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«Italianistica», 2013, 2, pp- 127-146. DALLA NOVELLA AL SONETTO: BELLI, CASTI E UN PO’ DI BOCCACCIO «Tu mm’addimanni a mmé ssi ffu pputtana a li su’ tempi la casta Susanna. Che vvôi che t’arisponni a sta dimanna?» 1. Fonti vive, fonti inaridite Componente robusta del commento letterario, la ricerca delle fonti ha dato nel capolavoro belliano frutti scarsi, a dispetto della sua ciclopica mole. È peraltro facile capirne la ragione: nell’Introduzione ai sonetti romaneschi il poeta precisa che vuole rispecchiarvi fedelmente il linguaggio e la mentalità della plebe di Roma, attingere dunque non a fonti cartacee ma alla sorgente viva del suo parlato, e che non intende inserirsi nel filone della fittizia poesia popolare: I nostri popolani non hanno arte alcuna: non di oratoria, non di poetica, come niuna plebe n’ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non fattizie. […] Il popolo quindi, mancante di arte, manca di poesia […]. Io non vo’ gia presentare nelle mie carte la poesia popolare, ma i popolari discorsi svolti nella mia poesia.1 Ridotta la cultura plebea a patrimonio antropologico trasmesso oralmente, bollata come artificiosa la tenue tradizione scritta in romanesco (farà i nomi di Berneri e di Carletti liquidandoli come autori pseudodialettali) e nascosto il metro del sonetto in modo da non alterare il linguaggio e la sintassi dei parlanti, Belli non può che rimuovere le fonti libresche tanto dal retroterra dei popolani, quanto dalla sua memoria di poeta che trascrive i loro discorsi, o meglio crea come se trascrivesse. Verginità insomma tanto a parte obiecti che subiecti. Delle sue fittissime letture, il colto autore ci ragguaglia nell’immenso 1 Il testo dell’Introduzione e quello dei Sonetti di Belli sono tratti dall’edizione curata da Roberto Vighi (Poesie romanesche, Libreria dello Stato, Roma 1988-1993, 10 voll.) Zibaldone,2 prezioso documento dei suoi vasti interessi che vanno dalla storia e dalla geografia alle scienze, dalla politica e dall’economia alla statistica, dalla religione, dalla filosofia e dalla pedagogia al costume e alle tradizioni, dalle arti alla linguistica e alla letteratura, italiana e straniera, antica e moderna. Quella massa di annotazioni e di schedature permette di ricostruire la sua biblioteca letteraria, nella quale spicca il genere narrativo, a partire dalle raccolte novellistiche di Sacchetti e Boccaccio, alle quali si possono associare i dialoghi tra prostitute dell’Aretino che inglobano micronovelle, fino ai racconti di Hoffmann e ai romanzi di Scott; nonché il genere teatrale, in primis le opere di Molière e di Goldoni, del quale si trova riflesso nella forte dialogicità dei sonetti: predilezioni di genere che da sole inducono a collocare la raccolta dialettale belliana fuori dal solco bernesco. Nelle doviziose note di cui il poeta correda le duemila e passa poesie romanesche, i rinvii ad altri autori sono rarissimi: segnala le «imitazioni» di quattro sonetti milanesi di Carlo Porta,3 dichiara d’aver riscritto in romanesco un verso di Giulio Perticari a sua volta attinto da Cervantes,4 e registra esempi di Dante, Berni e Della Casa per giustificare una sineresi metrica.5 Nessun’altra indicazione di fonti o modelli troviamo, salvo errore, nelle chiose belliane, neppure in quelle a La Vita dell’Omo,6 travestimento romanesco di un celebre sonetto di Giambattista Marino sulla misera condizione umana, «Apre l’uomo infelice, allor che nasce», silenzio da imputare forse alla notorietà dell’antigrafo, oppure alla coscienza dell’originalità del rimaneggiamento. 2 Dell’ampio Zibaldone belliano, conservato in forma manoscritta nella Biblioteca Nazionale di Roma, è stata edita solo una piccola parte da Giovanni Orioli (Lettere Giornali Zibaldone, Einaudi, Torino 1962), ma si dispone dell’utile regesto complessivo procurato da Stefania Luttazi (Lo Zibaldone di G. G. Belli: indici e strumenti di ricerca, Centro studi «G. G. Belli»-Aracne, Roma 2004), da cui ricaviamo il numero romano del volume e quello arabo della carta con cui citiamo i passi. 3 Tra il 7 e il 30 settembre 1831 Belli compone le cinque uniche dichiarate «imitazioni» di sonetti portiani: A Nina da «Sura Caterinin, tra i bej cossett», il dittico A Teta da «Sent Teresin, m’en seva daa anca mì», Li Penzieri libberi da «Ricchezza del Vocabolari milanes» e Un mistero spiegato da «Gh’è al mond di cristian tant ostinaa». 4 L’incipit di Er letto, 18 febbraio 1833, «Oh bbenedetto chì ha inventato er letto!», è così annotato dall’autore: «Questo verso, purificato quì al modo romanesco, è di Giulio Perticari, nella Cantilena di Menicone Frufolo. Il Cervantes disse in lingua sua le stesse parole in lode del sonno». Precisando che il verso ripreso, in verità più d’uno, è «purificato quì al modo romanesco». Belli polemizza sottilmente contro Giulio Perticari, celebratissimo letterato al suo tempo, che era ostile ai dialetti, e per di più auspicava la riesumazione dell’italiano trecentesco, appena meno puristico di quello propugnato dal veronese padre Antonio Cesari. Nel Don Quijote, opera di cui Belli trascrisse un aneddoto nello Zibaldone (III, 210), Cervantes elogiava il letto quale livellatore sociale (II, 42), come fa il nostro poeta nei vv. 5-6 del sonetto. 5 Nota 9 al sonetto Le cose nove, 17 novembre 1831. 6 La Vita dell’Omo, 18 gennaio 1833. Per catturare reminiscenze letterarie, critici e commentatori hanno teso le loro reti, in cui sono però finiti echi più spesso interdiscorsivi che intertestuali.7 Qualche ripresa formale si rinviene nella raccolta romanesca di maestri riconosciuti da Belli e a lui contemporanei: di Manzoni, autore di quello che lui definisce il «primo libro del mondo», letto e postillato di sua mano in una copia della Ventisettana,8 e di Leopardi, di cui si è sollecitamente procurato i Canti nell’edizione fiorentina del 1831:9 due maestri con i quali il Nostro ha una consonanza d’idee, l’impegno etico e sociale del primo, e il pessimismo del secondo, riflessi nell’opera romanesca. Lavorando da anni a un nuovo commento dei Sonetti, chi scrive ha aggiunto a quelli segnalati da altri, vari echi, specialmente di Dante, Petrarca e Boccaccio di cui si dirà poi, numerosi di Porta,10 alcuni di Berni, dell’Aretino, inezie dal Bertoldo di Giulio Cesare Croce, verseggiato da Zanotti, Frugoni e compagni nel 1736,11 qualche traccia lasciata dal poeta secentesco in dialetto reatino Loreto Mattei anche al di fuori del ricordato remake mariniano,12 alcuni contatti con Giorgio Baffo, poeta libertino in veneziano, che però potrebbero ascriversi alla comune tipologia oscena dei 7 Cfr. i commenti alle edizioni di Belli curate da Giorgio Vigolo (I sonetti, Mondadori, Milano 1952, 3 voll.), il quale tuttavia tende a sottolineare l’assoluta novità del nostro poeta nel suo Genio del Belli (Il Saggiatore, Milano 1963, 2 voll.), da Roberto Vighi (Poesie romanesche cit.), e da Maria Teresa Lanza (I sonetti, Feltrinelli, Milano 1965, 4 voll.), che nell’annotazione accoglie suggerimenti di Carlo Muscetta, in parte anticipate da questo in Cultura e poesia di G. G. Belli (Feltrinelli, Milano 1961). Quest’ultimo richiama, tra l’altro, un oratorio di Metastasio, La morte di Abel, per il sonetto Er Ziggnore e Caino, 2 aprile 1834, anche se i due testi hanno una comune fonte biblica; rinvia più volte ai Ragionamenti dell’Aretino, segnalando consonanze ora precise, ora vaghe, e al Poeta di teatro di Filippo Pananti, connettendo opportunamente il «tiè in culo farfarello», di Er ventricolo, 15 novembre 1832, v. 9, al distico «Nel ventricolo, disse, c’è del fondo, / ha in corpo qualche Dio, qualche demonio» (XCIX, vv. 109-10) nonché Er custituto, 3 dicembre 1832, a Il costituto, XIX canto della stessa opera, stampata primamente nel 1808 e citata da Belli nello Zibaldone (VII, 165). 8 Cfr. dello scrivente Belli e Manzoni (in Belli senza maschere. Saggi e studi sui Sonetti romaneschi, Aragno, Torino 2012, pp. 387-410) con rinvii a precedenti contributi, specie di Carlo Muscetta e soprattutto di Eurialo De Michelis. 9 Belli conobbe Leopardi probabilmente di persona, cfr. Lucio Felici Mi saluti… il sig. Belli, in Leopardi a Roma, a cura di Novella Bellucci e Luigi Trenti, Electa, Milano 1998, pp. 279-281. con rinvii a precedenti contributi, fra cui spicca quello di Pino Fasano. 10 Si veda lo studio su Belli e Porta nel nostro volume Il coltello e la corona. La poesia del Belli tra filologia e critica, Bulzoni, Roma 1979, pp. 93-149 con rinvii a precedenti contributi di Domenico Gnoli, Claudio Cesare Secchi, Giorgio Vigolo, Luigi de Nardis. 11 Nel v. 10 di Fremma fremma, 10 ottobre 1830, Belli cita un proverbio di Bertoldo e Bertoldino, «scaltri contadini, eroi di una leggenda, ridotta poi in versi da una società di valenti poeti», come spiega in nota. 12 Cfr. lo studio Belli, Loreto Mattei e un po’ di Marino nel nostro volume Belli senza maschere, cit., pp. 339368, con rinvii a precedenti contributi di Luigi Morandi, Carlo Muscetta, Gianfranco Formichetti. testi implicati.13 E anche considerando altri dei non pochi frustuli rintracciati nel commento in corso, i contatti testuali stringenti restano limitati. 2. Un «amico» misterioso e tre monete Ci ha dunque incuriosito la nota posta dall’autore all’explicit di La visita der Governo: fèsceno com’er Corvo de Novè c’annò in malora e nnun ze vedde ppiù, In calce Belli dichiara: Questi ultimi due versi, scritti in lingua illustre, sono un furto da me fatto ad un sonetto di un mio amico. Confessiamoci.14 A quale amico allude? Discreti verseggiatori, nonché suoi fraterni sodali, erano Francesco Spada e Giacomo Ferretti, fecondo librettista, mentre ad altri rimatori con cui egli intratteneva rapporti mal si adatta la qualifica di «amico», di cui pochi potevano fregiarsi. Dopo una lunga e non facile caccia, ecco finalmente la preda: il distico è prelevato da questo sonetto di Giovan Battista Casti: Cessate, o fieri venti, or che di quì il Creditore mio se ne partì: spiri un zefiro placido così, come nel placido april spirando sia. Splenda ridente in ciel serenità, sia mite l’aria, e sia tranquillo il dì, e finch’egli non sia lungi di quì, non gli succeda alcuna avversità. Goda viaggio felice; ma poiché lungi da me sarà, fracassi giù 13 Ne renderanno conto i commenti cui stiamo lavorando Lucio Felici ed io, ma già qualche traccia se ne trova nel saggio Il quaresimale del Belli (nel volume dello scrivente I panni in Tevere. Belli romano e altri romaneschi, Bulzoni, Roma 1989, pp. 65 -90). 14La visita der Governo, 4 febbraio 1833. acqua e neve dal ciel quanta ve n’è acciò non possa ritornar quassù, e faccia come il corvo di Noè, che andò a malora, e non si vide più. È il XX della collana di 216 sonetti giocosi in endecasillabi tronchi (metro spesso impiegato da Belli) intitolata Li tre giulj, una raccolta pubblicata a Roma nel 1762, presso lo stampatore Bernabò, e poi con diversi editori in varie città italiane, e persino a Londra nel 1826 in versione inglese. In questi versi, Casti si compiace di aver evitato il pagamento di tre giuli, monete d’argento che valevano ciascuna mezza lira romana, a un importuno creditore, cui augura di finire disperso come il corvo di Noè.15 Belli, ricreatore di episodi biblici in chiave popolaresca, non mancò di catturare questa scherzosa allusione al diluvio universale, che ripropose in una lettera al figlio del 1853:16 Il fango lasciato dal diluvio della sera di mercoldì 15 non vi permise ieri neppure di metter piede fuori di casa, perché avreste dovuto fare come la colomba di Noè, seppure non volevate imitare il corvo. L’abate libertino, morto quasi ottantenne a Parigi nel 1803, quando il nostro poeta aveva nove anni, era dunque un suo «amico» solo in senso letterario. Altre tracce lasciate dalla collana di Casti nei sonetti romaneschi non sembrano visibili, tranne forse il suo titolo. Il sintagma «tre giuli» torna infatti ben sette volte nei sonetti, molte più delle altre occorrenze numeriche che accompagnano la quella moneta (uno, due, sei). Quella somma designa ora la tassa per ottenere la licenza di caccia,17 ora la gabella sui salumi,18 ora l’importo della cresta che un servitore fa sulla spesa per i padroni,,19 ora la 15 Il modo idiomatico «far l’uscita del corvo» ‘non fare ritorno’ è tuttora vivo in Abruzzo: «Ha fatte le ijete de lu corve», registra Giuseppe Di Filippo in Proverbi, modi di dire e cantilene (Edigrafital, Sant’Atto di Teramo 2004). 16 Reca il numero 550 nell’edizione delle Lettere, curata da Giacinto Spagnoletti (Del Duca, Milano 1961, 2 voll.). 17 Sentite che ggnacchera, 6 agosto 1843, vv. 13-14: «Io credevo tre ggiuli iggnud’e ccrudi / com’er permesso p’er fuscil da caccia». 18 La gabbella de la carne salata, 18 gennaio 1835, vv. 9-11: «Un presciutto tre ggiuli de dogana! / E nun era un’idea meno bbisbetica / de maggnasse la grasscia sana sana?». 19 La lista, 12 dicembre 1834, vv. 12-14: «Mezz’antro grosso ttra fformaggio e ffrutti... / Quant’è? Tre ggiuli in punto. Eh nun zò ssciocco. / Ma aringrazziam’ Iddio: lo fanno tutti». posta puntata al lotto da un giocatore,20 ora la paga giornaliera di un giovanotto che vorrebbe sposarsi,21 ora il costo di un biglietto per il teatro o la tariffa di una prostituta:22 nulla in comune, dunque, con la situazione dei Tre giulj castiani, centrati sulla vicenda di un astuto e arguto debitore insolvente. Qualche vaga affinità si riscontra invece nell’ultima occorrenza, nel sonetto in cui parla Er piggionante der prete, un affittuario moroso non privo di spirito: Tre ppavoli, lo so, ccaro don Diego: me l’aricordo, v’ho da dà un testone: m’avanzate tre ggiulî de piggione: trenta bbaiocchi, sì, nnun ve lo nego. Perantro de sti conti io me ne frego, perché ssò ar verde e sto ssenza padrone. E come disce chi nun è ccojjone? «Prima càrita sìncipi tabbego». Dunque, sentite, sor don Diego mio: eccheve du’ lustrini, e ffamo patta; e a messa poi v’ariccommanno a Ddio. Già, un giulio solo; e mmó dd’uno se tratta. Tre ne volete? E cquesto è ttre, pperch’io lo bbattezzo pe un tre ccome la matta23. Un sonetto che serve a Belli, poeta-documentarista virtualmente rivolto a lettori non romani, per ragguagliarli sull’uso proverbiale, sul gioco di carte ma qui soprattutto i sulla monetazione pontificia: il giulio o paolo corrispondeva a dieci baiocchi o a due lustrini, mentre tre giuli valevano un testone. Che all’orecchio belliano tornasse in mente il titolo della corona castiana non è dunque improbabile. Tutto qui? No, certo: la strana reticenza sul nome e l’ammiccante «confessiamoci» della nota belliana induce a 20 Per un punto er terno, 28 gennaio 1832, vv. 9-11: «Tre ccom’un razzo prim’estratto, eh Checco?! / Mill’ottoscento scudi per un pelo, / ché cce bbuttai tre ggiuli e mmezzo a ssecco». 21 Er pane per antri denti, 6 dicembre 1844, vv, 12-14: «Che sò ttre giulî ar giorno, Raffaelle? / De car’e ggrazzia sce se pò strappalla, / e sse ne vanno in tacchie e gguaïnelle». 2222 La puttana sincera, 28 gennaio 1832. vv. 12-14:: «Lei sta cosa che cqui nun me la nega, / che invesce de bbuttalli a ttordinone / tre ggiuli è mmejj’assai si sse li frega.»: 23 Er piggionante der prete, 17 gennaio 1847. focalizzare la figura dell’abate libertino. 3. Le novelle in versi dell’abate libertino Da Acquapendente, dove era nato nel 1724, Casti si spostò a Roma, in Toscana e poi per tutta Europa, da Vienna a Berlino, da Pietroburgo a Costantinopoli, coprendo il posto di poeta ufficiale alla corte asburgica e riscuotendo successi con i suoi libretti, musicati da Paisiello e Salieri. Nel 1802 pubblicò a Parigi un poema di 26 canti in sesta rima, Gli animali parlanti, una trasparente satira sotto forma di «zooepìa» della Francia consolare, dei suoi intrighi politici tra demagogia e autocrazia, pepato complemento dell’attacco contro la corte zarista che aveva sferrato nel Poema tartaro (1796). Tutta l’esistenza di Casti, intellettuale voltairiano e libertino, era stata percorsa da polemiche e discussioni. Giudizi aspri su di lui avevano espresso Casanova, Goldoni, Parini, più tardi Foscolo e Manzoni. Diventò ancor più famoso grazie alle Novelle galanti, corposa opera in ottave uscita a Parigi presso Brissot-Thivars nel 1804,24 appena dopo la sua morte, in cui alla satira politica aggiunge la celebrazione dell’eros e la polemica contro la Chiesa. È questa raccolta il vero iceberg celato sotto il pelo d’acqua dell’oceano romanesco, mai citata nei suoi scritti da Belli certo perché messa all’Indice sùbito dopo la stampa,25 ragione per cui egli tace il nome di Casti nella nota a La visita der Governo, dove con il «Confessiamoci» ammette furbescamente la familiarità con quell’autore trasgressivo. 4. Un giustiziato dà i numeri Tre sonetti della raccolta romanesca hanno un’evidente radice nella novella Il lotto (XXVI). È la storia del parrucchiere Morgante, innamorato di Moma, orfana del padre anch’egli parrucchiere. La madre Dorotea, confidando sulla bellezza e sulla verginità della figlia, vuole procurarle un marito d’alto rango, e dunque la controlla severamente. Conoscendo la 24 Le 25 Le citiamo dall’edizione originale, designando la novella con il numero romano e l’ottava con la cifra araba. Novelle galanti vennero subito condannate con decreto del 2 luglio 1804 dalla Congregazione dell’Indice, ma ancora negli anni Trenta-Quaranta ne fioriva un ricco commercio clandestino: cfr. Maria Iolanda Palazzolo, I libri, il trono l'altare, Milano, Angeli, pp. 53 ss. passione della vedova per il lotto, il giovane si veste di un bianco accappatoio e si nasconde nella buia chiesa di san Giovanni Decollato, dove sono sepolti i corpi dei giustiziati, alle cui anime i giocatori vanno a chiedere i numeri su cui puntare. Madre e figlia arrivano là a tarda ora, e mentre la prima supplica l’anima di un condannato impenitente, tal «Camardella», appare il biancovestito che afferra Moma, si apparta in un angolo scuro e, fattosi riconoscere, amoreggia con lei. Superato lo sgomento iniziale, Dorotea prosegue nella sua perorazione, certa che le anime purganti non possono far nulla di male, e sentendo il verso di un gufo, l’abbaiare di un cane e il canto di un gallo trasportati dal vento, li scambia per oracoli, dai quali ricava il terno da giocare, con l’ausilio dell’apposito libretto. La fortunata estrazione di quei numeri affranca le due donne dalla povertà, perciò Moma può confessare alla madre di essere incinta di Morgante, lasciando prevedere il lieto fine. Nella venticinquesima ottava il Casti illuminista sferra un attacco contro il gioco del lotto e le connesse superstizioni: È superstizione o inganno o errore che di divozion prende l’aspetto, è una grand’arma in man dell’impostore, è un germe rio dell’ignorante in petto. Superstizion l’umanità dal core sbandisce e la ragion dall’intelletto; gl’influssi suoi sparsi ampiamente sono, ma in Roma a lei s’innalza altare e trono. Versi, questi, di cui troviamo un palese riflesso nella lunga sonettessa belliana intitolata Devozzione pe vvince ar lotto, un elenco di svariati riti scaramantici propiziatori della vincita al gioco, tra i quali la preghiera all’anima purgante di un impiccato nella Chiesa di San Giovanni Decollato, e il terno suggerito da rumori recati dal vento: E a ‘n’impiccato ditta ‘na diasilletta corta corta buttete a pecorone in su la porta. La bocca storta nun fà si senti quarche risponsorio: sò l’anime der Santo purgatorio […]. Na callalessa è der restante: abbasta de stà attento a gni rimore che te porta er vento.26 Annotando il sonetto, Belli precisa di aver mescolato «il vero insieme e il verisimile» per documentare la «reale superstizione del Lotto» e le «matte e stravolte idee che ingombrano le fantasie superstiziose della nostra plebaglia», una nota che sembra riecheggiare altri versi della novella castiana (XXVI, 13), quelli in cui la vedova con cabale e con sogni si consiglia, e in gergo di magia latina o ebrea scongiura, anime invoca, augurj piglia, e al Lotto per giuocar tutto vendea. Nel prosieguo della sonettessa è menzionato il «libro dell’Arte»: O fora, o drento, quello che poi sentì tiello da parte, eppoi và a cerca in der libbro dell’arte. Viva er Dio Marte: crepi l’invidia e er diavolo d’inferno, e buggiaratte si nun vinchi er terno! Nell’ottava sedicesima della stessa novella, Casti precisa che nel «Libro dell’Arte», diffuso in tutta Italia, a ogni animato o inanimato oggetto senza addurne ragion vi marca sotto un de’ novanta numeri del Lotto, versi cui Belli sembra far eco nella nota dove precisa che numeri da giocare si cercano nel così-detto Libro dell’Arte, dove è come un dizionario di nomi accanto ad altrettanti numeri giuocabili. 