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PETER SZONDI TEORIA DEL DRAMMA MODERNO 1880-1950 Introduzione di Cesare Cases Einaudi Introduzione alla prima edizione italiana 1. Questo libro di Peter Szondi appare in Italia in un momento (1962) in cui da noi si sono riaccese le polemiche sulla letteratura d’avanguardia, con una violenza che è difficile oggi riscontrare in altri paesi. Le ragioni di tale fenomeno sono facilmente comprensibili. Per quante periodizzazioni e distinzioni si possano e si debbano introdurre, le caratteristiche dell’avanguardia (nell’accezione che ha questa parola in Lukács) sono largamente comuni e si possono ricondurre alla loro comune origine: la reazione dello scrittore alla progressiva disumanizzazione della vita ad opera del capitalismo trionfante. Se questa reazione non trova un punto d’appoggio in una prospettiva (concreta, ma talora anche utopistica) al di fuori del capitalismo, essa approda necessariamente all’avanguardia della sua doppia direzione dell’assolutizzazione del soggetto e dell’assolutizzazione dell’oggetto, e le difficoltà interne ed esterne che ostacolano la ricerca e il consolidamento del punto d’appoggio assicurano all’avanguardia un’immutata vitalità. In Italia gli squilibri dello sviluppo economico e la tensione politica e sociale del dopoguerra, mentre favorivano l’affermarsi di tendenze realistiche accanto a quelle d’avanguardia, d’altra parte smussavano il contrasto tra i due orientamenti, che apparivano piuttosto diverse soluzioni entro intenti e orizzonti comuni, e soluzioni suscettibili di un compromesso implicito nel caratteristico termine «neorealismo». La polemica verteva allora casomai sui limiti e la portata dell’engagement dello scrittore, aveva dunque un carattere piú etico-politico che propriamente letterario, e anche le prime avvisaglie di una differenziazione su questo piano (in seguito alla pubblicazione del diario di Pavese) sono ancora subordinate a quegli elementi. Solo l’avvento del «miracolo economico» crea le condizioni della differenziazione. Mentre le tendenze realistiche si avviano a summae narrative rese possibili proprio dal fatto che il periodo di cui traggono il bilancio è ormai concluso, l’avanguardia assume coscienza di sé come reazione al generalizzarsi e all’irrigidirsi dei rapporti capitalistici. Il processo di differenziazione non è semplice; esso si districa a fatica dalla situazione precedente e gli esiti non sono affatto scontati in partenza. Giovani scrittori che si pensava dovessero evolvere in senso realistico passano all’avanguardia e viceversa. Scrittori da tempo consolidati subiscono, in un senso o nell’altro, l’influsso del nuovo stato di cose (si pensi alla Noia di Moravia). Se il grande ritorno di Gadda col Pasticciaccio propone all’avanguardia il modello assolutamente genuino di un precursore formatosi nell’epoca prebellica, già i romanzi di Pasolini rappresentano un compromesso con la tradizione postbellica per cui la reazione al capitalismo deve avere un’alternativa, se non nel proletariato, almeno nel sottoproletariato. Infine su tutta la situazione grava il peso dell’allargamento del pubblico e della trasformazione dell’editoria in «industria culturale»: lo scrittore oscilla tra la paura di non essere abbastanza venduto e la paura di esserlo troppo, e a seconda di come interpreta la dipendenza di queste due possibilità dall’essere o meno à la page si costringe talora, consapevolmente o meno, a farsi realista per forza o avanguardista per forza. Ma ad onta di tutto questo complesso groppo di influssi e controinflussi la linea della differenziazione si sta nettamente precisando. È significativo che Elio Vittorini, a suo tempo combattivo alfiere della dialettica tra avanguardia e visione politico-sociale, oggi applichi la sua immutata combattività alla lotta contro la «bella letteratura», perché «la letteratura ha sempre piú bisogno di spostarsi dal piano della consolazione, dal piano della direzione di coscienza, dal piano della religione, su cui oggi ancora agisce purtroppo in tanta sua parte, a quello opposto delle verifiche, delle approssimazioni determinanti, delle contestazioni feconde, delle illuminazioni operative, e insomma della scienza» 1. Non si tratta dunque piú di configurare la rivoluzione, la quale sembra espunta da entrambi i termini della questione, senza suonarle il piffero, ma di scegliere tra letteratura genericamente conservatrice e letteratura d’avanguardia. Sono note le polemiche suscitate da queste dichiarazioni vittoriniane. In tal modo anche l’Italia letteraria si avvia ad allinearsi al mercato comune della problematica letteraria europea, sia pure conservando una sua pittoresca vivacità e creatività. Ma la presa di coscienza dell’avanguardia come risposta alla falsa euforia della «società opulenta» implica una fondazione teorica che le confuse polemiche giornalistiche stentano a dare, e che è pure necessaria, perché il mercato comune in cui si entra è caratterizzato dall’inflazione e occorre orientarsi in modo da distinguere il prodotto genuino da quello in serie, che attraverso la sua stessa facilità di riproduzione ribadisce l’appartenenza al mondo che vorrebbe negare. Come Adorno ha parlato dell’«invecchiamento della musica moderna», cosí è stato detto in generale che l’avanguardia è oggi «diventata il suo contrario, è diventata anacronismo» 2. Il problema può essere affrontato sia dalla parte della forma che da quella del contenuto, e perciò le parole che piú frequentemente ricorrono nelle attuali polemiche sono «sperimentalismo» e «alienazione». La nozione di sperimentalismo, con la sua falsa analogia con la scienza (che rimane anche nelle parole di Vittorini, benché qui non si limiti all’ambito formale e serbi tracce dell’«impegno» verso la realtà rugosa), non serve certo a uscire dalla confusione. Enzensberger, che trova questo concetto «assurdo e inutilizzabile», spiega cosí la sua popolarità 3: «Un biologo che fa un esperimento su una cavia non può essere reso responsabile del comportamento di questa… Il risultato non sta nelle sue mani; lo sperimentatore è addirittura tenuto a intervenire il meno possibile nel processo che sta osservando. È proprio l’immunità morale di cui egli gode a piacere all’avanguardia». Con la differenza che questa non si sottopone nemmeno alle garanzie metodiche dello scienziato e «vorrebbe sottrarsi ad ogni responsabilità sia quanto al procedimento che ai risultati». Se il concetto di sperimentalismo avalla l’irresponsabilità e il maremagno, il ricorso all’alienazione, pur avendo il merito di toccare la genesi reale dell’avanguardia, ha l’inconveniente di unificare sommariamente ciò che quello lasciava nella sua allegra molteplicità. Dalla falsa infinità delle forme si passa alla falsa unità del contenuto. L’alienazione diventa una specie di chiave passe-partout che proprio per la sua universalità è atta a fornire dappertutto un alibi sociale che si sovrappone all’alibi «scientifico» dello sperimentalismo. Sorgono cosí estetiche che, citando alla rinfusa Marx e Husserl, Hegel e Richards, Lukács e Roland Barthes, consacrano qualsiasi cosa e tentano di conferire immanenza storico-sociale e necessità poetica a ciò che per l’appunto non ne ha verune. 2. In tale situazione giungono benvenute le poche opere veramente utili alla comprensione della genesi e delle prospettive dell’avanguardia, e il libro di Peter Szondi è una di queste. Nel darci la «teoria del dramma moderno» Szondi non parte né dalla mobilità dell’esperimento, né dall’alienazione in quanto tale (anche se questa sta sempre nello sfondo) per servirsene come asylum ignorantiae. Egli parte, sí, dalla forma, ma in quanto questa non è espressione individuale suscettibile di ogni piú arbitrario sperimentalismo, bensí ferma struttura che deriva il suo rigore dall’essere espressione o enunciazione (Aussage) di un modo d’essere dell’intera esistenza umana; egli parte, cioè, dal genere letterario. Per quanto impopolare sia da noi, in seguito alle tradizioni crociane, l’uso di questa categoria, proprio qui è dato vederne la necessità. Poiché una semplice constatazione, deprecativa o consenziente, della «dissoluzione delle forme» o del «nuovo modo di formare», resta nella tautologia e non può procedere a un’analisi approfondita finché si rifiuta di definire queste stesse forme come strutture oggettive e le mantiene nell’ambito dell’espressione soggettiva. Si può dire che la posizione di Szondi è esattamente agli antipodi di quella che si limita a vedere nei prodotti dell’arte moderna l’«opera aperta»; ciò che egli mostra è che l’«apertura» che si va formando all’interno del genere letterario è un faticoso processo che non ha, nelle sue manifestazioni valide, nulla di gratuito, ma tende a raggiungere un’opera nel suo genere non meno conchiusa di quella da cui prende le mosse. È possibile in tal modo intendere la necessità dello sviluppo e articolarne le varie fasi. Le basi di questo lavoro non sono state poste da Szondi stesso, ma da altri pensatori cui egli sovente si richiama: Hegel anzitutto, poi il giovane Lukács della Teoria del romanzo, il Benjamin dell’Origine del dramma tedesco e l’Adorno della Filosofia della musica moderna. Se Hegel ha fondato la moderna teoria dei generi trasformandoli, come dice Szondi, «da categorie sistematiche in categorie storiche», gli altri tre pensatori hanno meditato, vivendola dall’interno, sull’evoluzione delle arti nelle epoche di decadenza 4. Ma Szondi trae il suo interesse per l’analisi dei generi letterari anche da un’altra fonte: la migliore tradizione universitaria tedesca, rappresentata per lui da Emil Staiger. Dovendosi occupare del periodo classico della letteratura tedesca, in cui l’indagine dei generi era al centro non solo del pensiero estetico dei filosofi, ma anche della riflessione sulla prassi letteraria dei massimi scrittori del tempo (Goethe e Schiller), questa tradizione non ha mai rotto i ponti con tale indagine. In particolare Staiger nel suo libro Concetti fondamentali di poetica ha tentato una nuova poetica, fondata sulla filosofia esistenziale, in cui i generi letterari vengono ricondotti a tre fondamentali atteggiamenti umani che si ritroveranno in maggiore o minore misura nelle singole opere. Staiger preferisce perciò parlare, anziché di epica, lirica e drammatica, di epico, lirico e drammatico come di tre «significati ideali» in senso husserliano. È chiaro che tale impostazione 5, a differenza di quelle che si rifanno a Hegel, situa la problematica dei generi in una sfera atemporale sottratta allo sviluppo storico. Per questo Szondi, dato il suo assunto, non vi può far direttamente ricorso, pur rimanendone parzialmente influenzato. Poiché il suo assunto è proprio il processo di evoluzione di un genere letterario in corrispondenza a un mutamento storico che lo mette in crisi. A Szondi non interessa, in prima istanza, il mutamento storico in sé: egli si rifiuta di uscire dall’estetica per trapassare a una «diagnosi dell’epoca». La sua analisi verte sulle difficoltà che si formano all’interno della forma drammatica e ne minacciano la compagine, non sull’origine di queste difficoltà stesse. Costretto, talvolta, ad accennarvi, egli parla genericamente di uno «spostamento dello spirito del mondo» e si serve del termine reificazione (Verdinglichung) usato dai suoi ispiratori (il primo Lukács, ecc.) è pressapoco equivalente a quello, pure ricorrente, di alienazione (Entfremdung), anche se, da una parte, circoscritto alla vita dello spirito, e dall’altra generalizzato a qualsiasi rottura del rapporto soggetto-oggetto, quindi separato dalle precise implicazioni economico-sociali che il concetto di alienazione suole avere nella letteratura marxista. Anche questo concetto appare insomma piú come un sottinteso psicologico dell’evoluzione del dramma che come categoria esplicativa vera e propria. Siamo sempre al di qua di una «diagnosi dell’epoca». Questa cautela può parere timidità accademica alla nostra critica abituata a sparare i cannoni del marxismo anche dietro ai moscerini o, peggio, agli scarafaggi. E vedremo che effettivamente l’agnosticismo ideologico dello Szondi comporta certi limiti dell’esposizione. Ma bisogna riconoscere che, prima di tutto, l’unità hegeliana di teoria e storia, cosí viva in queste pagine, dà comunque frutti molto piú profondi di tanto marxismo che non ha compreso che Marx trae la sua grandezza dall’avere inverato quell’unità, dandole una base scientifica 6; e in secondo luogo che l’esclusione della «diagnosi dell’epoca» preserva l’autore da generalizzazioni affrettate e concentra le sue forze nell’analisi puntuale dell’evoluzione del genere. Il punto di partenza di Szondi è il dramma postrinascimentale (egli ha presente soprattutto la tragédie classique, in misura minore i classici tedeschi), che ha soppresso il prologo e l’epilogo, resti del momento in cui lo spettacolo era esplicitamente presentato come tale, come avveniva nel teatro medievale. Da questo momento il dramma è assoluto, cioè non conosce altro al di fuori di sé: è assoluto nel tempo, perché presenza pura, non riferita a un prima o a un dopo; è assoluto come rapporto interumano (zwischenmenschlich) perché non presuppone rapporti al di fuori di quelli espressi nel dialogo; infine è assoluto come accadere, poiché questo non è fondato altro che sulla sua propria tensione e non su altre condizioni psicologiche o attinenti al mondo esterno. Si pensi al famoso oui che inizia parecchie tragedie raciniane e che ci precipita immediatamente in medias res: tutto è già dato, e non resta altro che lasciare che si svolga l’inevitabile. Le tre unità scaturiscono naturalmente da questo carattere di assolutezza. Il fenomeno fondamentale che contraddistingue l’epoca moderna dal 1860 circa in poi è l’epicizzazione del dramma, che relativizza tutti i momenti dell’assolutezza: il dramma si apre verso il passato e verso il futuro (per esempio nel dramma «analitico» di Ibsen, in cui i personaggi rievocano il passato che li ha condotti a quel punto, mentre quelli di Čechov rinnegano esplicitamente il presente vivendo solo di rimpianti e di speranze); esso si svuota del rapporto interumano, in quanto i personaggi (in Maeterlinck, in Strindberg, ecc.) parlano senza intendersi o addirittura senza ascoltarsi, e i dialoghi si trasformano in monologhi; infine l’accadere perde la sua assolutezza e diventa esemplificazione di un destino (per esempio di una situazione economico-sociale in Hauptmann) cui rimanda. Questa relativizzazione epica dipende dalla scissione della sintesi tra soggetto e oggetto, che è tipica del dramma: i due termini entrano in opposizione, uno dei personaggi diventa la proiezione dell’io dell’autore e gli altri diventano l’oggetto di questo io, cioè al rapporto drammatico si sostituisce un rapporto squisitamente epico e sulla scena appare, a poco a poco, la figura del narratore. Nel capitolo intitolato La crisi del dramma Szondi descrive questo lento processo esaminando cinque autori, da Ibsen a Hauptmann, che lo incarnano in varia misura e in varie direzioni. Egli mostra come la crisi si riveli nell’inserirsi di una tematica epica in una forma che è ancora quella tradizionale. Questa coppia di concetti (con i corrispondenti aggettivi «tematico» e «formale») va intesa in senso piú restrittivo di quella abituale contenuto-forma. «Forma» indica, come già sappiamo, quegli elementi della forma (in senso lato) che costituiscono la struttura istituzionale del genere; «tematica» indica quegli elementi del contenuto che non si adattano alla «forma» anche se vi si possono inserire mediante connessioni formali (in senso lato). Per chiarire la distinzione si può partire da un esempio dato dallo stesso Szondi: una canzone è elemento «tematico» in una commedia, mentre è «formale» in un’opera; nel primo caso i personaggi possono prendere coscienza del fatto che cantano, nel secondo no. Cioè nel primo caso la canzone non rientra nella forma come struttura istituzionale, anche se non rimane un puro elemento di contenuto perché l’autore può motivarlo formalmente (attraverso una situazione che giustifichi il suo inserimento), ma questa motivazione resta essa stessa «tematica», episodica, nei confronti della struttura complessiva. Solo quando questa struttura si modifica in modo tale da non esigere piú una motivazione formale dell’inserimento (come nei songs di Brecht), la canzone da elemento «tematico» diventa elemento «formale». Nel capitolo di transizione sulla «teoria del mutamento stilistico» Szondi spiega come negli scrittori di trapasso il nuovo contenuto epico, cioè la separazione tra soggetto e oggetto, entrando in contrasto con la forma drammatica richieda una motivazione formale: per esempio in Prima dell’alba di Hauptmann l’analisi della degenerazione dei contadini arricchiti (di per sé una situazione statica che non può dar luogo a un dramma) è resa possibile dall’arrivo del sociologo Loth, ma questa motivazione formale resta «tematica» nel dramma perché vi introduce un elemento (l’io epico) che è veramente «formale», costitutivo, solo nell’epica. Infatti alla fine Loth viene allontanato dalla scena in modo del tutto inverosimile e arbitrario, e questo perché la forma drammatica, ancora immutata nei suoi capisaldi, esige che l’estraneo che ha reso possibile il dramma alla fine se ne vada. Se rimanesse, egli si scoprirebbe per quel che è: il travestimento dell’io epico. Nella sua espulsione la giustificazione formale della sua introduzione ha il sopravvento sulla sua piú profonda ragion d’essere «tematica». Invece alla fine dell’evoluzione che qui inizia, quando l’io epico avrà dismesso il suo travestimento e si presenterà per quel che è (per esempio nel regista della Piccola città di Wilder), egli non avrà piú bisogno di arrivare e di ripartire: la sua funzione non sarà piú «tematica» ma «formale». La contraddizione tra contenuto epico e forma drammatica creatasi nei cinque drammaturghi trattati nel secondo capitolo spezza la vecchia forma e tende a «precipitare» in una forma nuova, la quale utilizzerà le motivazioni formali escogitate da quei drammaturghi (il tribunale ibseniano sul passato dei personaggi, il narratore di Strindberg, il sociologo di Hauptmann) togliendo loro il carattere «tematico» e trasformandole in elementi costitutivi, «formali» in senso stretto. Prima però di analizzare questi «tentativi di soluzione», che spingono a fondo la contraddizione, cercando di fondare un teatro epico, Szondi dedica un capitolo ai «tentativi di salvataggio» che cercano di frenarla e di conservare la forma drammatica. In questi tentativi si tratterà anzitutto di salvare il rapporto interumano, la cui crisi minaccia la possibilità stessa del dialogo, e ciò avverrà sia cercando un ambiente popolare in cui l’alienazione non abbia ancora spinto gli uomini nell’isolamento (come nel dramma del naturalismo), sia trasformando il dialogo in conversazione e facendone il vero centro, estraniato ai personaggi, dell’opera teatrale (dramma-conversazione), sia rinunciando all’azione, ma salvando il momento della tensione e comprimendolo nel breve periodo antecedente alla catastrofe già scontata (atto unico), sia infine confinando i personaggi entro un breve spazio – per esempio una prigione – in cui essi sono costretti ad abbandonare l’isolamento e a ritrovare il rapporto interumano (drammi dell’angustia e dell’esistenzialismo). Quest’ultima via è quella che offre piú possibilità di riuscita nello sforzo di salvare il dramma, e Szondi parla addirittura di un «ritorno al classicismo»; le altre sono invece intimamente problematiche, anche se talora possono dar luogo a fenomeni d’eccezione come il teatro di Beckett, che trasforma il dramma-conversazione in un dramma della negatività della conversazione. L’ultimo capitolo, quello consacrato ai «tentativi di soluzione», non può avere la stessa compattezza dei precedenti, poiché le soluzioni del conflitto sono diverse e rappresentano fasi di un processo non ancora concluso. La forma drammatica, definita nel modo e con gli esempi che sappiamo, è un punto di partenza sicuro, ed è quindi piú facile seguirne la crisi e i tentativi di salvarla che non tracciare un profilo unitario di quel teatro epico che viene a sostituirla e che non si è ancora rassodato. Del resto è lecita la domanda se esso potrà mai fondare una forma autonoma che abbia la stessa validità e fecondità della vecchia forma drammatica. Questa domanda Szondi non se la pone e non se la vuol porre, poiché sulla storia del dramma moderno «non è ancora calato il sipario» e si può soltanto trarre le somme di ciò che esiste. Solo una volta (a proposito della tecnica del montaggio in Bruckner) gli sfugge il termine di «patologia» dei generi letterari, che indubbiamente implica un giudizio negativo sul processo che sta descrivendo, tanto piú che l’accenno non è limitato all’epicizzazione del dramma, ma si riferisce anche all’opposto e complementare fenomeno dell’inserimento di elementi drammatici (monologo interiore) nella narrativa. Tuttavia una rondine non fa primavera. Inoltre si può osservare che la scarsa simpatia che l’impassibile Szondi lascia trapelare nei confronti dell’uso del montaggio in Bruckner, come nei confronti dell’uso sia del montaggio che del monologo interiore in O’Neill, risale al fatto che entrambe queste tecniche appartengono alla patologia non del dramma, ma dell’epica, e quindi il loro reinserimento nel dramma costituisce in qualche modo una patologia di secondo grado; solo in presenza di questa Szondi si lascia sfuggire la parola anche per quella di primo grado. Sembra insomma che nel suo precipuo interesse per la coerenza della forma egli accetti tanto piú volentieri le soluzioni del problema posto dal dramma moderno quanto esse sono piú lineari e conseguenti, come un cancerologo parlerà di un «bel» tumore quando il quadro clinico non è accompagnato da manifestazioni secondarie che lo alterino. Quel che è certo è che nell’ultimo capitolo emergono i tre drammaturghi (Brecht, Wilder e Miller) che vanno piú in là nel far «precipitare» la tematica epica in una forma adatta, e che lo fanno con maggior consapevolezza. Altri tentativi esaminati lumeggiano solo certi aspetti del processo. Per esempio la drammaturgia dell’espressionismo, riprendendo il «dramma a tappe» di Strindberg, mostra come la riduzione del dramma alla storia dell’io isolato lo svuoti di ogni concretezza, in base alla dialettica per cui il soggetto assoluto, privo di rapporti, anziché potenziarsi diventa una pura astrazione, un’ombra anonima. Pirandello nei Sei personaggi porta sulla scena la storia stessa della crisi del dramma e della sua impossibilità, ciò che costituisce la grande importanza storica della commedia 7; però non realizza interamente l’idea del teatro epico in quanto il conflitto tra tematica epica e forma drammatica si riproduce all’interno dell’azione che fa da cornice, e tale conflitto porta (come nei Tessitori di Hauptmann) a una soluzione pseudodrammatica, il suicidio del Figlio, che ricongiunge le due azioni, quella attuale e quella rivissuta dai personaggi: il sipario, che all’inizio era aperto secondo le norme del teatro epico, alla fine si chiude. I criminali di Bruckner interessa Szondi soprattutto per l’attuazione coerente di un motivo che Strindberg aveva risolto in compromesso nella Sonata degli spettri e per l’apparizione della tecnica del montaggio, Strano interludio di O’Neill come pretesto per un’acuta divagazione sulle vicende dell’a parte e sulla sua trasformazione in monologo interiore. È in Brecht, in Wilder e in Miller che il principio del teatro epico si realizza nel modo piú integrale. Almeno ad opera del drammaturgo, perché prima si era realizzato ad opera di un regista, Piscator, che avvertendo l’insufficienza e l’ambiguità della produzione drammatica del suo tempo era stato indotto a radicalizzarla e ad anticipare Brecht nel fare del teatro l’esemplificazione di un processo politico-sociale che lo trascende. Alla scena «stereoscopica» che concentra gli sguardi degli spettatori verso uno spettacolo che sostituisce integralmente, finché dura, il mondo, subentra una scena comunicante in tutte le direzioni con un mondo di cui è soltanto un settore, un ritaglio, un capitolo. Con ciò si compie il passo decisivo per l’abbandono dell’assolutezza della vecchia forma drammatica e si risolve il conflitto immanente al naturalismo tra questa forma, fondata sul rapporto interumano, e la concezione, presente nella tematica epica, della società come oggettività alienata che nega la libertà del singolo. La rinuncia alla forma drammatica, l’uso di altri mezzi (soprattutto del film) per accentuare la relatività del processo scenico e il suo carattere d’esempio, rendono evidente la presenza del deus ex machina che ha organizzato tutto questo e che appare come gigantesco profilo dello stesso Piscator. L’io epico, che finora aveva assunto varie maschere, appare ora in prima persona come regista, attendendo di apparire anche come autore 8. In Brecht questo deus ex machina cessa presto di essere soltanto «il signor Bertolt Brecht» (Un uomo è un uomo) per diventare l’incarnazione di un principio: quello della scienza. Il vecchio teatro presupponeva la normalità dei rapporti tra gli uomini, ma la rivoluzione industriale ha modificato questi rapporti dividendo l’umanità in due categorie, i molti sfruttati e i pochi sfruttatori, coloro che traggono ricchezza e coloro che traggono miseria dall’impresa del dominio delle forze naturali. In tale situazione solo la borghesia ha interesse a conservare il vecchio teatro che ignora la linea di divisione e presenta come omogenea un’umanità che non lo è. Ma se il teatro non accetta piú la normalità dei rapporti umani, non può piú accettare nemmeno la forma drammatica, che tale normalità presuppone: deve indicare, smascherare, dimostrare in nome della scienza, e quindi farsi teatro epico. Brecht svolge coerentemente il nuovo principio permeandone tutta la rappresentazione attraverso ogni sorta di «effetti di straniamento» (prologhi, cartelli, cori, songs, recitazione «straniata» degli attori, ecc.) che servono a ribadire ovunque l’opposizione tra soggetto ed oggetto, il fatto che l’essere sociale dell’uomo si è estraniato da lui e gli appare come oggettività alienata. In modo assai diverso viene attuato il principio del teatro epico in Piccola città di Thornton Wilder. Qui la descrizione della banalità della vita quotidiana, che in Čechov o in Prima dell’alba di Hauptmann urtava contro la forma drammatica e spingeva a soluzioni pseudodrammatiche, viene resa possibile dall’introduzione della figura del regista, che si sobbarca su di sé, come soggetto epico, tutto il resoconto della situazione oggettiva (l’ambiente della piccola città) da cui scaturisce la vita dei personaggi. Anziché fluire attraverso tutta la rappresentazione, come in Brecht, la separazione soggetto-oggetto si concentra qui in un punto solo. Inoltre il regista può manipolare a suo piacimento il tempo, rendendo presente il passato e risolvendo cosí di colpo il problema che era costato tanta fatica ai precursori come Ibsen (nel Lungo pranzo di Natale, pure analizzato da Szondi, il tempo diventerà addirittura il protagonista). Ma assumendo in sé tutta l’epicità del teatro epico, il regista permette ai personaggi di usare un dialogo non minacciato dal pericolo della descrittività e la cui purezza strappa a Szondi accenti d’ammirazione. Radicalizzando il teatro epico, Wilder trova all’interno di esso la possibilità di salvare in qualche misura il dialogo e il rapporto interumano che vi soggiace. Che questo salvataggio sia però molto precario lo mostra il terzo atto, dove Emily morta e risuscitata per un momento dal regista constata l’impossibilità di comunicare coi vivi. Se il libro si chiude su Arthur Miller non è solo per ragioni cronologiche, ma anche perché il passaggio da Erano tutti miei figli alla Morte di un commesso viaggiatore permette a Szondi di dare come un raccourci dell’evoluzione che ha descritto. Il primo dramma è una ripresa immutata della tecnica ibseniana del dramma analitico che urta, come in Ibsen, contro il dissidio tra la tematica epica del passato ricordato e la forma drammatica attuale. Invece nel secondo Miller abbandona risolutamente la forma drammatica: il passato non viene piú faticosamente ricostruito attraverso il dialogo, ma appare direttamente sulla scena obbedendo alla «memoria involontaria» del commesso viaggiatore, un po’ come madama Pace appariva nei Sei personaggi quando c’era bisogno di lei. Cosí il commesso assume la parte dell’io epico e il suo passato diventa l’oggetto immediato della sua – involontaria – narrazione. Non c’è netta distinzione tra i due piani, sicché abbiamo continui trapassi spaziali e temporali pur senza cambiamenti sulla scena, poiché ciò che avviene non è altro che l’incarnarsi del ricordo, e il ricordo non conosce barriere di spazio e di tempo. Siamo veramente al polo opposto del dramma classico: luogo e tempo, da assoluti che erano, sono diventati relativi non soltanto di fronte ad altri luoghi e ad altri tempi, ma in sé. 3. Tantae molis erat uscire dagli impacci creati dall’inserimento della tematica epica nella forma drammatica per arrivare a soluzioni soddisfacenti, anche se non conclusive. Quando sarà giunto alla fine di questo processo, che qui abbiamo per forza di cose ancor piú schematizzato, il lettore sarà probabilmente colto da un miscuglio di ammirazione e di insoddisfazione: ammirazione per la logica stringente con cui è esposta l’evoluzione e per l’acutezza delle singole analisi; insoddisfazione perché la coerenza della soluzione formale non va sempre congiunta al valore estetico. Se ci lasciassimo soverchiare da questa insoddisfazione potremmo equiparare questo libro alle opere positivistiche sull’«evoluzione dei generi» e rifar nostra la polemica crociana contro Brunetière. Ciò sarebbe estremamente ingiusto, sia perché l’evoluzione dei generi non comporta in Szondi un progresso di tipo positivistico, ma casomai, come abbiamo visto, una patologia dei generi stessi, sia perché Szondi ha delimitato esattamente il campo della propria indagine e non ne vuol sapere di dare un giudizio sul significato dell’evoluzione né sul rapporto tra l’importanza di un’opera come tappa in seno a tale evoluzione e la sua importanza estetica in generale. È vero che egli era partito dalla definizione dell’arte come sintesi di forma e contenuto e aveva inteso mostrare come tale sintesi, messa in crisi dall’introduzione della tematica epica, si ristabilisca una volta che questa si sia creata la forma epica adeguata. Ci sarebbero quindi i presupposti per identificare il valore estetico con la coerenza della soluzione formale: se ciò in Szondi non accade è perché gioca in lui, consapevolmente o meno, l’eredità del platonismo benjaminiano o della fenomenologia di Staiger per cui la validità di un’idea rimane sempre come sospesa al di sopra degli oggetti che la incarnano. Tuttavia noi non siamo tenuti a condividere questa posizione, e gli interrogativi cosí elusi ci si impongono egualmente. Sta bene che la soluzione formale epica di Miller sia superiore a quella di compromesso di Ibsen, né Szondi vuol certo affermare con questo che Miller sia genericamente superiore a Ibsen, ma egli non ci spiega perché gli sia in realtà tanto inferiore. E se il primo dramma di Miller non è altro che un Ibsen trapiantato in America, perché continuiamo a preferirgli l’originale? In generale, se i tentativi di «salvataggio» e di «soluzione» affrontano per le corna una contraddizione soltanto palliata dai precursori, come mai questi restano tutto sommato (salvo magari Maeterlinck) piú interessanti di quelli, come del resto è indirettamente confermato dal fatto che il capitolo loro dedicato rimane il migliore, il piú ispirato di tutto il libro? Ma anche se tagliamo il corso dell’evoluzione in due punti paralleli dobbiamo chiederci, per esempio, perché Brecht ci dica molto di piú che non i dialoghi «classici» della Piccola città. Qui non vogliamo certo rispondere esaurientemente a questi interrogativi, ma solo indicare alcuni punti che ci sembra possano, senza invalidare il quadro di Szondi, correggerne la rigidità e permettergli di rendere conto di fenomeni che ne restano esclusi. Il ragionamento di Szondi sviluppandosi con lucida coerenza a partire da certe premesse, saranno queste che dovremo porre in discussione. Se si confronta la sua definizione del dramma con quella hegeliana, cui parzialmente si ispira, si troverà una differenza significativa, e cioè la mancanza del momento, assai importante in Hegel, della collisione. La collisione è il momento intermedio tra la situazione e l’azione: l’azione «presuppone delle circostanze che conducono a collisione, all’azione e reazione» 9 e in essa entrano in conflitto delle «potenze universali, che formano il contenuto e il fine essenziale per cui si agisce» 10. La collisione è quindi il «punto cardine» del dramma: «da una parte tutto tende alla esplosione di questo conflitto, ma dall’altra proprio la discordia e la contraddizione di contrastanti disposizioni di animo, fini e attività hanno comunque bisogno di una soluzione e vengono spinti verso questo risultato» 11. Al posto di questo «punto cardine» troviamo in Szondi, come presupposto dell’azione, solo il «rapporto interumano», la sfera del «tra». E non è già che questo non sia giusto, perché il dramma presuppone in ogni modo una comunanza tra gli uomini, che se non altro hanno in comune appunto il conflitto. Ma questo è solo l’ovvio terreno su cui si innesta la collisione come tale. Per Szondi tale sfera del rapporto interumano non è piú ovvia perché egli la scorge dal punto di vista di un’evoluzione che la nega. Gli sembra perciò, in qualche modo, che la sua presenza basti per far scattare automaticamente il conflitto drammatico, e cosí perde di vista la vera molla di esso, e cioè «i bisogni essenziali del petto umano, i fini in se stessi necessari dell’agire, in sé legittimi e razionali, e quindi le potenze universali ed eterne dell’esistenza spirituale» 12. Non ci interessa qui di esaminare le conseguenze, talora unilaterali, e l’insufficiente tipologia che Hegel ha tratto da questa sua concezione della collisione, ispirata soprattutto all’Antigone 13: nelle sue linee generali essa è pienamente valida. Ora, se l’essenza del dramma sta nella collisione di opposte forze – e nella loro incarnazione in personaggi il cui carattere sia adatto a rappresentarle –, ciò importa qualche ritocco al quadro offerto da Szondi. In primo luogo la sua concezione del dramma si rivela alquanto astratta. Non è un caso che egli consideri le tre unità come essenziali e che il suo modello sia la tragédie classique. Shakespeare è per lui un’eccezione: la forma «aperta» che il dramma qui assume è da spiegare con le histories, poiché l’introduzione dell’elemento storico basta già a spezzare l’assolutezza del dramma, rimandando a qualche cosa che è al di fuori di esso (la verità storica). Il dramma storico è in fondo per Szondi una contraddizione in adjecto. Questa tendenza a considerare la forma del dramma shakespeariano come non rappresentativa (senza che ciò, al solito, coinvolga un giudizio estetico) si trova, su altre basi e con altri accenti, anche in alcuni ispiratori di Szondi 14. Di fronte a tale tendenza, che sottolinea eccessivamente gli aspetti formali, restano valide la polemica lessinghiana contro le teoriche francesi e la definizione hegeliana della «vera unità» del dramma che «può avere il suo fondamento solo nel movimento totale, per cui la collisione sorge, secondo la determinatezza delle circostanze, dei caratteri e dei fini particolari, in conformità ai fini ed ai caratteri, e al contempo elimina la loro contraddizione» 15. È alla stregua di questa «vera unità» che occorre giudicare la composizione di un dramma, la quale può quindi essere molto piú elastica di quanto non comporti la definizione szondiana, che soffre di quel «diffuso pregiudizio» di cui parla Lukács 16 per il quale «l’esteriore concentrazione dell’azione, la riduzione dei personaggi a un piccolo numero ecc. rappresenterebbero una tendenza puramente drammatica, mentre i frequenti e vari cambiamenti di scena, una folla di personaggi ecc. rappresenterebbero una tendenza epica nel dramma», mentre in realtà «il carattere veramente drammatico o “romanzato” di un dramma dipende dalla soluzione del problema della “totalità dei movimenti” e non soltanto da connotazioni puramente formali». Si dirà che questo «pregiudizio» incide in scarsa misura, nel caso particolare, sulla trattazione di Szondi, in quanto è comunque indiscutibile che il dramma moderno è caratterizzato dall’invasione della tematica epica e quindi la semplificazione del concetto di dramma permette anzi di discernere meglio l’evoluzione. Nulla di piú vero, ma se vogliamo abbozzare una risposta ai quesiti che sorgevano alla lettura del libro dobbiamo tener conto di questi limiti della sua impostazione. L’avvento della tematica epica è un fenomeno derivato che tenta di rimediare a quella che è la vera causa della crisi del dramma: la perdita della collisione come urto di due «potenze universali» e la sua sostituzione con conflitti puramente psicologici che non si nutrono di quelle potenze o le toccano solo tangenzialmente. La feticizzazione delle forze sociali ad opera del capitalismo le configura come un destino imperscrutabile, un cielo immobile, mentre all’individuo non resta altro che la possibilità di identificare il suo proprio dramma personale con quella legge cosmica. La libertà dell’eroe tragico, anche nella sua fine, cui Szondi spesso si riferisce citando un detto di Schelling, sembra definitivamente compromessa. Questa concezione della tragedia, che ha il suo grande precursore in Kleist, appare in Hebbel dopo il 1848 e da allora grava su quasi tutto il dramma europeo. La periodizzazione di Szondi, che vede la sua definizione del dramma applicata ancora verso il 1860 e fa iniziare la crisi da Ibsen, non è quindi applicabile alla crisi piú profonda, quella della collisione. Ora questa crisi non si svolge in modo uguale dappertutto e proprio Ibsen mostra nelle sue opere maggiori come si possano ancora affrontare di petto alcuni conflitti fondamentali della società borghese, imperniati sull’amore, il matrimonio e la famiglia, traendone effetti veramente drammatici. Personaggi come Nora o la signora Alving sono indimenticabili proprio perché rompono con la loro forza morale la crosta reificata dell’oggettività sociale borghese e restaurano quindi in qualche misura la libertà dell’eroe tragico. Anche se Szondi sceglie un’opera del tardo Ibsen, molto piú problematico, tra Ibsen e il suo immediato successore Strindberg resta sempre un vero abisso : qui sí che il conflitto perde ogni sostanza universale e si fa sempre piú espressione di una patologia privata perseguitata da un destino feticizzato. Ibsen non è dunque soltanto il creatore della tecnica «analitica». Se in Erano tutti i miei figli Miller ci sembra tanto inferiore al suo prototipo, è anzitutto perché la ricostruzione del passato non porta alla luce nessun conflitto sostanziale che investa l’intero destino degli uomini. Keller, fornendo all’esercito dei pistoni avariati, provocando la morte di molti aviatori e scaricando la responsabilità su un impiegato, non è molto di piú di un delinquente che si crede autorizzato al delitto dalla legge dell’interesse; se si uccide, lo fa perché ha scoperto che oltre alla morte degli aviatori ha provocato il suicidio di uno dei suoi figli. La consapevolezza che raggiunge nella morte non va al di là di quella del figlio «idealista» Chris, che ritiene del tutto accidentale e inspiegabile il fatto che la società non osservi quella solidarietà elementare che egli ha sperimentato in guerra. Come dice Miller stesso 17, «Joe Keller è accusato da suo figlio di aver fatto coscientemente uso immorale della sua posizione economica; e questo, come dissero i russi quando esclusero il lavoro dai loro palcoscenici, implica la presunzione che la norma del comportamento capitalista è morale, o almeno può esserlo, presunzione che nessun marxista può ammettere». Non solo i marxisti ma anche, si può aggiungere, Ibsen. Poiché perfino i protagonisti delle opere tarde di Ibsen, grottescamente oscillanti tra il superominismo e la vigliaccheria, non agiscono mai per fini puramente privati, e già le loro eterne lamentele sulla grigia massa che non li comprende sono un modo, sia pure erroneo, di mettere in questione le basi stesse della società. John Gabriel Borkman non fa eccezione: le malversazioni che l’hanno portato in carcere egli le ha compiute nella speranza di attuare «gigantesche imprese», per impadronirsi «di tutte le fonti del potere che esistono in questo paese… e cosí dare la prosperità a migliaia e migliaia di esseri umani». La circostanza che Borkman sacrifichi a queste prospettive il suo amore per Ella fa sí che il conflitto che si riesuma nel dramma abbia ancora una certa base, anche se attenuata e distorta, nelle «potenze universali» (base che Szondi, sia detto tra parentesi, minimizza ulteriormente non accennando alle grandi ambizioni di Borkman e parlando soltanto di «carriera nella banca»). Sia rischiando i capitali affidatigli, sia sacrificando l’amore all’ambizione, Borkman rivela che la «norma del comportamento capitalistico» non è morale né può esserlo, e ciò benché essa sia ancora sorretta da ideali sociali. Niente di tutto questo nel primo dramma di Miller, dove il crimine di Keller non è motivato da altro che dall’interesse personale e quindi una volta espiato lascia le cose non solo come prima, ma meglio di prima: non per nulla alla fine la Madre impone al figlio «Dimentica. Vivi», e gli ingiunge di tacere. La colpa di questo non è naturalmente solo di Miller, che anche in Erano tutti miei figli dispiega notevoli qualità e raggiunge talora un pathos morale autentico, ma del fatto che Ibsen può rappresentare personaggi in cui la vitalità e il dinamismo della vecchia borghesia – anche se ormai votati all’insuccesso e confinati nella solitudine e nella monomania – hanno ancora un aspetto di universalità, mentre in Miller l’universalità è tutta dalla parte del grigiore alienato del meccanismo capitalistico, possibilmente indorato dall’«idealismo» di Chris, e il rude pioniere, il self-made man, si distingue solo perché non esita di fronte al delitto onde mantenere le proprie conquiste. Si noti che anche la Morte di un commesso viaggiatore, che si svolge tutta all’interno dell’alienazione piccolo-borghese, contrappone alla figura dell’esaltato Willy Loman quella del saggio Charley, che