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1 Sergio Lavarda L’incivile, disonesta e sordida vita. Storia di un notaio del Seicento Verona: Cierre edizioni, 2002. 2 Titolo Autore Editore L'incivile, disonesta e sordida vita: storia di un notaio del Seicento Cierre Edizioni Nord est Sergio Lavarda Cierre, 2002 ISBN Lunghezza 8883141512, 9788883141515 162 pagine N.B.: La paginazione dell’edizione elettronica non corrisponde con quella dell’edizione a stampa. La presente edizione non comprende le tavole genealogiche della famiglia Del Buso. 3 Indice PRESENTAZIONE di Claudio Povolo................................................................................................... 5 NOTA DOCUMENTARIA....................................................................................................................... 7 LISTA DELLE ABBREVIAZIONI ............................................................................................................. 8 Prologo Dove una serie di quadri introduce suggestivamente i personaggi .................................. 9 PRIMA PARTE: ALLEGORIE................................................................................................................ 19 Capitolo 1 Dove si annunciano affinità con l'invenzione letteraria, e si discutono precedenti famosi. ......................................................................................................................................... 20 Capitolo 2 Dove si illustra un documento apparentemente di scarsa importanza ....................... 28 Capitolo 3 Dove necessari collegamenti attribuiscono valore relativo ai fatti ........................... 29 Capitolo 4 Dove si offrono conferme ed insinuano dubbi .......................................................... 33 SECONDA PARTE: INVENZIONI .......................................................................................................... 45 Capitolo 1 Dura lex, sed lex ........................................................................................................ 46 Capitolo 2 Donne ........................................................................................................................ 50 Capitolo 3 Amici e parenti .......................................................................................................... 62 Capitolo 4 Notai di collegio ........................................................................................................ 84 Epilogo Dove la tragedia familiare si innesta nel dramma storico .............................................. 94 APPENDICE DOCUMENTARIA ............................................................................................................ 99 BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................ 108 INDICE DEI NOMI........................................................................................................................... 111 4 Presentazione Strano, e per certi versi pure paradossale, è il destino cui le scienze sociali, ed in primo luogo la storia e l’antropologia, sembrano oggi non in grado di sottrarsi, sospinte, quasi inesorabilmente, nell’ambito di un discorso critico che non ha alcuna remora a porne in evidenza le contraddizioni e le fragilità interpretative. Le fonti, quei testi così vezzeggiati e attentamente soppesati dagli storici e dagli studiosi delle società, sembrano ora manifestare un’insopprimibile repulsione nei confronti di ogni tentativo volto a coglierne il significato e il senso, anche alla luce degli approcci interpretativi più sofisticati e dotati di linguaggi pluridimensionali. Le fonti sembrano essersi riprese una ineluttabile rivincita, rivolgendo (e ritornando) il loro sguardo impenetrabile verso colui che, pretenziosamente, ha osato auscultarne i significati più reconditi avvalendosi di strumenti interpretativi che non sono riusciti (e non possono riuscire) a scalfire la loro dura ed impenetrabile scorza. Ed il ritorno dello sguardo, sia che provenga da fonti scritte secoli molti secoli addietro, che da testimoni attuali, e spesso per nulla reticenti, di una cultura diversa, non è privo di conseguenze. Il ritorno di questo sguardo, nella sua apparente inespressività, sembra suggerire non tanto la fragilità interpetativa e l’incapacità di colui che, per mestiere accademico o per puro piacere ed interesse personale, ha osato e tentato di cogliere il significato della fonte, quanto piuttosto la sua irreversibile incapacità di avvicinarsi ad essa per imbastire un dialogo costruttivo e in grado di tessere la trama di una verità convincente1. Non sono, dunque, l’assenza di attenzione filologica o il dubbio armamentario interpretativo dello storico a rendere fuorviante ogni tentativo di comprensione della fonte (difetti, peraltro, ampiamente stigmatizzati dai cultori di questa disciplina), quanto piuttosto l’intrinseca incapacità di quest’ultima di rivelare i nessi diretti con i fatti di cui essa non è, e altro non può essere, che una semplice espressione letteraria. Se il fatto non può essere colto che nella sua dimensione letteraria, cioè nella dimensione attraverso cui esso viene narrato (in una sorta di fiction), appare evidente che ogni preliminare divisione tra storia e letteratura viene a cadere e, soprattutto, che quello stesso fatto non può che essere una mera rappresentazione documentaria (un testo) di una realtà indecifrabile. Da qui è scaturita l’attenzione per come i fatti sono narrati e, soprattutto, la considerazione (quanto più estrema, ma, non per questo, meno diffusa) che, in definitiva, non esiste alcuna distinzione tra storia e storiografia2. E così, come ha notato uno dei più acerrimi e convinti oppositori di questo nuovo approccio storiografico, “in tutta questa teorizzazione i fatti storici più o meno si perdono di vista. La distinzione tra fonti primarie e secondarie, su cui riposa la ricerca storica, è abolita. Lo storico diventa un autore come qualunque altro, oggetto di critica e analisi letteraria. I confini tra storia e finzione si dissolvono”3. In realtà le tesi che, variamente definite postmodernismo, decostruzionismo, nuovo scetticismo, si sono mosse all’insegna di un nuovo e apertamente decantato rapporto tra storia e letteratura, vantando una presunta inarrestabile vittoria sugli oppositori4, definiti senza mezzi termini positivisti, hanno avuto il merito di aver acceso una discussione approfondita sul modo di far storia e sul rapporto tra fatti, prove ed interpretazione5. Si veda, ad esempio, per quanto riguarda l’antropologia, i titoli e i commenti di alcuni numeri del Times litterary supplement scritti proprio di seguito alla sensazione di smarrimento , diffusasi già alcuni anni orsono, a seguito dei contraccolpi provenienti da quel processo di feed back che veniva (e viene) a colpire lo studioso di culture altre: The anthropologist observed. The field of the future, di E. Gellner, TLS, n. 4711 (July 16, 1993); Returning the gaze. Clifford Geertz and the crisis of anthropology di T. M. Luhrmann, TLS, n. 5102 (January 12, 2001). 2 Per quest’ordine di problemi e, soprattutto, sugli sviluppi interpretativi rivolti ad esaminare le interconnessioni tra letteratura ed altre discipline cfr. G. Binder e R. Weisberg, Literary criticism of law, Princeton 2000, ma anche il testo che può essere ormai considerato l’archetipo (critico) di questa impostazione R. A. Posner, Law and literature, Harvard 1998 (prima ediz. 1988). 3 R. J. Evans, In difesa della storia, Palermo 2001 (London 1997), p. 125. 4 Si veda a questo proposito la baldanzosa attestazione di vittoria di uno dei cultori più convinti del postmodernismo in TLS, October 26 (2001): P. Joyce, A quiet victory. The growing role of pstmodernism in history; e la risposta aspra (e persino oltraggiosa) di F. Robinson, Postmodernism views of history, in TLS, Novembre 9 (2001). 5 Si veda, a titolo di esempio, Questions of evidence. Proof, practice, and persuasion across the disciplines, Chicago 1994, con interventi per la parte storica di L. Daston, J. Chandler, A. J. Davidson, C. Ginzburg, P. Vidal-Naquet, E. Helsinger. Il testo della Daston, in particolare, affronta sottilmente, attraverso il tema dei miracoli, il rapporto tra fatti e prove (e l’elaborazione concettuale di quest’ultime). Ma sempre su questo tema il già citato testo di Evans, in particolare pp. 99 e sgg. Se, come sostiene Evans, “i fatti precedono concettualmente l’interpretazione, mentre l’interpretazione a sua volta precede la prova documentaria” (p. 101), un fatto può, ovviamente, essere teoricamente scollegato da qualsiasi prova documentaria (anche per quei rapporti di forza cui C. Ginzburg fa riferimento in Rapporti 1 5 E’ comunque un dato di fatto che le riflessioni avanzate dalle tesi postmoderniste hanno aperto nuovi scenari e nuovi stimoli storiografici. Da queste stesse tesi è originato quell’atteggiamento storiografico critico (new historicism) aperto alla storia culturale e alle sue dimensioni simboliche e rituali. E’ questa prospettiva storiografica che ha approfondito la riflessione sul rapporto tra le forze sociali e il ruolo degli individui, sulla costante ridefinizione dell’identità delle une e degli altri negli scenari rituali e simbolici della storia. Honour, gender, agency, gossip, identity non sono che alcuni tra i tanti concetti che è possibile oggi cogliere in quel settore della storiografia americana ed europea ormai addentratosi in profondità nel tormentato processo interpretativo volto a ridefinire il rapporto tra testo e storia6. Nell’accingersi a leggere il nuovo ed avvincente testo di Sergio Lavarda, il lettore comprenderà i motivi che mi hanno spinto a soffermarmi, per quanto rapidamente, sulle nuove tesi storiografiche che, seppur sporadicamente, hanno cominciato ad apparire nel più placido panorama storiografico italiano, prevalentemente attestato su posizioni che le nuove correnti storiografiche non esiterebbero a definire positiviste7. L’ingarbugliata storia del notaio vicentino Nicolò Del Buso può certamente essere incardinata nella grande storia che, tra la fine del Cinquecento e i primi decenni del secolo successivo, investì con le sue trasformazioni politiche ed economiche la società vicentina dell’epoca. E Sergio Lavarda a queste trasformazioni si rifà con perizia sulla scorta di una bibliografia aggiornata e puntuale. Ma la storia di Nicolò Del Buso, avviluppata nei suoi tortuosi stratagemmi, tradimenti e tentativi di ridefinizione delle identità sociali e di genere in essa coinvolte, è soprattutto percepita dall’autore come un’occasione per riflettere sull’avvincente tema della narrazione storica e sulle implicazioni interpretative entro cui, fatalmente, il lavoro dello storico deve addentrarsi per ricostruire una realtà sociale assai lontana nel tempo e schermata dalla ritrosia e indecifrabilità delle fonti. E, alla luce di queste suggestioni, invitiamo i lettori ad immergersi nelle appassionanti vicende biografiche di un uomo di cui Sergio Lavarda, con abilità e competenza storica, ci offre il tormentato profilo esistenziale: nella convinzione, soprattutto, che non ne rimarranno infine delusi. Claudio Povolo (agosto 2002) _________________ di forza, Milano 2000) ed essere ricostruito in base ad una precisa serie di indizi e di presunzioni, come nella vicenda da me affrontata in Il romanziere e l’archivista. Da un processo veneziano del Seicento all’anonimo manoscritto dei Promessi Sposi, Venezia 1993. E’ evidente che, in quest’ultimo caso, è per lo più un’ipotesi interpretativa fortemente connotata a stabilire un rapporto diretto con il fatto presunto. 6 Queste tendenze sono ben espresse da G. Binder e R. Weisberg, quando sostengono che “The new historicist writes a history at once messier and more inclusive than that supplied by nationalist historiography or modernization theory, finding throughout the course of a culture endless negotiations and trade-offs of cultural currency. The new historicism is interested in the episodic, anedoctal, contingent, exotic, abjected, uncanny pieces of history –the ones that violate rules and laws of politics and social organizations”, cfr. Literary criticism.., p. 478. 7 Nel senso, cioè, di posizioni rivolte ad indagare sul significato diretto delle fonti, che non piuttosto sui loro significati letterari. E’ evidente, da quanto sinora detto, che il termine letterario non ha, in questa direzione, che scarse attinenze con il problema della narrazione storica, che pure si situa come nodo storiografico rilevante all’interno della distinzione tra vero e verosimile. Il termine revisionismo, utilizzato oggi in maniera controversa, indica comunque (anche tra chi vi si oppone) il ruolo decisivo dello storico nel dirimere i potenziali significati diretti delle fonti. 6 Nota documentaria I Del Buso, come la quasi totalità delle famiglie del loro ceto, non hanno lasciato un proprio archivio. Ciò spiega in parte la difficoltà ad analizzare le vicende della piccola nobiltà in età moderna. La ricerca del materiale documentario si è orientata sullo spoglio dei principali fondi giacenti presso l'Archivio di Stato di Vicenza. I rinvii incrociati, contenuti spesso nei rogiti, consentono di non annegare nel mare dello sconfinato fondo Notarile, tuttavia lo spoglio sistematico dei registri di notai vicini alla famiglia ha consentito ritrovamenti importanti. Generosi di informazioni sono stati i fondi del Collegio dei notai, del Collegio dei giudici e soprattutto quello delle Congregazioni religiose soppresse. Le copie integre di lunghe cause civili, ivi conservate nelle sezioni Processi, permettono di ricostruire genealogie, fortune (e sfortune) di famiglie per le quali altrimenti mancherebbe quasi del tutto la memoria. La necessità di precisare parentele e reti di alleanze fa sì che molti nomi, spesso forniti di patronimico, s’incontrino nel testo. Per agevolare la lettura ho ricostruito in appendice, nelle sue linee essenziali, l'albero genealogico dei Del Buso. Un eminente studioso francese ha un giorno raccontato che la storia lo ha appassionato, fin da bambino, per le tante figure che ne illustrano i testi. Questo lavoro, pur non riproducendone, ne contiene diverse. Carte d'archivio e figure, quindi. E libri. Per farne uno ce ne vogliono decine, o centinaia. Molti non si ricorda neanche di averli letti finché non avviene, chissà come, la fortuita emersione di un'idea, e poi di un titolo, dalla memoria. Cosa che può anche avvenire inconsciamente, e quello che ancora credo farina del mio sacco invece lo è solo in parte (i mugnai ricevono da altri la maggior parte del cereale che macinano), e chissà quanti altri libri che non conosco incrociano il mio percorso. Fra quelli che ho letto recentemente, alcune opere di Gigi Corazzol sollecitavano le mie veglie dubbiose, mentre a libri, articoli e soprattutto amicizia di Claudio Povolo devo quasi tutto il resto. Le mie prime riflessioni sul senso della ricerca storica provengono da una dolorosa discussione con docenti ed amici borsisti del dottorato in Storia sociale europea di Venezia nei primi anni Novanta ed i cui temi sono tornati recentemente attuali nel libro di Carlo Ginzburg Rapporti di forza. Sono molto grato a tutto il personale dell'Archivio di Stato di Vicenza per la simpatica disponibilità che ha molto favorito lo svolgersi sereno del mio lavoro. La storia che propongo è emersa dalla polvere dei depositi nell’ambito di una ricerca biennale svolta grazie ad una borsa di post dottorato dell'Università di Padova. Dopo il dottorato Paolo Preto mi ha ancora una volta regalato la sua generosa disponibilità accettando di discutere i progetti e di seguire gli sviluppi dei miei spesso tortuosi percorsi di studio. Corre a lui il mio ultimo pensiero riconoscente. Dedicato a Ada. San Germano, giugno-luglio 2001 7 Lista delle abbreviazioni ACVI AO AP ASBA ASVE ASVI AT BBVI CG CN CRS EST Archivio della Curia vescovile - Vicenza Memorie dell'Accademia Olimpica in BBVI Fondo della Famiglia Da Porto in ASVI Archivio di Stato - Sezione di Bassano del Grappa Archivio di Stato - Venezia Archivio di Stato - Vicenza Archivio torre del Comune di Vicenza in BBVI Biblioteca Bertoliana - Vicenza Collegio dei giuristi in ASVI Collegio dei notai in ASVI Congregazioni religiose soppresse. Processi in ASVI Estimo in ASVI JMV MAS N REL Jus Municipale vicentinum cum additione partium Illustrissimi Dominii, Venezia 1567 Magistrature antiche - Banco del sigillo in ASVI Notarile in ASVI A. TAGLIAFERRI, (ed.), Relazioni dei Rettori veneti in Terraferma. VII, Podestaria e Capitanato di Vicenza, Milano 1976 b. fasc. mz. prot. vol. c. r, v, busta fascicolo mazzo protocollo volume carta, recto, verso Compendio dei pesi e delle misure. A. MARTINI, Manuale di metrologia, Roma 1976 (ed. or. Torino 1883), pp. 437, 823 gotto Vicenza lughezza metri pertica (cavezzo) = 6 piedi 2,144 braccio da panno 0,690 braccio da seta 0,637 piede = 12 once 0,357 oncia 0,029 superficie metri quadri campo = 840 tavole 3.862,57 tavola (pertica quadra) = 36 piedi 4,59 piede quadro 0,12 volume metri cubi piede cubo 0,04 capacità aridi litri sacco = 4 staia 108,172 staio = 16 quartaroli 27,043 quartarolo 1,690 liquidi botte = 8 mastelli mastello = 12 secchi secchio = 10 bozze bozza = 4 gotti 0,24 pesi chilogrammi centinaio = 100 libbre 48,654 libbra grossa = 12 once 0,486 libbra sottile = 12 once 0,339 oncia grossa 0,040 oncia sottile 0,028 monete dal 1472 lira d'argento coniata dal doge Nicolò Tron (tron pl. troni) = 20 soldi (= marchetti) = 12 denari 1 ducato (moneta di conto) = 6 lire e 4 soldi Padova volume carro aperto = 432 piedi cubi carro chiuso = 324 piedi cubi passo cubo = 125 piedi cubi piede cubo metri cubi 19,72 14,79 5,70 0,04 911,12 113,89 9,49 0,94 8 Prologo Dove una serie di quadri introduce suggestivamente i personaggi 1. Il fondale apparentemente immutabile della scena in cui questa storia viene raccontata è occupato da due simboli: la colonna e, sopra di essa, il leone con il libro. Verticale albero della vita, ma anche supporto sicuro che garantisce aeree solidità, nel rimarcare la distanza tra alto e basso la colonna rappresenta il collegamento tra cielo e terra. Segnando il passaggio dal mondo conosciuto all'altro, incognito, indica inoltre un limite, un invalicabile orizzonte. Le colonne infami evocano però anche ignominia, il cippo cui è legato il Cristo della flagellazione tormento, inesorabilità quelle presso le quali si espongono i cadaveri squartati dalla giustizia. Solo l'albero del paese di cuccagna dipinto da Brueghel il vecchio (1567) offre le sue prelibatezze da un'altezza risibile anche per un nano o un gobbo. I pantagruelici ghiottoni stesi a raggiera intorno al tronco, un chierico, un contadino ed un soldato, potrebbero raggiungerle senza sforzo se alla fine della pennichella post prandium li stuzzicasse ancora l’appetito. Invece su una colonna altissima e scivolosa di lardo occorrerebbe arrampicarsi per raggiungere la cuccagna in un paese che di cuccagna non è: “Quae supra nos ea nihil ad nos”1. Bisogna quindi rassegnarsi al considerarne le delizie sommitali un miraggio? A vedere ciò che s’innalza esclusivamente come rappresentazione di immutabili equilibri che allontanano la nostra condizione dalla felicità, presentandoci continuamente il conto della pena? Il leone è simbolo di potenza, di sovranità e di giustizia. Rappresenta il CristoGiudice e, quando regge il libro, il Cristo-Dottore da cui deriva l'emblema dell'evangelista Marco. Ma il leone esprime anche forza istintiva incontrollata e, se panciuto, incarna l’avidità; Cristo e Anticristo ad un tempo, sarà visto talvolta come un dominatore dispotico2. Assunto dallo Stato veneto quale propria rappresentazione, esso è collocato in ogni luogo che richiami l'autorità del dominio da terra e da mar. Personificato nei suoi rappresentanti, tutto vede e controlla, corregge, sovrintende. 2. Vicenza, 1613. La colonna che sostiene l'emblema marciano campeggia solitaria, sull’unico breve margine aperto della piazza maggiore, cuore economico e politico della “Di ciò che è al di sopra di noi non dobbiamo occuparci” è il motto socratico che illustra l'emblema di Andrea Alciati raffigurante Prometeo incatenato alla roccia col petto roso dall'aquila (A. ALCIATI, Emblemata, Frankfurt am Main 1567, prima ed. 1531). Riferito criticamente alla filosofia e all'astronomia il divieto, per facile analogia, si trasmise poi dalle gerarchie cosmiche a quelle religiose e politiche. C. GINZBURG, L'alto e il basso, in Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Torino 1986, pp. 108-115. 2 A. CHEVALIER, A. GHEEBBRANT, Dizionario dei simboli, Milano 19884, vol. I, pp. 295-301, vol II, pp. 13-15. Sintetiche definizioni terminologiche nel vol. I pp. 11 segg. L'analogia tra colonna, colonna infame e albero di cuccagna è mia. Spunti molteplici sull'immaginifico gastrico in età moderna vengono dalla lettura della vasta opera di Piero CAMPORESI, soprattutto Il paese della fame (Bologna 1978) e Il pane selvaggio (Bologna 1980). 1 9 città che si definisce orgogliosamente primogenita di Venezia. Il leone vi è stato ricollocato nella seconda decade del Cinquecento, a sostituire quello distrutto dagli imperiali durante la parentesi della guerra della lega di Cambrai. Pur se di considerevole mole pare altissimo e lontano. Le quinte sono in allestimento. Il lungo parallelepipedo del palazzo del Monte di Pietà e tre grandi cantieri costeggiano la piazza. Nel 1617 sarà conclusa la facciata della chiesa di San Vincenzo, che con le statue sommitali ne interromperà la monotona prospettiva. I lavori delle logge del palazzo pubblico di ragione si stanno completando per inerzia, a più di 30 anni dalla morte del geniale progettista. Di fronte, la residenza palladiana voluta dal capitano Bernardo è tronca dal lato di contrà dei giudei, in attesa forse di glorificare altre grandi imprese a venire, che non verranno, dopo che statue e fregi hanno eternato la giornata di Lepanto verso contrà del Monte3. Solidità, volumi, fisici e metaforici, occupati e da occupare, forze tra loro dialettiche in formazione o in ridefinizione, si affacciano sullo spazio vuoto centrale. Come in ogni tragedia antica che si rispetti, anche in quella che qui si analizzerà l’azione si svolge fuori scena, ma è sui simboli rappresentati sul palcoscenico che si riverbera assumendo, come vedremo, un significato più profondo. Vicenza, 1613. Una città suddita in cui si muovono uomini di diverso ceto e fortuna, differenti sentimenti ed interessi. Vi scorrono fiumi e vicende personali e familiari, private e pubbliche. Vi si diffondono fama di santità ed avvisi di bando. Si assiste con stupore e meraviglia a solenni entrate di rettori veneziani e grandiose pompe funerarie di notabili, con sbigottimento al delinearsi dei segni premonitori di una carestia o di un'epidemia. Una città suddita il cui ceto dirigente, apparentemente devoto in quanto formalmente non sottomesso, esteriormente fedele perché sulla carta largamente autonomo, da un lato manifesta ancora con fierezza l'orgoglio per gli antichi privilegi riconosciutigli dalla Dominante all'atto della propria dedizione nel 1404, ma dall'altro, di là da episodiche convulsioni autolesionistiche, resta immobile nella contemplazione Il primo leone, di pietra dorata, era stato posto sulla colonna il 15 febbraio 1473 “quale fu rotto e gittato a terra per nome dell'imperio li 6 giugno 1509 ponendovi invece alli 14 luglio l'aquila nera Arma dell'Imperio”: BBVI, Ms. 2852, c. 235-236. L'autore del secondo leone è Martin del Vedelo (!), ciò che forse testimonia un giudizio popolare sulla mole della fiera; la seconda colonna, con sopra il Redentore, sarà innalzata nel 1640: F. BARBIERI, P. PRETO (ed.), Storia di Vicenza, 3/1. L’età della Repubblica veneta (1404-1797), Vicenza 1989, didascalie ed illustrazioni 5 e 6 e risguardi della sopracoperta. Per la facciata di San Vincenzo rinvio a F. BARBIERI, Il seicento architettonico urbano in N. POZZA (ed.), Vicenza illustrata, Vicenza 1976, p. 331. I lavori del loggiato della Basilica saranno completati nel 1615, con una spesa complessiva stimata in 50.000 ducati: S. CASTELLINI, Storia della città di Vicenza, Vicenza 1822, t. XIV, p. 167. Sull'incompiutezza di molte delle fabbriche palladiane della città del Palladio, F. BARBIERI, L'immagine urbana dalla rinascenza alla “età dei Lumi” in F. BARBIERI, P. PRETO (ed.), Storia di Vicenza, 3/2. L’età della Repubblica veneta (1404-1797), Vicenza 1990, p. 237; delle vicende legate al caso forse più significativo in tal senso, palazzo Porto-Breganze in piazza castello, si occupa il mio S. LAVARDA, Ca’ del diavolo. Enigmi palladiani e vicende dell’aristocrazia vicentina fra Cinque e Seicento, «Archivio veneto» V/CLVII (2001), pp. 5-48. L'idea di scorci architettonici vicentini trasformati in fondali e quinte di teatro rinvia naturalmente a Vincenzo Scamozzi e al teatro olimpico. 3 10 quotidiana del proprio progressivo ed irreversibile svaporamento politico. Una minoranza ostenta ricchezza, che è sinonimo di virtù e, rallentatasi con il mutare dei tempi la gara ad edificare palazzi cittadini e ville campestri, funzionali a questa ostentazione restano le somme da assegnare in dote alle figlie4. Dagli anni settanta del Cinquecento è invece stata limitata drasticamente l’esibizione delle piaghe della miseria: il rinserramento di vagabondi e pitocchi, all'interno del nuovo ospedale dei mendicanti di San Valentino, ha consentito la rimozione del crescente disgusto che andava suscitando la corte dei miracoli. Nei testamenti l’aumento dei legati pii a favore di istituzioni che ne assumono la cura, in sostituzione di una generica carità ai poveri, è testimone di un cambiamento di mentalità. Non più pauper Christi, il povero di Cristo medioevale, il mendicante è ora il nuovo lebbroso. Va tollerato se autoctono e vergognoso, assistito anche per essere meglio controllato nella sua potenzialità eversiva; scacciato se spinto in città da una carestia. L'ultima, terribile, quando il prezzo del frumento era salito a 15 lire lo staio, era già un ricordo che svaporava5. Vicenza, 1613. È stato detto che la “grande storia” non la tocca da tanto tempo, quella che le resta è fatta di “strutture mentali ... di traversie economiche e di dinamiche sociali, di gruppi elitari e di masse subalterne, che obbedivano ad una propria logica di sviluppo e che non erano sempre condizionati dall'andamento degli eventi politici esterni”6. Un cronista ci informa che quell'anno fu funestato da un terremoto in giugno e da piogge torrenziali durate tutto l'autunno, ma ciò che lo rese memorabile fu l'istituzione delle Cappuccine in Porta Nuova e la rassegna generale dei soldati vicentini in Campo Marzo cui, pare, assistettero in 40.0007. Un altro testimone dei tempi si spendeva anche a ricordare l'omicidio eccellente di Vincenzo Scroffa ad opera di un Martinengo in combutta con i Da Porto, cui Vincenzo aveva negato la mano della nipote8. I rettori veneziani in carica furono Giovanni Zen, podestà, ed Alvise Donà, capitano, cui sarebbe succeduto Pietro Giustinian. Nella relazione di fine mandato del Donà, 4 L. PUPPI, Scrittori vicentini d'architettura del secolo XVI, Vicenza 1973, pp. 18-19; varie testimonianze sull'esosità delle doti, con acidi commenti, in F. MONZA Cronaca, a c. L. PUPPI, Vicenza 1988, p. 18, 25, 34. 5 Sui legati pii nell'epoca S. LAVARDA, L'anima a Dio e il corpo alla terra. Scelte testamentarie nella terraferma veneta (1575-1631), Venezia 1998, pp. 252 segg. Sui poveri fra medioevo ed età moderna B. GEREMEK, La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Roma-Bari 1986. Sulla carestia vicentina citata F. MONZA Cronaca, cit., p. 37 annota il 18.5.1591: “la carestia è tanto grande che fa orrore ala umanità. Li contadini sono neri, smunti e deboli, e si pascano d'erba; il frumento è a 15 lire al staro, la fava 11, il miglio 11 e la biava da cavallo 6”. La serie dei prezzi del frumento a Padova in G. CORAZZOL, Fitti e livelli a grano. Un aspetto del credito rurale nel Veneto del '500, Milano 1979, Appendice. Inoltre G. LOMBARDINI, Pane e denaro a Bassano tra il 1501 e il 1790, Venezia 1963. 6 E. FRANZINA, Vicenza. Storia di una città, Vicenza 1980 p. 448. 7 S. CASTELLINI, Storia della città di Vicenza, cit., pp. 153-155. 8 BBVI, Ms. 165, Memoria di Girolamo Masi, c. 30, cit. in C. POVOLO, Polissena Scroffa, fra Paolo Sarpi e il Consiglio dei Dieci in Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 22. 11 presentata al Senato veneto nell'aprile del 1613, si legge fra l'altro: “...[fui] coadiuvato da Zuanne Zen, pieno di affetto et di spirito ... amatissimo da tutta quella Città in generale et in particulare, et che in tutte le sue attioni procura col servir onoratamente la Serenità Vostra rendendosi fruttuoso rappresentante di lei.” Lo Zen scriveva a sua volta nel novembre del 1613: vengo a rappresentarle ... quello che ... ho io stimato esser degno della loro notitia con la omissione di emergenti di picciole consequenze, per non fastidir soverchiamente le occupatissime loro menti in affari di maggior rilievo ... [Vicenza ha 36.000 abitanti] ... tutti molto ossequenti a rappresentanti suoi [della Repubblica], de vivaci spiriti, molto inclinati all'armi ... ho invigilato ... perché riuscissero le attioni mie in honore e gloria di Sua Divina Maestà, in servitio ed essaltatione della mia patria et di solevamento et consolatione a sudditi”9. 3. I cinque quadri che seguono costituiscono parte dell’azione che si svolge dietro le quinte, abbozzi di una sceneggiatura incompiuta. Fatta eccezione per chi ne avrebbe dovuto sopportare gli effetti, rientrano tutti nella categoria degli “emergenti di picciole consequenze”. Sera di tardo autunno. Il fatto si svolge in interni, in un ridotto da carte, un luogo malfamato. Non serve immaginare le bische del Seicento, né chi le frequentava: il Caravaggio della Vocazione di San Matteo e de I bari, gli ambienti dipinti da tanti fiamminghi e le ghigne ritratte da Frans Hals le documentano bastevolmente10. Sui tavoli impregnati dal vino di bozze rovesciate ab antiquo, l'unto lasciato da vecchi avanzi di cibo chiazza le zone che appaiono più lucide e su cui scivolano meglio le carte da gioco battute dalle destre dei giocatori; monete vili sono ammucchiate qua e là, con apparente casualità, presso i posti degli avventori identificati dai rispettivi gotti. Alcuni indossano i cappelli di feltro, altri li hanno appoggiati sui tavoli, i feraroli vengono appesi a ganci infissi alle pareti anche per non suscitare il sospetto che occultino armi lunghe. Gli stiletti infoderati sono posti bene in vista, i terzaroli11 scarichi infilati nelle cinture e gli archibugi e le altre armi lunghe appoggiati alle pareti della stanza. L'ambiente è ovattato, cosicché i volti si distinguono a malapena: il fumo di candele e lucerne ad olio basterebbe a dare un simile effetto, ma immaginiamo nella circostanza anche il soffiare di un vento contrario che a folate ritorce nella grande sala le esalazioni del focolare su cui arde una grande quantità di legna. Il costante forte brusìo si increspa a tratti nel vaniloquio sboccato di qualcuno un po’ alticcio, talvolta si infrange nella 9 REL p. 221, 223, 226. Oltre alle solite generiche informazioni sulla struttura politica, gli organismi di governo e di giustizia, lo Zen riferisce come, grazie a provvedimenti daziari, nonostante la carestia gli riuscì di portare il prezzo del grano da 30 lire lo staio veneziano nel maggio del 1612 a 12 lire lo staio un anno dopo. 10 Il primo Caravaggio è a Roma: Chiesa di San Luigi dei francesi, cappella Contarelli; il secondo al Kimbell art museum di Fort Worth. Per Hals: C. GRIMM, E. C. MONTAGNI, L'opera completa di Frans Hals, Milano 1974. 11 I feraroli erano ampi mantelli, i terzaroli pistoloni da fondina G. BOERIO, Dizionario del dialetto veneziano, Milano 1971 (anast. Venezia 1856), alle voci tabaro e pistola. 12 bestemmia urlata da un giocatore sconfitto anche nella rivincita, che ancora non si rassegna, e si rode al sorriso beffardo del vincitore che lo schernisce in silenzio col gesto di contare quello che fino a poco prima ne appesantiva la borsa ora vuota. Le armi lunghe sarebbero proibite ma ci si aspetta che il contestabile e gli zaffi, distolti da generose offerte, abbiano altro da fare. Del resto sarebbe proibito in quanto immorale anche il gioco d'azzardo12. Umanità diversa, almeno in quanto c'è chi vince e chi perde, accoccolata su sgabelli instabili, o appoggiata a lunghe panche, o in piedi ad osservare da dietro le spalle le carte e l'abilità nel gioco, a consigliare, a criticare o anche a distrarre l'avversario del socio in affari. Dimenticando impudicamente per un attimo il kitsch che la scena suggerisce, immaginiamo donne di malaffare girare tra i giocatori, appoggiarsi, scherzare in risposta alle frasi insinuanti rivolte loro. Vi è un banco dietro il quale, di solito, un unico gestore controlla il regolare funzionamento del tutto, mesce gotti di vino, tiene custodite le entrate. Stasera i gestori sembrano essere invece due: il primo, si deduce dal suo continuo affacendarsi tra fuoco e tavoli affinché in entrambi non abbia ad aumentare troppo la temperatura, è il responsabile della bisca e sembra intendersi benissimo con l'altro, più interessato all'aspetto contabile dell'esercizio. Il primo giovane aitante, il secondo piccolo e gobbo. Un robusto servitore consegna i mazzi di carte ai giocatori che entrano: un mazzo, una lira. Chi vince paga le terze13 al piccoletto che appare il più acceso e che va dicendo a quelli che giocano e che non pagano: “ –Chi vol giocar qua paghi se no vada a giocar in campo marzo”14. 12 Sulla proibizione degli archibugi C. POVOLO, Aspetti e problemi dell'amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia. Secoli XVI-XVII in Stato, società e giustizia nella Repubblica veneta Roma 1980, pp. 220 segg. Sull'immoralità del gioco delle carte quando vi sia unito il lucro si diffondono numerosi trattati. Per esempio G. P. CARDELLO, Discorso .... dove si potrà vedere se è lecito e cristiano giocare, Milano 1563; Angelo ROCCA, Trattato ... contra i giochi delle carte e dadi, snt, rilegato insieme al primo nel volume da me consultato alla Biblithèque de l'Arsenal di Parigi. Per la proibizione legale L. PRIORI, Prattica criminale secondo il ritto della Serenissima Repubblica di Venezia, Venezia 1644, pp. 204-205. L'opera, intitolata Casi criminali ..., vede la sua prima edizione a Brescia nel 1598, la seconda edizione arricchita della procedura viene impressa con il nuovo titolo a Venezia nel 1622, le ristampe continueranno per tutto il secolo ed anche nel successivo. 13 Sembra chiaro che “tirare le terze” abbia a che vedere con l'attività di gestione della bisca. Sappiamo che i mazzi di carte che si usavano venivano pagati una lira ciascuno, le terze potrebbero essere delle percentuali sulle vincite, o sorta di tasse di accesso al gioco, ma non ho trovato fonti che chiarissero definitivamente la cosa. 14 ASVI, CN, vol. 272, c. 603v-604r, il campo marzo è la grande estensione che separa la prima cinta di mura da monte Berico, all'epoca zona annonaria destinata all'occorrenza a parate militari e lazzaretto nelle epidemie. Il mandarvi qualcuno (a girare le foglie), inteso come un invito a non far perdere tempo all'interlocutore, è ancora in uso fra i vicentini meno giovani. L'invito aveva in anni passati una sfumatura più pesante, equivalendo di fatto al più generico “va in mona”. Campo marzo era infatti il luogo leggendario in cui, bambini traviati, ci si raccontava che militari in troppo libera uscita, giovani troppo inquieti e vecchi troppo depravati, potevano ingaggiare una delle tre (o cinque?) professioniste autoctone. 13 D'un tratto si ode uno strepito provenire dall'androne. Un garzone si precipita trafelato dalla porta d'ingresso verso il fondo della sala dove, presso il focolare, si trova Carlo Della Volpe. Ma non fa in tempo a raggiungere il padrone che irrompono nel ridotto il contestabile del podestà con un manipolo di zaffi, i tutori dell'ordine pubblico di un'epoca disordinata, oggetto di un odio direttamente proporzionale alla loro soverchieria ed al grado di corruzione che notoriamente li contraddistingue15. Alle urla di sorpresa fa seguito una calma carica di tensione, forse per la prima volta nel locale cala il silenzio, gli avventori fissano i nuovi venuti, gli occhi corrono subito dopo alle armi, fortunatamente troppo lontane, infoderate o scariche. La velocità dell'azione dell'ufficiale veneziano ha gelato il sangue a tutti, inibendo con la sorpresa qualsiasi reazione. La concitazione del primo momento si placa, adesso occorrerebbe chiudere l'inquadratura dal campo lungo ad un primo piano sui protagonisti che si fronteggiano. Conoscendo gli esiti della vicenda è fin troppo facile immaginare il tono degli ordini ed il breve dialogo fra gestori della bisca e contestabile. Tuttavia chi scrive non intende sostenere la pur verosimile falsificazione di parole. Quegli uomini non sono invenzioni letterarie, sono invenzioni storiche16. Tentare di comprenderli implica una naturale simpatia, non una goffa immedesimazione. L’invenzione letteraria che ha mosso la scena, cioè la figura immaginaria del garzone, richiede minor scrupolo, torniamoci quindi. Il ragazzetto entrato di corsa nella sala aveva un compito preciso: doveva controllare la strada ed allertare l'interno in caso di visite sgradite. Tutto sembrava tranquillo, mai avrebbe potuto immaginare che uomini armati gli si sarebbero gettati addosso per impedirgli di muoversi. Da dove erano spuntati quei fantasmi? Avvicinatisi di soppiatto dalle due contrade che si immettevano su quella dei Proti fin nei pressi dell’edificio, si erano poi lanciati verso l'ingresso che doveva presidiare. Capiva solo in quel momento che il suo compito non era affatto poco più che un passatempo. Aveva visto le armi, si era divincolato con furia ed alla fine era riuscito a liberarsi e correre dentro ... troppo tardi: l'avrebbe pagata cara. Scappare? Impossibile! Eccitato, volgeva intorno lo sguardo a tutta quella gente ritta e silenziosa; l’unico rumore che percepiva era il rantolo prodotto dal suo affannoso respirare. Quanti cadaveri si sarebbero potuti presto contare? Ed egli, ne sarebbe uscito? 15 C. POVOLO, Aspetti e problemi, cit., pp. 153-258: la repressione. I birri e gli zaffi sono vili ed infami, ma necessari per Tommaso GARZONI (Piazza universale di tutte le professioni, Venezia 1585) e come lui si esprimono in molti: E. BASAGLIA, Il controllo della criminalità nella Repubblica di Venezia. Il secolo XVI: un momento di passaggio, in A. TAGLIAFERRI (ed.) Venezia e la terraferma attraverso le relazioni dei Rettori, Milano 1981, p. 65 segg. 16 Mi si conceda qui per la prima volta il gioco etimologico da invenio: i nostri personaggi sono ritrovati, la loro storia, come la Storia tout court, si carica di fascino per essere un'invenzione che, grazie al necessario rigore filologico, si può permettere di assumere il significato meno immediato del termine. 14 Appiattitosi alla parete più vicina, era scivolato lentamente a terra per acquattarsi fra le gambe di un tavolo provvidenzialmente rovesciatosi vicino a lui. Dopo alcuni secondi aveva con sollievo potuto constatare che la tensione, pur non sciogliendosi del tutto, si allentava quel poco sufficiente per capire che non ci sarebbero stati né morti né feriti quella sera ai Proti. Ser Nicolò Del Buso e ser Carlo Della Volpe si allontanavano insieme al contestabile verso la stanzetta attigua al salone parlando fra loro a bassa voce. Gli zaffi continuavano a controllare la situazione con le armi spianate, ma il dialogo avviato dal capo aveva disteso anche i loro nervi. Pochi minuti e se ne stavano già andando: gli avventori erano invitati neanche troppo malamente ad uscirsene, avrebbero dovuto cercare un'altra casa da gioco, o andare in Campo Marzo. A vario titolo le famiglie Del Buso (altrimenti Dal Buso, Buso, Bossio, Bosio17) e Della Volpe facevano parte della pletora di quelle che gli storici ed i genealogisti indicano essere le case nobili di Vicenza. Il secondo quadro si svolge in esterni ed in pieno giorno. Il luogo dell'azione è ancora contrà Proti, una breve via in leggera discesa che si snoda dal pozzo rosso fino ad immettersi nel vicolo che dà a sinistra su piazza delle erbe, dietro il palazzo pubblico di ragione e la piazza maggiore. L’azione inizia con un baccano ritmato di colpi sordi, cui fanno seguito alte grida. Un gentiluomo col pugno guantato percuote furiosamente un portone che fronteggia l'ospedale dei nobili decaduti, lanciando nel frattempo insulti infamanti all'indirizzo del padrone di casa e di sua moglie. Concentra quindi il diluvio verbale verso quello che urla essere il poco nobile mestiere di quest'ultima. All'interno aumenta la concitazione, il padrone di casa non si vede; sua moglie, i loro sei figli e la vecchia massara, rinserrati e al sicuro, sono però costretti ad ascoltare gli schiamazzi: quello che sta accadendo somiglia molto ad una mattinata fuori orario e, per questo, forse ancor più disonorante18. Non c'è da dubitare che gli schiamazzi richiamino l'attenzione di vicinato e passanti e che quindi occorra reagire al più presto alle offese per non vedere irrimediabilmente compromesso il prestigio familiare. Chi dovrebbe reagire all'uomo che urla fuori del portone? Indubbiamente un altro uomo, ma stavolta non c'è scelta: ed allora la donna, così brutalmente chiamata in causa, esce in strada ed affronta l'aggressore brandendo una spada nuda. Ma più che una donna, ancorché scarmigliata, appare all'offensore una erinni che schiuma rabbia ed urla invasata, 17 Gli ultimi tre concordano con i nomi delle donne di famiglia, per cui nei documenti si incontrano le varianti Busa, Bossia, Bosia. Nel testo ho in genere usato la forma Del Buso; sulla varietà delle grafie, e sui possibili motivi che ne determinano alcune, avrò modo di ritornare nella seconda parte del lavoro. 18 Le mattinate, corrispondenti agli charivaris francesi, alle rough musics inglesi ed al vito spagnolo, si svolgevano generalmente di notte. La loro funzione era quella di sanzionare condotte considerate devianti dalle norme di comportamento socialmente accettate. E. P. THOMPSON, Società patrizia, cultura plebea, Torino 1981, pp. 137-180. 15 spalleggiata subito da alcuni passanti. La sua posizione vede diminuire il vantaggio: non può reagire di fronte a testimoni neutrali, del resto non darebbe prova di molto coraggio ingaggiando uno scontro fisico in simili condizioni; tuttavia il fatto che la casa non sia adeguatamente difesa vede dimostrata la vigliaccheria del suo avversario restituendo una parte di efficacia alla sua azione. Si ritira quindi indirizzando ancora alla coppia pesanti minacce. Il tutto, naturalmente, con grande scandalo pubblico. L’uomo è il già noto Carlo Della Volpe, la donna è Florinda Verlato, a sua volta appartenente ad antica famiglia nobile vicentina. Terzo quadro, di notte. Ancora colpi al medesimo portone, dapprima discreti e poi, avuta la consapevolezza che chi sta dentro sente ma non vuole aprire, stizziti, sempre più forti. L'assenza di risposta sollecita l'impaziente progressione delle voci che, crescendo, finiscono anche stavolta per essere urla. L'eco che rimbomba per le strette contrà non riferisce insulti, ma richiami ad una donna: è Ardemia che viene invocata con strepito via via maggiore. Sono circa cinque ore di notte19, il gruppo di importuni non desiste e continua la chiassata di cui vanamente gli abitanti del palazzo aspettavano la fine. D’un tratto si apre una finestra al piano nobile, una sagoma umana si staglia nera nel controluce dei candelabri interni e, senza indugiare, scarica due archibugiate verso la strada. Ne segue il fuggi fuggi di chi sta sotto, l'uomo che ha sparato si precipita al portone, lo apre e fa fuoco nuovamente nella direzione dei fuggitivi che si perdono nel buio delle vie deserte. Lo sparatore è Nicolò Del Buso, i rumorosi visitatori il podestà Giovanni Zen, che nella concitazione della fuga perde una mulla [pantofola], ed alcuni suoi famigli, la donna invocata è la figlia maggiore di Nicolò, nubile sedicenne. Nel Borgo di Berga, in contrà Santa Caterina, è ambientato il quarto quadro; una zona periferica ai piedi del santuario di Monte Berico, in cui si è venuta a realizzare nel corso dei secoli una delle massime concentrazioni di spazi consacrati della città: i conventi di Ognissanti, di San Tommaso, quello di San Silvestro, Santa Caterina, Santa Chiara ed infine le Zitelle. Nel luogo pio delle Zitelle20 è stata da poco introdotta una quindicenne che durante le ore diurne langue disperata e si isola rancorosa dalle più mature compagne. Diserta gli uffici sacri e nelle notti di veglia invoca continuamente il demonio. Non accetta cibo ed implora chiunque le si rivolga di essere restituita alla 19 Le ore notturne si contavano a partire dall'Ave Maria suonata dalle campane al crepuscolo; le cinque sarebbero quindi oggi più o meno le 20 se inverno, le 22 se estate. 