26 Devozzione pe vvince ar lotto, 20 agosto 1830, vv. 72-77 e 81-83 . Questa chiosa è apposta al componimento contiguo alla sonettessa, Er gioco der lotto, nel quale un plebeo ricava dalle parole di un impiccato apparsogli in sogno i tre numeri sui quali puntare, l’ultimo con la stravagante associazione a nocchiero di nocchie ‘nocciole’, voce assente nel Libro dell’Arte: M’è pparzo all’arba de vedè in inzògno cor boccino in ner collo appiccicato quello che glieri a pponte hanno acconciato co no spicchio d’ajjetto in zur cotogno. Me disceva: tiè, Ppeppe, si hai bbisogno: (e ttratanto quer bravo ggiustizziato me bbuttava du’ nocchie in zur costato) sò ppoche Peppe mio, me ne vergogno. Io dunque çiò ppijjato oggi addrittura trentanove impiccato o cquajjottina, dua der conto, e nnovanta la pavura. E cco la cosa che nnemmanco un zero ce sta ppe nnocchie in gnisuna descina, ho arimediato cor pijjà Nnocchiero.27 Tangenze ancora più strette con la stessa novella galante emergono in La ggiustizzia de Gammardella: Cuanno che vvedde che a scannà un busciardo Gammardella ebbe torto cor governo, nun vorze un cazzo convertisse; e ssardo morse strillanno vennetta abbeterno. Svortato allora er beato Leonardo a le ggente che tutti lo vederno, disse: popolo mio, pe sto ribbardo nun pregate più Iddio: ggià sta a l’inferno. Ebbè, cquelle du’ chiacchiere intratanto 27 Er gioco der lotto, 19 agosto 1830. j’hanno incajjato un pezzo de proscesso che se stampava pe ccreallo santo. L’avocato der diavolo fà er fesso co sti rampini; ma ppò ddì antrettanto, s’ha da santificà ffussi de ggesso!28 Antonio Camardella fu giustiziato nel settembre 1749 per aver ucciso un canonico che, dopo averlo ingannato in una questione d’interessi, aveva avuto la meglio in tribunale. Il beato Leonardo da Porto Maurizio, che si prodigò per farlo pentire prima dell’esecuzione, fallì nel suo compito, e dopo l’impiccagione invitò la folla a non pregare per l’anima del reprobo, sostenendo che era certamente già all’inferno. Il sant’uomo commise così Er primo peccato contro lo Spiritossanto, la «disperazione della salvezza» — spiega Belli nel sonetto così intitolato citando proprio l’esempio del francescano ligure —, il peccato che causò un rallentamento del suo processo di canonizzazione, incominciato nel 1797, un anno dopo la beatificazione, e concluso positivamente solo nel 1867: E un Beato Leonardo, p’er zu’ tanto disperà nne l’affar de Gammardella, nun ze poté ssarvà, bbello che ssanto. (29) Che le parole messe in bocca da Belli a Leonardo figuravano nella novella, lo segnalava già Morandi, senza rilevare le precise consonanze con le intere tre ottave dedicate all’episodio (XXVI, 16-18), che offrono precisazioni sulla controversa santificazione, illuminando le terzine del sonetto: Dannato fu alle forche un delinquente Per preticidio, detto Camardella. Un santo fratacchion ch’era assistente Dichiarollo per anima rubella, Perchè egli morir volle impenitente. Invano a pentimento ei lo rappella, Vendetta grida il reo, nè altrui dà retta; 28 La 29Er ggiustizzia de Gammardella, sonetto del 30 settembre 1830. primo peccato contro lo Spiritossanto, 25 aprile 1834. vv. 12-14.. Penzolon cade e grida ancor vendetta. Rivolto il frate al popolo adunato Per l’anima di questo peccatore, Vano, disse, è il pregar, egli è dannato. Gesù gridando, e pieni allor d’orrore Tutti lungi fuggir dall’impiccato, E si sparser qua e là per lo terrore. Ma l’annunzio del padre Leonardo Molti asserian ch’esser potria bugiardo. Tutti allora i teologi e casisti E preti e frati dieronsi gran moto, Giansenisti non men che molinisti, E altri di cui l’entusiasmo è noto. Ne parlar gli oratori e i catechisti, Chi Tommaso d’Aquin citò, chi Scoto, E i famosi trattati esempligrazia Chi de libero arbitrio e chi de gratia. 5. Giù botte nel buio oratorio Belli fece tesoro anche di un’altra novella galante, L’orso nell’Oratorio (XVIII). Coperta da un gran mantello e dal cappello, Ghita si introduce nell’oratorio del Caravita, frequentato da soli uomini, e in un confessionale concorda un incontro con l’amante, un gesuita, consumando poi in uno scuro recesso della chiesa un amplesso interrotto dal parapiglia provocato da un orso ammaestrato, là condotto da un burlone. Ghita è anche il nome della popolana che nell’Ingeggno dell’Omo, viene avvolta nel suo mantellone dal compagno, che la conduce nella stessa buia chiesa e consuma con lei un amplesso nel confessionale: Er venardì de llà, a la vemmaria, io incontranno ar Corzo Margherita, je curze incontro a bbracçiuperte: Oh Ghita, propio me n’annerebbe fantasia! Disce: Ma indove? Allora a l’abborrita je messe er fongo e la vardrappa mia, e ddoppo tutt’e ddua in compagnia c’imbusciassimo drento ar Caravita. Ggià llì ppare de stà ssempr’in cantina: e cquer lume che cc’è, ddoppo er rosario se smorzò pe la santa dissciprina. Allora noi in d’un confessionario ce dassimo una bbona ingrufatina da piede a la stazzione der zudario.30 Anche se l’esito espressivo è, naturalmente, assai diverso, i contatti tra i due testi sono evidentissimi. Ma la prova schiacciante che L’orso nell’Oratorio era ben presente nella memoria di Belli la offre il suo Zibaldone (VII, 125), l’unico luogo in cui cita il nome di Casti. Compulsando l’autografo, dove una macchia d’inchiostro copre una mezza parola, vi leggiamo: Della bellissima Maddalena giacente boccone dipinta dal Correggio, ....lava [parlava?] il Poeta Casti La vede il Peccatore e fra sé dice: Peccato che non sia più peccatrice! La più celebre immagine della Maddalena penitente è quella di Correggio conservata alla National Gallery, dove compare con il gomito mollemente appoggiato a un libro e le mammelle scoperte, mentre fissa lo spettatore dalla grotta dove si è ritirata; sensualissima, vero, ma non bocconi, come invece era quella perduta di Dresda, pure attribuita a Correggio, altrettanto sensuale ma sdraiata, si apprende dalle descrizioni di inventari seicenteschi. L’invenzione di una Maddalena rivale di Venere, con l’aggiunta della piccante mistura di eros e devozione, fu ripresa da vari pittori in copie che dovevano essere presenti anche a Roma, dove sarebbe transitato l’originale, forse commissionato da Isabella d’Este Gonzaga tramite la marchesana di Correggio, la poetessa Veronica Gambara. Descrivendo l’oratorio del Caravita nella novella lì ambientata, Casti precisa che sull’altare centrale è dipinta la cacciata di Adamo ed Eva, i quali 3030 L’ingeggno dell’Omo, 18 dicembre 1832. attraverso le fronde lasciano chiaramente vedere le loro nudità, stuzzicanti nella donna, e che sopra gli altari laterali si vedono due figure femminili, ravvedute e penitenti, una Samaritana «il sen scoperta e con gonna succinta», che ha rinunciato a ogni «tresca amorosa», e una Maddalena, cui è riservata la nona ottava: Con scarno teschio in man dall’altro canto la Maddalena addolorata stassi; presso è la disciplina, e vedi il pianto dai begli occhi cader compunti e bassi; nuda le braccia e il petto e bella tanto da far venir fin la lussuria ai sassi. Il libertin la guata, e fra sé dice «Gran danno che non sia più peccatrice!» Casti, che non nomina Correggio, illustra una diffusa variante iconografica della Maddalena penitente, che quasi sempre tiene in mano un teschio e spesso il cilicio, immagine che non siamo riusciti ad accertare comparisse nella chiesa del Caravita. Che quella fosse la tela correggesca sembra dunque essere una congettura di Belli, il quale peraltro cita il secondo verso castiano in modo impreciso, dunque a memoria, ulteriore indizio della familiarità con quel testo. 6. Papa o papessa? La memoria del Casti novellista potrebbe non essere estranea anche a uno dei sonetti belliani più noti, La Papessa Ggiuvanna. Vi si rievoca la leggenda medievale della giovane inglese che, travestita da uomo e apprezzata per la sua dottrina, fu eletta al soglio pontificio, e che, innamoratasi di un suo camerlengo, rimase gravida e partorì mentre la si trasportava sulla sedia gestatoria, finendo linciata dai fedeli insieme al neonato. Da questa storia nacque la credenza che da quel momento i papi di nuova nomina fossero fatti sedere sulla cosiddetta sedia stercoraria, il cui foro centrale sarebbe servito per verificare il sesso del neo-pontefice: Fu ppropio donna. Bbuttò vvia ‘r zinale prima de tutto e ss’ingaggiò ssordato, doppo se fesce prete, poi prelato, e ppoi vescovo, e arfine Cardinale. E cquanno er Papa maschio stiede male, e mmorze, c’è cchì disce, avvelenato, fu ffatto Papa lei, e straportato a Ssan Giuvanni su in zedia papale. Ma cquà sse ssciorze er nodo a la Commedia; chè ssanbruto je preseno le dojje, e sficò un pupo llì ssopra la ssedia. D’allora st’antra ssedia sce fu mmessa pe ttastà ssotto ar zito de le vojje si er pontescife sii Papa o Ppapessa.31 Belli aveva registrato la vicenda favolosa nel 1824 sul suo Zibaldone (I, 44-46), traendola dal Breviarium sulla storia dei papi di François Pagi (171727), e pensò di dedicarvi un’altra poesia, rimasta allo stato di abbozzo.32 Era stata ripresa, tra gli altri, da Boccaccio nel De claris mulieribus (97), opera mai citata da Belli, dove inaugura la serie delle donne moderne, dopo le illustri antiche, mitiche e bibliche; ma più importante e fresco precedente del sonetto è la novella dell’abate libertino intitolata appunto La papessa (XXXII), pure conclusa dal particolare della sedia forata (parte III, 90): Acciò per altro in avvenir lo stesso non seguisse, fu allor l’uso introdotto del seggiolon che avea forame o fesso, per cui con man tastando per di sotto verificar solean del papa il sesso, uso per anni assai non interrotto. Se Casti registrava pareri diversi sulla veridicità della leggenda ed elencava in calce una nutrita lista di fonti antiche e moderne, Belli si limita a riferirla nel sonetto, senza esprimere alcuna opinione sulla sua fondatezza. L’abate parla anche di una «baruffa» tra angeli e diavoli per contendersi le anime della papessa e del neonato trucidati (ottava 78), una contesa di 31 L a Papessa Ggiuvanna, 26 novembre 1831. Roma, ms. VE 690-7, c. 83v. 32 Biblioteca Nazionale di ascendenza dantesca evocata per altri trapassati in alcuni sonetti belliani.33 Nello stesso racconto sulla papessa, nella strofa 29 Casti constata che quando talun pontefice diviene un gran portento di virtù è creduto; poscia il credito in breve a perder viene, né val più nulla, quando è conosciuto, versi cui Belli sembra fare eco in L’upertura der concrave: Senti, senti castello come spara! Senti montescitorio come sona! è sseggno ch’è ffinita sta caggnara, e ‘r Papa novo ggià sbonedizziona. Bbè? cche Ppapa averemo? è ccosa chiara: o ppiù o mmeno la solita canzona. Chì vvôi che ssia? quarc’antra faccia amara. Compare mio, Dio sce la manni bbona. Comincerà ccor fà aridà li peggni, cor rivôtà le carcere de ladri, cor manovrà li soliti congeggni. Eppoi, doppo tre o cquattro sittimane, sur fà de tutti l’antri Santi-Padri, diventerà, Ddio me perdoni, un cane.34 Il papa «sbonedizziona» come quello che il Giuveddì ssanto35 impartisce una benedizione urbi et orbi con un «croscione» che oltrepassa il Tevere, gesto simile a quello del pontefice che «trincia quattro crocion larghi otto palmi» nella novella castiana La papessa (XXXII, parte III, 71). 7. Come nasce l’Anticristo? 33 Cfr. ad es. Er giusto , del 21 gennaio 1835, vv. 9-12: «Mentre l’anima sua j’essce de bbocca, / un formicaro d’angeli la pijja, / la porta in Celo, e gguai chi jje la tocca. // Li diavoli je manneno saette, / e ll’angeli je danno la parijja; / e la cosa finissce in barzellette». 34 L’upertura der concrave, 2 febbraio 1831. 35 Giuveddì ssanto, 4 aprile 1833. La favolosa papessa offre il bersaglio agli strali della satira anticlericale di cui fanno le spese, almeno da Boccaccio in poi, frati e monache: al punto da rendere poco significativi contatti tematici fra Casti e Belli, se genericamente volti a indicare i vizi dei religiosi: lussuria, poi di gola e avarizia, ma anche tutti e sette Li peccati mortali, a parere di un trasteverino che li elenca e li chiosa sullo sfondo teologico del conflitto fra bene e male: Cuanno Iddio creò ssette sagramenti, er demonio creò ssette peccati, pe ffà cche ffussi contrasto de venti. E cquanno che da Ddio furno creati ar monno confessori e ppenitenti, er diavolo creò mmonich’e ffrati.36 Quel conflitto terminerà con La fin der Monno, che ripropone au vv. 7-8 il connubio, verbale e carnale, fra monaca e frate: Come saranno ar monno terminate le cose c’ha ccreato Ggesucristo, se vederà usscì ffora l’Anticristo predicanno a le ggente aridunate. Vierà ccor una faccia da torzate, er corpo da ggigante e ll’occhio tristo: e pper un caso che nun z’è mmai visto, nasscerà da una monica e dda un frate. Ora, Belli ci ragguaglia in nota sul Nocchilìa («Credenza romanesca, che da un buco, sconosciuto, presso la Basilica di S. Paolo usciranno Enoc ed Elia, chiamati dal popolo, con un solo vocabolo: er Nocchilia»), ma nulla ci dice sulla genesi dell’Anticristo, e nulla aggiungono i commentatori, verosimilmente persuasi di un’invenzione pasquinesca del poeta. Il quale, per bocca di uno zelante csdegnato controcontro preti e frati che infrangendo 36 Li peccati capitali, vv 9-14 il divieto si mascherano in tempo di Canavese paragonandoli proprio all’Anticristo. 37 Fonti note a Belli prevedono in verità altri frutti dall’amplesso fra velata e tonsurato: nel Ragionamento di Pietro Aretino un abate, predicando in un convento dove convivono allegramente maschi e femmine, afferma che «figliuoli che nascono di frate e di suora sono parenti del Disitte e del Verbumcaro» (I). Altri ritiene che da tal connubio nascerà il Quinto evangelista: con questa frottola, frate indice una monaca virtuosa a congiungersi a lui, nella XLVI delle Novelle galanti di Casti, mutuata dal secondo racconto del Novellino di Masuccio Salernitano, scrittore che peraltro Belli non nomina mai. Ma un conto è un supposto evangelista (soggetto di una tradizione seria e spiritualmente impegnata, sfociata nel romanzo di Mario Pomilio Il quinto evangelio, 1976), altro conto è l’Anticristo: della leggenda sulla sua nascita dal peccaminoso accoppiamento di un frate e di una suora abbiamo reperito a stento qualche traccia che è impensabile Belli conoscesse. Nella Vita Antichristi lo PseudoAlcuino (fine del sec. XI) sostiene che non sarà generato «de episcopo et monacha, sicut alii delirando dogmatizant», ma da una sozza meretrice e da un crudelissimo fannullone. Commentando nel 1416-17 un passo dantesco (Inf: X 88-93), Giovanni Bertoldi da Serravalle definisce l’imperatore Enrico VI di Svevia «quasi religiosus» e la moglie Costanza «monialis», evocando la diffusa credenza, «proverbium illud», secondo cui il loro figlio Federico II sarebbe l’Anticristo che «nasci debet ex religioso et moniali» (le fonti non conferano né l’untenzione del giovane Enrico di farsi frate, né la nmonacazione di Costanza, creduta da Dante).38 La credenza sulla generazione dell’Anticristo è confermata in un libello polemico antipapista di Bernardino Ochino, «nel qual si scuopre perché si dice comunemente che Antechristo nascerà da un frate e da una monaca» (Apologi, 1554, n. 73). Ma ancora all’Anticristo ci riporta Casti nella omonima novella galante, la XV. Lì un servo d’origine africana e di pelle nera viene scambiato per il diavolo da una ignorante vlllanella austriaca che lo supplica di risparmiarle l’anima; lui dice che si accontenta del corpo, la possiede e la ingravida. Nel villaggio si sparge la voce che ne nascerà l’Anticristo e che dunque è prossima anche 37Le mmaschere eccresiastiche6 gennaio 1833 38 Cfr EugenioE. RAGNI, La luce della gran Costanza, in Purgatorio. Paradiso. Lectura Dantis Interamnensis, a c. di G. Rati, Roma, Bulzoni Editore, 2013, pp. 125-164 la venuta di Enoc ed Elia: A questo punto, l’ironico autore, vagliando le dicerie sull’Anticristo, che per alcuni avrà la pelle «tinta», aggiunge: In oltre fra le opinion vulgate Sull’origine sua o vere o false, Ma che anche a tempi nostri accreditate Fra i teologi son, quella prevalse, Ch’ei debba d’una monaca e d’un frate Nascer (65-66). La novella reca anche altri dettagli reperibili nei sonetti: viene ritratto un frate godereccio fumatore di pipa;39 la neonata, scambiata per ermafrodito a causa del clitoride abnorme, è battezzata col nome bisex di Anna40 e suscita invidia per le sue raddoppiate possibilità amatorie, giusto come nel sonetto Li manfroditi; 41 Iinfine iun modo prverbiale nato da quella novella ritorna puntialmente in un sonetto di Belli. 42 Dunque è ha questa novella, che termina rassicurando le lettrici sulla non imminenza della «fin del mondo» che Belli ha attinto la pittoresca e salace informazione nella sua Fin der monno. Improbabile, come detto, che conoscesse le oscure fonti medievali o il libello protestante; se la subacquea cultura orale avesse serbata memoria di quella leggenda, il poeta l’avrebbe annotato come ha fatto per la «credenza popolare» sul Nocchilìa; d’altra aparte, per le ragioni esposte in apertura, il debito con quell’autore scandaloso era inconfessabile. 