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BIBLIOTECA DI STUDI DI FILOLOGIA MODERNA – 38 – DIPARTIMENTO DI LINGUE, LETTERATURE E STUDI INTERCULTURALI Università degli Studi di Firenze Coordinamento editoriale Fabrizia Baldissera, Fiorenzo Fantaccini, Ilaria Moschini Donatella Pallotti, Ernestina Pellegrini, Beatrice Töttössy BIBLIOTECA DI STUDI DI FILOLOGIA MODERNA Collana Open Access del Dipartimento di Lingue, Letterature e Studi Interculturali Direttore Beatrice Töttössy Comitato scientifico internazionale Enza Biagini (Professore Emerito), Nicholas Brownlees, Martha Canfield, Richard Allen Cave (Emeritus Professor, Royal Holloway, University of London), Piero Ceccucci, Massimo Ciaravolo (Università Ca’ Foscari Venezia), John Denton, Anna Dolfi, Mario Domenichelli (Professore Emerito), Maria Teresa Fancelli (Professore Emerito), Massimo Fanfani, Fiorenzo Fantaccini (Università degli Studi di Firenze), Paul Geyer (Rheinische Friedrich-Wilhelms-Universität Bonn), Ingrid Hennemann, Sergej Akimovich Kibal’nik (Institute of Russian Literature [the Pushkin House], Russian Academy of Sciences; Saint-Petersburg State University), Ferenc Kiefer (Research Institute for Linguistics of the Hungarian Academy of Sciences; Academia Europaea), Michela Landi, Murathan Mungan (scrittore), Stefania Pavan, Peter Por (CNRS Parigi), Gaetano Prampolini, Paola Pugliatti, Miguel Rojas Mix (Centro Extremeño de Estudios y Cooperación Iberoamericanos), Giampaolo Salvi (Eötvös Loránd University, Budapest), Ayşe Saraçgil, Rita Svandrlik, Angela Tarantino (Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’), Maria Vittoria Tonietti, Letizia Vezzosi, Marina Warner (Birkbeck College, University of London; Academia Europaea; scrittrice), Laura Wright (University of Cambridge), Levent Yilmaz (Bilgi Universitesi, Istanbul), Clas Zilliacus (Emeritus Professor, Åbo Akademi of Turku). Laddove non è indicato l’Ateneo d’appartenenza è da intendersi l’Università di Firenze Laboratorio editoriale Open Access Beatrice Töttössy, direttore - Arianna Antonielli, caporedattore Università degli Studi di Firenze, Dipartimento di Lingue, Letterature e Studi Interculturali Via Santa Reparata 93, 50129 Firenze tel. +39.055.5056664-6616; fax. +39.06.97253581 email: <laboa@lilsi.unifi.it> web: <http://www.fupress.com/comitatoscientifico/biblioteca-di-studi-di-filologia-moderna/23> Diego Salvadori luigi meneghello La biosfera e il racconto firenze university press 2017 Luigi Meneghello : la biosfera e il racconto / Diego Salvadori. – Firenze : Firenze University Press, 2017 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna ; 38) http://digital.casalini.it/9788864536392 ISBN (online) 978-88-6453-639-2 ISSN (online) 2420-8361 I prodotti editoriali di Biblioteca di Studi di Filologia Moderna: Collana, Riviste e Laboratorio vengono promossi dal Coordinamento editoriale del Dipartimento di Lingue, Letterature e Studi Interculturali dell’Università degli Studi di Firenze e pubblicati, con il contributo del Dipartimento, ai sensi dell’accordo di collaborazione stipulato con la Firenze University Press l’8 maggio 2006 e successivamente aggiornato (Protocollo d’intesa e Convenzione, 10 febbraio 2009 e 19 febbraio 2015). Il Laboratorio (<http://www.lilsi.unifi.it/vp-82-laboratorio-editoriale-open-access-ricercaformazione-e-produzione.html>, <laboa@lilsi.unifi.it>) promuove lo sviluppo dell’editoria open access, svolge ricerca interdisciplinare nel campo, adotta le applicazioni alla didattica e all’orientamento professionale degli studenti e dottorandi dell’area umanistica, fornisce servizi alla ricerca, formazione e progettazione. Per conto del Coordinamento, il Laboratorio editoriale Open Access provvede al processo del doppio referaggio anonimo e agli aspetti giuridico-editoriali, cura i workflow redazionali e l’editing, collabora alla diffusione. Editing e composizione: LabOA con Arianna Antonielli (caporedattore) e Diego Salvadori. Progetto grafico di Alberto Pizarro Fernández, Pagina Maestra snc. Certificazione scientifica delle Opere Tutti i volumi pubblicati sono soggetti ad un processo di referaggio esterno di cui sono responsabili il Consiglio editoriale della FUP e i Consigli scientifici delle singole collane. Le opere pubblicate nel catalogo della FUP sono valutate e approvate dal Consiglio editoriale della casa editrice. Per una descrizione più analitica del processo di referaggio si rimanda ai documenti ufficiali pubblicati sul catalogo on-line della casa editrice (www.fupress.com). Consiglio editoriale Firenze University Press A. Dolfi (Presidente), M. Boddi, A. Bucelli, R. Casalbuoni, M. Garzaniti, M.C. Grisolia, P. Guarnieri, R. Lanfredini, A. Lenzi, P. Lo Nostro, G. Mari, A. Mariani, P.M. Mariano, S. Marinai, R. Minuti, P. Nanni, G. Nigro, A. Perulli, M.C. Torricelli. La presente opera è rilasciata nei termini della licenza Creative Commons Attribution – Non Commercial – No Derivatives 4.0 (CC BY-NC-ND 4.0: <https://creativecommons.org/ licenses/by-nc-nd/4.0/legalcode>). CC 2017 Firenze University Press Università degli Studi di Firenze Firenze University Press via Cittadella, 7, 50144, Firenze, Italy www.fupress.com Già, ma che cos’è questa sensibilità? C’è anzitutto un suo livello (uno strato massiccio e banale) dove in realtà vuol dire soltanto moda, sorella o almeno cugina della morte. Ma ci sono altri livelli, sottratti ai pettegolezzi del gusto corrente. (Luigi Meneghello, Quaggiù nella biosfera, 2004) SOMMARIO ringraziamenti 11 tavola delle abbreviazioni 13 premessa 13 1. le coordinate di una biosfera 15 1.1 Epifenomeni: un’origine liquida 15 1.1.1 Al centro, nell’acqua… 28 1.2 Eco-logie 56 1.2.1 Grafie dello spazio, grafie dell’ambiente 56 64 1.2.2 L’Altipiano e la maturazione di una coscienza ecologica 1.2.3 “Nel paese della mia testa”: vicinanze, geografie, mutazioni 88 1.2.4 Narrare la fine 102 1.2.5 Se il linguaggio è sistema aperto 115 1.2.6 Dalla biosfera alla biomacchina: un’ecocritica della materia 125 2. l’altro di specie: se meneghello racconta l’animale 2.1 Questione di confini 2.1.1 Freaks: animali letti, scritti; trapiantati e innestati 2.1.2 Tassonomie fluide: quasi umani 2.2 Alla ricerca del corpo 2.2.1 Cani e altre belve temute 2.2.2 Si muore 2.3 Di fianco a loro 2.3.1 Prigionie 145 145 160 191 198 208 225 246 254 appendice. un alfabeto animale 261 bibliografia 343 indice dei nomi 359 Diego Salvadori, Luigi Meneghello. La biosfera e il racconto, ISBN (online) 978-88-6453-639-2, CC BYNC-ND 4.0, 2017, Firenze University Press RINGRAZIAMENTI Ringrazio la Casa Editrice Rizzoli, per avere concesso l’utilizzo dell’immagine alla pagina 54, tratta da Trapianti di Luigi Meneghello. Un doveroso ringraziamento al Dipartimento di Lingue, Letterature e Studi Interculturali dell’Università di Firenze e, in particolare, al Laboratorio editoriale Open Access. Grazie agli amici di Malo e all’Associazione Culturale Luigi Meneghello: Laura Lunardon, Roberto Marchesini, Valter Voltolini. Grazie a Arianna Antonielli, per il costante supporto, la disponibilità e l’amicizia: per aver reso quest’esperienza umana e formativa al contempo. Ringrazio Beatrice Töttössy, che dirige la Biblioteca di Studi di Filologia Moderna: Collana, Riviste e Laboratorio, cui sono legato da una profonda riconoscenza per avermi coinvolto in molti dei suoi progetti e per avere accolto e saputo valorizzare il mio lavoro. Grazie a Rosalia Manno, Anna Scattigno e all’Associazione Archivio per la memoria e la scrittura delle donne “Alessandra Contini Bonacossi”, grazie a cui ho potuto perfezionare le mie competenze archivistiche. Grazie a Valentina Fiume e Federico Fastelli, con cui ho avuto il privilegio di condividere parte di questa avventura. Ringrazio Luciano Zampese, per la sua competenza, l’acume critico, la simpatia. Grazie a Emanuele Zinato, per le direzioni di metodo suggerite. Un ringraziamento particolare a Pietro De Marchi, per gli importanti suggerimenti e le indicazioni bibliografiche che hanno permesso a questo lavoro di essere tale. Grazie a Enza Biagini, cui sono grato per il costante supporto, la disponibilità dimostratami e per avermi introdotto allo studio dell’ecocritica. Sono grato a tutti coloro che, da sempre, mi sono accanto e senza il cui costante supporto questo lavoro non avrebbe mai visto la luce. Infine, grazie a Ernestina Pellegrini: un “grazie” che, forse, non basterà mai a esprimere la mia gratitudine. Grazie per tutte le opportunità, i continui stimoli e l’insegnamento costante, portato avanti con entusiasmo e rigore metodologico, come solo una vera “maestra” sa fare. Grazie per la fiducia, per aver creduto, da subito, nel presente lavoro, per avermi Diego Salvadori, Luigi Meneghello. La biosfera e il racconto, ISBN (online) 978-88-6453-639-2, CC BYNC-ND 4.0, 2017, Firenze University Press 10 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO fatto capire – e cito da un passo di Rivarotta – che le cose che facciamo contano “in proporzione al grado di passione, alla carica di impegno e di amore con cui le facciamo”. TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI Elenchiamo, in ordine alfabetico, la lista delle abbreviazioni facenti riferimento alle opere di Luigi Meneghello, prese in esame nei capitoli a venire: AM = L’acqua di Malo (1986) APP = L’apprendistato. Nuove carte 2004-2007 (2012) BS = Bau-sète! (1997 [1988]) C60 = Le Carte. Volume I: anni Sessanta (2000 [1999]) C70 = Le Carte. Volume II: anni Settanta (2000) C80 = Le Carte. Volume III: anni Ottanta (2001) DIS = Il dispatrio (2007 [1993]) FI = Fiori italiani (1992 [1976]) JUR = Jura. Ricerche sulla natura delle forme scritte (2003) LES = Leda e la schioppa (1988) LNM = Libera nos a malo (1997 [1963]) MM = Maredè, maredè… Sondaggi nel campo della volgare eloquenza vicentina (1990) MR= La materia di Reading e altri reperti (1997) PM64 = I piccoli maestri (1964) PM = I piccoli maestri (1976) PP = Pomo pero. Paralipomeni d’un libro di famiglia (1997 [1974]) PRO = Promemoria. Lo sterminio degli ebrei d’Europa 1939-1945 (1994) QNB = Quaggiù nella biosfera. Tre saggi sul lievito poetico delle scritture (2004) QS = Quanto Sale? Nuove considerazioni su un libro e su una guerra (1987) RIV = Rivarotta (1990) TEC = Il turbo e il chiaro (1995) TO = The Outlaws (1967) TRAP = Trapianti. Dall’inglese al vicentino (2002) Diego Salvadori, Luigi Meneghello. La biosfera e il racconto, ISBN (online) 978-88-6453-639-2, CC BYNC-ND 4.0, 2017, Firenze University Press PREMESSA Ho accettato di scrivere poche righe in apertura di un lavoro che non ha certo bisogno di presentazioni solo per dichiarare la mia soddisfazione per aver contagiato un bravo e giovane studioso con la mia pluridecennale passione per l’opera letteraria di Luigi Meneghello. Sono contenta, perché forse sono riuscita a lasciare a qualcuno un’eredità immateriale, fra le più preziose della mia formazione intellettuale. Diego Salvadori, assegnista presso il Dipartimento di Lingue Letterature e Studi Interculturali dell’Università di Firenze ha già pubblicato un libro molto interessante intitolato Il giardino riflesso. L’erbario di Luigi Meneghello (2015) e si cimenta qui con una originale lettura in chiave ecocritica di tutti gli scritti narrativi e di autocommento dell’autore maladense. Questo secondo libro, Luigi Meneghello. La biosfera e il racconto, ha un taglio davvero originale. In virtù di nuove prospettive d’indagine, alla luce di chiavi ermeneutiche particolari come la filosofia dell’ambiente, la geocritica, l’imagologia, l’estetica del paesaggio, il material ecocriticism ed altre agguerrite teorie letterarie che hanno trovato soprattutto in area anglosassone la massima diffusione, Salvadori riesce a entrare brillantemente nei meandri della biosfera meneghelliana, esplorando le funzioni metaforiche e analogiche di bestiari, acque, piante e temporali, commentando da par suo alcuni passi noti e meno noti dei testi, trovando rimandi e echi alle fonti letterarie e figurative che fermentano e agiscono nel tessuto culturalmente ricchissimo di questo scrittore-professore. Si scoprono gli interessi antropologici, ma anche quelli che guardano alle scienze dure come l’astronomia e la biologia, di un autore affezionato irrimediabilmente ai tristi tropici della propria infanzia e di un’esperienza adulta di felice dispatriato, legato a filo stretto a quelle forme della natura che si sono depositate nel “buco nero” (C80, 356) della sua testa: Un colpo mortale alle idee di Alvise [una delle tante controfigure dell’autore che compaiono nelle Carte] sulla stabilità del mondo gli è venuto dalle sue letture (disordinate, appassionate) sulla biologia e sull’astrofisica, quando a un certo punto si è accorto che il processo è dovunque, non solo nella storia umana; storica è la terra, storiche le stelle e (probabilmente) storico l’universo. Storia, nel senso che tutto continua a diventare qualcos’altro. Sarebbero forse parole?, Diego Salvadori, Luigi Meneghello. La biosfera e il racconto, ISBN (online) 978-88-6453-639-2, CC BYNC-ND 4.0, 2017, Firenze University Press 14 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO si chiede. Varianti meno giocose del puerile aforisma sul generale scorrimento delle cose, il panta-rei che tanto ci divertiva a scuola? Ma no: questo non è l’asettico “panta” dei greci, ma il ricco pantasso del cosmo. (C70, 353-354) Pagine molto belle sono dedicate alla estetica della wilderness ne I piccoli maestri, quando l’esperienza resistenziale e la mutazione profonda di una personalità formatisi fra i fumi della retorica fascista avviene parimenti fra le luci e le ombre del magistero di Antonio Giuriolo e dell’Altipiano di Asiago. Un maestro e un luogo, due dimensioni che si potenziano a vicenda. Al centro dell’indagine sta un leitmotiv che Salvadori chiama “la cinetica testuale”, la complessa fenomenologia del corpo in movimento (il saltar giù, lo strisciare fra i mughi, il correre a perdifiato nel vento delle pallottole). Forse non è un caso – mi vien da pensare – che un aggettivo molto forte e insistito nelle cose scritte da Meneghello sia “vibrante”. Ma anche “brioso” ha la sua carica eversiva. Biosfera, litosfera, idrosfera, ionosfera; la “zuppa primitiva” (C70, 86) da cui veniamo; il brodo primordiale; gli eobionti …: ogni strato del mondo naturale e sovrannaturale di Meneghello viene da Salvadori schedato e notomizzato, producendo angolazioni inedite di sguardo critico da cui far scaturire altra ricchezza annidata fra le pagine di Libera nos a malo, dei Piccoli maestri, di Pomo pero, dei Fiori italiani, di Jura, delle Carte, dell’Apprendistato, e di ogni singolo frammento di scrittura che vuole demolire il pregiudizio anacronistico e infondato che celebra da millenni il primato antropocentrico. Tre sole citazioni, dalle tante offerte dalla banca-dati di temi e immagini messa su da Salvadori, che rivela un lessico scientifico che spazia in varie zone del sapere: Al risveglio, il nostro mondo mentale si mette a girare: è come una ruota di raggi, ciascun raggio con una palla in cima, ciascuna palla con un suo nucleo di interessi e di pensieri in gabbia: scimmie, zuppa primitiva, DNA, dieci alla decima, idrogeno, galassie, supernove… Di queste giostre ce n’è parecchie, biologica, cosmologica, sociale, letteraria e quintessenziale. (C70, 188) Questa gentile sottoscienza si chiama citologia. Una serie rientrante di piccoli abissi ornamentali, con un grosso buco in mezzo: il problema di come veramente è costituita la cellula. (C70, 370) “Davanti agli animali è difficile non sentirsi in colpa: a loro è andata storta, a noi anche, ma questo loro non lo sanno”. (C70, 273) Particolarmente suggestivo il paragrafo intitolato Prigionie, verso la fine del capitolo sulle rappresentazioni degli animali, dove compaiono bestie in gabbia, addomesticate, relegate alla ludica contemplazione dei visitatori degli zoo, con conseguenze spesso inquietanti – come nel caso della scimmia in Maredè, Maredè: PREMESSA 15 Già, il gabbiotto che c’era a Pósena (Posina) in uno spiazzo, un magro slargo della strada; era una struttura cilindrica, un casottino di sbarre con la cupola, nel quale tenevano prigioniera una scimmia. Un simiòto. Mi accostai per guardarlo, con un salto lui si gettò contro di me, venne a sbattere sulle sbarre all’altezza del mio viso, e le scrollava con le mani e coi piedi, spirando un odio forsennato dal muso, dagli occhi arancione, tondi, ardenti,dall’arrotare dei dentini… Era sconvolgente, per un istante mi prese il terrore che potesse storcere le sbarre arrugginite e brincare me, e lacerarmi. Una creatura così piccola, così grottescamente umanomorfa, con quei tratti minuti e ben profilati, quelle manine eleganti… Un livello orribile e profondo… un raptus senza nome, un barilotto di forze poco meno che sacre. (MM, 81) Come si costruisce il “canone greening”? – è la domanda di fondo, che vede affiancare a Meneghello altri autori come Calvino, come Rigoni Stern, come Volponi, come Zanzotto, come Wallace Stevens, come Philip Larkin, come infiniti altri compagni di strada, per dare il via a una riflessione sulla riflessione d’autore intorno ai confini sempre mobili e spesso imprevedibili della cultura con la natura. Come in una Operetta morale di Leopardi, Meneghello inscena qua e là il suo dialogo fra la Natura e un maladense. Alle spalle dello studio affascinante di Salvadori, certo, ci sono infinite letture, fatte interagire con sicura padronanza teorica e comparatistica. Fra queste un libro, fondamentale per gli studiosi inclini a un’etica ambientalista, come quello di Antonio Prete, Prosodia della natura. Frammenti di una fisica poetica (1993). Ma Salvadori guarda anche alle origini, al De Rerum Natura di Lucrezio e, sul piano filosofico, all’idea leibniziana di un biocentrismo e di un’armonia cosmica basata sull’energia e il movimento. Alla fine, si potrebbe giurare che Meneghello sia del tutto d’accordo con Wallace Stevens quando afferma: “In the world of words, the imagination is one of the forces of nature”. Ernestina Pellegrini 1 LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 1.1 Epifenomeni: un’origine liquida Leggere in chiave ecocritica un autore come Luigi Meneghello significa avere a che fare con molteplici punti d’accesso, che rimandano non solo a un sistema creativo in equilibrio e al contempo in fieri; ma vieppiù dischiudono quelle che sono le pieghe nascoste del testo, tanto da suscitare nello studioso un senso, seppur iniziale, di smarrimento. Ma se l’ecocritica, o ecologia letteraria, “rivolge i suoi interrogativi alle opere letterarie e a tutte le forme culturali in cui sia tematizzato il rapporto umanità-natura” (Iovino 2006, 60)1, indagando le relazioni tra letteratura e ambiente fisico (Glotfelty, Fromm 1996, XVIII), nel caso del nostro autore dovremmo partire da un termine ben preciso, ovverosia quello di “biosfera”: la parte esterna della superficie terrestre, dove le forme di vita animali e vegetali hanno luogo di esistere, così definita dal mineralogista e geochimico russo Vladimir Ivanovič Vernadskij: Своеобразным, единственным в своем роде, отличным и неповторимым в других небесных телах представляется нам Лик Земли — ее изображение в космосе, вырисовывающееся извне, со стороны, из дали бесконечных небесных пространств. В лике Земли выявляется поверхность нашей планеты, ее биосфера, ее наружная область, ограничивающая ее от космической среды. (Vernadskij 1989 [1926], 8) La faccia della terra, la sua immagine cosmica, vista dall’esterno, dalle infinite distanze degli spazi celesti, ci appare come qualcosa di specifico e unico, di irripetibile in tutti gli altri corpi celesti. Nella faccia della Terra si manifesta la superficie del pianeta, la sua biosfera, che la separa dall’ambiente cosmico. (Trad. it. di Fais e Leoutskaia in Vernadskij 1999, 27) 1 Per quanto, in merito a una ricognizione bibliografica sull’ecocritica, sia pressoché impossibile prescindere dal volume di Glotfelty e Fromm (1996), si rimanda, in ambito italiano, ai lavori di Iovino 2006, Salabè 2013 e Turi 2016. Circa la definizione di un canone greening, inerente la letteratura anglosassone e italiana, sono da segnalare le antologie curate da Anna Re (2009) e Patrick Barron (Re, Barron 2004). Diego Salvadori, Luigi Meneghello. La biosfera e il racconto, ISBN (online) 978-88-6453-639-2, CC BYNC-ND 4.0, 2017, Firenze University Press 18 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Eppure, in tutta l’opera di Luigi Meneghello, la parola “biosfera” ricorre soltanto due volte: come titolo al volumetto Quaggiù nella biosfera e tra le pagine di Maredè, maredè…2 . Nel primo caso, l’avverbio “quaggiù” sembra tracciare un confine ben preciso tra le zone della Terra abitate dai viventi 3 e l’universo restante, ragion per cui la biosfera si fa spazio adibito all’esercizio di una scrittura4 animata da quel “principio vitale […] [:] il lievito delle scritture letterarie più felici” (QNB, 13). Diverso il caso di Maredè, dove l’autore, in riferimento al maleficio perpetrato puntando il dito verso le piante (il “ far de déo”, MM, 54), scrive che Le forze ostili della biosfera si concentrano (pare) sulla punta del dito: una scarica invisibile di male va a colpire le piantine sventurate, penetra all’interno, uccide la loro voglia di vivere… In un breve volgere di giorni, come bruciate da una brósema astratta, esse avvizziscono, si piegano verso terra e muoiono, inibiate. (Ibidem, corsivo mio) Siamo dinanzi a un avito folclore e, nella fattispecie, a una connotazione della natura non ancora smagata, come spesso accade nelle pagine legate al ciclo di Malo5 , laddove la biosfera è resa sulla pagina sempre obbedendo a una diplopia soggiacente (Salvadori 2015, 58), in bilico tra sguardo autoriale e occhio bambino. Ma resta comunque invariata l’importanza assunta da queste spie lessicali, giacché permettono di individuare – e oltremodo localizzare a livello testuale – quelle che sono le “sfere geobiochimiche”6 presenti nell’opera dello scrittore. Si legga il seguente estratto: 2 A questo dovremmo aggiungere il passo dal terzo volume delle Carte, laddove l’autore avanza il concetto di “emisfera”: “Ho avvicinato, per farle combaciare, le due parti del mondo, emisferiche: accennava a scatenarsi la reazione nucleare, friggevano i neutroni, i concetti a emisfera, materia e forma, pan e formaio…” (C80, 81). L’idea, da subito, è quella di un enclave di reazioni geochimiche, oscillanti tra forma e materia, Essere e Divenire. 3 Che è, alla fin fine, il significato del termine “biosfera”. 4 In un’ottica propriamente ecocritica, possiamo fare riferimento a quanto espresso da Joseph Meeker in The Comedy of Survival (1974), considerato tra i testi fondanti della disciplina. Giacché le creature umane sono le uniche capaci di fare letteratura, la creazione letteraria – in quanto prerogativa sostanziale della nostra specie (ivi, 3) – andrà posta sotto una nuova prospettiva di analisi, tale da determinare il ruolo da essa svolto “in the welfare and survival of mankind” (ibidem) e, soprattutto, nella relazione tra gli umani e la restante ecosfera. 5 Di cui Maredè costituisce l’ultimo libro, successivo a Pomo pero. 6 Per sfere geobiochimiche s’intendono le zone dove avvengono determinati cicli biologici o naturali (atmosfera, litosfera, idrosfera, biosfera). LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 19 Appunti degli ultimi giorni - Ho sognato di nuovo la torre (astratta, illuminata) che è anche una specie di pozzo verso l’alto: è come se andando in su non svettasse nell’aria, ma fosse dentro a qualcosa, e che in basso questo qualcosa si sprofondasse ancora, di altrettanto, sotto la crosta della terra. Sterminato. […] La torre, ma come è fatta? La sogno a intervalli da anni e non me lo sono mai domandato. È uno strumento notturno di stupore e di inquietudine. In cima, sulla terrazza terminale si sente di essere sbucati in un’aria rarefatta, una specie di ionosfera7, inquietante, del tutto fuori dall’ordinario. Anche la fluida corsa della cabina all’insù, e altrettanto al ritorno, è straordinaria, un viaggio fulmineo e insieme prolungato, quasi infinito… (C70, 300-301) Alla biosfera, situata “quaggiù”, subentrano le regioni ionizzate dell’alta atmosfera8, senza però interrompere l’oscillazione costante fra due opposte polarità (alto vs basso; profondo vs elevato; dentro vs fuori), cui va aggiunto il riferimento alla litosfera, evocata nel passo dalla “crosta della terra” (ibidem)9. Ma vi è un altro spazio vitale, nominato in modo esplicito da Meneghello, ovverosia il complesso delle acque che costituisce il 70 % della superficie terrestre, l’idrosfera, di cui troviamo traccia nel primo volume delle Carte: “Dice che la vita è un epifenomeno dell’idrosfera. Sono cose che si dicono” (C60, 361). In riferimento a una funzione H2O nell’opera dello scrittore, questo passaggio ha un ruolo inaugurale e si colloca al centro di una vera e propria fenomenologia dei liquidi, a riprova di una capillarità soggiacente, dove parole e fluidi seguono il medesimo corrimano. L’acqua, dunque, diviene il punto d’inizio per un’analisi ecocritica dell’opera di Meneghello, proprio per il suo essere medium relazionale (Van Aken 2013, 19), in virtù di una natura protea10 che la rende necessaria ogni forma di vita del mondo. Come rilevato da Vito Teti: L’acqua si presenta come il punto di intersezione forse più forte ed efficace tra storia della natura e storia degli uomini. Le narrazioni riferite al passato e le etnografie relative a società primitive, tradizionali, attuali hanno l’intento di collegare, in maniera problematica, niente affatto meccanica, i simboli alla storia, alle forme produttive, ai condizionamenti naturali e geografici […]. L’analogia e la somiglianza dei simboli, la loro ambivalenza e fluidità, la continuità e la Corsivo mio. Cfr. QNB, 21, in riferimento alla “stratosfera metafisica sopra le nostre teste a Padova nei primi anni Quaranta”. 9 Immediato è il rimando a PM, 6: “siamo incapsulati in questa nicchia, sotto il livello della crosta della terra”. 10 “Risulta impossibile comprendere l’acqua se non in relazione al territorio, alla terra, alla foresta, in breve si pone come relazionale nella stessa lettura degli ecosistemi a partire proprio dalla dimensione di cambiamento e di dinamica” (Van Aken 2013, 20). 7 8 20 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO discontinuità nella lunga durata e negli stessi luoghi, portano a individuare al tempo stesso la somiglianza e la diversità delle esperienze che hanno conosciuto le società e le culture. Per questa via l’acqua, in quanto elemento ovunque presente (nell’universo, sul pianeta e nel corpo), può costituire anche il luogo per ripensare i nessi tra biologia e cultura, tra quello che chiamiamo natura e quello che chiamiamo storia. (Teti 2013, XVII-XVIII) Non solo l’acqua testifica la profonda interdipendenza tra uomo e natura, vieppiù rimanda – nella sua carica relazionale – alla prima legge dell’ecologia, in base a cui ogni cosa ci connette con qualsiasi altra (Commoner 1971, 16) presupponendo in tal senso una cooperazione – volontaria o meno – tra i viventi. Per Mircea Eliade, le acque adergono a “ fons et origo, la matrice de toutes les possibilités d’existence” (1959 [1948], 168; “ fons e origo, la matrice di tutte le possibilità di esistenza”, trad. it. di Vacca in Eliade 2008 [1976], 169), simboleggiando la sostanza primordiale generatrice di tutte le forme, senza contarne la presenza quasi ossessiva in tutte le cosmogonie (cui è successiva l’emersione del Mondo). Viceversa, secondo il divulgatore scientifico Philip Ball, l’elemento acquatico andrebbe a costituire il sangue della Terra, dal momento che: We live on a blue planet, and seem more or less determined to disguise the fact. Our maps – North America and Asia stretching out to one another like Michelangelo’s divine fingers in an attempt to bridge eastern and western landmasses – give no clue that, seen from some angles, the globe is nearly all sea. Standard cartographic projections appear designed to maximize land area at the expense of the waters, to hide away the awesome glaze of the Pacific Ocean […]. We call our home Earth – but Water would be more apt. (Ball 1999, 32) Noi viviamo su un pianeta azzurro, ma sembriamo più o meno determinati a nascondere tale evidenza. Le nostre carte geografiche – con il Nord America e l’Asia protesi uno verso l’altra come divine mani michelangiolesche, nel tentativo di lanciare un ponte fra le masse continentali orientali e occidentali – non danno assolutamente l’idea del fatto che, visto da certe angolature, il mondo è quasi interamente coperto dal mare. Le normali proiezioni cartografiche sembrano ideate per dare il massimo risalto alle terre emerse a scapito delle acque, e per nascondere l’imponente superficie glassata dell’Oceano Pacifico […]. Noi chiamiamo Terra la nostra dimora nel cosmo, ma Acqua sarebbe un nome più appropriato. (Trad. it. di Blum in Ball 2000, 33) La vita, insomma, tributaria delle acque o, volendo far nostre le parole di Meneghello, “epifenomeno dell’idrosfera” (C60, 361): un concetto, sotto certi aspetti, desumibile dal passo che ci apprestiamo a citare: Marcello o l’esame di coscienza di un letterato Marcello mi ha mandato il testo del suo Esame di coscienza di cui mi aveva parlato la settimana scorsa. Eccolo: LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 17 […] La natura e la mia nurture, il modo come sono stato cresciuto e nutrito, mi inclinavano piuttosto alla filosofia, o così mi convinco, alla filosofia, la quale in questi tempi giace per terra in forma di zuppa primitiva11, da cui forse potranno nascere nuovi eobionti. Il mio sentimento è sciolto come sale in quella zuppa dalla quale veniamo. Se mi fossi accorto in tempo di queste prospettive avrei saputo che fare: cercare di aristotelizzare (in miniatura ben s’intende) la scienza moderna, che ben presto chiameremo antica: ossia ripensare seriamente ai concetti di potenza e atto, p.e., con riferimento non a ciò che sapeva Aristotele, ma a ciò che sappiamo noi della zuppa e degli eobionti. (C70, 86-87, corsivi miei) Queste parole rimandano non solo all’acqua quale fons vitae ma, nella fattispecie, fanno eco all’ipotesi prebiotica circa le origini della vita – elaborata da Aleksandr Ivanovič Oparin (1894-1980) e John Burdon Haldane (1892-1964) –, in base a cui le forme viventi deriverebbero da composti organici primordiali, tra cui figurano, appunto, gli eobionti12 . Per l’autore, questo è indubbio, la “zuppa primitiva” (ibidem) ha una funzione epistemica (il riferimento è alle conoscenze filosofiche), ma basterà un raffronto col seguente estratto per scorgerne la natura biotica, interconnettiva e mai avulsa dal “DNA del reale” (MR, 182): Al risveglio, il nostro mondo mentale si mette a girare13: è come una ruota di raggi, ciascun raggio con una palla in cima, ciascuna palla con un suo nucleo di interessi e di pensieri in gabbia: scimmie, zuppa primitiva, DNA, dieci alla decima, idrogeno, galassie, supernove… Di queste giostre ce n’è parecchie, biologica, cosmologica, sociale, letteraria e quintessenziale. (C70, 188, corsivo mio) Riscontrata in entrambi gli esempi citati, la “zuppa primitiva” designa non solo un’enclave di strutture mentali (le “giostre”, ibidem) in continua espansione (“biologica, cosmologica, sociale, letteraria, quintessenziale”, ibidem)14, ma conferma la natura “liquida” della vita primordiale: una vita che sembra eludere, o comunque oltrepassare, il confine tracciato da quel “quaggiù” posto poi dall’autore a suggello della sua biosfera. L’acqua, perciò, come elemento15 seminale e scaturigine di qualsivoglia forma vivente (l’ar- 11 Chiaro è il riferimento al concetto di “brodo primordiale”, teorizzato in seguito all’esperimento condotto da Stanley Miller nel 1953. 12 “Organismo comparso alle origini della vita sulla Terra” (De Mauro 2000, 873). 13 Cfr. AM, 183: “La mia vita mentale è marasmatica”. 14 Questo passaggio testifica la natura “complessa” dell’epistème meneghelliana e autorizza, sotto certi aspetti, una lettura ecologica proprio in nome dell’intima rispondenza tra natura e cultura. 15 Sulla scorta dei testi di riferimento, abbiamo parlato dell’acqua quale elemento, ma tale definizione risulta imprecisa, poiché si tratta di un composto. 18 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO chè, volendo rifarci al pensiero dei presocratici), pronta a sussumere l’eredità prebiotica dell’umano e la sua derivazione “marina”. Scrive Meneghello: … Piero era in primo luogo una cosa. Conteneva tra 40 e 50 chili d’acqua, qualche chilo di carbonio, parecchio azoto, un po’ di fosforo, un po’ di ferro e tracce di oro. Aveva un buco principale dal quale entravano giornalmente alcuni chili di sostanze varie che venivano bruciate, e dal suo corpo uscivano a intervalli aria viziata e rifiuti. Pungendo Piero in un punto qualunque usciva anche sangue che però, tamponato, smetteva di uscire. Aveva in corpo circa otto litri di sangue, e in testa una vaga idea che glielo avesse passato il papà, il quale lo aveva ricevuto dal nonno, e il nonno dal suo papà, e l’ultimo della serie antropomorfa da uno scimmiotto, e costui da altre creature, e queste da altre ancora, fino al punto di origine, una zuppa marina. Piero aveva dunque, dentro, il mare. Anche questo mare, del resto, non era stato sempre così com’è, veniva a sua volta da una serie di trasformazioni che risalivano fino a una nube di idrogeno16, con parecchio elio, identica a quella da cui si era formato il sole. Piero si poteva benissimo considerare un pezzo di sole, e inoltre una volta: ma siccome poi questa nuvola non esisteva da sempre, ma derivava anche lei da qualcos’altro, Piero veniva a essere un sacchetto di qualcos’altro. (C70, 209-210, corsivo mio) La sospensione dello sguardo antropocentrico porta l’autore a considerare il corpo umano alla stregua di semplice materia organica, financo “cosa” (ibidem), adottando un’ottica per certi aspetti postumana (si vedano le “pompe interne”, in C60, 14). Non sfuggirà il punctum attorno all’origine prebiotica – e, nella fattispecie, marina – della vita, il che ci porta a ipotizzare la presenza di una linea diacronica interna al secondo volume delle Carte (da cui abbiamo citato gli ultimi tre estratti) che, dagli “eobionti” (C70, 86-87), si snoda per quelle giostre in espansione (“biologica, cosmologica, sociale, letteraria, quintessenziale”, ivi, 188) e giunge sino ai mari del corpo (C70, 210), per inserirsi in tal modo nella totalità della parabola evolutiva. Ma, volendo adottare una prospettiva distanziata, tale da abbracciare l’intero macrotesto, apparirà evidente da subito come l’elemento acquatico segua, in Meneghello, un vero e proprio ciclo idrologico, articolato per tre punti fondamentali e prestante fede a una precisa linearità tematica. “S’incomincia” dall’incipit di Libera nos a malo (LNM, 5), dove il temporale costituisce non solo la prima manifestazione acquatica, ma si fa punto di raccordo tra due zone ben definite: la biosfera (il “quaggiù”, cioè il punto d’arrivo dell’acqua) e l’atmosfera (dove la pioggia si è andata formando). Se per Italo Calvino, la fantasia è “un posto dove ci piove dentro” (Calvino 2012 [1993], 84)17, potremmo trasferire tale assunto dall’ambito 16 Il, in tal caso, riferimento è agli anni formativi del pianeta Terra, caratterizzati dalla presenza del vapore e gas. 17 Calvino fa riferimento al Purgatorio dantesco e, in particolare, al v. 25 del canto XVII (“Poi piovve dentro a l’alta fantasia”). Tutte le citazioni dalla Commedia sono tratte da Dante 2005. LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 19 visionario (inerente le immagini interiorizzate) a quello prettamente testuale, in modo da definire il ruolo inaugurale dell’acqua all’interno della pagina meneghelliana. Un’acqua – e siamo adesso alla seconda tappa di questo percorso – che diviene voce narrante e imago mentis ne L’acqua di Malo, punto in cui l’elemento liquido rivela tutta la sua valenza semantica nel farsi esso stesso realtà poetica, musicalità di raccordo tra mente e luogo nativo. L’ultimo approdo è situabile all’inizio dei Trapianti, di cui non sfuggirà, a livello puramente visivo, il disegno a china di Franco Meneguzzo (1966; fig. 1.1), scelto quale immagine di copertina e posto tra le varie sezioni del libro, in cui è impossibile non scorgere l’andamento di un fiume. Nei Trapianti, oltretutto, l’acqua si pone letteralmente in limine, a cominciare dai versi di Roba rica, roba rara, traduzione del canto di Ariel da The Tempest (1623 [1611]) di Shakespeare: L’è soto acua to popà coralo i ossi da morto perle t’i busi d’i oci: popà de perle, popà de corlo, de le polpe che se desfa el mare gh’in à fato roba rica, roba rara. (TRAP, 9) Il mare rimanda non solo alla destinazione ultima del ciclo idrologico, quanto piuttosto al rigenerarsi della vita stessa (una vita, in tal caso, destinata a incorporarsi continuamente alla biosfera, dal momento che le ossa si fanno corallo e gli occhi divengono perle). Ma non sfuggirà la natura oppositiva, a livello di componenti biosferiche, della sezione inaugurale del libro – biave vece biave nove – in quanto “el mare” – e quindi l’essenza liquida del sonetto shakespeariano – si fa speculare al successivo trapianto, No la se move pì, traduzione di A Slumber Did My Spirit Seal di William Wordsworth (2013 [1802], 225): No la se move pì, no la ga forsa; no la ghe vede, no la ghe sente; el giro de la tera la ravòltola, co le roce, e le piere, e le piante. (TRAP, 11) Alla dinamicità acquatica e creatrice di forme, subentra l’immobilismo della terra, quasi fosse all’attivo un’opera di disseccamento, pronta a cedere il passo a un Essere che – leggiamo in Quaggiù nella biosfera – “si è come evaporato” (QNB, 21)18. Una triangolazione – che abbiamo elencato per sommi capi – poggiata su un sistema di “natazioni occulte” (C60, 14): un vero e proprio fiume sotterraneo che scorre per vertici, sulle cui rive Me18 Un Essere, tuttavia, composto d’acqua, proprio perché andato incontro a evaporazione. 20 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO neghello sosta più volte. Lo si deduce, ad esempio, dal risvolto di copertina presente nel terzo volume delle Carte, contente un abbozzo di carta inedita: Or, se mi mostra la mia carta il vero, non è lontano a discoprirsi il porto…19 Sì, se leggo bene i segnali sto per arrivare, è quasi in vista l’approdo. Non è stato un viaggio per mare, ma piuttosto come seguire a ritroso l’andamento di un fiume, meandri, acque pigre, silenziose tra due fasce di folta vegetazione, un ingorgo di rami, sterpaglie, rovi. In certi momenti mi è parso di risalire una specie di Gange, come a Benares, in una luce livida (alba); sulla sponda di qua, a sinistra, roghi sparuti, fumi… e lontano lontano sull’altra sponda, appena visibile oltre la sterminata calotta del fiume, il paese evanescente dove aleggiano (nebbioline) i fantasmi scorporati delle cose e delle persone che hanno lasciato questa vita, forse anche quelle che non sono mai nate… (C80, risvolto di copertina) Il passo, oltre a tentare la rappresentazione di un fiume post vitae20 (ma altresì chiosando, in una sorta di mise en abyme, il distico ariostesco posto in esergo), dischiude la natura stessa delle Carte, il loro essere “lettura in salita” (Pellegrini 2008, 198), rimandando altresì a quel “sistema di vasi intercomunicanti […] [dove] c’è dentro lo stesso fluido che passa dall’uno all’altro” (MR, 65): un fluido che, nell’intera opera dell’autore, è destinato a risolversi in corteggio d’immagini, in un’oscillazione perpetua fra “acque limpide e […] gorghi oscuri” (LNM, 65). In Meneghello, dopotutto, l’acqua sfrutta appieno la sua essenza multidimensionale, giacché destinata a manifestarsi quale “totalité des virtualités” (Eliade 1958, 169; “totalità delle virtualità”, trad. it. di Vacca in Eliade 2008, 167): si andrà, dunque, dall’acqua quale forma formata (esperibile, cioè, a livello sensorialepercettivo), ai liquidi alberganti all’interno del corpo, per poi passare al “flusso” – di derivazione tipicamente eraclitea – dell’esperienza e della scrittura, senza contare i riferimenti alla sfera linguistica (impossibile non pensare ai “sondaggi” di Maredè). Ma non andranno trascurate neppure le spie lessicali che, a livello stilistico, insinuano l’elemento liquido nelle trame della diegesi per traslazione o accostamento metaforico21, che rende la parola “solvente intellettuale” (MR, 74). Cfr. Ariosto 1964 [1532], XLVI, I, 1596. Si veda PP, 356: “Il nostro cordoglio curioso eccitato riempì le strade del paese come un’acqua, sulla riva c’era una fidanzata nera, stupenda, frontale, che il fratello del morto sorreggeva e in seguito sposò”. 21 Elenchiamo solo alcuni esempi (salvo laddove indicato, i corsivi sono di chi scrive): “Mi veniva a onde l’impressione di esserci stato un’altra volta […]. La luce nel Canale del Mis pareva acqua” (PM, 56); “il primo effetto fu di leggero disorientamento, poi sopraggiunse un’ondata di contentezza” (ivi, 60); “Era sul magro […]. Aveva uno sgorgo di barba sulla punta del mento […]” (ivi, 68); “I lanci avvenivano a campogallina; era la fontana della guerra in Altipiano” (ivi, 89); “gli spruzzi potenti del fotone” (PP, 301); “La zia Adele non parla, straripa” (ivi, 349); “Certo a volte ci pare di essere stati immersi a scuola in un gran bagno di agiografia letteraria, tanto più soffocante per essere sottintesa […]” (FI, 266); “Marchesi […] gli fece delle confidenze […]. A un 19 20 LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 21 Abbiamo visto come, nel libro d’esordio, l’acqua inauguri una tensione prettamente meteorologica, destinata poi a riproporsi in altri versanti del macrotesto: nell’episodio della tempesta maladense (LNM, 35-36), ad esempio, la presenza acquatica, proprio perché accostata alla luce, diviene prisma e elemento riflettente; analogamente all’incipit dei Piccoli maestri, dove il temporale si ripresenta con cadenza perfetta (PM, 3). E un contesto analogo è riscontrabile nella zona liminare di Bau-sète!: Avevamo girato tutto il giorno per l’Altipiano, io e Lelio con la DKW, sotto la pioggia. A notte fatta, scendendo per la Valsugana, la pioggia si era infittita: alla luce del nostro faro faceva come un bosco di sbarre d’oro animate, saettanti, fragili, contro le quali irrompeva l’arguto cappuccio nero del faro e la sagoma corta e netta del parafango. Era un ballo, un volo, ma c’era anche un aspetto ipnotico, forse a causa del rumore […]. Dallo strepito di fondo della pioggia si staccava il ronzio penetrante della DKW che […] si era intensificato e pareva non più fuori ma dentro la testa, ossessivo e insieme quasi riposante… Eravamo già oltre Marostica, filavamo come in trance verso il ponte sull’Astico. (BS, 386) Chiara è la tensione intratestuale deducibile dall’estratto: in primis, l’accostamento tra elemento liquido e fenomeno luminoso, pronto a risolversi in una percezione alterata della realtà22 (“un bosco di sbarre d’oro animate, saettanti, fragili, contro le quali irrompeva l’arguto cappuccio nero del faro”, ibidem); ma non sfuggiranno i richiami, sul piano prettamente stilistico, a Libera nos a malo – “qui tutto è come intensificato” (LNM, 5); “il ronzio penetrante della DKW […] si era intensificato” (BS, 386) – e la stessa Acqua di Malo – “Ero coinvolto in un fenomeno ipnotico …” (AM, 10), “c’era anche un aspetto ipnotico” (BS, 386); “è un rush di correnti nella testa” (AM, 183), “pareva non più fuori ma dentro la testa” (BS, 386). Come ribadito dallo stesso autore, “sembra che ci siano dei legami tra i temporali e l’attacco dei miei libri” (QS, 131), ma l’affermazione potrebbe essere estesa a tutte quelle zone del macrotesto che, proprio nel riportare l’acqua sulla pagina, attingono a un “potentissimo serbatoio di forme” (AM, 168). Temporali e piogge, in fondo, non solo certo punto parve quasi che chiedesse appoggio e conforto, ma il ragazzo si sentiva entrare in un’acqua fonda, eccitante, dalla quale si ritrasse” (ivi, 323); “Lo scopo ultimo era di analizzare la realtà profonda della situazione, ammesso che ci fosse; andar giù a cercarla, in apnea se necessario […]” (BS, 392); “Forse per un residuo riguardo verso quei padri, comunicavo anche a lui qualche cosetta poetica, e gli passavo i volumetti dello “Specchio”, […] ma si vedeva che era in acque più alte di lui, non toccava” (ivi, 452). 22 Una situazione analoga è riscontrabile quando l’elemento luminoso viene a mancare. Cfr. BS, 388: “Tutta la valle tuonava, era in arrivo la pioggia e le acque senza colore dell’Astico, le acque di vetro, ora imbevute dei riflessi del buio, inarcavano le piccole schiene col suono strisciato che di giorno non tracima dagli argini, galleggia appena sopra i sassi, ma di notte rimonta nella valle nera e riempie l’invaso”. 22 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO siglano un’alleanza profonda tra l’uomo e la biosfera, ma sono soprattutto fons narrativa, giacché le nostre storie sulla pioggia sono, a loro volta, le storie in cui essa racconta di noi (Duckert 2014, 114): Rain resists our attempts to know its intentions, yet is also resists drawing the separation between assembles (non)human collectives and hurls them across space and time. Rain precipitates in the literal sense: it actively “throws” things “headlong” and “causes” things “to happen”. Thus, any attempt to bridge the gulf separating human from rain, though admirable, is misguided. (Ivi, 115) Alla luce di quanto affermato, potremmo dire che “s’incomincia con un temporale” (LNM, 5) proprio perché il temporale è iniziato e, di conseguenza, racconta una storia, una narrazione – almeno nella zona liminare del macrotesto – popolata da un’acqua in divenire e che, al contempo, crea le forme23: epitome, dunque, dell’intima rispondenza tra uomo e natura, mente e corpo, di una fantasia ch’è foce e sorgente. Circa quest’ultimo aspetto, non possiamo esimerci dal citare alcuni passi da Il Tremaio, dove l’autore – portando avanti un dialogismo testuale a distanza – torna a riflettere su un trafiletto apparso su Epoca, per la rubrica L’autore si confessa. Nel fare riferimento a una “componente sommersa della nostra cultura nazionale” (Meneghello 1972, 74), chi scrive torna a guardare ab origine, al temporale che, mai come adesso, cerca di farsi forma narrante: M’importerebbe molto comunicare ciò che era un portico in dialetto durante un temporale, quando i rivoli delle acque piovane ingorgavano le vecchie fauci dei gatolàri e rifluivano fra i ciottoli del portico, allagandolo; e i sorci annegati come un sorcio uscivano nell’aria elettrica e sedevano sui gradini delle porte a guardare l’inondazione. La chiave è “annegati”, una nostra forma icastica per “bagnati”. Una cosa, non una parola. (Meneghello 1972, 74) Quasi un addendum all’incipit del primo libro, in cui è ravvisabile l’intento – già riscontrato nell’esempio della tempesta maladense – di superare le discrasie tra biòs e lògos, realtà effettuale e dominio della scrittura: rendere l’acqua dicibile e effusore della parola narrata, proprio in virtù della sua vis capillare e interconnettiva. Da qui il raffronto con i passi dal Tremaio: Credo che qui abbia giocato soprattutto il senso della grande inondazione, dell’umidore, del bagnato che pervadeva tutto, e che questo abbia generato una serie di reazioni linguistiche e non linguistiche espresse tra l’altro nella nozione 23 Si veda C70, 137: “ma qui li vedevi divenire, come i temporali estivi”. LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 23 di essere bagnati come un sorcio, la quale ha poi fatto uscire i sorci dai loro nascondigli, le tane degli scarichi24 o quelle della fantasia. ( JUR, 94) L’acqua, dunque, quale reagente coinvolto nelle reazioni della scrittura, cui la “glassy essence” (ivi, 121), da sempre vagheggiata dall’autore, si fa inevitabilmente derivativa. E la fantasia, nel suo essere rete e network di scarichi, diventa luogo d’elezione in cui scavare l’alveo di questo fiume: una “grande inondazione” (ivi, 94), dove il senso e la cosa, forse in virtù di un’osmosi celata, vengono segretamente a coincidere. Siamo perciò dinanzi a un’acqua che muta costantemente il proprio statuto e obbedisce a un “carsismo” testuale e stilistico: “s’udivano gorgogli di cose liquide, sotterranee” (LNM, 88), scrive l’autore nel libro d’esordio, descrivendo in chiave “neo-platonica” (ibidem) la casa di Malo. E si procede per infiltrazioni e descrizioni contaminanti, fino al guastarsi dei liquidi stessi, come accade in Pomo pero nella descrizione di Sottomarina – località turistica nel comune di Chioggia – “dove l’acqua che si beve […] non è acqua, ma infiltrazioni delle onde del mare tra gli strati di orina su cui è fondato il paese” (PP, 293). A differenza di Malo e del suo acquedotto, Sottomarina risente di una permeabilità tra fluidi ambientali e sostanze di scarto, a riprova non solo di un’interconnessione fra le parti ma, soprattutto, di come l’elemento liquido collochi l’essere umano in una rete di contaminazioni reciproche: se “la purezza è l’inganno della mente” (Iovino 2015, 108), è ormai impossibile avere a che fare con una natura “untouched or uncontaminated by humans remains” (Yaeger 2008, 332), specie in un mondo dove la natura è sempre più “intossicata” dall’uomo. E lo stesso dicasi per il vano tentativo di tracciare una linea di demarcazione tra le varie sfere biotiche, cui potrebbero far eco le parole stesse di Meneghello: […] a noi così a occhio sembrano nette le distinzioni tra mare e terra, ma lo sono? […] No, la distinzione non è netta. Poche cose sono nette su questo pianeta. (C70, 564) Siamo dinanzi, insomma, a una “allucinante capillarità” (DIS, 220), un “sinking feeling”(PP, 337) che porta sin nelle viscere del suolo, come dimostrato anche da alcuni passi relativi al sistema fognario. Circa tale aspetto, ci preme sottolineare come le reti idrologiche sotterranee rispondano all’atteggiamento prometeico dell’Homo Sapiens e al tentativo di secolarizzare l’acqua (Van Aken 2014, 10), bloccandone così il divenire continuo. Secondo Paolo Sorcinelli, che in un suo studio ha analizzato i legami tra l’acqua e la sua dimensione sociale: Cfr. AM, 206: “Il secondo ‘verso’ è un po’ strano. ‘Ghetu sen? Pissete sen’. Che cos’è questo seno? Noi non solo in seno non ci pissiamo più, ma non lo abbiamo nemmeno più, il seno. È una delle cose che sono defluite per gli scarichi […]”. 24 24 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Dalla fine del XVIII secolo gli uomini hanno intrattenuto con l’acqua rapporti completamente diversi e rivoluzionari rispetto al passato: l’hanno compressa nelle caldaie per produrre energia, ne hanno deviato il corso per portarla negli stabilimenti produttivi (secondo il principio che “più l’acqua è abbondante, più l’industria si sviluppa”), l’hanno imbrigliata nelle condotte e nelle bottiglie per venderla, fatta precipitare dall’alto per creare elettricità, irreggimentata con nuovi percorsi e con le bonifiche per frenarne la potenza e gli effetti deleteri, codificata ed esaltata a fini terapeutici. (Sorcinelli 1998, 4) A ciò è derivativa, per Van Aken, la sparizione cui l’acqua è andata incontro nel corso dei secoli, sintomo di un volontario e programmato occultamento. Ecco perché nei circuiti urbani è invisibile, nascosta, è stata “silenziata”, tolta ed omessa dalla dimensione sociale, “come se” fosse natura che entra nelle città e case moderne per poi uscirne in modo discreto, in una distinzione dicotomica degli spazi della cultura e della natura. (Van Aken 2014, 10) In Meneghello, tuttavia, le fogne adergono anche a network celato: un “inframondo” (PM, 197) ctonio, adibito non tanto allo smaltimento degli scarti, quanto piuttosto generatore di narrazioni circa l’alterità di una rete linfatica tutta particolare. Si prenda, ad esempio, la favola della gocciolina e del gocciolone narrata in Fiori italiani: Ogni racconto aveva il suo spunto angoscioso. Si ascoltava un gocciolone parlante, spaventare una gocciolina. Stavano entrambi in bilico su una dalia, col rischio continuo di cascare in una pentola sporca (la massaia l’aveva messa lì sotto le dalie), e di andare a finire nella fogna, che è “l’inferno delle gocce d’acqua”, e lì nella cloaca, “un vero fiume sotterraneo, nel quale ognuna di noi trascina qualche milioni di bacilli”. La gocciolina: “Son tutta calda e commossa” (evaporando). Il gocciolone: “Addio, addio”. Si ritrovavano due anni dopo. La gocciolina ne aveva viste di tutti i colori. Era stata anche nell’Acquedotto pugliese. Quasi tutto, al principio degli anni Trenta, andava a finire nell’Acquedotto Pugliese. Quello di Nuova York è lungo 144 chilometri, quello di Los Angeles 378. In Australia ce n’è uno di 564. Ma questo è il maggiore del mondo, ha una rete di canali lunga ben 1598 chilometri. (FI, 241-242) Il racconto, in tal caso, sintetizza il ciclo idrogeologico delle acque, ma non manca di mettere in risalto la natura “circolante” e “a rete” delle fognature, senza contare il processo contaminante tra liquidi tossici (la “fogna” e la “cloaca”) e acque potabili (l’immissione e il viaggio nei vari acquedotti)25. Ma dal suo regno “subacqueo e stercorale” (C80, 143), 25 Un concetto analogo, d’altronde, è ravvisabile in PM, 34: “Un terzo s’era portato a casa, in transito, il tascapane pieno di esplosivo, 25 chili; ma sentendo suonare il LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 25 l’acqua può anche risalire e, in un certo qual modo, deformare lo spazio abitato, ridefinendo i limiti tracciati dall’essere umano. Ne è un esempio il passo relativo al rinnovamento della vecchia casa di Malo, presentato nei “Postumi” di Pomo pero: Quando si sposò la Rita con mio fratello più giovane ci parve venuto il momento di rinnovare la nostra vecchia casa di Malo. C’era già il precedente che qualche anno prima il papà aveva fatto fare un bagno di sopra: una gran novità, che generava in noi una certa commozione […]. Attorno a questo bagno procurammo di rimodernare il resto della casa in tempo per il matrimonio. Rifare il pavimento, cambiare la pietra del focolare, la cucina diventa un attraente soggiorno moderno: un cucinino nel vecchio spazza cucina, il pranzo in tinello, e dappertutto una serie di tocchi franchi e graziosi. Ma anche lasciando stare il sinking feeling a cui cercavo invano di non badare, insorsero difficoltà. I muri maestri rastremavano violentemente. In tanti anni non me n’ero mai accorto, eppure è un fenomeno impressionante, il muro si allontana di un palmo al metro. I mobiletti nuovi all’americana non si appoggiavano, restava una larga fessura in cui la roba cascava. Il parquet venne a metterlo il più distinto dei nostri falegnami […]. Ma per qualche ragione i pezzetti di frassino appena messi in opera cominciarono a crescere, si sollevarono a onde, fecero un braccio di mare bloccato in posizione tra mosso e molto ondoso […] Si sposarono in autunno; dopo una settimana andammo a trovarli; la Rita disse che era tanto umido […]. Mia moglie diceva: “Basta scaldare: ora che scaldate sparirà tutto”. Avevamo una nuova stufa a legna, a tre ripiani. Ma il caldo sembrava che eccitasse l’umidità, e le delicate tinte pallide […] cominciavano a spellarsi […]. Una scabbia fulminante invase i muri maestri e in pochi giorni li impestò tutti. Le tinte ricadevano in forma di cialde […]; la radio ammutoliva; i dischi s’imberlavano; nella nicchia […] i libri si deformavano quasi a vista d’occhio; i tre volumi del Belli […] erano ogive. (PP, 336-337) L’episodio rivela un dinamismo latente, opposto ai tentativi di modifica da parte dell’uomo, e che sembra, per certi aspetti, preservare un equilibrio iniziale. Non ci troviamo, questo è vero, nella sfera del naturaliter, ma la casa paterna diviene vero e proprio organismo, rivendicando la sua origine acquatica26 e il suo legame con l’idrosfera (“si sollevarono a onde, fecero un braccio di mare”, ibidem). Ciò è dimostrato dall’uso, a livello stilistico, di particolari vocaboli (“i muri rastremavano”, i tasselli di legno “cominciarono a crescere, si sollevarono”, ibidem) che rendono campanello perse improvvisamente coraggio, versò l’esplosivo nella vasca del gabinetto e tirò l’acqua. Per giorni a Vicenza si temette per l’incolumità dei cittadini ignari di ciò che circolava nelle fogne”. 26 Non sfuggirà come anche il terzo libro di Meneghello si apra con un’immagine legata al mondo delle acque, stavolta veicolata dall’atto battesimale: “Se ne stava pacifico nel portaifàn, ma non appena lo tirarono fuori e gli tolsero la scuffietta si mise a urlare forse in modo un po’ troppo veemente: pareva che rifiutasse il battesimo” (PP, 291). 26 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO viva e pulsante questa vecchia dimora, lontana dall’essere semplicemente “infestata” da fantasmi o forze oscure (Salvadori 2016a, 543). Siamo dinanzi alla spinta vitale e all’autopoiesi stessa della materia che – grazie all’acqua e la sua carica fluida – acquista una vitalità intrinseca: superati i dualismi di partenza (umano/non umano; animato/inanimato), questa manifesta la sua carica “vibrante” (Bennett 2010b), tale da generare una segreta osmosi che tramuta il complesso abitativo in “corpo” vivente, dotato di una propria fisiologia (come testimoniato dalla “scabbia fulminante”, ibidem, sul muro-epidermide)27. Oltretutto, nell’estratto citato da Pomo pero, il liquido (che penetra nel “tessuto” abitativo per capillarità freatica) rivendica anche la sua natura multidimensionale, ibrida e protea, in quanto alterità non domesticabile. In altri passaggi, viceversa, le acque mantengono una componente scatologica o, comunque, di rifiuto tout court: in Maredè, a proposito del “da freschìn” (MM, 20), Meneghello paragona l’odore a quello del “pesce non fresco, o di un canale di acque morte […]. Lo si ravvisa […] nelle stoviglie che siano state broà-su ma non rasentà con l’acqua pulita” (ibidem), differenziandolo tuttavia dalla lavaùra, che ha il “senso dell’intruglio semi-magico” (ibidem). Nel primo volume delle Carte, al contrario, la vita domestica di un tempo cede il passo a una casa automatizzata28 e, di conseguenza, a quelle che sono i suoi liquidi di scarto: Considera: la lavatrice che condividiamo col 40 per cento delle famiglie, fatti e rifatti i giri in senso orario e antiorario, fatte le soste, scarica nel tubo di gomma un abbondante sgorgo di acqua sporca. Ah, ne ha della roba da effondere! (C60, 359) Un discorso a parte meritano le acque del corpo, nell’accezione di escreato o vero e proprio “mare genetico”, con rimandi neanche troppo velati alla citologia e la struttura cellulare29. La natura “liquida” del cor27 oggi”. Cfr. LNM, 91: “La casa […] [e]ra un organismo assai più complesso delle case di 28 “Nelle case migliori c’è un rubinetto d’acqua corrente in cucina, o nel retrocucina dove le donne lavano i piatti. L’acquaio è un’unica grande lastra di pietra viva, sopra di esso sono appesi ad una grossa mensola i grandi secchi di rame in cui si tiene l’acqua che si va a prendere alla fontana pubblica più vicina. D’estate anche chi ha il rubinetto in casa manda a prendere l’acqua fresca alla fontana. Quest’acqua dei secchi si attinge con una “cassa” di rame, nessuna acqua è buona come quella che si beve così. Sotto i secchi c’è il catino di rame, dove ci si lava le mani durante il giorno e chi non ha il lavandino in camera viene a lavarsi la faccia alla mattina” (LNM, 88). In altri passaggi del libro, l’acqua ha invece la funzione disinfettante: “la malta provocava una rogna di cui si moriva in pochi istanti; questa era l’epidemia […]. Per salvarsi bisognava raggiungere la pompa, che poi era un rubinetto, all’esterno dello spazzacucina della zia, e coll’acqua sbianzare immediatamente gli infetti” (ivi, 10). 29 “Questa gentile sottoscienza si chiama citologia. Una serie rientrante di piccoli abissi ornamentali, con un grosso buco in mezzo: il problema di come veramente LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 27 po umano, d’altronde, veniva già espressa dall’autore a proposito dell’episodio di Sofka: Entravo nei bar, bevevo i caffè, fumavo con ciascun caffè un’americana. Per qualche minuto restavo avvelenato, la reazione delle pompe interne era violenta, da fuori non si notava niente […] ma, dentro, i liquidi salivano di pressione fino al limite di resistenza dei materiali: non c’era pericolo immediato di rottura, ma certo non c’era più margine. Sentivo nausea non nello stomaco ma in tutto il sistema: due o tre minuti di marasma che poi si riassorbiva pian piano […]. (C60, 14) Tornano i legami, ancora una volta lessicali, con L’acqua di malo – è impossibile non rivedere, in quei “due o tre minuti di marasma” (ibidem), “la […] vita mentale […] marasmatica” (AM, 183) – e assistiamo, come accadeva per l’episodio di Piero (C70, 209-210), a una concezione “meccanica” del corpo, presentato quale insieme di congegni e ingranaggi ma, si badi bene, sempre pervaso da un fluire costante. Una resa macchinica, dunque, affiancata a una resa immanente, dove il corpo è esibito in quelli che sono i “liquidi della carne”, come accade in Fiori italiani circa i passi relativi alla “santità”, anch’essa dentro come certe malattie. Negli spazi all’interno, quand’erano ripuliti, sgombrati, svuotati, scendeva Gesù per una botola a vedere di persona. Aveva addosso qualche sbavatura ptialina. Sotto c’era un’altra botola, normalmente chiusa. Stava lì coi piedi a mollo nei succhi, a guardare il bolo che diventava chilo. (FI, 310) È impossibile non constatare il rigore scientifico, sotteso alle scelte lessicali operate da Meneghello, che adesso propone un’immagine a compartimenti dello stomaco, affiancata a una descrizione corporea del trascendente (in tal caso equiparato a una malattia): la transustanziazione – esplicito è il riferimento all’Eucarestia – non solo si esaurisce, ma vieppiù Cristo si immette nell’organismo quale visitatore/corpo estraneo, sporco di ptialina30, ma non ancora destinato a essere digerito. Dalle “masse muscolari indolenzite dall’alluvione dell’acido lattico” (MM, 24), si passa, sempre riguardo ai liquidi emessi dal corpo, alla “matèria” di Maredè (ivi, 15): essudato e matrice vitale31 al contempo, “materia se- è costituita la cellula” (C70, 370). Meneghello, in tal caso, fa riferimento al nucleo cellulare (il “grosso buco in mezzo”, ibidem) e al citosol (i “piccoli abissi ornamentali”, ibidem), dove sono contenuti i principali organuli. 30 Sostanza secreta dalle ghiandole salivari. 31 Meneghello parlerà infatti di “materia spermatica, il semen” (MM, 45); ma si prenda anche il passo del Dispatrio relativo alla pustola sulla nuca del professore, qui presentato alla stregua di vortice in miniatura: “Maestri, capi, segretarie, loro parti segrete… La pustola violacea sulla nuca del professore di Storia Proto-moderna, cronista e frequentatore della Casa reale: c’era tra i capelli corti e irsuti un vortice, una 28 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO greta di cui sono fatte le creature viventi” (ibidem). Volendo far nostre le considerazioni del filosofo Ralph Acampora, la biosfera si fa “carnosphere” (2006, 76; “carnosfera”, trad. it. di Maurizi e Filippi in Acampora 2008, 146) e, sulla scorta della tensione immanente portata avanti dall’elemento liquido, unisce due versanti all’apparenza disgiunti, ovverosia corpo e mente. Una mente, e lo intuiamo dal passo che ci apprestiamo a citare, liquida e prensile: Tra i grandi miti quello che sentivamo più vivacemente era il mito della Caduta: quel fatale insgambararsi di Adamo, origine del Male. Quando venne la mia ora m’insgambarai correndo nel portico, feci il lungo tuffo a pesce32, armonioso, andai a picchiare con la fronte sullo spigolo ben profilato dello scalino dell’ultima porta verso la strada, a sinistra. Non con la fronte della fronte: col tenero sonno. Lo spigolo vivo, armonioso […] ci entrò agevolmente […]. Mi aspettavo che l’interno contenuto acqueo della testa sgusciasse fuori di getto, coi semi dei pensieri e dei sentimenti. Invece sulla tempia sfondata c’era solo un corto budellino rosa, una minuscola Ernia di testa. (PP, 295-296) La mente come ricettacolo, coacervo di liquidità marasmatiche e pensanti, dove germogliano i “rami del retro-pensiero” (MM, 15), in un continuo ridefinirsi di forme ed essenze che, tuttavia, confermano il legame tra corpo e acque, a riprova di come la vita sia, è proprio il caso di ribadirlo, un “epifenomeno dell’idrosfera” (C60, 361). 1.1.1 Al centro, nell’acqua… Finora abbiamo parlato di acque del corpo e della vita, di fiumi sotterranei pronti a creare una rete d’interscambio tra l’essere umano e la biosfera: le scaturigini di una idrofilia che se, da un lato, dischiude l’immanenza di una scrittura votata all’esigenza di comprensione; dall’altro, testifica la vena organicistica, tesa a concepire la realtà quale network in divenire, costantemente attraversata da flussi e correnti. L’esperienza, d’altronde, assume già una simile connotazione nel farsi depositaria, in ogni suo “frammento” (MR, 182), del “DNA del reale” (ibidem)33, cui la scritspecie di patacca purulenta, e in mezzo un grosso boil giallastro, un cioato inumidito dai suoi stessi succhi…” (DIS, 137-138). Di succhi, l’autore parlerà anche nel romanzo dedicato alla Resistenza: “Avevamo ancora un aggancio con la realtà, un luogo remoto e formidabile dove terminava un grande cordone ombelicale, l’ombelico del nostro mondo. Si chiamava il Pian Eterno. Lì doveva avvenire […] uno sbruffo di quei succhi guerreschi […] di cui era piena la placenta del cielo” (PM, 57). 32 Nuovamente, un richiamo all’ambito acquatico. 33 “[Il DNA del reale] è il fondo riconoscibile, e in certi casi definibile, delle cose che accadono, è la qualità essenziale. Non mi piace più ormai l’espressione ‘il DNA di’ perché la adoperano un po’ tutti un po’ a sproposito. Si tratta di un argomento che LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 29 tura attinge mediante un duplice atto conoscitivo di estrazione e svolgimento. Al pari dei “sondaggi” di Maredè, l’autore si cala in quelle “vasche dove galleggiano in sospensione” le forme (MM, 182), in un incessante pánta rheî che, già dalle pagine del primo libro, comincia a farsi tangibile: Serenità, immanenza, un mondo pacifico che finisce in questo cortile di casa dove si gioca, ben ordinato, protetto dalla tettoia e dal bel telone del cielo. Fluire della vita, acciottolato lucido del cortile, sorvegliato dalle finestrelle della cantina. Aria del pomeriggio, silenzio, domenica. (LNM, 43) Se, facendo nostre le considerazioni di Luciano Zampese, “la materia di Malo […] è connessa […] alla funzione preservatrice della scrittura, che resiste al fluire delle cose” (2014, 66), siamo dinanzi a un’immanenza rovesciata, laddove lo scontro tra Essere e Divenire è momentaneamente sospeso e sottratto ai flussi della Storia, entro una “periferia geografica che preserva dalla rapida temporalità urbana” (ibidem). L’agone tra le due polarità sembra trovare epilogo nell’attacco de La bellezza, poi confluito in Quaggiù nella biosfera: Chi avrebbe potuto prevedere che lo scontro tra Essere e Divenire – che era in corso nella stratosfera metafisica sopra le nostre testa a Padova nei primi anni Quaranta e pareva mirabilmente equilibrato e incerto – sarebbe invece finito, quaggiù nella biosfera, col pieno trionfo di uno dei due contendenti? E invece è andata proprio così: l’Essere si è come evaporato, e il Divenire impera, qui nelle zone sublunari, in veste unica di Superpotenza che governa le nostre vite. Attorno a noi tutto diviene a rotta di collo. Divengono le cose, e tra esse divengono le lingue, la nostra materna, e le altre di cui abbiamo qualche pratica. (QNB, 21) Il passo si pone a completamento dell’estratto citato da Libera nos a malo: ormai libero da una scrittura eternizzante, volta a preservare l’integrità della materia paesana34, il Divenire assurge sì a divinità perniciosa (una “superpotenza”, ivi, 21) ma, entro un sguardo retrospettivo, diviene anche ipostasi estrema dell’elemento liquido. E se, almeno nel romanzo d’esordio, il “fluire della vita” (LNM, 43) era come chiuso in se stesso, cioè ancora incistato nelle pieghe del ricordo, a cominciare dal secondo libro assistiamo al suo deflagrare, a un’espansione per vie capillari. Non sarà dunque peregrino constatare, almeno per I piccoli maestri, la presenza di una diacronia interna, desumibile dal raffronto dei seguenti tre estratti, situati all’inizio e alla fine del romanzo. Leggiamo nel primo capitolo: io avevo appassionatamente studiato, da profano, si capisce, non da specialista, prima che entrasse nell’uso comune, che la gente si accorgesse cosa c’è sotto a questo acido deossiribonucleico. Perciò ho usato il termine nel senso quasi di stenografia, per dire la natura vera di ciò che è reale” (Bernasconi 2005, 205). 34 Ernestina Pellegrini, a tal proposito, ha rilevato come l’autore sia giunto all’elaborazione di una personale “teoria del soggiacente” (Pellegrini 1983, 14). 30 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Mi venne un soprassalto di quella forma di energia che chiamiamo gioia; misi giù i piedi nell’acqua corrente, puntellai la Simonetta col mio sacco e uscii diguazzando, col parabello in mano. (PM, 4, corsivo mio) Poi dal quarto: No, non era un paese, ma una plaga della mente, un aspetto del nostro smarrimento atteggiato in figure. Le figure dicevano: voi credete che la vita appartenga ai traffici, alle guerricciole. Cosa importa quello che fate? Solo le immagini sono, il resto fluttua, diviene. (Ivi, 56, corsivo mio) E ora da quello finale: Ora si era qua, ora là. Le cose sembravano sempre le stesse, e invece cambiavano minuto per minuto. Questa insurrezione non è proprio autentica, riflettevo, ma nel suo piccolo, nel suo imperfetto, riproduce certamente lo schema e l’andamento generale di queste cose. Ci sono forze impersonali in gioco, che si spostano come vortici in un fiume rapido, e ciascun vortice sposta gli altri. Pare che manchi un centro, e invece se ne formano continuamente; chi riesce a tenersi in questi centri controlla tutto il resto. Si capiva che cos’è l’arte dei rivoluzionari da insurrezione; colpo d’occhio, tenersi in anticipo sulla corrente, riconoscere il centro dei vortici in arrivo. (Ivi, 222, corsivi miei) I tre passaggi possono essere letti in una duplice prospettiva: in riferimento alla singola opera, testificano la presenza di un asse intratestuale a tematica acquatica, pronto a risolversi in una fluttuazione del testo rilevabile anche a livello lessicale35; viceversa, in relazione col macrotesto restante e soprattutto alla luce di Libera nos a malo, mostrano il graduale avvicinamento tra essere umano e elemento acquatico, inaugurato dall’atto di mettere “i piedi nell’acqua corrente” (PM, 4) che anticipa, sotto certi aspetti, il rito battesimale posto al principio di Pomo pero (PP, 291) . Il temporale, oltretutto, che nel libro d’esordio “incominciava”, nel ripresentarsi in limine ai Piccoli maestri alimenta una tensione hydrant, tesa a trasfigurare o alterare le percezioni della realtà effettiva: Si veda la parola “vortice”, la quale ricorre altre due volte nel libro (in riferimento al fumo e, strictu sensu, alla pioggia): “Il caldo che faceva questo fuoco non era un gran che, mentre invece il fumo era veramente abbondante: tenendo aperta la porticina il caldo usciva tutto, il fumo invece non usciva. ‘Meglio, meglio’ dicevo io. ‘Così non lo vedono in Valsugana’. In realtà non m’importava proprio niente. Chiacchieravamo tra i vortici pungenti in questo casottino in cui ci si stava appena. Le nostre lagrime picchiavano briosamente sul pavimento che era sasso” (PM, 75); “Non si capiva niente. Ci avviammo in tre, giù per la china, sotto un’acqua da cinema, con intermezzi di grandine da montagna, sparacchiando. A un certo punto tirai la canadese, affidandola ai vortici della pioggia. Scendemmo tutto il mezzo chilometro senza danno […]” (ivi, 157). Si noti, nell’ultimo estratto, come l’acqua vada incontro a un processo di vera e propria ipercodifica, financo da risultare irreale. 35 LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 31 L’abbondanza ci travolse; d’improvviso non c’era solo materia d’azione, ce n’era troppa. Mi sentivo quasi affondato in un grande mare dei Sargassi; mi pareva che i nostri formaggi trasportati con forza […] mi ondeggiassero […] come relitti di un naufragio in un mare mosso. (Ivi, 53) Se l’abbondanza travolge alla stregua di un’onda, ecco che il paesaggio si fa teatro di un naufragio, tra le acque di un bosco le cui arborescenze somigliano a alghe. A livello stilistico, si assiste a una gradazione che mima il movimento oscillatorio del mare in burrasca, ragion per cui gli elementi lessicali si dispongono secondo una gradazione d’intensità ben precisa (“ci travolse”; “ce n’era troppa”; “quasi affondato in un grande mare”, ibidem) fino alla prospettiva “sommersa” del naufrago (“ogni tanto uno spruzzo”, ibidem). È la “materia d’azione” (ibidem) a lasciar sprofondare il soggetto entro i flussi della realtà, in quelle che sono le sue onde costitutive: per proprietà transitiva, la scrittura indulge in rappresentazioni “fluide” – come testimoniato dallo spettro lessicale interamente legato all’ambito marino e acquatico – laddove la diegesi rasenta il climax, nel ricordare quelle “giornate percorse da un fluido elettrico” (JUR, 136). In altri casi, invece, la carica proiettiva e trasfigurante dell’elemento acquatico agisce sulla resa testuale del paesaggio: Fuori era già buio. Pioveva. Non riconoscevo più niente, però mi sentivo orientato, ero stato tutto il giorno con la faccia verso nord, ed ero come calamitato. Tutto era deforme; gli alberi erano giganteschi, e parevano incastrati gli uni negli altri; l’intero tavolato di roccia pareva crollato su se stesso, e tra gli scogli affiorava dappertutto il mare nero del Bosco Secco. I mughi erano isole impenetrabili; aggirandoli veniva a mancare la roccia sotto i piedi, e si precipitava in gorghi confusi, restando aggrappati ai rami del mugo. Il terreno era come sformato; c’era un labirinto di scafe, cenge, frasche, rami, da cui bisognava districare a fatica le gambe, con grandi sforzi solo per reggersi in piedi; si aveva la sensazione di non fare mai strada, di aggirarsi in un cerchio bislacco. Mi ero dimenticato del rastrellamento, badavo solo a questo mare pieno di scogli e di frasche. Mi pareva di fare la lotta. Ero nel fitto, tutto assorbito dai lunghi negoziati con gli scoscendimenti; poi mi accorsi che ero fuori, su un terreno più ordinato, e camminavo speditamente. Il nord era fermo; il sud, quando provavo a voltarmi, barcollava e rollava. Via, via. Camminando sotto la pioggia, cominciai ad ascoltare i rumori che navigavano36 nel buio. (PM, 131-132, corsivi miei) La pioggia, elemento principe della biosfera meneghelliana, in questo caso rivela la sua “allucinante capillarità” (DIS, 220) e, sempre obbedendo al già citato sistema di “natazioni occulte” (C60, 14), rende acquatica (o, nello specifico, marina) questa rappresentazione del paesaggio dei Piccoli maestri: il procedimento è analogo all’episodio dei formaggi, a riprova di 36 Versante acustico ed elemento acquatico vengono a porsi sullo stesso piano. 32 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO un’idrofilia che soggiace alla scrittura dell’autore, veicolata dall’elemento lessicale che, man mano, s’insinua nel testo e ne ridefinisce le coordinate prospettiche in “in gorghi confusi” (ivi, 131). La ragione di una simile alterazione della realtà è forse desumibile dalle considerazioni avanzate ex post negli Appunti per un saggio sul dopoguerra, dal terzo volume delle Carte: Ti sentivi trasportare da un’onda impersonale. Filavi insieme col fiume. Quell’acqua turbolenta conteneva l’intera storia dei prossimi decenni. […] Per buona parte del periodo del dopoguerra […] mi accorgevo di avere a che fare non con le immagini riflesse delle cose, ma con le cose: e queste parevamo nettamente diverse dalle loro immagini, molto più ordinarie ma insieme gonfie di forza, travolgenti. Il corso dell’esperienza sembrava un ramo di fiume straripato, anzi straripante37, cose e creature ti venivano addosso con spinte soffici e potenti, ti spostavano, filavi anche tu con loro. (C80, 19) E chiare appaiono le filiazioni con Bau-sète!, laddove i f luidi del Divenire si configurano quali Frammenti alla rinfusa, da una parte: dall’altra l’impressione ricorrente che ci siano dei tratti generali. Riguardano sia le nostre percezioni di allora, il modo in cui sentivamo le cose, sia il modo in cui le sentivamo oggi. L’ambiguità innanzitutto, la coesistenza di impulsi contrastanti. Come oscillava forte l’ago della bussola! C’erano potenti attrazioni magnetiche, seppellite ora a fiore del terreno, ora negli strati profondi. Si dissipavano all’improvviso, ne registravi di nuove su tutto l’arco dell’orizzonte… L’impressione predominante era di essere immersi in un fluido, un mare di radiazioni. (BS, 400) Nonostante il riferimento alla luce 38 , l’idea del “mare” (Ibidem) radiante può bene esemplificare il senso liquido e virtuale sotteso alla pagina meneghelliana, laddove anche il tempo viene preso nelle maglie di un ciclo idrologico sui generis. Un tempo secco, “deidratato” (PM, 9), le cui sorgenti continueranno “a buttare, buttare, […] [come] una lisciva che mangia il cuore interno delle cose” (PP, 292); ma anche adimensionale 39, ramificato e insondabile 40, rappreso infine in un cronotopo f luido, volutamente recalcitrante alle misurazioni con37 L’accostamento concorrenziale dei due participi rimanda alla natura ambigua del fluido, di marca chiaramente eraclitea, e il suo essere al contempo formato e formante. 38 Per Meneghello, il periodo del dopoguerra ha “singolari proprietà prismatiche” (BS, 401). 39 “Il tempo non c’era, l’avevano bevuto le rocce, e ciò che accadeva […] era senza dimensioni” (PM, 98). 40 “I giorni e le notti scorrono in gore profonde, ricolme di roba diversa, ricche come prodigiose casse di giocattoli vecchi in soffitta” (C60, 58). LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 33 venzionali41. E va da sé che il tempo, con la sua incessante liquidità, conf luisca nell’esperienza, come testimoniato dal seguente passaggio in cui è impossibile non scorgere la patina volutamente eraclitea: Mi interessa in particolare quello che si presenta come l’aspetto meno ovvio dei rapporti tra esperienza e scrittura; l’effetto della seconda sulla prima, il modo in cui la scrittura si oppone alla transitorietà dell’esperienza. L’esperienza è flusso, attorno a noi tutto scorre, siamo immersi in un fiume, c’è il fluire del tempo, il fluire della vita biologica e quello della vita sociale, la società cambia intorno a noi, con ritmi che a volte paiono perfino più rapidi dei ritmi biologici… Scrivendo si sottrae qualcosa a questo flusso, è come attingere acqua da un fiume con una scodella, e sembra di aver preservato almeno qualcosa del senso delle nostre esperienze. ( JUR, 65) La scrittura mira alla creazione di un bacino di raccolta, ove si sedimentano le informazioni che costituiscono il codice universale dell’esperienza: il reale e il suo DNA si fissano in un fluire triplice – temporale, biologico e sociale – che rimanda a una prospettiva olistica, entro cui la scrittura aderge medium conoscitivo e specula privilegiata per indagarne le dinamiche interne. L’impressione, man mano che si procede nella lettura di questi estratti, è che la vita e la sua stessa evoluzione siano davvero tributarie dell’elemento acquatico, riverberato in un susseguirsi d’immagini che, tuttavia, sembrano sempre risolversi in due precise costanti: il mare e il fiume. Quest’ultimo, sempre prestando fede al pánta rheî di Meneghello, si fa onnipresente tra le sue pagine, dove “scomposte le patterne, traspare il fiume sotterraneo della realtà” (C60, 488), sempre obbedendo a una dialettica chiaroscurale, volutamente incerta nel delineare i confini tra la terraferma e quella “strana acqua” (C70, 335). In fondo, scriverà l’autore tra le pagine del Dispatrio: Mi sono sempre sentito moderatamente esaltato all’idea che nell’andamento delle faccende umane c’è una mainstream, come nei fiumi (benché i fiumi siano enti che non ho mai capito del tutto). (DIS, 102)42 Ecco rivelata l’ambiguità latente, quel fondo di mistero e fascinazione scaturiti dal flumen che, alla fin fine, si stacca dagli anfratti del fenomeni- “Il fluido dello spazio e del tempo era quintessenziale, non si misurava con le clessidre e le repliche del metro di platino disposte a intervalli in appositi recessi triangolari” (C70, 358). 42 Sul finire del passo, Meneghello parla di “corrente maestra” (DIS, 103), concetto che sembra richiamarsi a un altro passaggio dalle prime pagine del libro: “L’Inghilterra è insieme ‘lassù’ e ‘quassù’ […]. Qui, là: corrente alternata” (ivi, 27). Ma si veda anche il seguente estratto da Fiori italiani: “In pratica S. venne a contatto attraverso di lui con la main stream della cultura vicentina […]” (FI, 265). 41 34 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO co per divenire forma formante: l’elemento propulsivo di una scrittura sempre in tensione, presa nella sua liquida quête: Se il concetto di mainstream è importante per pensare, si può credere che si configuri anche un modello per vivere? Star fuori dalla mainstream sembra in certe circostanze un impegno primario, ma in altre è così consolante sentire che contro le piccole correnti locali e i flussi di melma della moda, ci muoviamo con la corrente maestra della comune civiltà. Altra cosa è il concetto dei main sequence43, imparato studiando le stelle: il sigillo della nostra vita, delle forze che brogliano al suo interno, coperte dai raggi. (DIS, 120) Per quanto l’estratto indulga nei toni da meditatio filosofica, non sfuggirà natura “materiale” di questi fluidi (“i flussi di melma della moda”, ibidem), il che ci riporta al nesso ineludibile tra natura e cultura, realtà e parola: l’idea, insomma, finisce sempre per sedimentarsi nelle trame dell’esperienza e arricchirne il DNA narrativo in un processo di retroazione. Assistiamo, come si evince dal passo citato, a un dilatarsi di questo flusso, teso a racchiudere nelle sue maglie l’intero universo: Un colpo mortale alle idee di Alvise sulla stabilità del mondo gli è venuto dalle sue letture (disordinate, appassionate) sulla biologia e sull’astrofisica, quando a un certo punto si è accorto che il processo è dovunque, non solo nella storia umana; storica è la terra, storiche le stelle e (probabilmente) storico l’universo. Storia, nel senso che tutto continua a diventare qualcos’altro. Sarebbero forse parole?, si chiede. Varianti meno giocose del puerile aforisma sul generale scorrimento delle cose, il panta-rei che tanto ci divertiva a scuola? Ma no: questo non è l’asettico “panta” dei greci, ma il ricco pantasso44 del cosmo. (C70, 353-354, corsivi miei) Dall’idrosfera terrestre si passa al dominio interstellare, nella piena consapevolezza che tutto fluisce in un Divenire reciproco e replicante: un “processo” (ivi, 353) che inquieta, financo destabilizza. Ma l’acqua è, soprattutto, matrice universale, in virtù del suo porsi al di sotto della forma, in uno stato di continua virtualità. Come affermato da Mircea Eliade: Meneghello fa riferimento al concetto di “sequenza principale”, usato in astronomia nel diagramma di Hertzsprung-Russell, il quale mette in relazione la temperatura effettiva e la luminosità degli astri. La “sequenza principale”, all’interno di questa rappresentazione grafica, è costituita dalle stelle “nane”, dal momento che più la stella è massiccia e meno di questa resterà all’interno della sequenza. 44 In veneto, il pantasso rimanda ai “visceri” e, nella fattispecie, gli intestini. 43 LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA Le destin des eaux est de précéder la création et de la résorber, incapables qu’elles sont de dépasser leur propre modalité, c’est-à-dire de se manifester dans les formes… Tout ce qui est forme se manifeste au-dessus des eaux. En revanche, dès qu’elle s’est détachée des eaux, qu’elle a cessé d’être virtuelle, toute forme tombe la loi du temps et de la vie; elle acquiert de limites, participe au devenir universel, subit l’histoire, se corrompt et finit par se vider de sa substance, à moins de de régénérer par des immersions périodiques dans les eaux, et de répéter le déluge avec son corrolaire cosmogonique. (Eliade 1959, 199-200) 35 Il destino delle acque è di precedere la Creazione e di riassorbirla, poiché le acque non possono mai superare la propria modalità, vale a dire che non possono manifestarsi in forme. Le acque non sono capaci di andar oltre la condizione del virtuale, dei germi e delle latenze. Tutto quel che è forma si manifesta al di sopra delle Acque, staccandosi da esse. In compenso ogni “forma”, appena staccata dalle acque, cessando di essere virtuale, cade sotto l’imperio del tempo e della vita; riceve limiti, conosce la storia, partecipa al divenire universale, si corrompe e finisce per vuotarsi della propria sostanza, se non si rigenera con immersioni periodiche nelle acque, se non ripete il “diluvio” seguito dalla “cosmogonia”. (Trad. it. di Vacca in Eliade 2008, 193) E il concetto di “limite”, tra un liquido virtuale potenzialmente infinito, e realtà formante, sembra essere espresso, nei medesimi termini, dallo stesso Meneghello in un passo delle Carte: Sono tante le cose e complessa la gamma dei rumori che le rivelano: motori, una sega, bambini, cani; e al di sotto un pulviscolo di frammenti di altri rumori irriconoscibili, un brusio. Le cose sono tante, e io ho sempre questa impressione che toccherebbe a me fare un filo per legarle. Finché non ci riesco, le cose non servono a niente, non hanno forma alcuna, non durano, fuggono su una corrente più piena, più grande, più irresistibile di quella del Rodano che ho visto nascere l’altro ieri accanto a una strada di Montagna. (C60, 68-69) L’estratto esemplifica quanto già affermato da Eliade, ovverosia la presenza di due versanti, laddove il Tempo e il Divenire storico agiscono sull’elemento liquido e quasi lo solidificano, dandogli forma e significato: “è inutile, per scrivere le cose bisogna che le cose si decantino. Finché sono in sospensione intorbidano il mezzo. Poi cascano, fanno cristalli sul fondo” (C60, 113). Volendo far nostre le parole di Gaston Bachelard, l’acqua è un “destin essentiel qui métamorphose sans cesse la substance de l’être” (Bachelard 1942, 8; “destino essenziale che trasforma incessantemente la sostanza dell’essere”, trad. it. di Cohen Hemsi in Bachelard 2006, 12): è l’elemento transeunte par excellence ma, al contempo, il supporto materiale più autentico della mente, giacché coinvolge corpo, anima e voce. Nel suo essere assimilante e al contempo attrattiva, nell’opera di Meneghello l’acqua è effusore ideativo, proprio a partire dal “contenuto acqueo della testa” (PP, 296): se l’essere umano è H2O al 65%, va da sé che questa matrice liquida inneschi, a livello testuale, un gioco di fluttuazioni, quasi a riprova di un’osmosi latente tra mente liquida e scritture in fluire: 36 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Avevamo sostato un momento su un ponticello, sotto il quale passava non so cosa, il Tesina forse, e io chiesi a Dal Piaz se credeva che in luogo del raziocinio si possa servirsi di immagini del filosofare. Come l’acqua che scorre ha i vortici, i mulinelli, così anche la coscienza sarà pensabile come un Tesina, coi mulinelli individuali e i pensieri dei sentimenti? (C70, 213) La realtà naturale, in tal caso, diviene innesto e appendice del mondo mentale, in nome di un’intima rispondenza tra semiosfera (Lotman 1984) e idrosfera: una sorta di “liquido significare” che richiama, in tralice, le affermazioni di Charles William Morris avanzate in un suo scritto del 1948: Man is unique among living beings in the extent to which he lives in a world of signs. This is the sea in human fish swim. This is its natural element. Other animals, to be sure, respond to some things as signs of other things, and kinship with the rest of life is never lost. But what to other animals is incidental and episodical is to man essential and continual. While other organisms steer themselves by the signs which the world provides, the human being changes himself and changes the world by the signs he himself produces […]. In shaping himself by the signs he produces man is unique. The measure of his signs is the measure of his freedom. (Morris 1948, 58) L’uomo è l’unico essere che vive nella misura in cui vive in un mondo di segni. Questo è il mare in cui nuota il pesce umano, questo è il suo elemento naturale. Altri animali sono indubbiamente sensibili a certe cose come segni di altre cose, ma ciò che per essi è casuale ed episodico, per l’uomo è essenziale e costante. Mentre altri organismi si muovono a seconda dei segni che il mondo procura, l’essere umano si trasforma e trasforma il mondo per mezzo di segni che egli stesso produce […]. Nella capacità di plasmarsi attraverso i segni che produce, l’uomo è unico. La misura dei suoi segni è la misura della sua libertà. (Trad. it. di Petrilli in Morris 2009, 48) È, insomma, l’intrecciarsi di due sistemi e il loro aprirsi alle reciproche differenze in nome di uno “psychisme hydrant” (Bachelard 1942, 8; “psichismo hydrant”, trad. it. di Cohen Hemsi in Bachelard 2006, 12) che pesca nei “serbatoi conoscitivi” (BS, 476), segue in rettilineo il “canalone delle idee” (C80, 107) e guarda alle “piccole risorgive” (MR, 128) dell’ambiente culturale, giacché siamo “impregnati di determinati concetti” (PM, 58). In altri passaggi, viceversa, è la portata acustica dell’elemento liquido a veicolare l’attività della mente: ne è un esempio il seguente passaggio da Bau-sète!, a proposito del “superamento” del Croce sul terreno dell’estetica: Al principio di giugno […] decisi di fare un’estetica veramente universale, non principalmente letteraria. Il vecchio maestro aveva già additato la strada riconoscendo nell’intuizione poetica la prima delle quattro forme dello spirito45. 45 Le quattro forme dello spirito, per Croce, sono costituite da 1) forma estetica del bello 2) forma logica del vero 3) forma economica dell’utile 4) forma morale del bene. LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 37 Si trattava di andare fino in fondo, di radicalizzare l’idea, come fu fatto alcuni decenni più tardi con la teoria dei segni. Ricordo chiaramente il momento (il momento nel tempo) in cui questa concezione mi si affacciò alla mente. Ero di sopra, nella camera che dava sul cortile, e studiavo alla tualè. C’era il sole, era una mattina luminosa e serena; c’erano stati i due grandi scrosci caratteristici delle mattine d’estate, le secchie degli slops vuotate di slancio dalla finestra delle camere della zia: prima la secchia della Flora, più sorprendente e autorevole, poi quella della Este. Mi resi conto del mio rapporto con questi icastici scrosci, li intuivo nella loro straordinaria complessità acustica, come nodi di esaltanti proprietà dinamiche e termiche, molecolari e atomiche, ciascuna delle quali si sarebbe potuta sgrovigliare con un’apposita intuizione separata, e così per tutte le quasi infinite altre proprietà contenute negli scrosci, l’origine degli slops, il metodo di raccolta, la sveltezza e la furberia delle mie cugine nel cogliere il momento (nel tempo) opportuno per swing la secchia e slanciarla in arco verso il vano della finestra, e arrestare, quasi ritirare in aria, il contenente metallico, e lasciar volar via il liquido contenuto: e il suo lampo sopra gli spampanati tralci della pergola su cui si affacciavano le finestre della zia e le tóse. E la forza delle atletiche tóse, e il ballo dei loro piedi […], e insomma tutto ciò che c’era da intuire. Credo di aver lasciato in sospeso, quel giorno, se l’universalità dell’intuizione valga solo per la vita conoscitiva, cioè per tutto ciò che percepiamo o concepiamo o ricordiamo immaginiamo, o anche per la vita pratica. Mi restò però l’impressione che in quell’istante di grazia mi fosse stato rivelato il vero sottofondo di ogni forma di attività umana […]. (BS, 454-455) Evidenti appaiono le filiazioni con i rispettivi incipit di Libera nos a malo e I piccoli maestri, per quanto il temporale si ripresenti come ristretto e parcellizzato negli slops (cioè l’acqua sporca) vuotati dalle finestre: ma “i due grandi scrosci caratteristici” (ivi, 455) non possono non richiamare “i primi scrosci della pioggia” del libro d’esordio (LNM, 4) o gli “scrosci magnifici” (PM, 4) uditi da Gigi e la Simonetta sulla cima del Colombara; così come non sfuggiranno i punti di contatto tra quel “lampo sopra gli spampanati tralci della pergola su cui si affacciavano le finestre della zia” (BS, 455) e “la tenda [che] a ogni lampo si illuminava di una luce fluorescente […] [lasciando] […] filtrare la luce […] e altrettanto l’acqua” (PM, “L’espressione letteraria nasce da un particolare atto di economia spirituale, che si configura in una particolare disposizione e situazione. Bisogna considerare che i momenti spirituali, le forme dello spirito, indivisibili come sono nella concretezza del fatto, si specificano nei singoli individui, non per un’astratta divisione ma per una sorta di maggiore energia o prevalenza e per abito e virtù conforme; donde il dirimersi dell’unico uomo in uomo d’azione, uomo di contemplazione, poeta e filosofo e naturalista e matematico, politico e apostolo, e così via per le più particolari specificazioni che non giova enumerare né esemplificare. Il che è necessario per l’opera ed è perciò permesso e voluto dall’unico uomo, dall’umanità, ma vigilando che la specificazione non si perverta in separazione e reciproca indifferenza che sarebbe disgregamento dello spirito e della stessa specificazione, e gli specialisti non diventino ‘dimidiati viri’, non più uomini interi” (Croce 1963 [1937], 7). 38 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO 3). Nel passo citato da Bau-sète!, il liquido, manifestando la propria vis a livello acustico, apre delle brecce nelle maglie della realtà, in una sorta di sospensione che svela “il vero sottofondo di ogni forma di attività umana” (BS, 455): nuovamente, l’acqua si fa vettore e medium conoscitivo, presa nella rete dei “rapporti con quegli strati bassi, sommersi, della nostra coscienza [che] sono sempre molto strani e interessanti” (LES, 15). Di conseguenza, anche la memoria guarda a una matrice idrologica, a cominciare da un icastico imperativo: Attingere ai pozzi. Là c’è acqua. Pare che la memoria sia come una serie di pozzetti, col loro orlo di pietra, che pescano separatamente nelle falde acquifere… Di ciò che viene travolto e seppellito, forse nel profondo si fa acqua. (C60, 141) Il risultato è il medesimo di quanto accadeva in un altro estratto, analizzato pochi paragrafi addietro e sempre contenuto nel primo volume delle Carte, laddove la virtualità delle acque faceva sì che le cose non servissero “a niente […] [perché] non hanno forma alcuna, non durano, fuggono su una corrente più piena” (C60, 68-69); tuttavia, nel passo appena citato, la natura germinativa dei liquidi rimanda a una sorta di eterno ritorno: un seminale perpetuarsi dove l’acqua genera la materia narrata e, al contempo, narrante. È il caso de L’acqua di Malo, punto nodale della fenomenologia sui liquidi meneghelliani e che – nella diacronia tracciata pagine addietro – occupa il punto centrale di questo fiume che scorre tra “vasi intercomunicanti” (MR, 65). L’immagine del pozzo, già rinvenuta nell’estratto delle Carte qui presentato, rivela la tensione aggregante e assimilativa dell’elemento liquido e, nel caso della materia paesana, aderge a punto d’accesso privilegiato a quel “potentissimo serbatoio di forme” (AM, 168). In Pomo pero, ad esempio, leggiamo che: Il pozzo della corte dei nonni era quasi a livello dello sterrato, sigillato da una lastra tonda di pietra. Quando gli uomini e le donne abbattuti dal caldo del meriggio dormivano con rauchi sospiri sui letti, questa pietra sforzata con pali e leve si spostava e la bocca del pozzo si scoperchiava. Veniva su una sorta di soffio freddo, di natura umida a indistinta, che atterriva e inebriava: ci si accostava carponi, si strisciava per terra fino ad arrivare a filo del vuoto magico con la fronte con gli occhi. (PP, 316) L’acqua, sostanzialmente, si manifesta in absentia, per esalazioni che turbano e affascinano al contempo (il “soffio freddo, di natura umida e indistinta”, ibidem, è un chiaro rimando a El inmortal di Jorge Luis Borges46), “La fuerza del día hizo que yo me refugiara en una caverna; en el fondo había un pozo, en el pozo una escalera que se abismaba hacia la tiniebla inferior. Bajé; por un caos de sórdidas galerías llegué a una vasta cámara circular, apenas visible. […] El silencio, 46 LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 39 per poi lasciare spazio a un “vuoto [che] tirava in modo grandioso” (ibidem), in quanto C’è una corrente elettrica dei pozzi che non è di Volta né di Marconi; il peso del corpo bastava appena a contrastare la forza che trovava un fulcro negli occhi e tentava di capovolgerci dentro. Fratelli e amici affettuosi aggrappati ai nostri piedi ci trattenevano a stento al di qua, nel mondo dei vivi. Non si vedeva nulla, c’era un buio caduto là dentro, che infittiva, e qualche confuso riflesso. La mano oltrepassava la ghiera di pietra, si sporgeva col ciottolo, lo lasciava cadere. Lontano lontano s’udiva uno sciacquio gelido, metallico, mortale; i riflessi si muovevano sotto gli strati del buio; ci assaliva il timore di vederci improvvisamente specchiati laggiù. (Ibidem) Nell’assumere la funzione di “soglia”, il pozzo demarca il limite tra forma effettiva e virtualità in fieri, laddove quest’ultima si manifesta mediante i suoi effetti, cioè mai in modo diretto (lo “sciacquio gelido”; i “riflessi”, ecc.). Che il passo costituisca quasi un preludio all’Acqua di Malo è comprovato non solo dalla natura metallica del liquido47, ma anche dall’immagine stessa del pozzo48, ipostasi del legame tra l’autore e il suo paese natale: “ecco, se dovessi scegliere un’immagine per il mio rapporto attuale con il paese (come vedete è un rapporto di carattere immaginario, di carattere fantastico), mi è venuta in mente l’idea del pozzo di San Patrizio” (AM, 185)49. Tornando alle considerazioni di Bachelard, ecco che era hostil y casi perfecto; otro rumor no había en esas profundas redes de piedra que un viento subterráneo, cuya causa no descubrí; sin ruido se perdían entre las grietas hilos de agua herrumbrada” (Borges 1974 [1952], 536-537; “L’ardore del sole fece sì che mi rifugiassi in una caverna; nel fondo era un pozzo, nel pozzo una scala che sprofondava nelle tenebre sottostanti. Discesi; attraverso un caos di sordide gallerie giunsi a una vasta stanza circolare, appena visibile […]. Il silenzio era ostile e quasi perfetto: non v’era altro rumore, in quelle profonde reti di pietra, che un vento sotterraneo, la cui origine non scoprii; senza suono si perdevano tra le fenditure fili d’acqua rugginosa”, trad. it. di Tentori Montalto in Borges 2015 [1961], 11-12). 47 “C’era una strana associazione del fluido col metallico […] [,] c’erano riflessi d’acciaio” (AM, 182); “s’udiva uno sciacquio […] metallico; i riflessi si muovevano sotto gli strati del buio” (PP, 136). 48 Nel terzo volume delle Carte, la “torre onirica”, di derivazione fantascientifica, richiama l’immagine di un pozzo rovesciato: “Ho sognato di nuovo la torre (astratta, illuminata), che è anche una specie di pozzo verso l’alto: è come se andando in su non svettasse nell’aria, ma fosse dentro a qualcosa, e che in basso questo qualcosa si sprofondasse ancora, di altrettanto, sotto la crosta della terra. Sterminato” (C80, 300). In tal caso, la torre rimanda a un universo ctonio, a un sistema sotterraneo costellato di forme. 49 Scriverà Meneghello nel prosieguo del passo: “Ho studiato un po’ la storia di San Patrizio, che è un santo irlandese del sesto secolo, con una leggenda in cui c’entra appunto un pozzo o una caverna che dava accesso al purgatorio: […] non mi è chiaro il rapporto tra questa leggenda e l’espressione italiana usata nel senso di una fonte inesauribile. Mi 40 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO l’acqua “en groupant les images, en dissolvant les substances, aide l’imagination dans sa tâche de désobjectivation, dans sa tâche d’assimilation. Elle apporte aussi un type de syntaxe, une liaison continue des images” (Bachelard 1942, 17; “riunendo le immagini, dissolvendo le sostanze, aiuta l’immaginazione nel suo compito di disoggettivazione, di assimilazione. Essa porta con sé un tipo di sintassi, un legame continuo delle immagini”, trad. it. di Cohen Hemsi in Bachelard 2006, 19): siamo dinanzi a un liquido metafisico e immaginario, in quanto “élément des transactions […] [et] schème fondamental des mélanges” (ivi, 18; “elemento di transazioni […] [e] schema fondamentale di mescolanze”, ivi, 20) ma è altresì un’acqua indomita, muta-forma, che nel provenire dal “serbatoio” (AM, 168) disegna e ridefinisce le ontologie di partenza: È l’acqua dell’acquedotto in particolare, e soprattutto il rumore di quest’acqua, che è penetrato dentro di me; a suo tempo non me ne ero reso conto, sapevo che c’era ma non che cosa era, è un archetipo, un’acqua metafisica. La cosa è associata per vie non razionali con il senso che sotto il paese, in profondo, ci fosse acqua, un’acqua non proprio di questo mondo. Il rumore reale […] non è molto straordinario, sul piano acustico, altezza e volume, è rumore come un altro, con tanti rumori che abbiamo intorno a noi, questo non si nota quasi nemmeno. Ma sotto ai normali parametri dell’acustica classica sentivo vibrare fenomeni d’altro tipo. C’era un’associazione strana del fluido col metallico, il senso di una forza confinata, tumultuosa. E lì si faceva un tuffo auditivo in un altro ordine di realtà, era come una voragine, ma non paurosa, sotto la superficie del mondo, quasi una anticipazione alto-vicentina dei buchi neri, salvo che il colore dominante in questo giro di immagini non era il nero: c’erano riflessi d’acciaio. (AM, 182) “Ho due fonti”, scriverà Meneghello in un passo delle Carte (e quelle “fonti” dovrebbero, nuovamente, indurci a riflettere sull’idrofilia sottesa all’opera dell’autore), “il pacco delle mie carte e il buco nero della mia testa” (C80, 356): l’acqua, di conseguenza, per quanto destinata a risolversi in un “flusso” cui è giocoforza opporre la vis prensile e conoscitiva sono perfino fatto mandare le schede […] del Grande Dizionario dell’Utet, il Battaglia […]; però anche lì la spiegazione non l’ho trovata […]. Ve ne parlo perché sono tentato di rinunciare a questa espressone, pensando che forse la gente finetta non la adopera in questo senso, ma poi in quelle schede ho trovato che c’è almeno un esempio in Montale, ‘dal pozzo di San Patrizio dell’inconscio’, e allora penso che andrà bene anche per noi” (AM, 185). Con tutta probabilità, il riferimento è alla recensione montaliana al decimo ‘Cahier de la Pléiade’ (estate-autunno 1950), dedicato a Saint-John Perse, inizialmente apparsa sul “Corriere d’informazione” nel marzo 1951, ora in Montale 1996. Citiamo il passo preso in esame da Meneghello: “Su questa via esistono evidentemente infinite gradazioni; i surrealisti, per esempio, pretendono di pescare direttamente nel pozzo di San Patrizio del subconscio senza alcun intervento della ragione; altri, come il Perse e certo Eliot, non rinunziano alla coscienza, al nesso razionale che lega le immagini, ma si rifiutano di incorporare i nessi logici nel poema” (Montale 1996, 1194-1195). LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 41 della scrittura, si fa elemento generatore della materia narrata e assicura, sotto certi aspetti, la stessa testualità. Se tutto, in Meneghello, è intercomunicante, allora la funzione H 2O ha il compito di assicurare questo ricambio: l’agone costante tra forma e anti-forma; tra ordine e Caos. Come ben sappiamo, L’acqua di Malo presenta anche un tassello poetico, letteralmente scaturito dal liquido e sedimentato “tra i depositi fossili di un paio d’anni fa” (AM, 183): versi che Meneghello, al cospetto del suo uditorio, deve isolare con l’ausilio del silenzio: La mia vita mentale è marasmatica è un rush di correnti nella testa ciò che vi prende forma si disfa l’acqua dinamica travolge le forme ne rigenera altre le disintegra. (Ibidem) Chiara, da subito, appare la filiazione dal III atto del King Lear di Shakespeare, e cioè il dialogo tra Lear, Kent e il Matto durante il temporale: “the tempest in my mind, / Doth from my sences take all feeling else” (1623 [1605-1606], 294; “la tempesta che io ho nella mente / rende i miei sensi incapaci di provare altra pena”, trad. it. di Melchiori in Shakespeare 1976, 707). Mare, temporale, tempesta: per un’invisibile osmosi, l’acqua va oltre l’epidermide della mente e si fa marasma, Caos che riforma, vortice fisso della coscienza dove i sensi abdicano alterando la realtà. Nei passi meneghelliani, l’acqua è archetipo e fenomeno mentale, ma assurge anche a “réalité poétique directe” (Bachelard 1942, 22; “realtà poetica diretta”, trad. it. di Cohen Hemsi in Bachelard 2006, 13), sonorizzando pensieri fluidi e oltremodo prensili. Un liquido corale, ma soprattutto destinato a attraversare gli stati della materia: è un’acqua brunita, turchina in strati possenti non la scorgevano gli occhi venuti a spiare agli spiragli degli alti battenti di ferro sento allo scroscio che è acqua quasi metallica il suono trasmette riflessi profondi non si sa quale forza la agiti si sentono le grandi spallate. (AM, 183) La situazione è analoga al passo di Pomo pero relativo al pozzo della corte dei nonni, laddove il liquido era esperito a livello mentale (superando, di conseguenza, la falla intuitiva) mediante il fenomeno acustico50 che, pur annullando la patente di purezza attribuita all’elemento acquati- 50 “Lontano lontano s’udiva uno sciacquio gelido, metallico, mortale” (PP, 316). 42 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO co51 (ormai frammisto, nel caso di Meneghello, alle tubature metalliche dell’acquedotto), lo rende generatore d’immagini: la massa il rimbombo esalta e sgomenta non c’è caduta ma slancio di grandi creature di spuma e di gocciole s’ingorgano a spirale con curvi salti e non c’è fondo non c’erano sonde non c’erano specchi tranquilli a fiore del mondo da cui farle scendere. (Ivi, 183-184) Il passaggio dal tempo verbale presente all’imperfetto genera una vera e propria sospensione fantastica: è la fase oscurata del manifestarsi, di questa immaginazione che procede per flutti e correnti spiraloidi. A proposito della spirale, non possiamo non citare le considerazioni di Mircea Eliade, dal momento che: Déjà dans le paléolithique la spirale symboliserait la fécondité aquatique et lunaire, arquée sur les idoles féminines, elle homologuait tous ces centres de vie et de fertilité […]. La spirale, l’escargot (emblème lunaire), la femme, l’eau, le poisson, appartiennent constitutionnellement au même symbolisme de fécondité, vérifiable sur tous les plans cosmiques. (Eliade 1959, 166) Già nel Paleolitico la spirale simboleggiava la fecondità acquatica e lunare; segnata sugli idoli femminili, omologava tutti i centri di vita e di fertilità […]. La spirale, la lumaca (emblema lunare), la donna, l’acqua, il pesce, appartengono costituzionalmente allo stesso simbolismo di fecondità, verificabile su tutti i piani cosmici. (Trad. it. di Vacca in Eliade 2008, 170) E, nella produzione di Meneghello, l’acqua si sdoppia in due varianti distinte: l’acqua propriamente detta – l’elemento femminile – e il “fluido”, il “pantasso del cosmo” (C70, 354), di natura maschile. Oltretutto, non sfuggirà come la “spirale” e le “sonde”, incontrate nell’ultimo passaggio citato da L’acqua di Malo (AM, 183-184), prefigurino i sondaggi di Maredè che, già dal titolo, evoca il mollusco e la sua natura vischiosa, umida e fecondante, per suggellarne in un’unica imago la doppia valenza di genere. Proseguendo la nostra analisi de L’acqua di Malo, si evince come l’elemento liquido – di natura femminile, è ormai assodato – si risolva in un legame continuo con le immagini: 51 Scriverà Meneghello nel terzo volume delle carte che “l’acqua così pura che pareva che non ci fosse: si distingueva acqua o aria solo perché abbiamo gli occhi sensibili a certi riflessi, ma in quella zona fluida si nuotava leggeri come esseri celesti, sospesi sopra i sassi a livello degli scogli: così intenso l’impulso che si entrava vestiti, non c’era tempo di togliersi la blusa, le braghe di tela, la maglietta del fascio” (C80, 128). L’acqua, di conseguenza, diviene tangibile in funzione della sua manifestazione acustica. LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 43 dagli echi52 derivo frammenti di cose pensieri. vorrei che serbassero tracce di forma sia pure per poco che almeno si possa dedurre53, dunque in questa vita mentale c’erano queste forme forse restando perplessi che fossero nostre anzi noi cose-pensieri ombre di forme sottratte alle acque potenti piene di vita e di morte. (AM, 184) Il punto fermo stacca in due tempi la meditatio aquae e dischiude, specie negli ultimi tre paragrafi, la natura stessa delle acque: “substance primordiale dont naissent toutes les formes et dans lequelles reviennent, par régression ou par cataclysme” (Eliade 1959, 168; “sostanza primordiale da cui nascono tutte le forme e alle quali tornano, per regressione o cataclisma. Le acque furono, al principio, e tornano alla fine, di ogni ciclo storico o cosmico”, trad. it. di Vacca in Eliade 2008, 169). Ma non manca la funzione generativa del liquido quale elemento fonico, da cui derivare (nel senso di “scaturire” ma, altresì, “andare alla deriva”) le tracce del codice universale della realtà, come testimoniato da questo addendum presente nel primo volume delle Carte: Nella camera dell’acquedotto ci sono gli echi di tutto ciò che si vede e si sente. Sopra, una calotta in muratura, uno strato di terra battuta e un po’ d’erba… Dentro, echi acquatici, acqua profonda, rimbombi sordi, scuri. [Cfr. Acqua, 1986]54 Si sente il silicio, la patterna differenziata, l’indifferenza55 della natura delle cose. Com’è sfibrante il mio rapporto col silicio. (C60, 356) L’estratto sostanzia e arricchisce la descrizione dell’acquedotto e ribadisce la natura “mista” dell’acqua, presa in una dialettica di differenza e omologazione: da un lato, il legame con la patterna56 del silicio (chiaSi noti la preminenza dell’elemento acustico. “Le cose sono tante, e io ho sempre questa impressione che toccherebbe a me fare un filo per legarle. Finché non ci riesco, le cose non servono a niente, non hanno forma alcuna, non durano, fuggono su una corrente più piena, più grande, più irresistibile di quella del Rodano che ho visto nascere l’altro ieri accanto a una strada di Montagna” (C60, 68-69). 54 Interpolazione presente nell’originale edito. 55 “Il corso dell’esperienza sembrava un ramo di fiume straripato, anzi straripante” C80, 19). Torna, nuovamente, l’ambivalenza oppositiva tra forma e virtualità. 56 “Le bestiali patterne sotterranee, si andava giù nel terriccio, poi nella roccia, nel magma, e poi all’inferno, nel lago dello zolfo…” (C70, 500). 52 53 44 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO ro è il riferimento alle tubature dell’acquedotto57) e quindi la sua natura “metallica”; dall’altro, la profonda virtualità, la quale oltrepassa le soglie ontologiche e si ricollega “[al]l’indifferenza della natura delle cose” (ibidem). Il metallo tornerà anche in un’altra chiosa extra moenia, sempre relativa all’acquedotto di Malo: Le chiavi erano due, quella grossa di ferro, e la yale. Con la prima si apriva il portone, e sapevo che ciò che si vede all’interno […] non era rassicurante […]. Con la yale, invece, si apriva il portoncino laterale, oltre il quale sentivo rumoreggiare il canale dell’acquedotto. Sapevo che qui bisognava fare una cosa sgradevole, scendere i gradini, entrare nell’acqua nera e fredda, turbolenta, e arrivare ad attaccarsi agli infissi di ferro dall’altra parte. Prima di decidermi tentai di ristabilire il contatto radio, e quasi immediatamente ci riuscii. Chiesi di Max a cui prospettai il dilemma delle due chiavi. Max non ebbe esitazioni: usare la chiave di ferro. Così ho fatto, dear lady, e ne è seguito il resto della mia vita. (C80, 102) L’acquedotto, dunque, è l’ossatura vitale di Malo: un reticolo di dotti linfatici che si dispongono a mo’ di rizoma sotto la superficie terrestre, pur tuttavia rimandando alla mente stessa: a un marasma dove pensieri e cose si fanno ibridi, quasi una sorta di iper-testo in espansione. Ecco profilarsi l’iper-biosfera (Salvadori 2016a, 547), dove il linguaggio umano rinuncia al suo monopolio58 ma, proprio in questo tirarsi indietro, riesce a scorgere e penetrare l’interconnessione delle sostanze e della materia, nell’intima concrezione di fluido e metallo, quasi in nome di una polisemia altrimenti nascosta. Il soggetto – in base alle teorie del Material Ecocriticism59 – arriva a porsi in un intreccio coi vari elementi della biosfera: in una rete, citando da Pomo pero, di “complessi rapporti con le MATERIE” (PP, 302). Ma è anche un’acqua communis, pronta a richiamare pensieri e idee in movimento, in quanto “c’erano queste forme / forse restando perplessi / che fossero nostre” (AM, 184); forme sottratte a un fluido potente che forma e disperde la materia paesana. Come confermato dalla chiusa del testo, dove le cateratte si richiudono e lasciano spazio a un’amara agnizione: Il silicio, nella sua forma cristallina, è utilizzato per la composizione di alcuni tipi di acciaio. 58 “Devo isolarlo con un po’ di silenzio” (AM, 183), scrive l’autore prima d’iniziare la lettura del componimento. 59 Il Material Ecocriticism (o ecocritica della materia) considera le forme non umane (siano esse naturali e artificiali) quali portatrici di significato per il soggetto percipiente, a sua volta preso in una rete di interazioni col mondo restante, andando in tal mondo ad alimentare una configurazione discorsiva di significati. La materia, in tal modo, abbandona il suo stato di passività e inerzia (non è più semplice Res Extensa) e acquista una valenza semiotica e narrativa, facendosi “storied-matter” (Iovino-Oppermann 2014, I). Circa le “onde” dell’ecocritica, cfr. Salvadori 2016a. 57 LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 45 Lo so che non conta molto ciò che pensiamo e diciamo: il mio compagno a scuola diceva “marasma” e diceva che era una bella parola, attraente, e vibrava nel dirla (e così la parola “stagliato” che aveva a che fare con un postiglione poetico o col suo cavallo che ombrava contro uno sfondo di cielo o di creste di monti) e tutto è stato travolto, nessun o ne sa niente, e una nuova gioventù ovviamente non tiene a saperlo e i più vecchi neanche perché nel complesso dei profondi spiragli non ci importa moltissimo ci interessa la crosta terrestre… (Ibidem) Il cambio di registro, non più guidato da un ispirativo silenzio, lascia il passo a quella “critica alla modernità” già rilevata da Ernestina Pellegrini (1992, 52), anticipando in tal modo alcuni aspetti peculiari del pensiero ecologico dell’autore. Si evince come il ritiro delle acque e la successiva comparsa della crosta terrestre operino un mutamento di prospettiva: la resa ultima ai flussi del Divenire che, sotto certi aspetti, prefigura già citato incipit de La Bellezza (QNB, 21). Ciononostante, L’acqua di Malo si pone alla stregua di vero e proprio centro fondante nella fenomenologia liquida di Meneghello – quasi evocando The River of Rivers in Connecticut (1953) di Wallace Stevens – destinato a irrorare non solo i testi dell’autore ma, soprattutto, la lingua stessa, inaugurante un’idrografia del lògos, giacché la lingua rimanda a quell’ecosistema sui generis, entro cui uomo, natura e cultura sono interconnessi proprio in virtù di una rispondenza segreta tra due codici genetici d’elezione (esperienziale e biologico). L’idioma si stratifica, è “tutto un intarsio” (LNM, 107), devia per un sistema di “gradazione di sfumature per contrade e per generazioni” (ibidem), segue un percorso di “strambe linee” (ibidem): la virtualità stessa dei liquidi e delle loro correnti. Ecco perché, a Malo La lingua si muove come una corrente: normalmente il suo flusso sordo non si avverte, perché ci siamo dentro, ma quando torna qualche emigrato si può misurare la distanza dal punto dove è uscito a riva. (Ibidem) A una lettura più approfondita, e soprattutto alla luce delle considerazioni avanzate finora, possiamo evincere lo stretto legame tra il lògos e le acque, soprattutto tracciando parallelismi con alcuni passaggi da L’acqua di Malo, dove il liquido rivelava la sua carica immaginifica proprio in veste di fenomeno acustico60. La tensione tra acqua e materia linguistica rappresenta perciò l’ultimo stadio di questa fenomenologia che, a tale altezza, si lega intimamen60 “Il rumore di quest’acqua, che è penetrato dentro di me” (AM, 182). 46 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO te ai sondaggi di Maredè e al tentativo di “spiare in questo pelago incognito [delle lingue]” (C80, 287)61. Se la lingua nativa diviene “luogo di stampi… Vasche dove galleggiano in sospensione […] le forme” (MM, 182), ecco che la sonda verrà calata in quella “zuppa primitiva” (C70, 86)62, già incontrata all’inizio della nostra analisi, a riprova non solo dell’intimo legame tra lògos e liquido generativo. Leggiamo dalle pagine di Maredè: Pare che la natura di ciò che chiamiamo il lessico delle lingue, o forse la nostra competenza lessicale, si evidenzi al meglio quanto partiamo dal mazzetto dalle parole che sappiamo di sapere, e scegliamo quelle che paiono più adatte per dire qualcosa che vogliamo dire – ma quando ci atteniamo invece alla cosa da dire e andiamo a pescare qualcosa che la dica, nel calderone in subbuglio di ciò che un po’ sappiamo, un po’ non sappiamo di sapere. Là il brodo lessicale63 è piano di scaecióni… Organizzazioni provvisorie, cose già quasi citomorfe… E quelle creature strane, gli eo-bionti della lingua… (MM, 191) La natura acquatica, o liquida, attribuita alla lingua assicura a essa una virtualità di fondo, essenziale per la decodifica della realtà: ciò è dimostrato dagli “eo-bionti” (ibidem), già rinvenuti nel secondo volume delle Carte (C70, 86), i quali tracciano una sincronia lessicale interna al macrotesto di Meneghello, dove la funzione H2O diviene fons della vita e del lògos: una lingua prebiotica, indistinta, satura di forme formanti (“cose già quasi”, scrive l’autore nel passo appena citato), perché Il materiale che più mi interessa è a monte ella descrizione e anche dell’analisi sistematica. Affiora in modo spontaneo e piuttosto tumultuosamente: l’acqua chiara e leggera brulica di forme guizzanti. (MM, 203) Che Maredè sia pervaso da una diacronia acquatica interna – quasi alla stregua dei Piccoli maestri – è desumibile da due punti fermi, rispettivamente situati a monte a valle del testo: la lavaùra, dove “le cose ardite vi erano immerse, ora a fiore ora in profondo” (ivi, 20) e il Livargón64 (ivi, 224), il 61 “Su come funzionano le lingue umane in certi settori importanti, è evidente che gli esperti sanno parecchio, ma ho l’impressione che non si sappia invece come funzionino in altri settori cruciali. A me piace spiare in questo pelago incognito” (C80, 387). 62 Impossibile non pensare al Macbeth di Shakespeare (1623 [1605-1606]) e al calderone stregonesco. 63 Corsivo mio. 64 Del Livargón, Meneghello parlerà in LNM, 84: “Il nostro proprio torrente si chiama il Livargón, ma le tribù vicine lo chiamano anche la Giara, ed è infatti principalmente giara. Vien giù dai colli sopra San Vito, e fa un’ansa sotto il paese, come circondandoci a sud, al piede del Castello. Ha poca acqua ed è spesso affatto prosciugato d’estate, benché si gonfi assai ”nei tempi delle maggiori sue escrescenze” come avrebbe detto il Maccà. Quando ci scorre l’acqua, si formano dei piccoli bacini che sono i nostri bóji: il principale era il Rostón, poi il grazioso Bojetto, poi l’allegro LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 47 fiume di Malo, dove quei liquidi reflui s’immettono per prendere parte al ciclo idrologico. Ma le parole evaporano, a riprova del loro essere fatte d’acqua e, di conseguenza, vitali e errabonde, traversando continui passaggi di stato, ma comunque fedeli alla loro essenza di “fiotto inesauribile” (DIS, 130), di plancton generativo, come affermato all’inizio di Batarìa: Rinasce ogni tanto (ma poi non matura) il proposito di impinguare la madia delle mie provviste linguistiche65 raccogliendo in una nuova Maredè tre specie di parole vicentine: (a) quelle che mancano nelle filastrocche di Ur-Malo (b) quelle che mancano in Maredè (c) altre parole che hanno surnuotato in seguito È una noia: non potrebbe surnuotare tutto, tutto in una volta, e che fosse finita? Lo so bene che il dannato plancton è infinito66… Che si può soltanto attingervi… (MR, 201) La materia linguistica come plancton: vivente pulviscolo in sospensione nell’idrosfera e, di conseguenza, a essa legato: un suo “epifenomeno” (C60, 361). E si rivela ardua – specie a proposito della lingua nativa – “la ricerca di un punto centrale, di un epicentro” (MR, 190), come affermerà l’autore nel presentare il libro a Vicenza, nel dicembre del 1990: Se avessi potuto fermare il tempo, bloccare la provincia senza preavviso, fermi tutti, don’t move!, e io a correre in giro ad ascoltare e registrare… Invece tutto scorreva67, non un’unica corrente ma tante68 […]. Tutto fluiva con ritmi troppo confusi perché valesse anche marginalmente la pena di registrarne le forme: non era soltanto difficile farlo, era inane. Come attingere acqua con un cestello di vimini. (Ivi, 191) Certo, “registrare non è pensare” (MM, 19), ma l’estratto citato può indurci – in un azzardo comparatistico di cui siamo consapevoli – a guardare all’andamento a rizoma, teorizzato da Gilles Deleuze e Félix Guattari, giacché il passo meneghelliano citato potrebbe essere letto alla luce del “principio di molteplicità”. Affermano i due filosofi che: gorgo dei Sojetti del Castello, poi i piccoli pelaghi bruni di Malo basso, fino al bójo di Cuca”. 65 Si noti, anche qui, la patina materialistica assunta dal linguaggio. 66 Corsivo mio. 67 Si noti la vena eraclitea del passo. 68 “La lingua si muove come una corrente” (LNM, 107). 48 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Les multiplicités sont rhizomatiques, et dénoncent les pseudo-multiplicités arborescentes. Pas d’unité qui serve de pivot dans l’objet, ni qui se divise dans le sujet. Pas d’unité ne serait-ce que pour avorter dans l’objet, et pour “revenir” dans le sujet. Une multiplicité n’a ni sujet ni objet, mais seulement des déterminations, des grandeurs, des dimensions qui ne peuvent croître sans qu’elle change de nature […]. Il n’y a pas de points ou de positions dans un rhizome […]. Il n’y a que des lignes […]. Nous n’avons pas d’unités de mesure, mais seulement des multiplicités ou variétés de mesure. La notion d’unité n’apparaît jamais que lorsque se produit dans une multiplicité une prise de pouvoir par le signifiant, ou un procès correspondant de subjectivation: ainsi l’unité-pivot qui fonde un ensemble de relations biunivoques entre éléments ou points objectifs, ou bien l’Un qui se divise suivant la loi d’une logique binaire […]. Mais justement, un rhizome ou multiplicité ne se laisse pas surcoder, ne dispose jamais de dimension supplémentaire au nombre de ses lignes, c’est-à-dire à la multiplicité de nombres attachés à ces lignes. (Deleuze, Guattari 1980, 14-15) Le molteplicità sono rizomatiche ed evidenziano la loro distanza dalle pseudo-molteplicità arborescenti. Non esiste alcuna unità che faccia da perno nell’oggetto o si divida nel soggetto, nessuna unità neanche per abortire nell’oggetto o per “ritornare” nel soggetto. Una molteplicità non ha né soggetto né oggetto, ma soltanto determinazioni, grandezze, dimensioni che non possono crescere senza che essa cambi natura […]. Nel rizoma non esistono punti o posizioni […]. Non ci sono che linee […]. Ci troviamo di fronte non a unità di misura ma a una molteplicità o varietà di misura. La nozione di unità appare solo quando in una molteplicità si produce una presa di potere da parte del significante o un processo corrispondente di soggettivazione: è il caso dell’unità-perno che fonda un insieme di relazioni biunivoche tra elementi e punti oggettivi, oppure l’Uno che si divide seguendo la legge di una logica binaria […] . Ma, per l’appunto, un rizoma o molteplicità non si lascia surcodificare, non dispone mai di una dimensione supplementare al numero delle sue linee, cioè alla molteplicità dei numeri fissati a queste linee. (Trad. it. di Passerone in Deleuze, Guattari 2014 [2003], 53) Ecco perché “un rhizome peut être rompu, brisé en un endroit quelconque, il reprend suivant telle ou telle de ses lignes et suivant d’autres lignes” (ivi, 16; “un rizoma può essere rotto, spezzato in un punto qualsiasi, ma poi si riprende seguendo una delle sue linee”, ivi 55), il che rimanda a quella carica “virtuale” che abbiamo scorto nell’equiparazione tra lingua e acqua nell’opera di Luigi Meneghello. Ne sono un esempio le ventuno sequenze foniche dell’Ur-Malo, eleggibili non solo filastrocche dal sapore apotropaico, quanto piuttosto a flussi linguistici, come si evince dalla loro stessa disposizione grafica: un fiume che, se visto dall’alto, si ripartisce in cinque movimenti, mutando così la propria conformazione. Proviamo ora a disporli uno di fianco all’altro (fig. 1.2), in uno sguardo volutamente lontano: le sequenze 1-6 disegnano un flusso sostanzialmente lineare, che si prosciuga nell’ultimo tassello; il gruppo 7-10, invece, segna una fase LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 49 di stallo che termina, come accadeva nel caso precedente, in un restringimento, pur tuttavia aprendosi in un nuovo estuario (“giia / gui a / gèia / mòia // seséia moréia sernéia fortaia”, PP, 386); il gruppo successivo (11-15) procede per sdoppiamenti e dilatazioni, a riprova di come questo fiume delle parole si estenda e si restringa costantemente; il penultimo (16-20) presenta un andamento ruscellante e torrentizio, per giungere poi a quello finale (21), che nel disporsi a mo’ di triangolo sintetizza l’andamento di questa corrente, ormai ridotta al suo nucleo quintessenziale. Una materia linguistica, dunque, fortemente ancorata alla vita69 e alla sua dimensione corporea; pronta a raccogliersi in quell’ultima ipostasi, il mare, anch’esso generatore di lògos: perché “nulla parla la lingua esotica degli infiniti pianeti e mondi meglio del mare” (C80, 398). Una capillarità connaturata alla concezione stessa del textus o, nello specifico, in quelle che sono le immagini legate al processo della scrittura. Ferma restando la vena “botanica” (Salvadori 2015), in bilico fra “travasi” e “trapianti”, più volte l’autore farà riferimento a una componente idrologica circa la sua produzione, a cominciare dal sistema dei “vasi intercomunicanti” (MR, 65), da cui i libri sgorgano a intervalli irregolari (quasi per spasmi o contrazioni fetali): Ho cominciato tardi [a scrivere], e pubblicato poi in bursts, in gettiti saltuari (lo schema che sembra emergere è di due libri che sgorgano70 quasi insieme dopo lunghi intervalli. (Ivi, 64-65) In altri passaggi, si evince proprio come la parola scritta, una volta “alla deriva” dal flusso dell’esperienza (divenuta, cioè, fonte “scritta” e documento), ritorni alle acque materne, quasi per inspiegabile sparizione. Meneghello ne dà un perfetto esempio nel descrivere la stesura del resoconto per i quarant’anni dell’insegnamento a Reading: Ah, però, un momento. Un resoconto sistematico c’è e l’ho scritto io stesso, i inglese, nell’anno in cui ho lasciato l’insegnamento, otto anni fa, nel 1980. È un saggio inedito che se ne sta al sicuro in un armadio a Londra […]. È stata un’esperienza davvero strana. Intanto c’erano, come potete immaginare, dei gran buchi nella mia memoria: dal lago scuro dei documenti emergevano nomi, facce, titoli di corsi di studio che avevo dimenticati… oppure accadeva l’inverso, che mentre stavo seguendo sulle mie carte le sorti di una generazione di studenti, me la vedevo scomparire all’improvviso dai registri e dagli elenchi: venire bevuta dalla sabbia e svanire, come il fiume Awash in Etiopia. (MR, 11, corsivi miei) 69 A proposito di MM, Pellegrini ha rilevato come le parole di questa grammatichetta altovicentina siano “sporche di vita” (Pellegrini 1992, 91). O ancora, si veda in MM, 157: “il latare intransitivo, che non è l’allattare della madre o della balia, ma quello introverso della lattante e del lattante, contiene altri succhi”. 