20 Fondata nel 1602, la congregazione aveva lo scopo di sottrarre alle tentazioni maligne del secolo le giovani di buona famiglia, analogamente ai Luoghi delle Convertite (1530) e del Soccorso (1590) la cui funzione era il recupero al timor di Dio delle prostitute redente. G. MANTESE, Memorie storiche della chiesa vicentina, Vicenza 1974, vol. IV/1, pp. 554-557. L'8 settembre 1604 veniva inaugurata la sede della congregazione in Borgo Berga: S. CASTELLINI, Storia della città di Vicenza, cit. p. 138. 16 propria famiglia. Invece di convincerla ad accettare almeno provvisoriamente la sua sistemazione, la voce della madre alla grata del parlatorio talvolta rinfocola lo spirito ribelle della giovane con promesse e lusinghe, talaltra rafforza la sua angosciata disperazione con pianti ininterrotti. La visita mensile sembra essere l'unico momento di conforto. Un giorno la madre arriva accompagnata dai due figli più piccoli. Parlano, il tempo trascorre inesorabile, la giovane rinnova le sue contumelie. La consorella delegata ad ascoltare interviene fiaccamente ad ammonirla, mentre dovrebbe sospendere il colloquio. Prima di andarsene la madre supplica la portinaia di consentire alla figlia di baciare i fratellini. La zitella non si oppone, ha ricevuto l'ordine di assecondare quella volontà; apre una finestrella che permette alla giovane di sporgersi, quindi apre anche una porta che le permette il contatto implorato. Improvvisamente la visitatrice afferra la giovane novizia con il braccio sinistro e la attira a sé, mentre la mano destra “lassiò trar a uno stillo per dar delle stilettà alla portenara vecchia”21. Urla terrorizzate accompagnano le due donne che fuggono indisturbate tirandosi dietro i bambini. Il tutto ancora una volta con grande scandalo pubblico. La quindicenne liberata (o rapita, o lasciata deliberatamente fuggire, secondo la lettura che diamo dell'episodio) è Anna, secondogenita di Nicolò Del Buso e di Florinda Verlato. Quinto quadro. Angolo fra piazza maggiore e piazza delle biade, nel palazzo del podestà di Vicenza. Dopo essere uscito dalla quinta di contrà del Monte ed aver attraversato la scena della piazza, compare di fronte al giudice del maleficio Nicolò Del Buso. L'uomo ha 45 anni, la foggia degli abiti scuri ne fanno intuire la professione notarile, l'incedere dimesso e strascicato rivela la prostrazione fisica di una malattia che gli ha segnato i lineamenti amplificando il senso di debolezza morale che ispira alla vista estranea un essere abituato a piegarsi al volere superiore. Solo le sopracciglia corrugate non riescono a nascondere, pur nell'ostentata deferenza, la sorpresa per essere costretto ad una difesa pubblica. È stato citato a comparire con l'ordine di restituire 50 ducati avuti in deposito mentre l'anno prima era notaio all'ufficio delle condanne22, ha evitato i ferri nascondendosi per alcuni giorni nel sagrato del convento di San Tommaso, è stato rassicurato e convinto poi dalla moglie a presentarsi a Palazzo. L'imputazione è la truffa, la minaccia che gli pende sul collo è ancora quella della prigione e, nel preciso momento in cui si trova faccia a faccia con il giudice, intuisce che le protezioni garantitegli non si sono attivate; nell'estrema difesa ha allora un tardivo scatto d'orgoglio. Di quei 50 ducati egli afferma doverne restituire 13 più due di 21 ASVI, CN, vol. 272, c. 590, 18.2.1614. Un ufficio che spesso era stato ricoperto da parenti di Nicolò. Sono rimasti conservati nell'archivio storico del Comune di Vicenza i rendiconti, fra gli altri, dello zio Pace per il 1564 e di Girolamo Del Buso per il 1590. BBVI, AT, b. 381/4 e 10. 22 17 spese. Il giudice lo zittisce e lo apostrofa con epiteti infamanti: “Gobbo, beco, fotù”23. Nicolò viene imprigionato, riesce a trovare i soldi per pagare il debito, il deposito viene depennato, tutto finisce. 4. Dopo che Nicolò, una volta liberato dalla detenzione, ha lasciato la funesta casa dei Proti per ridurre le spese di affitto, dopo che il podestà Zen è partito dalla città alla fine del suo mandato, dopo insomma che i giorni peggiori sembrano passati e che pare sia tornata la calma, tutto comincia. 23 L'adulterio insinuato costituisce un'offesa bruciante alla mascolinità; anche Paolo Orgiano apostrofa l'orgoglioso Bortolamio Scudellaro con gli epiteti di “can, becco, fotù ”. Quest'ultimo, osando rispondere argutamente a chi lo ha offeso di non essere l'unico cornuto del paese, ne provoca la violenta reazione. C. POVOLO, L'intrigo dell'onore. Poteri e istituzioni nella Repubblica di Venezia tra Cinque e Seicento, Verona 1997, p. 403. 18 Prima parte: allegorie. (Un Rigoletto imperfetto) Lei può dimostrarmi con dotti ragionamenti che il nero è bianco, - disse Filby, - ma non mi convincerà mai. - Può darsi di no, - replicò il viaggiatore nel tempo, - ma ora lei incomincia già ad intuire l'oggetto delle mie ricerche nel campo della geometria quadridimensionale. Tempo fa pensai di costruire una macchina [...] in grado di viaggiare indifferentemente in qualsiasi direzione dello spazio e del tempo [...] - Sarebbe veramente comodo per uno storico, - osservò lo psicologo. - Si potrebbe tornare indietro e controllare [...] - Non pensa di volere dare un po' troppo nell'occhio? chiese il medico. - I nostri antenati erano piuttosto intolleranti in fatto di anacronismi24. 24 H. G. WELLS, La macchina del tempo, in ID., Avventure del tempo e dello spazio, Milano 1973, pp. 280-281. 19 Capitolo 1 Dove si annunciano affinità con l'invenzione letteraria, e si discutono precedenti famosi. 1. La curiosità verso il lontano ed il diverso spinge a superare le colonne che delimitano il campo del vissuto quotidiano. Allo scopo, il turismo patinato mette a disposizione dei nuovi Ulisse viaggi esotici con cui si allontana l'illusione delle colonne d'Ercole fin alle vetrate dell'albergo entro cui ci si distende sul divano occidentaleorientale. Il pregiudizio ignorante che tutela l'amor proprio resta il solito vecchio limite, i nuovi sono invece l'aria condizionata che mantiene i corpi freschi ai tropici, i tavoli imbanditi di cibi colorati, i vetri che schermano le miserie e la mala-aria di un oriente per nulla salgariano. Ancora, l'igienismo che ci salvaguarda obbligandoci alla distanza, il sano pallore della nostra pelle, l'inconsapevole mancia milionaria al facchino, la maglietta e le scarpe da tennis che giocoforza ci condannano al ruolo di colonizzatori. Colonizzatori ergo innalzatori di colonne le quali, avvicinandoci solo fisicamente alla meta verso cui siamo diretti, fanno vedere sempre più e capire sempre meno. L'albergo di vetro e cemento fra le case di cartone, come l'anacronismo, dà troppo nell'occhio. Divagazioni moralistiche? Certo che sì, se si pensa che il viaggio nel tempo sia molto diverso da quello nello spazio e che lo si possa affrontare a bordo di una macchina25. La macchina del tempo, che fa spostare nella quarta dimensione, esiste concretamente solo nel celebre romanzo di Wells, del 1895, e negli innumerevoli films che ha ispirato, ultimi i tre Ritorno al futuro di Zemeckis (1984, '89, '90) [The time machine]. Per il viaggio nel tempo [lontano] è ancor oggi disponibile uno strumento che fino a non molti anni or sono, con le relazioni di viaggio ed i romanzi esotici, aveva valore quasi esclusivo anche per lo spazio: la scrittura. Prescindendo per ora dalla delimitazione del solco esistente fra le due specie sotto cui si presenta, narrativa e storiografica, ciò su cui intendo portare il ragionamento è l'insidia dell'anacronismo che in diversa misura entrambe minaccia, e che si concretizza in un'illusoria vicinanza: vedere e non capire, ossia colonizzare inconsapevolmente, con il presente, il passato. L'annullamento totale delle distanze è ovviamente impossibile. Credo tuttavia che affrontando attrezzati un viaggio sia possibile farli entrambi. Gli anni spesi da Bateson e da Lévi-Strauss (per restare a due fra i maggiori) per tentare di capire 25 I quattro passaggi, assimilazione, cancellazione, riacquisizione di identità ed eclissi, difficili ma indispensabili per tentare di comprendere gli altri, sono indicati da T. TODOROV, Le morali della storia, Torino 1995, pp. 37-41. “La comprensione di una cultura straniera non è che un caso particolare di un problema ermeneutico più generale: com'è possibile comprendere l'altro? Questo altro può essere diverso da noi nel tempo, e allora la sua conoscenza implica la storia; o nello spazio, ed è l'analisi comparata che se ne occupa (sotto forma di etnologia, o d'«orientalismo» ecc.); o semplicemente sul piano esistenziale: l'altro è il mio prossimo, il mio vicino di casa, un non-io qualunque” (p. 38). Preziose indicazioni metodologiche si leggono in C. GINZBURG, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova. Milano 20012 20 e nel contempo affinare lo strumentario per poterci raccontare le loro esperienze, ci hanno avvicinato le popolazioni della Nuova Guinea ed i Nawinkbawa, i loro luoghi e quel tempo, ma anche le radici del nostro tempo e la conoscenza di noi stessi. Con sensibilità, simpatia, applicazione ed adeguatezza di ferri del mestiere, la quarta dimensione si compenetra apprezzabilmente nelle altre tre. Mentre i primi tre requisiti sono presupposti etici del discorso che concludono, l'adeguatezza dei ferri del mestiere merita di essere qui ulteriormente discussa. È stato scritto che non esistono fatti, ma soltanto discorsi sui fatti e per conseguenza non c'è una verità nel mondo, ma soltanto delle interpretazioni. I cinque episodi del prologo sono certamente accaduti, ma il loro racconto è stato filtrato mille volte. Da chi li ha vissuti ed in seguito raccontati con particolari fini, da chi li ha ascoltati, giudicati e verbalizzati, da chi dopo secoli li ha ritrovati, letti e trascritti, appunto, suggestivamente. Occorre pertanto interrogare la fonte per verificarne la dignità di prova26. La verità che rappresenta è spesso un simulacro allegorico, suggestiva perché impressionistica, in definitiva il frutto di un viaggio troppo breve. Per saperne di più, se si volesse saperne di più, occorrerebbe cercare oltre le colonne che a sua volta innalza, aprirsi in tutte le direzioni alla volontà di capire. L'incognito che sta più in là è parziale, informe, difficile da assemblare, e la differente verità che ne può sortire è figlia di un lavoro paziente ed anche diffidente, in certi passaggi molto noioso, che richiede l'uso di competenze disparate coagulantesi in una professione affascinante, quella dello storico. Dall'allegoria della verità si passa così all'invenzione della verità: l'invenzione è tutto ciò che del passato si può restituire27. Partire dai risultati impressionistici della prima per giungere ai territori della seconda costituisce il percorso di questo libro. 2. In linea teorica c'è ben altro. Stendhal annotava nel suo diario il 24 maggio 1824 un discorso a lui rivolto: “Non si può aspirare al vero se non nel romanzo. Vedo ogni giorno di più che, in qualsiasi altro luogo, si tratta di una pretesa”. I romanzi sarebbero superiori ai libri di storia perché si spingono oltre il fattuale e nello stesso tempo si impongono sulla filosofia perché sanno restare ancorati ai particolari. Strada intermedia e maestra: la letteratura è più filosofica della storia e più concreta della filosofia. 26 Il concetto nietchiano di fatto-interpretazione è richiamato da T. TODOROV, Le morali della storia, cit., p. 138. Nietzche sta anche al centro delle riflessioni critiche di Ginzburg il quale, rivalutando l’onere della prova quale elemento di dfferenziazione fra la retorica storiografica e le altre sue forme, polemizza con il relativismo scettico degli storici che fraintendono la lezione di Aristotele. C. GINZBURG, Rapporti di forza, cit. Naturalmente occorre dissipare l’equivoco possibile tra prova e fonte. Sulla presunzione di oggettività delle fonti storiografiche C. POVOLO, Il romanziere e l'archivista, Venezia 1993, p. 130: “Se la fonte ... pone degli interrogativi su chi l'ha prodotta ..., il passo conseguente e scontato conduce alla riflessione intorno ai suoi possibili e probabili condizionamenti....avrebbe infatti potuto anche non essere prodotta e, di conseguenza, i suoi nessi interpretativi si complicano e finiscono per addensare l'interesse dello storico sul silenzio delle fonti; su quanto, pur non manifestato apertamente, rinvia ad esse”. 27 Non di verità allegoriche o inventate, ma di verità conforme e verità in divenire, che distinguono la scrittura dello storico da quella del romanziere, parla T. TODOROV, Le morali della storia, cit., p. 141 21 Qualche anno fa apparve in Francia uno slogan pubblicitario paradossale: un trattato etnologico era detto essere così pregno di verità da somigliare ad un romanzo di Balzac. Ripreso da uno studioso francese, tale paradosso si rivelava a suo giudizio solo apparente in quanto metteva implicitamente in risalto i vantaggi della scrittura letteraria, svincolata dalle regole rigide che sovrintendono il lavoro storico ed etnologico (la “superstizione della parola vera”). La superiore verità del romanzo, che sa andare oltre l'evidenza dei fatti, confermava in tal modo la legittimità del messaggio da cui l'analisi aveva preso spunto. Storici ed etnologi avrebbero fatto bene, dunque, a seguire la lezione dei romanzieri28. Sul fronte opposto la persistente diffidenza del lettore professionale per l’arbitrio del romanziere-storico e la conseguentemente netta distinzione fra le due scritture, storica e letteraria, trae la sua motivazione dalla consapevolezza di una artificiale commistione dei tempi dell'azione e della scrittura. La distanza in sensibilità dell’epoca della vicenda narrata con quella, diversa, di cui è figlio il testo letterario, tende secondo una tale prospettiva ad annullarsi per far nascere un tempo neutro che somiglia più al quotidiano del lettore che a quello dei personaggi che animano la fabula: al di là della qualità letteraria, il fascino del romanzo sta proprio nell’abilità con cui l’autore riuscirebbe a celare l’anacronismo. In un recente, felicissimo testo storiografico già consacrato da coloro cui le illusioni ottiche provocano, anziché nausea, piacevoli vertigini, è evocato ancora il pestifero germe dell'anacronismo. Una volta ammesse le coraggiose eccezioni di chi si ribellava alle soperchierie, l'autore fa capire quanto l’idea dell'onore dei poveri in Don Abbondio fosse del tutto coerente con lo spirito del XVII secolo. Il severo giudizio attribuito alla sua codardia andrebbe quindi, se non rivisto, perlomeno tarato ai tempi: l'errore del curato era di ragionare come tutti, essendo “uomo che sa il viver del mondo” e tradendo quindi il ministero sacerdotale per come se lo figurava Manzoni29. La discussione investirebbe quindi il diverso giudizio di valore da attribuire ai generi sub specie veritatis. Nel lettore attento l'evocato respiro di un'epoca non riesce a mascherare l’equivoco di cui si diceva: la differenza fra storiografia e letteratura sarebbe data anche dal coinvolgimento dell'autore di romanzi storici in attualizzati giudizi morali. La scienza escluderebbe, o quantomeno preciserebbe, ciò che invece può costituire il nerbo stesso di parte dell'invenzione letteraria: l'anacronismo determinato dalla presenza morale, defilata quanto si vuole, del romanziere. Nel distinguere, si STENDHAL, Œuvres intimes, Paris 1980, p. II/198; M. AUGÉ, La traversée du Luxembourg, Paris 1985, pp. 18-19. 29 A. MANZONI, I promessi sposi, Messina-Firenze 1969, p. 22 per la citazione virgolettata. G. CORAZZOL, Cineografo di banditi su sfondo di monti, Milano 1997, p. 141 per il resto. Andrebbero indagati il ruolo e la cultura dei curati di campagna, spesso rampolli di mediocri lignaggi cittadini, il cui ufficio si allargava ben oltre la somministrazione dei sacramenti ai rustici. 28 22 riconosce una propria autonoma dignità al testo narrativo ma, per non correre il rischio di incrinarne le basi epistemologiche, se ne tiene il significato ben lontano dalla scienza, dai suoi ferri del mestiere e dall'organizzazione retorica del suo discorso: niente di nuovo sotto il sole, fin dalla Poetica di Aristotele alla poesia compete il verosimile, alla storiografia il vero30. Ma la distanza fra i due oggi non è più così facilmente misurabile. Soprassedendo da un lato sulla troppo acriticamente enfatizzata sacralità delle fonti ed ancor più sui fini con cui talvolta persino storici cattedrati hanno strumentalizzato (moralizzato?) la propria disciplina, dall'altro sulla crisi del romanzo novecentesco che ha imparato a sfuggire al controllo del proprio demiurgo, la scienza si trova sempre più spesso in un imbarazzante confine tra distacco scientifico e vincolo morale. Il genetista, come l'attualità del dibattito sulla clonazione suggerisce, ma anche l'antropologo che per scelta “descrive” i riti cruenti e dolorosissimi di mutilazioni come se fossero ovvii una volta inquadrati nel loro contesto, si trovano fra gli altri su un simile crinale31. D'altronde lo stesso crinale evoca oggi l'attenzione alle fonti ed il rigore con cui sono state narrate negli ultimi anni storie del passato. Fulvio Tomizza è più storico o romanziere? La domanda può apparire paradossale, tuttavia scegliere la seconda opzione fermandosi all’organizzazione dell'apparato filologico o, peggio, perché il suo editore lo pubblica in una collana di narrativa, aggira il problema32. Discriminare infine in base alla qualità della scrittura non rende onore a molti storici. Lo schermo dell'anacronismo parrebbe invece avere facile gioco nei confronti di scritture letterarie meno recenti. Nondimeno, una volta che abbia intrapreso la rilettura de I Promessi sposi, per tornare all'esempio classico, lo storico vede il proprio atteggiamento critico smussarsi al cospetto della sensibilità, della simpatia e dell'applicazione che dimostra il giovane Manzoni verso il “tragico Seicento”. Rilassando via via le briglie occhiute del pregiudizio, incontrerà nel romanzo intuizioni divenute negli ultimi decenni temi 30 GINZBURG C., Rapporti di forza, cit., p. 95 E a giudizio di noi occidentali, che ci correggiamo nasi e siliconiamo seni, inutili in quanto essenzialmente estetici F. REMOTTI, Prima lezione di antropologia, Roma-Bari 2000, p.157. L'autore continua: “Ma gli stessi antropologi come sarebbero disposti a reagire se, per esempio, un bel rituale di subincisione [taglio operato longitudinalmente nel meato urinario dell'organo maschile (p. 132)] venisse praticato da un gruppo in Italia, anziché dagli Aborigeni australiani? ”. Su questo si veda anche E. GELLNER, Causa e significato nelle scienze sociali, Milano 1992 (London 1973), p. 44. Naturalmente la domanda retorica, con la relativa implicita denuncia, non negano la necessità di indagare sui perché di simili fenomeni. 32 Penso ai romanzi La finzione di Maria Milano 1981, Il male viene dal nord. Il romanzo del vescovo Vergerio Milano 1984, Quando Dio uscì di chiesa Milano 1987, L’ereditiera veneziana Milano 1989, Fughe incrociate Milano 1990 (sono quelli che ho letto), costruiti in gran parte su materiali di archivi veneziani, o a certi di Giuliano Vassalli (La chimera 1990), fino al recente, pseudonimo, Q (Torino 1999). In quest'ultimo però, più che il rigore filologico utilizzato, appare la grande erudizione di storia ereticale e forse lo sfogo alla frustrazione di chi, di fronte ad archivi chiusi, ha deciso di immaginare risposte a questioni storiografiche aperte dipingendo un originale, ed a tratti geniale, affresco dell'Europa del Cinquecento. 31 23 all'ordine del giorno della ricerca storiografica, ma che prima ne costituivano sporadico patrimonio, derubricate com’erano spesso a facili generalizzazioni tratte da spunti comuni: anacronismi alla rovescia, insomma, letteratura33. Il giudizio su Manzoni storico del Seicento lombardo, ma inventore della trama portante del romanzo, è stato fino ad anni recenti ovvio e banale: quanti Don Rodrigo, perversi e violenti prevaricatori, saranno potuti esistere? Si direbbe almeno uno per villaggio, volendo tener conto delle suppliche presentate a questo o quel tribunale, dei proclami o grida che siano, e dei residui fondi processuali ancora conservati negli archivi. Il motivo di tanta generalizzata violenza da parte dell'aristocrazia della terraferma veneta negli ultimi secoli del dominio veneziano era già a metà Ottocento identificato nella frustrazione politica che aveva tolto “loro [ai signorotti locali] l'aria di cui vivevano”34. Tutto ciò fintanto che qualcuno, dopo verifiche ventennali, senza prove ma con innumerevoli indizi, non ha insinuato dubbi ereticali perfino sui concetti di invenzione, verosimiglianza e vero nella produzione critica manzoniana, rendendo pubblica quella che ritiene poter essere stata la fonte primaria del romanzo35. A margine delle astrazioni concettuali cardine della nostra cultura (morale, verità) su cui si era cristallizzato in 33 Basti pensare al sillogismo violenza-prevaricazione-potere leggibile antropologicamente, oltre i toni di un folklorico primitivismo feudale; al rapporto politico dell'aristocrazia campestre con quella della città e di questa con l'autorità superiore; al problema del matrimonio clandestino; alle clientele verticali ma anche alle solidarietà di vicinato nelle campagne; alla questione del bando e del fuoriuscitismo; al ruolo ambivalente del clero di campagna e degli ordini regolari, solo per fare pochi essenziali esempi. Calvino ebbe a definirlo “Libro di storia involto in pagine di romanzo (e di storia come la si intende adesso in cui la parte evenementielle delle battaglie di Wallenstein e della successione del ducato di Mantova è confinata tra le chiacchere della tavola di Don Rodrigo e ciò che occupa il campo sono le crisi dell'agricoltura, i prezzi del frumento, la domanda di mano d'opera, la curva delle epidemie)”. I. CALVINO, Una pietra sopra, Torino 1980, pp. 275-276 (i corsivi sono miei) 34 Un esempio di affinità che prende in considerazione il matrimonio clandestino in G. B. ZANAZZO, Due matrimoni di sapore manzoniano. «Archivio veneto», vol. LXXVI (1965), pp. 25-33. Sulla violenza nobiliare tra Cinque e Seicento, oltre ai numerosi studi di Claudio Povolo che si citeranno a debito luogo, per Brescia si legga J. M. FERRARO, Family and public life in Brescia, 1580-1650, Cambridge 1993, pp. 133-154. La mancanza d'aria in I. NIEVO, Le confessioni d'un italiano, Roma 1968. L'opera fu scritta nel 1858. A proposito dei giusdicenti feudali della Patria del Friuli, p. 22: “i nobili continuarono lor dimora nei castelli ... e le virtù d'altri tempi in parte diventarono vizii, quando il mutarsi delle condizioni generali tolse loro l'aria di cui vivevano. Il valore diventò ferocia, l'orgoglio soperchieria; e l'ospitalità cambiossi a poco a poco nella superba e illegale protezione dei peggiori capi da forca”. È quindi il diminuire di spazi di azione politica che ne determina la reazione, una reazione che solo il nostro punto di vista di moderni recalcitra a definire politica. Per Otto Brunner “ci si dimentica di chiedersi se nella vita degli Stati medievali non si siano continuamente presentate situazioni nelle quali quel potere “statale” [cioè quello che gli storici che criticava davano per privo di dialettica interna, per cui la sola dimensione della storia politica concepibile era la estera] per lungo tempo non funzionò, cosicché i poteri locali furono costretti a far politica”: O. BRUNNER, Terra e potere. Strutture pre-statuali e pre-moderne nella storia dell'Austria medievale, Milano 1983, p. 8. 35 La critica manzoniana al romanzo storico per cui il “verosimile”, facendo perdere di vista al lettore il confine che esiste tra il vero e l'immaginato, riduce in definitiva la portata del vero, paradossalmente contraddittoria ed autolesionistica, non sarebbe così incomprensibile se veri, oltre che le grandi divagazioni (la peste, la monaca di Monza, ecc.), fossero stati anche Renzo, Lucia ed in definitiva la struttura portante del romanzo. C. POVOLO, Il romanziere, cit., pp. 123-127. 24 tranquille rendite di posizione, saliva alla superficie del dibattito un nuovo terreno di confronto, molto più solido e concreto, meno sterilizzato e perciò stesso più provocatorio: quello che rimettendo in discussione i ferri del mestiere proponeva implicitamente una ridiscussione dell'idea di verità storica. Non sarebbe difficile cedere alla tentazione di considerare tali intuizioni come una sfida da cui difendere la dignità minacciata della propria autonomia scientifica. Gareggiando nel metodo e forse anche fraintendendo gli scopi del lavoro, operare per demolire dalle fondamenta tali ipotetici castelli dei destini incrociati. Tuttavia, ben prima di tutto ciò, sembra a chi scrive che possa essere utile accettarne la suggestione quale stimolo per non lasciar cadere incontri casuali cui ieri un ortodosso giudizio di out of context toglieva irrevocabilmente ogni interesse. Va da sé che occorre uno strumentario in parte nuovo per guardare in faccia quella che Remotti chiama disumanità, analizzarne in maniera approfondita forme, contenuti, modalità e nel contempo provare ad attrezzarsi con categorie e prospettive adeguate. Lo stesso studioso del caso di Paolo Orgiano è consapevole di proporre, oltre il vincolo del già detto, una possibilità36. Colonizzazione e comprensione; fatti, discorsi sui fatti e ferri del mestiere; verità allegorica e verità inventata; poi ancora vero, verosimiglianza e anacronismo nella scrittura storiografica e narrativa ed infine presunto rigore scientifico ed insinuazioni sulla pretesa fantasia manzoniana che ci riportano ai ferri del mestiere: queste sono le parole chiave del discorso sin qui svolto. Cinque passaggi, bastano le dita di una mano per enumerarne i termini. 3. Sono invece troppe le dita di una mano per contare i chilometri che dividono il villaggio di Sossano da Orgiano, teatro delle scorribande della consorteria nobiliare studiata da Povolo. Posto all'estremità orientale della catena di monti Berici di cui l'altro villaggio si colloca al vertice occidentale, Sossano chiude a sua volta la val Liona: una morfologia in cui un villaggio si specchia nell'altro. Gli sconfinamenti di Paolo Orgiano 36 E infatti profonde il maggiore sforzo più nel ricostruire i percorsi di persone e documenti d'archivio nella seconda parte del volumetto, che non nel presentare le innumerevoli analogie fra le due vicende esemplari della prima. Nel contempo neppure si sogna di negare altre possibili contiguità, ben consapevole che è il tempo proprio ai contemporanei a costruirne le vicende. La differenza che ipotizza sta nel dove (Venezia/Milano) e nel quando (trasferimento degli Archivi della Serenissima, riorganizzazione del materiale ai Frari), conditi dal caso, che salva o distrugge, e dal tempo, che porta a dimenticare. Interessanti al proposito le considerazioni finali, con le distinzioni mutuate in parte da J. Bossy, su fatto, fatto storico, reale e vero. C. POVOLO, Il romanziere, pp. 128-131. L'autore ignora poi del tutto romanzo ed analogie nell'utilizzare di lì a poco il medesimo spunto d'archivio per un ponderoso lavoro storiografico; ID., L'intrigo, cit. Oggi nella carta turistica della provincia all'itinerario delle ville palladiane sono affiancati anche i “luoghi ispiratori de ‘I promessi sposi’” (Amministrazione provinciale di Vicenza, Carta turistica stradale e topografica, Vicenza s.d.), mentre una casa semidiroccata identificata come quella di Paolo Orgiano, contigua alla celebre villa Fracanzan Piovene, è stata dotata di adeguato cartello turistico. 25 sono rari, tanto che talvolta le sue vittime si trasferiscono proprio nel villaggio contiguo per allontanarne la minaccia37; come dubitare che anche a Sossano vi sia negli stessi anni un’altra consorteria nobiliare che ne controlla il territorio? C'è infatti, è quella dei Loschi: nome di casata, si direbbe, programmatico. Questo gruppo di nobili, avvalendosi di un piccolo esercito di satelliti (detti anche bravi nel documento del 1626 da cui cito), fino al numero di trenta, terrorizza Sossano ed i paesi limitrofi con ratti di donne, bastonature, ammazzamenti, assedi delle case di chi ha osato resistere. I Loschi, oltre ad impedire matrimoni già concordati, incuranti della particolare gravità del reato che si configura come crimen lesae maiestatis, arrivano a sostituirsi al Principe nel trattenere in prigioni private chi li indispettisce e nel bandire dal territorio abitanti sgraditi38. La loro politica ecclesiastica, per così dire, si manifesta attraverso la bastonatura di frati e l'attentato alla vita di preti che evidentemente non avevano curato di adeguarsi ai tempi, salvo poi donare generosamente alla chiesa locale in testamenti non privi di ordinarie raccomandazioni per l'anima39. Sicuri dell'impunità garantita loro dalle ricchezze, dalle aderenze e dalle amicizie, arrivano a vantarsi delle proprie azioni, “poiché né li degani ardiscono dar le denontie, né gl'offesi dolersi, né li testimonii deponer la verità sapendo esserne sicura conseguenza la perdita della propria vita”40. Dalla denuncia del loro parente Scipione Loschi risultano sette omicidi, quasi altrettanti tentati omicidi, quattro ratti di donne, mentre rimane indefinito il numero delle vittime di percosse e minacce. E tutto ciò in un villaggio che all'epoca conta poco più di 1.200 abitanti. Nel 1619 il podestà Alvise Grimani denunciava essere avvenuti nel vicentino, nei 20 mesi del suo reggimento, 300 omicidi tra “casuali e dolosi”. I Loschi ci hanno interessato per la contiguità con l'altro famoso consorzio nobiliar-criminale, ma innumerevoli e molto noti sono gli episodi in cui sono coinvolte e le caratteristiche delle bande criminali che all'epoca imperversano nella terraferma veneta41. 37 Consapevole delle morbose attenzioni del nobile, Fiore Bertola, la più coraggiosa vittima di Paolo Orgiano, subito dopo il matrimonio lascia il proprio paese e si trasferisce a Sossano affittandovi un casone. Di lì sarà comunque rapita nottetempo con uno stratagemma. C. POVOLO, L'intrigo, cit., p. 44. 38 L PRIORI, Prattica criminale, cit., p. 136. 39 ASVI, N, b. 9624, Testamento di Marc'Antonio Loschi rogato il 28.4.1624. 40ASVI, CN, vol. 273, ff. n.n. allegati al processo Cavaneis. 41 Gli abitanti di Sossano in REL p. 48, (Descrittione delle anime... allegata alla relazione del Podestà Giulio Gabriel presentata al Senato il 27.10.1558). Il resoconto del podestà Grimani in REL, pp. XXIV e 256. Un catalogo anonimo molto simile a quello descritto era stato recapitato nel 1618 ai Dieci per denunciare i delitti dei Martinengo-Colleone: J. M. FERRARO, Family, cit., p. 147-148. “Sono il conte Sesso/conte di Sandrigo/sono il Don Rodrigo/delle piccole città ” cantava qualche anno fa un gruppo folk vicentino. Una rassegna degli episodi delinquenziali nel vicentino in G. B. ZANAZZO, Bravi e signorotti a Vicenza e nel vicentino nei secoli XVI e XVII, «Odeo Olimpico» V (1964-65), pp. 97-138 e VI (1966-67), pp. 259-279. Significativa al riguardo la testimonianza del marchese di Bedmar (Ivi, V, p. 100): “Vicenza è città molto bella, allegra abondante e molto ricca per esser li Vicentini molto facoltosi, ma però terribili, scandalosi et Homicidiarii, et in verità posso affermare che lo Stato di Venezia non dà sudditi li più Sanguinari e Vindicativi per non dire Diabolici, 26 4. Pochi anni prima si era svolta a Vicenza una storia più modesta, sia perché aveva toccato una cerchia più ristretta di persone e sia perché priva di effusio sanguinis. Nel suo disporsi tutta sul punto di vista della periferia, ci offre una prospettiva di analisi sui possibili rapporti con i rappresentanti del centro. Niente delitti e niente banditi, nessun agguato e nulla suspance, la movimenta qualche palla di archibugio sparata d’impeto ed il chiacchiericcio morboso che in provincia circonda donne disonorate. Sullo sfondo vi sono tuttavia altre due potenti affinità: l'afflato del tempo e la contiguità con un'altra intuizione letteraria del romanticismo ottocentesco, a sua volta più modesta, ma resa celeberrima dalle arie verdiane. Una vicenda apparentemente privata e minima, e per ciò stesso indegna di essere definita tragica, il cui protagonista la finzione scenica renderà perfetto inventando, fino a prova contraria inconsapevole delle affinità, l'immortale figura di Rigoletto. Le facce di Giano, nume delle porte e degli inizi, presidiavano l'interno e scrutavano l'esterno: ho voluto accarezzare le suggestioni letterarie per arrischiarmi a penetrare, oltre il vallo che delimita il discorso storiografico criticamente attestato, le brume del racconto. Un modo innocente, credo, per rendere sotto forma di testo il resoconto del gioco di pazienza che mi ha appassionato e che ora sottopongo al lettore42. _________________ delli Vicentini, delli quali niuno sicuramente si può fidare”. L'attenzione sul brano è richiamata da E. FRANZINA, Vicenza, cit, p. 281. 42 Nel pensare ai titoli dei capitoli credevo il mio subconscio richiamasse Candido, o le vecchie letture di Tom Jones, finché non mi è venuto in mente il gioco di pazienza. Mi sono reso conto allora che l'origine di tutto stava in C. GINZBURG, A. PROSPERI, Giochi di Pazienza. Un seminario sul «Beneficio di Cristo», Torino 1975. Eccone l'epigrafe: “ed è appunto supponendo tutto e scegliendo le congetture più probabili che i giudici, le spie, gli amanti e gli studiosi indovinano la verità di cui vanno in cerca” (Balzac). 27 Capitolo 2 Dove si illustra un documento apparentemente di scarsa importanza la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo, fino a dire che un nano è una carogna di sicuro (De André) Agosto del 1612, una povera vedova denuncia ai presidenti del collegio vicentino dei notai che: “Furono depositati ducati cinquanta ... appresso Nicolò Buso all'hora all'officio delle condanne ... da esser levati per li eredi del quondam Francesco Fortuna”, ma Nicolò li ha usati a fini personali ed infine li ha “malamente consumati”. Dopo varie azioni legali, compreso un inutile mandato di cavalcata in quanto i mobili che si intendeva in quella occasione sequestrare erano tutti assicurati sulla dote della moglie, e Nicolò era fuggito, ne erano stati resi solamente 25. “Et perché questa è una truffa solennissima commessa da persona pubblica”, la denunciante chiedeva di essere “vendicata con esemplar castigo”43. I notai collegiati si trovavano ad essere denunciati spesso per analoghi episodi44. La querela non assume quindi particolare rilevanza in sé, ma in quanto si configura come il punto di partenza di una più complessa vicenda che vede suo malgrado protagonista un notaio tanto ambizioso quanto scarso di mezzi di fortuna, di bassa statura, gracile e gobbo, con una moglie volitiva ed una giovane figlia che le fonti dichiarano essere bellissima, figure entrambe che assumeranno un ruolo centrale nella vicenda. Nelle sue azioni quotidiane, ai nostri occhi spesso arroganti e talvolta disoneste, egli si fa forza di un preteso rapporto privilegiato con chi, rappresentante alieno di una superiore autorità, incarna la posizione di vertice nella gerarchia politica cittadina; alla fine, scopertosi umiliato ed offeso, denuncerà disperatamente le lusinghe con cui l'interessata benevolenza del potere lo aveva ammaliato. 43 Quondam vale per del fu. “Mandato reale e personale, dicevasi nei tempi veneti al decreto giudiziale, con cui si ordinava il pignoramento di mobili o beni del debitore, o il suo arresto personale se la roba non bastasse a saziar il debito”, G. BOERIO, cit. La denuncia (8.8.1612) chiude il corposo fascicolo processuale collocato in ASVI, CN, vol. 272, cc. 578-617, 1051-1052. 44 Per i disordini, gli abusi ed i reati commessi spesso impunemente dai notai, rinvio alle numerose relazioni dei podestà vicentini, soprattutto dell'inizio del Seicento REL, p. 567. Nei libri inquisitionum i processi per corruzione, concussione et similia sono preponderanti. Sul collegio vicentino dei notai, G. BISAZZA, Notai tristi e notai sufficienti. Il ceto notarile di Vicenza tra Cinque e Seicento, «Società e storia», 59 (1993), pp. 3-33, nonché dello stesso Il collegio dei notai di Vicenza nella seconda metà del Cinquecento, tesi di laurea, Un. di Venezia, Fac. di Lettere e Filosofia, A.A. 1988-89. 28 Capitolo 3 Dove necessari collegamenti attribuiscono valore relativo ai fatti Rigoletto: Atto I (Rigoletto) Che coglier mi puote? di loro non temo, del duca il protetto nessun toccherà [...] (Cortigiani) Vendetta del pazzo! Contr'esso un rancore pei tristi suoi modi di noi chi non ha? Vendetta! vendetta! vendetta! Per un anno e mezzo tutto tace finché, nel febbraio del 1614, viene avviato un processo d'ufficio dai presidenti del collegio notarile perché, recita la formula latina, “sono giunte alle orecchie dei presidenti informazioni circa l'incivile, disonesta e sordida vita che terrebbe Nicolò Buso”. Silvano Ferretto, che lo conosce da bambino (“da putello in suso”)45, sa che teneva ridotto di carte con Claudio Della Volpe mentre “stava permezo [di fronte al] l'Hospitale di Protti” e che ciascuno ne traeva un utile da otto a 10 lire giornaliere. I due avevano litigato e, per risolvere la controversia, avevano nominato due comuni amici per trovare un accordo. Lui stesso si era prestato come arbitro per il Della Volpe mentre il Del Buso si era appoggiato al contestabile del podestà Zen. Ma i dissapori non erano terminati46. Interrogato se sapeva qualcosa della condizione di vita della figlia di Nicolò “respondit, tocandosi il capo: - ho sentito dire da diversi che teniva vita inhonesta”. Ora l'interrogatorio si fa più serrato ed il testimone non ha esitazioni a dire che Ardencia (così crede si chiami la giovane) aveva rapporti intimi con uno dei curiali del podestà 45 I Ferretto, famiglia di notai come i Del Buso, pur se di nobiltà relativamente più antica (GRUBB, La famiglia, la roba, la religione, nel Rinascimento. Il caso veneto, Vicenza 1999, p. 253), hanno con questi ultimi diversi rapporti sia economici che parentali (per quanto sia ortodosso all'epoca distinguere i due aspetti); nella seconda parte del presente lavoro analizzaremo tali rapporti. 46 Sulle dispute, interessanti per le distinzioni metodologiche tra storia ed antropologia e gli stimoli ad approcci criticamente avvertiti, T. KUEHN, Law, family and women: toward a legal anthropology of Renaissence Italy, Chicago and London 1991, pp. 75 - 83 e passim; J. BOSSY (ed.), Disputes and Settlements, Cambridge etc. 1983, in particolare S. ROBERTS, The study of Dispute: Anthropological Perspectives, pp. 1 - 24; C. RADDING, Antropologia e storia ovvero il vestito nuovo dell'imperatore, «Quaderni storici» 57 (1984), pp. 971 - 984 e C. WICKHAM, Comprendere il quotidiano, «Quaderni storici» 60 (1985), pp. 839 -857. Quest'ultimo, partendo dalla constatazione che “Un antropologo non si accontenterebbe oggi di studiare le udienze processuali quando volesse chiarire una disputa”, arriva all'esplicito invito ad approfondire “tutti gli altri elementi di interazione sociale, tra le parti e i loro alleati, prima, durante e dopo il processo, perché solo questo può renderlo comprensibile”. p. 849. I consanguinei fino al terzo grado dovevano risolvere le loro divisioni attraverso il compromesso, essendo impediti dagli statuti all'azione giudiziaria ordinaria. Quelli vicentini sono citati da E. GARINO, Testamenti, testatori ed eredi a Lisiera. La pratica testamentaria in una comunità rurale del vicentino nel XVIII secolo, in C. POVOLO (ed.) Lisiera, Immagini, documenti e problemi per la storia e cultura di una comunità veneta. Strutture, congiunture, episodi, Bolzano vicentino 1981, I/729 29 Zen. Egli stesso l'aveva incontrata più volte travisata ed accompagnata da un uomo a casa, e aveva sentito quest'ultimo anche parlare alla madre “prometendoli gran cose”. Finora la testimonianza inchioda Nicolò alle sue tradite responsabilità di capofamiglia e di aristocratico. Ciò che allo stato degli atti appare evidente è il suo mancato controllo sui ruoli parentali a lui subalterni. La bisca, che viene accusato di gestire, è funzionale invece a rivelarne il carattere plebeo: il suo cinico attaccamento al denaro, la volgarità della condotta, la mancanza di onore. L'infamia che ne deriva minaccia il prestigio dei notai di collegio all'interno della società civile vicentina. Silvano ha sicuramente dei conti aperti con Nicolò, e la risposta all'ultima domanda, la più insinuante, – Nicolò sapeva della figlia? – è lapidaria: Non poteva non sapere per l'utile che gliene derivava, anzi, egli stesso l'aveva talvolta accompagnata al Palazzo dove poi era stata vista trattenersi anche per 15 giorni consecutivamente. Del resto era a tutti noto che la giovane, al congedo del podestà Zen, era partita con il suo seguito. Silvestro Monegatta conferma che Nicolò gestiva una bisca ed insinua un rapporto diretto con il podestà ed il contestabile47, funzionale alla dimostrazione della sua complicità riguardo la “inhonesta vita” della figlia. Egli stesso credette di riconoscere una notte mentre ritornava travisata alla casa paterna, poiché sotto al ferarolo indossava un vestito da donna mentre il suo volto era nascosto da cappello e mantello. Lo stesso ufficiale veneto aveva lasciato intendere che era la “Busa” e “che questa giovane li valeva più di scudi dusento” che divideva col padre di lei. Quando poi il podestà, a fine mandato, aveva lasciato la città, la giovane era stata aggregata al suo seguito di ufficiali e non se ne era più saputo il destino. A specifiche domande rispondeva quindi di non avere dubbi sul fatto che sia la madre che il padre sapessero, perché la figlia si tratteneva nella residenza del podestà per diversi giorni senza rientrare a casa. La giovane aveva avuto commercio con diversi ufficiali ed a conferma di ciò il testimone nominava due informati servi del podestà. Generiche convalide alle accuse già note fornivano Gaspare di Francesco Cittadella, aromatario all'insegna dell'angelo e Fante Cestarolo, servitore del podestà Zen che una volta ebbe l'incarico di portare un cesto ai Proti. Giorgio Testadoro aveva visto di persona Nicolò “tirare le terze” al ridotto, mentre che la figlia facesse cattiva vita lo sapevano tutti in città, figurarsi se il padre era all'oscuro! Conferme vengono anche da due altri servitori del podestà, Antonio Rolandino e Bernardino Trevisan. Il primo però 47 Il contestabile era l'ufficiale che comandava la forza, eseguiva i sequestri e gli arresti, riscuoteva le pene pecuniarie. Spesso tale attività, oltre che essere considerata odiosa in sé, veniva ancor più disprezzata per la pressoché nulla dirittura morale di chi ricopriva la carica: concussioni ed ogni forma di abusi, la cui impunità era garantita, non solo erano all'ordine del giorno, ma addirittura esibiti. Vedremo in altre testimonianze come il solo fatto di frequentare il contestabile sia giudicato infamante. Sulla poca stima di cui godevano i contestabili veneziani nelle città suddite di Terraferma, a causa di ciò anche vittime di agguati mortali, e su molto altro ancora che riguarda gli ufficiali subalterni dei rettori: G. CORAZZOL, Cineografo, cit., pp. 99-123. 