PETER SZONDI
TEORIA DEL DRAMMA MODERNO
1880-1950
Introduzione di Cesare Cases
Einaudi
Introduzione alla prima edizione italiana
1.
Questo libro di Peter Szondi appare in Italia in un momento (1962) in cui da noi si sono riaccese le
polemiche sulla letteratura d’avanguardia, con una violenza che è difficile oggi riscontrare in altri
paesi. Le ragioni di tale fenomeno sono facilmente comprensibili. Per quante periodizzazioni e
distinzioni si possano e si debbano introdurre, le caratteristiche dell’avanguardia (nell’accezione che
ha questa parola in Lukács) sono largamente comuni e si possono ricondurre alla loro comune
origine: la reazione dello scrittore alla progressiva disumanizzazione della vita ad opera del
capitalismo trionfante. Se questa reazione non trova un punto d’appoggio in una prospettiva
(concreta, ma talora anche utopistica) al di fuori del capitalismo, essa approda necessariamente
all’avanguardia della sua doppia direzione dell’assolutizzazione del soggetto e dell’assolutizzazione
dell’oggetto, e le difficoltà interne ed esterne che ostacolano la ricerca e il consolidamento del punto
d’appoggio assicurano all’avanguardia un’immutata vitalità. In Italia gli squilibri dello sviluppo
economico e la tensione politica e sociale del dopoguerra, mentre favorivano l’affermarsi di tendenze
realistiche accanto a quelle d’avanguardia, d’altra parte smussavano il contrasto tra i due
orientamenti, che apparivano piuttosto diverse soluzioni entro intenti e orizzonti comuni, e soluzioni
suscettibili di un compromesso implicito nel caratteristico termine «neorealismo». La polemica
verteva allora casomai sui limiti e la portata dell’engagement dello scrittore, aveva dunque un
carattere piú etico-politico che propriamente letterario, e anche le prime avvisaglie di una
differenziazione su questo piano (in seguito alla pubblicazione del diario di Pavese) sono ancora
subordinate a quegli elementi. Solo l’avvento del «miracolo economico» crea le condizioni della
differenziazione. Mentre le tendenze realistiche si avviano a summae narrative rese possibili proprio
dal fatto che il periodo di cui traggono il bilancio è ormai concluso, l’avanguardia assume coscienza
di sé come reazione al generalizzarsi e all’irrigidirsi dei rapporti capitalistici.
Il processo di differenziazione non è semplice; esso si districa a fatica dalla situazione precedente e
gli esiti non sono affatto scontati in partenza. Giovani scrittori che si pensava dovessero evolvere in
senso realistico passano all’avanguardia e viceversa. Scrittori da tempo consolidati subiscono, in un
senso o nell’altro, l’influsso del nuovo stato di cose (si pensi alla Noia di Moravia). Se il grande
ritorno di Gadda col Pasticciaccio propone all’avanguardia il modello assolutamente genuino di un
precursore formatosi nell’epoca prebellica, già i romanzi di Pasolini rappresentano un compromesso
con la tradizione postbellica per cui la reazione al capitalismo deve avere un’alternativa, se non nel
proletariato, almeno nel sottoproletariato. Infine su tutta la situazione grava il peso dell’allargamento
del pubblico e della trasformazione dell’editoria in «industria culturale»: lo scrittore oscilla tra la
paura di non essere abbastanza venduto e la paura di esserlo troppo, e a seconda di come interpreta
la dipendenza di queste due possibilità dall’essere o meno à la page si costringe talora,
consapevolmente o meno, a farsi realista per forza o avanguardista per forza. Ma ad onta di tutto
questo complesso groppo di influssi e controinflussi la linea della differenziazione si sta nettamente
precisando. È significativo che Elio Vittorini, a suo tempo combattivo alfiere della dialettica tra
avanguardia e visione politico-sociale, oggi applichi la sua immutata combattività alla lotta contro la
«bella letteratura», perché «la letteratura ha sempre piú bisogno di spostarsi dal piano della
consolazione, dal piano della direzione di coscienza, dal piano della religione, su cui oggi ancora
agisce purtroppo in tanta sua parte, a quello opposto delle verifiche, delle approssimazioni
determinanti, delle contestazioni feconde, delle illuminazioni operative, e insomma della scienza» 1.
Non si tratta dunque piú di configurare la rivoluzione, la quale sembra espunta da entrambi i termini
della questione, senza suonarle il piffero, ma di scegliere tra letteratura genericamente conservatrice
e letteratura d’avanguardia. Sono note le polemiche suscitate da queste dichiarazioni vittoriniane.
In tal modo anche l’Italia letteraria si avvia ad allinearsi al mercato comune della problematica
letteraria europea, sia pure conservando una sua pittoresca vivacità e creatività. Ma la presa di
coscienza dell’avanguardia come risposta alla falsa euforia della «società opulenta» implica una
fondazione teorica che le confuse polemiche giornalistiche stentano a dare, e che è pure necessaria,
perché il mercato comune in cui si entra è caratterizzato dall’inflazione e occorre orientarsi in modo
da distinguere il prodotto genuino da quello in serie, che attraverso la sua stessa facilità di
riproduzione ribadisce l’appartenenza al mondo che vorrebbe negare. Come Adorno ha parlato
dell’«invecchiamento della musica moderna», cosí è stato detto in generale che l’avanguardia è oggi
«diventata il suo contrario, è diventata anacronismo» 2. Il problema può essere affrontato sia dalla
parte della forma che da quella del contenuto, e perciò le parole che piú frequentemente ricorrono
nelle attuali polemiche sono «sperimentalismo» e «alienazione». La nozione di sperimentalismo, con
la sua falsa analogia con la scienza (che rimane anche nelle parole di Vittorini, benché qui non si
limiti all’ambito formale e serbi tracce dell’«impegno» verso la realtà rugosa), non serve certo a
uscire dalla confusione. Enzensberger, che trova questo concetto «assurdo e inutilizzabile», spiega
cosí la sua popolarità 3: «Un biologo che fa un esperimento su una cavia non può essere reso
responsabile del comportamento di questa… Il risultato non sta nelle sue mani; lo sperimentatore è
addirittura tenuto a intervenire il meno possibile nel processo che sta osservando. È proprio
l’immunità morale di cui egli gode a piacere all’avanguardia». Con la differenza che questa non si
sottopone nemmeno alle garanzie metodiche dello scienziato e «vorrebbe sottrarsi ad ogni
responsabilità sia quanto al procedimento che ai risultati».
Se il concetto di sperimentalismo avalla l’irresponsabilità e il maremagno, il ricorso all’alienazione,
pur avendo il merito di toccare la genesi reale dell’avanguardia, ha l’inconveniente di unificare
sommariamente ciò che quello lasciava nella sua allegra molteplicità. Dalla falsa infinità delle forme
si passa alla falsa unità del contenuto. L’alienazione diventa una specie di chiave passe-partout che
proprio per la sua universalità è atta a fornire dappertutto un alibi sociale che si sovrappone all’alibi
«scientifico» dello sperimentalismo. Sorgono cosí estetiche che, citando alla rinfusa Marx e Husserl,
Hegel e Richards, Lukács e Roland Barthes, consacrano qualsiasi cosa e tentano di conferire
immanenza storico-sociale e necessità poetica a ciò che per l’appunto non ne ha verune.
2.
In tale situazione giungono benvenute le poche opere veramente utili alla comprensione della
genesi e delle prospettive dell’avanguardia, e il libro di Peter Szondi è una di queste. Nel darci la
«teoria del dramma moderno» Szondi non parte né dalla mobilità dell’esperimento, né
dall’alienazione in quanto tale (anche se questa sta sempre nello sfondo) per servirsene come asylum
ignorantiae. Egli parte, sí, dalla forma, ma in quanto questa non è espressione individuale
suscettibile di ogni piú arbitrario sperimentalismo, bensí ferma struttura che deriva il suo rigore
dall’essere espressione o enunciazione (Aussage) di un modo d’essere dell’intera esistenza umana;
egli parte, cioè, dal genere letterario. Per quanto impopolare sia da noi, in seguito alle tradizioni
crociane, l’uso di questa categoria, proprio qui è dato vederne la necessità. Poiché una semplice
constatazione, deprecativa o consenziente, della «dissoluzione delle forme» o del «nuovo modo di
formare», resta nella tautologia e non può procedere a un’analisi approfondita finché si rifiuta di
definire queste stesse forme come strutture oggettive e le mantiene nell’ambito dell’espressione
soggettiva. Si può dire che la posizione di Szondi è esattamente agli antipodi di quella che si limita a
vedere nei prodotti dell’arte moderna l’«opera aperta»; ciò che egli mostra è che l’«apertura» che si
va formando all’interno del genere letterario è un faticoso processo che non ha, nelle sue
manifestazioni valide, nulla di gratuito, ma tende a raggiungere un’opera nel suo genere non meno
conchiusa di quella da cui prende le mosse. È possibile in tal modo intendere la necessità dello
sviluppo e articolarne le varie fasi.
Le basi di questo lavoro non sono state poste da Szondi stesso, ma da altri pensatori cui egli
sovente si richiama: Hegel anzitutto, poi il giovane Lukács della Teoria del romanzo, il Benjamin
dell’Origine del dramma tedesco e l’Adorno della Filosofia della musica moderna. Se Hegel ha
fondato la moderna teoria dei generi trasformandoli, come dice Szondi, «da categorie sistematiche in
categorie storiche», gli altri tre pensatori hanno meditato, vivendola dall’interno, sull’evoluzione
delle arti nelle epoche di decadenza 4. Ma Szondi trae il suo interesse per l’analisi dei generi letterari
anche da un’altra fonte: la migliore tradizione universitaria tedesca, rappresentata per lui da Emil
Staiger. Dovendosi occupare del periodo classico della letteratura tedesca, in cui l’indagine dei
generi era al centro non solo del pensiero estetico dei filosofi, ma anche della riflessione sulla prassi
letteraria dei massimi scrittori del tempo (Goethe e Schiller), questa tradizione non ha mai rotto i
ponti con tale indagine. In particolare Staiger nel suo libro Concetti fondamentali di poetica ha
tentato una nuova poetica, fondata sulla filosofia esistenziale, in cui i generi letterari vengono
ricondotti a tre fondamentali atteggiamenti umani che si ritroveranno in maggiore o minore misura
nelle singole opere. Staiger preferisce perciò parlare, anziché di epica, lirica e drammatica, di epico,
lirico e drammatico come di tre «significati ideali» in senso husserliano. È chiaro che tale
impostazione 5, a differenza di quelle che si rifanno a Hegel, situa la problematica dei generi in una
sfera atemporale sottratta allo sviluppo storico. Per questo Szondi, dato il suo assunto, non vi può far
direttamente ricorso, pur rimanendone parzialmente influenzato.
Poiché il suo assunto è proprio il processo di evoluzione di un genere letterario in corrispondenza a
un mutamento storico che lo mette in crisi. A Szondi non interessa, in prima istanza, il mutamento
storico in sé: egli si rifiuta di uscire dall’estetica per trapassare a una «diagnosi dell’epoca». La sua
analisi verte sulle difficoltà che si formano all’interno della forma drammatica e ne minacciano la
compagine, non sull’origine di queste difficoltà stesse. Costretto, talvolta, ad accennarvi, egli parla
genericamente di uno «spostamento dello spirito del mondo» e si serve del termine reificazione
(Verdinglichung) usato dai suoi ispiratori (il primo Lukács, ecc.) è pressapoco equivalente a quello,
pure ricorrente, di alienazione (Entfremdung), anche se, da una parte, circoscritto alla vita dello
spirito, e dall’altra generalizzato a qualsiasi rottura del rapporto soggetto-oggetto, quindi separato
dalle precise implicazioni economico-sociali che il concetto di alienazione suole avere nella
letteratura marxista. Anche questo concetto appare insomma piú come un sottinteso psicologico
dell’evoluzione del dramma che come categoria esplicativa vera e propria. Siamo sempre al di qua di
una «diagnosi dell’epoca». Questa cautela può parere timidità accademica alla nostra critica abituata
a sparare i cannoni del marxismo anche dietro ai moscerini o, peggio, agli scarafaggi. E vedremo che
effettivamente l’agnosticismo ideologico dello Szondi comporta certi limiti dell’esposizione. Ma
bisogna riconoscere che, prima di tutto, l’unità hegeliana di teoria e storia, cosí viva in queste
pagine, dà comunque frutti molto piú profondi di tanto marxismo che non ha compreso che Marx trae
la sua grandezza dall’avere inverato quell’unità, dandole una base scientifica 6; e in secondo luogo
che l’esclusione della «diagnosi dell’epoca» preserva l’autore da generalizzazioni affrettate e
concentra le sue forze nell’analisi puntuale dell’evoluzione del genere.
Il punto di partenza di Szondi è il dramma postrinascimentale (egli ha presente soprattutto la
tragédie classique, in misura minore i classici tedeschi), che ha soppresso il prologo e l’epilogo, resti
del momento in cui lo spettacolo era esplicitamente presentato come tale, come avveniva nel teatro
medievale. Da questo momento il dramma è assoluto, cioè non conosce altro al di fuori di sé: è
assoluto nel tempo, perché presenza pura, non riferita a un prima o a un dopo; è assoluto come
rapporto interumano (zwischenmenschlich) perché non presuppone rapporti al di fuori di quelli
espressi nel dialogo; infine è assoluto come accadere, poiché questo non è fondato altro che sulla sua
propria tensione e non su altre condizioni psicologiche o attinenti al mondo esterno. Si pensi al
famoso oui che inizia parecchie tragedie raciniane e che ci precipita immediatamente in medias res:
tutto è già dato, e non resta altro che lasciare che si svolga l’inevitabile. Le tre unità scaturiscono
naturalmente da questo carattere di assolutezza.
Il fenomeno fondamentale che contraddistingue l’epoca moderna dal 1860 circa in poi è
l’epicizzazione del dramma, che relativizza tutti i momenti dell’assolutezza: il dramma si apre verso il
passato e verso il futuro (per esempio nel dramma «analitico» di Ibsen, in cui i personaggi rievocano
il passato che li ha condotti a quel punto, mentre quelli di Čechov rinnegano esplicitamente il
presente vivendo solo di rimpianti e di speranze); esso si svuota del rapporto interumano, in quanto i
personaggi (in Maeterlinck, in Strindberg, ecc.) parlano senza intendersi o addirittura senza
ascoltarsi, e i dialoghi si trasformano in monologhi; infine l’accadere perde la sua assolutezza e
diventa esemplificazione di un destino (per esempio di una situazione economico-sociale in
Hauptmann) cui rimanda. Questa relativizzazione epica dipende dalla scissione della sintesi tra
soggetto e oggetto, che è tipica del dramma: i due termini entrano in opposizione, uno dei personaggi
diventa la proiezione dell’io dell’autore e gli altri diventano l’oggetto di questo io, cioè al rapporto
drammatico si sostituisce un rapporto squisitamente epico e sulla scena appare, a poco a poco, la
figura del narratore.
Nel capitolo intitolato La crisi del dramma Szondi descrive questo lento processo esaminando
cinque autori, da Ibsen a Hauptmann, che lo incarnano in varia misura e in varie direzioni. Egli
mostra come la crisi si riveli nell’inserirsi di una tematica epica in una forma che è ancora quella
tradizionale. Questa coppia di concetti (con i corrispondenti aggettivi «tematico» e «formale») va
intesa in senso piú restrittivo di quella abituale contenuto-forma. «Forma» indica, come già
sappiamo, quegli elementi della forma (in senso lato) che costituiscono la struttura istituzionale del
genere; «tematica» indica quegli elementi del contenuto che non si adattano alla «forma» anche se vi
si possono inserire mediante connessioni formali (in senso lato). Per chiarire la distinzione si può
partire da un esempio dato dallo stesso Szondi: una canzone è elemento «tematico» in una
commedia, mentre è «formale» in un’opera; nel primo caso i personaggi possono prendere coscienza
del fatto che cantano, nel secondo no. Cioè nel primo caso la canzone non rientra nella forma come
struttura istituzionale, anche se non rimane un puro elemento di contenuto perché l’autore può
motivarlo formalmente (attraverso una situazione che giustifichi il suo inserimento), ma questa
motivazione resta essa stessa «tematica», episodica, nei confronti della struttura complessiva. Solo
quando questa struttura si modifica in modo tale da non esigere piú una motivazione formale
dell’inserimento (come nei songs di Brecht), la canzone da elemento «tematico» diventa elemento
«formale». Nel capitolo di transizione sulla «teoria del mutamento stilistico» Szondi spiega come
negli scrittori di trapasso il nuovo contenuto epico, cioè la separazione tra soggetto e oggetto,
entrando in contrasto con la forma drammatica richieda una motivazione formale: per esempio in
Prima dell’alba di Hauptmann l’analisi della degenerazione dei contadini arricchiti (di per sé una
situazione statica che non può dar luogo a un dramma) è resa possibile dall’arrivo del sociologo Loth,
ma questa motivazione formale resta «tematica» nel dramma perché vi introduce un elemento (l’io
epico) che è veramente «formale», costitutivo, solo nell’epica. Infatti alla fine Loth viene allontanato
dalla scena in modo del tutto inverosimile e arbitrario, e questo perché la forma drammatica, ancora
immutata nei suoi capisaldi, esige che l’estraneo che ha reso possibile il dramma alla fine se ne vada.
Se rimanesse, egli si scoprirebbe per quel che è: il travestimento dell’io epico. Nella sua espulsione la
giustificazione formale della sua introduzione ha il sopravvento sulla sua piú profonda ragion
d’essere «tematica». Invece alla fine dell’evoluzione che qui inizia, quando l’io epico avrà dismesso il
suo travestimento e si presenterà per quel che è (per esempio nel regista della Piccola città di
Wilder), egli non avrà piú bisogno di arrivare e di ripartire: la sua funzione non sarà piú «tematica»
ma «formale».
La contraddizione tra contenuto epico e forma drammatica creatasi nei cinque drammaturghi
trattati nel secondo capitolo spezza la vecchia forma e tende a «precipitare» in una forma nuova, la
quale utilizzerà le motivazioni formali escogitate da quei drammaturghi (il tribunale ibseniano sul
passato dei personaggi, il narratore di Strindberg, il sociologo di Hauptmann) togliendo loro il
carattere «tematico» e trasformandole in elementi costitutivi, «formali» in senso stretto. Prima però
di analizzare questi «tentativi di soluzione», che spingono a fondo la contraddizione, cercando di
fondare un teatro epico, Szondi dedica un capitolo ai «tentativi di salvataggio» che cercano di
frenarla e di conservare la forma drammatica. In questi tentativi si tratterà anzitutto di salvare il
rapporto interumano, la cui crisi minaccia la possibilità stessa del dialogo, e ciò avverrà sia cercando
un ambiente popolare in cui l’alienazione non abbia ancora spinto gli uomini nell’isolamento (come
nel dramma del naturalismo), sia trasformando il dialogo in conversazione e facendone il vero centro,
estraniato ai personaggi, dell’opera teatrale (dramma-conversazione), sia rinunciando all’azione, ma
salvando il momento della tensione e comprimendolo nel breve periodo antecedente alla catastrofe
già scontata (atto unico), sia infine confinando i personaggi entro un breve spazio – per esempio una
prigione – in cui essi sono costretti ad abbandonare l’isolamento e a ritrovare il rapporto interumano
(drammi dell’angustia e dell’esistenzialismo). Quest’ultima via è quella che offre piú possibilità di
riuscita nello sforzo di salvare il dramma, e Szondi parla addirittura di un «ritorno al classicismo»; le
altre sono invece intimamente problematiche, anche se talora possono dar luogo a fenomeni
d’eccezione come il teatro di Beckett, che trasforma il dramma-conversazione in un dramma della
negatività della conversazione.
L’ultimo capitolo, quello consacrato ai «tentativi di soluzione», non può avere la stessa compattezza
dei precedenti, poiché le soluzioni del conflitto sono diverse e rappresentano fasi di un processo non
ancora concluso. La forma drammatica, definita nel modo e con gli esempi che sappiamo, è un punto
di partenza sicuro, ed è quindi piú facile seguirne la crisi e i tentativi di salvarla che non tracciare un
profilo unitario di quel teatro epico che viene a sostituirla e che non si è ancora rassodato. Del resto è
lecita la domanda se esso potrà mai fondare una forma autonoma che abbia la stessa validità e
fecondità della vecchia forma drammatica. Questa domanda Szondi non se la pone e non se la vuol
porre, poiché sulla storia del dramma moderno «non è ancora calato il sipario» e si può soltanto
trarre le somme di ciò che esiste. Solo una volta (a proposito della tecnica del montaggio in
Bruckner) gli sfugge il termine di «patologia» dei generi letterari, che indubbiamente implica un
giudizio negativo sul processo che sta descrivendo, tanto piú che l’accenno non è limitato
all’epicizzazione del dramma, ma si riferisce anche all’opposto e complementare fenomeno
dell’inserimento di elementi drammatici (monologo interiore) nella narrativa. Tuttavia una rondine
non fa primavera. Inoltre si può osservare che la scarsa simpatia che l’impassibile Szondi lascia
trapelare nei confronti dell’uso del montaggio in Bruckner, come nei confronti dell’uso sia del
montaggio che del monologo interiore in O’Neill, risale al fatto che entrambe queste tecniche
appartengono alla patologia non del dramma, ma dell’epica, e quindi il loro reinserimento nel
dramma costituisce in qualche modo una patologia di secondo grado; solo in presenza di questa
Szondi si lascia sfuggire la parola anche per quella di primo grado. Sembra insomma che nel suo
precipuo interesse per la coerenza della forma egli accetti tanto piú volentieri le soluzioni del
problema posto dal dramma moderno quanto esse sono piú lineari e conseguenti, come un
cancerologo parlerà di un «bel» tumore quando il quadro clinico non è accompagnato da
manifestazioni secondarie che lo alterino.
Quel che è certo è che nell’ultimo capitolo emergono i tre drammaturghi (Brecht, Wilder e Miller)
che vanno piú in là nel far «precipitare» la tematica epica in una forma adatta, e che lo fanno con
maggior consapevolezza. Altri tentativi esaminati lumeggiano solo certi aspetti del processo. Per
esempio la drammaturgia dell’espressionismo, riprendendo il «dramma a tappe» di Strindberg,
mostra come la riduzione del dramma alla storia dell’io isolato lo svuoti di ogni concretezza, in base
alla dialettica per cui il soggetto assoluto, privo di rapporti, anziché potenziarsi diventa una pura
astrazione, un’ombra anonima. Pirandello nei Sei personaggi porta sulla scena la storia stessa della
crisi del dramma e della sua impossibilità, ciò che costituisce la grande importanza storica della
commedia 7; però non realizza interamente l’idea del teatro epico in quanto il conflitto tra tematica
epica e forma drammatica si riproduce all’interno dell’azione che fa da cornice, e tale conflitto porta
(come nei Tessitori di Hauptmann) a una soluzione pseudodrammatica, il suicidio del Figlio, che
ricongiunge le due azioni, quella attuale e quella rivissuta dai personaggi: il sipario, che all’inizio era
aperto secondo le norme del teatro epico, alla fine si chiude. I criminali di Bruckner interessa Szondi
soprattutto per l’attuazione coerente di un motivo che Strindberg aveva risolto in compromesso nella
Sonata degli spettri e per l’apparizione della tecnica del montaggio, Strano interludio di O’Neill come
pretesto per un’acuta divagazione sulle vicende dell’a parte e sulla sua trasformazione in monologo
interiore.
È in Brecht, in Wilder e in Miller che il principio del teatro epico si realizza nel modo piú integrale.
Almeno ad opera del drammaturgo, perché prima si era realizzato ad opera di un regista, Piscator,
che avvertendo l’insufficienza e l’ambiguità della produzione drammatica del suo tempo era stato
indotto a radicalizzarla e ad anticipare Brecht nel fare del teatro l’esemplificazione di un processo
politico-sociale che lo trascende. Alla scena «stereoscopica» che concentra gli sguardi degli
spettatori verso uno spettacolo che sostituisce integralmente, finché dura, il mondo, subentra una
scena comunicante in tutte le direzioni con un mondo di cui è soltanto un settore, un ritaglio, un
capitolo. Con ciò si compie il passo decisivo per l’abbandono dell’assolutezza della vecchia forma
drammatica e si risolve il conflitto immanente al naturalismo tra questa forma, fondata sul rapporto
interumano, e la concezione, presente nella tematica epica, della società come oggettività alienata
che nega la libertà del singolo. La rinuncia alla forma drammatica, l’uso di altri mezzi (soprattutto del
film) per accentuare la relatività del processo scenico e il suo carattere d’esempio, rendono evidente
la presenza del deus ex machina che ha organizzato tutto questo e che appare come gigantesco
profilo dello stesso Piscator. L’io epico, che finora aveva assunto varie maschere, appare ora in prima
persona come regista, attendendo di apparire anche come autore 8.
In Brecht questo deus ex machina cessa presto di essere soltanto «il signor Bertolt Brecht» (Un
uomo è un uomo) per diventare l’incarnazione di un principio: quello della scienza. Il vecchio teatro
presupponeva la normalità dei rapporti tra gli uomini, ma la rivoluzione industriale ha modificato
questi rapporti dividendo l’umanità in due categorie, i molti sfruttati e i pochi sfruttatori, coloro che
traggono ricchezza e coloro che traggono miseria dall’impresa del dominio delle forze naturali. In
tale situazione solo la borghesia ha interesse a conservare il vecchio teatro che ignora la linea di
divisione e presenta come omogenea un’umanità che non lo è. Ma se il teatro non accetta piú la
normalità dei rapporti umani, non può piú accettare nemmeno la forma drammatica, che tale
normalità presuppone: deve indicare, smascherare, dimostrare in nome della scienza, e quindi farsi
teatro epico. Brecht svolge coerentemente il nuovo principio permeandone tutta la rappresentazione
attraverso ogni sorta di «effetti di straniamento» (prologhi, cartelli, cori, songs, recitazione
«straniata» degli attori, ecc.) che servono a ribadire ovunque l’opposizione tra soggetto ed oggetto, il
fatto che l’essere sociale dell’uomo si è estraniato da lui e gli appare come oggettività alienata.
In modo assai diverso viene attuato il principio del teatro epico in Piccola città di Thornton Wilder.
Qui la descrizione della banalità della vita quotidiana, che in Čechov o in Prima dell’alba di
Hauptmann urtava contro la forma drammatica e spingeva a soluzioni pseudodrammatiche, viene
resa possibile dall’introduzione della figura del regista, che si sobbarca su di sé, come soggetto
epico, tutto il resoconto della situazione oggettiva (l’ambiente della piccola città) da cui scaturisce la
vita dei personaggi. Anziché fluire attraverso tutta la rappresentazione, come in Brecht, la
separazione soggetto-oggetto si concentra qui in un punto solo. Inoltre il regista può manipolare a
suo piacimento il tempo, rendendo presente il passato e risolvendo cosí di colpo il problema che era
costato tanta fatica ai precursori come Ibsen (nel Lungo pranzo di Natale, pure analizzato da Szondi,
il tempo diventerà addirittura il protagonista). Ma assumendo in sé tutta l’epicità del teatro epico, il
regista permette ai personaggi di usare un dialogo non minacciato dal pericolo della descrittività e la
cui purezza strappa a Szondi accenti d’ammirazione. Radicalizzando il teatro epico, Wilder trova
all’interno di esso la possibilità di salvare in qualche misura il dialogo e il rapporto interumano che vi
soggiace. Che questo salvataggio sia però molto precario lo mostra il terzo atto, dove Emily morta e
risuscitata per un momento dal regista constata l’impossibilità di comunicare coi vivi.
Se il libro si chiude su Arthur Miller non è solo per ragioni cronologiche, ma anche perché il
passaggio da Erano tutti miei figli alla Morte di un commesso viaggiatore permette a Szondi di dare
come un raccourci dell’evoluzione che ha descritto. Il primo dramma è una ripresa immutata della
tecnica ibseniana del dramma analitico che urta, come in Ibsen, contro il dissidio tra la tematica
epica del passato ricordato e la forma drammatica attuale. Invece nel secondo Miller abbandona
risolutamente la forma drammatica: il passato non viene piú faticosamente ricostruito attraverso il
dialogo, ma appare direttamente sulla scena obbedendo alla «memoria involontaria» del commesso
viaggiatore, un po’ come madama Pace appariva nei Sei personaggi quando c’era bisogno di lei. Cosí
il commesso assume la parte dell’io epico e il suo passato diventa l’oggetto immediato della sua –
involontaria – narrazione. Non c’è netta distinzione tra i due piani, sicché abbiamo continui trapassi
spaziali e temporali pur senza cambiamenti sulla scena, poiché ciò che avviene non è altro che
l’incarnarsi del ricordo, e il ricordo non conosce barriere di spazio e di tempo. Siamo veramente al
polo opposto del dramma classico: luogo e tempo, da assoluti che erano, sono diventati relativi non
soltanto di fronte ad altri luoghi e ad altri tempi, ma in sé.
3.
Tantae molis erat uscire dagli impacci creati dall’inserimento della tematica epica nella forma
drammatica per arrivare a soluzioni soddisfacenti, anche se non conclusive. Quando sarà giunto alla
fine di questo processo, che qui abbiamo per forza di cose ancor piú schematizzato, il lettore sarà
probabilmente colto da un miscuglio di ammirazione e di insoddisfazione: ammirazione per la logica
stringente con cui è esposta l’evoluzione e per l’acutezza delle singole analisi; insoddisfazione perché
la coerenza della soluzione formale non va sempre congiunta al valore estetico. Se ci lasciassimo
soverchiare da questa insoddisfazione potremmo equiparare questo libro alle opere positivistiche
sull’«evoluzione dei generi» e rifar nostra la polemica crociana contro Brunetière. Ciò sarebbe
estremamente ingiusto, sia perché l’evoluzione dei generi non comporta in Szondi un progresso di
tipo positivistico, ma casomai, come abbiamo visto, una patologia dei generi stessi, sia perché Szondi
ha delimitato esattamente il campo della propria indagine e non ne vuol sapere di dare un giudizio
sul significato dell’evoluzione né sul rapporto tra l’importanza di un’opera come tappa in seno a tale
evoluzione e la sua importanza estetica in generale. È vero che egli era partito dalla definizione
dell’arte come sintesi di forma e contenuto e aveva inteso mostrare come tale sintesi, messa in crisi
dall’introduzione della tematica epica, si ristabilisca una volta che questa si sia creata la forma epica
adeguata. Ci sarebbero quindi i presupposti per identificare il valore estetico con la coerenza della
soluzione formale: se ciò in Szondi non accade è perché gioca in lui, consapevolmente o meno,
l’eredità del platonismo benjaminiano o della fenomenologia di Staiger per cui la validità di un’idea
rimane sempre come sospesa al di sopra degli oggetti che la incarnano. Tuttavia noi non siamo tenuti
a condividere questa posizione, e gli interrogativi cosí elusi ci si impongono egualmente. Sta bene
che la soluzione formale epica di Miller sia superiore a quella di compromesso di Ibsen, né Szondi
vuol certo affermare con questo che Miller sia genericamente superiore a Ibsen, ma egli non ci
spiega perché gli sia in realtà tanto inferiore. E se il primo dramma di Miller non è altro che un Ibsen
trapiantato in America, perché continuiamo a preferirgli l’originale? In generale, se i tentativi di
«salvataggio» e di «soluzione» affrontano per le corna una contraddizione soltanto palliata dai
precursori, come mai questi restano tutto sommato (salvo magari Maeterlinck) piú interessanti di
quelli, come del resto è indirettamente confermato dal fatto che il capitolo loro dedicato rimane il
migliore, il piú ispirato di tutto il libro? Ma anche se tagliamo il corso dell’evoluzione in due punti
paralleli dobbiamo chiederci, per esempio, perché Brecht ci dica molto di piú che non i dialoghi
«classici» della Piccola città.
Qui non vogliamo certo rispondere esaurientemente a questi interrogativi, ma solo indicare alcuni
punti che ci sembra possano, senza invalidare il quadro di Szondi, correggerne la rigidità e
permettergli di rendere conto di fenomeni che ne restano esclusi. Il ragionamento di Szondi
sviluppandosi con lucida coerenza a partire da certe premesse, saranno queste che dovremo porre in
discussione. Se si confronta la sua definizione del dramma con quella hegeliana, cui parzialmente si
ispira, si troverà una differenza significativa, e cioè la mancanza del momento, assai importante in
Hegel, della collisione. La collisione è il momento intermedio tra la situazione e l’azione: l’azione
«presuppone delle circostanze che conducono a collisione, all’azione e reazione» 9 e in essa entrano
in conflitto delle «potenze universali, che formano il contenuto e il fine essenziale per cui si
agisce» 10. La collisione è quindi il «punto cardine» del dramma: «da una parte tutto tende alla
esplosione di questo conflitto, ma dall’altra proprio la discordia e la contraddizione di contrastanti
disposizioni di animo, fini e attività hanno comunque bisogno di una soluzione e vengono spinti verso
questo risultato» 11. Al posto di questo «punto cardine» troviamo in Szondi, come presupposto
dell’azione, solo il «rapporto interumano», la sfera del «tra». E non è già che questo non sia giusto,
perché il dramma presuppone in ogni modo una comunanza tra gli uomini, che se non altro hanno in
comune appunto il conflitto. Ma questo è solo l’ovvio terreno su cui si innesta la collisione come tale.
Per Szondi tale sfera del rapporto interumano non è piú ovvia perché egli la scorge dal punto di vista
di un’evoluzione che la nega. Gli sembra perciò, in qualche modo, che la sua presenza basti per far
scattare automaticamente il conflitto drammatico, e cosí perde di vista la vera molla di esso, e cioè «i
bisogni essenziali del petto umano, i fini in se stessi necessari dell’agire, in sé legittimi e razionali, e
quindi le potenze universali ed eterne dell’esistenza spirituale» 12. Non ci interessa qui di esaminare
le conseguenze, talora unilaterali, e l’insufficiente tipologia che Hegel ha tratto da questa sua
concezione della collisione, ispirata soprattutto all’Antigone 13: nelle sue linee generali essa è
pienamente valida.
Ora, se l’essenza del dramma sta nella collisione di opposte forze – e nella loro incarnazione in
personaggi il cui carattere sia adatto a rappresentarle –, ciò importa qualche ritocco al quadro offerto
da Szondi. In primo luogo la sua concezione del dramma si rivela alquanto astratta. Non è un caso
che egli consideri le tre unità come essenziali e che il suo modello sia la tragédie classique.
Shakespeare è per lui un’eccezione: la forma «aperta» che il dramma qui assume è da spiegare con
le histories, poiché l’introduzione dell’elemento storico basta già a spezzare l’assolutezza del
dramma, rimandando a qualche cosa che è al di fuori di esso (la verità storica). Il dramma storico è in
fondo per Szondi una contraddizione in adjecto. Questa tendenza a considerare la forma del dramma
shakespeariano come non rappresentativa (senza che ciò, al solito, coinvolga un giudizio estetico) si
trova, su altre basi e con altri accenti, anche in alcuni ispiratori di Szondi 14. Di fronte a tale
tendenza, che sottolinea eccessivamente gli aspetti formali, restano valide la polemica lessinghiana
contro le teoriche francesi e la definizione hegeliana della «vera unità» del dramma che «può avere il
suo fondamento solo nel movimento totale, per cui la collisione sorge, secondo la determinatezza
delle circostanze, dei caratteri e dei fini particolari, in conformità ai fini ed ai caratteri, e al contempo
elimina la loro contraddizione» 15. È alla stregua di questa «vera unità» che occorre giudicare la
composizione di un dramma, la quale può quindi essere molto piú elastica di quanto non comporti la
definizione szondiana, che soffre di quel «diffuso pregiudizio» di cui parla Lukács 16 per il quale
«l’esteriore concentrazione dell’azione, la riduzione dei personaggi a un piccolo numero ecc.
rappresenterebbero una tendenza puramente drammatica, mentre i frequenti e vari cambiamenti di
scena, una folla di personaggi ecc. rappresenterebbero una tendenza epica nel dramma», mentre in
realtà «il carattere veramente drammatico o “romanzato” di un dramma dipende dalla soluzione del
problema della “totalità dei movimenti” e non soltanto da connotazioni puramente formali».
Si dirà che questo «pregiudizio» incide in scarsa misura, nel caso particolare, sulla trattazione di
Szondi, in quanto è comunque indiscutibile che il dramma moderno è caratterizzato dall’invasione
della tematica epica e quindi la semplificazione del concetto di dramma permette anzi di discernere
meglio l’evoluzione. Nulla di piú vero, ma se vogliamo abbozzare una risposta ai quesiti che
sorgevano alla lettura del libro dobbiamo tener conto di questi limiti della sua impostazione.
L’avvento della tematica epica è un fenomeno derivato che tenta di rimediare a quella che è la vera
causa della crisi del dramma: la perdita della collisione come urto di due «potenze universali» e la
sua sostituzione con conflitti puramente psicologici che non si nutrono di quelle potenze o le toccano
solo tangenzialmente. La feticizzazione delle forze sociali ad opera del capitalismo le configura come
un destino imperscrutabile, un cielo immobile, mentre all’individuo non resta altro che la possibilità
di identificare il suo proprio dramma personale con quella legge cosmica. La libertà dell’eroe tragico,
anche nella sua fine, cui Szondi spesso si riferisce citando un detto di Schelling, sembra
definitivamente compromessa. Questa concezione della tragedia, che ha il suo grande precursore in
Kleist, appare in Hebbel dopo il 1848 e da allora grava su quasi tutto il dramma europeo. La
periodizzazione di Szondi, che vede la sua definizione del dramma applicata ancora verso il 1860 e fa
iniziare la crisi da Ibsen, non è quindi applicabile alla crisi piú profonda, quella della collisione. Ora
questa crisi non si svolge in modo uguale dappertutto e proprio Ibsen mostra nelle sue opere
maggiori come si possano ancora affrontare di petto alcuni conflitti fondamentali della società
borghese, imperniati sull’amore, il matrimonio e la famiglia, traendone effetti veramente drammatici.
Personaggi come Nora o la signora Alving sono indimenticabili proprio perché rompono con la loro
forza morale la crosta reificata dell’oggettività sociale borghese e restaurano quindi in qualche
misura la libertà dell’eroe tragico. Anche se Szondi sceglie un’opera del tardo Ibsen, molto piú
problematico, tra Ibsen e il suo immediato successore Strindberg resta sempre un vero abisso : qui sí
che il conflitto perde ogni sostanza universale e si fa sempre piú espressione di una patologia privata
perseguitata da un destino feticizzato.
Ibsen non è dunque soltanto il creatore della tecnica «analitica». Se in Erano tutti i miei figli Miller
ci sembra tanto inferiore al suo prototipo, è anzitutto perché la ricostruzione del passato non porta
alla luce nessun conflitto sostanziale che investa l’intero destino degli uomini. Keller, fornendo
all’esercito dei pistoni avariati, provocando la morte di molti aviatori e scaricando la responsabilità
su un impiegato, non è molto di piú di un delinquente che si crede autorizzato al delitto dalla legge
dell’interesse; se si uccide, lo fa perché ha scoperto che oltre alla morte degli aviatori ha provocato il
suicidio di uno dei suoi figli. La consapevolezza che raggiunge nella morte non va al di là di quella del
figlio «idealista» Chris, che ritiene del tutto accidentale e inspiegabile il fatto che la società non
osservi quella solidarietà elementare che egli ha sperimentato in guerra. Come dice Miller stesso 17,
«Joe Keller è accusato da suo figlio di aver fatto coscientemente uso immorale della sua posizione
economica; e questo, come dissero i russi quando esclusero il lavoro dai loro palcoscenici, implica la
presunzione che la norma del comportamento capitalista è morale, o almeno può esserlo,
presunzione che nessun marxista può ammettere». Non solo i marxisti ma anche, si può aggiungere,
Ibsen. Poiché perfino i protagonisti delle opere tarde di Ibsen, grottescamente oscillanti tra il
superominismo e la vigliaccheria, non agiscono mai per fini puramente privati, e già le loro eterne
lamentele sulla grigia massa che non li comprende sono un modo, sia pure erroneo, di mettere in
questione le basi stesse della società. John Gabriel Borkman non fa eccezione: le malversazioni che
l’hanno portato in carcere egli le ha compiute nella speranza di attuare «gigantesche imprese», per
impadronirsi «di tutte le fonti del potere che esistono in questo paese… e cosí dare la prosperità a
migliaia e migliaia di esseri umani». La circostanza che Borkman sacrifichi a queste prospettive il suo
amore per Ella fa sí che il conflitto che si riesuma nel dramma abbia ancora una certa base, anche se
attenuata e distorta, nelle «potenze universali» (base che Szondi, sia detto tra parentesi, minimizza
ulteriormente non accennando alle grandi ambizioni di Borkman e parlando soltanto di «carriera
nella banca»). Sia rischiando i capitali affidatigli, sia sacrificando l’amore all’ambizione, Borkman
rivela che la «norma del comportamento capitalistico» non è morale né può esserlo, e ciò benché
essa sia ancora sorretta da ideali sociali. Niente di tutto questo nel primo dramma di Miller, dove il
crimine di Keller non è motivato da altro che dall’interesse personale e quindi una volta espiato lascia
le cose non solo come prima, ma meglio di prima: non per nulla alla fine la Madre impone al figlio
«Dimentica. Vivi», e gli ingiunge di tacere. La colpa di questo non è naturalmente solo di Miller, che
anche in Erano tutti miei figli dispiega notevoli qualità e raggiunge talora un pathos morale
autentico, ma del fatto che Ibsen può rappresentare personaggi in cui la vitalità e il dinamismo della
vecchia borghesia – anche se ormai votati all’insuccesso e confinati nella solitudine e nella
monomania – hanno ancora un aspetto di universalità, mentre in Miller l’universalità è tutta dalla
parte del grigiore alienato del meccanismo capitalistico, possibilmente indorato dall’«idealismo» di
Chris, e il rude pioniere, il self-made man, si distingue solo perché non esita di fronte al delitto onde
mantenere le proprie conquiste. Si noti che anche la Morte di un commesso viaggiatore, che si svolge
tutta all’interno dell’alienazione piccolo-borghese, contrappone alla figura dell’esaltato Willy Loman
quella del saggio Charley, che riesce dappertutto là dove l’altro fallisce. Per grande che sia il divario
riscontrato da Szondi nella tecnica, il carattere casuale e privato del dramma permane esattamente
lo stesso.
Se anche nel vecchio Ibsen si mantiene parzialmente il peso della collisione nel conflitto tra
vecchia e nuova borghesia, questo sarà tanto piú forte là dove le istanze borghesi non sono ancora
realizzate. Szondi cita La casa di Bernarda Alba di García Lorca come esempio di «dramma
dell’angustia». Molto giustamente egli distingue un caso come questo, in cui l’angustia «appartiene
essenzialmente alla vita degli uomini», dai drammi dell’esistenzialismo, in cui essa è introdotta
artificialmente attraverso un «atto drammaturgico» preliminare. Tuttavia anche qui egli identifica
con l’espressione «vita degli uomini» situazioni di conflitto puramente privato e situazioni in cui
entrano in gioco forze piú vaste, e allinea sullo stesso piano di Lorca fenomeni cosí diversi come il
dramma borghese e i drammi strindberghiani sul matrimonio. Invece Lukács 18 rileva la profonda
affinità tra La casa di Bernarda Alba e La tempesta di Ostrovskij, in quanto entrambi i drammi sono
sorti in situazioni in cui il feudalesimo domina interi settori della vita. È per questo che il conflitto
non è ancora complicato dalla problematica interna della società borghese e l’opposizione tra natura
e irrazionalità delle convenzioni, avendo dietro di sé tutta la forza dell’opposizione storica tra
feudalesimo e borghesia, conserva una schietta, potente monumentalità.
