meraviglie,

pensandola in visione nello sforzo

di dar senso e decoro ad un passato

che più aumentava e più si rivelava

falso e sbagliato.

Brillava in un destino contromano,

baluardo contro morte,

isolata speranza carnale,

encausto onirico

in un tempo incerto di Carnevale,

dopo una lunga via altoborghese

che a puntate attraversava intatta

l’indistinto grigio e fioccoso

di ciò che non sarebbe nato,

di ciò che fu annegato

senza poter dare voce di sé,

l’universo schifoso in espansione

di miserie, non senso, noia, sonno,

abulia, tempo perso.

Tutto questo attraversava la via,

chiara come un momento di grazia,

sortilegio gratuito, dono

senza il bisogno di una buona azione,

casto incantamento di gioventù.

Si riversava poi

nell’incavo protetto

della piazza, dove a fronte

di un negozio di lutti e ceramiche

inesorabilmente mi trovavo

sul fare della sera a contemplare,

bianco tra gli ori,

il gran cavallo alato

della mia vita vera.

 (gennaio 1988)

 

 

Via Lorenzo Perosi

Sotto una pioggia lieve,

nella mia mezza età,

viaggiavo accompagnato

dal piacere di non sapere dove

mi portassero i passi…

Ciò che ritenni fu notizia

di una tregua del tempo,

come voce amica

che per me dicesse:

“Domani ricomincio,

sono nato da poco,

si dischiude il futuro

degli anni appena adesso…”

 (gennaio 1996)

Viaggio in Italia

 

 

Cortona

Cortona, un nome

tanto per dire:

“Ci sono stato”

e poi avanti,

passando il tempo:

“Io c’ero stato”,

nei miei trent’anni,

alla ricerca

del non so dove;

alta la chiesa,

alti i giardini

e alta la Via Crucis,

ripidi ed inclinati a un punto tale

che scivolavano giù verso la piana

bimbi, palloni, croci, volti dolorosi.

(autunno 1991)

 

 

Firenze

Firenze diversa ai sottili

tormenti di un marzo inquietante,

più favorevole a incontri

e incantate parvenze:

cortili manieristi,

teche d’acquario

dove si stemperano

gli inchiostri di trapassate scritture…

Ma compagnia di giovinezza

toglie paura ai secoli

e manco il dito di Galileo

più ci minaccia: subito

si dimentica.

Appetito e gaiezza

son spuntati messaggeri del nuovo.

Usciti dal tepor di trattoria

È bello pensare che dietro i fiocchi

di nuvole di fine inverno

c’è il manto di stelle della canzone.

 (novembre 1995)

 

 

Alte stagioni

Inizi d’estate I

Nel soffoco meridiano costretti

svetta alta l’albizzia e si torce

nel rogo dei giardinetti;

cerca un’estasi fuori dal tormento:

sento l’assenza di dolore

che proverei se smettessi

di vivere in questo momento.

 (giugno 1997)

 

 

Inizi d’estate II

La lavanda in fiamme nella stasi

del primo pomeriggio ed il gelato

di cielo e di nuvole lassù.

Ascolta: per noi golosi del bello

penso sia un grave torto

non poter vivere una seconda volta.

 (giugno 1997)

 

 

 

Ricominciare d’agosto

Chissà perché

Fu di stamane l’impulso

ad ascoltare da presso

le parole del matto,

incomprensibili quanto

le campanule azzurre

e squillanti accanto a lui.

L’estate si sbracciava

dopo un temporale, insonne…

Nemmeno in tempo

di rendermene conto:

mi ritrovai infisso

nel centro della vita

esposto al vento

degli accesi risvegli di chi sa.

Poi tutto riprese a scorrere

usatamente.

 (agosto 2000)

 

 

Settembre

Periclitanti ore estive

di un bel settembre prudente,

fruttuosamente colmo

di congedi e progetti.

Calda luce

dilaghi sopra gli oggetti

come sorriso pensoso

su una gioia.

Dai oro a tutte

le piccole cose,

prometti le lune più grosse

ai tardi cacciatori serali.

 (settembre 1998)

 

 

Ognissettembre

Com’è lungo questo settembre!

