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CARPINTERI & FARAGUNA Ì LE MALDOBRÌE Con 13 documenti postali EDIZIONI DE LA CITTADELLA TRIESTE 1967 PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Edizioni de La Cittadella • Trieste Prima edizione dicembre 1966 Seconda edizione gennaio 1967 Terza edizione marzo 1967 _*_*_ Creare un ebook da un libro fisico non è un'operazione immediata. Il modo migliore per ringraziarmi del tempo che ci ho speso è farne uno a tua volta, e renderlo pubblico su forum e servizi di file hosting. Ecco come fare, in sintesi: 1) Copia del libro, senza sottolineature 2) Programma OCR (Abbyy Fine Reader, magari portable) 3) Scannerizza tenendo ben premuto, 250-300 dpi 4) Passa le immagini in AFR 5) Correggi gli errori 6) Salva in doc/html e sistema indice, impaginazione, note, immagini, ecc 7) Share with the world :) *** LE MALDOBRÌE «Andè! Ma ve racomando, no stè far maldobrìe!» I ragazzi schizzavano via come palle da tennis. Giù per le scale di casa, divorate in pochi balzi, li inseguiva ancora il monito della vecchia signora: «No stè far maldobrìe!» La vecchia signora, che col suo immutabile ritornello richiamava la «mularia» alle regole del buon costume, era la nonna d'uno degli autori di questo libro. Era venuta a Trieste dalla natia Cherso all'alba del secolo, e dall'isola sua s'era portata, come gli antichi i propri Lari e i vecchi emigranti il pugno di terra natale, l'idioma della gente del Quarnero, nel cui lessico, mezzo veneto e mezzo istriano, scorrono talvolta, furtivi, domestici travasi di parlate altrui. In questo linguaggio le «maldobrìe», dalle quali nipotini e amici dei nipotini dovevano tenersi alla larga, stavano per: «birbonate», «gherminelle», «ribalderie». Da quale humus, da quali radici verrà mai questa parola? Può darsi che per rintracciarne l'etimo occorra calarsi lungo la spirale dei secoli, fino al punto, poniamo, in cui il latino cominciava a corrompersi o s'era già corrotto (si pensi, in via d'ipotesi, a «malum opus», da cui malopra, da cui «maldòbria»); oppure che si sia formata, così classica e così nostra al suono, attraverso un processo di trasfigurazione da un orecchiato «mali dobro», il «poco bene» dei dialetti croati del contado. Ma non è il caso di esplorare un terreno filologico che a noi appare alquanto malsicuro. Quello che c'importa è che Faraguna e Carpinteri ad un tratto hanno ritrovato la vecchia parola nel vocabolario dei giorni andati, dove s'annida sempre, per tutti, una ragione vitale che magari ha cessato d'esistere, ma chc sopravvive ancora nei suoi testi, nelle sue risonanze. «Maldobrìe». Eccola resuscitata: una parola un po' misteriosa, sottesa d'una sua ruvida musicalità, ilare come un giocoscioglilingua mutuato, si direbbe, dal linguaggio magico dell'infanzia dove certe parole curiose quasi prefigurano la simbologia di fatti e cose della vita. E' risalita dalla ormai lontana stagione del cuore di Carpinteri e Faraguna, per disporsi su una copertina e dare il suo nome a un libro tutto scritto, e pensato, in una «lingua franca», che gli autori hanno voluto ad un tempo istroveneta, triestina e dalmata, quale ancora risuona dal nostro Golfo a quello del Quarnero e giù giù lungo l'Adriatico sino a dove ne sono rimasti gli echi. Chi è l'autore, il protagonista, il mentore e testimone di queste «Maldobrìe», o bricconate che dir si voglia? Il suo nome è Bortolo, anzi Sior Bortolo, e il lettore non durerà fatica a riconoscerlo a colpo d'occhio, per la semplice ragione che arriva sulle pagine d'un libro dopo un'intensa e ben collaudata carriera di personaggio. Bortolo, infatti, trae i suoi natali da una trasmissione radiofonica assai popolare e di lunga vita, «Cari stornei», che la RAI va irradiando da anni ogni settimana (con la regia di Ugo Amodeo e la gustosissima interpretazione di Lino Savorani nella parte del protagonista). Il trasferimento dall'incorporea, e potremmo dire quasi astratta neutralità del microfono, alla pagina stampata, rappresenta dunque un altro viaggio, un'altra delle cento esperienze ed avventure, semiserie, buffe e farsesche, di quell'estroso ed irreducibile giramondo, navigatore e rapsodo in abiti da jolly, che è il Sior Bortolo di Faraguna e Carpinteri. Bortolo è quel che si dice personaggio uno e plurimo. La misura frammentaria e aneddotica delle favole che compongono le sue «Mille e una notte», non cala frange su un'altra verità. Le infinite avventure, le mirabolanti «maldobrìe» da lui vissute o immaginate — sempre su e giù pel mondo come un nipote popolano, per rami istriani e dalmati, di Marco Polo a batter le onde dei mari, sempre dentro e fuori di non si sa quante guerre (da quella russogiapponese a quella '14-'18),con un piede in un paio di rivoluzioni scoppiate in qualche angolo di terra, mobilitato nella Marina militare imperial-regia, ragazzo di camera, cuoco, infermiere su navi mercantili, internato, sempre una a pensarne e cento a farne, e «i te cavarà la matricola» e così via... — appaiono in fondo come variazioni d'un tema unico. L' inseguimento cioè su di un filo di retrospettiva memoria, di tempi ormai pietrificati, di categorie, schemi mentali, miti e costumi scomparsi sotto il diluvio di anni nuovi e vicende a cui la Storia (con la maiuscola) non fu — come ognuno sa o indovina — estranea. E così, anche gli innumerevoli personaggi da lui evocati ed inventati — i capitani dalmati e istriani di lungo corso, i «paroni de barca», gli ammiragli della Marina austro-ungarica, la gente d'ogni sorta, facoltà, nazionalità e mestiere, di costa e di mare, i marchimitis, i barbanane, i nicolònìcolich, gli arciduchi franceschisalvatori, i brazzànovich, i giadròssich, i bogdànovich, e via elencando — non sono in fondo che altrettante facce, o proiezioni immaginative di lui stesso, Bortolo: il cantastorie, gaio, arguto, sentenzioso e «morbinoso» d'un mondo e d'un universo umano postumi. Bortolo, questa figura tipica degli umori, e della vena umoristica di Carpinteri e Faraguna, si pone forse, sulla fascia degli allegri ripensamenti, come la metafora dell'immobilità del tempo, o se vogliamo, come il vispo affabulatore che con l'aria d'una macchietta riesumata, tutta verve e madornalità d'eloquio, congela una lunga pausa del tempo commisurato col calendario e con gli orologi del presente. Ma Bortolo potrebbe anche essere un gioco, un gioco illusionistico ritrovato nel retroterra sentimentale delle generazioni che ci hanno preceduto e che da stanze remote del cuore si pronuncia, ad un tratto, con una gran voglia di scherzare affabilmente, di commemorarsi in uno spirito di gentile autoironia. Nessuno si illude che i nostri ieri siano rimasti fermi fuori dell'uscio e che basti socchiuderlo per ritrovarceli davanti, intatti. No, i nostri ieri — o meglio, i giorni che ci tramandarono i padri e i nonni — sono così lontani da apparire irreali: e proprio per questo possono ben raccogliere nelle loro vele, fatte trasparenti e immateriali dal tempo, il lieto sorriso nostro e tutte le «maldobrìe» di Bortolo, cantastorie di lungo corso. GIORGIO BERGAMINI MALDOBRIA I - IL VARAMENTO DELLA «GIUSEPPE G.» Nella quale Bortolo, uomo di mare e di mondo, narra dal suo banco in pescheria la prima delle storie attinte dalle esperienze del suo favoloso passato. In questa occasione Siora Nina, sua assidua, ma talvolta svagata interlocutrice, apprende fatti veri e leggendari intorno agli abitanti delle Isole dei Lussini. — Orade orade, ociade ociade, dentai, branzini, pessimòli, scampi, caramai, scarpene de grota e guati de scoio! Àle àle, siora Nina, che el sol magna le ore! — Cossa gavè de bon, sior Bortolo? — El caratere. Ma el meo xe la scarpena che fa la tecia de tocio piena. Pian pian, siora Nina, che se no, ve sponzè sul spin e ve vien un panarizo compagno. — E chi la toca? E po', con 'sto prezzo che la ga, gnanca vardarla! — Ma vù, scusè, come nassevi? — Cossa, come che nassevo? — Sì, come che nassevi prima de sposarve? — Mi nassevo Bellèmo. — Ah, Bellèmo. Cossa de Veglia o de Cherso? — De Cherso. — Ma vostra madre, come ve nasseva? — Mia madre me nasseva Mattievich. — Ah, de Lussin! Volevo ben dir mi che gavè un rameto. — Cossa intendè dir, che bazilo, come? — No, siora Nina: un rameto lussignan, perchè me par che sè un fià strenta de scarsela. — Strenta? Atenta, volè dir. E po', cossa xe 'sta storia dei lussignani? Mia madre defonta, povera, gaveva le man sbuse. Più mio padre, dirìo, che el iera strento. — Eh, ma siora Nina, xe la lege de natura; salta una generazion e dopo torna fora. Vù conossevi quel Giadròssich de Lussin? — De Lussin? Giadròssich? Xe tanti a Lussin. — Sì, ma come quel iera un solo. Savè coss' che i contava a bordo de lu? — El navigava? — No, armator el iera. Signoron. Sì, un periodo el gaveva navigà. El gaveva una scuna sua, che con quela el ga comincià a farse i soldi. El gaveva l'equipagio tuto de lussignani. — Usa i lussignani cussì. — Bon, i contava de lu che un giorno el xe rivà cola scuna a Trieste — ve parlo questo de prima dela prima guera — e el xe andà in un negozio che i vendeva 'ste robe in Cavana. — Che robe? — Oh, rasadori, pinei de barba, scartazze, spazzete e scartazzini de denti... — Per comprar? — No, no, spetè, spetè. Alora lu va dentro in 'sta botega in Cavana e el disi: «Governè vualtri scartazzini de denti?» «Come, come?» — ghe fa 'sto qua che iera in botega. «Sì, gavessi un scartazzin de denti de governar. Volerio saver quanto che me vignissi costar». — Questo i contava? — Come, i contava? Questa ve xe la vera verità. Lui ghe disi insoma che el gavessi 'sto scartazzin de denti de governar. «Ma governar come?» — domanda quel dela botega. «Governar, perchè xe un tre quarti de pei frugai». «Ma alora la compri un novo.» Ah, che sarìa pecà, che el manigo xe ancora bon, che el xe de osso. «Ma, insoma, un scartazzin de denti novo ghe vegniria a costar una corona...» «E cambiar i pei al vecio, inveze, quanto vignissi a costar?» — domanda l'armator Giadròssich. — E quel dela botega? — E quel dela botega ghe fa: «Ghe vignissi a costar più de meza corona a cambiarghe i pei.» E alora 'sto Giadròssich disi «Bon grazie» e el fa come per andar via. E quel dela botega: «Alora me lassè o no me lassè 'sto scartazzin de denti de governar?» «Ah — ghe disi Giadròssich — volevo saver solo cossa che vien a costar, adesso vado a consiliarme coi altri, perchè questo xe el nostro scartazzin de denti de bordo.» Gavè capì? — Ah, come dir che i iera strenti? — Come dir, come dir. E famiglia de signoroni, armatori, ve go dito. E po' me ricordo de quela volta a Caìsole. Là iera quel squero, savè. Che anzi iera proprio el compare de mio padre, el vecio mistro Chiole. Dio, quanti anni! Un bel squero iera. I fazeva barche e anche scune. E anzi iera pronta sul scalo una scuna per i Giadròssich. «Giuseppe G.» che sarìa stado no quel Giadrossich del scartazzin de denti, che dopo i lo ciamava «Scartazzeta» : questo Giuseppe G. iera suo fio, Giuseppe Giadròssich che el ghe dava el suo nome alla scuna. — Ah, lui iera l'armator dela barca? Iera sua de lu? — Sicuro. La barca iera zà pronta e el varo doveva esser per forza per San Giuseppe. — Giusto: «Giuseppe G.»: San Giuseppe. — Mi iero assai giovine quela volta. E iero con Marco Mitis che spetavimo el turno de imbarco. Ne mancava un venti numeri e intanto che no gavevimo cossa far, gavemo pensà de farse un guzzo. — In squero de Caìsole? — Un poco più in là. In squero andavimo a cior un fià de legni. De sera, no? Savè, giovini ierimo: dovevimo rangiarse. Un dò legneti, cossa volè che sia per un squero, un per de corbe, stuco, stopa, un fià de pitura, roba che se no magari va butada via. — Ah, ve profitavi un poco, dài! — Siora Nina, savè come che se disi: «Sete, diciasete e ventisete nassi sempre qualche stralèca». Bon, quela volta la stralèca xe nata al diciaoto, de marzo. El giorno prima de 'sto varo, che doveva vignir meza Lussinpiccolo, Marco Mitis me disi: «Ciò, Bortolo, domani i vara e i neta tuto: qua ne servi un per de tressi». «Sì, sì — digo mi — stanote o mai». E semo andadi. — A cior 'sti tressi in squero? — Siora Nina, tressi maledeti. Quei che ne serviva a nualtri ieri ficai propio soto la «Giuseppe G.». Pareva scontri. Anzi Marco Mitis me disi: «Ciò, Bortolo, che no sia scontri!» E mi ghe digo: «Questi no te xe scontri, Marco, questi cussì sutili, scontri no te xe». «Bon, alora dàghe». Ma tutintun sentimo 'sta scuna che se movi. Iera scontri, siora Nina. Apena che gavemo cavà el secondo, 'sta barca iera zà in mar, varada. — Mama mia, e la gente? — Che gente? Note profonda iera, scuro de luna. Anche per quel no gavevimo capì se iera o no iera scontri. Però bel varo, siora Nina. Zita, lissa la xe andada, gnanca fumo squasi no la ga fato. La se ga fermà poco prima dela porporèla, e noi via a rota de colo con 'sti tressi in man. — Che po' iera scontri. Gesù Maria! E l'armator? E quei del squero? — Spetè, spetè. El vien de mi bonorivo, de prima matina. — Ma chi? — El vecio Giadròssich. Insoma el vien de mi e no'l disi gnente. Un poco el me varda, mi lo vardo e el me fa, mi dice: «Cossa credè che no ve go visti, ti e quel altro sacagnaco de Mitis? Che mariner me sè vù, che no distinguè un scontro de un tresso?» — Mama mia, el ve ga mandà in dispiazeri? — Dispiazeri? Contento el iera come una Pasqua, malignazo de un lussignan! E el me fa: «Mi, con 'sta storia che no se fa più varo me risparmio la marenda pei mistri, el rinfresco per quarantadò de lori e la fiasca de sampagna, che quela zà me ga sempre fato pecà che la vadi rota per gnente. Insoma, bei fiorini!» Lussignan, po', atento al carantan. — Ah, che truco! E po'? — E po' el me disi: «Bortolo, grazie. Savè cossa che ve darò? Ve voio dar come portafortuna un ricordo de mio povero padre defonto. Che due volte el gaveva fato naufragio con lu. Bel, col manigo de osso. Ciolève, ciolève 'sto scartazzin de denti per vù e per Marco Mitis.» MALDOBRIA II - LA DOPPIA MEZZANOTTE DI VOLOSCA Nella quale Bortolo rievoca la famosa notte di San Silvestro del 1900, quando fu manomesso con impreviste conseguenze l'orologio del campanile di Volosca. — De boto xe finì anche 'sto anno qua, sior Bortolo! — De boto, de boto, siora Nina. E me par ieri, vardè, che gavemo fato el San Silvestro del Mile e Novezento, tondo tondo. — E gavevi passà ben? — Uuh! Iera un truco che no ve digo. El Comandante Brazzànovich me fazeva contar 'sta storia nei saloni de prima classe davanti ai passeggeri, che anzi Barba Nane me diseva sempre: «Ma cossa sè vù, mariner o Purcinela del Comandante Brazzànovich? Co' no gaverè più gnente de contar i ve caverà la matricola.» — Ma dove iera 'sto truco? — Ierimo a Fiume per riparazioni e mi me gavevo trovà una putela a Volosca. Quela volta Volosca iera picia. Dove se se sognava turisti, bagni! Quela volta anche Abazia, savè, iera ai primi primordi. Adesso Volosca e Abazia xe tuto un, ma prima iera un bon toco in mezo che no iera anima viva. Insoma un truco che no ve digo, un truco. — Dele riparazioni? — Sì, dei dani de guera! De cossa stavo parlando? Iera el trentaun dicembre del anno Mile e Novezento e se spetava l'anno novo. Sì, le riparazioni iera stade longhe; e a Volosca, dove che gavevo trovà la putela, una zerta Norina, mi conossevo tuti. Ma el truco iera che mi e Marco Mitis andavimo ogni tanto anche a Abazia. Marco Mitis parlava franco ungarese, e a Abazia gavevimo trovado dò ungaresi al bacio. Iera dò putele che el padre ghe gaveva lassà una facoltà e lore stava là cola madre tuto l'anno. Insoma noi andavimo un poco a Volosca e un poco a Abazia. — Ah, mostrìci! Maritimi, po'! — Che mostrìci, siora Nina. Disaoto anni, savè. No se fazeva miga gnente de mal. No iera miga come adesso che xe tuto «ciò mi, ciò ti». Insoma, per farvela curta, se spetava el San Silvestro. E mi gavevo organizà tuto quanto. Prima se doveva passar l'anno in casa de 'sta Norina e po', noi dò, dovevimo andar in local a Fiume. Insoma tuto fato e tuto pronto, quando vien de mi Marco Mitis e el me disi, mi fa mi dice, che le ungheresine ne ga invità! — In Ungheria? — Ma se ve go dito che lore stava in Abazia tuto l'anno. El padre ghe gaveva lassà una facoltà. Màrika e Bèsi le se ciamava. «Ben — ghe go dito a Marco Mitis — vignirò dopo mezanote, un scampon! » Machè scampon, che ghe rovino tuto. Cossa el fa lu con dò? Po' che xe la madre, che xe zà tuto pronto, che le vol far rigojànci. — Cossa sarìa rigojànci, un balo? — Che balo, siora Nina! No gavè mai magnà rigojànci? Xe una torta ungarese, la più bona torta che xe. In breve, go dovesto dirghe de sì. — Uh, e cussì ghe gavè fato un torto a Nevina? — Chi xe Nevina? — Eh, quela putela de Volosca! — Ma no Nevina. Norina. Norina la se ciamava. Machè torto! Noi se gavemo impensà la più bela, ma la più bela che gabio mai visto. Ve go dito che el Comandante Brazzànovich, co' fazevimo el NortAtlantico el me ciamava in salon de prima che ghe la conto a tuti! — Ahn! — Spetè. Alora mi e Marco Mitis rivemo verso le zinque in cesa a Volosca. Tuto ben, tuto preparà. E mi tegno in ciacole el prete zò in canonica. E Marco Mitis, apena che xe un fià scuro, va su in campanil. — A sonar le campane? — Che campane? El xe andà a tirar un'ora avanti l'orologio. — El suo orologio? — Sì, per quel el xe andà sul campanil. Se iera el mio, inveze, l'andava sul Monte Magior. Ma dài, siora Nina! El xe andà a tirar un'ora avanti l'orologio dela cesa. — E perchè? — Perchè? Scoltè, no. Dopo, tuti dò semo andai in casa de Norina. E là, cola scusa de prontar tuto per el novo del anno, ghe gavemo messo tuti i orologi avanti de un'ora. — E no i se ga inacorto? — El padre se ga inacorto. Co' iera undese e meza el disi: «Come, undese e meza? Che el mio orologio fa le diese e meza!» E mi: «Mah, el ve se gaverà incantà, ve gaverè dismentigà de tirarlo». E Marco Mitis tira fora el suo orologio e el disi: «Undese e meza». E el padre che xe impossibile. «Bon — ghe digo mi — andemo a veder l'orologio dela cesa». Se lo vedeva giusto dela finestra del balador. Undese e meza spaeade! — Orco che truco! — Magnifico xe stà! A mezanote, che po' iera undese, baci, abraci, cincin, una roba e l'altra. E cussì co' iera undese e meza — mezanote e meza per lori — cola scusa che l'equipagio ne spetava a Fiume ala Maritima, via noi dele ungaresi a Abazia. — A far rigojànci? — Rigojànci, e po' le gaveva fato kùkuruz rostidi, vin che no se parla, tocài e Bàraz Palinka. Insoma una suarè che pareva la Principessa dela Ciarda con Marta Eggerth e Jàn Kiepùra. — E a Volosca nissun se ga inacorto de gnente? — Eh, el prete se ga inacorto. Perchè el ga dito Messa dele sie alle zinque e po' el più bel xe saltà fora durante la guera. — Co' iera qua i tedeschi? — Machè tedeschi. Mi parlo dela prima guera. Dovè saver che quela note a Volosca, ale undese e tre quarti del trentaun dicembre del Mile e Novezento xe nato Bepin Millevòj. Ve ricordè Bepin Millevòj che suo papà iera dotor? — Come no? Anche Bepin Millevòj xe dotor. Adesso me par che el xe a Padova che l'esercita. — Bon, ale undese e tre quarti el xe nato. Ma, secondo l'orologio dela cesa iera mezanote e tre quarti, ossia primo zenaro Mile Novezento e Un. E el prete cussì lo ga notà, dell'Un. E po', co' el se ga inacorto, el ga dito: «Quod scrissi, scrissi». Come el Vangelo. No sarà un'ora che cambierà el mondo. E el lo ga lassà nato dell'Un, capì? Come nato dell'Un. — E ben? — E ben, siora Nina. L'Austria, poco prima del ribalton, ultima classe ga ciamà el Novezento. E quanti che ghe ga rimesso la pele per pochi giorni. Destin, ah. E lu, come nato dell'Uno, el se la ga scapolada. Coss' che vol dir qualche volta un scherzo! — Eh, la fatalità! — Volè creder che el povero defonto dotor Millevòj, co' el ga savù 'sta storia el me ga regalà un orologio de oro? — E come el ga savù che sè stà vù? — Perchè 'sta storia, siora Nina, mi a furia de contarla per i vapori, la ga fato el giro del mondo. MALDOBRIA III - L'OMBRA SULL' INCROCIATORE Nella quale Bortolo narra la stupefacente storia del mistero dell'I. R. Incrociatore «Wien», ai favolosi tempi dell'Ammiraglio Horthy e del cadetto Giadròssich. — Tuti precisi, siora Nina: anche quei che credi de esser furbi! Zà, savè come che se disi: «Tute le volpi se incontra del pelizèr». E mi una volta me ga tocà una con un furbo, quel iera furbo, vedè! — E chi iera? Contème, sior Bortolo, contème. — Spetè, spetè. Insoma, ierimo a Pola, prima dela prima guera, su un vapor de guera. — Ma iera o no iera guera? — No iera ancora guera. Mi iero mariner su un vapor de guera. Iero col cadeto Giadròssich e Marco Mitis, gnanche parlar. Comandante un dalmato. Insoma, iero in infermieria... — Ah, malà. — No malà. Iero adetto al infermieria de bordo. KrankenAngestellter. E al cadetto Giadròssich i ghe gaveva intimà de vignir a cavo de 'sta storia dela morfina. — Cossa, cossa? Savè che no go capì? Cossa ghe entra la morfina? — Un momento, un momento. In infermieria iera l'armereto dele medizine, serà a ciave, perchè dentro iera i veleni, i calmanti, stupefacenti che i ghe disi adesso, quela volta i ghe diseva morfinomani. — Ah, ieri in infermieria. — Come no. In infermieria del «Wien». E insoma ogni tanto spariva. — Spariva vin? —Ma noo! «Wien» se ciamava la nave, che saria come «Vienna». Spariva morfina del'infermieria. E no se capiva come, perchè la ciave la gaveva solo che el capitano de Sanità Maritima. Insoma i congeturava che qualchedun gaveva ciave false. Un robava e po' andava a vender in tera. Savè, anche quela volta 'sta roba iera golosa, gaveva un prezzo enorme. — So so. Quando che i comincia, dopo no i pol più far de meno. Go visto in cine una volta: «L'uomo dal braccio duro». — Duro de morfina? — Cussì qualcossa. Una vecia film. — Insoma, come che ve disevo, iera 'sto cadetto Giadròssich e mi che congeturavimo chi podeva esser che robava. — Perchè, no se saveva? — Sicuro che no se saveva. E mi che gavevo nasà qualcossa, ghe digo al cadetto: «Sior cadetto, ghe digo, mi go un'idea. 