L’Adela del dramma di Lorca può cosí ritrovare nella sua ribellione e nel suicidio la libertà del vero
eroe tragico. Ma si tratta appunto di un’eccezione resa possibile, in pieno ventesimo secolo, dalla
particolare situazione spagnola. Quanto piú l’essenza dell’individuo si trasferisce nell’oggettività
feticizzata, tanto piú si perdono i presupposti della collisione e il teatro si epicizza. Tuttavia anche qui
bisogna distinguere tra i vari esiti del processo delineato da Szondi. Un caso estremo è quello di
Piccola città: alla coerenza compositiva nell’attuazione della forma epica corrisponde la coerenza del
mondo rappresentato, dove nessuna collisione è piú possibile perché la banalità quotidiana ha
permeato l’intera vita degli uomini. L’unico elemento «drammatico» può essere dato ormai
dall’interruzione di tale banalità, e cioè dalla morte, che in questo mistero profano ha perso anche
quella necessità morale fondata su un ordine trascendente che la rendeva piú interessante – ma non
molto piú drammatica – nella leggenda medievale di Ognuno, ripresa da Hofmannsthal. Se l’Adela di
Lorca si uccide, se la Nora di Ibsen abbandona la sua casa, il massimo sforzo che Emily arriva a
compiere per sottrarsi alla prospettiva di rimanere vita natural durante un degno membro della
comunità di Grover’s Corners è quello di morire di parto. Che si tratti in qualche modo di uno sforzo,
sia pure inconsapevole, è documentato dal terzo atto, in cui Emily si accorge che il cimitero è dopo
tutto l’unico luogo della piccola città in cui si è al riparo dall’alienazione (si veda il frammento di
dialogo con la signora Gibbs riportato da Szondi). Ma questa è una magra rivincita sul sublime
filisteismo che si respira in tutta la commedia.
Ben diversa è la funzione del teatro epico in Brecht. Le basi su cui esso sorge sono uguali a quelle
di Wilder, né potrebbe essere altrimenti: l’epicizzazione del teatro deriva pur sempre dall’alienazione
dell’essenza sociale, come mostra Szondi. La sua impostazione fa giustizia della tesi, suggerita in
parte 19 dallo stesso Brecht, per cui il teatro epico sarebbe la forma specifica del teatro socialista, con
la conseguente svalutazione di tutto il teatro «aristotelico» come teatro di classe. Chiamando Brecht
«un erede del naturalismo» Szondi sottolinea l’elemento comune dell’oggettivazione della realtà
economico-sociale di cui i singoli sono pure esemplificazioni; anzi si può aggiungere che, come la
tematica epica del naturalismo è qui «precipitata» in forma, anche il principio del dissolvimento del
personaggio a elemento rappresentativo è attuato – almeno nel Brecht epico, il Galilei esige un altro
discorso – molto piú a fondo, e Bäcker o Dreissiger nei Tessitori hanno una consistenza individuale
maggiore di un operaio o di un capitalista brechtiano, pur avendo una consapevolezza ideologica
infinitamente minore. Senonché, se lo sfondo su cui si agitano gli eroi di Brecht è lo stesso destino
feticizzato che fa da sfondo al teatro moderno da Strindberg a Wilder, la differenza capitale è che
Brecht si propone la demistificazione di questo feticismo. Il richiamo alla scienza e al materialismo
storico trova qui la sua legittimità. Invece di accettare come dati l’assenza di rapporti e la fungibilità
dell’io (si pensi all’Anima buona del Sezuan in confronto a certi drammi di Pirandello), Brecht le
riconduce alle loro radici. In tal modo l’oggettività sociale perde il carattere di destino inesplicabile e
unitario e si rivela come lotta di classe. Riappaiono cosí gli elementi della collisione, e la superiorità
di Brecht sul residuo teatro epico sta appunto nel fatto che la nuova forma epica addita, nella veste
della lotta di classe, quella collisione che faceva la forza del dramma classico e da cui essa trae,
indirettamente, la propria. Certo, un conflitto additato è sempre meno persuasivo di un conflitto
vissuto: il fondamento reificato del dramma epico si rivela nell’astrattezza che assume la collisione
una volta divenuta oggetto anziché motore della rappresentazione e scissa dagli individui, che, invece
di incarnarla, la esemplificano. L’azione non assorbe piú in sé il conflitto, ma lo spiega, e lo scotto di
questo aumento di didatticità scientifica è la perdita di concretezza, poiché il teatro, per epico che
sia, non può mai gareggiare col romanzo nell’analizzare tutti i momenti di una situazione e di uno
sviluppo. Quel che nasce su questa base – nella forma piú coerente forse nella Santa Giovanna dei
Macelli, uno dei capolavori di Brecht – è una specie di Entwicklungsroman raccorciato, le cui varie
tappe mostrano come l’eroe, per dirla con Hegel, «si rompa le corna» contro il corso del mondo, e
intanto acquisti la saggezza.
La saggezza è infatti il surrogato epico della libertà dell’eroe tragico: là dove questi agisce, il
personaggio del teatro epico capisce. È un «eroe bastonato», un «eroe non tragico», come diceva
Benjamin 20, il quale ne vedeva giustamente il prototipo nel Cristo delle passioni medievali (e Brecht
non aveva allora ancora scritto, per il compositore Gottfried von Einem, la mirabile cantata della
passione, in cui il popolo approva il supplizio di Cristo «perché ha detto la verità»). Tuttavia anche la
libertà, che è respinta dagli orizzonti del teatro epico al pari della collisione, appare controluce come
istanza della saggezza. Se l’eroe della decadenza del dramma non poteva far altro che accettare la
sua fine di fronte a un destino feticizzato, in Brecht la demistificazione di questo destino attraverso
l’acquisizione della saggezza apre le porte della libertà. Certo questa appare raramente sulla scena
come possibilità individuale – e quando vi appare, come nei Giorni della Comune, è secondo i moduli
di un fiacco naturalismo – perché vi si oppongono i principî stessi del teatro epico, ma è postulata
come stato opposto alla ferrea necessità capitalistica. La passione esige una redenzione. Si potrebbe
dire paradossalmente, contro ogni intenzione di Brecht, che il coronamento del teatro epico,
mettendone a nudo le basi, esprime la nostalgia di un mondo in cui il dramma sia di nuovo possibile.
In questo senso la posizione di Brecht resta difficilmente imitabile. Friedrich Dürrenmatt, che nella
sua viva ammirazione per il teatro brechtiano sente profondamente le differenze col proprio, in
opposizione ad ogni punto di vista «scientifico» afferma di non voler «interpretare il mondo» e di non
avere «né il diritto né la capacità» di porsi al di fuori di esso, ciò che, egli ammette, lo renderebbe
«meno minaccioso» 21. Tuttavia la demistificazione che egli attua di questo mondo alienato è del tutto
analoga a quella di Brecht. Di qui l’oscillazione, caratteristica di Dürrenmatt, tra la tendenza al
ritorno alla concentrazione drammatica, che meglio corrisponde all’immanenza che ha in lui il
destino e che lo porta spesso nella vicinanza del «dramma dell’angustia» (per esempio nell’ultimo
dramma I fisici), e la tendenza epica che serve a smontare il meccanismo del destino stesso. Nella
Visita della vecchia signora Ill muore senza essere diventato «saggio» e senza poter predicare la lotta
di classe, come accadeva alla Johanna Dark di Brecht. Egli non vede altre alternative e resta
sostanzialmente solidale con la «piccola città» di cui è membro, e in cui l’alienazione ha perso
l’innocenza che aveva in Wilder per diventare omicida. D’altra parte egli non può semplicemente
identificarsi con la ragion di stato che esige la sua morte, come l’Agnes Bernauer di Hebbel, perché
la commedia è servita proprio a demistificare il carattere fatalistico, feticistico, di quella ragion di
stato, che non è affatto quell’ordine immutabile e trascendente che si ha in Hebbel.
Questa oscillazione si rivela nel finale della commedia. Prima di procedere alla liquidazione di Ill, il
sindaco chiede se c’è ancora qualcuno in platea e in galleria, e quando i poliziotti gli hanno
assicurato che non c’è piú nessuno egli ordina loro di chiudere le porte della sala per impedire a
chiunque di entrare. Il tratto è squisitamente epico, ma nello stesso tempo inverte ironicamente la
direzione del teatro epico, che di solito si indirizza agli spettatori per coinvolgerli e non per negarli. È
come se per consumare il sacrificio di Ill il sindaco volesse restaurare per un momento l’assolutezza
della scena abolendo la presenza degli spettatori, ripiombandoli in quella «passività totale» che
secondo Szondi (e Brecht) li caratterizza nei confronti del dramma classico e ricordando loro che –
appunto come nel dramma classico – ciò che avviene sulla scena è una riproduzione concentrata di
ciò che avviene nella vita reale: de te fabula narratur. Ma è solo un momento. L’ultima scena, con
l’apoteosi del paese arricchito, torna ad essere pienamente epica. Questo riaffiorare della forma
drammatica – divenuta ormai a sua volta «tematica» – non implica un riemergere dei fondamenti
della collisione, come avviene in Brecht senza che si esca dal teatro epico. Si tratta di una differenza
di posizioni, ma anche e soprattutto di una differenza di costellazioni politico-sociali: Brecht si è
formato dopo la Rivoluzione d’Ottobre, Dürrenmatt configura il mondo neocapitalistico in un
ambiente in cui esso si è andato costituendo senza scosse e dalla cui immanenza è piú difficile uscire.
Tuttavia di questa immanenza egli dà un quadro grottescamente feroce che contrasta con la
superficie idillica. Egli si rifiuta di accettare la banalità e quotidianità della vita reificata e con le sue
favole violente e paradossali ne mette in luce tutta la precarietà. Invece di indulgere a dipingere
l’alienazione e l’incomunicabilità, egli fruga nel barile delle polveri che ci sta sotto e che ricorda ogni
momento agli uomini che continuano ad essere associati, se non altro, dalla follia.
4.
C’è dunque teatro epico e teatro epico. Ci siamo indugiati su qualche esempio perché ci pareva
necessario uscire un po’ dalla rigida ossatura del libro di Szondi, ma non avremmo potuto farlo senza
questa ossatura, né ci lusinghiamo di aver raggiunto neanche lontanamente la finezza analitica
dell’autore. I limiti che abbiamo riscontrato nella sua concezione del dramma, e che sono limiti di
carattere formalistico 22, si rovesciano in qualità in quanto gli hanno permesso di inquadrare in modo
cosí persuasivo una materia ancora tanto fluida. Il libro di Szondi sta alla letteratura teatrale
contemporanea un po’ come la scena «stereoscopica» del dramma classico, per riprendere una
formula a lui cara, sta al mondo reale: è un’astrazione forse un po’ violenta, un po’ troppo attaccata
alla forma, come il dramma alle tre unità, ma che riflette molto nitidamente l’oggetto riprodotto. La
sua utilità – se vogliamo concludere tornando al discorso accennato all’inizio – è soprattutto quella di
un buon modello metodologico, di un buon antidoto contro le estetiche motorizzate che si sfiancano
nel vano tentativo di cambiare camaleonticamente categorie ad ogni nuovo lume di luna. Szondi fa
invece opera di vero storico, ricollegando il presente al passato e discernendo gli autentici momenti
di novità, dissolvendo insomma quell’apparenza di moto perpetuo che offre la letteratura
d’avanguardia.
Ciò è tanto piú necessario ora che abbiamo a che fare con profondi mutamenti. Il moto perpetuo dà
l’impressione che nella letteratura d’avanguardia il grado di possibile necessità e di possibile gratuità
resti lo stesso in ogni tappa. Invece esso dipende dalla situazione storica. L’avanguardia è sorta onde
configurare lo stato d’insicurezza dell’uomo nell’epoca dell’imperialismo e ha avuto quindi il suo
apogeo tra le due guerre. Ora le cause di questa insicurezza permangono, si sono anzi ingigantite a
scala cosmica, ma insieme agiscono molto meno alla scala molecolare, nella vita e nell’esperienza
quotidiana degli individui (è questa la ragione per cui le tendenze oggettivistiche o «oggettali» che
siano prevalgono su quelle soggettivistiche). Lo scrittore d’avanguardia che riesca a viverle al livello
d’astrazione necessario potrà ancora delineare (come Dürrenmatt) potenti figurazioni e allegorie. Ma
chi non riesca a viverle altro che al livello dell’alienazione quotidiana, elettrodomestica e
automobilistica, e del disagio che prova nella medesima, non potrà fare molta strada, perché il
disagio non è angoscia, anzi è compatibile con il compiacimento. Come dice Adorno dell’
«invecchiamento della musica moderna», i suoni sono gli stessi, ma è stato rimosso il momento
dell’angoscia. La nuova avanguardia piú conseguente non solo accetta questa rimozione, ma la
teorizza, e il suo massimo rappresentante e teorico irride alla tragedia dell’incomunicabilità come
«ultima invenzione dell’umanesimo per non lasciarsi scappare niente: poiché l’accordo tra l’uomo e le
cose ha finito per essere denunciato, l’umanista salva il suo impero instaurando subito una nuova
forma di solidarietà, il divorzio stesso divenendo una via maestra per la redenzione» 23. Questa
posizione è certo infinitamente preferibile al tentativo di simulare la disperazione che non c’è, o di
sostituirla con surrogati come il grottesco o l’esasperazione sessuale sperando che siano sempre
validi mentre funzionavano solo finché avevano dietro per l’appunto almeno un pizzico di
disperazione, in Gadda o in Wedekind. Ormai gli attraversatori della palus putredinis sono tutti
giovanotti muscolosi iscritti alla «Rari nantes» che considerano questa un’impresa sportiva e passan
Stige colle piante asciutte.
Si dirà che l’angoscia non è necessaria all’arte; all’arte in generale no, ma all’arte d’avanguardia
sí. C’è poco da fare, il neocapitalismo avrà aumentato e generalizzato l’alienazione, ma l’ha anche
resa piú scontata e piú fiacca, estraendone l’angoscia e proiettandola nelle viscere della terra o nella
stratosfera, là dove si svolgono gli esperimenti atomici, oppure in quei remoti paesi coloniali e
semicoloniali in cui si decidono le sorti del capitalismo : comunque in luoghi dove non si può arrivare
durante il week-end e che restano sottratti all’esperienza dell’intellettuale, che non ha piú nemmeno
bisogno di lavorare in una società di assicurazioni. Non si possono piú ricostituire artificialmente
l’ambiente familiare e sociale, le condizioni di vita, gli orizzonti culturali, religiosi, politici entro i
quali e contro i quali si sono formati Proust, Kafka, Joyce, Musil, Brecht. La borghesia non attraversa
piú una crisi morale e spirituale, semplicemente perché ha perso l’anima: l’ha venduta ai monopoli,
ottenendone in cambio, sia pure a rate, la sicurezza che le mancava. Questo non significa la morte
dell’avanguardia. Significa che i pochi veri visionari saranno sempre piú rari e i molti gregari sempre
piú numerosi, rumorosi e noiosi. Essi si divideranno fraternamente la piccola alienazione, quella da
elettrodomestici, da sbronze e da sesso. Ce n’è per tutti. Ma anch’essa la ritroveremo molto meglio in
un romanzetto intelligente senza pretese come Les petits enfants du siècle della Rochefort che in
cento prodotti del nouveau roman o nei libri scomponibili di Saporta. Con buona pace degli apostoli
dei nuovi linguaggi, questi di per sé non sono che cortine fumogene spruzzate dalla cattiva coscienza
dello scrittore che non sa che pesci pigliare. Quando c’è un nuovo contenuto, giusto o sbagliato che
sia, ma comunque vivo e sentito, che importi l’enunciazione, l’Aussage di una particolare condizione
umana, esso non si deposita in un nuovo linguaggio bensí – è questa la lezione spicciola di Szondi – in
una nuova forma.
CESARE CASES
1962.
Comunicazione a Formentor, in «Il Menabò 5», Torino 1962, p. 5.
H. M. ENZENSBERGER, Die Aporien der Avantgarde, in «Merkur», Stuttgart, maggio 1962, p. 424 (il saggio è ora
ristampato in Einzelheiten, Frankfurt am Main 1962).
3
Ibid., p. 419.
4
Che anche Benjamin nella sua opera si riferisca in realtà, attraverso l’allegoria del dramma barocco, all’arte
dell’avanguardia, è stato asserito da Lukács e documentato, sulle sue tracce, da Renato Solmi (nell’introduzione
agli scritti di Benjamin, Angelus Novus, Torino 1962, p. XV ).
5
Su cui cfr. le osservazioni di chi scrive nell’articolo I limiti della critica stilistica e i problemi della critica
letteraria, in «Società», Roma, aprile 1955, pp. 268 sgg., e nella recensione a Die Kunst der Interpretation, in
«Weimarer Beiträge», I, Weimar 1960, pp. 158 sgg. (ora in Saggi e note di letteratura tedesca, Torino 1963, pp. 288
sgg. e 315 sgg.).
6
Questo punto è stato energicamente ribadito di recente nell’ottimo articolo di GIORGIO GIORGETTI, Su alcuni «falsi
problemi» dell’interpretazione di Marx, in «Studi storici», n. 1, Roma 1962, specie a pp. 134 sgg.
7
Che il dramma dei sei personaggi nasca da un’impossibilità oggettiva e non soltanto, come si afferma nella
prefazione alla commedia, da un’impossibilità soggettiva di Pirandello, è riconosciuto, sia pure con minor chiarezza,
anche dalla recente critica italiana. Cfr. per esempio LEONARDO SCIASCIA, Pirandello e la Sicilia, Caltanissetta 1961, p.
113, e A. LEONE DE CASTRIS, Storia di Pirandello, Bari 1962, p. 180.
8
È un caso sempre piú frequente. Per esempio nelle esecuzioni di The Connection di Gelber a cura del New York
Theater l’autore sale sulla scena e si intrattiene coi personaggi.
9
G. W. F. HEGEL, Aesthetik, Berlin 1955, p. 235 (trad. it. Milano 1963, p. 286).
10
Ibid., p. 237 (trad. it., p. 288).
11
Ibid., p. 1048 (trad. it., p. 1548).
12
HEGEL , Aesthetik cit., p. 237 (trad. it., p. 289).
13
Sulla collisione drammatica e la sua tipologia possediamo ora del resto la mirabile trattazione marxista
contenuta nel secondo capitolo di Der historische Roman di G. LUKÁCS, Berlin 1956, in ispecie pp. 97 sgg. (trad. it., Il
romanzo storico, Torino 1965, pp. 121 sgg.).
14
Per Emil Staiger (Grundbegriffe der Poetik, Zürich 1951 2, p. 230) la tensione drammatica è meno pura in
Shakespeare che per esempio in Kleist. Nell’Ursprung des deutschen Trauerspiels di Benjamin la distinzione tra
Trauerspiel e Tragödie è fondata appunto sul fatto che «l’oggetto di quest’ultima non è la storia, ma il mito»
(Schriften, Frankfurt am Main 1955, vol. I, p. 180), e Benjamin riconduce Shakespeare al Trauerspiel,
riscontrandovi l’allegoria che è propria di questo (ibid., pp. 353 sgg.).
15
HEGEL , Aesthetik cit., p. 1046 (trad. it., p. 1545).
16
Der historische Roman cit., pp. 95, 96 (trad. it., p. 118).
17
Nella prefazione al suo Teatro, trad. it. Torino 1959, p. 46.
18
Il significato attuale del realismo critico, trad. it. Torino 1957, p. 81.
19
Solo in parte. I migliori scritti teatrali di Brecht, per esempio Vergnügungstheater oder Lehrtheater? (1936),
riconoscono gli addentellati storici del teatro epico con il teatro cinese, medievale e barocco, e affermano che esso
«non può assolutamente sorgere dappertutto», anche se tengono fede all’idea che il presupposto è l’esistenza di
«un potente moto della vita sociale» (ciò che del resto era vero, specie a quell’epoca, per la prassi teatrale, anche se
1
2
non per la genesi del teatro epico come tale). Cfr. Schriften zum Theater, Frankfurt am Main 1957, p. 72 (trad. it.
Scritti teatrali, Torino 1971, p. 70).
20
Schriften cit., vol. II, p. 261 (trad. it. in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino 1966,
p. 129).
21
Theaterprobleme, Zürich 1955, pp. 49, 50.
22
I quali permangono, ci sembra, anche nel secondo libro di SZONDI , Versuch über das Tragische, Frankfurt am
Main 1961, benché l’impostazione sia assai diversa. Qui si tratta di definire l’essenza del tragico, sulla scorta
dell’analisi di alcune riflessioni di filosofi, da Schelling a Scheler, e di alcuni drammi. Szondi si rivela anche qui un
interprete di prima forza (si capisce che nel recente saggio Zur Erkenntnisproblematik in der Literaturwissenschaft
– in «Die neue Rundschau», n. 1, 1962, pp. 146 sgg. – egli abbia lamentato «la carenza di una coscienza
ermeneutica nella scienza letteraria tedesca», polemizzando contro il concetto stesso di Literaturwissenschaft in
quanto non tien conto delle peculiarità della conoscenza filologica). Tuttavia i risultati cui perviene non sembrano
persuasivi. Secondo Szondi (p. 60) «non c’è il tragico, almeno come essenza». «Bensí il tragico è un modo, una
maniera determinata di annientamento minacciato o eseguito, e piú precisamente il modo dialettico. È tragica solo
quella fine che deriva dall’unità degli opposti, dal rovesciamento di una cosa nel suo contrario, dall’autoscissione».
Questa tesi è efficacemente riassunta nel verso di Jean de Sponde che funge da motto al libro: En me cuidant aiser,
moi-même je me nuis. Essa sceglie a prototipo l’Edipo re (anche in questo Szondi è molto vicino a Benjamin), ciò
che permette di risolvere il problema su un piano etico-psicologico, nel rapporto dialettico tra bene e male, mentre
il conflitto tra le «potenze universali» appare meglio ove si prenda come prototipo l’Antigone. È vero che Szondi
sembra ammettere – ma solo in via subordinata – anche questa seconda concezione del tragico, poiché dopo le
parole citate aggiunge: «Ma è tragica anche soltanto la fine di qualche cosa che non può perire, dopo la cui
rimozione la ferita non si chiude». Il vecchio problema di come ricondurre ad unità il tragico dell’Edipo re e quello
dell’Antigone ci sembra sia stato risolto da Lukács, che nella sua tipologia del dramma lo «rovescia»
materialisticamente additandone la base in due diverse situazioni di vita, entrambe in rapporto con le crisi
rivoluzionarie della società: quella dello scontro diretto di due forze sociali e quella della «presentazione del conto»,
in cui partiti o gruppi o individui scontano le conseguenze delle loro azioni precedenti (oltre all’Edipo Lukács
menziona La morte di Danton di Büchner come rientrante nel medesimo tipo). Cfr. Der historische Roman cit., pp.
97, 101, 102 (trad. it., pp. 120, 125-27).
23
A. ROBBE-GRILLET , Una via per il romanzo futuro, trad. it. Milano 1961, pp. 72, 73. Almeno nella sceneggiatura
del film L’anno scorso a Marienbad Robbe-Grillet non si è però attenuto a questa sua critica, offrendoci anzi un
classico dell’incomunicabilità qui condannata. Il guaio è che tra un oggetto e l’altro l’uomo finisce sempre per
rispuntar fuori.
TEORIA DEL DRAMMA MODERNO
Introduzione
Fin da Aristotele i teorici hanno sempre condannato l’intrusione di elementi epici nel campo della
poesia drammatica. Ma chi si accinge oggi ad esporre l’evoluzione della drammaturgia moderna non
può piú sentirsi chiamato a questo compito di giudice, e questo in base ad alcune ragioni di cui
l’autore deve ora render conto a se stesso ed ai suoi lettori.
Ciò che conferiva alle vecchie poetiche del dramma il diritto di esigere il rispetto per i canoni di
una determinata forma drammatica, era quella loro particolare concezione della forma che non
conosceva storia né dialettica di forma e contenuto. Secondo quelle poetiche, nell’opera drammatica
la forma prestabilita del dramma si realizza mediante fusione con una materia scelta in
considerazione della forma stessa. Ove la realizzazione di quella forma fallisca, ove nel dramma si
ravvisino illeciti elementi epici, la colpa ricade sulla scelta della materia. Nella sua Poetica Aristotele
dice: «Il poeta non deve… fare una tragedia come se fosse una composizione epica. Chiamo
composizione epica quella che contiene piú azioni, come nel caso in cui un drammaturgo prendesse a
oggetto tutto l’argomento dell’Iliade» 1. Anche gli sforzi compiuti da Goethe e Schiller per giungere a
una distinzione fra poesia epica e poesia drammatica avevano lo scopo pratico di impedire una scelta
errata della materia 2.
Questa concezione tradizionale, fondata sulla dualità originaria di forma e contenuto, ignora altresí
la categoria storica. La forma prestabilita è indifferente alla storia; storicamente originaria è solo la
materia, e secondo lo schema comune a tutte le poetiche prestoricistiche il dramma non è altro che la
concretizzazione storica di una forma atemporale.
Il considerare la forma drammatica come non legata alla storia implica insieme che il dramma
dev’essere sempre possibile, e che le poetiche possono esigerne la presenza in qualunque tempo.
Questo rapporto fra poetica al di là della storia e concezione non dialettica di forma e contenuto, ci
riporta a quello che è il vertice comune del pensiero dialettico e di quello storico: l’opera di Hegel.
Nella Logica si trova la seguente formulazione: «Le vere opere d’arte sono solo quelle in cui forma e
contenuto si dimostrano affatto identici» 3. Questa identità è di natura dialettica: nello stesso passo
Hegel definisce il «rapporto assoluto di forma e contenuto» come il «rovesciarsi dell’uno nell’altro, sí
che il contenuto altro non è che il rovesciarsi della forma in contenuto, e la forma altro non è che il
rovesciarsi del contenuto in forma» 4. L’identificazione di forma e contenuto distrugge anche l’antitesi
– implicita nel vecchio rapporto – di atemporale e storico, e ne consegue la storicizzazione del
concetto di forma e in ultima analisi della stessa poetica dei generi. Lirica, epica, drammatica si
trasformano, da categorie sistematiche, in categorie storiche.
In seguito a questa trasformazione dei principî fondamentali della poetica la scienza si trovò di
fronte a tre vie. Poteva ritenere che le tre categorie poetiche fondamentali avessero perduto, col loro
carattere sistematico, la loro stessa ragion d’essere; onde la loro esclusione dall’estetica ad opera di
Benedetto Croce. Al polo diametralmente opposto era il tentativo di ritirarsi dal terreno storico della
poetica, dai generi poetici concreti, su un piano atemporale. Questa tendenza è attestata (oltre che
dal poco redditizio Tentativo di una fondazione psicologica dei generi poetici [Versuch einer
psychologischen Grundlegung der Dichtungsgattungen] di R. Hartl) dalla Poetica di E. Staiger, che
fonda i generi poetici in tre diversi modi d’essere dell’uomo, in ultima analisi nelle tre «estasi» del
tempo. Che questa nuova fondazione determini una trasformazione radicale della poetica, e in modo
particolare del suo rapporto con la pratica attività letteraria, è confermato dall’inevitabile
sostituzione dei tre concetti fondamentali di «lirica», «epica» e «drammatica» con gli aggettivi
«lirico», «epico» e «drammatico».
Una terza alternativa consisteva nel restare sul terreno storicistico. Sulle orme di Hegel questa
tendenza ha portato ad alcune opere che abbozzano un’estetica storica non solo della letteratura,
come la Teoria del romanzo [Die Theorie des Romans] di G. Lukács, le Origini della tragedia tedesca
[Ursprung des deutschen Trauerspiel] di W. Benjamin, la Filosofia della musica moderna [Philosophie
der neuen Musik] di T. W. Adorno; dove la concezione dialettica hegeliana del rapporto formacontenuto è messa a frutto in quanto la forma viene considerata come una sorta di contenuto
«precipitato» 5. Questa metafora, mentre sottolinea il carattere solido e durevole della forma, ne
esprime anche l’origine dalla sfera del contenuto, e quindi il suo valore predicativo. Su questa base è
possibile sviluppare una vera e propria semantica della forma, e la dialettica di forma e contenuto
appare come dialettica tra enunciazione formale ed enunciazione contenutistica. Ma cosí è data
anche la possibilità che l’enunciazione contenutistica entri in contraddizione con quella formale. Se
infatti, quando forma e contenuto si corrispondono, la tematica contenutistica si muove per cosí dire
nell’ambito dell’enunciazione formale, come qualcosa di problematico entro qualcosa di non
problematico, la contraddizione si determina quando l’enunciazione formale – fissa e non
problematica – è resa problematica dal contenuto. Ma è questa antinomia interna che fa diventare
storicamente problematica una forma letteraria, e le pagine seguenti rappresentano un tentativo di
spiegare le varie forme della drammaturgia piú recente con la risoluzione di quelle contraddizioni.
Non usciremo quindi dal campo dell’estetica, e rinunceremo ad estendere il nostro esame fino a
tentare una diagnosi dell’età moderna. Le contraddizioni tra la forma drammatica e i problemi
dell’epoca attuale non devono essere enunciate in abstracto, ma afferrate come contraddizioni
tecniche, e cioè come «difficoltà», all’interno dell’opera concreta. Dove si sarebbe tentati di stabilire,
sulla base di una sistematica dei generi poetici, i mutamenti che hanno avuto luogo nella
drammaturgia moderna in seguito al problematizzarsi della forma drammatica; ma è necessario
rinunciare a una poetica sistematica, e cioè normativa; e non già per evitare una valutazione
fatalmente negativa delle tendenze epicizzanti, ma perché la concezione storico-dialettica di forma e
contenuto esautora per principio la poetica sistematica.
Il punto di partenza terminologico è rappresentato quindi soltanto dal concetto di dramma.
Storicamente esso definisce un fenomeno preciso della storia letteraria, cioè il dramma come nacque
nell’Inghilterra elisabettiana, ma soprattutto nella Francia del secolo decimosettimo, e come continuò
a vivere nel classicismo tedesco. In quanto poi esso mette in evidenza ciò che è «precipitato» in
forma drammatica come enunciazione sull’esistenza umana, questo concetto di dramma definisce, in
un fenomeno della storia letteraria, anche un documento della storia dell’umanità. Esso deve rivelare
e interpretare le esigenze tecniche del dramma come rispecchiamento di esigenze esistenziali, nel
senso di Kierkegaard; e la totalità che esso delinea non ha carattere sistematico, ma di filosofia della
storia. Negli anfratti che separano fra loro le varie forme letterarie è collocata la storia ed è solo il
riferimento alla storia che può far da ponte fra di esse.
Ma il concetto di dramma è storicamente condizionato non solo nel suo contenuto, ma anche nella
sua origine. E poiché la forma di un’opera d’arte rappresenta sempre qualcosa di non problematico,
alla conoscenza dell’elemento formale si potrà giungere, per lo piú, solo quando ciò che prima era
ovvio si è trasformato in un problema; solo cioè quando la forma, un tempo non problematica, sia
divenuta problematica. Cosí qui il dramma viene inteso alla luce dei suoi impedimenti attuali, e
questo concetto di dramma è già un momento della ricerca sulla possibilità del dramma moderno.
D’ora innanzi, con la parola «dramma», intenderemo quindi solo un determinato tipo di letteratura
teatrale. Non vi saranno comprese né le sacre rappresentazioni medievali né le histories di
Shakespeare. Il carattere storico del nostro esame ci impone anche di prescindere dalla tragedia
greca, la cui natura può essere compresa solo in un altro orizzonte. D’ora innanzi l’aggettivo
«drammatico» non indicherà una qualità (come nella Poetica di E. Staiger) 6, ma significherà
esclusivamente «pertinente al dramma» («dialogo drammatico» = «dialogo nel dramma»). La parola
«drammaturgia», invece, a differenza di «dramma» e di «drammatico», verrà usata anche in senso
lato, per definire tutto ciò che è scritto per il teatro. Se si dovesse usare in questo senso la parola
«dramma», essa sarà posta tra virgolette.
Poiché l’evoluzione della drammaturgia moderna conduce lontano dal dramma, non si può evitare,
nella sua trattazione, l’uso di un concetto antitetico. Esso è il concetto di «epico», che definisce la
caratteristica strutturale comune all’epos, al racconto, al romanzo e ad altri generi letterari; e cioè la
presenza di quello che è stato chiamato il «soggetto della forma epica» 7, o anche l’«io epico» 8.
I diciotto studi che cercano di esemplificare questa evoluzione su esempi particolari sono preceduti
da un’esposizione delle caratteristiche del dramma stesso, cui si richiameranno poi tutte le pagine
che seguiranno.
1
ARISTOTELE ,
Cfr.
1797.
2
Sulla poetica, trad. di F. Albeggiani, Nuova Italia, Firenze 1934, p. 32.
Über epische und dramatische Dichtung; e cosí pure Schiller, lettera a Goethe del 26 dicembre
GOETHE ,
Sämtliche Werke, Jubiläumausgabe, vol. VIII, p. 303.
Ibid., p. 302.
5
T. W. ADORNO Philosophie der neuen Musik, Tübingen 1949, p. 28 (trad. it. Filosofia della musica moderna, Torino
1960, p. 41).
6
Cfr. supra.
7
G. LUKÁCS, Die Theorie des Romans, Berlin 1920, p. 36 (trad. it., Teoria del romanzo, Milano 1962, p. 80).
8
R. PETSCH, Wesen und Formen der Erzählkunst, Halle 1934.
3
4
HEGEL ,
I.
Il dramma
Il dramma dell’età moderna è nato nel Rinascimento. Fu l’audacia spirituale dell’uomo pervenuto a
se stesso dopo il crollo della concezione medievale del mondo, quella di costruire la realtà dell’opera
d’arte in cui voleva fissare e rispecchiare se stesso, sulla riproduzione dei meri rapporti interumani 1.
L’uomo entrava quindi nel dramma solo come membro della società umana. La sfera dei rapporti
intersoggettivi gli appariva quella essenziale della sua esistenza; libertà e vincolo, volontà e
decisione, come le sue determinazioni piú importanti. Il «luogo» in cui egli giungeva a realizzazione
drammatica, era l’atto della decisione. Nella sua decisione di aprirsi al mondo degli altri, il suo intimo
si manifestava e diveniva attualità drammatica. Ma in questo suo risolversi all’azione il mondo degli
altri era riferito a lui; e giungeva – solo cosí – a realizzazione drammatica. Tutto ciò che era al di qua
o al di là di questo atto doveva rimanere estraneo al dramma: l’inesprimibile come l’espressione,
l’anima chiusa in sé come l’idea già estraniata dal soggetto. E soprattutto doveva rimanere estraneo
al dramma ciò che è privo di espressione, il mondo delle cose, se non penetrava direttamente nel
contesto interumano.
Tutta la tematica drammatica si determinava in questa sfera del «fra», dei rapporti intersoggettivi:
il conflitto tra passion e devoir, nella situazione del Cid fra il padre e la donna amata; il paradosso
comico, in situazioni intersoggettive «false», come in quella del giudice del villaggio, Adam; e la
tragedia dell’individuazione, come appariva a Hebbel, nel tragico conflitto fra il duca Ernst, Albrecht
e Agnes Bernauer.
Il mezzo espressivo di questo mondo di rapporti intersoggettivi era il dialogo. Nel Rinascimento,
dopo la soppressione del prologo, del coro e dell’epilogo, il dialogo divenne, forse per la prima volta
nella storia del teatro (e insieme al monologo, che rimase episodico e non era quindi costitutivo della
forma drammatica), la sola componente del teatro drammatico. Per questo aspetto il dramma dell’età
moderna si distingue sia dalla tragedia classica che dalla sacra rappresentazione medievale, sia dal
teatro barocco che dalle storie di Shakespeare. L’assoluto predominio del dialogo, cioè della
comunicazione intersoggettiva del dramma, rispecchia il fatto che il dramma consiste esclusivamente
nella riproduzione del rapporto intersoggettivo, e che esso ha per oggetto esclusivamente ciò che si
manifesta in questa sfera.
Tutto ciò mostra che il dramma è una dialettica conchiusa in se stessa, ma libera, e che si
determina di nuovo ad ogni momento. È cosí che dobbiamo intendere i suoi tratti essenziali, che ora
ci accingiamo ad esporre.
Il dramma è assoluto. Per poter essere puro rapporto, cioè essenzialmente drammatico, esso deve
essere staccato da tutto ciò che gli è esterno. Il dramma non conosce nulla al di fuori di sé.
Il drammaturgo è assente dal dramma. Egli non parla; ha fondato e istituito la comunicazione. Il
dramma non è scritto, bensí «posto». Le parole dette nel dramma sono tutte «decisioni»; sono
sviluppi della situazione e rimangono in essa; in nessun caso devono essere concepite come emananti
direttamente dall’autore. Il dramma appartiene all’autore solo nel suo insieme, e questo rapporto non
è essenziale alla sua realtà di opera.
Lo stesso carattere di assolutezza dimostra il dramma nel suo rapporto allo spettatore. Come la
battuta drammatica non è espressione diretta dell’autore, cosí essa non è neppure allocuzione al
pubblico. Lo spettatore assiste al dialogo drammatico in silenzio, con le mani legate, paralizzato alla
vista di un secondo mondo. Ma la sua totale passività (e su ciò si basa l’esperienza drammatica) deve
rovesciarsi in un’«attività» irrazionale; lo spettatore viene trascinato nel gioco drammatico, diventa
egli stesso parlante, beninteso per la bocca di tutti i personaggi. Il rapporto spettatore-dramma
conosce solo la completa separazione o la completa identificazione, ma non l’intrusione dello
spettatore nel dramma o il rivolgersi del dramma allo spettatore.
Il palcoscenico del Rinascimento e del neoclassicismo, il tanto bistrattato palcoscenico
«stereoscopico», che isolava lo spettatore dall’azione drammatica, è in realtà il solo palcoscenico
adeguato al carattere di assolutezza del dramma, che riflette in ciascuno dei suoi elementi. Come il
dramma non si stacca per gradi dallo spettatore, cosí questo tipo di palcoscenico ignora il
collegamento – in forma di scala, per esempio – del palcoscenico con la platea. La scena si disvela
allo spettatore solo all’inizio dello spettacolo, spesso, anzi, quando è già stata detta la prima parola, e
cosí gli appare come creata dall’azione drammatica stessa. Alla fine dell’atto, quando cala il sipario,
essa si sottrae nuovamente allo sguardo dello spettatore, seguendo per cosí dire le sorti dell’azione
drammatica momentaneamente sospesa, e riconfermandosi quindi come esclusivamente
appartenente a quella. Infine, la ribalta che illumina la scena crea l’illusione che l’azione drammatica
si illumini da sé.
Anche l’arte dell’attore è orientata, nel dramma, sull’assolutezza del dramma stesso. Il rapporto
attore-ruolo non deve mai essere visibile; al contrario, attore e personaggio devono fondersi in un
essere drammatico autonomo.
L’assolutezza del dramma si può formulare anche sotto un altro aspetto: il dramma è primario. Non
è la rappresentazione (secondaria) di qualcosa (di primario); ma rappresenta se stesso, è se stesso.
L’azione drammatica, come ognuna delle battute che la compongono, è «originaria»; si realizza
nell’atto stesso in cui si manifesta. Il dramma non conosce citazioni né variazioni. La citazione
porrebbe il dramma in rapporto con ciò che si cita. La variazione metterebbe in questione il carattere
primario, ossia «vero», del dramma, e, come variazione di qualcosa fra altre variazioni possibili, si
presenterebbe come alcunché di secondario. Inoltre sarebbe presupposto un autore della citazione e
della variazione, e il dramma sarebbe riferito ad esso.
Il dramma è primario; ecco uno dei motivi per cui i drammi storici finiscono sempre per essere
essenzialmente «non drammatici». Il tentativo di portare sulla scena Lutero, il riformatore implica il
riferimento alla storia. Se si sapesse far giungere, in una situazione drammatica assoluta, Lutero alla
decisione di riformare la fede, si sarebbe dato con ciò il dramma della Riforma. Ma a questo punto
sorge una seconda difficoltà: le condizioni oggettive, indispensabili per motivare la decisione di
Lutero, esigerebbero un trattamento epico. Per il dramma la sola motivazione possibile sarebbe
quella in base ai rapporti interpersonali di Lutero, ma essa sarebbe evidentemente estranea agli
interessi di un’opera teatrale sulla Riforma.
In quanto il dramma è sempre primario, l’azione drammatica si svolge sempre al presente. Ciò non
implica nessuna staticità; indica solo il particolare tipo di decorso temporale nel dramma: il presente
passa e si trasforma in passato, ma come tale non è piú presente. Il presente passa operando un
mutamento, e dalle sue antitesi sorge un nuovo e diverso presente. Il decorso del tempo nel dramma
è una successione assoluta di «presenti». Il dramma stesso, come assoluto, garantisce e crea da sé il
proprio tempo. Ogni istante dell’azione drammatica deve quindi contenere il germe del futuro, deve
essere «carico di futuro» 2. Ciò è reso possibile dalla struttura dialettica del dramma, che poggia a
sua volta sul contesto dei rapporti intersoggettivi.
Muovendo da questo presupposto acquista nuova luce l’esigenza dell’unità di tempo nel dramma.
La discontinuità temporale delle scene è inconciliabile col principio della successione assoluta dei
presenti, poiché ogni scena avrebbe il suo antefatto e il suo seguito (passato e futuro) al di fuori della
rappresentazione; e le singole scene sarebbero quindi relativizzate. Si aggiunga che il modo di
successione delle scene, in cui ogni scena determina la seguente (che è appunto quello richiesto
dall’azione drammatica) è il solo che non implichi la presenza del «montatore». Quando noi –
dicendolo espressamente o meno – «facciamo passare tre anni», sottintendiamo sempre un io epico.
Considerazioni analoghe per ciò che riguarda lo spazio motivano l’esigenza anche dell’unità di
luogo. Anche l’ambiente spaziale (come l’ambiente temporale) deve essere espunto dalla coscienza
dello spettatore. Solo cosí si determina una scena assoluta, e cioè drammatica. E ciò è tanto piú
difficile quanto piú frequente è il cambiamento di scena. Anche la discontinuità nello spazio, al pari
della discontinuità nel tempo, presuppone l’io epico. (Esempio: «Ora lasciamo i congiurati nel bosco e
andiamo a cercare il re ignaro nel suo palazzo»).
Com’è noto, la struttura dei drammi shakespeariani si distingue soprattutto in questi due punti da
quella del teatro classico francese. Quella successione di scene slegate e ambientate in diversi luoghi
deve essere messa in relazione con le esigenze della materia nelle «storie», dove – come ad esempio
nell’Enrico V – un narratore chiamato Coro presenta al pubblico i singoli atti come se fossero i
capitoli di un’opera storica popolare.
Dal carattere di assolutezza del dramma deriva anche l’esigenza di non lasciare alcun posto al caso
e di dare sempre una motivazione. L’elemento casuale penetra nel dramma dall’esterno; ma in quanto
viene motivato acquista un fondamento, affonda cioè le sue radici nel terreno del dramma stesso.
Il dramma è, infine, un tutto compiuto ed autonomo, e questa totalità è di origine dialettica. Essa
non è dovuta, cioè, a un io epico che entri nell’opera, ma alla risoluzione (realizzata via via e via via
distrutta) della dialettica intersoggettiva, che diventa, nel dialogo, linguaggio. Anche per
quest’ultimo aspetto il dialogo è quindi il portatore del dramma, ed è dalla possibilità del dialogo che
dipende la possibilità del dramma.
Cfr. HEGEL , Vorlesungen über die Ästhetik, in Sämtliche Werke cit., vol. XIV, pp. 479 sgg. (trad. it., pp. 1533
sgg.).
2
Cfr. la definizione dello stile drammatico in E. STAIGER, Grundbegriffe der Poetik, Zürich 1946.
1
II.
La crisi del dramma
I primi cinque studi prendono in considerazione IBSEN (1828-1906), ČECHOV (1860-1904), STRINDBERG
(1849-1912), MAETERLINCK (1862-1949) e HAUPTMANN (1862-1946). Poiché l’esame della situazione di
partenza della drammaturgia moderna deve cominciare col riferire alcune opere della fine del secolo
decimonono al fenomeno del dramma classico di cui abbiamo trattato sopra.