Sembra che non voglia lasciarci più

(o siamo noi che vogliamo che non scappi?).

Al mattino i camion che van su e giù

si portano dietro gli strappi

del velario delle costellazioni.

Nel mercatino i frutti prodigano

bei verdi, migliori arancioni

ed inimitabili giallini.

Oltre i giardini,

oltre l’arco d’ingresso alla città

l’aria tersa rivela

un lontanissimo semaforo verde.

E d’improvviso due cose appaion certe:

si pensa che la vita

non sia del tutto persa

e, quanto al dopo, spunta il desiderio

di ricominciar tutto daccapo.

 (ottobre 1999)

 

 

Piccole vacanze

Ferragosto in città di pianura

 

Hanno steso i tappeti di pietra

davanti alle chiesuole lombarde.

Assieme ci siamo recati

a una stazione rosa, a un centro

di studi medi serrato per le ferie.

Acido trasudava dai muri assolati

il tribolamento dei secoli.

Come un portento, in riva a un naviglio

ridotto a uno spurgo, mi apparve

un pesciolino verde agonizzante

all’ombra di un pescatore demiurgo.

Ma ecco il suono delle sei

della campana che non dà malinconia,

che è voce tua, che è voce mia.

Ecco i campanili pervasi di attesa

affacciati curiosi sulle strade

all’annunciarsi del centro.

E quel passaggio livello alzato

dove la via svoltava con solo

l’azzurro del nulla.

Dietro ci potevi pensare

la necessità ineffabile, il mistero

di tutto quello che non è stato

ancora rivelato.

(agosto 2001)

Agnizione cercata

All’ombra delle essenze delle estati

per viali che portano il bel nome di Marzo

ora che possiam dirci ben maturi

arriviamo per provare a noi stessi

quanto memoria duri

e forse perché la vita

non abbia mantenuto le promesse.

Eppure qui le cose

son talmente le stesse!

Qualche dubbio soltanto per il numero

(se fosse quarantotto o cinquantotto),

ma indubitabile è il bovindo

col piastrellato rotto, a trama esagonale,

il concetto di borghesia

insito nella penombra dell’ambiente,

il pianoforte, il carillon che intona

“Il torrente”, vetrate colorate,

tavole apparecchiate per la festa

del diciannove marzo,

di agra più che gioiosa primavera

tanto che il sorridere mi richiedeva

sempre un poco di sforzo.

E poi la Milano-Sanremo

(non seguivo la corsa, pensavo:

“Che cosa diventeremo?”).

Sentenzio: “Deve esser proprio questa:

daronchiana, più liberty di quanto

non me la ricordassi, sì,

le certezze, come dice Erba,

dell’ampelopsis e di Yalta,

tutto era stato scritto”.

Tutto sommato non è cambiato un ette:

solo l’abbiamo trovata a trentasette

scrutando inutilmente

una metà del viale.

Ma via, la missione è compiuta, presto,

prima che la macchina esposta al sole

sia letale. E ripartendo

ci saluta, sorpresa e bonomia,

isolato nel corso di gloriosi

incompiuti sviluppi provinciali,

un negozio di gastronomia,

coperto d’ombra, fresco

e aperto d’agosto,

controcanto di quanto abbiamo visto,

rendendo la giornata

un poco meno sola

(allora al mattino tenevano aperto

per la bondiola tagliata fresca

per il pranzo della festa).

 (agosto 2001)

Stendhal a rovescio

Al poco di nord permessoci in giornata

ci accolgono come principi

chiese e collegi neoclassici

miniati dal sole in declino

che biscotta le cose.

È forse qui per poeti sapienti

che comincia l’Italia di polvere e di rose.

La grande allea coi platani incombenti

dagli spalti, l’ospedale annegato

dai giardini ci accolgono

come se ci entrassimo

dentro a una carrozza.

Presto assolviamo il compito

del nostro pomeridiano grand tour

(anche se penso che per loro era il sud

quello che per noi

è un avanzato settentrione):

la rapida visione di guglie e colonnati

la sfilata di troppo amati

orgogli provinciali

negli immutabili consolanti

portici medioevali.