riesce dappertutto là dove l’altro fallisce. Per grande che sia il divario riscontrato da Szondi nella tecnica, il carattere casuale e privato del dramma permane esattamente lo stesso. Se anche nel vecchio Ibsen si mantiene parzialmente il peso della collisione nel conflitto tra vecchia e nuova borghesia, questo sarà tanto piú forte là dove le istanze borghesi non sono ancora realizzate. Szondi cita La casa di Bernarda Alba di García Lorca come esempio di «dramma dell’angustia». Molto giustamente egli distingue un caso come questo, in cui l’angustia «appartiene essenzialmente alla vita degli uomini», dai drammi dell’esistenzialismo, in cui essa è introdotta artificialmente attraverso un «atto drammaturgico» preliminare. Tuttavia anche qui egli identifica con l’espressione «vita degli uomini» situazioni di conflitto puramente privato e situazioni in cui entrano in gioco forze piú vaste, e allinea sullo stesso piano di Lorca fenomeni cosí diversi come il dramma borghese e i drammi strindberghiani sul matrimonio. Invece Lukács 18 rileva la profonda affinità tra La casa di Bernarda Alba e La tempesta di Ostrovskij, in quanto entrambi i drammi sono sorti in situazioni in cui il feudalesimo domina interi settori della vita. È per questo che il conflitto non è ancora complicato dalla problematica interna della società borghese e l’opposizione tra natura e irrazionalità delle convenzioni, avendo dietro di sé tutta la forza dell’opposizione storica tra feudalesimo e borghesia, conserva una schietta, potente monumentalità. L’Adela del dramma di Lorca può cosí ritrovare nella sua ribellione e nel suicidio la libertà del vero eroe tragico. Ma si tratta appunto di un’eccezione resa possibile, in pieno ventesimo secolo, dalla particolare situazione spagnola. Quanto piú l’essenza dell’individuo si trasferisce nell’oggettività feticizzata, tanto piú si perdono i presupposti della collisione e il teatro si epicizza. Tuttavia anche qui bisogna distinguere tra i vari esiti del processo delineato da Szondi. Un caso estremo è quello di Piccola città: alla coerenza compositiva nell’attuazione della forma epica corrisponde la coerenza del mondo rappresentato, dove nessuna collisione è piú possibile perché la banalità quotidiana ha permeato l’intera vita degli uomini. L’unico elemento «drammatico» può essere dato ormai dall’interruzione di tale banalità, e cioè dalla morte, che in questo mistero profano ha perso anche quella necessità morale fondata su un ordine trascendente che la rendeva piú interessante – ma non molto piú drammatica – nella leggenda medievale di Ognuno, ripresa da Hofmannsthal. Se l’Adela di Lorca si uccide, se la Nora di Ibsen abbandona la sua casa, il massimo sforzo che Emily arriva a compiere per sottrarsi alla prospettiva di rimanere vita natural durante un degno membro della comunità di Grover’s Corners è quello di morire di parto. Che si tratti in qualche modo di uno sforzo, sia pure inconsapevole, è documentato dal terzo atto, in cui Emily si accorge che il cimitero è dopo tutto l’unico luogo della piccola città in cui si è al riparo dall’alienazione (si veda il frammento di dialogo con la signora Gibbs riportato da Szondi). Ma questa è una magra rivincita sul sublime filisteismo che si respira in tutta la commedia. Ben diversa è la funzione del teatro epico in Brecht. Le basi su cui esso sorge sono uguali a quelle di Wilder, né potrebbe essere altrimenti: l’epicizzazione del teatro deriva pur sempre dall’alienazione dell’essenza sociale, come mostra Szondi. La sua impostazione fa giustizia della tesi, suggerita in parte 19 dallo stesso Brecht, per cui il teatro epico sarebbe la forma specifica del teatro socialista, con la conseguente svalutazione di tutto il teatro «aristotelico» come teatro di classe. Chiamando Brecht «un erede del naturalismo» Szondi sottolinea l’elemento comune dell’oggettivazione della realtà economico-sociale di cui i singoli sono pure esemplificazioni; anzi si può aggiungere che, come la tematica epica del naturalismo è qui «precipitata» in forma, anche il principio del dissolvimento del personaggio a elemento rappresentativo è attuato – almeno nel Brecht epico, il Galilei esige un altro discorso – molto piú a fondo, e Bäcker o Dreissiger nei Tessitori hanno una consistenza individuale maggiore di un operaio o di un capitalista brechtiano, pur avendo una consapevolezza ideologica infinitamente minore. Senonché, se lo sfondo su cui si agitano gli eroi di Brecht è lo stesso destino feticizzato che fa da sfondo al teatro moderno da Strindberg a Wilder, la differenza capitale è che Brecht si propone la demistificazione di questo feticismo. Il richiamo alla scienza e al materialismo storico trova qui la sua legittimità. Invece di accettare come dati l’assenza di rapporti e la fungibilità dell’io (si pensi all’Anima buona del Sezuan in confronto a certi drammi di Pirandello), Brecht le riconduce alle loro radici. In tal modo l’oggettività sociale perde il carattere di destino inesplicabile e unitario e si rivela come lotta di classe. Riappaiono cosí gli elementi della collisione, e la superiorità di Brecht sul residuo teatro epico sta appunto nel fatto che la nuova forma epica addita, nella veste della lotta di classe, quella collisione che faceva la forza del dramma classico e da cui essa trae, indirettamente, la propria. Certo, un conflitto additato è sempre meno persuasivo di un conflitto vissuto: il fondamento reificato del dramma epico si rivela nell’astrattezza che assume la collisione una volta divenuta oggetto anziché motore della rappresentazione e scissa dagli individui, che, invece di incarnarla, la esemplificano. L’azione non assorbe piú in sé il conflitto, ma lo spiega, e lo scotto di questo aumento di didatticità scientifica è la perdita di concretezza, poiché il teatro, per epico che sia, non può mai gareggiare col romanzo nell’analizzare tutti i momenti di una situazione e di uno sviluppo. Quel che nasce su questa base – nella forma piú coerente forse nella Santa Giovanna dei Macelli, uno dei capolavori di Brecht – è una specie di Entwicklungsroman raccorciato, le cui varie tappe mostrano come l’eroe, per dirla con Hegel, «si rompa le corna» contro il corso del mondo, e intanto acquisti la saggezza. La saggezza è infatti il surrogato epico della libertà dell’eroe tragico: là dove questi agisce, il personaggio del teatro epico capisce. È un «eroe bastonato», un «eroe non tragico», come diceva Benjamin 20, il quale ne vedeva giustamente il prototipo nel Cristo delle passioni medievali (e Brecht non aveva allora ancora scritto, per il compositore Gottfried von Einem, la mirabile cantata della passione, in cui il popolo approva il supplizio di Cristo «perché ha detto la verità»). Tuttavia anche la libertà, che è respinta dagli orizzonti del teatro epico al pari della collisione, appare controluce come istanza della saggezza. Se l’eroe della decadenza del dramma non poteva far altro che accettare la sua fine di fronte a un destino feticizzato, in Brecht la demistificazione di questo destino attraverso l’acquisizione della saggezza apre le porte della libertà. Certo questa appare raramente sulla scena come possibilità individuale – e quando vi appare, come nei Giorni della Comune, è secondo i moduli di un fiacco naturalismo – perché vi si oppongono i principî stessi del teatro epico, ma è postulata come stato opposto alla ferrea necessità capitalistica. La passione esige una redenzione. Si potrebbe dire paradossalmente, contro ogni intenzione di Brecht, che il coronamento del teatro epico, mettendone a nudo le basi, esprime la nostalgia di un mondo in cui il dramma sia di nuovo possibile. In questo senso la posizione di Brecht resta difficilmente imitabile. Friedrich Dürrenmatt, che nella sua viva ammirazione per il teatro brechtiano sente profondamente le differenze col proprio, in opposizione ad ogni punto di vista «scientifico» afferma di non voler «interpretare il mondo» e di non avere «né il diritto né la capacità» di porsi al di fuori di esso, ciò che, egli ammette, lo renderebbe «meno minaccioso» 21. Tuttavia la demistificazione che egli attua di questo mondo alienato è del tutto analoga a quella di Brecht. Di qui l’oscillazione, caratteristica di Dürrenmatt, tra la tendenza al ritorno alla concentrazione drammatica, che meglio corrisponde all’immanenza che ha in lui il destino e che lo porta spesso nella vicinanza del «dramma dell’angustia» (per esempio nell’ultimo dramma I fisici), e la tendenza epica che serve a smontare il meccanismo del destino stesso. Nella Visita della vecchia signora Ill muore senza essere diventato «saggio» e senza poter predicare la lotta di classe, come accadeva alla Johanna Dark di Brecht. Egli non vede altre alternative e resta sostanzialmente solidale con la «piccola città» di cui è membro, e in cui l’alienazione ha perso l’innocenza che aveva in Wilder per diventare omicida. D’altra parte egli non può semplicemente identificarsi con la ragion di stato che esige la sua morte, come l’Agnes Bernauer di Hebbel, perché la commedia è servita proprio a demistificare il carattere fatalistico, feticistico, di quella ragion di stato, che non è affatto quell’ordine immutabile e trascendente che si ha in Hebbel. Questa oscillazione si rivela nel finale della commedia. Prima di procedere alla liquidazione di Ill, il sindaco chiede se c’è ancora qualcuno in platea e in galleria, e quando i poliziotti gli hanno assicurato che non c’è piú nessuno egli ordina loro di chiudere le porte della sala per impedire a chiunque di entrare. Il tratto è squisitamente epico, ma nello stesso tempo inverte ironicamente la direzione del teatro epico, che di solito si indirizza agli spettatori per coinvolgerli e non per negarli. È come se per consumare il sacrificio di Ill il sindaco volesse restaurare per un momento l’assolutezza della scena abolendo la presenza degli spettatori, ripiombandoli in quella «passività totale» che secondo Szondi (e Brecht) li caratterizza nei confronti del dramma classico e ricordando loro che – appunto come nel dramma classico – ciò che avviene sulla scena è una riproduzione concentrata di ciò che avviene nella vita reale: de te fabula narratur. Ma è solo un momento. L’ultima scena, con l’apoteosi del paese arricchito, torna ad essere pienamente epica. Questo riaffiorare della forma drammatica – divenuta ormai a sua volta «tematica» – non implica un riemergere dei fondamenti della collisione, come avviene in Brecht senza che si esca dal teatro epico. Si tratta di una differenza di posizioni, ma anche e soprattutto di una differenza di costellazioni politico-sociali: Brecht si è formato dopo la Rivoluzione d’Ottobre, Dürrenmatt configura il mondo neocapitalistico in un ambiente in cui esso si è andato costituendo senza scosse e dalla cui immanenza è piú difficile uscire. Tuttavia di questa immanenza egli dà un quadro grottescamente feroce che contrasta con la superficie idillica. Egli si rifiuta di accettare la banalità e quotidianità della vita reificata e con le sue favole violente e paradossali ne mette in luce tutta la precarietà. Invece di indulgere a dipingere l’alienazione e l’incomunicabilità, egli fruga nel barile delle polveri che ci sta sotto e che ricorda ogni momento agli uomini che continuano ad essere associati, se non altro, dalla follia. 4. C’è dunque teatro epico e teatro epico. Ci siamo indugiati su qualche esempio perché ci pareva necessario uscire un po’ dalla rigida ossatura del libro di Szondi, ma non avremmo potuto farlo senza questa ossatura, né ci lusinghiamo di aver raggiunto neanche lontanamente la finezza analitica dell’autore. I limiti che abbiamo riscontrato nella sua concezione del dramma, e che sono limiti di carattere formalistico 22, si rovesciano in qualità in quanto gli hanno permesso di inquadrare in modo cosí persuasivo una materia ancora tanto fluida. Il libro di Szondi sta alla letteratura teatrale contemporanea un po’ come la scena «stereoscopica» del dramma classico, per riprendere una formula a lui cara, sta al mondo reale: è un’astrazione forse un po’ violenta, un po’ troppo attaccata alla forma, come il dramma alle tre unità, ma che riflette molto nitidamente l’oggetto riprodotto. La sua utilità – se vogliamo concludere tornando al discorso accennato all’inizio – è soprattutto quella di un buon modello metodologico, di un buon antidoto contro le estetiche motorizzate che si sfiancano nel vano tentativo di cambiare camaleonticamente categorie ad ogni nuovo lume di luna. Szondi fa invece opera di vero storico, ricollegando il presente al passato e discernendo gli autentici momenti di novità, dissolvendo insomma quell’apparenza di moto perpetuo che offre la letteratura d’avanguardia. Ciò è tanto piú necessario ora che abbiamo a che fare con profondi mutamenti. Il moto perpetuo dà l’impressione che nella letteratura d’avanguardia il grado di possibile necessità e di possibile gratuità resti lo stesso in ogni tappa. Invece esso dipende dalla situazione storica. L’avanguardia è sorta onde configurare lo stato d’insicurezza dell’uomo nell’epoca dell’imperialismo e ha avuto quindi il suo apogeo tra le due guerre. Ora le cause di questa insicurezza permangono, si sono anzi ingigantite a scala cosmica, ma insieme agiscono molto meno alla scala molecolare, nella vita e nell’esperienza quotidiana degli individui (è questa la ragione per cui le tendenze oggettivistiche o «oggettali» che siano prevalgono su quelle soggettivistiche). Lo scrittore d’avanguardia che riesca a viverle al livello d’astrazione necessario potrà ancora delineare (come Dürrenmatt) potenti figurazioni e allegorie. Ma chi non riesca a viverle altro che al livello dell’alienazione quotidiana, elettrodomestica e automobilistica, e del disagio che prova nella medesima, non potrà fare molta strada, perché il disagio non è angoscia, anzi è compatibile con il compiacimento. Come dice Adorno dell’ «invecchiamento della musica moderna», i suoni sono gli stessi, ma è stato rimosso il momento dell’angoscia. La nuova avanguardia piú conseguente non solo accetta questa rimozione, ma la teorizza, e il suo massimo rappresentante e teorico irride alla tragedia dell’incomunicabilità come «ultima invenzione dell’umanesimo per non lasciarsi scappare niente: poiché l’accordo tra l’uomo e le cose ha finito per essere denunciato, l’umanista salva il suo impero instaurando subito una nuova forma di solidarietà, il divorzio stesso divenendo una via maestra per la redenzione» 23. Questa posizione è certo infinitamente preferibile al tentativo di simulare la disperazione che non c’è, o di sostituirla con surrogati come il grottesco o l’esasperazione sessuale sperando che siano sempre validi mentre funzionavano solo finché avevano dietro per l’appunto almeno un pizzico di disperazione, in Gadda o in Wedekind. Ormai gli attraversatori della palus putredinis sono tutti giovanotti muscolosi iscritti alla «Rari nantes» che considerano questa un’impresa sportiva e passan Stige colle piante asciutte. Si dirà che l’angoscia non è necessaria all’arte; all’arte in generale no, ma all’arte d’avanguardia sí. C’è poco da fare, il neocapitalismo avrà aumentato e generalizzato l’alienazione, ma l’ha anche resa piú scontata e piú fiacca, estraendone l’angoscia e proiettandola nelle viscere della terra o nella stratosfera, là dove si svolgono gli esperimenti atomici, oppure in quei remoti paesi coloniali e semicoloniali in cui si decidono le sorti del capitalismo : comunque in luoghi dove non si può arrivare durante il week-end e che restano sottratti all’esperienza dell’intellettuale, che non ha piú nemmeno bisogno di lavorare in una società di assicurazioni. Non si possono piú ricostituire artificialmente l’ambiente familiare e sociale, le condizioni di vita, gli orizzonti culturali, religiosi, politici entro i quali e contro i quali si sono formati Proust, Kafka, Joyce, Musil, Brecht. La borghesia non attraversa piú una crisi morale e spirituale, semplicemente perché ha perso l’anima: l’ha venduta ai monopoli, ottenendone in cambio, sia pure a rate, la sicurezza che le mancava. Questo non significa la morte dell’avanguardia. Significa che i pochi veri visionari saranno sempre piú rari e i molti gregari sempre piú numerosi, rumorosi e noiosi. Essi si divideranno fraternamente la piccola alienazione, quella da elettrodomestici, da sbronze e da sesso. Ce n’è per tutti. Ma anch’essa la ritroveremo molto meglio in un romanzetto intelligente senza pretese come Les petits enfants du siècle della Rochefort che in cento prodotti del nouveau roman o nei libri scomponibili di Saporta. Con buona pace degli apostoli dei nuovi linguaggi, questi di per sé non sono che cortine fumogene spruzzate dalla cattiva coscienza dello scrittore che non sa che pesci pigliare. Quando c’è un nuovo contenuto, giusto o sbagliato che sia, ma comunque vivo e sentito, che importi l’enunciazione, l’Aussage di una particolare condizione umana, esso non si deposita in un nuovo linguaggio bensí – è questa la lezione spicciola di Szondi – in una nuova forma. CESARE CASES 1962. Comunicazione a Formentor, in «Il Menabò 5», Torino 1962, p. 5. H. M. ENZENSBERGER, Die Aporien der Avantgarde, in «Merkur», Stuttgart, maggio 1962, p. 424 (il saggio è ora ristampato in Einzelheiten, Frankfurt am Main 1962). 3 Ibid., p. 419. 4 Che anche Benjamin nella sua opera si riferisca in realtà, attraverso l’allegoria del dramma barocco, all’arte dell’avanguardia, è stato asserito da Lukács e documentato, sulle sue tracce, da Renato Solmi (nell’introduzione agli scritti di Benjamin, Angelus Novus, Torino 1962, p. XV ). 5 Su cui cfr. le osservazioni di chi scrive nell’articolo I limiti della critica stilistica e i problemi della critica letteraria, in «Società», Roma, aprile 1955, pp. 268 sgg., e nella recensione a Die Kunst der Interpretation, in «Weimarer Beiträge», I, Weimar 1960, pp. 158 sgg. (ora in Saggi e note di letteratura tedesca, Torino 1963, pp. 288 sgg. e 315 sgg.). 6 Questo punto è stato energicamente ribadito di recente nell’ottimo articolo di GIORGIO GIORGETTI, Su alcuni «falsi problemi» dell’interpretazione di Marx, in «Studi storici», n. 1, Roma 1962, specie a pp. 134 sgg. 7 Che il dramma dei sei personaggi nasca da un’impossibilità oggettiva e non soltanto, come si afferma nella prefazione alla commedia, da un’impossibilità soggettiva di Pirandello, è riconosciuto, sia pure con minor chiarezza, anche dalla recente critica italiana. Cfr. per esempio LEONARDO SCIASCIA, Pirandello e la Sicilia, Caltanissetta 1961, p. 113, e A. LEONE DE CASTRIS, Storia di Pirandello, Bari 1962, p. 180. 8 È un caso sempre piú frequente. Per esempio nelle esecuzioni di The Connection di Gelber a cura del New York Theater l’autore sale sulla scena e si intrattiene coi personaggi. 9 G. W. F. HEGEL, Aesthetik, Berlin 1955, p. 235 (trad. it. Milano 1963, p. 286). 10 Ibid., p. 237 (trad. it., p. 288). 11 Ibid., p. 1048 (trad. it., p. 1548). 12 HEGEL , Aesthetik cit., p. 237 (trad. it., p. 289). 13 Sulla collisione drammatica e la sua tipologia possediamo ora del resto la mirabile trattazione marxista contenuta nel secondo capitolo di Der historische Roman di G. LUKÁCS, Berlin 1956, in ispecie pp. 97 sgg. (trad. it., Il romanzo storico, Torino 1965, pp. 121 sgg.). 14 Per Emil Staiger (Grundbegriffe der Poetik, Zürich 1951 2, p. 230) la tensione drammatica è meno pura in Shakespeare che per esempio in Kleist. Nell’Ursprung des deutschen Trauerspiels di Benjamin la distinzione tra Trauerspiel e Tragödie è fondata appunto sul fatto che «l’oggetto di quest’ultima non è la storia, ma il mito» (Schriften, Frankfurt am Main 1955, vol. I, p. 180), e Benjamin riconduce Shakespeare al Trauerspiel, riscontrandovi l’allegoria che è propria di questo (ibid., pp. 353 sgg.). 15 HEGEL , Aesthetik cit., p. 1046 (trad. it., p. 1545). 16 Der historische Roman cit., pp. 95, 96 (trad. it., p. 118). 17 Nella prefazione al suo Teatro, trad. it. Torino 1959, p. 46. 18 Il significato attuale del realismo critico, trad. it. Torino 1957, p. 81. 19 Solo in parte. I migliori scritti teatrali di Brecht, per esempio Vergnügungstheater oder Lehrtheater? (1936), riconoscono gli addentellati storici del teatro epico con il teatro cinese, medievale e barocco, e affermano che esso «non può assolutamente sorgere dappertutto», anche se tengono fede all’idea che il presupposto è l’esistenza di «un potente moto della vita sociale» (ciò che del resto era vero, specie a quell’epoca, per la prassi teatrale, anche se 1 2 non per la genesi del teatro epico come tale). Cfr. Schriften zum Theater, Frankfurt am Main 1957, p. 72 (trad. it. Scritti teatrali, Torino 1971, p. 70). 20 Schriften cit., vol. II, p. 261 (trad. it. in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino 1966, p. 129). 21 Theaterprobleme, Zürich 1955, pp. 49, 50. 22 I quali permangono, ci sembra, anche nel secondo libro di SZONDI , Versuch über das Tragische, Frankfurt am Main 1961, benché l’impostazione sia assai diversa. Qui si tratta di definire l’essenza del tragico, sulla scorta dell’analisi di alcune riflessioni di filosofi, da Schelling a Scheler, e di alcuni drammi. Szondi si rivela anche qui un interprete di prima forza (si capisce che nel recente saggio Zur Erkenntnisproblematik in der Literaturwissenschaft – in «Die neue Rundschau», n. 1, 1962, pp. 146 sgg. – egli abbia lamentato «la carenza di una coscienza ermeneutica nella scienza letteraria tedesca», polemizzando contro il concetto stesso di Literaturwissenschaft in quanto non tien conto delle peculiarità della conoscenza filologica). Tuttavia i risultati cui perviene non sembrano persuasivi. Secondo Szondi (p. 60) «non c’è il tragico, almeno come essenza». «Bensí il tragico è un modo, una maniera determinata di annientamento minacciato o eseguito, e piú precisamente il modo dialettico. È tragica solo quella fine che deriva dall’unità degli opposti, dal rovesciamento di una cosa nel suo contrario, dall’autoscissione». Questa tesi è efficacemente riassunta nel verso di Jean de Sponde che funge da motto al libro: En me cuidant aiser, moi-même je me nuis. Essa sceglie a prototipo l’Edipo re (anche in questo Szondi è molto vicino a Benjamin), ciò che permette di risolvere il problema su un piano etico-psicologico, nel rapporto dialettico tra bene e male, mentre il conflitto tra le «potenze universali» appare meglio ove si prenda come prototipo l’Antigone. È vero che Szondi sembra ammettere – ma solo in via subordinata – anche questa seconda concezione del tragico, poiché dopo le parole citate aggiunge: «Ma è tragica anche soltanto la fine di qualche cosa che non può perire, dopo la cui rimozione la ferita non si chiude». Il vecchio problema di come ricondurre ad unità il tragico dell’Edipo re e quello dell’Antigone ci sembra sia stato risolto da Lukács, che nella sua tipologia del dramma lo «rovescia» materialisticamente additandone la base in due diverse situazioni di vita, entrambe in rapporto con le crisi rivoluzionarie della società: quella dello scontro diretto di due forze sociali e quella della «presentazione del conto», in cui partiti o gruppi o individui scontano le conseguenze delle loro azioni precedenti (oltre all’Edipo Lukács menziona La morte di Danton di Büchner come rientrante nel medesimo tipo). Cfr. Der historische Roman cit., pp. 97, 101, 102 (trad. it., pp. 120, 125-27). 23 A. ROBBE-GRILLET , Una via per il romanzo futuro, trad. it. Milano 1961, pp. 72, 73. Almeno nella sceneggiatura del film L’anno scorso a Marienbad Robbe-Grillet non si è però attenuto a questa sua critica, offrendoci anzi un classico dell’incomunicabilità qui condannata. Il guaio è che tra un oggetto e l’altro l’uomo finisce sempre per rispuntar fuori. TEORIA DEL DRAMMA MODERNO Introduzione Fin da Aristotele i teorici hanno sempre condannato l’intrusione di elementi epici nel campo della poesia drammatica. Ma chi si accinge oggi ad esporre l’evoluzione della drammaturgia moderna non può piú sentirsi chiamato a questo compito di giudice, e questo in base ad alcune ragioni di cui l’autore deve ora render conto a se stesso ed ai suoi lettori. Ciò che conferiva alle vecchie poetiche del dramma il diritto di esigere il rispetto per i canoni di una determinata forma drammatica, era quella loro particolare concezione della forma che non conosceva storia né dialettica di forma e contenuto. Secondo quelle poetiche, nell’opera drammatica la forma prestabilita del dramma si realizza mediante fusione con una materia scelta in considerazione della forma stessa. Ove la realizzazione di quella forma fallisca, ove nel dramma si ravvisino illeciti elementi epici, la colpa ricade sulla scelta della materia. Nella sua Poetica Aristotele dice: «Il poeta non deve… fare una tragedia come se fosse una composizione epica. Chiamo composizione epica quella che contiene piú azioni, come nel caso in cui un drammaturgo prendesse a oggetto tutto l’argomento dell’Iliade» 1. Anche gli sforzi compiuti da Goethe e Schiller per giungere a una distinzione fra poesia epica e poesia drammatica avevano lo scopo pratico di impedire una scelta errata della materia 2. Questa concezione tradizionale, fondata sulla dualità originaria di forma e contenuto, ignora altresí la categoria storica. La forma prestabilita è indifferente alla storia; storicamente originaria è solo la materia, e secondo lo schema comune a tutte le poetiche prestoricistiche il dramma non è altro che la concretizzazione storica di una forma atemporale. Il considerare la forma drammatica come non legata alla storia implica insieme che il dramma dev’essere sempre possibile, e che le poetiche possono esigerne la presenza in qualunque tempo. Questo rapporto fra poetica al di là della storia e concezione non dialettica di forma e contenuto, ci riporta a quello che è il vertice comune del pensiero dialettico e di quello storico: l’opera di Hegel. Nella Logica si trova la seguente formulazione: «Le vere opere d’arte sono solo quelle in cui forma e contenuto si dimostrano affatto identici» 3. Questa identità è di natura dialettica: nello stesso passo Hegel definisce il «rapporto assoluto di forma e contenuto» come il «rovesciarsi dell’uno nell’altro, sí che il contenuto altro non è che il rovesciarsi della forma in contenuto, e la forma altro non è che il rovesciarsi del contenuto in forma» 4. L’identificazione di forma e contenuto distrugge anche l’antitesi – implicita nel vecchio rapporto – di atemporale e storico, e ne consegue la storicizzazione del concetto di forma e in ultima analisi della stessa poetica dei generi. Lirica, epica, drammatica si trasformano, da categorie sistematiche, in categorie storiche. In seguito a questa trasformazione dei principî fondamentali della poetica la scienza si trovò di fronte a tre vie. Poteva ritenere che le tre categorie poetiche fondamentali avessero perduto, col loro carattere sistematico, la loro stessa ragion d’essere; onde la loro esclusione dall’estetica ad opera di Benedetto Croce. Al polo diametralmente opposto era il tentativo di ritirarsi dal terreno storico della poetica, dai generi poetici concreti, su un piano atemporale. Questa tendenza è attestata (oltre che dal poco redditizio Tentativo di una fondazione psicologica dei generi poetici [Versuch einer psychologischen Grundlegung der Dichtungsgattungen] di R. Hartl) dalla Poetica di E. Staiger, che fonda i generi poetici in tre diversi modi d’essere dell’uomo, in ultima analisi nelle tre «estasi» del tempo. Che questa nuova fondazione determini una trasformazione radicale della poetica, e in modo particolare del suo rapporto con la pratica attività letteraria, è confermato dall’inevitabile sostituzione dei tre concetti fondamentali di «lirica», «epica» e «drammatica» con gli aggettivi «lirico», «epico» e «drammatico». Una terza alternativa consisteva nel restare sul terreno storicistico. Sulle orme di Hegel questa tendenza ha portato ad alcune opere che abbozzano un’estetica storica non solo della letteratura, come la Teoria del romanzo [Die Theorie des Romans] di G. Lukács, le Origini della tragedia tedesca [Ursprung des deutschen Trauerspiel] di W. Benjamin, la Filosofia della musica moderna [Philosophie der neuen Musik] di T. W. Adorno; dove la concezione dialettica hegeliana del rapporto formacontenuto è messa a frutto in quanto la forma viene considerata come una sorta di contenuto «precipitato» 5. Questa metafora, mentre sottolinea il carattere solido e durevole della forma, ne esprime anche l’origine dalla sfera del contenuto, e quindi il suo valore predicativo. Su questa base è possibile sviluppare una vera e propria semantica della forma, e la dialettica di forma e contenuto appare come dialettica tra enunciazione formale ed enunciazione contenutistica. Ma cosí è data anche la possibilità che l’enunciazione contenutistica entri in contraddizione con quella formale. Se infatti, quando forma e contenuto si corrispondono, la tematica contenutistica si muove per cosí dire nell’ambito dell’enunciazione formale, come qualcosa di problematico entro qualcosa di non problematico, la contraddizione si determina quando l’enunciazione formale – fissa e non problematica – è resa problematica dal contenuto. Ma è questa antinomia interna che fa diventare storicamente problematica una forma letteraria, e le pagine seguenti rappresentano un tentativo di spiegare le varie forme della drammaturgia piú recente con la risoluzione di quelle contraddizioni. Non usciremo quindi dal campo dell’estetica, e rinunceremo ad estendere il nostro esame fino a tentare una diagnosi dell’età moderna. Le contraddizioni tra la forma drammatica e i problemi dell’epoca attuale non devono essere enunciate in abstracto, ma afferrate come contraddizioni tecniche, e cioè come «difficoltà», all’interno dell’opera concreta. Dove si sarebbe tentati di stabilire, sulla base di una sistematica dei generi poetici, i mutamenti che hanno avuto luogo nella drammaturgia moderna in seguito al problematizzarsi della forma drammatica; ma è necessario rinunciare a una poetica sistematica, e cioè normativa; e non già per evitare una valutazione fatalmente negativa delle tendenze epicizzanti, ma perché la concezione storico-dialettica di forma e contenuto esautora per principio la poetica sistematica. Il punto di partenza terminologico è rappresentato quindi soltanto dal concetto di dramma. Storicamente esso definisce un fenomeno preciso della storia letteraria, cioè il dramma come nacque nell’Inghilterra elisabettiana, ma soprattutto nella Francia del secolo decimosettimo, e come continuò a vivere nel classicismo tedesco. In quanto poi esso mette in evidenza ciò che è «precipitato» in forma drammatica come enunciazione sull’esistenza umana, questo concetto di dramma definisce, in un fenomeno della storia letteraria, anche un documento della storia dell’umanità. Esso deve rivelare e interpretare le esigenze tecniche del dramma come rispecchiamento di esigenze esistenziali, nel senso di Kierkegaard; e la totalità che esso delinea non ha carattere sistematico, ma di filosofia della storia. Negli anfratti che separano fra loro le varie forme letterarie è collocata la storia ed è solo il riferimento alla storia che può far da ponte fra di esse. Ma il concetto di dramma è storicamente condizionato non solo nel suo contenuto, ma anche nella sua origine. E poiché la forma di un’opera d’arte rappresenta sempre qualcosa di non problematico, alla conoscenza dell’elemento formale si potrà giungere, per lo piú, solo quando ciò che prima era ovvio si è trasformato in un problema; solo cioè quando la forma, un tempo non problematica, sia divenuta problematica. Cosí qui il dramma viene inteso alla luce dei suoi impedimenti attuali, e questo concetto di dramma è già un momento della ricerca sulla possibilità del dramma moderno. D’ora innanzi, con la parola «dramma», intenderemo quindi solo un determinato tipo di letteratura teatrale. Non vi saranno comprese né le sacre rappresentazioni medievali né le histories di Shakespeare. Il carattere storico del nostro esame ci impone anche di prescindere dalla tragedia greca, la cui natura può essere compresa solo in un altro orizzonte. D’ora innanzi l’aggettivo «drammatico» non indicherà una qualità (come nella Poetica di E. Staiger) 6, ma significherà esclusivamente «pertinente al dramma» («dialogo drammatico» = «dialogo nel dramma»). La parola «drammaturgia», invece, a differenza di «dramma» e di «drammatico», verrà usata anche in senso lato, per definire tutto ciò che è scritto per il teatro. Se si dovesse usare in questo senso la parola «dramma», essa sarà posta tra virgolette. Poiché l’evoluzione della drammaturgia moderna conduce lontano dal dramma, non si può evitare, nella sua trattazione, l’uso di un concetto antitetico. Esso è il concetto di «epico», che definisce la caratteristica strutturale comune all’epos, al racconto, al romanzo e ad altri generi letterari; e cioè la presenza di quello che è stato chiamato il «soggetto della forma epica» 7, o anche l’«io epico» 8. I diciotto studi che cercano di esemplificare questa evoluzione su esempi particolari sono preceduti da un’esposizione delle caratteristiche del dramma stesso, cui si richiameranno poi tutte le pagine che seguiranno. 1 ARISTOTELE , Cfr. 1797. 2 Sulla poetica, trad. di F. Albeggiani, Nuova Italia, Firenze 1934, p. 32. Über epische und dramatische Dichtung; e cosí pure Schiller, lettera a Goethe del 26 dicembre GOETHE , Sämtliche Werke, Jubiläumausgabe, vol. VIII, p. 303. Ibid., p. 302. 5 T. W. ADORNO Philosophie der neuen Musik, Tübingen 1949, p. 28 (trad. it. Filosofia della musica moderna, Torino 1960, p. 41). 6 Cfr. supra. 7 G. LUKÁCS, Die Theorie des Romans, Berlin 1920, p. 36 (trad. it., Teoria del romanzo, Milano 1962, p. 80). 8 R. PETSCH, Wesen und Formen der Erzählkunst, Halle 1934. 3 4 HEGEL , I. Il dramma Il dramma dell’età moderna è nato nel Rinascimento. Fu l’audacia spirituale dell’uomo pervenuto a se stesso dopo il crollo della concezione medievale del mondo, quella di costruire la realtà dell’opera d’arte in cui voleva fissare e rispecchiare se stesso, sulla riproduzione dei meri rapporti interumani 1. L’uomo entrava quindi nel dramma solo come membro della società umana. La sfera dei rapporti intersoggettivi gli appariva quella essenziale della sua esistenza; libertà e vincolo, volontà e decisione, come le sue determinazioni piú importanti. Il «luogo» in cui egli giungeva a realizzazione drammatica, era l’atto della decisione. Nella sua decisione di aprirsi al mondo degli altri, il suo intimo si manifestava e diveniva attualità drammatica. Ma in questo suo risolversi all’azione il mondo degli altri era riferito a lui; e giungeva – solo cosí – a realizzazione drammatica. Tutto ciò che era al di qua o al di là di questo atto doveva rimanere estraneo al dramma: l’inesprimibile come l’espressione, l’anima chiusa in sé come l’idea già estraniata dal soggetto. E soprattutto doveva rimanere estraneo al dramma ciò che è privo di espressione, il mondo delle cose, se non penetrava direttamente nel contesto interumano. Tutta la tematica drammatica si determinava in questa sfera del «fra», dei rapporti intersoggettivi: il conflitto tra passion e devoir, nella situazione del Cid fra il padre e la donna amata; il paradosso comico, in situazioni intersoggettive «false», come in quella del giudice del villaggio, Adam; e la tragedia dell’individuazione, come appariva a Hebbel, nel tragico conflitto fra il duca Ernst, Albrecht e Agnes Bernauer. Il mezzo espressivo di questo mondo di rapporti intersoggettivi era il dialogo. Nel Rinascimento, dopo la soppressione del prologo, del coro e dell’epilogo, il dialogo divenne, forse per la prima volta nella storia del teatro (e insieme al monologo, che rimase episodico e non era quindi costitutivo della forma drammatica), la sola componente del teatro drammatico. Per questo aspetto il dramma dell’età moderna si distingue sia dalla tragedia classica che dalla sacra rappresentazione medievale, sia dal teatro barocco che dalle storie di Shakespeare. L’assoluto predominio del dialogo, cioè della comunicazione intersoggettiva del dramma, rispecchia il fatto che il dramma consiste esclusivamente nella riproduzione del rapporto intersoggettivo, e che esso ha per oggetto esclusivamente ciò che si manifesta in questa sfera. Tutto ciò mostra che il dramma è una dialettica conchiusa in se stessa, ma libera, e che si determina di nuovo ad ogni momento. È cosí che dobbiamo intendere i suoi tratti essenziali, che ora ci accingiamo ad esporre. Il dramma è assoluto. Per poter essere puro rapporto, cioè essenzialmente drammatico, esso deve essere staccato da tutto ciò che gli è esterno. Il dramma non conosce nulla al di fuori di sé. Il drammaturgo è assente dal dramma. Egli non parla; ha fondato e istituito la comunicazione. Il dramma non è scritto, bensí «posto». Le parole dette nel dramma sono tutte «decisioni»; sono sviluppi della situazione e rimangono in essa; in nessun caso devono essere concepite come emananti direttamente dall’autore. Il dramma appartiene all’autore solo nel suo insieme, e questo rapporto non è essenziale alla sua realtà di opera. Lo stesso carattere di assolutezza dimostra il dramma nel suo rapporto allo spettatore. Come la battuta drammatica non è espressione diretta dell’autore, cosí essa non è neppure allocuzione al pubblico. Lo spettatore assiste al dialogo drammatico in silenzio, con le mani legate, paralizzato alla vista di un secondo mondo. Ma la sua totale passività (e su ciò si basa l’esperienza drammatica) deve rovesciarsi in un’«attività» irrazionale; lo spettatore viene trascinato nel gioco drammatico, diventa egli stesso parlante, beninteso per la bocca di tutti i personaggi. Il rapporto spettatore-dramma conosce solo la completa separazione o la completa identificazione, ma non l’intrusione dello spettatore nel dramma o il rivolgersi del dramma allo spettatore. Il palcoscenico del Rinascimento e del neoclassicismo, il tanto bistrattato palcoscenico «stereoscopico», che isolava lo spettatore dall’azione drammatica, è in realtà il solo palcoscenico adeguato al carattere di assolutezza del dramma, che riflette in ciascuno dei suoi elementi. Come il dramma non si stacca per gradi dallo spettatore, cosí questo tipo di palcoscenico ignora il collegamento – in forma di scala, per esempio – del palcoscenico con la platea. La scena si disvela allo spettatore solo all’inizio dello spettacolo, spesso, anzi, quando è già stata detta la prima parola, e cosí gli appare come creata dall’azione drammatica stessa. Alla fine dell’atto, quando cala il sipario, essa si sottrae nuovamente allo sguardo dello spettatore, seguendo per cosí dire le sorti dell’azione drammatica momentaneamente sospesa, e riconfermandosi quindi come esclusivamente appartenente a quella. Infine, la ribalta che illumina la scena crea l’illusione che l’azione drammatica si illumini da sé. Anche l’arte dell’attore è orientata, nel dramma, sull’assolutezza del dramma stesso. Il rapporto attore-ruolo non deve mai essere visibile; al contrario, attore e personaggio devono fondersi in un essere drammatico autonomo. L’assolutezza del dramma si può formulare anche sotto un altro aspetto: il dramma è primario. Non è la rappresentazione (secondaria) di qualcosa (di primario); ma rappresenta se stesso, è se stesso. L’azione drammatica, come ognuna delle battute che la compongono, è «originaria»; si realizza nell’atto stesso in cui si manifesta. Il dramma non conosce citazioni né variazioni. La citazione porrebbe il dramma in rapporto con ciò che si cita. La variazione metterebbe in questione il carattere primario, ossia «vero», del dramma, e, come variazione di qualcosa fra altre variazioni possibili, si presenterebbe come alcunché di secondario. Inoltre sarebbe presupposto un autore della citazione e della variazione, e il dramma sarebbe riferito ad esso. Il dramma è primario; ecco uno dei motivi per cui i drammi storici finiscono sempre per essere essenzialmente «non drammatici». Il tentativo di portare sulla scena Lutero, il riformatore implica il riferimento alla storia. Se si sapesse far giungere, in una situazione drammatica assoluta, Lutero alla decisione di riformare la fede, si sarebbe dato con ciò il dramma della Riforma. Ma a questo punto sorge una seconda difficoltà: le condizioni oggettive, indispensabili per motivare la decisione di Lutero, esigerebbero un trattamento epico. Per il dramma la sola motivazione possibile sarebbe quella in base ai rapporti interpersonali di Lutero, ma essa sarebbe evidentemente estranea agli interessi di un’opera teatrale sulla Riforma. In quanto il dramma è sempre primario, l’azione drammatica si svolge sempre al presente. Ciò non implica nessuna staticità; indica solo il particolare tipo di decorso temporale nel dramma: il presente passa e si trasforma in passato, ma come tale non è piú presente. Il presente passa operando un mutamento, e dalle sue antitesi sorge un nuovo e diverso presente. Il decorso del tempo nel dramma è una successione assoluta di «presenti». Il dramma stesso, come assoluto, garantisce e crea da sé il proprio tempo. Ogni istante dell’azione drammatica deve quindi contenere il germe del futuro, deve essere «carico di futuro» 2. Ciò è reso possibile dalla struttura dialettica del dramma, che poggia a sua volta sul contesto dei rapporti intersoggettivi. Muovendo da questo presupposto acquista nuova luce l’esigenza dell’unità di tempo nel dramma. La discontinuità temporale delle scene è inconciliabile col principio della successione assoluta dei presenti, poiché ogni scena avrebbe il suo antefatto e il suo seguito (passato e futuro) al di fuori della rappresentazione; e le singole scene sarebbero quindi relativizzate. Si aggiunga che il modo di successione delle scene, in cui ogni scena determina la seguente (che è appunto quello richiesto dall’azione drammatica) è il solo che non implichi la presenza del «montatore». Quando noi – dicendolo espressamente o meno – «facciamo passare tre anni», sottintendiamo sempre un io epico. Considerazioni analoghe per ciò che riguarda lo spazio motivano l’esigenza anche dell’unità di luogo. Anche l’ambiente spaziale (come l’ambiente temporale) deve essere espunto dalla coscienza dello spettatore. Solo cosí si determina una scena assoluta, e cioè drammatica. E ciò è tanto piú difficile quanto piú frequente è il cambiamento di scena. Anche la discontinuità nello spazio, al pari della discontinuità nel tempo, presuppone l’io epico. (Esempio: «Ora lasciamo i congiurati nel bosco e andiamo a cercare il re ignaro nel suo palazzo»). Com’è noto, la struttura dei drammi shakespeariani si distingue soprattutto in questi due punti da quella del teatro classico francese. Quella successione di scene slegate e ambientate in diversi luoghi deve essere messa in relazione con le esigenze della materia nelle «storie», dove – come ad esempio nell’Enrico V – un narratore chiamato Coro presenta al pubblico i singoli atti come se fossero i capitoli di un’opera storica popolare. Dal carattere di assolutezza del dramma deriva anche l’esigenza di non lasciare alcun posto al caso e di dare sempre una motivazione. L’elemento casuale penetra nel dramma dall’esterno; ma in quanto viene motivato acquista un fondamento, affonda cioè le sue radici nel terreno del dramma stesso. Il dramma è, infine, un tutto compiuto ed autonomo, e questa totalità è di origine dialettica. Essa non è dovuta, cioè, a un io epico che entri nell’opera, ma alla risoluzione (realizzata via via e via via distrutta) della dialettica intersoggettiva, che diventa, nel dialogo, linguaggio. Anche per quest’ultimo aspetto il dialogo è quindi il portatore del dramma, ed è dalla possibilità del dialogo che dipende la possibilità del dramma. Cfr. HEGEL , Vorlesungen über die Ästhetik, in Sämtliche Werke cit., vol. XIV, pp. 479 sgg. (trad. it., pp. 1533 sgg.). 