«Italianistica», 2013, 2, pp- 127-146.
DALLA NOVELLA AL SONETTO:
BELLI, CASTI E UN PO’ DI BOCCACCIO
«Tu mm’addimanni a mmé ssi ffu pputtana
a li su’ tempi la casta Susanna.
Che vvôi che t’arisponni a sta dimanna?»
1. Fonti vive, fonti inaridite
Componente robusta del commento letterario, la ricerca delle fonti ha
dato nel capolavoro belliano frutti scarsi, a dispetto della sua ciclopica mole.
È peraltro facile capirne la ragione: nell’Introduzione ai sonetti romaneschi il
poeta precisa che vuole rispecchiarvi fedelmente il linguaggio e la mentalità
della plebe di Roma, attingere dunque non a fonti cartacee ma alla sorgente
viva del suo parlato, e che non intende inserirsi nel filone della fittizia poesia
popolare:
I nostri popolani non hanno arte alcuna: non di oratoria, non di
poetica, come niuna plebe n’ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla
natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello
sviluppo di qualità non fattizie. […] Il popolo quindi, mancante di
arte, manca di poesia […]. Io non vo’ gia presentare nelle mie carte
la poesia popolare, ma i popolari discorsi svolti nella mia poesia.1
Ridotta la cultura plebea a patrimonio antropologico trasmesso
oralmente, bollata come artificiosa la tenue tradizione scritta in romanesco
(farà i nomi di Berneri e di Carletti liquidandoli come autori pseudodialettali) e nascosto il metro del sonetto in modo da non alterare il
linguaggio e la sintassi dei parlanti, Belli non può che rimuovere le fonti
libresche tanto dal retroterra dei popolani, quanto dalla sua memoria di poeta
che trascrive i loro discorsi, o meglio crea come se trascrivesse. Verginità
insomma tanto a parte obiecti che subiecti.
Delle sue fittissime letture, il colto autore ci ragguaglia nell’immenso
1
Il testo dell’Introduzione e quello dei Sonetti di Belli sono tratti dall’edizione curata da Roberto Vighi (Poesie
romanesche, Libreria dello Stato, Roma 1988-1993, 10 voll.)
Zibaldone,2 prezioso documento dei suoi vasti interessi che vanno dalla
storia e dalla geografia alle scienze, dalla politica e dall’economia alla
statistica, dalla religione, dalla filosofia e dalla pedagogia al costume e alle
tradizioni, dalle arti alla linguistica e alla letteratura, italiana e straniera,
antica e moderna. Quella massa di annotazioni e di schedature permette di
ricostruire la sua biblioteca letteraria, nella quale spicca il genere narrativo, a
partire dalle raccolte novellistiche di Sacchetti e Boccaccio, alle quali si
possono associare i dialoghi tra prostitute dell’Aretino che inglobano
micronovelle, fino ai racconti di Hoffmann e ai romanzi di Scott; nonché il
genere teatrale, in primis le opere di Molière e di Goldoni, del quale si trova
riflesso nella forte dialogicità dei sonetti: predilezioni di genere che da sole
inducono a collocare la raccolta dialettale belliana fuori dal solco bernesco.
Nelle doviziose note di cui il poeta correda le duemila e passa poesie
romanesche, i rinvii ad altri autori sono rarissimi: segnala le «imitazioni» di
quattro sonetti milanesi di Carlo Porta,3 dichiara d’aver riscritto in
romanesco un verso di Giulio Perticari a sua volta attinto da Cervantes,4 e
registra esempi di Dante, Berni e Della Casa per giustificare una sineresi
metrica.5 Nessun’altra indicazione di fonti o modelli troviamo, salvo errore,
nelle chiose belliane, neppure in quelle a La Vita dell’Omo,6 travestimento
romanesco di un celebre sonetto di Giambattista Marino sulla misera
condizione umana, «Apre l’uomo infelice, allor che nasce», silenzio da
imputare forse alla notorietà dell’antigrafo, oppure alla coscienza
dell’originalità del rimaneggiamento.
2
Dell’ampio Zibaldone belliano, conservato in forma manoscritta nella Biblioteca Nazionale di Roma, è stata
edita solo una piccola parte da Giovanni Orioli (Lettere Giornali Zibaldone, Einaudi, Torino 1962), ma
si dispone dell’utile regesto complessivo procurato da Stefania Luttazi (Lo Zibaldone di G. G. Belli:
indici e strumenti di ricerca, Centro studi «G. G. Belli»-Aracne, Roma 2004), da cui ricaviamo il
numero romano del volume e quello arabo della carta con cui citiamo i passi.
3 Tra il 7 e il 30 settembre 1831 Belli compone le cinque uniche dichiarate «imitazioni» di sonetti portiani: A
Nina da «Sura Caterinin, tra i bej cossett», il dittico A Teta da «Sent Teresin, m’en seva daa anca mì»,
Li Penzieri libberi da «Ricchezza del Vocabolari milanes» e Un mistero spiegato da «Gh’è al mond di
cristian tant ostinaa».
4 L’incipit di Er letto, 18 febbraio 1833, «Oh bbenedetto chì ha inventato er letto!», è così annotato dall’autore:
«Questo verso, purificato quì al modo romanesco, è di Giulio Perticari, nella Cantilena di Menicone
Frufolo. Il Cervantes disse in lingua sua le stesse parole in lode del sonno». Precisando che il verso
ripreso, in verità più d’uno, è «purificato quì al modo romanesco». Belli polemizza sottilmente contro
Giulio Perticari, celebratissimo letterato al suo tempo, che era ostile ai dialetti, e per di più auspicava la
riesumazione dell’italiano trecentesco, appena meno puristico di quello propugnato dal veronese padre
Antonio Cesari. Nel Don Quijote, opera di cui Belli trascrisse un aneddoto nello Zibaldone (III, 210),
Cervantes elogiava il letto quale livellatore sociale (II, 42), come fa il nostro poeta nei vv. 5-6 del
sonetto.
5 Nota 9 al sonetto Le cose nove, 17 novembre 1831.
6 La Vita dell’Omo, 18 gennaio 1833.
Per catturare reminiscenze letterarie, critici e commentatori hanno teso
le loro reti, in cui sono però finiti echi più spesso interdiscorsivi che
intertestuali.7 Qualche ripresa formale si rinviene nella raccolta romanesca di
maestri riconosciuti da Belli e a lui contemporanei: di Manzoni, autore di
quello che lui definisce il «primo libro del mondo», letto e postillato di sua
mano in una copia della Ventisettana,8 e di Leopardi, di cui si è
sollecitamente procurato i Canti nell’edizione fiorentina del 1831:9 due
maestri con i quali il Nostro ha una consonanza d’idee, l’impegno etico e
sociale del primo, e il pessimismo del secondo, riflessi nell’opera romanesca.
Lavorando da anni a un nuovo commento dei Sonetti, chi scrive ha
aggiunto a quelli segnalati da altri, vari echi, specialmente di Dante, Petrarca
e Boccaccio di cui si dirà poi, numerosi di Porta,10 alcuni di Berni,
dell’Aretino, inezie dal Bertoldo di Giulio Cesare Croce, verseggiato da
Zanotti, Frugoni e compagni nel 1736,11 qualche traccia lasciata dal poeta
secentesco in dialetto reatino Loreto Mattei anche al di fuori del ricordato
remake mariniano,12 alcuni contatti con Giorgio Baffo, poeta libertino in
veneziano, che però potrebbero ascriversi alla comune tipologia oscena dei
7
Cfr. i commenti alle edizioni di Belli curate da Giorgio Vigolo (I sonetti, Mondadori, Milano 1952, 3 voll.), il
quale tuttavia tende a sottolineare l’assoluta novità del nostro poeta nel suo Genio del Belli (Il
Saggiatore, Milano 1963, 2 voll.), da Roberto Vighi (Poesie romanesche cit.), e da Maria Teresa Lanza
(I sonetti, Feltrinelli, Milano 1965, 4 voll.), che nell’annotazione accoglie suggerimenti di Carlo
Muscetta, in parte anticipate da questo in Cultura e poesia di G. G. Belli (Feltrinelli, Milano 1961).
Quest’ultimo richiama, tra l’altro, un oratorio di Metastasio, La morte di Abel, per il sonetto Er
Ziggnore e Caino, 2 aprile 1834, anche se i due testi hanno una comune fonte biblica; rinvia più volte
ai Ragionamenti dell’Aretino, segnalando consonanze ora precise, ora vaghe, e al Poeta di teatro di
Filippo Pananti, connettendo opportunamente il «tiè in culo farfarello», di Er ventricolo, 15 novembre
1832, v. 9, al distico «Nel ventricolo, disse, c’è del fondo, / ha in corpo qualche Dio, qualche demonio»
(XCIX, vv. 109-10) nonché Er custituto, 3 dicembre 1832, a Il costituto, XIX canto della stessa opera,
stampata primamente nel 1808 e citata da Belli nello Zibaldone (VII, 165).
8 Cfr. dello scrivente Belli e Manzoni (in Belli senza maschere. Saggi e studi sui Sonetti romaneschi, Aragno,
Torino 2012, pp. 387-410) con rinvii a precedenti contributi, specie di Carlo Muscetta e soprattutto di
Eurialo De Michelis.
9 Belli conobbe Leopardi probabilmente di persona, cfr. Lucio Felici Mi saluti… il sig. Belli, in Leopardi a
Roma, a cura di Novella Bellucci e Luigi Trenti, Electa, Milano 1998, pp. 279-281. con rinvii a
precedenti contributi, fra cui spicca quello di Pino Fasano.
10 Si veda lo studio su Belli e Porta nel nostro volume Il coltello e la corona. La poesia del Belli tra filologia e
critica, Bulzoni, Roma 1979, pp. 93-149 con rinvii a precedenti contributi di Domenico Gnoli, Claudio
Cesare Secchi, Giorgio Vigolo, Luigi de Nardis.
11 Nel v. 10 di Fremma fremma, 10 ottobre 1830, Belli cita un proverbio di Bertoldo e Bertoldino, «scaltri
contadini, eroi di una leggenda, ridotta poi in versi da una società di valenti poeti», come spiega in
nota.
12 Cfr. lo studio Belli, Loreto Mattei e un po’ di Marino nel nostro volume Belli senza maschere, cit., pp. 339368, con rinvii a precedenti contributi di Luigi Morandi, Carlo Muscetta, Gianfranco Formichetti.
testi implicati.13 E anche considerando altri dei non pochi frustuli rintracciati
nel commento in corso, i contatti testuali stringenti restano limitati.
2. Un «amico» misterioso e tre monete
Ci ha dunque incuriosito la nota posta dall’autore all’explicit di La visita
der Governo:
fèsceno com’er Corvo de Novè
c’annò in malora e nnun ze vedde ppiù,
In calce Belli dichiara:
Questi ultimi due versi, scritti in lingua illustre, sono un furto da me
fatto ad un sonetto di un mio amico. Confessiamoci.14
A quale amico allude? Discreti verseggiatori, nonché suoi fraterni
sodali, erano Francesco Spada e Giacomo Ferretti, fecondo librettista,
mentre ad altri rimatori con cui egli intratteneva rapporti mal si adatta la
qualifica di «amico», di cui pochi potevano fregiarsi. Dopo una lunga e non
facile caccia, ecco finalmente la preda: il distico è prelevato da questo
sonetto di Giovan Battista Casti:
Cessate, o fieri venti, or che di quì
il Creditore mio se ne partì:
spiri un zefiro placido così,
come nel placido april spirando sia.
Splenda ridente in ciel serenità,
sia mite l’aria, e sia tranquillo il dì,
e finch’egli non sia lungi di quì,
non gli succeda alcuna avversità.
Goda viaggio felice; ma poiché
lungi da me sarà, fracassi giù
13 Ne renderanno
conto i commenti cui stiamo lavorando Lucio Felici ed io, ma già qualche traccia se ne trova
nel saggio Il quaresimale del Belli (nel volume dello scrivente I panni in Tevere. Belli romano e altri
romaneschi, Bulzoni, Roma 1989, pp. 65 -90).
14La visita der Governo, 4 febbraio 1833.
acqua e neve dal ciel quanta ve n’è
acciò non possa ritornar quassù,
e faccia come il corvo di Noè,
che andò a malora, e non si vide più.
È il XX della collana di 216 sonetti giocosi in endecasillabi tronchi
(metro spesso impiegato da Belli) intitolata Li tre giulj, una raccolta
pubblicata a Roma nel 1762, presso lo stampatore Bernabò, e poi con diversi
editori in varie città italiane, e persino a Londra nel 1826 in versione inglese.
In questi versi, Casti si compiace di aver evitato il pagamento di tre giuli,
monete d’argento che valevano ciascuna mezza lira romana, a un importuno
creditore, cui augura di finire disperso come il corvo di Noè.15 Belli,
ricreatore di episodi biblici in chiave popolaresca, non mancò di catturare
questa scherzosa allusione al diluvio universale, che ripropose in una lettera
al figlio del 1853:16
Il fango lasciato dal diluvio della sera di mercoldì 15 non vi permise
ieri neppure di metter piede fuori di casa, perché avreste dovuto fare
come la colomba di Noè, seppure non volevate imitare il corvo.
L’abate libertino, morto quasi ottantenne a Parigi nel 1803, quando il
nostro poeta aveva nove anni, era dunque un suo «amico» solo in senso
letterario.
Altre tracce lasciate dalla collana di Casti nei sonetti romaneschi non
sembrano visibili, tranne forse il suo titolo. Il sintagma «tre giuli» torna
infatti ben sette volte nei sonetti, molte più delle altre occorrenze numeriche
che accompagnano la quella moneta (uno, due, sei). Quella somma designa
ora la tassa per ottenere la licenza di caccia,17 ora la gabella sui salumi,18 ora
l’importo della cresta che un servitore fa sulla spesa per i padroni,,19 ora la
15 Il
modo idiomatico «far l’uscita del corvo» ‘non fare ritorno’ è tuttora vivo in Abruzzo: «Ha fatte le ijete de lu
corve», registra Giuseppe Di Filippo in Proverbi, modi di dire e cantilene (Edigrafital, Sant’Atto di
Teramo 2004).
16 Reca il numero 550 nell’edizione delle Lettere, curata da Giacinto Spagnoletti (Del Duca, Milano 1961, 2
voll.).
17 Sentite che ggnacchera, 6 agosto 1843, vv. 13-14: «Io credevo tre ggiuli iggnud’e ccrudi / com’er permesso
p’er fuscil da caccia».
18 La gabbella de la carne salata, 18 gennaio 1835, vv. 9-11: «Un presciutto tre ggiuli de dogana! / E nun era
un’idea meno bbisbetica / de maggnasse la grasscia sana sana?».
19 La lista, 12 dicembre 1834, vv. 12-14: «Mezz’antro grosso ttra fformaggio e ffrutti... / Quant’è? Tre ggiuli in
punto. Eh nun zò ssciocco. / Ma aringrazziam’ Iddio: lo fanno tutti».
posta puntata al lotto da un giocatore,20 ora la paga giornaliera di un
giovanotto che vorrebbe sposarsi,21 ora il costo di un biglietto per il teatro o
la tariffa di una prostituta:22 nulla in comune, dunque, con la situazione dei
Tre giulj castiani, centrati sulla vicenda di un astuto e arguto debitore
insolvente. Qualche vaga affinità si riscontra invece nell’ultima occorrenza,
nel sonetto in cui parla Er piggionante der prete, un affittuario moroso non
privo di spirito:
Tre ppavoli, lo so, ccaro don Diego:
me l’aricordo, v’ho da dà un testone:
m’avanzate tre ggiulî de piggione:
trenta bbaiocchi, sì, nnun ve lo nego.
Perantro de sti conti io me ne frego,
perché ssò ar verde e sto ssenza padrone.
E come disce chi nun è ccojjone?
«Prima càrita sìncipi tabbego».
Dunque, sentite, sor don Diego mio:
eccheve du’ lustrini, e ffamo patta;
e a messa poi v’ariccommanno a Ddio.
Già, un giulio solo; e mmó dd’uno se tratta.
Tre ne volete? E cquesto è ttre, pperch’io
lo bbattezzo pe un tre ccome la matta23.
Un sonetto che serve a Belli, poeta-documentarista virtualmente rivolto
a lettori non romani, per ragguagliarli sull’uso proverbiale, sul gioco di carte
ma qui soprattutto i sulla monetazione pontificia: il giulio o paolo
corrispondeva a dieci baiocchi o a due lustrini, mentre tre giuli valevano un
testone. Che all’orecchio belliano tornasse in mente il titolo della corona
castiana non è dunque improbabile. Tutto qui? No, certo: la strana reticenza
sul nome e l’ammiccante «confessiamoci» della nota belliana induce a
20 Per
un punto er terno, 28 gennaio 1832, vv. 9-11: «Tre ccom’un razzo prim’estratto, eh Checco?! /
Mill’ottoscento scudi per un pelo, / ché cce bbuttai tre ggiuli e mmezzo a ssecco».
21 Er pane per antri denti, 6 dicembre 1844, vv, 12-14: «Che sò ttre giulî ar giorno, Raffaelle? / De car’e
ggrazzia sce se pò strappalla, / e sse ne vanno in tacchie e gguaïnelle».
2222 La puttana sincera, 28 gennaio 1832. vv. 12-14:: «Lei sta cosa che cqui nun me la nega, / che invesce de
bbuttalli a ttordinone / tre ggiuli è mmejj’assai si sse li frega.»:
23 Er piggionante der prete, 17 gennaio 1847.
focalizzare la figura dell’abate libertino.
3. Le novelle in versi dell’abate libertino
Da Acquapendente, dove era nato nel 1724, Casti si spostò a Roma, in
Toscana e poi per tutta Europa, da Vienna a Berlino, da Pietroburgo a
Costantinopoli, coprendo il posto di poeta ufficiale alla corte asburgica e
riscuotendo successi con i suoi libretti, musicati da Paisiello e Salieri. Nel
1802 pubblicò a Parigi un poema di 26 canti in sesta rima, Gli animali
parlanti, una trasparente satira sotto forma di «zooepìa» della Francia
consolare, dei suoi intrighi politici tra demagogia e autocrazia, pepato
complemento dell’attacco contro la corte zarista che aveva sferrato nel
Poema tartaro (1796). Tutta l’esistenza di Casti, intellettuale voltairiano e
libertino, era stata percorsa da polemiche e discussioni. Giudizi aspri su di
lui avevano espresso Casanova, Goldoni, Parini, più tardi Foscolo e
Manzoni. Diventò ancor più famoso grazie alle Novelle galanti, corposa
opera in ottave uscita a Parigi presso Brissot-Thivars nel 1804,24 appena
dopo la sua morte, in cui alla satira politica aggiunge la celebrazione
dell’eros e la polemica contro la Chiesa. È questa raccolta il vero iceberg
celato sotto il pelo d’acqua dell’oceano romanesco, mai citata nei suoi scritti
da Belli certo perché messa all’Indice sùbito dopo la stampa,25 ragione per
cui egli tace il nome di Casti nella nota a La visita der Governo, dove con il
«Confessiamoci» ammette furbescamente la familiarità con quell’autore
trasgressivo.
4. Un giustiziato dà i numeri
Tre sonetti della raccolta romanesca hanno un’evidente radice nella
novella Il lotto (XXVI). È la storia del parrucchiere Morgante, innamorato di
Moma, orfana del padre anch’egli parrucchiere. La madre Dorotea,
confidando sulla bellezza e sulla verginità della figlia, vuole procurarle un
marito d’alto rango, e dunque la controlla severamente. Conoscendo la
24 Le
25 Le
citiamo dall’edizione originale, designando la novella con il numero romano e l’ottava con la cifra araba.
Novelle galanti vennero subito condannate con decreto del 2 luglio 1804 dalla Congregazione dell’Indice,
ma ancora negli anni Trenta-Quaranta ne fioriva un ricco commercio clandestino: cfr. Maria Iolanda
Palazzolo, I libri, il trono l'altare, Milano, Angeli, pp. 53 ss.
passione della vedova per il lotto, il giovane si veste di un bianco
accappatoio e si nasconde nella buia chiesa di san Giovanni Decollato, dove
sono sepolti i corpi dei giustiziati, alle cui anime i giocatori vanno a chiedere
i numeri su cui puntare. Madre e figlia arrivano là a tarda ora, e mentre la
prima supplica l’anima di un condannato impenitente, tal «Camardella»,
appare il biancovestito che afferra Moma, si apparta in un angolo scuro e,
fattosi riconoscere, amoreggia con lei. Superato lo sgomento iniziale,
Dorotea prosegue nella sua perorazione, certa che le anime purganti non
possono far nulla di male, e sentendo il verso di un gufo, l’abbaiare di un
cane e il canto di un gallo trasportati dal vento, li scambia per oracoli, dai
quali ricava il terno da giocare, con l’ausilio dell’apposito libretto. La
fortunata estrazione di quei numeri affranca le due donne dalla povertà,
perciò Moma può confessare alla madre di essere incinta di Morgante,
lasciando prevedere il lieto fine.
Nella venticinquesima ottava il Casti illuminista sferra un attacco contro
il gioco del lotto e le connesse superstizioni:
È superstizione o inganno o errore
che di divozion prende l’aspetto,
è una grand’arma in man dell’impostore,
è un germe rio dell’ignorante in petto.
Superstizion l’umanità dal core
sbandisce e la ragion dall’intelletto;
gl’influssi suoi sparsi ampiamente sono,
ma in Roma a lei s’innalza altare e trono.