Ma al riparo dal caldo

nel loggiato ospitale del teatro

mi ammalia, mi trattiene una libreria.

È chiusa. È di domenica.

Le vetrinette mostrano

laghi e montagne

nelle pubblicazioni sui dintorni.

E sono il paradiso: ci andrò.

Sarà pura felicità.

Niente è andato fallito.

Quindi ci rituffiamo

Nella pena della realtà,

nella risaia che odora

di pesce bollito:

saremo a casa per l’ora di cena.

 (agosto 2001)

Resoconto del mio paese

Expertise in giardino

Marzo, inizio dell’anno

come negli archivolti delle chiese.

Inizio tardivo della nostra

più segreta Wunderkammer,

completata senza spese.

Tre fiori spuntati:

l’albicocco, il giacinto e la viola.

Finalmente appagati: c’è tutto:

la nascita, il rosa, l’azzurro

e il colore del lutto.

Ci metteremo assieme

la chioccioletta dei fossi

bianca e marrone,

vertice di purezza

e contaminazione.

Solo noi sapremo

di aver completato

la collezione.

 (marzo 2002)

 

 

Fondo di via Broda  I

Cemento, mattoni, ombre

dove stavano i buoi.

Dietro brillano i rami

di un giardino, passano

una camicetta, un cane

negli spazi tra foglia e foglia.

Tra i colori degli impressionisti

ritarda questo settembre

i suoi piccoli frutti di gioia.

 (settembre 2002)

 

 

Fondo di via Broda  II

Un riquadro dell’essere:

tremola a un dolce refolo

il frutto sterile della gramigna

imperlato dagli ultimi

effetti di sole;

si rincorrono le cose leggere

buttate via.

Sibila il silenzio finché un botto

fa scoppiare i colombi nell’aria.

 (settembre 2002)

 

 

Fondo di via Broda III

Nella nicchia dello specchietto

retrovisore prende forma

la prevista scena consueta:

i pilastri vetusti dei rustici,

rossi contrafforti

di cattedrali scomparse;

il galletto segnavento ritto

sulla palla, sognante

gallinaceo parente

del barone ballista della fiaba;

e poi la porta di bottega povera

che l’avo mediatore

mise su per la moglie

più di cent’anni fa,

mio stemma araldico,

nido di vespe e chiodi.

(settembre 2002 – maggio 2012)

 

 

Piazza Roma

Sotto l’arco dei tigli quasi annotta

il pomeriggio chiaro di settembre.

Il fante all’assalto ha un volto

di ghisa giovane.

L’azzurro è di sogno

ben prima che spunti la luna.

Ora non c’è più il continuo dei viali

che partivano dalla stazione

prima dei lavori

che deviarono il ponte.

Davanti a me nella piazza celebrante

i colori delle case ex locande

del paese che fu.

Come avrei voluto essere

quel viaggiatore!

 (settembre 2002)

 

 

Da la cruz (Dalla croce)

Niente più siepi e rovi

nel tragitto che porta alla croce.

Solo orizzonti mossi

dall’aria già fresca,

la baracca e la vigna

e il color della terra.

Olmi isolati scampati al disastro.

Ma sempre la sentinella

dell’alto mulino, lontana,

sfiancata dal sole, a ricordare

che siamo stati giovani.

 (settembre 2002)

 

 

Ant u Rut (Nel Rotto)

Archeologie in mezzo al granoturco,

per arrivare a voi passo in rassegna

i roveri-soldati

di quando ero ancor soldo di cacio.

Qui giunti si appronta

immutabile il gioco:

quei cieli ideali per i cirri

e per i loro inaccessibili disegni,

Armida che prepara le pozioni

di salice e di pioppo cipressino

(ci vuole ancora attrarre col profumo

di tutto ciò che macera nell’acqua).

Fonti, laghi di riso:

lo spettacolo allestito

fu troppo bello,

non resse alla realtà.

 (settembre 2002)

 

 

Stra du simitéri vègg (Strada del cimitero vecchio)

L’inizio sembra proprio

il sentiero di un chiuso giardino

che porti alla gloria di un ninfeo.