70 Corsivo mio. 50 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Una rappresentazione idrologica della scrittura che alimenta una tensione intratestuale, soprattutto per la resa liquida della “generazione di studenti […] bevuta dalla sabbia” (ibidem)71, senza contare i rimandi al fiume Awash o la raffigurazione dei documenti alla stregua di “lago oscuro” (ibidem): riferimenti e spie lessicali che non possono, e non devono, essere considerati quali obiter dicta, bensì elementi tesi a dischiudere il ruolo fondante e seminale dell’elemento H 2O all’interno della scrittura meneghelliana. È lo stesso autore a fornircene la spiegazione nel terzo volume delle Carte, in un passo che, nuovamente, conferma l’idrofilia di fondo: Essenza delle CARTE, se ce n’è una: sforzo di pareggiare qualcosa, una presunta realtà effettiva di alcune cose… Ogni volta che i primi segni tracciati come in trance sulla carta accennano a richiamare una realtà, comincia un intenso lavorio per raggiungerla, un fare e rifare, scavare, grattare… Tutto pare artificio, tecnica da improvvisarsi piuttosto che da applicarsi, lavoro, assillo. A questo punto, dove è andata la realtà? (C80, 286) Nel prosieguo dell’estratto, lo scrittore si fa quasi cercatore d’oro, intento a pescare nel fiume dell’esperienza le pagliuzze della propria materia narrante: Nota che prima dei segni scritti c’era stata la fiumana delle cose sentite e pensate: una corrente confusa nella quale passavano pezzi di frasi, sagome incise un istante nell’acqua. (Ibidem) Al di là dei riferimenti montaliani, il passo aderge a collettore di topoi già riscontrati negli estratti analizzati in precedenza e ribadisce la natura fermentativa (un Caos generante) dell’acqua, dove “le cose non servono a niente, non hanno forma alcuna, non durano” (C60, 69), entro cui la scrittura è comunque destinata a tornare mediante sondaggi, nel tentativo estremo di isolarne il baluginio rivelante, la sua carica epistemologica. Da qui la struttura tripartita, quasi a pendant della memoria vista come una “serie di pozzetti” (ivi, 141): Tre gradi dunque: in basso l’acqua scura, informe, l’afflusso di ciò che hai sentito e pensato, come dire della “coscienza”, del “pensiero”; in mezzo le forme prime, mutevoli, effimere, tra le quali ne emerge qualcuna di stabile e viva, in cui l’artificio pareggia il reale72 (anzi solo nell’artificio riuscito, pare, si può cominciare a sapere che cos’è il reale, e compiacersene); e in superficie le cose scritte. Cfr. PM, 98: “Il tempo non c’era, l’avevano bevuto le rocce”; e BS, 401: “il dopoguerra […] è un prisma […] beve una parte della luce”. 72 Il passo, sotto certi aspetti, riprende le considerazioni a proposito del “brodo lessicale”, avanzate dall’autore in MM, 191: “Là il brodo lessicale è piano di scaecióni… Organizzazioni provvisorie, cose già quasi citomorfe… E quelle creature strane, gli eobionti della lingua…”. 71 LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 51 (Ma poi tra queste ultime, altri gradi: cose sbagliate – rottami raccolti per errore73, corpses –; cose non riuscite, insipide o malamente scimmiottate; e naturalmente le soavi sorelle delle cose reali). (C80, 287) Il testo scritto diviene tessuto biotico, alimentato da falde freatiche (il “fluido” dei vasi intercomunicanti) atte a mantenerne l’equilibrio di fondo, in una sorta di omeostasi sui generis: certo, la scrittura ha il compito di sottrarre la materia ai flussi del Divenire ma, al contempo, s’inserisce in una tensione retroattiva laddove l’acqua e il suo essere caos anti-forma ne assicurano la creatività intrinseca, in un costante ricircolo. Va da sé, dunque, che questa capillarità sconvolgente si faccia tangibile, irrorando la pagina stessa: Altre volte ho avuto la difficoltà che ho in questo momento: la carta su cui scrivo queste righe si è impregnata di umidità, forse qualche goccia di pioggia venuta dalla finestra aperta, e mi fa dilatare l’inchiostro, a zone. Ci sono zone in cui posso scrivere normalmente, altre in cui la scrittura si slabbra, le piccole frasi concise diventano grottesche caricature. Io non smetterò tuttavia, terrò duro, forse mi restringerò alle zone non infette del foglio: e (dato che ci sono) terrò duro anche rispetto all’analogo processo di inquinamento che corrompe in me la memoria e la capacità di intendere e di volere. (C80, 59) L’acqua abbandona la sua componente metafisica per farsi reagente trasformativo e essudato del testo: come accadeva nell’episodio di Pomo pero relativo alla vecchia casa di Malo e il suo rinnovamento, l’elemento liquido è veicolo di epidemie74 (il foglio si infetta), ma soprattutto rimanda a una pollution of mind che bene dimostra il costante legame tra mente e natura, qui comprovato dalla struttura “organica” del testo e la sua porosità intrinseca. Porosità, in tal caso, in cui riecheggia il temporale di Libera nos a malo, come se le gocce di pioggia fossero passate dal mondo dello scrittura a quello reale, per via del labile diaframma che separa i due versanti. Richiamandoci alle teorie di Stacy Alaimo in merito al concetto di trans-corporeità (“a new materialist and posthumanist sense of the human as perpetually interconnected with the flows of substances and the agencies of environments”, Alaimo 2014, 187), il passo citato dischiude non solo la carica performativa dell’acqua – la sua agency narrativa capace di mutare le parole in “grottesche caricature”, C80, 59 – quanto piuttosto la parità ontica tra esseri viventi e non (umani, biota 73 Evidente da subito il legame con DIS, 21, corsivo mio: “I frammenti che galleggiano ancora (e paiono miseri rottami) contengono tracce di un disagio simile a quello dei miei primi giorni al Corso Alpini durante la guerra…”. 74 L’umidità, sotto certi aspetti, infetta la materia. Cfr. PP, 337: “una scabbia fulminante invase i muri maestri e in pochi giorni li impestò tutti. Le tinte ricadevano in forma di cialde […]; la radio ammutoliva; i dischi s’imberlavano; nella nicchia […] i libri si deformavano quasi a vista d’occhio; i tre volumi del Belli […] erano ogive”. 52 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO e abiota, Bennett 2010b, 121), qui veicolata dalla funzione H 2O. L’idrofilia di Meneghello, dopotutto, potrebbe essere sintetizzata efficacemente da un passo dell’Ulysses di James Joyce, eleggibile a vera e propria esaltazione della virtualità acquatica. Ecco perché Bloom, dell’acqua, ammira Its universality: its democratic equality and constancy to its nature in seeking its own level: its vastness in the ocean of Mercator’s projection: its umplumbed profundity in the Sundam trench of the Pacific exceeding 8,000 fathoms: the restlessness of its waves and surface particles visiting in turn all points of its seaboard: the independence of its units: the variability of states of sea: its hydrostatic quiescence in calm: its hydrokinetic turgidity in neap and spring tides: its subsidence after devastation: its sterility in the circumpolar icecaps, arctic and antarctic: its climatic and commercial significance: its preponderance of 3 to 1 over the dry land of the globe: its indisputable hegemony extending in square leagues over all the region below the subequatorial tropic of Capricorn: the multisecular stability of its primeval basin: its luteofulvous bed: Its capacity to dissolve and hold in solution all soluble substances including billions of tons of the most precious metals: its slow erosions of peninsulas: […] its alluvial deposits: its weight and volume and density: its imperturbability in lagoons and highland tarns: its gradation of colours in the torrid and temperate and frigid zones: its vehicular ramifications in continental lakecontained streams and confluent oceanflowing rivers with their tributaries and transoceanic currents: gulfstream, north and south equatorial courses: its violence in seaquakes, La sua universalità; la democratica uguaglianza e costanza della sua natura nel cercare il proprio livello; la sua immensità nell’oceano della proiezione di Mercatore; la sua profondità insondata nella fossa del Sundam del Pacifico, che oltrepassa gli 8000 bracci; l’irrequietezza delle sue onde e le particelle di superficie che visitano a turno i punti del loro lungomare; l’indipendenza delle sue unità; la varietà degli stati marini; la sua quiescenza idiosincratica nella bonaccia; la turgidità idrocinetica nelle basse e alte maree; il suo accasciarsi dopo le devastazioni; la sua sterilità nelle calotte circumpolari, artiche e antartiche; la sua rilevanza climatica e commerciale la sua preponderanza di 3 a 1 rispetto alle terre emerse del globo; l’indisputata egemonia che si estende per leghe quadre su tutte le regioni sotto il subequatoriale tropico del Capricorno; la multisecolare stabilità del suo bacino primordiale; il suo letto luteo fulvo; la sua capacità di dissolvere e incorporare in una soluzione tutte le sostanze solubili, compresi milioni di tonnellate; di metalli tra i più preziosi; la sua lenta erosione delle isole e penisole […]; i suoi depositi alluvionali; il suo peso volume e densità; la sua imperturbabilità in lagune e laghi di montagna;la gradazione dei suoi colori nelle zone torride, temperate e glaciali; le sue ramificazioni veicolari nelle correnti continentali attraverso laghi e fiumi che confluiscono, sfociando in fiumi che si gettano nell’oceano con correnti tributarie e transoceaniche, e correnti del golfo con tragitto nord e sud equatoriale; la sua violenza in maremoti, LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA waterspouts, artesian wells, eruptions, torrents, eddies, freshets, spates, groundswells, watersheds, waterpartings, geysers, cataracts, whirlpools, maelstroms, inundations, deluges, cloudbursts: its vast circumterrestrial ahorizontal curve: its secrecy in springs, and latent humidity, revealed by rhabdomantic or hygrometric instruments and exemplified by the hole in the wall at Ashtown gate, saturation of air, distillation of dew: the simplicity of its composition, two constituent parts of hydrogen with one constituent part of oxygen: its healing virtues: its buoyancy in the waters of the Dead Sea: its persevering penetrativeness in runnels, gullies, inadequate dams, leaks on shipboard: its properties for cleansing, quenching thirst and fire, nourishing vegetation: its infallibility as paradigm and paragon: its metamorphoses as vapour, mist, cloud, rain, sleet, snow, hail: its strength in rigid hydrants: its variety of forms in loughs and bays and gulfs and bights and guts and lagoons and atolls and archipelagos and sounds and fjords and minches and tidal estuaries and arms of sea: its solidity in glaciers, icebergs, icefloes: its docility in working hydraulic millwheels, turbines, dynamos, electric power stations, bleachworks, tanneries, scutchmills: its utility in canals, rivers, if navigable, floating and graving docks: its potentiality derivable from harnessed tides or watercourses falling from level to level: its submarine fauna and flora (anacoustic, photophobe) numerically, if not literally, the inhabitants of the globe: its ubiquity as constituting 90% of the human body: the noxiousness of its effluvia in lacustrine marshes, pestilential fens, faded flowerwater, stagnant pools in the waning moon. ( Joyce 1922, 624-625) 53 trombe marine, pozzi artesiani, eruzioni, torrenti, vortici, turbini, inondazioni, risacche, acque che separano, acque che dipartono, geyser, cateratte, risucchio di gorghi, malestrom, allagamenti, diluvi, nubi tuonanti; la sua vasta curva anorizzontale circumterrestre; i segreti delle sorgenti, e la latente umidità, rivelata dagli attrezzi di rabdomanti o da igrometri, ed esemplificata dal buco nel muro all’Ashtown Gate, la saturazione dell’aria, la distillazione della rugiada; la semplicità della sua composizione, due parti d’idrogeno con una di ossigeno; le sue virtù curative; la possibilità di stare a galla nel Mar Morto; la sua perseverante penetrazione in canaletti, scoli, arginature malfatte, falle d’una nave; la sua virtù nel pulire, spegnere la sete e il fuoco, nutrire i vegetali; la sua infallibilità come paradigma o paragone; le sue metamorfosi come vapore, nebbia, nubi, pioggia, nevischio, neve, grandine; la sua forza di rigidi idranti; la varietà di forme in tratti di mare, baie, golfi, cale, imboccature di porto, lagune, atolli, arcipelaghi, sound, fiordi, minches, estuari soggetti a maree, e bracci di mare; la sua solidità nei ghiacciai, iceberg, banchi fluttuanti; la sua docilità nel muover le ruote di mulini idraulici, turbìne, dinamo, centrali elettrice, congegni candeggianti, concerie, macchine tessili; la sua utilità nei canali, fiumi se navigabili, fluttuanti e docks di carenaggio; il suo potenziale viene dalle maree imbrigliate in corsi d’acqua che precipitano da un livello all’altroe la sua fauna e flora sottomarina (anacustica, fotofobica), numericamente se non letteralmente, costituisce i vari abitanti del globo; la sua ubiquità al 90% del nostro corpo; la nocività di esalazioni in padule lacustri, tanfi pestilenziali, acqua di fiori appassiti, stagnanti gore sotto la luna calante. (Trad. it. di Celati in Joyce 2013, 833-835) 54 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Quanto scritto da Joyce, allora, si pone a suggello di questa fenomenologia acquatica, dove, lo abbiamo visto, l’acqua non sigla solamente un’interconnessione di tipo biosferico tra il soggetto umano e la realtà naturale circostante75, ma si pone alla base stessa della scrittura, quale elemento seminale e generativo76, in un sistema/non-sistema di “natazioni occulte” (C60, 14), insinuatosi nelle pieghe della mente e del testo. Fig. 1.1 - Il disegno di Fabio Meneguzzo posto in copertina e fra le sezioni di Trapianti (2002), su gentile concessione di RCS libri Cfr. PM, 157, corsivo mio: “Scendemmo tutto il mezzo chilometro senza danno; non mi sentivo bagnato, mi sentivo un ruscello, l’acqua scorreva dappertutto; quando fummo in fondo, non c’era più nessuno”. 76 Mette conto rilevare, a chiusura di questa prima parte, il seguente passo dal terzo volume delle Carte, dove Meneghello fa riferimento a “pianeta di acqua azzurra, con due continenti, l’Atlantide e l’Oceania, simmetrici nei due emisferi, uno a forma di stella, l’latro di osso da morto (tibia, direi), sui quali l’umanità di lassù si è divisa, gli avveniristi nel primo (che vogliono modificare radicalmente la sensibilità animale), nell’altro i conservatori (che si sforzano di preservarne i tratti essenziali). Una zona intermedia, una cintura di isole, separa i due emisferi e qui è nata una terza civiltà, la Colchide” (C80, 46). 75 LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA Fig. 1.2 - Lo schema mostra la natura a “flusso” dell’Ur-Malo di Pomo pero, ripartito per cinque movimenti 55 56 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO 1.2 Eco-logie 1.2.1 Grafie dello spazio, grafie dell’ambiente All’inizio del capitolo precedente, abbiamo visto proprio come determinate parole (le “sfere” geobiochimiche) si situassero a varie altezze del macrotesto meneghelliano, istituendo una rete di isotopie divenute, a fortiori, sistema. Nelle pagine successive, cercheremo dunque di analizzare il legame profondo, e retroattivo, fra testo e natura, in modo da circoscrivere e individuare l’ecosistema letterario sotteso alla scrittura del nostro autore. Volendo partire da una mera analisi lessicale, riconosciamo al termine “ambiente” una valenza dinamica e circolare, tale da eleggerlo a “insieme di fatti (gli elementi che lo compongono) […] [e] luogo di atti che tra questi elementi intercorrono” (Iovino 2004, 17), un punto d’incontro fra natura e cultura. In Meneghello, la parola ricorre più volte, pur obbedendo a un’oscillazione di tipo semantico, in riferimento all’ambito culturale e politico77 o, in altri casi, alle strutture e gli equilibri della vita paesana78 stante simili premesse, il concetto di “ambiente” apparirebbe avulso dallo spazio fisico e naturale, relegato quasi a una dimensione astratta e, sotto certi aspetti, metafisica (situata cioè oltre la contingenza 77 FI, 265, corsivo mio: “In pratica S. venne a contatto attraverso di lui [Fasolo] con la main stream della cultura vicentina, elaborata nell’ottocento dai tirapiedi dei Lampertico, ecc., ma ora assimilata da una piccola borghesia indipendente di modeste pretese, conservatrice ma scettica intorno a molte più cose che non si creda… l’ambiente culturale che ha poi prodotto buona parte dei nostri poligrafi” (FI, 265, corsivo mio); “che cos’è una patria se non un ambiente culturale, cioè conoscere e capire le cose?” (PM, 28, corsivo mio); “Il segretario del Fascio era molto deriso, anche in ambienti squadristici che io conoscevo intimamente, per il fatto che era piccolo e tozzo, ossia uno che si dice un ciaci […]” (PP, 309, corsivo mio). 78 “Per coloro che sfuggono allo schema della normale educazione sessuale paesana c’è quasi sempre, oltre all’ambiente familiare “di chiesa” un fattore di vera o immaginaria inferiorità personale […]” (LNM, 161, corsivo mio); “Non è il caso di pensare che lo stato dei nervi di Giacometto, e l’atmosfera che regna nella sua famiglia, siano dovuti soltanto alla sua educazione sessuale: queste cose sono troppo complesse e malnote; ma è certo che la famiglia di Giacometto (fondata su una specie di piccolo martirio sessuale del padre) è un ambiente profondamente diseducativo per i figli stessi […]. Se finiscono accoltellati o fulminati […] il problema è chiuso; ma molti sopravvivono, e per questi il problema dell’influsso dell’ambiente familiare è importante” (ivi, 168-169, corsivi miei). Oppure, si prenda in esame il passo relativo alle macchine della ditta: “La storia delle nostre macchine non si può più fare, le testimonianze e i ricordi sui nomi e i colori s’intrecciano un po’ a sghembo. Le origini si possono appena discernere, in un ambiente arcaico abitato dalla Standàr-bajàr e dalla Zero-fia, dopo le quali emerse la Tipo-due gialla” (ivi, 129). LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 57 della realtà sensibile79). Ma non mancano, già nel libro d’esordio, rimandi alla tensione “a cerchio” veicolata dal termine (in virtù dell’etimo latino ambire, cioè “andare intorno, circondare”) e che divengono il punto di partenza per una lettura ecocritica. Quando, in Libera nos a malo, Meneghello parla di “ambiente paesano” (LNM, 97), delimitato e circoscritto dal medium linguistico, non manca di aggiungere che Dietro al paese si sentiva il fondo stabile di una maggioranza contadina, inamovibile, testarda. In qualche modo, noi eravamo a nostra volta il fiore urbano di questa società contadina, un centro. Si formava ancora quasi un tutto unico con la campagna, ma il paese travasava e raffinava il costume campagnolo. Di questo complesso lavoro di mediazione esercitato dall’ambiente paesano è difficile documentare bene la natura, soprattutto per difficoltà di lingua. (Ibidem) Dinanzi alla separazione tra cultura ufficiale (scritta) e “costume reale del paese” (ibidem), l’ambiente maladense diviene “centro” (ivi, 97), contraddistinto non solo da una specificità propria, ma vieppiù interagente le aree circostanti mediante travasi e raffinazioni (ibidem). Un ambiente dove tutto è contenuto, alla stregua di polo attrattivo: Messa prima, messa del primo, messa granda, messa ultima. C’era anche una messa del fanci-ulo, ma ho l’impressione che l’avessero appena inventata, un’innovazione artificiosa. Invece le altre messe erano incorporate nelle strutture stesse della società, e facevano parte dell’ambiente come le ore del giorno e della notte. (Ivi, 182) Peculiare, in tal caso, il legame tra “ambiente” e “struttura”, il che ci porta contemplare la duplice valenza semantica veicolata del termine: architettonica (sempre legata all’etimo latino struere); organica (si pensi alla struttura dei tessuti o dello stesso DNA) e geologica (in relazione agli strati della crosta terrestre, quali la conformazione tettonica). Circa quest’ultimo aspetto, mette conto fare riferimento a L’acqua di Malo e ai passi relativi alla composizione del primo libro, laddove “la […] materia paesana” (AM, 174) andava a sovrapporsi per “strati cronologici principali” (ibidem): il libro mutua dunque queste strutture, tale da eleggere Malo a controparte spaziale della scrittura; vieppiù, contravvenendo alla celebre formula di Jacques Derrida80, l’osmosi struttura/ambiente porta il testo a integrare ciò che gli era esteriore, stante altresì la natura prensiUn’accezione globale del termine “ambiente” può essere rinvenuta in Fiori italiani: “S. avvertiva in questo non un sistema rivale rispetto a quello della scuola, anzi una caratteristica neutra dell’ambiente generale, un aspetto quasi fisiologico del vivere. Ne era partecipe anche lui […]” (FI, 291, corsivo mio). 80 In base a cui “il n’y a pas de hors-texte” (Derrida 1967, 227; non c’è un fuoritesto). Se non diversamente indicato, tutte le traduzioni sono di chi scrive. 79 58 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO le del modus autobiografico. Ecco che il luogo viene annesso alla pagina scritta, nella sua piena e materiale fisicità: Non sembra che si esaurisca la voglia di identificare un dettaglio, di studiarlo, di vedere come funzionano le cose. Per esempio l’ambiente fisico, la struttura esterna del paese81, prendiamo il saliso, il selciato, i sassi mori che erano poi bluastri: dove arrivava la parte selciata, o acciottolata, del paese? Cominciava davanti a casa nostra, appena fuori dal portone, a filo col muro della casa; ma dove arrivava? quali delle strade laterali erano selciate e fino a che punto? Quando erano stati messi giù i ciottoli? e da dove venivano, dove si andava a prenderli? Qualunque dettaglio: le fontane pubbliche per esempio, le ponpe (il nome dice quanto vicina era l’età dei pozzi), dove stavano? ce n’era una a dieci metri da qui, davanti alla casa di Risso; un’altra in contrà Barbè, e una in Piazzola, ma gli spettri delle altre non hanno sede precisa, dov’erano? (AM, 187-188) Nell’estratto, è la materia stessa a farsi narrante, in quanto costitutiva della topografia del luogo; ma soprattutto non sfuggirà il legame – già rinvenuto nel passo relativo alle “altre messe” (LNM, 182) – tra “struttura” e “ambiente”: tuttavia, se prima il riferimento ci riportava all’ambito socioculturale (cioè ai costumi e le usanze maladensi), adesso è lo spazio a essere chiamato in causa e, nella fattispecie, quello architettonico82 . Se confrontati, i due passaggi divengono complementari e dischiudono un ambiente misto, zona d’incontro tra natura e cultura, come si evince dal passo relativo alla Proa: Sull’ambiente fisico del paese degli anni ’20 e ’30 ci sarebbero da dire cose più interessanti di queste, ma parlerò di una sola […], il mondo vagamente allucinante della Proa. Come dice il nome, che s’incontra di frequente nelle nostre zone, si trattava di una zona marginale, che separava il paese dalla campagna a est. Proa era la plaga ma anche il nome delle due strade che vi conducevano, la Proa-vecia (quella vera) e la Proa-nova. Era un vasto letto selvatico, tracciato tra prati e campi. C’erano sassi, sterpi, cardi; dominavano i toni del verde e del marrone; c’era un gran senso di aridità e asprezza, ma anche di vitalità e forza. Forse era un ricordo deformato delle savane da cui veniamo […]. Oltre la Proa, verso est, c’era quella campagna profonda di cui ho cercato di dare un’idea proporzionata nei libri; dove l’estensione era sentita come profondità, una sorta di Corsivo mio. Come accadrà, in Fiori italiani, per la descrizione del Liviano: “L’ambiente fisico del Liviano tramandava una specie di ottimismo equivoco. C’era qualcosa di furbo e falso in quegli affreschi alla maniera dei moderni, un vago invito a sentirsi “personaggi contemporanei”. Noi italiani abbiamo il dono di glamorizzare il contemporaneo. Quando abbiamo dei contesti presentabili (è accaduto dopo la guerra) riusciamo quasi irresistibili. Ma se non, non importa: sotto lo stesso. La contemporaneità che c’era allora era quella degli anni tardo-fascisti. L’arte decorativa moderna del Liviano la esaltava assai di più dei grandi rilievi pseudo-moderni del nuovo cortile del Bo’” (FI, 330). 81 82 LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 59 quinta dimensione della fantasia, e si arrivava al favoloso confine, quella specie di sacro fiume di sassi il cui nome va anch’esso in profondo, la Jòlgora, quasi un gorgoglio irrigidito. (AM, 188-189, corsivo mio) Dall’architettura (e dunque una spazialità progettata e organizzata dall’esterno), si passa direttamente alla natura di Malo, pronta a dischiudersi in una zona di soglia: una “plaga” (ibidem) dove la percezione del naturaliter si acuisce, spesso sovrapponendo mappe tra loro antitetiche (la Savana, l’Oceano Pacifico e i Campi Elisi), ma tuttavia pronte a sintetizzare una ciclicità naturale83. Alterazione dello sguardo, quindi, ma anche, e soprattutto, focalizzazione multipla, incrostata delle cose del mondo, dove il soggetto, grazie anche al movimento della visione, è vedente ma oltremodo visibile84. Si avverte, oltretutto, come nei passi finora citati l’ambiente presti fede alla tensione “circolare” e “in tondo”, rivelando uno spazio dove “vivono l’una accanto all’altra natura e cultura” (Iovino 2004, 17): una natura, nel caso della Proa maladense, manifestata nei prati e i campi, dal suo essere “vasto letto selvatico” (AM, 188), dal senso di “aridità e asprezza, ma anche di vitalità e di forza” (ibidem) (il che anticipa, sotto certi aspetti, la wilderness poi rintracciabile nei Piccoli maestri); viceversa, la cultura scaturisce dalla contaminazione costante fra topografie e suggestioni, dalla storia stessa del luogo che, comunque, è refrattario al paesaggio fine a se stesso, in quanto non racchiuso in una cornice e privo della frontalità del soggetto percipiente. La Proa, d’altronde, era già presente in Libera nos a malo, cui i passi citati si ricollegano quali autoesegetici addenda (proprio perché la materia maladense è, sotto certi aspetti, inesauribile): C’erano inoltre le caviàgne, o stradicciole rurali, che non vanno in paese, ma quasi in visita ai casolari e alle famiglie dei contadini (“dai” tali o talaltri), o anche vanno semplicemente a finire in mezzo alla spagna e allo strafòglio, ai margini di una landa sconfinata di campi e fossati e colture. Allora si resta lì, con la bicicletta appoggiata a un moraro, e improvvisamente si sentono le voci di milioni di piccole bestie: la tarda primavera pare un luogo, non più una forma del tempo, e da in mezzo a questo luogo così grande, così folto, il paese a cui questa caviàgna riconduce sembra lontano e senza importanza. (LNM, 83) Se confrontato con gli estratti precedenti (AM, 84), il passo ci permette di giungere a una connotazione biotica del concetto di ambiente fisico espresso da Meneghello. Rispetto alla chiosa del 1988, la wilderness è totale e omnipervasiva, tale da sfociare in un luogo autonomo e oltremodo 1) Aridità; 2) Acqua; 3) Vita rigenerata. “L’énigme tient en ceci que mon corps est à la fois voyant et visible” (MerleauPonty 1964, 18; “L’enigma sta nel fatto che il mio corpo è insieme vedente e visibile”, trad. it. di Sordini in Merleau-Ponty 1989, 18). 83 84 60 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO vitale (le strade vanno “in visita ai casolari”, LNM, 83); marginale e, al contempo, fulcro di una natura in fermento, dove le coordinate si alterano dinanzi alla fonodiversità animale (“le voci di milioni di piccole bestie”, ibidem), per ispessirsi e divenire spazialità tout court: la “tarda primavera” (ibidem) sigla un passaggio dall’astratto al concreto, mentre il soggetto – al centro di “questo luogo così grande, così folto”, ibidem – esperisce il naturaliter per via eco-cosciente. Di conseguenza, la Proa dirime non solo due realtà (naturale e urbana), ma diviene omphalos di una cartografia iperreale e, al tempo stesso, avulsa dalle influenze antropiche, proprio per la sua funzione separatrice, di limite in piena regola: Ci separava da questa landa: come quando si arriva a un confine, e di là è Belgio, Olanda; così dalla stradella che comincia vicino a casa nostra, raggiunto in un minuto il vasto greto interrato e sterposo e sassoso, subito di là cominciava la no-man’s land che s’estende verso i paesi a oriente, la campagna fitta, fuori della geografia e della storia. Proseguendo per le stradicciole che non si fermano in mezzo ai campi, e che non pare siano dirette in alcun luogo in particolare (ce n’è), si sentiva crescere il senso dell’ignoto; nell’estate piena occorreva quasi una forma di coraggio per avventurarsi avanti e avanti tra i sorghi, aspettando come esploratori che un argine camuffato dalle acacie ci scoprisse all’improvviso la grande corrente di sassi della Jólgora, che sega la campagna ed è bianca, immobile, fatta di ciottoli e pietre smussate. (LNM, 84) Con I piccoli maestri, il concetto di “ambiente” arricchisce il proprio significato, anche in virtù del movimento sotteso alle vicende narrate, tali da ingenerare una vera e propria cinetica narrativa (non casuale il verbo di moto posto a inizio dell’opera, tale da presupporre l’ingresso del protagonista in uno spazio sia fisico che mentale85): la natura è quasi esperita “in transito”, mediante continui attraversamenti e variabili percettive, ragion per cui il libro occupa, in seno a un’ecocritica delle opere meneghelliane, una posizione privilegiata. Alla portata ecologica dei Piccoli maestri riserveremo un paragrafo apposito e, per il momento, mette conto soffermarci sulle variazioni del termine preso in esame. Scrive Meneghello nel secondo capitolo: Era uno strano ambiente86, a Tarquinia. Io non ero mai stato fuori dal Veneto, altro che nelle città, e veramente non sapevo che cos’è un paesaggio. Credevo che fosse tutt’al più una di quelle vedute sulle cartoline, un taglio con dei pini, acqua e rocce, un pezzo di città, e in fondo, per esempio, un monte che fuma. Oppure credevo che un paesaggio fosse una fantasia di parole, come: Bei monti della sera – azzurra è già l’Italia; stati d’animo vaghi che si provano viaggiando in treno in regioni nuove, quando a un certo punto si pensa, qui è già Romagna, Toscana, 85 86 “Io entrai nella malga” (PM, 3). Corsivo mio. LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 61 Piemonte, e il nome somiglia a un colore. Il nostro paesaggio veneto, siccome ci ero cresciuto dentro, non mi era mai venuto in mente che fosse un paesaggio. Ma attorno a Tarquinia, c’era davvero il paesaggio, e come: faceva l’effetto di una mazzata. Il grano era stato mietuto, ma bisognava informarsi per confermarlo; ciò che si vedeva erano solo file di collinette nude, a onde successive, di un colore fra la stoppa e la paglia. Pareva un deserto, ma tutto movimentato. C’erano macchie rare di color verde scuro, quasi nero; arrivano in una di queste minuscole oasi si trovavano alcune piante di fico, e qualche piantina di pomodoro. Il terreno era duro e rinsecchito, e sotto i piedi sembrava vuoto. (PM, 14) Il passo è funzionale ai fini della nostra analisi, ché rivela l’intima relazione fra i concetti di “ambiente” e “paesaggio”87, laddove quest’ultimo abbandona la mera accezione vedutistica88, divenendo piuttosto luogo congiunto fra Terra (natura) e Mondo (uomo), rappresentato dallo spazio intermedio del suolo. In un suo recente studio, intitolato Il paesaggio e il suo rovescio, Sergio Vitale ha fatto riferimento a due regimi percettivi distinti, “corrispondenti a due diversi modi di strutturare e vivere l’esperienza del paesaggio” (2015, 7): il primo, dominante fino ai giorni nostri, presuppone un “guardare inquadrato” (ivi, 8) e, elemento imprescindibile, la frontalità del soggetto che “senza indugi o divagazioni si posa direttamente sul proprio oggetto e lo possiede” (ibidem); l’altro regime, definito minoritario, è “contingente e transitorio, caratterizzato dalla confusione” (ibidem) e, dunque, non destinato ad abbracciare con lo sguardo mediante un’operazione di framing. Ora, nel passo appena citato dai Piccoli maestri, notiamo proprio come Meneghello si spinga oltre i paesaggi intesi quali “vedute sulle cartoline” (PM, 14) o “tagli” prospettici (ibidem), arrivando a una visione plenaria e omnipervasiva dello spazio naturale che “produce l’effetto di una mazzata” (ibidem): tutt’altro che contemplante, il soggetto è agente (con lo sguardo) e agito (dal paesaggio), in un rapporto retroattivo e sinergico che ne dischiude il genius loci (Meneghello, In un estratto dal secondo volume delle Carte vediamo come l’umano sia estromesso dalla rappresentazione di un paesaggio che, tuttavia, mima la natura in quanto rapresentamen: “Tutto pareva artefatto, e tutto in qualche modo naturale. Ogni parte del paesaggio mostrava superfici (spesso muschiose) che simulavano quasi alla perfezione la natura, con minuscoli disguidi. L’umano non era in rilievo. Qua e là nel muschio o nella sabbia si vedevano impronte, di piedi e dell’altro, fianchi, schiene, nei luoghi dove avesse giaciuto un essere umano. C’erano zone di rocce, boscaglie, radure erbose. Dai colli scendevano acque chiacchierine che ruscellavano tra i sassi (il loro sussurro somigliava al suono del cembalo, ma più velato) e scorrevano poi tra i prati. Era diffuso dovunque un sentimento di pace e malinconia” (C70, 438). 88 Circa la variabilità semantica del termine, si veda LNM, 236 – “Il paesaggio della piazza [di Malo] non potrà più essere quello da quando ci manca Ranarolo” – dove l’espressione è utilizzata in senso più ampio, non esclusivamente in riferimento alla struttura fisico-architettonica. 87 62 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO a conclusione, parlerà di “senso segreto del paesaggio”, ivi, 15). Come nel caso della Proa maladense, si assiste ancora a un sovrapporsi di mappe – “pareva un deserto89, ma tutto movimentato”, ibidem – che tuttavia non si posano, a mo’ di plastico, sul setting testuale, quanto piuttosto ne ampliano la portata semantica, rafforzando il legame con l’esperienza: superato il diaframma fra testo e mondo (e i versi di Alfonso Gatto ne sono un esempio90), la pagina si fissa alla realtà, proprio perché il paesaggio “c’era davvero” (ibidem). Di “veduta”, Meneghello parlerà invece nell’Acqua di Malo, a proposito dell’illustrazione presente sul biglietto d’invito all’incontro, tenuto il 1° giugno al Museo Casabianca di Malo: È una veduta di Malo Alto proprio da qui, da questa finestra91 alle mie spalle: come appariva al principio del secolo scorso, una impostazione che si è poi mantenuta nei suoi tratti essenziali fino a una ventina o trentina di anni fa. È lo stesso paesaggio, che vedevo io da casa mia, dalla stanza dove studiavo, sopra la cucina, che chiamavamo mi pare la saletta. Lì studiavo da ragazzo e poi nei periodi che passavamo a Malo in estate, venendo dall’Inghilterra, è il mio scrittoio estivo: e lì ho scritto il primo nucleo di Libera nos, davanti alla finestra con l’inferriata che guardava in qua; la stessa veduta che avete in questa illustrazione, rovesciata s’intende. Al centro del paesaggio stava questa casa in cui siamo, questa che è diventata la Casabianca, un oggetto centrale ed essenziale della mia immagine del paese… (AM, 170) La finestra, in tal caso, porta avanti un’operazione di framing, in quanto attualizza una “dialettica interno-esterno che essa pone in essere, con il conseguente dualismo tra spazio interiore, o del pensiero, e spazio esteriore, come è percepito dai sensi” (Vitale 2015, 10): il paesaggio è veramente un’imago da cartolina, rimasto immutato nella Carte de Tendre meneghelliana. Il ritratto in due tempi (veduta da bambino, veduta da adulto) si risolve in prospettive statiche, lineari, organizzate per coordinate ben definite che rendono oggettivato il territorio (“al centro del paesaggio stava questa casa […] un oggetto centrale”, AM, 170), anche attraverso una deissi bipolare, serrata e segmentante lo spazio (“da qui, da questa”; “lì studiavo […], lì ho scritto”, ibidem). La citazione, per quanto esuli dal territorio dei Piccoli maestri, ci ha permesso in tal modo di far luce sempre 89 Sul finire del passo, in riferimento alle tombe dissepolte dal piccone, Meneghello scrive che “nasceva irresistibile l’idea che non fossero tombe qualsiasi, ma i ricettacoli sotterranei di una civiltà scappata dal deserto della superficie, dall’epidemia del sole […]” (PM, 15). L’immagine del deserto tornerà più volte nell’opera dell’autore: in JUR, 71, Meneghello lo definisce quale “strano serbatoio di energia, di bellezza, di paura…”; in C60, 439, invece, viene evocato a proposito del Navam, in quanto “simbolo ultimo delle cose non banali […]”. 90 Il riferimento è alla poesia Ai monti di Trento (Gatto 2005 [1940], 101-102). 91 Corsivo mio. LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 63 di più sulla natura polivalente del termine “paesaggio”, spesso legato a un ampio ventaglio di accezioni. Ma, tornando al libro sulla Resistenza, è proprio tra queste pagine che l’ambiente si connota di una valenza ecologica, caratterizzata cioè da un’interdipendenza tra soggetto umano e natura: Fu in queste settimane, credo, che ci entrò profondamente nell’animo il paesaggio92 dell’Altipiano. In principio, di essa si avvertiva piuttosto ciò che è difforme, inanimato, inerte: ma restandoci dentro, e acquistando via via un certo grado di fiducia e di vigore, anche l’ambiente naturale93 cambiava. A mano a mano, le parti vive, energiche, armoniche del paesaggio prendevano il sopravvento sulle altre, e presto trionfarono dappertutto, e noi ne eravamo come imbevuti. Le forme vere della natura sono forme della coscienza. (PM, 107) La prospettiva è ormai eco-cosciente, in virtù di un olismo che si realizza per tappe: ciò è desumibile anche a livello puramente testuale, dal momento che i termini fin qui esaminati – paesaggio, ambiente e natura – seguono un ordine crescente, a riprova di un’interdipendenza in divenire. La situazione, in limine, richiama il passo relativo a Tarquinia (“Era uno strano ambiente, a Tarquinia. Io non ero mai stato fuori dal Veneto, altro che nelle città, e veramente non sapevo che cos’è un paesaggio”, ivi, 14), ma si risolve in una tensione più articolata, nella piena consapevolezza dell’oikos in quanto dimora risultante dal coesistere di mente e natura. Il meccanismo di interscambio e retroazione con l’ambiente è riassumibile perciò in tre passaggi fondamentali: una fase iniziale di assimilazione Corsivo mio. Corsivo mio. L’aggettivo “naturale”, in tal caso, permette all’autore di ridurre lo spettro semantico veicolato dal termine, in tal caso legato specificatamente alla natura. In altri esempi, tuttavia, notiamo come la parola ambiente abbia una valenza tendenzialmente opposta: “Sono in piedi sull’orlo dei grandi declivi verdi che scivolano all’ingiù con bei piani limpidi, immensi: il sole s’è abbassato a destra, le ombre sono assai più lunghe del vero; la luce è chiara e netta. Sono piantato là in cima, l’emozione mi è passata, mi sento bene; ho un’ombra lunga lunga sotto i piedi; saluto i paesi della natura. Mentre guardavo la china dei prati, l’ombra lunga, e la pianura lontana, sentii spari alle mie spalle, non vicini ma ben distinti. Parevano molto fuori luogo in questo ambiente così idillico: perché qui le malghe erano abitate, c’erano animali attorno, e miti scampanii, e malgari sulla porta delle malghe, con una ciotola di latte in mano” (PM, 154). Diverso ancora il seguente estratto da Maredè, dove “l’ambiente delle montagne” rimanda alle condizioni climatiche (“Qua fuori parlano di ciò che fa abbronzare la gente. Il ragazzo pensa che sia l’ambiente delle montagne, soprattutto l’aria […]”, MM, 154). In un passo dal terzo volume delle Carte, infine, l’ambiente è inteso quale conformazione orografica del territorio: “L’ambiente va in-giù, dal nord verso il sud, dall’Alta alla Bassa Italia, dai monti verso il mare. A Innsbruck non è così, e non parliamo del Fichtelgebirge (uno dei punti chiave della nostra geografia scolastica, un altro era la penisola della Kamciatka). Diciamo che l’ambiente o va in-giù, o va in-su, o va dalleparti: o resta gualivo” (C80, 99). 92 93 64 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO inconsapevole, in base a cui la conformazione topografica del territorio è esperita dal soggetto percipiente in seguito a un processo di adattamento forzato (il soggiorno in Altipiano), dettato unicamente dall’istinto; l’agnizione, in seguito, della profonda comunanza con lo spazio naturale (“Fu in queste settimane, credo, che ci entrò profondamente nell’animo il paesaggio dell’Altipiano”, ivi, 107); l’incontro, infine, fra mente e luogo, garantito dalla permanenza del soggetto che acquisisce la consapevolezza di un ambiente dinamico e vivo (“si avvertiva piuttosto ciò che è difforme, inanimato, inerte: ma restandoci dentro, e acquistando via via un certo grado di fiducia e di vigore, anche l’ambiente naturale cambiava”, ibidem). Il termine ultimo di un simile processo è ravvisabile nella consapevolezza che “le forme vere della natura sono forme della coscienza” (ibidem), ragion per cui l’ambiente (non più fisico, bensì naturale) diviene enclave e stratificazione di natura e cultura, mente e corpo: il paesaggio perde la sua connotazione “vedutistica” e accerchia il soggetto (divenendo ambiente), per poi risolversi in un’intima rispondenza che, annullando la portata antropocentrica, designa nuovi assetti valoriali94. 1.2.2 L’Altipiano e la maturazione di una coscienza ecologica Come già accennato nel paragrafo precedente, in seno ad un’analisi ecocritica della scrittura di Luigi Meneghello, I piccoli maestri occupano un ruolo centrale, ragion per cui l’opera merita di essere analizzata nella sua interezza, onde fissare i punti di una coscienza ecologica poi ravvisabile, in maniera più o meno esplicita, nelle opere successive. Va da sé che le pagine del libro più propense a una simile indagine siano quelle le94 Cfr. Daniele 2016, 137: “Meneghello scopre […] una caratteristica singolare dell’Altopiano: una ricorrente conformazione del terreno che si manifesta in forma di cavee di pietra che contrassegnano il paesaggio, al punto di farlo apparire come luogo di teatri naturali, con implicazioni di natura emotiva tali da provocare in chi guarda sentimenti contrastanti di azione attiva o passiva, di protagonismo o osservazione, credendosi d’essere ora attore ora spettatore. È una sensazione cui nessun frequentatore dell’Altipiano può sottrarsi e alla quale si soggiace magari inconsciamente, ma che, una volta rivelata, acquista una sua valenza di verità generale. Anch’io adesso, dopo aver meditato su queste pagine, ogni volta che mi addentro nell’Altopiano, mi sento immerso in una scenografia quasi da tragedia antica altamente drammatica e suggestiva. Sarà forse solo suggestione. Ma si tratta di una suggestione efficace, in grado di risvegliare tutta una serie di sentimenti connessi, evocativi, attraverso i quali Meneghello quasi instaura una simbologia privata, una mitologia personale che risulta essere addirittura fondativa dell’idea stessa di libertà. Lontano dall’oppressione della dittatura nazifascista, sfuggito alle servitù di leva militare del regime, Meneghello trova in questo ambiente naturale delle parvenze di agorà classica, aperte e tuttavia protette; e subito le associa ad un’idea di antica democrazia, a una rappresentazione del paesaggio come riflesso della vita libera da schiavitù ed oppressione”. LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 65 gate all’Altipiano di Asiago, dove il testo si fa eco-centrato e il paesaggio transita nell’accezione di “ambiente” (come abbiamo già avuto modo di vedere nel paragrafo precedente). L’Altipiano, già di per sé, è l’elemento generativo del testo – “ho scritto I piccoli maestri […] ad Asiago, circondato dai luoghi che mi avevano visto partigiano” (Carnero 2004) – e, nella struttura diegetica concepita da Pier Vincenzo Mengaldo, costituisce non solo il cuore della narrazione, ma anche il “cerchio ideale” (Mengaldo 1997, XI) (cioè i venti anni necessari alla redazione del testo e che si annullano in quel ritorno a Asiago avvenuto nel 1963). Meneghello, non a caso, parlerà di “fattore scatenante” (QS, 130)95, giacché l’Altipiano è il “luogo […] mitico della mia guerra civile” (QNB, 39), dove le percezioni si alterano96 proprio in virtù dell’esperienza “selvatica” (QS, 135), a sua volta fattasi esperienza ecologica (poiché il momento bellico ridefinisce le coordinate di approccio alla realtà). Se il Dopoguerra costituisce la fase di scavo (C80, 30), la Resistenza – almeno a livello letterario – s’inserisce in quelle che Meneghello ha definito “reazioni al paesaggio” (QNB, 53): in fondo, già nella prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, Italo Calvino aveva rilevato come la Resistenza avesse portato a una “fusione tra paesaggio e persone”97. Ovviamente, nel caso dei Piccoli maestri, sussiste l’ambivalenza – già riscontrata nel paragrafo precedente – tra “paesaggio” e “ambiente”, laddove il 95 “L’elemento che fa ‘partire’ le cose: nel mio caso un soggiorno a Asiago nel 1963. C’era la neve, un gran freddo, un sole abbagliante, enormi spessori e vaste distese luminose, più singolari per me dopo tanti grigi inverni inglesi, uno shock che forse ha contribuito a determinare le mie reazioni. In questo ambiente mi è tornata alla memoria, vividamente, un’altra visita all’Altipiano di Asiago subito dopo la liberazione del 1945, e ho sentito che quel minuscolo germe conteneva tutto il racconto. Asiago, l’Altipiano, è un luogo che esercita un’attrazione speciale su di me e sui miei amici. Tornarci è stato a lungo, in parte è ancora, quasi una mania per noi: specialmente in certi periodi dell’anno che corrispondono ad eventi accaduti lassù, si va “in Altipiano” quasi per una legge di natura, sembriamo uccelli migratori, spontaneamente ci orientiamo verso quelle rocce e quei boschi” (QS, 130-131). 96 “Non è solo una questione di stati d’animo individuali e privati: anzi, si tratti di aspetti noti e ricorrenti nella vita partigiana, gli effetti dei rastrellamenti, lo shock che si subisce, il riso quietamente isterico per esempio, le giornate percorse da un fluido elettrico, e insieme vuote. C’erano impressioni potentemente contraddittorie, l’elettrizzazione del mondo, e il vuoto; un forte senso di irrealtà, e insieme l’acutizzarsi delle percezioni” (ivi, 136). 97 “Il romanzo che altrimenti mai sarei riuscito a scrivere, è qui. Lo scenario quotidiano di tutta la mia vita era diventato interamente straordinario e romanzesco: una storia sola si sdipanava dai bui archivolti della Città vecchia fin su sui boschi; era l’inseguirsi e il nascondersi d’uomini armati; anche le ville, riuscivo a rappresentare, ora che le avevo viste requisite e trasformate in corpi di guardia e prigioni; anche i campi di garofani, da quando erano diventati terreni allo scoperto, pericolosi ad attraversare, evocanti uno sgranare di raffiche nell’aria” (Calvino 2003 [1964], 1188-1189). 66 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO primo è caratterizzato da una percezione estetica, a fronte di una condivisione ecologica (“a cerchio”) del secondo. L’Altipiano, “quasi per una legge di natura” (PM, 131), annulla la portata antropocentrica e ripristina una wilderness sopita: una selvatichezza che tuttavia non va confusa con un impeto regressivo tout court. Ecco perché, sulla scorta di Arne Naess e la sua “Ecosofia T.”, indicheremo l’ethos ecologico, ricavabile a lettura ultimata del libro, con “Ecologia A.” (dove A. sta per Altipiano)98. A livello diegetico, l’Altipiano di Asiago irrompe sin dalla prima pagina dei Piccoli maestri, con la cima del Colombara su cui da tre giorni sono accampati Gigi e la Simonetta. L’episodio, stando alle dichiarazioni dell’autore, scaturisce sempre dal soggiorno del 1963 a Asiago, quando stando nella casa che un amico mi aveva prestato […], in mezzo alla neve, mi misi a pensare a un’altra volta al giugno del 1945, quando ero tornato sull’Altipiano con una amorosetta che avevo, e una tendina celeste, sul fianco del monte Colombara proprio nei posti dove l’anno prima ero stato coinvolto in un rastrellamento […]. (PM, 231) Da subito, il libro si configura quale risultante di continui ritorni, accompagnato dall’utilizzo di verbi appercettivi veicolanti il riconoscimento del luogo – “riconoscevo l’andamento delle pliche”, PM, 4; “riconobbi le barbe dei mughi”, ibidem – cui fa da contraltare un contatto immediato con la biosfera e gli elementi naturali: Il filosofo e naturalista scandinavo Arne Naess aveva operato una distinzione tra ecologia di superficie, tesa cioè a contrastare l’inquinamento e l’esaurimento delle risorse, avendo quale obiettivo primario la salute e l’equilibrio economico dei paesi sviluppati; e ecologia profonda, refrattaria alla concezione totalizzante dell’uomo nell’ambiente e favorevole a un approccio relazionale a tutto campo (Naess 1973, 95). Distaccandosi dalla nozione comune del termine “ecologia”, inteso quale studio delle interazioni fra gli organismi e il loro ambiente naturale, Naess propone il termine “ecosofia”, intesa quale “philosophy of ecological harmony or equilibrium” (ivi, 99). A differenza degli altri movimenti ecologisti, l’ecosofia non si limita a mostrare esclusivamente i fatti ambientali (es. l’inquinamento o la deturpazione del territorio), ma si propone di delineare una scala di valori in base ai quali agire in merito all’emergenza ambientale. Naess ritiene inoltre che ogni individuo possa elaborare la propria ecosofia personale e l’Ecosofia T. (ibidem) è appunto quella formulata da Naess (dove T. sta per Tvergastein, una zona montana nei pressi di Oslo, traducibile con “attraverso le pietre”). Per Naess, possono esserci Ecosofie X, Y o Z (ibidem), ma “saying ‘your own’ does not imply that the ecosophy is an any way an original creation by yourself. It is enough a total view which you feel at home with, ‘where you philosophically belong’” (ibidem). L’obiettivo di questo percorso consiste nell’arrivare alla maturazione di un “Sé ecologico”, ovverosia un’identificazione con gli altri esseri viventi, in nome di in una auto-consapevolezza intesa come parte del tutto, “the ecological self of a person is that with which this person identifies” (ivi, 83). Nel nostro caso, la scelta del termine “ecologia”, anziché “ecosofia”, è motivata dal fatto che, in Meneghello, non viene proposto un sistema strutturato di valori e regole sulla tutela ambientale (che, al contrario, l’ecosofia di Naess propone). 98 LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 67 Pioveva forte, a sventagliate, e il tessuto della tenda rimandava all’interno un controspruzzo vaporizzato […]. Eccomi qua […], pensavo, in questa sede irrigua. Stranamente non ero arrabbiato: la notte e la pioggia non erano ostili; c’era un gruppo che si scioglieva […]. Mi sentivo sulla soglia di un mondo chiuso, sul punto di sbucar fuori […]. Mi venne un soprassalto di quella forma di energia che chiamiamo gioia; misi giù i piedi nell’acqua corrente […] e uscii disguazzando, col parabello in mano. Fuori c’erano i cespugli dei mughi, groppi di roccia, alberature di pini. Si udivano sparare i tuoni, con scrosci magnifici; i lampi erano continui. Mi misi a sparare anch’io, e a gridare, ma non si sentiva niente in quel fracasso. Spargevo raffiche in aria: facevo piccoli lampi blu di forma allungata, giallastri agli orli […]. (PM, 3-4) Lo spazio, l’ambiente e il luogo constano di una dimensione fisica e mentale, quest’ultima acuita da una percezione che abbraccia, seppur in maniera implicita, l’intero spettro dei sensi. Siamo al cospetto di una ritualità della natura, un’esperienza battesimale in cui le “spore disseccate” (ibidem) – i lacerti della memoria – sono come lavate via. Il protagonista prende parte al fenomeno naturale e partecipa al rito nell’emulare i lampi con i suoi spari: traspare, già da adesso, l’istinto a voler comunicare con la biosfera, in accordo a quello che Lawrence Buell ha definito “inconscio ambientale” (Buell 2013, 5), legato cioè alle interazioni tra mente umana e ambiente circostante. Interazioni portate avanti da un secondo contatto, quello con l’acqua (Meneghello ha infatti parlato di “sede irrigua”, PM, 3), laddove il deittico (“misi giù i piedi nell’acqua corrente”, ibidem, corsivo mio) rimanda al suolo e alla materia ctonia (“eravamo tutti e due sudati e sporchi di terra”, ivi, 5), fino a discendere “sottoterra” (ibidem), tra le barbe dei mughi: Ma sì, durante un rastrellamento sono venuto a finire qua; ora sono qua di nuovo. Il legame tra allora e adesso è tutto lì, e non lega molto. Ma sì, è in questo punto della crosta della terra che ho passato il momento più vivido della mia vita, parte sopra la crosta, correndo, parte subito sotto, fermo. E con questo? Gli oggetti intorno a me erano così chiusi nei propri contorni, così isolati, che non percepivo più le loro dimensioni vere. Un momento mi pareva di vederli ingigantiti attraverso una lente, ma che appartenessero in realtà al mondo dei microbi, un altro momento mi figuravo invece che fossero immagini capovolte e impicciolite di grandi corpi astrali. (Ibidem) Il “bozzolo irregolare schiacciato ai due capi” (ibidem99) diviene punctum loci, nonché crocevia tra due momenti temporali distinti (“sono venuto a finire qua; ora sono qua di nuovo”, ibidem100), cui corrisponde Implicitamente legato alla “crisalide” (PM, 6). Si noti come la deissi mantenga la funzione di centro attrattivo e oltremodo stabile, in equilibrio, a fronte di un’oscillazione fra tempo vissuto (“sono venuto”) e momento del ritorno (“sono qua”). 99 100 68 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO un’alternanza tra movimento (sopra la crosta) e stasi (sotto la crosta); non va oltretutto trascurata la diplopia percettiva che, nel passare da grandezze microscopiche a vastità stellari, sembra racchiudere in questo spazio l’intero universo. A tale altezza, il testo meneghelliano accoglie tre delle quattro dimensioni biotiche postulate dall’ecocritica: paesaggio fisico rappresentato nel testo; paesaggio implicito dell’autore; insieme delle forme intertestuali e culturali sottese dall’opera (quel situarsi sotto la crosta rievoca, in nuce, la discesa agli Inferi di Dante e Ulisse). Ma, nei Piccoli maestri, l’inizio costituisce anche la fine (“andando contro l’equivalenza di storia e intreccio”, Mengaldo 1997, X), il che ci porta a considerare capitolo il iniziale quale completamento e punto d’arrivo dell’Ecologia A. – dal momento che il nòstos di Gigi e la Simonetta si ricollega ai ritorni sull’Altipiano del 1945 e del 1963. Ma come si struttura una simile tensione nella restante parte del libro? Mette conto rilevare che, da subito, è presente una spinta ascensionale, come se l’ambiente montano esercitasse un’attrazione latente: Spuntava da sé l’idea di andare in montagna. Era associata che la sensazione che il fermento popolare dei primi mesi fosse ormai abolito, l’occasione perduta. Ora bisognava arrangiarsi da sé. Non c’era più niente di pubblico in Italia; niente di ciò che normalmente si considera la cultura di un paese […]. L’unica cosa su cui potevamo orientarci, in mezzo al paese crollato, era quella che faceva di noi un gruppo, il legame con l’opposizione culturale e intellettuale. Noi la conoscevamo solo in qualche persona e in qualche libro; ci sentivamo soltanto neofiti e catecumeni, ma ci pareva che ora toccasse proprio a noi prendere questi misteri e portarci via dalle città contaminate, dalle pianure dove viaggiavano colonne tedesche, dai paesi dove ricomparivano, in nero, i funzionari del caos. Portarci via i misteri, andare sulle montagne. (PM, 35-36) Il richiamo della montagna – richiamo che “spuntava da sé” (ivi, 35) – appare connaturato all’atmosfera “di fine in vista” (ivi, 29), in cui è giocoforza “darsi una mano gli uni con gli altri […], come si fa in una calamità naturale” (ibidem): da qui l’impulso a di riunirsi, a “formare un gruppo” (ivi, 28), mentre “tutto s’induriva […], si strozzava” (ivi, 30). E non è un caso che l’autore faccia riferimento a una pollution (della mente, ma altresì dei luoghi), in riferimento alle zone urbane devastate dai bombardamenti dove, alla stregua dei Cavalieri dell’Apocalisse, si aggirano i “funzionari del caos” (ivi, 36). La situazione di crisi e “calamità naturale” (ivi, 29) risveglia un istinto sopito, non contemplato entro lo spazio urbanizzato e civile: Ad ogni modo, in autunno non avevamo concluso nulla, e poi nell’inverno si era venuti a questa stretta, si era rimasti soli e nudi. E così verso la fine dell’inverno, ci siamo cercati istintivamente, per andare almeno insieme in montagna, col senso che non restasse più che il tesoretto dell’antifascismo da difendere, l’onore, per modo di dire. (PM, 38) LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 69 A partire da questa zona del libro, saranno due le andate in montagna: sui monti del Bellunese e – a cominciare dal quinto capitolo – sull’Altipiano di Asiago. In entrambi i casi, il testo diviene spazio percorso e suscettibile di attraversamenti molteplici, il che ci riporta alla sua struttura in movimento, volutamente cinetica, siglata dal sintagma di apertura (“Io entrai”, ivi, 3). Il capitolo quarto – in perfetto raccordo con quel “ci incamminammo” posto alla fine del precedente, ivi, 41 – si apre sullo scenario del Canal del Mis: luoghi, scrive Meneghello, “conosciuti solo di notte […]: terre notturne” (ivi, 42). Nuovamente, torna l’associazione tra luogo e struttura, nel senso di conformazione geologica del primo: Nel Bellunese c’è un budello di valle che si chiama Canal del Mis […]. La struttura della zona mi sfuggiva, ammesso che ci sia: c’erano borghi, argini, greti, strade buie, case mute; o non c’era nessuno in quei paesi, o dormivano tutti, uomini e bestie. (Ibidem, corsivo mio) L’oscurità inficia la percezione del luogo, da cui il continuo “girare intorno” (“ci aggirammo nella zona un paio di notti, seguendo una guida locale”, ibidem) e il successivo stupore derivante da questa mancata ricognizione: “ogni tanto mi trovavo davanti il greto del Piave e pensavo: cosa fa qui il Piave?” (ibidem). La situazione cambierà più avanti, quando “nel mezzo101 della seconda notte la guida si voltò fermamente verso i monti, per imboccare il Canal del Mis” (ibidem); e sarà proprio questa frontalità (il voltarsi verso le montagne) a dischiudere l’essenza stessa del luogo: Quando ci fummo sotto, tutt’a un tratto sentii la struttura; camminavamo tra le alte serrande e roccaforti a incastro, e si percepiva l’impianto del solco lungo e nudo che è il Canale. Camminiamo un pezzo sulla strada in fondovalle; prendiamo un sentiero a destra che si aggrappa al monte, e in pochi minuti siamo alti nell’aria nera. Andiamo su per qualche ora al buio; ce fermiamo in una piccola radura sul dosso dei monti. La esplorammo a tastoni, c’era una malga, sprangata. Questo posto si chiama Landrina; nevica. Ora chi ci ha accompagnati ritorna giù: restiamo soli, io Nello e Bene. Ci si mette a dormire nel porcile di fianco alla malga. Siamo arrivati, siamo i partigiani. (Ibidem) Il passo presenta una marcata oscillazione dei tempi verbali tale da porre la narrazione – e, oltremodo, la percezione – dello spazio in un crescendo di lontananze (passato remoto), parallelismi (imperfetto) e prossimità (presente): l’impressione è quella di due linee inclinate, il cui punto di convergenza è costituito dall’approdo sulla cima della montagna. Si assiste a un addomesticamento per verba della “struttura” (ibidem), visualizzata dal soggetto ex abrupto, semplicemente nel suo esserne so101 Si noti, anche qui, la presenza della localizzazione spaziale. 70 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO vrastato. Tornano alla memoria le riflessioni avanzate da Georg Simmel in merito alla conformazione alpina: Diese hat im allgemeinen etwas Unruhiges, Zufälliges, jeder eigentlichen Formeinheit Entbehrendes - weshalb denn vielen Malern, die auch die Natur als solche nur auf ihre Formqualität hin ansehen, die Alpen schwer erträglich sind […]. Die zerflatternde Unruhe der Formen und die lastende Materialität in ihrem bloßen Quantum erzeugen in ihrer Spannung und ihrer Balance den Eindruck, in dem sich Erregtheit und Frieden einzigartig zu durchdringen scheinen. (Simmel 1919 [1911], 134-136) In generale, questa è come inquieta, casuale, priva di un’unità formale vera e propria, il che spiega perché per tanti pittori, che guardano alla natura solo dal punto di vista della qualità della forma, le Alpi risultano difficili da sopportare […]. L’inquietudine lacerante delle forme e la pesante materialità della mole creano, con la loro tensione e il loro equilibrio, un’impressione satura di agitazione e di pace allo stesso tempo. (Trad. it. di Sassatelli in Simmel 2006, 83-84) Mette conto rilevare come l’arrivo a Landrina e il successivo ingresso nel porcile pongano i protagonisti in uno spazio aperto e chiuso al contempo (“il porcile era per certi versi un luogo chiuso, per altri un luogo aperto”, ibidem). Si tratta, ovviamente, di un “luogo […] attraente, scarno ma non selvaggio” e dunque refrattario alla wilderness rinvenibile, invece, tra le pagine dell’Altipiano: questo perché, scriverà l’autore, “non capivamo la montagna” (ivi, 44), a riprova di come sia necessario un vero e proprio adattamento alla natura impervia del luogo da parte dei protagonisti. Ma non mancano casi, già a tale altezza del testo, in cui è possibile rinvenire una profonda osmosi tra mente e natura, spazio e idee: Passammo il giorno vagando tra i monti a nord del campo, su acrocori a me sconosciuti, senza andare in alcun luogo particolare, in mezzo al vento. Per certi versi mi sentivo come un piccolo Mosè; c’era il deserto, il gregge riottoso, e vagamente impaurito. La direzione generale era verso nord. Da una parte, a ovest, c’era il solco lungo e strano del Canal del Mis; dalle altre parti, chi lo sa che cosa c’era? Vedevamo a sud uno schieramento di cime oltre le quali io credo che ci fosse la pianura; verso nord, c’era uno scalino nudo e gli acrocori informi; a est un vespaio di monti anonimi, vuoti. Dal canale risalivano spacchi obliqui che incidevano sul fianco degli acrocori. (Ivi, 55) Il passo dischiude quelle che sono le modalità di rappresentazione del territorio montano, ragion per cui il romanzo di formazione si fa romanzo di individuazione (Traina 2017): la percezione, per quanto visiva, cartografa il territorio e consente al soggetto, anche attraverso l’uso dei toponimi, di adattarsi progressivamente al nuovo ambiente. A ciò dobbiamo affiancare il costante s/paesamento (“chi lo sa che cosa c’era?”, ibidem), in base a cui il soggetto sperimenta e negozia la sua appartenenza a una totalità più grande, pur tuttavia restando elemento secondario: la natura, a tale altezza, è presa sì nelle maglie di schemi osservativi ben pre- LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 71 cisi, ma è abbracciata dallo sguardo con toni di resa e smarrimento (“mi sentivo vagamente impaurito”, ibidem). Ecco perché, nella seconda parte dell’estratto, il territorio e i suoi elementi distintivi (gli acrocori) sembrano farsi a loro volta vitali, sino a sfociare in un paesaggio dinamico e in fieri, che si profila dinanzi al soggetto in maniera autonoma, recalcitrante a modelli prospettici precostituiti. Nuovamente, torna quella cinetica narrativa intrinseca al libro (“dal canale risalivano spacchi obliqui che incidevano sul fianco degli acrocori”, ibidem), che qui pervade la stessa conformazione spaziale: “su uno di questi fianchi era aggrappato il paese” (ibidem, corsivo mio), scrive Meneghello, a riprova di come lo stesso elemento antropico (il paese) debba inserirsi nel movimento a sé stante del territorio e stargli al passo, come su un salvagente in mare aperto. A proposito di Gena, leggiamo invece che È un paese vero, ma è anche un paese della mia immaginazione, io non ne ho colpa, è cascato lì dentro e vi ha attecchito; il suo stesso nome mi turba […]. Gena. C’era Gena Bassa e Gena Alta, per me sono attributi della stessa sostanza, un paese fortemente obliquo, quasi in piedi su un costone. (Ibidem, corsivi miei) Un paesaggio sostanzialmente interiore, nell’accezione avanzata da John Douglas Porteus, ovverosia rappresentazione intellettualizzata che si costituisce sulla polisensorialià di un ambiente, sintetizzandosi con le precedenti esperienze individuali (1990, 17). Nel passo meneghelliano, forte è la rispondenza tra spazio fisico e spazio mentale, in un sovrapporsi di mappe reali e immaginarie che, tuttavia, pongono il paese su un piano d’inclinazione, in balìa delle tensioni nascoste del territorio. Un luogo che, oltretutto, richiama l’idrofilia sottesa all’opera dell’autore e aderge, in seconda istanza, a riflesso della crisi in atto: “non era un paese, ma una plaga della mente, un aspetto del nostro smarrimento […]. Solo le immagini sono, il resto fluttua, diviene” (ivi, 56). Il quarto capitolo, dunque, segna un progressivo distacco dalla realtà o, perlomeno, matura le scaturigini dell’ethos poi strutturato nelle pagine dell’Altipiano. Mette conto rilevare come, in questa zona del libro, si assista a una seconda nascita, che si pone a pendant dell’infetamento rovesciato (Salvadori 2015, 29) siglato dalle pagine d’apertura, ovverosia la discesa nel bozzolo sottoterra: “siamo arrivati, siamo i partigiani” (ivi, 42), scrive Meneghello dopo aver raggiunto Landrina, per poi fare riferimento, pagine dopo, all’“embrione di banda che eravamo” (ivi, 44). Sul finire del capitolo, questo processo sembra giungere a termine: Avevamo ancora un aggancio con la realtà, un luogo remoto e formidabile dove terminava un grande cordone ombelicale, l’ombelico del nostro mondo. Si chiamava il Pian Eterno. Lì doveva avvenire un lancio, cioè uno sbruffo di quei succhi guerreschi, armi, cartucce, di cui era piena la placenta del cielo. Io non ci andai mai al Pian Eterno, per me è solo un nome, non posso nemmeno 72 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO giurare che ci sia davvero. Forse d’estate sarà un luogo dove passeggiano le vacche e si raccolgono le margherite; quell’aprile invece la montagna era impervia. (Ivi, 57) Immediate le consonanze con “l’arcangelico regno dei partigiani” riscontrato nelle pagine del Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio (2014 [1968], 24): il Pian Eterno suggerisce “contatti innaturali con la realtà” (PM, 57), quasi alla stregua di un Arcadia partigiana (“sarà un luogo dove passeggiano le vacche e si raccolgono le margherite”, ibidem) che tuttavia sono interrotti e cancellati dall’esperienza, dalla natura ostile e selvaggia della montagna. La terra continua dunque a esercitare un richiamo costante, inesauribile, cui l’umano tende anche privato della sua stessa vita, come nel caso dei due partigiani uccisi, “ancora lì, sul pendio di fronte, a trenta metri da noi, distesi a faccia in giù, coi piedi verso il basso, senza scarpe” (ivi, 61). È tuttavia nel nucleo dedicato all’Altipiano che il “cordone ombelicale” (ivi, 57) viene reciso del tutto, a riprova di come sui monti del Bellunese la nascita dei partigiani fosse ancora priva di una totale rispondenza fra ethos e praxis. Col quinto capitolo, e il successivo spostamento dei maestri, la situazione è destinata a mutare radicalmente: “fu la nostra seconda andata in montagna, la prima sui nostri monti” (ivi, 62)102, scrive Meneghello, laddove la resa in corsivo del possessivo plurale, rimanda da subito all’intimo legame tra soggetto e terra natia, quasi facendo eco a un imprinting dei luoghi (AM, 175), in base a cui le attitudini si modellerebbero sulla scorta della conformazione topografico-spaziale. Da subito, il bastione dell’Altipiano diviene il nume ambientale dell’intera vicenda: […] perché la nostra provincia è fatta come è fatta, è per quel dono alto e compatto di Dio103 che è il bastione dell’Altipiano; e chi vorrà andarci su come noi a piedi, in una futura guerra civile, troverà che alle parole, andare in montagna, corrispondono punto per punto le cose; a un dato momento, dopo gli approcci con mezzi civili, ci si trova letteralmente ai piedi di un monte, gli accompagnatori dicono “ciao allora” e vanno via; e così si resta lì davanti a questo monte, e dopo un po’ si fa un passo, fuori della pianura clandestina, e s’incomincia a andare su. (PM, 62) 102 Si legga il periodo posto in apertura al quinto capitolo, nell’edizione 1964: “Andare in montagna: ri-andarci” (PM64, 99). Il verbo di moto, nuovamente, modalizza la tensione cinetica sottesa all’intero libro. 103 Scrive ancora Simmel: “Die Alpen wirken einerseits als das Chaos, als die ungefüge Masse des Gestaltlosen, das nur zufällig und ohne eigenen Formsinn einen Umriß bekommen hat, das Geheimnis der Materie schweigt heraus, von der man an den Konfigurationen der Berge mehr mit einem Blick erfaßt, als in irgendeiner anderen Landschaft” (1919, 136; “Da una parte, le Alpi danno l’impressione del caos, di una massa informe che solo accidentalmente ha acquisito un profilo anche se privo di un proprio senso formale. Le Alpi racchiudono quel mistero del creato che la configurazione delle montagne mostra assai più intensamente di ogni altri paesaggio”, trad. it. di Sassatelli in Simmel 2006, 84). LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 73 Quel “ciao allora” (ibidem) strappa il cordone ombelicale incontrato nel capitolo precedente a proposito del Pian Eterno (ivi, 57), mentre si attenuano l’elemento antropico e la captivitas rinvenuti nelle descrizioni del bellunese. Meneghello non manca di rilevare la perfetta rispondenza fra parole e cose, portando avanti una narrazione situata in uno spazio delimitato: “fuori della pianura” (ivi, 62) segna il discrimine fra due zone distinte, inaugurando in tal mondo quella spinta ascensionale destinata a permanere anche nel prosieguo del passo. Sulla scorta delle considerazioni di Bertrand Westphal, in merito alla geologia dei grandi insiemi, possiamo fare riferimento a due movimenti: il primo, digressivo e di natura intrinseca, riguarda il territorio; l’altro, di tipo trasgressivo, inerisce l’attraversamento di confini che separano aree (o sistemi territoriali) differenti (2007, 68; trad. it. di Flabbi in Westphal 2009, 70). Nel caso dell’Altipiano, e della salita da parte di Gigi e Nello, le due spinte si sovrappongono in un’ascensione reticolare e omnipervasiva. Continua l’autore a tal proposito: Io e Nello restammo soli ai piedi dell’Altipiano verso le dieci di mattina; lui aveva ancora circa un mese di vita; cominciamo a salire la costa canticchiando canzonette disfattiste che io componevo […]. Il senso fisico di camminare all’insù dominava su tutto […]. (Ibidem) Le atmosfere oscillano tra il Purgatorio dantesco – la montagna del Canto II – e la salita di Petrarca al Mont Ventoux: itinerari, questi, sempre percorsi a due (Dante e Virgilio; Francesco e Gherardo; Gigi e Nello) e caratterizzati da un’ascesa costante, dove la montagna “strappa l’individuo alla banalità […] [e] lo costringe a rivelare indirettamente qualcosa su se stesso” (Bodei 2008, 75). L’Altipiano, adesso, dischiude la sua wilderness peculiare: una natura che “diviene la metafora vivente di uno stato fisico e morale: […] l’aldilà di una soglia, varcata la quale si esce dalla grazia e si è risucchiati in un mondo preumano” (Iovino 2004, 127); ragion per cui “la wilderness diviene [anche] una categoria etico-estetica: è il sublime, con il suo senso di maestosità e straniamento, con la sua potenza oscura e il suo appello a farsi parte di questa grandezza” (ibidem). Stefano Piazza, non a caso, in un suo studio dedicato proprio alle montagne del Veneto, ha parlato proprio di “territorio resistente”, dal momento che: La connotazione territoriale che rinvia alla montagna si rivela resistente […] [al] disegno uniformizzante e dequalificante indotto dalla modernità statuale […] [ed] esibisce una sua estraneità al progetto che la statualità moderna concepisce per lo spazio territoriale […] [,] apparendo inidonea al recepimento della pervasiva e dequalificante uniformizzazione statualistica dello spazio, che non a caso, attecchisce in pianura, ove non sussistono deviazioni al piano orizzontale, dall’uniformità dell’orizzonte, dall’indistinzione del territorio. Per questo aspetto la montagna si configura come territorio, in senso anche metaforico, “di resistenza” all’irruzione, per il tramite della sedimentazione degli im- 74 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO pianti amministrativi, delle categorie giuridico-politiche afferenti al sistema della statualità moderna ed alle sue declinazioni contemporanee; e, al contempo, un territorio più resistente di altri alle invasive incursioni, destrutturanti i tessuti comunitari, immanenti all’erompere del dominio statuale. (Piazza 2013, 16) Nel suo prosieguo, il testo sigla un ulteriore passaggio e entra, letteralmente, in questa zona di resistenza: Verso sera, raggiunto l’orlo dell’Altipiano, varcati i primi boschi, incontrammo la gente di Asiago che doveva farci attraversare di notte la conca aperta dove sta il paese, e indirizzarci dentro ai monti nudi a nord della conca, che sono per noi la parte più vera dell’Altipiano. Il tenente Mòsele ci accolse con cordialità: “Bravi” disse. “Stanotte vi farò accompagnare dentro.” Dentro, a Asiago vuol dire sui massicci a nord; e lì su questi massicci, fuori vuol dire dentro. (PM, 63-64) L’attraversamento di una soglia ben definita (dopo l’andare “fuori della pianura”, ivi, 62), è ribadito, a livello tipografico, dalla resa in corsivo dei deittici (a riprova di come lo stesso testo cerchi di situarsi, rispondendo a una propria territorialità): quell’“io entrai” (ivi, 4), posto in apertura al romanzo, si ripresenta implicitamente e modalizza, a livello sintagmatico, un movimento teso a raggiungere un centro biosferico. Adesso, la natura si libera, cedendo il passo all’ecosistema alpino tout court, posto oltre la semplice percezione visiva: Bisogna ribadire però che nel fatto ultimo, lo sparo concreto, le due nature della mira si fondono; come dire che all’ultimo momento l’intervento dello Spirito Santo è sempre necessario anche a chi mira a lungo. È questo che accade quando lo sparatore, col suo occhietto socchiuso, ha aspettato pazientemente che il paesaggio finisca di palpitare (perché tutto palpita in natura, sia pure su scala infinitesimale, e le cose sono fatte di piccole onde). (Ivi, 69) Peculiare, ai fini della nostra analisi, la conclusione del passo, dove l’autore pone “paesaggio” e “natura” non solo in una sorta di prossimità testuale, ma entro una vera e propria scala semantica, tale da mettere in luce l’evoluzione dello spettro percettivo: allo sguardo (legato all’atto dello sparare e del prendere la mira) subentra una ricezione plenaria, mediante cui uomo e natura intrattengono un rapporto olistico e pluriverso (non più necessariamente duale), scaturito dalla struttura ondulatoria della materia stessa (“le cose sono fatte di piccole onde”, ivi, 69). Man mano che si prosegue nella lettura, è possibile riscontrare lo stesso movimento ascensionale, già rinvenuto a inizio del capitolo: “e così andammo su in Ortigara, io e Nello, finalmente armati e lì a duemila metri, soli su quella groppa di pietra passammo tre giorni” (ivi, 73). La descrizione del massiccio segue un doppio binario, ragion per cui percezione e attività immaginativa finiscono col sovrapporsi, restituendo un’epifania luminosa dell’ambiente esperito: LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 75 L’avevo solo vista da ragazzo, l’Ortigara, da un altro gran monte vicino che si chiama Cima Dodici, con un enorme batticuore: guardavo il gorgo d’aria abbagliante, sopra questo gran mucchio di pietre, e mi dicevo: “È questa dunque l’aria che fa cambiare colore?” […] L’Ortigara è un monte nudo, bisogna vederlo quanto è nudo, per credere. Il cippo c’era, tutto il resto era un enorme mucchio di sassi scheggiati. La natura avrà gettato le basi, ma poi dovevano anche esserselo lavorato coi cannoni sasso per sasso. C’erano alcuni residui di guerra arrugginiti, e una certa abbondanza di ossi da morto. C’erano camminamenti e postazioni, in una specie di frana generale del monte. […] La prima mattina andammo fuori appena svegliati, e pareva tutto uno scherzo, l’Ortigara era scomparso, eravamo in un gran campo abbagliante, molto inclinato, irriconoscibile. Vedevo però in alto il cippo che spuntava dall’orlo superiore di questo campo. Sopra c’era un lago turchino, bellissimo. Il sole di maggio era già alto. (Ivi, 73-74, corsivi miei) Eppure, non si assiste a una manipolazione visiva del territorio, quanto piuttosto a un re-incanto dinanzi allo spettacolo naturale. Non sfuggirà, oltretutto, l’essenza ibrida dello spazio montano quale enclave di natura e storia, quest’ultima rinvenibile nei residui e camminamenti bellici (che fanno dell’Ortigara un vero e proprio museo a cielo aperto) o nella “abbondanza degli ossi da morto” (ibidem). Presente, tempo storico e tempo geologico finiscono ora per sublimarsi e strutturano un cronotopo sui generis: se il paesaggio dell’Ortigara è incistato di memorie (un sistema territoriale di residui), tra i protagonisti e l’ambiente circostante sussiste un rapporto di retroazione – in virtù, anche, della natura a palinsesto del luogo – laddove il secondo manifesta gli sviluppi della vicenda, il completarsi di questa partigianeria in divenire. Sul finire del capitolo, l’arrivo di Toni Giuriolo sigla definitivamente l’unione tra bios e intelletto: “sospiravamo di soddisfazione perché era arrivato Toni, e anche nelle rocce, nel bosco, pareva che se ne vedesse un segnale” (ivi, 81, corsivo mio). Con l’apertura del settimo capitolo, la wilderness, larvata nelle pagine precedenti, ha ormai modo di manifestarsi. Ecco perché la resa topografica ha non tanto la funzione di situare il libro in una spazialità specifica, quanto piuttosto recidere completamente i legami con la realtà urbana, incapsulando i protagonisti: I riguardi a occidente, Corno di Campo Bianco, Corno di Campo Verde; il parapetto a sud, Portule, Zingarella, Zebio, Colombara, Fiara; dentro, il paese incantato, Bosco Secco, Kèserle, Mitterwald, Cima delle Saette, Bosco dei Làresi, Scoglio del Cane; sul fianco, a oriente, la cicatrice del Canal del Brenta; a nord l’alta cintura, la galassia di pietra, Cima Undici, Ortigara, Caldiera, Cima Isidoro, Castelloni di San Marco, confini ultimi al mondo. (Ivi, 82, corsivi miei) 76 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Nell’edizione del 1964, il passo così proseguiva: […] spalti, sui quali si è respinti a mano a mano, e alla fine disfatti. (PM64, 130) La variante rivela una tensione mediante cui il soggetto è “dissolto” nella vastità dello spazio montano e confinato in una zona di margine che, tuttavia, diviene anche luogo di potenziamento: un disfarsi per ricomporre, pezzo per pezzo, la realtà. Tornando all’incipit del settimo capitolo (PM, 82), notiamo che l’operazione è duplice: da un lato, Meneghello opera una quadrettatura del territorio che, mediante l’applicazione dei punti cardinali, rende il testo mappa tout court, quasi funzionale ad orientarsi nel territorio dell’Altipiano; dall’altro, perimetra una zona di ecceità, o alienazione, evocata da iperreali traslati (“la galassia di pietra” o “la cicatrice del Canal del Brenta”, PM, 82), culminante nei “confini ultimi al mondo” (ibidem), quasi una sorta di elevazione al quadrato della “no-man’s land” rinvenuta in Libera nos a malo (LNM, 84). A differenza delle pagine precedenti, la deissi serrata non sfocia in un irrigidimento della visione, quanto piuttosto alimenta un percepire coestensivo, rispondente al “tempo della natura […] come durata assoluta, successione che non distrugge e non si annienta” (Assunto 2005, 95): siamo, sostanzialmente, al momento cruciale in cui il soggetto, da spettatore, si fa attore ed elemento ambientale egli stesso, pronto a lasciarsi invadere dai ritmi e il fluire della biosfera. Ciò è reso possibile dalla continua elevazione, quel movimento ascensionale che, lo abbiamo visto, è iniziato dalle prime pagine del libro, per completarsi a tale altezza: “Noi”, scrive Meneghello, “dentro ai monti eravamo assai più alti, tra i millecinque e i duemila metri per lo più” (ibidem), ed è sintomatico che l’autore ponga l’avverbio in corsivo104, a voler ribadire l’evoluzione di questa fusionalità con la natura e l’ambiente: rispetto a “sui” – che Meneghello avrebbe potuto utilizzare senza problemi nella frase presa in esame – la scelta stilistica obbedisce a quella tensione ctonia e di ritorno alla terra siglata dalle pagine d’apertura (“siamo incapsulati in questa nicchia, sotto il livello della crosta della terra”, ivi, 6). Una tensione guidata da un duplice movimento, ché se il soggetto si spinge verso l’interno, in una sorta di interiorità che contempla anche la natura, esso continua comunque la propria ascesa, vuoi anche per la conformazione stessa dell’Altipiano. Progressivamente, si assiste al superamento della sfera antropica, rappresentata anche dalla frantumazione del tempo (forma mentis, questa, tipicamente umana), ormai superfluo nella selvatichezza dell’Altipiano e, di conseguenza, refrattario allo stesso processo mnestico: 104 Cfr. PM, 63-64: “Dentro, a Asiago vuol dire sui massicci a nord; e lì su questi massicci, fuori vuol dire dentro”. LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 77 Quei giorni sono avvolti in un’aria di confusione; da allora ne parliamo, ne parliamo, quelli che siamo ancora qua, ma una versione ufficiale non esiste, il nostro canone è perduto, la cronologia è a caleidoscopio. Ciascuno ha le sue ancore, i cavi a sghimbescio. (Ivi, 84) Di per se stesso, l’ambiente ha un’incostanza temporale, fortemente legata alla fluttuazione dei fenomeni che lo caratterizzano: a differenza del paesaggio – su cui ha agito la mano dell’uomo e dunque leggibile per cronologie antropocentriche – lo spazio naturale dell’Altipiano è retto da cronie lente, impercettibili e geologiche105: “il tempo non c’era”, dirà Meneghello più avanti, “l’avevano bevuto le rocce” (ivi, 98), ragion per cui la biosfera lo ricostituisce nella temporalità naturale. Vi sono, sì, tracce dell’umano, ma sono comunque vestigia in transito, destinate a incorporarsi con la natura stessa (si pensi agli “ossi da morto” rinvenuti sull’Ortigara, ivi, 73). Ed è a tale altezza, che la tensione ecologica sottesa all’opera ha modo di manifestarsi: Poi vidi che a due passi da noi c’era un leprotto. Doveva esser venuto fuori da un cespuglio, era arrivato in mezzo alla radura e lì si era messo a sedere, e guardava il panorama […]. Era un momento bellissimo, le parti in ombra dell’aria erano limpide e fresche, le fogliette appese ai rami una di qua una di là, erano membranucce luminescenti in controsole. Di queste patacche luminose era tutta piena l’aria attorno alle nostre teste, lì davanti era campito il verde su cui era pennellato il sole radente, con questo leprotto seduto. (Ivi, 87) La natura si presenta all’occhio umano in modo gratuito, spontaneo, in un atteggiamento (o sarebbe meglio dire “postura”) che rammenta quello dell’uomo (la contemplazione del panorama da parte del leprotto), ma da cui si allontana nel ribadire una dimensione altra: un habitat in cui i “Maestri” si stanno gradualmente inserendo. A tale altezza, il paesaggio abbandona la fattura antropica e si manifesta in una visione dai toni epifanici (si veda il deflagrare della luce) che, sotto certi aspetti, risponde a quella che Gary Snyder ha definito come figura del riabitante: colui che abbandona la società industriale (o urbanizzata) e, nel ritornare alla terra, riabita il luogo, sviluppando “the capacity to hear the song of Gaia at that spot (1987, 23; “la capacità di sentire il canto di gaia in quel dato poLa natura, secondo Rosario Assunto, si configura come un metaspazio, per il essere pura temporalità in opposizione all’effimero e il temporaneo, situandosi dunque prima e dopo la storia: “la natura si costituisce ad immagine dell’essere come tempo, le cui tre qualità, del presente, del passato, del futuro, non si escludono a vicenda, ma sono coestensive in guisa tale che la temporalità storica, di cui è immagine la città, le manifesta solo parzialmente […]; mentre ne è negazione assoluta il tempo della tecnologia” (2005, 73). 105 78 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO sto”, trad. it. di Degli Esposti in Snyder 2013, 24). Più volte, Meneghello parlerà di “parte ascetica, selvaggia della nostra esperienza” (ivi, 99), un’esperienza non solo resistenziale ma anche, e soprattutto, di educazione: ritorno al naturaliter come ultimo approdo, in un momento dove la guerra è sentita come “una crisi ultima, la prova che avrebbe gettato una luce cruda non solo sul fenomeno del fascismo, ma sulla mente umana, e dunque su tutto il resto, l’educazione, la natura, la società” (ibidem). Un nòstos strettamente necessario e che si fa tappa obbligata al divenire di un ethos: modalità di concepire la vita non maturabile in altri contesti, dove l’assenza di una fissa dimora – parafrasando una frase di Henry David Thoreau – rende abitabile l’intera biosfera (“having no particular home, but equally at home everywhere”, 2002 [1862], 59; “sentirsi a casa propria ovunque, pur non avendo casa da nessuna parte”, trad. it. di Jevolella in Thoreau 2012, 18). Larvatamente, il paesaggio dell’Altipiano entra nell’animo dei Maestri, si fa schema cognitivo e mentale, imbeve le idee per farsi epitome della libertà (“l’Altipiano pareva praticamente nostro, e veniva fatto di pensare: Questa parte dell’Italia è libera”, ivi, 92). Quello che Meneghello definisce “il cuore dell’avventura, il centro” (ivi, 98) costituisce il culmine di questa celata osmosi, che si risolve pagine dopo nella piena rispondenza fra versante intellettivo e ambiente naturale: “fu in queste settimane, credo, che ci entrò così profondamente nell’animo il paesaggio dell’Altipiano” (ivi, 107), laddove il “profondamente” (ibidem) deve essere ricondotto alla tensione ingressiva dei vari “dentro”, rinvenuti nei passi citati addietro. Dieci pagine, dunque, in cui ha luogo una vera e propria trasformazione, a cominciare da un paradigma percettivo distorto e alterato: È un periodo breve, poche settimane: i calendari dicono così. A noi parve lunghissimo, forse perché tutto contava, ogni ora, ogni sguardo. Nel viso di un compagno che si sveglia sotto un pino, nel giro di occhi di un inglese appoggiato a una roccia, leggevamo un’intera vicenda di pensieri e di sentimenti, e la leggiamo ancora con la stessa evidenza e complessità, e la stessa assenza di tempo. Il tempo non c’era, l’avevano bevuto le rocce, e ciò che accadeva di giorno e di notte era senza dimensioni. (Ivi, 98) Il cuore del libro, sostanzialmente, si libera di ogni aggancio alla realtà umana, venendo meno i referenti spaziali (“senza dimensioni”, ibidem) e temporali (“il tempo non c’era”, ibidem). Il cronotopo, ormai ispessito a livello spaziale, cede il passo a un vagare continuo, a una situazione di smarrimento connaturata alla “crisi veramente radicale, non solo politica, ma quasi metafisica” (ivi, 100). La circolarità senza meta, unita alla perdita dell’individuo nelle pieghe della biosfera, diviene a tale altezza l’elemento principe della diegesi: Ci aggiravamo tra i greppi, cantavamo canzonette disfattiste, ci perdevamo nella nebbia. Ogni tanto veniva infatti una nebbia, rada e luminosa: LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 79 Valmorbia, discorrevano il tuo fondo fioriti nuvoli di piante agli àsoli. Nasceva in noi, volti dal cieco caso…106 Ma in noi pareva che non nascesse niente. Della zona di Valmorbia, che è a parecchi chilometri in linea d’aria da dove eravamo noi, mi parlava Lelio che sa tutto su tutte le valli. Certo il momento contemplativo non aveva tempo di nascere; c’era un giro di immagini passeggere che bisognava assortire in fretta, un gorgo praticistico. Avvertivamo il disgustoso primato del fare, fare i depositi, fare le marce, fare il reparto, fare la guerra. Fare, fare: verbo osceno. (Ivi, 98) Il confronto fra l’ipotesto montaliano – proprio come accadeva per la tempesta paesana nel libro d’esordio (LNM, 35-36) – ripropone lo scarto fra l’irrealtà dell’imago letteraria e la praxis dell’esperienza resistenziale (il “gorgo praticistico”, PM, 98): “qui tutto è come intensificato” (LNM, 5), verrebbe da dire rifacendosi all’attacco di Libera nos, ragion per cui Valmorbia – luogo dove Montale soggiornò durante il periodo della Grande Guerra – viene evocata ma, al tempo stesso, estromessa dal tessuto biosferico dell’Altipiano, dove l’atto contemplativo risulta pressoché impossibile, proprio in mancanza di uno spazio fisico-territoriale abbracciato da uno sguardo (il templum, cui rimanda il contemplari latino107). La tensione intertestuale, man mano che si prosegue nella lettura, opera la rottura del diaframma lirico di partenza e mostra la natura dell’Altipiano nella sua asperità: Le notti chiare erano tutte un’alba e portavano volpi alla mia grotta. Valmorbia, un nome – e ora nella scialba memoria, terra dove non annotta108 Niente, niente: lì c’erano i mughi che la notte rende deformi. Annottava su questa terra, e come: annottava violentemente. La faccia della sera si gonfiava, come uno che s’arrabbia; poi addio, era buio. (Ivi, 99) Il procedimento è il medesimo riscontrato nelle pagine di Libera nos, ovverosia una rilettura contrastiva dei passi montaliani, sempre obbe106 Il rimando è a Valmorbia discorrevamo il tuo fondo, dagli Ossi di seppia (Montale 1984 [1925], 43, vv. 1-3). 107 “Contemplare è attingere. Nel latino abbiamo contemplari composto dalla preposizione cum: con (nel senso creare, unione, connessione) e il sostantivo templum […]: spazio celeste, spazio abbracciato dallo sguardo, veduta distesa. Spazio del cielo dal quale l’augure riceve gli auspici. Quindi contemplari assume il significato di stare nello spazio abbracciato dallo sguardo. Rinvia alla massima adesione fra sguardo e spazio abbracciato. Adesione che tende all’identificazione, cioè a far cadere ogni frammento che separa. Sguardo e spazio diventano un tutt’uno. La dualità decade, decade l’ego” (Lumini 2008, 98). 108 Montale 1984 [1925], 43, vv. 9-12. 80 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO dendo, come nel caso della tempesta paesana, alla dialettica luce-ombra. L’Altipiano non solo “contiene” i partigiani ma resta inalterato dinanzi alle incursioni antropiche (“c’era molto più Altipiano che partigiani. Il luogo era vuoto, un deserto”, PM, 99), per farsi centro tensivo e intensivo, d’isolamento e compartecipazione alla crisi in atto: Questa faccenda della Tebaide c’è per me in ogni altra fase della guerra, è una componente fissa; ma qui sui monti alti si sentiva tanto di più. Era il posto migliore per isolarci dall’Italia, dal mondo. Fin da principio intendevamo bensì tentare di fare gli attivisti, reagire con la guerra e l’azione; ma anche ritirarci dalla comunità, andare in disparte. C’erano insomma due aspetti contraddittori […]: uno era che volevamo combattere il mondo, agguerrirci in qualche modo contro di esso, l’altro che volevamo sfuggirlo, ritirarci da esso come in preghiera. (Ibidem) Nel divenire punctum, l’Altipiano rivela un duplice movimento, di fuga e ritorno nel/dal mondo civilizzato, di stasi e reazione: l’isolamento non è totale o, quantomeno, getta le basi per una nuova visione della realtà, poiché “il mondo è misterioso, e questo si sente molto di più quanto si vive un pezzo in mezzo ai boschi” (ivi, 101)109. Quest’ultima affermazione, mutatis mutandis, può indurci a tentare una lettura in controluce con le pagine del Walden di Thoreau, in relazione alla vita nei boschi come sradicamento delle vecchie certezze, a quel continuo perdersi per ritrovarsi: “Not till we are lost, in other words, not till we have lost the world, do we begin to find ourselves, and realize where we are and the infinite extent of our relations” (1854, 185; “Solo quando ci siamo perduti, in altre parole solo quando abbiamo perso il mondo, cominciamo veramente a trovare noi stessi e a capire dove siamo e l’infinita estensione delle nostre relazioni”, trad. it. di Cogolo in Thoreau 1998, 185). Certo, la vita dei protagonisti è intimamente legata alla guerra in atto, ma non sarà azzardato ravvisare anche un intento deliberato110, un desiderio di fuga che, proprio come nel passo citato da Thoreau, non si risolve in una passività contemplante, quanto piuttosto nella maturazione di un’etica altra, un inedito approccio al reale, la vita e la biosfera. Il soggetto umano, dunque, si fa abitante e parte attiva del territorio dell’Altipiano, un territorio “condiviso”: 109 Nella traduzione inglese del passo, è utilizzato il termine wilderness: “The world is a mysterious place, and one feels this much more when one has lived a good while in the wilderness” (TO, 107). 110 Cfr. PM, 35-36: “ci pareva che ora toccasse proprio a noi prendere questi misteri e portarci via dalle città contaminate, dalle pianure dove viaggiavano colonne tedesche, dai paesi dove ricomparivano, in nero, i funzionari del caos. Portarci via i misteri, andare sulle montagne”. LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 81 Quando cantava il cuculo – perché in Altipiano cantano in maggio – noi non eravamo spettatori, turisti, che lo ascoltano per loro piacere. Noi abitavamo lì nello stesso bosco, erano cose vere e non spettacoli, ora che eravamo della stessa parrocchia anche noi. (Ivi, 101) Mette conto rilevare come la traduzione inglese dell’estratto insista, in maniera ancor più marcata, sul confine tra vita naturale e viver civile, quest’ultimo evocato da precisi referenti: When the cuckoo called – because in the Altipiano they call in May – we were not there as spectators, tourists, who listened just for our own pleasure and then went back to hotel dining-rooms, to telephones, to ordinary things of life. We lived there in the woods with these cuckoos, they were real things to us and not just wonders of nature. (TO, 107) L’estratto, di conseguenza, sancisce un superamento del dislivello uomo-animale, abbracciando un’ottica interspecista, cioè libera dalle maglie antropocentriche: siamo dinanzi a una percezione olistica della natura, maturata in seguito alla pratica del ri-abitare, giacché il soggetto vede e, soprattutto sente l’ambiente, il suo essere circolare e accerchiante. Non siamo dinanzi a un apprezzamento estetico del paesaggio dell’Altipiano (come accadeva, ad esempio, nelle descrizioni citate in precedenza), quanto piuttosto a un dissolversi delle barriere ontologiche: La distinzione tra l’umano e il non-umano (sulla quale è fondata la società) sembrava sempre più vaga. Ma sì, una volta dicevamo di avere l’anima, e adesso lo spirito, è sempre la stessa minestra: abbiamo un osso buco sulle spalle, e dentro questo midollo specializzato pieno di circuiti complessi ed eleganti (come schema) identici a quelli per mezzo dei quali questi uccelli invisibili sparsi per il bosco fanno huuù, huuù. (Ivi, 101-102) Da un lato, l’Altipiano rivela la propria essenza di fonosfera (Vitale 2015, 47); dall’altro, il soggetto umano presta attenzione ai suoni della Terra (in tal caso, le voci degli animali) entrando in uno stato di simultaneità col resto dell’ambiente circostante. Si tratta di una vera e propria riscoperta, mediante cui viene scavalcata “la gittata del corpo sensibile, irrimediabilmente confinata in un perimetro ristretto, e di percepire andando al di là dell’insieme di organi-ostacoli che lo compongono” (ivi, 29). Il superamento dello iato ontologico permette a Meneghello di comparare, nel vero senso della parola, anatomia umana e animale, e rintracciare in un certo qual modo le somiglianze e le radici comuni. I riferimenti finali all’anima e lo spirito ci portano, nel prosieguo del passo, a ipotizzare la presenza di una mente immanente, ovverosia protesa verso l’esterno (in tal caso, verso l’ambiente e la natura): In certi momenti le cose si vedono meglio con la coda dell’occhio, anzi con la coda di migliaia di occhietti, è una curiosa faccenda la percezione, migliaia e 82 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO migliaia di specchietti montati l’uno accanto all’altro, ci saranno anche spazi scoperti, micro millimetrici, ma per lo più sono sicuro che si sovrappongono ai margini… (PM, 102) Per Merleau-Ponty, “regarder un objet, c’est venir l’habiter et de là saisir toutes choses selon la face qu’elles tournent vers lui […] Ainsi chaque objet est le miroir de tous les autres” (1945, 82; “guardare un oggetto significa venire ad abitarlo, e da qui cogliere tutte le cose secondo la faccia che gli rivolgono. […] Ogni oggetto è pertanto lo specchio di tutti gli altri”, trad. it. di Bonomi in Merleau-Ponty 2003, 115); e Meneghello, non a caso, fa riferimento a “migliaia e migliaia di specchietti montati l’uno accanto all’altro” (PM, 102): la percezione, peculiarmente passata al vaglio nel passo citato, consente al soggetto, che adesso ha trovato il suo posto nella natura, di approdare a un’ulteriore nozione di “ambiente”, scaturita dalla perfetta osmosi tra spazio fisico e spazio mentale. Non è un caso che Meneghello parli, nel prosieguo del passo, di “insieme”: in questo momento l’insieme si può anche chiamare bosco, storicamente va bene una parola così, è un buon riassunto, storia dei popoli indoeuropei o in generale di questo ramo di homo che abbiamo, che poi è venuto fuori proprio dal bosco, con un cervello fatto appunto di tanti occhi sovrapposti, micro-immagini… in fondo il cervello umano e il bosco verrebbero a essere la stessa cosa, e nella società abbiamo riprodotto il bosco e il cervello, e tutto quello che c’è in essi ci deve essere anche nella società… Questi pensieri si muovono, si muovono, e non concludono. Però c’era questo di serio, sotto, che il bosco in quel momento mi pareva di sentire fortemente che cos’era, e dev’essere per questo che me ne ricordo […]. (Ibidem) È in corso un fenomeno di sovrapposizione: le cose sono incrostate della carne del mondo; il bosco e la mente si fanno termini di un’equivalenza perfetta. Tornano, a tale altezza, le considerazioni di Gregory Bateson e il concetto di “creatura”, ovverosia “the world seen as mind” (Bateson 1987, 464; “il mondo visto come mente”, trad. it. di Longo e Trautteur in Bateson 2013 [1977], 498). Meneghello riesce a “sentire fortemente che cos’era [scil. il bosco]” (PM, 102), proprio perché la mente – parafrasando Bateson – diviene “immanent in the large biological system – the ecosystem” (Bateson 1987, 467; “unità immanente nel grande sistema biologico, l’ecosistema”, trad. it. di Longo e Trautteur in Bateson 2013, 501111). Sulle alture dell’Alti- 111 “The individual mind is immanent but not only in the body. It is immanent also in pathways and messages outside the body; and there is a larger Mind of which the individual mind is only a sub-system” (Bateson 1972, 468; “La mente individuale è immanente, ma non solo nel corpo: essa è immanente anche in canali e messaggi esterni al corpo; e vi è una più vasta Mente di cui la mente individuale è solo un sottosistema […]. Ciò che sto dicendo, dilata la mente verso l’esterno”, trad. it. di Longo e Trautteur in Bateson 2013 [1977], 503). LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 83 piano, dunque, viene a delinearsi una modalità noetica mediante cui l’essere umano si accosta al naturaliter riscoprendo la co-appartenenza di corpo e mente entro un insieme più vasto: le idee si estroflettono verso l’esterno e tornano, in una tensione retroattiva, al soggetto come sporcate del mondo. Dinanzi a una duplice ecologia (degli spazi e delle idee), continua a sussistere quella spinta ascensionale, veicolata dalla forma stessa dell’Altipiano: uno zoccolo alto, e tutti i rilievi sono sopra questo zoccolo, ben staccati alla pianura, elevati, isolati. Questo si sentiva fortemente lassù: eravamo sopra l’Italia, arroccati. (Ivi, 107)112 La situazione si evolve, in una sorta di sopraelevazione del soggetto rispetto alla realtà circostante, dove la roccia, elemento principe del luogo, si auto-organizza in forme formate, destinate a ricordare gli antichi teatri: Poi, su questa piattaforma, c’è una gran ricchezza di forme specifiche; non è affatto uno zoccolo informe, ma un mondo organico, con le sue montagne, e le sue piccole pianure, e le groppe boscose; un mondo alzato tra i mille e i duemila metri, simile a questo in cui viviamo normalmente, ma vuoto, nitido e lucente. La forma più tipica, specie nel centro dell’Altipiano, là dove eravamo noi, sono i piccoli circhi, i teatri naturali in cui la roccia tende a modellarsi; certo ci sarà qualche buon motivo geologico, ad ogni modo è così. Ce ne sono tanti, alcuni minuscoli, alcuni imponenti, ma sempre di misura umana, come teatri antichi, in Sicilia, in Grecia. C’è pascolo magro, la roccia è lì sotto disposta in lastre ampie, e a ogni momento affiora; i dirupetti si atteggiano113 in semicerchio attorno alle piccole cavee; le lastre sovrapposte si slabbrano in blocchi regolari, simulano gradi, scalinate, piedistalli, pezzi di colonne cadute; sei in un teatro di pietra grigio perla e grigio rosa. (Ivi, 107, corsivo mio) Lo spettatore cede il passo all’attore, in quanto parte agente nelle strutture ambientali: “in questi spazi formati, anche i gesti, i passi acquistano forma, cioè una relazione ordinata e armonica con essi; pare che il mondo non ti contenga soltanto, ma ti guardi” (ibidem). La dialettica vedentevisibile può essere, nuovamente, esplicata mediante le considerazioni di Merleau-Ponty, che ci permettono di circoscrivere l’ethos ecologico sotteso a questa zona dei Piccoli maestri. Scrive il filosofo che 112 Nuovamente, l’autore pone in corsivo l’avverbio di luogo, sempre obbedendo all’elevazione che pervade l’intero libro. 113 Si noti l’autonomia dello spazio fisico, il suo auto-strutturarsi. 84 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Immergé dans le visible par son corps, lui-même visible, le voyant ne s’approprie pas ce qu’il voit: il l’approche seulement par le regard, il ouvre sur le mon-de. Et de son côté, ce monde, dont il fait partie, n’est pas en soi ou matière. Mon mouvement n’est pas une décision d’esprit, un faire absolu, qui décréterait, du fond de la retraite subjective, quelque changement de lieu miraculeusement exécuté dans l’étendue. Il est la suite naturelle et la maturation d’une vision. Je dis d’une chose qu’el-le est mue, mais mon corps, lui, se meut, mon mouvement se déploie. Il n’est pas dans l’ignorance de soi, il n’est pas aveugle pour soi, il rayonne d’un soi… (Merleau-Ponty, 1964, 17-18) Immerso nel visibile mediante il suo corpo, anch’esso visibile, il vedente non si appropria di ciò che vede: l’accosta soltanto con lo sguardo, apre sul mondo. E dal canto suo questo mondo, di cui il vedente fa parte, non è in sé o materia. Il mio movimento non è una decisione dello spirito, un fare assoluto che stabilirebbe, dal fondo di una soggettività ritiratasi in se stessa, qualche mutamento di luogo meticolosamente realizzato dall’estensione. Il mio movimento è il proseguimento naturale e la maturazione di una visione. Io dico che una cosa è mossa, ma il mio corpo si muove, il mio movimento si dispiega; non avviene nell’ignoranza di sé, non è cieco a se stesso, s’irradia da un sé… (Trad. it. di Sordini in Merleau-Ponty 1989, 18) Estendendo tale assunto al passo meneghelliano, possiamo arguire come il soggetto, nell’ambiente scarno e tagliente dell’Altipiano, prenda coscienza del suo essere forma agente e al contempo formante lo spazio, pur tuttavia tenendo conto della retroazione di un tale rapporto: siamo dinanzi a una soggettività mobile, visibile inserita nel tessuto del mondo anche attraverso l’articolata deissi del libro. L’antinomia vedente/veduto, a tale altezza dei Piccoli maestri, si risolve nella totale compenetrazione tra soggetto e ambiente naturale (“fu in queste settimane […] che ci entrò profondamente nell’animo il paesaggio dell’Altipiano”, PM, 107), a riprova di un’ecologia della mente, dove “le forme vere della natura sono le forme della coscienza” (Ibidem)114. Ma in quella che è la loro struttura narrativa, I piccoli maestri sintetizzano due direttrici cinetiche ben distinte, enucleate nelle pagine d’apertura (la salita sull’Ortigara con la Simonetta e la discesa sottoterra) e poi riproposte nel corso dell’intero: la prima, di tipo ascensionale, serpeggia in nuce già nel secondo capitolo; la successiva, viceversa, è ravvisabile in quella che è la discesa dall’Altipiano, successiva allo sbarco in Normandia e il rastrellamento. Si torna “nel mondo degli uomini e delle case […]: ora che stavo scendendo mi sentivo ridiventare civile” (PM, 151): è chiaro da subito come la diparti- “L’idea che guida un’ecologia della mente, e quindi della letteratura, è che rinnovare i modelli educativi possa aiutare l’individuo umano a ricostruire quell’osmosi tra natura e cultura che non è identità, ma un sistema evolutivo di reazioni complesse” (Iovino 2013, 17). Nel terzo volume delle Carte, Meneghello scriverà: “devo riformare la mia testa, non il mondo” (C80, 205). 114 LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 85 ta dalle cime montane coincida col venir meno della wilderness riscontrata poc’anzi. La giustapposizione dei due passi, rispettivamente situati all’inizio del quinto e dell’ottavo capitolo, permettono proprio di circoscrivere tale attraversamento. Leggiamo il primo, poco dopo l’arrivo a Asiago: Dentro, a Asiago vuol dire sui massicci a nord; e lì su questi massicci, fuori vuol dire dentro. (Ivi, 64) E confrontiamolo con il seguente, relativo alla discesa dall’Altipiano: pochi passi ora […], e si è fuori; il paesaggio complesso si spiana […] e all’improvviso si vede la pianura, tutta la pianura fino ai Berici, agli Euganei e al mare. (Ivi, 153, corsivo mio) All’anabasi segue l’esatto opposto, in una costante alternanza fra “lassù” e “quaggiù”. Eppure, non mancano momenti di agnizione ecologica, come quando Gigi, nell’osservare i campi di grano, si sente Sopraffatto dall’idea che la pianura ci fa questo grano, e sono migliaia di anni che ce lo fa, e noi lo mangiamo. Com’è antico, mi dicevo; com’è elegante. Stavo lì, sparuto, inelegante, recente, con questo pezzo di pane in mano, e pensavo: che strana bestia è l’uomo. (Ivi, 164) L’essere umano prende coscienza di quelli che sono i cicli biotici ma, soprattutto, percepisce l’incontro di due differenti spazialità, una mentale e l’altra fisica, eminentemente terrestre – “la geografia che portiamo in testa, e che è quella dell’infanzia, diventava reale, e l’avevo sotto i piedi”, ibidem –, ragion per cui I piccoli maestri disegnano un vero e proprio “territorio del testo”: la geografia di un ambiente. Alla fine di un’estate “troppo folta” (ivi, 191), fin troppo simile a “un festino confuso” (ivi, 197), il contatto con la terra è pronto a risolversi nella sua ultima manifestazione, proprio al limitare del libro: Nei grandi campi di sorgo passavamo ore terrose, granulose. Conoscevamo tutti i fenomeni dell’inframondo verdastro; la terra umida, i gambi sempre un po’ acquosi, i cancri pulverulenti, i ciuffi teneri delle pannocchie. Veniva la fantasia di essere anche noi creature del sorgo; si era imparato a camminare a quattro zampe là sotto, a sostarvi in conversazione, a dormirci le notti. (Ivi, 197-198) Siamo dinanzi a un retaggio domestico e civile della naturalità propria dell’Altipiano, il suo “rovescio” pianeggiante: all’ascensione riscontrata nei passi analizzati in precedenza, si assiste adesso alla discesa totale, a quale chiude, in modo definitivo, quella dialettica – sopra vs sotto, quaggiù vs lassù – finora presente nel libro. L’inframondo, da subito, si pone a specchio ed evoluzione della “penombra verde e subacquea” (LNM, 5) rinvenuta tra le pagine del libro d’esordio, ma non sfuggiranno i punti di contatto col capitolo di apertura, a quell’essere “incapsulati in questa nicchia, sotto il livello 86 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO della crosta della terra” (PM, 6). Mette conto, tuttavia, soffermarsi sul concetto stesso di “inframondo”, che rimanda a una zona sottostante, in basso, ctonia e tellurica al tempo stesso, e che diviene, nella traduzione inglese del libro, “the green underworld” (TO, 206). Nella mitologia Maya, l’inframondo costituiva il terzo livello cosmico che, a partire dall’alto, andava a porsi dopo la terra e il cielo: Los Mayas pensaron al cosmos como una estructura geomètrica de planos horizontales superpuestos. Hay tres grandes ámbitos: el cielo, la tierra y el inframundo […]. Los tres espacios cosmicos, a su vez, se dividen horizontalmente en cuatro sectores o “rumbos”, que coinciden más o menos con los puntos cardinales; cada uno de esos sectores tiene un color asociado: blanco para el norte, amarillo para el sur, negro para el poniente y rojo para el oriente. El sector negro del invramundo es el acceso a la región más baja, donde residen los dioses de la enfermedad y la muerte, acompañados de los espíritus de la mayoría de los hombres muertos, es decis, de los que no tuvieron una muerte sagrada (ocasionada por agua, guerra, sacrificio o parto). (De la Garza 1992, 101) I Maya concepirono il cosmo come una struttura geometrica di piani orizzontali sovrapposti. Vi sono tre ambiti: il cielo, la terra e l’inframondo […]. I tre spazi cosmici, a loro volta, si dividono orizzontalmente in quattro settori o “rotte”, che coincidono più o meno con i punti cardinali; ognuno di questi settori ha un colore associato: bianco per il nord, giallo per il sud, nero per l’occidente e rosso per l’oriente. Il settore nero dell’inframondo costituisce l’accesso alla regione più bassa, dove risiedono gli dèi della malattia e della morte, accompagnati dalla maggior parte degli spiriti degli uomini defunti, cioè di coloro che non ebbero una morte sacra (causata cioè da acqua, guerra, sacrificio o parto). (Trad. it. di Domenici e Cassol in De la Garza 2003, 101) In relazione al passo dei Piccoli maestri, non mancano consonanze a livello cromatico (“verdastro”, PM, 198): Y en el centro del cosmos, fungiendo como axis mundi, se encuentra la “ceiba madre”, de color verde; su raíces se internan en el inframundo, su tronco se eleva sobre la tierra y su fronda penetra en los cielos. ceiba verde comunica así los tres grandes planos, y sirve como camino sagrado por el que transitan los dioses y los espíritus de los chamanes, los cuales pueden abandonar voluntariamente su cuerpo durante la vida. En esta estructura cósmica, habitación de todos los seres, se manifiestan las fuerzas sagradas en imágenes diversas, que pueblan los tres niveles y existen en perpetuo movimiento. (De la Garza 1992, 101-102) Nel centro del cosmo, in funzione di axis mundi, si trova la “ceiba madre”, di colore verde; le sue radici affondano nell’inframondo, il suo tronco si eleva sulla terra e le sue fronte penetrano nei cieli. La ceiba verde mette così in comunicazione i tre grandi piani e funge da sentiero sacro lungo il quale transitano gli dèi e gli spiriti degli sciamani, i quali possono volontariamente abbandonare il proprio corpo in vita. In questa struttura cosmica, abitazione di tutti gli esseri, le forze sacre si manifestano in forme diverse che popolano i tre livelli ed esistono in perpetuo movimento. (Trad. it. di Domenici e Cassol in De la Garza 2003, 102) LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 87 Nel richiamare l’Albero della vita, la struttura non può non far pensare all’analogia bosco-cervello-società rinvenuta nei passi citati in precedenza115, senza contare il ricorrere del termine “inframondo” in altre opere dell’autore: nel Dispatrio, ad esempio, in riferimento alla biosfera inglese, si assiste all’esatto capovolgimento della situazione riscontrata nei Piccoli maestri, nel “rientrare in un mondo che per un momento ti appare crudo, spoglio, solcato da riflessi freddi: un inframondo dove è più fatica sopravvivere” (DIS, 140). Nel secondo volume delle Carte, invece, “l’inframondo” si risolve in quella che sarà la sua controparte, cioè il “sopramondo”: È curioso il senso di irrealtà che nasceva dai tentativi di poeti di nominare la realtà. Ciuffolotti, rosignoli, forapaglie, cincie, verle, luì, fife, cuculi: questi nomi svolazzavano negli spiazzi della nostra memoria, accrescendo, anziché ridurlo, il credibility gap […] [:] era una natura verbale, fondata essenzialmente sull’udire, e atta a generale un sopramondo di immagini legate ai suoni uditi. (C70, 115) L’estratto si ricollega, nell’immediato, alle pagine di Fiori italiani e alla differenza, poi affrontata in Jura, fra creature vive e creature scritte: il “sopramondo”, di conseguenza, costituisce il risultato di quel processo formalizzante che è lo Schooling (e, in particolar modo, la scrittura), cioè la “sfera diversa, con una dimensione in più” (JUR, 24), dove “diventi un’altra persona, ti sdoppi” (ibidem). Esistono allora “due parti del mondo, emisferiche” (C80, 81), senza contare la distinzione tra “mondo reale (MR) […] [e] un altro mondo (AM)” (ivi, 420), poi sviluppata ulteriormente tra le pagine dell’Apprendistato: “il mondo delle cose che sono… E il mondo delle altre, quelle paiono” (APP, 187)116. Una polarità intrinseca e costante, che attraversa – come spesso accade nella scrittura di Meneghello – l’intero macrotesto dell’autore, tanto da eleggersi a vero e proprio sistema: possiamo dunque affermare come l’inframondo divenga il punto di contatto con la natura, la biosfera e l’ambiente, con la “parte vera” dell’esperienza e il suo DNA; il sopramondo, per contra, indicherebbe il deposito dei costrutti socio-culturali che si pongono, in una fluttuazione costante, al di sopra della realtà in divenire. Non stiamo operando, si badi bene, una distinzione tra mondo fisico e mondo delle idee, proprio per la natura ctonia, terrestre, di quest’ultimo (e quindi tutt’altro che iperuranica!): Scavare un pozzo profondissimo, scendere negli strati incandescenti. A noi pare che la materia a mille o millecinquecento gradi sia molto calda, mentre rispetto 115 “In fondo il cervello umano e il bosco verrebbero a essere la stessa cosa, e nella società abbiamo riprodotto il bosco e il cervello, e tutto quello che c’è in essi ci deve essere anche nella società…” (PM, 102). 116 Ma chiaro è anche il riferimento al fenomeno e il noumeno kantiani. 88 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO all’interno delle stelle è materia praticamente glaciale. E allora? […] Sbirciare nel mondo delle Idee, dove il calore vige nella sua realtà inalterabile, quale che essa sia… (DIS, 219) Nuovamente, il porsi sotto “la crosta della terra” (PM, 6) opera una visione simultanea e, al contempo, omnicomprensiva, che si richiama all’incipit del libro sulla Resistenza: la discesa negli strati più bassi della materia (“mi pareva di vederli ingigantiti [scil. gli oggetti] attraverso una lente, ma che appartenessero in realtà al mondo dei microbi”, PM, 5), innesca una risalita esponenziale, fino agli spazi interstellari (“un altro momento mi figuravo invece che fossero immagini capovolte e impicciolite di grandi corpi astrali”, ibidem). L’inframondo può essere sì considerato come zona di estrema prossimità col naturaliter ma, al tempo stesso, spazio mentale contaminato e contaminante, teso a superare le dicotomie ontologiche precostituite, dove l’ethos ecologico dei Piccoli maestri ha avuto modo di sostanziarsi, per poi tornare in altre zone del macrotesto. 1.2.3 “Nel paese della mia testa”: vicinanze, geografie, mutazioni In quello che è stato il primo studio monografico su Meneghello, Ernestina Pellegrini aveva fatto riferimento a una dialettica, sottesa alla produzione dell’autore, tra geografia vera e geografia immaginaria (1992, 31), quasi gettando le basi per una geocritica avant la lettre, non fosse altro per aver da subito messo in risalto il ruolo precipuo del setting nella genetica testuale, fermo restando il superamento di qualsivoglia intento neorealistico. Ma se la scrittura di Meneghello risponde a una tensione coi luoghi e, in seconda istanza, con gli spazi naturali, allora possiamo identificare il testo quale ecosistema tout court, dal momento che esso è, da un lato, ambiente discorsivo; dall’altro, riproduzione stilistica di un ambiente socio-storico (Buell 2005, 44). Volendo far nostro un assunto base dell’ecocritica, il “dove” precede l’atto testuale vero e proprio, tale da divenire sottotesto intrinseco o immanente, incorporato dall’opera letteraria in fase di creazione. A cominciare L’acqua di Malo, Meneghello elabora una personale teoria dei luoghi, poi sviluppata in zone ulteriori della sua produzione: il rapporto con i luoghi, qualcosa che in passato ho sottovalutato in sede teorica. Ho sempre sentito che c’è questo rapporto, ma non l’ho mai teorizzato in forma di una dottrina poetica o dei luoghi […] [:] c’è in me un senso molto vivo dei rapporti tra i luoghi e (diciamo per semplicità) le nostre idee. (AM, 169) I rapporti tra spazio fisico e idee, già ravvisati in alcuni passi dei Piccoli maestri, sono da riconnettere al concetto di “inconscio ambientale” (Buell 2013, 5), ma Meneghello si spingerà oltre, arrivando a parlare di “imprinting” (AM, 175), proprio in virtù dei quei “luoghi che hanno una potenza LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 89 evocativa sproporzionata rispetto alla loro importanza” (ibidem): il setting, di conseguenza, fissa delle Gestalten della memoria, delle impronte atte a stabilire la relazione profonda tra soggetto umano e spazio fisico circostante117. Su tale aspetto, Meneghello tornerà anche in Leda e la schioppa: L’anno scorso, parlando del mio paese d’origine, a Malo, avevo discorso dei rapporti che abbiamo con “i luoghi”, specialmente quelli in cui siamo vissuti o viviamo; e avevo detto, un po’ scherzosamente, che si sente la mancanza di una “dottrina dei luoghi”. Forse bisognerebbe studiarlo un po’ meglio, dicevo, questo aspetto della nostra esperienza. Sembra chiaro, per esempio, che i rapporti che si hanno con i luoghi dell’infanzia sono principalmente sensuali, hanno la caratteristica di essere legati proprio ai sensi, al tatto, alla vita, all’olfatto, all’udito; cose che abbiamo visto, toccato, ascoltato, annusato, e che restano vive in noi in questo modo. I rapporti che abbiamo, invece, coi luoghi che conosciamo e frequentiamo da adulti, sono legati, almeno per me, alla presenza delle persone, hanno una struttura sociale piuttosto che sensuale. (LES, 21) La polarità tra sensual e social places permette di operare una distinzione in questa personale poetica dei luoghi, ascrivibile alla “diplopia” percettiva con cui l’autore già si accostava al mondo vegetale (Salvadori 2015, 16). Il primo versante di tale dialettica può essere ricondotto a quella che Sergio Vitale ha definito, in merito al paesaggio, esperienza dell’ex: “la prima esperienza del paesaggio […] come orizzonte della nostra origine entro il cui abbraccio prendono forma gli anni cruciali della nostra vita” (2015, 30) e che, in Meneghello, si risolve in quel “siamo arrivati ieri sera” (LNM, 5) posto in limine al libro d’esordio, giacché “quando il paesaggio riappare, dopo mesi o anni di assenza, si rinnova la magia di una memoria che, aggirando d’un sol colpo le lacune della mente, risveglia eventi e sensazioni, e li rende presenti e vivi come il primo giorno” (Vitale 2015, 30). Ma i luoghi, per il nostro autore, non rimandano soltanto al dominio dell’esperienza, quanto piuttosto assurgono a vera e propria struttura identitaria, come affermato al principio della Materia di Reading: Negli ultimi anni mi sono reso conto sempre più chiaramente dell’importanza cruciale che hanno certi luoghi nella strutturazione della nostra esperienza personale, e forse anche dei tentativi di capirla e darne un resoconto118. Mah, amici: quando Katia ed io siamo arrivati qui in macchina splendeva il sole, ed Cfr. Mortimer-Sandilands 2014, 265-267: il ricordo non è esclusivamente una questione relativa al soggetto rammemorante, in quanto sia la pagina scritta che il paesaggio narrato sono depositi di una memoria che è esterna al corpo individuale. L’atto del ricordo, di conseguenza, implica una ricognizione (recognition) delle tensioni tra mente/corpo e mondo esterno: tale operazione non è guidata solo da forze interne, ma da una relazione che è anche sociale, implicante dunque un legame con l’ambiente fisico. 118 Libera nos a malo e Piccoli maestri si ancorano fortemente al setting (il paese e l’Altipiano di Asiago) in quando elemento esplicativo e valorizzante dell’esperienza vissuta. 117 90 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO entrando119 nel nostro parco da Shinfield Road, tra il verde luminoso dei prati e le strie di nuvoletti bianchi sospesi a festoni nell’aria, ho sentito molto vividamente – ma sì, posso dire che ho veduto con gli occhi – che Reading è uno di questi luoghi. (MR, 9) Dopo Malo e l’Altipiano di Asiago, Reading si elegge a vertice di una triangolazione spaziale: l’ultima coordinata in questa ricognizione per geografie. Mette conto sottolineare, in merito al passo citato, le filiazioni con l’attacco de L’acqua di Malo, ché il luogo rivela la propria carica evocativa quando il soggetto (sempre in compagnia di Katia) è come preso in una sorta di movimento sospeso, assicurato dal modo verbale al gerundio: “venendo in macchina da Thiene, da oriente, ho rivisto il consueto spettacolo, per me tra i più commoventi del mondo, la veduta delle montagne quassù a nord e verso ovest” (AM, 167, corsivo mio). Tuttavia, nel primo volume delle Carte, la teoria del legame tra luogo e soggetto cambia ulteriormente, sino a sfociare in quell’alternanza fra “ambiente” e “paesaggio” già analizzata nel paragrafo precedente. E l’impressione è quella di trovarsi al cospetto di una ecologia delle idee: C’è relazione tra i pensieri e l’ambiente in cui vengono pensati? Questo paesaggio, qui davanti, bagnato dalla luce, amichevole, reale: non determina ciò che penso? Se i nostri pensieri avvenissero al buio, nel buio permanente di un mondo informe, certo sarebbero informi anche loro; ma poiché avvengono invece in seno a paesaggi formati sembra naturale che abbiano una forma. Conclusione: si pensa con gli occhi e gli altri organi di senso. (C60, 61) In questo spazio naturale, esperito attraverso i sensi, è ravvisabile un imprinting rovesciato, dal momento che sono l’ambiente e il paesaggio a fissare determinate Gestalten nella mente percipiente, e non viceversa: “ciascun luogo è pieno di memorie” (ivi, 147), poiché “nei paesaggi […] si scorge ciò che è analogo al nostro modo di cercare la felicità” (C70, 31). Un concetto analogo era già presente nelle pagine del Dispatrio, dove Montale, in compagnia dell’autore sulla riva del Tamigi, “additava le piante sull’altra sponda, il lieve tumulto della luce e dei colori, e diceva che noi vediamo la natura perché gli impressionisti l’hanno dipinta così” (DIS, 68): in tal caso, l’imago pittorica diviene risposta alla crisi dello sguardo, chiamando in causa predeterminate dinamiche percettive. Va da sé che le sensazioni svolgano, nell’opera di Meneghello, un ruolo di primo piano in seno all’apprezzamento della natura. Un apprezzamento non solo estetico, quanto piuttosto empatico e a tutto tondo: Paesaggio di neve, ora avvolto nella nebbia. Luce grigia che precede la sera. Penso che con i sensi si afferrino aspetti particolari, forse rudimentali della realtà, diversi da quelli dei fisici, con le loro particelle, l’antimateria ecc., e certo o meno importanti. 119 Corsivo mio. LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 91 Ma penso anche che con questi stracci delle nostre sensazioni si può fare qualcosa di interessante […]. (C60, 14) La percezione sensoriale acquista una posizione di preminenza, ferma restando la dialettica tra spazio reale e spazio delle idee. Una tensione, quest’ultima, che potrebbe essere definita proprio partendo dal titolo di un inserto saggistico, contenuto nel primo volume delle Carte, intitolato Lo stabile e il mobile: La distruzione di un singolo stabile, passi; ma se sventrano le prospettive generali di una zona si reagisce dicendo no, non è possibile. Invece è possibile, e dunque ciò che occorre fare è riformare il proprio pensiero. (Ivi, 477) Stabile e mobile, Essere e Divenire. Nel portare avanti la sua critica alla modernità (Pellegrini 1992, 52), Meneghello guarda al mutamento antropico cui è andato incontro il territorio di Malo e dintorni, dove si è passati dal “lòto al capanòn” (C80, 194). Uno spazio, tuttavia, ch’è parimenti retroterra collettivo e individuale: Forse è una questione di destini personali: di alcuni il destino si svolge in un setting che non cambia molto nell’arco della loro vita terrena, mentre di altri è destino veder sparire setting in cui sono cresciuti e formarsene uno diverso. Se quest’ultimo tipo di esperienza è del genere catastrofico (come per gli ebrei in seguito all’ultima guerra) si può soltanto sperare che ci sia almeno chi ti compatisce, e io penso che se non ci fosse più nessuno per compatirti ti compatirebbe l’azoto stesso, l’elio, e le dubbiose proteine nostre madri. (Bravo dunque Gigi Riva che ha perso i genitori così piccolo! Battiamo le mani, mentre Pasolini corre in Cappadocia a vedere la natura “assolutamente autentica” che c’è da quelle parti). (Ivi, 477-478) Il luogo è concepito come ambiente misto, frutto d’ibridazioni e innesti fra natura e cultura; un setting che, per alcuni, resta inalterato, tale da divenire “calotta di quarzo” (FI, 240), mentre per altri muta drasticamente. I riferimenti autobiografici – dal “dispatrio”, all’esperienza di Katia nei campi di sterminio – si affiancano, come spesso accade, a scorci sulla realtà in corso, guardando alla natura incontaminata della Cappadocia e della Siria, dove Pier Paolo Pasolini si era recato per le riprese del film Medea (l’estratto appartiene al mese di maggio 1969). Si istituisce un parallelo a distanza fra il paesaggio anatolico – ambientazione del lungometraggio pasoliniano – e il setting evocato da Meneghello: anzi, sotto certi aspetti, è possibile constatare una vera e propria spinta riflessiva, mediante cui l’autore torna, di nuovo, a confrontarsi con gli effetti perniciosi del progresso, l’ingigantirsi di una “brezza di prosperità”120. Scrive l’autore: “Il paese non è cambiato come tanti altri, ma è pur cambiato. Fino a questi ultimi anni era restato quasi fuori dallo sviluppo industriale e commerciale del dopoguerra, ma ora ci è arrivata una piccola brezza di prosperità” (LNM, 86). 