Dove si pone subito il problema se stabilire questo rapporto non implichi il rischio di ricadere, al di
là delle nostre intenzioni storiche, nel procedimento della poetica sistematico-normativa che abbiamo
respinto all’inizio. Poiché ciò che nelle pagine precedenti si è tentato di descrivere come il dramma
sorto nel Rinascimento, coincide alla perfezione col concetto tradizionale di dramma, si identifica con
ciò che insegnavano i manuali di tecnica drammatica (come quello, ad esempio, di Gustav Freytag) e
che rappresentava all’inizio per i critici (e rappresenta talvolta ancora oggi) la pietra di paragone
nella valutazione della drammaturgia moderna. Ma il metodo storico, che si sforza di restituire alla
sua storicità ciò che è divenuto norma, permettendo cosí alla sua forma di manifestarsi, non viene
smentito né si trasforma in un metodo normativo, se applica alla drammaturgia della fine del secolo
scorso l’idea storica del dramma. Intorno al 1860, infatti, quella forma di dramma rappresentava non
solo la norma soggettiva dei teorici, ma anche la situazione oggettiva della drammaturgia. Ciò che
esisteva accanto ad essa, e che ad essa si poteva opporre, o aveva un carattere arcaico o si riferiva a
una tematica precisa. La forma «aperta» di Shakespeare, opposta sempre di nuovo alla forma
«chiusa» del classicismo, non può essere disgiunta dalle histories, e svolse infatti la funzione
dell’affresco storico ogniqualvolta fu ripresa in modo valido nella letteratura tedesca (Goetz von
Berlichingen, La morte di Danton).
Il rapporto che stabiliremo non ha quindi origine normativa, ma deve intendere e interpretare
teoricamente una situazione storica oggettiva. Il rapporto alla forma classica del dramma è di volta in
volta diverso per ciascuno dei cinque autori drammatici che prenderemo in esame. Quello di Ibsen
non aveva carattere critico: egli raggiunse la sua fama non da ultimo per la sua grande maestria
drammaturgica. Ma quella perfezione esteriore nasconde un’interna crisi del dramma. Anche Čechov
accetta la forma tradizionale, ma non ha piú la ferma volontà di creare una «pièce bien faite» (in cui
si era esteriorizzato il dramma classico). Čechov rivela la discrepanza tra la forma ricevuta e quella
che sarebbe richiesta dalla tematica, erigendo, sullo schema tradizionale, un edificio di magica
poesia che non ha, tuttavia, uno stile proprio ed autonomo, non garantisce un’unità formale, ma
lascia anzi trasparire continuamente la vecchia base tradizionale. E se Strindberg e Maeterlinck
giungono a forme nuove, questo risultato è preceduto da un confronto con la tradizione, o questo
confronto appare – in forma ancora insoluta – all’interno delle opere, quasi come una freccia
indicatrice verso le forme di autori successivi. Prima dell’alba e I tessitori di Hauptmann permettono
infine di individuare il problema che deriva al dramma dalla tematica sociale.
I.
Quel concetto di tecnica analitica che ha permesso di accostare IBSEN a Sofocle ostacola l’accesso
alla problematica formale di un’opera come Rosmersholm. Ma una volta determinati i rapporti
estetici in cui l’analisi è utilizzata da Sofocle e discussa nel carteggio fra Goethe e Schiller, ecco che
quel concetto non sarà piú un ostacolo, ma costituirà anzi la chiave per comprendere la tarda opera
di Ibsen.
Il 2 ottobre 1797 Schiller scrive a Goethe:
In questi giorni mi sono molto sforzato per trovare un soggetto di tragedia del genere di quello
dell’Œdipus Rex, e che offra all’autore i medesimi vantaggi. Questi vantaggi sono incalcolabili, anche
ad accennare solo a quello di poter disporre dell’azione piú composita, quanto mai opposta alla
forma tragica, poiché l’azione ha già avuto luogo e cade quindi completamente al di là della tragedia.
Si aggiunga che ciò che è già accaduto, essendo ormai immutabile, è per sua natura tanto piú
terribile, e che il terrore che possa essere accaduto qualcosa affligge l’animo umano in modo ben
diverso dal terrore che possa accadere qualcosa in futuro. – L’Edipo è, per cosí dire, solo un’analisi
tragica. Tutto è già presente, e non fa che essere sviluppato. Ciò può avvenire mediante un’azione
semplicissima e in un lasso di tempo assai breve, anche se le vicende erano complicate e soggette a
varie circostanze. E di quanto se ne avvantaggia il Poeta! Ma temo che l’Edipo formi un genere a sé,
e che non ne esista una seconda specie…
Sei mesi prima (il 22 aprile 1797) Goethe aveva scritto a Schiller che per l’autore drammatico
l’esposizione è cosí difficile «perché gli si chiede di procedere continuamente, ed io direi che il
miglior soggetto drammatico è quello in cui l’esposizione è già parte dello sviluppo». E Schiller aveva
risposto, il 25 aprile, che l’Œdipus Rex si avvicinava in modo sorprendente a questo ideale.
Il punto di partenza di queste riflessioni è la forma a priori del dramma. La tecnica analitica di cui
ci si avvale deve rendere possibile l’inserimento dell’esposizione nell’azione drammatica, eliminando
quindi il suo effetto epicizzante, o permettere di scegliere, come soggetto del dramma, le vicende
«piú composite», che, altrimenti, non si possono nemmeno prendere in considerazione per la forma
drammatica.
Diverso è il caso dell’Edipo di Sofocle. La precedente trilogia di Eschilo, che non ci è pervenuta,
raccontava cronologicamente le vicende del re di Tebe. Sofocle poteva quindi rinunciare a questa
rappresentazione epica di avvenimenti assai lontani nel tempo l’uno dall’altro, perché al centro del
suo interesse erano ancor meno gli avvenimenti stessi e ancor piú, e piú esclusivamente, la loro
tragicità. Ma la tragicità non è legata a particolari, e si stacca dal decorso temporale. La dialettica
tragica che oppone la facoltà visiva alla cecità, il fatto che un essere umano divenga cieco per aver
preso coscienza di sé, per l’occhio che «ha di troppo» 1, questa peripezia in senso aristotelico e
hegeliano, ha bisogno esclusivamente di un solo atto di riconoscimento, l’Anagnorisis 2, per diventare
realtà drammatica. Gli spettatori ateniesi conoscevano già il mito, e non era quindi necessario
rappresentarlo davanti ai loro occhi. L’unica persona che ancora deve venirne a conoscenza è Edipo
stesso, ed egli può venirne a conoscenza solo alla fine, dopo che il mito è stato la sua vita.
L’esposizione diventa quindi superflua e l’analisi diventa azione. L’Edipo che vede e che pure è cieco
rappresenta, in certo qual modo, il centro vuoto di un mondo che conosce il suo destino, e i cui
messaggeri conquistano gradualmente il suo animo onde colmarlo della loro orribile verità. Ma
questa verità non appartiene al passato, poiché non è il passato, ma il presente, ad essere rivelato.
Poiché Edipo è l’uccisore del proprio padre, lo sposo della propria madre, il fratello dei propri figli.
Egli è «la piaga di questo paese» 3 e deve apprendere il passato solo per poter riconoscere questa
realtà presente. Per questo motivo l’azione dell’Œdipus Rex, pur precedendo di fatto la tragedia, è
contenuta in essa e nel suo presente. La tecnica analitica è quindi tratta, da Sofocle, dalla materia
stessa, e non in considerazione di una forma drammatica prestabilita, ma proprio perché la tragicità
della materia possa mostrarsi in tutta la sua purezza e densità.
La differenza fra la struttura drammatica ibseniana e quella di Sofocle ci guida al vero problema
formale del teatro di Ibsen, che rivela la crisi storica del dramma stesso. Il fatto che, in Ibsen, la
tecnica analitica, lungi dal rappresentare un fenomeno isolato, rappresenti il modo in cui sono
costruite le sue pièces modernes, non ha bisogno di dimostrazione. Basti pensare alle sue opere piú
importanti: Casa di bambola, Le colonne della società, Spettri, La donna del mare, Rosmersholm,
L’anitra selvatica, Il costruttore Solness, Gian Gabriele Borkman, Quando noi morti ci destiamo.
Gian Gabriele Borkman (1896) «si svolge in una sera d’inverno nella proprietà dei Rentheim, alle
porte della capitale». Nel grande «salone di gala» della casa vive da otto anni, in quasi completa
solitudine, Gian Gabriele Borkman, «ex direttore di banca». La stanza di soggiorno del piano di sotto
appartiene a sua moglie, Gunhild. Essi vivono nella stessa casa senza mai incontrarsi. Ella Rentheim,
la sorella della moglie, che è anche proprietaria della casa, vive altrove. Appare solo una volta
all’anno per incontrarsi con l’amministratore; e nemmeno in queste occasioni parla mai con Gunhild
o con Borkman.
La sera d’inverno in cui si svolge l’azione porta l’incontro fra queste tre persone, legate fra loro da
un passato comune, ma divenute ormai profondamente estranee l’una all’altra. Nel primo atto si
trovano di fronte Ella e Gunhild: «Già… Gunhild, sono quasi otto anni che non ci vediamo» 4. Il
secondo atto porta il colloquio fra Ella e Borkman: «È molto tempo che non ci troviamo cosí, faccia a
faccia, Borkman» 5. E nel terzo atto si incontrano Gian Gabriele Borkman e sua moglie: «L’ultima
volta che ci siamo trovati di fronte… fu davanti ai tribunali. Quando fui invitata a dare spiegazioni» 6.
Questi colloqui, determinati dal desiderio di Ella, gravemente ammalata, di riprendere con sé il
figlio dei Borkman, che era stato suo figlio adottivo per molti anni, per non morire in solitudine, ci
rivelano il passato delle tre persone.
Borkman amava Ella Rentheim, ma sposò invece la sorella Gunhild. Denunciato da un amico,
l’avvocato Hinkel, trascorre cinque anni in carcere per appropriazione indebita. Rimesso in libertà,
Borkman si ritira nel salone della casa di campagna, acquistata per lui e per sua moglie all’asta
giudiziaria da Ella, il cui patrimonio in banca – a differenza di tutto il resto – Borkman non aveva
toccato. Durante questo periodo il figlio dei Borkman viene allevato da Ella, e torna alla madre
quando ormai è quasi adulto.
Questi i fatti. Ma essi non vengono raccontati per se stessi; essenziale è ciò che sta «dietro» e
«tra» i fatti: i motivi e il tempo.
«Ma… quando ti sei incaricata spontaneamente di educare Erhart in vece mia… qual era la tua
intenzione?» chiede la signora Borkman a sua sorella 7.
«Mi sono chiesta sovente… perché hai risparmiato tutto quel che io possedevo… e quello
soltanto?» chiede Ella al cognato 8.
E cosí si svelano i veri rapporti tra Ella e Borkman, tra Borkman e sua moglie, tra Ella ed Erhart:
Borkman aveva rinunciato ad Ella, la donna che amava, per ottenere nella carriera bancaria
l’appoggio dell’avvocato Hinkel, che aspirava a sua volta alla mano della donna. Invece di Ella,
Borkman sposò Gunhild, pur senza amarla. Ma Ella, disperata, aveva rifiutato Hinkel, che – credendo
di vedere in questo rifiuto l’influenza di Borkman – si vendicò denunciandolo. Ella, la cui vita era
stata distrutta dal tradimento di Borkman, non amò piú che una sola persona al mondo: Erhart, il
figlio di lui. Lo educò come se fosse suo figlio, ma quando Erhart divenne piú grande la madre lo
riprese con sé. Ora Ella, la cui malattia mortale risale a quel «trauma psichico» (il tradimento di
Borkman), lo vorrebbe riavere presso di sé per i pochi mesi che le restano da vivere. Ma Erhart
abbandona sia la madre che la zia per seguire la donna che ama.
Questi i motivi. Essi vengono portati alla luce della ribalta, in questa sera d’inverno, dalle anime
sepolte dei tre personaggi. Ma ciò che è essenziale non è ancora stato detto. Quando Borkman,
Gunhild ed Ella parlano del passato, non sono i singoli eventi, né la loro motivazione, a venire in
primo piano, ma è il tempo stesso, che è stato colorato da quelli.
«Saprò procurarmi riparazione… Riparazione per tutta la mia vita sciupata», dice la signora
Borkman 9.
Quando Ella le dice di aver saputo che lei e suo marito vivono nella stessa casa senza vedersi, essa
risponde:
Sí… cosí siamo vissuti, Ella. Da quando l’hanno lasciato libero e me l’hanno
rimandato a casa. Per tutti questi otto lunghi anni 10.
SIGNORA BORKMAN
E quando Ella e Borkman si incontrano:
ELLA
È molto tempo che non ci troviamo cosí, a faccia a faccia, Borkman.
(cupo) Sí, molto, molto tempo. Cose atroci ci separano da quell’ultimo incontro.
Tutta una vita. Tutta una vita sprecata 11.
BORKMAN
ELLA
Un po’ piú avanti:
Dal tempo in cui la tua immagine ha cominciato a cancellarsi dal mio cuore, ho vissuto come in
un limbo. In questi lunghi anni m’è divenuto sempre piú difficile… e impossibile, alla fine, amare
una creatura vivente… 12.
ELLA
E quando, nel terzo atto, la signora Borkman dice al marito di aver meditato piú del necessario
sulle oscure storie di lui, egli risponde:
Anch’io. Nei cinque interminabili anni di carcere ho avuto agio di pensare. E ancor piú negli
otto anni passati di sopra, nel salone. Ho ripreso tutto il processo, l’ho riesaminato… davanti a me
stesso, piú e piú volte […] Lassú, mentre misuravo coi miei passi la gran sala, ho preso in esame
ognuna delle mie azioni, l’ho girata e rigirata da tutti i lati 13. Ho sciupato lassú otto anni preziosi
della mia esistenza 14.
BORKMAN
Nell’ultimo atto, nello spiazzo davanti alla casa:
È tempo che mi riabitui all’aria aperta… Quasi tre anni di detenzione preventiva, cinque di
prigione cellulare, otto lassú nella grande sala… 15.
BORKMAN
Ma egli non potrà piú abituarsi a vivere all’aria aperta. L’evasione dal carcere del passato non lo
conduce verso la vita, ma verso la morte. E le due donne, Gunhild ed Ella, che in una sola sera
perdono l’uomo amato ed il figlio, a cui entrambe volevano bene, si stringono la mano come «due
ombre… al di sopra del morto».
Diversamente da ciò che accade nell’Edipo di Sofocle, il passato non è qui in funzione del presente,
ma questo si limita ad essere un pretesto per l’evocazione del passato. L’accento non è posto né sul
destino di Ella, né sulla morte di Borkman. Ma non si può dire che, a costituire il tema dell’opera, sia
qualche avvenimento isolato del passato, come, ad esempio, la rinuncia di Borkman ad Ella o la
vendetta dell’avvocato; nulla di ciò che è accaduto nel passato, ma il passato stesso costituisce il
tema: i «lunghi anni» di cui si parla continuamente e «tutta la vita sciupata, rovinata». Ma ciò si
rifiuta alla presenza drammatica, poiché rappresentato – nel senso dell’attualizzazione drammatica –
può essere solo qualcosa di temporale, e non il tempo stesso. Di esso il dramma non può far altro che
riferire, ma la sua rappresentazione diretta è possibile solo in una forma letteraria che lo accolga
«nella serie dei suoi principî costitutivi». Questa forma letteraria – come ha dimostrato G. Lukács 16 –
è il romanzo.
«Nel dramma (e nell’epopea) il passato o non esiste o è del tutto presente. Dal momento che tali
forme non conoscono il fluire del tempo, non v’ha in esse alcuna differenza qualitativa dell’esperienza
di passato e presente; il tempo non possiede alcuna forza di mutazione, dal tempo non viene ad
essere né esaltata né sminuita l’importanza d’alcunché» 17. Nell’analisi dell’Œdipus Rex ciò che è
passato diviene presente: «È questo il senso formale delle scene, tipizzate da Aristotele, di
smascheramenti e agnizioni: qualcosa è sconosciuto, pragmaticamente, agli eroi del dramma, che ora
entra nel loro campo visivo, ed essi, nel mondo alterato da quest’intervento, si trovano nella
necessità di comportarsi diversamente da come avrebbero voluto. Ma l’elemento che ora interviene
non è reso piú pallido da una prospettiva temporale: rispetto al presente, esso è un congenere e un
equivalente» 18. In tal modo ci si palesa un’altra differenza. La verità dell’Œdipus Rex è di natura
oggettiva. Essa fa parte del mondo: solo Edipo vive nell’ignoranza, e il suo itinerario alla verità
costituisce l’azione tragica. In Ibsen, invece, la verità è interiore. È nell’interiorità che risiedono i
motivi delle decisioni che si manifestano; è in essa che si nasconde, e sopravvive ad ogni
trasformazione esterna, il loro effetto traumatico. La tematica di Ibsen, oltre che in senso temporale,
manca anche in questo senso topico del presente richiesto dal dramma. Essa nasce, è vero,
interamente dal rapporto interpersonale, ma vive solo nell’intimo di esseri umani reciprocamente
estranei e isolati, come un riflesso di quel rapporto.
Ciò significa che la diretta presentazione drammatica di questa verità non è possibile. Non è solo
per acquistare maggiore densità che essa richiede una tecnica analitica; essendo, sostanzialmente,
materia di romanzo, non può trasferirsi sulla scena senza l’aiuto di quella tecnica. Ma anche cosí,
finisce per rimanere estranea alla scena, perché – per quanto sia connessa a un’azione presente (in
entrambi i sensi) – rimane confinata nel passato e nell’interiorità. E proprio questo è il problema
della forma drammatica in Ibsen 19.
Poiché il suo punto di partenza era di carattere epico, egli dovette acquisire l’impareggiabile
maestria di cui dà prova nella costruzione dei suoi drammi. E avendo egli acquisito questa maestria,
non si vide piú, sotto i suoi drammi, la base epica. Il duplice compito del drammaturgo
(attualizzazione e funzionalizzazione) divenne per lui una necessità inesorabile – e non poté mai,
tuttavia, riuscire perfettamente.
Al servizio dell’attualizzazione sono alcuni espedienti che in se stessi possono sconcertare. Cosí, ad
esempio, la tecnica dei «Leitmotive». Questa tecnica non è destinata qui, come altrove, a fissare
l’identico nella trasformazione, o a creare nessi indiretti e trasversali. Nei «Leitmotive» di Ibsen è il
passato che continua a vivere; è il passato ad essere rievocato tramite la citazione di quelli. Come nel
torrente del mulino di Rosmersholm, in cui il suicidio di Beate Rosmers diventa un eterno presente.
Nei fatti simbolici il passato si fonde col presente: si pensi al tintinnio dei bicchieri nella stanza
accanto (Spettri). E anche il motivo dell’ereditarietà non deve tanto incarnare la rinascita del destino
classico, quanto piuttosto attualizzare il passato: e cioè il tenore di vita del capitano Alving nella
malattia di suo figlio. Solo con questo procedimento analitico è possibile, se non rappresentare
direttamente il tempo, e cioè la vita della signora Alving a fianco di quell’uomo, fissarlo almeno come
lasso di tempo, come differenza fra due generazioni.
La funzionalizzazione drammatica, che ha generalmente il compito di elaborare la struttura
causale e finale di un’azione unitaria, deve colmare qui l’abisso esistente fra il presente e il passato
che si sottrae all’attualizzazione. Raramente Ibsen è riuscito a ottenere che l’azione presente fosse
tematicamente all’altezza di quella evocata e che si fondesse omogeneamente con essa. Anche sotto
questo aspetto Rosmersholm si può considerare il suo capolavoro. Il tema politico attuale e quello
interiore del passato, che, in Rosmersholm, non è relegato negli abissi delle anime, ma continua a
vivere in tutta la casa, non divergono quasi mai. Anzi: il primo tema permette che il secondo resti in
una penombra crepuscolare, conforme alle esigenze della sua natura. I due temi si confondono alla
fine nel personaggio del rettore Krull, che è insieme il fratello della moglie di Rosmer, spinta al
suicidio, e l’avversario politico di lui. Ma non si può dire che nemmeno qui la fine sia motivata a
sufficienza in base al passato, e che ne sia pienamente mostrata la necessità. A Rosmer e a Rebecca
West, che si gettano nel torrente seguendo le orme della moglie morta, manca la tragicità dell’Edipo
cieco condotto nel palazzo.
E qui indubbiamente si rivela il distacco che separa il mondo borghese dalla catastrofe tragica. La
tragicità immanente al mondo borghese non ha le sue radici nella morte, ma nella vita stessa. Di
questa vita Rilke dice (proprio richiamandosi a Ibsen) che «era scivolata in noi, […] si era ritirata
dentro di noi cosí profondamente che si poteva appena congetturare che cosa fosse» 20. E in questo
contesto rientrano anche le parole di Balzac: «Nous mourrons tous inconnus» 21. L’opera di Ibsen si
situa perfettamente sotto questo segno. Ma in quanto intraprese la rivelazione drammatica della vita
nascosta, e volle che questa rivelazione avvenisse ad opera delle stesse dramatis personae, egli la
distrusse. Le creature di Ibsen potevano vivere solo sepolte in se stesse, alimentandosi della
«menzogna vitale». Il fatto che egli non divenne il loro romanziere, non le lasciò nella loro vita, ma le
costrinse a parlare, finí per ucciderle. È cosí che, in un’epoca ostile al dramma, l’autore drammatico
può farsi assassino delle proprie creature.
II.
Nei drammi di ČECHOV gli esseri umani vivono nel segno della rinuncia. Soprattutto li caratterizza la
rinuncia al presente e alla possibilità d’incontrarsi; la rinuncia alla felicità in un vero incontro. Questa
rassegnazione, ove nostalgia e ironia si fondono in un atteggiamento intermedio, determina anche la
forma dei drammi di Čechov, e quindi il posto che egli occupa nell’evoluzione della drammaturgia
moderna.
Rinunciare al presente significa vivere nel ricordo e nell’utopia; rinunciare a incontrarsi significa
solitudine. Il dramma Tre sorelle – forse il piú compiuto fra i drammi di Čechov – presenta
esclusivamente individui soli, ebbri di ricordi, che sognano il futuro. Il loro presente è oppresso dal
passato e dall’avvenire; è un intervallo, un periodo d’esilio, dove la sola meta è il ritorno alla patria
perduta. Questo tema, intorno a cui verte, del resto, tutta la letteratura romantica, si concretizza
come segue, in Tre sorelle, nel mondo borghese a cavallo del secolo: Olga, Maša ed Irina, le tre
sorelle Prozorov, vivono da undici anni, col fratello Andrej Sergeevič, in una grossa città di
guarnigione della Russia orientale. Avevano lasciato Mosca, la loro città natale, perché il padre aveva
assunto il comando di una brigata quaggiú. Il dramma ha inizio un anno dopo la morte del padre. Il
soggiorno in provincia ha ormai perso il suo scopo, il ricordo del tempo passato a Mosca incombe
sulla noia della vita quotidiana e culmina in un solo grido disperato: «A Mosca, a Mosca!» 22. L’attesa
di questo ritorno al passato, che deve essere nello stesso tempo il grande avvenire, riempie di sé la
vita delle sorelle Prozorov. Attorno a loro sono gli ufficiali della guarnigione, consumati dalla stessa
stanchezza, dalla stessa nostalgia. Ma per uno di loro il futuro, che per le sorelle si identifica con una
meta ben precisa, si dilata ad utopia. Aleksandr Ignatevič Veršinin dice:
Fra due o trecent’anni la vita sulla terra sarà cosí bella, cosí meravigliosa come non si può
nemmeno immaginare. All’uomo è necessaria una vita simile e se per il momento non è possibile
realizzarla, egli deve averne il presentimento, attenderla, sognarla, prepararvisi… 23.
VERŠININ
E piú avanti:
Mi sembra che sulla terra tutto dovrà mutare a poco a poco, anzi già comincia a mutare
sotto i nostri occhi. Fra due, trecento, mille anni – la data precisa non importa – comincerà una
vita nuova, felice. Noi, certo, non parteciperemo a questa vita, ma noi ora viviamo per essa,
lavoriamo, soffriamo per prepararla, la stiamo creando e in questo solo è lo scopo della nostra
esistenza e anche, se volete, la nostra felicità 24.
VERŠININ
La felicità non c’è, non può esserci e non ci sarà per noi!… Noi dobbiamo solo lavorare e lavorare:
la felicità sarà per i nostri lontani nipoti. Se non lo saremo noi, saranno almeno felici i nipoti dei
nostri nipoti 25.
Ma piú ancora di questo atteggiamento utopistico, ciò che isola gli uomini è il peso del passato e la
loro insoddisfazione nel presente. Essi tutti non fanno che riflettere sulla propria vita, si perdono nei
propri ricordi, si tormentano nell’analisi della noia. Nella famiglia Prozorov e nell’ambiente che la
circonda ciascuno ha il suo problema, su cui viene continuamente rigettato: un problema che lo
separa dal suo prossimo. Andrej si consuma nella tensione fra il suo sogno di ottenere la cattedra di
professore a Mosca e la sua effettiva posizione di segretario dell’amministrazione agricola. Maša
vive, dall’età di diciassette anni, in un’infelice situazione coniugale. Olga, «da quando insegna alla
sua scuola, sente che le forze e la giovinezza l’abbandonano a poco a poco» 26. E Irina, che per
liberarsi dal malcontento e dalla tristezza si è gettata a capofitto nel lavoro 27, confessa:
Ho passato i ventitre anni, lavoro già da molto tempo, la mente mi si è inaridita, sono diventata
magra, brutta, vecchia, e niente, niente, nessuna soddisfazione!… Intanto il tempo passa e mi
sembra di allontanarmi sempre piú dalla vita vera, bella, di andare sempre piú lontano, come verso
un precipizio. Sono disperata e non capisco come io stia ancora a questo mondo, come non mi sia
ancora uccisa… 28.
IRINA
Si pone a questo punto la questione, come questa rinuncia tematica alla vita presente a favore del
ricordo e dell’aspirazione nostalgica, questa eterna analisi del proprio destino, permetta ancora
quella forma drammatica in cui si era cristallizzata l’adesione rinascimentale al «qui» e all’«ora» e al
rapporto intersoggettivo. Alla doppia rinuncia che caratterizza i personaggi di Čechov parrebbe
dover corrispondere la rinuncia all’azione e al dialogo, le due categorie formali piú importanti del
dramma; e cioè alla forma drammatica stessa.
Ma questa rinuncia è presente solo in germe. Come gli eroi dei drammi di Čechov, nonostante la
loro assenza temporale e psichica, continuano a vivere la loro vita in società senza trarre le estreme
conseguenze della loro solitudine e della loro nostalgia, e restando in una zona intermedia fra il
mondo e l’io, fra il presente e il passato, cosí la forma dei drammi non rinuncia del tutto alle
categorie di cui essa – in quanto forma drammatica – ha bisogno. Essa le conserva, senza
accentuarle, come qualcosa di ovvio e di secondario, che permette alla vera tematica di concretarsi,
per cosí dire, negativamente, come deviazione dalla forma stessa.
Cosí, nelle Tre sorelle, abbiamo dei rudimenti dell’azione tradizionale: il primo atto – l’esposizione
– si svolge il giorno dell’onomastico di Irina; il secondo prende lo spunto dai mutamenti che hanno
avuto luogo nel frattempo: il matrimonio di Andrej e la nascita di suo figlio; il terzo si svolge di notte
mentre nelle vicinanze divampa un incendio; il quarto, infine, si accentra su un duello durante il
quale viene ucciso il promesso sposo di Irina, il giorno in cui il reggimento si trasferisce, e i Prozorov
cedono definitivamente alla noia della vita di provincia. Già il fatto che i momenti dell’azione siano
accostati senza un nesso preciso e distribuiti in quattro atti senza vera attesa e tensione (come è
stato sempre riconosciuto dai critici), mostra qual è il posto che spetta loro nella compagine formale
del dramma; sono inseriti, senza un vero significato e valore proprio, per conferire al tema un minimo
di movimento in grado di consentire il dialogo.
Ma anche il dialogo è senza peso, come un pallido colore di fondo da cui si staccano, come
pennellate piú vive, i monologhi (travestiti da repliche), in cui si condensa il significato del tutto.
L’opera vive, infatti, di queste autoanalisi rassegnate, in cui quasi tutti i personaggi giungono via via
ad esprimersi; ed è stata scritta proprio in funzione di esse.
Non si tratta di monologhi nel senso tradizionale della parola. Alla loro base non è la situazione,
ma la tematica. Il monologo drammatico (come ha messo in chiaro Lukács 29) non esprime nulla che si
sottragga per principio alla comunicazione. «Amleto nasconde il suo stato d’animo ai cortigiani per
motivi pratici; forse proprio perché essi capirebbero fin troppo bene che egli vuol vendicare suo
padre, che egli non può fare a meno di vendicarlo» 30. Altrimenti qui. Le parole sono pronunciate in
presenza degli altri, non quando il personaggio è solo; ma sono proprio esse ad isolare chi le
pronuncia. Cosí, quasi impercettibilmente, un dialogo inessenziale trapassa in una serie di soliloqui
essenziali. Essi non rappresentano monologhi isolati, inseriti in un’opera dialogica; in essi, anzi,
l’opera nel suo complesso abbandona il piano drammatico e si fa lirica. Poiché nella lirica il
linguaggio è piú naturale e autogiustificato che nel dramma; è, per cosí dire, piú formale. Il parlare,
nel dramma, oltre ad esprimere il contenuto concreto delle parole, esprime anche sempre il fatto
stesso che si parla. Quando non c’è piú nulla da dire, quando qualcosa non può venir detto, il
dramma tace. Nella lirica, invece, anche il silenzio diventa linguaggio. In essa, naturalmente, le
parole non «cadono» piú, ma sono dette con una naturalezza che fa parte dell’essenza della lirica.
Il linguaggio cechoviano deve il suo fascino a questo continuo trapasso dalla conversazione alla
lirica della solitudine. Ciò è possibile solo grazie alla grande comunicatività del popolo russo e al
lirismo immanente nella sua lingua. Qui la solitudine non è già di per sé irrigidimento. Ciò che
l’Occidente conosce forse solo nell’ebbrezza: la partecipazione alla solitudine altrui, l’assorbimento
della solitudine individuale nella solitudine collettiva che si sta formando, sembra già insito come
possibilità nella natura del russo, sia del popolo che della lingua.
Perciò il monologo dei drammi cechoviani può trovare il suo posto nel dialogo stesso; perciò, nei
drammi cechoviani, il dialogo non diventa quasi mai un problema, e la loro intima contraddizione –
quella, cioè, fra tematica monologica ed espressione dialogica – non conduce mai alla dissoluzione
della forma drammatica.
Solo ad Andrej, il fratello, è preclusa anche questa possibilità di espressione. La sua solitudine lo
costringe al silenzio, e perciò egli fugge la società 31; può parlare solo quando sa di non essere inteso.
Čechov ottiene questo risultato introducendo nell’azione un personaggio sordo: Ferapont, l’usciere
della Giunta provinciale:
Buona sera, mio caro. Che novità?
Il presidente vi manda un libro e certe carte. Ecco… (Consegna il libro e un pacchetto).
ANDREJ Grazie! Va bene! Ma perché sei venuto a quest’ora? Sono già le otto passate.
FERAPONT Come?
ANDREJ (piú forte) Dico che sei venuto tardi: sono le otto passate.
FERAPONT Veramente sono venuto che era ancora giorno, ma non mi hanno lasciato entrare. […]
(Credendo che Andrej gli abbia domandato qualcosa) Come?
ANDREJ Ma se non ho detto niente! (Esaminando il libro) Domani è venerdí, non c’è seduta, ma io
verrò lo stesso all’ufficio… farò qualche cosa. A casa mi annoio… (Pausa). Vecchio mio, come muta
stranamente la vita e come inganna! Oggi, per la noia, non sapendo che fare, ho preso in mano
questo libro: un vecchio corso di lezioni universitarie; e mi è venuto da ridere… Dio mio! Io sono
segretario della Giunta provinciale, proprio di quella Giunta provinciale di cui è presidente
Protopopov. Segretario!… E il massimo che possa sperare per l’avvenire è di diventar consigliere.
Io, capisci, io che ogni notte sogno di essere professore all’Università di Mosca, d’essere un dotto
famoso, di cui tutta la Russia debba esser orgogliosa!
FERAPONT Non capisco… Ci sento poco.
ANDREJ Se ci sentissi bene, forse non ti parlerei di certe cose. Io ho bisogno di parlare con qualcuno,
ma mia moglie non mi comprende; delle sorelle, chissà perché, ho soggezione: temo che mi
prendano in giro, che mi facciano sentire una gran vergogna… Io non bevo e per le trattorie non
ho una gran simpatia, eppure con che piacere, adesso, mi siederei in un grande «restaurant» di
Mosca, da «Testov» per esempio.
FERAPONT All’ufficio, tempo fa, l’appaltatore raccontava che a Mosca certi mercanti mangiarono delle
ciambelle; uno, che se n’era mangiate quaranta, dicono che morisse. Sí: quaranta o cinquanta, non
ricordo bene.
ANDREJ Se te ne stai in una grande sala di un «restaurant» di Mosca, non conosci nessuno e nessuno
ti conosce; eppure non ti senti estraneo. Qui invece conosci tutti e tutti ti conoscono: eppure ti
senti estraneo; estraneo a tutti… Estraneo e solo.
FERAPONT Cosa dite? (Pausa). Quello stesso appaltatore mi ha raccontato – non so se abbia detto una
bugia – che a Mosca, da un capo all’altro della città, hanno teso una gran fune […] 32.
ANDREJ
FERAPONT
Ciò che, grazie al motivo della sordità, si presenta qui come un dialogo, è in fondo un monologo, il
monologo disperato di Andrej, cui fanno da contrappunto i discorsi di Ferapont, che hanno lo stesso
carattere monologico. Mentre di solito, parlando dello stesso oggetto, si manifesta la possibilità di
una vera comprensione, qui se ne rivela l’impossibilità. L’impressione di divergenza è tanto piú forte,
quando si stacca da un fondo fittizio di convergenza. Il monologo di Andrej non nasce dal dialogo, ma
dalla sua negazione. L’efficacia di questo parlare senza capirsi nasce dal contrasto, parodistico e
doloroso insieme, col vero dialogo, che viene respinto, cosí, nei paraggi dell’utopia. Ma ciò mette in
discussione la forma drammatica stessa.
Poiché l’impossibilità di comprendersi è, in questo caso, motivata tematicamente (sordità di
Ferapont), il ritorno al dialogo è ancora possibile. Gli interventi di Ferapont restano meri episodi. Ma
tutto ciò che è tematico, e il cui contenuto è piú generale e importante del motivo che lo rappresenta,
tende a «precipitare» in forma. E il ritiro formale del dialogo conduce necessariamente all’epica.
Ecco perché il sordo di Čechov indica in direzione del futuro.
III .
Con STRINDBERG ha inizio quella che piú tardi prenderà il nome di «drammaturgia dell’io» e che
costituirà per decenni il quadro della letteratura drammatica. Il terreno in cui essa affonda le sue
radici è, in Strindberg, l’autobiografia. Ciò non appare solo nei rapporti tematici; la stessa teoria del
«dramma soggettivo», nel suo progetto di letteratura del futuro, sembra identificarsi per lui con la
teoria del romanzo psicologico come storia dell’evoluzione della propria anima. Ciò che egli ha detto
in un’intervista a proposito del primo volume della sua autobiografia (Il figlio della serva) chiarisce
anche i retroscena del nuovo stile drammatico, di cui Il padre, scritto un anno piú tardi (1887),
rappresenta già gli inizi. Egli disse: «Credo che la rappresentazione totale della vita di un uomo sia
piú sincera ed esauriente di quella di un’intera famiglia. Come si può sapere ciò che avviene nel
cervello altrui, i motivi segreti delle azioni di un altro, ciò che una persona o l’altra hanno detto in un
momento di confidenza? Sí, si costruisce, si inventa; ma fino ad oggi la scienza dell’uomo è stata poco
sviluppata da quegli autori che hanno cercato, con le loro scarse nozioni psicologiche, di tratteggiare
la vita dell’anima, che in realtà è nascosta. Ognuno conosce una sola vita: la propria…» 33.
Si sarebbe tentati di leggere in queste parole, scritte nel 1886, la rinuncia di Strindberg all’arte
drammatica. Mentre esse sono il punto di partenza di un’evoluzione che ha inizio con Il padre (1887),
prosegue con Verso Damasco (1898-1901) e Il sogno (1901) e si conclude con La strada maestra
(1909). Il problema centrale, per lo studioso dell’opera di Strindberg, è quello di stabilire fino a che
punto tale evoluzione porti effettivamente lontano dal dramma.
La prima opera, Il padre, cerca di associare lo stile soggettivo a quello naturalistico. Col risultato
che nessuno dei due può essere pienamente realizzato, poiché le intenzioni della drammaturgia
naturalistica e di quella soggettiva sono diametralmente opposte. Benché si atteggiasse a
rivoluzionario, e lo fosse anche relativamente allo stile e alla concezione del mondo, il naturalismo
prese, nel campo della drammaturgia, un orientamento conservatore. Esso tendeva, in fondo, a
salvaguardare la forma drammatica tradizionale. Dietro il suo proposito rivoluzionario di realizzare il
dramma su un nuovo piano stilistico, stava – come dimostreremo piú oltre – un’idea conservatrice:
quella di sottrarre il dramma alla minaccia dell’evoluzione storico-spirituale, trasferendolo, e
salvandolo, in uno spirito ancora immune da quell’evoluzione, arcaico e purtuttavia contemporaneo.
A prima vista Il padre sembra un dramma familiare, uno degli innumerevoli esempi di drammi
familiari del tempo. Padre e madre lottano per l’educazione della figlia; è uno scontro di principî, una
lotta tra i sessi. Ma non occorre aver presenti le frasi di Strindberg che abbiamo appena citato per
capire che quest’opera non consiste di una rappresentazione diretta – ossia drammatica – di questi
rapporti inveleniti e dei loro sviluppi, ma è stata progettata solo in funzione del personaggio
principale, e si svolge interamente alla luce della sua soggettività. Lo schema ci dà solo una prima
indicazione in questo senso: il padre è il centro e le donne lo circondano: Laura, la balia, la suocera e
infine la figlia, quasi le pareti dell’inferno donnesco in cui si crede imprigionato. Piú importante
ancora è constatare che la lotta di sua moglie contro di lui perviene, per lo piú, a realizzazione
drammatica solo come riflesso nella sua coscienza, e che, nelle sue linee fondamentali, questa lotta è
addirittura condotta da lui stesso. È lui a mettere nelle mani di sua moglie l’arma principale di cui
essa dispone: il dubbio sulla sua paternità. E la sua malattia mentale è attestata da una sua lettera in
cui egli «dichiara al medico di essere pazzo» 34. Nell’ultima scena del secondo atto, le parole di sua
moglie, che lo spingono a gettarle addosso la lampada accesa («Ormai hai assolto il tuo compito di
padre, purtroppo necessario al mantenimento dei figli. Adesso non occorri piú e puoi andartene»),
sono verosimili solo come proiezione dei pensieri che il Capitano sospetta in sua moglie. Se il
naturalismo del dialogo significa perfetta riproduzione del discorso come potrebbe svolgersi nella
realtà, la prima opera naturalistica di Strindberg è altrettanto lontana dal naturalismo quanto la
tragédie classique. Esse si differenziano nel principium stilisationis: nella tragédie classique quel
principio riposa su un ideale linguistico oggettivo, mentre in Strindberg è determinato dalla
prospettiva soggettiva. E la fine del Capitano, che Laura determina facendogli mettere la camicia di
forza, si trasforma, per cosí dire, in un processo interiore, tramite il collegamento con l’infanzia,
tramite la sua identificazione magico-psicoanalitica coi ricordi contenuti nelle parole della balia che
gli fa indossare la camicia.
In seguito a questo spostamento di prospettiva, anche il principio delle tre unità, che nel Padre è
ancora rigorosamente osservato, perde ogni significato. Nel dramma vero e proprio, infatti, la
funzione di quel principio è questa 35: fare emergere e risaltare il puro sviluppo dinamico-dialettico
sulla staticità del mondo interiore ed esterno sempre uguale a se stesso, creando cosí quello «spazio
assoluto» che è richiesto dalla riproduzione esclusiva dell’accadere intersoggettivo. Ma qui l’opera
non si fonda sull’unità dell’azione, ma su quella dell’io del suo personaggio centrale. L’unità d’azione
diventa irrilevante, o addirittura d’impaccio, nella rappresentazione di uno sviluppo psichico. La
continuità senza vuoti dell’azione non costituisce una necessità, poiché l’unità del tempo e del luogo
non sono correlative all’unità dell’io. Se ne ha una conferma nelle poche scene in cui il Capitano non
è presente sul palcoscenico. Non si capisce perché lo spettatore, che vede la realtà di quella famiglia
esclusivamente attraverso gli occhi del padre, non possa seguirlo nel suo vagabondaggio notturno e,
piú tardi, non possa essere rinchiuso assieme a lui. Ma, in realtà, anche queste scene sono dominate
dal Capitano, che vi è presente in quanto argomento di tutti i discorsi degli altri. Esse fanno posto
solo indirettamente agli intrighi di Laura; in primo piano è la immagine di lui, come essa la descrive
al fratello e al medico. E quando il Pastore sente del piano della sorella di far ricoverare e interdire il
Capitano, si fa addirittura avvocato di suo cognato, che fino a quel momento – a causa del suo libero
pensiero – aveva sempre considerato come «una mala erba nel nostro giardino» 36:
Quanta forza hai, Laura! Sei straordinaria. Come una volpe in trappola, preferisci strapparti
coi tuoi stessi denti una zampa, piuttosto che lasciarti catturare! Come un ladro di professione,
non vuoi complici; nemmeno la tua stessa coscienza! Guardati allo specchio, se ne hai il coraggio.
[…] Fammi vedere la mano… Guarda, nemmeno una macchiolina di sangue che possa tradirti, non
una traccia del mortale veleno. Un piccolo innocente assassinio, che la legge non può punire, un
delitto inconsapevole. Inconsapevole? Una trovata ingegnosa, piuttosto.
PASTORE
E alla fine, tornando da questo discorso in vece altrui a un discorso diretto: «Come uomo sarei
contento di vederti sul patibolo! Come fratello e come sacerdote… i miei complimenti!» 37.
Dove è sempre il Capitano a parlare, anche in queste ultime frasi. Questi pochi punti, mostrando
come diventi problematico distribuire drammaticamente i ruoli e rispettare le tre unità nel quadro
della drammaturgia soggettiva, permettono di capire perché, a partire dal Padre, le intenzioni
naturalistiche e quelle autobiografiche di Strindberg nell’ambito del dramma si separino e divergano.
La signorina Giulia, scritta un anno dopo e concepita da un punto di vista non prospettico, diventa
una delle opere piú celebri del naturalismo, e il saggio di Strindberg su questa pièce è una specie di
manifesto naturalistico.
Mentre il tentativo di porre al centro di un’opera l’io di una sola persona, essenzialmente il
proprio, porta Strindberg sempre piú lontano dalla struttura drammatica tradizionale a cui rimane
ancora pienamente ancorata La signorina Giulia. Anzitutto si ha l’esperimento monodrammatico,
come nell’atto unico La piú forte. Ciò può sembrare un’applicazione logica della tesi: «Ognuno
conosce una sola vita: la propria». Dove bisogna però osservare che il personaggio unico di
quest’opera non è un’incarnazione autobiografica di Strindberg. Questo fatto si spiega se si riconosce
che la drammaturgia soggettiva corrisponde meno alla nozione per cui l’autore può ricreare solo la
propria vita psichica (poiché essa solo gli è veramente scoperta), che all’intenzione generale che la
precede, che è quella di trasformare in realtà drammatica la vita psichica, qualcosa di
essenzialmente nascosto. Il dramma, forma letteraria «kat’exochén» della rivelazione e della
chiarezza dialogica, riceve il compito di rappresentare accadimenti psichici segreti. Ed esso risolve
questo compito ritirandosi nel suo personaggio centrale e limitandosi esclusivamente ad esso
(monodrammatica), o considerando tutto il resto dal suo punto di vista (drammatica dell’io); ma cosí
facendo cessa di essere dramma.
