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Sergio Lavarda
L’incivile, disonesta e sordida vita.
Storia di un notaio del Seicento
Verona: Cierre edizioni, 2002.
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Titolo
Autore
Editore
L'incivile, disonesta e sordida vita: storia di un notaio del Seicento
Cierre Edizioni
Nord est
Sergio Lavarda
Cierre, 2002
ISBN
Lunghezza
8883141512, 9788883141515
162 pagine
N.B.: La paginazione dell’edizione elettronica non corrisponde con quella dell’edizione a stampa. La
presente edizione non comprende le tavole genealogiche della famiglia Del Buso.
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Indice
PRESENTAZIONE di Claudio Povolo................................................................................................... 5
NOTA DOCUMENTARIA....................................................................................................................... 7
LISTA DELLE ABBREVIAZIONI ............................................................................................................. 8
Prologo Dove una serie di quadri introduce suggestivamente i personaggi .................................. 9
PRIMA PARTE: ALLEGORIE................................................................................................................ 19
Capitolo 1 Dove si annunciano affinità con l'invenzione letteraria, e si discutono precedenti
famosi. ......................................................................................................................................... 20
Capitolo 2 Dove si illustra un documento apparentemente di scarsa importanza ....................... 28
Capitolo 3 Dove necessari collegamenti attribuiscono valore relativo ai fatti ........................... 29
Capitolo 4 Dove si offrono conferme ed insinuano dubbi .......................................................... 33
SECONDA PARTE: INVENZIONI .......................................................................................................... 45
Capitolo 1 Dura lex, sed lex ........................................................................................................ 46
Capitolo 2 Donne ........................................................................................................................ 50
Capitolo 3 Amici e parenti .......................................................................................................... 62
Capitolo 4 Notai di collegio ........................................................................................................ 84
Epilogo Dove la tragedia familiare si innesta nel dramma storico .............................................. 94
APPENDICE DOCUMENTARIA ............................................................................................................ 99
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................ 108
INDICE DEI NOMI........................................................................................................................... 111
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Presentazione
Strano, e per certi versi pure paradossale, è il destino cui le scienze sociali, ed in primo luogo la storia e
l’antropologia, sembrano oggi non in grado di sottrarsi, sospinte, quasi inesorabilmente, nell’ambito di un discorso
critico che non ha alcuna remora a porne in evidenza le contraddizioni e le fragilità interpretative.
Le fonti, quei testi così vezzeggiati e attentamente soppesati dagli storici e dagli studiosi delle società,
sembrano ora manifestare un’insopprimibile repulsione nei confronti di ogni tentativo volto a coglierne il significato e il
senso, anche alla luce degli approcci interpretativi più sofisticati e dotati di linguaggi pluridimensionali. Le fonti
sembrano essersi riprese una ineluttabile rivincita, rivolgendo (e ritornando) il loro sguardo impenetrabile verso colui
che, pretenziosamente, ha osato auscultarne i significati più reconditi avvalendosi di strumenti interpretativi che non
sono riusciti (e non possono riuscire) a scalfire la loro dura ed impenetrabile scorza.
Ed il ritorno dello sguardo, sia che provenga da fonti scritte secoli molti secoli addietro, che da testimoni
attuali, e spesso per nulla reticenti, di una cultura diversa, non è privo di conseguenze. Il ritorno di questo sguardo, nella
sua apparente inespressività, sembra suggerire non tanto la fragilità interpetativa e l’incapacità di colui che, per mestiere
accademico o per puro piacere ed interesse personale, ha osato e tentato di cogliere il significato della fonte, quanto
piuttosto la sua irreversibile incapacità di avvicinarsi ad essa per imbastire un dialogo costruttivo e in grado di tessere la
trama di una verità convincente1.
Non sono, dunque, l’assenza di attenzione filologica o il dubbio armamentario interpretativo dello storico a
rendere fuorviante ogni tentativo di comprensione della fonte (difetti, peraltro, ampiamente stigmatizzati dai cultori di
questa disciplina), quanto piuttosto l’intrinseca incapacità di quest’ultima di rivelare i nessi diretti con i fatti di cui essa
non è, e altro non può essere, che una semplice espressione letteraria.
Se il fatto non può essere colto che nella sua dimensione letteraria, cioè nella dimensione attraverso cui esso
viene narrato (in una sorta di fiction), appare evidente che ogni preliminare divisione tra storia e letteratura viene a
cadere e, soprattutto, che quello stesso fatto non può che essere una mera rappresentazione documentaria (un testo) di
una realtà indecifrabile. Da qui è scaturita l’attenzione per come i fatti sono narrati e, soprattutto, la considerazione
(quanto più estrema, ma, non per questo, meno diffusa) che, in definitiva, non esiste alcuna distinzione tra storia e
storiografia2.
E così, come ha notato uno dei più acerrimi e convinti oppositori di questo nuovo approccio storiografico, “in
tutta questa teorizzazione i fatti storici più o meno si perdono di vista. La distinzione tra fonti primarie e secondarie, su
cui riposa la ricerca storica, è abolita. Lo storico diventa un autore come qualunque altro, oggetto di critica e analisi
letteraria. I confini tra storia e finzione si dissolvono”3.
In realtà le tesi che, variamente definite postmodernismo, decostruzionismo, nuovo scetticismo, si sono mosse
all’insegna di un nuovo e apertamente decantato rapporto tra storia e letteratura, vantando una presunta inarrestabile
vittoria sugli oppositori4, definiti senza mezzi termini positivisti, hanno avuto il merito di aver acceso una discussione
approfondita sul modo di far storia e sul rapporto tra fatti, prove ed interpretazione5.
Si veda, ad esempio, per quanto riguarda l’antropologia, i titoli e i commenti di alcuni numeri del Times litterary
supplement scritti proprio di seguito alla sensazione di smarrimento , diffusasi già alcuni anni orsono, a seguito dei
contraccolpi provenienti da quel processo di feed back che veniva (e viene) a colpire lo studioso di culture altre: The
anthropologist observed. The field of the future, di E. Gellner, TLS, n. 4711 (July 16, 1993); Returning the gaze.
Clifford Geertz and the crisis of anthropology di T. M. Luhrmann, TLS, n. 5102 (January 12, 2001).
2 Per quest’ordine di problemi e, soprattutto, sugli sviluppi interpretativi rivolti ad esaminare le interconnessioni tra
letteratura ed altre discipline cfr. G. Binder e R. Weisberg, Literary criticism of law, Princeton 2000, ma anche il testo
che può essere ormai considerato l’archetipo (critico) di questa impostazione R. A. Posner, Law and literature, Harvard
1998 (prima ediz. 1988).
3 R. J. Evans, In difesa della storia, Palermo 2001 (London 1997), p. 125.
4 Si veda a questo proposito la baldanzosa attestazione di vittoria di uno dei cultori più convinti del postmodernismo in
TLS, October 26 (2001): P. Joyce, A quiet victory. The growing role of pstmodernism in history; e la risposta aspra (e
persino oltraggiosa) di F. Robinson, Postmodernism views of history, in TLS, Novembre 9 (2001).
5 Si veda, a titolo di esempio, Questions of evidence. Proof, practice, and persuasion across the disciplines, Chicago
1994, con interventi per la parte storica di L. Daston, J. Chandler, A. J. Davidson, C. Ginzburg, P. Vidal-Naquet, E.
Helsinger. Il testo della Daston, in particolare, affronta sottilmente, attraverso il tema dei miracoli, il rapporto tra fatti e
prove (e l’elaborazione concettuale di quest’ultime). Ma sempre su questo tema il già citato testo di Evans, in
particolare pp. 99 e sgg. Se, come sostiene Evans, “i fatti precedono concettualmente l’interpretazione, mentre
l’interpretazione a sua volta precede la prova documentaria” (p. 101), un fatto può, ovviamente, essere teoricamente
scollegato da qualsiasi prova documentaria (anche per quei rapporti di forza cui C. Ginzburg fa riferimento in Rapporti
1
5
E’ comunque un dato di fatto che le riflessioni avanzate dalle tesi postmoderniste hanno aperto nuovi scenari e
nuovi stimoli storiografici. Da queste stesse tesi è originato quell’atteggiamento storiografico critico (new historicism)
aperto alla storia culturale e alle sue dimensioni simboliche e rituali. E’ questa prospettiva storiografica che ha
approfondito la riflessione sul rapporto tra le forze sociali e il ruolo degli individui, sulla costante ridefinizione
dell’identità delle une e degli altri negli scenari rituali e simbolici della storia. Honour, gender, agency, gossip, identity
non sono che alcuni tra i tanti concetti che è possibile oggi cogliere in quel settore della storiografia americana ed
europea ormai addentratosi in profondità nel tormentato processo interpretativo volto a ridefinire il rapporto tra testo e
storia6.
Nell’accingersi a leggere il nuovo ed avvincente testo di Sergio Lavarda, il lettore comprenderà i motivi che mi
hanno spinto a soffermarmi, per quanto rapidamente, sulle nuove tesi storiografiche che, seppur sporadicamente, hanno
cominciato ad apparire nel più placido panorama storiografico italiano, prevalentemente attestato su posizioni che le
nuove correnti storiografiche non esiterebbero a definire positiviste7.
L’ingarbugliata storia del notaio vicentino Nicolò Del Buso può certamente essere incardinata nella grande
storia che, tra la fine del Cinquecento e i primi decenni del secolo successivo, investì con le sue trasformazioni politiche
ed economiche la società vicentina dell’epoca. E Sergio Lavarda a queste trasformazioni si rifà con perizia sulla scorta
di una bibliografia aggiornata e puntuale.
Ma la storia di Nicolò Del Buso, avviluppata nei suoi tortuosi stratagemmi, tradimenti e tentativi di
ridefinizione delle identità sociali e di genere in essa coinvolte, è soprattutto percepita dall’autore come un’occasione
per riflettere sull’avvincente tema della narrazione storica e sulle implicazioni interpretative entro cui, fatalmente, il
lavoro dello storico deve addentrarsi per ricostruire una realtà sociale assai lontana nel tempo e schermata dalla ritrosia e
indecifrabilità delle fonti.
E, alla luce di queste suggestioni, invitiamo i lettori ad immergersi nelle appassionanti vicende biografiche di
un uomo di cui Sergio Lavarda, con abilità e competenza storica, ci offre il tormentato profilo esistenziale: nella
convinzione, soprattutto, che non ne rimarranno infine delusi.
Claudio Povolo
(agosto 2002)
_________________
di forza, Milano 2000) ed essere ricostruito in base ad una precisa serie di indizi e di presunzioni, come nella vicenda da
me affrontata in Il romanziere e l’archivista. Da un processo veneziano del Seicento all’anonimo manoscritto dei
Promessi Sposi, Venezia 1993. E’ evidente che, in quest’ultimo caso, è per lo più un’ipotesi interpretativa fortemente
connotata a stabilire un rapporto diretto con il fatto presunto.
6 Queste tendenze sono ben espresse da G. Binder e R. Weisberg, quando sostengono che “The new historicist writes a
history at once messier and more inclusive than that supplied by nationalist historiography or modernization theory,
finding throughout the course of a culture endless negotiations and trade-offs of cultural currency. The new historicism
is interested in the episodic, anedoctal, contingent, exotic, abjected, uncanny pieces of history –the ones that violate
rules and laws of politics and social organizations”, cfr. Literary criticism.., p. 478.
7 Nel senso, cioè, di posizioni rivolte ad indagare sul significato diretto delle fonti, che non piuttosto sui loro significati
letterari. E’ evidente, da quanto sinora detto, che il termine letterario non ha, in questa direzione, che scarse attinenze
con il problema della narrazione storica, che pure si situa come nodo storiografico rilevante all’interno della distinzione
tra vero e verosimile. Il termine revisionismo, utilizzato oggi in maniera controversa, indica comunque (anche tra chi vi
si oppone) il ruolo decisivo dello storico nel dirimere i potenziali significati diretti delle fonti.
6
Nota documentaria
I Del Buso, come la quasi totalità delle famiglie del loro ceto, non hanno lasciato un proprio
archivio. Ciò spiega in parte la difficoltà ad analizzare le vicende della piccola nobiltà in età
moderna. La ricerca del materiale documentario si è orientata sullo spoglio dei principali fondi
giacenti presso l'Archivio di Stato di Vicenza. I rinvii incrociati, contenuti spesso nei rogiti,
consentono di non annegare nel mare dello sconfinato fondo Notarile, tuttavia lo spoglio
sistematico dei registri di notai vicini alla famiglia ha consentito ritrovamenti importanti.
Generosi di informazioni sono stati i fondi del Collegio dei notai, del Collegio dei giudici e
soprattutto quello delle Congregazioni religiose soppresse. Le copie integre di lunghe cause
civili, ivi conservate nelle sezioni Processi, permettono di ricostruire genealogie, fortune (e
sfortune) di famiglie per le quali altrimenti mancherebbe quasi del tutto la memoria.
La necessità di precisare parentele e reti di alleanze fa sì che molti nomi, spesso forniti di
patronimico, s’incontrino nel testo. Per agevolare la lettura ho ricostruito in appendice, nelle
sue linee essenziali, l'albero genealogico dei Del Buso. Un eminente studioso francese ha un
giorno raccontato che la storia lo ha appassionato, fin da bambino, per le tante figure che ne
illustrano i testi. Questo lavoro, pur non riproducendone, ne contiene diverse. Carte d'archivio e
figure, quindi.
E libri. Per farne uno ce ne vogliono decine, o centinaia. Molti non si ricorda neanche di
averli letti finché non avviene, chissà come, la fortuita emersione di un'idea, e poi di un titolo,
dalla memoria. Cosa che può anche avvenire inconsciamente, e quello che ancora credo farina
del mio sacco invece lo è solo in parte (i mugnai ricevono da altri la maggior parte del cereale
che macinano), e chissà quanti altri libri che non conosco incrociano il mio percorso. Fra quelli
che ho letto recentemente, alcune opere di Gigi Corazzol sollecitavano le mie veglie dubbiose,
mentre a libri, articoli e soprattutto amicizia di Claudio Povolo devo quasi tutto il resto. Le mie
prime riflessioni sul senso della ricerca storica provengono da una dolorosa discussione con
docenti ed amici borsisti del dottorato in Storia sociale europea di Venezia nei primi anni
Novanta ed i cui temi sono tornati recentemente attuali nel libro di Carlo Ginzburg Rapporti di
forza.
Sono molto grato a tutto il personale dell'Archivio di Stato di Vicenza per la simpatica
disponibilità che ha molto favorito lo svolgersi sereno del mio lavoro. La storia che propongo è
emersa dalla polvere dei depositi nell’ambito di una ricerca biennale svolta grazie ad una borsa
di post dottorato dell'Università di Padova. Dopo il dottorato Paolo Preto mi ha ancora una
volta regalato la sua generosa disponibilità accettando di discutere i progetti e di seguire gli
sviluppi dei miei spesso tortuosi percorsi di studio. Corre a lui il mio ultimo pensiero
riconoscente.
Dedicato a Ada.
San Germano, giugno-luglio 2001
7
Lista delle abbreviazioni
ACVI
AO
AP
ASBA
ASVE
ASVI
AT
BBVI
CG
CN
CRS
EST
Archivio della Curia vescovile - Vicenza
Memorie dell'Accademia Olimpica in BBVI
Fondo della Famiglia Da Porto in ASVI
Archivio di Stato - Sezione di Bassano del Grappa
Archivio di Stato - Venezia
Archivio di Stato - Vicenza
Archivio torre del Comune di Vicenza in BBVI
Biblioteca Bertoliana - Vicenza
Collegio dei giuristi in ASVI
Collegio dei notai in ASVI
Congregazioni religiose soppresse. Processi in ASVI
Estimo in ASVI
JMV
MAS
N
REL
Jus Municipale vicentinum cum additione partium Illustrissimi Dominii, Venezia 1567
Magistrature antiche - Banco del sigillo in ASVI
Notarile in ASVI
A. TAGLIAFERRI, (ed.), Relazioni dei Rettori veneti in Terraferma. VII, Podestaria e Capitanato
di Vicenza, Milano 1976
b.
fasc.
mz.
prot.
vol.
c. r, v,
busta
fascicolo
mazzo
protocollo
volume
carta, recto, verso
Compendio dei pesi e delle misure.
A. MARTINI, Manuale di metrologia, Roma 1976 (ed. or. Torino 1883), pp. 437, 823
gotto
Vicenza
lughezza
metri
pertica (cavezzo) = 6 piedi
2,144
braccio da panno
0,690
braccio da seta
0,637
piede = 12 once
0,357
oncia
0,029
superficie
metri quadri
campo = 840 tavole
3.862,57
tavola (pertica quadra) = 36 piedi
4,59
piede quadro
0,12
volume
metri cubi
piede cubo
0,04
capacità
aridi
litri
sacco = 4 staia
108,172
staio = 16 quartaroli
27,043
quartarolo
1,690
liquidi
botte = 8 mastelli
mastello = 12 secchi
secchio = 10 bozze
bozza = 4 gotti
0,24
pesi
chilogrammi
centinaio = 100 libbre
48,654
libbra grossa = 12 once
0,486
libbra sottile = 12 once
0,339
oncia grossa
0,040
oncia sottile
0,028
monete
dal 1472 lira d'argento coniata dal doge Nicolò
Tron (tron pl. troni)
= 20 soldi (= marchetti)
= 12 denari
1 ducato (moneta di conto) = 6 lire e 4 soldi
Padova
volume
carro aperto = 432 piedi cubi
carro chiuso = 324 piedi cubi
passo cubo = 125 piedi cubi
piede cubo
metri cubi
19,72
14,79
5,70
0,04
911,12
113,89
9,49
0,94
8
Prologo
Dove una serie di quadri introduce suggestivamente i personaggi
1. Il fondale apparentemente immutabile della scena in cui questa storia viene
raccontata è occupato da due simboli: la colonna e, sopra di essa, il leone con il libro.
Verticale albero della vita, ma anche supporto sicuro che garantisce aeree solidità, nel
rimarcare la distanza tra alto e basso la colonna rappresenta il collegamento tra cielo e
terra. Segnando il passaggio dal mondo conosciuto all'altro, incognito, indica inoltre un
limite, un invalicabile orizzonte. Le colonne infami evocano però anche ignominia, il
cippo cui è legato il Cristo della flagellazione tormento, inesorabilità quelle presso le
quali si espongono i cadaveri squartati dalla giustizia. Solo l'albero del paese di
cuccagna dipinto da Brueghel il vecchio (1567) offre le sue prelibatezze da un'altezza
risibile anche per un nano o un gobbo. I pantagruelici ghiottoni stesi a raggiera intorno
al tronco, un chierico, un contadino ed un soldato, potrebbero raggiungerle senza sforzo
se alla fine della pennichella post prandium li stuzzicasse ancora l’appetito. Invece su
una colonna altissima e scivolosa di lardo occorrerebbe arrampicarsi per raggiungere la
cuccagna in un paese che di cuccagna non è: “Quae supra nos ea nihil ad nos”1.
Bisogna quindi rassegnarsi al considerarne le delizie sommitali un miraggio? A vedere
ciò che s’innalza esclusivamente come rappresentazione di immutabili equilibri che
allontanano la nostra condizione dalla felicità, presentandoci continuamente il conto
della pena?
Il leone è simbolo di potenza, di sovranità e di giustizia. Rappresenta il CristoGiudice e, quando regge il libro, il Cristo-Dottore da cui deriva l'emblema
dell'evangelista Marco. Ma il leone esprime anche forza istintiva incontrollata e, se
panciuto, incarna l’avidità; Cristo e Anticristo ad un tempo, sarà visto talvolta come un
dominatore dispotico2. Assunto dallo Stato veneto quale propria rappresentazione, esso
è collocato in ogni luogo che richiami l'autorità del dominio da terra e da mar.
Personificato nei suoi rappresentanti, tutto vede e controlla, corregge, sovrintende.
2. Vicenza, 1613. La colonna che sostiene l'emblema marciano campeggia solitaria,
sull’unico breve margine aperto della piazza maggiore, cuore economico e politico della
“Di ciò che è al di sopra di noi non dobbiamo occuparci” è il motto socratico che illustra l'emblema
di Andrea Alciati raffigurante Prometeo incatenato alla roccia col petto roso dall'aquila (A. ALCIATI,
Emblemata, Frankfurt am Main 1567, prima ed. 1531). Riferito criticamente alla filosofia e
all'astronomia il divieto, per facile analogia, si trasmise poi dalle gerarchie cosmiche a quelle religiose
e politiche. C. GINZBURG, L'alto e il basso, in Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Torino 1986,
pp. 108-115.
2 A. CHEVALIER, A. GHEEBBRANT, Dizionario dei simboli, Milano 19884, vol. I, pp. 295-301, vol II,
pp. 13-15. Sintetiche definizioni terminologiche nel vol. I pp. 11 segg. L'analogia tra colonna, colonna
infame e albero di cuccagna è mia. Spunti molteplici sull'immaginifico gastrico in età moderna
vengono dalla lettura della vasta opera di Piero CAMPORESI, soprattutto Il paese della fame (Bologna
1978) e Il pane selvaggio (Bologna 1980).
1
9
città che si definisce orgogliosamente primogenita di Venezia. Il leone vi è stato
ricollocato nella seconda decade del Cinquecento, a sostituire quello distrutto dagli
imperiali durante la parentesi della guerra della lega di Cambrai. Pur se di considerevole
mole pare altissimo e lontano.
Le quinte sono in allestimento. Il lungo parallelepipedo del palazzo del Monte di
Pietà e tre grandi cantieri costeggiano la piazza. Nel 1617 sarà conclusa la facciata della
chiesa di San Vincenzo, che con le statue sommitali ne interromperà la monotona
prospettiva. I lavori delle logge del palazzo pubblico di ragione si stanno completando
per inerzia, a più di 30 anni dalla morte del geniale progettista. Di fronte, la residenza
palladiana voluta dal capitano Bernardo è tronca dal lato di contrà dei giudei, in attesa
forse di glorificare altre grandi imprese a venire, che non verranno, dopo che statue e
fregi hanno eternato la giornata di Lepanto verso contrà del Monte3. Solidità, volumi,
fisici e metaforici, occupati e da occupare, forze tra loro dialettiche in formazione o in
ridefinizione, si affacciano sullo spazio vuoto centrale. Come in ogni tragedia antica che
si rispetti, anche in quella che qui si analizzerà l’azione si svolge fuori scena, ma è sui
simboli rappresentati sul palcoscenico che si riverbera assumendo, come vedremo, un
significato più profondo.
Vicenza, 1613. Una città suddita in cui si muovono uomini di diverso ceto e fortuna,
differenti sentimenti ed interessi. Vi scorrono fiumi e vicende personali e familiari,
private e pubbliche. Vi si diffondono fama di santità ed avvisi di bando. Si assiste con
stupore e meraviglia a solenni entrate di rettori veneziani e grandiose pompe funerarie di
notabili, con sbigottimento al delinearsi dei segni premonitori di una carestia o di
un'epidemia. Una città suddita il cui ceto dirigente, apparentemente devoto in quanto
formalmente non sottomesso, esteriormente fedele perché sulla carta largamente
autonomo, da un lato manifesta ancora con fierezza l'orgoglio per gli antichi privilegi
riconosciutigli dalla Dominante all'atto della propria dedizione nel 1404, ma dall'altro,
di là da episodiche convulsioni autolesionistiche, resta immobile nella contemplazione
Il primo leone, di pietra dorata, era stato posto sulla colonna il 15 febbraio 1473 “quale fu rotto e
gittato a terra per nome dell'imperio li 6 giugno 1509 ponendovi invece alli 14 luglio l'aquila nera
Arma dell'Imperio”: BBVI, Ms. 2852, c. 235-236. L'autore del secondo leone è Martin del Vedelo (!),
ciò che forse testimonia un giudizio popolare sulla mole della fiera; la seconda colonna, con sopra il
Redentore, sarà innalzata nel 1640: F. BARBIERI, P. PRETO (ed.), Storia di Vicenza, 3/1. L’età della
Repubblica veneta (1404-1797), Vicenza 1989, didascalie ed illustrazioni 5 e 6 e risguardi della
sopracoperta. Per la facciata di San Vincenzo rinvio a F. BARBIERI, Il seicento architettonico urbano
in N. POZZA (ed.), Vicenza illustrata, Vicenza 1976, p. 331. I lavori del loggiato della Basilica saranno
completati nel 1615, con una spesa complessiva stimata in 50.000 ducati: S. CASTELLINI, Storia della
città di Vicenza, Vicenza 1822, t. XIV, p. 167. Sull'incompiutezza di molte delle fabbriche palladiane
della città del Palladio, F. BARBIERI, L'immagine urbana dalla rinascenza alla “età dei Lumi” in F.
BARBIERI, P. PRETO (ed.), Storia di Vicenza, 3/2. L’età della Repubblica veneta (1404-1797), Vicenza
1990, p. 237; delle vicende legate al caso forse più significativo in tal senso, palazzo Porto-Breganze
in piazza castello, si occupa il mio S. LAVARDA, Ca’ del diavolo. Enigmi palladiani e vicende
dell’aristocrazia vicentina fra Cinque e Seicento, «Archivio veneto» V/CLVII (2001), pp. 5-48. L'idea
di scorci architettonici vicentini trasformati in fondali e quinte di teatro rinvia naturalmente a Vincenzo
Scamozzi e al teatro olimpico.
3
10
quotidiana del proprio progressivo ed irreversibile svaporamento politico. Una
minoranza ostenta ricchezza, che è sinonimo di virtù e, rallentatasi con il mutare dei
tempi la gara ad edificare palazzi cittadini e ville campestri, funzionali a questa
ostentazione restano le somme da assegnare in dote alle figlie4. Dagli anni settanta del
Cinquecento è invece stata limitata drasticamente l’esibizione delle piaghe della miseria:
il rinserramento di vagabondi e pitocchi, all'interno del nuovo ospedale dei mendicanti
di San Valentino, ha consentito la rimozione del crescente disgusto che andava
suscitando la corte dei miracoli. Nei testamenti l’aumento dei legati pii a favore di
istituzioni che ne assumono la cura, in sostituzione di una generica carità ai poveri, è
testimone di un cambiamento di mentalità. Non più pauper Christi, il povero di Cristo
medioevale, il mendicante è ora il nuovo lebbroso. Va tollerato se autoctono e
vergognoso, assistito anche per essere meglio controllato nella sua potenzialità eversiva;
scacciato se spinto in città da una carestia. L'ultima, terribile, quando il prezzo del
frumento era salito a 15 lire lo staio, era già un ricordo che svaporava5.
Vicenza, 1613. È stato detto che la “grande storia” non la tocca da tanto tempo,
quella che le resta è fatta di “strutture mentali ... di traversie economiche e di dinamiche
sociali, di gruppi elitari e di masse subalterne, che obbedivano ad una propria logica di
sviluppo e che non erano sempre condizionati dall'andamento degli eventi politici
esterni”6. Un cronista ci informa che quell'anno fu funestato da un terremoto in giugno e
da piogge torrenziali durate tutto l'autunno, ma ciò che lo rese memorabile fu
l'istituzione delle Cappuccine in Porta Nuova e la rassegna generale dei soldati vicentini
in Campo Marzo cui, pare, assistettero in 40.0007. Un altro testimone dei tempi si
spendeva anche a ricordare l'omicidio eccellente di Vincenzo Scroffa ad opera di un
Martinengo in combutta con i Da Porto, cui Vincenzo aveva negato la mano della
nipote8.
I rettori veneziani in carica furono Giovanni Zen, podestà, ed Alvise Donà, capitano,
cui sarebbe succeduto Pietro Giustinian. Nella relazione di fine mandato del Donà,
4
L. PUPPI, Scrittori vicentini d'architettura del secolo XVI, Vicenza 1973, pp. 18-19; varie
testimonianze sull'esosità delle doti, con acidi commenti, in F. MONZA Cronaca, a c. L. PUPPI,
Vicenza 1988, p. 18, 25, 34.
5 Sui legati pii nell'epoca S. LAVARDA, L'anima a Dio e il corpo alla terra. Scelte testamentarie nella
terraferma veneta (1575-1631), Venezia 1998, pp. 252 segg. Sui poveri fra medioevo ed età moderna
B. GEREMEK, La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Roma-Bari 1986.
Sulla carestia vicentina citata F. MONZA Cronaca, cit., p. 37 annota il 18.5.1591: “la carestia è tanto
grande che fa orrore ala umanità. Li contadini sono neri, smunti e deboli, e si pascano d'erba; il
frumento è a 15 lire al staro, la fava 11, il miglio 11 e la biava da cavallo 6”. La serie dei prezzi del
frumento a Padova in G. CORAZZOL, Fitti e livelli a grano. Un aspetto del credito rurale nel Veneto
del '500, Milano 1979, Appendice. Inoltre G. LOMBARDINI, Pane e denaro a Bassano tra il 1501 e il
1790, Venezia 1963.
6 E. FRANZINA, Vicenza. Storia di una città, Vicenza 1980 p. 448.
7 S. CASTELLINI, Storia della città di Vicenza, cit., pp. 153-155.
8 BBVI, Ms. 165, Memoria di Girolamo Masi, c. 30, cit. in C. POVOLO, Polissena Scroffa, fra Paolo
Sarpi e il Consiglio dei Dieci in Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 22.
11
presentata al Senato veneto nell'aprile del 1613, si legge fra l'altro: “...[fui] coadiuvato
da Zuanne Zen, pieno di affetto et di spirito ... amatissimo da tutta quella Città in
generale et in particulare, et che in tutte le sue attioni procura col servir onoratamente la
Serenità Vostra rendendosi fruttuoso rappresentante di lei.” Lo Zen scriveva a sua volta
nel novembre del 1613:
vengo a rappresentarle ... quello che ... ho io stimato esser degno della loro notitia con la omissione di
emergenti di picciole consequenze, per non fastidir soverchiamente le occupatissime loro menti in affari di
maggior rilievo ... [Vicenza ha 36.000 abitanti] ... tutti molto ossequenti a rappresentanti suoi [della
Repubblica], de vivaci spiriti, molto inclinati all'armi ... ho invigilato ... perché riuscissero le attioni mie in
honore e gloria di Sua Divina Maestà, in servitio ed essaltatione della mia patria et di solevamento et
consolatione a sudditi”9.
3. I cinque quadri che seguono costituiscono parte dell’azione che si svolge dietro le
quinte, abbozzi di una sceneggiatura incompiuta. Fatta eccezione per chi ne avrebbe
dovuto sopportare gli effetti, rientrano tutti nella categoria degli “emergenti di picciole
consequenze”.
Sera di tardo autunno. Il fatto si svolge in interni, in un ridotto da carte, un luogo
malfamato. Non serve immaginare le bische del Seicento, né chi le frequentava: il
Caravaggio della Vocazione di San Matteo e de I bari, gli ambienti dipinti da tanti
fiamminghi e le ghigne ritratte da Frans Hals le documentano bastevolmente10. Sui
tavoli impregnati dal vino di bozze rovesciate ab antiquo, l'unto lasciato da vecchi
avanzi di cibo chiazza le zone che appaiono più lucide e su cui scivolano meglio le carte
da gioco battute dalle destre dei giocatori; monete vili sono ammucchiate qua e là, con
apparente casualità, presso i posti degli avventori identificati dai rispettivi gotti. Alcuni
indossano i cappelli di feltro, altri li hanno appoggiati sui tavoli, i feraroli vengono
appesi a ganci infissi alle pareti anche per non suscitare il sospetto che occultino armi
lunghe. Gli stiletti infoderati sono posti bene in vista, i terzaroli11 scarichi infilati nelle
cinture e gli archibugi e le altre armi lunghe appoggiati alle pareti della stanza.
L'ambiente è ovattato, cosicché i volti si distinguono a malapena: il fumo di candele e
lucerne ad olio basterebbe a dare un simile effetto, ma immaginiamo nella circostanza
anche il soffiare di un vento contrario che a folate ritorce nella grande sala le esalazioni
del focolare su cui arde una grande quantità di legna. Il costante forte brusìo si increspa
a tratti nel vaniloquio sboccato di qualcuno un po’ alticcio, talvolta si infrange nella
9
REL p. 221, 223, 226. Oltre alle solite generiche informazioni sulla struttura politica, gli organismi
di governo e di giustizia, lo Zen riferisce come, grazie a provvedimenti daziari, nonostante la carestia
gli riuscì di portare il prezzo del grano da 30 lire lo staio veneziano nel maggio del 1612 a 12 lire lo
staio un anno dopo.
10 Il primo Caravaggio è a Roma: Chiesa di San Luigi dei francesi, cappella Contarelli; il secondo al
Kimbell art museum di Fort Worth. Per Hals: C. GRIMM, E. C. MONTAGNI, L'opera completa di Frans
Hals, Milano 1974.
11 I feraroli erano ampi mantelli, i terzaroli pistoloni da fondina G. BOERIO, Dizionario del dialetto
veneziano, Milano 1971 (anast. Venezia 1856), alle voci tabaro e pistola.
12
bestemmia urlata da un giocatore sconfitto anche nella rivincita, che ancora non si
rassegna, e si rode al sorriso beffardo del vincitore che lo schernisce in silenzio col gesto
di contare quello che fino a poco prima ne appesantiva la borsa ora vuota.
Le armi lunghe sarebbero proibite ma ci si aspetta che il contestabile e gli zaffi,
distolti da generose offerte, abbiano altro da fare. Del resto sarebbe proibito in quanto
immorale anche il gioco d'azzardo12. Umanità diversa, almeno in quanto c'è chi vince e
chi perde, accoccolata su sgabelli instabili, o appoggiata a lunghe panche, o in piedi ad
osservare da dietro le spalle le carte e l'abilità nel gioco, a consigliare, a criticare o anche
a distrarre l'avversario del socio in affari. Dimenticando impudicamente per un attimo il
kitsch che la scena suggerisce, immaginiamo donne di malaffare girare tra i giocatori,
appoggiarsi, scherzare in risposta alle frasi insinuanti rivolte loro. Vi è un banco dietro il
quale, di solito, un unico gestore controlla il regolare funzionamento del tutto, mesce
gotti di vino, tiene custodite le entrate.
Stasera i gestori sembrano essere invece due: il primo, si deduce dal suo continuo
affacendarsi tra fuoco e tavoli affinché in entrambi non abbia ad aumentare troppo la
temperatura, è il responsabile della bisca e sembra intendersi benissimo con l'altro, più
interessato all'aspetto contabile dell'esercizio. Il primo giovane aitante, il secondo
piccolo e gobbo. Un robusto servitore consegna i mazzi di carte ai giocatori che entrano:
un mazzo, una lira. Chi vince paga le terze13 al piccoletto che appare il più acceso e che
va dicendo a quelli che giocano e che non pagano: “ –Chi vol giocar qua paghi se no
vada a giocar in campo marzo”14.
12
Sulla proibizione degli archibugi C. POVOLO, Aspetti e problemi dell'amministrazione della
giustizia penale nella Repubblica di Venezia. Secoli XVI-XVII in Stato, società e giustizia nella
Repubblica veneta Roma 1980, pp. 220 segg. Sull'immoralità del gioco delle carte quando vi sia unito
il lucro si diffondono numerosi trattati. Per esempio G. P. CARDELLO, Discorso .... dove si potrà
vedere se è lecito e cristiano giocare, Milano 1563; Angelo ROCCA, Trattato ... contra i giochi delle
carte e dadi, snt, rilegato insieme al primo nel volume da me consultato alla Biblithèque de l'Arsenal
di Parigi. Per la proibizione legale L. PRIORI, Prattica criminale secondo il ritto della Serenissima
Repubblica di Venezia, Venezia 1644, pp. 204-205. L'opera, intitolata Casi criminali ..., vede la sua
prima edizione a Brescia nel 1598, la seconda edizione arricchita della procedura viene impressa con
il nuovo titolo a Venezia nel 1622, le ristampe continueranno per tutto il secolo ed anche nel
successivo.
13 Sembra chiaro che “tirare le terze” abbia a che vedere con l'attività di gestione della bisca.
Sappiamo che i mazzi di carte che si usavano venivano pagati una lira ciascuno, le terze potrebbero
essere delle percentuali sulle vincite, o sorta di tasse di accesso al gioco, ma non ho trovato fonti che
chiarissero definitivamente la cosa.
14 ASVI, CN, vol. 272, c. 603v-604r, il campo marzo è la grande estensione che separa la prima cinta
di mura da monte Berico, all'epoca zona annonaria destinata all'occorrenza a parate militari e
lazzaretto nelle epidemie. Il mandarvi qualcuno (a girare le foglie), inteso come un invito a non far
perdere tempo all'interlocutore, è ancora in uso fra i vicentini meno giovani. L'invito aveva in anni
passati una sfumatura più pesante, equivalendo di fatto al più generico “va in mona”. Campo marzo
era infatti il luogo leggendario in cui, bambini traviati, ci si raccontava che militari in troppo libera
uscita, giovani troppo inquieti e vecchi troppo depravati, potevano ingaggiare una delle tre (o cinque?)
professioniste autoctone.
13
D'un tratto si ode uno strepito provenire dall'androne. Un garzone si precipita
trafelato dalla porta d'ingresso verso il fondo della sala dove, presso il focolare, si trova
Carlo Della Volpe. Ma non fa in tempo a raggiungere il padrone che irrompono nel
ridotto il contestabile del podestà con un manipolo di zaffi, i tutori dell'ordine pubblico
di un'epoca disordinata, oggetto di un odio direttamente proporzionale alla loro
soverchieria ed al grado di corruzione che notoriamente li contraddistingue15. Alle urla
di sorpresa fa seguito una calma carica di tensione, forse per la prima volta nel locale
cala il silenzio, gli avventori fissano i nuovi venuti, gli occhi corrono subito dopo alle
armi, fortunatamente troppo lontane, infoderate o scariche. La velocità dell'azione
dell'ufficiale veneziano ha gelato il sangue a tutti, inibendo con la sorpresa qualsiasi
reazione. La concitazione del primo momento si placa, adesso occorrerebbe chiudere
l'inquadratura dal campo lungo ad un primo piano sui protagonisti che si fronteggiano.
Conoscendo gli esiti della vicenda è fin troppo facile immaginare il tono degli ordini
ed il breve dialogo fra gestori della bisca e contestabile. Tuttavia chi scrive non intende
sostenere la pur verosimile falsificazione di parole. Quegli uomini non sono invenzioni
letterarie, sono invenzioni storiche16. Tentare di comprenderli implica una naturale
simpatia, non una goffa immedesimazione. L’invenzione letteraria che ha mosso la
scena, cioè la figura immaginaria del garzone, richiede minor scrupolo, torniamoci
quindi.
Il ragazzetto entrato di corsa nella sala aveva un compito preciso: doveva controllare
la strada ed allertare l'interno in caso di visite sgradite. Tutto sembrava tranquillo, mai
avrebbe potuto immaginare che uomini armati gli si sarebbero gettati addosso per
impedirgli di muoversi. Da dove erano spuntati quei fantasmi? Avvicinatisi di soppiatto
dalle due contrade che si immettevano su quella dei Proti fin nei pressi dell’edificio, si
erano poi lanciati verso l'ingresso che doveva presidiare. Capiva solo in quel momento
che il suo compito non era affatto poco più che un passatempo. Aveva visto le armi, si
era divincolato con furia ed alla fine era riuscito a liberarsi e correre dentro ... troppo
tardi: l'avrebbe pagata cara. Scappare? Impossibile! Eccitato, volgeva intorno lo sguardo
a tutta quella gente ritta e silenziosa; l’unico rumore che percepiva era il rantolo
prodotto dal suo affannoso respirare. Quanti cadaveri si sarebbero potuti presto contare?
Ed egli, ne sarebbe uscito?
15
C. POVOLO, Aspetti e problemi, cit., pp. 153-258: la repressione. I birri e gli zaffi sono vili ed
infami, ma necessari per Tommaso GARZONI (Piazza universale di tutte le professioni, Venezia 1585)
e come lui si esprimono in molti: E. BASAGLIA, Il controllo della criminalità nella Repubblica di
Venezia. Il secolo XVI: un momento di passaggio, in A. TAGLIAFERRI (ed.) Venezia e la terraferma
attraverso le relazioni dei Rettori, Milano 1981, p. 65 segg.
16 Mi si conceda qui per la prima volta il gioco etimologico da invenio: i nostri personaggi sono
ritrovati, la loro storia, come la Storia tout court, si carica di fascino per essere un'invenzione che,
grazie al necessario rigore filologico, si può permettere di assumere il significato meno immediato del
termine.
14
Appiattitosi alla parete più vicina, era scivolato lentamente a terra per acquattarsi fra
le gambe di un tavolo provvidenzialmente rovesciatosi vicino a lui. Dopo alcuni
secondi aveva con sollievo potuto constatare che la tensione, pur non sciogliendosi del
tutto, si allentava quel poco sufficiente per capire che non ci sarebbero stati né morti né
feriti quella sera ai Proti. Ser Nicolò Del Buso e ser Carlo Della Volpe si allontanavano
insieme al contestabile verso la stanzetta attigua al salone parlando fra loro a bassa voce.
Gli zaffi continuavano a controllare la situazione con le armi spianate, ma il dialogo
avviato dal capo aveva disteso anche i loro nervi. Pochi minuti e se ne stavano già
andando: gli avventori erano invitati neanche troppo malamente ad uscirsene, avrebbero
dovuto cercare un'altra casa da gioco, o andare in Campo Marzo.
A vario titolo le famiglie Del Buso (altrimenti Dal Buso, Buso, Bossio, Bosio17) e
Della Volpe facevano parte della pletora di quelle che gli storici ed i genealogisti
indicano essere le case nobili di Vicenza.
Il secondo quadro si svolge in esterni ed in pieno giorno. Il luogo dell'azione è ancora
contrà Proti, una breve via in leggera discesa che si snoda dal pozzo rosso fino ad
immettersi nel vicolo che dà a sinistra su piazza delle erbe, dietro il palazzo pubblico di
ragione e la piazza maggiore. L’azione inizia con un baccano ritmato di colpi sordi, cui
fanno seguito alte grida. Un gentiluomo col pugno guantato percuote furiosamente un
portone che fronteggia l'ospedale dei nobili decaduti, lanciando nel frattempo insulti
infamanti all'indirizzo del padrone di casa e di sua moglie. Concentra quindi il diluvio
verbale verso quello che urla essere il poco nobile mestiere di quest'ultima. All'interno
aumenta la concitazione, il padrone di casa non si vede; sua moglie, i loro sei figli e la
vecchia massara, rinserrati e al sicuro, sono però costretti ad ascoltare gli schiamazzi:
quello che sta accadendo somiglia molto ad una mattinata fuori orario e, per questo,
forse ancor più disonorante18. Non c'è da dubitare che gli schiamazzi richiamino
l'attenzione di vicinato e passanti e che quindi occorra reagire al più presto alle offese
per non vedere irrimediabilmente compromesso il prestigio familiare. Chi dovrebbe
reagire all'uomo che urla fuori del portone? Indubbiamente un altro uomo, ma stavolta
non c'è scelta: ed allora la donna, così brutalmente chiamata in causa, esce in strada ed
affronta l'aggressore brandendo una spada nuda. Ma più che una donna, ancorché
scarmigliata, appare all'offensore una erinni che schiuma rabbia ed urla invasata,
17 Gli ultimi tre concordano con i nomi delle donne di famiglia, per cui nei documenti si incontrano le
varianti Busa, Bossia, Bosia. Nel testo ho in genere usato la forma Del Buso; sulla varietà delle grafie,
e sui possibili motivi che ne determinano alcune, avrò modo di ritornare nella seconda parte del
lavoro.
18 Le mattinate, corrispondenti agli charivaris francesi, alle rough musics inglesi ed al vito spagnolo,
si svolgevano generalmente di notte. La loro funzione era quella di sanzionare condotte considerate
devianti dalle norme di comportamento socialmente accettate. E. P. THOMPSON, Società patrizia,
cultura plebea, Torino 1981, pp. 137-180.
15
spalleggiata subito da alcuni passanti. La sua posizione vede diminuire il vantaggio: non
può reagire di fronte a testimoni neutrali, del resto non darebbe prova di molto coraggio
ingaggiando uno scontro fisico in simili condizioni; tuttavia il fatto che la casa non sia
adeguatamente difesa vede dimostrata la vigliaccheria del suo avversario restituendo
una parte di efficacia alla sua azione. Si ritira quindi indirizzando ancora alla coppia
pesanti minacce. Il tutto, naturalmente, con grande scandalo pubblico. L’uomo è il già
noto Carlo Della Volpe, la donna è Florinda Verlato, a sua volta appartenente ad antica
famiglia nobile vicentina.
Terzo quadro, di notte. Ancora colpi al medesimo portone, dapprima discreti e poi,
avuta la consapevolezza che chi sta dentro sente ma non vuole aprire, stizziti, sempre
più forti. L'assenza di risposta sollecita l'impaziente progressione delle voci che,
crescendo, finiscono anche stavolta per essere urla. L'eco che rimbomba per le strette
contrà non riferisce insulti, ma richiami ad una donna: è Ardemia che viene invocata
con strepito via via maggiore. Sono circa cinque ore di notte19, il gruppo di importuni
non desiste e continua la chiassata di cui vanamente gli abitanti del palazzo aspettavano
la fine. D’un tratto si apre una finestra al piano nobile, una sagoma umana si staglia nera
nel controluce dei candelabri interni e, senza indugiare, scarica due archibugiate verso
la strada. Ne segue il fuggi fuggi di chi sta sotto, l'uomo che ha sparato si precipita al
portone, lo apre e fa fuoco nuovamente nella direzione dei fuggitivi che si perdono nel
buio delle vie deserte. Lo sparatore è Nicolò Del Buso, i rumorosi visitatori il podestà
Giovanni Zen, che nella concitazione della fuga perde una mulla [pantofola], ed alcuni
suoi famigli, la donna invocata è la figlia maggiore di Nicolò, nubile sedicenne.
Nel Borgo di Berga, in contrà Santa Caterina, è ambientato il quarto quadro; una
zona periferica ai piedi del santuario di Monte Berico, in cui si è venuta a realizzare nel
corso dei secoli una delle massime concentrazioni di spazi consacrati della città: i
conventi di Ognissanti, di San Tommaso, quello di San Silvestro, Santa Caterina, Santa
Chiara ed infine le Zitelle. Nel luogo pio delle Zitelle20 è stata da poco introdotta una
quindicenne che durante le ore diurne langue disperata e si isola rancorosa dalle più
mature compagne. Diserta gli uffici sacri e nelle notti di veglia invoca continuamente il
demonio. Non accetta cibo ed implora chiunque le si rivolga di essere restituita alla
19
Le ore notturne si contavano a partire dall'Ave Maria suonata dalle campane al crepuscolo; le
cinque sarebbero quindi oggi più o meno le 20 se inverno, le 22 se estate.
20 Fondata nel 1602, la congregazione aveva lo scopo di sottrarre alle tentazioni maligne del secolo le
giovani di buona famiglia, analogamente ai Luoghi delle Convertite (1530) e del Soccorso (1590) la
cui funzione era il recupero al timor di Dio delle prostitute redente. G. MANTESE, Memorie storiche
della chiesa vicentina, Vicenza 1974, vol. IV/1, pp. 554-557. L'8 settembre 1604 veniva inaugurata la
sede della congregazione in Borgo Berga: S. CASTELLINI, Storia della città di Vicenza, cit. p. 138.