120 92 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Se invece il setting si smotta per benefico progresso, tu resti più sottilmente fottuto. Cresce la gente per la quale il setting è l’unico setting, e la sua relazione col vecchio non è interessante. In merda in vecchio setting, dicono le loro facce: non sanno cosa fatalmente gli capiterà, si credono facce eterne […]. Bisogna riaggiustare le prospettive, intendere la logica del divenire […]. (C60, 478) Torna, sì, lo scontro tra Essere e Divenire, ma proprio sul finire del passo notiamo come lo spazio fisico (l’autore parla di “smottamento”) mantenga il suo statuto di crocevia e punto d’incontro tra forme e sostanze, natura e cultura. In fondo: Non si tratta solo di muraglie, appezzamenti, banali orti o giardini dove c’erano campi misteriosi, sconfinati, o nuove case nei luoghi delle baracche d’antan: anche negli animali, nelle teste, nelle passioni, nelle religioni, nei tipi umani, nelle virtù, nel gioco del vero e del falso, del vile e del pregiato, del facile e del difficile, anche lì smottano i setting. (Ibidem) Si assiste a una tensione totale, la quale mira a congiungere e attraversare spazi e frontiere, forse perché “l’ambiente o va in-giù, o va in-su, o va dalle-parti” (C80, 99), costituendo una sfera complessa, intrecciata, intimamente vitale. Fatta dunque luce sulla funzione strutturante del luogo, resta da chiarire dove sia possibile rinvenire le scaturigini di un pensiero ecologico sotteso alle opere dell’autore; e dobbiamo dire che Malo e il mondo del paese rivestono, da subito, il ruolo di oikos, configurandosi quale comunità organica che sigla il proprio legame con la natura in nome di una profonda relazione con essa. Mutatis mutandis, e rifacendoci alla prima legge dell’ecologia teorizzata da Barry Commoner (“Everything is connected to everything else”, Commoner 1971, 16), ogni cosa sembra connettersi con qualsiasi altra: Perché questo paese mi pare certe volte più vero di ogni altra parte del mondo che conosco? E quale paese: quello di adesso, di cui ormai si riesce appena a seguire tutte le novità; o quell’altro che conoscevo così bene, di quando si era bambini e ragazzi, e ciò che ne sopravvive nella gente che invecchia? O non piuttosto l’altro ancora, quello dei vecchi di allora, che alla mia generazione pareva già antico e favoloso? Ora siamo in un momento in cui, scrivendo, non si può dire bene né “il paese di allora” né “il paese di adesso”; i tempi mi oscillano sotto la penna […]. In alcune cose il cambiamento è radicale, quello che era non è più, in altre c’è poco cambiamento. Mentre si formano le nuove strutture è rimasto ancora un poco delle vecchie, di quella vita paesana che fino a una generazione fa era comune ai nostri paesi della provincia, e per noi era (e per certi versi è rimasta) la vita tout court […]. Il paese di una volta aveva un suo pregio: formava una comunità umana modesta ma organica121 […], il rapporto tra gli uomini e le cose era stabile, ordinato, duraturo. Duravano le case, le piccole opere pubbliche, gli arredi, gli oggetti dell’uso: tutto 121 Corsivo mio. LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 93 era incrostato di esperienze e di ricordi ben sovrapposti gli uni agli altri […]. Le stagioni avevano più senso, perché vedute negli stessi luoghi, sopportate nelle stesse case […]. Si era al centro di una fitta rete di genealogie […]. (LNM, 95) La comunità maladense è caratterizzata da una porosità intrinseca: una sorta di membrana che annette gli uni con gli altri e sigla un’interconnessione tra il mondo fisico e la creazione dei significati. Non c’è un’ottica dualistica, quanto piuttosto reticolare122 (“una fitta rete di genealogie”, ibidem), che si risolve in una socialità di tipo somatico, derivante dalla sedimentazione di ricordi e esperienze comuni. L’autobiografia non sfocia nel solipsismo fine a se stesso, proprio perché siamo al cospetto di un Io anti-monade, in balìa – come Malo stessa – dei flussi del tempo e del Divenire. Il paese, sulla pagina scritta, si dirama seguendo tre direttrici temporali distinte (presente, passato prossimo/recente, passato remoto) ed è l’avanzata della modernità a innescare tale riflessione – “mentre si formano le nuove strutture”, ivi, 95 – senza tuttavia indulgere in una rievocazione di tipo romantico (giacché “quella vita si potrebbe rimpiangerla solo per sentimentalismo generico”, ibidem). Un aspetto, questo, ribadito dall’autore anche negli anni più tardi: alla domanda se provasse nostalgia del passato, Meneghello così rispondeva a Roberto Carnero sulle pagine de “l’Unità”: No, né provo nostalgia per il mio passato né coltivo il rimpianto, un po’ pasoliniano, per una civiltà contadina che ormai è scomparsa. Crogiolarsi nella nostalgia è un lusso che non vale la pena concedersi. Se hanno amato qualcosa nel passato o del passato, gli scrittori hanno una possibilità in più di preservarlo dall’oblio: fissarlo in una forma scritta. La letteratura serve anche a questo. (Carnero, 11 aprile 2004) Ciononostante, la natura s’insedia (e s’insidia) nel racconto della vita maladense, dettata anche dalla continua alternanza tra sguardo adulto e sguardo bambino, quest’ultimo capace di generare figurazioni greening dello spazio fisico. Si prenda l’esempio della scuola paesana, nel secondo capitolo del libro: C’erano prima seconda e terza incastrate a intaglio: la prima in strati paralleli come una costa di mare davanti alla maestra; le dune e le roccette della seconda sotto le finestre si articolavano all’interno in una plica di banchi centrali; in fondo i contrafforti della terza. Ai piedi della lavagna c’era una strisciolina sabbiosa della primetta, dove soggiornavano i piccoli non ancora maturi per la prima, gli “osservatori” che osservavano con aria spaventata. Mio fratello bruno [fu] […] ammesso a questa spiaggetta […]. (Ivi, 17) 122 Come “rete” sotterranea era stato l’acquedotto in L’acqua di Malo. 94 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO L’immagine presentata, oltre a strutturare l’ambiente scolastico quale spazio naturale (“il lido della scuola”, scriverà l’autore in C70, 346), si contrappone a quanto scritto a inizio capitolo, dove l’edificio è ormai “una vecchia casa in mezzo al paese, dove oggi abita gente che non conosco” (LNM, 16): la narrazione procede per tracciati a distanza, raffronti tra istantanee e dagherrotipi della memoria che, tuttavia, riacquistano la propria vitalità a fronte di tropi naturalistici123. Siamo dinanzi a una comunità fortemente ancorata alla vita reale, dove vigono “leggi analoghe a quelle che governano le stagioni” (FI, 240) e financo la vita religiosa si struttura in base alla “Terra”, dal momento che “la sua superficie era cosparsa di un florido humus in cui affondava radici fitte una vegetazione di peccati veniali e di devozioni” (LNM, 189). Da qui ha origine una larvata, ma onnipresente, critica al mutamento di questa realtà locale, al di fuori della quale l’opera di Meneghello è impensabile: Malo si fa portatrice non solo di un sistema di valori ma, soprattutto, di differenze valorizzanti che contribuiscono ad arricchirne la specificità. L’ecologia letteraria è, in fondo, un’ecologia della differenza e, nel caso di Meneghello, sortisce un raffronto costante tra due livelli temporali distinti, senza mai scadere in un sentimentalismo nostalgico124. Anzi, l’impegno civile dell’autore si realizza proprio nel meccanismo di retroazione innescato dalla presa di coscienza del cambiamento: la scomparsa di un mondo e il suo arrestarsi a uno “stato fossile” (JUR, 119) (come accadrà in Pomo pero). Ecco perché “ci sembra che per certi versi fondamentali ci fosse più sugo a vivere allora a Malo che non oggi nelle nostre città moderne, in Italia e fuori” (LNM, 103): Il paese era una struttura veramente fatta a misura dell’uomo, fatta letteralmente dai nostri paesani, e quindi adatta alla scala naturale della nostra vita. Quello che c’era era stato fatto in buona parte lì, oggi invece le cose scendono dall’alto, le fabbriche piombano dal cielo di un’economia più vasta, creano strutture nuove che per un verso ci inciviliscono, ma per un altro ci disumanizzano. (Ibidem) “Bisognava arrangiarsi, al Solario; era una piccola giungla verde” (LNM, 29); “Siamo al Solario, una specie di primordiale colonia estiva ai margini del paese” (TREM, 109). 124 “Quanto alla nostalgia, certamente io non guardo a quel mondo passato con nostalgia, nel senso di desiderare che torni. Penso e sento il contrario. E mi rendo conto che la gente “sta meglio” oggi, con riferimento specifico al tribolare e al mangiare […]. Però vorrei dire qualcos’altro su questo punto, per scrupolo di onestà intellettuale. La nozione di ‘star meglio’ presa in assoluto è molto difficile da mettere a fuoco. Se facciamo delle valutazioni basate su cose specifiche, per esempio sul modo di mangiare o di faticare, un confronto è facile, ed è ovvio che nel caso in questione è a vantaggio del mondo attuale. Ma se vogliamo pensare a una scelta basata non sul cibo e sui triboli, o su altre cose concrete, ma sullo star meglio in assoluto, come faremo a giudicare?” (TREM, 120). Oppure, si veda JUR, 20: “In modo del tutto diverso m’importa il passato: e cioè in quanto ha dentro (nelle sue parti di cui mi occupo) le fibre di certe cose che mi preme di chiarire. È un rapporto di studio, l’opposto della nostalgia”. 123 LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 95 Il passo si regge sul raffronto tra interno (Malo) ed esterno (il resto del mondo); mentre la civitas, come si evince dalla conclusione, non è sinonimo di humanitas: la differenza dei tempi verbali crea una dicotomia tra due visioni della realtà, laddove la struttura somatica e organica del paese (fatta a misura d’uomo) viene stravolta da una trascendenza devastante (“un’economia più vasta”, ibidem) che quasi piove dal cielo (rovescio meccanico e artificiale del temporale a inizio del libro). Nel primo volume delle Carte, Meneghello riproporrà simili considerazioni in un estratto del 1969 (siamo nel mese di ottobre): Il discorso è questo: Se solo luoghi come Atene, Malo, avessero prodotto l’evoluzione della specie, vivere sarebbe più bello. Ma poiché l’influsso di roba barbarica è piovuto dal cielo sui nostri pensieri, e i pensieri fermentando come carburo bagnato hanno invaso mensa letto orto cesso, inquinato il ghiaccio riarsa l’arsura, l’alzarsi il vestirsi turbato, bisognerà acconciarsi a vivere come viviamo. Riavremo una civiltà che paia un pezzo di natura? C’è natura? Cicla? Torniamo almeno ad amare queste zolle questi spazi… È inutile prosperare se non ci piace più niente. I coleotteri sono più importanti degli americani. (C60, 504, corsivo mio) La similarità delle immagini – si confronti il corsivo del passo con “le fabbriche [che] piombano dal cielo”, LNM, 103 – istituisce nell’immediato una sincronia tra il libro e l’avantesto, portando avanti il racconto di un vero e proprio decentramento, di un esproprio identitario e culturale. La portata ecologica, in tal caso, è arricchita con venature alquanto polemiche e la “roba barbarica” (C60, 504) inficia, come sempre accade in Meneghello, un duplice spazio: fisico e mentale, della natura e della cultura. L’agnizione degli esiti fallimentari del progresso culmina su una natura ormai irraggiungibile, i cui cicli biotici appaiono compromessi, non mancando di gettare uno sguardo alla Storia, con tutta probabilità alla Guerra del Vietnam. Ecco perché gli insetti (i coleotteri evocati nella fine del passo) rivestono una sì grande importanza, in quanto tessitori delle trame stesse della biosfera, “sensitive to these general cosmic factors. They turn as the world turns, at one with the world” (Hillman 2013 [1988], 108; “sensibili […] ai fattori cosmici generali […], [in quanto] girano come gira il mondo, all’unisono col mondo”, trad. it. di Serra e Verzoni in Hillman 2016, 132). Questo “bisogno” di natura può essere argomentato anche mediante le considerazioni di Edgar Morin, giacché “l’aspiration à la nature n’exprime pas seulement le mythe d’un passé naturel perdu, elle exprime aussi les besoins hic et nunc des êtres qui se sentent brimés, oppressés, opprimés dans un monde artificiel et abstrait” (2007, 18; “l’aspirazione alla natura non esprime soltanto il mito di un passato naturale perduto, esprime anche i bisogni hic et nunc degli esseri che si sentono vessati, oppressi, schiacciati, in un mondo artificiale e astratto”, trad. it. di Anselmo e Gembillo in Morin 2007, 32). Nel caso di Malo, lo stravolgi- 96 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO mento territoriale125 inficia la stessa società agricola, la quale ha tuttavia svolto un ruolo fondamentale nell’interazione tra uomo e biosfera. C’è un passaggio, dal terzo volume delle Carte, intitolato – con echi non troppo nascosti dall’opera di Italo Calvino – La speculazione edilizia e che potremmo leggere a specchio con questi estratti legati al mondo del paese: Inizialmente interessata il lòto, forse più il concetto che la cosa: era un concetto nuovo, non facile da tenere a fuoco nelle dispute fra parenti eredi (tipicamente con la punta della lingua fra i denti), ma ricco di appassionanti promesse. C’era chi dileggiava queste illusioni contadinesche, poi si passò alla fase urbana di terèno metro-cuadro metro cubo, case alògi appartamenti… Poi venne l’era del capanón… (C80, 194) Parole che ben sintetizzano il mutamento antropologico avvenuto in seno alla società contadina, originante dapprima una progressiva parcellizzazione del suolo coltivabile e, in seguito, la trasformazione di questo in spazio abitativo e industriale. Si assiste a un’alterazione del sistema valoriale, ragion per cui l’aria – elemento vitale e un tempo “palinsesto” dell’esperienza126 – diviene vettore contaminante: Le nuove strade arrivano come dall’aria, le fanno imprese forestiere, macchine; le mode del vestire e del vivere arrivano anche loro dall’aria, attraverso i tubi e i canali della televisione. Allora le cose non piombavano dal cielo, le facevano qui. (LNM, 103) Gli oggetti si fanno a loro volta elementi narranti, un cifrario in cui è possibile leggere questo drastico mutamento: Le cose del nostro mondo ce le facevamo dunque noi stessi, molto più di adesso; le idee venivano bensì da fuori, ma si assimilavano profondamente attraverso il lavoro diretto. Tutto era umanizzato in questo modo. (Ibidem) L’utilizzo del corsivo sigla, da subito, una perfetta rispondenza tra cose e idee, in nome di un processo umanizzante che, tuttavia, obbedisce a un’omeostasi segreta, avulsa ai ritmi frenetici del presente. Malo non viene rievocata – come accadeva nella Selborne di Gilbert White127 – con 125 I mutamenti dell’equilibrio paesaggistico saranno presi in esame anche un altro passo dal primo volume delle Carte: “Che c’entro io col paesaggio italiano? Perché prendersela a cuore se, da un poggiolo a Thiene, verso sera, schiarendo il cielo, si vede nettamente che scempio stanno facendo del paesaggio qui intorno, e certo un po’ dappertutto in questa parte d’Italia?” (C60, 199). 126 “In paese, l’elaborazione riflessa dell’esperienza è parlata e soprattutto mimata, quindi è per sua natura labile e scritta nell’aria” (LNM, 226). 127 Curato di Selborne, villaggio dell’East Hampshire, e autore della Natural History of Selborne (1789), White è considerato tra i precursori del pensiero ecologico. LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 97 toni arcadici o virgiliani e, per quanto microcosmo, si inserisce in un tessuto di relazioni più ampie, divenendo eco-sistema (nel senso di dimora-sistema128) in una rete complessa di equilibri, poi totalmente alterati: Oggi arrivano i rubinetti cromati, gli aspirapolvere, le vasche da bagno, il mio amico Sandro li mette in vetrina, e poi li vende e buona notte (e si dà il caso che Sandro sia un artigiano di prim’ordine, erede di quelli di una volta; ma nel paese di oggi sembra quasi un hobby, una sua abilità personale come fare i giochi di prestigio con le carte). (Ibidem) C’è una supina acquiescenza che, quasi per automatismo indotto, muta il comportamento e la praxis: un tempo “si viveva tra bei rumori veri” (PP, 305), oggi si assiste a un “generale rinnovamento” (LNM, 216) che, tuttavia, ha come risultante un “sistema di residui” (ivi, 239), dove Mino è preso in mezzo a una “struttura che si sfascia” (ibidem). Ecco perché, nelle pagine di Pomo pero, Meneghello sentenzierà che “non ha più senso tornare al paese […]. S’incespica in residui” (PP, 365). E l’autore non manca di sottolineare l’inesorabile senso della fine: Tutte le forme di vita muoiono, è naturale (ma incredibile) che sia così anche al nostro paese. Del resto vediamo benissimo che nasce qualcosa di nuovo, in principio sembrano assurdità e ghiribizzi, poi ci si accorge che occupano le strade, le osterie, le case, diventano il fondo del paese. […] Arrivano le cose nuove, nell’intervallo tra un anno e l’altro diventano natura. (LNM, 245) Serpeggia un’ineluttabilità di fondo, per quanto resti inalterata la funzione significante della “cosa” e della “materia”, destinata a incorporarsi alla realtà e creare una nuova rete significante: nel divenire segno, l’elemento artificiale è fagocitato dall’ambiente che, a sua volta, viene narrato dalla scrittura. Arrendevolezza, dunque, al dominio del transeunte ma anche, e soprattutto, disposizione a rendere loquens questa trasformazione per continui “scambi e travasi” (ivi, 240), seguendo il progressivo fossilizzarsi di una Malo spettrale, un paese che muore, dove chi narra è un Orfeo a latere, situato e sperduto dentro un “convulso paesaggio che sfonda” (ivi, 357). In un passaggio da Leda e la schioppa, Meneghello tornerà a riflettere sul cambiamento che ha investito Malo e l’Italia, fornendoci, sotto certi aspetti, un vero e proprio esempio di scrittura ecologicamente orientata: Dunque, l’Italia di questo libro, dal punto di vista di oggi, appare a distanze stellari, come guardarla col telescopio. Ci si può chiedere se vale la pena di puntare 128 In riferimento al prefisso òikos, in quanto “casa” e “dimora”. 98 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO il telescopio, che è ciò che – da meno drammatiche distanze – avevo fatto nel libro; e questo può giudicare chi lo legge. Per conto mio, devo dire che se c’è un tema di fondo in tutto ciò che ho scritto, è il rapporto tra la parte che cambia e quella che non cambia dell’esperienza umana […]. Il Divenire è molto in evidenza. Siamo all’età dell’usa-e-getta. Mezzo secolo fa ridevamo, lo ricordo distintamente, sugli “americani” che l’avevano già inaugurata: matti, buttavano via la roba dopo averla usata una volta… Adesso questa usanza si è diffusa anche da noi, investe ciascun aspetto della nostra vita, dalle siringhe alle idee, e naturalmente i libri. I libri sono sentiti come oggetti di consumo, anche da gente che ha interessi letterari […]. Si scrive per chi vuole consumare ciò che scriviamo, la funzione del libro è di essere consumato; la sola letteratura veramente moderna è quella di consumo. (LES, 19-20) Le parole di Meneghello si sono rivelate, specie allo stato della letteratura attuale, decisamente profetiche; ma ci preme, soprattutto, rilevare come – sulla scorta di Giulio Ferroni129 – la frenesia consumistica abbia ingenerato un circolo vizioso che, mettendo a rischio la biosfera con l’aumentare degli scarti, minaccia lo spazio stesso del letterario: il libro, non più inteso quale opera “rinnovabile” per le sue qualità intrinseche, va incontro a una depersonalizzazione dei contenuti, ormai ridotto allo stato di merce. A livello biosferico, tale processo comporta una sottrazione della memoria, consequenziale alla scomparsa del genius loci: i toni, in questo passo di Pomo pero che ci apprestiamo a citare, quasi rievocano le città fantasma del Far West: Di fronte il poggiolo, di qua il portone della filanda, due marciapiedi, un romboide d’un centinaio di metri quadrati. La nostra piccolezza c’intensifica. In luglio il portone si apre, compare dopo alcuni decenni l’uomo che sorreggeva la fidanzata nera, è un signore anziano dallo sguardo distratto […]. Cento metri quadrati, il mio sguardo imbottigliato percorrere il perimetro romboidale: la finestrella è il mezà dove ha lavorato la maestra di Udine; nelle altre aperture non voglio più guardare, non ho tempo […]. (PP, 357) Meneghello aveva paragonato il tempo a “una lisciva che mangia il cuore interno delle cose” (ivi, 292) e che sembra, a tale altezza, quasi mummificare il paese di allora. Pomo pero, d’altronde, “è il romanzo del disincanto, dove sembra che tutto si sciupi, vada in malora, un libro, insomma, che con una prosa lirica allude a una estrema liquidazione del mondo della memoria” (Pellegrini e Zampese 2016, 124). La perlustrazione del luogo, portata avanti con fare speleologico o da esploratore, registra un mutamento antropologico e oltremodo territoriale, cui è successivo lo scollamento delle due mappe, tra geografia mentale e fisica: “Quanto più [la letteratura] viene chiusa nella sua condizione ‘postuma’, tanto più numerosi sono coloro che se ne occupano, tanto più sterminata la quantità delle scritture, tanto più inquietante il numero dei libri pubblicati” (Ferroni 1996, 183). 129 LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 99 Entro in altri tracciati, rombi o rettangoli, ciascuno con le sue figure; una porta nuova dove c’era un muro, chiusa; vetrinette di botteghe in cui è mutata la merce, non altro; soglie e davanzali già pieni di spavento ed eccitazione. Guardo le diagonali degli spaghi e dei fili di ferro attaccati a pupazzi indistruttibili: come fa a passare il traffico (qui saviamente ridotto dai nuovi assetti della viabilità extra-urbana?). (Ivi, 357) Le nuove strutture s’insinuano nelle trame del paese e Meneghello avverte il collasso, l’inesorabile sparizione, senza però renderli dicibili: Andiamo in giro per le colline sopra il paese a vedere le case di contadini abbandonate […]. Sono catapecchie fabbricate in un passato senza storia (hanno cinquant’anni o trecento?) e stanno rapidamente diroccandosi. Alcune sono già mucchi di sassi e travi […] Giù nei paesi e tutto attorno sorgono dovunque case nuove. (Ivi, 343) Messa a tacere l’eco del rimosso, i legami tra spazio fisico e spazio simbolico si ledono, lasciando il passo a un vuoto mnestico e astorico: esibizione delle rovine, dove il paese sembra tornare nell’inframondo o, volendo rifarci ai versi di Congedo, nel “piano inferiore” (ivi, 401): Paese di calcestruzzo sottoterra, con poche gobbe che affiorano è un gioco fare un libro che non si può spaccare… Un giro di anni e di cose insignificanti hanno costruito un blocco inamovibile – le forme che non contano più nulla per me e per il mio paese, si mantengono assurdamente vive nei loro alveoli, la loro gratuita potenza non cessa di stupirmi. (Ivi, 357) Il luogo è come riassorbito dalle sue stesse radici, in una sorta di sospensione tellurica in cui le forme e le essenze continuano a vivere, brulicare, destinate a tornare a galla nel terzo libro della terna maladense, Maredè, maredè: sistema residuale e archeologia della memoria, questo è indubbio; ma anche, e soprattutto, riscoperta e attivazione di un cifrario perduto, destinato a farsi “materia”, blocco narrante. Ma è con Il Dispatrio che la biosfera di Meneghello si arricchisce di un nuovo tassello, originando una topografia inedita e spesso passibile di continui raffronti con l’ambientazione italiana e maladense. Per Malo e l’Altipiano, infatti, prendendo a prestito le parole da Gaston Bachelard, potremmo parlare di “espaces de possession […], espaces défendus contre des forces adverses, […] espaces aimés”, Bachelard 1961 [1957], 17; “spazi di possesso […] [,] spazi difesi contro forze avverse, […] spazi amati”, trad. it. di Catalano in Bachelard 1975, 25), interamente presi in quella dialettica tra geografia fisica e mentale. Circa l’ambientazione inglese, viceversa, siamo in presenza di un territorio cui il soggetto si relaziona in modo graduale e discontinuo, spesso manifestando le difficoltà di questo processo ri-abitativo. Lo affermerà l’autore stesso in un estratto delle Carte, intitolato Nel paese della mia testa: 100 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Com’è il luogo dove vorrei vivere? il paese di elezione, la civiltà congeniale? Testo utopico con radici non utopiche. Un ambiente che somiglia per certi versi all’Inghilterra, ma non è l’Inghilterra. Mi addentro nell’argomento come un sonnambulo. Intravedo singoli aspetti attraverso veli di nebbia. (C70, 478) Ferma restando l’intima rispondenza fra spazio fisico e spazio mentale – cardine, lo abbiamo appurato, di questa ecologia letteraria sui generis – l’estratto risente di quel “costante pendolarismo” (Marenco 1994, 9) da cui le due biografie, letteraria e privata, non possono in alcun modo prescindere. Ma l’avantesto, in tal caso, ci permette di chiamare in causa anche quel senso di s/paesamento, poi rinvenibile nelle pagine del Dispatrio, dove la conversione inglese annulla drasticamente la diplopia delle opere maladensi e si risolve in una visione monoculare. Questo produce un duplice effetto sulla poetica meneghelliana dei luoghi: da un lato, lo spazio è eminentemente orizzontale e vengono a mancare quelle strutture che, in certo qual modo, costituivano l’ossatura del paese e il suo essere organismo a sé stante (si pensi all’acquedotto de L’acqua di Malo); dall’altro, obliterata la linea della Storia, il soggetto è situato in un territorio che, al contempo, lo respinge e lo accerchia. Sin dalla prima pagina, l’autore non manca di rilevare quello che sarà l’elemento principe della biosfera inglese, ovverosia il vento: “a Londra, uscendo a passeggio la prima sera, l’elemento chiave del paesaggio era il vento a raffiche che mi portava granelli di polvere negli occhi” (DIS, 14), laddove “paesaggio” è da intendersi come intersezione tra spazio naturale e abitato; paesaggio spesso accostato a quello “anagrafico” e maladense: Del tutto inattesa, e senza riscontri “italiani”, era la bellezza naturale del Berkshire. Sir Jeremy ordinava un tassì, arrivava una austera berlina edoardiana imbottita di cuoio blu notte, che ci portava “in campagna”, in giro per la contea. Sir Jeremy quasi non parlava, immerso nell’incanto pastorale dei luoghi, prati orlati da boschi malinconici, come fondali di un presepio senza figure umane, con gli animali deposti qua e là a fare la parte di animali che bruchino. Le straducole sormontavano la schiena di un piccolo ponte rustico, costeggiavano un parco, entravano in un guado, serpeggiavano in mezzo ai prati. Sir Heremy faceva qualche “hm…” sottovoce, il tassista col berretto da tassista guidava in trance, la forza degli otto cilindri silenziosi colava come un fiume d’olio. Dai dettagli del paesaggio cavavo brevi commenti un po’ irreali, condizionati da qualche espressione idiomatica che volevo provare. (DIS, 45-46) Un territorio perimetrato dallo sguardo, che diviene “scenario” e rappresentazione fittiva: espropriati del loro habitat naturale, gli animali sono ridotti al ruolo di simulacri, quasi attori recitanti un copione; mentre la trance del tassista e i “commenti irreali” (ibidem) di Sir Jeremy arricchiscono la portata straniante di quanto narrato. Se la natura, volendo far eco al Meneghello delle Carte, scimmiotta se stessa (“Che brao par natura ch’el gera simiotare la natura”, C80, 250), il paesaggio è consegnato allo sguardo in una rete di geometrie e prospettive che, per quanto in equilibrio, non LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 101 celano una contraddizione di fondo, in cui il soggetto fatica a riscoprire l’aura di “no-man’s land” (LNM, 84), ricavabile invece dalle pagine maladensi. Nella prolusione de La materia di Reading, Meneghello chiarirà che C’erano giardini dappertutto, giardinetti davanti a ciascuna casa, piccole spianate di erba verde, i fiori della tarda estate… Quanto ala campagna dei dintorni, la trovai squisitamente bella ma nello stesso tempo non del tutto naturale. Mi faceva pensare a un allestimento scenografico, un “teatrino” dicevo allora. Era tutto “fatto a mano”, un artificio che creava l’illusione della naturalezza. (MR, 49) L’estratto non solo conferma quanto detto in precedenza, ma arricchisce la portata dell’episodio citato dal Dispatrio: l’autore riconosce sì la bellezza delle campagne inglesi (DIS, 45) – la loro carica estetica – ma resta una nota di disappunto dinanzi a questa natura artefatta, alimentata dall’azione contrastiva del setting di provenienza: Nella mia prima passeggiata sui Berkshire Downs, in compagnia del mio amico inglese, trovai il paesaggio incantevole, ma anche qui mi sentivo un po’ a disagio. Mancava qualcosa: e all’improvviso capii che cos’era. Mi rivolsi al mio amico e gli dissi con viva eccitazione: “Dove sono i contadini?”. Il paesaggio era vuoto: prati smeraldini, vaporosi boschetti… Tenete presente che la zona dell’Italia da cui provenivo era già abbastanza sviluppata industrialmente, e distintamente ‘civilizzata’, tuttavia il 50 e il 60 per centro della popolazione erano contadini: e quindi l’idea di una campagna senza contadini mi sembrava davvero bizzarra. (MR, 51) Paradossalmente, l’assenza dell’elemento antropico – il vuoto paesaggistico – non sfocia, come sarebbe lecito aspettarsi, in un’atmosfera da terra selvaggia, quanto piuttosto rivela l’azione larvata dell’uomo che ha reso il territorio uno scenario tout court, quasi un allestimento. Se l’Inghilterra è un “inframondo dove è più fatica sopravvivere” (DIS, 140) – e dunque rovesciamento biosferico di quello d’origine – non ci dovremmo sorprendere dinanzi alla “profonda incomprensione per alcuni importanti aspetti “inglesi” del mondo, primo fra tutti la ‘Natura’ […], la natura dei luoghi, del paesaggio” (DIS, 171): una natura dove l’imprinting dei luoghi non ha ancora ragione di essere e il soggetto rimane confinato al ruolo di spettatore. Ma se talvolta serpeggia il senso d’irrealtà, talaltra il soggetto riesce a scorgere quello che è il genius loci della biosfera inglese, il suo essere mediazione, intreccio, tra ambiente e uomo: O non sarà l’Inghilterra (i prati e le ondulate colline, e i complessi riti umani) che veramente genera questi momenti incantevoli?130 “In Scozia, sulla costa occidentale, in alto, oltre il canale di Caledonia […]. Lodavo la bellezza, il nitore, lo smalto di quei luoghi incantati, e il bel tempo che durava da giorni” (APP, 183). 130 102 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Naturalmente, tutto è passeggero, anche la stretta di Goring e le colline dei Chilterns; ma alcune cose intraviste da una specola in collina passano e svaniscono, altre entrano nella nostra vita. (C70, 31) Un paesaggio connotato morfologicamente, esperito a livello percettivo, significante nella sua portata culturale: lo sguardo ne individua i patterns, i tasselli costitutivi, passando da una visione scenica/connotativa (legata, quindi, agli aspetti formali del territorio) a un’ottica della compresenza, dove l’occhio “dispatria” sotto la spinta transculturale dell’esperienza. Ecco perché la biosfera inglese resta, e resterà, in costante oscillazione tra questi due livelli, determinando sì un incremento semantico in quella che è la teoria dei luoghi meneghelliana; ma, d’altro canto, risentirà sempre del sostrato maladense, di quel “paese di calcestruzzo sottoterra” (PP, 357) cui è coestensiva l’affabulazione letteraria131. 2.2.4 Narrare la fine In quello che è il macrotesto di Meneghello, la parola “ecologia” ricorre una volta soltanto, ovverosia nell’Acqua di Malo, quando l’autore, in riferimento alla filastrocca “Névega in montagna, el fredo vien qua zó / i omeni se bagna, le braghe che va zó” (AM, 206), scriverà che “questa improvvisa catastrofe socio-ecologica non manca mai di sorprendermi, e di convincermi” (ibidem). Il termine, in tal caso, rimanda non solo a un’intima correlazione fra socio e ecosfera, ma vieppiù ricorre in un’espressione volutamente iperbolica, parodia dell’allarmismo che, spesso, si accompagna alla consapevolezza di una crisi ambientale. Eppure, come spesso accade nelle opere di Meneghello, il sintagma non è scevro da legami con la realtà fattuale: il 26 aprile del 1986 – e cioè un mese prima dell’incontro avvenuto al Museo Casabianca tra Meneghello e i suoi compaesani132 – il reattore n. 4 della centrale nucleare di Černobyl’ (Ucraina) era esploso, generando una nube radioattiva che, nei mesi seguenti, avrebbe contaminato buona parte dell’Europa. Due livelli di testo, dunque: nel primo, connotativo, la “catastrofe socio-ecologica” (ibidem) rimanda al “cavamento delle braghe per punizione o per dileggio” (ibidem), unito all’abbassamento delle temperature conseguente alle nevicate in montagna; l’altro, denotativo, esula dalla realtà paesana e istituisce, quasi per associazione libera o subliminale, 131 Tra i recenti studi in merito all’atlante dei luoghi meneghelliani, segnaliamo le ricerche portate avanti da Cecilia Rossari, poi confluite nella sua tesi dottorale dal titolo Paesaggi e architetture nel romanzo italiano del ‘900 – Meneghello, Parise, Gadda (Università di Ginevra, 2011). 132 L’acqua di Malo è la “ricostruzione, con aggiunte, di ciò che ho detto ‘ai miei compaesani’ nell’incontro al Museo Casabianca il 1° giugno 1986. Una prima versione è stata pubblicata a cura del Museo in edizione fuori commercio (Lubrina, Bergamo 1986)” ( JUR, 225). LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 103 rimandi ulteriori da cui la pagina scritta non può in alcun modo prescindere. Se analizzata da quest’ultima direttrice, l’espressione diviene punto di partenza per una ricognizione più vasta in merito al pensiero ecologico di Meneghello, che guarda spesso alla mutazione antropologica in corso: Trovo inquietante il culto del presente che attraversa il nostro tempo come un tifone. Mi pare che contenga una dose forse letale di autocompiacimento, la disposizione a lodarsi per il fatto di esserci, a privilegiare su tutto la presenza delle qualità e delle passioni che ci si trova ad avere. E mi pare inoltre che impoverisca, e possa distruggere, la nostra percezione delle altre cose che ci sono, amputando i legami naturali133 tra esse e le cose che non ci sono più o ci sono ancora. (JUR, 20) Il “culto del presente” (ibidem) sortisce una visione acefala e monoculare, dove il soggetto umano occupa non solo il ruolo di unico referente ma è, a sua volta, separato dagli altri, proprio perché racchiuso in una bolla narcisistica che lo induce, in automatico, a definire gli assetti valoriali del mondo. Va da sé che l’amputazione dei legami naturali sia il corollario a questa mancata lungimiranza, giacché la portata antropocentrica appiattisce la complessità del reale, riducendola a sistema chiuso. Su quest’ultimo aspetto, Meneghello tornerà in un passo delle Carte: Il filo conduttore della storia è una fibra naturale estrusa dalle filiere dell’ideazione […] Non m’illudo che sia facile separare le idee dagli arredi del mondo, e so che non si possono spiegare la nascita o il decorso di un’idea senza richiami alla complessa realtà in cui hanno avuto luogo. Ma ho cercato di tener stretto in mano quel filo. (C70, 334) Il richiamo a una realtà complessa, dove natura e cultura vengono a porsi in intima relazione134 e superano il gap tra Res Cogitans e Res Extensa – dal momento che la “fibra naturale […] è estrusa dalle filiere dell’ideazione” (ibidem) – sottende una visione policentrica, per campi gravitazionali e flussi energetici, maturata anche in seno agli studi interdisciplinari portati avanti a Reading: […] c’è stato un tentativo di creare una specie di piccolo Warburg-sul-Tamigi. Gordon stava studiando la storia dell’Accademia Olimpica di Vicenza negli anni in cui gli accademici fecero progettare e costruire il loro Teatro Olimpico, dopo il 1580 […]. Per parte mia avevo impostato uno studio su Lorenzo de’ Medici (partendo da un singolo dettaglio, il ritratto di Lorenzo dipinto a suo tempo da Vasari: e fu qui che vidi per la prima volta l’inquietante complessità della rete dei rapporti che legano ciascun frammento della realtà al suo contesto: tutto ciò che è esistito, direi oggi, forma una specie di buco nero che può ingoiare qualunque ammasso di materia circostante). (MR, 29) 133 134 Corsivo mio. “I rapporti (tra le cose e le idee) sono aspetti cruciali del mondo” (DIS, 218). 104 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Il passo riecheggia le considerazioni di Merleau-Ponty a proposito della profondità pittorica, dove vige una sorta di reciproca sparizione tra gli elementi compositivi e che, pour cause, non può non richiamare il sistema di buchi neri vagheggiato dall’autore: Il ne peut s’agir de l’intervalle sans mystère que je verrais d’un avion entre ces arbres proches et les loin-tains. Ni non plus de l’escamotage des choses l’une par l’autre que me représente vivement un dessin perspectif […]. Ce qui fait énigme, c’est leur lien, c’est ce qui est entre elles – c’est que je voie les choses chacune à sa place précisément parce qu’elles s’éclipsent l’une l’autre […]. La profondeur ainsi comprise est plutôt l’expérience de la réversibilité des di-mensions, d’une “localité” globale où tout est à la fois, dont hauteur, largeur et distance sont abstraites, d’une voluminosité qu’on exprime d’un mot en disant qu’une chose est là. (Merleau-Ponty 1964, 64-65) Non si tratta dell’intervallo senza mistero che posso vedere da un aeroplano fra questi alberi vicini e quelli lontani. E neppure dell’eludersi reciproco delle cose, come mi rappresenta vividamente un disegno prospettico […]. Ciò che costituisce enigma è il loro legame, ciò che sta fra loro – è che io vedo le cose ognuna al suo posto proprio perché si eclissano a vicenda […]. La profondità, così intesa, è piuttosto l’esperienza della reversibilità delle dimensioni, di una “località” globale in cui tutto è contemporaneamente, e da cui vengono astratte altezza, larghezza, e distanza, di una voluminosità che si esprime, in una parola, dicendo che la cosa è là. (Trad. it. di Sordini in Merleau-Ponty 1989, 46-47) Meneghello sembra aver cercato, volendo far nostro l’imperativo del filosofo, la profondità per tutta la vita, in contrasto col “culto del presente” (JUR, 20) che ha invece appiattito la “complessa realtà” (C70, 334). Abbiamo già avuto modo di rilevare il superamento del dualismo cartesiano ma, alla luce di quanto affermato, possiamo arguire come l’autore superi quello che Edgar Morin aveva definito come principio della separabilità tipico della scienza classica, dove un sapere anonimo e lineare “enjoint de dissoudre les complexes pour les ramener à leurs éléments de base” (Morin 2015 [2002], 90; “intima di dissolvere i complessi per ricondurli ai loro elementi di base”, trad. it. di Anselmo e Gembillo in Morin 2015 [2002], 38). Ciò si rivela peculiare onde introdurre il pensiero ecologico di Meneghello, soprattutto se ci richiamiamo a quell’intima rispondenza fra le cose e l’ambiente, senza contare “l’inquietante complessità della rete dei rapporti che legano ciascun frammento della realtà al suo contesto” (MR, 29). Una complessità rinvenibile anche a livello epistemologico, come testimonia un passo dal Discorso in controluce, dove l’autore ribadisce il suo ruolo di scholar e, nella fattispecie, il sincretismo sotteso alla sua formazione: Se mi avessero domandato: “Studioso, ma di che cosa?” non mi sarebbe stato così facile rispondere. Il “che cosa” lo lasciavo impregiudicato. Credo che alla LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 105 base di questo ci fosse l’impressione che nel mondo degli studi tutto sia legato prodigiosamente con tutto, e che perciò afferrando un anello qualsiasi del reale, si possa tirar su tutto il resto. (Questa mezza persuasione, sottaciuta, mi ha poi accompagnato per un bel tratto…). (Ivi, 113) La conformazione ad anelli di una realtà interconnessa, in cui è impossibile non scorgere un richiamo neanche troppo velato alla prima legge dell’ecologia (Commoner 1971, 16), dischiude una prospettiva complessa e olistica del sapere, entro cui la formazione filosofica si accompagna a un sapere sincronico, dove gli studia humanitatis sono strappati alla costante fluttuazione al di sopra del mondo e, in un continuo interscambio con altre discipline, “permettono di toccare (o almeno di formulare) certe verità relative alle ‘cose ultime’, gli ultimates” (ivi, 19). Se a Meneghello importa “in modo forse abnormale […] [del] futuro” (JUR, 20), i legami tra cultura umanistica e cultura (o divulgazione) scientifica si fanno oltremodo stringenti, laddove il secondo versante assume il ruolo di osservatorio privilegiato. Ecco perché la scrittura si libera dalla tenaglia di una finzione fine a se stessa, proprio per la sua portata euristica: Scrivevo tanto male da ragazzo, e non forse per ragioni puramente linguistiche, ma perché pretendevo di spiegare l’universo a me stesso, e a chi eventualmente mi leggesse, non nella prima frase, ma nel primo pezzetto della prima frase, le prime due o tre righe, e questo è un grave disturbo, e non permette di scrivere bene. (Ivi, 250) Nel passo citato, l’autore argina un altro “elemento di base” tra quelli elencati da Morin, ovverosia il principio di riduzione, in base a cui “la connaissance des éléments de base du monde physique et biologique est fondamentale tandis que la connaissance de leurs assemblages, changeants et divers, est secondaire” (Morin 2015 [2002], 86; “la conoscenza degli elementi di base del mondo fisico e biologico è fondamentale, mentre la conoscenza dei loro insiemi, mutevoli e diversi, è secondaria”, trad. it. Anselmo e Gembillo in Morin 2015 [2002], 33). Nel caso di Meneghello, la riduzione è costituita da una pretesa esplicativa che non sembra tenere conto della complessità del referente, a fronte della quale l’universo andrà spiegato senza falsarne l’aspetto e l’articolata strutturazione, in un sapiente equilibrio fra le singole parti e il tutto: va da sé che la pagina divenga “travaglio necessitante” (Pellegrini 2002, 39), in virtù di una spinta lucreziana che, sotto certi aspetti, guarda alla natura di tutte le cose135. Cfr. C80, 97: “Intorno a me non vedevo nessuno che studiasse la natura delle cose, mentre parecchia gente dava l’impressione di conoscerne abbastanza bene qualche piccolo aspetto”. 135 106 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Tuttavia, per rinvenire quelle che sono le scaturigini di una critica all’Antropocene136, è necessario partire da una recensione al libro World Without War di John Desmond Bernal (1958), apparsa nel 1959 su “Comunità”, sotto lo pseudonimo di Ugo Varnai. Scrive Meneghello: Da tanto tempo ascoltiamo ammonimenti e voci d’allarme intorno a quello che il futuro ci riserba, che ormai ci siamo quasi abituati. Le risorse minerarie vanno esaurendosi, la popolazione continua ad aumentare, le risorse alimentari, già inadeguate, saranno presto del tutto insufficienti; noi ne prendiamo magari nota, ne discorriamo con interesse misto a una certa incredulità, ma in fondo non riusciamo a preoccuparcene sul serio. Per il momento si vive. E forse, all’ultima nota, qualche santo provvederà. Bernal, che se ne preoccupa e non crede ai santi, è convinto che dobbiamo e possiamo provvedere a noi stessi. Dice che è ora di dare un nuovo significato alla parola Provvidenza, intenderla come capacità e dovere di prevedere e provvedere in tempo ai problemi che ci troveremo fatalmente davanti nei prossimi decenni, se non cambieremo strada. (1959a, 99) Le radici di una consapevolezza circa la crisi ecologica sono da ricercare proprio in questo brano, dove è impossibile non scorgere punti di contatto con quei testi che, in seguito, daranno il via all’Environmental Debate (cfr. Carson 1962): Meneghello non manca di rilevare la negligenza collettiva circa i rischi di un’emergenza ambientale, ma non condivide neppure la tesi proposta da Bernal, il quale vede nell’industrializzazione rapida dei paesi arretrati e il totale sfruttamento della scienza moderna la soluzione ai “problemi economici e sociali del mondo” (ibidem). Tre anni dopo, nel recensire Science and Governement di Charles Percy Snow (1961), l’autore torna a interrogarsi sul futuro dell’umanità, dimostrandosi da subito estraneo alla “polarizzazione” avanzata da Snow. A proposito dei programmi bellici e la fabbricazione delle bombe nucleari, Meneghello scriverà che: La nostra attuale civiltà tecnologica tende a essere sempre più nettamente ciò che in inglese si dice “future-oriented”, condizionata al futuro. I problemi più importanti sono quelli che matureranno tra venti, trenta, cinquant’anni; quel- Con questo termine, il geologo Paul Crutzen ha indicato il periodo contemporaneo, in cui l’uomo ha maggiormente influenzato il clima e l’ambiente del pianeta Terra: “For the past three centuries, the effects of humans on the global environment have escalated. Because of these anthropogenic emissions of carbon dioxide, global climate may depart significantly from natural behaviour for many millennia to come. It seems appropriate to assign the term ‘Anthropocene’ to the present, in many ways human-dominated, geological epoch, supplementing the Holocene – the warm period of the past 10–12 millennia. The Anthropocene could be said to have started in the latter part of the eighteenth century, when analyses of air trapped in polar ice showed the beginning of growing global concentrations of carbon dioxide and methane. This date also happens to coincide with James Watt’s design of the steam engine in 1784” (2002, 23). 136 LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 107 li dello sviluppo demografico, dell’urbanesimo, dell’urbanizzazione massiccia, dello sviluppo edilizio, dell’istruzione di massa, delle risorse alimentari, e via dicendo. In tutti questi problemi le decisioni prese oggi condizioneranno i risultati di domani. Non si può più permettersi il lusso di affidarsi alla provvidenza: il futuro è sulle ginocchia dei pianificatori. (Meneghello 1961, 17) Si approda a una consapevolezza circa il ruolo attivo dell’essere umano nei mutamenti dell’equilibrio biosferico137 e, parimenti, guarda al futuro, entro cui le responsabilità del soggetto assume un ruolo cruciale. Tornano, a tale altezza, le considerazioni espresse dal filosofo australiano John Passmore e, in particolar modo, il concetto della responsabilità, la quale guarda non solo all’atteggiamento prometeico dell’uomo nei confronti della natura, ma soprattutto allo sfruttamento sostenibile di essa, giacché “men are now being called upon to save the future […]. No previous generation has thought of itself as being confronted by so Herculean a task” (1974, 80; “agli uomini di oggi si richiede di salvare il futuro[,] [ma] nessuna generazione si era mai prefissata un compito così erculeo”, trad. it. di D’Alessandro in Passmore 1986, 196). Nonostante la formulazione delle teorie di Passmore sia successiva all’estratto di Meneghello che abbiamo citato, ci preme comunque sottolineare come l’autore ponga l’accento sui futuri debiti ecologici del genere umano nei confronti dell’equilibrio biosferico138, in una dialettica di conservazione e preservazione. 137 Mutamenti imputabili l’incremento demografico, l’eccessiva urbanizzazione e lo sfruttamento delle risorse. 138 Nel primo tomo delle Carte, tuttavia, troviamo una situazione diametralmente opposta: non solo cade l’ipoteca della responsabilità umana ma, soprattutto, viene messo in discussione anche il ruolo svolto dal pensiero in quelli che sono i rapporti tra soggetto umano e biosfera. Scrive l’autore: “Dice il mio dottore: ‘Io credo il genere umano non è in charge [scil. responsabile] del suo futuro, e non lo è mai stato; e, due, il fattore più importante nel nostro ambiente è il nostro generale state of mind. Credo, inoltre, tre, che dall’interno di un sistema è difficile concepire qualcosa di veramente distruttivo: solo da fuori si potrebbe iniettare nel mondo attuale dei pensieri altamente pericolosi. Poi, quattro: È pensabile che venti o trenta pagine potrebbero capovolgere il mondo o annientarlo, ma non abbiamo idea cosa potrebbero contenere. Cinque: Non siamo in grado di pensare fuori dalle patterne vigenti; al massimo si può avventurarsi per un minuscolo tratto, e solo se si è molto originali. Sei: Ma allora, chi è al voltante? Nessuno. Filiamo su un veicolo che si guida da sé, e cominciamo a renderci conto delle strettoie in arrivo. Sette: Fin qui l’evoluzione degli esseri viventi non è stata una faccenda graziosa: non c’è motivo perché il futuro debba essere any prettier. Otto: Siamo alla ricerca di concetti nuovi; andiamo a tastoni, ci diamo da fare; puntiamo su ciò che appare nuovo. Nove: I concetti veramente nuovi sono paragonabili alle mutazioni genetiche; e come queste risulta poi che perlopiù sono dannosi” (C60, 429). 108 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Nel terzo volume delle Carte, in apertura all’anno 1979, Meneghello tornerà a riflettere sulla questione, in riferimento a quanto affermato da Herman Kahn139 circa lo sviluppo economico del pianeta: H. Kahn, sullo sviluppo economico del mondo: dice che le risorse conosciute del nostro pianeta sono sufficienti per i bisogni di dieci miliardi di conterranei non per qualche tempo ma per sempre. “Nel complesso” dice, “la gente in futuro se la passerà molto bene”. È un esempio delle cose che ci induciamo a dire e a pensare, plausibili e oscene. (C80, 509) A Meneghello, le “cornucopian projections” (Woodcock 1977, 585) di Kahn suonano assurde e distanti dalla realtà contingente, vieppiù legate a una visione velleitaria e distorta del futuro biosferico140, dove il cieco entusiasmo verso la scienza e il calcolo produce danni irreparabili. Se “la natura umana è scaduta, [e] ormai non vuole altro che roba in scatola” (C60, 215), è perché alla base vi è un’idea artificiosa della natura stessa, che “non mostra armonia e pace, ma contrasto, sopraffazione, smembramento, violenza. [Dove] desiderare la pace pare dunque cosa innaturale141, prodotto forse della nostra paura” (C80, 431): uno stereotipo, dunque, le cui origini sono da ricercare in quel “lusso di affidarsi alla provvidenza” (Meneghello 1961, 17). Il timore di un dissesto ecologico, d’altronde, è ravvisabile a varie altezze del macrotesto: ne La virtù senza nome, Meneghello cita The Second Coming di William Butler Yeats quale “esempio di ‘peso’ in cui non avvertiamo alcun senso greve di pesantezza” (ivi, 153), ma non manca di rilevare come questi versi presentino “una minaccia ancora informe ma già mostruosa, in toni che […] oggi […] ci paiono orrendamente profetici. Il senso di una crisi incombente è comunicato con forza quasi smodata” (ibidem). Se il falco Stratega della RAND Corporation e già autore di The next 200 Years: a scenario for America and the world (1976) e World Economic Development: 1979 and beyond (1979). 140 Così rispondeva Kahn, in un’intervista del 1976, circa il futuro del pianeta Terra: “We see no reason why the world should not be able to support a population of 30 billion people with per capita earnings of $ 20,000 and with all the energy, raw materials, and food they need. There might be some difficulty supplying a few minerals, such as mercury and chromium, but this is negligible. There is, of course, a caveat – a the development of these resources could effect ecological changes that we don’t anticipate or even know about. Nevertheless, we are saying that you can give people clean air, clean water, food, energy, and raw materials. If technological development should continue, it will make the task easier, but the technology that is expected to be available before the end of the twentieth century will be sufficient to deal with all the problems of the next 200 years” (Epstein 1976, 34). 141 “L’idea che desideriamo ‘la pace’ è vaga. Desideriamo la pace che ci fa comodo, e desideriamo ardentemente il contrario della pace quando qualcosa ci importa di più della pace, per esempio l’onore; o quando il sobbollimento delle passioni patriottiche o ideologiche, o l’abitudine di obbedire ‘senza discutere’ le ingiunzioni di chi ha il potere, o ancora la noia, la cupidigia, la paura ci ottenebrano la mente e inquinano il sistema circolatorio” (C80, 468). 139 LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 109 non riesce più a sentire il richiamo del falconiere e “il tessuto del mondo si scompagina” (ibidem) ciò è da imputare a un disordine intrinseco e oltremodo globale, risultante di un “processo di inquinamento che corrompe […] la memoria e la capacità di intendere e di volere” (C80, 59). Già nel primo volume delle Carte, Meneghello aveva ravvisato i sintomi di tale dissesto: Chi non sente che l’anno terrestre è malato? Questa corruzione delle sere, che comincia alla fine di giugno; questa fretta in cui tutto ora evolve, intinta di mortalità; questo casino delle forme in divenire. Non è chiaro che solo la notte stabilite dell’equinozio segna l’ora del lavoro e della gioia? Il tempo fermo, illimitato… Scommetto che è ciò che chiamavamo Essere […], nemico del divenire […]. (C60, 178) L’estratto è datato 3 luglio 1965: in pieno miracolo economico, l’autore non può esimersi dal constatare l’andamento vertiginoso, esponenziale e incontrollabile, delle mutazioni in corso: se Meneghello è dunque consapevole dei rischi connaturati all’attitudine prometeica dell’Homo Sapiens, il suo portare sulla pagina lo stato di crisi ecologica risponde, questo è indubbio, a una netta presa di coscienza. Certo, chi scrive non fornisce un’etica prescrittiva (ovverosia delle regole tali da strutturare una prassi ecologicamente orientata), ma questo non gli impedisce di manifestare al lettore il proprio disagio dinanzi agli squilibri biosferici: disagio che non scaturisce da una rassegnazione passiva, quanto piuttosto da uno sguardo fortemente analitico, dove l’assenza di una vis polemica rende determinati passaggi ancor più incisivi e meritevoli di un’analisi più approfondita. Abbiamo visto, nelle pagine precedenti, come Meneghello abbia guardato più volte allo sviluppo vertiginoso della scienza e della tecnica142, spesso indugiando sulle possibili conseguenze nell’ambito della scrittura: 142 Si prendano in esame i seguenti estratti relativi all’ingegneria genetica: “Ingegneria genetica, rimescolamento delle carte? il vecchio mazzo… Intatto il cervello, inesplorata la genetica della mente. Riforma radicale dei sensi: sensibilità all’intera gamma dell’energia radiante. E poi? di dove altro attingere conoscenza? Natura del piacere, e il bizzarro crocevia dell’orgasmo. Fuga dalla conoscenza. Mistero coltivato, come le perle” (C80, 161); “Sul piano teorico l’ingegneria genetica non ha più avversari di rilievo […]. È convenuto oggi che l’i.g [scil. l’ingegneria genetica] non è male, restando inteso che è illecito il suo “uso per scopi non approvati dalla società” […]. Alcune conseguenze sono già visibili, il colore degli occhi per esempio. Si nota subito, empiricamente, la prevalenza dei bicolori sui mono, ma i dati statistici accertati sono solo parziali. In pratica, spiegano i genetisti, il controllo pieno dei geni è limitato per ora a un ristretto numero di caratteri elencabili, alcune centinaia. Per ciò che riguarda le corporature della popolazione, ho notato che ci sono in giro personaggi filiformi, e altri che sono palle di sego, frittelle. C’è poi una serie di personaggi grossi, nelle due suddivisioni, dei grossi-lunghi e dei grossi-corti e ci sono le miniature (sotto il mezzo metro). C’è inoltre una gran varietà di casi di rigonfiamento o restrizione dei singoli organi, occhioni-occhietti, nasoni-nasetti, piedoni-piedini, ecc. Il mio parere? Questo è il quadro di un paese geneticamente disordinato dove le forze della libertà hanno generato il caos” (C80, 169). 110 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Il ruolo stesso della scrittura in senso lato sta trasformandosi. C’è stata una serie di innovazioni tecnologiche, nuovi mezzi per registrare l’esperienza. Si possono riprodurre i suoni, quindi le voci, i discorsi, gli applausi, i singulti, gli insulti, gli spari; si possono fermare in fotografia i fuggevoli aspetti visivi e rifare a volontà il movimento col cinema. Si intravede addirittura la possibilità di una riproduzione materiale, atomica e molecolare, degli oggetti materiali, con l’assurdo ma concepibile punto d’arrivo di poter rifare lo stesso mondo in cui viviamo, tale e quale, con le sue tre dimensioni sensibili e ogni altra caratteristica percepibile: una versione artificiale del mondo che già abbiamo in natura. Ma ovviamente ci troveremo a domandarci: a che scopo? La riproduzione letterale della realtà, il rifarla così com’è, non sarebbe molto interessante; e la spinta che sembra in atto nella direzione di questo rifacimento meccanico non porta in nessun luogo. Nei processi già in atto, manca la selettività che è invece associata col semplice esercizio della scrittura: e si viene creando attorno a noi un ambiente piuttosto caotico. Si direbbe che stiamo tentando di riprodurre, con le nostre deboli forze, il caos iniziale in cui le forme erano indifferenziate… ( JUR, 68) Nell’interrogarsi sulle modificazioni del medium percettivo, l’autore si pone nel solco già tracciato da Walter Benjamin a proposito della decadenza dell’aura, quella decadenza dell’aura già individuata da Walter Benjamin” giacché la riproduzione “löst das Reproduzierte aus dem Bereiche der Tradition ab” (1977 [1955], 13; “sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione”, trad. it. di Filippini in Benjamin 1998, 10) ma, al tempo stesso, lo attualizza, innescando quel gewaltigen Erschütterung des Tradierten – einer Erschütterung der Tradition, die die Kehrseite der gegenwärtigen Krise und Erneuerung der Menschheit ist. Sie stehen im engsten Zusammenhang mit den Massenbewegungen unserer Tage. (Benjamin 1977 [1955], 13-14) rivolgimento della tradizione, che è l’altra faccia della crisi attuale e dell’attuale rinnovamento dell’umanità. Essi sono strettamente legati ai movimenti di massa dei nostri giorni. (Trad. it. di Filippini in Benjamin 1998 [1966], 10) In Meneghello, il concetto di riproducibilità investe la realtà stessa, tanto da ipotizzare una versione artificiale della natura che, tuttavia, si risolve in un “ambiente caotico” (JUR, 68) proprio per la sua essenza di semplice duplicato: siamo a conoscenza, allo stato attuale, di come tali supposizioni si siano concretizzate, a cominciare dalla realtà virtuale e la produzione del primo fascio di antimateria (avvenuta nel 2014 presso il CERN di Ginevra143), per arrivare ai tentativi di terraforming, aventi lo scopo di rendere Marte un pianeta abitabile. Nel primo volume delle Carte, l’autore non manca di puntualizzare il fatto che con “certi sviluppi della tecnologia moderna […] ciò che era fortemente passeggero non lo 143 Ciò avvenuto durante l’esperimento ASACUSA, nel gennaio 2014, in cui si è riusciti a produrre il primo fascio di ioni anti-idrogeno. LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 111 è più” (C60, 154), pur tuttavia cercando di dischiudere il senso di questa tendenza preservatrice: Si conservano le voci dei papà e degli zii sparsi per i cimiteri e, con l’aiuto delle macchine fotografiche a stampa automatica, anche le pose impalpabili intraviste negli specchi. E quando le hai conservate, che cosa ne fa? (Ibidem) Il rischio è quello di un’accumulazione eccessiva di memorie, non funzionali ad afferrare “i nuclei dell’esperienza” (JUR, 68), stante il pericolo di uno scollamento tra l’individuo e la realtà. Le considerazioni di Meneghello, soprattutto quelle relative alla funzione riproduttiva della scrittura (riproduttiva in quanto mimetica ma, latu sensu, creatrice di ulteriori livelli di senso, proprio per il suo legame con la realtà esperienziale) ci sembrano tristemente profetiche, specie se lette nell’era dei social network, dove la parola si appiattisce fino a snaturare la propria portata semantica (il declino del narrativo poi ravvisato da Jean-François Lyotard). E, in relazione a questo, Meneghello non manca di prospettare scenari futuri, dal sapore distopico: Le guerre nucleari che hanno sconvolto l’assetto del pianeta due secoli fa hanno lasciato un’eredità di degradazione e di inquinamento che soltanto da pochi decenni è stata riassorbita, e non interamente. Oggi, tuttavia, si può dire che il pianeta è tornato alla normalità. Le foreste, un po’ trasformate rispetto a quelle di un tempo, ricoprono i tre quinti della superficie abitabile del globo. Il ciclo delle stagioni nelle zone temperate è di nuovo stabile, con molta più neve di prima rispetto all’inverno, piogge più fitte (e colorate di viola) in autunno, temporali di spettacolosa violenza nei mesi estivi, e primavere lunghe e lente, dai ritmi possenti. L’inclinazione dell’asse della terra si è leggermente accentuata, ma il progetto di ripristinarla sui valori di un tempo è stato per ora accantonato. (C80, 138-139) Le atmosfere di una realtà postatomica richiamano subito opere quali Il pianeta irritabile di Paolo Volponi (1978) e Lo smeraldo di Mario Soldati (1974), ma non mancano riferimenti a Brave New World di Aldous Huxley (1982 [1931]) o The Last Man di Mary Shelley (1996 [1826]), ragion per cui l’estratto induce a riflettere sul senso della finitudine umana144. Meneghello ci presenta un pianeta che, sotto certi aspetti, ri-abita se stesso145, ormai libero dalla tenaglia antropocentrica: 144 Me innegabili, tuttavia, appaiono anche le suggestioni dal finale de La coscienza di Zeno: “forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute” (Svevo 1995 [1923], 261). 145 Diverso il caso del seguente passaggio, dove la popolazione del pianeta è drasticamente aumentata: “Pensiamo a un futuro in cui l’umanità si è moltiplicata oltre 112 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Le città non ci sono più, e nel futuro prevedibile non saranno ricostruite. La popolazione è ridotta drasticamente, siamo ufficialmente un milione di uomini, un milione di donne e due milioni scarsi di bambini, con centomila vecchi e vecchie, di cui circa metà autosufficienti. La centesima parte di questa popolazione sta in Italia, diecimila uomini, diecimila donne, ventimila bambini, mille vecchi. È in atto una campagna per promuovere la ripopolazione dell’Italia e idealmente del mondo, ma finora senza esito. In pratica noi italiani siamo suddivisi in gruppi di meno di mille persone, in una cinquantina di province. A Roma ci sono quattrocento adulti, maschi e femmine, altrettanti bambini e una ventina di vecchi di cui cinque maschi. (Ibidem) Meneghello non indugia sulla catastrofe in sé, ma si concentra piuttosto su una post-biosfera, in cui l’umano ha ormai rinunciato alla hybris: i toni distaccati, che fanno sembrare questa descrizione quasi un “ragguaglio” dal futuribile, proiettano il soggetto in una realtà che, per quanto sconvolta, viene narrata in modo imparziale, prestando fede a un reagente anti-tragico146. Non mancano casi, tuttavia, in cui l’autore sposta il focus sul momento presente, nella fattispecie guardando all’inquinamento tout court, inteso come contaminazione e alterazione degli equilibri ambientali in seguito all’attività antropica. Il termine compare per la prima volta nelle Carte, tra le battute di Cencio “dopo il party a Wallingford” (C60, 414): Pare una ragazza, ma è sposa e madre di un mucchio, un incongruo mucchio, di figli […]. Quando le viene il drive di evacuare un figlio lo evacua; se le viene sei volte ne evacua sei […]. Ciascuna deiezione [scil. figlio] ha bensì dieci miliardi di neuroni, ma anche bocche una, narici due, con cui risucchia e ingurgita risorse di acqua, di aria, di cibo, e sfinteri da cui esterna scorie e veleni… Siamo arrivati quasi subito alla parola pollution, che qui vuol dire inquinamento. L’idea che le sue creature inquinano […] le ha dato fastidio e si è indignata. Sapevo di avere ragione, e mi vergognavo […]. (Ivi, 414-415) ciò che sembrava possibile, ci sono al mondo 5.000 miliardi di persone, mille volte più di oggi. Londra avrebbe 10 miliardi di abitanti, naturalmente non ci stanno dentro la cerchia antica: il Regno Unito […] ha una popolazione di 50 miliardi, dieci volte l’intera popolazione attuale del globo. Com’è possibile? Gente che vive in alto e in profondo… Grattacieli di diecimila piani, pozzi di chilometri… La mente si stanca, le scatole girano…” (C80, 131). 146 Un processo, questo, che si verifica anche nel primo volume delle Carte, in merito a quella che potremmo definire una vera e propria apocalisse maladense: “Renga potente, cattana terribile potrebbe mollarci il Signore in qualunque momento. Le nostre torri, se molla, saranno sparse per terra, salteranno bottoni da tutti i vestiti, gli uccelli nel mezzo del volo cascheranno dal cielo come sassate, alle donne in preghiera uno sbuffo di schiuma empirà le narici, resteranno appiattiti i bambini come cialde sui selciati; e […] tra le dita del figaro crolleranno le montagne da Cogollo a Santomio. Orco-dio! Non più Thiene, non più Schio: onde e scosse dappertutto…” (C60, 437). LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 113 Ciascun individuo costituisce dunque un fattore di rischio per l’ambiente, dal momento che abita la biosfera ma, in linea di massima, non vi apporta alcun beneficio (anche perché, in base alla seconda legge dell’ecologia, la natura è l’unica a sapere il fatto suo, Commoner 1971, 41). L’essere umano, sostanzialmente, inquina per il semplice faccio di esistere, e Meneghello, proprio sul finire dell’estratto, non manca di fare riferimento al versante scatologico di tale aspetto, poi rinvenibile in un altro passaggio, stavolta incluso nel secondo volume delle Carte: […] La nostra specie si è diffusa e si diffonderà ancora: e produce (giudico) 3,5 X 1012 grammi di feci al giorno, tre miliardi e mezzo di chili, trentacinque milioni di quintali di cacca. Facendo il peso specifico della cacca uguale a quello dell’acqua […], noi generiamo 3,5 x 106 m3 di cacca di cacca al giorno. In poche ore riempiamo la piramide di Cheope, in qualche giorno il Monte Summano… […]. (C70, 377) Come affermato da Dana Phillips, per quanto occultati e spinti a forza sott’acqua dallo scarico del WC, gli escrementi non hanno solo una specifica agency (contengono, infatti, miliardi di patogeni che possono infettare), ma sono caratterizzati da una vera e propria ubiquità (vanno nelle acque ma dalle acque a noi tornano, 2014, 173): da qui il costante tentativo di nasconderli ai nostri occhi, proprio perché se prendessimo coscienza di quanto materiale fecale c’è nel mondo avremmo sicuramente uno shock. Meneghello, nell’estratto citato, rompe il veto imposto alla materia scatologica e imbraccia, sicut et simpliciter, una visione globale, biosferica e ecosistemica, prendendo coscienza del fatto che “shit has the power to alter the course of human affairs, especially when it reminds us that the call of nature is never one we can afford to ignore” (ibidem). Ma è nel Dispatrio che è possibile rinvenire quello che è, forse, l’unico esempio di zona contaminata presente nell’intera opera dell’autore, tale da originare altresì un vero e proprio percorso intratestuale: C’erano frotte di cigni sul canale che entra sul Tamigi a est della città, in un residuo di quartiere vittoriano, mattoni, tende scolorite alle finestre, prode deserte, enormi gasometri, fuliggine, squallore. I cigni stessi parevano insudiciati, in pratica neri… Arrivavano echi distorti di antichi versi, riva dolente, canale di pena… Uno dei rari momenti in cui una vena di self-pity entrava nella mia vita […]. (DIS, 78) Con toni danteschi – inevitabile il rimando alle prode infernali – lo sguardo autoriale si posa sul margine della città londinese: uno spazio di ecceità e di confine, laddove il sito inquinato – il suo essere “residuo” – si fa latore del degrado ambientale. Il blackout cromatico – in quanto il nero, oltre a divenire colore dominante, si spande a macchia d’olio sul resto della scena – restituisce una natura sfibrata, dolente, nei confronti della quale l’Io narrante matura un sentimento di pena e di compassione (la “self-pity”, ibidem). Una terra al crepuscolo, insomma, volendo far nostro il titolo del primo romanzo di John Maxwell Coetzee (1974), in cui i cigni, ormai privati della loro grazia e regalità, rivestono una funzione esibitiva in quanto 114 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO mostrano l’altra faccia della biosfera inglese, il suo controcanto “sporco”. Ma in seno a una diacronia intertestuale, l’estratto citato istituisce da subito precisi rimandi ad altre opere meneghelliane: i cigni, ad esempio, torneranno in un passo de L’apprendistato, intitolato Reading, anni Cinquanta: Arriva Giacometti, chimica molecolare, calmissimo. […] Andiamo a passeggiare lungo il fiume, attraversando la zona dei gassometri. Vedo le cose coi suoi occhi: fanno spavento. C’è il branco dei cigni insudiciati, proprietà della regina, spiego: ogni tanto li devono catturare per lavarli, altrimenti muoiono. Nel tratto erboso tra il fiume e il terrapieno della ferrovia, ci sono anfratti dove giacciono abbracciate alcune coppie, umane, terminalmente si direbbe. (APP, 105-106) Si assiste a una sovrapposizione di sguardi, laddove il metro di giudizio scientifico si risolve non tanto in un’agnizione del degrado ambientale, quanto piuttosto nella constatazione di un’urgenza ecologica. Se confrontata con la citazione del Dispatrio, il senso della fine che aleggia sulla scena sembra investire gli umani stessi, raffigurati in un abbraccio che è quasi morsa: estremo tentativo di aggrapparsi a una Terra in consunzione. Mette conto rilevare come l’umano sia ora ridotto a presenza ancillare e trascurabile, o quantomeno equiparato agli animali morenti, come dimostra la messa in inciso dell’aggettivo – “giacciono abbracciate alcune coppie, umane, terminalmente si direbbe” (ibidem, corsivo mio). La descrizione del canale, in un certo senso, si sdoppia, come se i suoi elementi costitutivi si isolassero per essere poi ripresi a distanza. Leggiamo dal primo volume delle Carte: La città, separata dall’Università. Andiamo a vedere gli indigeni. Gli enormi gasometri, oltre la riva del fiume, spettrali. (C60, 317, corsivo mio) La filiazione tra i due estratti è comprovata dalla riproposizione del medesimo sintagma (“prode deserte, enormi gasometri”, DIS, 78), nonché dalla marginalità ribadita dalla presenza del fiume, la cui riva è tratteggiata con tonalità oltretombali. Tra le Carte degli anni Ottanta, viceversa, Meneghello si soffermerà sulla tossicità delle acque fluviali: Immagini di un bagno nel Tamigi a tarda notte, dalla riva macchiata di riflessi amaranto. I ragazzi e le ragazze si spogliano, balenano le reni poderose di Deborah in un tuffo veemente, un guizzo nell’acqua nera: e non si doveva berne, fiume inquinato, pericolo di morte […]. Anch’io feci il mio tuffo, legnoso, nell’acqua fredda, velenosa. (C80, 384) Come si evince dalle citazioni qui presentate, l’immagine del Tamigi origina un corteggio di spie e rimandi all’interno del macrotesto, come se l’autore avesse tentato, più volte, di metterne a fuoco lo stato di alterazione e renderlo, in tal guisa, narrabile. A chiusura di questa breve retrospettiva, non possiamo prescindere dal libro d’esordio, dove non è l’acqua ad essere contaminata, bensì l’aria: LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 115 Lo scappamento della corriera sparge un tossico potente e invisibile, che scende nel petto mescolato all’odore acre delle gomme, dell’olio e della polvere; questo tossico si combina rapidamente cogli altri che sgorgano copiosi da ogni muscolo, e produce nell’intossicato un acuto sentimento di disgusto e di solitudine. Dov’è ora il mondo? che ci sia qualcun altro fuori da questo risucchio? Che vuol dire esserci? Chi è più io, io o la pinza che tira tra l’epifisi e la trachea? […] Nel parossismo di disgusto e di dolore ci si sente veramente soli, la cosa non dà più senso, nulla pare che abbia senso; e solo più tardi, dopo aver vomitato distesi in un prato, si ritorna a sperare, a progettare di vivere. (LNM, 145) Dallo sguardo distaccato sul fiume, si passa adesso alla descrizione del processo inquinante tout court, laddove l’agente atmosferico (l’aria) veicola lo scambio tra corpo e sostanza nociva, originando una reazione per certi aspetti lisergica. Meneghello non manca di porre l’accento sul rigetto corporeo, il “parossismo di disgusto e di dolore” (ibidem) che estromette l’individuo dalla realtà circostante e che, tuttavia, ci autorizza a leggere il passo in un’ottica trans-corporea, in quanto i confini tra corpo e agenti tossici si annullano lasciando il passo a un’enclave di ricircoli e intrecci147, ridefinendo in tal modo le soglie ontologiche (proprio perché l’elemento artificiale annulla il mondo o, perlomeno, estromette il soggetto umano da esso). 2.2.5 Se il linguaggio è sistema aperto Quella di Meneghello è una lingua sostanzialmente organica: non solo ancorata alla vita e al dominio dell’esperienza148 ma, soprattutto, vero e proprio fenomeno naturale. Scarica elettrica, reazione chimica, folgorazione di cose e pensieri: l’idioletto dell’autore può davvero essere collocato al crocevia tra biosfera e semiosfera149, in quanto mira all’intreccio di sistemi Chiare le filiazioni con C70, 433: “Il due tempi erogava il suo fluido innaturale…”; e C60, 45: “e quando la si stimolava, l’antracite emetteva un’atroce zaffata di vapori avvelenati”. 148 Giulio Lepschy, nel porre a confronto Libera nos a malo e la Storia linguistica dell’Italia Unita (2008 [1963]) di Tullio De Mauro, ha affermato che se De Mauro, dinanzi a una situazione di mancata uniformità linguistica, “analizza, in vitro, questa situazione, […] Meneghello ce la illustra in vivo, cioè ce la fa rivivere davanti, ce la ricrea, […] quasi un esempio di ciò che la retorica greca chiamava enárgeia […] e che di fatto corrisponde all’energia della scrittura, alla vividezza con cui Meneghello si esprime. Abbiamo accennato alla paradossalità della situazione dell’italiano. Nei libri di Meneghello questa paradossalità si manifesta in maniera specialmente acuta, quasi illustrando la teoria dei veri ‘performativi’, quelli che designano azioni la cui validità, anzi la cui stessa esistenza si realizza appunto attraverso la loro enunciazione” (Lepschy 2005, 15). 149 Sulla scorta delle considerazioni di Vernadskij (1929) in merito alla biosfera, Lotman aveva rilevato quanto segue: “Можно рассматривать семиотический универсум как совокупность отдельных текстов и замкнутых по отношению друг к другу языков. Тогда все здание будет выглядеть как составленное из отдельных кирпичиков. Однако более плодотворным представляется противоположный подход: все семиотическое пространство может 147 116 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO plurimi – linguistico, biologico, geografico – all’apparenza distanti. Eppure, il tentativo sembra essere proprio quello di uscire dalla cornice, assumendo una prospettiva accerchiante – ma, al contempo, decentrata – per meglio osservare il quadro e tracciarne i perimetri fluidi. Se prima abbiamo accennato a una “complessità” circa l’impianto epistemologico soggiacente alle opere di Meneghello, dobbiamo dire che è proprio a livello linguistico che tale impostazione rivela tutta la sua portata e, di conseguenza, anche la scrittura e il testo stesso risentiranno di una tale influenza, in quanto “localizzati” e germinati in un determinato ambiente. Vogliamo partire da delle carte inedite, recentemente presentate da Anna Gallia in un suo studio e facenti riferimento a un discorso tenuto da Meneghello il 17 maggio 1998 all’Arsenale di Venezia, dal titolo Le proprietà elettromagnetiche del discorso poetico (2015, 93-110). Sulla scorta del saggio Разговор о Данте (1967, Conversazione su Dante, 1994) di Osip Mandel’štam, l’autore coniuga “l’esegesi letteraria con avventurosi percorsi attraverso le discipline scientifiche, come la cristallografia e la geologia” (Gallia 2015, 95), ragion per cui “lo studio della materia dantesca sembra favorire commenti di fatto debitori alle scienze” (Gallia 2015, 106). Il poema dantesco, da sempre nel raggio degli ipotesti-base, s’inserisce nel solco di un’intima rispondenza fra proprietà linguistiche e “cariche” naturali: un vero e proprio “lievito poetico”150 che, alla stregua dei Trapianti, si ricollega a una concezione vitale e biosferica della scrittura. La gente reale, tra cui questi amici a cui ne ho parlato, trova eccentrica e curiosa l’idea che io abbia letto (ieri) a K. un canto del Paradiso. “Davvero?” mi dicevano stamattina, sorridendo con indulgenza. La gente non sa e non ci tiene a sapere cosa c’è in quei versi: che poi sono cose simili a quelle che fanno spostare le stelle, fallire le ditte, fiorire le piante… (C80, 294) рассматриваться как единый механизм (если не организм). Тогда первичной окажется не тот или иной кирпичик, а ‘большая система’, именуемая семиосферой. Семиосфера есть то семиотическое пространство, вне которого невозможно само существование семиозиса” (1992 [1984], 13; “ecco la trad. it: “L’universo semiotico può essere considerato un insieme di testi e di linguaggi separati l’uno dall’altro. In questo caso tutto l’edificio apparirà formato dai singoli mattoni. È però più feconda l’impostazione opposta. Tutto lo spazio semiotico si può considerare infatti come un unico meccanismo (se non organismo). Ad avere un ruolo primario non sarà allora questo o quel mattone, ma il ‘grande sistema’ chiamato semiosfera. La semiosfera è quello spazio semiotico al di fuori del quale del quale non è possibile l’esistenza della semiosi”, trad. it. di Salvestroni in Lotman 1985, 58). 150 Intervistato da Roberto Carnero su “l’Unità”, in occasione dell’uscita di Quaggiù nella biosfera, Meneghello così aveva definito il lievito poetico: “è qualcosa di complesso e sfuggente. Mi sono chiesto qual è quell’elemento in grado di trasformare un testo qualsiasi in una poesia, di rendere bella ed efficace la scrittura. Non si scandalizzi se le parlo di ‘bello’. Deve perdonarmi, tenendo conto che mi sono formato negli anni del crocianesimo. Insomma, cos’è che fa lievitare la scrittura? Non è che alla fine del libro la risposta sia chiara. Ho comunque cercato di misurare il tema su diversi testi e autori” (Carnero 2004). LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 117 L’opera letteraria si pone in un intreccio con la realtà circostante, attraverso una complessa rete di rapporti e interazioni che ci portano, da subito, a introdurre quella che potremmo definire l’ecologia meneghelliana delle parole, laddove l’oikos rimanda a una rispondenza completa fra due dimore – il testo propriamente detto e l’ambiente – entro cui l’essere umano occupa il punto di congiunzione fra semio e biosfera. Ovviamente, il vettore di una simile interazione, ancor prima delle scritture letterarie, è rappresentato dal dialetto, che reagisce con gli altri due poli linguistici (inglese e italiano), originando una triangolazione pluriversa, nel senso che le linee uscenti dagli ipotetici vertici si diramano in più direttrici proprio perché legati a doppio filo con il tessuto del mondo. Volendo far nostre le considerazioni di Gary Snyder, per Meneghello siamo dinanzi a un linguaggio da intendersi quale sistema selvatico, laddove ‘Wild’ alludes to a process of selforganization that generates systems and organisms, all of which are within the constraints […] of larger systems that again are wild, such as major ecosystems or the water cycle in the biosphere. Wildness can be said to be the essential nature of nature. As reflected in consciousness, it can be seen as a kind of open awareness – full of imagination but also the source of alter survival intelligence. The workings of the human mind at its very richest reflect this self-organizing wildness. So language does not impose order on a chaotic universe, but reflects its own wildness back […]. Natural Language, with its self-generated grammars and vocabularies constructed through the confusion of social history, expresses itself in the vernacular. […] The world is constantly in flux and totally mixed and compounded. Nothing is really new. Creativity itself is a matter of seeing afresh what is already there and reading its implications and omens. (Snyder 2004 [1985], 127-128) “Selvatico” allude a un processo di autoorganizzazione che genera sistemi ed organismi, ciascuno dei quali è all’interno dei limiti […] di sistemi più grandi, a loro volta selvatici, come i maggiori ecosistemi o il ciclo dell’acqua nella biosfera. La selvaticità può essere definita come la natura essenziale della natura. Per come si riflette nella coscienza, può essere vista come una specie di consapevolezza aperta – piena di immaginazione, ma anche fonte dell’intelligenza viva che serve per sopravvivere. Le opere della mente umana al loro massimo livello riflettono questa selvaticità che si auto-organizza. Perciò il linguaggio non impone ordine ad un universo caotico, ma riflette sull’universo la propria selvaticità […]. Il linguaggio naturale, con le sue grammatiche auto-originate e i vocabolari costruiti attraversando la confusione della storia sociale si esprime in dialetto […]. Il mondo sta in un flusso continuo e si rimescola e ricompone completamente. Non c’è niente di veramente nuovo. La stessa creatività è un modo di vedere come fresco quel che c’è già e di leggerne implicazioni e segni. (Trad. it. di Degli Esposti in Snyder 2013, 84-85) Escluso dal processo formalizzante della scrittura e dello schooling ufficiali, il dialetto occupa il crocevia fra natura e cultura: una lingua orbitante (MM, 223) e popolata da forme guizzanti (ivi, 203), proprio per il 118 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO suo essere “lingua che non si scrive” (LNM, 252), radicata “all’interno di un mondo” (ibidem) ma, al contempo, suscettibile di un “processo fisiologico collettivo” (QNB, 21) e dunque non suscettibile dei cambiamenti e le mutazioni antropologiche (ché “le parole sono creature erranti”, MM, 201). Il dialetto è fermentante, terreno di nuove possibilità (ivi, 22), ma è altresì “fauna” (ivi, 53) intimamente vitale151, dove le sillabe hanno una “bellezza alata” (LNM, 14)152 e le parole sono incistate di luoghi ed eventi153. Il dialetto è pre-logico ma, al contempo, post-logico, in quanto attinge a un “nòcciolo di materia primordiale” (ivi, 37) che, in un certo qual modo, esula dalla strutturazione precostituita del mondo, dal momento che si colloca in una sfera dove “le associazioni sono libere e fondamentalmente folli” (ibidem), guidate dai “tralci prensili dei sensi” (ibidem). Come sostenuto da David Abram, la mente umana è tutt’altro che scissa dal dominio dell’esperienza, giacché viene instillata e provocata dal campo sensoriale stesso, indotto dalle tensioni e le partecipazioni tra il corpo umano e il divenire della terra: va da sé che ogni cosa – dalle forme invisibili degli odori, il ritmo del canto dei grilli, il movimento delle cose – determini e strutturi il corpo sottile dei nostri pensieri (1996, 292). E una volta riconosciuto tale legame, tra il mondo psichico e il campo percettivo che ci circonda, la mente cessa di essere confinata all’interno di una sfera prettamente umana, accedendo in tal mondo al mondo sensibile: va da sé che l’intelligenza non sia più esclusivo appannaggio dell’uomo, quanto piuttosto una prerogativa stessa della terra, giacché ogni luogo ha la propria mente, la propria psiche (ibidem). In Meneghello, la lingua risponde alla natura “fluida”154 e in divenire dei rapporti complessi che organizzano il mondo: 151 “La pitóna (quella che si fa alla gente) manca in alcuni dizion. veneti, ed è invece da noi fauna stanziale, e cospicua” (MM, 53). 152 “Le rare volte che si andava con la mamma alle funzioni della sera, dicevo che la più bella delle litanie era quella che seguiva la Jànua-céli, perché subito dopo la serie era finita e così si usciva di chiesa: ma non era la verità. Quella litania seguace della Jànua mi piaceva invece per la bellezza alata delle sue sillabe che volavano alte nella voce incantevole della mamma. Mia madre cantava, e io aspettavo trepidando la Jànua: poi ecco l’immagine luminosa: Stella matutina! Poi s’andava fuori” (LNM, 14) 153 “Ho un filo di parole, S’ciopascóndare contiene l’attesa nei nidi inaccessibili tra scogliere di bidoni, cataste di fascine; gli anfratti, le muffe, le ragnatele, le tane profonde sotto bastioni di bisacche, nel fianco delle montagne dei bozzoli; il tempo che si ferma, i rumori che si chiudono, e il senso di essere usciti dal mondo e di stare a origliare. Si sosta rannicchiati tra sfasciumi, capovolti in imbuti soffici; si viaggia strisciando nei cunicoli proibiti degli essiccatoi” (ivi, 42). “La lingua si muove come una corrente: normalmente il suo flusso sordo non si avverte, perché ci siamo dentro, ma quando torna qualche emigrato si può misurare la distanza dal punto dove è uscito a riva” (LNM, 107). 154 LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 119 la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare, e non più sfumata in seguito dato che ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua. Questo vale soprattutto per i nomi delle cose. (Ibidem) Parole e cose, dunque: un “impasto” (FI, 269) originato dal fatto che “i nomi sono […] conseguenza delle cose” (MM, 165), anche se nel loro DNA “non si sa mai cosa c’è” (MR, 211). Ecco che la lingua aderge a materia geologicamente improntata, nel suo disporsi per “strati sovrapposti: […] un intarsio” (LNM, 107), financo esaminabile per carotaggi: Faccio dei sondaggi: alcuni sono più difficili che non immaginassi, e i risultati a volte mi paiono vagamente insulsi. I prelievi da diversi strati portano in superficie materiali eterogenei, come si vede dai campioni che espongo qui: è ciò che effettivamente ha trovato la sonda. (MM, 58) In altri casi, l’idioma si spazializza e rende le isoglosse tangibili, disegnando un territorio-testo che è percorribile e quasi attraversabile “a piedi”: Una serie di piccoli crinali a cui ci affacciamo, di qua senza elle evanescente, di là con: e ci coglioniamo bonariamente a vicenda, ci facciamo il verso. O a rovescio, non crinali, ma una serie di fossatelli divisorii. (Ivi, 151) Se le parole hanno dunque “proprietà elettro-magnetiche”155, va da sé che il dialetto inneschi, con la lingua ufficiale, delle vere e proprie reazioni, ingenerate dal contrasto tra il mondo della cultura riflessa e quello della vita popolare. Nel Tremaio, richiamandosi alla fisica delle particelle, Meneghello parlerà di “interazione forte: cioè una specie di grado estremo che ha luogo soltanto quando i nuclei […] delle parole si accostano a distanze ridottissime” (JUR, 109): l’interazione è “fonte di uno shock creativo” (QNB, 15), cui poi si affiancherà il concetto di glassy essence (ibidem), ovverosia “un’elusiva trasparenza iperurania” (ibidem). Eppure, per quanto la lingua sia dotata di un’energia intrinseca, mette conto guardare ai rischi connaturati al processo formalizzante: “la lingua in cui eseguivamo […] la nostra mediazione tra ambiente paesano e contadino non è scritta, e la lingua che scriviamo in paese e in tutta l’Italia può facilmente tradirci” (LNM, 97). Approdiamo alle pagine iniziali di Jura, attraversate dal gusto scientifico e l’attenzione alla realtà naturale, in cui è possibile rinvenire il Meneghello eco-scrittore: l’autocommento, agli stessi livelli del nature writing, aumenta questa prossimità e, in particolare, lo sguardo verso il mondo animale. In L’uccellino e l’oseleto, a proposito dell’apprendimento della lingua nazionale, Meneghello afferma che 155 “Hanno proprietà elettro-magnetiche, i guarnei” (MM, 95). 120 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Da ogni parte si presentano regole e costrizioni di nuovo tipo, e si creano nuove categorie: […] tutto sembra prescrittivo e proibitorio. Entri in una sfera diversa, con una dimensione in più: tu stesso diventi un’altra persona, ti sdoppi. ( JUR, 24) Si parla ancora per “sfere” e l’autore si sofferma proprio su quello che è stato l’abbandono della sgrammaticata grammatica, intesa non tanto come disordine ortografico, quanto piuttosto come prelinguaggio: un creativo idioma-natura, immediato riflesso e conseguenza della fantasia. Meneghello descrive l’uscita vera e propria dall’ambiente di native speaker e il successivo ingresso in una dimensione posticcia e artefatta, dal momento che Finora chi ti ha fatto è la tua famiglia, serva compresa se c’è la serva, e il gruppo privato dei tuoi compagni e cugini, la fauna del portico, del cortile, dell’orto, del pezzo di strada avanti a casa. Ora chi ti rifà, o fa un altro te, è una strana entità che non sta nei cortili e negli orti e che tu cominci a pensare che si chiami patria. (Ibidem) Il passaggio da una “fauna” (ibidem) a un sistema di referenti assenti, svincolato cioè dalla rete dell’esperienza e dai luoghi a essa legati, crea un senso di alienazione e cattività, dove la lingua è scritta in gabbia: la grande intelaiatura di 22 mm, la rotaia di 6 mm dove sta il corpo vivo della lingua, l’alzato di 9 mm per il collo e la testa delle b e delle t […]: mentre le giraffe delle f riempiono tutto lo spazio. (Ivi, 26) Entra in gioco lo spettro di una lingua d’arrivo e la quadrettatura, destinata ad accogliere la parola scritta, rimanda a una prigionia delle bestie, quasi un giardino zoologico delle parole, ché “l’educazione a cui dava accesso la scuola non era assimilabile a un processo naturale, ma a qualcosa che viene impartito formalmente” (MR, 71). Il non umano si fa allora termine di paragone per questo logocentrismo (ciò è ribadito anche dall’animalizzazione delle lettere stesse), giacché avulso da istituzioni regolatrici (la patria) e dalle maglie di un lògos uniformante. L’idioma acquisito attua una straniante mediazione semiotica che scinde (“ti sdoppi”, JUR, 24) il corpo carnale dal corpo simbolico/linguistico, anche se l’autore cercherà più volte di superare tale aporia, dando sempre l’impressione di aver a che fare con una lingua corporale, a tratti scatologica e escrementizia. Il racconto sull’evoluzione dell’animale parlante in animale che scrive accoglie, via via, inserti naturalistici, in nome di una continua tensione tra bíos e semèion: L’intero paesaggio della lingua scritta appariva irto, selvatico, pericoloso; c’era una sorta di legge della giungla, non un banale insieme di norme “d’ortografia”. Quando, da lontano, la pensiamo come una mera questione di ortografia […] LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 121 mi pare che perdiamo il senso di quel lungo processo alienante, penitenziale, in cui s’imparava a usare violenza alla propria natura, e a costruirsene un’altra, artificiale. Insomma, la scorza delle parole scritte non si poteva separare dalla sostanza. ( JUR, 29) È una lingua vivente: un dialetto divenuto struttura profonda e generativa, nuovamente radicato nella natura. Meneghello descrive le fasi dell’apprendimento alla stregua di un imprinting rovesciato, dove la lingua-corpo viene strappata dal suo supporto, in nome di una ri-creazione coatta del lògos. La ri-scrittura dell’alfabeto del mondo opera, sotto certi aspetti, uno scollamento che rende inefficace anche il semplice atto di registrazione dell’esperienza: I segni della scrittura dovrebbero riprodurre in forma meno effimera le parole che pensiamo, ma in realtà le filtrano e le deformano. Bisogna mettersi in testa che la lingua scritta sta in una sfera autonoma. (C60, 137) La scrittura è allora il diaframma tra le due sfere, quasi fosse un isolante che impedisce l’osmosi fra segno linguistico e referente effettivo156, cui è conseguente la riflessione continua circa le distanze fra testo e mondo: lo avevamo già visto a proposito della tempesta in Libera nos a malo, laddove l’ipotesto montaliano veniva traslato nella realtà popolare; ma anche in Fiori italiani si ravvisa un procedimento analogo, riguardo alle letture scolastiche e la mediazione della lingua letteraria. L’autore parte da un assunto fondamentale: “la cultura rifà il mondo” (FI, 272), motivo per cui “queste scritture non si leggevano […] [ma] s’imparavano. Venivano incise157 tra i tuoi pensieri. Le sentivi risuonare come la campanella del Carroccio” (ibidem). Sappiamo che la lettura è una “pratica incarnata in determinati gesti, spazi, abitudini” (Cavallo, Chartier 2004, VI), il che la riscatta dal ruolo esclusivo di pratica intellettuale astratta, in quanto “messa in gioco del corpo, iscrizione in uno spazio, rapporto con se stes- Nelle “nuove carte”, in riferimento all’incipit dei Promessi Sposi, Meneghello riflette sul passaggio, quasi traumatico, dalla pagina scritta alla realtà fattiva: “Riguardando l’illustre passo ‘lacustre’ dei Promessi Sposi e ripensando al lago vero, come mi è apparso di recente, osservato dalla giusta sponda, vedo all’improvviso quanto poco conta nella resa dei testi letterari la realtà esteriore delle cose a cui si riferiscono. Viene in vita (nei nostri resoconti) qualcosa d’altro, una diversa realtà, del tutto autonoma. Si potrebbe concludere che questa realtà non ha a che fare con la realtà” (APP, 30). In tal caso, la scrittura determina un mondo parallelo che, tuttavia, annullerebbe qualsivoglia tensione referenziale. 157 Cfr. C70, 120, a proposito di Saverio (dietro cui si cela l’S. del libro), leggiamo: “Certe sequenze di parole si accendevano e restavano incise”; o ancora, retrocedendo al primo volume: “nel nostro sistema nervoso è incisa una conoscenza (p.e. di ciò che ci appaga) che non ha a che fare con esperienze empiriche […]” (C60, 464). 156 122 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO si e gli altri” (ivi, VII). Nel caso di Meneghello, tuttavia, tali presupposti vengono a mancare, inficiando il naturale processo di apprendimento che, in tal modo, somiglia più a un’elargizione dall’alto, come le “nuove strutture” di Malo (LNM, 95): nell’utilizzare un verbo “da taglio” (incidere), l’educazione diviene, a un tempo, coatta e artificiale, quasi instillata per via cerebrale tramite cannula: La natura – quella del mondo, e quella della mente – si rivoltava ogni tanto, e istituiva dei giochi di rigetto. Dietro il sortilegio dei versi c’è pure qualcosa di semplice, un uomo che dorme su un carretto in viaggio, un ruscello che fa una cascata. Allora la mente irritata li contamina: O carrettiere che dai neri monti158 precipiti tra i fiori e la verzura159 O natura, natura: perché non resti nelle parole? (Ibidem) A fronte di un’imposizione dell’alto (l’incisione di queste scritture nella mente), ha origine una reazione di rigetto (al pari di quella che il corpo scatena dopo un trapianto) da parte della natura – una natura, si badi bene, che tiene ancora una volta uniti mondo e mente – fino alla contaminazione degli stessi ipotesti (Pascoli e Zanella). La chiusa dell’estratto, per quanto affine all’invocazione della lirica pascoliana, non manca di sottolineare il complesso rapporto fra realtà naturale e imago letteraria, laddove la prima, una volta a contatto coi reagenti della finzione, si stacca dal dominio dell’esperienza: in virtù dell’immaginazione creatrice, la parola – mutuando le considerazioni avanzate da Enza Biagini in un suo recente studio – “si aggiunge in supplemento, commenta, illustra […], passa attraverso un mimetismo della cosa pensata o vista” (2016, 57), pur tuttavia restando impermeabile al naturaliter160. Meneghello, dal canto suo, cercherà di più volte di aggirare un simile ostacolo, manifestando la volontà di trasporre per verba le trame e i flussi del tessuto biosferico: Vorrei nel libro la libertà anarchica di questa neve mista con la pioggia di marzo. Farne una sequenza significante. Tutto questo movimento nello spazio qua davanti, questo trambusto. Qualcosa di vispo, di fitto, casca dal cielo e poi toccando la terra e i tetti svanisce; tutto è umido, allegro… Farne una cosa che accade, un evento e insieme la scena dell’evento sulla quale la roba viva è percepita. Ci 158 Il rimando è al primo verso di Carrettiere di Giovanni Pascoli, contenuta in Myricae (1981 [1891], 197, v. 1). 159 Riferimento al secondo verso di Ad un ruscello di Giacomo Zanella (1868, 93, v. 2). 160 “Anche le foglioline nate da poco sui rami sfuggono alle parole: nelle parole non le ritrovi, non ci sono. Patacche giovani, una scampagnata di patacchette, specchietti parabolici, paraboline appena nate, parolette inespresse…” (C60, 66). LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 123 vuole la disciplina della ragione, del significato. Poi nevica fitto, ogni cosa è messa in moto, turbina. Spòstati lì in mezzo, trovi subito. Non è un cumulo di nubi, è l’universo che nevica. (C60, 60) Se la scrittura mira a dischiudere quel “qualcosa di singolare, non accessibile con i normali strumenti conoscitivi” (MR, 159)161, ecco che la realtà naturale – libera e anarchica, ma al contempo dotata di un principio auto-organizzativo162 – diviene il banco di prova per tale operazione, mediante cui l’autore rende loquens il fenomeno naturale163. Ma non si tratta, si badi bene, di mera riproduzione mimetica (poiché “registrare non è pensare” (MM, 19), quanto piuttosto di un sapiente e disciplinato equilibrio tra ragione e significato, ri-creazione che, nell’atto di descrivere il mondo, pone il testo in una relazione d’interdipendenza con esso. Stando alle parole di Meneghello, in fondo, la realizzazione di un libro investe il rapporto tra il libro e il mondo: dunque equivale a chiedersi “Come è fatto il mondo?” È l’idea di un libro che sia un pezzo autonomo del mondo […] ma che del mondo sia anche una specie di specchio o diagramma generale. (C80, 41-42) Testo e mondo si fanno ecologicamente dipendenti, in virtù della permeabilità tra ambiente e cultura, ma soprattutto strutturati da un duplice rapporto: attivo (influenza del mondo sul testo) e retroattivo (influenza del testo sul mondo)164. Una tensione, questa, rinvenibile nell’essenza stessa delle Carte e, in particolare, in quella che è la loro genesi scrittoria, “Vorrei trasmettere la sensazione di qualcosa che viene dal fondo stesso della realtà; e mi sono messo in testa che non si tratti di un’illusione privata, ma di una proprietà reale della roba bella, un suo aspetto che quando è messo in evidenza appare schiacciante” (BS, 453). Oppure si legga dal terzo volume delle Carte: “sono abituato a scrivere con l’idea di spremere le quintessenze e così ho sempre fatto o cercato di fare in passato” (C80, 424). 162 “Sarà vero che ‘c’è logos in ogni cristallo di neve o di brina’? È logos che c’è? Indizio dell’ordine razionale del mondo?” (APP, 63). 163 Sulla profonda tensione tra natura e testo, si veda il seguente estratto dalle Carte: “la città tramandava un senso di umido e non poca tristezza, forse per il colore rossastro, stanco, della pietra bagnata. È un colore che esiste in natura, dove tende a generare scoraggiamento, ma esiste anche nel mondo delle parole, e lì invece può eccitare e piacere: è il colore che passata la pioggia si raddensa ai muri, e in poesia si chiama cinabrese” (C70, 106). 164 Circa la genesi testuale di Pomo pero, Meneghello aveva fatto riferimento alle “strutture esterne del mondo cui si riferiscono queste storie” (LES, 14), pur tuttavia rivelando una certa presa di distanza da esse, proprio perché già delineate dal libro d’esordio: “mi sono sentito libero dalla responsabilità di costruir[l]e […]. Si trattava ora di rientrare in un mondo già costruito [scil. da Libera nos a malo], nel quale potevo muovermi con la massima liberà, senza preoccupazioni” (ivi, 14-15). 161 124 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO mossa dall’impulso a “ricavare membretti di frasi (di cose) […], poi riorganizzate […] in una specie di nuovo mondo” (C80, 356): da notare, in quest’ultimo estratto, l’aggancio istantaneo alla realtà mediato dall’atto stesso della scrittura, tale da rendere il mondo leggibile proprio perché composto di parole165. Da simili considerazioni, è possibile far derivare una concezione organicistica del discorso letterario (e, nella fattispecie, del libro stesso), inteso quale fenomeno biosferico e ecosistema tout court (come conferma Quaggiù nella biosfera, titolo, a nostro parere, decisamente eloquente): nell’addurre l’immagine dei “vasi intercomunicanti” (MR, 65), in fondo, Meneghello aveva già lanciato il pensum che ci permette di equiparare il suo macrotesto a un apparato vitale e in continuo rinnovamento. All’inizio del terzo volume delle Carte, l’autore farà riferimento a una tensione intrinseca, tale da favorire lo spostamento dei “frammenti” da un anno all’altro, mantenendo in tal modo una segreta omeostasi: “Si vedono trasmigrare i frammenti dai regesti degli anni Sessanta a quelli dei Settanta, e dai Settanta, pervicaci, a qui: e qui speriamo che s’incaglino” (C80, 9-10). Ecco che il libro, nonostante la sua forma materiale e all’apparenza inerte, diviene sistema aperto, dotato di una propria originalità e in perenne scambio con l’ambiente esterno: se “l’homme est le système le plus ouvert de tous, le plus dépendant dans l’indépendance” (Morin 2007, 14, “il sistema più aperto di tutti, il più dipendente nell’indipendenza”, trad. it. di Spadolini in Morin 2007, 22) allora va da sé che l’opera letteraria – sua creazione e da esso alimentata mediante le operazioni di lettura e commento – sia essa stessa orientata e in tensione verso la biosfera. In Meneghello, una simile osmosi è rinvenibile sin dalla pagina d’apertura di Libera nos, originante quell’idrofilia di fondo che è, pour cause, punto di inizio di una coappartenenza ecologica; ma “ci vuole [anche] aria in un libro” (C60, 140), quasi voler ribadire come il testo, al pari di una vita biologica, debba presupporre determinate condizioni per garantire la sopravvivenza stilistica: le scritture letterarie hanno un principio vitale166, ovverosia un lievito poetico (QNB, 13), spesso associato a un enzima dello stile (ivi, 50)167. Ma lo spazio testuale, talvolta, diviene zona di 165 “Effetto elettrizzante delle cose ordinarie quando improvvisamente le vedi. Ogni specie di cose […]; la forma della rubber plant nell’angolo, la geometria delle zampe di un ragno; e su tutto ciò il sospetto che in ultima analisi queste forme siano composte di parole” (C60, 60). 166 Di energia vitale insita nella scrittura, Meneghello parlerà nel primo volume delle Carte: “Che cosa ci guida nello scrivere, ossia nella stesura delle frasi? qual è il principio guida, la qualità che cerchiamo? […] La chiamano scorrevolezza perché le loro dure orecchie sentono solo che scorre, invece è energia vitale, sorella della gioia” (C60, 153). 167 A differenza del lievito, che agisce per fermentazione; nei processi biologici, l’enzima ha una funzione catalizzatrice, nel senso che permette un abbassamento LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 125 prossimità e annette, sotto certi aspetti, lo spazio fisico: “nel cielo di un libro”, scrive l’autore in Fiori italiani, “s’era intromessa una stella gigantesca, esotica anche nel nome, Betelgeuse, piena di gas rosso sottilissimo” (FI, 246); sempre nella stessa opera, in riferimento alle riscritture foscoliane del giovane S., leggiamo che “la versione dei sonetti che ne nacque è gravemente sinistrata, un paesaggio sconnesso da cui spuntano emistichi: forse nacque così” (ivi, 278-279). Si avverte, insomma, la fisicità del testo, la sua costante tensione referenziale con una spazialità viva, vibrante, percorribile dallo sguardo e dal corpo: al principio di Bau-sète!, ad esempio, notiamo la presenza di una cartografia reale, tanto che le righe incipitali possono adergere a vera e propria soglia di attraversamento che, al tempo stesso, situa l’Io narrante e il lettore: “Qui finisce la strada, Attenti all’Astico, Pendenza del 100%” (BS, 385). 2.2.6 Dalla biosfera alla biomacchina: un’ecocritica della materia Già nelle pagine precedenti abbiamo avuto modo di leggere alcuni passi meneghelliani alla luce delle prospettive ermeneutiche del Material Ecocriticism (o ecocritica delle cose)168, a riprova di come, in tutta l’opera dell’autore – vertebrata su un felice materialismo di fondo – sia ravvisabile un continuo superamento dello iato ontologico fra Res Cogitans e Res Extensa: va da sé che il mondo materiale non sia più opposto all’uomo ma, fattosi leggibile e interpretabile quale forma narrativa, appaia connaturato al dinamismo generativo della biosfera, originando un flusso intrecciato di materia e forme discorsive. L’umano, a sua volta, è preso in questo reticolo mobile, un “polverio naturante” (C60, 511)169, dell’energia necessaria all’attivazione del processo, aumentando in tal modo la velocità. In Maredè, Meneghello definisce la “sorpresa stilistica” come “l’enzima più potente” (MR, 154). 168 “L’ecocritica della materia è lo studio del modo in cui le forme materiali (naturali e non) – corpi, cose, elementi, sostanze tossiche, agenti chimici, materia inorganica, paesaggi, ecc. – interagiscono le une con le altre e con la dimensione dell’umano, producendo configurazioni di significati e discorsi che possiamo interpretare come storie” (Iovino 2016, 104). 169 Chiari sono i rimandi al pensiero di Baruch Spinoza e, nella fattispecie, al concetto di natura naturante:“Alhier zullen wy nu eens, eer wy voortgaan tot iets anders, kortelyk gheel de Natuur schiften – te weten in Natura naturans, en Natura naturata; door de Natura naturans verstaan wy een wezen, dat wy (door zig zelfs, en zonder iets anders als zig zelfs van doen hebbende, gelyk alle de eigenschappen (Attributa) die wy tot nog toe beschreven hebben) klaar ende onderscheidelyk begrypen, het welk God is. Gelyk ook de Thomisten by het zelve God verstaan hebben, dog haare Natura naturans was een wezen (zy zoo noemende) buyten alle zelfstandigheeden. De Natura naturata zullen wy in twee verdeelen, in een algemeene, en in een bezondere. De algemeene bestaat in alle 126 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO scriverà Meneghello, dove le cose, stante l’idrofilia rilevata a inizio capitolo, “fuggono su una corrente più piena, più grande, più irresistibile” (ivi, 69). Citiamo il primo passo per esteso: Come brucia e infuria la combustione, che buriana! Nelle ganasce un fluido che arde fa mascheroni, nel cuore si alloggia calce petulante, nelle fibre fibrosa sostanza; gavoccioli si generano nelle parti titillabili dell’inguine […]. È questo polverio naturante, che fa colombe, coleotteri, pelo, pelle, penna bagnata, umori da seme sparso, da calcinate pappe… Uomo, donna: così chiamiamo un periodo di tempo in un pacchetto di spazio. (Ivi, 511) La materia, dunque, appare dotata di una vera e propria agency170, o forza agente interna, derivante dal suo essere parte costitutiva della realtà (le “patterne […] del reale”, C60, 264); oltretutto, nonostante il suo essere frammentaria – “si opera per frammenti perché è in frammenti la materia”, ivi, 142 –, essa risponde a una struttura complessa e in espansione, mutuata anche dal campo della fisica delle particelle171. Mette conto rilevare l’importanza assun- die wyzen die van God onmiddelyk afhangen, waarvan wy in het navolgende Cap. zullen handelen; de bezondere bestaat in alle die bezondere dingen de welke van de algemeene wyze veroorzaakt werden, zoo dat de Natura naturata om wel begreepen te worden, eenige zelfstandigheeden van noden heeft” (Spinoza 2010 [1862], 240; “Prima di passare a un altro tema, dobbiamo brevemente dividere la natura tutta in due parti, la natura naturante e la natura naturata. Per natura naturante, intendiamo un ente che per se stesso, senza il concorso di nessun’altra cosa (come tutti gli attributi che abbiamo descritto fin qui), è conosciuto chiaramente e distintamente. Tale ente è Dio: è Dio, infatti, che i tomisti designano con questa espressione, benché, per loro, la natura naturante sarebbe un ente al di fuori di ogni sostanza. La natura naturata la dividiamo in due parti: l’una universale l’altra particolare. La prima si compone di tutti i modi che originano immediatamente da Dio: ne tratteremo nel capitolo seguente. La seconda consiste nelle cose particolari che sono causate dai modi universali. Dunque, la natura naturata per essere ben compresa, ha bisogno di una sostanza”, trad. it. di Sangiacomo in Spinoza 2010, 241). 170 Si notino anche i punti di contatto con la filosofia Lucreziana e il De rerum natura: “Et quo iactari magis omnia materia i / corpora prevideas, reminiscere totius imun / nil esse in summa, neque habere ubi corpora prima / consistant, quoniam spatium sine fine modoquest, / immensumque patere in cunctas undique partis / pluribus ostendi et certa ratione probatumst” (Lucrezio 2013, 164, 89-94; “Affinché tu veda meglio che tutti i germi della materia / sono in perenne movimento, ricorda che non esiste un fondo / dell’intero universo e che i corpuscoli primordiali non hanno / un luogo dove posare, poiché lo spazio non ha fine né misura, / e ho già mostrato come si apra immenso / in tutte le direzioni, provandolo con sicuro ragionamento”, trad. it. di Canali in Lucrezio 2013, 165). 171 “Siamo contro la materia che egemonizza l’energia. Abbiamo in orrore il protone, col suo bestiale accumulo di massa. Alle particelle! via dalla sporca materia atomica: al subatomico! Sbandire, col protone, il suo running dog, il tristo neutrone. Schiantarli! Liberare gli elettroni, asserviti. Liberare (intanto) i pioni, i kaoni, i muoni. Riconoscere che il fotone è bello e neutrino ha per sé l’avvenire: benché per il momento i neutrini circolino per l’universo senza arte né parte” (C70, 535). LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 127 ta dai referenti letterari e, in particolar modo, il romanzo The Black Cloud di Fred Hoyle (1957), la cui figura occupa un posizione di preminenza all’interno dell’ipotesto “eco” meneghelliano, in virtù della proficua contaminazione fra scrittura creativa e divulgazione scientifica. Nel recensire il romanzo sulle pagine di “Comunità”, nel 1959, Meneghello non manca di mettere il luce il ruolo auto-formante della materia, il dinamismo e l’autonomia a essa intrinseci: Anzitutto c’è naturalmente l’idea del racconto, quella dimostrazione – ipotetica s’intende, ma serrata e perfettamente “pensabile” – che può esistere benissimo un gas vivo e intelligente. La vita e l’intelligenza non sono fenomeni essenziali terrestri e umani, come, malgrado la fantascienza, siamo abituati a presupporre. Vita e intelligenza non sono altro che termini di comodo per indicare un certo grado di complessità nella materia. È pensabilissima, e anzi perfino probabile l’esistenza nell’universo di strutture tanto più complesse di quelle dei nostri cervelli, e quindi in intelligenze di grado assai più superiore alla nostra. (Meneghello 1959b, 11)172 La concezione cartesiana della materia, relativa cioè all’idea di una natura manipolabile a livello pratico e concettuale (Coole, Frost 2010, 7)173, è superata dal “grado di complessità” (Meneghello 1959b, 11) e sfocia in una visione materialistica pervasa da un’esuberanza creativa: ri-produzione costante di forme. Decadono, di conseguenza, quelle credenze ascritte da Jane Bennett alla “culture of life” (2010a, 58) e, in particolar modo, l’assioma oppositivo tra esseri biotici e abiotici, cui è derivativa la radicale opposizione tra vita umana e le altre forme viventi174. Nel rimandare a una materialità vitale (ivi, 63), Meneghello ribalta le gerarchie, riscrive i confini e, sotto certi aspet- Preme sottolineare il collegamento tra il prosieguo dell’articolo e un passo dal terzo volume delle Carte. Citiamo dal primo: “Una serie di individui, sviluppatisi, per esempio, in un ambiente come la nuvola nera di questo romanzetto, e che comunicassero per mezzo di radiazioni, o di segnali radio, cesserebbero di esistere separatamente” (Meneghello 1959b, 11); e ora dalle Carte: “Hanno un sistema di percezioni su cui si basa la loro interpretazione del mondo. Il mondo, come sai, è fatto in sostanza di radiazioni, e loro ne percepiscono una parte con gli occhi […]” (C80, 145). 173 “Many of our ideas about materiality in fact remain indebted to Descartes, who defined matter in the seventeenth century as corporeal substance constituted of length, breadth, and thicleness; as extended, uniform, and inert. This provided the basis for modern ideas of nature as quantifiable and measurable and hence for Euclidian geometry and Newtonian physics. According to this model, material objects are identifiably discrete; they move only upon an encounter with an external force or agent, and they do so according to a linear logic of cause and effect” (Coole, Frost 2010, 7). 174 Bennett individua quattro direttrici fondamentali, in base a cui la materia è stata ascritta al dominio della passività: 1) La vita è radicalmente diversa dalla materia; 2) L’esistenza umana occupa una posizione di preminenza rispetto alle altre forme di vita; 3) L’unicità dell’umano esprime l’intenzionalità del divino; 4) Il mondo ha una strutturazione gerarchica (2010a, 58-59). 172 128 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO ti, pone anche le basi per un monismo di fondo, in base a cui realtà mentale e realtà materiale si fanno indistinte: a un’ecologia delle idee, subentra allora un dinamismo emergente, legato alle cose e agli elementi materiali che, nel farsi tasselli significanti (Bergthaller 2014, 57), offrono una “redescription of the world from a new obsever position” (ivi, 49). Ma cosa intende Meneghello per “materia”? Volendo spingerci a una ricognizione di superficie, potremmo dire da subito che il termine si presenta sostanzialmente in tre accezioni: col significato di “argomento” o tematica di un’opera; quale costituente di cose e corpi (dunque organica, inorganica e particellare); e, infine, in riferimento alla lingua. Volendo tralasciare il primo aspetto – a nostro avviso non finalizzato a un’analisi secondo le linee del Material Ecocriticism – ci soffermeremo sul ruolo rivestito dalle cose all’interno dell’opera dell’autore: nelle note di Pomo pero e, nella fattispecie, in riferimento ai versi di Congedo, Meneghello definisce il “core” (PP, 401) quale “ ‘nodo o torsolo centrale delle cose’ “ (ivi, 429), richiamandosi all’inglese core (nucleo). La funzione epistemologica delle cose, intimamente connesse all’atto conoscitivo mediato dall’esperienza, è rinvenibile anche in Leda e la schioppa: in tutte le cose, in ogni aspetto dell’esperienza, c’è un prezioso nucleo di realtà, e […] questo si può enucleare e trasferire in ciò che scriviamo. Le buone scritture espressive cuciono insieme questi nuclei con una serie di gugliate: e che veramente ci dicono qualcosa sulla natura del mondo. (LES, 25-26) La conoscenza come esperienza, mutuando le considerazioni da Francisco Varela e Humberto Maturana, “is something personal and private that cannot be transferred, and that which one believes to be transferable, objective knowledge, must always be created by the listener” (1980 [1972], 5; “è un qualcosa di personale e privato che non può essere trasferito e ciò che si crede sia trasferibile, cioè la conoscenza oggettiva, deve sempre essere creato dall’ascoltatore, trad. it. di Stragapede in Maturana, Varela 1985, 47): la scrittura coadiuva quest’atto creativo, mediante cui il lettore (l’ascoltatore) approda a una visione non schematica, quanto piuttosto complessa. Il processo conoscitivo, dunque, non è scevro da aspetti materiali o corporei, quanto piuttosto ritorna su questi, guardando all’“ammasso di materia circostante” (MR, 129): il risultato è un entanglement (intreccio)175 tra cose e individui, laddove le prime si plasmano su Si mutua da Hodder la definizione di entanglement quale sommatoria delle quattro relazioni tra essere umano e cose materiali: 1) dipendenza dell’umano dalle cose; 2) dipendenza delle cose da altre cose; 3) dipendenza delle cose dagli umani; 4) dipendenza degli umani dagli umani. Proseguendo, Hodder parla di due forme di dipendenza tra uomo e cose: la prima ha una funzione abilitante e permette all’essere umano di “realizzarsi” in quanto tale (vivere, socializzare, mangiare, curarsi, ecc.); la seconda, definita quale dependency, rimanda a una co-dipendenza che pone all’umano dei limiti, sia a livello 175 LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 129 questi ultimi, conservandone intimamente le tracce, giacché “gli oggetti contengono le persone che ci li hanno dati” (C60, 117), in un segreto rapporto “tra gli strati superficiali e gli strati profondi” (ivi, 324). La tensione sarà ribadita anche tra le pagine de L’apprendistato, nell’affermare che “le cose hanno una carica bestiale di realtà nascosta, come i bestialissimi nuclei degli atomi. Una carica che a quanto pare hanno anche i “cuori” della gente” (APP, 118). Innegabili i punti di contatto col “core” di Congedo (PP, 401): il “DNA del reale” (MR, 182) diviene estraibile – e decodificabile – anche grazie alle cose e al loro essere co-emergenti. E se la scrittura si radica entro una realtà materiale (“all’interno della materia”, scrive Meneghello in AM, 172), la parola incorre in un processo di embodiment, mediante cui si fissa al reale e si sporca, volutamente, della vita stessa, in modo da innescare un circolo conoscitivo entro cui la comprensione oggettiva abbandona gli schematismi di fondo, approdando a una visuale decentrata ma, al contempo, pluriversa e vibrante. Ma come si struttura, in Meneghello, la narrazione delle cose? Come riesce la materia a farsi eloquente? In Pomo Pero, dopo aver passato in rassegna i “CONTATTI” (PP, 302) con la natura e la società, l’autore muove a descrivere i “complessi […] rapporti con le MATERIE” (ibidem), dove l’aggettivo rimanda, da subito, a una specifica strutturazione della realtà fisica, refrattaria a qualsivoglia linearità. Meneghello, letteralmente, sostanzia sulla pagina gli elementi materiali che costituiscono “questo ordinato sistema di rapporti e sostegni”: il carburo, il soldàmene176, la crèa [scil. la creta], la luminio, il rame dei rami177, il ciroloide: com’era amica e come vulnerabile nelle sue forme svariate la celluloide sostanza, quella affumicata negli oblò delle capotte, quella laccata delle girandole, quella trasparente dei finestrini, che si rigava di crepe irregolari, ragnava… Nessun uomo può essere compitamente stupido che abbia avuto consuetudine affettuosa con una materia così costituita. (Ibidem) Il fatto che il rapporto con le materie sia portato avanti per “consuetudine affettuosa” (ibidem), ci porta a prendere in considerazione l’approccio enattivo e incorpato alla conoscenza, poi sviluppato da Francisco Vareindividuale che sociale. In tale ottica, l’entanglement si configura quale “dialectical struggle”: “On the one hand, humans depend on or rely on things to achieve goals (dependence) […]. On the other hand, dependency and codependency occur when humans and things cannot manage without each other and, in this dependency on each other, they constrain and limit what each can do” (2014, 20). 176 “ ‘Sabbia’ per fregare le pentole o i rami” (PP, 415). 177 Cfr. LNM, 89: “Quest’acqua dei secchi si attinge con una ‘cassa’ di rame, nessuna acqua è buona come quella che si beve così. Sotto i secchi c’è il catino di rame, dove ci si lava le mani durante il giorno […]. C’è molto rame in casa, secchi, testi, stampi, leccarde, paioli appesi sopra al camino. Sospeso alla catena del focolare c’è il paiolo della polenta”. 130 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO la, Evan Thompson e Eleanor Rosch: secondo tale prospettiva, la mente – mai disgiunta dal corpo – è inserita (o, per meglio dire, immersa) nel mondo circostante, ragion per cui il processo cognitivo è influenzato e si forma in connessione con il sistema corporeo e mondano178. Ora, secondo il principio dell’enazione (dall’inglese to enact, cioè produrre), la realtà è percepita sulla scorta di una precisa modalità corporea – cioè l’affettività – la quale consente all’organismo di attribuire determinati significati al suo ambiente179. Nel passo meneghelliano appena citato, “il ciroloide” (ibidem) diviene vera e propria forma strutturante, dotata di una propria creatività intrinseca (non è inerte), fino a mimare le strutture del regno animale (“ragnava”, scrive Meneghello): siamo lontani, insomma, dall’episodio di Cicàna narrato in Libera nos a malo, dove la realtà si disponeva per livelli mondani distinti, tra cui il “mondo bruto della materia inanimata” (LNM, 65). Nel romanzo d’esordio, oltretutto, gli elementi non naturali si fanno vettori del mutamento antropico del paese, narrando in tal modo il loro incorporarsi alla biosfera e allo spazio abitato dall’uomo: Il cromo scaccia il legno, i finti marmi la pietra, il neon le lampadine; i bagni entrano nelle case, le cucinette moderne soppiantano le vecchie cucine; verranno i termosifoni, i frigoriferi, i tappeti […], e poi il resto che non si può fermare, le antiche travi, i mattoni rossi delle camere, gli intonachi, i corridoi, i ciottoli della corte, il vecchio cesso del cortile. (LNM, 87) I materiali sono dotati di una loro espressività, destinati a farsi spazio tra le strutture ormai in disuso dei complessi abitativi: le cose si caricano di una precisa valenza semiotica, sono creative e oltremodo creatrici, dal momento che “creativity is a feature not only of cultural evolution or of the biotic sphere of living nature, but of the world of the nonliving matter itself ” (Zapf 2014, 52). Si delinea una zona intermedia, entro cui gli elementi abiotici agiscono in simultanea – nel testo e come testo – il che origina sul versante diegetico la fuoriuscita dal solipsismo autobiografi- 178 “In a nutshell, the enactive approach consists of two points: (1) perception consists in perceptually guided action and (2) cognitive structures emerge from the recurrent sensorimotor patterns that enable action to be perceptually guided. These two statements will perhaps appear somewhat opaque, but their meaning will become more transparent as we proceed” (Varela, Thompson, Rosch 1993 [1991], 173). 179 Il filosofo Mark Rowlands ha ipotizzato, in merito all’enazione, quattro tipologie di processi mentali: embodied, cioè la combinazione delle strutture cerebrali con quelli corporei (2010, 53); embedded, quando la mente si evolve in relazione all’ambiente (ivi, 54); enacted, ovverosia la congiunzione tra i processi mentali e l’interazione dell’organismo con l’ambiente circostante (ivi, 55); extended, quando “some mental processes – not all, but some – extend into the cognizing organism’s environment in that they are composed, partly […] of actions, broadly construed, performer by that organism on the world around it” (ivi, 58). LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 131 co, culminante in uno sguardo situato e decentrato al contempo. Un atteggiamento che, come spesso accade nel libro d’esordio, si risolve in una componente magica o fiabesca attribuita agli oggetti: C’erano altre cose tra i poderosi piani incrocicchiati della cantina; cose indefinite, addormentate tra le muffe e le ombre, forse sepolte a fiore, del pavimento di terra da cui, scendendo con la candela di sera a prendere il vino, pareva che cominciassero vagamente a esalare. (LNM, 89) La materia, in tal caso, non è specificata (“cose indefinite”, ibidem), ma mette conto rilevare come questa vada incontro una decomposizione rigenerante, in quanto, nel suo incorporarsi alla componente biotica (le muffe), sembra veicolare un messaggio olfattivo ben preciso (“pareva che cominciassero […] a esalare”, ibidem). Gli oggetti, oltretutto, rispondono alla forza evocativa dei luoghi e, proprio in virtù della loro collocazione spaziale, partecipano a quell’imprinting (AM, 175), cui l’autore ha fatto più volte riferimento: a proposito della “porta della scala del granaio” (ivi, 176), posta nella vecchia casa maladense, l’autore non solo chiarifica ulteriormente il ruolo dell’oggetto quale enclave e serbatoio di tracce, vieppiù si accosta a un modello conoscitivo essenzialmente corporeo, mai disgiunto dalla realtà materiale: conoscenza incorporata, o embodied, imprescindibile dall’ambiente in cui prende atto: e poi girando, sempre sulla destra, la porta della scala del granaio, ancora più impressionante delle altre, perché la testura (voglio dire la texture, la qualità fisica) è penetrata in me e si è stampata là dentro con una forza che poche altre cose con cui entriamo a contatto possono uguagliare. (Ibidem) Si obietterà di trovarsi dinanzi a una poetica del ricordo tout court, mediante cui gli elementi costitutivi l’abitazione attivano, al pari di una madeleine maladense, il ricircolo mnestico. Eppure, siamo in presenza di una mente immanente che oltrepassa la distanza epistemologica, ragion per cui interno ed esterno non sono più degli opposti, quanto piuttosto i membri di una relazione di causa-effetto: ecco che il corpo, nel farsi infrastruttura del mondo, co-abita e accoglie le altre strutture che lo costituiscono. Per Merleau-Ponty, in fondo, “ous sommes mêlés au monde et aux autres dans une confusion inextricable” (1945, 518; “siamo mescolati al mondo e agli altri in una confusione inestricabile”, Merleau-Ponty 2003, 579), il che ci porta, dinanzi a un oggetto, a confonderci con esso. Tornando al passo meneghelliano, l’autore scriverà più avanti: Perché? Cosa c’è sotto, in fenomeni di questa specie? le porte, le modeste modanature, la qualità del legno, cioè le venature, il colore chiaro e rossiccio della porta maggiore, quella di mezzo […]. Si potrebbe parlare di qualità “tattili”, ma non era una questione di toccare, non con le mani, c’è un contatto più potente che avviene in altra sede, neanche gli 132 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO occhi lo spiegano del tutto, certo si doveva intanto vedere le cose, e sapere cosa vuol dire toccare e cosa troverebbe, sfiorando, il dito, anche oggi se volessimo passarlo (molto leggermente) sulle immagini di quelle superfici […]. Le porte di cui ho parlato le sento tutte associate alle persone, mia zia Lena, mia madre, c’è un effetto di intensificazione improvvisa, nel momento che le persone “passano sotto” la porta, entrando; come quei simulacri negli aeroporti dove se avete con voi degli oggetti metallici si accende qualcosa di elettromagnetico, così qui le figure vibrano per un istante e ti sembra di percepire la loro sostante… (AM, 176-177) Dunque, gli oggetti sono discorsivi e, al contempo, spazialmente connotati: da un lato, raccontano la memoria del luogo attraverso le loro qualità fisiche e materiali (mediante un contatto, si badi bene, che avviene per visione tattile); dall’altro, nell’essere associati a determinati individui, incorrono in un processo di dislocazione mediante cui il soggetto viene ri-situato nel mondo per mezzo di quella “intensificazione improvvisa” (ibidem). Quali sono, dunque, le implicazioni con l’ecocritica della materia? Tanto per cominciare, la realtà non si lascia imbrigliare in un modello preformato, stante l’azione di una virtualità di fondo, un thing-power (Bennett 2010b, 4) che si risolve in un’ontologia positiva delle cose, riattivata costantemente; in seconda istanza, la materia è animata da un impulso attivo che rivela la sua tendenza a persistere; infine, la “cosa” continua a farsi narrante, in quanto conserva delle tracce testuali tout court, delle storie leggibili e con cui è possibile interagire. Gli oggetti, in quanto dotati di una loro narrative agency (una forza narrativa), ci portano a riconoscere “schemi di significato nella forza agente delle cose […] [:] vedere le reti ibride di attività che costituiscono questi corpi e questi fenomeni, e cercare di vedere la nostra storia come originantesi insieme alle storie della materia” (Iovino 2016, 112)180. In seno alla produzione di Meneghello, un altro testo che può essere analizzato secondo le linee ermeneutiche del Material Ecocriticism è Rivarotta: trascritto della conversazione tenuta il 27 maggio 1989 nel Vicentino, per l’inaugurazione della mostra di Alessio Tasca e Lee Babel, nell’Antica Fabbrica Cristallina e Terra Rossa (all’epoca ristrutturata). L’autore, da subito, non manca di sottolineare quella Prodigiosa virtù dei cocci181, questi frammenti di cose rotte che preservano con tanta forza la memoria scheggiata di ciò che è stato, quasi i semi di una realtà che non c’è più, ma che partendo da essi si può ricostruire. Per sentire una frase che 180 Nel seguente passo dalle Carte, Meneghello quasi sembra interrogarsi sulla forza narrativa degli oggetti materiali: “tubi nichelati: cose inerti guardate intensamente… Tubi. Siamo stati addestrati a pensare che le cose contengano significati, messaggi; qui che messaggio cova?” (C60, 251). 