'Sto qua credi de esser tanto furbo, ma noi ghe mostreremo che lu pensa de aver de far col laico, e inveze el ga de far col padre guardian». E ghe go palesado la mia idea. — Quala idea, che idea? — Dové saver che 'sta roba iera un pochetin delicata. Perchè la gendarmeria in tera se interessava de 'sto traffico de morfina, ma no voleva intrigarse in un bastimento de guera. Quela volta, savè, la Marina de guera iera una potenza; iera l'Amiraglio Horthy. Figureve se la gendarmeria se azardava. Lori doveva becarlo in tera per no far scandalo sula Marina Militar. — E come i ga fato? — Col'anilina, siora Nina, col'anilina. Una special anilina germanica che mi gavevo leto che se se se macia, no servi lavarse. Solo el corpo umano pol eliminar 'sta anilina. Ma ghe vol vintiquatro ore, almanco. E alora go ciamà el cadetto Giadròssich e l'Ispeziente superior dela gendarmeria in tera. «Con 'sta polvere de anilina — ghe digo — noi spolverizemo tuto l'armereto. Doman de matina, chi che ga messo le man sora, gaverà le man viola o i guanti per sconderle. Man viola no 'lse tegnerà. Vederè che el se meterà i guanti. E cussì basterà vardarli tuti de matina co' i vien zò de bordo. Quei coi guanti, lei la li guanta. Tra i dodese ghe xe sta el giuda, come che se disi». — E i lo ga guantà? — Spetè, spetè. La matina dopo, iera un nervoso che no ve digo. Anche perchè iera l'ultimo giorno che stavimo a Pola. Ale oto in punto iera el cadetto Giadròssich zò dela biscaìna e l'Ispeziente superior dela gendarmeria con dò travestidi. El nostro-omo fis'cia. E fora l'equipagio in permesso. — E alora? — E alora, Siora Nina, vù no me crederè. Me ricordo come ieri: diciaoto de agosto. Sessantazinque omini de equipagio. Tuti coi guanti. — Cossa? Tuti robava la morfina? —Siora Nina! Diciaoto de agosto: Festa del Imperator. Tuti coi guanti. Iera obligo. MALDOBRIA IV - IL RITRATTO Nella quale si parla di una fotografia del Comandante Brazzànovich il quale vi appariva con l'occhio vivo e con la sua bella barba spartita nel mezzo e di come essa venne inopinatamente impiegata per illustrare il Comandante stesso nel suo ultimo viaggio. — Mi no son contrario ala fotografia come fotografia, siora Nina. Mi anzi son stà un dei primi qua in paese che son andado a Trieste a farme la fotografia de Wulz. Ma quel iera che un se meteva là, e i ghe fazeva el ritrato per l'album, per la memoria. Mi, però, devo dir che no vignivo mai tropo ben... Barba Nane me diseva sempre vardando el mio libreto de navigazion: «Cossa, vù sè 'sto qua? Questo no sè vù. I ve diniegherà, i ve caverà la matricola». Povero Barba Nane. — Eh, adesso chi va più del fotografo! Anche quel che vigniva qua col trepìe, chissà dove che 'l xe finì. — Una volta tuti usava farse el ritrato, e po' meter in sfasa l'ingrandimento. Anzi me ricordo che una volta con un ingrandimento me ga tocà un truco... — Cossa, sè vignù mal? — No, no! No iera per mi. Dovè saver che quela volta, qua, i ingrandimenti costava un ocio dela testa, perchè i doveva mandar fin a Trieste, o a Fiume. In China, inveze, costava poco o gnente. Mi quela volta viagiavo per Estremo Oriente. Xe stà quei zinque anni che no go viagià col comandante Brazzànovich. Lui inveze fazeva el Levante in quel periodo. Un giorno, insoma, el me disi: «Ti che ti va a Sciangai, fame 'sto piazer». — Un piazer a Sciangai? — Sì, el me disi: «Fame 'sto piazer: qua ti ga 'sta mia fotografia. Qua son vignù ben. Fame far l'ingrandimento solito, che mio fradel vol meterme in sfasa». El iera ben sul serio, el Comandante Brazzànovich: vestì de capitano, col capel puntà, con quel suo ocio che el gaveva, vivo, cola sua bela barba spartida in mezo. Parlante el iera. Insoma, ben bon, che farò. E difati, 'pena che son rivà a Sciangai, prima de dismentigarme, vado de un de 'sti grandi fotografi che iera là. Tuto esposto: generai, mandarini, uficialità. Done, anche bele done. No xe bruta, savè, la dona cinese, solo che la ga poco peto. — Perchè le se infassa. — Indiferente. Fato sta che vado dentro de 'sto chinese, mi parlavo un poco de inglese, ghe mostro 'sta fotografia: «Ingrandimént» — ghe digo. Lui varda un poco e el me disi «Ciàina?». Come «ciàina»? ghe digo mi. Alora el me ga scrito su un toco de carta. — In chinese. — No in chinese. El me ga scrito «ciàina», che po' se scrivi «China». — Come dir che lui iera cinese? — Noo. Mi go capì «china», come che se disi anche de noi. In tùss, insoma, in sepia, el color dela fotografia... «Jawohl — ghe go dito — Ciàina, ciàina, yes! » E sicome noi dopo andavimo avanti apena per Kobe, ghe go dà l'indirizzo del Comandante Brazzànovich, che el ghe la spedissi e go pagà. — Anticipato? Ve gavè fidà? — Per forza. Ve go dito: iera un dei più grandi fotografi de Sciangai. Tuta l'uficialità andava là. Ghe go dà l'indirizzo che el ghe lo mandi diretamente co 'l xe pronto. Meritava. Perchè un'altra barca del Lloyd tornava su de là a dò giorni. — E xe stà contento el Comandante Brazzànovich? — Contento? Co' son tornà, no 'l voleva gnanche che ghe vado dentro dela porta de casa! «Fora — el me zigava — prima ti che mi!» E el me mostrava i corni. «Mus! Scherza coi fanti e lassa star i comandanti! Asino imenso!» — Perchè? No ghe iera rivado? — Come no? Altro che. Solo che «ciàina» per inglese vol dir, sì, china, ma vol dir anche «porcelana». E a lu ghe iera rivà el ritrato in porcelana. In ovale, col fileto de oro e i dò busi per invidarlo sula lapide. — Orpo! El ve ga zigà? — E che parole! Lu sul balador e mi soto in strada, che zercavo de spiegarghe. Dopo el ga capì. E el ga anche ridesto. Solo el me ga dito: «'Sta roba qua, ciàpila, tièntela ti, che no voio gaverla per casa». «Prima ti che mi!» — el me mostrava i corni. — E la gavè ancora? — La gavevo fin al Trentaoto. Dopo ghe la go invidada sula lapide. Parlante el iera. MALDOBRIA V - DUE UOMINI IN COFFA Nella quale si parla delle quanto mai accese rivalità suscitate nella Squadra Austro-Ungarica dalle ditte Zeiss e Görz, fornitrici di binocoli di Marina e Bortolo narra come, a causa di due bandiere e per l'onore d'una terza, finisse con l'uccellare Marco Mitis. — Savè coss' che ve digo, siora Nina? I tedeschi sarà quel che sarà. Ma per canociai no i xe che lori. Zà prima dela prima guera no i iera che lori. Vardè, per esempio, la Marina Austro-ungarica. — Come, dove? —Là fora dela porporèla... Ma dài! La Marina Militar de guera, Austro-ungarica. No iera el radar quela volta. El canocial iera tuto in Marina de Guera per l'avistamento. Ben, la Marina Austro-ungarica gaveva solo canociai germanici. Roba germanica. Voi dovevi veder che rivalità che iera nela Marina Austro-ungarica. — Tra austriaci e ungaresi? — Machè tra austriaci e ungaresi. Quel iera sempre. Ma rivalità iera per i canociai. Perchè iera dò marche de canociai in dotazion. O iera i Görz o iera i Zeiss. — Ah, i dava o l'un o l'altro? — Sì, come che destinava el Governo Maritimo. Perchè iera qualche comandante che giurava sui Görz e qualche comandante che giurava sui Zeiss. — Perchè? Quela volta se giurava sul canocial? — Ma no, siora Nina, benedeta! Se giurava sula bandiera, come tuti. Ma intendevo dir che iera qualche comandante che diseva che i canociai Görz iera i meo per mar. E secondo mi, i gaveva ragion. E iera altri comandanti che diseva che iera meo i Zeiss. Canociai, se disi per dir, perchè iera binocoli. I canociai no se usava più dei tempi de Teghetoff. — Perchè, no iera più Teghetoff? — No, el iera andà un momento a cior spagnoleti! Ma dài, siora Nina! Teghetoff xe roba che no ierimo nati nè mi nè vù. Forsi Barba Nane. Barba Nane, picio doveva esser. Volevo dir che iera binocoli. Ma no ga importanza. — E cossa iera meio, el canocial o el binocolo? — Ma xe tuto un'altra roba. Xe inutile che ve spiego. Fato sta che iera del Dodici. E mi e Marco Mitis ierimo de leva de Marina, sui dragamine. — Draga cossa? — Draga moja Marianska! Dragamine. Quei che tirava suso le mine. — Ma cossa, iera guera? — No, siora Nina. Iera esercitazion, manovre. Insoma dovè saver che, co' se sortiva de Pola, se andava sempre in squadra, Dragamine davanti, monitori de fianco, e torpediniere. E po' la «Viribus». — Che viribus? — La «Viribus Unitis». Bela barca. Un dreadnought iera. Speciale per l'Adriatico. Mi gavevo el Comandante Giadròssich. — Che iera el cadeto? — No. El cadeto iera suo fio. E Marco Mitis gaveva el Comandante Quìtanich. Un dalmato dele Boche de Cataro. Un bochese. Ben, volè creder, el Comandante Giadròssich diseva che el canocial Görz xe el meo che esisti per Marina, e Quìtanich inveze che gnente. Che Zeiss xe Zeiss e el resto xe merda. E le discussioni! E po', savè coss' che nasseva? — Barufa? — No. Mi e Marco Mitis ierimo giovini. Gavevimo bona vista, no? E alora lori ne mandava su in cofa coi canociai. E vigniva calcolà come una gran bravitù quela de far per primi l'avistamento. — Avistamento de cossa? — De tuto. De un segnal, de un'isola, de una barca. Chi prima vedeva, prima ghe fazeva la segnalazion cole bandiere ala «Viribus Unitis». — E ela la sbarava? — Ma cossa sbarar, siora Nina? Iera per esercizio del militar de Marina. Insoma un giorno, ierimo fora de Premuda. Mi iero in cofa col Görz e Marco Mitis iera in cofa col Zeiss. Navigavimo a vista. Se vedevimo, insoma. Zinquanta, sessanta passi. E a un zerto punto mi vedo come una barca in fondo in fondo. Iera un poco de foschia, ma mi subito go fato segnalar: «Nave a trenta gradi». E vedo che Marco Mitis, de l'altra barca fa compagno. La «Viribus» ne disi: «Segnalare tipo, bandiera, nominativo». Mi guardo, guardo e come un balin de s'ciopo ghe fazzo: «Cargo»! «Cargo» segnala Marco Mitis subito dopo de mi. E mi guardo, guardo 'sta bandiera che se vedeva de pupa e digo: «Danimarchese». E Marco Mitis, speta un poco e fa segnalar: «Norvegina».E el capitano Giadròssich me ziga del ponte: «Mona de Bortolo, no ti vedi che la xe norvegina? Cossa, ti ga i oci nel culo?» Cossa volè, siora Nina, la bandiera danimarchese e quela norvegina xe quasi compagne. Tute dò rosse cola crose. Solo che una ga la crose blu filetada bianca, e l'altra la ga solo bianca. Mi, no xe che no gavevo visto ben. Solo che me gavevo confondesto. — Ve gaveva fato i oci? No i oci. Me gavevo confondesto. No ve digo in tera le remenade. El Comandante Quìtanich ghe diseva al Comandante Giadròssich: «Istesso me par che questo vostro canocial Görz sia un fià daltonista, come.» Un rider. Ma no iera gnente de rider, savè. Perchè nella Marina Austro-ungarica iera una vergogna una roba compagna. Marco Mitis po', de sera, no ve conto! Perchè gavevimo dò putele a Pola, savè. Giovini ierimo, marineri. Monturati. E lu se vantava de sera in local, davanti de lore: «Una dele due, Bortolo, o che el canocial Zeiss xe meio del Görz o che ti ti ga i oci dove che diseva el vecio Giadròssich. Opur che i danimarchesi ga cambià bandiera, stanote, pol darse, informite!» E rider, e cior via. E mi zito. Pensavo: «No tornar la piada, se te la ga dada el mus. Speta l'ocasion!» — Ah, el ve cioleva via? — Siora Nina, tuto el tempo che ierimo a Pola, con 'sta storia dela bandiera norvegina o danjmarchese, no iera più nè un viver nè un morir. 'Ste nostre putele che no capiva, se divertiva istesso e le rideva tute dò. Basta. — Ah, xe finì? — Finì? Dovè saver che un bel giorno, mi son franco in tera e Marco Mitis xe de guardia a bordo. Mi son 'ndà per le mie; giovine iero, mariner, monturato. E son andà per le mie. De sera, co' torno, in mensa la Marina magnava sempre in tavola soto l'Austria Marco Mitis me fa: «Bortolo — el disi zinzolàndome el canocial davanti ai oci — Canocial Zeiss, Bortolo. Ogi, dela cofa te go visto. Dopopranzo, ale zinque e meza. A Scoglio Ulivi, sul molìch ti ieri che ti fazevi l'amor cola tua morosa. Canocial Zeiss! Altro che Görz!» «Bon — ghe digo mi — Marco, el tuo canocial Zeiss no val una canocia, perchè ale zinque e meza iero sì che fazevo l'amor a Scoglio Ulivi. Ma cola tua morosa, no cola mia. Canocial Kùraz — ghe go fato — zinzolàndoghelo davanti.» Giovini ierimo, siora Nina, maritimi, monturati. MALDOBRIA VI - LUNGO PRANZO DI NATALE Nella quale si narra del lungo pranzo di Natale del Comandante Petrànich, di sei Napoleoni e di sei ufficiali tutti d'oro coi quali Bortolo architettò e portò a termine la famosa beffa della «Martha Washington». — Fè presto a dir, voi omini, ma le feste xe giorni de lavor per noi done. No xe che pareciar, pareciar, pareciar, sior Bortolo. — Uuh! Chi ga boca vol magnar, siora Nina. L'omo lavora e la dona parecia. E po', figuremose, cossa gaverè de pareciar: per zinque, per sie, per sete de lori. — E no ve basta? — Siora Nina, lassè che mi rido. — Ridè ridè, ma mi parecio. — E mi pareciavo. — Se pareciavi, no parecè. — Sì, ma mi pareciavo per zentinera e zentinera de persone. E tre menù al giorno: classe de lusso, seconda classe e emigranti. Sul «Martha Washington». Perchè mi son stà un periodo Primo cogo su quela barca. E là no iera miga robe cussì, savè. Fazevimo la linia del Nort America, e a bordo, nissun ga gnente de far. I passegeri intendo. E l'omo che no ga gnente da far, magna. Altro che «chi non lavora non mangia». Chi che no lavora mangia il dopio. E po', savè come che se disi: «Tuti gavemo la boca per tresso». Ma mi ve digo che el passeger ga dò boche: una per tresso, per magnar, e una per traverso per brontolar se no xe tuto fato a puntin. — Ah, ieri cogo de bordo, vu? — No, iero perito industriale ale miniere del'Arsa! Sicuro che iero cogo de bordo. Barba Nane, povero defonto, me diseva sempre: «Fè el cogo de bordo, che gaverè sempre qualcossa de meter in boca». — Eh, Barba Nane iera anca lu cogo de bordo un periodo. Come che fazeva lu polenta e brodeto no saveva far nissun. — Uh, quel sa far tuti. Voi dovevi vèder i dolci che fazeva Barba Nane. El iera pasticer finido, sul Loyd Austriaco. Dopo co'l navigava per la Dalmazia el fazeva el cogo. Gavè mai zercado vù el cùguluf che fazeva Barba Nane? — Mi povera nona fazeva sempre cùguluf. — Indiferente. Cùguluf come quel de Barba Nane no go mai magnà. E sì che anche mi lo fazevo bon, savè. Me gaveva imparado lui a farlo. Tuto el segreto iera el levà. Perchè nel cùguluf, siora Nina, no bisogna mai meter levà come per la pinza. Ghe vol meter un fiatin de bicarbonato. Ma no tanto, se no ciapa subito gusto. E gran bianchi de ovo, gran bianchi de ovo. — Ah, coi bianchi de ovo fazevi vù? — Mi fazevo? Barba Nane gaveva inventà. Ma ve go dito che el me gaveva imparado proprio pulito. In lista iera sempre notado: «Kugelhupf Martha Washington». Che anzi qualche passeger diseva: «Cossa ga fato Martha Washington sto cùguluf?». Un rider! — E cossa, i fazeva per tante persone cùguluf? — Eh, no per tuti. Se fazeva solo per la tavola del Comandante nele grandi ocasioni. Pasqua, Nadal e Santissimo carneval. Anzi per Nadal iera el «Kugelhupf Martha WashingtonNapoleon». Perchè se ghe meteva dentro cògnac Napoleon, e po' anche i Napolioni. — I Napolioni? — Sì, Napolioni. Napolioni de oro. — Ah, Napolioni, quei che se gaveva durante la guera? — Prima, durante e dopo la guera. Beato chi che li ga. Ma iera usanza nell'Austro-Americana che per Nadal se fazeva per la tavola del Comandante un cùguluf per vintiquatro. Vintiquatro. Vintiquatro iera sempre sull'Austro-Americana in tavola del Comandante. E in sie fete se meteva dentro sie Napolioni. — Per darghe bon gusto? — Machè bon gusto. L'oro no ga gusto. L'oro fa alegria, solo. Iera come regalo natalizio. Chi che li trovava nela sua feta fortuna sua. Ofriva la Compagnia. — Ah, iera sorpresa! — Altro che sorpresa! Ma dovevi veder vù come che se fazeva 'sto lavor. Pareva un prelevamento ala Banca de Stato. Specialmente col Comandante Petrànich. Iera un malignazo de San Pietro dei Nembi, che i xe pezo dei Lussignani come strenti. Petrànich? Go sentì mi 'sto Petrànich. — Insoma voi dovè saver che la vigilia de Nadal andavimo de lu: el comissario, come comissario, mi come cogo, el primo uficial come testimonio. E lu diseva: «Ah, ècone qua: xe un altro Nadal e ghe ne gavemo uno de più e uno de meno». — Come, uno de più e uno de meno? — Sì: un Nadal de più fato e un Nadal de meno de far. 