2 Cfr. la definizione dello stile drammatico in E. STAIGER, Grundbegriffe der Poetik, Zürich 1946. 1 II. La crisi del dramma I primi cinque studi prendono in considerazione IBSEN (1828-1906), ČECHOV (1860-1904), STRINDBERG (1849-1912), MAETERLINCK (1862-1949) e HAUPTMANN (1862-1946). Poiché l’esame della situazione di partenza della drammaturgia moderna deve cominciare col riferire alcune opere della fine del secolo decimonono al fenomeno del dramma classico di cui abbiamo trattato sopra. Dove si pone subito il problema se stabilire questo rapporto non implichi il rischio di ricadere, al di là delle nostre intenzioni storiche, nel procedimento della poetica sistematico-normativa che abbiamo respinto all’inizio. Poiché ciò che nelle pagine precedenti si è tentato di descrivere come il dramma sorto nel Rinascimento, coincide alla perfezione col concetto tradizionale di dramma, si identifica con ciò che insegnavano i manuali di tecnica drammatica (come quello, ad esempio, di Gustav Freytag) e che rappresentava all’inizio per i critici (e rappresenta talvolta ancora oggi) la pietra di paragone nella valutazione della drammaturgia moderna. Ma il metodo storico, che si sforza di restituire alla sua storicità ciò che è divenuto norma, permettendo cosí alla sua forma di manifestarsi, non viene smentito né si trasforma in un metodo normativo, se applica alla drammaturgia della fine del secolo scorso l’idea storica del dramma. Intorno al 1860, infatti, quella forma di dramma rappresentava non solo la norma soggettiva dei teorici, ma anche la situazione oggettiva della drammaturgia. Ciò che esisteva accanto ad essa, e che ad essa si poteva opporre, o aveva un carattere arcaico o si riferiva a una tematica precisa. La forma «aperta» di Shakespeare, opposta sempre di nuovo alla forma «chiusa» del classicismo, non può essere disgiunta dalle histories, e svolse infatti la funzione dell’affresco storico ogniqualvolta fu ripresa in modo valido nella letteratura tedesca (Goetz von Berlichingen, La morte di Danton). Il rapporto che stabiliremo non ha quindi origine normativa, ma deve intendere e interpretare teoricamente una situazione storica oggettiva. Il rapporto alla forma classica del dramma è di volta in volta diverso per ciascuno dei cinque autori drammatici che prenderemo in esame. Quello di Ibsen non aveva carattere critico: egli raggiunse la sua fama non da ultimo per la sua grande maestria drammaturgica. Ma quella perfezione esteriore nasconde un’interna crisi del dramma. Anche Čechov accetta la forma tradizionale, ma non ha piú la ferma volontà di creare una «pièce bien faite» (in cui si era esteriorizzato il dramma classico). Čechov rivela la discrepanza tra la forma ricevuta e quella che sarebbe richiesta dalla tematica, erigendo, sullo schema tradizionale, un edificio di magica poesia che non ha, tuttavia, uno stile proprio ed autonomo, non garantisce un’unità formale, ma lascia anzi trasparire continuamente la vecchia base tradizionale. E se Strindberg e Maeterlinck giungono a forme nuove, questo risultato è preceduto da un confronto con la tradizione, o questo confronto appare – in forma ancora insoluta – all’interno delle opere, quasi come una freccia indicatrice verso le forme di autori successivi. Prima dell’alba e I tessitori di Hauptmann permettono infine di individuare il problema che deriva al dramma dalla tematica sociale. I. Quel concetto di tecnica analitica che ha permesso di accostare IBSEN a Sofocle ostacola l’accesso alla problematica formale di un’opera come Rosmersholm. Ma una volta determinati i rapporti estetici in cui l’analisi è utilizzata da Sofocle e discussa nel carteggio fra Goethe e Schiller, ecco che quel concetto non sarà piú un ostacolo, ma costituirà anzi la chiave per comprendere la tarda opera di Ibsen. Il 2 ottobre 1797 Schiller scrive a Goethe: In questi giorni mi sono molto sforzato per trovare un soggetto di tragedia del genere di quello dell’Œdipus Rex, e che offra all’autore i medesimi vantaggi. Questi vantaggi sono incalcolabili, anche ad accennare solo a quello di poter disporre dell’azione piú composita, quanto mai opposta alla forma tragica, poiché l’azione ha già avuto luogo e cade quindi completamente al di là della tragedia. Si aggiunga che ciò che è già accaduto, essendo ormai immutabile, è per sua natura tanto piú terribile, e che il terrore che possa essere accaduto qualcosa affligge l’animo umano in modo ben diverso dal terrore che possa accadere qualcosa in futuro. – L’Edipo è, per cosí dire, solo un’analisi tragica. Tutto è già presente, e non fa che essere sviluppato. Ciò può avvenire mediante un’azione semplicissima e in un lasso di tempo assai breve, anche se le vicende erano complicate e soggette a varie circostanze. E di quanto se ne avvantaggia il Poeta! Ma temo che l’Edipo formi un genere a sé, e che non ne esista una seconda specie… Sei mesi prima (il 22 aprile 1797) Goethe aveva scritto a Schiller che per l’autore drammatico l’esposizione è cosí difficile «perché gli si chiede di procedere continuamente, ed io direi che il miglior soggetto drammatico è quello in cui l’esposizione è già parte dello sviluppo». E Schiller aveva risposto, il 25 aprile, che l’Œdipus Rex si avvicinava in modo sorprendente a questo ideale. Il punto di partenza di queste riflessioni è la forma a priori del dramma. La tecnica analitica di cui ci si avvale deve rendere possibile l’inserimento dell’esposizione nell’azione drammatica, eliminando quindi il suo effetto epicizzante, o permettere di scegliere, come soggetto del dramma, le vicende «piú composite», che, altrimenti, non si possono nemmeno prendere in considerazione per la forma drammatica. Diverso è il caso dell’Edipo di Sofocle. La precedente trilogia di Eschilo, che non ci è pervenuta, raccontava cronologicamente le vicende del re di Tebe. Sofocle poteva quindi rinunciare a questa rappresentazione epica di avvenimenti assai lontani nel tempo l’uno dall’altro, perché al centro del suo interesse erano ancor meno gli avvenimenti stessi e ancor piú, e piú esclusivamente, la loro tragicità. Ma la tragicità non è legata a particolari, e si stacca dal decorso temporale. La dialettica tragica che oppone la facoltà visiva alla cecità, il fatto che un essere umano divenga cieco per aver preso coscienza di sé, per l’occhio che «ha di troppo» 1, questa peripezia in senso aristotelico e hegeliano, ha bisogno esclusivamente di un solo atto di riconoscimento, l’Anagnorisis 2, per diventare realtà drammatica. Gli spettatori ateniesi conoscevano già il mito, e non era quindi necessario rappresentarlo davanti ai loro occhi. L’unica persona che ancora deve venirne a conoscenza è Edipo stesso, ed egli può venirne a conoscenza solo alla fine, dopo che il mito è stato la sua vita. L’esposizione diventa quindi superflua e l’analisi diventa azione. L’Edipo che vede e che pure è cieco rappresenta, in certo qual modo, il centro vuoto di un mondo che conosce il suo destino, e i cui messaggeri conquistano gradualmente il suo animo onde colmarlo della loro orribile verità. Ma questa verità non appartiene al passato, poiché non è il passato, ma il presente, ad essere rivelato. Poiché Edipo è l’uccisore del proprio padre, lo sposo della propria madre, il fratello dei propri figli. Egli è «la piaga di questo paese» 3 e deve apprendere il passato solo per poter riconoscere questa realtà presente. Per questo motivo l’azione dell’Œdipus Rex, pur precedendo di fatto la tragedia, è contenuta in essa e nel suo presente. La tecnica analitica è quindi tratta, da Sofocle, dalla materia stessa, e non in considerazione di una forma drammatica prestabilita, ma proprio perché la tragicità della materia possa mostrarsi in tutta la sua purezza e densità. La differenza fra la struttura drammatica ibseniana e quella di Sofocle ci guida al vero problema formale del teatro di Ibsen, che rivela la crisi storica del dramma stesso. Il fatto che, in Ibsen, la tecnica analitica, lungi dal rappresentare un fenomeno isolato, rappresenti il modo in cui sono costruite le sue pièces modernes, non ha bisogno di dimostrazione. Basti pensare alle sue opere piú importanti: Casa di bambola, Le colonne della società, Spettri, La donna del mare, Rosmersholm, L’anitra selvatica, Il costruttore Solness, Gian Gabriele Borkman, Quando noi morti ci destiamo. Gian Gabriele Borkman (1896) «si svolge in una sera d’inverno nella proprietà dei Rentheim, alle porte della capitale». Nel grande «salone di gala» della casa vive da otto anni, in quasi completa solitudine, Gian Gabriele Borkman, «ex direttore di banca». La stanza di soggiorno del piano di sotto appartiene a sua moglie, Gunhild. Essi vivono nella stessa casa senza mai incontrarsi. Ella Rentheim, la sorella della moglie, che è anche proprietaria della casa, vive altrove. Appare solo una volta all’anno per incontrarsi con l’amministratore; e nemmeno in queste occasioni parla mai con Gunhild o con Borkman. La sera d’inverno in cui si svolge l’azione porta l’incontro fra queste tre persone, legate fra loro da un passato comune, ma divenute ormai profondamente estranee l’una all’altra. Nel primo atto si trovano di fronte Ella e Gunhild: «Già… Gunhild, sono quasi otto anni che non ci vediamo» 4. Il secondo atto porta il colloquio fra Ella e Borkman: «È molto tempo che non ci troviamo cosí, faccia a faccia, Borkman» 5. E nel terzo atto si incontrano Gian Gabriele Borkman e sua moglie: «L’ultima volta che ci siamo trovati di fronte… fu davanti ai tribunali. Quando fui invitata a dare spiegazioni» 6. Questi colloqui, determinati dal desiderio di Ella, gravemente ammalata, di riprendere con sé il figlio dei Borkman, che era stato suo figlio adottivo per molti anni, per non morire in solitudine, ci rivelano il passato delle tre persone. Borkman amava Ella Rentheim, ma sposò invece la sorella Gunhild. Denunciato da un amico, l’avvocato Hinkel, trascorre cinque anni in carcere per appropriazione indebita. Rimesso in libertà, Borkman si ritira nel salone della casa di campagna, acquistata per lui e per sua moglie all’asta giudiziaria da Ella, il cui patrimonio in banca – a differenza di tutto il resto – Borkman non aveva toccato. Durante questo periodo il figlio dei Borkman viene allevato da Ella, e torna alla madre quando ormai è quasi adulto. Questi i fatti. Ma essi non vengono raccontati per se stessi; essenziale è ciò che sta «dietro» e «tra» i fatti: i motivi e il tempo. «Ma… quando ti sei incaricata spontaneamente di educare Erhart in vece mia… qual era la tua intenzione?» chiede la signora Borkman a sua sorella 7. «Mi sono chiesta sovente… perché hai risparmiato tutto quel che io possedevo… e quello soltanto?» chiede Ella al cognato 8. E cosí si svelano i veri rapporti tra Ella e Borkman, tra Borkman e sua moglie, tra Ella ed Erhart: Borkman aveva rinunciato ad Ella, la donna che amava, per ottenere nella carriera bancaria l’appoggio dell’avvocato Hinkel, che aspirava a sua volta alla mano della donna. Invece di Ella, Borkman sposò Gunhild, pur senza amarla. Ma Ella, disperata, aveva rifiutato Hinkel, che – credendo di vedere in questo rifiuto l’influenza di Borkman – si vendicò denunciandolo. Ella, la cui vita era stata distrutta dal tradimento di Borkman, non amò piú che una sola persona al mondo: Erhart, il figlio di lui. Lo educò come se fosse suo figlio, ma quando Erhart divenne piú grande la madre lo riprese con sé. Ora Ella, la cui malattia mortale risale a quel «trauma psichico» (il tradimento di Borkman), lo vorrebbe riavere presso di sé per i pochi mesi che le restano da vivere. Ma Erhart abbandona sia la madre che la zia per seguire la donna che ama. Questi i motivi. Essi vengono portati alla luce della ribalta, in questa sera d’inverno, dalle anime sepolte dei tre personaggi. Ma ciò che è essenziale non è ancora stato detto. Quando Borkman, Gunhild ed Ella parlano del passato, non sono i singoli eventi, né la loro motivazione, a venire in primo piano, ma è il tempo stesso, che è stato colorato da quelli. «Saprò procurarmi riparazione… Riparazione per tutta la mia vita sciupata», dice la signora Borkman 9. Quando Ella le dice di aver saputo che lei e suo marito vivono nella stessa casa senza vedersi, essa risponde: Sí… cosí siamo vissuti, Ella. Da quando l’hanno lasciato libero e me l’hanno rimandato a casa. Per tutti questi otto lunghi anni 10. SIGNORA BORKMAN E quando Ella e Borkman si incontrano: ELLA È molto tempo che non ci troviamo cosí, a faccia a faccia, Borkman. (cupo) Sí, molto, molto tempo. Cose atroci ci separano da quell’ultimo incontro. Tutta una vita. Tutta una vita sprecata 11. BORKMAN ELLA Un po’ piú avanti: Dal tempo in cui la tua immagine ha cominciato a cancellarsi dal mio cuore, ho vissuto come in un limbo. In questi lunghi anni m’è divenuto sempre piú difficile… e impossibile, alla fine, amare una creatura vivente… 12. ELLA E quando, nel terzo atto, la signora Borkman dice al marito di aver meditato piú del necessario sulle oscure storie di lui, egli risponde: Anch’io. Nei cinque interminabili anni di carcere ho avuto agio di pensare. E ancor piú negli otto anni passati di sopra, nel salone. Ho ripreso tutto il processo, l’ho riesaminato… davanti a me stesso, piú e piú volte […] Lassú, mentre misuravo coi miei passi la gran sala, ho preso in esame ognuna delle mie azioni, l’ho girata e rigirata da tutti i lati 13. Ho sciupato lassú otto anni preziosi della mia esistenza 14. BORKMAN Nell’ultimo atto, nello spiazzo davanti alla casa: È tempo che mi riabitui all’aria aperta… Quasi tre anni di detenzione preventiva, cinque di prigione cellulare, otto lassú nella grande sala… 15. BORKMAN Ma egli non potrà piú abituarsi a vivere all’aria aperta. L’evasione dal carcere del passato non lo conduce verso la vita, ma verso la morte. E le due donne, Gunhild ed Ella, che in una sola sera perdono l’uomo amato ed il figlio, a cui entrambe volevano bene, si stringono la mano come «due ombre… al di sopra del morto». Diversamente da ciò che accade nell’Edipo di Sofocle, il passato non è qui in funzione del presente, ma questo si limita ad essere un pretesto per l’evocazione del passato. L’accento non è posto né sul destino di Ella, né sulla morte di Borkman. Ma non si può dire che, a costituire il tema dell’opera, sia qualche avvenimento isolato del passato, come, ad esempio, la rinuncia di Borkman ad Ella o la vendetta dell’avvocato; nulla di ciò che è accaduto nel passato, ma il passato stesso costituisce il tema: i «lunghi anni» di cui si parla continuamente e «tutta la vita sciupata, rovinata». Ma ciò si rifiuta alla presenza drammatica, poiché rappresentato – nel senso dell’attualizzazione drammatica – può essere solo qualcosa di temporale, e non il tempo stesso. Di esso il dramma non può far altro che riferire, ma la sua rappresentazione diretta è possibile solo in una forma letteraria che lo accolga «nella serie dei suoi principî costitutivi». Questa forma letteraria – come ha dimostrato G. Lukács 16 – è il romanzo. «Nel dramma (e nell’epopea) il passato o non esiste o è del tutto presente. Dal momento che tali forme non conoscono il fluire del tempo, non v’ha in esse alcuna differenza qualitativa dell’esperienza di passato e presente; il tempo non possiede alcuna forza di mutazione, dal tempo non viene ad essere né esaltata né sminuita l’importanza d’alcunché» 17. Nell’analisi dell’Œdipus Rex ciò che è passato diviene presente: «È questo il senso formale delle scene, tipizzate da Aristotele, di smascheramenti e agnizioni: qualcosa è sconosciuto, pragmaticamente, agli eroi del dramma, che ora entra nel loro campo visivo, ed essi, nel mondo alterato da quest’intervento, si trovano nella necessità di comportarsi diversamente da come avrebbero voluto. Ma l’elemento che ora interviene non è reso piú pallido da una prospettiva temporale: rispetto al presente, esso è un congenere e un equivalente» 18. In tal modo ci si palesa un’altra differenza. La verità dell’Œdipus Rex è di natura oggettiva. Essa fa parte del mondo: solo Edipo vive nell’ignoranza, e il suo itinerario alla verità costituisce l’azione tragica. In Ibsen, invece, la verità è interiore. È nell’interiorità che risiedono i motivi delle decisioni che si manifestano; è in essa che si nasconde, e sopravvive ad ogni trasformazione esterna, il loro effetto traumatico. La tematica di Ibsen, oltre che in senso temporale, manca anche in questo senso topico del presente richiesto dal dramma. Essa nasce, è vero, interamente dal rapporto interpersonale, ma vive solo nell’intimo di esseri umani reciprocamente estranei e isolati, come un riflesso di quel rapporto. Ciò significa che la diretta presentazione drammatica di questa verità non è possibile. Non è solo per acquistare maggiore densità che essa richiede una tecnica analitica; essendo, sostanzialmente, materia di romanzo, non può trasferirsi sulla scena senza l’aiuto di quella tecnica. Ma anche cosí, finisce per rimanere estranea alla scena, perché – per quanto sia connessa a un’azione presente (in entrambi i sensi) – rimane confinata nel passato e nell’interiorità. E proprio questo è il problema della forma drammatica in Ibsen 19. Poiché il suo punto di partenza era di carattere epico, egli dovette acquisire l’impareggiabile maestria di cui dà prova nella costruzione dei suoi drammi. E avendo egli acquisito questa maestria, non si vide piú, sotto i suoi drammi, la base epica. Il duplice compito del drammaturgo (attualizzazione e funzionalizzazione) divenne per lui una necessità inesorabile – e non poté mai, tuttavia, riuscire perfettamente. Al servizio dell’attualizzazione sono alcuni espedienti che in se stessi possono sconcertare. Cosí, ad esempio, la tecnica dei «Leitmotive». Questa tecnica non è destinata qui, come altrove, a fissare l’identico nella trasformazione, o a creare nessi indiretti e trasversali. Nei «Leitmotive» di Ibsen è il passato che continua a vivere; è il passato ad essere rievocato tramite la citazione di quelli. Come nel torrente del mulino di Rosmersholm, in cui il suicidio di Beate Rosmers diventa un eterno presente. Nei fatti simbolici il passato si fonde col presente: si pensi al tintinnio dei bicchieri nella stanza accanto (Spettri). E anche il motivo dell’ereditarietà non deve tanto incarnare la rinascita del destino classico, quanto piuttosto attualizzare il passato: e cioè il tenore di vita del capitano Alving nella malattia di suo figlio. Solo con questo procedimento analitico è possibile, se non rappresentare direttamente il tempo, e cioè la vita della signora Alving a fianco di quell’uomo, fissarlo almeno come lasso di tempo, come differenza fra due generazioni. La funzionalizzazione drammatica, che ha generalmente il compito di elaborare la struttura causale e finale di un’azione unitaria, deve colmare qui l’abisso esistente fra il presente e il passato che si sottrae all’attualizzazione. Raramente Ibsen è riuscito a ottenere che l’azione presente fosse tematicamente all’altezza di quella evocata e che si fondesse omogeneamente con essa. Anche sotto questo aspetto Rosmersholm si può considerare il suo capolavoro. Il tema politico attuale e quello interiore del passato, che, in Rosmersholm, non è relegato negli abissi delle anime, ma continua a vivere in tutta la casa, non divergono quasi mai. Anzi: il primo tema permette che il secondo resti in una penombra crepuscolare, conforme alle esigenze della sua natura. I due temi si confondono alla fine nel personaggio del rettore Krull, che è insieme il fratello della moglie di Rosmer, spinta al suicidio, e l’avversario politico di lui. Ma non si può dire che nemmeno qui la fine sia motivata a sufficienza in base al passato, e che ne sia pienamente mostrata la necessità. A Rosmer e a Rebecca West, che si gettano nel torrente seguendo le orme della moglie morta, manca la tragicità dell’Edipo cieco condotto nel palazzo. E qui indubbiamente si rivela il distacco che separa il mondo borghese dalla catastrofe tragica. La tragicità immanente al mondo borghese non ha le sue radici nella morte, ma nella vita stessa. Di questa vita Rilke dice (proprio richiamandosi a Ibsen) che «era scivolata in noi, […] si era ritirata dentro di noi cosí profondamente che si poteva appena congetturare che cosa fosse» 20. E in questo contesto rientrano anche le parole di Balzac: «Nous mourrons tous inconnus» 21. L’opera di Ibsen si situa perfettamente sotto questo segno. Ma in quanto intraprese la rivelazione drammatica della vita nascosta, e volle che questa rivelazione avvenisse ad opera delle stesse dramatis personae, egli la distrusse. Le creature di Ibsen potevano vivere solo sepolte in se stesse, alimentandosi della «menzogna vitale». Il fatto che egli non divenne il loro romanziere, non le lasciò nella loro vita, ma le costrinse a parlare, finí per ucciderle. È cosí che, in un’epoca ostile al dramma, l’autore drammatico può farsi assassino delle proprie creature. II. Nei drammi di ČECHOV gli esseri umani vivono nel segno della rinuncia. Soprattutto li caratterizza la rinuncia al presente e alla possibilità d’incontrarsi; la rinuncia alla felicità in un vero incontro. Questa rassegnazione, ove nostalgia e ironia si fondono in un atteggiamento intermedio, determina anche la forma dei drammi di Čechov, e quindi il posto che egli occupa nell’evoluzione della drammaturgia moderna. Rinunciare al presente significa vivere nel ricordo e nell’utopia; rinunciare a incontrarsi significa solitudine. Il dramma Tre sorelle – forse il piú compiuto fra i drammi di Čechov – presenta esclusivamente individui soli, ebbri di ricordi, che sognano il futuro. Il loro presente è oppresso dal passato e dall’avvenire; è un intervallo, un periodo d’esilio, dove la sola meta è il ritorno alla patria perduta. Questo tema, intorno a cui verte, del resto, tutta la letteratura romantica, si concretizza come segue, in Tre sorelle, nel mondo borghese a cavallo del secolo: Olga, Maša ed Irina, le tre sorelle Prozorov, vivono da undici anni, col fratello Andrej Sergeevič, in una grossa città di guarnigione della Russia orientale. Avevano lasciato Mosca, la loro città natale, perché il padre aveva assunto il comando di una brigata quaggiú. Il dramma ha inizio un anno dopo la morte del padre. Il soggiorno in provincia ha ormai perso il suo scopo, il ricordo del tempo passato a Mosca incombe sulla noia della vita quotidiana e culmina in un solo grido disperato: «A Mosca, a Mosca!» 22. L’attesa di questo ritorno al passato, che deve essere nello stesso tempo il grande avvenire, riempie di sé la vita delle sorelle Prozorov. Attorno a loro sono gli ufficiali della guarnigione, consumati dalla stessa stanchezza, dalla stessa nostalgia. Ma per uno di loro il futuro, che per le sorelle si identifica con una meta ben precisa, si dilata ad utopia. Aleksandr Ignatevič Veršinin dice: Fra due o trecent’anni la vita sulla terra sarà cosí bella, cosí meravigliosa come non si può nemmeno immaginare. All’uomo è necessaria una vita simile e se per il momento non è possibile realizzarla, egli deve averne il presentimento, attenderla, sognarla, prepararvisi… 23. VERŠININ E piú avanti: Mi sembra che sulla terra tutto dovrà mutare a poco a poco, anzi già comincia a mutare sotto i nostri occhi. Fra due, trecento, mille anni – la data precisa non importa – comincerà una vita nuova, felice. Noi, certo, non parteciperemo a questa vita, ma noi ora viviamo per essa, lavoriamo, soffriamo per prepararla, la stiamo creando e in questo solo è lo scopo della nostra esistenza e anche, se volete, la nostra felicità 24. VERŠININ La felicità non c’è, non può esserci e non ci sarà per noi!… Noi dobbiamo solo lavorare e lavorare: la felicità sarà per i nostri lontani nipoti. Se non lo saremo noi, saranno almeno felici i nipoti dei nostri nipoti 25. Ma piú ancora di questo atteggiamento utopistico, ciò che isola gli uomini è il peso del passato e la loro insoddisfazione nel presente. Essi tutti non fanno che riflettere sulla propria vita, si perdono nei propri ricordi, si tormentano nell’analisi della noia. Nella famiglia Prozorov e nell’ambiente che la circonda ciascuno ha il suo problema, su cui viene continuamente rigettato: un problema che lo separa dal suo prossimo. Andrej si consuma nella tensione fra il suo sogno di ottenere la cattedra di professore a Mosca e la sua effettiva posizione di segretario dell’amministrazione agricola. Maša vive, dall’età di diciassette anni, in un’infelice situazione coniugale. Olga, «da quando insegna alla sua scuola, sente che le forze e la giovinezza l’abbandonano a poco a poco» 26. E Irina, che per liberarsi dal malcontento e dalla tristezza si è gettata a capofitto nel lavoro 27, confessa: Ho passato i ventitre anni, lavoro già da molto tempo, la mente mi si è inaridita, sono diventata magra, brutta, vecchia, e niente, niente, nessuna soddisfazione!… Intanto il tempo passa e mi sembra di allontanarmi sempre piú dalla vita vera, bella, di andare sempre piú lontano, come verso un precipizio. Sono disperata e non capisco come io stia ancora a questo mondo, come non mi sia ancora uccisa… 28. IRINA Si pone a questo punto la questione, come questa rinuncia tematica alla vita presente a favore del ricordo e dell’aspirazione nostalgica, questa eterna analisi del proprio destino, permetta ancora quella forma drammatica in cui si era cristallizzata l’adesione rinascimentale al «qui» e all’«ora» e al rapporto intersoggettivo. Alla doppia rinuncia che caratterizza i personaggi di Čechov parrebbe dover corrispondere la rinuncia all’azione e al dialogo, le due categorie formali piú importanti del dramma; e cioè alla forma drammatica stessa. Ma questa rinuncia è presente solo in germe. Come gli eroi dei drammi di Čechov, nonostante la loro assenza temporale e psichica, continuano a vivere la loro vita in società senza trarre le estreme conseguenze della loro solitudine e della loro nostalgia, e restando in una zona intermedia fra il mondo e l’io, fra il presente e il passato, cosí la forma dei drammi non rinuncia del tutto alle categorie di cui essa – in quanto forma drammatica – ha bisogno. Essa le conserva, senza accentuarle, come qualcosa di ovvio e di secondario, che permette alla vera tematica di concretarsi, per cosí dire, negativamente, come deviazione dalla forma stessa. Cosí, nelle Tre sorelle, abbiamo dei rudimenti dell’azione tradizionale: il primo atto – l’esposizione – si svolge il giorno dell’onomastico di Irina; il secondo prende lo spunto dai mutamenti che hanno avuto luogo nel frattempo: il matrimonio di Andrej e la nascita di suo figlio; il terzo si svolge di notte mentre nelle vicinanze divampa un incendio; il quarto, infine, si accentra su un duello durante il quale viene ucciso il promesso sposo di Irina, il giorno in cui il reggimento si trasferisce, e i Prozorov cedono definitivamente alla noia della vita di provincia. Già il fatto che i momenti dell’azione siano accostati senza un nesso preciso e distribuiti in quattro atti senza vera attesa e tensione (come è stato sempre riconosciuto dai critici), mostra qual è il posto che spetta loro nella compagine formale del dramma; sono inseriti, senza un vero significato e valore proprio, per conferire al tema un minimo di movimento in grado di consentire il dialogo. Ma anche il dialogo è senza peso, come un pallido colore di fondo da cui si staccano, come pennellate piú vive, i monologhi (travestiti da repliche), in cui si condensa il significato del tutto. L’opera vive, infatti, di queste autoanalisi rassegnate, in cui quasi tutti i personaggi giungono via via ad esprimersi; ed è stata scritta proprio in funzione di esse. Non si tratta di monologhi nel senso tradizionale della parola. Alla loro base non è la situazione, ma la tematica. Il monologo drammatico (come ha messo in chiaro Lukács 29) non esprime nulla che si sottragga per principio alla comunicazione. «Amleto nasconde il suo stato d’animo ai cortigiani per motivi pratici; forse proprio perché essi capirebbero fin troppo bene che egli vuol vendicare suo padre, che egli non può fare a meno di vendicarlo» 30. Altrimenti qui. Le parole sono pronunciate in presenza degli altri, non quando il personaggio è solo; ma sono proprio esse ad isolare chi le pronuncia. Cosí, quasi impercettibilmente, un dialogo inessenziale trapassa in una serie di soliloqui essenziali. Essi non rappresentano monologhi isolati, inseriti in un’opera dialogica; in essi, anzi, l’opera nel suo complesso abbandona il piano drammatico e si fa lirica. Poiché nella lirica il linguaggio è piú naturale e autogiustificato che nel dramma; è, per cosí dire, piú formale. Il parlare, nel dramma, oltre ad esprimere il contenuto concreto delle parole, esprime anche sempre il fatto stesso che si parla. Quando non c’è piú nulla da dire, quando qualcosa non può venir detto, il dramma tace. Nella lirica, invece, anche il silenzio diventa linguaggio. In essa, naturalmente, le parole non «cadono» piú, ma sono dette con una naturalezza che fa parte dell’essenza della lirica. Il linguaggio cechoviano deve il suo fascino a questo continuo trapasso dalla conversazione alla lirica della solitudine. Ciò è possibile solo grazie alla grande comunicatività del popolo russo e al lirismo immanente nella sua lingua. Qui la solitudine non è già di per sé irrigidimento. Ciò che l’Occidente conosce forse solo nell’ebbrezza: la partecipazione alla solitudine altrui, l’assorbimento della solitudine individuale nella solitudine collettiva che si sta formando, sembra già insito come possibilità nella natura del russo, sia del popolo che della lingua. Perciò il monologo dei drammi cechoviani può trovare il suo posto nel dialogo stesso; perciò, nei drammi cechoviani, il dialogo non diventa quasi mai un problema, e la loro intima contraddizione – quella, cioè, fra tematica monologica ed espressione dialogica – non conduce mai alla dissoluzione della forma drammatica. Solo ad Andrej, il fratello, è preclusa anche questa possibilità di espressione. La sua solitudine lo costringe al silenzio, e perciò egli fugge la società 31; può parlare solo quando sa di non essere inteso. Čechov ottiene questo risultato introducendo nell’azione un personaggio sordo: Ferapont, l’usciere della Giunta provinciale: Buona sera, mio caro. Che novità? Il presidente vi manda un libro e certe carte. Ecco… (Consegna il libro e un pacchetto). ANDREJ Grazie! Va bene! Ma perché sei venuto a quest’ora? Sono già le otto passate. FERAPONT Come? ANDREJ (piú forte) Dico che sei venuto tardi: sono le otto passate. FERAPONT Veramente sono venuto che era ancora giorno, ma non mi hanno lasciato entrare. […] (Credendo che Andrej gli abbia domandato qualcosa) Come? ANDREJ Ma se non ho detto niente! (Esaminando il libro) Domani è venerdí, non c’è seduta, ma io verrò lo stesso all’ufficio… farò qualche cosa. A casa mi annoio… (Pausa). Vecchio mio, come muta stranamente la vita e come inganna! Oggi, per la noia, non sapendo che fare, ho preso in mano questo libro: un vecchio corso di lezioni universitarie; e mi è venuto da ridere… Dio mio! Io sono segretario della Giunta provinciale, proprio di quella Giunta provinciale di cui è presidente Protopopov. Segretario!… E il massimo che possa sperare per l’avvenire è di diventar consigliere. Io, capisci, io che ogni notte sogno di essere professore all’Università di Mosca, d’essere un dotto famoso, di cui tutta la Russia debba esser orgogliosa! FERAPONT Non capisco… Ci sento poco. ANDREJ Se ci sentissi bene, forse non ti parlerei di certe cose. Io ho bisogno di parlare con qualcuno, ma mia moglie non mi comprende; delle sorelle, chissà perché, ho soggezione: temo che mi prendano in giro, che mi facciano sentire una gran vergogna… Io non bevo e per le trattorie non ho una gran simpatia, eppure con che piacere, adesso, mi siederei in un grande «restaurant» di Mosca, da «Testov» per esempio. FERAPONT All’ufficio, tempo fa, l’appaltatore raccontava che a Mosca certi mercanti mangiarono delle ciambelle; uno, che se n’era mangiate quaranta, dicono che morisse. Sí: quaranta o cinquanta, non ricordo bene. ANDREJ Se te ne stai in una grande sala di un «restaurant» di Mosca, non conosci nessuno e nessuno ti conosce; eppure non ti senti estraneo. Qui invece conosci tutti e tutti ti conoscono: eppure ti senti estraneo; estraneo a tutti… Estraneo e solo. FERAPONT Cosa dite? (Pausa). Quello stesso appaltatore mi ha raccontato – non so se abbia detto una bugia – che a Mosca, da un capo all’altro della città, hanno teso una gran fune […] 32. ANDREJ FERAPONT Ciò che, grazie al motivo della sordità, si presenta qui come un dialogo, è in fondo un monologo, il monologo disperato di Andrej, cui fanno da contrappunto i discorsi di Ferapont, che hanno lo stesso carattere monologico. Mentre di solito, parlando dello stesso oggetto, si manifesta la possibilità di una vera comprensione, qui se ne rivela l’impossibilità. L’impressione di divergenza è tanto piú forte, quando si stacca da un fondo fittizio di convergenza. Il monologo di Andrej non nasce dal dialogo, ma dalla sua negazione. L’efficacia di questo parlare senza capirsi nasce dal contrasto, parodistico e doloroso insieme, col vero dialogo, che viene respinto, cosí, nei paraggi dell’utopia. Ma ciò mette in discussione la forma drammatica stessa. Poiché l’impossibilità di comprendersi è, in questo caso, motivata tematicamente (sordità di Ferapont), il ritorno al dialogo è ancora possibile. Gli interventi di Ferapont restano meri episodi. Ma tutto ciò che è tematico, e il cui contenuto è piú generale e importante del motivo che lo rappresenta, tende a «precipitare» in forma. E il ritiro formale del dialogo conduce necessariamente all’epica. Ecco perché il sordo di Čechov indica in direzione del futuro. III . Con STRINDBERG ha inizio quella che piú tardi prenderà il nome di «drammaturgia dell’io» e che costituirà per decenni il quadro della letteratura drammatica. Il terreno in cui essa affonda le sue radici è, in Strindberg, l’autobiografia. Ciò non appare solo nei rapporti tematici; la stessa teoria del «dramma soggettivo», nel suo progetto di letteratura del futuro, sembra identificarsi per lui con la teoria del romanzo psicologico come storia dell’evoluzione della propria anima. Ciò che egli ha detto in un’intervista a proposito del primo volume della sua autobiografia (Il figlio della serva) chiarisce anche i retroscena del nuovo stile drammatico, di cui Il padre, scritto un anno piú tardi (1887), rappresenta già gli inizi. Egli disse: «Credo che la rappresentazione totale della vita di un uomo sia piú sincera ed esauriente di quella di un’intera famiglia. Come si può sapere ciò che avviene nel cervello altrui, i motivi segreti delle azioni di un altro, ciò che una persona o l’altra hanno detto in un momento di confidenza? Sí, si costruisce, si inventa; ma fino ad oggi la scienza dell’uomo è stata poco sviluppata da quegli autori che hanno cercato, con le loro scarse nozioni psicologiche, di tratteggiare la vita dell’anima, che in realtà è nascosta. Ognuno conosce una sola vita: la propria…» 33. Si sarebbe tentati di leggere in queste parole, scritte nel 1886, la rinuncia di Strindberg all’arte drammatica. Mentre esse sono il punto di partenza di un’evoluzione che ha inizio con Il padre (1887), prosegue con Verso Damasco (1898-1901) e Il sogno (1901) e si conclude con La strada maestra (1909). Il problema centrale, per lo studioso dell’opera di Strindberg, è quello di stabilire fino a che punto tale evoluzione porti effettivamente lontano dal dramma. La prima opera, Il padre, cerca di associare lo stile soggettivo a quello naturalistico. Col risultato che nessuno dei due può essere pienamente realizzato, poiché le intenzioni della drammaturgia naturalistica e di quella soggettiva sono diametralmente opposte. Benché si atteggiasse a rivoluzionario, e lo fosse anche relativamente allo stile e alla concezione del mondo, il naturalismo prese, nel campo della drammaturgia, un orientamento conservatore. Esso tendeva, in fondo, a salvaguardare la forma drammatica tradizionale. Dietro il suo proposito rivoluzionario di realizzare il dramma su un nuovo piano stilistico, stava – come dimostreremo piú oltre – un’idea conservatrice: quella di sottrarre il dramma alla minaccia dell’evoluzione storico-spirituale, trasferendolo, e salvandolo, in uno spirito ancora immune da quell’evoluzione, arcaico e purtuttavia contemporaneo. A prima vista Il padre sembra un dramma familiare, uno degli innumerevoli esempi di drammi familiari del tempo. Padre e madre lottano per l’educazione della figlia; è uno scontro di principî, una lotta tra i sessi. Ma non occorre aver presenti le frasi di Strindberg che abbiamo appena citato per capire che quest’opera non consiste di una rappresentazione diretta – ossia drammatica – di questi rapporti inveleniti e dei loro sviluppi, ma è stata progettata solo in funzione del personaggio principale, e si svolge interamente alla luce della sua soggettività. Lo schema ci dà solo una prima indicazione in questo senso: il padre è il centro e le donne lo circondano: Laura, la balia, la suocera e infine la figlia, quasi le pareti dell’inferno donnesco in cui si crede imprigionato. Piú importante ancora è constatare che la lotta di sua moglie contro di lui perviene, per lo piú, a realizzazione drammatica solo come riflesso nella sua coscienza, e che, nelle sue linee fondamentali, questa lotta è addirittura condotta da lui stesso. È lui a mettere nelle mani di sua moglie l’arma principale di cui essa dispone: il dubbio sulla sua paternità. E la sua malattia mentale è attestata da una sua lettera in cui egli «dichiara al medico di essere pazzo» 34. Nell’ultima scena del secondo atto, le parole di sua moglie, che lo spingono a gettarle addosso la lampada accesa («Ormai hai assolto il tuo compito di padre, purtroppo necessario al mantenimento dei figli. Adesso non occorri piú e puoi andartene»), sono verosimili solo come proiezione dei pensieri che il Capitano sospetta in sua moglie. Se il naturalismo del dialogo significa perfetta riproduzione del discorso come potrebbe svolgersi nella realtà, la prima opera naturalistica di Strindberg è altrettanto lontana dal naturalismo quanto la tragédie classique. Esse si differenziano nel principium stilisationis: nella tragédie classique quel principio riposa su un ideale linguistico oggettivo, mentre in Strindberg è determinato dalla prospettiva soggettiva. E la fine del Capitano, che Laura determina facendogli mettere la camicia di forza, si trasforma, per cosí dire, in un processo interiore, tramite il collegamento con l’infanzia, tramite la sua identificazione magico-psicoanalitica coi ricordi contenuti nelle parole della balia che gli fa indossare la camicia. In seguito a questo spostamento di prospettiva, anche il principio delle tre unità, che nel Padre è ancora rigorosamente osservato, perde ogni significato. Nel dramma vero e proprio, infatti, la funzione di quel principio è questa 35: fare emergere e risaltare il puro sviluppo dinamico-dialettico sulla staticità del mondo interiore ed esterno sempre uguale a se stesso, creando cosí quello «spazio assoluto» che è richiesto dalla riproduzione esclusiva dell’accadere intersoggettivo. Ma qui l’opera non si fonda sull’unità dell’azione, ma su quella dell’io del suo personaggio centrale. L’unità d’azione diventa irrilevante, o addirittura d’impaccio, nella rappresentazione di uno sviluppo psichico. La continuità senza vuoti dell’azione non costituisce una necessità, poiché l’unità del tempo e del luogo non sono correlative all’unità dell’io. Se ne ha una conferma nelle poche scene in cui il Capitano non è presente sul palcoscenico. Non si capisce perché lo spettatore, che vede la realtà di quella famiglia esclusivamente attraverso gli occhi del padre, non possa seguirlo nel suo vagabondaggio notturno e, piú tardi, non possa essere rinchiuso assieme a lui. Ma, in realtà, anche queste scene sono dominate dal Capitano, che vi è presente in quanto argomento di tutti i discorsi degli altri. Esse fanno posto solo indirettamente agli intrighi di Laura; in primo piano è la immagine di lui, come essa la descrive al fratello e al medico. E quando il Pastore sente del piano della sorella di far ricoverare e interdire il Capitano, si fa addirittura avvocato di suo cognato, che fino a quel momento – a causa del suo libero pensiero – aveva sempre considerato come «una mala erba nel nostro giardino» 36: Quanta forza hai, Laura! Sei straordinaria. Come una volpe in trappola, preferisci strapparti coi tuoi stessi denti una zampa, piuttosto che lasciarti catturare! Come un ladro di professione, non vuoi complici; nemmeno la tua stessa coscienza! Guardati allo specchio, se ne hai il coraggio. […] Fammi vedere la mano… Guarda, nemmeno una macchiolina di sangue che possa tradirti, non una traccia del mortale veleno. Un piccolo innocente assassinio, che la legge non può punire, un delitto inconsapevole. Inconsapevole? Una trovata ingegnosa, piuttosto. PASTORE E alla fine, tornando da questo discorso in vece altrui a un discorso diretto: «Come uomo sarei contento di vederti sul patibolo! Come fratello e come sacerdote… i miei complimenti!» 