Versi, questi, di cui troviamo un palese riflesso nella lunga sonettessa
belliana intitolata Devozzione pe vvince ar lotto, un elenco di svariati riti
scaramantici propiziatori della vincita al gioco, tra i quali la preghiera
all’anima purgante di un impiccato nella Chiesa di San Giovanni Decollato,
e il terno suggerito da rumori recati dal vento:
E a ‘n’impiccato
ditta ‘na diasilletta corta corta
buttete a pecorone in su la porta.
La bocca storta
nun fà si senti quarche risponsorio:
sò l’anime der Santo purgatorio […].
Na callalessa
è der restante: abbasta de stà attento
a gni rimore che te porta er vento.26
Annotando il sonetto, Belli precisa di aver mescolato «il vero insieme e
il verisimile» per documentare la «reale superstizione del Lotto» e le «matte
e stravolte idee che ingombrano le fantasie superstiziose della nostra
plebaglia», una nota che sembra riecheggiare altri versi della novella
castiana (XXVI, 13), quelli in cui la vedova
con cabale e con sogni si consiglia,
e in gergo di magia latina o ebrea scongiura,
anime invoca, augurj piglia,
e al Lotto per giuocar tutto vendea.
Nel prosieguo della sonettessa è menzionato il «libro dell’Arte»:
O fora, o drento,
quello che poi sentì tiello da parte,
eppoi và a cerca in der libbro dell’arte.
Viva er Dio Marte:
crepi l’invidia e er diavolo d’inferno,
e buggiaratte si nun vinchi er terno!
Nell’ottava sedicesima della stessa novella, Casti precisa che nel «Libro
dell’Arte», diffuso in tutta Italia,
a ogni animato o inanimato oggetto
senza addurne ragion vi marca sotto
un de’ novanta numeri del Lotto,
versi cui Belli sembra far eco nella nota dove precisa che numeri da
giocare
si cercano nel così-detto Libro dell’Arte, dove è come un dizionario
di nomi accanto ad altrettanti numeri giuocabili.
26 Devozzione
pe vvince ar lotto, 20 agosto 1830, vv. 72-77 e 81-83 .
Questa chiosa è apposta al componimento contiguo alla sonettessa, Er
gioco der lotto, nel quale un plebeo ricava dalle parole di un impiccato
apparsogli in sogno i tre numeri sui quali puntare, l’ultimo con la stravagante
associazione a nocchiero di nocchie ‘nocciole’, voce assente nel Libro
dell’Arte:
M’è pparzo all’arba de vedè in inzògno
cor boccino in ner collo appiccicato
quello che glieri a pponte hanno acconciato
co no spicchio d’ajjetto in zur cotogno.
Me disceva: tiè, Ppeppe, si hai bbisogno:
(e ttratanto quer bravo ggiustizziato
me bbuttava du’ nocchie in zur costato)
sò ppoche Peppe mio, me ne vergogno.
Io dunque çiò ppijjato oggi addrittura
trentanove impiccato o cquajjottina,
dua der conto, e nnovanta la pavura.
E cco la cosa che nnemmanco un zero
ce sta ppe nnocchie in gnisuna descina,
ho arimediato cor pijjà Nnocchiero.27
Tangenze ancora più strette con la stessa novella galante emergono in La
ggiustizzia de Gammardella:
Cuanno che vvedde che a scannà un busciardo
Gammardella ebbe torto cor governo,
nun vorze un cazzo convertisse; e ssardo
morse strillanno vennetta abbeterno.
Svortato allora er beato Leonardo
a le ggente che tutti lo vederno,
disse: popolo mio, pe sto ribbardo
nun pregate più Iddio: ggià sta a l’inferno.
Ebbè, cquelle du’ chiacchiere intratanto
27 Er
gioco der lotto, 19 agosto 1830.
j’hanno incajjato un pezzo de proscesso
che se stampava pe ccreallo santo.
L’avocato der diavolo fà er fesso
co sti rampini; ma ppò ddì antrettanto,
s’ha da santificà ffussi de ggesso!28
Antonio Camardella fu giustiziato nel settembre 1749 per aver ucciso un
canonico che, dopo averlo ingannato in una questione d’interessi, aveva
avuto la meglio in tribunale. Il beato Leonardo da Porto Maurizio, che si
prodigò per farlo pentire prima dell’esecuzione, fallì nel suo compito, e dopo
l’impiccagione invitò la folla a non pregare per l’anima del reprobo,
sostenendo che era certamente già all’inferno. Il sant’uomo commise così Er
primo peccato contro lo Spiritossanto, la «disperazione della salvezza» —
spiega Belli nel sonetto così intitolato citando proprio l’esempio del
francescano ligure —, il peccato che causò un rallentamento del suo
processo di canonizzazione, incominciato nel 1797, un anno dopo la
beatificazione, e concluso positivamente solo nel 1867:
E un Beato Leonardo, p’er zu’ tanto
disperà nne l’affar de Gammardella,
nun ze poté ssarvà, bbello che ssanto. (29)
Che le parole messe in bocca da Belli a Leonardo figuravano nella
novella, lo segnalava già Morandi, senza rilevare le precise consonanze con
le intere tre ottave dedicate all’episodio (XXVI, 16-18), che offrono
precisazioni sulla controversa santificazione, illuminando le terzine del
sonetto:
Dannato fu alle forche un delinquente
Per preticidio, detto Camardella.
Un santo fratacchion ch’era assistente
Dichiarollo per anima rubella,
Perchè egli morir volle impenitente.
Invano a pentimento ei lo rappella,
Vendetta grida il reo, nè altrui dà retta;
28 La
29Er
ggiustizzia de Gammardella, sonetto del 30 settembre 1830.
primo peccato contro lo Spiritossanto, 25 aprile 1834. vv. 12-14..
Penzolon cade e grida ancor vendetta.
Rivolto il frate al popolo adunato
Per l’anima di questo peccatore,
Vano, disse, è il pregar, egli è dannato.
Gesù gridando, e pieni allor d’orrore
Tutti lungi fuggir dall’impiccato,
E si sparser qua e là per lo terrore.
Ma l’annunzio del padre Leonardo
Molti asserian ch’esser potria bugiardo.
Tutti allora i teologi e casisti
E preti e frati dieronsi gran moto,
Giansenisti non men che molinisti,
E altri di cui l’entusiasmo è noto.
Ne parlar gli oratori e i catechisti,
Chi Tommaso d’Aquin citò, chi Scoto,
E i famosi trattati esempligrazia
Chi de libero arbitrio e chi de gratia.
5. Giù botte nel buio oratorio
Belli fece tesoro anche di un’altra novella galante, L’orso nell’Oratorio
(XVIII). Coperta da un gran mantello e dal cappello, Ghita si introduce
nell’oratorio del Caravita, frequentato da soli uomini, e in un confessionale
concorda un incontro con l’amante, un gesuita, consumando poi in uno scuro
recesso della chiesa un amplesso interrotto dal parapiglia provocato da un
orso ammaestrato, là condotto da un burlone. Ghita è anche il nome della
popolana che nell’Ingeggno dell’Omo, viene avvolta nel suo mantellone dal
compagno, che la conduce nella stessa buia chiesa e consuma con lei un
amplesso nel confessionale:
Er venardì de llà, a la vemmaria,
io incontranno ar Corzo Margherita,
je curze incontro a bbracçiuperte: Oh Ghita,
propio me n’annerebbe fantasia!
Disce: Ma indove? Allora a l’abborrita
je messe er fongo e la vardrappa mia,
e ddoppo tutt’e ddua in compagnia
c’imbusciassimo drento ar Caravita.
Ggià llì ppare de stà ssempr’in cantina:
e cquer lume che cc’è, ddoppo er rosario
se smorzò pe la santa dissciprina.
Allora noi in d’un confessionario
ce dassimo una bbona ingrufatina
da piede a la stazzione der zudario.30
Anche se l’esito espressivo è, naturalmente, assai diverso, i contatti tra i
due testi sono evidentissimi. Ma la prova schiacciante che L’orso
nell’Oratorio era ben presente nella memoria di Belli la offre il suo
Zibaldone (VII, 125), l’unico luogo in cui cita il nome di Casti.
Compulsando l’autografo, dove una macchia d’inchiostro copre una mezza
parola, vi leggiamo:
Della bellissima Maddalena giacente boccone dipinta dal Correggio,
....lava [parlava?] il Poeta Casti
La vede il Peccatore e fra sé dice:
Peccato che non sia più peccatrice!
La più celebre immagine della Maddalena penitente è quella di
Correggio conservata alla National Gallery, dove compare con il gomito
mollemente appoggiato a un libro e le mammelle scoperte, mentre fissa lo
spettatore dalla grotta dove si è ritirata; sensualissima, vero, ma non bocconi,
come invece era quella perduta di Dresda, pure attribuita a Correggio,
altrettanto sensuale ma sdraiata, si apprende dalle descrizioni di inventari
seicenteschi. L’invenzione di una Maddalena rivale di Venere, con
l’aggiunta della piccante mistura di eros e devozione, fu ripresa da vari
pittori in copie che dovevano essere presenti anche a Roma, dove sarebbe
transitato l’originale, forse commissionato da Isabella d’Este Gonzaga
tramite la marchesana di Correggio, la poetessa Veronica Gambara.
Descrivendo l’oratorio del Caravita nella novella lì ambientata, Casti precisa
che sull’altare centrale è dipinta la cacciata di Adamo ed Eva, i quali
3030
L’ingeggno dell’Omo, 18 dicembre 1832.
attraverso le fronde lasciano chiaramente vedere le loro nudità, stuzzicanti
nella donna, e che sopra gli altari laterali si vedono due figure femminili,
ravvedute e penitenti, una Samaritana «il sen scoperta e con gonna succinta»,
che ha rinunciato a ogni «tresca amorosa», e una Maddalena, cui è riservata
la nona ottava:
Con scarno teschio in man dall’altro canto
la Maddalena addolorata stassi;
presso è la disciplina, e vedi il pianto
dai begli occhi cader compunti e bassi;
nuda le braccia e il petto e bella tanto
da far venir fin la lussuria ai sassi.
Il libertin la guata, e fra sé dice
«Gran danno che non sia più peccatrice!»
Casti, che non nomina Correggio, illustra una diffusa variante
iconografica della Maddalena penitente, che quasi sempre tiene in mano un
teschio e spesso il cilicio, immagine che non siamo riusciti ad accertare
comparisse nella chiesa del Caravita. Che quella fosse la tela correggesca
sembra dunque essere una congettura di Belli, il quale peraltro cita il
secondo verso castiano in modo impreciso, dunque a memoria, ulteriore
indizio della familiarità con quel testo.
6. Papa o papessa?
La memoria del Casti novellista potrebbe non essere estranea anche a
uno dei sonetti belliani più noti, La Papessa Ggiuvanna. Vi si rievoca la
leggenda medievale della giovane inglese che, travestita da uomo e
apprezzata per la sua dottrina, fu eletta al soglio pontificio, e che,
innamoratasi di un suo camerlengo, rimase gravida e partorì mentre la si
trasportava sulla sedia gestatoria, finendo linciata dai fedeli insieme al
neonato. Da questa storia nacque la credenza che da quel momento i papi di
nuova nomina fossero fatti sedere sulla cosiddetta sedia stercoraria, il cui
foro centrale sarebbe servito per verificare il sesso del neo-pontefice:
Fu ppropio donna. Bbuttò vvia ‘r zinale
prima de tutto e ss’ingaggiò ssordato,
doppo se fesce prete, poi prelato,
e ppoi vescovo, e arfine Cardinale.
E cquanno er Papa maschio stiede male,
e mmorze, c’è cchì disce, avvelenato,
fu ffatto Papa lei, e straportato
a Ssan Giuvanni su in zedia papale.
Ma cquà sse ssciorze er nodo a la Commedia;
chè ssanbruto je preseno le dojje,
e sficò un pupo llì ssopra la ssedia.
D’allora st’antra ssedia sce fu mmessa
pe ttastà ssotto ar zito de le vojje
si er pontescife sii Papa o Ppapessa.31
Belli aveva registrato la vicenda favolosa nel 1824 sul suo Zibaldone (I,
44-46), traendola dal Breviarium sulla storia dei papi di François Pagi (171727), e pensò di dedicarvi un’altra poesia, rimasta allo stato di abbozzo.32 Era
stata ripresa, tra gli altri, da Boccaccio nel De claris mulieribus (97), opera
mai citata da Belli, dove inaugura la serie delle donne moderne, dopo le
illustri antiche, mitiche e bibliche; ma più importante e fresco precedente del
sonetto è la novella dell’abate libertino intitolata appunto La papessa
(XXXII), pure conclusa dal particolare della sedia forata (parte III, 90):
Acciò per altro in avvenir lo stesso
non seguisse, fu allor l’uso introdotto
del seggiolon che avea forame o fesso,
per cui con man tastando per di sotto
verificar solean del papa il sesso,
uso per anni assai non interrotto.
Se Casti registrava pareri diversi sulla veridicità della leggenda ed
elencava in calce una nutrita lista di fonti antiche e moderne, Belli si limita a
riferirla nel sonetto, senza esprimere alcuna opinione sulla sua fondatezza.
L’abate parla anche di una «baruffa» tra angeli e diavoli per contendersi le
anime della papessa e del neonato trucidati (ottava 78), una contesa di
31 L
a Papessa Ggiuvanna, 26 novembre 1831.
Roma, ms. VE 690-7, c. 83v.
32 Biblioteca Nazionale di
ascendenza dantesca evocata per altri trapassati in alcuni sonetti belliani.33
Nello stesso racconto sulla papessa, nella strofa 29 Casti constata che
quando talun pontefice diviene
un gran portento di virtù è creduto;
poscia il credito in breve a perder viene,
né val più nulla, quando è conosciuto,
versi cui Belli sembra fare eco in L’upertura der concrave:
Senti, senti castello come spara!
Senti montescitorio come sona!
è sseggno ch’è ffinita sta caggnara,
e ‘r Papa novo ggià sbonedizziona.
Bbè? cche Ppapa averemo? è ccosa chiara:
o ppiù o mmeno la solita canzona.
Chì vvôi che ssia? quarc’antra faccia amara.
Compare mio, Dio sce la manni bbona.
Comincerà ccor fà aridà li peggni,
cor rivôtà le carcere de ladri,
cor manovrà li soliti congeggni.
Eppoi, doppo tre o cquattro sittimane,
sur fà de tutti l’antri Santi-Padri,
diventerà, Ddio me perdoni, un cane.34
Il papa «sbonedizziona» come quello che il Giuveddì ssanto35 impartisce
una benedizione urbi et orbi con un «croscione» che oltrepassa il Tevere,
gesto simile a quello del pontefice che «trincia quattro crocion larghi otto
palmi» nella novella castiana La papessa (XXXII, parte III, 71).
7. Come nasce l’Anticristo?
33 Cfr.
ad es. Er giusto , del 21 gennaio 1835, vv. 9-12: «Mentre l’anima sua j’essce de bbocca, / un formicaro
d’angeli la pijja, / la porta in Celo, e gguai chi jje la tocca. // Li diavoli je manneno saette, / e ll’angeli
je danno la parijja; / e la cosa finissce in barzellette».
34 L’upertura der concrave, 2 febbraio 1831.
35 Giuveddì ssanto, 4 aprile 1833.
La favolosa papessa offre il bersaglio agli strali della satira anticlericale
di cui fanno le spese, almeno da Boccaccio in poi, frati e monache: al punto
da rendere poco significativi contatti tematici fra Casti e Belli, se
genericamente volti a indicare i vizi dei religiosi: lussuria, poi di gola e
avarizia, ma anche tutti e sette Li peccati mortali, a parere di un trasteverino
che li elenca e li chiosa sullo sfondo teologico del conflitto fra bene e male:
Cuanno Iddio creò ssette sagramenti,
er demonio creò ssette peccati,
pe ffà cche ffussi contrasto de venti.
E cquanno che da Ddio furno creati
ar monno confessori e ppenitenti,
er diavolo creò mmonich’e ffrati.36
Quel conflitto terminerà con La fin der Monno, che ripropone au vv. 7-8
il connubio, verbale e carnale, fra monaca e frate:
Come saranno ar monno terminate
le cose c’ha ccreato Ggesucristo,
se vederà usscì ffora l’Anticristo
predicanno a le ggente aridunate.
Vierà ccor una faccia da torzate,
er corpo da ggigante e ll’occhio tristo:
e pper un caso che nun z’è mmai visto,
nasscerà da una monica e dda un frate.
Ora, Belli ci ragguaglia in nota sul Nocchilìa («Credenza romanesca,
che da un buco, sconosciuto, presso la Basilica di S. Paolo usciranno Enoc
ed Elia, chiamati dal popolo, con un solo vocabolo: er Nocchilia»), ma nulla
ci dice sulla genesi dell’Anticristo, e nulla aggiungono i commentatori,
verosimilmente persuasi di un’invenzione pasquinesca del poeta. Il quale,
per bocca di uno zelante csdegnato controcontro preti e frati che infrangendo
36
Li peccati capitali, vv 9-14
il divieto si mascherano in tempo di Canavese paragonandoli proprio
all’Anticristo. 37
Fonti note a Belli prevedono in verità altri frutti dall’amplesso fra velata
e tonsurato: nel Ragionamento di Pietro Aretino un abate, predicando in un
convento dove convivono allegramente maschi e femmine, afferma che
«figliuoli che nascono di frate e di suora sono parenti del Disitte e del
Verbumcaro» (I). Altri ritiene che da tal connubio nascerà il Quinto
evangelista: con questa frottola, frate indice una monaca virtuosa a
congiungersi a lui, nella XLVI delle Novelle galanti di Casti, mutuata dal
secondo racconto del Novellino di Masuccio Salernitano, scrittore che
peraltro Belli non nomina mai. Ma un conto è un supposto evangelista
(soggetto di una tradizione seria e spiritualmente impegnata, sfociata nel
romanzo di Mario Pomilio Il quinto evangelio, 1976), altro conto è
l’Anticristo: della leggenda sulla sua nascita dal peccaminoso
accoppiamento di un frate e di una suora abbiamo reperito a stento qualche
traccia che è impensabile Belli conoscesse. Nella Vita Antichristi lo PseudoAlcuino (fine del sec. XI) sostiene che non sarà generato «de episcopo et
monacha, sicut alii delirando dogmatizant», ma da una sozza meretrice e da
un crudelissimo fannullone. Commentando nel 1416-17 un passo dantesco
(Inf: X 88-93), Giovanni Bertoldi da Serravalle definisce l’imperatore Enrico
VI di Svevia «quasi religiosus» e la moglie Costanza «monialis», evocando
la diffusa credenza, «proverbium illud», secondo cui il loro figlio Federico II
sarebbe l’Anticristo che «nasci debet ex religioso et moniali» (le fonti non
conferano né l’untenzione del giovane Enrico di farsi frate, né la
nmonacazione di Costanza, creduta da Dante).38 La credenza sulla
generazione dell’Anticristo è confermata in un libello polemico antipapista
di Bernardino Ochino, «nel qual si scuopre perché si dice comunemente che
Antechristo nascerà da un frate e da una monaca» (Apologi, 1554, n. 73). Ma
ancora all’Anticristo ci riporta Casti nella omonima novella galante, la XV.
Lì un servo d’origine africana e di pelle nera viene scambiato per il diavolo
da una ignorante vlllanella austriaca che lo supplica di risparmiarle l’anima;
lui dice che si accontenta del corpo, la possiede e la ingravida. Nel villaggio
si sparge la voce che ne nascerà l’Anticristo e che dunque è prossima anche
37Le
mmaschere eccresiastiche6 gennaio 1833
38
Cfr EugenioE. RAGNI, La luce della gran Costanza, in Purgatorio. Paradiso. Lectura Dantis
Interamnensis, a c. di G. Rati, Roma, Bulzoni Editore, 2013, pp. 125-164
la venuta di Enoc ed Elia: A questo punto, l’ironico autore, vagliando le
dicerie sull’Anticristo, che per alcuni avrà la pelle «tinta», aggiunge:
In oltre fra le opinion vulgate
Sull’origine sua o vere o false,
Ma che anche a tempi nostri accreditate
Fra i teologi son, quella prevalse,
Ch’ei debba d’una monaca e d’un frate
Nascer (65-66).
La novella reca anche altri dettagli reperibili nei sonetti: viene ritratto un
frate godereccio fumatore di pipa;39 la neonata, scambiata per ermafrodito a
causa del clitoride abnorme, è battezzata col nome bisex di Anna40 e suscita
invidia per le sue raddoppiate possibilità amatorie, giusto come nel sonetto
Li manfroditi; 41 Iinfine iun modo prverbiale nato da quella novella ritorna
puntialmente in un sonetto di Belli. 42
Dunque è ha questa novella, che termina rassicurando le lettrici sulla
non imminenza della «fin del mondo» che Belli ha attinto la pittoresca e
salace informazione nella sua Fin der monno. Improbabile, come detto, che
conoscesse le oscure fonti medievali o il libello protestante; se la subacquea
cultura orale avesse serbata memoria di quella leggenda, il poeta l’avrebbe
annotato come ha fatto per la «credenza popolare» sul Nocchilìa; d’altra
aparte, per le ragioni esposte in apertura, il debito con quell’autore
scandaloso era inconfessabile.
39come
41 Li
il grasso francesano di Er fimatore.
manfroditi: citare GGB e vv di Casti
42
Come segnalava Vigolo, l’attaco del sonetto L’oppiggnone diverze («Quante disputerìe! Senti che
gghetto / per un gnente! Me pare la questione / de fra Ccucuzza e ’r vecchio Simeone») ia un modo
proverbiale la cui radice sta nella strofe novella castiana, dive si traccia il parallelo fra la vicenda di Cristo e
quella del presunto Anticristo: «Il vero Cristo fra disagi nacque, / D'agi Anticristo n'avrà pochi o nulla; /
Concetto esser di vergine all'un piacque, / L'altro concetto è ancor d'una fanciulla; / Quegli bambino in un
presepio giacque, / L'altro in una capanna avrà la culla; / E finalmente fece il paragone / Di fra Cucuzza e il
vecchio Simeone» (XV 51).