'Sto comandante Petrànich gaveva tuto un suo modo de dir. Dopo el verzeva la cassaforte de bordo cola ciave e el diseva: «Apriti, Sèsamo». Po' el diseva: «Commissario, scrivè: Dalla dotazione aurea di bordo preleviamo sie Napolioni per il cùguluf di Natale che sarà sistemato in sei fette diverse per il diletto dei signori passeggeri e dei signori ufficiali». «Uno, due, tre, quatro, cinque, sei sie. Orpo, xe un de più». El fazeva sempre 'sto scherzo de «seisie». El lo meteva via, el lo tornava a meter, dopo el diseva: «Adesso andate, che il ciel vi perda, tra le nuvole e la merda». Insoma, un rider con lu, ogni anno. — El comandante Petrànich? Sicuro. El iera ridicolo, ma sufistico. Pensè che dopo, mi de novo col primo uficial e el comissario, dovevimo vignir suso de lu, col stampo del cùguluf, mostrarghe che iera dentro un poco de pasta coi Napolioni de sora, in sua presenza impinir de pasta el stampo, serar el stampo, ligarlo col fil de fero. E lu lo piombava coi piombi dela Compagnia, quei che se usava per la gambusa, dove che iera la roba de manifesto. — Orpo, el gaveva paura che qualchedun porti via i Napolioni? — Sicuro. Ma no iera miga finì, savè? Co' rivava el cùguluf in tavola, lui prima lo girava, che no sia segnade le fete, po', co' tuti lo gaveva sul piato, el cambiava i piati e dopo el magnava. E mai che el gavessi trovà lu un Napolion. E po' el diseva sempre: «Che i disi quel che i vol, mi istesso el cùguluf no me piasi, el me xe massa suto». — Sì, el cùguluf xe un fià suto, però xe 'ssai bon per far sope. — Insoma un anno, me ricordo, ai uficiai e anche a mi ne girava assai per 'sta storia dei Napolioni. Perchè tra uficiai e el comandante iera sete, e diciassete iera i passegeri. E capì: i passegeri iera de più e el più dele volte ghe capitava a lori. Calcolo dele probabilità. Quel anno, me ricordo... — Qual anno? — No me ricordo che anno. Quel anno. Quel anno che gavevimo a bordo, primo uficial, imbarcado un certo Bàicich, un ridicolo, un assai de compagnia. Che lui, co' i ghe ga contà de 'sta pantomina che fazeva el comandante, el ga dito: «Cossa, roba che i Napolioni li ciapi i passegeri? Vù, Bortolo, dovè segnar le fete, in modo che li trovemo nualtri». «Sì — ghe digo — Primo uficial, come se fa? No savè, vù, che al ultimo momento el comandante cambia i piati in tavola?» «Orpo — el disi — come se fa, come se fa?» Eh, sicuro, iera difizile. — Eh, ma mi la gavevo zà pensada. I Napolioni, siora Nina, bisognava portarli via prima, no dopo. — Prima, come? Se me gavè dito che el piombava el stampo? — Spetè, spetè. Mi gavevo osservado che i vendeva zà quela volta in pasticeria quei Napolioni de ciocolata, coverti de carta de argento de oro, quei che se doprava per l'albero de Nadal. I iera perfeti, solo che i iera de ciocolata, coverti de carta de argento de oro. — E vù volevi meter quei? — Eh, sicuro. L' idea iera bona. La ciocolata se gaveria squaià, ma la carta de argento de oro chi la cavava? E alora go avù la pensada. — Per squaiar la carta de argento de oro? — Machè. Quela no se squaia. Spetè. Insoma, dacordo i uficiali con mi, compremo 'sti Napolioni de ciocolata, ghe cavemo la carta de argento de oro e de sora dela ciocolata ghe demo cola porporina de dolci, quela che se usava per i confeti de nozze de oro. Come veri Napolioni, siora Nina: bastava no ciaparli in man. — E i Napolioni veri? — Ma spetè che ve conto. Insoma la matina andemo, el Primo uficial, el comissario e mi. El Comandante Petrànich comincia: «Un altro Nadal: un de più, un de meno. Sesamo, apriti. Un, due, tre, quatro, cinque, sei, sie». El ne consegna i Napolioni, andate che il ciel vi perda, insoma come ogni anno. Noi fora, andemo in cusina. Meto sul fondo del stampo un poco de pasta e, un per un, pozo de sora 'sti Napolioni de ciocolata indorai. In fondo del stampo de ventiquatro persone no se distingueva. — Per forza. Stampo fondo. Che malignazi! Giovini ierimo, siora Nina! Tornemo del comandante. El conta vardando: «Un, due, tre, quatro, cinque, sei, sie. Xe un de più. Ah, ah». Mi presto, buto el resto dela pasta de sora, sero el stampo e lu, col fil de fero, lo piomba. — E i Napolioni veri? — Eh, siora Nina, ogni ufficial se ga ciolto uno. E in tavola, al pranzo de Nadal, co' se xe rivadi al dolce, intanto che el comandante cambiava i piati e fazeva tuta quela pantomina, de scondon ognidun se ga messo el Napolion vero in boca. Aah! Per far finta de gaverlo trovà nela feta! Sicuro, siora Nina. Pensève: una cosa perfeta. II Napolione di ciocolata sparisse nel'impasto e quelo vero in bocca dei più colli! Dovevi veder, siora Nina: «Go trovà! Go trovà! Go trovà!» Un rider, una contentezza! — E el comandante Petrànich cossa ga dito? — Zito. E co' i passegeri xe 'ndai via el se ga alzà in piè e el ga dito: «Signori uficiali, che il ciel vi perda tra le nuvole e la merda». MALDOBRIA VII - IL MORTUARIO Nella quale Bortolo racconta come il professor de Marìncovich fosse improvvisamente mancato e come gli alunni della Scuola Agraria, piombati nel dolore, avessero reagito all'evento nonchè delle irreversibili conseguenze che ne derivarono a Emilio Chauffeur. — Xe inutile, Sior Bortolo me intardigo ogni volta, perchè me toca girar per zento boteghe. Savè come che xe: tuti me disi «Siora Nina, visto che xe 'sta ocasion che andè a Trieste...» — Ocasion! Per lori xe l'ocasion. Mi anche qualche volta go comprà roba per qualchedun altro, e finissi che dopo i critica. Che no se ghe intiva el color, che no se ga intivà la misura, che no xe quel che i gaveva visto lori, e che i voleva saibe numero un e no numero dò. Savè come che ghe digo mi: «Chi vol che vada e chi che no vol, che mandi». E vardè che, una volta, mi iero un de quei che portava, che portava volentieri... «Bortolo, portème una borsa de Alessandria, Bortolo portème un servizio de China che go de far un regalo de sposalizio...» e mi go sempre portà. Anche pericolando, fora de Porto Franco. Barba Nane me diseva sempre «Bortolo, vù portè e portè e un giorno la ciaparè in comio.» E no xe miga sbalià, savè. Chi fa piazeri ga dispiazeri. Perchè chi fa fala e pò magari fa la fin de Emilio safèr. Safèr? No conosso, cossa iera un foresto? Machè foresto. Emilio safèr, no ve ricordè? El fio de siora Anìci del apalto, che el fazeva el safèr de sior Cesare, co'l gaveva le coriere per Pola. Ah Milio! Milio safèr. Zerto che me ricordo, iero zà putela e lu portaya sempre, el iera assai servizievole. El portava sì, anche massa. Bravo, eh, el iera come safèr. Savè qua la strada in volta del torion, che ancora adesso più de un se ribalta? Bon, trenta ani fa la iera compagna e lui mai gnente, gnanche un scasson. Però el iera un poco — come dir — insoma no'l iera propio una zima. I fioi qua ghe zigava «Ocio, Milio che te gira le rode de drio». Iera un rider, con lu. — Sì, sì adesso me sovien. — Bon, per farvela curta, una sera vien de mi che stavo giusto per 'ndar a Pola col motor, un sete oto de lori de quei che studiava ale Agrarie. Iera Tonin, un de quei fioi de Bùnicich e Nini Malabòtich, tuti roba de un sedese, diciasete ani. Insoma i vien de mi con una busta, se ghe fazessi un piazer. «Anche dò, se posso» — digo mi. Savè cossa che i me disi? Che xe morto de un colpo el professor de Marìncovich. «Ma quando? — ghe digo mi — se lo go incontrà zinque minuti fa in barca, drio la porporela!» «Oh — i disi — in malora! Propio dovevi incontrarlo in barca! Alora gnente!» «Ma cossa — ghe digo mi — volevi ciorme pel fioco?». E alora i me conta che lori, per rider, i voleva mandar no so cossa a Pola. — Ma no i ve gaveva dito che el iera morto? — Ma dài, siora Nina. Lori voleva farme creder a mi che el fussi morto. Inveze mi per combinazion lo gavevo visto zinque minuti prima in barca. E cussì iera cascà el palco. — Ah! I voleva far un scherzo? — Sicuro, un scherzo de studenti. Perchè 'sto de Marincovich iera un bravo professor, ma el li stangava! El ghe imparava conti, ale Agrarie. Iera un tremendo, un de quei ala vecia. Diplomato a Graz. Con lu no iera nè Dio nè Santi. «Ciodo» i lo ciamava. Magro, alto, cola testa de ciodo. Malignazi muli! Basta. Mi no go volesto saver più altro e li go visti che i andava de Emilio safèr. I và là, i lo inzingana e i ghe peta 'sta busta, quela che i voleva darme a mi. — E cossa iera, una letera anonima? Spetè, spetè. Dopo go savù tuto. Milio safèr riva a Pola e el va drito al giornal. A comprar el giornal? — Ma no. Al giornal de Pola, nel scritorio dove che i scriveva i articoli. — Iera, una volta, sì el giornal a Pola. — Eh, tante robe iera. Alora el va là, come che i ghe gaveva dito de far, cola letera in una man e i soldi in quel'altra per far el mortuario. — Chi iera morto? Per chi el mortuario? — Per el professor de Marincovich, pò! — Ma, sior Bortolo, se me gavè dito un momento fa che no'l iera morto, che lo gavevi incontrado in barca. . — Sicuro, ma a mi no i me la ga fracada. Inveze Emilio safèr, povero Milio, la ga bevuda. I ghe ga dito de andarghe a far el mortuario e lu gnàmpolo xe 'ndà a farlo. Mai no me dimenticherò, siora Nina! La matina dopo iera scrito sul foglio: «Ieri è mancato il professor Ernani de Marincovich, lasciando un grande vuoto nella scuola, dove per tanti anni... — no me ricordo cossa — ...gli alunni piombati nel dolore ne danno l'annuncio. Si associa — po' iera scrito soto — la famiglia Ciodo.» Insoma, roba de studenti... — Eh, studenti malviventi! Ma se pol far una roba compagna? — Sicuro che no se pol. Ma lori ga fato. E i xe stadi furbi: no i ga miga scrito che el iera morto. Lori ga scrito «il professor de Marincovich è mancato», perchè difati el iera mancà de scola e lori lo cioleva via, savè perchè? Perchè el iera andà fora in barca de prima matina e el iera restà in pana e cussì el gaveva mancà de scola. E lori ghe ga fato 'sto scherzo. Po' iera — ve go dito no? — «i alunni piombati nel dolore», che iera anche un scherzo. «Piombati» perchè lu li piombava, ghe dava pipe. E po' soto «la famiglia Ciodo», perchè a lui i ghe diseva «ciodo». Gli alunni «piombati», «è mancato», «la famiglia Ciodo», ben fato iera. Me ricordo l'avocato Miagòstovich, cole lagrime el rideva in Caffè. E el professor cossa ga dito? Dito gnente. El ga fato! El ga ciapà el vapor e via lu a Pola. — Scampà del paese? — Machè scampà del paese. Rabià come una belva el xe andà a Pola, in scritorio del giornal, a veder chi che ga messo 'sto mortuario. Lori ga fato el riscontro i xe andai a vardar la ricevuta e iera la firma Emilio Bacichi, via tal dei tali, numero tale, Pola. — E chi iera Emilio Bacichi? — Siora Nina! Emilio safèr, iera. Lu no se ciamava miga Safèr, lui se ciamava Bacichi. Safèr i ghe diseva, perchè el iera safèr de sior Cesare quel che gaveva le coriere per Pola, ma lui se ciamava Bacichi. El iera fio de siora Anìci del apalto, che la iera sposada Bacichi, vedova de ani anorum. — Eh, la iera restada vedova assai giovine... — Insoma Nini de Marincovich che, lui veramente se ciamava Ernani, ma i lo ciamava Nini... — Ma no me gavè dito che i lo ciamava Ciodo? — Ma quel a scola. In famiglia i lo ciamava Nini. Insoma el se ciapa su e el va in zerca de 'sto Emilio. — Ah, el voleva farlo meter in preson? — Machè farlo meter in preson! Lui se gaveva subito capacità che no podeva esser stado Milio a pensarse 'sta roba. Lu voleva saver de lu chi che ghe gaveva dito de far el mortuario. — E Milio ghe ga dito? No'l ga possù, siora Nina. Perchè Milio gaveva una camera a Pola dove che el dormiva. Co'l ga sentì bater la porta bum, bum, bum e ghe se presenta davanti el professor de Marincovich, palido, coi oci fora dela testa, Milio ga fato come un moto cole man e pò el se ga tombà longo e disteso in tera. Anche suo padre, defonto, iera morto giovine, per un insulto. El cuor xe ereditario. MALDOBRIA VIII - IL BERRETTO DEL COMANDANTE Nella quale Bortolo narra di un incidente occorso un giomo in Costantinopoli al Capitano Brazzànovich e di come il berretto del Comandante, inopinatamente servì i disegni politici della Corona Absburgica. — Siora Nina sì! Siora Nona, podè dirme, Sior Bortolo, che oggi fazzo i ani e xe meo che gnanca no ve digo quanti. — Sempre pochi in confronto dei mii. E po' cossa ve lamentè, con quela bela testa de cavei che gavè? — Ah cavei ghe ne go anca tropi. Sempre avù, fin de putela. Però, come che se disi, «una bela scarpa diventa una bela zavata». E se i cavei xe sempre quei, el color xe cambià. — Ma come? Se li gavè bei neri. — Neri, sì, ma nero de fiasca. — No stème dir! Ve tingè i cavei? Siora Nina, mi sarò franco con vù. Mi 'ste robe no doprassi: xe sbrodighezzi. Mi po' go leto che la tintura ruvina el cavel, lo brusa. E po' go leto anche che pol ruvinar la vista. — Machè, dài che xe ani che mi dopro 'ste robe! — Credème a mi le tinture pol far bruti scherzi. E vardè che mi me intendo perchè mi co' iero giovine de camera iero camerier, insoma, omo de fiducia, omo de chiavi del Comandante Brazzànovich. Sul «Castore e Polluce». — Come? Dò vapori el comandava? — Ma no! «Castore e Polluce» iera uno. Come dir «Romolo e Remo», «Giudita e Leoferne». E el se tingeva i cavei. — Leoferne? — Ma no Leoferne, el Comandante Brazzànovich. Che quela volta el gaverà avù zinquantatrè, zinquantaquatro, ma el iera diventà bianco assai de giovine. Insoma mi ghe preparavo la tintura: lui ghe tigniva assai co' l'andava in tera de comparir. Bon omo, per la famiglia po' imenso, ma però moscardin. Barba Nane me diseva sempre «Ma cossa ghe fè de Figaro, ma cossa ghe tignì terzo!» Barba Nane iera bianco, candido, ma el gaveva i cavei come una seda, fin l'ultimo. — Indiferente. El Comandante Brazzànovich inveze gaveva el cavel arido. Per la tintura, ghe disevo sempre mi. E una volta, me ricordo, ierimo a Costantinopoli, che quela volta se ciamava ancora Costantinopoli, e la sera el doveva andar per le sue. — A Costantinopoli? — Sicuro. E mi ghe go dito. «Sior Comandante, a vù el cavel ve diventa sempre più arido, vù dovessi provar 'sta nova tintura che go leto che no fa arido el cavel». — Roba de Costantinopoli? — No. Comprà, sì, a Costantinopoli, ma roba germanica iera. I turchi quela volta iera assai coi germanesi. Inveze col'Austria no iera tanto ben quel periodo. Sempre ancora per quela question che i ne imparava a scola dela Bosnia Erzegovina. — 'Ssai bosniaci xe vignudi in 'sto periodo. In miniera sopratuto. — Indiferente. Insoma ghe fazzo 'sta tintura, e quela sera tuto ben, come al solito. Come natural propio. «Raben Schwarz» — iera scrito — «Nero corvino». — Tanto tanto nero, propio no me piasi. — Ma la matina dopo, a striche, siora Nina, completamente a striche. El Comandante Brazzànovich de no conosserlo. El gaveva i cavei che el pareva un mato. Come se el fussi diventà mato. — Iera andà via el color? — Pezo, siora Nina. Mi no so cossa che iera. Fato sta che là saria stado de scolorir tuto, col'acqua ossigenada, e po' tinger de novo. Ma quela matina no iera più tempo. — Perchè el gaveva de andar per le sue? — Pezo. Quela matina iera una granda festa dela Marina Otomana che mi gnanche no so coss'che iera. Fato sta che el console austriaco, iera un triestin, un zerto Smechia, gaveva dito che bisognava che tuti i comandanti vadi. — E lui? — E lu gnente. Lu se ga messo la bareta in testa e 'lga dito: «'Sta qua no me la cavo. E con ti, dopo, Bortolo, femo i conti, ti e el tuo malignazo Raben Schwarz». — Ah zerto, tignindo la bareta in testa... — Sì. Ma gnanche co' i ga sonado l'Inno otomano no 'lse la ga cavada. Unico, de tuta l'uficialità che iera. El se ga alzà in pìe fermo, muso duro e bareta fracada. Fina i giornai de Viena ga scrito. — De 'sta tintura? — Machè tintura, siora Nina. Xe stà una question internazional, scriveva propio el giornal de Vienna che «II Comandante del "Castore e Polluce" del nostro Lloyd Austroungarico non si scoprì all'Inno nazionale ottomano e questo denotò la tensione dei rapporti». Me ricordo come ieri che a Trieste el Comandante me legeva. — El xe andà in dispiazeri? — Machè dispiazeri. Ve go dito che iera sempre quela vecia question dela Bosnia Erzegovina. E «il gesto di riservatezza — ghe ga scrito propio i comandanti del Ministero de Vienna — fu apprezzato dall'Imperial-regio». Insoma cussì qualcossa. De quela volta le prime barche i ghe ga dado. — E i cavei? — I cavei, quei iera gnente, siora Nina. El iera come una Pasqua co'l xe vignù fora de Palazzo. El me ga dito: «Adesso son bastanza importante che le babe pol ciorme anche griso. Anzi, omo griso, omo interessante». Più de una volta i lo gà visto pindolarse davanti del Liceo Femminile. MALDOBRIA IX - ORE GIAPPONESI Nella quale si parla dei festeggiamenti di Carnevale a Fiume e Bortolo narra di una visita di cortesia resa dalla Squadra navale giapponese alla Corona d'Ungheria e degli imprevisti eventi che ne seguirono. — Mama mia, carneval semo. Gnanca no se se inacorzi, sior Bortolo. Pensarse co' iero mi putela, coss' che no iera el carneval! — Ah, co' vù ieri putela, carneval no iera zà più gnente de lu. Dovevi veder co' iero giovine mi. Quei iera carnevai. Fiume che iera Fiume, e che no iera Parigi, pareva, no so cossa: Parigi. — E Parigi cossa pareva? — Indiferente. Se fa per dir. — A Fiume, soto l'Austria? — Che Fiume soto l'Austria? Quando xe stada mai Fiume soto l'Austria? Fiume iera «Corpus separatus» dela Corona Ungherese, no Austria. Iera Ungheria propio. Per esempio, co' vigniva le flote estere,inglesi, per dir, prima le andava a Pola, per l'Austria, e dopo a Fiume, per l'Ungheria. — Ma no iera Austria-Ungheria? — Sicuro che iera Austria-Ungheria; ma l'Austria iera Austria, l'Ungheria iera Ungheria. Me ricordo che co' rivava le barche foreste, se le andava a Pola o a Trieste, sul pico le meteva la bandiera austriaca, e se le andava a Fiume, bandiera ungherese: bianca, rossa e verde... — Questo dopo, co' xe vignù i italiani? — Siora Nina, vù disè che no xe più carneval, ma a mi me par che gavè tanto de quel carneval in testa. Ben, indiferente! Volevo contarve che a Fiume iera grandi carnevai, con velioni, cavalchine in case de famiglia. E po' Abazia! Coss' che no iera Abazia! Pien de ungheresi iera Abazia. Quei saveva divertirse. I diseva per ungherese una roba che adesso no me ricordo, ma che voleva dir «Ogni ridada ghe cava un ciodo ala bara». I spacava i biceri. I beveva e i spacava i biceri. Che tempi! Insoma, me ricordo come che fussi ieri, iera del Quatro. — Del quatro de febraro? Machè de febraro. Del Quatro: del Millenovezento e Quatro. Carneval pien. E iera giusto rivada la squadra giaponese. Prima i iera andai a Pola. — Cola bandiera austriaca? — Sicuro. E po' a Fiume in visita di cortesia ala Corona Ungarica. Iera 'ste barche de fero, alte de castel che no ve digo: pareva pagode. Però bone barche. E cussì Fiume iera piena de marineri giaponesi che no i iera vestidi, savè, come i nostri. I gaveva le gomasse bianche, la siabola che ghe bateva sul dedrio e el coleto alto. El mariner capel col ongia; e l'uficial, capel puntà, anche in montura bassa. — Ah, xe vero che i xe cussì bassi de statura? — I xe, sì, bassi. Ma cossa ghe entra cola montura bassa? Montura bassa vol dir quela dei giorni de lavor; i nostri uficiai, inveze, presempio, portava el capel puntà solo per la festa del'Imperator, robe cussì. — Ma anche i giaponesi gaveva l'Imperator? — Come no? El Mikado. Che noi anzi sempre fazevimo un rider a bordo. Ghe se domandava a un «Come se ciama l'Imperator del Giapon?». E lu diseva: «Mikado». E noi «Ciàpite per qua per no cascar», ah, ah. Me ricordo el nostro-omo Bussànich, che lui iera un ridicolo. Propio lu el me ga dito: «Vien, vien, che xe el gran velion dela Maritima». La Maritima iera solo per sotuficiai, la bassa forza no podeva vignir, ma mi iero za mistro. I me ga dà l'invito e iera scrito «Ingresso pro Cassa Maritima» — me ricordo come ieri — e un poco più soto «alta uniforme o costume di maschera». — Ma cossa iera roba de militar? — No. Iera dela Marina mercantil, ma tuti gaveva montura quela volta, anche la Marina mercantil. Solo che mi go pensà che bisognava far colpo con un costume de maschera, e savè dove che me xe vignù l'idea? In lavanderia de mia prima cugina Malvina. — Ah, gavè ciolto un linziol e ve gavè vestì de spirito? — Sì, de spirito de brusar. Che de rider, ara, che sarìa stà vestirse de spirito! Dunque, dovè saver che a Fiume iera dò lavanderie, questa de mia prima cugina Malvina e quela de un cinese, che iera stà lavander del Lloyd Austriaco. E alora co' xe vignuda 'sta squadra giaponese e i uficiai gaveva de lavar, netar e stirar le monture, i le ga portade in lavanderia. — Del cinese? — Machè del cinese! No savè vù che cinesi e giaponesi no se pol veder? Giali contro giali. Sempre stà nela storia del