L’atto unico La piú forte (1888-89) è piú significativo per la problematica intrinseca della tecnica
analitica moderna in generale che non per l’evoluzione drammatica di Strindberg. Esso dev’essere
visto in relazione ad Ibsen. Poiché in questo monodramma di sei pagine c’è qualcosa come il nocciolo
di un dramma di Ibsen in tre o quattro atti. L’azione secondaria, che si svolge nel presente, e che
serve da sfondo all’analisi dell’azione primaria, esiste solo in nuce: «La signora X, attrice, sposata»
incontra, la sera di Natale, nell’angolo di un caffè per signore, «la signorina Y, attrice, nubile». E ciò
che, nei drammi di Ibsen, è intrecciato drammaticamente in modo magistrale (per quanto
problematico) con gli eventi attuali (i riflessi interiori e il passato ricordato) è rappresentato qui in
forma epico-lirica, in un lungo monologo della Signora. Dove non solo si può scorgere indirettamente
quanto fosse antidrammatico l’assunto ibseniano, ma si può vedere anche il prezzo che Ibsen ha
dovuto pagare per mantenersi fedele alla forma drammatica. Poiché ciò che è nascosto e represso si
esprime con tanta maggior forza nella densità e nella purezza del monologo di Strindberg che nei
dialoghi ibseniani, e, in Strindberg, la rivelazione di questo elemento non ha nulla
dell’«impareggiabile atto di violenza», che Rilke vedeva nell’opera di Ibsen 38. Lungi dal diventare un
mero resoconto, questa narrazione in prima persona è anche in grado di dar luogo a due peripezie
che non si potrebbero immaginare «piú drammatiche», anche se – a causa della loro pura interiorità –
si sottraggono al dialogo e quindi al dramma.
Strindberg trova la forma che piú gli si addice, quella dello «Stationendrama» (o «dramma a
tappe»), dopo una interruzione di cinque anni nella sua attività creativa, e cioè nel 1898, in Verso
Damasco. Quattordici opere minori, scritte negli anni dal 1887 al 1892, e il lungo intervallo dal 1893
al 1897, lo separano dall’ultima grande opera, Il padre. Gli atti unici di questo periodo (undici in
tutto, fra cui La piú forte) lasciano in secondo piano i problemi dell’azione drammatica e della
raffigurazione dei personaggi, che si erano affacciati nel Padre. Essi non risolvono questi problemi,
ma ne testimoniano indirettamente, proprio in quanto cercano di evitarli.
La tecnica a tappe può, invece, corrispondere formalmente alle intenzioni tematiche della
drammaturgia soggettiva (rivelate, almeno in parte, dal Padre), e può quindi eliminare le
contraddizioni che esse avevano provocato nell’ambito della forma drammatica. All’autore di
un’opera soggettiva importa anzitutto isolare e dar rilievo al personaggio principale, che, per lo piú,
rappresenta l’autore stesso. La forma drammatica, il cui principio fondamentale è un equilibrio
raggiunto sempre di nuovo nel gioco dei rapporti interpersonali, non può adempiere a questo scopo
senza distruggersi. Nel «dramma a tappe» il protagonista di cui si narra l’evoluzione si stacca con la
massima chiarezza dai personaggi che incontra lungo le tappe del suo cammino. Questi si vedono
solo in quanto entrano in rapporto col protagonista, in quanto entrano nella sua prospettiva, e sono
quindi riferiti a lui. Poiché la base dello «Stationendrama» non è data da una serie di personaggi
posti, in larga misura, sullo stesso piano, ma da un solo io centrale, e la sua dimensione non è, quindi,
dialogica a priori, anche il monologo perde qui il carattere eccezionale che doveva necessariamente
avere nel dramma vero e proprio. Ma solo cosí risulta fondata formalmente la possibilità di una
rivelazione illimitata della «vita psichica segreta».
Una delle conseguenze della drammaturgia soggettiva è la sostituzione dell’unità d’azione con
l’unità dell’io. Di questo fatto tien conto la tecnica del dramma a tappe, risolvendo la continuità
dell’azione in una successione di scene. Le singole scene non hanno qui alcun nesso causale fra loro,
non scaturiscono l’una dall’altra come nel dramma vero e proprio. Appaiono piuttosto come una serie
di pietre isolate, tenute insieme, come da un filo, dal cammino dell’io. Questa staticità delle scene,
questa loro mancanza di futuro, che le rende epiche (nel senso goethiano del termine), si riconnette
alla loro struttura, determinata dalla contrapposizione prospettica dell’io e del mondo. La scena
drammatica attinge il suo dinamismo dalla dialettica interpersonale, avanza e progredisce grazie al
momento futuro contenuto in quella dialettica. Nella scena dello «Stationendrama», invece, non si
determina alcuna interazione; il protagonista incontra altri individui, ma essi gli rimangono estranei.
Ciò mette in questione la possibilità stessa del dialogo, e, in effetti, nel suo ultimo
«Stationendrama» (La strada maestra), Strindberg ha compiuto a tratti il passaggio dal dialogo alla
narrazione a due voci:
Il viandante e il cacciatore siedono ad un tavolo; hanno dinanzi a sé dei bicchieri.
Si sta tranquilli quaggiú nella valle.
Fin troppo tranquilli, pensa il mugnaio.
IL VIANDANTE che dorme, mentre l’acqua scorre via,
IL CACCIATORE che corre dietro alle nuvole e al vento…
IL VIANDANTE e questo inutile sforzo m’ha fatto prendere in uggia i mulini a vento.
IL CACCIATORE come faceva Don Chisciotte della Mancia, il prode cavaliere,
IL VIANDANTE che non metteva il mantello secondo il vento,
IL CACCIATORE ma faceva proprio il contrario,
39
IL VIANDANTE per cui venne a trovarsi in difficoltà… .
IL VIANDANTE
IL CACCIATORE
Una scena come questa non può condurre, di per sé, a una scena successiva. Solo l’eroe può
recarne con sé, nell’intimo, l’effetto traumatico o salutare, mentre la scena stessa rimane indietro,
abbandonata, come una tappa del suo cammino.
Col subentrare, alla vicenda oggettiva, di un itinerario soggettivo, cadono anche le categorie
dell’unità di tempo e di luogo. Poiché solo le varie svolte di un cammino – in fondo interiore – sono
realizzate scenicamente; la totalità del cammino non è compresa nello «Stationendrama» come
l’azione nel dramma vero e proprio. L’evoluzione del protagonista nei tempi e nei luoghi intermedi
supera sempre i limiti dell’opera, che ne resta quindi relativizzata.
Non esistendo un rapporto organico fra le singole scene, che rappresentano solo vari spaccati di
un’evoluzione che va al di là dell’opera (frammenti scenici di un «romanzo evolutivo»), si può porre a
base della loro struttura uno schema ad esse esterno e che contribuisce a sua volta a relativizzarle e
ad epicizzarle. Diversamente da ciò che avviene nello schema drammatico di G. Freytag, dove la
piramide richiesta deve scaturire necessariamente dallo sviluppo organico delle scene e degli atti, la
costruzione simmetrica di Verso Damasco (prima parte) segue un principio d’ordine meccanico, che,
per quanto significativo in se stesso, è tuttavia estraneo all’opera.
A questa qualifica del rapporto interpersonale nel «dramma a tappe» come opposizione netta e
assoluta, sembra contraddire quell’aspetto «espressionistico» di Strindberg per cui, ad esempio, i
personaggi della trilogia di Damasco (la Signora, il Mendicante, Cesare) sono emanazioni soggettive
dello Sconosciuto, e l’opera è ambientata come un tutto unitario nella soggettività del suo
protagonista 40. Ma questa contraddizione è il paradosso della soggettività stessa; il suo
autoestraniarsi nella riflessione, l’oggettivarsi dell’io sotto i suoi propri occhi, il rovesciarsi della
soggettività esaltata in una sorta di oggettività. La psicanalisi tradisce già nella sua terminologia,
dove l’inconscio appare come «es», che l’inconscio si affaccia all’io cosciente (e cioè l’io, prendendo
coscienza di sé, si affaccia a se stesso) come qualcosa di esterno e di estraneo. Cosí l’individuo
isolato, che si rifugia in se stesso dal mondo divenutogli estraneo, viene a trovarsi di nuovo davanti a
qualcosa di estraneo. Come lo Sconosciuto confessa all’inizio dell’opera:
Non della morte ho paura, ma della solitudine, perché nella solitudine si può
incontrare qualcuno. Non so se sento la presenza di un altro, o di me stesso; ma è certo che nella
solitudine non si è mai soli. L’aria si fa piú densa, l’aria fermenta, e cominciano a svilupparsi esseri
che sono invisibili ma percettibili, e posseggono vita 41.
LO SCONOSCIUTO
Egli incontra questi esseri nelle varie tappe del suo cammino. Generalmente essi sono lui stesso e
gli sono estranei insieme; e quanto piú sono lui stesso tanto piú gli sono estranei. Anche questa
identità conduce alla soppressione del dialogo. La Signora della trilogia di Damasco non può dire allo
Sconosciuto, di cui è evidentemente una proiezione, se non ciò che egli sa già.
(a sua madre) Certo non è un tipo comune; e quel che è un po’ noioso è che non posso mai
dire nulla che lui non abbia già sentito. Di conseguenza parliama poco… 42.
LA SIGNORA
Considerato dal punto di vista temporale, il rapporto fra soggettivo e oggettivo appare come quello
fra passato e presente. Il passato ricordato e divenuto interiore, si riflette come un presente
estraneo; gli estranei che lo Sconosciuto incontra sono spesso citazioni dal suo passato. Nel
personaggio del medico, ad esempio, è citato un suo compagno di infanzia, che era stato punito
ingiustamente in sua vece; nell’incontro con lui si attualizza la causa del rimorso che da allora non lo
ha piú abbandonato (motivo della biografia di Strindberg). E l’accattone in cui s’imbatte all’angolo
della via gli mette davanti agli occhi la cicatrice che egli stesso porta per un colpo ricevuto da suo
fratello.
Qui il «dramma a tappe» rasenta la tecnica analitica di Ibsen. Ma come l’autoestraniazione
dell’individuo isolato, cosí anche l’estraniazione ed esteriorizzazione del suo passato perviene a
forma adeguata – senza alcun «atto di violenza» formale – solo nei vari incontri di cui si compone
l’opera di Strindberg.
Sulla contrapposizione di io isolato e mondo oggettivo estraniato si basa anche la struttura formale
di due opere della maturità di Strindberg: Il sogno (1901) e La sonata degli spettri (1907). Il sogno,
scritto nello stesso anno della terza parte di Verso Damasco, non è affatto diverso, nel suo principio
formale («imitazione della struttura del sogno, incongruente ma apparentemente logica», scrive
Strindberg nella prefazione), dal «dramma a tappe». Strindberg definí anche Verso Damasco un
dramma onirico, il che prova, ad un tempo, che egli non concepiva Il sogno come un sogno
sceneggiato, ma voleva solo accennare, nel titolo, alla struttura dell’opera, che è simile a quella dei
sogni. Poiché in effetti i sogni e il «dramma a tappe» coincidono nella loro struttura: si tratta di una
successione di scene la cui unità non deriva da un’azione unica, ma dall’io del sognatore (o del
protagonista), che rimane sempre lo stesso.
Ma se nei «drammi a tappe» l’accento cade sull’io isolato, nel Sogno viene in primo piano il mondo
umano; e precisamente nell’oggettività in cui appare alla figlia del dio Indra, che gli si oppone come
soggetto. Poiché questo è il concetto fondamentale dell’opera, che determina anche la sua forma:
mostrare alla figlia di Indra «com’è la vita degli uomini» (Strindberg). Nel Sogno la successione
libera delle scene, piú ancora che quella dei sogni, è quella della rivista, come la conobbe il
medioevo. E la «rivista» – in opposizione al dramma – è essenzialmente rappresentazione che ha
luogo per chi è al di fuori di essa. Ecco perché Il sogno, che comprende in sé, come suo io vero e
proprio, anche lo spettatore, viene ad assumere la struttura epica della contrapposizione soggettooggetto.
La figlia di Indra, che nella versione originaria (senza prologo) è una dramatis persona sullo stesso
piano delle altre, esprime questo distacco epico dall’umanità nella formula «Quanta pena mi fanno gli
uomini!», che ritorna come Leitmotiv. Contenutisticamente queste parole esprimono compassione,
ma dal punto di vista formale distanza e distacco, e possono quindi diventare una formula magica
grazie alla quale la figlia del dio può sollevarsi al disopra dell’umanità proprio quando – nel suo
matrimonio con l’Avvocato – si è maggiormente legata alla condizione umana (secondo il modo di
vedere di Strindberg):
Credo che comincerò ad odiarti, dopo tutto questo.
Guai a noi. Ma cerchiamo di prevenire l’odio. Io prometto di non farti piú alcun rimprovero
sull’ordine in casa… per quanto questa sia una tortura per me.
LA FIGLIA E io mangerò cavolo, per quanto questa per me sia una pena.
L’AVVOCATO Cosí una vita insieme nel tormento. Ciò che è gioia per l’uno, è dolore per l’altro.
LA FIGLIA Quanta pena mi fanno gli uomini 43.
LA FIGLIA
L’AVVOCATO
Conforme alla sua struttura a rivista, l’opera è caratterizzata dal gesto di mostrare o indicare.
Oltre all’Ufficiale (che rappresenta Strindberg) la figlia di Indra incontra per lo piú individui a cui
l’umanità si presenta oggettivamente per la loro stessa professione, e che sono quindi in grado di
descrivergliela nel migliore dei modi. L’Avvocato (seconda incarnazione dell’autore) dice:
Guarda queste pareti; è come se tutte le colpe avessero fatto dei segni profondi nelle loro
tappezzerie; guarda quelle carte, su cui io scrivo storie di delitti; guardami… Qui non viene mai
alcuno che rida; solo sguardi torvi, denti stretti e pugni serrati… E tutti riversano su di me la loro
malvagità, la loro invidia, i loro sospetti… Guarda, le mie mani sono nere, e non potranno mai
lavarsi, guarda tu come sono sporche e insanguinate… Io non posso mai indossare gli abiti piú di
qualche giorno, perché puzzano delle colpe altrui… […] Guardami come sono! E tu credi ch’io
possa ottenere l’amore d’una donna con questo mio aspetto criminale? E credi tu che qualcuno
vorrebbe essere amico proprio di me, che riscuoto i debiti, debiti in denaro, di tutta la città?… È
cosa miserevole essere uomo!
LA FIGLIA Quanta pena mi fanno gli uomini! 44.
AVVOCATO
Il Poeta (terza incarnazione di Strindberg) le consegna una «supplica dell’umanità al Signore del
mondo, preparata da un sognatore» 45, che ancora una volta ha per oggetto la condition humaine. O
le mostra questa condizione in un essere umano:
Lina entra con una secchia.
Lina, fatti vedere dalla signorina Agnes [la figlia di Indra]! Ella ti conobbe dieci anni fa,
quando tu eri giovane, gaia e, ci sia lecito dirlo, anche una bella ragazza… Guardate com’è adesso!
Cinque bambini, lavoro, strilli, fame, sculacciate. Guardate come se n’è andata la sua bellezza,
com’è scomparsa la sua gaiezza nell’adempimento del dovere… 46.
IL POETA
Anche l’Ufficiale assume talvolta questa posizione di epico distacco:
Un vecchio signore si fa avanti con le mani dietro la schiena.
Ecco qui un pensionato che attende la fine della vita; è certamente un capitano che non è
mai diventato maggiore, o un sostituto notaio che non è mai diventato assessore: molti sono i
chiamati, ma pochi gli eletti… Passeggia in attesa della colazione…
L’UFFICIALE
No, del giornale! Del «Giornale del mattino»!
E ha solo cinquantaquattro anni; può tirare avanti ancora per venticinque anni aspettando
i pasti e il giornale… Non è orribile? 47.
IL PENSIONATO
L’UFFICIALE
Il sogno non è, quindi, un’azione di cui gli uomini stessi sono attori, e cioè un dramma, ma una
rappresentazione epica sugli uomini. Questa struttura «presentativa» caratterizza anche – pur se in
modo tematicamente e formalmente velato – La sonata degli spettri. Se nel Sogno essa è
tematicamente palese come visita in terra della figlia di Indra, e formalmente come libera
successione di scene a guisa di rivista, qui essa si cela dietro la facciata del tradizionale dramma
sociale. Qui essa non è diventata l’assoluto principio formale dell’opera, ma è impiegata solo come
strumento per la sua realizzazione. Poiché La sonata degli spettri si trova davanti allo stesso
problema formale delle tarde opere di Ibsen: la rivelazione drammatica di un passato muto e chiuso
in se stesso, e che quindi si sottrae all’evidenza drammatica. Se, in Ibsen, quella rivelazione avveniva
intrecciando quel passato ad un’azione drammatica attuale, e se nell’atto unico di Strindberg La piú
forte aveva luogo nel monologo, nella Sonata degli spettri si ha, per cosí dire, la fusione di questi due
procedimenti: l’io monologico della drammaturgia soggettiva appare – travestito da normale dramatis
persona – in mezzo agli uomini di cui deve svelare il passato misterioso. È il vecchio, il direttore
Hummel. Anche per lui, come per l’Avvocato e il Poeta del Sogno, l’umanità si presenta
oggettivamente come uno spettacolo; alla domanda iniziale dello studente se conosce le persone «che
abitano lí» (cioè quelle che dovrà smascherare in seguito), egli risponde: «Tutte. Alla mia età si
conosce tutti… ma nessuno può dire di conoscermi veramente. Mi occupo del destino degli
uomini» 48.
Come questa frase giustifica tematicamente la funzione formale e la posizione particolare di
Hummel, quelle che seguono spiegano perché questi uomini abbiano bisogno di un narratore epico:
[il domestico, la cui funzione è parallela a quella di Hummel, descrive i suoi padroni al
servitore di Hummel] È la solita cena degli spettri, come la chiamano loro. Prendono il tè senza
dirsi una parola. Tutt’al piú il colonnello parla lui solo… E questa storia da vent’anni: sempre le
stesse persone, che dicono le stesse cose o tacciono allo stesso modo, per non dover arrossire
dalla vergogna 49.
BENGTSSON
E nel terzo atto:
Mi dica: perché i suoi genitori rimangono in quel salotto cosí silenziosi, senza scambiarsi
una parola?
LA FANCIULLA Perché nulla hanno da dirsi, perché l’uno non crede a ciò che dice l’altro. Mio padre ha
riassunto tutto ciò in questa frase: «A che scopo parlare, poiché, nonostante tutto, non riusciamo
ad ingannarci l’un l’altro? 50.
LO STUDENTE
Queste parole mostrano una fonte della moderna drammaturgia epica; segnano il punto ove la
commedia borghese, che aveva accolto un tempo il principio formale del dramma classico, si rovescia
necessariamente in epica, in seguito alla contraddizione, sorta nel corso del diciannovesimo secolo,
tra contenuto e forma. E per la prima volta, nell’ambito di questa evoluzione, l’io epico, nella figura
del direttore Hummel, appare direttamente sulla scena, benché travestito da personaggio
drammatico. Nel primo atto egli descrive allo Studente gli abitanti della casa, che, privi di ogni
autonomia drammatica, si affacciano alla finestra come oggetti di rappresentazione; nel secondo atto,
durante la «cena degli spettri», sarà il rivelatore dei loro segreti.
Ma la cosa veramente incredibile è che Strindberg non si sia reso conto di questa funzione formale
del personaggio. Egli concluse il secondo atto col tradizionale smascheramento dello smascheratore,
col suicidio di Hummel, onde l’opera venne a perdere – sul piano contenutistico – il suo principio
formale recondito. Il terzo atto era destinato al fallimento, poiché avrebbe dovuto rigenerare il
dialogo senza alcun sostegno epico. Accanto al personaggio episodico della cuoca, che – piuttosto
stranamente – riprende il ruolo tematico del «vampiro» Hummel, senza peraltro assumere anche la
funzione formale, la Signorina e lo Studente sono i suoi soli sostegni, ed essi non possono piú
liberarsi dalla casa di spettri in cui sono rimasti irretiti, per giungere a un vero dialogo. La
conversazione che oscilla disperatamente di qua e di là, interrotta da pause, monologhi, preghiere,
conclusione fallimentare di un’opera unica nel suo genere, si può comprendere solo se si tien conto
della situazione di trapasso della drammaturgia che essa segna e riflette; lo struttura epica esiste già,
ma è ancora mascherata tematicamente e quindi esposta agli sviluppi dell’azione.
Mentre in Ibsen le dramatis personae devono morire perché mancano di un narratore, il primo
narratore scenico di Strindberg muore perché, nascosto dietro la maschera di una dramatis persona,
non è riconosciuto per quello che è. Ciò testimonia, meglio di ogni altra cosa, delle intime
contraddizioni della drammaturgia all’inizio del secolo, e definisce esattamente la posizione storica di
Ibsen e di Strindberg: l’uno precede, e l’altro segue direttamente, il risolversi di quelle contraddizioni
nel precipitare dell’epica tematica in forma, e sono quindi entrambi alle soglie della drammaturgia
moderna, che è pienamente comprensibile solo sulla base della loro problematica formale.
IV .
Nelle sue prime opere (e solo di esse avremo occasione di parlare qui) MAURICE MAETERLINCK tenta la
rappresentazione drammatica dell’uomo nella sua impotenza esistenziale, nel suo essere in balia di
un destino imperscrutabile. Se la tragedia greca aveva mostrato l’eroe nella sua tragica lotta col fato,
e se il dramma classico aveva avuto ad oggetto i conflitti del rapporto intersoggettivo, ad essere colto
e rappresentato qui è solo il momento in cui l’uomo indifeso è raggiunto dal destino. Ma non nel
senso della «tragedia del destino» romantica. Essa concentrava la sua attenzione sulla convivenza
degli uomini nell’ambito del cieco destino, e i suoi temi erano l’ingranaggio del fato e la deformazione
dei rapporti interumani ad opera del fato stesso. Nulla di tutto ciò in Maeterlinck. Per Maeterlinck il
destino degli uomini è la morte come tale, ed è la morte, in queste opere, a dominare sola sulla
scena. Non in una forma particolare, in una tragica connessione con la vita; nessuna azione la
produce, nessuno ne è responsabile. Dal punto di vista drammaturgico ciò significa sostituire, alla
categoria dell’azione, quella della situazione. E il genere creato da Maeterlinck dovrebbe recare
questa denominazione: perché il carattere essenziale di queste opere non è l’azione, e quindi non si
tratta piú di drammi, se il termine greco deve avere questo significato. La definizione paradossale di
drame statique, data ad essi dall’autore, risponde allo stesso intento.
Per il dramma vero e proprio la situazione non è che lo spunto dell’azione. Ma qui è il tema stesso
a privare l’uomo della possibilità di passare all’azione. Egli rimane nella sua situazione, in uno stato
di assoluta passività, finché si avvede della morte. Ed è solo il tentativo di accertarsi della propria
situazione che lo induce a parlare: con la conoscenza della morte (la morte di una persona vicina),
che, cieco, aveva sempre avuto davanti, egli è giunto alla meta. Cosí accade ne L’intrusa, ne I ciechi
(1890) e in Interno (1894).
Nei Ciechi la scena mostra «un antichissimo bosco settentrionale d’aspetto eterno sotto un cielo
profondo e stellato. In mezzo, e verso il fondo della notte, è seduto un prete vecchissimo, avvolto in
un largo mantello nero. Il busto e il capo, leggermente rovesciati indietro in un’immobilità di morte,
si appoggiano al tronco di un’enorme e cavernosa quercia. Il volto è di una lividità immutabile come
la cera, e le labbra sono violette. Gli occhi, smorti e fissi, non guardano piú le cose terrene, e
sembrano lacrimanti sopra infiniti e immemorabili dolori… A destra sei vecchi ciechi son seduti su
pietre, su ceppi e su foglie morte. A sinistra, dirimpetto ai ciechi, son sedute sei donne, anch’esse
cieche, e divise da quelli da un albero sradicato e da parti di rocce… Fa molto buio, malgrado il
chiaro di luna che, qua e là, rischiara debolmente le tenebre create dal fitto fogliame» 51. I ciechi
attendono il ritorno del vecchio prete che li ha condotti in quel luogo; ma egli siede morto in mezzo a
loro.
Già le minuziose indicazioni sceniche, che abbiamo citato qui solo a metà, rivelano che la forma del
dialogo non è sufficiente alla rappresentazione. E, viceversa, ciò che si tratta di dire non basta a
fondare un dialogo. I dodici ciechi si chiedono angosciosamente qual è il loro destino e prendono a
poco a poco coscienza della loro situazione; a ciò si riduce il dialogo, il cui ritmo è determinato
dall’alternarsi di domande e risposte.
IL PRIMO CIECO DALLA NASCITA EGLI ANCORA NON RITORNA?
Non sento venire alcuno 52.
IL SECONDO CIECO DALLA NASCITA In questo momento stiamo al sole?
IL TERZO CIECO Il sole splende ancora?
IL SESTO CIECO Non credo, direi che sia molto tardi.
IL SECONDO CIECO DALLA NASCITA Che ora è?
53
GLI ALTRI CIECHI Non so. Nessuno lo sa .
IL SECONDO CIECO DALLA NASCITA
Spesso le battute sono parallele o addirittura si ignorano a vicenda:
È tempo di ritornare all’ospizio.
Bisognerebbe sapere dove ci troviamo.
54
IL SECONDO CIECO DALLA NASCITA Fa freddo dacché egli se n’è andato .
IL TERZO CIECO DALLA NASCITA
IL PRIMO CIECO DALLA NASCITA
Quale che sia il significato simbolico della cecità, dal punto di vista drammaturgico essa vale a
salvare l’opera dal silenzio che la minaccia. Anche se sta a significare l’impotenza e la solitudine
umana («Voilà des années et des années que nous sommes ensemble, et nous ne nous sommes jamais
aperçus. On dirait que nous sommes toujours seuls!… Il faut voir pour aimer» 55), e mette quindi in
questione il dialogo, si deve, tuttavia, solo ad essa se sussiste ancora un motivo di parlare. Anche ne
L’intrusa, che ci mostra una famiglia riunita mentre la madre muore nella stanza accanto, c’è il
personaggio del nonno cieco, le cui domande e i cui presentimenti (poiché, essendo cieco, egli vede
insieme meno e piú degli altri) giustificano il dialogo.
Nei Ciechi la forma linguistica si scosta per piú rispetti dal dialogo. Per lo piú essa è corale. Le
battute perdono allora anche quella minima individualità che differenzia i dodici ciechi. Il linguaggio
si fa autonomo, e sparisce il suo carattere essenzialmente drammatico, che è quello di essere legato a
un punto di vista, a una persona determinata; il linguaggio non è piú espressione di un singolo
individuo che attende una risposta, ma è il riflesso dello stato d’animo che domina in tutti. La sua
distribuzione in «battute» non corrisponde a un dialogo, come nel dramma vero e proprio, ma riflette
unicamente l’incertezza nervosa del non-sapere. Esso si può leggere e ascoltare senza bisogno di
sapere chi sta parlando; il suo carattere essenziale è l’intermittenza, e non il suo rapporto a un io
attuale. Ma anche ciò, in ultima analisi, è solo l’espressione del fatto che qui le dramatis personae,
lungi dall’essere gli artefici – e quindi i soggetti – di un’azione, ne sono, in fondo, solo gli oggetti.
Questo tema unico delle opere giovanili di Maeterlinck – che l’uomo, cioè, è abbandonato senza
scampo al proprio destino – esige un’espressione equivalente sul piano formale.
Di ciò tien conto lo schema che è alla base di Interno (1894). Anche qui una famiglia deve fare
esperienza della morte. La figlia, uscita di casa al mattino per andare a trovare la nonna al di là del
fiume, ha perso la vita nelle acque e viene portata morta a casa, mentre i genitori non l’aspettano
ancora e passano la sera tranquilli e senza alcuna preoccupazione. E come queste cinque persone,
sorprese di colpo dalla morte, non sono che vittime silenziose del destino, cosí, anche formalmente,
esse diventano il muto oggetto epico di colui che deve comunicare loro la morte della figlia: il
Vecchio, che – prima di assolvere alla sua penosa missione – ne parla con uno Straniero davanti alle
finestre illuminate, oltre le quali si intravede la famiglia. Cosí il corpo drammatico si scinde in due
parti: le persone mute dentro la casa, e quelle che parlano nel giardino. Questa scissione in gruppo
tematico e gruppo drammaturgico riflette la divisione tra soggetto e oggetto che è implicita nel
fatalismo di Maeterlinck e che porta alla reificazione dell’uomo. Ne deriva, nell’ambito del dramma,
una situazione epica come una volta poteva determinarsi solo episodicamente, ad esempio nelle
descrizioni di battaglie fuori delle quinte. Ma questa situazione forma qui l’intera opera. Il «dialogo»
fra lo Straniero, il Vecchio e i suoi due nipoti serve quasi esclusivamente alla rappresentazione epica
della famiglia muta:
Vorrei vedere, prima di tutto, se nessuno manca nella sala. Sí, vedo il padre seduto
accanto al fuoco. Aspetta, con le mani sulle ginocchia… La madre appoggia i gomiti sulla tavola 56.
IL VECCHIO
Si riflette perfino sul distacco epico determinato dal fatto che il narratore ne sa di piú dei suoi
personaggi:
Io ho quasi ottantatre anni e la visione della vita mi ha colpito oggi per la prima volta. Non
so perché, tutto quello che essi fanno mi pare cosí strano e cosí solenne… Aspettano la notte,
semplicemente, al chiaro della lampada, come noi l’avremmo aspettata nella nostra stanza, e pure
mi sembra di vederli dall’alto di un altro mondo, solo perché io conosco una piccola verità, che essi
non conoscono ancora… 57.
IL VECCHIO
E anche il dialogo animato non è, in fondo, che una descrizione alternata:
Ora sorridono in silenzio, nella stanza.
Sono tranquilli. Non l’aspettano questa sera…
LO STRANIERO Sorridono senza muoversi, ma ecco, il padre mette un dito sulle labbra…
IL VECCHIO Accenna al bambino addormentato sul seno della mamma.
58
LO STRANIERO Lei non osa alzare gli occhi per timore di risvegliarlo .
LO STRANIERO
IL VECCHIO
Il proposito di Maeterlinck di rappresentare drammaturgicamente l’esistenza umana come
appariva ai suoi occhi, lo spinse a introdurre l’uomo come oggetto passivo e silenzioso della morte, in
una forma letteraria che lo esige invece soggetto parlante e operante. E ciò determina, all’interno
della concezione drammatica, una tendenza all’epica. Nei Ciechi sono ancora i personaggi a
descrivere la loro condizione, il che è sufficientemente motivato dalla cecità. In Interno l’epicità
recondita della materia viene ulteriormente in luce: trasforma la scena in una vera e propria
situazione narrativa, dove soggetto e oggetto sono nettamente contrapposti. Ma anche questa
situazione è ancora tematica, e necessita quindi ancora di una motivazione nell’ambito della forma
drammatica, divenuta ormai priva di senso.
V.
Ciò che è stato detto nel primo studio, quello su Ibsen, vale in parte anche per le opere giovanili di
La festa della pace (1890), ad esempio, che sviluppa la storia di una famiglia
durante una vigilia di Natale, è – come egli stesso la definisce – un tipico «dramma analitico». Ma già
la sua prima opera, Prima dell’alba (1889), presenta, rispetto ad Ibsen, una problematica nuova,
preannunciata nel sottotitolo Dramma sociale. A questo proposito è stato fatto ripetutamente il nome
di un secondo maestro di Hauptmann, Tolstoj, col suo dramma La potenza delle tenebre. Ma per
quanto forte abbia potuto essere questa influenza, l’analisi della problematicità intrinseca del
«dramma sociale» deve muovere da Hauptmann, poiché il suo modello manca del tutto di
un’impostazione sociologico-naturalistica ed ha quella stessa tendenza lirica che, propria della natura
russa, contribuisce al superamento della crisi formale anche nei drammi di Čechov.
Il drammaturgo sociale cerca di rappresentare drammaticamente le condizioni economico-politiche
sotto il cui impero è caduta la vita individuale. Egli ha il compito di mostrare i fattori che hanno le
loro radici al di là della situazione singola e del singolo fatto, e che pure li determinano.
Rappresentare drammaticamente tutto questo implica un lavoro preliminare: la trasformazione della
condizionalità estraniata in attualità interumana, cioè l’inversione e la risoluzione del processo
storico sul piano estetico, che dovrebbe appunto rispecchiarlo.
La problematicità di questo tentativo appare evidente se si esamina piú davvicino il processo di
elaborazione formale che abbiamo appena schizzato: trasformare la condizionalità estraniata in
attualità interumana significa escogitare un’azione che attualizzi le condizioni esterne. Questa
azione, non originale ma secondaria, destinata a mediare fra la tematica sociale e la forma
drammatica prestabilita, si rivela problematica sia dal punto di vista tematico che da quello formale.
L’azione rappresentativa, l’azione-che-sta-in-vece-di (qualcos’altro), non è drammatica: nel dramma
l’accadere, in quanto assoluto, non indica mai al di fuori di sé. Neppure nella tragedia filosofica di un
Kleist o di un Hebbel la vicenda ha una funzione dimostrativa: essa è «significante» non perché
alluda, oltre se stessa, alla struttura del mondo come l’insegna la metafisica del poeta, ma in quanto
attira lo sguardo dentro di sé, nelle proprie profondità metafisiche. Ciò non limita affatto il suo valore
«documentario»; è proprio la sua assolutezza che permette al mondo del dramma di «stare per» il
mondo intero il rapporto tra significante e realtà significata riposa quindi, caso mai, sul principio
simbolico per cui microcosmo e macrocosmo coincidono, e non sul principio della pars pro toto. Ma
proprio questo è il caso del «dramma sociale». Esso contrasta sotto ogni aspetto con l’esigenza di
assolutezza della forma drammatica: le dramatis personae «rappresentano» migliaia di uomini che
vivono nelle loro stesse condizioni, la loro situazione «rappresenta» una certa uniformità
condizionata dai fattori economici. La loro sorte funge da esempio, è un mezzo di dimostrazione, e
testimonia, quindi, non solo di un’oggettività trascendente l’opera, ma anche di un soggetto
dimostrante al di sopra di essa: l’io dell’autore. Ma il situarsi dell’opera fra empiria e soggettività
creatrice, il suo aperto riferirsi a qualcosa di esterno ad essa, costituisce il principio formale non
della drammatica ma dell’epica. Il «dramma sociale» è quindi di natura epica, ed è una
contraddizione in termini.
Ma la trasformazione della condizionalità estraniata in attualità intersoggettiva contraddice anche
ai postulati tematici. Poiché essi dicono proprio che le forze determinanti della vita umana sono
passate dalla sfera dei rapporti interumani a quella dell’oggettività estraniata; che, in sostanza, non
c’è un presente, tanto esso è simile a ciò che è sempre stato e cosí sarà sempre; che un’azione che lo
contrassegni, fondando cosí un nuovo futuro, è cosa affatto impossibile nell’ambito di queste forze
paralizzanti.
Hauptmann ha cercato di risolvere, in Prima dell’alba e nei Tessitori, la problematica del dramma
sociale che abbiamo or ora descritto. Prima dell’alba ci mostra i contadini della Slesia che,
arricchitisi col carbone scoperto sotto i loro campi, finiscono per condurre una vita oziosa e piena di
vizi. Nell’ambito di questo gruppo è selezionato un caso tipico : quello della famiglia del proprietario
terriero Krause. Quest’uomo trascorre le sue giornate sempre ubriaco, mentre la moglie lo tradisce
col fidanzato della figlia di lui, nata da un matrimonio precedente. Marta, la figlia maggiore, sposata
all’ingegnere Hoffmann e prossima al parto, è schiava anch’essa dell’alcool. Ma personaggi simili non
possono dare luogo a un intreccio drammatico. I vizi di cui sono prigionieri li sottraggono al rapporto
interpersonale, li isolano e li abbassano al livello di animali senza parola, capaci solo di urlare e
vegetanti nell’ozio. Il solo personaggio attivo è il genero di Krause, che approfitta della decadenza di
questa famiglia per sfruttarla e per sfruttare tutto l’ambiente, con un lento e paziente lavoro di talpa,
sfuggendo cosí, al pari degli altri, al presente aperto e irto di decisioni che è richiesto dal dramma. E
la vita della sola creatura pura della famiglia, la figlia minore Elena, è una sofferenza tacita e
incompresa.
L’azione drammatica cui la famiglia Krause darà vita deve avere la sua origine al di fuori di essa,
dev’essere tale da lasciare alle persone la loro oggettività di cose, e da non falsare l’uniformità senza
tempo della loro vita in un divenire pieno di tensione secondo le esigenze della forma. Deve aprire,
inoltre, uno squarcio sull’insieme dei «carbonieri» della Slesia.
L’aggiunta di un personaggio estraneo, Alfredo Loth, tiene conto di tutte queste esigenze. Egli
GERHART HAUPTMANN.
giunge sul luogo in qualità di studioso di problemi sociali e di amico di gioventú di Hoffmann, per
studiare le condizioni dei minatori. La famiglia Krause viene presentata drammaticamente attraverso
il visitatore che ne fa gradualmente la conoscenza. Al lettore e allo spettatore essa si presenta sotto
l’angolo visuale di Loth, come oggetto di indagine scientifica. È quindi l’io epico ad affacciarsi dietro
la maschera di Loth. L’azione drammatica stessa non è altro che il travestimento tematico del
principio formale epico; la visita di Loth alla famiglia Krause incarna, sul piano tematico, l’approccio
formale del narratore epico al suo soggetto.
Non è certo questo un caso unico nella drammaturgia della fine del secolo. Il personaggio dello
straniero, che consente questa impostazione, è uno dei suoi elementi rilevati piú sovente. Ma i critici
non hanno visto le ragioni del suo apparire, e lo hanno quindi equiparato al raisonneur del dramma
classico. Ma è un’identificazione infondata. È vero che anche lo straniero «ragiona»; ma il raisonneur
classico, che dovrebbe liberarlo dalla taccia di modernità, non era uno straniero, ma apparteneva a
quella stessa società, che giungeva in lui alla massima trasparenza. La figura dello straniero dice,
invece, che le persone cui egli conferisce evidenza drammatica non sarebbero in grado di pervenirvi
da sole. Già la sua presenza esprime cosí la crisi del dramma; e il dramma di cui egli rende possibile
il sorgere, non è piú un vero dramma. Esso affonda le sue radici nel rapporto epico di soggetto e
oggetto, in cui lo straniero sta di fronte agli altri personaggi. Lo svolgimento dell’azione è
determinato, non tanto dal confronto interpersonale, quanto dall’operato dello straniero: per cui si
annulla anche la tensione drammatica. E questo è il difetto piú evidente di Prima dell’alba. Alla
tensione vera, legata al rapporto intersoggettivo, si sostituisce qui un elemento esterno, come
l’attesa snervante del parto della signora Hoffmann. Il carattere gratuito ed extraartistico di questi
espedienti fu avvertito già dal pubblico presente alla prima rappresentazione; è noto che un ostetrico
presente in sala si alzò col forcipe in mano per mostrare che era pronto a dare il suo aiuto.
Un altro momento poco drammatico è l’arrivo dello straniero. La vera azione drammatica non
rappresenta la vita di esseri umani come si mostra in una determinata occasione. Poiché cosí essa
rimanderebbe ad altro, al di là di se stessa. Il suo presente è pura attualità, non attualizzazione di
uno stato, di una situazione. L’esistenza delle dramatis personae non supera i limiti del dramma
nemmeno temporalmente. Ma il concetto di occasione ha un senso solo se è situato in un contesto
temporale. Come mezzo artistico esso appartiene all’epica e al teatro epico come lo conosceva il
medioevo e ancora il barocco. In questo teatro, all’occasione nell’ambito tematico, corrisponde il
momento della presentazione e rappresentazione nell’ambito formale: momento che è, viceversa,
escluso nel dramma. Mentre nel teatro medievale la recitazione, il «gioco», è dichiarato
esplicitamente tale ed è riferito agli attori e al pubblico.
Ma la forma di Prima dell’alba non sa nulla di tutto questo. Pur accogliendo in sé, nella sua qualità
di racconto drammatico, il principio epico, essa continua a pretendere allo stile drammatico, che,
naturalmente, le riesce solo a tratti.
Anche la fine dell’opera, che è sempre stata giudicata incomprensibile e mancata, sembra in
rapporto con questo fatto. Loth, che si innamora di Elena e vuole salvarla dal pantano che la
circonda, l’abbandona e fugge quando viene a sapere dell’alcoolismo ereditario che affligge la
famiglia. Elena, che aveva visto in lui il suo unico salvatore, sceglie la morte. Non si è mai potuto
capire questo «dogmatismo freddo e vile» di Loth, tanto piú che per lo spettatore questo personaggio
si avvicina molto alla figura dell’autore, anche a prescindere dalla sua funzione formale di narratore
in scena. Ma ciò è prescritto dalla forma. Ciò che, alla fine, altera la fisionomia di Loth, non è
coerente al suo carattere tematico, ma alla sua funzione formale. Poiché, come la commedia classica
esige formalmente che la vorticosa successione degli ostacoli si plachi nel fidanzamento degli
innamorati prima che il sipario cali per l’ultima volta, cosí la forma del dramma che è reso possibile
dalla visita di uno straniero esige che, alla fine, egli esca di scena.
In Prima dell’alba si ripete in senso inverso ciò che, nella Sonata degli spettri, era rappresentato
dal suicidio di Hummel. In un’epoca di crisi del dramma gli elementi epici formali appaiono travestiti
da elementi tematici. La conseguenza di questa duplice funzione di un personaggio o di una
situazione può essere una collisione tra forma e contenuto. Se, nella Sonata degli spettri, un fatto del
contenuto distrugge il principio formale nascosto, qui è, invece, un’esigenza formale a far scivolare,
alla fine, l’azione nell’incomprensibile.
Due anni dopo (1891) nasce l’altro dramma sociale di Hauptmann: I tessitori, che vuol
rappresentare la miseria degli operai tessili nell’Eulengebirge verso la metà del secolo scorso. Il
germe dell’opera – come scrive Hauptmann nell’introduzione – era ciò che suo padre gli «raccontava
del nonno, che in gioventú era stato un povero tessitore, seduto al suo telaio, come quelli descritti
qui». Citiamo queste parole perché esse ci introducono nella problematica formale dell’opera. Alla
sua origine è un’immagine incancellabile: i tessitori dietro i loro telai, e la conoscenza della loro
miseria. Questa immagine sembra esigere una rappresentazione figurata, come quella che troviamo,
intorno al 1897, nel ciclo La rivolta dei tessitori di Käthe Kollwitz, ispirato, d’altronde, all’opera di
Hauptmann. Invece, per la rappresentazione drammatica si pone anche qui, come in Prima dell’alba,
il problema della possibilità di un intreccio. Né la vita dei tessitori, che conoscono solo il lavoro e la
fame, né la situazione politico-economica possono essere trasformate in attualità drammatica. L’unica
azione possibile in queste condizioni di vita è quella che si rivolge contro di esse: la rivolta.
Hauptmann intraprende la rappresentazione della rivolta dei tessitori nel 1844. La descrizione epica
delle condizioni di vita pare cosí – come motivazione della rivolta – poter acquistare forma
drammatica. Ma è l’azione stessa che non è drammatica. Ad eccezione di una sola scena dell’ultimo
atto, la rivolta dei tessitori manca di conflitti intersoggettivi, non si sviluppa attraverso il dialogo
(come avviene, ad esempio, nel Wallenstein di Schiller), ma come esplosione di individui disperati,
che è al di là del dialogo, e può costituirne solo il tema, l’oggetto. Cosí l’opera ricade nell’epica. Essa
si compone di scene in cui sono utilizzate diverse possibilità del teatro epico, il che significa, a questo
stadio, che il rapporto fra il narratore e l’oggetto è inserito tematicamente nella scena drammatica.