16
propria famiglia. Invece di convincerla ad accettare almeno provvisoriamente la sua
sistemazione, la voce della madre alla grata del parlatorio talvolta rinfocola lo spirito
ribelle della giovane con promesse e lusinghe, talaltra rafforza la sua angosciata
disperazione con pianti ininterrotti. La visita mensile sembra essere l'unico momento di
conforto.
Un giorno la madre arriva accompagnata dai due figli più piccoli. Parlano, il tempo
trascorre inesorabile, la giovane rinnova le sue contumelie. La consorella delegata ad
ascoltare interviene fiaccamente ad ammonirla, mentre dovrebbe sospendere il
colloquio. Prima di andarsene la madre supplica la portinaia di consentire alla figlia di
baciare i fratellini. La zitella non si oppone, ha ricevuto l'ordine di assecondare quella
volontà; apre una finestrella che permette alla giovane di sporgersi, quindi apre anche
una porta che le permette il contatto implorato. Improvvisamente la visitatrice afferra la
giovane novizia con il braccio sinistro e la attira a sé, mentre la mano destra “lassiò trar
a uno stillo per dar delle stilettà alla portenara vecchia”21. Urla terrorizzate
accompagnano le due donne che fuggono indisturbate tirandosi dietro i bambini. Il tutto
ancora una volta con grande scandalo pubblico. La quindicenne liberata (o rapita, o
lasciata deliberatamente fuggire, secondo la lettura che diamo dell'episodio) è Anna,
secondogenita di Nicolò Del Buso e di Florinda Verlato.
Quinto quadro. Angolo fra piazza maggiore e piazza delle biade, nel palazzo del
podestà di Vicenza. Dopo essere uscito dalla quinta di contrà del Monte ed aver
attraversato la scena della piazza, compare di fronte al giudice del maleficio Nicolò Del
Buso. L'uomo ha 45 anni, la foggia degli abiti scuri ne fanno intuire la professione
notarile, l'incedere dimesso e strascicato rivela la prostrazione fisica di una malattia che
gli ha segnato i lineamenti amplificando il senso di debolezza morale che ispira alla
vista estranea un essere abituato a piegarsi al volere superiore. Solo le sopracciglia
corrugate non riescono a nascondere, pur nell'ostentata deferenza, la sorpresa per essere
costretto ad una difesa pubblica. È stato citato a comparire con l'ordine di restituire 50
ducati avuti in deposito mentre l'anno prima era notaio all'ufficio delle condanne22, ha
evitato i ferri nascondendosi per alcuni giorni nel sagrato del convento di San
Tommaso, è stato rassicurato e convinto poi dalla moglie a presentarsi a Palazzo.
L'imputazione è la truffa, la minaccia che gli pende sul collo è ancora quella della
prigione e, nel preciso momento in cui si trova faccia a faccia con il giudice, intuisce
che le protezioni garantitegli non si sono attivate; nell'estrema difesa ha allora un
tardivo scatto d'orgoglio. Di quei 50 ducati egli afferma doverne restituire 13 più due di
21
ASVI, CN, vol. 272, c. 590, 18.2.1614.
Un ufficio che spesso era stato ricoperto da parenti di Nicolò. Sono rimasti conservati nell'archivio
storico del Comune di Vicenza i rendiconti, fra gli altri, dello zio Pace per il 1564 e di Girolamo Del
Buso per il 1590. BBVI, AT, b. 381/4 e 10.
22
17
spese. Il giudice lo zittisce e lo apostrofa con epiteti infamanti: “Gobbo, beco, fotù”23.
Nicolò viene imprigionato, riesce a trovare i soldi per pagare il debito, il deposito viene
depennato, tutto finisce.
4. Dopo che Nicolò, una volta liberato dalla detenzione, ha lasciato la funesta casa
dei Proti per ridurre le spese di affitto, dopo che il podestà Zen è partito dalla città alla
fine del suo mandato, dopo insomma che i giorni peggiori sembrano passati e che pare
sia tornata la calma, tutto comincia.
23
L'adulterio insinuato costituisce un'offesa bruciante alla mascolinità; anche Paolo Orgiano apostrofa
l'orgoglioso Bortolamio Scudellaro con gli epiteti di “can, becco, fotù ”. Quest'ultimo, osando
rispondere argutamente a chi lo ha offeso di non essere l'unico cornuto del paese, ne provoca la
violenta reazione. C. POVOLO, L'intrigo dell'onore. Poteri e istituzioni nella Repubblica di Venezia tra
Cinque e Seicento, Verona 1997, p. 403.
18
Prima parte: allegorie.
(Un Rigoletto imperfetto)
Lei può dimostrarmi con dotti ragionamenti che il nero è
bianco, - disse Filby, - ma non mi convincerà mai.
- Può darsi di no, - replicò il viaggiatore nel tempo, - ma
ora lei incomincia già ad intuire l'oggetto delle mie
ricerche nel campo della geometria quadridimensionale.
Tempo fa pensai di costruire una macchina [...] in grado
di viaggiare indifferentemente in qualsiasi direzione
dello spazio e del tempo [...]
- Sarebbe veramente comodo per uno storico, - osservò
lo psicologo. - Si potrebbe tornare indietro e controllare
[...]
- Non pensa di volere dare un po' troppo nell'occhio? chiese il medico. - I nostri antenati erano piuttosto
intolleranti in fatto di anacronismi24.
24 H. G. WELLS, La macchina del tempo, in ID., Avventure del tempo e dello spazio, Milano 1973, pp.
280-281.
19
Capitolo 1
Dove si annunciano affinità con l'invenzione letteraria, e si discutono precedenti famosi.
1. La curiosità verso il lontano ed il diverso spinge a superare le colonne che
delimitano il campo del vissuto quotidiano. Allo scopo, il turismo patinato mette a
disposizione dei nuovi Ulisse viaggi esotici con cui si allontana l'illusione delle colonne
d'Ercole fin alle vetrate dell'albergo entro cui ci si distende sul divano occidentaleorientale. Il pregiudizio ignorante che tutela l'amor proprio resta il solito vecchio limite,
i nuovi sono invece l'aria condizionata che mantiene i corpi freschi ai tropici, i tavoli
imbanditi di cibi colorati, i vetri che schermano le miserie e la mala-aria di un oriente
per nulla salgariano. Ancora, l'igienismo che ci salvaguarda obbligandoci alla distanza,
il sano pallore della nostra pelle, l'inconsapevole mancia milionaria al facchino, la
maglietta e le scarpe da tennis che giocoforza ci condannano al ruolo di colonizzatori.
Colonizzatori ergo innalzatori di colonne le quali, avvicinandoci solo fisicamente alla
meta verso cui siamo diretti, fanno vedere sempre più e capire sempre meno. L'albergo
di vetro e cemento fra le case di cartone, come l'anacronismo, dà troppo nell'occhio.
Divagazioni moralistiche? Certo che sì, se si pensa che il viaggio nel tempo sia molto
diverso da quello nello spazio e che lo si possa affrontare a bordo di una macchina25.
La macchina del tempo, che fa spostare nella quarta dimensione, esiste
concretamente solo nel celebre romanzo di Wells, del 1895, e negli innumerevoli films
che ha ispirato, ultimi i tre Ritorno al futuro di Zemeckis (1984, '89, '90) [The time
machine]. Per il viaggio nel tempo [lontano] è ancor oggi disponibile uno strumento che
fino a non molti anni or sono, con le relazioni di viaggio ed i romanzi esotici, aveva
valore quasi esclusivo anche per lo spazio: la scrittura.
Prescindendo per ora dalla delimitazione del solco esistente fra le due specie sotto cui
si presenta, narrativa e storiografica, ciò su cui intendo portare il ragionamento è
l'insidia dell'anacronismo che in diversa misura entrambe minaccia, e che si concretizza
in un'illusoria vicinanza: vedere e non capire, ossia colonizzare inconsapevolmente, con
il presente, il passato. L'annullamento totale delle distanze è ovviamente impossibile.
Credo tuttavia che affrontando attrezzati un viaggio sia possibile farli entrambi. Gli anni
spesi da Bateson e da Lévi-Strauss (per restare a due fra i maggiori) per tentare di capire
25
I quattro passaggi, assimilazione, cancellazione, riacquisizione di identità ed eclissi, difficili ma
indispensabili per tentare di comprendere gli altri, sono indicati da T. TODOROV, Le morali della
storia, Torino 1995, pp. 37-41. “La comprensione di una cultura straniera non è che un caso
particolare di un problema ermeneutico più generale: com'è possibile comprendere l'altro? Questo
altro può essere diverso da noi nel tempo, e allora la sua conoscenza implica la storia; o nello spazio,
ed è l'analisi comparata che se ne occupa (sotto forma di etnologia, o d'«orientalismo» ecc.); o
semplicemente sul piano esistenziale: l'altro è il mio prossimo, il mio vicino di casa, un non-io
qualunque” (p. 38). Preziose indicazioni metodologiche si leggono in C. GINZBURG, Rapporti di forza.
Storia, retorica, prova. Milano 20012
20
e nel contempo affinare lo strumentario per poterci raccontare le loro esperienze, ci
hanno avvicinato le popolazioni della Nuova Guinea ed i Nawinkbawa, i loro luoghi e
quel tempo, ma anche le radici del nostro tempo e la conoscenza di noi stessi. Con
sensibilità, simpatia, applicazione ed adeguatezza di ferri del mestiere, la quarta
dimensione si compenetra apprezzabilmente nelle altre tre.
Mentre i primi tre requisiti sono presupposti etici del discorso che concludono,
l'adeguatezza dei ferri del mestiere merita di essere qui ulteriormente discussa. È stato
scritto che non esistono fatti, ma soltanto discorsi sui fatti e per conseguenza non c'è
una verità nel mondo, ma soltanto delle interpretazioni. I cinque episodi del prologo
sono certamente accaduti, ma il loro racconto è stato filtrato mille volte. Da chi li ha
vissuti ed in seguito raccontati con particolari fini, da chi li ha ascoltati, giudicati e
verbalizzati, da chi dopo secoli li ha ritrovati, letti e trascritti, appunto, suggestivamente.
Occorre pertanto interrogare la fonte per verificarne la dignità di prova26. La verità che
rappresenta è spesso un simulacro allegorico, suggestiva perché impressionistica, in
definitiva il frutto di un viaggio troppo breve. Per saperne di più, se si volesse saperne di
più, occorrerebbe cercare oltre le colonne che a sua volta innalza, aprirsi in tutte le
direzioni alla volontà di capire. L'incognito che sta più in là è parziale, informe, difficile
da assemblare, e la differente verità che ne può sortire è figlia di un lavoro paziente ed
anche diffidente, in certi passaggi molto noioso, che richiede l'uso di competenze
disparate coagulantesi in una professione affascinante, quella dello storico.
Dall'allegoria della verità si passa così all'invenzione della verità: l'invenzione è tutto ciò
che del passato si può restituire27. Partire dai risultati impressionistici della prima per
giungere ai territori della seconda costituisce il percorso di questo libro.
2. In linea teorica c'è ben altro. Stendhal annotava nel suo diario il 24 maggio 1824
un discorso a lui rivolto: “Non si può aspirare al vero se non nel romanzo. Vedo ogni
giorno di più che, in qualsiasi altro luogo, si tratta di una pretesa”. I romanzi sarebbero
superiori ai libri di storia perché si spingono oltre il fattuale e nello stesso tempo si
impongono sulla filosofia perché sanno restare ancorati ai particolari. Strada intermedia
e maestra: la letteratura è più filosofica della storia e più concreta della filosofia.
26
Il concetto nietchiano di fatto-interpretazione è richiamato da T. TODOROV, Le morali della storia,
cit., p. 138. Nietzche sta anche al centro delle riflessioni critiche di Ginzburg il quale, rivalutando
l’onere della prova quale elemento di dfferenziazione fra la retorica storiografica e le altre sue forme,
polemizza con il relativismo scettico degli storici che fraintendono la lezione di Aristotele. C.
GINZBURG, Rapporti di forza, cit. Naturalmente occorre dissipare l’equivoco possibile tra prova e
fonte. Sulla presunzione di oggettività delle fonti storiografiche C. POVOLO, Il romanziere e
l'archivista, Venezia 1993, p. 130: “Se la fonte ... pone degli interrogativi su chi l'ha prodotta ..., il
passo conseguente e scontato conduce alla riflessione intorno ai suoi possibili e probabili
condizionamenti....avrebbe infatti potuto anche non essere prodotta e, di conseguenza, i suoi nessi
interpretativi si complicano e finiscono per addensare l'interesse dello storico sul silenzio delle fonti;
su quanto, pur non manifestato apertamente, rinvia ad esse”.
27 Non di verità allegoriche o inventate, ma di verità conforme e verità in divenire, che distinguono la
scrittura dello storico da quella del romanziere, parla T. TODOROV, Le morali della storia, cit., p. 141
21
Qualche anno fa apparve in Francia uno slogan pubblicitario paradossale: un trattato
etnologico era detto essere così pregno di verità da somigliare ad un romanzo di Balzac.
Ripreso da uno studioso francese, tale paradosso si rivelava a suo giudizio solo
apparente in quanto metteva implicitamente in risalto i vantaggi della scrittura
letteraria, svincolata dalle regole rigide che sovrintendono il lavoro storico ed etnologico
(la “superstizione della parola vera”). La superiore verità del romanzo, che sa andare
oltre l'evidenza dei fatti, confermava in tal modo la legittimità del messaggio da cui
l'analisi aveva preso spunto. Storici ed etnologi avrebbero fatto bene, dunque, a seguire
la lezione dei romanzieri28.
Sul fronte opposto la persistente diffidenza del lettore professionale per l’arbitrio del
romanziere-storico e la conseguentemente netta distinzione fra le due scritture, storica e
letteraria, trae la sua motivazione dalla consapevolezza di una artificiale commistione
dei tempi dell'azione e della scrittura. La distanza in sensibilità dell’epoca della vicenda
narrata con quella, diversa, di cui è figlio il testo letterario, tende secondo una tale
prospettiva ad annullarsi per far nascere un tempo neutro che somiglia più al quotidiano
del lettore che a quello dei personaggi che animano la fabula: al di là della qualità
letteraria, il fascino del romanzo sta proprio nell’abilità con cui l’autore riuscirebbe a
celare l’anacronismo.
In un recente, felicissimo testo storiografico già consacrato da coloro cui le illusioni
ottiche provocano, anziché nausea, piacevoli vertigini, è evocato ancora il pestifero
germe dell'anacronismo. Una volta ammesse le coraggiose eccezioni di chi si ribellava
alle soperchierie, l'autore fa capire quanto l’idea dell'onore dei poveri in Don Abbondio
fosse del tutto coerente con lo spirito del XVII secolo. Il severo giudizio attribuito alla
sua codardia andrebbe quindi, se non rivisto, perlomeno tarato ai tempi: l'errore del
curato era di ragionare come tutti, essendo “uomo che sa il viver del mondo” e tradendo
quindi il ministero sacerdotale per come se lo figurava Manzoni29.
La discussione investirebbe quindi il diverso giudizio di valore da attribuire ai generi
sub specie veritatis. Nel lettore attento l'evocato respiro di un'epoca non riesce a
mascherare l’equivoco di cui si diceva: la differenza fra storiografia e letteratura sarebbe
data anche dal coinvolgimento dell'autore di romanzi storici in attualizzati giudizi
morali. La scienza escluderebbe, o quantomeno preciserebbe, ciò che invece può
costituire il nerbo stesso di parte dell'invenzione letteraria: l'anacronismo determinato
dalla presenza morale, defilata quanto si vuole, del romanziere. Nel distinguere, si
STENDHAL, Œuvres intimes, Paris 1980, p. II/198; M. AUGÉ, La traversée du Luxembourg, Paris
1985, pp. 18-19.
29 A. MANZONI, I promessi sposi, Messina-Firenze 1969, p. 22 per la citazione virgolettata. G.
CORAZZOL, Cineografo di banditi su sfondo di monti, Milano 1997, p. 141 per il resto. Andrebbero
indagati il ruolo e la cultura dei curati di campagna, spesso rampolli di mediocri lignaggi cittadini, il
cui ufficio si allargava ben oltre la somministrazione dei sacramenti ai rustici.
28
22
riconosce una propria autonoma dignità al testo narrativo ma, per non correre il rischio
di incrinarne le basi epistemologiche, se ne tiene il significato ben lontano dalla scienza,
dai suoi ferri del mestiere e dall'organizzazione retorica del suo discorso: niente di
nuovo sotto il sole, fin dalla Poetica di Aristotele alla poesia compete il verosimile, alla
storiografia il vero30.
Ma la distanza fra i due oggi non è più così facilmente misurabile. Soprassedendo da
un lato sulla troppo acriticamente enfatizzata sacralità delle fonti ed ancor più sui fini
con cui talvolta persino storici cattedrati hanno strumentalizzato (moralizzato?) la
propria disciplina, dall'altro sulla crisi del romanzo novecentesco che ha imparato a
sfuggire al controllo del proprio demiurgo, la scienza si trova sempre più spesso in un
imbarazzante confine tra distacco scientifico e vincolo morale. Il genetista, come
l'attualità del dibattito sulla clonazione suggerisce, ma anche l'antropologo che per scelta
“descrive” i riti cruenti e dolorosissimi di mutilazioni come se fossero ovvii una volta
inquadrati nel loro contesto, si trovano fra gli altri su un simile crinale31.
D'altronde lo stesso crinale evoca oggi l'attenzione alle fonti ed il rigore con cui sono
state narrate negli ultimi anni storie del passato. Fulvio Tomizza è più storico o
romanziere? La domanda può apparire paradossale, tuttavia scegliere la seconda opzione
fermandosi all’organizzazione dell'apparato filologico o, peggio, perché il suo editore lo
pubblica in una collana di narrativa, aggira il problema32. Discriminare infine in base
alla qualità della scrittura non rende onore a molti storici. Lo schermo dell'anacronismo
parrebbe invece avere facile gioco nei confronti di scritture letterarie meno recenti.
Nondimeno, una volta che abbia intrapreso la rilettura de I Promessi sposi, per tornare
all'esempio classico, lo storico vede il proprio atteggiamento critico smussarsi al
cospetto della sensibilità, della simpatia e dell'applicazione che dimostra il giovane
Manzoni verso il “tragico Seicento”. Rilassando via via le briglie occhiute del
pregiudizio, incontrerà nel romanzo intuizioni divenute negli ultimi decenni temi
30
GINZBURG C., Rapporti di forza, cit., p. 95
E a giudizio di noi occidentali, che ci correggiamo nasi e siliconiamo seni, inutili in quanto
essenzialmente estetici F. REMOTTI, Prima lezione di antropologia, Roma-Bari 2000, p.157. L'autore
continua: “Ma gli stessi antropologi come sarebbero disposti a reagire se, per esempio, un bel rituale
di subincisione [taglio operato longitudinalmente nel meato urinario dell'organo maschile (p. 132)]
venisse praticato da un gruppo in Italia, anziché dagli Aborigeni australiani? ”. Su questo si veda anche
E. GELLNER, Causa e significato nelle scienze sociali, Milano 1992 (London 1973), p. 44.
Naturalmente la domanda retorica, con la relativa implicita denuncia, non negano la necessità di
indagare sui perché di simili fenomeni.
32 Penso ai romanzi La finzione di Maria Milano 1981, Il male viene dal nord. Il romanzo del
vescovo Vergerio Milano 1984, Quando Dio uscì di chiesa Milano 1987, L’ereditiera veneziana
Milano 1989, Fughe incrociate Milano 1990 (sono quelli che ho letto), costruiti in gran parte su
materiali di archivi veneziani, o a certi di Giuliano Vassalli (La chimera 1990), fino al recente,
pseudonimo, Q (Torino 1999). In quest'ultimo però, più che il rigore filologico utilizzato, appare la
grande erudizione di storia ereticale e forse lo sfogo alla frustrazione di chi, di fronte ad archivi chiusi,
ha deciso di immaginare risposte a questioni storiografiche aperte dipingendo un originale, ed a tratti
geniale, affresco dell'Europa del Cinquecento.
31
23
all'ordine del giorno della ricerca storiografica, ma che prima ne costituivano sporadico
patrimonio, derubricate com’erano spesso a facili generalizzazioni tratte da spunti
comuni: anacronismi alla rovescia, insomma, letteratura33.
Il giudizio su Manzoni storico del Seicento lombardo, ma inventore della trama
portante del romanzo, è stato fino ad anni recenti ovvio e banale: quanti Don Rodrigo,
perversi e violenti prevaricatori, saranno potuti esistere? Si direbbe almeno uno per
villaggio, volendo tener conto delle suppliche presentate a questo o quel tribunale, dei
proclami o grida che siano, e dei residui fondi processuali ancora conservati negli
archivi. Il motivo di tanta generalizzata violenza da parte dell'aristocrazia della
terraferma veneta negli ultimi secoli del dominio veneziano era già a metà Ottocento
identificato nella frustrazione politica che aveva tolto “loro [ai signorotti locali] l'aria di
cui vivevano”34.
Tutto ciò fintanto che qualcuno, dopo verifiche ventennali, senza prove ma con
innumerevoli indizi, non ha insinuato dubbi ereticali perfino sui concetti di invenzione,
verosimiglianza e vero nella produzione critica manzoniana, rendendo pubblica quella
che ritiene poter essere stata la fonte primaria del romanzo35. A margine delle astrazioni
concettuali cardine della nostra cultura (morale, verità) su cui si era cristallizzato in
33
Basti pensare al sillogismo violenza-prevaricazione-potere leggibile antropologicamente, oltre i
toni di un folklorico primitivismo feudale; al rapporto politico dell'aristocrazia campestre con quella
della città e di questa con l'autorità superiore; al problema del matrimonio clandestino; alle clientele
verticali ma anche alle solidarietà di vicinato nelle campagne; alla questione del bando e del
fuoriuscitismo; al ruolo ambivalente del clero di campagna e degli ordini regolari, solo per fare pochi
essenziali esempi. Calvino ebbe a definirlo “Libro di storia involto in pagine di romanzo (e di storia
come la si intende adesso in cui la parte evenementielle delle battaglie di Wallenstein e della
successione del ducato di Mantova è confinata tra le chiacchere della tavola di Don Rodrigo e ciò che
occupa il campo sono le crisi dell'agricoltura, i prezzi del frumento, la domanda di mano d'opera, la
curva delle epidemie)”. I. CALVINO, Una pietra sopra, Torino 1980, pp. 275-276 (i corsivi sono miei)
34 Un esempio di affinità che prende in considerazione il matrimonio clandestino in G. B. ZANAZZO,
Due matrimoni di sapore manzoniano. «Archivio veneto», vol. LXXVI (1965), pp. 25-33. Sulla
violenza nobiliare tra Cinque e Seicento, oltre ai numerosi studi di Claudio Povolo che si citeranno a
debito luogo, per Brescia si legga J. M. FERRARO, Family and public life in Brescia, 1580-1650,
Cambridge 1993, pp. 133-154. La mancanza d'aria in I. NIEVO, Le confessioni d'un italiano, Roma
1968. L'opera fu scritta nel 1858. A proposito dei giusdicenti feudali della Patria del Friuli, p. 22: “i
nobili continuarono lor dimora nei castelli ... e le virtù d'altri tempi in parte diventarono vizii, quando
il mutarsi delle condizioni generali tolse loro l'aria di cui vivevano. Il valore diventò ferocia, l'orgoglio
soperchieria; e l'ospitalità cambiossi a poco a poco nella superba e illegale protezione dei peggiori
capi da forca”. È quindi il diminuire di spazi di azione politica che ne determina la reazione, una
reazione che solo il nostro punto di vista di moderni recalcitra a definire politica. Per Otto Brunner “ci
si dimentica di chiedersi se nella vita degli Stati medievali non si siano continuamente presentate
situazioni nelle quali quel potere “statale” [cioè quello che gli storici che criticava davano per privo di
dialettica interna, per cui la sola dimensione della storia politica concepibile era la estera] per lungo
tempo non funzionò, cosicché i poteri locali furono costretti a far politica”: O. BRUNNER, Terra e
potere. Strutture pre-statuali e pre-moderne nella storia dell'Austria medievale, Milano 1983, p. 8.
35 La critica manzoniana al romanzo storico per cui il “verosimile”, facendo perdere di vista al lettore
il confine che esiste tra il vero e l'immaginato, riduce in definitiva la portata del vero, paradossalmente
contraddittoria ed autolesionistica, non sarebbe così incomprensibile se veri, oltre che le grandi
divagazioni (la peste, la monaca di Monza, ecc.), fossero stati anche Renzo, Lucia ed in definitiva la
struttura portante del romanzo. C. POVOLO, Il romanziere, cit., pp. 123-127.
24
tranquille rendite di posizione, saliva alla superficie del dibattito un nuovo terreno di
confronto, molto più solido e concreto, meno sterilizzato e perciò stesso più
provocatorio: quello che rimettendo in discussione i ferri del mestiere proponeva
implicitamente una ridiscussione dell'idea di verità storica.
Non sarebbe difficile cedere alla tentazione di considerare tali intuizioni come una
sfida da cui difendere la dignità minacciata della propria autonomia scientifica.
Gareggiando nel metodo e forse anche fraintendendo gli scopi del lavoro, operare per
demolire dalle fondamenta tali ipotetici castelli dei destini incrociati. Tuttavia, ben
prima di tutto ciò, sembra a chi scrive che possa essere utile accettarne la suggestione
quale stimolo per non lasciar cadere incontri casuali cui ieri un ortodosso giudizio di out
of context toglieva irrevocabilmente ogni interesse. Va da sé che occorre uno
strumentario in parte nuovo per guardare in faccia quella che Remotti chiama
disumanità, analizzarne in maniera approfondita forme, contenuti, modalità e nel
contempo provare ad attrezzarsi con categorie e prospettive adeguate. Lo stesso studioso
del caso di Paolo Orgiano è consapevole di proporre, oltre il vincolo del già detto, una
possibilità36.
Colonizzazione e comprensione; fatti, discorsi sui fatti e ferri del mestiere; verità
allegorica e verità inventata; poi ancora vero, verosimiglianza e anacronismo nella
scrittura storiografica e narrativa ed infine presunto rigore scientifico ed insinuazioni
sulla pretesa fantasia manzoniana che ci riportano ai ferri del mestiere: queste sono le
parole chiave del discorso sin qui svolto. Cinque passaggi, bastano le dita di una mano
per enumerarne i termini.
3. Sono invece troppe le dita di una mano per contare i chilometri che dividono il
villaggio di Sossano da Orgiano, teatro delle scorribande della consorteria nobiliare
studiata da Povolo. Posto all'estremità orientale della catena di monti Berici di cui l'altro
villaggio si colloca al vertice occidentale, Sossano chiude a sua volta la val Liona: una
morfologia in cui un villaggio si specchia nell'altro. Gli sconfinamenti di Paolo Orgiano
36
E infatti profonde il maggiore sforzo più nel ricostruire i percorsi di persone e documenti d'archivio
nella seconda parte del volumetto, che non nel presentare le innumerevoli analogie fra le due vicende
esemplari della prima. Nel contempo neppure si sogna di negare altre possibili contiguità, ben
consapevole che è il tempo proprio ai contemporanei a costruirne le vicende. La differenza che
ipotizza sta nel dove (Venezia/Milano) e nel quando (trasferimento degli Archivi della Serenissima,
riorganizzazione del materiale ai Frari), conditi dal caso, che salva o distrugge, e dal tempo, che porta
a dimenticare. Interessanti al proposito le considerazioni finali, con le distinzioni mutuate in parte da J.
Bossy, su fatto, fatto storico, reale e vero. C. POVOLO, Il romanziere, pp. 128-131. L'autore ignora poi
del tutto romanzo ed analogie nell'utilizzare di lì a poco il medesimo spunto d'archivio per un
ponderoso lavoro storiografico; ID., L'intrigo, cit. Oggi nella carta turistica della provincia
all'itinerario delle ville palladiane sono affiancati anche i “luoghi ispiratori de ‘I promessi sposi’”
(Amministrazione provinciale di Vicenza, Carta turistica stradale e topografica, Vicenza s.d.), mentre
una casa semidiroccata identificata come quella di Paolo Orgiano, contigua alla celebre villa
Fracanzan Piovene, è stata dotata di adeguato cartello turistico.
25
sono rari, tanto che talvolta le sue vittime si trasferiscono proprio nel villaggio contiguo
per allontanarne la minaccia37; come dubitare che anche a Sossano vi sia negli stessi
anni un’altra consorteria nobiliare che ne controlla il territorio? C'è infatti, è quella dei
Loschi: nome di casata, si direbbe, programmatico.
Questo gruppo di nobili, avvalendosi di un piccolo esercito di satelliti (detti anche
bravi nel documento del 1626 da cui cito), fino al numero di trenta, terrorizza Sossano
ed i paesi limitrofi con ratti di donne, bastonature, ammazzamenti, assedi delle case di
chi ha osato resistere. I Loschi, oltre ad impedire matrimoni già concordati, incuranti
della particolare gravità del reato che si configura come crimen lesae maiestatis,
arrivano a sostituirsi al Principe nel trattenere in prigioni private chi li indispettisce e nel
bandire dal territorio abitanti sgraditi38. La loro politica ecclesiastica, per così dire, si
manifesta attraverso la bastonatura di frati e l'attentato alla vita di preti che
evidentemente non avevano curato di adeguarsi ai tempi, salvo poi donare
generosamente alla chiesa locale in testamenti non privi di ordinarie raccomandazioni
per l'anima39. Sicuri dell'impunità garantita loro dalle ricchezze, dalle aderenze e dalle
amicizie, arrivano a vantarsi delle proprie azioni, “poiché né li degani ardiscono dar le
denontie, né gl'offesi dolersi, né li testimonii deponer la verità sapendo esserne sicura
conseguenza la perdita della propria vita”40. Dalla denuncia del loro parente Scipione
Loschi risultano sette omicidi, quasi altrettanti tentati omicidi, quattro ratti di donne,
mentre rimane indefinito il numero delle vittime di percosse e minacce. E tutto ciò in un
villaggio che all'epoca conta poco più di 1.200 abitanti. Nel 1619 il podestà Alvise
Grimani denunciava essere avvenuti nel vicentino, nei 20 mesi del suo reggimento, 300
omicidi tra “casuali e dolosi”. I Loschi ci hanno interessato per la contiguità con l'altro
famoso consorzio nobiliar-criminale, ma innumerevoli e molto noti sono gli episodi in
cui sono coinvolte e le caratteristiche delle bande criminali che all'epoca imperversano
nella terraferma veneta41.
37 Consapevole delle morbose attenzioni del nobile, Fiore Bertola, la più coraggiosa vittima di Paolo
Orgiano, subito dopo il matrimonio lascia il proprio paese e si trasferisce a Sossano affittandovi un
casone. Di lì sarà comunque rapita nottetempo con uno stratagemma. C. POVOLO, L'intrigo, cit., p. 44.
38 L PRIORI, Prattica criminale, cit., p. 136.
39 ASVI, N, b. 9624, Testamento di Marc'Antonio Loschi rogato il 28.4.1624.
40ASVI, CN, vol. 273, ff. n.n. allegati al processo Cavaneis.
41 Gli abitanti di Sossano in REL p. 48, (Descrittione delle anime... allegata alla relazione del Podestà
Giulio Gabriel presentata al Senato il 27.10.1558). Il resoconto del podestà Grimani in REL, pp.
XXIV e 256. Un catalogo anonimo molto simile a quello descritto era stato recapitato nel 1618 ai
Dieci per denunciare i delitti dei Martinengo-Colleone: J. M. FERRARO, Family, cit., p. 147-148.
“Sono il conte Sesso/conte di Sandrigo/sono il Don Rodrigo/delle piccole città ” cantava qualche anno
fa un gruppo folk vicentino. Una rassegna degli episodi delinquenziali nel vicentino in G. B.
ZANAZZO, Bravi e signorotti a Vicenza e nel vicentino nei secoli XVI e XVII, «Odeo Olimpico» V
(1964-65), pp. 97-138 e VI (1966-67), pp. 259-279. Significativa al riguardo la testimonianza del
marchese di Bedmar (Ivi, V, p. 100): “Vicenza è città molto bella, allegra abondante e molto ricca per
esser li Vicentini molto facoltosi, ma però terribili, scandalosi et Homicidiarii, et in verità posso
affermare che lo Stato di Venezia non dà sudditi li più Sanguinari e Vindicativi per non dire Diabolici,
26
4. Pochi anni prima si era svolta a Vicenza una storia più modesta, sia perché aveva
toccato una cerchia più ristretta di persone e sia perché priva di effusio sanguinis. Nel
suo disporsi tutta sul punto di vista della periferia, ci offre una prospettiva di analisi sui
possibili rapporti con i rappresentanti del centro. Niente delitti e niente banditi, nessun
agguato e nulla suspance, la movimenta qualche palla di archibugio sparata d’impeto ed
il chiacchiericcio morboso che in provincia circonda donne disonorate. Sullo sfondo vi
sono tuttavia altre due potenti affinità: l'afflato del tempo e la contiguità con un'altra
intuizione letteraria del romanticismo ottocentesco, a sua volta più modesta, ma resa
celeberrima dalle arie verdiane. Una vicenda apparentemente privata e minima, e per ciò
stesso indegna di essere definita tragica, il cui protagonista la finzione scenica renderà
perfetto inventando, fino a prova contraria inconsapevole delle affinità, l'immortale
figura di Rigoletto.
Le facce di Giano, nume delle porte e degli inizi, presidiavano l'interno e scrutavano
l'esterno: ho voluto accarezzare le suggestioni letterarie per arrischiarmi a penetrare,
oltre il vallo che delimita il discorso storiografico criticamente attestato, le brume del
racconto. Un modo innocente, credo, per rendere sotto forma di testo il resoconto del
gioco di pazienza che mi ha appassionato e che ora sottopongo al lettore42.
_________________
delli Vicentini, delli quali niuno sicuramente si può fidare”. L'attenzione sul brano è richiamata da E.
FRANZINA, Vicenza, cit, p. 281.
42 Nel pensare ai titoli dei capitoli credevo il mio subconscio richiamasse Candido, o le vecchie letture
di Tom Jones, finché non mi è venuto in mente il gioco di pazienza. Mi sono reso conto allora che
l'origine di tutto stava in C. GINZBURG, A. PROSPERI, Giochi di Pazienza. Un seminario sul «Beneficio
di Cristo», Torino 1975. Eccone l'epigrafe: “ed è appunto supponendo tutto e scegliendo le congetture
più probabili che i giudici, le spie, gli amanti e gli studiosi indovinano la verità di cui vanno in cerca”
(Balzac).
27
Capitolo 2
Dove si illustra un documento apparentemente di scarsa importanza
la maldicenza insiste,
batte la lingua sul tamburo,
fino a dire che un nano
è una carogna di sicuro
(De André)
Agosto del 1612, una povera vedova denuncia ai presidenti del collegio vicentino dei
notai che: “Furono depositati ducati cinquanta ... appresso Nicolò Buso all'hora
all'officio delle condanne ... da esser levati per li eredi del quondam Francesco Fortuna”,
ma Nicolò li ha usati a fini personali ed infine li ha “malamente consumati”.
Dopo varie azioni legali, compreso un inutile mandato di cavalcata in quanto i
mobili che si intendeva in quella occasione sequestrare erano tutti assicurati sulla dote
della moglie, e Nicolò era fuggito, ne erano stati resi solamente 25. “Et perché questa è
una truffa solennissima commessa da persona pubblica”, la denunciante chiedeva di
essere “vendicata con esemplar castigo”43.
I notai collegiati si trovavano ad essere denunciati spesso per analoghi episodi44. La
querela non assume quindi particolare rilevanza in sé, ma in quanto si configura come il
punto di partenza di una più complessa vicenda che vede suo malgrado protagonista un
notaio tanto ambizioso quanto scarso di mezzi di fortuna, di bassa statura, gracile e
gobbo, con una moglie volitiva ed una giovane figlia che le fonti dichiarano essere
bellissima, figure entrambe che assumeranno un ruolo centrale nella vicenda. Nelle sue
azioni quotidiane, ai nostri occhi spesso arroganti e talvolta disoneste, egli si fa forza di
un preteso rapporto privilegiato con chi, rappresentante alieno di una superiore autorità,
incarna la posizione di vertice nella gerarchia politica cittadina; alla fine, scopertosi
umiliato ed offeso, denuncerà disperatamente le lusinghe con cui l'interessata
benevolenza del potere lo aveva ammaliato.
43 Quondam vale per del fu. “Mandato reale e personale, dicevasi nei tempi veneti al decreto
giudiziale, con cui si ordinava il pignoramento di mobili o beni del debitore, o il suo arresto personale
se la roba non bastasse a saziar il debito”, G. BOERIO, cit. La denuncia (8.8.1612) chiude il corposo
fascicolo processuale collocato in ASVI, CN, vol. 272, cc. 578-617, 1051-1052.
44 Per i disordini, gli abusi ed i reati commessi spesso impunemente dai notai, rinvio alle numerose
relazioni dei podestà vicentini, soprattutto dell'inizio del Seicento REL, p. 567. Nei libri inquisitionum
i processi per corruzione, concussione et similia sono preponderanti. Sul collegio vicentino dei notai,
G. BISAZZA, Notai tristi e notai sufficienti. Il ceto notarile di Vicenza tra Cinque e Seicento, «Società
e storia», 59 (1993), pp. 3-33, nonché dello stesso Il collegio dei notai di Vicenza nella seconda metà
del Cinquecento, tesi di laurea, Un. di Venezia, Fac. di Lettere e Filosofia, A.A. 1988-89.
28
Capitolo 3
Dove necessari collegamenti attribuiscono valore relativo ai fatti
Rigoletto: Atto I
(Rigoletto)
Che coglier mi puote? di loro non temo,
del duca il protetto nessun toccherà [...]
(Cortigiani)
Vendetta del pazzo! Contr'esso un rancore
pei tristi suoi modi di noi chi non ha?
Vendetta! vendetta! vendetta!
Per un anno e mezzo tutto tace finché, nel febbraio del 1614, viene avviato un
processo d'ufficio dai presidenti del collegio notarile perché, recita la formula latina,
“sono giunte alle orecchie dei presidenti informazioni circa l'incivile, disonesta e
sordida vita che terrebbe Nicolò Buso”.
Silvano Ferretto, che lo conosce da bambino (“da putello in suso”)45, sa che teneva
ridotto di carte con Claudio Della Volpe mentre “stava permezo [di fronte al] l'Hospitale
di Protti” e che ciascuno ne traeva un utile da otto a 10 lire giornaliere. I due avevano
litigato e, per risolvere la controversia, avevano nominato due comuni amici per trovare
un accordo. Lui stesso si era prestato come arbitro per il Della Volpe mentre il Del Buso
si era appoggiato al contestabile del podestà Zen. Ma i dissapori non erano terminati46.
Interrogato se sapeva qualcosa della condizione di vita della figlia di Nicolò “respondit,
tocandosi il capo: - ho sentito dire da diversi che teniva vita inhonesta”. Ora
l'interrogatorio si fa più serrato ed il testimone non ha esitazioni a dire che Ardencia
(così crede si chiami la giovane) aveva rapporti intimi con uno dei curiali del podestà
45
I Ferretto, famiglia di notai come i Del Buso, pur se di nobiltà relativamente più antica (GRUBB, La
famiglia, la roba, la religione, nel Rinascimento. Il caso veneto, Vicenza 1999, p. 253), hanno con
questi ultimi diversi rapporti sia economici che parentali (per quanto sia ortodosso all'epoca
distinguere i due aspetti); nella seconda parte del presente lavoro analizzaremo tali rapporti.
46 Sulle dispute, interessanti per le distinzioni metodologiche tra storia ed antropologia e gli stimoli ad
approcci criticamente avvertiti, T. KUEHN, Law, family and women: toward a legal anthropology of
Renaissence Italy, Chicago and London 1991, pp. 75 - 83 e passim; J. BOSSY (ed.), Disputes and
Settlements, Cambridge etc. 1983, in particolare S. ROBERTS, The study of Dispute: Anthropological
Perspectives, pp. 1 - 24; C. RADDING, Antropologia e storia ovvero il vestito nuovo dell'imperatore,
«Quaderni storici» 57 (1984), pp. 971 - 984 e C. WICKHAM, Comprendere il quotidiano, «Quaderni
storici» 60 (1985), pp. 839 -857. Quest'ultimo, partendo dalla constatazione che “Un antropologo non
si accontenterebbe oggi di studiare le udienze processuali quando volesse chiarire una disputa”, arriva
all'esplicito invito ad approfondire “tutti gli altri elementi di interazione sociale, tra le parti e i loro
alleati, prima, durante e dopo il processo, perché solo questo può renderlo comprensibile”. p. 849. I
consanguinei fino al terzo grado dovevano risolvere le loro divisioni attraverso il compromesso,
essendo impediti dagli statuti all'azione giudiziaria ordinaria. Quelli vicentini sono citati da E.
GARINO, Testamenti, testatori ed eredi a Lisiera. La pratica testamentaria in una comunità rurale del
vicentino nel XVIII secolo, in C. POVOLO (ed.) Lisiera, Immagini, documenti e problemi per la storia
e cultura di una comunità veneta. Strutture, congiunture, episodi, Bolzano vicentino 1981, I/729
29
Zen. Egli stesso l'aveva incontrata più volte travisata ed accompagnata da un uomo a
casa, e aveva sentito quest'ultimo anche parlare alla madre “prometendoli gran cose”.
Finora la testimonianza inchioda Nicolò alle sue tradite responsabilità di
capofamiglia e di aristocratico. Ciò che allo stato degli atti appare evidente è il suo
mancato controllo sui ruoli parentali a lui subalterni. La bisca, che viene accusato di
gestire, è funzionale invece a rivelarne il carattere plebeo: il suo cinico attaccamento al
denaro, la volgarità della condotta, la mancanza di onore. L'infamia che ne deriva
minaccia il prestigio dei notai di collegio all'interno della società civile vicentina.
Silvano ha sicuramente dei conti aperti con Nicolò, e la risposta all'ultima domanda, la
più insinuante, – Nicolò sapeva della figlia? – è lapidaria: Non poteva non sapere per
l'utile che gliene derivava, anzi, egli stesso l'aveva talvolta accompagnata al Palazzo
dove poi era stata vista trattenersi anche per 15 giorni consecutivamente. Del resto era a
tutti noto che la giovane, al congedo del podestà Zen, era partita con il suo seguito.
Silvestro Monegatta conferma che Nicolò gestiva una bisca ed insinua un rapporto
diretto con il podestà ed il contestabile47, funzionale alla dimostrazione della sua
complicità riguardo la “inhonesta vita” della figlia. Egli stesso credette di riconoscere
una notte mentre ritornava travisata alla casa paterna, poiché sotto al ferarolo indossava
un vestito da donna mentre il suo volto era nascosto da cappello e mantello. Lo stesso
ufficiale veneto aveva lasciato intendere che era la “Busa” e “che questa giovane li
valeva più di scudi dusento” che divideva col padre di lei. Quando poi il podestà, a fine
mandato, aveva lasciato la città, la giovane era stata aggregata al suo seguito di ufficiali
e non se ne era più saputo il destino. A specifiche domande rispondeva quindi di non
avere dubbi sul fatto che sia la madre che il padre sapessero, perché la figlia si tratteneva
nella residenza del podestà per diversi giorni senza rientrare a casa. La giovane aveva
avuto commercio con diversi ufficiali ed a conferma di ciò il testimone nominava due
informati servi del podestà.
Generiche convalide alle accuse già note fornivano Gaspare di Francesco Cittadella,
aromatario all'insegna dell'angelo e Fante Cestarolo, servitore del podestà Zen che una
volta ebbe l'incarico di portare un cesto ai Proti. Giorgio Testadoro aveva visto di
persona Nicolò “tirare le terze” al ridotto, mentre che la figlia facesse cattiva vita lo
sapevano tutti in città, figurarsi se il padre era all'oscuro! Conferme vengono anche da
due altri servitori del podestà, Antonio Rolandino e Bernardino Trevisan. Il primo però
47
Il contestabile era l'ufficiale che comandava la forza, eseguiva i sequestri e gli arresti, riscuoteva le
pene pecuniarie. Spesso tale attività, oltre che essere considerata odiosa in sé, veniva ancor più
disprezzata per la pressoché nulla dirittura morale di chi ricopriva la carica: concussioni ed ogni
forma di abusi, la cui impunità era garantita, non solo erano all'ordine del giorno, ma addirittura
esibiti. Vedremo in altre testimonianze come il solo fatto di frequentare il contestabile sia giudicato
infamante. Sulla poca stima di cui godevano i contestabili veneziani nelle città suddite di Terraferma, a
causa di ciò anche vittime di agguati mortali, e su molto altro ancora che riguarda gli ufficiali
subalterni dei rettori: G. CORAZZOL, Cineografo, cit., pp. 99-123.
30
lo conosce solo di nome “gli è stato detto essere gentiluomo piccolo”; il secondo, alle
dirette dipendenze del contestabile dello Zen, andava a prendere la ragazza e la portava
a “Corte”, là rimaneva due o tre sere, e poi la riportava a casa del padre che riceveva
qualche carro di legna, qualche mastello di vino ed altre cose “pertinenti al vivere”. Il
contestabile, senza parafrasi, diceva allora “di volerle mandar alla sua putana”. Molte
volte Nicolò si era trattenuto a parlare al suo padrone, spesso aveva accompagnato la
figlia e se ne era poi tornato a casa da solo. Ma non basta, altre infamie ancora lordano
Nicolò: Giovanni Pallavicini, notaio, informa i presidenti che un frate del convento delle
Grazie “ha afare con sua moglie et questo si dice pubblicamente” e pare anche ve ne sia
un secondo e i Del Buso ricevono pure da tale fonte legna e vino. Lo ha saputo da un
loro vicino di Contrà Canove (evidentemente i Del Buso hanno cambiato casa). Se
Nicolò sia a conoscenza del torto della moglie “non so che dire, né che credere, perché
questi sono secreti troppo importanti, né de questo particolare ne ho sentito raggionare
da alcuno che mi racordi”. Restano tre testimonianze, sono fondamentali perché con le
prime entrano in campo due rappresentanti di famiglie fra le più antiche e nobili della
città, ben al di sopra, per ricchezza e prestigio, dei Del Buso48. L'ultima è quella del
governatore delle Zitelle.
È certamente “cosa molto infame de un citadin” gestire un ridotto, ma Nicolò era
andato ben oltre, vendendo per 100 ducati l'onestà di una sua figlia al giudice del
maleficio in servizio al tempo del podestà Zuanne Zen e, quando il piccolo notaio si era
macchiato di una simile infamia, non c'era bozzolo49 che non parlasse di questo. Orazio
Scroffa ricorda infine che Nicolò godeva cattiva fama già da prima, visto che negli uffici
di Palazzo era solito togliere denaro dalle scatole senza darne parte ai colleghi.