umanità. Apena che i ga visto che questo iera cinese, i ghe ga subito portado le monture in lavanderia de mia cugina Malvina. — Prima cugina? — Primissima. Perchè ierimo fioi de due fradei che gaveva sposà due sorele. — Ahn. Xe sì qualche volta 'ste combinazioni. Anche mio cognà, no quel che conossè vù... — Indiferente. Iero andà là in lavanderia. Mi andavo sempre là a scherzar con 'ste lavandere. Vedo tuta 'sta fila in alto de capei puntai e ghe digo: «Ma questi no xe i capei puntai dei giaponesi?» Come no. Che i xe dei giaponesi che i ghe ga portà là per pulitura, per stiratura. Le monture, insoma. Me xe vignù l'idea, no? Ghe digo: «Malvina, noi semo primi cugini, squasi fradei, perchè semo fioi de dò fradei e de dò sorele: mi stasera go de 'ndar al velion dela Maritima. Dàme una montura, Malvina, che mi doman te la porto indrio, Malvina, te prego, Malvina, ti pol fidarte, Malvina. Ti me faria un piazer grando, Malvina». — Malvina la se ciamava questa vostra prima cugina? — No, Dolores del Rio. Se ve go dito che la se ciamava Malvina. Insoma tanto ghe go dito, tanto go fato, Malvina qua, Malvina là, che la go inzinganada. Go trovà la montura de un grando. — Un grando, un uficial? — Ma sì, uficial. Ma grando de statura intendo dir, che me stava quasi giusta. Col capel puntà, le gomasse, tuto in ordine. Voi dovevi sentir le ridade. — De vostra prima cugina Malvina? — Ma no, de tuti al velion co' i me ga visto. Vestì de giaponese. Tuti che me diseva «Sayonara, Karakiri, Mikado, Ciàpite per qua». Un rider che no ve digo. E le putele come mate drio de mi. Iera una po' che iera vignuda vestida de Geisha che gavemo ciapado el premio per la copia più assortita: una dozena de fiasche de sampagna a mi e un per de recini murlachi, tuti in filograna, per ela.. Siora Nina, gavemo fato le zinque. — Fiasche de sampagna? — Machè. Tute dodese le gavemo bevude. Le zinque de matina, co' semo vignudi fora del velion. Alegro iero. Insoma più che alegro. Però no proprio imbriago. Un poco ciapado. Insoma quela roba che ve se ingropa la lingua, che no se pol parlar. — Eh, mi conosso subito Albino co' el me torna un poco lustro. Lui ga subito quel che no'l pol ben la parola. — Indiferente. Gnanca mi no podevo ben la parola, co' me ga ciapado in mezo la ronda giaponese. — Un balo giaponese? — Machè balo giaponese. Iera la ronda dela Squadra Naval giaponese che andava in giro per i locai e per le rive a ingrumar presto presto marineri e uficiai, che iera s'ciopada la guera. — La prima guera? — Machè prima guera. La primissima. Iera la guera russogiaponese del Mile Novezento e Quatro. E iera passado telegrama che la Squadra doveva tornar imediatamente. Questo, dopo, go savudo. Perchè co' i me ga dito, saludandome, sicome iero vestì de uficial giaponese, i me lo ga dito in giaponese. E mi no podevo spiegarme, perchè iero lustro cola lingua ingropada. — Ma dopo ve gavè spiegà? — Come no? Tre mesi dopo, a Yokohama, che saria el porto de Tokio. Perchè in viagio no i ga volù sentir ragion. Lo go fato tuto ai feri in sentina, come uficiale ubriaco. Perchè xe tremendi i giaponesi contro i uficiai imbriaghi. MALDOBRIA X - I PRANZI DI CATTARO Nella quale Bortolo narra del mistro Bogdànovich, uomo famoso in tutta la Dalmazia, dal Quarnero alle Bocche di Cattaro, dove per l'appunto ebbe origine la piìi divulgata delle storie che gli vengono attribuite. — Cossa no i impara più tedesco a scola, me disè? Pensarse, siora Nina, che una volta el tedesco iera el passpertù, el vademecum. Chi iera un omo che no saveva tedesco? — E vù, sior Bortolo, savè tedesco? — Saver franco, no. Ma no me go mai perso. Figure come Bogdànovich no go mai fato... — E chi xe Bogdànovich? — Ma come, no ve ricordè de Bogdànovich? Quel che navigava col Lloyd Austriaco? Barba Ive Bogdànovich, un dalmato de Almissa el iera. Ma el stava cola famiglia a Spalatro. — No conosso. — Eh, vù sè tropo giovine. Ma mi e Bogdànovich, quel periodo ierimo come fradei, durante la guera. Parlo dela prima guera. Che i ne gaveva mandà tuti dò ale Boche de Cataro. Mi in artiglieria de marina e lu come mistro. El iera un mistro finido, i lo gaveva messo propio in arsenal de guera. — Ale Boche de Cataro i me ga dito che xe 'ssai bel. — Xe una dele meraviglie del mondo, siora Nina, le Boche de Cataro! Xe quatordici miglia de canal. E che canal! Con 'ste montagne sora, tuto el Montenegro se vedi: imenso. Cossa che no se gavemo divertidi con 'sto Bogdànovich: lui iera un tipo 'ssai ridicolo, i ghe ne contava de lu... — De 'sto Bogdànovich? — E de chi parlemo? Dovè saver che i contava de 'sto Bogdànovich che una volta, savè con quela calada che ga i dalmati, el ghe ga dito al Comandante Brazzànovich: «Mi a nissun dago del lei, solo a ti, sior Capitano». — Ah, ah, bela! Bela! Del lei, a ti! — Sì, ma xe un'altra anche che i contava de Bogdànovich e del comandante Brazzànovich. I diseva che el ghe ga dito... — Brazzànovich a Bogdànovich? — Ma no: Bogdànovich a Brazzànovich. El ghe gaveva dito: «Sior capitano, quando che riveremo ale Boche de Cataro, mi ghe regalerò un castron grando come lei». — Ma no'l ghe dava del «ti»? — Ma sì! Ma i conta dài. Cossa ghe fè la ponta a tuto! Ma volevo contarve quela dele Boche de Cataro, durante la guera. Lui iera come mistro in arsenal militar. E ogni giorno l'andava a magnar ala mensa sotuficiai. Mi inveze in caserma ah! Trupa, bassa forza, gamela. Insoma lui magnava con tuta 'sta sotuficialità. Perchè dovè saver che a Cataro iera anche barche germanesi, germaniche là, come che volè. E un giorno in tavola sua se senta con lu un germanico propio de Amburgo. — Tedesco. — Tedesco, sì. Ma no austriaco. Germanico. Che però i parla tedesco. E come che el se senta, 'sto Unteroffizir, 'sto sotuficial, soto i gnochi un sotuficial iera una roba incredibile, el ghe fa come un inchin a Bogdànovich e el ghe disi: «Mahlzeit!». — Malzait. — Sì, malzait. Che vol dir per tedesco «Bon appetito». Bogdànovich, che no parlava gnanca una parola de tedesco, pensa «'sto qua se ga presentà». Insoma el ga congeturà che el ghe ga dito el suo nome. Alora el se alza anca lu e el ghe disi el suo: «Bogdànovich». — A questo tedesco? — Sicuro. El giorno dopo, stessa roba. 'Sto tedesco ghe disi «Malzait» e lu «Bogdànovich». Se vedi — el ga pensà — che ieri no'l ga capì ben». — E el ghe ga dito de novo «Bogdànovich»? — Sicuro. Cussì, passa un giorno, passa dò, passa tre, passa sete: ogni pranzo «Malzait» «Bogdànovich». Fin che 'sto Bogdànovich vien de mi e me conta: «Mi no so — el disi — 'sto qua, 'sto tedesco, el se presenta ogni giorno, sarà l'uso». Alora me go fato contar ben tuto, go ridesto e ghe go dito: «Bogdànovich mio, "Mahlzeit" no vol dir miga che el se presenta, malzait vol dir "bon apetito" per tedesco. Lui, ogni giorno te disi "bon apetito"». — Ah, ghe gavè spiegado? E lu ga capì? — Sicuro! Sicuro! Tuto pulito. Difati, el giorno dopo el xe andado un poco prima in mensa e, co' riva el tedesco, Bogdànovich se alza e el ghe disi ben, come che ghe gavevo imparado mi: «Malzait!» E savè coss' che ghe ga dito el tedesco? — No, cossa? — El tedesco ghe fa: «Bogdànovich»! Capì? el tedesco credeva che «Bogdànovich» vol dir «bon apetito» per dalmato. — Aaaah! Mi gavevo zà sentì 'sta storia. Solo che la gavevo sentida per Micovìlovich. Che lu ghe diseva «Malzait» e el tedesco ghe rispondeva «Micovìlovich». — Eh, ma no, siora Nina, la xe 'ssai più bela per Bogdànovich! MALDOBRIA XI - UN BIGLIETTO DA MILLE CORONE Nella quale Bortolo, rammentando il libro di lettura per le Scuole Popolari del Litorale, racconta la storia di un biglietto da mille corone, travolto, con tante altre savie istituzioni, nel crollo dell'Impero Austriaco. — Adesso nele scole i cambia libro ogni ano, siora Nina. Inveze soto l'Austria defonta iera un unico libro. Di Stato. Sempre quel. Tuti i ani. Che el fio podeva doprar quel del padre. Tanto, dò più dò fa sempre quatro. E iera sempre la Contea Principesca di Gorizia e Gradisca, il Margraviato d'Istria cole isole di Veglia, Cherso e Lussino, e la città di Trieste con il suo territorio. Adesso ara! — Come che ve ricordè ben, sior Bortolo. — Per forza che me ricordo. A mi, dopo dela disgrazia, quando che gavevimo perso la barca sula Pericolosa, per un per de ani i me gaveva ciolto a scola. — Come maestro? — No come maestro. Mi gavevo fato solo due Nautiche. No gavevo l'atestato, i me gaveva ciolto come bidelo. Come primo bidelo, dài, iero solo mi, unico. — Propio qua su in scola? — Sì, propio qua. E anzi coi libri de scola una volta me gaveva tocà un truco! — I li gaveva cambiadi? — No. Ve disevo prima che quela volta no i cambiava mai i libri de scola. Iera che quel ano iera propio el tempo del ribalton. — Che ribalton? — El ribalton de l'Austria. 'Sto ribalton iera zà che se lo sentiva per aria. E mi gavevo el mio sgabuzin propio rente del Scritorio del Diretor de scola, che quela volta iera el Maestro Staffuzza. — Eeh, come no! El Maestro Staffuzza. Me lo ricordo mi, un alto, magro che andava sempre in cesa. — Bon, de 'sto mio sgabuzin, mi sentivo tuto coss' che i parlava in Direzion, perchè iera solo un paredo de legno e de vetro. — Mio defonto padre diseva sempre: «Chi che sta in ascolteria, senti robe che no'l vorìa.» — Inveze quela volta go sentì una drita. Perchè iera vignudo del diretor el Podestà. Che quela volta iera l'avocato Miagòstovich. No miga l'avocato Miagòstovich. El padre ancora, el vecio avocato. — Ah, che omo che iera quel! Mi ghe digo sempre a mio marì: «Meno mal che el ga serà i oci in tempo, perchè lu no gavessi podù soportar de vèder tute 'ste robe». — Indiferente. Insoma quela volta sento che l'avocato Miagòstovich ghe disi al Maestro Staffuzza che xe mal mal mal, che el momento xe 'ssai difizile e che i pol meter anche el fermo in Banca. — Come el fermo in Banca? — Sì, in Banca. Alla Cassa rurale, che iera quela volta. Come dir che de un momento al altro i disi: «Sluss, no se pol più tirar fora i soldi». — Ah! El fermo in Banca. — Quel. Mi, co' gavevimo perso la barca, gavevo ciapà la sicurtà de quei due carati che iera mii. «No basta gnanche per i tambùci» — disevo — «ma pol sempre capitàr un'ocasion de farme una barca mia». Insoma per farvela curta, gavevo mile corone alla Cassa Rural. — Eh, iera qualcossa quela volta. Iera iera. Giusto per quel go pensà: «A pensar mal no xe mai sbalià». E la matina dopo, apena che i ga verto, son 'ndà a tirarle fora. I me ga dado un bilieto de mile. Quei blù, ve li ricordè? — Cossa volè che mi me ricordo mile corone, che no le go mai viste tute insieme. Savè come che se disi: «Chi li ga spessi e chi li ga ciari». Noi li gavemo avudi sempre ciari. Prima e adesso. — Bon. I me dà 'sto bilieto e quei picoli che iera de interesse. E mi — imaginarse! — 'sto bilieto blu me lo tignivo come el Santissimo. Gavevo un pensier teribile. Dove lo meto? Dove lo scondo? A casa no me fidavo, perchè mio padre un poco gaveva butà strambo dopo la disgrazia. E insoma per farvela curta, go pensà che el meio logo iera sconderlo a scola. — Nel muro? — Che muro! Iera là quei libri de letura dele scole Popolari, quei che dava el Patronato per i fioi poveri. E alora, savè cossa che go fato? Go ciolto dò pagine, cola goma arabica le go incolade sui orli e go messo fra mezo 'ste mile corone. — Ah, bel! Bela pensada: cussì anche se un verzeva el libro, no le cascava. — Propio. Iera novembre e patapùm, ariva el ribalton. Dio coss' che iera! El militar de Marina, almeno xe vignù subito a casa. Ma quei de Galizia, poveri in che stati! Carighi de bestie! — Iera bruto in Galizia. Me contava mio povero padre... — Indiferente. Vien el ribalton e la scola qua xe subito passada soto l'Italia Redenta. Xe vignuda de Pola, me ricordo, la maestra Moratto. E mi, quela matina i me gaveva ciamà in Comun che ghe dago una man per le bandiere. Insoma prima go fato in Comun, dopo l'avocato Miagòstovich ga volù che vegno con lu fin Pisin, perchè quela volta a Pisin iera tuto, iera più che Pola, Pisin quela volta. E insoma son tornado a scola dò giorni dopo. — Mia mama iera pisinota. No propio de Pisin. De Lindaro. — Indiferente. Torno a scola e vardo l'etasèr. Cossa vardavi? Vardavi de tasèr? —« Ma noo! L'etagèr. I calti dove che tignivo i libri: Siora Nina: svodi. Completamente neti. E mi come mato coro del Maestro Staffuzza: «I libri, dove sono i mii libri? Insoma i libri del Patronato, quelli che erano sul calto.» «Ma coss' te ciapa me disi el Maestro Staffuzza i libri de scola adesso vien cambiai. Cossa ti vol che i fioi continui a leger «Serbidiòla», «Maria Teresa e l'Ussaro», «La visita dell'Imperatrice Elisabetta all'Ospitale Militare di Mittelburg»? Adesso tuto libri novi, vien i libri dell'Italia Redenta.» — Aah! E vù gavevi le mile corone nel libro! — Ma sicuro! Per cossa credevi che iero come mato?! Per farvela curta, ghe domando dove che i ga portà 'sti libri veci. Che i li ga portadi a Pisin. «Mama mia, a Pisin... giusto a Pisin che iero»... e coro a Pisin... — E li gavè trovai a Pisin? — Machè! Gnente. Che i li ga mandai a Fiume. Coro a Fiume. Inveze che no, che no a Fiume co' son andà, perchè Fiume no iera Italia Redenta, là iera ocupazion interalleata. — Persi, dài. — Machè! A Trieste, che i xe. Coro a Trieste. Zerca, gira. In via Gioto, là che i ga portà tuti 'sti libri. Al Circolo Didattico. — Finalmente li gavè trovai! — Siora Nina! Co' son rivà in via Gioto, finalmente dopo cinque giorni co' li go trovai, me xe vignù svenimento. — Dela contentezza? — Machè contentezza! In via Gioto a Trieste, rivava 'sti libri de letura de tuta l'Istria, de Fiume, de Cherso, de Lussin, fin de Trento, siora Nina. Tuti i libri de Stato de tute le Vece Province, insoma, sarà stado mièra e mièra, zentinera de mièra de libri, tuti compagni. Tute le cantine piene che no se podeva gnanche moverse. — E alora? — E alora me go oferto come bidelo volontario in via Gioto a Trieste. L'avocato Miagòstovich me gaveva fato una letera. — Ma perchè? — Ma per trovar le mile corone, siora Nina. Mi go passado giorno e note a ciapar per man libro per libro. — E le gavè trovade, po'? — Siora Nina, stavo per trovarle, perchè iero rivà squasi ala fin del mucio. Ma giusto in quel ano i me ga richiamà. I me ga mandà in Abissinia. MALDOBRIA XII - IL CANARON DI TENERIFFA Nella quale Bortolo racconta di come, militare di Marina, avesse approfittato d'una visita di cortesia della Squadra AustroUngarica a Tolone per recarsi a Montecarlo; di come il demone del gioco si fosse impadronito di lui e di come infine egli arricchisse la Storia Naturale inserendovi, per questioni di donne, l'emozionante capitolo del Canaron di Teneriffa. — Abazia? Portorose? Cossa volè che sia, siora Nina! Montecarlo, quel iera qualcossa. — E vù ieri a Montecarlo? — Sì, de militar. Iero militar de Marina, de leva e ierimo cola Squadra in visita de cortesia a Tolone. — Che squadra? — La squara del murador! Ma dài, siora Nina, la Squadra Austroungarica. Mi iero sul Kaiser Karl Sesto, Sexte, come che i ghe diseva lori. E de Tolone a Montecarlo no xe assai. E mi, Marco Mitis e el Primo Cadeto Giadròssich, un giorno che ierimo franchi gavemo volù cavarse 'sta curiosità del Casinò. — E gavè zogado? — Come no? Apena andà dentro go messo zinque franchi sula prima dozena e go vinto. — Fortunado! — Sì, fortunado. Savè come che se disi: chi vinzi la prima lassa le braghe. Senza un boro son tornà. Però, de quela volta, ogni porto dove che iera un casinò mi andavo a provar, anche co' navigavo col'Austro-Americana. Barba Nane me diseva sempre: «Zoghè, zoghè! Zoghève anche la matricola, tanto presto i ve la caverà, con quela bela nomea che ve gavè fato!» — Eh! El zogo xe traditor. — Indiferente. La più bela me ga tocado quando che iero zà promesso. — De anel? — No, promessi de anel no ierimo ancora, ma se parlavimo zà de ani e la putela no fazeva che dirme: «Ma quando se sposemo, ma quando se sposemo?» E mi ghe disevo: «Co' torno del viagio. Fazo ancora un viagio, che meto via un pochi de soldi». Savè: un poco se se rangiava, portando fora qualcossa. — Fora de dove? — Fora de Punto franco, come che fa tuti i maritimi. Miga robe vergognose, però: un poco de tabaco, cafè, zuchero, profumi, biancheria de bordo, savè, quela che se cioleva. — So so, anche mio padre povero, cioleva. Gavevimo tuti i linzioi de casa marcadi Lloyd Austriaco. — Insoma, una roba e l'altra, me gavevo messo de parte un pochi de soldi. E un giorno ghe go dito: «Fazo ancora 'sto viagio per le Canarie — banane portavimo — e co' torno se sposemo. E, varda, dele Canarie te porto anche un bel canarin, de quei bei grandi che go visto là». — Cossa xe canarini ale Canarie? — E indove i ga de esser? Xe tedeschi in Tedescheria? Bon, cussì xe anche canarini ale Canarie. Insoma tuto bel e bon, baci abraci, arivederci e scrivi, e semo rivadi a Tenerifa. — Ma no dovevi andar ale Canarie? — E Tenerifa dove xe? Nele Canarie xe Tenerifa. Siora Nina, un Casinò iera là! Gavè presente la Stazion de Trieste? Bon: quel iera solo el porton. E dentro tuto uficialità, signoroni. Spagnole iera quela volta le Canarie, adesso no so de chi che sia. Sarà americane mi calcolo. E mi me gavevo cusido dentro del sacheto tuti 'sti mii maledeti soldi e vado ala rulèt. Siora Nina; mi credo che se quel giorno gavevo l'asso de briscola, anche quel i me lo magnava: una pègola, una pègola, una pègola che no ve digo! — E gavè perso 'ssai soldi? — De principio no tanto, ma po' me iero inervosido, come. E savè come che se disi: chi zoga per bisogno, perdi per necessità. E go perso tuto, fina l'orologio de Marco Mitis. Pensè che co' semo partidi de Tenerifa, no gavevo gnanche un fiorin per comprar el canarin. — Che canarin? — Ma quel canarin, quel canarin bel grando che ghe gavevo promesso ala morosa. — Ah, la gavè ilusa, no ghe lo gavè portà? — Spetè, spetè. Go pensà: sposarla adesso no posso. Perchè no go gnanca un soldo per far balar l'orbo. Se no ghe porto gnanca el canarin la me subissa. E alora, co' go tirà la paga del sbarco a Trieste, son andà in piazza Ponterosso, savè dove che ancora ogi i vendi usei. Siora Nina; canarini pici, quele robe nate qua. Saria stà una vergogna portar una roba simile vignindo de Tenerifa. Alora go avudo una bela impensada, go comprà una checa, cola sua cheba e tuto. — Una checa? — Ma sì, una checa, una gaza ladra come che se disi in lingua. Quei usei neri, che quando i vedi qualcossa che lusi i ciapa su e dopo i scondi. Come le cheche, po'. — Ah, una checa! — Sì, sì una checa. No tanto granda come checa, ma come canarin la iera grandiosa, imensa. — Ma i canarini no xe zali? — Sicuro. Ma mi iero omo de mondo siora Nina, miga grubian! Savè coss' che go fato? Son andà in drogheria, go comprà acqua ossigenata e go ossigenà la checa. De mora che la iera, la xe diventada bionda platino, come Jàn Hàrlov. — Giancarlo? — Cossa Giancarlo! Jàn Hàrlov, quela artista americana, dèi. Ben, insoma, de 'sta checa nera me xe vignù fora un canerinon bel zalo, come de oro. La putela iera contenta che no ve digo. «Ma el canta?» la me domandava. «Mah, no so, — ghe disevo mi — me par che 'sti grandi canta più tardi». Però quela sera stessa semo 'rivadi al dunque. — La se ga inacorto che no iera un canarin? — No, no, semo rivadi al dunque, perchè la me ga dito: «Alora adesso se sposemo no?» E mi, savè, pitosto che contar zento busìe go contà una vera verità: «Maledeto el momento, maledeto el zogo, maledeta Tenerifa». Inutile, ghe go dito, devo ancora far un tre viagi adesso. Siora Nina, savè cossa che ve digo: che co' se conta la verità no se xe mai credui. Che xe tuto scuse. Che mi no la voio sposar, che xe tanti ani che se parlemo, che tuta la gente oramai ciàcola, che cossa credo mi de ciorla pel fioco. Insoma basta. Le me ga scazzà via de casa ela e sua madre. E in più, per sprezzo, la ga averto la cheba del canarin. Anzi del canaron. E vola, colomba. — Ma no iera una checa? — Sicuro che iera una checa. Ma per ela iera un canaron de Tenerifa. E mi me ga assai dispiasso. Perchè mi iero propio intenzionado de sposarla, savè. Insoma quela note no go dormì: un poco per 'sto diol de cuor, un poco per i soldi che gavevo perso, un poco perchè pensavo cossa che podevo portar via de bordo per refarme: note bianca. — Eh sì, sior Bortolo: la note xe la mare dei pensieri. Qualche volta anche mi... — Indiferente. Insoma, de matina bonora iero là in porporèla che ghe davo una man de pitura al caicio e me la vedo tuta soridente. — La checa? — Ma no. La putela. E la me disi che ela gaveva sempre pensà che mi no podevo esser cussì canaia. E insoma che la se gaveva propio comovesto. — Come, comovesto, de cossa? — Volè creder? Se se la conta, non se la credi. 