37. Dove è sempre il Capitano a parlare, anche in queste ultime frasi. Questi pochi punti, mostrando come diventi problematico distribuire drammaticamente i ruoli e rispettare le tre unità nel quadro della drammaturgia soggettiva, permettono di capire perché, a partire dal Padre, le intenzioni naturalistiche e quelle autobiografiche di Strindberg nell’ambito del dramma si separino e divergano. La signorina Giulia, scritta un anno dopo e concepita da un punto di vista non prospettico, diventa una delle opere piú celebri del naturalismo, e il saggio di Strindberg su questa pièce è una specie di manifesto naturalistico. Mentre il tentativo di porre al centro di un’opera l’io di una sola persona, essenzialmente il proprio, porta Strindberg sempre piú lontano dalla struttura drammatica tradizionale a cui rimane ancora pienamente ancorata La signorina Giulia. Anzitutto si ha l’esperimento monodrammatico, come nell’atto unico La piú forte. Ciò può sembrare un’applicazione logica della tesi: «Ognuno conosce una sola vita: la propria». Dove bisogna però osservare che il personaggio unico di quest’opera non è un’incarnazione autobiografica di Strindberg. Questo fatto si spiega se si riconosce che la drammaturgia soggettiva corrisponde meno alla nozione per cui l’autore può ricreare solo la propria vita psichica (poiché essa solo gli è veramente scoperta), che all’intenzione generale che la precede, che è quella di trasformare in realtà drammatica la vita psichica, qualcosa di essenzialmente nascosto. Il dramma, forma letteraria «kat’exochén» della rivelazione e della chiarezza dialogica, riceve il compito di rappresentare accadimenti psichici segreti. Ed esso risolve questo compito ritirandosi nel suo personaggio centrale e limitandosi esclusivamente ad esso (monodrammatica), o considerando tutto il resto dal suo punto di vista (drammatica dell’io); ma cosí facendo cessa di essere dramma. L’atto unico La piú forte (1888-89) è piú significativo per la problematica intrinseca della tecnica analitica moderna in generale che non per l’evoluzione drammatica di Strindberg. Esso dev’essere visto in relazione ad Ibsen. Poiché in questo monodramma di sei pagine c’è qualcosa come il nocciolo di un dramma di Ibsen in tre o quattro atti. L’azione secondaria, che si svolge nel presente, e che serve da sfondo all’analisi dell’azione primaria, esiste solo in nuce: «La signora X, attrice, sposata» incontra, la sera di Natale, nell’angolo di un caffè per signore, «la signorina Y, attrice, nubile». E ciò che, nei drammi di Ibsen, è intrecciato drammaticamente in modo magistrale (per quanto problematico) con gli eventi attuali (i riflessi interiori e il passato ricordato) è rappresentato qui in forma epico-lirica, in un lungo monologo della Signora. Dove non solo si può scorgere indirettamente quanto fosse antidrammatico l’assunto ibseniano, ma si può vedere anche il prezzo che Ibsen ha dovuto pagare per mantenersi fedele alla forma drammatica. Poiché ciò che è nascosto e represso si esprime con tanta maggior forza nella densità e nella purezza del monologo di Strindberg che nei dialoghi ibseniani, e, in Strindberg, la rivelazione di questo elemento non ha nulla dell’«impareggiabile atto di violenza», che Rilke vedeva nell’opera di Ibsen 38. Lungi dal diventare un mero resoconto, questa narrazione in prima persona è anche in grado di dar luogo a due peripezie che non si potrebbero immaginare «piú drammatiche», anche se – a causa della loro pura interiorità – si sottraggono al dialogo e quindi al dramma. Strindberg trova la forma che piú gli si addice, quella dello «Stationendrama» (o «dramma a tappe»), dopo una interruzione di cinque anni nella sua attività creativa, e cioè nel 1898, in Verso Damasco. Quattordici opere minori, scritte negli anni dal 1887 al 1892, e il lungo intervallo dal 1893 al 1897, lo separano dall’ultima grande opera, Il padre. Gli atti unici di questo periodo (undici in tutto, fra cui La piú forte) lasciano in secondo piano i problemi dell’azione drammatica e della raffigurazione dei personaggi, che si erano affacciati nel Padre. Essi non risolvono questi problemi, ma ne testimoniano indirettamente, proprio in quanto cercano di evitarli. La tecnica a tappe può, invece, corrispondere formalmente alle intenzioni tematiche della drammaturgia soggettiva (rivelate, almeno in parte, dal Padre), e può quindi eliminare le contraddizioni che esse avevano provocato nell’ambito della forma drammatica. All’autore di un’opera soggettiva importa anzitutto isolare e dar rilievo al personaggio principale, che, per lo piú, rappresenta l’autore stesso. La forma drammatica, il cui principio fondamentale è un equilibrio raggiunto sempre di nuovo nel gioco dei rapporti interpersonali, non può adempiere a questo scopo senza distruggersi. Nel «dramma a tappe» il protagonista di cui si narra l’evoluzione si stacca con la massima chiarezza dai personaggi che incontra lungo le tappe del suo cammino. Questi si vedono solo in quanto entrano in rapporto col protagonista, in quanto entrano nella sua prospettiva, e sono quindi riferiti a lui. Poiché la base dello «Stationendrama» non è data da una serie di personaggi posti, in larga misura, sullo stesso piano, ma da un solo io centrale, e la sua dimensione non è, quindi, dialogica a priori, anche il monologo perde qui il carattere eccezionale che doveva necessariamente avere nel dramma vero e proprio. Ma solo cosí risulta fondata formalmente la possibilità di una rivelazione illimitata della «vita psichica segreta». Una delle conseguenze della drammaturgia soggettiva è la sostituzione dell’unità d’azione con l’unità dell’io. Di questo fatto tien conto la tecnica del dramma a tappe, risolvendo la continuità dell’azione in una successione di scene. Le singole scene non hanno qui alcun nesso causale fra loro, non scaturiscono l’una dall’altra come nel dramma vero e proprio. Appaiono piuttosto come una serie di pietre isolate, tenute insieme, come da un filo, dal cammino dell’io. Questa staticità delle scene, questa loro mancanza di futuro, che le rende epiche (nel senso goethiano del termine), si riconnette alla loro struttura, determinata dalla contrapposizione prospettica dell’io e del mondo. La scena drammatica attinge il suo dinamismo dalla dialettica interpersonale, avanza e progredisce grazie al momento futuro contenuto in quella dialettica. Nella scena dello «Stationendrama», invece, non si determina alcuna interazione; il protagonista incontra altri individui, ma essi gli rimangono estranei. Ciò mette in questione la possibilità stessa del dialogo, e, in effetti, nel suo ultimo «Stationendrama» (La strada maestra), Strindberg ha compiuto a tratti il passaggio dal dialogo alla narrazione a due voci: Il viandante e il cacciatore siedono ad un tavolo; hanno dinanzi a sé dei bicchieri. Si sta tranquilli quaggiú nella valle. Fin troppo tranquilli, pensa il mugnaio. IL VIANDANTE che dorme, mentre l’acqua scorre via, IL CACCIATORE che corre dietro alle nuvole e al vento… IL VIANDANTE e questo inutile sforzo m’ha fatto prendere in uggia i mulini a vento. IL CACCIATORE come faceva Don Chisciotte della Mancia, il prode cavaliere, IL VIANDANTE che non metteva il mantello secondo il vento, IL CACCIATORE ma faceva proprio il contrario, 39 IL VIANDANTE per cui venne a trovarsi in difficoltà… . IL VIANDANTE IL CACCIATORE Una scena come questa non può condurre, di per sé, a una scena successiva. Solo l’eroe può recarne con sé, nell’intimo, l’effetto traumatico o salutare, mentre la scena stessa rimane indietro, abbandonata, come una tappa del suo cammino. Col subentrare, alla vicenda oggettiva, di un itinerario soggettivo, cadono anche le categorie dell’unità di tempo e di luogo. Poiché solo le varie svolte di un cammino – in fondo interiore – sono realizzate scenicamente; la totalità del cammino non è compresa nello «Stationendrama» come l’azione nel dramma vero e proprio. L’evoluzione del protagonista nei tempi e nei luoghi intermedi supera sempre i limiti dell’opera, che ne resta quindi relativizzata. Non esistendo un rapporto organico fra le singole scene, che rappresentano solo vari spaccati di un’evoluzione che va al di là dell’opera (frammenti scenici di un «romanzo evolutivo»), si può porre a base della loro struttura uno schema ad esse esterno e che contribuisce a sua volta a relativizzarle e ad epicizzarle. Diversamente da ciò che avviene nello schema drammatico di G. Freytag, dove la piramide richiesta deve scaturire necessariamente dallo sviluppo organico delle scene e degli atti, la costruzione simmetrica di Verso Damasco (prima parte) segue un principio d’ordine meccanico, che, per quanto significativo in se stesso, è tuttavia estraneo all’opera. A questa qualifica del rapporto interpersonale nel «dramma a tappe» come opposizione netta e assoluta, sembra contraddire quell’aspetto «espressionistico» di Strindberg per cui, ad esempio, i personaggi della trilogia di Damasco (la Signora, il Mendicante, Cesare) sono emanazioni soggettive dello Sconosciuto, e l’opera è ambientata come un tutto unitario nella soggettività del suo protagonista 40. Ma questa contraddizione è il paradosso della soggettività stessa; il suo autoestraniarsi nella riflessione, l’oggettivarsi dell’io sotto i suoi propri occhi, il rovesciarsi della soggettività esaltata in una sorta di oggettività. La psicanalisi tradisce già nella sua terminologia, dove l’inconscio appare come «es», che l’inconscio si affaccia all’io cosciente (e cioè l’io, prendendo coscienza di sé, si affaccia a se stesso) come qualcosa di esterno e di estraneo. Cosí l’individuo isolato, che si rifugia in se stesso dal mondo divenutogli estraneo, viene a trovarsi di nuovo davanti a qualcosa di estraneo. Come lo Sconosciuto confessa all’inizio dell’opera: Non della morte ho paura, ma della solitudine, perché nella solitudine si può incontrare qualcuno. Non so se sento la presenza di un altro, o di me stesso; ma è certo che nella solitudine non si è mai soli. L’aria si fa piú densa, l’aria fermenta, e cominciano a svilupparsi esseri che sono invisibili ma percettibili, e posseggono vita 41. LO SCONOSCIUTO Egli incontra questi esseri nelle varie tappe del suo cammino. Generalmente essi sono lui stesso e gli sono estranei insieme; e quanto piú sono lui stesso tanto piú gli sono estranei. Anche questa identità conduce alla soppressione del dialogo. La Signora della trilogia di Damasco non può dire allo Sconosciuto, di cui è evidentemente una proiezione, se non ciò che egli sa già. (a sua madre) Certo non è un tipo comune; e quel che è un po’ noioso è che non posso mai dire nulla che lui non abbia già sentito. Di conseguenza parliama poco… 42. LA SIGNORA Considerato dal punto di vista temporale, il rapporto fra soggettivo e oggettivo appare come quello fra passato e presente. Il passato ricordato e divenuto interiore, si riflette come un presente estraneo; gli estranei che lo Sconosciuto incontra sono spesso citazioni dal suo passato. Nel personaggio del medico, ad esempio, è citato un suo compagno di infanzia, che era stato punito ingiustamente in sua vece; nell’incontro con lui si attualizza la causa del rimorso che da allora non lo ha piú abbandonato (motivo della biografia di Strindberg). E l’accattone in cui s’imbatte all’angolo della via gli mette davanti agli occhi la cicatrice che egli stesso porta per un colpo ricevuto da suo fratello. Qui il «dramma a tappe» rasenta la tecnica analitica di Ibsen. Ma come l’autoestraniazione dell’individuo isolato, cosí anche l’estraniazione ed esteriorizzazione del suo passato perviene a forma adeguata – senza alcun «atto di violenza» formale – solo nei vari incontri di cui si compone l’opera di Strindberg. Sulla contrapposizione di io isolato e mondo oggettivo estraniato si basa anche la struttura formale di due opere della maturità di Strindberg: Il sogno (1901) e La sonata degli spettri (1907). Il sogno, scritto nello stesso anno della terza parte di Verso Damasco, non è affatto diverso, nel suo principio formale («imitazione della struttura del sogno, incongruente ma apparentemente logica», scrive Strindberg nella prefazione), dal «dramma a tappe». Strindberg definí anche Verso Damasco un dramma onirico, il che prova, ad un tempo, che egli non concepiva Il sogno come un sogno sceneggiato, ma voleva solo accennare, nel titolo, alla struttura dell’opera, che è simile a quella dei sogni. Poiché in effetti i sogni e il «dramma a tappe» coincidono nella loro struttura: si tratta di una successione di scene la cui unità non deriva da un’azione unica, ma dall’io del sognatore (o del protagonista), che rimane sempre lo stesso. Ma se nei «drammi a tappe» l’accento cade sull’io isolato, nel Sogno viene in primo piano il mondo umano; e precisamente nell’oggettività in cui appare alla figlia del dio Indra, che gli si oppone come soggetto. Poiché questo è il concetto fondamentale dell’opera, che determina anche la sua forma: mostrare alla figlia di Indra «com’è la vita degli uomini» (Strindberg). Nel Sogno la successione libera delle scene, piú ancora che quella dei sogni, è quella della rivista, come la conobbe il medioevo. E la «rivista» – in opposizione al dramma – è essenzialmente rappresentazione che ha luogo per chi è al di fuori di essa. Ecco perché Il sogno, che comprende in sé, come suo io vero e proprio, anche lo spettatore, viene ad assumere la struttura epica della contrapposizione soggettooggetto. La figlia di Indra, che nella versione originaria (senza prologo) è una dramatis persona sullo stesso piano delle altre, esprime questo distacco epico dall’umanità nella formula «Quanta pena mi fanno gli uomini!», che ritorna come Leitmotiv. Contenutisticamente queste parole esprimono compassione, ma dal punto di vista formale distanza e distacco, e possono quindi diventare una formula magica grazie alla quale la figlia del dio può sollevarsi al disopra dell’umanità proprio quando – nel suo matrimonio con l’Avvocato – si è maggiormente legata alla condizione umana (secondo il modo di vedere di Strindberg): Credo che comincerò ad odiarti, dopo tutto questo. Guai a noi. Ma cerchiamo di prevenire l’odio. Io prometto di non farti piú alcun rimprovero sull’ordine in casa… per quanto questa sia una tortura per me. LA FIGLIA E io mangerò cavolo, per quanto questa per me sia una pena. L’AVVOCATO Cosí una vita insieme nel tormento. Ciò che è gioia per l’uno, è dolore per l’altro. LA FIGLIA Quanta pena mi fanno gli uomini 43. LA FIGLIA L’AVVOCATO Conforme alla sua struttura a rivista, l’opera è caratterizzata dal gesto di mostrare o indicare. Oltre all’Ufficiale (che rappresenta Strindberg) la figlia di Indra incontra per lo piú individui a cui l’umanità si presenta oggettivamente per la loro stessa professione, e che sono quindi in grado di descrivergliela nel migliore dei modi. L’Avvocato (seconda incarnazione dell’autore) dice: Guarda queste pareti; è come se tutte le colpe avessero fatto dei segni profondi nelle loro tappezzerie; guarda quelle carte, su cui io scrivo storie di delitti; guardami… Qui non viene mai alcuno che rida; solo sguardi torvi, denti stretti e pugni serrati… E tutti riversano su di me la loro malvagità, la loro invidia, i loro sospetti… Guarda, le mie mani sono nere, e non potranno mai lavarsi, guarda tu come sono sporche e insanguinate… Io non posso mai indossare gli abiti piú di qualche giorno, perché puzzano delle colpe altrui… […] Guardami come sono! E tu credi ch’io possa ottenere l’amore d’una donna con questo mio aspetto criminale? E credi tu che qualcuno vorrebbe essere amico proprio di me, che riscuoto i debiti, debiti in denaro, di tutta la città?… È cosa miserevole essere uomo! LA FIGLIA Quanta pena mi fanno gli uomini! 44. AVVOCATO Il Poeta (terza incarnazione di Strindberg) le consegna una «supplica dell’umanità al Signore del mondo, preparata da un sognatore» 45, che ancora una volta ha per oggetto la condition humaine. O le mostra questa condizione in un essere umano: Lina entra con una secchia. Lina, fatti vedere dalla signorina Agnes [la figlia di Indra]! Ella ti conobbe dieci anni fa, quando tu eri giovane, gaia e, ci sia lecito dirlo, anche una bella ragazza… Guardate com’è adesso! Cinque bambini, lavoro, strilli, fame, sculacciate. Guardate come se n’è andata la sua bellezza, com’è scomparsa la sua gaiezza nell’adempimento del dovere… 46. IL POETA Anche l’Ufficiale assume talvolta questa posizione di epico distacco: Un vecchio signore si fa avanti con le mani dietro la schiena. Ecco qui un pensionato che attende la fine della vita; è certamente un capitano che non è mai diventato maggiore, o un sostituto notaio che non è mai diventato assessore: molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti… Passeggia in attesa della colazione… L’UFFICIALE No, del giornale! Del «Giornale del mattino»! E ha solo cinquantaquattro anni; può tirare avanti ancora per venticinque anni aspettando i pasti e il giornale… Non è orribile? 47. IL PENSIONATO L’UFFICIALE Il sogno non è, quindi, un’azione di cui gli uomini stessi sono attori, e cioè un dramma, ma una rappresentazione epica sugli uomini. Questa struttura «presentativa» caratterizza anche – pur se in modo tematicamente e formalmente velato – La sonata degli spettri. Se nel Sogno essa è tematicamente palese come visita in terra della figlia di Indra, e formalmente come libera successione di scene a guisa di rivista, qui essa si cela dietro la facciata del tradizionale dramma sociale. Qui essa non è diventata l’assoluto principio formale dell’opera, ma è impiegata solo come strumento per la sua realizzazione. Poiché La sonata degli spettri si trova davanti allo stesso problema formale delle tarde opere di Ibsen: la rivelazione drammatica di un passato muto e chiuso in se stesso, e che quindi si sottrae all’evidenza drammatica. Se, in Ibsen, quella rivelazione avveniva intrecciando quel passato ad un’azione drammatica attuale, e se nell’atto unico di Strindberg La piú forte aveva luogo nel monologo, nella Sonata degli spettri si ha, per cosí dire, la fusione di questi due procedimenti: l’io monologico della drammaturgia soggettiva appare – travestito da normale dramatis persona – in mezzo agli uomini di cui deve svelare il passato misterioso. È il vecchio, il direttore Hummel. Anche per lui, come per l’Avvocato e il Poeta del Sogno, l’umanità si presenta oggettivamente come uno spettacolo; alla domanda iniziale dello studente se conosce le persone «che abitano lí» (cioè quelle che dovrà smascherare in seguito), egli risponde: «Tutte. Alla mia età si conosce tutti… ma nessuno può dire di conoscermi veramente. Mi occupo del destino degli uomini» 48. Come questa frase giustifica tematicamente la funzione formale e la posizione particolare di Hummel, quelle che seguono spiegano perché questi uomini abbiano bisogno di un narratore epico: [il domestico, la cui funzione è parallela a quella di Hummel, descrive i suoi padroni al servitore di Hummel] È la solita cena degli spettri, come la chiamano loro. Prendono il tè senza dirsi una parola. Tutt’al piú il colonnello parla lui solo… E questa storia da vent’anni: sempre le stesse persone, che dicono le stesse cose o tacciono allo stesso modo, per non dover arrossire dalla vergogna 49. BENGTSSON E nel terzo atto: Mi dica: perché i suoi genitori rimangono in quel salotto cosí silenziosi, senza scambiarsi una parola? LA FANCIULLA Perché nulla hanno da dirsi, perché l’uno non crede a ciò che dice l’altro. Mio padre ha riassunto tutto ciò in questa frase: «A che scopo parlare, poiché, nonostante tutto, non riusciamo ad ingannarci l’un l’altro? 50. LO STUDENTE Queste parole mostrano una fonte della moderna drammaturgia epica; segnano il punto ove la commedia borghese, che aveva accolto un tempo il principio formale del dramma classico, si rovescia necessariamente in epica, in seguito alla contraddizione, sorta nel corso del diciannovesimo secolo, tra contenuto e forma. E per la prima volta, nell’ambito di questa evoluzione, l’io epico, nella figura del direttore Hummel, appare direttamente sulla scena, benché travestito da personaggio drammatico. Nel primo atto egli descrive allo Studente gli abitanti della casa, che, privi di ogni autonomia drammatica, si affacciano alla finestra come oggetti di rappresentazione; nel secondo atto, durante la «cena degli spettri», sarà il rivelatore dei loro segreti. Ma la cosa veramente incredibile è che Strindberg non si sia reso conto di questa funzione formale del personaggio. Egli concluse il secondo atto col tradizionale smascheramento dello smascheratore, col suicidio di Hummel, onde l’opera venne a perdere – sul piano contenutistico – il suo principio formale recondito. Il terzo atto era destinato al fallimento, poiché avrebbe dovuto rigenerare il dialogo senza alcun sostegno epico. Accanto al personaggio episodico della cuoca, che – piuttosto stranamente – riprende il ruolo tematico del «vampiro» Hummel, senza peraltro assumere anche la funzione formale, la Signorina e lo Studente sono i suoi soli sostegni, ed essi non possono piú liberarsi dalla casa di spettri in cui sono rimasti irretiti, per giungere a un vero dialogo. La conversazione che oscilla disperatamente di qua e di là, interrotta da pause, monologhi, preghiere, conclusione fallimentare di un’opera unica nel suo genere, si può comprendere solo se si tien conto della situazione di trapasso della drammaturgia che essa segna e riflette; lo struttura epica esiste già, ma è ancora mascherata tematicamente e quindi esposta agli sviluppi dell’azione. Mentre in Ibsen le dramatis personae devono morire perché mancano di un narratore, il primo narratore scenico di Strindberg muore perché, nascosto dietro la maschera di una dramatis persona, non è riconosciuto per quello che è. Ciò testimonia, meglio di ogni altra cosa, delle intime contraddizioni della drammaturgia all’inizio del secolo, e definisce esattamente la posizione storica di Ibsen e di Strindberg: l’uno precede, e l’altro segue direttamente, il risolversi di quelle contraddizioni nel precipitare dell’epica tematica in forma, e sono quindi entrambi alle soglie della drammaturgia moderna, che è pienamente comprensibile solo sulla base della loro problematica formale. IV . Nelle sue prime opere (e solo di esse avremo occasione di parlare qui) MAURICE MAETERLINCK tenta la rappresentazione drammatica dell’uomo nella sua impotenza esistenziale, nel suo essere in balia di un destino imperscrutabile. Se la tragedia greca aveva mostrato l’eroe nella sua tragica lotta col fato, e se il dramma classico aveva avuto ad oggetto i conflitti del rapporto intersoggettivo, ad essere colto e rappresentato qui è solo il momento in cui l’uomo indifeso è raggiunto dal destino. Ma non nel senso della «tragedia del destino» romantica. Essa concentrava la sua attenzione sulla convivenza degli uomini nell’ambito del cieco destino, e i suoi temi erano l’ingranaggio del fato e la deformazione dei rapporti interumani ad opera del fato stesso. Nulla di tutto ciò in Maeterlinck. Per Maeterlinck il destino degli uomini è la morte come tale, ed è la morte, in queste opere, a dominare sola sulla scena. Non in una forma particolare, in una tragica connessione con la vita; nessuna azione la produce, nessuno ne è responsabile. Dal punto di vista drammaturgico ciò significa sostituire, alla categoria dell’azione, quella della situazione. E il genere creato da Maeterlinck dovrebbe recare questa denominazione: perché il carattere essenziale di queste opere non è l’azione, e quindi non si tratta piú di drammi, se il termine greco deve avere questo significato. La definizione paradossale di drame statique, data ad essi dall’autore, risponde allo stesso intento. Per il dramma vero e proprio la situazione non è che lo spunto dell’azione. Ma qui è il tema stesso a privare l’uomo della possibilità di passare all’azione. Egli rimane nella sua situazione, in uno stato di assoluta passività, finché si avvede della morte. Ed è solo il tentativo di accertarsi della propria situazione che lo induce a parlare: con la conoscenza della morte (la morte di una persona vicina), che, cieco, aveva sempre avuto davanti, egli è giunto alla meta. Cosí accade ne L’intrusa, ne I ciechi (1890) e in Interno (1894). Nei Ciechi la scena mostra «un antichissimo bosco settentrionale d’aspetto eterno sotto un cielo profondo e stellato. In mezzo, e verso il fondo della notte, è seduto un prete vecchissimo, avvolto in un largo mantello nero. Il busto e il capo, leggermente rovesciati indietro in un’immobilità di morte, si appoggiano al tronco di un’enorme e cavernosa quercia. Il volto è di una lividità immutabile come la cera, e le labbra sono violette. Gli occhi, smorti e fissi, non guardano piú le cose terrene, e sembrano lacrimanti sopra infiniti e immemorabili dolori… A destra sei vecchi ciechi son seduti su pietre, su ceppi e su foglie morte. A sinistra, dirimpetto ai ciechi, son sedute sei donne, anch’esse cieche, e divise da quelli da un albero sradicato e da parti di rocce… Fa molto buio, malgrado il chiaro di luna che, qua e là, rischiara debolmente le tenebre create dal fitto fogliame» 51. I ciechi attendono il ritorno del vecchio prete che li ha condotti in quel luogo; ma egli siede morto in mezzo a loro. Già le minuziose indicazioni sceniche, che abbiamo citato qui solo a metà, rivelano che la forma del dialogo non è sufficiente alla rappresentazione. E, viceversa, ciò che si tratta di dire non basta a fondare un dialogo. I dodici ciechi si chiedono angosciosamente qual è il loro destino e prendono a poco a poco coscienza della loro situazione; a ciò si riduce il dialogo, il cui ritmo è determinato dall’alternarsi di domande e risposte. IL PRIMO CIECO DALLA NASCITA EGLI ANCORA NON RITORNA? Non sento venire alcuno 52. IL SECONDO CIECO DALLA NASCITA In questo momento stiamo al sole? IL TERZO CIECO Il sole splende ancora? IL SESTO CIECO Non credo, direi che sia molto tardi. IL SECONDO CIECO DALLA NASCITA Che ora è? 53 GLI ALTRI CIECHI Non so. Nessuno lo sa . IL SECONDO CIECO DALLA NASCITA Spesso le battute sono parallele o addirittura si ignorano a vicenda: È tempo di ritornare all’ospizio. Bisognerebbe sapere dove ci troviamo. 54 IL SECONDO CIECO DALLA NASCITA Fa freddo dacché egli se n’è andato . IL TERZO CIECO DALLA NASCITA IL PRIMO CIECO DALLA NASCITA Quale che sia il significato simbolico della cecità, dal punto di vista drammaturgico essa vale a salvare l’opera dal silenzio che la minaccia. Anche se sta a significare l’impotenza e la solitudine umana («Voilà des années et des années que nous sommes ensemble, et nous ne nous sommes jamais aperçus. On dirait que nous sommes toujours seuls!… Il faut voir pour aimer» 55), e mette quindi in questione il dialogo, si deve, tuttavia, solo ad essa se sussiste ancora un motivo di parlare. Anche ne L’intrusa, che ci mostra una famiglia riunita mentre la madre muore nella stanza accanto, c’è il personaggio del nonno cieco, le cui domande e i cui presentimenti (poiché, essendo cieco, egli vede insieme meno e piú degli altri) giustificano il dialogo. Nei Ciechi la forma linguistica si scosta per piú rispetti dal dialogo. Per lo piú essa è corale. Le battute perdono allora anche quella minima individualità che differenzia i dodici ciechi. Il linguaggio si fa autonomo, e sparisce il suo carattere essenzialmente drammatico, che è quello di essere legato a un punto di vista, a una persona determinata; il linguaggio non è piú espressione di un singolo individuo che attende una risposta, ma è il riflesso dello stato d’animo che domina in tutti. La sua distribuzione in «battute» non corrisponde a un dialogo, come nel dramma vero e proprio, ma riflette unicamente l’incertezza nervosa del non-sapere. Esso si può leggere e ascoltare senza bisogno di sapere chi sta parlando; il suo carattere essenziale è l’intermittenza, e non il suo rapporto a un io attuale. Ma anche ciò, in ultima analisi, è solo l’espressione del fatto che qui le dramatis personae, lungi dall’essere gli artefici – e quindi i soggetti – di un’azione, ne sono, in fondo, solo gli oggetti. Questo tema unico delle opere giovanili di Maeterlinck – che l’uomo, cioè, è abbandonato senza scampo al proprio destino – esige un’espressione equivalente sul piano formale. Di ciò tien conto lo schema che è alla base di Interno (1894). Anche qui una famiglia deve fare esperienza della morte. La figlia, uscita di casa al mattino per andare a trovare la nonna al di là del fiume, ha perso la vita nelle acque e viene portata morta a casa, mentre i genitori non l’aspettano ancora e passano la sera tranquilli e senza alcuna preoccupazione. E come queste cinque persone, sorprese di colpo dalla morte, non sono che vittime silenziose del destino, cosí, anche formalmente, esse diventano il muto oggetto epico di colui che deve comunicare loro la morte della figlia: il Vecchio, che – prima di assolvere alla sua penosa missione – ne parla con uno Straniero davanti alle finestre illuminate, oltre le quali si intravede la famiglia. Cosí il corpo drammatico si scinde in due parti: le persone mute dentro la casa, e quelle che parlano nel giardino. Questa scissione in gruppo tematico e gruppo drammaturgico riflette la divisione tra soggetto e oggetto che è implicita nel fatalismo di Maeterlinck e che porta alla reificazione dell’uomo. Ne deriva, nell’ambito del dramma, una situazione epica come una volta poteva determinarsi solo episodicamente, ad esempio nelle descrizioni di battaglie fuori delle quinte. Ma questa situazione forma qui l’intera opera. Il «dialogo» fra lo Straniero, il Vecchio e i suoi due nipoti serve quasi esclusivamente alla rappresentazione epica della famiglia muta: Vorrei vedere, prima di tutto, se nessuno manca nella sala. Sí, vedo il padre seduto accanto al fuoco. Aspetta, con le mani sulle ginocchia… La madre appoggia i gomiti sulla tavola 56. IL VECCHIO Si riflette perfino sul distacco epico determinato dal fatto che il narratore ne sa di piú dei suoi personaggi: Io ho quasi ottantatre anni e la visione della vita mi ha colpito oggi per la prima volta. Non so perché, tutto quello che essi fanno mi pare cosí strano e cosí solenne… Aspettano la notte, semplicemente, al chiaro della lampada, come noi l’avremmo aspettata nella nostra stanza, e pure mi sembra di vederli dall’alto di un altro mondo, solo perché io conosco una piccola verità, che essi non conoscono ancora… 57. IL VECCHIO E anche il dialogo animato non è, in fondo, che una descrizione alternata: Ora sorridono in silenzio, nella stanza. Sono tranquilli. Non l’aspettano questa sera… LO STRANIERO Sorridono senza muoversi, ma ecco, il padre mette un dito sulle labbra… IL VECCHIO Accenna al bambino addormentato sul seno della mamma. 58 LO STRANIERO Lei non osa alzare gli occhi per timore di risvegliarlo . LO STRANIERO IL VECCHIO Il proposito di Maeterlinck di rappresentare drammaturgicamente l’esistenza umana come appariva ai suoi occhi, lo spinse a introdurre l’uomo come oggetto passivo e silenzioso della morte, in una forma letteraria che lo esige invece soggetto parlante e operante. E ciò determina, all’interno della concezione drammatica, una tendenza all’epica. Nei Ciechi sono ancora i personaggi a descrivere la loro condizione, il che è sufficientemente motivato dalla cecità. In Interno l’epicità recondita della materia viene ulteriormente in luce: trasforma la scena in una vera e propria situazione narrativa, dove soggetto e oggetto sono nettamente contrapposti. Ma anche questa situazione è ancora tematica, e necessita quindi ancora di una motivazione nell’ambito della forma drammatica, divenuta ormai priva di senso. V. Ciò che è stato detto nel primo studio, quello su Ibsen, vale in parte anche per le opere giovanili di La festa della pace (1890), ad esempio, che sviluppa la storia di una famiglia durante una vigilia di Natale, è – come egli stesso la definisce – un tipico «dramma analitico». Ma già la sua prima opera, Prima dell’alba (1889), presenta, rispetto ad Ibsen, una problematica nuova, preannunciata nel sottotitolo Dramma sociale. A questo proposito è stato fatto ripetutamente il nome di un secondo maestro di Hauptmann, Tolstoj, col suo dramma La potenza delle tenebre. Ma per quanto forte abbia potuto essere questa influenza, l’analisi della problematicità intrinseca del «dramma sociale» deve muovere da Hauptmann, poiché il suo modello manca del tutto di un’impostazione sociologico-naturalistica ed ha quella stessa tendenza lirica che, propria della natura russa, contribuisce al superamento della crisi formale anche nei drammi di Čechov. Il drammaturgo sociale cerca di rappresentare drammaticamente le condizioni economico-politiche sotto il cui impero è caduta la vita individuale. Egli ha il compito di mostrare i fattori che hanno le loro radici al di là della situazione singola e del singolo fatto, e che pure li determinano. Rappresentare drammaticamente tutto questo implica un lavoro preliminare: la trasformazione della condizionalità estraniata in attualità interumana, cioè l’inversione e la risoluzione del processo storico sul piano estetico, che dovrebbe appunto rispecchiarlo. La problematicità di questo tentativo appare evidente se si esamina piú davvicino il processo di elaborazione formale che abbiamo appena schizzato: trasformare la condizionalità estraniata in attualità interumana significa escogitare un’azione che attualizzi le condizioni esterne. Questa azione, non originale ma secondaria, destinata a mediare fra la tematica sociale e la forma drammatica prestabilita, si rivela problematica sia dal punto di vista tematico che da quello formale. L’azione rappresentativa, l’azione-che-sta-in-vece-di (qualcos’altro), non è drammatica: nel dramma l’accadere, in quanto assoluto, non indica mai al di fuori di sé. Neppure nella tragedia filosofica di un Kleist o di un Hebbel la vicenda ha una funzione dimostrativa: essa è «significante» non perché alluda, oltre se stessa, alla struttura del mondo come l’insegna la metafisica del poeta, ma in quanto attira lo sguardo dentro di sé, nelle proprie profondità metafisiche. Ciò non limita affatto il suo valore «documentario»; è proprio la sua assolutezza che permette al mondo del dramma di «stare per» il mondo intero il rapporto tra significante e realtà significata riposa quindi, caso mai, sul principio simbolico per cui microcosmo e macrocosmo coincidono, e non sul principio della pars pro toto. Ma proprio questo è il caso del «dramma sociale». Esso contrasta sotto ogni aspetto con l’esigenza di assolutezza della forma drammatica: le dramatis personae «rappresentano» migliaia di uomini che vivono nelle loro stesse condizioni, la loro situazione «rappresenta» una certa uniformità condizionata dai fattori economici. La loro sorte funge da esempio, è un mezzo di dimostrazione, e testimonia, quindi, non solo di un’oggettività trascendente l’opera, ma anche di un soggetto dimostrante al di sopra di essa: l’io dell’autore. Ma il situarsi dell’opera fra empiria e soggettività creatrice, il suo aperto riferirsi a qualcosa di esterno ad essa, costituisce il principio formale non della drammatica ma dell’epica. Il «dramma sociale» è quindi di natura epica, ed è una contraddizione in termini. Ma la trasformazione della condizionalità estraniata in attualità intersoggettiva contraddice anche ai postulati tematici. Poiché essi dicono proprio che le forze determinanti della vita umana sono passate dalla sfera dei rapporti interumani a quella dell’oggettività estraniata; che, in sostanza, non c’è un presente, tanto esso è simile a ciò che è sempre stato e cosí sarà sempre; che un’azione che lo contrassegni, fondando cosí un nuovo futuro, è cosa affatto impossibile nell’ambito di queste forze paralizzanti. Hauptmann ha cercato di risolvere, in Prima dell’alba e nei Tessitori, la problematica del dramma sociale che abbiamo or ora descritto. Prima dell’alba ci mostra i contadini della Slesia che, arricchitisi col carbone scoperto sotto i loro campi, finiscono per condurre una vita oziosa e piena di vizi. Nell’ambito di questo gruppo è selezionato un caso tipico : quello della famiglia del proprietario terriero Krause. Quest’uomo trascorre le sue giornate sempre ubriaco, mentre la moglie lo tradisce col fidanzato della figlia di lui, nata da un matrimonio precedente. Marta, la figlia maggiore, sposata all’ingegnere Hoffmann e prossima al parto, è schiava anch’essa dell’alcool. Ma personaggi simili non possono dare luogo a un intreccio drammatico. I vizi di cui sono prigionieri li sottraggono al rapporto interpersonale, li isolano e li abbassano al livello di animali senza parola, capaci solo di urlare e vegetanti nell’ozio. Il solo personaggio attivo è il genero di Krause, che approfitta della decadenza di questa famiglia per sfruttarla e per sfruttare tutto l’ambiente, con un lento e paziente lavoro di talpa, sfuggendo cosí, al pari degli altri, al presente aperto e irto di decisioni che è richiesto dal dramma. E la vita della sola creatura pura della famiglia, la figlia minore Elena, è una sofferenza tacita e incompresa. L’azione drammatica cui la famiglia Krause darà vita deve avere la sua origine al di fuori di essa, dev’essere tale da lasciare alle persone la loro oggettività di cose, e da non falsare l’uniformità senza tempo della loro vita in un divenire pieno di tensione secondo le esigenze della forma. Deve aprire, inoltre, uno squarcio sull’insieme dei «carbonieri» della Slesia. L’aggiunta di un personaggio estraneo, Alfredo Loth, tiene conto di tutte queste esigenze. Egli GERHART HAUPTMANN. giunge sul luogo in qualità di studioso di problemi sociali e di amico di gioventú di Hoffmann, per studiare le condizioni dei minatori. La famiglia Krause viene presentata drammaticamente attraverso il visitatore che ne fa gradualmente la conoscenza. Al lettore e allo spettatore essa si presenta sotto l’angolo visuale di Loth, come oggetto di indagine scientifica. È quindi l’io epico ad affacciarsi dietro la maschera di Loth. L’azione drammatica stessa non è altro che il travestimento tematico del principio formale epico; la visita di Loth alla famiglia Krause incarna, sul piano tematico, l’approccio formale del narratore epico al suo soggetto. Non è certo questo un caso unico nella drammaturgia della fine del secolo. Il personaggio dello straniero, che consente questa impostazione, è uno dei suoi elementi rilevati piú sovente. Ma i critici non hanno visto le ragioni del suo apparire, e lo hanno quindi equiparato al raisonneur del dramma classico. Ma è un’identificazione infondata. È vero che anche lo straniero «ragiona»; ma il raisonneur classico, che dovrebbe liberarlo dalla taccia di modernità, non era uno straniero, ma apparteneva a quella stessa società, che giungeva in lui alla massima trasparenza. La figura dello straniero dice, invece, che le persone cui egli conferisce evidenza drammatica non sarebbero in grado di pervenirvi da sole. Già la sua presenza esprime cosí la crisi del dramma; e il dramma di cui egli rende possibile il sorgere, non è piú un vero dramma. Esso affonda le sue radici nel rapporto epico di soggetto e oggetto, in cui lo straniero sta di fronte agli altri personaggi. Lo svolgimento dell’azione è determinato, non tanto dal confronto interpersonale, quanto dall’operato dello straniero: per cui si annulla anche la tensione drammatica. E questo è il difetto piú evidente di Prima dell’alba. Alla tensione vera, legata al rapporto intersoggettivo, si sostituisce qui un elemento esterno, come l’attesa snervante del parto della signora Hoffmann. Il carattere gratuito ed extraartistico di questi espedienti fu avvertito già dal pubblico presente alla prima rappresentazione; è noto che un ostetrico presente in sala si alzò col forcipe in mano per mostrare che era pronto a dare il suo aiuto. Un altro momento poco drammatico è l’arrivo dello straniero. La vera azione drammatica non rappresenta la vita di esseri umani come si mostra in una determinata occasione. Poiché cosí essa rimanderebbe ad altro, al di là di se stessa. Il suo presente è pura attualità, non attualizzazione di uno stato, di una situazione. L’esistenza delle dramatis personae non supera i limiti del dramma nemmeno temporalmente. Ma il concetto di occasione ha un senso solo se è situato in un contesto temporale. Come mezzo artistico esso appartiene all’epica e al teatro epico come lo conosceva il medioevo e ancora il barocco. In questo teatro, all’occasione nell’ambito tematico, corrisponde il momento della presentazione e rappresentazione nell’ambito formale: momento che è, viceversa, escluso nel dramma. Mentre nel teatro medievale la recitazione, il «gioco», è dichiarato esplicitamente tale ed è riferito agli attori e al pubblico. Ma la forma di Prima dell’alba non sa nulla di tutto questo. Pur accogliendo in sé, nella sua qualità di racconto drammatico, il principio epico, essa continua a pretendere allo stile drammatico, che, naturalmente, le riesce solo a tratti. Anche la fine dell’opera, che è sempre stata giudicata incomprensibile e mancata, sembra in rapporto con questo fatto. Loth, che si innamora di Elena e vuole salvarla dal pantano che la circonda, l’abbandona e fugge quando viene a sapere dell’alcoolismo ereditario che affligge la famiglia. Elena, che aveva visto in lui il suo unico salvatore, sceglie la morte. Non si è mai potuto capire questo «dogmatismo freddo e vile» di Loth, tanto piú che per lo spettatore questo personaggio si avvicina molto alla figura dell’autore, anche a prescindere dalla sua funzione formale di narratore in scena. Ma ciò è prescritto dalla forma. Ciò che, alla fine, altera la fisionomia di Loth, non è coerente al suo carattere tematico, ma alla sua funzione formale. Poiché, come la commedia classica esige formalmente che la vorticosa successione degli ostacoli si plachi nel fidanzamento degli innamorati prima che il sipario cali per l’ultima volta, cosí la forma del dramma che è reso possibile dalla visita di uno straniero esige che, alla fine, egli esca di scena. In Prima dell’alba si ripete in senso inverso ciò che, nella Sonata degli spettri, era rappresentato dal suicidio di Hummel. In un’epoca di crisi del dramma gli elementi epici formali appaiono travestiti da elementi tematici. La conseguenza di questa duplice funzione di un personaggio o di una situazione può essere una collisione tra forma e contenuto. Se, nella Sonata degli spettri, un fatto del contenuto distrugge il principio formale nascosto, qui è, invece, un’esigenza formale a far scivolare, alla fine, l’azione nell’incomprensibile. Due anni dopo (1891) nasce l’altro dramma sociale di Hauptmann: I tessitori, che vuol rappresentare la miseria degli operai tessili nell’Eulengebirge verso la metà del secolo scorso. Il germe dell’opera – come scrive Hauptmann nell’introduzione – era ciò che suo padre gli «raccontava del nonno, che in gioventú era stato un povero tessitore, seduto al suo telaio, come quelli descritti qui». Citiamo queste parole perché esse ci introducono nella problematica formale dell’opera. Alla sua origine è un’immagine incancellabile: i tessitori