30 lo conosce solo di nome “gli è stato detto essere gentiluomo piccolo”; il secondo, alle dirette dipendenze del contestabile dello Zen, andava a prendere la ragazza e la portava a “Corte”, là rimaneva due o tre sere, e poi la riportava a casa del padre che riceveva qualche carro di legna, qualche mastello di vino ed altre cose “pertinenti al vivere”. Il contestabile, senza parafrasi, diceva allora “di volerle mandar alla sua putana”. Molte volte Nicolò si era trattenuto a parlare al suo padrone, spesso aveva accompagnato la figlia e se ne era poi tornato a casa da solo. Ma non basta, altre infamie ancora lordano Nicolò: Giovanni Pallavicini, notaio, informa i presidenti che un frate del convento delle Grazie “ha afare con sua moglie et questo si dice pubblicamente” e pare anche ve ne sia un secondo e i Del Buso ricevono pure da tale fonte legna e vino. Lo ha saputo da un loro vicino di Contrà Canove (evidentemente i Del Buso hanno cambiato casa). Se Nicolò sia a conoscenza del torto della moglie “non so che dire, né che credere, perché questi sono secreti troppo importanti, né de questo particolare ne ho sentito raggionare da alcuno che mi racordi”. Restano tre testimonianze, sono fondamentali perché con le prime entrano in campo due rappresentanti di famiglie fra le più antiche e nobili della città, ben al di sopra, per ricchezza e prestigio, dei Del Buso48. L'ultima è quella del governatore delle Zitelle. È certamente “cosa molto infame de un citadin” gestire un ridotto, ma Nicolò era andato ben oltre, vendendo per 100 ducati l'onestà di una sua figlia al giudice del maleficio in servizio al tempo del podestà Zuanne Zen e, quando il piccolo notaio si era macchiato di una simile infamia, non c'era bozzolo49 che non parlasse di questo. Orazio Scroffa ricorda infine che Nicolò godeva cattiva fama già da prima, visto che negli uffici di Palazzo era solito togliere denaro dalle scatole senza darne parte ai colleghi. Giacomo di Andrea Arnaldi era intervenuto presso i rettori delle Zitelle affinché la secondogenita di Nicolò vi fosse ammessa. Ne era stato pregato dai genitori perché “questa entrando in quel pio loco almeno sarà salva”, aveva detto la madre. Muove quindi la volontà dei genitori qualcosa di molto più concreto della generica prudenza del nobiluomo del XVII secolo per il quale “Le femine appena uscite dalla infantia si chiudono in Monasteri esemplari, perché la Donna è una merce che ricerca una gelosa custodia per essere facile da danneggiarsi”50. Ciononostante la madre l'aveva poi “tolta fuori violentemente” perché, avrebbe in seguito riferito, non le pareva conveniente che stesse chiusa a patire e non imparasse niente. Della figlia maggiore sapeva ciò che era universalmente noto ma, faceva notare, quest'ultima andava “in ordine e pomposa”. La famiglia si era da poco trasferita ad abitare in una casa centrale “di gran fitto”, mentre 48 Sugli Scroffa C. POVOLO, Polissena Scroffa, cit., pp. 221-233; sugli Arnaldi cfr.: J. GRUBB, La famiglia, cit., passim. 49 “Radunanza d'uomini discorrenti insieme” G. BOERIO, Dizionario, alla voce. 50 Instruttione paterna d'Antonio Ottoboni N.V. a Pietro suo Figliuolo ... cit. in J. C. DAVIS, Una famiglia veneziana e la conservazione della ricchezza: i Donà dal '500 al '900, Roma 1981, p. 153 (ed. or. 1975). 31 prima i Del Buso vivevano in una casa più piccola e Nicolò non ne usciva quasi mai per paura di incontrare i suoi numerosi creditori51. Ancora una volta la testimonianza, non saprei dire quanto inconsapevolmente, insinua un ulteriore elemento di infamia che macchia il notaio: tra Florinda e Nicolò si confondono i ruoli. La personalità debordante della moglie agisce fuori del controllo del marito. Il governatore delle Zitelle è a questo proposito illuminante. Luca Antonio Linarolo comincia a raccontare le difficoltà che i rettori del luogo pio avevano frapposto all'ammissione: la giovane era molto bella e meglio sarebbe stato che si fosse maritata; le insistenze dell'Arnaldi li avevano infine convinti. Ammessa, stette “alquanti mesi sempre disperata... non si volse mai aquietarsi a voler tendere alle opere d'Iddio, ma la notte chiamava il diavolo, et causa di questo ne era la madre” che la voleva di nuovo a casa mentre padre e zio insistevano perché fosse trattenuta “sotto bona custodia”. Il podestà lo aveva fatto chiamare ordinandogli di rilasciare la giovane “per dar satisfatione a questa donna”. Egli aveva fatto presente che una simile decisione non spettava a lui, poiché i capitoli della congregazione permettevano alle giovani di uscire dalle Zitelle esclusivamente per sposarsi o farsi monache52. Alla fine si era scomodato il Vescovo Dionisio Dolfin affinché fosse concesso alla povera madre di far abbracciare i fratellini alla figlia. Ne era seguito il rapimento che, nonostante la messinscena, si può supporre concordato. Quando negli uffici di Palazzo aveva incontrato il padre questi “mostrò sentirne gran dolore et travaglio”, e con lui lo zio ed i loro amici.53 51 ASVI, CN, vol. 272, c. 586v. Sul prestigio che dà la residenza cittadina, sia per la sua collocazione che per l'architettura, G. LANTERI, Della economica, Venezia 1560, pp. 14-22, ripreso da J. M. FERRARO, Family and public life, cit., p. 103. Il valore, oltre che simbolico, anche giuridico, della casa dominicale, sede di immunità e di rappresentatività signorile, è suggerito da O. BRUNNER, Terra e potere.cit., pp. 355-359. 52 Gli statuti delle Zitelle sono pubblicati in L. GIACOMUZZI, Influsso francescano su vita cristiana e pensiero spirituale a Vicenza dal 1400 al 1600, Vicenza 1982, pp. 49-66. 53 Lo zio va identificato con Cesare Del Buso, l'ultima solidarietà familiare che resiste. 32 Capitolo 4 Dove si offrono conferme ed insinuano dubbi Rigoletto Atto II (Rigoletto) Sì... la mia figlia... D'una tal vittoria... che?.. adesso non ridete?.. (...) Cortigiani, vil razza dannata, per qual prezzo vendeste il mio bene? 1. Il 10 marzo 1614 Nicolò viene citato a comparire entro pochi giorni; il successivo 19 si presenta ai presidenti del collegio Vincenzo Colzè54, cognato e procuratore del nostro, che chiede una proroga di otto giorni. Tornato da Venezia il 16 marzo, l'imputato non può comparire perché teme di essere incarcerato per debiti. Gli vengono concessi altri tre giorni. Nicolò si presenta ai presidenti lunedì 24 marzo. Il lungo interrogatorio inizia in modo interlocutorio ed il notaio, equivocando ad arte sulle cause della sua convocazione, ha buon gioco nel rispondere evasivamente. Quando cominciano ad insinuarsi imputazioni meglio definite, egli finge indignazione verso le calunnie cui dice di essere fatto oggetto. Infine, di fronte ad un tale indisponente atteggiamento, i giudici rivelano il contenuto delle accuse circostanziate ed incrociate a suo carico. Messo alle strette, Nicolò risponde allora alle puntuali contestazioni con un'accorata confessione che, pur riconoscendo colpe, chiama in causa la propria debolezza verso un destino esistenziale fatto di impostura e tradimento. L'estate precedente, all'epoca in cui aveva esercitato il suo ultimo ufficio alle camere dei pegni privati, abitava in contrà Proti, in una grande casa che aveva affittato per dividerla con i nipoti, eredi del fratello Cecilio. Siccome questi ultimi non lo avevano poi raggiunto, egli era rimasto a viverci con la sua famiglia: sei figli, sua moglie e una serva. Il grande edificio era stato prima occupato dal giudice del maleficio. Il canone molto alto (70 ducati l'anno, gran parte dei quali doveva ancora pagare) lo aveva costretto ad affittare il camino terreno, ossia la grande sala con focolare al piano terreno, a Claudio Volpe che lo usava per dormirci e tenervi ridotto. Claudio stesso dava le carte, ma egli non può sapere quanto guadagnasse. L'utile era dato, crede, dal noleggio delle carte, in più chi vinceva “per loro cortesia” gli dava qualcosa ed inoltre si faceva anche pagare le candele e la legna per il fuoco. Egli non era contento di avere sempre il portone aperto di notte; gli era poi occorso di litigare furiosamente con Claudio per avergli vinto 70 o 80 scudi “ladove esso mi prese odio dissemenando parole dishonorate contra la mia persona che essendomi stato riferito lo licentiai”. 54 Cesare Del Buso, fratello di Nicolò, aveva sposato Alteria di Lunardo Colzè, dotata con 800 ducati, nel 1599: ASVI, N, b. 9576, 4.8.1599; anche i Colzè erano notai. 33 Un giorno, mentre Nicolò era assente, Claudio aveva offeso sua moglie che si era vista costretta ad affrontarlo con una spada ed a scacciarlo con l'aiuto di altri. L'intermediazione di Vincenzo Poiana, a cui Nicolò si era dovuto piegare, aveva riportato la pace e Claudio aveva continuato a gestire il ridotto. La somma di 15 ducati avuta dal Poiana per affitti era però stata restituita quasi subito ad emissari del conte in quanto il Della Volpe non aveva più inteso continuare con l'attività in casa sua “et io non volevo darglili, pure non volendo consendere con esso Poiana come mio maggiore mi risolsi dargheli”. I conti Poiana, il cui enorme palazzo di San Tommaso in Berga confinava con quello, molto più modesto, dei Del Buso, erano intervenuti ancora a controllare i conflitti della famiglia contigua imponendo atteggiamenti conciliatori. Nel giugno del 1601 Cesare, fratello di Nicolò, aveva subito un furto in casa e, identificati i colpevoli, non aveva potuto avviare l'azione giudiziaria contro di loro per essersi interposti Alessandro Poiana ed altre persone “dalle quali è stato astretto esso Cesare a contentarsi del pagamento de ducati cinquanta, se ben le robe li mancavano erano et sono di magior valore et importanza”55. Lo spazio al piano terra era stato poi affittato a cinque ducati al mese a due individui che continuarono ad esercitare il ridotto fino a che uno non fu ammazzato e l'altro, in modo non meglio precisato, “morse”. L'unico interesse dell'imputato nell'affare, cosa che Nicolò ribadisce con forza, era l'affitto. A questo punto vi è il passaggio di livello dell'interrogatorio ed è utile riportare anche le domande che vengono poste. Gli viene chiesto se ha figlie. “Così non ne havessi, che pagheria un ochio per che ne ho quatro di femine et due di maschi”; le prime due hanno 18 e 16 anni, tutte abitano con lui e alla domanda se stiano sempre in casa risponde stizzito “Ove volete che vadino?”. Non ha mai frequentato il contestabile del reggimento passato, una volta gli aveva dato 70 lire affinché non molestasse Claudio nel ridotto ed allora si era fermato a mangiare. Ciononostante costui “ci assassinò perché vene nel camino due o tre volte con la sbiraria”, cosicché si dovette chiudere, anche perché i presidenti del collegio notarile in carica all'epoca lo avevano convocato per far smettere il traffico di giocatori alla porta della sua casa. Gli era stato detto che, se avesse voluto continuare, avrebbe dovuto aprire un passaggio alternativo più defilato. Egli di questo non si sarebbe curato “quando non havessi havuto paura della Giustitia”. 55 ASVI, N, b. 9576, 5.6.1601 per Cesare; ASVI, CN, vol. 272, c. 601 per Nicolò. I Poiana sono maggiori dei Del Buso non solo perché appartengono al gruppo di famiglie di antichissima nobiltà, ma soprattutto per l'enorme distanza che, in termini di ricchezza, intercorre fra i due lignaggi. Per esempio nel campione d'estimo del 1579 gli eredi di Andronico (fra i quali è Nicolò) sono iscritti per 10 soldi, quelli di Bonifacio Poiana per 14 lire 17 soldi 6 denari, quelli di Nicolò Poiana per 16 lire 2 soldi 6 denari. Nicolò nel 1621 è allibrato per 5 soldi. ASVI Estimo, b. 7, c. 14v; b. 9, c. 20r. 34 Interrogato se la figlia maggiore fosse mai stata in casa del contestabile di giorno o di notte, rispose “Signor no et quelli che lo dicono si mentono per la gola”. Alla domanda se il contestabile fosse mai stato a casa sua: “Io mi maraveglio! Besogna che io habbi persone che mi vogliano molto malle a dir di queste busie et falsità! Ne lo è stato mai se non in quel caso con li zaffi e può esserli anco stato un'altra volta per essequire contro di me un mandato di cavalcata ... ma io no lo so per certo perché no ero a casa”. L'interrogatorio si fa via via sempre più serrato ed incalzante, gli viene chiesto se abbia mai ricevuto vino e legna dal contestabile e se abbia avuto confidenza e frequentazione con il giudice al maleficio precedente. Nicolò nega ed anzi lamenta un torto subìto dal momento che, a fronte di una querela per truffa, ne era stato offeso (“me disse gobbo becco fotù”) ed incarcerato. Sa che a sua figlia Ardemia il contestabile regalò una carpeta? Rispose “questo non è vero, ma io son perseguitato”56. I presidenti, indispettiti, a questo punto sbottano: come si permette di negare tutto ciò che gli è stato opposto, che risulta chiaramente da testimoni degni di fede oltre che dalla pubblica voce e fama che corre per tutta la città? Nicolò ha un tenore di vita licenzioso, dimentico della condizione e dell'onore di notaio pubblico. Egli ha gestito una bisca in casa sua, tirato le terze e diviso un “così pernicioso et inhonesto guadagno” con Claudio Dalla Volpe. E quel che più conta è stato veduto con un suo figlio più volte passare ore con il contestabile; e sua figlia è stata vista in camera del maestro di casa del podestà precedente, e il contestabile si vantava che fosse la sua puttana, che gli costava oltre 200 ducati e che condusse con sé, partendo dal reggimento, d'accordo con lui e sua moglie. Tutti sanno che la giovane ha avuto commercio anche con il giudice del maleficio, a sua volta visto di notte in compagnia di Ardemia, sentito contrattare e fare grandi promesse alla madre. Nicolò stesso l'ha poi passata anche ad altri tanto che i governatori delle Zitelle, “avedendo che voi et vostra moglie tenivate così poco conto del vostro sangue”, decisero di levar loro la figlia mezzana, ma lui e la moglie avevano sollevato un tale polverone che alla fine erano riusciti con la forza a toglierla dal luogo pio. Testimoni affermano che la stessa moglie di Nicolò ebbe “commercio” con un frate delle Grazie “constando tutte queste cose così come vi sono state opposte ... farette bene a confessar la verità”. 2. Nicolò cede e dichiara di voler “racontar la cosa come sta”, invocando su tutti la protezione di Dio da nemici spietati, fra cui non dimentica di insinuare vi siano molti colleghi, e da una cattiva moglie. Tutto era cominciato con una intimazione del podestà Zen affinché restituisse i 50 ducati avuti in deposito mentre era notaio dell'ufficio della raspa (il registro in cui si trascrivevano le sentenze penali). Egli, visto che i mobili di 56 Gonnella: cfr. G. BOERIO, Dizionario, alla voce. Il regalo del capo di abbigliamento alla nubile da parte di estranei ha grande significato simbolico, da qui l’indignata reazione di Nicolò. 35 casa erano assicurati sulla dote della moglie57, aveva deciso di nascondersi sul sagrato di San Tommaso in casa del gastaldo delle monache per sfuggire il carcere e là si era trattenuto otto notti mentre Florinda aveva tentato un'azione per farlo tornare libero. Quando la donna gli si era presentata davanti al podestà per perorare la causa del marito quest’ultimo, si direbbe piuttosto irritualmente, l’aveva fatta sedere al suo fianco ed aveva subito chiesto informazioni su una figlia di cui aveva sentito decantare la bellezza. Se gli avesse consentito di vederla, avrebbe ottenuto da lui ogni favore e così “mia moglie, quale è così terribille che non la posso governare”, si accordò col nobile veneziano. La sera stessa, mentre Nicolò era ancora nascosto a San Tommaso, il podestà si era recato all'appuntamento accompagnato dal contestabile ed altri. Atto II (Rigoletto) Ah! ella è qui dunque!.. Ella è col Duca!.. Ventiquattr'ore dopo le stesse persone non si erano accontentate di discorrere, ma si erano portate via la giovane trattenendola fuori casa per tre notti. Il podestà Zen lo aveva “sì fatalmente assassinato” perché, dopo averne abusato, la aveva “messa sotto” al giudice del maleficio, al contestabile e forse anche ad altri, “si per scolpar se stesso si anco per esser pover homo e fuggir da assumer le promesse che haveva fatto a detta mia figliola et moglie”. Passati tre giorni Florinda lo aveva raggiunto nel rifugio di San Tommaso invitandolo a ritornare a casa perché, diceva, il podestà gli garantiva l'incolumità. La sera stessa, “su le due hore di notte”, aveva sentito battere alla porta; la figlia più piccola era andata ad aprire ed egli aveva sentito sulle scale un passo pesante; stava salendo in casa uno sconosciuto finemente vestito. Si trattava di un gentiluomo che veniva a parlarle con lo scopo di aiutarlo, così la moglie gli aveva motivato l'invito a ritirarsi in granaio. Fermatosi a mezza scala per sentire, quasi subito era stato chiamato di sotto. L'uomo si era rivelato essere il podestà di Vicenza “et li vidi le vesti rosse sotto una romana di ermelino”58. 57 In questa circostanza egli stesso inconsapevolmente denuncia per la prima volta la sua cinica spregiudicatezza: i beni non gli possono venire sequestrati perché di fatto appartengono alla moglie la cui dote, a ragione di statuti, non può essere mai intaccata per sanare debiti del marito. Solo dopo un eventuale accoglimento da parte del podestà veneziano di una espressa supplica della donna a venderli, i beni assicurati alla dote possono essere alienati per liberare il marito di prigione o per alimentare sé ed i figli nel caso non esistano altre risorse economiche in famiglia. JMV, c. 154; A. LORENZONI, Instituzioni del diritto civile privato per la provincia vicentina, Vicenza 1785, vol. 1/II, p. 30. 58 “Sorta di veste o abito lungo di color nero che ... usavasi dai pubblici rappresentanti veneti, come abito di mezza comparsa in certe funzioni.” G. BOERIO, Dizionario, alla voce. La veste rossa del podestà veneziano, sotto la romana, è il suo scudo maiestatico: G. CORAZZOL, Cineografo, cit., p. 74, 77. 36 (Gilda) Ah l'onta, padre mio... (Rigoletto) Cielo! Che dici? (Gilda) Arrosir voglio innanzi a voi soltanto... Lo Zen non si perde in preamboli, invita Nicolò a rassegnarsi al fatto compiuto e promette di dotargli la figlia molto più riccamente di quanto lui mai potrebbe (“il malle è fatto ... indotterò de mille ducati la putta”)59. Gli chiede di dichiarargli i suoi debiti e, sentito che in totale Nicolò non deve pagare più di 120 ducati a vari creditori (compresi i 50 trafugati dalle casse pubbliche) “lui disse questa è una fiaba; non ne dubitate che io ve ne voglio pagar” e fra le mille altre promesse lo lusinga con l'assicurazione del posto di cancelliere nel mandato seguente al vicentino, ventilandogli la possibilità di diventare ufficiale del futuro podestà di Treviso. Il piccolo notaio, a cui forse mancano molte qualità virili, ma non certo l'ambizione, è tramortito e, considerando “al mio statto et che de già il malle era seguito, tratandossi de personaggio talle che era podestà in questa città, non seppi far altro se non andar con le bone et dirli che mi meteva nelle sue brazze racomandandoli mia figliola”. L’amara esperienza gli ha tuttavia insegnato che Zuanne Zen è un uomo senza onore: non ha dotato Ardemia, né le ha trovato marito e le ha regalato soltanto pochi capi di abbigliamento, una collanina di scarso valore, uno o due sacchi de farina e un mestello di vino. Forte delle lusinghe, il podestà andava da Ardemia giorno e notte e lì pranzava e cenava “et ogni pasto mi costava dieci o dodici lire oltre la carne che lui mandava perché li stava anco il contestabille”. Ad un certo punto Nicolò aveva cominciato a sollecitare il mantenimento della promessa di matrimonio, l'altro però aveva continuato a differire bonariamente finché, una notte, non si era trovato la porta dei Del Buso sprangata (e questo era stato il vero motivo per cui si era chiuso il ridotto, la necessità di impedire l'entrata in casa dei mangiaufo). Ne era nato un putiferio e Nicolò aveva anche sparato tre archibugiate all'indirizzo dello Zen e del suo seguito, tanto che il podestà aveva subìto l'umiliazione di lasciare una sua pantofola nel fango della strada. A mente fredda era poi intervenuto il molto fondato timore di una rappresaglia da parte del nobile veneziano e così, astutamente, il piccolo notaio aveva fatto girare la voce che a sparare fosse stato un suo cognato bandito. Costui, temendo di trovarsi faccia a faccia coi suoi nemici, aveva sparato per paura. La scusa era servita a pacificare la parte lesa, 59 Le doti assegnate alle figlie dei Del Buso in questo periodo si aggirano mediamente sui 500 ducati, pagati agli sposi con lunghe rateazioni. 37 ma “bisognò che io mi contentassi di lassarlo continuare a venire in casa mia da detta mia figliola”. Atto III (Rigoletto) (da sé) (Dio tremendo! ella stessa fu côlta dallo stral di mia giusta vendetta!..) (a Gilda) Angiol caro, mi guarda, m'ascolta ... parla, parlami, figlia diletta! Alla fine, contro la volontà dei genitori, Ardemia era stata condotta a Campo Nogara tre mesi prima della partenza dello Zen dal reggimento; era poi giunta voce ai Del Buso di come la figlia venisse maltrattata, che l'ex podestà “anco ne faceva mercantia” e che era gravida. La coppia si era allora recata a riprenderla perché i due sospettavano che la giovane fosse anche stata avvelenata per non doverle alla fine pagare la dote promessa. Da Venezia avevano finalmente riportato a casa la ragazza incinta di otto mesi. Egli aveva sempre stimato sua moglie fedele, ma poi aveva dovuto piegarsi davanti all'evidenza della sua relazione con un frate delle Grazie da cui andava a confessarsi nel periodo in cui abitavano ai Proti. L'altra sua figlia, poi, era stata posta alle Zitelle a seguito della loro richiesta, tramite la madre di Giacomo Arnaldi che ve la aveva condotta con la sua carrozza. Ma quando Zuanne Zen, non pago “di avermi fatto il scorno suddetto”, aveva comunicato che era sua intenzione portare con sé Ardemia a fine mandato, allora Florinda si era ribellata: o le lasciava la figlia, oppure le faceva restituire la secondogenita per non voler restare senza almeno una di loro. Per assecondare la donna, il podestà aveva convocato il governatore del luogo pio “et con parole orgogliose li disse che si dovesse rissolvere di lassar venir fuori quella nostra putta altramente che, non essendo quel loco sacro, l'haveria fatto gitare a terra”, e che ve l'avrebbe presa con la forza; fu così che la porta fu lasciata aperta e sua moglie infine poté condurla a casa. Per non smentirsi il podestà promise di emettere una sentenza a favore delle Zitelle in una causa che opponeva il luogo pio ai nobili Somaglio, ma poi gliel’aveva emessa contro “dicendomi doppo – io li ho coglionati – quasi gloriandossi di così bel tiro”. L'uomo ha terminato la sua lunga confessione; la parola torna ai giudici, e le ultime domande sembrano di scarsa importanza. Gli viene chiesto quando lo Zen abbia incontrato per la prima volta sua figlia e lui confessa candidamente il fatto essere avvenuto mentre abitava la casa di famiglia a San Silvestro. Nega poi che il giudice del maleficio sia mai stato a casa sua. Richiestogli di dire chi siano i notai collegiati che crede complottino contro di lui, risponde che per discrezione e per evitare altri guai 38 preferisce tacere i nomi di coloro nei confronti dei quali nutre sospetti, perché non vuole incolpare senza essere certo delle circostanze. L'interrogatorio finisce con un ammonimento che è già un anticipo di condanna, del resto ben difficilmente si può immaginare che, dopo essere stato costretto alla confessione, Nicolò possa aspettarsi di uscire indenne dal processo. Non sembra confidare in aiuti provenienti dall'esterno, ma forse si illude di poter subire una pena mite; egli pare sicuro di avere dimostrato la sua buona fede essendo caduto suo malgrado in un ingranaggio che ne ha stritolato la possibilità di reazione. Ma anche su questo versante i presidenti lo deluderanno. Non può scusarsi per non aver saputo, dopo che egli stesso ha confessato di aver “assentito alla proposta inniqua, infame et odiosa fattavi dal detto podestà ladove era debito vostro piutosto lassarli la vitta che passarla senza farne ressentimento grandissimo”60. Il collegio avrebbe tutelato la propria onorabilità con una decisione conforme agli Statuti. Infine gli si concedeva una settimana per produrre scritture difensive. Laconicamente Nicolò concludeva richiamando la propria tardiva conoscenza della vicenda e la sua debolezza fisica “ben notta a tutti che non mi posso movere”. Insinuava infine il dubbio che fosse stato lo stesso Zen a sollecitare Orazio Scroffa, “a cui ho mandato alcune esecutioni per il che è restato mal affatto della mia persona, havendo disseminato molte parole di fare et dire contro di me”, ad avviare l'azione disciplinare contro di lui. Le sue difese, che avrebbero dovuto discolparlo, lasciano nel lettore non poche perplessità. Il 26 marzo, due giorni dopo l'interrogatorio, Nicolò ritorna dai suoi giudici e consegna loro un mazzo di otto lettere a lui indirizzate, sette scritte dall'ex podestà ed una di mano del suo cameriere. La prima speditagli nel dicembre del 1613 e le ultime il 12 ed il 22 marzo appena trascorsi, quindi dopo l'avvenuta convocazione dei presidenti il collegio. È sicuro che la loro lettura convincerà i giudici della sincerità del suo costituto, confermando che egli non aveva rapporti né con il contestabile né con il 60 Ecco l'afflato retorico del tempo: da tutte le posizioni di forza si ha buon gioco nel rinfacciare le debolezze, la mancanza di eroismo o di santità, salvo poi magari trasformarsi, quando in altre relazioni le gerarchie si modificano. Sembra di ritrovare il Cardinale Federigo che rimprovera Don Abbondio per la sua codardia alla fine del capitolo XXV; anche la risposta di Nicolò, se fosse Manzoni a scriverla, potrebbe essere la medesima: “–Torno a dire, monsignore, ... che avrò torto io ... Il coraggio, uno non se lo può dare” (A. MANZONI, I promessi sposi, cit., p. 559). Ma il piccolo notaio, che una volta il giudice del maleficio ha chiamato gobbo, cornuto e fottuto, ha già risposto: il coraggio non c'entra niente di fronte a gerarchie e rapporti di forza così pronunciati, a distanze così profonde. Finora l'errore di Nicolò sembra essere quello di aver voluto entrare nel cono d'ombra dei potenti per poterne approfittare a proprio vantaggio. Ma il prezzo del favore si era presto dimostrato pesante: il ricatto e la dura punizione per i suoi altrimenti sopportati maneggi da retrobottega. Non è poi irrilevante il fatto che la sua misera vicenda si consumi in anni pieni di tensione, come vedremo più avanti. 39 giudice del maleficio e che quindi i testimoni d'accusa erano mendaci “et che hanno voluto portar rispetto a detto Signor Zen”. Le perplessità riguardano il contenuto delle prime sei lettere; l'aristocratico veneziano vi si esprime in tono amichevole, rammaricandosi dei guai di Nicolò e offrendo un generico appoggio “dove potrò favorirvi come ho fatto sempre non mancherò”. Niente di compromettente o che riveli un coinvolgimento, al di là della strana raccomandazione contenuta nella prima, in risposta evidentemente alla richiesta di Nicolò di potergli scrivere ancora, di spedirgli la corrispondenza all'indirizzo che gli fornisce, indicando il nome del destinatario ma evitando di dire che fu podestà a Vicenza (4.12.1613). Acclusa alla terza, del 6 febbraio 1613 more veneto (cioè 1614), invia dieci ungari per liberare il notaio di prigione, rimproverandolo che dei suoi guai non può che biasimare se stesso. Appena libero lo consiglia di raggiungere Venezia “che si torà la fiola per li mesi quattro et mi consiglierete delle cose vostre”. Una lettera indirizzata a Florinda comunica la disponibilità a riceverla a Venezia con il marito o la massara il 26 febbraio. Zen invia altro denaro il 5 marzo. A tali brevi e generiche comunicazioni seguono, ben più lunghe ed articolate, due lettere scritte dopo l'avvenuta convocazione di Nicolò. Il 14 marzo l'aristocratico veneziano dapprima si duole dell'ulteriore disagio provocato da un fatto accaduto in Duomo a Florinda (che non conosciamo, ma che immaginiamo ancora una volta clamoroso); dichiara candidamente di non aver provveduto a scrivere le lettere richiestegli perché vuole essere più documentato ed infine raccomanda il silenzio sulle vicende che riguardano Ardemia, promettendo in cambio vari favori, fra i quali l'aiuto per un trasferimento della famiglia di Nicolò a Venezia, vista l'aria irrespirabile che tira per i suoi componenti a Vicenza. Evidentemente incalzato dal montare dell'ansia di Nicolò il 22 e 23 marzo l'ex podestà scrive l'ultima lettera. Egli ha parlato ad un notaio vicentino presente a Venezia che solleciterà il collegio a non molestarlo, considerato anche che i notai di Vicenza hanno in quei frangenti di tempo bisogno di appoggi a Venezia61. Ha fatto intervenire in suo favore anche il cancelliere ed un altro personaggio, Fabio Mosto, al fine di indurre Orazio Scroffa, con pressioni a suo nome, a desistere dal perseguitarlo. Si potrebbe di primo acchito pensare che Nicolò intenda condizionare il giudizio a suo carico con l'esibire il rapporto clientelare che intrattiene con il nobile veneziano, ed il contenuto delle ultime lettere effettivamente fa intendere che egli in tale direzione si 61 Toccheremo più avanti il complesso problema dei rapporti conflittuali tra Comunità e Collegio; basti dire che in quel torno di anni vengono combattute decisive battaglie in materia di riforma del Collegio, di gestione burocratica degli uffici e di archivio delle scritture, di riconoscimenti di esclusività ai notai di Veneta autorità contro i notai imperiali, di rappresentatività e prestigio sociale del Collegio nei confronti del resto dell'aristocrazia cittadina. 40 fosse inizialmente mosso, ma in seguito alla confessione sappiamo quanto ben diversamente stiano le cose. Il suo scopo, dopo essersi amaramente lamentato dell'ipocrisia di chi credeva lo proteggesse, sembra essere quello di dimostrare un rapporto esclusivo tradito, che la sua sensibilità fa apparire il punto decisivo, anche se non si colgono mai elementi escludenti le altre figure che egli è accusato di aver frequentato nei suoi “inhonesti” traffici. Nonostante lo stesso Nicolò giunga infine a dire esplicitamente che proprio nella figura dell'ex rettore egli identifica il più subdolo dei suoi nemici, va fin d'ora sottolineato che la marea monta contro di lui dopo che Zuanne Zen, da podestà di Vicenza, è ritornato ad essere un lontano patrizio veneto le cui relazioni a Venezia ed a Vicenza non paiono spaventare i giudici. I presidenti sembrano infatti avvertire che molto difficilmente una qualsiasi azione sarà messa in atto a difesa dell'inquisito. Nicolò Del Buso verrà quindi senza remore giudicato con la massima severità: la pena comminatagli sarà la cancellazione perpetua dalla matricola. Il suo nome viene depennato il 27 marzo del 1614 e, ironia della sorte o cinismo dei tempi, è sostituito da Pietro del fu Battista da Mosto, forse un parente del notaio indicato nell'ultima lettera dello Zen come fedele peroratore della sua causa. Quasi cinque anni dopo, continuando a proclamarsi innocente vittima di “paliate insidie” subite da chi credeva amico al tempo in cui la malattia gli impediva di difendersi e rendendo noto di essere riuscito a ristabilire l'onore della “sfortunata sua casa”, presentava una supplica al fine di essere reiscritto in matricola. La continua minaccia alla pace domestica portata da Florinda, terribile moglie, era finita con la morte ed egli aveva onorevolmente sposato due figlie mentre una terza era stata collocata nelle Zitelle. Incidentalmente si ricorderà che le figlie dovevano essere quattro. Se la supplica fosse stata accolta, come egli rammentava essere già in passato avvenuto con altri, egli avrebbe potuto mandare a scuola di notariato i suoi due figli e risollevare il proprio animo nei pochi anni che gli restavano da vivere. Il 20 dicembre 1618 la richiesta sarebbe stata respinta. 3. Rigoletto-Tribaudet62 è un personaggio romantico a tutto tondo: gobbo e informe, ma forte della pretesa protezione del duca di Mantova (Hugo ambienta il suo dramma nella Parigi del licenzioso Francesco I, ma i suoi strali si rivolgono contro Luigi Filippo, il re borghese). Il più vile fra vili, forte con i deboli e debole con i forti, approfitta del suo ruolo di buffone per beffeggiare i cortigiani caduti in disgrazia. Ciò fino a che lui stesso non subisce l'atroce scorno della profanazione della figlia da parte del duca ed il 62 Tribaudet è l'alter ego di Rigoletto (1851) nel dramma di Victor Hugo Le roi s'amuse (1832), che ne è la fonte. 41 tragico ritorcersi della sua vendetta contro l'affetto che gli è più caro. La vicenda è stata immaginata da Hugo in una corte rinascimentale, luogo immaginifico di cinismo ed intrighi. Certo si esagererebbe a dire che Nicolò Del Buso è un personaggio storico, tenuto conto del peso di un simile aggettivo63. Lo accomuna al buffone reso immortale dalle arie verdiane l'aspetto fisico, con tutta la carica simbolica che la società preindustriale attribuiva alle gobbe e ad altri scherzi di natura, ed il fatto di cadere per essere entrato nelle mire del potente di turno a causa di una figlia che ne alimenta gli appetiti carnali. Ma il duca di Rigoletto deve pagare con la vita l'offesa perché il gobbo è un personaggio che può permettersi di progettare la terribile ritorsione: la sua idea di onore è anacronisticamente cavalleresca. La vendetta di Nicolò si consuma davanti ai suoi giudici ed è tutta racchiusa nello sfogo con cui definisce il podestà un “pover'huomo” che non mantiene le promesse, che trama alle spalle di chi gli si crede amico e che quindi non ha onore. Alla rabbia istintiva che lo spinge a sparargli la notte della chiassata segue il terrore della vendetta e la conseguente ricerca di una conciliazione. Ottenutala, si vede tornare all'umiliante situazione precedente credendo che il podestà sia sincero quando dà a vedere di aver dimenticato. Egli non sarà mai un cortigiano, posizione a cui si può immaginare aspiri per esercitare quello che la nostra sensibilità fa definire il suo cinismo a più ampio raggio. Come Rigoletto-Tribaudet, egli è il topo con cui il gatto gioca. Di ciò un uomo accorto dovrebbe essere avvertito. – O questa o quella per me pari sono – canta ben prima che si consumi il dramma il duca di Mantova: il vedovo Rigoletto ne è consapevole e tiene nascosta la figlia, Nicolò fa credere di essere vittima delle avverse circostanze e di una moglie terribile. L'epilogo delle due vicende si potrebbe sovrapporre, solo nell'alto registro drammatico del padre che abbraccia straziato il corpo senza vita della figlia da lui stesso involontariamente fatta uccidere, torna in Rigoletto l'intensità lirica che un Nicolò povero ed abbandonato, con una figlia prossima al parto, non può raggiungere. Contrariamente all'odio cieco di Rigoletto, il risentimento di Nicolò ci sa mostrare il re nudo, facendolo scendere dalle altezze siderali che dovrebbero renderlo inattingibile. L'abbigliamento di Zuanne Zen non solo non ne costituisce lo scudo maiestatico, ma anzi ne amplifica la modestia umana. La mula è perduta nella fuga notturna, ed il nobile veneziano fugge scalzo alle archibugiate del notaio; il rosso dell'abito che lo distingue è travisato dalla romana di ermellino che lo copre, e Nicolò dimostra di non riconoscerlo quando compare per la prima volta in casa sua. Florinda fatta sedere al suo fianco e quasi abbracciata nell'udienza pubblica in cui la donna perora la liberazione del marito divengono eloquenti esempi di pochezza. Zen è un pover'uomo che scrocca i pasti, che 63 Lo sono Francesco I e Federico Borromeo, ma lo è Fiore Bertola (alias Lucia Mondella) che coraggiosamente denuncia le violenze di Paolo Orgiano? 42 promette e non mantiene e che subito agisce in modo abbietto per liberarsi dalle proprie responsabilità, che nelle lettere promette favori in cambio di omertà ... Confesso che non ho fatto molto per verificare il giudizio della pretesa vittima. Gli Zen discendevano direttamente da Noè (come tutti noi, qualcuno sarebbe tentato di suggerire maliziosamente al genealogista); giunta in Italia con Enea, la famiglia era stata una delle consolari a Roma. Fra i molti presenti a Venezia il suo ramo, Dai crocichieri, aveva avuto come capostipite Antonio a San Faustin (1384), Zuanne era nato da Zuan Franco nel 1571, aveva quindi tre anni meno di Nicolò. Nel 1599 si era sposato con Marietta Zorzi e nel 1606 gli era morto il padre. Dopo l'incarico a Vicenza avrebbe raggiunto l'apice della carriera con la podestaria di Verona e sarebbe morto a soli 55 anni, nel marzo del 1626. Nella genealogia da cui cito gli sono attribuiti tre figli maschi chiamati il primo naturalmente Zuan Franco come il padre (nato nel 1605) e gli altri due Vincenzo (1614-1659) e Nicolò (nato probabilmente nel 1623). Il primo ed il terzo sarebbero morti in guerra nel 1644 e nel 1646, Vincenzo avrebbe garantito alla famiglia un'ultima generazione che si sarebbe estinta, paradossi del destino, con Nicolò (1658-1707). Va sottolineato come nella linea dell'albero genealogico ascendente da Zuanne appaia un Vincenzo, ma nessun Nicolò, la cui origine può essere tuttavia riferita al nome del suocero. A Venezia sono conservati 19 dispacci di Zuanne ai capi del Consiglio dei Dieci dettati nel periodo in cui fu podestà a Vicenza. Null'altro che l'ordinaria apprensione per l'audacia di sanguinosi banditi e le conseguenti azioni messe in campo per reprimerli vi emerge. Fra gli inquisiti si leggono i nomi di Roberto ed Antonio Della Volpe, di Orazio e Leonardo Zugliano, famiglie entrambe che compaiono ripetutamente nella nostra storia, vi emerge infine molto chiaramente la tensione tra l'autorità della capitale ed il consiglio di Vicenza. Il notaio vicentino ad un certo punto si fa convinto che, a causa di quanto ha dovuto accettare, può contare sulla complicità del podestà. E soprattutto crede di poter approfittare di ciò per accelerare la propria scalata sociale. In realtà la condivisione di responsabilità nella deflorazione di Ardemia, che lo Zen allarga ai suoi ufficiali, va chiaramente nella direzione di allontanarlo da un troppo stretto rapporto col notaio. Il rettore veneziano accetta di coprirne fino ad un certo segno le illegalità e lo ricompensa anche per sanzionarne simbolicamente la subalternità. Forse è la sua ostentata, ancorché falsa, bonomia ad ingannare. Nicolò gli si affida per non poter rispondere onorevolmente alle offese subite dalla figlia, ma con l'andar del tempo ha l'ardire di sollecitare il mantenimento delle promesse di dote, arrivando persino a sparargli contro: cose che un aristocratico non può dimenticare prima di essersi vendicato. Nicolò dovrebbe ben sapere che nelle ipotesi più fortunate la scalata sociale dura diverse generazioni, attraverso le quali anche le più elevate qualità personali non possono non interagire con la solidarietà familiare, il gioco delle alleanze matrimoniali, 43 la fortuna economica, l'ascesa negli studi, le congiunture demografiche e quant'altro: tutti elementi che devono tendere costantemente nella medesima direzione. Il singolo che si illudesse di accorciare il percorso, quali che fossero gli stratagemmi messi in campo, sarebbe quasi certamente destinato al più amaro dei fallimenti. Con lo scorno di essere, per un certo tempo, lo zimbello del re. Ecco infatti l'elemento che accomuna più degli altri le due storie mentre si svolgono: in entrambe ciò che è fondamentale è che Il re si diverte. Non ha molto rilievo sapere se Nicolò nel suo costituto sia sincero, se cioè la storia che si è fin qui raccontata abbia corrisposto alla confessione del notaio, ma l'ipotesi formulata a conclusione di questa prima parte, che egli cioè abbia agito in modo grossolano per migliorare il proprio status individuale, va verificata attentamente. Esistevano dei gruppi antagonisti, per esempio, all'interno del collegio dei notai? Come si erano mossi i parenti e gli antichi alleati di Nicolò nella circostanza? Quali erano state le vicende precedenti che avevano spinto Nicolò ad osare così audacemente o, se vogliamo, a rischiare così sconsideratamente? 44 Seconda parte: invenzioni. (Un piccolo notaio veneto del Seicento) Perché non le basta raccontare? Sempre che lei abbia in mano una storia, si capisce. Ci vuole una storia per fare una storia, ... ho letto da qualche parte che “raccogliere casi di delitti e brutture e malanni e viltà e stoltezze e follie non significa intendere la verità storica di un'età; tanto è vero che simili raccolte si possono mettere insieme, dal più al meno, per tutte le età e sempre si atteggiano a storia”1. 1 G. CORAZZOL, Cineografo, cit., p. 254, mette in bocca il passo al titolato criminologo G. Giavani Abbate. Il virgolettato è tratto da B. CROCE, Storia dell'età barocca in Italia, Bari 1929, p. 154. 45 Capitolo 1 Dura lex, sed lex 1. Le accuse rivolte al notaio vicentino sono funzionali alla dimostrazione della sua infamia, e quindi alla giustificazione della pena che gli viene inflitta dall'organo di autodisciplina del collegio, ma molti degli atti che lui stesso non nega di aver compiuto si configurano come reati per i quali gli statuti cittadini e le leggi della Repubblica prevedevano pene molto severe, fino alla morte. La detenzione di armi proibite e lo sparo notturno, la gestione del ridotto a scopo di lucro, l'ospitalità data a banditi con cui giustifica gli spari al podestà, il furto con l'aggravante della fides di pubblico ufficiale che lo qualifica come crimen lesae maiestatis e il favoreggiamento dell'adulterio se non addirittura il ruffianezzo, potrebbero costituire il greve carico penale di Nicolò. Le leggi della Repubblica perseguivano lo “scelerato, vituperoso” marito che, fingendo di non vedere e non affrontando l'avversario, avesse di fatto favorito la propria moglie adultera, che infine non la avesse costretta a desistere o ripudiata. Chi si rendeva responsabile di tali atti od omissioni doveva subire quantomeno la condanna al bando. Ma molto più avrebbe dovuto essere punito il reo se, dal commercio della moglie, gli fosse derivato un guadagno o “qualche commodo”, nel qual caso sarebbe stato assimilabile al ruffiano2. Tre elementi concorrevano all'epoca a definire il reato di ruffianezzo: che il reo avesse convinto una donna al meretricio, che ne ricevesse di che vivere ed infine che l'avesse indotta all'atto sessuale con promesse o regali. Un simile comportamento veniva stigmatizzato anche quale matrice di adulteri, fornicazioni, incesti, ratti, deflorazioni e sodomia. Alla fine del Cinquecento i ruffiani erano puniti con frustate e beffeggiamenti pubblici. Le pene accessorie, comminate ad arbitrio del giudice, dovevano tener conto del fatto (ben più grave sarebbe stato il caso di una vergine deflorata, o una maritata che fosse stata indotta a commettere adulterio, o una parente o religiosa che avesse dovuto subire incesto o sodomia) e della qualità di chi lo aveva commesso; frase neanche tanto sibillina che conclude spesso la definizione delle pene da assegnare ai rei, e che in buona sostanza invita il giudice, se ve ne fosse stato bisogno, a distinguere fra nobili e plebei, tra ricchi e poveri, tra istruiti ed ignoranti, tra animi elevati e grezzi: insomma, tra il ceto di chi le leggi le faceva e gli altri. L'ufficiale che si appropriava del denaro pubblico con frode commetteva, allora come oggi, peculato. Era condannato a morte ed alla restituzione del maltolto, aumentato di un L. PRIORI, Prattica criminale, cit., p. 179. Ma se l’adulterio non fosse manifesto et palese, di modo che il marito potesse con prudenza difendere et coprire il difetto della moglie, i vitij della qual è obligato per ragion di natura tenere secreti et occulti, in tal caso non può esser punito d’alcuna permissione se non quando gli inditij fossero stimati chiari et manifesti, et all’hora come di delitto publico et manifesto deve il marito per evitar la pena consegliarsi o col giudice o con dottori se deve o non deve accusar l’adulterio, secondo il qual conseglio reggersi et governarsi. 