di Mario Mantelli, 30 novembre 2017
La storia con la esse minuscola
Una piazza e una via
Viaggio in Italia
Alte stagioni
Piccole vacanze
Ferragosto in città di pianura
Resoconto del mio paese
Stra du simitéri vègg (Strada del cimitero vecchio)
San Fliz él Vègg (San Felice il Vecchio)
Uroboros
Convegno dei sogni
Sogno subito dopo l’anno sabbatico
Tante belle cose
In prossimità del santo onomastico
Le stagioni dalle nostre parti
Inverno in Alta Italia (Al centro del quadrangolo)
Primi di gennaio in Monferrato
A D. M.
Al CM
Introduzione
Mi è caro questo volumetto perché può essere messo in relazione con il suo antecedente e parallelo Poesie tra i Settanta e gli Ottanta (medesimo editore, medesima collana). Sempre di poesie tirate fuori dal fondo del cassetto si tratta, ma c’è il gusto di incasellarle in scaffali a volte identici (La storia con la esse minuscola, Viaggio in Italia, Uroboros, Tante belle cose) conservando così una continuità nel cambiamento. Il cambiamento tuttavia c’è anche perché esiste un preciso punto di discrimine. Fra una raccolta e l’altra ho incominciato a fare gli haiku, detto così, come si dice di una malattia. Un malanno che potremmo definire dermo-letterario. Infatti un bravo critico, Nicola Gardini, definisce gli haiku come un’acne. Un’avvisaglia c’era già nell’ultima composizione di Poesie tra i Settanta e gli Ottanta (Calendarietto). Ma non tutto il male viene per nuocere. Come ne sono uscito si vede da qui. Ho puntato spesso su testi più brevi, sono stato più attento alle caratteristiche delle stagioni (Alte stagioni, Le stagioni dalle nostre parti). Lo haiku certamente non ha una forma esaustiva, è solo un accenno e forse non va preso troppo sul serio, come d’altronde hanno fatto i suoi stessi cultori, a partire dal grande iniziatore Bashō per arrivare a Sōseki che ci ironizza su oppure a Shiki, critico accanito di Bashō. Ma bisogna riconoscere che lo haiku insegna veramente tante cose: il conteggio sapiente delle sillabe, la capacità di contenitore che ha il verso nei confronti dell’emozione, il coinvolgimento con la natura e con la vita, la poesia come conserva della vita o come talismano.
Oltre a ciò le Poesie tra un millennio e l’altro continuano (in Uroboros) il tema dell’ossessione della routine, sia quella quotidiana-settimanale, sia quella dei ricorsi stagionali, si approfondisce la conoscenza dei luoghi vicini a casa (Piccole vacanze, Il mio paese) e si libera la risorsa del sogno (Convegno dei sogni) bruciando nelle sue consolazioni l’assillo delle maledette domande sul vuoto della vita.
Vorrei far notare ancora due stupidaggini, che testimoniano però il mio amore per la poesia che, come dice Donatella Bisutti in un titolo famoso, “salva la vita”. La prima è che la metrica di Settembre è ricalcata su quella dell’omonima poesia di Attilio Bertolucci che fa parte de La capanna indiana. La seconda è che nella poesia Ferragosto in città di pianura, oltre alla riconoscibilissima citazione di Clemente Rebora, mi sono permesso di sfidare Borges, che in un suo scritto giovanile (Inquisizioni, Adelphi, Milano 2001) condanna a morte tre parole: ineffabile, mistero e azzurro. Verso la fine della poesia mi sono sforzato di usarle tutte e tre.
P.S. Per la dedica A D.M. Al CM ricorre, come nella precedente raccolta, un piccolo gioco di parole, anzi di lettere. Il primo destinatario è Domenico Mantelli, mio fratello, alle cui poesie (e prose) devo davvero molto. Ne è stata curata una pubblicazione dai suoi famigliari: Solo sostenevo l’attacco dei ricordi. Poesie e prose, I Grafismi Boccassi, Alessandria 2013, con scritti di Riccardo Brondolo e Marco Grassano e immagini di Enzo Bruno. Il secondo destinatario è il Novecento in numeri romani, nella cui bagna (fatta di poesia e di guerre, di bellezza e disastri) siamo ancora ampiamente immersi.