Il primo atto si svolge a Peterswaldau. I tessitori, a casa dell’industriale Dreissiger, consegnano i
tessuti finiti. La scena ricorda la rassegna medievale, solo che la presentazione dei tessitori e della
loro miseria è motivata tematicamente dalla consegna del lavorato; insieme alla merce i tessitori
presentano anche se stessi. Il secondo atto ci porta nella stanzetta di una famiglia di tessitori a
Kaschbach. La loro miseria è descritta a un estraneo. Moritz Jaeger, che torna da un lungo periodo di
servizio militare e che è ormai estraneo al suo paese. Ma proprio perché è un estraneo e non si è
ancora piegato alle condizioni esistenti, egli è in grado di accendere il fuoco della rivolta. Il terzo atto
si svolge di nuovo a Peterswaldau. Il luogo prescelto è l’osteria, dove si riferiscono e si discutono le
novità. Cosí la situazione dei tessitori è dapprima oggetto di conversazione degli artigiani; poi la
descrizione è proseguita da un secondo forestiero, il Viaggiatore. Il quarto atto, in casa di Dreissiger,
ci porta, dopo un’altra conversazione sui tessitori, le prime scene drammatiche dell’opera. Il quinto
atto, infine, si svolge a Langenbielau, nella stanzetta del vecchio tessitore Hilse, dove si narrarano,
dapprima, gli eventi di Peterswaldau, e poi seguono – insieme alla descrizione di ciò che avviene nelle
vie, perché nel frattempo i rivoltosi sono giunti a Langenbielau – le drammatiche scene finali: il
conflitto fra il vecchio Hilse, ormai lontano dal mondo e che si rifiuta di prendere parte alla rivolta, e
quelli che lo circondano. Su ciò dovremo ritornare ancora.
Questa varietà di situazioni epiche (rassegna, presentazione davanti a un forestiero, resoconto,
descrizione), accuratamente fondata sulla scelta della scena; il fatto di riprendere sempre da capo
dopo la fine di ogni atto; l’introduzione di personaggi nuovi ad ogni atto; il fatto che la rivolta è
seguita nel suo estendersi successivo, fino a precedere i rivoltosi come nell’ultimo atto: tutto ciò non
fa che ribadire la struttura essenzialmente epica dell’opera. Esprime, cioè, il fatto che azione ed
opera non s’identificano come nel dramma vero e proprio, e che la rivolta, invece, è l’oggetto
dell’opera. L’unità dell’opera non si basa sulla continuità dell’azione, ma su quella dell’io epico
invisibile, che ci presenta le situazioni e gli avvenimenti. Ecco perché possono intervenire personaggi
sempre nuovi. Nel dramma il numero limitato dei personaggi deve garantire l’assolutezza e
l’autonomia del tessuto drammatico. Qui si introducono personaggi sempre nuovi, onde si esprime,
nello stesso tempo, il carattere accidentale della loro scelta, il valore sostitutivo, rappresentativo
della loro presenza, che rimanda ad un collettivo.
Per quanto possa sembrare paradossale, anche il linguaggio «oggettivo» del naturalismo, che si
ritrova nei Tessitori, e soprattutto nella prima versione (tutta in dialetto slesiano) intitolata De Waber,
presuppone l’io epico. Poiché, proprio quando il linguaggio drammatico rinuncia al tono «poetico»
per accostarsi alla «realtà», esso rivela la sua origine soggettiva, e rimanda all’autore. Nel dialogo
naturalistico, che anticipa le incisioni dei futuri archivi fonografici, echeggiano sempre anche le
parole del drammaturgo, amante dell’esattezza scientifica: «Questa gente parla cosí. Io li ho
studiati». Nel campo estetico, ciò che altrove bisognerebbe chiamare oggettivo, si rovescia in
soggettivo. Poiché un dialogo drammatico è «oggettivo» quando non supera i limiti che determinano
la forma assoluta del dramma, quando non rimanda al di là di essi: all’empiria o all’autore empirico.
«Oggettivi» si possono quindi chiamare gli alessandrini di Racine e di Gryphius, il blank verse di
Shakespeare e dei classici tedeschi, o anche la prosa di Woyzeck di Büchner, dove la trasformazione
del dialetto in linguaggio poetico è riuscita felicemente.
Ma l’epica, rinnegata, si vendica anche qui, come in Prima dell’alba, alla fine dell’opera. Il vecchio
Hilse condanna la rivolta richiamandosi alla propria fede:
Perché mi sarei stroncato il filo della schiena al telaio per piú di quarant’anni? E sarei stato
tranquillamente a vedere come quei là s’impinzano d’ogni ben di Dio e fanno d’ogni erba fascio e
fanno quattrini della mia fame e dei miei pensieri? Perché mai? Perché avevo una speranza! […]
C’è stato annunciato: verrà il giudizio universale; ma i giudici non saremo noi. Mia è la vendetta,
ha detto il Signore, nostro Dio 59.
HILSE
Egli si rifiuta di abbandonare il suo telaio vicino alla finestra: «Il mio Padre celeste m’ha destinato
qui. […] E qui restiamo, e qui facciamo il compito nostro, anche se la neve prende fuoco» 60.
Si sente una scarica di fucili e Hilse cade, colpito a morte; è la sola vittima della rivolta che
Hauptmann ci faccia vedere. È facile capire che questa conclusione dovesse sconcertare sia il
pubblico delle rappresentazioni operaie dell’epoca, che la critica letteraria borghese. Dopo che,
all’inizio dell’ultimo atto, la simpatia di Hauptmann per i rivoltosi cede palesemente alla sua
solidarietà verso le convinzioni religiose di Hilse, ecco questo secondo colpo di scena, che trasforma
il dramma della rivoluzione nella tragica storia di un martirio, descritta quasi cinicamente. Come
bisogna interpretare tutto ciò? Non certo in senso metafisico. Pare invece che la responsabilità ricada
anche qui sulla contraddizione fra la tematica epica e la forma drammatica cui non si è voluto
rinunciare. Alla rinuncia a rappresentare ulteriormente la rivolta e la sua repressione avrebbe dovuto
corrispondere una tacita interruzione. Ma ciò è tipico dell’epica; poiché l’autore epico non ha mai
staccato del tutto la sua opera dall’empiria e da se stesso, egli può «interromperla»; dopo l’ultima
riga del racconto non c’è il nulla, ma la «realtà» non piú raccontata, la cui presenza e suggestione fa
parte del principio formale epico. Ma il dramma, come assoluto, è esso stesso la propria realtà, deve
avere una fine che stia per la fine in sé e non permetta altre domande. Anziché finire con uno
sguardo alla repressione della rivolta, anziché attenersi alla rappresentazione del destino collettivo e
confermare cosí formalmente l’epica tematica, Hauptmann volle piegarsi alle esigenze della forma
drammatica, benché la materia l’avesse resa problematica fin dall’inizio.
1
HÖLDERLIN ,
2
ARISTOTELE ,
Sämtliche Werke, Grosse Stuttgarter Ausgabe, vol. II, tomo I, p. 373.
Sulla poetica cit., cap. XI , 2, p. 19.
3
V. 353. E su ciò cfr. E. STAIGER, Die Tragödien des Sophokles, Zürich 1944.
4
IBSEN , Gian Gabriele Borkman, in Teatro, Einaudi, Torino 1959, vol. III, p. 727.
5
Ibid., p. 768.
6
Ibid., p. 784.
7
IBSEN , Gian Gabriele Borkman cit., p. 732.
8
Ibid., p. 771.
9
IBSEN , Gian Gabriele Borkman cit., p. 730.
10
Ibid., p. 734.
11
Ibid., pp. 768 sg.
12
Ibid., p. 775.
13
Ibid., p. 785.
14
Ibid., p. 786.
15
IBSEN , Gian Gabriele Borkman cit., p. 805.
16
LUKÁCS , Die Theorie des Romans cit., p. 127 (trad. it., p. 174).
17
LUKÁCS , Die Theorie des Romans cit., p. 135 (trad. it., p. 182).
18
Ibid.
19
Cfr. RILKE , Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge, Leipzig 1927, pp. 98-102.
20
RILKE , Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge cit., p. 101.
21
Citato in G. LUKÁCS, Zur Soziologie des modernen Dramas, «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik»,
vol. XXXVIII.
22
ČECHOV , Le tre sorelle, in Teatro, Sansoni, Firenze s. d., p. 484.
23
Ibid., p. 496.
24
ČECHOV , Le tre sorelle cit., p. 513.
25
Ibid., p. 514.
26
Ibid., p. 484. Nell’originale in prima persona.
27
Ibid., p. 501.
28
Ibid., p. 538.
29
LUKÁCS , Zur Soziologie des modernen Dramas cit., pp. 678 sgg.
30
Ibid., p. 679.
31
ČECHOV , Le tre sorelle cit., p. 507.
32
ČECHOV , Le tre sorelle cit.
33
STRINDBERG , Samlade Skrifter, vol. XVIII. Citato e tradotto (in inglese) da C. E. DAHLSTROEM, Strindberg’s
Dramatic Expressionism, Ann Arbor 1930, p. 99.
34
STRINDBERG , Il padre, in Il meglio del teatro di Strindberg, Set, Torino 1951, p. 158.
35
Cfr. cap. I .
36
STRINDBERG , Il padre cit., p. 160.
37
Ibid.
38
RILKE , Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge cit., p. 101.
39
STRINDBERG , Samlade Skrifter cit., vol. X, pp. 177 sgg.
40
Cfr. DAHLSTROEM , Strindberg’s Dramatic Expressionism cit., pp. 49 sgg., 124 sgg.
41
STRINDBERG , Samlade Skrifter cit., vol. V, p. 7.
42
Ibid., p. 52.
43
STRINDBERG , Il sogno, in Il meglio del teatro di Strindberg cit., p. 573.
44
STRINDBERG , Il sogno cit., p. 568.
45
Ibid., p. 591.
46
Ibid., p. 577.
47
STRINDBERG , Il sogno cit., p. 580.
48
ID. , La sonata degli spettri, in Il meglio del teatro di Strindberg cit., p. 568.
49
STRINDBERG , La sonata degli spettri cit., p. 684.
50
Ibid., p. 693.
51
MAETERLINCK , Tre drammi (Pelleas e Melisenda, I ciechi, L’intrusa), Voghera, Roma 1914, p. 129.
52
Ibid., p. 130.
53
Ibid., p. 141.
54
Ibid., p. 131.
55
MAETERLINCK , Tre drammi cit., p. 155.
56
MAETERLINCK , L’intrusa, I ciechi, Interno, ed altri brani scelti, Sonzogno, Milano, p. 55.
57
Ibid., p. 62.
58
MAETERLINCK ,
59
HAUPTMANN ,
60
L’intrusa, I ciechi, Interno, ed altri brani scelti cit., p. 59.
I tessitori, Treves, Milano, p. 176.
Ibid., p. 197.
Transizione
La responsabilità della crisi che, verso la fine del secolo, colpí il dramma come forma letteraria
dell’accadere (1) presente (2) e intersoggettivo (3), ricade sul processo di trasformazione tematica
che sostituisce i membri di questa triade coi concetti opposti e correlativi. In Ibsen, invece del
presente, domina il passato. Il tema non è un accadere passato, ma il passato stesso, in quanto è
ricordato e continua ad agire nell’intimo dell’uomo. Cosí anche l’intersoggettività è sostituita
dall’interiorità soggettiva. – Nei drammi di Čechov la vita attiva del presente lascia il posto ad una
vita di sogno nel ricordo e nell’utopia. L’accadere diventa accidentale e secondario, e il dialogo, che è
la forma dell’espressione intersoggettiva, diventa il ricettacolo di considerazioni monologiche. – Nelle
opere di Strindberg il rapporto intersoggettivo è soppresso o visto attraverso la lente soggettiva di un
io centrale. In seguito a questo processo di interiorizzazione il tempo reale e presente perde la sua
posizione di predominio; passato e presente sfumano l’uno nell’altro, il presente esterno richiama il
passato ricordato. L’accadere intersoggettivo si limita ad una serie di incontri che sono solo le pietre
miliari del vero accadere: l’evoluzione interiore. – Il drame statique di Maeterlinck rinuncia
all’azione. Davanti alla morte, a cui solo è dedicato, svaniscono anche le differenze interumane, e
quindi anche il confronto reciproco tra uomo e uomo. Alla morte si oppone un gruppo anonimo di
esseri umani, ciechi e muti. – La drammaturgia sociale di Hauptmann, infine, descrive la vita
interumana come è determinata da fattori extraumani: dalle circostanze politico-economiche.
L’uniformità che esse impongono sopprime l’unicità di ciò che è presente; il presente è anche il
passato e il futuro. L’azione lascia il posto alla situazione oggettiva, di cui gli esseri umani sono le
vittime impotenti.
Cosí il dramma, alla fine del secolo diciannovesimo, nega nel contenuto ciò che per fedeltà alla
tradizione vorrebbe ancora esprimere formalmente: l’attualità del rapporto intersoggettivo. Ciò che
unisce le varie opere di quest’epoca, e risale al cambiamento della loro tematica, è la
contrapposizione soggetto-oggetto che determina il loro nuovo schema. Nei «drammi analitici» di
Ibsen, presente e passato, rivelatore e realtà rivelata si contrappongono come soggetto e oggetto.
Nei «drammi a tappe» di Strindberg il soggetto isolato diventa oggetto a se stesso; nel Sogno
l’umanità è oggettiva per la figlia del dio Indra. Il fatalismo di Maeterlinck condanna gli esseri umani
a un’oggettività passiva; e con lo stesso carattere di oggettività gli esseri umani si presentano nei
«drammi sociali» di Hauptmann. Vero è che la tematica di Maeterlinck e di Hauptmann si distingue
da quella di Ibsen e di Strindberg per il fatto di non esigere originariamente una contrapposizione
soggetto-oggetto, ma solo il carattere oggettivo delle dramatis personae; ma il soggetto, come io
epico, è formalmente necessario per la loro presentazione e rappresentazione.
In queste relazioni soggetto-oggetto l’assolutezza dei tre concetti fondamentali della forma
drammatica è annullata, e con essa l’assolutezza della forma drammatica stessa. Il presente (2) del
dramma è assoluto, poiché non ha una cornice temporale: «il dramma non conosce il concetto di
tempo». «Unità di tempo significa estrazione dal decorso temporale» 1. Il rapporto intersoggettivo (3)
– nel dramma – è assoluto, poiché accanto ad esso non c’è interiorità soggettiva né oggettività
estrinseca. Limitandosi al dialogo, il dramma del Rinascimento sceglie la sfera dell’intersoggettivo,
come propria dimensione esclusiva. E l’accadere (1) – nel dramma – è assoluto, perché si stacca, sia
dalla situazionalità interna dell’anima, che da quella esterna dell’oggettività, e fonda – in proprio ed
esclusivamente – la dinamica dell’opera.
Questi tre fattori della forma drammatica, entrando nel rapporto come soggetto o come oggetto,
restano relativizzati. Il presente di Ibsen è relativizzato dal passato, che esso deve rivelare come il
proprio oggetto. Il rapporto intersoggettivo di Strindberg è relativizzato dalla prospettiva soggettiva
in cui appare. L’accadere di Hauptmann è relativizzato dalle condizioni oggettive che ha il compito di
rappresentare.
Il rapporto soggetto-oggetto condizionato dal tema (in quanto rapporto eo ipso elemento formale)
esige di essere ancorato nel principio formale delle opere. Ma il principio della forma drammatica è
proprio la negazione di ogni separazione di soggetto e oggetto. «Questa oggettività, che nasce dal
soggetto, cosí come questo soggettivo che perviene a manifestazione nella sua realizzazione e nella
sua validità oggettiva […], dà, come azione, la forma e il contenuto della poesia drammatica». Cosí si
dice nell’Estetica di Hegel 2.
L’intima contraddizione del dramma moderno consiste perciò nel fatto che alla fusione dinamica di
soggetto e oggetto nella forma, si oppone la loro separazione statica nel contenuto. Va da sé che i
drammi in cui tale contraddizione si manifesta devono averla risolta (sia pure in modo provvisorio)
già solo per poter nascere. Essa vi è, ad un tempo, risolta e mantenuta, e ciò in quanto l’opposizione
tematica di soggetto e oggetto riceve una fondazione nell’ambito della forma drammatica, ma una
fondazione che viene motivata ed è quindi a sua volta tematica. Questa antitesi, insieme formale e
contenutistica, di soggetto e oggetto trova espressione nelle situazioni epiche di base (narratoreoggetto) che appaiono – travestite tematicamente – come scene drammatiche. In Ibsen il problema è
quello di rappresentare il passato, vissuto interiormente, in una forma letteraria che conosce
l’interiorità solo nella sua oggettivazione, e il tempo solo nel suo momento di volta in volta presente;
ed egli lo risolve inventando situazioni in cui gli uomini seggono a giudici del loro passato ricordato,
e lo portano cosí alla luce aperta del presente. – Lo stesso problema si pone Strindberg nella Sonata
degli spettri, e lo risolve introducendo un personaggio che è al corrente delle vicende di tutti gli altri
e può quindi trasformarsi in narratore nell’ambito della vicenda drammatica. – Gli esseri umani di
Maeterlinck sono vittime mute della morte. La scena drammatica Interno ce li mostra muti all’interno
della casa. Il dialogo, di cui sono l’oggetto, è garantito da due personaggi che li osservano dal
giardino. – In Prima dell’alba Hauptmann fa che le persone da rappresentare ricevano la visita di un
estraneo. Nei Tessitori i vari atti presentano situazioni narrative o di rassegna. – Čechov, infine,
risolve il problema di rappresentare l’impossibilità del dialogo nella forma dialogica del dramma,
introducendo un personaggio sordo e facendo parlare gli altri a vuoto.
Questo contrasto nel principio formale delle opere drammatiche – cosí come la duplice funzione,
formale e contenutistica, di un personaggio o di una situazione, che torna loro sempre di danno –
scompare dalla produzione drammatica dei decenni successivi. Ma le nuove forme che la
caratterizzano nascono dai suggerimenti tematico-formali del periodo di transizione: dal giudizio
ibseniano sul passato, dal narratore in scena di Strindberg, dall’introduzione di un ricercatore sociale
da parte di Hauptmann.
Il processo, che descriveremo in seguito nei particolari, lascia intravedere una teoria del
mutamento stilistico che si stacca dalle interpretazioni correnti della successione di due stili. Questa
teoria inserisce infatti un terzo periodo, in sé contraddittorio, fra il primo e il secondo, e pone cosí le
fasi di sviluppo nel ritmo ternario della dialettica di contenuto e forma.
Ma il periodo di transizione non è caratterizzato solo dal passaggio dall’originaria corrispondenza
di forma e contenuto (nel capitolo Il dramma) al contrasto e alla separazione (nel capitolo Crisi del
dramma), poiché il superamento di questo contrasto nella fase successiva di sviluppo si prepara
proprio qui, negli elementi formali mascherati tematicamente, che la vecchia forma, divenuta
problematica, cela già in sé. E il passaggio allo stile non contraddittorio si compie quando i contenuti
con funzione formale precipitano definitivamente in forma, e spezzano cosí la forma antica.
Questo processo, attestato dalla drammaturgia coerente del ventesimo secolo, si può scorgere
anche in altri campi dell’arte. Nell’ambito dello stile epico tradizionale, fondato sulla
contrapposizione fra il narratore e l’oggetto della narrazione, il romanzo psicologico dell’Ottocento
sviluppa il monologue intérieur. Ma quest’ultimo, interamente ambientato nell’interiorità dei
personaggi rappresentati, non presuppone piú il distacco epico. Finché non viene abbandonato lo
stile epico, il monologue intérieur deve essere mediato attraverso il narratore (si pensi al «se dit-il»
di Stendhal, formula quasi stereotipa che è forse il gruppo di parole piú frequente in Le rouge et le
noir; dove non bisogna trascurare, peraltro, che l’analisi psicologica di Stendhal, a cui la psiche si
presenta oggettivamente, torna a legittimare il distacco epico). In quanto è mediato dal narratore, il
monologue intérieur è ancora tematico. La progressiva psicologizzazione del romanzo nel ventesimo
secolo fa diventare sempre piú essenziale il monologue intérieur; la trasformazione stilistica (se
vogliamo prescindere da Dujardin) ha luogo nell’opera di James Joyce: il monologo interiore diventa
qui principio formale e spezza lo stile epico tradizionale. L’Ulysses non conosce piú alcun narratore.
Come lo stream of consciousness si prepara nell’ambito dello stile epico tradizionale, cosí – per fare
un esempio extraletterario – la pittura di Cézanne, pur attenendosi ancora, in definitiva, al principio
dell’osservazione diretta della natura, racchiude già in sé l’origine dell’aprospettivismo e del
sintetismo degli stili successivi (come quello cubista). E la musica tardoromantica di Wagner, che,
nell’ambito della tonalità fondata sull’accordo di terza, tende ad un cromatismo radicale e cioè
all’equiparazione dei dodici toni, prepara cosí l’atonalismo di Schönberg.
Il nuovo principio stilistico si può quindi ritrovare, prima del rovesciamento, come momento
antitetico all’interno del vecchio principio.
I tre esempi citati – quelli di Stendhal, di Cézanne e di Wagner – mostrano insieme che anche nella
fase di transizione è possibile la massima perfezione. Ma non si può trascurare ciò che vi è di unico e
irripetibile nella conciliazione dei principî opposti, che essi riuscirono a compiere, né la dinamica
immanente della contraddizione, che non mira ad essere conciliata, ma ad essere risolta; e ciò spiega
perché le loro opere non poterono servire da modello agli autori successivi, o furono solo il modello a
cui si aspira in quanto lo si lascia dietro di sé.
Come la «crisi del dramma» ha prodotto, attraverso mutamenti di ordine tematico, il passaggio dal
puro stile drammatico a uno stile contraddittorio, il cambiamento successivo, dove la tematica resta
immutata, va inteso come il processo in cui l’elemento tematico precipita in forma, spezzando cosí la
forma antica. Nascono cosí quegli «esperimenti formali» che sono stati interpretati finora solo in se
stessi, e quindi spesso come un gioco, come un modo di épater le bourgeois, o come espressione di
incapacità personale; ma la cui necessità interna si rivela appena vengono situati nel quadro della
metamorfosi stilistica.
Poiché ciò può far luce anche sul processo in cui si genera la nuova forma, vogliamo illustrare
ancora con un esempio l’antitesi di tematico e formale. In un dramma dove, a un certo punto, si canta
una canzone, il canto è tematico; nell’opera, invece, è formale. Perciò le dramatis personae possono
applaudire il personaggio che canta, mentre i personaggi dell’opera lirica non possono prendere
coscienza del loro canto. («Ironia romantica» è appunto il fenomeno – che appare nelle commedie di
Tieck e di altri autori – per cui le dramatis personae riflettono anche sugli elementi formali, come ad
esempio sulla parte che recitano 3).
Prima di prendere in esame queste nuove forme, in cui la contraddizione fra tematica epica e
forma drammatica si risolve col prender forma dell’epica interna, bisogna accennare ai tentativi che,
invece di risolvere l’antinomia nel senso del processo storico, e cioè di far emergere la forma dal
nuovo contenuto, restano attaccati alla forma drammatica e cercano in vari modi di salvarla. Dove
bisognerà, peraltro, accennare al fatto che anche questi tentativi di salvataggio, malgrado il loro
intento formalistico-conservatore, non mancano di nuovi momenti rivelatori.
Al di là di questa crisi del dramma e dei suoi tentativi di soluzione in senso epico, ma concepibile
solo sullo sfondo di essi, nasce – verso la fine del secolo scorso – il dramma lirico, e in particolare
l’opera giovanile di Hofmannsthal. Che essa è indirettamente in rapporto con la crisi del dramma, è
assai facile a vedersi. La tensione tra forma e contenuto del dramma moderno si può ricondurre alla
contraddizione fra identità dialogica di soggetto e oggetto nella forma e loro dissociazione nel
contenuto. La «drammaturgia epica» nasce quando il rapporto contenutistico soggetto-oggetto
precipita in forma. Il dramma lirico sfugge a questa contraddizione, perché la lirica non affonda le
sue radici, né nella fusione attuale, né nella separazione statica di soggetto e oggetto, ma nella loro
identità sostanziale ed originaria. La sua categoria fondamentale è lo stato d’animo. Ma esso non
appartiene all’interiorità isolata: originariamente lo stato d’animo – scrive E. Staiger – «non è
qualcosa che sia “dentro” di noi. Anzi, proprio nello stato d’animo siamo “fuori” in modo eminente:
non di fronte alle cose, ma dentro di esse ed esse in noi» 4. E la stessa identità caratterizza nella lirica
io e tu, presente e passato. Ma dal punto di vista formale – e per la problematica di Ibsen, Strindberg
e Čechov – ciò significa che il dramma lirico non conosce una differenza tra monologo e dialogo, per
cui il tema della solitudine non mette in discussione il dramma lirico stesso. Il linguaggio drammatico
è strettamente riferito all’azione, che si svolge in un presente continuo; e perciò l’analisi del passato
è in contraddizione con la forma drammatica. Nella lirica, invece, i tempi si fondono, il passato è
anche il presente e il linguaggio non è anche un fatto tematico che ha bisogno di motivazione e può
essere interrotto dal silenzio. La lirica è in se stessa linguaggio, e perciò, nel dramma lirico,
linguaggio e azione non coincidono necessariamente. Quando, a proposito delle opere liriche
giovanili di Hofmannsthal, Kassner scrive che «si può correre per cosí dire col dito fra la parola e
l’azione e separare l’una dall’altra» 5, vuol dire proprio questo. Essendo indipendente dall’azione, il
linguaggio lirico può coprire gli abissi e le fratture nella vicenda, in cui si rivela, altrove, la crisi del
dramma.
Una trattazione adeguata di Hofmannsthal, che ne Il folle e la morte, Ieri e Le nozze di Sobeide
condivide ampiamente la tematica di Ibsen, di Strindberg e di Čechov, esigerebbe un’estensione
dell’indagine al campo della critica stilistica. Per lo stesso motivo dovremo trascurare anche l’opera
di T. S. Eliot, la cui Riunione di famiglia sviluppa in senso lirico la tecnica analitica di Ibsen 6, e anche
quella di altri autori come Giraudoux 7.
1
LUKÁCS ,
2
HEGEL ,
Die Theorie des Romans cit., p. 127 (trad. it., p. 174).
Vorlesungen über die Ästhetik, in Aesthetik cit., vol. XIV, p. 324 (trad. it., p. 1374).
3
Cfr. il mio Friedrich Schlegel und die romantische Ironie, con un’appendice su Ludwig Tieck, in Satz und
Gegensatz, Frankfurt am Main 1964.
4
STAIGER , Grundbegriffe der Poetik cit., p. 66.
5
R. KASSNER, Das physiognomische Weltbild, ed ivi: Erinnerungen an Hofmannsthal, München 1930, p. 257.
6
Su Eliot cfr. R. PEACOCK, The Poet in the Theatre, London 1946.
7
Cfr. il mio Zu Giraudoux’ Amphitryon 38, in «Neophilologus», 1957.
III.
Tentativi di salvataggio
VI.
Gli ultimi drammi tedeschi che sono ancora tali furono scritti da Gerhart Hauptmann: si pensi a Il
vetturale Henschel (1898), a Rose Bernd (1903) e a I topi (1911). Ma ciò che permette questa tarda
riuscita è il NATURALISMO, delle cui tendenze conservatrici nel campo della drammaturgia abbiamo già
avuto modo di parlare brevemente a proposito di Strindberg 1.
Il dramma naturalista sceglieva i suoi protagonisti negli strati inferiori della società. Qui esso
trovava esseri umani dotati di una volontà indomita, che sapevano battersi con tutte le loro forze per
un’impresa a cui erano spinti dalla passione; esseri umani che nessuna differenza fondamentale
separava gli uni dagli altri: né il riferimento all’io, né la riflessione. Erano esseri ben in grado di
reggere un dramma, per sua natura limitato all’accadere intersoggettivo sempre attuale. Al divario
sociale fra gli strati inferiori e quelli superiori della società corrispondeva quindi un divario
drammaturgico: la capacità o meno di reggere un dramma. Il verbo naturalistico, che in buona fede
proclamava che il dramma non è proprietà esclusiva della borghesia, celava l’amara constatazione
del fatto che la borghesia aveva perso da tempo il possesso del dramma. Si trattava di salvare il
dramma. Poiché ci si rendeva conto della crisi del dramma borghese (Hauptmann in Festa di pace
[1890], I solitari [1891], Michael Kramer [1900], ecc.), si fuggiva dal proprio tempo. Ma non ci si
rifugiava nel passato, ma in un presente estraneo. Scendendo i gradini della scala sociale, si
scoprivano elementi arcaici nel presente; si faceva girare indietro la lancetta sul quadrante dello
spirito oggettivo, e cosí facendo l’adepto del naturalismo diventava un autore «moderno». Mentre nel
diciottesimo secolo il passaggio del dramma dall’aristocrazia alla borghesia corrispondeva a un
processo storico, l’introduzione naturalistica del proletariato nel dramma, che ha luogo verso il 1900,
intende invece sfuggire a quel processo.
Questa è la dialettica storica del dramma naturalistico. Ma esso ha anche una dialettica
drammaturgica. Il distacco sociale, che solo rende possibile il dramma del naturalismo, gli si rivela
fatale come distacco drammatico. Il fatto stesso che sia stato possibile imperniare l’opera
hauptmanniana intorno alla categoria della compassione, ribadisce – anziché smentirla – la tesi che
Hauptmann si colloca di fronte alle sue creature in qualità di osservatore, e non è dietro di loro, in
loro. Poiché la compassione presuppone appunto una distanza; quella distanza che essa abolisce. Il
vero autore drammatico – al pari dello spettatore – non si trova affatto in una posizione di distacco
rispetto alle dramatis personae; è tutt’uno con esse o rimane del tutto fuori dell’opera. Questa
identità fra autore, spettatore e dramatis personae diviene possibile perché i soggetti del dramma
sono sempre proiezioni del soggetto storico: essi coincidono con lo stato della coscienza. In questo
senso ogni vero dramma è lo specchio del suo tempo, e nei suoi personaggi si riflette quello strato
sociale che forma per cosí dire l’avanguardia dello spirito oggettivo. Per questo motivo non esiste un
vero dramma storico. Quello mitologico-storico del classicismo francese era il dramma
dell’aristocrazia e del re. L’accostamento fra Olimpo e Corte compiuto nell’Anfitrione di Molière non è
un caso piccante isolato, ma esprime il rapporto storico-spirituale dell’epoca anche nei confronti
della tragédie classique. E la massima fedeltà storica nella riproduzione dei discorsi parlamentari
non impedisce, ad esempio, a Büchner di far perire Danton di quella noia che appare storicamente
solo dopo la caduta di Napoleone, e che diventa l’esperienza piú personale dello stesso Büchner
quando si rende conto dell’inattualità del suo programma rivoluzionario. (Sui rapporti fra la noia e la
situazione postnapoleonica ci informano soprattutto le opere di Stendhal). Nel dramma naturalistico,
che evita la fuga nella storia grazie agli anacronismi del presente, non si riflette, però, né la
borghesia a cavallo del secolo, né la classe da cui attinge i suoi personaggi, ma una delle due classi
osserva l’altra: l’autore borghese e la borghesia, che costituisce il suo pubblico, osservano la classe
contadina e il proletariato. Questo distacco ha le sue ripercussioni negative sul piano drammatico.
L’analisi dei Tessitori ha mostrato che il linguaggio naturalistico presuppone l’io epico. A questo
problema si ricollega quello dell’«ambiente». La riproduzione dell’ambiente non si lascia dedurre
semplicemente dal programma naturalistico. Essa non indica solo l’intenzione dell’autore, ma anche
il suo punto di vista. Lo sfondo delle persone che agiscono, l’atmosfera in cui si muovono, si rivela
solo all’autore che sta di fronte ad esse o che le visita come estraneo: in una parola al narratore
epico. Questa relativizzazione del dramma di fronte al narratore epico, che esso presuppone in
quanto dramma naturalistico, si riflette, al suo interno, come relativizzazione dei personaggi di fronte
all’ambiente, che appare estraniato ad essi. La tanto vilipesa «astrattezza» della tragédie classique, e
il limitarsi del suo linguaggio a un lessico scelto, corrisponde perfettamente al principio formale
drammatico. L’astrattezza fa emergere con somma purezza ciò che si svolge attualmente fra gli
uomini; il lessico ridotto diventa, per cosí dire, possesso esclusivo del dramma e non lo rimanda fuori
di sé all’empiria, come accade invece al dramma naturalistico.
Qualcosa di simile si può mostrare infine nell’azione. L’azione del dramma naturalistico appartiene
per lo piú al genere «fait divers». Il fait divers è l’accadere estraniato al suo terreno, in se stesso
abbastanza interessante per essere riferito. L’identità dei protagonisti è quindi irrilevante: è un fatto
essenzialmente anonimo. I dati forniti dai giornali, come ad esempio: «Pauline Piperkarcka,
domestica, anni venti, abitante a Berlino-Nord», servono solo ad attestare l’autenticità del fait divers.
Il rifluire dell’azione nell’interiorità dei soggetti, l’oggettivarsi di questa interiorità nell’azione – come
esige Hegel per la drammaturgia –, è reso impossibile, in questo caso, dalla natura stessa del fait
divers. Ecco perché esso non può mai essere pienamente inserito nel dramma naturalistico. Esso
costituisce, all’interno di esso, un’azione, per cosí dire, rappresa, che non si lascia mai integrare
perfettamente ai caratteri e al loro ambiente. La dissociazione fra ambiente, carattere ed azione nel
dramma naturalistico, la reciproca estraniazione in cui essi si manifestano, esclude la possibilità di
una fusione omogenea dei vari elementi in un movimento globale assoluto, com’è quello richiesto dal
dramma. Lo sbriciolamento che caratterizza quasi tutti i drammi naturalistici di Hauptmann, e piú di
tutti forse Il gallo rosso (1901), ha le sue radici in questa problematica, che a sua volta potrebbe
trovare una soluzione solo nel campo dell’epica; nella coesione, cioè, dei piú disparati elementi ad
opera dell’io epico.
Cosí la drammaturgia del naturalismo, in cui la forma drammatica cerca di sopravvivere alla crisi
determinata dalla storia, è – per quello stesso distacco dalla borghesia che le consente di salvare il
dramma – sempre in pericolo di rovesciarsi in epica.
VII.
Un secondo tentativo di salvataggio prende le mosse dal dialogo. Si è già visto qual è il pericolo
che lo minaccia: venendo meno il rapporto intersoggettivo, il dialogo si spezza in monologhi;
predominando il passato, diventa la sede monologica del ricordo.
Il tentativo di salvare il dramma salvando il dialogo si rifà all’opinione, un tempo assai diffusa
nell’ambiente teatrale, che autore drammatico è chi sa scrivere un buon dialogo. Si pensa di poter
garantire un «buon dialogo» separandolo dalla soggettività le cui forme storiche lo minacciano. Se
nel dramma autentico il dialogo è lo spazio comune in cui si oggettiva l’interiorità delle dramatis
personae, qui esso viene estraniato ai soggetti e appare come qualcosa di autonomo. Il dialogo
diventa conversazione.
Il DRAMMA-CONVERSAZIONE domina la drammaturgia europea, specie inglese e francese, dalla seconda
metà dell’Ottocento. Come well-made-play, o pièce bien faite, esso prova le proprie qualità
drammaturgiche e nasconde cosí quella che è la sua vera natura: la parodia involontaria del dramma
classico. La sua negatività, il fatto cioè che esso, separato dal soggetto, è incapace di espressione
soggettiva, si rovescia in qualcosa di positivo in quanto lo spazio dialogico rimasto vuoto si riempie di
temi d’attualità. Il dramma-conversazione dibatte problemi come quello del diritto di voto delle
donne, del libero amore, del divorzio, della mésalliance, dell’industrializzazione, del socialismo. Cosí,
ciò che in realtà si oppone al progresso storico acquista una parvenza di modernità. Moderno e
insieme esemplarmente drammatico, il dramma-conversazione rappresentava, all’inizio di questo
secolo, la norma della drammaturgia; il teatro che cercava nuove forme per esprimere cose nuove
doveva faticosamente staccarsene ed era confrontato criticamente ad esso. Solo in Germania il
cammino verso le soluzioni epiche della crisi non era chiuso dalle barriere del drammaconversazione, divenuto accademico, poiché non c’era una società tedesca e uno stile di
conversazione tedesco.
Ma non bisogna trascurare il fatto che l’aspetto esemplarmente drammatico del drammaconversazione era piú apparente che reale. L’assolutizzazione del dialogo a conversazione si paga non
solo sul piano qualitativo, ma anche su quello puramente drammatico. La conversazione, oscillando
fra gli uomini, invece di legarli è essa stessa non-vincolante. Il dialogo drammatico è irrevocabile,
grave di conseguenze in ognuna delle sue battute. Come successione causale esso crea un tempo
proprio e si stacca cosí dal corso del tempo. Di qui l’assolutezza del dramma. La conversazione è
diversa. Essa non ha un’origine soggettiva né uno scopo oggettivo; non porta oltre, non trapassa in
un’azione. Perciò non ha neppure un tempo proprio, e partecipa invece al decorso «reale» del tempo.
Non avendo un’origine soggettiva, non può definire e caratterizzare individui. Come il suo tema non è
che una citazione della problematica del giorno, cosí essa cita, nelle dramatis personae, i tipi della
società reale. La tipologia della Commedia dell’arte è una tipologia interna al dramma, si riferisce ad
una realtà estetica e non rinvia, quindi, oltre i limiti del dramma. La tipologia del drammaconversazione risale invece a una tipizzazione sociale, e contrasta quindi all’esigenza di assolutezza
della forma drammatica. Poiché la conversazione non impegna, non può trapassare in azione. L’azione
di cui il dramma a tesi ha pur bisogno per potersi presentare come well-made-play, è presa a prestito
dall’esterno. Capita al dramma, senza alcuna motivazione, in forma di avvenimenti inattesi: e anche
questo contribuisce a distruggere la sua assolutezza.
Il carattere puramente esteriore della sua drammaticità, che si aggiunge alla nullità tematica,
giustifica appieno l’inserzione del dramma a tesi nel quadro di quella serie di tentativi di salvataggio
del dramma che non osano affrontarne di petto la crisi. Ma in questa critica radicale del drammaconversazione non bisogna trascurare del tutto le sue possibilità positive; che si rivelano quando la
conversazione si guarda allo specchio, quando passa da un impiego meramente formale a un impiego
tematico.
Sul duplice terreno del dramma-conversazione e della commedia di carattere si erge quella che si
può ben ritenere l’opera teatrale piú perfetta della letteratura tedesca moderna: Il difficile (1918) di
Hofmannsthal. Quest’opera si sottrae al vuoto e a una tematica d’accatto non solo perché la nobile
società viennese che essa ritrae vive essenzialmente nella conversazione; ma anche perché la
conversazione è approfondita e trasformata dal protagonista, il conte Bühl, che è il solo personaggio
moderno nella galleria dei caratteri della grande commedia. In lui la conversazione diventa tematica,
e dai problemi che essa pone emerge la problematicità del dialogo, anzi della lingua stessa 2.
In modo diverso il linguaggio corrente francese si condensa in Aspettando Godot (1952) di Samuel
Beckett. La limitazione – altrimenti solo formale – del dramma alla conversazione, diventa qui
tematica: per gli uomini che aspettano Godot, questo deus non solo absconditus ma anche dubitabilis,
non resta, a conferma della loro esistenza, che il vuoto conversare. Ma nel vuoto spazio metafisico,
che fa diventare ogni cosa significativa, la conversazione priva di senso, che tende perennemente
all’abisso del silenzio, e gli è sempre di nuovo e faticosamente estorta, è in grado di rivelare la
«misère de l’homme sans Dieu». È vero che, a questo stadio, la forma drammatica non cela piú una
contraddizione critica, e la conversazione non è piú un mezzo per superarla. Tutto è a pezzi: il
dialogo, l’insieme formale, l’esistenza umana. Valore espressivo, spetta piú solo alla negatività:
all’automaticità senza senso del discorso e al mancato adempimento della forma drammatica. Vi si
esprime la negatività di un’esistenza in attesa, che ha bisogno della trascendenza ma non ne è
capace.
VIII.
Il fatto che, a partire dal 1880, autori drammatici come Strindberg, Zola, Schnitzler, Maeterlinck,
Hofmannsthal, Wedekind e piú tardi O’Neill, W. B. Yeats ed altri, si dedichino all’ATTO UNICO, non
indica solo che la forma tradizionale del dramma appariva loro problematica, ma è già spesso il
tentativo di salvare da questa crisi lo stile «drammatico» come stile della tensione rivolto al futuro.
Il momento della tensione, il momento dell’«autoanticipazione» (E. Staiger), è ancorato, nel
dramma, all’accadere intersoggettivo. È, in fin dei conti, l’elemento futuro che è essenziale alla
dialettica interumana in quanto tale. Il rapporto intersoggettivo nel dramma è sempre unità di
opposizioni che tendono alla loro risoluzione. La coscienza della necessità di questa risoluzione, il
pensiero e l’azione anticipatrice delle dramatis personae per determinarla o per impedirla, dànno
luogo alla tensione drammatica, che dev’essere distinta – ad esempio – dalla tensione di fronte ai
segni premonitori di una catastrofe. Il fatto che il momento della tensione affondi le sue radici nella
dialettica del rapporto intersoggettivo spiega perché la crisi del dramma implichi di necessità anche
la crisi dello stile «drammatico» nel teatro moderno. Isolamento e solitudine come si presentano
tematicamente in Ibsen, Čechov e Strindberg, acutizzano bensí i contrasti fra gli uomini, ma
annullano anche l’impulso ad eliminarli. Mentre l’impotenza dell’uomo, come è descritta da
Hauptmann e Zola sul piano sociale e da Maeterlinck su quello metafisico, non lascia piú affiorare
contrasti e porta all’unità priva di dialettica di una comunità soggetta allo stesso destino. Si aggiunga
che l’isolamento degli esseri umani porta, per lo piú, con sé l’«astrazione e intellettualizzazione dei
loro conflitti»; onde i contrasti acuiti fra gli esseri umani isolati sono già sempre, in un certo senso,
superati in virtú dell’obbiettività prodotta dall’intellettualizzazione 3.
I drammi di Čechov e di Hauptmann attestano la scomparsa della tensione in seguito a questi
processi. Ma è nell’opera drammatica di Strindberg che risulta nel modo piú chiaro come l’atto unico
abbia il compito di permettere al teatro di raggiungere la tensione al di fuori del rapporto
intersoggettivo. Si è già detto della posizione degli Undici atti unici (1888-92) tra Il padre (1887) e il
«dramma a tappe» Verso Damasco I-III (1897-904) 4. Nel Padre appare chiaro che la forma
tradizionale di svolgimento dell’azione non corrisponde piú alla drammaturgia soggettiva. Tutto è
visto in funzione del Capitano, e la lotta che sua moglie conduce contro di lui è diretta in sostanza dal
Capitano stesso. Il gioco dei contrasti si svolge nell’intimo del Capitano, e non può piú essere
espresso mediante l’intrigo. Ecco perché, nel suo saggio L’atto unico (scritto due anni dopo Il padre,
nel 1889), Strindberg giunge a rifiutare l’intrigo e quindi «la pièce che occupa un’intera serata»:
«Una scena, un quart d’heure: sembra questo ormai il genere di teatro per gli uomini d’oggi…» 5. Ciò
presuppone che l’atto unico differisca non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente dal
dramma «che occupa un’intera serata»: nel modo in cui si svolge l’azione, e – in stretto rapporto con
ciò – nel genere della tensione.