181 I cocci ritornano in C70, 185: “Una città sepolta, non grande, piena di rottami con qualche scheggia di oggetti semipreziosi: così mi appare oggi il retroterra della vita di mio cugino; alcuni dei cocci che disseppellisco luccicano e brillano”. LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 133 ho sentita da Alessio qualche mese fa e che mi è parsa nitidamente significativa: “È la rottura delle stoviglie che spiega Rivarotta”. (RIV, 222) Il passo dischiude la carica narrativa insita nel residuo (lo scarto), il suo essere elemento costitutivo di una realtà passata (“semi”, ibidem), tuttavia ricostruibile: ormai divenuti sostrato, i cocci costituiscono quello che l’archeologo Bjørnar Olsen ha definito “bedrock of materials” (2013, 121), in quanto dotati di una persistence di fondo. In seno a tale ottica, l’oggetto si fa elemento mediatore nelle relazioni tra soggetto umano e realtà circostante ma, soprattutto, appare dotato di una creative agency peculiare, destinata poi a trasformarsi in forza narrante: Mi piacerebbe dire qualcosa sulla materia che sta alla base di tutto questo, l’argilla […]. In dialetto la chiamiamo la crea, parola che per me è associata curiosamente con l’idea della creatività artistica, certo per una elementare associazione fonica, ma con nessi più profondi: dopotutto, Iddio non ci ha creato con la crea? (RIV, 222) Al di là della derivazione veterotestamentaria e platonica, il passo sigla un’ulteriore tensione tra la materia e l’umano: da un lato, siamo dinanzi a una discendenza biotica e biosferica (uomo e argilla provengono dallo stesso humus); dall’altro, la creatività artistica mima e ripropone una demiurgia che è alla base di tutti i cicli vitali. Più avanti, l’autore parlerà di recupero del passato, inteso quale Processo di rianimazione dei frammenti, per cui si mira a raggiungere in ciascuno il nucleo genetico, l’essenza capace di rigenerare l’insieme e di restituire al circolo della vita ciò che era stato vita prima di scheggiarsi in una serie di pezzi incoerenti, dall’apparenza di cose morte. (Ivi, 228) Ecco superata l’ontologia dualistica tra vita e materia, azione e inerzia: la lettura dei frammenti – “perché è in frammenti la materia”, scrive Meneghello in C60, 142 – opera un processo di decodifica ed estrazione del significato, riabilitando l’esuberanza creativa del mondo materiale, dotato di un proprio “nucleo genetico” (RIV, 228), di conseguenza inserito nell’intreccio di una realtà densa, complessa, costruita e costruttiva al contempo. L’autore non manca di rilevare il ruolo precipuo dell’archeologia – poi alla base del Material Turn – quale “arte di far parlare i residui, gli avanzi, i detriti e, nel nostro caso, i cocci” (ivi, 227): veri e propri artefatti cognitivi, caratterizzati da una memoria incorpata (embodied) che l’interprete riattiva per decodifica. Ovviamente, il soggetto umano occupa una posizione del tutto subordinata, in quanto attua un’operazione di recupero, per lasciarsi guidare dalla carica vibrante dei cocci (una agency, appunto, “capace di rigenerare l’insieme”, ivi, 227). Ma, nel loro aprire “voragini di storia” (ibidem), i cocci si legano anche a un’idea materiale della lingua, come avrà modo di affermare Meneghello nella chiusa di Sottoscala: 134 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Ciò che mi aveva attirato era la somiglianza tra i cocci di Rivarotta e certe parole semi-sepolte del mio dialetto nativo. E ora, mentre facevo il mio “discorso” (in sostanza inaugurare la bellezza dei cocci), avevo alle mie spalle, sulla terrazza una “placca” di ceramica con un reticolo di parole incise. A un certo punto, additandola, ho spiegato che era un omaggio personale di Alessio a me, una tavola di parole Rivarotta182. Anche le mie parole vengono da antichi accumuli, dove trovo, non di rado, vibranti di energia espressiva, i pezzi del dialetto ormai arcaico dei paesi dell’Alto Vientino nei primi decenni del secondo, miracolosamente preservati […] sottoterra nella memoria. (MR, 282) Una memoria humus, dove il frammento linguistico è equiparato alla cosa-reperto: residuo interrogabile, recuperabile mediante operazioni di scavo e, di conseguenza, generatore di narrazioni possibili. Mette conto, oltretutto, sottolineare il trattamento riservato a questi cocci linguistici, poiché al recupero archeologico – e qui sta la ragione per cui abbiamo voluto approntare una lettura in chiave ecocritica di Rivarotta – non risponde mai l’esibizione fine a se stessa, tale da bloccare i “reperti” idiomatici in una collezione di mirabilia. Ecco perché Si cerca di farli rivivere, di riorganizzarli in forme armoniche, farli funzionare di bel nuovo se possibile farli brillare nella loro quasi inesauribile forza genetica – come un pezzo di moderna ceramica linguistica. (RIV, 231) Non più elemento decorativo, quanto piuttosto tassello di un framework riattivabile e passibile di significazioni ulteriori: la ceramica, nella sua apparente durezza e impenetrabilità, è fatta di “crea” (ivi, 222) ma al tempo stesso “crea”, diviene demiurgica, stante il fondo esperienziale che non la blocca a uno stato definitivo. La materia dischiude la forza creativa e narrante, prospetta mondi possibili che, per retroazione, influiranno su quello reale, costantemente attingendo a un “potentissimo serbatoio di forme” (AM, 168). A maggior ragione, questo ci spinge a prendere in esame la materialità stessa della lingua, richiamandoci anche alla concezione meneghelliana della scrittura letteraria che, alla stregua dell’oreficeria, tratta “le parole come materia preziosa” (MR, 107, corsivo mio): il concetto sarà poi alla base di Maredè, dove “i prelievi dai diversi strati portano in luce materiali eterogenei […]: ciò che effettivamente ha trovato la sonda” (MM, 58, 182 “E c’è poi la placca che vedete appesa al muro della terrazza qua sopra ma che normalmente abita a casa mia, un omaggio personale di Alessio a me […]: una tavola di parole dialettali, “sostantivi maschili bisillabi piani”, intitolata […] da pómo a pèro. È un bell’onore per me, e un gran piacere, vederla qui esposta nel contesto della mostra, trattata come un pezzo di archeologia linguistica paragonabile per certi rispetti al mondo di questi cocci. Viene infatti dal greparo, dal cocciaro della mia e nostra esperienza linguistica di dialettofoni. Sono parole-frammenti che ho ordinato con un certo puntiglio ornamentalemusicale, in modi che ora non vi sto a descrivere” (RIV, 230). LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 135 corsivo mio). Sempre nell’ultimo libro della terna maladense, la parola si àncora all’evento e, nel farsi matrice di senso, riflette una modalità percettiva intimamente legata al reale e al dominio dell’esperienza: Pul! è il segnale che scatena una serie un po’ fiabesca di effetti: una cordicella che si contrare, lo scatto di un braccio meccanico, il volo radente del piattello, il salto dello sguardo che lo aggancia, lo sparo – e quel prillare del disco voltante, quel volo infagottato, quel venire centrato in aria e scheggiarsi in una marmaglia di frammenti… Materia extra-terrestre, carboniosa, che ritrovi poi in schegge affilate, sparsa qua e là tra l’erba, nera, leggera, incredibile, iper-reale. (MM, 92) L’impianto da definizione lessicografica cede il passo al frammentarsi della materia in cui, tuttavia, la parola continua a esistere, pur essendo andata incontro a una mutazione di segno, un vero e proprio passaggio di stato: siamo dinanzi a quella capacità – rilevata da Carla Marengo Vaglio – di “spiare eventi minimi, di sorprenderli nel loro stato aurorale, incoativo, delineando situazioni impalpabili, ed insieme alimentando il senso della misteriosità del linguaggio, il sospetto della parola che può aprire alla scoperta sorprendente di quanto si produce” (2005, 35). In altri passaggi del macrotesto, Meneghello parlerà di “pagliuzze del dialetto locale” (PM, 12) o di “roccioso dialetto della valle” (BS, 473), fino al “discorso polimerico”, rinvenibile nel primo volume delle Carte, costituito da “piccole varianti, vuoto, gentile, allucinante” (C60, 399). Una lingua, insomma, complessa e vischiosa (“un pattern stilistico […] impastato”, C70, 210), ch’è materiale, ossidabile (“questa prosa ha della ruggine”, APP, 147) e polimorfa: l’idioletto meneghelliano è caratterizzato da una virtualità intrinseca e passibile d’infinite combinazioni. Ma avevamo detto, a inizio di questo paragrafo, che l’accezione di “materia” rimandava anche all’idea di argomento e tematica delle opere: ebbene, in Meneghello, essa si accompagna spesso a una solidità di fondo, come se i libri – alla stregua della placca realizzata da Alessio Tasca – fossero la risultante di un processo solidificante. Se in Pomo pero l’autore aveva fatto riferimento a un “un libro che non si può spaccare… […] un blocco inamovibile” (PP, 357), in Fiori a Edimburgo (conversazione del 1989) affermerà che “la materia di cui mi sono occupato finora forma alcuni blocchi distinti ma in parte sovrapposti” (MR, 65). Lo stesso dicasi per il processo genetico di alcune opere, quali il Dispatrio e Bau-sète!: il primo ha una derivazione effusiva, “cavato in poche settimane da un magma di materiali scaturiti e sedimentati nel corso dei decenni” (ivi, 90); l’altro è risultante di “un’accumulazione di materiali fortemente stratificati” (MR, 175). L’autore, sostanzialmente, ha una predilezione per la “materia soda”, cui è coestensiva la scrittura stessa, giacché ci sono Due fonti assai diverse per la voglia di scrivere: da un lato il piacere della materia soda (quella con cui è facile, è naturale fare un libro), un piacere che nasce dalla 136 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO percezione che dietro i fatti e gli interessi confusi della nostra vita, se li si guarda con occhio tranquillo, c’è un fondo di buonsenso, di verità. L’altra fonte è lo splendore della orma bella, l’invenzione formale. Queste due fonti non sono incompatibili tra loro, ma raramente coincidono. (C60, 58) La “materia soda” (ibidem) rimanda al “nòcciolo di materia primordiale” (LNM, 37) del libro d’esordio, così come è impossibile non scorgervi le filiazioni col “torsolo centrale delle cose” (PP, 429), cui Meneghello faceva riferimento a proposito del “core” di Congedo (ivi, 401). Ciò non toglie, ovviamente, che questa materia sia deperibile – perché “ogni materia, divulgandola, si dissolve in poltiglia” (C70, 94) – ma persiste la sua circolarità di fondo, tale da inserirla in un sistema di relazioni fra libro e mondo, dove l’assemblaggio del discorso letterario si risolve in una partecipazione attiva del soggetto alla realtà materiale, i cui significati sono riscritti proprio perché guardano oltre la pagina scritta, in virtù del loro essere espressioni materiali. A chiusura di questa prima parte, vorremo soffermarci in ultima istanza su quella che, a ragion veduta, potrebbe essere definita come “corporalità” della scrittura meneghelliana (e che si rende cogente in seno a un’analisi secondo le direttrici dell’ecocritica della materia). Ci preme ribadire come la riscoperta del corpo – connessa al superamento dell’ontologia cartesiana tra mente e materia – abbia giocato un ruolo chiave nello sviluppo del Material Ecocriticism, tanto da ampliare il campo d’indagine della nascente ecocritica che, dalle narrazioni sulla natura strictu sensu, ha cominciato a guardare ai processi inclusivi/esclusivi tra soggetto umano e elementi xenobiotici, eleggendo il versante corporeo a zona contaminata e contaminante: soglia e terreno di scambi. Nel pensiero semiotico tradizionale – si pensi, ad esempio, allo Strutturalismo – il corpo era stato praticamente appiattito alla stregua di costrutto linguistico, analizzandone sì la variabilità concettuale nelle varie culture e lingue, senza però andare oltre il limite strutturale. Le cose si sono poste diversamente con la linguistica cognitiva, la quale ha insistito più volte sulla natura corporea delle strutture linguistico-semantiche: strutture embodied, diametralmente opposte a quelle di marca chomskiana e formalista. In base a tali considerazioni, la conoscenza si mostra intimamente connessa all’interazione del soggetto con l’ambiente, ragion per cui i concetti sono determinati per atti cinestesici (Stjernfelt 2006, 19). Prima di addentrarci negli incroci tra materia e corpo nella produzione di Meneghello, vorremmo chiudere il discorso avanzato nei precedenti paragrafi, guardando a quella “lingua corporale e fisiologica” (Pellegrini 2002, 73), volutamente in-carnata. E lo facciamo partendo uno dei passi più noti di Libera nos a malo: Ci sono due strati nella personalità di un uomo; sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto. Quando se ne tocca una si sente sprigionarsi una reazione a catena, che è difficile spiegare a chi non ha il dialetto. (LNM, 36) LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 137 L’idioma dialettale, proprio alla luce della strutturazione corporeoepidermica, si fa lingua del corpo e sul corpo, ovverosia segno dell’interazione tra il soggetto parlante e la realtà: il patrimonio lessicale, di conseguenza, assurge a patrimonio genetico, un DNA semiotico che, se stimolato, innesca una serie di reazioni significanti. Le parole, d’altronde, hanno “sottopelle una valenza” (MR, 211) e s’incarnano in una materialità specifica proprio per sfuggire al rischio di una referenza mancata183. Se la corporeità vertebra la scrittura di Meneghello, non dovremo stupirci nel trovarci di fronte a una embodied culture, tesa a oltrepassare lo iato ontologico tra mente e corpo, vita e materia: il tutto si risolve in una serie di traslati e metafore che rispondono a un’esigenza di concretezza, quasi a voler riempire quel vuoto generato dalla retorica e i processi formalizzanti. Sono, sostanzialmente, figurazioni fisiologiche della cultura, dove il corpo ha la funzione di situare e collocare la portata epistemica entro la realtà effettiva: la carne, dunque, come àncora e referente, mediatrice fra cose e pensieri. Nel primo volume delle Carte, ad esempio, la cultura è rappresentata letteralmente “sotto i ferri”, dal momento che Meneghello parla di “introdurre e deformare (per cauterizzarle) tutte le distinzioni false o arbitrarie di cui è impastata” (C60, 144), a riprova di come il sostrato culturale non sia un semplice crogiolo di idee astratte, quanto piuttosto un corpo plastico modificabile (proprio perché l’idea “serpeggia sottopelle”, C70, 352). Proseguendo la nostra analisi, ci avviciniamo invece sempre di più all’idea di una mente incarnata: L’emoglobina, che va in giro con le sue fiaccolette a dar fuoco alle cellule: c’è una relazione col nostro modo di pensare. I nostri pensieri, come i tessuti del corpo, vengono costantemente bruciati e si rinnovellano. Sono nuovi, e sono gli stessi. (C70, 53) La distinzione mente-corpo appare ormai superata, nel ravvisare una perfetta parità tra processi fisiologici e intellettivi. Si delinea un circuito d’interazione, mediante cui è oltrepassata la concezione a due unità dell’apprendimento, indissolubilmente ancorato all’esistenza corporea. Concetto, questo, ribadito anche dagli “sfinteri ideologici” (C70, 270), che ci permettono non solo di guardare alla realtà somatica sottesa alla scrittura di Meneghello, ma di indagare anche quelle che sono le figurazioni scatologiche, originanti una narratività degli escrementi184. In Libera nos a malo, ad esempio, il letamaio Perché “nel DNA delle parole non sa mai cosa c’è” (MR, 211). Altro versante legato alla corporeità è quello relativo ai bacilli e alle malattie. Si prenda in esame, ad esempio, il passo di Libera nos a malo relativo alla tisi: “La tisi è un male subdolo che i maestri hanno ordine di dichiarare non ereditario, ma tutti sanno che va a famiglie. Si può anche prendere però, se il Tisico per capriccio o per malizia (talvolta la malattia rende cattivi) ti fa ‘f f f’ davanti alla bocca. Questa malattia presenta varie forme: c’è il tisico-tubercoloso che può vivere anche parecchi anni, sempre magro e stanco; e c’è il 183 184 138 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO “ha le sue stagioni, i suoi ritmi naturali, il volgere della luna lo gonfia e lo secca senza posa” (LNM, 91), il che rivela come il materiale fecale non resti confinato, una volta espulso dal corpo, alla fissità di semplice sostanza di scarto, bensì sia preso in una serie di cicli biosferici che, sotto certi aspetti, ricordano il movimento delle maree. Certo, “la merda non è riconosciuta come tema” (JUR, 41), eppure istituisce un legame verso una profondità tellurica e naturante, attinge “automaticamente, per inversione, al fondo dei sentimenti veri” (ibidem): facendo nostre le considerazioni di Bachtin, l’abbassamento coincide con “Снижение здесь значит приземление, приобщение к земле” (Bachtin 1990 [1965], 25; “l’avvicinamento alla terra, come principio che assorbe e nello stesso tempo dà la vita”, trad. it. di Romano in Bachtin 1993 [1979], 26). Gli escrementi, però, rimandano anche a una dimensione eslege, distinta cioè dalla temporalità convenzionale e antropica, debitamente tenuta a distanza. Come affermato da John Scalnan: Deteriorating matter (whether in the form of faeces or discarded consumer goods) embodies a time that exists beyond our rational time: in this shadow world, time is always running matter down, breaking things into pieces, or removing the sheen of a glossy surface and, therefore, the principal methods of dealing with material waste throughout most of human history […] are simply ways of ensuring that this fact does not intrude too far into everyday experience. (Scalnan 2005, 34) La materia deteriorata (sia nella forma delle feci sia in quella di beni di consumo buttati via) rappresenta un tempo che esiste al di là del nostro tempo razionale: in questo mondo/ ombra, il tempo infiacchisce continuamente la materia, fa a pezzi le cose, o smorza lo splendore di una lucente superficie e, pertanto, i sistemi principali con cui si è trattata la materia di scarto per quasi tutta la storia dell’umanità […] sono semplicemente modi per assicurarsi che questo fatto non s’intrometta eccessivamente nella vita di tutti i giorni. (Trad. it. di Monterisi in Scalnan 2006, 15-16) tisico-marso che sputa sangue e si spegne in capo all’anno. Queste sono le forme normali della Tisi: ma c’è anche la Tisi-Galoppante di cui il nome stesso descrive la natura; i bacilli crescono alquanto e invece di strisciare sui polmoni brucandoli, si lanciano al galoppo dentro il petto. Il malato sussulta al calpestio dei piccoli zoccoli ed è spacciato in poche ore” (LNM, 40). In Pomo pero, viceversa, è presente una vera e propria fenomenologia dei morbi maladensi: “Si distinguevano i grandi mali-base, le quattro forme del male, sulla cui rispettiva forza si disputava per chiarirsi le idee, dedènte, deréce, detèsta e depànsa, variabili rispetto ai parametri del voltaggio e dell’amperaggio. C’era una quinta forma, dedòne, categoria a parte che non colpiva gli uomini; e alcune altre minori, come il mal-caduto. E il male oscuro […]. E poi la turba delle malattie vere e proprie, come in processione per l’ultimo di carnevale, l’Ernia col tumido gnocco addosso e al collo la sóga che in qualunque momento può strozzarla; il trenino dell’Epidemia, lunga fila di vagoncini neri strattonati dalla Cirolina locomotiva […]; la Pellagra in stracci, con gli scarponi da uomo; il dino-sauro con la pancia piena di Paratinfo, e davanti a tutti lo svelto Morbino, malattietta ariosa, che ballava gettando i coriandoli. Rogna Racchette Avaróle… Ognuna aveva la sua qualità, la Fersa con le allegre fiamme che non bruciano, la Nòna dal pigro decorso, la drammatica Palmonite, quasi una prova sportiva a riprese dove vigeva la bizzarra situazione che dovesse decidere la quinta, o pareggiandosi quella, la settima” (PP, 296-297). LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 139 Ma Meneghello riammette questa realtà separata in seno alla propria scrittura, rompendo quello che, pagine addietro, abbiamo definito come veto scatologico. Soprattutto in Maredè Maredè, e proprio nel fare riferimento a una “feracità linguistica [connessa] ai meccanismi oscuri […] della scatologia” (MM, 27), l’autore non mancherà di tracciare parallelismi tra piano semantico e immagini escrementizie: Una pluralità accentuata in cui traspaia il senso della moltitudine incontrollata e dell’eccesso si può esprimere, oltre che nelle ovvie forme un mucio / un fotìo / na cuantità (de), più vivacemente con un staro, e meglio ancora con un luamaro, un smerdaro. È curioso che l’idea della sovrabbondanza si sposti così bene con quella degli escrementi. Una cosa sorprende in questi passaggi, e cioè l’assenza della componente olfattiva, da Karl Rosenkranz ritenuta preminente nella dialettica umano-escrementi: “Der üble Geruch der Excremente läßt sie in ihrer puren Natürlichkeit noch widriger, als in ihrer bloßen Gestalt erscheinen” (1853, 314; “Il consueto odore degli escrementi li fa comparire nella loro pura naturalità ancor più ripugnanti di quanto non appaiano rispetto alla forma”, trad. it. di Barbera in Rosenkranz 1994 [1984], 238”). Una situazione, questa, rilevabile in un altro passaggio di Maredè, dove la materia fecale si tramuta in matrice narrante185 e, in un certo qual modo, getta le basi per una equiparazione tra regno umano e regno animale (il parlar d’escrementi, dunque, diviene anche banco di prova per il superamento di uno specismo di fondo): Sulla distinzione tra petolón e petolóto che ciascun vicentino […] conosce e pratica quasi dalla culla, ma che non è così semplice da definire, basterà osservare che il primo è sentito come più presto umano che d’alta creatura, il secondo è vuoi umano (Pomo pero […]186) vuoi di diverso animale purché di peso e volume non troppo dissimili da quelli umani. La vaca e il bò non fanno petolóti ma boasse; sono invece petolóti gli escrementi equini, che tuttavia non è impossibile 185 In Pomo pero, al contrario, la traccia fecale lasciata dalle dita sulle “ruvide malte dei cessi” (PP, 308) assume financo una valenza politica e di fa distinguo tra fascisti e antifascisti: “Chi sono dunque i fascisti? […] In pratica, la gente per bene come i nostri papà, gli zii, i loro parenti e amici: i signori, quelli che hanno botteghe, tavolati […], carta nei cessi per nettarsi il culo, il Corriere per fare la carta […]. Poteva parere una favola, ma i cessi denunciavano la verità effettuale della cosa, le ruvide malte dei cessi accentate da dita afasciste” (ivi, 307-308). Il fatto che le malte siano “accentate” (ibidem) rimanda alla valenza significante dell’escremento, qui riportato alla stregua di segno, sotto certi aspetti, dichiarazione ideologica. 186 Meneghello fa riferimento a PP, 372-373: “Quando io e Bepi eravamo fanciulli […] il divertimento più ricco per i figli del popolo era montare in camera sopra lo stallotto […] e sul grugnente inquilino là soto far cascare a prova per gli spacchi dell’assito qualche petolotto. Questi sono i veri rapporti tra gl’italiani e i maiali, non quelli che ci mostrano al cinema”. 140 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO chiamare anche boasse ma precisando per lo più de cavalo, ecc. Si direbbe che come varie categorie di animali, in molte lingue, hanno un nome per la propria voce, così nella nostra per la propria cacca, secondo una progressione che comprende tra l’altro (dal piccolo al più grande) cagaùra, schito, pétola, petolón, strónso, petolóto, boassa. Sappiamo dai libri che in luogo di boassa potremmo sempre, forse dovremmo, pensare o almeno dire “méta” o “bica” o forse addirittura (come troviamo scritto) “escremento di bestia grossa” o “quantità di escrementi emessi in una sola volta”: in verità quest’ultima ci sembra un’imprecisione. La boassa si considera dalla coscienza popolare che sia emessa in una serie ritmica di ‘volte’, spesso imitate per diletto riproducendone il caratteristico suono col battito ritmato delle mani, che si soffoca alquanto atteggiando le mani a cucchiaio e si accelera alla fine con una sequela di colpi più ravvicinati e più fiochi, e si conclude con una coda di minuscoli colpetti di due dita appaiati contro il palmo dell’altra mano. (MM, 186-187) L’anosmia generale rende l’estratto un vero e proprio pezzo di bravura sulla fenomenologia stercorale, tanto che gli escrementi – per quanto trattati alla stregua di voci lessicali – mostrano una loro peculiarità intrinseca, dal momento che “shit has […] its own character and tone” (Phillips 2014, 178), “[it] not only does it have agency, but it also hosts a myriad of agents, along with traces of our DNA” (ivi, 180). Concetto, quest’ultimo, rinvenibile in un passaggio contenuto nel secondo volume delle Carte: Io non mi sono vergognato (non molto) di non poter offrire agli ospiti altro che l’uso di un solo gabinetto in casa, e di quelli che ogni tanto spandono e si devono riparare […], e che inoltre non sempre portano via lo sporco, per cui bisogna versarci un secchio d’acqua supplementare, e pur cercando di non guardare si viene fatalmente a vedere i segreti dello sporco della gente con cui si condivide la casa. (C70, 148) Meneghello dischiude la creatività sottesa alla materia fecale e la estrae, senza sfociare in una coprofilia fine a sé stessa, quanto piuttosto riscattandola dal ruolo di metafora spregiativa, andando oltre i meccanismi inibitori consueti che la considerano “as the vehicle for either rollicking scatological humor or blistering social satire and therefore (merely) as a trope” (Phillips 2014, 175). L’altro risvolto di questa scrittura organica è costituito dalla corda del postumano, laddove l’ànthropos rifugge la posizione universale di preminenza, a cominciare proprio da una ridefinizione del corpo. Ciò si traduce, a livello testuale, in due direttrici distinte: da un lato, si assiste a uno slittamento della corporeità biologica, destinata ad accogliere parti di materia xenobiotica; dall’altro, viene a crearsi un sistema instabile e aperto – dove naturale ed artificiale si risolvono in esistenze ex post – che rende le cose “vitali” sulla pagina scritta. Simili considerazioni si rivelano funzionali a una lettura ecocritica dell’opera dell’autore, in quanto adombrano un LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 141 monito all’esclusivismo antropocentrico, proprio partendo dalla concezione di un corpo passibile di future contaminazioni, tale da infrangere il mito della purezza. A questo proposito, risultano decisamente finalizzate alla nostra analisi le considerazioni avanzate da Roberto Marchesini in merito al puer contaminato: Il XXI secolo si candida come l’età della contaminazione: a) le pratiche biotecnologiche (ingegneria genetica, chimerismo), come pure l’utilizzo di xeno tessuti, di organi sintetici, la transfezione con geni artificiali creano di fatto un’orizzontalità del bios; b) l’utilizzo sempre più invasivo di tecnologie perfezionate, in grado non solo di apporsi al sostrato organico ma soprattutto di dialogare con esso e, in certi casi, di controllarne le funzioni, dà vita a nuove performatività. Sembra proprio che da un’idea di integrità, ricercata con ogni mezzo e associata spesso al concetto eugenetico di razza pura, si sia passati sulla sponda opposta, verso cioè una retorica del mutante e dell’ibrido. (Marchesini 2002, 186) Già in un passo del terzo volume delle Carte, a proposito dell’ingegneria genetica, Meneghello aveva fatto riferimento al “quadro di un paese geneticamente disordinato dove le forze della libertà hanno generato il caos” (C80, 169), in riferimento a un’ontogenesi orizzontale, destinata a accrescere la biodiversità per vie alternative, al di là del classico modello dicotomico: poiché complessa, la realtà è caratterizzata da una “asimmetria tra spiegazione e predizione” (Marchesini 2002, 97), cui è conseguente l’abbandono, o comunque la messa in discussione, dello schema determinista e la sua caratteristica certezza dell’esito. In Meneghello, il termine “postumano” ricorre nelle Nuove Carte, in riferimento a una “foto di allucinante bellezza” (APP, 156), ove traspare la posa del Monumento a Tito Livio187 realizzato da Arturo Martini: “queste spoglie quasi di sontuoso anfibio preistorico o di futuro mutante post-umano, Homo scrutans188¸ come dev’essere soda e pungente” (ivi, 157). E, sempre nel retrobottega delle Carte, si guarda alla “riorganizzazione” dei corpi tramite innesti e ibridazioni con l’artificiale, cui è conseguente la dislocazione della morsa antropocentrica e della preminenza comunemente accordata al body. Scrive Meneghello nel primo volume: È essenziale che l’intelligenza sia associata con la vita? Già appare possibile sostituire organi umani con manufatti non-viventi; il processo si può estendere, nel quadro di una semplificazione radicale che miri soltanto a nutrire il cervello e abolire tutto il resto. Avremmo dunque un cervello “vivo” e degli apparecchi inorganici per tenerlo in vita. Il sistema dovrebbe risultare assai più durevole di un essere umano, anche se può credere che il cervello continuerebbe ad invec- 187 Un’immagine della statua sarà poi posta in copertina dell’edizione Rizzoli 2006 di Fiori italiani. 188 Chiaro riferimento allo sguardo meditativo assunto da Tito Livio nella scultura di Martini. 142 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO chiare (più lentamente) per conto suo, e infine morire. Ma in seguito, se si potrà rifare anche il cervello con materiali non-viventi, si vedrà che non occorre essere vivi (come noi) per essere intelligenti (come noi), dovremmo porci la domanda se ci interessa veramente essere vivi. (C60, 289) L’estratto muove le fila da un’ipertrofia cerebrale, mediante cui si origina un dislivello considerevole fra spazio corporeo e spazio mentale; vieppiù, Meneghello rovescia l’imperativo del Cogito, dal momento che intelligenza e vita non sono, così sembra, necessariamente complementari. Il passo presuppone un’abolizione concertata del corpo e dei suoi organi, per approdare a un’intelligenza senza mente, il che ci porta a formulare due considerazioni essenziali: da un lato, la corporeità si supera e, al contempo, si svuota e si restringe, per raccordarsi in un sistema ibrido e pensante, laddove il cervello (organico, ma alimentato da strumenti artificiali) ricorda il processore dei calcolatori elettronici; dall’altro, l’apparato cerebrale diviene riproducibile e duplicabile attraverso materiali non viventi189, quasi anticipando gli sviluppi dell’Intelligenza Artificiale. Meneghello ci offre un corpo esteso ma, soprattutto, estensivo e protesico: una vera e propria interfaccia bioibrida (Marchesini 2002, 445) che, inevitabilmente, riscrive le coordinate ontologiche dell’individuo stesso: Ci sono gli individui? No, non ci sono. Gli individui (l’individuo, la persona) sono palesemente dividui. Abbiamo adottato la linea più comoda, supporre di essere indivisibili. Invece siamo divisibilissimi, non soltanto in pezzi (una mano mozzata, un naso avulso dal buco che sormonta), ma in altri presumibili individui-dividui, singoli organi capaci di funzionare in modo autonomo, e poi cellule, e poi molecole, e poi la cipria degli atomi… (C70, 27) Il riferimento a “organi senza corpo” (cioè extracorporei, capaci di svolgere le loro funzioni vitali anche al di fuori di esso) istituisce, da subito, un legame con il passo citato in precedenza (dov’era il cervello a isolarsi rispetto ai restanti apparati). Nel farsi divisibile, il corpo preannuncia un’esistenza cyborg190 e si apre alla pluralità ontogenetica, a monte di una rinuncia, sotto 189 Nel terzo volume delle Carte, Meneghello farà riferimento a una “biologia fondata sul silicio […] [per] straviarsi dalle noie della vita fondata sul carbonio” (C80, 455). La fusione tra materia cerebrale e innesto elettronico è paventata anche in APP, 123: “No, Lorenza non ha scrupoli. I figli? ‘Probabilmente nasceranno col computer già innestato’ ”. 190 Il termine cyborg fu coniato nel 1960 da due medici statunitensi, Manfred Clynes e Nathan Kline, i quali avevano collaborato a degli esperimenti promossi dalla NASA per migliorare il metabolismo dei piloti durante le esplorazioni spaziali: “For the exogenously extended organizational complex functioning as an integrated homeostatic system unconsciously, we propose the term ‘Cyborg’. The Cyborg deliberately incorporates exogenous components extending the self-regulatory control function of the organism in order to adapt it to new environments” (1960, 27). LE COORDINATE DI UNA BIOSFERA 143 la scorta del pensiero postumanista, “all’essenzialismo e a una visione omologata dell’uomo” (Marchesini 2002, 183): l’Uomo Vitruviano è sì ancora inscritto nelle perfette traiettorie del cerchio, ma le sue proporzioni sono come ridefinite, proprio in virtù delle dinamiche biosferiche, ormai divenute intreccio di processi naturali e acquisizioni scientifiche. E se il corpo umano, tuttavia, può farsi terreno di ibridazioni con l’artificiale, la situazione si presenta, seppur invertita, per l’ambito di determinati oggetti che, talvolta, si caricano di uno slancio organico, a riprova del continuo interscambio tra vita e materia. Nel primo libro, ad esempio, Meneghello ricorda le “ossa spolpate dei motori [che] si gettavano nel cortiletto della forgia, in un mucchio sotto il primo gelso, e lì arrugginivano alla piova” (LNM, 90, corsivo mio), narrando non solo l’esistenza ex post degli ingranaggi meccanici, quanto piuttosto mettendo in luce una patente di corporeità; lo stesso dicasi per lo Sten nei Piccoli maestri191 o il Bi-Elle di Bau-sète: “scassato nel cassone, nel telaio, nel motore venerando, dappertutto – un Bi-Elle che perdeva le budelle” (BS, 478), in cui è impossibile non ravvisare quelle le interiora fumanti che, ne La bête humaine192 di Émile Zola, si intravedono dalla Lison deragliata. Ecco che, attraverso un intreccio di temi e motivi, la scrittura aumenta la propria carica evocativa, la sua portata epistemica, sempre seguendo il corrimano di una materia animata, vibrante, generatrice di innesti. E per quanto ristretta, la corda del postu191 “Il piccolo Sten non era questo; era rozzo metallo stampato, rifinito alla buona, e spargeva i colpi in modo approssimativo, come a tirarli a mano, una manciata alla volta, ma naturalmente molto più forte. Tirava pallottole da nove […]. Nove, nove, perché nove? Il loro calibro era forse dovuto al caso, i nove millimetri chissà cosa sono in pollici; ma i numeri sono veramente mai a caso? Queste palle, queste scatolette bislunghe, contengono il succo di quella macchina che è lo Sten, e di quell’altra macchina che è una società in guerra; sono come i testicoli di un uomo, perché in esse c’è il point dell’intera faccenda, e il numero nove perfetto e misterioso è appropriato. Se ne prendeva una manciata e si cacciavano una per una nel caricatore, che è lo scroto lungo rigido e nero del parabello, e contiene trentatré palle” (PM, 66). Il funzionamento dell’arma non può non far pensare al sistema di “pompe interne” (C60, 14), rinvenuto a proposito dell’episodio di Sofka, dal momento che l’oggetto, da inanimato, acquista non solo una vitalità propria, ma diviene biomacchina, complessa e anatomicamente connotata, dal nutrimento fornito tramite le pallottole, allo scroto del parabello. 192 “La pauvre Lison n’en avait plus que pour quelques minutes. Elle se refroidissait, les braises de son foyer tombaient en cendre, le souffle qui s’était échappé si violemment de ses flancs ouverts, s’achevait en une petite plainte d’enfant qui pleure […]. Un instant, on avait pu voir, par ses entrailles crevées, fonctionner ses organes, les pistons battre comme deux cœurs jumeaux, la vapeur circuler dans les tiroirs comme le sang de ses veines […]. Elle était morte” (Zola 1893 [1890], 336; “La povera Lison non ne aveva che per qualche minuto. Diventava fredda, le braci del suo camino ricadevano in cenere; il respiro, esalato con tanta violenza dai suoi fianchi squarciati, smoriva in un lieve lamento di bambino che piange […]. Per un istante era stato possibile, attraverso le interiora scoppiate, veder funzionare i suoi organi, il palpito dei pistoni come due cuori gemelli, il vapore circolare nei cassetti come il sangue nelle vene […]. Era morta”, trad. it. di Francavilla in Zola 1997, 301). 144 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO mano origina in Meneghello un vero e proprio allentamento della morsa antropocentrica e ripensa l’uomo come soggettività nomade, incarnato e interrelato: l’individuo, ormai dividuo, s’inserisce in tal modo in una rete di relazioni e tensioni complessi, in una realtà di “patterne”, volutamente in frammenti, dove il corpo gioca un ruolo di preminenza proprio per il suo essere centro di scambio ma, al tempo stesso, parte attiva di un sistema. Abbiamo dunque cercato di individuare le coordinate di una biosfera letteraria, significante, fondamentalmente creativa, in quanto fulcro generativo della scrittura. Una biosfera con cui la parola e il testo stesso intrattengono un rapporto complesso, polivalente e mai stabile. L’idea è quella di tanti cerchi – o “sfere”, verrebbe da dire: circonferenze mobili e flessibili, destinate a chiudersi e aprirsi per strutturare un sistema organico che, parimenti, è anche un ecosistema letterario (mutuiamo la definizione da Turi 2016). L’analisi ecocritica, ovviamente, ha individuato un punto di inizio (cioè la natura), ma plurime sono state le direttrici ermeneutiche, anche a fronte di un’analisi reticolare che la comparatistica inevitabilmente richiede. Non si è trattato, insomma, di imbrigliare la scrittura in delle rigide maglie teoriche, quanto piuttosto tornare più volte sul testo, approntando un commento che fosse, rimandando all’illuminante definizione di Cesare Segre: apparato di illustrazioni verbali destinato a rendere più comprensibile un testo. Questo apparato ha senso esclusivamente in rapporto col testo: preso in sé non ha valore di testo perché privo di autonomia comunicativa. Si può dire che il commento si inserisce tra emittente e ricevente come decrittatore del messaggio. La sua funzione è simile a quella che viene chiamata metalinguistica, ma va al di là degli aspetti linguistici: si dovrà dunque parlare, semmai, di funzione metacomunicativa. (Segre 1992, 3) Da qui la lettura ravvicinata dei passi, volta a attivare la loro carica prismatica e polifonica, spesso seguendo traiettorie intra e intertestuali; ma guardando altresì all’ipotesto filosofico che, per quanto implicito, si è reso individuabile grazie all’analisi testuale. Meneghello entra così nel canone greening della contemporaneità letteraria, e ciò avviene non solo a fronte di quelle narrazioni strettamente nature-oriented; proprio perché siamo al cospetto di un autore sincretico, dove le scritture sulla natura e la crisi ecologica non bastano per assicurargli la patente di “eco-scrittore”. Si tratta, a conti fatti, di una tensione più ampia, che nel rimandare alla biosfera cerca, da un lato, di decodificare il “DNA del reale”, mentre dall’altro opera un raggiungimento delle cose ultime, gli “ultimates”, per approdare a una letteratura viva, concreta, materiale e organica. Ecologia, dunque, intesa non solo quale etica ambientalista, bensì legata al suo etimo originario: un lògos sull’òikos, sui tanti spazi (aperti o chiusi; fisici o testuali; sconfinati o ristretti) che sono coestensivi a questa scrittura prensile e oltremodo vitale. 2 L’ALTRO DI SPECIE: SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 2.1 Questione di confini Quella di Meneghello è sostanzialmente una scrittura “di soglia”, nel senso che sembra essere attraversata da un duplice intento, giacché il tentativo di fare il punto e cercare “il nocciolo solare dell’esperienza” (Starnone 2006) si risolve in un gioco di specchi, di riflessioni e riflessi, mediante cui il “core” (PP, 401), cioè il senso ultimo della realtà, si dispiega in un corteggio quasi inesauribile d’immagini e figurazioni ulteriori: da un lato, quindi, il “DNA del reale” (MR, 182), cioè il nucleo costitutivo dell’esperienza; dall’altro, i significati molteplici di questo codice genetico sui generis, cui la biosfera letteraria di Meneghello attinge costantemente. Una biosfera dove il regno animale riveste un peso considerevole – come altre voci critiche hanno avuto modo di rilevare (Caputo 2005) – e che sembra, a fronte di una lettura complessiva, attraversato da una netta linea di demarcazione che, letteralmente, lo taglia in due, restituendo un bestiario bifronte, rurale e terrestre (anche quando il versante ornitologico sembra avere la meglio), vertebrato su una precisa bipolarità: animale come testo e animale come corpo. Al primo versante, appartengono quelle figurazioni dell’eterospecifico che più si avvicinano alle “creature scritte” di Jura (JUR, 26), dove il gioco retorico e i traslati metaforici rendono l’alterità animale operatore epistemologico, tale da dischiudere un’eccedenza di senso. Nel successivo, rientrano invece gli incontri tout court col regno animale, dove le pagine dal sapore squisitamente scientifico si accompagnano a meditazioni dal tono antispecista che, in un certo qual modo, mirano a ridefinire la portata valoriale dell’Homo sapiens. La domanda, tuttavia, sorge spontanea: quand’è che Meneghello, per la prima volta nel suo macrotesto, parla di “animali”? Dobbiamo dire che, in Libera nos a malo, la parola “animale” occupa una posizione di soglia e di coemergenza, in quanto tenuta sospesa e in equilibrio dal termine “bestia” (quasi alla stregua di un vero e proprio incastro lessicale). Nel primo libro, l’autore parla di “bestie” in riferimento alla vipera trovata morta e poi messa ad asciugare in vista di una prossima resurrezione (siamo al X capitolo): Diego Salvadori, Luigi Meneghello. La biosfera e il racconto, ISBN (online) 978-88-6453-639-2, CC BYNC-ND 4.0, 2017, Firenze University Press 146 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Io sapevo che il calore può ridonare alle bestie annegate la vita, e misi la vipera ad asciugare a testa in giù sul focolare in cucina nostra. Temevo che essendo la vipera carica di forze sovrumane (è noto che anche qualche giorno dopo la morte a appoggiarle un dito sul musetto la vipera lo addenta e ci pompa dentro i suoi ultimi veleni) il risveglio potesse avvenire fulmineamente. (LNM, 63, corsivo mio) Le atmosfere richiamano un Physiologus maladense, stante anche l’azione trasfigurante dello sguardo bambino, mediante cui il rettile assume le fattezze di mostro dormiente. Il termine “bestie” si ricollega al substrato concreto, intimamente legato al dialetto e alla sfera dell’esperienza, dove gli animali sono quelli domestici, autoctoni, tipici della fauna locale e quindi legati alla realtà contadina. Tuttavia, Meneghello non muove la sua rappresentazione dalla categoria del “bestiale”, dal serbatoio in cui è riposto “tutto ciò che di più nefasto e recondito ha attraversato la nostra natura” (Adorni 2015, 29): certo, il rettile mantiene una sua perniciosità, ma affiora sulla pagina scritta privo di vita e in attesa di essere rianimato. Il lemma, stavolta al singolare, tornerà poi nel capitolo XIII, in riferimento alla formazione del Monte Piàn: L’approccio da levante è più strano. È come se ci fosse stato un elefante, o una bestia molto simile, che camminava verso Schio rimorchiandosi dietro un erpice di collinette; arrivando all’ansa del torrente, che doveva essere pieno di acqua a quei tempi, avrà voluto bere una sbruffata e allungò la proboscide. A questo punto cominciò ad affondare […] e affondò circa tre quarti, poi deve aver toccato roccia e si fermò. Ora è tutto roccia anche lui, ed è Monte Piàn. (LNM, 82, corsivo mio) La “bestia” assume ora una valenza iperbolica, in riferimento alla stazza di un animale scisso dal suo referente e preso da subito negli ingranaggi della macchina narrativa: l’alterità presta sì le proprie fattezze al gioco retorico, ma rinuncia comunque una rispondenza biologica, sino a pietrificarsi (non c’è un incontro, insomma, tra il soggetto e l’altro di specie). Una triangolazione lessicale, abbiamo detto poc’anzi, i cui vertici alla base sono costituiti rispettivamente dalle “bestie annegate” (ivi, 63) e il pachiderma del Monte Piàn (ivi, 82), mentre l’angolo retto è destinato ad accogliere la parola “animale”. Parola che, nel macrotesto meneghelliano, fa il suo ingresso con tutti i crismi e struttura un vero e proprio protobestiario: siamo nel decimo capitolo e Cicàna, il bestemmiatore di Malo, ha dato inizio alla sua prima “centuria”: La stramba litania ci faceva sfilare davanti agli occhi animali esotici e piccoli mammiferi nostrani, uccelli, pesci e rettili, la fauna dei letamai intenta ai suoi traffici […]. Si vedeva il maggiolino capovolto, l’imbelle brombólo, remigare colle zampette, la pantegana trottare in cima a un muro annusando l’aria, e il carbonazzo avvinghiato alle gambe delle contadine batterle forte colla coda. L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 147 Le bestie selvatiche e domestiche, quelle innocue e quelle feroci, i pachidermi e le piccole polde, e fino i microbi e i bacilli che si stenta a vedere a occhio nudo; le bestie dell’aria, dalle pojane altissime agli sciami volti e bassi dei moscerini, le bestie del giorno e della notte, quelle delle acque limpide e dei gorghi oscuri. Alle cento bestemmie Cicàna lasciò il regno animale e passò alle piante, alle erbe, ai licheni, alle muffe […]. (Ivi, 65, corsivi miei). Il regno zoomorfo, cui l’autore fa riferimento sul finire dell’estratto, è presentato adesso in modo circostanziato e plenario. Colpisce, all’inizio, la distinzione tra “[gli] animali esotici e [i] piccoli mammiferi nostrani”, a riprova dell’oscillazione tra fauna autoctona (le bestie della realtà contadina) e alloctona. Un regno animale, dunque, che si fa “struttura narrativa e mitopoietica” (Biagini 2001, 14), originata dalla coesistenza, per nulla concorrenziale, di due tensioni: immaginativa e mimetico-realistica. Ecco che gli animali sfilano, quasi mimando Le Carnaval des Animaux (1886) di Camille Saint-Saëns1, e danno vita a un serraglio letterario che, come abbiamo detto, funge anche da serbatoio d’immagini per le opere successive, in quanto concentra in poche righe un bestiario che è repertorio, veicolato e dischiuso dal potere evocativo della parola. Se la biodiversità diviene vocabolario (Marchesini 2002, 106), l’animalità è archetipo che autorizza la grammatica narrativa, testimoniando l’incidenza dell’appeal animale nell’opera di Meneghello, che si risolve non solo nella fascinazione per un mondo altro, quanto piuttosto nell’agnizione di un’emergenza zoomorfa, destinata a debordare nel/sul testo. La pagina scritta si pone a crocevia fra due ambienti – biologico e culturale – e origina una forma già di per sé ibrida, in quanto mistione di natura (l’animale biologico) e cultura (l’animale testualizzato): ecco perché, nel caso di Meneghello, un’analisi del bestiario deve partire da quegli animali che, sotto certi aspetti, assumono il ruolo di psicopompi, proprio perché inaugurali della sua fauna letteraria. Leggiamo dal capitolo iniziale di Libera nos a malo, a proposito del funerale di Roberto, il figlio della Zia Lena morto a quattro anni di gastroenterite: Il giorno che lo seppellirono fu portata in orto una poltrona dallo schienale alto, con le borchie di ottone, e le pie donne vi accompagnarono la zia Lena […]. Era quel momento che le cerimonie della morte sono fatte per isolare con purezza, quel momento irrazionale dello strazio, in cui esso non dà più senso e pare un sogno d’estate commentato dalle galline e dai coleotteri, in un fiotto di spazio tra qui e le colline, traslucido, infestato dal gong della campana. (LNM, 10) Se l’animalità, almeno a livello lessicale, compariva nell’opera di Meneghello accompagnata dal fantasma di Thánatos (“le bestie annegate”, ivi, 63), tale assonanza si ripropone anche per la prima imago zoomorfa di 1 Ma si pensi anche all’episodio biblico di Noè e all’ingresso degli animali nell’Arca. 148 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO questo bestiario: immagini, si badi bene, in cui vengono presentate due creature poi destinate a riverberarsi nella produzione a venire. La bestia, in tal caso, è nume tutelare in absentia, in quanto la similitudine lo colloca dentro e fuori dal mondo fisico: volendo far nostre le considerazioni di Alan Bleakley (2000, 40), siamo in presenza di un animale psicologico, generante un discorso separato che non può essere ridotto né a un livello concettuale né, tantomeno, a un livello biologico. Ma le creature alate del passo meneghelliano rimandano, per certi aspetti, anche a quello che Gaston Bachelard aveva definito “besoin d’animaliser” (1939, 51; bisogno di animalizzare), alla base di un’immaginazione intenta a creare delle forme animali: forme che, in tal caso, divengono chiosa e commento del libro (“commentato dalle galline e dai coleotteri”, LNM, 10), imbastendone subito la partitura fonica germinale. La spinta formante insita nell’animalità è rinvenibile altresì nell’episodio della confessione dei peccati, dove l’azione della figura retorica (e cioè la similitudine) libera l’eterospecifico2 dalla referenza effettuale, per trasportarlo entro i territori di un’immaginazione che, volontariamente, scompagina e altera le frange della realtà: Ci veniva impressa nella mente l’opportunità di cominciare dai peccati più grossi. È come il contadino che ha da far passare per una siepe spinosa un pulcino, e la chioccia, e il cane, e la capra, e il maiale, e la vacca; se comincia dai più piccoli, fa fatica e le graffiature si rinnovano a ogni passaggio. Ma se manda avanti la vacca, che sfondi ben vene la siepe, gli altri passano poi comodamente. La vacca era per lo più la stessa, la solita Binda delle cose brutte, che non sempre però trovavamo il coraggio di mandare avanti per prima. (LNM, 11) L’associazione tra l’animale e il peccato ci porta dentro un territorio immaginale sconnesso, frastagliato dalla diplopia soggiacente alla scrittura dell’autore, dove l’eterospecifico è filtrato dalla “similitudine alterante” (Biagini 2008, 19) che, sotto il velo dell’ironia, rivela comunque la caduta dell’uomo: l’altro animale, in tal caso, presta sì la propria morfologia alla gravità dell’azione commessa ma, al tempo stesso, fuoriesce dal testo per immettersi nella realtà, tanto che è impossibile tracciare il limite tra l’animale fattivo e il suo corrispondente simbolico3. Vieppiù, il Cioè l’altro di specie. “Qualche volta si arrivava in chiesa con un’altra vacca. Quella di Mino, un sabato, era grossissima; se la tirava dietro imbarazzato, e la Bisa s’impuntava, come se non volesse saperne di entrare; ma a forza di strattoni Mino […] la trascinò fino al confessionale. Di farla passare per prima non ci pensava nemmeno. Così confessò tutti gli altri peccati […]: adesso restava la Bisa. Il prete aveva smesso da un pezzo di domandare ‘E poi?’ e quando mino tacque cominciò a pronunziare le formule preliminari dell’assoluzione. Mino preso dal panico spinse avanti la Bisa. ‘Ho anche un altro peccato, un peccato grosso. Ho detto male dei preti’ ” (LNM, 11). Ma Un’altra rappresentazione teriomorfa dei peccati è rinvenibile, sempre nel primo libro, a proposito dell’Accidia, dove referente zoologico 2 3 L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 149 bestiario non manca di lambire anche i versanti del sogno, come nel caso della “maiala alta come un vitello” (ivi, 26), vera e propria farrago-form, volendo far nostra la formula avanzata da Paul Shepard (1996, 65) nella sua classificazione delle animalità marginali: Una parte di noi dorme sempre; ma tutti non dormiamo forse mai, qualcosa veglia quando si giace addormentati, e produce la maiala alta come un vitello, lunghissima e magra, una specie di enorme cagna rosata che mi pareva avessimo comprato, e pensavo, Orca-miseria, quando sarà ingrassata verrà un pachiderma da dieci quintali, mangerà troppo e farà schifo. (LNM, 26) In una zona di soglia, la creatura si è fatta latente, per poi riemergere durante il sonno: la fisiognomica si presenta quale melting pot di sembianze zoomorfe (parti corporee), oscillando tra il suino, il cane e l’elefante (per la natura pachidermica); sino a sfociare nella degradazione stessa dell’altro animale (“mangerà troppo e farà schifo”, ibidem). Il sogno, non a caso, bene si presta a innesti e ibridazioni di tipo morfologico, come accade in un passaggio del Dispatrio, dove è l’umano a ripresentarsi sotto fattezze animali (e farsi, caso raro nell’opera di Meneghello, loquens): Delio, che voleva entrare nella “rosa” di non so che premio ed era andato in tempo “a salutare” B., il trombone milanese, specialista in questa materia, restò poi escluso dalla rosa. Colpa del trombone, che aveva mancato alla promessa di pubblicargli una recensione sul suo giornale. E a Delio, offeso nella sua veste di artista e cliente, non restò che il piacere di infuriarsi e inveire contro il colpevole. Dice che alla notte sognava uno scarafaggio che muoveva le piccole antenne e diceva: “Io sono B.”. (DIS, 159) Di memoria indubbiamente kafkiana, l’insetto viene privato dei suoi legami con le idee di “decomposition, rot, ruin” (Hillmann 2008 [1998], 106; “decomposizione, marciume […] [e] rovina”, trad. it. di Serra e Verzoni in Hillman 2016, 121), ragion per cui è in atto un processo eiettivo4 che avvicina e, al contempo, decentra l’alterità animale, sino a privarla della sua aura contaminante5: per quanto l’umano recuperi il terios, le sue fatincarna l’essenza stessa del peccato, tanto da renderlo edibile e vivo: bestia sui generis alla stregua di una sanguisuga: “S’introduceva irresistibilmente l’idea che fosse un pesciolino color marrone, arricciolato come un’acciuga e fortemente salato. Dicevano che questo settimo vizio capitale colpisse specialmente i monaci e gli eremiti; si svegliavano la mattina con innumerevoli accidie attaccate al corpo, e quelli che cedevano alla tentazione del demonio le coglievano come frutti e le mangiavano” (ivi, 193). 4 “la tendenza a espellere quei predicati [dell’animale] che non ci piacciono” (Marchesini 2014b, 22). 5 In un passo dei Piccoli maestri, i soldati che, a notte fonda, si dirigono dalla piana di Marcésina verso Gigi e i suoi compagni, appostati su uno sperone di roccia, sono paragonati a una “processione di scarafaggi in fila per due, ciascuno col suo candelino infilzato sulla schiena” (PM, 123). 150 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO tezze zoomorfe non spaventano6, quanto piuttosto richiamano in tralice lo scarafaggio Archy di Don Marquis (1927), poi apposto da Meneghello all’inizio di Jura. Tuttavia, il fatto che l’eterospecifico ritorni in sogno sotto nuove sembianze ci autorizza a soffermarci ulteriormente in tali prossimità, dove gli animali provocano, in un certo qual modo, la rottura del diaframma ontologico, ridefinendo lo statuto dell’esperienza. È il caso di un passo celebre di Libera nos a malo, relativo alle api filandiere: Maggio in orto, api, calabroni […]. Nel zufolo delle api filandiere c’era il bandolo di una cosa che dardeggiava dentro e fuori dal tempo; mi sentivo uscire dal nostro man-locked set, lo spazio infinito e il tempo infinito erano gocciole di suono a mezz’altezza, press’a poco alte come la mura dell’orto, che fioccavano in aria senza cadere. Si sapeva solo che erano ave. Ava: una giuggiola che si muove, una strega striata, minuscola; un bao che non è un bao, un segreto che non si può penetrare perché non parla, una goccia gialla che punge […]. Non giocare con la Ava. Viene dalla zona dei noumeni, non è un bao. Ava. (LNM, 36) “Non è facile trovare libri senza api” (Maldina 2009, 17), ha scritto Niccolò Maldina facendo eco all’Apiarum di Federico Cesi (1626)7, proprio in virtù della loro tenace vitalità letteraria che le ha rese tòpos stabile e onnipresente: “lungo i secoli”, continua Maldina, “alle api si è guardato con occhio benevolo e ammirato, collazionando una fitta serie di proprietà e caratteristiche che […] sono del pari le spine dorsali su cui si regge l’esistenza delle api in letteratura” (ivi, 18). Nel caso di Meneghello, siamo al cospetto di un animale numinoso, che si lascia guardare e, proprio nell’incrociarsi di prospettive, libera l’essere umano dalla tenaglia antropocentrica: “il teriomorfo è […] prossimo, un vicino di casa conosciuto” (Marchesini 2014, 68), pur tuttavia destinato a manifestare l’inatteso e la differenza, a farci uscire dal “man-locked set” (LNM, 36). La citazione esplicita da Angel Surrounded by Paysans di Wallace Stevens8, componimento che tornerà citato anche nella terza appendice del libro, apre la pagina a una tensione inter e intratestuale, in quanto opera un collegamento sia con l’ipotesto primario, sia con il secondo volume delle Carte, dove l’autore scriveva che “la Natura è forse soltanto un set di cose a cui siamo abituati” (C70, 208, corsivo mio). Le api portano avanti un re-incanto del mondo, un sovrapporsi di Umwelten mediante cui il soggetto 6 Si veda l’esempio del maggiolino apparso in sogno, nel primo volume delle Carte: “Sogno un maggiolino che muove la testina e dice: Charles Le Boeuf c’est moi” (C60, 402). Si noti anche, in tal caso, l’alterazione linguistica al vezzeggiativo che, per certi aspetti, quasi vuole ammansire l’animale. 7 Vissuto tra il 1585 e il 1630, Cesi è stato un importante scienziato e naturalista. 8 “Cleared of its stiff and stubborn, man-locked set” (Stevens 1990 [1950], 497, v. 15). L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 151 osserva con occhi completamente nuovi la realtà naturale: il fatto che l’animale provenga dai “noumeni” (LNM, 36) spinge l’umano a una riorganizzazione percettiva del fenomenico (“mi sentivo uscire dal guscio”9, ibidem). A proposito della connotazione noumenica dell’animale, Meneghello scriverà nel Tremaio che Secondo me non è lezioso […] parlare dei noumeni, cioè di una concezione filosofica altamente specializzata. Anzi, io sono sicuro che lì da bambino, in orto, percepivo qualcosa, in forma puerile si capisce, di molto simile al rapporto tra fenomeni e noumeni di cui imparavamo poi da ragazzi a occuparci in liceo. Sentivo che le api non erano veramente soltanto un fenomeno, ciò che si vedeva e si udiva, ma portavano con sé un grano d’altra specie, inconoscibile… (JUR, 113) L’animale, allora, quale latore di un’eccedenza di senso, e non è casuale tale ruolo sia demandato all’ape: ministra delle muse nell’antica Grecia, nel settimo libro dell’Eneide gli insetti annunciano, col loro ronzio, l’arrivo di Enea al palazzo di Latino10. In Meneghello, situazione “di soglia” torna a proporsi nel passo dei Piccoli maestri, relativo all’esecuzione del giovane tedesco: Si domanda a questo biondino se vuol lasciar detto qualcosa, per qualcuno a casa sua in Germania, se saremo ancora al mondo alla fine della guerra. Esita, poi dice no. Gli si domanda chi vuole che resti con lui, e lui sceglie. Gli altri vanno via. Si sentono ronzare le api. Qui la stagione è tarda per loro. (PM, 188) 9 Sui “gusci” delle api, si legga MM, 39, a proposito dello Sbùsinare: “In dialetto […] [s]bùsina un insetto in volo o almeno visibilmente in moto o in agitazione: Le ave fèrme-imòbili le sbusinava ha un effetto innaturale quasi scioccante; si percepisce dentro l’immobilità dei piccoli gusci, un’agitazione interiore, stregata. Invece Sóra la mura sbusinava le ave dice pianamente che sbusinando ‘dardeggiavano’”. 10 “Laurus erat tecti medio in penetralibus altis / sacra comam multosque metu servata per annos, / quam pater inventam, primas cum conderet arces, / ipse ferebatur Phoebo sacrasse Latinus, / Laurentisque ab ea nomen posuisse colonis. / Huius apes summum densae mirabile dictu / stridore ingenti liquidum trans aethera vectae / obsedere apicem, et pedibus per mutua nexis / examen subitum ramo frondente pependit. / Continuo vates ‘externum cernimus’ inquit ‘adventare virum et partis petere agmen easdem partibus ex isdem et summa dominarier arce.’” (Virgilio 1991, 246-248, vv. 58-70; “V’era un lauro in mezzo al palazzo nell’alto cortile, / un lauro dalla sacra chioma, serbato con devozione per lunghi anni. / Si diceva che lo stesso padre Latino lo avesse trovato / fondando le basi della rocca e lo avesse consacrato a Febo, / e i coloni, da questo, avesse chiamato Laurenti. / Fitte api portate attraverso la limpida aria / occuparono con intenso ronzio la sua cima / – mirabile a dirsi –, e intrecciate a vicenda le zampe, / un improvviso sciame pendette da un ramo fronzuto. / Subito l’indovino: ‘Vediamo un eroe straniero / Sopraggiungere’ disse ‘e tendere alle medesime parti una schiera / Partita dalle medesime parti e dominare dal sommo la rocca’”, trad. it. di Canali in Virgilio 1991, 247-249, vv. 58-70). 152 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO È l’elemento fonico, in tal caso, a creare la partitura del passo: una colonna sonora ch’è sia litania funebre, sia rivelazione e “commento” (come le galline e i coleotteri commentavano in absentia il funerale del piccolo Roberto, LNM, 10). Nell’apparire sulla pagina quale presenza inconsueta (perché “la stagione è tarda per loro”, PM, 188), l’animale officia un rito di passaggio, proprio in virtù di una “agitazione interiore, stregata” (MM, 39). Una fascinazione, dunque, destinata poi a tradursi – come leggiamo da un passo contenuto nel secondo volume delle Carte – in un apprezzamento della forma, il che dischiude altresì il ruolo ‘formativo’ dell’animale: il situarsi di questo all’altro polo di un dialogismo costante, dove l’umano sfrutta la portata epifanica dell’eterospecifico per attuare, sotto certi aspetti, una ri-comprensione del naturaliter: L’idea che in una certa fase nello sviluppo di una creatura si formino degli organi, delle vene e delle arterie per esempio, è del tutto incredibile. Questo si chiamava un tempo la natura e pareva una faccenda radiosa e oscura. Oggi abbiamo in pronto certe spiegazioni parziali, ma nel suo fondo questa “natura” resta inspiegabile. (C70, 339) Torniamo a quel misto di ammirazione e diffidenza che Meneghello ha sempre nutrito nei confronti delle discipline scientifiche: ovviamente, l’essenza della natura resta inspiegabile proprio perché la tensione euristica, portata avanti dall’uomo, si serve di predicati antropocentrati che ne inficiano una comprensione plenaria. Ed è nel prosieguo del passo che l’ape, ormai associata a quel che “resta inspiegabile” (ibidem), torna a fare la sua comparsa: Del resto, cosa ci vorrebbe per farci sentire che una cosa “naturale” è veramente spiegata? “Perché quando l’ape punge fa male?” Perché l’ape ficca una punta (di corno, credo) tra i tessuti, p.e. di un braccio. “Ma perché una punta ficcata tra i tessuti fa male?” Perché questa è una proprietà delle punte (Come dire che è la loro natura: sarebbe facile andare avanti, ma a che scopo? Finisce sempre che l’ultima spiegazione si rifà alle proprietà naturali: dei metalloidi, degli embrioni, delle punte…). (Ibidem) Come si evince dalla conclusione dell’estratto, l’animale mantiene sì la sua carica noumenica, ma non si tratta di semplice res intellectiva – avulsa cioè dal versante fenomenico – quanto piuttosto di un “di più” che lo riscatta, in un certo senso, dalla Weltarmut, la povertà di mondo, ravvisata da Heidegger (2004 [1930], 288; trad. it. di Angelino in Heidegger 1999, 252). Tornando alle pagine di Libera nos a malo, un altro episodio ci porta a prendere in considerazione quella che potremmo definire come istanza L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 153 partecipativa dell’animale, sempre veicolata dall’elemento fonico (un lògos che, per quanto distante da quello umano, mantiene una funzione rivelatrice): La prima poesia che composi io in italiano era breve e diceva: Ultima sera d’agosto sotto le brache c’è un mostro. La insegnai a Bruno, e verso la fine d’agosto, quando i grilli strillano più disperatamente, la cantavamo in cortile, accucciati fianco a fianco sotto la mura del Professore, perché di notte il cesso era considerato troppo lontano per i bambini. In seguito istituii delle anteprime nell’ultima settimana di luglio, quando nelle notti serene cominciano già le prime strillate piene dei grilli. Alla fine del mese si smetteva, per ricominciare nell’ultima decade di agosto. Ricordo l’emozione e il senso di fulfilment che si provava la sera del 31, quando le parole corrispondevano esattamente alle cose, come se l’anno fosse venuto all’appuntamento, e i grilli sembravano impazziti. (LNM, 34-35) Anche nei Piccoli maestri “i grilli, in agosto, cominciano a strillare” (PM, 191) ed è significativo che l’autore abbia preferito il verbo “strillare” (legato principalmente all’ambito umano) al comune “frinire”, tale da originare uno scambio fra le due polarità specifiche, senza contare la funzione di commento e sottofondo delegato al canto dei grilli. Il passo, oltretutto, si presta anche a una lettura in chiave intertestuale, rimandando alle Risorse di San Miniato al Tedesco di Giosuè Carducci: Come strillavano le cicale giù per la china meridiana del colle di San Miniato al tedesco nel luglio del 1857! Veramente per significare lo strepito delle cicale il Gherardini e il Fanfani scavarono dalla Fabbrica del mondo di Francesco Alunno il verbo frinire […]. Ma, quando le son tante a cantar tutte insieme, altro che frinire, filologi cari! Come dunque, strillavano le cicale […]! (Carducci 1890 [1883], 15) Ma per quanto nutrite costantemente da una memoria iperletteraria, siamo dinanzi a creature che aumentano lo spessore della soglia di cui si fanno guardiane; di un confine che, proprio in virtù dell’etimo latino, è un ‘finire insieme’ per iniziare (cum, insieme; e finis, termine, fine). Creature, insomma, che aumentano lo spessore di questa soglia, di un confine che, proprio in virtù dell’etimo latino, è un ‘finire insieme’ per iniziare (cum, insieme; e finis, termine, fine). Certo, quelli di Meneghello sono animali testualizzati, ma sono anche esseri che fanno ritorno nel testo proprio perché reagiscono, a livello psichico, alla scissione atavica dall’umano, che Giorgio Agamben ravvisa proprio nella presenza /assenza del linguaggio: 154 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Ciò che discrimina l’uomo dall’animale è il linguaggio11, ma questo non è un dato naturale già insito nella struttura psicofisica dell’uomo, bensì una produzione storica che, come tale, non può essere propriamente assegnata né all’animale né all’uomo. Se si toglie questo elemento, la differenza fra l’uomo e l’animale si cancella, a meno che non s’immagini un uomo non parlante – Homo alalus, appunto – che dovrebbe fungere da ponte di passaggio dall’animale all’umano […]. L’uomo-animale e l’animale-uomo sono le due facce di una stesa frattura, che non può essere colmata né da una parte né dall’altra. (Agamben 2014 [2002], 41) Se l’ottica antropocentrica si è dunque servita del teriomorfo quale operatore separativo (Marchesini 2002, 133), originando una diarchia tra la sfera della ragione e il regno tellurico-istintuale dell’animalità12, l’animale testualizzato – in un’ottica ecocritica – può e deve, nel suo essere emblema di “soglia”, siglare un contatto e suturare lo iato tra fuori e dentro, tra le due Umwelten (animale e umana) che risulterebbero così sovrapposte e oltremodo incluse l’una nell’altra. Ovviamente, una precisazione si fa necessaria, giacché l’animale – a livello letterario – rappresenta ed è immagine esibitiva, ragion per cui sarà necessario andare oltre l’imago stessa, altrimenti incapperemmo in delle semplici figurine da bestiario medievale, dove l’eterospecifico avrà una funzione puramente surrettizia. Il linguaggio, dunque, non deve intrappolare l’animale rappresentato, a fronte di possibili discrasie sul piano dei 11 “Tous les philosophes que nous interrogerons (d’Aristote à Lacan en passant par Descartes, Kant, Heidegger, Lévinas), tous, ils disent la même chose: l’animal est privé de langage. Ou plus précisément de réponse, d’une réponse à distinguer précisément et rigoureusement, de la réaction: du droit et du pouvoir de “répondre.” Et donc de tant d’autres choses qui sont le propre de l’homme. Les hommes seraient d’abord ces vivants qui se sont doné le mot pur parler d’une seule voix de l’animal et pour designer en lui celui qui seul serait resté sans réponse, sans mot pour répondre […]. Il tiendrait à ce mot, il rassemblerait plutôt dans ce mot, l’animal, que les hommes se sont donné, comme à l’origine de l’humanité, et se sont donné afin de s’identifier, pour se reconnaître, en vue d’être ce qu’ils disent, des hommes, capables de répondre et repondant au nom d’hommes” (Derrida 2006, 54; “Tutti i filosofi che interroghiamo (da Aristotele a Lacan, passando da Descartes, Kant, Heidegger, Lévinas), tutti dicono la stessa cosa: l’animale è senza linguaggio. O, più precisamente, è senza risposta, intendendo per risposta qualcosa che si distacca precisamente e rigorosamente dalla reazione: gli animali sono privi del diritto e della capacità di “rispondere”. E quindi anche di tante altre cose che sarebbero il proprio dell’uomo. Gli uomini sarebbero innanzitutto quei viventi che si sono dati la parola per parlare univocamente dell’animale e per designare in lui quell’unico essere che sarebbe rimasto senza risposta, senza parole per rispondere. […] Dipenderebbe da questa parola, o forse si coagulerebbe in questa parola, l’animale, e gli uomini se la sono data con l’intento di identificarsi, di riconoscersi in vista di essere ciò che si dicono di essere, degli uomini, capaci di rispondere e rispondenti al nome di uomini”, trad. it. di Zannini in Derrida 2006, 71). 12 Ragion per cui il teriomorfo esprimerebbe anche una deviazione rispetto al modello. L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 155 referenti, come dimostrato dalla stessa parola “animale”. Come rilevato da Jacques Derrida: “L’Animal”, comme si tous les vivants non humains pouvaient être regroupés dans le sens commun de ce “lieu commun”, l’Animal, quelles que soient les différences abyssales et les limites structurelles qui séparent, dans l’essence même de leur être, tous les “animaux”, nom qu’il convient donc de tenir d’abord entre guillemets. Dans ce concept à tout faire, dans le vaste champ de l’animal, au singulier général, dans la stricte clôture de cet article défini (“l’Animal” et non pas “des animaux”) seraient enclos, comme dans une forêt vierge, un parc zoologique, un territoire de chasse ou de pêche, un terrain d’élevage ou un abattoir, un espace de domestication, tous les vivants que l’homme ne reconnaîtrait pas comme ses semblables, ses prochains ou ses frères. Et cela malgré les espaces infinis qui séparent le lézard du chien, le protozoaire du dauphin, le requin de l’agneau, le perroquet du chimpanzé, le chameau de l’aigle, l’écureuil du tigre ou l’éléphant du chat, les fourmis du ver à soie ou le hérisson de l’échidné. (Derrida 2006, 56) “L’Animale”, come se tutti i viventi non umani potessero essere raggruppati nel senso comune di questo “luogo comune”, l’Animale, a prescindere dalle differenze abissali e dai limiti strutturali che separano, nella stessa essenza del loro essere, tutti gli “animali”, nome che quindi conviene mettere tra virgolette. In questo concetto tuttofare, nel vasto campo del’animale, al singolare generale, nella stretta morsa dell’articolo determinativo (“l’Animale” e non “degli animali”), sarebbero chiusi, come in una foresta vergine, in un parco zoologico, in un territorio di caccia o di pesca, in un terreno d’allevamento o in un macello, in uno spazio per l’addomesticamento, tutti i viventi che l’uomo non riconosce come suoi simili, prossimi o fratelli. E questo nonostante l’infinita distanza che separa la lucertola dal cane, il protozoo dal delfino, lo squalo dall’agnello, il pappagallo dallo scimpanzé, il cammello dall’aquila, lo scoiattolo dalla tigre, o l’elefante dal gatto, la formica dal baco da seta o l’istrice dall’echidna. (Trad. it. di Zannini in Derrida 2006, 73) Ecco perché il filosofo approda al concetto di animot, crasi delle parole francesi animal (animale) e mot (parola), che rimanda non tanto all’animale concreto, quanto al concetto stesso “de ‘l’animale’ visto come un insieme di idee che racchiude incontri e relazioni. L’animot è solo un mot e non un animale reale, ma ciò non impedisce che da questo derivino conseguenze concrete” (Schultz-Figueroa 2014, 12). E se, nel suo scritto, Derrida parte proprio dalla gatta che lo osserva nudo in bagno, immediato appare il collegamento con Plòmbe13, la gatta dei Postumi di Pomo pero: La gatta Plòmbe era stata introdotta nel capitolo XV di Libera nos a malo: “La cucina restò deserta, venne fuori anche la gatta che si chiamava Plòmbe ed era bellissima: la Bibbia posata sulla tavola emanava raggi neri” (LNM, 119). 13 156 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Forse è del tutto normale a una certa età sentire che si morirà presto. Il pensiero che la famiglia andrà dispersa genera una fitta di panico che non è bene ricevere, non ha costrutto […]. Casa vuota, corte spenta, strada senza gente, ore senza vita, i pensieri cercano la creatura più vicina, è la gatta la sola creatura, i suoi spiriti animali fraternizzano, pare più di una sorella, di una figlia, è una cosa vivente, non morirà prima. (PP, 335) A differenza dello scheletro felino rinvenibile nel terzo volume delle Carte14, la gatta crea uno spazio di prossimità ontica, restando unica abitatrice nella caducità del Creato e di Malo: come accadeva per gli altri animali rinvenuti sin ora, il teriomorfo – e, in tal caso, siamo dinanzi all’animale magico e psicopompo per antonomasia – si associa al pensiero della morte15, pur tuttavia esibendo sulla pagina la sua carica esistenziale, per dirci che l’animale deve continuare a esserci, nonostante tutto (“non morirà prima”, ibidem). In Meneghello, d’altronde, è ravvisabile una certa fascinazione per il mondo felino16, come accade nel seguente passo dal primo volume delle Carte, dov’è la promiscuità animale a venire esaltata, in una sorta di apologo rovesciato: Ciò che più mi piace al mondo è i gatti. Potrei ascoltarli anche tutta la notte, quando fanno le loro conturbanti trenodie, ne porto spesso a casa e non mi stanco di ammirare le loro eleganze nella vita di ogni giorno, e di guardare i nuovi venuti quando la gatta li fa nell’apposita scatola di cartone in sottoscala, creaturine che poi crescono e si sposano con i loro genitori e coi nonni, probabilmente anche coi bisnonni spelacchiati. (C60, 192) “Con che sdegno gridava ‘Malamanne!’ a Malamàn che arrossiva benché parzialmente innocente del gatto. Anonimo gatto, ora da decine di anni ridotto a scheletro in qualche cantina o cantone della città. Gatto clandestino trafugato in classe: un gomitolo di furore nella chiusa cartella di Malamàn […]; chiuso là dentro graffiava alla cieca; poi sprigionato saettò nell’aula della seconda B, tra i ranghi dei futuri avvocati e dottori […]” (C80, 414-415). 15 In un passo dell’Apprendistato, i gatti tengono compagnia a Eva, di cui ormai non è rimasto “che il broncio […]. Ce l’aveva con tutti, difficile da trattare, piena di spigoli. Gatti in casa, temperamental come lei, cuscini e libri sparsi per terra, a tavola cibi concepiti nei suoi modi estrosi e serviti in disordine” (APP, 201). 16 Scrive Noemi Billi che dei gatti “ci sorprendono i loro movimenti silenti, imprevedibili e mirati, l’acuta sensorialità costantemente vigile, lo sguardo diretto e penetrante che scruta i dettagli più intimi, la noncurante impassibilità nel disattendere qualsiasi imposizione: testimonianze di un rapporto che appare intrattenuto con un altrove, divino o demoniaco. La connotazione comune alle simbologie associate ai gatti, negli immaginari colti della letteratura e dell’arte ma anche in quelli superstiziosi delle credenze religiose e dei riti popolari, si attesta sul piano dell’ambiguità, fluttuando dal sacro al magico, tra segni di benefici prodigiosi e di sciagure fatali. Una folta ramificazione di significati (la malizia, la sensualità, il fascino, l’insidia, l’autonomia, la cura, l’imperturbabilità, il mistero, il presagio) viene tramandata dal sapere orale dei proverbi e delle espressioni idiomatiche al pari dei documenti scritti e iconici” (Billi 2009, 119). 14 L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 157 È nuovamente il lògos animale a guidare la partitura del passo che, per certi aspetti, non può non risentire di suggestioni baudelairiane, pur tuttavia declinando l’animale in una chiave domestica e familiare. Animali di parole, dunque: immagini, idee e suggestioni destinate, nel loro farsi narranti, a propiziare incontri o relazioni tra specie. In Maredè, Maredè…, opera che è zoomorfa già a partire dal titolo, il contatto tra umano e terios avviene mediante un dialogo apotropaico, alla stregua di un fachiro intento a domare il suo cobra: come rilevato da Ernestina Pellegrini “siamo di fronte a un essere ambiguo, un po’ numinoso, ermafroditico: dentro la casetta portatile, il maschile corniòlo, c’è la fragile, viscida abitatrice, la mare o maredè, che si vuole far uscire alla luce del giorno” (1992, 93): La minaccia era bonaria, quasi amichevole: intonata all’amenità di quel ‘salto’ richiesto alla lentissima, posata maredè. L’importante era di indurla a uscire all’aperto, a farsi vedere. L’invito-incantagione si ripeteva pazientemente […] in attesa del piccolo miracolo. E un vago senso di miracolo è andato a soffondersi sulle parole della filastrocca e sul nome della poco meno che numinosa creatura. La chiamavamo maredè benché di genere ambiguo […], visto che aveva anche un’identità maschile, el corniólo. Ma risulta […] che la maestra Delàide insegnava esplicitamente, come parte del curriculum dei nostri studi sulla natura, che il corniólo è la casetta portatile, mentre l’abitatrice è la mare o maredè, a cui è indirizzata l’incantagione. (MM, 147-148) Animale proteo e anfibio, in procinto di saltar “ fóra co cuatro còrni” (ivi, 147) e farsi beffe dei suoi spettatori, il mollusco è umanizzato ma abita, al tempo stesso, la “zona dei noumeni” (LNM, 36), financo a divenire marginalità animale, “amorphous form” (Shepard 1996, 65) che rifiuta l’anatomia consueta, alla stregua dei vermi o delle larve. In un frammento autoesegetico, Meneghello chiarirà meglio la natura della Maredè: Maredè è il nome comune della chiocciola […]. La chiocciola ha per me alcune associazioni semi-segrete con l’essenza dell’espressione poetica, forse per i riflessi di madreperla della sua traccia, quasi un emblema della parte più preziosa e più elusiva delle scritture letterarie e forse anche dei sottostanti fenomeni linguistici. (MR, 188) Con la sua linea spiraliforme impressa sul guscio, la creatura si lega a un’idea di fecondità e generazione continua, ma è la traccia di muco lasciata strisciando a caricarsi di valenze nascoste, quasi alla stregua di un alfabeto segreto: nella mia scelta del titolo e del simbolo c’entrano anche […] un verso di Eugenio Montale, in ‘Piccolo testamento’ […], la poesia comincia ‘Questo a notte balugina / nella calotta del mio pensiero’ (‘balugina’, luce fioca, intermittente, l’apparire e sparire del pensiero; ‘calotta’, come se ci fosse un guscio – la poetica del guscio). Poi viene il mio verso, il terzo: 158 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Traccia madreperlacea di lumaca, la scia argentea, iridescente che lascia il muco condensato, vivida metafora della creatività poetica e linguistica17, la materia umile e preziosa di cui sono fatte le nostre parole. (Ivi, 196-197) Nuovamente si torna alla natura liquida della materia linguistica e poetica, una “materia umile e preziosa” (ibidem) in cui traspare – scriverà poi l’autore in La virtù senza nome – quella “natura elusiva e preziosa della ispirazione poetica, muco dai riflessi di madreperla, smeriglio, iride, cipria, tenue bagliore” (ivi, 150). L’animale, dunque, lascia una traccia in cui è possibile scorgere un determinato alfabeto, inteso non solo come sistema di scrittura ma, soprattutto, quale inventario rappresentativo del mondo. Nel depositare la sua “scia argentea, iridescente” (ivi, 197), l’altro di specie interagisce (e, a suo modo, interpreta) la realtà e lo spazio in cui si muove; ragion per la lettura ex post della “traccia”, da parte dell’occhio umano, riscrive quell’alfabeto e tenta “di reinterpretare questo mondo, convint[o], fino in fondo, che non tutte le interpretazioni si equivalgono” (Caffo, Cimatti 2015, 7). Ci sono casi, tuttavia, in cui gli animali si fanno presenze assenti, ovverosia campeggiano sulla pagina senza mai giungere a una completa ostensione: nel caso delle meduse nei Piccoli maestri18, ad esempio, la di- 17 Circa le immagini per la copertina del libro, Meneghello aveva scelto “l’arioso, commovente collage di Henry Matisse alla Tate Gallery di Londra, che ha per titolo L’escargot […]; l’altra [invece] è la vibrante serigrafia di Mario Merz, una delle ‘6 case a Sidney’ (di nuovo la casa, il guscio), che ho viste al Museo Casabianca di Malo” (MR, 197). Circa l’opera di Matisse, leggiamo anche dal finale di Batarìa: ‘Scuole nuove là dove un tempo aveva regnato la tenebrosa Baga. Altro figlio di emigrati appena arrivato dalla Francia, ignaro di italiano e di vicentino, ammesso come osservatore alla seconda della Maestra Pia. Siamo in cortile, seduti per terra lui ed io, accanto alla rete metallica di recinzione. Davanti a noi c’è una chiocciolina. Lui la guarda pensoso e sento che mormora timidamente: ‘Escargù’. È lei, è il suo nome francese. L’esperienza più curiosa penso sia stata quella di sentire, per la prima volta, una o tonica finale chiusa. Così chiusa che per me fu una u. il nome mi parve fortemente emblematico, come quello con cui chiamavo io la chiocciola: maredè. Il libro che ho poi scritto e che ha per titolo Maredè, maredè… c’è mancato poco, dunque, che si chiamasse Escargù, come il Matisse della Tate che illustrava la prima edizione” (MR, 218). 18 PM, 138-139: “Mi venne in mente che non mangiavo e non dormivo da un pezzo, e provai a fare il conto delle ore, ma era troppo difficile; avevo sete, e non mi ricordavo di aver bevuto, né stanotte, né ieri, né la notte prima, né il giorno prima, e neanche la notte prima ancora, la notte sul dieci. Camminai un pezzo, poi a una svolta del sentiero mi fermai. A destra avevo un valloncello scosceso, praticamente impassabile. Arbusti e alberi proiettavano come una tettoietta d’ombra, e sotto a questa vidi due grosse meduse. Erano i primi animali che vedevo da un bel pezzo. Erano posate sul pendio, a un paio di metri da me, ma irraggiungibili a causa del valloncello pieno d’ortiche e di L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 159 slocazione spaziale – cioè lo spostamento dell’animale dall’habitat originario (le profondità marine), a un altro diametralmente opposto (le alture montane) – risponde al senso di smarrimento del soggetto; diverso l’esempio della volpe presente nel primo volume delle Carte, rivelata dal nome inglese (“There’s the fox, there he is […] he’s enormous”, C60, 369), ma poi destinata a farsi concrezione di più forme e fisionomie, financo a rievocare in tralice la Bestia del Gévaudan19. In Pomo pero, viceversa, l’animale è tratteggiato per gradi, ma non giungiamo neppure qui a una rappresentazione totale, tale da esaurirne la portata espressiva: Il baccano (dice) lo fanno con le zampette, e anche coi becchetti, è una gragnuola improvvisa, una cosa che fa impazzire. Partono nell’istante stesso che vedono spuntare l’alba, loro stanno lì sopra il tetto fermi e attenti, guardando fisso dalla parte dove spunta, e io lì sotto con gli occhi aperti e il cuore che mi batte aspetto che la vedano spuntare. È come uno scoppio: pestolano con le sattèlle sopra le lastre, e coi becchetti picchiano nella grondaia, è come se mi cucissero con la macchina da cucire… Abbiamo comprato la rete metallica per schermare la grondaia, sottile come le reti da capelli, ma serve poco […]. (PP, 344) Il brano, scriverà l’autore nel Discorso in controluce, muove le fila da un “discorso riportato […] informalmente: l’eco mimetica di un discorso in dialetto, reso qui in italiano” (MR, 108). Per quanto sia facilmente intuibile che si tratta di uccelli, gli animali non vengono mai indicati con un preciso referente, piuttosto è portata avanti una descrizione per meronimi anatomici (“zampette”, “becchetti”, “sattèlle”) o riferimenti all’etologia ornitologica, senza tuttavia circostanziare la presenza animale sulla pagina scritta (senza contare i riferimenti intratestuali col secondo volume delle Carte20). Arriviamo, infine, a raffigurazioni statiche, museali, in bilico tra stecchi spinosi. Erano a mezzo metro l’una dall’altra, come impigliate tra gli arbusti del sottobosco, e palpitavano lievemente: opalescenti, quasi trasparenti. Restai vivamente sorpreso, la cosa mi pareva quasi incredibile. Come saranno venute quassù queste meduse? D’altro canto erano lì vere e reali, e dunque qualche spiegazione doveva esserci”. 19 C60, 369: “Dalla terrazza, paesaggio mosso, innevato. ‘There’s the fox, there he is’ dico alla mia destra, ‘he’s enormous’. Color avana e arancio. A centro metri e viene a salto, a lanci, quasi quasi verso di noi, un po’ a destra. Poi si volta, torna indietro, accelera, taglia in diagonale, galoppa, fila come il vento, a onde, a folate, piomba, a duecento metri sulla sinistra come una tempesta su due bestie più piccole, arancio: vedo che ci sono uomini, avana, e che siedono, sparano (non odo gli spari), tirano qualche rapido calcio. La madre è abbattuta, portano via i piccoli con le barelle. È assurdo, ma perdonabile credo, che l’abbia creduta una volpe. Tutti sanno che cos’è, e dovrei saperlo anch’io, e lo sapevo infatti; è una bestia inconfondibile, vistosa, colossale: ma la mia conoscenza è andata perduta mentre scrivevo in fredda queste righe. Mi ha lasciato. Affonda ancora, miglia e miglia sotto di noi”. 20 L’estratto da Pomo pero, infatti, sembra essere mutuato da un passo del secondo volume delle Carte, relativo all’uccisione di un verme da parte di uno scricciolo: “in un 160 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO l’araldica e la scultura: leggiamo questo estratto dal secondo volume delle Carte, dove i toni da mirabilia sfociano in un bestiario multi-materia, vivo e inerte al contempo: Dalle feritoie e dalle finestrelle inferiate, alte alte, entrava una luce cruda, diversa dal chiarore soffice, diffuso, dei nostri locali interni, creando ritagli irreali, illuminando o evidenziando in araldiche nicchie qualche animale vivo, o di gesso, o di stoppa animata, o di metallo, e una sequenza di creature esotiche a cuccia lungo i muri. A volte ne vedevi qualcuna alzarsi e spinare in una puntigliosa serie di calci. Calci di asini, calcetti di conigli, criniere di stalloni, code di puledri, zampe di leonesse, becchi di grifi… (C70, 358) È questo l’esatto rovescio del Carnaval des animaux, inaugurato dalle centurie del bestemmiatore Cicàna in Libera nos a malo (LNM, 65): se nel libro d’esordio le bestie sfilavano come in un maestoso serraglio immaginativo, adesso si assiste a un vero e proprio restringimento di campo, venendo meno la vitalità stessa dell’altro di specie. L’animale, ora, vive in funzione di un movimento meccanico (i calci e i calcetti) che, a conti fatti, è anche ribellione mancata a questa cattività esibitiva. Sono creature, insomma, che incorrono in ulteriori passaggi di stato – non più eminentemente biologiche, ma fatte di gesso, di stoppa o metallo; e se, in Libera nos, era il regno animale a sfilare, adesso è l’uomo a percorrere a testa alta la passerella specista. Per quanto il bestiario evolva, discostandosi dal milieu rurale e contadino (si noti la presenza di creature esotiche quali il grifo o la leonessa21), si ha come l’impressione di una reductio, di una reificazione della presenza zoomorfa. Eppure, sarà proprio attraverso la parola che l’animale rivendicherà, almeno sulla pagina scritta, la sua autonomia identitaria, tale da eleggere il libro a banco di prova per un’ecologia del mondo, della mente e dell’anima. 2.1.1 Freaks: animali letti, scritti; trapiantati e innestati Uscito alla fine del 2013, il Diario di Luigi Meneghello presenta – nonostante l’esiguo numero di pagine – l’universo vivido e senza filtri di un bambino di sei anni, alle prese con l’esercizio della scrittura: un avantesto sui generis, la cui lettura ai fini critici esula dal puro feticismo docu- lampo l’aggressore sferrò una gragnuola di beccate, corte, mortali, come una bestiale macchinetta da cucire” (C70, 115). 21 Delle analogie sono riscontrabili con il seguente estratto da BS, 400: “Negli spazi sottostanti si entrava qualche volta nel sonno: si imboccava uno scacco aperto nel fondo di una spelonca, e dopo un breve tratto, a una svolta, compariva un corridoio scavato nel metallo, guardato da creature d’oro, grifoni, leopardi, arcieri pronti a scoccare”. L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 161 mentario, quanto piuttosto illumina la produzione successiva dell’autore. E alle parole, come spesso accade, si affiancano anche le immagini, sottoforma di schizzi eidetici che, con tratto deciso e marcato, guardano al regno animale e, nella fattispecie, a uno in particolare: le farfalle. Il diario si apre proprio su queste creature alate – ipetrofiche e sinistramente eloquenti – che, a conti fatti, costituiscono le uniche presenze zoomorfe dell’intero taccuino: se ne contano sette22 , accompagnate a figure umane, ghirigori spiraliformi, sagome di profilo che ricordano idoli precolombiani. Creature alate, dunque, ma soprattutto di parole: e il richiamo a Jura appare quasi obbligato, non fosse altro per quel ‘volo’ generato da Una lettera dal passato (JUR, 19), posto in apertura ai saggi autobiografici. Scrive Meneghello: Quando S. ebbe terminato a imparare tutte le lettere dell’alfabeto (fu nella primavera del 1928, era in “prima”) fece una cosa non so se naturale o innaturale, scrisse una lettera. Una lettera “vera”, a qualcuno che in quell’anno stava in un posto lontano, Udine. L’ho qui davanti, su un foglio a righe: Cara mamma mia, ti voglio tanto bene. Ti prego che mi mandi un uccillino per copiarlo. Io sono buono e ubbidiente con tutti. Questo uccillino porta un garbuglio di notizie che vorrei decifrare. (Ivi, 22) L’operazione è duplice: da un lato, l’animale diviene marca esplicativa e operatore culturale, giacché si presta a “un’analisi compiuta di come si diventa un animale che scrive” (ivi, 32); dall’altro, porta avanti un processo che consente di leggere il testo in una prospettiva zoocentrata, animalizzato anche a livello grafico23. Ma mette conto rilevare anche come l’autore, proprio in riferimento al dominio della lingua e della scrittura, utilizzi il termine “animale”, in riferimento al dominio formalizzato della lingua e della cultura ufficiali. Nelle pagine del Tremaio, Meneghello si soffermerà ulteriormente sulla natura dell’uccillino: “mi ha dato da pensare”, scrive l’autore, “[perché] aprendo i quaderni ho visto che c’erano altri strafantucci alati della stessa famiglia che svolazzavano un po’ dappertutto” (JUR, 99). Siamo in presenza di creature che, per quanto testualizzate, vivono nel testo e fuoriescono dalla pagina quali esseri anfibi, oscillanti tra la realtà esperienziale e l’irrealtà dell’imago scrittoria. 22 Sulla pagina d’apertura (numerata con 1 in alto a sinistra) sono presenti sei farfalle di colore nero, ripartite in due gruppi ben precisi: tre in alto (più piccole) e tre in basso, affiancate a figure umane della stessa grandezza. Nella pagina successiva, troviamo una farfalla, più piccola, a matita blu. 23 “l’alzato di 8 mm per il collo e la testa delle b e delle t, l’interrato di uguale misura in cui affondano le code e le zampe delle g e delle p: mentre le giraffe delle f riempiono tutto lo spazio” ( JUR, 26). 162 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Dopo aver passato in rassegna i “dodici modi per scrivere ‘uccellino’ ” (JUR, 27), e stante una capillare ricognizione dei quaderni scolastici di S., Meneghello scriverà che Alla chiusura dell’anno scolastico, giugno 1928, il campo apparteneva ancora alle bestiole fuori legge: mentre il primo uccellino legale documentabile venne poi a posarsi sulle righe di un quaderno di seconda soltanto il 7 aprile dell’anno successivo, sia pure con una nuova pagliuzza di illegalità grafica supplementare nel becco (luccellino). (Ivi, 28) Nella rispondenza fra natura e scrittura, la creatura si fa vitale, acquista corposità e movimento, tanto da eleggere la superficie grafica a habitat zoologico vero e proprio: la presenza zoomorfa “buca” lo schermo del testo e, in un certo senso, si sporge fuori e si lascia guardare, pur rimanendo intrappolata in una “lingua in gabbia” (JUR, 26). L’effetto è quello di una plasticità im/mobile, equiparabile ai Prigioni fiorentini di Michelangelo Buonarroti, ché l’animale si arresta allo stato di non finito e, proprio per questo, è oggettivato nell’atto di fuoriuscire dalla solidità di una lingua formalizzata. Il dinamismo, d’altronde, è ribadito proprio dall’oscillazione linguistica, entro cui l’imago animale muta continuamente il proprio statuto, come affermato dallo stesso autore: Qui non stiamo confrontando due lingue organizzate in modo analogo, con lo stesso rapporto interno tra parlato e scritto. “Oseleto” era la sola parola da dire in paese (tranne che recitando, in maschera): e “uccellino” la sola da scrivere […]. Un uccellino infatti non fa ciò che fa un oseleto, il quale non fa quasi niente. L’uccellino è energico, fattivo: svolazza, loda Dio; si fa ritrarre nei libri di lettura, o in cartolina, e si può copiare a meno; sa sempre il punteggio della partita, e continua a ripeterlo, con la sua vocina astratta; quando viene la Primavera, lui l’annuncia; è utile alla società, anzi pare un po’ il servi torello della Primavera, della Maestra… Al confronto, l’oseleto è uno scalzacane. Non sa niente, non sa le poesie a memoria, non entra nei dettati, nei libri, nei pensierini… Non pare che abbia alcuna funzione, non interessa alle persone istruite. Eppure tutti sanno che ha una qualità che all’altro manca: è vivo, ed è proprio lui che presta all’altro una sembianza di vita. Perché l’uccellino, con tutto il suo lustro, ha l’occhietto un po’ vitro. È un aggeggino di smalto e d’oro: sta su un ramo a gemme d’oro, e da lì si dà da fare per stupire le dame e i signori di Bisanzio, o addirittura (dicono) per tenere svegli i soldati ubriachi. (Ivi, 29-30) La creatura si sdoppia: all’animale propriamente detto – inteso cioè quale essere vitale e biologico (perché l’uccellino ha “una qualità che all’altro manca: è vivo”, ibidem) – si affianca una reificazione del teriomorfo, solidificato e rappreso in un ninnolo d’oro e smalto, a sua volta collocato in un habitat artificiale, posticcio, da museo delle cere. Il processo di formalizzazione linguistica, dunque, individua l’animale ma lo distacca dal suo ambiente, tale da indurlo a guardarsi da fuori sotto lo L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 163 spettro della trascendenza: l’intrusione del lògos rompe l’intima connessione del terios con il proprio ambiente, creando un sottofondo di realtà incompatibile con la vita biologica (Salvadori 2015c). “Gli ‘uccellini’ dei quaderni di scuola”, continua l’autore, “designano insieme un certo grado di piccolezza e un certo grado di artificiosità” (ivi, 33), dove “lo sfondo era […] quello di un mondo non vero, la costruzione del quale pareva compito precipuo della cultura e della scrittura” (ibidem), il che ci riporta alla discrasia fra realtà letteraria e realtà effettuale24. Leggiamo dal Tremaio: In sostanza volevo spiegare che l’uccellino in quanto creatura della lingua scritta aveva una specie di monopolio delle attività ufficiali degli uccelli, almeno nella loro forma diminutiva. Andava a ficcarsi in tutte le manifestazioni riconosciute della cultura, dettati, componimenti, libri di lettura […]. Era un vero e proprio operatore culturale, indaffaratissimo, con appariscenti funzioni di rappresentanza, di dir bene del Creato, di fare le riverenze al Signore, avvertire la gente che era arrivata la Buona Stagione (la gente lo sapeva già)… Era perfettamente integrato nella società delle persone civili, tutti mostravano di apprezzarlo, la Maestra sorrideva, i cacciatori facevano finta di niente. ( JUR, 101) L’animale si fa segno linguistico e simbolico (Bleakley 2000, 39), immaginato concettualmente e, di conseguenza, troped, cioè preso nelle maglie del processo retorico che, immediatamente, recide qualsivoglia legame col naturaliter. Diverso il caso dell’oseleto che Sul terreno della cultura era un po’ il figlio della serva, privo di un suo status e poco interessante per la gente istruita. Nessuno gli dava poesie da imparare a memoria, pareva tempo perso. Andava in giro a beccolare, sempre esposto al rischio che riuscissimo a posargli il sale sulla coda (non ci riuscimmo mai). Non lo si vedeva “svolazzare” come l’altro, il suo modo preferito di spostarsi era di zolar-via. E intanto i cacciatori, fischiando, colmavano di pallini le rosse cartucce… ( JUR, 10) Meneghello ha presentato due creature della fauna stanziale tipica del suo ambiente bilingue: “una associata al parlato e considerata reale, l’altra allo scritto, e sentita come artificiale” (ivi, 102), dove la prima appartiene al novero delle “bestiole fuori legge” (JUR, 28), riecheggianti le “piante sfuggite al guinzaglio” di Pomo pero (PP, 298). Tuttavia, questi animali – che ribadiscono, in un certo senso, la comunanza tra umano e terios – operano anche una rottura di cornice, dal momento che, per la prima volta in tutta l’opera dell’autore, parlano: “È curioso il senso di irrealtà che nasceva dai tentativi dei poeti di nominare la realtà. Ciuffolotti, rosignoli, forapaglie, cincie, verle, luì, fife, cuculi: questi nomi svolazzavano negli spiazzi della nostra memoria, accrescendo, anziché ridurlo, il credibility gap” (C70, 115). 24 164 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Curioso: a distanza di mezzo secolo sto domandando anch’io qualcosa di simile, e ora mi pare di sapere la risposta. Uccillino, uccellini. Dicono: “Siamo creature scritte”. ( JUR, 26) Creature scritte, dunque, e bestie di carta, ma anche, e soprattutto, squisitamente letterarie: derivative di una tensione intertestuale da sempre attiva nelle opere dell’autore25. A livello di bestiario, abbiamo già avuto modo di constatare come Jura muovesse le fila dallo “scarafaggio letterario” Archy di Don Marquis (JUR, 9), poco dopo seguito da “piero [sic]”, traduzione di pete the parrot and shakespeare (“ho fatto conoscenza qualche tempo / fa con un pappagallo di nome piero / che è un uccello interessante”, ivi, 11)26. Ma altri sono gli animali che fanno il loro ingresso nel testo tramite citazioni da altri autori: si pensi alle “cetonie” di Gozzano nei Piccoli maestri27 o al componimento di Giacomo Zanella, Il falco e il gallo, presentato in Fiori italiani quale “prima poesiola percepita come un ‘sonetto’ ” (FI, 258): Si era incominciato con un dettato […]. [La poesia] [r]accontava di una baruffa tra un falco un gallo, e il professore ci aveva messo un titolo, ‘Il falco e il cane’. Così lo enunciò per errore nel dettarlo, ma S. non voleva convincersi che il titolo non fosse proprio quello, come se dietro agli antagonisti della scenetta (un po’ in ghingheri ma veri, non i soliti animali parlanti) ci fosse un cane protagonista, che dominava la scena senza far nulla […]. La patria dell’aulico onesto ci accoglieva; i nostri compatrioti erano suore, che andavano a spasso per l’etra, ed erano nuvole; buoi che si stravaccavano sul declive del fiume orlo fiorente28, e la civetta che svolazzava, insidiando dei non piumati 25 “[In Meneghello,] i confini tra i tipi diversi di accostamenti testuali non sono rigidi e netti: dalle citazioni esplicite, con rinvio a un passo specifico, a quelle che sembrano appartenere alla memoria collettiva, alle allusioni di cui l’autore è cosciente, ad altre che possono essere subliminali, inconsce, o addirittura rimosse; e anche dal punto di vista del lettore può trattarsi di richiami che vengono riconosciuti o che passano inosservati. La loro presenza nel testo può configurarsi diversamente, a seconda dei casi – ma anche se un autore e un lettore rifiutassero di riconoscere un richiamo intertestuale, ciò non implicherebbe necessariamente l’insistenza di tale richiamo nel testo, e la sua indisponibilità ad essere utilmente analizzato e a rivelarsi interessante” (Lepschy 2006, LXXII). 26 “i got acquainted with / a parrot named pete recently / who is an interesting bird” (Don Marquis 2012 [1935], 155, vv. 1-3). 27 PM, 201: “ ‘La sai quella delle cetonie?’ gli dissi. Marietto non la sapeva e così io recitai: per dare un’erba alle zampine delle […] disperate cetonie capovolte. Naturalmente mi venne la pelle d’oca. ‘È praticamente perfetto’ gli dissi. ‘Sai, aveva occhio per gli insetti’ ”. Il riferimento è all’ultimo verso dei Colloqui “ma lasciava la pagina ribelle / per seppellir le rondini insepolte, / per dare un’erba alle zampine delle // disperate cetonie capovolte…” (Gozzano 2005 [1911], 218, vv. 38-39). 28 Corsivo mio. Il rimando è al verso che apre la decima poesia di Astichello di Giacomo Zanella (Zanella 1988, 500, v. 1). L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 165 rondinini al nido. Questi rondinini erano cugini dei passerotti sulla neve dei nostri mini-compiti delle elementari. (Ibidem, corsivi miei) Sempre dallo Zanella provengono la civetta e i rondinini29, ma mette conto sottolineare come queste creature scritte continuino a spingersi fuori dal testo, rivendicando un legame con la realtà fattuale. Al pari dell’uccellino e l’oseleto, gli animali esibiscono una patente di veridicità: vanno oltre l’artificio del letterario per farsi “veri, non […] i soliti animali parlanti” (ibidem): l’animal loquens, di conseguenza, proprio perché ha acquisito la prerogativa del lògos, reciderebbe il proprio legame col referente. In altri casi, il bestiario di partenza è arricchito da ulteriori presenze, come accade nel primo volume delle Carte, in riferimento a L’aia di Renato Serra, componimento che citiamo qui per intero: Mi piace l’aia poveretta dove non entrano macchine mai: non c’è fragore, non c’è fretta, né canzoni, né viavai. Quattro mannelli di grano, quattro baleni d’argento: qui l’opera si fa a mano, con ritmo ripartito e lento; e l’uomo in alto alza il bastone, batte e scinde paglia e frumento; e poi la donna col forcone, libera la pula al vento, mentre la vecchia mula esperta aspetta con rassegnazione, e il bimbo dorme, a bocca aperta, all’ombra calda del covone. (In Bonfigli, Lovati 1962, 46) E confrontiamolo col passo estrapolato dalle Carte: L’aia di Renato Serra (“Mi piace l’aia poveretta”) poesia onesta ma manierata. C’è onestà anche tra le cose manierate. Mosche, su quel bambino che dorme a bocca aperta, e brose un po’ dappertutto, sulla mula, sul bambino, sulla donna puzzolente che maneggia il forcone. (C60, 182) Se la pagina scritta è habitat, va da sé che il bestiario accolga creature assenti nell’ipotesto – cioè le mosche – le quali portano avanti una rottura di cornice: la scena, da idilliaca e pastorale, vira sul putrescente, anche in virtù della natura contaminante dell’insetto (come testificato dalle brose, 29 “Di tetto in tetto con infausto grido / Svolazza la civetta insidïando / De’ non piumati rondinini al nido” (Zanella 1988, 502, vv. 9-11). 166 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO o éscare, ovverosia il tessuto necrotizzato30), che in tal caso si fa elemento disturbante. Immediato il rimando al libro d’esordio, dove il legame tra marcescenza e insetto – evoluzione dell’accostamento con la materia fecale31 – era già istituito: […] ci sono donne buone e devote che patiscono ogni genere di disgrazie e di dolori, e alcune sono letteralmente tutte una piaga sui giacigli dove stanno da anni in attesa della morte che le sollevi. Le si vede nei pomeriggi estivi languire nei cortili dove le trasportano perché trovino un po’ di fresco all’ombra nelle case. Hanno un’espressione sante nei visi quasi marciti, sono circondate da mosche attaccaticce e ne sopportano il fastidio con forza misteriosa. (LNM, 187) Il tono è penitenziale, da supplizio dantesco, ma non sfuggiranno le consonanze col Decameron di Giovanni Boccaccio e, nella fattispecie, con la settima novella dell’ottava giornata, dove “no scolare ama una donna vedova, la quale, innamorata d’altrui, una notte di verno il fa stare sopra la neve ad aspettarsi; la quale egli poi, con un suo consiglio, di mezzo luglio ignuda tutto un dì la fa stare in su una torre alle mosche e a’ tafani e al sole” (1980 [1349-1351], 944). Tra gli ulteriori riferimenti alle bestie letterarie è possibile annoverare, per il versante italiano, il gatto del Conformista di Alberto Moravia, ucciso a colpi di fionda ed evocato in alcune pagine del Dispatrio32; l’asinello Repisscitto da Se more di Gioacchino 30 Per quanto le brose indichino la crosta dei lattanti, nel passo citato dalle Carte siamo in presenza di una vera e propria necrosi che contamina tutti i protagonisti del quadro (la mula, la donna e il bambino). 31 “Ridevamo recitando con le donne di servizio: Bianco rosso e verde / color delle tre merde / color dei panezèi / la caca dei putèi. Questa però non era sentita come critica alla Bandiera della Patria: che c’entra? La bandiera si esponeva sul poggiuolo della zia Lena, e si descriveva nei Pensierini a scuola; le tre merde erano allineate in orto sotto la mura del Conte, lucide come di vernice, sorvolate dai mosconi; sopraggiungeva la Colomba e ci stendeva sopra il pannolino umido che soffocava i colori in una tabe giallastra” (LNM, 30). 32 “Parlandomi del Conformista, che gli avevo dato da leggere, Sir Jeremy rideva di gusto. È uno spasso, diceva, c’è quello studio “freudiano” su come si manifesta un impulso omicida in progressione. In una prima fase, aurorale, il soggetto decapita i fiori in giardino, poi, aggravandosi la pulsione, con una bacchetta spacca la schiena alle lucertole: segue una terza fase in cui tira con la fionda a un gatto in un giardino attiguo e lo fa secco (come si sente, diceva Sir Jeremy, che Moravia non ha mai provato a uccidere un gatto a fiondate” (DIS, 64). Si legga ora il passo dal Conformista di Moravia: “Dalla parte del giardino di Roberto non c’era rampicante, bensì un’aiuola coltivata a iris che correva tra il muro e il vialetto ghiaiato. Allora, proprio sotto i suoi occhi, tra il muro e la fila degli iris bianchi e violetti, disteso su un fianco, Marcello vide un grosso gatto grigio. Un terrore insensato gli tagliò il respiro poiché notò la posizione innaturale della bestia: coricata di lato, con le zampe allungate e rilasciate, il muso abbandonato sul terriccio. Il L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 167 Belli (1978 [1834], 320), che nell’Apprendistato33 continua a subire le sferzate del suo padrone (ma si prendano in esame anche i “gattini” da La bbellezza34); oppure, si pensi alla vacca, il bue e il cammello ripresi dal Giuba Esplorato35 di Vittorio Bottego (1895, presenti nel terzo volume delle Carte. Circa il versante anglosassone, non sfuggiranno lo Stregatto del Cheshire – da Alice’s Adventures in Wonderland di Lewis Carroll (2013 [1865]) – rievocato in Bau-sète! a proposito del “carrettino fantasma”36; pelo, folto e di un grigio azzurrognolo, appariva leggermente irto e arruffato e insieme inerte, come le piume di certi uccelli morti che aveva osservato tempo addietro sul tavolo di marmo della cucina. Ora il terrore cresceva: balzò a terra, sfilò da un roseto la canna di sostegno, tornò ad inerpicarsi, e, sporgendo il braccio tra le sbarre, si ingegnò di pungere il fianco al gatto con la punta terrosa della canna. Ma il gatto non si mosse. Tutto ad un tratto gli iris dagli alti gambi verdi, dalle corolle bianche e violette inclinate intorno il grigio corpo immobile, gli parvero mortuarii, come tanti fiori disposti da una mano pietosa intorno un cadavere. Gettò via la canna e, senza curarsi di rimettere a posto l’edera, saltò a terra” (1973 [1951], 17-18). 33 “Nello stucchevole uso metaforico del termine ‘la stangata’ si avvertono inflessioni volgari, forse perché sono volgari i nostri contesti. In senso proprio la volgarità del termine non è in evidenza, anche quando la botta con la stanga è tremenda come in quel sonetto del Belli, Se more. L’asinello sovraccarico ha continuato a cascare, una interminabile serie di cascate: a un certo punto il padrone glielo dice di guardarsi bene dal fargliene un’altra, “ma lui la vorze fa, porco fottuto, e io le diede una stangata” (APP, 86). Si legga dal Belli: “Nun zapete chi è mmorto stammatina? / È mmorto Repisscitto, er mi’ somaro. / Povera bbestia, ch’era tanto caro / Da potecce annà in groppa una reggina. // L’ariportavo via dar mulinaro / Co ttre sacchi-da-rubbio de farina, / E ggià mm’aveva fatte una diescina / De cascate, perch’era scipollaro. // J’avevo detto: ‘Nun me fa la sesta;’ / Ma llui la vorze fà, pporco futtuto; / E io je diede una stangata in testa. // Lui fesce allora come uno stranuto / Stirò le scianche, e tterminò la festa. / Poverello! m’è ppropio dispiaciuto” (1978 [1834], 320). 34 Nel commentare la chiusa della poesia del Belli, Meneghello scrive in: “Nella vita non avremmo certo difficoltà a distinguere i gattini “belli” dai brutti: saranno ovviamente i più forti, i più visti, i più sani. Ma perché ci paiono belli? E altrettanto vale per le vacche o le zitelle, forse anche per le chiese… su che cosa si fonda, in natura, questa nostra disposizione?” (QNB, 11). Si legga dal Belli: “Guardàmo li gattini, amico caro. / Li ppiù belli s’alleveno: e li bbrutti? E li poveri bbrutti ar monnezzaro” (1978 [1834], 363, vv. 12-14). 35 “Vittorio Bottego, Giuba. Discorsi di ‘Abessini’: - ‘La vacca ha fatto un bambino’ – ‘Il bue ragazzo non vuol camminare’ – ‘Questo cammello è Madama’ (C80, 221). Si legga ora da Vittorio Bottego: “Stamattina un servo è venuto a dirmi: ‘La vacca ha fatto un bambino’; curioso linguaggio che m’ha esilarato non poco. Simili traslati fanciulleschi escono spesso dalla bocca dei soldati: mi sento dire, ad esempio: ‘Il bue ragazzo non vuol camminare’, ‘Questo cammello è madama’, e così via, da farne una collezione umoristica’” (1895, 95). 36 “Sotto la superficie della nostra vita scorreva impetuosa l’aspirazione a fare una rivista […]. Però, come dico, si trattava solo di un progetto. Era un po’ come il carrettino multiplo a pedali della nostra infanzia, il favoloso caretèlo da sei posti, futuro veicolo 168 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO così come il dodo delle “nuove carte”, mutuato da Such Darling Dodos di Angus Wilson (1960 [1950])37. Obbligato, di conseguenza, si fa il rimando a Trapianti e, nella fattispecie, a come l’atto traduttivo operi, per gli animali del prototesto, un adeguamento – almeno a livello lessicale – alla biosfera d’arrivo38. Ecco che il bestiario maladense agisce quale repertorio adattativo e opera un cambio di referente, perché “a volte è come se i nomi mangiassero i nomi, risputando le cose; altre volte col nome va a farsi benedire anche la cosa. Oppure accade che la cosa risputata non paia più quella […]” (MM, 24). Cominciando da Note, stéle – traduzione di The Starlight Night di Gerard Manley Hopkins – vediamo come, al v. 7 del testo originale, siano presenti delle bianche colombe (“flake-doves sent floating forth a farmyard e sede mobile del patto dei sei. Volevamo commissionarlo a Anzolo Laìn, il vecchio dedalo canuto e sdentato del nostro paese, al quale chiedemmo un abboccamento. Fu nel cupo sottoportico di casa sua, in contrà Barbè. Si venne quasi subito a parlare dei fondi necessari. Il vecchio, forse turbato dalla natura inaudita del progetto, non si sbilanciava a farci un preventivo. Piareto, per tastare il terreno, disse diplomaticamente che ‘così alla mano’ […] ‘avremmo dovuto’, cioè ‘avevamo intanto’ dieci franchi, che invece non avevamo affatto; e Anzolo Laìn col suo garbo senile, in questo caso piuttosto tagliente, ci disse che dieci franchi non bastavano ‘gnanca per il colore’. Io arrossii e tentando istintivamente di rimediare alla brutta figura dissi subito: “Non importa il colore”. E, invece, come un gatto della contea del Cheshire, quel simulacro di carrettino fantasma, il suo colore che non avevamo i soldi per comprare, era tutto ciò che ci fu mai del caretèlo to end all caretèi. E così la rivista” (BS, 458-459). 37 “La piccolezza delle nazioni impicciolite dalle guerre si può indicare molto bene accostando il pollice e l’indice di una mano, e un giorno parlando con l’amico Angus romanziere (bravo nei racconti brevi) cercai di rappresentargli a quel modo le dimensioni effettive dell’Inghilterra nel mondo contemporaneo. ‘Siete grandi così’ gli dissi, mostrando quanto coi polpastrelli. Angus era progressivo e spregiudicato, ma vidi il suo viso oscurarsi per la rabbia. Si contenne però. Domando ora scusa alla sua memoria: in verità io avevo un po’ l’intenzione di offendere. E forse offendere lui, gentile e raffinato (e modernissimo) dodo, l’uccello estinto che figura in uno dei suoi titoli, ma la mia stravagante nozione della lingua inglese” (APP, 24). O ancora: “Quadro della cultura etico-politica cisalpina, ai nostri antichi ritorni estivi. Ardenti dispute, meschini ripicchi. Se Stalin era grande o no. Uccelli estinti. Dodos” (APP, 120). 38 La traduzione di Meneghello è target-oriented (cioè orientata al testo di arrivo): “mi sono fatto l’idea che se confrontiamo l’esattezza di una traduzione, cioè la comprensione esatta di ogni dettaglio del testo, con l’altra qualità, la freschezza e il brio della lingua d’arrivo, dovendo scegliere io sceglierei la seconda. Mi sono convinto, e non solo per vago gusto estetico, che proprio se il testo è tradotto con la freschezza e il brio necessari (sempre che ci sia una comprensione di base, si capisce), si traduce meglio, si fa sentire di più cosa è il testo. Continuo a pensare oggi che è più importante che la traduzione sia viva nella lingua d’arrivo, che non sia puntigliosamente o pedantescamente esatta rispetto alla lingua di partenza” (TEC, 255). Segnaliamo, a tal proposito, le ricerche condotte da Lucrezia Chinellato circa le traduzioni in vicentino di Meneghello (Chinellato 2012, 139-153; Chinellato 2015, 12-13). L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 169 scare!”, 2011 [1877], 21, v. 7), pur tuttavia destinate a farsi “Tórtore, fiochi che zola via a onde da na corte se un s’cioco le spaura!” (TRAP, 15): è in atto un processo di riscrittura, un progressivo abbassamento che, sotto certi aspetti, è equiparabile all’episodio maladense della tempesta e il conseguente raffronto col mottetto montaliano (LNM, 35-36). Le cose stanno diversamente per Podìn – trapianto di Paudeen di William Butler Yeats – in quanto il chiurlo, presente al v. 4 della poesia originale (“Until a curlew cried and in the luminous wind”, 1997 [1916], 109, v. 4), muta in toto le proprie fattezze per divenire una cinciallegra (“e a un serto punto na perùssola la tira un sigo”, TRAP, 63). All’atto traduttivo, Meneghello ha dunque optato per un uccello stanziale (il chiurlo, non a caso, è presente in Italia solo quando migra), ferma restando la trasformazione fisiognomica cui l’animale va incontro, alla stregua di un vero e proprio restringimento: il chiurlo – uccello acquatico dal becco lungo e ricurvo – cede il passo a un variopinto passeriforme, di certo meno ‘statuario’ del precedente, conosciuto soprattutto per la sua confidenza nei confronti dell’uomo. Ciononostante, se per Hopkins cambiava soltanto la specie animale (la colomba e la tortora appartengono, infatti, alla famiglia dei columbidi); per il trapianto da Yeats resta invariata solo la classe di appartenenza (uccelli), mutando invece l’ordine e la famiglia39. La diversione lessicale, dunque, modifica l’ecosistema del testo, ferma restando la funzione strutturante e regolatrice del bestiario italico e maladense che agisce da filtro e struttura il metatesto d’arrivo. Animali, quindi, popolanti un immaginario alimentato da testi e scritture, ma altresì coefficienti di un passaggio fra due realtà: è il caso della Fauna dei fantasmi in Jura (JUR, 55) – ideale pendant della “fauna del portico” (ivi, 24) –, dove le presenze zoomorfe scaturiscono da quella che Ernestina Pellegrini, nell’analizzare i punti chiave della scrittura notturna di Meneghello, ha definito “corda fantastica e dell’orrore (2013, 145). Gli animali, a tale altezza, sono “figure dell’alterità” (ibidem) e Meneghello, come arguito da Pellegrini, non manca di rivelare la fonte di queste fantastiche teriomorfie, riconducibili alla “collezione di quell’annata [scil. il 1905] della ‘Domenica del Corriere’” (ivi, 57): In antico c’era un oceano deserto, nel quale ogni pomeriggio dopo mangiato comparivano il Serpente di Mare e il Mostro Marino. Il racconto del papà, sempre uguale e diviso in due parti identiche, durava qualche minuto, e consisteva nel postulare ciascuna delle due apparizioni e identificarla. Erano ovviamente la stessa bestia, ma guai a confonderli. Il Serpente di 39 La cinciallegra è un passeriforme della famiglia Paridi (uccelli insettivori e di piccole dimensioni, che nidificano negli incavi degli alberi); viceversa, il chiurlo fa parte dei Caradriiformi e, nello specifico, appartiene alla famiglia degli Scolopacidi (uccelli, cioè, prevalentemente d’acqua). 170 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Mare arrivava da sinistra, il Mostro Marino da destra. Avevano un andamento tubolare e ondulato, ma nello stesso tempo somigliavano a un vaporetto. Bizzarramente, avevano in bocca uno stuzzicadenti come il papà. I loro nomi […] dimostrano che non si trattava di una fauna selvaggia degli abissi, ma di fantasmi della cultura riflessa […]. Grandi e lenti, i due bestioni si spostavano verso la parte centrale dell’oceano: quando erano in mezzo sopravveniva il sonno. ( JUR, 55) Per quanto “bestie” (e non “animali”), le due creature non incutono timore alcuno, quanto piuttosto si limitano a compiere il loro tragitto, come sagome su un piatto fondale, per poi neutralizzarsi una volta incontrato il centro. Diverso il caso della “mano di scimmia” (JUR, 58), dove l’arto animale diviene amuleto o feticcio, con riferimenti neanche troppo celati alla Mano di Fatima40. Guardando alla novella The Monkey’s Paw di William Wymark Jacobs (1997 [1902]), Meneghello non manca di fondere understatement e esoterismo, in una sorta di noir rovesciato dove il primate, per quanto privato dell’intero corpo, sembra continuare a beffarsi dello sprovveduto protagonista: Nel 1905 questa mano fu acquistata da un ometto di mezza età. Glielo avevano detto che portava anche sfortuna, ma lui si mise in testa di fare una prova più o meno a colpo sicuro, desiderando una determinata sommetta di denaro: che male può fare? E invece tac!, proprio nel momento che pensava il suo desiderio, suo figlio ebbe un incidente sul lavoro e morì orribilmente dilaniato: e così la cassa infortuni gli mandò la sua sommetta. Sconvolto, ma forse anche piccato, l’ometto ricorse al secondo desiderio: “Che mio figlio torni a me”. E nel silenzio della notte […] sentì aprirsi la porta […]. Era il morto che tornava, però nel suo stato di maciullazione, trainando i pezzi. Era il momento del terzo desiderio: purtroppo l’ometto, molto innervosito, stava al buio e la mano di scimmia gli era cascata. Fu una cosa molto risicata, il morto a brandelli raspava alla porta, e lui cercava freneticamente la mano sul pavimento… Insomma la trovò appena in tempo e riuscì a dire: “Che questo orrore se ne vada!” proprio mentre la porta cominciava a socchiudersi. Un anno incomparabile. ( JUR, 58) Per Pellegrini, i due estratti citati presentano una “situazione sospesa fra la vita e la morte, fra il mondo dei desideri e il mondo della paura, fra la veglia e il sonno. Situazioni di confine, di soglia, che si portano dietro un invisibile strascico” (Pellegrini 2013, 148) e dove le presenze zoomorfe41 40 La Mano di Fatima è il simbolo tipico sia della religione musulmana (dov’è nota come Khamsa o Hamsa, cioè il numero 5), sia della tradizione liturgica ebraica e dell’Oriente cristiano (in tal caso, è conosciuta come Mano di Miriam). 41 Ai fini di un’analisi del bestiario meneghelliano, ci preme soffermarci sull’immagine dei girini che, sotto certi aspetti, vanno incontro a un vero e proprio L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 171 divengono intermittenze tematiche che, pur deviando dall’animalità consueta, sostanziano questo bestiario in fieri. Un bestiario che, specie fra le pagine di Maredè, rende animali le stesse parole, originando una lessicografia del terios. Consideriamo, ad esempio, il seguente estratto sulla femmina del maiale: La nostra ròia e la un po’ meno tròia che bestie sono?42 E in che rapporto stanno con la lùia, la scróa, e quella che anche noi vicentini quando parliamo pulito chiamiamo la scròfa? Sul piano strettamente zoologico, naturalmente, si tratta solo dei cinque nomi della femmina del maiale, a cui rigore potremmo anche aggiungerne un sesto, il non canonico la mas’cia (l’enorme, rosea maiala di Libera nos43 […]). A lei nel Vicentino come altrove in Italia, e a differenza per esempio dell’uso inglese, tradizionalmente ascriviamo un comportamento amoroso smodato, e inoltre una emblematica disonestà psicologica e morale. (MM, 180-181) Le varianti lessicografiche, in tal caso, alterano il piano zoologico su cui si colloca l’animale, proprio in virtù dell’effetto differenziante del lògos: ciò è dimostrato alla fine dell’estratto, dove i confini tra l’umano e il suino cominciano a sfumare, fino a un sovrapporsi d’ontologie. Come rilevato da Hillman, l’essere umano è spesso portato a rivedersi nel maiale44, sia a livello di anatomia interna, sia per quanto riguarda la fisiognomica, giacché il maiale è often pinkish, brownish, seemingly spesso roseo, tendente al bruno, apparentehairless, its jowls and dugs mente senza peli, le guance, le mammelle letargo, per poi riprendere, alle prime piogge autunnali, il loro consueto sviluppo in rane. Meneghello sfrutta il concetto di ‘letargia anfibia’, per dare vita a uno scenario dove gli esseri umani, privati dei loro fluidi vitali, si sono risvegliati in un mondo futuro. “Qualche anno più tardi, al tempo della pubertà e dei Sepolcri, arrivò infine dalla lettura la rivelazione che i girini disseccati nelle grondaie possono sopravvivere ai lunghi mesi dell’arsura finché il primo fiotto dell’acqua piovana li riporta in vita, pronti a ripigliare il loro piccolo viaggio alla rana. Così gli uomini opportunamente asciugati potrebbero valicare i secoli e risvegliarsi nel mondo del lontano futuro: Al di là delle tenebre, titolo del primo vero racconto di fantascienza trovato da S. in due vecchi numeri della “Lettura”. La gente con la testa rapata a zero, in tute aderenti, gli aeroplanini piccoli come un monopattino…” ( JUR, 61). 42 “Nello stallotto la troia pezzata, nera e rosa. Una mattina lei non c’era più, al suo posto un fascio di fiori strappati in un campo, fitti, variopinti” (C60, 471). 43 LNM, 26. 44 Sempre sul maiale, si veda in Maredè: “Ripensando al simbolo del grado estremo dell’arretratezza (l’arricciolata, carnosa, ignuda cóa del mas’cio): è da osservare che essa appartiene alla sottospecie dei coìnci, come quella del pantegàn e del sórze” (MM, 109). 