8. Amor sacro e profano
Frati lascivi e monache sedotte traboccano, s’è detto, nella tradizione
letteraria di matrice boccaccesca. Suggestioni palesi delle Novelle galanti
traspaiono tuttavia in due sonetti della raccolta romanesca. Il primo è Er
patto-stucco:
Sto prelato a la fijja der zartore,
che çciannava a stirajje li rocchetti,
je fesce véde drent’a un tiratore
una sciòtola piena de papetti,
discennoje: Si vvôi che tte lo metti,
sò ttutti tui e tte li do dde core.
E llei fesce bbocchino e ddu’ ghiggnetti,
eppoi s’arzò er guarnello a Mmonziggnore.
Terminato l’affare, er zemprisciano
pe ppagajje er noleggio de la sporta,
pijjò un papetto e jje lo messe in mano.
Disce: uno solo?! e cche vvor dì sta torta?
Ereno tutti mii!… — Fijjòla, piano,
disce, sò ttutti tui, uno pe vvorta.43
Questa scena boccaccesca, come la definisce Vighi, potremmo dirla
anche castiana, giacché il corto «guarnello» è un topos dell’attrattiva
femminile nella raccolta novellistica, dove sono frequenti anche espressioni
analoghe ad arzà la vesta, locuzione usata più volte nei sonetti per indicare
la copula. Ma nella poesia belliana appena citata è ben più consistente l’eco
di un altro racconto galante, Il purgatorio (VIII) – a sua volta nutuata da
Boccaccio (Dec. III 5 ) – dove pure un religioso, là monsignore, qui guarda
caso abate, promette a una donna il miracolo di guarire il marito dalla
terribile gelosia in cambio delle sue grazie, e dopo averle spiegato che la
santità sta nell’anima e non nei sensi, ricorre a un «argomento» più
persuasivo (ottava 33):
43 Er
patto-stucco, 16 ottobre 1833.
Tirò da un scatolino un bel giojello,
la man le prese e in dito a lei lo mise.
Poi disse: ebben, cor mio, farai tu quello
che ti chies’io? Nulla colei promise
con aperto parlar; ma pria l’anello,
l’abate poi dolce guatò e sorrise.
Or certamente ad una tal proposta
quel suo silenzio era una gran risposta.
Il religioso corruttore, il cassetto tirato, l’anello, il ghignetto malizioso
della donna: tutto questo ritorna nella poesia di Belli, che vi aggiunge di suo
la comica metafora della «torta» slealmente preparata dal prete.
L’altro sonetto, giustamente famoso, è Er mortorio de Leone
duodecimosiconno:
Jerzera er Papa morto c’è ppassato
propi’avanti, ar cantone de Pasquino.
Tritticanno la testa sur cuscino
pareva un angeletto appennicato.
Vienivano le tromme cor zordino,
poi li tammurri a tammurro scordato:
poi le mule cor letto a bbardacchino
e le chiave e ‘r trerregno der papato.
Preti, frati, cannoni de strapazzo,
palafreggneri co le torce accese,
eppoi ste guardie nobbile der cazzo.
Cominciorno a intoccà ttutte le cchiese
appena uscito er Morto da palazzo.
Che gran belle funzione a sto paese!44
L’Apoteosi, l’ultima novella galante (XLVIII, 99-100), narra la vita
dissoluta di Faustina, figlia dell’imperatore Antonino Pio e moglie del
successore Marc’Aurelio, divinizzata post mortem dalla credulità popolare.
Casti descrive la sfilata di maggiorenti e militari del suo solenne corteo
44 Er
mortorio de Leone duodecimosiconno, 26 novembre 1831:
funebre, prefigurando, anche sintatticamente con le sequenze nominali, la
pittura belliana della scenografica processione che segue la salma del papa, e
la sua colonna sonora, fatta da «tromme cor zordino» e ritmata da «tammurri
a tammurro scordato», più o meno come quella del funerale di Faustina,
accompagnato da «timpani scordati o di tromboni»:
Sieguono poscia i consoli e i pretori,
tribuni, edili in abito di lutto,
e flamini ed aruspici e questori
e i magistrati ed il senato tutto,
e prefetti e precon, scribi e littori.
S’incamminano al Foro, ove costrutto
pinto a foggia di marmo ergesi un palco
che in oggi noi diremmo catafalco.
Quindi una legion d’infanteria
vien dietro sotto i suoi centurioni,
e il general della cavalleria
chiudea la marcia alfin con due squadroni,
e qualche colpo ad or ad or s’udia
i timpani scordati o di tromboni.
Siegue la pompa innumerabil folla,
e sino al roman Foro accompagnolla.
Se, come sembra, Belli qui echeggia Casti, condivide almeno in parte
l’idea di una continuità tra «gentilesimo» e «cristianesimo», che l’abate
manifesta in questa e in altre novelle, qui in particolare sull’onda lunga della
superstizione popolare alimentata dal palazzo e dalla casta sacerdotale:
continuità fra Roma dei Cesari e quella dei Papi che affiora non di rado nei
sonetti, seppure affiancata da rilevate discontinuità fra antichi e moderni. E
se nei sonetti l’idea si profila attraverso la lente deformante dei personaggi,
le note d’autore e gli appunti dello Zibaldone mostrano l’attenzione di Belli
al problema.
L’amore, grazie al cielo, non è prerogativa di chi veste tonaca o saio.
Nella novella Il rusignuolo Casti, ampliando e variando una novella di
Boccaccio (IV 4), narra dell’amre di fue giovani cugini. Trovano modo di
passar la notte assieme. Sorpresi al mattino dal padre di lei, accettano
volentieri il matrimonio riparatore. Un prete ritiene necessaria una dispensa,
per superare l’ostacolo del vincolo parentale; ma un collega, più esperto in
diritto canonico, lo smentisce:
Venner tosto amendue: ma don Andrea,
Ch’è dubbio s’era più divoto o bue,
Disse, che fra li sposi intercedea
Secondo tutte le notizie sue
Vincol d’affinità, nè si potea
De canonico jure infra lor due
Matrimonio contrar, per quel ch’ei crede
Senza dispensa della santa sede.
Ma chiaramente dimostrò Salgrado
Ch’era miglior teologo e legale,
Ch’essi erano parenti in quinto grado,
Ne perciò vi volea dispensa tale.
E poi soggiunse in grave tuon: malgrado
L’affinità, se copula carnale
Anticipata fra li sposi accada,
Poco alle altre minuzie allor si bada. (XI .51-52).
Trasposta dalla Spagna aristocratica del passato alla Roma plebea del
presente, la vicenda rivive con la variante che la «copula carnale» da
condizione pregressa diventa rimedio cercato onde ottenere La dispenza der
madrimonio:
Cuella stradaccia me la sò llograta:
ma cquanti passi me sce fussi fatto
nun c’era da ottené pe ggnisun patto
de potemme sposà cco mmi’ cuggnata.
Io sc’ero diventato mezzo matto,
perché, ddico, ch’edè sta bbaggianata
c’una sorella l’ho d’avé assaggiata
e ll’antra nò! nnun è ll’istesso piatto?
Finarmente una sera l’abbataccio
me disse: «Fijjo, si cc’è stata coppola,
provelo, e la liscenza te la faccio».
«Benissimo Eccellenza», io j’arisposi:
poi curzi a ccasa, e, ppe nun dì una stroppola,
m’incoppolai Presseda, e ssemo sposi.45 <già riportato pwe ke
terzine>
9. Ritratti plurimi di maggiorate
Gli indubbi contatti tra i versi di Casti e quelli di Belli possono talvolta
risalire a fonti comuni, né dobbiamo trascurare il ruolo ispirativo della realtà.
Si veda nella novella La conversione (XII, 6) questo ritratto femminile:
La venal donna, a dir vero, e prostituta,
bella però, d’umor bizzarro e matta,
carnacciuta, popputa e naticuta
L’allegra prosperosa somiglia molto alla «matta», «chiapputa» e con
poppe generose celebrata in A Compar Dimenico:
Me so ffatto, Compare, una regazza
bianca e roscia, chiapputa e bbadialona,
co ‘na faccia de matta bbuggiarona,
e ddu’ brocche, pe’ ddio, che cce se sguazza.
Si la vedessi cuanno bballa in piazza,
cuanno canta in farzetto, e cquanno sona,
diressi: ma de che? mmanco Didona
che squajjava le perle in de la tazza.
Si ttu cce vôi vienì dda bbon fratello,
te sce porto cor fedigo e ‘r pormone;
ma abbadamo a l’affare de l’uscello.
Perchè si ccaso sce vôi fà er bruttone,
do dde guanto a ddu’ fronne de cortello;
e tte manno a Ppalazzo pe’ Ccappone.46
Vighi fa coincidere la protagonista con l’«Agnesa, quella che je dicheno:
quanto sei bbona», una donna che crede reale perché menzionata dall’autore
45634. La
dispenza der madrimonio
Roma, 20 dicembre 1832 - Der medemo
46A Compar Dimenico, 14 febbraio 1830.:
nella lettera romanesca a Giovan Battista Mambor,47 uno scritto che sembra
però frutto di fantasia. Ma questo ritratto che rispetta l’equazione bellezza
uguale floridezza, risponde a un consolidato canone popolare, trasferito da
Carlo Porta su aggraziate milanesi in attesa del loro Apollo, in un sonetto
scritto per invitare Vincenzo Monti a una festa:
Per incoeu guarna pur via
i tò rimm, i toeu conzett
e ven chì a godè in cà mia
vun di solet festinett.
Te doo facc che mett legria,
fior de ciapp, de spall, de tett
de imbrojà el coo a chi se sia
che dovess trà el fazzolett.
Sont sicur che te diree
che hin i Grazzi e i Mûs che balla
suj bej praa del Pegasee:
ma el diroo forsi mej mì
a vedè che no ghe calla
el so Apoll, che te seet tì.48
La bianca e rossa popolana romanesca, oltre a ballare in piazza e non in
una casa, suona e canta a voce spiegata, come le sfarzose minenti ricordate
da Giuseppe Baracconi, che «giungevano al prato [di Testaccio], a sei a otto
nelle carrettelle, sedute, le più vistose sull’orlo del mantice: in cassetta,
presso al cocchiere, la più esperta del cembalo e del canto».49 Ancor più
diverso è l’elogiatore, là un poeta che invita un esimio collega, lusingandolo,
a un festino privato, qui il fidanzato geloso della bellona che la vanta
all’amico, ammonendolo a non osare corteggiarla se non vuole finire
castrato, come dice con una fiorita metafora già usata nell’anonimo
Misogallo romano, con gioco furbesco tra ‘francese’ e ‘gallo’, per mettere in
guardia i giacobini: «Guardateve Francesi da ste mane, / che chi viè Gallo
47 Le
lettere, cit., n. 111.
a cura di Dante Isella, Mondadori, Milano 1975, n. 11. <tradurre?>
49 Giuseppe Baracconi, I rioni di Roma, Lapi, Città di Castello 1889, p. 610.
48 Poesie,
tornerà cappone».50 Belli accoglie dunque questi spunti letterari dialettali, ma
anche un tocco classicheggiante nel paragone con la leggendaria Didone qui
confusa con la storica Cleopatra, la regina che sciolse le perle, con un
equivoco che ha pure nobili radici, suggerisce Muscetta segnalando il distico
«Esca pur Cleopatra, / porti seco la perla e l’antimonio» del secondo
Intermezzo della metastasiana Didone abbandonata (vv. 85-87), opera nota
anche ai plebei, come si ricava da più d’un sonetto, e che avrà ulteriore
fortuna mediante la versione romanesca dell’abate Alessandro Barbosi,
stampata nel 1851 ma rappresentata nel 1838 al teatro Pallacorda.51
10. Strane reliquie, non solo in Boccaccio
Esemplare del ruolo concomitante delle fonti nei sonetti belliani, lungo
la linea boccaccian-libertina, è La mostra de l’erliquie:
Tra ll’antre erliquie che tt’ho ddette addietro
c’è ll’aggnello pascuale e la colonna:
c’è er latte stato munto a la Madonna,
ch’è ssempre fresco in un botton de vetro.
C’è ll’acqua der diluvio: c’è lla fionna
der re Ddàvide, e ‘r gallo de San Pietro:
poi c’è er bascio de Ggiuda, e cc’è lo sscetro
der Padr’Eterno e la perucca bbionna.
Ce sò ddu’ parmi e mmezzo de l’ecrisse
der Carvario, e cc’è un po’ de vita eterna
pe ffà er lèvito in caso che ffinisse.
C’è er moccolo che aveva a la lenterna
Dio cuanno accese er Zole, e ppoi je disse:
và, illumina chi sserve e cchì ggoverna.52
Il sonetto conclude alla grande la serie degli otto sulle reliquie composti
50 Il
Misogallo romano, a cura di Marina Formica e Luca Lorenzetti, prefazione di Tullio De Mauro, Bulzoni,
Roma 1999, n. 473, vv. 151-52.
51 Cfr. Laura Biancini, La Didona der Metastazzio, in Metastasio nell’Ottocento, a cura di Francesco Paolo
Russo, Aracne, Roma 2003, pp. 137-72.
52 La mostra de l’erliquie, 22 gennaio 183.
da Belli dal 15 al 22 gennaio 1833. Gli undici pezzi dell’immaginaria
«mostra», organizzata da un popolano, sono uno più inverosimile dell’altro,
fino ai tre surreali e quasi sacrileghi delle terzine, l’ultimo sfruttato per una
battutina antigovernativa. Per questa sorridente satira di chi venera sacri
reperti irreali per ignoranza e di chi li inventa per malafede o interesse –
topos comico di consolidata e ampia tradizione rinnovata, osserva Teodonio,
da Umberto Eco nel Nome della rosa53 – Muscetta richiama la celeberrima
novella boccacciana di frate Cipolla (Decameron VI 10) e un passo del
Ragionamento di Aretino (2), e Vigolo la lista di presunti relitti di
personaggi antichi e mitologici della Bucchereide di Lorenzo Bellini.54
Vigolo segnala pure che in due liste di reliquie incise in Santa Prassede,
ricoperte da lastre di marmo dopo gli anni Quaranta, alle quali Belli poté
ispirarsi nel suo sonetto, era presente una gutta lactis Beatae Virginis
Mariae, e cita le parole con cui Bernardino da Siena redarguì chi la
venerava.55
Nota a Belli era certo anche la pagina boccacciana su frate Cipolla sopra
ricordata, che conviene riportare:
Egli primieramente mi mostrò il dito dello Spirito Santo così intero
e saldo come fu mai, e il ciuffetto del serafino che apparve a san
Francesco, e una dell’unghie de’ Gherubini, e una delle coste del
Verbum caro fatti alle finestre, e de’ vestimenti della Santa Fé
catolica, e alquanti de’ raggi della stella che apparve a’ tre Magi in
oriente, e un’ampolla del sudore di san Michele quando combatté
col diavole, e la mascella della Morte di san Lazzaro e altre.
Ma oltre al Decameron, ancor una volta è una novella galante a
candidarsi come fonte non generica. Lettore empatico di Boccaccio, Casti
riscrive in ottave varie sue novelle , oltre che qulche conte en vers dei
libertini francesi. Nel Quinto evangelista), invece, egli attinge tacitamente al
Novellino di Masuccio Salernitano (I 2) e narra come un frate, per sedurre
53 Tutti
i sonetti romaneschi, a cura di Marcello Teodonio, Newton Compton, Roma 1998, 2 voll.
fa notare che nelle Clefs de Saint-Pierre Roger Peyrefitte menziona varie pseudo-reliquie attinte al
Dictionnaire critique des reliques et des images miraculeuses di Collin de Plancy (1820-21), due delle
quali sono citate anche dal nostro popolano, la colonna del gallo di san Pietro conservata in Laterano e
il latte della Madonna venerato alla Minerva.
55 «Oh, oh, del latte della Vergine Maria; o donne, dove siete voi? […] Non v’aviate fede, ché elli non è vero:
elli se ne truova in tanti luoghi! […] Forse che ella fu una vacca la Vergine Maria, che ella avesse
lassato il latte suo, come si lassa delle bestie che si lassano mùgnere?», Novellette ed esempi morali, a
cura di Alfredo Baldi, Carabba, Lanciano 1916, p. 115.
54 Vighi
una giovane e virtuosa monaca tedesca facendole credere che dalla loro
copula nascerà un nuovo evangelista, la persuada, oltre che con altri
espedienti, mettendo su un tavolino due vasi e
assicurando che di Baldassarre
un’unghia intera si chiudeva in quelli,
e un dente di Melchiorre e un di Gasparre,
e il prepuzio d’Abramo, ed i capelli
d’Anania, d’Azaria, di Misaele,
ed un pezzo d’efod di Samuele,
e un po’ di barba del profeta Aronne,
e altre antiche reliquie insiem con queste (XLVI, 40-41).
Ritmo e inventiva della scenetta, assente nella fonte quattrocentesca,
sono già di Belli, anche se la chiusa del sonetto sorpassa lil
modelloelaborando una teologia surreale che solum è sua. Tutta sua, del
resto, era la digressione silla coplula carnale ripresa da Belli nel sonetto
sopra ricordato,particolare del tutto assente nella novela boccacciana da cui
Casti aveva tratto spunto per il suo Rusignuolo.
Ma un particolare secondario della novella lascia traccia in un sonetto di
Belli. Quando la candida verginella vede nel suo libro di preghiere, vergate a
lettere d’oro le parole con cui lo Spirito santo la dice prescelta per generare il
Quinto evangelista (le ha tracciate di nascosto l’astuto frate lascivo), resta
sbigottita come il biblico re di Babilonia :
alto terror la prese,
Qual fra le tazze e fra le mense liete
Nella sala real babilonese
Vedendo comparir sulla parete
Le parole temute e non intese,
Restò per lo stupor, qual uom di stucco,
Lo sbigottito figlio di Nabucco.(XLVI, 29)
Il figlio di Nabucodonosor è Beltasar, di cui narra il Libro di Daniele (V,
1-31). Durante un convito da lui indetto in lode degli dèi, compare sul muro,
tracciato da una mano di fumo, la scritta infuocata Mame Tekel Fares, che il
profeta ebreo interpreta come annuncio della morte imminente del re e della
spartizione del suo regno: eventi puntualmente accaduti. All’episodio, già
trattato nell’incompiuto poemetto italiano Il convito di Baldassarre ultimo re
degli Assiri (1812) Belli dedica il sonetto La scena de Bbardassarre, in cui il
pop-biblista ridimensiona l’impresa divinatoria di Daniele:
Fussi stat’io! in du’ parole marre
je l’averebbe subbito spiegato.
Com’era scritto? Mane Tescer Fiarre?
Ce vvò ttanto? Domani t’essce er fiato.
[…]
Un profeta ha d’annà ssubbito ar quonia,
e nnò mmèttese a ffà ‘na sciarlatina,
che ppo’ ar fin de li conti è una fandonia.56
Alla luce della fonte libertina, il finale riferimento alla «fandonia»
aggiunge all’ironia sul saccente pop-biblista una puntura dissacrante al Libro
sacro.
10. Irriverenze bibliche
Ma quanto a Bibbia, Casti ci squaderna una piccola galleria di
personaggi dipinti nei quadri collezionati dall’Arcivescovo di Praga nella
omonima novella, la XXXIX delle Galanti. Un religioso li illustra a una ex
attrice dalla vita disinvolta, suscitando i commenti maliziosi della donna.
Eccoli di fronte alla casta Susanna:
– E chì è colei che fra quei due sbordella
Nuda così, ed un sol non le ne basta?
– Susanna, rispond’ei, la casta è quella
Che alla lussuria dei vecchion contrasta.
– Voi mi fate pur ridere, diss’ella,
Ve’ gran prova! co’ vecchi anch’io son casta;
Vorrei vedere un po’ se fosse stata
Con un bel giovinotto sì sguajata. (LIV 65)
E Belli:
56 La
scéna 1 de Bbardassarre, 6 aprile 1834, vv. 5-8 e 12-14.
Tu mm’addimanni a mmé ssi ffu pputtana
a li su’ tempi la casta Susanna.
Che vvôi che t’arisponni a sta dimanna?
Bisoggnerebbe dillo a la mammana.
Ma ccerto cuella vorta che in funtana
l’acchiapponno li bbocci a la lavanna,
se pô rride d’accusa e de condanna
ch’entrassino li lupi in de la tana.
Che vvôi che sse fascessi de du’ vecchi
co cquelle sscimmesscimme-cose-mossce?
Nun je la vorze dà: dìllo, e cciazzecchi.
Ma ssi la donna tu la vôi conossce,
métteje avanti un par de torciorecchi,
eppoi guardeje er gioco de le cossce.57
La visita guidata in galleria prosegue, e i due giungono davanti al
dipinto del casto Giuseppe insidiato dalla nuda moglie di Putifarre:
– E quella dama che il mantello toglie
A un giovine, e par seco aver contrasto?
– Ella è di Putifar la bella moglie,
Martin risponde, egli è Giuseppe il casto,
Che alle di lei s’oppon lascive voglie
E fugge. Ed ella: voi toccate un tasto
che ad accordarvi mica io non m’induco;
– Scommetto che Giuseppe egli era eunuco. (34.67).