La storia con la esse minuscola
Corso del Novecento
Di una grata estate di giugno
i freschi mattini ci innalzano
sul corso quasi in volo
tra margherite di ferro
api e rose in cemento
dell’epoca bella con fede
nel motto: “Di guerre mai più!”.
Poi come a un giro più forte
di vento si disvela la chiesa
in rossi mattoni che sorse
in suffragio di morti di guerra,
l’ultimissima dell’umanità.
Dunque la colpa è mia:
ho consumato io la lunga
pace che agli abitanti
di tutte queste case fu promessa
per ben due volte, a loro,
dai loro frutti d’oro sotto le cimase,
dalle loro protomi
vigilanti e gentili.
(estate-autunno 2011)
Una piazza e una via
Piazza Cristoforo Colombo
Come incauta speranza
nei sogni ospitalieri
riluceva negli anni
la piazza porticata
Cristoforo Colombo, tempestata
di caramelle d’orzo
ed altre meraviglie,
pensandola in visione nello sforzo
di dar senso e decoro ad un passato
che più aumentava e più si rivelava
falso e sbagliato.
Brillava in un destino contromano,
baluardo contro morte,
isolata speranza carnale,
encausto onirico
in un tempo incerto di Carnevale,
dopo una lunga via altoborghese
che a puntate attraversava intatta
l’indistinto grigio e fioccoso
di ciò che non sarebbe nato,
di ciò che fu annegato
senza poter dare voce di sé,
l’universo schifoso in espansione
di miserie, non senso, noia, sonno,
abulia, tempo perso.
Tutto questo attraversava la via,
chiara come un momento di grazia,
sortilegio gratuito, dono
senza il bisogno di una buona azione,
casto incantamento di gioventù.
Si riversava poi
nell’incavo protetto
della piazza, dove a fronte
di un negozio di lutti e ceramiche
inesorabilmente mi trovavo
sul fare della sera a contemplare,
bianco tra gli ori,
il gran cavallo alato
della mia vita vera.
(gennaio 1988)
Via Lorenzo Perosi
Sotto una pioggia lieve,
nella mia mezza età,
viaggiavo accompagnato
dal piacere di non sapere dove
mi portassero i passi…
Ciò che ritenni fu notizia
di una tregua del tempo,
come voce amica
che per me dicesse:
“Domani ricomincio,
sono nato da poco,
si dischiude il futuro
degli anni appena adesso…”
(gennaio 1996)
Viaggio in Italia
Cortona
Cortona, un nome
tanto per dire:
“Ci sono stato”
e poi avanti,
passando il tempo:
“Io c’ero stato”,
nei miei trent’anni,
alla ricerca
del non so dove;
alta la chiesa,
alti i giardini
e alta la Via Crucis,
ripidi ed inclinati a un punto tale
che scivolavano giù verso la piana
bimbi, palloni, croci, volti dolorosi.
(autunno 1991)
Firenze
Firenze diversa ai sottili
tormenti di un marzo inquietante,
più favorevole a incontri
e incantate parvenze:
cortili manieristi,
teche d’acquario
dove si stemperano
gli inchiostri di trapassate scritture…
Ma compagnia di giovinezza
toglie paura ai secoli
e manco il dito di Galileo
più ci minaccia: subito
si dimentica.
Appetito e gaiezza
son spuntati messaggeri del nuovo.
Usciti dal tepor di trattoria
È bello pensare che dietro i fiocchi
di nuvole di fine inverno
c’è il manto di stelle della canzone.
(novembre 1995)
Alte stagioni
Inizi d’estate I
Nel soffoco meridiano costretti
svetta alta l’albizzia e si torce
nel rogo dei giardinetti;
cerca un’estasi fuori dal tormento:
sento l’assenza di dolore
che proverei se smettessi
di vivere in questo momento.
(giugno 1997)
Inizi d’estate II
La lavanda in fiamme nella stasi
del primo pomeriggio ed il gelato
di cielo e di nuvole lassù.
Ascolta: per noi golosi del bello
penso sia un grave torto
non poter vivere una seconda volta.