dietro i loro telai, e la conoscenza della loro miseria. Questa immagine sembra esigere una rappresentazione figurata, come quella che troviamo, intorno al 1897, nel ciclo La rivolta dei tessitori di Käthe Kollwitz, ispirato, d’altronde, all’opera di Hauptmann. Invece, per la rappresentazione drammatica si pone anche qui, come in Prima dell’alba, il problema della possibilità di un intreccio. Né la vita dei tessitori, che conoscono solo il lavoro e la fame, né la situazione politico-economica possono essere trasformate in attualità drammatica. L’unica azione possibile in queste condizioni di vita è quella che si rivolge contro di esse: la rivolta. Hauptmann intraprende la rappresentazione della rivolta dei tessitori nel 1844. La descrizione epica delle condizioni di vita pare cosí – come motivazione della rivolta – poter acquistare forma drammatica. Ma è l’azione stessa che non è drammatica. Ad eccezione di una sola scena dell’ultimo atto, la rivolta dei tessitori manca di conflitti intersoggettivi, non si sviluppa attraverso il dialogo (come avviene, ad esempio, nel Wallenstein di Schiller), ma come esplosione di individui disperati, che è al di là del dialogo, e può costituirne solo il tema, l’oggetto. Cosí l’opera ricade nell’epica. Essa si compone di scene in cui sono utilizzate diverse possibilità del teatro epico, il che significa, a questo stadio, che il rapporto fra il narratore e l’oggetto è inserito tematicamente nella scena drammatica. Il primo atto si svolge a Peterswaldau. I tessitori, a casa dell’industriale Dreissiger, consegnano i tessuti finiti. La scena ricorda la rassegna medievale, solo che la presentazione dei tessitori e della loro miseria è motivata tematicamente dalla consegna del lavorato; insieme alla merce i tessitori presentano anche se stessi. Il secondo atto ci porta nella stanzetta di una famiglia di tessitori a Kaschbach. La loro miseria è descritta a un estraneo. Moritz Jaeger, che torna da un lungo periodo di servizio militare e che è ormai estraneo al suo paese. Ma proprio perché è un estraneo e non si è ancora piegato alle condizioni esistenti, egli è in grado di accendere il fuoco della rivolta. Il terzo atto si svolge di nuovo a Peterswaldau. Il luogo prescelto è l’osteria, dove si riferiscono e si discutono le novità. Cosí la situazione dei tessitori è dapprima oggetto di conversazione degli artigiani; poi la descrizione è proseguita da un secondo forestiero, il Viaggiatore. Il quarto atto, in casa di Dreissiger, ci porta, dopo un’altra conversazione sui tessitori, le prime scene drammatiche dell’opera. Il quinto atto, infine, si svolge a Langenbielau, nella stanzetta del vecchio tessitore Hilse, dove si narrarano, dapprima, gli eventi di Peterswaldau, e poi seguono – insieme alla descrizione di ciò che avviene nelle vie, perché nel frattempo i rivoltosi sono giunti a Langenbielau – le drammatiche scene finali: il conflitto fra il vecchio Hilse, ormai lontano dal mondo e che si rifiuta di prendere parte alla rivolta, e quelli che lo circondano. Su ciò dovremo ritornare ancora. Questa varietà di situazioni epiche (rassegna, presentazione davanti a un forestiero, resoconto, descrizione), accuratamente fondata sulla scelta della scena; il fatto di riprendere sempre da capo dopo la fine di ogni atto; l’introduzione di personaggi nuovi ad ogni atto; il fatto che la rivolta è seguita nel suo estendersi successivo, fino a precedere i rivoltosi come nell’ultimo atto: tutto ciò non fa che ribadire la struttura essenzialmente epica dell’opera. Esprime, cioè, il fatto che azione ed opera non s’identificano come nel dramma vero e proprio, e che la rivolta, invece, è l’oggetto dell’opera. L’unità dell’opera non si basa sulla continuità dell’azione, ma su quella dell’io epico invisibile, che ci presenta le situazioni e gli avvenimenti. Ecco perché possono intervenire personaggi sempre nuovi. Nel dramma il numero limitato dei personaggi deve garantire l’assolutezza e l’autonomia del tessuto drammatico. Qui si introducono personaggi sempre nuovi, onde si esprime, nello stesso tempo, il carattere accidentale della loro scelta, il valore sostitutivo, rappresentativo della loro presenza, che rimanda ad un collettivo. Per quanto possa sembrare paradossale, anche il linguaggio «oggettivo» del naturalismo, che si ritrova nei Tessitori, e soprattutto nella prima versione (tutta in dialetto slesiano) intitolata De Waber, presuppone l’io epico. Poiché, proprio quando il linguaggio drammatico rinuncia al tono «poetico» per accostarsi alla «realtà», esso rivela la sua origine soggettiva, e rimanda all’autore. Nel dialogo naturalistico, che anticipa le incisioni dei futuri archivi fonografici, echeggiano sempre anche le parole del drammaturgo, amante dell’esattezza scientifica: «Questa gente parla cosí. Io li ho studiati». Nel campo estetico, ciò che altrove bisognerebbe chiamare oggettivo, si rovescia in soggettivo. Poiché un dialogo drammatico è «oggettivo» quando non supera i limiti che determinano la forma assoluta del dramma, quando non rimanda al di là di essi: all’empiria o all’autore empirico. «Oggettivi» si possono quindi chiamare gli alessandrini di Racine e di Gryphius, il blank verse di Shakespeare e dei classici tedeschi, o anche la prosa di Woyzeck di Büchner, dove la trasformazione del dialetto in linguaggio poetico è riuscita felicemente. Ma l’epica, rinnegata, si vendica anche qui, come in Prima dell’alba, alla fine dell’opera. Il vecchio Hilse condanna la rivolta richiamandosi alla propria fede: Perché mi sarei stroncato il filo della schiena al telaio per piú di quarant’anni? E sarei stato tranquillamente a vedere come quei là s’impinzano d’ogni ben di Dio e fanno d’ogni erba fascio e fanno quattrini della mia fame e dei miei pensieri? Perché mai? Perché avevo una speranza! […] C’è stato annunciato: verrà il giudizio universale; ma i giudici non saremo noi. Mia è la vendetta, ha detto il Signore, nostro Dio 59. HILSE Egli si rifiuta di abbandonare il suo telaio vicino alla finestra: «Il mio Padre celeste m’ha destinato qui. […] E qui restiamo, e qui facciamo il compito nostro, anche se la neve prende fuoco» 60. Si sente una scarica di fucili e Hilse cade, colpito a morte; è la sola vittima della rivolta che Hauptmann ci faccia vedere. È facile capire che questa conclusione dovesse sconcertare sia il pubblico delle rappresentazioni operaie dell’epoca, che la critica letteraria borghese. Dopo che, all’inizio dell’ultimo atto, la simpatia di Hauptmann per i rivoltosi cede palesemente alla sua solidarietà verso le convinzioni religiose di Hilse, ecco questo secondo colpo di scena, che trasforma il dramma della rivoluzione nella tragica storia di un martirio, descritta quasi cinicamente. Come bisogna interpretare tutto ciò? Non certo in senso metafisico. Pare invece che la responsabilità ricada anche qui sulla contraddizione fra la tematica epica e la forma drammatica cui non si è voluto rinunciare. Alla rinuncia a rappresentare ulteriormente la rivolta e la sua repressione avrebbe dovuto corrispondere una tacita interruzione. Ma ciò è tipico dell’epica; poiché l’autore epico non ha mai staccato del tutto la sua opera dall’empiria e da se stesso, egli può «interromperla»; dopo l’ultima riga del racconto non c’è il nulla, ma la «realtà» non piú raccontata, la cui presenza e suggestione fa parte del principio formale epico. Ma il dramma, come assoluto, è esso stesso la propria realtà, deve avere una fine che stia per la fine in sé e non permetta altre domande. Anziché finire con uno sguardo alla repressione della rivolta, anziché attenersi alla rappresentazione del destino collettivo e confermare cosí formalmente l’epica tematica, Hauptmann volle piegarsi alle esigenze della forma drammatica, benché la materia l’avesse resa problematica fin dall’inizio. 1 HÖLDERLIN , 2 ARISTOTELE , Sämtliche Werke, Grosse Stuttgarter Ausgabe, vol. II, tomo I, p. 373. Sulla poetica cit., cap. XI , 2, p. 19. 3 V. 353. E su ciò cfr. E. STAIGER, Die Tragödien des Sophokles, Zürich 1944. 4 IBSEN , Gian Gabriele Borkman, in Teatro, Einaudi, Torino 1959, vol. III, p. 727. 5 Ibid., p. 768. 6 Ibid., p. 784. 7 IBSEN , Gian Gabriele Borkman cit., p. 732. 8 Ibid., p. 771. 9 IBSEN , Gian Gabriele Borkman cit., p. 730. 10 Ibid., p. 734. 11 Ibid., pp. 768 sg. 12 Ibid., p. 775. 13 Ibid., p. 785. 14 Ibid., p. 786. 15 IBSEN , Gian Gabriele Borkman cit., p. 805. 16 LUKÁCS , Die Theorie des Romans cit., p. 127 (trad. it., p. 174). 17 LUKÁCS , Die Theorie des Romans cit., p. 135 (trad. it., p. 182). 18 Ibid. 19 Cfr. RILKE , Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge, Leipzig 1927, pp. 98-102. 20 RILKE , Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge cit., p. 101. 21 Citato in G. LUKÁCS, Zur Soziologie des modernen Dramas, «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», vol. XXXVIII. 22 ČECHOV , Le tre sorelle, in Teatro, Sansoni, Firenze s. d., p. 484. 23 Ibid., p. 496. 24 ČECHOV , Le tre sorelle cit., p. 513. 25 Ibid., p. 514. 26 Ibid., p. 484. Nell’originale in prima persona. 27 Ibid., p. 501. 28 Ibid., p. 538. 29 LUKÁCS , Zur Soziologie des modernen Dramas cit., pp. 678 sgg. 30 Ibid., p. 679. 31 ČECHOV , Le tre sorelle cit., p. 507. 32 ČECHOV , Le tre sorelle cit. 33 STRINDBERG , Samlade Skrifter, vol. XVIII. Citato e tradotto (in inglese) da C. E. DAHLSTROEM, Strindberg’s Dramatic Expressionism, Ann Arbor 1930, p. 99. 34 STRINDBERG , Il padre, in Il meglio del teatro di Strindberg, Set, Torino 1951, p. 158. 35 Cfr. cap. I . 36 STRINDBERG , Il padre cit., p. 160. 37 Ibid. 38 RILKE , Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge cit., p. 101. 39 STRINDBERG , Samlade Skrifter cit., vol. X, pp. 177 sgg. 40 Cfr. DAHLSTROEM , Strindberg’s Dramatic Expressionism cit., pp. 49 sgg., 124 sgg. 41 STRINDBERG , Samlade Skrifter cit., vol. V, p. 7. 42 Ibid., p. 52. 43 STRINDBERG , Il sogno, in Il meglio del teatro di Strindberg cit., p. 573. 44 STRINDBERG , Il sogno cit., p. 568. 45 Ibid., p. 591. 46 Ibid., p. 577. 47 STRINDBERG , Il sogno cit., p. 580. 48 ID. , La sonata degli spettri, in Il meglio del teatro di Strindberg cit., p. 568. 49 STRINDBERG , La sonata degli spettri cit., p. 684. 50 Ibid., p. 693. 51 MAETERLINCK , Tre drammi (Pelleas e Melisenda, I ciechi, L’intrusa), Voghera, Roma 1914, p. 129. 52 Ibid., p. 130. 53 Ibid., p. 141. 54 Ibid., p. 131. 55 MAETERLINCK , Tre drammi cit., p. 155. 56 MAETERLINCK , L’intrusa, I ciechi, Interno, ed altri brani scelti, Sonzogno, Milano, p. 55. 57 Ibid., p. 62. 58 MAETERLINCK , 59 HAUPTMANN , 60 L’intrusa, I ciechi, Interno, ed altri brani scelti cit., p. 59. I tessitori, Treves, Milano, p. 176. Ibid., p. 197. Transizione La responsabilità della crisi che, verso la fine del secolo, colpí il dramma come forma letteraria dell’accadere (1) presente (2) e intersoggettivo (3), ricade sul processo di trasformazione tematica che sostituisce i membri di questa triade coi concetti opposti e correlativi. In Ibsen, invece del presente, domina il passato. Il tema non è un accadere passato, ma il passato stesso, in quanto è ricordato e continua ad agire nell’intimo dell’uomo. Cosí anche l’intersoggettività è sostituita dall’interiorità soggettiva. – Nei drammi di Čechov la vita attiva del presente lascia il posto ad una vita di sogno nel ricordo e nell’utopia. L’accadere diventa accidentale e secondario, e il dialogo, che è la forma dell’espressione intersoggettiva, diventa il ricettacolo di considerazioni monologiche. – Nelle opere di Strindberg il rapporto intersoggettivo è soppresso o visto attraverso la lente soggettiva di un io centrale. In seguito a questo processo di interiorizzazione il tempo reale e presente perde la sua posizione di predominio; passato e presente sfumano l’uno nell’altro, il presente esterno richiama il passato ricordato. L’accadere intersoggettivo si limita ad una serie di incontri che sono solo le pietre miliari del vero accadere: l’evoluzione interiore. – Il drame statique di Maeterlinck rinuncia all’azione. Davanti alla morte, a cui solo è dedicato, svaniscono anche le differenze interumane, e quindi anche il confronto reciproco tra uomo e uomo. Alla morte si oppone un gruppo anonimo di esseri umani, ciechi e muti. – La drammaturgia sociale di Hauptmann, infine, descrive la vita interumana come è determinata da fattori extraumani: dalle circostanze politico-economiche. L’uniformità che esse impongono sopprime l’unicità di ciò che è presente; il presente è anche il passato e il futuro. L’azione lascia il posto alla situazione oggettiva, di cui gli esseri umani sono le vittime impotenti. Cosí il dramma, alla fine del secolo diciannovesimo, nega nel contenuto ciò che per fedeltà alla tradizione vorrebbe ancora esprimere formalmente: l’attualità del rapporto intersoggettivo. Ciò che unisce le varie opere di quest’epoca, e risale al cambiamento della loro tematica, è la contrapposizione soggetto-oggetto che determina il loro nuovo schema. Nei «drammi analitici» di Ibsen, presente e passato, rivelatore e realtà rivelata si contrappongono come soggetto e oggetto. Nei «drammi a tappe» di Strindberg il soggetto isolato diventa oggetto a se stesso; nel Sogno l’umanità è oggettiva per la figlia del dio Indra. Il fatalismo di Maeterlinck condanna gli esseri umani a un’oggettività passiva; e con lo stesso carattere di oggettività gli esseri umani si presentano nei «drammi sociali» di Hauptmann. Vero è che la tematica di Maeterlinck e di Hauptmann si distingue da quella di Ibsen e di Strindberg per il fatto di non esigere originariamente una contrapposizione soggetto-oggetto, ma solo il carattere oggettivo delle dramatis personae; ma il soggetto, come io epico, è formalmente necessario per la loro presentazione e rappresentazione. In queste relazioni soggetto-oggetto l’assolutezza dei tre concetti fondamentali della forma drammatica è annullata, e con essa l’assolutezza della forma drammatica stessa. Il presente (2) del dramma è assoluto, poiché non ha una cornice temporale: «il dramma non conosce il concetto di tempo». «Unità di tempo significa estrazione dal decorso temporale» 1. Il rapporto intersoggettivo (3) – nel dramma – è assoluto, poiché accanto ad esso non c’è interiorità soggettiva né oggettività estrinseca. Limitandosi al dialogo, il dramma del Rinascimento sceglie la sfera dell’intersoggettivo, come propria dimensione esclusiva. E l’accadere (1) – nel dramma – è assoluto, perché si stacca, sia dalla situazionalità interna dell’anima, che da quella esterna dell’oggettività, e fonda – in proprio ed esclusivamente – la dinamica dell’opera. Questi tre fattori della forma drammatica, entrando nel rapporto come soggetto o come oggetto, restano relativizzati. Il presente di Ibsen è relativizzato dal passato, che esso deve rivelare come il proprio oggetto. Il rapporto intersoggettivo di Strindberg è relativizzato dalla prospettiva soggettiva in cui appare. L’accadere di Hauptmann è relativizzato dalle condizioni oggettive che ha il compito di rappresentare. Il rapporto soggetto-oggetto condizionato dal tema (in quanto rapporto eo ipso elemento formale) esige di essere ancorato nel principio formale delle opere. Ma il principio della forma drammatica è proprio la negazione di ogni separazione di soggetto e oggetto. «Questa oggettività, che nasce dal soggetto, cosí come questo soggettivo che perviene a manifestazione nella sua realizzazione e nella sua validità oggettiva […], dà, come azione, la forma e il contenuto della poesia drammatica». Cosí si dice nell’Estetica di Hegel 2. L’intima contraddizione del dramma moderno consiste perciò nel fatto che alla fusione dinamica di soggetto e oggetto nella forma, si oppone la loro separazione statica nel contenuto. Va da sé che i drammi in cui tale contraddizione si manifesta devono averla risolta (sia pure in modo provvisorio) già solo per poter nascere. Essa vi è, ad un tempo, risolta e mantenuta, e ciò in quanto l’opposizione tematica di soggetto e oggetto riceve una fondazione nell’ambito della forma drammatica, ma una fondazione che viene motivata ed è quindi a sua volta tematica. Questa antitesi, insieme formale e contenutistica, di soggetto e oggetto trova espressione nelle situazioni epiche di base (narratoreoggetto) che appaiono – travestite tematicamente – come scene drammatiche. In Ibsen il problema è quello di rappresentare il passato, vissuto interiormente, in una forma letteraria che conosce l’interiorità solo nella sua oggettivazione, e il tempo solo nel suo momento di volta in volta presente; ed egli lo risolve inventando situazioni in cui gli uomini seggono a giudici del loro passato ricordato, e lo portano cosí alla luce aperta del presente. – Lo stesso problema si pone Strindberg nella Sonata degli spettri, e lo risolve introducendo un personaggio che è al corrente delle vicende di tutti gli altri e può quindi trasformarsi in narratore nell’ambito della vicenda drammatica. – Gli esseri umani di Maeterlinck sono vittime mute della morte. La scena drammatica Interno ce li mostra muti all’interno della casa. Il dialogo, di cui sono l’oggetto, è garantito da due personaggi che li osservano dal giardino. – In Prima dell’alba Hauptmann fa che le persone da rappresentare ricevano la visita di un estraneo. Nei Tessitori i vari atti presentano situazioni narrative o di rassegna. – Čechov, infine, risolve il problema di rappresentare l’impossibilità del dialogo nella forma dialogica del dramma, introducendo un personaggio sordo e facendo parlare gli altri a vuoto. Questo contrasto nel principio formale delle opere drammatiche – cosí come la duplice funzione, formale e contenutistica, di un personaggio o di una situazione, che torna loro sempre di danno – scompare dalla produzione drammatica dei decenni successivi. Ma le nuove forme che la caratterizzano nascono dai suggerimenti tematico-formali del periodo di transizione: dal giudizio ibseniano sul passato, dal narratore in scena di Strindberg, dall’introduzione di un ricercatore sociale da parte di Hauptmann. Il processo, che descriveremo in seguito nei particolari, lascia intravedere una teoria del mutamento stilistico che si stacca dalle interpretazioni correnti della successione di due stili. Questa teoria inserisce infatti un terzo periodo, in sé contraddittorio, fra il primo e il secondo, e pone cosí le fasi di sviluppo nel ritmo ternario della dialettica di contenuto e forma. Ma il periodo di transizione non è caratterizzato solo dal passaggio dall’originaria corrispondenza di forma e contenuto (nel capitolo Il dramma) al contrasto e alla separazione (nel capitolo Crisi del dramma), poiché il superamento di questo contrasto nella fase successiva di sviluppo si prepara proprio qui, negli elementi formali mascherati tematicamente, che la vecchia forma, divenuta problematica, cela già in sé. E il passaggio allo stile non contraddittorio si compie quando i contenuti con funzione formale precipitano definitivamente in forma, e spezzano cosí la forma antica. Questo processo, attestato dalla drammaturgia coerente del ventesimo secolo, si può scorgere anche in altri campi dell’arte. Nell’ambito dello stile epico tradizionale, fondato sulla contrapposizione fra il narratore e l’oggetto della narrazione, il romanzo psicologico dell’Ottocento sviluppa il monologue intérieur. Ma quest’ultimo, interamente ambientato nell’interiorità dei personaggi rappresentati, non presuppone piú il distacco epico. Finché non viene abbandonato lo stile epico, il monologue intérieur deve essere mediato attraverso il narratore (si pensi al «se dit-il» di Stendhal, formula quasi stereotipa che è forse il gruppo di parole piú frequente in Le rouge et le noir; dove non bisogna trascurare, peraltro, che l’analisi psicologica di Stendhal, a cui la psiche si presenta oggettivamente, torna a legittimare il distacco epico). In quanto è mediato dal narratore, il monologue intérieur è ancora tematico. La progressiva psicologizzazione del romanzo nel ventesimo secolo fa diventare sempre piú essenziale il monologue intérieur; la trasformazione stilistica (se vogliamo prescindere da Dujardin) ha luogo nell’opera di James Joyce: il monologo interiore diventa qui principio formale e spezza lo stile epico tradizionale. L’Ulysses non conosce piú alcun narratore. Come lo stream of consciousness si prepara nell’ambito dello stile epico tradizionale, cosí – per fare un esempio extraletterario – la pittura di Cézanne, pur attenendosi ancora, in definitiva, al principio dell’osservazione diretta della natura, racchiude già in sé l’origine dell’aprospettivismo e del sintetismo degli stili successivi (come quello cubista). E la musica tardoromantica di Wagner, che, nell’ambito della tonalità fondata sull’accordo di terza, tende ad un cromatismo radicale e cioè all’equiparazione dei dodici toni, prepara cosí l’atonalismo di Schönberg. Il nuovo principio stilistico si può quindi ritrovare, prima del rovesciamento, come momento antitetico all’interno del vecchio principio. I tre esempi citati – quelli di Stendhal, di Cézanne e di Wagner – mostrano insieme che anche nella fase di transizione è possibile la massima perfezione. Ma non si può trascurare ciò che vi è di unico e irripetibile nella conciliazione dei principî opposti, che essi riuscirono a compiere, né la dinamica immanente della contraddizione, che non mira ad essere conciliata, ma ad essere risolta; e ciò spiega perché le loro opere non poterono servire da modello agli autori successivi, o furono solo il modello a cui si aspira in quanto lo si lascia dietro di sé. Come la «crisi del dramma» ha prodotto, attraverso mutamenti di ordine tematico, il passaggio dal puro stile drammatico a uno stile contraddittorio, il cambiamento successivo, dove la tematica resta immutata, va inteso come il processo in cui l’elemento tematico precipita in forma, spezzando cosí la forma antica. Nascono cosí quegli «esperimenti formali» che sono stati interpretati finora solo in se stessi, e quindi spesso come un gioco, come un modo di épater le bourgeois, o come espressione di incapacità personale; ma la cui necessità interna si rivela appena vengono situati nel quadro della metamorfosi stilistica. Poiché ciò può far luce anche sul processo in cui si genera la nuova forma, vogliamo illustrare ancora con un esempio l’antitesi di tematico e formale. In un dramma dove, a un certo punto, si canta una canzone, il canto è tematico; nell’opera, invece, è formale. Perciò le dramatis personae possono applaudire il personaggio che canta, mentre i personaggi dell’opera lirica non possono prendere coscienza del loro canto. («Ironia romantica» è appunto il fenomeno – che appare nelle commedie di Tieck e di altri autori – per cui le dramatis personae riflettono anche sugli elementi formali, come ad esempio sulla parte che recitano 3). Prima di prendere in esame queste nuove forme, in cui la contraddizione fra tematica epica e forma drammatica si risolve col prender forma dell’epica interna, bisogna accennare ai tentativi che, invece di risolvere l’antinomia nel senso del processo storico, e cioè di far emergere la forma dal nuovo contenuto, restano attaccati alla forma drammatica e cercano in vari modi di salvarla. Dove bisognerà, peraltro, accennare al fatto che anche questi tentativi di salvataggio, malgrado il loro intento formalistico-conservatore, non mancano di nuovi momenti rivelatori. Al di là di questa crisi del dramma e dei suoi tentativi di soluzione in senso epico, ma concepibile solo sullo sfondo di essi, nasce – verso la fine del secolo scorso – il dramma lirico, e in particolare l’opera giovanile di Hofmannsthal. Che essa è indirettamente in rapporto con la crisi del dramma, è assai facile a vedersi. La tensione tra forma e contenuto del dramma moderno si può ricondurre alla contraddizione fra identità dialogica di soggetto e oggetto nella forma e loro dissociazione nel contenuto. La «drammaturgia epica» nasce quando il rapporto contenutistico soggetto-oggetto precipita in forma. Il dramma lirico sfugge a questa contraddizione, perché la lirica non affonda le sue radici, né nella fusione attuale, né nella separazione statica di soggetto e oggetto, ma nella loro identità sostanziale ed originaria. La sua categoria fondamentale è lo stato d’animo. Ma esso non appartiene all’interiorità isolata: originariamente lo stato d’animo – scrive E. Staiger – «non è qualcosa che sia “dentro” di noi. Anzi, proprio nello stato d’animo siamo “fuori” in modo eminente: non di fronte alle cose, ma dentro di esse ed esse in noi» 4. E la stessa identità caratterizza nella lirica io e tu, presente e passato. Ma dal punto di vista formale – e per la problematica di Ibsen, Strindberg e Čechov – ciò significa che il dramma lirico non conosce una differenza tra monologo e dialogo, per cui il tema della solitudine non mette in discussione il dramma lirico stesso. Il linguaggio drammatico è strettamente riferito all’azione, che si svolge in un presente continuo; e perciò l’analisi del passato è in contraddizione con la forma drammatica. Nella lirica, invece, i tempi si fondono, il passato è anche il presente e il linguaggio non è anche un fatto tematico che ha bisogno di motivazione e può essere interrotto dal silenzio. La lirica è in se stessa linguaggio, e perciò, nel dramma lirico, linguaggio e azione non coincidono necessariamente. Quando, a proposito delle opere liriche giovanili di Hofmannsthal, Kassner scrive che «si può correre per cosí dire col dito fra la parola e l’azione e separare l’una dall’altra» 5, vuol dire proprio questo. Essendo indipendente dall’azione, il linguaggio lirico può coprire gli abissi e le fratture nella vicenda, in cui si rivela, altrove, la crisi del dramma. Una trattazione adeguata di Hofmannsthal, che ne Il folle e la morte, Ieri e Le nozze di Sobeide condivide ampiamente la tematica di Ibsen, di Strindberg e di Čechov, esigerebbe un’estensione dell’indagine al campo della critica stilistica. Per lo stesso motivo dovremo trascurare anche l’opera di T. S. Eliot, la cui Riunione di famiglia sviluppa in senso lirico la tecnica analitica di Ibsen 6, e anche quella di altri autori come Giraudoux 7. 1 LUKÁCS , 2 HEGEL , Die Theorie des Romans cit., p. 127 (trad. it., p. 174). Vorlesungen über die Ästhetik, in Aesthetik cit., vol. XIV, p. 324 (trad. it., p. 1374). 3 Cfr. il mio Friedrich Schlegel und die romantische Ironie, con un’appendice su Ludwig Tieck, in Satz und Gegensatz, Frankfurt am Main 1964. 4 STAIGER , Grundbegriffe der Poetik cit., p. 66. 5 R. KASSNER, Das physiognomische Weltbild, ed ivi: Erinnerungen an Hofmannsthal, München 1930, p. 257. 6 Su Eliot cfr. R. PEACOCK, The Poet in the Theatre, London 1946. 7 Cfr. il mio Zu Giraudoux’ Amphitryon 38, in «Neophilologus», 1957. III. Tentativi di salvataggio VI. Gli ultimi drammi tedeschi che sono ancora tali furono scritti da Gerhart Hauptmann: si pensi a Il vetturale Henschel (1898), a Rose Bernd (1903) e a I topi (1911). Ma ciò che permette questa tarda riuscita è il NATURALISMO, delle cui tendenze conservatrici nel campo della drammaturgia abbiamo già avuto modo di parlare brevemente a proposito di Strindberg 1. Il dramma naturalista sceglieva i suoi protagonisti negli strati inferiori della società. Qui esso trovava esseri umani dotati di una volontà indomita, che sapevano battersi con tutte le loro forze per un’impresa a cui erano spinti dalla passione; esseri umani che nessuna differenza fondamentale separava gli uni dagli altri: né il riferimento all’io, né la riflessione. Erano esseri ben in grado di reggere un dramma, per sua natura limitato all’accadere intersoggettivo sempre attuale. Al divario sociale fra gli strati inferiori e quelli superiori della società corrispondeva quindi un divario drammaturgico: la capacità o meno di reggere un dramma. Il verbo naturalistico, che in buona fede proclamava che il dramma non è proprietà esclusiva della borghesia, celava l’amara constatazione del fatto che la borghesia aveva perso da tempo il possesso del dramma. Si trattava di salvare il dramma. Poiché ci si rendeva conto della crisi del dramma borghese (Hauptmann in Festa di pace [1890], I solitari [1891], Michael Kramer [1900], ecc.), si fuggiva dal proprio tempo. Ma non ci si rifugiava nel passato, ma in un presente estraneo. Scendendo i gradini della scala sociale, si scoprivano elementi arcaici nel presente; si faceva girare indietro la lancetta sul quadrante dello spirito oggettivo, e cosí facendo l’adepto del naturalismo diventava un autore «moderno». Mentre nel diciottesimo secolo il passaggio del dramma dall’aristocrazia alla borghesia corrispondeva a un processo storico, l’introduzione naturalistica del proletariato nel dramma, che ha luogo verso il 1900, intende invece sfuggire a quel processo. Questa è la dialettica storica del dramma naturalistico. Ma esso ha anche una dialettica drammaturgica. Il distacco sociale, che solo rende possibile il dramma del naturalismo, gli si rivela fatale come distacco drammatico. Il fatto stesso che sia stato possibile imperniare l’opera hauptmanniana intorno alla categoria della compassione, ribadisce – anziché smentirla – la tesi che Hauptmann si colloca di fronte alle sue creature in qualità di osservatore, e non è dietro di loro, in loro. Poiché la compassione presuppone appunto una distanza; quella distanza che essa abolisce. Il vero autore drammatico – al pari dello spettatore – non si trova affatto in una posizione di distacco rispetto alle dramatis personae; è tutt’uno con esse o rimane del tutto fuori dell’opera. Questa identità fra autore, spettatore e dramatis personae diviene possibile perché i soggetti del dramma sono sempre proiezioni del soggetto storico: essi coincidono con lo stato della coscienza. In questo senso ogni vero dramma è lo specchio del suo tempo, e nei suoi personaggi si riflette quello strato sociale che forma per cosí dire l’avanguardia dello spirito oggettivo. Per questo motivo non esiste un vero dramma storico. Quello mitologico-storico del classicismo francese era il dramma dell’aristocrazia e del re. L’accostamento fra Olimpo e Corte compiuto nell’Anfitrione di Molière non è un caso piccante isolato, ma esprime il rapporto storico-spirituale dell’epoca anche nei confronti della tragédie classique. E la massima fedeltà storica nella riproduzione dei discorsi parlamentari non impedisce, ad esempio, a Büchner di far perire Danton di quella noia che appare storicamente solo dopo la caduta di Napoleone, e che diventa l’esperienza piú personale dello stesso Büchner quando si rende conto dell’inattualità del suo programma rivoluzionario. (Sui rapporti fra la noia e la situazione postnapoleonica ci informano soprattutto le opere di Stendhal). Nel dramma naturalistico, che evita la fuga nella storia grazie agli anacronismi del presente, non si riflette, però, né la borghesia a cavallo del secolo, né la classe da cui attinge i suoi personaggi, ma una delle due classi osserva l’altra: l’autore borghese e la borghesia, che costituisce il suo pubblico, osservano la classe contadina e il proletariato. Questo distacco ha le sue ripercussioni negative sul piano drammatico. L’analisi dei Tessitori ha mostrato che il linguaggio naturalistico presuppone l’io epico. A questo problema si ricollega quello dell’«ambiente». La riproduzione dell’ambiente non si lascia dedurre semplicemente dal programma naturalistico. Essa non indica solo l’intenzione dell’autore, ma anche il suo punto di vista. Lo sfondo delle persone che agiscono, l’atmosfera in cui si muovono, si rivela solo all’autore che sta di fronte ad esse o che le visita come estraneo: in una parola al narratore epico. Questa relativizzazione del dramma di fronte al narratore epico, che esso presuppone in quanto dramma naturalistico, si riflette, al suo interno, come relativizzazione dei personaggi di fronte all’ambiente, che appare estraniato ad essi. La tanto vilipesa «astrattezza» della tragédie classique, e il limitarsi del suo linguaggio a un lessico scelto, corrisponde perfettamente al principio formale drammatico. L’astrattezza fa emergere con somma purezza ciò che si svolge attualmente fra gli uomini; il lessico ridotto diventa, per cosí dire, possesso esclusivo del dramma e non lo rimanda fuori di sé all’empiria, come accade invece al dramma naturalistico. Qualcosa di simile si può mostrare infine nell’azione. L’azione del dramma naturalistico appartiene per lo piú al genere «fait divers». Il fait divers è l’accadere estraniato al suo terreno, in se stesso abbastanza interessante per essere riferito. L’identità dei protagonisti è quindi irrilevante: è un fatto essenzialmente anonimo. I dati forniti dai giornali, come ad esempio: «Pauline Piperkarcka, domestica, anni venti, abitante a Berlino-Nord», servono solo ad attestare l’autenticità del fait divers. Il rifluire dell’azione nell’interiorità dei soggetti, l’oggettivarsi di questa interiorità nell’azione – come esige Hegel per la drammaturgia –, è reso impossibile, in questo caso, dalla natura stessa del fait divers. Ecco perché esso non può mai essere pienamente inserito nel dramma naturalistico. Esso costituisce, all’interno di esso, un’azione, per cosí dire, rappresa, che non si lascia mai integrare perfettamente ai caratteri e al loro ambiente. La dissociazione fra ambiente, carattere ed azione nel dramma naturalistico, la reciproca estraniazione in cui essi si manifestano, esclude la possibilità di una fusione omogenea dei vari elementi in un movimento globale assoluto, com’è quello richiesto dal dramma. Lo sbriciolamento che caratterizza quasi tutti i drammi naturalistici di Hauptmann, e piú di tutti forse Il gallo rosso (1901), ha le sue radici in questa problematica, che a sua volta potrebbe trovare una soluzione solo nel campo dell’epica; nella coesione, cioè, dei piú disparati elementi ad opera dell’io epico. Cosí la drammaturgia del naturalismo, in cui la forma drammatica cerca di sopravvivere alla crisi determinata dalla storia, è – per quello stesso distacco dalla borghesia che le consente di salvare il dramma – sempre in pericolo di rovesciarsi in epica. VII. Un secondo tentativo di salvataggio prende le mosse dal dialogo. Si è già visto qual è il pericolo che lo minaccia: venendo meno il rapporto intersoggettivo, il dialogo si spezza in monologhi; predominando il passato, diventa la sede monologica del ricordo. Il tentativo di salvare il dramma salvando il dialogo si rifà all’opinione, un tempo assai diffusa nell’ambiente teatrale, che autore drammatico è chi sa scrivere un buon dialogo. Si pensa di poter garantire un «buon dialogo» separandolo dalla soggettività le cui forme storiche lo minacciano. Se nel dramma autentico il dialogo è lo spazio comune in cui si oggettiva l’interiorità delle dramatis personae, qui esso viene estraniato ai soggetti e appare come qualcosa di autonomo. Il dialogo diventa conversazione. Il DRAMMA-CONVERSAZIONE domina la drammaturgia europea, specie inglese e francese, dalla seconda metà dell’Ottocento. Come well-made-play, o pièce bien faite, esso prova le proprie qualità drammaturgiche e nasconde cosí quella che è la sua vera natura: la parodia involontaria del dramma classico. La sua negatività, il fatto cioè che esso, separato dal soggetto, è incapace di espressione soggettiva, si rovescia in qualcosa di positivo in quanto lo spazio dialogico rimasto vuoto si riempie di temi d’attualità. Il dramma-conversazione dibatte problemi come quello del diritto di voto delle donne, del libero amore, del divorzio, della mésalliance, dell’industrializzazione, del socialismo. Cosí, ciò che in realtà si oppone al progresso storico acquista una parvenza di modernità. Moderno e insieme esemplarmente drammatico, il dramma-conversazione rappresentava, all’inizio di questo secolo, la norma della drammaturgia; il teatro che cercava nuove forme per esprimere cose nuove doveva faticosamente staccarsene ed era confrontato criticamente ad esso. Solo in Germania il cammino verso le soluzioni epiche della crisi non era chiuso dalle barriere del drammaconversazione, divenuto accademico, poiché non c’era una società tedesca e uno stile di conversazione tedesco. Ma non bisogna trascurare il fatto che l’aspetto esemplarmente drammatico del drammaconversazione era piú apparente che reale. L’assolutizzazione del dialogo a conversazione si paga non solo sul piano qualitativo, ma anche su quello puramente drammatico. La conversazione, oscillando fra gli uomini, invece di legarli è essa stessa non-vincolante. Il dialogo drammatico è irrevocabile, grave di conseguenze in ognuna delle sue battute. Come successione causale esso crea un tempo proprio e si stacca cosí dal corso del tempo. Di qui l’assolutezza del dramma. La conversazione è diversa. Essa non ha un’origine soggettiva né uno scopo oggettivo; non porta oltre, non trapassa in un’azione. Perciò non ha neppure un tempo proprio, e partecipa invece al decorso «reale» del tempo. Non avendo un’origine soggettiva, non può definire e caratterizzare individui. Come il suo tema non è che una citazione della problematica del giorno, cosí essa cita, nelle dramatis personae, i tipi della società reale. La tipologia della Commedia dell’arte è una tipologia interna al dramma, si riferisce ad una realtà estetica e non rinvia, quindi, oltre i limiti del dramma. La tipologia del drammaconversazione risale invece a una tipizzazione sociale, e contrasta quindi all’esigenza di assolutezza della forma drammatica. Poiché la conversazione non impegna, non può trapassare in azione. L’azione di cui il dramma a tesi ha pur bisogno per potersi presentare come well-made-play, è presa a prestito dall’esterno. Capita al dramma, senza alcuna motivazione, in forma di avvenimenti inattesi: e anche questo contribuisce a distruggere la sua assolutezza. Il carattere puramente esteriore della sua drammaticità, che si aggiunge alla nullità tematica, giustifica appieno l’inserzione del dramma a tesi nel quadro di quella serie di tentativi di salvataggio del dramma che non osano affrontarne di petto la crisi. Ma in questa critica radicale del drammaconversazione non bisogna trascurare del tutto le sue possibilità positive; che si rivelano quando la conversazione si guarda allo specchio, quando passa da un impiego meramente formale a un impiego tematico. Sul duplice terreno del dramma-conversazione e della commedia di carattere si erge quella che si può ben ritenere l’opera teatrale piú perfetta della letteratura tedesca moderna: Il difficile (1918) di Hofmannsthal. Quest’opera si sottrae al vuoto e a una tematica d’accatto non solo perché la nobile società viennese che essa ritrae vive essenzialmente nella conversazione; ma anche perché la conversazione è approfondita e trasformata dal protagonista, il conte Bühl, che è il solo personaggio moderno nella galleria dei caratteri della grande commedia. In lui la conversazione diventa tematica, e dai problemi che essa pone emerge la problematicità del dialogo, anzi della lingua stessa 2. In modo diverso il linguaggio corrente francese si condensa in Aspettando Godot (1952) di Samuel Beckett. La limitazione – altrimenti solo formale – del dramma alla conversazione, diventa qui tematica: per gli uomini che aspettano Godot, questo deus non solo absconditus ma anche dubitabilis, non resta, a conferma della loro esistenza, che il vuoto conversare. Ma nel vuoto spazio metafisico, che fa diventare ogni cosa significativa, la conversazione priva di senso, che tende perennemente all’abisso del silenzio, e gli è sempre di nuovo e faticosamente estorta, è in grado di rivelare la «misère de l’homme sans Dieu». È vero che, a questo stadio, la forma drammatica non cela piú una contraddizione critica, e la conversazione non è piú un mezzo per superarla. Tutto è a pezzi: il dialogo, l’insieme formale, l’esistenza umana. Valore espressivo, spetta piú solo alla negatività: all’automaticità senza senso del discorso e al mancato adempimento della forma drammatica. Vi si esprime la negatività di un’esistenza in attesa, che ha bisogno della trascendenza ma non ne è capace. VIII. Il fatto che, a partire dal 1880, autori drammatici come Strindberg, Zola, Schnitzler, Maeterlinck, Hofmannsthal, Wedekind e piú tardi O’Neill, W. B. Yeats ed altri, si dedichino all’ATTO UNICO, non indica solo che la forma tradizionale del dramma appariva loro problematica, ma è già spesso il tentativo di salvare da questa crisi lo stile «drammatico» come stile della tensione rivolto al futuro. Il momento della tensione, il momento dell’«autoanticipazione» (E. Staiger), è ancorato, nel dramma, all’accadere intersoggettivo. È, in fin dei conti, l’elemento futuro che è essenziale alla dialettica interumana in quanto tale. Il rapporto intersoggettivo nel dramma è sempre unità di opposizioni che tendono alla loro risoluzione. La coscienza della necessità di questa risoluzione, il pensiero e l’azione anticipatrice delle dramatis personae per determinarla o per impedirla, dànno luogo alla tensione drammatica, che dev’essere distinta – ad esempio – dalla tensione di fronte ai segni premonitori di una catastrofe. Il fatto che il momento della tensione affondi le sue radici nella dialettica del rapporto intersoggettivo spiega perché la crisi del dramma implichi di necessità anche la crisi dello stile «drammatico» nel teatro moderno. Isolamento e solitudine come si presentano tematicamente in Ibsen, Čechov e Strindberg, acutizzano bensí i contrasti fra gli uomini, ma annullano anche l’impulso ad eliminarli. Mentre l’impotenza dell’uomo, come è descritta da Hauptmann e Zola sul piano sociale e da Maeterlinck su quello metafisico, non lascia piú affiorare contrasti e porta all’unità priva di dialettica di una comunità soggetta allo stesso destino. Si aggiunga che l’isolamento degli esseri umani porta, per lo piú, con sé l’«astrazione e intellettualizzazione dei loro conflitti»; onde i contrasti acuiti fra gli esseri umani isolati sono già sempre, in un certo senso, superati in virtú dell’obbiettività prodotta dall’intellettualizzazione 3. I drammi di Čechov e di Hauptmann attestano la scomparsa della tensione in seguito a questi processi. Ma è nell’opera drammatica di Strindberg che risulta nel modo piú chiaro come l’atto unico abbia il compito di permettere al teatro di raggiungere la tensione al di fuori del rapporto intersoggettivo. Si è già detto della posizione degli Undici atti unici (1888-92) tra Il padre (1887) e il «dramma a tappe» Verso Damasco I-III (1897-904) 4. Nel Padre appare chiaro che la forma tradizionale di svolgimento dell’azione non corrisponde piú alla drammaturgia soggettiva. Tutto è visto in funzione del Capitano, e la lotta che sua moglie conduce contro di lui è diretta in sostanza dal Capitano stesso. Il gioco dei