Giacomo di Andrea Arnaldi era intervenuto presso i rettori delle Zitelle affinché la
secondogenita di Nicolò vi fosse ammessa. Ne era stato pregato dai genitori perché
“questa entrando in quel pio loco almeno sarà salva”, aveva detto la madre. Muove
quindi la volontà dei genitori qualcosa di molto più concreto della generica prudenza
del nobiluomo del XVII secolo per il quale “Le femine appena uscite dalla infantia si
chiudono in Monasteri esemplari, perché la Donna è una merce che ricerca una gelosa
custodia per essere facile da danneggiarsi”50. Ciononostante la madre l'aveva poi “tolta
fuori violentemente” perché, avrebbe in seguito riferito, non le pareva conveniente che
stesse chiusa a patire e non imparasse niente. Della figlia maggiore sapeva ciò che era
universalmente noto ma, faceva notare, quest'ultima andava “in ordine e pomposa”. La
famiglia si era da poco trasferita ad abitare in una casa centrale “di gran fitto”, mentre
48
Sugli Scroffa C. POVOLO, Polissena Scroffa, cit., pp. 221-233; sugli Arnaldi cfr.: J. GRUBB, La
famiglia, cit., passim.
49 “Radunanza d'uomini discorrenti insieme” G. BOERIO, Dizionario, alla voce.
50 Instruttione paterna d'Antonio Ottoboni N.V. a Pietro suo Figliuolo ... cit. in J. C. DAVIS, Una
famiglia veneziana e la conservazione della ricchezza: i Donà dal '500 al '900, Roma 1981, p. 153
(ed. or. 1975).
31
prima i Del Buso vivevano in una casa più piccola e Nicolò non ne usciva quasi mai per
paura di incontrare i suoi numerosi creditori51.
Ancora una volta la testimonianza, non saprei dire quanto inconsapevolmente,
insinua un ulteriore elemento di infamia che macchia il notaio: tra Florinda e Nicolò si
confondono i ruoli. La personalità debordante della moglie agisce fuori del controllo del
marito. Il governatore delle Zitelle è a questo proposito illuminante.
Luca Antonio Linarolo comincia a raccontare le difficoltà che i rettori del luogo pio
avevano frapposto all'ammissione: la giovane era molto bella e meglio sarebbe stato che
si fosse maritata; le insistenze dell'Arnaldi li avevano infine convinti. Ammessa, stette
“alquanti mesi sempre disperata... non si volse mai aquietarsi a voler tendere alle opere
d'Iddio, ma la notte chiamava il diavolo, et causa di questo ne era la madre” che la
voleva di nuovo a casa mentre padre e zio insistevano perché fosse trattenuta “sotto
bona custodia”. Il podestà lo aveva fatto chiamare ordinandogli di rilasciare la giovane
“per dar satisfatione a questa donna”. Egli aveva fatto presente che una simile decisione
non spettava a lui, poiché i capitoli della congregazione permettevano alle giovani di
uscire dalle Zitelle esclusivamente per sposarsi o farsi monache52. Alla fine si era
scomodato il Vescovo Dionisio Dolfin affinché fosse concesso alla povera madre di far
abbracciare i fratellini alla figlia. Ne era seguito il rapimento che, nonostante la
messinscena, si può supporre concordato. Quando negli uffici di Palazzo aveva
incontrato il padre questi “mostrò sentirne gran dolore et travaglio”, e con lui lo zio ed i
loro amici.53
51
ASVI, CN, vol. 272, c. 586v. Sul prestigio che dà la residenza cittadina, sia per la sua collocazione
che per l'architettura, G. LANTERI, Della economica, Venezia 1560, pp. 14-22, ripreso da J. M.
FERRARO, Family and public life, cit., p. 103. Il valore, oltre che simbolico, anche giuridico, della casa
dominicale, sede di immunità e di rappresentatività signorile, è suggerito da O. BRUNNER, Terra e
potere.cit., pp. 355-359.
52 Gli statuti delle Zitelle sono pubblicati in L. GIACOMUZZI, Influsso francescano su vita cristiana e
pensiero spirituale a Vicenza dal 1400 al 1600, Vicenza 1982, pp. 49-66.
53 Lo zio va identificato con Cesare Del Buso, l'ultima solidarietà familiare che resiste.
32
Capitolo 4
Dove si offrono conferme ed insinuano dubbi
Rigoletto Atto II
(Rigoletto)
Sì... la mia figlia... D'una tal vittoria...
che?.. adesso non ridete?.. (...)
Cortigiani, vil razza dannata,
per qual prezzo vendeste il mio bene?
1. Il 10 marzo 1614 Nicolò viene citato a comparire entro pochi giorni; il successivo
19 si presenta ai presidenti del collegio Vincenzo Colzè54, cognato e procuratore del
nostro, che chiede una proroga di otto giorni. Tornato da Venezia il 16 marzo, l'imputato
non può comparire perché teme di essere incarcerato per debiti. Gli vengono concessi
altri tre giorni.
Nicolò si presenta ai presidenti lunedì 24 marzo. Il lungo interrogatorio inizia in
modo interlocutorio ed il notaio, equivocando ad arte sulle cause della sua
convocazione, ha buon gioco nel rispondere evasivamente. Quando cominciano ad
insinuarsi imputazioni meglio definite, egli finge indignazione verso le calunnie cui
dice di essere fatto oggetto. Infine, di fronte ad un tale indisponente atteggiamento, i
giudici rivelano il contenuto delle accuse circostanziate ed incrociate a suo carico.
Messo alle strette, Nicolò risponde allora alle puntuali contestazioni con un'accorata
confessione che, pur riconoscendo colpe, chiama in causa la propria debolezza verso un
destino esistenziale fatto di impostura e tradimento.
L'estate precedente, all'epoca in cui aveva esercitato il suo ultimo ufficio alle camere
dei pegni privati, abitava in contrà Proti, in una grande casa che aveva affittato per
dividerla con i nipoti, eredi del fratello Cecilio. Siccome questi ultimi non lo avevano
poi raggiunto, egli era rimasto a viverci con la sua famiglia: sei figli, sua moglie e una
serva. Il grande edificio era stato prima occupato dal giudice del maleficio. Il canone
molto alto (70 ducati l'anno, gran parte dei quali doveva ancora pagare) lo aveva
costretto ad affittare il camino terreno, ossia la grande sala con focolare al piano terreno,
a Claudio Volpe che lo usava per dormirci e tenervi ridotto. Claudio stesso dava le
carte, ma egli non può sapere quanto guadagnasse. L'utile era dato, crede, dal noleggio
delle carte, in più chi vinceva “per loro cortesia” gli dava qualcosa ed inoltre si faceva
anche pagare le candele e la legna per il fuoco. Egli non era contento di avere sempre il
portone aperto di notte; gli era poi occorso di litigare furiosamente con Claudio per
avergli vinto 70 o 80 scudi “ladove esso mi prese odio dissemenando parole dishonorate
contra la mia persona che essendomi stato riferito lo licentiai”.
54 Cesare Del Buso, fratello di Nicolò, aveva sposato Alteria di Lunardo Colzè, dotata con 800 ducati,
nel 1599: ASVI, N, b. 9576, 4.8.1599; anche i Colzè erano notai.
33
Un giorno, mentre Nicolò era assente, Claudio aveva offeso sua moglie che si era
vista costretta ad affrontarlo con una spada ed a scacciarlo con l'aiuto di altri.
L'intermediazione di Vincenzo Poiana, a cui Nicolò si era dovuto piegare, aveva
riportato la pace e Claudio aveva continuato a gestire il ridotto. La somma di 15 ducati
avuta dal Poiana per affitti era però stata restituita quasi subito ad emissari del conte in
quanto il Della Volpe non aveva più inteso continuare con l'attività in casa sua “et io
non volevo darglili, pure non volendo consendere con esso Poiana come mio maggiore
mi risolsi dargheli”. I conti Poiana, il cui enorme palazzo di San Tommaso in Berga
confinava con quello, molto più modesto, dei Del Buso, erano intervenuti ancora a
controllare i conflitti della famiglia contigua imponendo atteggiamenti conciliatori. Nel
giugno del 1601 Cesare, fratello di Nicolò, aveva subito un furto in casa e, identificati i
colpevoli, non aveva potuto avviare l'azione giudiziaria contro di loro per essersi
interposti Alessandro Poiana ed altre persone “dalle quali è stato astretto esso Cesare a
contentarsi del pagamento de ducati cinquanta, se ben le robe li mancavano erano et
sono di magior valore et importanza”55.
Lo spazio al piano terra era stato poi affittato a cinque ducati al mese a due individui
che continuarono ad esercitare il ridotto fino a che uno non fu ammazzato e l'altro, in
modo non meglio precisato, “morse”. L'unico interesse dell'imputato nell'affare, cosa
che Nicolò ribadisce con forza, era l'affitto.
A questo punto vi è il passaggio di livello dell'interrogatorio ed è utile riportare anche
le domande che vengono poste. Gli viene chiesto se ha figlie. “Così non ne havessi, che
pagheria un ochio per che ne ho quatro di femine et due di maschi”; le prime due hanno
18 e 16 anni, tutte abitano con lui e alla domanda se stiano sempre in casa risponde
stizzito “Ove volete che vadino?”.
Non ha mai frequentato il contestabile del reggimento passato, una volta gli aveva
dato 70 lire affinché non molestasse Claudio nel ridotto ed allora si era fermato a
mangiare. Ciononostante costui “ci assassinò perché vene nel camino due o tre volte con
la sbiraria”, cosicché si dovette chiudere, anche perché i presidenti del collegio notarile
in carica all'epoca lo avevano convocato per far smettere il traffico di giocatori alla porta
della sua casa. Gli era stato detto che, se avesse voluto continuare, avrebbe dovuto aprire
un passaggio alternativo più defilato. Egli di questo non si sarebbe curato “quando non
havessi havuto paura della Giustitia”.
55
ASVI, N, b. 9576, 5.6.1601 per Cesare; ASVI, CN, vol. 272, c. 601 per Nicolò. I Poiana sono
maggiori dei Del Buso non solo perché appartengono al gruppo di famiglie di antichissima nobiltà,
ma soprattutto per l'enorme distanza che, in termini di ricchezza, intercorre fra i due lignaggi. Per
esempio nel campione d'estimo del 1579 gli eredi di Andronico (fra i quali è Nicolò) sono iscritti per
10 soldi, quelli di Bonifacio Poiana per 14 lire 17 soldi 6 denari, quelli di Nicolò Poiana per 16 lire 2
soldi 6 denari. Nicolò nel 1621 è allibrato per 5 soldi. ASVI Estimo, b. 7, c. 14v; b. 9, c. 20r.
34
Interrogato se la figlia maggiore fosse mai stata in casa del contestabile di giorno o di
notte, rispose “Signor no et quelli che lo dicono si mentono per la gola”. Alla domanda
se il contestabile fosse mai stato a casa sua: “Io mi maraveglio! Besogna che io habbi
persone che mi vogliano molto malle a dir di queste busie et falsità! Ne lo è stato mai se
non in quel caso con li zaffi e può esserli anco stato un'altra volta per essequire contro di
me un mandato di cavalcata ... ma io no lo so per certo perché no ero a casa”.
L'interrogatorio si fa via via sempre più serrato ed incalzante, gli viene chiesto se abbia
mai ricevuto vino e legna dal contestabile e se abbia avuto confidenza e frequentazione
con il giudice al maleficio precedente. Nicolò nega ed anzi lamenta un torto subìto dal
momento che, a fronte di una querela per truffa, ne era stato offeso (“me disse gobbo
becco fotù”) ed incarcerato. Sa che a sua figlia Ardemia il contestabile regalò una
carpeta? Rispose “questo non è vero, ma io son perseguitato”56.
I presidenti, indispettiti, a questo punto sbottano: come si permette di negare tutto
ciò che gli è stato opposto, che risulta chiaramente da testimoni degni di fede oltre che
dalla pubblica voce e fama che corre per tutta la città?
Nicolò ha un tenore di vita licenzioso, dimentico della condizione e dell'onore di
notaio pubblico. Egli ha gestito una bisca in casa sua, tirato le terze e diviso un “così
pernicioso et inhonesto guadagno” con Claudio Dalla Volpe. E quel che più conta è
stato veduto con un suo figlio più volte passare ore con il contestabile; e sua figlia è
stata vista in camera del maestro di casa del podestà precedente, e il contestabile si
vantava che fosse la sua puttana, che gli costava oltre 200 ducati e che condusse con sé,
partendo dal reggimento, d'accordo con lui e sua moglie. Tutti sanno che la giovane ha
avuto commercio anche con il giudice del maleficio, a sua volta visto di notte in
compagnia di Ardemia, sentito contrattare e fare grandi promesse alla madre. Nicolò
stesso l'ha poi passata anche ad altri tanto che i governatori delle Zitelle, “avedendo che
voi et vostra moglie tenivate così poco conto del vostro sangue”, decisero di levar loro
la figlia mezzana, ma lui e la moglie avevano sollevato un tale polverone che alla fine
erano riusciti con la forza a toglierla dal luogo pio. Testimoni affermano che la stessa
moglie di Nicolò ebbe “commercio” con un frate delle Grazie “constando tutte queste
cose così come vi sono state opposte ... farette bene a confessar la verità”.
2. Nicolò cede e dichiara di voler “racontar la cosa come sta”, invocando su tutti la
protezione di Dio da nemici spietati, fra cui non dimentica di insinuare vi siano molti
colleghi, e da una cattiva moglie. Tutto era cominciato con una intimazione del podestà
Zen affinché restituisse i 50 ducati avuti in deposito mentre era notaio dell'ufficio della
raspa (il registro in cui si trascrivevano le sentenze penali). Egli, visto che i mobili di
56
Gonnella: cfr. G. BOERIO, Dizionario, alla voce. Il regalo del capo di abbigliamento alla nubile da
parte di estranei ha grande significato simbolico, da qui l’indignata reazione di Nicolò.
35
casa erano assicurati sulla dote della moglie57, aveva deciso di nascondersi sul sagrato di
San Tommaso in casa del gastaldo delle monache per sfuggire il carcere e là si era
trattenuto otto notti mentre Florinda aveva tentato un'azione per farlo tornare libero.
Quando la donna gli si era presentata davanti al podestà per perorare la causa del marito
quest’ultimo, si direbbe piuttosto irritualmente, l’aveva fatta sedere al suo fianco ed
aveva subito chiesto informazioni su una figlia di cui aveva sentito decantare la
bellezza. Se gli avesse consentito di vederla, avrebbe ottenuto da lui ogni favore e così
“mia moglie, quale è così terribille che non la posso governare”, si accordò col nobile
veneziano. La sera stessa, mentre Nicolò era ancora nascosto a San Tommaso, il
podestà si era recato all'appuntamento accompagnato dal contestabile ed altri.
Atto II
(Rigoletto)
Ah! ella è qui dunque!.. Ella è col Duca!..
Ventiquattr'ore dopo le stesse persone non si erano accontentate di discorrere, ma si
erano portate via la giovane trattenendola fuori casa per tre notti. Il podestà Zen lo
aveva “sì fatalmente assassinato” perché, dopo averne abusato, la aveva “messa sotto” al
giudice del maleficio, al contestabile e forse anche ad altri, “si per scolpar se stesso si
anco per esser pover homo e fuggir da assumer le promesse che haveva fatto a detta mia
figliola et moglie”.
Passati tre giorni Florinda lo aveva raggiunto nel rifugio di San Tommaso
invitandolo a ritornare a casa perché, diceva, il podestà gli garantiva l'incolumità. La
sera stessa, “su le due hore di notte”, aveva sentito battere alla porta; la figlia più piccola
era andata ad aprire ed egli aveva sentito sulle scale un passo pesante; stava salendo in
casa uno sconosciuto finemente vestito. Si trattava di un gentiluomo che veniva a
parlarle con lo scopo di aiutarlo, così la moglie gli aveva motivato l'invito a ritirarsi in
granaio. Fermatosi a mezza scala per sentire, quasi subito era stato chiamato di sotto.
L'uomo si era rivelato essere il podestà di Vicenza “et li vidi le vesti rosse sotto una
romana di ermelino”58.
57
In questa circostanza egli stesso inconsapevolmente denuncia per la prima volta la sua cinica
spregiudicatezza: i beni non gli possono venire sequestrati perché di fatto appartengono alla moglie la
cui dote, a ragione di statuti, non può essere mai intaccata per sanare debiti del marito. Solo dopo un
eventuale accoglimento da parte del podestà veneziano di una espressa supplica della donna a
venderli, i beni assicurati alla dote possono essere alienati per liberare il marito di prigione o per
alimentare sé ed i figli nel caso non esistano altre risorse economiche in famiglia. JMV, c. 154; A.
LORENZONI, Instituzioni del diritto civile privato per la provincia vicentina, Vicenza 1785, vol. 1/II, p.
30.
58 “Sorta di veste o abito lungo di color nero che ... usavasi dai pubblici rappresentanti veneti, come
abito di mezza comparsa in certe funzioni.” G. BOERIO, Dizionario, alla voce. La veste rossa del
podestà veneziano, sotto la romana, è il suo scudo maiestatico: G. CORAZZOL, Cineografo, cit., p. 74,
77.
36
(Gilda)
Ah l'onta, padre mio...
(Rigoletto)
Cielo! Che dici?
(Gilda)
Arrosir voglio innanzi a voi soltanto...
Lo Zen non si perde in preamboli, invita Nicolò a rassegnarsi al fatto compiuto e
promette di dotargli la figlia molto più riccamente di quanto lui mai potrebbe (“il malle
è fatto ... indotterò de mille ducati la putta”)59. Gli chiede di dichiarargli i suoi debiti e,
sentito che in totale Nicolò non deve pagare più di 120 ducati a vari creditori (compresi i
50 trafugati dalle casse pubbliche) “lui disse questa è una fiaba; non ne dubitate che io
ve ne voglio pagar” e fra le mille altre promesse lo lusinga con l'assicurazione del posto
di cancelliere nel mandato seguente al vicentino, ventilandogli la possibilità di diventare
ufficiale del futuro podestà di Treviso.
Il piccolo notaio, a cui forse mancano molte qualità virili, ma non certo l'ambizione, è
tramortito e, considerando “al mio statto et che de già il malle era seguito, tratandossi
de personaggio talle che era podestà in questa città, non seppi far altro se non andar con
le bone et dirli che mi meteva nelle sue brazze racomandandoli mia figliola”. L’amara
esperienza gli ha tuttavia insegnato che Zuanne Zen è un uomo senza onore: non ha
dotato Ardemia, né le ha trovato marito e le ha regalato soltanto pochi capi di
abbigliamento, una collanina di scarso valore, uno o due sacchi de farina e un mestello
di vino.
Forte delle lusinghe, il podestà andava da Ardemia giorno e notte e lì pranzava e
cenava “et ogni pasto mi costava dieci o dodici lire oltre la carne che lui mandava
perché li stava anco il contestabille”. Ad un certo punto Nicolò aveva cominciato a
sollecitare il mantenimento della promessa di matrimonio, l'altro però aveva continuato
a differire bonariamente finché, una notte, non si era trovato la porta dei Del Buso
sprangata (e questo era stato il vero motivo per cui si era chiuso il ridotto, la necessità di
impedire l'entrata in casa dei mangiaufo). Ne era nato un putiferio e Nicolò aveva anche
sparato tre archibugiate all'indirizzo dello Zen e del suo seguito, tanto che il podestà
aveva subìto l'umiliazione di lasciare una sua pantofola nel fango della strada. A mente
fredda era poi intervenuto il molto fondato timore di una rappresaglia da parte del
nobile veneziano e così, astutamente, il piccolo notaio aveva fatto girare la voce che a
sparare fosse stato un suo cognato bandito. Costui, temendo di trovarsi faccia a faccia
coi suoi nemici, aveva sparato per paura. La scusa era servita a pacificare la parte lesa,
59 Le doti assegnate alle figlie dei Del Buso in questo periodo si aggirano mediamente sui 500 ducati,
pagati agli sposi con lunghe rateazioni.
37
ma “bisognò che io mi contentassi di lassarlo continuare a venire in casa mia da detta
mia figliola”.
Atto III
(Rigoletto) (da sé)
(Dio tremendo! ella stessa fu côlta dallo
stral di mia giusta vendetta!..)
(a Gilda)
Angiol caro, mi guarda, m'ascolta ... parla,
parlami, figlia diletta!
Alla fine, contro la volontà dei genitori, Ardemia era stata condotta a Campo Nogara
tre mesi prima della partenza dello Zen dal reggimento; era poi giunta voce ai Del
Buso di come la figlia venisse maltrattata, che l'ex podestà “anco ne faceva mercantia” e
che era gravida. La coppia si era allora recata a riprenderla perché i due sospettavano
che la giovane fosse anche stata avvelenata per non doverle alla fine pagare la dote
promessa. Da Venezia avevano finalmente riportato a casa la ragazza incinta di otto
mesi.
Egli aveva sempre stimato sua moglie fedele, ma poi aveva dovuto piegarsi davanti
all'evidenza della sua relazione con un frate delle Grazie da cui andava a confessarsi nel
periodo in cui abitavano ai Proti. L'altra sua figlia, poi, era stata posta alle Zitelle a
seguito della loro richiesta, tramite la madre di Giacomo Arnaldi che ve la aveva
condotta con la sua carrozza. Ma quando Zuanne Zen, non pago “di avermi fatto il
scorno suddetto”, aveva comunicato che era sua intenzione portare con sé Ardemia a
fine mandato, allora Florinda si era ribellata: o le lasciava la figlia, oppure le faceva
restituire la secondogenita per non voler restare senza almeno una di loro. Per
assecondare la donna, il podestà aveva convocato il governatore del luogo pio “et con
parole orgogliose li disse che si dovesse rissolvere di lassar venir fuori quella nostra
putta altramente che, non essendo quel loco sacro, l'haveria fatto gitare a terra”, e che ve
l'avrebbe presa con la forza; fu così che la porta fu lasciata aperta e sua moglie infine
poté condurla a casa. Per non smentirsi il podestà promise di emettere una sentenza a
favore delle Zitelle in una causa che opponeva il luogo pio ai nobili Somaglio, ma poi
gliel’aveva emessa contro “dicendomi doppo – io li ho coglionati – quasi gloriandossi di
così bel tiro”.
L'uomo ha terminato la sua lunga confessione; la parola torna ai giudici, e le ultime
domande sembrano di scarsa importanza. Gli viene chiesto quando lo Zen abbia
incontrato per la prima volta sua figlia e lui confessa candidamente il fatto essere
avvenuto mentre abitava la casa di famiglia a San Silvestro. Nega poi che il giudice del
maleficio sia mai stato a casa sua. Richiestogli di dire chi siano i notai collegiati che
crede complottino contro di lui, risponde che per discrezione e per evitare altri guai
38
preferisce tacere i nomi di coloro nei confronti dei quali nutre sospetti, perché non vuole
incolpare senza essere certo delle circostanze.
L'interrogatorio finisce con un ammonimento che è già un anticipo di condanna, del
resto ben difficilmente si può immaginare che, dopo essere stato costretto alla
confessione, Nicolò possa aspettarsi di uscire indenne dal processo. Non sembra
confidare in aiuti provenienti dall'esterno, ma forse si illude di poter subire una pena
mite; egli pare sicuro di avere dimostrato la sua buona fede essendo caduto suo
malgrado in un ingranaggio che ne ha stritolato la possibilità di reazione. Ma anche su
questo versante i presidenti lo deluderanno.
Non può scusarsi per non aver saputo, dopo che egli stesso ha confessato di aver
“assentito alla proposta inniqua, infame et odiosa fattavi dal detto podestà ladove era
debito vostro piutosto lassarli la vitta che passarla senza farne ressentimento
grandissimo”60. Il collegio avrebbe tutelato la propria onorabilità con una decisione
conforme agli Statuti. Infine gli si concedeva una settimana per produrre scritture
difensive.
Laconicamente Nicolò concludeva richiamando la propria tardiva conoscenza della
vicenda e la sua debolezza fisica “ben notta a tutti che non mi posso movere”. Insinuava
infine il dubbio che fosse stato lo stesso Zen a sollecitare Orazio Scroffa, “a cui ho
mandato alcune esecutioni per il che è restato mal affatto della mia persona, havendo
disseminato molte parole di fare et dire contro di me”, ad avviare l'azione disciplinare
contro di lui.
Le sue difese, che avrebbero dovuto discolparlo, lasciano nel lettore non poche
perplessità. Il 26 marzo, due giorni dopo l'interrogatorio, Nicolò ritorna dai suoi giudici
e consegna loro un mazzo di otto lettere a lui indirizzate, sette scritte dall'ex podestà ed
una di mano del suo cameriere. La prima speditagli nel dicembre del 1613 e le ultime il
12 ed il 22 marzo appena trascorsi, quindi dopo l'avvenuta convocazione dei presidenti
il collegio. È sicuro che la loro lettura convincerà i giudici della sincerità del suo
costituto, confermando che egli non aveva rapporti né con il contestabile né con il
60 Ecco l'afflato retorico del tempo: da tutte le posizioni di forza si ha buon gioco nel rinfacciare le
debolezze, la mancanza di eroismo o di santità, salvo poi magari trasformarsi, quando in altre relazioni
le gerarchie si modificano. Sembra di ritrovare il Cardinale Federigo che rimprovera Don Abbondio
per la sua codardia alla fine del capitolo XXV; anche la risposta di Nicolò, se fosse Manzoni a
scriverla, potrebbe essere la medesima: “–Torno a dire, monsignore, ... che avrò torto io ... Il coraggio,
uno non se lo può dare” (A. MANZONI, I promessi sposi, cit., p. 559). Ma il piccolo notaio, che una
volta il giudice del maleficio ha chiamato gobbo, cornuto e fottuto, ha già risposto: il coraggio non
c'entra niente di fronte a gerarchie e rapporti di forza così pronunciati, a distanze così profonde. Finora
l'errore di Nicolò sembra essere quello di aver voluto entrare nel cono d'ombra dei potenti per poterne
approfittare a proprio vantaggio. Ma il prezzo del favore si era presto dimostrato pesante: il ricatto e la
dura punizione per i suoi altrimenti sopportati maneggi da retrobottega. Non è poi irrilevante il fatto
che la sua misera vicenda si consumi in anni pieni di tensione, come vedremo più avanti.
39
giudice del maleficio e che quindi i testimoni d'accusa erano mendaci “et che hanno
voluto portar rispetto a detto Signor Zen”.
Le perplessità riguardano il contenuto delle prime sei lettere; l'aristocratico veneziano
vi si esprime in tono amichevole, rammaricandosi dei guai di Nicolò e offrendo un
generico appoggio “dove potrò favorirvi come ho fatto sempre non mancherò”. Niente
di compromettente o che riveli un coinvolgimento, al di là della strana raccomandazione
contenuta nella prima, in risposta evidentemente alla richiesta di Nicolò di potergli
scrivere ancora, di spedirgli la corrispondenza all'indirizzo che gli fornisce, indicando il
nome del destinatario ma evitando di dire che fu podestà a Vicenza (4.12.1613).
Acclusa alla terza, del 6 febbraio 1613 more veneto (cioè 1614), invia dieci ungari
per liberare il notaio di prigione, rimproverandolo che dei suoi guai non può che
biasimare se stesso. Appena libero lo consiglia di raggiungere Venezia “che si torà la
fiola per li mesi quattro et mi consiglierete delle cose vostre”. Una lettera indirizzata a
Florinda comunica la disponibilità a riceverla a Venezia con il marito o la massara il 26
febbraio. Zen invia altro denaro il 5 marzo.
A tali brevi e generiche comunicazioni seguono, ben più lunghe ed articolate, due
lettere scritte dopo l'avvenuta convocazione di Nicolò.
Il 14 marzo l'aristocratico veneziano dapprima si duole dell'ulteriore disagio
provocato da un fatto accaduto in Duomo a Florinda (che non conosciamo, ma che
immaginiamo ancora una volta clamoroso); dichiara candidamente di non aver
provveduto a scrivere le lettere richiestegli perché vuole essere più documentato ed
infine raccomanda il silenzio sulle vicende che riguardano Ardemia, promettendo in
cambio vari favori, fra i quali l'aiuto per un trasferimento della famiglia di Nicolò a
Venezia, vista l'aria irrespirabile che tira per i suoi componenti a Vicenza.
Evidentemente incalzato dal montare dell'ansia di Nicolò il 22 e 23 marzo l'ex
podestà scrive l'ultima lettera. Egli ha parlato ad un notaio vicentino presente a Venezia
che solleciterà il collegio a non molestarlo, considerato anche che i notai di Vicenza
hanno in quei frangenti di tempo bisogno di appoggi a Venezia61. Ha fatto intervenire in
suo favore anche il cancelliere ed un altro personaggio, Fabio Mosto, al fine di indurre
Orazio Scroffa, con pressioni a suo nome, a desistere dal perseguitarlo.
Si potrebbe di primo acchito pensare che Nicolò intenda condizionare il giudizio a
suo carico con l'esibire il rapporto clientelare che intrattiene con il nobile veneziano, ed
il contenuto delle ultime lettere effettivamente fa intendere che egli in tale direzione si
61 Toccheremo più avanti il complesso problema dei rapporti conflittuali tra Comunità e Collegio;
basti dire che in quel torno di anni vengono combattute decisive battaglie in materia di riforma del
Collegio, di gestione burocratica degli uffici e di archivio delle scritture, di riconoscimenti di
esclusività ai notai di Veneta autorità contro i notai imperiali, di rappresentatività e prestigio sociale
del Collegio nei confronti del resto dell'aristocrazia cittadina.
40
fosse inizialmente mosso, ma in seguito alla confessione sappiamo quanto ben
diversamente stiano le cose. Il suo scopo, dopo essersi amaramente lamentato
dell'ipocrisia di chi credeva lo proteggesse, sembra essere quello di dimostrare un
rapporto esclusivo tradito, che la sua sensibilità fa apparire il punto decisivo, anche se
non si colgono mai elementi escludenti le altre figure che egli è accusato di aver
frequentato nei suoi “inhonesti” traffici.
Nonostante lo stesso Nicolò giunga infine a dire esplicitamente che proprio nella
figura dell'ex rettore egli identifica il più subdolo dei suoi nemici, va fin d'ora
sottolineato che la marea monta contro di lui dopo che Zuanne Zen, da podestà di
Vicenza, è ritornato ad essere un lontano patrizio veneto le cui relazioni a Venezia ed a
Vicenza non paiono spaventare i giudici. I presidenti sembrano infatti avvertire che
molto difficilmente una qualsiasi azione sarà messa in atto a difesa dell'inquisito.
Nicolò Del Buso verrà quindi senza remore giudicato con la massima severità: la
pena comminatagli sarà la cancellazione perpetua dalla matricola. Il suo nome viene
depennato il 27 marzo del 1614 e, ironia della sorte o cinismo dei tempi, è sostituito da
Pietro del fu Battista da Mosto, forse un parente del notaio indicato nell'ultima lettera
dello Zen come fedele peroratore della sua causa.
Quasi cinque anni dopo, continuando a proclamarsi innocente vittima di “paliate
insidie” subite da chi credeva amico al tempo in cui la malattia gli impediva di
difendersi e rendendo noto di essere riuscito a ristabilire l'onore della “sfortunata sua
casa”, presentava una supplica al fine di essere reiscritto in matricola. La continua
minaccia alla pace domestica portata da Florinda, terribile moglie, era finita con la
morte ed egli aveva onorevolmente sposato due figlie mentre una terza era stata
collocata nelle Zitelle. Incidentalmente si ricorderà che le figlie dovevano essere quattro.
Se la supplica fosse stata accolta, come egli rammentava essere già in passato avvenuto
con altri, egli avrebbe potuto mandare a scuola di notariato i suoi due figli e risollevare
il proprio animo nei pochi anni che gli restavano da vivere.
Il 20 dicembre 1618 la richiesta sarebbe stata respinta.
3. Rigoletto-Tribaudet62 è un personaggio romantico a tutto tondo: gobbo e informe,
ma forte della pretesa protezione del duca di Mantova (Hugo ambienta il suo dramma
nella Parigi del licenzioso Francesco I, ma i suoi strali si rivolgono contro Luigi Filippo,
il re borghese). Il più vile fra vili, forte con i deboli e debole con i forti, approfitta del
suo ruolo di buffone per beffeggiare i cortigiani caduti in disgrazia. Ciò fino a che lui
stesso non subisce l'atroce scorno della profanazione della figlia da parte del duca ed il
62
Tribaudet è l'alter ego di Rigoletto (1851) nel dramma di Victor Hugo Le roi s'amuse (1832), che
ne è la fonte.
41
tragico ritorcersi della sua vendetta contro l'affetto che gli è più caro. La vicenda è stata
immaginata da Hugo in una corte rinascimentale, luogo immaginifico di cinismo ed
intrighi.
Certo si esagererebbe a dire che Nicolò Del Buso è un personaggio storico, tenuto
conto del peso di un simile aggettivo63. Lo accomuna al buffone reso immortale dalle
arie verdiane l'aspetto fisico, con tutta la carica simbolica che la società preindustriale
attribuiva alle gobbe e ad altri scherzi di natura, ed il fatto di cadere per essere entrato
nelle mire del potente di turno a causa di una figlia che ne alimenta gli appetiti carnali.
Ma il duca di Rigoletto deve pagare con la vita l'offesa perché il gobbo è un personaggio
che può permettersi di progettare la terribile ritorsione: la sua idea di onore è
anacronisticamente cavalleresca. La vendetta di Nicolò si consuma davanti ai suoi
giudici ed è tutta racchiusa nello sfogo con cui definisce il podestà un “pover'huomo”
che non mantiene le promesse, che trama alle spalle di chi gli si crede amico e che
quindi non ha onore. Alla rabbia istintiva che lo spinge a sparargli la notte della
chiassata segue il terrore della vendetta e la conseguente ricerca di una conciliazione.
Ottenutala, si vede tornare all'umiliante situazione precedente credendo che il podestà
sia sincero quando dà a vedere di aver dimenticato. Egli non sarà mai un cortigiano,
posizione a cui si può immaginare aspiri per esercitare quello che la nostra sensibilità fa
definire il suo cinismo a più ampio raggio. Come Rigoletto-Tribaudet, egli è il topo con
cui il gatto gioca. Di ciò un uomo accorto dovrebbe essere avvertito. – O questa o quella
per me pari sono – canta ben prima che si consumi il dramma il duca di Mantova: il
vedovo Rigoletto ne è consapevole e tiene nascosta la figlia, Nicolò fa credere di essere
vittima delle avverse circostanze e di una moglie terribile. L'epilogo delle due vicende si
potrebbe sovrapporre, solo nell'alto registro drammatico del padre che abbraccia
straziato il corpo senza vita della figlia da lui stesso involontariamente fatta uccidere,
torna in Rigoletto l'intensità lirica che un Nicolò povero ed abbandonato, con una figlia
prossima al parto, non può raggiungere.
Contrariamente all'odio cieco di Rigoletto, il risentimento di Nicolò ci sa mostrare il
re nudo, facendolo scendere dalle altezze siderali che dovrebbero renderlo inattingibile.
L'abbigliamento di Zuanne Zen non solo non ne costituisce lo scudo maiestatico, ma
anzi ne amplifica la modestia umana. La mula è perduta nella fuga notturna, ed il nobile
veneziano fugge scalzo alle archibugiate del notaio; il rosso dell'abito che lo distingue è
travisato dalla romana di ermellino che lo copre, e Nicolò dimostra di non riconoscerlo
quando compare per la prima volta in casa sua. Florinda fatta sedere al suo fianco e
quasi abbracciata nell'udienza pubblica in cui la donna perora la liberazione del marito
divengono eloquenti esempi di pochezza. Zen è un pover'uomo che scrocca i pasti, che
63
Lo sono Francesco I e Federico Borromeo, ma lo è Fiore Bertola (alias Lucia Mondella) che
coraggiosamente denuncia le violenze di Paolo Orgiano?
42
promette e non mantiene e che subito agisce in modo abbietto per liberarsi dalle proprie
responsabilità, che nelle lettere promette favori in cambio di omertà ...
Confesso che non ho fatto molto per verificare il giudizio della pretesa vittima. Gli
Zen discendevano direttamente da Noè (come tutti noi, qualcuno sarebbe tentato di
suggerire maliziosamente al genealogista); giunta in Italia con Enea, la famiglia era
stata una delle consolari a Roma. Fra i molti presenti a Venezia il suo ramo, Dai
crocichieri, aveva avuto come capostipite Antonio a San Faustin (1384), Zuanne era
nato da Zuan Franco nel 1571, aveva quindi tre anni meno di Nicolò. Nel 1599 si era
sposato con Marietta Zorzi e nel 1606 gli era morto il padre. Dopo l'incarico a Vicenza
avrebbe raggiunto l'apice della carriera con la podestaria di Verona e sarebbe morto a
soli 55 anni, nel marzo del 1626. Nella genealogia da cui cito gli sono attribuiti tre figli
maschi chiamati il primo naturalmente Zuan Franco come il padre (nato nel 1605) e gli
altri due Vincenzo (1614-1659) e Nicolò (nato probabilmente nel 1623). Il primo ed il
terzo sarebbero morti in guerra nel 1644 e nel 1646, Vincenzo avrebbe garantito alla
famiglia un'ultima generazione che si sarebbe estinta, paradossi del destino, con Nicolò
(1658-1707). Va sottolineato come nella linea dell'albero genealogico ascendente da
Zuanne appaia un Vincenzo, ma nessun Nicolò, la cui origine può essere tuttavia
riferita al nome del suocero. A Venezia sono conservati 19 dispacci di Zuanne ai capi
del Consiglio dei Dieci dettati nel periodo in cui fu podestà a Vicenza. Null'altro che
l'ordinaria apprensione per l'audacia di sanguinosi banditi e le conseguenti azioni messe
in campo per reprimerli vi emerge. Fra gli inquisiti si leggono i nomi di Roberto ed
Antonio Della Volpe, di Orazio e Leonardo Zugliano, famiglie entrambe che compaiono
ripetutamente nella nostra storia, vi emerge infine molto chiaramente la tensione tra
l'autorità della capitale ed il consiglio di Vicenza.
Il notaio vicentino ad un certo punto si fa convinto che, a causa di quanto ha dovuto
accettare, può contare sulla complicità del podestà. E soprattutto crede di poter
approfittare di ciò per accelerare la propria scalata sociale. In realtà la condivisione di
responsabilità nella deflorazione di Ardemia, che lo Zen allarga ai suoi ufficiali, va
chiaramente nella direzione di allontanarlo da un troppo stretto rapporto col notaio. Il
rettore veneziano accetta di coprirne fino ad un certo segno le illegalità e lo ricompensa
anche per sanzionarne simbolicamente la subalternità. Forse è la sua ostentata, ancorché
falsa, bonomia ad ingannare. Nicolò gli si affida per non poter rispondere
onorevolmente alle offese subite dalla figlia, ma con l'andar del tempo ha l'ardire di
sollecitare il mantenimento delle promesse di dote, arrivando persino a sparargli contro:
cose che un aristocratico non può dimenticare prima di essersi vendicato.
Nicolò dovrebbe ben sapere che nelle ipotesi più fortunate la scalata sociale dura
diverse generazioni, attraverso le quali anche le più elevate qualità personali non
possono non interagire con la solidarietà familiare, il gioco delle alleanze matrimoniali,
43
la fortuna economica, l'ascesa negli studi, le congiunture demografiche e quant'altro:
tutti elementi che devono tendere costantemente nella medesima direzione. Il singolo
che si illudesse di accorciare il percorso, quali che fossero gli stratagemmi messi in
campo, sarebbe quasi certamente destinato al più amaro dei fallimenti. Con lo scorno di
essere, per un certo tempo, lo zimbello del re. Ecco infatti l'elemento che accomuna più
degli altri le due storie mentre si svolgono: in entrambe ciò che è fondamentale è che Il
re si diverte.
Non ha molto rilievo sapere se Nicolò nel suo costituto sia sincero, se cioè la storia
che si è fin qui raccontata abbia corrisposto alla confessione del notaio, ma l'ipotesi
formulata a conclusione di questa prima parte, che egli cioè abbia agito in modo
grossolano per migliorare il proprio status individuale, va verificata attentamente.
Esistevano dei gruppi antagonisti, per esempio, all'interno del collegio dei notai? Come
si erano mossi i parenti e gli antichi alleati di Nicolò nella circostanza? Quali erano state
le vicende precedenti che avevano spinto Nicolò ad osare così audacemente o, se
vogliamo, a rischiare così sconsideratamente?
44
Seconda parte: invenzioni.
(Un piccolo notaio veneto del Seicento)
Perché non le basta raccontare? Sempre che lei abbia in
mano una storia, si capisce. Ci vuole una storia per fare
una storia, ... ho letto da qualche parte che “raccogliere
casi di delitti e brutture e malanni e viltà e stoltezze e
follie non significa intendere la verità storica di un'età;
tanto è vero che simili raccolte si possono mettere
insieme, dal più al meno, per tutte le età e sempre si
atteggiano a storia”1.
1 G. CORAZZOL, Cineografo, cit., p. 254, mette in bocca il passo al titolato criminologo G. Giavani
Abbate. Il virgolettato è tratto da B. CROCE, Storia dell'età barocca in Italia, Bari 1929, p. 154.
45
Capitolo 1
Dura lex, sed lex
1. Le accuse rivolte al notaio vicentino sono funzionali alla dimostrazione della sua
infamia, e quindi alla giustificazione della pena che gli viene inflitta dall'organo di
autodisciplina del collegio, ma molti degli atti che lui stesso non nega di aver compiuto
si configurano come reati per i quali gli statuti cittadini e le leggi della Repubblica
prevedevano pene molto severe, fino alla morte. La detenzione di armi proibite e lo
sparo notturno, la gestione del ridotto a scopo di lucro, l'ospitalità data a banditi con cui
giustifica gli spari al podestà, il furto con l'aggravante della fides di pubblico ufficiale
che lo qualifica come crimen lesae maiestatis e il favoreggiamento dell'adulterio se non
addirittura il ruffianezzo, potrebbero costituire il greve carico penale di Nicolò.
Le leggi della Repubblica perseguivano lo “scelerato, vituperoso” marito che,
fingendo di non vedere e non affrontando l'avversario, avesse di fatto favorito la propria
moglie adultera, che infine non la avesse costretta a desistere o ripudiata. Chi si rendeva
responsabile di tali atti od omissioni doveva subire quantomeno la condanna al bando.
Ma molto più avrebbe dovuto essere punito il reo se, dal commercio della moglie, gli
fosse derivato un guadagno o “qualche commodo”, nel qual caso sarebbe stato
assimilabile al ruffiano2.
Tre elementi concorrevano all'epoca a definire il reato di ruffianezzo: che il reo
avesse convinto una donna al meretricio, che ne ricevesse di che vivere ed infine che
l'avesse indotta all'atto sessuale con promesse o regali. Un simile comportamento veniva
stigmatizzato anche quale matrice di adulteri, fornicazioni, incesti, ratti, deflorazioni e
sodomia. Alla fine del Cinquecento i ruffiani erano puniti con frustate e beffeggiamenti
pubblici. Le pene accessorie, comminate ad arbitrio del giudice, dovevano tener conto
del fatto (ben più grave sarebbe stato il caso di una vergine deflorata, o una maritata che
fosse stata indotta a commettere adulterio, o una parente o religiosa che avesse dovuto
subire incesto o sodomia) e della qualità di chi lo aveva commesso; frase neanche tanto
sibillina che conclude spesso la definizione delle pene da assegnare ai rei, e che in
buona sostanza invita il giudice, se ve ne fosse stato bisogno, a distinguere fra nobili e
plebei, tra ricchi e poveri, tra istruiti ed ignoranti, tra animi elevati e grezzi: insomma,
tra il ceto di chi le leggi le faceva e gli altri.
L'ufficiale che si appropriava del denaro pubblico con frode commetteva, allora come
oggi, peculato. Era condannato a morte ed alla restituzione del maltolto, aumentato di un
L. PRIORI, Prattica criminale, cit., p. 179. Ma se l’adulterio non fosse manifesto et palese, di modo
che il marito potesse con prudenza difendere et coprire il difetto della moglie, i vitij della qual è
obligato per ragion di natura tenere secreti et occulti, in tal caso non può esser punito d’alcuna
permissione se non quando gli inditij fossero stimati chiari et manifesti, et all’hora come di delitto
publico et manifesto deve il marito per evitar la pena consegliarsi o col giudice o con dottori se deve o
non deve accusar l’adulterio, secondo il qual conseglio reggersi et governarsi.
2
46
quarto. Veniva escluso dalla grazia di liberazione ed assoluzione come condannato per
“vituperoso et infame” crimine di lesa maestà e di falso3.
Abbiamo già visto quanto fosse moralmente riprovato lo spingere i giovani alla
rovina nel gioco. Il cancelliere Lorenzo Priori, proprio in quel torno di tempo, lo
definiva “cosa illecita et inhonesta, causa che molti ricchi et ben nasciuti divengono in
estrema povertà. Quelli che sono di mente cattolica diventano d’un senso reprobo et
bestemmiatori, di giusti et fedeli s’inducono atti alli furti et alle rapine”4.
Nicolò attribuisce ad un cognato bandito gli spari all'indirizzo del podestà e del suo
seguito e lo fa, così dice ai presidenti, per scarico di responsabilità agli occhi del nobile
veneziano, ma forse lo fa anche sapendo quanto severa sia la pena che colpisce chi
scarica un archibugio, “arma prohibita et odiosissima per molte leggi”, contro un altro,
anche non ferendolo (la nostra fattispecie): la morte per impiccagione e la confisca dei
beni, salve le possibili aggravanti del caso in questione, dove l'offesa è arrecata ad un
ministro del principe, e quindi al principe stesso5.
2. Se Nicolò abbia dovuto percorrere anche la via crucis dei possibili procedimenti
penali a suo carico non ci è dato sapere, non essendo conservato l'archivio del Consolato
né le raspe delle sentenze per il periodo. Le fonti ci offrono notizie circa un suo arresto
e detenzione a causa del debito di 50 ducati che ha dato inizio al racconto, ma ben più
serie sarebbero le imputazioni che si sono qui sopra elencate. Dalla supplica che chiude
il fascicolo processuale sappiamo che nel 1618 egli poteva permettersi di chiedere la
reiscrizione nella matricola dei notai dopo aver sostenuto una vita civile che lo aveva, a
suo dire, riabilitato agli occhi dei suoi concittadini. Si può pertanto presumere che egli
non sia mai stato chiamato a rispondere dei reati commessi. Ma la sua testimonianza
funge da spia su che cosa egli intendeva fosse non tanto grave in un'accezione
3
L. PRIORI, Prattica criminale, cit., p. 217: Vituperoso et infame è quel furto che si commette nel
danaro del prencipe, male usandolo et convertendolo in uso proprio, o falsamente scrivendo partite ne
i libri o non scrivesse [sic] quello havesse ricevuto ... Li delinquenti sono puniti a pena capitale di
delitto chiamato peculiatus, ch’è colpa di chi ha robbato il danaro publico (il corsivo posto all'inizio
della citazione è mio).