(giugno 1997)
Ricominciare d’agosto
Chissà perché
Fu di stamane l’impulso
ad ascoltare da presso
le parole del matto,
incomprensibili quanto
le campanule azzurre
e squillanti accanto a lui.
L’estate si sbracciava
dopo un temporale, insonne…
Nemmeno in tempo
di rendermene conto:
mi ritrovai infisso
nel centro della vita
esposto al vento
degli accesi risvegli di chi sa.
Poi tutto riprese a scorrere
usatamente.
(agosto 2000)
Settembre
Periclitanti ore estive
di un bel settembre prudente,
fruttuosamente colmo
di congedi e progetti.
Calda luce
dilaghi sopra gli oggetti
come sorriso pensoso
su una gioia.
Dai oro a tutte
le piccole cose,
prometti le lune più grosse
ai tardi cacciatori serali.
(settembre 1998)
Ognissettembre
Com’è lungo questo settembre!
Sembra che non voglia lasciarci più
(o siamo noi che vogliamo che non scappi?).
Al mattino i camion che van su e giù
si portano dietro gli strappi
del velario delle costellazioni.
Nel mercatino i frutti prodigano
bei verdi, migliori arancioni
ed inimitabili giallini.
Oltre i giardini,
oltre l’arco d’ingresso alla città
l’aria tersa rivela
un lontanissimo semaforo verde.
E d’improvviso due cose appaion certe:
si pensa che la vita
non sia del tutto persa
e, quanto al dopo, spunta il desiderio
di ricominciar tutto daccapo.
(ottobre 1999)
Piccole vacanze
Ferragosto in città di pianura
Hanno steso i tappeti di pietra
davanti alle chiesuole lombarde.
Assieme ci siamo recati
a una stazione rosa, a un centro
di studi medi serrato per le ferie.
Acido trasudava dai muri assolati
il tribolamento dei secoli.
Come un portento, in riva a un naviglio
ridotto a uno spurgo, mi apparve
un pesciolino verde agonizzante
all’ombra di un pescatore demiurgo.
Ma ecco il suono delle sei
della campana che non dà malinconia,
che è voce tua, che è voce mia.
Ecco i campanili pervasi di attesa
affacciati curiosi sulle strade
all’annunciarsi del centro.
E quel passaggio livello alzato
dove la via svoltava con solo
l’azzurro del nulla.
Dietro ci potevi pensare
la necessità ineffabile, il mistero
di tutto quello che non è stato
ancora rivelato.
(agosto 2001)
Agnizione cercata
All’ombra delle essenze delle estati
per viali che portano il bel nome di Marzo
ora che possiam dirci ben maturi
arriviamo per provare a noi stessi
quanto memoria duri
e forse perché la vita
non abbia mantenuto le promesse.
Eppure qui le cose
son talmente le stesse!
Qualche dubbio soltanto per il numero
(se fosse quarantotto o cinquantotto),
ma indubitabile è il bovindo
col piastrellato rotto, a trama esagonale,
il concetto di borghesia
insito nella penombra dell’ambiente,
il pianoforte, il carillon che intona
“Il torrente”, vetrate colorate,
tavole apparecchiate per la festa
del diciannove marzo,
di agra più che gioiosa primavera
tanto che il sorridere mi richiedeva
sempre un poco di sforzo.
E poi la Milano-Sanremo
(non seguivo la corsa, pensavo:
“Che cosa diventeremo?”).
Sentenzio: “Deve esser proprio questa:
daronchiana, più liberty di quanto
non me la ricordassi, sì,
le certezze, come dice Erba,
dell’ampelopsis e di Yalta,
tutto era stato scritto”.
Tutto sommato non è cambiato un ette:
solo l’abbiamo trovata a trentasette
scrutando inutilmente
una metà del viale.
Ma via, la missione è compiuta, presto,
prima che la macchina esposta al sole
sia letale. E ripartendo
ci saluta, sorpresa e bonomia,
isolato nel corso di gloriosi
incompiuti sviluppi provinciali,
un negozio di gastronomia,
coperto d’ombra, fresco
e aperto d’agosto,
controcanto di quanto abbiamo visto,
rendendo la giornata
un poco meno sola
(allora al mattino tenevano aperto
per la bondiola tagliata fresca
per il pranzo della festa).