39come 41 Li il grasso francesano di Er fimatore. manfroditi: citare GGB e vv di Casti 42 Come segnalava Vigolo, l’attaco del sonetto L’oppiggnone diverze («Quante disputerìe! Senti che gghetto / per un gnente! Me pare la questione / de fra Ccucuzza e ’r vecchio Simeone») ia un modo proverbiale la cui radice sta nella strofe novella castiana, dive si traccia il parallelo fra la vicenda di Cristo e quella del presunto Anticristo: «Il vero Cristo fra disagi nacque, / D'agi Anticristo n'avrà pochi o nulla; / Concetto esser di vergine all'un piacque, / L'altro concetto è ancor d'una fanciulla; / Quegli bambino in un presepio giacque, / L'altro in una capanna avrà la culla; / E finalmente fece il paragone / Di fra Cucuzza e il vecchio Simeone» (XV 51). 8. Amor sacro e profano Frati lascivi e monache sedotte traboccano, s’è detto, nella tradizione letteraria di matrice boccaccesca. Suggestioni palesi delle Novelle galanti traspaiono tuttavia in due sonetti della raccolta romanesca. Il primo è Er patto-stucco: Sto prelato a la fijja der zartore, che çciannava a stirajje li rocchetti, je fesce véde drent’a un tiratore una sciòtola piena de papetti, discennoje: Si vvôi che tte lo metti, sò ttutti tui e tte li do dde core. E llei fesce bbocchino e ddu’ ghiggnetti, eppoi s’arzò er guarnello a Mmonziggnore. Terminato l’affare, er zemprisciano pe ppagajje er noleggio de la sporta, pijjò un papetto e jje lo messe in mano. Disce: uno solo?! e cche vvor dì sta torta? Ereno tutti mii!… — Fijjòla, piano, disce, sò ttutti tui, uno pe vvorta.43 Questa scena boccaccesca, come la definisce Vighi, potremmo dirla anche castiana, giacché il corto «guarnello» è un topos dell’attrattiva femminile nella raccolta novellistica, dove sono frequenti anche espressioni analoghe ad arzà la vesta, locuzione usata più volte nei sonetti per indicare la copula. Ma nella poesia belliana appena citata è ben più consistente l’eco di un altro racconto galante, Il purgatorio (VIII) – a sua volta nutuata da Boccaccio (Dec. III 5 ) – dove pure un religioso, là monsignore, qui guarda caso abate, promette a una donna il miracolo di guarire il marito dalla terribile gelosia in cambio delle sue grazie, e dopo averle spiegato che la santità sta nell’anima e non nei sensi, ricorre a un «argomento» più persuasivo (ottava 33): 43 Er patto-stucco, 16 ottobre 1833. Tirò da un scatolino un bel giojello, la man le prese e in dito a lei lo mise. Poi disse: ebben, cor mio, farai tu quello che ti chies’io? Nulla colei promise con aperto parlar; ma pria l’anello, l’abate poi dolce guatò e sorrise. Or certamente ad una tal proposta quel suo silenzio era una gran risposta. Il religioso corruttore, il cassetto tirato, l’anello, il ghignetto malizioso della donna: tutto questo ritorna nella poesia di Belli, che vi aggiunge di suo la comica metafora della «torta» slealmente preparata dal prete. L’altro sonetto, giustamente famoso, è Er mortorio de Leone duodecimosiconno: Jerzera er Papa morto c’è ppassato propi’avanti, ar cantone de Pasquino. Tritticanno la testa sur cuscino pareva un angeletto appennicato. Vienivano le tromme cor zordino, poi li tammurri a tammurro scordato: poi le mule cor letto a bbardacchino e le chiave e ‘r trerregno der papato. Preti, frati, cannoni de strapazzo, palafreggneri co le torce accese, eppoi ste guardie nobbile der cazzo. Cominciorno a intoccà ttutte le cchiese appena uscito er Morto da palazzo. Che gran belle funzione a sto paese!44 L’Apoteosi, l’ultima novella galante (XLVIII, 99-100), narra la vita dissoluta di Faustina, figlia dell’imperatore Antonino Pio e moglie del successore Marc’Aurelio, divinizzata post mortem dalla credulità popolare. Casti descrive la sfilata di maggiorenti e militari del suo solenne corteo 44 Er mortorio de Leone duodecimosiconno, 26 novembre 1831: funebre, prefigurando, anche sintatticamente con le sequenze nominali, la pittura belliana della scenografica processione che segue la salma del papa, e la sua colonna sonora, fatta da «tromme cor zordino» e ritmata da «tammurri a tammurro scordato», più o meno come quella del funerale di Faustina, accompagnato da «timpani scordati o di tromboni»: Sieguono poscia i consoli e i pretori, tribuni, edili in abito di lutto, e flamini ed aruspici e questori e i magistrati ed il senato tutto, e prefetti e precon, scribi e littori. S’incamminano al Foro, ove costrutto pinto a foggia di marmo ergesi un palco che in oggi noi diremmo catafalco. Quindi una legion d’infanteria vien dietro sotto i suoi centurioni, e il general della cavalleria chiudea la marcia alfin con due squadroni, e qualche colpo ad or ad or s’udia i timpani scordati o di tromboni. Siegue la pompa innumerabil folla, e sino al roman Foro accompagnolla. Se, come sembra, Belli qui echeggia Casti, condivide almeno in parte l’idea di una continuità tra «gentilesimo» e «cristianesimo», che l’abate manifesta in questa e in altre novelle, qui in particolare sull’onda lunga della superstizione popolare alimentata dal palazzo e dalla casta sacerdotale: continuità fra Roma dei Cesari e quella dei Papi che affiora non di rado nei sonetti, seppure affiancata da rilevate discontinuità fra antichi e moderni. E se nei sonetti l’idea si profila attraverso la lente deformante dei personaggi, le note d’autore e gli appunti dello Zibaldone mostrano l’attenzione di Belli al problema. L’amore, grazie al cielo, non è prerogativa di chi veste tonaca o saio. Nella novella Il rusignuolo Casti, ampliando e variando una novella di Boccaccio (IV 4), narra dell’amre di fue giovani cugini. Trovano modo di passar la notte assieme. Sorpresi al mattino dal padre di lei, accettano volentieri il matrimonio riparatore. Un prete ritiene necessaria una dispensa, per superare l’ostacolo del vincolo parentale; ma un collega, più esperto in diritto canonico, lo smentisce: Venner tosto amendue: ma don Andrea, Ch’è dubbio s’era più divoto o bue, Disse, che fra li sposi intercedea Secondo tutte le notizie sue Vincol d’affinità, nè si potea De canonico jure infra lor due Matrimonio contrar, per quel ch’ei crede Senza dispensa della santa sede. Ma chiaramente dimostrò Salgrado Ch’era miglior teologo e legale, Ch’essi erano parenti in quinto grado, Ne perciò vi volea dispensa tale. E poi soggiunse in grave tuon: malgrado L’affinità, se copula carnale Anticipata fra li sposi accada, Poco alle altre minuzie allor si bada. (XI .51-52). Trasposta dalla Spagna aristocratica del passato alla Roma plebea del presente, la vicenda rivive con la variante che la «copula carnale» da condizione pregressa diventa rimedio cercato onde ottenere La dispenza der madrimonio: Cuella stradaccia me la sò llograta: ma cquanti passi me sce fussi fatto nun c’era da ottené pe ggnisun patto de potemme sposà cco mmi’ cuggnata. Io sc’ero diventato mezzo matto, perché, ddico, ch’edè sta bbaggianata c’una sorella l’ho d’avé assaggiata e ll’antra nò! nnun è ll’istesso piatto? Finarmente una sera l’abbataccio me disse: «Fijjo, si cc’è stata coppola, provelo, e la liscenza te la faccio». «Benissimo Eccellenza», io j’arisposi: poi curzi a ccasa, e, ppe nun dì una stroppola, m’incoppolai Presseda, e ssemo sposi.45 <già riportato pwe ke terzine> 9. Ritratti plurimi di maggiorate Gli indubbi contatti tra i versi di Casti e quelli di Belli possono talvolta risalire a fonti comuni, né dobbiamo trascurare il ruolo ispirativo della realtà. Si veda nella novella La conversione (XII, 6) questo ritratto femminile: La venal donna, a dir vero, e prostituta, bella però, d’umor bizzarro e matta, carnacciuta, popputa e naticuta L’allegra prosperosa somiglia molto alla «matta», «chiapputa» e con poppe generose celebrata in A Compar Dimenico: Me so ffatto, Compare, una regazza bianca e roscia, chiapputa e bbadialona, co ‘na faccia de matta bbuggiarona, e ddu’ brocche, pe’ ddio, che cce se sguazza. Si la vedessi cuanno bballa in piazza, cuanno canta in farzetto, e cquanno sona, diressi: ma de che? mmanco Didona che squajjava le perle in de la tazza. Si ttu cce vôi vienì dda bbon fratello, te sce porto cor fedigo e ‘r pormone; ma abbadamo a l’affare de l’uscello. Perchè si ccaso sce vôi fà er bruttone, do dde guanto a ddu’ fronne de cortello; e tte manno a Ppalazzo pe’ Ccappone.46 Vighi fa coincidere la protagonista con l’«Agnesa, quella che je dicheno: quanto sei bbona», una donna che crede reale perché menzionata dall’autore 45634. La dispenza der madrimonio Roma, 20 dicembre 1832 - Der medemo 46A Compar Dimenico, 14 febbraio 1830.: nella lettera romanesca a Giovan Battista Mambor,47 uno scritto che sembra però frutto di fantasia. Ma questo ritratto che rispetta l’equazione bellezza uguale floridezza, risponde a un consolidato canone popolare, trasferito da Carlo Porta su aggraziate milanesi in attesa del loro Apollo, in un sonetto scritto per invitare Vincenzo Monti a una festa: Per incoeu guarna pur via i tò rimm, i toeu conzett e ven chì a godè in cà mia vun di solet festinett. Te doo facc che mett legria, fior de ciapp, de spall, de tett de imbrojà el coo a chi se sia che dovess trà el fazzolett. Sont sicur che te diree che hin i Grazzi e i Mûs che balla suj bej praa del Pegasee: ma el diroo forsi mej mì a vedè che no ghe calla el so Apoll, che te seet tì.48 La bianca e rossa popolana romanesca, oltre a ballare in piazza e non in una casa, suona e canta a voce spiegata, come le sfarzose minenti ricordate da Giuseppe Baracconi, che «giungevano al prato [di Testaccio], a sei a otto nelle carrettelle, sedute, le più vistose sull’orlo del mantice: in cassetta, presso al cocchiere, la più esperta del cembalo e del canto».49 Ancor più diverso è l’elogiatore, là un poeta che invita un esimio collega, lusingandolo, a un festino privato, qui il fidanzato geloso della bellona che la vanta all’amico, ammonendolo a non osare corteggiarla se non vuole finire castrato, come dice con una fiorita metafora già usata nell’anonimo Misogallo romano, con gioco furbesco tra ‘francese’ e ‘gallo’, per mettere in guardia i giacobini: «Guardateve Francesi da ste mane, / che chi viè Gallo 47 Le lettere, cit., n. 111. a cura di Dante Isella, Mondadori, Milano 1975, n. 11. <tradurre?> 49 Giuseppe Baracconi, I rioni di Roma, Lapi, Città di Castello 1889, p. 610. 48 Poesie, tornerà cappone».50 Belli accoglie dunque questi spunti letterari dialettali, ma anche un tocco classicheggiante nel paragone con la leggendaria Didone qui confusa con la storica Cleopatra, la regina che sciolse le perle, con un equivoco che ha pure nobili radici, suggerisce Muscetta segnalando il distico «Esca pur Cleopatra, / porti seco la perla e l’antimonio» del secondo Intermezzo della metastasiana Didone abbandonata (vv. 85-87), opera nota anche ai plebei, come si ricava da più d’un sonetto, e che avrà ulteriore fortuna mediante la versione romanesca dell’abate Alessandro Barbosi, stampata nel 1851 ma rappresentata nel 1838 al teatro Pallacorda.51 10. Strane reliquie, non solo in Boccaccio Esemplare del ruolo concomitante delle fonti nei sonetti belliani, lungo la linea boccaccian-libertina, è La mostra de l’erliquie: Tra ll’antre erliquie che tt’ho ddette addietro c’è ll’aggnello pascuale e la colonna: c’è er latte stato munto a la Madonna, ch’è ssempre fresco in un botton de vetro. C’è ll’acqua der diluvio: c’è lla fionna der re Ddàvide, e ‘r gallo de San Pietro: poi c’è er bascio de Ggiuda, e cc’è lo sscetro der Padr’Eterno e la perucca bbionna. Ce sò ddu’ parmi e mmezzo de l’ecrisse der Carvario, e cc’è un po’ de vita eterna pe ffà er lèvito in caso che ffinisse. C’è er moccolo che aveva a la lenterna Dio cuanno accese er Zole, e ppoi je disse: và, illumina chi sserve e cchì ggoverna.52 Il sonetto conclude alla grande la serie degli otto sulle reliquie composti 50 Il Misogallo romano, a cura di Marina Formica e Luca Lorenzetti, prefazione di Tullio De Mauro, Bulzoni, Roma 1999, n. 473, vv. 151-52. 51 Cfr. Laura Biancini, La Didona der Metastazzio, in Metastasio nell’Ottocento, a cura di Francesco Paolo Russo, Aracne, Roma 2003, pp. 137-72. 52 La mostra de l’erliquie, 22 gennaio 183. da Belli dal 15 al 22 gennaio 1833. Gli undici pezzi dell’immaginaria «mostra», organizzata da un popolano, sono uno più inverosimile dell’altro, fino ai tre surreali e quasi sacrileghi delle terzine, l’ultimo sfruttato per una battutina antigovernativa. Per questa sorridente satira di chi venera sacri reperti irreali per ignoranza e di chi li inventa per malafede o interesse – topos comico di consolidata e ampia tradizione rinnovata, osserva Teodonio, da Umberto Eco nel Nome della rosa53 – Muscetta richiama la celeberrima novella boccacciana di frate Cipolla (Decameron VI 10) e un passo del Ragionamento di Aretino (2), e Vigolo la lista di presunti relitti di personaggi antichi e mitologici della Bucchereide di Lorenzo Bellini.54 Vigolo segnala pure che in due liste di reliquie incise in Santa Prassede, ricoperte da lastre di marmo dopo gli anni Quaranta, alle quali Belli poté ispirarsi nel suo sonetto, era presente una gutta lactis Beatae Virginis Mariae, e cita le parole con cui Bernardino da Siena redarguì chi la venerava.55 Nota a Belli era certo anche la pagina boccacciana su frate Cipolla sopra ricordata, che conviene riportare: Egli primieramente mi mostrò il dito dello Spirito Santo così intero e saldo come fu mai, e il ciuffetto del serafino che apparve a san Francesco, e una dell’unghie de’ Gherubini, e una delle coste del Verbum caro fatti alle finestre, e de’ vestimenti della Santa Fé catolica, e alquanti de’ raggi della stella che apparve a’ tre Magi in oriente, e un’ampolla del sudore di san Michele quando combatté col diavole, e la mascella della Morte di san Lazzaro e altre. Ma oltre al Decameron, ancor una volta è una novella galante a candidarsi come fonte non generica. Lettore empatico di Boccaccio, Casti riscrive in ottave varie sue novelle , oltre che qulche conte en vers dei libertini francesi. Nel Quinto evangelista), invece, egli attinge tacitamente al Novellino di Masuccio Salernitano (I 2) e narra come un frate, per sedurre 53 Tutti i sonetti romaneschi, a cura di Marcello Teodonio, Newton Compton, Roma 1998, 2 voll. fa notare che nelle Clefs de Saint-Pierre Roger Peyrefitte menziona varie pseudo-reliquie attinte al Dictionnaire critique des reliques et des images miraculeuses di Collin de Plancy (1820-21), due delle quali sono citate anche dal nostro popolano, la colonna del gallo di san Pietro conservata in Laterano e il latte della Madonna venerato alla Minerva. 55 «Oh, oh, del latte della Vergine Maria; o donne, dove siete voi? […] Non v’aviate fede, ché elli non è vero: elli se ne truova in tanti luoghi! […] Forse che ella fu una vacca la Vergine Maria, che ella avesse lassato il latte suo, come si lassa delle bestie che si lassano mùgnere?», Novellette ed esempi morali, a cura di Alfredo Baldi, Carabba, Lanciano 1916, p. 115. 54 Vighi una giovane e virtuosa monaca tedesca facendole credere che dalla loro copula nascerà un nuovo evangelista, la persuada, oltre che con altri espedienti, mettendo su un tavolino due vasi e assicurando che di Baldassarre un’unghia intera si chiudeva in quelli, e un dente di Melchiorre e un di Gasparre, e il prepuzio d’Abramo, ed i capelli d’Anania, d’Azaria, di Misaele, ed un pezzo d’efod di Samuele, e un po’ di barba del profeta Aronne, e altre antiche reliquie insiem con queste (XLVI, 40-41). Ritmo e inventiva della scenetta, assente nella fonte quattrocentesca, sono già di Belli, anche se la chiusa del sonetto sorpassa lil modelloelaborando una teologia surreale che solum è sua. Tutta sua, del resto, era la digressione silla coplula carnale ripresa da Belli nel sonetto sopra ricordato,particolare del tutto assente nella novela boccacciana da cui Casti aveva tratto spunto per il suo Rusignuolo. Ma un particolare secondario della novella lascia traccia in un sonetto di Belli. Quando la candida verginella vede nel suo libro di preghiere, vergate a lettere d’oro le parole con cui lo Spirito santo la dice prescelta per generare il Quinto evangelista (le ha tracciate di nascosto l’astuto frate lascivo), resta sbigottita come il biblico re di Babilonia : alto terror la prese, Qual fra le tazze e fra le mense liete Nella sala real babilonese Vedendo comparir sulla parete Le parole temute e non intese, Restò per lo stupor, qual uom di stucco, Lo sbigottito figlio di Nabucco.(XLVI, 29) Il figlio di Nabucodonosor è Beltasar, di cui narra il Libro di Daniele (V, 1-31). Durante un convito da lui indetto in lode degli dèi, compare sul muro, tracciato da una mano di fumo, la scritta infuocata Mame Tekel Fares, che il profeta ebreo interpreta come annuncio della morte imminente del re e della spartizione del suo regno: eventi puntualmente accaduti. All’episodio, già trattato nell’incompiuto poemetto italiano Il convito di Baldassarre ultimo re degli Assiri (1812) Belli dedica il sonetto La scena de Bbardassarre, in cui il pop-biblista ridimensiona l’impresa divinatoria di Daniele: Fussi stat’io! in du’ parole marre je l’averebbe subbito spiegato. Com’era scritto? Mane Tescer Fiarre? Ce vvò ttanto? Domani t’essce er fiato. […] Un profeta ha d’annà ssubbito ar quonia, e nnò mmèttese a ffà ‘na sciarlatina, che ppo’ ar fin de li conti è una fandonia.56 Alla luce della fonte libertina, il finale riferimento alla «fandonia» aggiunge all’ironia sul saccente pop-biblista una puntura dissacrante al Libro sacro. 10. Irriverenze bibliche Ma quanto a Bibbia, Casti ci squaderna una piccola galleria di personaggi dipinti nei quadri collezionati dall’Arcivescovo di Praga nella omonima novella, la XXXIX delle Galanti. Un religioso li illustra a una ex attrice dalla vita disinvolta, suscitando i commenti maliziosi della donna. Eccoli di fronte alla casta Susanna: – E chì è colei che fra quei due sbordella Nuda così, ed un sol non le ne basta? – Susanna, rispond’ei, la casta è quella Che alla lussuria dei vecchion contrasta. – Voi mi fate pur ridere, diss’ella, Ve’ gran prova! co’ vecchi anch’io son casta; Vorrei vedere un po’ se fosse stata Con un bel giovinotto sì sguajata. (LIV 65) E Belli: 56 La scéna 1 de Bbardassarre, 6 aprile 1834, vv. 5-8 e 12-14. Tu mm’addimanni a mmé ssi ffu pputtana a li su’ tempi la casta Susanna. Che vvôi che t’arisponni a sta dimanna? Bisoggnerebbe dillo a la mammana. Ma ccerto cuella vorta che in funtana l’acchiapponno li bbocci a la lavanna, se pô rride d’accusa e de condanna ch’entrassino li lupi in de la tana. Che vvôi che sse fascessi de du’ vecchi co cquelle sscimmesscimme-cose-mossce? Nun je la vorze dà: dìllo, e cciazzecchi. Ma ssi la donna tu la vôi conossce, métteje avanti un par de torciorecchi, eppoi guardeje er gioco de le cossce.57 La visita guidata in galleria prosegue, e i due giungono davanti al dipinto del casto Giuseppe insidiato dalla nuda moglie di Putifarre: – E quella dama che il mantello toglie A un giovine, e par seco aver contrasto? – Ella è di Putifar la bella moglie, Martin risponde, egli è Giuseppe il casto, Che alle di lei s’oppon lascive voglie E fugge. Ed ella: voi toccate un tasto che ad accordarvi mica io non m’induco; – Scommetto che Giuseppe egli era eunuco. (34.67). E Belli: In capo a una man-d’anni er zor Peppetto addiventato bbello granne e ggrosso, la su’ padrona jjotta de guazzetto, j’incominciò a mettéjje l’occhi addosso. 