4 Il gioco delle carte è proibito perciò dalle leggi 18.12.1452, 31.8.1457 e 16.8.1458: i contravventori
sono puniti con sei mesi di carcere, il bando e 100 ducati di ammenda; dal 1458 il giudice ha
discrezionalità nella punizione se le puntate non superano i 5 ducati. Le leggi si applicano in tutto lo
Stato, a maggior pena vanno puniti i bari e quelli che tengono nelle proprie case “redotto ... servendo
di carte” per essere questi ultimi la causa prima di bestemmie e scandali. L. PRIORI, Prattica
criminale, cit. pp. 204-205. Negli statuti vicentini del 1264 era stata inserita una specifica rubrica dal
titolo De biscaciis non tenendis che recitava inequivocabilmente: item nemini de civitate vel eius
suburbis liceat tenere biscatiam in domo sua vel aliena, vel ad biscaciam in domo sua prestare, vel
aliena, con pena di 20 lire o bando fino ad avvenuto pagamento. L'ammenda era devoluta per metà
all'accusatore.
5 Lo scudo maiestatico estende la natura del reato di lesa maestà anche a chi attentasse ai ministri del
principe: M. SBRICCOLI, Crimen lesae maiestatis. Il problema del reato politico alle soglie della
scienza penalistica moderna. Milano 1974, pp. 60 e passim.
47
genericamente morale, quanto pericoloso per sé, nella gestione della battaglia quotidiana
per l'esistenza.
- Egli non ha turbamenti nel disobbedire ai presidenti che un anno prima lo avevano
ammonito affinché fosse più discreto con il ridotto. Suggerendogli di evitare
assembramenti notturni al portone di un nobile, per mezzo di un accesso secondario,
credo agissero considerando il fatto che il podestà figurava proteggere il piccolo notaio.
La bisca viene chiusa per impedire al podestà di entrarvi e in secondo luogo per paura
delle sicure conseguenze di un simile atto (“quando non havessi havuto paura della
Giustitia”, dirà significativamente poi6).
- Una volta cautelatosi con le 70 lire date al contestabile, egli può facilmente
presumere che guadagnare denaro dalla bisca non abbia conseguenze penali. Sa di certo
che una simile attività lo disonora, ma egli non sembra curarsi della sua reputazione.
Può illudersi di continuare ad essere coperto dalla protezione del podestà precedente
anche quando sarà qualcun altro ad incarnare la “Giustitia” in città, ma questo non ha
nulla a che vedere con l'onore. E allora, a meno che i testimoni non siano tutti falsi e
concordi nel volerlo diffamare, come spiegare il perché non si preoccupi di dissimulare
la sua presenza nello stanzone affittato a Carlo Della Volpe? Egli, come vedremo, dopo
che ha visto diminuire fortemente le proprie rendite agrarie, vive essenzialmente degli
introiti che gli derivano dall'esercizio degli uffici di Palazzo7. Come può permettersi di
rischiare, con la messa al bando dalla propria corporazione, la perdita di un simile
privilegio? È perché ha fiducia nella protezione datagli dal nome della sua famiglia, che
da oltre un secolo ricopre con altri suoi membri cariche di collegio ed uffici? Ma questo
non determina uno slittamento da un modesto, ma onorevole e tutto sommato redditizio
ruolo civile, ad una condizione di incerta subalternità? È plausibile che egli creda di
conservare l'onore lasciando la città natale per Venezia o per seguire Zuanne Zen a
Treviso, dopo che proprio a Vicenza, trasferendosi da un borgo al centro, passando da
una dimora modesta ad un palazzo, aveva cominciato a percorrere i gradi di un'ascesa
che gli poteva certamente sembrare rapida e sicura?
6
ASVI, CN, vol. 272, c. 602v. Ippolito Nievo ha schizzato in poche righe l'idea dell'amministrazione
della giustizia nel Friuli veneziano per cui “...in generale quello era il regno dei furbi; e soltanto colla
furberia il minuto popolo trovava il bandolo di riscattarsi delle sofferte prepotenze. ... l'astuzia degli
amministrati faceva l'ufficio dell'equitas nel diritto romano [vale a dire lo spirito della legge che dà
spazio all'indulgenza]. L'ingordigia e l'alterezza degli officiali e dei rispettivi padroni segnavano i
confini dello strictum ius [vale a dire la sua applicazione rigorosamente letterale] ”. I. NIEVO, Le
confessioni, cit., p. 23.
7 Nicolò non ci ha lasciato rogiti privati. Di molti notai sono stati perduti gli archivi dell'attività
professionale privata, e Nicolò potrebbe essere uno di questi, tuttavia erano molti quelli che si
limitavano ad esercitare i pubblici uffici, altri erano notai solo in quanto iscritti in modula ma non
esercitavano alcuna attività, lucrando sull'affitto degli uffici cui erano estratti e su molteplici altre
entrate extra professionali. Quest'ultimo sembra essere il nostro caso, stante il carattere di episodicità
dell'impiego pubblico confermato dalla sua testimonianza. Che le entrate diverse fossero lecite ed
onorevoli costituisce uno dei punti focali della vicenda che esaminiamo.
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3. Una prima chiave per capirne i disegni sta nella ingenua ammissione del fatto che
il podestà aveva già conosciuto sua figlia quando viveva a San Silvestro nella casa avita.
Se attribuiamo il giusto senso al verbo conoscere e diamo credito al fatto che in
occasione del funesto incontro fra Zuanne Zen e Florinda il primo non l'avesse mai
vista, possiamo azzardare una scelta di rottura dalla società vicentina che spiega il suo
disprezzo per le convenzioni sociali: il sacrificio di Ardemia gli deve valere favore e
protezione illimitata. È dopo aver perso l'onore della figlia che Nicolò affitta l’edificio
dei Proti, dove i suoi parenti non lo seguiranno (e dove, va sottolineata la circostanza,
prima abitava il giudice del maleficio), che gestisce il ridotto, che sprezza i vecchi
presidenti, che ruba i 50 ducati, la goccia che fa traboccare un bicchiere troppo ostentato
e che al podestà forse cominciava a creare qualche fastidioso imbarazzo. Varrà allora la
pena di cercare di cogliere il perché il nostro protagonista paia non considerare il
proprio ambiente cominciando dai centri di potere a lui più prossimi: la famiglia e la
professione.
- Probabilmente gli è nota la pena per chi spara archibugiate, ma con i suoi giudici
non tenta nemmeno di far valere la frottola che crede lo abbia scagionato agli occhi
dello Zen. Che voglia solo dare una prova di mascolina risolutezza e di virile orgoglio?
Certamente il giudizio sul suo senso dell'onore personale e familiare ne risulterebbe in
parte riscattato, ma troppe sono le circostanze che pesano sulla sua infamia per pensare
che egli, nonostante la povertà di altri argomenti, speri tanto.
- Con le ipotesi di reato connesse allo sfruttamento, o quantomeno al
favoreggiamento dell'adulterio (con sospetto di meretricio), di due donne della sua
famiglia, si entra in quello che per Nicolò è il terreno di maggior infamia, il più difficile
da percorrere di fronte agli uomini che lo giudicano. Non rischia bandi, confische,
internamenti, ma è qui che spende la maggior parte delle energie per difendersi. Ciò
naturalmente ci offre il senso della scala di valori che lo sovrasta. Quando è costretto ad
ammettere il “commercio” di figlia e moglie, giustifica se stesso per la prima con la
sovrastante, incontrastabile potenza dello Zen, per la seconda con la terribilità di una
donna che, non è il caso di dubitarne, indossava con molta fatica la veste di moglie
remissiva e fedele di un uomo certo poco avvenente e che, soprattutto, godeva di così
scarsa fortuna e considerazione.
49
Capitolo 2
Donne
1. Lo stupro volontario, quello cioè commesso con il consenso della donna, era
condannato con l'obbligo al matrimonio o alla dotazione della vittima di onesta vita; il
violento con la morte del reo. Il punto nodale di tutta la criminalistica sta quindi
nell'attestazione dell'onestà della vittima. Figlia, vedova o sposa, la donna deve condurre
una vita onorata, screditarne la condotta può voler dire per il violentatore liberarsi dalle
responsabilità. Tanto più la donna è povera, quanto più il proprio onore si basa
sull'attestazione pubblica della castità sessuale. Naturalmente la perdita di onore della
donna sposata coinvolge il vilipendio al nome del marito, quello della figlia scredita il
padre, ma solo se la condizione sociale di questi gliene attribuisce uno di significativo.
Ecco perché nel 1644 un curato di Campo, nel feltrino, consigliava al parrocchiano che
gli esponeva le proprie angustie per non poter dotare decentemente una figlia, di darla
per qualche mese “in mano di qualcheduno a goderla, acciò quel tale le desse la dote”,
poiché in paese lo facevano tutti. Alle rimostranze dell'uomo replicava seccato che
l'onore di un povero “era poca cosa”.
Per gli strati sociali più bassi esiste quindi un'evidente contraddizione tra l'onore
femminile e quello familiare. Una contraddizione che è subita generalmente con
fatalismo. Il consenso, la perdita della verginità precedente la violenza, sono troppo
facili, ed il contrario difficile da provare per essere un ostacolo ai potenti. L’ipotetica
perdita di onore che subisce la famiglia della vittima è metabolizzata quando esistono
dei meccanismi compensativi di patronato. Nel gioco di tali meccanismi rientra a pieno
titolo la sessualità delle donne sottoposte tanto che, se compiutamente attivati, risolvono
alla radice i possibili conflitti . Consolidando le distanze sociali, stanno alla base di
rapporti gerarchici per i quali è del tutto esclusa l’offesa (Nicolò si “mette nelle mani”
del podestà ed accetta la promessa di dote). La famiglia della giovane violentata si
ribella solamente se mutano i rapporti di forza o se un pur minimo risarcimento viene
negato (Nicolò spara al podestà). Il mancato indennizzo che sarebbe valso a dotare la
vittima, nel contesto più generale della crisi dei lignaggi aristocratici della terraferma
veneta, scatena il desiderio di rivalsa e di tali dinamiche anche il caso più volte citato di
Paolo Orgiano è prova eloquente. Una vicenda che vide coinvolto un secondo Del Buso
ce ne offre un'altra lineare testimonianza. Nell'agosto del 1572 Girolamo di Silvestro
(cugino di Andronico) e suo nipote Silvestro vengono banditi per aver rapito,
sequestrato, e Girolamo anche violentato, la quindicenne Sebastiana Martini da
Zovencedo, ex serva di Girolamo. La ragazza, per sfuggire alle attenzioni del padrone,
già si era allontanata dalla casa di San Germano del Del Buso. La sentenza è prodiga di
particolari nel mostrare quanto il comportamento di Girolamo fosse, a dir poco, sopra le
righe. L'uomo continuava ad attentare alla verginità della ragazza mentre era in casa sua.
50
Non volendo consentire, nell'aprile del 1572 Sebastiana era riuscita ad ottenere licenza
di trasferirsi ad abitare nel vicino villaggio di Pozzolo presso una parente. Qualche
giorno dopo il trasferimento le due donne erano state viste da Girolamo ad invenendum
bruscandolos presso un canale vicino a casa sua. Il fallimento virile, che poteva essere
giustificato dalla fuga della ragazza, cadeva se la stessa si faceva vedere ancora nei
paraggi. Immagino che quei bruscandoli [erbe selvatiche commestibili] potessero essere
visti dal nobile vicentino come un pretesto per provocarne l'orgoglio. Armatosi, e
convinto il nipote a seguirlo, si era recato sul posto. Quindi, senza rispetto per la
giustizia e nemico del genere umano (così recita la sentenza), aveva rapito la giovane
che urlava e implorava pietà. Condottala in casa le aveva legato le mani dietro la schiena
e le aveva poi assicurato i piedi ad una lettiera del granaio con una catena. I vicini
avevano testimoniato che le urla disperate della ragazza erano continuate per tutto il
giorno. L'indomani Girolamo le aveva tolto la verginità, ma non le catene. Il giorno
successivo alcuni parenti della ragazza, venuti a chiederne notizia, si erano sentiti
rispondere che la giovane non era in casa, salvo essere immediatamente avvertiti della
menzogna dalle urla provenienti dall'interno. Girolamo si era visto costretto a liberarla e
restituirla al cognato che in seguito avrebbe denunciato il vilipendio alla ragazza e la
vergogna per la sua famiglia. La sentenza di bando pronunciata contro Girolamo,
contumace come il nipote, era stata pesante: 15 anni di esilio dal territorio vicentino e
bassanese comprese le 3 miglia oltre i confini e 50 ducati da dare a Sebastiana, mentre
due anni di bando avrebbe dovuto scontare il nipote. Chiunque avrebbe potuto offenderli
nella persona e nelle cose senza subirne conseguenze e se Girolamo fosse stato catturato
avrebbe dovuto scontare un anno di carcere, per poi ricominciare con il periodo di
bando. Il 3 gennaio dell'anno successivo i due si presentavano ai giudici e Girolamo,
assolto dall'asserta deflorazione, era condannato per gli altri eccessi a 50 lire di
ammenda ed a dare alla ragazza 100 lire (poco più di 16 ducati) al tempo delle nozze.
Mentre Silvestro se ne usciva assolto, la pena pecuniaria di Girolamo era più che
dimezzata ed egli, cosa ben più importante, poteva tornarsene a casa libero dal bando8.
Tutto era fatto rientrare nella norma e non sussistevano ostacoli alla reintegrazione
sociale del padrone.
Si può immaginare che prima della denuncia vi sia stato fra le parti un fallito
tentativo di conciliazione. Usando il cinismo (o per meglio dire il realismo) del parroco
di Campo feltrino, potremmo supporre che, una volta sistemata la scabrosità del
processo, il concubinato ancillare possa essere stato accettato anche dalla famiglia della
giovane almeno fino alle sue nozze. In ogni caso il legato di 12 staia di frumento, 2 staia
di legna, 2 mastelli di vino all'anno per sei anni, più tutti i vestiti che avesse posseduti
alla sua morte, che nel proprio testamento del 1588 Girolamo assegnava alla serva
8
ASVI, AT, b. 1137, cc. 5, 34.
51
Margherita, fa supporre che l'uomo avesse in seguito trovato una donna più remissiva ad
accompagnarlo nella vedovile vecchiezza9.
Ben diverso era il discorso per la famiglia civile. Se l'onore qualificava lo stato
sociale, due erano i valori che dovevano contraddistinguerlo indefettibilmente: la
purezza del sangue ed il nome. La prima discendeva unicamente dal comportamento
sessuale della donna, il secondo, al quale l'altro era necessario presupposto, si
manifestava con il coraggio, la virilità, l'orgoglio10. Va da sé che se uno è premessa
all'altro, l'uno sussiste esclusivamente in presenza dell'altro: se Nicolò esce dallo
stereotipo dell'uomo virile, anche Florinda tradisce il ruolo di moglie remissiva e di
madre accorta. E ciò non può che determinare la caduta della famiglia.
“Il gesto eroico della donna è il tradimento: la sua efficacia sugli eventi non è minore
di quella dell'uccisione di mostri”. Nel tradimento, la traditrice compie un'opera
civilizzatrice, sopprime la propria origine e distacca la propria vita dal suo contesto
naturale. Il tradimento femminile si avvolge su se stesso, rinnega continuamente ciò che
è dato, è una negazione che si configura come un opporsi a se stessi, “in un gioco che
può esaltare e distruggere, e generalmente esalta e distrugge”11. Il tradimento dei valori e
dei ruoli, dei propri uomini-padroni, può essere quindi anche ribellione.
In un memoriale del Seicento con cui richiedevano la protezione e l'autorità
giudiziale esclusiva del Consiglio dei Dieci, i notai collegiati di Vicenza dimostravano
di saperlo bene. La registrazione dei matrimoni degli appartenenti alla corporazione e
l'iscrizione dei neonati nel liber nativitatum vi era giustificata proprio con la necessità di
verificare la legittimità della discendenza
ed honestà delle donne, che si ricevono in mogli: ben discernendo che come il vitio trova più seguaci che
la virtù, così i figlioli potessero più lubricamente degenerare, quando siano nati ed educati da madri
d'inhonesta condittione, e di animo che, non geloso della reputazione, può anche non arrossire
dell'indegnità, la quale se l'introduce o nei costumi o nelle cogiontioni, anderà senza dubbio serpendo e
giongerà a contaminare quella fedeltà e sincerità, che tanto necessaria si rende nelle materie criminali, nei
registri delle carte e dei giuditii che sortiscono nel forro contenzioso12.
9
ASVI, N, b. 7414, c. 70v, 25.8.1588. Girolamo non menziona la moglie Giustina Rinaldi Della
Zucca, di famiglia notarile di Grancona, da cui non aveva avuto figli sopravviventigli e che era
evidentemente già morta. Chiedeva di essere sepolto nel cimitero di San Germano presso i suoi
antenati, dotava con 400 ducati la nipote Arcisa che viveva con lui e con 200 l'altra nipote Marietta,
entrambe figlie del fratello defunto Stefano. Inseriva poi il consistente legato alla serva da eseguire
“absque ulla contradicione ... et hoc est per magna servitute multis annis facta per dictam
Malgaritam in domo dicti testatoris”. Erede universale nominava Silvestro di Stefano, il nipote
complice del 1572, che sarà già morto nel 1590.
10 Il prete di Campo è citato da G. CORAZZOL, Cineografo, cit., p. 141. Sull'onore femminile ed il suo
intimo rapporto con la condizione sociale C. POVOLO, L'intrigo, cit. p. 356-362.
11 R. CALASSO, Le nozze di cadmo e Armonia, Milano 19956, p. 86. Arianna rovina Creta, Antiope
muore combattendo contro le Amazzoni sue suddite, Elena guida al tramonto gli eroi che ha amato,
Medea abbandona il paese della magia e giunge in quello della legge, Antigone tradisce le leggi della
sua città.
12 BISAZZA, Notai tristi, cit., p. 9, n. 12
52
2. Florinda è una Verlato, di antica famiglia comitale che, se pure con ogni
probabilità appartenente ad un ramo impoverito, ha parentela ben più ampia e
prestigiosa di quella notarile dei Del Buso13. La sorella Ortensia aveva sposato
Vincenzo Colzè che nel suo testamento del 1605, oltre ad assegnargli il lucro di metà
della dote, nominava erede universale. Dal canto suo Vincenzo aveva dato in moglie la
sorella Alteria a Cesare Del Buso, fratello maggiore di Nicolò, chiudendo così un
triangolo di rapporti familiari che comincia ad illustrare le complesse dinamiche
matrimoniali dei diversi ceti e su cui avremo modo di ritornare. Altre donne della Casa
erano state destinate a matrimoni più prestigiosi: Atalanta Verlato era entrata nella
famiglia Valmarana sposando Massimiliano, figlio di Leonoro, principe dell'Accademia
Olimpica nel 1585, ed avrà l'onore di vedersi dedicato il Giudizio di Paride dal letterato
vicentino Strozzi Cicogna (1617); Anna, nella seconda metà del Cinquecento, aveva
imparentato i Verlato con i conti Sesso che potevano vantarsi di aver ospitato a
Sandrigo, nel 1532, l'imperatore Carlo V14.
Se pure il Concilio di Trento aveva confermato la libertà della scelta matrimoniale,
imponendo il sincero consenso degli interessati, ciò non era che in minima parte
compatibile con l'insieme dei meccanismi di successione e trasmissione patrimoniale
connessi al contratto dotale, e che riducevano di fatto la donna ad una merce di scambio
funzionale a superiori necessità familiari. Ciononostante, come è stato verificato in non
pochi altri casi15, il tradimento di Florinda rompe gli schemi, basati essenzialmente su
fonti legislative, che vedono le donne culturalmente e giuridicamente succubi dei
maschi delle proprie famiglie, e destinate ad interpretare un ruolo costretto entro le mura
13
Purtroppo non ho rintracciato il contratto dotale di Florinda e Nicolò. Il matrimonio credo sia
avvenuto nel 1595. Il padre di lei, Vincenzo, era forse lo zio materno della poetessa Maddalena
Campiglia cit. in G. MANTESE, Memorie storiche, p. 843. Quest'ultima si era a sua volta sposata e poi
presto separata con Dionisio Colzè, ricordava risentita nel proprio testamento. D. SARTORI,
Maddalena Campiglia e la “scrittura al femminile”, «L'Illustre vicentino», 2 (1993), p. 4, 11. Cesare
Del Buso era sposato ad Alteria di Lunardo Colzè; Vincenzo Colzè, fratello di Alteria, interviene
spesso nel processo come procuratore di Nicolò.
14 Il testamento di Ortensia in ASVI, CN, b. 9577, 27.4.1605. Per casa si intende un gruppo di
famiglie che appartiene alla stessa parentela consanguinea ed ha lo stesso cognome; per lignaggio una
linea di discendenza da un comune antenato: J. M. FERRARO, Family, cit., p. 74. Pertanto il primo
lemma risolve il problema indefinibile, stanti le fonti disponibili, della parentela fra Florinda e le due
donne che cito, entrambi sono invece sempre correttamente riferibili alla famiglia Del Buso, che in
tutte le sue diramazioni si richiama costantemente all'identico antenato Silvestro ed alle proprietà di
San Germano e Villaga. G. MANTESE, Memorie storiche, cit., p.1013, 1035, 869; III, pp. 86-89. J.
Goody lega invece la casa al riconoscimento in una data proprietà fondiaria o a cariche e titoli
esclusivi: J. GOODY, Famiglia e matrimonio in Europa, Milano 1984, p. 274
15 G. DELILLE, Strategie di alleanza e demografia del matrimonio in M. DE GIORGIO, C. KLAPISH
ZUBER (ed.), Storia del matrimonio, Bari-Roma 1996, pp. 283-303. Sul protagonismo femminile S.
COHN jr., Donne e Controriforma a Siena: autorità e proprietà nella famiglia, «Studi storici» 1
(1989), pp. 203-224; L. M. GHELLINI COLOCCI, Lettere (ai miei genitori), a c. C. POVOLO, Vicenza
1996, ID, Percorsi genealogici, Vicenza 1990, I. FAZIO, Percorsi coniugali nell'Italia moderna, in M.
DE GIORGIO, C. KLAPISH ZUBER (ed.), Storia del matrimonio, cit., pp. 151-214 con ricca bibliografia.
Si vedano inoltre i saggi rubricati sotto il titolo Dissidenze a parole e a fatti in N. ZEMON DAVIS, A.
FARGE (ed.), Storia delle donne in Occidente. Dal rinascimento all'età moderna, Roma-Bari,19952,
pp. 397-508.
53
domestiche, che consente loro spazi di azione autonoma solo quando usufruttuano nella
vedovanza le sostanze del marito. Nel nostro caso emerge una ben diversa consistenza
patrimoniale fra i coniugi: tutti i mobili di Nicolò sono assicurati sulla dote della
moglie, e quindi niente può essere sequestrato dalla giustizia per rifondere i creditori del
notaio16. Alla luce di ciò Nicolò appare un individuo privo di potere: è Florinda che nei
momenti decisivi contratta con l'esterno, pensiamo alla cessione della figlia al podestà,
all'accoglimento della secondogenita nelle Zitelle, alla sua movimentata uscita dal luogo
pio, alle promesse del giudice del maleficio. Florinda chiede al marito di ritirarsi al
giungere di un ospite ed il notaio, forse anche perché latitante, sale senza obiezioni le
scale del granaio per origliare la conversazione della moglie con lo sconosciuto.
Il temperamento vigoroso di Florinda, contrapponendosi alla debolezza fisica del
marito, esalta la valenza esterna del suo ruolo. La donna affronta Carlo Della Volpe
brandendo una spada; agisce con intrepidezza ed a monte anche con diplomazia nella
presunta messinscena del rapimento della secondogenita dalle Zitelle; lo scandalo che
sembra abbia scatenato in Duomo è un altro episodio utile ad immaginarne il carattere.
Quando Nicolò è messo alle corde dalla reazione di chi pretendeva scavalcare, è sua
moglie che, via via più convulsamente e disperatamente, tenta una difesa. Se questo è il
quadro risulta comprensibile che Nicolò appaia rassegnato alla notizia che un frate del
convento delle Grazie “ha afare con sua moglie et questo si dice pubblicamente”, mentre
si mormora che i Del Buso ricevano pure da tale fonte legna e vino. Nel 1618 egli può
convenientemente presentare la richiesta di reinserimento nella matricola dei notai dopo
aver collocato le figlie e soprattutto dopo che, con la morte, il ruolo antagonistico della
moglie è scomparso. Abdicate le sue responsabilità di capofamiglia e di aristocratico, la
sua ambizione ad una scalata individuale ed all'ottenimento di protezioni che gli
permettano di ascendere socialmente gli restituirebbero prima di tutto un controllo sui
ruoli parentali a lui teoricamente subalterni. Dato che ciò non avviene, solamente alla
morte di Florinda egli potrà tentare di recuperare il ruolo sociale di cui è stato privato.
3. Quando gli viene chiesto se ha figlie risponde: “Così non ne havessi, che pagheria
un ochio per che ne ho quatro di femine ed due di maschi”. Conosciamo le due prime,
Ardemia, nata presumibilmente nel 1596 ed Anna, nata nel 1598, mentre delle due più
giovani le fonti processuali non danno il nome. Nicolò e Florinda avevano avuto anche
quattro maschi, Ludovico nel 1595, Battista nel 1602, Vincenzo nel 1604 e Giulio
16
Sulla figura della vedova N. TAMASSIA, La famiglia italiana nei secoli decimoquinto e decimosesto,
Roma 1971 (ed. or. 1911), pp. 325-350. In costanza di matrimonio la moglie ha un'azione creditoria
per il capitale della sua dote sui beni del marito. Se quest'ultimo minacciasse di dissipare le proprie
sostanze la moglie può separare tanti beni del marito per un ammontare pari al valore della propria
dote. Tale atto, detto assicurazione di dote, trasferisce i pesi del matrimonio sulla donna che si occupa
di mantenere i figli ed anche il coniuge. A. LORENZONI, Instituzioni, cit., t. I/2, p. 37-38.
54
Cesare nel 1606. Di questi, al momento del processo, sopravvivevano Battista e Giulio
Cesare17.
Ardemia è una ragazza di 17 anni, bisogna iniziare a pensare di sistemarla in una
famiglia all'altezza e per farlo occorre dotarla adeguatamente. La strategia dotale dei Del
Buso, alla quale un Nicolò screditato e pieno di debiti non si potrebbe associare, era
stata attraverso i due secoli precedenti piuttosto chiara nel suo duplice sviluppo. Da un
lato i matrimoni avevano garantito alleanze all'interno della corporazione notarile, utili
per scambi di favori e sostegni reciproci nel mondo degli uffici e degli affari, dall'altro
erano stati funzionali all'incremento di prestigio per il lignaggio. Il matrimonio di
Florinda e Nicolò è un chiaro esempio in questa seconda direzione, così come quello
della sorella Vittoria con Giacomo Zugliano, figlio del famoso Alessandro, capitano e
dottore in legge con tomba a Santa Caterina in porto18. Gli altri tre figli di Andronico
avevano invece sposato donne che appartenevano a famiglie di notai: Cecilio, Camilla
Bachino; Cesare, Alteria Colzè ed infine Curzio, Lavinia Castellini.
Sposando le due sorelle Paola e Giustina Angiolello, figlie di Francesco e nipoti del
celebre letterato Anton Maria, il padre Andronico e lo zio Battista avevano consolidato
un antico rapporto19. Nelle generazioni precedenti gli scambi matrimoniali avevano
imparentato ai Del Buso altre importanti famiglie aristocratiche: i Pace, i Piovene, i
Cappasanta, i Bottarino, i trentini Malpaga e Roccabruna, i Cavalcabò e rami minori di
Trissino e Capra20. L'entità delle doti dipendeva dal rapporto con la famiglia dello sposo
o della sposa. Generalmente contenute nella media di 500-700 ducati se funzionali al
consolidamento di un rapporto tra pari, più elevate se tese all'aumento del prestigio con
l'apparentamento ad antiche famiglie aristocratiche. Per esempio Cecilio, fratello
maggiore di Nicolò morto nel 1605, stanziava nel suo testamento ben 1.200 ducati per
dotare la figlia Paolina, cosa che costringerà alla vendita di 23 campi aviti nella villa di
San Germano per saldare la dote al marito Orazio Brusolino nel 1613. Arcisa di
17
La nascita dei figli maschi di notai collegiati doveva essere denunciata al collegio per favorirne la
successiva ammissione nella matricola, è per tale motivo che di loro si hanno maggiori informazioni,
sappiamo così che i due figli maschi moriranno con il padre nel 1630. ASVI, CN, b. 122, c. 40r, 49r,
52v, 55r.
18 G. MANTESE, Memorie storiche, cit., pp. 988, 1236.
19 ASVI, CN, b. 123, c. 3, 4; b. 122, c. 1v. Gli Angiolello e gli Zugliano erano imparentati ed in
relazioni di scambio (Chiara di Giacomo sposa Anton Maria che cede a Giacomo, marito di Vittoria,
la sua casa di San Silvestro nel 1588). A loro volta gli Zugliano avevano rapporti stretti con i Pace,
altra famiglia notarile in ascesa nel Cinquecento. Il cerchio si chiude ricordando che Elena di Giacomo
Zugliano senior aveva sposato nel 1565 Alessandro di Francesco Del Buso e in seconde nozze il fisico
Fabio Pace di Paolo la cui figlia Laura sposerà, con dispensa vescovile, Curio di Cecilio Del Buso nel
1617: G. MANTESE, Memorie storiche, pp. 969-970, 1009; ASVI, CRS, b. 1111, c. 49.
20 “In general, as the basis of power in patrician and noble regimes narrowed, few family married
outside their closed cicles” ciononostante anche all'interno del circolo più esclusivo del patriziato
bresciano l'origine della famiglia passava in secondo piano rispetto alla sua potenza politica e
finanziaria al momento del contratto nuziale. J. M. FERRARO, Family, cit., pp. 114-115. Sull'uso
politico delle dotazioni pp. 111-130.
55
Alfonso Del Buso (cugino di Andronico) può sposare Giovanni Maria Benedetti di
Giacomo, notaio a Sossano, con 700 ducati di dote grazie ad un legato testamentario di
400 ducati dello zio Girolamo di Silvestro, mentre Curzio di Andronico riceve dalla
moglie Lavinia Castellini 600 ducati, suo padre da Laura Angiolello 700, Camillo di
Claudio 500 ducati da Isabella di Castellin Somaggio, Alessandro, da Elena Zugliano,
900, ma Ludovico di Livio da Attilia, figlia di Iseppo Trissino, 500 ducati ed infine
Livio di Camillo, unito in primo matrimonio con Camilla di Zuanne Poiana, celebrato
nel 1581, si accontenterà di 300 ducati e dal secondo con Caterina di Ruggero Della
Volpe, nel 1592, riceverà 225 ducati21.
La digressione potrebbe continuare, ma è sufficiente a quantificare il salto che Nicolò
presume di poter fare. Ardemia, la bella figlia primogenita, non vale molto se a dotarla
sono le sue esauste facoltà, pertanto non deve aspettarsi nessun miglioramento in
prestigio personale dalla dote che può assegnarle, anche integrandola con parte delle
sostanze della moglie e con il lascito di 50 ducati che la zia Ortensia le ha lasciato nel
testamento22. Una volta trapelate le voci che la riguardano, la giovane non vale nulla se
la sua reputazione è di puttana del contestabile, del giudice del maleficio e di altri; ma se
Ardemia è conosciuta come la cortigiana favorita del massimo rappresentante della
Repubblica in città, che ha provveduto a dotarla convenientemente, la sua posizione è
certo più tollerata. Se non ripristinata nell'onore, certamente le si può portare
un'interessata clemenza. Integrata dei 1000 ducati promessi dal podestà, la dote può
attirare sulla giovane l'interesse di qualche rampollo di famiglia titolata. La bellezza, la
nobiltà dei modi ed il decoro dei costumi entrano a questo punto favorevolmente in
gioco. Occorre allora aumentare lo sfarzo, trasferirsi, far uscire la figlia “in ordine e
pomposa”, incuranti dei nemici che ci si crea e che tramano nell'ombra.
Pure se nella supplica del 1618 Nicolò afferma di aver ripristinato l'onorabilità della
sua famiglia collocando due delle tre figlie nelle famiglie Dall'Acqua (sposa di Alvise) e
Colombina (sposa di Lorenzo), il destino della casa, lo sappiamo, sfugge al controllo del
21
La vendita dei 23 campi, autorizzata da Zuanne Zen a seguito della supplica dei tutori degli eredi di
Cecilio ancora pupilli (Ciro ha 16 anni, Curio 15), in ASVI, CRS, 1429/39, c. 591, 24.7.1613. La dote
di Arcisa si trova in ASVI, N, b. 1056, 28.12.1589 [ma 1588]. Per il contratto dotale di Curzio e
Lavinia ASVI, CRS mz. 1429, fasc. 330, 13.6.1585; per quelli di Camillo e Ludovico ASVI, N, b.
1056, rispettivamente 10.12.1602 e 28.8.1607; per la dote di Paola Angiolello, rif. al suo testamento in
ASVI, N, b. 8079, c. 10, 19.2.1591; il contratto dotale di Livio e Camilla Poiana in Ivi, b. 7932, n. 13,
26.9.1583, con Caterina Della Volpe b. 7415, c. 54v, 22.7.1592. La “capitalizzazione del nome” è
richiamata da G. GULLINO, I Pisani dal banco e moretta. Roma 1984, p. 66. Il matrimonio tra
Alessandro ed Elena è del 1565, la morte di Alessandro del 1569. Già nel 1571 saranno gli eredi a
spingere la giovane vedova al matrimonio con Fabio Pace, integrandone la dote fino a 2000 ducati per
evitare che la donna viva usufruttuando del patrimonio del marito vincolato da un fedecommesso alla
propria famiglia. Un calcolo probabilmente sbagliato perché le fortune dei Del Buso saranno da questo
momento irrimediabilmente compromesse. Fra Elena e gli eredi di Alessandro sorgerà poi una lunga
causa civile per pretesi diritti della donna, in nome della figlioletta Anna, sulla facoltà del primo
marito. La causa e gli atti allegati in copia in ASVI, CRS, mz. 1109, fasc. A n.1 cc. 1-65.
22 ASVI, CN, b. 9577, 27.4.1605.
56
piccolo notaio. Non ho trovato i contratti relativi ma, presupponendo una minima
capacità di dotare le figlie da parte dell'immiserito Nicolò, altre ragioni devono aver
condotto alla celebrazione dei due matrimoni. Penso si possa escludere che vi abbia
contribuito quella sorta di dote immateriale costituita dal nome di famiglia delle due
spose, nobili ma screditate dalle disavventure occorse al padre. Mentre i Dall'Acqua
appartenevano all'antica aristocrazia di Vicenza, Lorenzo Colombina era cittadino
originario di Venezia e la sua famiglia possedeva beni a Camisano. Esistono cinque
testamenti che illustrano da un'angolatura del tutto particolare i rapporti che, si può
supporre in conseguenza del matrimonio di cui stiamo parlando, erano venuti a crearsi
tra i fratelli Colombina.
Il 6 agosto del 1616 il notaio Orazio Florian si recava in una casa di Santa Maria di
Camisano per raccogliere tre testamenti. Lo avevano convocato Diana, Fontana e
Cecilia, tutte orfane di Luca Colombina. Non ci troviamo di fronte a contagi maligni, né
a pericoli evidenti, le tre donne sono sane e nubili. Da due delle tre espressioni segrete
di ultima volontà, pubblicate nell'agosto del 1631, (il testamento di Fontana, che
immagino identico agli altri, è ancora sigillato), appare subito evidente la messa in atto
di una originale strategia di difesa del patrimonio familiare. Ciascuna delle due, dopo le
parti rituali relative alle invocazioni, alle disposizioni di sepoltura ed ai lasciti pii, molto
brevemente assolte, nomina eredi universali le altre tre sorelle nubili (Giustina, forse
ancora minore, non testa). La condizione vincolante imposta è che possano godere del
beneficio conservandosi in tale stato; se una di esse si fosse sposata anche dopo aver
ereditato, sarebbe stata obbligata a restituire i beni ricevuti; istituivano inoltre uno
stretto fedecommesso con proibizione di qualsiasi detrazione legale23. In sostituzione
delle sorelle, defunte o maritate, le testatrici nominavano eredi i fratelli Pietro, Matteo,
Baldissera e Salvador, la loro discendenza maschile ed in caso di estinzione la
femminile “intendendo che Lorenzo, altro mio fratello, non habbi a conseguir di detta
mia facultà cosa alcuna, né soi figli, al qual lasso soldi cinque per ogni succession che li
potesse aspettare”.
Dai due testamenti possiamo arguire la solidarietà che caratterizza il rapporto fra
sorelle, a prima vista corroborata da una evidente avversione verso l'altro sesso che si
manifesta nell'opposizione al matrimonio, e quindi nella sua proibizione, condivisa
23
Con l'accettazione dell'eredità, l'erede istituito con sostituzione fedecommissaria si
impegnava a restituire alla propria morte l'intero patrimonio, o anche parte di esso secondo
quanto disposto dal testatore, ad una o più persone indicate nel testamento, generalmente la
propria discendenza maschile. G. BENOIT, Repetitio Capituli Raynutius de Testamenti, Lione
1544, vol. II, c. 18 v.- 84 r. R. TRIFONE, Fedecommesso (diritto intermedio), in A. AZARA, E. EULA
(ed.), Novissimo Digesto Italiano, VII, Torino 1961, pp. 192-205; ID., Il fedecommesso. Storia
dell’istituto in Italia dal diritto romano all’inizio del sec. XVI, Roma 1914, M. CARAVALE,
Fedecommesso (diritto intermedio), in C. MORTAT, S. PUGLIATTI, (ed.), Enciclopedia del diritto, vol.
XVII, Milano 1968, pp. 109-114. V. ARANGIO RUIZ, Istituzioni di diritto romano, Napoli 1957, pp.
573-576
57
esplicitamente da entrambe le disponenti. Il padre Luca è morto e nulla sappiamo della
madre degli otto fratelli Colombina. Naturalmente il dato per noi più importante è
offerto dalla notizia della diseredazione del fratello Lorenzo, genero di Nicolò, rivelata
da quei cinque soldi che si configurano come la paga di Giuda per chi ha tradito valori
che sarebbe stato necessario condividere. Tanto era comune l'uso sprezzante di gettare
poche vili monete a pretesi eredi indegni, che anche in un famoso formulario per notai si
suggeriva di assegnare allo scopo il lascito simbolico di cinque soldi24. A rivelarci però
del tutto la strategia familiare e ad illuminare meglio lo sfondo su cui si innesta, valgono
i testamenti autografi di Pietro e Baldissera Colombina. Il primo, redatto dalla casa di
Venezia il 18 ottobre del 1617, il secondo alla fine di marzo del 1619 e consegnato al
notaio in luglio, subito dopo la morte di Pietro. Ci si aspetterebbe che Pietro,
presumibile capofamiglia in quanto figlio maggiore (è sempre il primo dell'elenco dei
fratelli nei testamenti di Cecilia e Diana25, a meno che il maggiore non sia proprio
Lorenzo, escluso dall'elenco), a sua volta sano e celibe, nominasse eredi i suoi fratelli e
poi, nell'eventualità di estinzione della discendenza maschile, passasse alle sorelle ed
alla loro discendenza maschile. Invece egli nomina eredi universali le quattro sorelle “se
però tutte al tempo della mia morte serà da marito ... se non, siano herede solamente
quelle che serano state senza marito ... et in caso che alcuna di esse si maritasse doppo
che havesse havuto il benefficio della mia facultà, quella porcion in essa pervenuta vadi
alle altre ... senza però diminuzion alcuna”. Istituiva a sua volta uno stretto
fedecommesso e passava quindi a diseredare Lorenzo.
L'apparente paradossalità delle disposizioni di Pietro, che saranno riprese parola per
parola dal fratello Baldissera26, si spiega con la necessità di non pagare doti di sorta.
Ben lungi dall’essere una strategia che privilegia le femmine, la nomina di erede si
configura come il prezzo che i maschi pagano per far condividere alle femmine della
casa i propri valori: una sorta di usufrutto affinché restino in casa nubili e che
l'istituzione del fedecommesso ufficializza. Appare evidente che la necessità di costruire
24
P. D. MUSSI , Formularium instrumentorum, Venezia 1620, c.280v.-281r. La formula usata
generalmente dai notai era più o meno la seguente “et per ragion d'institutione [N.B. non legato] lascio
ad ogni mio parente, nepote et consanguineo et che sperar potesse o pretendesse successione nelli miei
beni et heredità soldi cinque per ciascheduno, de quali voglio che si chiamino taciti et contenti”. La
prima edizione dell'opera di Pietro Domenico Mussi, giurista piacentino vissuto fra Quattro e
Cinquecento, titolata De formulis instrumentorum, è del 1530, l'editio princeps, col titolo leggermente
modificato che porta anche quella da cui cito, fu stampata a Venezia nel 1572 e da allora nota
coll'appellativo di “Mussina”. L. MANSI, Dizionario biografico piacentino, Piacenza 1899.
25 Nessuna norma prescriveva una simile precedenza, che sembra tuttavia fosse in uso se nel Seicento
un anonimo legale, nel tentativo di invalidare l'efficacia di un testamento, adduceva fra gli altri motivi
di scorrettezza formale anche la designazione per primo del secondogenito (posticipando il
primogenito) nella nomina di erede: ASVI, AP, b. 72/1242
26 Dell'ultima volontà di Baldissera, sigillata a causa, si può presumere, della redazione di un
successivo atto che la annullava, è stata verbalizzata l'apertura il 5.7.2001. I cinque documenti si
trovano in ASVI, N, b. 9875. 16.8.1616, 20.3.1619, data di pubblicazione del testamento di Pietro e
20.7.1619.
58
un simile argine difensivo fra l'agosto del 1616 e l'ottobre dell'anno successivo è mossa
da fatti che hanno esasperato gli equilibri interni alla famiglia e l'unica strada
percorribile per capirne la natura sta nella diseredazione di Lorenzo. È quest'ultimo che
evidentemente minaccia il patrimonio dei fratelli, Lorenzo di cui, essendo già nominata
la discendenza, si può presumere l'avvenuto matrimonio con una figlia di Nicolò. Perché
i suoi familiari lo temono così tanto? Probabilmente ne sono stati minacciati. Si può
ipotizzare in sovrappiù che egli eserciti un'autorità tutorile asfissiante nei confronti dei
fratelli non sposati e che ciò abbia ispirato il loro risentimento; oppure che si sia portato
in casa una moglie tirannica. Ma in aggiunta o in alternativa alle solite ovvie
considerazioni, ben più grave ed infamante, resta l'ultima ipotesi: e cioè che egli,
convinto da lusinghe veneziane, dalla bellezza, o nel disprezzo dei valori di cui invece
dovrebbe proporsi come vessillifero, abbia sposato una giovane donna nobile molto
bella, ma molto povera, che due anni prima aveva partorito un figlio illegittimo. Le
ultime carte processuali ci avevano lasciato una ragazza di 17 anni, incinta di otto mesi,
che i genitori strappavano dalle grinfie di Giovanni Zen e recuperavano alla famiglia per
toglierla dall'asserto pericolo di avvelenamento. Vivo o morto, maschio o femmina che
fosse, il neonato difficilmente era stato allevato dalla madre. Conoscendo le strategie
del podestà Zen per diluire le proprie responsabilità di padre naturale, se sopravvissuto il
piccolo era stato probabilmente affidato ad una balia o alla pubblica carità dell'ospedale
di San Marcello o della Misericordia. La sua personcina, o la sua memoria, servivano a
ricordare al mondo una contagiosissima infamia con cui, attraverso il matrimonio, era
stato infettato irrimediabilmente il nome dei Colombina. Riappare così, dietro la storia
dei Colombina, l'ombra di Ardemia.
4. Anche di Paola Angiolello, madre di Nicolò, o di Laura Pace, moglie del nipote
Curio di Cecilio, di Elena Zugliano e di Dardanida Bottarino, ricche di storie individuali
e mogli rispettivamente di Alessandro e di Pace Del Buso, varrebbe parlare. Solamente
Paola riapparirà con energia oltre la fine della vita del marito Andronico. Qui manca
invece un ultimo personaggio, una donna defilata che ho incontrato casualmente, di non
immediata identificazione, di pochi legami e piccole sostanze: una vecchia zitella dal
nome ignoto con però un cognome sospetto27.
Giunta quasi alla fine della propria vita, nel giugno del 1673, la zitella Erminia Bosia
stendeva di pugno la propria cedola testamentaria. Senza il rispetto delle formalità
prescritte (né testimoni, né tantomeno formule di rito fra cui la prescritta nomina di un
erede universale, compaiono nel documento), la donna destinava le proprie poche
sostanze ad una nipote “che mi fa tanto bene” ed alla monaca Cinzia Maria Bossia alle
convertite “che sono tanto poverete”. Alla prima lasciava un affitto di poco meno di 50
27 Nel suo significato arcaico zitella significa ragazza da marito, senza quindi l'attuale connotazione
ironica o spregiativa.
59
lire annue (corrispondenti a circa 8 ducati) acquistato con 127 ducati da Cecilia Repeta,
alla seconda tre ducati l'anno. Alla consorella che l'avesse assistita in extremis donava la
propria carpeta e la pelliccia, e se fosse avanzato qualche soldo, lo si sarebbe dovuto
spendere in messe di suffragio. Nient'altro. La morte sopraggiungeva nel dicembre del
1677 e l'8 luglio successivo il vicario pretorio si recava al luogo pio per raccogliere
testimonianze sull'autenticità della cedola. Le testimoni, tutte consorelle di Erminia, ne
riconoscevano la scrittura ed attestavano la lunga frequentazione con lei: la defunta era
molto anziana ed Anna Sanseverina, ospite alle Zitelle da 43 anni, affermava di
avercela trovata al suo ingresso e aggiungeva di presumere che vi fosse rimasta per 70
anni.
Molto ben nata et avventurata si può riputar quella, che il Signore si è compiaciuto di eleggere tra tante
altre Vergini, e donarle il gran dono del perfetto e fermo proposito di osservar perpetua verginità ... sicché
in ricompensa di tanto bene dovete sforzarvi di tendere ad una vita Celeste, la quale consiste in una
perfetta negazion di voi stesse, e della propria volontà ...
Settant'anni di silenzi, di lavoro ed esercizi spirituali, attraverso l'esaltazione del
sacrificio attuato con digiuno ed isolamento, eccettuata quell'ora al giorno di relax
passata a camminare in chiostro o nell'orto, essendo proibito “l'andarsi a incantonare o
sola, o accompagnata; ma tutte debbano stare in pubblico a far la sua ricreazione, la qual
sia modesta, e levato ogni sospetto”. Le zitelle vivono dentro un nero abito di panno e
chiuse alla comunicazione se non con la Reggente, senza il permesso di concedersi
all'amicizia di una compagna. Il disturbo alla portinaia e all'ascoltatrice delle
conversazioni, arrecato delle visite dei parenti, è limitato con il concederne una sola al
mese e con la chiusura totale delle porte in avvento e quaresima. La zitella chiesta in
sposa viene isolata e controllata a vista da una sorella anziana finché non sia partita per
sempre dalla Casa.
Settant'anni in cui la vita è fatta di giorni tutti uguali, devotamente spesi nel distacco
dal secolo, in cui una bambina diviene anziana senza saperlo, hanno lasciato una traccia
involontaria nella cedola di Erminia. La religiosa, in aggiunta agli errori formali già
ricordati, non riportava il nome del proprio padre, particolare essenziale per l'esatta
identificazione di una nubile. Era invece precisa nell'indicare il notaio dell'unico atto
mondano compiuto in vita. Troppo importante era stato l'acquisto con cui si era
garantita il mediocre vitalizio che costituiva la parte sostanziale della propria ricchezza.