E in effetti, arrivati allo slargo,

scomparsa ogni traccia della morte,

ti volti e ti accorgi

che il paesaggio è uguale al suo ricordo.

Da qui il paese è un amore.

Parla di primavera.

È il racconto del bosco ovigliese.

Il campanile aguzzo prende appunti

sulla cartapecora del cielo.

 (maggio 2012 – settembre 2002)

 

 

San Fliz él Vègg (San Felice il Vecchio)

Sul lieve, impercettibile rilievo

(spunta come melone dalla paglia),

dove c’era la vigna del cugino,

dormono gli avi dagli occhi azzurri,

alti guerrieri di Sarmazia

messi a presidio dei crocevia.

Per secoli, dopo l’aratura,

i ragazzi vi han trovato

piccoli tesori paurosi

fatti di cocci e di frammenti d’ossa.

Il grano ci cresce e matura in file

che convergono a quell’altura,

fatta di strati di vite trascorse,

e quando è ancora erba verde

sembra proprio d’essere in Irlanda.

 (giugno 2017)

 

 

Più breve è il giorno

Tornano i trattori celtici

coi loro lumini accesi

contro il cielo di cartavetro,

le luci così uguali a quelli

dei vicini camposanti di campagna.

 (ottobre 1989)

 

 

Ponte dei Morti

Che buon odore di caffè

hanno i vivi dimentichi di sé

mentre trascorre il giorno.

I morti invece sanno

di muffa, di muschio e di cantina.

Risorgono prima di Natale

nello zampognaro stanco

per gli anni, nel pastorello

dai pomelli accesi, nella donna

senza età che porta il latte.

Ma oggi, risvegliata memoria

di fiori e di lumini, rimboccate

le coperte ai tumuli

riesco al futuro che m’avanza.

Qui una volta dal portale di Dite,

riaffacciato a respirar la nebbia

dell’immensa pianura dei viventi,

qualche casa sparsa

mi apriva come l’attesa

di futuri inespressi e felici.

E ora che per poco mi risuona

quella felicità di un tempo,

un pezzetto soltanto

di quell’immenso pane,

senza più Loro mi affretto

verso casa a consumarlo, colpevole

come se a loro l’avessi sottratto.

 (novembre 2005)

Uroboros

 

 

Mattini

Su un tragitto consueto mi coglie

l’insensata contezza dell’essere.

 (febbraio 1997)

 

 

Giovedì Santo

Nell’ abbuiarsi fradicio del giorno

tra le mondane fioche rare luci,

stipati sotto i portici

gli oziosi pensionati di provincia

dalla vita mille volte fallita

fin dal nascere

sostano ancora incerti

tra perdizione e perdono,

vivono il quotidiano rinvio

del “Perché ci sono?”

 (marzo 1988)

 

 

Restituzione

Nelle fredde sere dei mercati

dismessi dal carname quotidiano

portavi sconsolata la tua immagine

di eterno femminino

da domandarsi se mai fosse un caso

di fortunose ubiquità,

una dislocazione sorprendente

di come già pensavo

fosse la vita

coi guadagni, le donne ed altro ancora.

Figura dondolante,

un po’ linfatica

di dolente neoclassica beltà,

indecisa in una luce incerta

nel momento di un futuro ormai

reso presente da tanto tempo.

 (maggio 1989)

 

 

Ripresa

Alla domenica ci son coloro

che comprano il Sole 24 Ore,

giovani padri che in giro mostrano

i figli piccoli come un portento.

L’aria è più fredda e con pudore

mi sforzo anch’io d’esser contento.

 (ottobre 1994)

 

 

La luna che predice il lunedì

La luna di settembre

tagliata dall’antenna

giusta sul quadrangolo

del tetto in compagnia

ampia di stelle.

Di color giallo ambrato

spicchio di pesca estrema

che per contrasto accentua

la notte in viola.

È la luna dei vecchi,

che non ripaga i torti,

avara di promesse;

ci dice solo:

“Domani è lunedì,

ricomincia l’eterna settimana”.