E Belli:
In capo a una man-d’anni er zor Peppetto
addiventato bbello granne e ggrosso,
la su’ padrona jjotta de guazzetto,
j’incominciò a mettéjje l’occhi addosso.
57 lndovinela
grillo, 4 ottobre 1831
Ce partiva cor lanzo de l’occhietto,
sfoderava sospiri cor
:
inzomma, a ffalla curta, dar giacchetto
lei voleva la carne senza l’osso.
Ecchete ‘na matina che a sta sciscia
lui j’ebbe da portà ccert’acqua calla,
la trova zur zofà ssenza camiscia.
Che ffa er cazzaccio! Bbutta llì la pila;
e a llei che tte l’aggranfia pe ‘na spalla
lassa in mano la scorza, e mmarco-sfila!58
Vero è che nel secondo caso la prossimità pare generica, e Belli si limita
a dare dello stupido (cazzaccio) che Casti bolla come impotente anzi
castrato, esattamente come faceva un autore a lui certamente noto, Giorgio
Baffo, nel suo sonetto su quell’episodio.59 Ma acquista rilievo il fatto che
non solo le ottave sono contigue in Casti, e che Belli, dedicò al casto
Giuseppe i primi versi di soggetto biblico del suo Commedione, per
riprendere poche settimane dopo il filo scritturale proprio con il sonetto su
Susanna e i vecchioni.
Un’altra novella evoca la Bibbia già nel titolo: Le due Sunamitidi (III)
prende infatti nome dalla giovane di Sunam che scaldò il letto del vecchio re
David. Qui, a un probo vecchio vescovo calabrese, vengono poste nel letto
due giovani balie per nutrirlo con il latte umano, unico alimento in grado di
guarire il vecchio malato. In realtà è un trucco: le due giovani infatti sono
58 Giusepp’abbreo,
II, 7 settembre 1831.
59Giorgio
Baffo Critica sora el caso de Giuseppe ebreo (III, 10), «Quando lezo quel passo de
Scrittura, / che conta el caso de Giuseppe ebreo, / che no ha volesto gnanca con un deo / toccarghe a quella
donna la natura, // che no ’l gavesse cazzo go paura, / perchè no se puol dar che quel Giudeo / fosse cussì
cogion, cussì marmeo, / de no chiavarla subito a drettura. Casti cita il poeta veneiano a Casti in una novella
galante, La celia, laddove un corteggiarore assiduo e importuno, credendo che finalmente la dama intenda
cedergli, medita di indirizzarle un «onettino‚ amoroso «
Su quella felicissima avventura
«Fra lo stil di Nasone e quel di Baffo» (V 15).
incinte, e si vuol far credere al vecchio casto che i suoi «effluvi» abbiano
ingravidato le giovani donne. Così gli si rivolge il medico:
E quei: nè in ciò trov’io gran maraviglie
Nè la Scrittura disfiguro o storco.
Poichè Lot tracannò più e più bottiglie,
Sonnacchioso e ubriaco come un porco;
Vecchio, com’era, ingravidò le figlie,
Quantunque il fatto fosse un pochin sporco.
Nè due donne impregnar potreste voi
Non ebbro e immune dagl’incesti suoi? (III 5)
Belli, oltre a sorridere sulla animata vita amorosa di Davide anch’essa
evocata nella novella castiana, dedica all’episodio di Lot tre sonetti, l’ultimo
dei quali riprende proprio l’amplesso con le figlie:
Già a Ssodema e Gghimorra ereno cotte
tutte le ggente arrosto com’e ttrijje,
e dde tante mortissime famijje
pe ccaso la scappò cquella de Lotte.
Curze er Padriarca finamente a nnotte
senza mai pijjà ffiato e staccà bbrijje:
ma cquà, ssiconno er zolito, a le fijje
je venne fantasia de fasse fotte.
Ma pe vvia che nun c’era in quer contorno
neppuro un cazzo d’anima vivente,
disseno: «È bbono Tata»: e ll’ubbriacorno.
Poi fatteje du’ smorfie ar dumpennente,
lì dda bbone sorelle inzin’a ggiorno
se spartirno le bbotte alegramente.60
Inutile richiamare la non marginale violazione della fonte sacra, dove le
60
Lotte ar rifresco
3°, 17 gennaio 1832 -
figlie sino allora vergini si uniscono separatamente al padre reso incosciente
dal vino al solo fine di garantire la continuità della stirpe: come accade
sovente nei sonetti, Belli mostra un distacco ironico dal parlante plebeo e
dalla sua polemica politica ideologica; ma è indubbio che l’atteggiamento di
ironia verso episodi inverosimili o moralmente sconcertanti dell’Antico
testamento poggia su una base illuministica, la stessa avvertibile nella chiusa
della novella castiana:
Di santità la sacra Bibbia è tempio,
Non dà che lezion savie e istruttive;
Sempre propone un qualche bell’esempio,
E se, siccome spesso avvien, descrive
Osceno fatto, scellerato ed empio,
Son cose ognor simboliche, allusive.
Ella d’oscuri ognor simboli è mista,
E i simboli sol denno aversi in vista.(III 78 )
Più d’una volta Casti insiste sulla continiuità che lega la Roma pagana
alla Roma cristiana, in novelle quali L’origne di Roma e L’Apoteosi, per la
credulità popolare, l’uso strumentale della religione a fini di potere, la
corruzione del costume. Ma non meno rilevante è in lui l’attitudine
razionalistica a reinterpretare alla luce della ragione le antiche storie o
leggende tramandate dai gentili e degli ebrei, e a sottolineare anche certe
affinità fra quei miti (nell’Origine di Roma, per esempio, paragona l’ascesa
al cielo di Romolo a quella di Elia, i decreti sacerdotali di Numa Pompilio al
Deuteronomio). Non dissimile la sensibilità antiquaria o antropologica, in
senso vichiano, che affiora nelle note ai Sonetti e nello Zibaldone belliano.
11. Il refrain della Chiesa corrotta
Anche nella ripresa del motivo di Roma degradata da caput mundi a
città soggetta ai francesi, Roma capomunni,61 ridotta a «stalla e chiavica der
Monno» per la miseria morale in Li Prelati e li Cardinali,62 emerge la
pluralità delle fonti. Sono le opere di autori frequentati da Belli: Dante,
61 Roma
62 Li
capomunni, 5 ottobre 1831.
Prelati e li Cardinali , 27 maggio 1834, v. 14.
«Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, […] fatt’ha del cimitero mio cloaca /
del sangue e de la puzza» (Paradiso, XXVII, vv. 22-26), ancora Boccaccio,
«Roma, la quale, come è oggi coda, così già fu capo del mondo»
(Decameron V 2), Aretino, «poi venne a la novella che udì Roma dei lanzi e
dei giuradii i quali ne venivano a bandiere spiegate per farla coda mundi»
(Dialogo nel quale la Nanna insegna a la Pippa sua figliuola a esser
puttana, giornata II), nonché ancora Casti, «La santa Roma, del mondo, /
fogna sarà di questo vizio immondo» (L’origine di Roma, XVIII, 19). Nel
ventaglio dischiuso, si avverte però che la «chiavixa» belliana somiglia alla
«cloaca» dabtestca e alla «fogna» castiaba ben più che alla «coda» di
Boccaccio e di Aretino, <mi pare ci fosse anche altro luogo di Casti, capocoda>
E siamo così giunti alle Tre corone. Dante, decisivo per l’opzione
belliana di una poetica realistica permeata di impegno etico, lascia varie
tracce testuali nei sonetti e diventa modello di alcune indignate invettive
civili, sostenute nello stile e popolaresche nel linguaggio;63 Petrarca incise
non poco sulla poesia italiana di Belli,64 ma alcune tracce le lasciò,
sorprendentemente, anche nell’opera romanesca; la quale consuona anche
con la terza corona, Boccaccio, diffusamente sul piano tematico e meno su
quello linguistico.65 E si avverte qui che del Decameron Belli stese un
dettagliato indice analitico, confrontabile per ricchezza solo con quello da lui
predisposto per i Promessi sposi.66 Si aggiunga, a proposito delle Corone
trecentesche, un appunto dello Zibaldone: «è rimarchevole che dove
desideravano essi fama ottenessero quasi oblio, e dove sollazzo trovassero
63 Cfr.
il nostro Belli smascherato: sui sonetti metapoetici, in Belli senza maschere, cit., pp. 99-117.
Cfr. Maria Teresa Lanza, Petrarca nell’officina di Belli, in «Esperienze letterarie», 2005, 2, pp. 25-36.
65 Tra i circoscritti contatti linguistici segnaliamo, per esempio, il plurale dua, l’epentesi di Pavolo, il traslato
erotico scaricar le some prossimo al belliano scaricà le ceste, le accezioni oscene di ‘scorticare’ e
‘nicchio’ e poi i termini mammana ‘levatrice’, babilano ‘impotente’, mozzorecchio ‘avvocato’,
mortorio ‘funerale’, zinne ‘mammelle’, vicinato ‘fondo-schiena’. farnu ke fuse, ciccia conbtro ciccia:
omo donna fonasce, CASTI? cerbottana ?froyypòa’
66 L’indice occupa nello Zibaldone belliano gli articoli 1485-1503 (cfr, Lettere Giornali Zibaldone cit., pp. 492504 ). Si veda, per averne un’idea, la lettera A: «Indice del Decameron di messer Giovanni Boccaccio
cittadino fiorentino (Firenze, P. Caselli e C., 1824), voll. cinque (in 32°), di mia proprietà. Astrologia,
I, 28. Alloro I 36. Ablusioni I 58, 117, 330. Avarizia I 113, 121; III 165; IV 115. Alberto (medico), I,
129. Azzi (marchese di Ferrara) I 148. Albergo (albergare) I 151. Allocuzione I 170. Algarvi (Regno
degli) I 232. Atene I 243. Amore I 279, 281; II 139, 224; V, 159. Asino I 296; II 156; IV, 203. Acri
(città) I 308. Alessandria (d’Egitto) I 316. Agilulf (Re) II 21. Anelli II 129. Angioli II 183. Assisi II
186. Amalfi II 266. Arcieri III 31. Adulterio III 82, 157; IV 102. Abruzzi III 178. Avignone IV 116.
Amatorie IV 175; V 43. Astronomia V 3. Argenti Filippo V 62. Alfonso (di Spagna) V 87. Arezzo V
145. Amicizia V 157, 171, 183. Ambusto (Publio) V 181.
Becchini, I, 38 Banchetto, I, 58, 117; IV, 46; V, 136 (Lettere Giornali Zibaldone, cit., p. 492).
64.
fama»; e s’intende che il termine di sollazzo par convenire alle novelle di
Boccaccio e magari alle nugae volgari di Petrarca che non alla Commedia
dell’ammirato Dante. Quando accenna al Certaldese nelle sue lettere, Belli lo
associa devotamente ai grandi maestri della patria letteraria, mentre non
manca di punzecchiare il boccaccismo degli stenterelli.67
L’aggettivo «boccaccesco» vince comunque su «boccacciano» nei
commenti e negli studi belliani, compresi i nostri, nei quali abbondano i
rinvii al Decameron, l’unica opera del Certaldese menzionata da Belli, per la
satira antifratesca, per il cocktail sesso-religione e per il tipo della vedova
allegra (rappresentato però nel Corbaccio).
Qualche contatto tutt’altro che generico però si trova, come nel sonetto
sulle reliquie, in quello intitolato Er bon’esempio, dove un religioso che
predica la castità risponde a chi lo ha scoperto mentre copula con una donna:
[…] Lei facci, sor mastro,
nò cquer ch’er prete fa ma cquer che ddisce.68
Traspare in questi la memoria del Decameron (III 7) in cui Boccaccio
critica frati che «sgridano contro gli uomini la lussuria, acciò che,
rimuovendosene gli sgridati, agli sgridatori rimangano le femmine», e
aggiunge che «quando di queste cose, e di molte altre che sconce fanno,
ripresi sono, l’avere risposto fate quello che noi diciamo e non quello che noi
facciamo, estimano degno scaricamento d’ogni grave peso, quasi più alle
pecore sia possibile l’esser costanti e di ferro che a’ pastori».
Anche la tresca tra un compare e una comare del sonetto Li
comparatichi può richiamare la storia boccacciana e boccaccesca di una
67 Scrivendo
alla moglie da Firenze, il 24 luglio 1824, Belli la ragguaglia sui suoi pellegrinaggi letterari; «Il
platano intorno a cui siedette Boccaccio colle sue gentili novellatrici; e la casa entro la quale il
Guicciardini scrisse le belle storie italiane. Ho veduto anche la villetta di Dante, ed il torrente Mugnone
giù pel quale il ridetto Giovanni Boccaccio descrisse i suoi Bruno, Calandrino e Buffalmacco (se non
erro) in cerca della nera elitropia; e per tacere di tante altre cosette ho visitato la Ducal delizia di
Poggio a Caiano celebrata da Angiolo Poliziano col poemetto intitolato l’Ambra, e dove morirono
Francesco I, e Bianca Cappello». (Lettere, cit., n. 38). Scrivendo poi all’amico e consuocero Giacomo
Ferretti, il 28 maggio 1835o, gli allega un suo sonetto con punte anticruschevoli: «Al professore D.
Michelangelo Lanci pel premio quinquennale della Crusca nel 1835: Deh, Michelangiol mio, come hai
tu posta / la sublime opra tua dentro lo staccio / di quelle scimie di Giovan Boccaccio / per cui Monti
sprecò tempo e Proposta? // Meglio oh quanto era il fartene una rosta / da cacciar mosche, o involgerne
il migliaccio, / o accenderne un falò pel berlingaccio, / mal grado delle veglie che ti costa! // Quando,
più ch’essa, ha prezzo oggi un sermone, / e sopra un Lanci si solleva un Buffa, / Morto in terra è il
poter della ragione. // E i buon messeri della crusca muffa / dan prova al Mondo omai che il loro
frullone / gira, come il cervel, di buffa in truffa» (Lettere, cit., n. 210).
68 Er bon’esempio, 10 maggio 1833.
donna che, «non ostante il comparatico, si recò a dovere fare» con il
compare «i suoi piaceri, né incominciarono pure una volta, ma sotto la
coverta del comparatico avendo più agio, perché la sospezione era minore,
più e più volte si ritrovarono insieme» (Decameron VII 3). A sua volta Belli,
precocemente e ricettivamente letto da Verga,69 può sospettarsi fonte
dell’amico di questo, Luigi Capuana, che nella novella Il comparatico
(1882), racconterà la tresca tra un compare e una comare, volgendola però al
tragico con lo scannamento degli adulteri mano del marito geloso (Racconti,
I, 16).70
Non vistoso ma determinante è l’ipotesto boccacciano che trapela nel
sonetto Ruzza co li fanti, e llassa stà li Santi;71
Chi tte lo nega? Ha un tantinèr dell’orzo
biastima un goccio, è un pò llesto de mano,
penne p’er gioco, ha la passion der zorzo,
E jje cricca er mestier der paesano.
De rimanente poi è bbon cristiano,
stà scritto a la Madonna der Zoccorzo,
donne nun po vvedelle da lontano,
e è ddivoto de San Carl’ar Corzo.
Chi ppe cconosce l’Ommini, commare,
praffe, s’afferma a la prim’ostaria,
pijja un cazzo pe un fischio, e nnun je pare.
Tant’antri bbaron bècchi-bbù-e-vvia
sò iti a tterminà sur un artare!…
Abbasta, nun entramo in zagrestia!
Un plebeo di morale elastica ridimensiona il giudizio negativo di una
comare su un comune conoscente. Con furbesche formule riduttive ammette
che è un misantropo, bestemmiatore, ladro, giocatore e delatore, vizi
compensati, a suo dire, dalle supposte virtù altrettanto furbescamente
elencate nella seconda strofa.
69 Cfr.
il nostro Verga, Belli e il duello rusticano, in Belli senza maschere, cit., pp. 435-443.
70 Nota
71 Ruzza
su capuana studiato da Oliva
co li fanti, e llassa stà li Santi, 23 gennaio 1832.
Vighi segnala che per Muscetta la somma di difetti del supposto bbon
cristiano produce «un effetto comico analogo al cumulo di vizi del
boccaccesco ser Ciapparello».72 In effetti Belli si ispira alla figura del
corrotto e geniale ser Ciappelletto, che romanizza trasformando in devozione
esteriore il suo disprezzo delle pratiche cristiane:
«Bestemmiatore di Dio e de’ santi era grandissimo; e per
ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcun altro era
iracundo. A chiesa non usava giammai; e i sacramenti di
quella tutti, come vil cosa, con abominevoli parole scherniva;
e così in contrario le taverne e gli altri disonesti luoghi
visitava volentieri e usavagli. Delle femine era così vago
come sono i cani de’ bastoni; del contrario più che alcun
altro tristo uomo si dilettava. Imbolato avrebbe e rubato con
quella conscienzia che un santo uomo offerrebbe.
Gulosissimo e bevitore grande, tanto che alcuna volta gli
facea noia. Giucatore e mettitor di malvagi dadi era solenne»
(Decameron I 1).
Da Boccaccio il nostro poeta mutua anche la tecnica enumerativa dei
vizi, nonché il modo furbesco con cui allude alle inclinazioni erotiche del
protagonista, il quale non può vedere le donne… da lontano, quelle che
Ciapparello perché… preferiva i maschi. E pure a quella canaglia, finita
sugli altari grazie alla sua ipocrisia, si rifà nella strofa finale, dove
disobbedendo alla sentenza del titolo proverbiale, Ruzza co li fanti, e llassa
stà li Santi, entra in zagrestia, come il maestro trecentesco nella novella con
cui inaugurava il Decameron, incorniciata dalle sue riflessioni morali e
religiose. Sicché l’effetto prodotto dal nostro sonetto, più che comico, è
umoristico, e quello della storia boccacciana, grottesco.
Per Muscetta Belli rielabora «spunti» della novella di madonna Filippa
(Decameron VI 7) nel sonetto Lo scannolo,73 in cui una giovane, che convive
more uxorio con un amante si difende dalle critiche di «vecchie corve»,
invocando il diritto al libero amore.
12. Conclusione
72 Vighi
nel suo commento alle Poesie romanesche cit. rinvia a Muscetta, senza la pezza d’appoggio testuale;
poiché tra gli studi belliani del critico non ci à riuscito di reperire il richiamo a Ciappelletto, non è da
escludere che Vighi si rifrisse a colloqui verbali con Muscetta, di cui era amico.
73 Lo scannolo, 4 febbraio 1833.
Insomma, un pizzico di Boccaccio e una più generosa spolverata di
Casti insaporiscono i sonetti belliani. Potremmo parlare di boccaccismo
mediato o cucinato alla libertina. Né deve stupire che il poeta romanesco si
sia ispirato con maggiore fedeltà alle scorrevoli e colloquiali ottave
settecentesche, meno manierate della prosa del Trecentista, che intiepidiva
con lo stile ciceroniano il magma rovente della materia. Trasponendo quella
prosa artificiata in versi conversevoli e puanu, Casti aveva mosso dei primi
passi su un sentiero che Belli avrebbe percorso con gli stivali delle sette
leghe, portando il parlato un versi dal chuso dei salotti nel plein-air delle vie
poplari, sostituendo all’italiano medio della buona società il più colorito e
rude dialetto.
Delle Novelle galanti si potrebbero indicare altri influssi sulle poesie
romanesche, a partire dal pulviscolo di singole parole o espressioni del
parlato laziale, familiare all’abate, fino a quelli tematico-ideologici, più ampi
ma generici. E qualcosa si dovrebbe aggiungere sulle consonanze tra la
raccolta dialettale e un’altra opera castiana in versi, Gli animali parlanti,
provvisti di favella in età pre-adamitica in due componimenti belliani Le
bbestie der paradiso terrestre74 e Chì la tira la strappa:75 l’attacco sferrato
dall’abate illuminista contro l’uso dei cantori castrati in Le pecore, apologo
che figura nell’appendice II dell’opera (sestine 69-71), ritorna nel sonetto Er
zoprano,76 e la condanna della crudeltà degli uomini verso gli animali di un
apologo pure aggiunto al poema, L’asino, storia di un somaro ucciso con una
bastonata, che Belli cita in una lettera77 e ripropone in Se more, un gioiellino
di cui poté ricordarsi il Verga di Rosso Malpelo.78
Ma quanto detto può bastare a iscrivere l’opera di Casti nella ridotta lista
di quelle che incisero sul capolavoro romanesco. Il razionalismo moralista di
Belli, avverso al potere temporale della Chiesa e sollecito nel frustare la
condotta di frati e prelati di dubbia vocazione, e tuttavia fedele alla sua scelta
cattolica, non coincide certo con il libertinismo dell’abate, che praltro non
rinunciò all’abito talare nonostante l’incerta fede. Il suo pensiero, filtrato da
personaggi popolari con o senza schermi ironici, risulta più complesso di
quello esposto limpidamente in prima persona da Casti. Si aggiunga che
74 Le bbestie
der paradiso terrestre, 19 dicembre 1834.
la tira la strappa, 16 aprile 1834.