Ho così potuto rintracciarne una copia, che risale al 1650, e sciogliere il dubbio: Erminia
era la terza figlia di Nicolò Bosio28.
28 ASVI, N, b. 11490, 5.6.1673. La monaca convertita beneficiata da Erminia è forse Rosa Maria, al
secolo Lavinia, figlia di Alessandro di Curzio Bosio, testatrice nel 1676 (ASVI, N, b. 11184 c. 76,
23.11.1676); per la cedola ASVI, N, b. 1504, fasc. 2/1650, 9.2.1650. Sulla trasformazione del
cognome da Del Buso a Bosio, che avviene nel corso della prima metà del Seicento, avremo modo di
tornare. Gli statuti delle Zitelle in L. GIACOMUZZI, Influsso francescano, cit., pp. 49-66.
60
Sopravvissuta alla peste nell'isolamento della Casa, circondata da donne, l'ultima
discendente di Nicolò ricordava esclusivamente donne. Nessun riferimento esplicito alla
sua famiglia di origine contiene l'atto con cui, trasgredendo in parte una clausola del
contratto che ne obbligava la cessione a consorelle, ella beneficia soprattutto una nipote:
Florinda Rubini Braschi. Florinda, come sua madre, un nome che in famiglia qualcuno
aveva pur voluto ricordare.
61
Capitolo 3.
Amici e parenti
1. Nicolò aspetterà dodici anni la morte dopo l'amara delusione del 1618; avrà modo
così di assistere alle sciagurate imprese del figlio Giulio Cesare, accusato di furto,
ingiurie ai presidenti del collegio e bestemmia. Egli stesso non era sempre stato l’uomo
curvo e malaticcio che abbiamo conosciuto; in gioventù aveva partecipato alle risse ed
ai regolamenti di conti così frequenti in quella società cittadina che i rettori veneziani
dipingevano spesso come la più litigiosa del dominio. Con Francesco Angiolello aveva
aggredito e ferito un uomo. I due, giudicati in contumacia, se l'erano cavata con una
pena pecuniaria29.
L'ultima sua lunga battaglia legale lo strocherà definitivamente nel fisico, Nicolò,
“povero vecchio et impotente, reso stanco dalli travagli et dispendii che sogliono cavare
le litti” tenterà invano di recuperare i beni fedecommessi dall'antenato Battista di
Girolamo nel proprio testamento del 1546. La causa, il cui esito favorevole gli avrebbe
fatto pervenire le discrete sostanze di un ramo collaterale estinto, lo assorbirà dal 1620
alla morte. Le resistenze dei possessori dei beni contesi cederanno solo nel 1655 e ne
beneficeranno discendenti di collaterali30.
2. Nato nel 1568, il nostro protagonista era l'ultimo dei quattro figli maschi di
Andronico di Nicolò Del Buso. Di mediocre fortuna, la parabola sociale della famiglia
assume i caratteri dell'emblematicità: a partire dall'inizio del Quattrocento essa percorre
il cursus honorum tipico di molte più grandi casate aristocratiche della città31.
29 Le ragioni della turbolenza sociale della società vicentina fra Cinque e Seicento sono state oggetto
dell'attenta analisi di Povolo in una serie di lavori: ricordiamo per brevità La conflittualità nobiliare in
Italia nella seconda metà del Cinquecento. Il caso della Repubblica di Venezia. Alcune ipotesi e
possibili interpretazioni, «Atti dell'Istituto Veneto di Scienze lettere ed arti», CLI (1992-93), pp. 89139 e la monografia del 1997 L'intrigo dell'onore, cit., alla cui bibliografia rinviamo. La sentenza in
BBVI, AT, b. 1139, c. 119, 23 /4/1588. Gli Angiolello nella precedente generazione aveva dato due
donne ai Del Buso, Paola, madre di Nicolò e Giustina, moglie dello zio Battista. Il rapporto di stretta
alleanza messo in essere con matrimoni incrociati attraverso le generazioni, scambi di uffici di
palazzo, rapporti economici frequenti dei Del Buso particolarmente con gli Angiolello, i Castellini, i
Ferretto ed i Pace, queste ultime tre famiglie notarili, è un elemento chiave per cogliere i passaggi nel
cursus honorum dei primi. È Giovan Maria Angiolello che nel 1571 propone con successo di
aggregare Andronico nel numero degli Accademici olimpici , BBVI, AO b. 4-69, c. 36; è Gregorio
Angiolello che raccoglie l'appalto delle imposte dopo la sua morte e sono Anton Maria e Gio Paolo
Angiolello che assumono la tutela degli orfani (ASVI, N, b. 8070 c. 75, 11.6.1573).
30 ASVI, CRS, mz. 2139 fasc. 99, c. 20, 1/6/1645 scrittura di Alessandro e Carlo Del Buso che fa
riferimento al decesso di Nicolò; la cit. è a c. 17; copia del testamento dell'antenato a c. 2. Il fascicolo
contiene anche un albero genealogico dei Del Buso non datato, ma posteriore al 1645.
31 La data di nascita di Nicolò è riportata in ASVI, CN, vol. 122, c. 9v. L'emblematicità della vita
delle persone è fastidiosamente ostracizzata da Corazzol, che la trova disdicevole associandola
all'idea di “destino speciale”. G. CORAZZOL, Cineografo, cit., p. X. Qui emblematico è invece inteso
come medio, caratteristico di un ceto, specchio di molti e passibile di generalizzazione. Beninteso, non
la vita dei singoli, ma le vicende familiari attraverso i secoli.
62
Sul pavimento della chiesa urbana di San Michele, accosto alla tomba di Chiara di
Lodovico Venier, procuratore di San Marco nel 1448, “è un'antica sepoltura sopra la
quale si lege questo epitafio
SEP. NICOLAI Q. NOB. VIRI GUIDONIS DEL BUSO
QUI OBIIT ANNO MCCCXXXIIII DIE III APRILIS ET HAEREDUM SUORUM”32.
Chi era il nobile Nicolò di Guidone Del Buso, morto il 3 aprile 1334? Presentando ai
censori del collegio dei giuristi la candidatura del figlio Andronico, nel febbraio del
1679, Carlo di Andronico produrrà fra le prove di nobiltà un certificato che trascrive
l'epigrafe con la precisazione che la lapide, posta nei pressi dell'altare dell'arcangelo,
godeva una posizione di massimo privilegio. L'albero genealogico allegato dal
supplicante inizia però con un Franceschino, padre di Silvestro, e fa riflettere sul grado
di attendibilità della pretesa parentela, così come appare fragile il collegamento del
richiedente con le pagine dello storico Pagliarino “ubi agit de familia Bosia”. Tanto più
che nel proprio testamento del 1484 Silvestro chiedeva di essere inumato a San Silvestro
con i suoi predecessori e solo a partire da suo figlio Battista, testatore nel 1511, la tomba
di famiglia dei Del Buso sarà a San Michele33.
3. I dubbi sulla tomba insinuano dubbi sull’antichità del lignaggio. Alla fine del
Seicento il piccante genealogista Francesco Tommasini negava origini remote alla
famiglia riportandone le radici, così come era avvenuto per altre ben più titolate schiatte
di aristocratici vicentini, all'umiltà delle più ignobili professioni. Se i Del Buso “erano
prima pezzaroli”, i Pace erano stati ciabattini, e se modestissime erano pure le origini
degli Angarano e dei Beregan, dubbie si rivelavano quelle dei Trissino e dei Barbarano.
Lo spirito di rivalsa che aveva indotto Tommasini, mascherato sotto uno pseudonimo, a
trascurare il dovuto ossequio ai grandi, cosa che gli sarebbe costata pure un processo
inquisitoriale, lo aveva altresì portato a trascurare i miti e le leggende delle origini
comunemente utilizzati dai genealogisti che lo avevano preceduto34. Nel nostro caso le
emergenze documentarie ne rivalutano pienamente l’opera. Un testamento dettato sette
anni prima da Silvester pezarolus q. Franceschini Bosii de Burgo Berice viene revocato
32
BBVI, Ms. 1739, S. CASTELLINI, Descrizione della città di Vicenza, p. 255. La chiesa di San
Michele, parrocchiale retta da monaci agostiniani, è stata demolita in età napoleonica. L’annesso
convento ospita oggi la sede dell'università vicentina.
33 La supplica di Carlo in ASVI, CG, b. 2838/12, c. 1, 17. Copia coeva del testamento di Silvestro in
ASVI, Test. bombacina, b. 292, 15.6.1484. Quello di Battista in ASVI, N, b. 153, 31.10.1511.
Significativamente il disponente, che dettava il proprio testamento a Padova, chiedeva la sepoltura in
San Michele “in monumento suo, et quod ponatur in uno deposito in ecclesia Sanctae Agatae donec
transportabitur Vincentiae illa minori impensa quae fieri possit” (corsivo mio). Sembra perciò che
fosse stato proprio lui a farsi costruire la tomba e che non intendesse in nessun modo essere inumato
altrove, nonostante i disagi e le spese per il trasporto del cadavere da Padova a Vicenza.
34 BBVI, Mss. 2537, 2538: Seripo Ovaschi Timenovic (pseudonimo anagrammato di Francesco
TOMASINI), Veridica origine e discendenza di tutte le famiglie nobili di Vicenza..., L. MEGNA, Storie
patrizie. Note sulla nobiltà vicentina nel Seicento, in F. BARBIERI, P. PRETO (ed.), Storia di Vicenza,
III/1 L'età della Repubblica veneta, cit., pp. 238-239.
63
nel 1450. Silvestro è definito semplicemente pezzarolo, ossia straccivendolo, negli
estimi del 1460 e del 147335.
Prima di Silvestro, e prima del 1450, non appare quindi attestato un nome di
famiglia. Il padre Franceschino, che muore nel 1440, il nonno Nicolò, già morto nel
1429, il presunto avo Almerico del fu Promezio civem et habitatorem Vincentiae, che
affitta la prima bottega dal comune sotto la loggia di San Michele nel 1410 (il
documento più antico a cui attribuire plausibilità genealogica che mi sia stato possibile
ritrovare36), sono sempre detti pezzaroli o tutt'al più maestri pezzaroli.
Pertanto da fine Trecento e sino a Franceschino di Nicolò la ricostruzione
genealogica è del tutto presuntiva, le informazioni si collegano per compatibilità di
nomi, date, residenze e si formulano ipotesi sulle parentele; Franceschino di Nicolò
pezzarolo è senz'altro il padre di Silvestro perché lo si trova con il patronimico in un
albero genealogico seicentesco, ma le uniche conferme sul fatto che il padre di Nicolò
sia Almerico pezzarolo, così come per Almerico sia Promezio pezzarolo, vengono dalla
mancanza documentaria di altri pezzaroli con cronologia adeguata. Non siamo di fronte
quindi ad un lignaggio che abbia una consapevolezza genealogica: fino alla fine del XV
secolo quello che i discendenti indicheranno sempre come il capostipite, Silvestro, sarà
ancora un pezzarolo con casa in Berga, un borgo di barcaioli e pezzaroli.
All'inizio del Quattrocento, quindi, si innerva nel tessuto produttivo e commerciale di
Vicenza una famiglia di distrettuali che proviene da Pilla di Longara e che esercita l'arte
della pezzaria al fianco di tante altre provenienti dal territorio. Nel corso di tre
generazioni la famiglia raggiunge una discreta agiatezza, cosicché Silvestro può
cominciare ad aspirare ad un ruolo civile di maggior peso per la sua progenie. È forse
con questa consapevolezza che, iniziando ad affiancare alla qualifica di mestiere un
nome di famiglia ed inventandone la genealogia, mette in atto una strategia funzionale
ad una rivendicazione di status. Almerico ha banco a San Michele, suo figlio Nicolò
affitterà un banco in piazza maggiore. Franceschino ottiene un banco in posizione di
privilegio, il primo della fila di pezzaroli e non lo utilizza solo per il commercio di
panni, ma anche per compravendite di terra, stipula di contratti societari nell'arte della
lana, acquisto di cereali e prestiti usurari camuffati. Un'attività che il prestigio con cui
sarà ricordato dai discendenti fa pensare abbia svolto con molto profitto anche Silvestro.
Gli antichi Del Buso, un lignaggio notarile estintosi probabilmente con la fine del
dominio scaligero, di cui la pietra tombale a San Michele rimaneva l'unico ricordo,
facevano esattamente al caso. Fra i notai del XIV secolo troviamo Gerardo di Nicolò
Bosii (1364), di cui sono stati conservati atti spesso rogati proprio nella parrocchia di
35
La revoca in ASVI, Test. bombacina, b. 281, c. 94, 30.4.1450. Non ho trovato il documento cui fa
riferimento. Per la definizione D. BORTOLAN, Vocabolario del dialetto vicentino, Bologna 1969
(anast. Vicenza 1893), alla voce, che lo trova attestato nell'estimo del 1564.
36 BBVI, AT, b. 778, c. 83v, 19.12.1410, c. 84r-v, 13.1.1411.
64
San Michele; nel 1379 e nel 1380 vi è iscritto suo figlio Battista, che scompare dalle
matricole dal 1383. Da allora e per tutto il XV secolo nessun altro individuo
riconducibile alla famiglia risulta iscritto fra i notai di collegio37.
Con l'inizio del Cinquecento riappaiono a pieno titolo in città i Del Buso: nessuno
dei tre figli di Silvestro (Francesco, Battista e Girolamo) sarà mai definito pezzarolo nei
contratti. La tomba di famiglia a San Michele conferma l'antichità del lignaggio e una
delle condizioni per l'ammissione di Andronico di Carlo nel collegio dei giudici, dopo
quasi due secoli, sarà che lui stesso ed i suoi discendenti siano sepolti a San Michele.
Alla fine della seconda decade del Cinquecento, nel corso degli anni tragici e densi di
rimescolamenti sociali successivi alla guerra della lega di Cambrai, Matteo di Girolamo
(di Silvestro) sale il gradino decisivo dell'ascesa civile riuscendo ad entrare nel novero
dei notai collegiati38. Tuttavia la carriera, per quanto rapida ai suoi albori, appare tardiva
rispetto a quella di lignaggi che con un secolo e più di anticipo preparavano il terreno
alle generazioni successive affinché queste potessero giungere alle cariche cittadine più
importanti, o a ricoprire prestigiosi incarichi civili e militari al servizio della
Repubblica. I Del Buso non saranno mai partecipi del potere più esclusivo: ottenuto in
prestito nel 1561 un seggio nel Maggior consiglio vicentino, nessun componente la
famiglia sarà mai cooptato nel Minor consiglio prima della seconda metà del Seicento e
solo nel 1680, quando la sopravvivenza di un unico ramo di discendenza concentrerà per
un breve periodo le ricchezze, Andronico di Carlo Bosio sarà accolto nel prestigioso
collegio dei giudici.
Del Buso o Bosio? Già nella matricola dei notai collegiati rinnovata nel 1600 il
redattore aveva annotato che le famiglie Bosio e del Buso erano in realtà una sola e
sarà negli anni successivi alla grande peste del 1630 che il nome di famiglia diverrà
definitivamente ed unicamente Bosio39.
Il nuovo nome è certo più elegante se la sua prima comparsa avviene nel 1618 in
campo letterario quando un Lelio Bosio vicentino pubblica una canzone in onore del
nuovo doge Antonio Priuli40. Ma se considerassimo le disavventure di Nicolò del 161337
ASVI, CN, b. 48, cc. 248r, 235v, 223v, 204r258v.
La supplica di Matteo di Girolamo Del Buso in ASVI, CN, b. 91, c. 975, 16.9.1519; l'iscrizione
nella matricola in ASVI, CN, v. 53, c. 22v 28.9.1519). Sui notai vicentini collegiati ed imperiali e sul
funzionamento del Collegio e l'attribuzione delle cariche di Palazzo utili informazioni in G. PAVAN, Il
collegio dei notai a Vicenza dalle origini alla metà del XIV secolo, Tesi di Laurea, Un. Padova, Fac.
Lettere e Filosofia, A.A. 1964-65 consultabile in ASVI; G. BISAZZA, Il Collegio, cit. e, dello stesso, il
succoso saggio Notai tristi, cit.
39 Sul seggio in consiglio S. RUMOR, Il blasone vicentino, Venezia 1899, p. 39.ASVI, CN, vol. 67 l. C a
margine : “notandum que familia Bosia et Del Buso est una et eadem”.
40 L. BOSIO, Nel felicissimo arrivo a Venezia del Serenissimo Principe Antonio Priuli. Canzone,
Venezia 1618. G. DA SCHIO (BBVI, Ms. 3385 dei Memorabili) ne dette il seguente giudizio: “stile non
ottimo, si legge con piacere, piena di immagini”. L'autore crede che si tratti di Livio, in realtà il Lelio
in questione va identificato con il figlio naturale dell'accademico Girolamo, una presenza effimera
nella storia della famiglia.
38
65
14 come decisive per la reputazione dell'intero lignaggio, che si ritrova inevitabilmente
disonorato, allora si potrebbe ipotizzare che non solo l'eleganza latineggiante abbia
spinto al cambiamento del cognome in Bosio41.
L'elogio del doge va sottolineato perché i Priuli dettenevano estesi possedimenti
terrieri a Villa del Ferro, villaggio contiguo a San Germano. La vicinanza con la
grande proprietà veneziana (a Campolongo, di fronte a quelli dei Priuli, si trovano le
centinaia di campi e la villa dei Dolfin) in cui la residenzialità, particolarmente per i
Priuli, non è affatto saltuaria, suggerisce una possibile chiave di lettura dei rapporti della
famiglia con i nobili veneti. La dignità dei Del Buso, con l'unica tarda eccezione
rappresentata da Ludovico di Livio che roga 288 atti a San Germano dal 1604 al 1621,
raramente li porta a svolgere la propria attività professionale in villa. Vicini deferenti ma
non subalterni, proprietari ma non scrivani quindi, almeno finché le alterne fortune del
lignaggio lo consentono.
4. Ammessi probabilmente alla cittadinanza vicentina in seguito agli incentivi offerti
ad artigiani e mercanti di lana all'inizio del Quattrocento, i Del Buso acquisiranno anche
la cittadinanza padovana nel 1460. All'attività di mercanti di panni affiancheranno quella
di mercanti di grano, sempre come finanziatori di società con piccoli capitali, intorno
alla media cittadina di 50 ducati. Ciò consentirà di accumulare una discreta ricchezza,
base della pur modesta ascesa civile della famiglia: Silvestro di Franceschino sarà
estimato nel 1460 in due lire e 10 soldi e nel 1463 in tre lire42. I profitti mercantili,
limitati al territorio vicentino, nel corso del Cinquecento erano stati affiancati dalla
rendita. La scomparsa di fonti societarie dagli atti notarili a partire dalla fine del XV
secolo fa perdere le tracce dei mercanti, mentre fa emergere con evidenza i notai ed i
capitalisti agrari. Sappiamo tuttavia che Cecilio, fratello di Nicolò, a San Germano
allevava pecore, ed immaginiamo che non lo facesse per allestire presepi viventi. Nel
1578 Stefano di Silvestro viveva civilmente nello stesso villaggio “né so che habbi mai
fatto altro essercitio che del far trar seda, et far mercantie di sede”43. Rentiers quindi
che vivono dell'entrata del commercio, che trasformano in loco, dove è ampiamente
attestata la diffusione del gelso, le gallette prodotte dai bachi da seta (cavalieri) in filo e
forse in tessuto, e che mettono subito a frutto capitali e profitti. Sfruttano la terra
41
La possibile transizione dal primo agli altri cognomi per motivi di trascrizione e di pronuncia, è
afffrontata per i numerosi Buso padovani da U. SIMIONATO, Cognomi padovani e antiche famiglie di
Padova e del suo territorio, Snt (ma Padova 1995), pp. 135-137.
42 Altri conferimenti di cittadinanza vicentina ad artigiani e mercanti, nella parzialità della
documentazione disponibile per l'epoca, in BBV, AT, Catastico. Civiltà, p. 232; Copia del diploma
che attribuisce a Silvestro la cittadinanza padovana in ASVI, CRS, b. 2838-2. Statistiche sui capitali
sociali dei mercanti vicentini del Quattrocento in J. GRUBB, La famiglia, cit., p. 177. Gli estimi di
Silvestro in ASVI, EST, b. 1-A, c. 17 e 110.
43 Il codicillo in ASVI, N. b. 8705, c. 46r. Allegro Allegri depone sulla civiltà di Silvestro di Stefano
Del Buso: Ivi, CN, b. 252, c. 5
66
soprattutto attraverso la stipula di contratti che, sotto la copertura di livelli francabili,
nascondono prestiti di denaro ad usura.
Chi legga i registri ed i minutari dei notai dell'epoca resta sbigottito dal numero,
dall'esigua quantità, talvolta anche uno o due soli quartieri (quarti di campo), e dalla
variabilità nei prezzi della terra che trova descritta nei contratti. Alla fine del
Cinquecento il valore di un campo in val Liona, dove si trovano i villaggi di San
Germano, Grancona, Campolongo e Villa del Ferro, poteva oscillare dai 5 agli 80
ducati. Tali oscillazioni si riconducono alla qualità della terra, di cui è possibile avere
un'idea dalla descrizione sommaria dei confini contenuti nell'atto e da quella inserita
negli estimi dei proprietari. Ma non sempre si cedeva terra libera, spesso anzi si trattava
di terra deprezzata poiché su di essa gravavano diritti enfiteutici. Nei contratti di livello
condizionato, o francabile, il livellario si impegnava a pagare un canone per un numero
definito di anni al termine dei quali doveva consegnare al livellante il capitale pattuito e,
affrancando in tal modo il livello, diveniva proprietario con dominio sia utile che
diretto. Se da un lato questi ultimi si risolvevano in una sorta di vendita a rate della
terra, dall'altro diversi erano i prestiti mascherati da una finta vendita ed un successivo,
immediato, livellamento condizionato della stessa terra da parte dell'acquirente al
venditore. In questo caso la terra diveniva il pegno che garantiva il prestito di denaro. I
contadini impoveriti molto spesso non riuscivano a riscattare la loro terra e si trovavano
così alla scadenza trasformati, nella migliore delle ipotesi, in livellari perpetui di una
terra che prima era loro, con tutti gli oneri ed i rischi che un simile nuova condizione
comportava, nella peggiore costretti con la forza all'affrancazione che in caso di
insolvenza portava a sequestri, pignoramenti, altre vendite forzose, fughe, prigione,
galera44.
La famiglia Del Buso avvia fin dalla prima metà del Quattrocento un'acquisizione di
terre, talvolta accettate in pagamento da debitori, concentrando via via la politica degli
acquisti su un territorio circoscritto. Nel 1554 a San Germano i Del Buso, suddivisi tra
Girolamo, Stefano, Giulio e Nicolò (nonno del nostro), possiedono tre grandi case e
circa 140 campi, dispongono inoltre di alcune case a Vicenza; il ramo di Villaga,
concentrato nelle persone di Matteo e del fratello Ludovico, possiede una casa e 66
campi a Villaga, 52 campi a Lisiera e due case a Vicenza; entrambi i rami riscuotono e
pagano diversi affitti45. L'altra importante voce nelle entrate è quella degli uffici di
Palazzo, che i notai Del Buso gestiscono di generazione in generazione attraverso, oltre
alle ordinarie estrazioni, comodati, prestiti, ecc.
44
Sul problema dei livelli esiste un'ampia letteratura a partire da G. CORAZZOL, Fitti e livelli a grano,
cit. Un utile glossario, in cui sono anche definiti i contratti di livello, correda il volume collettaneo di
C. POVOLO (ed.) Dueville. Storia e identificazione di una comunità del passato, Vicenza 1985, pp.
1449-1452.
45 ASVI, EST, b. 24, cc. 420v - 442r per San Germano; b. 16 per Villaga.
67
Nelle loro proprietà di San Germano, conducono quindi vita civile e, insieme a
numerosi nuovi ricchi, incarnano il notissimo fenomeno dell'erosione di terre condotta
da cittadini ai danni di distrettuali. Lo zio di Nicolò, Camillo, “era cittadin onorato”, suo
figlio Livio viveva costantemente a San Germano “e la sua vita è d'andar a spazzo che
certo mai io l'ho veduto a lavorare ad alcun mestiero se non a giocare alle volte alle carte
... [e ciò nonostante che] esso messer Livio veste da povero cittadino e come va per
viagio va sempre a piedi”. Proprio nel momento in cui mettono in atto strategie
apparentemente di maggior efficacia, tentando un ruolo politico più attivo all'inizio degli
anni Settanta del Cinquecento (nel 1570 il consiglio dei 150 eleggerà Andronico vicario
ad Orgiano, Girolamo a Barbarano e Pace a Brendola), si inceppa il meccanismo
virtuoso e per i Del Buso inizia un periodo di decadenza46.
5. La necessaria coesione del lignaggio, presupposto indispensabile all'accumulo di
sostanze, con il moltiplicarsi delle linee di discendenza non può essere data per scontata.
Le aspettative dei giovani si scontrano con le strategie dei vecchi, da cui vengono
sacrificati per le superiori necessità di conservazione della ricchezza. Le diseredazioni,
le cause civili, fino all'attentato alla vita del parente scomodo, sono uno dei tratti
connotativi dell'epoca che consideriamo. Anche i Del Buso combattono fra di loro e non
va escluso che le numerose divisioni di eredità dell'ultimo scorcio di Cinquecento
possano nascondere la crisi del lignaggio che porterà alle cause civili per rivendicare
fedecommessi dagli anni venti del Seicento47. Ma c'è un fenomeno che induce queste
divisioni: la mortalità infantile che ad un certo punto colpisce, discriminandoli, i rami
più fragili della casa.
Spesso figli unici morivano “in pupillare età” subito dopo i loro padri. Nicolò Del
Buso, nonno del nostro protagonista, aveva avuto da Mattia di Giovanni Pace quattro
figli maschi, Pace, Camillo, Andronico e Battista. Tra 1567 e 1587 muoiono tutti:
l’analisi delle loro successioni è a tal proposito illuminante. Nel 1567 Ginevra
Cavalcabò, vedova di Camillo, ed i tre figli superstiti si dividevano le sostanze del
padre. Alla morte di Pace, avvenuta nel 1587, il suo unico figlio vivente, Gasparo, aveva
17 anni: morirà nel 1592 avendo avuto il tempo di mettere al mondo Pace (Pasetto) che
sarà già morto nel 1602. Le due morti consecutive avevano tolto dall'imbarazzo il
cugino Cesare di Andronico, loro tutore e contestulamente loro avversario nella causa
successoria allora in corso48. Il patrimonio di Pace poteva trasmigrare nei suoi nipoti che
pochi anni prima avevano anche incamerato i beni di Battista di Nicolò. Dopo essere
46
Le nomine a vicario sono ricordate in ASVI, CN, b. 300, fasc. 8 e 16. Per le testimonianze sulla
civiltà ASVI, CN, b. 258, Processi lustrali 1604, c. 58r, v.
47 Divisioni fra i consorti Del Buso ASVI, N, b. 8075, c. 38, 16.3.1581; c. 77, 18.11.1581; ASVI,
CRS, b. 1109, segn. A n. 1, c. 104, 18.11.1589 e c. 120, 1.10.1602. Numerosi processi che riguardano
i fedecommessi istiuiti da testatori Del Buso sono presenti in ASVI, CRS, bb. 1110, 1429, 2139, 2655,
2688.
48 La causa in ASVI, CRS, b. 1109, fasc. F n. 5 cc. 17, 23, 30, 33.
68
fuggito con i suoi due figlioletti maschi di nove e sette anni per sfuggire ad una
condanna del settembre del 1572, i suoi beni erano stati confiscati ed assegnati ai parenti
più prossimi. Nel 1577, ricevuta la notizia della morte di tutti i transfughi, Pace ed i
nipoti figli di Andronico e Camillo avevano diviso i beni dell’eretico con condizione
che li avrebbero restituiti se qualcuno fosse tornato dall’esilio. Inusitatamente il
maggiore dei due figli, Alcide, si era rivisto a Vicenza nel 1579 ma di lì a pochi mesi
sarebbe morto.
Alessandro di Francesco, cugino di Andronico, era stato destinato a glorificare il
ramo di San Germano con gli studi e le cariche nel collegio notarile, ma il fallimento
genealogico di entrambi i fratelli lo aveva spinto a sposarela giovane Elena Zugliano nel
1565. Quattro anni dopo, nel proprio testamento, aveva nominato erede universale
Ludovico, il figlioletto nato dall’unione. Ebbene, nel 1571 i soliti parenti si dividevano
anche i beni di Alessandro, essendo nel frattempo morti sia il padre che il figlio erede. I
due rami che sopravviveranno ad una simile morìa saranno quello di Camillo e di
Andronico49.
Fra i cinque rami che daranno vita alla settima generazione dei Del Buso si
estinguerà nella successiva solamente quello di Battista (ramo di Villaga). Quest’ultimo
era stato il solo a redigere un testamento in cui al figlio Girolamo, erede universale,
sostituiva i fratelli e la discendenza dei Del Buso sottoponendo i beni a fedecommesso.
Girolamo diverrà accademico olimpico nel 1571, sarà lui ad avere l'onore di proporre
l'aggregazione al celebre consesso del famoso medico Fabio Pace, parteciperà quindi ai
lavori organizzativi per l'inaugurazione del teatro palladiano. Ottenuta la statua su di un
lato della scena ed il nome inciso sulla grande lapide nell'odeo, la sua parabola umana
lo porterà, dopo aver svenduto le proprietà avite, al fallimento nel 1586. La perdita di
tutte le proprietà di Villaga e Vicenza sarà infatti il prezzo che Girolamo dovrà pagare
per onorare l’impegno assunto con la dotazione di 1.700 ducati assegnata alla sorella
Clarice. Il cognato Pietro Antonio Mainenti si dimostrerà infatti irremovibile nella causa
che gli intenterà. Il figlio naturale legittimato Lelio, presunto autore della canzone al
doge Priuli, costituirà un'effimera presenza, citato solo in un albero genealogico allegato
in causa e presto svanito50. Dei 12 maschi della generazione successiva testeranno
49
Qui di seguito fornisco i supporti archivistici di quanto detto. La divisione dei beni di Nicolò in
ASVI, N, b. 7605, c. 32; quella di Pace di Gasparo in ASVI, N, b. 3729, 1.9.1602; la condanna di
Battista di Nicolò, pubblicata il 27.9.1572, è ricordata in Ivi, CN, b. 205, 12.12.1572; le divisioni dei
beni di Alcide di Battista in Ivi, N, b. 8075, c.77r, 16.3.1581; il testamento di Alessandro di Francesco
in Ivi, CG, b. 2838, 12.7.1569; altre divisioni fra i consorti Del Buso, rogate principalmente dal notaio
Paolo Pace, datate dal 1581 al 1602, , sono raccolte in Ivi, CRS, 1109, fasc. A n.1. Gli atti tutoriale di
Paola Angiolello in AVI, N, b. 8069, cc. 180 segg., 9.10.1572, 9.12.1572, b. 8070, c.11, 20.1.1573, c.
13, 30.1.1573, etc.
50 Il testamento di Battista in ASVI, N, b. 465, 29.1.1546. Per Girolamo (che nei documenti
dell'Accademia viene detto erroneamente figlio dello zio Ludovico e anche dell'altro Matteo) il
periodo glorioso è documentato in BBVI, AO, cart. 4, fasc. 69, c. 33, 45; cart. 3 fasc. 22, c. 5v. Sarà
Girolamo a cedere, dopo un lungo stillicidio di prestiti a pegno della stessa (ASVI, CRS, b. 1109, segn
69
Alessandro di Francesco (1569), Pace di Andronico (1574) e Girolamo di Silvestro
(1588) privo quest'ultimo di figli maschi legittimi. Gli altri due nominano eredi i loro
discendenti maschi, istituiscono fedecommessi e sostituiscono i figli ai collaterali
maschi della famiglia; ebbene anche queste due linee di discendenza si estinguono quasi
subito ed i beni dei testatori, grazie alle sostituzioni ed ai fedecommessi, cadono nei
rami collaterali. Ricordando che il primo fedecommesso era stato istituito dall’antenato
Silvestro di Franceschino nel proprio testamento del 1484, atto che aveva fondato il
lignaggio, ancora al fedecommesso le generazioni successive ricorrono per puntellarne
le fragilità che la esigua discendenza di un ramo (un solo erede maschio, spesso molto
giovane) lascia intravedere.
6. Nella seconda metà del Cinquecento, si diceva, la potenza della Casa raggiunge il
suo temporaneo apice ed Andronico ne è per un momento l'esponente più in vista. Ciò
almeno fino alla sua improvvisa e misteriosa morte avvenuta all'inizio di ottobre del
157251. La malattia fatale ad Andronico era probabilmente stata favorita da un'ascesa
troppo spregiudicata e repentina. Il 1572 segna una brusca inversione di rotta nella fin
allora ascendente parabola delle fortune familiari. In quell'anno fatale, alla morte di
Andronico si aggiunsero la condanna al bando per 15 anni del cugino Girolamo e la fuga
del fratello Battista52. Nel settembre del 1573 Ludovico Costozza ed un suo bravo non
avranno riguardi a profanare il simbolo vivente del casato, Matteo di Girolamo che, in
aetate decrepita, sarà assalito e rapinato in casa. Un anno ancora ed il terzo fratello,
Pace, redigerà un testamento per non lasciare la discendenza sprovvista di disposizioni,
mentre l'esule eretico, con i beni sequestrati, aveva perduto la libertas testandi53. Ciò
ricaccia indietro i Del Buso, che non hanno forza sufficiente per rispondere agli attacchi
e che vedranno ridimensionata per alcuni decenni la loro posizione. Nella generazione
successiva ci sarà chi accetterà lo stato di fatto e si prodigherà nel mettere a frutto,
_________________
F n. 5, cc. 44, 48, 51), la possessione del bosco di Lisiera, 48 campi e casa dominicale, a Matteo
dell'Imperatore. Qui, precisato il cognome dell'ex fornaio Gregorio ed assurti due componenti la
famiglia al rango di medici preclari, sorgerà poi la villa Imperiali. (G. MANTESE, Memorie, cit., vol.
IV/2, p. 1029-1030). Per il successivo crollo finanziario ASVI, N, b. 9288, 5.2.1607 in cui si fa
riferimento al fallimento del dicembre 1586; il sequestro ordinato dal giudice del Sigillo in CRS mz.
2192, fasc, 1308 c. 3, 4.9.1586. Dal 1581 al 1585 Girolamo aveva già svenduto anche questi beni.
51 Nella matricola dei notai è segnata la data di morte 18.10.1572 (ASVI, CN, b. 61, c. 21v);
Andronico è invece morto il 3 ottobre: ASVI, N, b. 2007, fasc. EE n. 4, 10.7.1573.
52 Per Girolamo che, come visto, aveva abusato di una serva, BBVI, AT, b. 1137, c. 5, sentenza del
2/8/1572; per Battista ASVI, CN, b. 61, c.1; b. 205, 12/12/1572, la sentenza di condanna è del 27
settembre 1572, sul notaio eretico tornerò più avanti.
53 La sentenza contro gli aggressori del vecchio notaio in BBVI, AT, b. 1137, c. 93r. Ricordiamo che
Matteo era stato il primo notaio del lignaggio, colui che aveva aperto la strada del Collegio a tutti i
parenti. I querelati da Matteo negano anche sotto tortura e vengono condannati rispettivamente a tre e
due anni di bando. Il testamento di Pace di Nicolò, che morirà nel 1587, in ASVI, N, b. 8592,
31/7/1574. Ciascuna generazione dei Del Buso ha un membro che si incarica di supportarne i destini
con la redazione di un testamento che quasi sempre include il fedecommesso, ossia il divieto di
vendere i beni di famiglia. Dopo Silvestro (capostipite e quarta generazione,1484), sarà suo figlio
Battista (1511), ancora Battista del ramo di Villaga (sesta generazione, 1546). Testeranno nella
settima generazione, suddivisa in cinque rami, Alessandro (1569), Pace (1574) e Girolamo (1588).
70
localmente, il prestigio residuale, ci sarà invece qualcun altro che tenterà, come
sappiamo, una velleitaria scalata sociale.
Dopo aver ottenuto l'emancipazione dal padre, verso il 1560 Andronico ne eredita la
redditizia, ma pericolosa, attività di riscotitore di crediti per conto di terzi54. Spesso in
questi anni è nominato procuratore a rappresentare cittadini ricchi in contrasto con
aristocratici. Nel frattempo sfrutta anche la sua posizione di notaio collegiato per
esercitare, partendo da uffici di secondaria importanza, la scalata ai più lucrosi uffici di
Palazzo55.
Dal marzo del 1564 al 1569, seguendo i primi timidi esempi del padre e del fratello
Camillo, egli aveva affittato nel vicentino, a volte affiancato da parenti, proprietà
nobiliari (Naldi, Chiericati, Da Porto, Dall’Acqua) per migliaia di campi con contratti a
breve termine, impegnandosi a versare canoni annui per alcune migliaia di ducati. Cifre
formidabili, fino allora mai apparse nei talvolta pur intrepidi azzardi economici dei Del
Buso56.
Presentato dal cognato Giovan Maria Angiolello, il 24 maggio del 1571 Andronico
assurgeva alla gloria degli accademici olimpici a soli tre giorni dall'accettazione del
cugino Girolamo. Il 9 gennaio dell'anno successivo subentrerà a Valerio Barbarano nella
carica di tesoriero e successivamente sarà nominato rasoniero57.
L'ultimo grande affare di Andronico si formalizza il 20 aprile del 1572 quando il
Consiglio dei 100, considerata la difficile situazione dell'esazione ed il fatto che nessun
altro si era presentato alla gara, gli conferiva l'appalto per l’esazione delle colte dei
cittadini con stipendio di 250 ducati l'anno. Andronico, che dopo la morte di Alessandro
di Francesco, si trova ad essere il più vecchio del ramo familiare di San Germano, coglie
l'occasione per ricompattare i due colonnelli (rami principali) della famiglia: saranno
infatti il vecchio Matteo di Girolamo (Villaga), cugino di suo padre ed il cugino
Girolamo di Silvestro (San Germano) a garantire la solvibilità dell'esattore.
Forse spinto da insondabili appoggi veneziani sui quali confida, o dall'ambizione che
lo porta a sopravvalutare le proprie alleanze locali e di conseguenza i propri spazi di
manovra, egli non sembra percepire la reale misura della posta in gioco. Il 1572 è un
anno di grandi tensioni tra il Consiglio di Vicenza e la Dominante a proposito di colte.
All'inizio del 1571 e poi nel febbraio del 1572 il Consiglio dei Dieci aveva offerto ai
54
ASVI, N, b. 8061, 5.11.1560, c. 205r. In un atto dell'aprile 1559, Andronico, non ancora
emancipato, agisce su procura del padre: Ivi, b. 8061, c. 44, 14.4.1559.
55 ASVI, CN, b. 10, c. 616v, 14.1.1560 Andronico, estratto al banco del Cavallo, esercita al Pavone;
nel 1565 è estratto al Maleficio (c. 634v, 16.1.1565).
56 I vari contratti in ASVI, N, b. 7605, segn. 32; b. 8062, c. 14r; b. 8065, c. 39r, c. 54r; b. 8070, c.15r;
b. 8063 c. 47r; b. 8077, c. 274r, 12.11.1569.
57 BBVI, AA, cart. 4, fasc. 69, c. 33r, c. 36r. Girolamo era stato introdotto da Valerio Barbarano il 21
maggio. Per le cariche Ivi, c. 45r, 47r.
71
contribuenti l'affrancazione da dadie e colte capitalizzando l'imposta all'8% con un
versamento immediato alle Camere fiscali. Occorreva sovvenire alle necessità della
guerra col Turco e nella circostanza furono sborsati nel vicentino 84.375 ducati, 65.095
dei quali da proprietari veneziani58. La reazione dei vicentini che non avevano potuto
affrancarsi, e che a causa del sistema impositivo per carati si vedevano costretti a pagare
anche per coloro che non erano più tenuti a farlo, non si era fatta attendere. Alla fine di
novembre del 1572 i cittadini lamentavano il triplicare dell'imposta pro capite e
chiedevano accoratamente a Venezia di sospendere l'esazione. Dal canto loro gli
affrancati non intendevano pagare e si ribellavano ai sequestri per morosità. Nel 1582 il
capitano Bragadin era invitato ad intimare alla città di soddisfare entro otto giorni
quanto “gli è stato bonifficato per quelli … che sono debitori busi”, minacciasse
altrimenti un mandato esecutivo contro la città e frattanto facesse sospendere tutti i
sequestri59.
Il 2 agosto 1572 Girolamo di Silvestro, mallevadore per le colte, insieme con il
nipote Silvestro (di Stefano), aveva subito la già nota condanna del consolato per
rapimento, sequestro e violenza sessuale verso una serva quindicenne. Il 27 settembre
dello stesso anno Battista di Nicolò fuggiva dalla città. Due giorni dopo Michele
Zanfardin di Valdagno, servo (o bravo?) di Girolamo era stato affrontato e percosso. Il 3
ottobre del 1572 l'improvvisa morte di Andronico non appare quindi un episodio isolato.
Il caso di Prospero Bachino, che aveva dato la figlia Camilla in sposa a Cecilio Del
Buso, figlio primogenito di Andronico, è eloquente: esattore delle colte nel 1586, viene
ammazzato per aver osato promuovere una esecuzione giudiziaria contro Achille
Trissino, debitore insolvente60. Ricordiamo che il veleno, se pur lascia sospetti,
all’epoca può non lasciar tracce.
58
BBVI, AT, b. 412, fasc. 7, c.n.n. 15.1.1571, 13.2.1572. L. PEZZOLO, L'oro dello Stato. Società,
finanza e fisco nella Repubblica veneta del secondo '500, Venezia 1990, p. 187. Sulla questione, con
riferimento alle controversie tra i Pisani di Bagnolo e la città G. GULLINO, I Pisani, cit., p. 37. Il
sistema fiscale veneziano è stato trattato diffusamente; per alcune comunità rurali del vicentino si
vedano L. PEZZOLO, Dal contado alla comunità: finanze e prelievo fiscale nel Vicentino (secoli XVIXVIII), in C. POVOLO (ed.), Dueville, cit., pp. 381- 428; M. KNAPTON, L'organizzazione fiscale di
base nello stato veneziano: estimi e obblighi fiscali a Lisiera fra ’500 e ’600, in C. POVOLO (ed.),
Lisiera, cit., pp. 377-418
59 BBVI, AT, b. 404, fasc. 4, c. 1, 18.1.1570 MV; 3, 25.11.1572; 10, 30.6.1582. Il corsivo è mio.
Giudico illuminante che a dieci anni di distanza dal breve periodo di esattoria di Andronico si facesse
ancora riferimento, in documenti veneziani, al suo operato. Anche in documenti vicentini i Gritti,
Marcello, Cocco, Pisani, Giustiniani, Molin e Priuli sono definiti debitori busi (Ivi, fasc. 3 c.n.n.).
Ancora nel fasc. 3, datata 1572, è conservata un'istruzione in materia di colte e bonificazion di sussidi
a Girolamo Ferramosca, Orazio Conte, Giulio Bonifacio e Guido Arnaldi, oratori della città a Venezia
contro i nobili veneti che non intendono pagare con dettaglio delle singole partite. Il rendiconto della
gestione delle colte da parte di Andronico, Gregorio e Francesco Angiolello ed infine Cecilio Del
Buso per il 1572 viene presentato l'1.4.1583. Il volume totale delle entrate era stato di lire 82.779, 18
soldi e 6 denari (ASVI, N, b. 764).
60 Per la condanna a Girolamo e Silvestro BBVI, AT, b. 1137, c. 5r; per la sentenza contro Battista
ASVI, CN, b. 61, c.1r; b. 205, 12/12/1572; per le percosse al servo BBVI, AT, b. 1137, c. 69r
72
Il trionfale 1571 è lontano anni luce dall'apocalittico secondo scorcio del 1572.
Credo che solo grazie all'energia con cui la vedova di Andronico, che riesce
inizialmente a farsi assegnare la tutela dei figli, amministra le partite creditorie e
debitorie del marito, la sua discendenza sarà l'ultima della Casa ad estinguersi. Nel
proprio testamento del febbraio 1591 Paola, dopo aver assegnato metà della propria dote
alla figlia Vittoria, moglie dal 1587 di Giacomo Zugliano, ed i restanti 350 ducati ai
quattro figli, chiedeva di essere sepolta in San Michele presso il marito.
7. La cancellazione dai notai collegiati di Battista Del Buso, registrata il 12 dicembre
del 1572, ci informa sulla causa di un provvedimento tanto drastico: lo zio di Nicolò era
un eretico. Condannato dall'inquisizione vicentina, era fuggito dalla città con tutta la
famiglia ed una statua che ne riproduceva le fattezze era stata bruciata super plathea.
Battista almeno da un anno aveva immaginato un simile epilogo e si era preparato
all'esilio attraverso la vendita al miglior offerente di tutti i propri beni.
Sull'eresia a Vicenza è già stato detto molto, particolarmente riguardo Alessandro
Trissino, Odoardo Thiene, i Pellizzari, il “Colombina”, processati a Venezia dopo il
154761. Il compilatore dell'indice del Santo Ufficio di Venezia segnalava con stupore il
numero di processi ad eretici vicentini, inferiore nella Repubblica solamente a quello
dei veneziani (gli abitanti di Venezia erano circa 180.000, quelli di Vicenza 25-30.000).
E se per gli anni 1547-1567 sono stati conservati 20 processi (media 0,95 l'anno), nei
soli quattro anni dal 1568 al 1571 ve ne sono 21 (media 5,25).
Del credo eterodosso di Battista, oltre che l'annotazione nei registri del collegio, dà
notizia anche il fratello Pace nel proprio testamento del 157462. Il fratello di Andronico
fu processato dall'inquisizione vicentina e, non essendo disponibile il fondo relativo,
occorre muoversi in altra direzione per tentare di formulare ipotesi plausibili sul circolo
di amicizie e su di una più esatta definizione del giro di eretici di cui Battista
presumibilmente faceva parte.
Delio Cantimori riprendeva parecchi anni or sono da un resoconto di Vergerio, il
vescovo di Capodistria passato ai protestanti, il caso del cittadellese Francesco Spiera.
Morto disperato per aver abiurato la sua nuova fede ed essersi così condannato alla
dannazione, era divenuto presto famoso per essere stato utilizzato dalla propaganda
protestante. La scoperta che lo Spiera fosse un notaio, che avesse rogato fra il 1529 ed il
1545 sei testamenti, e che questi testamenti non riportassero, se non il più antico, la
consueta commendatio animae tripartita a Dio, Madonna e Santi, ma bensì una originale
invocazione a Dio e alla Passione di Gesù Cristo, ha allargato il campo alla ricerca sugli
_________________
sentenza dell'1/8/1573. Il caso di Prospero Bachino in BBVI, AT, b. 1139, c. 69, 31.5.1586 e C.
POVOLO, L'intrigo, cit., p. 320.
61 A. OLIVIERI, Riforma ed eresia nella Vicenza del Cinquecento, Roma 1992. La cancellazione di
Battista in ASVI, CN, b. 205, 12.12.1572.