(agosto 2001)
Stendhal a rovescio
Al poco di nord permessoci in giornata
ci accolgono come principi
chiese e collegi neoclassici
miniati dal sole in declino
che biscotta le cose.
È forse qui per poeti sapienti
che comincia l’Italia di polvere e di rose.
La grande allea coi platani incombenti
dagli spalti, l’ospedale annegato
dai giardini ci accolgono
come se ci entrassimo
dentro a una carrozza.
Presto assolviamo il compito
del nostro pomeridiano grand tour
(anche se penso che per loro era il sud
quello che per noi
è un avanzato settentrione):
la rapida visione di guglie e colonnati
la sfilata di troppo amati
orgogli provinciali
negli immutabili consolanti
portici medioevali.
Ma al riparo dal caldo
nel loggiato ospitale del teatro
mi ammalia, mi trattiene una libreria.
È chiusa. È di domenica.
Le vetrinette mostrano
laghi e montagne
nelle pubblicazioni sui dintorni.
E sono il paradiso: ci andrò.
Sarà pura felicità.
Niente è andato fallito.
Quindi ci rituffiamo
Nella pena della realtà,
nella risaia che odora
di pesce bollito:
saremo a casa per l’ora di cena.
(agosto 2001)
Resoconto del mio paese
Expertise in giardino
Marzo, inizio dell’anno
come negli archivolti delle chiese.
Inizio tardivo della nostra
più segreta Wunderkammer,
completata senza spese.
Tre fiori spuntati:
l’albicocco, il giacinto e la viola.
Finalmente appagati: c’è tutto:
la nascita, il rosa, l’azzurro
e il colore del lutto.
Ci metteremo assieme
la chioccioletta dei fossi
bianca e marrone,
vertice di purezza
e contaminazione.
Solo noi sapremo
di aver completato
la collezione.
(marzo 2002)
Fondo di via Broda I
Cemento, mattoni, ombre
dove stavano i buoi.
Dietro brillano i rami
di un giardino, passano
una camicetta, un cane
negli spazi tra foglia e foglia.
Tra i colori degli impressionisti
ritarda questo settembre
i suoi piccoli frutti di gioia.
(settembre 2002)
Fondo di via Broda II
Un riquadro dell’essere:
tremola a un dolce refolo
il frutto sterile della gramigna
imperlato dagli ultimi
effetti di sole;
si rincorrono le cose leggere
buttate via.
Sibila il silenzio finché un botto
fa scoppiare i colombi nell’aria.
(settembre 2002)
Fondo di via Broda III
Nella nicchia dello specchietto
retrovisore prende forma
la prevista scena consueta:
i pilastri vetusti dei rustici,
rossi contrafforti
di cattedrali scomparse;
il galletto segnavento ritto
sulla palla, sognante
gallinaceo parente
del barone ballista della fiaba;
e poi la porta di bottega povera
che l’avo mediatore
mise su per la moglie
più di cent’anni fa,
mio stemma araldico,
nido di vespe e chiodi.
(settembre 2002 – maggio 2012)
Piazza Roma
Sotto l’arco dei tigli quasi annotta
il pomeriggio chiaro di settembre.
Il fante all’assalto ha un volto
di ghisa giovane.
L’azzurro è di sogno
ben prima che spunti la luna.
Ora non c’è più il continuo dei viali
che partivano dalla stazione
prima dei lavori
che deviarono il ponte.
Davanti a me nella piazza celebrante
i colori delle case ex locande
del paese che fu.
Come avrei voluto essere
quel viaggiatore!
(settembre 2002)
Da la cruz (Dalla croce)
Niente più siepi e rovi
nel tragitto che porta alla croce.
Solo orizzonti mossi
dall’aria già fresca,
la baracca e la vigna
e il color della terra.
Olmi isolati scampati al disastro.
Ma sempre la sentinella
dell’alto mulino, lontana,
sfiancata dal sole, a ricordare
che siamo stati giovani.
(settembre 2002)
Ant u Rut (Nel Rotto)
Archeologie in mezzo al granoturco,
per arrivare a voi passo in rassegna
i roveri-soldati
di quando ero ancor soldo di cacio.