contrasti si svolge nell’intimo del Capitano, e non può piú essere espresso mediante l’intrigo. Ecco perché, nel suo saggio L’atto unico (scritto due anni dopo Il padre, nel 1889), Strindberg giunge a rifiutare l’intrigo e quindi «la pièce che occupa un’intera serata»: «Una scena, un quart d’heure: sembra questo ormai il genere di teatro per gli uomini d’oggi…» 5. Ciò presuppone che l’atto unico differisca non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente dal dramma «che occupa un’intera serata»: nel modo in cui si svolge l’azione, e – in stretto rapporto con ciò – nel genere della tensione. L’atto unico non è un dramma di proporzioni ridotte, ma una parte del dramma che si è eretta a tutto. Il suo modello è la scena drammatica. Ciò significa che l’atto unico condivide col dramma lo stesso punto di partenza – la situazione –, ma non l’azione, in cui le decisioni delle dramatis personae mutano continuamente la situazione originaria e tendono verso la risoluzione finale. Nell’atto unico, invece, la tensione non scaturisce piú dall’accadere intersoggettivo, ma dev’essere già insita nella situazione; e non come tensione virtuale, che viene poi realizzata da ogni singola battuta drammatica (come la tensione nel dramma), ma la situazione stessa deve dare già tutto. Per questo motivo l’atto unico, se non vuol rinunciare del tutto alla tensione, sceglie la situazione-limite, la situazione che precede immediatamente la catastrofe, già prossima al levarsi del sipario e che ormai non può piú essere sventata. La catastrofe è un dato di fatto avvenire; onde non si determina piú la tragica lotta dell’uomo contro il destino, alla cui oggettività egli possa opporre (nel senso di Schelling 6) la sua libertà soggettiva. Ciò che lo separa dalla fine è il tempo vuoto, che non può piú essere riempito da nessuna azione, e nel cui puro spazio – teso verso la catastrofe – egli è condannato a vivere. Cosí l’atto unico si rivela, anche in questo aspetto formale, come il dramma dell’uomo non-libero. L’epoca in cui nacque era quella del determinismo, che unisce gli autori drammatici che lo adottarono al di là delle differenze stilistiche e tematiche; che unisce, ad esempio, il simbolista Maeterlinck e il naturalista Strindberg. Degli atti unici di Maeterlinck – i drames statiques – abbiamo già parlato. Ci resta solo da rilevare il tratto «drammatico» che essi devono alla situazione catastrofica. Nulla sarebbe piú errato che inferire dalla loro staticità, che Maeterlinck accentuò programmaticamente, e dalla loro segreta struttura epica, la mancanza di quella tensione che deve contrassegnare il dramma come tale. L’impotenza degli uomini esclude bensí l’azione e la lotta, e perciò anche la tensione intersoggettiva; ma non esclude la tensione della situazione in cui sono messi, e che subiscono come vittime. Il tempo carico di tensione, in cui non può piú accadere nulla, è riempito dalla paura affiorante e dalla riflessione sulla morte. Ne I ciechi e in Interno esso non è piú neppure segnato dall’approssimarsi della morte, perché anch’essa è già stata; e l’intervallo di tempo è solo quello in cui la si apprende. E il tempo – come sempre quando non si realizza nell’azione – appare qui spazializzato: come via della conoscenza ne I ciechi, come via del messaggio in Interno. Ciò si realizza, scenicamente, nel progressivo annullamento della distanza fra i ciechi e la loro guida morta, che è già da tempo in mezzo a loro; e nella separazione fra la casa, apparentemente sicura, dove la famiglia attende tranquillamente la notte, e il giardino, dove due esseri umani sanno già del suicidio della figlia, ma esitano a varcare la barriera dando la notizia della morte. E il sipario cala quando il cammino della conoscenza o del messaggio è stato percorso fino in fondo, quando si viene a sapere dell’avvenuta catastrofe, quando è scoperta la premessa (il «Vor-Wurf», secondo l’espressione di E. Staiger) che determinava la tensione. Non è dissimile dai drames statiques, nella sua concezione di base, l’atto unico di Strindberg Prima della morte (1892), che prolunga la linea tematica del Padre, e si può anzi considerare la trasposizione di questo dramma nella forma dell’atto unico, che, in quel periodo della sua attività, Strindberg riteneva potesse essere «la formula del dramma di domani» 7. Dove le differenze permettono di capire che cosa distingue essenzialmente l’atto unico dalla «pièce che occupa un’intera serata», e perché esso possa prendere il posto del dramma divenuto ormai problematico. Il signor Durand, «direttore di una pensione ed ex impiegato delle ferrovie statali», è «l’uomo nell’inferno femminile», come il Capitano nel Padre. Ma essendo vedovo non ha piú nessun antagonista; dove si esprime la rinuncia di Strindberg all’intrigo e insieme l’accostarsi dell’atto unico – che non conosce piú accadere alcuno – alla «tecnica analitica». Il cosiddetto «inferno femminile» è costituito dalle figlie del signor Durand, che la madre ha educato contro di lui. Ma la sua rovina incombe dall’esterno, e non dalle figlie: la pensione che egli dirige è prossima al fallimento. Dove si esprime la sostituzione dell’intersoggettività con l’oggettività, e la nuova fondazione della tensione drammatica, che è determinata dalla situazione e non piú dal conflitto fra un uomo e l’altro. È vero che Strindberg non ci rappresenta il suo eroe in un’assoluta impotenza. Durand evita la bancarotta dando fuoco alla casa e avvelenandosi, perché le figlie, riscuotendo il premio di assicurazione, vengano a trovarsi in buone condizioni economiche; ma l’«azione» dell’atto unico non è una serie di eventi che sfocino nella decisione del suicidio, né l’evoluzione psichica che la precede, bensí la descrizione di una vita familiare minata dall’odio e dalla rivalità, l’analisi ibseniana di un matrimonio infelice, che acquista efficacia «drammatica» nella tensione della catastrofe imminente, anche senza l’aggiunta di una nuova azione. In altri atti unici di Strindberg, come Paria, Giocare col fuoco, Creditori, che si possono tutti definire «drammi analitici» senza azione presente secondaria, manca anche il momento di tensione della catastrofe incombente. La precipitazione drammatica nasce qui – è inutile nasconderlo – dall’impazienza del lettore o dello spettatore, che non tollera piú l’atmosfera infernale che gli si rivela e fin dalle prime battute precorre col pensiero la fine, da cui spera la liberazione – se non per i personaggi del dramma – almeno per se stesso. Ma bisogna ricordare anche qui che la forma dell’atto unico è stata adottata, nell’opera di Strindberg, in un momento di crisi. La comprensione del fatto che la drammaturgia soggettiva, rifiutando la rappresentazione diretta dell’accadere intersoggettivo, deve rinunciare anche allo stile della tensione, porterà Strindberg, dopo una pausa di cinque anni, alla tecnica epica dello «Stationendrama». IX. La crisi del dramma nella seconda metà del secolo decimonono va attribuita anche – e non da ultimo – alle forze che fanno uscire gli uomini dal rapporto intersoggettivo e li spingono nell’isolamento. Ma lo stile drammatico messo in crisi da questo isolamento è in grado di sopravvivergli, se gli esseri umani isolati, a cui formalmente dovrebbe corrispondere il silenzio, oppure il monologo, sono costretti, da fattori esterni, a ritornare alla dialogicità del rapporto intersoggettivo. Ciò accade nella situazione di angustia, che è alla base di quasi tutti i drammi moderni sfuggiti all’epicizzazione. La sua origine storica va ricercata nella tragedia borghese. Nella sua prefazione a Maria Maddalena (1844) Hebbel indicava «l’elemento intimo e specifico» di essa nella «chiusura brutale con cui individui incapaci di ogni dialettica stanno l’uno di fronte all’altro in una cerchia ristrettissima…» 8. Ci si chiede se Hebbel si rendesse conto di aver toccato, in questa enunciazione, sia la crisi che il salvataggio della forma drammatica. Ma la «chiusura» e l’incapacità di ogni «dialettica» (intersoggettiva) annullerebbe la possibilità del dramma, che vive delle decisioni di individui aperti l’uno verso l’altro, se la «cerchia ristrettissima» non spezzasse a forza questa chiusura, se fra gli esseri umani isolati, ma legati l’uno all’altro, e i cui discorsi aprono ferite nella chiusura altrui, non si determinasse una seconda dialettica imposta loro a forza dall’esterno. L’angustia che qui vige nega agli uomini lo spazio di cui avrebbero bisogno per poter essere soli coi loro monologhi o in silenzio con se stessi. Il discorso dell’uno ferisce letteralmente l’altro, ne infrange la chiusura e lo costringe a rispondere. Lo stile drammatico, minacciato di distruzione dall’impossibilità del dialogo, si salva quando, nella situazione di angustia, il monologo stesso diventa impossibile e si ritrasforma necessariamente in dialogo. Sulla base di questa dialettica tra monologo e dialogo sono sorte opere come La danza macabra (1901) di Strindberg e La casa di Bernarda Alba (1936) di Lorca. Bernarda Alba, rimasta vedova, trasforma la propria casa in un carcere di lutto per le cinque figlie. «Per tutti gli otto anni che durerà il lutto, – essa dice all’inizio, – non entrerà in questa casa il vento della via. Facciamo conto di aver murato coi mattoni porte e finestre. Cosí fu in casa di mio padre, cosí in casa di mio nonno» 9. Nel secondo atto si vede «una stanza bianca. Le figlie di Bernarda sono sedute su sedie basse». Quando si accorgono dell’assenza di Adele, la piú giovane, Maddalena esce a cercarla. Poi: Maddalena entra con Adele. Dunque non dormivi? Non mi sento bene. MARTIRIO (con intenzione) Non hai dormito bene stanotte? ADELE Sí. MARTIRIO E allora? ADELE (con forza) Lasciami in pace! Se dormo o veglio, non devi impicciarti dei fatti miei. Del mio corpo ne faccio quel che mi pare! MARTIRIO Era solo interessamento verso di te. ADELE Interessamento o spirito d’inquisizione? Non stavate cucendo? Continuate a cucire. Ah, come vorrei essere invisibile e passare per le stanze senza che mi domandiate ogni volta dove vado! 10. MADDALENA ADELE Il dramma di epoche precedenti non aveva conosciuto nulla di simile. Il rapporto intersoggettivo e la sua estrinsecazione linguistica, il dialogo, il domandare e rispondere, non erano qualcosa di penosamente problematico, ma erano la naturale cornice formale in cui si muoveva la tematica attuale. Ma qui questa premessa formale del dramma diviene essa stessa tematica. Il problema che viene a porsi cosí all’autore drammatico, fu visto forse per la prima volta da Rudolf Kassner. In uno dei suoi primi saggi egli scrive a proposito dei personaggi di Hebbel: «Essi somigliano, in realtà, a uomini che siano stati a lungo soli con se stessi in silenzio, e che ora improvvisamente siano costretti a parlare. Qui il parlare è generalmente piú facile al poeta che all’uomo, e perciò il poeta deve prendere spesso direttamente la parola dove vorremmo che a parlare fossero solo le sue creature» 11; dove Kassner anticipa già l’epicizzazione del dramma, l’inclusione nel dramma dell’autore che prende la parola come io epico. E piú oltre: «Di questi uomini si può dire che sono dei dialettici nati, ma che lo sono solo alla superficie e contro la loro volontà; in fondo e prima di tutto, in tutti questi personaggi, si sente l’uomo che è stato a lungo con se stesso, senza parole, l’uomo che potrebbe anche assistere al gioco in cui lo fa entrare l’autore» 12. Dove si accenna di nuovo all’attività dell’autore drammatico, che diventerà visibile solo all’epoca della crisi del dramma. Essa appare ancor piú evidente nelle opere la cui angustia tematica è un elemento secondario, un espediente formale per rendere possibile il dramma. L’angustia si giustifica solo se appartiene essenzialmente alla vita degli uomini di cui permette la rappresentazione drammatica. È questo il caso della tragedia borghese, del dramma coniugale di Strindberg, del dramma delle convenzioni sociali (Lorca). Poiché questa angustia determina la sorte delle dramatis personae, poiché non c’è frattura fra i personaggi e la loro situazione, in queste opere l’autore drammatico non si fa avanti. Diversamente accade in molte opere drammatiche piú recenti, dove i personaggi – mercè un atto drammaturgico precedente il dramma – sono trasferiti in una situazione di angustia che non è affatto caratteristica per essi, ma che sola consente loro di figurare in un dramma. Sono le opere il cui luogo d’azione è una prigione, una casa sprangata, un nascondiglio, una postazione militare isolata. La riproduzione della particolare atmosfera di tali luoghi non deve trarre in inganno sulla loro funzione formale. E lo stile drammatico che essi rendono possibile, è anche qui, come nel dramma-conversazione, piú apparente che reale. Poiché l’assolutezza di queste situazioni accidentali di angustia è annullata dalle dramatis personae stesse, che, da questa situazione ad esse esterna, rinviano alle loro origini epiche, come anche dall’autore drammatico, che, in quanto soggetto dell’unione forzata dei personaggi, rimane incluso nell’opera. La drammaticità interna è pagata, per cosí dire, con un’epicità esterna; nasce il dramma in una boccia di vetro. La Guckkastenbühne, o palcoscenico stereoscopico, che nel dramma classico ha il compito di creare una sfera chiusa, perché la realtà – ridotta al rapporto intersoggettivo – possa riflettersi in essa, diventa un bastione eretto contro l’epicità del mondo esterno, un alambicco; ciò che vi accade non è piú un rispecchiamento, ma una metamorfosi – mercè quello che si potrebbe chiamare «esperimento drammaturgico di compressione». Questa drammaturgia è afflitta dall’artificiosità di simili costruzioni; troppo si richiede per renderla formalmente possibile, perché l’ambito tematico non ne soffra. Questo tipo di salvataggio dello stile drammatico può trovare una giustificazione artistica solo se arriva a liberarsi della sua artificiosità. È ciò che sembra riuscire nelle opere drammatiche dell’ESISTENZIALISMO . L’esistenzialismo – come concezione del mondo e come letteratura – è il tentativo, per quanto problematico, di raggiungere una nuova classicità che dovrebbe superare in sé il naturalismo. Per lo spirito classico come per lo stile classico, la limitazione all’umano era essenziale: la filosofia classica era umanistica, al suo centro era il concetto di libertà, e lo stile classico si realizzava compiutamente in quelle arti il cui principio formale è costituito solo dall’uomo: nella tragedia e nell’arte plastica. Il naturalismo è sempre una fase tarda nel processo di reificazione, e intorno al 1900, prima di spezzare i loro principî formali, che risalivano al Medioevo, sia il romanzo che la pittura erano naturalistici. Il dramma, facendosi naturalistico, si accostava al romanzo; la sua scena era un quadro di genere. La categoria centrale del naturalismo è l’ambiente: l’insieme di tutto ciò che è estraneo all’uomo, e sotto il cui dominio finisce per cadere la soggettività stessa, svuotata dall’interno. L’esistenzialismo cerca di ritornare al classicismo spezzando il rapporto di dominio fra l’ambiente e l’uomo, e radicalizzando l’estraniazione. L’ambiente si trasforma nella situazione; l’uomo, non piú legato all’ambiente, è libero in una situazione che gli è estranea e che pure è specificamente sua. Ma libero non solo in senso privativo; poiché egli conferma la sua libertà – secondo l’imperativo esistenzialistico dell’engagement – solo risolvendosi alla situazione e fissandosi in essa. L’affinità fra esistenzialismo e classicismo si basa sulla restaurazione del concetto di libertà, ed è proprio questa restaurazione che sembra permettere all’esistenzialismo il salvataggio dello stile drammatico. E la drammaturgia esistenzialista si avvicina proprio ai tentativi di salvare il dramma dall’epicizzazione creando situazioni di angustia. Grazie a una singolare coincidenza fra i momenti formali di questi tentativi e le intenzioni tematiche del drammaturgo esistenzialista, la forma, vuota fino a quel momento, diventa, in questa associazione, espressione formale, e libera – cosí – dalla sua artificiosità la drammaturgia dell’angustia. Questa artificiosità dipendeva dal fatto che i personaggi erano trasferiti dal drammaturgo in una situazione di angustia antecedente all’opera, e dal carattere accidentale di tale situazione. In base alle sue premesse spirituali, l’esistenzialismo giunge proprio ad esigere, nel dramma, quel trasferimento e questa accidentalità. Poiché la sua tematica – l’estraneità essenziale della situazione e la perenne «deiezione» dell’uomo – può realizzarsi drammaticamente solo in un’azione caratterizzata da questi tratti comuni – secondo l’esistenzialismo – alla condizione umana. L’estraneità essenziale di ogni situazione deve trasformarsi nell’estraneità accidentale della situazione rappresentata. Ecco perché il drammaturgo esistenzialista mostra gli uomini non nel loro ambiente «abituale» (come il drammaturgo naturalista mostrava gli uomini nel loro milieu), ma li trasporta in un ambiente nuovo. Questo trasferimento, che ripete – per cosí dire – come esperimento la «deiezione» metafisica, fa apparire i fattori esistenziali, «i caratteri ontologici dell’esistenza» (Heidegger), straniati in esperienze specifiche e determinate delle dramatis personae. Questa idea fondamentale è alla base di quasi tutte le opere di J.-P. Sartre. Nella sua prima opera, Le mosche (1945 ), l’antica vicenda di Elettra è reinterpretata nel senso di un esperimento esistenzialista. Cresciuto lontano dalla patria, Oreste torna straniero nel luogo della sua nascita, come l’uomo – secondo l’insegnamento dell’esistenzialismo – viene al mondo come uno straniero, gli si «aggiunge». Per non essere piú uno straniero, Oreste giunto ad Argo deve confermare la sua libertà apriori, legandosi e rinunciando da uomo libero alla sua libertà. Egli vendica Agamennone e libera la città dalle Mosche-Erinni, diventando assassino e – come assassino – legando le Mosche a sé. Morti senza tomba (1946) ci presenta sei membri di un gruppo di resistenza durante l’arresto; Le mani sporche (1948) trasporta un giovane borghese nel partito comunista. Ma l’opera che presenta l’equilibrio piú perfetto fra trasferimento drammaturgico ed esistenzialistico e che meglio rivela la sostanziale affinità fra la drammaturgia dell’angustia e quella esistenzialistica, è A porte chiuse (1944). Già il titolo allude all’esperimento in uno spazio ermeticamente chiuso. Il luogo dell’azione è un «salotto stile secondo Impero» nell’inferno. Il fatto che un’opera profana si svolga all’inferno e lo descriva come un salotto si spiega solo col «metodo d’inversione», che G. Anders ha illustrato su opere di Esopo, Brecht e Kafka 13. In forma secolarizzata, Sartre vuol dire che la vita sociale è l’inferno; ma inverte la predicazione e ci mostra l’inferno come «un salotto stile Impero», dove il protagonista, poco prima che cali il sipario, pronuncia la battuta-chiave «L’enfer, c’est les autres» 14. Mercè questa inversione una categoria esistenziale divenuta problematica, quella per cui l’uomo è un uomo fra gli uomini, e che sola fonda la vita sociale e la possibilità di un salotto, viene «straniata» e sperimentata come qualcosa di nuovo nella situazione «trascendentale» dell’inferno. Formalmente ciò tocca anche la crisi del dramma. Quando la socialità dell’uomo come categoria esistenziale diventa problematica, è messo in discussione anche il principio formale drammatico, il rapporto intersoggettivo. Ma l’inversione è anche la salvezza dello stile drammatico. Il rapporto intersoggettivo, tematicamente in crisi, non è problematico formalmente, grazie all’angustia del «salotto» chiuso. La differenza sostanziale rispetto alla restante drammaturgia dell’angustia consiste in ciò, che qui l’inferno non è un apparato meramente formale per rendere possibile il dramma. Al contrario, mercè la tecnica dell’inversione, si manifesta in esso l’essenza recondita di una forma sociale, che altrimenti distrugge la possibilità del dramma. Ma il trasferimento di una situazione «trascendentale» non significa solo il distacco dall’esistenza umana come tale; esso permette anche uno sguardo retrospettivo alla propria esistenza nella sua particolarità. A porte chiuse continua quindi la tradizione del «dramma analitico», ma senza quelli che abbiamo visto essere i difetti di Ibsen. Poiché il fatto di sedere a giudici del proprio passato non ha qui bisogno di essere motivato con elementi esterni, come l’arrivo di un membro della famiglia, ma è già implicito nel luogo in cui si svolge l’azione. E lo sguardo retrospettivo non può piú definirsi epico: poiché il passato è, per i morti, un eterno presente. In ciò A porte chiuse si ricollega a un’altra tradizione, che è stata forse fondata da Il folle e la morte di Hofmannsthal. L’oggettivarsi della propria vita trovava la sua espressione adeguata in questo sguardo retrospettivo, reso possibile dalla morte. L’opera di Hofmannsthal rappresenta l’elemento della riflessione ostile alla vita, del «senso troppo vigile», proprio in quanto la vita riflessa diventa a sua volta – alle soglie della morte – oggetto di riflessione (peraltro lirica) 15. Questo mito si aggira come un fantasma, sotto varie forme, in tutta la letteratura del ventesimo secolo: dalla poesia piú sublime al teatro di boulevard. Nel suo dramma La sconosciuta di Arras (1935) Salacrou fa rivivere a un suicida «trentacinque anni in una frazione di secondo», recitati dai personaggi che hanno deciso il corso della sua vita. E nel manifesto espressionista di T. Däubler, Il nuovo punto di vista (1916), c’è questa frase: «La voce del popolo dice: chi è impiccato, rivive all’ultimo istante tutta la sua vita. Questo non può essere che espressionismo!» Cfr. cap. II, § III . Cfr. E. STAIGER, Der Schwierige, in Meisterwerke deutscher Sprache, Zürich 1943. 3 LUKÁCS , Zur Soziologie des modernen Dramas cit., p. 681. 4 Cfr. cap. II, § III . 5 STRINDBERG , Der Einakter, in Elf Einakter, München 1918, p. 340. 6 SCHELLING , Philosophische Briefe über Dogmatismus und Kriticismus, lettera decima, in Philosophische Schriften, vol. I, Landshut 1809. 7 STRINDBERG , Der Einakter cit., p. 341. 8 HEBBEL , prefazione alla Maria Maddalena, in Sämtliche Werke, R. M. Werner, vol. XI, Berlin 1904. 9 LORCA , La casa di Bernarda Alba, in id., Teatro, Einaudi, Torino 1959, p. 551. 10 Ibid., p. 411. 11 R. KASSNER, Hebbel, in Motive, Berlin s. d., p. 185. (Anche in Essays, Leipzig 1923). 12 KASSNER , Hebbel cit., p. 186. 13 G. ANDERS, Kafka, Pro und Contra, München 1951. 14 SARTRE , Huis clos, in Théâtre, Paris 1947, p. 167. 15 HOFMANNSTHAL , Der Tor und der Tod, in Gedichte und lyrische Dramen, Stockholm 1946, p. 272. 1 2 IV. Tentativi di soluzione X. La prima importante corrente drammatica del nuovo secolo, e a tutt’oggi la sola a cui abbia aderito un’intera generazione, non trovò da sé la propria risposta a quella crisi del dramma da cui nasceva, ma l’attinse dal grande precursore che, negli ultimi anni del secolo scorso, piú di ogni altro si era allontanato dal dramma. Nella sua forma, la drammaturgia dell’ESPRESSIONISMO tedesco (fra il 1910 e il 1925 circa) deve molto alla tecnica dello «Stationendrama» di Strindberg. Dove colpisce il fatto che abbia potuto assurgere a modello proprio l’opera di un poeta che aveva fatto – come nessun altro prima di lui – un uso per cosí dire privato della scena, disseminandola di frammenti tratti dalla storia della propria vita. Ma non solo Strindberg supera – in senso universale – la limitazione al proprio io, conferendole la sua forma adeguata, quella cioè del «dramma a tappe». Il momento dell’anonimità, della ripetibilità, il momento – in certo qual modo – formale, è già implicito nel suo autoritratto, nell’immagine del singolo. Di ciò testimonia – fra l’altro – il suo nome in Verso Damasco: lo Sconosciuto. In questo nome Strindberg, l’autore, coincide con «ognuno», esso è insieme piú personale e impersonale, piú univoco e polivalente di quanto potrebbe esserlo un nome proprio fittizio. Ma ciò ha a che fare con la dialettica dell’individuazione come è esposta nei Minima moralia di T. W. Adorno. «Per quanto reale possa essere l’individuo, – vi si dice, – nel suo rapporto con altri, concepito come assoluto è una pura astrazione» 1. L’io «diventa tanto piú ricco quanto piú liberamente si sviluppa nella società e la riflette, mentre la sua definizione e cristallizzazione, che lo ipostatizza ad origine, non fa che limitarlo, ridurlo e impoverirlo» 2. Ciò che, pur nel suo isolamento, caratterizza come individuo lo Sconosciuto della trilogia Verso Damasco, sono i residui traumatici della sua socialità passata, e l’ultima opera di Strindberg, La strada maestra, conferma 3 che – limitandosi al soggetto – la possibilità di un’espressione soggettiva, ossia originaria, non che determinarsi è addirittura soppressa. L’espressionismo assume la tecnica a stazioni di Strindberg come forma drammatica del singolo, di cui cerca di rappresentare, anziché le azioni interpersonali, il cammino attraverso un mondo che gli è divenuto estraneo. Abbiamo già parlato a lungo della struttura formale dello «Stationendrama», della sua epicità, che riflette l’opposizione fra l’io isolato e il mondo che gli è divenuto estraneo. Dobbiamo ancora accennare alle varie forme dell’isolamento, e al modo in cui il vuoto dell’io isolato si traduce nella visione e nello stile dell’espressionismo. Lo «Sconosciuto» di Strindberg torna, nelle opere espressionistiche, nelle vesti de Il figlio (Hasenclever), Il giovane (Johst), Il mendicante (Sorge); la sua via Verso Damasco diventa La trasformazione (Toller), la Strada rossa (Csokor), il periodo Dall’alba a mezzanotte (Kaiser). Ciò che differenzia l’uno dall’altro questi «drammi a tappe» non è certo l’individualità dei loro protagonisti. A caratterizzarli è piuttosto la sfera particolare in cui introducono il singolo inteso formalmente: il mondo dell’autorità paterna e quello opposto, senza principî e senza inibizioni, nel Figlio di Hasenclever; il mondo della guerra ne La trasformazione di Toller; il mondo della metropoli nel Mendicante di Sorge, in Dall’alba a mezzanotte di Kaiser, e in Tamburi nella notte di Brecht. Paradossalmente la «drammaturgia dell’io» dell’espressionismo non culmina nella raffigurazione dell’uomo isolato, ma nella rivelazione spietata della metropoli e dei suoi luoghi di divertimento. Dove sembra rivelarsi un tratto essenziale di tutta l’arte espressionistica. Poiché il suo limitarsi al soggetto conduce allo svuotamento del medesimo, ad essa – come linguaggio dell’estremo soggettivismo – è tolta la possibilità di dire qualcosa di essenziale sul soggetto stesso. E viceversa il vuoto formale dell’io precipita nel principio stilistico dell’espressionismo, nella «deformazione soggettiva» dell’oggettività. Perciò l’espressionismo tedesco ha raggiunto i suoi risultati migliori, e probabilmente imperituri, nelle arti figurative, e soprattutto nel disegno (si pensi agli artisti del Brücke di Dresda), mentre la sua lirica soggettiva, dove il singolo cercava di superare urlando il senso del proprio vuoto, è stata presto e giustamente dimenticata. (E la grossa eccezione, in realtà, non è tale, perché nelle poesie di Trakl sono immagini a trasformarsi in parole). Questa situazione si riflette all’interno delle opere drammatiche: la tecnica a stazioni fissa bensí in modo formalmente valido l’isolamento dell’uomo, ma ad espressione tematica non giunge, in essa, l’io isolato, ma il mondo estraniato a cui l’io si contrappone. Solo nell’autoestraniazione, per cui viene a coincidere con la oggettività estraniata, il soggetto trova modo di esprimere se stesso 4. Certo, nella drammaturgia espressionistica, l’uomo si riduce per varie ragioni al singolo. Essa non si limita alla rappresentazione autobiografica o critica di un isolamento psichico-sociale, come avviene nel Figlio di Hasenclever, o nei «drammi del reduce» di Toller (Lo sciancato) e di Brecht (Tamburi nella notte). Anzi, l’isolamento appare anche nei programmi, come nel manifesto di Georg Kaiser per «il rinnovamento dell’uomo». «La verità piú profonda la trova sempre un uomo solo», si dice in posizione di rilievo nel manifesto di Kaiser; e i suoi «drammi a tappe» guidano un uomo solo «rinnovato» attraverso un mondo quasi sempre incomprensivo (Dall’alba a mezzanotte). L’affrancamento del singolo individuo dal rapporto intersoggettivo corrisponde, infine, anche alla massima aspirazione dell’espressionismo: intendere e rappresentare l’uomo in base a un’«intuizione essenziale». Cosí l’isolamento diventa metodo. In uno dei principali scritti teorici dell’espressionismo si dice: Ciascun uomo non è piú individuo, non è piú legato al dovere, alla morale, alla società, alla famiglia. Egli diventa, in quest’arte, ciò che vi è di piú alto e piú misero insieme: egli diventa uomo. Ecco il nuovo, l’inaudito rispetto alle epoche precedenti. Qui non si ripensa piú, finalmente, la concezione borghese del mondo. Qui non ci sono piú rapporti che velino l’immagine dell’uomo. Non piú vicende matrimoniali, tragedie determinate dal contrasto fra convenzione e bisogno di libertà, drammi d’ambiente, capi severi, ufficiali amanti della bella vita, marionette che, appese ai fili della psicologia, recitano, ridono, soffrono secondo le leggi, le concezioni, gli errori e i vizi di questa vita sociale fatta e costruita dagli uomini 5. L’inevitabile astrattezza e vacuità del singolo, che già si avverte nei «drammi a tappe» di Strindberg, trova qui una giustificazione e infrastruttura teoretica: l’uomo è consapevolmente trattato, dall’espressionismo, come una entità astratta. E rinunciando orgogliosamente ai rapporti intersoggettivi, «ai nessi che velano l’immagine dell’uomo», l’espressionismo rifiuta la forma drammatica, che del resto si rifiuta da sé al drammaturgo moderno, proprio perché quei nessi si sono spezzati. XI. Nonostante le contraddizioni interne, che essa cela necessariamente come «dramma sociale», l’opera di Hauptmann I tessitori resta per decenni, con poche altre opere del naturalismo (come L’albergo dei poveri di Gor´kij), al vertice della drammaturgia che si propone di rappresentare le condizioni sociali. Poiché il verdetto di condanna pronunciato dalla tematica sociale sulla forma drammatica, che è già implicito ne I tessitori, è eseguito negli anni ’20, prima che nell’ambito della produzione drammatica, in quello piú effimero della regia. Ciò avviene nell’attività di ERWIN PISCATOR, dal cui libro Il teatro politico (1929), ricco di spunti e come documento e come programma, togliamo alcuni passi che rientrano nel quadro della nostra ricerca. Questo accenno a fatti della storia del palcoscenico è giustificato dall’influenza che le messe in scena di Piscator hanno esercitato sugli autori drammatici dei decenni successivi, come anche dalla genesi negativa dei suoi sforzi dalla produzione drammatica del suo tempo: «Forse tutto il mio modo di fare il teatro è stato determinato unicamente da questa mancanza di una produzione drammatica. Certo la mia regia non sarebbe mai stata cosí invadente, se avessi trovato pronta una produzione drammatica adeguata» 6. Piscator ha indicato nel naturalismo una delle radici del «teatro politico» 7, e la sua prima messa in scena de L’albergo dei poveri di Gor´kij, che prende le mosse da problemi analoghi a quelli di Prima dell’alba e dei Tessitori, presenta già importanti elementi della «rivista politica», in cui – piú tardi – egli avrebbe risolto il dramma. In questa sua opera naturalistica giovanile Gor´kij aveva dato un quadro d’ambiente, che era bensí tipizzato, ma comunque strettamente delimitato secondo le condizioni di allora. Nel 1925 non potevo piú limitare le mie idee alle misure di una stanzetta in cui vivevano dieci creature infelici, ma dovevo necessariamente sconfinare negli slums di una moderna metropoli. Era in discussione la miseria del proletariato come concetto. Per cogliere questo concetto bisognava che ampliassi i limiti del dramma […] Proprio i due momenti in cui il dramma subí una rielaborazione in questo senso risultarono piú efficaci dal punto di vista teatrale: l’inizio, coi rumori di una massa che russa e geme e riempie tutta la scena, il risveglio di una grande città, i campanelli dei tram, finché il soffitto si abbassa, e il mondo circostante viene escluso dalla stanza e dalla scena; e il tumulto, non solo nel cortile, una piccola rissa di carattere privato, ma la ribellione di un quartiere intero contro la polizia, l’insurrezione di una massa. Cosí, in tutto il lavoro, la mia tendenza è stata quella di far assurgere il dolore del singolo alla generalità, alla tipicità del tempo presente, sconfinando ogni volta, quand’era possibile (alzando e abbassando il soffitto), dalla piccola stanzetta nel mondo 8. Queste modifiche, indubbiamente adeguate alle intenzioni della drammaturgia sociale, toccano la forma drammatica nella sua essenza: sono rivolte contro la sua assolutezza. La scena attuale, che per il dramma costituisce un mondo a sé, un microcosmo che si sostituisce al macrocosmo, diventa qui una «sezione», la cui rappresentazione ha luogo secondo il principio della parte per il tutto. La relazione che esiste fra la parte e il tutto, il valore esemplificativo del fatto di limitarsi a una stanza e a una decina di persone, diventa esplicito nell’abbassarsi del soffitto all’inizio. In tal modo la scena drammatica è messa in rapporto col mondo che la circonda e che essa rappresenta, e insieme è inserita in un procedimento dimostrativo e relativizzata a un io epico. Piscator corregge cosí la deformazione operata inevitabilmente dal «dramma sociale» col suo contrasto di oggettività alienata sul piano tematico e attualità intersoggettiva nel postulato formale. Il processo storico di reificazione e «socializzazione», che è invertito e annullato dalla trasposizione drammatica in eventi intersoggettivi 9, viene a ricevere forma adeguata mercè la nuova inversione operata da Piscator sul piano della regia. È questo l’intento e la funzione di tutte le innovazioni sceniche di Piscator, che sono alla base della sua fama. La dimostrazione convincente può costruirsi solo su una conquista piena e scientifica dell’argomento; e vi posso giungere solo se – per dirla nel gergo teatrale – mi riesce di superare il taglio personale di una scena, il carattere esclusivamente individuale e casuale dei personaggi e del loro destino. E piú precisamente creando una connessione fra l’azione scenica e le grandi forze che agiscono nella storia. Non è un caso se il protagonista di ogni lavoro diventa l’argomento, la materia stessa. Essa fornisce la necessità, la legge scientifica della vita, da cui soltanto il destino privato attinge un significato superiore 10. L’uomo sulla scena ha per noi il valore di una funzione sociale. Al centro del nostro interesse non stanno i rapporti dell’uomo con se stesso, né i suoi rapporti con Dio, ma i suoi rapporti con la società. Dove egli si presenta, si presenta insieme con lui anche la sua classe o il suo ceto. Quando entra in un conflitto, morale, spirituale o istintivo, entra in conflitto con la società. […] Un’epoca in cui sono all’ordine del giorno i rapporti interni della collettività, la revisione di tutti i valori umani, la riforma di tutti i rapporti sociali, non può vedere l’uomo altro che nella sua posizione di fronte alla società e di fronte ai problemi sociali della sua epoca, cioè l’uomo come essere politico. E se questa eccessiva importanza dell’elemento politico – che non si determina per colpa nostra, ma per la disarmonia delle attuali condizioni sociali che rendono politica ogni manifestazione della vita – può condurre, in un certo senso, a una distorsione dell’immagine dell’uomo ideale, questa immagine avrà almeno il vantaggio di corrispondere alla realtà 11. Che cosa sono le forze del destino della nostra epoca? […] L’economia e la politica, e come risultato di queste due forze, la società, l’elemento sociale […] Se perciò considero come problema centrale di ogni azione scenica la trasposizione dei fatti privati in un quadro storico, questo può significare una cosa sola, e cioè la loro trasposizione in un quadro politico, economico, sociale. Solo cosí possiamo mettere il teatro in connessione con la nostra vita 12. La formula fondamentale degli sforzi di Piscator (sollevare l’accadere scenico a un significato storico, o – formalmente – relativizzare la scena attuale all’oggettività inattualizzata) distrugge l’assolutezza della forma drammatica e dà vita a un teatro epico. Uno dei mezzi «che rivelano l’influenza reciproca fra i grandi fattori umano-superumani, è un individuo o una classe» 13, e il cui impiego rappresentò l’epicizzazione piú evidente e importante di Piscator, è il cinema. Lo sviluppo del cinematografo dal principio del secolo fino agli anni ’20 è segnato da tre scoperte: 1) la mobilità della macchina da presa, cioè il variare dell’inquadratura; 2) il primo piano, e 3) il montaggio, la composizione delle immagini. Come ha dimostrato B. Balázs nel suo fondamentale libro L’uomo visibile (1924), queste tre innovazioni permisero al cinema di acquisire possibilità espressive proprie, e di diventare un genere artistico a sé. La scoperta del cinema, attorno al 1900, aveva avuto dapprima un carattere puramente tecnico; il cinema era un espediente tecnico per portare sullo schermo il teatro. Come riproduzione meccanica di una rappresentazione teatrale, si poteva considerare drammatico. Con le tre innovazioni artistiche cui abbiamo accennato, che inseriscono produttivamente la macchina da presa nel quadro, sfruttano le modificazioni del rapporto macchina da presa-oggetto per la formazione dell’immagine, e fanno determinare la successione delle immagini non solo dall’accadere reale, ma anche – grazie al montaggio – dal principio compositivo del regista, il cinema cessa di essere del teatro fotografato, e diventa una narrazione indipendente per immagini. Esso non è piú la meccanica riproduzione di un dramma, ma una forma d’arte epica autonoma. Questo carattere epico del cinematografo, che si fonda sulla contrapposizione di macchina da presa e oggetto, sulla rappresentazione soggettiva dell’oggettività come oggettività, consentí a Piscator di comprendere nella vicenda scenica ciò che si sottrae essenzialmente all’attualizzazione drammatica: la realtà estraniata e oggettiva delle strutture «sociali, politiche, economiche». Esso gli permise di «inserire l’accadere scenico in un quadro storico». In questa funzione Piscator usò il cinema nell’allestimento, ad esempio, di Oplà, noi viviamo! (1927) di Toller. Anche qui si trattava di «dedurre il destino del singolo da fattori storici universali, mettere drammaticamente in rapporto il destino di Thomas con la guerra e la rivoluzione del 1918». L’idea fondamentale del dramma era «l’urto col mondo di oggi dell’uomo che ha vissuto isolato durante otto anni». «Bisogna mostrare questi nove anni, con tutti i loro orrori e follie, e anche nei loro particolari insignificanti. Bisogna dare un’idea della mostruosità di questo spazio di tempo. Solo spalancando davanti agli occhi dello spettatore questo abisso, l’urto raggiunge la violenza voluta. Nessun altro mezzo che il film potrebbe passare in rassegna otto anni interminabili nello spazio di sette minuti. Solo per questo “inserto cinematografico” fu necessaria una sceneggiatura che comprendeva circa quattrocento dati di politica, economia, cultura, società, sport, moda, ecc.» «Una piccola squadra […] era continuamente […] alla ricerca di brani di pellicole dal vero girate negli ultimi dieci anni» 14. Ma l’inclusione del film nella regia teatrale conferisce al dramma politico-sociale un carattere epico non solo grazie all’epicità immanente del cinema. Agisce in senso epicizzante (poiché relativizza) anche l’accostamento di ciò che avviene sulla scena e di ciò che avviene sullo schermo. L’azione scenica cessa di fondare in esclusiva l’unità globale dell’opera. Questa unità non sorge piú dialetticamente dai fatti intersoggettivi, ma risulta dal montaggio di scene drammatiche, notizie filmate, cori lontani, proiezioni di calendari, rimandi di vario genere, ecc. L’interna relativizzazione delle varie componenti è sottolineata spazialmente dal «palcoscenico simultaneo», che Piscator usa in varie forme. Anche il tempo della rivista montata, che cosí si determina, non è piú quella successione assoluta di presenti attuali che è propria del dramma. Il cinema lascia nel passato gli avvenimenti passati che presenta documentariamente. Esso può anche anticipare il futuro nell’ambito della vicenda scenica, e sciogliere la tensione essenzialmente drammatica verso il futuro in un accostamento di carattere epico. In Rasputin di A. Tolstoj, ad esempio, il film, mostrando anzitempo sullo schermo la fucilazione della famiglia dello zar, «metteva a confronto (davanti allo spettatore) i personaggi col loro futuro destino» 15. Anche i cori e i proclami, che si rivolgono direttamente al pubblico, appartengono al decorso reale del tempo. Ma dietro tutti questi elementi di rivista si cela ingigantito l’io epico che li tiene insieme e che li presenta al pubblico col gesto dell’oratore politico: Erwin Piscator in persona. Che egli stesso si vedesse e presentasse cosí, è provato, fra l’altro da uno scenario divenuto celebre: sul gigantesco fondale della scena a tre piani sovrapposti, appare il suo profilo monumentale 16. XII . Al pari di Piscator, anche BERT BRECHT è un erede del naturalismo. Anche i suoi tentativi si innestano dove la contraddizione fra tematica sociale e forma drammatica risulta evidente, cioè nel «dramma sociale» dei naturalisti. Ma non è tanto il naturalismo, quanto invece il suo interno antagonista, cui l’impero della legge formale drammatica consentiva di manifestarsi solo in veste tematicamente velata, che Piscator e Brecht prendono sotto la loro protezione e portano al successo a spese della forma drammatica. Ma mentre il regista Piscator fa emergere, dalla struttura antitetica del «dramma sociale», il momento della «rivista», facendone un nuovo principio formale, il drammaturgo Brecht va piú a fondo: ciò che piú gli preme è il trionfo del principio scientifico, che appartiene bensí essenzialmente al naturalismo – come provano i romanzi di Zola –, ma che nel dramma naturalistico poteva manifestarsi solo accidentalmente, ad esempio in una delle «dramatis personae» (Loth in Prima dell’alba). Brecht trasferisce dall’occasionalità della tematica all’istituzionalità della forma il carattere oggettivo con cui si presentano, al sociologo forestiero, i minatori della Slesia di Hauptmann. Nel suo Breviario di estetica teatrale Brecht chiede che l’occhio scientifico, cui la natura ha dovuto sottomettersi, si rivolga agli uomini che hanno soggiogato la natura e la cui vita è ora determinata dal suo sfruttamento. Il teatro deve rappresentare i rapporti intersoggettivi nell’epoca del dominio della natura, o – piú precisamente – la «divisione» degli uomini ad opera di questa «gigantesca impresa comune» 17. E Brecht riconosce che questo implica la rinuncia alla forma drammatica. Il fatto che i rapporti intersoggettivi diventino problematici rende problematico il dramma stesso, proprio perché la forma drammatica concepisce come non problematici quei rapporti. Di qui il tentativo di Brecht di opporre, alla drammaturgia «aristotelica», sia dal punto di vista teorico che da quello pratico, una drammaturgia epica, «non aristotelica». Nel suo Saggio sull’opera «Ascesa e rovina della città di Mahagonny», pubblicato nel 1931, Brecht enumera i seguenti «spostamenti d’accento dal teatro drammatico a quello epico» 18. FORMA DRAMMATICA DEL TEATRO attiva involge lo spettatore in un’azione scenica, e ne esaurisce l’attività gli consente dei sentimenti gli procura emozioni lo spettatore viene immesso in un’azione viene sottoposto a suggestioni le sensazioni vengono conservate l’uomo si presuppone noto l’uomo immutabile tensione riguardo all’esito una scena serve l’altra corso lineare degli accadimenti natura non facit saltus il mondo com’è ciò che l’uomo deve fare i suoi impulsi il pensiero determina l’esistenza FORMA EPICA DEL TEATRO narrativa fa dello spettatore un osservatore, però ne stimola l’attività gli strappa delle decisioni gli procura nozioni viene posto di fronte a un’azione viene sottoposto ad argomenti vengono spinte fino alla consapevolezza l’uomo è oggetto d’indagine l’uomo mutabile e modificatore tensione riguardo all’andamento ogni scena sta per sé a curve facit saltus il mondo come diviene ciò che l’uomo non può non fare i suoi motivi l’esistenza sociale determina il pensiero Questi mutamenti hanno in comune la sostituzione della fusione essenzialmente drammatica di soggetto e oggetto, con la loro contrapposizione, che è essenzialmente epica. L’oggettività scientifica diventa cosí, in arte, oggettività epica, e pervade tutti gli elementi dell’opera teatrale: la sua struttura e il linguaggio come la sua messinscena. Ciò che si svolge sulla scena non riempie piú per intero la rappresentazione, come avveniva nel dramma, dove il momento della rappresentazione era per ciò stesso destinato a soccombere. (Storicamente ciò si manifesta nella scomparsa del prologo nel Rinascimento). La vicenda è ora oggetto di narrazione dal palcoscenico, il quale si comporta, nei suoi riguardi, come un narratore nei riguardi del suo oggetto; è solo dalla contrapposizione dei due che scaturisce la totalità dell’opera. E lo spettatore non è escluso dalla vicenda, ma neppure viene trascinato in essa per suggestione («illusione») fino al punto di cessare di essere spettatore; ma viene posto di fronte alla vicenda in qualità di spettatore, ed essa gli viene presentata come materia di riflessione. Poiché l’azione non costituisce piú di per sé tutta l’opera, non può piú convertire il tempo della rappresentazione in una successione assoluta di presenti. Il presente della rappresentazione è in certo qual modo piú ampio di quello dell’azione; essa perciò può volgere lo sguardo non solo all’esito, ma anche allo svolgimento e a ciò che è già stato. All’orientamento drammatico verso il fine si sostituisce qui la libertà epica di indugiare e di riflettere. Poiché l’uomo protagonista dell’azione non è piú che l’oggetto del teatro, si può andare al di là della sua persona e indagare sui motivi che lo spingono ad agire. Secondo Hegel 19, il dramma mostra solo ciò che, nell’azione del suo eroe, si oggettivizza della sua soggettività, e ciò che si soggettivizza dell’oggettività. Nel teatro epico, invece, conforme alla sua intenzione scientifico-sociologica, si riflette sulla «base» sociale delle azioni, nella sua oggettività ed estraniazione. Brecht come autore e regista ha realizzato praticamente questa teoria del teatro epico, con una dovizia di idee drammaturgiche e sceniche pressoché illimitata. Le trovate – originali o prese a prestito – hanno il compito di isolare ed estraniare in oggetti epico-scenici, e cioè «mostrati», dal movimento globale assoluto che caratterizza il dramma, gli elementi del dramma e della messa in scena trasmessi dalla tradizione e familiari al pubblico. Perciò Brecht le chiama «effetti di straniamento». Fra i tanti realizzati o contenuti come proposte nelle sue opere, nelle Osservazioni e nel Breviario di estetica teatrale, ne ricorderemo qui alcuni in via di esempio. L’opera scenica può essere estraniata nel suo complesso mediante il prologo, l’antefatto o la proiezione di titoli. Essendo esplicitamente presentata, non possiede piú l’assolutezza del dramma, e viene riferita al momento ora scoperto della «presentazione» come oggetto di questa. Le singole dramatis personae possono straniarsi tra sé presentandosi o parlando di sé in terza persona. All’inizio de La madre di Brecht (da Gor´kij), Pelagia Vlassova dice ad esempio queste parole: Quasi mi vergogno a mettere questa minestra davanti a mio figlio. Ma non posso piú aggiungerci neppure una mezza cucchiaiata di grasso. Proprio la settimana scorsa gli hanno diminuito la paga di un copeco all’ora, ed io, per quanto mi sforzi, non riesco piú a risparmiarlo in altro modo […]. Che cosa posso fare io, Pelagia Vlassova, donna di quarantadue anni, vedova di un operaio, madre di un operaio? 