62 L'indice in questione sta in ASVE, n. 300. Il testamento di Pace in ASVI, N., b. 8592, 31.7.1574
73
eretici italiani anche al materiale notarile. Non è solo la raccomandazione dell'anima
inserita nei testamenti ad interessare il ricercatore: l'indagine di storia ereticale può
puntare l'attenzione sul rituale mortuario e su consistenza e natura degli eventuali legati
pii63. Il metodo induttivo quindi, in mancanza di fonti certe, aiuta lo studioso impegnato
nella costruzione di reti ereticali che non si conoscono o per non essere state scoperte
dagli inquisitori, oppure perché non se ne è conservata memoria nei documenti
sopravvissuti.
I fondi dei Collegi notarili, offrendo invece informazioni dirette, possono rivelarsi
preziosi strumenti nella ricerca dell'eterodossia ed il caso della cancellazione del fratello
di Andronico lo testimonia eloquentemente. Un rapido sondaggio, per alcuni anni
cruciali, ha rivelato che altri tre notai le cui famiglie erano in stretti rapporti con i Del
Buso, condannati dall'inquisizione, avevano abiurato ma erano stati comunque esclusi
dalle matricole. Nel 1568 era stato il turno di Alessandro di Melchiorre Pace, nel 1575
era toccato a Fabio di Paolo Pace, nipote di Alessandro, Agostino di Giacomo Zugliano
e Flaminio di Gio Matteo Dagli Orci “uti hereticos formales”.
Il 4 ottobre del 1571 Fausto Dagli Orci era imprigionato nelle carceri
dell'inquisizione vicentina per aver venduto libri proibiti sotto le logge. Un suo garzone,
interrogato, riferiva le caratteristiche blasfeme ed ereticali della condotta del padrone
aggiungendo che era solito accompagnarsi ogni giorno con cinque o sei luterani64. I
rapporti tra le famiglie in questione è comprovata, fra gli altri, dall'atto rogato il 17
maggio 1566 da Alvise Massaria dalla casa di Nicolò Del Buso in borgo Berga. Gli
eredi di Gio Matteo Dagli Orci abitavano una casa diroccata in strà grande ed Anna
Angiolello, loro madre e tutrice, aveva chiesto ai fratelli di restaurarla con un prestito da
ricavare dalle sue rendite. Finito il restauro, i conti fra le parti erano garantiti da
Alessandro Massaria, il medico della peste del 1577, ed il nostro Battista Del Buso
“ambi cognati et amorevoli parenti d'una parte et dell'altra”65. Ciò si aggiunge alle
sospette eterodossie degli Angiolello e alla nota vicenda di Giulio Pace, fratello di
Fabio, giureconsulto di fama europea fuggito a Ginevra e poi docente di diritto e
filosofia ad Heidelberg, Nîmes, Montpellier. Abiurato il calvinismo Giulio insegnò un
63
D. CANTIMORI, Prospettive di storia ereticale italiana del Cinquecento, Bari 1960, pp. 39-43, 5253. Cantimori credeva si trattasse di un avvocato.Alla commendatio ha già rivolto l'attenzione Federica
AMBROSINI, Ortodossia cattolica e tracce di eterodossia nei testamenti veneziani del Cinquecento,
«Archivio Veneto» n. 171 (a. CXXII, 1991), pp. 5-64. Devo le informazioni sullo Spiera e sull'utilizzo
in chiave ereticale dei testamenti alla comunicazione tenuta da Silvana Seidel Menchi il 13 novembre
1992 nell'ambito dei seminari del dottorato di ricerca in Storia Sociale Europea presso l'Università
degli studi di Venezia. L'utilizzo del notarile nell'ambito della ricerca ereticale è una pratica corrente
per la storiografia inglese e tedesca. Ho trovato gli altri Spiera scorrendo il repertorio dei notai in
ASBA. Una sola busta per ciascuno dei due testimonia un'attività piuttosto limitata.
64 ASVE, S. Ufficio, b. 30, fasc. A.
65 ASVI, N, b. 7579, alla data
74
anno a Padova per poi tornare alla famiglia a Valenza, dove morì ad 85 anni nel 163566.
Pace, Zugliano, Angiolello, nomi che ricorrono spesso fra i parenti acquisiti dai Del
Buso. Matteo Dagli Orci è il notaio che roga le procure di Drusiana, madre e tutrice di
Girolamo accademico, cancellato a sua volta dalla matricola nel 1571. Fabio Pace sposa
Elena Zugliano, sorella di Agostino e figlia di Giacomo Zugliano, dopo che è rimasta
vedova di Alessandro Del Buso. Chiara, sorella di Elena, aveva sposato in seconde
nozze Anton Maria Angiolello, Vittoria di Andronico aveva sposato Giacomo Zugliano
e Curio, figlio di Cecilio di Andronico, sposerà con dispensa vescovile Laura di Fabio
Pace ... non ci vuole molto per intuire la direzione di sviluppo di una ricerca sui
rapporti fra e dei nuovi eretici di Vicenza che potrebbe dare discreti frutti.
8. La decadenza dei Del Buso è un fatto incontrovertibile dalla fine degli anni
settanta del Cinquecento. Il clima politico della città in quegli anni, su cui presto
torneremo, offre plausibili ragioni estrinseche della crisi del lignaggio. Tuttavia le
ragioni intrinseche della debolezza vanno ricercate innanzitutto nell'implosione della
politica matrimoniale che mina le basi patrimoniali della Casa. Fra 1578 e 1579 si
succedono una serie di vendite-pegno, con cui Stefano di Silvestro e Pace di Nicolò
divengono debitori di Girolamo Priuli e vedono, in conseguenza dell'impossibilità di
affrancare la terra alla scadenza, diminuire vistosamente il loro patrimonio a San
Germano e Villa del Ferro. Intorno al 1588 emerge inoltre dai documenti una grave
esposizione debitoria di Curzio e di Claudio, ai danni dei quali sono ordinati dal giudice
del sigillo diversi sequestri di biade67. Il ramo di Villaga, dopo alcuni anni di grande
difficoltà, nel 1586 subisce un colpo irrimediabile dalle conseguenze giudiziarie della
già citata querela inoltrata da Pietro Antonio Mainenti contro il cognato accademico
Girolamo di Battista.
Ciò mentre il ramo di San Germano entra a sua volta in crisi a causa della dotazione
della giovane vedova di Alessandro di Francesco che, a fronte di una dote incassata di
900 ducati, si ricollocava sul mercato matrimoniale con 2.000 ducati. Dai documenti
emerge come siano stati gli eredi a convincere la giovane vedova a risposarsi,
obbligandola in tal modo a rinunciare all'usufrutto sui beni del marito, ma la
capitalizzazione della dote da restituire si rivelerà un conto pesantissimo da pagare.
Nonostante che la sua famiglia da generazioni agisca in concorso con i Del Buso
66 Nel 1569 solo la morte evita al “medico Anzolello” [Francesco] l'incrimiazione dal Santo Ufficio
veneziano (ASVE, S. Ufficio, b. 30, proc. contro Nicolò Negri, c. 15v). Brevi biografie di Fabio,
celebre medico, e Giulio Pace in G. MANTESE, Memorie, cit., vol. IV/2, p. 1006-1011. L'autore
riferisce sul calvinismo di Giulio, ma ignora la condanna di Fabio. Le procure di Gio Matteo in ASVI,
CN, b. 56 c.7. Suo figlio è cancellato il 18.7.1568: Ivi, CN, b. 204, c. 25v. La condanna
dell'inquisizione per Flaminio è del 5.7.1574, per Fabio ed Agostino del 7.10.1574: Ivi, CN, b. 205,
15.4.1575.
67 Per Stefano e Pace ASVI, N, b. 851, prot. 1, cc. 87v-92v; prot. 2, c. 4r; per Claudio e Curzio ASVI,
MAS, b. 96: 14.8.1587; 16.9.1587; b. 97: 7.6.1587, 10.7.1587, 1.9.1587
75
nell'attività del collegio notarile e nonostante i frequenti reciproci scambi matrimoniali,
Fabio Pace, nuovo marito di Elena, a partire dal 1575 lotterà strenuamente contro i
consorti Del Buso per ottenerne i pagamenti dovuti. Una sentenza del gennaio 1579
condannava i Del Buso a versare 350 ducati e nel luglio successivo, constatato che
esisteva ancora un debito di 650 ducati, i debitori cedevano al cognato creditore buona
parte dei beni a San Germano, divenendone livellari. La restituzione contestuale della
dote di Dardanida Bottarino, vedova di Pace di Nicolò, e la dotazione della di lei figlia
Creusa, porteranno Gasparo di Pace ad accettare l'eredità con beneficio di inventario.
Ciò mentre l'altra figlia Mattia viene dotata con 1.000 ducati per poter sposare Orazio
Costozza e Arcisa di Alfonso Del Buso andrà sposa con 700 ducati, l'anno successivo, al
notaio Gio Maria Benedetti. Quattro matrimoni che uniranno maschi dei Del Buso con
nomi prestigiosi (Della Volpe, Trissino, Piovene, Poiana), porteranno alla famiglia doti,
fra 1581 e 1607, per 1.800 ducati: un bilancio spaventosamente passivo il cui deficit i
parziali recuperi delle successive generazioni non compenseranno68.
D'altro canto la crisi del grande lignaggio aristocratico di Terraferma aveva raggiunto
il suo apice proprio in quel torno di anni. La perdita di legittimità politica che le spinte
dal basso e dall'esterno portavano alla compagine un tempo indiscussa detentrice del
potere locale, ne rendeva sempre più evidente la nervosa impotenza. Smarrite
nell'incomprensibile dialettica tra gruppi di potere veneziani e ceti emergenti che ne
usurpavano le prerogative, le famiglie che fino a pochi decenni prima avevano
egemonizzato consigli e cariche, affacciandosi anche a ribalte di maggior importanza, si
sentivano sempre più minacciate e reagivano arroccandosi dentro valori anacronistici69.
Le spaccature generate da una simile situazione non esaurivano la loro carica
disgregatrice nelle fazioni violente e negli eserciti privati che si contrapponevano per le
strade delle città, o nelle prevaricazioni delle miriadi di armati prezzolati che
scorrazzavano per le campagne; anche dall'interno delle singole Case si sentivano
pervenire gli echi di lotte fratricide che contribuivano alla crisi70.
68 La dote di Arcisa in ASVI, N, b. 1056, 28.12.1589 [ma 1588], quella di Isabella Ivi, 11.10.1604.
per Creusa e l'eredità di Gasparo in ASVI, CRS, mz. 1109, fasc. F n. 5, c. 30r, 3.4.1590. Livio di
Camillo sposa Camilla di Zuanne Poiana nel 1581, dotata con 300 ducati e Caterina di Ruggero Della
Volpe dotata con 225 ; Claudio, suo fratello, ottiene da Antonia Piovene 800 ducati, Ludovico di Livio
sposa nel 1607 Attilia di Iseppo Trissino con dote di 500 ducati (Ivi, N, b. 7415, c. 54v ; b. 7932, n.
13, 26). La causa tra Fabio ed i Del Buso in Ivi, fasc. A n. 1, cc. 65r-84v. Il crollo finanziario del ramo
di Villaga è documentato in ASVI, N, b. 9288, 5.2.1607 in cui si fa riferimento al fallimento del
dicembre 1586 e Ivi, CRS mz. 2192, fasc, 1308 c. 3, 4.9.1586.
69 C. POVOLO, L'intrigo dell'onore, cit., p. 241, 265 segg., 317-318; ID., La primogenitura di Mario
Capra, Vicenza 1991, p. 11
70 Le laceranti divisioni interne al ramo dei Da Porto di Castelvecchio sono oggetto del mio studio S.
LAVARDA, Ca’ del diavolo, cit. Nel 1604 una pace imposta dal Capitano Francesco Contarini
testimonia altresì il tentativo di sanare la faida fra due diversi rami dei Valmarana, di cui si rendono
mallevadori altri vecchi del lignaggio ASVI, N, b. 912, 13.9.1604. Il caso di Scipione Loschi esposto
nel primo capitolo, che denuncia due decenni dopo i reiterati tentativi dei suoi parenti di eliminarlo,
diviene perciò emblematico: ASVI, CN, vol. 273.
76
Negli ultimi decenni del Cinquecento la lunga faida che vede coinvolte le famiglie
Da Porto e Capra assumeva toni drammatici essendo il controllo dei consigli cittadini la
posta in gioco. Alla fine i Da Porto perdono il predominio politico nel Consiglio dei
150 a vantaggio del partito avversario. Sebbene la lotta con i Capra ed i loro alleati
continui ben oltre la soglia del XVII secolo, alternando periodi di sopore a bruschi e
drammatici risvegli, è in questi decenni cruciali che viene meno buona parte delle
residue possibilità di difesa dell'autonomia politica della più antica aristocrazia cittadina.
La battaglia sulla vacanza delle cariche e la conseguenti riforme del consiglio del 1541 e
1593, imposte da Venezia, unitamente all'inasprirsi della legislazione criminale, portano
in un vicolo cieco di frustrazione e di impotenza71.
La sempre più necessaria trasversalità delle alleanze poggiava sicuramente anche in
basso e se le grandi famiglie aristocratiche avevano da tempo snobbato la partecipazione
diretta alla gestione del collegio dei notai, appare evidente che loro emissari dovevano
farne parte riproducendo equilibri di potere difficili da identificare perché mutevoli e
fondamentalmente occulti. Credo che solo nel riverbero di tali equilibri una famiglia
mediocre e di recente ascesa potesse sperare di ottenere vantaggi. Se per tutto il
Quattrocento e buona parte del secolo successivo si avverte la presenza dei Barbarano,
la tutela dei Valmarana, la clientela con i Thiene72 e la contiguità dei Poiana alle spalle
dei Del Buso, negli ultimi decenni del Cinquecento è più difficile identificare rapporti di
tal genere, anche per una maggiore autonomia, o audacia, nelle azioni che la famiglia
dei notai di Berga sceglie di mettere in atto; restano comunque degli indizi.
Il 1572, che abbiamo visto essere così decisivo per le sorti della famiglia, è anche
l’anno della morte del celebre comandante militare Ippolito Da Porto. Antonio Maria
Angiolello, cognato di Andronico e Battista Del Buso, redige nell'occasione una
celebrata orazione funebre letta nell'Accademia Olimpica e subito pubblicata con la
storia della famiglia Da Porto a corredo. Contestualmente Fabio Pace, dedito alle lettere
oltre che alla medicina, scriveva un epigramma In morte del Conte Ippolito Porto in cui,
al pari del morto, esaltava il discorso di Antonio Maria angelo uman. Incidentalmente
va segnalato che Leonardo Valmarana, componente di punta della famiglia di cui i Del
Buso appaiono clientes fin dall'inizio del Quattrocento, sposa nel 1573 Elisabetta, orfana
di Ippolito, consolidando così il rapporto tra le due Case73. Ricordiamo in sovrappiù che
pochi anni prima Andronico di Nicolò aveva affittato a 300 ducati l'anno la possessione
di campagna di Giulio Da Porto e che nel 1565 anche il fratello Battista intraprendeva
71
S. ZAMPERETTI, Poteri locali e governo centrale da Cambrai al primo Seicento, in Storia di
Vicenza, 3/1. L’età della Repubblica veneta (1404-1797), Vicenza 1989, pp. 101-111.
72 Una lettera datata Venezia 9 fevrier 1527 attesta il patronato di Girolamo Thiene su Matteo del
Buso chiamato per mera formula di cortesia suo como fradelo ASVI, N, b. 6226, prima dell'atto
15.11.1535.
73 C. POVOLO, L'intrigo, cit., pp. 269-270.
77
l'attività di affittanziere locando per cinque anni da Gaspare di Nicolò Da Porto tutte le
proprietà dei Berici meridionali con corrispettivo di 400 ducati l'anno74.
Troppo poco per dire che i Del Buso ed i loro collegati, Pace ed Angiolello, si
muovessero nel cono d'ombra dei Da Porto ed ipotizzare che la crisi di questi ultimi
abbia influenzato le fortune dei primi, tuttavia le concomitanze e gli indizi propongono
seriamente tale ipotesi, tanto più se si considera anche l'importanza della famiglia Da
Porto nella storia dell'eresia di Vicenza. Francesco Da Porto, condannato una prima
volta dall'Inquisizione nel 1580, abiurerà e la questione si concluderà con un forte
esborso di denaro; ultrasettantenne, vedrà nel 1587 formarsi un secondo processo a suo
carico. Assolto dall'inquisizione romana nel gennaio del 1590, sopravviverà un altro
anno. Il suo nome ricorre spesso nelle lettere di due fra i più famosi transfughi vicentini
per motivi di religione: Lorenzo Pellizzari e Odoardo Thiene, e lo si è anche reputato
vicino ad Alessandro Trissino75.
9. Nonostante che nel 1601 venga nominato vicario a Brendola, il primogenito
Cecilio (1554-1605) eserciterà esclusivamente incarichi di Palazzo e si impegnerà in
un'attività molto intensa di acquisti e successivi livellamenti di terre a San Germano,
dove risiederà stabilmente imponendo ai suoi eredi di costruire nella parrocchiale una
tomba di famiglia. Un simile attivismo, funzionale al tentativo di assumere un ruolo
egemone all'interno del piccolo centro berico, soprattutto al cospetto dei principali
lignaggi contadini dei Troncon, Barugola, Bertesina e Giacomuzzo, si esaurirà di fronte
all'intoccabile potenza dei Dolfin e dei Priuli ed alla morte, che lo coglierà a 51 anni76.
Solo l'aiuto dei parenti collaterali consentirà di erigere la tomba di famiglia, per la quale
74
Per l'affitto di Giulio Da Porto ASVI, N, b. 7605, segn. 32; ivi, N, b. 8070, c.15r; quello di Battista
in Ivi, b. 8063 c. 47r.
75 La fidejussione a non offendere i suoi accusatori che gli viene richiesta per ottenere l'assoluzione
induce a pensare che il tribunale avesse finito per giudicarlo vittima di voci calunniose: ASVI, AP, b.
58/1068. A. OLIVIERI, (Riforma ed eresia, cit.) disegna una genealogia culturale (p. 18): “da Simone
[ultimi decenni del '400] proviene Giovanni, poi Francesco Da Porto”. La linea di discendenza
biologica è: Simone, Nicolò, Gio Benedetto, Giovanni, Francesco. [M. DA PORTO, La famiglia Da
Porto dal 1000 ai giorni nostri, Vicenza 1979 (Dattiloscritto in Archivio di Stato di Vicenza), p. 70].
Nel 1555 Nicolò Pellizzari, il principale eretico-mercante cittadino, desidera che siano informati di un
suo viaggio a Parigi Francesco Da Porto, Giulio Capra e Francesco Stella (p. 384); Francesco appare
ancora nelle lettere di Odoardo Thiene del 1571 che attestano i rapporti fra il famoso transfuga e la
famiglia Bissari con cui Francesco è imparentato uxorio nomine (p. 452); ancor più egli sembra legato,
tramite i Pellizzari, ad Alessandro Trissino, la figura più eminente dell'eresia berica (p. 384). I legami
dei Porto con i Thiene denotano una relazione complessa, che andrebbe approfondita. Il Francesco
Thiene che nel 1568 viene denunciato nel processo contro Alessandro Trissino è forse il marito di
Isabetta figlia di Benedetto Da Porto (p. 344)? Sulla vicenda umana di Francesco Da Porto rinvio al
mio lavoro Ca’ del diavolo. Enigmi palladiani e vicende dell’aristocrazia vicentina fra Cinque e
Seicento, «Archivio veneto» V/CLVII (2001), pp. 5-48.
76 Al Sigillo nel 1590 e nel 1605 col nipote Andronico di Curzio: ASVI, CN b. 12 c. 86v e 143r; per
il vicariato Ivi, b. 300-16 e G. BRESSAN, Serie dei podestà e dei vicari della città e territorio di
Vicenza, Vicenza 1877, altri vicari della famiglia Del Buso: Ludovico nel 1566 a Montebello (p. 73);
Girolamo nel 1573 a Barbarano (p. 24) e nel 1598 a Valdagno (p. 114); nel 1576 Pace Del Buso cede
il vicariato di Brendola (p. 32); Bressan è evidentemente incorso in un errore attribuendo il vicariato di
Orgiano nel 1575 ad Andronico (p. 89).
78
Cecilio aveva voluto costituirsi come capostipite e la sua eredità, accettata col beneficio
di inventario, sarà ridotta a metà del Seicento a circa 12 campi ed una piccola casa
dominicale. La nuora Laura Pace (di Fabio), vedova del figlio Curio, vivrà fino al 1677
combattendo su diversi fronti per mantenere l'esigua sostanza. La più amara di queste
battaglie la vedrà sconfitta da Alessandro di Curzio Del Buso nel 1639, ed ella si vedrà
costretta a cedergli la parte dei beni fedecommessi, essendosi estinta la discendenza
maschile di Cecilio. Nel 1665 subirà ancora un sequestro ad istanza delle monache di
Araceli, e riuscirà a salvare una parte dei beni solo perché ipotecata alla sua dote. Il
comendatore che quel giorno si era recato a San Germano per effettuare il sequestro,
“fatta inquisitione diligente”, riferiva non aver trovato beni “di alcuna sorte”77. Con
queste laconiche parole si concludeva la parabola di una famiglia un tempo
relativamente potente.
Gli altri due fratelli di Nicolò sono Cesare (nato nel 1556), che amministra i beni e
tutela i minori, anche collaterali, del lignaggio, e Curzio (1560-1624). Ai destini della
famiglia sembra che Cesare abbia dovuto sacrificare la propria discendenza; dal tardo
matrimonio con Alteria Colzè (1599) non risulta gli siano nati figli maschi e Cesare,
forse per frustrazione, pare svolga con zelo non più che ordinario il suo compito: il 30
gennaio 1592 il podestà Girolamo Priuli gli intimava, sotto pena di 100 ducati, di
salvaguardare con attenzione i beni di Pace, infante di cui era tutore78.
Curzio sceglie invece di staccarsi dalla fraterna, la comunione dei beni e la
coresidenzialità con i fratelli, e di proseguire un itinerario che le scarse emergenze
documentarie sul suo conto fanno presupporre di basso profilo. Con il lignaggio
nell'occhio del ciclone la sua appare essere la scelta (se di scelta si tratta) più
lungimirante; solo a lui, che pazientemente defilato continuerà a coltivare la memoria
genealogica nominando i due figli rispettivamente Alessandro ed Andronico, la sorte
offrirà di garantire al lignaggio una continuità oltre la peste del 1630. Ciò consentirà di
accentrare nella propria discendenza le risorse fedecommesse, quindi di rilanciare il
percorso di ascesa sociale che porterà il nipote Carlo di Andronico al Consiglio dei 150
ed il di lui figlio Andronico al collegio dei giudici.
10. Sul finire del Cinquecento Giacomo Marzari (appartenente a sua volta ad una
famiglia notarile) rammenta nella sua Historia di Vicenza che i collegiati si segnalano,
77 ASVI, CRS, b. 1111, c. 76v, 9.3.1665. L'abortito tentativo egemonico di Cecilio sarà oggetto di una
prossima pubblicazione. Nel proprio testamento Camillo di Claudio Del Buso chiedeva, se fosse morto
a San Germano, di essere inumato “nella sepoltura delli figli del q Ser Cecilio Del Buso po che fu da
essi figli con li propri suoi denari costrutta et fabricata”, altrimenti nella tomba di San Michele a
Vicenza. ASVI, N, b. 9289, 7.4.1610. Per la causa di Alessandro contro Laura ASVI, CRS, b. 1429,
fasc. 36; la difesa contro le monache Ivi, mz. 1111
78 L'eredità di Pace di Nicolò era stata oggetto di una controversia interna alla famiglia e Cesare si era
così trovato in una difficile situazione di conflitto di interessi, come si direbbe oggi, essendo suo
dovere tutelare gli interessi di Pasetto di Gasparo e nello stesso tempo salvaguardare i propri che con
questi ultimi confliggevano. La causa in ASVI, CRS, b. 1109, fasc. F n. 5 cc. 17, 23, 30, 33.
79
più che per la nobiltà della loro nascita, per la mediocre ricchezza della maggior parte di
loro. Il nobile Gasparo Muris, notaio collegiato di antica tradizione familiare, è un
mediocre saltimbanco; altri, la maggior parte forse, non lesinano di usare vanga e
piccone nelle loro esigue proprietà di campagna, quando si spostano usano le gambe
non possedendo cavalcatura e va da sé che, potendo, i presidenti del collegio chiudono
entrambi gli occhi sulla loro condotta ignobile79.
Nicolò non si può dire fosse povero, ma certamente non era ricco. Nel 1590 si
trovava allibrato in estimo per 7 soldi e 6 denari; nel 1621 per 5 soldi, a testimoniare la
diminuzione di un terzo della sua capacità contributiva, ciò che lo confina in uno stato,
se non proprio di miseria, quantomeno di prossimità alla soglia del bisogno80. Orfano a
quattro anni, ne aveva 17 in occasione della divisione dei beni del padre ed era stato
perciò il fratello ventinovenne Cesare a rappresentarlo. A Cesare e Nicolò rimanevano
21 campi principalmente a San Germano, una parte della casa dominicale, affitti annui
da riscuotere per poco più di 12 lire, e da pagare per 86 lire. I beni derivatigli dalle
divisioni dei fedecommessi finiti nei rami estintisi con Silvestro di Stefano e Gasparo di
Pace, rispettivamente del 1589 (2 campi, 2 staia di frumento, fitti per 10 lire e due polli
l'anno) e del 1602 (poco più di due campi ed un affitto di circa 7 lire), ne avevano
rinforzato ben poco la base patrimoniale81.
Egli fin da bambino vive in sodalizio con il fratello Cesare che infatti sembra essere
l'unico familiare che ne compiange la sfortuna. Su Nicolò aleggiava una cattiva fama già
da prima del 1613: negli uffici era conosciuto per essere solito togliere denaro dalle
scatole senza darne parte ai colleghi. Tuttavia mentre viveva con la famiglia in una casa
piccola e decentrata e non ne usciva quasi mai per paura di incontrare i suoi numerosi
creditori, ciò appare tollerato. Ma fra 1612 e 1614 la nobiltà minacciata mette a rischio
l'autonomia del collegio ed il suo prestigio. La bisca, che Nicolò viene accusato di
gestire, è funzionale a rivelarne il carattere plebeo, il suo cinico attaccamento al denaro,
la volgarità della condotta, la mancanza di onore. Un modus vivendi che si contrappone
79
G. MARZARI, La Historia di Vicenza, Venezia 1591, p. 101, cit., assieme alla vicenda Muris, in G.
BISAZZA, Notai tristi, cit., pp. 3-33
80 ASVI, EST, b. 7, c. 29; Ivi, b. 9, c. 20. Nel 1634 il cittadino più ricco (o perlomeno quello che
dichiarava un maggior patrimonio) del minor consiglio di Vicenza era Bonifacio Poiana il cui
gigantesco palazzo confinava con quello dei Del Buso a San Silvestro, allibrato per 37 lire, 12 soldi e
6 denari. Fra i 150 consiglieri solamente quattro erano estimanti per meno di una lira (2.6%); 52 fra
una e cinque lire (34.6%); 40 fino a 10 lire (26.6%); 26 sotto le 15 lire(17.3%); 12 sotto le 20 lire
(8%) ed infine 9 sotto le 30 lire (6%): ASVI CN, b. 300
81 ASVI, CRS, b. 1429, n. 330, c. 6r, 15.8.1585. Il passivo più consistente era l'affitto di 74 lire e 8
soldi da pagare alle monache dell'Araceli. A Cecilio restavano quasi 22 campi, ma fra le sue voci
passive era compreso l'affitto di ben 24 ducati da versare annualmente a Curzio. Quest'ultimo aveva
venduto ai fratelli la sua parte dei circa 45 campi paterni il 5 luglio del 1584. Otteneva in pagamento
100 ducati in contanti e 400 in un affitto annuo al 6% (ecco i 24 ducati) da riscattare in otto anni:
ASVI, CRS, b. 1429, n. 330, c. 1r. Il 13 giugno 1585 Curzio stipulava il proprio contratto dotale con
Lavinia Castellini e ne otteneva una dote di 600 ducati: Ivi, c. 3r. Le divisioni del 1589 (18 settembre)
e 1602 (1 ottobre) in ASVI, CG, b. 2838, processo Andronico Bosio, cc. 10r e 13r.
80
clamorosamente a qualsiasi segno connotatorio di una benché minima dignità nobiliare.
La casa centrale “di gran fitto”, la boria ed il comportamento stravagante della moglie,
la figlia maggiore che andava “in ordine e pomposa”, il ridotto in casa propria “cosa
molto infame de un citadin”, divengono provocazioni intollerabili, specialmente quando
sono ostentate come il frutto di comportamenti divergenti dalla solidarietà corporativa82.
Il rapporto privilegiato con il rappresentante dell'autorità veneziana è tutto sommato
ambivalente: se da un lato l'inhonesta vita di Nicolò svilisce il ruolo notarile infamando
tutta la corporazione, dall'altro il patronato del podestà che ne protegge gli scandali è
funzionale a desacralizzarne la funzione simbolica. Così quando Orazio Scroffa, fra gli
altri, ricorda che Nicolò aveva venduto per 100 ducati l'onestà di sua figlia al giudice
del maleficio e che non c'era bozzolo che non parlasse di questo, il destino dell'aspirante
Rigoletto è definitivamente segnato. Il mercimonio della figlia, e la conseguente discesa
nell'abisso dell'abiezione e dell'infamia, trascinano con sé tutto l'apparato di vertice della
Repubblica: podestà, giudice del maleficio, contestabile, lo stesso palazzo da poco
costruito, sacrario del potere, che ospitava anche per 15 giorni consecutivamente
Ardemia. Nicolò organizza il proprio tentativo di difesa invocando l’intangibilità del
ruolo simbolico incarnato dal podestà veneziano, per questo si ostina a negare rapporti
con gli altri ufficiali subalterni. Alla fine sarà però egli stesso a spogliare il re,
denunciandone le meschinità. La condotta del podestà Zen, pover'uomo senza onore, si
presta bene ad essere utilizzata come rozza merce di scambio nella dialettica in corso fra
collegio notarile ed autorità veneziana che illustreremo oltre.
Quando viene interrogato su chi abitasse prima nella grande casa che aveva affittato
in contrà dei Proti, Nicolò si schermisce dicendo di non sapere per averla trovata aperta
e vuota. Riemerge poi dalle nebbie della sua memoria la circostanza che l'edificio prima
di lui era stato abitato dal giudice del maleficio. I rapporti con il podestà ed i suoi
ufficiali avevano già preso la piega che conosciamo. La casa ai Proti, di fronte
all'ospedale dei nobili decaduti, si configura come uno snodo della sua vicenda. Vi
confluiscono il podestà ed i suoi accoliti, ma non i nipoti. I primi sembra godano di un
diritto su quel luogo, ottenuto non solo con le promesse di dotazione di Ardemia, o con
la necessità per chi vi risiede di farsi benvolere dagli zaffi, ma anche perché già da
prima che ci abitasse Nicolò la casa era, per così dire, sotto tutela veneziana. Se il fatto
che i parenti non accettino di viverci sia legato ad una simile condizione non può essere
provato, è tuttavia più volte documentato il dolore che le immaginate conseguenze della
condotta di Nicolò ingeneravano nel fratello Cesare. È d’altronde significativo che Ciro
e Curio, i due figli maschi di Cecilio citati nel costituto, abbiano nel 1613
rispettivamente 14 e 13 anni e che i loro tutori siano lo zio Cesare, Lunardo e
Bernardino Bachino ed infine Camillo Chiappin, i primi due cognati, il terzo intimo
82
ASVI, CN, vol. 272, c. 586v.
81
amico del padre. Le ultime disposizioni di Cecilio dimostrano la sua incertezza riguardo
l'affidamento dei figli e gettano ombre ulteriori su Cesare. Nel testamento (settembre
1604) aveva nominato commissari gli ultimi tre; in un primo codicillo rogato l'anno
successivo, vi aggiungeva Cesare “se sopraviverà a lui” con diritto ad abitare a piacere
nella sua casa e ad avere dai suoi beni vitto e vesti “mentre sii concorde con la consorte
[del testatore]”. Il giorno successivo, in un secondo codicillo, stabiliva che se Cesare
non avesse abitato con i suoi figli, “o non volessero i suoi heredi” la commissarìa si
sarebbe dovuta intendere priva degli alimenti accordati nel primo83. Vien da pensare che
Cesare abbia spinto Cecilio per assumere su di sé il controllo delle due linee di
discendenza che la casa dei Proti avrebbe fisicamente unificato e che il tentativo possa
essere fallito per le resistenze degli altri tre commissari, più consapevoli dei rischi, o
interessati a che ciò non avvenisse.
I Bachino, i Chiappin, i Pace, gli Zugliano, i Benedetti, i Castellini, i Somagio, i
Ferretto, sono tutti lignaggi notarili. Appare allora evidente come la vita dei Del Buso
fosse legata a quella degli appartenenti alla corporazione ben oltre i limiti della comune
professione; varrà allora la pena di tentare di conoscere meglio il mondo dei notai
vicentini fra Cinque e Seicento.
83 Il testamento in ASVI, CRS, mz. 1429, fasc. 35, n. 486, 5.9.1604, due successivi codicilli Ivi, N, b.
8705, c. 46, 16.10.1605; 47, 17.10.1605
82
83
Capitolo 4.
Notai di collegio
Di primo acchito non può non stupire il numero dei notai che operavano in una città
di medie dimensioni com'era Vicenza nei secoli XVI e XVII. L'élite del ceto era
costituita dai 300 notai modulanti, così detti per essere iscritti nelle cinque module del
collegio e proprietari delle lettere di nodaria cui, a rotazione, erano assegnati i 60 uffici
di scrivani e pubblici ufficiali della Comunità. Facevano inoltre parte del collegio le
centinaia di vacanti, confinati nelle ultime pagine della matricola in attesa di acquisire
una lettera e divenire a loro volta modulanti. Il loro numero variava secondo
l'andamento demografico, essendovi in genere iscritti i figli dei modulanti fin da
bambini. Mentre per costoro le ammissioni nella matricola si risolvevano in pura
formalità, per i candidati di famiglie nuove gli esami si rivelavano quasi sempre degli
ostacoli insuperabili, soprattutto a causa della facilità con cui i presidenti, nell'ambito
dei severi processi quinquennali (lustrali), riuscivano a produrre prove di nobiltà
negativa. Infine era attiva anche una pletora dei notai non collegiati, detti imperiali o
apostolici, in genere operanti nei villaggi del territorio, il cui privilegio derivava da
antichi diritti feudali detenuti da famiglie comitali (principalmente la legittimazione dei
figli naturali e, appunto, la creazione di notai) e che l'azione concorde del collegio
notarile e dello Stato tendeva, non sempre con successo, ad emarginare.
Su di un ruolo così essenziale per la publica fides, che lo consacrava oltre che al
servizio pubblico in una società priva di burocrazia di carriera, alla formalizzazione dei
contratti privati, molto era stato definito dagli antichi statuti del collegio, da quelli
municipali e dall'autorità veneziana. I notai non potevano essere né preti né chierici, a
Venezia dovevano appartenere alla categoria dei cittadini originari, o di privilegio, e
avere più di 25 anni. Nella città berica la famiglia del candidato doveva provare la
propria vita civile, esente dalla macchia dell'attività meccanica o rurale, per almeno 50
anni fino al 1574, 80 fino al 1602 e cento successivamente. Nell'indefinitezza dello
status nobiliare, l'appartenere al collegio notarile di Vicenza attribuiva la certezza di
una condizione civile prestigiosa154. Una condizione che però, nella seconda metà del
Cinquecento, era stata messa in discussione dalle grandi famiglie aristocratiche che
monopolizzavano i consigli cittadini. Se nel 1510 i componenti il Maggior consiglio dei
Cinquecento erano per un quinto descritti anche nelle matricole del collegio, il loro
numero si era via via assottigliato, così come la presenza delle grandi famiglie nelle
matricole, mentre gli osservatori avevano perciò buon gioco nel sottolineare la crescente
mediocrità economica di molti notai. Nel 1541 siedevano nel riformato Minor consiglio
154 G. PEDRINELLI, Il notajo istruito nel suo ministero secondo le leggi e la Pratica della Serenissima
Repubblica di Venezia, Venezia 1768, p. 4. Parte del Maggior Consiglio 9 luglio 1323, 11 novembre
1485. G. BISAZZA, Notai tristi, cit., p. 17.
84
dei Cento otto notai; dal 1595 al 1634 in media due (con il numero dei consiglieri
elevato a 150), quasi sempre gli stessi individui la cui presenza, più che rappresentare le
istanze della professione, sembra rientrare nelle logiche di fazione che dividono anche
sanguinosamente l'aristocrazia vicentina del periodo.
Il ceto notarile a Vicenza era formalmente molto compatto e probabilmente la
distinzione fra notai modulanti e notai vacanti, non condizionava la categoria quanto la
distinzione presente a Padova ed in molti altri centri di terraferma tra notai ad
instrumenta, abilitati a rogare unicamente atti privati, e ad acta, che soli potevano
esercitare gli uffici pubblici155. Tuttavia i chiari segni di declino politico, ravvisabili
nella latitanza forzata dai consigli, si accompagnano all'esclusione dei notai dalle
cariche più prestigiose a partire dagli ultimi decenni del Cinquecento. La cooptazione,
pur con ruoli gregari, nelle fila di chi combatte per il potere in città, ed il conseguente
abbandono degli interessi corporativi, avviene soprattutto a cavallo fra Cinquecento e
Seicento, quando essere notaio di palazzo non è più segno sintomatico di prestigio,
quando altresì entra nel vivo, in molte città della penisola, la discussione sull'ignobiltà
della professione, che si tende ad assimilare sempre più alla semplice funzione di
scrivano156.
Dal 1612 i notai di terraferma dovevano essere approvati dai rettori veneziani. Da
allora detti di veneta autorità, sarebbero stati gli unici a poter rogare nei territori dello
stato. Lo scopo di un simile provvedimento era orientato da un lato a togliere la terra da
sotto i piedi ai notai imperiali e apostolici, spesso incolti e corrotti, dall'altro a
centralizzare il controllo sui collegi e sulle nomine.
Un proclama dei rettori vicentini, l'11 gennaio 1614, intimava
che tutte le leggi e ordini dell'Eccellentissimo Senato siano in tutte le sue parti inevitabilmente eseguite ...
per levar dubii e sotterfugi ... non potendo per l'avenir alcuno, sia che si voglia, rogar ne sottoscriver
instrumenti né atti di alcuna sorte con altro titolo che de' Nodari Veneti157.
Tuttavia al collegio vicentino, che con il bresciano godeva di uno status di
distinzione rispetto agli altri del Dominio, era accordato il privilegio di continuare a
creare notai pur se con la supervisione del podestà e dei suoi assessori158. Non è difficile
immaginare che tale concessione sia venuta dopo un braccio di ferro con l'autorità
veneziana e che pertanto l'esemplare castigo con cui in quegli anni si sanzionavano
comportamenti giudicati indegni, quali quello tenuto da Nicolò, sia figlio dei tempi. Il
155
Per Vicenza L. CRISTOFOLETTI, Memorie intorno al collegio dei nodari, Vicenza 1867, p. 11; per
Padova A. VENTURA, Nobiltà e popolo nella società veneta del '400 e '500, Milano 1993², p. 239.
156 In 28 città italiane, su 53 prese in considerazione, il notariato non solo non attribuisce nobiltà, ma
anzi la pregiudica: A. PARADISI, Raccolta di notizie storiche, legali e morali per formar il vero
carattere della nobiltà e dell'onore, ovvero l'ateneo dell'uomo nobile, vol. I, Ferrara 1740, pp. 225232, cit. in G. BISAZZA, Notai tristi, cit., p. 25.
157 G. PEDRINELLI, Il notajo istruito, cit, p. 4. Parte del Maggior Consiglio 12 gennaio 1612.
158 BBV, AT, b. 152, fasc. 2, c. 28.
85
collegio in simili circostanze avrebbe giocoforza dovuto tutelare la propria onorabilità
con una decisione conforme agli Statuti ed applicata con tutta la severità possibile. Il
comportamento non proprio sacrale del podestà, che emerge dalle testimonianze,
avrebbe anche potuto essere speso nella contrattazione. Sta di fatto che l’epilogo di tutta
la vicenda si consuma positivamente per il collegio subito dopo le disavventure del
nostro Rigoletto. Giunti a questo punto vale la pena richiamare i termini entro i quali si
svolge la vicenda processuale di Nicolò: 7 febbraio 1614, avvio del procedimento e, 21
marzo dello stesso anno, cancellazione perpetua dalla matricola. Il 9 agosto del 1614 i
nuovi rettori comunicavano al senato veneto il proprio parere favorevole a che i notai
vicentini continuassero a creare nuovi colleghi. Il 22 agosto il senato decretava che a
Vicenza non avessero effetto le parti 12/1/1612 e 20/12/1613, ed il locale collegio fosse
conservato nei suoi privilegi159. Una vittoria che, oltre alla salvaguardia delle antiche
prerogative, lo rafforzava anche nel contenzioso in atto con la Comunità.
La forte dialettica che caratterizzava i rapporti tra consigli cittadini e collegio copriva
un lungo arco di tempo, ma dalla metà del '500 aveva acuito i propri aspetti conflittuali.
Il 20 gennaio del 1544 un provvedimento del consiglio di Vicenza istituiva un pubblico
deposito di tutte le scritture dei notai defunti, che dovevano esservi versate da chi fino
ad allora le aveva detenute, e nel 1603 si eleggevano tre Protettori dell'Archivio160.
Ciononostante “tutti gli atti non si ripongono in archivio ... ma rimanendo nelle mani ...
de chi gli ha scritti con poca o niuna cura se ne perde in breve la memoria e la traccia
con perniciose conseguenze”161.
Da una denuncia presentata al rasoniero, in data 28 giugno 1628, si apprende che i
presidenti del collegio, pur essendone impediti dal capitolo 37 degli statuti, svolgevano
l'ufficio contemporaneamente all'esercizio della carica; notai indebitati ricoprivano
cariche nel collegio, dove peraltro risultavano iscritti anche minori di 18 anni, cose tutte
esplicitamente vietate162. Al rasoniero i notai dovevano consegnare tutti i libri dei
consigli e chi avesse voluto visionarli a lui solo poteva farne istanza. Ciononostante si
doveva insistere sul fatto che non era lecito entrare nella Torre per visionare libri e
scritture, né tantomeno farli uscire per le “molte fraudi, molte falsità e molti inganni”
che si sarebbero potuti commettere.
Il 4 gennaio 1621 un proclama obbligava qualsiasi notaio a “darsi in nota” a Paolo
Breganze, massaro della “tansa d'instromenti e testamenti”, per far bollare il protocollo
su cui si sarebbero poi dovuti registrare gli atti al fine di limitarne l’evasione
generalizzata. Le pene da comminarsi ai contravventori erano tutt'altro che lievi; chi non
registrava e non pagava era privato dell’ufficio e bandito in perpetuo e,
159
ASVI, CN, b. 300 c. 12 e parte in Pregadi 22.8.1614 a stampa
L. CRISTOFOLETTI, Memorie, cit., p. 11.
161 REL, p. 329. Podestà Marcantonio Viaro, febbraio 1632.
162 BBV, AT, b. 112, cc. 5 r.- 7 r.
160
86
significativamente, si informavano “tutti li suddetti nodari che si scoderanno similmente
conforme al presente proclama, non ostante alcuna corruttela usata gli anni passati”.
Vent'anni dopo Alvise Bragadin, di ritorno dal rettorato di Vicenza, dava un'implicita
testimonianza di quanto provvedimenti di tale tenore fossero osservati lamentando che
“Pregiudiciale al datio della tansa d'instrumenti e testamenti è l'abuso introdotto da
nodari di tenir in filza i rogiti senza registrarli e senza usar far bollare i protocolli”163.
In un simile contesto i Del Buso avevano compiuto il loro cursus honorum. Matteo
di Girolamo, del ramo di Villaga, aveva iniziato a rogare atti privati, probabilmente con
un'investitura di notaio imperiale, dal 1517. Era stato ammesso tra i vacanti con voto
favorevole dei due terzi del collegio nel settembre del 1519 ed il trasferimento tra i
modulanti era avvenuto cinque anni dopo164. Un inizio di carriera folgorante, favorito
dall'alleanza con gli Angiolello e, soprattutto, dalla secolare protezione dei Valmarana
che anche nell'acquisto della lettera aveva avuto importanza decisiva. Il 14 giugno del
1521, infatti, Matteo dapprima vendeva 6 campi presso Villaga a Cristoforo Godi per 28
ducati “cum quibus ... et aliis dictus Matheus ... affirmavit velle emerere unam litram
notariae … in qua reperietur ascriptus Franciscus Io. Mariae Anzolelli”. Il contratto era
approvato da Vincenzo Valmarana che si prestava come fideiussore ed immediatamente
Matteo acquistava la sospirata lettera per 45 ducati. Il medico Francesco Angiolello era
figlio di primo letto di Giovan Maria, il viaggiatore alla corte di Maometto II e, quel che
a noi qui più importa, colui che farà sposare due sue figlie ai fratelli Andronico (padre di
Nicolò) e Battista (eretico). Pur trattandosi di una vendita sui generis, in quanto Matteo
possedeva sui beni solo il dominio utile, il prezzo dei sei campi corrisponde al 62% di
quello della lettera.
La procedura di accesso per i parenti di un collegiato, come già detto, si semplifica:
fra il 1517 ed il 1536 i modulanti della famiglia diverranno quattro; dal 1537 al 1556
dieci; 13 fino al 1574; 18 fino al 1595 e nella matricola rinnovata nel 1591, con lo stesso
Nicolò, saranno ben nove i Del Buso iscritti a varie riprese nelle module mentre nessuno
della famiglia risulterà segregato fra i vacanti ad aspettare il maturare dei tempi per la
promozione al rango superiore. Scenderanno a 13 nel ventennio fino al 1614 e saranno
dieci fra il 1615 ed il 1632. Va segnalata anche per i Del Buso la pratica comune di far
registrare in modula i figli per poi poterne subappaltare gli uffici. Ludovico di Nicolò
diviene modulante nel 1596, quando non ha che un anno; l'altro figlio Battista è già
163
BBV, AT, b. 113. La torre era il luogo dove il comune conservava i suoi documenti, da qui la
denominazione di Archivio Torre alla sezione della Biblioteca Beroliana che oggi li ospita. Le pene in
BBV, AT, b. 963, segn. 19. Bragadin in REL, p. 399.
164 ASVI, CN, b. 91, c. 975, 16.9.1519; ed ASVI, CN, b. 53, c. 22v, 28.9.1519, il trasferimento tra i
modulanti del 31.5.1524 Ivi, c. 3r
87
modulante nel 1607, a cinque anni. Entrambi saranno successivamente cancellati e
reiscritti, stavolta tra i vacanti, dopo la definitiva esclusione del padre165.