172 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO and belly, its rotund torso with folds at the neck, short legs and soiled behind, its copulatory habits, its omnivorous appetite like the human, enjoying everything. Even human flesh is said to taste most like pork. This fleshly aspect of the pig makes the term an insult: a person called pig, swine, sow, or hog means greedy, dirty, sulky, coarse, obstinate, gluttonous, filthy, with bestial habits. (Hillmann 1982, 14) e la pancia, il tronco tondo con le pieghe sulla nuca, le gambe corte e il posteriore sporco, il modo di accoppiarsi, l’appetito onnivoro come quello dell’uomo, che si nutre di tutto. Si dice anche che la carne umana abbia lo stesso sapore di quello di maiale. L’aspetto carnoso del maiale fa del termine che lo designa un’ingiuria: chiamare una persona maiale, porco, troia, suino equivale, nei paesi di lingua inglese, a definirla avara, sporca, imbronciata, rude, ostinata, ghiotta, sozza, con abitudini bestiali. (Trad. it. di Serra e Verzoni in Hillman 2016, 27) Nel prosieguo del passo meneghelliano, vediamo come sia proprio la distanza tra l’umano e l’eterospecifico a determinare il ‘gradiente’ dei cinque nomi con cui l’animale è designato: L’ordine della frequenza dei cinque nomi, usati in senso proprio, credo dipenda dalla distanza fisica e culturale (del soggetto che parla) da uno stallotto45 per maiali: per i più vicini prevalgono lùia, scróa, ròia; per i più lontani ròia, tròia, scròfa. (MM, 181) L’eterospecifico non è solo tenuto a distanza, ma altresì osservato mediante barriera (cioè lo stallotto), il che ci porta a ipotizzare come, in tal caso, la soglia specista sia rinsaldata dal medium linguistico. Meneghello, in seguito, passa in rassegna le declinazioni antropologiche del termine, applicato cioè alla sfera umana: Sul piano antropologico, questi nomi si usano come epiteti offensivi che imputano smodatezza amorosa (solo alle donne) o disonestà profonda, forse congenita (anche agli uomini). Nel primo senso usiamo uno qualunque dei cinque nomi della maiala, e qui tròia è forse il termine più diffuso, seguito da scróa; stranamente ròia che in quanto più rustico si potrebbe ritenere più rudemente offensivo di tròia, è invece poco usato. Nell’altro senso usiamo quasi solo tròia, per entrambi i sessi. Diciamo dunque comunemente, anche di un maschio, l’è na tròia volendo dire che è “un porco”, un imbroglione, uno spudorato, senza scrupoli e senza ritegno; ma invece non si potrebbe dire con proprietà l’è na tròia nel senso di “ha una complessione amorosa indecen- 45 “Stalòto è più piccolo di una stalla ma non è una piccola stalla, anzi un ben caratterizzato alloggio per mas’ci, béchi, cavre, moltòni… Gabiòto non è una gabia piccola, ma se mai una gabbia ingrandita rispetto a quelle degli uccelli da canto o da richiamo… C’è una progressione: gabiéta (oseléti), gabia (oséi), gabiòto (coniji) e di nuovo gabia (gatopardi, rangotani, ecc.). Gabiòn si può considerare un modesto accrescitivo di gabiòto (non di gabia)” (MM, 176). L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 173 temente eclettica”, salvo in casi molto speciali (ingordigia più passività), per analogia. L’imputazione di tipo ‘morale’ è dunque affidata alla tròia e (più raramente) ròia. È da notare che lùia sia come epiteto che come predicato nominale (Lùia! e Te si na lùia!), si usa per dire che qualcuna o qualcuno (l’appunto è unisex) mangia smodatamente e divora il cibo con empito bestiale. (Ibidem) La presenza zoomorfa è operatore epistemologico ed inclusivo, ma è comunque andato incontro a quel “tropological enslavement to the human” (Bleakley 2000, 20), mediante cui l’artificio retorico espunge dall’alterità eterospecifica una determinata caratteristica, poi trasferita sul piano umano in base a un meccanismo di analogie e differenze, tipico dei bestiari medievali. L’animale si fa riflesso e, parimenti, riflessione: doppio sui generis del soggetto umano, ma altresì terreno entro cui quest’ultimo costruisce ed elabora nuove figurazioni del terios. Certe parole, di conseguenza, mantengono una duplice valenza specifica, come nel caso di incucià e cucià-zó che, precisa l’autore, devono essere distinte tra loro, poiché “il primo è tipicamente degli esseri umani, l’altro anche delle bestie. In IT-VIC tentiamo a volte di fare un’analoga distinzione tra ‘accucciata’ (umano) e ‘accovacciata’ (umano e animale)” (MM, 194); per il bao, viceversa, ci troviamo dinanzi a un esteso campo di referenti, dal momento che il termine si fa concrezione di più specie e presenze animali, evocate sulla pagina come in un stregonesco grimoire, fino a sfociare, nuovamente, nei meandri di una putrescenza latente: Bao-/i sta per “insetto” (con speciale riferimento ai coleotteri), ma anche per “verme”, o più generalmente per qualunque animalculo. Nota che una siarésa, un pómo può avere el bao (cioè il suo individuale: sottintendendo che un bao del tipo a cui quel frutto è soggetto per natura), ma anche collettivamente si può dire che le ciliegie di uno scartosso o quelle di una ciliegi ara hanno el bao, ossia sono affette (non tutte, ma parecchie) da quel malanno: mentre la farina, la carne, ecc., possono avere o sviluppare i bai. Ciò che ha o sviluppa i bai è da considerare, e normalmente considerato, marcio (marso), salvo il formaio coi bai che è solo avanti. Nel senso di “vermi”, bai non indica i lombrichi, che si chiamano binbissóli, ma le larvette, i vermiciattoli che si generano dal putridume, dal marciume, insomma dalla corruzione prodotta da un eccesso di maturità o dalla morte. Fare i bai è imputridire, in particolare il dissolversi dei corpi morti, e può stare per “essere morti”. Quanto alle dimensioni, è indisputabile che, per esempio, la coccinella o marìazòla-via è un baio; ma resta incerto a quale punto, crescendo le dimensioni, un bao di simile fattura smetterebbe di essere un bao. Una certa disposizione speculativa o poetica può far sentire come bao il maggiolino o l’ape […] o perfino il calabrone, pesante balenottero dell’aria, o il pachidermico cervo-volante… (MM, 66) L’insetto, per quanto piccolo e insignificante, non manca di suggerire contatti innaturali che, da un lato, si orientano verso una consunzione larvata (il guastarsi dei frutti, del formaggio, financo dei corpi umani stessi); dall’altro, guardano invece a ibridazioni zoomorfe: animali patchwork, alla 174 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO stregua del “cava-òci” (ivi, 223), la libellula vicentina situata al finire del libro46. E allora, potremmo anche ipotizzare la presenza di un certo stupore di fondo in questo sguardo che, nell’accostarsi al mondo animale, lo ripercorre per traiettorie inedite, spesso abiologiche, ma tuttavia orientate a valorizzare la carica semantica e immaginifica del terios: “effetto elettrizzante delle cose ordinarie quando improvvisamente le vedi”, leggiamo in un passo delle Carte, “[dal]la forma della rubber plant nell’angolo, [al]la geometria delle zampe di un ragno; e su tutto ciò il sospetto che in ultima analisi queste forme siano composte di parole” (C60, 60). Eppure, avendo costituito per molto tempo l’unica e vera alterità, l’animale, in quello che è il processo comunicativo, rimanda sempre a un “insieme archetipologico” (Marchesini 2002, 105), tale da informare le nostre idee mediante modelli, variazioni tematiche e possibilità esistenziali: la cultura, di conseguenza, viene mediata e promossa dall’eterospecifico, ormai seconda chiave di lettura del mondo. Un processo, questo, riscontrabile anche a livello della creazione letteraria, dove l’animale – mettendo a disposizione il terios – si fa medium contrastivo, facendo risaltare specifiche disposizioni della sfera umana: il bestiario si costella dunque di “animali-soggetto” (Biagini 2001, 14) che, proprio in virtù di una simile dislocazione, sono medesimi o simili dell’immaginario psichico, metafore proliferanti dell’Io profondo, pur tuttavia piegate alla forza del lògos. Anche in Meneghello, l’elemento zoomorfo riveste il ruolo di tertium comparationis e – proprio autorizzando l’accostamento tra i due versanti (umano e non umano) – illumina quelle che sono le venature nascoste, mediante un processo appropriativo e proiettivo. Ora, sappiamo che l’animale ha sostanzialmente due livelli semantici: il primo, denotativo, rimanda agli esseri appartenenti al regno animalia (uomo compreso); mentre l’altro, connotativo, è riservato all’ambito umano, in quanto mira a metterne in risalto caratteristiche specifiche. Nella fase di appropriazione, i due livelli sono come appiattiti e ridotti al solo versante connotativo, per poi passare alla proiezione tout court, portata avanti per metafora47, similitudine o analogia: l’umano, in tal modo, assume l’a46 In altri casi, le parole sono esse stesse fauna, cfr. MM, 160: “l’orecchio sente sginsài, plurale di sginsale (la nostra zanzara senza seta) come più comune e in qualche modo più autentico di questa forma plurale, particolarmente in senso collettivo, ‘il flagello delle zanzare’, o ‘un numero indefinito di zanzare’, con o senza articolo: Ghe zé sginsài?, Ghètu sentìo i sginsài stanote? Meno naturale sembra il singolare sginsale, specie con l’articolo, el sginsale, un sginsale. Frasi come Zélo zolà via ‘l sginsale? O anche Ghe géra un sginsale? paiono da evitare, forse per la spiacevolezza degli ingorghi consonantici lsgi, nsgi. Si direbbe che entrati in crisi alcuni decenni or sono, gli sginsali riuscissero a tener duro un po’ più a lungo come gruppo, mentre lo sginsale isolato veniva messo in fuga dalla zanzara (zanzara, sempre senza zeta)”. 47 Scrive Carlo Alberto Augieri che “la metafora è […] composizione di senso figurato, distinto da quello gnoseologico a carattere soltanto mentale, logocentrico […]”, L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 175 nimale come termine di paragone, pur tuttavia attuando una rimozione di quest’ultimo dal milieu biologico. Ovviamente, lo slancio metaforico opera un trasferimento di senso (metaphérō, “io trasporto”) che se, da un lato, riduce l’animale a pura esistenza semantica, dall’altro, volendo far nostre le considerazioni di Paul Ricoeur, rivela l’illustration la plus éclatante du pouvoir qu’a le langage de créer du sens par le moyen de rapprochements inédits, à la faveur desquels une pertinence sémantique jaillit soudains des ruines d’une pertinence préalable ruinée par son inconsistance sémantique et logique. (Ricoeur 1995, 45) la più eclatante illustrazione del potere che il linguaggio ha di creare un senso attraverso accostamenti inediti, grazie ai quali una pertinenza semantica scaturisce improvvisamente dalle rovine di una precedente pertinenza distrutta dalla sua inconsistenza semantica e logica. (Trad. it. di Iannotta in Ricoeur 2013, 59) L’animale, di conseguenza, potenzia la carica ermeneutica dell’operazione retorica, in modo da dischiudere “de valeurs de réalité inaccessibles au langage ordinaire, direct et littéral” (ivi, 47; “dei valori di realtà inaccessibili al linguaggio ordinario, diretto e letterale, ivi, 60”). Cominciamo da un passo contenuto in Libera nos a malo che, a nostro parere, bene illustra questo spostamento di referente: ci riferiamo all’episodio di Don Emanuele e il suo allevamento di lumache: Credo che Fabretto sia stato mandato ai Campi-piani per ragioni salute;un posto tranquillo, press’a poco come il Feo dove una generazione fa era stato mandato don Emanuele. Il mio primo incontro con Don Emanuele avvenne appunto lassù […]. Sedevamo sulle sedie impagliate in cucina; la porta era aperta ed entrava un sole mite che coloriva i mattoni; doveva essere la fine dell’autunno. Il prete ci faceva vedere certe gabbiette e cassettine con dentro gusci di lumache e piene. “Papà, cosa ne fa il prete delle lumache?” Mi dissero che le mangiava. Intesi così il perché di quell’aria di castigo, di scandalo appena sopito che m’era parso circondasse la casa e l’uomo. Grazie tante! con quel vizietto delle lumache! Solo molti anni dopo conobbi don Emanuele per quello che era, il prete più ubriaco della provincia. Aveva fatto il cappellano o il parroco in un altro paese, la cui comprensione presuppone una “stilistica dell’immagine e del visivo, nel senso semanticamente iconico, in cui il verbale e l’astratto del soggetto principale (tenore o frame) si rapportano al concreto ed al sensibile del veicolo (o del focus): il senso logicoverbale, insomma, si congiunge con il sensibile non-verbale [nel nostro caso, l’animale], con l’effetto di rendere concreto e pure corporeo il significare tematico, con l’esito di far ‘accadere’ il nucleo d’intersezione, un crocevia tra senso e sensibile, di significato e sensorialità” (2016, 34-35). Stanti simili considerazioni, il processo metaforico avrebbe la funzione di rendere tangibile l’elemento tematico, dotandolo di una patente di corporeità. Ciononostante, avremmo modo di vedere come, nel caso dell’animale, la pregnanza fisica sia immediatamente inglobata in quella semantica, passando dal livello denotativo a quello connotativo. 176 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO poi l’avevano messo lassù a purgarsi anche lui come le sue lumache nelle gabbiette. (LNM, 200) La struttura zoomorfa è sovrapposta all’ambito umano, che deriva dall’animale il proprio codice di condotta: come i molluschi devono ripulirsi prima di finire in pentola, così il prete è destinato a lavare via i propri peccati, il che ci porta in una dimensione propriamente purgatoriale. Non sfuggirà, oltretutto, la condizione marginale dei due soggetti dell’estratto, ragion per cui la cattività dell’animale (le lumache chiuse nelle gabbiette) è proiettata, per riflesso, sul canonico esiliato al Feo. Il riferimento al regno oltretombale ci porta, nell’immediato, a un altro estratto, stavolta contenuto nelle carte postume dell’Apprendistato: Ma in tempi recenti l’impressione di essere esposti all’avvento di cose temibili che sono striscianti è ricomparsa nel nostro Paese. Qualcosa che striscia, pensiamo c’è. Viene tra l’erba e i fiori come le bisce in purgatorio, e voltando grottescamente la testa all’indietro si lecca la schiena. (APP, 134) Il rettile mutua la perniciosità non solo dagli ipotesti scritturale e dantesco48, mettendo in luce proprio l’azione dello strisciare che, da sempre, ha così fortemente impressionato l’immaginario umano. La forza ‘intrusiva’ dell’animale, capace di infiltrarsi dovunque (e da cui deriva la sua natura contaminante, come tutti gli animali legati alla terra), ritornerà in un passo delle Carte, dove due narrazioni corrono in parallelo: Devo scrivere un libro su un argomento segreto […]. Non voglio fare il misterioso, è un segreto che non mi è concesso rivelare, ma di cui sono costretto a occuparmi. È qualcosa che ha invaso la mia vita, l’ho introitato senza volerlo, come quel mio paesano a cui mentre dormiva disteso s un prato era entrato in bocca un serpente. Mi hanno detto che quando tutto il serpente fu dentro, tranne la coda, un contadino che passava di lì e lo aveva visto entrare, lo afferrò per la coda e pian piano lo tirò fuori. (C70, 481) Un serpente che somiglia più a un verme solitario, anziché a una bestia pronta a ingoiare la sua preda: non sfuggiranno, in tralice, le filiazioni dal XXV canto dell’Inferno e, nella fattispecie, dai passi relativi alla trasformazione in rettile del Guercio per opera di Buoso Donati49. Nella Commedia, il serpente entra nel corpo umano attraverso l’ombelico (“e quella parte onde prima è preso / nostro alimento, a l’un di lor trafisse”, Dante, Inf., XXV, vv. 85-86), ma la coda, come nel passo meneghelliano, resta all’esterno (“che 48 “Da quella parte onde non ha riparo / la picciola vallea era una biscia, / forse qual diede ad Eva il cibo amaro. // Tra l’erba e’ fior venìa la mala striscia / volgendo ad ora ad or la testa, e ’l dosso / leccando come bestia che si liscia” (Dante, Purg., VIII, vv. 97-102). 49 In questa parte del canto, Buoso si è già tramutato in rettile. L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 177 ’l serpente la coda in forca fesse, / e il feruto ristrinse insieme l’orme”, ivi, vv. 104-105). L’episodio del contadino si ripresenta nel terzo volume delle Carte, dove l’animale va incontro a una sorte ben diversa: Com’era la favola? Ai margini del paese un arcaico contadino (erano tutti arcaici) si era addormentato sotto un olmo, e mentre dormiva con la bocca aperta, arriva un serpente e va dentro a vedere: era nero, e lungo come l’anno della fame, e quando fu disceso a metà il contadino si svegliò con un senso di peso allo stomaco, e avvistando il mezzo serpente che gli pendeva alla bocca, dopo aver provato invano a tirarlo fuori (la pelle zigrinata bloccava), lo tagliò coi denti: l’altro mezzo si sistemò all’interno, forse ricrebbe un po’ dalla parte della coda, e si riadattò al nuovo ambiente. Così il popolo italiano aveva fatto col fascismo, tagliandolo in due, o piuttosto così avevo fatto io che spesso mi confondevo col popolo italiano. (C80, 26) Continua l’interazione con l’ipotesto dantesco: il contadino, dopo che il rettile – qui presentato più alla stregua di un boa o un pitone – è entrato per metà nel suo corpo, si sveglia e fronteggia, seppur per un attimo, la bestia insidiosa (“Elli ’l serpente, e quei lui riguardava / l’un per la piaga, e l’altro per la bocca”, Dante, Inf., XXV, vv. 91-92). Tuttavia, l’epilogo è ben differente: l’animale viene letteralmente reciso a morsi per poi andare incontro a una metamorfosi intra-corporea. Sul finire del passo, notiamo come l’episodio sia siglato da un paragrafo esplicativo che, nuovamente, mutua dall’animale determinate caratteristiche (processo appropriativo) per trasferirle in una sfera semantica completamente diversa (fase proiettiva): la diffidenza nei confronti del rettile rimanda alla percezione “di un pericolo silenzioso non percepito” (Giunta 2009, 247), di cui esso si fa ipostasi. Per contro, nel seguente passo dall’Apprendistato, il serpente assume una connotazione quasi bonaria o, perlomeno, domesticata: Sopravvive, però, come un serpentello, il sogno antagonista di poter vivere più serenamente, attendere alle bisogne ordinarie, per esempio nel mondo dei papers e degli scripts accademici… Ma sempre da questi sogni sono tornato ai rischi, alle spine della solitudine. (APP, 30) Il rettile mantiene sì il suo carattere imperituro (“sopravvive”, scrive Meneghello, così come quello del contadino continuava a vivergli in corpo), pur rimandando a un imago mansueta, di vitalità e leggerezza, tanto da incarnare un’aspirazione e una condotta di vita. In questo gioco di similitudini e rispondenze, subentrano talvolta animali esotici, come accade per il pellicano presente nel primo volume delle Carte50 o gli ippopotami de L’apprendistato: 50 “Il partito socialista si era aperto il petto come il pellicano, povera bestia, e gli alveoli polmonari friggevano a contatto diretto con l’aria esterna” (C60, 397). 178 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Siamo ciò che siamo stati: siamo come ci ha fatto il giro dell’esperienza, le cose viste, la gente con cui siamo entrati in rapporto, i libri letti. Abbiamo alle spalle una folla di presenze, alcune ingombranti come ippopotami, altre evanescenti e remote. (APP, 91) Esempi, questi, dove l’azione comparativa della similitudine rimanda a quel “besoin d’animaliser qui est à l’origine de l’imagination” (Bachelard 1935, 51), mediante cui la cultura si serve delle immagini e delle forme animali per tracciare le proprie coordinate ontologiche e definire, in un certo qual modo, la cifra prospettica del reale. I passi finora presi in esame mostrano una prerogativa comune: tutti gli animali sono accompagnati dall’avverbio come e divengono, di conseguenza, termini di comparazione51. Sono casi in cui il termine zoomorfo opera, nonostante l’ipertrofia del livello connotativo, una riannessione dell’umano al regno animale per farsi, di conseguenza, operatore inclusivo: paradossalmente, se il gioco retorico esclude l’animale dal proprio habitat, l’umano è inserito nel regno animale a sua insaputa, arrivando dunque a una scrittura che, come abbiamo ribadito più volte, si fa zoocentrata. Un avvicinamento che, nello specifico, ci porta a indagare i teriomorfismi veri e propri, ovverosia quei casi in cui umano e animale vengono posti sullo stesso piano, laddove il primo mutua dal secondo determinate caratteristiche che hanno il compito di enfatizzare determinate peculiarità fisiognomiche o disposizioni comportamentali. È Meneghello stesso a darcene prova, nel celebre passo delle Carte dedicato alle galline della Val Padana: Le galline! Animali curiosi, senza dolcezza, ma pieni di stile. Per certi tratti del comportamento fanno pensare agli esseri umani: c’è chi tra noi ha del gatto o del cane o del ramarro, ma la somiglianza con questi uccelli è straordinaria, l’occhietto fisso, il portamento della cresta, le mossette. (C80, 74) Stante il continuo interscambio tra sfera umana e sfera animale, mette conto rilevare che, nella maggior parte dei casi, è il volto a farsi portatore di un’animalità riflessa: in Pomo pero, ad esempio, Nando – con cui il piccolo Gigi improvvisa scontri tra “fascisti e cumunisti” nella cucina della Zia Corinna (PP, 309) – non ha “il muso da contrabbando, ma da coniglio o da lepre” (ibidem). La parte anatomica, in tal caso, rimanda in tutto e per tutto al regno animale, ragion per cui l’atto di designare il volto umano con il termine “muso” innesca il processo definibile col termine di “zoopoiesi” Don Emanuele purgato come le lumache; l’argomento del libro ingoiato come un serpente; il popolo italiano che ha tagliato a morsi il fascismo come il contadino aveva fatto col rettile; il sogno di una vita serena che, come un serpentello campagnolo, continua, appunto, a serpeggiare; il partito socialista aperto come un pellicano; le due anime equine del Partito d’Azione; le esperienze giganti come ippopotami. 51 L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 179 (Marchesini 2002, 123), intimamente legato al bisogno di “zoomorfizzare il mondo” (ivi, 124) e, di conseguenza, anche la specie umana. Enfatizzando determinate caratteristiche dell’animale (in tal caso afferenti al versante morfologico), la zoopoiesi teriomorfizza l’umano per metterne in risalto determinate disposizioni, arrivando a veri e propri “innesti di morfologie animali sul corpo umano” (ivi, 125): ecco che il corpo dell’animale si fa – a livello della scrittura – repertorio di elementi selezionabili ma, soprattutto, delocalizzati, in quanto l’uomo deve attingervi per meglio attuare questo processo di sovrapposizione; processo sostanzialmente transitivo e che può orientarsi in due direzioni (dalla specificità animale a quella umana, o viceversa). In Meneghello, il “muso” in luogo del “volto” è riscontrabile in altri luoghi del macrotesto: si pensi a Bruno-orbo, l’analfabeta “dal muso volpino” (PP, 322) presente sempre nelle pagine di Pomo Pero; oppure al “grande studioso, piccolo e grasso, [col] muso un po’ da foca” (C60, 345), che troviamo nel primo volume delle Carte. L’animale, quasi sempre, guida una resa grottesca della fisiognomica umana, sortendo l’effetto di una caricatura: Si vedeva da vari segni esterni che aveva fatto una notte agitata: i capelli, specie sopra la testa e sulla calotta posteriore avevano subito una specie di piega naturale, come se la parte irascibile della sua anima si fosse diffusa a vapore attorno alle ciocche, irrigidendole. C’erano ciocche incrociate, disordinate, stecchite. Pareva un istrice parzialmente spennacchiato. (C60, 38) In altri passaggi, l’accostamento al terios mira a un effetto iperbolico, spesso ricorrendo a creature facenti parte di un bestiario alloctono: A un certo punto a Long Island, in mezzo a questa musica negra mi sono sentito in patria. C’era un negro grosso come una balena di media taglia, che suonava una tromba con gran forza; e un altro che schiaffeggiava dei tamburi, assorto con la faccia triste e fine. Ero interamente a mio agio, ero a casa. (Ivi, 89) Fagocitato dalle maglie del gioco retorico, l’animale è esso stesso similitudine – “[Renzo] dava l’impressione di un pollastrino col collo esile” (PM, 83) – e diviene catalogo descrittivo del corpo umano: l’esempio di Gastone, presente nelle pagine di Bau-sète!, mostra come il bestiario alimenti la forza immaginativa della scrittura: C’era nel nostro gruppo un montebellunese-prodigio […]: Gastone […]. Avevo parlato di lui a Toni Giuriolo […], forse esagerando un poco ciò che avevo sentito dire. Mi affascinava l’idea di un ragazzo così giovane (sistemato però in un corpo in vistosa espansione, come un vitello che si fa manzo a vista d’occhio) con un’intelligenza portentosa, innaturale… […]. Quaranta mesi più tardi si vedeva già. Come se il prodigioso Gastone avesse scaricato la sua bravura negli ultimi spasimi dell’adolescenza, prima dei vent’anni. Ora non pareva più niente di speciale, un giovanotto qualunque, corposo, barbuto, inoffensivo, con l’aria di un orco e insieme di un teddy-bear […]. (BS, 436) 180 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Nel descrivere la complessione dell’individuo mediante l’ausilio di referenti zoomorfi, Meneghello passa dal biologico (Gastone descritto come un vitello all’ingrasso) all’artificiale (uno sterile orsacchiotto di pezza), senza però abbandonare quella ferinità di partenza (“con l’aria di un orco”, ibidem). Esempi, questi, che se da un lato rivelano un istintivo sentimento di appartenenza alla sfera animale, dall’altro dimostrano la preminenza dell livello connotativo del terios, ovverosia la funzione che esso riveste nel farsi rapresentamen della specie umana. Leggiamo dal Dispatrio: La boccuccia del Decano storico spiccava come il suo tratto più singolare, piccola bocca di pesce da combattimento, arcuata all’ingiù. Tarchiato, biondastro, il Decano dominava la facoltà. (DIS, 201) Come si evince da questi passaggi, l’animale – quando è in atto il processo zoopoietico – scompare letteralmente o, per meglio dire, rinuncia alla sua perseità per divenire non tanto un oggetto, quanto piuttosto vera e propria pars pro toto, risultante di dissezione tematica operata dalla scrittura: la teriomorfia, proprio nel produrre un eccesso di senso, riscrive le coordinate ontologiche in nome di una iper-realtà, entro cui l’eterospecifico balugina in quelle che sono le sue vestigia anatomiche52 . Mette conto rilevare che il passo appena citato avrà un ulteriore sviluppo nel terzo volume delle Carte: Ogni tanto lo rivedo in sogno, il preside della nostra facoltà. È un pesce: pesce accademico da combattimento, boccuccia ad arco, micidiale; fuggono lacerati i suoi nemici, strie scarlatte; la sua boccuccia si ricompone. (C70, 571) È dunque entro il versante onirico che è operata la restaurazione dell’animale, in quanto il particolare anatomico (la “boccuccia ad arco”, ibidem) permette una proiezione totale dell’umano nel terios: a differenza del passo del Dispatrio, la fisionomia di partenza è come azzerata e riscritta, anche in virtù di una appropriazione comportamentale, ragion per cui si fa difficile dirimere i confini tra le due specie53. Le cose cambiano quando la pagina scritta si tinge di venature fantascientifiche, operando un processo di chimerizzazione (Marchesini 2002, 125) che crea, di conseguenza, 52 Lo stesso dicasi quando l’elemento teriomorfo s’insinua nello sguardo dell’uomo, “ ‘Ho letto che ha un’azione […] carminativa… Che azione è?’. Lui fissandomi con quegli occhi bovini, tra infastidito e meditativo: ‘Carminare… scardassare, o malmenare, o esaminare pidocchiosamente, ma anche trattare la ventosità dell’intestino’” (C80, 222). 53 Sempre sulle figurazioni pisciformi del corpo, si veda il seguente passo dal Dispatrio: “Piacente, molto miope, bizzarra, l’Assistente Lombarda anticipò da noi l’età delle permissiveness. Scriveva spezzoni di racconti che non raccontavano molto, ma mettevano in cruda evidenza l’impressione che le faceva suo padre. Le pareva un pesce. Molto brutto, occhi da pesce, bocca da pesce” (DIS, 208). L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 181 identità nuove: è il caso della nascita di una razza umana ibrida, descritta nel secondo volume delle Carte: In un mare senza suoni si è formata una voragine, li ha inghiottiti. Laggiù le pressioni deformano… Visti di fronte apparivano quasi normali, un po’ espansi, ma voltando di sbieco diventavano uomini-sogliola e donne-sogliola (più piccole e con un’unghietta di seno), e a mano a mano cialde e infine righe verticali con due fili snodati oscillanti al posto delle braccia, e una biforcazione in basso che sforbiciava l’acqua: e continuavano a scendere a rilento, finché un fluido invisibile risalendo dal fondo del mare li ha fermati, e lì in sospensione i microchips hanno fatto una specie di sospiro, come chi all’improvviso capisce, vede. Ricominciare, che non consiglio a nessuno, o chiudere? Guardando in alto vedevano il sottopancia del mare. (C70, 383) Immediato è il richiamo a L’invention collective (1935), il celebre dipinto di René Magritte raffigurante una creatura metà pesce e metà donna, ma Meneghello spinge il processo zoopoietico oltre le stesse soglie specifiche, creando delle vere e proprie farrago-forms (Shepard 1996, 65). E lo stesso dicasi per l’accoppiamento tra i Santi e le oche, che citiamo dalla medesima fonte: Santi e oche. Dicono che quando si accoppiano un santo e un’oca la terra trema. Il santo con un’oca: ma talvolta è l’oco che si accoppia con una santa, altre volte l’oco con l’oca, o ancora il santo con la santa. Nascono piccoli santi e sante col collo lungo e le labbra sporgenti, cartilaginose, gialle: e sgraziati, antipatici superochi e ipersanti (…). (C70, 49) Siamo dinanzi a una riscrittura, in chiave rurale e maladense, dell’episodio biblico dei Nephilim54 – senza contare le filiazioni da Leda e il 54 Nati dall’accoppiamento tra gli angeli e gli esseri umani: “καὶ ἐγένετο ἡνίκα ἤρξαντο οἱ ἄνθρωποι πολλοὶ γίνεσθαι ἐπὶ τῆς γῆς καὶ θυγατέρες ἐγενήθησαν αὐτοῖς ἰδόντες δὲ οἱ υἱοὶ τοῦ θεοῦ τὰς θυγατέρας τῶν ἀνθρώπων ὅτι καλαί εἰσιν ἔλαβον ἑαυτοῖς γυναῖκας ἀπὸ πασῶν ὧν ἐξελέξαντο καὶ εἶπεν κύριος ὁ θεός οὐ μὴ καταμείνῃ τὸ πνεῦμά μου ἐν τοῖς ἀνθρώποις τούτοις εἰς τὸν αἰῶνα διὰ τὸ εἶναι αὐτοὺς σάρκας ἔσονται δὲ αἱ ἡμέραι αὐτῶν ἑκατὸν εἴκοσι ἔτη οἱ δὲ γίγαντες ἦσαν ἐπὶ τῆς γῆς ἐν ταῖς ἡμέραις ἐκείναις καὶ μετ’ ἐκεῖνο ὡς ἂν εἰσεπορεύοντο οἱ υἱοὶ τοῦ θεοῦ πρὸς τὰς θυγατέρας τῶν ἀνθρώπων καὶ ἐγεννῶσαν ἑαυτοῖς ἐκεῖνοι ἦσαν οἱ γίγαντες οἱ ἀπ’ αἰῶνος οἱ ἄνθρωποι οἱ ὀνομαστοί” (Gen, 6, 1-8; “Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro delle figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli a loro scelta. Allora il Signore disse: ‘Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni’. C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo –, quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi’”). Per tutte le citazioni bibliche in originale si rimanda a <http://www.bibbiaedu.it/> (07/2017); mentre, per le traduzioni, facciamo riferimento a La Sacra Bibbia, Edizione ufficiale della CEI, Roma, Edizioni Paoline, 1980. 182 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO cigno – ma non mancano, come si evince dalla lettura, incursioni nei territori del fantascientifico (“superochi e ipersanti”, scrive l’autore, quasi alla stregua dei supereroi). La narrazione, come spesso accade per questi ibridi, procede per innesti di porzioni anatomiche, la cui risultante è un pastiche di morfologie dissonanti, coadiuvato anche da una sapiente diversione lessicale (e quelle “labbra” in vece di “becco” non possono non rimandare al Donald Duck di Walt Disney). Ma il bestiario, in Meneghello, rivendica anche il ruolo di categoria tematica, proprio perché possiede una fisionomia di tratti semantici e tòpoi allegorici, motivo per cui l’appeal animale esercita, in un certo qual modo, la messa in risalto di una negatività di fondo dell’essere umano. È quanto accade, nei Fiori italiani, per la descrizione di Yoko, uno degli insegnanti di matematica rievocati dall’autore: A nessuno poteva piacere invece, e non se ne dava pensiero, un avventizio nel quale pareva veramente incarnata la componente assurda della scuola, Yoko: che venne sul tardi, vispo, nerastro, scimmiesco. Davvero non somigliava a un uomo ma a una grottesca bestiola, una specie di scimmia matematica. Non aveva alcun timore della classe, né della matematica; anzi pareva inebriato da innocenti manie di grandezza, e ne metteva a parte gli allievi. Su ciascun aspetto della materia c’era, diceva, “un lavoretto mio” a stampa o da stampare; che si trasformava ogni volta in un mucchietto di escrementi sulla lavagna, con l’attribuzione su un cartiglio, accanto al quale uno scimmiotto faceva sgambetti di giubilo. (FI, 288) Presenza costante del bestiario meneghelliano, la scimmia cancella gli attributi antropomorfi e rende l’umano ego-animale: il processo di abbassamento è altresì ravvisabile nel “mucchietto di escrementi sulla lavagna” (ibidem), laddove il richiamo al versante scatologico evoca, sotto certi aspetti, la coprofilia di alcuni primati. Nel terzo volume delle Carte, viceversa, l’animale più prossimo all’uomo appare nei giochi mimici di Valentino che, come una scimmia nei circhi, si esibisce al pubblico dileggio: La testa del giovane Valentino, come si vedeva più chiaramente quando andava a tagliarsi i capelli, aveva una sagoma simpatica, su cui i capelli scuri facevano un bel ciuffo […]. La vetrina della testa, il muso, esibiva un moretto vivace, più giovane della sua età. La mobilità facciale (che può parere un tratto del carattere) era quasi eccessiva, e a volte il ragazzo ne faceva lui stesso la caricatura con una serie di smorfie. Non fu mai capace di muovere le orecchie (cosa che parecchi sapevano fare in paese: non so se sia ancora così, ma forse dipendeva dall’alimentazione di allora) ma in cambio riusciva a muovere il cuoio capelluto, si compiaceva di farlo qualche volta in pubblico, un po’ per sorprendere e far stupire la gente, un po’ forse per farle dispetto. L’attaccatura dei capelli veniva bruscamente ad abbassarsi sulla fronte, i sopraccigli si aggrottavano, e un vestigio di testa di scimmiotto compariva, spariva, ricompariva (C80, 424). L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 183 L’animale compare quale “vestigio” (ibidem) anatomico, il che rimanda a una prossimità evolutiva con l’uomo che, in tal caso, non viene tenuta alla larga ma nemmeno accolta in modo plenario: il dato biologico, nuovamente, si fa intermittente e struttura un’alterità deformante55. Il primate, d’altronde, si è sempre posto nel solco dell’ambiguità, proprio in virtù della sua somiglianza con l’uomo che, dal canto suo, ha portato avanti un costante processo di rimozione, volgendo questa vicinanza – sentita come elemento di disturbo – in una degradazione dell’eterospecifico: si pensi, ad esempio, agli autori patristici, dove l’icona del primate rimandava ai pagani e agli eretici, ma anche al verbo stesso “scimmiottare”, laddove l’imitazione quale sberleffo rimanda al Diabolos Simia Dei56. Ma la negatività incarnata dall’animale è ravvisabile in altre zone del macrotesto: in Pomo pero, ad esempio, il Duce si accompagna, quasi alla stregua di sinistro famiglio, a un “oggetto di natura incerta” (PP, 312): forse un rospo di ciroloide, che si compiace di mettere nel mangiare della gente, e proprio nei giorni che hanno brasòle, la regina dei piatti. Lo dicono tutti: il Duce lo ha messo nelle brasòle ai socialisti, e appena arrivato a Roma lo ha messo nelle brasòle al Re, ma il Re ha fatto finta di niente. Il Duce voleva anche metterlo nelle brasòle al Papa, ma il Papa svelto è corso a metterlo nelle brasòle al Duce! (Ibidem) In Bau-sète!, viceversa, la rievocazione del cadavere di Mussolini a Piazzale Loreto, suscitata dalla visione di alcune fotografie, mette in risalto la carica disumanizzante dell’animale che, nel trapuntare la descrizione del corpo morto, lo espropria di qualsivoglia parvenza umana: Franco stava in piedi dietro a un tavolo su cui erano sparse le foto del Duce macellato. Franco aveva sul viso un’espressione di fastidio e rivulsione. Forse non era proprio pietà, piuttosto un senso di sconvenienza. Nel segreto del cuore, io (che ho a schifo la crudeltà, specie nelle sue forme stupide e gratuite) esultavo. Mi pareva una cosa giusta e buona che fosse avvenuto questo scempio, quasi un rito che per vie oscure purificava gli animi, e dava al duce stesso uno status più serio. Sarebbe stato ancora meglio se lo avessero ucciso coi coltelli, ma anche 55 Cfr. APP, 187-188: “In un Paese meno sfortunato del nostro, chissà se non si potrebbe perseguire e punire la mera comparsa sullo schermo di questo autorevole ceffo scimpomorfo che ghigna?” (si noti come il richiamo alle fattezze scimmiesche si risolva in un ghigno quasi diabolico). O ancora, nel Dispatrio, il volto del primate è sovrapposto, a livello grafico, a quello umano: “[…] Kurt, finissimo pittore e tenebroso uomo, che aveva un bisogno profondo, dipingendo, di aggrapparsi ad aforismi sulla natura ultima dell’arte. C’è una serie di suoi disegni, fatti quando era in manicomio, impressionanti. Sono teste, viste di faccia: […] si vede la faccia di Kurt […], stravolta dalla pazzia, e in essa si riconosce anche, molto distintamente, il muso di una scimmia che gli somiglia” (DIS, 159-160). 56 “Nell’iconografia medievale, la scimmia tiene in mano uno specchio, in cui l’uomo peccatore deve riconoscersi come simia dei” (Agamben 2002, 34). 184 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO così poteva andare: e trovavo appropriato e poetico che lo avessero appiccato per i piedi. Venne uno con una fune e annodaoli tutti doi li piedi. Dierolo in terra, strascinavanollo, scortellavanollo. Così lo passavano come fussi criviello. Onneuno nesse iocava. Alla perdonanza gli pareva de stare… Fu appeso per li piedi a uno mignaniello… Grasso era orribilemente, bianco como latte insanguinato. Tanto era la soa grassezza, che pareva uno esmesurato bufalo ovvero vacca a maciello57. (BS, 416, corsivo mio) Nel tracciare un parallelo tra l’animale macellato e il Duce appeso al palo, Meneghello parla di “rito” (ibidem) richiamando la funzione sacrale, ma soprattutto sacrificale, del terios (Bleakley 2000, 18): il referente zoologico opera una rimozione ontologica, ovverosia cancella ogni patina di umanità dal Duce, paragonando l’esecuzione pubblica a una macellazione e il patibolo al mattatoio (il Duce è equiparato a un bufalo o una vacca). Come scriverà l’autore nel prosieguo del passo: Mi tornava in mente la foto coi militi mezzi in divisa di alpini, e al centro del gruppo uno con un palo alla mano, e la testa di un partigiano infilata sul palo. La testa aveva gli occhi aperti, come se fosse lì in posa con altri […]. Tecnicamente il Duce non era stato linciato, solo abbattuto […]. Quella figura sgraziata, appesa per i garretti, era il nostro Duce […] e il Duce era ora la carcassa di un uomo anziano. (BS, 417, corsivo mio) I parallelismi col regno animale – il Duce abbattuto come una bestia; il corpo senza vita quale “carcassa”, e non più “cadavere” – ci mostrano come, a tale altezza, l’eterospecifico sia caratterizzato da una cifra regressiva, ovverosia sottratto al dominio della vita e ridotto, volendo citare direttamente dal libro, a “caprone espiatorio” (ivi, 416), il che ribadisce la natura sacrificale dell’eterospecifico, il suo essere emissario proprio perché porta a compimento un processo di espiazione. Diversi, invece, appaiono quegli esempi in cui il paragone zoologico investe non tanto la conformazione morfologica dell’umano, quanto l’ambito relativo al comportamento: dai gesti e le posture58, fino ad atteggia57 Si noti la ripresa letterale dal XXV capitolo della Cronica. Vita di Cola di Rienzo dell’Anonimo romano: “Tante ferute aveva, pareva criviello. Non era luoco senza feruta. Le mazza de fòra grasse. Grasso era orribilemente, bianco como latte insanguinato. Tanta era la soa grassezza, che pareva uno esmesurato bufalo overo vacca a maciello” (1993, 283). 58 PP, 302: “POSTURE, in-sentone, in-cuccetta; a rara, posati su un cuscino per la prima foto canonica; a gatto-magnào, sia per necessità sia per ironica scelta”; il passo va confrontato con MM, 109: “almeno una parte di noi parla di stare o di mettersi a gatomagnao (‘a quattro zampe, carponi’)”. Ma si veda anche, in Bau-sète!, la descrizione di Ugo La Malfa quale “emblematica creatura, un cigno nero (piegava armoniosamente la testa di qua e di là) […]. La Malfa faceva il suo bellissimo numero inchinando L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 185 menti presi a prestito dall’ethos animale59. Volendo partire dall’etologia strictu senso, obbligato appare il richiamo a Konrad Lorenz e l’imprinting dell’ochetta Martina, presente in due passi delle Carte. Citiamo dagli Anni Settanta: Ecco dunque la domanda: da dove viene la nostra cultura, ossia quella che è stata comunicata a noi personalmente? Sarà come l’imprinting delle ochette nelle loro prime ore di vita? Mi occorre uno strumento per orientarmi, e mi occorre ora. (C70, 11) E ora dagli Anni Ottanta: Lo so che non c’era molto di veramente straordinario nel mio compagno e maestro Lovisi-Lovato, certo non quanto dicevo io… Che qualcosa di raro c’era, lo hanno sempre riconosciuto anche gli altri, meriti ovvii e fuori discussione… Ma per me era incomparabile! La cosa non dipendeva soltanto da ciò che lui era, ma anche e specialmente del mio imprinting. Si vede che un bel giorno io andavo come un’ochetta appena sgusciata dall’uomo e ho scorto lì davanti il suo dinoccolio… In generale non avevo speciali simpatie per la gente che cercava eroi, anche in veste di antieroi, ma sul piano privato gli eroi li trovavo, almeno uno al decennio… (C80, 230) I volatili – come accadeva per l’uccellino e l’oseleto di Jura – ritornano a illustrare quella che è la formazione intellettuale dell’individuo: il riferimento all’imprinting60 rimanda a un apprendimento immediato, prelogico e istintuale, dettato da predisposizione biologica. Un ethos, dunque, attaccato alla vita, a un modo di procedere per pulsioni e vie sensoriali: ne è un esempio il seguente passo da Fiori italiani, in cui l’autore, nel rievocare il pranzo di S. con la commissione dei Littoriali61, e il conseguente imbarazzo derivato dalla difficoltà di intavolare un discorso, scriverà: lateralmente il collo (ero stato io stesso a dare un nome alla figura: la mia lingua si mosse come da sé e sussurrai “il cigno nero” e sentii che a Franco questo piacque) […]” (BS, 440 e 442). Citiamo anche dall’Apprendistato, un passo relativo al football, dove Meneghello scrive: “E poi ho visto, a gioco fermo, l’uomo dalla zucca pelata camminare spedito accanto a qualcuno, superarlo, voltarsi: e abbassata la zucca a guisa di potente montone che fruschi, andarla repentinamente a picchiare nel pieno petto di colui che lo seguiva, rischiando (forse tentando) di sfondare tutto” (APP, 167). 59 In Fiori italiani, la classe è descritta dall’autore mediante l’utilizzo dell’immagine del gregge: “In gruppo parevano pecorelle, specie il ristretto club dei più bravi. Tra essi c’era però qualcuno d’altro stampo, come Sgrolla, semmai una pecorella meccanica […]. Tra le pecorelle c’erano anche alcuni cani, e un lupo, Grassi: per il quale […] l’aggettivo più calzante è ‘truce’” (FI, 260-261). 60 Notare che Meneghello aveva già parlato di “imprinting dei luoghi” (AM, 175). 61 Cui Meneghello aveva partecipato nel 1940 e il 1941. 186 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Si decise con un disgustoso sforzo di volontà a intervenire nella loro conversazione. Erano ancora in fase di prima conoscenza e stavano girandosi attorno con l’aria di guardare dall’altra parte, come cavalli che si annusano; a un tratto trovarono un punto d’incontro che fu proprio l’equitazione […]. (FI, 350) Immediato il richiamo allo snasare di Maredè: Ah, so zio, el ghin’a snasà tante… E l’è sta castigà… In altro senso si può dire che è castigato anche questo uso di snasare, sentito come un termine tecnico: “fare una mezza corte (a una donna), con vaghi sottintesi di fidanzamento; corteggiare una donna in modo provvisorio, saggiarne il costrutto femminile, prenderla in considerazione senza vero impegno”. Nella frase riportata la parlante (a differenza forse del parlante medio sensuale) non sente nel verbo l’annusare del cane, la vicinanza del naso alle parti intime della cagna, l’odore che s’immagina pungente… (MM, 99) In entrambi i casi, l’olfatto – senso preminente in molte specie animali – consente un vero e proprio riconoscimento, con la differenza che il verbo snasare – nel passo citato da Maredè – rimanda alla potenza dei ferormoni, che permettono un’individuazione intraspecifica fra due o più soggetti (Salvadori 2016b, 146); in Fiori italiani, viceversa, si esula dall’ambito del corteggiamento amoroso, fermo restando il ruolo identificativo assunto dalla marca olfattiva. Come si evince dagli esempi presi in esame, l’autore individua nel referente animale una determinata caratteristica che, a livello della scrittura, si fa reagente tematico: in Bau-séte!, ad esempio, la quasi totale devozione di Franco nei confronti del padre si risolve in una mansuetudine “canina”: è curioso, quante cose si mettono a fuoco sul punto del mezzogiorno. A casa di Franco, a Vicenza, seduto a tavola con la famiglia dialogavo con Franco su questioni di alta politica. Suo padre si intromise, espresse qualche idea che mi parve retriva, io rimbeccai brevemente, e poiché lui voleva continuare il contraddittorio […] gli dissi severamente “El tasa lu, che non capisse gnente!”. Ero a casa sua, stavo mangiando alla sua tavola, avevo almeno trent’anni di meno: e lui, invece di alzarsi, e tirarmi su dalla sedia, e appiopparmi una pedata nel culo (portava scarpe alte di foggia antica), tacque. E il bello è che nessuno dei presenti si arrabbiò, non la mamma di franco […] e non Franco stesso che pure aveva un senso molto vivo dell’onore dovuto al padre a alla madre e che con suo padre in particolare […] aveva assunto sin dall’infanzia un atteggiamento di riverenza alieno da ogni critica o sfida. Gli pareva un essere molto grande e sostanzialmente ignoto, di cui lui frequentava la zona attorno alle scarpe e alla parte terminale dei calzoni: il resto era immerso in strati remoti. Non aveva paura, gli pareva soltanto di non contare niente, di essere del tutto trascurabile… “Tutt’al più” (è un intercalare di Franco) si sentiva come un cagnetto che si strofinava con qualche cautela a quelle scarpe, ai risvolti dei calzoni… (BS, 391) Il sentimento filiale assume quella remissività tipica del rapporto canepadrone, caratterizzata da un dislivello di prospettive che si risolve in uno L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 187 sguardo inclinato e dal basso (lo stare ai piedi del padre), cui fa da contraltare la ieraticità di questo ‘simulacro’ paterno. Il cane quale emblema di sottomissione tornerà anche in un passo delle Carte, a riprova di come l’eterospecifico venga privato della sauvagerie che lo contraddistingue: Passava per un uomo indomabile, ma cosa c’era in lui da domare? Era un cagnetto addomesticato, con un senso residuo di indipendenza, non sporcava nella cassetta, solo a fianco. Un cagnetto a cui piaceva prendere le pose di altri animali, un giorno faceva il corvo, uno il becco… (C80, 152) L’associazione al canide, sviluppata per via metaforica, sortisce un effetto grottesco, volutamente ripetitivo e meccanico, il che ci porta dinanzi a un’animalità fatta oggetto e staccata dalla sua Umwelt (resta, infatti, “un senso residuo di indipendenza”, ibidem) che pesca letteralmente nel repertorio del terios (gli “piaceva prendere le pose di altri animali”, ibidem) quasi a voler sfuggire quella letale alienazione che la circonda. Se l’immaginazione animalizzante agisce in più zone del macrotesto62 , essa mira a tracciare un ponte coniugativo tra l’umano e il terios, operando in tal modo un rovesciamento del primo termine: nel seguente passo da L’apprendistato, vediamo come due insetti, il pidocchio e la cimice, proprio per la loro natura parassitaria, si facciano metafore dell’umano temperamento: Ogni tanto nel carattere delle persone, anche delle più ammirevoli, compare in certi scorci della vita e dell’opera, il pidocchio, o sarà forse la cimice: qualcosa di meschino e attaccaticcio. Siamo fatti così. C’è del pidocchioso in nobis, è un ingrediente della natura umana. Risalta di più quando si manifesta in gente dal piglio generoso e disinvolto. (APP, 155) Come sostenuto da Bruno Accarino, “gli animali sono come gli uomini e al tempo stesso ciò che assolutamente altro vi è rispetto all’uomo e veicolano quindi sia accomunamento che inimicazione” (2013, 30), mediante una metaforica che definisce, in modo diverso e nuovo, i legami sociali. Le analogie umano-animale torneranno anche a livello di lessico, proprio in virtù della carica evocativa dei nomina, volti a metterne in risalto, in senso dispregiativo, determinati atteggiamenti dell’essere umano: è il caso di oco e oca nell’Acqua di Malo: Oco e oca […]. Oco maschile era importante come epiteto o bonario aggettivo vituperativo, non è però l’equivalente per i maschi di ciò che esprime “oca” det- All’inizio del Dispatrio, ad esempio, l’autore non mancherà di intravedere, nelle coppie che amoreggiano di notte al parco, dei “grossi animali scuri, avvinghiati, in una specie di letargo” (DIS, 15); in un passo dal primo volume delle Carte, invece, Anselmo è presentato “carico di elettricità come una rana” (C60, 357), mentre John Wain “come un cervo giovane, […] si sforzava di correre in mezzo e dare cornate all’aria […]” (ivi, 412). 62 188 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO to delle donne e alle donne in dialetto o in lingua. Oco è in sostanza colui che tende a inocarsi, e solo per estensione colui che agisce da persona a persona. (AM, 208) Lo stesso dicasi per l’asino, presente nelle pagine di Maredè: Àseno è più usato come epiteto di insulto (o, presso le zie, di moderato rimprovero) che come nome comune di animale noto. In questo senso si dice infatti assai più spesso musso, mussato; ed è al musso, non certo all’àseno che è uno spreco farghe la barba. Anche come emblema di scarsa attitudine agli studi scolastici il musso tende a prevalere sull’àseno: l’epiteto musso-copión, un tempo importante motto legittimista nelle nostre scuole, non si potrebbe certo sostituire con un impensabile àsenocopión, mentre invece il nome del banco-dei-mussi era conteso alla pari dall’allomorfo banco-dei-àseni, talvolta agghindato da ‘banco-de-liàsini’. (MM, 74) Ottusità e ostinazione si trasferiscono dal nomen dell’animale alla sfera dell’umano, portando con sé lo statuto negativo che, tuttora, è ravvisabile in quegli epiteti indirizzati agli studenti pigri e ostinati (ma si pensi anche alla metamorfosi di Pinocchio in asino): siamo al cospetto di animali ctoni, terrestri (l’oco e l’oca, alla fin fine, sono uccelli da terra) e che, di conseguenza, continuano a rimandare a un mondo sotterraneo dove il bestiario connota al negativo. Vi sono casi, però, in cui, la forza associativa dell’immaginazione sfocia in ulteriori “innesti”, ovverosia quelli che definiremmo col termine di teriomorfismi meccanici: esempi, cioè, in cui l’appeal animale risponde a una tendenza di “zoomorfizzare” (Marchesini 2002, 123) non solo il mondo biologico, ma anche gli oggetti che fanno parte della realtà quotidiana e, nel nostro caso, i veicoli a motore. L’analogia, in tal caso, risponde al legame tra l’animale e il mezzo di trasporto che, in Meneghello, opera una fusione tra vita e materia, pronta a risolversi in una animalità macchinica. Cominciamo da Libera nos a malo e l’episodio dell’autocarro-Sàura: Il putèlo sceso per la prima volta dal monte con la mamma a vedere Malo, aveva veduto tanto, troppo. Tutto gli pareva possibile, anche l’orrenda cosa che veniva su lentamente per via Borgo. Era una Sàura carica, un mostro gigantesco che riempiva tutta la strada. La gente non scappava, si metteva contro i muri. Il putèlo non aveva più il tempo per provare a capire. Appoggiato al muro con la mamma (c’era un po’ più di spazio sul marciapiede dall’altra parte, ma era tardi per attraversare) resistette alle scosse del terrore finché la Sàura ruggente fu a due metri, a un metro; poi corse in mezzo, sparì nelle fauci deformi. (LNM, 94) Il prototipo dell’autocarro Diesel è presentato alla stregua di un mostro preistorico ad ingranaggi (ma non sfuggano le reminiscenze col Leviatano), la cui ferinità è accentuata dallo sguardo terrorizzato del bambino. L’analogia tra i veicoli e i dinosauri tornerà in altre zone del primo libro, come accade per il racconto sugli autoveicoli presenti in officina: L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 189 La storia delle nostre macchine non si può più fare, le testimonianze e i ricordi sui nomi e i colori s’intrecciano un po’ a sghembo. Le origini si possono appena discernere, in un ambiente arcaico abitato dalla Standàr-bajàr e dalla Zero-fia, dopo le quali emerse la Tipo-due gialla. Non sempre si distingueva bene […] tra vettura e torpedone, c’era una fauna63 intermedia di G. M. C. che erano state ambulanze americane prima che lo zio Checco ci mettesse le mani; e poi alcune vetture erano quasi torpedoni, e anche i torpedoni erano quasi vetture. (Ivi, 129) Il fatto che Meneghello faccia riferimento a una “fauna” (ibidem) ci riporta a quanto affermato all’inizio, ovverosia a quell’immaginazione animalizzante che, descrive il mondo e le sue componenti alla luce di metafore zoomorfe. Tornano, nel prosieguo del passo, le fattezze mostruose di certi veicoli, ma mette conto rilevare i toni da paleontologo, originanti una narrazione che, nel descrivere il susseguirsi dei veicoli nell’officina, avanza per ere geologiche: Venne il Mesozoico delle 15 Ter, l’Oligocene delle Uno, delle Cinque, delle Venti (l’OM sopravvisse fino al basso Terziario, tra forme di vita infinitamente più giovani); poi in pieno Pliocene ci fu la comparsa improvvisa della SPA. La SPA era un mostro immane un Mastodonte, un Dinoterio, un Platibelodonte. Un giorno sentimmo come un rugghio basso e continuo fuori dal portone, corremmo a vedere e (ferma lungo la mura del conte) scossa da tremiti, montagnosa, c’era la SPA. Era magnifica. (Ibidem) Il procedimento narrativo risente dell’erudizione scientifica, tipica di un autore sincretico quale Meneghello, in un intrecciarsi costante di vita biologica e artificiale. Sul finire dell’estratto, proprio nel designare la SPA con le fattezze di un pachiderma preistorico (il Mastodonte, il Dinoterio e il Platibelodonte sono tutti antenati del nostro elefante), l’autore attinge al repertorio teriomorfo e innesta letteralmente determinati tratti caratteristici (in tal caso, il “rugghio basso e continuo”, ibidem64) sullo strato inerte e artificiale della macchina. Sempre in Libera nos a malo, Negroponte ha un motorino che era, scrive Meneghello, “un ‘Cerbiatto’ […] con cui […] lo si vedeva ogni tanto fermo a conversare. ‘Poveretto,’ diceva accarezzandolo; ‘sarai stanco anche tu, riposati’” (ivi, 223): in tal caso è il nome animale a essere sfruttato semioticamente, tanto da dotare la macchina di uno statuto biologico. Il rimando è alla cosiddetta “Serie Corsivo mio. “Sport attivo e passivo: le due cose fluivano l’una nell’altra. Emblematica, negli anni dell’immediato dopoguerra, la partecipazione passiva-attiva alle grandi gare di motociclismo, le iperboliche corse di Tenni e Pagani, lo strido acuto dei motori, non troppo diverso da quello di un aereo maiale in extremis, ma più grandioso. Lo strido viaggiava, lo sentivi arrivare da lontano, ti investiva… Quel rumore percepito come eroico non si subiva, si cavalcava” (C80, 371). 63 64 190 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Zoologica” dei veicoli industriali Fiat, prodotti tra il 1950 e il 1970 (Leoncino, Lupetto, Tigrotto, Cerbiatto, Orsetto, Daino). Il Leoncino, non a caso, è presente in un passo di Bau-sète, libro dove i veicoli a motore rivestono, indubbiamente, un ruolo preponderante. Obbligato è il rimando alla descrizione del “parco-macchine” (BS, 514), dove i rottami giacciono quali carcasse di animali morti, in una narrazione che, nuovamente, fa interferire tra loro più piani ontologici: Con l’arrivo della pace la Ditta entrò in declino […]. Il “parco-macchine” (ammirevole formula introdotta da Dino) era un parco di fantasmi malfermi sulle ruote. C’era l’ossuta Sette, già passata per una prolungata, avventurosa, leggermente angosciante fase-camioncino col gassogeno a legna […], e l’autobus-salamandra, l’enigmatico Ventuno che doveva esser fatto di iridio non di banda, e si confermò nel corso degli anni la più indistruttibile, la più refrattaria cosa del mondo. (BS, 514) Pagine dopo, la descrizione si sposta sul Leoncino: Mio zio sentiva, come noi tutti, che era essenziale rivitalizzare il parco-macchine. Quelle che c’erano deperivano e invecchiavano quasi a vista d’occhio. Venne il momento in cui parvero antiche, tanto da far ribellare i clienti, poi antichissime, tanto da farli sorridere, infine ruderi favolosi… Ho già accennato al “Ventuno”, il grande sopravvissuto dall’anteguerra […]. C’era, infine, modernissimo leoncello, ma già in parte spelacchiato, un modernissimo “Leoncino”… (Ivi, 520) Il finale del passo può essere davvero letto come innesto tout court dell’animale sulla macchina: il nome del veicolo – che, in tal caso, sfrutta la carica semiotica della parola-simbolo (Bleakley 2000, 3965) – genera un effetto olografico, oscillante tra l’artificiale e la vita biologica, ragion per cui ci troviamo in presenza di un’ulteriore forma farrago (Shepard 1996, 65) che tuttavia richiama più il corpo ibrido di un Frankenstein zoomorfo (assemblaggio di parti meccaniche e biologiche). Non è un caso che il parco-macchine assuma le fattezze di “un circo, con queste bestie sfiancate che procuravano alle nostre famiglie il pane e la carne” (BS, 520): l’animale – stante l’azione del processo metaforico – contribuisce a creare un’immagine freak e inconsueta di un contesto che, altrimenti, apparirebbe asettico e sterile. I nomina, ancora una volta, proprio perché sono attinti da un vocabolario ferino, mirano a sfrangiare le linee di demarcazione consuete e operano, come abbiamo visto, una riscrittura della realtà percepita, dove il terios si fa scandaglio, sonda e grimaldello, per approdare a delle inedite visuali prospettiche. Secondo Bleakley, l’animale è semiotico quando, privato dell’essenza biologia, diviene marca (o marchio) simbolica (ad esempio, per il nome di alcuni veicoli o squadre sportive). 65 L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 191 2.1.2 Tassonomie fluide: quasi umani Nel secondo volume delle Carte troviamo, quasi alla stregua della favolistica esopica, quella che potremmo definire come la “confessione” di un lupo: creatura princeps delle narrazioni sugli animali, poi andata incontro a innumerevoli declinazioni in quello che è l’immaginario collettivo. Ecco perché, prima di procedere all’analisi dell’estratto, vogliamo partire dalle considerazioni avanzate da Bruno Accarino in merito alla figura del lupo mannaro, che lo studioso fa risalire alla cultura germanica e, in particolare, ai Berserker, i guerrieri teutonici con la pelle d’orso: Fu il cristianesimo a trasportare nella letteratura e nella giurisprudenza germaniche il significato chiaramente negativo del lupo […]. I lupi erano considerati accompagnatori sanguinari e violenti del loro dio della guerra – la forza e il coraggio dei lupi e degli orsi si trasponeva ai guerrieri, purché essi fossero vestiti di pelle d’orso o di lupo. I guerrieri, anzi, combattevano ululantium more luporum. Nel quadro di questa animalizzazione degli uomini, affiancata dall’acquisizione di tratti antropomorfi da parte degli animali, fa la sua comparsa il lupo mannaro. (Accarino 2013, 33) Accarino non manca di rilevare le connessioni tra stereotipi e Cristianesimo, cui è subitanea una trasposizione al negativo entro lo spazio del letterario: una patente di ferocia e mortalità che, tuttavia, sembra estromessa dal passo meneghelliano: Ma pensate che anch’io sono un lupo! Non sono una capra, non sono una vacca, sono un lupo! E nel branco c’è un lupo capo che si chiama Wolf ed è un lupo stupendo. Quando si accoppia con la lupa in una radura innevata, pare un sacerdote. Gli altri stanno intorno, attenti e tranquilli… Non si pratica il connubio sregolato tra noi lupi. Noi mordiamo il muso a quelli che ci si provano… Gli laceriamo le orecchie! E non si vive per il gusto di montare la lupa! Si vive per rigenerare il brano. La selezione naturale non è cruda natura ma volontà dei lupi. In cattività ci rifiutiamo di copulare. Se riescono a farci copulare con qualche trucco, ciò che ricavano e preservano non siamo noi ma tutta un’altra specie. La specie è il bene supremo, ma la specie, malauguratamente, è soggetta a trasmutazioni. Il dio dei lupi è un organo genitale con la corona di spine! E allora, i lupetti che abbiamo nelle astratte scatole, che tirino le cuoia! Noi siamo arrivati primi, e stai fresco che li lasciamo venire al mondo a confondere le cose! (C70, 283) La narrazione ridefinisce e tempera l’immagine sanguinaria e negativa del lupo, a cominciare dall’idea del branco, diametralmente opposta a quella di marca hobbesiana, dove l’uguaglianza di specie si risolve nell’assunto “ciascuno può uccidere ciascuno” (Accarino 2013, 37): nel passo delle Carte, l’animale non solo sembra rivolgersi a un preciso interlocutore (forse l’animale umano?), quanto piuttosto illustra un’idea ascetica e tribale del branco, dove l’accoppiamento, al pari di un rituale propiziatorio, si fa 192 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO ostensione e epifania dell’amplesso (amplessi, si badi bene, centellinati e portati avanti quasi secondo un andamento da calendario). Nella seconda parte dell’estratto, il branco si fa invece struttura sinergica e associativa, quasi un organismo decisionale (non è la natura a dettare simili temperamenti, bensì “la volontà dei lupi”, C70, 283), senza contare la cattività degli animali e la loro difficoltà a riprodursi quando sono privati del loro ambiente (“In cattività ci rifiutiamo di copulare”, ibidem). Ma un elemento di disturbo sembra affacciarsi a conclusione del passo, ché le parole dell’animale si sporcano di un orgoglio razziale: “la specie, malauguratamente, è soggetta a trasmutazioni” (ibidem), ragion per cui è giocoforza sacrificare i futuri lupetti, in nome di una purezza della razza. L’eterospecifico, lo abbiamo visto, ha assunto su di sé lo spettro del lògos – è, insieme agli uccellini di Jura, l’unico parlante dell’intero macrotesto meneghelliano – ma una simile appropriazione ha inevitabilmente compromesso lo status ontologico di partenza, inficiato dall’atto stesso del parlare che, a mo’ di calamita, attrae tutto uno spettro di referenti abiologici e culturali, dalla ferocia lupesca alle simbologie inerenti l’ideologia nazista: si pensi, a tal proposito, alla Werwolf (Uomini Lupo) – organizzazione di commando istituita dalle SS a finire della Seconda Guerra Mondiale per contrastare l’attività degli alleati – oppure al simbolo runico Wolfsangel (Dente di Lupo), poi largamente utilizzato nell’iconografia del Terzo Reich (tra cui la Gioventù Hitleriana)66. Certo, forse sono soltanto suggestioni, ma nel farsi zôon lógon échon, il terios è privato della sua effettiva referenza: l’animale non si (e non ci) osserva in quanto corpo, bensì come zôon politikòn e, di conseguenza, egoanimale. Nel richiamarsi al sogno dell’uomo dei lupi, interpretato da Freud “come il ritorno camuffato della scena primaria, [cioè] un rapporto sessuale dei genitori” (Cimatti 2013, 79), Felice Cimatti ha avuto modo di rilevare come il padre della psicanalisi parli “sì dei lupi, ma non li prende in considerazione come lupi, bensì sempre e solo come ‘simboli’ di qualcos’altro” (ibidem), ragion per cui “la simbolizzazione dell’animale […] è un modo per neutralizzare questa minaccia” (ivi, 81): orbene, l’investitura logocentrica – quel linguaggio che, quasi per incantagione, s’insinua tra le pieghe animali – ha proprio la funzione di addomesticare o, se non altro, ridurre quell’emergenza e quella carica trasformativa che, per contra, scaturirebbero da una 66 Nel Voyage au bout de la nuit, Céline, a proposito dei tedeschi, scriverà che “Je les connaissais un peu les Allemands, j’avais même été à l’école chez eux, étant petit, aux environs de Hanovre. J’avais parlé leur langue. C’était alors une masse de petits crétins gueulards avec des yeux pâles et furtifs comme ceux des loups” (Céline 1952 [1932] 5; “Li conoscevo un po’ […], ero persino stato a scuola da loro, quando ero piccolo, dalle parti di Hannover. Avevo parlato la loro lingua. Allora erano una massa di cretinetti caciaroni con occhi pallidi e furtivi come quelli dei lupi”, trad. it. di Ferrero in Céline 2016, 18). Si noti, tuttavia, come l’imago lupesca perda la sua ferinità di partenza. L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 193 descrizione muta del terios; poiché l’animale è, prima di tutto, una forma vivente. Il linguaggio umano, dunque, andrebbe a esercitare una vera e propria tirannia sull’animale biologico che, in tal modo, viene come oscurato dall’eccedenza referenziale del codice stesso. Ecco perché, afferma Ludwig Wittgenstein, “Wenn der Löwe sprechen könnte, wir könnten ihn nicht verstehen” (1984 [1953] 223; “se un leone potesse parlare noi non potremmo capirlo”, trad. it. di Trinchero in Wittgenstein 1967, 292) Ciononostante, l’esempio del lupo ci permette di addentrarci lungo l’ultimo corrimano di questo bestiario di carta, guardando cioè a quei casi in cui l’animale viene investito di caratteristiche, qualità o atteggiamenti propri dell’uomo, sovvertendo così il processo zoopoietico stesso (dal momento che è il terios a farsi punto d’arrivo, mentre l’ànthropos regredisce al ruolo di semplice repertorio, a una sorta di catalogo cui attingere in questa combinatoria interspecista). Siamo lontani, è bene dirlo da subito, dai toni a tinte fosche dell’imago lupesca: gli animali, adesso, sembrano proprio divertirsi e, per certi aspetti, imitare le loro controparti (quasi a riprova del fatto che, dopo una convivenza pressoché millenaria, qualcosa da noi avranno pur imparato67). Ne è un esempio la gatta che, in Libera nos a malo, lascia esterrefatta la Franca, dal momento “che camminava con la coda alzata, in una condizione che non merita e non ottiene perdono: era senza mutande” (LNM, 185)68; e lo stesso farà Romano, il mulo dei Piccoli maestri, rievocato nel dialogo tra Gigi e Simeone. Dapprincipio, l’animale si palesa per associazione mentale, stante la “forza magnetica” della parola “carogna”: La parola carogna fece da calamita. Gli domandai [, a Simeone,] a proposito di carogne, se aveva mai visto un cavallo morto e marcito con le gambe per aria. “No” disse Simeone. “Bisogna vederlo” dissi io. “Almeno così mi dicono.” “Ho visto un mulo, in Albania” disse Simeone. “Pare che la cosa più importante” dissi io “sia che ci sia presente anche una bella donna. C’è stato uno poi che ci ha scritto sopra una poesia […]”69 Il giorno dopo lo incontrai di nuovo nello stesso punto, al margine del Bosco Secco, e gli riparlai di quel mulo. In Libera nos a malo “le galline della zia Lena condividevano il territorio e quasi il lavoro degli operai dell’officina, ed erano considerate una nuova mutazione di galline meccaniche […]” (LNM, 92). Del passo traspaiono echi in C70, 432: “agivo sia pure a volte meccanicamente, al modo delle galline…”. 68 Le mutande, invece, sono indossate dalla cavalletta verde di Libera nos a malo: “La cavalletta verde è un mandolone bislungo senza forza: sotto le ali fragili, quasi vegetali, porta una sottoveste di seta trasparente, giallina; la cavalletta castana è tarchiata e forzuta, specie nelle cianche seghettate: spara con esse come una piccola fionda, e quando spara si vedono lampeggiare le mutande scarlatte” (LNM, 60). 69 Chiaro il riferimento a Une charogne di Charles Baudelaire (1918 [1857], 59; trad. it. di Bertolucci in Baudelaire 2001 [1975], 53). 67 194 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO “Chissà se era un mulo greco, o italiano?” “È strano che lo domandi” disse Simeone; “perché effettivamente sono venuto a saperlo. Era italiano come noi.” Era il mulo di un artigliere alpino che era da Poléo. (PM, 93) L’ipotesto, come spesso accade, funge da grimaldello e dischiude un bestiario della memoria, da cui l’animale riemerge in tutta la sua icastica irriverenza, portando avanti un dialogo equivoco in cui le soglie sfumano e si dissolvono: “Si chiamava Romano” disse Simeone. “Ma allora lo conosco” dissi. “È il nipote del prete di Poléo.” “No, il mulo” disse Simeone. “L’artigliere alpino era un certo Vanzo. Del suo mulo ne parlava molto bene, e si vedeva che gli dispiaceva come un parente. Era anti-militarista.” “Questo Vanzo.” “No, il mulo” disse Simeone. “Quando vedeva un ufficiale, voltava la schiena e gli faceva gli omaggi col culo. E quando sentiva la marcia reale gli veniva la diarrea.” (Ibidem) Al pari di Romeo – la cui eccessiva motilità intestinale era, alla fin fine, un chiaro sintomo d’insofferenza al Regime – Romano si serve delle parti invereconde del corpo proprio per manifestare il proprio dissenso nei confronti della guerra e la monarchia: Come sono le disgrazie! Un giorno il colonnello si era appostato su uno spiazzo, con tutte le medaglie al vento, e il reparto arrivava su per il sentiero. Quando arrivò Romano, vedendo il colonnello cominciò a girarsi per voltargli la schiena e fargli gli omaggi. Si era mossa una pietra, il sentiero era franato e Romano era partito. “Aveva l’obice da 75 sulla schiena, e il peso lo faceva girare. Girava pian paino, un giro e una fermata, un giro e una fermata: avrà rotolato per un quarto d’ora. Mi ha detto Vanzo che era una disperazione vederlo rotolare in giù sempre vivo a ogni giro e non potere aiutarlo. Tirava bestemmie da fuoco.” “Vanzo.” “Era imbestiato” disse Simeone. “E anche gli altri della sua batteria.” “Brutta morte” dissi io. (Ivi, 93-94) Chi è l’animale ora, verrebbe da chiedersi, Vanzo o Romano? Ma, soprattutto, chi è che bestemmia? L’utilizzo del termine “imbestiato” (ibidem) ci pone ancora dinanzi a ridistribuzione dei confini tra animale e umano, laddove il primo va incontro a una morte “pulita”, tutt’altro che da bestia, alla stregua di vero e proprio caduto in guerra. Alla luce dell’estratto appena citato, non sfuggirà il legame tra gli equini e le prossimità anali, poi analizzato – a livello di lessico – nelle pagine di Maredè: Trare de culo (p.e. di una cavalla, drammaticamente contrapposto al trare de cao, “di testa, dalla parte della testa” di un mulo; […]) è vizio o capriccioso vezzo L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 195 d’una bestia che tenda a percuotere altrui coi calci o forse anche (mi piace pensare) urtonarlo con spostamenti repentini del didietro: l’equivalente in un quadrupede del colpo di coda di un cetaceo, una fruscata o una smoltonata inferta col culo. (MM, 44-45) Bestie capricciose, dunque, che quasi sembrano divertite nel fare tali dispetti, senza contare l’analogia con i cetacei, operante – proprio a livello di figurazione teriomorfa – un trasferimento da un dominio biologico (l’acqua) all’altro (la terra). Sul finire dell’estratto, tuttavia, la locuzione rimanda all’universo femminile e, nella fattispecie, al modo di camminare: Antropologicamente trare ‘l culo è considerato prerogativa della donna, e dice un modo di camminare ondeggiando ritmicamente e per lo più vistosamente con le anche i connessi rialti dei glutei […]; ma io, autore di queste note, nei primi anni Cinquanta ho visto una sera un giovane industriale vicentino di vistose speranze trare ’l culo pubblicamente a Porta Castello. (Ivi, 45) L’analisi, procede su un doppio livello, zoologico e antropologico, portando avanti una comparazione che crea zone d’interscambio tra le soglie speciste70. In altri casi, siamo al cospetto di animali che si prendono gioco dei loro simili, come la pitóna della faina: Inseguita dai cani, oltre che voltarsi spesso e fargli le boccacce (la pitóna) alla fine la faina cosa faceva? Andava ad appollaiarsi su un ramo di un albero, e s’addormentava… (Ivi, 136) Come non mancano gli esempi di bestie sessualmente appetibili: Ernesto ha scritto un pezzo sull’occasione in cui (da adolescente) fu tentato di aggredire sessualmente una vacca. Non è un bel racconto. Il comico, per qualche ragione, non funziona e il grottesco appare soltanto frivolo. “Le galline sessualmente parlando non m’interesano, le coniglie mi fanno schifo, le gatte paura, un manicotto morbido che graffia. Le vacche e le scimmie grandi trovo attraenti, e le cavalle potenzialmente piacenti ma insormontabili”. Ma va là. (C60, 78) L’attrazione sessuale per il bovino guarda all’episodio mitologico di Pasifae, la ninfa oceanina madre del Minotauro, unitasi al toro offertole in dono da Zeus. Ma gli animali citati da Ernesto – e secondo lui privi di appeal erotico – rimandano, nel loro stesso nome, agli stereotipi assunti dalla donna nell’immaginario comune: sciocca e stupida (come una gallina); sessualmente attiva (come una coniglia); lasciva e capricciosa (la 70 Cfr. MM, 51: “Sono tipicamente (o si fa conto che siano) i carabinieri che brincano [scil. acchiappano] la gente […], magari nell’atto di brincare lei le galline, […] afferrarle per il collo nel modo netto e energico che consente alla gente di portarle via dal luogo dove stanno […] senza a sua volta consentire a loro di schiamazzare per protesta”. 196 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO gatta). Gatte e galline ritorneranno anche nell’episodio che, nel Dispatrio, racconta la visita da Thelma e l’incontro con i suoi pets: Eravamo in bel giardino, tenuto in ordine dai giardinieri del Collegio e curato personalmente con edoardiana finezza dalla moglie del Guardiano (“Direttore”), la nostra amica Thelma. C’erano aiuole di fiori, ogni specie di fiori, e Thelma ci diceva i nomi dei più esotici; c’erano forbite aiuole di ortaggi, arbusti ornamentali, ben curati alberi da frutto. Rientrando, sulla porta della scullery ci venne incontro una gatta, che usciva pigramente. Thelma le chiese, in perfetta serietà, “Have you had your tea?” Incontrammo poi Emily. Thelma fece le presentazioni, il nome per me poetico (la Dickinson […]) mi sembrò incongruo per una gallina. Del resto non sarebbe stato un po’ imbarazzante, quando fosse venuto il momento… non sapevo come dirlo delicatamente, insomma mettere Emily in pignatta… mangiarla… (DIS, 125) Animali con un nome proprio: presenze non certo ricorrenti nel bestiario meneghelliano ma che, data la loro infrequenza, dischiudono una portata semantica del tutto particolare non appena si presentano sulla pagina scritta. Meneghello non manca di rilevare il legame inusuale fra Thelma e i suoi pets e, in particolare, con la gallina Emily, dal momento che l’animale viene assimilato alla soglia umana e cessa di essere Altro specifico. Condizione, questa, ravvisabile in altri due passaggi dal primo volume delle Carte, che inevitabilmente, diventano ideale continuazione dell’estratto appena citato: Thelma piagata sorride […]. E purtroppo è venuto il momento di lasciare la casa edoardiana annessa al Collegio. Tutto le rubano, i pony, i fiori, i conigli, le galline, le gatte che prendevano il tè come i cristiani, le stanze coi pannelli, le cameriere, i giardinieri. Si rompe come uno specchio che va in frantumi l’idillio vagamente irreale che abbiamo conosciuto al nostro arrivo. (C60, 249) Anche qui si cerca happiness. Si vede il drift della ricerca nell’aspetto dei giardini, nei rapporti con gli animali. Alle gatte danno il tè coi pasticcini; siedono qua e là enormi gatti castrati gonfi di happiness. Le galline hanno nomi di fanciulla. (Non vi fa specie, dissi, mangiare Naomi? e gli occhi risposero Orrore!). (Ivi, 510) I due inserti non solo si pongono nel solco della continua tensione intratestuale tra le Carte e le opere edite, ma ci spingono a constatare un tratto saliente che differenzia queste bestie “umanizzate” dagli animali incontrati negli esempi precedenti (come Romano, la gatta senza mutande o la faina burlona): e cioè la loro fissità schiacciante, il loro essere immagini mute e appiattite, proprio perché l’alterità è stata annullata dalla proiezione dei tratti antropomorfi. Siamo in presenza di una distorsione percettivo-interpretativa, un bias (Marchesini 2014b, 3) che depaupera la ricchezza dell’animale in quanto Altro. Tornando al passo del Dispatrio, mette conto rilevare come l’animale sia preso entro uno scambio pura- L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 197 mente autoreferenziale, dove il presunto dialogo (tra Emily e la gallina) altro non è che un monologo, un’eco che, per quanto infarcita di nobili intenti animalisti, rivela delle speciose contraddizioni: Thelma non capiva. Mangiarla? Poi un lampo le squarciò la mente, non molto diverso da uno spasimo di terrore. Si riprese subito, gli stranieri dicono cose strane quasi per definizione, ma per fortuna le convenzioni della vita civile sono fatte proprio per allontanare dagli occhi, dalle orecchie, dal pensiero ciò che è crudo, orrendo… La gentilezza deve prevalere sul resto, i giovanotti stranieri in fondo non sono cattivi, è bene sorridergli, dirgli quietamente che Emily, no, davvero non è da mangiare, è un’amica… Emily gettava le sue occhiate sghembe di qua e di là. Mah! Sarà più assurdo allevarle impersonalmente nel pollaio e poi mangiarle, o invece trattarle da signorine au pair, immangiabili? (DIS, 125) I punti di vista seguono due direttrici opposte: da un lato, Thelma considera la gallina come un’amica; dall’altro, Meneghello non può esimersi dal constatare che il pennuto finirà in pentola. A un’osservazione sommaria, l’animale oscillerebbe dunque tra due statuti: soggetto (in quanto considerato compagno di vita) e oggetto (ridotto cioè alla condizione di pezzo di carne). Ma le cose non sono così semplici, giacché Meneghello riflette proprio su un nodo gordiano del rapporto uomo-animale, ovverosia l’inevitabile deriva cui va incontro un soggetto antropocentrato quale l’uomo. Certo, i toni sono asettici e distaccati, ma basterà il seguente passo dall’Apprendistato per averne conferma: È natura, oltre che banale natura, l’amore intenso, viscerale delle ragazzine per i cavalli, e supremamente per quel cavallo; le britanniche ragazzine e ora anche le venetiche, con palpiti grandissimi, cure assidue, tenerezza, trasporti? O l’amore dei cani, dei gatti spargitori di peli71, dei pets d’ogni stampo, fino agli infimi verdognoli buderirgars, già, i parrocchetti in gabbia? (APP, 22) La riflessione segue un paragrafo dove veniva descritta, e in modi anche piuttosto cruenti, la morte di un gallo72, per poi passare alla constatazione che “questi orrori sono nella natura delle cose viventi” (ibidem). Le assidue cure propinate ai pets sono da Meneghello considerate alla stregua di vere e proprie vessazioni nei confronti dell’eterospecifico: aspetto, quest’ultimo, analizzato da Roberto Marchesini in un suo recente studio, il quale può adergere a efficace chiosa del passo preso in esame: L’eterospecifico viene coinvolto, suo malgrado, in questo processo di antropomorfazione del mondo e trasformato in una particolare declinazione dell’uma- 71 72 C80, 287: “saluki i cani, contagiose di peli di cane le poltrone di casa”. Su cui ci soffermeremo nel paragrafo finale. 198 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO no a cui assegnare in modo arbitrario contenuti e interessi. In tal modo l’essere umano non vede più alterità animali, né nel loro apparire fenomenico interattivo – per cui non può rispettarli – né nel loro mostrarsi in modo epifenomenico relazionale – per cui non può riconoscerli, ossia connetterli a sé. Cani costretti a tavola con i loro compagni a due zampe, gatti accarezzati fino al cortocircuito elettrostatico, cavalli stabulati dentro ridicoli box che non permettono alcuna forma deambulativa, criceti costretti in gabbiette dorate e dotate di fondo profumato, pesci rossi dentro orrende bocce di vetro di forma sferica. Il magico mondo dei pet nasconde attraverso mille artifici criptici sottili, seppur pesanti, forme di maltrattamento, che hai nostri occhi sembrano regalie: quanto sono viziati questi pet! L’antropomorfismo pare addirittura il contrario dell’antropocentrismo, se è vero che è proprio nell’abbandono della proiezione che l’uomo ha acquisito il dominio sulla natura assumendone centralità. Ma questa è una visione parziale: l’antropomorfismo è una delle tante manifestazioni dell’antropocentrismo […]. L’eterospecifico viene discriminato in questo caso perché non gli si riconosce la sua diversità, quei diritti diversi che non possono essere barattati nel sintagma “diritti ai diversi” ossia in quella logica emancipativa che poggia le sue fondamenta sull’umanismo. Si è discriminati tutte le volte che non si è riconosciuti. (Marchesini 2015b, 30) E Meneghello – per quanto lontano da toni antispecisti – sembra proprio prendere coscienza di una simile discriminazione, a prescindere dal fatto che la gallina finisca in pentola o continui a essere amica di Thelma. Qualcosa si guasta, a tale altezza, in queste animalità letterarie: si ha come l’impressione, specie alla luce degli ultimi esempi, di trovarsi dinanzi a figurine ingiallite, pronte a staccarsi dal loro supporto; stanche, probabilmente, di essere sempre, e solo, “creature scritte”. E allora, c’è forse bisogno di qualcos’altro: di un corpo che, con tutti i rischi del caso, ridia vita a questo bestiario di carta. 2.2 Alla ricerca del corpo Considerare l’animale quale presenza autonoma – ovverosia libera dalle interferenze del processo metaforico e le suggestioni mutuate dal bestiario inteso quale repertorio di temi e caratteri –innesca un mutamento di prospettive, le cui scaturigini sono da rintracciare nel ritorno di una corporeità non umana, cui è conseguente la restaurazione del terios. Non più semplice controparte – e libero, dunque, da combinazioni e innesti ibridativi – l’animale si fa essere biologico, letteralmente mappato a livello della scrittura, il che porta lo sguardo autoriale a farsi plenario, accompagnato da una tensione conoscitiva e fermamente deciso a recuperare la portata ontologica dell’eterospecifico (il suo esistere “di per sé”), per poi approdare al riconoscimento di una soglia condivisa. Cominciamo col dire che, già dal libro d’esordio, Meneghello non manca di fornire esempi in cui il regno animalia è restituito a se stesso, seguendo il corrimano di una natura in equilibrio e a sé stante, i cui cicli L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 199 biotici prescindono totalmente dall’agire umano; e anche quando è l’occhio del bambino a sovrapporsi al piglio dello scrittore, i toni sfociano in una Naturalis Historia maladense: La lìpara non ci vede, ma si orienta annusando, e quando salta (e può saltare sei sette metri) se un altro odore la distrae sbaglia la presa e sbatte le mandibole in aria. Quando la lìpara insegue un uomo, com’è suo costume di fare, insegue il suo odore; è inutile allora correre in linea retta, perché la lìpara è velocissima e raggiunge agevolmente nonché l’uomo, i cani e i cavalli. Per questo davanti alla lìpara bisogna fuggire a zig-zag; così l’odore ondeggia nell’aria e la lìpara si mette a serpeggiare e si rompe il fil della schiena. Si può tornare indietro allora, e osservare (ma non toccare!) la testina a triangolo con l’occhietto spento della creatura cieca. (LNM, 60) Siamo dinanzi a un bestiario mimetico-naturalistico, dove gli animali si fanno presenze tangibili: la vipera acquista spessore, vibra tra le parole, si ha quasi l’impressione di vederla strisciare a bordo pagina73. Non si tratta, si badi bene, di un animale umanizzato, quanto piuttosto di una resa fedele dell’eterospecifico nel suo habitat. Diverso, invece, il caso della salamandra: La sioramàndola è più rara. Abita nei luoghi umidi, presso le scaturigini nei boschi, si ciba principalmente di aria, e uccide per pura crudeltà, con la linguetta. Io vidi la sioramàndola una sola volta, alla Fontanella dietro il Castello. Chiacchieravamo ignari Piareto ed io sotto i rami folti dei faggi, accostandoci al cristallo dell’acqua sorgiva per bere. Su una pietra lambita dal rìvolo c’era la sioramàndola. Era verde come la luce circostante, e macchiata di giallo e marrone, come le foglie secche. Era seduta e ci voltava le spalle. Fermai in tempo Piareto che voleva tirarle un sasso (ma il sasso rimbalza e il piccolo mostro s’inferocisce), e andammo via in punta di piedi, prima che la sioramàndola girasse la testa. (Ibidem) Creatura liminale (“abita […] le scaturigini dei boschi”, ibidem) e per certi aspetti venata di un sadismo latente (in quanto “uccide per pura crudeltà”, ibidem), l’animale è presentato di spalle, quasi a volerne addomesticare lo sguardo letale e oltremodo pietrificante (una sorta di Gorgone 73 Si veda, a proposito dei rettili, il seguente estratto dal primo volume delle Carte, relativo ai serpenti della Tanganica (l’attuale Tanzania): “Serpenti in Tanganica; meravigliosa cosa, e argomento. Uno dei più velenosi è la Gaboon viper, tarchiata, robusta. Ha veleno per dieci uomini: coccola! Lo spitting cobra è una creatura coraggiosa […], alto e sobrio ideale […]. Un serpe terribile e bellissimo è quello che se capisco bene si chiama nambo. In verde pallido, il green nambo (ce n’è anche uno nero), quando sfila tra i rami, rigido, sottile, incredibile, è tanto più bello dell’uomo, che si crede re del creato” (C60, 95-96). 200 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO delle fontane), ma ciò con toglie che esso mantenga una sua autonomia entro le maglie del testo, tale da essere considerato presenza viva e pulsante. In altri casi, l’eterospecifico si carica di una portata epifanica e numinosa, divenendo portatore di un’eccedenza di senso. Nei Piccoli maestri, ad esempio, la cicala che ha destato Gigi dal sonno origina una delle pagine più belle del bestiario meneghelliano: Dormendo mi pareva che dai rami sopra di me mi venisse a cascare qualcosa in palma di mano, ma sentivo che non era una cosa escreta da uccelli petulanti, era assai più leggera, però meno leggera di una foglia. Allora mi mettevo a fare meccanicamente il mio gioco consueto, ponendomi sul piano razionale la domanda: “Che cosa può essere?” e cercavo la gamma delle soluzioni plausibili. Tutt’a un tratto ebbi la sensazione di sapere esattamente che cos’era, era una cicala. Volevo riaprire gli occhi per controllare, ma mi venne in mente una cosa curiosa, che non avevo mai visto una cicala. Non è che non avessi mai potuto vederla: basta montare su un albero dove ce n’è qualcuna che grida, perché si sa che non volano via, solo smettono di gridare, e restano ferme. Ma la verità è che non avevo voluto andarla a vedere, per qualche motivo indefinito, associato con un senso di sacrilegio. Sarà forse il modo che hanno di gridare, che per un bizzarro effetto di acustica non si sa mai se è una ragnatela di gridi sottili a poche spanne dall’orecchio, o un coro abissale grande come tutto il paesaggio. Non c’è prospettiva nello stridore delle cicale. È inutile, dev’esserci una punta di magico dentro, quel rumore non è interamente di questo mondo. Fatto sta che cicale non ne avevo mai viste, né in persona né in effigie sui libri. La cicala dev’essere senz’altro greca. È impossibile che i greci non abbiano sentito quanto è misteriosa: e per i misteri avevano un orecchio incredibile. Come si dirà in greco cicala? E quanto antica è biologicamente? Più antica dell’uomo, del cane? (PM, 192-193) L’animale è sia creatura della mente – e cioè la risultante di un ampio ventaglio di supposizioni e inferenze – ma vieppiù subitanea apparizione (“Tutt’a un tratto ebbi la sensazione di sapere esattamente che cos’era”, ibidem): ospite e artefice della scena. Lo stridere – unico elemento che porta avanti questa mappatura del terios – rafforza la portata epifanica e traccia uno spazio transazionale dove le due soglie si fondono, partecipando a un processo di co-creazione: da un lato, dunque, il soggetto umano “pensa e immagina” l’animale mai visto (eppure tangibile, manifestantesi per una determinata via sensoriale, cioè l’udito); dall’altro, la presenza dell’eterospecifico induce l’uomo a riflettere (“quanto antica è biologicamente? Più antica dell’uomo, del cane?”, ibidem), andando oltre i limiti di una visione antropocentrata. “In natura non fanno i turni”, scriverà Meneghello circa il cane e la lepre, “[ma] ciò che si alterna sono le loro fortune […], come le nostre” (C60, 58): lentamente, si approda a una visione ancor più zoocentrata che mira, in un certo qual modo, anche ad oltrepassare il diaframma fra realtà scritta e realtà naturale, dove l’altro animale viene restituito a sé stesso. Prendiamo, ad esempio, i cigni presenti nelle pagine del Dispatrio, ideale trasposizione British degli “ochi” maladensi: L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 201 Non avevo mai badato molto ai cigni: sapevo dai poeti come muoiono, e avevo notato i loro rapporti con le donne, Leda, Andromaca, le négresses in esilio a Parigi. Quanto alla crudezza del loro lungo collo tortile (di nuovo, è la poesia che ne attesta le contorsioni) la consideravo una qualità eminentemente visiva, un aspetto della loro eleganza. (DIS, 77) Il riferimento a Le cygne (Il cigno) di Charles Baudelaire – innescato da Andromaca74 e le négresses75 – ci pone dinanzi a un animale letterario e squisitamente intertestuale, che vive in funzione della sua carica esibitiva: a tale altezza, l’uccello si fa imago pura e oggetto di contemplazione estetica, di conseguenza sganciato dal proprio habitat. La riannessione a una fisicità biologica è desumibile dal prosieguo del passo, dove le parole di Sir Jeremy sostanziano, a livello zoologico, la designazione dell’animale: Ma Sir Jeremy mi mise in guardia, quel collo è un organo pericoloso, una gran scuria bianca, un colpo può romperti un braccio, è una sferzata improvvisa. Tenersi alla larga… Il Tamigi scorreva tra i prati quasi a livello dell’erba, i cigni accostati alla riva stavano col becca all’altezza dei nostri ginocchi… Il carbonasso dei prati di casa frustava le gambe delle contadine, ma non rompeva ossi!, invece il cigno li rompe. E che non venga a dar di becco al membro che l’uom cela: diciamo celava, non lo cela più. (DIS, 77-78, corsivo mio) Il passo rivela un comportamento difensivo tipico del volatile che, nell’atto di difendere il proprio territorio, allunga il collo fino a formare una “S”, apre le ali e si prepara a lanciare “una sferzata improvvisa” (ibidem). La messa in risalto del comportamento animale (la sua etologia peculiare) consente al terios di riacquisire la propria essenzialità biologica, fermo restando il tono iperbolico della descrizione che, come spesso accade in Meneghello, sfocia in un raffronto con il bestiario di Malo (si veda il paragone con il biacco, il rettile che prende il nome di carbonasso76). Proseguendo alla lettura, notia“Andromaque, je pense à vous!” (Baudelaire 1918 [1857], 230. v. 1 ; “Andromaca, io penso a voi!”, trad. it. di Bertolucci in Baudelaire 2001 [1975], 155, v. 1). 75 “Je pense à la négresse, amaigrie et phtisique” (Baudelaire 1918 [1857], 232, v. 41; “Penso alla negra smarrita e tisica”, trad. it. di Bertolucci in Baudelaire 2001 [1975], 159, v. 41). 76 Mette conto rilevare come quel “membro che l’uom cela” si ricolleghi a due ipotesti distinti: da un lato, al Quadriregio di Federico Frezzi, poema in versi a imitazione della Commedia, composto tra la fine del Trecento e i primi del Quattrocento; dall’altro, a uno degli epigrammi di Vittorio Alfieri. In Frezzi, che fa riferimento al membro di Satana, leggiamo che “Le braccia grandi e l’ugne coll’artiglio / avea maggior che nulla torre paia; / e le man fure e preste a dar di piglio; / e di scorpion la coda e la ventraia; / nell’ano e presso al membro che l’uom cela / di ceraste n’avea mille migliaia” (1725, 177). In Alfieri, viceversa, si rimanda direttamente al membro maschile: “Il bestemmiar gli Angeli, i Santi, e Dio, / è orribil cosa; ma il perché sen vede: /che qual più in essi crede; / di lor si duol, se il suo destin fan rio. / a il bestemmiar quel membro che l’uom cela / E alla celeste corte irlo mescendo, / questa, affè, non l’intendo: / e al tutto parmi femminil querela” (1858 [1786], 145). 74 202 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO mo come, a conclusione dell’estratto, il volo degli uccelli inneschi un’epifania zoomorfa (che si pone a contrasto di quei “cigni […] insudiciati, in pratica neri”, ibidem, presenti sul canale a Est di Londra): Poche centinaia di passi più in là, sullo specchio verde del fiume, i cigni apparivano invece del tutto regali, radunati a convegno o scivolando sull’acqua leggeri, silenziosi. Tanto più straordinario, per contrasto, l’effetto del loro volo. Ero con Sir Jeremy, era l’ora del tramonto. Udii un rombo lontano, lui mi disse “Look!”, alzai gli occhi sul corso del fiume a valle… Bassissime sopra l’acqua arrivavano in volo due fantastiche belve bianche, le vidi trascorrere rimontando la corrente, incredibilmente grandi e potenti, lacerando l’aria coi colpi delle ali… Un’immagine esaltante… (Ivi, 78-79) A tale altezza, l’occhio umano si lascia letteralmente invadere dall’ostensione zoomorfa, dalla sua eccedenza estetica e esistenziale, dal momento che “l’epifania animale fa provare all’essere umano l’esperienza del sublime e […] ogni esperienza del sublime è riconducibile all’epifania animale” (Marchesini 2014, 29). Il teriomorfo è specchio che non riflette77 ma superficie di co-emergenza: di un volo che “animalizza” e si fa “divenire-animale”, secondo l’accezione teorizzata da Deleuze e Guattari: Devenir animal, c’est précisément faire le mouvement, tracer la ligne de fuite dans toute sa positivité, franchir un seuil, atteindre à un continuum d’intensités qui ne valent plus que pour elles-mêmes, trouver un monde d’intensités pures, où toutes les formes se défont, toutes les significations aussi, signifiants et signifiés, au profit d’une matière non formée, de flux déterritorialisés, de signes asignifiants. (Deleuze, Guattari 1975, 24) Divenire animale significa appunto fare il movimento, tracciare la linea di fuga in tutta la sua positività, varcare una soglia, arrivare ad un continuum di intensità che valgono ormai solo per se stesse, trovare un mondo di intensità pure, in cui tutte le forme si dissolvono, e con loro tutte le significazioni, significanti e significati. (Trad. it. di Serra in Deleuze, Guattari 1996, 23) L’animale crea un punto di fuga che attrae ma, al contempo, fagocita lo sguardo umano. Ed è la forma stessa del terios a produrre tale eccedenza: una sorta di realtà intensificata dove la soglia specista è attraversata di continuo, in un movimento a zigzag che allenta la morsa della tenaglia antropocentrica. Prendiamo, a tal proposito, il seguente estratto dal terzo volume delle Carte, dove l’autore medita sulla bellezza dello siamango: Com’è bello il siamango!78 che bell’animale! che bello lo spacco della bocca, la mancanza della fronte e la triangolazione del muso quando sganascia! Noi, nelle forme in cui ci siamo evoluti, siamo distintamente brutti al paragone: molli, fiapi, come i grossi filugelli andati in vacca… (C80, 185) 77 78 Cioè antinarciso (Marchesini 2014, 30). Scimmia della famiglia degli Ilobatidi, cui appartengono anche i gibboni. L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 203 Nel ravvisare le differenze tra l’uomo (flaccido e sciapo come un baco da seta79) e il primate, l’autore getta da subito i presupposti per un ponte coniugativo tra le due specie, tanto da spingerci a ravvisare, nella sua produzione, una vera e propria “memoria evolutiva”, consapevole della discendenza biologica, ma altresì emozionale, dal terios. Le scoperte di Charles Darwin, in fondo, hanno incorporato l’uomo al regno animale (Bleakley 2000, 38), agendo soprattutto anche sul terreno dell’immaginazione. Come sostenuto da Arrigo Stara: [con Darwin] si afferma e diviene decisiva l’idea di una contiguità, di una mancanza di distinzioni forti fra uomo e animale, che ha unicamente precedenti antichissimi e ispira non solo terrore, ma anche meraviglia: la bestia è un elemento […] sinistro e perturbante, è quel diverso che, forse, in un tempo remoto è già stato uguale, e che ora, parente riconosciuto, torna a far udire la propria voce. (Stara 2006, 71) Riconoscere tale contiguità permette all’animale di acquisire – seppur a livello testuale – una propria autonomia specifica, operando altresì un riassetto della portata valoriale a esso accordata. Spesso, per non dire sempre, quando facciamo notare a qualcuno la sua appartenenza al regno zoomorfo ci troviamo dinanzi alle reazioni più disparate: dal diniego assoluto, all’orgoglio (magari accompagnato da un sospiro di sollievo perché il caso ha voluto porci su un ‘gradino’ più alto); per arrivare al ribrezzo80 o, ancor peggio, una totale – quasi disarmante – miopia evolutiva. Quest’ultimo aspetto rimanda, in un certo senso, a una prospettiva umanista dura a morire, dove l’uomo è ancora – per dirla con Marsilio Ficino – “copula mundi”81, il che porta a una visione esonerativa, che inevitabilmente traccia una netta linea di demarcazione tra noi e gli animali, per quanto “the animals made us human” (Shepard 1996). Meneghello, proprio nel prendere in considerazione tale continuità, rende conto, seppur implicitamente, di una cotale tensione: anzi, alla luce degli esempi analizzati finora, l’animalità ha sempre contribuito a definire e tracciare le coordinate onCioè il filugello. Il sentimento di ribrezzo scaturisce dal fatto che tale prossimità evolutiva con l’animale è ritenuta “contaminante”: alcuni, stante anche il retaggio cattolico, alludono a una purezza dell’anima e dello spirito; altri, guardano proprio alla pulizia del corpo, relegando l’eterospecifico a una dimensione escrementizia. 81 L’espressione è contenuta nella Theologia platonica, III, 2. Per Ficino, l’anima umana è mobile e immobile, ascende alle cose superiori ma, al tempo stesso, si orienta verso quelle inferiori, aderendo al Divino, ai corpi e alle cose materiali. L’anima è dunque “centrum naturae, universorum medium, mundi series, vultus omnium nodusque et copula mundi” (Ficino 2011 [1482] , 234; “è il centro della natura, il grado intermedio dell’universo, la concatenazione del mondo, il volto di tutte le cose, il vincolo e la copula del cosmo”, trad. it. di Vitale in Ficino 2011 [1482], 235). 79 80 204 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO tologiche e esistenziali dell’umano; e anche quando le maglie dell’affabulazione e il gioco retorico finivano per eclissarla, essa continuava a persistere, destinata ulteriormente a manifestarsi. “È una strana bestia l’uomo” (LNM, 25), scrive l’autore nel libro d’esordio, in merito ai rapporti con la religione e l’aldilà: sintagma, questo, riproposto in maniera quasi analoga, in un passo dei Piccoli maestri che abbiamo già avuto modo di analizzare: […] mi sentivo sopraffatto all’idea che la pianura ci fa questo grano, e sono migliaia di anni che lo fa, e noi lo mangiamo. Com’è antico, mi dicevo; com’è elegante. Stavo lì, sparuto, inelegante, con questo pezzo di pane in mano, e pensavo: che strana bestia è l’uomo. (PM 164, corsivo mio) L’uomo, dunque, come una bestia imperfetta e, oltremodo, eccentrica: accomunato al regno animalia, da un lato, in quanto punto di arrivo del processo filogenetico; ma, dall’altro, avulso da quelli che sono i ritmi e i cicli biotici, le leggi di natura tout court. Si gettano, dunque, le basi per un sentimento di appartenenza al terios: non più indice di regressione, bensì atto culturale per diramare ulteriormente le proprie radici nel mondo. Leggiamo dal terzo volume delle Carte che: Una volta nessuno pensava che “siamo uomini, siamo creature umane” volesse dire “siamo animali”. Si dovette aspettare fino alla metà degli anni Cinquanta per sentir dire in pubblico: “La differenza tra noi e gli animali, Reverendo, è che loro non sanno che siamo uguali”. È darwiniana, e non già cristiana, che l’anima è naturaliter. (C80, 468) Meneghello guarda alle teorie darwiniane ma, nella fattispecie, abbatte anche la differenza specista, assunta poi come verità inconfutabile e legittimante la prevaricazione dell’umano sul terios: già Theodor Adorno e Max Horkheimer avevano avuto modo di rilevare che Die Idee des Menschen in der Geschichte Europaschen Druckt sich in der vom Tier Unterscheidung aus. Mit Wadenfänger Unvernunft beweisen sie sterben Menschenwürde. Mit und Solchen Beharrlichkeit Einstimmigkeit ist der Gegensatz von allen Vorvorderen des bürgerlichen Denkens, den alten Juden, Stoikern und Kirchenvätern, Dann sterben durchs Mittelalter und Neuzeit hergebetet Worden, that er wie Wenige Ideen zum Grundbestand Westlicher Anthropologie der Gehört. (Adorno, Horkheimer 1969 [1945], 262) L’idea dell’uomo, nella storia europea, trova espressione nella distinzione dall’animale. Con l’irragionevolezza dell’animale si dimostra la dignità dell’uomo. Questa antitesi è stata predicata con tale costanza e unanimità da tutti gli antenati del pensiero borghese – antichi ebrei, storici e padri della Chiesa –, e poi attraverso il Medioevo e l’età moderna, che appartiene ormai, come poche altre idee, al fondo inalienabile dell’antropologia occidentale. (Trad. it. di Solmi in Adorno, Horkheimer 2010 [1966], 263) Su quella che, a ragion veduta, può essere davvero considerata come una delle “grandi divisioni” par excellence, si è soffermato ampiamente l’antro- L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 205 pologo francese Philippe Descola, a cominciare dai limiti stessi del Naturalismo moderno, dove l’animale scadeva al ruolo di reagente (destinato, cioè, a far risaltare determinate qualità dell’umano), ferma restando l’azione separatrice della Res cogitans: se l’animale, dunque, è “contre-exemple” (2005 312; “contro-esempio” trad. it. di Bruni in Descola 2014, 192), volto cioè a caratterizzare la specificità dell’umano82, ecco che la continuità fisica viene messa in secondo piano, proprio puntando sull’eccezionalità di quelli che sono gli attributi interiori del Sapiens83. Tornando al passo meneghelliano, 82 Descola fa riferimento a un “paradoxe constitutif du naturalisme moderne, lequel n’a cessé de voir en l’animal tantôt le plus Les certitudes du naturalisme petit commun dénominateur d’une figure universelle de l’humanité, tantôt le contre-exemple parfait permettant de caractériser la spécificité de celle-ci. Face à l’évidence conjointe de similitudes physiques entre les animaux et les hommes et de dissemblances dans leurs dispositions et leurs aptitudes, les voies ouvertes à la spéculation comparative par une ontologie naturaliste sont singulièrement limitées : soit souligner la connexion des humains aux animaux par l’intermédiaire de leurs attributs biologiques — en ajoutant, si nécessaire, une dose plus ou moins grande de facultés internes communes afin que la transition soit plus graduelle —, soit reléguer cette continuité physique au second plan et mettre l’accent au premier chef sur l’exceptionnalité des attributs intérieurs par lesquels l’homme se distinguerait des autres existants” (2005, 311-312; “un paradosso costitutivo del naturalismo moderno, il quale non ha smesso di vedere nell’animale a volte il più piccolo comun denominatore di una figura universale dell’umanità, a volte il contro-esempio perfetto che permette di caratterizzare la specificità di questo. Di fronte all’evidenza congiunta di similitudini fisiche tra gli animali e gli uomini e di differenze nelle loro disposizioni e nei loro comportamenti, le vie aperte alla speculazione comparativa per un’ontologia naturalistica sono singolarmente limitate: o sottolineare la connessione degli umani agli animali con l’intermediario dei loro attributi biologici – aggiungendo, se necessario, una dose più o meno grande di facoltà interne comuni affinché la transizione sia più graduale – o relegare questa continuità fisica in secondo piano e porre l’accento per prima cosa sull’eccezionalità degli attributi interiori con i quali l’uomo si distinguerebbe dagli altri esistenti”, trad. it. di Bruni in Descola 2014, 192). 83 Nel suo libro, Descola individua quattro modalità attraverso cui l’uomo si rapporta al proprio ambiente: totemismo; analogismo; animismo; naturalismo. Gli ultimi due, scrive l’autore, “se présentent comme des manières antithétiques de discerner les propriétés des choses : dans le premier cas on met l’accent sur la différence physique entre les existants (ils ont des corps dissemblables) tout en reconnaissant qu’ils entretiennent un même jeu de relations (du fait qu’ils partagent une intériorité analogue) ; dans le second on souligne au contraire la continuité physique entre les éléments du monde (ils sont tous soumis aux lois de la nature) pour mieux faire le constat de l’hétérogénéité des relations susceptibles de les unir (celles ci étant réputées dépendre de la capacité ou non à manifester une intériorité aux contenus variables)” (2014, 667- 668; “si presentano come modi antitetici per discernere le proprietà delle cose: nel primo caso si mette l’accento sulla differenza fisica tra gli esistenti (hanno corpi dissimili) riconoscendo che intrattengono uno stesso gioco di relazioni); nel secondo si sottolinea al contrario la continuità fisica tra gli elementi del mondo (sono tutti sottomessi alle leggi della natura) per fare meglio la constatazione dell’eterogeneità delle relazioni suscettibili di unirle (dato che si ritiene che esse dipendano dalla capacità o meno di manifestare un’interiorità dai contenuti variabili”, trad. it. di Bruni in Descola 2014, 386). 206 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO vediamo come l’autore getti le basi per una contiguità ontologica, ferma restando l’assenza di una riflessività da cui il terios è tuttavia estromesso: se l’animale non sa che siamo tutti uguali, ciò non toglie che una tale coappartenenza venga meno; anzi, forse è proprio demandato all’uomo il compito di salvaguardare determinati equilibri. Nel giungere a un passo delle ‘nuove carte’, è possibile percepire come tale processo inclusivo si sia fatto totale e plenario: “le cose orrende ci sono”, scrive Meneghello, “la vita di noi animali ne è intessuta” (APP, 59, corsivo mio). Il pronome personale, adesso, sigla un vero e proprio livellamento della soglia: non tanto una fratellanza creaturale, bensì la constatazione di un punto di arrivo che, inevitabilmente, dirama il soggetto umano in tutte le frange dello spettro evolutivo. È Meneghello stesso a dircelo: “non è probabile che si possa tirare una riga che separi l’umano dal preumano” (C80, 121), il che ci porta non solo all’uomo inteso quale animale che parla e animale che scrive (JUR, 30-31), ma al riconoscimento di una condivisione biosferica. A tal proposito, emblematica diviene la figura dello Zio Dino – rievocata, tra l’altro, nelle pagine de L’acqua di Malo a proposito della battaglia delle formiche: In cortile dalla nonna osservavamo una grandiosa battaglia di formiche; e lui, con cautela, con cura, con amore, ci fece cadere sopra un ciclopico spuacio, in un punto nevralgico della mischia; e considerata la sorte delle coraggiose creature investite da un incomprensibile cataclisma. Diceva proprio così “un cataclisma…”. Forse non ho mai percepito più fortemente il senso del salto di scala: d’un tratto ero là in mezzo a misteriose ondate di spuacio bianco, picchiando e mordendo nemici incappellati di spuma, impacciati io e loro da enormi filamenti gommosi, una specie di tira-molla di origine iperurania… (AM, 201) Il passo origina una dislocazione percettiva, dal momento che il soggetto umano abbandona l’Umwelt di partenza per transitare, seppur mentalmente, in quella dell’animale84. L’effetto è disorientante ma, al contempo, rivelatore di un’eccedenza di senso che, in un certo qual modo, dilata le maglie ontologiche. Come aveva già affermato Jacob Von Uexküll: Unsere menschliche Welt verdankt ihren Ursprung den Elementen unserer Sinnlichkeit und ihrer Verknüpfung in Il nostro mondo umano deve la propria origine agli elementi della nostra sensibilità e alla loro connessione Lo stesso accade in PM, 127: “Così passammo la mattina, coi fringuelli, e le coturnici. Poi Renzo smise e andammo via, lasciando lì questi uccelli che ci davano dentro a gridare, gridare; che poi a pensarci bene, se tu ti metti dal punto di vista dell’uccello, è una strana cosa star lì tutta la mattina, a fare queste dichiarazioni in mezzo alle foglie”. 84 L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 207 unserem Gemüte. So bleibt sic unter allen Umständen unsere Merkwelt, die sich aus menschlichen Merkzeichen zusammensetzt. Sobald wir das Vorhandensein anderer Subjekte mit anderen Merkzeichen zugeben, vervielfältigt sich auch die Zahl der Welten. Eine Tatsache die die Physiker vollständig übersehen haben. Das Studium dieser Welten hat uns nun gelehrt, daß diese zahllosen Subjektumwelten keineswegs eine planlose Anhäufung von Seifenblasen darstellen, sondern daß sie alle auf das planvollste miteinander verknüpft sind. Die Natur ist also mehr als ein Bloßer Tummelplatz der Umweltseifenblasen, auf dem diese planlos durcheinander kugeln. Nein, sie ist planvolles Gesamtgefüge, das in dauernder planvoller Umgestaltung und Erneuerung begriffen ist. Nur fehlt ihr das zentrale Subjekt, das wie alle Subjekte verbindender und beherrschender Plan. (Uexküll 1922, 316, 317) nel nostro animo. Esso rimane così in ogni circostanza il nostro mondo percettivo, che si compone di segni percettivi umani. Non appena ammettiamo la presenza di altri soggetti con altri segni percettivi, si moltiplica anche il numero di mondi: un fatto che i fisici hanno completamente trascurato. Lo studio di questi mondi ci ha ora insegnato che questi innumerevoli ambienti soggettivi non rappresentano affatto un accumulo non pianificato di bolle di sapone: essi sono al contrario connessi l’uno all’altro secondo un piano ben preciso. La natura è dunque più che un mero luogo di ritrovo delle bolle di sapone corrispondenti ai viari ambienti che rotolano in maniera non pianificata l’una con l’altra. Si tratta invece di una struttura complessiva pianificata, impegnata in costante trasformazione e rinnovamento secondo un determinato piano. (Trad. it. di Pinotti in Uexküll 2013, 69-70) Proseguendo nell’analisi del passo meneghelliano, notiamo come questa molteplicità di Umwelten non rimandi a tante frammentarietà tra loro separate; anche perché lo Zio Dino sembra proprio essere dotato di una coscienza che, lungi dall’essere ecologica tout court, approda al riconoscimento di uno spazio comune alle varie forme viventi: Non è ciò che sapeva sulle bestie, che forse non era molto: è la sua consonanza, la sopra empatia. Sentiva spontaneamente, e ti faceva sentire, che siamo parte dello stesso mondo, con impulsi e usanze germani a quelle delle bestie… (AM, 201-202) Tra gli ambienti, dunque, non sussiste una gerarchia assiologica (Accarino 2013, 115) e ciò è ravvisabile anche a proposito dello scarabeo stercorario, presentato subito dopo: Fu da lui [Zio Dino] che sentii nominare per la prima volta lo scarabeo stercorario: certamente quello di Henri Fabre85. Fu come un minuscolo colpo di ful- 85 Jean-Henri Casimir Fabre (1823-1915), entomologo e naturalista francese. I riferimenti a Fabre torneranno anche nel primo volume delle Carte: “Fabre (Henri, il naturalista) attribuisce ogni tanto agli insetti scienza e conoscenza, poi ci ripensa. Vede un imenottero paralizzare la vittima ‘con una precisione da ingelosire la scienza’ 208 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO mine: il nome splendido come un gioiello, i rapporti delicati con la sua materia prima… Attraverso mio zio venni a conoscerlo come un parente, non del tutto coevo, anzi una specie di arcaico antenato impicciolito dai secoli, testardo, ingegnoso, elegante, esemplare. C’era qualcosa di arcano nell’involucro, ma all’interno una vita profondamente rispettabile. (AM, 202) L’apprezzamento della forma animale sfocia ora in un sentimento di puro rispetto (“c’era […] all’interno una vita profondamente rispettabile”, ibidem), a riprova di come gli insetti, nel bestiario meneghelliano, rivestano non solo una funzione psicagogica (sono, in fin dei conti, i primi animali a popolare il macrotesto dell’autore), vieppiù strutturino una, seppur larvata, tensione etica nei confronti dell’eterospecifico che, in tal caso, non va incontro a una metamorfica denigratoria, anche perché la naturale coprofilia si fa passione “seria”, scrive l’autore, “[…] come quella che forse giace nel profondo di ognuno […]” (ibidem). La memoria evolutiva, dunque, permette di ridefinire le soglie che, finora, sono state sfiorate da queste presenze, nel loro continuo interferire con la dimensione, biologica e culturale, dell’uomo: il terios, lo abbiamo visto, opera una restaurazione e una presa di coscienza che lo riscattano dalla sua povertà di mondo, entro una prospettiva orizzontale dove l’umano tenta un dialogo con un’alterità non più disturbante. 2.2.1 Cani e altre belve temute Il voler muovere le fila dalla figura del cane risponde, sostanzialmente, all’intento di mettere in risalto come l’animale fondativo nei rapporti dell’umano col terios86 si risolva in un corteggio di immagini e figurazioni anti-archetipo, dove il cane non è – per dirlo con le parole di Giorgio Manganelli – un “angelo di seconda classe” (2005 [1989], 250), né tantomeno rimanda ai compagni fedeli che Don Fabrizio Salina, al limitare del Gattopardo, ricorda in punto di morte87. Verrebbe da pensare, piuttosto, al e commenta: ‘Questo insetto sa e conosce il complesso sistema nervoso della vittima’; ma subito aggiunge: ‘Dico: sa e conosce; dovrei dire: si comporta come se sapesse e conoscesse’. Si tratta in realtà – pensa – di una specie di ispirazione: l’istinto. ‘Ma da dove viene questa ispirazione sublime?’. L’aggettivo rivela la persistenza di elementi estranei all’indagine biologica. Davanti a quella ‘logica ineffabile’ il naturalista e il suo compagno si mettono a piangere. È dunque un problema piangere l’istinto?” (C60, 417-418). 86 Il cane è stato, in fin dei conti, tra i primi animali a essere addomesticati. 87 “Tancredi. Certo, molto dell’attivo proveniva da lui […]; dopo, i cani: Fufi, la grossa mops della sua infanzia, Tom, l’irruento barbone confidente ed amico, gli occhi mansueti di Svelto, la balordaggine deliziosa di Bendicò, le zampe carezzevoli di Pop, il pointer che in questo momento lo cercava sotto i cespugli e le poltrone della villa e che non avrebbe più ritrovato […]” (Tomasi di Lampedusa 1963 [1958], 244). L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 209 cane barbone che, nel Faust di Goethe, cela le sembianze di Mefistofele88, a un animale caratterizzato da un certo fondo di ambiguità, connaturata alla sua essenza duale: non dimentichiamoci, in fondo, la sua diretta prossimità con il lupo, tanto da far scaturire sentimenti diametralmente opposti (oggi amato e coccolato come pet, ma inviso in passato per i tratti ferini). L’eco mefistofelica ci porta da subito tra le pagine di Fiori italiani e, nella fattispecie, alla riscrittura – in chiave favolistica e infantile – della vicenda faustiana, dove l’oggetto del baratto sarà proprio un cucciolo. Nel rievocare i racconti contenuti nel Libro della IV classe elementare, l’autore scrive: C’era perfino un bambino che cedeva il suo cuore a un mefistofelico vecchio in cambio di un cucciolo. Da quel momento diventava molto birichino. Un giorno addirittura annegò il cucciolo in un pozzo. Lo guardò dibattersi là in fondo finché scomparve. Per riavere il suo cuore avrebbe dovuto versare un bicchiere di lagrime, ma era un circolo vizioso, per piangere ci vuole il cuore. (FI, 242) Perderemmo allora tempo a cercare in Meneghello dei parallelismi con Argo, così come è infrequente quel sentimento di lealtà che l’animale dimostra al padrone: il primo cane meneghelliano, non a caso, entra nel testo quale elemento disturbatore, abbaiando per tutta la notte mentre una giovane moglie si lascia andare ai piaceri dell’infedeltà coniugale: La ragazza maritata, quando il marito era in viaggio si faceva venire per compagnia un’amica da maritare, e dormivano nello stesso letto. Il letto era ampio; arrivavano i due fuorilegge (dal muro di cinta per il balconcino) e ci stavano anche loro. Uno era biondo e tarchiato, l’altro asciutto e bruno, uno più impulsivo, l’altro più ironico, ma tutt’e due allegri. We must love one another or die. Si amavano in quattro permutando e ridendo; il cane del cortile abbaiava tutta la notte. (LNM, 172) 88 “Soll ich mit dir das Zimmer teilen, / Pudel, so laß das Heulen, / So laß das Bellen! / Solch einen störenden Gesellen / Mag ich nicht in der Nähe leiden. / Einer von uns beiden / Muß die Zelle meiden./ Ungern heb ich das Gastrecht auf, / Die Tür ist offen, hast freien Lauf./ Aber was muß ich sehen!/ Kann das natürlich geschehen? / Ist es Schatten? ist‘s Wirklichkeit? / Wie wird mein Pudel lang und breit! / Er hebt sich mit Gewalt, / Das ist nicht eines Hundes Gestalt!/ Welch ein Gespenst bracht ich ins Haus!/ Schon sieht er wie ein Nilpferd aus, / Mit feurigen Augen, schrecklichem Gebiß.” (Goethe 1970 [1808], 96; “Se devo spartire la stanza con te,/ smetti di mugolare, / caro cane, smetti di latrare. / Compagnia tanto fastidiosa / non la riesco a sopportare./ Uno di noi due / se ne deve andare. / Mi spiace mancare ai doveri dell’ospite. / La porta è aperta, il passo è libero…/ Ma che mi tocca di vedere?/ Può capitare una simile cosa / in natura? / È un’illusione? È realtà? / Come si fa grande e grosso!/ S’alza di prepotenza, / non ha più nulla che paia di un cane…/ Che spettro mi sono portato qua dentro! / Sembra già un ippopotamo. Ha occhi / di fuoco, ha zanne spaventose”, trad. it. di Fortini in Goethe 1970, 97). 210 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Diverso il caso di Lillo, il cane di Negroponte: animale – questo è indubbio – docile e remissivo, ma al tempo stesso inquietante, con il suo occhio di vetro che non può non far pensare a un ibrido zoomorfo: Cercava la compagnia di creature più semplici dell’uomo, come il suo cane Lillo che aveva un occhio di vetro e un’indole dolcissima […]. Una sera dopo la guerra gli amici della Compagnia (di cui molti intelligenti, e perfino dottori) erano andati a far due passi fino all’incrocio di strade e viottoli dietro il Castello, e non sapendo come trascorrere la serata erano montati in frotta sui rami di un gelso, con l’intenzione di usarli come aerei gabinetti di decenza, piuttosto per svago che per bisogno. Ampelio non ci stava e si accucciò invece sotto l’albero. Arrivò Negroponte col cane, e si fermò a guardare la notte stellata, fischiettando. Forse non si sarebbe accorto di nulla, ma il cane Lillo dall’occhio di vetro s’insospettì, intravide Ampelio con l’altro occhio, e corse a fargli festa. Ampelio cercava di cacciarlo via con qualche pedata acrobatica, senza far rumore. Negroponte domandava soavemente senza voltarsi: “Cosa c’è Lillo? cosa c’è?”. Poi andò a vedere e trovò Ampelio accucciato, e gli disse: “Riverisco”, con l’ossequio che è dovuto all’Intili-jènsa. (LNM, 222-223) Se, da un lato, Lillo è accudito amorevolmente dal padrone – che, si badi bene, dialoga col proprio pet come Thelma con la gallina Emily, DIS, 12589 –, dall’altro è rinvenibile una sottile idiosincrasia verso la bestia (nel gesto di Ampelio che cerca di scacciarlo via a calci): l’animale, in tal caso, mutua dall’umano una patente di marginalità che, come abbiamo visto, è ravvisabile anche a livello fisico (l’occhio di vetro è anche uno stigma). A Lillo potremmo contrapporre il cane di Miss Kingston, dalle pagine del Dispatrio: Miss Kingston rigattiera, col negozio in London Street e il cane cieco, rimbambito, che ostruiva il passaggio ai clienti e poi morì: la lasciò sola come un cane, animata soltanto dal sospetto, non so bene di che cosa, ma acuto, insistente, credo il sospetto che s’accorgessero che era matta… (DIS, 192) La tempra scadente dell’animale, tornerà anche in un estratto del primo volume delle Carte: Il vecchio cane è cieco da anni, paralitico, fulvo, incontinente; la sua padrona sta seduta su una seggiola, davanti al negozietto di antichità [Cfr, Dispatrio 1993], non vuole più vendere i suoi oggetti […]. (C60, 510) Lillo e Emily sono entrambi dotati di un nome proprio: l’attribuzione nominale, dunque, fa sì che l’umano intrattenga un vero e proprio dialogo verbale con l’eterospecifico. Tuttavia, più che di dialogo, dovremmo parlare, come accadeva nel Dispatrio, di monologo tout court, in quanto l’animale non ha diritto di replica (né tantomeno sembra intenzionato a rispondere). 89 L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 211 Il tono non è certamente benevolo: pare proprio che Meneghello insista sulla natura malaticcia del cane, alla stregua di oggetto inservibile, al pari delle anticaglie vendute in negozio90. Ma è nei libri di Malo che l’animale in questione si traduce in quelli che, pour cause, possono essere considerati i vertici ‘canini’ del bestiario meneghelliano: ci riferiamo a Bobi e Rol, presenti nelle pagine di Pomo pero. Del primo, Meneghello fornisce un ritratto brioso ma oltremodo venato dai toni di una ‘messa a distanza’: Ma quanto ai cani, nessuno può ammirare molto i cani che abbia avuto un nonno come il mio con un cane come il suo, piccoletto, a macchie bianche e nere, con un goffo moncone di coda, Bobi, espansivo, irritante, privo di qualsiasi profondità di carattere: una mascotte. C’era una sua foto insieme con la Flora, lei spettinata, con un gran nastro in testa, spinosa, lui tutto fiero di farsi la fotografia. La gente diceva, qual è Bobi? ma solo per scherzare, la Flora non somigliava affatto a un cane, nella foto il suo visetto allucinato ne aveva del sugo; una volpicina piuttosto… Bobi finì travolto da qualcosa nella tarda, arzilla vecchiaia. Ben vissuto vecchietto! Non era certo antipatico, e non fece mai del male a nessuno, ma non contava, non aveva peso. (PP, 298, corsivo mio) Non mancano, nel delineare la fisiognomica dell’animale, alcuni tratti grotteschi che, al pari dell’occhio di vetro in Lillo, ne accrescono lo statuto di alterità (“un goffo moncone di coda”, ibidem): alterità, oltretutto, condivisa con la stessa Flora e il suo muso volpino (torniamo, dunque, allo statuto duale del cane: lupo e volpe, ferocia e astuzia). Ma sono i paragrafi iniziali a insospettirci e a gettare, da subito, le basi per una cinofobia mai sopita: Bobi non ha carattere, è fastidioso e rimanda, alla fin fine, a un pupazzetto di peluche. Ecco perché l’eterospecifico, col suo mettersi in posa fiero e scattante, rinuncia alla propria essenzialità e diviene semplice doppio91. Circa i legami tra l’animale e la fotografia, risultano molto chiarificatrici le considerazioni avanzate da Felice Cimatti: La fotografia è stata inventata proprio per bloccare l’insopportabile dinamismo animale92. Di fronte alla fotografia di un animale possiamo finalmente tirare un Si veda, nel Dispatrio, il queer-dog evocato dal racconto di Faustino: “Faustino tornò dalla prigionia nel Kenya […], andava a caccia con un inglese e col suo cane, e questo cane si comportava in modo che a Faustino sembrava molto fuori dall’ordinario. Un giorno ne parlò all’inglese, e l’inglese annuì, e disse: ‘It’s an odd dog’. ‘Odd’ disse Faustino. ‘Cosa vuol dire?’, e l’inglese disse: ‘Queer’. A Faustino (e a me) questa spiegazione che per noi non spiegava niente pareva splendida. Abbagliava” (DIS, 216-217). 91 La fotografia in questione è contenuta in Zampese e Pellegrini 2016, 70. 92 Ma chiaro è il riferimento a La chambre claire di Roland Barthes, dove la fotografia è considerata quale esperienza dissociativa: l’Io – sempre in movimento, sempre mutevole, – viene reso statico e fissato nell’immagine di un corpo, di un volto, di un’espressione. L’essere fotografati si configura dunque quale micro-esperienza della 90 212 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO sospiro di sollievo […]. In effetti, c’è un unico movimento, che dalla parola porta alla fotografia, e viceversa: la parola “animale”, in particolare, trasforma un vivente che affretta e vive e soffre e gode in una categoria cognitiva, in un’astrazione. (Cimatti 2015, 21) Come è possibile evincere dagli estratti citati, tutti i cani che abbiamo incontrato (fatta eccezione per Lillo) muoiono: Bobi, Rol, il cane di Miss Kingston, a cui si accoda quello del maestro di musica, nel primo volume delle Carte: Il cane nel cortile del vicino si era incantato nella posizione di abbaio-continuo, e abbaiava meccanicamente. Il maestro (di musica) in vestaglia uscì sulla terrazza e disse al gruppo dei vicini: “non sentite che è incantato?”93. I vicini lo sentivano da sé. Erano usciti dalle cucine e dai tinelli e si erano come schierati davanti al cane che abbaiava rivolto a loro. Il maestro osservò che dal muso del cane fuoriusciva una bava trasparente, striata di sangue. “Vomita” disse ai vicini. “Si è rotto qualcosa morte, secondo l’iter soggetto-oggetto-spettro: “Or, dès que je me sens regardé par l’objectif, tout change: je me constitue en train de ‘poser’, je me fabrique instantanément un autre corps, je me métamorphose à l’avance en image. Cette transformation est active: je sens que la Photographie crée mon corps ou le mortifie, selon son bon plaisir […]. Car la Photographie, c’est l’avènement de moi-même comme autre: une dissociation retorse de la conscience d’identité […]. La Photo-portrait est un champ clos de forces. Quatre imaginaires s’y croisent, s’y affrontent, s’y déforment. Devant l’objectif, je suis à la fois: celui que je me crois, celui que je voudrais qu’on me croie, celui que le photographe me croit, et celui dont il se sert pour exhiber son art. Autrement dit, action bizarre: je ne cesse de m’imiter, et c’est pour cela que chaque fois que je me fais (que je me laisse) photographier, je suis immanquablement frôlé par une sensation d’inauthenticité, parfois d’imposture […]. Imaginairement, la Photographie représente ce moment très subtil où, à vrai dire, je ne suis ni un sujet ni un objet, mais plutôt un sujet qui se sent devenir objet: je vis alors une micro-expérience de la mort (de la parenthèse): je deviens vraiment spectre” (Barthes 1980, 28-30; “Orbene, non appena io mi sento guardato dall’obbiettivo, tutto cambia: mi metto in atteggiamento di “posa”, mi fabbrico istantaneamente un altro corpo, mi trasformo anticipatamente in immagine. Questa trasformazione è attiva: io sento che la Fotografia crea o mortifica a suo piacimento il mio corpo […]. La fotografia è infatti l’avvento di me stesso come altro: un’astuta dissociazione della coscienza d’identità […]. La Foto-ritratto è un campo chiuso di forze. Quattro immaginari vi s’incontrano, vi si affrontano, vi si deformano. Davanti all’obbiettivo, io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede che io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte. In altre parole, azione bizzarra: io non smetto di imitarmi, ed è per questo che ogniqualvolta mi faccio (mi lascio) fotografare, io sono immancabilmente sfiorato da una sensazione d’inautenticità, talora d’impostura […]. Immaginariamente, la Fotografia […] rappresenta quel particolarissimo momento in cui, a dire il vero, non sono sé un oggetto né un soggetto, ma piuttosto un soggetto che si sente diventare oggetto: in quel momento io vivo una micro-esperienza della morte: io divento veramente spettro”, trad. it. di Guidieri in Barthes 2003 [1980], 13-15). 93 Qui inteso come ingranaggio, o macchina, che gira a vuoto. L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 213 dentro”. Il figlio maggiore dei vicini, operaio in Germania, armeggiava per mettere il collare al cane. “Viene via il pelo” disse. Lo trascinò al cancello, lo fece salire sulla Fosvaghe dipinta a serpentelli rosa, e partì. Si vedeva il cane abbaiare dal lunotto di dietro, in modo violento e stanco, inudibile. (C60, 456) L’animale è restituito a se stesso unicamente al limitare del passo: vive cioè solo nella consapevolezza della sua fine, in quell’abbaio che, tra spossatezza e rabbia, si fa inudibile, ma oltremodo assordante. Il resto, al pari di Bobi, rimanda a un animale-congegno: un automa dalle fattezze zoomorfe retto da un complesso sistema di “pompe interne” (C60, 14). Ora, tornando a Pomo pero, e prima di proseguire nella lettura del passo, dobbiamo mettere conto che altri due cani faranno la loro comparsa nelle pagine del libro: il primo, neanche a farlo apposta, è quello “triste e brutto [che] mangiava un berretto a un bambino”, dipinto sul telone in casa della zia Corinna (PP, 30994); l’altro è il “cane dell’ufficiale della posta, un’innocua bestiola” (ivi, 316), finito nel mirino omicida della zia Mora (cani e zie, verrebbe da dire95). Da questi pochi esempi, vediamo come il cane non faccia mai una bella fine: o muore (e, se ciò non accade, ci va vicino), o finisce con l’assumere pose tristi, posticce. E, proprio in riferimento alla mestizia del terios, possiamo passare all’esempio di Rol, vero e proprio protagonista della nostra trattazione: A me serve per girare attorno a una creatura tanto più grande, colore di zucchero-orzo nel pelo e negli occhi, profondamente malinconica, adorna di malinconia e di sventura, Rol; che un giorno un marrano prezzolato con la schioppa condusse nell’orto (noi si era stati attirati altrove con uno specchietto di ciclamini o di more), oltre il rastello di ferro che si apriva vincendo una molla; e fece svoltare non per l’onesto sentiero di destra, diritto, sgombro, tra ordinate colture, ma per l’erbaceo, sghembante, sentiero a sinistra, invaso di glauca natura. Le piante sfuggite al guinzaglio, le ortiche, le felci; la nogara nutrita da magre gocce di fiele, l’amolaro sfibrato dal troppo figliare, coi figlietti verdognoli aggrappati sui rami… Ecco l’arcana casupola con la porta di ferro, le borchie robuste: è qui. Lo sappiamo per scienza di cose non dette, il punto in cui Rol fu tradito, vide che cosa cercava l’osceno fantoccio con la schioppa; dov’è seppellito non vogliamo sapere. (PP, 299) Un altro esempio di canide raffigurato era presente in Libera nos a malo, a proposito dell’immagine di San Luigi e il suo essere considerato emblema della purezza proprio perché la tunica non lascia intravedere le dita dei piedi. Scrive Meneghello: “ma come c’entrava la Purezza visto che i diti dei piedi sono così lontani? Alcuni di noi erano inclini a credere che in passato, come si vedono in certi tipi di cani nei quadri antichi che adesso non ci sono più, così ci fossero anche forme di atti impuri coi diti dei piedi di cui si è perso il ricordo, e che non è più possibile risuscitare” (LNM, 191). 95 Si rimanda anche a Salvadori 2016, 539-540. 