'Sta checa, via de casa, chissà dove che la iera andada. In un hotel, in un cuter, forsi su in vila Prohàska. Fato sta che la gaveva visto un anel, un anel con una bela piera. E 'sta malignaza checa lo gaveva portado via. E po', come che usa le cheche, la iera tornada nela sua cheba. — Col anel? Sicuro; e la putela, de matina alzandose, la ga trovà la checa, che ela credeva che fussi un canaron de Tenerifa e 'sto anel. Cossa volè? La ga pensà che mi me go pentì, che ghe go portado indrio el canarin e in più l'anel de promessa. Ela cussì la ga calcolà, mi calcolo. — Ma de chi iera l'anel? — Ah, no se ga mai savesto. In qualche hotel, in qualche cuter, forsi su in vila. O in qualche vapor. Quela volta se cioleva bastanza roba via dei vapori. MALDOBRIA XIII - PICCOLO MONDO ANTICO Nella quale Bortolo racconta di quando fu installato il telefono in casa di Marco Mitis, dell'uso che ne fu fatto e di quanto corse sul filo tra il defunto Schitazzi e Miro, un uomo di poche ma colorite parole. — Cossa volè, siora Nina. Xe el progresso. Tempo diese ani, parleremo tuti col'America fracando un boton. In principio 'ste robe costa assai, ma po'... Una volta, presempio, gaver el telefono in casa iera un lusso. Prima gaveva solo el Caffè, che iera posto telefonico pubblico, po' la Comun, che lo doprava anche el dotor e subito dopo, prima el padre de Marco Mitis e po' Miro, che in quei anni fazeva el grossista. — Eh sì, Miro ga volù esser sempre sora l'oio. — Indiferente. Me ricordo che propio de casa de Marco Mitis lo gavemo coionado per la vita e per la morte. — A Miro? — Spetè, spetè. Dunque dovè saver che el padre de Marco Mitis iera de quei un fiatin grandezzoni. Lu ga vossù esser el primo a gaver el radio; primo a gaver el bagno in casa. «Chi che cica me lo dica» — el diseva. Bon omo! Iera un che saveva viver. Insoma, dopo che el gaveva messo el telefono, no'l saveva a chi telefonarghe. E un giorno de piova che ierimo là a casa sua, che se pindolavimo, go dito: «Qua, volendo, col telefono, se podessi anche farse la ridada.» — La ridada nel telefono? — Ma che ridada nel telefono? Spetè, no. Insoma vù dovè saver che, quela volta, Miro se missiava fora de modo per aver l'apalto dele colonie. — In Abissinia? — Machè Abissinia. Le colonie del fascio, quele che i fazeva pei fioi de istà. No ve ricordè che iera una qua in scola, una a San Martin e una in Ponta Sant'Andrea? E Miro voleva aver l'apalto dela refezion, come che i ghe diseva, dela panatica, insoma. Savè iera bei soldini. E lui per 'sta roba assai se missiava col segretario politico che iera el defonto Schitazzi, se ve ricordè. E cussì, là a casa de Marco Mitis me vien 'sta impensada, ghe la conto ai altri e tuti: «Dài dài, faghe faghe». E ghe la gavemo fata. — Un scherzo col telefono? — Altro che! Insoma mi go simulà che parlavo dala Comun e ciamo Miro: «Pronto», el fa lu. «Pronto» digo. «Qui parla Schitazzi» ci dico. E lui: «Egregio — el me disi — come state?» dandome del vù. «Egregio», una roba e l'altra, che giusto el voleva vignir de mi. De Schitazzi, insoma. Alora mi ghe digo: «Per le colonie, caro Miro, possiamo forsi combinare». «Combiniàmola» — el disi lui. E i altri drio de mi che rideva. Insoma ghe la tiro per le longhe. Che va bene, due e cinquanta per ogni muleto. Che in ogni modo lui xe sempre a mia disposizion, per el mio disturbo che quando che voio. Insoma el me fazeva capir, capì. Drio de mi tuti cola ridariola, tanto che, a un zerto punto, che no ghe ne podevo più, ghe digo: «Ciò, Miro, tandùl, qui parla il Segretario dei coionai che no magna buzolai. Son mi, son Bortolo, semo qua tuti che te gavemo coionà.» — Ah questo iera el scherzo? — Spetè, spetè. Po' a Marco Mitis ghe xe vignù l'idea che se podeva farla ancora più bula. Cussì, apena che Miro ga serà el telefono biastemando, savè coss' che fa Marco Mitis? El ciama su in Comun Schitazzi defonto. Ghe rispondi Nevina che iera sua impiegata e Marco ghe fa ghe dice: «Guardi che il numero 320 riceve ma non trasmette: prega il Segretario Schitazzi di chiamarlo urgente», cussì cola vose finta. — Trecento e venti? — Sicuro; trecento e venti, iera el numero de Miro. — E Schitazzi defonto ga ciamà? — Come no! Ne ga contà Nevina. El ciama 'sto numero 320 e el disi: «Pronto, qui parla Schitazzi». E del'altra parte Miro ghe fa: «Ciò, mona, ti ga finì de far el mona?». E Schitazzi, che a lui mona no ghe ga dito mai nissun. Che el ghe la farà veder. «Sì, la mona...» tuto cussì, insoma. — Ah, male parole! Perchè lui credeva... — Sicuro! Lui credeva che son mi che torno a farghe quel scherzo de prima. — E inveze iera propio el defonto Schitazzi? — Sì, ma quela volta no'l iera defonto. E la sera istessa co' el ga visto Miro in Piazza el ghe gà rifilà dò stramusoni, disendoghe: «Questo te xe per la mona e questo te xe per la mare». Insoma, ve digo franco mi, che Miro dopo, ga avudo quela de perseguitato propio per questo. MALDOBRIA XIV - LUNGO VIAGGIO DI RITORNO Nella quale Bortolo narra della sospettosa indole di Capitan Bogdànovich, di un suo frequente, colorito intercalare e del fortunoso ritorno del suo equipaggio da Odessa a Trieste, via Scianghai fra i bagliori della Rivoluzione d'Ottobre. II tutto per una parola. — Sior Bortolo, savè che se no la go lassada in botega, go paura de gaver perso la ciave de casa! — Sempre dò ciave ghe volessi gaver, siora Nina. Savè che una volta, per gaver una ciave sola, ghe iera tocà un truco al Capitan Bogdànovich, ma un truco! — Bogdànovich de dove? Mi conossevo un Bogdànovich a Veglia che iera Maestro de Posta. — Se questo iera Capitano, no'l iera Maestro de Posta. E alora vù conossevi un altro de quel che conossevo mi. — Ahn! Questo iera Capitano. — Capitano, altro che. E paron de barca. Un dalmato. El gaveva una scuna, bela granda. Uh, el fazeva viagi fin in Mar Nero. Barba Nane me gaveva imbarcà con lu; el me diseva sempre: «Andè, andè a navigar con Bogdànovich, che ve farà ben. Intanto vederè un poco de mondo, inveze che remenarse qua per 'sti scoi. E po' con lu filerè drito: el ve indrizerà un fià le corbe.» — Perchè iera cativo 'sto Capitan Bogdànovich? — Cativo no, ma tremendo. Sospetoso. E po' un spirito de contradizion che no ve digo. Guai dirghe, presempio, «Andassi in tera». El diseva: «Kùraz, cossa in tera, cossa in tera. A bordo se sta, che xe sempre qualcossa de far.» Pensè che se un voleva andar in tera, doveva dirghe: «Capitan Bogdànovich, mi ogi quasi resterio a bordo». E lu: «A bordo? Kùraz. Cossa far a bordo? Maldobrìe? Fufignezzi? Àle, àle, in tera. Co' se xe franchi, se va in tera!» — El iera rùspido? — Domandarghe po', per esempio: «Che porto femo, dopo?» «Indovinala grilo che te farò beato. Te volessi saver? Kùraz! Andemo dove che Dio ne comanda. Co' riveremo ti saverà!». Sospetoso, ve go dito. Lui chissà cossa el congeturava che noi... Pensè, in gabina sua el gaveva la cuceta, el tavolin, dò careghe e el sèf... — El chef? El cogo de bordo? — No el «chef» de cusina, el sèf de camera, la cassaforte. Anzi me ricordo che el gaveva sempre quela: co' el mandava a ciamar in gabina qualchedun, el ghe diseva: «Ciolè una carega e senteve per tera. Kùraz, dove semo? Anche sentarve sule mie careghe volè vù, marineri?». E po', a domandarghe qualunque roba, savè coss' che el diseva? — Sì: kùraz. — Anche. Opur: «El fio de mio pare disi de no!» Un rùspido, però no se podeva dir che el iera cativo. — E de cossa el gaveva 'sta ciave sola? — Ma del sèf, dela cassaforte de bordo. Un giorno, me ricordo come ieri, in porto a Spalatro, per tirar fora dela scarsela la scatola per farse i spagnoleti, no ghe casca la ciave in mar! — Dela cassaforte? — Sicuro. «Adesso ve cavè le braghe e andè a zercarla soto!» «Kùraz» — volevo dirghe mi, ma no ghe go dito, se no iera ancora roba che el me moli un stramuson. Semo andai tuti a zercar soto. No ve digo cossa che no xe a Spalatro in porto de acqua sporca. Gnente. La sarà andada a finir soto la sabia. Chi la ga più trovada. Insoma ghe ga volù el fabro per verzer el sèf. E co' el lo ga ben verto, el lo ga mandà fora de gabina che no'l vedi coss'che xe dentro. — No'l se fidava? — De nissun. El diseva sempre: «Mi me fido solo del fio de mio pare, perchè son fio unico». — Ah, come dir che no'l se fidava che de lu solo sistesso! — Insoma, per farvela curta, co' semo rivadi a Trieste el voleva farse cambiar la seradura. E là i lo ga inzinganà de cior una roba nova germanica; savè quele seradure cola manopola che se averzi cola combinazion. — Come? Xe combinazion che se verzi? — Noo. Xe una combinazione. Xe tante letere o numeri segnai e se fa uno, l'altro, po' el terzo; e po' co' se li ga fati tuti, se verzi solo. — Ah! Quele casseforti coi numeri, che ghe vol saver la combinazion. — Sì. Solo che questa iera cole letere. Tute le letere del alfabeto. El ga dito: «Xe più sicuro. Perchè i numeri xe solo diese, e le letere xe vintitrè, cola «ka». — Come, cola «ka»? — Cola «ka», cola «kappa». Perchè soto l'Austria gavevimo anche la «ka». Insoma no ve digo, no ve conto, co' i ga portà 'sta seradura a bordo. Iera dò mistri de fero che ga lavorà. E lui ga fato meter le letere che el voleva lu. «Solo el fio de mio pare le saverà — el diseva — Kùraz che ghe le conto a qualchedun». El rideva. — Eh, xe comodo! Cussì no se perdi mai la ciave. — Ma se pol perder la memoria. — Ah, perchè el se le ga dismentigade? — Machè. Lui, ara, se dismentigava de qualcossa. «Capitan Bogdànovich, el diseva, xe come l'elefante che ga scrito tuto qua dentro!». — Ah, no'l se ga dismentigà? — Spetè che ve conto. Insoma iera bruto. — Bruto mar? — Machè bruto mar. Anche bruto mar, iera. Ma iera apena stà quela roba dela Serbia, se spetava guera de un momento al altro. A Fiume gavemo fato carigo che tuti congeturavimo chissà coss'che gaveremo carigà. «Kùraz che ve digo» — diseva el comandante. E dopo gavemo dovù passar per Pola che iera porto militar. — La prima guera? — Questo iera ancora prima dela prima guera. Ma se spetava guera da un momento al altro. E in Groverno Maritimo i ghe ga consegnado al Capitan Bogdànovich — go visto mi — una busta sigilada. Porto de destinazion iera Odessa, ma in caso di guera bisognava verzer la busta. — Ah, iera scrito dentro dela busta questo? — Sì. Dentro la busta iera scrito che bisogna verzer la busta! Ma dài, siora Nina! Sigilada la iera. Questo i ghe ga dito a vose. — Ahn! — Insoma tuto ben, tuto pulito, passemo i Dardaneli. Semo in Mar Nero zà. Mi iero al timon e lu vizin de mi col canocial. Me ricordo come che fussi ieri. Mi gavevo visto subito che el gaveva i oci come un poco infoscadi. — Per via del canocial? — Machè per via del canocial. Cussì, stranido, el me iera. E a un zerto punto el me guanta cola man la spala e 'l me disi: «Boga ti! Stago mal». Siora Nina, mal, mal, mal, mal. Se no lo guanto el casca longo disteso in coverta. Lui gaveva sempre quela costituzion, savè, sanguigna. — Eh, anche mio defonto padre. Una sera: mal, mal mal... — Indiferente. Mi e Pìllepich lo gavemo portà in cuceta. — E gavè ciamà el dotor? — Sì,dela Cassa Malati, qua sul canton! Siora Nina, chi gaveva dotori a bordo quela volta? El maritimo iera nele man de Dio. E mal, mal, mal. Alora un zerto Okrètich, che iera el Secondo, el disi: «Conosso 'ste robe. Qua in tre giorni el se refa o el va!» — Ghe iera vignù un insulto? — Eh! E 'sto Okrètich disi: «Cossa femo noi? Qua ghe volessi verzer la busta». — Che busta? — Quela che i ghe gaveva dà al Governo Maritimo de Pola. Perchè più che andavimo avanti e più trovavimo Marina militar. — E vù ieri in Marina mercantil? — Sicuro. Alora Okrètich va là e ghe disi: «Capitan Bogdànovich, me sentì?». E lu ghe fa moto come de sì. Alora el ghe disi, ghe fa ghe dice: «Capitan Bogdànovich, qua se vedi sempre de più Marina militar, qua ghe volessi verzer la busta. Disème come che se verzi la cassaforte!» Lu lo ga vardà. E savè coss' che el ghe fa? — Cossa, cossa? — «Kùraz!» — el ghe fa. «Ma, capitan, dovemo verzer, xe stato de emergenza». E lu: «Kùraz». Insoma, per farvela curta, Okrètich che dovemo verzer e Bogdànovich, con un fil de vose, ma sempre kùraz el ghe diseva. — No'l voleva? — Gnente. Okrétich ne ga ciamà tuti sul ponte e el ne ga dito: «El Comandante no vol che verzemo el sèf. Disposizioni altre noi no gavemo. Mi ciogo el comando e andemo a Odessa, come che iera patuì». — E cossa iera Odessa quela volta? — Russia, iera. Come adesso, siora Nina. Difati 'pena rivai i ne ga guantai, perchè iera zà guera de tre giorni. — Cola Russia? — Cola Russia, sì. — Ma cola Russia no iera guera sui Carpazi? — Sicuro. Ma noi ierimo vapor austriaco in porto russo. Internai. El capitan in ospidal. Umanissimi bisogna dir. Subito i lo ga portà in ospidal. Bel l'ospidal de Odessa. Savè quel de Trieste? Un circumcirca. — E i ve ga internai? — Per forza. I ne ga internà a Kiev. Caldo de istà a Kiev! — E sè stai tanto internai? — Tre ani in Russia. Dò a Sciàngai co' semo scampai che xe vignuda la rivoluzion. Ghe fazevo de lavander a un cinese a Sciàngai, figureve! E po' un altro anno per tornar a casa su un vapor american, nel Dicianove. E el Capitan Bogdànovich? — El ne spetava sul molo a Trieste. Guarì perfetamente. El ne disi: «Zuche baruche, perchè no gavè averto la busta? Là iera scrito che dovevimo andar in porto turco, no a Odessa. Ierimo aleati, no, cola Turchia!» «E come verzevimo la cassaforte?», ghe disi Okrètich. Vecio, imbianchì iera Okrètich. «Come fazevimo a verzer se no me disevi la parola?» «Se ve go dito vinti volte: Kùraz. Kùraz iera la parola. Mi ve disevo come che podevo tuto el tempo. Ma vù, Kùraz che capivi, teste de Kùraz!» MALDOBRIA XV - FIORI PER L'ARCIDUCA Nella quale si parla di un omaggio floreale, di una movimentata visita a Metkovich dell'Arciduca Francesco Salvatore e di come Bortolo, per un banale disguido di data e di luogo, venne impedito di mutare profondamente il corso della Storia modema. — Cossa, gavè de far un regalo de nozze, siora Nina? Scoltème a mi. Mandè fiori. Coi fiori no se ga mai sbalià. Vardè mi: oh dio, passò quel tempo, Enea. Ma co' iero giovine... — Enea chi, sior Bortolo? — Cossa «chi Enea?» Se disi «passò quel tempo Enea» come dir che passò quel tempo che no xe più. — Ah, come dir che no se xe più giovini. — Come dir. E come far, co' no se xe più giovini, siora Nina, purtropo! Fiori oramai no mando più, ma go mandado el mio. In tuti i porti. Barba Nane me diseva sempre: «Mandèghe, mandèghe fiori ale squinzie, vù! Cossa credè, de farve bel? Metè i soldi in Cassa Rural, inveze, per quando che i ve caverà la matricola.» — Ah, ghe mandavi fiori ala sposa? — Ala sposa, siora Nina? Giovinoti ierimo, spose gavevimo dapertuto. No per far del mal, ma per la compagnia. Giovinoti, ierimo, maritimi, giovini. — De coverta o de camera? — Eh, de coverta e de camera. Siora Nina, no steme far dir eresie. Voi no savè, la dona, coss' che no ghe pol i fiori. Me ricordo una volta che iero de leva, militar de Marina, a Mètkovich, che iera Dalmazia... — Come, iera? Xe sempre Dalmazia, no i la ga miga cambiada de casa, no? — Ma no, volevo dir che iera Dalmazia-Dalmazia. Mètkovich, soto l'Austria, iera propio pertinente ala Dalmazia. Come che noi, prima, ierimo pertinenti al Litorale. Che sarìa stà, ve ricordè, la Contea Principesca di Gorizia e Gradisca, il Margraviato d'Istria con le isole di Cherso, Veglia e Lussino... — ...e la città di Trieste col suo territorio. — Bon, ierimo a Mètkovich e là gavevo trovado una dalmata che no ve digo. Mora, coi ocioni neri. Iera nel Tredici, me ricordo come ieri. Iera el primo anno che iero de leva. In Marina se fazeva zinque ani quela volta. Altro che ogi. E a vela. E far, e sfadigar e strussiar, orpo! I se lamenta ogi! — Ah, gavevi una sposa in Dalmazia? — Sposa? Se parlavimo, no. Mi in montura, savè, fazevo la mia figura. Po', noi de qua, semo più svelti. Insoma, fè conto che, come domani, iera la sua festa. E mi go pensà, de sera, domani matina vado a comprarghe i fiori, po' vado a trovarla in casa. Lori gaveva un terazzo su, belissimo. La madre de ela diseva sempre: «Xe meio che vegnì a casa, perchè no me piasi che ve remenè per le strade, che la gente trovi de dir». E cussì andavimo su in terazzo, che ela meteva a sugar i fighi suti. E cussì, coi fighi suti, una roba e l'altra. — Anche noi metevimo sempre i fighi suti in terazzo. — Fighi suti li meteva tuti in terazzo. Dove volevi meterli, in cantina? Ve disevo insoma che, come domani, iera la sua festa che dovevo mandarghe i fiori e, come ogi, passa telegrama che riva l'Arciduca Francesco Salvatore cola moglie. — Francesco Salvatore? Ma no iera Francesco Ferdinando? — Cossa vol dir? Per quel ghe iera anche Francesco Giuseppe. Francesco Ferdinando iera un, che iera l'erede dela Duplice, e Francesco Salvatore iera un altro. Anche soto l'Italia iera el Duca de Spoleto e el Duca dele Puglie. E là iera l'Arciduca Francesco Ferdinando e l'Arciduca Francesco Salvatore. — E doveva vignir l'Arciduca Francesco Salvatore? — Lu. Cola moglie. Alora gran feste. Iera un avenimento, un Arciduca a Mètkovich. Festa ale scole, boteghe serade, banda de matina. El militar cola baioneta in cana e noi de Marina franchi. — Ah, una festa? — Sì, festa. Ma el grave iera che mi, cole boteghe serade, come ghe mandavo i fiori? — Al Arciduca Francesco Salvatore? — Ma noo! Ala sposa. Che la gaveva la festa. E sicome che iera festa no podevo comprarghe i fiori. — Aah! Quela putela dei fighi suti! — Insoma, de matina vado fora. Alta uniforme, coi pomponi. Zinque volte i me gaverà domandà le carte per strada, me ricordo. El militar cola baioneta in cana: savè, là, drio de Mètkovich iera BosniaErzegòvina, là iera tuti caldi. E po' quei ani iera assai 'sti anarchici che andava in giro a copar i regnanti. — Monarchici? — Machè monarchici! Quei che copava i regnanti. Anarchici! — Aah! Quei che copava i regnanti. — Sicuro. Insoma, per farvela curta, de matina vado a veder se podevo in qualche logo trovar un pochi de fiori. E co' son là dela riva che portava su ala casa dela mia sposa, che iera un poco fora de man, imbroco un muleto e una muleta con un zesto de fiori che i tigniva per el manigo. — Alora i vendeva fiori? — Spetè, spetè. Ghe digo: «Màli, màla, dove portè 'sti fiori?» «In Comun», che i porta in Comun, che i ghe ga dito de portar in Comun, per la sposa. — Quela dei fighi suti? — Ma noo, siora Nina. Per la sposa del Arciduca Francesco Salvatore. Che i ghe gaveva dà 'sti fiori de portar in Comun, dove che iera la Deputazion che li spetava. — Ai Arciduchi? — Sicuro. Alora, ghe digo: «Màli — ghe digo — màla, se rabiassi 'ssai la maestra se 'sti fiori me li dessi a mi?» E lori me fa: «No ne li ga dadi la maestra. Ne li ga dadi un signor che no conossemo. E el ne ga dà dieci corone che li portemo in porton dela Comun». «Bon — ghe digo mi — Mi ve dago vinti corone, e dopo me rangio mi». — E lori? — Lori, contenti come pasque. I se ga ciapà 'ste vinti corone e i coreva zò per la riva saltando e cantando, li go presenti come se fussi ogi. Insoma, rivo con 'sto zesto, trionfante, a casa dela mia sposa, e no xe nissun. E la vecia me disi... — Che vecia? — La vecia, teta Rosa, che stava visavì de lori. «No le ve xe, no le ve xe: le ve xe 'ndade a vederve l'Arciduca, zò pulivràga, in cità.» Gnanca un dente no la gaveva. — Ah, no le iera a casa! Le iera andade a veder l'Arciduca. — Ma me contè vù a mi o mi ve conto a vù? Scoltè, no. Mi go pensà: «Ghe fazzo l'improvisata». Iera averto. Tuti lassava averto quela volta. Dove mai ogi se podessi lassar averto? E ghe go lassà el zesto dei fiori propio là, ben in ombra, dove che i meteva a sugar i fighi in terazzo. — Ah, per farghe l'improvisata? — Sì, e dopo son andado anche mi zò a veder 'sta festa, che se sentiva zà la banda che sonava in piazza. Bel omo iera. — Chi? — Ma l'Arciduca. Con due favoriti, come che se usava quela volta. In montura de Marina. El gaveva l'anda un poco del Imperator. E ela bela anche, tuta in bianco, in carozza. Insoma i smonta, vien fora la Deputazion del Municipio, i va dentro. E in quela, siora Nina, un tiro, ma un tiro, che tuti se ga voltà! — Un tiro in Municipio? — No, siora Nina. In casa dela mia sposa. Fin in piazza pioveva fighi suti. Una bomba iera, siora Nina, no me dimenticherò mai: un fumo! Se vedeva su dela riva el fumo. E teta Rosina che coreva zò dela strada, otanta anni che la gaveva, come un saltamartin. — E l'Arciduca? — E l'Arciduca, salvo. La bomba iera per lu, nel zesto dei fiori. Iera tuto calcolà. Anzi, dopo, i ga fato el Te Deum in Domo. E lui, vignindo fora, i diseva che el gavessi dito al Vescovo: «Si viene qui con le migliori intenzioni e ci si accolgono con bòmbole!». — Mama mia, che combinazion! — Eh, cussì xe la vita, siora Nina. Xe la fatalità dela Storia. 