57 lndovinela grillo, 4 ottobre 1831 Ce partiva cor lanzo de l’occhietto, sfoderava sospiri cor : inzomma, a ffalla curta, dar giacchetto lei voleva la carne senza l’osso. Ecchete ‘na matina che a sta sciscia lui j’ebbe da portà ccert’acqua calla, la trova zur zofà ssenza camiscia. Che ffa er cazzaccio! Bbutta llì la pila; e a llei che tte l’aggranfia pe ‘na spalla lassa in mano la scorza, e mmarco-sfila!58 Vero è che nel secondo caso la prossimità pare generica, e Belli si limita a dare dello stupido (cazzaccio) che Casti bolla come impotente anzi castrato, esattamente come faceva un autore a lui certamente noto, Giorgio Baffo, nel suo sonetto su quell’episodio.59 Ma acquista rilievo il fatto che non solo le ottave sono contigue in Casti, e che Belli, dedicò al casto Giuseppe i primi versi di soggetto biblico del suo Commedione, per riprendere poche settimane dopo il filo scritturale proprio con il sonetto su Susanna e i vecchioni. Un’altra novella evoca la Bibbia già nel titolo: Le due Sunamitidi (III) prende infatti nome dalla giovane di Sunam che scaldò il letto del vecchio re David. Qui, a un probo vecchio vescovo calabrese, vengono poste nel letto due giovani balie per nutrirlo con il latte umano, unico alimento in grado di guarire il vecchio malato. In realtà è un trucco: le due giovani infatti sono 58 Giusepp’abbreo, II, 7 settembre 1831. 59Giorgio Baffo Critica sora el caso de Giuseppe ebreo (III, 10), «Quando lezo quel passo de Scrittura, / che conta el caso de Giuseppe ebreo, / che no ha volesto gnanca con un deo / toccarghe a quella donna la natura, // che no ’l gavesse cazzo go paura, / perchè no se puol dar che quel Giudeo / fosse cussì cogion, cussì marmeo, / de no chiavarla subito a drettura. Casti cita il poeta veneiano a Casti in una novella galante, La celia, laddove un corteggiarore assiduo e importuno, credendo che finalmente la dama intenda cedergli, medita di indirizzarle un «onettino‚ amoroso « Su quella felicissima avventura «Fra lo stil di Nasone e quel di Baffo» (V 15). incinte, e si vuol far credere al vecchio casto che i suoi «effluvi» abbiano ingravidato le giovani donne. Così gli si rivolge il medico: E quei: nè in ciò trov’io gran maraviglie Nè la Scrittura disfiguro o storco. Poichè Lot tracannò più e più bottiglie, Sonnacchioso e ubriaco come un porco; Vecchio, com’era, ingravidò le figlie, Quantunque il fatto fosse un pochin sporco. Nè due donne impregnar potreste voi Non ebbro e immune dagl’incesti suoi? (III 5) Belli, oltre a sorridere sulla animata vita amorosa di Davide anch’essa evocata nella novella castiana, dedica all’episodio di Lot tre sonetti, l’ultimo dei quali riprende proprio l’amplesso con le figlie: Già a Ssodema e Gghimorra ereno cotte tutte le ggente arrosto com’e ttrijje, e dde tante mortissime famijje pe ccaso la scappò cquella de Lotte. Curze er Padriarca finamente a nnotte senza mai pijjà ffiato e staccà bbrijje: ma cquà, ssiconno er zolito, a le fijje je venne fantasia de fasse fotte. Ma pe vvia che nun c’era in quer contorno neppuro un cazzo d’anima vivente, disseno: «È bbono Tata»: e ll’ubbriacorno. Poi fatteje du’ smorfie ar dumpennente, lì dda bbone sorelle inzin’a ggiorno se spartirno le bbotte alegramente.60 Inutile richiamare la non marginale violazione della fonte sacra, dove le 60 Lotte ar rifresco 3°, 17 gennaio 1832 - figlie sino allora vergini si uniscono separatamente al padre reso incosciente dal vino al solo fine di garantire la continuità della stirpe: come accade sovente nei sonetti, Belli mostra un distacco ironico dal parlante plebeo e dalla sua polemica politica ideologica; ma è indubbio che l’atteggiamento di ironia verso episodi inverosimili o moralmente sconcertanti dell’Antico testamento poggia su una base illuministica, la stessa avvertibile nella chiusa della novella castiana: Di santità la sacra Bibbia è tempio, Non dà che lezion savie e istruttive; Sempre propone un qualche bell’esempio, E se, siccome spesso avvien, descrive Osceno fatto, scellerato ed empio, Son cose ognor simboliche, allusive. Ella d’oscuri ognor simboli è mista, E i simboli sol denno aversi in vista.(III 78 ) Più d’una volta Casti insiste sulla continiuità che lega la Roma pagana alla Roma cristiana, in novelle quali L’origne di Roma e L’Apoteosi, per la credulità popolare, l’uso strumentale della religione a fini di potere, la corruzione del costume. Ma non meno rilevante è in lui l’attitudine razionalistica a reinterpretare alla luce della ragione le antiche storie o leggende tramandate dai gentili e degli ebrei, e a sottolineare anche certe affinità fra quei miti (nell’Origine di Roma, per esempio, paragona l’ascesa al cielo di Romolo a quella di Elia, i decreti sacerdotali di Numa Pompilio al Deuteronomio). Non dissimile la sensibilità antiquaria o antropologica, in senso vichiano, che affiora nelle note ai Sonetti e nello Zibaldone belliano. 11. Il refrain della Chiesa corrotta Anche nella ripresa del motivo di Roma degradata da caput mundi a città soggetta ai francesi, Roma capomunni,61 ridotta a «stalla e chiavica der Monno» per la miseria morale in Li Prelati e li Cardinali,62 emerge la pluralità delle fonti. Sono le opere di autori frequentati da Belli: Dante, 61 Roma 62 Li capomunni, 5 ottobre 1831. Prelati e li Cardinali , 27 maggio 1834, v. 14. «Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, […] fatt’ha del cimitero mio cloaca / del sangue e de la puzza» (Paradiso, XXVII, vv. 22-26), ancora Boccaccio, «Roma, la quale, come è oggi coda, così già fu capo del mondo» (Decameron V 2), Aretino, «poi venne a la novella che udì Roma dei lanzi e dei giuradii i quali ne venivano a bandiere spiegate per farla coda mundi» (Dialogo nel quale la Nanna insegna a la Pippa sua figliuola a esser puttana, giornata II), nonché ancora Casti, «La santa Roma, del mondo, / fogna sarà di questo vizio immondo» (L’origine di Roma, XVIII, 19). Nel ventaglio dischiuso, si avverte però che la «chiavixa» belliana somiglia alla «cloaca» dabtestca e alla «fogna» castiaba ben più che alla «coda» di Boccaccio e di Aretino, <mi pare ci fosse anche altro luogo di Casti, capocoda> E siamo così giunti alle Tre corone. Dante, decisivo per l’opzione belliana di una poetica realistica permeata di impegno etico, lascia varie tracce testuali nei sonetti e diventa modello di alcune indignate invettive civili, sostenute nello stile e popolaresche nel linguaggio;63 Petrarca incise non poco sulla poesia italiana di Belli,64 ma alcune tracce le lasciò, sorprendentemente, anche nell’opera romanesca; la quale consuona anche con la terza corona, Boccaccio, diffusamente sul piano tematico e meno su quello linguistico.65 E si avverte qui che del Decameron Belli stese un dettagliato indice analitico, confrontabile per ricchezza solo con quello da lui predisposto per i Promessi sposi.66 Si aggiunga, a proposito delle Corone trecentesche, un appunto dello Zibaldone: «è rimarchevole che dove desideravano essi fama ottenessero quasi oblio, e dove sollazzo trovassero 63 Cfr. il nostro Belli smascherato: sui sonetti metapoetici, in Belli senza maschere, cit., pp. 99-117. Cfr. Maria Teresa Lanza, Petrarca nell’officina di Belli, in «Esperienze letterarie», 2005, 2, pp. 25-36. 65 Tra i circoscritti contatti linguistici segnaliamo, per esempio, il plurale dua, l’epentesi di Pavolo, il traslato erotico scaricar le some prossimo al belliano scaricà le ceste, le accezioni oscene di ‘scorticare’ e ‘nicchio’ e poi i termini mammana ‘levatrice’, babilano ‘impotente’, mozzorecchio ‘avvocato’, mortorio ‘funerale’, zinne ‘mammelle’, vicinato ‘fondo-schiena’. farnu ke fuse, ciccia conbtro ciccia: omo donna fonasce, CASTI? cerbottana ?froyypòa’ 66 L’indice occupa nello Zibaldone belliano gli articoli 1485-1503 (cfr, Lettere Giornali Zibaldone cit., pp. 492504 ). Si veda, per averne un’idea, la lettera A: «Indice del Decameron di messer Giovanni Boccaccio cittadino fiorentino (Firenze, P. Caselli e C., 1824), voll. cinque (in 32°), di mia proprietà. Astrologia, I, 28. Alloro I 36. Ablusioni I 58, 117, 330. Avarizia I 113, 121; III 165; IV 115. Alberto (medico), I, 129. Azzi (marchese di Ferrara) I 148. Albergo (albergare) I 151. Allocuzione I 170. Algarvi (Regno degli) I 232. Atene I 243. Amore I 279, 281; II 139, 224; V, 159. Asino I 296; II 156; IV, 203. Acri (città) I 308. Alessandria (d’Egitto) I 316. Agilulf (Re) II 21. Anelli II 129. Angioli II 183. Assisi II 186. Amalfi II 266. Arcieri III 31. Adulterio III 82, 157; IV 102. Abruzzi III 178. Avignone IV 116. Amatorie IV 175; V 43. Astronomia V 3. Argenti Filippo V 62. Alfonso (di Spagna) V 87. Arezzo V 145. Amicizia V 157, 171, 183. Ambusto (Publio) V 181. Becchini, I, 38 Banchetto, I, 58, 117; IV, 46; V, 136 (Lettere Giornali Zibaldone, cit., p. 492). 64. fama»; e s’intende che il termine di sollazzo par convenire alle novelle di Boccaccio e magari alle nugae volgari di Petrarca che non alla Commedia dell’ammirato Dante. Quando accenna al Certaldese nelle sue lettere, Belli lo associa devotamente ai grandi maestri della patria letteraria, mentre non manca di punzecchiare il boccaccismo degli stenterelli.67 L’aggettivo «boccaccesco» vince comunque su «boccacciano» nei commenti e negli studi belliani, compresi i nostri, nei quali abbondano i rinvii al Decameron, l’unica opera del Certaldese menzionata da Belli, per la satira antifratesca, per il cocktail sesso-religione e per il tipo della vedova allegra (rappresentato però nel Corbaccio). Qualche contatto tutt’altro che generico però si trova, come nel sonetto sulle reliquie, in quello intitolato Er bon’esempio, dove un religioso che predica la castità risponde a chi lo ha scoperto mentre copula con una donna: […] Lei facci, sor mastro, nò cquer ch’er prete fa ma cquer che ddisce.68 Traspare in questi la memoria del Decameron (III 7) in cui Boccaccio critica frati che «sgridano contro gli uomini la lussuria, acciò che, rimuovendosene gli sgridati, agli sgridatori rimangano le femmine», e aggiunge che «quando di queste cose, e di molte altre che sconce fanno, ripresi sono, l’avere risposto fate quello che noi diciamo e non quello che noi facciamo, estimano degno scaricamento d’ogni grave peso, quasi più alle pecore sia possibile l’esser costanti e di ferro che a’ pastori». Anche la tresca tra un compare e una comare del sonetto Li comparatichi può richiamare la storia boccacciana e boccaccesca di una 67 Scrivendo alla moglie da Firenze, il 24 luglio 1824, Belli la ragguaglia sui suoi pellegrinaggi letterari; «Il platano intorno a cui siedette Boccaccio colle sue gentili novellatrici; e la casa entro la quale il Guicciardini scrisse le belle storie italiane. Ho veduto anche la villetta di Dante, ed il torrente Mugnone giù pel quale il ridetto Giovanni Boccaccio descrisse i suoi Bruno, Calandrino e Buffalmacco (se non erro) in cerca della nera elitropia; e per tacere di tante altre cosette ho visitato la Ducal delizia di Poggio a Caiano celebrata da Angiolo Poliziano col poemetto intitolato l’Ambra, e dove morirono Francesco I, e Bianca Cappello». (Lettere, cit., n. 38). Scrivendo poi all’amico e consuocero Giacomo Ferretti, il 28 maggio 1835o, gli allega un suo sonetto con punte anticruschevoli: «Al professore D. Michelangelo Lanci pel premio quinquennale della Crusca nel 1835: Deh, Michelangiol mio, come hai tu posta / la sublime opra tua dentro lo staccio / di quelle scimie di Giovan Boccaccio / per cui Monti sprecò tempo e Proposta? // Meglio oh quanto era il fartene una rosta / da cacciar mosche, o involgerne il migliaccio, / o accenderne un falò pel berlingaccio, / mal grado delle veglie che ti costa! // Quando, più ch’essa, ha prezzo oggi un sermone, / e sopra un Lanci si solleva un Buffa, / Morto in terra è il poter della ragione. // E i buon messeri della crusca muffa / dan prova al Mondo omai che il loro frullone / gira, come il cervel, di buffa in truffa» (Lettere, cit., n. 210). 68 Er bon’esempio, 10 maggio 1833. donna che, «non ostante il comparatico, si recò a dovere fare» con il compare «i suoi piaceri, né incominciarono pure una volta, ma sotto la coverta del comparatico avendo più agio, perché la sospezione era minore, più e più volte si ritrovarono insieme» (Decameron VII 3). A sua volta Belli, precocemente e ricettivamente letto da Verga,69 può sospettarsi fonte dell’amico di questo, Luigi Capuana, che nella novella Il comparatico (1882), racconterà la tresca tra un compare e una comare, volgendola però al tragico con lo scannamento degli adulteri mano del marito geloso (Racconti, I, 16).70 Non vistoso ma determinante è l’ipotesto boccacciano che trapela nel sonetto Ruzza co li fanti, e llassa stà li Santi;71 Chi tte lo nega? Ha un tantinèr dell’orzo biastima un goccio, è un pò llesto de mano, penne p’er gioco, ha la passion der zorzo, E jje cricca er mestier der paesano. De rimanente poi è bbon cristiano, stà scritto a la Madonna der Zoccorzo, donne nun po vvedelle da lontano, e è ddivoto de San Carl’ar Corzo. Chi ppe cconosce l’Ommini, commare, praffe, s’afferma a la prim’ostaria, pijja un cazzo pe un fischio, e nnun je pare. Tant’antri bbaron bècchi-bbù-e-vvia sò iti a tterminà sur un artare!… Abbasta, nun entramo in zagrestia! Un plebeo di morale elastica ridimensiona il giudizio negativo di una comare su un comune conoscente. Con furbesche formule riduttive ammette che è un misantropo, bestemmiatore, ladro, giocatore e delatore, vizi compensati, a suo dire, dalle supposte virtù altrettanto furbescamente elencate nella seconda strofa. 69 Cfr. il nostro Verga, Belli e il duello rusticano, in Belli senza maschere, cit., pp. 435-443. 70 Nota 71 Ruzza su capuana studiato da Oliva co li fanti, e llassa stà li Santi, 23 gennaio 1832. Vighi segnala che per Muscetta la somma di difetti del supposto bbon cristiano produce «un effetto comico analogo al cumulo di vizi del boccaccesco ser Ciapparello».72 In effetti Belli si ispira alla figura del corrotto e geniale ser Ciappelletto, che romanizza trasformando in devozione esteriore il suo disprezzo delle pratiche cristiane: «Bestemmiatore di Dio e de’ santi era grandissimo; e per ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcun altro era iracundo. A chiesa non usava giammai; e i sacramenti di quella tutti, come vil cosa, con abominevoli parole scherniva; e così in contrario le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli. Delle femine era così vago come sono i cani de’ bastoni; del contrario più che alcun altro tristo uomo si dilettava. Imbolato avrebbe e rubato con quella conscienzia che un santo uomo offerrebbe. Gulosissimo e bevitore grande, tanto che alcuna volta gli facea noia. Giucatore e mettitor di malvagi dadi era solenne» (Decameron I 1). Da Boccaccio il nostro poeta mutua anche la tecnica enumerativa dei vizi, nonché il modo furbesco con cui allude alle inclinazioni erotiche del protagonista, il quale non può vedere le donne… da lontano, quelle che Ciapparello perché… preferiva i maschi. E pure a quella canaglia, finita sugli altari grazie alla sua ipocrisia, si rifà nella strofa finale, dove disobbedendo alla sentenza del titolo proverbiale, Ruzza co li fanti, e llassa stà li Santi, entra in zagrestia, come il maestro trecentesco nella novella con cui inaugurava il Decameron, incorniciata dalle sue riflessioni morali e religiose. Sicché l’effetto prodotto dal nostro sonetto, più che comico, è umoristico, e quello della storia boccacciana, grottesco. Per Muscetta Belli rielabora «spunti» della novella di madonna Filippa (Decameron VI 7) nel sonetto Lo scannolo,73 in cui una giovane, che convive more uxorio con un amante si difende dalle critiche di «vecchie corve», invocando il diritto al libero amore. 12. Conclusione 72 Vighi nel suo commento alle Poesie romanesche cit. rinvia a Muscetta, senza la pezza d’appoggio testuale; poiché tra gli studi belliani del critico non ci à riuscito di reperire il richiamo a Ciappelletto, non è da escludere che Vighi si rifrisse a colloqui verbali con Muscetta, di cui era amico. 73 Lo scannolo, 4 febbraio 1833. Insomma, un pizzico di Boccaccio e una più generosa spolverata di Casti insaporiscono i sonetti belliani. Potremmo parlare di boccaccismo mediato o cucinato alla libertina. Né deve stupire che il poeta romanesco si sia ispirato con maggiore fedeltà alle scorrevoli e colloquiali ottave settecentesche, meno manierate della prosa del Trecentista, che intiepidiva con lo stile ciceroniano il magma rovente della materia. Trasponendo quella prosa artificiata in versi conversevoli e puanu, Casti aveva mosso dei primi passi su un sentiero che Belli avrebbe percorso con gli stivali delle sette leghe, portando il parlato un versi dal chuso dei salotti nel plein-air delle vie poplari, sostituendo all’italiano medio della buona società il più colorito e rude dialetto. Delle Novelle galanti si potrebbero indicare altri influssi sulle poesie romanesche, a partire dal pulviscolo di singole parole o espressioni del parlato laziale, familiare all’abate, fino a quelli tematico-ideologici, più ampi ma generici. E qualcosa si dovrebbe aggiungere sulle consonanze tra la raccolta dialettale e un’altra opera castiana in versi, Gli animali parlanti, provvisti di favella in età pre-adamitica in due componimenti belliani Le bbestie der paradiso terrestre74 e Chì la tira la strappa:75 l’attacco sferrato dall’abate illuminista contro l’uso dei cantori castrati in Le pecore, apologo che figura nell’appendice II dell’opera (sestine 69-71), ritorna nel sonetto Er zoprano,76 e la condanna della crudeltà degli uomini verso gli animali di un apologo pure aggiunto al poema, L’asino, storia di un somaro ucciso con una bastonata, che Belli cita in una lettera77 e ripropone in Se more, un gioiellino di cui poté ricordarsi il Verga di Rosso Malpelo.78 Ma quanto detto può bastare a iscrivere l’opera di Casti nella ridotta lista di quelle che incisero sul capolavoro romanesco. Il razionalismo moralista di Belli, avverso al potere temporale della Chiesa e sollecito nel frustare la condotta di frati e prelati di dubbia vocazione, e tuttavia fedele alla sua scelta cattolica, non coincide certo con il libertinismo dell’abate, che praltro non rinunciò all’abito talare nonostante l’incerta fede. Il suo pensiero, filtrato da personaggi popolari con o senza schermi ironici, risulta più complesso di quello esposto limpidamente in prima persona da Casti. Si aggiunga che 74 Le bbestie der paradiso terrestre, 19 dicembre 1834. la tira la strappa, 16 aprile 1834. 76 Er zoprano, 6 gennaio 1833. 77 Lettere, n. 471 nell’edizione cit. 78 Se more, 20 aprile 1834. E cfr Belli.Verga di Gibel 75 Chì l’influenza del libertino caratterizza una certa fase del percorso poetico e intellettuale di Belli, lungo un arco temporale che, data per buona la serie dei sonetti additati, corre dal 1830 al 1834 (fra i sonetti di sapore castiano, quattro cadono nel 1830, altrettanti nel 1831, tre nel 1832, sei nel 1833, cinque1835e nel 1834): dopo questa data la memoria delle Novelle galanti si assottiglia fino a scomparire dal percorso belliano, che procede verso altri lidi, più complessi e temperati.79 Con tutto ciò, sembra comunque innegabile lo stimolo intellettuale che, accanto a suggestioni immaginative e verbali, Belli ebbe a ricevere da quell’abile e scomodo scrittore; dal suo libertinismo, il non libertino Belli mutuà però gli anticorpi che impediono al suo cattolicesimo di imoccare la via dell’ipocrisia e della sessuofobia, dell’astratteza teikifucam dell’integralismo intollerante, della devozionbe popolaresca e superstiziosa, Perciò, pur senza nominarlo, et pour cause, Belli volle definire Casti il suo suo inconfessabile «amico». 