94 214 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Come si evince dall’estratto, l’atteggiamento verso il regno autoriale muta nel volgere di pochi paragrafi, ché si passa dal “cane” Bobi, alla “creatura” Rol: e se il primo “non contava, non aveva peso” (ivi, 298), il secondo, per contra, vive fra le parole, è corpo, pura immanenza. Resta comunque un ostacolo, ovverosia la progressiva umanizzazione cui Rol va incontro, nell’esibire uno sguardo di “malinconia e di sventura” (ibidem), venato appunto di sentimenti: va da sé che l’incipiente corporeità sia subito riassorbita dall’antropogenesi in atto, pronta a escludere l’animale pur includendolo. Volendo citare le considerazioni di Giorgio Agamben, viene a prodursi una sorta di “stato d’eccezione, una zona di indeterminazione in cui il fuori non è che l’esclusione di un dentro e il dentro, a sua volta, soltanto l’inclusione di un fuori” (Agamben 2002, 42). Il linguaggio umano – qui esemplificato dall’uso del nome proprio – cattura, trascende e tradisce l’animale (“Rol fu tradito”, PP, 29996) ancor prima di ucciderlo. Per tale ragione, quello sguardo malinconico non andrà ricondotto alla prossima morte del cane, quanto al suo essere individuato dallo sguardo umano: un processo che lo distacca dal proprio ambiente e lo costringe a guardasi da fuori, sotto lo spettro della trascendenza (lo stesso faceva Bobi, in quella posa tanto simpatica ma, per certi aspetti, pietrificante). Il linguaggio degli uomini si insinua nella sfera del non umano, rende impossibile il rapporto diadico tipico del regno animale mediante l’intrusione del lògos stesso, ovverosia l’Altro: “le langage”, come sostenuto da Jacques Lacan in uno scritto inedito, “n’est pas seulement un moyen de communication, quand un sujet parle, une part de ce qu’il dit a part de révélation pour un autre” (1952-1953, 486; trad. it.: il linguaggio non è solo un mezzo di comunicazione, quando un soggetto parla, in quanto parte di ciò che egli dice è rivelatore per qualcun’altro). È perciò la parola a rivelare l’animale a se stesso e a dipingere, negli occhi di Rol, una tristezza quasi umana, proprio perché è “attraverso il linguaggio – cioè il dispositivo che permette la comparsa di “io” e della sua specifica temporalità – che l’esperienza della morte entra nella vita” (Cimatti 2013, 81). Viceversa, l’animale non muore, in quanto è estraneo alla macchina antropogenica e fortemente connesso all’ambiente: la tristezza emerge dunque nel momento stesso in cui questa relazione viene recisa, quando il non umano rompe i propri equilibri e, nell’entrare in possesso di un nome, si presta alla morte. Illuminanti, a tal proposito, risultano essere le considerazioni di Jacques Derrida, che aveva già rilevato come l’animale s’intristisca nell’essere nominato, poiché entrerebbe a far parte della sfera del lògos: Ma si consideri anche il traditum latino, nell’accezione di “trasmesso”, “passato”, “attribuito”: l’animale si stacca dall’ambiente e, di conseguenza, entra (“passa”, “è attribuito”) nel dominio logocentrico dell’umano. 96 L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 215 “se voir donner son propre nom […] c’est peut-être se laisser envahir par la tristesse, […] ou du moins par une sorte de pressentiment de deuil” (2006, 40; “L’essere nominato […] coincide con il lasciarsi invadere dalla stessa tristezza […] o meglio ancora, da un presentimento di lutto”, trad. it. di Zannini in Derrida 2006, 57). Va da sé che l’animale muoia nel momento stesso in cui prende a esistere come individuo separato, nel transitare dalla propria Umwelt al mondo. A queste deduzioni, possiamo altresì ricondurre l’inizio di Pomo pero e il suo aprirsi sull’atto battesimale: momento in cui il corpo effettivo è investito da quello simbolico, dal ‘nome di battesimo’ che, appunto, viene imposto da qualcun altro (l’Altro, cioè il sistema segnico della realtà). La ribellione del piccolo è quasi indice di un rifiuto a compiere tale ‘salto’ (e, a tale altezza, la presenza del non umano è integra e inalterata): Se ne stava pacifico nel portinfàn, ma non appena lo tirarono fuori e gli tolsero la scuffietta si mise a urlare forse in modo un po’ troppo veemente: pareva che rifiutasse il battesimo. Poiché non la smetteva, il prete che era Don Emanuele gli mollò uno sberlotto forse un po’ troppo veemente e lui ammutolì, infuriato, con l’aria di uno che decida di cominciare lo sciopero del silenzio; e difatti in seguito tacque… macché tacque. Storie. Tu non puoi sfuggire alla verità del prete che ti battezza e del come; né alle feste per il tuo battesimo in quel tinello, con quei santoli, con quei brindisi. E tu non puoi predicare queste cose di te, ma te di queste cose. (PP, 291) Le affermazioni finali sono di per se stesse chiarificatrici: è la presa di coscienza dell’antropogenesi, dello “scimmiotto Meneghello” (ivi, 292) oramai costretto a varcare una soglia, nonostante lo strenuo rifiuto a un’onomaturgia che intrappola e diviene pura cattività. Ecco perché lo sguardo di Rol era malinconico e triste, in contrapposizione alle “piante sfuggite al guinzaglio” (ivi, 298): anch’esse nominate, è indubbio, ma libere dal giogo del nome proprio che, per contra, sembra sfibrare un purissimo pino in fondo all’orto: Elpésso, col fusto ficcante che saliva forse seimila miglia nel cielo, coi monti a mezzo ginocchio; incredibile cuspide che partiva di lì, da un ritaglio finito di terra; aereo concetto di cui si poteva toccare la base. Ma la testa aggraziata aveva il male della morte; e faceva sgomento che morisse in così assoluto silenzio. (Ivi, 300) Un “male oscuro” (MR, 54), avrebbe detto il Meneghello di Maredè, o più semplicemente tristezza: la malinconia di Rol è quasi un fantasma, un morbo pronto a insinuarsi nella biosfera di Pomo pero. L’episodio di Rol sarà rievocato da Meneghello in Leda e la schioppa, con particolari riferimenti all’uccisione dell’animale: 216 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO [In questo punto del libro] sto parlando dei cani; un filo congiunge cose disparate, una cosa ti porta a un’altra, parlo del cane di mio nonno […]; e invece per contrasto di un altro cane che si chiamava Rol. Ho perfino fatto fatica a ripetere il suo nome, dico che a me quel cagnetto del nonno serve […] [per arrivare a Rol]. Evidentemente i miei, i nostri l’avevano fatto uccidere perché sarà stato malato o decrepito, io ero piccolo, ci avevano mandati via perché non fossimo lì. Quando siamo tornati nessuno ci ha detto niente, ma abbiamo capito ugualmente, la casa era piena di lutto, e abbiamo identificato la zona dell’ordo, il posto dove sentivamo, almeno io, che era avvenuto questo orrore. (LES, 30-31) Nelle pagine dei Piccoli maestri, invece, l’immagine del cane vira nel modello “della ferocia e della forza, quasi a voler marcare, anche negli esseri più contigui all’uomo, la duplice valenza della natura e della ferinità che vi è connessa” (Anselmi 2009, 45). L’animale è associato alle truppe tedesche, il che riabilita, a livello testuale, i suoi tratti lupeschi: Così, con la canadese in tasca, mi misi a attraversare verso oriente, nella nebbiolina diradata. C’erano ampie groppe selvose, una parte che non avevo mai visto, e che cominciava a sembrarmi molto vasta e curiosa. Dopo un po’ sentii dei cani, piuttosto in lontananza, ma non troppo. Si udivano chiaramente i comandi in tedesco, come a un’esercitazione, e il petulante abbaiare delle bestie. Non sapevo se star fermo o muovermi; decisi di muovermi. Mi tenevo in alto, e camminavo ansiosamente, finché la costa cominciò a spiovere verso est, dove volevo andare io, e i cani non si udivano più. (PM, 138) Il terios è ora connivente, in quanto ha da spartire con l’uomo una patente di crudeltà e ferocia; ma mette conto rilevare anche la presenza dell’aggettivo “petulante” in riferimento all’abbaiare dei cani: qui definiti, non a caso, nell’accezione di “bestie” (e il senso è nettamente spregiativo). Si ha come l’impressione di avere a che fare con quelle “cagne magre, studïose e conte” (Dante, Inf., XXXIII, v. 31), popolanti l’incubo del Conte Ugolino: proprio come accadrà in un passaggio del terzo volume delle Carte, relativo alla descrizione della caccia alla volpe, dove Meneghello farà riferimento a “una frotta di cani un po’ odiosi” (C80, 287). Animali, dunque, da cui è giocoforza difendersi, anche uccidendo: Non m’importava più niente di niente. Le foglie già cominciavano a morire. C’erano anche i cani, con cui certi reparti andavano alla cerca tra i campi. Io avevo un coltello speciale per questi cani, a mezza-via tra il ronchetto e la scimitarra. Me l’aveva dato un amico che era venuto a trovarci, e ci aveva lasciato gli auguri di buona guerra, e a me questo coltello; assicurava che era perfetto per i cani. Diceva che basta distendersi per terra a faccia in su, il cane passa di furia e per un attimo espone la pancia: tu alzi un po’ il tu alzi un po’ il coltello e frùn, lo scucisci da cima a fondo. Meccanicamente provavo a fare un piccolo sforzo per credergli, e quasi ci riuscivo. Certo però nel sorgo il coltello fa compagnia, e sono convinto che è ottimo contro i cani. (PM, 198) L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 217 L’animale è sinonimo di pericolo97 e diviene egli stesso portatore di morte; ma la cinofobia, cui abbiamo fatto riferimento poc’anzi, non è da ricercarsi esclusivamente nel legame tra il cane e i tedeschi. Come vedremo nell’estratto seguente, esso si carica di un’alterità che terrorizza, pietrifica, creando dei veri e propri monstra: Dal fondo della viottola, tra le siepi folte, sotto frasche ombrose, mi veniva incontro una creatura che mi aveva visto ma non mi guardava. Era alto press’a poco come me, ed essendo indiscutibilmente un cane, sgomentava con la sola statura. Io non avevo mai visto un cane così, e neanche l’ho più visto in seguito. Era un mostro, nero di colore, e indicibilmente feroce nell’aspetto. (PM, 165) Come per Rol, il cane non è un animale, quanto piuttosto una “creatura” (PP, 299), ma le analogie con il quadrupede di Pomo pero si fermano a tale altezza: se lì avevamo a che fare con una bestia ammansita, malinconica e ormai rassegnata ad accettare la propria morte; nei Piccoli maestri, Meneghello attua una vera e propria rifigurazione dell’eterospecifico, sempre guardando all’ipotesto dantesco e alle “nere cagne, bramose e correnti / come veltri ch’uscisser di catena” (Inf., XIII, 125-126), che poi sbraneranno le anime di Lano di Ricolfo Maconi e Iacopo da Santo Andrea, a conclusione del Canto XIII. Il definire l’animale quale mostro rimanda oltretutto al suo essere “negazione di qualcosa” (Accarino 2013, 65) che, nel collocarsi al margine, diviene teratomorphos (aggettivo, cioè, che si riferisce alla mostruosità della forma, ivi, 64): “portatore di hybris e sfida visibile e tangibile all’immobilismo tassonomico, entro il quale si vorrebbe schiacciare la varietà della natura, il mostro apre le porte anche 97 “La casa è su una collina, e domina un gran pezzo del paesaggio. Corsi un bel tratto con la sensazione di essere visibilissimo. Avevo addosso l’unico vestito borghese che mi era restato a quei tempi; era un vestito da festa, un doppio-petto a righe marron scuro, ancora quasi nuovo, salvo questi ultimi strappi da filo spinato. I campi erano quelli secchi e nudi del tardo autunno, accidentati dalle arature; io correvo energicamente, in doppio-petto scuro, strascinando la gamba. La casa non si vedeva più, ma intanto mi ero ricordato della sciarpa di seta azzurra, e mi pareva ovvio che mi avrebbero inseguito. Quando fui a un chilometro, non ce la facevo più: inoltre il terreno era fatto in modo che proseguendo sarei tornato allo scoperto. C’erano delle biche, e mi cacciai dentro a una di queste; lo spazio, standoci seduti dentro con le ginocchia in su, era press’a poco la mia misura. Se passano per di qua, pensavo, speriamo che non abbiano la curiosità di guardare nelle biche; non avevo riflettuto che se hanno un cane, ci pensa lui. Questo cane mi venne in mente quando lo sentii che cominciava a abbaiare cento metri lontano. ‘Eccoli’ mi dissi; sentivo anche la voce dell’uomo che parlava al cane, venendo avanti con lui. Decisi di restare dov’ero. Quasi quasi avevo voglia di andarci un po’, in prigione. Il cane mi veniva scovando infallibilmente; si sentiva all’abbaio che era già sicuro del fatto suo. Infatti arrivò ben presto, e abbaiava furiosamente alla bica. L’uomo venne ad aprirla, e io mi trovai seduto allo scoperto; però non era il visitatore ostinato, era un contadino” (PM, 202-203). 218 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO ad un sublime teratomorfico” (ivi, 66), dinanzi a cui lo sguardo umano rischia di rimanere pietrificato. Comincia a profilarsi, dunque, il terrore per i cani, da Meneghello esplicitato, senza troppe perifrasi, nel prosieguo del passo: Io non ho paura dei cani, se ho qualcosa in mano per ammazzarli; come quella volta a Merano che io e Lelio eravamo andati a rubare le mele in un orto, bruttine e acerbe, e poi le raccattavamo quasi tutte dal suolo; dalla casa venne fuori una tedesca, brutta anche lei, con due cani lupi che incitava gridando, in tedesco. Noi cominciammo ad andar via, ma a un certo momento mi venne in mente che potevo anche voltarmi, e così mi voltai, e con un gesto da teatro sfoderai la baionetta. I cani, sciocchi, abbaiavano ancora come prima, ma la tedesca cambiò immediatamente registro, e si mise a tirarli indietro. Allora cominciai io a digrignare i denti; avanzavo a scatti, e facevo una faccia come se ormai avessi stabilito di ucciderli tutti e tre. La donna si mise a strillare in italiano “No, no”, e io invece di ucciderla mi riempii la giubba di mele acerbe, sotto agli occhi suoi e dei suoi cani. Faccio per dire che non ho veramente paura dei cani, ma solo se ho qualcosa di adatto in mano però; altrimenti un po’ sì, e lì sulla collina avevo un bastoncello così smilzo, che il cane nero, grande come una giovenca, se alzavo questo bastoncello mi avrebbe sbavato in faccia in segno di disprezzo. (PM, 165) Eccoci approdare al rovesciamento dell’imago canina, a riprova di come, nel bestiario meneghelliano, Argo ceda il passo a Mefistofele: a un animale, insomma, antagonista dell’uomo e mutuante da quest’ultimo determinate disposizioni caratteriali, dalla stupidità (“I cani, sciocchi”, ibidem) a una certa vena di sadismo (“mi avrebbe sbavato in faccia in segno di disprezzo”, ibidem). L’incontro con questa alterità si risolve, sul finire del passo, in una situazione al calor bianco, in cui l’animale richiama la bestia stessa dell’Apocalisse: Questo cane dell’apocalisse veniva avanti senza guardarmi, e io continuavo a andargli incontro rallentando un po’, ma simulando lo stesso ritmo nel passo, perché a cambiare il ritmo si precipita la crisi. Tenevo la testa dritta e gli occhi storti per sorvegliarlo, e ripassavo disperatamente tutto quello che c’è in Jack London sulla lotta coi cani. Ci incrociammo quasi sfiorandoci, e sentii che brontolava qualcosa tra sé; lui guardava via, e io guardavo tutto dalla sua parte ma con la testa dritta in avanti, e quando fu passato raddrizzai anche gli occhi e non mi voltai più, e di questo cane gigantesco non ho più saputo nulla, e neanche non ne ho mai più visti di grandi così. (Ivi, 166) A conclusione del testo giovanneo, non a caso, gli esclusi dal regno dei cieli sono designati come “cani”98 , il che ci riporta alla condizione di 98 Si legge nell’Apocalisse: “ἔξω οἱ κύνες καὶ οἱ φάρμακοι καὶ οἱ πόρνοι καὶ οἱ φονεῖς καὶ οἱ εἰδωλολάτραι καὶ πᾶς φιλῶν καὶ ποιῶν ψεῦδος” (Ap, 22, 15; “fuori i cani, i fattucchieri, L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 219 marginalità assunta dall’animale, rafforzata – nel passo dei Piccoli maestri – anche dal suo essere vagante, randagio e, di conseguenza, recalcitrante al controllo e al dominio dell’uomo. Eppure, ai “cani bastardi” (C60, 445) è possibile affiancare altre due esempi che, in certo qual modo, ce ne restituiscono l’immagine canonica: in Maredè, ad esempio, è presente un “cane ramingo” che si rivela essere diametralmente opposto a quello dei Piccoli maestri: Sto quasi per domandarmi qual è la ‘vera’ pronuncia vicentina di puareto, sia come sostantivo (“mendicante”), sia come aggettivo, e in particolare nelle esclamazioni (“poveretto!”) […]. Avevo sempre inteso che la pronuncia corrente fosse puaréto: ma oggi ho sentito la L., nata a vissuta a Thiene, simpatizzare con un cane, forse abbandonato dai padroni in vacanza, che stava accucciato davanti alla porta dell’appartamento vuoto qui di fronte, dicendo a lui, o di lui: “Puarèto!” Conosco ormai il pensiero e lo stile della L. al punto che udendo da un’altra stanza questa sua esclamazione non ho dubitato che doveva entrarci un animale ferito o malato o almeno ramingo: un animale bagnato e sconsolato in questa mattina di pioggia, che forse lei aveva già visto un po’ prima, arrivando… (MM, 38) Come spesso accade per questa grammatichetta sui generis, la trattazione lessicografica cede il passo alla narrazione e al ricordo. Siamo ben lontani da Lillo o il cane di Miss Kingston – animali strambi o, per altri aspetti, resi grotteschi dalle loro stesse patologie –, ma financo lo sguardo di Rol, carico di “malinconia e di sventura” (PP, 299) sembra riacquistare una dignità esistenziale in questo ritratto, il quale getta le basi per il passo seguente, stavolta dal primo volume delle Carte: Barone: cane del barone: Silenzio! […] Quando abbaiano insieme aizzandosi a vicenda, il cane e il barone, tutto rintrona. Anche gli uomini, appostati qua e là, fanno ogni tanto delle grida rauche […], pare che si abbaino tra loro. Un abbaio cos’è? Aria scossa, e insieme una forma culturale. (C60, 40) La bestia entra nel testo come chiamata a rapporto, quasi a voler riportare la sua versione dei fatti, una propria testimonianza: quel “silenzio!” rompe il legame fatico e azzera un tessuto preesistente di voci, creando una zona d’ombra e d’ecceità ontologica, entro cui l’eterospecifico possa manifestarsi. Mette conto rilevare anche il rapporto tra il cane e il suo padrone: un legame dove l’umano rinuncia alla patente logocentrica, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna!”). O ancora, dai Proverbi: “Ωςπερ κύων όταν επέλθη επί τον εαυτού έμετον και μισητός γένηται” (Prv, 22, 15; “come il cane torna al suo vomito, così lo stolto ripete le sue stoltezze”). 220 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO adottando la forma comunicativa dell’animale (l’abbaio), su cui l’autore non manca di interrogarsi99, financo a ipotizzarne la portata culturale (e quindi semantica100). Proseguendo alla lettura dell’estratto, apprendiamo che il barone non è l’unico “amico”: Hanno un amore di bambina dalla voce acutissima, che scende anche lei in cortile a ore fisse. È chiaro che la creatura più importante nella vita di questo angioletto è il cane, a cui parla per mezzo di strilli veramente penetrarti, e il cane risponde con affetto furioso. (Ivi, 41, corsivo mio) Il rapporto col cane implica, in tal caso, quella “naturalità degli affetti primordiali” (Anselmi 2009, 48), ove l’inseparabile doppio (il lupesco famelico) è sublimato dal sentimento dell’animale nei confronti del padrone, originando, come nel caso del barone, una “solidarietà complice, umana e canina” (ibidem). A chiusura di questo paragrafo, vogliamo tuttavia soffermarci su altri esempi di zoofobie presenti nell’opera di Meneghello. Cominciamo col dire che il sentimento di paura verso gli animali rimanda sempre a quel meccanismo proiettivo mediante cui l’altro animale – mutuando i termini dall’imagologia letteraria – si fa mirage, ovverosia viene caricato di determinate caratteristiche o atteggiamenti che se, da un lato, accrescono la sua patente di diversità, dall’altro contribuiscono a mantenere inalterata quella purezza ontologica di cui spesso l’umano si fregia. Se l’animale, volendo far nostre le considerazioni di Silvana Castignone, è “uno specchio oscuro” (1993, 15), questo rimanda indietro un’immagine che non si deve vedere, da cui scaturisce la fobia vera e propria. Quindi, se l’uomo tende 99 Sulla portata comunicativa del lògos animale si veda anche il seguente passo dai Piccoli maestri: “Quando ebbi detto le parole “un po’ di tè”, arrivarono i colombi. Erano due, penso che facessero anche loro un giretto come noi, devono essere arrivati da sinistra e con poche sventolatine delle ali si erano posati a quattro-cinque metri da noi. Ci guardarono un momento, poi uno riaprì le ali e ripartì, e l’altro gli andò dietro; andarono su due metri come piccoli elicotteri, e subito tornarono giù press’a poco alla stessa distanza di prima, ma un po’ a destra, e questa volta ci voltavano le spalle. Questi colombi si misero a saballare come fanno loro, guardando il panorama. Io penso che si dicessero qualcosa, col loro stile altezzoso, muovendo la testina di qua e di là, a scatti. Io e Nello eravamo stati fulminati dalla stessa idea” (PM, 75-76). 100 Circa il rapporto tra il cane e il barone, si legga dal primo volume delle Carte: “Si sente minacciato il barone, come se volessero (ma chi?) portargli via tutto, e si asserraglia nelle sue proprietà e prepara tagliole per i nemici, o le ombre, che lo minacciano […]. Se ne sta ad ascoltare, chiuso negli stanzoni della villa (rustici affreschi); impone silenzio alle donne di casa, si nutre di grida. Era capo una volta, ha comandato manipoli facinorosi, in Africa. Ora che nel mondo esterno non conta più nulla intende restare u capo qua dentro. Si è fatto una città morta, un fortilizio. Dal lontano cancello una figuretta suona […]. La grossa campanella del cortile fa il suo numero; il cane scemo parte col suo; creature umane non compaiono…” (C60, 227). L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 221 inevitabilmente all’eterospecifico (perché l’animale ci affascina, questo è indubbio), il rovescio della medaglia è la sua cooptazione nel gioco metaforico – e, ancora una volta, entra in gioco il linguaggio – tanto da farsi “prestanome” delle nostre paure. Roberto Marchesini ha sintetizzato efficacemente un tale processo: il buio sarebbe più spaventoso se fosse una realtà fredda senza vita, cosicché l’agghiacciante risata della civetta o l’ululato del lupo ci danno la possibilità di dare un nome alle nostre paure e colmare il ben più lancinante orrore per il vuoto. (Marchesini 2000, 11) In Meneghello, tuttavia, non è il vuoto a ingenerare la zoofobia, quanto piuttosto la fisiognomica stessa dell’animale. Ne sono un esempio, in Pomo pero, Rita e la sua avversione per le lumache: La Rita ha un terrore speciale delle lumache, il loro silenzio, la loro mollezza, l’inesorabilità del loro moto quasi invisibile la sconvolgono. (PP, 338) L’eterospecifico sconvolge proprio per la sua mancanza di lògos, per il suo essere indecifrabile e ontologicamente illeggibile: il terios è dinamicità, manifestata nella sua essenza di sciame, E vennero le lumache. Erano grandi lumacone scure di quelle senza casetta, e uscivano di notte. […] La prima che trovarono in spazzacucina (cioè nel cucinino), mio fratello la caricò su un pezzo di cartone, la portò fuori in cortile: s’illudevano che fosse arrivata lì per caso. Poi una sera tornando dal cinema a mezzanotte ne trovarono tutta una mandra sparsa per la casa, manze nere, e alla Rita venne un grande accesso di nausea, e tutta la notte ebbe la pelle d’oca. (Ibidem) I molluschi rimandano a una collettività intimamente connessa, capace di rigenerarsi e financo propagarsi, operante una “deminutio” (Accarino 2013, 212) della sovranità stessa dell’uomo; mentre il suo essere decentrata – le lumache si susseguono a intermittenza (prima una, poi un’altra), fino a invadere l’intero appartamento – la eleva al rango di superorganismo. È, sotto certi aspetti, il fuori (gli animali) che minaccia un dentro (le geometrie e i perimetri abitativi), sfruttando la propria capacità aggregativa, come accade per il groviglio di vipere nei Piccoli maestri: Un greppo proprio davanti a me, all’altezza del ginocchio, si muoveva. C’era un mezzo metro quadrato di roba verdastra e cerulea, fatta a gnocchi, alta due dita, che si muoveva piano piano piano. Ci misi un pezzo a capire che erano vipere. Erano tutte annodate, aggrovigliate, ma mollemente; si muovevano come quelle reclàm a spirale che pare che si spostino e invece non fanno altro che girare su se stesse. Il moto apparente del groviglio era uno scorrimento, però il groviglio non mutava posizione, parte sul gradino del greppo, parte sullo spigolo e a penzoloni. Ogni tanto un’asola di vipera faceva un’escursione scivolando len- 222 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO tamente fuori, ma veniva poi lentamente risucchiata. Distinguevo qua e là nel groviglio i capini sonnambulati di qualche vipera singola, e questo aumentava il senso di ribrezzo. (PM, 102) Anche qui, notiamo come l’animale sia oggettivato nel suo farsi network e rete vitale di corpi: il richiamo, questo è indubbio, è all’Idra di Lerna (ma si pensi altresì alle chiome anguicrinite della Gorgone), ma mette conto rilevare la struttura a ‘collettivo’ dell’eterospecifico, dal momento che “i collettivi […] sono al tempo stesso il sogno e l’incubo di ogni regolazione” (Accarino 2013, 202). I toni si smorzano quando Meneghello, guardando a un bestiario alloctono, si soffermerà sulle bestie feroci e, nella fattispecie, i leoni: […] non si sa come comportarsi, […] quando la disposizione dell’animale è ostile. Con un puma penso che si potrebbe provare a proteggersi in caso di attacco, con un lupo anche, ma se è un leone sono dolori. Aspettarlo e fare una schinca quando arriva è inutile: ovvio che corregge la zampata lateralmente, fa un twist e frena in modo spettacoloso; dargli in testa con un palo, peggio che andar di notte, anche infilarglielo nella bocca spalancata, il suo stesso peso è come una valanga; sparare, un po’ meglio, ma poco, la sua velocità è spaventosa, e per svelto che tu spari lui arriva ogni volta a portata per l’ultimo saltone, e anche se clinicamente muore in aria, ti rovina addosso ugualmente con l’apparato stritolante già innestato. No, no: leoni neanche a parlarne. (C70, 273-274) Già in Libera nos a malo, il leone aveva fatto la sua comparsa101, protagonista dei racconti di Faustino sulle sue cacce grosse in Kenya: Una domenica in piazza c’era una Maserati da corsa nuova fiammante: Faustino insisteva per mostrarci il libretto, ma nessuno lo volle vedere. C’è una regola semplice: quello che dice Faustino è vero. Nel Kenia uccideva i leoni con la lancia, una lancia piccola come una forchetta. (LNM, 213) Se nel libro d’esordio, la belva per antonomasia si caratterizza per una “ferinità esautorata” (Dei 2001, 103), nell’estratto delle Carte riacquista quel “prodigioso skill” (C80, 423) che, in un certo qual modo, lo riannette al rango degli animali temuti. Ciononostante, siamo dinanzi a un timore ‘di circostanza’, assai diverso da quello incontrato per le lumache o il groviglio di vipere: da un lato, infatti, abbiamo un bestiario alloctono, dove l’animale è sostanzialmente mediato da immagini, suggestioni e ricordi; dall’altro – e vogliamo dirlo usando le parole dell’autore, che ci sembrano decisamente esplicative – “disapproviamo le bestie feroci ma 101 Non possiamo prescindere, tuttavia, dai leoni dei bassorilievi assiri custoditi al British Museum, ricordati in JUR, 66. L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 223 […] [forse] le ammiriamo un po’” (C60, 96). Il che ci porta alle considerazioni autoriali in merito alla cattiveria degli animali (e sono sempre i leoni a tenere le fila del discorso): […] Eccolo lì il leone! E nota che il leone reale ha tratti tipicamente umani, litigioso, sfaticato, opportunista, piuttosto fifone… La leonessa è molto meglio, ha una vita durissima, a volte trova da mangiare a volte no, quando va molto male le conti facilmente le costole, le iene rissose la scacciano… Tutto quel mangiare, la carcassa insanguinata, purulenta… una civiltà complessa e un po’ spietata. Come sceglie la ragione tra le iene e la leona? Non ci vorrebbe uno statuto? (C60, 387-388) Il passo riporta un racconto di Severino, “l’uomo più sconclusionato del mondo” (ivi, 387), ma non sfuggirà come i toni umanizzanti, ravvisabili al principio, siano smorzati man mano che si prosegue nella lettura, arrivando a un’animalità che, per quanto cruenta, si mostra senza troppe perifrasi. I toni, tuttavia, iniziano a farsi perplessi quando l’animale è percepito quale creatura malvagia e tendenzialmente sadica, come accade nel passo che ci accingiamo a citare: Era buona, o così e così, la natura dell’uomo e degli altri esseri viventi? Saverio non vide a fondo l’orrenda cattiveria per esempio degli uccelli, fino a un giorno dei primi anni Cinquanta, quando tornando verso casa dalla fermata dell’autobus a Cressingham Road, passando davanti al casottino della British Legion […] vide sul margine della strada uno scricciolo aggredire un verme. Un ciuffo veramente furibondo di energie piovve dal cielo e si scagliò in modo forsennato su un bersaglio che forse tentava di sfuggirgli; in un lampo l’aggressore sferrò una gragnuola di beccate, corte, mortali, come una bestiale macchinetta da cucire102, ovviamente accecato da furia omicida (perché avrà avuto un suo lato “umano”, una sua parentela con noi, la creatura che stava sotto la punta dell’orribile ago). Eccoli, gli uccelletti! Tutta quella rugiada, quelle mossette, quei pianti per le mogli perdute, quelle soavi lagnanze… Già, non si lagnavano proprio per aver fatto fuori i parenti più stretti. (C70, 115) Dalle pagine di Jura a veri e propri killer: gli uccellini, ora, rinunciano alla loro patina di soavità e leggerezza per farsi piccoli congegni di morte, mutuando una bestialità che è in tralice impeto folle (nell’accezione L’analogia tra l’animale killer e l’ambito del cucito è rinvenibile anche nel seguente passo (per quanto l’animale “scucia” delle suture preesistenti): “Il mio coniglio da riporto, soffice pelo color coniglio, è morto. È stata la lince a sbranarlo, il mio diletto coniglio Giancarlo, in un boschetto vicino a Grantorto: con un’unghiata gli ha aperta la faccia, ne ha fatto un orrendo strapazzo, scucita la gola, scucita la pancia… E non avere modo di aiutarlo, non potere fare un cazzo, mentre la lince gli dava la mancia… È potente la lince, l’artiglio è pesante, tremendo l’impianto dei tendini, feroci gli istinti: assale alle spalle, rivolta la vittima, le immerge nel tenero i denti, le mangia per prime, se ha palle, le palle… E dopo lo scempio i lamenti” (C70, 104). 102 224 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO della “matta / bestialitade” dantesca, Inf., XI, 82-83). L’animale diviene macchina per uccidere (quasi un congegno di tortura à la Sade) e mutua dall’umano – stante la “memoria evolutiva” cui abbiamo fatto riferimento pagine addietro – i suoi stessi temperamenti (nel nostro caso, la furia omicida). C’è una certa perversità di fondo che, indubbiamente, ha anche un effetto positivo: l’animale si libera della sua patina letteraria, rinuncia alle ipercodifiche dell’immaginario e si fa bestia tout court, animalità affamata di carne; non è più, citando da Jura, un “un aggeggino di smalto e d’oro” (JUR, 25). Colpisce, tuttavia, la miopia che investe queste figurazioni zoofobiche, ché la piccolezza del terios è inversamente proporzionale al sentimenti di paura, revulsione e disgusto suscitati nel soggetto. Come affermato da Roberto Marchesini: Talvolta la predazione è agghiacciante, com’è il caso della mantide religiosa che, afferrato il corpo della vittima, lo divora lentamente con un ondeggiamento del capo trigono che la fa assomigliare a una ricamatrice, se non fosse che sul tessuto somatico della preda viene sottratta a ogni passaggio un’orbita di carne. Anche i costumi delle vespe solitarie ci appaiono terrificanti nel loro anestetizzare il motorio di un bruco e inseminare il suo corpo di uova da cui sgusceranno larve sarcofaghe che lo svuoteranno dall’interno. L’uccisione dei neonati, poi, ci trasmette un senso di repulsione ancora più consistente: ad esempio, la strage delle giovani tartarughe, che tentano di raggiungere il mare, a opera dei gabbiani o lo strappare un cucciolo dal genitore per divorarlo, come succede di frequente nella quotidianità della savana. La predazione ci appare ancora più fastidiosa quando il predatore sembra prendersi beffa o giocare con la preda, come fa il gatto con il topo o l’orca con la foca. Se la predazione ci sembra un atto crudele e comprensibile, il giocare con la preda viene interpretato come un atto sadico, di inutile violenza o peggio di celebrazione della violenza. Dimentichiamo che la predazione è una lotta per la vita, che non può darsi senza una spinta motivazionale altissima, una scarica di neuromodulatori che devono modificare lo stato emozionale del soggetto per permettergli di superare la paura che qualunque scontro evoca. Il predatore ha paura, la sua eccitazione vibra ancora nel periodo successivo all’attimo fatale. (Marchesini 2013, 39) E il parlare di “animali killer” ci porta, inevitabilmente, al seguente estratto, anch’esso contenuto nel secondo volume delle Carte […] il bue della steppa tenta di scrollarsi di dosso il cane selvatico, o la forte iena, e qualche volta ci riesce, ma il più delle volte no. Quei killer innocenti e quelle vittime hanno fratelli e sorelle con cui i loro rapporti sono, rispetto ai nostri, rudimentali ma schietti… (C70, 148) In quel “killer innocenti” è racchiusa non solo la chiave di lettura del passo, bensì l’intero coacervo di contraddizioni e ripensamenti che, da sempre, accompagnano la riflessione sull’animale. Mantenendoci in un’ottica antispecista, sappiamo che quest’ultimo è vittima, mentre l’uomo (che porta avanti lo sfruttamento della natura) riveste il ruolo del killer; L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 225 tuttavia, la prospettiva è talmente labile che è impossibile non restare perplessi dinanzi all’uccisione di un bufalo nella savana o una foca sbranata da un’orca: possiamo sempre parlare di vittime e carnefici? O dobbiamo rifarci alla “catena alimentare” che, quasi sempre, aderge al ruolo di deus ex machina? Meneghello, a nostro avviso, ha voluto esprimere il suo punto di vista, in un’espressione ossimorica, la cui ambivalenza struttura un pensum assai articolato: il killer, in fondo, è sì l’assassino, ma anche un sicario che agisce per commissione (e, in tal caso, il mandante potrebbe essere la natura stessa); mentre la parola “innocenza” strappa l’animale a qualsivoglia proposito malvagio e lo ricolloca nella dialettica tra le specie. Ecco perché, nello scritto citato poc’anzi, Marchesini aveva insistito proprio su tale aspetto, ovverosia sulla spinta autoconservativa ch’è alla base dell’uccisione dell’animale da parte di un altro. La violenza, d’altronde, emerge nel momento in cui un atto non fa parte degli eventi necessitati o conformati dalla dialettica filogenetica e quindi diventa deliberazione, un atto cioè che si basa su una scelta, un atto non di autoconservazione ma di violazione. Nel predare il ghepardo non viola il patto filogenetico e il suo atto è palesemente autoconservativo e necessitato, non prevede alcuna possibilità di scelta e si svolge su una doppia possibilità di flusso: ogni tanto i ghepardi fanno soffrire le gazzelle e molto più spesso le gazzelle fanno soffrire i ghepardi. Questo perché essendo reciprocamente conformati sotto il profilo filogenetico, tra il ghepardo e la gazzella c’è un rapporto di parità di confronto. È proprio questa parità dialogica che crea le basi per lo scambio necessitato, perché oltrepassa la vita individuale dei soggetti e diventa morfopoietica, come il darwinismo ci ha insegnato. La dialettica tra le specie, qualunque essa sia, è produttrice di forme ed è garanzia di apertura verso il mondo, ossia di possibilità neghentropiche. Questo è il motivo che mi fa considerare la caccia compiuta dall’essere umano come profondamente diversa e non assimilabile in alcun modo alla predazione. (Marchesini 2013, 41) Nel tracciare un discrimine tra caccia e predazione, malvagità e istinto, il passo meneghelliano libera l’animale dalle sue proiezioni, in una rete di “rapporti […] schietti” (C70, 148) che lo riportano allo statuto di creatura vitale. 2.2.2 Si muore Heidegger era stato categorico: “Die Sterblichen sind jene, die den Tod als Tod erfahren können. Das Tier vermag dies nicht” (Heidegger 1985 [1959] 203; “i mortali sono coloro che possono esperire la morte come morte. L’animale non lo può”, trad. it. di Caracciolo in Heidegger 1999, 169), il che rimanda alla funzione euristica e fondativa dell’atto linguistico, in quanto “Das Tier kann aber auch nicht sprechen. Das Wesensverhältnis zwischen Tod und Sprache blitzt auf, ist aber noch ungedacht” (ivi, 203; “anche il parlare è precluso all’animale. Come per un 226 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO lampo improvviso balza qui allo sguardo il rapporto costitutivo tra morte e linguaggio, che rimane però ancora impensato”, ivi, 169). La povertà di mondo del terios – che, lo ricordiamo, derivava dalla sua impossibilità a scorgere il manifestarsi dell’Ente – ci pone dinanzi a una morte assente, non esperita: un’eventualità nella vita dell’animale che, per contra, si fa evento nell’esistenza dell’uomo. Eppure, come affermato in apertura al bellissimo volume Animal Death, uscito nel 2013 per i tipi della Sidney University Press, “Animal death is a complex, uncomfortable, depressing, motivating and sensitive topic […]. The sheer scale of animal death is mind-blogging. The statistics are easy accessible and the rhetoric all too familiar” (Jay, Probin-Rapsey 2003, I): siamo letteralmente circondati da animali che muoiono, sia sotto il nostro sguardo, sia in vere e proprie zone di margine (allevamenti e aree di macellazione). Se l’animale, in fondo, è la diversità che l’essere umano ha trasceso, va da sé che quest’ultimo maturi un’indifferenza nei suoi confronti, portando avanti una narrazione antropocentrica che tende a relegare – mai come oggi – l’animal moriens nei mattatoi, gli allevamenti, i laboratori; limitandosi, perlopiù, alle bestie sbranate nei documentari della National Geographic, quasi assecondando un voyeurismo di fondo. Ma l’eterospecifico continua ad accerchiarci: è parte della nostra struttura biologica e, al contempo, si pone alla base della nostra cultura, tanto da riversarsi, anche quando è morente, sulla pagina scritta. Il terios, perciò, diviene vera e propria intrusione etica, gettando le basi per una comunicabilità tra umano e non umano: dialogo che si intensifica in quel momento in cui la vita abbandona il corpo dell’animale. Un corpo, si badi bene, che in Meneghello ci viene restituito in tutta la sua pregnanza biologico-anatomica, reso vitale nel momento stesso della morte: un corpo mappato, descritto, talvolta sofferente, talaltra insensibile. I primi a morire103, nel bestiario meneghelliano, sono gli insetti, come dimostra uno dei passi più celebri di Libera nos a malo: I brombóli muoiono tranquillamente nel sonno; e siccome dormicchiano un po’ sempre, sono esposti a un rischio continuo. Il brombólo è soprattutto un arrampicatore: appoggiandolo alle superfici del monumento ai Caduti in Castello, lui s’aggrappa al marmo e ràmpica pazientemente. Salivano sfruttando le minute rugosità del marmo, e i solchi delle lettere; cadevano senza preavviso, e si sentiva la piccola bòtta della nuca ai piedi dei 103 Immediato il rimando alla Tavola delle morti notevoli, contenuta in appendice a Libera nos a malo (280-281), dove anche gli animali occupano una posizione di preminenza (quasi a riprova di un livellamento ontologico che si attua nel momento stesso del trapasso). Tra gli animali morti troviamo: cavallette verdi (uccise da quelle castane); cavallette castane (morte durante le “gare di nuoto”, ivi 280); brombóli (morti per cause naturali, per ingestione da minestra o, infine, durante l’epidemia del 1958); ciupinàra (coltello); vipera (annegamento); bachi da seta (inghiottimento); gattini (annegamento); conigli (botta secca); pidocchi (piccone); topo (calci). L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 227 paretoni bianchi. Il brombólo non muore quando batte la nuca; lo si mette in infermeria, a una dieta di minestra che si versa direttamente col cucchiaio sopra il malato, questi mangia e s’addormenta, ma spesso, secondo la sua natura, muore nel sonno con la pancia piena. (LNM, 61) Una morte dolce, in cui tuttavia è percepibile una certa teatralità di fondo che se, da un lato, umanizza l’insetto, dall’altro riscatta il decesso dell’animale e lo libera dalla sua stessa banalità: certo, i maggiolini muoiono in seguito alla cattura – e quindi dovremmo tenere conto anche della loro cattività104 – ma si tratta comunque di un decesso accidentale, lo stesso che sembra toccare, pagine dopo, ai bachi da seta: Nelle case si allevavano i bachi da seta, i bizzarri “cavalieri” che si spargevano come un minuto seme nero (la “semenza”) e a mano a mano diventavano piccole miniature di bruchi, poi si vedevano crescere di giorno in giorno, si allargavano su ampi territori ombrosi e tiepidi di tralicci accatastati a ripiani, invadevano le stanze, brucando con forza sempre più grande la “foglia” di moraro. La vita di queste creature colla pancia piena di seta somigliava a una febbre: il livello saliva di giorno in giorno, aggravando la fame dei malati. Già mangiavano dalle tre, poi dalle quattro; il piccolo brusio che in principio si avvertiva appena tendendo l’orecchio, diventava una vibrazione intensa, e infine un rombo. Gli uomini e i bambini arrampicati sui morari pelavano la foglia sempre più in fretta, arrivavano coi sacchi: frane di lucida foglia seppellivano i mostri deliranti che la sbranavano in pochi minuti. Ora i cavalieri mangiavano di furia: qualcuno andava in vacca, una specie di Tisi dei cavalieri che spegneva la febbre. La seta marciva dentro e si liquefaceva, gonfiando la pelle traslucida: a pungerlo con uno spillo il mostro si sgonfiava spargendo uno zampillo di tabe. Gli altri paralizzati dalla febbre e da tutto quel mangiare, s’intorpidivano e venivano deposti nel “bosco” (le siepi di fascine in granaio) dove in pochi giorni, nello spazio abbuiato dagli schermi di carta sulle finestre, avveniva in segreto il miracolo; poi si trovavano nei rami secchi i giocattolini d’oro lustri e leggeri. (Ivi, 101) L’occhio infantile – che spesso guida la resa di queste figurazioni animali – si accompagna a uno sguardo del naturalista: se i bachi muoiono Lo stesso dicasi per le cavallette, sempre nel libro d’esordio: “La cavalletta verde non mangia la cavalletta castana; invece alle cavallette castane provvedevamo una dieta di cavallette verdi opportunamente trinciate, galloni magri e flaccidi a mezzogiorno, pasticcio di occhi e antenne, e alla sera la squisitezza dei petti. Molte facevano una specie di sciopero della fame, rifiutavano quei bocconi girando la testina di qua e di là, ed eravamo costretti a ingozzarle con la forza. È inutile, una certa forza ci vuole nei rapporti delle creature più grosse con quelle più piccole. Le tenevamo nelle ampie stalle di cartone, attaccate ai lunghi guinzagli o bianchi o neri; le portavamo a passeggio con questi guinzagli legati al dito, per straviarle. Morivano per lo più annegate nelle grandi gare di nuoto nella vasca in Castello, o smembrate per errore in allenamento insegnando loro un nuovo tipo di crawl” (LNM, 240-241). 104 228 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO per indigestione, Meneghello non manca di descriverne la putrefazione interna, financo a volgere il terios in teras (“il mostro si sgonfiava”, ibidem), ovverosia una velata mostruosità tenuta a bada da una prospettiva volutamente d’en bas, che è domestica per il suo stesso intento di “domesticare” la morte dell’animale105. L’occultamento del trapasso mira, per certi aspetti, a contrastare la volgarità della vita, come accade nell’episodio dei ratti di chiavica, ammaliati dal ‘pifferaio’ Gastone-Fiore: In Gastone-Fiore l’istinto della caccia è profondo. Fin da piccolo comunica misteriosamente coi ratti di chiavica, li chiama con una specie di zufolo, e quelli vengono. Gli amici dicono “Gastone, chiamalo,” il topo spaventato in cima al muro scompare dall’altra parte. Ma Gastone-Fiore impone silenzio con la mano, e comincia a zufolare dolcemente. A poco a poco dalla cima del muro rispuntano le zampine, il musetto roseo e tutto il topo; esita più volte, vedendo tanta gente, poi seguendo l’esile fischio afono scende giù per il muro come un sonnambulo, attraversa la strada e viene docilmente a morire sotto i piedi rapidi degli amici di Gastone-Fiore. (Ivi, 241) Il decesso diviene incanto, tanto da trasformare l’esecuzione dell’animale in malia e seduzione ipnotica, non fosse altro per la funzione anestetizzante del suono che mira a garantire una morte dolce. Una morte che, si badi bene, resta fuori-scena, in nome di una reticenza che ferma la narrazione un attimo prima106 che Gastone-Fiore e i suoi amici si accaniscano a suon di pestate sul povero animale: siamo lontani, insomma, dal topolino che, in Mani di Tommaso Landolfi, giaceva senza vita allo spuntare 105 Sulla morte dei bachi da seta, si veda anche in Pomo pero: “I bigatti immigranti continuano a fare la fila davanti alle industri bacinelle. La fila finisce; suona la cucca per il figlio del parón; l’uomo spira; una frotta di bachi paesani si rintana nelle raffreddate scatole, s’ingrottolisce, tira le piccole cuoia. Fu uno splendido funerale, il nostro cordoglio curioso eccitato riempì le strade del paese come un’acqua, sulla riva c’era una fidanzata nera, stupenda, frontale, che il fratello del morto sorreggeva e in seguito sposò. Un baco germano fora gramaglie, s’impargola, ci è largito in veste di bambolo malato, cresce inguaribile, ogni tanto lo facciamo pungere dalle api per rendergli meno insopportabile la vita. Egli la rende più insopportabile agli animaletti che prende (è là sul poggiolo), strappa ad essi ali zampe code, getta gli avanzi palpitanti sui passanti” (PP, 356-357). 106 Diverso il caso della derattizzazione, descritta nel terzo volume delle Carte, dove i topi vengono sterminati in quanto sciame infestante: “Vicenza, anni Trenta. Cortili interni dei caseggiati, riquadri umidi, in cui rovistavano squadre di pantegani […]. Non vidi mai che li ammazzassero di netto, ma li mutilavano… Pioveva dall’alto una folgore che ti faceva schizzar via una zampa, o il codino vibratile con un pezzo di culo ancora attaccato. Come cantava la lama d’acciaio sui ciottoli, e sprizzavano le scintille! Come scainavano gli scorciati pantegani accusando il cielo quadrato. E mezzo secolo dopo (io in visita), come frusciavano in quei caseggiati le segretarie fasciate di seta e fluivano i milioni e i miliardi!” (C80, 339-340). L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 229 dell’alba, con le viscere fuori dal corpo107; ma non possiamo trascurare come l’incontro tra l’animale e l’umano si risolva nell’annientamento del primo che, in tal caso, risponde al richiamo e cade in una trappola vera e propria. Le cose cambiano quando il terios diviene carcassa (o cadavere), liberando la scrittura dall’ipoteca di un pudore rappresentativo (ravvisabile invece nel passo da Libera nos a malo). Leggiamo in Bau-sète!, a proposito della vacca investita: Accadevano bizzarre disgrazie. Destro, il nostro allampanato primo pilota, investì una vacca, in pieno, e lei partì in una specie di volo radente a filo dei prati, e non piegava l’erba tenerina, finché andò a infilarsi in una roggia ricolma. Era intimamente fracassata ma restava dritta, con le corna in alto, la pancia in su, le quattro zampe in posizione: pareva che nuotasse arditamente ed era già morta, ridotta in pezzi dalla terribile botta di Destro. Si vede che i pezzi erano restati insieme per inerzia, ma navigando in quelle rapide acque tutt’a un tratto si disintegrarono. Ora c’era solo la testa che surnuotava come quella di Mao, e sottoacqua la spina dorsale spolpata, intatta fino al coccige. (BS, 518-519) Anche quando è moriens, l’animale non sfugge al gioco metaforico e associativo di una mente animalizzante che lo riduce in pezzi, operando una dissezione per vie testuali. L’intento è duplice: da un lato, l’altro di specie cessa di essere vita biologica e diviene macchina, rispondendo anche alla natura ‘meccanica’ del libro; dall’altro, tale processo autorizza un prudenziale avvicinamento alla corporeità senza vita che, assimilata alla materia artificiale, diviene asettica e privata dei suoi stessi fluidi. Una resa macchinica della morte animale è rinvenibile anche tra le pagine dell’Acqua di Malo, a proposito dell’uccisione dell’Oco: L’uccisione dell’oco in casa Zanettin avvenne in cortile […]. In che modo lo avessero ammazzato non ne ero sicuro: mi ero domandato se si potrebbe tirargli il collo, ma capisco anch’io che non è concepibile. Il breve collo-tronco delle galline si tirava […]. Ma l’oco? Avevo sempre presunto che i fratelli gli avessero tagliato la testa, forse falciandola con un pesante coltello da cucina usato come scimitarra, o più probabilmente con l’accetta, dopo averlo persuaso a stendere un momentino il lungo collo cilindrico sul socco. Invece risulta che l’oco fu bensì decapitato, ma con un metodo veramente straordinario, che comporta l’uso prima dissennato, poi disperato, del supiaoro… […]. Fatto sta che a un certo punto mino si trovò con in braccio l’oco decapitato, dal L’alba sorgeva sul piccolo cadavere del topo; i suoi occhi sporgenti, ormai rappresi, ne riflettevano vagamente le luci; coll’aria degli impiegati solerti e dagli occhi ancora gonfi, che s’incontrano per le vie della città i mattini d’inverno, molte formiche indaffarate gli si agitavano attorno. Le acacie del cortile sembravano volersi schiarire la gola al principio della loro giornata. Un po’ discosto da una parte e già mezzo risecchito, giaceva il pezzo di budello che s’era distaccato. Il cane accoccolato in un fosso tremucchiava al primo vento” (Landolfi 1991 [1937], 61). 107 230 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO cui collo scaturiva un terribile getto di sangue. Mino alzò il corpo palpitante sopra la testa, e il collo si mise a ruotare come un idrante sguinzagliato, una mostruosa pompa a pressione che vorticava annaffiando il cortile e i fratelli, finché durò l’immensa riserva di sangue dell’oco […]. (AM, 208-209) Il processo è analogo a quanto avveniva nel passo da Bau-sète!: l’elemento anatomico campeggia sulla pagina, per quanto incorra in una subitanea resa meccanica, la quale ha funzione di presentarci una morte che, per quanto pervasa dai toni sanguigni, risulta pulita e non ‘macchia’, proprio perché il terios si è fatto congegno108. Leggiamo dal prosieguo del passo: poi il grande tubo prese a sbittare più fiaccamente, e i vortici rallentavano, dal bocchettone sortivano ora lente, quasi placide sgorgo nate, e Mino in casi come questo sbarra gli occhi, aveva l’impressione di aver manovrato una specie di lanciafiamme del sangue. (Ivi, 209) Toni quasi da racconto fantascientifico, dove la vita rurale cede il passo a una realtà popolata da animali-cyborg: l’analogia dell’oco col lanciafiamme azzera la sua portata vitale, consegnandoci un terios meccanico, la cui sofferenza non emerge a livello della scrittura. Lo stesso dicasi per la capretta che, nei Piccoli maestri, viene uccisa per testare il Bren: Il Finco volle fare anche lui una prova da una distanza simile, su una capretta da macellare; disse che avrebbe mirato all’occhio, e sparò un colpo solo; andando a vedere, la testa pareva intatta e l’occhio era un piccolo rododendro dai colori carichi. (PM, 89) Vittima sacrificale (per la patria e le sorti della Resistenza), l’animale carcassa riemerge nel testo, pur tuttavia rispondendo a quell’operazione di “trapiantistica” (Marchesini 2002, 83) già rinvenuta negli estratti analizzati in precedenza: l’innesto botanico, in tal caso, sortisce la funzione di annullare l’effetto truce e di revulsione che una simile immagine potrebbe sortire e, proprio per questo, vela – a mo’ di toppa riparatrice – quel bulbo oculare sanguinante (il rododendro è di colore rosso) e senza vita. Poche righe sopra, abbiamo fatto riferimento a Mani, il racconto di Tommaso Landolfi sul topolino ucciso: il titolo, in quel caso, rimandava Cfr. C70, 260: “Ludovico descriveva il ginocchio della pulce come se l’avesse fatto lui: con l’impegno e l’entusiasmo di un inventore. Anch’io però avevo capito e avrei saputo spiegare, almeno alla buona, come avviene quel singolare caricamento senza molle, e come funziona quella specie di ingranaggio a pezzi incastrati l’uno nell’altro, come le parti di un motore della Rolls Royce. Tuttavia fu lui a dirmi cosa succederebbe se avessimo noi ginocchi e cosce e stinchi come quelli della pulce, ma grandi in proporzione. Io calcolavo i salti che potremmo fare (all’incirca un paio di chilometri), ma lui mi disse: ‘Sciocco, credi tu che ci sia una scala soltanto per le lunghezze? non capisci che scattando quei giganteschi arti, le ossa andrebbero in frantumi?’”. 108 L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 231 non solo alle mani del roditore ma, guardando all’etimo latino, anche ai Manes, ovverosia gli antenati. Il legame con l’animale, d’altronde, era riecheggiato nel testo landolfiano dagli intestini che fuoriuscivano dal corpo (chiaro riferimento al cordone ombelicale), così come da quegli arti senza vita in cui Federico, protagonista della vicenda, non poteva non ravvisare dei tratti umanomorfi (Mani-uMani, verrebbe da dire). Il richiamo a Landolfi è funzionale all’introduzione di un altro aspetto delle morti animali in Meneghello, ovverosia quei casi in cui il terios, per quanto privo di vita, mantiene la sua portata psicagogica e getta i presupposti per un incontro interspecifico, dove la sua dignità esistenziale possa essere pienamente riconosciuta. Echi landolfiani sono ravvisabili nell’episodio della ciupinàra, la talpa uccisa da Nane in Libera nos a malo: Stava separando la cicuta dal prezzemolo; disse “Fermi!” e tirò fuori il coltello; con la bocca faceva quella smorfia che non si sa se uno si morsichi per eccesso di attenzione, o rida. S’inchinava un po’ in giù un po’ in avanti ascoltando un piccolo fruscio sottoterra che noi non sentivamo; d’un tratto fece due passi ben ritmati e ripiegandosi su un bersaglio mobile e invisibile un paio di metri più in là, accoltellò la terra. Quando si rialzò pareva proprio che ridesse; scavò attorno al manico del coltello e subito sotto, trapassata dalla lama enorme c’era la ciupinàra. Aveva il musetto tutto rosa, scolorito, come chi sta sempre al buio. Aveva una pelliccetta insanguinata, e sporca di terra, ed era cieca. Le manine abituate a raspare pendevano inerti; impalata sul coltello, nel sole accecante, pareva una messaggera imbalbata dal paese di cunicoli freschi e umidi che ci sono sottoterra. Anche Nane era balbo, e l’intera cosa dava un’impressione di balbuzie, un ingorgo doloroso del pomeriggio. (LNM, 62) A differenza dei topi, che andavano docilmente a morire ai piedi di Gastone-Fiore, il corpo dell’animale morto si fa ostensione, per quanto refrattario a una resa cruenta: non sottostà, insomma, al codice biologico della scrittura. “Così il topo sembrava un bimbo che stia per piangere, eppure senza tristezza”, scriveva Landolfi in Mani (1991 [1937], 59), la cui influenza non potrà sfuggire a una lettura attenta del passo meneghelliano109, dove subentra ex abrupto lo spettro della tristezza: una mestizia scaturita proprio nel ravvisare le somiglianze tra l’animale e l’umano, ché se la talpa “pareva […] imbalbata […]. Anche Nane era balbo” (LNM, 62), motivo per cui l’eterospefico si fa messaggero di una prossimità biologica. Ecco perché il sangue – versato a fiotti dall’oco-lanciafiamme (AM, 209) – viene estromesso dalla scena narrata110, serbando solo una piccola 109 Come dimostra l’uso dei diminutivi nella descrizione dell’animale (“musetto”, “pelliccetta”, “manine”). 110 Il sangue, intimamente connesso alla morte della bestia, riapparirà nella morte del cucciolo di rinoceronte, in Pomo pero: “Non è poi molto diverso come muore una 232 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO traccia sulla “pelliccetta insanguinata” (LNM, 62) del roditore: nella sua apparente semplicità, la morte animale dischiude una tale eccedenza di senso che la riscatta dal suo essere vittima, per farla creatura tout court. Sono storie, insomma, di vite interrotte, dove l’alterità riemerge con sguardo ieratico, talvolta sfingeo, eppur pervaso di dignità: Morte di un gatto in mezzo alla strada, completamente spiaccicato nel corpo, una macchia di pelle di gatto spalmata nell’asfalto, da cui si alzava una testa di gatto intera, praticamente intatta, un po’ spasimante e palpitante di emozione, ma perfettamente viva. Scomparso il suo gatto, restava questa testa surreale, attaccata all’impronta del corpo sull’asfalto. (C80, 245) Nel passo citato – già preannunciato nel primo volume delle Carte111 – il particolare anatomico che si staglia su quel corpo ormai irriconoscibile è – come accadeva per la capretta del Finco (PM, 89) o la vacca investita da Destro (BS, 518-519) – la testa, oscillante adesso fra realtà e immagine onirica: lo sguardo del terios, proprio perché investito di una carica emozionale, ha il compito di riscattare quel corpo dalla degradazione a carcassa e renderlo, insomma, ancora vitale. Mette conto rilevare, tuttavia, come l’immagine del gatto investito rimandi a quell’assenza generale entro cui avvengono i nostri contatti col regno animale (Bleakley 2000, 34), dal momento che l’eterospecifico si presenta in due modalità ben distinte: o assimilato all’ottica e al dominio antropocentrici – pensiamo al mondo dei pets; le attrazioni negli zoo; le cavie da laboratorio – oppure alla stregua di vere e proprie dislocazioni – bestie morte sull’asfalto; animali randagi o infestanti; fino alle iper-realtà televisive e, nell’epoca attuale, telematiche. Un drastico cambio di referente che ci porta a non apprezzare l’animale nella sua immediatezza, in quanto bloccato dalla nostra tendenza strumentalizzante (ibidem); viceversa, e ci richiamiamo alle considerazioni di Hillman, “All living things are urged to present themselves, display themselves, to show ostentatio, which was a common Latin translation of the Greek phantasia” (2008 [1982], 51; “tutti gli esseri viventi sono pregati di presentarsi, di farsi vedere, di rendersi ostensibili – ostentatio in latino era la comune traduzione del greco phantasia”, trad. it. di Serra e Verzoni in Hillman 2016, 91). Eppure, al decesso animale si bestia, vedi il rinocerontino di pochi giorni strattonato dalle jene scherzose, acchiappato per il coppino; frena con le zampotte; alle conversioni della madre confusionaria viene mollato e ripreso, tira e molla tutta la notte, quando si fa chiaro è ancora lì che pascola attorno ai piedi di lei, ora si vede quanto poco funny erano gli scherzi delle jene; è tutto lacerato, ha le orecchie a fette, gli cola sul dorso un velo liscio e viscoso, pare il sangue della gomma” (PP, 354). 111 “Forze oscure nel mondo: beatles, pop art, gatti che tentano di morire sulla gobba dell’asfalto” (C60, 312, corsivo mio). L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 233 chiede anche una liberazione da quella che Meneghello, nel capitolo tredici di Libera nos a malo, definisce “la morte ingrata”: Liberaci dalla morte ingrata: del gatto nel sacco che l’uomo sbatte a due mani sul muro; del cane in Piazzola a cui la sfera d’acciaio arroventata fuoriesce fumando nel sottopancia; del maiale svenato che urla in cima al cortile; del coniglio muto, del topo di chiavica che stride tra il muro e il portone nel feroce trambusto dei flagellatori. (LNM, 92) Morti coatte, inflitte, che rispondono a quella fenomenologia “del male a Malo” (Pellegrini 2005, 152), capillarmente analizzata da Ernestina Pellegrini: certo, in Libera nos a malo “tutto è addomesticato e stravolto, anche la morte, in un moderno/paesano e pseudopalazzeschiano Controlodore. Tutti i guai, le disgrazie, i triboli, le agonie e le morti, sono addomesticati e […] capovolti attraverso l’irriverenza dell’occhio bambino” (ivi, 152). Nel caso degli animali, la morte viene presentata alla stregua di atto salvifico, verso cui tuttavia la vittima non mostra alcun segno di riconoscenza (ragion per cui è ingrata). Il passo, oltretutto, suddivide gli animali muti (come il gatto, il cane e il coniglio), che stoicamente vanno incontro al proprio destino, da quelli che, a modo loro, vi oppongono resistenza: lo stridio del topo (poi sovrastato dallo zufolo di Gastone-Fiore, ivi, 241) e il grido del maiale. Circa quest’ultimo, immediato è il rimando alle pagine di Maredè, dove l’autore avrà modo di soffermarsi sull’uccisione del suino e, nella fattispecie, sui suoi lamenti. Come sempre accade in questa grammatichetta, è la parola a farsi generatrice d’immagini: Ho letto in qualche parte che c’è una parola ‘veneta’ o addirittura proprio ‘vicentina’, che non avevo mai sentita, sgnicaménto, che significherebbe il “pianto fievole”, e in particolare il “gridare del porco quando lo ammazzano”. Ora sul grido sacrificale del porco euro-asiatico non confondo […], ma il grido del nostro mas’cio ha o aveva tutt’altre caratteristiche di un piangere fievole: quando lo agguantavano e cominciavano a sgozzarlo il mas’cio sigava; e questo si riteneva uno tra i più atroci sighi della natura, uno strido dalle frequenze altissime, astrali… Il mondo della morte, i suoi emozionanti piani acustici… Forse non accadeva dappertutto, sarà stata la caratteristica di una schiatta locale di mas’ci: perché si deve ribadire che gli animali hanno una loro cultura differenziata da luogo a luogo… Non ho potuto accertare se altrove, o anche nelle nostre corti, quel sigo degenerasse davvero negli ultimi istanti in un breve piagnucolio che certo io non ricordo di aver mai udito. L’idea che il morente dopo aver gridato così forte, alla fine dovesse passare per una fase di pianto fievole, e morisse quasi finfotando, conturba. (MM, 85-86) L’elemento acustico diviene chiave d’accesso al mondo della morte, disponendosi in un vero e proprio climax fonico: dal “pianto fievole” (ibidem) si passa al “grido sacrificale del porco euro-asiatico” (ibidem), per poi arrivare, in ambito maladense, agli “atroci sighi” (ibidem) del masc’io. A fronte di questa, seppur minima, diacronia, è possibile rileva- 234 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO re come la reazione dell’eterospecifico dinanzi alla morte strutturi una fenomenologia articolata in tre stadi: dapprima, l’animale mantiene un atteggiamento remissivo, caratterizzato dal pianto sommesso e quasi impercettibile; subito dopo, il terios si fa vittima sacrificale, operando il passaggio dalla macellazione rituale a quella puramente funzionale alla produzione di cibo; approdiamo, infine, a una scena che suscita orrore e spavento (le grida, cioè i sighi, atroci), quasi in risposta a un atto di crudeltà (non è un caso, infatti, che l’animale sia “agguantato”, ibidem, e cioè afferrato con forza). In pochi passaggi, e per quanto fedele a una resa antitragica, Meneghello sintetizza le tre modalità mediante cui l’animale muore o è morto, passando da un antropomorfismo iniziale (l’animale che piange), a un’immagine scevra da qualsivoglia tensione metaforica, dove l’impulso proiettivo cede il passo a una sofferenza autentica della bestia. Simili considerazioni ci permettono di approfondire la questione del dolore animale, da Meneghello affrontata in questo passo delle Carte: Ho visto un cervello di scimmia112 sospeso in un castelluccio di tubi e aste di metallo: era lì, mi pare, da mesi, e dicevano che era vivo. Da un tubo perdeva goccioloni di sangue, e un tubo glielo riconsegnava ri-ossidato. “Ma guarda” mi ha detto Fabio “la vita è una macchina per dare e togliere ossigeno a questo liquido rosso e nero.” “Soffre?” domandava la gente, e loro dicevano, probabilmente barando: “No”. “Sente?” e loro con untuosa prudenza, fingendo obiettività, rispondevano che forse non sente, è come addormentato. Quelli che mantengono i vita questa scimmia scorticata, disossata, scarnata, a cui hanno strappato il cuore, la corradella, gambe e braccia, coda e muso, e l’hanno ridotta a un cervello nudo, hanno tanta paura di dire che cosa stanno veramente facendo. Spiegano (la voce è meta ipocrita, metà intimorita) che ciò che fanno è utile per conoscere il cervello umano, e quindi per curare chi ha il cervello malato. (C60, 111-112) L’esempio non può non richiamare il celebre episodio di Febo, descritto da Curzio Malaparte in La pelle (2015 [1949]). Certo, nelle Carte il primate non è più soggetto, né tantomeno creatura vitale – in quanto andato incontro a una dissezione corporea –, eppure non sfuggirà un punto comune, ovverosia la sofferenza dell’animale vivisezionato che, in Malaparte così come in Meneghello, viene negata da un membro della comunità scientifica: “Gli farò una puntura. Non soffrirà” (Malaparte 2015 [1949], 173), risponde il dottore poco prima che Febo esali l’ultimo respiro. La questione della sofferenza degli animali – la quale, alla fin fine, si è fatta Il cervello di scimmia tornerà in C60, 264: “Quattro temi in verde: Una testina di vespa, che è solo un guscio; un cervello di scimmia, sanguinante; l’aforisma all art is about a head; e le patterne come chiave del reale”. 112 L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 235 nodo gordiano dell’etica antispecista – era già stata sollevata, nel 1789, dal filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham: The day may come when the nonhuman part of the animal creation will acquire the rights that never could have been withheld from them except by the hand of tyranny. The French have already discovered that the blackness of the skin is no reason why a human being should be abandoned without redress to the whims of a tormentor […]. But a full-grown horse or dog is incomparably more rational and conversable than an infant of a day, or a week, or even a month old. Even if that were not so, what difference would that make? The question is not Can they reason? or Can they talk? but Can they suffer? (Bentham 1907 [1789], 348) Possa venire il giorno in cui il resto della creazione animale acquisirà quei diritti che mai avrebbero potuto essere strappati loro se non dai tiranni. I Francesi hanno già scoperto che il nero della pelle non è un motivo per cui l’essere umano debba essere abbandonato, senza rimedio, al capriccio del carnefice […]. Ma un cavallo o un cane in età matura sono senza paragone animali più razionali e socievoli di quanto lo sia un neonato di un giorno […]. E anche se non fosse così, che importerebbe? Il punto non è “Possono ragionare?”, né “Possono parlare?”, ma “Possono soffrire?” (Trad. it. di Di Pietro in Bentham 1989, 421-422) Bentham, sostanzialmente, si poneva in una direzione completamente opposta al meccanicismo di marca cartesiana – in base a cui gli animali sarebbero stati meri automata – e gettava le basi per una sensibilità verso il non umano che, di lì a poco, avrebbe dato i suoi frutti113, grazie anche alla spinta propulsiva di Darwin e il suo The Origin of the Species (1900 [1859]). Le idee di Bentham saranno poi riprese, in ambito contemporaneo, dal filosofo australiano Peter Singer, nella sua opera Animal Liberation, uscita nel 1975. Singer – ultimamente agli onori della cronaca per le aberranti dichiarazioni sull’eutanasia neonatale in caso di bambini disabili114 – ha assunto una posizione filosofica definibile come sensiocentrica115, partendo dal principio che “If a being suffers there can be no 113 Nel 1822, infatti, venne istituita a Londra la prima Società per la difesa degli animali. 114 È la cosiddetta “Tesi della sostituibilità”: per Singer, è preferibile sopprimere il bambino malato, così come, nel regno animale, le madri abbandonano i cuccioli cagionevoli. 115 Diversa appare la visione di Tom Reagan, secondo cui il riconoscimento dei diritti agli animali non si basa su fattori esteriori (es. percezione di piacere/dolore), quanto piuttosto sul semplice fatto di essere al mondo: “All who have inherent value thus have it equally, chete thet be moral agents or moral patiens. All animals are equal, when the notions of ‘animal’ and ‘equality’ are properly understood” (Regan 1984, 240; “tutti gli individui che possiedono valore inerente lo possiedono in misura eguale, siano essi agenti o pazienti morali. Per chi intenda correttamente le nozioni di ‘animale’ e di ‘uguaglianza’ 236 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO moral justification for refusing to take that suffering into consideration” (Singer 2002 [1975], 8; “se un essere soffre, non può esistere nessuna giustificazione morale per rifiutarsi di prendere in considerazione tale sofferenza” (Singer 2015, 24). Oltrepassando una prospettiva specista, Singer prosegue chiedendosi: Do animals other than humans feel pain? How do we know? Well, how do we know if anyone, human or nonhuman, feels pain? We know that we ourselves can feel pain. We know this from the direct experience of pain that we have when, for instance, somebody presses a lighted cigarette against the back of our hand. But how do we know that anyone else feels pain? We cannot directly experience anyone else’s pain, whether that “anyone” is our best friend or a stray dog. Pain is a state of consciousness, a “mental event”, and as such it can never be observed. Behavior like writhing, screaming, or drawing one’s hand away from the lighted cigarette is not pain itself; nor are the recordings a neurologist might make of activity within the brain observations of pain itself. Pain is something that we feel, and we can only infer that others are feeling it from various external indications […]. Gli animali non umani provano dolore? Come possiamo saperlo? Ebbene, come sappiamo di chiunque, umano o non umano, se prova dolore? Noi siamo consapevoli del fatto che noi stessi possiamo provare dolore. Lo sappiamo per la diretta esperienza del dolore che abbiamo quando, per esempio, qualcuno preme una sigaretta accesa contro il dorso della nostra mano. Ma come sappiamo che chiunque altro provi dolore? Noi non possiamo sperimentare direttamente il dolore di nessun altro, che si tratti del nostro migliore amico o di un cane randagio. Il dolore è uno stato di coscienza, un “evento mentale” e in quanto tale non può in nessun modo venire osservato. I dati del comportamento, come il contorcersi, il gridare o l’allontanare la mano dalla sigaretta accesa, non sono il dolore in se stesso; né le registrazioni che un neurologo potrebbe compiere dell’attività interna al cervello sono osservazioni del dolore in sé. Il dolore è qualcosa che sentiamo, e possiamo soltanto inferire che altri lo sentano da varie indicazioni esterne […]. […] tutti gli animali sono uguali”, trad. it. di Veca in Regan 1990, 328). Fuori dal coro, si è posta la voce di Roger Scruton, fervido sostenitore della caccia alla volpe, e da sempre contrario al riconoscimento dei diritti verso i non umani: secondo Scruton, infatti, tra l’uomo e gli altri esseri viventi è presente un vero e proprio dislivello, ragion per cui gli animali non sono persone (e, di conseguenza, non detentori di diritti): “This not mean that we have no duties towards them. Duties to animals arise when they are assumed by people, and they are assumed whenever an animal is deliberately made dependent on human beings for its individual survival and well-being” (Scruton 1996, 86; “Ciò non significa che gli esseri umani non abbiano doveri nei loro confronti, doveri che nascono e vengono assunti nel momento in cui rendiamo gli animali dipendenti da noi per la loro sopravvivenza e il loro benessere”, trad. it. di Damiani in Scruton 2008, 97). L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 237 If it is justifiable to assume that other human beings feel pain as we do, is there any reason why a similar inference should be unjustifiable in the case of other animals? Nearly all the external signs that lead us to infer pain in other humans can be seen in other species, especially the species most closely related to us-the species of mammals and birds. The behavioral signs include writhing, facial contortions, moaning, yelping or other forms of calling, attempts to avoid the source of pain, appearance of fear at the prospect of its repetition, and so on. In addition, we know that these animals have nervous systems very like ours, which respond physiologically as ours do when the animal is in circumstances in which we would feel pain: an initial rise of blood pressure, dilated pupils, perspiration, an increased pulse rate, and, if the stimulus continues, a fall in blood pressure. (Singer 2002 [1975], 10-11) Se è giustificabile supporre che altri esseri umani provino dolore come noi, c’è qualche ragione per cui una simile inferenza debba essere ingiustificabile nel caso degli altri animali? Quasi ogni segno esterno che ci induce a inferire la presenza di dolore negli altri umani si può osservare in altre specie, soprattutto in quelle più vicine a noi – tutte le specie di mammiferi e di uccelli. Gli indici comportamentali includono contorcimenti, smorfie, gemiti, guaiti o altre forme di lamento, tentativi di sottrarsi alla fonte del dolore, manifestazioni di paura di fronte alla possibilità che si ripresenti e così via. Inoltre, noi sappiamo che questi animali hanno un sistema nervoso molto simile al nostro, che dal punto di vista fisiologico fornisce risposte analoghe quando l’animale si trova in circostanze in cui noi proveremmo dolore: un iniziale aumento della pressione sanguigna, dilatazione delle pupille, traspirazione, aumento delle pulsazioni e, se lo stimolo continua, abbassamento della pressione sanguigna. (Trad. it. di Ferreri in Singer 2015, 25-27) Per quanto l’animale provi dolore, esso continua tuttavia a mantenere il ruolo di paziente morale (cioè oggetto non autocosciente dell’azione altrui), a differenza dell’uomo che, tra tutti gli animali, continua a essere agente morale (in quanto consapevole delle sue azioni). Nel passo che abbiamo citato dalle Carte, tuttavia, vediamo come Meneghello non manchi di mettere in risalto l’atteggiamento ambiguo della comunità scientifica dinanzi a una cotale questione: “dicevano”, scrive Meneghello, “probabilmente barando” (C60, 111) che quel cervello di scimmia non sente, non prova dolore, per quanto la loro voce resti “metà ipocrita, metà intimorita” (ivi, 112), nel porre l’accento sul fine utilitaristico di una simile operazione. Ecco che l’animale si fa ancora vittima sacrificale, non più immolato sull’altare, bensì dissezionato su un tavolo operatorio: ragion per cui il dolore aderge – in una visione quasi purgatoriale – a passaggio obbligato per conquistare altre vette. Nella sua Fisiologia del dolore, d’altronde, Paolo Mantegazza lo aveva definito quale “chiave maestra dell’edifizio del mondo, […] il perché della vita” (1880, 15), appoggiando in tal modo una “scienza progressiva e vivisettrice (che riconosce nel dolore uno strumento indispensabile di conoscenza e di educazione)” (Barbera, Campioni 2016, 44), 238 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO non certo esente da un sadismo di fondo: l’impressione, insomma, è di aver a che fare con una Juliette da laboratorio, al pari della biologia Julia delle Carte meneghelliane116. Leggiamo sempre da Mantegazza: Tormentando cogli stessi mezzi e per lo stesso tempo due animali, troviamo che l’uno cade in sincope e poco si muove, l’altro reagisce e schiamazza e naturalmente in questi due casi gli effetti di combustione carbonica devono pure riuscire molto diversi. Ebbi perfino un coniglio […] che sotto la tortura di dieci minuti di stritolamento delle dita non muoveva un muscolo, né si lamentava, fatto fino ad ora unico per me nella lunga serie di martirii ai quali ho sottoposto fino ad ora gli animali e me stesso. (Mantegazza 1880, 121) L’animale, in tal caso, non è solo dichiarato incapace di provare dolore ma è vittima di veri e propri martirî, il che riprova il suo ruolo di vittima necessaria, in quanto “il dolore è un’energia che la scienza deve guidare sulle rotaie del progresso; […] è un elemento estetico, che dobbiamo trasformare in cose belle” (ivi, 438). Ecco perché, a fronte di simili affermazioni, l’etica animale ha posto particolare rilievo al principio della senzienza, come affermato da Leonardo Caffo e Valentina Sonzogni: Se la maggior parte degli animali, dotati di sistemi nervosi centrali o decentralizzati, è in grado di provare dolore allora, va da sé, la barriera di specie cade e si apre un’etica sensibile alla sofferenza e al piacere su cui, in un secondo momento, costruire cornici metaetiche come utilitarismo, egualitarismo, ecc. una volta che si mette la senzienza alla base dell’etica “rispettare qualcuno” significa, dunque, considerare gli interessi di tale individuo nel momento in cui stiamo decidendo come agire, valutando la nostra responsabilità nell’azione, cercando di fare ciò che è meglio per lei o per lui. Il discorso può sembrare vago o inapplicabile ma è, invece, estremamente semplice e regolatore delle pratiche di vita quotidiane: teniamo qualcuno in considerazione, nel momento in cui agiamo, se ci troviamo in una situazione tale per cui possiamo fargli del male se facciamo qualcosa valutando dunque di non compiere l’azione. (Caffo, Sonzogni 2016, 263) Ma, tornando al bestiario di Meneghello, non mancano quei casi in cui emerge la curiosità di “vedere come sono fatte dentro” le bestie (C70, 124), obbedendo sostanzialmente a un impulso vivisettore. Prima di proseguire, soffermiamoci un attimo sulla parola stessa ‘vivisezione’, prendendo a prestito la definizione fornita da Gennaro Ciaburri (1881-1970), in un suo scritto del 1930: 116 Il richiamo al passo meneghelliano è, in tal caso, veicolato anche dall’omofonia nominale (Juliette, Julia), Cfr. C60, 224: “La Julia inglese, biologa, malinconica, uccideva piccoli mammiferi in laboratorio”. Si noti come l’esperimento scientifico si configuri, da subito, come vero e proprio omicidio perpetrato ai danni dell’eterospecifico. L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 239 La parola vivisezione, etimologicamente considerata, viene dalle due parole latine “vivum secare”; tagliare il vivo. Cl. Bernard la definì, come è detto sopra, una dissezione anatomica del vivo. Nella sua pratica accezione, con la parola “vivisezione” vengono compresi tutti gli esperimenti che si fanno sull’animale vivo (uomo compreso), sia allo scopo di conoscere la funzione di certi organi, sia per esperimentare mezzi terapeutici nuovi, sia per studiare l’azione di certi tossici, sia per esaminare la trasmissione di certe infezioni, sia infine per confermare la diagnosi di alcune malattie (Ciaburri 1930, 1). Ciaburri non manca di fare riferimento a Claude Bernard (1813-1878), “il primo ricercatore a definire l’importanza, l’utilità e i limiti della sperimentazione sugli animali” (Pepeu 2008, 10), contribuendo a una diffusione capillare della pratica vivisettrice. In Meneghello, ovviamente, la dissezione in vivo dell’animale coinvolge, quasi sempre, il mondo degli insetti (eccezion fatta per la vipera di Libera nos a malo)117 e risponde, più che altro, all’esigenza di scrutare e comprendere quelle che sono le architetture vitali della biosfera: Il piacere di classificare le bestie […] è niente di fronte a quello di vedere come sono fatte dentro, specialmente le più piccole, gli insetti. La chiarezza della loro costituzione pareva travolgente. Hanno effettivamente tutti gli apparati, tanto più interessanti per essere filiformi, cordoncini con nodi. Aprendo cavallette o altre bestiole con una lametta da barba118, scheggiata in coltellini, lancette, pic- 117 “Le aprimmo la bocca con le pinze, gliela puntellammo con oggetti di ferro che essa non può frangere, e io cercai il dente a sciabola, ripiegato dentro alla bocca, e operando con un temperino, con infinite cautele, tentai di estrarre intatti il dente e la vescica del veleno per legarli sulla punta della freccia privata che destinavo a un Avversario il quale per sua fortuna non s’incarnò mai; dico per sua fortuna, perché se anche il congegno montato sulla punta per lo schiacciamento della vescica non fosse scattato, credo che al vedersi addentare in aria dalla mia freccia sarebbe infallibilmente morto di spavento. Dopo la resurrezione, e la nuova morte, la vipera, con un dente solo in bocca, fu traslata nell’Empireo, diventò un Mistero Numinoso. Questo Empireo era un bottiglione pieno di aceto, in cui la calammo a coda in giù tappandola dentro. Restò in sospensione, arricciolata a spirale, con la testina vicino al tappo; e la adoravamo giornalmente. Dopo un po’ cominciò a marcire, e a sfaldarsi, ma i pezzi restavano più o meno al loro posto, sostenuti da filamenti: l’aceto si annebbiava sempre più. Il bottiglione-empireo era tenuto ora permanentemente in cantina per non provocare attacchi di vomito alle donne di servizio. Presto nel liquido annuvolato e rugginoso la vipera non si poté più distinguere; tutto il Bottiglione era Vipera, e noi l’adoravamo togliendo brevemente il tappo in ore statuite del giorno. Nella zaffata rivoltante che ci assaliva, si distingueva benissimo sotto il tanfo putrefatto un minuscolo odore di violette” (LNM, 63-64). 118 Immediato è il rimando all’episodio della “ragna” in Bau-sète!: “Nulla mai resse di ciò che costrussi con più bislacco impegno nella vita: una forza impietosa ruba il sacco degli ovicini alla ragna intorpidita. Sferiche ballottine, ciascuna è un ragnetto. Rubi il racco con uno stecco, lo incidi con una lametta del rasoio: scorrevoli sfericiattole si spargono sul 240 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO coli bisturi, si trovava di tutto! Era incredibile. Dunque il mondo è razionale: dunque nel sottopancia di ogni insetto c’è un filo di cervello! sulla schiena non c’è cavalletta che non abbia il cordoncino del cuore! È curioso che non ci curavamo molto di accettare come fosse stato messo insieme il corpus del sapere universale. (C70, 124) L’estratto non può non far pensare alle pagine di Fiori italiani, soprattutto per il tono di meraviglia che accompagna la descrizione anatomica degli insetti: l’animale, adesso, non prova dolore, stante anche una resa macchinica del suo stesso corpo. Un procedimento, questo, ravvisabile nella dissezione della vespa, narrata a inizio volume: Mi ero messo a tagliare le mucillagini di ciò che pareva una pupa verdastra, ma la pupa non era più pupa, era un insetto perfetto, addormentato là dentro, tutto ripiegato e ben disposto come un ombrello arrotolato, come la miniatura di un paracadute nel suo astuccio: con ogni sua parte fatta e perfetta, ali, zampette, testa, torace. (Ivi, 9-10) L’associazione tra l’anatomia dell’animale e le cose (l’ombrello arrotolato, il paracadutel nel suo astuccio) sortisce un duplice effetto: da un lato, infatti, opera uno spostamento di referente, in quanto il terios mutua il proprio statuto in etero-immagine, cioè una deroga dalla forma biologica in sé; dall’altro, annulla qualsivoglia parvenza di vita, riducendo l’eterospecifico a mero congegno, ferma restando la perfezione di tali ingranaggi, che non manca di suscitare un sentimento di meraviglia nell’osservatore: La osservavo con la lente, meditando su quella testina che è un computer tanto migliore di quelli che sappiamo fare noi, la studiavo immerso nel pensiero che sempre s’insinua in chi sappia qualcosa degli insetti e gli osservi vivere o morire o nascere: che si tratta di avversari che noi (per ora) abbiamo fregato. (Ivi, 10, corsivo mio) Fascinazione, dunque, ma anche, e soprattutto, un certo timore per questi avversari119: per il momento, noi “abbiamo fregato” gli insetti, ma si tratta di una condizione prettamente momentanea e che appare relativizzata al cospetto dei ritmi biosferici. Va da sé che l’animale cyborg (la sua testa, infatti, è un vero e proprio calcolatore) riveli una Umwelt cui foglietto dei fratini di sant’Antonio […]” (BS, 478-479). Nel libro, l’episodio suggella il racconto sul tentativo invano di “fare soldi con la terra rossa da fonderie” (ibidem). Nella Materia di Reading e altri reperti, Meneghello commenterà a tal proposito: “nel criptotesto c’è un’extra-sistole causata dal ricordo di una madre-ragno quando le ho portato via il sàcculo degli ovetti: emblema di un destino fallimentare” (MR, 122). 119 Nuovamente, il rapporto uomo/animale assume una base conflittuale. L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 241 l’umano non ha accesso, vuoi per l’efficienza delle linee operative, vuoi per le pressoché infinite modalità di adattamento. Citiamo da Hillman: the bug modes of being in the world – despite the rigidity of insect behaviors, their limitations by the tropisms that adapt them – are infinitely differentiated. Six hundred and forty thousand species of insects, each with habits, forms, patterns, displays; each a slightly different ecological affirmation. (Hillman 2008 [1988], 108) Le modalità di essere nel mondo proprie degli insetti, nonostante la rigidità dei loro comportamenti e le imitazioni imposte dai tropismi adattatori, sono praticamente infinite. Seicentoquarantamila specie d’insetti, ciascuna con abitudini, forme, strutture, manifestazioni proprie; ciascuna con un’affermazione ecologica leggermente diversa. (Trad. it. di Serra e Verzoni in Hillman 2016, 132) Considerazioni, queste, rinvenibili nel prosieguo del passo, nel constatare “con vago, ozioso rimpianto che […] [la] loro formula era per tanti versi migliore della nostra, molto più belle e avventurose le forme, più svelto e libero il moto, più attraenti e luccicanti i materiali” (C70, 10, corsivo mio). Eppure, questa resa artificiale del terios contrasta, immediatamente, col subitaneo manifestarsi della vita: E a un tratto mi accorsi che la creatura era viva. Beveva l’aure del giorno, il suo primo, alle sei di sera del 6 agosto dell’anno scorso […]. Era un po’ più piccola delle adulte, lunga quasi come loro ma più asciutta […]. Si mosse piano pano per qualche centimetro sulla tovaglietta dov’era nata, come prendendo confidenza col mondo. Sgranchiva le ali, sarebbe volata via. Era un po’ freddo, dovevamo rientrare. La meraviglia di questa vita appena dischiusa mi opprimeva il respiro. Gettai la giovane vespa sulla ghiaia e la pestai e soffregai col piede. Visse perciò, questa vespa verde, giorni zero, ore zero, minuti due o tre, questa fu la sua vita, ma (come ci hanno sempre fatto credere per consolarci) essa vivrà per sempre, o almeno finché morirò io, e poi un altro po’ se qualcuno leggerà questo dolente racconto. (Ibidem) Una vitalità che comunque spaventa, atterrisce e quasi getta nel disgusto l’osservatore che, per istinto, la getta per terra e la schiaccia: un gesto, tanto automatico quanto letale, che sigla e ribadisce la supremazia ‘momentanea’ dell’uomo su l’Altro animale. Un animale che, ancora, si manifesta e dischiude un eccedenza di senso, un ontologico ‘di più’ destinato a sconvolgere le coordinate dell’Essere, la cui vista, rivela e al contempo pietrifica, perché spinge il soggetto umano alla soglia dell’Assoluto e lo costringe a guardarci dentro. Leggiamo dal primo volume delle Carte: Mario, al lunch: “Questo Rosi ha fatto un film sui toreri e sui tori, e io, stupido, ieri sono andato a vederlo. “Si vede un gruppo di uomini sotto una pesante piattaforma con una Madonna e dei candelabri, che la sollevano e la portano avanti con passetti cori […]; e poi 242 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO un uomo che trebbia su uno slittino tirato da un asinello; tutto ben fotografato, con pretese d’arte e grande raffinatezza; con uguale raffinatezza fotografa anche teste di tori neri, fuori fuoco, e varie altre cose; la banalità del racconto mozza il respiro. “Hanno accesso a un sacco di cose buone, questi bei soci, e le falsificano. Il sangue dei tori, rosso vivo su nero, e la connessa macelleria, sono roba degna di Jacopetti […]. (C60, 151) Il passo muove le fila da un riferimento cinematografico ben preciso, ovverosia il film Il momento della verità (1965), diretto da Francesco Rosi e incentrato sulla storia di Miguel, un giovane contadino andaluso, poi divenuto torero di successo120. L’animale muore sullo schermo, quasi preannunciando le uccisioni che, anni dopo, popoleranno gli innumerevoli documentari. Come sostenuto Barbara Creed, il film non ha solo la capacità di catturare il momento del decesso, ma anche di ripeterlo continuamente (2014, 15), ecco perché tra lo spettatore e l’immagine dell’animale morente proiettata sullo schermo viene a crearsi uno spazio etico, dove i confini di specie decadono in nome di uno sguardo creaturale (ibidem). Meneghello, più avanti, non mancherà di tornare sulla questione, in riferimento a Gualtiero Jacopetti e i suoi Mondo Movies: Gli altri hanno Ian Fleming, noi Jacopetti: raffina sempre la nostra cultura. Chissà cosa credono di aver trovato in quegli stritolamenti delle dita, escoria menti di facce, schiacciamenti di lampadine nelle zone dell’innesto del vaiolo? È l’estetica dei tori che buttano torrentelli di sangue dal naso… (C60, 155) L’autore polemizza sulla spettacolarizzazione dell’osceno e del grottesco portata avanti dalla produzione del cineasta, a cominciare da Mondo cane (1962), dove il lato folle dell’umanità si risolve in “immagini cruente, bizzarre ed estreme che ribaltano il canone classico e addomesticato dei documentari etnografici alla maniera di Folco Quilici” (Martera 2014); ma insiste altresì su come la morte dell’eterospecifico si faccia spettacolo macabro, destinato cioè a soddisfare pulsioni voyeuristiche. Ne è la prova quest’altro estratto, sempre dal primo volume delle Carte, relativo alla caccia alla volpe, con cui il Meneghello di Reading deve – questo è indubbio – aver avuto una certa familiarità: Libertà, creatività: argomenti che ho sentito usare in Inghilterra per giustificare la caccia alla volpe. Libertà, creatività, contatto con la verità degli istinti… Il gusto generale di veder sbranare gli animali (o del resto vederli scarnificare a colpi di becco) pareva soverchiato qui dall’amore dei cavalli, delle galoppate campestri, delle cerimonie, delle giubbe, dei berretti, dei segnali della tromba. 120 Ne ritroviamo traccia in questo passo dal secondo volume delle Carte: “Cinque anni il toro, venticinque il matador: potenza del caos nel generare futilità” (C70, 132). L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 243 Un lontano fondo di istintività cruda serpeggiava là sotto, ma il cotto prevaleva sul crudo. Poi alla fine il crudo esplodeva, e le ragazze novizie venivano bloodied e avvampavano di piacere. (C60, 395) Nel richiamarsi a Claude Lévi-Strauss e al suo Le cru et le cuit (1974 [1964]; Il crudo e il cotto, 1966), Meneghello non solo insiste sull’opposizione diadica tra natura e cultura, ma ravvisa, nell’uccisione dell’animale cacciato, quasi una regressione a una bestialità latente, dove il sangue veicola un bagno rituale, alla stregua di un’estasi bacchica121. Inevitabilmente, il passo citato rimanda alle parole della giovane Jessica che, nell’Apprendistato, racconta a Gigi la sua ‘prima volta’ come spettatrice all’uccisione della volpe, e i toni rimandano ancora a un’esibita ritualità: Era eccitata, il giorno prima le era accaduta una cosa drammatica, me lo confidò lei stessa orgogliosamente: “I was bloodied yesterday” disse; era stata “insanguinata”. Caccia alla volpe: per la prima volta aveva assistito al fatto culminante della caccia, la lacerazione terminale della bestia, lo sbranamento da parte dei cani. L’evento era considerato una specie di consacrazione, e si formalizzava sfregando sulla fronte della novizia una zampa della volpe, sporca di sangue. La ragazza si emozionava nel raccontarlo, infervorata, commossa. Accelerato un po’ il respiro, accesi i pomelli, lampeggianti gli occhi. (APP, 178) L’atto del blooding – il battesimo di sangue – riduce, come abbiamo già ravvisato in altri esempi, il terios a vittima sacrificale, necessaria al compimento di un rito di passaggio: l’eterospecifico è spogliato della sua portata biologica e appiattito a emblema, a simbolo di transizione nel tessuto sociale. Meneghello non manca di rilevare il gusto con cui la fanciulla rievoca la vista del sangue, testificando quella regressione cui abbiamo fatto riferimento poc’anzi (un’esplosione, insomma, del crudo sul cotto). La “lacerazione terminale” (ibidem), oltretutto, ci riporta all’inizio delle “nuove carte”, dove l’autore sembra davvero esporre le proprie considerazioni circa la morte animale quale spettacolo: 121 Decisamente meno bloody, i toni del seguente passo dal terzo volume delle Carte: “Ci aveva invitati a vedere la caccia [alla volpe], ci portò con l’emme-gi scassata, raffinata, al luogo di partenza: c’erano signori e signore in giacca nera e […] alcuni in giacca pink, tutti già montati a cavallo in un’aia davanti a una villa. E intorno a loro una frotta di cani un po’ odiosi che si agitavano e si montavano la testa scodinzolando, e il maestro dei cani si dava arie: e dalla villa uscirono servitori, guanti bianchi e guantiere, a porgere bicchierini ai cavalieri e alle cavaliere, e a noi nessuno porse niente! […]. Poi tutti partirono al mezzo galoppo seguendo la muta petulante dei cani attraverso i prati, e il contadiname (noi compresi), dietro a piedi, per scùrsoli s’intende, e correre a questo o quel punto strategico a vedere non dico la volpe ma la muta dei cani seguita dai cavalli e dai coglioni e le coglione sui cavalli, esultando il contadiname e i vecchietti deferenti, le vecchiette ispirando sgnarocchi poi di nuovo sguinzagliandoli improvvise, e passandosi a vicenda le drammatiche notizie […]” (C80, 287). 244 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO È malmesso il gallo vinto, allungato per terra il collo, la testa traforata e maciullata, sfondato l’occhio, una polpa sanguinolenta… Becca ancora in quella melma il gallo vincente, alquanto sfigurato anche lui. (APP, 22) La scena è quella di un cockfighting, o combattimento tra galli. La pratica – tutt’oggi legale in alcune parti del mondo come la Cina e l’isola di Bali (dov’è conosciuta sotto il nome di tajen) – si serve di volatili allevati a tale scopo, cui viene affilato il becco per rendere lo scontro ancor più cruento. Sul combattimento animale, ci preme citare le esaustive riflessioni avanzate da Ciro Troiano, le quali consentono di istituire un parallelo tra ciò che avviene in natura e quanto, per contra, si verifica in cattività: Nel mondo animale una delle manifestazioni più evidenti dell’aggressività è il combattimento tra membri della stessa o diversa specie con cui gli animali, attraverso diversi moduli comportamentali che coinvolgono l’uso di armi naturali di offesa e/o di difesa, conquistano o difendono risorse e territorio o proteggono sé stessi o la prole o, ancora, perseguono la supremazia sociale al fine di garantirsi il partner sessuale. Il combattimento intraspecifico è sempre ritualizzato e termina quasi sempre prima che i duellanti si siano procurati ferite gravi e, pertanto, gli esiti letali sono rari. Il “duello” si svolge di norma secondo regole fisse, in cui i movimenti impiegati sono ordinati in sequenze altamente stereotipate, finalizzate a mostrare la propria forza e a comunicare la propria superiorità. La ritualizzazione dell’aggressività permette agli animali di risolvere pacificamente le dispute, con l’emissione di chiari segnali comunicativi che indicano, ad esempio, l’accettazione della sconfitta, senza che si debba arrivare allo scontro fisico vero e proprio. Ciò in natura. (Troiano 2012, 676-677) La situazione cambia radicalmente sotto la morsa antropocentrica, ragion per cui il combattimento viene non solo de-ritualizzato, ma oltremodo fomentato dall’uomo a fini del ludibrio più bieco, senza contare la finalità pecuniaria di queste spettacolarizzazioni della vita animale. Troiano prosegue nel rilevare che Purtroppo gli uomini hanno da sempre “sfruttato” questa tendenza alla dominanza, soprattutto di alcune specie, per organizzare a proprio piacimento lotte e combattimenti tra animali lucrando sulle relative scommesse. Il lemma “combattimento” indica tutte le forme di conflitto fisico che coinvolgono almeno due animali. Ciò è da intendersi anche ai fini della legge. È chiaro che rientrano in questa previsione solo i combattimenti organizzati e non le zuffe spontanee o le lotte estemporanee, come sovente avviene tra i cani o altri animali. Affinché possa intervenire la censura penale occorre che l’evento sia provocato, favorito, organizzato dall’uomo. Il combattimento può essere tra membri della stessa o di diversa specie (esempio stessa specie: lotte tra cani, galli, pesci, scimmie, ecc.; tra specie diverse: cani contro puma, cinghiali, tassi, orsi; orsi contro puma, ecc.). (Ivi, 677) In riferimento al passo meneghelliano, la morte animale scade a pura forma di intrattenimento, in quanto privata del suo significato rituale o L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 245 utilitaristico. E una cotale visione non può indurre Meneghello a formulare una sua personale teodicea: Così dunque è congegnato il mondo, questi orrori sono nella natura delle cose viventi. Non è ovvio che se ci fosse un Direttore onnipotente dovrebbe essere congegnato in modo radicalmente diverso dalla nostra idea (attuale, “civilizzata”) del bene e del male? Il nostro disgusto, la revulsione e l’insofferenza per la crudeltà verso ciò che vive e sente sarà solo una fase culturale (piuttosto recente, e po’ scentrata rispetto alle realtà del mondo) o è anche un aspetto profondo, ormai stabile della nostra natura? (APP, 22). Un passaggio che non abbisogna di chiose ulteriori, ma mette conto rilevare la prospettiva sensiocentrica (in riferimento alla “crudeltà verso ciò che vive e sente”, ibidem), a riprova di come le “nuove carte” – proprio per il loro situarsi nella zona finale nel macrotesto – maturino un’ottica non certo animalista, ma indubbiamente orientata al rispetto dell’eterospecifico, riconoscendo a quest’ultimo la capacità di soffrire. Eppure, l’autore sembra restare imbrigliato nella dicotomia tra natura e cultura, razionalità e istinto, quasi mostrando segni di spavento nel constatare che anche dilettarsi delle sofferenze degli altri, delle torture, degli strazi, pare un istinto naturale. Guardare avidamente i galli che si stracciano a vicenda, fabbricargli lunghi sproni d’acciaio per stracciare più a fondo… Vedi i visi degli spettatori, gli occhi che bevono le lacerazioni, gli strappi… (Ibidem) Una critica – neanche troppo velata – alla morbosità catodica che, specie in tempi recenti, ha rasentato il parossismo, in un’ostensione totale e senza più reticenze di corpi violati, manomessi, spezzati e poi ricomposti: un vero e proprio delirio, in cui l’occhio di chi osserva si fa orifizio, bocca e cloaca, destinata a deglutire, ma a digerire al contempo, queste scene di morte (anche animali122). Siamo lontani, insomma, dai rilievi assiri del British Museum, dove i leoni, per quanto oggettivati nei loro ultimi istanti di vita, uscivano letteralmente dalla superficie litografica per acquistare, tra tutto quel sangue, anche la vita. Animali, forse, con più dignità, rispetto a quelli che abbiamo incontrato finora. Citiamo il passo a chiusura di questo paragrafo: Sono scene di guerra, e scene di caccia: da un lato assedi, battaglie, fughe, prigionieri, sgozzamenti, avvoltoi, fiumi pieni di morti; dall’altra il re che saetta le bestie dal carro, le gabbie in cui sono state trasportate le bestie per offrirle alle sue frecciate, leoni specialmente, drogati direi, irti di dardi, la celebre leonessa trafitta nella schiena, paralizzata, il leone ormai ridotto allo stremo, che ce la fa appena a tenersi in piedi, e vomita a ventaglio il sangue e la vita… ( JUR, 66) Si pensi, a tal proposito, ai vari video di torture inflitte ad animali (spesso perpetrate da adolescenti o, comunque, giovani adulti), che da un po’ di tempo compaiono su Youtube e le piattaforme social come Facebook. 122 246 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO 2.3 Di fianco a loro Il termine “specismo” è stato introdotto per la prima volta dallo psicologo inglese Richard Dudley Ryder che, nel 1970, si era schierato contro la sperimentazione animale. Peter Singer, alcuni anni dopo, avrebbe poi sviluppato ulteriormente il concetto nel suo Animal Liberation, definendolo “a prejudice or attitude of bias in favor of the interests of members of one’s own species and against those of members of other species” (2002 [1975], 6; “un pregiudizio o atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie e a sfavore di quelli dei membri di altre specie”, trad. it. di Ferreri in Singer 2015, 22). Per il filosofo australiano, lo specismo123 altro non è che una forma di discriminazione, alla stregua del razzismo e il sessismo, in quanto Racists violate the principle of equality by giving greater weight to the interests of members of their own race when there is a clash between their interests and the interests of those of another race. Sexists violate the principle of equality by favoring the interests of their own sex. Similarly, speciesists allow the interests of their own species to override the greater interests of members of other species. The pattern is identical in each case. (Singer 2002 [1975], 9) Il razzista viola il principio di eguaglianza attribuendo maggior peso agli interessi dei membri della sua razza qualora si verifichi un conflitto tra gli interessi di questi ultimi e quelli dei membri di un’altra razza. Il sessista viola il principio di eguaglianza favorendo gli interessi del proprio sesso. Analogamente, lo specista permette che gli interessi della sua specie prevalgano su interessi superiori dei membri di altre specie. Lo schema è lo stesso in ciascun caso. (Trad. it. di Ferreri in Singer 2015, 22) A simili affermazioni, verrebbe spontaneo controbattere che, in quanto esseri umani, lo specismo è una disposizione pressoché naturale, quasi un meccanismo automatico di preservazione, riconducibile per certi aspetti alla darwiniana struggle for life. Ryder, tuttavia, propone un’argomentazio- 123 Per converso, l’antispecismo si configura come “il movimento filosofico, politico e culturale che lotta contro lo specismo, l’antropocentrismo e l’ideologia del dominio veicolata dalla società umana. Come l’antirazzismo rifiuta la discriminazione arbitraria basata sulla presunzione dell’esistenza di razze umane e l’antisessismo respinge la discriminazione basata sul sesso, così l’antispecismo respinge la discriminazione basata sulla specie (definita specismo) e sostiene che l’appartenenza biologica alla specie umana non giustifica moralmente o eticamente il diritto di disporre della vita, della libertà e del corpo di un essere senziente di un’altra specie. Gli antispecisti lottano affinché le esigenze primarie degli Animali siano considerate fondamentali tanto quanto quelle degli Umani, cercando di destrutturare e ricostruire la società umana in base a criteri sensiocentrici ed ecocentrici, che non causino sofferenze evitabili alle specie viventi e al Pianeta” (Fragano 2015, 13). L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 247 ne che capovolge letteralmente quanto affermato: lo stupro e l’omicidio, ad esempio, possono sì essere ricondotti all’ambito degli “impulsi” naturali, ma un cotale riconoscimento non li rende di certo comportamenti virtuosi. Non siamo, continua Ryder, schiavi dei nostri geni, dal momento che le tendenze genetiche possono, in gran parte, essere superate attraverso gli equilibri di una società civile (Ryder 2000, 104). Ovviamente, l’Homo sapiens ha addotto innumerevoli scuse a giustificazione del proprio specismo: dall’appartenere all’unica specie “tool-using or tool-making” (ibidem), al paradigma logocentrico. Lo abbiamo, d’altronde, già affermato all’inizio del nostro percorso: la disposizione prometeica dell’umano si risolve nello sfruttamento della natura, al fine di soddisfare i propri interessi (e va da sé che anche gli animali cadano vittime della sua hybris). Ora, volendo da subito riallacciarsi alla produzione di Meneghello, c’è un passo delle Carte – su cui già si era soffermata Francesca Caputo nel suo studio del bestiario maladense (2005 – in cui è possibile rintracciare le venature di un antispecismo sui generis: Le Galline! Animali curiosi, senza dolcezza, ma pieni di stile […]. A che punto è la scienza neurologica in materia di galline? Chi se ne è occupato in Italia e all’estero? E l’aspetto sociologico, lo studio, la scienza del loro vivere associato? Alcune cose si sanno, l’ordine di beccata ecc., ma si è messo mai l’osservatore dal loro punto di vista, distinguendo intanto tra le condizioni naturali della gallina selvatica e la società artificiale dei nostri allevamenti domestici? Mi dà un po’ sui nervi il principio che tutto va bene se è fatto a beneficio degli esseri umani. Altro è dire che siamo ignoranti e confusi, e che se ci troviamo a dover scalpicciare i diritti delle galline, lo facciamo sapendo ciò che facciamo, o meglio sapendo che non lo sappiamo: e altro è comportarci come se andasse bene così. (C80, 74) Contrariamente a quanto ci saremmo potuti aspettare, l’antispecismo muove le fila da un animale decisamente comune, lontano dalla prossimità evolutiva con l’essere umano: le basi di una cognizione animale, non a caso, sono emerse in seguito agli studi compiuti da Jane Goodall sugli scimpanzé africani (2010 [1971]), tali da permettere l’individuazione di “capacità cognitive essenziali nella specie Homo Sapiens che, intuitivamente, potrebbero essere rintracciate anche in altre specie – come il linguaggio, la teoria della mente, la coscienza, l’autocoscienza […]” (Caffo, Sonzogni 2016, 275). Ma Meneghello – forse guardando più all’esempio di Konrad Lorenz – non manca di delineare un ethos per queste galline, che – su un piano propriamente filogenetico – si mostrano decisamente più evolute di quelle poste in apertura al secondo volume delle Carte: Una volta le galline della nostra zona si facevano “prendere sotto” dalle automobili: aspettavano con quell’aria di idiozia quasi umana delle galline, e quell’occhietto furbo e insieme cretino che tante volte osserviamo nei nostri conoscenti e loro in noi, e poi all’ultimo momento si gettavano sotto. Sotto a mio zio Gildo, 248 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO a mio papà, sotto allo zio Checco… Morivano come le mosche… Poi un po’ alla volta hanno imparato. (C70, 9) Elisabetta Bacchereti – in un suo recente libro dedicato agli animali in favola nella letteratura italiana del Novecento – ha appunto rilevato, in riferimento alle Galline pensierose (1980) di Luigi Malerba, l’effetto ossimorico e decisamente paradossale sortito dall’associazione del volatile con l’atto stesso del pensare, che si risolve in un ‘pensar da gallina’, misurato sul metro della conoscenza esperienziale gallinacea, osservato dal punto di vista straniante e straniato dell’animale domestico imputato per antonomasia di stupidità, in misura pari se non superiore all’asino, in virtù dell’occhio inespressivo […]. (Bacchereti 2014, 254-255) Bacchereti, giustamente, fa riferimento alla canzone La Gallina (1967) di Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto, ma la stupidità del volatile è pressoché onnipresente in filastrocche e ninne nanne infantili, dove il pennuto, ormai stufo della vita campagnola, viene sistematicamente schiacciato da un pullman mentre si reca in città. Per certi aspetti, Meneghello libera l’animale dallo stereotipo e dagli stigmi di un immaginario che, a conti fatti, hanno relegato i gallinacei al gradino più basso del regno animale. Oltretutto, proprio parlando di “diritti delle galline” (C80, 74), l’autore permette di rileggere, ex post, alcuni passaggi delle opere precedenti quali vere e proprie riflessioni su uno specismo che, quasi sempre, muove le fila da un bestiario rurale, decisamente domestico. In Maredè, maredè, ad esempio, è il maiale a essere chiamato in causa: Era, è veramente mas’cio il mas’cio? È portato alla sporcizia più di noi? Il “fango maleolente, fatto di urina e di sterco” tra cui vive […], odorerebbe molto meno malignamente se là dentro fossimo tenuti noi? Non è un’ingiustizia e una meschinità della nostra presuntuosa cultura, questo dare addosso al mas’cio? (MM, 90) È l’olfatto, adesso, a divenire ‘sonda’ specista, diventando marca riconoscitiva mediante cui il terios è relegato alla schiatta di creatura laida, sporca, in una dimensione puramente scatologica. Secondo Hillman: The pig initiates consciousness into the subtleties of grossness: its exaggerated compulsive physicality is the very drive downward into the mystery of life’s materiality, the Pluto-Hecate world of darkness under the earth of Demeter, requiring a dark eye that can see the psychic in the concrete. (Hillman 2011 [1982], 17) Il maiale inizia la coscienza alle sottigliezze della grossolanità: la sua fisicità esagerata e coatta è il vero impulso che ci spinge verso il basso, nel mistero della materialità della vita, nel mondo tenebroso di Plutone/Ecate situato sotto la terra di Demetra, un mondo che richiede un occhio scuro capace di vedere lo psichico nel concreto. (Trad. it. di Serra e Verzoni in Hillman 2016, 33) L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 249 Meneghello, tuttavia, sospende l’ottica antropocentrica, prospettando un’inversione di ruoli che, nel riscattare il suino dall’ipoteca scritturale124, punta il dito verso le “meschinità della nostra presuntuosa cultura” (MM, 90). Ma lo specismo è ravvisabile anche a livello lessicale: “lo scarso rispetto per alcuni animali”, leggiamo sempre in Maredè, “segnatamente il mas’cio, il musso e (salvo nei momenti di condiscendente compassione), il can, è un tratto comune a altre lingue” (ivi, 217); e questo ci riporta ancora ai due livelli semantici – connotativo e denotativo – veicolati dall’imago animale125. L’eterospecifico, insomma, scatena una serie di suggestioni associative che, in un certo qual modo, sono filtrate dal paradigma antropocentrico: ciò è dimostrato nel prosieguo del passo, dove Meneghello – in riferimento al maggiolino e la sua testa ipertrofica – si soffermerà sulla denigrazione, a livello linguistico, dell’insetto: Ma la denigrazione del bronbólo potrebbe essere un tratto peculiare nel VIC. Penso naturalmente all’espressione idiomatica Tèsta da bronbólo, sia come epiteto allocutorio, sia nel contesto di una imputazione del tipo Sètu che te ghè na tèsta da bronbólo?, o Bisòn vère na tèsta da bronbólo! Ciò che si imputa è una forma vistosa di oligofrenia: la testa del bronbólo pare minuscola alla massa del (pur aereo!) vascello del corpo, e la nostra mente (forse con un suo proprio spunto oligofrenico) corre alla deduzione che anche il pensiero del bronbòlo sia spregevolmente fioco, paragonabile, nel mondo degli insetti, a quello dei più stupidi fra gli esseri umani… (Ibidem) Ci si addentra, insomma, in un serraglio di stereotipi. Una condizione, questa, altresì ravvisabile in un estratto delle Carte, intitolato Sciacalli e leoni: Per “sciacallo” non s’intende di solito lo sciacallo, vero, bestia elegante, energica e onesta, dalla vita dura; ma quello mitico, una nostra creazione culturale, che a quanto pare non c’è in natura, dove semmai la bestia che ci arriva più vicino è il leone, lo spregevole leone maschio. (C70, 152) 124 Si legge nel Deuteronomio, 14, 8: “καὶ τὸν ὗν ὅτι διχηλεῖ ὁπλὴν τοῦτο καὶ ὀνυχίζει ὄνυχας ὁπλῆς καὶ τοῦτο μηρυκισμὸν οὐ μαρυκᾶται ἀκάθαρτον τοῦτο ὑμῖν ἀπὸ τῶν κρεῶν αὐτῶν οὐ φάγεσθε καὶ τῶν θνησιμαίων αὐτῶν οὐχ ἅψεσθε” (Dt, 14, 8; “anche il porco, che ha l’unghia bipartita ma non rumina, lo considererete immondo. Non mangerete la loro carne e non toccherete i loro cadaveri”). 125 Alberto Sebastiani ha rilevato come il rapporto uomo-maiale muova da una, per quanto primordiale, vicinanza, fino a una netta separazione: il maiale, dunque, oscilla tra imago della ricchezza, perché di esso non si butta via nulla, e una connotazione negativa: “Questa oscillazione tra abbondanza, generosità, importanza economica, alimentare e sociale e immagine della sporcizia, fisica e morale, è un’ambiguità che caratterizza l’occorrenza del maiale nella letteratura […]” (2009, 219). 250 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Nuovamente, siamo dinanzi all’animale quale mirage e etero-immagine, costrutto mentale che opera una dislocazione di referenti, al pari dell’uccellino e l’oseleto di Jura (JUR, 24): la fattività del terios – la sua essenza biologica – è nuovamente adombrata dal pregiudizio specista, originante un’anomalia zoologica. Ecco perché Meneghello tenta più volte di oltrepassare la soglia, e tale “salto” (o avvicinamento) è spesso mediato dall’assunzione del punto di vista dell’animale. In Pomo pero, in riferimento all’invasione delle lumache nella casa del fratello, l’autore scrive: Nel giro di poche settimane mi assorbii profondamente nell’argomento, e ormai delle cose pratiche non m’interessavo più, e sorgeva invece più potente che mai la mia antica passione di mettermi dal punto di vista degli animali, specie quelli piccoli e primitivi. Avevo studiato a lungo i vermi, anni prima in Inghilterra, e cercato di pensare e di sentire con loro: fu una delle svolte della mia vita intellettuale, quell’anno che studiai i vermi. Ora con le lumache tutto questo mi tornava con più forza. Cominciavo a vedere la situazione in casa nostra dal loro punto di vista, e la cosa mi affascinava: mi trovai a rivivere la storia della piccola (non tanto piccola) comunità assalita da questa peste bianca del sale, e presto mi misi a scriverla, come la storia di una tribù di lumache, un gruppo di famiglie numerose, gente con nomi umani, e una loro lingua simile alla nostra, ma rovesciata in certi concetti chiave, come giorno che voleva dire notte, e notte giorno. La lingua di una schiatta con occhi rudimentali, e gli altri organi del senso identici a quelli della lumaca. Alcuni pezzi erano atroci, certo le cose più atroci che ho tentato di scrivere, Carla che si dissolve sotto la pioggia di sale. Dovetti smettere per eccesso di disgusto. (PP, 339-340) Sul finire del passo, vediamo come la parola cerchi di afferrare e ‘tradurre’ la biosfera – il tentativo di Gigi nello scrivere una storia sulle lumache – che tuttavia recalcitra e oppone resistenza alla presa del lògos. Il palinsesto ambientale si fa incomprensibile all’atto traduttivo della scrittura, proprio per una discrasia tra i piani referenziali: l’animale – e ci richiamiamo alle considerazioni avanzate alcune pagine addietro – non può essere incluso nell’umano se non a patto di un’ulteriore esclusione, la quale accentua il divario tra i due. Ecco spiegata la rinuncia di Meneghello a scrivere sulle “lumache umanizzate” in tribù e comunità: la macchina antropogenica si è inceppata; il nome ha ingoiato la cosa e la parola risultante ha creato uno iato; il corpo scompare e si dissolve, quasi fosse anch’esso divorato dal “sale”. E sorprende, tuttavia, come l’autore cerchi – e questo è lo si capisce al principio dell’estratto – di assumere il punto di vista dell’animale, il che origina – come abbiamo avuto modo di constatare per la battaglia delle formiche (AM, 201) – una diversione percettiva, in quanto il soggetto percipiente abbandona l’Umwelt di partenza e scopre la “possibilità” di ambienti ulteriori. Questo processo di avvicinamento all’ethos animale, accompagnato da un inesausto tentativo di comprensione, è ravvisabile in altri passaggi: L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 251 Prima di dormire leggo sul cervello delle formiche. Mi capita spesso di pensare alle formiche quando penso […] alla natura del pensiero. Leggo delle formiche, mi pare di capirle e mi addormento con loro. (C60, 401) “Le formiche stanziate qui a milioni da secoli e secoli” (ivi, 445), scriverà più avanti Meneghello, si fanno, al pari delle iene, delle vere e proprie “maestre di vita” (MM, 25), e rimandano a quella che Shepard ha definito quale ecological doorway verso il pensiero simbolico: se la mente umana, in fondo, è il risultato di interazioni costante con l’altro animale, allora quest’ultimo andrà a costituire quella eredità ecologica (Shepard 1996, 25) mediante cui l’umano si definisce rapportandosi al terios. E, spesso, tale avvicinamento sconfina in un moto di ammirazione, accompagnato sempre al desiderio di sapere e (ri)conoscere queste presenze altre: Storni abbiamo detto che si chiamano? il nome lo sanno in molte, ma come sono congegnati e cosa fanno lo sa Renzo. Qui nel parco davanti al nostro balcone sono centinaia, a volte migliaia. Quando senti tacere all’improvviso la cagnara (“le gazzarre degli uccelli”126: Renzo ha una speciale sensibilità per le cose, in Montale, che riguardano gli uccelli, la ghiandaia127, il gheppio128) vuol dire che hanno appena spiccato il volo, tutti insieme: se batti forte le mani, qui sul balcone, tacciono di colpo, e li vedi volar via a fiotti… Guardandoli volare in alto, energici, attivi, strepitosi, in una specie di grande mercato degli uccelli che si tiene verso sera orai da un mese almeno, mi chiedo: come fanno in quel casino a trovarsi? hanno nuclei familiari? Sono maschi, questi che volano, e perché volano così? o femmine, o misti? (C80, 200-201) Impossibile non cogliere i punti di contatto con il Leopardi dell’Elogio degli uccelli, soprattutto nella seconda parte del passo, “che naturalmente lo stato ordinario degli altri animali, compresovi ancora gli uomini, si è la quiete; degli uccelli, il moto” (2010 [1827], 573). Ma Meneghello prosegue oltre e guarda, nello specifico, alla struttura e il funzionamento della società animale, laddove quest’ultima diviene operatore inclusivo, tale da sospingere l’umano al di fuori della sacca antropocentrica e indurlo, di conseguenza, a assumere un nuovo punto di vista sul mondo (Marchesini 2002, 139). Punto di vista che si realizza nell’atto stesso dell’incontro, in un fugace, quanto mai serrato, approssimarsi di sguardi: 126 Il rimando è ai Limoni di Eugenio Montale: “Meglio se le gazzarre degli uccelli” (1984 [1925], 11, v. 11). 127 La derivazione è sempre montaliana: “Come rialzo il viso, ecco cessare / i ragli sul mio capo; e via scoccare / verso le strepeanti acque,/ frecciate biancazzurre, due ghiandaie” (1984 [1925], 53), vv. 14-17). 128 Si veda L’estate, da Le occasioni: “L’ombra crociata del gheppio pare ignota / ai giovinetti arbusti quando rade fugace. / E la nube che vede? / Ha tante facce / la polla schiusa” (Montale 1984 [1939], 174, vv. 1-4). 252 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Nuotando all’imbocco di una grotta, in Sardegna, mi sono trovato davanti a una foca monaca. Mi guardava con gli occhi molto grandi e sporgenti, malinconici. Mi sono sentito come Saba con quella capra. (C80, 71) Chiaro è il rimando a La capra di Umberto Saba, che citiamo per intero ai fini della nostra analisi: Ho parlato a una capra. Era sola sul prato, era legata. Sazia d’erba, bagnata dalla pioggia, belava. Quell’uguale belato era fraterno al mio dolore. Ed io risposi, prima per celia, poi perché il dolore è eterno, ha una voce e non varia. Questa voce sentiva gemere in una capra solitaria. In una capra dal viso semita sentiva querelarsi ogni altro male, ogni altra vita. (Saba 1961 [1945], 68) Il riferimento ipotestuale diviene chiave d’accesso alla lettura del passo delle Carte, stanti le sostanziali differenze tra i due animali: se in Meneghello, l’incontro con l’eterospecifico avviene ex abrupto e per di più in uno spazio – quello marino – dove l’umano è ospite; in Saba, la capra è colta in uno stato di prigionia, “sola sul prato, […] legata / […] bagnata / dalla pioggia, belava” (ibidem), dove però, continua il poeta triestino, “Quell’uguale belato era fraterno / al mio dolore. Ed io risposi […] / perché il dolore è eterno / ha una voce e non varia” (ibidem). Nel componimento, è manifesta l’agnizione di una fraternità universale, dove il dolore diviene non solo universale, vieppiù getta le basi per il rapporto uomo-animale, posto sotto l’egida di una sofferenza comune, “immanente negli uomini come nella natura” (Bàrberi Squarotti 1960, 120). Il “viso semita” della capra, oltretutto, nel richiamarsi al popolo che più di chiunque altro ha sofferto, ci riporta nell’immediato presente e, nella fattispecie, a The Lives of Animal di John Coetzee: We are surrounded by an enterprise of degradation, cruelty, and killing which rivals anything that Third Reich was capable of, indeed dwarfs it, in that ours is an enterprise without end, self-regenerating, bringing rabbits, rats, poultry, livestock ceaselessly into world for the purpose of killing them. (Coetzee 2016 [1999], 21) Siamo circondati da un’impresa di degradazione, crudeltà e sterminio in grado di rivaleggiare con ciò di cui è stato capace il Terzo Reich, anzi, in grado di farlo apparire poca cosa al confronto, poiché la nostra è un’impresa senza fine, capace di autorigenerazione, pronta a mettere incessantemente al mondo conigli, topi, polli e bestiame con il solo obiettivo di ammazzarli. (Trad. it. di Cavagnoli e Arduini in Coetzee 2000, 30) L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 253 Tornando ora al passo meneghelliano, vediamo come lo sguardo della foca monaca sia venato, appunto, di una malinconia (“occhi molto grandi e sporgenti, malinconici”, C80, 71) che, sotto certi aspetti, getta l’umano nel senso di colpa: per un attimo, il brusio del mondo si annulla e cede il passo al grido di un’alterità che, una volta per tutte, cessa di essere tale, venendo meno il diaframma della differenza di specie. In un passo delle Carte, d’altronde, Meneghello stesso fa luce su una tale resipiscenza, guardando allo sfruttamento che l’uomo, da tempi immemori, porta avanti nei confronti dell’animale: “Davanti agli animali è difficile non sentirsi in colpa: a loro è andata storta, a noi anche, ma questo loro non lo sanno” (C70, 273). Certo, non siamo dinanzi a un antispecismo tout court, ma mette conto rilevare come l’autore, al pari di Saba nel suo componimento, associ umano e eterospecifico sul terreno di un dolore comune, e condiviso, di pietas quasi creaturale. E lo sguardo animale ha appunto questa funzione, ovverosia tracciare il sentiero per spingersi oltre noi stessi e oltre l’uomo, al di là delle svilenti tassonomie che, mai come ora, riducono il mondo a mosaico di cifre. Ha scritto a proposito Marco Maurizi: Mentre la desolazione sociale cresce assieme al suo inevitabile pendant di carneficine umanitarie e di devastazione ambientale, la musica dell’umanismo suona sempre più vacua, retorica, stucchevolmente impotente. Occorre guardare altrove per cercare una via di fuga che non sia immaginaria. Occorre guardare dove l’umano, tutto l’umano, getta la propria ombra di indifferenza e di morte. Solo lo sguardo dell’animale sembra ancora essere in grado di darci l’idea che esiste un al di là anche per noi che non vogliamo guardare oltre noi stessi. Gli sguardi degli animali che soccombono per mano nostra, sterminati a miliardi dall’industria alimentare nei modi più cruenti e senza alcuna remora o senso di colpa, torturati nei laboratori, umiliati nei circhi e nelle fiere, impallinati, picchiati, derisi. Ma anche gli sguardi di coloro che, fatta salva la pelle, ci ringraziano facendoci dono di un verso o anche della loro sublime noncuranza. (Maurizi 2012, 5) Se “l’eterospecifico è luogo del confronto […], il plasmalemma129 che consente un dialogo con il mondo” (Marchesini 2014, 105), allora quello sguardo, mesto e vitale insieme, della foca monaca, si fa “specchio animale […] epifanico [,] in quanto ispiratore di nuove prospettive o possibilità predicative per l’uomo” (ivi, 106). “Mi guardava con gli occhi” (C70, 273), scrive Meneghello, ed è impossibile non scorgere in questo la sorpresa, ma anche il timore, del sentirsi osservati da un Altro che “Altro” non vuole essere: cadono le ipoteche e gli stigmi; per un istante, il bestiario cessa di essere tale, rifugge dalla sua essenza di mondo analogico e riflesso delle Marchesini prende a prestito il termine dalla citologia, dove il plasmalemma indica la membrana cellulare (in biologia vegetale, il plasmalemma ha la funzione di regolare gli scambi tra la cellula e l’ambiente circostante). 129 254 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO attitudini umane, per cedere il passo a un’animalità spontanea, gratuita, eppur debordante e potente. 2.3.1 Prigionie Certo, ne siamo più che consapevoli: l’immagine della foca monaca, col suo sguardo – immediato è il rimando a Rol di Pomo pero – di “malinconia e di sventura” (PP, 299) sarebbe stata una chiusura decisamente efficace per questo lavoro, non fosse altro per l’ostensione di un’animalità al “grado zero”, oggettivata cioè nella sua tensione dinamica, in quel divenire che le è proprio. Tuttavia, vogliamo optare per un finale aperto, che non blocchi allo stato di ne varietur questa ricognizione entro il bestiario meneghelliano, ma susciti ulteriori interrogativi in vista, perché no, di nuovi attraversamenti. E affinché ciò sia possibile dobbiamo, in un certo senso, imprigionare nuovamente l’eterospecifico e riportarlo allo stato di cattività. In Libera nos a malo, proprio a voler entrare da subito in vivo, vediamo come agli animali siano preposti veri e propri alloggi che, a ragion veduta, ricordano in tutto e per tutto quelli degli esseri umani: “c’erano anche le case delle galline e del maiale, e l’appartamento dei conigli […]” (LNM, 90), scrive Meneghello, per poi precisare che i “conigli […] avevano una verandina che dava sopra il letamaio” (ivi, 91). La situazione, tuttavia, cambia drasticamente nei Postumi di Pomo pero, dove i conigli vengono descritti in quella che potrebbe essere definita come una vera e propria nevrosi: Giù nei paesi e tutto attorno sorgono dovunque le case nuove […]. Pare che tutti si siano messi a farsi la casa, e una parte non trascurabile qua davanti alle finestre della camera dove studio po’ fiocamente nel gran caldo. Oggi è giornata di festa e di riposo e perciò lavorano in pieno. C’è un cicaleccio di scalpelli, si sente che da tutte le parti assalgono la pietra e il mattone con grande energia e disordine […]. In quello che sarà l’appartamento di sopra hanno messo intanto i conigli. Bianchi in soggiorno, caffellatte in reparto-notte, separati da un tramezzo. Nelle giornate del gran caldo quando nessuno lavora li osservo con apprensione. (PP, 343) Non sembrano esserci, almeno per ora, grandi cambiamenti: come accadeva in Libera nos a malo, gli animali mantengono la loro condizione di cattività, per quanto collocati in un nuovo spazio abitativo130. Ciononostante, colpisce come l’eterospecifico sia investito da uno sguardo 130 Nel primo volume delle Carte, uno dei conigli rievoca Benito Mussolini: “Tra i conigli della casa in costruzione, qui davanti, ce n’è uno con le due orecchie a penzoloni dalla stessa parte, come un berretto basco a sghembo. Stasera rifacciamo i conti col Duce” (C60, 82). Il “regolamento di conti” allude al fatto che l’animale finirà sul menu della cena. L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 255 inquieto che, di riflesso, anticipa la nevrosi animale descritta nel prosieguo dell’estratto: Paiono sfibrati, siedono come piccole sfingi. Uno scrolla le orecchie, s’avvia per camminare, incespica: ups-a-daisy! Ma non pare che possa risorgere: si distende invece sul fianco, lungo lungo, con un atto d’ipertensione nevropatica. Altri cascano e si stiracchiano riversandosi nello stesso modo: non si capisce se per una sorta di paralisi laterale del coniglio domestico, o in una parodia del giocare. Ne vedo che si affastellano tra i sacchi di cemento, uno s’infila in un bidoncino. Alcuni mi guardano scoraggiati. Su col tempo! (Ivi, 343-344) In Leda e la schioppa, in riferimento all’episodio succitato, Meneghello scriverà che Questa dei conigli mi era sembrata una cosa naturale e insieme una splendida trovata. La casa non è ancora pronta, intanto ci sistemiamo i conigli. E qui seguono dei paragrafi in cui racconto come cercavo di lavorare, lì nella mia stanza, con questi conigli davanti, nelle ore calde del primo pomeriggio, in cui loro mi parevano sfibrati, e anch’io ero piuttosto sfibrato… Mi nasce un moto di simpatia verso queste bestiole, l’impulso di fargli coraggio. Glielo dico anche in inglese, quando ne vedo qualcuno che casca sul fianco e si stiracchia: “ups-a-daisy!”