'Sta roba, solo che inveze de nasserme un anno prima a Mètkovich, la me nasseva un anno dopo a Sarajevo a 'sta ora noi forsi fussimo ancora nela Contea Principesca di Gorizia e Gradisca, col Margraviato d'Istria, le isole di Veglia, Cherso e Lussino e la città di Trieste col suo territorio. MALDOBRIA XVI - LESSICO FAMIGLIARE Nella quale si discorre dei difetti di pronuncia più diffusi nelle Vecchie Province e Bortolo racconta lo strano e misterioso episodio dello «Gnogno da Dieci». — Orade orade, ociade ociade, branzini, zievoli, sardele, sardoni, papaline, guati per brodeto, àle àle, done, che el sol magna le ore, àle àle, siora Nina, che el le magna anca per vù... — Ma a mi me par, sior Bortolo che vù magnè le parole. Cossa gavè dito che gavè? — Orece de San Piero, go, siora Nina. E bone, meo dele vostre me par, senza ofesa. Perchè xe tuta la matina che me sgolo a zigar coss' che go e vù me vignì a dir che me magno le parole. — Orpo, che sussetibile che me sè ogi, sior Bortolo! Vù zighè, zighè, che ve se senti lontan, ma qua de vizin, ve digo la sincera verità che no se capissi. Qualche volta fa el scherzo... — Cossa, volessi dir che son diventado sgnanfo? Che no se capissi quel che digo? — No: volevo dir che fa el scherzo, qualche volta, la pronunzia. Mia nona defonta, per esempio, mai che la gavessi dito giusto. — Cossa la diseva sbalià? — No. Volevo dir che no la diseva mai «giusto». Ela per dir giusto, la diseva «justo». Suo defonto fradel Giorgio, la ghe diseva Jorio. — Chi, el vecio Jure? — Lu se ciamava Giorgio. Ma ela ghe diseva Jorio. E cussì tuto: la diseva «mi go rajòn». — Ah «rayòn» quel per far combinè. — Ma noo! Rajòn, per dir ragion. — Ma se so, siora Nina. Cossa me contè, la storia de Genovefa e de Eustachio? Se so anche mi: anche mia defonta mama, povera, diseva sempre «jugno». «Jovine», «jovinoto», «jalo». Sempre «jalo» la diseva, che anzi noi la ciolevimo via. «Mama — ghe disevimo — gavè visto Jàcomo cola jacheta jala?» I veci usava, no. Quela volta iera cussì. — Sì, adesso se usa assai meno. Ma i veci assai usava. E mi, pensè, ghe disevo a mia mama, povera: «Mama, savè, no se disi «Jacomo», se disi «Giacomo». E ela me diseva, povera: «Ma sì, se digo: Jacomo». E la diseva Jacomo. Ela diseva Jacomo e ghe pareva de dir Jacomo... no, Giacomo volevo dir. Fa el scherzo la pronunzia. No se se senti soli sistessi. Pensè l'altro giorno coss' che me xe tocà... — A vù? — Sì, a mi. Savè: Albino ga portà de viagio un de quei col nastro. — Col nastro? Cossa? Un capel col nastro bel? — No, quel che se parla nel nastro e po' dopo se senti. — Ah, un registrator a nastro? — No, no registro. Come un fonografo vigniria a star. Solo che un pol parlar dentro, e dopo el se senti solo sistesso. Xe bel savè, per i fioi: perchè cussì resta una memoria. — Cossa, per studiar le poesie a memoria? — Ma no! Per memoria, de come che se parlava co' se iera fioi. Noi no gavemo mai avù 'ste robe. Pensè, sior Bortolo, coss' che no ga fato el mondo. — El mondo ga fato de esser tondo, siora Nina. El gira come una borela, ma dopo semo sempre su quela. — Ah sì, gavè ragion anca vù, sior Bortolo. Savè per cossa che ga comprà Albino in viagio 'sta roba, che no'l me ga gnanca vossù dir coss' che ghe ga costà? — Perchè ghe resti la memoria dei fioi. Cossa el ghe fa dir ai fioi? La poesia? «Una giovine donzela rica molto e molto bela...» — «...cavalcando una matina un fanciul per via incontrò». Mama mia, sior Bortolo, coss' che me fè ricordar! La maestra Moratto ne imparava questa: «E a lui fàtasi vicina con bel garbo domandò: dove vai così soleto o mio caro giovineto?» — Jòvini jerimo tuti, siora Nina. Ma gavè memoria, vù! Anche senza nastro. — Savè cossa? Mi de co' iero putela, me ricordo tuto. Inveze robe magari del altro giorno me perdo, come... Cossa ve gavevo dito prima, scusè? — Gavè dito: «Dove vai così soleto o mio caro giovineto?» E mi inveze son sempre qua. — Ma no, sior Bortolo, cossa, me ciolè via? Ve contavo de una roba. — Del registrator. — Ah sì. De questo col nastro che el lo ga comprà per scoltar le canzonete. Ben, volè creder? Albino me ga dito: «Parlè, parlè, mama, qua». E mi go dito: «Ma cossa devo dire, non so cosa dire. Cossa me fè comedie, dài!» E el me ga fato subito sentir. Ben, volè creder? — Ma ve credo, siora Nina. Ma disème cossa che devo creder. — Sior Bortolo: un'altra persona. Come che no gavessi parlà mi. Un'altra persona. De no conosserse soli sistessi. — Ma, per forza, siora Nina. Xe lege fisica. Del'acustica. Perchè nualtri la vose se la sentimo de dentro. Inveze i altri la senti de fora. Xe un'altra roba. — Ahn! Perchè a noi ne rimbomba, come. Mi credevo che fussi perchè che el nastro fa scherzo. Inveze, co' parlava i altri i iera compagni precisi. — Sicuro. El nastro no fa difeto. La pronunzia pol far. — Eh, sì; mia mama anche gaveva un difeto de pronunzia i ultimi ani. Perchè no la gaveva vossudo meterse i denti. — Oh, quel no xe gnente! Basta meterseli. Xe tanti inveze che ga difeto de pronunzia, sempre. Me ricordo mi una volta, che me xe tocà propio una, che iera de rider, savè. Anzi, el Comandante Brazzànovich, che Dio ghe brazzi l'anima, el me ciamava su in salon de Prima a contarghela ai passejèri. — Passegeri? — Se go dito: passejèri. — Cossa el ve fazeva contar? — Quela de quela volta a Trieste. Gavè presente Trieste? — Eeeh. — Ben, gavè presente in Sacheta? Bon. Là: Riva Grumola se ciamava quela volta, adesso no so come che se ciama, ben, là de Riva Grumola, ve iera, siora Nina, la più granda Proveditoria Maritima. Là vù gavevi cavi, gavitei, mezi marineri, bozzei, galeti, cantunai, vide zingade, scalmi, stropi: tuto insoma. Sàibe de cinque, de dieci, de venti, de tute le misure: tuto. Mi iero là aventor. Perchè quela volta mi iero mistro a bordo del Jùpiter. — Giùpiter. — Cossa Giùpiter? Jùpiter. E insoma, iero aventor. Un giorno vado dentro e vedo là che el paron, i giòvini xe tuti atorno a un, sul banco. — Ghe gaveva ciapà mal? — Machè ciapà mal. Iera che no i capiva, coss' che el voleva. — Iera un foresto? — Ma no, no iera un foresto. Iera un patrioto. Un de qua. Dele Vece Province. E insoma me vien vizin el paron. Me ricordo, iera un zerto Maitzen. Sior Maitzen: un toco de omo iera. El me disi: «Bortolo, voi che sè mistro, sentì voi un poco cossa che vol 'sto omo, perchè el vol un no so cossa de diese che no capisso.» — Cossa? — Quel iera. Che no i capiva cossa. Alora mi vado là de 'sto qua e sento che el ghe disi al giovine: «Ma ve go dito che voio un gnogno de diese.» El parlava sgnanfo. — Ah, sgnanfo. El gaveva la parola ofesa. — Sgnanfo po' ah. E mi ghe digo: «Cossa xe sto gnogno? Un gambeto?» «Machè gambeto, machè gambeto — fa lu — voio un gnogno, un gnogno de diese! Cossa no gavè un gnogno de diese? Anche de dòdese, se gavè». «Mah — ghe digo mi in parte, a sior Maitzen — no sentì che el xe sgnanfo? No capisso». «Ah! — me disi alora sior Maitzen — zò in magazin gavemo Bepin che xe sgnanfo. Forsi tra sgnanfi i se intendi». El rideva! Un toco de omo iera 'sto sior Maitzen. — I ga fato vignir 'sto Bepin? — Sicuro. E noi ierimo tuti che vardavimo. I se parla 'sti dò e i va in fondo in fondo dela Proveditoria. Bepin ciol la scala, se rampiga suso, 'verzi un scafeto, el ciol, el vien zò, el meti in carta e el ghe disi al paron: «Sior Maitzen, el sior paga una e sessanta». 'Sto qua paga in cassa, me ricordo come ieri, el va fora e mi ghe digo a 'sto Bepin: «Bepin — ghe digo — cossa voleva 'sto omo? E lu: «Ma dài, sior Bortolo: un gnogno de diese el voleva». — E cossa iera 'sto gnogno? — Ah, no so mi. No son miga sgnanfo, mi. MALDOBRIA XVII - IL NOSTRO AGENTE IN EGITTO Nella quale un veridico racconto di Bortolo, sostituitosi per cause di forza maggiore al Comandante Bùgliovaz in una delicata missione, fa intravedere i primi inquietanti sintomi del disfacimento dell'Impero Austro-Ungarico e l'inadeguatezza di Bogdànovich al compito a lui assegnato sulle rive del Canale di Suez. — El «Penelope», siora Nina, iera un vapor del Lloyd Austriaco che iero imbarcà mi col Comandante Bùgliovaz, un dalmato de Brazza, un toco de omo. Lui iera stà prima in Marina Militar e dopo el se gaveva dimissionà e el navigava per Levante, col Lloyd Austriaco. El iera de poche parole, un omo de proposito. Però se se ghe entrava in simpatia. .. A mi, per esempio, el me gaveva ciapà in benvoler. — Ruspido, ma bon de cuor. — Sì. Ma dovè saver che i gaveva apena copado Francesco Ferdinando. — Bùgliovaz? — Ma cossa Bùgliovaz? Lui se ciamava Ante. Anteo, insoma. Francesco Ferdinando, l'Arciduca. Iera aria de guera: me ricordo come ieri co' xe passà telegrama. Anzi ierimo a Trieste e no iera sicuro se dovevimo o no dovevimo partir per el viagio. Dopo xe vignù ordine de partir. Fazevimo la linea de Porto Said. Insoma, fin l'ultimo momento pareva che no. Che no se parti. Po' che sì. Po' che no. E po' xe vignù el Comandante Bùgliovaz a bordo e el ga dito «partenza». Me ricordo come ieri: gavemo trovà un mar, subito fora de Salvore, ma un mar! Come che se se ricorda de zerte robe! Un scirocal tremendo! E po' fora de Otranto, un levante! — Ah, andavi per Levante! — Ma no, digo, un levante, un grecal che gavemo pericolà. E volè creder? 'Sto comandante Bùgliovaz, Marina Militar, anni annorum che el navigava: bon, lui co' iera cativo mar, el mar ghe fazeva mal. I disi «abitudine». No xe vero gnente abitudine. — Sì, sì, xe vero: xe costituzion. Xe chi che ghe fa mal e chi che no ghe fa. Mi mai, per fortuna mia, inveze mio cognà che iera nostroomo, conossevi el nostro-omo mio cognà? — Chi, Pìllepich? Come no? Che rider con lu! I lo ciamava Missiastomigo. Un fià de bava, e lui subito in cuceta. Xe vero, xe vero: xe costituzion. E 'sto Comandante Bùgliovaz, co' semo rivadi a Porto Said el iera più morto che vivo. Bianco come una strazza. — Eh! El mal de mar assai buta zò l'omo. — Insoma el me ciama in gabina e el me disi: «Serè la porta a ciave, fermè el ganzo del oblò, tirè la tendina e sentèvese». Mi me sento — stupìdo — e lui mi fa mi dice: «Bortolo, mi ve parlo come a un omo, perchè qua el momento xe grave». — El iera grave? — No grave. El stava mal. Ma lassè che ve conto. El me disi — mi fa mi dice — «Disème subito: se volè far, fè. Se no volè, paronissimo, disème: no fazzo! Come non deto». — Ma cossa? — Spetè, spetè. Mi ghe digo: «Comandante Bùgliovaz: comanda chi pol, ubidissi chi devi». E lui me disi: «Bon. Questo xe forsi l'ultimo viagio, perchè qua la va a pochi...». — Ah! El iera grave? — Ma no, stava per s'ciopar la guera, cola Serbia, la prima guera, insoma. — Ma voi no ieri in Serbia? — Ma, siora Nina, se ierimo a Porto Said! Come podevimo esser in Serbia? Insoma, per farvela curta, el me disi: «Semo qua per un motivo, se no gnanche no partivimo. Mi stago mal e in barca persa tuti xe piloti. Vù dovè far quel che dovevo far mi, de ordine superior». E insoma el me spiega che mi devo andar in tera, vestì in zivil, e cussì, cussì e cussì... — Vestì in zivil cussì come che sè adesso? — Siora Nina! Se disi «cussì, cussì e cussì» per dir quel che dovevo far. — Ah! — Mai no me dimenticherò! Iera un afar delicato, una sconderiola! Ma — savè come che se disi — «Xe meio ubidir che farse santificar». — Ma cossa iera? Una roba bruta? — Bruta? Al mondo no xe gnente de bruto e gnente de bel. Iera quel che iera. — Ma cossa iera? — Spetè. Come che el me gaveva dito, me son messo in zivil e go ciolto el treno per Alessandria. — De Egito? I portava bele borse, una volta, de Alessandria. — Indiferente. Rivà in Alessandria, son andà in un local sula Cornìs, che saria come la riviera de Barcola a Trieste, ma più grando, più bel, tuto iluminà. Iera 'sti inglesi coi frustini che mandava via i arabi dei caffè. Altro che adesso. Vado in 'sto local — se ciamava «Tea Room», me ricordo — dove che iera 'ste arabe che balava la danza del ventre. — La danza dela panza? — Machè danza dela panza. La danza del ventre. Xe tuto un'altra roba. El Comandante Bùgliovaz me gaveva spiegà che dovevo andar là, sentarme e domandarghe al camerier: «Xe Fatma?» E se el camerier me rispondeva «Fatma la xe!» dovevo ciamar sampagna. — Per bever? — No per farme impachi de acqua de buro. Per bever, sicuro. Difati: «Fatma la xe». Mi ciamo sampagna e lori me lo porta. — E Fatma? — Quel iera la parola per farme conosser. I me porta 'sta sampagna e mi dovevo vardar nel secio del jazo... — El jazo? — Sì, el jazo dela sampagna. Sampagna se servi in jazo, cossa no ieri mai a bordo? Vardo dentro e trovo un bilietin rodolà. Meto in scarsela, bevo, bona sampagna iera, e vado fora. — E dovevi portarghe 'sto bilieto al Comandante? — Spetè, siora Nina. Adesso se pol dir. In quel bilieto iera apena el nome de un omo e l'indirizzo dove che mi dovevo ritirar una busta, per el Comando de Pola iera, mi go calcolà. — Ah, iera una roba de spionagio, come? — Spionagio! No stemo dir esagerazioni. Servizio de informazioni, iera. Ognidun se cautelava. Là iera Canal de Suèz, cossa credè? Insoma in 'sto bilieto iera scrito: «Bogdànovich Rùe Kedivè», che saria «via». — Ah, kedivè xe «via»? — No; «rùe» xe «via». Kedivè xe Kedivè. Rue Kedivè 27, Porto Said. E mi indrio come un zurlo de novo a Porto Said. — E no i podeva dirve subito de star a Porto Said? — Sì, voi credè che 'ste robe se pol far cussì, semplicemente! Rivo a Porto Said, zerco sta Rùe Kedivè, trovo el numero, tuto, e in piantèra vedo el nome de oton sula porta propio: «Bogdànovich». 'Sto Bogdànovich, go subito intuì, iera un dalmato. Iera pien de dalmati a Porto Said che lavorava in Canal de Suèz. Un patrioto, dài. Sono la campanela, el me verzi, dalmato spudà come che me lo imaginavo, e ci faccio ci dico, come che mi gavevano deto: «Xe Fatma?» — E lu ve ga risposto «Fatma la xe?» — No. El me guarda e el me disi: «Che Fatma?» ... Alora mi ghe schizzo de ocio e ghe fazzo: «Bogdànovich, xe Fatma?» — E lu? — «Aah — me disi lu — ma mi son Bogdanovich el piloto! Bogdanovich el spion, sta su, in terzo pian! Lu xe spia vecia dell'Austria». — E vù? — Mi gnente. Ma go avù subito come un presentimento che forsi saria stà meio de no intimarghe guera ala Serbia. MALDOBRIA XVIII - LA BARBA DI MASSIMILIANO Nella quale Bortolo racconta della sua guerra col Reggimento 97 sui Carpazi e di come Marco e Piero Lònzarich, gemelli per sangue ma difformi per temperamento, inseguissero ciascuno il proprio destino e della gran parte che ebbe nella vicenda il monumento di Massimiliano in Piazza Giuseppina a Trieste. — In Galizia, ve parlo dela prima guera, i rasava tuti per via dei pedoci. Teste come borele. E anzi savè chi che iera barbieri del Regimento 97? Marco e Piero Lònzarich, quei che dopo se gaveva cambià in Pignatelli. Adesso i xe de novo Lònzarich, quei che xe restadi qua. Bon, lori, tempo dò ore, i rasava zinquanta soldai. Dovè saver che lori iera fradei gemei propio, ma no i se somigliava per gnente. Anche come caratere. Marco i lo ciamava «Paparela», ve ricordè? Inveze Piero iera un leon: un se gaveva butà sula madre, che iera una de Brazza, una dalmata de quele che fazeva filar tuti, la iera come un gendarmo. E inveze Marco iera preciso suo padre. Savè, bon omo, però de quei cussì, senza coragio. — Ah, Barba Mate! — Lu. Dovè saver che lori nel '13 gaveva levà el numero e ghe gaveva tocà andar militari. Sicome che i iera pitosto pomigadori, i se gaveva anuncià come barbieri, zà quela volta. Ma no i gaveva fato gnanche in tempo de tornar a casa che l'Austria ghe ga intimà guera ala Serbia. — Me ricordo come ieri: mio papà xe vignù a casa, el ga pozà el capel de piloto sula carega e el ga dito: «Xe passà telegrama che l'Austria ghe ga intimà guera ala Serbia». Iera un caldo! — Insoma: come rivai, cussì partidi. — Chi? — Ma Marco Paparela e suo fradel Piero. Col 97 de Trieste i xe andai via. E mi con lori. Apena fora, apena in linea, pedoci, siora Nina, che no ve digo. E alora Befèl del Oberkomando: tuti quanti dopio zero! «Chi xe barbier?» i ga domandà, e Marco Paparela e suo fradel i se ga fato avanti, che lori xe barbieri finidi. Capì, per scapolarsela no, siora Nina. Perchè savè come che se disi: «in guera se va con dò sachi: un per darle e un per ciaparle». E lori, per no ciaparle, i ga pensà, se fichemo in barbierìa. — E cussì i se la ga scapolada? — Lori credeva. Ma savè dove che iera la barbierìa? In un buso in linea, al fronte. E fis'ciava patrone che in confronto, quele del siopero dei foghisti a Trieste del Due iera grizzoli. — E ieri anche vù? — Sicuro. Ve go dito che iero con lori. E bruta me la go vista. Tanto che go pensà: «O ghe la dago o finirò per sburtar radicio qua in Galizia». — Come? Sburtavi radicio? — Ma xe un modo de dir, dài, siora Nina. De dove vien el radicio? De sototera. E chi che sta de soto, sburta! E alora mi go pensà, qua ghe vol la tavoleta. — Per sburtar el radicio? — Machè per sburtar radicio! Savè come che fazeva quei del 97? Un giorno che se iera soli in patulia de note... Bon, per farvela curta, solo iero, in patulia e de note, go messo in mezo una tavoleta de un tre diti e, patapùm, me go tirà sul dito picolo dela man sinistra. El minimo indispensabile, insoma, per andar un per de mesi in ospidal militar. — Ve gavè sbarà, solo sistesso! E ve ga fato mal? — Oh Dio, ben no de sicuro. Ma insoma gnanca tanto come che podessi parer. E el giorno dopo, via mi. Prima a Leopoli, po' a Graz, po' a Trieste, come Dio ga volesto. E pensavo durante el viagio: «Povero Marco Paparela, povero Piero là che i pericola!» — Ah lori xe restai al fronte? — Altri tre mesi. Dopo i ga avù la fortuna che ghe xe morto el padre. Fortuna per modo de dir, povero Barba Mate. Ma insoma, in zerti momenti, no xe un mal senza un ben. E po' Barba Mate andava per 97 ... — Cossa anche lui i lo gaveva ciamà? — Sì, sior Idio lo gaveva ciamà, perchè el gaveva 97 anni. Insoma i riva tuti dò con licenza per lutto di famiglia. I ghe fa la vèa, i lo sepelissi. E taca barufa. — Barufa con chi? — Fra de lori, siora Nina, per la facoltà. Barba Mate, ve ricordè, gaveva quei uliveri dove adesso i ga fato el Cementizio. E insoma i iera dacordo, sì, per vender, ma Piero voleva comprarse la barca, perchè el diseva che dopo la guera sarà noli, sarà lavori e Mario Paparela diseva inveze «Gavemo el mistier in man de barbieri, compremo la botega de Barba Zago e semo a posto e no gavemo pensieri de andar pericolar per mar». Qua, là, una roba e l'altra. E tanti che ghe diseva. «No stè vender, tempo de guera beato chi ga tera, chissà coss' che nasserà dopo». Siora Nina, iera un cine ogni sera in quela casa, urli e zighi che fazeva panza le porte. — Eh, parenti mal de denti! — Ma el bel iera che i fazeva barufa per 'sti quatro ulivi e i doveva tornar sui Carpazi, siora Nina, perchè ghe scadeva el permesso. E cussì i ultimi giorni i vien a Trieste, là che iera el Centro Racolta. E mi iero su in ospidal militar che stavo come un papa e me li vedo capitar davanti: «Beato ti, beato ti — me disi Piero — magari mi come ti». — I se gaveva messo d'accordo, po', sula facoltà del padre? — Machè! Sempre su quela! Piero voleva la barca e Marco Paparela la botega de barbier. Anzi, propio là in ospidal i ga fato un barufon davanti de mi. Tanto che Marco se ga ciapà su e xe andà via. — Quel che voleva la botega de barbier? — Lu. Piero inveze xe restà là de mi. Che 'sto mona de suo fradel, una roba e l'altra; «Beato ti che ti xe qua, ti ti se la ga cavada». E mi ghe digo: «Ma cossa ti vol per bon tornar sui Carpazi? Ti pol perder la vita, là i tira sui omini. Bùtite malado!» «Sì, malado, el disi, come ti vol che me bùto malado?» El iera un toco de mato ... — Eh, me lo ricordo: un bel omo, forte. — «Ti sa cossa — ghe digo — Piero, dàte per mato! Se i te dà la carta de mato, ti xe a posto. I te manda su a San Giovani, ti conti un poco sasseti, po' finissi la guera e ti se compri la barca. Tanto tuo fradel, là, sui Carpazi, lo vedo e no lo vedo». — E come, uno disi «son mato!»