 (settembre 2004)

Convegno dei sogni

Circonvallazione dell’Ade

Nei giorni a loro dedicati,

benigni mi tornano a trovare

i genitori morti:

il padre in uno dei suoi rari

ammirati momenti

di gioia di vivere,

la madre già azzoppata

ma serena su una lettiga

in un ospedale dove

le son cessati tutti i dolori.

Il paese paterno

e la città materna

in conflitto per una vita

pacificati ora

son diventati l’uno

la prosecuzione dell’altra

ed io mi reco, prima

passando per le vie interne

del paese (e mi perdo),

poi per la circonvallazione

della città piena di luci

arancioni notturne,

a visitare la madre ospitata

in quel luogo che le ha dato i natali,

che finalmente la riaccoglie in braccio.

Infine! Dopo tanto esilio!

Ne son contento anch’io,

pur nell’affanno di voler

raggiungerla senza riuscirci.

Solo ora vedo un gruppo

rassicurante di persone

che vanno nel buio probabilmente

dove mi reco io.

Forse mi fermerò

A chiedere indicazioni.

 

 

Tappa d’avvicinamento

Com’era ardito e bello il mio dominio,

quello che mi fu dato in sorte

e non me n’ero accorto! Possedevo

terre di sole coi pozzi per le vie

ed asili e castelli finestrati

con archi acuti e conci

bianchi di pietra e corsi di mattone.

Da lì guardavo pianure e strade

che avevo attraversato,

da un belvedere congegnato apposta

tutto per me con uno scrigno aperto

dove riassaporavo il dolce

delle fiabe, del “vissero felici”

con tutto quel che segue.

Con intrepida calma

guardai la strada fatta,

(lontani i suoni,

l’affanno delle macchine in salita)…

 (agosto 2000)

 

Scuola notturna

Ho sognato di Perugia stanotte

e le foreste accanto al mio letto

tentavano di soffocarmi.

I medioevi coi loro cavalieri,

ere più antiche con incauti dinosauri

hanno fatto bordello tutto il tempo

e se ne sono andati poco fa:

ora il vuoto sonoro dell’alloggio

mi avvolge più compatto dentro l’alba.

C’era anche Umberto Eco questa notte;

si studiava in una folta biblioteca

foderata di legni lucidati.

Gli chiedevo notizie

sul significato del mondo. Rispondeva

che l’importante era ridere spesso

e soprattutto la laicità nei rapporti.

Spero un giorno o l’altro

di sognare di nuovo di Perugia

per potermi svelare quel mistero

ora che gli anni sono sempre meno.

 (gennaio 2001)

 

 

Sogno subito dopo l’anno sabbatico

Uscito per il solito giro

in quello che certo poteva

essere un Monferrato sognante

ma anche contemporaneamente

quel sentiero che era dentro me,

rifatto cento volte, che portava

alla croce sul pilone trasportata

fin lì dove s’era fermato il colera.

E quel giro era tutto costellato

(la cosa mi sembrava del tutto normale)

dai ruderi di un medioevo

diffratti in luci verdi,

rosso-carminio e gialle,

in un’aria nebbiosa e già quasi serale

di una meritata domenica invernale,

luci tra il presepio e il carnevale.

L’atmosfera alludeva tutta quanta

a figure di un libro per bambini,

ricordo del Natale del ’50,

che parlava, iniziale, di un giro d’Italia,

di Bartali e di Coppi, di gente

ancora buona, nostrale, di speranze

(l’illustratore “espressionisteggiava”).

Riuscito dopo queste esperienze

là dove il sentiero biforcava,

appena costeggiato il muro buio

(finestre accese davano sul vuoto)

ritrovo luce ancora per un poco

(resiste disperatamente la domenica).

M’accorgo di qualcosa e poi mi volto:

è lei che mi raggiunge finalmente:

con passi felpati, sui piccoli piedi,

mi porta centuplicato

tutto quel che le diedi.

 (gennaio-marzo 2002)

Tante belle cose

Pensiero vagante

Goya, Degas ed il colesterolo

impolverati dalla noia degli anni

sui banchetti dei libri della piazza

fritta dal sole ed un bel volto acceso

come un dolce La Tour nella memoria.