79 Il dato è forse da collegare alla maturazione del pensiero belliano, sfociato a esiti più complessi e temperati: senza per questo voler retrodatare la crisi che condusse Belli ad abbandonare e disconoscere la poesia romanesca, con una scelta liquidata frettolosamente come totale abdicazione e involuzione reazionaria. Come è noto, gli sconvolgimenti del 1848-1849 ebbero un effetto traumatico sull’animo di Belli, preoccupato che la circolazione dei suoi versi potesse mettere a repentaglio la sicurezza sua e dei suoi cari: di qui il rogo delle carte che aveva in casa, la rinuncia a scrivere in dialetto e il disconoscimento della produzione romanesca. A parer nostro, la situazione è più complessa: Belli disconobbe la paternità di certi suoi versi circolanti anche perché difformi dagli originali, provvide a emendare copie apografe pervenuta al conte Placido Gabrielli (si veda ora al riguardo Massimo Colesanti, Belli ritrovato, Ed. di Storia e Letteratura, Roma 2010) e dovette pensare a un’edizione postuma o quanto meno posteriore alla fine dello Stato pontificio. BAFFO IN BELLI? «Che ppredicava a la Missione er prete? “Li libbri nun zò rrobba da cristiano: fijji, pe ccarità, nnu li leggete”» 1. Rari fontes in gurgite vasto Attinto alla fonte viva della realtà, enunciato per bocca di una «plebe ignorante» seppur «concettosa ed arguta», il capolavoro belliano è quasi esente da reminiscenze libresche. La caccia alle fonti praticata dai commentatori non ha raccolto troppe prede: Carlo Porta, d’accordo, e poi qualcosa di Dante, Petrarca, Boccaccio, Aretino, Berni, Goldoni, Manzoni, stille che dal vaso cristallino delle letture del colto poeta sono gocciolate nelle brocche argillose dei suoi plebei. E poco altro. Fra quel poco, l’abate Giovan Battista Casti: il capitello affiorante di due versi che il poeta confessava in nota d’aver rubato a un imprecisato «amico» ci hanno condotto a identificarne il sito archeologico, la corona di sonetti Li tre giulj, invogliando a estendere lo scavo che ha portato alla luce l’imponente edificio delle Novelle galanti, la fonte forse più cospicua del Commedione romanesco dopo l’opera milanese di Carlo Porta.80 Ma se la familiarità belliana con l’opera di quel libertino laziale celebre in tutta Europa ha meritato un commento, che dire del famigerato e sboccatissimo patrizio veneziano? Sboccatissimo al punto da costringerci a confessare l’imbarazzo per le citazioni che dovremo fare, con rossore solo in parte attenuato dal rilievo che, a detta dei biografi, l’uomo fosse morigerato nel dire e marito dabbene nel condursi, quasi un dottor Jekyll che sfogasse il lato oscuro solo nella vita parallela tracciata con la penna sulla carta. E avvertiremo qui che studi recenti rilevano come il suo sfrenato libertinaggio letterario vada connesso a un pensiero libertino in senso più serio, incarnato da una cerchia di orientamento epicureo, illuminista e laico attiva a Venezia anche sul piano politico-culturale.81 80 Cfr. il nsrto articolo GIBELLINI, Dalla novella al sonetto: Belli, Casti e un po' di Boccaccio, in «Italianistica», 2013, 2, pp- 127-146. 8riprodotto in questi volue). 81 Cfr. Piero Del Negro, Introduzione a Giorgio Baffo, Poesie, a cura dello stesso, Mondadori, Milano 1991, pp. 3-91. 2. Una lettura sottobanco? Belli non nomina mai Giorgio Baffo, nei Sonetti o altrove. Una lista di auctores dialettali sigilla invero la prefazione che Ciro Belli, il figlio del poeta, premette all’antologia postuma pubblicata nel 1865-66: essa potrebbe forse riflettere le conoscenze paterne trasmesse da Francesco Spada e monsignor Vincenzo Tizzani, i due amici del poeta che aiutarono Ciro ad allestire quella ampia seppur castigata silloge: «Il nome di Giuseppe Gioachino Belli», confida il prefatore, «andrà quind’innanzi congiunto con quelli del Meli, del Porta, del Regina [Martin Piaggio], del Calvo, del Genoino, del Burati [sic] e di quanti altri illustrarono il patrio loro dialetto».82 Siciliano, milanese, genovese, piemontese e napoletano sono designati con i nomi degli autori allora ritenuti più rappresentativi, i loro cantori eponimi: seggio che per il veneto tocca a Pietro Buratti. Del resto Buratti era allora in auge, se Stendhal poteva affiancarlo a Baffo e a Porta nel suo ammirato interesse, specie per il compatriota elettivo di Henri Beyle «milanese» (il «consolo di Francia» a Civitavecchia non sembra aver invece conosciuto Belli, o almeno la clandestina musa romanesca del poeta in cui aveva generato una punta di gelosia per i contatti con l’attrice Amalia Bettini).83 Più tardi le quotazioni di Baffo avrebbero superato quelle di Buratti come basta a ricordarci l’elogio di Apollinaire,84 a voler trascurare i fitti segni di lettura tracciati da D’Annunzio nel suo esemplare dei versi veneziani, che dovevano interessare il vecchio libertino del Vittoriale per la materia a luci rosse, al pari dei sonetti di Belli, sottolineati e postillati soprattutto nel famigerato sesto volume dell’edizione Morandi che raccoglieva come in un reparto infettivi i testi più osés.85 A Venezia, oltre che a Ferrara, Belli era stato nel 1817, prima dunque della svolta che lo condurrà a edificare, specialmente fra il 1830 e il 1837, il suo monumento dialettale, anche se il primo isolato pezzo risale proprio a quell’anno: un viaggio cui Belli si riferiva indirizzando nel 1855 versi italiani al suo ospite di allora, il conte Tommaso Gnoli, cui ricordava d’esser stato «in piazza di San Marco entro Venezia / mangiando bozzolai pur caldi82 [Ciro Belli[, Ai lettori, in Poesie inedite di Giuseppe Gioachino Belli romano, Salviucci, Roma 1865, I, p. 6. Luigi de Nardis, Stendhal e Belli [1976], in Roma di Belli e di Pasolini Bulzoni, Roma 1977, pp. 26-33; 84 L’œuvre du patricien de Venise G. B., in L’œuvre libertine des conteurs italiens, I, Paris 1910. 85 Cfr. il nostro D’Annunzio e Belli (1976), raccolto in Il coltello e la corona. La poesia del Belli tra filologia e critica. Bulzoni, Roma 1979, pp. 150-163. 83 Cfr, caldi».86 Quell’anno usciva nella Collezione di Bartolomeo Gamba87 una scelta di poesie di Buratti le cui satire già circolavano nei caffè e nei salotti. Non possiamo sapere, invece, se avesse potuto procurarsi l’antologia di Poesie di Baffo uscita clandestina nel 177188 o la Raccolta universale dei suoi versi stampata nel 178989 alla macchia ma assai diffusa, come avrebbe invece fatto poi nel viaggio a Milano del 1827, procurandosi alla borsa nera l’edizione luganese delle Poesie di Carlo Porta, lettura decisiva per la genesi dei sonetti romaneschi.90 Degli scottanti versi baffeschi circolavano del resto anche numerose copie manoscritte, durante la vita dell’autore (1694-1768) e anche dopo le prime stampe. Procurarsene qualcuna doveva essere facile al pari dei bozzolai, dei gustosi bossolà veneziani. 3. Un Motivo “fortunato”: l’infelicità umana Capitò a noi, tempo fa, di avanzare per primi, e con cautela, il nome di Baffo come uno dei possibili antecedenti della riscrittura romanesca che Belli procurò del sonetto di Giambattista Marino, senza peraltro dichiarare il debito verso il Secentista, come invece aveva fatto per cinque «imitazioni» di Porta: omissione dovuta alla notorietà del modello secentesco o all’intento di rivendicare implicitamente l’originalità del remake?91 Ecco i due testi; quello di Marino suona così: Apre l’uomo infelice, allor che nasce in questa vita di miserie piena, pria ch’al sol, gli occhi al pianto, e nato a pena, va prigionier tra le tenaci fasce. Fanciullo, poi che non più il latte il pasce, sotto rigida sferza i giorni mena; indi, in età più ferma e più serena, tra Fortuna ed Amor more e rinasce. 86 Belli italiano, a cura di Roberto Vighi, Colombo, Roma 1975, III, p. 579, vv. 19.21. Tip. di Alvisopoli, Venezia 1817. 88 Le poesie di Giorgio Baffo patrizio veneto, s.l. [Londra?[ 1771. 89 Raccolta universale delle opere di Giorgio Baffo veneto, s.e. Cosmopoli [Venezia?] 1789, tomi 4. 90 Cfr. il nostro Belli e Porta, in Il coltello e la corona, cit., pp. 93-148. 91 Cfr, il nostro «La vita dell’omo» e il Quaresimale del Belli [1983] poi raccolto in I panni in Tevere. Belli romano e altri romaneschi, Roma, Bulzoni, 1989, pp. 65-89. 87 Poesie, Quante poscia sostien, tristo e mendico, fatiche e morti, infin che curvo e lasso appoggia a debil legno il fianco antico? Chiude alfin le sue spoglie angusto sasso, ratto così, che sospirando io dico: “Da la cuna a la tomba è un breve passo!”. 92 E Belli gli fa eco descrivendo in questo modo La Vita dell’Omo: <già citato> Nove mesi a la puzza: poi in fassciola tra sbasciucchi, lattime e llagrimoni: poi p’er laccio, in ner crino, e in vesticciola, cor torcolo e l’imbraghe pe ccarzoni. Poi comincia er tormento de la scola, l’abbeccè, le frustate, li ggeloni, la rosalìa, la cacca a la ssediola, e un po’ de scarlattina e vvormijjoni. Poi viè ll’arte, er diggiuno, la fatica, la piggione, le carcere, er governo, lo spedale, li debbiti, la fica, er Zol d’istate, la neve d’inverno… E pper urtimo, Iddio sce bbenedica, viè la Morte, e ffinissce co l’inferno.93 <giè riportato> Meritatamente premiata da traduttori e antologisti, questa poesia è stata oggetto di una fitta riflessione critica, vòlta, tra l’altro, a segnalare gli autori che sul diffusissimo topos della miseria humanae condicionis si erano già 92 Infelicità 93 Il umana, in Opere, a cura di Alberto Asor Rosa, Garzanti, Milano 1997, p. 209. testo dei Sonetti è attinto alle Poesie romanesche di belli, a cura di Roberto Vighi, Libreria dello Stato, Roma, 1988-1993, voll. 10. Il commento del curatore è in seguito citato col semplice nome Vighi. Lo stesso vale per gli altri commentatori e studiosi citati nella pagina vighiana: Giorgio Vigolo (I sonetti romaneschi di G. G. Belli, Mondadori, Milano 1952, voll. 3), Carlo Muscetta (Cultura e poesia di G. G. Belli, Feltrinelli, Milano 1961) ed Euriale De Michelis (Approcci al Belli, Istituto Studi RomaniBulzoni, Roma 1969). cimentati. «Il Vigolo ne enumera i precedenti, da Giobbe a san Bernardo, da Jacopone al Leopardi, mettendo in rilievo come il Belli gl’imprima ben altro spirito e un accento di estrema amarezza e ironia; il Muscetta [pp. 135 e 391] insiste sulla derivazione da Motivi volterriani; il De Michelis [pp. 47-48] considera il confronto con il sonetto italiano Mia vita del 1857». Così sintetizza i più rilevanti contributi sul sonetto Roberto Vighi, che conclude con un generoso apprezzamento del nostro contributo «La vita dell’omo» e il Quaresimale del Belli, dove segnalavamo la presenza del Motivo in numerosi altri componimenti romaneschi belliani e incrementavamo il catalogo delle letture che, insieme alle prediche quaresimali, potrebbero aver ispirato indirettamente il poeta romano: l’Antico e il Nuovo Testamento, san Girolamo e Innocenzo III, Tasso e Ciro di Pers, Shakespeare e Bossuet, Buffon, Montesquieu e Rousseau, Parini e la Staël… Sottolineavamo anche l’analogia, non solo espressiva, con i versi 39-42 del Canto notturno di Leopardi contenuto nell’edizione fiorentina del 1831 posseduta da Belli: «Nasce l’uomo a fatica / ed è rischio di morte il nascimento. / Prova pena e tormento / per prima cosa», con quel che segue. Indicavamo invece come possibile fonte diretta la sonettessa con lunga coda Miserie della vita umana di Giorgio Baffo: Cosa sia l’Omo, e cosa ‘l fazza quà, voggio filosofarghe un poco suso; mi vedo, che co ‘l vien fuora del buso Subito ‘l pianze, come un desperà; […] Bisogna che ‘l sopporta, e malattìe, e in primo liogo quel de far i denti; dopo, ferze, variole, e rosolìe, spasemi, batticuori, e patimenti, avanti, se puol dir, che’l staga in pìe. […] Vien vìa pò la gran pena d’andar a scola, e quella de studiar per aver qualche scienza da imparar; se un’arte pò ‘l vuol far, avanti, che ‘l la impara a sufficienza, cosa ghe vuol de tempo, e de pacienza! […] Amor pò in la testa ghe vien co tutti quanti i so despeti, altro, che ‘l Cà del Diavol dei poeti, i più contrarj effeti lo combatte, e lo strapazza a ‘na misura, che quasi lo reduse in sepoltura. Oh misera natura! […] Vien pò la malattìa, che xe l’ultima affatto della vita, […] Questo xe l’Omo, e questo xe ‘l so stato, che, co ghe penso, no vorrìa esser nato94 Aggiungiamo ora, a quell’ipotesi pionieristica, il sospetto che la polarità fra i Nove mesi prenatali e l’eternità post mortem introdotta da Belli variando il modello mariniano sia stata suggerita dalla lettura del sonetto di Baffo Vorria star in mona sin’ alla fin del mondo, fantasioso adynaton del poeta libertino: Per el più gà da star L’Omo in preson in panza della Dona Prima de spuntar fuora della Mona, E vegnir a sto Mondo a respirar. Dopo mille malanni ‘l gà d’andar In t’una sepoltura sfondradona, E della so miseria per corona In quella eternamente ‘l gà da star. Vorrìa, ch’alla roversa tutto andasse, Che, quando se xe morti, in sepoltura Per niove mesi solo se restasse; 94 Raccolta universale cit., III, 178, vv. 1-4, 10-14, 21-26, 39-45, 117-118, 127-128. Per le poesie di Baffo ci riferiamo alla postuma Raccolta universale indicando il tomo con il numero romano e il componimento con la cifra araba. Sulla Raccolta del 1789 è esemplata, con ammodernamenti grafici, l’edizione curata da Elio Bartolini, Longanesi, Milano 1971. E all’incontro, per leze de Natura In Mona della Donna se ghe stasse In sin a tanto, che sto Mondo dura (I, 26). Mettevamo poi a confronto il sonetto belliano con la versione in dialetto reatino del testo mariniano procurata dal secentesco Loreto Mattei («Appena l’ome è escitu da la coccia»), a suo tempo segnalata da Luigi Morandi,95 sostenendo che Belli ne aveva tenuto conto, a differenza di quella napoletana di Nicola Capasso, illustre collega di Giambattista Vico e amico di Pietro Giannone, troppo fedele all’originale di Marino per candidarsi come un necessario testimone interpositus fra il cavaliere napoletano e il poeta romanesco.96 Insomma, quello della pluralità delle fonti è un dato da tener sempre presente mentre ci inoltriamo nella nostra ricerca, assieme all’altra delicata questione; quella di distinguere tra intertestualità e interdiscorsività, fra riferimento a un individuato modello testuale e Motivi largamente diffusi nella tradizione letteraria, alta o popolare, quando non si tratti di mere coincidenze lessicali in cui la langue collettiva prevalga sulla parole personale. 4. Il gran gusto dell’iperbole Cautelati con queste premesse di metodo, possiamo sorvolare su certe consonanze lessicali fra Baffo e Belli: parole comuni ai due e non frequenti altrove, ma non esclusive né dei due né dei loro dialetti. Tali ad esempio l’epiteto ingiurioso marmotta,97 mappamondo quale sinonimo di ‘sedere’,98 95 Cfr. I sonetti romaneschi di G. G. Belli, a cura di Luigi Morandi, Lapi, Città di Castello 1886-1889, voll. 6. il nostro Belli, Mattei e un po’ di Marino, in Belli senza maschere. Saggi e studi sui sonetti romaneschi, Aragno, Torino, 2012, pp. 339-366. 97 Come voce italiana. figura nei dizionari ottocenteschii col valore traslato di «uomo di animo addormentato o sornione» (Tommaseo-Bellini) o «uomo tardo e da nulla» (Fanfani, Vocabolario dell’uso toscano, Firenze 1863). Belli l’impiega nell’accezione di ‘tonto, addormentato’ ma anche e soprattutto di ‘sornione, ipocrita’, e applicabile dunque a Giuda Iscariota, a chi mormora contro il papa o al temporeggiatore generale Marmont. Nel romanesco di Giuseppe Berneri marmotta valeva invece ‘uomo da nulla’ o ‘stupido’ (Meo Patacca, VIII, 39), giusto come nelle rime veneziane di Baffo (I. 15; I, 45 ecc,). Cfr. La prima cummuggnone, vv. 6-7, «cquer marmotta de Ggiuda / vojjo dì Ggiuda Scariotta)La vita da cane, vv. 1-2, «Ah sse chiam’ozzio er zuo, bbrutte marmotte? / Nun fa mmai ggnente er Papa, eh?, nun fa ggnente?»; 26. Ar zor Carlo X, v. 4, «cor general Marmotta de Ragusta». 98 «Hai visto er mappamonno de l’ostessa? / Buggerela, pezzìo!, che vviscinato!» chiede ammirato il trasteverino del sonetto Li culi; e Baffo sentenzia decantando il Valor d’un culo tondo, vv. 5-8: «Un culo, che sia fatto a mappamondo, / ’l val tanto oro, che se puol pagar, / e quando, che ’l se possa buzarar, / el xe un Paese, che no ghe ’l secondo» (I, 99). Ma l’epiteto si usa anche in lingua, come il 96 Cfr. bardasso con sfumatura spregiativa:99 schegge verbali, insomma, indizi tutt’al più del ricorso a uno stesso bacino linguistico, comune ad autori di registro comico, satirico o colloquiale. Qualcosa di più potrebbero contare coincidenze di sintagmi o modi idiomatici; arzà la vesta designa in entrambi l’amplesso amoroso,100 quel diporto che Baffo chiama più volte gran gusto proprio come Belli, che gli dedica il più riuscito dei suoi sonetti erotici, L’incisciature: Che sscenufreggi, ssciupi, strusci e ssciatti! Che ssonajjera d’inzeppate a ssecco! Iggni bbotta peccrisse annava ar lecco: soffiamio tutt’e dua come ddu’ gatti. L’occhi invetriti peggio de li matti: sempre pelo co ppelo, e bbecc’a bbecco. Viè e nun vienì, fà e ppijja, ecco e nnun ecco; e ddajje, e spiggne, e incarca, e strigni e sbatti. Un po’ più che ddurava stamio grassi; ché ddoppo avé ffinito er giucarello restassimo intontiti com’e ssassi. seguente, ‘vicinato’, che entra con mappamonno nel sonetto-elenco sui sinonimi di fondo-schiena (Pijjate e capate), ma che è presente pure in Casti («Che la pancia con tutto il vicinato / a una fanciulla discoprir non lice», Novelle galanti XLVII 35) e già in Lorenzo Lippi: («Ed ha un culo che pare un vicinato», Malmantile, III, 51). 99 Meno frequente : forse derivato «dall’arabo bardag, attraverso il francese bardache o lo spagnolo bardaja», il termine «oggi in disuso, permane in dialetto marchigiano» (Vighi). Ha tre occorrenze in Belli, e una il suo derivato bardassaria. Nel ventaglio semantico in cui figura nella tradizione, oscillante tra il significato di ‘ragazzo’ e varie sfumature spregiative, Belli lo usa in senso neutro, come fa Vincenzo Monti in una lettera da Roma del 1778 (Epist., I, 320). Ampia l’estensione spazio-temporale e la gamma delle sfumature: fanciullo, monello, giovinastro depravato e/o omosessuale. Nella tradizione romanesca lo troviamo nel poema di Benedetto Micheli (La libbertà romana, II, 77) dove vale ‘giovinastro’, o ‘ragazzaccio’ (IX, 94) come nel Misogallo romano (235, v, 8); ricorre in lingua (Berni Rime, 32, v, 45) e in vari dialetti, da Maffeo Venier (Sonetti, 49, v, 29) a Carlo Porta (poesie, 88, n. 29) passando per il nostro Baffo, che alle rare occorrenze degli altri ne oppone decine (I, 30, v. 5 e altri otto luoghi nel solo tomo primo). Nella lettera in romanesco a Giovan Battista Mambor Belli scherza sul «Tasso Bardasso» dando al poeta il nome di un vegetale usato come purgante, il tasso barbasso, che chiama tasso-bardasso anche in una lettera a Ferretti e in una a Spada in cui ricorda che Gian Battista Fagiuoli ha chiamato bardasse i paggi di Cosimo Cfr. Le lettere, a cura di Giacinto Spagnoletti, Del Duca, Milano 1961, nn. 111, 338 e 368. 