Interessante è anche la distribuzione delle lettere: se averle concentrate in una delle
cinque module significava veder aumentato il peso della propria famiglia negli uffici in
un certo quadrimestre, averle invece distribuite garantiva una presenza costante, o
quantomeno un'influenza continua, nel poterne disporre per prestiti, comodati e
quant'altro. I Del Buso avevano concentrato il proprio patrimonio in uffici nelle lettere
A, C ed E. Nel periodo 1596 -1614 acquisiranno tre lettere D e fra 1615 e 1632 tre
lettere B (perdendo le D). Quindi la loro presenza negli uffici, salvo ottenerli in prestito
da altri assegnatari, era ad anni alterni di 8 mesi e di quattro mesi. Il quadro era incrinato
dalle due matricole consecutive, rinnovate nei periodi che a noi interessano
particolarmente, 1575-1580 e 1581-1584 e da quelle riscritte per il 1607 (valida fino al
1610) e 1611 (fino a tutto il 1614). Nella prima restavano loro tre lettere, una C e due E,
nella seconda solo due, C ed E. La matricola del 1607 vedeva iscritto alla fine un solo
notaio con un'anomala lettera D che diveniva C nella successiva. La matricola
successiva registrava l'ignominiosa cancellazione del protagonista della nostra storia nel
marzo del 1614 ed alla fine solo Giulio di Ludovico conservava una lettera di nodaria,
mentre si aggiungevano ai vacanti i due giovani figli di Nicolò. Fra 1615 e 1620 i
modulanti della famiglia torneranno ad essere cinque166.
Le lettere erano beni patrimoniali che venivano compravendute, prestate, impegnate.
Il movimento dei nomi dei proprietari nelle matricole, documentato da cancellature,
reiscrizioni, nuove cancellature, ciascuna delle quali motivata da minuscole, quasi
indecifrabili, ma preziose annotazioni a margine, in certi periodi era incessante e, per
tornare ad un minimo ordine, nel Cinquecento tali registri venivano rinnovati del tutto
ogni quattro-cinque anni.
Alla morte di Battista di Girolamo prende il suo posto fra i modulanti della lettera C
il fratello Ludovico, per essere i figli del defunto troppo giovani. L'ingresso di
Andronico di Nicolò fra i modulanti, il 30 giugno del 1550, avviene grazie a Matteo di
Girolamo che gli concede la sua lettera in prestito gratuito (per accomodatum); il primo
notaio della Casa viene contestualmente depennato ed iscritto tra i vacanti167. Gli scambi
ed i reciproci favori fra i due rami della famiglia testimoniano una strategia di lungo
periodo che potrebbe essere giudicata ovvia, anche se fin dagli anni venti del
Cinquecento si intravede una frattura fra i principali componenti i due rami Francesco di
165
Ho considerato i notai che conservavano la titolarità della lettera al momento del rinnovo della
matricola. Le matricole sono in ASVI, CN, bb. 54 - 73. Per i figli di Nicolò di Andronico Ivi, b. 70.
166 ASVI, CN, b. 69, b. 70, 71, alle lettere
167 ASVI, CN, b. 56, cc. 4r, 7r
88
Battista (San Germano) e Matteo di Girolamo (Villaga)168. Se si considera, oltre al
valore patrimoniale, il prestigio che conferisce al possessore, appare utile seguire i
percorsi delle lettere fra notai appartenenti a diverse famiglie. Per esempio il 30 agosto
1582 Alvise Zugliano vende a Pace di Nicolò una lettera della modula E per 80
ducati169. Per 100 ducati Claudio di Camillo Del Buso vende a Bernardino Bassano una
lettera C per poter acquistare casa e terra a San Germano nel 1592 ed il 12 settembre
1595, per 150 ducati stavolta, Caterina Del Buso, vedova di Bernardino Ferretto, vende
al fratello Claudio una lettera A che ha ereditato dal marito, su cui è assicurata la propria
dote e su cui, ulteriore testimonianza di infiniti passaggi di mano, è iscritto Camillo,
figlio dell'acquirente. Il prezzo corrisposto da Claudio serve a costituire la dote della
nipote Camilla Ferretto, per la quale immediatamente si roga un contratto dotale con
Vellegiano di Francesco Velo (dote complessiva 375 ducati). Nella generazione
successiva Andronico di Curzio (nipote del nostro Nicolò) sposerà Vellegiana, figlia
della coppia nuovamente formata170.
L'annotazione con cui nella matricola si sostituisce un notaio ad un altro fa nella
maggior parte dei casi riferimento al comodato che appare così, ancor più delle
compravendite, testimone di rapporti privilegiati. Non ci stupisce allora che nel 1532
Battista, fratello del primo notaio, sostituisca in modula B Mario Valmarana, figlio di
quel Vincenzo che già aveva favorito l'ingresso di Matteo fra i modulanti. Francesco
Ferretto muore nel 1547 ed è sostituito da Paolo di Melchiorre Pace; nel 1556 Girolamo
di Battista prende il posto dello zio Ludovico di Girolamo in C. Nella matricola del
1563 si concentrano con più evidenza gli scambi con i Pace ed i Castellini, mentre negli
anni successivi, quelli in cui si manifesta la crisi del lignaggio, le molte cancellazioni
non lasciano intravedere una strategia di scambi con altre famiglie. Nel 1598, quando
Antonio di Bernardino Ferretto sostituisce Nicolò di Andronico, si può ipotizzare un
ritorno ai normali rapporti consociativi (madre di Antonio è Caterina di Camillo Del
Buso) anche se, come presto vedremo, il rapporto di questi anni con i Ferretto va
approfondito. Dopo il 1600 tornano ad essere presenti gli scambi con i Ferretto, con i
Breganze, soprattutto con i Bachino (ricordo che Cecilio di Andronico sposa Camilla di
Prospero Bachino)171.
168
In una lettera degli anni venti del Cinquecento, che ho trovato nei protocolli di Matteo, Francesco
rifiuta al cugino un intervento presso Zuanne Barbarano, promotore di una tenuta giudiziaria contro
beni di Villaga, spiegando accoratamente di voler chiarire prima i rapporti conflittuali fra sé ed il
cugino: ASVI, N, b. 6220
169 CRS, mz. 1110, fasc. 19, n. 18. Diversi anni prima il fratello Battista aveva ceduto a Pace metà
della propria lettera in modula A al prezzo di 70 ducati: ASVI, N, b. 8065, 29.12.1568 (ma 1567);
quindi anche Andronico dava al fratello metà della sua lettera in C per 75 ducati: Ivi, b. 8069,
16.2.1571, Ancora nel 1573 (12.3) Pace assegnava ai due nipoti eredi del fratello Camillo metà lettera
C che deteneva pro indiviso con loro in cambio di metà di un affitto di 13 ducati l'anno (in questo
caso la lettera è perciò valutata circa 100 ducati): Ivi, b. 8070, n. 36.
170 ASVI, N, b. 8079, n. 15, 22.2.1592; b. 8082, nn. 53, 54. Il matrimonio di Andronico è del 1625.
171 ASVI, CN, bb. 54 - 73.
89
Più legato ad interessi di breve periodo è il dato sulle cariche, che però offre il senso
di quanto il notaio fosse inserito nei meccanismi di gestione del collegio. Sebbene tutti i
trecento notai modulanti fossero estratti agli uffici, a rotazioni quadrimestrali di
sessanta, vi erano cariche più importanti, e lucrose, e viceversa altre meno appetibili,
inoltre anche gli uffici si potevano cedere. Il notaio del banco del sigillo, quello del
maleficio ed i loro coadiutori, guadagnavano fino a 300 ducati per mandato
quadrimestrale, almeno a dar fede alle denunce dei loro avversari imperiali. Per
esercitare al maleficio occorreva aver prima esercitato al banco della ragione, cui si
accedeva solo dopo due anni negli uffici minori coram consulibus172. La gestione
familiare degli uffici è già stata messa in rilievo, ma più difficile è isolare i legami
consociativi tra le diverse famiglie. Il primo ufficio, al banco del bue, è ricoperto da
Matteo per un mandato dal settembre del 1519, rinnovato subito dopo dal gennaio del
1520, in entrambi i casi al posto di Alessandro Ferretto, che vi era stato estratto. Nel
settembre del 1522, estratto per la prima volta all'ufficio del registro, lascerà l'incarico
per esercitare l'ufficio dei dazi173.
L'ambìto posto al banco del sigillo, assegnato già nel 1536 a Francesco di Battista
(San Germano), che però lo cederà, sarà esercitato per la prima volta da Girolamo di
Battista (Villaga) nel 1560. Con la maggior presenza di notai della famiglia si registrano
anche frequenti scambi tra fratelli e cugini, o le sostituzioni di padri a figli che non
hanno l'età neanche per reggere in mano la penna. Si intensificano altresì i rapporti di
reciprocità tra collegiati di diverse famiglie: per esempio nel maggio del 1577 Filippo
Zanono lascia l'ufficio al banco del pavone a Cecilio di Andronico, quest'ultimo renderà
il favore nel gennaio del 1584 cedendo al primo il suo posto al maleficio. Ma già nel
1574 Cecilio, estratto al maleficio, aveva effettuato uno scambio triangolare con i Valle
estratti al pavone: al maleficio per Cecilio era andato Bernardino ed il Del Buso aveva
surrogato Gio Francesco al pavone.
Nel settembre del 1594 Nicolò raggiunge i vertici degli uffici esercitando al banco
della ragione. Nel maggio successivo è al sigillo, mentre all'aquila Girolamo sostituisce
Giulio Bonifacio. Nel settembre 1596, presidente lo zio Cesare diviene coadiutore al
sigillo con Camillo Chiappin, in sostituzione di Giulio Zanono: cognomi che ritornano.
La fase ascendente della carriera lo porta a rivestire la carica di presidente del collegio
nel 1607 e nel 1609; l'infausta sostituzione di Battista Vaienti alla camera dei pegni
privati nel maggio del 1613 la stronca bruscamente174.
172
G. BISAZZA, Notai tristi, cit., p. 27 n. 55. ID., Il collegio, cit. p. 66. Considerando che nell'estimo di
metà Cinquecento le case di abitazione del ceto medio erano stimate fra i 400 ed i 700 ducati, la cifra
di 300 ducati di guadagno quadrimestrale mi sembra francamente spropositata. Per le stime e la
descrizione della città entro le mura D. BATTILOTTI, Vicenza al tempo di Andrea Palladio attraverso i
libri dell'estimo del 1563-1564, Vicenza 1980
173 ASVI, CN, vol. 10, cc. 495r, 521v, 522v, 531v, 532r
174 ASVI, CN, vol. 11 (uffici 1567-1634), cc. 25v, 27r, 39r, 52v, 61r, 104r, 107r, - 179r.
90
Fra i presidenti, gli otto notai che rappresentano la massima autorità del collegio,
troviamo per primo, nel 1568, Pace di Nicolò, un successivo, significativo, vuoto
termina nel gennaio del 1593, quando viene nominato Girolamo Del Buso. Anche fra le
famiglie che abbiamo riconosciuto essere collegate alla nostra le presenze sono
sporadiche. Nei 25 anni che intercorrono tra 1568 e 1593 entrano in carica 600 nomi di
notai, di questi solo 23 sono riconducibili al gruppo di Case che abbiamo identificato
(0.9 ogni anno), con una presenza ripetuta di Prospero Bachino, di Antonio Castellini, di
Valerio Zugliano e Carlo Chiappin. Dal 1593 al 1609, invece, la presenza dei Del Buso
e delle famiglie collegate fra i presidenti si fa più continua. In 16 anni ben 13 notai
appartengono alla famiglia Del Buso (0.8, rapporto che sale a 1.3 se vi aggiungiamo i
nomi degli alleati). Dal 1609 al 1623 vi è un'altra significativa interruzione; il 14
settembre di quell'anno sarà presidente Andronico di Curzio Bosio, nuovamente in
carica negli anni 1624, 1627 e 1629.
Proprio quando viene a mancare la presenza dei parenti di Nicolò, e si attenua quella
delle famiglie collegate, emerge un dato significativo: dal 1610 al 1618, per ben 10
volte, sono fra i presidenti componenti della famiglia Ferretto e nel gennaio del 1613
assumerà una delle cariche più importanti, quella di notaio del collegio, Silvano
Ferretto, colui che con tanto insinuante accanimento avrebbe testimoniato contro
Nicolò. Nel 1618, sindaco Bernardino Bachino e presidente Antonio Ferretto, Nicolò
tenterà invano di essere reinserito nelle matricole175.
Antonio e Quirino Ferretto sono proprietari a San Germano e Villa del Ferro,
probabilmente in concorrenza con i Del Buso. Nel 1607 acquistano da Arcisa, figlia di
Alfonso Del Buso e vedova di Gio Maria Benedetti, un campo per 80 ducati con diritto
di affrancazione di un anno. Un primo messaggio circa destini che divergono: difficoltà
dei Del Buso contro disponibilità dei Ferretto. Pochi anni dopo, il 24 luglio 1613,
proprio mentre Nicolò vive la sua effimera gloria riflessa, i due fratelli acquistano per
450 ducati da Cesare di Andronico e Bernardino Bachino, tutori dei figli minori di
Cecilio, circa 23 campi a San Germano. Il prezzo è molto basso, nonostante che la terra
sia descritta come divisa in molte parcelle ed in parte vegra, ma non deve stupire: si
tratta del solito espediente per mascherare il prestito ad usura. Immediatamente il diritto
d'uso (ragione utile) dei beni ceduti viene ritornato ai venditori che pagano un canone
del 6% e si vedono concessi 10 anni di tempo per affrancarsi. Il tutto per pagare la dote
di 1.200 ducati stabilita da Cecilio per la figlia Paolina, andata sposa a Orazio
Brusolino. Fra i Ferretto ed i discendenti di Cecilio le schermaglie legali duravano
ancora nel 1646 a causa di quei 450 ducati che non si erano potuti affrancare176. Appare
evidente che i Ferretto in quel periodo, forse senza averne avuto inizialmente
175
176
ASVI, CN, b. 302, c. n.n.
ASVI, CCRS, b. 1429, fasc. 35 c. 13; fasc. 39, 41
91
l’intenzione, si trovarono nella condizione di scalzare i Del Buso dalle loro proprietà in
villa. Una situazione che non favoriva certo la distensione dei rapporti fra le due
famiglie. Ciò mentre la crisi degli anni settanta del Cinquecento aveva toccato
profondamente i rapporti con la famiglia Pace a causa delle difficoltà che il medico
Fabio di Paolo aveva incontrato per riscuotere la dote di Elena Zugliano dagli eredi del
primo marito Alessandro Del Buso.
Negli anni del processo a Nicolò i notai della famiglia erano quindi investiti da un
regresso sul piano economico, accompagnato da un progressivo isolamento che aveva
compromesso anche i rapporti con le famiglie tradizionalmente più vicine. La reazione
nervosa aveva fatto sì che non fossero mancati incidenti con la giustizia ordinaria e con
quella del collegio. Curzio di Andronico, accusato di confondere ad arte i propri affari
con quelli del banco del Bue e, quel che è più grave, di divulgare scritture segrete, era
stato il primo ad essere indagato, ma nel novembre del 1606 un “contra eos [in totale
erano sei gli inquisiti] ulterius non procedatur” chiudeva la partita. Nello stesso anno
era stato avviato un processo contro Claudio di Camillo, che nel 1601, a propria
discrezione, si assentava dall'ufficio di coadiutore al sigillo. Dalle testimonianze
raccolte nella circostanza emergeva ben altro: insieme al collega Giulio Carcano si era
giovato per più di un mese dell'aiuto di Prospero Aleardo, privo di titoli e senza
competenze; successivamente Claudio era prima finito in prigione e poi si era
ammalato. Naturalmente le scritture erano state ritrovate con “infinitti” errori. Carcano
era condannato ad un'ammenda di 10 ducati, la morte aveva già tolto di scena il Del
Buso da tre anni.
Il più nervoso di tutti è Giulio Cesare, figlio minore di Nicolò. Nel settembre del
1621 il decano di San Silvestro aveva denunciato alle autorità il furto di denaro
commesso dal giovane ai danni del casolino Giacomo Bertuzzo. Con un complice gli si
era intrufolato in casa svellendo un’asse che desmesava dall'appartamento occupato da
Nicolò Del Buso. I due, arraffato il denaro, erano fuggiti verso porta monte inseguiti
dalla moglie della vittima, discalsa e urlante. Il decano diceva testualmente del
principale accusato: “sì che conosco il detto Cesare figliolo de D. Nicolò, il quale è un
putelo basoto se ben può avere delli hanni”. Uno dei due uomini che alle urla della
donna si erano posti all'inseguimento dei ladri racconta con toni epici la caccia. Prima
correndo a rotta di collo, poi camminando sui campi lontano dalla strada maestra per
Padova, i due giovani si erano diretti verso Zocco, al confine tra i territori di Padova e
Vicenza, dove era in corso la fiera. Raggiunti e catturati in prossimità della meta, i due
avevano consegnato la borsa trafugata fra le lacrime e ciò aveva da un lato rabbonito gli
inseguitori, che li avevano rilasciati, dall'altro fatto ravvedere dal proposito di linciarli i
contadini accorsi. All'epoca dei fatti Giulio Cesare aveva solo 15 anni ma, “putelo
basoto”, ne avrà potuti dimostrare meno. Non so se la denuncia gli abbia comportato
conseguenze sul piano penale, di certo non ne aveva avute in collegio.
92
Il 3 febbraio 1628, svolte le funzioni ordinarie con l'assemblea plenaria dei collegiati,
i presidenti avevano invitato i vacanti ad allontanarsi dalla sala per procedere alla
nomina dei coadiutori all'ufficio del registro. Alzatosi ed avviatosi all'uscita, Giulio
Cesare aveva “proferito parole indecenti et di pocho rispeto, havendo massimamente
bestimiato il Santissimo nome d'Iddio e con grandissimo scandalo e fuori d'ogni
proposito”. Le numerose testimonianze raccolte non erano concordi sullo svolgersi dei
fatti contestati. Giacomo Ferretto, fratello di Antonio, e Balasso Palazzo riferivano le
offese e lo scandalo; Antonio Mainenti e Vincenzo Piacentin, considerando che non
fossero rivolte ai presidenti, solo le offese ma non lo scandalo; Girolamo Caltran,
Giorgio Colzè, Pietro Ghislardo e Orazio Crivellari minimizzavano l'accaduto. Giulio
Cesare si era appellato alla sua inesperienza di “nodaro novello”, ed aveva poi
giustificato la sua irritazione verso Paolo Emilio ed Emilio Cesare Dagli Orci perché
costoro, dopo averlo convinto a recarsi all'adunanza per eleggere lo zio Gio Matteo
all'ufficio in lizza, visto che non era uscito all'invito dei presidenti, gli avevano detto
“che si levi via per levar il scandalo”. Coglioni e visdecazzi erano dunque i due Dagli
Orci con i quali era molto intimo, non i presidenti. Alle accuse di aver bestemmiato e
suscitato scandalo, rispondeva orgoglioso: “la mia natura non è di proferir bestemmie di
sorte alcuna et non feci altro motto che di scorlare il cappo”. Nella sua scrittura
difensiva del 18 febbraio 1628 proclamava la sua innocenza e l'orgoglio di essere
collegiato, esplicitando l'intenzione di difendere l'onore del collegio con il sangue e con
la vita.
Non fu mai intention mia se non di riverire ed obedire VV.SS. [vostre signorie] illustrissime, et vivo
allegro d'esser suo collegiato, et d'esser stato comprobato nodaro poiché nel torbido de tanti travagli della
mia casa, ricevo questa consolatione di vedermi ancora nel numero loro .
Le circostanze non del tutto chiare e la difesa compenetrata di orgoglio ed umiltà gli
procuravano una condanna a due ducati di ammenda. Un epilogo che testimonia
l'impotente irrequietezza di un giovane notaio povero, relegato ai margini del collegio,
cresciuto fra turbolenze economiche e giudiziarie, la cui baldanza il rischio di subire un
destino analogo a quello del padre riesce in extremis a temperare.
Tre mesi dopo Giulio Cesare si prendeva una piccola rivincita sui colleghi che lo
avevano voluto mettere in difficoltà divenendo modulante177. Demolito l'orgoglio del
padre, quello più remissivo del figlio era tollerato.
A 15 anni è la controfigura del padre: “un putelo bassotto se ben può havere delli hanni ”. Zocco,
il villaggio ai confini con il padovano, dista circa 15 chilometri dai due capoluoghi. Per i due processi
ASVI, CN, b. 273, cc. 919r-930r; c. 1148r-1152v; l'acquisizione della modula Ivi, b. 73
177
93
Epilogo
Dove la tragedia familiare si innesta nel dramma storico
In quel tetto sentiva pianti, e ullulati di persone che lamentavano estinti in quest'altro gemiti dolorosi di
chi lagrimava. Di qua coperti di stuoia vedeva sopra carrette esser condotti cumuli di morti alla fossa e tra
questi anco esservi mescolato più d'uno, che con letale anhelito, e con troppa frettolosa provvidenza o di
crudele avaritia i becchini, che ingordi di saccheggiare il suo avere non erano patienti di aspettare il fin
loro. Di là scorgeva per le strade avanti le case di chi v'eran dentro rimasti vivi, esposti cadaveri di coloro
ch'avevan forniti i suoi giorni, così messivi o perché fossero tolti, e serrati da beccamorti, o per non
vedarsi inanzi spettacolo così lagrimoso. Da questa parte miserabili avanzi del fuoco discerneva piume di
letta seminate dal vento coprir la terra. Da quest'altra gli restava offeso l'odorato o da fetido incendio di
bagaglio non sano, o da un'aria grave uscita da tetti ammorbati [che] s'andava dilatando per lo volto del
cielo ...
1. I sensi che percepiscono l'orrore della pestilenza appartengono al viandante
Grisogono, protagonista di un romanzo dato alle stampe nel 1644 il cui autore, Pace
Pasini, era stato testimone della peste vicentina del 1630-31. Tutto ciò che il
personaggio vede è orrido: se volge lo sguardo a destra, se scosso si gira a sinistra. La
terra è un innaturale deposito di piume e di cadaveri dove solo la presenza dei carri dei
beccamorti è concepibile. Il cielo è ammorbato da fumi malsani e dall'odore della morte.
E se tale è il mondo esterno, le scene che Grisogono intuisce avvenire dentro le case
sono ancora più tragiche, ché sommano la desolazione alla disperazione, sciogliendo in
pianti, deliqui, “ullulati”, ciò che prima erano stati i legami dei sensi e degli affetti.
Vedere è più atroce che non vedere ed infatti, per uscire indenne dalla città, si accoderà
ad un cieco fino ad una zona non sospetta “non per fuggir miseria, che nol dovea dire
ma per prolungare la miseria”.
Una descrizione che anticipa quella della Milano appestata del romanzo manzoniano.
Il tragitto edificante fra le desolazioni della città somiglia prepotentemente al viaggio
picaresco di Renzo “in un itinerario d'iniziazione misterica, che culmina nel salto sul
carro dei monatti”. Ma non è per questo aspetto che l'Historia del Cavalier perduto è
stata sospettata di essere il testo che Manzoni dichiara di aver riscritto: ben altre e più
notevoli analogie sono state riscontrate fra le due opere178.
Ancor più lugubre, se possibile, dev'essere stato il paesaggio appena oltre le mura
occidentali, “fuori dalla porta del Castello nel loco del Lazzaretto, nel qual loco … mi
178 P. PASINI, Historia del Cavalier perduto, Venezia 1644, p. 180 segg.; G. MANTESE, Il Manzoni e
Vicenza. Il Cavalier perduto del vicentino Pace Pasini e i Promessi sposi in ID. Scritti scelti di storia
vicentina, Vicenza 1982, pp. 293-320; G. GETTO, Echi di un romanzo barocco nei "Promessi sposi",
«Lettere italiane», XII (1960). Per la peste vicentina del 1630-31 rinvio alla mia tesi S. LAVARDA, Per
la storia di un'epidemia di peste: Vicenza 1630. Università di Venezia, A. A. 1988/89. Per il passo
virgolettato I. CALVINO, Una pietra sopra, cit., p. 276.
94
ritrovo esser ferito di mal contagioso”. Il notaio autore del testo citato cesserà di rogare,
e presumibilmente di vivere, alla fine di novembre del 1630179.
2. Del lazzaretto vicentino è giunta sino a noi una altrettanto emozionante
testimonianza che chiude, con il suo significato bivalente, la parentesi aperta dai cinque
quadri dell'epilogo.
Si tratta di una pala d'altare, ora collocata nella chiesetta romanica di S. Giorgio in
Gogna, a Vicenza. Esattamente nel luogo dove, fin dalla seconda metà del quattrocento,
sorgeva il lazzaretto della città180. La tela rappresenta l'apparizione della Vergine a
Vincenza Pasini durante la peste del 1426. La vicenda è la classica di ogni apparizione
mariana: rivelatasi ad una popolana con la richiesta di edificarle una chiesa a Monte
Berico, la città ne esaudiva il desiderio e veniva liberata dal contagio. Su tutto domina la
Vergine circondata in alto da cori angelici, ma sulla destra, contrasto assoluto con la Divina Grazia, il lazzaretto.
Rappresentato in secondo piano, colpisce subito per la sua crudezza: da Gogna, che
diventa il punto di vista, il lazzaretto è trasferito oltre il fiume Retrone, in campo marzo,
dove nel 1630 si raccoglievano i contumaci e poi le donne appestate181.
La città sullo sfondo è confusa in colori cupi, come se fosse illanguidita dal male e si
sforzasse di continuare ad esistere purgandosi. Le cupole, più imponenti che nella
realtà, riverberano rada luce. Porta castello ed il torrione trecentesco sono marcati segni
di solidità ma subito fuori le mura, in simbolica opposizione, vi è la porta diroccata di
campo marzo, il luogo provvisorio, una sorta di metaforico passaggio verso la morte ed
il disfacimento. Un passaggio che si esaurisce con i cadaveri ammonticchiati nel piano
più prossimo a chi guarda la scena. Le baracche di legno, aperte, semplici cubi ricoperti
da due spioventi di tavole, non fanno che confermare la precarietà del sito.
Gli uomini, vivi e morti, rappresentano l’apice della tragedia: una carretta entra col
suo carico di contagiati dalla porta a sinistra e si avvia verso destra. Ovunque è un
brulicare di monatti indaffarati, garzoni con gerle sulle spalle, guardie. Al centro si
notano due uomini, cappello e mantello nero, procedere a cavallo verso l'uscita; sono
quasi certamente medici, ma sembrano indifferenti e rassegnati davanti a tanto spettacolo182. Vicino alla carretta, un uomo che ne porta sulle spalle un altro si dirige ad un
ricovero. Dalla baracca più vicina all'arco d'ingresso qualcuno trascina via per i piedi un
179
ASVI, N, b. 9575, 27.11.1630. Il notaio è Febo Crivellari.
G. MANTESE, Memorie storiche della chiesa vicentina, cit., vol. IV/2, p. 758.
181 BBVI, Ms. DO 29, G.11.9.11: A. TANGHERLA, Memoria delle spese che farò io Antonio
Tangherla per il campo martio alli poveri che fanno la contumatia. Si veda anche D. BORTOLAN, La
peste nel 1630 a Vicenza, Venezia 1894, dove si fa cenno alle donne appestate.
182 A questo riguardo è interessante l'analogia del medico in nero a cavallo, (che lì è però molto attivo
nell'azione) col quadro di Micco Spadaro La Piazza Mercatello di Napoli durante la peste del 1656
Napoli, Museo di S. Martino. Cit, in G. CALVI, La peste, «Storia Dossier», 4 (1987)
180
95
appestato appena morto, mentre una persona distesa su un giaciglio sta disperatamente
allargando le braccia. Nella cittadella dalle morte stenta a ravvisarsi la pietà cristiana per
i morti, e anche la commozione per i sentimenti dei vivi. Infatti la scena che più
immediatamente colpisce è anche la più straziante. Si sta svolgendo in primo piano sulla
destra. Vi sono rappresentati sei pixegamorti al lavoro: tre spogliano i cadaveri che poi
ammonticchiano intorno alla prima baracca, altri due si caricano i vestiti sulle spalle e li
portano al falò che il sesto si preoccupa di attizzare spingendoci sopra sempre nuovi
stracci con un lungo palo. Il colore giallo-rosso del fuoco è la più vivida “luce della
peste”183. I morti sono giallastri, nudi, senza nome e senza storia, il loro viaggio terreno
finisce nella fossa comune.
La tela è stata attribuita con sicurezza, poi rivista, ad Alessandro Maganza il quale,
contrariamente a troppi altri autori di maniera che risolvono la raffigurazione del lazzaretto senza preoccuparsi di essere così meticolosi, anche se magari con una più
elaborata drammaticità, ci lascia intravedere una sua grande partecipazione emotiva alla
scena del lazzaretto184. Forse perché
sopravenendo la pestilenza dell'anno 1630, fu spettatore dell'eccidio de' suoi, vedendo i figli e i nipoti l'un
dopo l'altro privi di vita dal pestifero male, tolerando egli con molta costanza una così misera calamità,
dolendosi solo, che per lui non vi fosse forma di morte per levarlo da quelle afflitioni... 185.
Nicolò muore quasi certamente nei luoghi e nei modi che il dipinto di Maganza
illustra ed il racconto di Pasini descrive, e con lui i suoi due ultimi figli maschi. Forse il
suo corpo fu raccolto nella casa di Berga dai pixegamorti, o forse il piccolo notaio fu
trasportato ancora vivo al lazzaretto. Immaginiamo che quel giorno abbia attraversato
per l'ultima volta la città vibrando ai sobbalzi delle ruote sulle buche della strada. La
crudele ironia della sorte gli avrebbe fatto raggiungere per sempre, vivo o morto che
fosse, quel campo marzo dove mandava a giocare gli avventori indegni del ridotto dei
Proti.
3. Con inevitabile approssimazione, soprattutto per le molte sequestrate e
successivamente decedute al lazzaretto ed in altri luoghi di quarantena, il medico
Giovanni Imperiali stimava che nei tre mesi di agosto, settembre ed ottobre, fossero
morte in città 11.000 persone; nel 1635 il podestà Andrea Bragadin avrebbe indicato in
183
M. BRUSATIN, Il muro della peste, Venezia 1981, pp. 29-32. N. POZZA, Le luci della peste,
Milano 1982, pp. 139-162, rievocava la peste veneziana del 1576 attraverso le tele di Tintoretto alla
Scuola Grande di S. Rocco.
184 Cfr., per tutti, il catalogo Venezia e la peste. 1348-1797, Venezia 1979. Per la certezza
dell'attribuzione si vedano: M. BOSCHINI, I gioielli pittoreschi, virtuoso ornamento della città di
Vicenza, Venezia 1676, pp. 58-59; F. BARBIERI, Il seicento architettonico urbano, cit., p. 331; F.
FONTANA, Dipinti delle Chiese e degli oratori vicentini, Vicenza 1986, pp. 85-87. Per l'incertezza: V.
SGARBI, Palladio e la Maniera, Milano 1980, p. 121, che lo attribuisce al figlio Battista.
185 C. RIDOLFI, Le meraviglie dell'Arte o vero le vite degli illusri pittori Veneti e dello Stato, Venezia
1648, II, p. 237, cit. in S. MASON RINALDI, Le immagini della peste nella cultura figurativa veneziana,
in Venezia e la peste, cit., p. 224. G. MANTESE, Memorie..., vol. cit. p.1261-1263.
96
14.200 il numero delle vittime186. In una delle fosse comuni scavate per le necessità del
momento è stato probabilmente inumato il nobile Nicolò Del Buso, cittadino di Vicenza
e Padova, mentre correva il suo sessantatreesimo anno di vita.
Se un giorno qualche zelante storico quantitativo, dopo che tutto il misurabile fosse
stato misurato, raccolti adeguati finanziamenti decidesse di fare le pulci alle grossolane
cifre dei morti della peste fornite dal medico e dai rettori veneziani succedutisi in quegli
anni, potrebbe armarsi di pala e piccone e dedicarsi a scavare campo marzo187.
Dentro alle cataste di ossa riesumate si confonderebbero anche quelle dei Del Buso:
Nicolò, i figli Giulio Cesare e Battista; ma anche quelle del cugino Andronico di Curzio
e di Antonio Ferretto, la cui madre era figlia di Camillo Del Buso, e che non si era
sufficientemente opposto alla sua rovina. Nonostante che rogasse i testamenti dagli
androni dei palazzi o dalla strada pubblica mentre il testatore li gridava affacciato ad una
finestra o attraverso una porta socchiusa per reciproca diffidenza, e nonostante che gli
olografi li ricevesse “in una moleca da foco et profumato con incenso et questo per la
sequestratione per li presenti tempi contagiosi”, Antonio era caduto nell'espletamento
del dovere. Forse al lazzaretto erano spirati pure Giovanni Peschiera e gli altri notai che
in gruppo si accompagnavano per le strade della città al fine di poter avere un numero
adeguato di testimoni agli atti nei terribili mesi di agosto, settembre ed ottobre del 1630,
e con loro le migliaia di persone che quei tempi di tragedia avevano consumato188. Muti
protagonisti collettivi, ridotti alla canonica dimensione di numeri della storia, unica che,
a giudizio di molti, competerebbe a vite vissute mediocremente.
4. La piccola storia di un Rigoletto imperfetto ha prima ricomposto, quindi fornito di
un incarnato alcune di quelle ossa, infine ha procurato loro vesti. Di qualcuno dei
personaggi ci ha pure fatto giungere l'eco della voce. Rigoletto-Nicolò lungi dallo
scuotere la colonna della piazza, forse non vi ha mai posato lo sguardo ed il leone alato
non ha neanche da lontano percepito il soffio degli “emergenti di picciole consequenze”
che lo hanno travolto. Solo incidentalmente, e per sua disgrazia, la vicenda che lo vide
protagonista con la sua famiglia si inscrive in una particolare fase della vita politica
cittadina. Viene da chiedersi se Nicolò abbia mai saputo che il suo sacrificio può essere
valso la conferma di antichi, esclusivi, privilegi.
186
La città aveva prima della peste circa 30.000 abitanti. G. IMPERIALI, Pestis anni MDCXXX
historico medica narratio, Vicenza 1631, pp. 8, 70. Il dato al 1635 in REL, p. 356.
187 Uno scrupolo forse eccessivo mi impone di richiamare l'ironia tutta vicentina, già ricordata
all'inizio di questo lavoro, del mandare qualcuno in campo marzo. A scanso di equivoci preciso che
l'esasperato storico su cui si ironizza è solo una invenzione che fa riferimento a giovanili dati
autobiografici (esclusi i finanziamenti).
188 ASVI, N, b. 9584, l'olografo segreto è quello del frutarolo Gio Maria Cenci, raccolto il 4 e
pubblicato dopo la morte dell'estensore il 7 settembre 1630. Nel 1630 Antonio Ferretto roga sei
testamenti fino a luglio compreso, 14 in agosto e 13 in settembre. S. LAVARDA, In questo calamitoso
tempo di contagio. L'attività notarile a Vicenza nel biennio 1630-1631, «Studi veneziani» N.S. XIX
(1990), pp. 97, 110-111.
97
Vale allora la pena di chiedersi, alla fine di tutto, a cosa sia servita la sua vita? I
piccoli egoismi, le gioie ed i dolori, le avversioni e le affinità, le battaglie combattute
quotidianamente da lui e dalla gente come lui, ha senso che vengano esumate? Ci
insegnano qualcosa o non sono forse rubricabili nello spesso meschino carattere
atemporale dell'uomo? Le storie di quelli come lui sono solo storie, l'emblematicità, la
rappresentatività, il caso che possono rappresentare, ha valore? O si tratta invece solo di
favolette morbose che, arrivando da un esotico lontano ed ininfluente, solleticano una
superficiale attenzione, di cui è piacevole stupirsi, o magari sorridere, ma su cui non
vale interrogarsi? Oppure ancora sono vuoti simulacri, che lo storico strumentalizza
pretestuosamente, interessato solo a conoscere e caratterizzare il loro ambiente? E
infine, tutta la fatica intellettuale che costano, serve? E se non serve, solo ciò che serve,
serve? La risposta dell’autore a simili domande, del tutto retoriche, è data da questo
piccolo libro.
… tutti, morti o colpevoli, erano dimenticati … gli uomini erano sempre gli stessi. Ma
era la loro forza e la loro innocenza, e proprio qui, al di sopra d’ogni dolore, Rieux
sentiva di raggiungerli. … decise allora di redigere il racconto che qui finisce, per non
essere di quelli che tacciono, per testimoniare a favore …, per lasciare almeno un
ricordo dell’ingiustizia e della violenza …189.
189
CAMUS, La Peste, Milano 1989, p. 235
98
Appendice documentaria
Appendice
Documenti
Nella trascrizione ho aggiornanto la punteggiatura allo scopo di rendere i testi più leggibili, ho inoltre
limitato l'uso delle maiuscole e, dove possibile, il continuo richiamo ai titoli dei personaggi nominati.
1. ASVI, CN, vol. 273, proc. Cavaneis, ff. n.n. Denuncia di Scipione Loschi (1626).
Il fedele et assiduo servicio che per 30 et più anni di sua vita prestò nella militia delle lanze di
questa Serenissima Repubblica il quondam [fu] Licurgo de Loschi, continuato per hereditaria
divotione da me Scipion suo figliolo in tempo di guerra et di pace per anni 25 et più dell'età mia, si
come gioconda mi rendono la memoria di ben spesi sudori, così cagionano hora in me ragionevole
confidenza di ricoverarmi all'ombra dell'incorrotta Giustitia di VV SS Illustrissime per viver sicuro
dalle tiraniche insidie che tutto giorno da potentissime et sanguinolente persone vengono tese alla
mia vita.
Li Signori Pietro et Leonoro fratelli, li Signori Gabriele et Batista suo figliolo, li Signori Leonardo,
Leonida et Marco Antonio pur fratelli cugnati del detto Gabriele et il Valerio tutti de Loschi sono
quelli dalle cui mani mi sovrasta evidente il pericolo della morte.
Si concepì questo mal talento nell'animo del detto Gabriele vivendo ancora Licurgo mio padre al
quale et a me insieme per avidità di robba machinò crudelmente di levare la vita, ma la notizia che
n'ebbe mio padre, facendolo restar privo di quella heredità che con troppo horribile maniera
haveva cercato di accelerarsi, fece contro me rivogliere tutta quella perversa volontà.
La quale maggiormente s'accrebbe per un legato annuo d'alimenti lasciatomi dal quondam Cavalier
Batta Losco, di cui egli rimase herede, per l'esattione del quale convenendomi ricorrere alle
essecutioni, più volte ha minacciato di volersi liberar di tal obbligo con la mia morte. Né stete la
cosa in semplici parole, anzi l'anno 1617, del mese di giugno, havendo per così maligno effetto dati
denari a Vincenzo Pagielo et Bortolo Chierega ordinarii sateliti della sua casa, quelli una notte che
sapevano ch'io doveva per miei negotii da Zossano a Vicenza, postisi in insidie, m'assalirono et
m'haveriano ucciso, s'io non mi fossi con l'agiuto d'Iddio dalle loro mani animosamente difeso.
Né avendo la longhezza del tempo potuto levarli dal cuore così fiero proponimento, l'agosto
passato mandarono lor gente ad assalir alla propria mia casa (credendo pur ch'io vi fossi) un mio
famiglio, et in quel mentre Valerio, Batta et Pietro sudetti armati et nascosti dietro la porta del
sudetto Gabriele ivi contigua, aspettavano ch'io me n'uscissi per amazzarmi, se bene per essere io
la precedente notte partito secretamente di Zossano, gli riuscì fallace l'inhumano dissegno, di che
arrabbiando più che gl'altri Batta, proferì sopra la strada molte infami parole contro l'honor mio,
et della Margarita mia consorte.
Da simil radice è nata la pessima volontà di Pietro et Leonoro fratelli Loschi, i quali per alcuni
legati mi devono per il testamento paterno, abhorrendo di vedermi vivo machinano continuamente
contro la mia vita. Né mi è valso procurar diverse volte da loro la pace, perché non ostanti parole
di componimento tra noi seguite, professano apertamente di volermi, quando lor venga fatto, levar
la vita.
Non restando in questo mentre tutti li sudetti Loschi di sfogar le mal animate volontà contro l'honor
della mia casa, come s'è manifestamente scoperto da un libello famoso li giorni passati publicato in
scrittura contro una mia figliola di età nubile il quale per segni evidentissimi conosco non poter
esser proceduto da altra parte et come al vivo lo dimostrano le ingiuriose parole che vano
disseminando contro la mia consorte, la quale per le minacie fatteli di sfregiarla in faccia non solo
non ardisce uscir liberamente di casa, ma ne pur in quella rinchiusa si tien sicura dalle violenze di
sì perfidi nemici.
Per tutti questi et altri molti evidentissimi segnii del mal animo loro contro di me inocentissimo
padre di povera numerosa famiglia, mi veggo esposto ogni giorno a dover saciar con violenta
morte la sete ardente che mostrano del mio sangue.
99
[Perché se Valerio non dubitò d'amazzar aertamente il quondam Orazio Losco suo stesso parente
(poi cancellato)]; se il predetto Valerio gli anni passati si risolse di avvelenar Francesco di Zaneti
solo per poter liberamente continuar nell'adulterio con sua moglie restandoci anco morto
Francesco Roverso che mangiò degli stessi cibi avvelenati et altro non apparendo fu per all'hora
rilasciato dalla Giustitia;[se Leonardo non hebbe horore a (... uccidere?) Paullo Pogliana suo
germano et suo pari; se Leonoro et Pietro fratelli, et con loro il medesimo Valerio intervenero
all'horribile occisione che seguì con sette archibugiate del quondam eccellente Ruberto Mallo
(poi cancellato)] se insieme con altri Loschi che si nominarano nel progresso della ca...(usa?)
usano intolerabili tirranie vietando con minacie et con fatti a quelli che da loro adherenti vengono
offesi il prossequir le loro querele; che posso aspettar io il quale rispetto a loro mi trovo povero
de beni di fortuna, carico de figli, nudo di parenti et privo di forze, per difendermi dall'odio
mortale con cui incessabilmente mi vano perseguitando?
Altro scampo non vedo per preservarmi dalle loro mani homicide, se non la suprema autorità
dell'Ecc.mo Consiglio dei X et l'incontaminata Giustizia di VV. SS. Ill.me poiché questi soggetti
principali fidati sopra le loro ricchezze et le loro parentelle che tengono in tutte le migliori famiglie
della Città, ardirano et tenterano contro di me ogni più scelerata risolutione, sperando di andarne
impuniti come di mille altri misfatti che son restati sepolti nel silentio gl'é successo.
Imperò che Gabriele l'anno 1620 con barbara crudeltà uccise a forza di fianconi Agnolina moglie
di Antonio Lanaro, et nel medesimo modo ridusse l'anno 1622 Antonia moglie di Giacomo Padrin
a termine di morte et a rischio manifesto di cometter aborto. L'istesso accompagnato da Pietro e
Valerio l'anno 1620 doppo haver con percosse maltrattato Berto Bertollo et cavatagli la barba
usurpandosi con troppa sfacciatagine l'autorià di Principi gli diedero bando dalla villa di
Zossano.
Pietro l'anno circa 1618 per goder una giovane donzella chiamata Lusanna, la rapì in tempo di
notte dalla casa del quondam Fabritio Seda a cui il padre l'haveva per testamento lasciata in
custodia, et ridottala a casa sua le fece rifiutar il matrimonio di già stabilito con un giovane da
Pozzolo et pocco tempo doppo la rapì di nuovo dalla casa di Paullo Berton con cui era rimaritata,
avanti la consumetione del matrimonio et per poter più facilmente soddisfar le dishoneste sue
voglie, trovò occasione di farlo querelar e bandir, tenendo tuttavia essa giovane a suoi piaceri di
che sapendo esser con ragione disgustato detto Fabritio egli per poter libero da ogni sospetto
goder il piacere delle sue sceleragini lo fece con complicità di Leonoro suo fratello, di Gabriele et
Valerio la sera delli 4 luglio 1623 insidiosamente ammazzare a colpi d'archibugio sopra la porta
della propria sua casa.
Leonoro tolse già alcuni anni la moglie a Bernardin Spago da Lonigo, et per goderla con
maggiore libertà la costrinse a partirsi di Zossano ove habitava.
Pietro et Valerio, doppo aver bastonato Francesco Rapo boaro del Sr Attilio Cappasanta, loro
parente, con assenso et intervento di Leonoro et di tutti li altri Loschi sopranominati, hanno
tentato più volte d'ammazare esso Atilio fino nella propria casa, la quale con scandaloso terrore
di tutto il popolo, fu un giorno intiero assediata da loro et da una schiera di 30 et più suoi sateliti
armati d'archibuggi, terzaroli et altre armi.
Gabriele con un tal Bortolo suo bravo bastonò li mesi passati un padre Carmelitano.
Marc'Antonio rapì la propria moglie a Zuanne Spolaore, tenendola per X anni continui a suoi
piaceri, al quale tentò con suoi frateli et sateliti, et con sbaro di archibugiate di levar anco la vita
come il simile volse far al Reverendo Gio Borin curato di Noventa et stretto parente di essa donna
assalendolo più di una volta sin nella propria casa.
Leonoro accompagnato dal medesimo Marc'Antonio suo fratello et altri il carneval passato 1625
ferì senz'alcuna causa con sbaro di terzarolo Cesare Mazzucco che era sopra la festa della villa di
Noventa.
Né basta loro aver riempiti tutti quei contorni di rapine, occisioni et dishonestà, ma arrivando al
colmo di ogni sceleragine si vano arrogando con formali maniere di tirania la potestà suprema di
Principi poiché oltre il tenire Gabriele usurpata et rinchiusa in uno suo horto una fontana publica,
oltre l'havergli Pietro fatti di propria autorità gl'anni adietro publicar proclami che nissuno ardisca
pescar nelle acque contigue a loro beni, minacciando di offender li contraffatori, et esseguendo
contro molti le minacciate offese, hanno finalmente con inaudita temerità fatto delle lor case
private carceri, tenendovi rinchiuse et legate diverse persone, et dandoli sotto capital pena bando
100
del vicentino come in particulare è sucesso già alcuni anni a Zuanne Perana, il carneval passato a
Domenico Bolognese, et la la Settimana Santa a (.......).
E quindi nasce che di tanti misfatti non solo vano impuniti per la loro potenza adherentie et
amicitie, ma vanagloriosi se ne vantano, poiché né li degani ardiscono dar le denontie, né gl'offesi
dolersi, né li testimonii deponer la verità sapendo esserne sicura conseguenza la perdita della
propria vita.
In tale stato veggendomi io povero Scipion sudetto non solo timoroso della mia vita, ma inhorridito
di tanti eccessi, supplico con ogni profonda umiltà VV. SS. Ill.me che si degnino rappresentar il
tutto con suel lettere all'eccelso Consiglio di Xci la cognitione et castigo de quelli, se conforme al
mio desiderio sarà dellegata alla loro singolar prudenza et Giustitia con quell'autorità et secretezza
che è propria di quel magistrato supremo, mi rendo sicuro che non dubitando li testimoni di
deponer il vero, si vedrà in un medesimo tempo con il giusto castigo de rei stabilita la quiete di
quei paesi, et io potrò godere quella tranquillità di vita che da questa Serenissima Repubblica viene
promessa, et da VV. SS. Ill.me con ogni spirito procurata et mantenuta a sudditi da Sua Serenità
raccomandati al loro felicissimo et santo governo. Gratie.