2 46 quarto. Veniva escluso dalla grazia di liberazione ed assoluzione come condannato per “vituperoso et infame” crimine di lesa maestà e di falso3. Abbiamo già visto quanto fosse moralmente riprovato lo spingere i giovani alla rovina nel gioco. Il cancelliere Lorenzo Priori, proprio in quel torno di tempo, lo definiva “cosa illecita et inhonesta, causa che molti ricchi et ben nasciuti divengono in estrema povertà. Quelli che sono di mente cattolica diventano d’un senso reprobo et bestemmiatori, di giusti et fedeli s’inducono atti alli furti et alle rapine”4. Nicolò attribuisce ad un cognato bandito gli spari all'indirizzo del podestà e del suo seguito e lo fa, così dice ai presidenti, per scarico di responsabilità agli occhi del nobile veneziano, ma forse lo fa anche sapendo quanto severa sia la pena che colpisce chi scarica un archibugio, “arma prohibita et odiosissima per molte leggi”, contro un altro, anche non ferendolo (la nostra fattispecie): la morte per impiccagione e la confisca dei beni, salve le possibili aggravanti del caso in questione, dove l'offesa è arrecata ad un ministro del principe, e quindi al principe stesso5. 2. Se Nicolò abbia dovuto percorrere anche la via crucis dei possibili procedimenti penali a suo carico non ci è dato sapere, non essendo conservato l'archivio del Consolato né le raspe delle sentenze per il periodo. Le fonti ci offrono notizie circa un suo arresto e detenzione a causa del debito di 50 ducati che ha dato inizio al racconto, ma ben più serie sarebbero le imputazioni che si sono qui sopra elencate. Dalla supplica che chiude il fascicolo processuale sappiamo che nel 1618 egli poteva permettersi di chiedere la reiscrizione nella matricola dei notai dopo aver sostenuto una vita civile che lo aveva, a suo dire, riabilitato agli occhi dei suoi concittadini. Si può pertanto presumere che egli non sia mai stato chiamato a rispondere dei reati commessi. Ma la sua testimonianza funge da spia su che cosa egli intendeva fosse non tanto grave in un'accezione 3 L. PRIORI, Prattica criminale, cit., p. 217: Vituperoso et infame è quel furto che si commette nel danaro del prencipe, male usandolo et convertendolo in uso proprio, o falsamente scrivendo partite ne i libri o non scrivesse [sic] quello havesse ricevuto ... Li delinquenti sono puniti a pena capitale di delitto chiamato peculiatus, ch’è colpa di chi ha robbato il danaro publico (il corsivo posto all'inizio della citazione è mio). 4 Il gioco delle carte è proibito perciò dalle leggi 18.12.1452, 31.8.1457 e 16.8.1458: i contravventori sono puniti con sei mesi di carcere, il bando e 100 ducati di ammenda; dal 1458 il giudice ha discrezionalità nella punizione se le puntate non superano i 5 ducati. Le leggi si applicano in tutto lo Stato, a maggior pena vanno puniti i bari e quelli che tengono nelle proprie case “redotto ... servendo di carte” per essere questi ultimi la causa prima di bestemmie e scandali. L. PRIORI, Prattica criminale, cit. pp. 204-205. Negli statuti vicentini del 1264 era stata inserita una specifica rubrica dal titolo De biscaciis non tenendis che recitava inequivocabilmente: item nemini de civitate vel eius suburbis liceat tenere biscatiam in domo sua vel aliena, vel ad biscaciam in domo sua prestare, vel aliena, con pena di 20 lire o bando fino ad avvenuto pagamento. L'ammenda era devoluta per metà all'accusatore. 5 Lo scudo maiestatico estende la natura del reato di lesa maestà anche a chi attentasse ai ministri del principe: M. SBRICCOLI, Crimen lesae maiestatis. Il problema del reato politico alle soglie della scienza penalistica moderna. Milano 1974, pp. 60 e passim. 47 genericamente morale, quanto pericoloso per sé, nella gestione della battaglia quotidiana per l'esistenza. - Egli non ha turbamenti nel disobbedire ai presidenti che un anno prima lo avevano ammonito affinché fosse più discreto con il ridotto. Suggerendogli di evitare assembramenti notturni al portone di un nobile, per mezzo di un accesso secondario, credo agissero considerando il fatto che il podestà figurava proteggere il piccolo notaio. La bisca viene chiusa per impedire al podestà di entrarvi e in secondo luogo per paura delle sicure conseguenze di un simile atto (“quando non havessi havuto paura della Giustitia”, dirà significativamente poi6). - Una volta cautelatosi con le 70 lire date al contestabile, egli può facilmente presumere che guadagnare denaro dalla bisca non abbia conseguenze penali. Sa di certo che una simile attività lo disonora, ma egli non sembra curarsi della sua reputazione. Può illudersi di continuare ad essere coperto dalla protezione del podestà precedente anche quando sarà qualcun altro ad incarnare la “Giustitia” in città, ma questo non ha nulla a che vedere con l'onore. E allora, a meno che i testimoni non siano tutti falsi e concordi nel volerlo diffamare, come spiegare il perché non si preoccupi di dissimulare la sua presenza nello stanzone affittato a Carlo Della Volpe? Egli, come vedremo, dopo che ha visto diminuire fortemente le proprie rendite agrarie, vive essenzialmente degli introiti che gli derivano dall'esercizio degli uffici di Palazzo7. Come può permettersi di rischiare, con la messa al bando dalla propria corporazione, la perdita di un simile privilegio? È perché ha fiducia nella protezione datagli dal nome della sua famiglia, che da oltre un secolo ricopre con altri suoi membri cariche di collegio ed uffici? Ma questo non determina uno slittamento da un modesto, ma onorevole e tutto sommato redditizio ruolo civile, ad una condizione di incerta subalternità? È plausibile che egli creda di conservare l'onore lasciando la città natale per Venezia o per seguire Zuanne Zen a Treviso, dopo che proprio a Vicenza, trasferendosi da un borgo al centro, passando da una dimora modesta ad un palazzo, aveva cominciato a percorrere i gradi di un'ascesa che gli poteva certamente sembrare rapida e sicura? 6 ASVI, CN, vol. 272, c. 602v. Ippolito Nievo ha schizzato in poche righe l'idea dell'amministrazione della giustizia nel Friuli veneziano per cui “...in generale quello era il regno dei furbi; e soltanto colla furberia il minuto popolo trovava il bandolo di riscattarsi delle sofferte prepotenze. ... l'astuzia degli amministrati faceva l'ufficio dell'equitas nel diritto romano [vale a dire lo spirito della legge che dà spazio all'indulgenza]. L'ingordigia e l'alterezza degli officiali e dei rispettivi padroni segnavano i confini dello strictum ius [vale a dire la sua applicazione rigorosamente letterale] ”. I. NIEVO, Le confessioni, cit., p. 23. 7 Nicolò non ci ha lasciato rogiti privati. Di molti notai sono stati perduti gli archivi dell'attività professionale privata, e Nicolò potrebbe essere uno di questi, tuttavia erano molti quelli che si limitavano ad esercitare i pubblici uffici, altri erano notai solo in quanto iscritti in modula ma non esercitavano alcuna attività, lucrando sull'affitto degli uffici cui erano estratti e su molteplici altre entrate extra professionali. Quest'ultimo sembra essere il nostro caso, stante il carattere di episodicità dell'impiego pubblico confermato dalla sua testimonianza. Che le entrate diverse fossero lecite ed onorevoli costituisce uno dei punti focali della vicenda che esaminiamo. 48 3. Una prima chiave per capirne i disegni sta nella ingenua ammissione del fatto che il podestà aveva già conosciuto sua figlia quando viveva a San Silvestro nella casa avita. Se attribuiamo il giusto senso al verbo conoscere e diamo credito al fatto che in occasione del funesto incontro fra Zuanne Zen e Florinda il primo non l'avesse mai vista, possiamo azzardare una scelta di rottura dalla società vicentina che spiega il suo disprezzo per le convenzioni sociali: il sacrificio di Ardemia gli deve valere favore e protezione illimitata. È dopo aver perso l'onore della figlia che Nicolò affitta l’edificio dei Proti, dove i suoi parenti non lo seguiranno (e dove, va sottolineata la circostanza, prima abitava il giudice del maleficio), che gestisce il ridotto, che sprezza i vecchi presidenti, che ruba i 50 ducati, la goccia che fa traboccare un bicchiere troppo ostentato e che al podestà forse cominciava a creare qualche fastidioso imbarazzo. Varrà allora la pena di cercare di cogliere il perché il nostro protagonista paia non considerare il proprio ambiente cominciando dai centri di potere a lui più prossimi: la famiglia e la professione. - Probabilmente gli è nota la pena per chi spara archibugiate, ma con i suoi giudici non tenta nemmeno di far valere la frottola che crede lo abbia scagionato agli occhi dello Zen. Che voglia solo dare una prova di mascolina risolutezza e di virile orgoglio? Certamente il giudizio sul suo senso dell'onore personale e familiare ne risulterebbe in parte riscattato, ma troppe sono le circostanze che pesano sulla sua infamia per pensare che egli, nonostante la povertà di altri argomenti, speri tanto. - Con le ipotesi di reato connesse allo sfruttamento, o quantomeno al favoreggiamento dell'adulterio (con sospetto di meretricio), di due donne della sua famiglia, si entra in quello che per Nicolò è il terreno di maggior infamia, il più difficile da percorrere di fronte agli uomini che lo giudicano. Non rischia bandi, confische, internamenti, ma è qui che spende la maggior parte delle energie per difendersi. Ciò naturalmente ci offre il senso della scala di valori che lo sovrasta. Quando è costretto ad ammettere il “commercio” di figlia e moglie, giustifica se stesso per la prima con la sovrastante, incontrastabile potenza dello Zen, per la seconda con la terribilità di una donna che, non è il caso di dubitarne, indossava con molta fatica la veste di moglie remissiva e fedele di un uomo certo poco avvenente e che, soprattutto, godeva di così scarsa fortuna e considerazione. 49 Capitolo 2 Donne 1. Lo stupro volontario, quello cioè commesso con il consenso della donna, era condannato con l'obbligo al matrimonio o alla dotazione della vittima di onesta vita; il violento con la morte del reo. Il punto nodale di tutta la criminalistica sta quindi nell'attestazione dell'onestà della vittima. Figlia, vedova o sposa, la donna deve condurre una vita onorata, screditarne la condotta può voler dire per il violentatore liberarsi dalle responsabilità. Tanto più la donna è povera, quanto più il proprio onore si basa sull'attestazione pubblica della castità sessuale. Naturalmente la perdita di onore della donna sposata coinvolge il vilipendio al nome del marito, quello della figlia scredita il padre, ma solo se la condizione sociale di questi gliene attribuisce uno di significativo. Ecco perché nel 1644 un curato di Campo, nel feltrino, consigliava al parrocchiano che gli esponeva le proprie angustie per non poter dotare decentemente una figlia, di darla per qualche mese “in mano di qualcheduno a goderla, acciò quel tale le desse la dote”, poiché in paese lo facevano tutti. Alle rimostranze dell'uomo replicava seccato che l'onore di un povero “era poca cosa”. Per gli strati sociali più bassi esiste quindi un'evidente contraddizione tra l'onore femminile e quello familiare. Una contraddizione che è subita generalmente con fatalismo. Il consenso, la perdita della verginità precedente la violenza, sono troppo facili, ed il contrario difficile da provare per essere un ostacolo ai potenti. L’ipotetica perdita di onore che subisce la famiglia della vittima è metabolizzata quando esistono dei meccanismi compensativi di patronato. Nel gioco di tali meccanismi rientra a pieno titolo la sessualità delle donne sottoposte tanto che, se compiutamente attivati, risolvono alla radice i possibili conflitti . Consolidando le distanze sociali, stanno alla base di rapporti gerarchici per i quali è del tutto esclusa l’offesa (Nicolò si “mette nelle mani” del podestà ed accetta la promessa di dote). La famiglia della giovane violentata si ribella solamente se mutano i rapporti di forza o se un pur minimo risarcimento viene negato (Nicolò spara al podestà). Il mancato indennizzo che sarebbe valso a dotare la vittima, nel contesto più generale della crisi dei lignaggi aristocratici della terraferma veneta, scatena il desiderio di rivalsa e di tali dinamiche anche il caso più volte citato di Paolo Orgiano è prova eloquente. Una vicenda che vide coinvolto un secondo Del Buso ce ne offre un'altra lineare testimonianza. Nell'agosto del 1572 Girolamo di Silvestro (cugino di Andronico) e suo nipote Silvestro vengono banditi per aver rapito, sequestrato, e Girolamo anche violentato, la quindicenne Sebastiana Martini da Zovencedo, ex serva di Girolamo. La ragazza, per sfuggire alle attenzioni del padrone, già si era allontanata dalla casa di San Germano del Del Buso. La sentenza è prodiga di particolari nel mostrare quanto il comportamento di Girolamo fosse, a dir poco, sopra le righe. L'uomo continuava ad attentare alla verginità della ragazza mentre era in casa sua. 50 Non volendo consentire, nell'aprile del 1572 Sebastiana era riuscita ad ottenere licenza di trasferirsi ad abitare nel vicino villaggio di Pozzolo presso una parente. Qualche giorno dopo il trasferimento le due donne erano state viste da Girolamo ad invenendum bruscandolos presso un canale vicino a casa sua. Il fallimento virile, che poteva essere giustificato dalla fuga della ragazza, cadeva se la stessa si faceva vedere ancora nei paraggi. Immagino che quei bruscandoli [erbe selvatiche commestibili] potessero essere visti dal nobile vicentino come un pretesto per provocarne l'orgoglio. Armatosi, e convinto il nipote a seguirlo, si era recato sul posto. Quindi, senza rispetto per la giustizia e nemico del genere umano (così recita la sentenza), aveva rapito la giovane che urlava e implorava pietà. Condottala in casa le aveva legato le mani dietro la schiena e le aveva poi assicurato i piedi ad una lettiera del granaio con una catena. I vicini avevano testimoniato che le urla disperate della ragazza erano continuate per tutto il giorno. L'indomani Girolamo le aveva tolto la verginità, ma non le catene. Il giorno successivo alcuni parenti della ragazza, venuti a chiederne notizia, si erano sentiti rispondere che la giovane non era in casa, salvo essere immediatamente avvertiti della menzogna dalle urla provenienti dall'interno. Girolamo si era visto costretto a liberarla e restituirla al cognato che in seguito avrebbe denunciato il vilipendio alla ragazza e la vergogna per la sua famiglia. La sentenza di bando pronunciata contro Girolamo, contumace come il nipote, era stata pesante: 15 anni di esilio dal territorio vicentino e bassanese comprese le 3 miglia oltre i confini e 50 ducati da dare a Sebastiana, mentre due anni di bando avrebbe dovuto scontare il nipote. Chiunque avrebbe potuto offenderli nella persona e nelle cose senza subirne conseguenze e se Girolamo fosse stato catturato avrebbe dovuto scontare un anno di carcere, per poi ricominciare con il periodo di bando. Il 3 gennaio dell'anno successivo i due si presentavano ai giudici e Girolamo, assolto dall'asserta deflorazione, era condannato per gli altri eccessi a 50 lire di ammenda ed a dare alla ragazza 100 lire (poco più di 16 ducati) al tempo delle nozze. Mentre Silvestro se ne usciva assolto, la pena pecuniaria di Girolamo era più che dimezzata ed egli, cosa ben più importante, poteva tornarsene a casa libero dal bando8. Tutto era fatto rientrare nella norma e non sussistevano ostacoli alla reintegrazione sociale del padrone. Si può immaginare che prima della denuncia vi sia stato fra le parti un fallito tentativo di conciliazione. Usando il cinismo (o per meglio dire il realismo) del parroco di Campo feltrino, potremmo supporre che, una volta sistemata la scabrosità del processo, il concubinato ancillare possa essere stato accettato anche dalla famiglia della giovane almeno fino alle sue nozze. In ogni caso il legato di 12 staia di frumento, 2 staia di legna, 2 mastelli di vino all'anno per sei anni, più tutti i vestiti che avesse posseduti alla sua morte, che nel proprio testamento del 1588 Girolamo assegnava alla serva 8 ASVI, AT, b. 1137, cc. 5, 34. 51 Margherita, fa supporre che l'uomo avesse in seguito trovato una donna più remissiva ad accompagnarlo nella vedovile vecchiezza9. Ben diverso era il discorso per la famiglia civile. Se l'onore qualificava lo stato sociale, due erano i valori che dovevano contraddistinguerlo indefettibilmente: la purezza del sangue ed il nome. La prima discendeva unicamente dal comportamento sessuale della donna, il secondo, al quale l'altro era necessario presupposto, si manifestava con il coraggio, la virilità, l'orgoglio10. Va da sé che se uno è premessa all'altro, l'uno sussiste esclusivamente in presenza dell'altro: se Nicolò esce dallo stereotipo dell'uomo virile, anche Florinda tradisce il ruolo di moglie remissiva e di madre accorta. E ciò non può che determinare la caduta della famiglia. “Il gesto eroico della donna è il tradimento: la sua efficacia sugli eventi non è minore di quella dell'uccisione di mostri”. Nel tradimento, la traditrice compie un'opera civilizzatrice, sopprime la propria origine e distacca la propria vita dal suo contesto naturale. Il tradimento femminile si avvolge su se stesso, rinnega continuamente ciò che è dato, è una negazione che si configura come un opporsi a se stessi, “in un gioco che può esaltare e distruggere, e generalmente esalta e distrugge”11. Il tradimento dei valori e dei ruoli, dei propri uomini-padroni, può essere quindi anche ribellione. In un memoriale del Seicento con cui richiedevano la protezione e l'autorità giudiziale esclusiva del Consiglio dei Dieci, i notai collegiati di Vicenza dimostravano di saperlo bene. La registrazione dei matrimoni degli appartenenti alla corporazione e l'iscrizione dei neonati nel liber nativitatum vi era giustificata proprio con la necessità di verificare la legittimità della discendenza ed honestà delle donne, che si ricevono in mogli: ben discernendo che come il vitio trova più seguaci che la virtù, così i figlioli potessero più lubricamente degenerare, quando siano nati ed educati da madri d'inhonesta condittione, e di animo che, non geloso della reputazione, può anche non arrossire dell'indegnità, la quale se l'introduce o nei costumi o nelle cogiontioni, anderà senza dubbio serpendo e giongerà a contaminare quella fedeltà e sincerità, che tanto necessaria si rende nelle materie criminali, nei registri delle carte e dei giuditii che sortiscono nel forro contenzioso12. 9 ASVI, N, b. 7414, c. 70v, 25.8.1588. Girolamo non menziona la moglie Giustina Rinaldi Della Zucca, di famiglia notarile di Grancona, da cui non aveva avuto figli sopravviventigli e che era evidentemente già morta. Chiedeva di essere sepolto nel cimitero di San Germano presso i suoi antenati, dotava con 400 ducati la nipote Arcisa che viveva con lui e con 200 l'altra nipote Marietta, entrambe figlie del fratello defunto Stefano. Inseriva poi il consistente legato alla serva da eseguire “absque ulla contradicione ... et hoc est per magna servitute multis annis facta per dictam Malgaritam in domo dicti testatoris”. Erede universale nominava Silvestro di Stefano, il nipote complice del 1572, che sarà già morto nel 1590. 10 Il prete di Campo è citato da G. CORAZZOL, Cineografo, cit., p. 141. Sull'onore femminile ed il suo intimo rapporto con la condizione sociale C. POVOLO, L'intrigo, cit. p. 356-362. 11 R. CALASSO, Le nozze di cadmo e Armonia, Milano 19956, p. 86. Arianna rovina Creta, Antiope muore combattendo contro le Amazzoni sue suddite, Elena guida al tramonto gli eroi che ha amato, Medea abbandona il paese della magia e giunge in quello della legge, Antigone tradisce le leggi della sua città. 12 BISAZZA, Notai tristi, cit., p. 9, n. 12 52 2. Florinda è una Verlato, di antica famiglia comitale che, se pure con ogni probabilità appartenente ad un ramo impoverito, ha parentela ben più ampia e prestigiosa di quella notarile dei Del Buso13. La sorella Ortensia aveva sposato Vincenzo Colzè che nel suo testamento del 1605, oltre ad assegnargli il lucro di metà della dote, nominava erede universale. Dal canto suo Vincenzo aveva dato in moglie la sorella Alteria a Cesare Del Buso, fratello maggiore di Nicolò, chiudendo così un triangolo di rapporti familiari che comincia ad illustrare le complesse dinamiche matrimoniali dei diversi ceti e su cui avremo modo di ritornare. Altre donne della Casa erano state destinate a matrimoni più prestigiosi: Atalanta Verlato era entrata nella famiglia Valmarana sposando Massimiliano, figlio di Leonoro, principe dell'Accademia Olimpica nel 1585, ed avrà l'onore di vedersi dedicato il Giudizio di Paride dal letterato vicentino Strozzi Cicogna (1617); Anna, nella seconda metà del Cinquecento, aveva imparentato i Verlato con i conti Sesso che potevano vantarsi di aver ospitato a Sandrigo, nel 1532, l'imperatore Carlo V14. Se pure il Concilio di Trento aveva confermato la libertà della scelta matrimoniale, imponendo il sincero consenso degli interessati, ciò non era che in minima parte compatibile con l'insieme dei meccanismi di successione e trasmissione patrimoniale connessi al contratto dotale, e che riducevano di fatto la donna ad una merce di scambio funzionale a superiori necessità familiari. Ciononostante, come è stato verificato in non pochi altri casi15, il tradimento di Florinda rompe gli schemi, basati essenzialmente su fonti legislative, che vedono le donne culturalmente e giuridicamente succubi dei maschi delle proprie famiglie, e destinate ad interpretare un ruolo costretto entro le mura 13 Purtroppo non ho rintracciato il contratto dotale di Florinda e Nicolò. Il matrimonio credo sia avvenuto nel 1595. Il padre di lei, Vincenzo, era forse lo zio materno della poetessa Maddalena Campiglia cit. in G. MANTESE, Memorie storiche, p. 843. Quest'ultima si era a sua volta sposata e poi presto separata con Dionisio Colzè, ricordava risentita nel proprio testamento. D. SARTORI, Maddalena Campiglia e la “scrittura al femminile”, «L'Illustre vicentino», 2 (1993), p. 4, 11. Cesare Del Buso era sposato ad Alteria di Lunardo Colzè; Vincenzo Colzè, fratello di Alteria, interviene spesso nel processo come procuratore di Nicolò. 14 Il testamento di Ortensia in ASVI, CN, b. 9577, 27.4.1605. Per casa si intende un gruppo di famiglie che appartiene alla stessa parentela consanguinea ed ha lo stesso cognome; per lignaggio una linea di discendenza da un comune antenato: J. M. FERRARO, Family, cit., p. 74. Pertanto il primo lemma risolve il problema indefinibile, stanti le fonti disponibili, della parentela fra Florinda e le due donne che cito, entrambi sono invece sempre correttamente riferibili alla famiglia Del Buso, che in tutte le sue diramazioni si richiama costantemente all'identico antenato Silvestro ed alle proprietà di San Germano e Villaga. G. MANTESE, Memorie storiche, cit., p.1013, 1035, 869; III, pp. 86-89. J. Goody lega invece la casa al riconoscimento in una data proprietà fondiaria o a cariche e titoli esclusivi: J. GOODY, Famiglia e matrimonio in Europa, Milano 1984, p. 274 15 G. DELILLE, Strategie di alleanza e demografia del matrimonio in M. DE GIORGIO, C. KLAPISH ZUBER (ed.), Storia del matrimonio, Bari-Roma 1996, pp. 283-303. Sul protagonismo femminile S. COHN jr., Donne e Controriforma a Siena: autorità e proprietà nella famiglia, «Studi storici» 1 (1989), pp. 203-224; L. M. GHELLINI COLOCCI, Lettere (ai miei genitori), a c. C. POVOLO, Vicenza 1996, ID, Percorsi genealogici, Vicenza 1990, I. FAZIO, Percorsi coniugali nell'Italia moderna, in M. DE GIORGIO, C. KLAPISH ZUBER (ed.), Storia del matrimonio, cit., pp. 151-214 con ricca bibliografia. Si vedano inoltre i saggi rubricati sotto il titolo Dissidenze a parole e a fatti in N. ZEMON DAVIS, A. FARGE (ed.), Storia delle donne in Occidente. Dal rinascimento all'età moderna, Roma-Bari,19952, pp. 397-508. 53 domestiche, che consente loro spazi di azione autonoma solo quando usufruttuano nella vedovanza le sostanze del marito. Nel nostro caso emerge una ben diversa consistenza patrimoniale fra i coniugi: tutti i mobili di Nicolò sono assicurati sulla dote della moglie, e quindi niente può essere sequestrato dalla giustizia per rifondere i creditori del notaio16. Alla luce di ciò Nicolò appare un individuo privo di potere: è Florinda che nei momenti decisivi contratta con l'esterno, pensiamo alla cessione della figlia al podestà, all'accoglimento della secondogenita nelle Zitelle, alla sua movimentata uscita dal luogo pio, alle promesse del giudice del maleficio. Florinda chiede al marito di ritirarsi al giungere di un ospite ed il notaio, forse anche perché latitante, sale senza obiezioni le scale del granaio per origliare la conversazione della moglie con lo sconosciuto. Il temperamento vigoroso di Florinda, contrapponendosi alla debolezza fisica del marito, esalta la valenza esterna del suo ruolo. La donna affronta Carlo Della Volpe brandendo una spada; agisce con intrepidezza ed a monte anche con diplomazia nella presunta messinscena del rapimento della secondogenita dalle Zitelle; lo scandalo che sembra abbia scatenato in Duomo è un altro episodio utile ad immaginarne il carattere. Quando Nicolò è messo alle corde dalla reazione di chi pretendeva scavalcare, è sua moglie che, via via più convulsamente e disperatamente, tenta una difesa. Se questo è il quadro risulta comprensibile che Nicolò appaia rassegnato alla notizia che un frate del convento delle Grazie “ha afare con sua moglie et questo si dice pubblicamente”, mentre si mormora che i Del Buso ricevano pure da tale fonte legna e vino. Nel 1618 egli può convenientemente presentare la richiesta di reinserimento nella matricola dei notai dopo aver collocato le figlie e soprattutto dopo che, con la morte, il ruolo antagonistico della moglie è scomparso. Abdicate le sue responsabilità di capofamiglia e di aristocratico, la sua ambizione ad una scalata individuale ed all'ottenimento di protezioni che gli permettano di ascendere socialmente gli restituirebbero prima di tutto un controllo sui ruoli parentali a lui teoricamente subalterni. Dato che ciò non avviene, solamente alla morte di Florinda egli potrà tentare di recuperare il ruolo sociale di cui è stato privato. 3. Quando gli viene chiesto se ha figlie risponde: “Così non ne havessi, che pagheria un ochio per che ne ho quatro di femine ed due di maschi”. Conosciamo le due prime, Ardemia, nata presumibilmente nel 1596 ed Anna, nata nel 1598, mentre delle due più giovani le fonti processuali non danno il nome. Nicolò e Florinda avevano avuto anche quattro maschi, Ludovico nel 1595, Battista nel 1602, Vincenzo nel 1604 e Giulio 16 Sulla figura della vedova N. TAMASSIA, La famiglia italiana nei secoli decimoquinto e decimosesto, Roma 1971 (ed. or. 1911), pp. 325-350. In costanza di matrimonio la moglie ha un'azione creditoria per il capitale della sua dote sui beni del marito. Se quest'ultimo minacciasse di dissipare le proprie sostanze la moglie può separare tanti beni del marito per un ammontare pari al valore della propria dote. Tale atto, detto assicurazione di dote, trasferisce i pesi del matrimonio sulla donna che si occupa di mantenere i figli ed anche il coniuge. A. LORENZONI, Instituzioni, cit., t. I/2, p. 37-38. 54 Cesare nel 1606. Di questi, al momento del processo, sopravvivevano Battista e Giulio Cesare17. Ardemia è una ragazza di 17 anni, bisogna iniziare a pensare di sistemarla in una famiglia all'altezza e per farlo occorre dotarla adeguatamente. La strategia dotale dei Del Buso, alla quale un Nicolò screditato e pieno di debiti non si potrebbe associare, era stata attraverso i due secoli precedenti piuttosto chiara nel suo duplice sviluppo. Da un lato i matrimoni avevano garantito alleanze all'interno della corporazione notarile, utili per scambi di favori e sostegni reciproci nel mondo degli uffici e degli affari, dall'altro erano stati funzionali all'incremento di prestigio per il lignaggio. Il matrimonio di Florinda e Nicolò è un chiaro esempio in questa seconda direzione, così come quello della sorella Vittoria con Giacomo Zugliano, figlio del famoso Alessandro, capitano e dottore in legge con tomba a Santa Caterina in porto18. Gli altri tre figli di Andronico avevano invece sposato donne che appartenevano a famiglie di notai: Cecilio, Camilla Bachino; Cesare, Alteria Colzè ed infine Curzio, Lavinia Castellini. Sposando le due sorelle Paola e Giustina Angiolello, figlie di Francesco e nipoti del celebre letterato Anton Maria, il padre Andronico e lo zio Battista avevano consolidato un antico rapporto19. Nelle generazioni precedenti gli scambi matrimoniali avevano imparentato ai Del Buso altre importanti famiglie aristocratiche: i Pace, i Piovene, i Cappasanta, i Bottarino, i trentini Malpaga e Roccabruna, i Cavalcabò e rami minori di Trissino e Capra20. L'entità delle doti dipendeva dal rapporto con la famiglia dello sposo o della sposa. Generalmente contenute nella media di 500-700 ducati se funzionali al consolidamento di un rapporto tra pari, più elevate se tese all'aumento del prestigio con l'apparentamento ad antiche famiglie aristocratiche. Per esempio Cecilio, fratello maggiore di Nicolò morto nel 1605, stanziava nel suo testamento ben 1.200 ducati per dotare la figlia Paolina, cosa che costringerà alla vendita di 23 campi aviti nella villa di San Germano per saldare la dote al marito Orazio Brusolino nel 1613. Arcisa di 17 La nascita dei figli maschi di notai collegiati doveva essere denunciata al collegio per favorirne la successiva ammissione nella matricola, è per tale motivo che di loro si hanno maggiori informazioni, sappiamo così che i due figli maschi moriranno con il padre nel 1630. ASVI, CN, b. 122, c. 40r, 49r, 52v, 55r. 18 G. MANTESE, Memorie storiche, cit., pp. 988, 1236. 19 ASVI, CN, b. 123, c. 3, 4; b. 122, c. 1v. Gli Angiolello e gli Zugliano erano imparentati ed in relazioni di scambio (Chiara di Giacomo sposa Anton Maria che cede a Giacomo, marito di Vittoria, la sua casa di San Silvestro nel 1588). A loro volta gli Zugliano avevano rapporti stretti con i Pace, altra famiglia notarile in ascesa nel Cinquecento. Il cerchio si chiude ricordando che Elena di Giacomo Zugliano senior aveva sposato nel 1565 Alessandro di Francesco Del Buso e in seconde nozze il fisico Fabio Pace di Paolo la cui figlia Laura sposerà, con dispensa vescovile, Curio di Cecilio Del Buso nel 1617: G. MANTESE, Memorie storiche, pp. 969-970, 1009; ASVI, CRS, b. 1111, c. 49. 20 “In general, as the basis of power in patrician and noble regimes narrowed, few family married outside their closed cicles” ciononostante anche all'interno del circolo più esclusivo del patriziato bresciano l'origine della famiglia passava in secondo piano rispetto alla sua potenza politica e finanziaria al momento del contratto nuziale. J. M. FERRARO, Family, cit., pp. 114-115. Sull'uso politico delle dotazioni pp. 111-130. 55 Alfonso Del Buso (cugino di Andronico) può sposare Giovanni Maria Benedetti di Giacomo, notaio a Sossano, con 700 ducati di dote grazie ad un legato testamentario di 400 ducati dello zio Girolamo di Silvestro, mentre Curzio di Andronico riceve dalla moglie Lavinia Castellini 600 ducati, suo padre da Laura Angiolello 700, Camillo di Claudio 500 ducati da Isabella di Castellin Somaggio, Alessandro, da Elena Zugliano, 900, ma Ludovico di Livio da Attilia, figlia di Iseppo Trissino, 500 ducati ed infine Livio di Camillo, unito in primo matrimonio con Camilla di Zuanne Poiana, celebrato nel 1581, si accontenterà di 300 ducati e dal secondo con Caterina di Ruggero Della Volpe, nel 1592, riceverà 225 ducati21. La digressione potrebbe continuare, ma è sufficiente a quantificare il salto che Nicolò presume di poter fare. Ardemia, la bella figlia primogenita, non vale molto se a dotarla sono le sue esauste facoltà, pertanto non deve aspettarsi nessun miglioramento in prestigio personale dalla dote che può assegnarle, anche integrandola con parte delle sostanze della moglie e con il lascito di 50 ducati che la zia Ortensia le ha lasciato nel testamento22. Una volta trapelate le voci che la riguardano, la giovane non vale nulla se la sua reputazione è di puttana del contestabile, del giudice del maleficio e di altri; ma se Ardemia è conosciuta come la cortigiana favorita del massimo rappresentante della Repubblica in città, che ha provveduto a dotarla convenientemente, la sua posizione è certo più tollerata. Se non ripristinata nell'onore, certamente le si può portare un'interessata clemenza. Integrata dei 1000 ducati promessi dal podestà, la dote può attirare sulla giovane l'interesse di qualche rampollo di famiglia titolata. La bellezza, la nobiltà dei modi ed il decoro dei costumi entrano a questo punto favorevolmente in gioco. Occorre allora aumentare lo sfarzo, trasferirsi, far uscire la figlia “in ordine e pomposa”, incuranti dei nemici che ci si crea e che tramano nell'ombra. Pure se nella supplica del 1618 Nicolò afferma di aver ripristinato l'onorabilità della sua famiglia collocando due delle tre figlie nelle famiglie Dall'Acqua (sposa di Alvise) e Colombina (sposa di Lorenzo), il destino della casa, lo sappiamo, sfugge al controllo del 21 La vendita dei 23 campi, autorizzata da Zuanne Zen a seguito della supplica dei tutori degli eredi di Cecilio ancora pupilli (Ciro ha 16 anni, Curio 15), in ASVI, CRS, 1429/39, c. 591, 24.7.1613. La dote di Arcisa si trova in ASVI, N, b. 1056, 28.12.1589 [ma 1588]. Per il contratto dotale di Curzio e Lavinia ASVI, CRS mz. 1429, fasc. 330, 13.6.1585; per quelli di Camillo e Ludovico ASVI, N, b. 1056, rispettivamente 10.12.1602 e 28.8.1607; per la dote di Paola Angiolello, rif. al suo testamento in ASVI, N, b. 8079, c. 10, 19.2.1591; il contratto dotale di Livio e Camilla Poiana in Ivi, b. 7932, n. 13, 26.9.1583, con Caterina Della Volpe b. 7415, c. 54v, 22.7.1592. La “capitalizzazione del nome” è richiamata da G. GULLINO, I Pisani dal banco e moretta. Roma 1984, p. 66. Il matrimonio tra Alessandro ed Elena è del 1565, la morte di Alessandro del 1569. Già nel 1571 saranno gli eredi a spingere la giovane vedova al matrimonio con Fabio Pace, integrandone la dote fino a 2000 ducati per evitare che la donna viva usufruttuando del patrimonio del marito vincolato da un fedecommesso alla propria famiglia. Un calcolo probabilmente sbagliato perché le fortune dei Del Buso saranno da questo momento irrimediabilmente compromesse. Fra Elena e gli eredi di Alessandro sorgerà poi una lunga causa civile per pretesi diritti della donna, in nome della figlioletta Anna, sulla facoltà del primo marito. La causa e gli atti allegati in copia in ASVI, CRS, mz. 1109, fasc. A n.1 cc. 1-65. 22 ASVI, CN, b. 9577, 27.4.1605. 56 piccolo notaio. Non ho trovato i contratti relativi ma, presupponendo una minima capacità di dotare le figlie da parte dell'immiserito Nicolò, altre ragioni devono aver condotto alla celebrazione dei due matrimoni. Penso si possa escludere che vi abbia contribuito quella sorta di dote immateriale costituita dal nome di famiglia delle due spose, nobili ma screditate dalle disavventure occorse al padre. Mentre i Dall'Acqua appartenevano all'antica aristocrazia di Vicenza, Lorenzo Colombina era cittadino originario di Venezia e la sua famiglia possedeva beni a Camisano. Esistono cinque testamenti che illustrano da un'angolatura del tutto particolare i rapporti che, si può supporre in conseguenza del matrimonio di cui stiamo parlando, erano venuti a crearsi tra i fratelli Colombina. Il 6 agosto del 1616 il notaio Orazio Florian si recava in una casa di Santa Maria di Camisano per raccogliere tre testamenti. Lo avevano convocato Diana, Fontana e Cecilia, tutte orfane di Luca Colombina. Non ci troviamo di fronte a contagi maligni, né a pericoli evidenti, le tre donne sono sane e nubili. Da due delle tre espressioni segrete di ultima volontà, pubblicate nell'agosto del 1631, (il testamento di Fontana, che immagino identico agli altri, è ancora sigillato), appare subito evidente la messa in atto di una originale strategia di difesa del patrimonio familiare. Ciascuna delle due, dopo le parti rituali relative alle invocazioni, alle disposizioni di sepoltura ed ai lasciti pii, molto brevemente assolte, nomina eredi universali le altre tre sorelle nubili (Giustina, forse ancora minore, non testa). La condizione vincolante imposta è che possano godere del beneficio conservandosi in tale stato; se una di esse si fosse sposata anche dopo aver ereditato, sarebbe stata obbligata a restituire i beni ricevuti; istituivano inoltre uno stretto fedecommesso con proibizione di qualsiasi detrazione legale23. In sostituzione delle sorelle, defunte o maritate, le testatrici nominavano eredi i fratelli Pietro, Matteo, Baldissera e Salvador, la loro discendenza maschile ed in caso di estinzione la femminile “intendendo che Lorenzo, altro mio fratello, non habbi a conseguir di detta mia facultà cosa alcuna, né soi figli, al qual lasso soldi cinque per ogni succession che li potesse aspettare”. Dai due testamenti possiamo arguire la solidarietà che caratterizza il rapporto fra sorelle, a prima vista corroborata da una evidente avversione verso l'altro sesso che si manifesta nell'opposizione al matrimonio, e quindi nella sua proibizione, condivisa 23 Con l'accettazione dell'eredità, l'erede istituito con sostituzione fedecommissaria si impegnava a restituire alla propria morte l'intero patrimonio, o anche parte di esso secondo quanto disposto dal testatore, ad una o più persone indicate nel testamento, generalmente la propria discendenza maschile. G. BENOIT, Repetitio Capituli Raynutius de Testamenti, Lione 1544, vol. II, c. 18 v.- 84 r. R. TRIFONE, Fedecommesso (diritto intermedio), in A. AZARA, E. EULA (ed.), Novissimo Digesto Italiano, VII, Torino 1961, pp. 192-205; ID., Il fedecommesso. Storia dell’istituto in Italia dal diritto romano all’inizio del sec. XVI, Roma 1914, M. CARAVALE, Fedecommesso (diritto intermedio), in C. MORTAT, S. PUGLIATTI, (ed.), Enciclopedia del diritto, vol. XVII, Milano 1968, pp. 109-114. V. ARANGIO RUIZ, Istituzioni di diritto romano, Napoli 1957, pp. 573-576 57 esplicitamente da entrambe le disponenti. Il padre Luca è morto e nulla sappiamo della madre degli otto fratelli Colombina. Naturalmente il dato per noi più importante è offerto dalla notizia della diseredazione del fratello Lorenzo, genero di Nicolò, rivelata da quei cinque soldi che si configurano come la paga di Giuda per chi ha tradito valori che sarebbe stato necessario condividere. Tanto era comune l'uso sprezzante di gettare poche vili monete a pretesi eredi indegni, che anche in un famoso formulario per notai si suggeriva di assegnare allo scopo il lascito simbolico di cinque soldi24. A rivelarci però del tutto la strategia familiare e ad illuminare meglio lo sfondo su cui si innesta, valgono i testamenti autografi di Pietro e Baldissera Colombina. Il primo, redatto dalla casa di Venezia il 18 ottobre del 1617, il secondo alla fine di marzo del 1619 e consegnato al notaio in luglio, subito dopo la morte di Pietro. Ci si aspetterebbe che Pietro, presumibile capofamiglia in quanto figlio maggiore (è sempre il primo dell'elenco dei fratelli nei testamenti di Cecilia e Diana25, a meno che il maggiore non sia proprio Lorenzo, escluso dall'elenco), a sua volta sano e celibe, nominasse eredi i suoi fratelli e poi, nell'eventualità di estinzione della discendenza maschile, passasse alle sorelle ed alla loro discendenza maschile. Invece egli nomina eredi universali le quattro sorelle “se però tutte al tempo della mia morte serà da marito ... se non, siano herede solamente quelle che serano state senza marito ... et in caso che alcuna di esse si maritasse doppo che havesse havuto il benefficio della mia facultà, quella porcion in essa pervenuta vadi alle altre ... senza però diminuzion alcuna”. Istituiva a sua volta uno stretto fedecommesso e passava quindi a diseredare Lorenzo. L'apparente paradossalità delle disposizioni di Pietro, che saranno riprese parola per parola dal fratello Baldissera26, si spiega con la necessità di non pagare doti di sorta. Ben lungi dall’essere una strategia che privilegia le femmine, la nomina di erede si configura come il prezzo che i maschi pagano per far condividere alle femmine della casa i propri valori: una sorta di usufrutto affinché restino in casa nubili e che l'istituzione del fedecommesso ufficializza. Appare evidente che la necessità di costruire 24 P. D. MUSSI , Formularium instrumentorum, Venezia 1620, c.280v.-281r. La formula usata generalmente dai notai era più o meno la seguente “et per ragion d'institutione [N.B. non legato] lascio ad ogni mio parente, nepote et consanguineo et che sperar potesse o pretendesse successione nelli miei beni et heredità soldi cinque per ciascheduno, de quali voglio che si chiamino taciti et contenti”. La prima edizione dell'opera di Pietro Domenico Mussi, giurista piacentino vissuto fra Quattro e Cinquecento, titolata De formulis instrumentorum, è del 1530, l'editio princeps, col titolo leggermente modificato che porta anche quella da cui cito, fu stampata a Venezia nel 1572 e da allora nota coll'appellativo di “Mussina”. L. MANSI, Dizionario biografico piacentino, Piacenza 1899. 25 Nessuna norma prescriveva una simile precedenza, che sembra tuttavia fosse in uso se nel Seicento un anonimo legale, nel tentativo di invalidare l'efficacia di un testamento, adduceva fra gli altri motivi di scorrettezza formale anche la designazione per primo del secondogenito (posticipando il primogenito) nella nomina di erede: ASVI, AP, b. 72/1242 26 Dell'ultima volontà di Baldissera, sigillata a causa, si può presumere, della redazione di un successivo atto che la annullava, è stata verbalizzata l'apertura il 5.7.2001. I cinque documenti si trovano in ASVI, N, b. 9875. 16.8.1616, 20.3.1619, data di pubblicazione del testamento di Pietro e 20.7.1619. 58 un simile argine difensivo fra l'agosto del 1616 e l'ottobre dell'anno successivo è mossa da fatti che hanno esasperato gli equilibri interni alla famiglia e l'unica strada percorribile per capirne la natura sta nella diseredazione di Lorenzo. È quest'ultimo che evidentemente minaccia il patrimonio dei fratelli, Lorenzo di cui, essendo già nominata la discendenza, si può presumere l'avvenuto matrimonio con una figlia di Nicolò. Perché i suoi familiari lo temono così tanto? Probabilmente ne sono stati minacciati. Si può ipotizzare in sovrappiù che egli eserciti un'autorità tutorile asfissiante nei confronti dei fratelli non sposati e che ciò abbia ispirato il loro risentimento; oppure che si sia portato in casa una moglie tirannica. Ma in aggiunta o in alternativa alle solite ovvie considerazioni, ben più grave ed infamante, resta l'ultima ipotesi: e cioè che egli, convinto da lusinghe veneziane, dalla bellezza, o nel disprezzo dei valori di cui invece dovrebbe proporsi come vessillifero, abbia sposato una giovane donna nobile molto bella, ma molto povera, che due anni prima aveva partorito un figlio illegittimo. Le ultime carte processuali ci avevano lasciato una ragazza di 17 anni, incinta di otto mesi, che i genitori strappavano dalle grinfie di Giovanni Zen e recuperavano alla famiglia per toglierla dall'asserto pericolo di avvelenamento. Vivo o morto, maschio o femmina che fosse, il neonato difficilmente era stato allevato dalla madre. Conoscendo le strategie del podestà Zen per diluire le proprie responsabilità di padre naturale, se sopravvissuto il piccolo era stato probabilmente affidato ad una balia o alla pubblica carità dell'ospedale di San Marcello o della Misericordia. La sua personcina, o la sua memoria, servivano a ricordare al mondo una contagiosissima infamia con cui, attraverso il matrimonio, era stato infettato irrimediabilmente il nome dei Colombina. Riappare così, dietro la storia dei Colombina, l'ombra di Ardemia. 