100 Belli che usa più volte la locuzione per designare l’amplesso, come fa pure Baffo con locuzione analoga (III, 55, v. 14: «S’alza da per se stessa la gonnella). Ma espressioni simili le troviamo già nel Dialogo dell’Aretino (I, «alzarsi i panni»), e nelle Novelle galanti dell’abate Casti («alzar la vesta» II 25, «alzò il sipario» III 77 e XVI 23, «alzate le gonnelle» IV 20, «alzò la monastica cocolla», XX 54, «Alza la tenda»‚ XXV 21). È un gran gusto er fregà! ma ppe ggodello Più a cciccio ce voria che ddiventassi Giartruda tutta sorca, io tutt’uscello. E Baffo, ad esempio, per limitarci agli incipit: «Amici, son in mona. Oh che gran gusto!»,101 «Che gran gusto, monsù l’è pur chiavar» o «E fra i gusti de sto mondo a mì me par». 102 Vero è che l’iperbole finale di L’incisciature, fantasticata metamorfosi dell’intero corpo in organo sessuale si trova in Aretino («Io vorrei esser tutta quanta potta, / ma vorrei che tu fossi tutto cazzo» Sonetti lussuriosi, I, 5, vv. 3-4), come rilevò Claudio Costa,103 mentre Carlo Muscetta rammentava Catullo («Quod tu cum olfacies, deos rogabis, / totum ut te faciant, Fabulle, nasum», XIII, vv. 13-14), mentre Vigolo evocava Lucrezio, per i vv. 4-8 del sonetto, descrittivi della furia travolgente dell’amplesso, e della chiusa («adfigunt avide corpus iunguntque salivas / oris, et inspirant pressantes dentibus ora, / necquiquam, quoniam nil inde abradere possunt / nec penetrare et abire in corpus corpore toto» (De rerum natura, vv. 1108-1111). Occorre insomma tener sempre conto degli echi plurimi, della stratigrafia dell’intertesto. Altri particolari del sonetto belliano rammentano Casti e Porta, ma a titolo di fonte può meglio aspirare il sonetto di Giorgio Baffo L’autore vorria esser tutto cazzo, in particolare per la chiusa : Amici, son in Mona. Oh che gran gusto! E son in Mona della mia diletta, Ora ghe tocco ‘l Cul, ora una Tetta, E in questo posso dir, che gò ‘l mio giusto. La s’hà mollà le cottole, e anca ‘l busto Acciò, che con più comodo ghe ‘l metta, In bocca la m’hà dà la so lenguetta, E la me trà ogni tanto qualche susto. 101 Raccolta, II, 4 e II, 14. Poesie a cura di Del Negro, cit., pp. 144-45 (mancano nella Raccolta). 103 Due fonti cinquecentesche del Belli, in Il Ragnigirico, a cura di Rossella Incarbone Rossetti e Marcello Teodonio, Aracne, Roma 2003, pp. 35-44. Espressione analoga, come mi segnala cortesemente Marco Faini, è in un sonetto di Antonio Mezzabarba (amte 1490-post 1564), che nelle due ultime code suona: «Dunque, poi che mi lice / Parlar più chiar di me, i’ son un cazzo / che vi fa, donne, saggie, e ‘l cul sì sazzo. // Dico ch’al dolce sguazzo / del mio liquor vorresti in su quell’otta / l'uom tutto cazzo, e voi tutte esser potta» (Rime, a cura di Claudia Perelli Cippo, introduzione di Domenico Chiodo, Torino, RES, 2010, p. 105). 102 , Nelle Mi me la godo fuora de misura, E aver vorrìa l’Osello longo un brazzo Per furegarghe ben in la Natura. Ah! Che per far più grando el mio solazzo, E per darghe più gusto a sta creatura, Esser vorrìa in sto punto tutto Cazzo (II 14). Chissà che Belli, oltre che nella chiusa de L’incisciature, si sia ricordato di questa clausola baffesca citando il «seme de tuttocazzo» nel v. 4 del giovanile e scurrile sonetto Le scorregge da naso solo... 5. «Parlar scoverto» o sinonimi fantasiosi? A quell’organo, come al suo corrispondente femminile, Belli trovò decine di sinonimi inanellati in una coppia di sonetti, Er padre de li Santi e La madre de le Sante; «Er cazzo se pò ddì rradica, uscello, / ciscio, nerbo, tortore, pennarolo» e giù una filza di pittoreschi senhals fino a totalizzare Scinquanta nomi, titolo primitivo del componimento, simmetricamente giustapposto ai Cuaranta nomi della rosa carnale: «Chi vvò cchiede la monna a Ccaterina, / pe ffasse intenne da la ggente dotta/ je toccherebbe a ddì vvurva, vaccina, / e ddà ggiù co la cunna e cco la potta» e via via con decine di varianti; fra cui sono da evidenziare monna e potta, voci frequentissime in Baffo, mentre nella raccolta belliana non ricorre che cinque volte la prima e solo qui la seconda. Quando però il poeta apportò ai due sonetti correzioni che incrementavano di qualche unità le due cifre tonde, ne mutò i titoli in Er padre de li Santi e La madre de le Sante: e si suppone che la modifica del secondo, irriverente parodia dell’appellativo della Chiesa rilanciato da Manzoni nel memorabile attacco della Pentecoste («Madre de’ Santi, immagine / della città superna») abbia determinato la modifica del primo, istituendo un brioso dittico in sostituzione delle grigie etichette numeriche originali, analoghe a quella rimasta per un altro sonetto repertorio, che elenca i sinonimi di damerino (Quarantatrè nnomi der zor grostino). Titolo gregario, dunque, Er padre de li Danti, indotto dalla Madre de le Sante? Si direbbe di sì, se non trovassimo «el pare d’ogni Santi», riferito alla stessa parte anatomica, in un sonetto di Giorgio Baffo (El cazzo in angonia, IV, 66, v. 4), indizio di una probabile genesi autonoma di quel traslato fallico, e ulteriore traccia di una possibile lettura di Baffo da parte di Belli. Né possiamo assegnare all’iniziativa di Baffo quell’impiego metaforico, poiché «er pare di tutti li santi» figura, con debita chiosa esplicatva (l’umanità sarebbe estinta, senza quell’organo generativo) nella Raccolta de’ proverbii, detti, sentenze, parole e frasi veneziane stesa nel decennio 1760-1770 da Francesco Zorzi Muazzo, inedita peraltro fino a tempi recenti e di cui difficilmente Belli poté aver sentore nella sua incursione in Laguna o nei rari incontri con letterati veneti: il termine compare nella lista di traslati fallici e connici della scanzonata prosa veneziana: una lista che reca parecchi contatti con il dittico belliano sui sinonimi degli organi sessuali:104 Al tempo stesso, il confronto fra il testo belliano e quello baffesco ci mostra la distanza fra il libertino veneziano e il poeta romanesco. Quello, in ossequio alla sua poetica del «parlar scoverto» nomina in continuazione «el cazzo», personificato con la maiuscola nelle stampe al pari degli altri protagonisti della Raccolta (Mona, Culo e Tette) con una grafia che, pur non controllabile sugli autografi, interpreta perfettamente la sezionatura feticistica del corpo femminile in parti autonome e animate. (E si ricorda qui, per inciso, come fosse diversa la via seguita dall’abate Casti, che indirizzando a lettrici le sue Novelle galanti si proponeva espressamente di trattare materia rovente senza nulla concedere a crudezze verbali: variante di poetica, oltre che di bon ton). Diversamente da Baffo, Belli, trattando materia «non pia» in favella «non casta» per bocca di una plebe «concettosa e arguta» sciorina una ricca serie di immaginosi sinonimi che raduna nei due repertori verseggiati cui rinvia nelle note in calce agli altri sonetti, per spiegare quei termini evitando l’imbarazzo di chiosarli volta per volta nello spazio autoriale delle chiose, ben distinto da quello dei sonetti enunciati dai suoi trasteverini. La distanza fra autore esplicito ed implicito, sempre minima in Baffo, è cangiante ma spesso notevole in Belli. 6. Dritto e rovescio 104 Cfr. Francesco Zorzi Muazzo, Raccolta de’ proverbii, detti, sentenze, parole e frasi veneziane, arricchita d’alcuni esempii ed istorielle, a cura di Franco Crevatin, Angelo Colla, Venezia 2008 (confronto suggerotomi da Maria Ghelfi). termini corrispondenti: er padre de li santi - el pare de tutti i santi, uscello - oseletto, pennarolo - penna da scriver, inguilla - bisatto, batocco - battoggio, ppipino - pippì, scafa - spandiacqua, bbambino - bimbin, cotale - cotal, verga - verga matrimonial, mmembro naturale membro viril, Priàpo - priapismo. Per il secondo sonetto: la madre delle sante - mare, monna - monna, vvurva - vulva, potta - potta, passerina quagia/pollastrella, fregna - sfrigna, fica - figa, vaschetta - scatola de tabacco/vaso da manteca, perucca - pelosa, quela-cosa - cossa, la-gabbia-der-pipino - chebba d’amor, nnatura - natura. Non senza imbarazzo, anche da parte nostra, dobbiamo proseguire a vagliare materia scabrosa, largamente dominante dell’opera del veneziano, e invece minore per mole e per rilevanza nel capolavoro romanesco. Dritto e rovescio si prestano a un traslato erotico che accomuna Baffo e Belli. Questi lo usa, ad esempio, nella confessione di un’adultera che pratica con l’amante amorosi abbracciamenti non solo «pe ddritto» ma «puro a rriverzo» (Er confessore) o nelle lamentele di una moglie per la condotta del coniuge, che pretende rapporti «a la dritta e la roverza» (Li Mariti!): «a la roversa», scriveva Baffo, celebrando fittiziamente le esequie del proprio membro virile che molto oprò per dritto e per rovescio (II, 13): non è il caso di discettare se Belli si riferisca a un coito more pecudum, cui sembra alludere nel primo esempio, o a una sodomizzazione della partner, come fa intendere nel secondo e altrove («Lui vò entrà da la parte der cortile», lamenta un’altra donna)105 e come si deduce largamente nel veneziano, che non sembra escludere, almeno sulla carta, anche bozarade con giovinetti. Dritto e rovescio fanno parte dell’iperbolica offerta di Santaccia di piazza Montanara, bagascia d’infimo rango realmente esistita,106 divenuta ben presto proverbiale, e trasformata in mito dall’accesa immaginazione belliana, che la vuole in grado di contentare quattro clienti contemporaneamente: Pijjava li bburini ppiù screpanti a cquattr’a cquattro cor un zu’ segreto: lei stava in piede; e cquelli, uno davanti fasceva er fatto suo, uno dereto. Tratanto lei, pe ccontentà er villano, a ccorno pìstola e a ccorno vangelo ne sbrigava antri dua, uno pe mmano. Santaccia sembra dunque gareggiare con la etera cui Baffo imputa il «gran peccar colle man, e col culo, e colla mona» nel sonetto ì«El xe tempo, per Dio» (IV 97. v. 4): per Muscetta, invece, l’acrobatica meretrice belliana 105 La 106 In donna filisce, v. 14. nota al dittico su Santaccia de Piazza Montanara Belli annota: «Notissima e sozzissima meretrice di chiara memoria la quale teneva commercio nella detta piazza, solito luogo di convegno de’ lavoratori romagnuoli e marchegiani per trovarvi a far opera». mette in pratica le istruzioni impartite dalla maîtresse del ragionamento aretiniano alla sua allieva: «Ponti in una seggiola bassa e fanne assettar due fra i tuoi piedi, e sedendo in mezzo a due altri allarga le braccia e dagli una mano per uno e voltandoti ora a questo ora a quello, ne contenterai per due colla ciancia» (I). 7. Vasti scenari e bianche giuncate Iperboli letterarie, certo, come il divertimento di dubbio gusto in cui Giorgio Baffo descrive una smisurata vagina: Ho visto l’altro giorno una puttana con una mona granda in tal maniera, che in prencipio ghe gera una riviera con un bastimento tutto pien de lana (I, 35, vv. 1-4) con quel che segue. Stesso tema è nei due sonetti belliani A Teta – accorciativo romanesco di Teresa, che però, come dichiara in nota l’autore, sono «un’amplificata imitazione del sonetto del Porta, in dialetto milanese, che comincia: “Sent, Teresin, m’el sera daa anca mi” etc.» espanso da quattordici a ventotto versi così come la «larga» parte celata «im mezz ai gamb» dell’originale viene dilatata in una enorme «grotta». Insomma, se il rapporto Baffo-Belli può ricondursi a una topologia comune, nel caso PortaBelli assistiamo alla precisa ancorché non passiva dipendenza da una fonte. Càpita talvolta che una stessa immagine accomuni i due autori a una più larga topologia letteraria, come nel caso del petto femminile paragonato a bianca ricotta. Il personaggio belliano che ha visto danzare a teatro Le figurante si dice estasiato: oh, bbenemìo che bbrodo de pollanche! Je metterebbe addosso un par de bbranche da nun fajje restà mmanco la pelle. A vvedelle arimòvese, a vvedelle co cquelli belli trilli de le scianche tremajje in petto du’ zinnette bbianche come ggiuncate drento a le froscelle! Che mmodo de guardà! cche occhiate ladre! Mó vvedo c’ha rraggione er prelatino che ha mmannato a ffà fotte er Zanto-Padre: e bbuttanno la scorza e ‘r collarino, d’accordo co la fijja e cco la madre cià ffatto er madrimonio gran-destino. Come in altri sonetti sugli spettacoli, dietro gli occhiali del personaggio stanno anche le pupille del poeta, appassionato delle scene e già rapito dai guizzi sensuali e dagli occhi malandrini della Ballarina de Tordinone. Sicché alla fantasia sadico-erotica della prima strofa e alla volgarità che chiude la terza, si mescolano locuzioni squisitamente letterarie: il ricercato tecnicismo sinestetico trilli, l’epiteto bbenemìo, per lo più nella forma «mio bene» nei testi italiani, per restare in clima teatrale nel Don Giovanni di Mozart-Da Ponte e nell’Adriano in Siria di Metastasio. Quanto al paragone del seno alle «ggiuncate drento a le froscelle», lo si ritrova nell’incipit del sonetto di Giorgio Baffo «Tette fatte de latte, e de zonchiada» (III, 27); Vigolo lo segnala in Ariosto, «Le poppe rotondette parean latte / che fuor dei giunchi allora allora tolli» (Orl. Fur., XI, 68) nonché, per altra grazia anatomica, in Aretino, «coscette bianche e tonde che pareano di latte rappreso, sì erano tremolanti» (Ragionamento, I) cui possiamo aggiungere il già citato Don Giovanni, «Quei labbretti sì belli, / quelle ditucce candide e odorose: / parmi toccar giuncata, e fiutar rose» (I, 20) e Leopardi poeta-traduttore, «più d’una giuncata / soave era la bocca» (Poesie di Mosco, Il bifolchetto, vv. 34-35).107 <Casri?> 8. La dissacrata Scrittura Qualche spunto alla rilettura parodica, giocosa o satirica della Bibbia compare in Baffo prima che in Belli. La casta Susanna? Giorgio Baffo insinua nel sonetto «Voria saver se quei due vecchi Ebrei»108 che le cose dovettero andare diversamente, contemplando le possibili varianti kamasutriche; nel sonetto Indovinela grillo, un pop-biblista romanesco non contesta il fondato diniego della biblica bagnante, ma dubita della sua 107 Da questi autori, e forse anche da Belli di cui era estimatore, Tommaso Landolfi mutuò la comparazione tra i «ventri cavi in cui ristagna la tenera carne» e «la giuncata nelle fiscelle» (La pietra lunare, Vallecchi, Firenze 1944, p. 52). 108 Poesie, a cura di Del Negro, cit. pp. 165-66. condotta se al posto dei due sordidi vecchioni fosse stata tentata da un baldo giovane: due rivisitazioni del testo sacro accostabili per disinvoltura, eppur distinte dalla voluta apocrifia del veneziano. Quello mette in dubbio la veridicità della Sacra scrittura, mentre il pop-biblista belliano la accetta come dato effettuale ma fantastica sul virtuale. L’altro casto personaggio, Giusepp’abbreo, fa la figura del «cojjone» nel dittico di sonetti che ne ricorda l’episodio per bocca di un plebeo, mentre in Baffo veniva tacciato per impotente. Ecco il sonetto veneziano, intitolato Critica sora el caso de Giuseppe ebreo (III, 10), che poté offrire lo spunto: Quando lezo quel passo de Scrittura, Che conta el caso de Giuseppe ebreo, Che no ha volesto gnanca con un deo Toccarghe a quella donna la natura, Che no ‘l gavesse cazzo go paura, Perchè no se puol dar che quel Giudeo Fosse cussì cogion, cuss’ marmeo, De no chiavarla subito a drettura. Ma la Scrittura che me compatisca. Se mi no credo come che se daga fonte ch’in ste gran buzare se fissa. Una donna che si offre, e non chiede danaro, il poeta provvederebbe a coniarla sul recto e sul verso, come dice nell’utima terzina, con espressioni la cui trivialità ci dissuade dal riportare. Ed ecco il secondo pezzo del dittico che da quello spunto poté ricavarne Belli: <sonetto già citato> In capo a una man-d’anni er zor Peppetto addiventato bbello granne e ggrosso, la su’ padrona jjotta de guazzetto, j’incominciò a mettéjje l’occhi addosso. Ce partiva cor lanzo de l’occhietto, sfoderava sospiri cor palosso: inzomma, a ffalla curta, dar giacchetto lei voleva la carne senza l’osso. Ecchete ‘na matina che a sta sciscia lui j’ebbe da portà ccert’acqua calla, la trova zur zofà ssenza camiscia. Che ffa er cazzaccio! Bbutta llì la pila; e a llei che tte l’aggranfia pe ‘na spalla lassa in mano la scorza, e mmarco-sfila! Facile rilevare la diversità di taglio dei due sonetti, pur accomunati dalla riscrittura scanzonata del testo sacro: ancora una volta Baffo critica l’attendibilità della fonte, che spaccerebbe per castità l’impotenza di Giuseppe; l’espositore romano non dubita della fonte sacra, limitandosi a commentare la condotta del casto giovane come quella di un «cazzaccio», che nel romanesco belliano significa solo stupido’ o ‘ingenuo’. Nella Raccolta baffesca, al sonetto sul casto Giuseppe segue questa Risposta e definizione (III 11) che sposta l’attenzione sulla biblica eroina che decapitò Oloferne salvando la città ebrea assediata: Baffo ti, che ti è un Omo de gran testa, E che con la Scrittura a menadeo Ti hà criticà con grazia quel Giudeo, Che per salvar l’onor perso hà la vesta. Quando, per liberar Bettulia mesta Al Campo Assiro dal pressidio Ebreo, A far tirar l’Osello a quel marmeo Xe andà Giuditta in Andrien da festa; Dimme, se prima de sfodrar la spada L’abbia pensà da savia, o da cogiona A no lassarse dar una chiavada? Per conto mio, se giera in quella Dona, Mi fava do servizi in t’una strada, E per Dìo santo lo tioleva in Mona. Ed ecco come il biblista trasteverino descrive La bbella Ggiuditta e la sua impresa eroica ed erotica: Disce l’Abbibbia Sagra che Ggiuditta doppo d’avé ccenato co Llionferne, smorzate tutte quante le luscerne ciannò a mmette er zordato a la galitta: che appena j’ebbe chiuse le lenterne 1 tra er beve e lo schiumà dde la marmitta, cor un corpo 2 da fia 3 de Mastro Titta lo mannò a ffotte in ne le fiche eterne: e cche, agguattata la capoccia, 4 aggnede 5 pe ffà la mostra ar popolo ggiudio sino a Bbettujja co la serva a ppiede. Ecchete come, Pavoluccio mio, se pò scannà la ggente pe la fede, e ffà la vacca pe ddà ggrolia a Ddio Ora, il Libro di Giuditta, escluso dal cànone ebraico e da quello protestante e dunque oggetto di difesa ed esaltazione nella Chiesa posttridentina (si pensi alla tragedia di Federico Della Valle) dice espressamente che Oloferne crollò ubriaco prima di poter godere del corpo della bella ebrea: L’apocrifa riscrittura romanesca allude invece a un eros consumato con fitti segnali allusivi (mettere il soldato in garitta, lo schiumare della marmitta. il fottere nelle fiche eterne) e potrebbe aver dunque sviluppato e lo spunto di Baffo. Ma s’intende che il complesso giudizio belliano sull’episodio non si riduce al tema sessuale: nella sua valutazione