. (LES, 23) Quasi una sorta di empatia interspecifica, scaturita dall’incontro improvviso con l’altro animale che, come spesso accade, avviene per caso. Eppure, per quanto l’autore non faccia menzione della nevrosi animale, il passo di Pomo pero rievoca in tralice l’immagine dei criceti in gabbia, costretti a placare la smania di libertà su una ruota che, per quanto giri all’infinito, resta immobile nello stesso punto: non è un caso che Meneghello parli di “ipertensione nevropatica” (ibidem), in riferimento a una depersonalizzazione dell’animale stesso, esasperato dalla condizione di cattività dove, si badi bene, l’atto ludico stesso risulta impossibile (per questo si parla di “parodia del giocare”, ibidem). Analogo il caso della scimmia, in Maredè, Maredè: Già, il gabbiotto che c’era a Pósena (Posina) in uno spiazzo, un magro slargo della strada; era una struttura cilindrica, un casottino di sbarre con la cupola, nel quale tenevano prigioniera una scimmia. Un simiòto. Mi accostai per guardarlo, con un salto lui si gettò contro di me, venne a sbattere sulle sbarre all’altezza del mio viso, e le scrollava con le mani e coi piedi, spirando un odio forsennato dal muso, dagli occhi arancione, tondi, ardenti, dall’arrotare dei dentini… Era sconvolgente, per un istante mi prese il terrore che potesse storcere le sbarre arrugginite e brincare me, e lacerarmi. Una creatura così piccola, così grottescamente umanomorfa, con quei tratti minuti e ben profilati, quelle manine eleganti…131 Un livello orribile e profondo… un raptus senza nome, un barilotto di forze poco meno che sacre. (MM, 81) 131 Inevitabile il richiamo a Mani di Tommaso Landolfi (1991 [1937]): l’arto animale, nuovamente, rivela la prossimità con l’umano. 256 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO L’accostamento al terios procede per gradi: si passa da un momento in cui lo sguardo umano percepisce l’animale quale Altro da sé, per poi arrivare a una vera e propria fase dello specchio, innescata dalle fattezze antropomorfe della scimmia. Inizialmente, l’eterospecifico si carica di tratti diabolici, financo demoniaci, divenendo ricettacolo di un’emozionalità che l’umano interpreta quale “odio forsennato” (ibidem): torniamo, ancora, a quell’istanza proiettiva che carica l’Altro – per vie analogiche o metaforiche – di determinate disposizioni comportamentali a esso estranee (si incappa, insomma, nell’errore di “dire” l’animale col lògos, senza lasciare a questo la possibilità di “dirsi e lasciarsi ‘parlare”). Successivamente, approdiamo a quella che abbiamo definito, in termini lacaniani, fase dello specchio, non fosse altro per il fatto che il terios diviene, con le sue fattezze antropomorfe, vera e propria superficie riflettente. Ma l’imago del simile, in tal caso, sortisce l’esatto contrario, o meglio: vi è il riconoscimento di una prossimità identitaria (scimmia e uomo sono, inevitabilmente, simili), che tuttavia cede il passo a una reductio simbolica, la quale depaupera l’animale della sua portata specifica. Eppure, per quanto demonizzata, questa scimmia prigioniera rivela, al di là del sottotesto simbolico che cerca, di cancellarne l’essenza biologica, la propria sofferenza: il suo diritto a esistere. L’aggressività che il primate, nel passo meneghelliamo, mostra nei confronti del visitatore è dunque il risultato degli effetti della cattività sull’animale stesso: al contrario del laboratorio, che rende l’animale utilizzabile, “the zoo reduces it precisely to presence-athand” (Acampora 2006, 104; “lo zoo lo reduce a ‘mera presenza’”, trad. it. di Filippi e Maurizi in Acampora 2008, 190). Kenneth Shapiro, a tal proposito, ha evidenziato come il sostituirsi della gabbia all’habitat – ovverosia il luogo dove l’animale si identifica in quanto membro di una specie – trasformi il terios in costrutto sociale fine a se stesso: When we live toward the lion (or chicken or rat) as a caged animal, we have lost both lion country and lion behaviour, both species-specific habitat and behaviour or habit. What, if anything, is the comparable loss for the animal? We turn now to a consideration of the life of an animal lived toward as generic. Beyond our social constructions of an animal in a cage, we will have to show that a particular setting is a precondition for a particular species being. Absent that precondition, we can then assess whether the resultant generic animal is a destructive trivialization or a revelation of the universal; and, finally, whether that reduction is harmful to an animal. (Shapiro 1989, 189) Animali generici, dunque, o referenti assenti. E quest’ultima accezione, che ci apprestiamo a introdurre a chiusura del nostro viaggio nel bestiario di Meneghello, riguarda soprattutto il ruolo assunto dall’eterospecifico nella società contemporanea. Come affermato da Carol J. Adams (2014, 133-164), l’animale si fa referente assente nel momento stesso in cui viene macellato e reso, di conseguenza, carne: ciò fa sì che L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 257 l’eterospecifico venga privato della sua portata identitaria e biologica, per adergere al ruolo di merce. Adams individua tre modalità mediante cui la referenza viene, in un certo qual modo, messa a tacere: il farsi carne dell’animale (cioè il suo essere morto); utilizzare un lessico ad hoc per occultarne, quando lo mangiamo, la vita pregressa (non mangiamo il “cucciolo” ma “l’agnello”; non affettiamo una “gamba”, quanto piuttosto del “prosciutto”); e, infine, attraverso una metaforica che permette di descrivere determinate esperienze umane (Adams si sofferma sulle vittime di stupro e il loro essersi sentite un “pezzo di carne”, ivi, 137). A fronte del passo che andremo ad analizzare, a noi interessa esclusivamente la prima accezione: ovverosia il processo che reifica l’eterospecifico, tale da renderlo mera “cosa”. Prendiamo questo estratto dal terzo volume delle Carte: Non si chiamavano più galline ma “polli”, pollastri. L’energia con cui venivano fabbricati (come si fabbricava ormai tutto il resto) era impressionante. Li facevano schiudere [e] li decapitavano: poi, appesi per il collo, tutti ismerdati di sangue132, venivano immersi nell’acqua bollente, spennati, squartati, ficcati in scatola, spediti, comprati, mangiati, digeriti. La gente se ne nutriva a pranzo e a cena, e cresceva di statura. (C80, 248) Dalle galline, cui Meneghello aveva addirittura attribuito “diritti” (ivi, 74), siamo passati ai “pollastri”, i quali costituiscono l’ultimo stadio della vita animale, adesso imbrigliata in quella catena di montaggio tipica dell’allevamento intensivo: il bestiario rurale e maladense, oramai, ha ceduto il passo a una società automatizzata dove l’altro di specie non solo non ha ragione di esistere, ma nemmeno di nascere (ecco perché, “venivano fabbricati”, ivi, 428). Ma viene oltremodo negato l’atto stesso della morte, ché “The animal that enters the abattoir gates is not seen as a fellow being, rather it is already no more than a resource, the raw material for raw meat (Smith 2002, 52; “l’animale che oltrepassa le porte del mattatoio non è più visto come un altro essere, ma è già diventato niente più che una risorsa, la materia prima della carne cruda”, trad. it. di Carli in Smith 2013, 12), ragion per il momento del trapasso non viene più contemplato (le cose, in fondo, non muoiono, semplicemente ‘si guastano’). Siamo, insomma, al piano zero del Grattacielo, con cui Max Horkheimer aveva descritto l’assetto verticale della società capitalista: Il passo presenta implicite consonanze con una pagina di Promemoria e, in particolare, con l’immagine dei cadaveri dei deportati ammassati nella camera a gas: “Dopo venticinque minuti entravano in azione delle pompe elettriche che aspiravano rapidamente i gas infetti […] e gli ebrei del reparto speciale addetto alle camere a gas si mettevano al lavoro […]. Si trattava di ripulire alla meglio mediante getti d’acqua i cadaveri sporchi di sangue e di feci, di separarli, staccarne i denti d’oro e i capelli […]. Quindi i cadaveri venivano ammassati sugli elevatori meccanici o sui carrelli e gettati nelle fornaci” (PRO, 80). 132 258 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Ein Querschnitt durch den Gesellschaftsbau hätte ungefähr folgendes darzustellen: Obenauf die leitenden, aber sich untereinander bekämpfenden Trustmagnaten der verschiedenen kapitalistischen Mächtegruppen; darunter die kleineren Magnaten, die Großgrundherren und der ganze Stab der wichtigen Mitarbeiter; darunter in einzelne Schichten aufgeteilt - die Massen der freien Berufe und kleineren Angestellten, der politischen Handlanger, der Militärs und Professoren, der Ingenieure und Bürochefs bis zu den Tippfräuleins; noch darunter die Reste der selbständigen kleinen Existenzen, die Handwerker, Krämer und Bauern, dann das Proletariat, von den höchst bezahlten gelernten Arbeiterschichten über die ungelernten bis zu den dauernd Erwerbslosen, Armen, Alten und Kranken. Darunter beginnt erst das eigentliche Fundament des Elends, auf dem sich dieser Bau erhebt, denn wir haben bisher nur von den hochkapitalistischen Ländern gesprochen, und ihr ganzes Leben ist ja getragen von dem furchtbaren Ausbeutungsapparat, der in den halb und ganz kolonialen Territorien, also in dem weitaus größten Teil der Erde funktioniert. Weite Gebiete des Balkans sind ein Folterhaus, das Massenelend in Indien, China, Afrika übersteigt alle Begriffe. Unterhalb der Räume, in denen millionenweise die Kulis der Erde krepieren, wäre dann das unbeschreibliche, unausdenkliche Leiden der Tiere, die Tierhölle in der menschlichen Gesellschaft darzustellen, der Schweiss, das Blut, die Verzweiflung der Tiere. Man spricht gegenwärtig viel von „Wesensschau“. Wer ein einziges Mal das“ Wesen „des Wolkenkratzers „erschaut“ hat, in dessen höchsten Etagen unsere Philosophen philosophieren dürfen, der wundert sich nicht mehr, daß sie so wenig von dieser ihrer realen Höhe wissen, sondern immer nur über eine eingebildete Höhe reden; Vista in sezione, la struttura sociale del presente dovrebbe configurarsi all’incirca così: Su in alto i grandi magnati dei trust dei diversi gruppi di potere capitalistici che però sono in lotta tra di loro; sotto di essi i magnati minori, i grandi proprietari terrieri e tutto lo staff dei collaboratori importanti; sotto di essi – suddivise in singoli strati – le masse dei liberi professionisti e degli impiegati di grado inferiore, della manovalanza politica, dei militari e dei professori, degli ingegneri e dei capufficio fino alle dattilografe; ancora più giù i residui delle piccole esistenze autonome, gli artigiani, i bottegai, i contadini e tutti quanti, poi il proletariato, dagli strati operai qualificati meglio retribuiti, passando attraverso i manovali fino ad arrivare ai disoccupati cronici, ai poveri, ai vecchi e ai malati. Solo sotto tutto questo comincia quello che è il vero e proprio fondamento della miseria, sul quale si innalza questa costruzione, giacché finora abbiamo parlato solo dei paesi capitalistici sviluppati, e tutta la loro vita è sorretta dall’orribile apparato di sfruttamento che funziona nei territori semi-coloniali e coloniali, ossia in quella che è di gran lunga la parte più grande del mondo. Larghi territori dei Balcani sono una camera di tortura, in India, in Cina, in Africa la miseria di massa supera ogni immaginazione. Sotto gli ambiti in cui crepano a milioni i coolie della terra, andrebbe poi rappresentata l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali. Attualmente si parla molto di “visione d’essenza”. Una volta che uno ha “visto” l’“essenza” del grattacielo, nei cui ultimi piani i nostri filosofi sono autorizzati a filosofare, non si meraviglia più che essi sappiano tanto poco di questa loro altezza reale e parlino sempre soltanto di un’altezza immaginaria; L’ALTRO DI SPECIE. SE MENEGHELLO RACCONTA L’ANIMALE 259 er weiß, und sie selbst mögen ahnen, daß es ihnen sonst schwindlig werden könnte. Er wundert sich nicht mehr, daß sie lieber ein System der Werte als eines der Unwerte aufstellen, daß sie lieber „vom Menschen überhaupt“ als von den Menschen im besonderen, vom Sein schlechthin als von ihrem eigenen Sein handeln: sie könnten sonst zur Strafe in ein tieferes Stockwerk ziehen müssen. Er wundert sich nicht mehr, daß sie vom „Ewigen“ schwatzen, denn ihr Geschwätz hält, als ein Bestandteil seines Mörtels, dieses Haus der gegenwärtigen Menschheit zusammen. Dieses Haus, dessen Keller ein Schlachthof und dessen Dach eine Kathedrale ist, gewährt in der Tat aus den Fenstern der oberen Stockwerke eine schöne Aussicht auf den gestirnten Himmel. (Horkheimer 1974 [1934], 287) egli sa, ed essi stessi forse intuiscono che altrimenti verrebbe loro il capogiro. Non si meraviglia più che preferiscano costruire un sistema di valori negativi; che preferiscano parlare “dell’uomo in generale” invece che del loro proprio essere; altrimenti per punizione potrebbero essere costretti a trasferirsi a un piano sottostante. Egli non si meraviglia più se essi discorrono dell’“eterno”, giacché le loro chiacchere, in quanto componente del suo cemento, tengono insieme quest’edificio dell’umanità. Questo edificio, la cui cantina è un mattatoio e il cui tetto è una cattedrale, dalle finestre dei piani superiori assicura effettivamente una bella vista sul cielo stellato. (Trad. it. di Backhaus in Horkheimer 1977, 68-70) Proprio perché collocato all’ultimo piano del grattacielo, lo spazio dove l’animale soffre è troppo lontano affinché i lamenti possano giungere all’uditorio dell’umanità: certo, Meneghello non parla di “mattatoio”, ma siamo comunque in presenza di uno spazio produttivo (un’eterotopia di deviazione, secondo Foucault133) che risponde a un’organizzazione scientifica del lavoro di marca, indubbiamente, tayloristica. L’eterospecifico è ormai preso nella filiera di un’altra catena alimentare, quella umana, e si riduce, come si evince da un altro passo delle Carte, a “macchina” fabbricatrice di cibo, il che dimostra anche lo iato, ormai incolmabile, tra ambiente rurale e una società tremendamente industrializzata: “Come macchine per fabbricare cibo gli animali sono inefficienti: in un mondo affamato non conviene fare animali: consumano più proteine di quelle che producono: sono mezzi per sperperare le proteine.” È una notizia inattesa, e stimolante. “L’antica tecnica dell’allevamento è dispendiosisima: ecco perché in passato il pollo era considerato un cibo costoso, per i ricchi e per i preti” […]. 133 Le eterotopie sono gli spazi della differenza, “une espèce de contestation à la fois mythique et réelle de l’espace où nous vivons” (Foucault 1967; “una specie di contestazione al contempo mitica e reale dello spazio in cui viviamo”, trad. it. di Vaccaro, Villani, Tripoli in Foucault 2010, 11). Nello specifico, le eterotopie di “deviazione”, tipiche della società contemporanea, sostituiscono quelle di ‘crisi’ – quali il servizio militare, il collegio, ecc. – e sono rappresentate dalle cliniche psichiatriche, le case di riposo, la prigione; i luoghi, insomma, atti a contenere la devianza (la devianza animale, nel caso dei mattatoi e gli spazi adibiti alla produzione di carne). 260 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO “Quello che si è fatto coi polli si deve fare coi bovini: ricordando inoltre che più l’animale invecchia e peggiore è la conversion ratio: 1 a 1 alla nascita, poi 3 a 1; e a due anni e mezzo è già 10 a 1. Bisogna uccidere i tori a 11 mesi al più tardi…” (C70, 433-434) Il passo può e deve essere letto a specchio con quello citato in precedenza, sia perché ne costituisce l’ideale prologo, ma soprattutto perché riflette, pars pro toto, la condizione attuale negli allevamenti intensivi dove l’animale, lo abbiamo già detto, si fa macchina produttrice: dagli aspiratori di latte sulle mammelle delle mucche, ai pulcini maschi finiti nei tritacarne appena usciti dall’uovo (proprio perché ritenuti improduttivi). Non stiamo scadendo in un animalismo becero e forcaiolo – impressione che, lo ammettiamo, spesso chi si occupa di ecocritica può suscitare – ma vogliamo semplicemente porre l’accento su come Meneghello, per quanto non sia mai incorso in un vero e proprio antispecismo, porti avanti la propria critica sulla modernità (Pellegrini 1992, 49) anche guardando al mondo animale. Tornano dunque alla memoria alcuni passi da Corpo celeste di Anna Maria Ortese (e, chissà, forse finito tra le mani di un lettore onnivoro qual era Meneghello): Penso alle mucche, ai vitelli, al toro; capre e pecore e perfino […] all’umile maiale, come a rappresentazioni celesti: mansuete, dolorose sempre, benevole sempre, magnifiche. Non vedo perché l’uomo debba pensare che gli appartengono, che sono suoi propri, che può distruggerli, usarli. Concetto tra i più barbari e nefasti, da cui procede tutta la immedicabile violenza umana, l’essere micidiale della storia, la cui meta sembra solo l’accrescimento di sé, tramite il possesso e la distruzione dell’altro da sé. […] Più uccidiamo e più siamo uccisi. Più degradiamo e più siamo degradati. (Ortese 2003 [1997], 124-125) E verrebbe allora da chiedersi, al termine del nostro viaggio, che fine fanno questi animali in Meneghello? Varie, lo abbiamo visto, sono state le declinazioni cui l’eterospecifico è andato incontro: da abitatore di soglie e di mondi tellurico-onirici, si è inserito, subito dopo, entro il regime del linguaggio e del testo, originando un ventaglio di metamorfosi e figurazioni che, in un certo senso, finivano per appiattirne la portata biologica e la sua essenza rivelatrice. Eppure, e questi ultimi paragrafi ce lo hanno dimostrato, l’animale è stato, e continua a essere, vero e proprio corpo vivente: a volte morto, in altri casi straziato, ma mai – questo ci preme ribadirlo – avulso da una biosfera cui Meneghello si rapporta costantemente, nel tentativo di superare quel dislivello tra realtà e finzione, natura e cultura, etica ed esperienza. 3 APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE Questa sezione conclusiva mira a fornire un attraversamento in verticale del bestiario di Meneghello, strutturato, come da titolo, secondo un repertorio di voci alfabetizzate. L’intento è quello di antologizzare l’universo animale sotteso opere dell’autore, imbracciando una prospettiva testualmente centrata, tale da mettere in risalto l’evoluzione stilisticotematica di ogni singola creatura, opera dopo opera (e da qui deriva l’ordinamento cronologico degli estratti). Il criterio selettivo ha tenuto conto solo di quei passaggi dove l’animale nominato rimanda – a livello di classificazione scientifica – all’ordine, la famiglia, il genere o la specie (ma non alla classe, come ad esempio i casi dove l’autore fa riferimento a “uccelli”, “mammiferi”, “insetti” e via dicendo). Tuttavia, questo non ci ha impedito di escludere quelle che potremmo definire quali “bestie eccentriche” (dalla fenice a King Kong, per intenderci), non propriamente biologiche, ma destinate comunque a rivestire una considerevole portata semantica. Infine, sono stati contemplati anche quegli estratti che non abbiamo avuto modo di analizzare nel corso della trattazione (seguiti da asterisco). La tabella posta in apertura offre ricognizione per classi di appartenenza e dispone gli animali di Meneghello in base al phylum e alla classe di appartenenza. L’ordinamento alfabetico, infine, ci è sembrato il criterio più consono a tale operazione, anche per rendere più agevole future consultazioni. Diego Salvadori, Luigi Meneghello. La biosfera e il racconto, ISBN (online) 978-88-6453-639-2, CC BYNC-ND 4.0, 2017, Firenze University Press PHYLUM Cnidari Artropodi Cordati CLASSE ANIMALE Antozoi Corallo Medusozoi Medusa Crostacei Aragosta, granchio Aracnidi Ragno Insetti Ape, baco da seta, calabrone, cavalletta, cervo volante, cetonia, cicala, cimice, coccinella, coleottero, farfalla, formica, gatta-pelosa, grillo, imenottero, libellula, maggiolino, mosca, mosca cavallina, moscone, piattola, pidocchio, pulce, scarabeo, scarafaggio, tignola, vespa, zanzara Pesci Acciuga, anguilla, merluzzo, pesce da combattimento, pesce luna, salmone, sogliola, squalo martello, trota Anfibi Girino, rana, rospo, tritone. Rettili Biscia, biacco, coccodrillo, dinosauro, drago, lucertola, mamba verde, pterodattilo, ramarro, salamandra, serpe, serpente, serpente di mare, tartaruga, vipera, vipera d’acqua, vipera del Gabon Uccelli Allodola, anatra, aquila, averla, avvoltoio, capercaillie, cardellino, cigno, cinciallegra, ciuffolotto, civetta, colomba, cornacchia, corvo, coturnice, cuculo, dodo, fagiano, falco, fanello, fenice, forapaglie, francolino, fringuello, galletto, gallina, gallo, grouse, grifone, gufo, luì, merlo, oca/oco, pappagallo, parrocchetto, passera matuggia, passerotto, pellicano, pettirosso, procellaria, picchio, pinguino, pollo, pulcino, quaglia, rondine, scricciolo, storno, tacchino, tortora, usignolo Mammiferi Agnello, alano, asino, babbuino, balena, bue, bufalo, cammello, cane, capra, capriolo, dinoterio, dobermann, cavallo, caprone, cerbiatto, cervo, cinghiale, coniglio, delfino, donnola, elefante, faina, foca, foca monaca, furetto, gatto, gazzella, giovenca, giraffa, iena, ippopotamo, istrice, leone, leopardo, lepre, lince, lontra di mare, lupo, maiale, mastodonte, montone, mulo, pantegano, pantera, pecora, pipistrello, platibelodonte, pony, puma, ratto, rinoceronte, saluki, sciacallo, scimmia, scimpanzé, scoiattolo, scrofa, siamango, tigre, topo, toro, tricheco, vacca, vitello, volpe Tab. 1.1 - Riepilogo degli animali, suddivisi per phylum e rispettiva classe di appartenenza, del bestiario di Meneghello APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 263 (Acciuga) Che cos’è l’Accidia? Dalle migliori spiegazioni risultava che fosse una forma di pigrizia, e allora perché non chiamarla così? S’introduceva irresistibilmente l’idea che fosse un pesciolino color marrone, arricciolato come un’acciuga e fortemente salato. Dicevano che questo settimo vizio capitale colpisse specialmente i monaci e gli eremiti; si svegliavano alla mattina con innumerevoli accidie attaccate al corpo, e quelli che cedevano alla tentazione del demonio le coglievano come frutti e le mangiavano. (LNM, 193) (Agnello) Che Ampelio non voleva sposarla era evidente. Lo capiva lei, lo capivano tutti. La cosa era già probabile dieci anni prima, da almeno cinque era diventata certa, poi scandalosa, poi assurda e surrealistica. Sposarla neanche morto: guai però se lei, come fece più volte, prendeva il coraggio a due mani e diceva: “E va bene, facciamola finita”. Improvvisamente da dongiovanni incatturabile Ampelio diventava un agnellino disperato, e belava. (LNM, 160*) (Allodola) Òsfor, sità de tore e rame de àlberi s’ciapi, canpane, lodole, acua, gili, dó che sti ani sità e canpagna le se catava, cubià chive, in balansa […]. (Òsfor de Duns Scoto, TRAP, 27)1 (Anatra)2 La sua voce pareva una caricatura di voce, come di creatura che non parli ma sbàttoli, imitando l’anitra sbattolona […]. (PP, 324)* (Anguilla) [Bisatto]: Propriam. “anguilla”, ma per estensione ogni animale serpente o cosa serpentiforme, di solito con sfumatura spregiativa o comico-sarcastica (e.g. per sottolineare l’aspetto striminzito, o le innaturali proporzioni). (PP, 418) Era una reginotta a raggi gamma, e caleidoscopica. La sua sostanza evanescente, oscillando, generava stupendi accidenti: fiore su uno stelo, anguilla, ragnatela, diamante… ( JUR, 58*) 1 Trapianto in vicentino da Duns Scotus’ Oxford di Gerard Manley Hopkins: “Towery city and branchy between towers; / Cuckoo-echoing, bell-swarmèd, lark-charmèd, rook-racked, river-rounderd; / The dapple-eared lily below thee; that country and town did / Once encounter in, here coped and posèd powers […]” (2011, 34, vv. 1-4). 2 V. anche “cavallo” e “grouse”. 264 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Le anguille, quello-là, non le mangiava con, ma le annegava dentro la vernaccia. (C60, 166*) (Ape)3 Nel zufolo delle api filandiere c’era il bandolo di una cosa che dardeggiava dentro e fuori dal tempo; mi sentivo uscire dal nostro man-locked set, lo spazio infinito e il tempo infinito erano gocciole di suono a mezz’altezza, press’a poco alte come la mura dell’orto, che fioccavano in aria senza cadere. Si sapeva che erano solo ave. Ava: una giuggiola che si muove, una strega striata, minuscola; un bao che non è un bao, un segreto che non si può penetrare perché non parla, una goccia gialla che punge. Ava aveta, do lo ghètu ’l basavéjo? Ava: sa te me bèchi te lo incatéjo. Non giocare con la Ava. Viene dalla zona dei noumeni, non è un bao. Ava. (LNM, 36) “Imbrogliato! Imbroglione!” gridai. Avevo visto l’ape, il rovescio della moneta tra il muschio. Almeno mi pareva di averla vista, nell’attimo tra il cadere della palanca e la fulminea presa di Bìcego; forse l’avevo soltanto immaginata. Ma ormai non c’era più posto per i dubbi. (LNM, 50*) Si domanda a questo biondino se vuol lasciar detto qualcosa, per qualcuno a casa sua in Germania, se saremo ancora al mondo alla fine della guerra. Esita, poi dice di no. Gli si domanda chi vuole che resti con lui, e lui sceglie. Gli altri vanno via. Si sentono ronzare le api. Qui la stagione è tarda per loro. Si è in piedi, quasi ci si tocca. In una specie di scossa pare di morire insieme. (PM, 188) Un baco germano fora gramaglie, s’impargola, ci è largito in veste di bambolo malato, cresce inguaribile, ogni tanto lo facciamo pungere dalle api per rendergli meno insopportabile la vita. Egli la rende più insopportabile agli animaletti che prende (è là sul poggiolo), strappa ad essi ali zampe code, getta gli avanzi palpitanti sui passanti. (PP, 356) In dialetto non è il tuono che sbùsina, se mai il tempo, sbùsina un insetto in volo o almeno visibilmente in moto o in agitazione: Le ave fèrme imòbili le sbusinava ha un effetto innaturale quasi scioccante; si percepisce dentro l’immobilità dei piccoli gusci, un’agitazione interiore, stregata. Invece Sóra la mura sbusinava le ave dice pienamente che sbusinando “dardeggiavano”. (MM, 39) “Perché quando l’ape punge fa male?” Perché l’ape ficca una punta (di corno, credo) tra i tessuti, p.e. di un braccio. “Ma perché una punta ficcata tra i tessuti fa male?” Perché questa è una proprietà delle punte (Come dire che è la loro natura: sarebbe facile andare avanti, ma a che scopo? Finisce sempre che l’ultima spiegazione si rifà alle proprietà naturali: dei metalloidi, degli embrioni, delle punte…). (C70, 339*) 3 V. anche “calabrone”. APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 265 E desso ciapo e vago, e vago a Inisfrì (e vui farme na capaneta col le cane e la crea, nove file de bisi, un gnaro de ave, e vìvare lì da me posta te ‘l praeselo do’ che le sbùsina […].) (Inisfrì, TRAP, 57, vv. 1-34)* (Aquila)5 (Aragosta) Il luogo è pieno d’inquietanti stranezze. Perché l’aragosta che nuota ai piedi dello scoglio è rossa? Rossa? Un’aragosta viva? Ogni tanto un oscuro lampi di angoscia ti toglie la coscienza. (APP, 92)* (Asino)6 Abbondavano i vestiti da prete, e non erano pochi i veicoli: calessi con un asinello, o tirati a mano, carriole, carrettini del latte, moltissime biciclette per lo più imperfette, senza copertoni, senza catena, alcune senza manubrio. (PM, 53)* Libri e insegnanti di storia non facevano mai sentire che tutto ciò che c’è stato è stato un processo […]. Non che insegnassero esplicitamente che ci ha creati Iddio, ma nemmeno insegnavano che non ci ha creati Iddio. Iddio, lo mettevano nell’ora di Religione, una specie di banco degli asini delle materie, che le veniva debolmente conteso dalla Cultura militare […]. (FI, 300)* Àseno è più usato come epiteto di insulto (o, presso le zie, di moderato rimprovero) che come nome comune di animale noto. In questo senso si dice infatti assai più spesso musso, mussato; ed è al musso, non certo all’àseno che è uno spreco farghe la barba. Anche come emblema di scarsa attitudine agli studi scolastici il musso tende a prevalere sull’àseno: l’epiteto musso-copión, un tempo importante motto legittimista nelle nostre scuole, non si potrebbe certo sostituire con un impensabile àseno-copión, mentre invece il nome del banco-dei-mussi era conteso alla pari dall’allomorfo banco-dei-àseni, talvolta agghindato da ‘banco-de-liàsini’. (MM, 74) C’è un asino che ha già in pancia gli effetti di tutto ciò che può capitargli: al momento che ti accorgi che ci sei (perché questo asino era lui, Saverio) non c’è più nulla da fare. In questa prospettiva, il cambiamento è un’illusione. (C70, 334)* 4 Trapianto da The Lake Isle of Innisfree di William Butler Yeats: “I will arise and go now, and go to Innisfree, / And a small cabil build there, of clay and wattles made; / Nine bean-rows will I have there, a hive for the honey-bee / And live alone in the beeloud glade” (1997, 35, vv. 1-4). 5 V. “vacca”. 6 V. anche “maiale”, “puledro”, “vacca”. 266 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO […] la botta con la stanga è tremenda come in quel sonetto del Belli, Se more7. L’asinello sovraccarico ha continuato a cascare, una interminabile serie di cascate: a un certo punto il padrone glielo dice di guardarsi bene dal fargliene un’altra […]. È una stangata gravida di splendidi esiti […]. (APP, 86) (Averla)8 (Avvoltoio)9 (Babbuino) Si mangiava, con le bacche e i frutti, piccolo babbuino, un brasseto a ti, un pinìn a ti, e questo ai sinistrati del Vajont… Esplodi dunque onda. (C70, 470)* (Baco da seta) Nel complesso i popolani sono più vicini alla natura. Sfojàda metteva in bocca i bachi da seta come se fossero cioccolatini, e per mezzo-gotto di vino li mandava giù. (LNM, 64)* Oltre alle filiere vere e proprie sapevo che c’erano le scoattìne e le ingroppìne, nomi di sogno. Scoattìne! Ingroppìne! Non pareva credibile guardando queste donne e ragazze col colore dei bachi da seta sul viso. Nelle case si allevavano i bachi da seta, i bizzarri ”cavalieri” che si spargevano come un minuto seme nero (la ”semenza”) e a mano a mano diventavano piccole miniature di bruchi, poi si vedevano crescere di giorno in giorno, si allargavano su ampi territori ombrosi e tiepidi di tralicci accatastati a ripiani, invadevano le stanze, brucando con forza sempre più grande la ”foglia” di moraro. La vita di queste creature colla pancia piena di seta somigliava a una febbre: il livello saliva di giorno in giorno, aggravando la fame dei malati. Già mangiavano dalle tre, poi dalle quattro; il piccolo brusio che in principio si avvertiva appena tendendo l’orecchio, diventava una vibrazione intensa, e infine un rombo. Gli uomini e i bambini arrampicati sui morari pelavano la foglia sempre più in fretta, arrivavano coi sacchi: frane di lucida foglia seppellivano i mostri deliranti che la sbranavano in pochi minuti. Ora i cavalieri mangiavano di furia: qualcuno andava in vacca, una specie di Tisi dei cavalieri che spegneva la febbre. La seta marciva dentro e si liquefaceva, gonfiando la pelle traslucida: a pungerlo con uno spillo il mostro si sgonfiava spargendo uno zampillo di tabe. Gli altri paralizzati dalla febbre e da tutto quel mangiare, s’intorpidivano e venivano deposti nel ”bosco” (le siepi di fascine in granaio) dove in pochi giorni, nello spazio abbuiato dagli schermi di carta sulle finestre, avveniva in segreto Cfr. Belli 1978 [1834], 320. V. “usignolo”. 9 V. “leone”. 7 8 APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 267 il miracolo; poi si trovavano nei rami secchi i giocattolini d’oro lustri e leggeri. La cura dei bachi da seta era uno di quei lavori supplementari che s’affidavano principalmente alle donne, perché non restassero in ozio: avevano solo da partorire fino a una dozzina di figli, da allevarne mezza dozzina, da cucinare per tutti, lavare, stirare, spazzare, rifare i letti, vuotare i vasi, lavare i piatti, cucire, rattoppare, rammendare, badare alle galline, curare i malati, pregare per il marito, andare in chiesa e baruffare un po’ con le vicine. Come riuscissero ad andare anche in filanda non ho mai capito. (LNM, 100) Si viveva tra bei rumori veri, il bruire dei bachi da seta, lo strepito delicato degli scartocci, il frullo della méscola contro il pajolo; e altri immaginari nelle camere di risonanza della barchessa. (PP, 305) Un giorno, a Saverio, devoto giovinetto a quel tempo, vennero in mente i cinesi. Madonna, cosa sono i cinesi? Come si spiegano? Si sapeva che erano tanti e tutti uguali, e che avevano inventato, come minimo, il baco da seta, e chissà che cos’altro. (C70, 113-114)* (Balena)10 C’era un negro grosso come una balena di media taglia, che suonava una tromba con gran forza; e un altro che schiaffeggiava dei tamburi, assorto, la faccia triste e fine. (C60, 89) Eccolo lì un esempio, arrivato per conto suo. “Pelago” è tutto pieno di baleni. (C70, 387)* Un libro, per essere qualcosa, deve venir su dal profondo come un mostruoso pesce-baleno. (C80, 426)* (Biacco)11 (Biscia) Qualcosa che striscia, pensiamo c’è. Viene tra l’erba e i fiori come le bisce in purgatorio12, e voltando grottescamente la testa all’indietro, si lecca la schiena. (APP, 134) (Bruco) [Il prete] Aveva della crisalide, sì, del bigatto. A poco a poco S. smise di confidargli le sue preoccupazioni. (FI, 310) (Bue)13 V. anche “pinguino”. V. “carbonazzo”. 12 Cfr. Dante, Purg., VIII, vv. 97-102. 13 V. anche “cavallo”, “iena”, “vacca”. 10 11 268 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO (Bufalo) Franco stava in piedi dietro a un tavolo su cui erano sparse le foto del Duce macellato. Franco aveva sul viso un’espressione di fastidio e rivulsione. Forse non era proprio pietà, piuttosto un senso di sconvenienza. Nel segreto del cuore, io (che ho a schifo la crudeltà, specie nelle sue forme stupide e gratuite) esultavo. Mi pareva una cosa giusta e buona che fosse avvenuto questo scempio, quasi un rito che per vie oscure purificava gli animi, e dava al duce stesso uno status più serio. Sarebbe stato ancora meglio se lo avessero ucciso coi coltelli, ma anche così poteva andare: e trovavo appropriato e poetico che lo avessero appiccato per i piedi. Venne uno con una fune e annodaoli tutti doi li piedi. Dierolo in terra, strascinavanollo, scortellavanollo. Così lo passavano come fussi criviello. Onneuno nesse iocava. Alla perdonanza gli pareva de stare… Fu appeso per li piedi a uno mignaniello… Grasso era orribilemente, bianco como latte insanguinato. Tanto era la soa grassezza14, che pareva uno esmesurato bufalo […]. (BS, 414). (Calabrone) Maggio in orto, api, calabroni; virgulti, germogli, foglie tenere, e bai dappertutto, in aria in terra sulle foglie. Mi vede questo bao? Vede un bao grando; è tutto fatto a bai il mondo, baibimbissóli, bai-lumèghe, bai-sórze, bai-càn, bai-òmini, bai-angeli che zòla come questo bao. Zòla via bao! (LNM, 36) […] la fecondazione dei fiori avviene per mezzo degli stami e dei pistilli, sui quali le api e i calabroni compiono una specie di atti impuri permessi, anzi meritori e quasi sacri […]. (PP, 315*) […] il calabrone, pesante balenottero dell’aria […]. (MM, 66) (Cammello)15 (Cane)16 Liberaci dalla morte ingrata: […] del cane in piazzola a cui la sfera d’acciaio arroventata fuoriesce fumando dal sottopancia. (LNM, 92) La ragazza maritata, quando il marito era in viaggio si faceva venire per compagnia un’amica da maritare, e dormivano nello stesso letto. Il letto era ampio; arrivavano i due fuorilegge (dal muro di cinta per il balconcino) e ci stavano anche loro. Uno era biondo e tarchiato, l’altro asciutto e bruno, uno più impulsivo, l’altro più ironico, ma tutt’e due allegri. We must love one another or die. Si amavano in quattro permutando e ridendo; il cane del cortile abbaiava tutta la notte. (LNM, 172) Cfr. Anonimo Romano, Cronica. Vita di Cola di Rienzo (1993, 283). V. “vacca”. 16 V. anche “cavallo”, “cinghiale”, “falco”, “iena”, “lepre”, “maiale”, “parrocchetto”, “vacca”, “vespa”, “volpe”. 14 15 APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 269 Alcuni di noi erano inclini a credere che in passato, come si vedono in certi tipi di cani nei quadri antichi che adesso non ci sono più, così ci fossero anche forme di atti impuri coi diti dei piedi di cui si è perso il ricordo, e che non è più possibile risuscitare. (LNM, 191) Cercava la compagnia di creature più semplici dell’uomo, come il suo cane Lillo che aveva un occhio di vetro e un’indole dolcissima […]. Una sera dopo la guerra gli amici della Compagnia (di cui molti intelligenti, e perfino dottori) erano andati a far due passi fino all’incrocio di strade e viottoli dietro il Castello, e non sapendo come trascorrere la serata erano montati in frotta sui rami di un gelso, con l’intenzione di usarli come aerei gabinetti di decenza, piuttosto per svago che per bisogno. Ampelio non ci stava e si accucciò invece sotto l’albero. Arrivò Negroponte col cane, e si fermò a guardare la notte stellata, fischiettando. Forse non si sarebbe accorto di nulla, ma il cane Lillo dall’occhio di vetro s’insospettì, intravide Ampelio con l’altro occhio, e corse a fargli festa. Ampelio cercava di cacciarlo via con qualche pedata acrobatica, senza far rumore. Negroponte domandava soavemente senza voltarsi: “Cosa c’è Lillo? cosa c’è?”. Poi andò a vedere e trovò Ampelio accucciato, e gli disse: “Riverisco”, con l’ossequio che è dovuto all’Intili-jènsa. (LNM, 222-223) Dopo un po’ sentii dei cani, piuttosto in lontananza, ma non troppo. Si udivano chiaramente i comandi in tedesco, come a un’esercitazione, e il petulante abbaiare delle bestie. (PM, 138) Dal fondo della viottola, tra le siepi folte, sotto frasche ombrose, mi veniva incontro una creatura che mi aveva visto ma non mi guardava. Era alto press’a poco come me, ed essendo indiscutibilmente un cane, sgomentava con la sola statura. Io non avevo mai visto un cane così, e neanche l’ho più visto in seguito. Era un mostro, nero di colore, e indicibilmente feroce nell’aspetto. Io non ho paura dei cani, se ho qualcosa in mano per ammazzarli; come quella volta a Merano che io e Lelio eravamo andati a rubare le mele in un orto, bruttine e acerbe, e poi le raccattavamo quasi tutte dal suolo; dalla casa venne fuori una tedesca, brutta anche lei, con due cani lupi che incitava gridando, in tedesco. Noi cominciammo ad andar via, ma a un certo momento mi venne in mente che potevo anche voltarmi, e così mi voltai, e con un gesto da teatro sfoderai la baionetta. I cani, sciocchi, abbaiavano ancora come prima, ma la tedesca cambiò immediatamente registro, e si mise a tirarli indietro. Allora cominciai io a digrignare i denti; avanzavo a scatti, e facevo una faccia come se ormai avessi stabilito di ucciderli tutti e tre. La donna si mise a strillare in italiano “No, no”, e io invece di ucciderla mi riempii la giubba di mele acerbe, sotto agli occhi suoi e dei suoi cani. Faccio per dire che non ho veramente paura dei cani, ma solo se ho qualcosa di adatto in mano però; altrimenti un po’ sì, e lì sulla collina avevo un bastoncello così smilzo, che il cane nero, grande come una giovenca, se alzavo questo bastoncello mi avrebbe sbavato in faccia in segno di disprezzo. Questo cane dell’apocalisse veniva avanti senza guardarmi, e io continuavo a andargli incontro rallentando un po’, ma simulando lo stesso ritmo nel passo, perché a cambiare il ritmo si precipita la crisi. Tenevo la testa dritta e gli occhi storti per sorvegliarlo, e ripassavo disperatamente tutto quello che c’è in Jack London sulla lotta coi cani. Ci incrociammo quasi sfiorandoci, e sentii che brontolava qualcosa 270 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO tra sé; lui guardava via, e io guardavo tutto dalla sua parte ma con la testa dritta in avanti, e quando fu passato raddrizzai anche gli occhi e non mi voltai più, e di questo cane gigantesco non ho più saputo nulla, e neanche non ne ho mai più visti di grandi così. (PM, 165-166) “La figlia?” diceva il papà di Enrico. “Anche la figlia?” “Evviva la figlia!” gridava Enrico. Il Tar diceva “Intendiamoci però: atti materiali, niente” “Niente?” diceva il papà di Enrico. “No” diceva il Tar. “La farò coprire da un cane lupo”. (PM, 181)* Non m’importava più niente di niente. Le foglie già cominciavano a morire. C’erano anche i cani, con cui certi reparti andavano alla cerca tra i campi. Io avevo un coltello speciale per questi cani, a mezza-via tra il ronchetto e la scimitarra. Me l’aveva dato un amico che era venuto a trovarci, e ci aveva lasciato gli auguri di buona guerra, e a me questo coltello; assicurava che era perfetto per i cani. Diceva che basta distendersi per terra a faccia in su, il cane passa di furia e per un attimo espone la pancia: tu alzi un po’ il tu alzi un po’ il coltello e frùn, lo scucisci da cima a fondo. Meccanicamente provavo a fare un piccolo sforzo per credergli, e quasi ci riuscivo. Certo però nel sorgo il coltello fa compagnia, e sono convinto che è ottimo contro i cani. (PM, 198) La casa è su una collina, e domina un gran pezzo del paesaggio. Corsi un bel tratto con la sensazione di essere visibilissimo. Avevo addosso l’unico vestito borghese che mi era restato a quei tempi; era un vestito da festa, un doppio-petto a righe marron scuro, ancora quasi nuovo, salvo questi ultimi strappi da filo spinato. I campi erano quelli secchi e nudi del tardo autunno, accidentati dalle arature; io correvo energicamente, in doppio-petto scuro, strascinando la gamba. La casa non si vedeva più, ma intanto mi ero ricordato della sciarpa di seta azzurra, e mi pareva ovvio che mi avrebbero inseguito. Quando fui a un chilometro, non ce la facevo più: inoltre il terreno era fatto in modo che proseguendo sarei tornato allo scoperto. C’erano delle biche, e mi cacciai dentro a una di queste; lo spazio, standoci seduti dentro con le ginocchia in su, era press’a poco la mia misura. Se passano per di qua, pensavo, speriamo che non abbiano la curiosità di guardare nelle biche; non avevo riflettuto che se hanno un cane, ci pensa lui. Questo cane mi venne in mente quando lo sentii che cominciava a abbaiare cento metri lontano. “Eccoli” mi dissi; sentivo anche la voce dell’uomo che parlava al cane, venendo avanti con lui. Decisi di restare dov’ero. Quasi quasi avevo voglia di andarci un po’, in prigione. Il cane mi veniva scovando infallibilmente; si sentiva all’abbaio che era già sicuro del fatto suo. Infatti arrivò ben presto, e abbaiava furiosamente alla bica. L’uomo venne ad aprirla, e io mi trovai seduto allo scoperto; però non era il visitatore ostinato, era un contadino. (PM, 202-203) Ma quanto ai cani, nessuno può ammirare molto i cani che abbia avuto un nonno come il mio con un cane come il suo, piccoletto, a macchie bianche e nere, con un goffo moncone di coda, Bobi, espansivo, irritante, privo di qualsiasi profondità di carattere: una mascotte. C’era una sua foto insieme con la Flora, lei spettinata, con un gran nastro in testa, spinosa, lui tutto fiero di farsi la fotografia. La gente diceva, qual è Bobi? ma solo per APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 271 scherzare, la Flora non somigliava affatto a un cane, nella foto il suo visetto allucinato ne aveva del sugo; una volpicina piuttosto… Bobi finì travolto da qualcosa nella tarda, arzilla vecchiaia. Ben vissuto vecchietto! Non era certo antipatico, e non fece mai del male a nessuno, ma non contava, non aveva peso. A me serve per girare attorno a una creatura tanto più grande, colore di zuccheroorzo nel pelo e negli occhi, profondamente malinconica, adorna di malinconia e di sventura, Rol; che un giorno un marrano prezzolato con la schioppa condusse nell’orto (noi si era stati attirati altrove con uno specchietto di ciclamini o di more), oltre il rastello di ferro che si apriva vincendo una molla; e fece svoltare non per l’onesto sentiero di destra, diritto, sgombro, tra ordinate colture, ma per l’erbaceo, sghembante, sentiero a sinistra, invaso di glauca natura. Le piante sfuggite al guinzaglio, le ortiche, le felci; la nogara nutrita da magre gocce di fiele, l’amolaro sfibrato dal troppo figliare, coi figlietti verdognoli aggrappati sui rami… Ecco l’arcana casupola con la porta di ferro, le borchie robuste: è qui. Lo sappiamo per scienza di cose non dette, il punto in cui Rol fu tradito, vide che cosa cercava l’osceno fantoccio con la schioppa; dov’è seppellito non vogliamo sapere. (PP, 298-299) C’erano bensì scontri tra fascisti e comunisti allestiti dalla zia Corinna in cucina, di fronte al focolare spento; il vano era chiuso da un telone dipinto sul quale un cane triste e brutto mangiava il berretto a un bambino triste e brutto. (PP, 309) La zia Mora voleva fortissimamente farsi mettere sul giornale e meditò a lungo di uccidere per questo il cane dell’ufficiale della posta, un’innocua bestiola a cui poi le mancò l’animo di fare un tale scherzo. (PP, 316) Dall’interno suppongo che paia piuttosto una caccia, hai cose stringenti dappertutto, sono cani con occhi disperati, non possono demordere, queste faccende non hanno rimedio, non si può aiutare chi sta nella zona tragica, è assurdo che certe culture se lo propongano come fine, lasciateci in pace nel profondo delle nostre dannate pene! (PP, 359)* [In questo punto del libro] sto parlando dei cani; un filo congiunge cose disparate, una cosa ti porta a un’altra, parlo del cane di mio nonno […]; e invece per contrasto di un altro cane che si chiamava Rol. Ho perfino fatto fatica a ripetere il suo nome, dico che a me quel cagnetto del nonno serve […] [per arrivare a Rol]. Evidentemente i miei, i nostri l’avevano fatto uccidere perché sarà stato malato o decrepito, io ero piccolo, ci avevano mandati via perché non fossimo lì. Quando siamo tornati nessuno ci ha detto niente, ma abbiamo capito ugualmente, la casa era piena di lutto, e abbiamo identificato la zona dell’ordo, il posto dove sentivamo, almeno io, che era avvenuto questo orrore. (LES, 30-31) C’era perfino un bambino che cedeva il suo cuore a un mefistofelico vecchio in cambio di un cucciolo. Da quel momento diventava molto birichino. Un giorno addirittura annegò il cucciolo in un pozzo. Lo guardò dibattersi là in fondo finché scomparve. Per riavere il suo cuore avrebbe dovuto versare un bicchiere di lagrime, ma era un circolo vizioso, per piangere ci vuole il cuore. (FI, 242-243) Tra le pecorelle c’erano anche alcuni cani […]. (FI, 261) Tre cose non risultavano veramente spiegate nei libri di fisica. Si spiegavano cose 272 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO intorno alle tre cose, non la loro essenza. Questa si può conoscere forse solo per strade dei poeti, per esempio nei sogni agitati dei cani. (FI, 313)* A casa di Franco, a Vicenza, seduto a tavola con la famiglia dialogavo con Franco su questioni di alta politica. Suo padre si intromise, espresse qualche idea che mi parve retriva, io rimbeccai brevemente, e poiché lui voleva continuare il contraddittorio […] gli dissi severamente “El tasa lu, che non capisse gnente!”. Ero a casa sua, stavo mangiando alla sua tavola, avevo almeno trent’anni di meno: e lui, invece di alzarsi, e tirarmi su dalla sedia, e appiopparmi una pedata nel culo (portava scarpe alte di foggia antica), tacque. E il bello è che nessuno dei presenti si arrabbiò, non la mamma di franco […] e non Franco stesso che pure aveva un senso molto vivo dell’onore dovuto al padre a alla madre e che con suo padre in particolare […] aveva assunto sin dall’infanzia un atteggiamento di riverenza alieno da ogni critica o sfida. Gli pareva un essere molto grande e sostanzialmente ignoto, di cui lui frequentava la zona attorno alle scarpe e alla parte terminale dei calzoni: il resto era immerso in strati remoti. Non aveva paura, gli pareva soltanto di non contare niente, di essere del tutto trascurabile… “Tutt’al più” (è un intercalare di Franco) si sentiva come un cagnetto che si strofinava con qualche cautela a quelle scarpe, ai risvolti dei calzoni… (BS, 391) Dalla curva sbucò un cagnolino che veniva avanti agitando la coda: e dietro e lui comparve una figura umana, in nero, ma non era uno dei briganti, portava la sottana, era un prete. (BS, 402)* Sto quasi per domandarmi qual è la ‘vera’ pronuncia vicentina di puareto, sia come sostantivo (“mendicante”), sia come aggettivo, e in particolare nelle esclamazioni (“poveretto!”) […]. Avevo sempre inteso che la pronuncia corrente fosse puaréto: ma oggi ho sentito la L., nata a vissuta a Thiene, simpatizzare con un cane, forse abbandonato dai padroni in vacanza, che stava accucciato davanti alla porta dell’appartamento vuoto qui di fronte, dicendo a lui, o di lui: “Puarèto!” Conosco ormai il pensiero e lo stile della L. al punto che udendo da un’altra stanza questa sua esclamazione non ho dubitato che doveva entrarci un animale ferito o malato o almeno ramingo: un animale bagnato e sconsolato in questa mattina di pioggia, che forse lei aveva già visto un po’ prima, arrivando… (MM, 38) Lo scarso rispetto per alcuni animali, segnatamente […] il can, è un tratto comune a altre lingue. (MM, 217)* Kurt stette a lungo nella clinica dei matti, e lì arrivarono a un certo punto le nuove droghe dagli effetti (lo dicevano tutti) miracolosi. Guarì anche lui e fu dimesso. Andarono a prenderlo la moglie e il cugino, in macchina. Kurt uscì dal portone, tranquillo, contento di tornare tra la gente, riprendere la vita normale. Volle guidare lui stesso la macchina […]. Andò sempre bene, arrivarono a casa sani e salvi. Kurt entrò per primo. Entrò in salotto, si gettò per terra a quattro zampe e si mise a girare per la stanza come un grosso cane, spostandosi da un mobile all’altro. Guarito! (DIS, 161)* Secondo me il running dog non è il cane da riporto, in altro modo da caccia, ma il cagnolino legato sotto il carretto. Mi piacerebbe venire a sapere che in Cina, dove mi pare sia nato il nome, dicendo zou-gou (correre-cane) intendevano proprio questo. APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 273 È strano come si invertono i ruoli nelle polemiche ideologiche. Si sentiva abbaiare al passaggio dei carretti, si credeva che fossero cani sciolti, virtuosi e feroci: invece erano legati sotto i carretti, costretti ad agitare sempre più in fretta le zampe, là sotto, per tener dietro alla corsa travolgente delle ruote… Erano i loro running dogs… (DIS, 183)* Miss Kingston rigattiera, col negozio in London Street e il cane cieco, rimbambito, che ostruiva il passaggio ai clienti e poi morì: la lasciò sola come un cane, animata soltanto dal sospetto, non so bene di che cosa, ma acuto, insistente, credo il sospetto che s’accorgessero che era matta… (DIS, 192) Faustino tornò dalla prigionia nel Kenya […], andava a caccia con un inglese e col suo cane, e questo cane si comportava in modo che a Faustino sembrava molto fuori dall’ordinario. Un giorno ne parlò all’inglese, e l’inglese annuì, e disse: “It’s an odd dog”. “Odd” disse Faustino. “Cosa vuol dire?”, e l’inglese disse: “Queer”. A Faustino (e a me) questa spiegazione che per noi non spiegava niente pareva splendida. Abbagliava. (DIS, 216-217) - Cagnara è piccola cosa, cosa da nulla, “inezia”. Non so se c’entro, o come, con la cagnara (“cagnara”) dei cani. (MR, 209)* Lo zio allevava cani da caccia e questi la mattina facevano una cagnara incredibile. (C60, 36)* Barone: cane del barone: Silenzio! […] Quando abbaiano insieme aizzandosi a vicenda, il cane e il barone, tutto rintrona. Anche gli uomini, appostati qua e là, fanno ogni tanto delle grida rauche […], pare che si abbaino tra loro. Un abbaio cos’è? Aria scossa, e insieme una forma culturale. Hanno un amore di bambina dalla voce acutissima, che scende anche lei in cortile a ore fisse. È chiaro che la creatura più importante nella vita di questo angioletto è il cane, a cui parla per mezzo di strilli veramente penetrarti, e il cane risponde con affetto furioso. (C60, 40-42) Si sente minacciato il barone, come se volessero (ma chi?) portargli via tutto, e si asserraglia nelle sue proprietà e prepara tagliole per i nemici, o le ombre, che lo minacciano […]. Se ne sta ad ascoltare, chiuso negli stanzoni della villa (rustici affreschi); impone silenzio alle donne di casa, si nutre di grida. Era capo una volta, ha comandato manipoli facinorosi, in Africa. Ora che nel mondo esterno non conta più nulla intende restare u capo qua dentro. Si è fatto una città morta, un fortilizio. Dal lontano cancello una figuretta suona […]. La grossa campanella del cortile fa il suo numero; il cane scemo parte col suo; creature umane non compaiono… . (C60, 227) “Qualche volta guardandola in viso penso a una cagna, giovane s’intende, sana, bella a modo suo, ma naturalmente animalesca, cagnesca […]”. (C60, 304)* Il cane nel cortile del vicine si era incantato nella posizione di abbaio-continuo, e abbaiava meccanicamente. Il maestro (di musica) in vestaglia uscì sulla terrazza e 274 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO disse al gruppo dei vicini: “non sentite che è incantato?”. I vicini lo sentivano da sé. Erano usciti dalle cucine e dai tinelli e si erano come schierati davanti al cane che abbaiava rivolto a loro. Il maestro osservò che dal muso del cane fuoriusciva una bava trasparente, striata di sangue. “Vomita” disse ai vicini. “Si è rotto qualcosa dentro”. Il figlio maggiore dei vicini, operaio in Germania, armeggiava per mettere il collare al cane. “Viene via il pelo” disse. Lo trascinò al cancello, lo fece salire sulla Fosvaghe dipinta a serpentelli rosa, e partì. Si vedeva il cane abbaiare dal lunotto di dietro, in modo violento e stanco, inudibile. (C60, 456) Il vecchio cane è cieco da anni, paralitico, fulvo, incontinente; la sua padrona sta seduta su una seggiola, davanti al negozietto di antichità […], non vuole più vendere i suoi oggetti […]. (C60, 510) Certo, i suoi rapporti con le cagne da caccia […], i giovanotti al caffè, le idee dei giornalisti (tromboni, pompieri: ma lui li crede oracoli) di cui legge gli articoli sul “Corriere”, sono fitti e proficui, costituiscono la metà piacevole, si può dire creativa, della sua vita: l’altra metà è spiacevole e umiliante. (C70, 152)* Mentre scrivo sento che intanto qui davanti sparano e il cane abbaia a ogni sparo come colpito. (C70, 245)* Nella villa dove riluce la mia stella, sui colli di Verona, ci sono cinque cani: due dobermann, gli altri alani. (C70, 252)* Ho visto mio nonno così e così… ho provato questa o questa emozione… così era il suo bastone di nocciolo con l’anellino d’argento, così il suo cane […]. (C80, 13)* Passava per un uomo indomabile, ma cosa c’era in lui da domare? Era un cagnetto addomesticato, con un senso residuo di indipendenza, non sporcava nella cassetta, solo a fianco. Un cagnetto a cui piaceva prendere le pose di altri animali, un giorno faceva il corvo, uno il becco… (C80, 152) Contrasto tra la vitalità di un paese (un Paese) e la sua cultura. È importante simpatizzare con la vitalità del luogo in cui si vive, le cose che la gente fa, dice, vuole. “A catso di cane” magari. “Cioè come?” chiede perplesso l’amico inglese. Spiego alla meglio il senso generale. Lui annuisce: “Sì, ma che c’entra il cane? cosa c’è che non va nel suo catso?”. Ma questo io non lo so. (APP, 21)* (Capercaillie)17 (Cappone)18 17 18 V. “cavallo”. V. “coniglio”. APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 275 (Capra)19 Le bambine a scuola e le donne in genere le chiamavamo: “le cavre”. In fondo non era un insulto, ma un soprannome quasi affettuoso, un rustico complimento. Due di queste capre, in quinta classe, mi corteggiarono apertamente. Venivano a passeggio davanti a casa, avvolte negli scialli, e passando sbirciavano in cortile dove noi giocavamo a pallone. (LNM, 45)* Il Finco volle fare anche lui una prova da una distanza simile, su una capretta da macellare; disse che avrebbe mirato all’occhio, e sparò un colpo solo; andando a vedere, la testa pareva intatta e l’occhio era un piccolo rododendro dai colori carichi. (PM, 89) (Capriolo)20 (Carbonazzo)21 Si vedeva […] il carbonazzo avvinghiato alle gambe delle contadine batterle forte colla coda. (LNM, 65) Il carbonasso dei prati di casa frustava le gambe delle contadine, ma non rompeva ossi! […]. (DIS, 78) (Cardellino) Già i cognomi sono promettentissimi […], Gardelìn (venetico e italico: forse un antico prozio che cinguettava? […]). (AM, 197 )* (Cavalletta)22 La cavalletta verde è un mandolone bislungo senza forza: sotto le ali fragili, quasi vegetali, porta una sottoveste di seta trasparente, giallina; la cavalletta castana è tarchiata e forzuta, specie nelle cianche seghettate: spara con esse come una piccola fionda, e quando spara si vedono lampeggiare le mutande scarlatte. La cavalletta verde non mangia la cavalletta castana; invece alle cavallette castane provvedevamo una dieta di cavallette verdi opportunamente trinciate, galloni magri e flaccidi a mezzogiorno, pasticcio di occhi e antenne, e alla sera la squisitezza dei petti. Molte facevano una specie di sciopero della fame, rifiutavano quei bocconi girando la testina di qua e di là, ed eravamo costretti a ingozzarle con la forza. È inutile, una certa forza ci vuole nei rapporti delle creature più grosse con quelle più piccole. (LNM, 60) V. “coniglio”, “gallina”, “vacca”. V. “lepre”. 21 Il biacco, Hierophis viridiflavus, è un serpente non velenoso, assai diffuso nelle campagne e nei giardini. 22 V. anche “lupo”. 19 20 276 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO […] le cavallette erano come pterodattili in miniatura […]. (AM, 188) Il piacere di classificare le bestie […] è niente di fronte a quello di vedere come sono fatte dentro, specialmente le più piccole, gli insetti. La chiarezza della loro costituzione pareva travolgente. Hanno effettivamente tutti gli apparati, tanto più interessanti per essere filiformi, cordoncini con nodi. Aprendo cavallette o altre bestiole con una lametta da barba, scheggiata in coltellini, lancette, piccoli bisturi, si trovava di tutto! Era incredibile. Dunque il mondo è razionale: dunque nel sottopancia di ogni insetto c’è un filo di cervello! sulla schiena non c’è cavalletta che non abbia il cordoncino del cuore! È curioso che non ci curavamo molto di accettare come fosse stato messo insieme il corpus del sapere universale. (C70, 124) C’è qui davanti a me mentre scrivo, posata sull’inferriata della finestra, una cavalletta, assai grossa, in linea con una delle sbarre verticali. Penso che sia una superstite (siamo già a fine novembre) e che abbia a cat’s chance in hell, poveretta. Questo si potrebbe sapere meglio con un po’ di studio descrittivo; non c’è problema qui, solo ignoranza. Il fatto che si sia posata verticalmente potrà dipendere da qualche suo apparato interno per reagire alla gravità: anche questo si potrebbe appurare studiando un po’. Ma, guardandola un momento, vedo che questa cavalletta nella sua organizzazione è bulky, corpulenta: ha (nel suo piccolo, un corpaccione lungo e grosso, con un ripieno di visceri come fanno le gambette a sostenerla? Anche qui c’è di mezzo la scala. Se riproducessimo questo sistema vivente su una misura per esempio di dieci metri, con la stessa densità che ha in pancia, le gambette (gambone di sette-otto metri ripiegabili in due segmenti di tre-quattro) andrebbero a farsi friggere al primo tentativo di muoversi. Ecco dove la scala ci frega! Questa cavalletta mi appare ora come una piccola aeronave di foggia imprevista, articolata, molto bella. Ma noi non possiamo fare aeronavi così, con grandi ali di garza o cellofan. Non le faremo mai, perché abbiamo la statura e il peso che ci troviamo ad avere. (C70, 260) (Cavallo)23 Le velocità in natura sono tre: trotto, galoppo, e caliera. In quest’ultima sfera può entrare brevemente anche l’uomo, quando si grida forte al compagno imbrigliato dalle redini: Caliera! È una puntata oltre un limite, simile al muro del suono. Questo avviene in natura, e nei libri vicini alla natura come l’Iliade dove i cavalli corrono di caliera, e Achille è per definizione l’eroe capace di toccare a piedi gli indici supremi. (LNM, 67)* Del resto Sterle offriva qualcosa di più del solo amore; è un bell’uomo grasso e robusto, spigliato, allegro; s’appassiona di molte cose, i cavalli, la montagna, il mare; le donne di cui s’innamorava erano trattate bene. (LNM, 170 )* Il Balilla Vittorio costava 9 lire. Fu la seconda fase, quella conclusiva, nell’educazione politica di S. […] È un racconto plausibile, terra terra […]. Sullo sfondo la terra, i bovi, i cavalli, i calessi, i lavori agricoli. (FI, 249)* 23 V. anche “gatto”, “mulo”, “vacca”, “vespa”, “volpe”. APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 277 Io non ero in paese, alla fine della guerra, mi hanno raccontato che davanti a casa nostra i crucchi passarono per tre giorni, uomini, cani e cavalli, un torrente in piena. (BS, 402)* Era una pista a forma d’uovo, un tempo matrice di variopinte corse al trotto: ma la guerra aveva sparecchiato i cavalli, e la traccia della pista si era fatta ristretta, affievolita. (BS, 502)* […] lo zio acrobatico che prendeva e porgeva la vita da tutto e a tutto, non solo alla moto Sarolea, ma alle strade, ai monti, ai motori, agli antichi cavalli del nonno, Gelsomino delicato, la estrosa Zebra, e ancora alle tute da moto, alle donne… (BS, 504)* Un frutto tenero non era tenar ma trèndo: perdendo trèndo abbiamo perduto una specie di tenerezza che uomini e cavalli del re non potranno ricuperare per noi. (MM, 17)* Come si direbbe in VIC una frase come “… lo stallone/ la sua giumenta assal per farla piena”?24 Nella vita pratica, cioè sul piano della nuda comunicazione, è probabile che si taglierebbe un po’ corto, con qualcosa come… Có che ‘l cavalo mónta la cavala, perché sembrerebbe piuttosto comico imputargli senz’altro l’intenzione di farla piena; mentre se badiamo al ‘come’ della comunicazione, al suo stile, bisognerebbe cercare degli equivalenti per ‘sua’ (anche se ci sembrasse un dettaglio psicologicamente e zoologicamente falso), di ‘assal’ (forse meno infondato per uno stallone dal temperamento dannnunziano) e soprattutto, si capisce, per la clausola finale. In chiave vicentino-dannunziana si potrebbe dire: …có ‘l ghe va in còste ala so cavala / e ‘l ghe sbòra rénto, e ‘l la inpiéna… (MM, 151)* Un parlante di Malo è scherzosamente deriso a Thiene, mimando il modo in cui si direbbe A malo col cavalo. Questa imitazione è comprensibile al parlante di Malo, che la mima a sua volta come se fosse A Mal(l)o col caval(l)o, e domanda per sarcasmo se sia da dirsi invece A Mao col cavao (magari aggiungendo in cuor sui Siòchi!). (MM, 152)* Vibrava nel vento la casa […]. Nel prato davanti a noi c’era una cavalla con un puledrino appena nato… (DIS, 187)* Ti ricordi Frontalate? non c’era al mondo un cavallo più bello, nato a Granada, a scorza di castagna, bianco in fronte, balzano da tre piedi e biondo a coda e chiome… Il più svelto, il più snello dei cavalli. E ti ricordi che tipo di botte si sferravano in quel torneo? (C60, 64)* Quanto le piaceva, nelle attrici, la sensualità! Come quando Cleopatra, pensando ad Antonio assente a Roma e fantasticando su ciò che forse starà facendo […] trasvola quel meraviglioso “O happy horse”25, fortunato cavallo, cavallo beato, che porti il gran peso di Antonio! (C70, 19)* 24 Il riferimento è a La morte del cervo, dall’Alcyone dannunziano: “a terra per dirompergli la schiena / e la cervice sotto il suo tallone, / o come nella foia lo stallone / la sua giumenta assal per farla piena” (D’Annunzio 1995 (1924), 234, vv. 61-64). 25 Cfr. W. Shakespeare, Antony and Cleopatra: “Oh happy horse to beare the weight of Anthony!” (1623 [1606-1608], 344, v. 21). 278 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Due anime, come due focosi cavalli, uno roano liberale e un baio socialista. Niente dogmi. Rifiuto di tornare indietro, dopo la presunta parentesi del fascismo, con l’idea di ricominciare al modo di prima. (C70, 369)* Altri errori sfigurano il nostro passaggio per queste plaghe, ma lei, la capercaillie, il cavallo del bosco, pensarla per un momento come un’anitra sia pure selvatica, questo riesce scioccante. (C80, 213)* Bufalo Bil l’è morto defunto che’l nava in gropa a un bel cavalo de argento lisso (TRAP, 31, vv. 1-4)26* el pulierìn zé pena nato-no ‘l sa gninte e ‘l sente tutocuanto e intorno a elo ghe zé parfetamente strampa (TRAP, 47, vv, 1-3)27* (… El dio de ‘l mare ghe ga fato du regai, el morso pa’ i cavai, el remo par remare…) e i tusi e le ragasse de colono, cossa fai? senpre là ch’i gh’in parla de sti regai, no i zé mai stufi de ciacolare tuti-quanti, de dì de note d’istà d’inverno, de cavai e de cavai del mare, cavai bianchi. (I cavai de Colono, TRAP, 73)28* Lu loda el gran ritegno de sti scritori. Mi son con lu salo? I zé bravi a tirare le rèdene, ma, sacramento, ‘ndo zelo el cavalo? (‘Ndo zelo el cavalo?, TRAP, 85)29* “Piro rubesto che co’l stava sconto te la pansa de’l cavalo de’l malaugurio […]” (I reali de Troia al macelo, TRAP, 95)30* 26 Trapianto da Buffalo Bill di Edward Estlin Cummings: “Buffalo Bill’s / defunct / who used to / rise a watersmooth-silver / stallion” (Cummings 1968, 50, vv. 1-4). 27 Traduzione in vicentino, sempre da Cummings, stavolta del componimento The little horse is newlY: “the little horse is newlY // Born) he knows nothing, and feels/ everything;alla round whom is // perfectly a strange” (Cummings 1968, 460, vv. 1-4). 28 Trapianto da Colonus’ Praise di William Butler Yeats: “(…) Poseidon gave it a bit and oar, / Every Colonus lad or class discourses / Of that oar and of that bit; / Summer and winter, day and night, / Of horses and horses of the sea, white horses” (Yeats 2010, 410, vv. 28-32). 29 Trapianto di On Some South African Novelists di Roy Campbell: “You praise the firm restraint with which they write / I’m with you there, of course. / The yse the snaffle and the curb all right, / but where’s the bloody horse?” (Campbell 1949, 192, vv. 1-4). 30 Traduzione in vicentino dall’Hamlet e, nella fattispecie, la scena fra Amleto, Polonio e l’attore: “It is not so: it begins with Pyrrhus / The rugged Pyrrhus, he whose Sable Armes/ APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 279 È natura, oltre che banale cultura, l’amore intenso, viscerale delle ragazzine per i cavalli, e supremamente per quel cavallo, le britanniche ragazzine e ora anche le venetiche, con palpiti grandissimi, cure assidue, tenerezza, trasporti? (APP, 22) In fatto di rovesciamento del corpo e ostensione delle sue intimità, anche la Morte dell’amazzone è memorabile31. C’è una groppa anche qui, il cavallo che porta la morta e la sua compagna. Nel corpo riverso si avverte come un principio di slogatura. La compagna le posa la mani su una coscia, un tocco fermo e lieve: viste da dietro le gambe spalancate della morta pendono spente… (APP, 157*) (Caprone) Un re cussì ecelente, un dio de ‘l sole Apeto de un cavrón […]. (Ah, se la desfasse, TRAP, 89)32* (Cerbiatto) […] e perfino il suo motorino (che era appunto, e non a caso, un “Cerbiatto”) con cui sulla strada di San Vito lo si vedeva ogni tanto fermo a conversare. (LNM, 63) (Cervo) Il ragazzo amava la caccia in modo sub-dannunziano, gli piaceva “piantar le frecce dentro ai cervi caldi”, tanto più eccitante che in quelli freddi. (FI, 308)* Come un cervo giovane, Wain si sforzava di correre in mezzo e dare cornate all’aria: ma nelle nostre pupille i palchi spelacchiati del capobranco torreggiavano. (C60, 412)* (Cervo volante) Una certa disposizione speculativa o poetica può far sentire come bao […] il pachidermico cervo-volante. (MM, 66)* (Cetonia) “La sai quella delle cetonie?” gli dissi. Marietto non la sapeva e così io recitai: per dare un’erba alle zampine delle […] disperate cetonie capovolte33. Naturalmente mi venne la pelle d’orca. “È praticamente perfetto” gli dissi. “Sai, aveva occhio per gli insetti”. (PM, 201) Blacke as his purpose, did the night resemble / When he lay couched in the Ominous Horse” (Shakespeare 1623 [1600-1601], 260, vv. 424-427). 31 Il riferimento è alla scultura di Arturo Martini, La morte dell’Amazzone, realizzata nel 1935 e oggi conservata a Palazzo Thiene. 32 Trapianto da Hamlet: “So excellent a King, that was to this/ Hiperion to a Satyre” (Shakespeare 1623, 153, vv. 140-141). 33 Cfr. Gozzano 2005 [1911], 218, 38-39. 280 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO (Cicala) Dormendo mi pareva che dai rami sopra di me mi venisse a cascare qualcosa in palma di mano, ma sentivo che non era una cosa escreta da uccelli petulanti, era assai più leggera, però meno leggera di una foglia. Allora mi mettevo a fare meccanicamente il mio gioco consueto, ponendomi sul piano razionale la domanda: “Che cosa può essere?” e cercavo la gamma delle soluzioni plausibili. Tutt’a un tratto ebbi la sensazione di sapere esattamente che cos’era, era una cicala. Volevo riaprire gli occhi per controllare, ma mi venne in mente una cosa curiosa, che non avevo mai visto una cicala. Non è che non avessi mai potuto vederla: basta montare su un albero dove ce n’è qualcuna che grida, perché si sa che non volano via, solo smettono di gridare, e restano ferme. Ma la verità è che non avevo voluto andarla a vedere, per qualche motivo indefinito, associato con un senso di sacrilegio. Sarà forse il modo che hanno di gridare, che per un bizzarro effetto di acustica non si sa mai se è una ragnatela di gridi sottili a poche spanne dall’orecchio, o un coro abissale grande come tutto il paesaggio. Non c’è prospettiva nello stridore delle cicale. È inutile, dev’esserci una punta di magico dentro, quel rumore non è interamente di questo mondo. Fatto sta che cicale non ne avevo mai viste, né in persona né in effigie sui libri. La cicala dev’essere senz’altro greca. È impossibile che i greci non abbiano sentito quanto è misteriosa: e per i misteri avevano un orecchio incredibile. Come si dirà in greco cicala? E quanto antica è biologicamente? Più antica dell’uomo, del cane? (PM, 192-193) (Cigno) C’è un sonetto di Yeats che ha per titolo: “Leda and the Swan”, Leda e il cigno, un sonetto del tipo che noi potremmo chiamare dannunziano, sontuoso, luccicante e fremente, vistoso. Yeats è un poeta pressappoco coetaneo di d’Annunzio e di mio nonno Piero, tre persone che mi hanno influenzato all’incirca in pari misura in settori diversi. Un sonetto piuttosto memorabile, ma la prima terzina è quella che importa qui. Ve la leggo un momento in inglese: A shudder in the loins engenders there The broken wall, the burning roof and tower And Agamennon dead34 È il punto in cui avviene l’accoppiamento di Leda con il cigno, l’amplesso dell’uccello divino, anzi il momento della concezione […]. (LES, 32)* Un’emblematica creatura, un cigno nero (piegava armoniosamente la testa di qua e di là) […]. La Malfa faceva il suo bellissimo numero inchinando lateralmente il collo (ero stato io stesso a dare un nome alla figura: la mia lingua si mosse come da sé e sussurrai “il cigno nero” e sentii che a Franco questo piacque) […]. (BS, 440-442) 34 Cfr. Yeats 1997, 218. APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 281 Non avevo mai badato molto ai cigni: sapevo dai poeti come muoiono, e avevo notato i loro rapporti con le donne, Leda, Andromaca, le négresses in esilio a Parigi. Quanto alla crudezza del loro lungo collo tortile (di nuovo, è la poesia che ne attesta le contorsioni) la consideravo una qualità eminentemente visiva, un aspetto della loro eleganza. Ma Sir Jeremy mi mise in guardia, quel collo è un organo pericoloso, una gran scuria bianca, un colpo può romperti un braccio, è una sferzata improvvisa. Tenersi alla larga… Il Tamigi scorreva tra i prati quasi a livello dell’erba, i cigni accostati alla riva stavano col becca all’altezza dei nostri ginocchi… Il carbonasso dei prati di casa frustava le gambe delle contadine, ma non rompeva ossi!, invece il cigno li rompe. E che non venga a dar di becco al membro che l’uom cela: diciamo celava, non lo cela più. C’erano frotte di cigni sul canale che entra sul Tamigi a est della città, in un residuo di quartiere vittoriano, mattoni, tende scolorite alle finestre, prode deserte, enormi gasometri, fuliggine, squallore. I cigni stessi parevano insudiciati, in pratica neri… Arrivavano echi distorti di antichi versi, riva dolente, canale di pena… Uno dei rari momenti in cui una vena di self-pity entrava nella mia vita […]. Poche centinaia di passi più in là, sullo specchio verde del fiume, i cigni apparivano invece del tutto regali, radunati a convegno o scivolando sull’acqua leggeri, silenziosi. Tanto più straordinario, per contrasto, l’effetto del loro volo. Ero con Sir Jeremy, era l’ora del tramondo. Udii un rombo lontano, lui mi disse “Look!”, alzai gli occhi sul corso del fiume a valle… Bassissime sopra l’acqua arrivavano in volo due fantastiche belve bianche, le vidi trascorrere rimontando la corrente, incredibilmente grandi e potenti, lacerando l’aria coi colpi delle ali… Un’immagine esaltante… (DIS, 77-79) La morte del cigno! Lenta a venire, ma viene, passano le estati e ancora le estati, una motta di roba estiva, e lui candido, stufo, elegante, cosa fa? Muore! Sì, era bellezza mezzo secolo fa, ma lo è ancora? (APP, 19)* Arriva Giacometti, chimica molecolare, calmissimo. […] Andiamo a passeggiare lungo il fiume, attraversando la zona dei gassometri. Vedo le cose coi suoi occhi: fanno spavento. C’è il branco dei cigni insudiciati, proprietà della regina, spiego: ogni tanto li devono catturare per lavarli, altrimenti muoiono. Nel tratto erboso tra il fiume e il terrapieno della ferrovia, ci sono anfratti dove giacciono abbracciate alcune coppie, umane, terminalmente si direbbe. (APP, 105-106) (Cimice)35 (Cincia/Cinciallegra)36 Vo fora, fo qualche passo da meso-orbo soto la luce de la matina, fra piere e russe, e a un serto punto na perùssola la tira un sigo […]. (Podìn, TRAP, 63, 4-6)37 V. “pidocchio”. V. anche “usignolo”. 37 Cfr. Yeats 1997 [1916], 109, vv. 4-6. 35 36 282 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO (Cinghiale)38 Gli apporti culturali che ci arrivano da varie parti d’Italia sono a volte quasi impalpabili. In un accento romano si sente l’abisso che c’è dietro una parola qualunque, e normalmente non si nota. “Quando la cinghiala inzeguita non può più scappare, ze volta verso i cani e s’accuccia. E aspetta.” Aspetta! Come un tuffo nel vuoto, fuori dai nostri paesaggi. (LNM, 225)* Oggi avrei case, campi, parchi fioriti, prati, boschi, orti, piscine, ciclopici allevamenti di cinghiali… (DIS, 121)* (Ciuffolotto39) (Civetta40) L’agonia durò a lungo. C’erano in casa figli figlie e molti nipoti. Verso sera la zia Nina vide una civetta sul davanzale e si mise a gridare in modo tenebroso, ma più che altro pro forma, e anche un po’ perché dopo la morte del nonno sarebbe restata lei la più vecchia della famiglia. Altrimenti l’occasione non era luttuosa, anzi aveva una naturalezza patriarcale che mi fece molta impressione. (LNM, 114*) Dopo il funerale di mio papà, siamo andati tutto il giorno in giro con le macchine un po’ a caso sui colli a Monte di Malo, a San Vito, a Priabona. Ci fermavamo qua e là per guardare dall’alto la pianura colle strisce di ghiaccio che scintillavano; ogni tanto si scendeva in una delle nostre case, e si stava insieme molto amichevolmente a chiacchierare del più e del meno. Era un pezzo che non passavo una giornata così bella. Ogni tanto andavo via, in qualche stanza vuota, dove ci fosse un letto o un divano, a singhiozzare un po’ di minuti; poi tornavo eagerly a chiacchierare con gli altri. Mio fratello più giovane sentiva più di tutti il sollievo che finalmente la cosa fosse accaduta. Ha sempre avuto in forma grave il complesso della neve fresca, quello sconforto che avvelena le ore in cui la neve sta fioccando, quando uno sa come va poi a finire. Gaetano si è sentito libero da questo rovello una volta sola, in alta montagna, per poche ore. Ha detto che da oggi comincerà per lui una nuova fase, l’attesa che muoia io che sono next. Ha detto che purtroppo è già cominciata. Ho raccontato le scene che ha fatto la zia Nina, che era next quando è morto il nonno; era uno spasso, spargeva quei lagrimoni di famiglia e gemeva “ora tocca a me”, e ogni tanto faceva uno speciale strillo funebre che un inesperto avrebbe creduto espressivo soltanto di sé e invece voleva dire, letteralmente: “in questo preciso istante ho sentito la soétta: ahi che è venuta anche lei! è lì sul balcone! non c’è più niente da fare!”. (PP, p 329-330)* […] e sul davanzale la civetta fece così (aspetta, come fece?). (C80, 13)* V . anche “gatto”. V. “usignolo”. 40 V. anche “rondine”. 38 39 APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 283 (Coccinella) Quanto alle dimensioni, è indisputabile che, per esempio, la coccinella o marìazòla-via è un bao […]. (MM, 66)* “Katicabogár” è il nome ungherese della coccinella, che dice l’“insetto di Katia”. (MR, quarta di copertina) (Coccodrillo) In Dancalia, dice Bruno che è quasi di casa, si scende da occidente per due o tre enormi gradoni; il paese scorticato si abbassa fino al livello del mare e poi sotto. Il fiume Awash ci arriva in mezzo nel gran caldo, e lì finisce: i coccodrilli tirano fuori il muso e si guardano intorno. Sabbia dappertutto. (APP, 109-110)* (Colomba)41 […] sopraggiungeva la Colomba e ci stendeva sopra il pannolino umido che soffocava i colori in una tabe giallastra. (LNM, 65)* Quando ebbi detto le parole “un po’ di tè”, arrivarono i colombi. Erano due, penso che facessero anche loro un giretto come noi, devono essere arrivati da sinistra e con poche sventolatine delle ali si erano posati a quattro-cinque metri da noi. Ci guardarono un momento, poi uno riaprì le ali e ripartì, e l’altro gli andò dietro; andarono su due metri come piccoli elicotteri, e subito tornarono giù press’a poco alla stessa distanza di prima, ma un po’ a destra, e questa volta ci voltavano le spalle. Questi colombi si misero a saballare come fanno loro, guardando il panorama. Io penso che si dicessero qualcosa, col loro stile altezzoso, muovendo la testina di qua e di là, a scatti. Io e Nello eravamo stati fulminati dalla stessa idea. Io feci segno con gli occhi “Vuoi sparare tu?”. Nello fece segno “Spara tu” ed effettivamente in cuor mio gli davo ragione, perché io ho mira. Bisognava prenderli tutti e due se possibile; ma col parabello, madonna, dovrebbe essere possibile prenderne anche trentatré in fila. Eravamo immobili, e deglutivamo forte per la paura che andassero via. I due colombi continuavano a fare la loro scenatina senza curarsi di noi; erano posati su un mucchietto di pietre. Erano abbastanza grossi, lustri di piumaggio, color ardesia con macchie glauche. Sono un po’ troppo colombi, pensavo, non sembrano neanche veri. Sollevai il parabello a mezzo millimetro per volta, liscio liscio liscio, fin che fu all’altezza giusta; poi mi concentrai sulla mira. Devo dire che a quei tempi quando mi concentravo su una cosa qualsiasi, tenere, prendere, spingere (ma a fondo, fino a non capire più nulla), ottenevo risultati straordinari. Era una mia tecnica psicologica, una specie di yoga attivistico. Il parabello aveva un mirino tondo, sarà stato largo un centimetro; farci entrare i colombi era niente, il difficile era portare i capini che scattavano di qua e di là, a coincidere col centro ideale del cerchietto. Mi concentrai, e quando mi parve di non capire più nulla sparai. 41 V. anche “falco”. 284 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Ora mi rendo conto che forse sarebbe stato meglio sparare a colpo singolo, invece per ingordigia sparai a raffica, cucendo in aria le immagini delle due testine. Quando la raffica fu finita ricominciai a vederci; lì davanti c’era il mucchietto di pietre, e più in là la sagoma di Cima Undici, e quella di Cima Dodici, e più in là ancora c’era il cielo con un pettinato di nuvole. Attorno a noi c’era una grandinata di bossoli di ottone; sopra si era formato un nuvoletto leggero che galleggiava a mezz’aria; i colombi però non c’erano più. “Dove sono?” dissi. Non lo sapeva neanche lui. L’aria, per qualche chilometro intorno era perfettamente vuota. Cercammo a lungo tra le pietre, ma non c’era nulla, solo una piccola piuma grigio-ferro che a me pareva di colombo, e a Nello no; e su una scaglia di sasso una macchiolina scarlatta che a Nello pareva sangue di colombo, e a me no. Nello mi disse: “Sono sicuro che li hai presi”. Anch’io ero sicuro, ma fa piacere sentirselo dire. Andammo a cucinarci un altro po’ di tè. Alla terza mattina uscii a prendere neve per il tè, e c’erano due uomini in piedi sul crinale. Sotto, il crinale a uovo, grigio chiaro; in mezzo questi due in piedi; dietro di loro, e su fino in cima al cielo, aria azzurra. (PM, 75-76) (Coniglio)42 Lo spazio riservato agli spettatori era ricavato respingendo e affastellando contro i muri le gabbie dei capponi e dei conigli; il pavimento a mattoni veniva annaffiato e spazzato con cura. (LNM, 65)* I conigli (di cui la forgia era la patria, e qui venivano uccisi, davanti alla scaletta di casa loro) avevano una verandina che dava sopra il letamaio, e spesso quando noi eravamo in piedi sul muretto, specie se pioveva e si doveva tenersi rasente al muro, venivano di sorpresa a lambirci l’orecchio, provocando sgrìsole. (LNM, 91) Il nostro principale legame con quel mondo (a parte queste case, e i tronconi del ponte vecchio sulla Proa, da cui il nonno certamente saltava giù con gli altri bambini del suo secolo) era la zia Gègia, sorella del nonno, che ai miei tempi viveva sola con una figlia matta in una casetta nuda e pulita qui vicino in contrà Loza. Forse non sarà stata più povera di tanti altri, ma per me personificava la povertà: sapevo che era restata sola con quattro figli, e per un periodo era stata a lavorare in Svizzera. S’industriava letteralmente ai margini dell’economia agricola del paese, raccattando pisciacani sui fossi, spigolando, e allevando conigli per i quali andava a erba. (LNM, 116*) Sono tutti per formazione operai-contadini, s’ingegnano bene, un bel pezzo delle strutture è già fatto, si distingue già l’ossatura degli interni in costruzione. In quello che sarà l’appartamento di sopra hanno messo intanto i conigli. Bianchi in soggiorno, caffellatte nel reparto-notte, separati da un tramezzo. Nelle giornate del gran caldo quando nessuno lavora li osservo con apprensione. Paiono sfibrati, siedono come piccole sfingi. Uno scrolla le orecchie, s’avvia per camminare, incespica: ups-a-daisy! Ma non pare che possa risorgere: si distende invece sul fianco, lungo lungo, con un atto d’ipertensione nevropatica. Altri cascano e si stiracchiano riversandosi nello stesso modo: non si capisce se per una sorta di 42 V. anche “gallo”, “maiale”, “leone”, “lepre”, “lince”, “pantegana” e “vacca”. APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 285 paralisi laterale del coniglio domestico, o in una parodia del giocare. Ne vedo che si affastellano tra i sacchi di cemento, uno s’infila in un bidoncino. Alcuni mi guardano scoraggiati. Su col tempo! (PP, 343) Vennero i giorni della coniglia; aspettavano il responso il paese la madre la figlia; la rosicante sibilla tacque un bel pezzo e poi disse di sì. (PP, 359)* Questa dei conigli mi era sembrata una cosa naturale e insieme una splendida trovata. La casa non è ancora pronta, intanto ci sistemiamo i conigli. E qui seguono dei paragrafi in cui racconto come cercavo di lavorare, lì nella mia stanza, con questi conigli davanti, nelle ore calde del primo pomeriggio, in cui loro mi parevano sfibrati, e anch’io ero piuttosto sfibrato… Mi nasce un moto di simpatia verso queste bestiole, l’impulso di fargli coraggio. Glielo dico anche in inglese, quando ne vedo qualcuno che casca sul fianco e si stiracchia: “ups-a-daisy!”. (LES, 23) Ma la mia anima irascibile alzava la testa e squittiva, questa è una topaia, questo è un posto per tenerci i conigli […]. (DIS, 43)* Tra i conigli ospitati nella casa in costruzione, qui davanti, ce n’è uno con le due orecchie a penzoloni dalla stessa parte, come un berretto basco a sghembo. Stasera facciamo i conti col Duce. (C60, 82) Ivi conigli tra l’erba alta umida dicevano con gli occhi pigliami pigliami. (C60, 452)* (Corallo) L’è soto acua to popà coralo i ossi da morto perle t’i busi d’i oci: popà de perle, popà de corlo, de le polpe che se desfa el mare gh’in à fato roba rica, roba rara. (Roba rica, roba rara, TRAP, 9)43 (Cornacchia) Quante cornacchie vicino a Winchester: in primavera si sentono crocidare, un suono struggente che dice cawing. Quanto vento sulle alture là intorno, come agitata la luce, quanto emotion altrui, quante colline! (DIS, 120) (Corvo) Benedetta la nostra Tebaide, dove cercavamo l’acqua negli anfratti della roccia, e il corvo ci portava la polenta e la margarina! (PM, 204) 43 Trapianto di The Ariel’s Song, da The Tempest: “Full fadom fiue thy Father lies, / Of his bones are Corrall made: / Those are pearles that were his eies, / Nothing of him that doth fade, / But doth suffer a Sea-change / Into something rich, & strange […] /” (Shakespeare 1623, 5, vv. 509-513). 286 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Passo ora a un breve epigramma […]. Sono quattro senari a rime baciate. Il sogno segreto – dei corvi d’Orvieto è mettere a morte – i corvi di Orte Da dove viene il mio sentimento di perfetta incisività poetica? Certo ha una sua parte la tecnica di Toti Scialoja, la verve delle configurazioni cORVI-ORVIeto, mORTE-ORTE, con gli echi interni di mORte-cORVI, ORvieto-ORte: è come una gabbia di fonemi a specchio… (QNB, 17)44* (Coturnice)45 (Cuculo) Quando cantava il cuculo – perché in Altipiano cantano in maggio – noi non eravamo spettatori, turisti, che lo ascoltano per loro piacere. Noi abitavamo lì nello stesso bosco, erano cose vere e non spettacoli, ora che eravamo della stessa parrocchia anche noi. (PM, 101) (Delfino)46 (Dinoterio)47 (Dodo)48 La piccolezza delle nazioni impicciolite dalle guerre si può indicare molto bene accostando il pollice e l’indice di una mano, e un giorno parlando con l’amico Angus romanziere (bravo nei racconti brevi) cercai di rappresentargli a quel modo le dimensioni effettive dell’Inghilterra nel mondo contemporaneo. “Siete grandi così” gli dissi, mostrando quanto coi polpastrelli. Angus era progressivo e spregiudicato, ma vidi il suo viso oscurarsi per la rabbia49. Si contenne però. Domando ora scusa alla sua memoria: in verità io avevo un po’ l’intenzione di offendere. E forse offendere lui, gentile e raffinato (e modernissimo) dodo, l’uccello estinto che figura in uno dei suoi titoli, ma la mia stravagante nozione della lingua inglese. (APP, 24) Quadro della cultura etico-politica cisalpina, ai nostri antichi ritorni estivi. Ardenti dispute, meschini ripicchi. Se Stalin era grande o no. Uccelli estinti. Dodos. (APP, 120) 44 Meneghello fa riferimento al distico posto da Toti Scialoja in apertura a La stanza la stizza l’astuzia (1976, 3). 45 V. “fringuello”. 46 V. “pinguino”. 47 V. “platibelodonte”. 48 Il dodo, uccello ormai estinto, dimorava presso le isole Mauritius. 49 Cfr. Wilson 1960 [1950]. APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 287 (Donnola) Angela, accertati che la gabbia della donnola abbia un reticolo di sbarre veramente stretto! (Leggendo la Carter). (C80, 252)* (Elefante) L’approccio da levante è più strano. È come se ci fosse stato un elefante, o una bestia molto simile, che camminava verso Schio rimorchiandosi dietro un erpice di collinette; arrivando all’ansa del torrente, che doveva essere pieno di acqua a quei tempi, avrà voluto bere una sbruffata e allungò la proboscide. A questo punto cominciò ad affondare […] e affondò circa tre quarti, poi deve aver toccato roccia e si fermò. Ora è tutto roccia anche lui, ed è Monte Piàn. La testa si vede bene arrivando da Thiene, profilata in scuro contro il fondale alto delle altre colline a ponente; ma per vederla di pieno bisogna spostarsi un po’ in giù, alla Vacchetta per esempio. Ha la massa poliedrica a facce ampie, irregolari e armoniose che è tipica del cranio degli elefanti, e l’angolo giusto della testa di un elefante in marcia; la proboscide è distesa in avanti, mezza interrata e mezza fuori; ci è cresciuta sopra una natta con qualche pelo, che è il Castello, e proprio sulla punta c’è il paese. (LNM, 82) S’intende l’elefante africano, non quello indiano che cammina com’è noto con la testa molto più bassa. (LNM, 267)* Naturalmente anche i quaderni di scuola riflettono il mondo, e in quelli di S. ci sono scorci sull’assetto concreto delle cose […] [come] il primo drammatico contatto con l’ambiente vicentino di città, Quando sono andato a Vicenza ho visto tante bestie oh come mi divertii tra essi vent’un elefanti. ( JUR, 33)* (Fagiano)50 (Faina) Inseguita dai cani, oltre che voltarsi spesso e fargli le boccacce (la pitóna) alla fine la faina cosa faceva? Andava ad appollaiarsi su un ramo di un albero, e s’addormentava… (MM, 136) (Falco) Si era incominciato con un dettato […]. [La poesia] [r]accontava di una baruffa tra un falco un gallo, e il professore ci aveva messo un titolo, “Il falco e il cane”. Così lo enunciò per errore nel dettarlo, ma S. non voleva convincersi che il titolo non fosse proprio quello, come se dietro agli antagonisti della scenetta (un po’ in ghingheri ma veri, non i soliti animali parlanti) ci fosse un cane protagonista, che dominava la scena senza far nulla […]. (FI, 258) 50 V. “lepre”. 288 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Scelgo ora, da Yeats, un esempio di “peso” in cui non avverto alcun senso di greve pesantezza […]. È la tenebrosa poesia sulla “Seconda Venuta”, The Second Coming, presentata come una minaccia ancora informe ma già mostruosa, in toni che riducendoli oggi (il testo è degli anni Trenta) ci paiono orrendamente profetici. Il senso di una crisi incombete è comunicato con forza quasi smodata. Il falco alto-levato in cielo non ode più il richiamo del falconiere: il tessuto del mondo si scompagina, il centro più non tiene… (MR, 153)* Dov’è il falco possente che coglieva colombe nel libero cielo? (C60, 267)* (Fanello51) (Farfalla) Lo sfondo era però quello di un mondo non vero, la costruzione del quale pareva compito precipuo della cultura e della scrittura. C’erano in esso cose riconoscibili, ma deformate. Era in atto una specie di propaganda. Passi per le farfalle a orologeria, un insetto che ha quattro alli (oltre a due elle) coperti di un pulviscolo: parola che gareggia invano ma assai bene con porpora del dialetto. ( JUR, 34)* Madonna quante arie per un cuore di pietra che del resto non è di pietra e non è un cuore sono tubi chitinosi…52 (È di farfalla la sua vitalità: puntata da spilli apre e riunisce in alto ali eleganti…) (C60, p 266-267 )* (Fenice) Per questo ci tocca […] la faccenda della fenice che muore e poi rinasce. Lei non si nutre di erbe o di biade, ma a quanto pare di lagrime d’incenso e goccette d’amomo, e le piace morire tutta fasciata di nardo e di mirra53: e un momento dopo rinasce e si ritrova bambina, lì in culla… Così pare che funzioni anche il nostro pensiero. (C70, 53 )* (Foca) Quando la mostra fu pronta arrivò il grande studioso, piccolo e grasso, muso un po’ da foca. (C60, 345) Nuotando all’imbocco di una grotta, in Sardegna, mi sono trovato davanti a una foca monaca. Mi guardava con gli occhi molto grandi e sporgenti, malinconici. Mi sono sentito come Saba con quella capra. (C80, 71) V. “grillo”. La chitina è una delle componenti dell’esoscheletro degli insetti. 53 Cfr. Dante, Inf., XXIV, vv. 107-111: “che la fenice more e poi rinasce, // quando al cinquecentesimo appressa / erba né biada in sua vita non pasce, / ma sol d’incenso lagrime e d’amomo, // e nardo e mirra son l’ultime fasce”. 51 52 APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 289 (Forapaglie)54 (Formica)55 In cortile dalla nonna osservavamo una grandiosa battaglia di formiche; e lui, con cautela, con cura, con amore, ci fece cadere sopra un ciclopico spuacio, in un punto nevralgico della mischi; e considerata la sorte delle coraggiose creature investite da un incomprensibile cataclisma. Diceva proprio così “un cataclisma…”. Forse non ho mai percepito più fortemente il senso del salto di scala: d’un tratto ero là in mezzo a misteriose ondate di spucio bianco, picchiando e mordendo nemici incappellati di spuma, impacciati io e loro da enormi filamenti gommosi, una specie di tira-molla di origine iperurania… (AM, 201) Le formicole combattono al cancello dalle sei del mattino: c’è una macchia che fermenta. Sul più bello una voce dice “Intesi!”. La laureanda ha fatto una bambina di sette mesi. (C60, 235)* Prima di dormire leggo sul cervello delle formiche. Mi capita spesso di pensare alle formiche quando penso […] alla natura del pensiero. Leggo delle formiche, mi pare di capirle e mi addormento con loro. (C60, 401) Dal taccuino di Giacomo, sbirciato col suo consenso: “Non scrivere roba che sia trifling: tenendo presente che ciò che non è non-trifling è trifling. Ma sarà questione di ciò che si scrive, o di ciò che si è? Non è vero che prima si fanno o si pensano le cose e poi si scrivono? Guarda le formiche: quelle straordinarie gallerie, quell’attività quasi elettrica, quel coordinarsi nella confusione… Anche nel nostro sistema nervoso è incisa una conoscenza (p.e. di ciò che ci appaga) che non ha a che fare con esperienze empiriche […]”. (C60, 464) (Fringuello)56 Così passammo la mattina, coi fringuelli, e le coturnici. Poi Renzo smise e andammo via, lasciando lì questi uccelli che ci davano dentro a gridare, gridare; che poi a pensarci bene, se tu ti metti dal punto di vista dell’uccello, è una strana cosa star lì tutta la mattina, a fare queste dichiarazioni in mezzo alle foglie. (PM, 127) (Furetto)57 V. “usignolo” V. anche “grillo”, “vespa” e “zanzara”. 56 V. anche “scoiattolo”. 57 V. “scoiattolo”. 54 55 290 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO (Gallina)58 Era quel momento che le cerimonie della morte sono fatte per isolare con purezza, quel momento irrazionale dello strazio, in cui esso non dà più senso e pare un sogno d’estate commentato dalle galline e dai coleotteri, in un fiotto di spazio tra qui e le colline, traslucido, infestato dal gong della campana. (LNM, 10) Queste sedioline sono quadrate, e si fanno intrecciando quattro polsi e quattro pugni. Se ne annuncia l’arrivo a un ipotetico pubblico di Donne che s’affacciano alle porte asciugandosi le mani nel grembiule. Ma le sedioline non sono da vendere, sono veicoli d’una piccola processione, e portano in gloria le madonnine ricciute, gli angeletti sudati. Sui faccini che l’omaggio da paradiso non meraviglia, si sparge poi un brivido d’ilarità quando la sediolina si sfascia sotto la tiepida grandine depositandoli per terra. Le madonnine e gli angeletti bersagliati dalle galline celesti, scalciano in aria ridendo, e si vede Venezia. (LNM, 24)* Con tutte queste insidie e queste minacce, la casa apparteneva tuttavia alla vita, ai traffici degli uomini e delle bestie (le galline della zia Lena condividevano il territorio e quasi il lavoro degli operai dell’officina, ed erano considerate una nuova mutazione di galline meccaniche), alle cose di cui è piena la giornata. Era un organismo assai più complesso delle case di oggi; conteneva ogni maniera di prodotti, granaglie e patate in granaio, vini in cantina, le stanghe dei salumi, le assi coll’uva secca; le cataste della legna, i mucchi di fascine. L’ampio brolo le portava dentro un pezzo cintato di campagna, sulle mure fiorivano il glicine e il calicanto; nel cortile arrivava su carri e carriole, in sacchi e su stanghe, la vita del paese. C’era spazio, il mondo domestico era mescolato con quello del lavoro, anche fuori dell’officina: gli uomini spaccavano la legna, gli ortolani vangavano, i muratori mescolavano la malta in cortile. (LNM, 92) Il luogo che si chiama il Feo, sul ciuffo dei monti, qua sopra Monte di Malo, non ci pareva facesse parte del mondo: era un assurdo pregiudizio, ma secondo noi ci abitava una schiatta primitiva di uomini, con le loro capre, le donne, i bambini e le galline. C’era inoltre un prete, una scoletta, un’osteria, e una volta all’ anno la sagra. (LNM, 145)* Ma sì, rubavano le galline… Era una vecchia usanza, non priva di utilità secondo me, in quanto stimolava la pollicoltura, accelerava il rinnovo genetico dei pollastri… (BS, 422)* Sono tipicamente […] i carabinieri che brincano la gente […], magari nell’atto di brincare lei le galline, i.e. afferrarle per il collo nel modo netto ed energico che consente alla gente di portarle via dal luogo dove stanno a punaro senza a sua volta consentire a loro di schiamazzare per protesta. (MM, 51)* Sul sì e i no dell’uso effettivo del becare e dello sbecare: Trascurando gli altri possibili usi del presente indicativo, consideriamo: le galine bèca (“beccano”, sono animali che danno spesso, per natura, di becco a vegetali o 58 V. anche “gatto”, “quaglia”, “ramarro”, “maiale”, “rana”, “vacca”. APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 291 animali); le galine se bèca (“si beccano”, si danno di becco tra loro) […]; le galine bèca le urtighe; le galine bèca le fanèle (strano); le urtighe bèca le galine (pensabile); le fanèle bèca le galine (grottesco: non credibile); le galine, le urtighe, le fanèle bèca le tóse […]. Naturalmente becare oltre che la capacità, l’abitudine e la tendenza a dar di becco in altrui può significare anche il pascersi a colpi di becco: come in Galina che no bèca ga becà. (MM, p 158-159)* Eravamo in bel giardino, tenuto in ordine dai giardinieri del Collegio e curato personalmente con edoardiana finezza dalla moglie del Guardiano (“Direttore”), la nostra amica Thelma. C’erano aiuole di fiori, ogni specie di fiori, e Thelma ci diceva i nomi dei più esotici; c’erano forbite aiuole di ortaggi, arbusti ornamentali, ben curati alberi da frutto. Rientrando, sulla porta della scullery ci venne incontro una gatta, che usciva pigramente. Thelma le chiese, in perfetta serietà, “Have you had your tea?” Incontrammo poi Emily. Thelma fece le presentazioni, il nome per me poetico (la Dickinson […]) mi sembrò incongruo per una gallina. Del resto non sarebbe stato un po’ imbarazzante, quando fosse venuto il momento… non sapevo come dirlo delicatamente, insomma mettere Emily in pignatta… mangiarla… Thelma piagata sorride […]. (DIS, 125) Cercare la paterna nel casino dei fati: i rumori per esempio, confusi, come il gro-gro delle galline, le cucche di mezzo-botto, i motori a scoppio, petulanti o prepotenti. (C60, 72)* Tu ti commuovi quando un drammaturgo americano fa spuntare un’alba su quattro galline umane che si sono beccate tutta la notte. (C60, 403)* Una volta le galline della nostra zona si facevano “prendere sotto” dalle automobili: aspettavano con quell’aria di idiozia quasi umana delle galline, e quell’occhietto furbo e insieme cretino che tante volte osserviamo nei nostri conoscenti e loro in noi, e poi all’ultimo momento si gettavano sotto. Sotto a mio zio Gildo, a mio papà, sotto allo zio Checco… Morivano come le mosche… Poi un po’ alla volta hanno imparato. (C70, 9) Mah! Non capivano molti altri aspetti del mondo, si sarebbe detto, ma i becchimi per le galline li capivano. Il resto ovviamente gli veniva dato per sovrappiù. (C70, 391)* […] agivo sia pure a volte meccanicamente, al modo delle galline… (C70, 432) Una volta che doveva tirare il collo a una gallina e io la seguii nel cortiletto dove avvenivano i tiraggi, si fermò col collo della gallina già impugnato, e mi disse: “Guarda un po’ che bei colori, guarda il verde scuro e il marron che pare viola… una fiamma. Questa povera stupida probabilmente non capisce che sta per rimetterci le penne. Anche alla gente qualche volta bisognerebbe tirare il collo…”. Ah, me la sono legata a un orecchio! (C70, 497)* Per questo tipo di visione era indifferente che uno avesse o non avesse mai visto, diciamo, le galline. (C80, 60 )* 292 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Quante sono le galline nella valle Padana? Sono ripartite in etnie, con diversi costumi? E in generale, qual è l’incidenza delle morti per sinistro stradale in un anno? Le galline! Animali curiosi, senza dolcezza, ma pieni di stile. Per certi tratti del comportamento fanno pensare agli esseri umani: c’è chi tra noi ha del gatto o del cane o del ramarro, ma la somiglianza con questi uccelli è straordinaria, l’occhietto fisso, il portamento della cresta, le mossette. A che punto è la scienza neurologica in materia di galline? Chi se ne è occupato in Italia e all’estero? E l’aspetto sociologico, lo studio, la scienza del loro vivere associato? Alcune cose si sanno, l’ordine di beccata ecc., ma si è messo mai l’osservatore dal loro punto di vista, distinguendo intanto tra le condizioni naturali della gallina selvatica e la società artificiale dei nostri allevamenti domestici? Mi dà un po’ sui nervi il principio che tutto va bene se è fatto a beneficio degli esseri umani. Altro è dire che siamo ignoranti e confusi, e che se ci troviamo a dover scalpicciare i diritti delle galline, lo facciamo sapendo ciò che facciamo, o meglio sapendo che non lo sappiamo: e altro comportarci come se andasse bene così. (C80, p 74-75) (Gallo) Messa prima, nel grembo insonnolito della notte, la preistoria favolosa del tempo chiamato domenica. Le stelle fuori, i primi canti dei galli; dentro, la penombra dorata e l’alone giallo delle candele. Un piccolo popolo di fedeli, poveri, usi ai lavori duri; un prete forse rozzo anche lui, che predica poco e semplicemente. Una religione che viene prima del resto, e si alza coi braccianti, i montanari, le serve, la gente che comincia a lavorare all’alba. (LNM, 183)* Guarda quell’antico nostro paesano: Me compare Giacometo / el gaveva un bel galeto / cuando ‘l canta ‘l verze ‘l bèco / e ‘l fasea chirichichì. Spiritoso galletto, avventurato compare! Ma qui si spalanca un chasm, una crepa della terra in cui sprofondano l’uomo e il suo uccello: mentre dalla parte di là, sul labbro del cratere si profila una scena di furore e di rivolta: E le done tute mate / par la perdita del galo / le rabalta anca ‘l punaro / da la rabia che le ga. Ma allora non era un galletto, era un gallo vero e proprio! Il gallo, mea lesbia, che io vidi: negro di penne, appeso a testa in giù… Fu al Rostón… Sventolavano i lembi della camicia turchina, deducevasi il costume navy-blu con la bianca cintura di elastico, e si strizzava. Gocce di acqua tiepida cadevano sul suolo che le ingoiava avidamente. Fu lì che apparvero ai miei occhi le vere proporzioni, enormi, impreviste, quasi comiche della bestia… (BS, 556)* … i galli si misero in posa per cantare… … la prima conoscenza produsse uno scompiglio… (C60, 120)* “Quando il gallo canta” non è la forma retorica di “Quando canta il gallo”? (C60, 180)* È malmesso il gallo vinto, allungato per terra il collo, la testa traforata e maciullata, sfondato l’occhio, una polpa sanguinolenta… Becca ancora in quella melma il gallo vincente, alquanto sfigurato anche lui. Così dunque è congegnato il mondo, questi orrori sono nella natura delle cose viventi. Non è ovvio che se ci fosse un Direttore onnipotente dovrebbe essere congegnato in modo radicalmente diverso dalla nostra idea (attuale, “civilizzata”) del APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 293 bene e del male? Il nostro disgusto, la revulsione e l’insofferenza per la crudeltà verso ciò che vive e sente sarà solo una fase culturale (piuttosto recente, e po’ scentrata rispetto alle realtà del mondo) o è anche un aspetto profondo, ormai stabile della nostra natura? (APP, 22) (Gatta pelosa)59 Una gatta importante è la gata-pèlósa, che è ogni “bruco”, anche glabro (e non solo i bruchi col pelo, come dicono tendenziosamente), purché di determinate dimensioni, sulla scala di un dito mignolo umano. Come al bao non fa riscontro una baa, così la gata-pelósa non ha, nella nostra lingua, un suo gato pelóso… (MM, 109 )* Arrivò un gran piatto d’insalata, e Lady Kathleen […] ne prese una foglia, e se la portava alla bocca, e per un istante, aggrappata al rovescio della foglia si vide una grossa gatta-pelosa verde, ma la brevità del tempo e lo shock della revulsione impedirono a chi la vide di intervenire. Già Lady Kathleen […] assaporava, esclamava “Oh Frida, this is delicious…” […]. (DIS, 108)* Si è incerti […] tra l’idea che “oggi non c’è argomento” […] e l’altra, che “un libro senza argomento è un po’ ripugnante, come una specie di gatta pelosa”. (APP, 27)* (Gatto)60 Le balie nostre venivano da un paese lontano detto Arquà, molto più povero e piccolo del nostro, dove c’era una gatta chiamata Petrarca alla quale avevano fatto anche un monumento. La mia bambinaia era la Ernestina, ed è tra le prime cose al mondo che ricordo. Era una cosa molto bella. (LNM, 33) Le lavandaie inginocchiate sui lavelli agitavano i panni nell’ acqua chiara; i gattini annegando nei bóji spargevano sopra gli occhietti il velo rosa delle palpebre; le scaglie di sasso rimbalzavano lietamente sullo specchio dell’acqua; i bambini facevano le roste tra i sassi, e i nuotatori drappeggiati nei giganteschi panneggi delle mutande di tela emergevano dalle sottarole a faccia in su per rifarsi la mascagna. (LNM, 84)* La cucina restò deserta, venne fuori anche la gatta che si chiamava Plòmbe ed era bellissima: la Bibbia posata sulla tavola emanava raggi neri. (LNM, 119) Anche i bambini hanno una sensibilità teologica naturale. La bambinuccia gioca col gatto e lo vezzeggia: “Etto: gioia, tesoro!”. L’ammirazione la travolge, cerca la lode più iperbolica di tutte, la sola adeguata: “Etto: Vero-dio e Vero-uomo!”. Tutto è moralizzato. “A l’inferno! la va l’inferno!” sussurrava la Franca scandalizzata e felice, avendo colto la nostra gatta, che camminava con la coda alzata, in una condizione che non merita e non ottiene perdono: era senza mutande. (LNM, 184) 59 Per “gatte pelose”, si intendono i lepidotteri della hyphantria cunea, caratterizzati da dei peli e ciuffi presenti sull’intero corpo. 60 V. anche “grillo”, “parrocchetto”, “pony”, “topo”, “vacca”. 294 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO La schioppa conteneva l’intero pacchetto: lo scoppio stracciante, il volo del cappello, i lenti passi dei funerali — e lo fece, come la gatta fa il pacchetto dei suoi gattini. (PP, 299)* Sul cantone di destra la mura smagliata faceva una sella, da cui si osservava la grande campagna del Conte; e s’aspettava se mai dai remoti confini, scavalcata la cinta irrompessero i Mòccheni con le tartare facce, o i Crucchi stralocchi nel viso, divorando conigli, gattini sperduti, volpecule, e venissero a infrangersi coi pesanti cavalli contro questo bastione del nostro paese. (PP, 300)* Forse è del tutto normale a una certa età sentire che si morirà presto. Il pensiero che la famiglia andrà dispersa genera una fitta di panico che non è bene ricevere, non ha costrutto — più probabilmente si svuoterà del contenuto che aveva, si riempirà di altro. Facciamo tutto come se fosse per sempre, ma niente di ciò che facciamo è per sempre — fare la parte che ci tocca alla fine resta l’unico senso, ma al principio non è così, né in mezzo, altrimenti non si farebbe niente. Casa vuota, corte spenta, strada senza gente, ore senza vita, i pensieri cercano la creatura più vicina, è la gatta la sola creatura, i suoi spiriti animali fraternizzano, pare più di una sorella, di una figlia, è una cosa vivente, non morirà prima. (PP, 335) Escono a prova in cortile le prime donne pomeridiane, discorrono delle cose che fanno rumore alla notte. “Prima erano gatti, ma dopo non erano mica gatti, non erano” “Erano gatti, erano” (PP, 344)* […] nella sua folta pelliccia di coniglio, o di gatto, o di un loro incrocio, calda, ridente, grassottella, piacentissima, si lasciava pilotare tra le zone di luce e d’ombra, ma pilotare dove? (FI, 331)* Sotto la superficie della nostra vita scorreva impetuosa l’aspirazione a fare una rivista […]. Però, come dico, si trattava solo di un progetto. Era un po’ come il carrettino multiplo a pedali della nostra infanzia, il favoloso caretèlo da sei posti, futuro veicolo e sede mobile del patto dei sei. Volevamo commissionarlo a Anzolo Laìn, il vecchio dedalo canuto e sdentato del nostro paese, al quale chiedemmo un abboccamento. Fu nel cupo sottoportico di casa sua, in contrà Barbè. Si venne quasi subito a parlare dei fondi necessari. Il vecchio, forse turbato dalla natura inaudita del progetto, non si sbilanciava a farci un preventivo. Piareto, per tastare il terreno, disse diplomaticamente che “così alla mano” […] “avremmo dovuto”, cioè “avevamo intanto” dieci franchi, che invece non avevamo affatto; e Anzolo Laìn col suo garbo senile, in questo caso piuttosto tagliente, ci disse che dieci franchi non bastavano “gnanca per il colore”. Io arrossii e tentando istintivamente di rimediare alla brutta figura dissi subito: “Non importa il colore”. E, invece, come un gatto della contea del Cheshire, quel simulacro di carrettino fantasma, il suo colore che non avevamo i soldi per comprare, era tutto ciò che ci fu mai del caretèlo to end all caretèi. E così la rivista. (BS, 458-459) Sembra indubitabile che el gato si diceva una volta la gata, in analogia del resto con colei che in IT ci cova, o va così ostinatamente al lardo, e con le “gatte amate”61 del 61 Il riferimento è al sonetto di Torquato Tasso Alle gatte dello Spedale di S. Anna, di cui citiamo le terzine rievocate da Meneghello: “Veggio un’altra gattina, e veder parmi / Orsa maggior con la APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 295 Tasso. Quando facciamo il sollecito alla gente […] noi facciamo le gate. Pare che queste, secondo i linguisti, non siano proprio le femmine dei gati, se mai sono gate in maschera: non però gati! È da notare tuttavia che il malato che, viene a sapere di avere un male mortale dice Són del gato, non già de la gata; e che almeno una parte di noi parla di stare o di mettersi a gato-magnao (“a quattro zampe, carponi”) e tutti riconosciamo di essere chiamati magnagati: sarebbe destabilizzante chiamarci i magnagate, e impensabile per noi andare a gata-magnà, o magnada che fosse. (MM, 109) Parlandomi del Conformista, che gli avevo dato da leggere62, Sir Jeremy rideva di gusto. È uno spasso, diceva, c’è quello studio “freudiano” su come si manifesta un impulso omicida in progressione. In una prima fase, aurorale, il soggetto decapita i fiori in giardino, poi, aggravandosi la pulsione, con una bacchetta spacca la schiena alle lucertole: segue una terza fase in cui tira con la fionda a un gatto in un giardino attiguo e lo fa secco (come si sente, diceva Sir Jeremy, che Moravia non ha mai provato a uccidere un gatto a fiondate). (DIS, 64) Un marito e una moglie, intellettualissimi, upper-middle, che Delio conosceva molto bene avendo abitato con loro a Bristol, nelle baruffe domestiche si apostrofavano a vicenda con oscuro vigore: “You, low cat!”. Bisognava entrare nella vita ordinaria della gente, per sapere […] le disposizioni emotive, le belve basse, subdole… (DIS, 96 )* Rientrando sulla porta della scullery ci venne incontro una gatta, che usciva pigramente. Thelma le chiese, in perfetta serietà, “Have you had your tea?” (DIS, 124) Ciò che più mi piace al mondo è i gatti. Potrei ascoltarli anche tutta la notte, quando fanno le loro conturbanti trenodie, ne porto spesso a casa e non mi stanco di ammirare le loro eleganze nella vita di ogni giorno, e di guardare i nuovi venuti quando la gatta li fa nell’apposita scatola di cartone in sottoscala, creaturine che poi crescono e si sposano con i loro genitori e coi nonni, probabilmente anche coi bisnonni spelacchiati. (C60, 192) Forze oscure nel mondo: beatles, pop art, gatti che tentano di morire sulla gobba dell’asfalto. (C60, 312) Vedremo a suo tempo, quando la citogenesi63 non avverrà più, quando l’idrogeno non farà più elio quando la gatta farà i cagnetti ciechi. (C60, 455)* Anche qui si cerca happiness. Si vede il drift della ricerca nell’aspetto dei giardini, nei rapporti con gli animali. Alle gatte danno il tè coi pasticcini; siedono qua e là minore: o gatte, / lucerne del mio studio, o gatte amate, // se Dio vi guardi dalle bastonate, / se ‘l ciel voi pasca di carne e di latte, / fatemi luce a scriver questi carmi” (1902, 18, 9-14). 62 Cfr. Moravia 1973 [1951], 17-18. 63 Per “citogenesi” si intende lo sviluppo della cellula; nel passo in questione, Meneghello non manca di fare riferimento (come abbiamo avuto già modo di rilevare nel corso della trattazione) all’ingegneria genetica. 296 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO enormi gatti castrati gonfi di happiness. Le galline hanno nomi di fanciulla. (Non vi fa specie, dissi, mangiare Naomi? e gli occhi risposero Orrore!). (C60, 510) Morte di un gatto in mezzo alla strada, completamente spiaccicato nel corpo, una macchia di pelle di gatto spalmata nell’asfalto, da cui si alzava una testa di gatto intera, praticamente intatta, un po’ spasimante e palpitante di emozione, ma perfettamente viva. Scomparso il suo gatto, restava questa testa surreale, attaccata all’impronta del corpo sull’asfalto. (C80, 245) La tomba del Foscolo […] si poteva riverire alla domenica passeggiando a Chiswick […]. Ero con amici, e uno di loro mi ha poi raccontato che […] avevo detto: “Mi fa l’effetto che potrebbe farmi la tomba di un gatto”. (C80, 412)* Io ho scelto la contesa col gatto selvatico (coltello) e quella col cinghiale (bastone). (C80, 498)* Nella vita non avremmo certo difficoltà a distinguere i gattini “belli” dai brutti: saranno ovviamente i più forti, i più visti, i più sani. Ma perché ci paiono belli?64 E altrettanto vale per le vacche o le zitelle, forse anche per le chiese… su che cosa si fonda, in natura, questa nostra disposizione? (QNB, 11) Zia e cugina di ogni maniera di gente, parenti e amici da tutte le parti, e speciale amica dei gatti. Negli ultimi tempi, a casa sua, alla sua tavola, qualche imbarazzo per via dei gatti… (APP, 31) Viveva al pianterreno, col gatto, in ciabatte… Non me la sento di raccontare la crisi domestica, un blocco del “bagno”, che fu la ragione per cui ce ne andammo […]. (APP, 43*) (Gazzella) È una paura disperata: da dover tappargli le orecchie e chiudergli gli occhi. Ma c’è di peggio, la bellezza femminile. Questa gli provoca una specie di panico se intravede “Adriana oppur Marcella” […] “scappa via come fosse una gazzella” terrorizzata. ( JUR, 41)* (Giovenca)65 (Giraffa) […] l’alzato di 8 mm per il collo e la testa delle b e delle t, l’interrato di uguale misura in cui affondano le code e le zampe delle g e delle p: mentre le giraffe delle f riempiono tutto lo spazio. ( JUR, 26) 64 65 Rimando a La bbellezza di Gioacchino Belli (1978 [1834], 363, 12-14). V. “vacca”. APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 297 Anche di Lorenzo, in base alle mie lastrine, ne pensavano molto bene. Io invece più avevo letto e meno mi sentivo sicuro: non mi sbilanciavo (internamente) né in bene né in male. Avevo tentato di ricostruire un momento della sua vita postuma, quando il Vasari dipinse il suo ritratto. C’è una giraffa e altri animali. (C60, 349-350*)66 (Girino)67 (Granchio)68 Arrivai al varco verso sera. L’aria era diventata più fredda […]. Entrai giù tra gli arbusti sotto la roccia, e quasi subito vidi la Sfinca […]. Andai verso di lei impugnando il fascio delle ortiche. Senza dar segno di vedermi la sfinge si alzò sulle quattro zampe e mi girò il didietro. Al centro di esso c’era una zona dissestata in cui una bestiola simile a un granchio affondava le chele e il becco. Quando cominciai a orticare, questo granchio andò ad appiattarsi nelle zone sottane, e il buco del didietro restò lì, pulito e brillante. Orticai ben bene, fin che la Sfinca si voltò, sempre a quattro zampe […] . Io recitai come mi era stato imposto la filastrocca, in greco antico, che traduco così: “Sputa Sfinca i tuoi segreti / e fa’ presto / altrimenti ti molesto”. La creatura si irrigidì […]. Emetteva una specie di grugnito che dopo un po’ si fece parola. Traducendo alla buona: “I segreti, giovanotto / sono otto / te li svelo e non indugio: / sono otto i miei segreti / quattro tristi e quattro lieti / due negli occhi due nel naso / due nei buchi degli orecchi / scelti (tristi o lieti) a caso / i restanti uno per sorte / uno in bocca ed uno in culo. / È la legge del pertugio / non carta sasso forbice: / bocca vita culo morte”. (C70, 464-465)* (Grifone)69 (Grillo)70 La prima poesia che composi io in italiano era breve e diceva: Ultima sera d’agosto sotto le brache c’è un mostro. 66 Meneghello fa riferimento all’affresco di Giorgio Vasari e Marco da Faenza, Il Magnifico che riceve l’omaggio degli ambasciatori (1556-1558), presente nel quartiere di Leone X in Palazzo Vecchio. Nell’opera, oltre a due giraffe (situate sul lato destro in alto), sono presenti due cavalli (su uno dei quali è seduto Lorenzo), due leoni al guinzaglio e un cagnolino (con tutta probabilità, un cavalier spaniel). Il Magnifico, non a caso, aveva già ricevuto in dono, nel 1488, una giraffa dal Sultano di Babilonia (che, tuttavia, non essendo abituata al clima, morì l’anno successivo). 67 V. “rana”. 68 V. anche “scarabeo”. 69 V. “leone” e “leopardo”. 70 V. anche “pecora”. 298 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO La insegnai a Bruno, e verso la fine d’agosto, quando i grilli strillano più disperatamente, la cantavamo in cortile, accucciati fianco a fianco sotto la mura del Professore, perché di notte il cesso era considerato troppo lontano per i bambini. In seguito istituii delle anteprime nell’ultima settimana di luglio, quando nelle notti serene cominciano già le prime strillate piene dei grilli. Alla fine del mese si smetteva, per ricominciare nell’ultima decade di agosto. Ricordo l’emozione e il senso di fulfilment che si provava la sera del 31, quando le parole corrispondevano esattamente alle cose, come se l’anno fosse venuto all’appuntamento, e i grilli sembravano impazziti. (LNM, 34-35) I grilli, in agosto, cominciano a strillare quando la luce scema, verso le sette di sera, e le collinette s’inazzurriscono. L’aria si rinfresca, gli scherani rientrano nelle loro tane, i bambini nelle aie gridano, in guerra come in pace, e i cani abbaiano allegramente in mezzo ai bambini. (PM, 191) C’è un bambino, a scuola dalla Gabriella, che disegna i grilli, ma si specializza nelle tane. La pagina è tutta piena di tane color marrone, lunghe lunghe, scure. (C60, 35) L’altroieri sera per la prima volta ho sentito i grilli. Era il 4 agosto. (C60, 352)* (Grouse) E grouse vuol dire grouse: è any of a number of game birds71 della famiglia dei Tetraonidi, ordine Galliformi naturalmente: la più famosa è la grouse nera, che c’è anche in Galles e in Scozia, iridescente blu-nero il cock (bel nome cock72)… È buona da mangiare, scottata appena, praticamente cruda. La caccia si apre in agosto. In breve, amico, no so proprio come ho fatto a parlarne, a tavola, come se fosse un’ànatra! (C80, 213)* (Gufo) Cinque gentiluomini, cinque gufi, cinque casi di maturità raggiunta. (C60, 289*) “La grande Madonna del tavolone pisano appollaiata sul trono come un gufo bluastro sui pioli di una voliera dorata…” con quel che segue. (APP, 64*)73 71 Meneghello riprende la definizione dall’Encyclopaedia Britannica: “Grouse, any of a number of game birds in the family Tetraonidae (order Galliformes)”, <https://www. britannica.com/animal/grouse> (07/2017). 72 Meneghello gioca, ovviamente, sull’alternanza tra il significato comune (quello di “gallo”) e lo slang, dove cock indica l’organo sessuale maschile (come, in italiano, accade per la parola ‘uccello’). 73 La citazione tra virgolette rimanda a Roberto Longhi, Giudizio sul Duecento (1974, 11), come rilevato da Anna Gallia e Cecilia Demuru nell’apparato critico posto a fine delle ‘nuove carte’ (APP, 257). Longhi, nel passo citato da Meneghello, fa riferimento alla Maestà e storie laterali del Maestro di San Martino, oggi conservato al Museo Nazionale di Pisa. APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 299 (Iena)74 Venne Monsignòr a benedirlo un pomeriggio sul tardi, e via. Stettero in Africa vari anni, e tiravano dei bei soldi; tornavano di tanto in tanto magri e abbronzati, e riuscirono a rimpatriare in tempo un po’ prima della guerra. Lo zio Checco in Africa era disturbato dalle jene, e dice che dormiva col braccio fuori dalla tenda per strangolarle con comodo. (LNM, 131) La società delle iene (almeno quelle dell’Africa centrale, di cui ho notizia) ha naturalmente una storia, e tuttavia è opportuno in pratica trattarla come un sistema chiuso, in modo da farne emergere le strutture: il ruolo delle femmine, tanto più prestigioso di quello dei maschi, la tecnica dei maschi, la tecnica di caccia, la stupefacente preferenza per lo sterco e il pelo come alimenti… (JUR, 21) Di pensiero in pensiero arrivo alle iene (ci arrivo spesso: sono maestre di vita, e inoltre frangono così stupendamente ossa e metalli con quelle sovrumane ganasce!) […]. (MM, 25)* […] il bue della steppa tenta di scrollarsi di dosso il cane selvatico, o la forte iena, e qualche volta ci riesce, ma il più delle volte no. Quei killer innocenti e quelle vittime hanno fratelli e sorelle con cui i loro rapporti sono, rispetto ai nostri, rudimentali ma schietti… (C70, 148) (Ippopotamo) Siamo ciò che siamo stati: siamo come ci ha fatto il giro dell’esperienza, le cose viste, la gente con cui siamo entrati in rapporto, i libri letti. Abbiamo alle spalle una folla di presenze, alcune ingombranti come ippopotami, altre evanescenti e remote. (APP, 91) (Istrice) Si vedeva da vari segni esterni che aveva fatto una notte agitata: i capelli, specie sopra la testa e sulla calotta posteriore avevano subito una specie di piega naturale, come se la parte irascibile della sua anima si fosse diffusa a vapore attorno alle ciocche, irrigidendole. C’erano ciocche incrociate, disordinate, stecchite. Pareva un istrice parzialmente spennacchiato. (C60, 38)* (King Kong) […] una Segretaria voluttuosa, vestita strettamente di rosso, con un bruto chiamato King-Kong (che teneva in mano una donna quasi nuda) e coi lunghi capelli di una Vergine Sacra chiamata Luana, che era anche lei praticamente in camicia. (LNM, 165)* (Leone)75 Liberaci dal luàme, dalle perigliose cadute nei luamàri, così frequenti per i tuoi figliuoli, e così spiacevoli: liberaci da ciò che il luàme significa, i negri spruzzi della morte, la bocca del leone, il profondo lago! (LNM, 92)* 74 75 V. anche “leone” e “rinoceronte”. V. anche “lepre”, “pterodattilo”, “puma”, “rana”, “puledro”, “sciacallo”. 300 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Sempre nel dopoguerra, una domenica ricomparve Faustino. Era stato prigioniero degli inglesi in Africa, e parlava infatti l’inglese a meraviglia, e ne insegnò anzi un po’ anche a me. Diceva anche di aver cacciato il leone con la lancia, ma naturalmente non gli credevamo. (LNM, 213) Sono scene di guerra, e scene di caccia: da un lato assedi, battaglie, fughe, prigionieri, sgozzamenti, avvoltoi, fiumi pieni di morti; dall’altra il re che saetta le bestie dal carro, le gabbie in cui sono state trasportate le bestie per offrirle alle sue frecciate, leoni specialmente, drogati direi, irti di dardi, la celebre leonessa trafitta nella schiena, paralizzata, il leone ormai ridotto allo stremo, che ce la fa appena a tenersi in piedi, e vomita a ventaglio il sangue e la vita… (JUR, 66) Eccolo lì il leone! E nota che il leone reale ha tratti tipicamente umani, litigioso, sfaticato, opportunista, piuttosto fifone… La leonessa è molto meglio, ha una vita durissima, a volte trova da mangiare a volte no, quando va molto male le conti facilmente le costole, le iene rissose la scacciano… Tutto quel mangiare, la carcassa insanguinata, purulenta… una civiltà complessa e un po’ spietata. Come sceglie la ragione tra le iene e la leona? Non ci vorrebbe uno statuto? (C60, 387-388) […] molarme na satà da león? […]. (Conforto de carogna, TRAP, 19, v. 11)76 (Leopardo) Negli spazi sottostanti si entrava qualche volta nel sonno: si imboccava uno scacco aperto nel fondo di una spelonca, e dopo un breve tratto, a una svolta, compariva un corridoio scavato nel metallo, guardato da creature d’oro, grifoni, leopardi, arcieri pronti a scoccare. (BS, 400) (Lepre) D’un tratto il Finco mi mise fermamente una mano sul braccio, e io trasalii. Capivo che c’era qualcosa di importante da guardare, ma non sapevo dove. Poi vidi che a due passi da noi c’era un leprotto. Doveva esser venuto fuori da un cespuglio, era arrivato in mezzo alla radura e lì si era messo a sedere, e guardava il panorama. Il Finco era elettrizzato, avendo la mira che aveva, e la pistola in mano, e un leprotto a due passi; voltava gli occhi verso l’alto, e si vedevano passare sul suo viso le bestemmie che pensava. Era un momento bellissimo, le parti in ombra dell’aria erano limpide e fresche, le fogliette appese ai rami una di qua una di là, una di qua una di là, erano come membranucce luminescenti in controsole. Di queste patacche luminose era tutta piena l’aria attorno alle nostre teste, lì davanti era campito il verde su cui era pennellato il sole radente, con questo leprotto seduto. Qualcuno dietro di noi spezzò un rametto, il leprotto fece una mezza voltatina, e in tre salti, senza vera fretta, s’infilò nella macchia. Il Finco criticò Dio sottovoce. (PM, 87) 76 Trapianto da Carrion Comfort di Gerald Manley Hopkins: “[…] lay a lionlimb against me?” (1995, 44, v. 6). APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 301 Non era particolarmente fascista la zia: diceva senza vera soddisfazione politica, È proprio così, vincono i fascisti. Una forma di soddisfazione c’era, di fonte penso ignota a lei, e invece a me no, perché se la so ora deve voler dire che in qualche modo l’avevo capita. Quel popolano, Nando, che non aveva affatto il muso da contrabbando, ma da coniglio o da lepre, aveva due cognomi, uno del padre adottivo e uno da me non mai usato o nemmeno creduto, del padre naturale. Due cognomi, e la zia li usava entrambi, e lui stava in una corte di poveri in via Barbè, ed era possibile farlo combattere senza disdoro e senza pericolo come un coniglio da combattimento, un gallo — Capisco scrivendo che anch’io dunque venivo a essere usato almeno come un gallo, di questo no che non me n’ero accorto… (PP, 308) L’idea che una volta corre il cane, una volta il lièvore mi è sempre parsa un po’ fatua. In natura non fanno i turni: ciò che si alterna sono le loro fortune nel correre, come le nostre. (C60, 58) (Libellula)77 Un angioletto volò via da un cortile qua sopra casa nostra in Capovilla. Questo era un cortile di terra, non come il nostro coi ciottoli. C’era l’impastatrice della creta: un asinello stordito girava, girava attorno alla buia cavernetta affondata nel terreno, in cui lunghe lame d’acciaio sciabolavano la creta. Via dalla macchina dei coltelli, bambini! Però se la palla di gomma ci ruzzola dentro, si va a vedere, si allunga la mano. I pezzettini di angelo hanno ciascuno il suo paio di ali trasparenti come quelle delle libellule, e salgono per conto loro. (LNM, 11)* Noi chiamiamo cava-òci la libellula, l’aerea ‘bilancetta’ (LAT ‘libra’) dei nostri torrenti. Il primo suo nome vicentino è sitón, che certo non fa pensare alla miracolosa eleganza delle sue grandi ali trasparenza, e a quella facoltà di librarsi (‘libra’) in aria come per virtù di un fremito nella gamma dell’invisibile. Sitón dice invece, un po’ rozzamente, l’altra straordinaria qualità del suo volo, quello schincare fulmineo, e saettare da uno a un tutt’altro luogo dell’aria, senza che l’occhio possa nemmeno cominciare a seguirlo… Può darsi che questo si riferisca anche cava-òci, una elementare definizione contadina dell’illusione ottica, il senso (che abbiamo guardando il cava-òci sospeso in aria sparire all’improvviso, e ricomparire altrove, ugualmente sospeso) di restare per un istante orbati della vista. Pare più probabile però che il nome derivi dalla credenza che questa creatura orbi la gente in modo meno illusionistico, le “cavi” letteralmente gli occhi, forse pungendoli e succhiando quella gelatina… Forse non si può pretendere di esprimere con un nome queste e altre proprietà magiche del cava-òci: per esempio la qualità vaporosa e insieme metallica dei colori che traspaiono in quelle ali di garza; o l’aspetto quasi extraterrestre dei suoi propri occhi, che non è una meraviglia che ci facciano temere per i nostri… C’è un nome gentile, un nome gentile, conseguenza di un modo una volta tanto meno crudo di vedere le cose, che si usa (si usava?) nella Bàkska in Voivodina. Lì il nome del cava-òci è Tisza-viràg [sic], il fiore del Tibisco […]. (MM, 223-224)* 77 V. anche “talpa”. 