76 Er zoprano, 6 gennaio 1833.
77 Lettere, n. 471 nell’edizione cit.
78 Se more, 20 aprile 1834. E cfr Belli.Verga di Gibel
75 Chì
l’influenza del libertino caratterizza una certa fase del percorso poetico e
intellettuale di Belli, lungo un arco temporale che, data per buona la serie dei
sonetti additati, corre dal 1830 al 1834 (fra i sonetti di sapore castiano,
quattro cadono nel 1830, altrettanti nel 1831, tre nel 1832, sei nel 1833,
cinque1835e nel 1834): dopo questa data la memoria delle Novelle galanti si
assottiglia fino a scomparire dal percorso belliano, che procede verso altri
lidi, più complessi e temperati.79
Con tutto ciò, sembra comunque innegabile lo stimolo intellettuale che,
accanto a suggestioni immaginative e verbali, Belli ebbe a ricevere da
quell’abile e scomodo scrittore; dal suo libertinismo, il non libertino Belli
mutuà però gli anticorpi che impediono al suo cattolicesimo di imoccare la
via dell’ipocrisia e della sessuofobia,
dell’astratteza teikifucam
dell’integralismo intollerante, della devozionbe popolaresca e superstiziosa,
Perciò, pur senza nominarlo, et pour cause, Belli volle definire Casti il suo
suo inconfessabile «amico».
79 Il dato
è forse da collegare alla maturazione del pensiero belliano, sfociato a esiti più complessi e temperati:
senza per questo voler retrodatare la crisi che condusse Belli ad abbandonare e disconoscere la poesia
romanesca, con una scelta liquidata frettolosamente come totale abdicazione e involuzione reazionaria.
Come è noto, gli sconvolgimenti del 1848-1849 ebbero un effetto traumatico sull’animo di Belli,
preoccupato che la circolazione dei suoi versi potesse mettere a repentaglio la sicurezza sua e dei suoi
cari: di qui il rogo delle carte che aveva in casa, la rinuncia a scrivere in dialetto e il disconoscimento
della produzione romanesca. A parer nostro, la situazione è più complessa: Belli disconobbe la
paternità di certi suoi versi circolanti anche perché difformi dagli originali, provvide a emendare copie
apografe pervenuta al conte Placido Gabrielli (si veda ora al riguardo Massimo Colesanti, Belli
ritrovato, Ed. di Storia e Letteratura, Roma 2010) e dovette pensare a un’edizione postuma o quanto
meno posteriore alla fine dello Stato pontificio.
BAFFO IN BELLI?
«Che ppredicava a la Missione er prete?
“Li libbri nun zò rrobba da cristiano:
fijji, pe ccarità, nnu li leggete”»
1. Rari fontes in gurgite vasto
Attinto alla fonte viva della realtà, enunciato per bocca di una «plebe
ignorante» seppur «concettosa ed arguta», il capolavoro belliano è quasi
esente da reminiscenze libresche. La caccia alle fonti praticata dai
commentatori non ha raccolto troppe prede: Carlo Porta, d’accordo, e poi
qualcosa di Dante, Petrarca, Boccaccio, Aretino, Berni, Goldoni, Manzoni,
stille che dal vaso cristallino delle letture del colto poeta sono gocciolate
nelle brocche argillose dei suoi plebei. E poco altro. Fra quel poco, l’abate
Giovan Battista Casti: il capitello affiorante di due versi che il poeta
confessava in nota d’aver rubato a un imprecisato «amico» ci hanno
condotto a identificarne il sito archeologico, la corona di sonetti Li tre giulj,
invogliando a estendere lo scavo che ha portato alla luce l’imponente
edificio delle Novelle galanti, la fonte forse più cospicua del Commedione
romanesco dopo l’opera milanese di Carlo Porta.80
Ma se la familiarità belliana con l’opera di quel libertino laziale celebre
in tutta Europa ha meritato un commento, che dire del famigerato e
sboccatissimo patrizio veneziano? Sboccatissimo al punto da costringerci a
confessare l’imbarazzo per le citazioni che dovremo fare, con rossore solo in
parte attenuato dal rilievo che, a detta dei biografi, l’uomo fosse morigerato
nel dire e marito dabbene nel condursi, quasi un dottor Jekyll che sfogasse il
lato oscuro solo nella vita parallela tracciata con la penna sulla carta. E
avvertiremo qui che studi recenti rilevano come il suo sfrenato libertinaggio
letterario vada connesso a un pensiero libertino in senso più serio, incarnato
da una cerchia di orientamento epicureo, illuminista e laico attiva a Venezia
anche sul piano politico-culturale.81
80 Cfr.
il nsrto articolo GIBELLINI, Dalla novella al sonetto: Belli, Casti e un po' di Boccaccio, in
«Italianistica», 2013, 2, pp- 127-146. 8riprodotto in questi volue).
81 Cfr. Piero Del Negro, Introduzione a Giorgio Baffo, Poesie, a cura dello stesso, Mondadori, Milano 1991, pp.
3-91.
2. Una lettura sottobanco?
Belli non nomina mai Giorgio Baffo, nei Sonetti o altrove. Una lista di
auctores dialettali sigilla invero la prefazione che Ciro Belli, il figlio del
poeta, premette all’antologia postuma pubblicata nel 1865-66: essa potrebbe
forse riflettere le conoscenze paterne trasmesse da Francesco Spada e
monsignor Vincenzo Tizzani, i due amici del poeta che aiutarono Ciro ad
allestire quella ampia seppur castigata silloge: «Il nome di Giuseppe
Gioachino Belli», confida il prefatore, «andrà quind’innanzi congiunto con
quelli del Meli, del Porta, del Regina [Martin Piaggio], del Calvo, del
Genoino, del Burati [sic] e di quanti altri illustrarono il patrio loro
dialetto».82 Siciliano, milanese, genovese, piemontese e napoletano sono
designati con i nomi degli autori allora ritenuti più rappresentativi, i loro
cantori eponimi: seggio che per il veneto tocca a Pietro Buratti. Del resto
Buratti era allora in auge, se Stendhal poteva affiancarlo a Baffo e a Porta
nel suo ammirato interesse, specie per il compatriota elettivo di Henri Beyle
«milanese» (il «consolo di Francia» a Civitavecchia non sembra aver invece
conosciuto Belli, o almeno la clandestina musa romanesca del poeta in cui
aveva generato una punta di gelosia per i contatti con l’attrice Amalia
Bettini).83 Più tardi le quotazioni di Baffo avrebbero superato quelle di
Buratti come basta a ricordarci l’elogio di Apollinaire,84 a voler trascurare i
fitti segni di lettura tracciati da D’Annunzio nel suo esemplare dei versi
veneziani, che dovevano interessare il vecchio libertino del Vittoriale per la
materia a luci rosse, al pari dei sonetti di Belli, sottolineati e postillati
soprattutto nel famigerato sesto volume dell’edizione Morandi che
raccoglieva come in un reparto infettivi i testi più osés.85
A Venezia, oltre che a Ferrara, Belli era stato nel 1817, prima dunque
della svolta che lo condurrà a edificare, specialmente fra il 1830 e il 1837, il
suo monumento dialettale, anche se il primo isolato pezzo risale proprio a
quell’anno: un viaggio cui Belli si riferiva indirizzando nel 1855 versi
italiani al suo ospite di allora, il conte Tommaso Gnoli, cui ricordava d’esser
stato «in piazza di San Marco entro Venezia / mangiando bozzolai pur caldi82 [Ciro
Belli[, Ai lettori, in Poesie inedite di Giuseppe Gioachino Belli romano, Salviucci, Roma 1865, I, p. 6.
Luigi de Nardis, Stendhal e Belli [1976], in Roma di Belli e di Pasolini Bulzoni, Roma 1977, pp. 26-33;
84 L’œuvre du patricien de Venise G. B., in L’œuvre libertine des conteurs italiens, I, Paris 1910.
85 Cfr. il nostro D’Annunzio e Belli (1976), raccolto in Il coltello e la corona. La poesia del Belli tra filologia e
critica. Bulzoni, Roma 1979, pp. 150-163.
83 Cfr,
caldi».86
Quell’anno usciva nella Collezione di Bartolomeo Gamba87 una scelta di
poesie di Buratti le cui satire già circolavano nei caffè e nei salotti. Non
possiamo sapere, invece, se avesse potuto procurarsi l’antologia di Poesie di
Baffo uscita clandestina nel 177188 o la Raccolta universale dei suoi versi
stampata nel 178989 alla macchia ma assai diffusa, come avrebbe invece fatto
poi nel viaggio a Milano del 1827, procurandosi alla borsa nera l’edizione
luganese delle Poesie di Carlo Porta, lettura decisiva per la genesi dei sonetti
romaneschi.90 Degli scottanti versi baffeschi circolavano del resto anche
numerose copie manoscritte, durante la vita dell’autore (1694-1768) e anche
dopo le prime stampe. Procurarsene qualcuna doveva essere facile al pari dei
bozzolai, dei gustosi bossolà veneziani.
3. Un Motivo “fortunato”: l’infelicità umana
Capitò a noi, tempo fa, di avanzare per primi, e con cautela, il nome di
Baffo come uno dei possibili antecedenti della riscrittura romanesca che
Belli procurò del sonetto di Giambattista Marino, senza peraltro dichiarare il
debito verso il Secentista, come invece aveva fatto per cinque «imitazioni»
di Porta: omissione dovuta alla notorietà del modello secentesco o all’intento
di rivendicare implicitamente l’originalità del remake?91 Ecco i due testi;
quello di Marino suona così:
Apre l’uomo infelice, allor che nasce
in questa vita di miserie piena,
pria ch’al sol, gli occhi al pianto, e nato a pena,
va prigionier tra le tenaci fasce.
Fanciullo, poi che non più il latte il pasce,
sotto rigida sferza i giorni mena;
indi, in età più ferma e più serena,
tra Fortuna ed Amor more e rinasce.
86 Belli
italiano, a cura di Roberto Vighi, Colombo, Roma 1975, III, p. 579, vv. 19.21.
Tip. di Alvisopoli, Venezia 1817.
88 Le poesie di Giorgio Baffo patrizio veneto, s.l. [Londra?[ 1771.
89 Raccolta universale delle opere di Giorgio Baffo veneto, s.e. Cosmopoli [Venezia?] 1789, tomi 4.
90 Cfr. il nostro Belli e Porta, in Il coltello e la corona, cit., pp. 93-148.
91 Cfr, il nostro «La vita dell’omo» e il Quaresimale del Belli [1983] poi raccolto in I panni in Tevere. Belli
romano e altri romaneschi, Roma, Bulzoni, 1989, pp. 65-89.
87 Poesie,
Quante poscia sostien, tristo e mendico,
fatiche e morti, infin che curvo e lasso
appoggia a debil legno il fianco antico?
Chiude alfin le sue spoglie angusto sasso,
ratto così, che sospirando io dico:
“Da la cuna a la tomba è un breve passo!”. 92
E Belli gli fa eco descrivendo in questo modo La Vita dell’Omo: <già
citato>
Nove mesi a la puzza: poi in fassciola
tra sbasciucchi, lattime e llagrimoni:
poi p’er laccio, in ner crino, e in vesticciola,
cor torcolo e l’imbraghe pe ccarzoni.
Poi comincia er tormento de la scola,
l’abbeccè, le frustate, li ggeloni,
la rosalìa, la cacca a la ssediola,
e un po’ de scarlattina e vvormijjoni.
Poi viè ll’arte, er diggiuno, la fatica,
la piggione, le carcere, er governo,
lo spedale, li debbiti, la fica,
er Zol d’istate, la neve d’inverno…
E pper urtimo, Iddio sce bbenedica,
viè la Morte, e ffinissce co l’inferno.93
<giè riportato>
Meritatamente premiata da traduttori e antologisti, questa poesia è stata
oggetto di una fitta riflessione critica, vòlta, tra l’altro, a segnalare gli autori
che sul diffusissimo topos della miseria humanae condicionis si erano già
92 Infelicità
93 Il
umana, in Opere, a cura di Alberto Asor Rosa, Garzanti, Milano 1997, p. 209.
testo dei Sonetti è attinto alle Poesie romanesche di belli, a cura di Roberto Vighi, Libreria dello Stato,
Roma, 1988-1993, voll. 10. Il commento del curatore è in seguito citato col semplice nome Vighi. Lo
stesso vale per gli altri commentatori e studiosi citati nella pagina vighiana: Giorgio Vigolo (I sonetti
romaneschi di G. G. Belli, Mondadori, Milano 1952, voll. 3), Carlo Muscetta (Cultura e poesia di G.
G. Belli, Feltrinelli, Milano 1961) ed Euriale De Michelis (Approcci al Belli, Istituto Studi RomaniBulzoni, Roma 1969).
cimentati. «Il Vigolo ne enumera i precedenti, da Giobbe a san Bernardo, da
Jacopone al Leopardi, mettendo in rilievo come il Belli gl’imprima ben altro
spirito e un accento di estrema amarezza e ironia; il Muscetta [pp. 135 e 391]
insiste sulla derivazione da Motivi volterriani; il De Michelis [pp. 47-48]
considera il confronto con il sonetto italiano Mia vita del 1857». Così
sintetizza i più rilevanti contributi sul sonetto Roberto Vighi, che conclude
con un generoso apprezzamento del nostro contributo «La vita dell’omo» e il
Quaresimale del Belli, dove segnalavamo la presenza del Motivo in
numerosi altri componimenti romaneschi belliani e incrementavamo il
catalogo delle letture che, insieme alle prediche quaresimali, potrebbero aver
ispirato indirettamente il poeta romano: l’Antico e il Nuovo Testamento, san
Girolamo e Innocenzo III, Tasso e Ciro di Pers, Shakespeare e Bossuet,
Buffon, Montesquieu e Rousseau, Parini e la Staël… Sottolineavamo anche
l’analogia, non solo espressiva, con i versi 39-42 del Canto notturno di
Leopardi contenuto nell’edizione fiorentina del 1831 posseduta da Belli:
«Nasce l’uomo a fatica / ed è rischio di morte il nascimento. / Prova pena e
tormento / per prima cosa», con quel che segue. Indicavamo invece come
possibile fonte diretta la sonettessa con lunga coda Miserie della vita umana
di Giorgio Baffo:
Cosa sia l’Omo, e cosa ‘l fazza quà,
voggio filosofarghe un poco suso;
mi vedo, che co ‘l vien fuora del buso
Subito ‘l pianze, come un desperà;
[…]
Bisogna che ‘l sopporta, e malattìe,
e in primo liogo quel de far i denti;
dopo, ferze, variole, e rosolìe,
spasemi, batticuori, e patimenti,
avanti, se puol dir, che’l staga in pìe.
[…]
Vien vìa pò la gran pena
d’andar a scola, e quella de studiar
per aver qualche scienza da imparar;
se un’arte pò ‘l vuol far,
avanti, che ‘l la impara a sufficienza,
cosa ghe vuol de tempo, e de pacienza!
[…]
Amor pò in la testa
ghe vien co tutti quanti i so despeti,
altro, che ‘l Cà del Diavol dei poeti,
i più contrarj effeti
lo combatte, e lo strapazza a ‘na misura,
che quasi lo reduse in sepoltura.
Oh misera natura! […] Vien pò la malattìa,
che xe l’ultima affatto della vita,
[…]
Questo xe l’Omo, e questo xe ‘l so stato,
che, co ghe penso, no vorrìa esser nato94
Aggiungiamo ora, a quell’ipotesi pionieristica, il sospetto che la polarità
fra i Nove mesi prenatali e l’eternità post mortem introdotta da Belli variando
il modello mariniano sia stata suggerita dalla lettura del sonetto di Baffo
Vorria star in mona sin’ alla fin del mondo, fantasioso adynaton del poeta
libertino:
Per el più gà da star
L’Omo in preson in panza della Dona
Prima de spuntar fuora della Mona,
E vegnir a sto Mondo a respirar.
Dopo mille malanni ‘l gà d’andar
In t’una sepoltura sfondradona,
E della so miseria per corona
In quella eternamente ‘l gà da star.
Vorrìa, ch’alla roversa tutto andasse,
Che, quando se xe morti, in sepoltura
Per niove mesi solo se restasse;
94 Raccolta
universale cit., III, 178, vv. 1-4, 10-14, 21-26, 39-45, 117-118, 127-128. Per le poesie di Baffo ci
riferiamo alla postuma Raccolta universale indicando il tomo con il numero romano e il componimento
con la cifra araba. Sulla Raccolta del 1789 è esemplata, con ammodernamenti grafici, l’edizione curata
da Elio Bartolini, Longanesi, Milano 1971.
E all’incontro, per leze de Natura
In Mona della Donna se ghe stasse
In sin a tanto, che sto Mondo dura (I, 26).
Mettevamo poi a confronto il sonetto belliano con la versione in dialetto
reatino del testo mariniano procurata dal secentesco Loreto Mattei («Appena
l’ome è escitu da la coccia»), a suo tempo segnalata da Luigi Morandi,95
sostenendo che Belli ne aveva tenuto conto, a differenza di quella napoletana
di Nicola Capasso, illustre collega di Giambattista Vico e amico di Pietro
Giannone, troppo fedele all’originale di Marino per candidarsi come un
necessario testimone interpositus fra il cavaliere napoletano e il poeta
romanesco.96 Insomma, quello della pluralità delle fonti è un dato da tener
sempre presente mentre ci inoltriamo nella nostra ricerca, assieme all’altra
delicata questione; quella di distinguere tra intertestualità e interdiscorsività,
fra riferimento a un individuato modello testuale e Motivi largamente diffusi
nella tradizione letteraria, alta o popolare, quando non si tratti di mere
coincidenze lessicali in cui la langue collettiva prevalga sulla parole
personale.
4. Il gran gusto dell’iperbole
Cautelati con queste premesse di metodo, possiamo sorvolare su certe
consonanze lessicali fra Baffo e Belli: parole comuni ai due e non frequenti
altrove, ma non esclusive né dei due né dei loro dialetti. Tali ad esempio
l’epiteto ingiurioso marmotta,97 mappamondo quale sinonimo di ‘sedere’,98
95 Cfr.
I sonetti romaneschi di G. G. Belli, a cura di Luigi Morandi, Lapi, Città di Castello 1886-1889, voll. 6.
il nostro Belli, Mattei e un po’ di Marino, in Belli senza maschere. Saggi e studi sui sonetti romaneschi,
Aragno, Torino, 2012, pp. 339-366.
97 Come voce italiana. figura nei dizionari ottocenteschii col valore traslato di «uomo di animo addormentato o
sornione» (Tommaseo-Bellini) o «uomo tardo e da nulla» (Fanfani, Vocabolario dell’uso toscano,
Firenze 1863). Belli l’impiega nell’accezione di ‘tonto, addormentato’ ma anche e soprattutto di
‘sornione, ipocrita’, e applicabile dunque a Giuda Iscariota, a chi mormora contro il papa o al
temporeggiatore generale Marmont. Nel romanesco di Giuseppe Berneri marmotta valeva invece
‘uomo da nulla’ o ‘stupido’ (Meo Patacca, VIII, 39), giusto come nelle rime veneziane di Baffo (I. 15;
I, 45 ecc,). Cfr. La prima cummuggnone, vv. 6-7, «cquer marmotta de Ggiuda / vojjo dì Ggiuda
Scariotta)La vita da cane, vv. 1-2, «Ah sse chiam’ozzio er zuo, bbrutte marmotte? / Nun fa mmai
ggnente er Papa, eh?, nun fa ggnente?»; 26. Ar zor Carlo X, v. 4, «cor general Marmotta de Ragusta».
98 «Hai visto er mappamonno de l’ostessa? / Buggerela, pezzìo!, che vviscinato!» chiede ammirato il
trasteverino del sonetto Li culi; e Baffo sentenzia decantando il Valor d’un culo tondo, vv. 5-8: «Un
culo, che sia fatto a mappamondo, / ’l val tanto oro, che se puol pagar, / e quando, che ’l se possa
buzarar, / el xe un Paese, che no ghe ’l secondo» (I, 99). Ma l’epiteto si usa anche in lingua, come il
96 Cfr.
bardasso con sfumatura spregiativa:99 schegge verbali, insomma, indizi
tutt’al più del ricorso a uno stesso bacino linguistico, comune ad autori di
registro comico, satirico o colloquiale. Qualcosa di più potrebbero contare
coincidenze di sintagmi o modi idiomatici; arzà la vesta designa in entrambi
l’amplesso amoroso,100 quel diporto che Baffo chiama più volte gran gusto
proprio come Belli, che gli dedica il più riuscito dei suoi sonetti erotici,
L’incisciature:
Che sscenufreggi, ssciupi, strusci e ssciatti!
Che ssonajjera d’inzeppate a ssecco!
Iggni bbotta peccrisse annava ar lecco:
soffiamio tutt’e dua come ddu’ gatti.
L’occhi invetriti peggio de li matti:
sempre pelo co ppelo, e bbecc’a bbecco.
Viè e nun vienì, fà e ppijja, ecco e nnun ecco;
e ddajje, e spiggne, e incarca, e strigni e sbatti.
Un po’ più che ddurava stamio grassi;
ché ddoppo avé ffinito er giucarello
restassimo intontiti com’e ssassi.
seguente, ‘vicinato’, che entra con mappamonno nel sonetto-elenco sui sinonimi di fondo-schiena
(Pijjate e capate), ma che è presente pure in Casti («Che la pancia con tutto il vicinato / a una fanciulla
discoprir non lice», Novelle galanti XLVII 35) e già in Lorenzo Lippi: («Ed ha un culo che pare un
vicinato», Malmantile, III, 51).