Giuditta è «vacca» anche se non ha consumato il rapporto, come crede l’espositore popolano; tuttavia a quel rapporto era disposta a sottoporsi, seppur per la nobile causa di salvare la sua città, con una giustificazione dei mezzi in nome dei fini di sapore machiavelliano. Ora, Belli sa bene, da cattolico praticante, quello che il Confiteor della messa ci ricorda, ossia che i peccati possono essere di pensiero oltre che di parole, opere ed omissioni. ma dalla fonte Belli si stacca ancor più con la stoccata finale, dettata dall’irenismo evangelico del poeta, che condanna l il ricorso alla fede per giustificare la violenza e dunque le guerre di religione. Nel sonetto Er peccato d’Adamo Belli dà voce a un difensore dell’ortodossia cattolica (o finto tale) che rimbecca le «testacce storte» dei miscredenti: come osano chiedersi la ragione del fatto che per un pomo inghiottito da Adamo sia stata soggetta a morte l’intera sua discendenza? Ne esigono un perché? Perchè pperchè! bber dì dda ggiacobbino! Er libbro der perchè, cchi lo vô llêgge sta a ccovà ssott’ar culo de Pasquino.109 Potrà considerarsi allora fonte il sonetto di Giorgio Baffo recante un titolo quasi identico, El peccato d’Adamo? Il poeta veneziano vi svolge il tema in modo affatto diverso: nelle prime tre strofe rimpiange la condizione edenica e nell’ultima mette in luce il risvolto positivo del peccato originale: Ma tanto, e tanto, oh colpa benedetta! ch’ha merità, che con più assae costrutto! in panza della Donna se ghel metta. (IV 47. vv. 12-14)9. Adamo, la natura, i cani Nella comune propensione a ripercorrere con arguzia dissacratoria l’Antico testamento, si palesa anche la differenza fra l’esito scherzosamente libertino di Baffo e l’allegra pensosità di Belli. Il quale, peraltro, non manca attraverso i suoi popolani di associare più d’una volta il peccato originale all’eros, con velata critica alla sessuofobia della pedagogia cattolica di allora. Il parlante del sonetto L’ordegno spregato lamenta che, per colpa delle donne, il miglior arnese di cui il Padreterno fornì Adamo resti sottoutilizzato: Pare un destino ch’er più mmejjo attrezzo che ffesce Gesucristo ar padr’adamo, Çiavessi da costà, ssi ll’addopramo, da strillacce Caino per un pezzo! Cuesta nun ce la dà ssi nnun sposamo, Cuella vô er priffe e nnun je roppe er prezzo, L’antra t’impesta e tte fa vverd’e mmezzo: 109 «A chi dimandi molti perché si suol rispondere il libro del perché stare sotto il cul di Pasquino» annota altrove l’autore. e er curato stà llì ssempre cor lamo. Bbenedetta la sorte de li cani, che sse ponno pijjà cquer po’ de svario senz’agliuto de bborza e dde ruffiani. E pponno fotte in d’un confessionario, che nu l’aspetta com’a nnoi cristiani sta freggna de l’inferno e dder vicario. Dunque, oltre alle difficoltà sollevate dalle donne, l’ostacolo all’eros è posto dal timore di un castigo sia terreno (quello inflitto da Cardinal Vicario, tutore del buoncostume) ma anche di una punizione ultraterrena, sicché la «freggna de l’inferno» diventa una sorta di sarcastico contrappasso. Alle spalle c’è, naturalmente, il largo filone del vitalismo edonistico di Aretino, del libertinismo settecentesco. E proprio una lunga sonettessa di Giorgio Baffo, intitolata Bando della Natura, si candida a porsi come fonte, non solo per la denuncia della guerra che trono e altare muovono congiuntamente alla personificata Natura, ma per il riferimento preciso all’invidiabile condizione canina (Bando della Natura, I, 167, vv. 58-60): Dei Omeni stà meggio assae i cani, almanco no i xe esposti a tanti dani, nè i gà tanti malani; i trova la so chizza per la strada, e i ghe dà la so gran bona chiavada, gnessun no ghe bada; i và drento quà, e là per ogni banda, nè el Papa, nè gnessun no ghe comanda, questa xe grazia granda. Qui il contatto fra i due testi ci pare stringente, nel senso che Belli sembra proprio aver letto questi versi di Baffo, a differenza di luoghi in cui la supposta eco baffesca si intreccia con altre possibili fonti: per esempio gli episodi sopra ricordati di Susanna e del casto Giuseppe sono verosimilmente tributari di una novella di Casti (ne trattiamo nel capitolo dedicato all’abate libertino). Questo naturalmente non autorizza a far coincidere la visione del primo poeta, libertino professo in prima persona, con quella del secondo, che dà la parola a un suo personaggio, e che all’ostacolo della Chiesa temporale (là il papa, qui il cardinal vicario) aggiunge il timore dell’inferno. 10. Dongiovanni di classe In verità personaggi partecipi di una concezione libertina non mancano nei sonetti, anche se, guardacaso, il seduttore-ragionatore per eccellenza è un aristocratico. Tale è il Giovin signore che un servitore o una cameriera dalla serratura spia durante l’approccio alla dama, nel sonetto Er bùscio de la chiave: Gran nove! La padrona e cquer Contino scopa de la scittà, spia der Governo, ar zòlito a ttre ora se chiuderno a ddì er zanto rosario in cammerino. «Ebbè», cominciò llei cor zu’ voscino, «sta vorta sola, e ppoi mai ppiù in eterno». «E cche! avete pavura de l’inferno?», j’arisponneva lui pianin pianino. «L’inferno è un’invenzion de preti e ffrati pe ttirà nne la rete li merlotti, ma nnò cquelli che ssò spreggiudicati». Fin qui intesi parlà: poi laggni, fiotti, mezze-vosce, sospiri soffogati... Cos’averanno fatto, eh ggiuvenotti? Chiaramente il poeta non nutre simpatia per il conte libertino, ‘scopa della città’ nonché ‘spia del governo’ e dunque fingidor per vocazione, e non manca di pungere l’ipocrita sedotta non meno che lo «spreggiudicato» seduttore. Che la spregiudicatezza femminile fosse prerogativa del ceto nobiliare in contrapposizione a più morigerate campagnole è persuasione corrente in Lombardia da Parini a Manzoni, dal contrasto fra le costumate contadine e le dame milanesi a quello fra Lucia e Gertrude. Nella Roma di Belli le cose vanno altrimenti, le tresche fra popolani dilagano nel gran mare dei sonetti. Fra tanti rozzi casanova plebei, non manca un affascinante dongiovanni in camisciola, la cui ‘inclinazione’ ha il calore e la forza di una vera e propria vocazione (L’incrinazzione): <già citato> Sèntime: doppo er Papa e ddoppo Iddio cquer che mme sta ppiù a ccore, Antonio, è er pelo: pe cquesto cquà nun so nnegatte ch’io rinegheria la lusce der Vangelo. E ssi dde donne, corpo d’un giudio!, n’avessi cuante stelle che ssò in celo, bbasta fussino bbelle, Antonio mio, le vorìa fà rrestà ttutte de ggelo. Tratanto, o per amore, o per inganno, de cuelle c’ho scopato, e ttutte bbelle, ecco er conto che ffò ssino a cquest’anno: trentasei maritate, otto zitelle, diesci vedove: e ll’antre che vvieranno stanno in mente de ddio: chì ppò ssapelle? Di questa felice pittura di carattere scrive Giorgio Vigolo: «Non è minimamente da escludere che il Belli abbia qui voluto tratteggiare il personaggio di un Don Giovanni romanesco, che per le dame rinnegherebbe, come l’amante di donna Elvira, la luce del Vangelo e vorrebbe averne un numero infinito quante le stelle che sono in cielo. L’espressione ‘o per amore o per inganno’ mi sembra particolarmente scoprire nell’Autore un riferimento al dongiovannismo, come forse anche nel finale catalogo delle conquiste, il ricordo dell’Aria del Don Giovanni di Mozart: “Madamina il catalogo è questo... In Italia ottocentocinquanta, in Ispagna son già mille e tre”». Per il titolo L’incrinazzione Carlo Muscetta richiama invece il Dom Juan molieriano — «Les inclinations naissantes après tout ont des charmes inexplicables, et tout le plaisir d’amour est dans le changement» (I, 2) —, un personaggio ben diverso dal nostro, che non è ateo ma fedele suddito papalino, «comico, senza dramma, senza la tensione grandiosa della conquista» di quello francese».110 Si aggiunga che un Don Giovanni in musica aveva debuttato nel 1830 per le note di Giovanni Pacini, compositore collegato a un fraterno amico di Belli, il librettista Giacomo Ferretti. Come risulta dallo Zibaldone (IX, 226-33), il nostro poeta aveva letto in una traduzione francese del 1830 il Don Giovanni di Hoffmann, «favolosa avventura accaduta a un Viaggiatore entusiasta», come reca quell’edizione.111 Lettore delle Novelle galanti di Casti, aggiungiamo, Belli poté trovare nella Scommessa un dongiovanni che, come il nostro, teneva conto accurato delle donne sedotte, «o vedove o donzelle o maritate» (XLV 17), così «o moglie o vedova o fanciulla» costituivano l’indifferenziata preda muliebre del Don Garzia protagonista del Miracolo, la XXIV delle Novelle castiane. Anche il lussurioso personaggio della sonettessa sulle Miserie umane di Giorgio Baffo appetiva peraltro «sia maridae, sia vedove, sia pute» (III, 178, v 73). L’affondo psichico dello scrittore tedesco sul personaggio di illustre tradizione antica e recente, passato da Tirso da Molina fino a Byron, anche attraverso la mediazione della commedia dell’arte italiana, sembra trasmettere un riflesso all’immagine del nostro dongiovanni romanesco. Romanesca è la franchezza con cui manifesta la passione per il pelo e le scopate, cattolico-romana è la religiosità che gli fa subordinare Dio al papa, e il Vangelo al «pelo», e romano il suo territorio di caccia, come si ricava dal bilancio provvisorio delle prede, non distinte per aree geografiche come quelle di Mozart-Da Ponte. Ma l’affermazione conclusiva potenzialmente comica che le sue future conquiste «stanno in mente de ddio» getta sulla sua apologia dell’eros un’ombra dell’inquietudine metafisica dell’illustre archetipo. Come consumato dongiovanni si rappresenta Giorgio Baffo nei suoi componimenti, tra i quali un sonetto che così si apre: Hò toccà tanti Culi, e tante Mone De Muneghe, de putte, e de ragazzi, Hò fatto, posso dir, dei gran strapazzi Co Donne maridae, e buzarone; (IV. 58, vv. 1-4). 110 Muscetta, 111 Belli Cultura cit., pp. 362-63. ne scrive nel suo Zibaldone autografo conservato alla Biblioteca Nazionale di Roma. IX, cc. 226-233: Zibaldone Questi versi, spostati decisamente sul volgare, si potrebbero avvicinare alla nostra poesia se questo seduttore non si mostrasse rapito a suo modo dell’eterno femminino, a differenza del libertino veneto, collezionista di monache, nubili e sposate, ma anche di ragazzi di vita. Dongiovannismo e misoginia sembrano due tendenze opposte e inconciliabili; ma forse sono le due facce di un solo nucleo patologico, poiché nella psiche del seduttore si annida un sostanziale disprezzo per la donna, desiderata come oggetto, dunque reificata. «Per i porci tutte le donne sono puttane, per le puttane tutti gli uomini sono porci», suona un fondato aforisma. Troppo fitti e generici i contatti che troviamo, al riguardo, nei versi veneziani e nei sonetti romaneschi. 11. Dame e prostitute Più circoscritto invece il bisticcio fra dame e prostitute. Giorgio Baffo nella lunga canzone El funeral del cazzo immagina il cordoglio delle puttane che piangono la morte di un organo personificato a loro tanto familiare, finché vengono allontanate dopo un aspro diverbio dalle donne maritate, che rivendicano a sé il privilegio di piangere il caro estinto che tanto piacere e in modi tanto vari aveva loro elargito. Il Motivo torna, svolto più brevemente, nel sonetto El puttanesmo precipità (II, 135): El puttanesmo, quel mestier sì belo, Che giera de gran lustro in sta Cittae, Per causa delle Donne maridae El xe andà, se puol dir, tutto in flagelo. No ghè gnanca l’effigie più de quelo, Le case xe deserte, e abbandonae, No se trova, che quattro desperae, Che da fame le muor sotto sto Cielo. Che rovina xe questa! Un poverazzo, Ch’abbia voggia de dar una chiavada, No sà dove in ancuò puzar el Cazzo; Che, se lù và da qualche maridada, E che ‘l se voggia tior qualche solazzo, Le ghe la fà, per Dìo, pagar salada. Ed ecco la variazione belliana sul tema nel sonetto Er Commercio libbero: Bbè! Ssò pputtana, venno la mi’ pelle: fò la miggnotta, sì, sto ar cancelletto: lo pijjo in cuello largo e in cuello stretto: c’è ggnent’antro da dì? Che ccose bbelle! Ma cce sò stat’io puro, sor cazzetto, zitella com’e ttutte le zitelle: e mmò nun c’è cchi avanzi bajocchelle su la lana e la pajja der mi’ letto. Sai de che mme laggn’io? nò dder mestiere, che ssarìa bbell’e bbono, e cquanno bbutta nun pò ttrovasse ar Monno antro piascere. Ma de ste dame che stanno anniscoste, me laggno, che, vvedenno cuanto frutta lo scortico, sciarrubbeno le poste. Replicando a un giovincello che l’ha chiamata spregiativamente puttana, una donna di strada, anzi da cancelletto, magnifica con lingua libera e tagliente il proprio mestiere, redditizio, oltre che piacevole. Si lamenta soltanto perché il commercio libero del sesso permette di praticarlo in casa alle dame, che rubano i clienti alle professioniste accreditate come lei. Nel finale affiora l’opposizione tra la professionista del marciapiede e le maritate, cocottes per vocazione a casa loro, sottolineata da Belli anche nei sonetti Le ggiurisdizzione e La puttaniscizzia: un Motivo convenzionale, questo, contattato già da Domenico Balestrieri (Cerchen tucc da rebeccass),112 dove una signora che ha provocato una donna di strada chiedendo se il mestiere vada bene si sente rispondere che andrebbe meglio se non ci fosse la concorrenza delle coniugate; e Carlo Porta, autore familiare a Belli, al colpo di fioretto del settecentesco sostituisce la sciabolata inferta dalle prostitute alle ipocrite bigotte (I putann ai damm del bescottin):113 112 Rime 113 Carlo milanesi, Monastero di Sant’Ambrogio Maggiore, Milano 1795, pp. 8-9. Porta, Poesie,, a cura di Dante Isella, Mondadori, Milano 1975, n. 110. Malarbetti slandronn del bescottin, tanto ruzz, tant spuell contro i putann! Perchè? Perchè la dan per pocch lanfann e la dan minga sott a balducchin? Vergogna! Tasii là ch’el semm anch nun perchè cossa bajee; bajee, bajee perchè sii vecc strangosser che morbee, che no voeur refilavel pù nessun. E quand serev bej, gioven e grassott e stagn e prosperos, disii, o damazz, serev allora inscì nemis del cazz? la davev forsi via per nagott? Nagott on corno! i mee delicadonn, domandeghel on poo ai voster servent coss’han spes ogni voeulta a mettel dent in quij vost illustrissem figazzonn. E i palch e i carroccett e i sorbettitt e i faravost e i scenn e i mascarad e i accord e i bigliett e i fest, i entrad, hin danee, facc de porchi! o fasoritt? E poeù gh’avii el mostacc, veggiann calvari, de romp el cuu al Governo per fà esclud quij tosann che la dan per on mezz scud? Citto là: sii nanch degn de stagh in pari. La presenza del tòpos in un testo familiare a Belli come quello portiano sospinge in secondo piano le altre due possibili suggestioni. 12. Del contagio venereo Altro battibecco di materia bordellesca è la diatriba sulla colpa maschile o femminile, nella trasmissione del contagio venereo. La Nanna, nel Dialogo fra prostitute di Pietro Aretino, sentenziava: «Poi che s’è trovato che nacque prima la gallina o l’uovo, che si trovarà anco se le puttane hanno attaccato il mal francioso agli uomini o gli uomini a le puttane». Da parte sua Giorgio Baffo, nella canzone sulla Quaresima, dà questo consiglio alle donne: Se a qualcuno de sti amanti Un regalo avè donà, Chiappè pur el tratto avanti, E disè, che lù xe stà (II, 194, vv. 53-56). Questo scambio di «regali», con un’ottica vendicativa allegramente cinica, vuol praticarlo il trasteverino che aspetta al varco la bella peracottara, quella «pasciocca» che vende le pere cotte candite per strada, per schiaffarla in un portone e «ingrufalla» a dovere. Che importa se lui ha la gonorrea, la temuta «pulenta»? Lei l’attaccò ll’antr’anno a ccinqu’o ssei? Dunque che cc’è dde male si cquest’anno se trova puro chi ll’attacca a llei? (vv.12-14) I due spunti di Aretino e di Baffo vengono però ripresi più precisamente nella terzina finale di un sonetto che Belli trasse da un fatto di cronaca nera La puttana abbrusciata: Povera Chiapparella! Ah, nnun c’è ccaso: tutte hanno da succède a sto paese. Bruscià una donna coll’acqua de raso, perchè jj’ha ddato un po’ de mar-francese! Come disce? chì vva ppe le maese viè la su’ vorta che cce bbatte er naso. Se sa, st’affari vanno bbene un mese, e in d’un giorno se resta perzuaso. Lei m’ha impestato: ebbè? cche scusa fiacca! E llui poteva entracce in camisciola, nun conosscenno a ffonno la patacca. Eppo’ adesso sarà la donna sola a attaccà la pulenta che ss’attacca? e a nnoi chì cce l’attacca? San Nicola? «Fatto veramente accaduto in Roma per opera di quattro Settentrionali», si premura di annotare Belli; ma a separare il suo sonetto dai versi prima citati non è solo l’aderenza della fictio alla realtà, bensì l’adesione partecipe e grottescamente amara alla sorte della prostituta sfregiata per vendetta. Il fattaccio lo commenta una collega della vittima, con trasporto empatico verso la povera Chiapparella, soprannome consono al mestiere, ma reso quasi affettuoso dalla desinenza vezzeggiativa. E per solidarietà professionale minimizza il movente della vendetta, la trasmissione di un po’ de mar-francese . Non neutrale è anche il cliente con cui è a colloquio, che tra le quartine giustifica il gesto crudele, presto tacitato dell’accusatrice, che con ragioni stringenti rovescia sul quell’uomo spietato la responsabilità del contagio, e si fa paladina dell’intera categoria nell’ultima strofa. Dalle cortigiane di Aretino, di Baffo e di altri sonetti belliani, la nostra si distingue per la pacatezza e la stringente logica della sua perorazione, una protesta protofemminista in cui spunta una sola e lieve volgarità, «patacca» nel v. 11, e che si colora di umorismo nella terzina finale, dove riproduce il percorso circolare della malattia venerea con un’efficace adnomnatio sigillata dalla domanda retorica. Rappresentata senza dileggio o riprovazione, la figura della meretrice si allontana dal cliché comico della tradizione, come le etére della letteratura romantica, dalla popolana Ninetta di Porta alla borghese Traviata di Verdi-Dumas. 