Nota. La denuncia è depositata nel processo al notaio che l'aveva redatta provvedendo
subito dopo gli accusati di diligente copia, alla faccia della segretezza invocata da
Scipione.
Il 20 ottobre 1636, sul centralissimo ponte degli angeli, Scipione è fatto oggetto di due
colpi di archibugio sparati da Pompeo Loschi ed Egano Thiene: ancora una volta resta
illeso. Lo stesso giorno e nello stesso luogo i due, insieme a Batta Loschi, si imbattono
nei “Ministri” che tentano di arrestarli. Batta, l'unico che probabilmente ha l'archibugio
ancora carico, fa fuoco ed ammazza Matteo Gastaldello, contestabile del podestà. Il
processo è delegato col rito del Consiglio dei Dieci ai rettori di Padova. (G. B.
ZANAZZO, Bravi e signorotti a Vicenza e nel vicentino nei secoli XVI e XVII, «Odeo
Olimpico» VIII (1970-71), p. 199)
2. ASVI,CN, vol. 272, cc. 602v-611v. Costituto di Nicolò Del Buso (24.3.1614).
/[602v]/ ... non sarei stato per questo di far continuare il redotto quando non havessi avuto paura
della Giustitia.
Interrogatus se la detta sua figliola maggiore sia mai stata in casa di giorno o di notte del detto
contestabile respondit Signor no et quelli che lo dicono si mentono per la gola, interrogatus se poi
il contestabile predetto sia stato in casa di detto costituto di giorno o di notte respondit io mi
maraveglio besogna che io habbi persone che mi vogliano molto malle a dir di queste busie et
falsità ne lo è stato mai se non in quel caso con li zaffi e può esserli anco stato un'altra volta per
essequire contro di me un mandato di cavalcata ad instanza de messer Batta Basso ma io no lo so
per certo perché no ero a casa Interrogatus se habbi mai recevuto vino et legne dal detto
contestabile respondit Dio guarda che non ho mai avuto da lui qualche cosa Interrogatus se poi
habbia avuto pratica con l'Ecc.mo Sig. Giudice precessore al Maleficio /[603]/ et se habbi praticato
in casa di sé costituto respondit Signor no né lui in casa mia né io in casa sua è ben vero che io fui
a costituirmi alla sua presentia mentre lui aveva accetato una querella datta contra di me per un
certo deposito che mi era stato fatto mentre ero nodaro alle condanne imputandomi de truffa se ben
havevo fatto il pagamento che li restano solamente ducati tredeci di capitale et dui di spese et li
avevo anco pagato li interesse et perché nel costituirmi dissi al detto Signor Giudice che non
diceva la verità lui me disse gobbo becco fotù, et poi ho pagato a fatto (ripete 2 volte) esso
deposito et è stato depennato il deposito doppo che fui fatto retenere dal Signor Giudice ...
Interrogatus se habbi una figliola che habbi nome Ardemia respondit Signor si Interrogatus se a
questa sappi che dal detto contestabile sia stata fdatta una carpeta respondit questo /[603v]/ non è
vero ma io son perseguitato in questa maniera
101
Dettoli a venire alla libera se ben voi vi fatte libero di negar tutte le cose che vi sono state opposte
rissultanti chiaramente da tutto questo processo che testimoni degni di fede essaminati in esso di
commissione delli signori Presidenti mostra però che la Giustizia non ne sia più che consapevole
poi che oltre la publica voce e fama per tutta questa città reffertta più volte a questo banco dicono
li testimoni essaminati con giuramento che voi tenor de vitta licentiosa scordato del esser vostro
anzi e del honor stesso havere comportato publico nodaro in casa vostra tirando voi le terze
havendo parte col detto mr Claudio [Dalla Volpe] di così pernicioso et inhonesto guadagno
dicendo a quelli che giocavano et che non pagavano le terze o non davano ... oselle (?) che voi
prendevi voi dico in particulare dicevi chi /[604]/ vol giocar qua paghi se no vada a giocar in
campo marzo e quello che importa più sette stato veduto voi et un vostro figliolo contratare con il
contestabile più volte passandovi le ore con lui, et detta vostra figliola è stata veduta in tinello o sia
in camara del maestro di casa dell'Ill.mo Podestà precessore ivi tenuta a servitio di esso
Contestabille et la istessa anco è stata veduta a condure a tre hore di notte con un capello e tabaro
attorno dal detto contestabile a casa sua et lui publicamente diceva che essa vostra figliola era la
sua putana et che li costava più de ducati ducento et che il contestabile predetto ghe mandava il
cesto a casa hora con carne et hora il pesse et voi stesso havete veduto il cestarolo che foste (?)
pure quando vostro figliolo prese il cesto dalle mani del cestarolo et di più che esso contestabile
vole partirsi da questo reggimento habbi condotto a Venezia /[604v]/ o in villa la detta vostra
figliola havendola tenuta a sua posta et che voi stesso et vostra moglie ne eravate consapevole oltre
anco la fama che lei habbi avuto comercio con altri et in partoculare col detto Giudice del
Maleficio passato il quale signor Giudice è stato incontrato di notte con essa vostra figliola et è
stato sentito contratar con vostra moglie prometendole per tal pratica molte cose et si diceva che
voi havete venduto la detta vostra figliola al detto Giudice per ducati cento et che voi in particulare
voi gli la conduceste a casa ove la tene molti giorni a casa sua et poi scoperto la rimandò a casa
vostra et li fornì una camera mandandoli quotidianamente il vivere et voi anco l'havete messa sotto
ad altri che per ciò li governatori del pio loco delle Citelle sentendo esser tal fama avedendo che
voi et vostra moglie tenivate /[605]/ così poco conto del vostro sangue si risolsero di levarvi la
figliola mezzana come fecero et meterla nel do loco del do loco delle Citelle ove stava certo tempo
voi e la vostra consorte faceste tanto che la levaste via né mancano testimonii in questo processo
che metano in difficultà il proprio honor vostro con la propria moglie dicendovi che in particulare
havesse comertio con un fratte delle Gratie però constando tutte queste cose così come vi sono
state opposte però farette bene a confessar la verità respondit
Doppo che io son redotto a questi termini voglio racontar la cosa come sta et Iddio guardi a
ognuno dalle mani de assassini et da una cativa moglie per che li ... anco in questo fatto delli miei
collegiali cori credo certo. Mi fu intimato un certo ordine per il q. Lodovico Patriarca corriere de
mandato dell'Ill.mo Podestà Zen ad /[605v]/ istantia de una Franceschina per certo depposito de
ducati conquanta che mi era statto fatto nelle mani all'officio della raspa mentre ero deputato
nodaro al detto officio per alcuni inter... del maritto di essa donna condannati nele gravissimo
Consulato comettendome che io dovessi dar furi quelli dennari immediate altramente che mi averia
fatto retenire et stante che mia moglie aveva preso per dotte le mobilie di casa, io presi ........ non
sapendo che fare di partirmi di casa et retirarmi per securezza sopra il sagrato di San Tomaso in
casa del gastaldo delle Monache perché il Podestà non mi faciesse retenire come diceva la detta
istanza (?) ove stato sei o vero otto notte in questo mentre mia moglie comparve avanti al detto
Podestà per provedere che io potesse star sicuramente in casa mia, il qual Podestà veduta detta mia
moglie se la fece /[606]/ sentare arrente et invece di ascoltarla e darli il suffragio che li
addimandava voltò il raggionamento in altro dicendoli Madona io intendo che voi avete una bella
figliola se volete lassarmela vedere vi prometto ogni favore et aggiuto et così detta mia moglie
quale è così terribille che non la posso governare li diede parola di lasciaglila vedere metendo con
lui ordine che venisse quella sera et così mentre io tuttavia me ne stavo lontano di casa di giorno et
di notte vene il detto Podestà accompagnato a casa mia dal Contestabille et da altri et la detta mia
moglie l'introdusse a raggionare con detta mia figliola la qualle essendoli piaciuto la sera dietro
ritornò in persona accompagnato dal detto contestabile et da altri e menò via la detta mia figliola et
la tenne via tre notte /[606v]/ havendola tenuta nella camera del suo maestro di casa et può anco
esser che esso Podestà mi habbi si fatalmente assassinato che la habbi anco messa sotto così al
Giudice del Maleficio come anco al contestabile et forsi anco sotto altri si per scolpar se stesso si
per anco per esser pover homo e fuggir da assumer le promesse che haveva fatto a detta mia
figliola et moglie. Et poi da ivi a tre giorni venì mia moglie a ritrovarmi al detto sagrato et mi disse
che dovessi venire a casa perché aveva parlato al Podestà predetto et che non mi dubitassi che non
seria stato altro et che seria proveduto in tutto né al hora mi disse altro la onde fidato dalle dette
parole di mia moglie veni a casa ove la notte stessa su le due hore di notte sentei batere alla porta
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et la putella picola andò ad aprirla, et sentei venir su per la scalla non so chi /[607]/ con veste che
scarcenzava (???), et havendo io addimandato a detta mia moglie chi era quello lei mi disse che mi
dovessi ritirare in granaro perché era un gentilhomo che le voleva parlare apunto per interesse mio
et aggiutarmi et così credendo a detta mia moglie senza ricercar altro particulare mi ritirai a mezza
scalla ove entratto quel talle nella camara quasi immediate mi fece chiamare a basso il qual veduto
non sapevo chi fosse perché non l'avevo più veduto in facia poiché erano tre mesi che per mia
indispositione ero stato quasi de continuo in letto et così lui mi disse essere il Podestà di Vicenza et
li vidi le vesti rosse sotto una romana di ermelino il quale mi disse: - Nicolò il malle è fatto son qui
per utile vostro io indotterò de mille ducati la putta et voi vi aggiuterò in ogni conto /[607v]/
facendomi racuntare le debite che havevo et havendoli io detto che havevo il debito di quel
deposito et altre debite particulare per la summa in tutto de ducati cento e venti in circa lui disse: questa è una fiaba non ne dubitate che io ve ne voglio pagar tutte et in oltre disse che sperava di
andar Podestà a Treviso et che voleva menarmi secco per suo Cancelliere et che dovessi in tal caso
ritrovare un Cogitore che havesse bella presentia facendomi mille altre promesse. Il che sentendo
io considerai al mio statto et che de già il malle era seguito tratandossi de personaggio talle che era
Podestà in questa città non seppi far altro se non andar con le bone et dirli che mi meteva nelle sue
brazze racomandandoli mia figliola aciò che io non restassi con tanto danno et scorno ma lui non
solo non l'ha indotata né /[608]/ maridata ma a pena li ha fatto dui miserabilli veste da zambelloto
una carpeta et un rabon de robba ben leggiera, et un paro de mantelli con una colanina de otto o
dieci ducati né ho mai saputo che sia stato mandato a casa mia altro che uno o dui sacchi de farina,
et un mestello di vino et ho sempre creduto che sia stato lui che habbi mandato esso vino et farina,
potria mo essere che fosse anco stato il Contestabille, et quando il mio putello parlava con il
Contestabille meteva ordine de l'hora che haveva da venire il Podestà a casa nostra ove li è stato tre
notte et anco di giorno et lì disnava et cenava il che mi era di danno notabilissimo per i fuoghi
grossi che li bisognava che io li facessi et ogni pasto mi costava dieci o dodici lire oltre la carne
che lui mandava perché li stava anco il Contestabille /[608v]/ a mangiare laonde vedendo io che la
cosa andava alla lunga che lo ricercavo che dovesse maritare mia figliola et lui con buone parole
andava differendo mi risolsi di tenir serata la porta di giorno et di notte con serature di dentro via
aciò che lui non mi venisse più per casa et licentiai per questo il redotto et pure una notte vene il
Podestà mentre stavo sopra la contrà di Prothi su le quattro ore di notte né avendoli io voluto aprire
continuando lui a bater forte nella porta et a chiamar per nome l'Ardemia mia figliola mi risolsi da
tal importunità sbarargli due archibuggiate una da una finestra, et poi feci parir la porta et entrato
sopra la strada li sbarai un'altra archibugià dietro che fugiva con altri che era di sua compagnia et
così il /[609]/ detto Podestà lassò la mulla o sia pantoffola nel fango per quanto lui mi disse poi
facendo io mia scusa seco perché pareva mi volesse perseguitare dicendoli che era stato un mio
cugnato bandito che essendo ivi da me non sapendo chi fossino quelli che havevano batuto alla
porta sospetando de inimici a le corte sbarò le dette archibuggiate doppo questo mi feci de novo
parlare per il vece contestabile de quel tempo che anci una volta detto vece contestabile mi prese
per un bracio dicendomi che dovessi venir in preggione o vero andar di sopra dal Podestà a parlarli
per che altramente haveva commissione di metermi in fondo, et perciò andai a parlare con il detto
Podestà col quale fatta la scusa predetta bisognò che io mi contentassi di lassarlo continuare a
venire in casa mia da detta mia figliola /[609v]/ et ultimamente contra nostra voglia la menò via
havendola condotta a Campo Nogara tre mesi avanti la sua partenza dal suo reggimento et havendo
io inteso che detta mia figliola veniva maltratata da esso Zen et che era gravida andai insieme con
mia moglie a Venetia per menarla a casa perché mi veniva detto che facilmente l'haveva attossicata
per non darli la dotte promessali et che anco ne faceva mercantia. Ritrovatala a Venetia in certa
casa la habbiamo condotta qui a casa nostra che è gravida in otto mesi et quanto a mia moglie io la
ho sempre tenuta per homo da bene del suo corpo se mo non mi havesse assassinato un padre delle
Gratie da cui lei si confessava mentre stavimo alli Protti; et quanto all'altra mia figliola non è vero
che sia stata posta contra nostra voglia nel loco delle Citelle che anci noi stessi con grande
allegrezza /[610]/ ghe la metessimo col favore della madre di Giacomo Renaldo [Arnaldi] la qual
la prese nella sua carozza et insieme con mia moglie la condusse al detto loco ma dopo non
contento il detto Zen di avermi fatto il scorno suddetto acconsentì anco alla richiesta che li fece
mia moglie mentre lei li disse che dovesse lassarli a casa la detta Ardemia o vero farli tor fuori la
detta nostra figliola del detto loco delle Citelle perché non voleva restare senza alcuna di esse, et
così esso Zen mandò a chiamare Lucangelo Linarolo, governatore di esso pio loco, et con parole
orgogliose li disse che si dovesse rissolvere di lassar venir fuori quella nostra putta altramente che
non essendo quel loco sacro l'haveria fatto gitare a terra, et l'haveria tolta fuori de ivi per forza et
così fu lasciata aperta /[610v]/ la porta e mia moglie la prese per un bracio et la condusse a casa et
questo Podestà fece tale officio con detto Luca Angelo con promessa di farli una sententia in
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favore che haveva il loco predetto con li Signori Somagli, et poi la fece contra al detto pio loco
dicendomi doppo: - io li ho coglionati quasi gloriandossi di così bel tiro. Interrogatus respondit la
prima volta detto Zen conobbe detta mia figliola mentre stavo a San Silvestro et ha poi continuato
mentre stavo alli Protti come ho detto De cetera interrogatus Signor no che mai il Giudice del
Malleficio è stato in casa mia. Dettoli voi avete cenato che in questa tratato vi habbi menato
qualche collegiato però se vi addomanda che parlando liberamente dobbiate dire de chi abbiate
certezza et suspeto Respondit io non voglio venire ad altre particulare perché potria essere che non
fusse vero né io voglio inculpar alcuno se non lo so di certo. Dettoli Nicolò voi /[611]/ non potete
scusarvi de non aver avuto scienza, et particolarmente nelle cose oppostevi perché oltre che appar
chiaro da questo processo si scopre anco dal asserire dal vostro costituto perché confessate haver
assentito alla proposta inniqua, infame et odiosa fattavi dal detto Podestà ladove era debito vostro
piutosto lassarli la vitta che passarla senza farne ressentimento grandissimo si che non accade che
vi scusate ma se vi fa intendere che li Presidenti per l'interesse del honor di questo colleggio sono
rissolti di voler far contro di voi quella provisione che li parerà conveniente per li ordeni et Statuti
di questo Colleggio facendovi intendere de più che se intendeste far alcuna diffesa per escolparvi
delle cose oppostevi la dobbiate fare per tutta la presente /[611v]/ settimana altrimenti si venirà alla
espeditione del presente processo Respondit il malle era fatto et quanto sia al ressentimento non
ero ingrato per la mia impotenza ben notta a tutti che non mi posso movere dicens io dubito che
questo Zen per scolparsi habbi al pure suscitato la formatione di questo processo contro di me
havendo forsi suscitato Oratio Scrova a cui ho mandato alcune esecutioni per il che è restato mal
affatto della mia persona havendo disseminato molte parole di fare et dire contro di me et faro
quelle diffese che posso remetendomi poi nel resto alla bona giustitia di chi giudicherà il presente
processo quibus habitis.
3. Ivi. Le due ultime lettere di Giovanni Zen a Nicolò Del Buso (1614)
/[612]/ Die mercuri 226 martii 1614
È comparso l'oltrascritto Nicolò Buso et per favore et difesa sua, et per escolparsi delle cose a
lui opposte, et far conosser alla giustitia come esso non ha mai avuto intelligentia alcuna né con il
Giudice all'officio del Malefitio, né meno con il contestabile, né con altri, se non con il Chiarissimo
Podestà Zen, et come ha deposto nel suo constituto ha presentato littere sette che apparono scritte
di mano del detto Illustrissimo Zuane Zen una de dì 4 dicembre senza anno, una de di 16 dicembre
prossimo passato, due de 16 et 26 febraro prossimo passato, et tre sotto li 5, 14 et 22 del corrente,
et un'altra appar scritta di mano di Ippolito Munari disse camariero già del detto Zen de dì 24
febraro passato, per le quali intende di mostrare alla giustitia come i testimoni esaminati sono falsi,
et come hanno voluto portar rispetto a detto Zen con animo di rihaverle (?) ad ogni sua richiesta et
inholtre ha fatto instantia che si debba venir alla espeditione immediate della sua persona non
intendendo di far altre diffese et renontiando al termine assignatoli per far le sue diffese nel fine del
suo constituto et hoc omni etc.
[...]
Tergo / Al Mag.co Sr Nicolò Buso Vicenza
/[615]/ Mag.co Sr mio
la sua partita insieme cola compagnia me ha reso molto travaglio stando anco col gran pensiero
quello possi esser successo in proposito di quello seguì nella chiesa del Domo con la Florinda (?)
però del suo arivo de li et anco de ogni ... disturbo haverò sempre a caro saperlo per potervi giovar
dove potrò et credetemi che sto con grande affano della sua partita, et subito che li tempi si
acconciano, et che le strade siano buone voglio venirvi a trovar per star doi giorni con voi se però
vi contenterete de venirmi a incontrarmi dove vi scriverò et alloggiarmi nella vostra casa. Non ho
scritto niuna delle lettere che mi havete ordinato perché desidero saper qualche cosa di novo per
poterle alterarle et scriverle come meglio stimerette. Vi voglio ben dir questo che se voi non
decipirete [sic=direte] cosa alcuna delle robbe della Ardemia mi serà tanto /[615v]/ favore che mi
adopererò quanto posso in servitio delle cose vostre per il che son sicuro farete, et quando avesse
pensiero di non poter star de li per li molti vostri travagli tanto più saria bene il consumare quello
che havete ... el pensiero molto suspiso havendomi detto il furlano che voi vostra moglie dite al
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vento voler venir ad habitar a Venetia per tanto più vi prego a conservar tutto quello si atrova
l'Ardemia. Salutate la vostra consorte, Ardemia et tutti li vostri figlioli di casa a mio nome et a voi
mi raccomando.
Di Venetia alli 14 marzo 1614
per farvi servicio
Zuanne Zen
/[615v]/ Sr Nicolò
Dalla vostra vedo in quanti travagli sete, la colpa non è mia ma mi dispiace grandemente che siate
così odiato da tutti. Quanto /[616]/ al negotio vostro ... ho deliberato di parlar de qui a uno de
questi vostri nodari che si atrova de qua in bona forma, il qual credo che farà saper al suo colleggio
che desista travagliarvi tanto più che de qui hanno bisogno de noi, et forsi il cancelliero farà ancor
lui qualche cosa avendoli scritto caldamente della fiola per esser quelli giorni santi non so se si
troverà modo di averlo a quell'officio, ma al tutto ve lo manderò quanto prima. Haverò a caro saper
anco da voi quello haverà operato il cancelliero non havendo ancor havuto risposta in proposito
delli vostri negotii. Siate sicuro che come so che voi sette travagliato patisco ancor io delli vostri
travagli. Non serò più longo per esser l'hora tarda a voi et a tutti di casa mi ricomando.
Di Venetia alli 22 marzo 1613 (MV)
Questa matina son andato a posta a trovare Fabio Mosto al qualle ho parlato caldamente in vostro
servitio /[616v]/ et credo farà già profitto quello ho detto non occorre che lo scriva ma che parlerà
alla sua venuta del che serà dimani con Pier AntonioBonaz... et anco serà detto ad Oratio ... che io
mi dolgo che vi travaglia per sententia che li fu fatta contra.
Adì 23 marzo 1614
Per farvi servitio
Zuanne Zen
4. ASVI, CN, vol. 272, c. 617r. Supplica di Nicolò Del Buso (20.12.618).
Sono cinque anni hormai ch'io Nicolò Del Buso fui privo di questo honorando colleggio sotto quei
pretesti, che passarono prima a notitia d'altri che di me medesimo come vacuo d'ogni colpa: perché
gl'accidenti ch'hanno contaminata la sfortunata mia casa successero in tempo ch'io ero infermo, et
stroppiato di ... et come furono orditi con paliate insidie da quelli ne quali più confidavo; così
quando io infelice scopersi il caso, fui constretto a cedere a quell'auttorità et violenza alla quale
nell'umiltà del mio stato non potevo resistere onde non sol non mi fu concesso di reclamare; ma
anzi fui costretto a celarmi in luogo sacro per dubio di maggior rovina sopra la persona mia. Hor
che mancata è mia moglie et che nel corso di questo tempo ho sostenuti quei patimenti che sono
ben notti alle MM. VV. [magnificenze vostre] et che anco con la providenza di dio è ristorato
l'honor di casa mia con li matrimonii di mie figliole l'una nel Magn.co Alvise Dall'Aqua et l'altra
nel Ser Lorenzo Colombina, come la terza è stata posta nelle citelle, supplico alle MM.VV. che
compatendo alle mie disaventure et a questa ettà hor mai senile in che m'attrovo, et essercitando
insieme quell'humanità con la quale altri ancora sono stati gratiati si degnino restituirmi al
colleggio com'ero prima, affine che possi passar questo pocho di vitta, che mi avanza con honesto
tratenimento nella debolezza della mia fortuna et con qualche solevatione dell'animo mio oppresso
quasi inconsolabilmente da tanti miei irreparabili infortunii, con poter anco mantenir a scola duoi
figliuoli, ch'io m'attrovo, e bene incaminarli nell'essercitio del Palazzo, come hanno fatto li nostri
maggiori, assicurandole che quanto sarà grata a dio misericordiosissimo questa gratia, altre tanto
viverò io obbligato alla molto benignità delle MM.VV. alle quali mi dono et raccomando.
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5. ASVI, N, b. 6220. Lettera di Francesco di Batta Del Buso (ramo di San Germano) a
Matteo di Girolamo (ramo di Villaga). Presumibilmente da San Germano (11.9.1522).
Mathio coxin carissimo saluti a el. Io ho revuta una tua letra la qual io ho inteso el tuto e breviter te
respondo. Circa del sequestro che ha facto Zuanne da Barbarano che io gie volgia far provisione io
te dico che mi non gie volgio parlar per cossa alguna ne provederge altramente per che causa io lo
faza tu intenderai. Tu stai obliga ti o tui fratelli a pagare a Lodovigo o sia Rigoantonio in suo loco
la mità de ducati 12 e uno terzo; tu fai lite con el fatore de Rigoantonio e non voli pagare sevendo
tuti l'intrigi a Venetia e in ogni altra persona mo li Busi ala spala e mi mo non men entro. El paga
la dota de mia madre mai lo podesto havere. I debitori tuti li hai bonamente scossi. Consta contra
ogni dovere unde io non gie posso durare e mo è forza fare ancora mi el simile: batarme l'aqua da
dosso fina che poterò. ma mo ben mo della fine. In el core vegnere in differentie con ti ma quando
non poterò fare altramente sero [?] a Dio o ale persone del mondo: per tanto te aviso che la
differentie che sono infra noi o intrigo, volgi che la descatigiamo senza lite et con amore che tuto
quello serò obliga a defenderte per mi non ne haverai uno impazo al mondo se mo dovesse
impegnare la vitta ma sapi questo che fina non se desbratemo fora noi che io non già provederò a
messer Zuane de niente e si non starà poi anche [?] siché tu sai quello hai afare. Io ho industriato
tanti ani per amor tuo ma più non posso. Tu sai che se remeteremo in Hieronimo de la Bolpe dela
nostra diferentia e mai lo havemo despazato e questo io ho fato per lo bene che io te porto ma mi
non posso più e volgio vivere chiaro o volgio pagare quello debo pagare: siché tu intendi l'animo
mio e per tua letra mo fami intendere el tuo volere se tu voi se cavamo i piedi da dicta nostra
diferentia con amore e benevolentia e senza litte e se ben misser Zuanne leverà la biava. Destrigato
quello havemo tanti anni a distrigare le resti overo ogni cossa che mi te sia tolta siché tu hai inteso
el tuto. Del libro io te lo farò avere che mi sun per vegnire a Vicenza e tel porterò. Non altro per
hora son al tuo comando adì 11 setembre 1522
Te prego me mandi li mei zuppelli che sono a Vicenza e quella schiavina. Iterum non so el tuo
volere contra de Hieronimo de Nigri se voi che gie dagemo el ficto per lo [?] o sia farge litte; del
tutto dame uno pocho de risposta
Francesco Del Buso
La lettera informa sulle relazioni tra i due rami della famiglia sul finire dell'estate del
1522, di ostica lettura nell'originale, eccone il regesto:
Francesco risponde ad una richiesta di aiuto del cugino Matteo. Egli non interverrà presso
Giovanni Barbarano ad impedire un sequestro. Già troppo ha supportato i litigi di Matteo e fratelli
fino a Venezia, contro il dovere e la giustizia, tanto più che egli stesso è creditore della quota di
dote di sua madre che il cugino, nonostante le riscossioni dai suoi debitori, non ha versato.
Francesco è spiacente di dover essere duro, ma ritiene la misura colma; impegnerebbe anche la vita
a favore del cugino se le differenze esistenti fra loro si appianassero. Risolti i problemi in famiglia
resterebbero poi tanti anni per dipanare le altre questioni. Venendo a Vicenza gli porterà il libro
richiesto. Chiede gli siano inviati gli zoccoli ed il mantello, chiede infine le intenzioni del cugino
circa un affitto dovuto a Girolamo Negri: si paga o si litiga?
6. ASVI, CG, b. 2838, cc. 10r-12v. Divisione dei beni di Silvestro fu Stefano Del Buso
(18.9.1589).
In Christi nomine amen 1589 ind. (Indizione) 2 die vero sabati 18 mensis 7mbris in villa Sancti
Germani vicentini districtus in domo habitationis mei notarii, presentibus Io Petro filio q. Antonii
106
Carpetarii et Ambrosio filio Petri Mazzetti ambobus de Sancto Germano et Francisco filio
Bernardini Marana de Campedello omnibus testibus ad hoc vocatis et rogatis.
Volendo li DD. Claudio e Livio fratelli figlioli del q Camilo del Buso, D. Cecilio D. Cesare, D.
Curtio et D. Nicolò fratelli figlioli del q D. Andronico del Buso, et D. Gasparo figliolo del q D.
Pace del Buso tutti germani, figlioli de fratelli con la presente et intervento del soprascritto D.
Cesare curatore del soprascritto D. Gasparo, della quale consta nelli atti di D. Antonio figliolo del
q D. Iseppo Mainente sotto li 4 febraro nodaro alla Ragione, venire alle divisioni tra loro di tutti li
beni del q Silvestro q Steffano del Buso videlicet delli beni sottoposti al fideicommisso del q D.
Alessandro del Buso, come nel suo testamento al quale etc. [si rinvia] et possessi fin hora per
indivisi fra loro. Però essi signori dividenti come restati d'accordo di far sette parti dell'heredità
indivisa, et così hanno fatto sette parti di essi beni et heredità descritte in sette polizze infra
registrate. La prima segnata lettera A, et la seconda B ... la settima lettera G. Sopra le quali fu
messa la sorte, imperoché furono fatti sette boletini il primo segnato lettera A ... tutti sette posti in
un capello, di poi furono fatti altri boletini, delli quali il 1º havea scritto D. Claudio ... posti tutti
sette in un altro capello. Poi del 1º capello, di volontà delle parti, fu estratto per me nodaro un
boletino sopra il quale era lettera F, parte sesta et così anco di volontà delle parti fu estratto un
boletino dell'altro capello nel quale era scritto D. Curtio, ... la parte 5º segnata lettera E è toccata a
D. Nicolò ...le quali polizze sono le infrascritte
... Poliza segnata di lett.a E parte quinta
Una pezza di terra arativa piantà di viti ed arbori di campi 1 q. [quartieri] 3 t. [tavole] 182 posta
nelle pertinentie di San German in contrà delle Frate apresso la via comune da una banda, dall'altra
Zuanne ferraro per li beni havuti da Francesco Ferraro detto il panleto, da un capo Batta Troncon
per li beni della chiesa di San German, dall'altro capo noi heredi et forse altri etc.
Item una pezza di terra arativa piantà di viti et arbori di campi 0 t. 143 posta nelle pertinentie di
Grancona in contrà di Fusantani appo Batta Muraro da San German, li heredi di D. Zuanne
Pogliana, il ghebo della Liona, et forsi altri.
Scoder d'affitto stara uno formento dal nobil D. Claudio del Buso.
Item un altro staro di formento dalli heredi de Sebastian Crivellaro detto Pilla, et Zuanne, et nipoti
di Ceschi da Grancona.
Item un altro affitto de troni 5.11.6 dalli heredi d'Iseppo Bolpe d'affitto.
Item troni 2.12.6 dalli deti heredi per colte acquistate dall'Illustrissima Signoria di Venetia.
Item da Marcolin Ferraro da San German tr. 2.
Item da Zuanne et nipote di Tronconi del detto loco para uno polli.
Con dichiaratione che se qualche cosa delle divise fosse mai per alcun tempo convinta , che il
danno sia comune [è la tutela contro l'evizione], et se all'incontro per alcun tempo apparisse d'eser
qualche cosa della deta heredità non divisa nel presente instromento, il tutto sa a beneficio comune
di essi dividenti, prometendo essidividenti una parte all'altra, et l'altra a l'altra scambievolmente
haver sempre ferme, et grate, le divisioni soprascritte, né mai contrafar o contradir a quelle di
ragion di fatto ... sotto obligatione di sé, et di tutti li beni suoi mobili, stabili, presenti et futuri di
cadauna sorte, in ogni ampla et solenne forma, et d'ogni miglior modo etc.
Dechiarando che tutti li affitti quelli così dell'anno inanzi l'anno 1589, se vi saranno resti, debbano
esser comuni di tutti li dividenti, et li affitti corsi l'anno 1589 habbiano d'esser di quelli a quali
l'hanno toccato, et così quelli che si pagano tocati nelle divisioni, debbano qelli a quali hanno
tocato pagarli di tutto senza altra rifattione di sorte, et tutto il resto d'affitti che detta heredità paga
ogn'anno in tenuta proportione quae omnia etc.
Ego Iacobus Zuglanus q D. Alexandri notarii publici et civis Vicentiae his suprascriptis omnibus
adfui et rogatus publice suscripsi Laus Deo
107
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110
INDICE DEI NOMI*
* Non è stato incluso nell’indice il richiamo generico alla famiglia Del Buso ed il nome del protagonista Nicolò Del
Buso. Il patronimico è inserito solo nei casi di omonimia (Nicolò I è il nonno, Nicolò II il nostro). Delle donne è
indicato il cognome della famiglia di origine.
N.B.: i rinvii alle pagine si riferiscono all’edizione a stampa
Alciati, A. 24
Aleardo Prospero 107
Allegri Allegro 115
Ambrosini F. 117
Angarano (famiglia) 80
Angiolello (famiglia) 90, 93, 102,
112, 113, 114
- Anna 90
- Anton Maria 90, 92, 93, 112,
114
- Anton Maria, (sec. XV) 72
- Francesco di Gio. Maria
(nipote) 79, 117
- Francesco di Gio. Maria (nonno)
72, 102, 117
- Gio Paolo 114
- Gio. Maria 87, 114
- Giustina 72, 113
- Gregorio 113, 117
- Laura 72
- Paola 72, 75, 112, 113, 115
- Vittoria 112
Arangio Ruiz V. 113
Aristotele 31
Arnaldi (famiglia) 41, 58
- Giacomo 41, 42, 48
- Giulio 117
Augé M. 55
Azara A. 113
Bachino (famiglia) 97, 104
- Bernardino 96, 106
- Camilla 72, 88, 104
- Lunardo 96
- Prospero 88, 106, 117
Balzac H. de 30, 57
Barbarano (famiglia) 80, 92
- Valerio 87
- Giovanni 120
Barbieri F. 24, 114, 126
Barugola (famiglia) 93
Basaglia E. 25
Bassano Bernardino 104
Bateson G. 29
Battilotti D. 120
Benedetti (famiglia) 97
- Gio. Maria 72, 91, 106
Benoit G. 113
Beregan (famiglia) 80
Bertesina (famiglia) 93
Bertola Fiore 57, 60
Bertuzzo Giacomo 107
Bisazza G. 58, 111, 114, 119, 120
Bissari (famiglia) 118
Boerio G. 25, 58, 59
Bonifacio Giulio 105, 116
Borromeo Federico, arcivescovo
di Milano 60
Bortolan D. 114, 126
Boschini M. 126
Bossy J. 57, 58
Bottarino (famiglia) 72
- Dardanida 75, 91
Bragadin Alvise, capitano di
Vicenza (1581) 88
- Alvise, podestà di Vicenza
(1640) 102
- Andrea, podestà di Vicenza 124
Breganze (famiglia) 104
- Paolo 102
Bressan G. 118
Brueghel Peter (il vecchio) 15
Brunner O. 56, 59
Brusatin M. 126
Brusolino Orazio 72, 106
Calasso R. 111
Caltran Girolamo 108
Calvi G. 126
Calvino I. 56, 126
Campiglia Maddalena 111
Camporesi P. 24
Camus A. 126
Cantimori D. 89, 117
Cappasanta (famiglia) 72
Capra (famiglia) 72, 92
- Giulio 118
Caravaggio (Michelangelo
Merisi) 18, 25
Caravale M. 113
Carcano Giulio 107
Cardello G. P. 25
Carlo V, imperatore 70
Castellini (famiglia) 97, 104, 114
- Antonio 106
- Lavinia 72, 112, 119
Castellini S. 24, 25, 26, 114
Cavalcabò (famiglia) 72
- Ginevra 85
Cenci Gio Maria 126
Cestarolo Fante 40
Chevalier A. 24
Chiappin (famiglia) 97
- Camillo 96, 105
- Carlo 106
Chiericati (famiglia) 87
Cittadella Gaspare 40
Cocco (famiglia) 116
Cohn S. jr. 111
Colombina Baldissera 74, 113
- Cecilia 73, 74
- Diana 73, 74
- Fontana 73
- Giustina 73
- Lorenzo 73, 74, 75
- Luca 74
- Matteo 74
- Pietro 74, 113
- Salvador 74
Colombina (G. Donato Gastaldi)
89
Colzè (famiglia) 59
- Alteria 59, 70, 72, 94, 111
- Dionisio 111
- Giorgio 108
- Vincenzo 43, 70, 111
Contarini Francesco, capitano di
Vicenza 118
Conte Orazio 116
Corazzol G. 24, 55, 58, 59, 110,
111, 114, 115
Costozza Orazio 91
Cristofoletti L. 119
Crivellari Febo 126
- Orazio 108
Croce B. 110
Da Porto (famiglia) 17, 87, 92,
93, 118
- Elisabetta 93, 118
- Francesco 93, 118
- Gaspare 93
- Gio Benedetto 118
- Giovanni 118
- Giulio 93, 118
- Ippolito 92
- Nicolò 118
- Simone 118
Da Porto M. 118
Da Schio G. 115
Dagli Orci Emilio Cesare 108
- Fausto 90
- Flaminio 90, 117
- Gio. Matteo 90, 108, 117
- Paolo Emilio 108
Dall’Acqua (famiglia) 87
111
- Alvise 73
Davis J. C. 59
De Giorgio M. 111
Del Buso Alcide 85, 115
- Alessandro di Francesco 72, 75,
85, 86, 87, 90, 91, 107, 112, 115,
116
- Alessandro di Curzio 93, 94,
113, 114, 119
- Alfonso 106
- Amerigo 80, 81
- Andronico di Carlo 80, 81, 82,
94
- Andronico di Curzio 94, 104,
106, 118, 120, 124
- Andronico di Nicolò I 59, 72,
75, 79, 84, 85, 86, 87, 88, 92, 93,
102, 103, 114, 116, 117, 118, 120
- Anna 22, 71
- Arcisa 72, 91, 106, 111, 112,
117
- Ardemia 21, 39, 45, 47, 48, 50,
53, 65, 71, 72, 75, 96
- Battista di Gerardo 81
- Battista di Girolamo 79, 85,
103, 104, 115, 116
- Battista di Nicolò I 72, 85, 86,
88, 89, 90, 92, 93, 102, 114, 115,
116, 117, 118, 120
- Battista di Nicolò II 71, 103,
124
- Battista di Silvestro 81, 114,
116
- Camillo di Claudio 72, 104,
112, 118
- Camillo di Nicolò I 84, 85, 87,
120, 124
- Carlo 80, 94, 114
- Caterina 104
- Cecilio 43, 72, 83, 88, 93, 94,
96, 104, 105, 106, 117, 118, 119
- Cesare 44, 59, 70, 72, 85, 94,
95, 96, 105, 106, 111, 119
- Cinzia Maria 76
- Ciro 96, 112
- Clarice 86
- Claudio 91, 104, 105, 107, 117
- Creusa 91, 117
- Curio 90, 93, 96, 112
- Curzio 72, 91, 93, 107, 112,
117, 119
- Erminia 76, 77, 113
- Franceschino 80
- Francesco 81, 104, 105, 120
- Gasparo 85, 91, 95, 117
- Gerardo 81
- Girolamo di Battista 26, 84, 85,
86, 87, 90, 91, 104, 105, 106,
115, 116, 118
- Girolamo di Silvestro 68, 69,
72, 81, 86, 87, 88, 111, 116, 117
- Giulio 84, 103
- Giulio Cesare 71, 79, 107, 108,
109, 124
- Lavinia 113
- Lelio 82, 86, 115
- Livio 72, 84, 112, 117
- Ludovico di Alessandro 85
- Ludovico di Girolamo 84, 103,
104, 118
- Ludovico di Livio 72, 82, 112,
117
- Ludovico di Nicolò II 71, 103
- Marietta 111
- Matteo 82, 84, 86, 87, 102, 104,
105, 114, 116, 118, 120
- Mattia 91
- Nicolò di Amerigo 80
- Nicolò di Battista 84, 85, 90
- Nicolò di Guidone 79, 80
- Pace di Gasparo 85, 115, 119
- Pace di Nicolò I 26, 75, 84, 85,
86, 89, 90, 91, 104, 105, 116,
117, 118, 119, 120
- Paolina 72, 106
- Promezio 81
- Silvestro di Franceschino 80,
81, 83, 86, 111, 114, 115, 116
- Silvestro di Stefano 68, 69, 88,
95, 111, 115, 117
- Stefano 83, 84, 90, 111, 117
- Vincenzo 71
- Vittoria 72, 88, 90
Delille G. 111
Della Volpe (famiglia) 91
- Antonio 53
- Caterina 72, 112, 117
- Claudio 19, 20, 21, 39, 43, 44,
45, 65, 71
- Roberto 53
Dolfin (famiglia) 82, 93
- Dionisio, vescovo di Vicenza 42
Donà Alvise, capitano di Vicenza,
17
Eula E. 113
Farge A. 111
Fazio I. 111
Ferramosca Girolamo 116
Ferraro J. M. 56, 57, 59, 111, 112
Ferretto (famiglia) 58, 97, 104,
106, 107, 114
- Alessandro 105
- Antonio 104, 106, 108, 124, 126
- Bernardino 104
- Camilla 104
- Francesco 104
- Giacomo 108
- Quirino 106
- Silvano 39, 40, 106
Florian Orazio 73
Fontana F. 126
Fortuna Francesco 37
Francesco I, re di Francia 60
Franzina E. 25, 57
Gabriel Giulio, podestà di
Vicenza 57
Garino E. 58
Garzoni T. 25
Gellner E. 55
Geremek B. 24
Getto G. 126
Gheebrant A. 24
Ghellini Calocci I. M. 111
Ghislardo Pietro 108
Giacomuzzi L 59, 113
Giacomuzzo (famiglia) 93
Ginzburg C. 24, 55, 57
Giustinian Pietro, capitano di
Vicenza 17
Giustiniani (famiglia) 116
Godi Cristoforo 102
Goody J. 111
Grimani Alvise, podestà di
Vicenza 34, 57
Grimm C. 25
Gritti (famiglia) 116
Grubb J. 58, 115
Gullino G. 112, 116
Hals Frans 18, 25
Hugo V. 51, 60
Imperiali (Dell’imperatore)
Gregorio 116
- Matteo 116
Imperiali G. 123, 126
Klapish Zuber C. 111
Kuehn T. 58
Lanteri G. 59
Lavarda S. 24, 118, 126
Lévi-Strauss C. 29
Linarolo Luca Antonio 42
Lombardini G. 24
Lorenzoni A. 59, 112
Loschi (famiglia) 33, 34
- Marc’Antonio 57
- Scipione 34, 118
Maganza Alessandro 123
- Battista 126
Mainenti Antonio 108
- Pietro Antonio 86, 91
Malpaga (famiglia) 72
Mansi L. 113
Mantese G. 26, 111, 112, 116,
126
Manzoni A. 31, 32, 55, 59, 60,
122
Marcello (famiglia) 116
Martin del Vedelo 24
Martinengo Giovanni 17
Martini Sebastiana 68
112
Marzari G. 94, 119
Mason Rinaldi S. 126
Massaria Alessandro 90
- Alvise 90
Megna L. 114
Molin (famiglia) 116
Monegatta Silvestro 40
Montagni E. C. 25
Monza F. 24
Mortat C. 113
Mosto Fabio 50
- Pietro 51
Muris G. 94, 119
Mussi P. D. 113
Naldi (famiglia) 87
Nievo I. 56, 110
Olivieri A. 117, 118
Orgiano Paolo 26, 33, 57, 60, 68
Pace (famiglia) 72, 80, 90, 93, 97,
104, 107, 112, 114
- Alessandro 89
- Fabio 85, 90, 91, 92, 107, 112,
117
- Giulio (Cesare) 90, 117
- Laura 75, 90, 93, 112, 119
- Mattia 85
- Paolo 104, 115
Pagliarino G. B. 80
Palazzo Balasso 108
Pallavicini Giovanni 41
Paradisi A. 19
Pasini Pace 121, 123, 126
Pasini Vincenza 122
Pavan G. 114
Pedrinelli G. 119
Pellizzari (famiglia) 89
- Lorenzo 93
- Nicolò 118
Peschiera Giovanni 124
Pezzolo L. 116
Piacentin Vincenzo 108
Piovene (famiglia) 72, 91
- Antonia 117
Pisani (famiglia) 116
Poiana (famiglia) 59, 91, 92
- Alessandro 44
- Bonifacio 59, 119
- Camilla 72, 112, 117
- Nicolò 59
- Vincenzo 44
Povolo C. 25, 26, 33, 55, 56, 57,
58, 111, 113, 115, 116, 117, 118
Pozza N. 24, 126
Preto P. 24, 114
Priori L. 25, 57, 64, 110
Priuli (famiglia) 82, 93, 116
- Antonio, doge 82, 86
- Girolamo 90
- Girolamo, podestà di Vicenza
94
Prosperi A. 57
Pugliatti S. 113
Puppi L. 24
Radding C. 58
Remotti F. 33, 55
Repeta Cecilia 76
Ridolfi C. 126
Rinaldi Della Zucca Giustina 111
Roberts S. 58
Rocca A. 25
Roccabruna (famiglia) 72
Rolandino Antonio 40
Rubini Braschi Florinda 77
Rumor S. 115
Sanseverina Anna 76
Sartori D. 111
Sbriccoli M. 110
Scamozzi Vincenzo 24
Scroffa (famiglia) 41
- Orazio 41, 49, 50, 95
- Vincenzo 17
Scudellaro Bortolamio 26
Seidel Menchi S. 117
Sesso (famiglia) 70
Sgarbi V. 126
Simionato U. 115
Somaggio o Somaglio (famiglia)
48, 97
- Isabella 72
Spadaro Micco 126
Spiera Francesco 89
Stella Francesco 118
Stendhal (H. Beyle) 30, 55
Strozzi Cicogna F. 70
Tagliaferri A. 25
Tamassia N. 112
Tangherla A. 126
Testadoro Giorgio 40
Thiene (famiglia) 92
- Francesco 118
- Girolamo 118
- Odoardo 89, 93, 118
Thompson E. P. 26
Todorov T. 55
Tomizza F. 32
Tommasini F. 80, 114
Trevisan Bernardino 40
Trifone R. 113
Trissino (famiglia) 72, 80, 91
- Achille 88
- Alessandro 89, 93, 118
- Attilia 72, 117
Troncon (famiglia) 93
Vaienti Battista 105
Valle Bernardino 105
- Gio Francesco 105
Valmarana (famiglia) 92, 102,
118
- Leonardo 93
- Leonoro 70
- Mario 104
- Massimiliano 70
- Vincenzo 102
Vassalli S. 56
Velo Vellegiana 104
Venier Chiara 79
Ventura A. 119
Vergerio Pietro Paolo, vescovo di
Capodistria 89
Verlato (famiglia) 70,
- Anna 70
- Atalanta 70
- Florinda 21, 22, 41, 46, 50, 51,
52, 65, 69, 70, 71, 72, 111
- Ortensia 72, 111
- Vincenzo 111
Viaro Marc’Antonio 119
Wells H. G. 29, 55
Wickham C. 58
Zamperetti S. 118
Zanazzo G. B. 56, 57
Zanfardin Michele 88
Zanono Filippo 105
- Giulio 105
Zemon Davis N. 111
Zen a San Faustin (famiglia) 52,
53
- Antonio 53
- G. Franco 53
- Giovanni, podestà di Vicenza
17, 21, 22, 39, 40, 41, 46, 47, 48,
49, 50, 51, 52, 65, 66, 75, 96, 112
- Nicolò di Giovanni 53
- Nicolò di Vincenzo 53
- Vincenzo 53
Zugliano (famiglia) 90, 97, 112
- Agostino 90, 117
- Alessandro 72
- Alvise 104
- Chiara 90, 112
- Elena 72, 75, 85, 90, 91, 107,
112
- Giacomo 72, 88, 90, 112
- Leonardo 53
- Orazio 53
- Valerio
113
114