99 Meno frequente : forse derivato «dall’arabo bardag, attraverso il francese bardache o lo spagnolo bardaja», il
termine «oggi in disuso, permane in dialetto marchigiano» (Vighi). Ha tre occorrenze in Belli, e una il
suo derivato bardassaria. Nel ventaglio semantico in cui figura nella tradizione, oscillante tra il
significato di ‘ragazzo’ e varie sfumature spregiative, Belli lo usa in senso neutro, come fa Vincenzo
Monti in una lettera da Roma del 1778 (Epist., I, 320). Ampia l’estensione spazio-temporale e la
gamma delle sfumature: fanciullo, monello, giovinastro depravato e/o omosessuale. Nella tradizione
romanesca lo troviamo nel poema di Benedetto Micheli (La libbertà romana, II, 77) dove vale
‘giovinastro’, o ‘ragazzaccio’ (IX, 94) come nel Misogallo romano (235, v, 8); ricorre in lingua (Berni
Rime, 32, v, 45) e in vari dialetti, da Maffeo Venier (Sonetti, 49, v, 29) a Carlo Porta (poesie, 88, n. 29)
passando per il nostro Baffo, che alle rare occorrenze degli altri ne oppone decine (I, 30, v. 5 e altri otto
luoghi nel solo tomo primo). Nella lettera in romanesco a Giovan Battista Mambor Belli scherza sul
«Tasso Bardasso» dando al poeta il nome di un vegetale usato come purgante, il tasso barbasso, che
chiama tasso-bardasso anche in una lettera a Ferretti e in una a Spada in cui ricorda che Gian Battista
Fagiuoli ha chiamato bardasse i paggi di Cosimo Cfr. Le lettere, a cura di Giacinto Spagnoletti, Del
Duca, Milano 1961, nn. 111, 338 e 368.
100 Belli che usa più volte la locuzione per designare l’amplesso, come fa pure Baffo con locuzione analoga (III,
55, v. 14: «S’alza da per se stessa la gonnella). Ma espressioni simili le troviamo già nel Dialogo
dell’Aretino (I, «alzarsi i panni»), e nelle Novelle galanti dell’abate Casti («alzar la vesta» II 25, «alzò
il sipario» III 77 e XVI 23, «alzate le gonnelle» IV 20, «alzò la monastica cocolla», XX 54, «Alza la
tenda»‚ XXV 21).
È un gran gusto er fregà! ma ppe ggodello
Più a cciccio ce voria che ddiventassi
Giartruda tutta sorca, io tutt’uscello.
E Baffo, ad esempio, per limitarci agli incipit: «Amici, son in mona. Oh
che gran gusto!»,101 «Che gran gusto, monsù l’è pur chiavar» o «E fra i gusti
de sto mondo a mì me par». 102
Vero è che l’iperbole finale di L’incisciature, fantasticata metamorfosi
dell’intero corpo in organo sessuale si trova in Aretino («Io vorrei esser tutta
quanta potta, / ma vorrei che tu fossi tutto cazzo» Sonetti lussuriosi, I, 5, vv.
3-4), come rilevò Claudio Costa,103 mentre Carlo Muscetta rammentava
Catullo («Quod tu cum olfacies, deos rogabis, / totum ut te faciant, Fabulle,
nasum», XIII, vv. 13-14), mentre Vigolo evocava Lucrezio, per i vv. 4-8 del
sonetto, descrittivi della furia travolgente dell’amplesso, e della chiusa
(«adfigunt avide corpus iunguntque salivas / oris, et inspirant pressantes
dentibus ora, / necquiquam, quoniam nil inde abradere possunt / nec
penetrare et abire in corpus corpore toto» (De rerum natura, vv. 1108-1111).
Occorre insomma tener sempre conto degli echi plurimi, della stratigrafia
dell’intertesto. Altri particolari del sonetto belliano rammentano Casti e
Porta, ma a titolo di fonte può meglio aspirare il sonetto di Giorgio Baffo
L’autore vorria esser tutto cazzo, in particolare per la chiusa :
Amici, son in Mona. Oh che gran gusto!
E son in Mona della mia diletta,
Ora ghe tocco ‘l Cul, ora una Tetta,
E in questo posso dir, che gò ‘l mio giusto.
La s’hà mollà le cottole, e anca ‘l busto
Acciò, che con più comodo ghe ‘l metta,
In bocca la m’hà dà la so lenguetta,
E la me trà ogni tanto qualche susto.
101 Raccolta, II,
4 e II, 14.
Poesie a cura di Del Negro, cit., pp. 144-45 (mancano nella Raccolta).
103 Due fonti cinquecentesche del Belli, in Il Ragnigirico, a cura di Rossella Incarbone Rossetti e Marcello
Teodonio, Aracne, Roma 2003, pp. 35-44. Espressione analoga, come mi segnala cortesemente Marco
Faini, è in un sonetto di Antonio Mezzabarba (amte 1490-post 1564), che nelle due ultime code suona:
«Dunque, poi che mi lice / Parlar più chiar di me, i’ son un cazzo / che vi fa, donne, saggie, e ‘l cul sì
sazzo. // Dico ch’al dolce sguazzo / del mio liquor vorresti in su quell’otta / l'uom tutto cazzo, e voi
tutte esser potta» (Rime, a cura di Claudia Perelli Cippo, introduzione di Domenico Chiodo, Torino,
RES, 2010, p. 105).
102 , Nelle
Mi me la godo fuora de misura,
E aver vorrìa l’Osello longo un brazzo
Per furegarghe ben in la Natura.
Ah! Che per far più grando el mio solazzo,
E per darghe più gusto a sta creatura,
Esser vorrìa in sto punto tutto Cazzo (II 14).
Chissà che Belli, oltre che nella chiusa de L’incisciature, si sia ricordato
di questa clausola baffesca citando il «seme de tuttocazzo» nel v. 4 del
giovanile e scurrile sonetto Le scorregge da naso solo...
5. «Parlar scoverto» o sinonimi fantasiosi?
A quell’organo, come al suo corrispondente femminile, Belli trovò
decine di sinonimi inanellati in una coppia di sonetti, Er padre de li Santi e
La madre de le Sante; «Er cazzo se pò ddì rradica, uscello, / ciscio, nerbo,
tortore, pennarolo» e giù una filza di pittoreschi senhals fino a totalizzare
Scinquanta nomi, titolo primitivo del componimento, simmetricamente
giustapposto ai Cuaranta nomi della rosa carnale: «Chi vvò cchiede la
monna a Ccaterina, / pe ffasse intenne da la ggente dotta/ je toccherebbe a
ddì vvurva, vaccina, / e ddà ggiù co la cunna e cco la potta» e via via con
decine di varianti; fra cui sono da evidenziare monna e potta, voci
frequentissime in Baffo, mentre nella raccolta belliana non ricorre che
cinque volte la prima e solo qui la seconda.
Quando però il poeta apportò ai due sonetti correzioni che
incrementavano di qualche unità le due cifre tonde, ne mutò i titoli in Er
padre de li Santi e La madre de le Sante: e si suppone che la modifica del
secondo, irriverente parodia dell’appellativo della Chiesa rilanciato da
Manzoni nel memorabile attacco della Pentecoste («Madre de’ Santi,
immagine / della città superna») abbia determinato la modifica del primo,
istituendo un brioso dittico in sostituzione delle grigie etichette numeriche
originali, analoghe a quella rimasta per un altro sonetto repertorio, che
elenca i sinonimi di damerino (Quarantatrè nnomi der zor grostino). Titolo
gregario, dunque, Er padre de li Danti, indotto dalla Madre de le Sante? Si
direbbe di sì, se non trovassimo «el pare d’ogni Santi», riferito alla stessa
parte anatomica, in un sonetto di Giorgio Baffo (El cazzo in angonia, IV, 66,
v. 4), indizio di una probabile genesi autonoma di quel traslato fallico, e
ulteriore traccia di una possibile lettura di Baffo da parte di Belli. Né
possiamo assegnare all’iniziativa di Baffo quell’impiego metaforico, poiché
«er pare di tutti li santi» figura, con debita chiosa esplicatva (l’umanità
sarebbe estinta, senza quell’organo generativo) nella Raccolta de’ proverbii,
detti, sentenze, parole e frasi veneziane stesa nel decennio 1760-1770 da
Francesco Zorzi Muazzo, inedita peraltro fino a tempi recenti e di cui
difficilmente Belli poté aver sentore nella sua incursione in Laguna o nei rari
incontri con letterati veneti: il termine compare nella lista di traslati fallici e
connici della scanzonata prosa veneziana: una lista che reca parecchi contatti
con il dittico belliano sui sinonimi degli organi sessuali:104
Al tempo stesso, il confronto fra il testo belliano e quello baffesco ci
mostra la distanza fra il libertino veneziano e il poeta romanesco. Quello, in
ossequio alla sua poetica del «parlar scoverto» nomina in continuazione «el
cazzo», personificato con la maiuscola nelle stampe al pari degli altri
protagonisti della Raccolta (Mona, Culo e Tette) con una grafia che, pur non
controllabile sugli autografi, interpreta perfettamente la sezionatura
feticistica del corpo femminile in parti autonome e animate. (E si ricorda qui,
per inciso, come fosse diversa la via seguita dall’abate Casti, che
indirizzando a lettrici le sue Novelle galanti si proponeva espressamente di
trattare materia rovente senza nulla concedere a crudezze verbali: variante di
poetica, oltre che di bon ton). Diversamente da Baffo, Belli, trattando
materia «non pia» in favella «non casta» per bocca di una plebe «concettosa
e arguta» sciorina una ricca serie di immaginosi sinonimi che raduna nei due
repertori verseggiati cui rinvia nelle note in calce agli altri sonetti, per
spiegare quei termini evitando l’imbarazzo di chiosarli volta per volta nello
spazio autoriale delle chiose, ben distinto da quello dei sonetti enunciati dai
suoi trasteverini. La distanza fra autore esplicito ed implicito, sempre
minima in Baffo, è cangiante ma spesso notevole in Belli.
6. Dritto e rovescio
104 Cfr.
Francesco Zorzi Muazzo, Raccolta de’ proverbii, detti, sentenze, parole e frasi veneziane, arricchita
d’alcuni esempii ed istorielle, a cura di Franco Crevatin, Angelo Colla, Venezia 2008 (confronto
suggerotomi da Maria Ghelfi). termini corrispondenti: er padre de li santi - el pare de tutti i santi,
uscello - oseletto, pennarolo - penna da scriver, inguilla - bisatto, batocco - battoggio, ppipino - pippì,
scafa - spandiacqua, bbambino - bimbin, cotale - cotal, verga - verga matrimonial, mmembro naturale membro viril, Priàpo - priapismo.
Per il secondo sonetto: la madre delle sante - mare, monna - monna, vvurva - vulva, potta - potta, passerina quagia/pollastrella, fregna - sfrigna, fica - figa, vaschetta - scatola de tabacco/vaso da manteca, perucca
- pelosa, quela-cosa - cossa, la-gabbia-der-pipino - chebba d’amor, nnatura - natura.
Non senza imbarazzo, anche da parte nostra, dobbiamo proseguire a
vagliare materia scabrosa, largamente dominante dell’opera del veneziano, e
invece minore per mole e per rilevanza nel capolavoro romanesco. Dritto e
rovescio si prestano a un traslato erotico che accomuna Baffo e Belli. Questi
lo usa, ad esempio, nella confessione di un’adultera che pratica con l’amante
amorosi abbracciamenti non solo «pe ddritto» ma «puro a rriverzo» (Er
confessore) o nelle lamentele di una moglie per la condotta del coniuge, che
pretende rapporti «a la dritta e la roverza» (Li Mariti!): «a la roversa»,
scriveva Baffo, celebrando fittiziamente le esequie del proprio membro virile
che molto oprò per dritto e per rovescio (II, 13): non è il caso di discettare se
Belli si riferisca a un coito more pecudum, cui sembra alludere nel primo
esempio, o a una sodomizzazione della partner, come fa intendere nel
secondo e altrove («Lui vò entrà da la parte der cortile», lamenta un’altra
donna)105 e come si deduce largamente nel veneziano, che non sembra
escludere, almeno sulla carta, anche bozarade con giovinetti.
Dritto e rovescio fanno parte dell’iperbolica offerta di Santaccia di
piazza Montanara, bagascia d’infimo rango realmente esistita,106 divenuta
ben presto proverbiale, e trasformata in mito dall’accesa immaginazione
belliana, che la vuole in grado di contentare quattro clienti
contemporaneamente:
Pijjava li bburini ppiù screpanti
a cquattr’a cquattro cor un zu’ segreto:
lei stava in piede; e cquelli, uno davanti
fasceva er fatto suo, uno dereto.
Tratanto lei, pe ccontentà er villano,
a ccorno pìstola e a ccorno vangelo
ne sbrigava antri dua, uno pe mmano.
Santaccia sembra dunque gareggiare con la etera cui Baffo imputa il
«gran peccar colle man, e col culo, e colla mona» nel sonetto ì«El xe tempo,
per Dio» (IV 97. v. 4): per Muscetta, invece, l’acrobatica meretrice belliana
105 La
106 In
donna filisce, v. 14.
nota al dittico su Santaccia de Piazza Montanara Belli annota: «Notissima e sozzissima meretrice di
chiara memoria la quale teneva commercio nella detta piazza, solito luogo di convegno de’ lavoratori
romagnuoli e marchegiani per trovarvi a far opera».
mette in pratica le istruzioni impartite dalla maîtresse del ragionamento
aretiniano alla sua allieva: «Ponti in una seggiola bassa e fanne assettar due
fra i tuoi piedi, e sedendo in mezzo a due altri allarga le braccia e dagli una
mano per uno e voltandoti ora a questo ora a quello, ne contenterai per due
colla ciancia» (I).
7. Vasti scenari e bianche giuncate
Iperboli letterarie, certo, come il divertimento di dubbio gusto in cui
Giorgio Baffo descrive una smisurata vagina:
Ho visto l’altro giorno una puttana
con una mona granda in tal maniera,
che in prencipio ghe gera una riviera
con un bastimento tutto pien de lana (I, 35, vv. 1-4)
con quel che segue. Stesso tema è nei due sonetti belliani A Teta –
accorciativo romanesco di Teresa, che però, come dichiara in nota l’autore,
sono «un’amplificata imitazione del sonetto del Porta, in dialetto milanese,
che comincia: “Sent, Teresin, m’el sera daa anca mi” etc.» espanso da
quattordici a ventotto versi così come la «larga» parte celata «im mezz ai
gamb» dell’originale viene dilatata in una enorme «grotta». Insomma, se il
rapporto Baffo-Belli può ricondursi a una topologia comune, nel caso PortaBelli assistiamo alla precisa ancorché non passiva dipendenza da una fonte.
Càpita talvolta che una stessa immagine accomuni i due autori a una più
larga topologia letteraria, come nel caso del petto femminile paragonato a
bianca ricotta. Il personaggio belliano che ha visto danzare a teatro Le
figurante si dice estasiato:
oh, bbenemìo che bbrodo de pollanche!
Je metterebbe addosso un par de bbranche
da nun fajje restà mmanco la pelle.
A vvedelle arimòvese, a vvedelle
co cquelli belli trilli de le scianche
tremajje in petto du’ zinnette bbianche
come ggiuncate drento a le froscelle!
Che mmodo de guardà! cche occhiate ladre!
Mó vvedo c’ha rraggione er prelatino
che ha mmannato a ffà fotte er Zanto-Padre:
e bbuttanno la scorza e ‘r collarino,
d’accordo co la fijja e cco la madre
cià ffatto er madrimonio gran-destino.
Come in altri sonetti sugli spettacoli, dietro gli occhiali del personaggio
stanno anche le pupille del poeta, appassionato delle scene e già rapito dai
guizzi sensuali e dagli occhi malandrini della Ballarina de Tordinone. Sicché
alla fantasia sadico-erotica della prima strofa e alla volgarità che chiude la
terza, si mescolano locuzioni squisitamente letterarie: il ricercato tecnicismo
sinestetico trilli, l’epiteto bbenemìo, per lo più nella forma «mio bene» nei
testi italiani, per restare in clima teatrale nel Don Giovanni di Mozart-Da
Ponte e nell’Adriano in Siria di Metastasio. Quanto al paragone del seno alle
«ggiuncate drento a le froscelle», lo si ritrova nell’incipit del sonetto di
Giorgio Baffo «Tette fatte de latte, e de zonchiada» (III, 27); Vigolo lo
segnala in Ariosto, «Le poppe rotondette parean latte / che fuor dei giunchi
allora allora tolli» (Orl. Fur., XI, 68) nonché, per altra grazia anatomica, in
Aretino, «coscette bianche e tonde che pareano di latte rappreso, sì erano
tremolanti» (Ragionamento, I) cui possiamo aggiungere il già citato Don
Giovanni, «Quei labbretti sì belli, / quelle ditucce candide e odorose: / parmi
toccar giuncata, e fiutar rose» (I, 20) e Leopardi poeta-traduttore, «più d’una
giuncata / soave era la bocca» (Poesie di Mosco, Il bifolchetto, vv. 34-35).107
<Casri?>
8. La dissacrata Scrittura
Qualche spunto alla rilettura parodica, giocosa o satirica della Bibbia
compare in Baffo prima che in Belli. La casta Susanna? Giorgio Baffo
insinua nel sonetto «Voria saver se quei due vecchi Ebrei»108 che le cose
dovettero andare diversamente, contemplando le possibili varianti
kamasutriche; nel sonetto Indovinela grillo, un pop-biblista romanesco non
contesta il fondato diniego della biblica bagnante, ma dubita della sua
107 Da questi
autori, e forse anche da Belli di cui era estimatore, Tommaso Landolfi mutuò la comparazione tra i
«ventri cavi in cui ristagna la tenera carne» e «la giuncata nelle fiscelle» (La pietra lunare, Vallecchi,
Firenze 1944, p. 52).
108 Poesie, a cura di Del Negro, cit. pp. 165-66.
condotta se al posto dei due sordidi vecchioni fosse stata tentata da un baldo
giovane: due rivisitazioni del testo sacro accostabili per disinvoltura, eppur
distinte dalla voluta apocrifia del veneziano. Quello mette in dubbio la
veridicità della Sacra scrittura, mentre il pop-biblista belliano la accetta
come dato effettuale ma fantastica sul virtuale.
L’altro casto personaggio, Giusepp’abbreo, fa la figura del «cojjone»
nel dittico di sonetti che ne ricorda l’episodio per bocca di un plebeo, mentre
in Baffo veniva tacciato per impotente. Ecco il sonetto veneziano, intitolato
Critica sora el caso de Giuseppe ebreo (III, 10), che poté offrire lo spunto:
Quando lezo quel passo de Scrittura,
Che conta el caso de Giuseppe ebreo,
Che no ha volesto gnanca con un deo
Toccarghe a quella donna la natura,
Che no ‘l gavesse cazzo go paura,
Perchè no se puol dar che quel Giudeo
Fosse cussì cogion, cuss’ marmeo,
De no chiavarla subito a drettura.
Ma la Scrittura che me compatisca.
Se mi no credo come che se daga
fonte ch’in ste gran buzare se fissa.
Una donna che si offre, e non chiede danaro, il poeta provvederebbe a
coniarla sul recto e sul verso, come dice nell’utima terzina, con espressioni
la cui trivialità ci dissuade dal riportare.
Ed ecco il secondo pezzo del dittico che da quello spunto poté ricavarne
Belli:
<sonetto già citato>
In capo a una man-d’anni er zor Peppetto
addiventato bbello granne e ggrosso,
la su’ padrona jjotta de guazzetto,
j’incominciò a mettéjje l’occhi addosso.
Ce partiva cor lanzo de l’occhietto,
sfoderava sospiri cor palosso:
inzomma, a ffalla curta, dar giacchetto
lei voleva la carne senza l’osso.
Ecchete ‘na matina che a sta sciscia
lui j’ebbe da portà ccert’acqua calla,
la trova zur zofà ssenza camiscia.
Che ffa er cazzaccio! Bbutta llì la pila;
e a llei che tte l’aggranfia pe ‘na spalla
lassa in mano la scorza, e mmarco-sfila!
Facile rilevare la diversità di taglio dei due sonetti, pur accomunati dalla
riscrittura scanzonata del testo sacro: ancora una volta Baffo critica
l’attendibilità della fonte, che spaccerebbe per castità l’impotenza di
Giuseppe; l’espositore romano non dubita della fonte sacra, limitandosi a
commentare la condotta del casto giovane come quella di un «cazzaccio»,
che nel romanesco belliano significa solo stupido’ o ‘ingenuo’.
Nella Raccolta baffesca, al sonetto sul casto Giuseppe segue questa
Risposta e definizione (III 11) che sposta l’attenzione sulla biblica eroina che
decapitò Oloferne salvando la città ebrea assediata:
Baffo ti, che ti è un Omo de gran testa,
E che con la Scrittura a menadeo
Ti hà criticà con grazia quel Giudeo,
Che per salvar l’onor perso hà la vesta.
Quando, per liberar Bettulia mesta
Al Campo Assiro dal pressidio Ebreo,
A far tirar l’Osello a quel marmeo
Xe andà Giuditta in Andrien da festa;
Dimme, se prima de sfodrar la spada
L’abbia pensà da savia, o da cogiona
A no lassarse dar una chiavada?
Per conto mio, se giera in quella Dona,
Mi fava do servizi in t’una strada,
E per Dìo santo lo tioleva in Mona.
Ed ecco come il biblista trasteverino descrive La bbella Ggiuditta e la
sua impresa eroica ed erotica:
Disce l’Abbibbia Sagra che Ggiuditta
doppo d’avé ccenato co Llionferne,
smorzate tutte quante le luscerne
ciannò a mmette er zordato a la galitta:
che appena j’ebbe chiuse le lenterne 1
tra er beve e lo schiumà dde la marmitta,
cor un corpo 2 da fia 3 de Mastro Titta
lo mannò a ffotte in ne le fiche eterne:
e cche, agguattata la capoccia, 4 aggnede 5
pe ffà la mostra ar popolo ggiudio
sino a Bbettujja co la serva a ppiede.