L’atto unico non è un dramma di proporzioni ridotte, ma una parte del dramma che si è eretta a
tutto. Il suo modello è la scena drammatica. Ciò significa che l’atto unico condivide col dramma lo
stesso punto di partenza – la situazione –, ma non l’azione, in cui le decisioni delle dramatis personae
mutano continuamente la situazione originaria e tendono verso la risoluzione finale. Nell’atto unico,
invece, la tensione non scaturisce piú dall’accadere intersoggettivo, ma dev’essere già insita nella
situazione; e non come tensione virtuale, che viene poi realizzata da ogni singola battuta drammatica
(come la tensione nel dramma), ma la situazione stessa deve dare già tutto. Per questo motivo l’atto
unico, se non vuol rinunciare del tutto alla tensione, sceglie la situazione-limite, la situazione che
precede immediatamente la catastrofe, già prossima al levarsi del sipario e che ormai non può piú
essere sventata. La catastrofe è un dato di fatto avvenire; onde non si determina piú la tragica lotta
dell’uomo contro il destino, alla cui oggettività egli possa opporre (nel senso di Schelling 6) la sua
libertà soggettiva. Ciò che lo separa dalla fine è il tempo vuoto, che non può piú essere riempito da
nessuna azione, e nel cui puro spazio – teso verso la catastrofe – egli è condannato a vivere. Cosí
l’atto unico si rivela, anche in questo aspetto formale, come il dramma dell’uomo non-libero. L’epoca
in cui nacque era quella del determinismo, che unisce gli autori drammatici che lo adottarono al di là
delle differenze stilistiche e tematiche; che unisce, ad esempio, il simbolista Maeterlinck e il
naturalista Strindberg.
Degli atti unici di Maeterlinck – i drames statiques – abbiamo già parlato. Ci resta solo da rilevare
il tratto «drammatico» che essi devono alla situazione catastrofica. Nulla sarebbe piú errato che
inferire dalla loro staticità, che Maeterlinck accentuò programmaticamente, e dalla loro segreta
struttura epica, la mancanza di quella tensione che deve contrassegnare il dramma come tale.
L’impotenza degli uomini esclude bensí l’azione e la lotta, e perciò anche la tensione intersoggettiva;
ma non esclude la tensione della situazione in cui sono messi, e che subiscono come vittime. Il tempo
carico di tensione, in cui non può piú accadere nulla, è riempito dalla paura affiorante e dalla
riflessione sulla morte. Ne I ciechi e in Interno esso non è piú neppure segnato dall’approssimarsi
della morte, perché anch’essa è già stata; e l’intervallo di tempo è solo quello in cui la si apprende. E
il tempo – come sempre quando non si realizza nell’azione – appare qui spazializzato: come via della
conoscenza ne I ciechi, come via del messaggio in Interno. Ciò si realizza, scenicamente, nel
progressivo annullamento della distanza fra i ciechi e la loro guida morta, che è già da tempo in
mezzo a loro; e nella separazione fra la casa, apparentemente sicura, dove la famiglia attende
tranquillamente la notte, e il giardino, dove due esseri umani sanno già del suicidio della figlia, ma
esitano a varcare la barriera dando la notizia della morte. E il sipario cala quando il cammino della
conoscenza o del messaggio è stato percorso fino in fondo, quando si viene a sapere dell’avvenuta
catastrofe, quando è scoperta la premessa (il «Vor-Wurf», secondo l’espressione di E. Staiger) che
determinava la tensione.
Non è dissimile dai drames statiques, nella sua concezione di base, l’atto unico di Strindberg Prima
della morte (1892), che prolunga la linea tematica del Padre, e si può anzi considerare la
trasposizione di questo dramma nella forma dell’atto unico, che, in quel periodo della sua attività,
Strindberg riteneva potesse essere «la formula del dramma di domani» 7. Dove le differenze
permettono di capire che cosa distingue essenzialmente l’atto unico dalla «pièce che occupa
un’intera serata», e perché esso possa prendere il posto del dramma divenuto ormai problematico. Il
signor Durand, «direttore di una pensione ed ex impiegato delle ferrovie statali», è «l’uomo
nell’inferno femminile», come il Capitano nel Padre. Ma essendo vedovo non ha piú nessun
antagonista; dove si esprime la rinuncia di Strindberg all’intrigo e insieme l’accostarsi dell’atto unico
– che non conosce piú accadere alcuno – alla «tecnica analitica». Il cosiddetto «inferno femminile» è
costituito dalle figlie del signor Durand, che la madre ha educato contro di lui. Ma la sua rovina
incombe dall’esterno, e non dalle figlie: la pensione che egli dirige è prossima al fallimento. Dove si
esprime la sostituzione dell’intersoggettività con l’oggettività, e la nuova fondazione della tensione
drammatica, che è determinata dalla situazione e non piú dal conflitto fra un uomo e l’altro. È vero
che Strindberg non ci rappresenta il suo eroe in un’assoluta impotenza. Durand evita la bancarotta
dando fuoco alla casa e avvelenandosi, perché le figlie, riscuotendo il premio di assicurazione,
vengano a trovarsi in buone condizioni economiche; ma l’«azione» dell’atto unico non è una serie di
eventi che sfocino nella decisione del suicidio, né l’evoluzione psichica che la precede, bensí la
descrizione di una vita familiare minata dall’odio e dalla rivalità, l’analisi ibseniana di un matrimonio
infelice, che acquista efficacia «drammatica» nella tensione della catastrofe imminente, anche senza
l’aggiunta di una nuova azione.
In altri atti unici di Strindberg, come Paria, Giocare col fuoco, Creditori, che si possono tutti
definire «drammi analitici» senza azione presente secondaria, manca anche il momento di tensione
della catastrofe incombente. La precipitazione drammatica nasce qui – è inutile nasconderlo –
dall’impazienza del lettore o dello spettatore, che non tollera piú l’atmosfera infernale che gli si
rivela e fin dalle prime battute precorre col pensiero la fine, da cui spera la liberazione – se non per i
personaggi del dramma – almeno per se stesso.
Ma bisogna ricordare anche qui che la forma dell’atto unico è stata adottata, nell’opera di
Strindberg, in un momento di crisi. La comprensione del fatto che la drammaturgia soggettiva,
rifiutando la rappresentazione diretta dell’accadere intersoggettivo, deve rinunciare anche allo stile
della tensione, porterà Strindberg, dopo una pausa di cinque anni, alla tecnica epica dello
«Stationendrama».
IX.
La crisi del dramma nella seconda metà del secolo decimonono va attribuita anche – e non da
ultimo – alle forze che fanno uscire gli uomini dal rapporto intersoggettivo e li spingono
nell’isolamento. Ma lo stile drammatico messo in crisi da questo isolamento è in grado di
sopravvivergli, se gli esseri umani isolati, a cui formalmente dovrebbe corrispondere il silenzio,
oppure il monologo, sono costretti, da fattori esterni, a ritornare alla dialogicità del rapporto
intersoggettivo. Ciò accade nella situazione di angustia, che è alla base di quasi tutti i drammi
moderni sfuggiti all’epicizzazione.
La sua origine storica va ricercata nella tragedia borghese. Nella sua prefazione a Maria
Maddalena (1844) Hebbel indicava «l’elemento intimo e specifico» di essa nella «chiusura brutale
con cui individui incapaci di ogni dialettica stanno l’uno di fronte all’altro in una cerchia
ristrettissima…» 8. Ci si chiede se Hebbel si rendesse conto di aver toccato, in questa enunciazione,
sia la crisi che il salvataggio della forma drammatica. Ma la «chiusura» e l’incapacità di ogni
«dialettica» (intersoggettiva) annullerebbe la possibilità del dramma, che vive delle decisioni di
individui aperti l’uno verso l’altro, se la «cerchia ristrettissima» non spezzasse a forza questa
chiusura, se fra gli esseri umani isolati, ma legati l’uno all’altro, e i cui discorsi aprono ferite nella
chiusura altrui, non si determinasse una seconda dialettica imposta loro a forza dall’esterno.
L’angustia che qui vige nega agli uomini lo spazio di cui avrebbero bisogno per poter essere soli coi
loro monologhi o in silenzio con se stessi. Il discorso dell’uno ferisce letteralmente l’altro, ne infrange
la chiusura e lo costringe a rispondere. Lo stile drammatico, minacciato di distruzione
dall’impossibilità del dialogo, si salva quando, nella situazione di angustia, il monologo stesso diventa
impossibile e si ritrasforma necessariamente in dialogo.
Sulla base di questa dialettica tra monologo e dialogo sono sorte opere come La danza macabra
(1901) di Strindberg e La casa di Bernarda Alba (1936) di Lorca. Bernarda Alba, rimasta vedova,
trasforma la propria casa in un carcere di lutto per le cinque figlie. «Per tutti gli otto anni che durerà
il lutto, – essa dice all’inizio, – non entrerà in questa casa il vento della via. Facciamo conto di aver
murato coi mattoni porte e finestre. Cosí fu in casa di mio padre, cosí in casa di mio nonno» 9. Nel
secondo atto si vede «una stanza bianca. Le figlie di Bernarda sono sedute su sedie basse». Quando
si accorgono dell’assenza di Adele, la piú giovane, Maddalena esce a cercarla. Poi:
Maddalena entra con Adele.
Dunque non dormivi?
Non mi sento bene.
MARTIRIO (con intenzione) Non hai dormito bene stanotte?
ADELE Sí.
MARTIRIO E allora?
ADELE (con forza) Lasciami in pace! Se dormo o veglio, non devi impicciarti dei fatti miei. Del mio
corpo ne faccio quel che mi pare!
MARTIRIO Era solo interessamento verso di te.
ADELE Interessamento o spirito d’inquisizione? Non stavate cucendo? Continuate a cucire. Ah, come
vorrei essere invisibile e passare per le stanze senza che mi domandiate ogni volta dove vado! 10.
MADDALENA
ADELE
Il dramma di epoche precedenti non aveva conosciuto nulla di simile. Il rapporto intersoggettivo e
la sua estrinsecazione linguistica, il dialogo, il domandare e rispondere, non erano qualcosa di
penosamente problematico, ma erano la naturale cornice formale in cui si muoveva la tematica
attuale. Ma qui questa premessa formale del dramma diviene essa stessa tematica. Il problema che
viene a porsi cosí all’autore drammatico, fu visto forse per la prima volta da Rudolf Kassner. In uno
dei suoi primi saggi egli scrive a proposito dei personaggi di Hebbel: «Essi somigliano, in realtà, a
uomini che siano stati a lungo soli con se stessi in silenzio, e che ora improvvisamente siano costretti
a parlare. Qui il parlare è generalmente piú facile al poeta che all’uomo, e perciò il poeta deve
prendere spesso direttamente la parola dove vorremmo che a parlare fossero solo le sue creature» 11;
dove Kassner anticipa già l’epicizzazione del dramma, l’inclusione nel dramma dell’autore che prende
la parola come io epico. E piú oltre: «Di questi uomini si può dire che sono dei dialettici nati, ma che
lo sono solo alla superficie e contro la loro volontà; in fondo e prima di tutto, in tutti questi
personaggi, si sente l’uomo che è stato a lungo con se stesso, senza parole, l’uomo che potrebbe
anche assistere al gioco in cui lo fa entrare l’autore» 12.
Dove si accenna di nuovo all’attività dell’autore drammatico, che diventerà visibile solo all’epoca
della crisi del dramma. Essa appare ancor piú evidente nelle opere la cui angustia tematica è un
elemento secondario, un espediente formale per rendere possibile il dramma. L’angustia si giustifica
solo se appartiene essenzialmente alla vita degli uomini di cui permette la rappresentazione
drammatica. È questo il caso della tragedia borghese, del dramma coniugale di Strindberg, del
dramma delle convenzioni sociali (Lorca). Poiché questa angustia determina la sorte delle dramatis
personae, poiché non c’è frattura fra i personaggi e la loro situazione, in queste opere l’autore
drammatico non si fa avanti. Diversamente accade in molte opere drammatiche piú recenti, dove i
personaggi – mercè un atto drammaturgico precedente il dramma – sono trasferiti in una situazione
di angustia che non è affatto caratteristica per essi, ma che sola consente loro di figurare in un
dramma. Sono le opere il cui luogo d’azione è una prigione, una casa sprangata, un nascondiglio, una
postazione militare isolata. La riproduzione della particolare atmosfera di tali luoghi non deve trarre
in inganno sulla loro funzione formale. E lo stile drammatico che essi rendono possibile, è anche qui,
come nel dramma-conversazione, piú apparente che reale. Poiché l’assolutezza di queste situazioni
accidentali di angustia è annullata dalle dramatis personae stesse, che, da questa situazione ad esse
esterna, rinviano alle loro origini epiche, come anche dall’autore drammatico, che, in quanto
soggetto dell’unione forzata dei personaggi, rimane incluso nell’opera. La drammaticità interna è
pagata, per cosí dire, con un’epicità esterna; nasce il dramma in una boccia di vetro. La
Guckkastenbühne, o palcoscenico stereoscopico, che nel dramma classico ha il compito di creare una
sfera chiusa, perché la realtà – ridotta al rapporto intersoggettivo – possa riflettersi in essa, diventa
un bastione eretto contro l’epicità del mondo esterno, un alambicco; ciò che vi accade non è piú un
rispecchiamento, ma una metamorfosi – mercè quello che si potrebbe chiamare «esperimento
drammaturgico di compressione». Questa drammaturgia è afflitta dall’artificiosità di simili
costruzioni; troppo si richiede per renderla formalmente possibile, perché l’ambito tematico non ne
soffra. Questo tipo di salvataggio dello stile drammatico può trovare una giustificazione artistica solo
se arriva a liberarsi della sua artificiosità. È ciò che sembra riuscire nelle opere drammatiche
dell’ESISTENZIALISMO .
L’esistenzialismo – come concezione del mondo e come letteratura – è il tentativo, per quanto
problematico, di raggiungere una nuova classicità che dovrebbe superare in sé il naturalismo. Per lo
spirito classico come per lo stile classico, la limitazione all’umano era essenziale: la filosofia classica
era umanistica, al suo centro era il concetto di libertà, e lo stile classico si realizzava compiutamente
in quelle arti il cui principio formale è costituito solo dall’uomo: nella tragedia e nell’arte plastica.
Il naturalismo è sempre una fase tarda nel processo di reificazione, e intorno al 1900, prima di
spezzare i loro principî formali, che risalivano al Medioevo, sia il romanzo che la pittura erano
naturalistici. Il dramma, facendosi naturalistico, si accostava al romanzo; la sua scena era un quadro
di genere.
La categoria centrale del naturalismo è l’ambiente: l’insieme di tutto ciò che è estraneo all’uomo, e
sotto il cui dominio finisce per cadere la soggettività stessa, svuotata dall’interno.
L’esistenzialismo cerca di ritornare al classicismo spezzando il rapporto di dominio fra l’ambiente e
l’uomo, e radicalizzando l’estraniazione. L’ambiente si trasforma nella situazione; l’uomo, non piú
legato all’ambiente, è libero in una situazione che gli è estranea e che pure è specificamente sua. Ma
libero non solo in senso privativo; poiché egli conferma la sua libertà – secondo l’imperativo
esistenzialistico dell’engagement – solo risolvendosi alla situazione e fissandosi in essa.
L’affinità fra esistenzialismo e classicismo si basa sulla restaurazione del concetto di libertà, ed è
proprio questa restaurazione che sembra permettere all’esistenzialismo il salvataggio dello stile
drammatico. E la drammaturgia esistenzialista si avvicina proprio ai tentativi di salvare il dramma
dall’epicizzazione creando situazioni di angustia. Grazie a una singolare coincidenza fra i momenti
formali di questi tentativi e le intenzioni tematiche del drammaturgo esistenzialista, la forma, vuota
fino a quel momento, diventa, in questa associazione, espressione formale, e libera – cosí – dalla sua
artificiosità la drammaturgia dell’angustia.
Questa artificiosità dipendeva dal fatto che i personaggi erano trasferiti dal drammaturgo in una
situazione di angustia antecedente all’opera, e dal carattere accidentale di tale situazione. In base
alle sue premesse spirituali, l’esistenzialismo giunge proprio ad esigere, nel dramma, quel
trasferimento e questa accidentalità. Poiché la sua tematica – l’estraneità essenziale della situazione
e la perenne «deiezione» dell’uomo – può realizzarsi drammaticamente solo in un’azione
caratterizzata da questi tratti comuni – secondo l’esistenzialismo – alla condizione umana.
L’estraneità essenziale di ogni situazione deve trasformarsi nell’estraneità accidentale della
situazione rappresentata. Ecco perché il drammaturgo esistenzialista mostra gli uomini non nel loro
ambiente «abituale» (come il drammaturgo naturalista mostrava gli uomini nel loro milieu), ma li
trasporta in un ambiente nuovo. Questo trasferimento, che ripete – per cosí dire – come esperimento
la «deiezione» metafisica, fa apparire i fattori esistenziali, «i caratteri ontologici dell’esistenza»
(Heidegger), straniati in esperienze specifiche e determinate delle dramatis personae.
Questa idea fondamentale è alla base di quasi tutte le opere di J.-P. Sartre. Nella sua prima opera,
Le mosche (1945 ), l’antica vicenda di Elettra è reinterpretata nel senso di un esperimento
esistenzialista. Cresciuto lontano dalla patria, Oreste torna straniero nel luogo della sua nascita,
come l’uomo – secondo l’insegnamento dell’esistenzialismo – viene al mondo come uno straniero, gli
si «aggiunge». Per non essere piú uno straniero, Oreste giunto ad Argo deve confermare la sua
libertà apriori, legandosi e rinunciando da uomo libero alla sua libertà. Egli vendica Agamennone e
libera la città dalle Mosche-Erinni, diventando assassino e – come assassino – legando le Mosche a
sé. Morti senza tomba (1946) ci presenta sei membri di un gruppo di resistenza durante l’arresto; Le
mani sporche (1948) trasporta un giovane borghese nel partito comunista. Ma l’opera che presenta
l’equilibrio piú perfetto fra trasferimento drammaturgico ed esistenzialistico e che meglio rivela la
sostanziale affinità fra la drammaturgia dell’angustia e quella esistenzialistica, è A porte chiuse
(1944).
Già il titolo allude all’esperimento in uno spazio ermeticamente chiuso. Il luogo dell’azione è un
«salotto stile secondo Impero» nell’inferno. Il fatto che un’opera profana si svolga all’inferno e lo
descriva come un salotto si spiega solo col «metodo d’inversione», che G. Anders ha illustrato su
opere di Esopo, Brecht e Kafka 13. In forma secolarizzata, Sartre vuol dire che la vita sociale è
l’inferno; ma inverte la predicazione e ci mostra l’inferno come «un salotto stile Impero», dove il
protagonista, poco prima che cali il sipario, pronuncia la battuta-chiave «L’enfer, c’est les autres» 14.
Mercè questa inversione una categoria esistenziale divenuta problematica, quella per cui l’uomo è un
uomo fra gli uomini, e che sola fonda la vita sociale e la possibilità di un salotto, viene «straniata» e
sperimentata come qualcosa di nuovo nella situazione «trascendentale» dell’inferno.
Formalmente ciò tocca anche la crisi del dramma. Quando la socialità dell’uomo come categoria
esistenziale diventa problematica, è messo in discussione anche il principio formale drammatico, il
rapporto intersoggettivo. Ma l’inversione è anche la salvezza dello stile drammatico. Il rapporto
intersoggettivo, tematicamente in crisi, non è problematico formalmente, grazie all’angustia del
«salotto» chiuso. La differenza sostanziale rispetto alla restante drammaturgia dell’angustia consiste
in ciò, che qui l’inferno non è un apparato meramente formale per rendere possibile il dramma. Al
contrario, mercè la tecnica dell’inversione, si manifesta in esso l’essenza recondita di una forma
sociale, che altrimenti distrugge la possibilità del dramma.
Ma il trasferimento di una situazione «trascendentale» non significa solo il distacco dall’esistenza
umana come tale; esso permette anche uno sguardo retrospettivo alla propria esistenza nella sua
particolarità. A porte chiuse continua quindi la tradizione del «dramma analitico», ma senza quelli
che abbiamo visto essere i difetti di Ibsen. Poiché il fatto di sedere a giudici del proprio passato non
ha qui bisogno di essere motivato con elementi esterni, come l’arrivo di un membro della famiglia,
ma è già implicito nel luogo in cui si svolge l’azione. E lo sguardo retrospettivo non può piú definirsi
epico: poiché il passato è, per i morti, un eterno presente. In ciò A porte chiuse si ricollega a un’altra
tradizione, che è stata forse fondata da Il folle e la morte di Hofmannsthal. L’oggettivarsi della
propria vita trovava la sua espressione adeguata in questo sguardo retrospettivo, reso possibile dalla
morte. L’opera di Hofmannsthal rappresenta l’elemento della riflessione ostile alla vita, del «senso
troppo vigile», proprio in quanto la vita riflessa diventa a sua volta – alle soglie della morte – oggetto
di riflessione (peraltro lirica) 15. Questo mito si aggira come un fantasma, sotto varie forme, in tutta la
letteratura del ventesimo secolo: dalla poesia piú sublime al teatro di boulevard. Nel suo dramma La
sconosciuta di Arras (1935) Salacrou fa rivivere a un suicida «trentacinque anni in una frazione di
secondo», recitati dai personaggi che hanno deciso il corso della sua vita. E nel manifesto
espressionista di T. Däubler, Il nuovo punto di vista (1916), c’è questa frase: «La voce del popolo dice:
chi è impiccato, rivive all’ultimo istante tutta la sua vita. Questo non può essere che espressionismo!»
Cfr. cap. II, § III .
Cfr. E. STAIGER, Der Schwierige, in Meisterwerke deutscher Sprache, Zürich 1943.
3
LUKÁCS , Zur Soziologie des modernen Dramas cit., p. 681.
4
Cfr. cap. II, § III .
5
STRINDBERG , Der Einakter, in Elf Einakter, München 1918, p. 340.
6
SCHELLING , Philosophische Briefe über Dogmatismus und Kriticismus, lettera decima, in Philosophische
Schriften, vol. I, Landshut 1809.
7
STRINDBERG , Der Einakter cit., p. 341.
8
HEBBEL , prefazione alla Maria Maddalena, in Sämtliche Werke, R. M. Werner, vol. XI, Berlin 1904.
9
LORCA , La casa di Bernarda Alba, in id., Teatro, Einaudi, Torino 1959, p. 551.
10
Ibid., p. 411.
11
R. KASSNER, Hebbel, in Motive, Berlin s. d., p. 185. (Anche in Essays, Leipzig 1923).
12
KASSNER , Hebbel cit., p. 186.
13
G. ANDERS, Kafka, Pro und Contra, München 1951.
14
SARTRE , Huis clos, in Théâtre, Paris 1947, p. 167.
15
HOFMANNSTHAL , Der Tor und der Tod, in Gedichte und lyrische Dramen, Stockholm 1946, p. 272.
1
2
IV.
Tentativi di soluzione
X.
La prima importante corrente drammatica del nuovo secolo, e a tutt’oggi la sola a cui abbia aderito
un’intera generazione, non trovò da sé la propria risposta a quella crisi del dramma da cui nasceva,
ma l’attinse dal grande precursore che, negli ultimi anni del secolo scorso, piú di ogni altro si era
allontanato dal dramma. Nella sua forma, la drammaturgia dell’ESPRESSIONISMO tedesco (fra il 1910 e
il 1925 circa) deve molto alla tecnica dello «Stationendrama» di Strindberg. Dove colpisce il fatto che
abbia potuto assurgere a modello proprio l’opera di un poeta che aveva fatto – come nessun altro
prima di lui – un uso per cosí dire privato della scena, disseminandola di frammenti tratti dalla storia
della propria vita. Ma non solo Strindberg supera – in senso universale – la limitazione al proprio io,
conferendole la sua forma adeguata, quella cioè del «dramma a tappe». Il momento dell’anonimità,
della ripetibilità, il momento – in certo qual modo – formale, è già implicito nel suo autoritratto,
nell’immagine del singolo. Di ciò testimonia – fra l’altro – il suo nome in Verso Damasco: lo
Sconosciuto. In questo nome Strindberg, l’autore, coincide con «ognuno», esso è insieme piú
personale e impersonale, piú univoco e polivalente di quanto potrebbe esserlo un nome proprio
fittizio. Ma ciò ha a che fare con la dialettica dell’individuazione come è esposta nei Minima moralia
di T. W. Adorno. «Per quanto reale possa essere l’individuo, – vi si dice, – nel suo rapporto con altri,
concepito come assoluto è una pura astrazione» 1. L’io «diventa tanto piú ricco quanto piú
liberamente si sviluppa nella società e la riflette, mentre la sua definizione e cristallizzazione, che lo
ipostatizza ad origine, non fa che limitarlo, ridurlo e impoverirlo» 2. Ciò che, pur nel suo isolamento,
caratterizza come individuo lo Sconosciuto della trilogia Verso Damasco, sono i residui traumatici
della sua socialità passata, e l’ultima opera di Strindberg, La strada maestra, conferma 3 che –
limitandosi al soggetto – la possibilità di un’espressione soggettiva, ossia originaria, non che
determinarsi è addirittura soppressa.
L’espressionismo assume la tecnica a stazioni di Strindberg come forma drammatica del singolo, di
cui cerca di rappresentare, anziché le azioni interpersonali, il cammino attraverso un mondo che gli è
divenuto estraneo. Abbiamo già parlato a lungo della struttura formale dello «Stationendrama», della
sua epicità, che riflette l’opposizione fra l’io isolato e il mondo che gli è divenuto estraneo. Dobbiamo
ancora accennare alle varie forme dell’isolamento, e al modo in cui il vuoto dell’io isolato si traduce
nella visione e nello stile dell’espressionismo.
Lo «Sconosciuto» di Strindberg torna, nelle opere espressionistiche, nelle vesti de Il figlio
(Hasenclever), Il giovane (Johst), Il mendicante (Sorge); la sua via Verso Damasco diventa La
trasformazione (Toller), la Strada rossa (Csokor), il periodo Dall’alba a mezzanotte (Kaiser). Ciò che
differenzia l’uno dall’altro questi «drammi a tappe» non è certo l’individualità dei loro protagonisti. A
caratterizzarli è piuttosto la sfera particolare in cui introducono il singolo inteso formalmente: il
mondo dell’autorità paterna e quello opposto, senza principî e senza inibizioni, nel Figlio di
Hasenclever; il mondo della guerra ne La trasformazione di Toller; il mondo della metropoli nel
Mendicante di Sorge, in Dall’alba a mezzanotte di Kaiser, e in Tamburi nella notte di Brecht.
Paradossalmente la «drammaturgia dell’io» dell’espressionismo non culmina nella raffigurazione
dell’uomo isolato, ma nella rivelazione spietata della metropoli e dei suoi luoghi di divertimento. Dove
sembra rivelarsi un tratto essenziale di tutta l’arte espressionistica. Poiché il suo limitarsi al soggetto
conduce allo svuotamento del medesimo, ad essa – come linguaggio dell’estremo soggettivismo – è
tolta la possibilità di dire qualcosa di essenziale sul soggetto stesso. E viceversa il vuoto formale
dell’io precipita nel principio stilistico dell’espressionismo, nella «deformazione soggettiva»
dell’oggettività. Perciò l’espressionismo tedesco ha raggiunto i suoi risultati migliori, e
probabilmente imperituri, nelle arti figurative, e soprattutto nel disegno (si pensi agli artisti del
Brücke di Dresda), mentre la sua lirica soggettiva, dove il singolo cercava di superare urlando il
senso del proprio vuoto, è stata presto e giustamente dimenticata. (E la grossa eccezione, in realtà,
non è tale, perché nelle poesie di Trakl sono immagini a trasformarsi in parole). Questa situazione si
riflette all’interno delle opere drammatiche: la tecnica a stazioni fissa bensí in modo formalmente
valido l’isolamento dell’uomo, ma ad espressione tematica non giunge, in essa, l’io isolato, ma il
mondo estraniato a cui l’io si contrappone. Solo nell’autoestraniazione, per cui viene a coincidere con
la oggettività estraniata, il soggetto trova modo di esprimere se stesso 4.
Certo, nella drammaturgia espressionistica, l’uomo si riduce per varie ragioni al singolo. Essa non
si limita alla rappresentazione autobiografica o critica di un isolamento psichico-sociale, come
avviene nel Figlio di Hasenclever, o nei «drammi del reduce» di Toller (Lo sciancato) e di Brecht
(Tamburi nella notte). Anzi, l’isolamento appare anche nei programmi, come nel manifesto di Georg
Kaiser per «il rinnovamento dell’uomo». «La verità piú profonda la trova sempre un uomo solo», si
dice in posizione di rilievo nel manifesto di Kaiser; e i suoi «drammi a tappe» guidano un uomo solo
«rinnovato» attraverso un mondo quasi sempre incomprensivo (Dall’alba a mezzanotte).
L’affrancamento del singolo individuo dal rapporto intersoggettivo corrisponde, infine, anche alla
massima aspirazione dell’espressionismo: intendere e rappresentare l’uomo in base a un’«intuizione
essenziale». Cosí l’isolamento diventa metodo. In uno dei principali scritti teorici dell’espressionismo
si dice:
Ciascun uomo non è piú individuo, non è piú legato al dovere, alla morale, alla società, alla
famiglia. Egli diventa, in quest’arte, ciò che vi è di piú alto e piú misero insieme: egli diventa uomo.
Ecco il nuovo, l’inaudito rispetto alle epoche precedenti. Qui non si ripensa piú, finalmente, la
concezione borghese del mondo. Qui non ci sono piú rapporti che velino l’immagine dell’uomo. Non
piú vicende matrimoniali, tragedie determinate dal contrasto fra convenzione e bisogno di libertà,
drammi d’ambiente, capi severi, ufficiali amanti della bella vita, marionette che, appese ai fili della
psicologia, recitano, ridono, soffrono secondo le leggi, le concezioni, gli errori e i vizi di questa vita
sociale fatta e costruita dagli uomini 5.
L’inevitabile astrattezza e vacuità del singolo, che già si avverte nei «drammi a tappe» di
Strindberg, trova qui una giustificazione e infrastruttura teoretica: l’uomo è consapevolmente
trattato, dall’espressionismo, come una entità astratta. E rinunciando orgogliosamente ai rapporti
intersoggettivi, «ai nessi che velano l’immagine dell’uomo», l’espressionismo rifiuta la forma
drammatica, che del resto si rifiuta da sé al drammaturgo moderno, proprio perché quei nessi si sono
spezzati.
XI.
Nonostante le contraddizioni interne, che essa cela necessariamente come «dramma sociale»,
l’opera di Hauptmann I tessitori resta per decenni, con poche altre opere del naturalismo (come
L’albergo dei poveri di Gor´kij), al vertice della drammaturgia che si propone di rappresentare le
condizioni sociali. Poiché il verdetto di condanna pronunciato dalla tematica sociale sulla forma
drammatica, che è già implicito ne I tessitori, è eseguito negli anni ’20, prima che nell’ambito della
produzione drammatica, in quello piú effimero della regia. Ciò avviene nell’attività di ERWIN PISCATOR,
dal cui libro Il teatro politico (1929), ricco di spunti e come documento e come programma, togliamo
alcuni passi che rientrano nel quadro della nostra ricerca. Questo accenno a fatti della storia del
palcoscenico è giustificato dall’influenza che le messe in scena di Piscator hanno esercitato sugli
autori drammatici dei decenni successivi, come anche dalla genesi negativa dei suoi sforzi dalla
produzione drammatica del suo tempo: «Forse tutto il mio modo di fare il teatro è stato determinato
unicamente da questa mancanza di una produzione drammatica. Certo la mia regia non sarebbe mai
stata cosí invadente, se avessi trovato pronta una produzione drammatica adeguata» 6.
Piscator ha indicato nel naturalismo una delle radici del «teatro politico» 7, e la sua prima messa in
scena de L’albergo dei poveri di Gor´kij, che prende le mosse da problemi analoghi a quelli di Prima
dell’alba e dei Tessitori, presenta già importanti elementi della «rivista politica», in cui – piú tardi –
egli avrebbe risolto il dramma.
In questa sua opera naturalistica giovanile Gor´kij aveva dato un quadro d’ambiente, che era bensí
tipizzato, ma comunque strettamente delimitato secondo le condizioni di allora. Nel 1925 non potevo
piú limitare le mie idee alle misure di una stanzetta in cui vivevano dieci creature infelici, ma dovevo
necessariamente sconfinare negli slums di una moderna metropoli. Era in discussione la miseria del
proletariato come concetto. Per cogliere questo concetto bisognava che ampliassi i limiti del dramma
[…] Proprio i due momenti in cui il dramma subí una rielaborazione in questo senso risultarono piú
efficaci dal punto di vista teatrale: l’inizio, coi rumori di una massa che russa e geme e riempie tutta
la scena, il risveglio di una grande città, i campanelli dei tram, finché il soffitto si abbassa, e il mondo
circostante viene escluso dalla stanza e dalla scena; e il tumulto, non solo nel cortile, una piccola
rissa di carattere privato, ma la ribellione di un quartiere intero contro la polizia, l’insurrezione di
una massa. Cosí, in tutto il lavoro, la mia tendenza è stata quella di far assurgere il dolore del singolo
alla generalità, alla tipicità del tempo presente, sconfinando ogni volta, quand’era possibile (alzando
e abbassando il soffitto), dalla piccola stanzetta nel mondo 8.
Queste modifiche, indubbiamente adeguate alle intenzioni della drammaturgia sociale, toccano la
forma drammatica nella sua essenza: sono rivolte contro la sua assolutezza. La scena attuale, che per
il dramma costituisce un mondo a sé, un microcosmo che si sostituisce al macrocosmo, diventa qui
una «sezione», la cui rappresentazione ha luogo secondo il principio della parte per il tutto. La
relazione che esiste fra la parte e il tutto, il valore esemplificativo del fatto di limitarsi a una stanza e
a una decina di persone, diventa esplicito nell’abbassarsi del soffitto all’inizio. In tal modo la scena
drammatica è messa in rapporto col mondo che la circonda e che essa rappresenta, e insieme è
inserita in un procedimento dimostrativo e relativizzata a un io epico.
Piscator corregge cosí la deformazione operata inevitabilmente dal «dramma sociale» col suo
contrasto di oggettività alienata sul piano tematico e attualità intersoggettiva nel postulato formale.
Il processo storico di reificazione e «socializzazione», che è invertito e annullato dalla trasposizione
drammatica in eventi intersoggettivi 9, viene a ricevere forma adeguata mercè la nuova inversione
operata da Piscator sul piano della regia.
È questo l’intento e la funzione di tutte le innovazioni sceniche di Piscator, che sono alla base della
sua fama.
La dimostrazione convincente può costruirsi solo su una conquista piena e scientifica
dell’argomento; e vi posso giungere solo se – per dirla nel gergo teatrale – mi riesce di superare il
taglio personale di una scena, il carattere esclusivamente individuale e casuale dei personaggi e del
loro destino. E piú precisamente creando una connessione fra l’azione scenica e le grandi forze che
agiscono nella storia. Non è un caso se il protagonista di ogni lavoro diventa l’argomento, la materia
stessa. Essa fornisce la necessità, la legge scientifica della vita, da cui soltanto il destino privato
attinge un significato superiore 10.
L’uomo sulla scena ha per noi il valore di una funzione sociale. Al centro del nostro interesse non
stanno i rapporti dell’uomo con se stesso, né i suoi rapporti con Dio, ma i suoi rapporti con la società.
Dove egli si presenta, si presenta insieme con lui anche la sua classe o il suo ceto. Quando entra in
un conflitto, morale, spirituale o istintivo, entra in conflitto con la società. […] Un’epoca in cui sono
all’ordine del giorno i rapporti interni della collettività, la revisione di tutti i valori umani, la riforma
di tutti i rapporti sociali, non può vedere l’uomo altro che nella sua posizione di fronte alla società e
di fronte ai problemi sociali della sua epoca, cioè l’uomo come essere politico. E se questa eccessiva
importanza dell’elemento politico – che non si determina per colpa nostra, ma per la disarmonia delle
attuali condizioni sociali che rendono politica ogni manifestazione della vita – può condurre, in un
certo senso, a una distorsione dell’immagine dell’uomo ideale, questa immagine avrà almeno il
vantaggio di corrispondere alla realtà 11.
Che cosa sono le forze del destino della nostra epoca? […] L’economia e la politica, e come
risultato di queste due forze, la società, l’elemento sociale […] Se perciò considero come problema
centrale di ogni azione scenica la trasposizione dei fatti privati in un quadro storico, questo può
significare una cosa sola, e cioè la loro trasposizione in un quadro politico, economico, sociale. Solo
cosí possiamo mettere il teatro in connessione con la nostra vita 12.
La formula fondamentale degli sforzi di Piscator (sollevare l’accadere scenico a un significato
storico, o – formalmente – relativizzare la scena attuale all’oggettività inattualizzata) distrugge
l’assolutezza della forma drammatica e dà vita a un teatro epico. Uno dei mezzi «che rivelano
l’influenza reciproca fra i grandi fattori umano-superumani, è un individuo o una classe» 13, e il cui
impiego rappresentò l’epicizzazione piú evidente e importante di Piscator, è il cinema.
Lo sviluppo del cinematografo dal principio del secolo fino agli anni ’20 è segnato da tre scoperte:
1) la mobilità della macchina da presa, cioè il variare dell’inquadratura; 2) il primo piano, e 3) il
montaggio, la composizione delle immagini. Come ha dimostrato B. Balázs nel suo fondamentale libro
L’uomo visibile (1924), queste tre innovazioni permisero al cinema di acquisire possibilità espressive
proprie, e di diventare un genere artistico a sé. La scoperta del cinema, attorno al 1900, aveva avuto
dapprima un carattere puramente tecnico; il cinema era un espediente tecnico per portare sullo
schermo il teatro. Come riproduzione meccanica di una rappresentazione teatrale, si poteva
considerare drammatico. Con le tre innovazioni artistiche cui abbiamo accennato, che inseriscono
produttivamente la macchina da presa nel quadro, sfruttano le modificazioni del rapporto macchina
da presa-oggetto per la formazione dell’immagine, e fanno determinare la successione delle immagini
non solo dall’accadere reale, ma anche – grazie al montaggio – dal principio compositivo del regista,
il cinema cessa di essere del teatro fotografato, e diventa una narrazione indipendente per immagini.
Esso non è piú la meccanica riproduzione di un dramma, ma una forma d’arte epica autonoma.
Questo carattere epico del cinematografo, che si fonda sulla contrapposizione di macchina da
presa e oggetto, sulla rappresentazione soggettiva dell’oggettività come oggettività, consentí a
Piscator di comprendere nella vicenda scenica ciò che si sottrae essenzialmente all’attualizzazione
drammatica: la realtà estraniata e oggettiva delle strutture «sociali, politiche, economiche». Esso gli
permise di «inserire l’accadere scenico in un quadro storico».
In questa funzione Piscator usò il cinema nell’allestimento, ad esempio, di Oplà, noi viviamo!
(1927) di Toller. Anche qui si trattava di «dedurre il destino del singolo da fattori storici universali,
mettere drammaticamente in rapporto il destino di Thomas con la guerra e la rivoluzione del 1918».
L’idea fondamentale del dramma era «l’urto col mondo di oggi dell’uomo che ha vissuto isolato
durante otto anni». «Bisogna mostrare questi nove anni, con tutti i loro orrori e follie, e anche nei
loro particolari insignificanti. Bisogna dare un’idea della mostruosità di questo spazio di tempo. Solo
spalancando davanti agli occhi dello spettatore questo abisso, l’urto raggiunge la violenza voluta.
Nessun altro mezzo che il film potrebbe passare in rassegna otto anni interminabili nello spazio di
sette minuti. Solo per questo “inserto cinematografico” fu necessaria una sceneggiatura che
comprendeva circa quattrocento dati di politica, economia, cultura, società, sport, moda, ecc.» «Una
piccola squadra […] era continuamente […] alla ricerca di brani di pellicole dal vero girate negli
ultimi dieci anni» 14.
Ma l’inclusione del film nella regia teatrale conferisce al dramma politico-sociale un carattere
epico non solo grazie all’epicità immanente del cinema. Agisce in senso epicizzante (poiché
relativizza) anche l’accostamento di ciò che avviene sulla scena e di ciò che avviene sullo schermo.
L’azione scenica cessa di fondare in esclusiva l’unità globale dell’opera. Questa unità non sorge piú
dialetticamente dai fatti intersoggettivi, ma risulta dal montaggio di scene drammatiche, notizie
filmate, cori lontani, proiezioni di calendari, rimandi di vario genere, ecc. L’interna relativizzazione
delle varie componenti è sottolineata spazialmente dal «palcoscenico simultaneo», che Piscator usa
in varie forme. Anche il tempo della rivista montata, che cosí si determina, non è piú quella
successione assoluta di presenti attuali che è propria del dramma. Il cinema lascia nel passato gli
avvenimenti passati che presenta documentariamente. Esso può anche anticipare il futuro
nell’ambito della vicenda scenica, e sciogliere la tensione essenzialmente drammatica verso il futuro
in un accostamento di carattere epico. In Rasputin di A. Tolstoj, ad esempio, il film, mostrando
anzitempo sullo schermo la fucilazione della famiglia dello zar, «metteva a confronto (davanti allo
spettatore) i personaggi col loro futuro destino» 15. Anche i cori e i proclami, che si rivolgono
direttamente al pubblico, appartengono al decorso reale del tempo. Ma dietro tutti questi elementi di
rivista si cela ingigantito l’io epico che li tiene insieme e che li presenta al pubblico col gesto
dell’oratore politico: Erwin Piscator in persona. Che egli stesso si vedesse e presentasse cosí, è
provato, fra l’altro da uno scenario divenuto celebre: sul gigantesco fondale della scena a tre piani
sovrapposti, appare il suo profilo monumentale 16.
XII .
Al pari di Piscator, anche BERT BRECHT è un erede del naturalismo. Anche i suoi tentativi si innestano
dove la contraddizione fra tematica sociale e forma drammatica risulta evidente, cioè nel «dramma
sociale» dei naturalisti. Ma non è tanto il naturalismo, quanto invece il suo interno antagonista, cui
l’impero della legge formale drammatica consentiva di manifestarsi solo in veste tematicamente
velata, che Piscator e Brecht prendono sotto la loro protezione e portano al successo a spese della
forma drammatica. Ma mentre il regista Piscator fa emergere, dalla struttura antitetica del «dramma
sociale», il momento della «rivista», facendone un nuovo principio formale, il drammaturgo Brecht va
piú a fondo: ciò che piú gli preme è il trionfo del principio scientifico, che appartiene bensí
essenzialmente al naturalismo – come provano i romanzi di Zola –, ma che nel dramma naturalistico
poteva manifestarsi solo accidentalmente, ad esempio in una delle «dramatis personae» (Loth in
Prima dell’alba). Brecht trasferisce dall’occasionalità della tematica all’istituzionalità della forma il
carattere oggettivo con cui si presentano, al sociologo forestiero, i minatori della Slesia di
Hauptmann. Nel suo Breviario di estetica teatrale Brecht chiede che l’occhio scientifico, cui la natura
ha dovuto sottomettersi, si rivolga agli uomini che hanno soggiogato la natura e la cui vita è ora
determinata dal suo sfruttamento. Il teatro deve rappresentare i rapporti intersoggettivi nell’epoca
del dominio della natura, o – piú precisamente – la «divisione» degli uomini ad opera di questa
«gigantesca impresa comune» 17. E Brecht riconosce che questo implica la rinuncia alla forma
drammatica. Il fatto che i rapporti intersoggettivi diventino problematici rende problematico il
dramma stesso, proprio perché la forma drammatica concepisce come non problematici quei
rapporti. Di qui il tentativo di Brecht di opporre, alla drammaturgia «aristotelica», sia dal punto di
vista teorico che da quello pratico, una drammaturgia epica, «non aristotelica».
Nel suo Saggio sull’opera «Ascesa e rovina della città di Mahagonny», pubblicato nel 1931, Brecht
enumera i seguenti «spostamenti d’accento dal teatro drammatico a quello epico» 18.