Qui giunti si appronta
immutabile il gioco:
quei cieli ideali per i cirri
e per i loro inaccessibili disegni,
Armida che prepara le pozioni
di salice e di pioppo cipressino
(ci vuole ancora attrarre col profumo
di tutto ciò che macera nell’acqua).
Fonti, laghi di riso:
lo spettacolo allestito
fu troppo bello,
non resse alla realtà.
(settembre 2002)
Stra du simitéri vègg (Strada del cimitero vecchio)
L’inizio sembra proprio
il sentiero di un chiuso giardino
che porti alla gloria di un ninfeo.
E in effetti, arrivati allo slargo,
scomparsa ogni traccia della morte,
ti volti e ti accorgi
che il paesaggio è uguale al suo ricordo.
Da qui il paese è un amore.
Parla di primavera.
È il racconto del bosco ovigliese.
Il campanile aguzzo prende appunti
sulla cartapecora del cielo.
(maggio 2012 – settembre 2002)
San Fliz él Vègg (San Felice il Vecchio)
Sul lieve, impercettibile rilievo
(spunta come melone dalla paglia),
dove c’era la vigna del cugino,
dormono gli avi dagli occhi azzurri,
alti guerrieri di Sarmazia
messi a presidio dei crocevia.
Per secoli, dopo l’aratura,
i ragazzi vi han trovato
piccoli tesori paurosi
fatti di cocci e di frammenti d’ossa.
Il grano ci cresce e matura in file
che convergono a quell’altura,
fatta di strati di vite trascorse,
e quando è ancora erba verde
sembra proprio d’essere in Irlanda.
(giugno 2017)
Più breve è il giorno
Tornano i trattori celtici
coi loro lumini accesi
contro il cielo di cartavetro,
le luci così uguali a quelli
dei vicini camposanti di campagna.
(ottobre 1989)
Ponte dei Morti
Che buon odore di caffè
hanno i vivi dimentichi di sé
mentre trascorre il giorno.
I morti invece sanno
di muffa, di muschio e di cantina.
Risorgono prima di Natale
nello zampognaro stanco
per gli anni, nel pastorello
dai pomelli accesi, nella donna
senza età che porta il latte.
Ma oggi, risvegliata memoria
di fiori e di lumini, rimboccate
le coperte ai tumuli
riesco al futuro che m’avanza.
Qui una volta dal portale di Dite,
riaffacciato a respirar la nebbia
dell’immensa pianura dei viventi,
qualche casa sparsa
mi apriva come l’attesa
di futuri inespressi e felici.
E ora che per poco mi risuona
quella felicità di un tempo,
un pezzetto soltanto
di quell’immenso pane,
senza più Loro mi affretto
verso casa a consumarlo, colpevole
come se a loro l’avessi sottratto.
(novembre 2005)
Uroboros
Mattini
Su un tragitto consueto mi coglie
l’insensata contezza dell’essere.
(febbraio 1997)
Giovedì Santo
Nell’ abbuiarsi fradicio del giorno
tra le mondane fioche rare luci,
stipati sotto i portici
gli oziosi pensionati di provincia
dalla vita mille volte fallita
fin dal nascere
sostano ancora incerti
tra perdizione e perdono,
vivono il quotidiano rinvio
del “Perché ci sono?”
(marzo 1988)
Restituzione
Nelle fredde sere dei mercati
dismessi dal carname quotidiano
portavi sconsolata la tua immagine
di eterno femminino
da domandarsi se mai fosse un caso
di fortunose ubiquità,
una dislocazione sorprendente
di come già pensavo
fosse la vita
coi guadagni, le donne ed altro ancora.
Figura dondolante,
un po’ linfatica
di dolente neoclassica beltà,
indecisa in una luce incerta
nel momento di un futuro ormai
reso presente da tanto tempo.
(maggio 1989)
Ripresa
Alla domenica ci son coloro
che comprano il Sole 24 Ore,
giovani padri che in giro mostrano
i figli piccoli come un portento.
L’aria è più fredda e con pudore
mi sforzo anch’io d’esser contento.
(ottobre 1994)
La luna che predice il lunedì
La luna di settembre
tagliata dall’antenna
giusta sul quadrangolo
del tetto in compagnia
ampia di stelle.