4. Anche di Paola Angiolello, madre di Nicolò, o di Laura Pace, moglie del nipote Curio di Cecilio, di Elena Zugliano e di Dardanida Bottarino, ricche di storie individuali e mogli rispettivamente di Alessandro e di Pace Del Buso, varrebbe parlare. Solamente Paola riapparirà con energia oltre la fine della vita del marito Andronico. Qui manca invece un ultimo personaggio, una donna defilata che ho incontrato casualmente, di non immediata identificazione, di pochi legami e piccole sostanze: una vecchia zitella dal nome ignoto con però un cognome sospetto27. Giunta quasi alla fine della propria vita, nel giugno del 1673, la zitella Erminia Bosia stendeva di pugno la propria cedola testamentaria. Senza il rispetto delle formalità prescritte (né testimoni, né tantomeno formule di rito fra cui la prescritta nomina di un erede universale, compaiono nel documento), la donna destinava le proprie poche sostanze ad una nipote “che mi fa tanto bene” ed alla monaca Cinzia Maria Bossia alle convertite “che sono tanto poverete”. Alla prima lasciava un affitto di poco meno di 50 27 Nel suo significato arcaico zitella significa ragazza da marito, senza quindi l'attuale connotazione ironica o spregiativa. 59 lire annue (corrispondenti a circa 8 ducati) acquistato con 127 ducati da Cecilia Repeta, alla seconda tre ducati l'anno. Alla consorella che l'avesse assistita in extremis donava la propria carpeta e la pelliccia, e se fosse avanzato qualche soldo, lo si sarebbe dovuto spendere in messe di suffragio. Nient'altro. La morte sopraggiungeva nel dicembre del 1677 e l'8 luglio successivo il vicario pretorio si recava al luogo pio per raccogliere testimonianze sull'autenticità della cedola. Le testimoni, tutte consorelle di Erminia, ne riconoscevano la scrittura ed attestavano la lunga frequentazione con lei: la defunta era molto anziana ed Anna Sanseverina, ospite alle Zitelle da 43 anni, affermava di avercela trovata al suo ingresso e aggiungeva di presumere che vi fosse rimasta per 70 anni. Molto ben nata et avventurata si può riputar quella, che il Signore si è compiaciuto di eleggere tra tante altre Vergini, e donarle il gran dono del perfetto e fermo proposito di osservar perpetua verginità ... sicché in ricompensa di tanto bene dovete sforzarvi di tendere ad una vita Celeste, la quale consiste in una perfetta negazion di voi stesse, e della propria volontà ... Settant'anni di silenzi, di lavoro ed esercizi spirituali, attraverso l'esaltazione del sacrificio attuato con digiuno ed isolamento, eccettuata quell'ora al giorno di relax passata a camminare in chiostro o nell'orto, essendo proibito “l'andarsi a incantonare o sola, o accompagnata; ma tutte debbano stare in pubblico a far la sua ricreazione, la qual sia modesta, e levato ogni sospetto”. Le zitelle vivono dentro un nero abito di panno e chiuse alla comunicazione se non con la Reggente, senza il permesso di concedersi all'amicizia di una compagna. Il disturbo alla portinaia e all'ascoltatrice delle conversazioni, arrecato delle visite dei parenti, è limitato con il concederne una sola al mese e con la chiusura totale delle porte in avvento e quaresima. La zitella chiesta in sposa viene isolata e controllata a vista da una sorella anziana finché non sia partita per sempre dalla Casa. Settant'anni in cui la vita è fatta di giorni tutti uguali, devotamente spesi nel distacco dal secolo, in cui una bambina diviene anziana senza saperlo, hanno lasciato una traccia involontaria nella cedola di Erminia. La religiosa, in aggiunta agli errori formali già ricordati, non riportava il nome del proprio padre, particolare essenziale per l'esatta identificazione di una nubile. Era invece precisa nell'indicare il notaio dell'unico atto mondano compiuto in vita. Troppo importante era stato l'acquisto con cui si era garantita il mediocre vitalizio che costituiva la parte sostanziale della propria ricchezza. Ho così potuto rintracciarne una copia, che risale al 1650, e sciogliere il dubbio: Erminia era la terza figlia di Nicolò Bosio28. 28 ASVI, N, b. 11490, 5.6.1673. La monaca convertita beneficiata da Erminia è forse Rosa Maria, al secolo Lavinia, figlia di Alessandro di Curzio Bosio, testatrice nel 1676 (ASVI, N, b. 11184 c. 76, 23.11.1676); per la cedola ASVI, N, b. 1504, fasc. 2/1650, 9.2.1650. Sulla trasformazione del cognome da Del Buso a Bosio, che avviene nel corso della prima metà del Seicento, avremo modo di tornare. Gli statuti delle Zitelle in L. GIACOMUZZI, Influsso francescano, cit., pp. 49-66. 60 Sopravvissuta alla peste nell'isolamento della Casa, circondata da donne, l'ultima discendente di Nicolò ricordava esclusivamente donne. Nessun riferimento esplicito alla sua famiglia di origine contiene l'atto con cui, trasgredendo in parte una clausola del contratto che ne obbligava la cessione a consorelle, ella beneficia soprattutto una nipote: Florinda Rubini Braschi. Florinda, come sua madre, un nome che in famiglia qualcuno aveva pur voluto ricordare. 61 Capitolo 3. Amici e parenti 1. Nicolò aspetterà dodici anni la morte dopo l'amara delusione del 1618; avrà modo così di assistere alle sciagurate imprese del figlio Giulio Cesare, accusato di furto, ingiurie ai presidenti del collegio e bestemmia. Egli stesso non era sempre stato l’uomo curvo e malaticcio che abbiamo conosciuto; in gioventù aveva partecipato alle risse ed ai regolamenti di conti così frequenti in quella società cittadina che i rettori veneziani dipingevano spesso come la più litigiosa del dominio. Con Francesco Angiolello aveva aggredito e ferito un uomo. I due, giudicati in contumacia, se l'erano cavata con una pena pecuniaria29. L'ultima sua lunga battaglia legale lo strocherà definitivamente nel fisico, Nicolò, “povero vecchio et impotente, reso stanco dalli travagli et dispendii che sogliono cavare le litti” tenterà invano di recuperare i beni fedecommessi dall'antenato Battista di Girolamo nel proprio testamento del 1546. La causa, il cui esito favorevole gli avrebbe fatto pervenire le discrete sostanze di un ramo collaterale estinto, lo assorbirà dal 1620 alla morte. Le resistenze dei possessori dei beni contesi cederanno solo nel 1655 e ne beneficeranno discendenti di collaterali30. 2. Nato nel 1568, il nostro protagonista era l'ultimo dei quattro figli maschi di Andronico di Nicolò Del Buso. Di mediocre fortuna, la parabola sociale della famiglia assume i caratteri dell'emblematicità: a partire dall'inizio del Quattrocento essa percorre il cursus honorum tipico di molte più grandi casate aristocratiche della città31. 29 Le ragioni della turbolenza sociale della società vicentina fra Cinque e Seicento sono state oggetto dell'attenta analisi di Povolo in una serie di lavori: ricordiamo per brevità La conflittualità nobiliare in Italia nella seconda metà del Cinquecento. Il caso della Repubblica di Venezia. Alcune ipotesi e possibili interpretazioni, «Atti dell'Istituto Veneto di Scienze lettere ed arti», CLI (1992-93), pp. 89139 e la monografia del 1997 L'intrigo dell'onore, cit., alla cui bibliografia rinviamo. La sentenza in BBVI, AT, b. 1139, c. 119, 23 /4/1588. Gli Angiolello nella precedente generazione aveva dato due donne ai Del Buso, Paola, madre di Nicolò e Giustina, moglie dello zio Battista. Il rapporto di stretta alleanza messo in essere con matrimoni incrociati attraverso le generazioni, scambi di uffici di palazzo, rapporti economici frequenti dei Del Buso particolarmente con gli Angiolello, i Castellini, i Ferretto ed i Pace, queste ultime tre famiglie notarili, è un elemento chiave per cogliere i passaggi nel cursus honorum dei primi. È Giovan Maria Angiolello che nel 1571 propone con successo di aggregare Andronico nel numero degli Accademici olimpici , BBVI, AO b. 4-69, c. 36; è Gregorio Angiolello che raccoglie l'appalto delle imposte dopo la sua morte e sono Anton Maria e Gio Paolo Angiolello che assumono la tutela degli orfani (ASVI, N, b. 8070 c. 75, 11.6.1573). 30 ASVI, CRS, mz. 2139 fasc. 99, c. 20, 1/6/1645 scrittura di Alessandro e Carlo Del Buso che fa riferimento al decesso di Nicolò; la cit. è a c. 17; copia del testamento dell'antenato a c. 2. Il fascicolo contiene anche un albero genealogico dei Del Buso non datato, ma posteriore al 1645. 31 La data di nascita di Nicolò è riportata in ASVI, CN, vol. 122, c. 9v. L'emblematicità della vita delle persone è fastidiosamente ostracizzata da Corazzol, che la trova disdicevole associandola all'idea di “destino speciale”. G. CORAZZOL, Cineografo, cit., p. X. Qui emblematico è invece inteso come medio, caratteristico di un ceto, specchio di molti e passibile di generalizzazione. Beninteso, non la vita dei singoli, ma le vicende familiari attraverso i secoli. 62 Sul pavimento della chiesa urbana di San Michele, accosto alla tomba di Chiara di Lodovico Venier, procuratore di San Marco nel 1448, “è un'antica sepoltura sopra la quale si lege questo epitafio SEP. NICOLAI Q. NOB. VIRI GUIDONIS DEL BUSO QUI OBIIT ANNO MCCCXXXIIII DIE III APRILIS ET HAEREDUM SUORUM”32. Chi era il nobile Nicolò di Guidone Del Buso, morto il 3 aprile 1334? Presentando ai censori del collegio dei giuristi la candidatura del figlio Andronico, nel febbraio del 1679, Carlo di Andronico produrrà fra le prove di nobiltà un certificato che trascrive l'epigrafe con la precisazione che la lapide, posta nei pressi dell'altare dell'arcangelo, godeva una posizione di massimo privilegio. L'albero genealogico allegato dal supplicante inizia però con un Franceschino, padre di Silvestro, e fa riflettere sul grado di attendibilità della pretesa parentela, così come appare fragile il collegamento del richiedente con le pagine dello storico Pagliarino “ubi agit de familia Bosia”. Tanto più che nel proprio testamento del 1484 Silvestro chiedeva di essere inumato a San Silvestro con i suoi predecessori e solo a partire da suo figlio Battista, testatore nel 1511, la tomba di famiglia dei Del Buso sarà a San Michele33. 3. I dubbi sulla tomba insinuano dubbi sull’antichità del lignaggio. Alla fine del Seicento il piccante genealogista Francesco Tommasini negava origini remote alla famiglia riportandone le radici, così come era avvenuto per altre ben più titolate schiatte di aristocratici vicentini, all'umiltà delle più ignobili professioni. Se i Del Buso “erano prima pezzaroli”, i Pace erano stati ciabattini, e se modestissime erano pure le origini degli Angarano e dei Beregan, dubbie si rivelavano quelle dei Trissino e dei Barbarano. Lo spirito di rivalsa che aveva indotto Tommasini, mascherato sotto uno pseudonimo, a trascurare il dovuto ossequio ai grandi, cosa che gli sarebbe costata pure un processo inquisitoriale, lo aveva altresì portato a trascurare i miti e le leggende delle origini comunemente utilizzati dai genealogisti che lo avevano preceduto34. Nel nostro caso le emergenze documentarie ne rivalutano pienamente l’opera. Un testamento dettato sette anni prima da Silvester pezarolus q. Franceschini Bosii de Burgo Berice viene revocato 32 BBVI, Ms. 1739, S. CASTELLINI, Descrizione della città di Vicenza, p. 255. La chiesa di San Michele, parrocchiale retta da monaci agostiniani, è stata demolita in età napoleonica. L’annesso convento ospita oggi la sede dell'università vicentina. 33 La supplica di Carlo in ASVI, CG, b. 2838/12, c. 1, 17. Copia coeva del testamento di Silvestro in ASVI, Test. bombacina, b. 292, 15.6.1484. Quello di Battista in ASVI, N, b. 153, 31.10.1511. Significativamente il disponente, che dettava il proprio testamento a Padova, chiedeva la sepoltura in San Michele “in monumento suo, et quod ponatur in uno deposito in ecclesia Sanctae Agatae donec transportabitur Vincentiae illa minori impensa quae fieri possit” (corsivo mio). Sembra perciò che fosse stato proprio lui a farsi costruire la tomba e che non intendesse in nessun modo essere inumato altrove, nonostante i disagi e le spese per il trasporto del cadavere da Padova a Vicenza. 34 BBVI, Mss. 2537, 2538: Seripo Ovaschi Timenovic (pseudonimo anagrammato di Francesco TOMASINI), Veridica origine e discendenza di tutte le famiglie nobili di Vicenza..., L. MEGNA, Storie patrizie. Note sulla nobiltà vicentina nel Seicento, in F. BARBIERI, P. PRETO (ed.), Storia di Vicenza, III/1 L'età della Repubblica veneta, cit., pp. 238-239. 63 nel 1450. Silvestro è definito semplicemente pezzarolo, ossia straccivendolo, negli estimi del 1460 e del 147335. Prima di Silvestro, e prima del 1450, non appare quindi attestato un nome di famiglia. Il padre Franceschino, che muore nel 1440, il nonno Nicolò, già morto nel 1429, il presunto avo Almerico del fu Promezio civem et habitatorem Vincentiae, che affitta la prima bottega dal comune sotto la loggia di San Michele nel 1410 (il documento più antico a cui attribuire plausibilità genealogica che mi sia stato possibile ritrovare36), sono sempre detti pezzaroli o tutt'al più maestri pezzaroli. Pertanto da fine Trecento e sino a Franceschino di Nicolò la ricostruzione genealogica è del tutto presuntiva, le informazioni si collegano per compatibilità di nomi, date, residenze e si formulano ipotesi sulle parentele; Franceschino di Nicolò pezzarolo è senz'altro il padre di Silvestro perché lo si trova con il patronimico in un albero genealogico seicentesco, ma le uniche conferme sul fatto che il padre di Nicolò sia Almerico pezzarolo, così come per Almerico sia Promezio pezzarolo, vengono dalla mancanza documentaria di altri pezzaroli con cronologia adeguata. Non siamo di fronte quindi ad un lignaggio che abbia una consapevolezza genealogica: fino alla fine del XV secolo quello che i discendenti indicheranno sempre come il capostipite, Silvestro, sarà ancora un pezzarolo con casa in Berga, un borgo di barcaioli e pezzaroli. All'inizio del Quattrocento, quindi, si innerva nel tessuto produttivo e commerciale di Vicenza una famiglia di distrettuali che proviene da Pilla di Longara e che esercita l'arte della pezzaria al fianco di tante altre provenienti dal territorio. Nel corso di tre generazioni la famiglia raggiunge una discreta agiatezza, cosicché Silvestro può cominciare ad aspirare ad un ruolo civile di maggior peso per la sua progenie. È forse con questa consapevolezza che, iniziando ad affiancare alla qualifica di mestiere un nome di famiglia ed inventandone la genealogia, mette in atto una strategia funzionale ad una rivendicazione di status. Almerico ha banco a San Michele, suo figlio Nicolò affitterà un banco in piazza maggiore. Franceschino ottiene un banco in posizione di privilegio, il primo della fila di pezzaroli e non lo utilizza solo per il commercio di panni, ma anche per compravendite di terra, stipula di contratti societari nell'arte della lana, acquisto di cereali e prestiti usurari camuffati. Un'attività che il prestigio con cui sarà ricordato dai discendenti fa pensare abbia svolto con molto profitto anche Silvestro. Gli antichi Del Buso, un lignaggio notarile estintosi probabilmente con la fine del dominio scaligero, di cui la pietra tombale a San Michele rimaneva l'unico ricordo, facevano esattamente al caso. Fra i notai del XIV secolo troviamo Gerardo di Nicolò Bosii (1364), di cui sono stati conservati atti spesso rogati proprio nella parrocchia di 35 La revoca in ASVI, Test. bombacina, b. 281, c. 94, 30.4.1450. Non ho trovato il documento cui fa riferimento. Per la definizione D. BORTOLAN, Vocabolario del dialetto vicentino, Bologna 1969 (anast. Vicenza 1893), alla voce, che lo trova attestato nell'estimo del 1564. 36 BBVI, AT, b. 778, c. 83v, 19.12.1410, c. 84r-v, 13.1.1411. 64 San Michele; nel 1379 e nel 1380 vi è iscritto suo figlio Battista, che scompare dalle matricole dal 1383. Da allora e per tutto il XV secolo nessun altro individuo riconducibile alla famiglia risulta iscritto fra i notai di collegio37. Con l'inizio del Cinquecento riappaiono a pieno titolo in città i Del Buso: nessuno dei tre figli di Silvestro (Francesco, Battista e Girolamo) sarà mai definito pezzarolo nei contratti. La tomba di famiglia a San Michele conferma l'antichità del lignaggio e una delle condizioni per l'ammissione di Andronico di Carlo nel collegio dei giudici, dopo quasi due secoli, sarà che lui stesso ed i suoi discendenti siano sepolti a San Michele. Alla fine della seconda decade del Cinquecento, nel corso degli anni tragici e densi di rimescolamenti sociali successivi alla guerra della lega di Cambrai, Matteo di Girolamo (di Silvestro) sale il gradino decisivo dell'ascesa civile riuscendo ad entrare nel novero dei notai collegiati38. Tuttavia la carriera, per quanto rapida ai suoi albori, appare tardiva rispetto a quella di lignaggi che con un secolo e più di anticipo preparavano il terreno alle generazioni successive affinché queste potessero giungere alle cariche cittadine più importanti, o a ricoprire prestigiosi incarichi civili e militari al servizio della Repubblica. I Del Buso non saranno mai partecipi del potere più esclusivo: ottenuto in prestito nel 1561 un seggio nel Maggior consiglio vicentino, nessun componente la famiglia sarà mai cooptato nel Minor consiglio prima della seconda metà del Seicento e solo nel 1680, quando la sopravvivenza di un unico ramo di discendenza concentrerà per un breve periodo le ricchezze, Andronico di Carlo Bosio sarà accolto nel prestigioso collegio dei giudici. Del Buso o Bosio? Già nella matricola dei notai collegiati rinnovata nel 1600 il redattore aveva annotato che le famiglie Bosio e del Buso erano in realtà una sola e sarà negli anni successivi alla grande peste del 1630 che il nome di famiglia diverrà definitivamente ed unicamente Bosio39. Il nuovo nome è certo più elegante se la sua prima comparsa avviene nel 1618 in campo letterario quando un Lelio Bosio vicentino pubblica una canzone in onore del nuovo doge Antonio Priuli40. Ma se considerassimo le disavventure di Nicolò del 161337 ASVI, CN, b. 48, cc. 248r, 235v, 223v, 204r258v. La supplica di Matteo di Girolamo Del Buso in ASVI, CN, b. 91, c. 975, 16.9.1519; l'iscrizione nella matricola in ASVI, CN, v. 53, c. 22v 28.9.1519). Sui notai vicentini collegiati ed imperiali e sul funzionamento del Collegio e l'attribuzione delle cariche di Palazzo utili informazioni in G. PAVAN, Il collegio dei notai a Vicenza dalle origini alla metà del XIV secolo, Tesi di Laurea, Un. Padova, Fac. Lettere e Filosofia, A.A. 1964-65 consultabile in ASVI; G. BISAZZA, Il Collegio, cit. e, dello stesso, il succoso saggio Notai tristi, cit. 39 Sul seggio in consiglio S. RUMOR, Il blasone vicentino, Venezia 1899, p. 39.ASVI, CN, vol. 67 l. C a margine : “notandum que familia Bosia et Del Buso est una et eadem”. 40 L. BOSIO, Nel felicissimo arrivo a Venezia del Serenissimo Principe Antonio Priuli. Canzone, Venezia 1618. G. DA SCHIO (BBVI, Ms. 3385 dei Memorabili) ne dette il seguente giudizio: “stile non ottimo, si legge con piacere, piena di immagini”. L'autore crede che si tratti di Livio, in realtà il Lelio in questione va identificato con il figlio naturale dell'accademico Girolamo, una presenza effimera nella storia della famiglia. 38 65 14 come decisive per la reputazione dell'intero lignaggio, che si ritrova inevitabilmente disonorato, allora si potrebbe ipotizzare che non solo l'eleganza latineggiante abbia spinto al cambiamento del cognome in Bosio41. L'elogio del doge va sottolineato perché i Priuli dettenevano estesi possedimenti terrieri a Villa del Ferro, villaggio contiguo a San Germano. La vicinanza con la grande proprietà veneziana (a Campolongo, di fronte a quelli dei Priuli, si trovano le centinaia di campi e la villa dei Dolfin) in cui la residenzialità, particolarmente per i Priuli, non è affatto saltuaria, suggerisce una possibile chiave di lettura dei rapporti della famiglia con i nobili veneti. La dignità dei Del Buso, con l'unica tarda eccezione rappresentata da Ludovico di Livio che roga 288 atti a San Germano dal 1604 al 1621, raramente li porta a svolgere la propria attività professionale in villa. Vicini deferenti ma non subalterni, proprietari ma non scrivani quindi, almeno finché le alterne fortune del lignaggio lo consentono. 4. Ammessi probabilmente alla cittadinanza vicentina in seguito agli incentivi offerti ad artigiani e mercanti di lana all'inizio del Quattrocento, i Del Buso acquisiranno anche la cittadinanza padovana nel 1460. All'attività di mercanti di panni affiancheranno quella di mercanti di grano, sempre come finanziatori di società con piccoli capitali, intorno alla media cittadina di 50 ducati. Ciò consentirà di accumulare una discreta ricchezza, base della pur modesta ascesa civile della famiglia: Silvestro di Franceschino sarà estimato nel 1460 in due lire e 10 soldi e nel 1463 in tre lire42. I profitti mercantili, limitati al territorio vicentino, nel corso del Cinquecento erano stati affiancati dalla rendita. La scomparsa di fonti societarie dagli atti notarili a partire dalla fine del XV secolo fa perdere le tracce dei mercanti, mentre fa emergere con evidenza i notai ed i capitalisti agrari. Sappiamo tuttavia che Cecilio, fratello di Nicolò, a San Germano allevava pecore, ed immaginiamo che non lo facesse per allestire presepi viventi. Nel 1578 Stefano di Silvestro viveva civilmente nello stesso villaggio “né so che habbi mai fatto altro essercitio che del far trar seda, et far mercantie di sede”43. Rentiers quindi che vivono dell'entrata del commercio, che trasformano in loco, dove è ampiamente attestata la diffusione del gelso, le gallette prodotte dai bachi da seta (cavalieri) in filo e forse in tessuto, e che mettono subito a frutto capitali e profitti. Sfruttano la terra 41 La possibile transizione dal primo agli altri cognomi per motivi di trascrizione e di pronuncia, è afffrontata per i numerosi Buso padovani da U. SIMIONATO, Cognomi padovani e antiche famiglie di Padova e del suo territorio, Snt (ma Padova 1995), pp. 135-137. 42 Altri conferimenti di cittadinanza vicentina ad artigiani e mercanti, nella parzialità della documentazione disponibile per l'epoca, in BBV, AT, Catastico. Civiltà, p. 232; Copia del diploma che attribuisce a Silvestro la cittadinanza padovana in ASVI, CRS, b. 2838-2. Statistiche sui capitali sociali dei mercanti vicentini del Quattrocento in J. GRUBB, La famiglia, cit., p. 177. Gli estimi di Silvestro in ASVI, EST, b. 1-A, c. 17 e 110. 43 Il codicillo in ASVI, N. b. 8705, c. 46r. Allegro Allegri depone sulla civiltà di Silvestro di Stefano Del Buso: Ivi, CN, b. 252, c. 5 66 soprattutto attraverso la stipula di contratti che, sotto la copertura di livelli francabili, nascondono prestiti di denaro ad usura. Chi legga i registri ed i minutari dei notai dell'epoca resta sbigottito dal numero, dall'esigua quantità, talvolta anche uno o due soli quartieri (quarti di campo), e dalla variabilità nei prezzi della terra che trova descritta nei contratti. Alla fine del Cinquecento il valore di un campo in val Liona, dove si trovano i villaggi di San Germano, Grancona, Campolongo e Villa del Ferro, poteva oscillare dai 5 agli 80 ducati. Tali oscillazioni si riconducono alla qualità della terra, di cui è possibile avere un'idea dalla descrizione sommaria dei confini contenuti nell'atto e da quella inserita negli estimi dei proprietari. Ma non sempre si cedeva terra libera, spesso anzi si trattava di terra deprezzata poiché su di essa gravavano diritti enfiteutici. Nei contratti di livello condizionato, o francabile, il livellario si impegnava a pagare un canone per un numero definito di anni al termine dei quali doveva consegnare al livellante il capitale pattuito e, affrancando in tal modo il livello, diveniva proprietario con dominio sia utile che diretto. Se da un lato questi ultimi si risolvevano in una sorta di vendita a rate della terra, dall'altro diversi erano i prestiti mascherati da una finta vendita ed un successivo, immediato, livellamento condizionato della stessa terra da parte dell'acquirente al venditore. In questo caso la terra diveniva il pegno che garantiva il prestito di denaro. I contadini impoveriti molto spesso non riuscivano a riscattare la loro terra e si trovavano così alla scadenza trasformati, nella migliore delle ipotesi, in livellari perpetui di una terra che prima era loro, con tutti gli oneri ed i rischi che un simile nuova condizione comportava, nella peggiore costretti con la forza all'affrancazione che in caso di insolvenza portava a sequestri, pignoramenti, altre vendite forzose, fughe, prigione, galera44. La famiglia Del Buso avvia fin dalla prima metà del Quattrocento un'acquisizione di terre, talvolta accettate in pagamento da debitori, concentrando via via la politica degli acquisti su un territorio circoscritto. Nel 1554 a San Germano i Del Buso, suddivisi tra Girolamo, Stefano, Giulio e Nicolò (nonno del nostro), possiedono tre grandi case e circa 140 campi, dispongono inoltre di alcune case a Vicenza; il ramo di Villaga, concentrato nelle persone di Matteo e del fratello Ludovico, possiede una casa e 66 campi a Villaga, 52 campi a Lisiera e due case a Vicenza; entrambi i rami riscuotono e pagano diversi affitti45. L'altra importante voce nelle entrate è quella degli uffici di Palazzo, che i notai Del Buso gestiscono di generazione in generazione attraverso, oltre alle ordinarie estrazioni, comodati, prestiti, ecc. 44 Sul problema dei livelli esiste un'ampia letteratura a partire da G. CORAZZOL, Fitti e livelli a grano, cit. Un utile glossario, in cui sono anche definiti i contratti di livello, correda il volume collettaneo di C. POVOLO (ed.) Dueville. Storia e identificazione di una comunità del passato, Vicenza 1985, pp. 1449-1452. 45 ASVI, EST, b. 24, cc. 420v - 442r per San Germano; b. 16 per Villaga. 67 Nelle loro proprietà di San Germano, conducono quindi vita civile e, insieme a numerosi nuovi ricchi, incarnano il notissimo fenomeno dell'erosione di terre condotta da cittadini ai danni di distrettuali. Lo zio di Nicolò, Camillo, “era cittadin onorato”, suo figlio Livio viveva costantemente a San Germano “e la sua vita è d'andar a spazzo che certo mai io l'ho veduto a lavorare ad alcun mestiero se non a giocare alle volte alle carte ... [e ciò nonostante che] esso messer Livio veste da povero cittadino e come va per viagio va sempre a piedi”. Proprio nel momento in cui mettono in atto strategie apparentemente di maggior efficacia, tentando un ruolo politico più attivo all'inizio degli anni Settanta del Cinquecento (nel 1570 il consiglio dei 150 eleggerà Andronico vicario ad Orgiano, Girolamo a Barbarano e Pace a Brendola), si inceppa il meccanismo virtuoso e per i Del Buso inizia un periodo di decadenza46. 5. La necessaria coesione del lignaggio, presupposto indispensabile all'accumulo di sostanze, con il moltiplicarsi delle linee di discendenza non può essere data per scontata. Le aspettative dei giovani si scontrano con le strategie dei vecchi, da cui vengono sacrificati per le superiori necessità di conservazione della ricchezza. Le diseredazioni, le cause civili, fino all'attentato alla vita del parente scomodo, sono uno dei tratti connotativi dell'epoca che consideriamo. Anche i Del Buso combattono fra di loro e non va escluso che le numerose divisioni di eredità dell'ultimo scorcio di Cinquecento possano nascondere la crisi del lignaggio che porterà alle cause civili per rivendicare fedecommessi dagli anni venti del Seicento47. Ma c'è un fenomeno che induce queste divisioni: la mortalità infantile che ad un certo punto colpisce, discriminandoli, i rami più fragili della casa. Spesso figli unici morivano “in pupillare età” subito dopo i loro padri. Nicolò Del Buso, nonno del nostro protagonista, aveva avuto da Mattia di Giovanni Pace quattro figli maschi, Pace, Camillo, Andronico e Battista. Tra 1567 e 1587 muoiono tutti: l’analisi delle loro successioni è a tal proposito illuminante. Nel 1567 Ginevra Cavalcabò, vedova di Camillo, ed i tre figli superstiti si dividevano le sostanze del padre. Alla morte di Pace, avvenuta nel 1587, il suo unico figlio vivente, Gasparo, aveva 17 anni: morirà nel 1592 avendo avuto il tempo di mettere al mondo Pace (Pasetto) che sarà già morto nel 1602. Le due morti consecutive avevano tolto dall'imbarazzo il cugino Cesare di Andronico, loro tutore e contestulamente loro avversario nella causa successoria allora in corso48. Il patrimonio di Pace poteva trasmigrare nei suoi nipoti che pochi anni prima avevano anche incamerato i beni di Battista di Nicolò. Dopo essere 46 Le nomine a vicario sono ricordate in ASVI, CN, b. 300, fasc. 8 e 16. Per le testimonianze sulla civiltà ASVI, CN, b. 258, Processi lustrali 1604, c. 58r, v. 47 Divisioni fra i consorti Del Buso ASVI, N, b. 8075, c. 38, 16.3.1581; c. 77, 18.11.1581; ASVI, CRS, b. 1109, segn. A n. 1, c. 104, 18.11.1589 e c. 120, 1.10.1602. Numerosi processi che riguardano i fedecommessi istiuiti da testatori Del Buso sono presenti in ASVI, CRS, bb. 1110, 1429, 2139, 2655, 2688. 48 La causa in ASVI, CRS, b. 1109, fasc. F n. 5 cc. 17, 23, 30, 33. 68 fuggito con i suoi due figlioletti maschi di nove e sette anni per sfuggire ad una condanna del settembre del 1572, i suoi beni erano stati confiscati ed assegnati ai parenti più prossimi. Nel 1577, ricevuta la notizia della morte di tutti i transfughi, Pace ed i nipoti figli di Andronico e Camillo avevano diviso i beni dell’eretico con condizione che li avrebbero restituiti se qualcuno fosse tornato dall’esilio. Inusitatamente il maggiore dei due figli, Alcide, si era rivisto a Vicenza nel 1579 ma di lì a pochi mesi sarebbe morto. Alessandro di Francesco, cugino di Andronico, era stato destinato a glorificare il ramo di San Germano con gli studi e le cariche nel collegio notarile, ma il fallimento genealogico di entrambi i fratelli lo aveva spinto a sposarela giovane Elena Zugliano nel 1565. Quattro anni dopo, nel proprio testamento, aveva nominato erede universale Ludovico, il figlioletto nato dall’unione. Ebbene, nel 1571 i soliti parenti si dividevano anche i beni di Alessandro, essendo nel frattempo morti sia il padre che il figlio erede. I due rami che sopravviveranno ad una simile morìa saranno quello di Camillo e di Andronico49. Fra i cinque rami che daranno vita alla settima generazione dei Del Buso si estinguerà nella successiva solamente quello di Battista (ramo di Villaga). Quest’ultimo era stato il solo a redigere un testamento in cui al figlio Girolamo, erede universale, sostituiva i fratelli e la discendenza dei Del Buso sottoponendo i beni a fedecommesso. Girolamo diverrà accademico olimpico nel 1571, sarà lui ad avere l'onore di proporre l'aggregazione al celebre consesso del famoso medico Fabio Pace, parteciperà quindi ai lavori organizzativi per l'inaugurazione del teatro palladiano. Ottenuta la statua su di un lato della scena ed il nome inciso sulla grande lapide nell'odeo, la sua parabola umana lo porterà, dopo aver svenduto le proprietà avite, al fallimento nel 1586. La perdita di tutte le proprietà di Villaga e Vicenza sarà infatti il prezzo che Girolamo dovrà pagare per onorare l’impegno assunto con la dotazione di 1.700 ducati assegnata alla sorella Clarice. Il cognato Pietro Antonio Mainenti si dimostrerà infatti irremovibile nella causa che gli intenterà. Il figlio naturale legittimato Lelio, presunto autore della canzone al doge Priuli, costituirà un'effimera presenza, citato solo in un albero genealogico allegato in causa e presto svanito50. Dei 12 maschi della generazione successiva testeranno 49 Qui di seguito fornisco i supporti archivistici di quanto detto. La divisione dei beni di Nicolò in ASVI, N, b. 7605, c. 32; quella di Pace di Gasparo in ASVI, N, b. 3729, 1.9.1602; la condanna di Battista di Nicolò, pubblicata il 27.9.1572, è ricordata in Ivi, CN, b. 205, 12.12.1572; le divisioni dei beni di Alcide di Battista in Ivi, N, b. 8075, c.77r, 16.3.1581; il testamento di Alessandro di Francesco in Ivi, CG, b. 2838, 12.7.1569; altre divisioni fra i consorti Del Buso, rogate principalmente dal notaio Paolo Pace, datate dal 1581 al 1602, , sono raccolte in Ivi, CRS, 1109, fasc. A n.1. Gli atti tutoriale di Paola Angiolello in AVI, N, b. 8069, cc. 180 segg., 9.10.1572, 9.12.1572, b. 8070, c.11, 20.1.1573, c. 13, 30.1.1573, etc. 50 Il testamento di Battista in ASVI, N, b. 465, 29.1.1546. Per Girolamo (che nei documenti dell'Accademia viene detto erroneamente figlio dello zio Ludovico e anche dell'altro Matteo) il periodo glorioso è documentato in BBVI, AO, cart. 4, fasc. 69, c. 33, 45; cart. 3 fasc. 22, c. 5v. Sarà Girolamo a cedere, dopo un lungo stillicidio di prestiti a pegno della stessa (ASVI, CRS, b. 1109, segn 69 Alessandro di Francesco (1569), Pace di Andronico (1574) e Girolamo di Silvestro (1588) privo quest'ultimo di figli maschi legittimi. Gli altri due nominano eredi i loro discendenti maschi, istituiscono fedecommessi e sostituiscono i figli ai collaterali maschi della famiglia; ebbene anche queste due linee di discendenza si estinguono quasi subito ed i beni dei testatori, grazie alle sostituzioni ed ai fedecommessi, cadono nei rami collaterali. Ricordando che il primo fedecommesso era stato istituito dall’antenato Silvestro di Franceschino nel proprio testamento del 1484, atto che aveva fondato il lignaggio, ancora al fedecommesso le generazioni successive ricorrono per puntellarne le fragilità che la esigua discendenza di un ramo (un solo erede maschio, spesso molto giovane) lascia intravedere. 6. Nella seconda metà del Cinquecento, si diceva, la potenza della Casa raggiunge il suo temporaneo apice ed Andronico ne è per un momento l'esponente più in vista. Ciò almeno fino alla sua improvvisa e misteriosa morte avvenuta all'inizio di ottobre del 157251. La malattia fatale ad Andronico era probabilmente stata favorita da un'ascesa troppo spregiudicata e repentina. Il 1572 segna una brusca inversione di rotta nella fin allora ascendente parabola delle fortune familiari. In quell'anno fatale, alla morte di Andronico si aggiunsero la condanna al bando per 15 anni del cugino Girolamo e la fuga del fratello Battista52. Nel settembre del 1573 Ludovico Costozza ed un suo bravo non avranno riguardi a profanare il simbolo vivente del casato, Matteo di Girolamo che, in aetate decrepita, sarà assalito e rapinato in casa. Un anno ancora ed il terzo fratello, Pace, redigerà un testamento per non lasciare la discendenza sprovvista di disposizioni, mentre l'esule eretico, con i beni sequestrati, aveva perduto la libertas testandi53. Ciò ricaccia indietro i Del Buso, che non hanno forza sufficiente per rispondere agli attacchi e che vedranno ridimensionata per alcuni decenni la loro posizione. Nella generazione successiva ci sarà chi accetterà lo stato di fatto e si prodigherà nel mettere a frutto, _________________ F n. 5, cc. 44, 48, 51), la possessione del bosco di Lisiera, 48 campi e casa dominicale, a Matteo dell'Imperatore. Qui, precisato il cognome dell'ex fornaio Gregorio ed assurti due componenti la famiglia al rango di medici preclari, sorgerà poi la villa Imperiali. (G. MANTESE, Memorie, cit., vol. IV/2, p. 1029-1030). Per il successivo crollo finanziario ASVI, N, b. 9288, 5.2.1607 in cui si fa riferimento al fallimento del dicembre 1586; il sequestro ordinato dal giudice del Sigillo in CRS mz. 2192, fasc, 1308 c. 3, 4.9.1586. Dal 1581 al 1585 Girolamo aveva già svenduto anche questi beni. 51 Nella matricola dei notai è segnata la data di morte 18.10.1572 (ASVI, CN, b. 61, c. 21v); Andronico è invece morto il 3 ottobre: ASVI, N, b. 2007, fasc. EE n. 4, 10.7.1573. 52 Per Girolamo che, come visto, aveva abusato di una serva, BBVI, AT, b. 1137, c. 5, sentenza del 2/8/1572; per Battista ASVI, CN, b. 61, c.1; b. 205, 12/12/1572, la sentenza di condanna è del 27 settembre 1572, sul notaio eretico tornerò più avanti. 53 La sentenza contro gli aggressori del vecchio notaio in BBVI, AT, b. 1137, c. 93r. Ricordiamo che Matteo era stato il primo notaio del lignaggio, colui che aveva aperto la strada del Collegio a tutti i parenti. I querelati da Matteo negano anche sotto tortura e vengono condannati rispettivamente a tre e due anni di bando. Il testamento di Pace di Nicolò, che morirà nel 1587, in ASVI, N, b. 8592, 31/7/1574. Ciascuna generazione dei Del Buso ha un membro che si incarica di supportarne i destini con la redazione di un testamento che quasi sempre include il fedecommesso, ossia il divieto di vendere i beni di famiglia. Dopo Silvestro (capostipite e quarta generazione,1484), sarà suo figlio Battista (1511), ancora Battista del ramo di Villaga (sesta generazione, 1546). Testeranno nella settima generazione, suddivisa in cinque rami, Alessandro (1569), Pace (1574) e Girolamo (1588). 70 localmente, il prestigio residuale, ci sarà invece qualcun altro che tenterà, come sappiamo, una velleitaria scalata sociale. Dopo aver ottenuto l'emancipazione dal padre, verso il 1560 Andronico ne eredita la redditizia, ma pericolosa, attività di riscotitore di crediti per conto di terzi54. Spesso in questi anni è nominato procuratore a rappresentare cittadini ricchi in contrasto con aristocratici. Nel frattempo sfrutta anche la sua posizione di notaio collegiato per esercitare, partendo da uffici di secondaria importanza, la scalata ai più lucrosi uffici di Palazzo55. Dal marzo del 1564 al 1569, seguendo i primi timidi esempi del padre e del fratello Camillo, egli aveva affittato nel vicentino, a volte affiancato da parenti, proprietà nobiliari (Naldi, Chiericati, Da Porto, Dall’Acqua) per migliaia di campi con contratti a breve termine, impegnandosi a versare canoni annui per alcune migliaia di ducati. Cifre formidabili, fino allora mai apparse nei talvolta pur intrepidi azzardi economici dei Del Buso56. Presentato dal cognato Giovan Maria Angiolello, il 24 maggio del 1571 Andronico assurgeva alla gloria degli accademici olimpici a soli tre giorni dall'accettazione del cugino Girolamo. Il 9 gennaio dell'anno successivo subentrerà a Valerio Barbarano nella carica di tesoriero e successivamente sarà nominato rasoniero57. L'ultimo grande affare di Andronico si formalizza il 20 aprile del 1572 quando il Consiglio dei 100, considerata la difficile situazione dell'esazione ed il fatto che nessun altro si era presentato alla gara, gli conferiva l'appalto per l’esazione delle colte dei cittadini con stipendio di 250 ducati l'anno. Andronico, che dopo la morte di Alessandro di Francesco, si trova ad essere il più vecchio del ramo familiare di San Germano, coglie l'occasione per ricompattare i due colonnelli (rami principali) della famiglia: saranno infatti il vecchio Matteo di Girolamo (Villaga), cugino di suo padre ed il cugino Girolamo di Silvestro (San Germano) a garantire la solvibilità dell'esattore. Forse spinto da insondabili appoggi veneziani sui quali confida, o dall'ambizione che lo porta a sopravvalutare le proprie alleanze locali e di conseguenza i propri spazi di manovra, egli non sembra percepire la reale misura della posta in gioco. Il 1572 è un anno di grandi tensioni tra il Consiglio di Vicenza e la Dominante a proposito di colte. All'inizio del 1571 e poi nel febbraio del 1572 il Consiglio dei Dieci aveva offerto ai 54 ASVI, N, b. 8061, 5.11.1560, c. 205r. In un atto dell'aprile 1559, Andronico, non ancora emancipato, agisce su procura del padre: Ivi, b. 8061, c. 44, 14.4.1559. 55 ASVI, CN, b. 10, c. 616v, 14.1.1560 Andronico, estratto al banco del Cavallo, esercita al Pavone; nel 1565 è estratto al Maleficio (c. 634v, 16.1.1565). 56 I vari contratti in ASVI, N, b. 7605, segn. 32; b. 8062, c. 14r; b. 8065, c. 39r, c. 54r; b. 8070, c.15r; b. 8063 c. 47r; b. 8077, c. 274r, 12.11.1569. 57 BBVI, AA, cart. 4, fasc. 69, c. 33r, c. 36r. Girolamo era stato introdotto da Valerio Barbarano il 21 maggio. Per le cariche Ivi, c. 45r, 47r. 71 contribuenti l'affrancazione da dadie e colte capitalizzando l'imposta all'8% con un versamento immediato alle Camere fiscali. Occorreva sovvenire alle necessità della guerra col Turco e nella circostanza furono sborsati nel vicentino 84.375 ducati, 65.095 dei quali da proprietari veneziani58. La reazione dei vicentini che non avevano potuto affrancarsi, e che a causa del sistema impositivo per carati si vedevano costretti a pagare anche per coloro che non erano più tenuti a farlo, non si era fatta attendere. Alla fine di novembre del 1572 i cittadini lamentavano il triplicare dell'imposta pro capite e chiedevano accoratamente a Venezia di sospendere l'esazione. Dal canto loro gli affrancati non intendevano pagare e si ribellavano ai sequestri per morosità. Nel 1582 il capitano Bragadin era invitato ad intimare alla città di soddisfare entro otto giorni quanto “gli è stato bonifficato per quelli … che sono debitori busi”, minacciasse altrimenti un mandato esecutivo contro la città e frattanto facesse sospendere tutti i sequestri59. Il 2 agosto 1572 Girolamo di Silvestro, mallevadore per le colte, insieme con il nipote Silvestro (di Stefano), aveva subito la già nota condanna del consolato per rapimento, sequestro e violenza sessuale verso una serva quindicenne. Il 27 settembre dello stesso anno Battista di Nicolò fuggiva dalla città. Due giorni dopo Michele Zanfardin di Valdagno, servo (o bravo?) di Girolamo era stato affrontato e percosso. Il 3 ottobre del 1572 l'improvvisa morte di Andronico non appare quindi un episodio isolato. Il caso di Prospero Bachino, che aveva dato la figlia Camilla in sposa a Cecilio Del Buso, figlio primogenito di Andronico, è eloquente: esattore delle colte nel 1586, viene ammazzato per aver osato promuovere una esecuzione giudiziaria contro Achille Trissino, debitore insolvente60. Ricordiamo che il veleno, se pur lascia sospetti, all’epoca può non lasciar tracce. 58 BBVI, AT, b. 412, fasc. 7, c.n.n. 15.1.1571, 13.2.1572. L. PEZZOLO, L'oro dello Stato. Società, finanza e fisco nella Repubblica veneta del secondo '500, Venezia 1990, p. 187. Sulla questione, con riferimento alle controversie tra i Pisani di Bagnolo e la città G. GULLINO, I Pisani, cit., p. 37. Il sistema fiscale veneziano è stato trattato diffusamente; per alcune comunità rurali del vicentino si vedano L. PEZZOLO, Dal contado alla comunità: finanze e prelievo fiscale nel Vicentino (secoli XVIXVIII), in C. POVOLO (ed.), Dueville, cit., pp. 381- 428; M. KNAPTON, L'organizzazione fiscale di base nello stato veneziano: estimi e obblighi fiscali a Lisiera fra ’500 e ’600, in C. POVOLO (ed.), Lisiera, cit., pp. 377-418 59 BBVI, AT, b. 404, fasc. 4, c. 1, 18.1.1570 MV; 3, 25.11.1572; 10, 30.6.1582. Il corsivo è mio. Giudico illuminante che a dieci anni di distanza dal breve periodo di esattoria di Andronico si facesse ancora riferimento, in documenti veneziani, al suo operato. Anche in documenti vicentini i Gritti, Marcello, Cocco, Pisani, Giustiniani, Molin e Priuli sono definiti debitori busi (Ivi, fasc. 3 c.n.n.). Ancora nel fasc. 3, datata 1572, è conservata un'istruzione in materia di colte e bonificazion di sussidi a Girolamo Ferramosca, Orazio Conte, Giulio Bonifacio e Guido Arnaldi, oratori della città a Venezia contro i nobili veneti che non intendono pagare con dettaglio delle singole partite. Il rendiconto della gestione delle colte da parte di Andronico, Gregorio e Francesco Angiolello ed infine Cecilio Del Buso per il 1572 viene presentato l'1.4.1583. Il volume totale delle entrate era stato di lire 82.779, 18 soldi e 6 denari (ASVI, N, b. 764). 