Ecchete come, Pavoluccio mio,
se pò scannà la ggente pe la fede,
e ffà la vacca pe ddà ggrolia a Ddio
Ora, il Libro di Giuditta, escluso dal cànone ebraico e da quello
protestante e dunque oggetto di difesa ed esaltazione nella Chiesa posttridentina (si pensi alla tragedia di Federico Della Valle) dice espressamente
che Oloferne crollò ubriaco prima di poter godere del corpo della bella
ebrea: L’apocrifa riscrittura romanesca allude invece a un eros consumato
con fitti segnali allusivi (mettere il soldato in garitta, lo schiumare della
marmitta. il fottere nelle fiche eterne) e potrebbe aver dunque sviluppato e lo
spunto di Baffo. Ma s’intende che il complesso giudizio belliano
sull’episodio non si riduce al tema sessuale: nella sua valutazione Giuditta è
«vacca» anche se non ha consumato il rapporto, come crede l’espositore
popolano; tuttavia a quel rapporto era disposta a sottoporsi, seppur per la
nobile causa di salvare la sua città, con una giustificazione dei mezzi in
nome dei fini di sapore machiavelliano. Ora, Belli sa bene, da cattolico
praticante, quello che il Confiteor della messa ci ricorda, ossia che i peccati
possono essere di pensiero oltre che di parole, opere ed omissioni. ma dalla
fonte Belli si stacca ancor più con la stoccata finale, dettata dall’irenismo
evangelico del poeta, che condanna l il ricorso alla fede per giustificare la
violenza e dunque le guerre di religione.
Nel sonetto Er peccato d’Adamo Belli dà voce a un difensore
dell’ortodossia cattolica (o finto tale) che rimbecca le «testacce storte» dei
miscredenti: come osano chiedersi la ragione del fatto che per un pomo
inghiottito da Adamo sia stata soggetta a morte l’intera sua discendenza? Ne
esigono un perché?
Perchè pperchè! bber dì dda ggiacobbino!
Er libbro der perchè, cchi lo vô llêgge
sta a ccovà ssott’ar culo de Pasquino.109
Potrà considerarsi allora fonte il sonetto di Giorgio Baffo recante un
titolo quasi identico, El peccato d’Adamo? Il poeta veneziano vi svolge il
tema in modo affatto diverso: nelle prime tre strofe rimpiange la condizione
edenica e nell’ultima mette in luce il risvolto positivo del peccato originale:
Ma tanto, e tanto, oh colpa benedetta!
ch’ha merità, che con più assae costrutto!
in panza della Donna se ghel metta. (IV 47. vv. 12-14)9. Adamo, la natura, i cani
Nella comune propensione a ripercorrere con arguzia dissacratoria
l’Antico testamento, si palesa anche la differenza fra l’esito scherzosamente
libertino di Baffo e l’allegra pensosità di Belli. Il quale, peraltro, non manca
attraverso i suoi popolani di associare più d’una volta il peccato originale
all’eros, con velata critica alla sessuofobia della pedagogia cattolica di
allora. Il parlante del sonetto L’ordegno spregato lamenta che, per colpa
delle donne, il miglior arnese di cui il Padreterno fornì Adamo resti
sottoutilizzato:
Pare un destino ch’er più mmejjo attrezzo
che ffesce Gesucristo ar padr’adamo,
Çiavessi da costà, ssi ll’addopramo,
da strillacce Caino per un pezzo!
Cuesta nun ce la dà ssi nnun sposamo,
Cuella vô er priffe e nnun je roppe er prezzo,
L’antra t’impesta e tte fa vverd’e mmezzo:
109
«A chi dimandi molti perché si suol rispondere il libro del perché stare sotto il cul
di Pasquino» annota altrove l’autore.
e er curato stà llì ssempre cor lamo.
Bbenedetta la sorte de li cani,
che sse ponno pijjà cquer po’ de svario
senz’agliuto de bborza e dde ruffiani.
E pponno fotte in d’un confessionario,
che nu l’aspetta com’a nnoi cristiani
sta freggna de l’inferno e dder vicario.
Dunque, oltre alle difficoltà sollevate dalle donne, l’ostacolo all’eros è
posto dal timore di un castigo sia terreno (quello inflitto da Cardinal Vicario,
tutore del buoncostume) ma anche di una punizione ultraterrena, sicché la
«freggna de l’inferno» diventa una sorta di sarcastico contrappasso. Alle
spalle c’è, naturalmente, il largo filone del vitalismo edonistico di Aretino,
del libertinismo settecentesco. E proprio una lunga sonettessa di Giorgio
Baffo, intitolata Bando della Natura, si candida a porsi come fonte, non solo
per la denuncia della guerra che trono e altare muovono congiuntamente alla
personificata Natura, ma per il riferimento preciso all’invidiabile condizione
canina (Bando della Natura, I, 167, vv. 58-60):
Dei Omeni stà meggio assae i cani,
almanco no i xe esposti a tanti dani,
nè i gà tanti malani;
i trova la so chizza per la strada,
e i ghe dà la so gran bona chiavada,
gnessun no ghe bada;
i và drento quà, e là per ogni banda,
nè el Papa, nè gnessun no ghe comanda,
questa xe grazia granda.
Qui il contatto fra i due testi ci pare stringente, nel senso che Belli
sembra proprio aver letto questi versi di Baffo, a differenza di luoghi in cui
la supposta eco baffesca si intreccia con altre possibili fonti: per esempio gli
episodi sopra ricordati di Susanna e del casto Giuseppe sono verosimilmente
tributari di una novella di Casti (ne trattiamo nel capitolo dedicato all’abate
libertino). Questo naturalmente non autorizza a far coincidere la visione del
primo poeta, libertino professo in prima persona, con quella del secondo, che
dà la parola a un suo personaggio, e che all’ostacolo della Chiesa temporale
(là il papa, qui il cardinal vicario) aggiunge il timore dell’inferno.
10. Dongiovanni di classe
In verità personaggi partecipi di una concezione libertina non mancano
nei sonetti, anche se, guardacaso, il seduttore-ragionatore per eccellenza è un
aristocratico. Tale è il Giovin signore che un servitore o una cameriera dalla
serratura spia durante l’approccio alla dama, nel sonetto Er bùscio de la
chiave:
Gran nove! La padrona e cquer Contino
scopa de la scittà, spia der Governo,
ar zòlito a ttre ora se chiuderno
a ddì er zanto rosario in cammerino.
«Ebbè», cominciò llei cor zu’ voscino,
«sta vorta sola, e ppoi mai ppiù in eterno».
«E cche! avete pavura de l’inferno?»,
j’arisponneva lui pianin pianino.
«L’inferno è un’invenzion de preti e ffrati
pe ttirà nne la rete li merlotti,
ma nnò cquelli che ssò spreggiudicati».
Fin qui intesi parlà: poi laggni, fiotti,
mezze-vosce, sospiri soffogati...
Cos’averanno fatto, eh ggiuvenotti?
Chiaramente il poeta non nutre simpatia per il conte libertino, ‘scopa
della città’ nonché ‘spia del governo’ e dunque fingidor per vocazione, e non
manca di pungere l’ipocrita sedotta non meno che lo «spreggiudicato»
seduttore. Che la spregiudicatezza femminile fosse prerogativa del ceto
nobiliare in contrapposizione a più morigerate campagnole è persuasione
corrente in Lombardia da Parini a Manzoni, dal contrasto fra le costumate
contadine e le dame milanesi a quello fra Lucia e Gertrude. Nella Roma di
Belli le cose vanno altrimenti, le tresche fra popolani dilagano nel gran mare
dei sonetti. Fra tanti rozzi casanova plebei, non manca un affascinante
dongiovanni in camisciola, la cui ‘inclinazione’ ha il calore e la forza di una
vera e propria vocazione (L’incrinazzione): <già citato>
Sèntime: doppo er Papa e ddoppo Iddio
cquer che mme sta ppiù a ccore, Antonio, è er pelo:
pe cquesto cquà nun so nnegatte ch’io
rinegheria la lusce der Vangelo.
E ssi dde donne, corpo d’un giudio!,
n’avessi cuante stelle che ssò in celo,
bbasta fussino bbelle, Antonio mio,
le vorìa fà rrestà ttutte de ggelo.
Tratanto, o per amore, o per inganno,
de cuelle c’ho scopato, e ttutte bbelle,
ecco er conto che ffò ssino a cquest’anno:
trentasei maritate, otto zitelle,
diesci vedove: e ll’antre che vvieranno
stanno in mente de ddio: chì ppò ssapelle?
Di questa felice pittura di carattere scrive Giorgio Vigolo:
«Non è minimamente da escludere che il Belli abbia qui
voluto tratteggiare il personaggio di un Don Giovanni
romanesco, che per le dame rinnegherebbe, come l’amante di
donna Elvira, la luce del Vangelo e vorrebbe averne un
numero infinito quante le stelle che sono in cielo.
L’espressione ‘o per amore o per inganno’ mi sembra
particolarmente scoprire nell’Autore un riferimento al
dongiovannismo, come forse anche nel finale catalogo delle
conquiste, il ricordo dell’Aria del Don Giovanni di Mozart:
“Madamina
il
catalogo
è
questo...
In
Italia
ottocentocinquanta, in Ispagna son già mille e tre”».
Per il titolo L’incrinazzione Carlo Muscetta richiama invece il Dom
Juan molieriano — «Les inclinations naissantes après tout ont des charmes
inexplicables, et tout le plaisir d’amour est dans le changement» (I, 2) —, un
personaggio ben diverso dal nostro, che non è ateo ma fedele suddito
papalino, «comico, senza dramma, senza la tensione grandiosa della
conquista» di quello francese».110 Si aggiunga che un Don Giovanni in
musica aveva debuttato nel 1830 per le note di Giovanni Pacini, compositore
collegato a un fraterno amico di Belli, il librettista Giacomo Ferretti. Come
risulta dallo Zibaldone (IX, 226-33), il nostro poeta aveva letto in una
traduzione francese del 1830 il Don Giovanni di Hoffmann, «favolosa
avventura accaduta a un Viaggiatore entusiasta», come reca
quell’edizione.111 Lettore delle Novelle galanti di Casti, aggiungiamo, Belli
poté trovare nella Scommessa un dongiovanni che, come il nostro, teneva
conto accurato delle donne sedotte, «o vedove o donzelle o maritate» (XLV
17), così «o moglie o vedova o fanciulla» costituivano l’indifferenziata preda
muliebre del Don Garzia protagonista del Miracolo, la XXIV delle Novelle
castiane. Anche il lussurioso personaggio della sonettessa sulle Miserie
umane di Giorgio Baffo appetiva peraltro «sia maridae, sia vedove, sia pute»
(III, 178, v 73). L’affondo psichico dello scrittore tedesco sul personaggio di
illustre tradizione antica e recente, passato da Tirso da Molina fino a Byron,
anche attraverso la mediazione della commedia dell’arte italiana, sembra
trasmettere un riflesso all’immagine del nostro dongiovanni romanesco.
Romanesca è la franchezza con cui manifesta la passione per il pelo e le
scopate, cattolico-romana è la religiosità che gli fa subordinare Dio al papa,
e il Vangelo al «pelo», e romano il suo territorio di caccia, come si ricava dal
bilancio provvisorio delle prede, non distinte per aree geografiche come
quelle di Mozart-Da Ponte. Ma l’affermazione conclusiva potenzialmente
comica che le sue future conquiste «stanno in mente de ddio» getta sulla sua
apologia dell’eros un’ombra dell’inquietudine metafisica dell’illustre
archetipo.
Come consumato dongiovanni si rappresenta Giorgio Baffo nei suoi
componimenti, tra i quali un sonetto che così si apre:
Hò toccà tanti Culi, e tante Mone
De Muneghe, de putte, e de ragazzi,
Hò fatto, posso dir, dei gran strapazzi
Co Donne maridae, e buzarone; (IV. 58, vv. 1-4).
110 Muscetta,
111 Belli
Cultura cit., pp. 362-63.
ne scrive nel suo Zibaldone autografo conservato alla Biblioteca Nazionale di Roma. IX, cc. 226-233:
Zibaldone
Questi versi, spostati decisamente sul volgare, si potrebbero avvicinare
alla nostra poesia se questo seduttore non si mostrasse rapito a suo modo
dell’eterno femminino, a differenza del libertino veneto, collezionista di
monache, nubili e sposate, ma anche di ragazzi di vita.
Dongiovannismo e misoginia sembrano due tendenze opposte e
inconciliabili; ma forse sono le due facce di un solo nucleo patologico,
poiché nella psiche del seduttore si annida un sostanziale disprezzo per la
donna, desiderata come oggetto, dunque reificata. «Per i porci tutte le donne
sono puttane, per le puttane tutti gli uomini sono porci», suona un fondato
aforisma. Troppo fitti e generici i contatti che troviamo, al riguardo, nei versi
veneziani e nei sonetti romaneschi.
11. Dame e prostitute
Più circoscritto invece il bisticcio fra dame e prostitute. Giorgio Baffo
nella lunga canzone El funeral del cazzo immagina il cordoglio delle puttane
che piangono la morte di un organo personificato a loro tanto familiare,
finché vengono allontanate dopo un aspro diverbio dalle donne maritate, che
rivendicano a sé il privilegio di piangere il caro estinto che tanto piacere e in
modi tanto vari aveva loro elargito. Il Motivo torna, svolto più brevemente,
nel sonetto El puttanesmo precipità (II, 135):
El puttanesmo, quel mestier sì belo,
Che giera de gran lustro in sta Cittae,
Per causa delle Donne maridae
El xe andà, se puol dir, tutto in flagelo.
No ghè gnanca l’effigie più de quelo,
Le case xe deserte, e abbandonae,
No se trova, che quattro desperae,
Che da fame le muor sotto sto Cielo.
Che rovina xe questa! Un poverazzo,
Ch’abbia voggia de dar una chiavada,
No sà dove in ancuò puzar el Cazzo;
Che, se lù và da qualche maridada,
E che ‘l se voggia tior qualche solazzo,
Le ghe la fà, per Dìo, pagar salada.
Ed ecco la variazione belliana sul tema nel sonetto Er Commercio
libbero:
Bbè! Ssò pputtana, venno la mi’ pelle:
fò la miggnotta, sì, sto ar cancelletto:
lo pijjo in cuello largo e in cuello stretto:
c’è ggnent’antro da dì? Che ccose bbelle!
Ma cce sò stat’io puro, sor cazzetto,
zitella com’e ttutte le zitelle:
e mmò nun c’è cchi avanzi bajocchelle
su la lana e la pajja der mi’ letto.
Sai de che mme laggn’io? nò dder mestiere,
che ssarìa bbell’e bbono, e cquanno bbutta
nun pò ttrovasse ar Monno antro piascere.
Ma de ste dame che stanno anniscoste,
me laggno, che, vvedenno cuanto frutta
lo scortico, sciarrubbeno le poste.
Replicando a un giovincello che l’ha chiamata spregiativamente puttana,
una donna di strada, anzi da cancelletto, magnifica con lingua libera e
tagliente il proprio mestiere, redditizio, oltre che piacevole. Si lamenta
soltanto perché il commercio libero del sesso permette di praticarlo in casa
alle dame, che rubano i clienti alle professioniste accreditate come lei. Nel
finale affiora l’opposizione tra la professionista del marciapiede e le
maritate, cocottes per vocazione a casa loro, sottolineata da Belli anche nei
sonetti Le ggiurisdizzione e La puttaniscizzia: un Motivo convenzionale,
questo, contattato già da Domenico Balestrieri (Cerchen tucc da
rebeccass),112 dove una signora che ha provocato una donna di strada
chiedendo se il mestiere vada bene si sente rispondere che andrebbe meglio
se non ci fosse la concorrenza delle coniugate; e Carlo Porta, autore
familiare a Belli, al colpo di fioretto del settecentesco sostituisce la
sciabolata inferta dalle prostitute alle ipocrite bigotte (I putann ai damm del
bescottin):113
112 Rime
113 Carlo
milanesi, Monastero di Sant’Ambrogio Maggiore, Milano 1795, pp. 8-9.
Porta, Poesie,, a cura di Dante Isella, Mondadori, Milano 1975, n. 110.
Malarbetti slandronn del bescottin,
tanto ruzz, tant spuell contro i putann!
Perchè? Perchè la dan per pocch lanfann
e la dan minga sott a balducchin?
Vergogna! Tasii là ch’el semm anch nun
perchè cossa bajee; bajee, bajee
perchè sii vecc strangosser che morbee,
che no voeur refilavel pù nessun.
E quand serev bej, gioven e grassott
e stagn e prosperos, disii, o damazz,
serev allora inscì nemis del cazz?
la davev forsi via per nagott?
Nagott on corno! i mee delicadonn,
domandeghel on poo ai voster servent
coss’han spes ogni voeulta a mettel dent
in quij vost illustrissem figazzonn.
E i palch e i carroccett e i sorbettitt
e i faravost e i scenn e i mascarad
e i accord e i bigliett e i fest, i entrad,
hin danee, facc de porchi! o fasoritt?
E poeù gh’avii el mostacc, veggiann calvari,
de romp el cuu al Governo per fà esclud
quij tosann che la dan per on mezz scud?
Citto là: sii nanch degn de stagh in pari.
La presenza del tòpos in un testo familiare a Belli come quello portiano
sospinge in secondo piano le altre due possibili suggestioni.
12. Del contagio venereo
Altro battibecco di materia bordellesca è la diatriba sulla colpa maschile
o femminile, nella trasmissione del contagio venereo. La Nanna, nel Dialogo
fra prostitute di Pietro Aretino, sentenziava: «Poi che s’è trovato che nacque
prima la gallina o l’uovo, che si trovarà anco se le puttane hanno attaccato il
mal francioso agli uomini o gli uomini a le puttane». Da parte sua Giorgio
Baffo, nella canzone sulla Quaresima, dà questo consiglio alle donne:
Se a qualcuno de sti amanti
Un regalo avè donà,
Chiappè pur el tratto avanti,
E disè, che lù xe stà (II, 194, vv. 53-56).
Questo scambio di «regali», con un’ottica vendicativa allegramente
cinica, vuol praticarlo il trasteverino che aspetta al varco la bella
peracottara, quella «pasciocca» che vende le pere cotte candite per strada,
per schiaffarla in un portone e «ingrufalla» a dovere. Che importa se lui ha la
gonorrea, la temuta «pulenta»?
Lei l’attaccò ll’antr’anno a ccinqu’o ssei?
Dunque che cc’è dde male si cquest’anno
se trova puro chi ll’attacca a llei? (vv.12-14)
I due spunti di Aretino e di Baffo vengono però ripresi più precisamente
nella terzina finale di un sonetto che Belli trasse da un fatto di cronaca nera
La puttana abbrusciata:
Povera Chiapparella! Ah, nnun c’è ccaso:
tutte hanno da succède a sto paese.
Bruscià una donna coll’acqua de raso,
perchè jj’ha ddato un po’ de mar-francese!
Come disce? chì vva ppe le maese
viè la su’ vorta che cce bbatte er naso.
Se sa, st’affari vanno bbene un mese,
e in d’un giorno se resta perzuaso.
Lei m’ha impestato: ebbè? cche scusa fiacca!
E llui poteva entracce in camisciola,
nun conosscenno a ffonno la patacca.
Eppo’ adesso sarà la donna sola
a attaccà la pulenta che ss’attacca?
e a nnoi chì cce l’attacca? San Nicola?
«Fatto veramente accaduto in Roma per opera di quattro Settentrionali»,
si premura di annotare Belli; ma a separare il suo sonetto dai versi prima
citati non è solo l’aderenza della fictio alla realtà, bensì l’adesione partecipe
e grottescamente amara alla sorte della prostituta sfregiata per vendetta. Il
fattaccio lo commenta una collega della vittima, con trasporto empatico
verso la povera Chiapparella, soprannome consono al mestiere, ma reso
quasi affettuoso dalla desinenza vezzeggiativa. E per solidarietà
professionale minimizza il movente della vendetta, la trasmissione di un po’
de mar-francese . Non neutrale è anche il cliente con cui è a colloquio, che
tra le quartine giustifica il gesto crudele, presto tacitato dell’accusatrice, che
con ragioni stringenti rovescia sul quell’uomo spietato la responsabilità del
contagio, e si fa paladina dell’intera categoria nell’ultima strofa. Dalle
cortigiane di Aretino, di Baffo e di altri sonetti belliani, la nostra si distingue
per la pacatezza e la stringente logica della sua perorazione, una protesta
protofemminista in cui spunta una sola e lieve volgarità, «patacca» nel v. 11,
e che si colora di umorismo nella terzina finale, dove riproduce il percorso
circolare della malattia venerea con un’efficace adnomnatio sigillata dalla
domanda retorica. Rappresentata senza dileggio o riprovazione, la figura
della meretrice si allontana dal cliché comico della tradizione, come le etére
della letteratura romantica, dalla popolana Ninetta di Porta alla borghese
Traviata di Verdi-Dumas.
13. Di Carnevale in Quaresima
Congruo al pensiero libertino è la critica o il dileggio nei confronti
dell’anno santo o giubileo che dir si voglia. Come tratta Baffo quel tema?
Nel caustico sonetto intitolato Essendo prossimo l’anno santo («Donne, zà
l’anno santo xe visin», II, 193) il poeta dopo aver esortato le donne a
rinunciare lungamente al coito, conclude sarcasticamente invitandole a
provvedere da sé all’eros o a concedersi a una «buzarada» pur di non farsi
«mai chiavar davanti» (I, 194, v. 14): analoga l’occasione ma diversissimo
l’esito del libertino veneziano da quello prospettato da Belli. Belli dedica
vari sonetti al Giubileo, ora aderendo alla protesta di chi teme riduzioni ai
divertimenti e alle libertà trasgressive proprie del carnevale, ora ironizzando
sul fatto che sia er zanatoto, un sana totum che emenda comodamente ogni
peccato. Fra i tant sul temai, basti leggere questo (L’anno-santo) per
misurare la diversità dell’approccio fra i due poeti:
Arfine, grazziaddio, semo arrivati
all’anno-santo! Alegramente, Meo:
er Papa ha spubbricato er giubbileo
pe ttutti li cristiani bbattezzati.