Di color giallo ambrato
spicchio di pesca estrema
che per contrasto accentua
la notte in viola.
È la luna dei vecchi,
che non ripaga i torti,
avara di promesse;
ci dice solo:
“Domani è lunedì,
ricomincia l’eterna settimana”.
(settembre 2004)
Convegno dei sogni
Circonvallazione dell’Ade
Nei giorni a loro dedicati,
benigni mi tornano a trovare
i genitori morti:
il padre in uno dei suoi rari
ammirati momenti
di gioia di vivere,
la madre già azzoppata
ma serena su una lettiga
in un ospedale dove
le son cessati tutti i dolori.
Il paese paterno
e la città materna
in conflitto per una vita
pacificati ora
son diventati l’uno
la prosecuzione dell’altra
ed io mi reco, prima
passando per le vie interne
del paese (e mi perdo),
poi per la circonvallazione
della città piena di luci
arancioni notturne,
a visitare la madre ospitata
in quel luogo che le ha dato i natali,
che finalmente la riaccoglie in braccio.
Infine! Dopo tanto esilio!
Ne son contento anch’io,
pur nell’affanno di voler
raggiungerla senza riuscirci.
Solo ora vedo un gruppo
rassicurante di persone
che vanno nel buio probabilmente
dove mi reco io.
Forse mi fermerò
A chiedere indicazioni.
Tappa d’avvicinamento
Com’era ardito e bello il mio dominio,
quello che mi fu dato in sorte
e non me n’ero accorto! Possedevo
terre di sole coi pozzi per le vie
ed asili e castelli finestrati
con archi acuti e conci
bianchi di pietra e corsi di mattone.
Da lì guardavo pianure e strade
che avevo attraversato,
da un belvedere congegnato apposta
tutto per me con uno scrigno aperto
dove riassaporavo il dolce
delle fiabe, del “vissero felici”
con tutto quel che segue.
Con intrepida calma
guardai la strada fatta,
(lontani i suoni,
l’affanno delle macchine in salita)…
(agosto 2000)
Scuola notturna
Ho sognato di Perugia stanotte
e le foreste accanto al mio letto
tentavano di soffocarmi.
I medioevi coi loro cavalieri,
ere più antiche con incauti dinosauri
hanno fatto bordello tutto il tempo
e se ne sono andati poco fa:
ora il vuoto sonoro dell’alloggio
mi avvolge più compatto dentro l’alba.
C’era anche Umberto Eco questa notte;
si studiava in una folta biblioteca
foderata di legni lucidati.
Gli chiedevo notizie
sul significato del mondo. Rispondeva
che l’importante era ridere spesso
e soprattutto la laicità nei rapporti.
Spero un giorno o l’altro
di sognare di nuovo di Perugia
per potermi svelare quel mistero
ora che gli anni sono sempre meno.
(gennaio 2001)
Sogno subito dopo l’anno sabbatico
Uscito per il solito giro
in quello che certo poteva
essere un Monferrato sognante
ma anche contemporaneamente
quel sentiero che era dentro me,
rifatto cento volte, che portava
alla croce sul pilone trasportata
fin lì dove s’era fermato il colera.
E quel giro era tutto costellato
(la cosa mi sembrava del tutto normale)
dai ruderi di un medioevo
diffratti in luci verdi,
rosso-carminio e gialle,
in un’aria nebbiosa e già quasi serale
di una meritata domenica invernale,
luci tra il presepio e il carnevale.
L’atmosfera alludeva tutta quanta
a figure di un libro per bambini,
ricordo del Natale del ’50,
che parlava, iniziale, di un giro d’Italia,
di Bartali e di Coppi, di gente
ancora buona, nostrale, di speranze
(l’illustratore “espressionisteggiava”).
Riuscito dopo queste esperienze
là dove il sentiero biforcava,
appena costeggiato il muro buio
(finestre accese davano sul vuoto)
ritrovo luce ancora per un poco
(resiste disperatamente la domenica).
M’accorgo di qualcosa e poi mi volto:
è lei che mi raggiunge finalmente:
con passi felpati, sui piccoli piedi,
mi porta centuplicato
tutto quel che le diedi.