60 Per la condanna a Girolamo e Silvestro BBVI, AT, b. 1137, c. 5r; per la sentenza contro Battista ASVI, CN, b. 61, c.1r; b. 205, 12/12/1572; per le percosse al servo BBVI, AT, b. 1137, c. 69r 72 Il trionfale 1571 è lontano anni luce dall'apocalittico secondo scorcio del 1572. Credo che solo grazie all'energia con cui la vedova di Andronico, che riesce inizialmente a farsi assegnare la tutela dei figli, amministra le partite creditorie e debitorie del marito, la sua discendenza sarà l'ultima della Casa ad estinguersi. Nel proprio testamento del febbraio 1591 Paola, dopo aver assegnato metà della propria dote alla figlia Vittoria, moglie dal 1587 di Giacomo Zugliano, ed i restanti 350 ducati ai quattro figli, chiedeva di essere sepolta in San Michele presso il marito. 7. La cancellazione dai notai collegiati di Battista Del Buso, registrata il 12 dicembre del 1572, ci informa sulla causa di un provvedimento tanto drastico: lo zio di Nicolò era un eretico. Condannato dall'inquisizione vicentina, era fuggito dalla città con tutta la famiglia ed una statua che ne riproduceva le fattezze era stata bruciata super plathea. Battista almeno da un anno aveva immaginato un simile epilogo e si era preparato all'esilio attraverso la vendita al miglior offerente di tutti i propri beni. Sull'eresia a Vicenza è già stato detto molto, particolarmente riguardo Alessandro Trissino, Odoardo Thiene, i Pellizzari, il “Colombina”, processati a Venezia dopo il 154761. Il compilatore dell'indice del Santo Ufficio di Venezia segnalava con stupore il numero di processi ad eretici vicentini, inferiore nella Repubblica solamente a quello dei veneziani (gli abitanti di Venezia erano circa 180.000, quelli di Vicenza 25-30.000). E se per gli anni 1547-1567 sono stati conservati 20 processi (media 0,95 l'anno), nei soli quattro anni dal 1568 al 1571 ve ne sono 21 (media 5,25). Del credo eterodosso di Battista, oltre che l'annotazione nei registri del collegio, dà notizia anche il fratello Pace nel proprio testamento del 157462. Il fratello di Andronico fu processato dall'inquisizione vicentina e, non essendo disponibile il fondo relativo, occorre muoversi in altra direzione per tentare di formulare ipotesi plausibili sul circolo di amicizie e su di una più esatta definizione del giro di eretici di cui Battista presumibilmente faceva parte. Delio Cantimori riprendeva parecchi anni or sono da un resoconto di Vergerio, il vescovo di Capodistria passato ai protestanti, il caso del cittadellese Francesco Spiera. Morto disperato per aver abiurato la sua nuova fede ed essersi così condannato alla dannazione, era divenuto presto famoso per essere stato utilizzato dalla propaganda protestante. La scoperta che lo Spiera fosse un notaio, che avesse rogato fra il 1529 ed il 1545 sei testamenti, e che questi testamenti non riportassero, se non il più antico, la consueta commendatio animae tripartita a Dio, Madonna e Santi, ma bensì una originale invocazione a Dio e alla Passione di Gesù Cristo, ha allargato il campo alla ricerca sugli _________________ sentenza dell'1/8/1573. Il caso di Prospero Bachino in BBVI, AT, b. 1139, c. 69, 31.5.1586 e C. POVOLO, L'intrigo, cit., p. 320. 61 A. OLIVIERI, Riforma ed eresia nella Vicenza del Cinquecento, Roma 1992. La cancellazione di Battista in ASVI, CN, b. 205, 12.12.1572. 62 L'indice in questione sta in ASVE, n. 300. Il testamento di Pace in ASVI, N., b. 8592, 31.7.1574 73 eretici italiani anche al materiale notarile. Non è solo la raccomandazione dell'anima inserita nei testamenti ad interessare il ricercatore: l'indagine di storia ereticale può puntare l'attenzione sul rituale mortuario e su consistenza e natura degli eventuali legati pii63. Il metodo induttivo quindi, in mancanza di fonti certe, aiuta lo studioso impegnato nella costruzione di reti ereticali che non si conoscono o per non essere state scoperte dagli inquisitori, oppure perché non se ne è conservata memoria nei documenti sopravvissuti. I fondi dei Collegi notarili, offrendo invece informazioni dirette, possono rivelarsi preziosi strumenti nella ricerca dell'eterodossia ed il caso della cancellazione del fratello di Andronico lo testimonia eloquentemente. Un rapido sondaggio, per alcuni anni cruciali, ha rivelato che altri tre notai le cui famiglie erano in stretti rapporti con i Del Buso, condannati dall'inquisizione, avevano abiurato ma erano stati comunque esclusi dalle matricole. Nel 1568 era stato il turno di Alessandro di Melchiorre Pace, nel 1575 era toccato a Fabio di Paolo Pace, nipote di Alessandro, Agostino di Giacomo Zugliano e Flaminio di Gio Matteo Dagli Orci “uti hereticos formales”. Il 4 ottobre del 1571 Fausto Dagli Orci era imprigionato nelle carceri dell'inquisizione vicentina per aver venduto libri proibiti sotto le logge. Un suo garzone, interrogato, riferiva le caratteristiche blasfeme ed ereticali della condotta del padrone aggiungendo che era solito accompagnarsi ogni giorno con cinque o sei luterani64. I rapporti tra le famiglie in questione è comprovata, fra gli altri, dall'atto rogato il 17 maggio 1566 da Alvise Massaria dalla casa di Nicolò Del Buso in borgo Berga. Gli eredi di Gio Matteo Dagli Orci abitavano una casa diroccata in strà grande ed Anna Angiolello, loro madre e tutrice, aveva chiesto ai fratelli di restaurarla con un prestito da ricavare dalle sue rendite. Finito il restauro, i conti fra le parti erano garantiti da Alessandro Massaria, il medico della peste del 1577, ed il nostro Battista Del Buso “ambi cognati et amorevoli parenti d'una parte et dell'altra”65. Ciò si aggiunge alle sospette eterodossie degli Angiolello e alla nota vicenda di Giulio Pace, fratello di Fabio, giureconsulto di fama europea fuggito a Ginevra e poi docente di diritto e filosofia ad Heidelberg, Nîmes, Montpellier. Abiurato il calvinismo Giulio insegnò un 63 D. CANTIMORI, Prospettive di storia ereticale italiana del Cinquecento, Bari 1960, pp. 39-43, 5253. Cantimori credeva si trattasse di un avvocato.Alla commendatio ha già rivolto l'attenzione Federica AMBROSINI, Ortodossia cattolica e tracce di eterodossia nei testamenti veneziani del Cinquecento, «Archivio Veneto» n. 171 (a. CXXII, 1991), pp. 5-64. Devo le informazioni sullo Spiera e sull'utilizzo in chiave ereticale dei testamenti alla comunicazione tenuta da Silvana Seidel Menchi il 13 novembre 1992 nell'ambito dei seminari del dottorato di ricerca in Storia Sociale Europea presso l'Università degli studi di Venezia. L'utilizzo del notarile nell'ambito della ricerca ereticale è una pratica corrente per la storiografia inglese e tedesca. Ho trovato gli altri Spiera scorrendo il repertorio dei notai in ASBA. Una sola busta per ciascuno dei due testimonia un'attività piuttosto limitata. 64 ASVE, S. Ufficio, b. 30, fasc. A. 65 ASVI, N, b. 7579, alla data 74 anno a Padova per poi tornare alla famiglia a Valenza, dove morì ad 85 anni nel 163566. Pace, Zugliano, Angiolello, nomi che ricorrono spesso fra i parenti acquisiti dai Del Buso. Matteo Dagli Orci è il notaio che roga le procure di Drusiana, madre e tutrice di Girolamo accademico, cancellato a sua volta dalla matricola nel 1571. Fabio Pace sposa Elena Zugliano, sorella di Agostino e figlia di Giacomo Zugliano, dopo che è rimasta vedova di Alessandro Del Buso. Chiara, sorella di Elena, aveva sposato in seconde nozze Anton Maria Angiolello, Vittoria di Andronico aveva sposato Giacomo Zugliano e Curio, figlio di Cecilio di Andronico, sposerà con dispensa vescovile Laura di Fabio Pace ... non ci vuole molto per intuire la direzione di sviluppo di una ricerca sui rapporti fra e dei nuovi eretici di Vicenza che potrebbe dare discreti frutti. 8. La decadenza dei Del Buso è un fatto incontrovertibile dalla fine degli anni settanta del Cinquecento. Il clima politico della città in quegli anni, su cui presto torneremo, offre plausibili ragioni estrinseche della crisi del lignaggio. Tuttavia le ragioni intrinseche della debolezza vanno ricercate innanzitutto nell'implosione della politica matrimoniale che mina le basi patrimoniali della Casa. Fra 1578 e 1579 si succedono una serie di vendite-pegno, con cui Stefano di Silvestro e Pace di Nicolò divengono debitori di Girolamo Priuli e vedono, in conseguenza dell'impossibilità di affrancare la terra alla scadenza, diminuire vistosamente il loro patrimonio a San Germano e Villa del Ferro. Intorno al 1588 emerge inoltre dai documenti una grave esposizione debitoria di Curzio e di Claudio, ai danni dei quali sono ordinati dal giudice del sigillo diversi sequestri di biade67. Il ramo di Villaga, dopo alcuni anni di grande difficoltà, nel 1586 subisce un colpo irrimediabile dalle conseguenze giudiziarie della già citata querela inoltrata da Pietro Antonio Mainenti contro il cognato accademico Girolamo di Battista. Ciò mentre il ramo di San Germano entra a sua volta in crisi a causa della dotazione della giovane vedova di Alessandro di Francesco che, a fronte di una dote incassata di 900 ducati, si ricollocava sul mercato matrimoniale con 2.000 ducati. Dai documenti emerge come siano stati gli eredi a convincere la giovane vedova a risposarsi, obbligandola in tal modo a rinunciare all'usufrutto sui beni del marito, ma la capitalizzazione della dote da restituire si rivelerà un conto pesantissimo da pagare. Nonostante che la sua famiglia da generazioni agisca in concorso con i Del Buso 66 Nel 1569 solo la morte evita al “medico Anzolello” [Francesco] l'incrimiazione dal Santo Ufficio veneziano (ASVE, S. Ufficio, b. 30, proc. contro Nicolò Negri, c. 15v). Brevi biografie di Fabio, celebre medico, e Giulio Pace in G. MANTESE, Memorie, cit., vol. IV/2, p. 1006-1011. L'autore riferisce sul calvinismo di Giulio, ma ignora la condanna di Fabio. Le procure di Gio Matteo in ASVI, CN, b. 56 c.7. Suo figlio è cancellato il 18.7.1568: Ivi, CN, b. 204, c. 25v. La condanna dell'inquisizione per Flaminio è del 5.7.1574, per Fabio ed Agostino del 7.10.1574: Ivi, CN, b. 205, 15.4.1575. 67 Per Stefano e Pace ASVI, N, b. 851, prot. 1, cc. 87v-92v; prot. 2, c. 4r; per Claudio e Curzio ASVI, MAS, b. 96: 14.8.1587; 16.9.1587; b. 97: 7.6.1587, 10.7.1587, 1.9.1587 75 nell'attività del collegio notarile e nonostante i frequenti reciproci scambi matrimoniali, Fabio Pace, nuovo marito di Elena, a partire dal 1575 lotterà strenuamente contro i consorti Del Buso per ottenerne i pagamenti dovuti. Una sentenza del gennaio 1579 condannava i Del Buso a versare 350 ducati e nel luglio successivo, constatato che esisteva ancora un debito di 650 ducati, i debitori cedevano al cognato creditore buona parte dei beni a San Germano, divenendone livellari. La restituzione contestuale della dote di Dardanida Bottarino, vedova di Pace di Nicolò, e la dotazione della di lei figlia Creusa, porteranno Gasparo di Pace ad accettare l'eredità con beneficio di inventario. Ciò mentre l'altra figlia Mattia viene dotata con 1.000 ducati per poter sposare Orazio Costozza e Arcisa di Alfonso Del Buso andrà sposa con 700 ducati, l'anno successivo, al notaio Gio Maria Benedetti. Quattro matrimoni che uniranno maschi dei Del Buso con nomi prestigiosi (Della Volpe, Trissino, Piovene, Poiana), porteranno alla famiglia doti, fra 1581 e 1607, per 1.800 ducati: un bilancio spaventosamente passivo il cui deficit i parziali recuperi delle successive generazioni non compenseranno68. D'altro canto la crisi del grande lignaggio aristocratico di Terraferma aveva raggiunto il suo apice proprio in quel torno di anni. La perdita di legittimità politica che le spinte dal basso e dall'esterno portavano alla compagine un tempo indiscussa detentrice del potere locale, ne rendeva sempre più evidente la nervosa impotenza. Smarrite nell'incomprensibile dialettica tra gruppi di potere veneziani e ceti emergenti che ne usurpavano le prerogative, le famiglie che fino a pochi decenni prima avevano egemonizzato consigli e cariche, affacciandosi anche a ribalte di maggior importanza, si sentivano sempre più minacciate e reagivano arroccandosi dentro valori anacronistici69. Le spaccature generate da una simile situazione non esaurivano la loro carica disgregatrice nelle fazioni violente e negli eserciti privati che si contrapponevano per le strade delle città, o nelle prevaricazioni delle miriadi di armati prezzolati che scorrazzavano per le campagne; anche dall'interno delle singole Case si sentivano pervenire gli echi di lotte fratricide che contribuivano alla crisi70. 68 La dote di Arcisa in ASVI, N, b. 1056, 28.12.1589 [ma 1588], quella di Isabella Ivi, 11.10.1604. per Creusa e l'eredità di Gasparo in ASVI, CRS, mz. 1109, fasc. F n. 5, c. 30r, 3.4.1590. Livio di Camillo sposa Camilla di Zuanne Poiana nel 1581, dotata con 300 ducati e Caterina di Ruggero Della Volpe dotata con 225 ; Claudio, suo fratello, ottiene da Antonia Piovene 800 ducati, Ludovico di Livio sposa nel 1607 Attilia di Iseppo Trissino con dote di 500 ducati (Ivi, N, b. 7415, c. 54v ; b. 7932, n. 13, 26). La causa tra Fabio ed i Del Buso in Ivi, fasc. A n. 1, cc. 65r-84v. Il crollo finanziario del ramo di Villaga è documentato in ASVI, N, b. 9288, 5.2.1607 in cui si fa riferimento al fallimento del dicembre 1586 e Ivi, CRS mz. 2192, fasc, 1308 c. 3, 4.9.1586. 69 C. POVOLO, L'intrigo dell'onore, cit., p. 241, 265 segg., 317-318; ID., La primogenitura di Mario Capra, Vicenza 1991, p. 11 70 Le laceranti divisioni interne al ramo dei Da Porto di Castelvecchio sono oggetto del mio studio S. LAVARDA, Ca’ del diavolo, cit. Nel 1604 una pace imposta dal Capitano Francesco Contarini testimonia altresì il tentativo di sanare la faida fra due diversi rami dei Valmarana, di cui si rendono mallevadori altri vecchi del lignaggio ASVI, N, b. 912, 13.9.1604. Il caso di Scipione Loschi esposto nel primo capitolo, che denuncia due decenni dopo i reiterati tentativi dei suoi parenti di eliminarlo, diviene perciò emblematico: ASVI, CN, vol. 273. 76 Negli ultimi decenni del Cinquecento la lunga faida che vede coinvolte le famiglie Da Porto e Capra assumeva toni drammatici essendo il controllo dei consigli cittadini la posta in gioco. Alla fine i Da Porto perdono il predominio politico nel Consiglio dei 150 a vantaggio del partito avversario. Sebbene la lotta con i Capra ed i loro alleati continui ben oltre la soglia del XVII secolo, alternando periodi di sopore a bruschi e drammatici risvegli, è in questi decenni cruciali che viene meno buona parte delle residue possibilità di difesa dell'autonomia politica della più antica aristocrazia cittadina. La battaglia sulla vacanza delle cariche e la conseguenti riforme del consiglio del 1541 e 1593, imposte da Venezia, unitamente all'inasprirsi della legislazione criminale, portano in un vicolo cieco di frustrazione e di impotenza71. La sempre più necessaria trasversalità delle alleanze poggiava sicuramente anche in basso e se le grandi famiglie aristocratiche avevano da tempo snobbato la partecipazione diretta alla gestione del collegio dei notai, appare evidente che loro emissari dovevano farne parte riproducendo equilibri di potere difficili da identificare perché mutevoli e fondamentalmente occulti. Credo che solo nel riverbero di tali equilibri una famiglia mediocre e di recente ascesa potesse sperare di ottenere vantaggi. Se per tutto il Quattrocento e buona parte del secolo successivo si avverte la presenza dei Barbarano, la tutela dei Valmarana, la clientela con i Thiene72 e la contiguità dei Poiana alle spalle dei Del Buso, negli ultimi decenni del Cinquecento è più difficile identificare rapporti di tal genere, anche per una maggiore autonomia, o audacia, nelle azioni che la famiglia dei notai di Berga sceglie di mettere in atto; restano comunque degli indizi. Il 1572, che abbiamo visto essere così decisivo per le sorti della famiglia, è anche l’anno della morte del celebre comandante militare Ippolito Da Porto. Antonio Maria Angiolello, cognato di Andronico e Battista Del Buso, redige nell'occasione una celebrata orazione funebre letta nell'Accademia Olimpica e subito pubblicata con la storia della famiglia Da Porto a corredo. Contestualmente Fabio Pace, dedito alle lettere oltre che alla medicina, scriveva un epigramma In morte del Conte Ippolito Porto in cui, al pari del morto, esaltava il discorso di Antonio Maria angelo uman. Incidentalmente va segnalato che Leonardo Valmarana, componente di punta della famiglia di cui i Del Buso appaiono clientes fin dall'inizio del Quattrocento, sposa nel 1573 Elisabetta, orfana di Ippolito, consolidando così il rapporto tra le due Case73. Ricordiamo in sovrappiù che pochi anni prima Andronico di Nicolò aveva affittato a 300 ducati l'anno la possessione di campagna di Giulio Da Porto e che nel 1565 anche il fratello Battista intraprendeva 71 S. ZAMPERETTI, Poteri locali e governo centrale da Cambrai al primo Seicento, in Storia di Vicenza, 3/1. L’età della Repubblica veneta (1404-1797), Vicenza 1989, pp. 101-111. 72 Una lettera datata Venezia 9 fevrier 1527 attesta il patronato di Girolamo Thiene su Matteo del Buso chiamato per mera formula di cortesia suo como fradelo ASVI, N, b. 6226, prima dell'atto 15.11.1535. 73 C. POVOLO, L'intrigo, cit., pp. 269-270. 77 l'attività di affittanziere locando per cinque anni da Gaspare di Nicolò Da Porto tutte le proprietà dei Berici meridionali con corrispettivo di 400 ducati l'anno74. Troppo poco per dire che i Del Buso ed i loro collegati, Pace ed Angiolello, si muovessero nel cono d'ombra dei Da Porto ed ipotizzare che la crisi di questi ultimi abbia influenzato le fortune dei primi, tuttavia le concomitanze e gli indizi propongono seriamente tale ipotesi, tanto più se si considera anche l'importanza della famiglia Da Porto nella storia dell'eresia di Vicenza. Francesco Da Porto, condannato una prima volta dall'Inquisizione nel 1580, abiurerà e la questione si concluderà con un forte esborso di denaro; ultrasettantenne, vedrà nel 1587 formarsi un secondo processo a suo carico. Assolto dall'inquisizione romana nel gennaio del 1590, sopravviverà un altro anno. Il suo nome ricorre spesso nelle lettere di due fra i più famosi transfughi vicentini per motivi di religione: Lorenzo Pellizzari e Odoardo Thiene, e lo si è anche reputato vicino ad Alessandro Trissino75. 9. Nonostante che nel 1601 venga nominato vicario a Brendola, il primogenito Cecilio (1554-1605) eserciterà esclusivamente incarichi di Palazzo e si impegnerà in un'attività molto intensa di acquisti e successivi livellamenti di terre a San Germano, dove risiederà stabilmente imponendo ai suoi eredi di costruire nella parrocchiale una tomba di famiglia. Un simile attivismo, funzionale al tentativo di assumere un ruolo egemone all'interno del piccolo centro berico, soprattutto al cospetto dei principali lignaggi contadini dei Troncon, Barugola, Bertesina e Giacomuzzo, si esaurirà di fronte all'intoccabile potenza dei Dolfin e dei Priuli ed alla morte, che lo coglierà a 51 anni76. Solo l'aiuto dei parenti collaterali consentirà di erigere la tomba di famiglia, per la quale 74 Per l'affitto di Giulio Da Porto ASVI, N, b. 7605, segn. 32; ivi, N, b. 8070, c.15r; quello di Battista in Ivi, b. 8063 c. 47r. 75 La fidejussione a non offendere i suoi accusatori che gli viene richiesta per ottenere l'assoluzione induce a pensare che il tribunale avesse finito per giudicarlo vittima di voci calunniose: ASVI, AP, b. 58/1068. A. OLIVIERI, (Riforma ed eresia, cit.) disegna una genealogia culturale (p. 18): “da Simone [ultimi decenni del '400] proviene Giovanni, poi Francesco Da Porto”. La linea di discendenza biologica è: Simone, Nicolò, Gio Benedetto, Giovanni, Francesco. [M. DA PORTO, La famiglia Da Porto dal 1000 ai giorni nostri, Vicenza 1979 (Dattiloscritto in Archivio di Stato di Vicenza), p. 70]. Nel 1555 Nicolò Pellizzari, il principale eretico-mercante cittadino, desidera che siano informati di un suo viaggio a Parigi Francesco Da Porto, Giulio Capra e Francesco Stella (p. 384); Francesco appare ancora nelle lettere di Odoardo Thiene del 1571 che attestano i rapporti fra il famoso transfuga e la famiglia Bissari con cui Francesco è imparentato uxorio nomine (p. 452); ancor più egli sembra legato, tramite i Pellizzari, ad Alessandro Trissino, la figura più eminente dell'eresia berica (p. 384). I legami dei Porto con i Thiene denotano una relazione complessa, che andrebbe approfondita. Il Francesco Thiene che nel 1568 viene denunciato nel processo contro Alessandro Trissino è forse il marito di Isabetta figlia di Benedetto Da Porto (p. 344)? Sulla vicenda umana di Francesco Da Porto rinvio al mio lavoro Ca’ del diavolo. Enigmi palladiani e vicende dell’aristocrazia vicentina fra Cinque e Seicento, «Archivio veneto» V/CLVII (2001), pp. 5-48. 76 Al Sigillo nel 1590 e nel 1605 col nipote Andronico di Curzio: ASVI, CN b. 12 c. 86v e 143r; per il vicariato Ivi, b. 300-16 e G. BRESSAN, Serie dei podestà e dei vicari della città e territorio di Vicenza, Vicenza 1877, altri vicari della famiglia Del Buso: Ludovico nel 1566 a Montebello (p. 73); Girolamo nel 1573 a Barbarano (p. 24) e nel 1598 a Valdagno (p. 114); nel 1576 Pace Del Buso cede il vicariato di Brendola (p. 32); Bressan è evidentemente incorso in un errore attribuendo il vicariato di Orgiano nel 1575 ad Andronico (p. 89). 78 Cecilio aveva voluto costituirsi come capostipite e la sua eredità, accettata col beneficio di inventario, sarà ridotta a metà del Seicento a circa 12 campi ed una piccola casa dominicale. La nuora Laura Pace (di Fabio), vedova del figlio Curio, vivrà fino al 1677 combattendo su diversi fronti per mantenere l'esigua sostanza. La più amara di queste battaglie la vedrà sconfitta da Alessandro di Curzio Del Buso nel 1639, ed ella si vedrà costretta a cedergli la parte dei beni fedecommessi, essendosi estinta la discendenza maschile di Cecilio. Nel 1665 subirà ancora un sequestro ad istanza delle monache di Araceli, e riuscirà a salvare una parte dei beni solo perché ipotecata alla sua dote. Il comendatore che quel giorno si era recato a San Germano per effettuare il sequestro, “fatta inquisitione diligente”, riferiva non aver trovato beni “di alcuna sorte”77. Con queste laconiche parole si concludeva la parabola di una famiglia un tempo relativamente potente. Gli altri due fratelli di Nicolò sono Cesare (nato nel 1556), che amministra i beni e tutela i minori, anche collaterali, del lignaggio, e Curzio (1560-1624). Ai destini della famiglia sembra che Cesare abbia dovuto sacrificare la propria discendenza; dal tardo matrimonio con Alteria Colzè (1599) non risulta gli siano nati figli maschi e Cesare, forse per frustrazione, pare svolga con zelo non più che ordinario il suo compito: il 30 gennaio 1592 il podestà Girolamo Priuli gli intimava, sotto pena di 100 ducati, di salvaguardare con attenzione i beni di Pace, infante di cui era tutore78. Curzio sceglie invece di staccarsi dalla fraterna, la comunione dei beni e la coresidenzialità con i fratelli, e di proseguire un itinerario che le scarse emergenze documentarie sul suo conto fanno presupporre di basso profilo. Con il lignaggio nell'occhio del ciclone la sua appare essere la scelta (se di scelta si tratta) più lungimirante; solo a lui, che pazientemente defilato continuerà a coltivare la memoria genealogica nominando i due figli rispettivamente Alessandro ed Andronico, la sorte offrirà di garantire al lignaggio una continuità oltre la peste del 1630. Ciò consentirà di accentrare nella propria discendenza le risorse fedecommesse, quindi di rilanciare il percorso di ascesa sociale che porterà il nipote Carlo di Andronico al Consiglio dei 150 ed il di lui figlio Andronico al collegio dei giudici. 10. Sul finire del Cinquecento Giacomo Marzari (appartenente a sua volta ad una famiglia notarile) rammenta nella sua Historia di Vicenza che i collegiati si segnalano, 77 ASVI, CRS, b. 1111, c. 76v, 9.3.1665. L'abortito tentativo egemonico di Cecilio sarà oggetto di una prossima pubblicazione. Nel proprio testamento Camillo di Claudio Del Buso chiedeva, se fosse morto a San Germano, di essere inumato “nella sepoltura delli figli del q Ser Cecilio Del Buso po che fu da essi figli con li propri suoi denari costrutta et fabricata”, altrimenti nella tomba di San Michele a Vicenza. ASVI, N, b. 9289, 7.4.1610. Per la causa di Alessandro contro Laura ASVI, CRS, b. 1429, fasc. 36; la difesa contro le monache Ivi, mz. 1111 78 L'eredità di Pace di Nicolò era stata oggetto di una controversia interna alla famiglia e Cesare si era così trovato in una difficile situazione di conflitto di interessi, come si direbbe oggi, essendo suo dovere tutelare gli interessi di Pasetto di Gasparo e nello stesso tempo salvaguardare i propri che con questi ultimi confliggevano. La causa in ASVI, CRS, b. 1109, fasc. F n. 5 cc. 17, 23, 30, 33. 79 più che per la nobiltà della loro nascita, per la mediocre ricchezza della maggior parte di loro. Il nobile Gasparo Muris, notaio collegiato di antica tradizione familiare, è un mediocre saltimbanco; altri, la maggior parte forse, non lesinano di usare vanga e piccone nelle loro esigue proprietà di campagna, quando si spostano usano le gambe non possedendo cavalcatura e va da sé che, potendo, i presidenti del collegio chiudono entrambi gli occhi sulla loro condotta ignobile79. Nicolò non si può dire fosse povero, ma certamente non era ricco. Nel 1590 si trovava allibrato in estimo per 7 soldi e 6 denari; nel 1621 per 5 soldi, a testimoniare la diminuzione di un terzo della sua capacità contributiva, ciò che lo confina in uno stato, se non proprio di miseria, quantomeno di prossimità alla soglia del bisogno80. Orfano a quattro anni, ne aveva 17 in occasione della divisione dei beni del padre ed era stato perciò il fratello ventinovenne Cesare a rappresentarlo. A Cesare e Nicolò rimanevano 21 campi principalmente a San Germano, una parte della casa dominicale, affitti annui da riscuotere per poco più di 12 lire, e da pagare per 86 lire. I beni derivatigli dalle divisioni dei fedecommessi finiti nei rami estintisi con Silvestro di Stefano e Gasparo di Pace, rispettivamente del 1589 (2 campi, 2 staia di frumento, fitti per 10 lire e due polli l'anno) e del 1602 (poco più di due campi ed un affitto di circa 7 lire), ne avevano rinforzato ben poco la base patrimoniale81. Egli fin da bambino vive in sodalizio con il fratello Cesare che infatti sembra essere l'unico familiare che ne compiange la sfortuna. Su Nicolò aleggiava una cattiva fama già da prima del 1613: negli uffici era conosciuto per essere solito togliere denaro dalle scatole senza darne parte ai colleghi. Tuttavia mentre viveva con la famiglia in una casa piccola e decentrata e non ne usciva quasi mai per paura di incontrare i suoi numerosi creditori, ciò appare tollerato. Ma fra 1612 e 1614 la nobiltà minacciata mette a rischio l'autonomia del collegio ed il suo prestigio. La bisca, che Nicolò viene accusato di gestire, è funzionale a rivelarne il carattere plebeo, il suo cinico attaccamento al denaro, la volgarità della condotta, la mancanza di onore. Un modus vivendi che si contrappone 79 G. MARZARI, La Historia di Vicenza, Venezia 1591, p. 101, cit., assieme alla vicenda Muris, in G. BISAZZA, Notai tristi, cit., pp. 3-33 80 ASVI, EST, b. 7, c. 29; Ivi, b. 9, c. 20. Nel 1634 il cittadino più ricco (o perlomeno quello che dichiarava un maggior patrimonio) del minor consiglio di Vicenza era Bonifacio Poiana il cui gigantesco palazzo confinava con quello dei Del Buso a San Silvestro, allibrato per 37 lire, 12 soldi e 6 denari. Fra i 150 consiglieri solamente quattro erano estimanti per meno di una lira (2.6%); 52 fra una e cinque lire (34.6%); 40 fino a 10 lire (26.6%); 26 sotto le 15 lire(17.3%); 12 sotto le 20 lire (8%) ed infine 9 sotto le 30 lire (6%): ASVI CN, b. 300 81 ASVI, CRS, b. 1429, n. 330, c. 6r, 15.8.1585. Il passivo più consistente era l'affitto di 74 lire e 8 soldi da pagare alle monache dell'Araceli. A Cecilio restavano quasi 22 campi, ma fra le sue voci passive era compreso l'affitto di ben 24 ducati da versare annualmente a Curzio. Quest'ultimo aveva venduto ai fratelli la sua parte dei circa 45 campi paterni il 5 luglio del 1584. Otteneva in pagamento 100 ducati in contanti e 400 in un affitto annuo al 6% (ecco i 24 ducati) da riscattare in otto anni: ASVI, CRS, b. 1429, n. 330, c. 1r. Il 13 giugno 1585 Curzio stipulava il proprio contratto dotale con Lavinia Castellini e ne otteneva una dote di 600 ducati: Ivi, c. 3r. Le divisioni del 1589 (18 settembre) e 1602 (1 ottobre) in ASVI, CG, b. 2838, processo Andronico Bosio, cc. 10r e 13r. 80 clamorosamente a qualsiasi segno connotatorio di una benché minima dignità nobiliare. La casa centrale “di gran fitto”, la boria ed il comportamento stravagante della moglie, la figlia maggiore che andava “in ordine e pomposa”, il ridotto in casa propria “cosa molto infame de un citadin”, divengono provocazioni intollerabili, specialmente quando sono ostentate come il frutto di comportamenti divergenti dalla solidarietà corporativa82. Il rapporto privilegiato con il rappresentante dell'autorità veneziana è tutto sommato ambivalente: se da un lato l'inhonesta vita di Nicolò svilisce il ruolo notarile infamando tutta la corporazione, dall'altro il patronato del podestà che ne protegge gli scandali è funzionale a desacralizzarne la funzione simbolica. Così quando Orazio Scroffa, fra gli altri, ricorda che Nicolò aveva venduto per 100 ducati l'onestà di sua figlia al giudice del maleficio e che non c'era bozzolo che non parlasse di questo, il destino dell'aspirante Rigoletto è definitivamente segnato. Il mercimonio della figlia, e la conseguente discesa nell'abisso dell'abiezione e dell'infamia, trascinano con sé tutto l'apparato di vertice della Repubblica: podestà, giudice del maleficio, contestabile, lo stesso palazzo da poco costruito, sacrario del potere, che ospitava anche per 15 giorni consecutivamente Ardemia. Nicolò organizza il proprio tentativo di difesa invocando l’intangibilità del ruolo simbolico incarnato dal podestà veneziano, per questo si ostina a negare rapporti con gli altri ufficiali subalterni. Alla fine sarà però egli stesso a spogliare il re, denunciandone le meschinità. La condotta del podestà Zen, pover'uomo senza onore, si presta bene ad essere utilizzata come rozza merce di scambio nella dialettica in corso fra collegio notarile ed autorità veneziana che illustreremo oltre. Quando viene interrogato su chi abitasse prima nella grande casa che aveva affittato in contrà dei Proti, Nicolò si schermisce dicendo di non sapere per averla trovata aperta e vuota. Riemerge poi dalle nebbie della sua memoria la circostanza che l'edificio prima di lui era stato abitato dal giudice del maleficio. I rapporti con il podestà ed i suoi ufficiali avevano già preso la piega che conosciamo. La casa ai Proti, di fronte all'ospedale dei nobili decaduti, si configura come uno snodo della sua vicenda. Vi confluiscono il podestà ed i suoi accoliti, ma non i nipoti. I primi sembra godano di un diritto su quel luogo, ottenuto non solo con le promesse di dotazione di Ardemia, o con la necessità per chi vi risiede di farsi benvolere dagli zaffi, ma anche perché già da prima che ci abitasse Nicolò la casa era, per così dire, sotto tutela veneziana. Se il fatto che i parenti non accettino di viverci sia legato ad una simile condizione non può essere provato, è tuttavia più volte documentato il dolore che le immaginate conseguenze della condotta di Nicolò ingeneravano nel fratello Cesare. È d’altronde significativo che Ciro e Curio, i due figli maschi di Cecilio citati nel costituto, abbiano nel 1613 rispettivamente 14 e 13 anni e che i loro tutori siano lo zio Cesare, Lunardo e Bernardino Bachino ed infine Camillo Chiappin, i primi due cognati, il terzo intimo 82 ASVI, CN, vol. 272, c. 586v. 81 amico del padre. Le ultime disposizioni di Cecilio dimostrano la sua incertezza riguardo l'affidamento dei figli e gettano ombre ulteriori su Cesare. Nel testamento (settembre 1604) aveva nominato commissari gli ultimi tre; in un primo codicillo rogato l'anno successivo, vi aggiungeva Cesare “se sopraviverà a lui” con diritto ad abitare a piacere nella sua casa e ad avere dai suoi beni vitto e vesti “mentre sii concorde con la consorte [del testatore]”. Il giorno successivo, in un secondo codicillo, stabiliva che se Cesare non avesse abitato con i suoi figli, “o non volessero i suoi heredi” la commissarìa si sarebbe dovuta intendere priva degli alimenti accordati nel primo83. Vien da pensare che Cesare abbia spinto Cecilio per assumere su di sé il controllo delle due linee di discendenza che la casa dei Proti avrebbe fisicamente unificato e che il tentativo possa essere fallito per le resistenze degli altri tre commissari, più consapevoli dei rischi, o interessati a che ciò non avvenisse. I Bachino, i Chiappin, i Pace, gli Zugliano, i Benedetti, i Castellini, i Somagio, i Ferretto, sono tutti lignaggi notarili. Appare allora evidente come la vita dei Del Buso fosse legata a quella degli appartenenti alla corporazione ben oltre i limiti della comune professione; varrà allora la pena di tentare di conoscere meglio il mondo dei notai vicentini fra Cinque e Seicento. 83 Il testamento in ASVI, CRS, mz. 1429, fasc. 35, n. 486, 5.9.1604, due successivi codicilli Ivi, N, b. 8705, c. 46, 16.10.1605; 47, 17.10.1605 82 83 Capitolo 4. Notai di collegio Di primo acchito non può non stupire il numero dei notai che operavano in una città di medie dimensioni com'era Vicenza nei secoli XVI e XVII. L'élite del ceto era costituita dai 300 notai modulanti, così detti per essere iscritti nelle cinque module del collegio e proprietari delle lettere di nodaria cui, a rotazione, erano assegnati i 60 uffici di scrivani e pubblici ufficiali della Comunità. Facevano inoltre parte del collegio le centinaia di vacanti, confinati nelle ultime pagine della matricola in attesa di acquisire una lettera e divenire a loro volta modulanti. Il loro numero variava secondo l'andamento demografico, essendovi in genere iscritti i figli dei modulanti fin da bambini. Mentre per costoro le ammissioni nella matricola si risolvevano in pura formalità, per i candidati di famiglie nuove gli esami si rivelavano quasi sempre degli ostacoli insuperabili, soprattutto a causa della facilità con cui i presidenti, nell'ambito dei severi processi quinquennali (lustrali), riuscivano a produrre prove di nobiltà negativa. Infine era attiva anche una pletora dei notai non collegiati, detti imperiali o apostolici, in genere operanti nei villaggi del territorio, il cui privilegio derivava da antichi diritti feudali detenuti da famiglie comitali (principalmente la legittimazione dei figli naturali e, appunto, la creazione di notai) e che l'azione concorde del collegio notarile e dello Stato tendeva, non sempre con successo, ad emarginare. Su di un ruolo così essenziale per la publica fides, che lo consacrava oltre che al servizio pubblico in una società priva di burocrazia di carriera, alla formalizzazione dei contratti privati, molto era stato definito dagli antichi statuti del collegio, da quelli municipali e dall'autorità veneziana. I notai non potevano essere né preti né chierici, a Venezia dovevano appartenere alla categoria dei cittadini originari, o di privilegio, e avere più di 25 anni. Nella città berica la famiglia del candidato doveva provare la propria vita civile, esente dalla macchia dell'attività meccanica o rurale, per almeno 50 anni fino al 1574, 80 fino al 1602 e cento successivamente. Nell'indefinitezza dello status nobiliare, l'appartenere al collegio notarile di Vicenza attribuiva la certezza di una condizione civile prestigiosa154. Una condizione che però, nella seconda metà del Cinquecento, era stata messa in discussione dalle grandi famiglie aristocratiche che monopolizzavano i consigli cittadini. Se nel 1510 i componenti il Maggior consiglio dei Cinquecento erano per un quinto descritti anche nelle matricole del collegio, il loro numero si era via via assottigliato, così come la presenza delle grandi famiglie nelle matricole, mentre gli osservatori avevano perciò buon gioco nel sottolineare la crescente mediocrità economica di molti notai. Nel 1541 siedevano nel riformato Minor consiglio 154 G. PEDRINELLI, Il notajo istruito nel suo ministero secondo le leggi e la Pratica della Serenissima Repubblica di Venezia, Venezia 1768, p. 4. Parte del Maggior Consiglio 9 luglio 1323, 11 novembre 1485. G. BISAZZA, Notai tristi, cit., p. 17. 84 dei Cento otto notai; dal 1595 al 1634 in media due (con il numero dei consiglieri elevato a 150), quasi sempre gli stessi individui la cui presenza, più che rappresentare le istanze della professione, sembra rientrare nelle logiche di fazione che dividono anche sanguinosamente l'aristocrazia vicentina del periodo. Il ceto notarile a Vicenza era formalmente molto compatto e probabilmente la distinzione fra notai modulanti e notai vacanti, non condizionava la categoria quanto la distinzione presente a Padova ed in molti altri centri di terraferma tra notai ad instrumenta, abilitati a rogare unicamente atti privati, e ad acta, che soli potevano esercitare gli uffici pubblici155. Tuttavia i chiari segni di declino politico, ravvisabili nella latitanza forzata dai consigli, si accompagnano all'esclusione dei notai dalle cariche più prestigiose a partire dagli ultimi decenni del Cinquecento. La cooptazione, pur con ruoli gregari, nelle fila di chi combatte per il potere in città, ed il conseguente abbandono degli interessi corporativi, avviene soprattutto a cavallo fra Cinquecento e Seicento, quando essere notaio di palazzo non è più segno sintomatico di prestigio, quando altresì entra nel vivo, in molte città della penisola, la discussione sull'ignobiltà della professione, che si tende ad assimilare sempre più alla semplice funzione di scrivano156. Dal 1612 i notai di terraferma dovevano essere approvati dai rettori veneziani. Da allora detti di veneta autorità, sarebbero stati gli unici a poter rogare nei territori dello stato. Lo scopo di un simile provvedimento era orientato da un lato a togliere la terra da sotto i piedi ai notai imperiali e apostolici, spesso incolti e corrotti, dall'altro a centralizzare il controllo sui collegi e sulle nomine. Un proclama dei rettori vicentini, l'11 gennaio 1614, intimava che tutte le leggi e ordini dell'Eccellentissimo Senato siano in tutte le sue parti inevitabilmente eseguite ... per levar dubii e sotterfugi ... non potendo per l'avenir alcuno, sia che si voglia, rogar ne sottoscriver instrumenti né atti di alcuna sorte con altro titolo che de' Nodari Veneti157. Tuttavia al collegio vicentino, che con il bresciano godeva di uno status di distinzione rispetto agli altri del Dominio, era accordato il privilegio di continuare a creare notai pur se con la supervisione del podestà e dei suoi assessori158. Non è difficile immaginare che tale concessione sia venuta dopo un braccio di ferro con l'autorità veneziana e che pertanto l'esemplare castigo con cui in quegli anni si sanzionavano comportamenti giudicati indegni, quali quello tenuto da Nicolò, sia figlio dei tempi. Il 155 Per Vicenza L. CRISTOFOLETTI, Memorie intorno al collegio dei nodari, Vicenza 1867, p. 11; per Padova A. VENTURA, Nobiltà e popolo nella società veneta del '400 e '500, Milano 1993², p. 239. 156 In 28 città italiane, su 53 prese in considerazione, il notariato non solo non attribuisce nobiltà, ma anzi la pregiudica: A. PARADISI, Raccolta di notizie storiche, legali e morali per formar il vero carattere della nobiltà e dell'onore, ovvero l'ateneo dell'uomo nobile, vol. I, Ferrara 1740, pp. 225232, cit. in G. BISAZZA, Notai tristi, cit., p. 25. 157 G. PEDRINELLI, Il notajo istruito, cit, p. 4. Parte del Maggior Consiglio 12 gennaio 1612. 158 BBV, AT, b. 152, fasc. 2, c. 28. 85 collegio in simili circostanze avrebbe giocoforza dovuto tutelare la propria onorabilità con una decisione conforme agli Statuti ed applicata con tutta la severità possibile. Il comportamento non proprio sacrale del podestà, che emerge dalle testimonianze, avrebbe anche potuto essere speso nella contrattazione. Sta di fatto che l’epilogo di tutta la vicenda si consuma positivamente per il collegio subito dopo le disavventure del nostro Rigoletto. Giunti a questo punto vale la pena richiamare i termini entro i quali si svolge la vicenda processuale di Nicolò: 7 febbraio 1614, avvio del procedimento e, 21 marzo dello stesso anno, cancellazione perpetua dalla matricola. Il 9 agosto del 1614 i nuovi rettori comunicavano al senato veneto il proprio parere favorevole a che i notai vicentini continuassero a creare nuovi colleghi. Il 22 agosto il senato decretava che a Vicenza non avessero effetto le parti 12/1/1612 e 20/12/1613, ed il locale collegio fosse conservato nei suoi privilegi159. Una vittoria che, oltre alla salvaguardia delle antiche prerogative, lo rafforzava anche nel contenzioso in atto con la Comunità. La forte dialettica che caratterizzava i rapporti tra consigli cittadini e collegio copriva un lungo arco di tempo, ma dalla metà del '500 aveva acuito i propri aspetti conflittuali. Il 20 gennaio del 1544 un provvedimento del consiglio di Vicenza istituiva un pubblico deposito di tutte le scritture dei notai defunti, che dovevano esservi versate da chi fino ad allora le aveva detenute, e nel 1603 si eleggevano tre Protettori dell'Archivio160. Ciononostante “tutti gli atti non si ripongono in archivio ... ma rimanendo nelle mani ... de chi gli ha scritti con poca o niuna cura se ne perde in breve la memoria e la traccia con perniciose conseguenze”161. Da una denuncia presentata al rasoniero, in data 28 giugno 1628, si apprende che i presidenti del collegio, pur essendone impediti dal capitolo 37 degli statuti, svolgevano l'ufficio contemporaneamente all'esercizio della carica; notai indebitati ricoprivano cariche nel collegio, dove peraltro risultavano iscritti anche minori di 18 anni, cose tutte esplicitamente vietate162. Al rasoniero i notai dovevano consegnare tutti i libri dei consigli e chi avesse voluto visionarli a lui solo poteva farne istanza. Ciononostante si doveva insistere sul fatto che non era lecito entrare nella Torre per visionare libri e scritture, né tantomeno farli uscire per le “molte fraudi, molte falsità e molti inganni” che si sarebbero potuti commettere. Il 4 gennaio 1621 un proclama obbligava qualsiasi notaio a “darsi in nota” a Paolo Breganze, massaro della “tansa d'instromenti e testamenti”, per far bollare il protocollo su cui si sarebbero poi dovuti registrare gli atti al fine di limitarne l’evasione generalizzata. Le pene da comminarsi ai contravventori erano tutt'altro che lievi; chi non registrava e non pagava era privato dell’ufficio e bandito in perpetuo e, 159 ASVI, CN, b. 300 c. 12 e parte in Pregadi 22.8.1614 a stampa L. CRISTOFOLETTI, Memorie, cit., p. 11. 161 REL, p. 329. Podestà Marcantonio Viaro, febbraio 1632. 162 BBV, AT, b. 112, cc. 5 r.