Bbeato in tutto st’anno chi ha ppeccati,
chè a la cuscenza nun je resta un gneo!
bbasta nun esse ggiacobbino o ebbreo,
o antra razza de cani arinegati.
Se leva ar purgatorio er catenaccio;
e a l’inferno, peccristo, pe cquest’anno
pôi fà, ppôi dì, nun ce se va un cazzaccio.
Tu vvà a le sette-cchiese sorfeggianno,
mettete in testa un pò de scenneraccio,
e ttienghi er paradiso ar tu’ commanno.
Anche la Settimana santa, all’insegna dell’incontro-scontro fra amor
sacro e amor profano, può consentire un confronto fra Baffo e Belli. Nel
tomo II della Raccolta del patrizio veneziano troviamo un sonetto su El
venerdì santo (I, 89), in cui l’io-poetante descrive la città semivuota e dedita
solo ai riti religiosi deplorando l’astinenza dal sesso: la critica è confermata
nel sonetto seguente, e poiché la Pasqua comporta il proposito di una
conversione, i tre sonetti successivi esplicitano lo svanire del pio
proponimento, per l’invincibile impulso all’eros confessato sia dall’uomo
che dalla donna. Fra i componimenti dedicati a questo tema, uno si presta
meglio a un parallelo con quello di Belli (Sullo stesso argomento [venerdì
santo], II 186):
Mondo, tirete in là, tirete in drìo,
E vù altri alla larga in sta zornada
Omeni, ch’in la Mona, o in tel da drìo
Ben vederme vorressi buzarada.
Tutta in sto zorno me consacro a Dìo,
Nè ancuò voggio dal Mondo esser liccada,
Se pò doman vorrè mostrarme el Pìo
Gnanca dirò de nò a ‘na chiavada.
Sta notte intanto voggio star soletta,
E starò in orazion sino a quell’ora,
Che sentirò a tirarme la cocchetta;
Quando pò sentirò a pizzarme, allora
Mi fingerò, che qualchedun mel metta,
E intanto menarò fin che la sbora.
Chi parla qui è una donna, come in due sonetti belliani al cui centro sta
un citus interruptis a causa del del calendario liturgico , del tempo della
Chisa che irrompe a separare seppur rovvisoriamente una coppia
abbracciata. Nel primo, Nunziata e ’r caporale: o Contentete de l’onesto.
ondo, ,aturo e complesso il secna prostituta congeda temporaneamente
l’insaziabile cliente per recarsi al rito delle Quaranta ire, dandogli però
appuntamento, « si Ddio vò»ondo, ,aturo e complesso il sec, nel
pomeriggio;114 è uno dei primi sonetti, al quale quale òìetichetta libertina
calza bene: Più ,aturo e complesso il secondo, Giuveddì Ssanto;
Fà… che ggusto!… spi… zzitto! ecco er cannone!
Abbasta, abbasta, sù, ccaccia l’uscello.
Nu lo senti ch’edè? Spara Castello:
seggno ch’er Papa sta ssopra er loggione.
Mettèmesce un’e ll’antro in ginocchione:
per oggi contentàmesce, fratello.
Un po ar corpo e un po all’anima: bberbello:
pijjamo adesso la bbonidizzione.
Quanno ch’er Zanto-padre arza la mano,
pôi in articolo-morte fà li conti
a ggruggn’a ggruggno coll’inferno sano:
E nnun guasta che nnoi semo a li Monti,
e ‘r Papa sta a Ssan Pietr’in Vaticano:
oggi er croscione suo passa li ponti.
Belli stese il sonetto il 4 aprile, nel 1833 Gioveddì Santo, dopo un mese
11411412*
13. [gv 13]. Nunziata e ’r caporale: o Contentete de l’onesto,
di inattività dialettale coincidente con quasi l’intera quaresima, alla quale
dedicò il componimento seguente, coevo e copiato sull’altra faccia del
foglio. Ma dal titolo quaresimale si precipita ex abrupto in un’alcova, con un
«ravvicinamento improvviso e sorprendente fra la vita esterna, pubblica
della città e quella intima che si nasconde dentro le sue mura», strategia
tipica del nostro poeta, che riporta il fatto esteriore «dentro ai sentimenti, alle
passioni, alle sensazioni di un momento di vita individuale», osserva Vigolo.
In questo sonetto, prosegue il critico, «la cannonata, annunziante la
benedizione nel cielo aperto e universale della città, cala nel particolare
privato, fra le mura della camera ove due amanti sono abbracciati — e non
certo in un amplesso legale —, e interrompe l’abbraccio, li fa inginocchiare.
Situazione belliana, se altra ve ne fu mai: ove c’è il suo mondo in ristretto
nelle due opposte tensioni del sacro e dell’erotico. Le due forze maggiori del
suo dramma sono qui presenti e in contrasto come in nessun altro sonetto: e
non si può negare che vinca il sacro, sia pure attraverso la superstiziosa
immaginazione della donna». Alla fine, prosegue Vigolo, «i sensi, poco
prima in ardore, sono placati, e il Sonetto salendo di tono fino all’immagine
grandiosa e scandita del crocione, raggiunge indubbiamente un finale
sollievo. Sul segno di croce benedicente», Belli spiega in nota: «È quì
opinione che alcune bonidizioni papali, in certi giorni, restino efficaci
solamente inter praesentes, e alcune altre si estendano a tutto il resto della
Città, e poi corrano pel Mondo sin che non siano stanche o non trovino
qualche ostacolo». In questo sorriso sulla fantasia popolare possiamo
avvertire una certa eredità razionalista, se non libertina; ma Vigolo aggiunge:
«Anche se il Belli ha voluto farci sorridere con la superstiziosa
corporeizzazione del crocione che passa i ponti l’intenzione satirica si è
depositata, come un precipitato critico, sul fondo della nota, mentre nel verso
è rimasta, viva ed ingenua, la poesia». A questa squillante sublimazione
mette la sordina Muscetta, il quale attribuisce al finale «un grandioso valore
comico» accostando il croscione che oltrepassa i ponti al «croson / de quj
che ai rogazion / ogni vun ciappa sott ses o sett mia» evocato da Porta,115
autore di cui lo stesso commentatore segnala nell’attacco un’altra
reminiscenza, «Ah che gust!… Cristo!… Signori!… Toeù… daj».116 Ma
Giuveddì Ssanto poco ha di Porta e poco di Baffo. Come la nostra
romanesca, anche la donna cui Baffo ha ceduto una volta tanto la parola
115 Lament
116 , «Nò
del Marchionn di gamb avert, in Poesie, cit., 65, vv. 758-60.
Ghittin: no sont capazz», in Poesie, cit., 111, v. 33,
attua un proposito di castità solo temporanea, mescolando devozione a eros,
di tipo solitario nella veneziana. Ancora una volta il confronto fra i due serve
a marcare le differenze più che i contatti: il monologo di «Mondo, tìrete in
là», pronunciato da una figurina cartacea che ha mutuato la psicologia del
maschio libertino, cede in Giuveddì Ssanto alla tridimensionalità di uno
spazio vero, di un colloquio di cui avvertiamo solo la voce di lei ma
percepiamo la presenza di lui; l’acquerello settecentesco si è fatto un dipinto
a olio, a tinte romantiche, realistiche e surreali a un tempo.
Motivo d’ascendenza medievale, il contrasto fra Quaresima e Carnevale
è ancora ben vivo nel crepuscolo dell’Antico Regime. Giorgio Baffo dedica
un sonetto a L’ultimo dì de carneval (II, 180), che precede una canzone Per
il primo dì de Quaresima ((II, 181), dove non manca una stilettata contro i
preti che nel lungo periodo penitenziale vietano i piaceri del sesso e del
teatro per trarne vantaggio) e alla quale segue nella Raccolta un sonetto
caudato Sullo stesso argomento (II, 182).
L’ultimo dì xe ancuò de Carneval,
E ste gran Buzarone gà fenìo
De tiorlo in tel davanti, e in tel dadrìo,
De rovinar sta Zente, e farghe mal.
Se vedarà, chi in Piazza gà fallìo,
Chi è pien de’ Bollettini all’Ospeal,
Chi hà rosegà dall’ulcere el Cotal,
E coi corni in testa più d’un Marìo.
Dopo vien la Quaresema, e a Castello
Se vederà le gondole serrae,
Che desmonta sul tardi a far bordello;
E quelle, che no è stà ben schiavazzae,
Le và a posta in quei siti a tior l’Osello
Per mandar i Bastardi alla Pietae.
Fra i sonetti che da parte sua Belli dedica al tòpos, alcuni dei quali
coincidono con i titoli baffiani (L’urtimo ggiorno de carnovale, Er primo
ggiorno de quaresima, La quaresima) basta leggere Chi ha ffatto ha fftatto
per cogliere, pur nella somiglianza del tema e certa vicinanza nell’impianto
al sonetto di Baffo, la differenza fra l’allegro spartito da flauto del poeta
veneziano e la trascrizione per organo che ne fa il Romano:
Non piussurtra, Anna mia: semo a lo scorto:
È spiovuto er diluvio de confetti.
Ecco li schertri a ddà a li moccoletti
l’urtimo soffio. Er carnovale è mmorto.
Già ssona er campanon de lo sconforto,
e ggià st’acciaccatelli pasticcetti
vanno a ccasa a ordinà li bbrodi stretti
d’orzo, ranocchie e ccicorietta d’orto.
E ccurri, e bballa, e bbeve, e ffotte, e bbascia!
Ggià ssò ttutti scottati: ma stasera
da la padella cascheno a la bbrascia.
Domani è la manguardia de le Messe
co la pianeta pavonazza e nnera,
domani ar Mementò-cchià-ppurvissesse.
Fin dal titolo, Chi ha ffatto ha ffatto, il personaggio, forse femminile, cui
il poeta cede la parola, condanna le dissipazioni carnevalesche con severità e
con linguaggio sostenuto. «Non piussurtra, Anna mia: semo a lo scorto: è
spiovuto er diluvio de confetti», proclama nel fulminante distico d’apertura:
un minaccioso motto latinesco, un vocativo empatico, il termine scorto,
dimesso ma evocatorio dell’immagine della Parca che taglia il filo della vita,
e la metafora dello ‘spiovere’ dei confetti, fine di un diluvio senza arca di
Noè. «Ecco li schertri a ddà a li moccoletti / l’urtimo soffio. Er carnovale è
mmorto»: nel terzo e quarto verso l’enjambement accompagna il
sopravvenire dei carabinieri-scheletri (ché tali sembrano per i bianchi
alamari sulla divisa nera), che dando l’«urtimo soffio» ai moccoletti, fanno
‘morire’ il carnevale. Nella seconda strofa «già ssona er campanon de lo
sconforto», e sentendone i lugubri rintocchi i damerini affaticati dai bagordi
— «acciaccatelli pasticcetti», vezzeggiativi di compatimento — rincasano e
ordinano magri pasti quaresimali. Apre la prima terzina la serie di imperativi
narrativi in polisindeto «E ccurri, e bballa, e bbeve, e ffotte, e bbascia!»,
martellante lista delle dissipazioni dei gaudenti» — sapientemente scandita
dalle virgole seguite dalle e… e… e… e… che segnalano il protrarsi delle
azioni peccaminose —, i quali, già «scottati», ora «da la padella cascheno a
la bbrascia». A queste immagini infernali, segue nell’ultima strofa quella
delle chiese parate a lutto, dove domani risuonerà il lugubre monito
Mementò-cchià-ppurvissesse, la formula latinesca che chiude il sonetto,
simmetrica al non piussurtra d’apertura. Un grande quadro a tempera,
dipinto a cupi colori e con le pennellate biancheggianti degli scheletri, i
piccoli tocchi luminosi dei moccoletti che si spengono, la macchia rossastra
della brace infernale e quella violacea dei paramenti penitenziali. Un degno
quaresimale rivestito di umili panni, sicché in quel vocativo «Anna mia»
pare segretamente riecheggiato l’«anima mia» cui in tanti scritti edificanti e
meditativi venivano rivolti («Considera, anima mia»): lezione virtualmente
sostituibile a quella effettuale attenuando l’ipermetria con la dizione
accelerata del termine, con una sorta di metrica per l’orecchio.117 Siamo
insomma molto, molto lontani dal Veneziano, con i suoi goliardici commenti
per i freni all’eros che il tempo penitenziale della Quaresima comporta o
dovrebbe comportare. La stessa occasione ha dato spunto Baffo per uno
sfogo non solo anticlericale ma anche sostanzialmente misogino, con
l’immagine delle donne che si ingegnano ancora per trescare incuranti di
concepire dei «bastardi» da abbandonare nei brfotrofi, mentre Belli traccia
ad un tempo un vivace bozzetto e una meditazione morale. Il lettore
provveduto, del resto, l’ha capito: la caccia alla fonte avviata in queste
pagine si sta trasformano in un confronto contrastivo fra i loci paralleli dei
due scrittori.
14. La prima volta di due adolescenti
Un’ultima scheda vorremmo aggiungere al mazzetto delle possibili ma
non probabili suggestioni esercitate su Belli dalla lettura di Baffo: mazzetto
in fondo esiguo se rapportato agli oltre duemila sonetti belliani e al migliaio
dell’assai meno variegata Raccolta baffesca. Ci riferiamo agli otto sonetti
intitolati Le confidenze de le regazze, la collana nell’opera di Belli seconda
per lunghezza solo alla lunga serie dedicata al colera (Er còllera moribbus).
Attraverso le confidenze di due adolescenti, una più ingenua, l’altra appena
più smaliziata seguiamo la loro vicenda di iniziazione al sesso: la curiosità di
117 Del dipinto
romanesco Belli aveva tracciato uno sbiadito schizzo, intorno al 1824-25, nelle quartine di un
sonetto italiano indirizzato a Francesco Spada, come segnala Vighi: «Cecco, è finito: spenti i
moccoletti / sono già dell’allegro funerale; e già lo scopator del Tribunale / suda nel Corso a caricar
confetti. // Già i falegnami guastano i palchetti, / e serrar s’odon de’ festin le sale: / insomma, o Cecco,
è morto il Carnevale / e giunto è il tempo di picchiarsi i petti» (Belli italiano, cit., I, p. 781).
sapere cosa celi la protuberanza che si scorge sotto i pantaloni dei maschi,
del tutto ignota all’una ma già intravista dall’altra spiando un uomo mentre
orinava; la loro ingenua richiesta a uno spregiudicato giovanotto che si
aggira per casa come cavalier servente di una donna più matura, infine lo
stupro ottenuto con l’astuzia e l’ingravidamento di entrambe. La corona,
scambiata come ridanciana vicenda da lettori insensibili, si imparenta invece
con la storia amara della Ninetta del Verzee di Carlo Porta, il primo poeta ad
aver conferito spessore umano alla figura della prostituta facendole narrare
la triste odissea che ha condotto l’innocente fanciulla innamorata di un uomo
indegno a battere il marciapiede. E non mancano echi testuali precisi della
fonte milanese. Tuttavia uno spunto per il suo ciclo Belli poté trarlo da due
componimenti contigui di Giorgio Baffo, vere narrazioni in rima che
complessivamente superano i 98 versi della corona belliana. Nel primo, il
sonetto pluricaudato Dimanda d’una ragazza all’autore, il poeta mentre
orina viene interpellato da una giovane ingenua:
Me vede una ragazza un dì a pissar,
questa se ferma, e me domanda ansiosa,
“Cosa xe quella robba là pelosa,
che ve vedo davanti bulegar?”
Mi che comprendo da sto so parlar
quanto semplice mai la xe sta tosa,
franco ghe digo, che la xe ‘na cosa,
che le Donne fà molto consolar (II, 111, vv. 1-11).
Il dialogo sfocia in un coito con soddisfazione dei due partners, né
manca nel finale un cenno alla possibile gravidanza della giovane:
D’esser molto contenta l’hà mostrà,
la m’hà dà un baso, e a Casa la xe andà;
se pò l’abbia ingravià
Co quella solennissima chiavada
nol sò, perchè mai più no l’hò incontrada (Ivi, vv. 31-35).
Meno stretti i contatti testuali fra la collana di Belli e il lungo
componimento di in versi martelliani di Baffo, contiguo al precedente (Vien
chiamà da ‘na ragazza). Si evince che si tratta di una giovane
apparentemente ingenua ma in realtà maliziosa, come nelle Confidenze, che
invita in casa il poeta sconosciuto, chiede cosa sia quel rigonfiamento
inguinale che vede sotto i calzoni e finisce al letto con il partner, con baci ai
seni come nelle Confidenze e quel che segue. Ma anche qui l’ipotetica
prossimità serve a marcare il forte stacco fra il libertino settecentesco e il
nostro poeta; là il discorso in prima persona, qui un dialogo a due voci; là un
divertimento inverosimile, qui una fictio che attinge alla verità sociale e
pedagogica del suo tempo; soprattutto là un punto di vista maschile, qui
l’intreccio di voci di due ragazze; là la fiduciosa adesione agli impulsi della
natura, qui un affondo nella complessità della storia: là uno spensierato
divertissement, qui il riso amaro sui rischi della disinformazione sessuale e
sulla dolente esperienza femminile.
Se poi estendiamo lo sguardo ai sonetti composti nei giorni contigui alla
serie delle Confidenze, ci accorgiamo che dal 9 al 12 dicembre 1832 Belli
traccia per figurine l’itinerario potenziale e rischioso della corruzione
femminile dall’adolescenza alla maturità: la giovane ingenua impara da un
morboso confessore la possibilità dell’auto-erotismo (Er bon padre
spirituale), Agata e Tuta si trovano incinte (Le confidenze de le regazze), di
un’adultera penitente approfitta Er confessore, una «gran bella donna» vive
more uxorio con un prelato (La concubinazzione), una prostituta lamenta di
aver dovuto soggiacere a un monsignore virilmente superdotato (Er mostro
de natura), un’altra è affetta da blenorragia (Li fiori de Nina), e infine, ecco
il dittico della famigerata Santacciade piazza Montanara. <verificare che
questo non sia ripetuto nella sezione seconda, Percorsi> Sullo sfondo, la
denuncia di tanti sonetti contro la mancata educazione sessuale delle
fanciulle, la violenza dei maschi, i vizi del clero. Che anche la storia di
Santaccia sia iniziata con uno stupro e una gravidanza? Che nella Roma
dell’Ottocento, e non solo a Roma, una ragazza-madre potesse finire sul
marciapiede, ce lo confermano gli storici.118 E la religiosità semplice, magari
superstiziosa (come segnala Belli) ma non finta che si avverte nelle due
giovani popolane e sopravvive a suo modo nella sfatta bagascia di piazza
Montanara che si offre gratis per suffragio alle anime purganti, ha ben poco
in comune con quella ipocrita o mendace che Baffo attribuisce alle sue
veneziane. A noi preme qui chiarire che fra le righe delle Confidenze Belli
non dialoga con Baffo né con Aretino, ma semmai con Carlo Porta, che con
118 Cfr.
Margherita Pelaja,
Matrimonio e sessualità a Roma nell’Ottocento, Laterza, Roma 1994.
la sua Ninetta del Verzee ha conferito per la prima volta alla prostituta uno
spessore umano, lacerando il simulacro cartaceo – convenzionale,
maschilista – della tradizione comica e libertina.
15. Conclusione?
Termina qui la rassegna dei riscontri testuali tra i versi del Settecentesco
veneto e dell’Ottocentesco romano. Arduo dire se la mèta prefissata, quella
di sciogliere il dubbio se Belli abbia letto l’opera di Baffo, sia stata
raggiunta; ma un viaggio conta non solo per l’arrivo a destinazione, ma per il
paesaggio incontrato nel percorso: i testi confrontabili dei due poeti ci hanno
aiutato, crediamo, a caratterizzare e differenziare due atmosfere spaziali e
temporali e, soprattutto, due climi mentali e morali: quello di Baffo, libertino
a pieno titolo, e quello di Belli, che inserisce e trasforma tessere libertine in
un mosaico tanto più ampio e policromo, affamato di realtà e assetato di
moralità. Se alla fine di questa rassegna si possa levare il punto interrogativo
posto nel titolo (Baffo in Belli?) giudicherà dunque il lettore provveduto. Ci
piacerebbe però che egli condividesse l’idea elaborata attraverso il confronto
testuale, della incolmabile distanza tra la serena, semplicistica visione del
patrizio veneto e il chiaroscurato mondo del poeta romano. Su questo ci
starebbe bene un punto esclamativo.
<segue file percorsi>
D’Annunzio: altrove è d’Annunzio, uniformare
Sonetti o Sonetti A volte lo scrive in corsivo, altre in tondo.
Echi minori di Casti: Mai più, non seccare, preti sposati
Uniformare note: per es. i sonn di GGB talora citati in testo con titolo e
num, talora in nota. me sembrava economico; in ogni caso citerei in nota
dove si riportano dei versi, non il solo titolo
uniformare Sonetti (tondo-cvo. Maiusc-minsc)
valitare se tohliere soet5ti ripetuti
Fili occulti nei sonetti di Belli
uniformare nelle citaz parentetiche forme estese e berevi virgolate o no
tipo Ibf, X 12
corsivi o virgolette in citaz di singole parole?