? Come se fa? — Se fa, se fa. Ghe vol far un strambèz, no? Una monada publica. «Per esempio — ghe digo — ti che ti xe barbier, perchè no ti ghe fa la barba a Massimilian?» — Massimilian? Chi? — Massimiliano del Messico, no? El fradel del nostro defonto Imperator. — Ma come? — Ma miga a lu dassèno. Lui iera mortus est et non più buligàribus de chissà quanti anni! Al monumento, intendevo dir. Ve ricordè che a Trieste, in piazza Giusepina, iera el monumento a Massimiliano? Vestì de capitano de marina che el mostrava col dito, drito Miramar? Bel iera, coi ferai tuto intorno. — Ah, la barba al monumento! Un tiro de matìo? — Sicuro. E Piero me ga dito: «Ti ga ragion! Soldà che scampa xe bon per un'altra volta». E el giorno dopo, in punto a mezogiorno, istà iera, el sol spacava le piere, l'ariva là col cadin, cola strazza, col penel, cola savonada, col rasador, el se rampiga sul monumento, el ghe liga el sugaman intorno al colo, e daghe a farghe la barba a Massimilian, cantando Serbidiòla. — Mama mia, che truco! — No ve digo coss' che no xe stà, siora Nina. Mi vardavo del canton del palazzo del Baron Rivoltela. Ga comincià la gente a ingrumarse soto, e lu ghe dava de savonada, de rasador, finchè xe arivà el militar. — Che militar? — El militar, la trupa, volevo dir. Iera guera, lege marzial. Vien el militar. In tre de lori i lo ga tirà zò e via a San Giovani. Serado cole porte coi stramazi. — E el xe restà là? — Fin la fin dela guera, siora Nina. Fin che xe tornà Marco Paparela dei Carpazi. E dopo i ghe lo ga dado a lu in curatèla, come fradel. — In curatèla? — Sicuro. «Non pericoloso — iera scrito sula carta — ma incapace di intendere e di volere». E Marco Paparela con 'sta carta xe andà per man de avocato, gà vendù la tera e el se ga comprà la botega de barbier de Barba Zago. — E dove i xe adesso? — Marco xe morto in Abissinia... — E Piero? — Piero xe a Trieste, in frenocomio, a San Giovani. — Mato? — No, barbier. El ghe fa la barba ai mati. MALDOBRIA XIX - INVERNO 1929 Nella quale Bortolo racconta come durante l'inverno freddo del Ventinove fosse incorso in gravi perigli per ricuperare il cane dell'avvocato Miagòstovich. — Qua no xe che fredo, fredo e ancora fredo, sior Bortolo: 'sto inverno xe el pezo dei pezi inverni che gabio visto. — No voio farve torto, siora Nina, vù sè ben portante: ma coi fioi grandi che gavè, quel là dovessi ricordarvelo. — Chi, quel là? — Quel là, po': l'inverno fredo del Vintinove. — Come no me lo ricordo? Me lo ricordo, sì: iera morto povero zio. — Che zio? — Zio Nico, quel che xe morto nel inverno fredo del Vintinove. Però no iera miga fredo come che xe stà adesso. Me ricordo che ierimo al funeral: fredo iera, ma no quel genìco de 'sto anno. — Ah no? Perchè 'sto anno se ga ribaltà el treno de Capodistria? — Cossa vol dir 'sta roba? Xe anni annorum che no ghe xe più el treno de Capodistria. — Ma se el fussi, 'sto anno no 'lse gaverìa ribaltà. Inveze nel Vintinove, come la cartafina el xe svolado. — Ma dai, go leto sul giornal: «pegio che nel Ventinove», iera propio stampà. — La carta se lassa scriver, siora Nina, ma ve digo mi che fredo come quela volta, no se ga più visto. E gnanca no se vederà cussì fazile. — Intanto no xe ancora finì, e po' savè come che se disi: «Febraro curto, pezo che 'l turco». — Questo magari xe vero, perchè nel Vintinove, propio in Febraio xe vignù el pezo, ma 'sto ano no me ga moto perchè dopo le nevigade xe tornà sol. Va ben che sol sula neve ciama altra, ma la neve no xe el pezo, el pezo xe el jazzo. — Se so: el lastron! E un lastron come 'sto anno mi no lo gavevo mai visto. — Ah no? Bon: mi sì, siora Nina. — Quando? — Nel Vintinove. Quela volta che se ga perso el can del'avocato Miagòstovich. Iera un lastron che de casa mia se andava in culabria fin la porporela. Che sbrissade e che ridade! Barba Nane me diseva sempre: «Cossa fè el piàvolo, ve scavezarè una gamba, restarè dispossente e i ve caverà la matricola!» Ma mi no gavevo paura. Anzi quel inverno assai gente go iutà: gente e bestie. — Come, bestie? — Bestie, bestie. La bestia, de inverno, patissi più del cristian. Ve stavo giusto disendo del can del avocato Miagòstovich. Una sera el vien de mi e el me disi:... — Chi, el can? — Ma dài, siora Nina, el can. L'avocato. El vien de mi e 'lme disi: «Bortolo, ne xe scampà el can. Lo gavemo zercà dapertuto. No se lo trova. Con 'sto fredo el me mori, e mia moglie diventa mata». — Iera el can suo de ela? — Iera de tuti due, ma ela ghe tigniva: se la vedeva sempre con 'sto pastor tedesco. Ela e 'sto pastor tedesco. — Cossa la iera protestante, ela? — Ma no, siora Nina. Pastor tedesco se ciama el tipo de can. Pastore tedesco: No gavè mai sentì? Bestia de razza. Quela volta valeva zentinera e zentinera. Ogi sarìa mièra e mièra. L'avocato Miagòstovich me ga dito: «Sa, andarìa a zercarlo mi, ma no posso». — So, so. El gaveva la gamba ofesa. — Insoma son andà: un fredo! Quel iera genìco! Nove de sera, fina in vale son andà. Sempre ciamando «Wolf, Wolf». — Se ciamava el can, Wolf? — El can, sì, se ciamava. Insoma arivo in vale, fin là dove che xe la casa nova. E in mezo dela neve lo vedo cufolado: povera bestia, del fredo gnanca no'l me conosseva. E sì che con mi el iera proprio intrinseco. «Vien, vien... vien!» — ghe digo mi. No 'l gaveva gnanca el colarin più. Alora me go cavà el cinturin dele braghe, ghe lo go passà intorno al colo e un poco in brazzo, un poco strassinandolo e un poco a piade son rivà a casa del avocato. — Chissà che contenti, ah, l'avocato Miagòstovich e siora Iginia! — Spetè. Mi ghe zigavo dal cortivo: «Lo go trovà!». E lu: «Sì, sì, trovà, trovà. Vignì». Insoma vado su col can e l'avocato Miagòstovich de su dele scale me fa: «Pecà, Bortolo, che ti ga ciapà tanto fredo. Ti sa dove che iera quel malignazo can? Là dei legni». — Come, là dei legni? No lo gavevi trovà in vale? — Spetè, spetè. Insoma mi vado drento zucandome drio 'sto can e me cori incontro, tuto fazendome feste, Wolf. — Alora gavevi trovà un altro can? — Spetè, spetè. 'Sto can che gavevo trovà mi el cori verso el fogo e 'l se cucia là, toco de bestia che el iera, e a un zerto punto, co'l se ga ben scaldà, el alza la testa come per vardar el lume sul plafòn e el fa: «Uuuuuh!» Siora Nina, mi go capì subito: go ciapà l'avocato per un brazo, siora Iginia per quel'altro, semo corsi fora e go serado la porta a ciave. Siora Nina, un lupo, iera. Un lupo calà zò de Monte Magior. Se ga savù dopo. Nel Vintinove i lupi, stremidi de fredo, rivava fin in paese. Specialmente po' co' i trovava un mona come mi, che li portava in brazzo davanti el fogo. MALDOBRIA XX - IL FIGLIO MASCHIO Nella quale si parla delle cinque figlie e dell'unico maschio di Bepi Màrovich, di come Bortolo lo tenne a battesimo e delle liste di leva del Comando di Pola. — Cossa, sè santola de batiso, siora Nina? Go tignù mi fioi a batiso, che no so più gnanca quanti. Barba Nane me diseva sempre: «Ma cossa tignì tanto a batiso! Fè el santolo e no gavè mai buzolai». — Ma anche Barba Nane tigniva assai a batiso. — Come no! Anche a mi me ga tignù a batiso Barba Nane. Ma lu, voleva esser solo lu, savè come che xe i veci. E po' el gaveva quela che el voleva che tuti, almeno per secondo nome, se ciamassi come lui. — Come? Nane? — Nane i ghe diseva. Lui se ciamava Giovanni Maria e el gaveva la festa el giorno dela Candelora. Lui tigniva la Madona. Propio don Blas ghe gaveva dito: chi che se ciama Giovanni Maria, Francesco Maria, Filipo Maria, pol tignir o San Giovani o San Filipo Apostolo, o San Francesco o una Madona. — Giusto saria alora tignir la Madona che xe più vizina del Santo. — Indiferente! Volevo contarve, no so se ve go mai contà, che mi una volta, tignindo a batiso me xe capitada una. — Gavè ciapà la bala? — Eh! No sarìa stada nè la prima nè l'ultima. Ma no iera quel. Dunque dovè saver che in quel periodo iero a Ossero. Iera quel periodo che iero piloto. E a Ossero iera piloto con mi Bepi Màrovich, quel che i ghe diseva Belinschi. — Màrovich? — Sì, sì: propio lui. El fio de quel dela lanterna. Dunque dovè saver che 'sto Bepi Màrovich ghe tigniva al mas'cio che no ve digo. E inveze el gaveva avudo zinque fie, una drio l'altra. Vanda, Pierina, Nerina, Eni povera e la più picola che iera inveze Dolores. E insoma lui no ga avudo pase fina a quel giorno che no ghe xe nato el mas'cio. Gnanca se el gavessi avudo de lassarghe la baronìa o la facoltà. «Bortolo — el me diseva co' ela aspetava — se stavolta el xe mas'cio, ti ti ghe sarà santolo». E devo dir che ghe ga portà fortuna. Me ricordo come ieri, iera lui in servizio sul ponte de Ossero e mi iero franco. Iero a casa e vien Dolores e me disi: «Corè, corè, Bortolo, a ciamar papà, che xe nato un mas'cio». Mas'cio, siora Nina, no ve digo! — Eh, inutile, i omini ghe tien al mas'cio. E inveze xe le femine che più se afeziona sul padre. — Indiferente. Bepi Màrovich iera come mato. Iera una giornata de sirocal, ma un sirocal, che iera cussì cussì de barche a Ossero che iera vignude a salvarse. In montura el iera, tuto bagnà, col'inzerada, me par de vèderlo. E el me fa: «Ti me ga dà la più bona nova del mondo! Sa cossa, ti ti ghe darà el nome. Quel che ti vol ti.» — E lo gavè ciamà Bortolo? — No. Mi no son de quei che se imponi per el nome. Bepi me gaveva dito: «No stemoghe dar un nome de quei soliti, trovemoghe un bel nome, extra». Extrastrong, el diseva lu sempre. E alora mi, pensa, pensa che te pensa, me xe tornà in amente che el primo batel dove che mi son stà imbarcà iera el Saffo. E cussì go dito: «Coss'te pareria Saffo?» «Saffo — el me fa — Saffo Màrovich, bel. Me piase.» El se ga inamorà subito. Mi gavevo assai bei ricordi de 'sto Saffo e ghe go dito: «Ti vederà che ghe porta fortuna». — Saffo? Go sentì qualcossa. Ma no iera un antico romano? — Spetè. No iera un antico romano. Lo ga batizà don Blas che quela volta gaveva assai più de novanta. Co'l xe morto el gaveva sicuro novantaoto, i diseva. Anzi i gaveva scrito anche sul giornal de Fiume: «E' morto un paroco che avesse potuto vedere Napoleone». — Ma cossa, i lo ga ciamà Napolion? — Ma siora Nina, cossa ve spiego mi? Saffo i lo ga ciamà el picio. Tuto ben. Ma a casa i lo ciamava Cici, tuti lo conosseva come Cici. — Ah, Cici Màrovich, el fio de Belinschi? — Lui. E devo dir che el nome ghe ga portà fortuna. Siora Nina, lui iera ancora ragazeto che el se ga imbarcà come giovine de camera. Lui in pochi anni el parlava franco per tedesco, ungarese, francese, inglese, tuto el parlava. Sui vapori de linia i lo cercava come l'oro. Diciaoto anni el iera zà maestro de camera. E co' l'Austria ghe ga intimà guera ala Serbia, lui iera giusto in permesso a casa. E basta, sui vapori de linia no se gà navigà più. Savè come che iera. Insoma mobilitazion general. Gioventù povera che andava in Galizia o a pericolar per mar cole torpedo. E lui una rabia: «Propio adesso che cominciavo a guadagnar pulito, andar a perder la vita!» — Eeh, in guera xe bruto! — Orendo, siora Nina. Savè come che se disi: «In guera se va con dò sachi: uno per darle e quel altro per ciaparle». No se sa mai come che va a finir, e inveze 'sto fio de Màrovich, passa el Quatordici, passa el Quindici: gnente. No i lo ga ciamà. — Cossa el iera esentà? — Machè esentà. Mai ciamà, gnanche de leva. Lui prima un poco ga aspetà e po' el se ga messo a navigar per Dalmazia. Iera pericolo, perchè iera siluramenti, ma el portava tanto oio su de Dalmazia, che po' el vendeva a Trieste, che el se ga fato i bori. Perchè a Trieste, nel Diciasete, iera cinghia, savè coss' che xe cinghia. L'oio iera un oracolo. — E perchè no i lo ga ciamà? — Siora Nina, questo xe el bel. Ve go dito che ghe gavevo dà nome Saffo e le carte dela Comun de Ossero andava in Deputazion a Pola, dove che i fazeva le liste de leva. E là iera gente studiada, là i saveva chi che iera Saffo. — El fio de Bepi Màrovich. I lo protegeva? El gaveva santoli in Deputazion? — Che santoli! Là, siora Nina, i saveva chi che iera Saffo. Saffo iera una dona. Saffo iera una poetessa greca del'antica Roma, una dona iera. Nome de dona ghe gavevo dà. E cussì lui iera via dele liste dei mas'ci e el se la ga scapolada. Cossa volè che vado a pensar mi? Gavevo navigà tre anni su 'sto «Saffo» e no iera mai vignù fora che iera una dona. Gnanche el Comandante Premuda no gaveva mai savesto. MALDOBRIA XXI - IL CAVALIERE DI BOEMIA Nella quale si narra della patetica ambizione del Ricevitore di Posta Sior Menigheto, detto «Magnafighi», d'essere insignito d'un'onorificenza e di quella che gli venne conferita grazie ad un'alzata d'ingegno dell'avvocato Miagòstovich, con l'aiuto del Maestro Nadaja e dell'Alto Commissario per le Terre Redente. — L'ambizion umana, siora Nina, no conossi nè limiti, nè confini. E gnanche epoche, perchè me ricordo che zà prima dela prima guera iera più de un che spasimava per aver la Rittercroiz ... — La Rittercroiz: Ma de cossa parlè, sior Bortolo? — Dell'ambizione umana. La Rittercroiz, soto l'Austria, sarìa stà el Cavalierato. E i lo dava a chi che iera cussì, un pochetin qualcossa. Me ricordo qua in paese, iera zà sc'iopada la guera e iera el Maestro de Posta, ve lo ricordè el Maestro de Posta, sior Menigheto? Quel che i ghe diseva «Magnafighi»? — Me ricordo, sì. El vecio sior Menigheto. — No'l iera tanto vecio savè; el mostrava assai vecio perchè el iera bianco. Bon, lui spasimava per aver 'sta Rittercroiz che gnanca no ve digo. E sua moglie più de lu. Perchè se lui gavessi avudo la Rittercroiz, ela gavessi podù meterse in capel. — Come in capel? — Iera regole cussì quela volta. Se el marì gaveva un grado, la moglie usava meter capel. Anche el militar. Co' un diventava sotuficial e i ghe dava la siabola, la moglie se meteva in capel. Prima no. L'Austria iera un paese ordinato. — Iera ordine cussì? — Indiferente. Insoma ve contavo de sior Menigheto che tanto spasimava per 'sta Rittercroiz. E no i ghe la dava. Perchè la moglie del Ispeziente Superior de Pèdena diseva: «Cossa, la moglie de Menigheto Magnafighi andarà in capel?!» E cussì i ghe fazeva angherie. Ma iera tuto un rider savè! E l'avocato Miagòstovich, che iera una macia, una sera in caffè ghe xe vignuda l'idea... — Che idea? — L'idea de ciorlo via. Me ricordo che ierimo l'avocato Miagòstovich, mi, Marco Mitis e el Maestro Nadaja, che i ghe diseva «Nadaja» perchè el iera un poco spaleta, macia anche lu! E l'avocato Miagòstovich disi: «A chi podessimo farghe un scherzo per el primo de april?» No iera gnanca marzo, ma lu zà se le impensava. Alora questo, quel, quel altro, tuti disi che bisogna far cavalier sior Menigheto. — Ma come farlo cavalier? Per scherzo? — Sicuro per scherzo, miga per bon. Solo l'avocato Miagòstovich, come avocato, ga dito che no podevimo farlo vero cavalier Rittercroiz, se no andavimo ancora in radighi per Tribunal. Che bisognava inventarse una roba che no esisti. — Come, una roba che no esisti? — Sì, cavalier de una roba che no iera, cussì nissun ne podeva far osservazion. E alora l'avocato Miagòstovich che no so dove che el le trovava, el ga inventà l'Ufficialato dela Corona Boema. — Boemia e Moravia? — Indiferente, no esisteva. Cussì el maestro Nadaja che gaveva una zata per disegno che no ve digo, ga fato tuto in miniatura su pergamena. El nome: Domenico, che saria stà Menigheto, la stema, el bolo cola zeralaca, e tuto intorno scrito in un ornato, in picio in picio, che no se distingueva, «MenighetoMagnafighi, MenighetoMagnafighi, MenighetoMagnafighi». Ma no se se inacorzeva, ghe voleva la lente. — E lui no se ga inacorto? — Machè! Contento come una pasqua, el xe vignù in caffè con 'sto placato dell'Ufficialità Apostolica, cossa so mi, che el mostrava in giro a tuti. E sua moglie el giorno dopo, la cori col vapor a Fiume a comprarse el capel. — E dopo? Dopo i ghe ga dito? — No. Perchè fazeva fin pecà. Savè no, come che xe i scherzi? Co' se se li imagina xe una roba, ma po' veder 'sto povero omo che se gaveva fato subito anche el bilieto de visita, la moglie che gaveva speso per el capel, — savè come che i disi «Capel pagà, pagà capel» — semo stadi ziti. — E l'autorità? — L' autorità? L' autorità gaveva altro de pensar quela volta. Iera squasi el ribalton, siora Nina. — Ribalton de cossa? — El ribalton. Quel del'Austria, po'. — Aah, e cussì xe 'ndà tuto in gnente? — Anche noi credevimo che finirà in gnente. Inveze sior Menigheto se ga fato avanti. — Aah! El gaveva vardà cola lente. El se gaveva inacorto del Magnafighi? — Ma gnanca se el vardava col canocial. Orbo cìroli el iera. Co 'l timbrava le letere in posta, una el timbrava dentro e dò fora. No, no, el ga fato i sui passi co' xe vignù el decreto. — Che decreto? — El decreto che tuti quei che soto la Defonta iera Rittercroiz dela Corona Austro-ungarica, podeva far domanda per esser riconossudi Cavalieri dela Corona d' Italia. — Ma lui no iera dela Corona Boema? — Quel xe stà el bel. Co' i ga visto al Commissariato dele Tere Redente, 'sto Ufficialato dela Corona Boema, i lo ga fato Cavalier Ufficial. E tuti i altri Cavalieri, semplici, compreso l'avocato Miagòstovich, che po' gaveva fato tanto per l'iredentismo lu. — E cussì la