302 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO (Lince) Il mio coniglio da riporto, soffice pelo color coniglio, è morto. È stata la lince a sbranarlo, il mio diletto coniglio Giancarlo, in un boschetto vicino a Grantorto: con un’unghiata gli ha aperta la faccia, ne ha fatto un orrendo strapazzo, scucita la gola, scucita la pancia… E non avere modo di aiutarlo, non potere fare un cazzo, mentre la lince gli dava la mancia… È potente la lince, l’artiglio è pesante, tremendo l’impianto dei tendini, feroci gli istinti: assale alle spalle, rivolta la vittima, le immerge nel tenero i denti, le mangia per prime, se ha palle, le palle… E dopo lo scempio i lamenti. (C80, 103) (Lontra di mare)78 (Lucertola)79 (Lucciola)80 (Luì)81 (Lumaca) Credo che Fabretto sia stato mandato ai Campi-piani per ragioni di salute; è un posto tranquillo, fuori dal mondo, press’a a poco come il Feo dove una generazione fa era stato mandato don Emanuele. Il mio primo incontro con don Emanuele avvenne appunto lassù. Si faceva una gita in macchina, per provare la Uno, e andammo a trovarlo. Sedevamo sulle sedie impagliate in cucina; la porta era aperta ed entrava un sole mite che coloriva i mattoni; doveva essere la fine dell’autunno. Il prete ci faceva vedere certe gabbiette e cassettine con dentro gusci di lumache sigillati e pieni, gran novità per me. “Papà, cosa ne fa il prete delle lumache?” Mi dissero che le mangiava. Intesi così il perché di quell’aria vaga di castigo, di scandalo appena sopito che m’era parso circondasse la casa e l’uomo. Grazie tante! con quel vizietto delle lumache! Solo molti anni dopo conobbi don Emanuele per quello che era, il prete più ubriaco della provincia. Aveva fatto il cappellano o il parroco in un altro paese, poi l’avevano messo lassù a purgarsi anche lui come le sue lumache nelle gabbiette. (LNM, 200) E vennero le lumache. Erano grandi lumacone scure di quelle senza casetta, e uscivano di notte. La Rita ha un terrore speciale delle lumache, il loro silenzio, la loro mollezza, l’inesorabilità del loro moto quasi invisibile la sconvolgono. La prima che trovarono in spazzacucina (cioè nel cucinino), mio fratello la caricò V. “pinguino”. V. anche “talpa”. 80 V. “ramarro”. 81 V. “usignolo”. 78 79 APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 303 su un pezzo di cartone, la portò fuori in cortile: s’illudevano che fosse arrivata lì per caso. Poi una sera tornando dal cinema a mezzanotte ne trovarono tutta una mandra sparsa per la casa, manze nere, e alla Rita venne un grande accesso di nausea, e tutta la notte ebbe la pelle d’oca. Ogni volta che stavano fuori alla sera, la Rita tornava con la pelle d’oca già innestata, voleva vicino suo marito prima di accendere la luce: la luce saltava di getto sulle atroci manze nere in ordine sparso sui pavimenti. Il centro di diffusione era lo spazzacucina, ma di lì s’irradiavano per tutto il pian terreno, montavano sui muri e sui mobili, entravano nei barattoli. Mio fratello si metteva a rastrellarle, eccitato, contagiato dalla pelle d’oca della Rita, furibondo con se stesso. La lumaca non si può convenientemente schiacciare (sporca), o tagliare col coltello (si arriccia), o raccogliere colla paletta (aderisce) per gettarla nel bidone della spazzatura (evade). Bisogna staccarle a una a una, incartocciarle in un giornale, e andarle a scagliare nel letamaio in fondo al cortile. Finalmente mio fratello scoperse il sale. Il sale è nemicissimo della lumaca, gliene spargi sopra una manciatella, la sua pelle lo beve, e il sale rapidamente la attacca dall’interno e la dissolve; resta un grumetto di schiuma che si cancella con uno strofinaccio. Inghiottendo lo schifo, mio fratello andava attorno col cartoccio del sale; per far presto (è di cuore tenero verso gli animali) versava dosi disumane, e le lumache si scioglievano letteralmente a vista d’occhio. “Non abbiamo mai avuto lumache in trent’anni che sono stato qui,” dicevo io “è una pura coincidenza.” Mia moglie sussurrava “Si vede che le hanno portate dentro coi cavoli”, e cercava di spiegare con tatto alla Rita che non bisogna tenere i cavoli in casa. Io e mio fratello provammo a risolvere il problema scientificamente: la generazione spontanea non esiste, dunque da dove vengono queste lumache? Tappammo tutti i buchi, murammo i finestrini con montagnole di sale, cauterizzammo gli anfratti, allagammo lo spazzacucina coll’acqua bollente. A volte per una sera o due sembrava che avessimo vinto, ma poi si ricominciava. Accendendo la luce, apparivano le gigantesche bestie al pascolo sui pavimenti, sui muri, sui mobili. Per gli sposi fu un inverno terribile. Io m’ero intestato ad andarci a fondo in questa faccenda, e mi misi a leggere libri e articoli sulle lumache. Appresi tutta una serie di cose pratiche sugli abiti e le caratteristiche della limaccia subalpina, che servivano però non a risolvere il problema ma a sottolinearne la gravità. Nel giro di poche settimane mi assorbii profondamente nell’argomento, e ormai delle cose pratiche non m’interessavo più, e sorgeva invece più potente che mai la mia antica passione di mettermi dal punto di vista degli animali, specie quelli piccoli e primitivi. Avevo studiato a lungo i vermi, anni prima in Inghilterra, e cercato di pensare e di sentire con loro: fu una delle svolte della mia vita intellettuale, quell’anno che studiai i vermi. Ora con le lumache tutto questo mi tornava con più forza. Cominciavo a vedere la situazione in casa nostra dal loro punto di vista, e la cosa mi affascinava: mi trovai a rivivere la storia della piccola (non tanto piccola) comunità assalita da questa peste bianca del sale, e presto mi misi a scriverla, come la storia di una tribù di lumache, un gruppo di famiglie numerose, gente con nomi umani, e una loro lingua simile alla nostra, ma rovesciata in certi concetti chiave, come giorno che voleva dire notte, e notte giorno. La lingua di una schiatta con occhi rudimentali, e gli altri organi del senso identici a quelli della lumaca. Alcuni pezzi erano atroci, certo le cose più atroci che ho tentato di scrivere, Carla che si dissolve sotto la pioggia di sale. Dovetti smettere per eccesso di disgusto. (PP, 337-338) 304 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Di nuovo Charles sbavato dalle lumache. Il sole scialbo elicita raggi argentati dalla zona dell’alluvione. Charles mi parla col solito garbo amichevole […]. Si sente in li una personalità di difesa. (C60, 288)* Era figlio del chiaro o del buio il baluginio dei lumini accesi sui davanzali […], per la processione paesana del Corpusdomini? Erano gusci di lumaca, con una goccia di olio e uno stoppino… (APP, 111) (Lupo)82 Ma pensate che anch’io sono un lupo! Non sono una capra, non sono una vacca, sono un lupo! E nel branco c’è un lupo capo che si chiama Wolf ed è un lupo stupendo. Quando si accoppia con la lupa in una radura innevata, pare un sacerdote. Gli altri stanno intorno, attenti e tranquilli… Non si pratica il connubio sregolato tra noi lupi. Noi mordiamo il muso a quelli che ci si provano… Gli laceriamo le orecchie! E non si vive per il gusto di montare la lupa! Si vive per rigenerare il brano. La selezione naturale non è cruda natura ma volontà dei lupi. In cattività ci rifiutiamo di copulare. Se riescono a farci copulare con qualche trucco, ciò che ricavano e preservano non siamo noi ma tutta un’altra specie. La specie è il bene supremo, ma la specie, malauguratamente, è soggetta a trasmutazioni. Il dio dei lupi è un organo genitale con la corona di spine! E allora, i lupetti che abbiamo nelle astratte scatole, che tirino le cuoia! Noi siamo arrivati primi, e stai fresco che li lasciamo venire al mondo a confondere le cose! (C70, 283) (Maggiolino83) I brombóli muoiono tranquillamente nel sonno; e siccome dormicchiano un po’ sempre, sono esposti a un rischio continuo. Il brombólo è soprattutto un arrampicatore: appoggiandolo alle superfici del monumento ai Caduti in Castello, lui s’aggrappa al marmo e ràmpica pazientemente. Salivano sfruttando le minute rugosità del marmo, e i solchi delle lettere; cadevano senza preavviso, e si sentiva la piccola bòtta della nuca ai piedi dei paretoni bianchi. Il brombólo non muore quando batte la nuca; lo si mette in infermeria, a una dieta di minestra che si versa direttamente col cucchiaio sopra il malato, questi mangia e s’addormenta, ma spesso, secondo la sua natura, muore nel sonno con la pancia piena. Ricordiamo ancora con affetto i nostri brombóli migliori, e specialmente quello bravissimo che si chiamava Soga. Gli altri partivano sullo spigolo a destra, raggiungevano subito ZANELLA e VANZO, più raramente STERCHELE e SAGGIN, qualche volta anche i primi PAMATO; uno si spinse una volta fino in mezzo alle P che sono dieci, poi cadde, batté la nuca e morì in seguito all’infermeria. Ma Soga si spostava subito vivacemente a sinistra, passava LAIN, passava LAPPO, e poi su: su per GALIZIAN, fratello di mia zia Lena, via per FESTA, dove già stentavamo ad arrivare per fargli sicurezza con la mano. Quando passava i due DESTRO, entrambi 16 maggio 1916, non ci arrivavamo più neanche in punta di piedi; scendevamo dalla base e stavamo semplicemente a guardare. 82 83 V. anche “pecora”, “puma”. V. anche “zanzara”. APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 305 Era solo ora. Solo con DE MARCHI Antonio, classe ’95, con l’altro DE MARCHI un anno più vecchio; solo col lampo del sole sulle roccette dove c’è CIMBERLE. Avevamo paura per lui, lo vedevamo salire lassù di riga in riga, pareva che non finissero mai. Ma quanti ne sono morti in questo maledetto paese? Si trepidava per Soga mandato così allo sbaraglio senza una vera ragione, piccolo lassù come un ometto che s’arrampichi sul Dente del Pasubio; come l’ultimo nome che si vede appena la in cima, AGOSTI Alessandro, zio di Sandro che rinnova il nome. Di questi nostri brombóli ci fu un’epidemia nel 1598, onde fu murata nella chiesa parrocchiale una lapide: Guastando li Brombóli le viti, la Comunità di Malo, fatto voto a S. Ubaldo Vescovo di Gubio di celebrare ogni anno li XVI Maggio solennemente la sua Festa, fu liberata… Questo registra il Maccà; aggiungo che attaccati a un filo e roteati nell’aria, anzitutto li Brombóli si sottraggono alla vista e si dissolvono in un cerchio vaporoso, come marroni salbèghi analogamente trattati; in secondo luogo emettono un lamento vibrante, essi normalmente muti, forse in memoria del macello di S. Ubaldo. Noi non li prendevamo sulle viti, come forse i nostri compaesani di tre o quattro secoli fa, ma sui morari, dove parevano more. Erano cari compagni di scuola; ottima moneta; innocui, lenti, sonnacchiosi. Pareva incredibile che fosse una virtù sterminarli, com’era invece sottinteso. (LNM, 61-62) Una certa disposizione speculativa o poetica può far sentire come bao il maggiolino o l’ape […]. (MM, 66)* Ma la denigrazione del bronbólo potrebbe essere un tratto peculiare nel VIC. Penso naturalmente all’espressione idiomatica Tèsta da brobólo, sia come epiteto allocutorio, sia nel contesto di una imputazione del tipo Sètu che te ghè na tèsta da bronbólo?, o Bisòn vère na tèsta da bronbólo! Ciò che si imputa è una forma vistosa di oligofrenia: la testa del bronbólo pare minuscola alla massa del (pur aereo!) vascello del corpo, e la nostra mente (forse con un suo proprio spunto oligofrenico) corre alla deduzione che anche il pensiero del bronbòlo sia spregevolmente fioco, paragonabile, nel mondo degli insetti, a quello dei più stupidi fra gli esseri umani… Io non credo che l’idea sia ben fondata, ma lasciando questo, penso che sarebbe utile studiare la questione della diffusione, o singolarità, delle frasi citate, che per me sono idiomatiche e forse per altri vicentini non lo sono. Poiché il bronbólo cambia nome di paese in paese, l’efficacissimo El ga na tèsta da bronbólo (che la prima volta che lo dissero a me, in mia presenza, mi lasciò sconvolto) non cambierebbe carattere? (MM, 217-218) Sogno un maggiolino che muove la testina e dice: “Charles Le Boeuf c’est moi”. (C60, 402) (Maiale)84 In forgia c’erano anche le case delle galline e del maiale, e l’appartamento dei conigli sopra il cesso. (LNM, 90) 84 V. anche “pantegano”, “pappagallo” e “vacca”. 306 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Pisciavamo sul maiale arrampicati sopra lo steccato. Bersagliato dai getti dei fantasmi imbottiti, agitati da quel perpetuo ridere, grugniva senza arrabbiarsi, e al lume della candela lo si vedeva fumare. (LNM, 146) Ho letto in qualche parte che c’è una parola ‘veneta’ o addirittura proprio ‘vicentina’, che non avevo mai sentita, sgnicaménto, che significherebbe il “pianto fievole”, e in particolare il “gridare del porco quando lo ammazzano”. Ora sul grido sacrificale del porco euro-asiatico non confondo […], ma il grido del nostro mas’cio ha o aveva tutt’altre caratteristiche di un piangere fievole: quando lo agguantavano e cominciavano a sgozzarlo il mas’cio sigava; e questo si riteneva uno tra i più atroci sighi della natura, uno strido dalle frequenze altissime, astrali… Il mondo della morte, i suoi emozionanti piani acustici… Forse non accadeva dappertutto, sarà stata la caratteristica di una schiatta locale di mas’ci: perché si deve ribadire che gli animali hanno una loro cultura differenziata da luogo a luogo… Non ho potuto accertare se altrove, o anche nelle nostre corti, quel sigo degenerasse davvero negli ultimi istanti in un breve piagnucolio che certo io non ricordo di aver mai udito. L’idea che il morente dopo aver gridato così forte, alla fine dovesse passare per una fase di pianto fievole, e morisse quasi finfotando, conturba. (MM, 85-86) Era, è veramente mas’cio il mas’cio? È portato alla sporcizia più di noi? Il “fango maleolente, fatto di urina e di sterco” tra cui vive […], odorerebbe molto meno malignamente se là dentro fossimo tenuti noi? Non è un’ingiustizia e una meschinità della nostra presuntuosa cultura, questo dare addosso al mas’cio? (MM, 90) È un genere di dietrologia ben diverso da quello della chiacchiera politologica: basato non sull’idea che dietro a tutto ciò che non piace si cela qualcos’altro che mi piace ancora meno […], ma sull’idea che l’ubicazione della nostra insipienza nel campo della mente corrisponde a quella cóa del masc’io rispetto al resto dell’animale. (MM, 163)* Vive altrove un altro diverso bandòto, quello per la lavaùra del mas’cio; la sua cornucopia, che gli arreca alle giuste ore la ricca broda delle risciacquature, con gli intingoli delle croste raschiate dal caliero della polenta, le succose spolentature, e i tórsi (“torsoli”) e le foglie marce della verdura, e la loro messe di bai. (MM, 177)* Lo scarso rispetto per alcuni animali, segnatamente il mas’cio, il musso e (salvo nei momenti di condiscendente compassione), il can, è un tratto comune a altre lingue. (MM, 217) Oto dì, oto noti… Cavavino el scalìn, ghe dàvino da magnare… El savea pì spussa lu del mas’cio. (C60, 118)* […] quel giovane assistente […] guidava studenti e studentesse come un branco di porcellini festosi […]. (C70, 284)* Sport attivo e passivo: le due cose fluivano l’una nell’altra. Emblematica, negli anni dell’immediato dopoguerra, la partecipazione passiva-attiva alle grandi gare di motociclismo, le iperboliche corse di Tenni e Pagani, lo strido acuto dei motori, non troppo diverso da quello di un aereo maiale in extremis, ma più grandioso. Lo strido viaggiava, lo sentivi arrivare da lontano, ti investiva… Quel rumore percepito come eroico non si subiva, si cavalcava. (C80, 371)* APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 307 (Mamba verde)85 (Marangone)86 (Maredè)87 Maredè, maredè / salta fóra co cuatro còrni / se nò te… Seguiva, o dovrebbe seguire, un verbo sdrucciolo, come bùsaro, sòfego, ecc.; ma il verbo che invece ‘salta fuori non è sdrucciolo: te cópo! […]. Non credo si tratti di una strozzatura della frase causata dalla virulenza di un supposto intento micidiale; anzi, c’è un effetto di attenuazione. La minaccia era bonaria, quasi amichevole: intonata all’amenità di quel ‘salto’ richiesto alla lentissima, posata maredè. L’importante era indurla a uscire all’aperto, a farsi vedere. L’invito-incantagione si ripeteva pazientemente (“per ore” mi conferma una persona coetanea che ho consultato) in attesa del piccolo miracolo. E un vago senso di miracolo è andato a soffondersi sulle parole della filastrocca e sul nome della poco meno che numinosa creatura. La chiamavamo maredè benché di genere ambiguo (come altre creature un po’ numinose, Tiresia per esempio), visto che aveva anche un’identità maschile, el corniólo. Ma risulta (attestazione telefonica interurbana di una cugina che ha raccolto in paese la testimonianza di un’antichissima scolaretta) che la mèstra Delaide insegnava esplicitamente, come parte del curriculum dei nostri studi sulla natura, che il corniólo è la casetta portatile, mentre l’arbitratrice è la mare o maredè, a cui è indirizzata l’incantagione. Naturalmente co quatro còrni implica “non farmi lo scherzo di saltar fuori con due soli! (come sappiamo che sei capace di fare)”; ed è un concetto che si può estendere a ogni tentativo di tease out ciò che è riposto, il senso delle cose e delle parole, di farlo uscire alla luce del giorno con tutto l’apparato dei suoi quattro corni… Maredè è il nome comune della chiocciola, che io considero autentico, ma sul quale altri VI-foni (come li chiamo nel libro), hanno dei dubbi. Una variante del primo versetto della mia filastrocca suona infatti: Mare, mare-dè. La chiocciola ha per me alcune associazioni semi-segrete con l’essenza dell’espressione poetica, forse per i riflessi di madreperla della sua traccia, quasi un emblema della parte più preziosa e più elusiva delle scritture letterarie e forse anche dei sottostanti fenomeni linguistici. (MR, 188) […] nella mia scelta del titolo e del simbolo c’entrano anche […] un verso di Eugenio Montale, in “Piccolo testamento” […], la poesia comincia “Questo a notte balugina/ nella calotta del mio pensiero” (“balugina”, luce fioca, intermittente, l’apparire e sparire del pensiero; “calotta”, come se ci fosse un guscio – la poetica del guscio). V. “vipera”. V. “tricheco”. 87 Proprio perché posta a titolo di un’opera e considerata, sotto certi aspetti, uno degli animali-chiave del bestiario di Meneghello, abbiamo voluto dedicare alla Maredè una voce apposita. 85 86 308 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Poi viene il mio verso, il terzo: Traccia madreperlacea di lumaca, la scia argentea, iridescente che lascia il muco condensato, vivida metafora della creatività poetica e linguistica, la materia umile e preziosa di cui sono fatte le nostre parole. (MR, 196-197) Scuole nuove là dove un tempo aveva regnato la tenebrosa Baga. Altro figlio di emigrati appena arrivato dalla Francia, ignaro di italiano e di vicentino, ammesso come osservatore alla seconda della Maestra Pia. Siamo in cortile, seduti per terra lui ed io, accanto alla rete metallica di recinzione. Davanti a noi c’è una chiocciolina. Lui la guarda pensoso e sento che mormora timidamente: “Escargù”. È lei, è il suo nome francese. L’esperienza più curiosa penso sia stata quella di sentire, per la prima volta, una o tonica finale chiusa. Così chiusa che per me fu una u. il nome mi parve fortemente emblematico, come quello con cui chiamavo io la chiocciola: maredè. Il libro che ho poi scritto e che ha per titolo Maredè, maredè… c’è mancato poco, dunque, che si chiamasse Escargù, come il Matisse della Tate che illustrava la prima edizione. (MR, 218) (Mastodonte)88 (Medusa) Mi venne in mente che non mangiavo e non dormivo da un pezzo, e provai a fare il conto delle ore, ma era troppo difficile; avevo sete, e non mi ricordavo di aver bevuto, né stanotte, né ieri, né la notte prima, né il giorno prima, e neanche la notte prima ancora, la notte sul dieci. Camminai un pezzo, poi a una svolta del sentiero mi fermai. A destra avevo un valloncello scosceso, praticamente impassabile. Arbusti e alberi proiettavano come una tettoietta d’ombra, e sotto a questa vidi due grosse meduse. Erano i primi animali che vedevo da un bel pezzo. Erano posate sul pendio, a un paio di metri da me, ma irraggiungibili a causa del valloncello pieno d’ortiche e di stecchi spinosi. Erano a mezzo metro l’una dall’altra, come impigliate tra gli arbusti del sottobosco, e palpitavano lievemente: opalescenti, quasi trasparenti. Restai vivamente sorpreso, la cosa mi pareva quasi incredibile. Come saranno venute quassù queste meduse? D’altro canto erano lì vere e reali, e dunque qualche spiegazione doveva esserci. (PM, 138-139) (Merlo)89 Da brao-mèrlo deriva molto naturalmente (per noi) “bravo merlo”. Così dev’essere stato in passato per ogni genere d’espressione caratteristica del parlato. Non pare probabile che i vicentini, trovando in testi scritti IT la frase “bravo merlo!”, possano aver pensato di adottarla nel loro parlato, e l’abbiano poi deformata per conto loro in brao-mèrlo!. (MM, 84)* 88 89 V. “platibelodonte”. V. anche “vespa”. APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 309 (Merluzzo) Mangiato il baccalà90 con la polenta e si ripetono a vicenda: “Che buono il baccalà! che buona la polenta! che bella Verona!” (C60, 181)* (Montone)91 (Mosca)92 Gli sporti del tetto sono ampi, e danno alla casa un’aria quasi aggrondata. “Gorne”, “stellaresse”: qui al riparo si può stare a guardare la piova appoggiati al muro del cortile, all’asciutto. Spesso le finestre hanno l’inferriata, e il sole entra nella casa a rombi. C’è un tinello per famiglia: ha i mobili morti, gli scuri accostati. Se non c’è un battesimo o una visita importante, raramente la famiglia lo usa. Se ci si porta un visitatore inaspettato, chi lo precede scocca via dalla tavola una mosca morta, raddrizza le fotografie a sghembo nella cornice. (LNM, 88)* Le si vede nei pomeriggi estivi languire nei cortili dove le trasportano perché trovino un po’ di fresco all’ombra delle case. Hanno un’espressione santa nei visi quasi marciti, sono circondate da mosche attaccaticce e ne sopportano il fastidio con forza misteriosa. (LNM, 187) Due soli furono promossi, l’altro fu Piareto, una cui sorella che si chiamava Ita una volta per errore aveva mangiato una mosca insieme con una cucchiaiata di riso-epatate su cui era venuta a posarsi all’ultimo istante: e da questo si vede che erano popolani. Non c’erano esempi di borghesi che avessero mangiato le mosche, è una di quelle cose che declassano immediatamente […]. (FI, 243-244)* […] si va a far vita sulle sponde del laghetto, una pozza smeraldina che attira la gente in vacanza come attirano le mosche le moscarole con l’acqua e l’aceto. (BS, 538)* O ci si interessa ai modi in cui va il mondo (va di atto), come mosche sui musi della mandra al galoppo, e ci si persuade di stare aiutando il mondo a “cambiare” […] oppure asserragliarsi, tener fuori il mondo, arroccarsi, badare a salvare il salvabile. (C80, 108)* (Moscone)93 Questa però non era sentita come critica alla Bandiera della Patria: che c’entra? La bandiera si esponeva sul poggiuolo della zia Lena, e si descriveva nei Pensierini a scuola; le tre merde erano allineate in orto sotto la mura del Conte, lucide come di Il baccalà consiste di due specie di merluzzo nordico, adeguatamente salate ed essiccate. 91 V. “vacca”. 92 V. anche “mulo”, “scarabeo”, “scoiattolo”. 93 V. anche “zanzara”. 90 310 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO vernice, sorvolate dai mosconi; sopraggiungeva la Colomba e ci stendeva sopra il pannolino umido che soffocava i colori in una tabe giallastra (LNM, 30)* (Mulo) La gente si divideva in quelli che facevano i preparativi, e quelli che non li facevano. Eravamo in mezzo all’Italia, con quattro o cinque regioni tra qui e casa. Quindi era tutto uguale, fare i preparativi o non farli. Vidi il sergente Landolfi partire sotto una cassetta di cottura, che è un carico per un mulo, non per un uomo. (PM, 15)* Quello che era stato mezzo in ginocchio si chiamava il Cocche; aveva trent’anni, ciuffi di barba, e il temperamento un po’ mulo. (PM, 79)* “Ho visto un mulo, in Albania” disse Simeone. “Pare che la cosa più importante” dissi “sia che ci sia presente anche una bella donna. C’è stato uno, che poi ci ha scritto sopra una poesia, che un giorno era andato a passeggio con una ragazza: era la sua morosa, ma lui le dava del voi: una di quelle grandi e ben vestite, che quando camminano fanno l’effetto di una bella nave con le vele spiegate. Hai mai visto tu una nave con le vele al vento?” “No” disse Simeone. “Beh, questa ragazza era così.” Mi misi a raccontargli Une Charogne punto per punto, in dialetto, come una storia vera; andai avanti un pezzo, e finalmente arrivai in fondo. “Ostia” disse Simeone. “Ho fatto tardi.” “Ti sta bene,” gli dissi “così impari a chiamarci badogliani.” Il giorno dopo lo incontrai di nuovo nello stesso punto, al margine del Bosco Secco, e gli riparlai di quel mulo. “Chissà se era un mulo greco, o italiano?” “È strano che me lo domandi” disse Simeone; “perché effettivamente sono venuto a saperlo. Era italiano come noi.” Era il mulo di un artigliere alpino che era da Poléo. “Si chiamava Romano” disse Simeone. “Ma allora lo conosco” dissi. “È il nipote del prete di Poléo.” “No, il mulo” disse Simeone. “L’artigliere alpino era un certo Vanzo. Del suo mulo ne parlava molto bene, e si vedeva che gli dispiaceva come un parente. Era antimilitarista.” “Questo Vanzo.” “No, il mulo” disse Simeone. “Quando vedeva un ufficiale superiore, voltava la schiena e gli faceva gli omaggi col culo. E quando sentiva la Marcia Reale gli veniva la diarrea.” Come sono le disgrazie! Un giorno il colonnello si era appostato su uno spiazzo, con tutte le medaglie al vento, e il reparto arrivava su per il sentiero. Quando arrivò Romano, vedendo il colonnello cominciò a girarsi per voltargli la schiena e fargli gli omaggi. Si era mossa una pietra, il sentiero era franato e Romano era partito. “Aveva l’obice da 75 sulla schiena, e il peso lo faceva girare. Girava pian piano, un giro e una fermata, un giro e una fermata: avrà rotolato per un quarto d’ora. Mi ha detto Vanzo che era una disperazione vederlo rotolare in giù sempre vivo a ogni giro e non potere aiutarlo. Tirava bestemmie da fuoco.” “Vanzo.” “Era imbestiato” disse Simeone. “E anche gli altri della sua batteria.” APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 311 “Brutta morte” dissi io. “Sì” disse lui. “Era facile lì fare una brutta morte. Poi venivano i corvi e ti beccavano. Lo hai mai visto tu un morto beccato dai corvi?” “No” dissi. “Bisogna vederlo” disse Simeone. (PM, 93-94) Trare de culo (p.e. di una cavalla, drammaticamente contrapposto al trare de cao, “di testa, dalla parte della testa” di un mulo; […]) è vizio o capriccioso vezzo d’una bestia che tenda a percuotere altrui coi calci o forse anche (mi piace pensare) urtonarlo con spostamenti repentini del didietro: l’equivalente in un quadrupede del colpo di coda di un cetaceo, una fruscata o una smoltonata inferta col culo. (MM, 44-45) La ragazza è un po’ mula, come si dice di una macchina non scattante; è tarchiata piuttosto che grassoccia; negligente, forse sfaticata: ha un amore estivo alle spalle, rotto al principio del trimestre d’autunno con violenta rottura di routine scolastica. (C60, 122)* Mosche, su quel bambino che dorme a bocca aperta, e brose un po’ dappertutto, sulla mula, sul bambino, sulla donna puzzolente che maneggia il forcone. (C60, 182) (Oca / Oco)94 Oco e oca. Non credo di sbagliarmi che l’ancipite oca / oco al singolare, faceva al plurale normalmente i ochi […]. Oco maschile era importante come epiteto o bonario aggettivo vituperativo, non è però l’equivalente per i maschi di ciò che esprime “oca” detto delle donne e alle donne in dialetto o in lingua. Oco è in sostanza colui che tende a inocarsi, e solo per estensione colui che agisce da persona a persona. (AM, 208) Avrei un episodio, a proposito dell’oco… È l’uccisione di un oco in paese, tanti anni fa. Questa l’ho scritta e ve la leggo. Ho dovuto controllare qualche dettaglio anche importante, ho avuto due versioni diverse per telefono ieri mattina, una di Mino, qui a Malo, e l’altra da Bruno Erminietto a Padova. Bellissime, mi hanno fatto piangere dal ridere, per un quarto d’ora, purtroppo non ve le posso ripetere qui, troppo complicato. Vi leggo la mia versione, un po’ ritoccata in base alle testimonianze dei nostri protagonisti: L’uccisione dell’oco in casa Zanettin avvenne in cortile, non in cucina come dicevo io; e dev’essere stato in tempo di guerra, il che spiegherebbe perché furono Mino (Abramino Cassio) e suo fratello Bruno Erminietto a dover organizzare l’esecuzione. Nelle famiglie bisognava arrangiarsi. In che modo lo avessero ammazzato non ne ero sicuro: mi ero domandato se si potrebbe tirargli il collo, ma capisco anch’io che non è concepibile. Il breve collotronco delle galline si tirava, skill precipuamente delle donne, un atto fondato sulla destrezza, non sulla forza, una tiratina corta, vivace, in cui è incorporata un po’ di torsione – sull’appoggio del ginocchio appena flesso. Ma l’oco? Avevo sempre 94 V. anche “vacca”. 312 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO presunto che i fratelli gli avessero tagliato la testa, forse falciandola con un pesante coltello da cucina usato come scimitarra, o più probabilmente con l’accetta, dopo averlo persuaso a stendere un momentino il lungo collo cilindrico sul socco. Invece risulta che l’oco fu bensì decapitato, ma con un metodo veramente straordinario, che comporta l’uso prima dissennato, poi disperato, del supiaoro… […]. Fatto sta che a un certo punto mino si trovò con in braccio l’oco decapitato, dal cui collo scaturiva un terribile getto di sangue. Mino alzò il corpo palpitante sopra la testa, e il collo si mise a ruotare come un idrante sguinzagliato, una mostruosa pompa a pressione che vorticava annaffiando il cortile e i fratelli, finché durò l’immensa riserva di sangue dell’oco; poi il grande tubo prese a sbittare più fiaccamente, e i vortici rallentavano, dal bocchettone sortivano ora lente, quasi placide sgorgo nate, e Mino in casi come questo sbarra gli occhi, aveva l’impressione di aver manovrato una specie di lanciafiamme del sangue. (AM, 208-209) Ecco dunque la domanda: da dove viene la nostra cultura, ossia quella che è stata comunicata a noi personalmente? Sarà come l’imprinting delle ochette nelle loro prime ore di vita? Mi occorre uno strumento per orientarmi, e mi occorre ora. (C70, 11) Santi e oche. Dicono che quando si accoppiano un santo e un’oca la terra trema. Il santo con un’oca: ma talvolta è l’oco che si accoppia con una santa, altre volte l’oco con l’oca, o ancora il santo con la santa. Nascono piccoli santi e sante col collo lungo e le labbra sporgenti, cartilaginose, gialle: e sgraziati, antipatici superochi e ipersanti (…). (C70, 49) Nessun dettaglio della […] vita [di mio padre] […] lassù era noto, ma si sapeva che c’era stato uno scandalo, dei duelli, degli arresti: il nonno era tornato senza la mano sinistra che dicevano gli fosse stata tagliata con un colpo di accetta da una contadina in un’aia vicino a Bamberga durante la cosiddetta “sommossa delle oche” nel 1906 […]. (C80, 48)* (Pantegano) Dalla lissiara si scende in cantina; la cantina è abitata da un popolo furtivo di pantegani, visitata talvolta da ande che scendono dai prati del Montécio e vi lasciano una pallida spoglia verdazzurra (le consideravo piccole fate trasformate in serpenti, e come le fate non ero proprio sicuro che ci fossero). (LNM, 65)* Montando sul muretto si causavano scatti, guizzi e tuffi da parte dei pantegani di letamaio, un ceppo a sé di pantegani, fulvi e sgarbati. Li conoscevamo abbastanza bene, benché di solito corressero a nascondersi con tanta petulanza, perché scendevamo spesso tra loro, non di propria volontà però, ma perché sul muretto dalla cima bombata era facile perdere l’equilibrio. (LNM, 91)* Pantègan / pantegana: da noi il termine sessualmente non mancato è pantegàn; si usa pantegana solo se si vuole indicare esplicitamente il sesso, anche in sede metaforica, per esempio per dire di una donna che è quasi animalescamente furba, esperta, ecc., mentre di un uomo, in questo senso, si direbbe che è un pantegàn non na pantegana. Tutto è fondato ovviamente sulla credenza che in natura il pantegano di entrambi i sessi sia astuto e navigato. (MM, 92)* APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 313 Mentre scrivo sento che intanto qui davanti sparano dal balcone, ai pantegani penso, col flobert: strillano e sparano, e il cane abbaia a ogni spari come colpito. (C70, 245) Vicenza, anni Trenta. Cortili interni dei caseggiati, riquadri umidi, in cui rovistavano squadre di pantegani […]. Non vidi mai che li ammazzassero di netto, ma li mutilavano… Pioveva dall’alto una folgore che ti faceva schizzar via una zampa, o il codino vibratile con un pezzo di culo ancora attaccato. Come cantava la lama d’acciaio sui ciottoli, e sprizzavano le scintille! Come scainavano gli scorciati pantegani accusando il cielo quadrato. E mezzo secolo dopo (io in visita), come frusciavano in quei caseggiati le segretarie fasciate di seta e fluivano i milioni e i miliardi! (C80, 339)* (Pantera)95 La pantera nera Sotto il letto, come altri tiene il maiale o la capra, il giovane Igor teneva una grande valigia squinternata con dentro un paio di scarpe da tennis, delle mele, qualche bottiglia di birra, e il dattiloscritto della sua tesi dottorale su un grande astrologo elisabettiano: erudita, sterminata, caotica. Piatti i piedi, ciabattante l’andamento, debole la vescica, debole il senso del personale equilibrio. Armoniosa tuttavia la personalità, disarmante l’ingenuità, esotica la dottrina… […] Si fece attore, e alla prima stagione natalizia nelle strade di Londra, per rallegrare nei modi rituali le frotte dei bimberottoli e degli adulti festanti, impersonò (si sussurrava nei boschetti) il Grillo parlante di Pinocchio e una volta, a detta di chi lo vide, con grandi sbalzi e impennate una pantera, nera. (C70, p 359-360)* Carnevale. Un caotico party privato. Chiasso, ore piccole. Nel chiasso, sono forse le due della mattina, arriva lei vestita da pantera, energica, procace, in sudore nella guaina di finta pelliccia che pare cartone bagnato. Dov’è la ragazza moderna? (APP, 61)* (Pappagallo)96 Ho fatto conoscenza qualche tempo fa con un pappagallo di nome piero che è un uccello interessante ( JUR, 9)97 Mangiano carne umana, e la mangiano brustolà… Gente con piume di pappagalli, denti di porci, pelli caprine: e signori con le barbe avvoltolate nelle foglie dell’albero del pévare. (C80, 159) V. anche “salmone”. V. anche “tartaruga”. 97 Traduzione da Don Marquis, pete the parrot and shakespeare: “i got acquainted with/ a parrot named pete recently/ who is an interesting bird” (2012 [1935], 155, vv. 1-3). 95 96 314 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Le donne minacciocche con coltelli e pironi capelli blu sugli occhi e pezzi di limoni e borsette in grembo o mani supine… È l’arte delle bocche multiple e delle luci storte collarini e polsini rossi e gialli pappagalli della morte. (C80, 233)* (Parrocchetto) O l’amore dei cani, dei gatti spargitori di peli, dei pets d’ogni stampo, fino agli infimi verdognoli budgerigars, già, i parrocchetti in gabbia? (APP, 22) (Passera matuggia, o Sélega) Qualcuno è cacciatore, uno dei tre o quattrocento del paese, ai quali continuo a spiegare alla Katia che non bisogna assolutamente fare gli auguri la sera del sabato. Uno provò a dire buona caccia a Tano che girava col fucile la sera prima dell’apertura, e Tano anticipò l’apertura, basso però, solo le gambe. I cacciatori hanno i nervi a pezzi. Da molti anni non prendono quasi nulla, ogni anno abbiamo tre o quattro uccelli nella zona, che vengono spappolati sotto un fuoco pesante nella prima ora di caccia; per il resto della stagione, anche una sélega è un’avventura. I cacciatori si riuniscono nelle loro confraternite. “Ci vorrebbe ormai, un’altra guerra,” dicono tristemente; “in due o tre anni avremmo di nuovo un po’ di selvaggina.” (LNM, 241)* (Passerotto)98 È curioso però che quando a scuola si meditava sulle sfortune dei poveri e dei passerotti, era sempre nel quadro dell’inverno, e in relazione alla neve, cioè al fatto che la neve è bella da vedere ma fredda […]. (C70, 157)* (Pecora) […] Che bàgolo è questo? Non ci sarà di mezzo una bambina, forse travestita da pecorella, a cui Madama si appresta a fare, che cosa? (MM, 190)* Un ovile dove le pecore fanno le uova. (C60, 248)* Osservo i cuccioli, Carini! Ma come sono orientati? Qual è la testa, quale la coda? Cuccioletti, bei cuccioletti, state arrivando o partendo? Alcuni sembrano lupetti, altri pecorelle, altri erano come i gatti. Pigliavano le farfalle, le cavallette, i grilli: bevevano ai rivoletti che rigavano i praticelli. Bevendo ingrossavano in fretta, si gonfiavano nella pancia, e bisognava trivellargliela. Si udivano gli sfiati, e i corpiciattoli come pensieri sgonfiati giacevano inerti per terra. Formichette cominciavano i ripulirli. (C70, 356)* 98 V. anche “rondine” e “pulce”. APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 315 (Pellicano) Il partito socialista si era aperto il petto come il pellicano, povera bestia, e gli alveoli polmonari friggevano a contatto diretto con l’aria esterna. (C60, 397)* (Pesce combattente) La boccuccia del Decano storico spiccava come il suo tratto più singolare, piccola bocca di pesce da combattimento, arcuata all’ingiù. Tarchiato, biondastro, il Decano dominava la facoltà. (DIS, 201) Ogni tanto lo rivedo in sogno, il preside della nostra facoltà. È un pesce: pesce accademico da combattimento, boccuccia ad arco, micidiale; fuggono lacerati i suoi nemici, strie scarlatte; la sua boccuccia si ricompone. (C70, 571) (Pesce luna) Si può passare da una cosa all’altra senza impegno, assaggiare i croccanti, guardare il pesce luna, tirare a prova piumini, palle di pezza, anelli di legno. (FI, 321)* Somiglia (si parla della bionda) al pesce luna, somiglia al patriarca di Venezia, gonfia il continuo spazio temporale… (C60, 446)* (Pettirosso) […] il pettirosso del suo coraggio a pollaio sui rami delle aorte ascolta zufolare tra le frasche la merla autorevole della sua morte. […] L’estate verminosa ingrassava i fianchi della collina; assorto la vedevo fruttare, pascere i miei compagni zazzerati e barbuti; gli spari del pomeriggio contendevano la ciotola del cielo alla forza cattiva dei cani. (C60, 445) (Piattola)99 (Picchio) In gabbia è il gentiluomo col cappello: lavora di martello sulle sbarre della gabbia, e lavorando canta. “Nella mia gabbia non mi divincolo, col mio martello batto le sbarre, batto. Extraterrestri balle lampeggiano nel mio cervello matto. Fuori da questa gabbia c’è un gabbiotto, dentro il gabbiotto una gabbietta, nella gabbietta un picchio. Picchio gentile, batte il centrino del cuoricino nella minuscola gabbiuzza del tuo petto. Anch’io ci avevo un picchio…”. (C60, 505)* 99 V. “vacca”. 316 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO (Pidocchio)100 Lo spazio riservato agli spettatori era ricavato respingendo e affastellando contro i muri le gabbie dei capponi e dei conigli; il pavimento a mattoni veniva annaffiato e spazzato con cura. Trionfava tuttavia presso attori e spettatori quel feroce parassita che è il pidocchio-poldino. (LNM, 55)* Anche petare è carico di significato, pidocchi rogna tisi, e questa stupenda malattia, la lebbra. Non si dice molto in piazza e nel centro. (LNM, 60)* Un prete c’era qui, “questi anni” (ossia nel remoto fondo del secolo quando i nostri vecchi erano bambini, e mio padre alle sue prime prove nel mondo del lavoro, usciva col badile alle tre del mattino a raccogliere letame nelle strade), che diceva messa prima, e faceva una predica assai semplice, sempre quella. Taceva a lungo presso la balaustra, fissando l’uditorio di rozzi ammazzatori di pidocchi, poi proferiva in tre brusche emissioni il suo messaggio […]. Ammazzare i pidocchi col piccone è difficile e pericoloso. Eppure quest’arte dei nostri antichi, derisa nel ricordo popolare come il simbolo stesso della rozzezza, sprigiona anche, a nominarla, l’immagine di una schiatta robusta e fiera perfino nell’eseguire le piccole bisogne della vita quotidiana, come lo spidocchiarsi, che ancora quand’ero a scuola io era necessità d’ogni giorno per molti e di tanto in tanto per tutti. Questi nostri antichi col piccone non saranno mai esistiti in realtà, ma sono pur esistiti nella fantasia del popolo, e dunque hanno qualche cosa di vero. (LNM, 181) L’uccisione del pidocchio è in realtà agevole, e richiede assai minor cura della distruz. delle sue léndene. (LNM, 257) Il pidocchio che paziente e triste lavora a trovar l’acqua (è acqua il sangue) […]. (C70, 23)* Nuda in fondo al pozzo dove l’hanno calata tiene le mani sopra la testa e con l’unghie dei pollici fa l’atto di schiacciare i pidocchi. (C80, 152)* Ogni tanto nel carattere delle persone, anche delle più ammirevoli, compare in certi scorci della vita e dell’opera, il pidocchio, o sarà forse la cimice: qualcosa di meschino e attaccaticcio. Siamo fatti così. C’è del pidocchioso in nobis, è un ingrediente della natura umana. Risalta di più quando si manifesta in gente dal piglio generoso e disinvolto. (APP, 155) (Pinguino) Le lontre (di mare), le foche, i pinguini: animali marini, ma in realtà creature di terraferma, come erano anche le balene e i delfini quando hanno sviluppato il cervello che hanno. (C70, 564)* 100 V. anche “pulce”. APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 317 (Pipistrello) Partono come fagottini i pipistrelli, mentre gli ultimi uccelletti sono già in casa, e chiacchierano prima di dormire. C’è anche il fumo sulle casette. Seduti per terra, collo schioppo tra le ginocchia, ci pare che la campagna ci custodisca come figli. Non abbiamo mai amato tanto la campagna che ora s’annera. (PM, 191)* S. aveva sentito solo il toccar leggero delle ali da pipistrello della vecchiezza. (FI, 269)* (Platibelodonte) La storia delle nostre macchine non si può più fare, le testimonianze e i ricordi sui nomi e i colori s’intrecciano un po’ a sghembo. Le origini si possono appena discernere, in un ambiente arcaico abitato dalla Standàr-bajàr e dalla Zero-fia, dopo le quali emerse la Tipo-due gialla. Non sempre si distingueva bene, allora, tra vettura e torpedone, c’era una fauna intermedia di G. M. C. che erano state ambulanze americane prima che lo zio Checco ci mettesse le mani; e poi alcune vetture erano quasi torpedoni, e anche i torpedoni erano quasi vetture. Venne il Mesozoico delle 15 Ter, l’Oligocene delle Uno, delle Cinque, delle Venti (l’OM sopravvisse fino al basso Terziario tra forme di vita infinitamente più giovani); poi in pieno Pliocene ci fu la comparsa improvvisa della SPA. La SPA era un mostro immane, un Mastodonte, un Dinoterio, un Platibelodonte. Un giorno sentimmo come un rugghio basso e continuo fuori dal portone, corremmo a vedere e (ferma lungo la mura del Conte) scossa da tremiti, montagnosa, c’era la SPA. Era magnifica. Ci misero un’ora a tirarla dentro dal portone, rinculando; nessuno credeva che sarebbe mai passata, ma rinculando passava. Fu per lei che decisero di demolire l’arco di pietra del portone, e ci fecero lo sfondamento quadrato che chiamiamo da allora il portone; un peccato, ma era necessario, la SPA ogni tanto toccava, e si fracassava un vetro. (LNM, 130) (Poiana) Le bestie selvatiche e domestiche, quelle innocue e quelle feroci, i pachidermi e le piccole polde, e fino i microbi e i bacilli che si stenta a vedere a occhio nudo; le bestie dell’aria, dalle pojane altissime agli sciami folti e bassi dei moscerini, le bestie del giorno e della notte, quelle delle acque limpide e dei gorghi scuri. (LNM, 65) (Pollo) Arrivò anche, con un maglioncino blu scuro e un basco nero, Renzo, fratello giovane d’uno dei più cari dei miei amici. Era timido, mingherlino, ovviamente testardo. “È ancora un ragazzino”, pensavo “devo stargli attento”; perché dava l’impressione di un pollastrino col collo esile. Some chicken: some neck! è lui che poi diventò Tempesta. (PM, 83) Ciò che più li colpì fu la severità della nostra dieta: perché noi mangiavamo ancora principalmente polenta, con la margarina dei lanci. I nostri ospiti, usi alle soppresse di campagna, ai pollastri, alle grandi angurie, guardavano con stupore non scevro di compassione questo branco di selvaggi, che eravamo noi, tra i campi magri di collina, col nostro pastone spartano; e in quel periodo ci procurarono e ci imposero 318 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO un regime di abbondanza. (PM, 179)* L’altro, alcuni anni fa, fu Re Lear, un gigante di economia agricola, specialista del becchime per i polli, che penso sudasse già molto per natura, figurarsi con le natiche della recita. (DIS, 195)* “Come macchine per fabbricare cibo gli animali sono inefficienti: in un mondo affamato non conviene fare animali: consumano più proteine di quelle che producono: sono mezzi per sperperare le proteine.” È una notizia inattesa, e stimolante. “L’antica tecnica dell’allevamento è dispendiosisima: ecco perché in passato il pollo era considerato un cibo costoso, per i ricchi e per i preti” […]. “Quello che si è fatto coi polli si deve fare coi bovini: ricordando inoltre che più l’animale invecchia e peggiore è la conversion ratio: 1 a 1 alla nascita, poi 3 a 1; e a due anni e mezzo è già 10 a 1. Bisogna uccidere i tori a 11 mesi al più tardi…” (C70, 433-434) Non si chiamavano più galline ma “polli”, pollastri. L’energia con cui venivano fabbricati (come si fabbricava ormai tutto il resto) era impressionante. Li facevano schiudere [e] li decapitavano: poi, appesi per il collo, tutti ismerdati di sangue, venivano immersi nell’acqua bollente, spennati, squartati, ficcati in scatola, spediti, comprati, mangiati, digeriti. La gente se ne nutriva a pranzo e a cena, e cresceva di statura. (C80, 428) (Pony) Thelma piagata sorride […]. E purtroppo è venuto il momento di lasciare la casa edoardiana annessa al Collegio. Tutto le rubano, i pony, i fiori, i conigli, le galline, le gatte che prendevano il tè come i cristiani, le stanze coi pannelli, le cameriere, i giardinieri. Si rompe come uno specchio che va in frantumi. (C60, 249) (Procellaria) La filosofa parlò della tension, non solo in relazione al problema dello specializzarsi, ma nella vita in generale, nella nostra condition. Come la procellaria (e non so con quali mezzi) segnala l’arrivo della tempestosa procella101, così quella pesante giovanotta attraversata da scosse di eccitazione, annunciava le tempeste che poi abbiamo veduto venire. (FI, 238)* (Pterodattilo)102 101 Immediato il rimando a Invernale di Guido Gozzano: “Ella sola restò, sorda al suo nome, / rotando a lungo nel suo regno solo. / Le piacque, al fine, ritoccare il suolo; / e ridendo approdò, sfatta le chiome, e bella ardita palpitante come / la procellaria che raccoglie il volo” (2005 [1911], 150, 31-36). 102 V. “ramarro”. APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 319 (Pulce)103 Si omette anche, per l’estrema complessità della materia, ogni ragguaglio tecnico sulla cattura e l’esecuzione delle pulci. Nota che la diffus. delle pulci era sempre associata con le sottane multiple delle donne, e con le loro congreghe a filò o in chiesa. (LNM, 277)* Noi diciamo ancora peòci e pólze […], quando già da decenni non abbiamo più (almeno io) il bene di vedere un peòcio, e invano ci illudiamo che grattandoci in qualche parte che il dito possa incontrare un pólze e riesca a brincarlo nell’apposita minuscola valva dell’unghia. (AM, 204)* Spulciando (quasi ‘ndando par pólze, o nando par pólde) […]. (MM, 158)* I pólze (a parte i casi di cui vuol dire “le pulci di cui si parlava, le pulci in questione”, o “tutte le pulci che furono sono e saranno, l’intera schiatta delle pulci”) è sentito come un’affezione che si può vère, ciapare, o petare a. (In verità, per la natura scattante dei pólze, l’affezione che porta il loro nome non è particolarmente suscettibile a essere pettata nel modo classico, per contatto delle membra o dei fiati […]). Sotto questo profilo un solo polze può da solo rappresentare il referente de i pólze in frasi come A gò i pólze (ne ho addosso almeno uno), La ga ciapà i pólze a filò (per desultante induzione anche di un solo esemplare), ecc […]. Tra le altre affezioni dal nome plurale che si possono vère, petare, è da segnalare per l’analogia con il comportamento (linguistico) degli sprizzanti pólze quello dei tardi peòci: dove di nuovo un singolo, sparuto individuo può diventare la cosa tutta intera: Ècolo che ‘l ga ciapà i peòci n’altra vòlta! varda cuà! (mostrando l’unico esemplare reperito). In un caso come questo il meschinello protagonista (che forse indugia, confuso, sulla dura superficie dell’unghia del pollice, nell’imminenza della macellazione) viene ad avere due valenze grammaticali: una plurale, in Te ghè ciapà i peòci, “sei impidocchiata”; una singolare in Te ghè ciapà ‘l peòcio, “lo hai catturato”. (MM, 188-189)* Io dicevo che il libro […] aveva la piccolezza ma anche la forza irritante di una pulce. (DIS, 66) Ludovico descriveva il ginocchio della pulce come se l’avesse fatto lui: con l’impegno e l’entusiasmo di un inventore. Anch’io però avevo capito e avrei saputo spiegare, almeno alla buona, come avviene quel singolare caricamento senza molle, e come funziona quella specie di ingranaggio a pezzi incastrati l’uno nell’altro, come le parti di un motore della Rolls Royce. Tuttavia fu lui a dirmi cosa succederebbe se avessimo noi ginocchi e cosce e stinchi come quelli della pulce, ma grandi in proporzione. Io calcolavo i salti che potremmo fare (all’incirca un paio di chilometri), ma lui mi disse: “Sciocco, credi tu che ci sia una scala soltanto per le lunghezze? non capisci che scattando quei giganteschi arti, le ossa andrebbero in frantumi?”. (C70, 260)* (Pulcino) L’uovo vuol fare un altro uovo, a costo di passare per un pulcino. (C70, 494*) 103 V. anche “scoiattolo”. 320 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO (Puledro) Straordinari edifici ai limiti del mondo, vasti e complessi. Come nei grandi monasteri a Lhasa (per i quali si strugge sempre il cuore) si percepiva una struttura generale piena di sorprese e, nei dettagli, di mistero. Prevaleva l’impressione di un mondo separato, ma dov’erano di preciso i confini? […] Dalle feritoie e dalle finestrelle inferiate, alte alte, entrava una luce cruda, diversa dal chiarore soffice, diffuso, dei nostri locali interni, creando ritagli irreali, illuminando o evidenziando in araldiche nicchie qualche animale vivo, o di gesso, o di stoppa animata, o di metallo, e una sequenza di creature esotiche a cuccia lungo i muri. A volte ne vedevi qualcuna alzarsi e spinare in una puntigliosa serie di calci. Calci di asini, calcetti di conigli, criniere di stalloni, code di puledri, zampe di leonesse, becchi di grifi… (C70, 358) (Puma) […] non si sa come comportarsi, […] quando la disposizione dell’animale è ostile. Con un puma penso che si potrebbe provare a proteggersi in caso di attacco, con un lupo anche, ma se è un leone sono dolori. Aspettarlo e fare una schinca quando arriva è inutile: ovvio che corregge la zampata lateralmente, fa un twist e frena in modo spettacoloso; dargli in testa con un palo, peggio che andar di notte, anche infilarglielo nella bocca spalancata, il suo stesso peso è come una valanga; sparare, un po’ meglio, ma poco, la sua velocità è spaventosa, e per svelto che tu spari lui arriva ogni volta a portata per l’ultimo saltone, e anche se clinicamente muore in aria, ti rovina addosso ugualmente con l’apparato stritolante già innestato. No, no: leoni neanche a parlarne. (C70, p 273-274) (Quaglia) Una quaglia che di volare non ha più molta voglia viene a basire sulla soglia dell’uccelliera. (C60, 267)* La piccola tribù festeggia il vice stregone. Molto stregone non è, funge come può. Fa piacevoli pupazzi, e le bestie che disegna sulla roccia da quando lo stregone ci ha lasciati, sgambettano vivaci. Taglia il collo alla gallina con la mano che non falla, con due dita strozza la trepida quaglia. Ci racconta la storia dell’antica tribù, quando era piccola e un po’ pudica… (C80, 152) (Ragno) Nulla mai resse di ciò che costrussi con più bislacco impegno nella vita: una forza impietosa ruba il sacco degli ovicini alla ragna intorpidita. Sferiche ballottine, ciascuna è un ragnetto. Rubi il racco con uno stecco, lo incidi con una lametta del rasoio: scorrevoli sfericiattole si spargono sul foglietto dei fratini di sant’Antonio […]. (BS, 478-479) […] nel criptotesto c’è un’extra-sistole causata dal ricordo di una madre-ragno quando le ho portato via il sàcculo degli ovetti: emblema di un destino fallimentare […]. (MR 122) Effetto elettrizzante delle cose ordinarie quando improvvisamente le vedi. Ogni specie di cose […]; la forma della rubber plant nell’angolo, la geometria delle zampe di un ragno; e su tutto ciò il sospetto che in ultima analisi queste forme siano composte di parole. (C60, 60) APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 321 Finire (un racconto) con un ragnetto, grande come un granellino di zucchero, sospeso sotto la lampada da tavolo: è un bruscolino senza peso… Manovra con le zampette quasi invisibili, poi si cala in fretta… (C60, 247) Dice Cencio che il ragno della scienza non si cava dal suo buco senza la bacchettina della sapienza. (C60, 438)* Il ragno color zucchero-orzo sull’imbuto della sua rete, mentre guata il turgido moscone a tiene metallizzati: lo spiamo a nostra volta con un vago senso di pudore, coi “vedi?” e coi “vedo”… (C70, 132)* (Ramarro) Slusaróla quasi luccioletta, rizàrda come lucertola, ramarro seu ligaóro, ciupinàra ovvero talpa, libellula sive sitón: la piccola borghesia si occupa prevalentemente degli insetti; i popolani anche dei rettili e anfibi. (LNM, 62) Forse era un ricordo deformato delle savane da cui veniamo, i ligaori mi parevano minuscole copie dei mostri antichi, le cavallette erano come pterodattili in miniatura, e i leoni che non ho mai visto alla Proa ma che sentivo fremere nell’aria erano quasi dissolti nella calura. ( JUR, 188)* L’amico che dice per abitudine “non c’è il minimo dubbio” ogni volta che afferma qualcosa di cui non è sicuro… Il ramarro se scocca… (C70, 235)* […] c’è chi tra noi ha del gatto o del cane o del ramarro […]. (C80, 74) (Rana)104 Come noi andavamo a rubare le pere nel brolo del prete, e restavamo talvolta aggrappati con le braccia e le gambe a metà dell’albero, prossimi ai frutti, distratti dalla bizzarria di un’angolazione inconsueta del paesaggio di tra le fronde; così ma in modo quanto più struggente, il piccolo ospite montato sulla signora Viola sosta forse là in mezzo rannicchiando le gambe come un ranocchio. (LNM, 177)* POSTURE, in-sentone, in-cuccetta; a rana, posati su un cuscino per la prima foto canonica; a gatto-magnào, sia per necessità sia per ironica scelta. (PP, 302) Qualche anno più tardi, al tempo della pubertà e dei Sepolcri, arrivò infine dalla lettura la rivelazione che i girini disseccati nelle grondaie possono sopravvivere ai lunghi mesi dell’arsura finché il primo fiotto dell’acqua piovana li riporta in vita, pronti a ripigliare il loro piccolo viaggio alla rana. Così gli uomini opportunamente asciugati potrebbero valicare i secoli e risvegliarsi nel mondo del lontano futuro: Al di là delle tenebre, titolo del primo vero racconto di fantascienza trovato da S. in due 104 V. anche “topo”. 322 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO vecchi numeri della “Lettura”. La gente con la testa rapata a zero, in tute aderenti, gli aeroplanini piccoli come un monopattino… ( JUR, 61) Sbusinare indica un suono, che non è facile far rientrare nella tavola delle prescrizioni linguistiche relative alle ‘voci degli animali’, per cui la rana italiana ‘gracida’, il cervo ‘bramisce’, ecc. Nell’italiano scolastico c’era una lista di base, di cui si era tenuti a far tesoro. Alcuni dei suoni designati dovevano essere quelli che conoscevamo, altri non li avevamo mai uditi: degli uni e degli altri si recitavano i nomi quasi come filastrocche, l’uccellino ‘cinguetta’, l’asino ‘raglia’, il leone ‘rugge’ e l’aquila ‘stride’. Sembrava importante non solo non andare a dire che il cane gracida, o la rana mugge, ma anche non rincorrere a verbi generici. (MM, 38)* Anselmo legge testi sulla produttività e sulle relazioni umane, alcuni seri altri squisitamente letterari. Non servono, né questi né quelli. È carico di elettricità come una rana. (C60, 357)* Ha uno splendido casco di capelli lisci, d’oro. Ieri le ho guardato il culo. Grande, piatto, stilizzato. Si vedeva chiaramente il trapezio isoscele, schiacciato, delle mutandine. Faceva pensare a una grande rana aggrappata là dietro, o una padella spiritosamente disegnata, o una misteriosa tenaglia. (C60, 386) Là ci sono rane giganti capaci di mangiare galline. (C60, 441) (Ratto) In pratica ho passato buona parte della mia vita a schivare (in letteratura e in altro) ciò che in inglese si chiama the rat race, “la corsa dei ratti”, la gara sfrenata […]. (MR, 193)* “Guarda: se tu metti un intellettuale di questo stampo in mezzo a cinquantamila ratti famelici, il mondo (e il suo stesso corpo) appartiene ai ratti, ma l’intellettuale resta lui… Ha ha, risolvimi questa!” (C70, 25) (Rinoceronte) Non è poi molto diverso come muore una bestia, vedi il rinocerontino di pochi giorni strattonato dalle jene scherzose, acchiappato per il coppino; frena con le zampotte; alle conversioni della madre confusionaria viene mollato e ripreso, tira e molla tutta la notte, quando si fa chiaro è ancora lì che pascola attorno ai piedi di lei, ora si vede quanto poco funny erano gli scherzi delle jene; è tutto lacerato, ha le orecchie a fette, gli cola sul dorso un velo liscio e viscoso, pare il sangue della gomma. (PP, 354) (Rondine)105 Si era incominciato con un dettato […]. [La poesia] [r]accontava di una baruffa tra un falco un gallo, e il professore ci aveva messo un titolo, “Il falco e il cane”. Così lo 105 V. anche “vespa”. APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 323 enunciò per errore nel dettarlo, ma S. non voleva convincersi che il titolo non fosse proprio quello, come se dietro agli antagonisti della scenetta (un po’ in ghingheri ma veri, non i soliti animali parlanti) ci fosse un cane protagonista, che dominava la scena senza far nulla […]. La patria dell’aulico onesto ci accoglieva; i nostri compatrioti erano suore, che andavano a spasso per l’etra, ed erano nuvole; buoi che si stravaccavano sul declive del fiume orlo fiorente106, e la civetta che svolazzava, insidiando dei non piumati rondinini al nido. Questi rondinini erano cugini dei passerotti sulla neve dei nostri mini-compiti delle elementari. (FI, 258) In chiesa non ci vo, la steeple in paese non l’avevamo più, c’era un’antica torre mutilata dal fulmine, e in primavera un fottio di rondini… (C70, 71*) (Rospo) […] un rospo di ciroloide, che si compiace di mettere nel mangiare della gente, e proprio nei giorni che hanno brasòle, la regina dei piatti. Lo dicono tutti: il Duce lo ha messo nelle brasòle ai socialisti, e appena arrivato a Roma lo ha messo nelle brasòle al Re, ma il Re ha fatto finta di niente. Il Duce voleva anche metterlo nelle brasòle al Papa, ma il Papa svelto è corso a metterlo nelle brasòle al Duce! (PP, 312) (Salamandra)107 La sioramàndola è più rara. Abita nei luoghi umidi, presso le scaturigini nei boschi, si ciba principalmente di aria, e uccide per pura crudeltà, con la linguetta. Io vidi la sioramàndola una sola volta, alla Fontanella dietro il Castello. Chiacchieravamo ignari Piareto ed io sotto i rami folti dei faggi, accostandoci al cristallo dell’acqua sorgiva per bere. Su una pietra lambita dal rìvolo c’era la sioramàndola. Era verde come la luce circostante, e macchiata di giallo e marrone, come le foglie secche. Era seduta e ci voltava le spalle. Fermai in tempo Piareto che voleva tirarle un sasso (ma il sasso rimbalza e il piccolo mostro s’inferocisce), e andammo via in punta di piedi, prima che la sioramàndola girasse la testa. (LNM, 48) […] e l’autobus-salamandra, l’enigmatico Ventuno che doveva esser fatto di iridio non di banda, e si confermò nel corso degli anni la più indistruttibile, la più refrattaria cosa del mondo. (BS, 514) (Salmone)108 Ho visto una pantera pelè do sacramento sulla bocca della porta e il keeper del miracolo Cfr. Zanella 1988, 500. V. anche “vipera”. 108 V. anche ‘trota’. 106 107 324 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO guizzarle tra le zampe rimontare, salmone del nord nell’aria nera con la parabola storta. E ho visto scavezzarsi la rosta dei bolidi su yascin torre slava uno dei pochi istituti sovietici degni di lenìn109 […]. (C70, 66)* (Sanguisuga) Aveva […] un contorno di bizzarri interessi mondani, primo fra tutti le sanguisughe, che conosceva e capiva a fondo non da zoologo (benché sapesse anche ciò che sanno gli zoologi) ma da simpatizzante. Sono creature dalle idee semplici e tenaci, la loro cultura non è senza eleganza, e nutrirle non costa nulla. (DIS, 34)* Nei garden parties, le abbrividenti partite di piacere pomeridiane, irreali, in cui l’università incontrava l’università […], Hodges isolato nella sua austerità cercava la nostra compagnia e ci parlava delle sanguisughe, il loro stile di vita, le loro qualità (si potrebbe dire) spirituali, insomma la loro Cultura… (MR, 75)* Di anno in anno ribadivano, mangiando qualche fragola, gli aspetti più interessanti della vita delle sanguisughe. (C60, 248)* Mi aggiravo in una selva di pali, che in realtà erano alberi, nudi tronchi che salivano altissimi e si immergevano lassù in una massa di fogliame compatta come un soffitto. Nel fogliame si annidavano uccelli che schizzavano zacchere tepide, acri. Dal baldacchino lassù spenzolavano liane, e tra di esse, quasi indistinguibile, qualche serpente di grottesca lunghezza. Altri serpenti calavano strisciando lungo i tronchi. Per terra c’era quasi un tessuto di sanguisughe voraci. (C80, 428)* (Scarabeo) Fu da lui [Zio Dino] che sentii nominare per la prima volta lo scarabeo stercorario: certamente quello di Henri Fabre. Fu come un minuscolo colpo di fulmine: il nome splendido come un gioiello, i rapporti delicati con la sua materia prima… Attraverso mio zio venni a conoscerlo come un parente, non del tutto coevo, anzi una specie di arcaico antenato impicciolito dai secoli, testardo, ingegnoso, elegante, esemplare. C’era qualcosa di arcano nell’involucro, ma all’interno una vita profondamente rispettabile. (AM, 202) 109 La pantera, in tal caso, potrebbe rimandare al calciatore portoghese Eusébio da Silva Ferreira – soprannominato Pantera negra – che, nel luglio del 1966, sconfisse Pelé ai mondiali d’Inghilterra; oppure, a Pelé stesso che, nel marzo 1971 (mese e anno cui l’estratto dalle Carte afferisce), giocò presso lo stadio Lužniki di Mosca, per festeggiare l’addio del portiere Lev Jašin. Questa seconda ipotesi ci sembra la più plausibile, come è possibile dedurre dal prosieguo del passo. APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 325 Tutto è terreno e piccolo, e tutto impreciso, ciò che sappiamo e ciò che diciamo: volare non è proprio volare, tecnicamente vola in brevi tratte chi salta e chi corre… In questo modo abbiamo studiato la natura, appreso di dove nascono mosche e scarabei, e tutto il resto. (C80, 38)* […] Sabbia arcaica, scarabei, scaecioni, sull’orizzonte la sagoma basa, temibile del forte […], e un uomo magro, tenebroso, ignudo tranne lo straccio sui fianchi: araldo del mistero. Ha in mano un manico di scopa col chiodo in punta […] pronto a colpire, trapassare, mano piede corpicino, minaccioso guardiano di granchi, scarabei bai d’ogni specie, pezzi di sterco disseccate, cappe conchiglie bacchettine, luccicanti granuli che rispecchiano il sole. (C70, 351) (Scarafaggio) In un attimo eravamo sullo sperone, e in quella parte del buio dove c’è, invisibile, la piana di Marcésina, guardavamo la fila lunga lunga di lucette appaiate che venivano avanti piano piano. Ci mettemmo istintivamente a contarle. Quando ne ebbi contate trenta paia smisi di contare. Pensavo a una processione di scarafaggi in fila per due, ciascuno col suo candelino infilzato sulla schiena. (PM, 123) S’incomincia con una Nota: l’originale da cui è tradotto il pezzo che segue è intitolato, tutto in minuscole, “pete the parrot and the Shakespeare”, ed è firmato da “archy”, uno scarafaggio letterario americano di cui ha trascritto i lavori (dattilografati dalla bestiola saltando sui tasti) il pubblicista e poeta Don Marquis (1878-1937). ( JUR, 9) Delio, che voleva entrare nella “rosa” di non so che premio ed era andato in tempo “a salutare” B., il trombone milanese, specialista in questa materia, restò poi escluso dalla rosa. Colpa del trombone, che aveva mancato alla promessa di pubblicargli una recensione sul suo giornale. E a Delio, offeso nella sua veste di artista e cliente, non restò che il piacere di infuriarsi e inveire contro il colpevole. Dice che alla notte sognava uno scarafaggio che muoveva le piccole antenne e diceva: “Io sono B.”. (DIS, 159) (Sciacallo) Per “sciacallo” non s’intende di solito lo sciacallo, vero, bestia elegante, energica e onesta, dalla vita dura; ma quello mitico, una nostra creazione culturale, che a quanto pare non c’è in natura, dove semmai la bestia che ci arriva più vicino è il leone, lo spregevole leone maschio. (C70, 152) Ma risalendo per esempio agli sciacalli: se fosse toccato in sorte a loro di sviluppare un cervello come il nostro, si può pensare che la loro civiltà di cacciatori avrebbe prodotto una cultura non troppo diversa da quella che abbiamo noi. Si sarebbero inciviliti, pur continuando a praticare la caccia e lo smembramento delle prede, ed è probabile che a quelli più inetti o più incerti gli altri avrebbero preso a dire “Ma fatti sciacallo!”. (C80, 192*) 326 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO (Scimmia)110 Nella piena salute dell’estate, anch’io mi sentivo sano e forte come non sono mai stato. Ero quasi grasso, e sentivo la forza fisica gonfiarmi dall’interno; abbracciando i miei amici, per fare la lotta, dovevo riguardarmi per non stritolarli serrando le braccia. Facevamo la lotta sbuffando e ridendo, e le nostre prese scherzose erano formidabili. Pareva un gran peccato, non poter sfruttare direttamente questa forza a scopi bellici. Sembravamo un branco di scimmiotti che si fanno gli sgambetti sull’erba. (PM, 170)* Pioveva. Ci si sentiva come dovevano sentirsi quei primi branchi di uomini, o anche di scimmiotti preumani, quando erano ridotti a una mezza dozzina, e cominciavano i freddi, e loro si affacciavano avviliti alla bocca di una caverna come questa, che sarà sembrata anche a loro l’apertura del grembo della terra, nel quale estinguendosi la stagione e la vita, non restava che rientrare. (PM, 200)* Si potrebbe dunque dirci qualunque cosa e aspettare che ciascuno la racconti all’altro, e alla fine veder ridere in fondo alla fila lo scimmiotto Meneghello, o noi minacciarlo col pugno. (PP, 292) Talvolta si era liberi in aria in posture girevoli, lanciati a candela da braccia che davano l’abbrivo (le travi ingrandivano come pulsando); gettati in spalla come fascinelle di rami da ardere; in volo nel portico, forniti di spinte bislunghe che la terra da sotto ingoiava in un sorso – poi ti afferravano, restavi imbragato là in alto, scimmiottino… (PP, 302)* A nessuno poteva piacere invece, e non se ne dava pensiero, un avventizio nel quale pareva veramente incarnata la componente assurda della scuola, Yoko: che venne sul tardi, vispo, nerastro, scimmiesco. Davvero non somigliava a un uomo ma a una grottesca bestiola, una specie di scimmia matematica. Non aveva alcun timore della classe, né della matematica; anzi pareva inebriato da innocenti manie di grandezza, e ne metteva a parte gli allievi. Su ciascun aspetto della materia c’era, diceva, “un lavoretto mio” a stampa o da stampare; che si trasformava ogni volta in un mucchietto di escrementi sulla lavagna, con l’attribuzione su un cartiglio, accanto al quale uno scimmiotto faceva sgambetti di giubilo. (FI, 288) Nel 1905 questa mano [di scimmia] fu acquistata da un ometto di mezza età. Glielo avevano detto che portava anche sfortuna, ma lui si mise in testa di fare una prova più o meno a colpo sicuro, desiderando una determinata sommetta di denaro: che male può fare? E invece tac!, proprio nel momento che pensava il suo desiderio, suo figlio ebbe un incidente sul lavoro e morì orribilmente dilaniato: e così la cassa infortuni gli mandò la sua sommetta. Sconvolto, ma forse anche piccato, l’ometto ricorse al secondo desiderio: “Che mio figlio torni a me”. E nel silenzio della notte […] sentì aprirsi la porta […]. Era il morto che tornava, però nel suo stato di maciullazione, trainando i pezzi. Era il momento del terzo desiderio: purtroppo l’ometto, molto innervosito, stava al buio 110 V. anche “tartaruga” e “vacca”. APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 327 e la mano di scimmia gli era cascata. Fu una cosa molto risicata, il morto a brandelli raspava alla porta, e lui cercava freneticamente la mano sul pavimento… Insomma la trovò appena in tempo e riuscì a dire: “Che questo orrore se ne vada!” proprio mentre la porta cominciava a socchiudersi. Un anno incomparabile. (JUR, 58) Già, il gabbiotto che c’era a Pósena (Posina) in uno spiazzo, un magro slargo della strada; era una struttura cilindrica, un casottino di sbarre con la cupola, nel quale tenevano prigioniera una scimmia. Un simiòto. Mi accostai per guardarlo, con un salto lui si gettò contro di me, venne a sbattere sulle sbarre all’altezza del mio viso, e le scrollava con le mani e coi piedi, spirando un odio forsennato dal muso, dagli occhi arancione, tondi, ardenti, dall’arrotare dei dentini… Era sconvolgente, per un istante mi prese il terrore che potesse storcere le sbarre arrugginite e brincare me, e lacerarmi. Una creatura così piccola, così grottescamente umanomorfa, con quei tratti minuti e ben profilate, quelle manine eleganti… Un livello orribile e profondo… un raptus senza nome, un barilotto di forze poco meno che sacre. (MM, 81) […] Kurt, finissimo pittore e tenebroso uomo, che aveva un bisogno profondo, dipingendo, di aggrapparsi ad aforismi sulla natura ultima dell’arte. C’è una serie di suoi disegni, fatti quando era in manicomio, impressionanti. Sono teste, viste di faccia: […] si vede la faccia di Kurt […], stravolta dalla pazzia, e in essa si riconosce anche, molto distintamente, il muso di una scimmia che gli somiglia. (DIS, 159-160) Le scimmie, cosa sono le scimmie? Contadini ovviamente no, e neanche pastori. Tu cosa dici, sono cacciatori? Quegli scimmiotti rognosi, spelacchiati, pidocchiosi, pieni di bave… Sono cacciatori? Lo sai tu? (C60, 488)* … Piero era in primo luogo una cosa. Conteneva tra 40 e 50 chili d’acqua, qualche chilo di carbonio, parecchio azoto, un po’ di fosforo, un po’ di ferro e tracce di oro. Aveva un buco principale dal quale entravano giornalmente alcuni chili di sostanze varie che venivano bruciate, e dal suo corpo uscivano a intervalli aria viziata e rifiuti. Pungendo Piero in un punto qualunque usciva anche sangue che però, tamponato, smetteva di uscire. Aveva in corpo circa otto litri di sangue, e in testa una vaga idea che glielo avesse passato il papà, il quale lo aveva ricevuto dal nonno, e il nonno dal suo papà, e l’ultimo della serie antropomorfa da uno scimmiotto, e costui da altre creature, e queste da altre ancora, fino al punto di origine, una zuppa marina. (C70, 209) Christabel […] mi spiegava le cose delle scimmie, come allattano, come reggono l’infante, e che se alla mamma scimmia si dà in mano il suo baby dalla parte sbagliata, lei non se ne accorge nemmeno, lo regge così capovolto, anzi a sentire la mia amica cerca di allattarlo per i piedi; e allora, penso io, bisognerebbe fargli un buchetto nel dito grosso… (C70, 261)* Siamo un ceppo di scimmie abbindolate. (C80, 132)* Il nesso [sul rapporto tra capire e ricordare] è lampante nelle scimmie antropomorfe: se paiono impacciate in certi problemi pratici si può mostrare sperimentalmente che non è per la debolezza del comprendonio, ma solo perché hanno poca memoria […]. (C80, 149)* 328 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Tra le creature antropomorfe, prima degli ominidi, dovevano esserci scimmiotti poeti […]. (C80, 191)* La testa del giovane Valentino, come si vedeva più chiaramente quando andava a tagliarsi i capelli, aveva una sagoma simpatica, su cui i capelli scuri facevano un bel ciuffo […]. La vetrina della testa, il muso, esibiva un moretto vivace, più giovane della sua età. La mobilità facciale (che può parere un tratto del carattere) era quasi eccessiva, e a volte il ragazzo ne faceva lui stesso la caricatura con una serie di smorfie. Non fu mai capace di muovere le orecchie (cosa che parecchi sapevano fare in paese: non so se sia ancora così, ma forse dipendeva dall’alimentazione di allora) ma in cambio riusciva a muovere il cuoio capelluto, si compiaceva di farlo qualche volta in pubblico, un po’ per sorprendere e far stupire la gente, un po’ forse per farle dispetto. L’attaccatura dei capelli veniva bruscamente ad abbassarsi sulla fronte, i sopraccigli si aggrottavano, e un vestigio di testa di scimmiotto compariva, spariva, ricompariva. (C80, p 424) (Scimpanzé) Ecco invece gli alpini in congedo che cantano in treno, gli scimpanzé allo zoo, la gente in trattoria, le feste campestri […]. (C70, 205)* (Scoiattolo) “Ma non c’è da sgomentarsi: e del resto il prodigioso skill del leone si nota di più perché si tratta di una belva grande, ma lo schema è lo stesso anche in animali meno vistosi, nello scoiattolo, nel delizioso furetto, nel passero, nella mosca cavallina, nella pulce e, chissà, forse nel microbo… I biologi parlino chiaro! (C70, 423)* (Scorpione) Troppa roba metamorfica. Se agisci sullo scorpione metamerico111 […], la cosa furiosamente metarìssola. Ci sono macchine pittrici, e uno spolvero di ballfressenden Maschinen. (C80, 159)* (Scricciolo) Era buona, o così e così, la natura dell’uomo e degli altri esseri viventi? Saverio non vide a fondo l’orrenda cattiveria per esempio degli uccelli, fino a un giorno dei primi anni Cinquanta, quando tornando verso casa dalla fermata dell’autobus a Cressingham Road, passando davanti al casottino della British Legion […] vide sul margine della strada uno scricciolo aggredire un verme. Un ciuffo veramente furibondo di energie piovve dal cielo e si scagliò in modo forsennato su un bersaglio che forse tentava di sfuggirgli; in un lampo l’aggressore sferrò una gragnuola di beccate, 111 La metamerìa è una tendenza evolutiva tipica degli eucelomati – cui lo scorpione appartiene – caratterizzata dalla suddivisione seriale del corpo o delle sue parti secondo la sua lunghezza in una serie di elementi serializzati. Gli eucelomati sono quegli animali provvisti di celoma, cioè una cavità interna piena di liquido. APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 329 corte, mortali, come una bestiale macchinetta da cucire, ovviamente accecato da furia omicida (perché avrà avuto un suo lato “umano”, una sua parentela con noi, la creatura che stava sotto la punta dell’orribile ago). Eccoli, gli uccelletti! Tutta quella rugiada, quelle mossette, quei pianti per le mogli perdute, quelle soavi lagnanze… Già, non si lagnavano proprio per aver fatto fuori i parenti più stretti. (C70, 114) (Scrofa)112 Il sonno mi sembra ancora interessante. Ora so che certe aree del cervello dormono sempre: il sonno non è uno stato nettamente distinto dalla veglia; un po’ si sta sempre dormendo, si dorme in piedi e si dorme guidando una motocicletta, come sa ogni motociclista, e in altre circostanze. Ciascuna fetta del cervello, ciascun tassello forse, dorme a turno; mentre noi vegliamo un trapezio di cellule s’appisola, affonda nello stupore intenso. Penso che il sonno circoli irregolarmente, saltelli come lucette che s’accendono e si spengono qua e là. Una parte di noi dorme sempre; ma tutti non dormiamo forse mai, qualcosa veglia quando si giace addormentati, e produce la maiala alta come un vitello, lunghissima e magra, una specie di enorme cagna rosata che mi pareva avessimo comprato, e pensavo, Orca-miseria, quando sarà ingrassata verrà un pachiderma da dieci quintali, mangerà troppo e farà schifo. (LNM, 26) (Seppia) Da ragazzo ero stato redarguito dalla mia stella […] quando andai a pranzo in casa di lei a Padova in veste di amico, non di pretendente o fidanzato-cucco, […] mi diedero un loro straordinario risotto con le seppie. (C70, p 255-256) (Serpente) In antico c’era un oceano deserto, nel quale ogni pomeriggio dopo mangiato comparivano il Serpente di Mare e il Mostro Marino. Il racconto del papà, sempre uguale e diviso in due parti identiche, durava qualche minuto, e consisteva nel postulare ciascuna delle due apparizioni e identificarla. Erano ovviamente la stessa bestia, ma guai a confonderli. Il Serpente di Mare arrivava da sinistra, il Mostro Marino da destra. Avevano un andamento tubolare e ondulato, ma nello stesso tempo somigliavano a un vaporetto. Bizzarramente, avevano in bocca uno stuzzicadenti come il papà. I loro nomi […] dimostrano che non si trattava di una fauna selvaggia degli abissi, ma di fantasmi della cultura riflessa […]. Grandi e lenti, i due bestioni si spostavano verso la parte centrale dell’oceano: quando erano in mezzo sopravveniva il sonno. ( JUR, 55) Quel giorno, nel 1945, vedendo la figuretta acciambellata, pensai a una serpe, benché lei non fosse per nulla serpentina o velenosa: una serpentella insonnolita, pigra, indifferente. Ero salito da lei per “parlarle”, credo. Intendevo comportami in modo disinvolto, ostentare un certo saper vivere, ma la sua indifferenza quasi animale mi turbò. (BS, 536) Devo scrivere un libro su un argomento segreto […] 112 V. anche “vacca”. 330 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Non voglio fare il misterioso, è un segreto che non mi è concesso rivelare, ma di cui sono costretto a occuparmi. È qualcosa che ha invaso la mia vita, l’ho introitato senza volerlo, come quel mio paesano a cui mentre dormiva disteso s un prato era entrato in bocca un serpente. Mi hanno detto che quando tutto il serpente fu dentro, tranne la coda, un contadino che passava di lì e lo aveva visto entrare, lo afferrò per la coda e pian piano lo tirò fuori. (C70, 481) Com’era la favola? Ai margini del paese un arcaico contadino (erano tutti arcaici) si era addormentato sotto un olmo, e mentre dormiva con la bocca aperta, arriva un serpente e va dentro a vedere: era nero, e lungo come l’anno della fame, e quando fu disceso a metà il contadino si svegliò con un senso di peso allo stomaco, e avvistando il mezzo serpente che gli pendeva alla bocca, dopo aver provato invano a tirarlo fuori (la pelle zigrinata bloccava), lo tagliò coi denti: l’altro mezzo si sistemò all’interno, forse ricrebbe un po’ dalla parte della coda, e si riadattò al nuovo ambiente. Così il popolo italiano aveva fatto col fascismo, tagliandolo in due, o piuttosto così avevo fatto io che spesso mi confondevo col popolo italiano. (C80, 26) Sopravvive, però, come un serpentello, il sogno antagonista di poter vivere più serenamente, attendere alle bisogne ordinarie, per esempio nel mondo dei papers e degli scripts accademici… Ma sempre da questi sogni sono tornato ai rischi, alle spine della solitudine. (APP, 30) (Siamango) Com’è bello il siamango! che bell’animale! che bello lo spacco della bocca, la mancanza della fronte e la triangolazione del muso quando sganascia! Noi, nelle forme in cui ci siamo evoluti, siamo distintamente brutti al paragone: molli, fiapi, come i grossi filugelli andati in vacca… (C80, 185) (Sogliola) In un mare senza suoni si è formata una voragine, li ha inghiottiti. Laggiù le pressioni deformano… Visti di fronte apparivano quasi normali, un po’ espansi, ma voltando di sbieco diventavano uomini-sogliola e donne-sogliola (più piccole e con un’unghietta di seno), e a mano a mano cialde e infine righe verticali con due fili snodati oscillanti al posto delle braccia, e una biforcazione in basso che sforbiciava l’acqua: e continuavano a scendere a rilento, finché un fluido invisibile risalendo dal fondo del mare li ha fermati, e lì in sospensione i microchips hanno fatto una specie di sospiro, come chi all’improvviso capisce, vede. Ricominciare, che non consiglio a nessuno, o chiudere? Guardando in alto vedevano il sottopancia del mare (C70, 383) (Squalo martello) Nel corso di un’immersione alle Marianne per raccogliere dati sulla psicologia degli squali (ma Halsey derideva la pretenziosità dell’espressione “psicologia degli squali”) si trovò tutt’a un tratto di fronte a un gran pescecane dalla testa a martello, una sfirnide: a un paio di metri, arrivava da sinistra, si era arrovesciato e aveva la bocca a salvadanaio aperta. Halsey teneva in pugno come d’abitudine un arpione, e arpionò lo hammerhead trapassandogli quello che in altre bestie sarebbe il collo. Qui cominciò la più cu- APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 331 riosa avventura: il pesce vorticava, e l’uomo aggrappato all’arpione vorticava anche lui: vorticarono per un pezzo, e alla fine vennero in superficie dove alcuni pescatori attratti dal mulinello spumeggiante riarpionarono più volte la bestia, trapassando però anche un braccio dell’uomo, e la uccisero. (C80, 46-47)* (Storno) Storni abbiamo detto che si chiamano? il nome lo sanno in molte, ma come sono congegnati e cosa fanno lo sa Renzo. Qui nel parco davanti al nostro balcone sono centinaia, a volte migliaia. Quando senti tacere all’improvviso la cagnara (“le gazzarre degli uccelli”113: Renzo ha una speciale sensibilità per le cose, in Montale, che riguardano gli uccelli, la ghiandaia114, il gheppio115) vuol dire che hanno appena spiccato il volo, tutti insieme: se batti forte le mani, qui sul balcone, tacciono di colpo, e li vedi volar via a fiotti… Guardandoli volare in alto, energici, attivi, strepitosi, in una specie di grande mercato degli uccelli che si tiene verso sera orai da un mese almeno, mi chiedo: come fanno in quel casino a trovarsi? hanno nuclei familiari? Sono maschi, questi che volano, e perché volano così? o femmine, o misti? (C80, 200-201) (Tacchino) Un giorno che ci era stato regalato un tacchino, che da noi si dice un pao, i contadini ci allestirono un banchetto, e invitammo il Tar con Aquila. (PM, 181)* (Talpa) I mammiferi sono di tutti, ma quale più quale meno: striscio segreto della ciupinàra che Nane-dell’orto percepì in nostra presenza. Stava separando la cicuta dal prezzemolo; disse “Fermi!” e tirò fuori il coltello; con la bocca faceva quella smorfia che non si sa se uno si morsichi per eccesso di attenzione, o rida. S’inchinava un po’ in giù un po’ in avanti ascoltando un piccolo fruscio sottoterra che noi non sentivamo; d’un tratto fece due passi ben ritmati e ripiegandosi su un bersaglio mobile e invisibile un paio di metri più in là, accoltellò la terra. Quando si rialzò pareva proprio che ridesse; scavò attorno al manico del coltello e subito sotto, trapassata dalla lama enorme c’era la ciupinàra. Aveva il musetto tutto rosa, scolorito, come chi sta sempre al buio. Aveva una pelliccetta insanguinata, e sporca di terra, ed era cieca. Le manine abituate a raspare pendevano inerti; impalata sul coltello, nel sole accecante, pareva una messaggera imbalbata dal paese di cunicoli freschi e umidi che ci sono sottoterra. Anche Nane era balbo, e l’intera cosa dava un’impressione di balbuzie, un ingorgo doloroso del pomeriggio. Nane coltivava in orto la cicuta che frammischiava al prezzemolo per la gioia di saperla distinguere al verde più carico, nefasto delle fogliette; e la cattiva, lustra, fragile pianta del ricino con le cui bacche avvelenavamo in segreto le punte delle frecce. Cfr. Montale 1984 [1925], 11, v. 11. Cfr. ivi, 53, vv. 14-17. 115 Cfr. Montale 1984 [1939], 174, vv. 1-4. 113 114 332 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO (LNM, 63-64) Poi si profilava la sfera di luce umida sospesa lassù, e improvvisamente davanti ai miei occhi, vicinissimo, irreale, lo stelo metallico del lampione. Come succede a volte col senso delle distanze in montagna, quando c’è la nebbia, o come si può pensare che vedano il mondo le talpe, attraverso la pelle degli occhi… Così spoglia, così aspra la vita? (APP, 42)* (Tartaruga) […] le grandi tartarughe, la cuca delle fabbriche vittoriane, o per stare sul semplice, i fondamenti della natura umana… (DIS, 123) Si formavano isolotti con alberi strani, e pappagalli, scimmie, tartarughe: e poeti. (C70, 105) (Teddy Bear) Quaranta mesi più tardi si vedeva già. Come se il prodigioso Gastone avesse scaricato la sua bravura negli ultimi spasimi dell’adolescenza, prima dei vent’anni. Ora non pareva più niente di speciale, un giovanotto qualunque, corposo, barbuto, inoffensivo, con l’aria di un orco e insieme di un teddy-bear […]. (BS, 436) (Tignola)116 (Tigre) […] possiamo puntare su un effetto di esotismo come si è fatto con “la tigre viziosa” […]. (DIS, 100)* (Topo) Liberaci dalla morte ingrata: del gatto nel sacco che l’uomo sbatte a due mani sul muro; del cane in Piazzola a cui la sfera d’acciaio arroventata fuoriesce fumando nel sottopancia; del maiale svenato che urla in cima al cortile; del coniglio muto, del topo di chiavica che stride tra il muro e il portone nel feroce trambusto dei flagellatori. (LNM, 92) In Gastone-Fiore l’istinto della caccia è profondo. Fin da piccolo comunica misteriosamente coi ratti di chiavica, li chiama con una specie di zufolo, e quelli vengono. Gli amici dicono “Gastone, chiamalo,” il topo spaventato in cima al muro scompare dall’altra parte. Ma Gastone-Fiore impone silenzio con la mano, e comincia a zufolare dolcemente. A poco a poco dalla cima del muro rispuntano le zampine, il musetto roseo e tutto il topo; esita più volte, vedendo tanta gente, poi seguendo l’esile fischio afono scende giù per il muro come un sonnambulo, attraversa la strada e viene docilmente a morire sotto i piedi rapidi degli amici di Gastone-Fiore. (LNM, 241) 116 V. “zanzara”. APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 333 La Simonetta aveva un gran sonno: ai lampi la vedevo al mio fianco con gli occhi chiusi e le labbra imbronciate, bagnata come un sorcio, e spiritualmente assente. (PM, 4)* I topi saranno restati interdetti; come regolarsi coi bottoni di una radio anni Quaranta? Ho sentito però l’altro giorno che tre individui svegli e tenaci avevano recentemente avuto l’idea giusta: c’era il forellino lasciato da una vite nel legno, e loro si erano messi a roderci dentro in profondità per allargarlo, con risultati molto promettenti… Ma la cosa non è poi andata a buon fine per loro, anzi purtroppo è andata a finire malissimo. (MR, 226) Topi drogati, labirinto… (C60, 412)* Che nottata! i celti rotolavano massi sulla fila dei nostri, scagliavano nuvoli di pietre e di frecce… Cadde grossa pera Buffòn, un tremulo quadrello nel picciolo. Anzolìn succhiava perplesso la spada di legno, e il ranocchio Barile strappava la coda ai topi fuggevoli. (C60 497)* (Toro)117 Qualche scossa di terremoto durante la notte, e la gente raccontava le sue impressioni: l’Annamaria aveva immaginato, per un attimo, che ci fosse un toro (Annamaria! Un toro?) sotto il letto… (JUR, 105)* Mario, al lunch: “Questo Rosi ha fatto un film sui toreri e sui tori, e io, stupido, ieri sono andato a vederlo”. “Si vede un gruppo di uomini sotto una pesante piattaforma con una Madonna e dei candelabri, che la sollevano e la portano avanti con passetti cori […]; e poi un uomo che trebbia su uno slittino tirato da un asinello; tutto ben fotografato, con pretese d’arte e grande raffinatezza; con uguale raffinatezza fotografa anche teste di tori neri, fuori fuoco, e varie altre cose; la banalità del racconto mozza il respiro.” “Hanno accesso a un sacco di cose buone, questi bei soci, e le falsificano. Il sangue dei tori, rosso vivo su nero, e la connessa macelleria, sono roba degna di Jacopetti […]”. (C60, 151) Gli altri hanno Ian Fleming, noi Jacopetti: raffina sempre la nostra cultura. Chissà cosa credono di aver trovato in quegli stritolamenti delle dita, escoria menti di facce, schiacciamenti di lampadine nelle zone dell’innesto del vaiolo? È l’estetica dei tori che buttano torrentelli di sangue dal naso… (C60, 155) (Tortora) Tórtore, fiochi che zola via a onde da na corte se un s’cioco le spaura! (Note, stéle, TRAP, 15, vv. 10-11)118* V. “vacca”. Trapianto da The Starlight Night di Gerald Manley Hopkins: “Wind-beate whitebeam! airy abeles set on a flare! Flakes-doves sent floating forth at a farmyard scare!” (Hopkins 2011 [1877], 21, vv. 6-7). 117 118 334 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Madona! e dovarìa darghe rasón: sì parché go ‘l figà de na tortorela (Piànzare par Ecuba!, TRAP, 104)119* (Tricheco) O, ripensiamo alla straordinaria passeggiata in riva al mare, del Tricheco e del Marangone, sconvolti e in lagrime all’idea di quella enorme quantità di sabbia – come si potrebbe spazzarla tutta? (QNB, 13)* (Tritone) Angelica Frida! Capace di portare in tavola la zuppiera fumante e avvertire gli ospiti che forse c’era dentro il newt [scil. tritone] che le era scappato quella mattina stessa dall’acquario. Non c’era in realtà… (DIS, 108)* (Trota) Non parliamo poi dei due sposi novelli in una capanna. Agata pescava trote e tagliava legna. (FI, 242)* La trota era così piena di fango e sterco da dare la nausea. Lui, che mi stava già parlando della questione che gli stava a cuore, si interruppe e osservò: “Non mi pare molto buona la trota qui”. “Non è trota” dissi. “È merda” (C60, 50)* Non c’è la trota guizzante, non c’è il salmone che percuote le cascate con la coda, manca il re dei pesci, il suo lampo arcuato sopra la scorza del mare. Qui c’è uno che si tira dietro con lo spago una trota morta. (C60, 407)* (Usignolo) Ciuffolotti, rosignoli, forapaglie, cincie, verle, luì, fife, cuculi: questi nomi svolazzavano negli spiazzi della nostra memoria, accrescendo, anziché ridurlo, il credibility gap […] [:] era una natura verbale, fondata essenzialmente sull’udire, e atta a generale un sopramondo di immagini legati ai suoni uditi. L cincie e le fife ci sono, agili e vispe, nella nostra testa; e non solo non ci importa di sapere come sono di fatti nei prati e sugli alberi, ma non vogliamo saperlo per non danneggiare le nostre. (C70, 115) (Vacca) Ci veniva impressa nella mente l’opportunità di cominciare la confessione dai peccati più grossi. È come il contadino che ha da far passare per una siepe spinosa un pulcino, e la chioccia, e il cane, e la capra, e il maiale, e la vacca; se comincia dai più piccoli, la fatica e le graffiature si rinnovano a ogni passaggio. Ma se manda avanti la vacca, che sfondi ben bene la siepe, gli altri passano poi comodamente. La vacca era per lo più la stessa, la solita Binda delle brutte cose, che non sempre però trovava- 119 Trapianto da Hamlet: “Ha? Why I should take it: for it cannot be, / But I am Pigeon-Liuer’d, and lacke Gall” (Shakespeare 1623, 264, vv. 1574-1575). APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 335 mo il coraggio di mandare avanti per prima. Qualche volta si arrivava in chiesa con un’altra vacca. Quella di Mino, un sabato, era grossissima; se la tirava dietro imbarazzato, e la Bisa s’impuntava, come se non volesse saperne di entrare; ma a forza di strattoni Mino, rosso in viso, la trascinò fino al confessionale. Di farla passare per prima però, non ci pensava nemmeno. Così confessò tutti gli altri suoi peccati, uno per uno; frugò anche nel passato più remoto, si accusò di colpe puramente ipotetiche, discusse puntigliosamente i casi marginali. Fu lodato del suo zelo ed esortato a non cadere negli scrupoli: adesso restava la Bisa. (LNM, 11) Nell’imminenza di partire per la montagna, tanto per farla contenta provammo a vestire Bene da donna, coi tacchi alti e la veletta; pareva una puttana, e questo andava bene. Ma è incredibile quanto grande pare un uomo vestito da donna; figurarsi Bene, che era già grande per conto suo. Pareva una puttana immensa, una ciclopica vacca, molto bella per la verità. (PM, 10) Franco stava in piedi dietro a un tavolo su cui erano sparse le foto del Duce macellato. Franco aveva sul viso un’espressione di fastidio e rivulsione. Forse non era proprio pietà, piuttosto un senso di sconvenienza. Nel segreto del cuore, io (che ho a schifo la crudeltà, specie nelle sue forme stupide e gratuite) esultavo. Mi pareva una cosa giusta e buona che fosse avvenuto questo scempio, quasi un rito che per vie oscure purificava gli animi, e dava al duce stesso uno status più serio. Sarebbe stato ancora meglio se lo avessero ucciso coi coltelli, ma anche così poteva andare: e trovavo appropriato e poetico che lo avessero appiccato per i piedi. Venne uno con una fune e annodaoli tutti doi li piedi. Dierolo in terra, strascinavanollo, scortellavanollo. Così lo passavano come fussi criviello. Onneuno nesse iocava. Alla perdonanza gli pareva de stare… Fu appeso per li piedi a uno mignaniello… Grasso era orribilemente, bianco como latte insanguinato. Tanto era la soa grassezza, che pareva uno esmesurato bufalo ovvero vacca a maciello. (BS, 416) […] ciò che faceva la cavra (fruscava), el moltón (smoltonava), el musso (traéva), la vaca (molava cornà), el tòro (inpirava coi corni) […]. (MM, 26)* Tra gli epiteti derivati da nomi di animali e animaletti, béco! Non si dice alle donne; vaca! non è di uso comune per gli uomini; piàtola! è a doppio uso. È da notare che se si vuol dare del mas’cio a una donna non si dice ròia! ma mas’cia, mentre l’equivalente maschile di ròia […] è […] putaniéro!, o fiól de na tròia. (MM, 106-107) Ernesto ha scritto un pezzo sull’occasione in cui (da adolescente) fu tentato di aggredire sessualmente una vacca. Non è un bel racconto. Il comico, per qualche ragione, non funziona e il grottesco appare soltanto frivolo. “Le galline sessualmente parlando non m’interesano, le coniglie mi fanno schifo, le gatte paura, un manicotto morbido che graffia. Le vacche e le scimmie grandi trovo attraenti, e le cavalle potenzialmente piacenti ma insormontabili”. Ma va là. (C60, 78) Onorio è stato di nuovo a Taormina, c’erano le elezioni di Miss Boheme, Miss Oco, e Miss Vacca. La prima aveva i disturbi, la seconda gli occhiali, la terza il magone. (C60, 185)* “Affezionate ai mariti, proprietarie. Come durante la guerra sentiamo che chaque allemand avait son petit français, così queste donne hanno la loro vaccherella. Il nome da festa, al mio paese, era la muca. Da lavoro, da latte, da trastullo”. (C60, 324)* 336 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO - “La vacca ha fatto un bambino” - “Il bue ragazzo non vuol camminare” - “Questo cammello è madama” (C80, 221)120 Una frotta di giovenche pezzate aveva invaso pascolando la zona occupata da un presidio di stizzose giovenche nere. Queste, molto più agguerrite, repugnavano fieramente e respingevano le intruse scontrandole coi corni: le più bellicose facevano brevi risalite rinculando sul pendio per affrontare poi le avversarie col vantaggio dall’alto verso il basso, vibrando meravigliose cornate. E le pezzate, opponendo con meno furore, ma non senza energia e bravura le corna alle corna, indietreggiavano combattendo. Due frotte di vacche in battaglia, un fatto d’arme sul dorso dei nostri monti, dove schiatte di giovanotti in frotte contrapposte si sono scontrati nella guerra del ’15-’19, oggetto per noi di inesauribile stupore. (APP, 171*) (Vespa)121 Quattro temi in verde: Una testina di vespa, che è solo un guscio; un cervello di scimmia, sanguinante; l’aforisma all art is about a head; e le patterne come chiave del reale. (C60, 264) Trivellare bisogna, che spicci acqua sana: pompe nuove, nuovo forno; rifare i tetti, rinforzare i muri, uno statuto per i topi delle cavernose cantine, uno per le vespe e poi per le formiche stanziate qui a milioni da secoli e secoli […]; e uno statuto per i cani bastardi, i cavalli, le rondini. (C60, 445) Mi ero messo a tagliare le mucillagini di ciò che pareva una pupa verdastra, ma la pupa non era più pupa, era un insetto perfetto, addormentato là dentro, tutto ripiegato e ben disposto come un ombrello arrotolato, come la miniatura di un paracadute nel suo astuccio: con ogni sua parte fatta e perfetta, ali, zampette, testa, torace. La osservavo con la lente, meditando su quella testina che è un computer tanto migliore di quelli che sappiamo fare noi, la studiavo immerso nel pensiero che sempre s’insinua in chi sappia qualcosa degli insetti e gli osservi vivere o morire o nascere: che si tratta di avversare che noi (per ora) abbiamo fregato. E a un tratto mi accorsi che la creatura era viva. Beveva l’aure del giorno, il suo primo, alle sei di sera del 6 agosto dell’anno scorso […]. Era un po’ più piccola delle adulte, lunga quasi come loro ma più asciutta […]. Si mosse piano pano per qualche centimetro sulla tovaglietta dov’era nata, come prendendo confidenza col mondo. Sgranchiva le ali, sarebbe volata via. Era un po’ freddo, dovevamo rientrare. La meraviglia di questa vita appena dischiusa mi opprimeva il respiro. Gettai la giovane vespa sulla ghiaia e la pestai e soffregai col piede. Visse perciò, questa vespa verde, giorni zero, ore zero, minuti due o tre, questa fu la sua vita, ma (come ci hanno sempre fatto credere per consolarci) essa vivrà per sempre, o almeno finché morirò io, e poi un altro po’ se qualcuno leggerà questo dolente racconto. (C70, 9-10) 120 121 Cfr. Bottego 1895, 95. V. anche “zanzara”. APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 337 Dormivamo in una stanza con enormi travature nelle quali nidificavano le vespe. Queste, imbambolate, insonnolite, ogni tanto alla notte ci cascavano addosso e le sentivamo risvegliarsi e mettersi a vibrare, sulle lenzuola, tra i cuscini o nei capelli di K. Pochissime ci punsero. (C80, 203)* Vi raccomando il figaro […] che avrete cura di questa pianta […]. Già si vede come turge di nuovi butti – presto gli casca addosso la primavera – farà foglie e fighi come ogni anno – i fighi smarciranno sui rami […]. […] dove vespe purulente si ammucchiano – sgocciola i fighi – pezzi di figo smarcito, vespai – va smas’ciarsi per terra – attorno al piccolo luamaro in disuso. Quando mi sentivo vicino a mancare – e cercavo con gli occhi compagnia – oltre il riquadro della finestra – ne ho trovata in questa pianta – nella mia vita anch’io ne ho fatta di roba – poi smangiata dalle vespe. (C80, 420)* (Vipera) Per fortuna le donne non sanno veramente fare la lotta, se no staremmo freschi; è la natura stessa che provvede a bilanciare i suoi mostri. Guai se la lìpara non fosse orba, e la sioramàndola sorda come una campana. (LNM, 48) Se la lìpara ghe vedesse, e la sioramàndola ghe sentisse, no ghe saria pi òmini al mondo che vivesse. La lìpara non ci vede, ma si orienta annusando, e quando salta (e può saltare sei sette metri) se un altro odore la distrae sbaglia la presa e sbatte le mandibole in aria. Quando la lìpara insegue un uomo, com’è suo costume di fare, insegue il suo odore; è inutile allora correre in linea retta, perché la lìpara è velocissima e raggiunge agevolmente nonché l’uomo, i cani e i cavalli. Per questo davanti alla lìpara bisogna fuggire a zig-zag; così l’odore ondeggia nell’aria e la lìpara si mette a serpeggiare e si rompe il fil della schiena. Si può tornare indietro allora, e osservare (ma non toccare!) la testina a triangolo con l’occhietto spento della creatura cieca. (LNM, 60) Fra tutto ciò che uccide, supremo è il fascino della vipera; la trovai morta sotto la cascatella del Castello e la portai con le opportune cautele a casa. Io sapevo che il calore può ridonare alle bestie annegate la vita, e misi la vipera ad asciugare a testa in giù sul focolare in cucina nostra. Temevo che essendo la vipera carica di forze sovrumane (è noto che anche qualche giorno dopo la morte a appoggiarle un dito sul musetto la vipera lo addenta e ci pompa dentro i suoi ultimi veleni) il risveglio potesse avvenire fulmineamente. La inchiodammo perciò con molte “camarette” (chiodi a U) dal collo alla coda su un’asse di legno, che disponemmo davanti al fuoco quasi verticale. La vipera vomitava gocce d’acqua, e s’asciugava; la osservavamo attenti, e quando cominciò a muoversi e a strisciare all’in-giù sfuggendo alle camarette, un attacco di pelle d’oca si diffuse sulle nostre braccia e gambe nude. Fermi, stringendo in mano i bastoni e le sbarre che avevamo preparato, aspettavamo che finisse di scendere sulla pietra del focolare per colpirla; ma quando fu discesa per metà morì di nuovo e non si mosse più. Le aprimmo la bocca con le pinze, gliela puntellammo con oggetti di ferro che essa non può frangere, e io cercai il dente a sciabola, ripiegato dentro alla bocca, e ope- 338 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO rando con un temperino, con infinite cautele, tentai di estrarre intatti il dente e la vescica del veleno per legarli sulla punta della freccia privata che destinavo a un Avversario il quale per sua fortuna non s’incarnò mai; dico per sua fortuna, perché se anche il congegno montato sulla punta per lo schiacciamento della vescica non fosse scattato, credo che al vedersi addentare in aria dalla mia freccia sarebbe infallibilmente morto di spavento. Dopo la resurrezione, e la nuova morte, la vipera, con un dente solo in bocca, fu traslata nell’Empireo, diventò un Mistero Numinoso. Questo Empireo era un bottiglione pieno di aceto, in cui la calammo a coda in giù tappandola dentro. Restò in sospensione, arricciolata a spirale, con la testina vicino al tappo; e la adoravamo giornalmente. Dopo un po’ cominciò a marcire, e a sfaldarsi, ma i pezzi restavano più o meno al loro posto, sostenuti da filamenti: l’aceto si annebbiava sempre più. Il bottiglione-empireo era tenuto ora permanentemente in cantina per non provocare attacchi di vomito alle donne di servizio. Presto nel liquido annuvolato e rugginoso la vipera non si poté più distinguere; tutto il Bottiglione era Vipera, e noi l’adoravamo togliendo brevemente il tappo in ore statuite del giorno. Nella zaffata rivoltante che ci assaliva, si distingueva benissimo sotto il tanfo putrefatto un minuscolo odore di violette. (LNM, 63-64) Un greppo proprio davanti a me, all’altezza del ginocchio, si muoveva. C’era un mezzo metro quadrato di roba verdastra e cerulea, fatta a gnocchi, alta due dita, che si muoveva piano piano piano. Ci misi un pezzo a capire che erano vipere. Erano tutte annodate, aggrovigliate, ma mollemente; si muovevano come quelle reclàm a spirale che pare che si spostino e invece non fanno altro che girare su se stesse. Il moto apparente del groviglio era uno scorrimento, però il groviglio non mutava posizione, parte sul gradino del greppo, parte sullo spigolo e a penzoloni. Ogni tanto un’asola di vipera faceva un’escursione scivolando lentamente fuori, ma veniva poi lentamente risucchiata. Distinguevo qua e là nel groviglio i capini sonnambulati di qualche vipera singola, e questo aumentava il senso di ribrezzo. (PM, 102) Il prete aveva due hobbies, uno che amava le vipere, e le collezionava in persone o in immagine, e io gliene descrissi una che avevo visto poco tempo prima in tutt’altra parte della provincia, una cosa allucinante, grassa come un vitello, color tabacco e foglia secca, modernissima, anziché nei soliti toni verdastri, che attraversava la strada ancheggiando, senza un pensiero al mondo, e io che rabbrividivo alla vista di quei fianchi opimi, quelle spire tranquille. Fu in cima alla strada nuova che da Calvene (in antico considerato “il paese delle puttane”, ma io dico che è invece il vivaio segreto delle vipere di monte) porta direttamente sull’orlo dell’Altipiano, e lì c’è un lungo tratto pianeggiante che segue la costa. Fu lassù, passando in macchina, che vidi quella stupefacente vipera così in carne, una sorta di giovane Budda delle vipere, traversare. Naturalmente la schivai, ma un po’ più in là mi venne la voglia di vederla meglio, e tornai indietro in retromarcia, per conoscerla di più, per dare migliore appiglio alla mia sorpresa, al mio rispetto forse venato da un torbido impulso d’amore: mi sentivo pieno di una forza e un benessere […] che spartivo con lei: ma lei non c’era più. La descrissi al prete che aveva per primo suo hobby le raccolte delle vipere, dettagliando ogni aspetto, esagerando un po’ la grossezza, col senso di descrivere un’ubbia, e sapevo che non era un’ubbia, ma come farlo capire a un conoscitore, un collezionista? Non era forse un unicum, la Vipera di Calvene […], un mostro irripetibile? Io parlavo eccitato ma poco fiducioso, il prete collezionista si APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 339 alzò da tavola […] e uscì un momento e tornò con una grande foto, e nella foto lei, la Vipera di Calvene, sua sorella, tale e quale nel colore, nelle misure, nell’opulenza dei fianchi e (quasi) nella suggestione. (BS, 490-491)* La anda ga na anda difarènte da l’anda de la vìpara. (MM, 158)* Serpenti in Tanganica; meravigliosa cosa, e argomento. Uno dei più velenosi è la Gaboon viper, tarchiata, robusta. Ha veleno per dieci uomini: coccola! Lo spitting cobra è una creatura coraggiosa […], alto e sobrio ideale […]. Un serpe terribile e bellissimo è quello che se capisco bene si chiama nambo. In verde pallido, il green nambo (ce n’è anche uno nero), quando sfila tra i rami, rigido, sottile, incredibile, è tanto più bello dell’uomo, che si crede re del creato. (C60, p 95-96) […] penso alla vipera grassa, color tabacco, sinuosa, lenta, che traversava la strada [è quella di Bau-sète!, 1988, cap. 5], pigra, grassa, temibile, color tabacco o forse foglia secca, molto più grande del serpente agile, corto, asciutto che da oltre mezzo secolo chiamo vìpara. (C80, 201)* (Vitello) Una parte di noi dorme sempre; ma tutti non dormiamo forse mai, qualcosa veglia quando si giace addormentati, e produce la maiala alta come un vitello, lunghissima e magra, una specie di enorme cagna rosata che mi pareva avessimo comprato, e pensavo, Orca-miseria, quando sarà ingrassata verrà un pachiderma da dieci quintali, mangerà troppo e farà schifo. (LNM, 21) Com’era geniale quell’insulto Soràna! generato di getto dalla rabbia creatrice di un padre […]. Il padre gridava Sorànaaa!, l’alata giovenca salpava tra i rami del pomaro in fiore – restava attorno al mandriano il branco domestico, le troie già pesanti, le scrofe bambine, i vitelli petulci; li governava con molto rumore, piuttosto li scompigliava, li metteva a soqquadro, con gli urtoni, le scarpate, gl’improperi. Chiusi però nel domestico ovile, sottratti ai pericoli… in questo il suo zelo non conobbe sconfitte, ben pochi in paese potevano vantare più meriti per ciò che riguarda la protezione della giovane scrofa, le sue rigavano dritto, morì in odore di parziale santità, lo misero in tomba, giaceva supino… E una sera si voltò con uno scossone! (PP, 358)* C’era nel nostro gruppo un montebellunese-prodigio […]: Gastone […]. Avevo parlato di lui a Toni Giuriolo […], forse esagerando un poco ciò che avevo sentito dire. Mi affascinava l’idea di un ragazzo così giovane (sistemato però in un corpo in vistosa espansione, come un vitello che si fa manzo a vista d’occhio) con un’intelligenza portentosa, innaturale… […]. (BS, 436) (Volpe) Tom […] praticava lo sport della caccia alla volpe, e si diceva che qualche volta si presentasse a lezione in tenuta da cacciatore. (MR, 29)* Dalla terrazza, paesaggio mosso, innevato. “There’s the fox, there he is” dico alla mia destra, “he’s enormous”. Color avana e arancio. A centro metri e viene a salto, a lanci, quasi quasi verso di noi, un po’ a destra. Poi si volta, torna indietro, accelera, 340 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO taglia in diagonale, galoppa, fila come il vento, a onde, a folate, piomba, a duecento metri sulla sinistra come una tempesta su due bestie più piccole, arancio: vedo che ci sono uomini, avana, e che siedono, sparano (non odo gli spari), tirano qualche rapido calcio. La madre è abbattuta, portano via i piccoli con le barelle. È assurdo, ma perdonabile credo, che l’abbia creduta una volpe. Tutti sanno che cos’è, e dovrei saperlo anch’io, e lo sapevo infatti; è una bestia inconfondibile, vistosa, colossale: ma la mia conoscenza è andata perduta mentre scrivevo in fredda queste righe. Mi ha lasciato. Affonda ancora, miglia e miglia sotto di noi. (C60, 369) Libertà, creatività: argomenti che ho sentito usare in Inghilterra per giustificare la caccia alla volpe. Libertà, creatività, contatto con la verità degli istinti… Il gusto generale di veder sbranare gli animali (o del resto vederli scarnificare a colpi di becco) pareva soverchiato qui dall’amore dei cavalli, delle galoppate campestri, delle cerimonie, delle giubbe, dei berretti, dei segnali della tromba. Un lontano fondo di istintività cruda serpeggiava là sotto, ma il cotto prevaleva sul crudo. Poi alla fine il crudo esplodeva, e le ragazze novizie venivano bloodied e avvampavano di piacere. (C60, 395) Ci aveva invitati a vedere la caccia [alla volpe], ci portò con l’emme-gi scassata, raffinata, al luogo di partenza: c’erano signori e signore in giacca nera e […] alcuni in giacca pink, tutti già montati a cavallo in un’aia davanti a una villa. E intorno a loro una frotta di cani un po’ odiosi che si agitavano e si montavano la testa scodinzolando, e il maestro dei cani si dava arie: e dalla villa uscirono servitori, guanti bianchi e guantiere, a porgere bicchierini ai cavalieri e alle cavaliere, e a noi nessuno porse niente! […]. Poi tutti partirono al mezzo galoppo seguendo la muta petulante dei cani attraverso i prati, e il contadiname (noi compresi), dietro a piedi, per scùrsoli s’intende, e correre a questo o quel punto strategico a vedere non dico la volpe ma la muta dei cani seguita dai cavalli e dai coglioni e le coglione sui cavalli, esultando il contadiname e i vecchietti deferenti, le vecchiette ispirando sgnarocchi poi di nuovo sguinzagliandoli improvvise, e passandosi a vicenda le drammatiche notizie […]. (C80, 287) Era eccitata, il giorno prima le era accaduta una cosa drammatica, me lo confidò lei stessa orgogliosamente: “I was bloodied yesterday” disse; era stata “insanguinata”. Caccia alla volpe: per la prima volta aveva assistito al fatto culminante della caccia, la lacerazione terminale della bestia, lo sbranamento da parte dei cani. L’evento era considerato una specie di consacrazione, e si formalizzava sfregando sulla fronte della novizia una zampa della volpe, sporca di sangue. La ragazza si emozionava nel raccontarlo, infervorata, commossa. Accelerato un po’ il respiro, accesi i pomelli, lampeggianti gli occhi. (APP, 178) (Zanzara) Proprio in quegli anni ci era stato trasmesso un mezzo urbano […], il flit, che data la sua provenienza presentava forme scritte e perciò recitabili: un prodotto che (si sente il ritmo) distrugge mosche, zanzare, formiche, tignole, pulcipi, docchici, micipi, attole… (FI, 244)* Sbùsina con speciale proprietà un insetto pesante; il bronbólo più dello sginsale, la bréspa più della mosca e specialmente il principe delle cose animate che sbusinano, il moscòn, quello in verde. (MM, 39) APPENDICE. UN ALFABETO ANIMALE 341 L’orecchio sente sginsài, plurale di sginsale (la nostra zanzara senza seta) come più comune e in qualche modo più autentico di questa forma plurale, particolarmente in senso collettivo, “il flagello delle zanzare”, o “un numero indefinito di zanzare”, con o senza articolo: Ghe zé sginsài?, Ghètu sentìo i sginsài stanote? Meno naturale sembra il singolare sginsale, specie con l’articolo, el sginsale, un sginsale. Frasi come Zélo zolà via ‘l sginsale? O anche Ghe géra un sginsale? paiono da evitare, forse per la spiacevolezza degli ingorghi consonantici lsgi, nsgi. Si direbbe che entrati in crisi alcuni decenni or sono, gli sginsali riuscissero a tener duro un po’ più a lungo come gruppo, mentre lo sginsale isolato veniva messo in fuga dalla zanzara (zanzara, sempre senza zeta). (MM, 160)* Aldo mi prese. Dovetti fingere di ricordarmi improvvisamente del secondo litro, chiamare gli altri, raccogliere le due lire. Dormimmo poi ai Giardini. Zanzare, formiche, un brulichio. (C70, 66)* Grafico 1.1 - Il grafico mostra la preminenza di determinate “classi” animali nel bestiario di Meneghello, tra cui i mammiferi, gli uccelli, gli insetti e i rettili BIBLIOGRAFIA Abram David (1996), The Spell of The Sensous, New York, Vintage Books. Acampora Ralph (2006), Corporal Compassion. Animal Ethics and Philosophy of Body, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press. Trad. it. di Marco Maurizi e Massimo Filippi (2008), Fenomenologia della compassione. Etica animale e filosofia del corpo, Casale Monferrato, Sonda. Accarino Bruno (2013), Zoologia politica. Favole, mostri e macchine, Milano-Udine, Mimesis. Adamo Giuliana, De Marchi Pietro, a cura di (2008), Volta la carta la ze finia. Luigi Meneghello. Biografia per immagini, Milano, Effigie. Adams, C.J. (2014), “Lo stupro degli animali. La macellazione delle donne”, in Carla Faralli, Matteo Andreozzi, Adele Tiengo, Donne, ambiente e animali non-umani. 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INDICE DEI NOMI Acampora, Ralph 28, 256 Accarino, Bruno 187, 191, 207, 217, 221-222 Adams, Carol J. 257 Adorni, Eleonora 146 Adorno, Theodor 204 Agamben, Giorgio 153-154, 183n., 214 Alaimo, Stacy 51 Alfieri, Vittorio 201n. Alighieri, Dante 18, 68, 73, 176, 216, 217, 224, 288 Anonimo romano 184n., 268n. Aristotele 14, 154n. Assunto Rosario, 76, 77n. Augieri, Carlo Alberto 174 Bennett, Jane 26, 52, 127, 127n., 132 Bentham, Jeremy 235 Bernal, Desmond 106 Bernard, Claude 239 Bernasconi, Luca 29n. Biagini, Enza 9, 122, 147-148, 174 Billi, Noemi 156n. Bleakley, Alan 148, 163, 173, 184, 190, 190n., 203, 232 Boccaccio, Giovanni 166 Bodei, Remo 73 Borges, Jorge Luis 38n.-39n. Bottego, Vittorio 167, 167n. Buell, Lawrence 67, 88 Buonarroti, Michelangelo 162 Babel, Lee 132 Bacchereti, Elisabetta 248 Bachelard, Gaston 35, 36, 39, 4041, 99, 148, 178 Bachtin, Michail Michailovič 138 Ball, Philip 20 Barbera, Sandro 139 Bàrberi Squarotti, 252 Barron, Patrick 17n. Barthes, Roland 211n.-212n. Bateson, Gregory 82, 82n. Baudelaire, Charles 193n., 201, 201n. Belli, Gioacchino 25, 51n., 167, 167n., 266, 266n. Benjamin, Walter 110 Caffo Leonardo 158, 238, 247 Calvino, Italo 15, 18, 18n., 65, 65n., 94 Campbell, Roy 278n. Campioni, Giuliano 237 Carducci, Giosuè 153 Carnero, Roberto 65, 93, 116n. Carroll, Lewis 167 Carson, Rachel 106 Castignone, Silvana 220 Cavallo, Guglielmo 121, 346 Céline, Louis-Ferdinand 192n. Cesi, Federico 150, 150n. Chartier, Roger 121, 346 Chinellato, Lucrezia 168n. Ciaburri, Gennaro 238-239 Diego Salvadori, Luigi Meneghello. La biosfera e il racconto, ISBN (online) 978-88-6453-639-2, CC BYNC-ND 4.0, 2017, Firenze University Press 360 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Cimatti, Felice 158, 192, 211-212, 214 Clynes, Manfred 142n. Coetzee, John Maxwell 113, 252 Commoner, Barry 20, 92, 105, 113 Creed, Barbara 242 Croce, Benedetto 36, 36n.-37n. Crutzen, Paul Joseph 106 Cummings, Edward Estlin 278 Giuriolo, Antonio 14 Goethe, Johann Wolfgang von 209, 209n. Goodall, Jane 247 Gozzano, Guido 164, 164n., 279n., 318 Guattari, Félix 47-48, 202 Fabre, Jean-Henri Casimir 207, 207n. Fenoglio, Beppe 72 Ferroni, Giulio 98, 98n. Ficino, Marsilio 203, 203n. Filippi, Massimo 256 Foucault, Michel 259, 259n. Freud, Sigmund 192 Frezzi, Federico 201n. Lacan, Jacques 154n., 214 Landolfi, Tommaso 228, 229n., 230-231, 255n. Lano da Siena (Arcolano da Squarcia di Riccolfo Maconi) 217 Larkin, Philip 15 Leopardi, Giacomo 15, 251 Lepschy, Giulio 115n., 164n. Lévi-Strauss, Claude 243 Longhi, Roberto 298n. Lorenz, Konrad 185, 247 Lorenzo di Piero de’ Medici (Lorenzo il Magnifico) 103 Haldane, John Burdon Sanderson 17 Heidegger, Martin 152, 154n., 225 Hillman, James 95, 149, 171-172, da Faenza, Marco 297n. 232, 241, 248 Daniele, Antonio 64n. Hobbes, Thomas 191 D’Annunzio, Gabriele 277n., 280 Hodder, Ian 128n. Darwin, Charles 203, 235 Hopkins, G.M. 168-169, 263n., da Silva Ferreira, Eusébio 324 300n., 333n. Dei, Adele 222 Horkheimer, Max 204, 257, 259 De la Garza, Mercedes 86 Hoyle, Fred 127 Deleuze, Gilles 47-48, 202 Della Gherardesca, Ugolino 216 Huxley, Aldous Leonard 111 De Mauro, Tullio 17n., 115n. Iacopo da Santo Andrea 217 Demuru, Cecilia 298n. Iovino, Serenella 17, 17n., 23, 44n., Derrida, Jacques 57, 57n., 154n., 56, 59, 73, 84n., 132, 125n. 155, 214-215 Descola, Philippe 205, 205n. Jacobs, William Wymark 170 Disney, Walt 182 Jacopetti, Gualtiero 242, 333 Donati, Buoso 176 Jašin, Lev Ivanovi 324n. Douglas, P.J. 71 Joyce, James 52-54 Duckert, Lowell 22 Kahn, Herman 108, 108n. Eliade, Mircea 20, 34-35, 42-43 Kline, Nathan 142n. Gallia, Anna 116, 298n. Gatto, Alfonso 62, 62n. Giunta, Fabio 177 INDICE DEI NOMI 361 Lotman, Jurij Michajlovič 36, 115-116 Lucrezio 15, 126n. Lumini, Antonella 79n. Lyotard, Jean-François 111 Maestro di San Martino 298n. Magritte, René 181 Malaparte, Curzio 234 Maldina, Niccolò 150 Malerba, Luigi 248 Mandel’štam, Osip 116 Manganelli, Giorgio 208 Mantegazza, Paolo 237-238 Marchesini, Roberto 141-143, 147, 149n., 150, 154, 174, 179-180, 188, 196-198, 202, 202n., 221, 224-225, 230, 251, 253, 253n. Marenco, Franco 100 Marengo Vaglio, Carla 135 Mark Rowlands, Mark 130n. Marquis, Don (Donald Robert Perry Marquis) 150, 164, 164n., 313n., 325 Martera, Luca 242 Martini, Arturo 141, 141n., 279n. Matisse, Henry 158n., 308 Maturana, Humberto 128 Maurizi, Marco 253, 256 Meeker, Joseph 18n. Meneguzzo, Fabio 19, 54 Mengaldo, Pier Vincenzo 65, 68 Merleau-Ponty, Maurice 59n., 8284, 104, 131 Miller, Stanley Lloyd 17n. Montale, Eugenio 40n., 50, 79, 79n., 90, 157, 251, 251n., 307, 331, 331n. Moravia, Alberto 166, 166n., 295, 295n. Morin, Edgar 95, 104-105 Mortimer-Sandilands, Catriona 89n. Mussolini, Benito 183, 254n. Naess, Arne 66, 66n. Olsen, Bjørnar 133 Oparin, Aleksandr Ivanovič 17 Oppermann, Serpil 44n. Ortese, Anna Maria 260 Pascoli, Giovanni 122, 122n. Pasolini, Pier Paolo 91 Passmore, John 107 Pelé (Edson Arantes do Nascimento) 324n. Pellegrini, Ernestina 15, 20, 29n., 45, 49n., 88, 91, 98, 105, 136, 157, 169-170, 211n., 233, 260 Pepeu, Giancarlo 239 Petrarca, Francesco 73, 293 Phillips, Dana 113, 140 Piazza, Stefano 73-74 Ponzoni, Cochi [(pseud. di Aurelio Ponzoni)] 248 Pozzetto, Renato 248 Prete, Antonio 15 Probyn-Rapsey, Fiona 226 Reagan, Tom 235n. Re, Anna 17n. Ricoeur, Paul 175 Rigoni Stern, Mario 15 Rosch, Eleanor 130 Rosenkranz, Johann Karl Friedrich 139 Rosi, Francesco 241-242 Rossari, Cecilia 102n. Ryder, Richard Hood Jack Dudley 246-247 Saba, Umberto 252-253, 288 Saint-Saëns, Camille 147 Salabè, Caterina 17n. Salvadori, Diego 13-15, 18, 26, 44, 44n., 49, 71, 89, 163, 186, 213n. Scalnan, John 138 362 LUIGI MENEGHELLO. LA BIOSFERA E IL RACCONTO Schultz-Figueroa, Benjamin 155 Scialoja, Toti 286n. Scruton, Robert 235n.-236n., 236 Sebastiani, Alberto 249n. Segre, Cesare 144 Serra, Renato 165 Shakespeare, William 19, 41, 46n., 277n., 279n., 285n., 313n., 334n. Shapiro, Kenneth Joel 256 Shelley, Mary 111 Shepard, Paul 149, 157, 181, 190, 203, 251 Simmel, Georg 70, 72n. Singer, Peter 235-237, 235n., 246 Smith, Mick 257 Snow, C.P. 106 Snyder, Gary 77-78, 117 Soldati, Mario 111 Sonzogni, Valentina 238, 247 Sorcinelli, Paolo 23-24 Spinoza, Baruch 125n.-126n. Stara, Arrigo 203 Stevens, Wallace 15, 45, 150, 150n. Stjernfelt, Frederik 136 Svevo, Italo (pseud. di Aron Hector Schmitz) 111n. Tasca, Alessio 132, 135 Tasso, Torquato 294n., 295 Teti, Vito 19-20 Thompson, Evan 130 Thoreau, H.D. 78, 80 Tomasi di Lampedusa, Giuseppe 208n. Traina, Giuseppe 70 Troiano, Ciro 244 Turi, Nicola 17n., 144 Uexküll, Jacob von 206-207 Van Aken, Mauro 19, 19n., 23-24 Varela, Francisco 128, 130, 130n. Vasari, Giorgio 103, 297, 297n. Virgilio 73, 151n. Vitale, Sergio 61-62, 81, 89 Volponi, Paolo 15, 111 Westphal, Bertrand 73 White, Gilbert 96, 96n. William Morris, Charles 36 Wilson, Angus 168, 286n. Wittgenstein, Ludwig 193 Woodcock, John 108 Wordsworth, William 19 Yeats, W.B. 108, 169, 265n., 278n., 280, 280n.-281n., 288 Zanella, Giacomo 122, 122n., 164165, 164n.-165n., 323n. Zanzotto, Andrea 15 Zapf, Hubert 130 Zola, Émile 143, 143n. dipartimento di lingue, letterature e studi interculturali biblioteca di studi di filologia moderna: collana, riviste e laboratorio Opere pubblicate I titoli qui elencati sono stati proposti alla Firenze University Press dal Coordinamento editoriale del Dipartimento di Lingue, Letterature e Studi Interculturali e prodotti dal suo Laboratorio editoriale Open Access Volumi ad accesso aperto (<http://www.fupress.com/comitatoscientifico/biblioteca-di-studi-di-filologia-moderna/23>) Stefania Pavan, Lezioni di poesia. Iosif Brodskij e la cultura classica: il mito, la letteratura, la filosofia, 2006 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 1) Rita Svandrlik (a cura di), Elfriede Jelinek. Una prosa altra, un altro teatro, 2008 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 2) Ornella De Zordo (a cura di), Saggi di anglistica e americanistica. Temi e prospettive di ricerca, 2008 (Strumenti per la didattica e la ricerca; 66) Fiorenzo Fantaccini, W. B. Yeats e la cultura italiana, 2009 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 3) Arianna Antonielli, William Blake e William Butler Yeats. Sistemi simbolici e costruzioni poetiche, 2009 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 4) Marco Di Manno, Tra sensi e spirito. La concezione della musica e la rappresentazione del musicista nella letteratura tedesca alle soglie del Romanticismo, 2009 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 5) Maria Chiara Mocali, Testo. Dialogo. Traduzione. Per una analisi del tedesco tra codici e varietà, 2009 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 6) Ornella De Zordo (a cura di), Saggi di anglistica e americanistica. Ricerche in corso, 2009 (Strumenti per la didattica e la ricerca; 95) Stefania Pavan (a cura di), Gli anni Sessanta a Leningrado. Luci e ombre di una Belle Époque, 2009 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 7) Roberta Carnevale, Il corpo nell’opera di Georg Büchner. Büchner e i filosofi materialisti dell’Illuminismo francese, 2009 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 8) Mario Materassi, Go Southwest, Old Man. Note di un viaggio letterario, e non, 2009 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 9) Ornella De Zordo, Fiorenzo Fantaccini, altri canoni / canoni altri. pluralismo e studi letterari, 2011 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 10) Claudia Vitale, Das literarische Gesicht im Werk Heinrich von Kleists und Franz Kafkas, 2011 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 11) Mattia Di Taranto, L’arte del libro in Germania fra Otto e Novecento: Editoria bibliofilica, arti figurative e avanguardia letteraria negli anni della Jahrhundertwende, 2011 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 12) Vania Fattorini (a cura di), Caroline Schlegel-Schelling: «Ero seduta qui a scrivere». Lettere, 2012 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 13) Anne Tamm, Scalar Verb Classes. Scalarity, Thematic Roles, and Arguments in the Estonian Aspectual Lexicon, 2012 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 14) Beatrice Töttössy (a cura di), Fonti di Weltliteratur. Ungheria, 2012 (Strumenti per la didattica e la ricerca; 143) Beatrice Töttössy, Ungheria 1945-2002. La dimensione letteraria, 2012 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 15) Diana Battisti, Estetica della dissonanza e filosofia del doppio: Carlo Dossi e Jean Paul, 2012 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 16) Fiorenzo Fantaccini, Ornella De Zordo (a cura di), Saggi di anglistica e americanistica. Percorsi di ricerca, 2012 (Strumenti per la didattica e la ricerca; 144) Martha L. Canfield (a cura di), Perù frontiera del mondo. Eielson e Vargas Llosa: dalle radici all’impegno cosmopolita = Perù frontera del mundo. Eielson y Vargas Llosa: de las raíces al compromiso cosmopolita, 2013 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 17) Gaetano Prampolini, Annamaria Pinazzi (eds), The Shade of the Saguaro / La sombra del saguaro: essays on the Literary Cultures of the American Southwest / Ensayos sobre las culturas literarias del suroeste norteamericano, 2013 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 18) Ioana Both, Ayşe Saraçgil, Angela Tarantino (a cura di), Storia, identità e canoni letterari, 2013 (Strumenti per la didattica e la ricerca; 152) Valentina Vannucci, Letture anticanoniche della biofiction, dentro e fuori la metafinzione, 2014 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 19) Serena Alcione, Wackenroder e Reichardt. Musica e letteratura nel primo Romanticismo tedesco, 2014 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 20) Lorenzo Orlandini, The relentless body. L’impossibile elisione del corpo in Samuel Beckett e la noluntas schopenhaueriana, 2014 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 21) Carolina Gepponi, Un carteggio di Margherita Guidacci, 2014 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 22) Valentina Milli, «Truth is an odd number». La narrativa di Flann O’Brien e il fantastico, 2014 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 23) Diego Salvadori, Il giardino riflesso. L’erbario di Luigi Meneghello, 2015 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 24) Sabrina Ballestracci, Serena Grazzini (a cura di), Punti di vista - Punti di contatto. Studi di letteratura e linguistica tedesca, 2015 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 25) Massimo Ciaravolo, Sara Culeddu, Andrea Meregalli, Camilla Storskog (a cura di), Forme di narrazione autobiografica nelle letterature scandinave. Forms of Autobiographical Narration in Scandinavian Literature, 2015 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 26) Ioana Both, Ayşe Saraçgil, Angela Tarantino (a cura di), Innesti e ibridazione tra spazi culturali, 2015 (Strumenti per la didattica e la ricerca; 170) Lena Dal Pozzo (ed.), New information subjects in L2 acquisition: evidence from Italian and Finnish, 2015 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 27) Sara Lombardi (a cura di), Lettere di Margherita Guidacci a Mladen Machiedo, 2015 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 28) Giuliano Lozzi, Margarete Susman e i saggi sul femminile, 2015 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 29) Ilaria Natali, «Remov'd from human eyes»: Madness and Poetry 1676-1774, 2016 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 30) Antonio Civardi, Linguistic Variation Issues: Case and Agreement in Northern Russian Participial Constructions, 2016 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 31) Tesfay Tewolde, DPs, Phi-features and Tense in the Context of Abyssinian (Eritrean and Ethiopian) Semitic Languages (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 32) Arianna Antonielli, Mark Nixon (eds), Edwin John Ellis’s and William Butler Yeats’s The Works of William Blake: Poetic, Symbolic and Critical. A Manuscript Edition, with Critical Analysis, 2016 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 33) Augusta Brettoni, Ernestina Pellegrini, Sandro Piazzesi, Diego Salvadori (a cura di), Per Enza Biagini, 2016 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 34) Silvano Boscherini, Parole e cose: raccolta di scritti minori, a cura di Innocenzo Mazzini, Antonella Ciabatti, Giovanni Volante, 2016 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 35) Ayşe Saraçgil, Letizia Vezzosi (a cura di), Lingue, letterature e culture migranti, 2016 (Strumenti per la didattica e la ricerca; 183) Michela Graziani (a cura di), Trasparenze ed epifanie. Quando la luce diventa letteratura, arte, storia, scienza, 2016 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 36) Caterina Toschi, Dalla pagina alla parete. Tipografia futurista e fotomontaggio dada, 2017 (Biblioteca di Studi di Filologia Moderna; 37) Riviste ad accesso aperto (<http://www.fupress.com/riviste>) «Journal of Early Modern Studies», ISSN: 2279-7149 «LEA – Lingue e Letterature d’Oriente e d’Occidente», ISSN: 1824-484X «Quaderni di Linguistica e Studi Orientali / Working Papers in Linguistics and Oriental Studies», ISSN: 2421-7220 «Studi Irlandesi. A Journal of Irish Studies», ISSN: 2239-3978