FORMA DRAMMATICA DEL TEATRO
attiva
involge lo spettatore in un’azione scenica,
e ne esaurisce l’attività
gli consente dei sentimenti
gli procura emozioni
lo spettatore viene immesso in un’azione
viene sottoposto a suggestioni
le sensazioni vengono conservate
l’uomo si presuppone noto
l’uomo immutabile
tensione riguardo all’esito
una scena serve l’altra
corso lineare degli accadimenti
natura non facit saltus
il mondo com’è
ciò che l’uomo deve fare
i suoi impulsi
il pensiero determina l’esistenza
FORMA EPICA DEL TEATRO
narrativa
fa dello spettatore un osservatore,
però ne stimola l’attività
gli strappa delle decisioni
gli procura nozioni
viene posto di fronte a un’azione
viene sottoposto ad argomenti
vengono spinte fino alla consapevolezza
l’uomo è oggetto d’indagine
l’uomo mutabile e modificatore
tensione riguardo all’andamento
ogni scena sta per sé
a curve
facit saltus
il mondo come diviene
ciò che l’uomo non può non fare
i suoi motivi
l’esistenza sociale determina il pensiero
Questi mutamenti hanno in comune la sostituzione della fusione essenzialmente drammatica di
soggetto e oggetto, con la loro contrapposizione, che è essenzialmente epica. L’oggettività scientifica
diventa cosí, in arte, oggettività epica, e pervade tutti gli elementi dell’opera teatrale: la sua
struttura e il linguaggio come la sua messinscena.
Ciò che si svolge sulla scena non riempie piú per intero la rappresentazione, come avveniva nel
dramma, dove il momento della rappresentazione era per ciò stesso destinato a soccombere.
(Storicamente ciò si manifesta nella scomparsa del prologo nel Rinascimento). La vicenda è ora
oggetto di narrazione dal palcoscenico, il quale si comporta, nei suoi riguardi, come un narratore nei
riguardi del suo oggetto; è solo dalla contrapposizione dei due che scaturisce la totalità dell’opera. E
lo spettatore non è escluso dalla vicenda, ma neppure viene trascinato in essa per suggestione
(«illusione») fino al punto di cessare di essere spettatore; ma viene posto di fronte alla vicenda in
qualità di spettatore, ed essa gli viene presentata come materia di riflessione. Poiché l’azione non
costituisce piú di per sé tutta l’opera, non può piú convertire il tempo della rappresentazione in una
successione assoluta di presenti. Il presente della rappresentazione è in certo qual modo piú ampio di
quello dell’azione; essa perciò può volgere lo sguardo non solo all’esito, ma anche allo svolgimento e
a ciò che è già stato. All’orientamento drammatico verso il fine si sostituisce qui la libertà epica di
indugiare e di riflettere. Poiché l’uomo protagonista dell’azione non è piú che l’oggetto del teatro, si
può andare al di là della sua persona e indagare sui motivi che lo spingono ad agire. Secondo
Hegel 19, il dramma mostra solo ciò che, nell’azione del suo eroe, si oggettivizza della sua
soggettività, e ciò che si soggettivizza dell’oggettività. Nel teatro epico, invece, conforme alla sua
intenzione scientifico-sociologica, si riflette sulla «base» sociale delle azioni, nella sua oggettività ed
estraniazione.
Brecht come autore e regista ha realizzato praticamente questa teoria del teatro epico, con una
dovizia di idee drammaturgiche e sceniche pressoché illimitata. Le trovate – originali o prese a
prestito – hanno il compito di isolare ed estraniare in oggetti epico-scenici, e cioè «mostrati», dal
movimento globale assoluto che caratterizza il dramma, gli elementi del dramma e della messa in
scena trasmessi dalla tradizione e familiari al pubblico. Perciò Brecht le chiama «effetti di
straniamento». Fra i tanti realizzati o contenuti come proposte nelle sue opere, nelle Osservazioni e
nel Breviario di estetica teatrale, ne ricorderemo qui alcuni in via di esempio.
L’opera scenica può essere estraniata nel suo complesso mediante il prologo, l’antefatto o la
proiezione di titoli. Essendo esplicitamente presentata, non possiede piú l’assolutezza del dramma, e
viene riferita al momento ora scoperto della «presentazione» come oggetto di questa. Le singole
dramatis personae possono straniarsi tra sé presentandosi o parlando di sé in terza persona.
All’inizio de La madre di Brecht (da Gor´kij), Pelagia Vlassova dice ad esempio queste parole:
Quasi mi vergogno a mettere questa minestra davanti a mio figlio. Ma non posso piú
aggiungerci neppure una mezza cucchiaiata di grasso. Proprio la settimana scorsa gli hanno
diminuito la paga di un copeco all’ora, ed io, per quanto mi sforzi, non riesco piú a risparmiarlo in
altro modo […]. Che cosa posso fare io, Pelagia Vlassova, donna di quarantadue anni, vedova di un
operaio, madre di un operaio? 20.
VLASSOVA
Lo straniamento del personaggio è rafforzato dall’attore, che, nel teatro epico, non deve
immedesimarsi totalmente col personaggio: «Egli deve limitarsi a mostrare il suo personaggio, o –
per dir meglio – non deve limitarsi a viverlo soltanto. Ciò non significa che, avendo da raffigurare
personaggi passionali, egli debba restare impassibile. Ma, in via di principio, i suoi sentimenti non
dovrebbero essere quelli del suo personaggio: altrimenti anche lo spettatore identificherà per
principio i propri sentimenti con quelli del personaggio» 21. Lo straniamento del personaggio può
avvenire anche in quanto la sua immagine è riprodotta sulle quinte. O mediante la «descrizione
soggettiva dei costumi»:
Ora ne beviamo ancora uno
poi non andiamo ancora a casa
poi ne beviamo ancora uno
poi facciamo una pausa.
«Quelli che cantano cosí, – osserva Brecht, – sono dei moralisti soggettivi. Essi descrivono se
stessi» 22. Il palcoscenico, che non è piú di per sé il mondo, ma lo copia e lo riproduce parzialmente,
perde – con la sua assolutezza – anche la ribalta, che sembrava conferirgli una luce propria.
L’illuminazione avviene ora per mezzo di riflettori posti in sala, fra gli spettatori, come a sottolineare
che si vuol mostrar loro qualcosa. Lo scenario viene straniato, in quanto non simula piú un luogo
reale, ma – come elemento autonomo del teatro epico – «cita, racconta, prepara e rammenta» 23.
Oltre agli accenni al luogo in cui si svolge l’azione, la scena può anche avere uno schermo: i testi e le
immagini documentarie mostrano allora – come in Piscator – le circostanze entro le quali si svolge
l’azione. Ad ottenere lo straniamento della vicenda, che non ha piú la lineare univocità e necessità
propria della vicenda drammatica, possono servire i testi proiettati ad intervalli sullo schermo, cori,
cantori e addirittura le grida di «strilloni di giornali» in sala. Essi interrompono l’azione e la
commentano. «Ad evitare che il pubblico sia indotto a gettarsi nella vicenda come ci si getterebbe in
un fiume, per lasciarsi trascinare alla deriva, i singoli avvenimenti devono essere collegati in modo
che i nodi dell’azione diano nell’occhio. Gli avvenimenti non devono succedersi inavvertitamente,
bisogna invece che lo spettatore possa intervenire col suo giudizio tra le singole fasi dell’azione. (Se
invece fosse opportuno rappresentare l’oscurità dei rapporti causali, bisognerebbe convenientemente
straniare proprio questa condizione)» 24. E per lo straniamento degli spettatori, Brecht (seguendo in
ciò i futuristi) propone che essi assistano allo spettacolo fumando.
Mediante questi straniamenti la contrapposizione soggetto-oggetto che è all’origine del teatro
epico – l’autoestraniazione dell’uomo, a cui il proprio essere sociale è divenuto oggettivo – precipita
formalmente in tutti i piani dell’opera, e diventa cosí il suo principio formale assoluto. La forma
drammatica si fonda sul rapporto interpersonale; la tematica del dramma è costituita dai conflitti che
sorgono da quel rapporto. Qui invece il rapporto intersoggettivo nel suo insieme diventa tematico, ed
è trasferito – per cosí dire – dalla non-problematicità di ciò che è forma alla problematicità del
contenuto. E il nuovo principio formale consiste nel distacco epidittico dell’uomo da questa realtà
problematica; la contrapposizione epica di soggetto e oggetto si presenta, nel teatro di Brecht, nella
modalità scientifico-pedagogica. «Interpretare la vicenda e comunicarla al pubblico attraverso
appropriati straniamenti» è – come egli ha scritto nel suo Breviario di estetica teatrale – «il compito
precipuo del teatro» 25.
XIII .
Per rendere evidente anche scenicamente il vivere-l’uno-accanto-all’altro (senza conoscersi) degli
uomini del suo tempo, già Strindberg aveva presentato sul palcoscenico la facciata di una casa. Ma
nell’insieme formale della Sonata degli spettri la funzione di questa trovata era di carattere
secondario, anzi antitetico: anche se proprio in ciò si rivela la contraddizione che sussiste ovunque, in
quest’opera, fra il tema dell’isolamento e la forma drammatica. La casa d’affitto, coi suoi tanti luoghi
d’azione, si limitava a svolgere le veci di un fondale, e la piazza antistante garantiva l’unità di luogo.
E su questa scena all’aperto l’epicità della casa serrata perveniva a forma drammatica, attraverso la
figura del direttore Hummel, che narra allo studente di passaggio – uno «straniero» 26 – le vicende
degli abitanti della casa. Il processo epico, il fatto stesso di narrare, appariva cosí come azione
drammatica.
Due autori degli anni ’20 tentarono invece di rappresentare direttamente l’epicità di questo viverel’uno-accanto-all’altro, e di darle forma adeguata al di là del dramma: Georg Kaiser in Vicinanza
(Nebeneinander, 1923) e FERDINAND BRUCKNER ne I criminali (Die Verbrecher, 1929). La seconda di
queste opere è particolarmente vicina alla Sonata degli spettri.
Anche Bruckner mette in scena lo spaccato di una casa a tre piani. Ma i tre piani costituiscono qui
il palcoscenico; in Bruckner il sipario non si alza, come in Strindberg, su una piazza davanti alla casa,
ma direttamente sui sette vani della casa divisi l’uno dall’altro. Si rinuncia cosí anche ai personaggi
che dovevano mediare tematica epica e forma drammatica; il direttore Hummel, è, per cosí dire,
revocato nella soggettività formale dell’opera, mentre lo studente è proiettato in avanti, nella platea,
fra gli spettatori. La contrapposizione di questi due personaggi, che in Strindberg costituivano una
situazione narrativa motivata all’interno della forma drammatica, diventa, in Bruckner, opposizione
dell’io epico invisibile e dello spettatore, e cioè un nuovo principio formale.
Anche il genere dell’azione subisce cosí un mutamento. La Sonata degli spettri, restando fedele
alla forma drammatica, non poteva rappresentare la vita degli uomini l’uno-accanto-all’altro
svolgendo parallelamente varie azioni. Solo nel primo atto la rappresentazione del loro isolamento
era ancora possibile, perché essi non erano i protagonisti, ma solo l’oggetto del dialogo. Ma il
secondo atto li riuniva nella «cena degli spettri» e accomunava i loro destini in un’unica azione
drammatica. Diverso è il caso de I criminali di Bruckner. Al palcoscenico simultaneo corrisponde qui
– nella dimensione temporale – lo svolgimento parallelo di cinque diverse azioni. È vero che anche tra
esse esiste un nesso. Ma non quello che la forma drammatica esigerebbe, cioè la loro connessione
concreta in una situazione, bensí il loro riferirsi, ciascuna per conto proprio, a uno stesso tema,
quello del rapporto e dell’incongruenza fra giurisdizione e giustizia. I criminali non è solo un’opera
teatrale sulla vita degli uomini uno-accanto-all’altro, ma anche e nello stesso tempo un’opera sulla
problematicità della giustizia. L’identità dei due temi in Bruckner traspare da un colloquio nel
secondo atto. Due giudici discutono sull’essenza del diritto:
L’appartenenza reciproca degli uomini presuppone un diritto concordato.
Ed io ho constatato con certezza manifestazioni di appartenenza solo dove questo
diritto concordato è messo a soqquadro, dove, cioè, si parla di criminali. La forma negativa è
quella della squallida, egocentrica convivenza, dello stare-a-vedere, del disinteresse. Questi sono i
soli, veri delitti, poiché essi nascono da indolenza del cuore e pigrizia della mente: la piú perfetta
negazione dei principî della vita e delle basi della società. Ma queste colpe non vengono punite. Le
altre azioni, quelle opposte, sono espressioni della volontà di vivere, e già per ciò positive, ma in
tutti i casi espliciti sono punite come crimini 27.
IL PIÚ ANZIANO
IL PIÚ GIOVANE
L’inversione qui enunciata del rapporto tra comunione e isolamento, quanto a giustizia e
ingiustizia, regola ed eccezione, validità e problematicità, tocca l’opera nel suo concetto formale
ispiratore. La cornice formalmente non-problematica del dramma è il rapporto intersoggettivo. Da
questa cornice escono, rendendosi colpevoli di isolamento, l’eroe della tragedia, che compie la sua
missione, e il personaggio comico, in preda alla sua idea fissa. Nell’ambito della non-problematicità
del rapporto intersoggettivo, la problematicità di un isolamento tematico-attuale appare quindi ai due
estremi del dramma: la tragedia e la commedia. Diversamente nell’opera di Bruckner, che ha
carattere epico. Qui la cornice non problematica è il vivere-uno-accanto-all’altro, l’isolamento. Alla
forma drammatica, all’assolutezza del fatto intersoggettivo, si sostituisce quindi la rappresentazione
epica, la relativizzazione di fronte all’io epico di ogni esistenza isolata. Ed entro questo ambito la
comunicazione fra gli individui diventa tematica, apparendo ora come eccezione e come pervertita in
criminalità nel mondo della «convivenza egocentrica». Ma il ricupero tematico dell’intersoggettività
non può riportare in alcun modo l’opera epica al dramma: questo, che costituisce un oggetto
problematico, deve piuttosto figurare – all’interno della forma epica, che implica già un primo
rapporto soggetto-oggetto – come oggetto in un secondo rapporto (questa volta tematico). Questa
esigenza è soddisfatta dalla parte centrale del secondo atto: gli eventi del primo atto vi appaiono,
oggettivati – ora – anche tematicamente, come materia di indagine giudiziaria.
A questa concentrazione tematica corrisponde quella formale. Il primo atto espone, con libertà di
accostamenti e di successioni, l’avvio al delitto di alcuni abitanti della casa: una vecchia signora
caduta in miseria vende i gioielli avuti in custodia dal cognato, per poter allevare i propri figli. Una
ragazza vuole uccidersi assieme al figlio neonato, ma retrocede impaurita davanti alla morte, si salva
e diventa cosí un’infanticida. Una cuoca uccide la rivale e fa cadere i sospetti sul suo amante per
vendicarsi anche di lui. Un giovane, perché non si sappia che è un omosessuale, depone il falso in
tribunale a favore di un ricattatore. Un giovane impiegato sottrae il denaro dalla cassa per poter
viaggiare all’estero con la madre di un amico. Tutto ciò è descritto nel primo atto, non mediante un
ingranaggio drammatico che colleghi fra loro le varie storie, ma mediante un accostamento senza
nessi delle poche scene culminanti di ogni singola vicenda, che rimandano al passato e all’avvenire, e
schizzano – piú che rappresentare – i fatti veri e propri. Le scene non si generano da sé, come nel
dramma, in una successione compatta e coerente, ma sono opera dell’io epico, che dirige la luce del
suo riflettore alternativamente sull’uno o sull’altro vano della casa d’affitto. Lo spettatore coglie solo
frammenti di dialogo; quando ne ha inteso il senso ed è in grado di immaginare da sé ciò che avverrà,
il riflettore si sposta ed illumina un’altra scena. Cosí tutto è relativizzato epicamente e inserito in un
atto narrativo. La singola scena non regna sola come nel dramma: la luce può lasciarla ad ogni
istante e ripiombarla nel buio. Dove si esprime anche il fatto che la realtà non tende qui di per sé
all’evidenza drammatica, ma deve essere invece dischiusa a forza in un procedimento epico. Certo
quest’epica, non lasciando che il suo io prenda la parola come narratore, non può rinunciare al
dialogo, ma fa sí che il dialogo si neghi da sé. Poiché il dialogo, infatti, non deve piú rispondere del
progresso dell’opera (che è garantito dall’io epico), esso può sbriciolarsi in monologhi cechoviani o
rientrare addirittura nel silenzio, rinunciando quindi alla dialogicità come tale.
Alla varietà del primo atto si contrappone l’unità del secondo. Anche se resta il palcoscenico
simultaneo e se ai tre piani della casa d’affitto si sostituiscono quelli del tribunale penale, i singoli
luoghi ed azioni sono fra loro in rapporto affatto diverso. La loro simultaneità è potenziata dalla loro
identità, che appare evidente davanti al tribunale. Le varie scene non ci mostrano piú aspetti diversi
della vita di una grande città, ma l’uniformità meccanica del procedimento giudiziario. Ne deriva, di
conseguenza, un cambiamento formale. I cambiamenti di scena non sono piú lasciati all’arbitrio del
narratore epico, che si rivolge ora a questo, ora a quel gruppo di personaggi. Essenziale è, ora, che i
frammenti dei vari processi si fondano nel quadro unitario del tribunale. E ciò avviene sopprimendo i
passaggi mediante il principio della pseudoidentità, come avviene nel gioco del domino. Un processo
si interrompe alle parole del presidente: «Il fatto è evidente», la scena si oscura, si illumina un’altra
aula del tribunale e lo spettatore è introdotto in un secondo processo con le stesse parole del nuovo
presidente: «Il fatto è evidente» 28. Con la stessa funzione sono impiegate in seguito le espressioni:
«Chiedo al teste» 29, «Conoscete l’imputato?» 30, «La parola al Pubblico Ministero» 31, «Il concetto di
punizione perderebbe ogni valore…» 32, «Qual è l’essenza del diritto?» 33, «In nome del popolo…» 34.
Con queste frasi la scena trascende ogni volta la propria chiusa compiutezza drammatica: essa cita il
mondo reale della legge, e trapassa – con questa citazione – in un’altra scena. Fra le due scene che si
succedono non c’è un nesso organico, ma la continuità è simulata dalla connessione delle scene in
funzione di un terzo a cui entrambe partecipano: il concetto di tribunale. Ma questo è un montaggio.
All’importanza del montaggio nell’evoluzione formale si può solo accennare qui, poiché esso non
rientra nella patologia drammatica, ma in quella dell’epica e della pittura. Il caso del monologue
intérieur 35, cui abbiamo accennato prima, mostra come nel ventesimo secolo l’epicizzazione della
drammaturgia non consolidi la situazione dell’epica, e come, anche in seno a quest’ultima, si formino
forze antitetiche. Non solo sono contrarie al ruolo tradizionale del narratore l’interiorizzazione e il
suo corollario metodico: la psicologizzazione; ma lo sono anche l’estraniazione del mondo esterno e il
suo correlato: la fenomenologia 36. E il montaggio è quella forma d’arte epica che rinnega il
narratore. Mentre la narrazione eterna l’atto del narratore, e non spezza il legame con la sua fonte
soggettiva (il narratore epico stesso), il montaggio si irrigidisce nell’istante in cui sorge e dà
l’impressione di formare un tutto che nasce da se stesso come il dramma. Al narratore esso rinvia
solo come al proprio marchio di fabbrica: il montaggio è il prodotto industriale dell’epica.
XIV.
Da alcuni decenni i Sei personaggi in cerca d’autore rappresentano per molti la quintessenza del
dramma moderno. Ma a questa importanza storica dell’opera non corrisponde il motivo della sua
origine, come è descritto da PIRANDELLO nella prefazione: un infortunio sul lavoro della sua
immaginazione. Il problema è questo: perché i personaggi sono «in cerca d’autore», perché
Pirandello non è divenuto il loro autore. Per tutta risposta il drammaturgo ci dice che un giorno la
fantasia gli portò a casa sei personaggi. Ma egli li respinse, poiché non vedeva nel loro fato un
«significato piú alto», in grado di giustificarne la rappresentazione. Solo l’insistenza con cui
chiedevano di vivere fece scoprire a Pirandello questo «significato piú alto», ma non era piú quello
che essi intendevano. Al dramma del loro passato egli sostituí quello della loro nuova avventura: la
ricerca di un altro autore. Nulla autorizza la critica a mettere in dubbio questa spiegazione, ma nulla
le può impedire di affiancargliene un’altra, tratta dall’opera stessa, e che ne sottrae la genesi al caso
per conferirle un valore storico. Poco dopo la comparsa dei sei personaggi (sulla scena si stava
provando un’altra opera), il loro portavoce parla di quel rifiuto da parte del drammaturgo e completa
la motivazione data nella prefazione, con le seguenti parole: «L’autore che ci creò, vivi, non volle poi,
o non poté materialmente, metterci al mondo dell’arte» 37. L’idea che sia piú questione di potere che
di volere – o, formulando la cosa dal punto di vista oggettivo, che sia questione di possibilità – è
confermata successivamente dall’intera opera. Poiché il tentativo dei sei personaggi di dare al loro
dramma realtà teatrale, con l’aiuto della compagnia che sta provando, non solo consente di
individuare l’opera che Pirandello si sarebbe rifiutato di scrivere, ma permette insieme di scorgere i
motivi che la condannavano a priori al fallimento.
Si tratta di un dramma analitico del genere delle tarde opere di Ibsen o dell’Enrico IV dello stesso
Pirandello, che è quasi contemporaneo ai Sei personaggi. Il primo atto si svolge in casa della
mezzana, Madama Pace, dove un visitatore riconosce la propria figliastra in una ragazza che gli viene
offerta. Il primo atto si chiude col grido acuto della sua prima moglie, la madre della fanciulla, che
appare all’improvviso. Il secondo atto si svolge nel giardino del padre. Questi, a dispetto del proprio
figlio, riprende con sé la prima moglie e i tre figli di lei. Ciascuno nutre sentimenti di inimicizia nei
riguardi degli altri: il Figlio nei riguardi della Madre, perché ha abbandonato suo padre; la Figliastra
nei riguardi del padrigno, a causa della sua visita da Madama Pace; il Padre nei riguardi della
Figliastra, perché essa lo giudica solo sulla base di quell’errore; il Figlio nei riguardi della sorellastra,
perché è figlia di un estraneo. Gradualmente, per mezzo di un’analisi ibseniana, si fa luce sul passato
dei genitori, e l’errore è individuato nei principî del Padre, benintenzionati ma rovinosi. «Ho sempre
avuto di queste maledette aspirazioni a una certa solida sanità morale» 38: è cosí che egli spiega il
fatto di aver sposato una donna per le sue umili origini, senza amarla, e di averle poi sottratto il figlio
per affidarlo a una balia in campagna. Quando la Madre aveva trovato comprensione nel segretario di
suo marito, il Padre aveva pensato bene di dover rinunciare a lei e aveva permesso ai due di fondare
una nuova famiglia. E anche il benevolo interessamento che egli aveva dimostrato in seguito verso il
loro, si era rivelato infausto; geloso, il segretario aveva portato moglie e figli all’estero, e solo dopo la
sua morte questi erano ritornati in patria, in preda alla miseria. La Madre si era messa a cucire per
Madama Pace e la Figlia le portava il lavoro. Il dramma si conclude, al pari di tante opere analitiche,
con una catastrofe ingiustificata: uno dei ragazzi annega nella fontana, l’altro si uccide con un colpo
di pistola.
Per svolgere il piano di quest’opera secondo le regole della drammaturgia classica, sarebbe stata
necessaria non solo la maestria di Ibsen, ma anche la sua cieca violenza. Pirandello si rese invece
chiaramente conto della resistenza della materia e dei suoi presupposti spirituali alla forma
drammatica. Perciò rinunciò ad essa, e anziché spezzare quella resistenza la mantenne nella
tematica. Nacque cosí un’opera che si sostituisce a quella divisata e ne tratta come di un’opera
impossibile.
I dialoghi fra i sei personaggi e il capocomico non si limitano a fornire lo schema dell’opera
originaria, ma permettono anche di cogliere le forze che, già a partire da Ibsen e da Strindberg,
mettono in questione la forma drammatica. La Madre e il Figlio richiamano personaggi di Ibsen 39,
ma non essendo ancora soggiogati dall’autore drammatico possono mostrare quanto sia loro odiosa
la franchezza del dialogo e della scena.
Oh, signore, la supplico d’impedire a quest’uomo di ridurre a effetto il suo proposito, che
per me è orribile! 40.
FIGLIO Signore, quello che io provo, quello che sento, non posso e non voglio esprimerlo. Potrei al
massimo confidarlo, e non vorrei neanche a me stesso. Non può dunque dar luogo, come vede, a
nessuna azione da parte mia 41.
LA MADRE
IL
Ma che cos’è codesta frenesia che t’ha preso? Non ha ritegno di portare davanti a tutti la sua
vergogna e la nostra! Io non mi presto! Non mi presto! E interpreto cosí la volontà di chi non volle
portarci sulla scena! 42.
Si dice perfino che questo atteggiamento del figlio rende impossibile l’unità drammatica di luogo,
perché essa implica l’incontro con gli altri, che egli vuole, appunto, evitare:
Vogliamo insomma cominciarlo, questo secondo atto?
Non parlo piú! Ma badi che svolgerlo tutto nel giardino, come lei vorrebbe, non sarà
IL CAPOCOMICO
LA FIGLIASTRA
possibile!
Perché non sarà possibile?
Perché lui (indicherà di nuovo il figlio) se ne sta sempre chiuso in camera, appartato! 43.
IL CAPOCOMICO
LA FIGLIASTRA
In altre scene, nella protesta della Figliastra, si introduce il naturalismo. A tal punto il teatro è
considerato qui imitazione della realtà, che esso è destinato a fallire proprio per l’incolmabile divario
fra scena reale e scena teatrale, fra il «personaggio» e l’attore 44. Insieme, la Figliastra rappresenta
l’io strindberghiano, che esige per sé tutta la scena. La critica del Capocomico, che essa provoca con
questo atteggiamento, è una critica alla drammaturgia soggettiva stessa:
Ma io voglio rappresentare il mio dramma! Il mio!
(seccato, scrollandosi fieramente) Oh, infine, il suo! Non c’è soltanto il suo, scusi! C’è
anche quello degli altri! Quello di lui (indicherà il Padre), quello di sua madre! Non può stare che
un personaggio venga, cosí, troppo avanti, e sopraffaccia gli altri, invadendo la scena. Bisogna
contener tutti in un quadro armonico e rappresentare quel che è rappresentabile! Lo so bene
anch’io che ciascuno ha tutta una sua vita dentro e che vorrebbe metterla fuori. Ma il difficile è
appunto questo: farne venir fuori quel tanto che è necessario, in rapporto con gli altri; e pure in
quel poco far intendere tutta l’altra vita che resta dentro! Ah, comodo, se ogni personaggio
potesse in un bel monologo, o… senz’altro… in una conferenza venire a scodellare davanti al
pubblico tutto quello che gli bolle in pentola! 45.
LA FIGLIASTRA
IL CAPOCOMICO
Ma è solo nel personaggio del Padre che si esprime la verità piú intima di Pirandello. Che essa
implichi l’abolizione del drammatico, viene – naturalmente – taciuto, sia perché al Padre sta a cuore
la realizzazione del dramma, sia perché Pirandello non voleva limitare al dramma la validità delle sue
tesi. Ciononostante i presupposti esistenziali del dramma non sono mai stati messi in discussione cosí
nettamente come nella filosofia della vita soggettivistica di Pirandello. Questo soggettivismo è la
causa prima del fallimento del dramma dei sei personaggi, ed esso spiega la loro eterna e infruttuosa
ricerca di un autore.
Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un
suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e
il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col
senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non
c’intendiamo mai! 46.
IL PADRE
Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi – veda – si crede
«uno» ma non è vero: è «tanti», signore, «tanti», secondo tutte le possibilità d’essere che sono in
noi: «uno» con questo, «uno» con quello – diversissimi! E con l’illusione, intanto, d’essere sempre
«uno per tutti», e sempre «quest’uno» che ci crediamo, in ogni nostro atto. Non è vero! non è
vero! Ce n’accorgiamo bene, quando in qualcuno dei nostri atti, per un caso sciaguratissimo,
restiamo all’improvviso come agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non esser tutti in
quell’atto, e che dunque un’atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati
e sospesi, alla gogna, per un’intera esistenza, come se questa fosse assommata tutta in
quell’atto! 47.
Se – nel primo passo – si nega la possibilità dell’intendersi mediante le parole, il secondo si rivolge
contro l’azione come valida oggettivazione del soggetto. Contro il postulato fondamentale della forma
drammatica, che considera il dialogo e l’azione, proprio nella loro definitività, come espressioni
adeguate dell’essere umano, Pirandello vi scorge una limitazione indebita e nociva della vita
interiore, infinitamente varia e molteplice.
In quanto critica del dramma, i suoi Sei personaggi in cerca d’autore non sono un’opera
drammatica, bensí epica. Come in tutta la «drammaturgia epica», ciò che costituisce la forma del
dramma diventa qui tematico. Ma il fatto che questo tema non appaia, qui, in forma generale, come
problema dei rapporti interumani (come in Sodoma e Gomorra di Giraudoux), ma come dramma
messo in questione, come ricerca di un autore e tentativo di realizzazione, fonda e giustifica la
posizione speciale di quest’opera nella drammaturgia moderna, e ne fa, in certo qual modo,
un’autorappresentazione della storia del dramma. Essa rappresenta insieme uno stadio ulteriore (ma
sempre intermedio) nell’evoluzione epica della drammaturgia: la contrapposizione soggetto-oggetto
vi è ancora mascherata tematicamente, ma questa maschera non fa piú parte dell’azione vera e
propria (come accadeva ancora nella Sonata degli spettri di Strindberg e in Prima dell’alba di
Hauptmann) 48. La tematica si divide in due strati: il primo drammatico (il passato dei sei
personaggi), ma che nessuna forma è piú in grado di riprodurre. Allora subentra il secondo strato,
epico nella sua posizione rispetto al primo: l’apparizione dei sei personaggi davanti alla compagnia
che prova e il tentativo di dar vita al loro dramma. Essi narrano e recitano da sé il loro destino; il
Capocomico e la sua compagnia rappresentano il pubblico. Ma l’abolizione dell’elemento drammatico
non è portata fino in fondo, poiché nell’azione epica che fa da cornice, e che si serve anch’essa della
forma drammatica, non è messo in questione ciò che nell’azione vera e propria è affatto
problematico: l’attualità intersoggettiva. L’idea del teatro epico si realizzerebbe appieno solo se la
situazione narrativa non fosse piú tematica, e neppure dialogico-scenica. Ma finché cosí non è,
rimane sempre la tentazione di giungere a una soluzione pseudodrammatica. Nei Sei personaggi i
due piani tematici, la cui dissociazione è il principio formale dell’opera, vengono – alla fine – a
coincidere; il colpo uccide il ragazzo sia nel passato raccontato dei sei personaggi, che nel presente
scenico degli attori che provano; e il sipario, che – secondo le norme del teatro epico 49 – era già
levato all’inizio per confondere la realtà della prova teatrale con quella degli spettatori, finisce per
calare davvero.
XV.
Le dramatis personae hanno sempre avuto la possibilità di parlare – di tanto in tanto – «a parte».
Ma questa temporanea sospensione del dialogo non smentisce la tesi che la forma drammatica ha il
suo principio nel dialogo, e non è neppure la famosa eccezione che si limita a confermare la regola
(che è espressione priva di senso). Essa prova invece – indirettamente – la forza della corrente
dialogica, che sopravvive a questa interruzione, per cosí dire al di là del dialogo. Ma ciò è possibile
solo perché il parlare fra sé, come avviene nel dramma vero e proprio, non mira affatto a distruggere
il dialogo; anche qui vale la citata osservazione di Lukács sul monologo 50. L’espressione «a parte»
non differisce essenzialmente dall’espressione dialogica, non scaturisce da uno strato piú profondo
del soggetto, né rappresenta la verità interiore davanti a cui il dialogo si smaschera come menzogna
esterna. Non è per caso che il vero regno dell’«a parte» è la commedia: dove la possibilità di
comprendersi è meno che mai in discussione e dove meno sussiste l’istanza di una verità psichica
interiore. Ma in questo spazio dialogico garantito il massimo effetto comico è proprio nel suo
temporaneo annullarsi, donde i malintesi e gli scambi che costituiscono, per esempio, tutta la farsa di
Molière Sganarello, o il cornuto immaginario. Qui l’«a parte» ha una sua funzione importante: quella
di marcare al vivo i malintesi e gli scambi di persona. E non a caso, infine, i grandi drammaturghi del
passato rinunciavano a questo mezzo negli incontri piú intimamente problematici dei loro drammi,
dove gli autori moderni utilizzerebbero proprio l’«a parte». Si rilegga il dialogo di Racine tra Fedra e
Ippolito 51 o quello di Schiller tra Maria Stuarda ed Elisabetta 52. Proprio perché qui la struttura
dialogica è messa alla prova e attaccata nelle sue fondamenta, l’«a parte» non può entrare in gioco, e
il dialogo deve lottare con tutte le sue forze per la propria continuità, e per la salvezza della forma
drammatica. E dove, in un vero dramma, si fondono commedia e tragedia, come nell’Anfitrione di
Kleist, il parlare fra sé tende di preferenza al polo comico; ecco perché il detto di Giove («Maledetta
la follia che mi condusse qui» 53), che è un’allusione alla tragedia divina, corre sempre il rischio di
non essere preso sul serio, come l’esclamazione di chi ci ha lasciato le penne.
Il mutamento storico della funzione dell’«a parte», che ha luogo agli inizi della drammaturgia
moderna, appare con particolare evidenza nei drammi di Hebbel. Rudolf Kassner ha visto nei
personaggi hebbeliani l’uomo «che è stato a lungo con se stesso, senza parlare» 54; e infatti, in questo
autore, l’«a parte» è piú che altro un «per sé», anzi un «in sé», un parlare – per cosí dire – senza
parlare. Gli «a parte» non sono piú in funzione della situazione, ma traggono spunto da essa per
rivelare l’intimo dell’uomo, per cui essa è già qualcosa di estrinseco. È cosí che, già nella prima
scena, l’idea folle di Erode si annuncia in un discorso apparentemente innocuo, e ciò con l’inserzione
di un «fra sé». Giuda, un capitano, gli riferisce dell’incendio scoppiato la notte prima, e parla di una
donna che si era rifiutata di abbandonare la casa in fiamme.
Sarà stata fuori di senno!
È possibile che ne sia uscita per il dolore. Il marito le era morto poco prima, il cadavere era
ancora caldo nel letto.
ERODE (tra sé) Voglio dirlo a Marianna, e intanto fissarla negli occhi. (Ad alta voce) Quella donna non
aveva un figlio, vero? In questo caso, al figlio provvederei io! Che essa però sia sepolta
solennemente, con lo sfarzo che si conviene ai principi: essa era forse la regina delle donne! 55.
ERODE
GIUDA
E nel colloquio decisivo:
Se io, io in persona mi trovassi in punto di morte, potrei fare ciò che ti aspetti da Salomè; ti
mescerei del veleno e te lo porgerei col vino, per essere sicuro di te anche nella morte!
MARIANNA Se facessi questo, guariresti.
ERODE Oh no, oh no! Condividerei la tua sorte! Ma tu dimmi: un amore troppo, troppo grande, come
sarebbe questo, potresti tu perdonarlo?
MARIANNA Se, dopo aver bevuto, mi restasse il fiato per pronunciare ancora un’ultima parola, questa
parola sarebbe una maledizione! (Tra sé) E lo farei quanto piú è certo che, se la morte ti
chiamasse, potrei, nel mio dolore, por mano al pugnale; questo si può farlo ma non subirlo! 56.
ERODE
Qui il parlare «a parte» non serve piú a correggere l’errore di una situazione esterna, ma – grazie
ad esso – il colloquio con Erode si prolunga nell’intimo di Marianna, e si rivela il sentire piú intimo di
lei, che non confuta ciò che essa dice, ma lo approfondisce essenzialmente. In Marianna non parlano
due persone diverse: una che simula con Erode e l’altra vera. Non è che essa si tradirebbe – come, ad
esempio, il Giove di Kleist – se dicesse tutto; ma ha sentimenti che il suo animo si rifiuta di
comunicare al consorte. E il fatto che essa debba ora dissimulare il suo vero amore per Erode,
contribuisce notevolmente alla conoscenza della sua personalità.
L’uso che Hebbel fa dell’«a parte» anticipa quindi la tecnica del monologue intérieur dei romanzieri
psicologici del ventesimo secolo, ed è comprensibile che la drammaturgia moderna sia stata
incoraggiata dalla scuola di Joyce ad applicare su vasta scala l’«a parte». Cosí Strano interludio
(1928), il dramma in nove atti di EUGENE O’NEILL, non si limita a riportare i discorsi dei suoi otto
personaggi, ma ne registra continuamente anche il pensiero, che essi non possono comunicare
all’interlocutore, perché troppo estranei l’uno all’altro. Ciò è confermato indirettamente dall’inizio
dell’ultimo atto. Qui, per la prima volta, i monologhi interiori tacciono, perché sul palcoscenico c’è
una coppia di giovani innamorati che ignorano, almeno per breve tempo, l’abisso intersoggettivo. Ma
determinando la forma allo stesso titolo e nella stessa misura del dialogo, l’«a parte» perde il diritto
di essere chiamato cosí. Poiché parlare di «a parte» ha senso solo in un ambito dove in linea di
principio si usa il dialogo. Ma qui l’«a parte» non è piú una temporanea sospensione del dialogo, ma
permane autonomo accanto al dialogo drammatico come il resoconto psicologico di un io epico.
Strano interludio è quindi, nella sua forma, un montaggio composto di parti drammatiche e di parti
epiche. Questo montaggio ha bisogno del suo io epico non solo per l’analisi psicologica degli «a
parte», ma anche per garantire la sua totalità formale. Poiché la continuità dell’opera non scaturisce
piú dal dialogo stesso; quando i monologhi si succedono senza dialogo, il tempo si fermerebbe, se un
io epico non reggesse il suo corso. Ma l’epico-montatore di Strano interludio non deriva la sua ragion
d’essere solo dal dramma psicologico. In lui continua a operare anche il romanziere naturalista,
erede di Zola, che non ha piú una parola da dire per i suoi eroi, e meno che mai una parola buona, e
che si limita a registrare come un disco i discorsi esterni e interni che gli uomini gli forniscono nel
quadro deterministico di leggi genetiche e psichiche.
XVI.
Non c’è forse altra opera, nella drammaturgia moderna, che sia pari a La piccola città di THORNTON
(1938) per l’audacia dell’impostazione formale e al tempo stesso per la toccante semplicità
dell’espressione. Per il lirismo melanconico che assume qui la vita quotidiana, Wilder deve molto ai
drammi di Čechov, ma le sue innovazioni formali cercano di liberare l’eredità cechoviana dalle sue
contraddizioni e di darle forma adeguata al di là del dramma. Poiché Čechov, come anche Hauptmann
e altri autori, non intendeva rinunciare alla forma drammatica, dovette svisare la vita dei suoi
personaggi, che non si realizza piú nella sfera del conflitto e della decisione, in una vita almeno
embrionalmente drammatica. La vicenda monotona, priva di accadimenti e profondamente
impersonale, che si trascina avanti a fatica, diventa una vicenda attuale-intersoggettiva e assume
parvenza di unicità. Di questa infedeltà al tema, determinata esclusivamente dalla forma, Wilder non
volle rendersi colpevole. Egli affrancò quindi l’azione dal compito drammatico di creare la forma
dalle proprie interne contraddizioni, e affidò questo compito a un personaggio nuovo, che è al di fuori
dell’ambito tematico, nel punto archimedico del narratore epico, e che viene introdotto nell’opera
come regista. E poiché le dramatis personae vengono ad essere, nei suoi riguardi, oggetto di
presentazione o rappresentazione, il momento della rappresentazione – che nel vero dramma è
sempre nascosto – diventa qui esplicito 57. Dove peraltro si può parlare di «distruzione dell’illusione»
solo se assumiamo criticamente questo concetto della drammaturgia romantica. L’«illusione»
drammatica indica – sotto l’aspetto della ricezione psicologica – il carattere di mondo omogeneo e
chiuso proprio del dramma, vale a dire la sua assolutezza 58. L’illusione viene distrutta quando, in
seno alla struttura del dramma, si opera una distinzione; quando al rapporto interpersonale se ne
sovrappone – per cosí dire – un altro (sovrapersonale o interiore). Sia nell’«ironia romantica» di Tieck
che nel teatro epico di Wilder esiste questo rapporto fra soggetto e oggetto della coscienza, ma con
la sostanziale differenza che i personaggi delle commedie di Tieck, come proiezioni del soggetto
protoromantico, hanno coscienza di se stessi, e diventano quindi oggetti a se stessi, mentre nella
Piccola città è il Regista che acquista coscienza di essi come personaggi, e la relazione soggettooggetto rimane quindi esterna ai personaggi: è appunto la relazione epica fra il narratore e il suo
oggetto. Il risultato della distruzione dell’illusione è, nell’opera del poeta romantico, la
rappresentazione della perdita reale del mondo, vissuta dall’io divenuto onnipotente; la distruzione
dell’illusione nel «dramma» moderno porta invece a quell’esperienza estetica del mondo che è
comunicata da ogni letteratura epica.
All’azione drammatica si sostituisce la narrazione scenica, il cui ordine è stabilito dal Regista. Le
singole parti non si generano da sé come nel dramma, ma sono composte e saldate in un tutto dall’io
epico, secondo uno schema che trascende i singoli eventi, generalizzandoli. Cosí passa in secondo
piano anche il momento drammatico della tensione, poiché una data scena non deve avere in sé il
germe della successiva. L’esposizione, che mai, forse, come qui è stato cosí difficile drammatizzare, e
cioè inserire nel corso della vicenda, può restare tuttavia sul piano della situazionalità epica. Questo
primo atto è intitolato La vita quotidiana 59 : esso interviene per breve tempo – di mattino, il
pomeriggio, di sera – nella vita di due famiglie. Poiché, a queste scene, non è assegnato alcun
compito drammatico, esse non devono portare la vita in situazioni di conflitto; tutto fa supporre che
questo 7 maggio 1901, che ci viene mostrato, sia un giorno come tutti gli altri. Anche le due famiglie
vicine sono ritratte secondo il principio della rappresentatività: la famiglia del Medico e quella del
Giornalista, l’una e l’altra senza alcuna peculiarità specifica, con due figli ciascuna, un ragazzo e una
ragazza, coi problemi comuni a tutte le famiglie, e i discorsi vertono su particolari che possono stare
per mille altri. Amore e matrimonio è il titolo dato al secondo atto. È il 7 luglio 1904, il giorno in cui il
figlio del Medico sposa la figlia del Giornalista. Comincia un altro giorno, dapprima uguale a tutti gli
altri, poi seguono i preparativi del matrimonio. Per spiegare questo matrimonio, il Regista torna
indietro nel tempo e ritrasforma in presente scenico il colloquio in cui Giorgio ed Emilia si dichiarano
l’uno all’altra, e poi un altro colloquio – anch’esso passato – fra i genitori di Giorgio sul matrimonio in
vista. Segue la cerimonia, anch’essa rappresentata, non come qualcosa di attuale ed unico, ma come
un importante avvenimento che ritorna nella vita di quasi tutti gli esseri umani. «Ci sono infinite cose
da dire intorno a un matrimonio, – dice il Regista rivolgendosi al pubblico, – e infiniti sono i pensieri
WILDER
che passano per la mente a chi assiste a un matrimonio. Noi non possiamo riassumerli tutti in una
sola cerimonia nuziale, si capisce; e specialmente a Grover’s Corners, dove le cerimonie nuziali sono
sempre piuttosto semplici e sbrigative. In queste nozze io rappresento il sacerdote. Questo mi dà la
facoltà di dirvi qualcosa in proposito» 60.
Il carattere rappresentativo dell’azione è cosí evidente che il Regista può supplire con le parole
dove la realizzazione scenica non giunge. Cosí anche nel terzo atto, che tratta della morte. Nove anni
dopo, nell’estate del 1913, Emilia muore dando alla luce il suo secondo figlio e viene sepolta nel
cimitero di Grover’s Corners.