A questa età! Chi l’avrebbe mai detto!

(dell’arrivarci, di un ritorno

insperato di speranze).

Oh, allora, diciamo al tempo:

fermo così! Ora che più che mai

sento vicine al cuore

le mie più care lontananze.

 (agosto 1995)

 

 

In prossimità del santo onomastico

La luce del medio gennaio

filtra dal vetro smerigliato e liscio

e ammiro il suo volere profetarmi

nella dimenticanza lene della festa

quanto ancora mi rimane di inespresso,

quanto ancora da vivere mi resta.

Nel crepuscolo mite delle cinque

il mio nome e il mio volerti bene:

uniche cose che salvo di me stesso.

 (gennaio 1998)

 

 

Amor perennis

Nelle tintorie le stagioni

vanno e vengono. Solo tu

rimani sempre uguale.

 (aprile 1998)

 

 

Sala d’aspetto

Son qui che guardo nella vetrinetta

l’ Hermann Hesse facile delle stazioni,

protettore di insonnie

e dell’intimità

delle valigie aperte.

Fuori dai vetri brillano

germogli d’abete ancor chiari;

oltre i giardini gli alberghi hanno chiuso.

Venti, quaranta, sessanta minuti

di ritardo segnala il tabellone,

infingardemente alle età

della vita allude, irride.

Porta per te il peso degli anni.

 (settembre 1999)

 

 

Dopo la scepsi

Ditemi qualche vecchia verità:

che l’acciaio è una lega

di ferro e di carbonio,

che l’erba è verde,

che esiste un Dio:

che possa lasciare questo mondo

in pace con me stesso.

 (maggio 2003)

 

 

Accanto al camino

Vorrei trovare rifugio d’inverno

in qualche quadro del Novecento.

Ci deve essere la neve e un gatto

e solo allora sarei contento.

 (gennaio 2004)

 

 

Orto dei matti

Com’è struggente l’orto dei matti

invaso dalla primavera

nella bella veduta a cavaliere

del primo piano della grande scuola!

Se mai paesaggio mortale

fosse concesso di portar nel cuore

all’ombra del gran buio

sceglierei questo.

 (dicembre 2005)

 

 

Il Qualcosa

Come lasciar scappare questo maggio

senza una memoria

dei suoi palazzi d’oro,

dei suoi cieli azzurri,

tersi e sereni come cartagloria

intesa a rivelare della vita

tutti i dolci sussurri,

tutto il buon decoro?

Una memoria da tenere in tasca

e da svolgere poi teneramente

per leggere nei colli in lontananza

(avvolti dalla spuma delle nubi),

con la pudica attesa

propria di chi non osa,

quella solenne meta imprecisata

del Qualcosa.

 (maggio 2009)

 

 

 

Le stagioni dalle nostre parti

Inverno in Alta Italia (Al centro del quadrangolo)

Parma è una natura morta,

illuminata da un sole da incunabolo,

di carni bianche e rosse.

Milano è la vetrina di un bar

piena di cose buone

appannata dai fiati della gente

che tra chicchere e specchi

si riprende.

Torino è la montagna in fondo al corso

netta nella giornata adamantina

e la zuppa fumante di collina

inquadrata dalla vista a cannocchiale.

Genova, uguale nella memoria degli anni,

è la presenza dei Re Magi

tra i vicoli d’ardesia grigia.

 (dicembre 2007)

 

 

Primi di gennaio in Monferrato

Guidare assorto

tra la neve rimasta

nell’ora di merenda

già crepuscolare.

Sulla mia destra un fianco

di zucchero e ricotta,

un dolce montebianco.

Dopo un po’, più lontana,

spunta una collinella.

Esposta a sud, è già

tutta di stracciatella.

 (febbraio 2008)

 

 

Araldica di primavera

Marzo ha la nuvola

in campo azzurro.

Pascola greggi

di case in collina.

Qui antichi al piano,

le braccia alzate,

gelsi in filari

scacciano l’inverno.

Tra rotti e consueti

pensieri la terra

ribolle di fiori.

 (aprile 2008)