(gennaio-marzo 2002)
Tante belle cose
Pensiero vagante
Goya, Degas ed il colesterolo
impolverati dalla noia degli anni
sui banchetti dei libri della piazza
fritta dal sole ed un bel volto acceso
come un dolce La Tour nella memoria.
A questa età! Chi l’avrebbe mai detto!
(dell’arrivarci, di un ritorno
insperato di speranze).
Oh, allora, diciamo al tempo:
fermo così! Ora che più che mai
sento vicine al cuore
le mie più care lontananze.
(agosto 1995)
In prossimità del santo onomastico
La luce del medio gennaio
filtra dal vetro smerigliato e liscio
e ammiro il suo volere profetarmi
nella dimenticanza lene della festa
quanto ancora mi rimane di inespresso,
quanto ancora da vivere mi resta.
Nel crepuscolo mite delle cinque
il mio nome e il mio volerti bene:
uniche cose che salvo di me stesso.
(gennaio 1998)
Amor perennis
Nelle tintorie le stagioni
vanno e vengono. Solo tu
rimani sempre uguale.
(aprile 1998)
Sala d’aspetto
Son qui che guardo nella vetrinetta
l’ Hermann Hesse facile delle stazioni,
protettore di insonnie
e dell’intimità
delle valigie aperte.
Fuori dai vetri brillano
germogli d’abete ancor chiari;
oltre i giardini gli alberghi hanno chiuso.
Venti, quaranta, sessanta minuti
di ritardo segnala il tabellone,
infingardemente alle età
della vita allude, irride.
Porta per te il peso degli anni.
(settembre 1999)
Dopo la scepsi
Ditemi qualche vecchia verità:
che l’acciaio è una lega
di ferro e di carbonio,
che l’erba è verde,
che esiste un Dio:
che possa lasciare questo mondo
in pace con me stesso.
(maggio 2003)
Accanto al camino
Vorrei trovare rifugio d’inverno
in qualche quadro del Novecento.
Ci deve essere la neve e un gatto
e solo allora sarei contento.
(gennaio 2004)
Orto dei matti
Com’è struggente l’orto dei matti
invaso dalla primavera
nella bella veduta a cavaliere
del primo piano della grande scuola!
Se mai paesaggio mortale
fosse concesso di portar nel cuore
all’ombra del gran buio
sceglierei questo.
(dicembre 2005)
Il Qualcosa
Come lasciar scappare questo maggio
senza una memoria
dei suoi palazzi d’oro,
dei suoi cieli azzurri,
tersi e sereni come cartagloria
intesa a rivelare della vita
tutti i dolci sussurri,
tutto il buon decoro?
Una memoria da tenere in tasca
e da svolgere poi teneramente
per leggere nei colli in lontananza
(avvolti dalla spuma delle nubi),
con la pudica attesa
propria di chi non osa,
quella solenne meta imprecisata
del Qualcosa.
(maggio 2009)
Le stagioni dalle nostre parti
Inverno in Alta Italia (Al centro del quadrangolo)
Parma è una natura morta,
illuminata da un sole da incunabolo,
di carni bianche e rosse.
Milano è la vetrina di un bar
piena di cose buone
appannata dai fiati della gente
che tra chicchere e specchi
si riprende.
Torino è la montagna in fondo al corso
netta nella giornata adamantina
e la zuppa fumante di collina
inquadrata dalla vista a cannocchiale.
Genova, uguale nella memoria degli anni,
è la presenza dei Re Magi
tra i vicoli d’ardesia grigia.
(dicembre 2007)
Primi di gennaio in Monferrato
Guidare assorto
tra la neve rimasta
nell’ora di merenda
già crepuscolare.
Sulla mia destra un fianco
di zucchero e ricotta,
un dolce montebianco.
Dopo un po’, più lontana,
spunta una collinella.
Esposta a sud, è già
tutta di stracciatella.
(febbraio 2008)
Araldica di primavera
Marzo ha la nuvola
in campo azzurro.
Pascola greggi
di case in collina.
Qui antichi al piano,
le braccia alzate,
gelsi in filari
scacciano l’inverno.
Tra rotti e consueti
pensieri la terra
ribolle di fiori.
(aprile 2008)