Ma il Regista non eredita dall’azione solo il compito di garantire il tutto formale. In lui si rovescia
in forma anche la tematica che provocò, negli anni a cavallo del secolo, la crisi del dramma. La
problematicità dei rapporti intersoggettivi aveva messo allora il dialogo in una situazione
paradossale: quanto piú fragili diventavano le sue basi esistenziali, e piú doveva tradurre e risolvere
in forma dialogica fatti estraniati della sfera metadialogica del passato (Ibsen) 61 o delle condizioni
sociali (Hauptmann) 62. Alla rappresentazione di queste oggettività provvede qui il Regista
sottraendola all’intreccio dialogico. Il distacco epico, ancora interno alla tematica, che gli eroi di
Ibsen hanno – malgrado e contro la forma drammatica – nei confronti del loro passato, e quelli di
Hauptmann nei riguardi delle condizioni politico-economiche della loro esistenza, perviene qui – nella
posizione epica del Regista – alla sua espressione formale. Egli viene cosí a sostituire i personaggimedianti, che appaiono all’interno dell’azione nella drammaturgia di transizione di Strindberg e di
Hauptmann: il direttore Hummel 63, il ricercatore sociale Loth 64.
La cornice temporale dei tre atti, separati fra loro da grandi intervalli, viene epicamente
rappresentata – insieme al passato e agli anni a venire – nei commenti del Regista. Ma ancora piú
importante è la descrizione che egli fa dell’ambiente: della città di Grover’s Corners, della sua
situazione geografica, politica, culturale e religiosa. Ciò che il drammaturgo naturalista cercava
faticosamente di trasformare in un fatto intersoggettivo attuale, con un lavoro destinato a priori
all’insuccesso, è presentato qui al pubblico, nell’introduzione e fra le prime tre scene, dal Regista, da
un «Professore universitario» e dal Giornalista che prende parte all’azione. Con precisione scientifica
e ironica a un tempo lo spettatore viene informato dello sfondo oggettivo su cui si svolgerà poi la vita
delle due famiglie, che però a sua volta rappresenta quella dell’intera città. Anche se qui si conserva
ancora l’intenzione naturalistica di mostrare sulla scena l’ambiente come fattore condizionante
l’esistenza dei singoli, si cerca tuttavia, nello stesso tempo, di liberare lo spazio dialogico da quelle
oggettività per cui il dialogo della drammaturgia di transizione minacciava continuamente di
rovesciarsi in descrizione epica. Come segno esteriore di questa tendenza va vista anche la mancanza
dell’elemento scenografico e decorativo. L’oggettività può trovar posto solo nei commenti del Regista;
la scena deve restare sgombra per l’accadere intersoggettivo, pur problematico e limitato. Grazie a
questa rappresentazione epica dell’oggettività, il dialogo della Piccola città acquista una trasparenza
e una purezza che, dal classicismo in poi, possiede solo nei drammi lirici. Il teatro epico di Wilder
mostra quindi di non essere solo una rinuncia al dramma, ma anche un tentativo di dare una nuova
collocazione, entro una cornice epica, al suo contenuto essenziale: il dialogo.
Ma quanto il dialogo sia messo in crisi dall’interno, appare soprattutto nel terzo atto, dove Wilder
ha saputo ricalare nella tematica il principio formale della sua opera e l’intuizione che le diede
origine. Emilia è condotta al sepolcro, ma vorrebbe lasciare i morti per far ritorno alla vita. Invano i
morti cercano di farla desistere dal suo proposito: essa affronta il rischio dell’amara delusione che le
si predice e supplica il Regista di farle rivivere almeno un giorno della sua vita. Sarà il giorno del suo
dodicesimo compleanno. La libertà epica del Regista di ritornare al passato attualizzandolo 65 si
trasforma qui in una facoltà pressoché divina: egli può ridare ai morti il loro passato. La
presentazione di questa giornata non ha piú luogo per gli spettatori, ma per una dramatis persona
che sta a guardare, e il distacco epico del narratore verso la vita che descrive diventa quello dei
morti verso la vita in generale. Come accade già nel giovane Hofmannsthal, e non di rado nel periodo
successivo 66, la permanente autoestraniazione dell’uomo è illustrata e esemplificata con la
prospettiva della morte e del morire, che soli – in realtà – potrebbero giustificare questo distacco
dell’uomo nei propri riguardi. L’immagine che il morto acquista dei vivi si rivela quindi come
l’immagine mortificante che l’uomo odierno ha di se stesso.
EMILIA
I vivi non capiscono, vero?
No, cara… non molto.
È come se fossero rinchiusi in tante piccole scatole, non ti pare? 67.
LA SIGNORA GIBBS
EMILIA
Ecco la prima conoscenza che la morte rende possibile. La seconda si comprende solo mediante
un’inversione, e solo cosí diventa una vera conoscenza:
EMILIA
Perché dovrebbe essere doloroso [il ritorno]?
Non soltanto vivrete, ma vi vedrete vivere 68.
IL REGISTA
Se cosí non si esprimesse – «straniata» in esperienza dei morti – un’esperienza fondamentale
dell’uomo vivente oggi, lo spettatore non potrebbe capire la tragicità della scena seguente, dove
Emilia assiste al giorno del suo dodicesimo compleanno come bambina che vi partecipa e, insieme,
come donna spettatrice. Il fatto che Emilia veda continuamente anche se stessa è il rovescio, per cosí
dire, della cecità che riconosce nei vivi. «Everybody’s inevitable self-preoccupation» (l’inevitabile
preoccupazione per sé di ciascuno): in questa espressione l’autore ha riassunto, in una lettera,
entrambi gli aspetti, e ha rimandato a Čechov: «Chekhov’s plays are always exhibiting this: Nobody
hears what anyone else says. Everybody walks in a self-centred dream… It is certainly one of the
principal points that the Return to the Birthday makes» 69 («I drammi di Čechov mostrano sempre
questo: che nessuno sente ciò che gli altri dicono. Ciascuno procede in un sogno egocentrico…
Questo è certo uno dei principali significati del Ritorno al Compleanno»). La rinuncia di Wilder alla
forma drammatica, al dialogo come solo modo d’esprimersi, si spiega anche con la comprensione di
questo fatto.
XVII .
«È tempo che mi riabitui all’aria aperta… quasi tre anni di detenzione preventiva, cinque anni di
prigione cellulare, otto lassú nella grande sala…»: è cosí che, nei drammi analitici di Ibsen, si
rappresenta il tempo: nominandolo e calcolandolo 70. Ma al drammaturgo Ibsen era negato di
esprimere l’essenza del tempo, la sua durata, il suo passare e la sua azione trasformante: poiché ciò è
possibile solo ad una forma letteraria che, non solo tematicamente, ma anche formalmente, permetta
la visione simultanea di due momenti temporali separati. Poiché la diversità quantitativa e qualitativa
tra l’uno e l’altro è la sola prova lasciata dal tempo del suo fuggire che tutto trasforma. Ma la
struttura temporale del dramma è una successione assoluta di attualità 71, in cui è visibile solo
l’attimo di volta in volta presente, anche se – è vero – teso verso il futuro, e in atto di distruggersi a
favore dell’istante successivo. Ma l’intesa agente col decorso temporale, che si esprime in questa
limitazione al presente, non è il senso del tempo dei personaggi ibseniani. La riflessione inattiva che
li caratterizza li sottrae – per cosí dire – al decorso temporale e permette, solo cosí, che il tempo
divenga per loro tematico. Ibsen tiene conto di questo fatto drammatizzando il romanzo della vita dei
suoi eroi solo nel suo ultimo capitolo, e dipanandolo poi, analiticamente, nei dialoghi, a partire da
questo finale rappresentato scenicamente. La visione epica simultanea di diversi momenti temporali
è realizzata cosí almeno nella tematica, anche se a scapito dell’azione drammatica e della sua
assoluta successione di presenti, che, a causa dell’analisi che domina ovunque, non sono piú
veramente «drammatiche». Questa critica non tocca, peraltro, la tradizione drammaturgica di cui
Ibsen viene spesso, ed erroneamente, considerato seguace. È sempre accaduto, agli autori
drammatici, di trovarsi di fronte a una materia la cui estensione temporale pareva renderla inadatta
al dramma; se non intendevano rinunciarvi (come Grillparzer rinunciò al tema Napoleone), potevano
salvarla per il dramma solo concentrandola nella sua fase finale. L’esempio classico è quello della
Maria Stuarda di Schiller, che mostra nello stesso tempo, con estrema chiarezza, la differenza
rispetto a Ibsen. Poiché Schiller non mirava affatto a narrare a ritroso la vita della regina scozzese, e
tanto meno si può dire che quella vita gli apparisse come un esempio del passato – divenuto tematico
– di un essere umano. In quest’ultimo capitolo è ancora attuale – anzi, è ancora da compiersi – tutta
la lotta fra Maria e Elisabetta; ed è interpretare Schiller attraverso Sofocle, o addirittura attraverso
Ibsen, pensare che all’alzarsi del sipario tutto sia già deciso e la sentenza di morte sia già stata
praticamente firmata 72.
Il tempo come tale è divenuto un problema solo per l’epoca postclassica, che chiamiamo borghese,
e il cui drammaturgo piú significativo rimarrà pur sempre Ibsen. Ma il primo grande documento di
questo interesse per il tempo non è un’opera drammatica, ma un tardo romanzo «educativo»:
L’éducation sentimentale 73 di Flaubert, e questo interesse tocca il suo culmine nell’opera che
impegnò tutta la vita dell’unico allievo di Flaubert: A la recherche du temps perdu di Proust. Uno dei
temi principali di questo romanzo si può ravvisare nella tragica dialettica sperimentata da Proust fra
il bonheur come desiderio realizzato e il tempo come forza trasformante. Proust fu dolorosamente
colpito dalla scoperta che ogni appagamento giunge sempre troppo tardi, poiché mentre l’uomo
tende alla meta del suo desiderio, il tempo lo trasforma, e l’appagamento non trova piú il desiderio in
lui, ma cade – immancabilmente – nel vuoto. Perciò, secondo Proust, solo l’imprevisto, che non è mai
stato oggetto di desiderio, può rendere veramente felici.
Ma solo il romanzo è in grado di rappresentare adeguatamente questa identità – riflessivamente
vissuta – di essere e tempo, e non a torto si è accusata la letteratura moderna di un «totale
disorientamento», che imponeva di «dare rappresentazione drammatica a sviluppi temporali, allo
svolgersi progressivo di flussi temporali» 74. Ma non bisogna confondere «drammatico» e «scenico»,
negando che il tempo possa costituire il tema, non solo del dramma, ma anche del teatro in generale.
Basta, infatti, una sola opera in cui sia stata realizzata la rappresentazione dialogico-scenica del
tempo, perché questa possibilità sia teoricamente confermata. E questa rappresentazione è riuscita
nell’atto unico di THORNTON WILDER Il lungo pranzo di Natale (1931).
Già nei discorsi tenuti a tavola durante questo «lungo pranzo di Natale» della famiglia Bayard, fa
continuamente capolino il motivo del tempo, del suo trascorrere e della sua immobilità:
Comunque il tempo non passa mai tanto piano come quando si aspetta che i nostri figli crescano e
diventino qualcosa nella vita. Io non voglio che il tempo passi piú in fretta. No, grazie tante 75.
Ma cara, il tempo passerà cosí presto che non ti accorgerai nemmeno della mia lontananza 76.
Che si può fare per aiutarla? – Niente, cara. Soltanto il tempo, soltanto il tempo che passa può
darci aiuto quando accadono cose come questa 77.
Addio, caro angelo. Non crescere troppo presto. Resta cosí come sei 78.
Il tempo vola certamente veloce in un paese giovane come il nostro. Ma il tempo deve scorrere
cosí lento in Europa con quella terribile guerra che c’è laggiú 79.
Che si può fare per consolarla? Solo il tempo che passa può aiutare in queste cose 80.
Sí, il tempo passa, ma nessuno se n’accorge, ecco tutto […] Me ne vado da qualche parte dove il
tempo passa, per Dio 81.
Come passa lentamente il tempo quando non c’è gioventú per la casa 82.
Non resisto, non resisto piú […] Sono i pensieri, sono i pensieri di quello che è stato e di quello che
avrebbe potuto essere. È la visione degli anni che vanno in polvere, in questa casa… 83.
Ma non ci si limita a questi discorsi sul tempo. Il trascorrere del tempo è evocato, per cosí dire, in
una purezza priva d’oggetto e recato a esperienza immediata con mezzi drammaturgici presi in parte
dal cinema, ma tali da svolgere pienamente la loro funzione solo sul teatro. «Novant’anni devono
essere percorsi in questa commedia, che rappresenta, con moto accelerato, novanta pranzi di Natale
in casa Bayard»: cosí si dice nella didascalia introduttiva. L’espressione «in accelerated motion» non
va presa alla lettera. Perché, anche se durante il pranzo di Natale rappresentato sulla scena passano
novant’anni, il ritmo normale dei gesti e dei discorsi rimane immutato. L’acceleratore non è usato,
qui, al modo meccanico in cui è adoperato nel film, dove del resto serve quasi sempre a ottenere
effetti comici, e solo di rado a scopi documentari (quando si tratta di processi lenti); e mai,
comunque, a esplicitare il trascorrere del tempo. Il cinema, del resto, non risolverebbe col
movimento accelerato, ma col montaggio, il compito di descrivere l’avvicendarsi di novanta Natali.
Sarebbero accostati fra loro brevi tratti di singole feste natalizie divise fra loro da anni o da decenni,
e la loro diversità testimonierebbe della forza trasformante del tempo, che, peraltro, si esprimerebbe
solo in questa suddivisione spaziale e in stretto rapporto alle immagini mostrate. Anche Wilder
adopera il montaggio e accosta fra loro – come narratore – numerosi squarci, ma come drammaturgo
va al di là di ciò che può fare il film, fondendo questi frammenti dispersi nel tempo in un’unità
drammatica che dà l’immagine di un unico – anche se «lungo» – pranzo di Natale. Solo questo
secondo passo, che trasforma il montaggio epico in un fatto drammatico assoluto e fonda – solo cosí –
la sua continuità, rende possibile quell’esperienza immediata del tempo di cui si è parlato. È come se
i tratti di tempo che il montaggio lascia nelle commessure fra i vari pezzi fossero costretti – mercè la
compressione dei frammenti in unità drammatica – a uscire dai loro recessi, e saldati a loro volta in
un solo decorso temporale, che non costituisce il «lungo pranzo di Natale», ma lo accompagna in
modo autonomo.
La trasformazione del montaggio che abbraccia novant’anni in un fatto drammatico, determina, in
quest’ultimo, una dissociazione del decorso temporale in decorso temporale formale, che corrisponde
al tempo della rappresentazione, e in decorso temporale contenutistico, che è dato invece dal
montaggio originario. Questa dualità, che per l’epica è ovvia, e trova espressione nel binomio «tempo
della narrazione e tempo narrato» di Günther Müller, ha un effetto speciale nell’ambito drammatico.
Il fatto che, qui, i due ritmi temporali non si coprano, provoca un «effetto di straniamento» in senso
brechtiano: il passaggio del tempo, che nel dramma, come nella vita attiva dell’azione, è puramente
immanente, e non è presente in modo autonomo per la coscienza, viene ad essere sperimentato d’un
tratto – per la dissociazione di ciò che dovrebbe essere identico – come qualcosa di nuovo. Come la
durata di tempo può essere colta solo come differenza fra due momenti separati, spazializzata in
«tratto di tempo», cosí anche il decorso temporale sembra poter essere esplicitato solo come
differenza fra due decorsi temporali immanenti alla vicenda, e affiancati parallelamente.
Questa differenza fra i due decorsi temporali, che si può ricondurre alle due fasi della nascita
dell’opera (montaggio e drammatizzazione), costituisce il principio formale del Lungo pranzo di
Natale. Tutto testimonia della stessa intenzione di far sperimentare, mercè la differenza di cui si è
detto, con la massima intensità possibile il passaggio del tempo. Sul piano dell’azione, a questi
novant’anni corrisponde la «decadenza di una famiglia», come quella che è stata descritta
epicamente da Thomas Mann: alla vita costruttiva e agli stretti vincoli di solidarietà delle prime
generazioni segue l’alienarsi reciproco dei fratelli, l’insoddisfazione per la piccola città, la fuga dalla
tradizione familiare. A questo processo contrasta, sul piano drammatico, il pranzo di Natale, che,
come tutte le feste, rappresenta un arresto del tempo, la sostituzione del decorso temporale con la
ripetizione, che favorisce il ricordo del passato. Cosí la staticità della seconda vicenda non costituisce
solo la desiderata antitesi alla prima, ma – invitando al ricordo – rimanda direttamente ad essa:
Oggi fa proprio freddo. Andavo a pattinare con mio padre nei giorni come questo, e la
mamma tornava dalla chiesa, dicendo…
GENEVIÈVE (trasognata) «Che predica magnifica! Ho pianto dal principio alla fine».
LEONORA E perché piangeva, cara?
GENEVIÈVE Perché a quell’epoca tutti si commuovevano alle prediche.
CHARLES
Davvero, Geneviève?
Era come se le prediche facessero loro tornare alla mente il padre e la madre. Cosí
succede a noi nei pranzi di Natale. Specialmente in una casa vecchia come questa 84.
LEONORA
GENEVIÈVE
Questa doppia funzione della ripetizione è ancora piú evidente nei dialoghi. Mentre il passaggio dei
novant’anni si rivela nei brevi accenni ad eventi sempre nuovi, nel corso del pranzo di Natale si
ripetono le stesse frasi quasi stereotipe. Ogni volta si fa l’elogio della predica 85, si versa il vino con la
formula tradizionale 86, si parla dei reumatismi di un conoscente, o si chiama la cameriera perché
serva in tavola. Grazie a queste ripetizioni la vicenda natalizia si stacca come un evento sempre
uguale a se stesso dal decorso dei novant’anni, ma insieme testimonia di questo decorso col
cambiamento dei nomi del parroco, del conoscente malato, della cameriera, come anche solo per il
fatto di ripetersi, che non avrebbe senso se, intanto, non fosse trascorso del tempo. Anche le
dramatis personae mostrano il costante dualismo di ciò che muta e permane, in quanto si
contrappone – al succedersi di quattro generazioni – il personaggio statico del «parente povero», che
vive in casa e cambia una volta sola. E infine questo dualismo è anche alla base dello stile scenico: al
pranzo di Natale corrisponde una scenografia realistica: «La sala da pranzo in casa Bayard.
Parallelamente alle luci della ribalta e ad esse vicinissima, una lunga tavola imbandita per il pranzo
di Natale. Alla sua estremità, alla destra dello spettatore, il posto del capotavola; davanti ad esso, un
tacchino arrosto. Una porta sullo sfondo, a sinistra, conduce all’esterno». Ma questo realismo è
spezzato dai simboli del tempo: «A sinistra c’è una porta adorna di ghirlande di frutti e di fiori. Di
fronte a questa, un’altra porta, drappeggiata di velluto nero. Le due porte simboleggiano la nascita e
la morte» 87. E come queste due porte sono inserite bruscamente in una scenografia realistica, cosí la
recitazione degli attori, «naturale» benché non faccia uso di accessori, trapassa di continuo in
simbolica: la nascita dei figli è rappresentata dal loro ingresso attraverso la porta adorna di frutta e
di fiori; per indicare una grave malattia che dura per anni si fa che il malato si alzi da tavola, si
avvicini alla porta drappeggiata di nero e vi sosti esitando; i capelli bianchi – una parrucca che ci si
mette quasi inavvertitamente – simboleggiano la vecchiaia; l’uscita attraverso la porta nera
simboleggia la morte. Solo grazie a questa elementare scenografia simbolica, che si contrappone – in
funzione epica – all’illusionismo drammatico, quest’opera – che è stata definita finora dal punto di
vista tecnico un montaggio drammatizzato – si rivela nella sua vera essenza di rappresentazione
profana del mistero del tempo.
XVIII.
L’evoluzione di ARTHUR MILLER da epigono a innovatore, che si compie fra le sue due prime opere
edite, riflette con particolare evidenza quella generale trasformazione stilistica che collega e separa
insieme i drammaturghi della fine (o dell’inizio) del secolo e quelli di oggi: l’affrancarsi della tematica
epica dalla forma drammatica in una forma adeguata. Se questo processo centrale dell’evoluzione del
dramma moderno è stato esposto finora soprattutto confrontando fra loro i due periodi,
contrapponendo Ibsen e Pirandello, Čechov e Wilder, Hauptmann e Brecht, in Miller – come già
prima in Strindberg – esso appare evidente nell’opera di un solo autore.
In Erano tutti miei figli (1947) Miller ha cercato di salvare il dramma sociale analitico di Ibsen
trasferendolo immutato nell’America di oggi. Con un’analisi spietata è progressivamente scoperto il
delitto – tenuto celato per anni – del capofamiglia Keller, che forniva all’esercito parti di aereo
difettose e che si era reso colpevole, cosí, anche del suicidio – tenuto del pari nascosto – del figlio
Larry. Vi sono tutti i momenti secondari dell’azione che hanno il compito di trasformare il racconto
del passato in un fatto drammatico, come il ritorno della fidanzata di Larry e di suo fratello, il cui
padre – un impiegato di Keller – sta scontando senza colpa i crimini di costui. Non manca neppure
l’oggetto, spesso penosamente commovente, mediante il quale, in Ibsen, il passato che continua a
vivere nell’intimo affiora visibilmente, nel presente, e che simboleggia insieme, a fatica, il significato
profondo della pièce: in questo caso l’albero che era stato piantato un tempo per Larry e che sta in
mezzo alla scena, nel cortile, spaccato in due dalla tempesta della notte precedente. Se ad Erano tutti
miei figli non avesse fatto seguito Morte di un commesso viaggiatore (1949), quest’opera andrebbe
ricordata come un esempio dell’enorme influenza esercitata da Ibsen nei paesi anglosassoni,
influenza che cominciò con G. B. Shaw e che dura tuttora. Essa appare invece come un’opera del
periodo di formazione; come se Miller, volendo rappresentare teatralmente una «vita mancata» 88, e
in particolare un passato traumatico, si fosse reso conto – seguendo Ibsen – di tutte le resistenze che
incontra questo tema da parte della forma drammatica, e di tutti i passivi che implica conquistarlo ad
essa. Durante l’elaborazione di Erano tutti miei figli dovette apparirgli ben chiaro ciò che abbiamo
osservato a proposito di Gian Gabriele Borkman: il contrasto fra il passato ricordato nella tematica e
il presente spaziale e temporale postulato dalla forma drammatica; la conseguente necessità di
motivare l’analisi in una vicenda aggiunta appositamente, e infine l’incongruenza del fatto che questa
seconda azione domina la scena, mentre la vera «azione» rimane confinata nelle confessioni dei
personaggi.
Nella sua seconda opera Miller cerca di evitare queste contraddizioni abbandonando la forma
drammatica. Fondamentale, in questo senso, è la sua rinuncia all’analisi travestita da azione. Il
passato non è, qui, recato a forza alla luce e al linguaggio nel confronto drammatico dei personaggi,
e non accade piú che, a causa del principio formale, le dramatis personae appaiano signore della loro
vita passata, di cui in realtà sono le vittime impotenti. Ma il passato giunge a rappresentazione
esattamente come si fa luce nella vita stessa: in forza propria, nella «mémoire involontaire» (Proust).
Cosí, nello stesso tempo, esso resta un’esperienza meramente soggettiva e non crea – nell’analisi
condotta in comune – ponti fittizi fra gli uomini che ha lasciato divisi per tutta la vita. Cosí, nella
tematica attuale, all’azione intersoggettiva che obbligherebbe a parlare del passato, si sostituisce la
condizione psichica di un uomo che cade in preda ai ricordi.
Come tale è descritto il commesso viaggiatore Loman, ormai alle soglie della vecchiaia: il dramma
ha inizio quando egli soccombe completamente ai ricordi. Da qualche tempo i suoi familiari
osservano che egli parla spesso fra sé; in realtà egli rivolge loro la parola, ma non nel presente reale,
bensí nel passato che egli ricorda e che non lo lascia piú. Il presente del dramma è costituito dalle
quarantott’ore successive al ritorno inatteso di Loman da un viaggio d’affari: mentre era al volante il
passato lo travolgeva sempre di nuovo. Egli cerca invano di farsi trasferire nella sede di New York
della sua ditta, che rappresenta ormai da decenni; là si accorgono del suo stato (poiché parla sempre
del passato) e lo licenziano. Alla fine, per essere utile alla famiglia, che potrà riscuotere il premio di
assicurazione, Loman si toglie la vita.
Lo schema di questa vicenda attuale ha piú ben poco a che fare con la vicenda corrispondente dei
drammi di Ibsen, e dello stesso Erano tutti miei figli. Né è un fatto drammatico in sé concluso, né
induce a evocare il passato nei dialoghi. Tipica per questo aspetto è la scena fra Loman e il suo
principale. Il principale non è disposto a rievocare in un colloquio comune la carriera del commesso
viaggiatore, o la figura del proprio padre, che sarebbe stato animato da sentimenti di simpatia nei
confronti di Loman; con un pretesto esce dalla stanza e lascia Loman solo coi suoi ricordi, che
diventano sempre piú intensi.
Ma il ricordo è la nuova via (anche se già nota da tempo nel film col nome di flash-back) per
introdurre il passato al di là e al di fuori del dialogo. La scena si trasforma continuamente nello
spettacolo che la mémoire involontaire offre al commesso viaggiatore. A differenza del «processo
giudiziario» di Ibsen, il ricordo accade senza che se ne parli, e quindi affatto nell’ambito formale 89.
L’eroe si osserva nel passato ed è quindi accolto – come io che si ricorda – nella soggettività formale
dell’opera. La scena mostra solo il suo oggetto epico: l’io ricordato, il commesso viaggiatore del
passato, mentre parla coi suoi familiari. Questi non sono piú dramatis personae autonome, ma
appaiono riferite all’io centrale, come i personaggi proiettati della drammaturgia espressionistica. Il
carattere epico di questa drammaturgia del ricordo appare evidente se la confrontiamo al «teatro nel
teatro» come lo conosce il dramma. La rappresentazione teatrale organizzata da Amleto, che mostra
il passato come egli lo immagina, «[to] catch the conscience of the king» (per cogliere la coscienza
del re) 90, è inserita nell’azione come un episodio e costituisce in essa una sfera chiusa, che lascia
sussistere l’azione come suo ambiente esterno. Poiché questo secondo spettacolo è di ordine
tematico, e il momento della rappresentazione è, in esso, scoperto, tempo e luogo delle due azioni
non entrano in conflitto fra loro, e le tre unità drammatiche – e l’assolutezza della vicenda – restano
intatte. Nella Morte di un commesso viaggiatore, invece, la rappresentazione del passato non è un
episodio tematico e la vicenda presente sconfina continuamente in essa. Qui non c’è una compagnia
di attori che entri in scena; senza dire una parola i personaggi possono trasformarsi in interpreti di
se stessi, poiché l’alternarsi della vicenda intersoggettiva attuale e di quella passata e ricordata è
saldamente fondata nel principio formale epico. Cosí sono soppresse anche le tre unità drammatiche,
e soppresse nel senso piú radicale: il ricordo non implica solo molteplicità di luogo e di tempo, ma
anche la perdita della loro identità. Il presente spaziale e temporale della vicenda non è relativo solo
ad altri presenti, ma diventa relativo in se stesso. È per questo che, nella scenografia, non si hanno
veri e propri cambiamenti, ma piuttosto una metamorfosi continua. La casa del commesso
viaggiatore rimane sul palcoscenico, ma nelle scene ricordate non si tiene piú conto delle sue pareti,
coerentemente a ciò che avviene nel ricordo, che non conosce barriere di spazio e di tempo.
Particolare evidenza assume questa relatività del presente nelle scene di passaggio, che
appartengono ancora alla realtà esterna e insieme già a quella interiore. Nel primo atto, ad esempio,
mentre Willy Loman gioca a carte col suo vicino di casa, Charley, appare sul palcoscenico il fratello
del commesso viaggiatore, Ben, personaggio del ricordo:
WILLY
Comincio a essere veramente stanco, Ben.
Oh. Continua a giocare. Vedrai come t’addormenti. M’hai chiamato Ben?
Che stupido. Per un momento mi eri sembrato mio fratello Ben 91.
CHARLEY
WILLY
Il commesso viaggiatore non dice di vedere davanti a sé suo fratello morto. Poiché la sua
apparizione sarebbe un’allucinazione solo nell’ambito della forma drammatica, che esclude per
principio il mondo interiore. Ma qui la realtà presente e quella interiore del passato giungono
insieme a rappresentazione. Nel momento in cui il commesso viaggiatore ricorda suo fratello, questi
è già in scena: il ricordo è entrato nel principio formale scenico. E poiché accanto al dialogo si ha qui
il monologo interiore, cioè il colloquio con la persona ricordata, si determina un dialogo dove i
personaggi parlano senza ricevere risposta, sul tipo di quello di Čechov:
Abita con te nostra madre?
No, è morta. Tanti anni ormai.
CHARLEY Chi?
BEN
WILLY
Oh, che peccato. Era una vera signora, la mamma.
(a Charley) Eh?
BEN L’avrei rivista cosí volentieri.
CHARLEY Chi è morto?
BEN E di nostro padre hai notizie?
WILLY (coi nervi in pezzi) Come, chi è morto?
CHARLEY Si può sapere che stai dicendo? 92.
BEN
WILLY
Per dare forma drammatica a questo malinteso continuo Čechov si serví dell’artificio tematico della
sordità 93. Qui esso scaturisce formalmente dall’accostamento dei due mondi, la cui rappresentazione
simultanea è resa possibile dal nuovo principio formale. I vantaggi che esso offre rispetto alla tecnica
di Čechov sono evidenti. L’artificio tematico, il cui significato simbolico rimane oscuro, permette sí al
malinteso di esprimersi, ma ne dissimula insieme la vera origine: il fatto che l’uomo si preoccupa solo
di se stesso e del passato ricordato, fatto che può manifestarsi direttamente solo una volta abolito il
principio formale drammatico.
È proprio questo passato che ritorna presente ad aprire infine gli occhi al commesso viaggiatore,
che cerca disperatamente la causa della propria disgrazia e piú ancora degli insuccessi professionali
del figlio maggiore. Mentre Loman siede al ristorante davanti ai figli, emerge all’improvviso nella sua
memoria, e quindi anche agli occhi degli spettatori, una scena del passato: suo figlio lo sorprende in
una camera d’albergo di Boston con l’amante. Ora Loman capisce perché da allora suo figlio è
passato continuamente da un impiego all’altro, e ha danneggiato – commettendo un furto – la propria
carriera: voleva punire suo padre.
Nella Morte di un commesso viaggiatore Miller non volle piú svelare questo segreto (il fallo del
padre ereditato da Ibsen, e ancora centrale in Erano tutti miei figli) in un procedimento giudiziario
inventato per amore della forma. Egli fece sue le parole di Balzac, all’insegna delle quali sembrano
vivere sia i personaggi di Ibsen che i suoi: «Nous mourrons tous inconnus» 94. Accostando il ricordo al
dialogo presente, che per il dramma è la sola possibilità di rappresentazione, egli ha realizzato il
paradosso drammatico di rendere scenicamente attuale il passato di piú persone, ma di farlo per la
coscienza di una sola. Diversamente dall’analisi di Ibsen, che fa parte della tematica, la
rappresentazione del passato basata su un principio formale non ha alcuna ripercussione sugli altri
personaggi. Per il figlio quella scena sarà sempre un segreto assoluto, che non potrà rivelare a
nessuno come origine del fallimento della propria vita. Cosí il suo odio muto non erompe fino al
suicidio del padre, e neppure dopo. E nel «requiem» che conclude l’opera, la moglie del commesso
viaggiatore pronuncia, sulla sua tomba, parole che colpiscono e commuovono proprio per la loro
inconsapevolezza:
Perdonami caro, non mi viene da piangere. Chi lo sa perché, non mi viene da piangere. Non
capisco. Perché l’hai fatto? Aiutami Willy, non mi viene da piangere. Mi sembra che tu sia partito
per il solito giro. Sto qui ancora ad aspettarti. Willy caro, non mi viene da piangere. Perché l’hai
fatto? Mi sforzo, mi sforzo, ma non riesco a capire… 95.
Sipario.
LINDA
1
T. W. ADORNO,
2
ADORNO ,
Minima moralia, Berlin-Frankfurt 1951, p. 283 (trad. it. Einaudi, Torino 1954, p. 144).
Minima moralia cit., p. 291 (trad. it., p. 150).
3
Cfr. citazione al cap. II , § III .
4
Cfr. cap. II , § III .
5
K. EDSCHMID, Über den Expressionismus in der Literatur und die neue Dichtung, Berlin 1919, p. 57.
6
E. PISCATOR, Il teatro politico, Einaudi, Torino 1960, p. 127.
7
Ibid., p. 24.
8
PISCATOR , Il teatro politico cit., p. 76, nota 2.
9
Cfr. cap. II , § V .
10
PISCATOR , Il teatro politico cit., pp. 61-62.
11
Ibid., p. 131.
12
Ibid., pp. 132-33.
13
PISCATOR , Il teatro politico cit., p. 62.
14
PISCATOR , Il teatro politico cit., pp. 150-51.
15
PISCATOR , Il teatro politico cit., p. 175 e tav. 19.
16
Ibid., tav. 19.
17
BRECHT , Breviario di estetica teatrale, in Scritti teatrali cit., p. 121.
18
ID ., Saggio sull’opera «Mahagonny», in ibid., p. 30.
19
HEGEL , Vorlesungen über die Ästhetik cit., vol. XIV, pp. 479 sgg. (trad. it., pp. 1533 sgg.).
20
BRECHT , La madre, in Teatro, Torino 1965, p. 797.
21
BRECHT , Breviario di estetica teatrale, in Scritti teatrali cit., pp. 133-134.
22
ID ., Gesammelte Werke, London 1928, vol. I, p. 153.
23
ID ., Osservazioni sul dramma «La madre», in Teatro cit., p. 869.
Breviario di estetica teatrale, in Scritti teatrali cit., p. 144.
Ibid., cit., p. 146.
26
Cfr. cap. II , § III .
27
BRUCKNER , Die Verbrecher, Berlin 1928, p. 102.
28
BRUCKNER , Die Verbrecher cit., p. 77.
29
Ibid., p. 82.
30
Ibid., p. 85.
31
Ibid., p. 99.
32
Ibid.
33
Ibid., p. 100.
34
Ibid., pp. 102, 103, 104.
35
Ibid., p. 66.
36
Cfr. T. W. ADORNO, Standort les Erzählers im zeitgenössischen Roman, in Noten zur Literatur, I, Frankfurt am
Main 1958.
37
PIRANDELLO , Sei personaggi in cerca d’autore, in Maschere nude, Mondadori, Milano 1955, vol. I, p. 35.
38
PIRANDELLO , Sei personaggi in cerca d’autore cit., p. 49.
39
Cfr. cap. II , § I .
40
PIRANDELLO , Sei personaggi in cerca d’autore cit., p. 40.
41
Ibid., p. 59.
42
Ibid., p. 120.
43
PIRANDELLO , Sei personaggi in cerca d’autore cit., p. 102.
44
Ibid., pp. 84 sgg.
45
Ibid., pp. 95 sgg.
46
PIRANDELLO , Sei personaggi in cerca d’autore cit., p. 46.
47
Ibid., p. 57.
48
Cfr. cap. II, § III, e § V .
49
Cfr. cap. I .
50
Cfr. cap. II , § II .
51
Atto II, scena V .
52
Atto III, scena IV .
53
Atto II, scena v.
54
Cfr. cap. III , § VI .
55
HEBBEL , Sämtliche Werke cit., vol. II, pp. 200 sgg.
56
HEBBEL , Sämtliche Werke cit., pp. 218 sgg.
57
Cfr. cap. II , § V .
58
Cfr. cap. 1.
59
WILDER , Piccola città, Elios, Roma, atto I.
60
WILDER , Piccola città cit., p. 108.
61
Cfr. cap. II , § I .
62
Cfr. cap. II , § III .
63
Cfr. cap. II , § III .
64
Cfr. cap. II , § V .
65
Cfr. supra.
66
Cfr. cap III , § IX
67
WILDER , Piccola città cit., p. 128.
68
Ibid., p. 131.
69
WILDER , Correspondence with Sol Lesser, in Theatre Arts Anthology, ed. R. Gilder, New York 1950.
70
Cfr. cap. II , § I .
71
Cfr. cap. I .
72
Cfr. lettera di Schiller a Goethe, del 18 giugno 1799.
73
Cfr. LUKÁCS , Die Theorie des Romans cit., pp. 127-40 (trad. it., pp. 174-88).
74
LUKÁCS , Die Theorie des Romans cit., p. 129 (trad. it., p. 176).
75
WILDER , Il lungo pranzo di Natale, in Americana, Bompiani, Milano 1942, p. 854.
76
WILDER , Il lungo pranzo di Natale cit., p. 858.
77
Ibid., p. 858.
78
Ibid., p. 861.
79
Ibid.
80
Ibid., p. 863.
81
Ibid., p. 864.
82
Ibid., p. 865.
83
Ibid.
84
WILDER , Il lungo pranzo di Natale cit., p. 860.
85
Ibid., pp. 855, 860, 862.
86
Ibid., pp. 858, 864.
87
Ibid., p. 850.
88
Cfr. cap. II , § I .
24
25
BRECHT ,
89
90
91
92
93
94
95
Cfr. l’appendice del cap. II Transizione.
Atto II, scena 11.
MILLER , Morte di un commesso viaggiatore, in Teatro, Einaudi 1960, p. 208.
Ibid., p. 209.
Cfr. cap. II , § II .
Cfr. cap. II , § I .
MILLER , Morte di un commesso viaggiatore cit., p. 301. Non sono riportate le parole conclusive.
In luogo di una conclusione
La storia della drammaturgia moderna non ha un ultimo atto; su di essa non è ancora calato il
sipario. Cosí le parole con cui chiudiamo provvisoriamente questo discorso non vanno in alcun modo
prese come una conclusione. Non è ancora giunto il momento di concludere né di fissare nuove
norme. Né, del resto, la teoria del dramma moderno ha il compito di prescrivergli che cosa deve
essere. È solo giunto il momento di comprendere ciò che è stato fatto, e di tentarne la formulazione
teorica. Il suo compito è la registrazione delle nuove forme, perché la storia dell’arte non è
determinata da idee, ma dal loro realizzarsi in forma. Alcuni drammaturghi hanno strappato un
nuovo mondo formale alla tematica mutata del presente: avrà esso un seguito nel futuro? Tutto ciò
che è formale, contrariamente a ciò che è tematico, ha in sé come possibilità la propria tradizione
futura. Ma l’evoluzione storica del rapporto di soggetto e oggetto ha reso problematica, con la forma
drammatica, la tradizione stessa. Un’epoca per cui l’originalità è tutto, non conosce, al posto della
tradizione, che la copia. Perché un nuovo stile ridiventi possibile bisognerebbe quindi risolvere, non
solo la crisi della forma drammatica, ma anche quella della tradizione come tale.
Questa ricerca deve molte nozioni decisive all’Estetica di Hegel, ai Grundbegriffe der Poetik di E.
Staiger, al saggio di G. Lukács, Zur Soziologie des modernen Dramas, e alla Philosophie der neuen
Musik di T. W. Adorno.
Elenco dei nomi
Adorno, Theodor W.
Anders, Günther
Aristotele
Balázs, Béla
Balzac, Honoré de
Barthes, Roland
Beckett, Samuel
Benjamin, Walter
Brecht, Bertolt
Bruckner, Ferdinand
Brunetière, Ferdinand
Büchner, Georg
Čechov, Anton Pavlovič
Cézanne, Paul
Croce, Benedetto
Csokor, Franz Theodor
Dahlstroem, C. E.
Däubler, Theodor
De Castris, Amerigo Leone
Dujardin, Edouard
Dürrenmatt, Friedrich
Edschmid, Kasimir
Einem, Gottfried von
Eliot, Thomas Stearns
Enzensberger, Hans Magnus
Eschilo
Esopo
Flaubert, Gustave
Freytag, Gustav
Gadda, Carlo Emilio
García Lorca, Federico
Gelber, Jack
Giorgetti, Giorgio
Giraudoux, Jean
Goethe, Johann Wolfgang von
Gor´kij, Maksim, pseudonimo di Aleksej Maksimovič Peškov
Grillparzer, Franz
Gryphius, Andreas
Hartl, R.
Hasenclever, Walter
Hauptmann, Gerhart
Hebbel, Friedrich
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich
Heidegger, Martin
Hofmannsthal, Hugo von
Hölderlin, Friedrich
Husserl, Edmund
Ibsen, Henrik
Johst, Hanns
Joyce, James,
XXXV
Kafka, Franz
Kaiser, Georg
Kassner, Rudolf
Kierkegaard, Sören Aabye
Kleist, Heinrich von
Kollwitz, Käthe
Lorca, vedi García Lorca, Federico.
Lukács, György
Lutero, Martin
Maeterlinck, Maurice
Mann, Thomas
Marx, Karl
Miller, Arthur
Molière, Jean-Baptiste Poquelin, detto
Moravia, Alberto
Müller, Günther
Musil, Robert
O’Neill, Eugene
Ostrovskij, Nikolaj Alekseevič
Pasolini, Pier Paolo
Pavese, Cesare
Peacock, Ronald
Petsch, Robert
Pirandello, Luigi
Piscator, Erwin
Proust, Marcel
Racine, Jean
Richards, Ivor Armstrong
Rilke, Rainer Maria
Robbe-Grillet, Alain
Rochefort, Christiane
Salacrou, Armand
Saporta, Marc
Sartre, Jean-Paul
Scheler, Max
Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph
Schiller, Johann Christoph Friedrich
Schnitzler, Arthur
Schönberg, Arnold
Shakespeare, William
Shaw, George Bernard
Sciascia, Leonardo
Sofocle
Solmi, Renato
Sorge, Reinhard Johannes
Sponde, Jean de
Staiger, Emil
Stendhal, pseudonimo di Henri Beyle
Strindberg, Johan August
Tieck, Ludwig
Toller, Ernst
Tolstoj, Lev Nikolaevič
Trakl, Georg
Vittorini, Elio
Wagner, Richard
Wedekind, Frank
Wilder, Thornton
Yeats, William Butler
Zola, Emile
Il libro
I
N QUALE MODO IL DRAMMA DA GENERE LETTERARIO AUTOSUFFICIENTE, QUALE ERA ANCORA
un secolo fa, è entrato in crisi, alla ricerca di una nuova definizione che meglio corrisponda
all’evoluzione della società? È la domanda cui vuol rispondere il saggio di Szondi, che
analizza anzitutto la forma drammatica classica (i rapporti temporali e spaziali, la funzione
dei personaggi, ecc.) e indica poi nell’opera di cinque grandi scrittori (Ibsen, Čechov, Strindberg,
Maeterlinck e Hauptmann) i motivi che minano all’interno la struttura di quella forma. La
seconda parte del libro è dedicata ai diversi tentativi di soluzione, fra cui spicca, per coerenza
teorica e ricchezza di possibilità espressive, quello di Brecht.
Il libro è preceduto da un’ampia introduzione di Cesare Cases, che ne inquadra i motivi di
interesse e ne sottopone le conclusioni ad un’analisi stringente.
L’autore
Peter Szondi (Budapest 1929 - Berlino 1971), allievo di Emil Staiger, ha studiato nelle
Università di Gottinga e Berlino, dove è stato ordinario di letterature comparate. Delle sue
opere Einaudi ha tradotto anche Poetica dell’idealismo tedesco, La poetica di Hegel e
Schelling, Introduzione all’ermeneutica letteraria e, di recente, Saggio sul tragico.
Dello stesso autore
Poetica dell’idealismo tedesco
La poetica di Hegel e Schelling
Introduzione all’ermeneutica letteraria
Saggio sul tragico
Poetica e filosofia della storia
Titolo originale Theorie des modernes Dramas
© 1956 Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main
© 1962 e 2000 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Traduzione di G.L.
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www.einaudi.it
Ebook ISBN 9788858421451