13. Di Carnevale in Quaresima Congruo al pensiero libertino è la critica o il dileggio nei confronti dell’anno santo o giubileo che dir si voglia. Come tratta Baffo quel tema? Nel caustico sonetto intitolato Essendo prossimo l’anno santo («Donne, zà l’anno santo xe visin», II, 193) il poeta dopo aver esortato le donne a rinunciare lungamente al coito, conclude sarcasticamente invitandole a provvedere da sé all’eros o a concedersi a una «buzarada» pur di non farsi «mai chiavar davanti» (I, 194, v. 14): analoga l’occasione ma diversissimo l’esito del libertino veneziano da quello prospettato da Belli. Belli dedica vari sonetti al Giubileo, ora aderendo alla protesta di chi teme riduzioni ai divertimenti e alle libertà trasgressive proprie del carnevale, ora ironizzando sul fatto che sia er zanatoto, un sana totum che emenda comodamente ogni peccato. Fra i tant sul temai, basti leggere questo (L’anno-santo) per misurare la diversità dell’approccio fra i due poeti: Arfine, grazziaddio, semo arrivati all’anno-santo! Alegramente, Meo: er Papa ha spubbricato er giubbileo pe ttutti li cristiani bbattezzati. Bbeato in tutto st’anno chi ha ppeccati, chè a la cuscenza nun je resta un gneo! bbasta nun esse ggiacobbino o ebbreo, o antra razza de cani arinegati. Se leva ar purgatorio er catenaccio; e a l’inferno, peccristo, pe cquest’anno pôi fà, ppôi dì, nun ce se va un cazzaccio. Tu vvà a le sette-cchiese sorfeggianno, mettete in testa un pò de scenneraccio, e ttienghi er paradiso ar tu’ commanno. Anche la Settimana santa, all’insegna dell’incontro-scontro fra amor sacro e amor profano, può consentire un confronto fra Baffo e Belli. Nel tomo II della Raccolta del patrizio veneziano troviamo un sonetto su El venerdì santo (I, 89), in cui l’io-poetante descrive la città semivuota e dedita solo ai riti religiosi deplorando l’astinenza dal sesso: la critica è confermata nel sonetto seguente, e poiché la Pasqua comporta il proposito di una conversione, i tre sonetti successivi esplicitano lo svanire del pio proponimento, per l’invincibile impulso all’eros confessato sia dall’uomo che dalla donna. Fra i componimenti dedicati a questo tema, uno si presta meglio a un parallelo con quello di Belli (Sullo stesso argomento [venerdì santo], II 186): Mondo, tirete in là, tirete in drìo, E vù altri alla larga in sta zornada Omeni, ch’in la Mona, o in tel da drìo Ben vederme vorressi buzarada. Tutta in sto zorno me consacro a Dìo, Nè ancuò voggio dal Mondo esser liccada, Se pò doman vorrè mostrarme el Pìo Gnanca dirò de nò a ‘na chiavada. Sta notte intanto voggio star soletta, E starò in orazion sino a quell’ora, Che sentirò a tirarme la cocchetta; Quando pò sentirò a pizzarme, allora Mi fingerò, che qualchedun mel metta, E intanto menarò fin che la sbora. Chi parla qui è una donna, come in due sonetti belliani al cui centro sta un citus interruptis a causa del del calendario liturgico , del tempo della Chisa che irrompe a separare seppur rovvisoriamente una coppia abbracciata. Nel primo, Nunziata e ’r caporale: o Contentete de l’onesto. ondo, ,aturo e complesso il secna prostituta congeda temporaneamente l’insaziabile cliente per recarsi al rito delle Quaranta ire, dandogli però appuntamento, « si Ddio vò»ondo, ,aturo e complesso il sec, nel pomeriggio;114 è uno dei primi sonetti, al quale quale òìetichetta libertina calza bene: Più ,aturo e complesso il secondo, Giuveddì Ssanto; Fà… che ggusto!… spi… zzitto! ecco er cannone! Abbasta, abbasta, sù, ccaccia l’uscello. Nu lo senti ch’edè? Spara Castello: seggno ch’er Papa sta ssopra er loggione. Mettèmesce un’e ll’antro in ginocchione: per oggi contentàmesce, fratello. Un po ar corpo e un po all’anima: bberbello: pijjamo adesso la bbonidizzione. Quanno ch’er Zanto-padre arza la mano, pôi in articolo-morte fà li conti a ggruggn’a ggruggno coll’inferno sano: E nnun guasta che nnoi semo a li Monti, e ‘r Papa sta a Ssan Pietr’in Vaticano: oggi er croscione suo passa li ponti. Belli stese il sonetto il 4 aprile, nel 1833 Gioveddì Santo, dopo un mese 11411412* 13. [gv 13]. Nunziata e ’r caporale: o Contentete de l’onesto, di inattività dialettale coincidente con quasi l’intera quaresima, alla quale dedicò il componimento seguente, coevo e copiato sull’altra faccia del foglio. Ma dal titolo quaresimale si precipita ex abrupto in un’alcova, con un «ravvicinamento improvviso e sorprendente fra la vita esterna, pubblica della città e quella intima che si nasconde dentro le sue mura», strategia tipica del nostro poeta, che riporta il fatto esteriore «dentro ai sentimenti, alle passioni, alle sensazioni di un momento di vita individuale», osserva Vigolo. In questo sonetto, prosegue il critico, «la cannonata, annunziante la benedizione nel cielo aperto e universale della città, cala nel particolare privato, fra le mura della camera ove due amanti sono abbracciati — e non certo in un amplesso legale —, e interrompe l’abbraccio, li fa inginocchiare. Situazione belliana, se altra ve ne fu mai: ove c’è il suo mondo in ristretto nelle due opposte tensioni del sacro e dell’erotico. Le due forze maggiori del suo dramma sono qui presenti e in contrasto come in nessun altro sonetto: e non si può negare che vinca il sacro, sia pure attraverso la superstiziosa immaginazione della donna». Alla fine, prosegue Vigolo, «i sensi, poco prima in ardore, sono placati, e il Sonetto salendo di tono fino all’immagine grandiosa e scandita del crocione, raggiunge indubbiamente un finale sollievo. Sul segno di croce benedicente», Belli spiega in nota: «È quì opinione che alcune bonidizioni papali, in certi giorni, restino efficaci solamente inter praesentes, e alcune altre si estendano a tutto il resto della Città, e poi corrano pel Mondo sin che non siano stanche o non trovino qualche ostacolo». In questo sorriso sulla fantasia popolare possiamo avvertire una certa eredità razionalista, se non libertina; ma Vigolo aggiunge: «Anche se il Belli ha voluto farci sorridere con la superstiziosa corporeizzazione del crocione che passa i ponti l’intenzione satirica si è depositata, come un precipitato critico, sul fondo della nota, mentre nel verso è rimasta, viva ed ingenua, la poesia». A questa squillante sublimazione mette la sordina Muscetta, il quale attribuisce al finale «un grandioso valore comico» accostando il croscione che oltrepassa i ponti al «croson / de quj che ai rogazion / ogni vun ciappa sott ses o sett mia» evocato da Porta,115 autore di cui lo stesso commentatore segnala nell’attacco un’altra reminiscenza, «Ah che gust!… Cristo!… Signori!… Toeù… daj».116 Ma Giuveddì Ssanto poco ha di Porta e poco di Baffo. Come la nostra romanesca, anche la donna cui Baffo ha ceduto una volta tanto la parola 115 Lament 116 , «Nò del Marchionn di gamb avert, in Poesie, cit., 65, vv. 758-60. Ghittin: no sont capazz», in Poesie, cit., 111, v. 33, attua un proposito di castità solo temporanea, mescolando devozione a eros, di tipo solitario nella veneziana. Ancora una volta il confronto fra i due serve a marcare le differenze più che i contatti: il monologo di «Mondo, tìrete in là», pronunciato da una figurina cartacea che ha mutuato la psicologia del maschio libertino, cede in Giuveddì Ssanto alla tridimensionalità di uno spazio vero, di un colloquio di cui avvertiamo solo la voce di lei ma percepiamo la presenza di lui; l’acquerello settecentesco si è fatto un dipinto a olio, a tinte romantiche, realistiche e surreali a un tempo. Motivo d’ascendenza medievale, il contrasto fra Quaresima e Carnevale è ancora ben vivo nel crepuscolo dell’Antico Regime. Giorgio Baffo dedica un sonetto a L’ultimo dì de carneval (II, 180), che precede una canzone Per il primo dì de Quaresima ((II, 181), dove non manca una stilettata contro i preti che nel lungo periodo penitenziale vietano i piaceri del sesso e del teatro per trarne vantaggio) e alla quale segue nella Raccolta un sonetto caudato Sullo stesso argomento (II, 182). L’ultimo dì xe ancuò de Carneval, E ste gran Buzarone gà fenìo De tiorlo in tel davanti, e in tel dadrìo, De rovinar sta Zente, e farghe mal. Se vedarà, chi in Piazza gà fallìo, Chi è pien de’ Bollettini all’Ospeal, Chi hà rosegà dall’ulcere el Cotal, E coi corni in testa più d’un Marìo. Dopo vien la Quaresema, e a Castello Se vederà le gondole serrae, Che desmonta sul tardi a far bordello; E quelle, che no è stà ben schiavazzae, Le và a posta in quei siti a tior l’Osello Per mandar i Bastardi alla Pietae. Fra i sonetti che da parte sua Belli dedica al tòpos, alcuni dei quali coincidono con i titoli baffiani (L’urtimo ggiorno de carnovale, Er primo ggiorno de quaresima, La quaresima) basta leggere Chi ha ffatto ha fftatto per cogliere, pur nella somiglianza del tema e certa vicinanza nell’impianto al sonetto di Baffo, la differenza fra l’allegro spartito da flauto del poeta veneziano e la trascrizione per organo che ne fa il Romano: Non piussurtra, Anna mia: semo a lo scorto: È spiovuto er diluvio de confetti. Ecco li schertri a ddà a li moccoletti l’urtimo soffio. Er carnovale è mmorto. Già ssona er campanon de lo sconforto, e ggià st’acciaccatelli pasticcetti vanno a ccasa a ordinà li bbrodi stretti d’orzo, ranocchie e ccicorietta d’orto. E ccurri, e bballa, e bbeve, e ffotte, e bbascia! Ggià ssò ttutti scottati: ma stasera da la padella cascheno a la bbrascia. Domani è la manguardia de le Messe co la pianeta pavonazza e nnera, domani ar Mementò-cchià-ppurvissesse. Fin dal titolo, Chi ha ffatto ha ffatto, il personaggio, forse femminile, cui il poeta cede la parola, condanna le dissipazioni carnevalesche con severità e con linguaggio sostenuto. «Non piussurtra, Anna mia: semo a lo scorto: è spiovuto er diluvio de confetti», proclama nel fulminante distico d’apertura: un minaccioso motto latinesco, un vocativo empatico, il termine scorto, dimesso ma evocatorio dell’immagine della Parca che taglia il filo della vita, e la metafora dello ‘spiovere’ dei confetti, fine di un diluvio senza arca di Noè. «Ecco li schertri a ddà a li moccoletti / l’urtimo soffio. Er carnovale è mmorto»: nel terzo e quarto verso l’enjambement accompagna il sopravvenire dei carabinieri-scheletri (ché tali sembrano per i bianchi alamari sulla divisa nera), che dando l’«urtimo soffio» ai moccoletti, fanno ‘morire’ il carnevale. Nella seconda strofa «già ssona er campanon de lo sconforto», e sentendone i lugubri rintocchi i damerini affaticati dai bagordi — «acciaccatelli pasticcetti», vezzeggiativi di compatimento — rincasano e ordinano magri pasti quaresimali. Apre la prima terzina la serie di imperativi narrativi in polisindeto «E ccurri, e bballa, e bbeve, e ffotte, e bbascia!», martellante lista delle dissipazioni dei gaudenti» — sapientemente scandita dalle virgole seguite dalle e… e… e… e… che segnalano il protrarsi delle azioni peccaminose —, i quali, già «scottati», ora «da la padella cascheno a la bbrascia». A queste immagini infernali, segue nell’ultima strofa quella delle chiese parate a lutto, dove domani risuonerà il lugubre monito Mementò-cchià-ppurvissesse, la formula latinesca che chiude il sonetto, simmetrica al non piussurtra d’apertura. Un grande quadro a tempera, dipinto a cupi colori e con le pennellate biancheggianti degli scheletri, i piccoli tocchi luminosi dei moccoletti che si spengono, la macchia rossastra della brace infernale e quella violacea dei paramenti penitenziali. Un degno quaresimale rivestito di umili panni, sicché in quel vocativo «Anna mia» pare segretamente riecheggiato l’«anima mia» cui in tanti scritti edificanti e meditativi venivano rivolti («Considera, anima mia»): lezione virtualmente sostituibile a quella effettuale attenuando l’ipermetria con la dizione accelerata del termine, con una sorta di metrica per l’orecchio.117 Siamo insomma molto, molto lontani dal Veneziano, con i suoi goliardici commenti per i freni all’eros che il tempo penitenziale della Quaresima comporta o dovrebbe comportare. La stessa occasione ha dato spunto Baffo per uno sfogo non solo anticlericale ma anche sostanzialmente misogino, con l’immagine delle donne che si ingegnano ancora per trescare incuranti di concepire dei «bastardi» da abbandonare nei brfotrofi, mentre Belli traccia ad un tempo un vivace bozzetto e una meditazione morale. Il lettore provveduto, del resto, l’ha capito: la caccia alla fonte avviata in queste pagine si sta trasformano in un confronto contrastivo fra i loci paralleli dei due scrittori. 14. La prima volta di due adolescenti Un’ultima scheda vorremmo aggiungere al mazzetto delle possibili ma non probabili suggestioni esercitate su Belli dalla lettura di Baffo: mazzetto in fondo esiguo se rapportato agli oltre duemila sonetti belliani e al migliaio dell’assai meno variegata Raccolta baffesca. Ci riferiamo agli otto sonetti intitolati Le confidenze de le regazze, la collana nell’opera di Belli seconda per lunghezza solo alla lunga serie dedicata al colera (Er còllera moribbus). Attraverso le confidenze di due adolescenti, una più ingenua, l’altra appena più smaliziata seguiamo la loro vicenda di iniziazione al sesso: la curiosità di 117 Del dipinto romanesco Belli aveva tracciato uno sbiadito schizzo, intorno al 1824-25, nelle quartine di un sonetto italiano indirizzato a Francesco Spada, come segnala Vighi: «Cecco, è finito: spenti i moccoletti / sono già dell’allegro funerale; e già lo scopator del Tribunale / suda nel Corso a caricar confetti. // Già i falegnami guastano i palchetti, / e serrar s’odon de’ festin le sale: / insomma, o Cecco, è morto il Carnevale / e giunto è il tempo di picchiarsi i petti» (Belli italiano, cit., I, p. 781). sapere cosa celi la protuberanza che si scorge sotto i pantaloni dei maschi, del tutto ignota all’una ma già intravista dall’altra spiando un uomo mentre orinava; la loro ingenua richiesta a uno spregiudicato giovanotto che si aggira per casa come cavalier servente di una donna più matura, infine lo stupro ottenuto con l’astuzia e l’ingravidamento di entrambe. La corona, scambiata come ridanciana vicenda da lettori insensibili, si imparenta invece con la storia amara della Ninetta del Verzee di Carlo Porta, il primo poeta ad aver conferito spessore umano alla figura della prostituta facendole narrare la triste odissea che ha condotto l’innocente fanciulla innamorata di un uomo indegno a battere il marciapiede. E non mancano echi testuali precisi della fonte milanese. Tuttavia uno spunto per il suo ciclo Belli poté trarlo da due componimenti contigui di Giorgio Baffo, vere narrazioni in rima che complessivamente superano i 98 versi della corona belliana. Nel primo, il sonetto pluricaudato Dimanda d’una ragazza all’autore, il poeta mentre orina viene interpellato da una giovane ingenua: Me vede una ragazza un dì a pissar, questa se ferma, e me domanda ansiosa, “Cosa xe quella robba là pelosa, che ve vedo davanti bulegar?” Mi che comprendo da sto so parlar quanto semplice mai la xe sta tosa, franco ghe digo, che la xe ‘na cosa, che le Donne fà molto consolar (II, 111, vv. 1-11). Il dialogo sfocia in un coito con soddisfazione dei due partners, né manca nel finale un cenno alla possibile gravidanza della giovane: D’esser molto contenta l’hà mostrà, la m’hà dà un baso, e a Casa la xe andà; se pò l’abbia ingravià Co quella solennissima chiavada nol sò, perchè mai più no l’hò incontrada (Ivi, vv. 31-35). Meno stretti i contatti testuali fra la collana di Belli e il lungo componimento di in versi martelliani di Baffo, contiguo al precedente (Vien chiamà da ‘na ragazza). Si evince che si tratta di una giovane apparentemente ingenua ma in realtà maliziosa, come nelle Confidenze, che invita in casa il poeta sconosciuto, chiede cosa sia quel rigonfiamento inguinale che vede sotto i calzoni e finisce al letto con il partner, con baci ai seni come nelle Confidenze e quel che segue. Ma anche qui l’ipotetica prossimità serve a marcare il forte stacco fra il libertino settecentesco e il nostro poeta; là il discorso in prima persona, qui un dialogo a due voci; là un divertimento inverosimile, qui una fictio che attinge alla verità sociale e pedagogica del suo tempo; soprattutto là un punto di vista maschile, qui l’intreccio di voci di due ragazze; là la fiduciosa adesione agli impulsi della natura, qui un affondo nella complessità della storia: là uno spensierato divertissement, qui il riso amaro sui rischi della disinformazione sessuale e sulla dolente esperienza femminile. Se poi estendiamo lo sguardo ai sonetti composti nei giorni contigui alla serie delle Confidenze, ci accorgiamo che dal 9 al 12 dicembre 1832 Belli traccia per figurine l’itinerario potenziale e rischioso della corruzione femminile dall’adolescenza alla maturità: la giovane ingenua impara da un morboso confessore la possibilità dell’auto-erotismo (Er bon padre spirituale), Agata e Tuta si trovano incinte (Le confidenze de le regazze), di un’adultera penitente approfitta Er confessore, una «gran bella donna» vive more uxorio con un prelato (La concubinazzione), una prostituta lamenta di aver dovuto soggiacere a un monsignore virilmente superdotato (Er mostro de natura), un’altra è affetta da blenorragia (Li fiori de Nina), e infine, ecco il dittico della famigerata Santacciade piazza Montanara. <verificare che questo non sia ripetuto nella sezione seconda, Percorsi> Sullo sfondo, la denuncia di tanti sonetti contro la mancata educazione sessuale delle fanciulle, la violenza dei maschi, i vizi del clero. Che anche la storia di Santaccia sia iniziata con uno stupro e una gravidanza? Che nella Roma dell’Ottocento, e non solo a Roma, una ragazza-madre potesse finire sul marciapiede, ce lo confermano gli storici.118 E la religiosità semplice, magari superstiziosa (come segnala Belli) ma non finta che si avverte nelle due giovani popolane e sopravvive a suo modo nella sfatta bagascia di piazza Montanara che si offre gratis per suffragio alle anime purganti, ha ben poco in comune con quella ipocrita o mendace che Baffo attribuisce alle sue veneziane. A noi preme qui chiarire che fra le righe delle Confidenze Belli non dialoga con Baffo né con Aretino, ma semmai con Carlo Porta, che con 118 Cfr. Margherita Pelaja, Matrimonio e sessualità a Roma nell’Ottocento, Laterza, Roma 1994. la sua Ninetta del Verzee ha conferito per la prima volta alla prostituta uno spessore umano, lacerando il simulacro cartaceo – convenzionale, maschilista – della tradizione comica e libertina. 15. Conclusione? Termina qui la rassegna dei riscontri testuali tra i versi del Settecentesco veneto e dell’Ottocentesco romano. Arduo dire se la mèta prefissata, quella di sciogliere il dubbio se Belli abbia letto l’opera di Baffo, sia stata raggiunta; ma un viaggio conta non solo per l’arrivo a destinazione, ma per il paesaggio incontrato nel percorso: i testi confrontabili dei due poeti ci hanno aiutato, crediamo, a caratterizzare e differenziare due atmosfere spaziali e temporali e, soprattutto, due climi mentali e morali: quello di Baffo, libertino a pieno titolo, e quello di Belli, che inserisce e trasforma tessere libertine in un mosaico tanto più ampio e policromo, affamato di realtà e assetato di moralità. Se alla fine di questa rassegna si possa levare il punto interrogativo posto nel titolo (Baffo in Belli?) giudicherà dunque il lettore provveduto. Ci piacerebbe però che egli condividesse l’idea elaborata attraverso il confronto testuale, della incolmabile distanza tra la serena, semplicistica visione del patrizio veneto e il chiaroscurato mondo del poeta romano. Su questo ci starebbe bene un punto esclamativo. <segue file percorsi> D’Annunzio: altrove è d’Annunzio, uniformare Sonetti o Sonetti A volte lo scrive in corsivo, altre in tondo. Echi minori di Casti: Mai più, non seccare, preti sposati Uniformare note: per es. i sonn di GGB talora citati in testo con titolo e num, talora in nota. me sembrava economico; in ogni caso citerei in nota dove si riportano dei versi, non il solo titolo uniformare Sonetti (tondo-cvo. Maiusc-minsc) valitare se tohliere soet5ti ripetuti Fili occulti nei sonetti di Belli uniformare nelle citaz parentetiche forme estese e berevi virgolate o no tipo Ibf, X 12 corsivi o virgolette in citaz di singole parole?