- 7 r. 160 86 significativamente, si informavano “tutti li suddetti nodari che si scoderanno similmente conforme al presente proclama, non ostante alcuna corruttela usata gli anni passati”. Vent'anni dopo Alvise Bragadin, di ritorno dal rettorato di Vicenza, dava un'implicita testimonianza di quanto provvedimenti di tale tenore fossero osservati lamentando che “Pregiudiciale al datio della tansa d'instrumenti e testamenti è l'abuso introdotto da nodari di tenir in filza i rogiti senza registrarli e senza usar far bollare i protocolli”163. In un simile contesto i Del Buso avevano compiuto il loro cursus honorum. Matteo di Girolamo, del ramo di Villaga, aveva iniziato a rogare atti privati, probabilmente con un'investitura di notaio imperiale, dal 1517. Era stato ammesso tra i vacanti con voto favorevole dei due terzi del collegio nel settembre del 1519 ed il trasferimento tra i modulanti era avvenuto cinque anni dopo164. Un inizio di carriera folgorante, favorito dall'alleanza con gli Angiolello e, soprattutto, dalla secolare protezione dei Valmarana che anche nell'acquisto della lettera aveva avuto importanza decisiva. Il 14 giugno del 1521, infatti, Matteo dapprima vendeva 6 campi presso Villaga a Cristoforo Godi per 28 ducati “cum quibus ... et aliis dictus Matheus ... affirmavit velle emerere unam litram notariae … in qua reperietur ascriptus Franciscus Io. Mariae Anzolelli”. Il contratto era approvato da Vincenzo Valmarana che si prestava come fideiussore ed immediatamente Matteo acquistava la sospirata lettera per 45 ducati. Il medico Francesco Angiolello era figlio di primo letto di Giovan Maria, il viaggiatore alla corte di Maometto II e, quel che a noi qui più importa, colui che farà sposare due sue figlie ai fratelli Andronico (padre di Nicolò) e Battista (eretico). Pur trattandosi di una vendita sui generis, in quanto Matteo possedeva sui beni solo il dominio utile, il prezzo dei sei campi corrisponde al 62% di quello della lettera. La procedura di accesso per i parenti di un collegiato, come già detto, si semplifica: fra il 1517 ed il 1536 i modulanti della famiglia diverranno quattro; dal 1537 al 1556 dieci; 13 fino al 1574; 18 fino al 1595 e nella matricola rinnovata nel 1591, con lo stesso Nicolò, saranno ben nove i Del Buso iscritti a varie riprese nelle module mentre nessuno della famiglia risulterà segregato fra i vacanti ad aspettare il maturare dei tempi per la promozione al rango superiore. Scenderanno a 13 nel ventennio fino al 1614 e saranno dieci fra il 1615 ed il 1632. Va segnalata anche per i Del Buso la pratica comune di far registrare in modula i figli per poi poterne subappaltare gli uffici. Ludovico di Nicolò diviene modulante nel 1596, quando non ha che un anno; l'altro figlio Battista è già 163 BBV, AT, b. 113. La torre era il luogo dove il comune conservava i suoi documenti, da qui la denominazione di Archivio Torre alla sezione della Biblioteca Beroliana che oggi li ospita. Le pene in BBV, AT, b. 963, segn. 19. Bragadin in REL, p. 399. 164 ASVI, CN, b. 91, c. 975, 16.9.1519; ed ASVI, CN, b. 53, c. 22v, 28.9.1519, il trasferimento tra i modulanti del 31.5.1524 Ivi, c. 3r 87 modulante nel 1607, a cinque anni. Entrambi saranno successivamente cancellati e reiscritti, stavolta tra i vacanti, dopo la definitiva esclusione del padre165. Interessante è anche la distribuzione delle lettere: se averle concentrate in una delle cinque module significava veder aumentato il peso della propria famiglia negli uffici in un certo quadrimestre, averle invece distribuite garantiva una presenza costante, o quantomeno un'influenza continua, nel poterne disporre per prestiti, comodati e quant'altro. I Del Buso avevano concentrato il proprio patrimonio in uffici nelle lettere A, C ed E. Nel periodo 1596 -1614 acquisiranno tre lettere D e fra 1615 e 1632 tre lettere B (perdendo le D). Quindi la loro presenza negli uffici, salvo ottenerli in prestito da altri assegnatari, era ad anni alterni di 8 mesi e di quattro mesi. Il quadro era incrinato dalle due matricole consecutive, rinnovate nei periodi che a noi interessano particolarmente, 1575-1580 e 1581-1584 e da quelle riscritte per il 1607 (valida fino al 1610) e 1611 (fino a tutto il 1614). Nella prima restavano loro tre lettere, una C e due E, nella seconda solo due, C ed E. La matricola del 1607 vedeva iscritto alla fine un solo notaio con un'anomala lettera D che diveniva C nella successiva. La matricola successiva registrava l'ignominiosa cancellazione del protagonista della nostra storia nel marzo del 1614 ed alla fine solo Giulio di Ludovico conservava una lettera di nodaria, mentre si aggiungevano ai vacanti i due giovani figli di Nicolò. Fra 1615 e 1620 i modulanti della famiglia torneranno ad essere cinque166. Le lettere erano beni patrimoniali che venivano compravendute, prestate, impegnate. Il movimento dei nomi dei proprietari nelle matricole, documentato da cancellature, reiscrizioni, nuove cancellature, ciascuna delle quali motivata da minuscole, quasi indecifrabili, ma preziose annotazioni a margine, in certi periodi era incessante e, per tornare ad un minimo ordine, nel Cinquecento tali registri venivano rinnovati del tutto ogni quattro-cinque anni. Alla morte di Battista di Girolamo prende il suo posto fra i modulanti della lettera C il fratello Ludovico, per essere i figli del defunto troppo giovani. L'ingresso di Andronico di Nicolò fra i modulanti, il 30 giugno del 1550, avviene grazie a Matteo di Girolamo che gli concede la sua lettera in prestito gratuito (per accomodatum); il primo notaio della Casa viene contestualmente depennato ed iscritto tra i vacanti167. Gli scambi ed i reciproci favori fra i due rami della famiglia testimoniano una strategia di lungo periodo che potrebbe essere giudicata ovvia, anche se fin dagli anni venti del Cinquecento si intravede una frattura fra i principali componenti i due rami Francesco di 165 Ho considerato i notai che conservavano la titolarità della lettera al momento del rinnovo della matricola. Le matricole sono in ASVI, CN, bb. 54 - 73. Per i figli di Nicolò di Andronico Ivi, b. 70. 166 ASVI, CN, b. 69, b. 70, 71, alle lettere 167 ASVI, CN, b. 56, cc. 4r, 7r 88 Battista (San Germano) e Matteo di Girolamo (Villaga)168. Se si considera, oltre al valore patrimoniale, il prestigio che conferisce al possessore, appare utile seguire i percorsi delle lettere fra notai appartenenti a diverse famiglie. Per esempio il 30 agosto 1582 Alvise Zugliano vende a Pace di Nicolò una lettera della modula E per 80 ducati169. Per 100 ducati Claudio di Camillo Del Buso vende a Bernardino Bassano una lettera C per poter acquistare casa e terra a San Germano nel 1592 ed il 12 settembre 1595, per 150 ducati stavolta, Caterina Del Buso, vedova di Bernardino Ferretto, vende al fratello Claudio una lettera A che ha ereditato dal marito, su cui è assicurata la propria dote e su cui, ulteriore testimonianza di infiniti passaggi di mano, è iscritto Camillo, figlio dell'acquirente. Il prezzo corrisposto da Claudio serve a costituire la dote della nipote Camilla Ferretto, per la quale immediatamente si roga un contratto dotale con Vellegiano di Francesco Velo (dote complessiva 375 ducati). Nella generazione successiva Andronico di Curzio (nipote del nostro Nicolò) sposerà Vellegiana, figlia della coppia nuovamente formata170. L'annotazione con cui nella matricola si sostituisce un notaio ad un altro fa nella maggior parte dei casi riferimento al comodato che appare così, ancor più delle compravendite, testimone di rapporti privilegiati. Non ci stupisce allora che nel 1532 Battista, fratello del primo notaio, sostituisca in modula B Mario Valmarana, figlio di quel Vincenzo che già aveva favorito l'ingresso di Matteo fra i modulanti. Francesco Ferretto muore nel 1547 ed è sostituito da Paolo di Melchiorre Pace; nel 1556 Girolamo di Battista prende il posto dello zio Ludovico di Girolamo in C. Nella matricola del 1563 si concentrano con più evidenza gli scambi con i Pace ed i Castellini, mentre negli anni successivi, quelli in cui si manifesta la crisi del lignaggio, le molte cancellazioni non lasciano intravedere una strategia di scambi con altre famiglie. Nel 1598, quando Antonio di Bernardino Ferretto sostituisce Nicolò di Andronico, si può ipotizzare un ritorno ai normali rapporti consociativi (madre di Antonio è Caterina di Camillo Del Buso) anche se, come presto vedremo, il rapporto di questi anni con i Ferretto va approfondito. Dopo il 1600 tornano ad essere presenti gli scambi con i Ferretto, con i Breganze, soprattutto con i Bachino (ricordo che Cecilio di Andronico sposa Camilla di Prospero Bachino)171. 168 In una lettera degli anni venti del Cinquecento, che ho trovato nei protocolli di Matteo, Francesco rifiuta al cugino un intervento presso Zuanne Barbarano, promotore di una tenuta giudiziaria contro beni di Villaga, spiegando accoratamente di voler chiarire prima i rapporti conflittuali fra sé ed il cugino: ASVI, N, b. 6220 169 CRS, mz. 1110, fasc. 19, n. 18. Diversi anni prima il fratello Battista aveva ceduto a Pace metà della propria lettera in modula A al prezzo di 70 ducati: ASVI, N, b. 8065, 29.12.1568 (ma 1567); quindi anche Andronico dava al fratello metà della sua lettera in C per 75 ducati: Ivi, b. 8069, 16.2.1571, Ancora nel 1573 (12.3) Pace assegnava ai due nipoti eredi del fratello Camillo metà lettera C che deteneva pro indiviso con loro in cambio di metà di un affitto di 13 ducati l'anno (in questo caso la lettera è perciò valutata circa 100 ducati): Ivi, b. 8070, n. 36. 170 ASVI, N, b. 8079, n. 15, 22.2.1592; b. 8082, nn. 53, 54. Il matrimonio di Andronico è del 1625. 171 ASVI, CN, bb. 54 - 73. 89 Più legato ad interessi di breve periodo è il dato sulle cariche, che però offre il senso di quanto il notaio fosse inserito nei meccanismi di gestione del collegio. Sebbene tutti i trecento notai modulanti fossero estratti agli uffici, a rotazioni quadrimestrali di sessanta, vi erano cariche più importanti, e lucrose, e viceversa altre meno appetibili, inoltre anche gli uffici si potevano cedere. Il notaio del banco del sigillo, quello del maleficio ed i loro coadiutori, guadagnavano fino a 300 ducati per mandato quadrimestrale, almeno a dar fede alle denunce dei loro avversari imperiali. Per esercitare al maleficio occorreva aver prima esercitato al banco della ragione, cui si accedeva solo dopo due anni negli uffici minori coram consulibus172. La gestione familiare degli uffici è già stata messa in rilievo, ma più difficile è isolare i legami consociativi tra le diverse famiglie. Il primo ufficio, al banco del bue, è ricoperto da Matteo per un mandato dal settembre del 1519, rinnovato subito dopo dal gennaio del 1520, in entrambi i casi al posto di Alessandro Ferretto, che vi era stato estratto. Nel settembre del 1522, estratto per la prima volta all'ufficio del registro, lascerà l'incarico per esercitare l'ufficio dei dazi173. L'ambìto posto al banco del sigillo, assegnato già nel 1536 a Francesco di Battista (San Germano), che però lo cederà, sarà esercitato per la prima volta da Girolamo di Battista (Villaga) nel 1560. Con la maggior presenza di notai della famiglia si registrano anche frequenti scambi tra fratelli e cugini, o le sostituzioni di padri a figli che non hanno l'età neanche per reggere in mano la penna. Si intensificano altresì i rapporti di reciprocità tra collegiati di diverse famiglie: per esempio nel maggio del 1577 Filippo Zanono lascia l'ufficio al banco del pavone a Cecilio di Andronico, quest'ultimo renderà il favore nel gennaio del 1584 cedendo al primo il suo posto al maleficio. Ma già nel 1574 Cecilio, estratto al maleficio, aveva effettuato uno scambio triangolare con i Valle estratti al pavone: al maleficio per Cecilio era andato Bernardino ed il Del Buso aveva surrogato Gio Francesco al pavone. Nel settembre del 1594 Nicolò raggiunge i vertici degli uffici esercitando al banco della ragione. Nel maggio successivo è al sigillo, mentre all'aquila Girolamo sostituisce Giulio Bonifacio. Nel settembre 1596, presidente lo zio Cesare diviene coadiutore al sigillo con Camillo Chiappin, in sostituzione di Giulio Zanono: cognomi che ritornano. La fase ascendente della carriera lo porta a rivestire la carica di presidente del collegio nel 1607 e nel 1609; l'infausta sostituzione di Battista Vaienti alla camera dei pegni privati nel maggio del 1613 la stronca bruscamente174. 172 G. BISAZZA, Notai tristi, cit., p. 27 n. 55. ID., Il collegio, cit. p. 66. Considerando che nell'estimo di metà Cinquecento le case di abitazione del ceto medio erano stimate fra i 400 ed i 700 ducati, la cifra di 300 ducati di guadagno quadrimestrale mi sembra francamente spropositata. Per le stime e la descrizione della città entro le mura D. BATTILOTTI, Vicenza al tempo di Andrea Palladio attraverso i libri dell'estimo del 1563-1564, Vicenza 1980 173 ASVI, CN, vol. 10, cc. 495r, 521v, 522v, 531v, 532r 174 ASVI, CN, vol. 11 (uffici 1567-1634), cc. 25v, 27r, 39r, 52v, 61r, 104r, 107r, - 179r. 90 Fra i presidenti, gli otto notai che rappresentano la massima autorità del collegio, troviamo per primo, nel 1568, Pace di Nicolò, un successivo, significativo, vuoto termina nel gennaio del 1593, quando viene nominato Girolamo Del Buso. Anche fra le famiglie che abbiamo riconosciuto essere collegate alla nostra le presenze sono sporadiche. Nei 25 anni che intercorrono tra 1568 e 1593 entrano in carica 600 nomi di notai, di questi solo 23 sono riconducibili al gruppo di Case che abbiamo identificato (0.9 ogni anno), con una presenza ripetuta di Prospero Bachino, di Antonio Castellini, di Valerio Zugliano e Carlo Chiappin. Dal 1593 al 1609, invece, la presenza dei Del Buso e delle famiglie collegate fra i presidenti si fa più continua. In 16 anni ben 13 notai appartengono alla famiglia Del Buso (0.8, rapporto che sale a 1.3 se vi aggiungiamo i nomi degli alleati). Dal 1609 al 1623 vi è un'altra significativa interruzione; il 14 settembre di quell'anno sarà presidente Andronico di Curzio Bosio, nuovamente in carica negli anni 1624, 1627 e 1629. Proprio quando viene a mancare la presenza dei parenti di Nicolò, e si attenua quella delle famiglie collegate, emerge un dato significativo: dal 1610 al 1618, per ben 10 volte, sono fra i presidenti componenti della famiglia Ferretto e nel gennaio del 1613 assumerà una delle cariche più importanti, quella di notaio del collegio, Silvano Ferretto, colui che con tanto insinuante accanimento avrebbe testimoniato contro Nicolò. Nel 1618, sindaco Bernardino Bachino e presidente Antonio Ferretto, Nicolò tenterà invano di essere reinserito nelle matricole175. Antonio e Quirino Ferretto sono proprietari a San Germano e Villa del Ferro, probabilmente in concorrenza con i Del Buso. Nel 1607 acquistano da Arcisa, figlia di Alfonso Del Buso e vedova di Gio Maria Benedetti, un campo per 80 ducati con diritto di affrancazione di un anno. Un primo messaggio circa destini che divergono: difficoltà dei Del Buso contro disponibilità dei Ferretto. Pochi anni dopo, il 24 luglio 1613, proprio mentre Nicolò vive la sua effimera gloria riflessa, i due fratelli acquistano per 450 ducati da Cesare di Andronico e Bernardino Bachino, tutori dei figli minori di Cecilio, circa 23 campi a San Germano. Il prezzo è molto basso, nonostante che la terra sia descritta come divisa in molte parcelle ed in parte vegra, ma non deve stupire: si tratta del solito espediente per mascherare il prestito ad usura. Immediatamente il diritto d'uso (ragione utile) dei beni ceduti viene ritornato ai venditori che pagano un canone del 6% e si vedono concessi 10 anni di tempo per affrancarsi. Il tutto per pagare la dote di 1.200 ducati stabilita da Cecilio per la figlia Paolina, andata sposa a Orazio Brusolino. Fra i Ferretto ed i discendenti di Cecilio le schermaglie legali duravano ancora nel 1646 a causa di quei 450 ducati che non si erano potuti affrancare176. Appare evidente che i Ferretto in quel periodo, forse senza averne avuto inizialmente 175 176 ASVI, CN, b. 302, c. n.n. ASVI, CCRS, b. 1429, fasc. 35 c. 13; fasc. 39, 41 91 l’intenzione, si trovarono nella condizione di scalzare i Del Buso dalle loro proprietà in villa. Una situazione che non favoriva certo la distensione dei rapporti fra le due famiglie. Ciò mentre la crisi degli anni settanta del Cinquecento aveva toccato profondamente i rapporti con la famiglia Pace a causa delle difficoltà che il medico Fabio di Paolo aveva incontrato per riscuotere la dote di Elena Zugliano dagli eredi del primo marito Alessandro Del Buso. Negli anni del processo a Nicolò i notai della famiglia erano quindi investiti da un regresso sul piano economico, accompagnato da un progressivo isolamento che aveva compromesso anche i rapporti con le famiglie tradizionalmente più vicine. La reazione nervosa aveva fatto sì che non fossero mancati incidenti con la giustizia ordinaria e con quella del collegio. Curzio di Andronico, accusato di confondere ad arte i propri affari con quelli del banco del Bue e, quel che è più grave, di divulgare scritture segrete, era stato il primo ad essere indagato, ma nel novembre del 1606 un “contra eos [in totale erano sei gli inquisiti] ulterius non procedatur” chiudeva la partita. Nello stesso anno era stato avviato un processo contro Claudio di Camillo, che nel 1601, a propria discrezione, si assentava dall'ufficio di coadiutore al sigillo. Dalle testimonianze raccolte nella circostanza emergeva ben altro: insieme al collega Giulio Carcano si era giovato per più di un mese dell'aiuto di Prospero Aleardo, privo di titoli e senza competenze; successivamente Claudio era prima finito in prigione e poi si era ammalato. Naturalmente le scritture erano state ritrovate con “infinitti” errori. Carcano era condannato ad un'ammenda di 10 ducati, la morte aveva già tolto di scena il Del Buso da tre anni. Il più nervoso di tutti è Giulio Cesare, figlio minore di Nicolò. Nel settembre del 1621 il decano di San Silvestro aveva denunciato alle autorità il furto di denaro commesso dal giovane ai danni del casolino Giacomo Bertuzzo. Con un complice gli si era intrufolato in casa svellendo un’asse che desmesava dall'appartamento occupato da Nicolò Del Buso. I due, arraffato il denaro, erano fuggiti verso porta monte inseguiti dalla moglie della vittima, discalsa e urlante. Il decano diceva testualmente del principale accusato: “sì che conosco il detto Cesare figliolo de D. Nicolò, il quale è un putelo basoto se ben può avere delli hanni”. Uno dei due uomini che alle urla della donna si erano posti all'inseguimento dei ladri racconta con toni epici la caccia. Prima correndo a rotta di collo, poi camminando sui campi lontano dalla strada maestra per Padova, i due giovani si erano diretti verso Zocco, al confine tra i territori di Padova e Vicenza, dove era in corso la fiera. Raggiunti e catturati in prossimità della meta, i due avevano consegnato la borsa trafugata fra le lacrime e ciò aveva da un lato rabbonito gli inseguitori, che li avevano rilasciati, dall'altro fatto ravvedere dal proposito di linciarli i contadini accorsi. All'epoca dei fatti Giulio Cesare aveva solo 15 anni ma, “putelo basoto”, ne avrà potuti dimostrare meno. Non so se la denuncia gli abbia comportato conseguenze sul piano penale, di certo non ne aveva avute in collegio. 92 Il 3 febbraio 1628, svolte le funzioni ordinarie con l'assemblea plenaria dei collegiati, i presidenti avevano invitato i vacanti ad allontanarsi dalla sala per procedere alla nomina dei coadiutori all'ufficio del registro. Alzatosi ed avviatosi all'uscita, Giulio Cesare aveva “proferito parole indecenti et di pocho rispeto, havendo massimamente bestimiato il Santissimo nome d'Iddio e con grandissimo scandalo e fuori d'ogni proposito”. Le numerose testimonianze raccolte non erano concordi sullo svolgersi dei fatti contestati. Giacomo Ferretto, fratello di Antonio, e Balasso Palazzo riferivano le offese e lo scandalo; Antonio Mainenti e Vincenzo Piacentin, considerando che non fossero rivolte ai presidenti, solo le offese ma non lo scandalo; Girolamo Caltran, Giorgio Colzè, Pietro Ghislardo e Orazio Crivellari minimizzavano l'accaduto. Giulio Cesare si era appellato alla sua inesperienza di “nodaro novello”, ed aveva poi giustificato la sua irritazione verso Paolo Emilio ed Emilio Cesare Dagli Orci perché costoro, dopo averlo convinto a recarsi all'adunanza per eleggere lo zio Gio Matteo all'ufficio in lizza, visto che non era uscito all'invito dei presidenti, gli avevano detto “che si levi via per levar il scandalo”. Coglioni e visdecazzi erano dunque i due Dagli Orci con i quali era molto intimo, non i presidenti. Alle accuse di aver bestemmiato e suscitato scandalo, rispondeva orgoglioso: “la mia natura non è di proferir bestemmie di sorte alcuna et non feci altro motto che di scorlare il cappo”. Nella sua scrittura difensiva del 18 febbraio 1628 proclamava la sua innocenza e l'orgoglio di essere collegiato, esplicitando l'intenzione di difendere l'onore del collegio con il sangue e con la vita. Non fu mai intention mia se non di riverire ed obedire VV.SS. [vostre signorie] illustrissime, et vivo allegro d'esser suo collegiato, et d'esser stato comprobato nodaro poiché nel torbido de tanti travagli della mia casa, ricevo questa consolatione di vedermi ancora nel numero loro . Le circostanze non del tutto chiare e la difesa compenetrata di orgoglio ed umiltà gli procuravano una condanna a due ducati di ammenda. Un epilogo che testimonia l'impotente irrequietezza di un giovane notaio povero, relegato ai margini del collegio, cresciuto fra turbolenze economiche e giudiziarie, la cui baldanza il rischio di subire un destino analogo a quello del padre riesce in extremis a temperare. Tre mesi dopo Giulio Cesare si prendeva una piccola rivincita sui colleghi che lo avevano voluto mettere in difficoltà divenendo modulante177. Demolito l'orgoglio del padre, quello più remissivo del figlio era tollerato. A 15 anni è la controfigura del padre: “un putelo bassotto se ben può havere delli hanni ”. Zocco, il villaggio ai confini con il padovano, dista circa 15 chilometri dai due capoluoghi. Per i due processi ASVI, CN, b. 273, cc. 919r-930r; c. 1148r-1152v; l'acquisizione della modula Ivi, b. 73 177 93 Epilogo Dove la tragedia familiare si innesta nel dramma storico In quel tetto sentiva pianti, e ullulati di persone che lamentavano estinti in quest'altro gemiti dolorosi di chi lagrimava. Di qua coperti di stuoia vedeva sopra carrette esser condotti cumuli di morti alla fossa e tra questi anco esservi mescolato più d'uno, che con letale anhelito, e con troppa frettolosa provvidenza o di crudele avaritia i becchini, che ingordi di saccheggiare il suo avere non erano patienti di aspettare il fin loro. Di là scorgeva per le strade avanti le case di chi v'eran dentro rimasti vivi, esposti cadaveri di coloro ch'avevan forniti i suoi giorni, così messivi o perché fossero tolti, e serrati da beccamorti, o per non vedarsi inanzi spettacolo così lagrimoso. Da questa parte miserabili avanzi del fuoco discerneva piume di letta seminate dal vento coprir la terra. Da quest'altra gli restava offeso l'odorato o da fetido incendio di bagaglio non sano, o da un'aria grave uscita da tetti ammorbati [che] s'andava dilatando per lo volto del cielo ... 1. I sensi che percepiscono l'orrore della pestilenza appartengono al viandante Grisogono, protagonista di un romanzo dato alle stampe nel 1644 il cui autore, Pace Pasini, era stato testimone della peste vicentina del 1630-31. Tutto ciò che il personaggio vede è orrido: se volge lo sguardo a destra, se scosso si gira a sinistra. La terra è un innaturale deposito di piume e di cadaveri dove solo la presenza dei carri dei beccamorti è concepibile. Il cielo è ammorbato da fumi malsani e dall'odore della morte. E se tale è il mondo esterno, le scene che Grisogono intuisce avvenire dentro le case sono ancora più tragiche, ché sommano la desolazione alla disperazione, sciogliendo in pianti, deliqui, “ullulati”, ciò che prima erano stati i legami dei sensi e degli affetti. Vedere è più atroce che non vedere ed infatti, per uscire indenne dalla città, si accoderà ad un cieco fino ad una zona non sospetta “non per fuggir miseria, che nol dovea dire ma per prolungare la miseria”. Una descrizione che anticipa quella della Milano appestata del romanzo manzoniano. Il tragitto edificante fra le desolazioni della città somiglia prepotentemente al viaggio picaresco di Renzo “in un itinerario d'iniziazione misterica, che culmina nel salto sul carro dei monatti”. Ma non è per questo aspetto che l'Historia del Cavalier perduto è stata sospettata di essere il testo che Manzoni dichiara di aver riscritto: ben altre e più notevoli analogie sono state riscontrate fra le due opere178. Ancor più lugubre, se possibile, dev'essere stato il paesaggio appena oltre le mura occidentali, “fuori dalla porta del Castello nel loco del Lazzaretto, nel qual loco … mi 178 P. PASINI, Historia del Cavalier perduto, Venezia 1644, p. 180 segg.; G. MANTESE, Il Manzoni e Vicenza. Il Cavalier perduto del vicentino Pace Pasini e i Promessi sposi in ID. Scritti scelti di storia vicentina, Vicenza 1982, pp. 293-320; G. GETTO, Echi di un romanzo barocco nei "Promessi sposi", «Lettere italiane», XII (1960). Per la peste vicentina del 1630-31 rinvio alla mia tesi S. LAVARDA, Per la storia di un'epidemia di peste: Vicenza 1630. Università di Venezia, A. A. 1988/89. Per il passo virgolettato I. CALVINO, Una pietra sopra, cit., p. 276. 94 ritrovo esser ferito di mal contagioso”. Il notaio autore del testo citato cesserà di rogare, e presumibilmente di vivere, alla fine di novembre del 1630179. 2. Del lazzaretto vicentino è giunta sino a noi una altrettanto emozionante testimonianza che chiude, con il suo significato bivalente, la parentesi aperta dai cinque quadri dell'epilogo. Si tratta di una pala d'altare, ora collocata nella chiesetta romanica di S. Giorgio in Gogna, a Vicenza. Esattamente nel luogo dove, fin dalla seconda metà del quattrocento, sorgeva il lazzaretto della città180. La tela rappresenta l'apparizione della Vergine a Vincenza Pasini durante la peste del 1426. La vicenda è la classica di ogni apparizione mariana: rivelatasi ad una popolana con la richiesta di edificarle una chiesa a Monte Berico, la città ne esaudiva il desiderio e veniva liberata dal contagio. Su tutto domina la Vergine circondata in alto da cori angelici, ma sulla destra, contrasto assoluto con la Divina Grazia, il lazzaretto. Rappresentato in secondo piano, colpisce subito per la sua crudezza: da Gogna, che diventa il punto di vista, il lazzaretto è trasferito oltre il fiume Retrone, in campo marzo, dove nel 1630 si raccoglievano i contumaci e poi le donne appestate181. La città sullo sfondo è confusa in colori cupi, come se fosse illanguidita dal male e si sforzasse di continuare ad esistere purgandosi. Le cupole, più imponenti che nella realtà, riverberano rada luce. Porta castello ed il torrione trecentesco sono marcati segni di solidità ma subito fuori le mura, in simbolica opposizione, vi è la porta diroccata di campo marzo, il luogo provvisorio, una sorta di metaforico passaggio verso la morte ed il disfacimento. Un passaggio che si esaurisce con i cadaveri ammonticchiati nel piano più prossimo a chi guarda la scena. Le baracche di legno, aperte, semplici cubi ricoperti da due spioventi di tavole, non fanno che confermare la precarietà del sito. Gli uomini, vivi e morti, rappresentano l’apice della tragedia: una carretta entra col suo carico di contagiati dalla porta a sinistra e si avvia verso destra. Ovunque è un brulicare di monatti indaffarati, garzoni con gerle sulle spalle, guardie. Al centro si notano due uomini, cappello e mantello nero, procedere a cavallo verso l'uscita; sono quasi certamente medici, ma sembrano indifferenti e rassegnati davanti a tanto spettacolo182. Vicino alla carretta, un uomo che ne porta sulle spalle un altro si dirige ad un ricovero. Dalla baracca più vicina all'arco d'ingresso qualcuno trascina via per i piedi un 179 ASVI, N, b. 9575, 27.11.1630. Il notaio è Febo Crivellari. G. MANTESE, Memorie storiche della chiesa vicentina, cit., vol. IV/2, p. 758. 181 BBVI, Ms. DO 29, G.11.9.11: A. TANGHERLA, Memoria delle spese che farò io Antonio Tangherla per il campo martio alli poveri che fanno la contumatia. Si veda anche D. BORTOLAN, La peste nel 1630 a Vicenza, Venezia 1894, dove si fa cenno alle donne appestate. 182 A questo riguardo è interessante l'analogia del medico in nero a cavallo, (che lì è però molto attivo nell'azione) col quadro di Micco Spadaro La Piazza Mercatello di Napoli durante la peste del 1656 Napoli, Museo di S. Martino. Cit, in G. CALVI, La peste, «Storia Dossier», 4 (1987) 180 95 appestato appena morto, mentre una persona distesa su un giaciglio sta disperatamente allargando le braccia. Nella cittadella dalle morte stenta a ravvisarsi la pietà cristiana per i morti, e anche la commozione per i sentimenti dei vivi. Infatti la scena che più immediatamente colpisce è anche la più straziante. Si sta svolgendo in primo piano sulla destra. Vi sono rappresentati sei pixegamorti al lavoro: tre spogliano i cadaveri che poi ammonticchiano intorno alla prima baracca, altri due si caricano i vestiti sulle spalle e li portano al falò che il sesto si preoccupa di attizzare spingendoci sopra sempre nuovi stracci con un lungo palo. Il colore giallo-rosso del fuoco è la più vivida “luce della peste”183. I morti sono giallastri, nudi, senza nome e senza storia, il loro viaggio terreno finisce nella fossa comune. La tela è stata attribuita con sicurezza, poi rivista, ad Alessandro Maganza il quale, contrariamente a troppi altri autori di maniera che risolvono la raffigurazione del lazzaretto senza preoccuparsi di essere così meticolosi, anche se magari con una più elaborata drammaticità, ci lascia intravedere una sua grande partecipazione emotiva alla scena del lazzaretto184. Forse perché sopravenendo la pestilenza dell'anno 1630, fu spettatore dell'eccidio de' suoi, vedendo i figli e i nipoti l'un dopo l'altro privi di vita dal pestifero male, tolerando egli con molta costanza una così misera calamità, dolendosi solo, che per lui non vi fosse forma di morte per levarlo da quelle afflitioni... 185. Nicolò muore quasi certamente nei luoghi e nei modi che il dipinto di Maganza illustra ed il racconto di Pasini descrive, e con lui i suoi due ultimi figli maschi. Forse il suo corpo fu raccolto nella casa di Berga dai pixegamorti, o forse il piccolo notaio fu trasportato ancora vivo al lazzaretto. Immaginiamo che quel giorno abbia attraversato per l'ultima volta la città vibrando ai sobbalzi delle ruote sulle buche della strada. La crudele ironia della sorte gli avrebbe fatto raggiungere per sempre, vivo o morto che fosse, quel campo marzo dove mandava a giocare gli avventori indegni del ridotto dei Proti. 3. Con inevitabile approssimazione, soprattutto per le molte sequestrate e successivamente decedute al lazzaretto ed in altri luoghi di quarantena, il medico Giovanni Imperiali stimava che nei tre mesi di agosto, settembre ed ottobre, fossero morte in città 11.000 persone; nel 1635 il podestà Andrea Bragadin avrebbe indicato in 183 M. BRUSATIN, Il muro della peste, Venezia 1981, pp. 29-32. N. POZZA, Le luci della peste, Milano 1982, pp. 139-162, rievocava la peste veneziana del 1576 attraverso le tele di Tintoretto alla Scuola Grande di S. Rocco. 184 Cfr., per tutti, il catalogo Venezia e la peste. 1348-1797, Venezia 1979. Per la certezza dell'attribuzione si vedano: M. BOSCHINI, I gioielli pittoreschi, virtuoso ornamento della città di Vicenza, Venezia 1676, pp. 58-59; F. BARBIERI, Il seicento architettonico urbano, cit., p. 331; F. FONTANA, Dipinti delle Chiese e degli oratori vicentini, Vicenza 1986, pp. 85-87. Per l'incertezza: V. SGARBI, Palladio e la Maniera, Milano 1980, p. 121, che lo attribuisce al figlio Battista. 185 C. RIDOLFI, Le meraviglie dell'Arte o vero le vite degli illusri pittori Veneti e dello Stato, Venezia 1648, II, p. 237, cit. in S. MASON RINALDI, Le immagini della peste nella cultura figurativa veneziana, in Venezia e la peste, cit., p. 224. G. MANTESE, Memorie..., vol. cit. p.1261-1263. 96 14.200 il numero delle vittime186. In una delle fosse comuni scavate per le necessità del momento è stato probabilmente inumato il nobile Nicolò Del Buso, cittadino di Vicenza e Padova, mentre correva il suo sessantatreesimo anno di vita. Se un giorno qualche zelante storico quantitativo, dopo che tutto il misurabile fosse stato misurato, raccolti adeguati finanziamenti decidesse di fare le pulci alle grossolane cifre dei morti della peste fornite dal medico e dai rettori veneziani succedutisi in quegli anni, potrebbe armarsi di pala e piccone e dedicarsi a scavare campo marzo187. Dentro alle cataste di ossa riesumate si confonderebbero anche quelle dei Del Buso: Nicolò, i figli Giulio Cesare e Battista; ma anche quelle del cugino Andronico di Curzio e di Antonio Ferretto, la cui madre era figlia di Camillo Del Buso, e che non si era sufficientemente opposto alla sua rovina. Nonostante che rogasse i testamenti dagli androni dei palazzi o dalla strada pubblica mentre il testatore li gridava affacciato ad una finestra o attraverso una porta socchiusa per reciproca diffidenza, e nonostante che gli olografi li ricevesse “in una moleca da foco et profumato con incenso et questo per la sequestratione per li presenti tempi contagiosi”, Antonio era caduto nell'espletamento del dovere. Forse al lazzaretto erano spirati pure Giovanni Peschiera e gli altri notai che in gruppo si accompagnavano per le strade della città al fine di poter avere un numero adeguato di testimoni agli atti nei terribili mesi di agosto, settembre ed ottobre del 1630, e con loro le migliaia di persone che quei tempi di tragedia avevano consumato188. Muti protagonisti collettivi, ridotti alla canonica dimensione di numeri della storia, unica che, a giudizio di molti, competerebbe a vite vissute mediocremente. 4. La piccola storia di un Rigoletto imperfetto ha prima ricomposto, quindi fornito di un incarnato alcune di quelle ossa, infine ha procurato loro vesti. Di qualcuno dei personaggi ci ha pure fatto giungere l'eco della voce. Rigoletto-Nicolò lungi dallo scuotere la colonna della piazza, forse non vi ha mai posato lo sguardo ed il leone alato non ha neanche da lontano percepito il soffio degli “emergenti di picciole consequenze” che lo hanno travolto. Solo incidentalmente, e per sua disgrazia, la vicenda che lo vide protagonista con la sua famiglia si inscrive in una particolare fase della vita politica cittadina. Viene da chiedersi se Nicolò abbia mai saputo che il suo sacrificio può essere valso la conferma di antichi, esclusivi, privilegi. 186 La città aveva prima della peste circa 30.000 abitanti. G. IMPERIALI, Pestis anni MDCXXX historico medica narratio, Vicenza 1631, pp. 8, 70. Il dato al 1635 in REL, p. 356. 187 Uno scrupolo forse eccessivo mi impone di richiamare l'ironia tutta vicentina, già ricordata all'inizio di questo lavoro, del mandare qualcuno in campo marzo. A scanso di equivoci preciso che l'esasperato storico su cui si ironizza è solo una invenzione che fa riferimento a giovanili dati autobiografici (esclusi i finanziamenti). 188 ASVI, N, b. 9584, l'olografo segreto è quello del frutarolo Gio Maria Cenci, raccolto il 4 e pubblicato dopo la morte dell'estensore il 7 settembre 1630. Nel 1630 Antonio Ferretto roga sei testamenti fino a luglio compreso, 14 in agosto e 13 in settembre. S. LAVARDA, In questo calamitoso tempo di contagio. L'attività notarile a Vicenza nel biennio 1630-1631, «Studi veneziani» N.S. XIX (1990), pp. 97, 110-111. 97 Vale allora la pena di chiedersi, alla fine di tutto, a cosa sia servita la sua vita? I piccoli egoismi, le gioie ed i dolori, le avversioni e le affinità, le battaglie combattute quotidianamente da lui e dalla gente come lui, ha senso che vengano esumate? Ci insegnano qualcosa o non sono forse rubricabili nello spesso meschino carattere atemporale dell'uomo? Le storie di quelli come lui sono solo storie, l'emblematicità, la rappresentatività, il caso che possono rappresentare, ha valore? O si tratta invece solo di favolette morbose che, arrivando da un esotico lontano ed ininfluente, solleticano una superficiale attenzione, di cui è piacevole stupirsi, o magari sorridere, ma su cui non vale interrogarsi? Oppure ancora sono vuoti simulacri, che lo storico strumentalizza pretestuosamente, interessato solo a conoscere e caratterizzare il loro ambiente? E infine, tutta la fatica intellettuale che costano, serve? E se non serve, solo ciò che serve, serve? La risposta dell’autore a simili domande, del tutto retoriche, è data da questo piccolo libro. … tutti, morti o colpevoli, erano dimenticati … gli uomini erano sempre gli stessi. Ma era la loro forza e la loro innocenza, e proprio qui, al di sopra d’ogni dolore, Rieux sentiva di raggiungerli. … decise allora di redigere il racconto che qui finisce, per non essere di quelli che tacciono, per testimoniare a favore …, per lasciare almeno un ricordo dell’ingiustizia e della violenza …189. 189 CAMUS, La Peste, Milano 1989, p. 235 98 Appendice documentaria Appendice Documenti Nella trascrizione ho aggiornanto la punteggiatura allo scopo di rendere i testi più leggibili, ho inoltre limitato l'uso delle maiuscole e, dove possibile, il continuo richiamo ai titoli dei personaggi nominati. 1. ASVI, CN, vol. 273, proc. Cavaneis, ff. n.n. Denuncia di Scipione Loschi (1626). Il fedele et assiduo servicio che per 30 et più anni di sua vita prestò nella militia delle lanze di questa Serenissima Repubblica il quondam [fu] Licurgo de Loschi, continuato per hereditaria divotione da me Scipion suo figliolo in tempo di guerra et di pace per anni 25 et più dell'età mia, si come gioconda mi rendono la memoria di ben spesi sudori, così cagionano hora in me ragionevole confidenza di ricoverarmi all'ombra dell'incorrotta Giustitia di VV SS Illustrissime per viver sicuro dalle tiraniche insidie che tutto giorno da potentissime et sanguinolente persone vengono tese alla mia vita. Li Signori Pietro et Leonoro fratelli, li Signori Gabriele et Batista suo figliolo, li Signori Leonardo, Leonida et Marco Antonio pur fratelli cugnati del detto Gabriele et il Valerio tutti de Loschi sono quelli dalle cui mani mi sovrasta evidente il pericolo della morte. Si concepì questo mal talento nell'animo del detto Gabriele vivendo ancora Licurgo mio padre al quale et a me insieme per avidità di robba machinò crudelmente di levare la vita, ma la notizia che n'ebbe mio padre, facendolo restar privo di quella heredità che con troppo horribile maniera haveva cercato di accelerarsi, fece contro me rivogliere tutta quella perversa volontà. La quale maggiormente s'accrebbe per un legato annuo d'alimenti lasciatomi dal quondam Cavalier Batta Losco, di cui egli rimase herede, per l'esattione del quale convenendomi ricorrere alle essecutioni, più volte ha minacciato di volersi liberar di tal obbligo con la mia morte. Né stete la cosa in semplici parole, anzi l'anno 1617, del mese di giugno, havendo per così maligno effetto dati denari a Vincenzo Pagielo et Bortolo Chierega ordinarii sateliti della sua casa, quelli una notte che sapevano ch'io doveva per miei negotii da Zossano a Vicenza, postisi in insidie, m'assalirono et m'haveriano ucciso, s'io non mi fossi con l'agiuto d'Iddio dalle loro mani animosamente difeso. Né avendo la longhezza del tempo potuto levarli dal cuore così fiero proponimento, l'agosto passato mandarono lor gente ad assalir alla propria mia casa (credendo pur ch'io vi fossi) un mio famiglio, et in quel mentre Valerio, Batta et Pietro sudetti armati et nascosti dietro la porta del sudetto Gabriele ivi contigua, aspettavano ch'io me n'uscissi per amazzarmi, se bene per essere io la precedente notte partito secretamente di Zossano, gli riuscì fallace l'inhumano dissegno, di che arrabbiando più che gl'altri Batta, proferì sopra la strada molte infami parole contro l'honor mio, et della Margarita mia consorte. Da simil radice è nata la pessima volontà di Pietro et Leonoro fratelli Loschi, i quali per alcuni legati mi devono per il testamento paterno, abhorrendo di vedermi vivo machinano continuamente contro la mia vita. Né mi è valso procurar diverse volte da loro la pace, perché non ostanti parole di componimento tra noi seguite, professano apertamente di volermi, quando lor venga fatto, levar la vita. Non restando in questo mentre tutti li sudetti Loschi di sfogar le mal animate volontà contro l'honor della mia casa, come s'è manifestamente scoperto da un libello famoso li giorni passati publicato in scrittura contro una mia figliola di età nubile il quale per segni evidentissimi conosco non poter esser proceduto da altra parte et come al vivo lo dimostrano le ingiuriose parole che vano disseminando contro la mia consorte, la quale per le minacie fatteli di sfregiarla in faccia non solo non ardisce uscir liberamente di casa, ma ne pur in quella rinchiusa si tien sicura dalle violenze di sì perfidi nemici. Per tutti questi et altri molti evidentissimi segnii del mal animo loro contro di me inocentissimo padre di povera numerosa famiglia, mi veggo esposto ogni giorno a dover saciar con violenta morte la sete ardente che mostrano del mio sangue. 99 [Perché se Valerio non dubitò d'amazzar aertamente il quondam Orazio Losco suo stesso parente (poi cancellato)]; se il predetto Valerio gli anni passati si risolse di avvelenar Francesco di Zaneti solo per poter liberamente continuar nell'adulterio con sua moglie restandoci anco morto Francesco Roverso che mangiò degli stessi cibi avvelenati et altro non apparendo fu per all'hora rilasciato dalla Giustitia;[se Leonardo non hebbe horore a (... uccidere?) Paullo Pogliana suo germano et suo pari; se Leonoro et Pietro fratelli, et con loro il medesimo Valerio intervenero all'horribile occisione che seguì con sette archibugiate del quondam eccellente Ruberto Mallo (poi cancellato)] se insieme con altri Loschi che si nominarano nel progresso della ca...