20. VLASSOVA Lo straniamento del personaggio è rafforzato dall’attore, che, nel teatro epico, non deve immedesimarsi totalmente col personaggio: «Egli deve limitarsi a mostrare il suo personaggio, o – per dir meglio – non deve limitarsi a viverlo soltanto. Ciò non significa che, avendo da raffigurare personaggi passionali, egli debba restare impassibile. Ma, in via di principio, i suoi sentimenti non dovrebbero essere quelli del suo personaggio: altrimenti anche lo spettatore identificherà per principio i propri sentimenti con quelli del personaggio» 21. Lo straniamento del personaggio può avvenire anche in quanto la sua immagine è riprodotta sulle quinte. O mediante la «descrizione soggettiva dei costumi»: Ora ne beviamo ancora uno poi non andiamo ancora a casa poi ne beviamo ancora uno poi facciamo una pausa. «Quelli che cantano cosí, – osserva Brecht, – sono dei moralisti soggettivi. Essi descrivono se stessi» 22. Il palcoscenico, che non è piú di per sé il mondo, ma lo copia e lo riproduce parzialmente, perde – con la sua assolutezza – anche la ribalta, che sembrava conferirgli una luce propria. L’illuminazione avviene ora per mezzo di riflettori posti in sala, fra gli spettatori, come a sottolineare che si vuol mostrar loro qualcosa. Lo scenario viene straniato, in quanto non simula piú un luogo reale, ma – come elemento autonomo del teatro epico – «cita, racconta, prepara e rammenta» 23. Oltre agli accenni al luogo in cui si svolge l’azione, la scena può anche avere uno schermo: i testi e le immagini documentarie mostrano allora – come in Piscator – le circostanze entro le quali si svolge l’azione. Ad ottenere lo straniamento della vicenda, che non ha piú la lineare univocità e necessità propria della vicenda drammatica, possono servire i testi proiettati ad intervalli sullo schermo, cori, cantori e addirittura le grida di «strilloni di giornali» in sala. Essi interrompono l’azione e la commentano. «Ad evitare che il pubblico sia indotto a gettarsi nella vicenda come ci si getterebbe in un fiume, per lasciarsi trascinare alla deriva, i singoli avvenimenti devono essere collegati in modo che i nodi dell’azione diano nell’occhio. Gli avvenimenti non devono succedersi inavvertitamente, bisogna invece che lo spettatore possa intervenire col suo giudizio tra le singole fasi dell’azione. (Se invece fosse opportuno rappresentare l’oscurità dei rapporti causali, bisognerebbe convenientemente straniare proprio questa condizione)» 24. E per lo straniamento degli spettatori, Brecht (seguendo in ciò i futuristi) propone che essi assistano allo spettacolo fumando. Mediante questi straniamenti la contrapposizione soggetto-oggetto che è all’origine del teatro epico – l’autoestraniazione dell’uomo, a cui il proprio essere sociale è divenuto oggettivo – precipita formalmente in tutti i piani dell’opera, e diventa cosí il suo principio formale assoluto. La forma drammatica si fonda sul rapporto interpersonale; la tematica del dramma è costituita dai conflitti che sorgono da quel rapporto. Qui invece il rapporto intersoggettivo nel suo insieme diventa tematico, ed è trasferito – per cosí dire – dalla non-problematicità di ciò che è forma alla problematicità del contenuto. E il nuovo principio formale consiste nel distacco epidittico dell’uomo da questa realtà problematica; la contrapposizione epica di soggetto e oggetto si presenta, nel teatro di Brecht, nella modalità scientifico-pedagogica. «Interpretare la vicenda e comunicarla al pubblico attraverso appropriati straniamenti» è – come egli ha scritto nel suo Breviario di estetica teatrale – «il compito precipuo del teatro» 25. XIII . Per rendere evidente anche scenicamente il vivere-l’uno-accanto-all’altro (senza conoscersi) degli uomini del suo tempo, già Strindberg aveva presentato sul palcoscenico la facciata di una casa. Ma nell’insieme formale della Sonata degli spettri la funzione di questa trovata era di carattere secondario, anzi antitetico: anche se proprio in ciò si rivela la contraddizione che sussiste ovunque, in quest’opera, fra il tema dell’isolamento e la forma drammatica. La casa d’affitto, coi suoi tanti luoghi d’azione, si limitava a svolgere le veci di un fondale, e la piazza antistante garantiva l’unità di luogo. E su questa scena all’aperto l’epicità della casa serrata perveniva a forma drammatica, attraverso la figura del direttore Hummel, che narra allo studente di passaggio – uno «straniero» 26 – le vicende degli abitanti della casa. Il processo epico, il fatto stesso di narrare, appariva cosí come azione drammatica. Due autori degli anni ’20 tentarono invece di rappresentare direttamente l’epicità di questo viverel’uno-accanto-all’altro, e di darle forma adeguata al di là del dramma: Georg Kaiser in Vicinanza (Nebeneinander, 1923) e FERDINAND BRUCKNER ne I criminali (Die Verbrecher, 1929). La seconda di queste opere è particolarmente vicina alla Sonata degli spettri. Anche Bruckner mette in scena lo spaccato di una casa a tre piani. Ma i tre piani costituiscono qui il palcoscenico; in Bruckner il sipario non si alza, come in Strindberg, su una piazza davanti alla casa, ma direttamente sui sette vani della casa divisi l’uno dall’altro. Si rinuncia cosí anche ai personaggi che dovevano mediare tematica epica e forma drammatica; il direttore Hummel, è, per cosí dire, revocato nella soggettività formale dell’opera, mentre lo studente è proiettato in avanti, nella platea, fra gli spettatori. La contrapposizione di questi due personaggi, che in Strindberg costituivano una situazione narrativa motivata all’interno della forma drammatica, diventa, in Bruckner, opposizione dell’io epico invisibile e dello spettatore, e cioè un nuovo principio formale. Anche il genere dell’azione subisce cosí un mutamento. La Sonata degli spettri, restando fedele alla forma drammatica, non poteva rappresentare la vita degli uomini l’uno-accanto-all’altro svolgendo parallelamente varie azioni. Solo nel primo atto la rappresentazione del loro isolamento era ancora possibile, perché essi non erano i protagonisti, ma solo l’oggetto del dialogo. Ma il secondo atto li riuniva nella «cena degli spettri» e accomunava i loro destini in un’unica azione drammatica. Diverso è il caso de I criminali di Bruckner. Al palcoscenico simultaneo corrisponde qui – nella dimensione temporale – lo svolgimento parallelo di cinque diverse azioni. È vero che anche tra esse esiste un nesso. Ma non quello che la forma drammatica esigerebbe, cioè la loro connessione concreta in una situazione, bensí il loro riferirsi, ciascuna per conto proprio, a uno stesso tema, quello del rapporto e dell’incongruenza fra giurisdizione e giustizia. I criminali non è solo un’opera teatrale sulla vita degli uomini uno-accanto-all’altro, ma anche e nello stesso tempo un’opera sulla problematicità della giustizia. L’identità dei due temi in Bruckner traspare da un colloquio nel secondo atto. Due giudici discutono sull’essenza del diritto: L’appartenenza reciproca degli uomini presuppone un diritto concordato. Ed io ho constatato con certezza manifestazioni di appartenenza solo dove questo diritto concordato è messo a soqquadro, dove, cioè, si parla di criminali. La forma negativa è quella della squallida, egocentrica convivenza, dello stare-a-vedere, del disinteresse. Questi sono i soli, veri delitti, poiché essi nascono da indolenza del cuore e pigrizia della mente: la piú perfetta negazione dei principî della vita e delle basi della società. Ma queste colpe non vengono punite. Le altre azioni, quelle opposte, sono espressioni della volontà di vivere, e già per ciò positive, ma in tutti i casi espliciti sono punite come crimini 27. IL PIÚ ANZIANO IL PIÚ GIOVANE L’inversione qui enunciata del rapporto tra comunione e isolamento, quanto a giustizia e ingiustizia, regola ed eccezione, validità e problematicità, tocca l’opera nel suo concetto formale ispiratore. La cornice formalmente non-problematica del dramma è il rapporto intersoggettivo. Da questa cornice escono, rendendosi colpevoli di isolamento, l’eroe della tragedia, che compie la sua missione, e il personaggio comico, in preda alla sua idea fissa. Nell’ambito della non-problematicità del rapporto intersoggettivo, la problematicità di un isolamento tematico-attuale appare quindi ai due estremi del dramma: la tragedia e la commedia. Diversamente nell’opera di Bruckner, che ha carattere epico. Qui la cornice non problematica è il vivere-uno-accanto-all’altro, l’isolamento. Alla forma drammatica, all’assolutezza del fatto intersoggettivo, si sostituisce quindi la rappresentazione epica, la relativizzazione di fronte all’io epico di ogni esistenza isolata. Ed entro questo ambito la comunicazione fra gli individui diventa tematica, apparendo ora come eccezione e come pervertita in criminalità nel mondo della «convivenza egocentrica». Ma il ricupero tematico dell’intersoggettività non può riportare in alcun modo l’opera epica al dramma: questo, che costituisce un oggetto problematico, deve piuttosto figurare – all’interno della forma epica, che implica già un primo rapporto soggetto-oggetto – come oggetto in un secondo rapporto (questa volta tematico). Questa esigenza è soddisfatta dalla parte centrale del secondo atto: gli eventi del primo atto vi appaiono, oggettivati – ora – anche tematicamente, come materia di indagine giudiziaria. A questa concentrazione tematica corrisponde quella formale. Il primo atto espone, con libertà di accostamenti e di successioni, l’avvio al delitto di alcuni abitanti della casa: una vecchia signora caduta in miseria vende i gioielli avuti in custodia dal cognato, per poter allevare i propri figli. Una ragazza vuole uccidersi assieme al figlio neonato, ma retrocede impaurita davanti alla morte, si salva e diventa cosí un’infanticida. Una cuoca uccide la rivale e fa cadere i sospetti sul suo amante per vendicarsi anche di lui. Un giovane, perché non si sappia che è un omosessuale, depone il falso in tribunale a favore di un ricattatore. Un giovane impiegato sottrae il denaro dalla cassa per poter viaggiare all’estero con la madre di un amico. Tutto ciò è descritto nel primo atto, non mediante un ingranaggio drammatico che colleghi fra loro le varie storie, ma mediante un accostamento senza nessi delle poche scene culminanti di ogni singola vicenda, che rimandano al passato e all’avvenire, e schizzano – piú che rappresentare – i fatti veri e propri. Le scene non si generano da sé, come nel dramma, in una successione compatta e coerente, ma sono opera dell’io epico, che dirige la luce del suo riflettore alternativamente sull’uno o sull’altro vano della casa d’affitto. Lo spettatore coglie solo frammenti di dialogo; quando ne ha inteso il senso ed è in grado di immaginare da sé ciò che avverrà, il riflettore si sposta ed illumina un’altra scena. Cosí tutto è relativizzato epicamente e inserito in un atto narrativo. La singola scena non regna sola come nel dramma: la luce può lasciarla ad ogni istante e ripiombarla nel buio. Dove si esprime anche il fatto che la realtà non tende qui di per sé all’evidenza drammatica, ma deve essere invece dischiusa a forza in un procedimento epico. Certo quest’epica, non lasciando che il suo io prenda la parola come narratore, non può rinunciare al dialogo, ma fa sí che il dialogo si neghi da sé. Poiché il dialogo, infatti, non deve piú rispondere del progresso dell’opera (che è garantito dall’io epico), esso può sbriciolarsi in monologhi cechoviani o rientrare addirittura nel silenzio, rinunciando quindi alla dialogicità come tale. Alla varietà del primo atto si contrappone l’unità del secondo. Anche se resta il palcoscenico simultaneo e se ai tre piani della casa d’affitto si sostituiscono quelli del tribunale penale, i singoli luoghi ed azioni sono fra loro in rapporto affatto diverso. La loro simultaneità è potenziata dalla loro identità, che appare evidente davanti al tribunale. Le varie scene non ci mostrano piú aspetti diversi della vita di una grande città, ma l’uniformità meccanica del procedimento giudiziario. Ne deriva, di conseguenza, un cambiamento formale. I cambiamenti di scena non sono piú lasciati all’arbitrio del narratore epico, che si rivolge ora a questo, ora a quel gruppo di personaggi. Essenziale è, ora, che i frammenti dei vari processi si fondano nel quadro unitario del tribunale. E ciò avviene sopprimendo i passaggi mediante il principio della pseudoidentità, come avviene nel gioco del domino. Un processo si interrompe alle parole del presidente: «Il fatto è evidente», la scena si oscura, si illumina un’altra aula del tribunale e lo spettatore è introdotto in un secondo processo con le stesse parole del nuovo presidente: «Il fatto è evidente» 28. Con la stessa funzione sono impiegate in seguito le espressioni: «Chiedo al teste» 29, «Conoscete l’imputato?» 30, «La parola al Pubblico Ministero» 31, «Il concetto di punizione perderebbe ogni valore…» 32, «Qual è l’essenza del diritto?» 33, «In nome del popolo…» 34. Con queste frasi la scena trascende ogni volta la propria chiusa compiutezza drammatica: essa cita il mondo reale della legge, e trapassa – con questa citazione – in un’altra scena. Fra le due scene che si succedono non c’è un nesso organico, ma la continuità è simulata dalla connessione delle scene in funzione di un terzo a cui entrambe partecipano: il concetto di tribunale. Ma questo è un montaggio. All’importanza del montaggio nell’evoluzione formale si può solo accennare qui, poiché esso non rientra nella patologia drammatica, ma in quella dell’epica e della pittura. Il caso del monologue intérieur 35, cui abbiamo accennato prima, mostra come nel ventesimo secolo l’epicizzazione della drammaturgia non consolidi la situazione dell’epica, e come, anche in seno a quest’ultima, si formino forze antitetiche. Non solo sono contrarie al ruolo tradizionale del narratore l’interiorizzazione e il suo corollario metodico: la psicologizzazione; ma lo sono anche l’estraniazione del mondo esterno e il suo correlato: la fenomenologia 36. E il montaggio è quella forma d’arte epica che rinnega il narratore. Mentre la narrazione eterna l’atto del narratore, e non spezza il legame con la sua fonte soggettiva (il narratore epico stesso), il montaggio si irrigidisce nell’istante in cui sorge e dà l’impressione di formare un tutto che nasce da se stesso come il dramma. Al narratore esso rinvia solo come al proprio marchio di fabbrica: il montaggio è il prodotto industriale dell’epica. XIV. Da alcuni decenni i Sei personaggi in cerca d’autore rappresentano per molti la quintessenza del dramma moderno. Ma a questa importanza storica dell’opera non corrisponde il motivo della sua origine, come è descritto da PIRANDELLO nella prefazione: un infortunio sul lavoro della sua immaginazione. Il problema è questo: perché i personaggi sono «in cerca d’autore», perché Pirandello non è divenuto il loro autore. Per tutta risposta il drammaturgo ci dice che un giorno la fantasia gli portò a casa sei personaggi. Ma egli li respinse, poiché non vedeva nel loro fato un «significato piú alto», in grado di giustificarne la rappresentazione. Solo l’insistenza con cui chiedevano di vivere fece scoprire a Pirandello questo «significato piú alto», ma non era piú quello che essi intendevano. Al dramma del loro passato egli sostituí quello della loro nuova avventura: la ricerca di un altro autore. Nulla autorizza la critica a mettere in dubbio questa spiegazione, ma nulla le può impedire di affiancargliene un’altra, tratta dall’opera stessa, e che ne sottrae la genesi al caso per conferirle un valore storico. Poco dopo la comparsa dei sei personaggi (sulla scena si stava provando un’altra opera), il loro portavoce parla di quel rifiuto da parte del drammaturgo e completa la motivazione data nella prefazione, con le seguenti parole: «L’autore che ci creò, vivi, non volle poi, o non poté materialmente, metterci al mondo dell’arte» 37. L’idea che sia piú questione di potere che di volere – o, formulando la cosa dal punto di vista oggettivo, che sia questione di possibilità – è confermata successivamente dall’intera opera. Poiché il tentativo dei sei personaggi di dare al loro dramma realtà teatrale, con l’aiuto della compagnia che sta provando, non solo consente di individuare l’opera che Pirandello si sarebbe rifiutato di scrivere, ma permette insieme di scorgere i motivi che la condannavano a priori al fallimento. Si tratta di un dramma analitico del genere delle tarde opere di Ibsen o dell’Enrico IV dello stesso Pirandello, che è quasi contemporaneo ai Sei personaggi. Il primo atto si svolge in casa della mezzana, Madama Pace, dove un visitatore riconosce la propria figliastra in una ragazza che gli viene offerta. Il primo atto si chiude col grido acuto della sua prima moglie, la madre della fanciulla, che appare all’improvviso. Il secondo atto si svolge nel giardino del padre. Questi, a dispetto del proprio figlio, riprende con sé la prima moglie e i tre figli di lei. Ciascuno nutre sentimenti di inimicizia nei riguardi degli altri: il Figlio nei riguardi della Madre, perché ha abbandonato suo padre; la Figliastra nei riguardi del padrigno, a causa della sua visita da Madama Pace; il Padre nei riguardi della Figliastra, perché essa lo giudica solo sulla base di quell’errore; il Figlio nei riguardi della sorellastra, perché è figlia di un estraneo. Gradualmente, per mezzo di un’analisi ibseniana, si fa luce sul passato dei genitori, e l’errore è individuato nei principî del Padre, benintenzionati ma rovinosi. «Ho sempre avuto di queste maledette aspirazioni a una certa solida sanità morale» 38: è cosí che egli spiega il fatto di aver sposato una donna per le sue umili origini, senza amarla, e di averle poi sottratto il figlio per affidarlo a una balia in campagna. Quando la Madre aveva trovato comprensione nel segretario di suo marito, il Padre aveva pensato bene di dover rinunciare a lei e aveva permesso ai due di fondare una nuova famiglia. E anche il benevolo interessamento che egli aveva dimostrato in seguito verso il loro, si era rivelato infausto; geloso, il segretario aveva portato moglie e figli all’estero, e solo dopo la sua morte questi erano ritornati in patria, in preda alla miseria. La Madre si era messa a cucire per Madama Pace e la Figlia le portava il lavoro. Il dramma si conclude, al pari di tante opere analitiche, con una catastrofe ingiustificata: uno dei ragazzi annega nella fontana, l’altro si uccide con un colpo di pistola. Per svolgere il piano di quest’opera secondo le regole della drammaturgia classica, sarebbe stata necessaria non solo la maestria di Ibsen, ma anche la sua cieca violenza. Pirandello si rese invece chiaramente conto della resistenza della materia e dei suoi presupposti spirituali alla forma drammatica. Perciò rinunciò ad essa, e anziché spezzare quella resistenza la mantenne nella tematica. Nacque cosí un’opera che si sostituisce a quella divisata e ne tratta come di un’opera impossibile. I dialoghi fra i sei personaggi e il capocomico non si limitano a fornire lo schema dell’opera originaria, ma permettono anche di cogliere le forze che, già a partire da Ibsen e da Strindberg, mettono in questione la forma drammatica. La Madre e il Figlio richiamano personaggi di Ibsen 39, ma non essendo ancora soggiogati dall’autore drammatico possono mostrare quanto sia loro odiosa la franchezza del dialogo e della scena. Oh, signore, la supplico d’impedire a quest’uomo di ridurre a effetto il suo proposito, che per me è orribile! 40. FIGLIO Signore, quello che io provo, quello che sento, non posso e non voglio esprimerlo. Potrei al massimo confidarlo, e non vorrei neanche a me stesso. Non può dunque dar luogo, come vede, a nessuna azione da parte mia 41. LA MADRE IL Ma che cos’è codesta frenesia che t’ha preso? Non ha ritegno di portare davanti a tutti la sua vergogna e la nostra! Io non mi presto! Non mi presto! E interpreto cosí la volontà di chi non volle portarci sulla scena! 42. Si dice perfino che questo atteggiamento del figlio rende impossibile l’unità drammatica di luogo, perché essa implica l’incontro con gli altri, che egli vuole, appunto, evitare: Vogliamo insomma cominciarlo, questo secondo atto? Non parlo piú! Ma badi che svolgerlo tutto nel giardino, come lei vorrebbe, non sarà IL CAPOCOMICO LA FIGLIASTRA possibile! Perché non sarà possibile? Perché lui (indicherà di nuovo il figlio) se ne sta sempre chiuso in camera, appartato! 43. IL CAPOCOMICO LA FIGLIASTRA In altre scene, nella protesta della Figliastra, si introduce il naturalismo. A tal punto il teatro è considerato qui imitazione della realtà, che esso è destinato a fallire proprio per l’incolmabile divario fra scena reale e scena teatrale, fra il «personaggio» e l’attore 44. Insieme, la Figliastra rappresenta l’io strindberghiano, che esige per sé tutta la scena. La critica del Capocomico, che essa provoca con questo atteggiamento, è una critica alla drammaturgia soggettiva stessa: Ma io voglio rappresentare il mio dramma! Il mio! (seccato, scrollandosi fieramente) Oh, infine, il suo! Non c’è soltanto il suo, scusi! C’è anche quello degli altri! Quello di lui (indicherà il Padre), quello di sua madre! Non può stare che un personaggio venga, cosí, troppo avanti, e sopraffaccia gli altri, invadendo la scena. Bisogna contener tutti in un quadro armonico e rappresentare quel che è rappresentabile! Lo so bene anch’io che ciascuno ha tutta una sua vita dentro e che vorrebbe metterla fuori. Ma il difficile è appunto questo: farne venir fuori quel tanto che è necessario, in rapporto con gli altri; e pure in quel poco far intendere tutta l’altra vita che resta dentro! Ah, comodo, se ogni personaggio potesse in un bel monologo, o… senz’altro… in una conferenza venire a scodellare davanti al pubblico tutto quello che gli bolle in pentola! 45. LA FIGLIASTRA IL CAPOCOMICO Ma è solo nel personaggio del Padre che si esprime la verità piú intima di Pirandello. Che essa implichi l’abolizione del drammatico, viene – naturalmente – taciuto, sia perché al Padre sta a cuore la realizzazione del dramma, sia perché Pirandello non voleva limitare al dramma la validità delle sue tesi. Ciononostante i presupposti esistenziali del dramma non sono mai stati messi in discussione cosí nettamente come nella filosofia della vita soggettivistica di Pirandello. Questo soggettivismo è la causa prima del fallimento del dramma dei sei personaggi, ed esso spiega la loro eterna e infruttuosa ricerca di un autore. Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai! 46. IL PADRE Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi – veda – si crede «uno» ma non è vero: è «tanti», signore, «tanti», secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi: «uno» con questo, «uno» con quello – diversissimi! E con l’illusione, intanto, d’essere sempre «uno per tutti», e sempre «quest’uno» che ci crediamo, in ogni nostro atto. Non è vero! non è vero! Ce n’accorgiamo bene, quando in qualcuno dei nostri atti, per un caso sciaguratissimo, restiamo all’improvviso come agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non esser tutti in quell’atto, e che dunque un’atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi, alla gogna, per un’intera esistenza, come se questa fosse assommata tutta in quell’atto! 47. Se – nel primo passo – si nega la possibilità dell’intendersi mediante le parole, il secondo si rivolge contro l’azione come valida oggettivazione del soggetto. Contro il postulato fondamentale della forma drammatica, che considera il dialogo e l’azione, proprio nella loro definitività, come espressioni adeguate dell’essere umano, Pirandello vi scorge una limitazione indebita e nociva della vita interiore, infinitamente varia e molteplice. In quanto critica del dramma, i suoi Sei personaggi in cerca d’autore non sono un’opera drammatica, bensí epica. Come in tutta la «drammaturgia epica», ciò che costituisce la forma del dramma diventa qui tematico. Ma il fatto che questo tema non appaia, qui, in forma generale, come problema dei rapporti interumani (come in Sodoma e Gomorra di Giraudoux), ma come dramma messo in questione, come ricerca di un autore e tentativo di realizzazione, fonda e giustifica la posizione speciale di quest’opera nella drammaturgia moderna, e ne fa, in certo qual modo, un’autorappresentazione della storia del dramma. Essa rappresenta insieme uno stadio ulteriore (ma sempre intermedio) nell’evoluzione epica della drammaturgia: la contrapposizione soggetto-oggetto vi è ancora mascherata tematicamente, ma questa maschera non fa piú parte dell’azione vera e propria (come accadeva ancora nella Sonata degli spettri di Strindberg e in Prima dell’alba di Hauptmann) 48. La tematica si divide in due strati: il primo drammatico (il passato dei sei personaggi), ma che nessuna forma è piú in grado di riprodurre. Allora subentra il secondo strato, epico nella sua posizione rispetto al primo: l’apparizione dei sei personaggi davanti alla compagnia che prova e il tentativo di dar vita al loro dramma. Essi narrano e recitano da sé il loro destino; il Capocomico e la sua compagnia rappresentano il pubblico. Ma l’abolizione dell’elemento drammatico non è portata fino in fondo, poiché nell’azione epica che fa da cornice, e che si serve anch’essa della forma drammatica, non è messo in questione ciò che nell’azione vera e propria è affatto problematico: l’attualità intersoggettiva. L’idea del teatro epico si realizzerebbe appieno solo se la situazione narrativa non fosse piú tematica, e neppure dialogico-scenica. Ma finché cosí non è, rimane sempre la tentazione di giungere a una soluzione pseudodrammatica. Nei Sei personaggi i due piani tematici, la cui dissociazione è il principio formale dell’opera, vengono – alla fine – a coincidere; il colpo uccide il ragazzo sia nel passato raccontato dei sei personaggi, che nel presente scenico degli attori che provano; e il sipario, che – secondo le norme del teatro epico 49 – era già levato all’inizio per confondere la realtà della prova teatrale con quella degli spettatori, finisce per calare davvero. XV. Le dramatis personae hanno sempre avuto la possibilità di parlare – di tanto in tanto – «a parte». Ma questa temporanea sospensione del dialogo non smentisce la tesi che la forma drammatica ha il suo principio nel dialogo, e non è neppure la famosa eccezione che si limita a confermare la regola (che è espressione priva di senso). Essa prova invece – indirettamente – la forza della corrente dialogica, che sopravvive a questa interruzione, per cosí dire al di là del dialogo. Ma ciò è possibile solo perché il parlare fra sé, come avviene nel dramma vero e proprio, non mira affatto a distruggere il dialogo; anche qui vale la citata osservazione di Lukács sul monologo 50. L’espressione «a parte» non differisce essenzialmente dall’espressione dialogica, non scaturisce da uno strato piú profondo del soggetto, né rappresenta la verità interiore davanti a cui il dialogo si smaschera come menzogna esterna. Non è per caso che il vero regno dell’«a parte» è la commedia: dove la possibilità di comprendersi è meno che mai in discussione e dove meno sussiste l’istanza di una verità psichica interiore. Ma in questo spazio dialogico garantito il massimo effetto comico è proprio nel suo temporaneo annullarsi, donde i malintesi e gli scambi che costituiscono, per esempio, tutta la farsa di Molière Sganarello, o il cornuto immaginario. Qui l’«a parte» ha una sua funzione importante: quella di marcare al vivo i malintesi e gli scambi di persona. E non a caso, infine, i grandi drammaturghi del passato rinunciavano a questo mezzo negli incontri piú intimamente problematici dei loro drammi, dove gli autori moderni utilizzerebbero proprio l’«a parte». Si rilegga il dialogo di Racine tra Fedra e Ippolito 51 o quello di Schiller tra Maria Stuarda ed Elisabetta 52. Proprio perché qui la struttura dialogica è messa alla prova e attaccata nelle sue fondamenta, l’«a parte» non può entrare in gioco, e il dialogo deve lottare con tutte le sue forze per la propria continuità, e per la salvezza della forma drammatica. E dove, in un vero dramma, si fondono commedia e tragedia, come nell’Anfitrione di Kleist, il parlare fra sé tende di preferenza al polo comico; ecco perché il detto di Giove («Maledetta la follia che mi condusse qui» 53), che è un’allusione alla tragedia divina, corre sempre il rischio di non essere preso sul serio, come l’esclamazione di chi ci ha lasciato le penne. Il mutamento storico della funzione dell’«a parte», che ha luogo agli inizi della drammaturgia moderna, appare con particolare evidenza nei drammi di Hebbel. Rudolf Kassner ha visto nei personaggi hebbeliani l’uomo «che è stato a lungo con se stesso, senza parlare» 54; e infatti, in questo autore, l’«a parte» è piú che altro un «per sé», anzi un «in sé», un parlare – per cosí dire – senza parlare. Gli «a parte» non sono piú in funzione della situazione, ma traggono spunto da essa per rivelare l’intimo dell’uomo, per cui essa è già qualcosa di estrinseco. È cosí che, già nella prima scena, l’idea folle di Erode si annuncia in un discorso apparentemente innocuo, e ciò con l’inserzione di un «fra sé». Giuda, un capitano, gli riferisce dell’incendio scoppiato la notte prima, e parla di una donna che si era rifiutata di abbandonare la casa in fiamme. Sarà stata fuori di senno! È possibile che ne sia uscita per il dolore. Il marito le era morto poco prima, il cadavere era ancora caldo nel letto. ERODE (tra sé) Voglio dirlo a Marianna, e intanto fissarla negli occhi. (Ad alta voce) Quella donna non aveva un figlio, vero? In questo caso, al figlio provvederei io! Che essa però sia sepolta solennemente, con lo sfarzo che si conviene ai principi: essa era forse la regina delle donne! 55. ERODE GIUDA E nel colloquio decisivo: Se io, io in persona mi trovassi in punto di morte, potrei fare ciò che ti aspetti da Salomè; ti mescerei del veleno e te lo porgerei col vino, per essere sicuro di te anche nella morte! MARIANNA Se facessi questo, guariresti. ERODE Oh no, oh no! Condividerei la tua sorte! Ma tu dimmi: un amore troppo, troppo grande, come sarebbe questo, potresti tu perdonarlo? MARIANNA Se, dopo aver bevuto, mi restasse il fiato per pronunciare ancora un’ultima parola, questa parola sarebbe una maledizione! (Tra sé) E lo farei quanto piú è certo che, se la morte ti chiamasse, potrei, nel mio dolore, por mano al pugnale; questo si può farlo ma non subirlo! 56. ERODE Qui il parlare «a parte» non serve piú a correggere l’errore di una situazione esterna, ma – grazie ad esso – il colloquio con Erode si prolunga nell’intimo di Marianna, e si rivela il sentire piú intimo di lei, che non confuta ciò che essa dice, ma lo approfondisce essenzialmente. In Marianna non parlano due persone diverse: una che simula con Erode e l’altra vera. Non è che essa si tradirebbe – come, ad esempio, il Giove di Kleist – se dicesse tutto; ma ha sentimenti che il suo animo si rifiuta di comunicare al consorte. E il fatto che essa debba ora dissimulare il suo vero amore per Erode, contribuisce notevolmente alla conoscenza della sua personalità. L’uso che Hebbel fa dell’«a parte» anticipa quindi la tecnica del monologue intérieur dei romanzieri psicologici del ventesimo secolo, ed è comprensibile che la drammaturgia moderna sia stata incoraggiata dalla scuola di Joyce ad applicare su vasta scala l’«a parte». Cosí Strano interludio (1928), il dramma in nove atti di EUGENE O’NEILL, non si limita a riportare i discorsi dei suoi otto personaggi, ma ne registra continuamente anche il pensiero, che essi non possono comunicare all’interlocutore, perché troppo estranei l’uno all’altro. Ciò è confermato indirettamente dall’inizio dell’ultimo atto. Qui, per la prima volta, i monologhi interiori tacciono, perché sul palcoscenico c’è una coppia di giovani innamorati che ignorano, almeno per breve tempo, l’abisso intersoggettivo. Ma determinando la forma allo stesso titolo e nella stessa misura del dialogo, l’«a parte» perde il diritto di essere chiamato cosí. Poiché parlare di «a parte» ha senso solo in un ambito dove in linea di principio si usa il dialogo. Ma qui l’«a parte» non è piú una temporanea sospensione del dialogo, ma permane autonomo accanto al dialogo drammatico come il resoconto psicologico di un io epico. Strano interludio è quindi, nella sua forma, un montaggio composto di parti drammatiche e di parti epiche. Questo montaggio ha bisogno del suo io epico non solo per l’analisi psicologica degli «a parte», ma anche per garantire la sua totalità formale. Poiché la continuità dell’opera non scaturisce piú dal dialogo stesso; quando i monologhi si succedono senza dialogo, il tempo si fermerebbe, se un io epico non reggesse il suo corso. Ma l’epico-montatore di Strano interludio non deriva la sua ragion d’essere solo dal dramma psicologico. In lui continua a operare anche il romanziere naturalista, erede di Zola, che non ha piú una parola da dire per i suoi eroi, e meno che mai una parola buona, e che si limita a registrare come un disco i discorsi esterni e interni che gli uomini gli forniscono nel quadro deterministico di leggi genetiche e psichiche. XVI. Non c’è forse altra opera, nella drammaturgia moderna, che sia pari a La piccola città di THORNTON (1938) per l’audacia dell’impostazione formale e al tempo stesso per la toccante semplicità dell’espressione. Per il lirismo melanconico che assume qui la vita quotidiana, Wilder deve molto ai drammi di Čechov, ma le sue innovazioni formali cercano di liberare l’eredità cechoviana dalle sue contraddizioni e di darle forma adeguata al di là del dramma. Poiché Čechov, come anche Hauptmann e altri autori, non intendeva rinunciare alla forma drammatica, dovette svisare la vita dei suoi personaggi, che non si realizza piú nella sfera del conflitto e della decisione, in una vita almeno embrionalmente drammatica. La vicenda monotona, priva di accadimenti e profondamente impersonale, che si trascina avanti a fatica, diventa una vicenda attuale-intersoggettiva e assume parvenza di unicità. Di questa infedeltà al tema, determinata esclusivamente dalla forma, Wilder non volle rendersi colpevole. Egli affrancò quindi l’azione dal compito drammatico di creare la forma dalle proprie interne contraddizioni, e affidò questo compito a un personaggio nuovo, che è al di fuori dell’ambito tematico, nel punto archimedico del narratore epico, e che viene introdotto nell’opera come regista. E poiché le dramatis personae vengono ad essere, nei suoi riguardi, oggetto di presentazione o rappresentazione, il momento della rappresentazione – che nel vero dramma è sempre nascosto – diventa qui esplicito 57. Dove peraltro si può parlare di «distruzione dell’illusione» solo se assumiamo criticamente questo concetto della drammaturgia romantica. L’«illusione» drammatica indica – sotto l’aspetto della ricezione psicologica – il carattere di mondo omogeneo e chiuso proprio del dramma, vale a dire la sua assolutezza 58. L’illusione viene distrutta quando, in seno alla struttura del dramma, si opera una distinzione; quando al rapporto interpersonale se ne sovrappone – per cosí dire – un altro (sovrapersonale o interiore). Sia nell’«ironia romantica» di Tieck che nel teatro epico di Wilder esiste questo rapporto fra soggetto e oggetto della coscienza, ma con la sostanziale differenza che i personaggi delle commedie di Tieck, come proiezioni del soggetto protoromantico, hanno coscienza di se stessi, e diventano quindi oggetti a se stessi, mentre nella Piccola città è il Regista che acquista coscienza di essi come personaggi, e la relazione soggettooggetto rimane quindi esterna ai personaggi: è appunto la relazione epica fra il narratore e il suo oggetto. Il risultato della distruzione dell’illusione è, nell’opera del poeta romantico, la rappresentazione della perdita reale del mondo, vissuta dall’io divenuto onnipotente; la distruzione dell’illusione nel «dramma» moderno porta invece a quell’esperienza estetica del mondo che è comunicata da ogni letteratura epica. All’azione drammatica si sostituisce la narrazione scenica, il cui ordine è stabilito dal Regista. Le singole parti non si generano da sé come nel dramma, ma sono composte e saldate in un tutto dall’io epico, secondo uno schema che trascende i singoli eventi, generalizzandoli. Cosí passa in secondo piano anche il momento drammatico della tensione, poiché una data scena non deve avere in sé il germe della successiva. L’esposizione, che mai, forse, come qui è stato cosí difficile drammatizzare, e cioè inserire nel corso della vicenda, può restare tuttavia sul piano della situazionalità epica. Questo primo atto è intitolato La vita quotidiana 59 : esso interviene per breve tempo – di mattino, il pomeriggio, di sera – nella vita di due famiglie. Poiché, a queste scene, non è assegnato alcun compito drammatico, esse non devono portare la vita in situazioni di conflitto; tutto fa supporre che questo 7 maggio 1901, che ci viene mostrato, sia un giorno come tutti gli altri. Anche le due famiglie vicine sono ritratte secondo il principio della rappresentatività: la famiglia del Medico e quella del Giornalista, l’una e l’altra senza alcuna peculiarità specifica, con due figli ciascuna, un ragazzo e una ragazza, coi problemi comuni a tutte le famiglie, e i discorsi vertono su particolari che possono stare per mille altri. Amore e matrimonio è il titolo dato al secondo atto. È il 7 luglio 1904, il giorno in cui il figlio del Medico sposa la figlia del Giornalista. Comincia un altro giorno, dapprima uguale a tutti gli altri, poi seguono i preparativi del matrimonio. Per spiegare questo matrimonio, il Regista torna indietro nel tempo e ritrasforma in presente scenico il colloquio in cui Giorgio ed Emilia si dichiarano l’uno all’altra, e poi un altro colloquio – anch’esso passato – fra i genitori di Giorgio sul matrimonio in vista. Segue la cerimonia, anch’essa rappresentata, non come qualcosa di attuale ed unico, ma come un importante avvenimento che ritorna nella vita di quasi tutti gli esseri umani. «Ci sono infinite cose da dire intorno a un matrimonio, – dice il Regista rivolgendosi al pubblico, – e infiniti sono i pensieri WILDER che passano per la mente a chi assiste a un matrimonio. Noi non possiamo riassumerli tutti in una sola cerimonia nuziale, si capisce; e specialmente a Grover’s Corners, dove le cerimonie nuziali sono sempre piuttosto semplici e sbrigative. In queste nozze io rappresento il sacerdote. Questo mi dà la facoltà di dirvi qualcosa in proposito» 60. Il carattere rappresentativo dell’azione è cosí evidente che il Regista può supplire con le parole dove la realizzazione scenica non giunge. Cosí anche nel terzo atto, che tratta della morte. Nove anni dopo, nell’estate del 1913, Emilia muore dando alla luce il suo secondo figlio e viene sepolta nel cimitero di Grover’s Corners. Ma il Regista non eredita dall’azione solo il compito di garantire il tutto formale. In lui si rovescia in forma anche la tematica che provocò, negli anni a cavallo del secolo, la crisi del dramma. La problematicità dei rapporti intersoggettivi aveva messo allora il dialogo in una situazione paradossale: quanto piú fragili diventavano le sue basi esistenziali, e piú doveva tradurre e risolvere in forma dialogica fatti estraniati della sfera metadialogica del passato (Ibsen) 61 o delle condizioni sociali (Hauptmann) 62. Alla rappresentazione di queste oggettività provvede qui il Regista sottraendola all’intreccio dialogico. Il distacco epico, ancora interno alla tematica, che gli eroi di Ibsen hanno – malgrado e contro la forma drammatica – nei confronti del loro passato, e quelli di Hauptmann nei riguardi delle condizioni politico-economiche della loro esistenza, perviene qui – nella posizione epica del Regista – alla sua espressione formale. Egli viene cosí a sostituire i personaggimedianti, che appaiono all’interno dell’azione nella drammaturgia di transizione di Strindberg e di Hauptmann: il direttore Hummel 63, il ricercatore sociale Loth 64. La cornice temporale dei tre atti, separati fra loro da grandi intervalli, viene epicamente rappresentata – insieme al passato e agli anni a venire – nei commenti del Regista. Ma ancora piú importante è la descrizione che egli fa dell’ambiente: della città di Grover’s Corners, della sua situazione geografica, politica, culturale e religiosa. Ciò che il drammaturgo naturalista cercava faticosamente di trasformare in un fatto intersoggettivo attuale, con un lavoro destinato a priori all’insuccesso, è presentato qui al pubblico, nell’introduzione e fra le prime tre scene, dal Regista, da un «Professore universitario» e dal Giornalista che prende parte all’azione. Con precisione scientifica e ironica a un tempo lo spettatore viene informato dello sfondo oggettivo su cui si svolgerà poi la vita delle due famiglie, che però a sua volta rappresenta quella dell’intera città. Anche se qui si conserva ancora l’intenzione naturalistica di mostrare sulla scena l’ambiente come fattore condizionante l’esistenza dei singoli, si cerca tuttavia, nello stesso tempo, di liberare lo spazio dialogico da quelle oggettività per cui il dialogo della drammaturgia di transizione minacciava continuamente di rovesciarsi in descrizione epica. Come segno esteriore di questa tendenza va vista anche la mancanza dell’elemento scenografico e decorativo. L’oggettività può trovar posto solo nei commenti del Regista; la scena deve restare sgombra per l’accadere intersoggettivo, pur problematico e limitato. Grazie a questa rappresentazione epica dell’oggettività, il dialogo della Piccola città acquista una trasparenza e una purezza che, dal classicismo in poi, possiede solo nei drammi lirici. Il teatro epico di Wilder mostra quindi di non essere solo una rinuncia al dramma, ma anche un tentativo di dare una nuova collocazione, entro una cornice epica, al suo contenuto essenziale: il dialogo. Ma quanto il dialogo sia messo in crisi dall’interno, appare soprattutto nel terzo atto, dove Wilder ha saputo ricalare nella tematica il principio formale della sua opera e l’intuizione che le diede origine. Emilia è condotta al sepolcro, ma vorrebbe lasciare i morti per far ritorno alla vita. Invano i morti cercano di farla desistere dal suo proposito: essa affronta il rischio dell’amara delusione che le si predice e supplica il Regista di farle rivivere almeno un giorno della sua vita. Sarà il giorno del suo dodicesimo compleanno. La libertà epica del Regista di ritornare al passato attualizzandolo 65 si trasforma qui in una facoltà pressoché divina: egli può ridare ai morti il loro passato. La presentazione di questa giornata non ha piú luogo per gli spettatori, ma per una dramatis persona che sta a guardare, e il distacco epico del narratore verso la vita che descrive diventa quello dei morti verso la vita in generale. Come accade già nel giovane Hofmannsthal, e non di rado nel periodo successivo 66, la permanente autoestraniazione dell’uomo è illustrata e esemplificata con la prospettiva della morte e del morire, che soli – in realtà – potrebbero giustificare questo distacco dell’uomo nei propri riguardi. L’immagine che il morto acquista dei vivi si rivela quindi come l’immagine mortificante che l’uomo odierno ha di se stesso. EMILIA I vivi non capiscono, vero? No, cara… non molto. È come se fossero rinchiusi in tante piccole scatole, non ti pare? 67. LA SIGNORA GIBBS EMILIA Ecco la prima conoscenza che la morte rende possibile. La seconda si comprende solo mediante un’inversione, e solo cosí diventa una vera conoscenza: EMILIA Perché dovrebbe essere doloroso [il ritorno]? Non soltanto vivrete, ma vi vedrete vivere 68. IL REGISTA Se cosí non si esprimesse – «straniata» in esperienza dei morti – un’esperienza fondamentale dell’uomo vivente oggi, lo spettatore non potrebbe capire la tragicità della scena seguente, dove Emilia assiste al giorno del suo dodicesimo compleanno come bambina che vi partecipa e, insieme, come donna spettatrice. Il fatto che Emilia veda continuamente anche se stessa è il rovescio, per cosí dire, della cecità che riconosce nei vivi. «Everybody’s inevitable self-preoccupation» (l’inevitabile preoccupazione per sé di ciascuno): in questa espressione l’autore ha riassunto, in una lettera, entrambi gli aspetti, e ha rimandato a Čechov: «Chekhov’s plays are always exhibiting this: Nobody hears what anyone else says. Everybody walks in a self-centred dream… It is certainly one of the principal points that the Return to the Birthday makes» 69 («I drammi di Čechov mostrano sempre questo: che nessuno sente ciò che gli altri dicono. Ciascuno procede in un sogno egocentrico… Questo è certo uno dei principali significati del Ritorno al Compleanno»). La rinuncia di Wilder alla forma drammatica, al dialogo come solo modo d’esprimersi, si spiega anche con la comprensione di questo fatto. XVII . «È tempo che mi riabitui all’aria aperta… quasi tre anni di detenzione preventiva, cinque anni di prigione cellulare, otto lassú nella grande sala…»: è cosí che, nei drammi analitici di Ibsen, si rappresenta il tempo: nominandolo e calcolandolo 70. Ma al drammaturgo Ibsen era negato di esprimere l’essenza del tempo, la sua durata, il suo passare e la sua azione trasformante: poiché ciò è possibile solo ad una forma letteraria che, non solo tematicamente, ma anche formalmente, permetta la visione simultanea di due momenti temporali separati. Poiché la diversità quantitativa e qualitativa tra l’uno e l’altro è la sola prova lasciata dal tempo del suo fuggire che tutto trasforma. Ma la struttura temporale del dramma è una successione assoluta di attualità 71, in cui è visibile solo l’attimo di volta in volta presente, anche se – è vero – teso verso il futuro, e in atto di distruggersi a favore dell’istante successivo. Ma l’intesa agente col decorso temporale, che si esprime in questa limitazione al presente, non è il senso del tempo dei personaggi ibseniani. La riflessione inattiva che li caratterizza li sottrae – per cosí dire – al decorso temporale e permette, solo cosí, che il tempo divenga per loro tematico. Ibsen tiene conto di questo fatto drammatizzando il romanzo della vita dei suoi eroi solo nel suo ultimo capitolo, e dipanandolo poi, analiticamente, nei dialoghi, a partire da questo finale rappresentato scenicamente. La visione epica simultanea di diversi momenti temporali è realizzata cosí almeno nella tematica, anche se a scapito dell’azione drammatica e della sua assoluta successione di presenti, che, a causa dell’analisi che domina ovunque, non sono piú veramente «drammatiche». Questa critica non tocca, peraltro, la tradizione drammaturgica di cui Ibsen viene spesso, ed erroneamente, considerato seguace. È sempre accaduto, agli autori drammatici, di trovarsi di fronte a una materia la cui estensione temporale pareva renderla inadatta al dramma; se non intendevano rinunciarvi (come Grillparzer rinunciò al tema Napoleone), potevano salvarla per il dramma solo concentrandola nella sua fase finale. L’esempio classico è quello della Maria Stuarda di Schiller, che mostra nello stesso tempo, con estrema chiarezza, la differenza rispetto a Ibsen. Poiché Schiller non mirava affatto a narrare a ritroso la vita della regina scozzese, e tanto meno si può dire che quella vita gli apparisse come un esempio del passato – divenuto tematico – di un essere umano. In quest’ultimo capitolo è ancora attuale – anzi, è ancora da compiersi – tutta la lotta fra Maria e Elisabetta; ed è interpretare Schiller attraverso Sofocle, o addirittura attraverso Ibsen, pensare che all’alzarsi del sipario tutto sia già deciso e la sentenza di morte sia già stata praticamente firmata 72. Il tempo come tale è divenuto un problema solo per l’epoca postclassica, che chiamiamo borghese, e il cui drammaturgo piú significativo rimarrà pur sempre Ibsen. Ma il primo grande documento di questo interesse per il tempo non è un’opera drammatica, ma un tardo romanzo «educativo»: L’éducation sentimentale 73 di Flaubert, e questo interesse tocca il suo culmine nell’opera che impegnò tutta la vita dell’unico allievo di Flaubert: A la recherche du temps perdu di Proust. Uno dei temi principali di questo romanzo si può ravvisare nella tragica dialettica sperimentata da Proust fra il bonheur come desiderio realizzato e il tempo come forza trasformante. Proust fu dolorosamente colpito dalla scoperta che ogni appagamento giunge sempre troppo tardi, poiché mentre l’uomo tende alla meta del suo desiderio, il tempo lo trasforma, e l’appagamento non trova piú il desiderio in lui, ma cade – immancabilmente – nel vuoto. Perciò, secondo Proust, solo l’imprevisto, che non è mai stato oggetto di desiderio, può rendere veramente felici. Ma solo il romanzo è in grado di rappresentare adeguatamente questa identità – riflessivamente vissuta – di essere e tempo, e non a torto si è accusata la letteratura moderna di un «totale disorientamento», che imponeva di «dare rappresentazione drammatica a sviluppi temporali, allo svolgersi progressivo di flussi temporali» 74. Ma non bisogna confondere «drammatico» e «scenico», negando che il tempo possa costituire il tema, non solo del dramma, ma anche del teatro in generale. Basta, infatti, una sola opera in cui sia stata realizzata la rappresentazione dialogico-scenica del tempo, perché questa possibilità sia teoricamente confermata. E questa rappresentazione è riuscita nell’atto unico di THORNTON WILDER Il lungo pranzo di Natale (1931). Già nei discorsi tenuti a tavola durante questo «lungo pranzo di Natale» della famiglia Bayard, fa continuamente capolino il motivo del tempo, del suo trascorrere e della sua immobilità: Comunque il tempo non passa mai tanto piano come quando si aspetta che i nostri figli crescano e diventino qualcosa nella vita. Io non voglio che il tempo passi piú in fretta. No, grazie tante 75. Ma cara, il tempo passerà cosí presto che non ti accorgerai nemmeno della mia lontananza 76. Che si può fare per aiutarla? – Niente, cara. Soltanto il tempo, soltanto il tempo che passa può darci aiuto quando accadono cose come questa 77. Addio, caro angelo. Non crescere troppo presto. Resta cosí come sei 78. Il tempo vola certamente veloce in un paese giovane come il nostro. Ma il tempo deve scorrere cosí lento in Europa con quella terribile guerra che c’è laggiú 79. Che si può fare per consolarla? Solo il tempo che passa può aiutare in queste cose 80. Sí, il tempo passa, ma nessuno se n’accorge, ecco tutto […] Me ne vado da qualche parte dove il tempo passa, per Dio 81. Come passa lentamente il tempo quando non c’è gioventú per la casa 82. Non resisto, non resisto piú […] Sono i pensieri, sono i pensieri di quello che è stato e di quello che avrebbe potuto essere. È la visione degli anni che vanno in polvere, in questa casa… 83. Ma non ci si limita a questi discorsi sul tempo. Il trascorrere del tempo è evocato, per cosí dire, in una purezza priva d’oggetto e recato a esperienza immediata con mezzi drammaturgici presi in parte dal cinema, ma tali da svolgere pienamente la loro funzione solo sul teatro. «Novant’anni devono essere percorsi in questa commedia, che rappresenta, con moto accelerato, novanta pranzi di Natale in casa Bayard»: cosí si dice nella didascalia introduttiva. L’espressione «in accelerated motion» non va presa alla lettera. Perché, anche se durante il pranzo di Natale rappresentato sulla scena passano novant’anni, il ritmo normale dei gesti e dei discorsi rimane immutato. L’acceleratore non è usato, qui, al modo meccanico in cui è adoperato nel film, dove del resto serve quasi sempre a ottenere effetti comici, e solo di rado a scopi documentari (quando si tratta di processi lenti); e mai, comunque, a esplicitare il trascorrere del tempo. Il cinema, del resto, non risolverebbe col movimento accelerato, ma col montaggio, il compito di descrivere l’avvicendarsi di novanta Natali. Sarebbero accostati fra loro brevi tratti di singole feste natalizie divise fra loro da anni o da decenni, e la loro diversità testimonierebbe della forza trasformante del tempo, che, peraltro, si esprimerebbe solo in questa suddivisione spaziale e in stretto rapporto alle immagini mostrate. Anche Wilder adopera il montaggio e accosta fra loro – come narratore – numerosi squarci, ma come drammaturgo va al di là di ciò che può fare il film, fondendo questi frammenti dispersi nel tempo in un’unità drammatica che dà l’immagine di un unico – anche se «lungo» – pranzo di Natale. Solo questo secondo passo, che trasforma il montaggio epico in un fatto drammatico assoluto e fonda – solo cosí – la sua continuità, rende possibile quell’esperienza immediata del tempo di cui si è parlato. È come se i tratti di tempo che il montaggio lascia nelle commessure fra i vari pezzi fossero costretti – mercè la compressione dei frammenti in unità drammatica – a uscire dai loro recessi, e saldati a loro volta in un solo decorso temporale, che non costituisce il «lungo pranzo di Natale», ma lo accompagna in modo autonomo. La trasformazione del montaggio che abbraccia novant’anni in un fatto drammatico, determina, in quest’ultimo, una dissociazione del decorso temporale in decorso temporale formale, che corrisponde al tempo della rappresentazione, e in decorso temporale contenutistico, che è dato invece dal montaggio originario. Questa dualità, che per l’epica è ovvia, e trova espressione nel binomio «tempo della narrazione e tempo narrato» di Günther Müller, ha un effetto speciale nell’ambito drammatico. Il fatto che, qui, i due ritmi temporali non si coprano, provoca un «effetto di straniamento» in senso brechtiano: il passaggio del tempo, che nel dramma, come nella vita attiva dell’azione, è puramente immanente, e non è presente in modo autonomo per la coscienza, viene ad essere sperimentato d’un tratto – per la dissociazione di ciò che dovrebbe essere identico – come qualcosa di nuovo. Come la durata di tempo può essere colta solo come differenza fra due momenti separati, spazializzata in «tratto di tempo», cosí anche il decorso temporale sembra poter essere esplicitato solo come differenza fra due decorsi temporali immanenti alla vicenda, e affiancati parallelamente. Questa differenza fra i due decorsi temporali, che si può ricondurre alle due fasi della nascita dell’opera (montaggio e drammatizzazione), costituisce il principio formale del Lungo pranzo di Natale. Tutto testimonia della stessa intenzione di far sperimentare, mercè la differenza di cui si è detto, con la massima intensità possibile il passaggio del tempo. Sul piano dell’azione, a questi novant’anni corrisponde la «decadenza di una famiglia», come quella che è stata descritta epicamente da Thomas Mann: alla vita costruttiva e agli stretti vincoli di solidarietà delle prime generazioni segue l’alienarsi reciproco dei fratelli, l’insoddisfazione per la piccola città, la fuga dalla tradizione familiare. A questo processo contrasta, sul piano drammatico, il pranzo di Natale, che, come tutte le feste, rappresenta un arresto del tempo, la sostituzione del decorso temporale con la ripetizione, che favorisce il ricordo del passato. Cosí la staticità della seconda vicenda non costituisce solo la desiderata antitesi alla prima, ma – invitando al ricordo – rimanda direttamente ad essa: Oggi fa proprio freddo. Andavo a pattinare con mio padre nei giorni come questo, e la mamma tornava dalla chiesa, dicendo… GENEVIÈVE (trasognata) «Che predica magnifica! Ho pianto dal principio alla fine». LEONORA E perché piangeva, cara? GENEVIÈVE Perché a quell’epoca tutti si commuovevano alle prediche. CHARLES Davvero, Geneviève? Era come se le prediche facessero loro tornare alla mente il padre e la madre. Cosí succede a noi nei pranzi di Natale. Specialmente in una casa vecchia come questa 84. LEONORA GENEVIÈVE Questa doppia funzione della ripetizione è ancora piú evidente nei dialoghi. Mentre il passaggio dei novant’anni si rivela nei brevi accenni ad eventi sempre nuovi, nel corso del pranzo di Natale si ripetono le stesse frasi quasi stereotipe. Ogni volta si fa l’elogio della predica 85, si versa il vino con la formula tradizionale 86, si parla dei reumatismi di un conoscente, o si chiama la cameriera perché serva in tavola. Grazie a queste ripetizioni la vicenda natalizia si stacca come un evento sempre uguale a se stesso dal decorso dei novant’anni, ma insieme testimonia di questo decorso col cambiamento dei nomi del parroco, del conoscente malato, della cameriera, come anche solo per il fatto di ripetersi, che non avrebbe senso se, intanto, non fosse trascorso del tempo. Anche le dramatis personae mostrano il costante dualismo di ciò che muta e permane, in quanto si contrappone – al succedersi di quattro generazioni – il personaggio statico del «parente povero», che vive in casa e cambia una volta sola. E infine questo dualismo è anche alla base dello stile scenico: al pranzo di Natale corrisponde una scenografia realistica: «La sala da pranzo in casa Bayard. Parallelamente alle luci della ribalta e ad esse vicinissima, una lunga tavola imbandita per il pranzo di Natale. Alla sua estremità, alla destra dello spettatore, il posto del capotavola; davanti ad esso, un tacchino arrosto. Una porta sullo sfondo, a sinistra, conduce all’esterno». Ma questo realismo è spezzato dai simboli del tempo: «A sinistra c’è una porta adorna di ghirlande di frutti e di fiori. Di fronte a questa, un’altra porta, drappeggiata di velluto nero. Le due porte simboleggiano la nascita e la morte» 87. E come queste due porte sono inserite bruscamente in una scenografia realistica, cosí la recitazione degli attori, «naturale» benché non faccia uso di accessori, trapassa di continuo in simbolica: la nascita dei figli è rappresentata dal loro ingresso attraverso la porta adorna di frutta e di fiori; per indicare una grave malattia che dura per anni si fa che il malato si alzi da tavola, si avvicini alla porta drappeggiata di nero e vi sosti esitando; i capelli bianchi – una parrucca che ci si mette quasi inavvertitamente – simboleggiano la vecchiaia; l’uscita attraverso la porta nera simboleggia la morte. Solo grazie a questa elementare scenografia simbolica, che si contrappone – in funzione epica – all’illusionismo drammatico, quest’opera – che è stata definita finora dal punto di vista tecnico un montaggio drammatizzato – si rivela nella sua vera essenza di rappresentazione profana del mistero del tempo. XVIII. L’evoluzione di ARTHUR MILLER da epigono a innovatore, che si compie fra le sue due prime opere edite, riflette con particolare evidenza quella generale trasformazione stilistica che collega e separa insieme i drammaturghi della fine (o dell’inizio) del secolo e quelli di oggi: l’affrancarsi della tematica epica dalla forma drammatica in una forma adeguata. Se questo processo centrale dell’evoluzione del dramma moderno è stato esposto finora soprattutto confrontando fra loro i due periodi, contrapponendo Ibsen e Pirandello, Čechov e Wilder, Hauptmann e Brecht, in Miller – come già prima in Strindberg – esso appare evidente nell’opera di un solo autore. In Erano tutti miei figli (1947) Miller ha cercato di salvare il dramma sociale analitico di Ibsen trasferendolo immutato nell’America di oggi. Con un’analisi spietata è progressivamente scoperto il delitto – tenuto celato per anni – del capofamiglia Keller, che forniva all’esercito parti di aereo difettose e che si era reso colpevole, cosí, anche del suicidio – tenuto del pari nascosto – del figlio Larry. Vi sono tutti i momenti secondari dell’azione che hanno il compito di trasformare il racconto del passato in un fatto drammatico, come il ritorno della fidanzata di Larry e di suo fratello, il cui padre – un impiegato di Keller – sta scontando senza colpa i crimini di costui. Non manca neppure l’oggetto, spesso penosamente commovente, mediante il quale, in Ibsen, il passato che continua a vivere nell’intimo affiora visibilmente, nel presente, e che simboleggia insieme, a fatica, il significato profondo della pièce: in questo caso l’albero che era stato piantato un tempo per Larry e che sta in mezzo alla scena, nel cortile, spaccato in due dalla tempesta della notte precedente. Se ad Erano tutti miei figli non avesse fatto seguito Morte di un commesso viaggiatore (1949), quest’opera andrebbe ricordata come un esempio dell’enorme influenza esercitata da Ibsen nei paesi anglosassoni, influenza che cominciò con G. B. Shaw e che dura tuttora. Essa appare invece come un’opera del periodo di formazione; come se Miller, volendo rappresentare teatralmente una «vita mancata» 88, e in particolare un passato traumatico, si fosse reso conto – seguendo Ibsen – di tutte le resistenze che incontra questo tema da parte della forma drammatica, e di tutti i passivi che implica conquistarlo ad essa. Durante l’elaborazione di Erano tutti miei figli dovette apparirgli ben chiaro ciò che abbiamo osservato a proposito di Gian Gabriele Borkman: il contrasto fra il passato ricordato nella tematica e il presente spaziale e temporale postulato dalla forma drammatica; la conseguente necessità di motivare l’analisi in una vicenda aggiunta appositamente, e infine l’incongruenza del fatto che questa seconda azione domina la scena, mentre la vera «azione» rimane confinata nelle confessioni dei personaggi. Nella sua seconda opera Miller cerca di evitare queste contraddizioni abbandonando la forma drammatica. Fondamentale, in questo senso, è la sua rinuncia all’analisi travestita da azione. Il passato non è, qui, recato a forza alla luce e al linguaggio nel confronto drammatico dei personaggi, e non accade piú che, a causa del principio formale, le dramatis personae appaiano signore della loro vita passata, di cui in realtà sono le vittime impotenti. Ma il passato giunge a rappresentazione esattamente come si fa luce nella vita stessa: in forza propria, nella «mémoire involontaire» (Proust). Cosí, nello stesso tempo, esso resta un’esperienza meramente soggettiva e non crea – nell’analisi condotta in comune – ponti fittizi fra gli uomini che ha lasciato divisi per tutta la vita. Cosí, nella tematica attuale, all’azione intersoggettiva che obbligherebbe a parlare del passato, si sostituisce la condizione psichica di un uomo che cade in preda ai ricordi. Come tale è descritto il commesso viaggiatore Loman, ormai alle soglie della vecchiaia: il dramma ha inizio quando egli soccombe completamente ai ricordi. Da qualche tempo i suoi familiari osservano che egli parla spesso fra sé; in realtà egli rivolge loro la parola, ma non nel presente reale, bensí nel passato che egli ricorda e che non lo lascia piú. Il presente del dramma è costituito dalle quarantott’ore successive al ritorno inatteso di Loman da un viaggio d’affari: mentre era al volante il passato lo travolgeva sempre di nuovo. Egli cerca invano di farsi trasferire nella sede di New York della sua ditta, che rappresenta ormai da decenni; là si accorgono del suo stato (poiché parla sempre del passato) e lo licenziano. Alla fine, per essere utile alla famiglia, che potrà riscuotere il premio di assicurazione, Loman si toglie la vita. Lo schema di questa vicenda attuale ha piú ben poco a che fare con la vicenda corrispondente dei drammi di Ibsen, e dello stesso Erano tutti miei figli. Né è un fatto drammatico in sé concluso, né induce a evocare il passato nei dialoghi. Tipica per questo aspetto è la scena fra Loman e il suo principale. Il principale non è disposto a rievocare in un colloquio comune la carriera del commesso viaggiatore, o la figura del proprio padre, che sarebbe stato animato da sentimenti di simpatia nei confronti di Loman; con un pretesto esce dalla stanza e lascia Loman solo coi suoi ricordi, che diventano sempre piú intensi. Ma il ricordo è la nuova via (anche se già nota da tempo nel film col nome di flash-back) per introdurre il passato al di là e al di fuori del dialogo. La scena si trasforma continuamente nello spettacolo che la mémoire involontaire offre al commesso viaggiatore. A differenza del «processo giudiziario» di Ibsen, il ricordo accade senza che se ne parli, e quindi affatto nell’ambito formale 89. L’eroe si osserva nel passato ed è quindi accolto – come io che si ricorda – nella soggettività formale dell’opera. La scena mostra solo il suo oggetto epico: l’io ricordato, il commesso viaggiatore del passato, mentre parla coi suoi familiari. Questi non sono piú dramatis personae autonome, ma appaiono riferite all’io centrale, come i personaggi proiettati della drammaturgia espressionistica. Il carattere epico di questa drammaturgia del ricordo appare evidente se la confrontiamo al «teatro nel teatro» come lo conosce il dramma. La rappresentazione teatrale organizzata da Amleto, che mostra il passato come egli lo immagina, «[to] catch the conscience of the king» (per cogliere la coscienza del re) 90, è inserita nell’azione come un episodio e costituisce in essa una sfera chiusa, che lascia sussistere l’azione come suo ambiente esterno. Poiché questo secondo spettacolo è di ordine tematico, e il momento della rappresentazione è, in esso, scoperto, tempo e luogo delle due azioni non entrano in conflitto fra loro, e le tre unità drammatiche – e l’assolutezza della vicenda – restano intatte. Nella Morte di un commesso viaggiatore, invece, la rappresentazione del passato non è un episodio tematico e la vicenda presente sconfina continuamente in essa. Qui non c’è una compagnia di attori che entri in scena; senza dire una parola i personaggi possono trasformarsi in interpreti di se stessi, poiché l’alternarsi della vicenda intersoggettiva attuale e di quella passata e ricordata è saldamente fondata nel principio formale epico. Cosí sono soppresse anche le tre unità drammatiche, e soppresse nel senso piú radicale: il ricordo non implica solo molteplicità di luogo e di tempo, ma anche la perdita della loro identità. Il presente spaziale e temporale della vicenda non è relativo solo ad altri presenti, ma diventa relativo in se stesso. È per questo che, nella scenografia, non si hanno veri e propri cambiamenti, ma piuttosto una metamorfosi continua. La casa del commesso viaggiatore rimane sul palcoscenico, ma nelle scene ricordate non si tiene piú conto delle sue pareti, coerentemente a ciò che avviene nel ricordo, che non conosce barriere di spazio e di tempo. Particolare evidenza assume questa relatività del presente nelle scene di passaggio, che appartengono ancora alla realtà esterna e insieme già a quella interiore. Nel primo atto, ad esempio, mentre Willy Loman gioca a carte col suo vicino di casa, Charley, appare sul palcoscenico il fratello del commesso viaggiatore, Ben, personaggio del ricordo: WILLY Comincio a essere veramente stanco, Ben. Oh. Continua a giocare. Vedrai come t’addormenti. M’hai chiamato Ben? Che stupido. Per un momento mi eri sembrato mio fratello Ben 91. CHARLEY WILLY Il commesso viaggiatore non dice di vedere davanti a sé suo fratello morto. Poiché la sua apparizione sarebbe un’allucinazione solo nell’ambito della forma drammatica, che esclude per principio il mondo interiore. Ma qui la realtà presente e quella interiore del passato giungono insieme a rappresentazione. Nel momento in cui il commesso viaggiatore ricorda suo fratello, questi è già in scena: il ricordo è entrato nel principio formale scenico. E poiché accanto al dialogo si ha qui il monologo interiore, cioè il colloquio con la persona ricordata, si determina un dialogo dove i personaggi parlano senza ricevere risposta, sul tipo di quello di Čechov: Abita con te nostra madre? No, è morta. Tanti anni ormai. CHARLEY Chi? BEN WILLY Oh, che peccato. Era una vera signora, la mamma. (a Charley) Eh? BEN L’avrei rivista cosí volentieri. CHARLEY Chi è morto? BEN E di nostro padre hai notizie? WILLY (coi nervi in pezzi) Come, chi è morto? CHARLEY Si può sapere che stai dicendo? 92. BEN WILLY Per dare forma drammatica a questo malinteso continuo Čechov si serví dell’artificio tematico della sordità 93. Qui esso scaturisce formalmente dall’accostamento dei due mondi, la cui rappresentazione simultanea è resa possibile dal nuovo principio formale. I vantaggi che esso offre rispetto alla tecnica di Čechov sono evidenti. L’artificio tematico, il cui significato simbolico rimane oscuro, permette sí al malinteso di esprimersi, ma ne dissimula insieme la vera origine: il fatto che l’uomo si preoccupa solo di se stesso e del passato ricordato, fatto che può manifestarsi direttamente solo una volta abolito il principio formale drammatico. È proprio questo passato che ritorna presente ad aprire infine gli occhi al commesso viaggiatore, che cerca disperatamente la causa della propria disgrazia e piú ancora degli insuccessi professionali del figlio maggiore. Mentre Loman siede al ristorante davanti ai figli, emerge all’improvviso nella sua memoria, e quindi anche agli occhi degli spettatori, una scena del passato: suo figlio lo sorprende in una camera d’albergo di Boston con l’amante. Ora Loman capisce perché da allora suo figlio è passato continuamente da un impiego all’altro, e ha danneggiato – commettendo un furto – la propria carriera: voleva punire suo padre. Nella Morte di un commesso viaggiatore Miller non volle piú svelare questo segreto (il fallo del padre ereditato da Ibsen, e ancora centrale in Erano tutti miei figli) in un procedimento giudiziario inventato per amore della forma. Egli fece sue le parole di Balzac, all’insegna delle quali sembrano vivere sia i personaggi di Ibsen che i suoi: «Nous mourrons tous inconnus» 94. Accostando il ricordo al dialogo presente, che per il dramma è la sola possibilità di rappresentazione, egli ha realizzato il paradosso drammatico di rendere scenicamente attuale il passato di piú persone, ma di farlo per la coscienza di una sola. Diversamente dall’analisi di Ibsen, che fa parte della tematica, la rappresentazione del passato basata su un principio formale non ha alcuna ripercussione sugli altri personaggi. Per il figlio quella scena sarà sempre un segreto assoluto, che non potrà rivelare a nessuno come origine del fallimento della propria vita. Cosí il suo odio muto non erompe fino al suicidio del padre, e neppure dopo. E nel «requiem» che conclude l’opera, la moglie del commesso viaggiatore pronuncia, sulla sua tomba, parole che colpiscono e commuovono proprio per la loro inconsapevolezza: Perdonami caro, non mi viene da piangere. Chi lo sa perché, non mi viene da piangere. Non capisco. Perché l’hai fatto? Aiutami Willy, non mi viene da piangere. Mi sembra che tu sia partito per il solito giro. Sto qui ancora ad aspettarti. Willy caro, non mi viene da piangere. Perché l’hai fatto? Mi sforzo, mi sforzo, ma non riesco a capire… 95. Sipario. LINDA 1 T. W. ADORNO, 2 ADORNO , Minima moralia, Berlin-Frankfurt 1951, p. 283 (trad. it. Einaudi, Torino 1954, p. 144). Minima moralia cit., p. 291 (trad. it., p. 150). 3 Cfr. citazione al cap. II , § III . 4 Cfr. cap. II , § III . 5 K. EDSCHMID, Über den Expressionismus in der Literatur und die neue Dichtung, Berlin 1919, p. 57. 6 E. PISCATOR, Il teatro politico, Einaudi, Torino 1960, p. 127. 7 Ibid., p. 24. 8 PISCATOR , Il teatro politico cit., p. 76, nota 2. 9 Cfr. cap. II , § V . 10 PISCATOR , Il teatro politico cit., pp. 61-62. 11 Ibid., p. 131. 12 Ibid., pp. 132-33. 13 PISCATOR , Il teatro politico cit., p. 62. 14 PISCATOR , Il teatro politico cit., pp. 150-51. 15 PISCATOR , Il teatro politico cit., p. 175 e tav. 19. 16 Ibid., tav. 19. 17 BRECHT , Breviario di estetica teatrale, in Scritti teatrali cit., p. 121. 18 ID ., Saggio sull’opera «Mahagonny», in ibid., p. 30. 19 HEGEL , Vorlesungen über die Ästhetik cit., vol. XIV, pp. 479 sgg. (trad. it., pp. 1533 sgg.). 20 BRECHT , La madre, in Teatro, Torino 1965, p. 797. 21 BRECHT , Breviario di estetica teatrale, in Scritti teatrali cit., pp. 133-134. 22 ID ., Gesammelte Werke, London 1928, vol. I, p. 153. 23 ID ., Osservazioni sul dramma «La madre», in Teatro cit., p. 869. Breviario di estetica teatrale, in Scritti teatrali cit., p. 144. Ibid., cit., p. 146. 26 Cfr. cap. II , § III . 27 BRUCKNER , Die Verbrecher, Berlin 1928, p. 102. 28 BRUCKNER , Die Verbrecher cit., p. 77. 29 Ibid., p. 82. 30 Ibid., p. 85. 31 Ibid., p. 99. 32 Ibid. 33 Ibid., p. 100. 34 Ibid., pp. 102, 103, 104. 35 Ibid., p. 66. 36 Cfr. T. W. ADORNO, Standort les Erzählers im zeitgenössischen Roman, in Noten zur Literatur, I, Frankfurt am Main 1958. 37 PIRANDELLO , Sei personaggi in cerca d’autore, in Maschere nude, Mondadori, Milano 1955, vol. I, p. 35. 38 PIRANDELLO , Sei personaggi in cerca d’autore cit., p. 49. 39 Cfr. cap. II , § I . 40 PIRANDELLO , Sei personaggi in cerca d’autore cit., p. 40. 41 Ibid., p. 59. 42 Ibid., p. 120. 43 PIRANDELLO , Sei personaggi in cerca d’autore cit., p. 102. 44 Ibid., pp. 84 sgg. 45 Ibid., pp. 95 sgg. 46 PIRANDELLO , Sei personaggi in cerca d’autore cit., p. 46. 47 Ibid., p. 57. 48 Cfr. cap. II, § III, e § V . 49 Cfr. cap. I . 50 Cfr. cap. II , § II . 51 Atto II, scena V . 52 Atto III, scena IV . 53 Atto II, scena v. 54 Cfr. cap. III , § VI . 55 HEBBEL , Sämtliche Werke cit., vol. II, pp. 200 sgg. 56 HEBBEL , Sämtliche Werke cit., pp. 218 sgg. 57 Cfr. cap. II , § V . 58 Cfr. cap. 1. 59 WILDER , Piccola città, Elios, Roma, atto I. 60 WILDER , Piccola città cit., p. 108. 61 Cfr. cap. II , § I . 62 Cfr. cap. II , § III . 63 Cfr. cap. II , § III . 64 Cfr. cap. II , § V . 65 Cfr. supra. 66 Cfr. cap III , § IX 67 WILDER , Piccola città cit., p. 128. 68 Ibid., p. 131. 69 WILDER , Correspondence with Sol Lesser, in Theatre Arts Anthology, ed. R. Gilder, New York 1950. 70 Cfr. cap. II , § I . 71 Cfr. cap. I . 72 Cfr. lettera di Schiller a Goethe, del 18 giugno 1799. 73 Cfr. LUKÁCS , Die Theorie des Romans cit., pp. 127-40 (trad. it., pp. 174-88). 74 LUKÁCS , Die Theorie des Romans cit., p. 129 (trad. it., p. 176). 75 WILDER , Il lungo pranzo di Natale, in Americana, Bompiani, Milano 1942, p. 854. 76 WILDER , Il lungo pranzo di Natale cit., p. 858. 77 Ibid., p. 858. 78 Ibid., p. 861. 79 Ibid. 80 Ibid., p. 863. 81 Ibid., p. 864. 82 Ibid., p. 865. 83 Ibid. 84 WILDER , Il lungo pranzo di Natale cit., p. 860. 85 Ibid., pp. 855, 860, 862. 86 Ibid., pp. 858, 864. 87 Ibid., p. 850. 88 Cfr. cap. II , § I . 24 25 BRECHT , 89 90 91 92 93 94 95 Cfr. l’appendice del cap. II Transizione. Atto II, scena 11. MILLER , Morte di un commesso viaggiatore, in Teatro, Einaudi 1960, p. 208. Ibid., p. 209. Cfr. cap. II , § II . Cfr. cap. II , § I . MILLER , Morte di un commesso viaggiatore cit., p. 301. Non sono riportate le parole conclusive. In luogo di una conclusione La storia della drammaturgia moderna non ha un ultimo atto; su di essa non è ancora calato il sipario. Cosí le parole con cui chiudiamo provvisoriamente questo discorso non vanno in alcun modo prese come una conclusione. Non è ancora giunto il momento di concludere né di fissare nuove norme. Né, del resto, la teoria del dramma moderno ha il compito di prescrivergli che cosa deve essere. È solo giunto il momento di comprendere ciò che è stato fatto, e di tentarne la formulazione teorica. Il suo compito è la registrazione delle nuove forme, perché la storia dell’arte non è determinata da idee, ma dal loro realizzarsi in forma. Alcuni drammaturghi hanno strappato un nuovo mondo formale alla tematica mutata del presente: avrà esso un seguito nel futuro? Tutto ciò che è formale, contrariamente a ciò che è tematico, ha in sé come possibilità la propria tradizione futura. Ma l’evoluzione storica del rapporto di soggetto e oggetto ha reso problematica, con la forma drammatica, la tradizione stessa. Un’epoca per cui l’originalità è tutto, non conosce, al posto della tradizione, che la copia. Perché un nuovo stile ridiventi possibile bisognerebbe quindi risolvere, non solo la crisi della forma drammatica, ma anche quella della tradizione come tale. Questa ricerca deve molte nozioni decisive all’Estetica di Hegel, ai Grundbegriffe der Poetik di E. Staiger, al saggio di G. Lukács, Zur Soziologie des modernen Dramas, e alla Philosophie der neuen Musik di T. W. Adorno. Elenco dei nomi Adorno, Theodor W. Anders, Günther Aristotele Balázs, Béla Balzac, Honoré de Barthes, Roland Beckett, Samuel Benjamin, Walter Brecht, Bertolt Bruckner, Ferdinand Brunetière, Ferdinand Büchner, Georg Čechov, Anton Pavlovič Cézanne, Paul Croce, Benedetto Csokor, Franz Theodor Dahlstroem, C. E. Däubler, Theodor De Castris, Amerigo Leone Dujardin, Edouard Dürrenmatt, Friedrich Edschmid, Kasimir Einem, Gottfried von Eliot, Thomas Stearns Enzensberger, Hans Magnus Eschilo Esopo Flaubert, Gustave Freytag, Gustav Gadda, Carlo Emilio García Lorca, Federico Gelber, Jack Giorgetti, Giorgio Giraudoux, Jean Goethe, Johann Wolfgang von Gor´kij, Maksim, pseudonimo di Aleksej Maksimovič Peškov Grillparzer, Franz Gryphius, Andreas Hartl, R. Hasenclever, Walter Hauptmann, Gerhart Hebbel, Friedrich Hegel, Georg Wilhelm Friedrich Heidegger, Martin Hofmannsthal, Hugo von Hölderlin, Friedrich Husserl, Edmund Ibsen, Henrik Johst, Hanns Joyce, James, XXXV Kafka, Franz Kaiser, Georg Kassner, Rudolf Kierkegaard, Sören Aabye Kleist, Heinrich von Kollwitz, Käthe Lorca, vedi García Lorca, Federico. Lukács, György Lutero, Martin Maeterlinck, Maurice Mann, Thomas Marx, Karl Miller, Arthur Molière, Jean-Baptiste Poquelin, detto Moravia, Alberto Müller, Günther Musil, Robert O’Neill, Eugene Ostrovskij, Nikolaj Alekseevič Pasolini, Pier Paolo Pavese, Cesare Peacock, Ronald Petsch, Robert Pirandello, Luigi Piscator, Erwin Proust, Marcel Racine, Jean Richards, Ivor Armstrong Rilke, Rainer Maria Robbe-Grillet, Alain Rochefort, Christiane Salacrou, Armand Saporta, Marc Sartre, Jean-Paul Scheler, Max Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph Schiller, Johann Christoph Friedrich Schnitzler, Arthur Schönberg, Arnold Shakespeare, William Shaw, George Bernard Sciascia, Leonardo Sofocle Solmi, Renato Sorge, Reinhard Johannes Sponde, Jean de Staiger, Emil Stendhal, pseudonimo di Henri Beyle Strindberg, Johan August Tieck, Ludwig Toller, Ernst Tolstoj, Lev Nikolaevič Trakl, Georg Vittorini, Elio Wagner, Richard Wedekind, Frank Wilder, Thornton Yeats, William Butler Zola, Emile Il libro I N QUALE MODO IL DRAMMA DA GENERE LETTERARIO AUTOSUFFICIENTE, QUALE ERA ANCORA un secolo fa, è entrato in crisi, alla ricerca di una nuova definizione che meglio corrisponda all’evoluzione della società? È la domanda cui vuol rispondere il saggio di Szondi, che analizza anzitutto la forma drammatica classica (i rapporti temporali e spaziali, la funzione dei personaggi, ecc.) e indica poi nell’opera di cinque grandi scrittori (Ibsen, Čechov, Strindberg, Maeterlinck e Hauptmann) i motivi che minano all’interno la struttura di quella forma. La seconda parte del libro è dedicata ai diversi tentativi di soluzione, fra cui spicca, per coerenza teorica e ricchezza di possibilità espressive, quello di Brecht. Il libro è preceduto da un’ampia introduzione di Cesare Cases, che ne inquadra i motivi di interesse e ne sottopone le conclusioni ad un’analisi stringente. L’autore Peter Szondi (Budapest 1929 - Berlino 1971), allievo di Emil Staiger, ha studiato nelle Università di Gottinga e Berlino, dove è stato ordinario di letterature comparate. Delle sue opere Einaudi ha tradotto anche Poetica dell’idealismo tedesco, La poetica di Hegel e Schelling, Introduzione all’ermeneutica letteraria e, di recente, Saggio sul tragico. Dello stesso autore Poetica dell’idealismo tedesco La poetica di Hegel e Schelling Introduzione all’ermeneutica letteraria Saggio sul tragico Poetica e filosofia della storia Titolo originale Theorie des modernes Dramas © 1956 Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main © 1962 e 2000 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Traduzione di G.L. Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. 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