(usa?) usano intolerabili tirranie vietando con minacie et con fatti a quelli che da loro adherenti vengono offesi il prossequir le loro querele; che posso aspettar io il quale rispetto a loro mi trovo povero de beni di fortuna, carico de figli, nudo di parenti et privo di forze, per difendermi dall'odio mortale con cui incessabilmente mi vano perseguitando? Altro scampo non vedo per preservarmi dalle loro mani homicide, se non la suprema autorità dell'Ecc.mo Consiglio dei X et l'incontaminata Giustizia di VV. SS. Ill.me poiché questi soggetti principali fidati sopra le loro ricchezze et le loro parentelle che tengono in tutte le migliori famiglie della Città, ardirano et tenterano contro di me ogni più scelerata risolutione, sperando di andarne impuniti come di mille altri misfatti che son restati sepolti nel silentio gl'é successo. Imperò che Gabriele l'anno 1620 con barbara crudeltà uccise a forza di fianconi Agnolina moglie di Antonio Lanaro, et nel medesimo modo ridusse l'anno 1622 Antonia moglie di Giacomo Padrin a termine di morte et a rischio manifesto di cometter aborto. L'istesso accompagnato da Pietro e Valerio l'anno 1620 doppo haver con percosse maltrattato Berto Bertollo et cavatagli la barba usurpandosi con troppa sfacciatagine l'autorià di Principi gli diedero bando dalla villa di Zossano. Pietro l'anno circa 1618 per goder una giovane donzella chiamata Lusanna, la rapì in tempo di notte dalla casa del quondam Fabritio Seda a cui il padre l'haveva per testamento lasciata in custodia, et ridottala a casa sua le fece rifiutar il matrimonio di già stabilito con un giovane da Pozzolo et pocco tempo doppo la rapì di nuovo dalla casa di Paullo Berton con cui era rimaritata, avanti la consumetione del matrimonio et per poter più facilmente soddisfar le dishoneste sue voglie, trovò occasione di farlo querelar e bandir, tenendo tuttavia essa giovane a suoi piaceri di che sapendo esser con ragione disgustato detto Fabritio egli per poter libero da ogni sospetto goder il piacere delle sue sceleragini lo fece con complicità di Leonoro suo fratello, di Gabriele et Valerio la sera delli 4 luglio 1623 insidiosamente ammazzare a colpi d'archibugio sopra la porta della propria sua casa. Leonoro tolse già alcuni anni la moglie a Bernardin Spago da Lonigo, et per goderla con maggiore libertà la costrinse a partirsi di Zossano ove habitava. Pietro et Valerio, doppo aver bastonato Francesco Rapo boaro del Sr Attilio Cappasanta, loro parente, con assenso et intervento di Leonoro et di tutti li altri Loschi sopranominati, hanno tentato più volte d'ammazare esso Atilio fino nella propria casa, la quale con scandaloso terrore di tutto il popolo, fu un giorno intiero assediata da loro et da una schiera di 30 et più suoi sateliti armati d'archibuggi, terzaroli et altre armi. Gabriele con un tal Bortolo suo bravo bastonò li mesi passati un padre Carmelitano. Marc'Antonio rapì la propria moglie a Zuanne Spolaore, tenendola per X anni continui a suoi piaceri, al quale tentò con suoi frateli et sateliti, et con sbaro di archibugiate di levar anco la vita come il simile volse far al Reverendo Gio Borin curato di Noventa et stretto parente di essa donna assalendolo più di una volta sin nella propria casa. Leonoro accompagnato dal medesimo Marc'Antonio suo fratello et altri il carneval passato 1625 ferì senz'alcuna causa con sbaro di terzarolo Cesare Mazzucco che era sopra la festa della villa di Noventa. Né basta loro aver riempiti tutti quei contorni di rapine, occisioni et dishonestà, ma arrivando al colmo di ogni sceleragine si vano arrogando con formali maniere di tirania la potestà suprema di Principi poiché oltre il tenire Gabriele usurpata et rinchiusa in uno suo horto una fontana publica, oltre l'havergli Pietro fatti di propria autorità gl'anni adietro publicar proclami che nissuno ardisca pescar nelle acque contigue a loro beni, minacciando di offender li contraffatori, et esseguendo contro molti le minacciate offese, hanno finalmente con inaudita temerità fatto delle lor case private carceri, tenendovi rinchiuse et legate diverse persone, et dandoli sotto capital pena bando 100 del vicentino come in particulare è sucesso già alcuni anni a Zuanne Perana, il carneval passato a Domenico Bolognese, et la la Settimana Santa a (.......). E quindi nasce che di tanti misfatti non solo vano impuniti per la loro potenza adherentie et amicitie, ma vanagloriosi se ne vantano, poiché né li degani ardiscono dar le denontie, né gl'offesi dolersi, né li testimonii deponer la verità sapendo esserne sicura conseguenza la perdita della propria vita. In tale stato veggendomi io povero Scipion sudetto non solo timoroso della mia vita, ma inhorridito di tanti eccessi, supplico con ogni profonda umiltà VV. SS. Ill.me che si degnino rappresentar il tutto con suel lettere all'eccelso Consiglio di Xci la cognitione et castigo de quelli, se conforme al mio desiderio sarà dellegata alla loro singolar prudenza et Giustitia con quell'autorità et secretezza che è propria di quel magistrato supremo, mi rendo sicuro che non dubitando li testimoni di deponer il vero, si vedrà in un medesimo tempo con il giusto castigo de rei stabilita la quiete di quei paesi, et io potrò godere quella tranquillità di vita che da questa Serenissima Repubblica viene promessa, et da VV. SS. Ill.me con ogni spirito procurata et mantenuta a sudditi da Sua Serenità raccomandati al loro felicissimo et santo governo. Gratie. Nota. La denuncia è depositata nel processo al notaio che l'aveva redatta provvedendo subito dopo gli accusati di diligente copia, alla faccia della segretezza invocata da Scipione. Il 20 ottobre 1636, sul centralissimo ponte degli angeli, Scipione è fatto oggetto di due colpi di archibugio sparati da Pompeo Loschi ed Egano Thiene: ancora una volta resta illeso. Lo stesso giorno e nello stesso luogo i due, insieme a Batta Loschi, si imbattono nei “Ministri” che tentano di arrestarli. Batta, l'unico che probabilmente ha l'archibugio ancora carico, fa fuoco ed ammazza Matteo Gastaldello, contestabile del podestà. Il processo è delegato col rito del Consiglio dei Dieci ai rettori di Padova. (G. B. ZANAZZO, Bravi e signorotti a Vicenza e nel vicentino nei secoli XVI e XVII, «Odeo Olimpico» VIII (1970-71), p. 199) 2. ASVI,CN, vol. 272, cc. 602v-611v. Costituto di Nicolò Del Buso (24.3.1614). /[602v]/ ... non sarei stato per questo di far continuare il redotto quando non havessi avuto paura della Giustitia. Interrogatus se la detta sua figliola maggiore sia mai stata in casa di giorno o di notte del detto contestabile respondit Signor no et quelli che lo dicono si mentono per la gola, interrogatus se poi il contestabile predetto sia stato in casa di detto costituto di giorno o di notte respondit io mi maraveglio besogna che io habbi persone che mi vogliano molto malle a dir di queste busie et falsità ne lo è stato mai se non in quel caso con li zaffi e può esserli anco stato un'altra volta per essequire contro di me un mandato di cavalcata ad instanza de messer Batta Basso ma io no lo so per certo perché no ero a casa Interrogatus se habbi mai recevuto vino et legne dal detto contestabile respondit Dio guarda che non ho mai avuto da lui qualche cosa Interrogatus se poi habbia avuto pratica con l'Ecc.mo Sig. Giudice precessore al Maleficio /[603]/ et se habbi praticato in casa di sé costituto respondit Signor no né lui in casa mia né io in casa sua è ben vero che io fui a costituirmi alla sua presentia mentre lui aveva accetato una querella datta contra di me per un certo deposito che mi era stato fatto mentre ero nodaro alle condanne imputandomi de truffa se ben havevo fatto il pagamento che li restano solamente ducati tredeci di capitale et dui di spese et li avevo anco pagato li interesse et perché nel costituirmi dissi al detto Signor Giudice che non diceva la verità lui me disse gobbo becco fotù, et poi ho pagato a fatto (ripete 2 volte) esso deposito et è stato depennato il deposito doppo che fui fatto retenere dal Signor Giudice ... Interrogatus se habbi una figliola che habbi nome Ardemia respondit Signor si Interrogatus se a questa sappi che dal detto contestabile sia stata fdatta una carpeta respondit questo /[603v]/ non è vero ma io son perseguitato in questa maniera 101 Dettoli a venire alla libera se ben voi vi fatte libero di negar tutte le cose che vi sono state opposte rissultanti chiaramente da tutto questo processo che testimoni degni di fede essaminati in esso di commissione delli signori Presidenti mostra però che la Giustizia non ne sia più che consapevole poi che oltre la publica voce e fama per tutta questa città reffertta più volte a questo banco dicono li testimoni essaminati con giuramento che voi tenor de vitta licentiosa scordato del esser vostro anzi e del honor stesso havere comportato publico nodaro in casa vostra tirando voi le terze havendo parte col detto mr Claudio [Dalla Volpe] di così pernicioso et inhonesto guadagno dicendo a quelli che giocavano et che non pagavano le terze o non davano ... oselle (?) che voi prendevi voi dico in particulare dicevi chi /[604]/ vol giocar qua paghi se no vada a giocar in campo marzo e quello che importa più sette stato veduto voi et un vostro figliolo contratare con il contestabile più volte passandovi le ore con lui, et detta vostra figliola è stata veduta in tinello o sia in camara del maestro di casa dell'Ill.mo Podestà precessore ivi tenuta a servitio di esso Contestabille et la istessa anco è stata veduta a condure a tre hore di notte con un capello e tabaro attorno dal detto contestabile a casa sua et lui publicamente diceva che essa vostra figliola era la sua putana et che li costava più de ducati ducento et che il contestabile predetto ghe mandava il cesto a casa hora con carne et hora il pesse et voi stesso havete veduto il cestarolo che foste (?) pure quando vostro figliolo prese il cesto dalle mani del cestarolo et di più che esso contestabile vole partirsi da questo reggimento habbi condotto a Venezia /[604v]/ o in villa la detta vostra figliola havendola tenuta a sua posta et che voi stesso et vostra moglie ne eravate consapevole oltre anco la fama che lei habbi avuto comercio con altri et in partoculare col detto Giudice del Maleficio passato il quale signor Giudice è stato incontrato di notte con essa vostra figliola et è stato sentito contratar con vostra moglie prometendole per tal pratica molte cose et si diceva che voi havete venduto la detta vostra figliola al detto Giudice per ducati cento et che voi in particulare voi gli la conduceste a casa ove la tene molti giorni a casa sua et poi scoperto la rimandò a casa vostra et li fornì una camera mandandoli quotidianamente il vivere et voi anco l'havete messa sotto ad altri che per ciò li governatori del pio loco delle Citelle sentendo esser tal fama avedendo che voi et vostra moglie tenivate /[605]/ così poco conto del vostro sangue si risolsero di levarvi la figliola mezzana come fecero et meterla nel do loco del do loco delle Citelle ove stava certo tempo voi e la vostra consorte faceste tanto che la levaste via né mancano testimonii in questo processo che metano in difficultà il proprio honor vostro con la propria moglie dicendovi che in particulare havesse comertio con un fratte delle Gratie però constando tutte queste cose così come vi sono state opposte però farette bene a confessar la verità respondit Doppo che io son redotto a questi termini voglio racontar la cosa come sta et Iddio guardi a ognuno dalle mani de assassini et da una cativa moglie per che li ... anco in questo fatto delli miei collegiali cori credo certo. Mi fu intimato un certo ordine per il q. Lodovico Patriarca corriere de mandato dell'Ill.mo Podestà Zen ad /[605v]/ istantia de una Franceschina per certo depposito de ducati conquanta che mi era statto fatto nelle mani all'officio della raspa mentre ero deputato nodaro al detto officio per alcuni inter... del maritto di essa donna condannati nele gravissimo Consulato comettendome che io dovessi dar furi quelli dennari immediate altramente che mi averia fatto retenire et stante che mia moglie aveva preso per dotte le mobilie di casa, io presi ........ non sapendo che fare di partirmi di casa et retirarmi per securezza sopra il sagrato di San Tomaso in casa del gastaldo delle Monache perché il Podestà non mi faciesse retenire come diceva la detta istanza (?) ove stato sei o vero otto notte in questo mentre mia moglie comparve avanti al detto Podestà per provedere che io potesse star sicuramente in casa mia, il qual Podestà veduta detta mia moglie se la fece /[606]/ sentare arrente et invece di ascoltarla e darli il suffragio che li addimandava voltò il raggionamento in altro dicendoli Madona io intendo che voi avete una bella figliola se volete lassarmela vedere vi prometto ogni favore et aggiuto et così detta mia moglie quale è così terribille che non la posso governare li diede parola di lasciaglila vedere metendo con lui ordine che venisse quella sera et così mentre io tuttavia me ne stavo lontano di casa di giorno et di notte vene il detto Podestà accompagnato a casa mia dal Contestabille et da altri et la detta mia moglie l'introdusse a raggionare con detta mia figliola la qualle essendoli piaciuto la sera dietro ritornò in persona accompagnato dal detto contestabile et da altri e menò via la detta mia figliola et la tenne via tre notte /[606v]/ havendola tenuta nella camera del suo maestro di casa et può anco esser che esso Podestà mi habbi si fatalmente assassinato che la habbi anco messa sotto così al Giudice del Maleficio come anco al contestabile et forsi anco sotto altri si per scolpar se stesso si per anco per esser pover homo e fuggir da assumer le promesse che haveva fatto a detta mia figliola et moglie. Et poi da ivi a tre giorni venì mia moglie a ritrovarmi al detto sagrato et mi disse che dovessi venire a casa perché aveva parlato al Podestà predetto et che non mi dubitassi che non seria stato altro et che seria proveduto in tutto né al hora mi disse altro la onde fidato dalle dette parole di mia moglie veni a casa ove la notte stessa su le due hore di notte sentei batere alla porta 102 et la putella picola andò ad aprirla, et sentei venir su per la scalla non so chi /[607]/ con veste che scarcenzava (???), et havendo io addimandato a detta mia moglie chi era quello lei mi disse che mi dovessi ritirare in granaro perché era un gentilhomo che le voleva parlare apunto per interesse mio et aggiutarmi et così credendo a detta mia moglie senza ricercar altro particulare mi ritirai a mezza scalla ove entratto quel talle nella camara quasi immediate mi fece chiamare a basso il qual veduto non sapevo chi fosse perché non l'avevo più veduto in facia poiché erano tre mesi che per mia indispositione ero stato quasi de continuo in letto et così lui mi disse essere il Podestà di Vicenza et li vidi le vesti rosse sotto una romana di ermelino il quale mi disse: - Nicolò il malle è fatto son qui per utile vostro io indotterò de mille ducati la putta et voi vi aggiuterò in ogni conto /[607v]/ facendomi racuntare le debite che havevo et havendoli io detto che havevo il debito di quel deposito et altre debite particulare per la summa in tutto de ducati cento e venti in circa lui disse: questa è una fiaba non ne dubitate che io ve ne voglio pagar tutte et in oltre disse che sperava di andar Podestà a Treviso et che voleva menarmi secco per suo Cancelliere et che dovessi in tal caso ritrovare un Cogitore che havesse bella presentia facendomi mille altre promesse. Il che sentendo io considerai al mio statto et che de già il malle era seguito tratandossi de personaggio talle che era Podestà in questa città non seppi far altro se non andar con le bone et dirli che mi meteva nelle sue brazze racomandandoli mia figliola aciò che io non restassi con tanto danno et scorno ma lui non solo non l'ha indotata né /[608]/ maridata ma a pena li ha fatto dui miserabilli veste da zambelloto una carpeta et un rabon de robba ben leggiera, et un paro de mantelli con una colanina de otto o dieci ducati né ho mai saputo che sia stato mandato a casa mia altro che uno o dui sacchi de farina, et un mestello di vino et ho sempre creduto che sia stato lui che habbi mandato esso vino et farina, potria mo essere che fosse anco stato il Contestabille, et quando il mio putello parlava con il Contestabille meteva ordine de l'hora che haveva da venire il Podestà a casa nostra ove li è stato tre notte et anco di giorno et lì disnava et cenava il che mi era di danno notabilissimo per i fuoghi grossi che li bisognava che io li facessi et ogni pasto mi costava dieci o dodici lire oltre la carne che lui mandava perché li stava anco il Contestabille /[608v]/ a mangiare laonde vedendo io che la cosa andava alla lunga che lo ricercavo che dovesse maritare mia figliola et lui con buone parole andava differendo mi risolsi di tenir serata la porta di giorno et di notte con serature di dentro via aciò che lui non mi venisse più per casa et licentiai per questo il redotto et pure una notte vene il Podestà mentre stavo sopra la contrà di Prothi su le quattro ore di notte né avendoli io voluto aprire continuando lui a bater forte nella porta et a chiamar per nome l'Ardemia mia figliola mi risolsi da tal importunità sbarargli due archibuggiate una da una finestra, et poi feci parir la porta et entrato sopra la strada li sbarai un'altra archibugià dietro che fugiva con altri che era di sua compagnia et così il /[609]/ detto Podestà lassò la mulla o sia pantoffola nel fango per quanto lui mi disse poi facendo io mia scusa seco perché pareva mi volesse perseguitare dicendoli che era stato un mio cugnato bandito che essendo ivi da me non sapendo chi fossino quelli che havevano batuto alla porta sospetando de inimici a le corte sbarò le dette archibuggiate doppo questo mi feci de novo parlare per il vece contestabile de quel tempo che anci una volta detto vece contestabile mi prese per un bracio dicendomi che dovessi venir in preggione o vero andar di sopra dal Podestà a parlarli per che altramente haveva commissione di metermi in fondo, et perciò andai a parlare con il detto Podestà col quale fatta la scusa predetta bisognò che io mi contentassi di lassarlo continuare a venire in casa mia da detta mia figliola /[609v]/ et ultimamente contra nostra voglia la menò via havendola condotta a Campo Nogara tre mesi avanti la sua partenza dal suo reggimento et havendo io inteso che detta mia figliola veniva maltratata da esso Zen et che era gravida andai insieme con mia moglie a Venetia per menarla a casa perché mi veniva detto che facilmente l'haveva attossicata per non darli la dotte promessali et che anco ne faceva mercantia. Ritrovatala a Venetia in certa casa la habbiamo condotta qui a casa nostra che è gravida in otto mesi et quanto a mia moglie io la ho sempre tenuta per homo da bene del suo corpo se mo non mi havesse assassinato un padre delle Gratie da cui lei si confessava mentre stavimo alli Protti; et quanto all'altra mia figliola non è vero che sia stata posta contra nostra voglia nel loco delle Citelle che anci noi stessi con grande allegrezza /[610]/ ghe la metessimo col favore della madre di Giacomo Renaldo [Arnaldi] la qual la prese nella sua carozza et insieme con mia moglie la condusse al detto loco ma dopo non contento il detto Zen di avermi fatto il scorno suddetto acconsentì anco alla richiesta che li fece mia moglie mentre lei li disse che dovesse lassarli a casa la detta Ardemia o vero farli tor fuori la detta nostra figliola del detto loco delle Citelle perché non voleva restare senza alcuna di esse, et così esso Zen mandò a chiamare Lucangelo Linarolo, governatore di esso pio loco, et con parole orgogliose li disse che si dovesse rissolvere di lassar venir fuori quella nostra putta altramente che non essendo quel loco sacro l'haveria fatto gitare a terra, et l'haveria tolta fuori de ivi per forza et così fu lasciata aperta /[610v]/ la porta e mia moglie la prese per un bracio et la condusse a casa et questo Podestà fece tale officio con detto Luca Angelo con promessa di farli una sententia in 103 favore che haveva il loco predetto con li Signori Somagli, et poi la fece contra al detto pio loco dicendomi doppo: - io li ho coglionati quasi gloriandossi di così bel tiro. Interrogatus respondit la prima volta detto Zen conobbe detta mia figliola mentre stavo a San Silvestro et ha poi continuato mentre stavo alli Protti come ho detto De cetera interrogatus Signor no che mai il Giudice del Malleficio è stato in casa mia. Dettoli voi avete cenato che in questa tratato vi habbi menato qualche collegiato però se vi addomanda che parlando liberamente dobbiate dire de chi abbiate certezza et suspeto Respondit io non voglio venire ad altre particulare perché potria essere che non fusse vero né io voglio inculpar alcuno se non lo so di certo. Dettoli Nicolò voi /[611]/ non potete scusarvi de non aver avuto scienza, et particolarmente nelle cose oppostevi perché oltre che appar chiaro da questo processo si scopre anco dal asserire dal vostro costituto perché confessate haver assentito alla proposta inniqua, infame et odiosa fattavi dal detto Podestà ladove era debito vostro piutosto lassarli la vitta che passarla senza farne ressentimento grandissimo si che non accade che vi scusate ma se vi fa intendere che li Presidenti per l'interesse del honor di questo colleggio sono rissolti di voler far contro di voi quella provisione che li parerà conveniente per li ordeni et Statuti di questo Colleggio facendovi intendere de più che se intendeste far alcuna diffesa per escolparvi delle cose oppostevi la dobbiate fare per tutta la presente /[611v]/ settimana altrimenti si venirà alla espeditione del presente processo Respondit il malle era fatto et quanto sia al ressentimento non ero ingrato per la mia impotenza ben notta a tutti che non mi posso movere dicens io dubito che questo Zen per scolparsi habbi al pure suscitato la formatione di questo processo contro di me havendo forsi suscitato Oratio Scrova a cui ho mandato alcune esecutioni per il che è restato mal affatto della mia persona havendo disseminato molte parole di fare et dire contro di me et faro quelle diffese che posso remetendomi poi nel resto alla bona giustitia di chi giudicherà il presente processo quibus habitis. 3. Ivi. Le due ultime lettere di Giovanni Zen a Nicolò Del Buso (1614) /[612]/ Die mercuri 226 martii 1614 È comparso l'oltrascritto Nicolò Buso et per favore et difesa sua, et per escolparsi delle cose a lui opposte, et far conosser alla giustitia come esso non ha mai avuto intelligentia alcuna né con il Giudice all'officio del Malefitio, né meno con il contestabile, né con altri, se non con il Chiarissimo Podestà Zen, et come ha deposto nel suo constituto ha presentato littere sette che apparono scritte di mano del detto Illustrissimo Zuane Zen una de dì 4 dicembre senza anno, una de di 16 dicembre prossimo passato, due de 16 et 26 febraro prossimo passato, et tre sotto li 5, 14 et 22 del corrente, et un'altra appar scritta di mano di Ippolito Munari disse camariero già del detto Zen de dì 24 febraro passato, per le quali intende di mostrare alla giustitia come i testimoni esaminati sono falsi, et come hanno voluto portar rispetto a detto Zen con animo di rihaverle (?) ad ogni sua richiesta et inholtre ha fatto instantia che si debba venir alla espeditione immediate della sua persona non intendendo di far altre diffese et renontiando al termine assignatoli per far le sue diffese nel fine del suo constituto et hoc omni etc. [...] Tergo / Al Mag.co Sr Nicolò Buso Vicenza /[615]/ Mag.co Sr mio la sua partita insieme cola compagnia me ha reso molto travaglio stando anco col gran pensiero quello possi esser successo in proposito di quello seguì nella chiesa del Domo con la Florinda (?) però del suo arivo de li et anco de ogni ... disturbo haverò sempre a caro saperlo per potervi giovar dove potrò et credetemi che sto con grande affano della sua partita, et subito che li tempi si acconciano, et che le strade siano buone voglio venirvi a trovar per star doi giorni con voi se però vi contenterete de venirmi a incontrarmi dove vi scriverò et alloggiarmi nella vostra casa. Non ho scritto niuna delle lettere che mi havete ordinato perché desidero saper qualche cosa di novo per poterle alterarle et scriverle come meglio stimerette. Vi voglio ben dir questo che se voi non decipirete [sic=direte] cosa alcuna delle robbe della Ardemia mi serà tanto /[615v]/ favore che mi adopererò quanto posso in servitio delle cose vostre per il che son sicuro farete, et quando avesse pensiero di non poter star de li per li molti vostri travagli tanto più saria bene il consumare quello che havete ... el pensiero molto suspiso havendomi detto il furlano che voi vostra moglie dite al 104 vento voler venir ad habitar a Venetia per tanto più vi prego a conservar tutto quello si atrova l'Ardemia. Salutate la vostra consorte, Ardemia et tutti li vostri figlioli di casa a mio nome et a voi mi raccomando. Di Venetia alli 14 marzo 1614 per farvi servicio Zuanne Zen /[615v]/ Sr Nicolò Dalla vostra vedo in quanti travagli sete, la colpa non è mia ma mi dispiace grandemente che siate così odiato da tutti. Quanto /[616]/ al negotio vostro ... ho deliberato di parlar de qui a uno de questi vostri nodari che si atrova de qua in bona forma, il qual credo che farà saper al suo colleggio che desista travagliarvi tanto più che de qui hanno bisogno de noi, et forsi il cancelliero farà ancor lui qualche cosa avendoli scritto caldamente della fiola per esser quelli giorni santi non so se si troverà modo di averlo a quell'officio, ma al tutto ve lo manderò quanto prima. Haverò a caro saper anco da voi quello haverà operato il cancelliero non havendo ancor havuto risposta in proposito delli vostri negotii. Siate sicuro che come so che voi sette travagliato patisco ancor io delli vostri travagli. Non serò più longo per esser l'hora tarda a voi et a tutti di casa mi ricomando. Di Venetia alli 22 marzo 1613 (MV) Questa matina son andato a posta a trovare Fabio Mosto al qualle ho parlato caldamente in vostro servitio /[616v]/ et credo farà già profitto quello ho detto non occorre che lo scriva ma che parlerà alla sua venuta del che serà dimani con Pier AntonioBonaz... et anco serà detto ad Oratio ... che io mi dolgo che vi travaglia per sententia che li fu fatta contra. Adì 23 marzo 1614 Per farvi servitio Zuanne Zen 4. ASVI, CN, vol. 272, c. 617r. Supplica di Nicolò Del Buso (20.12.618). Sono cinque anni hormai ch'io Nicolò Del Buso fui privo di questo honorando colleggio sotto quei pretesti, che passarono prima a notitia d'altri che di me medesimo come vacuo d'ogni colpa: perché gl'accidenti ch'hanno contaminata la sfortunata mia casa successero in tempo ch'io ero infermo, et stroppiato di ... et come furono orditi con paliate insidie da quelli ne quali più confidavo; così quando io infelice scopersi il caso, fui constretto a cedere a quell'auttorità et violenza alla quale nell'umiltà del mio stato non potevo resistere onde non sol non mi fu concesso di reclamare; ma anzi fui costretto a celarmi in luogo sacro per dubio di maggior rovina sopra la persona mia. Hor che mancata è mia moglie et che nel corso di questo tempo ho sostenuti quei patimenti che sono ben notti alle MM. VV. [magnificenze vostre] et che anco con la providenza di dio è ristorato l'honor di casa mia con li matrimonii di mie figliole l'una nel Magn.co Alvise Dall'Aqua et l'altra nel Ser Lorenzo Colombina, come la terza è stata posta nelle citelle, supplico alle MM.VV. che compatendo alle mie disaventure et a questa ettà hor mai senile in che m'attrovo, et essercitando insieme quell'humanità con la quale altri ancora sono stati gratiati si degnino restituirmi al colleggio com'ero prima, affine che possi passar questo pocho di vitta, che mi avanza con honesto tratenimento nella debolezza della mia fortuna et con qualche solevatione dell'animo mio oppresso quasi inconsolabilmente da tanti miei irreparabili infortunii, con poter anco mantenir a scola duoi figliuoli, ch'io m'attrovo, e bene incaminarli nell'essercitio del Palazzo, come hanno fatto li nostri maggiori, assicurandole che quanto sarà grata a dio misericordiosissimo questa gratia, altre tanto viverò io obbligato alla molto benignità delle MM.VV. alle quali mi dono et raccomando. 105 5. ASVI, N, b. 6220. Lettera di Francesco di Batta Del Buso (ramo di San Germano) a Matteo di Girolamo (ramo di Villaga). Presumibilmente da San Germano (11.9.1522). Mathio coxin carissimo saluti a el. Io ho revuta una tua letra la qual io ho inteso el tuto e breviter te respondo. Circa del sequestro che ha facto Zuanne da Barbarano che io gie volgia far provisione io te dico che mi non gie volgio parlar per cossa alguna ne provederge altramente per che causa io lo faza tu intenderai. Tu stai obliga ti o tui fratelli a pagare a Lodovigo o sia Rigoantonio in suo loco la mità de ducati 12 e uno terzo; tu fai lite con el fatore de Rigoantonio e non voli pagare sevendo tuti l'intrigi a Venetia e in ogni altra persona mo li Busi ala spala e mi mo non men entro. El paga la dota de mia madre mai lo podesto havere. I debitori tuti li hai bonamente scossi. Consta contra ogni dovere unde io non gie posso durare e mo è forza fare ancora mi el simile: batarme l'aqua da dosso fina che poterò. ma mo ben mo della fine. In el core vegnere in differentie con ti ma quando non poterò fare altramente sero [?] a Dio o ale persone del mondo: per tanto te aviso che la differentie che sono infra noi o intrigo, volgi che la descatigiamo senza lite et con amore che tuto quello serò obliga a defenderte per mi non ne haverai uno impazo al mondo se mo dovesse impegnare la vitta ma sapi questo che fina non se desbratemo fora noi che io non già provederò a messer Zuane de niente e si non starà poi anche [?] siché tu sai quello hai afare. Io ho industriato tanti ani per amor tuo ma più non posso. Tu sai che se remeteremo in Hieronimo de la Bolpe dela nostra diferentia e mai lo havemo despazato e questo io ho fato per lo bene che io te porto ma mi non posso più e volgio vivere chiaro o volgio pagare quello debo pagare: siché tu intendi l'animo mio e per tua letra mo fami intendere el tuo volere se tu voi se cavamo i piedi da dicta nostra diferentia con amore e benevolentia e senza litte e se ben misser Zuanne leverà la biava. Destrigato quello havemo tanti anni a distrigare le resti overo ogni cossa che mi te sia tolta siché tu hai inteso el tuto. Del libro io te lo farò avere che mi sun per vegnire a Vicenza e tel porterò. Non altro per hora son al tuo comando adì 11 setembre 1522 Te prego me mandi li mei zuppelli che sono a Vicenza e quella schiavina. Iterum non so el tuo volere contra de Hieronimo de Nigri se voi che gie dagemo el ficto per lo [?] o sia farge litte; del tutto dame uno pocho de risposta Francesco Del Buso La lettera informa sulle relazioni tra i due rami della famiglia sul finire dell'estate del 1522, di ostica lettura nell'originale, eccone il regesto: Francesco risponde ad una richiesta di aiuto del cugino Matteo. Egli non interverrà presso Giovanni Barbarano ad impedire un sequestro. Già troppo ha supportato i litigi di Matteo e fratelli fino a Venezia, contro il dovere e la giustizia, tanto più che egli stesso è creditore della quota di dote di sua madre che il cugino, nonostante le riscossioni dai suoi debitori, non ha versato. Francesco è spiacente di dover essere duro, ma ritiene la misura colma; impegnerebbe anche la vita a favore del cugino se le differenze esistenti fra loro si appianassero. Risolti i problemi in famiglia resterebbero poi tanti anni per dipanare le altre questioni. Venendo a Vicenza gli porterà il libro richiesto. Chiede gli siano inviati gli zoccoli ed il mantello, chiede infine le intenzioni del cugino circa un affitto dovuto a Girolamo Negri: si paga o si litiga? 6. ASVI, CG, b. 2838, cc. 10r-12v. Divisione dei beni di Silvestro fu Stefano Del Buso (18.9.1589). In Christi nomine amen 1589 ind. (Indizione) 2 die vero sabati 18 mensis 7mbris in villa Sancti Germani vicentini districtus in domo habitationis mei notarii, presentibus Io Petro filio q. Antonii 106 Carpetarii et Ambrosio filio Petri Mazzetti ambobus de Sancto Germano et Francisco filio Bernardini Marana de Campedello omnibus testibus ad hoc vocatis et rogatis. Volendo li DD. Claudio e Livio fratelli figlioli del q Camilo del Buso, D. Cecilio D. Cesare, D. Curtio et D. Nicolò fratelli figlioli del q D. Andronico del Buso, et D. Gasparo figliolo del q D. Pace del Buso tutti germani, figlioli de fratelli con la presente et intervento del soprascritto D. Cesare curatore del soprascritto D. Gasparo, della quale consta nelli atti di D. Antonio figliolo del q D. Iseppo Mainente sotto li 4 febraro nodaro alla Ragione, venire alle divisioni tra loro di tutti li beni del q Silvestro q Steffano del Buso videlicet delli beni sottoposti al fideicommisso del q D. Alessandro del Buso, come nel suo testamento al quale etc. [si rinvia] et possessi fin hora per indivisi fra loro. Però essi signori dividenti come restati d'accordo di far sette parti dell'heredità indivisa, et così hanno fatto sette parti di essi beni et heredità descritte in sette polizze infra registrate. La prima segnata lettera A, et la seconda B ... la settima lettera G. Sopra le quali fu messa la sorte, imperoché furono fatti sette boletini il primo segnato lettera A ... tutti sette posti in un capello, di poi furono fatti altri boletini, delli quali il 1º havea scritto D. Claudio ... posti tutti sette in un altro capello. Poi del 1º capello, di volontà delle parti, fu estratto per me nodaro un boletino sopra il quale era lettera F, parte sesta et così anco di volontà delle parti fu estratto un boletino dell'altro capello nel quale era scritto D. Curtio, ... la parte 5º segnata lettera E è toccata a D. Nicolò ...le quali polizze sono le infrascritte ... Poliza segnata di lett.a E parte quinta Una pezza di terra arativa piantà di viti ed arbori di campi 1 q. [quartieri] 3 t. [tavole] 182 posta nelle pertinentie di San German in contrà delle Frate apresso la via comune da una banda, dall'altra Zuanne ferraro per li beni havuti da Francesco Ferraro detto il panleto, da un capo Batta Troncon per li beni della chiesa di San German, dall'altro capo noi heredi et forse altri etc. Item una pezza di terra arativa piantà di viti et arbori di campi 0 t. 143 posta nelle pertinentie di Grancona in contrà di Fusantani appo Batta Muraro da San German, li heredi di D. Zuanne Pogliana, il ghebo della Liona, et forsi altri. Scoder d'affitto stara uno formento dal nobil D. Claudio del Buso. Item un altro staro di formento dalli heredi de Sebastian Crivellaro detto Pilla, et Zuanne, et nipoti di Ceschi da Grancona. Item un altro affitto de troni 5.11.6 dalli heredi d'Iseppo Bolpe d'affitto. Item troni 2.12.6 dalli deti heredi per colte acquistate dall'Illustrissima Signoria di Venetia. Item da Marcolin Ferraro da San German tr. 2. Item da Zuanne et nipote di Tronconi del detto loco para uno polli. Con dichiaratione che se qualche cosa delle divise fosse mai per alcun tempo convinta , che il danno sia comune [è la tutela contro l'evizione], et se all'incontro per alcun tempo apparisse d'eser qualche cosa della deta heredità non divisa nel presente instromento, il tutto sa a beneficio comune di essi dividenti, prometendo essidividenti una parte all'altra, et l'altra a l'altra scambievolmente haver sempre ferme, et grate, le divisioni soprascritte, né mai contrafar o contradir a quelle di ragion di fatto ... sotto obligatione di sé, et di tutti li beni suoi mobili, stabili, presenti et futuri di cadauna sorte, in ogni ampla et solenne forma, et d'ogni miglior modo etc. Dechiarando che tutti li affitti quelli così dell'anno inanzi l'anno 1589, se vi saranno resti, debbano esser comuni di tutti li dividenti, et li affitti corsi l'anno 1589 habbiano d'esser di quelli a quali l'hanno toccato, et così quelli che si pagano tocati nelle divisioni, debbano qelli a quali hanno tocato pagarli di tutto senza altra rifattione di sorte, et tutto il resto d'affitti che detta heredità paga ogn'anno in tenuta proportione quae omnia etc. Ego Iacobus Zuglanus q D. Alexandri notarii publici et civis Vicentiae his suprascriptis omnibus adfui et rogatus publice suscripsi Laus Deo 107 Bibliografia ALCIATI A., Emblemata, Frankfurt am Main 1567. AMBROSINI F., Ortodossia cattolica e tracce di eterodossia nei testamenti veneziani del Cinquecento, «Archivio Veneto» n. 171(1991), pp. 5-64. ARANGIO RUIZ V., Istituzioni di diritto romano, Napoli 1957. AUGÉ M., La traversée du Luxembourg, Paris 1985. BARBIERI F., Il seicento architettonico urbano in N. POZZA (ed.), Vicenza illustrata, Vicenza 1976, pp. 329-341. BARBIERI F., L'immagine urbana dalla rinascenza alla “età dei Lumi ” in F. BARBIERI, P. PRETO (ed.), Storia di Vicenza, III/2. L’età della Repubblica veneta (1404-1797), Vicenza 1990, p. 211-279. BASAGLIA E., Il controllo della criminalità nella Repubblica di Venezia. Il secolo XVI: un momento di passaggio, in TAGLIAFERRI A. (ed.) Venezia e la terraferma attraverso le relazioni dei Rettori, Milano 1981, pp. 65-78. 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Maria 87, 114 - Giustina 72, 113 - Gregorio 113, 117 - Laura 72 - Paola 72, 75, 112, 113, 115 - Vittoria 112 Arangio Ruiz V. 113 Aristotele 31 Arnaldi (famiglia) 41, 58 - Giacomo 41, 42, 48 - Giulio 117 Augé M. 55 Azara A. 113 Bachino (famiglia) 97, 104 - Bernardino 96, 106 - Camilla 72, 88, 104 - Lunardo 96 - Prospero 88, 106, 117 Balzac H. de 30, 57 Barbarano (famiglia) 80, 92 - Valerio 87 - Giovanni 120 Barbieri F. 24, 114, 126 Barugola (famiglia) 93 Basaglia E. 25 Bassano Bernardino 104 Bateson G. 29 Battilotti D. 120 Benedetti (famiglia) 97 - Gio. Maria 72, 91, 106 Benoit G. 113 Beregan (famiglia) 80 Bertesina (famiglia) 93 Bertola Fiore 57, 60 Bertuzzo Giacomo 107 Bisazza G. 58, 111, 114, 119, 120 Bissari (famiglia) 118 Boerio G. 25, 58, 59 Bonifacio Giulio 105, 116 Borromeo Federico, arcivescovo di Milano 60 Bortolan D. 114, 126 Boschini M. 126 Bossy J. 57, 58 Bottarino (famiglia) 72 - Dardanida 75, 91 Bragadin Alvise, capitano di Vicenza (1581) 88 - Alvise, podestà di Vicenza (1640) 102 - Andrea, podestà di Vicenza 124 Breganze (famiglia) 104 - Paolo 102 Bressan G. 118 Brueghel Peter (il vecchio) 15 Brunner O. 56, 59 Brusatin M. 126 Brusolino Orazio 72, 106 Calasso R. 111 Caltran Girolamo 108 Calvi G. 126 Calvino I. 56, 126 Campiglia Maddalena 111 Camporesi P. 24 Camus A. 126 Cantimori D. 89, 117 Cappasanta (famiglia) 72 Capra (famiglia) 72, 92 - Giulio 118 Caravaggio (Michelangelo Merisi) 18, 25 Caravale M. 113 Carcano Giulio 107 Cardello G. P. 25 Carlo V, imperatore 70 Castellini (famiglia) 97, 104, 114 - Antonio 106 - Lavinia 72, 112, 119 Castellini S. 24, 25, 26, 114 Cavalcabò (famiglia) 72 - Ginevra 85 Cenci Gio Maria 126 Cestarolo Fante 40 Chevalier A. 24 Chiappin (famiglia) 97 - Camillo 96, 105 - Carlo 106 Chiericati (famiglia) 87 Cittadella Gaspare 40 Cocco (famiglia) 116 Cohn S. jr. 111 Colombina Baldissera 74, 113 - Cecilia 73, 74 - Diana 73, 74 - Fontana 73 - Giustina 73 - Lorenzo 73, 74, 75 - Luca 74 - Matteo 74 - Pietro 74, 113 - Salvador 74 Colombina (G. Donato Gastaldi) 89 Colzè (famiglia) 59 - Alteria 59, 70, 72, 94, 111 - Dionisio 111 - Giorgio 108 - Vincenzo 43, 70, 111 Contarini Francesco, capitano di Vicenza 118 Conte Orazio 116 Corazzol G. 24, 55, 58, 59, 110, 111, 114, 115 Costozza Orazio 91 Cristofoletti L. 119 Crivellari Febo 126 - Orazio 108 Croce B. 110 Da Porto (famiglia) 17, 87, 92, 93, 118 - Elisabetta 93, 118 - Francesco 93, 118 - Gaspare 93 - Gio Benedetto 118 - Giovanni 118 - Giulio 93, 118 - Ippolito 92 - Nicolò 118 - Simone 118 Da Porto M. 118 Da Schio G. 115 Dagli Orci Emilio Cesare 108 - Fausto 90 - Flaminio 90, 117 - Gio. Matteo 90, 108, 117 - Paolo Emilio 108 Dall’Acqua (famiglia) 87 111 - Alvise 73 Davis J. C. 59 De Giorgio M. 111 Del Buso Alcide 85, 115 - Alessandro di Francesco 72, 75, 85, 86, 87, 90, 91, 107, 112, 115, 116 - Alessandro di Curzio 93, 94, 113, 114, 119 - Alfonso 106 - Amerigo 80, 81 - Andronico di Carlo 80, 81, 82, 94 - Andronico di Curzio 94, 104, 106, 118, 120, 124 - Andronico di Nicolò I 59, 72, 75, 79, 84, 85, 86, 87, 88, 92, 93, 102, 103, 114, 116, 117, 118, 120 - Anna 22, 71 - Arcisa 72, 91, 106, 111, 112, 117 - Ardemia 21, 39, 45, 47, 48, 50, 53, 65, 71, 72, 75, 96 - Battista di Gerardo 81 - Battista di Girolamo 79, 85, 103, 104, 115, 116 - Battista di Nicolò I 72, 85, 86, 88, 89, 90, 92, 93, 102, 114, 115, 116, 117, 118, 120 - Battista di Nicolò II 71, 103, 124 - Battista di Silvestro 81, 114, 116 - Camillo di Claudio 72, 104, 112, 118 - Camillo di Nicolò I 84, 85, 87, 120, 124 - Carlo 80, 94, 114 - Caterina 104 - Cecilio 43, 72, 83, 88, 93, 94, 96, 104, 105, 106, 117, 118, 119 - Cesare 44, 59, 70, 72, 85, 94, 95, 96, 105, 106, 111, 119 - Cinzia Maria 76 - Ciro 96, 112 - Clarice 86 - Claudio 91, 104, 105, 107, 117 - Creusa 91, 117 - Curio 90, 93, 96, 112 - Curzio 72, 91, 93, 107, 112, 117, 119 - Erminia 76, 77, 113 - Franceschino 80 - Francesco 81, 104, 105, 120 - Gasparo 85, 91, 95, 117 - Gerardo 81 - Girolamo di Battista 26, 84, 85, 86, 87, 90, 91, 104, 105, 106, 115, 116, 118 - Girolamo di Silvestro 68, 69, 72, 81, 86, 87, 88, 111, 116, 117 - Giulio 84, 103 - Giulio Cesare 71, 79, 107, 108, 109, 124 - Lavinia 113 - Lelio 82, 86, 115 - Livio 72, 84, 112, 117 - Ludovico di Alessandro 85 - Ludovico di Girolamo 84, 103, 104, 118 - Ludovico di Livio 72, 82, 112, 117 - Ludovico di Nicolò II 71, 103 - Marietta 111 - Matteo 82, 84, 86, 87, 102, 104, 105, 114, 116, 118, 120 - Mattia 91 - Nicolò di Amerigo 80 - Nicolò di Battista 84, 85, 90 - Nicolò di Guidone 79, 80 - Pace di Gasparo 85, 115, 119 - Pace di Nicolò I 26, 75, 84, 85, 86, 89, 90, 91, 104, 105, 116, 117, 118, 119, 120 - Paolina 72, 106 - Promezio 81 - Silvestro di Franceschino 80, 81, 83, 86, 111, 114, 115, 116 - Silvestro di Stefano 68, 69, 88, 95, 111, 115, 117 - Stefano 83, 84, 90, 111, 117 - Vincenzo 71 - Vittoria 72, 88, 90 Delille G. 111 Della Volpe (famiglia) 91 - Antonio 53 - Caterina 72, 112, 117 - Claudio 19, 20, 21, 39, 43, 44, 45, 65, 71 - Roberto 53 Dolfin (famiglia) 82, 93 - Dionisio, vescovo di Vicenza 42 Donà Alvise, capitano di Vicenza, 17 Eula E. 113 Farge A. 111 Fazio I. 111 Ferramosca Girolamo 116 Ferraro J. M. 56, 57, 59, 111, 112 Ferretto (famiglia) 58, 97, 104, 106, 107, 114 - Alessandro 105 - Antonio 104, 106, 108, 124, 126 - Bernardino 104 - Camilla 104 - Francesco 104 - Giacomo 108 - Quirino 106 - Silvano 39, 40, 106 Florian Orazio 73 Fontana F. 126 Fortuna Francesco 37 Francesco I, re di Francia 60 Franzina E. 25, 57 Gabriel Giulio, podestà di Vicenza 57 Garino E. 58 Garzoni T. 25 Gellner E. 55 Geremek B. 24 Getto G. 126 Gheebrant A. 24 Ghellini Calocci I. M. 111 Ghislardo Pietro 108 Giacomuzzi L 59, 113 Giacomuzzo (famiglia) 93 Ginzburg C. 24, 55, 57 Giustinian Pietro, capitano di Vicenza 17 Giustiniani (famiglia) 116 Godi Cristoforo 102 Goody J. 111 Grimani Alvise, podestà di Vicenza 34, 57 Grimm C. 25 Gritti (famiglia) 116 Grubb J. 58, 115 Gullino G. 112, 116 Hals Frans 18, 25 Hugo V. 51, 60 Imperiali (Dell’imperatore) Gregorio 116 - Matteo 116 Imperiali G. 123, 126 Klapish Zuber C. 111 Kuehn T. 58 Lanteri G. 59 Lavarda S. 24, 118, 126 Lévi-Strauss C. 29 Linarolo Luca Antonio 42 Lombardini G. 24 Lorenzoni A. 59, 112 Loschi (famiglia) 33, 34 - Marc’Antonio 57 - Scipione 34, 118 Maganza Alessandro 123 - Battista 126 Mainenti Antonio 108 - Pietro Antonio 86, 91 Malpaga (famiglia) 72 Mansi L. 113 Mantese G. 26, 111, 112, 116, 126 Manzoni A. 31, 32, 55, 59, 60, 122 Marcello (famiglia) 116 Martin del Vedelo 24 Martinengo Giovanni 17 Martini Sebastiana 68 112 Marzari G. 94, 119 Mason Rinaldi S. 126 Massaria Alessandro 90 - Alvise 90 Megna L. 114 Molin (famiglia) 116 Monegatta Silvestro 40 Montagni E. C. 25 Monza F. 24 Mortat C. 113 Mosto Fabio 50 - Pietro 51 Muris G. 94, 119 Mussi P. D. 113 Naldi (famiglia) 87 Nievo I. 56, 110 Olivieri A. 117, 118 Orgiano Paolo 26, 33, 57, 60, 68 Pace (famiglia) 72, 80, 90, 93, 97, 104, 107, 112, 114 - Alessandro 89 - Fabio 85, 90, 91, 92, 107, 112, 117 - Giulio (Cesare) 90, 117 - Laura 75, 90, 93, 112, 119 - Mattia 85 - Paolo 104, 115 Pagliarino G. B. 80 Palazzo Balasso 108 Pallavicini Giovanni 41 Paradisi A. 19 Pasini Pace 121, 123, 126 Pasini Vincenza 122 Pavan G. 114 Pedrinelli G. 119 Pellizzari (famiglia) 89 - Lorenzo 93 - Nicolò 118 Peschiera Giovanni 124 Pezzolo L. 116 Piacentin Vincenzo 108 Piovene (famiglia) 72, 91 - Antonia 117 Pisani (famiglia) 116 Poiana (famiglia) 59, 91, 92 - Alessandro 44 - Bonifacio 59, 119 - Camilla 72, 112, 117 - Nicolò 59 - Vincenzo 44 Povolo C. 25, 26, 33, 55, 56, 57, 58, 111, 113, 115, 116, 117, 118 Pozza N. 24, 126 Preto P. 24, 114 Priori L. 25, 57, 64, 110 Priuli (famiglia) 82, 93, 116 - Antonio, doge 82, 86 - Girolamo 90 - Girolamo, podestà di Vicenza 94 Prosperi A. 57 Pugliatti S. 113 Puppi L. 24 Radding C. 58 Remotti F. 33, 55 Repeta Cecilia 76 Ridolfi C. 126 Rinaldi Della Zucca Giustina 111 Roberts S. 58 Rocca A. 25 Roccabruna (famiglia) 72 Rolandino Antonio 40 Rubini Braschi Florinda 77 Rumor S. 115 Sanseverina Anna 76 Sartori D. 111 Sbriccoli M. 110 Scamozzi Vincenzo 24 Scroffa (famiglia) 41 - Orazio 41, 49, 50, 95 - Vincenzo 17 Scudellaro Bortolamio 26 Seidel Menchi S. 117 Sesso (famiglia) 70 Sgarbi V. 126 Simionato U. 115 Somaggio o Somaglio (famiglia) 48, 97 - Isabella 72 Spadaro Micco 126 Spiera Francesco 89 Stella Francesco 118 Stendhal (H. Beyle) 30, 55 Strozzi Cicogna F. 70 Tagliaferri A. 25 Tamassia N. 112 Tangherla A. 126 Testadoro Giorgio 40 Thiene (famiglia) 92 - Francesco 118 - Girolamo 118 - Odoardo 89, 93, 118 Thompson E. P. 26 Todorov T. 55 Tomizza F. 32 Tommasini F. 80, 114 Trevisan Bernardino 40 Trifone R. 113 Trissino (famiglia) 72, 80, 91 - Achille 88 - Alessandro 89, 93, 118 - Attilia 72, 117 Troncon (famiglia) 93 Vaienti Battista 105 Valle Bernardino 105 - Gio Francesco 105 Valmarana (famiglia) 92, 102, 118 - Leonardo 93 - Leonoro 70 - Mario 104 - Massimiliano 70 - Vincenzo 102 Vassalli S. 56 Velo Vellegiana 104 Venier Chiara 79 Ventura A. 119 Vergerio Pietro Paolo, vescovo di Capodistria 89 Verlato (famiglia) 70, - Anna 70 - Atalanta 70 - Florinda 21, 22, 41, 46, 50, 51, 52, 65, 69, 70, 71, 72, 111 - Ortensia 72, 111 - Vincenzo 111 Viaro Marc’Antonio 119 Wells H. G. 29, 55 Wickham C. 58 Zamperetti S. 118 Zanazzo G. B. 56, 57 Zanfardin Michele 88 Zanono Filippo 105 - Giulio 105 Zemon Davis N. 111 Zen a San Faustin (famiglia) 52, 53 - Antonio 53 - G. Franco 53 - Giovanni, podestà di Vicenza 17, 21, 22, 39, 40, 41, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 65, 66, 75, 96, 112 - Nicolò di Giovanni 53 - Nicolò di Vincenzo 53 - Vincenzo 53 Zugliano (famiglia) 90, 97, 112 - Agostino 90, 117 - Alessandro 72 - Alvise 104 - Chiara 90, 112 - Elena 72, 75, 85, 90, 91, 107, 112 - Giacomo 72, 88, 90, 112 - Leonardo 53 - Orazio 53 - Valerio 113 114