moglie de Menigheto ga podù tignirse el capel? — Altro che. Un novo la se ga comprà. Cole piume de bersaglier. MALDOBRIA XXII - BARCA PROPRIA Nella quale si racconta la storia del duealberi «Cirillo e Metodio» che Bortolo acquistò a Ragusa in Porto Casson dal signor Jerazimovich e del miracolo di San Biagio di cui non si trova peraltro traccia nel panegirìco del Santo protettore dell'antica Repubblica — Mi, siora Nina, son un de quei che se ga sempre fidado de tuti. I unici, devo dir, xe i Bùnicich che me la ga fata sporca col squero. Quel sì. Ma adesso, tanto, no xe più gnente nè per mi, nè per lori. Per el resto, devo dir, no me ga mai mancà el mio bisogno. — Ah, co' se ga el propio bisogno, sior Bortolo, quel xe tuto. — Giusto. Mi vardè, me xe passadi assai soldi fra le man: andai, vignui, riveriti, godui, saludai, robai. No mi ai altri, savè, i altri a mi. Mi de giovine gavevo sempre solo l'ambizion de aver el mio, quel che me bastassi per mi, de no dover dipender dei altri. Meo paron de barca che capitan de vapor, me diseva mio padre defonto. — Xe tanti anni che el xe morto? — Uh, zento e sie el gavessi adesso. Sarìa l'omo più vecio del' Istria. Perchè mi iero el più picolo dei mii fradei, e per quel go sempre avù l'ambizion de gaver barca mia. E la volevo gaver fin che iero giovine. Cossa servi gaver la barca de vecio, che dopo ghe vol pagar i giovinoti per via che i lavori per vù? Mi gavevo un fià de soldi, savè, quei che quei malignazi Bùnicich me gaveva dà per pagarme fora del squero. Metà dela metà de quel che me competeva, ma insoma dò soldi iera... — E alora ve gavè comprà la barca? — Sì, la «Marta Washington» compravo con quei soldi! Siora Nina, giusto la metà me iera, se trovavo un'ocasion. Perchè me bastava una roba de un dozentozinquanta tonelate. Con dozentozinquanta tonelate se fa qualunque nolo. De meno xe poco e de più ghe vol tropa bassa forza. E po', viagiar per qua, per Dalmazia, per Venezia, Ravena, Cioza. Insoma me ocoreva una barca de dò alberi, stagna, che no la sia vèrgola, che la tegni el mar. «Dò alberi, sì: dò figheri per impicarte — me diseva Barba Nane — ma chi te darà i soldi?» — Ah, perchè lui no ve li gavaria imprestadi? — Sì, se trovavo l'ocasion. El me li gavaria fati spasimar, magari, ma el gaverìa finì col darmeli. Po' lo gavessi pagà coi noli. E in ogni modo el sarìa stado sul sicuro perchè ghe davo la garanzia sui carati. Tuto studiado ben gavevo, siora Nina. Mi gavevo qua in testa tuta la mia programàzia, come che i disi adesso. — Ahn! Zercavi un'ocasion? — Sicuro. E fin che la zercavo, mai no la trovavo. E quela volta che gnanca no ghe pensavo, patapùnfete, me la vedo davanti. — L'ocasion? — La barca, siora Nina! Una barca de Antìvari. A Ragusa, in Porto Casson. — A Ragusa una barca de Antìvari? — Sì, cossa xe de strano? Una barca de Antìvari che iera a Ragusa. E mi iero a Ragusa col «San Francisco». Che iera, ve ricordè, de sior Giovani American. — Sì, me ricordo, quel che iera in America un periodo. — El periodo per far i soldi, siora Nina. E mi inveze là go visto che me li podevo far subito: tactac! Dozento e trenta tonelate, stagna, che tigniva el mar. Una barca de Antìvari. — Dalmata? — Ben, no propio dalmata, perchè in Antìvari comincia a esser zà Montenegro. Però, insoma, una barca dele Vece Province. «Cirilo e Metodio» la se ciamava, che mi quel gavevo zà pensà che ghe cambiavo. El paron se ciamava Jerazìmovich, che anzi me ricordo i lo cioleva via, che i ghe diseva «Jera zìmisi». Lui iera propio montenegrin de quei che scrivi in zirilo, de religion vecia. Ma bon, bon omo. — Ma cossa jera zìmisi in barca? — Ma no, siora Nina. A lu, i ghe diseva «Jera zìmisi», perchè el se ciamava Jerazìmovich. I lo burlava, come. Ma la barca iera ben tignuda. Mi me go inamorado in ela come che la go vista e co' go savù che el la portava a Trieste per venderla, mi go dito: «Questa note o mai più!» — De note iera? — Ma cossa, de note? Se disi «questa note o mai più», come dir «adesso o gnente». Modo de dir. Cossa se iera note? Perchè gaveva de esser note? ... «Cirilo e Metodio». Scrito in zirilo iera. Zinquemila, siora Nina! — Lire? — Machè lire. E gnanche corone! Fiorini iera. — E quanto iera un fiorin? — Dò corone. — E una corona quante lire iera? — Una lira. — E dinari? — Ma cossa dinari? Dinari xe vignù dopo. No se pol far gnanche un calcolo, dài. Quela volta iera altri tempi, altri soldi, altra vita. Pensève che i zinque fiorini iera de oro, oro puro. — Mio papà defonto gaveva i botoni de polso fati coi zinque fiorini. — Indiferente. Quel gaveva tuti. Insoma 'sto omo voleva zinquemila fiorini per la barca. E mi gavevo tremila. Quei maledeti che me gaveva dado i Bùnicich per pagarme fora del squero. Che iera un squero che no fazevimo miga caìci, savè: scune, scune fazevimo. Povero papà mio. — Ah, ma gavevi tremila? — Sicuro. Se no chi gnanca zercava una barca? Ma tremila no iera zinquemila. E 'sto Bògdan Jerazìmovich, Bògdan el se ciamava, el saveva far i conti. Iera un de quei montenegrinski, malignazi! Mi ghe digo che tremila ghe fazzo aver subito e dòmila dopo. «Dopo, qvando?» — mi fa mi dice. «Dopo — ghe digo mi — dopo a scadenza». «Sì — dice lui, mi fa mi dice — e fido, chi ga fido?» «Mi go fido — ghe go dito franco — mi son conossudo di Trieste fin Boche di Cataro, in tuta la Dalmazia». «Antìvari no» — me disi lui. «Bon. Antìvari no xe Dalmazia», go dito mi. Ciapa su e porta a casa. «E a Ragusa sì?», me disi lui. «A Ragusa son conossù come el soldo». Bon che el penserà. — Ah, a Ragusa a vù i ve conosseva? — Gnanca un can, siora Nina. Dio, el piloto del porto me conosseva e in local a Gravosa. Ma mi gavevo zà in testa una mia idea. Ghe vol spirito de osservazion, siora Nina! Alora ghe digo: «Guardi, signor Jerazìmovich, è meglio che ci discussiamo su con calma. Ci vediamo domani ala Porta Granda». Quela de San Biagio. Ieri mai a Ragusa, siora Nina? — No, volevimo andar con mio marì, una volta. — Indiferente. A Ragusa xe la Porta Granda, quela de San Biagio, anche se vù no ieri. — Ahn! — La matina dopo, me vedo rivar 'sto Jerazìmovich con quela sua anda. E mi, fermo davanti dela porta de San Biagio. Insoma ghe digo che xe meo che el me la vendi a mi, che el se risparmia el viagio fin Trieste, che Trieste xe lontan, che xe tempo missiado. Che xe come che el gavessi fato un nolo de più. E come che parlavo, passava la gente davanti de mi, se cavava el capel e mi rispondevo cavandome la bareta de maritimo. Quela volta tuti portava capel o bareta, miga come adesso. Ma tuti, savè, saludava: uficiai, òmini de sesto. Iera domenica, i fazeva el liston e i saludava. Fioi persina: la mama ghe diseva «saluda!» e lori saludava. E mi ghe rispondevo saludando. Iera tuto un saludo. Tuto un saludarse. 'Sto Jerazìmovich assai ghe ga possù che tuti me saludava. «Ah, vi conoscono a Ragusa ben?» — mi fa mi dice — «In tuta la Dalmazia» — ghe digo mi. «Bon alora — el me disi — tremila subito e duemila in due anni. Tre prozento». — Prozento? — Sì, percento. De interesse sui domila. «Consegna imediata dela barca» — digo mi. «Barca vostra — disi lu — Slùga vàssa», che sarìa come dir «servo suo». El me ga dà la man e afar fato. — Ma come xe 'sta roba, sior Bortolo, che i ve saludava? Alora i ve conosseva dassèno a Ragusa? — Gnanca un can, siora Nina, ve go dito. Ma i conosseva ben San Biagio che xe nela nichia sora la Porta Granda. Savè come che se disi: «I ragusei, che sia nobili o sia plebei, davanti a San Biaso se cava i capei». E tuti se li cavava, ah! Per cossa me gavevo messo là soto? — Ahn! Che truco! E po' che nome, che nome ghe gavè dà ala barca? — Che domanda, Siora Nina?! San Biagio. Ma dopo el primo viagio, go dovesto portarla in squero dei Bùnicich. La me fazeva acqua de tute le parti. Malignazo Jerazìmovich. E in più anche zìmisi iera. MALDOBRIA XXIII - LA NEVE DEI CARPAZI Nella quale si parla delle nevi dei Carpazi, del talento dello scultore-soldato Superina e di un'idea del capitano Balta in occasione di un'improvvisa visita al fronte dell'Erede della Monarchia austro-ungarica. — Sior Bortolo, savè la novità, che Miro quel dela casa nova, el fa l'impianto dei scaldoriferi? — Ma, siora Nina, cossa scaldoriferi! Caloriferi se disi. E po', granda novità! Mi go visto caloriferi a Trieste, che noi qua in paese no gavevimo gnanca el spàher. Me ricordo sempre mia defonta mama, povera, che impizzava el fogo cole frasche, e la pignata impicada soto la napa. Adesso ara! Adesso, tuto piastrele olandesi e vasi de fiori cole spedistre i meti in fogoler. Xe cusine che fa gnanca pecà de farghe el magnar dentro. — Eeh! Se sfadigava, sì, una volta per aver un fià de caldo. Mia defonta nona diseva sempre: «Benedeto l'istà, con tuti i sui pulisi e le sue mosche». — Caloriferi, siora Nina, iera che iera ancora guera. — Sì, ma distudai, perchè no iera carbon. Me ricordo che andavimo su dei Cici e i diseva «Gnente carbuna» Che rider però, anca durante la guera. — Ma de che guera parlè, siora Nina? — De questa, po'. De quala? — Ah, de questa! El comandante Brazzànovich gaveva caloriferi in casa ancora co' iera guera d'Africa. «Io ti saluto e vado in Abissinia, cara Virginia». Ve ricordè, siora Nina? Fazevimo Massaua, quela volta, col militar. — Col militar? — Col militar, col civil, camioni. Tuto portavimo zò. 'Sti negri, adesso ara! Ben, e quela volta là del Comandante Brazzànovich in via Giustinelli, me ricordo: caloriferi. Che anzi Barba Nane ghe diseva sempre: «No xe san, Comandante, ve malerè de peto». — Eh, caloriferi iera anche alla Cassa Marittima, a Trieste. — Bon. E mi ve digo che li go visti rente Leòpoli, ma no de questa guera. Dela prima guera. E i li gaveva chissà de quanti anni. — Leòpoli? No conosso, no i xe dele nostre parti. — Machè nostre parti! Leòpoli, Lemberg i ghe diseva per tedesco. La capital dela Galizia. Austria Ungheria iera. — E 'sti austriaci gaveva i caloriferi? — Machè austriaci. Leòpoli iera polachesi, polachi come che volè dir. Noi ierimo là, rente Leòpoli, in una vila che no ve digo. Gavè presente la vila Prohàska? Bon, vardè, la vila Prohàska, in confronto, iera una caponera. Questa iera la vila de un signoron polaco. Un palazzon, in mezo ai boschi, con 'sti Carpazi che se vedeva. Una tera ricca, grassa. E po' porchi, porchi! — Ma chi, 'sta gente? — Machè gente. Porchi i gaveva, tanti. Boschi, porchi. Fin pecà fazeva aver messo el militar in una vila compagna. — Cossa el militar stava? Come caserma? — Dio, no el militar. L'uficialità. Iera l'Oberkommando de quel setor. Ierimo squasi al fronte, savè. Però mi, Marco Mitis e Superina se gavevimo ficadi là, come ordinanze. Cussì per pomigar, no? — Ahn! In 'sta vila polaca. — Sicuro. E là xe stà la prima volta che go visto caloriferi. Oh Dio, no iera veri caloriferi come ogi. Ma iera una roba de un'ingegnosità che propio una testa doveva aver fato: pensè che i camini, inveze de andar driti su, passava per tuta la casa con tubi. E cussì scaldava tuto un poco. — Perchè, iera 'ssai fredo? — Fredo? Noi gnanca no savemo, siora Nina, cossa che xe fredo. In Galizia xe fredo. Quel fredo, savè, che no capì più gnente, che ve se jazza le parole in bocca e i sentimenti in testa. E neve? Neve fin ai fianchi. Che dovevimo spalar noi, la matina. Mi, Marco Mitis, el giovine Bùnicich e Superina. Ierimo in quatro de qua: che ditta, ara! — Mi conossevo i Superina, quei de Fiume. — I Superina xe tuti de Fiume. 'Sto qua iera un, che mi disevo sempre, «butado via». Iera un che iera barca stramba, mai finì le scole: ma un talento! Per piturar, per far statue. El gaveva fato anche el busto de Danunzio dopo la guera. E là spalavimo la neve del Oberkommando; ma savè, iera meio che star soto le patrone. — Lavoravi là? — Lavoravimo. Militari ierimo. Insoma, 'sto Superina se gaveva fato assai ben voler, perchè lui cola neve fazeva statue che i uficiai iera propio stupìdi, savè. Un gicrno el gaveva fato una Venere, che vigniva cussì, cussì i militari a guardarla. — Una pupa de neve? — Pupa? Pareva una vera statua de marmo. Là iera un fredo che no se squaiava miga, savè! Me ricordo, a mezogiorno, un fià, un fià de sol. Po' basta. Insoma un giorno passa telegrama che vien a visitar el fronte l'Arciduca Carlo. — Carlo Piria? — I ghe diseva «Piria», perchè par che el bevessi. Ma mi go sentì che no iera vero. Iera l'Erede al Trono. Che dopo, difati, el xe diventà Imperator. Alora no ve digo, no ve conto coss' che no i ga fato de preparativi. Fredo! — E dopo el xe vignù? — Come no? Spetè, spetè. Insoma noi gavevimo propio che ne comandava un capitano, un de Fiume, un ungarese, me ricordo: Balta el se ciamava. El ghe disi a Superina, ci fa ci dice a Superina: «Superina, perchè tu che hai tanta zata non fai una bela statua del Imperatore?» Insoma che el ghe fazzi una statua de neve del Imperator. — De Carlo? — Ma no, iera ancora vivo Francesco Giuseppe. Ve go dito, Carlo iera Arciduca quela volta. Insoma 'sto Superina ga dito che va ben, che sì. E alora cola fotografia in man ... — De Superina? — Machè de Superina, del Imperator, no. No'l doveva far l'Imperator? — Ah sì, sì, sicuro, sicuro. — El lo ga fato una volta e mezo grando. — Dela fotografia? — Ma no! De lu. De come che el saria stà vivo lu. — Perchè no'l iera vivo? — Ma sì che el iera vivo. El lo ga fato una volta e mezo la grandezza naturale. Me capì adesso? — Ah, grando! — Grandissimo. Co'l ne ga ciamado a veder semo restai tuti stupìdi. E 'sto capitano Balta, no ve digo. El ga dito: «E' molto figuroso». E anzi el se ga tanto entusiasmà che el ga dito: «Dovemo far come una statua vera: lo scoprimento co' viene l'Arciduca». — E dopo el xe vignudo? — Spetè. Alora che ghe metemo su un linziol. Superina ga dito no, perchè no xe miga piera, pol tacarse. — Savè el gaveva fato tuto quel lavor de mustaci che gaveva l'Imperator: parlante po'. El ga dito: «Strazza su no». E cussì, dal teto dela sera, perchè el lo gaveva fato soto el teto dela sera per via che no ghe nevighi, gavemo impicà un per de linzioi de comìs davanti e tuto atorno. — Quela sera? — Ma no, siora Nina, la serra, dove che 'sto signoron polaco tigniva i fiori prima che vignissi el militar. Alora tuto ben con 'sti linzioi atorno. Finì el lavor, tornemo nela vila. Siora Nina, gavè mai visto òmini blu del fredo? — Mi no. — Bon, mi sì: Superina. Lu gaveva lavorado zinque ore al averto con quel fredo che fazeva là, e el iera blu, ve digo, blu. Rivemo là, in 'sto nostro alogio. Prima doveva esser stà un saloncino, qualcossa, perchè gaveva el camin bel de marmo, coi leoni. E 'sto Superina riva dentro, el se poza sul muro: mal, mal, mal. Che no'l senti più le man, che no'l senti più i pìe. Alora mi, che me gaveva dito uno che guai perder un minuto de tempo in 'sti casi, lo go ficà in leto. Coverte, coverte, coverte, gavemo strassinà la branda propio davanti el camin, trapa, gran trapa, e fogo nel camin con quel che iera: sedie, travi, carte, tuto. Un fogon. — Povero giovine, in quei fredi! — Eh, ma per fortuna che gavemo fato cussì! Difati la matina dopo el iera come novo. E co' xe vignù l'Arciduca, el capitano ga dito: «Ecco, questo è il nostro Superina di Fiume che ha fatto la statua in neve di Sua Maestà Apostolica». Per ungherese el ghe ga dito. — E l'Arciduca Carlo cossa ga dito? — El ga dito: «Giù il tendone!» — Dela statua? — Sicuro. Cavemo zò i linzioi e, siora Nina: gnente. — No vien zò i linzioi? — Come no, i vien, i vien zò. Ma soto no iera gnente. Savè coss' che vol dir gnente, zero assoluto. Solo per tera un gran plotsch. — Un plotsch? E la statua? — La statua squaiada, siora Nina. Perchè noi no savevimo che del camin del nostro alogio partiva le tubature del calorifero per la serra. No iera saloncin, iera giardino d'inverno, in direto colegamento cola serra. Fogo fato, statua squaiada, siora Nina. — E l'Arciduca? — L'Arciduca gnente. «Bon — el ga dito — pazienza signori ufficiali, andiamo a bere alla salute dell'Imperatore». Carlo Piria i lo ciamava. MALDOBRIA XXIV - FILETTO DI «DOLFINO» Nella quale si fomisce la ricetta del filetto di delfino e Bortolo racconta, sulla base delle sue esperienze, di come taluni signori Comandanti del Lloyd fossero usi fare personalmente la spesa e per casa e per bordo. — Ma, sior Bortolo, secondo vù, sabo iera vigilia o no xe più vigilia adesso dopo el Concilio? Perchè mi me ricordo che una volta el Sabo Santo, a mezogiorno, sonava el Gloria e se se lavava i oci. — No so. Mia moglie tien come prima. Vènerdi magro, sabato vigilia e domenica agnel. — Sì, xe quel che volevo dirve: 'sti giorni no iera che girar per le boteghe per far provista. Una roba l'altra, insoma scampa la testa. I disi «Pasqua con chi vuoi», e intanto tuti i fioi me xe vignudi a casa... — Meo, siora Nina, bon segno: vol dir che i ve vol a vù: «Mama ce n'è una sola». — Sì, ma mama ga anche dò soli brazzi... — Ben, adesso no stemo far maravee. Cossa sarà far provista per dò feste? Presempio, mi me diverto, savè, a far la spesa. L'omo — mi go sempre dito —• fa meo la spesa che la dona, perchè la dona varda al bon mercà, e el bon mercà rovina la scarsela. E po', soto el bon prezo, se scondi l'ingano. — Sì, l'omo che fa la spesa, figurarse! Mi ve dirò che qualche volta co' vedo 'sti òmini che fa la spesa cola borsa de atti, me fa malinconia, me li vedo miseri, sbrisi, soli a casa. — Miseri, sbrisi, siora Nina? Mi son omo de mondo, mi go navigà. A Trieste dovè saver che Comandanti, signori Comandanti del Lloyd, fora de Palazzo, prima in pescheria col scartozzo e po' in Ponterosso. Comandanti, signori Comandanti del Lloyd, siora Nina, con servitù in casa. Quel xe el vero omo...! — Comandanti del Lloyd? — Signori Comandanti del Lloyd, siora Nina, conossudi de tute le venderigole. «Còcolo, còcolo, qua la vegni, de mi che ghe voio ben». «Cànada, Cànada e bisi de Capodistria». Vù conossevi el Comandante Nìcolich? — Nìcolich qual? Quel del'Istria-Trieste? — Ma noo! Quel iera Tonin Nicolich, che i ghe diseva «Tonin povero». — Perchè el iera povero? — Ma no, no'l iera povero, ma el iera un poco indrio cole carte. Zuruck mit den Papìren. E alora i diseva «povero Tonin», «Tonin povero», co' i parlava de lu. — Mi quel conossevo. Ma el iera un bon omo. — Orpo, ancora cativo el gaveva de esser, cussì mona che el iera. No, mi intendevo el Comandante Nìcolich, Nicolò Nìcolich, che iera una spada, un lussignan. De Lussingrando, però. — Xe tanti lussignani de Lussingrando. — Ma no stème dir! Indiferente. Volevo dirve che lu, el comandante Nìcolich, in navigazion, no lassava mai che el commissario de bordo andassi a far provianda. Andava lu personalmente, con mi. — Vù come commissario de bordo? — No. Mi iero gambusier. El Comandante Nìcolich diseva sempre: «I commissari de bordo xe per intrigo, i sporca carte e i fa cìncili ciòncili cole passegere, una volta no esisteva 'ste robe». Lui se intendeva però, savè, de provianda. Un vero boncùlovich el iera. — Chi, el commissario de bordo? — Ma noo! El Comandante Nìcolich. Che po' mi calcolo, savè, che el nostro commissario de bordo — quela volta gavevimo un zerto Bonifacio, un triestin, una macia, savè mi calcolo che lu ghe dava come fastidio al Comandante Nìcolich, perchè el Comandante voleva esser lu, imperatore, in tavola, cole passegere. E che passegere che iera, signore de casada, uficialità! Me ricordo che lu gaveva sempre una storia che el contava, per stupir. — Ale passegere? A 'ste signore? — Signorone iera. Ben: el comandante Nicolich ghe diseva: «Signora, ha mai mangiato il fileto di dolfino?» — Dolfino? — Sì, delfino, delfin. Ma lu diseva «dolfino». Alora ci fa ci dice, insoma: «Ha mai mangiato fileto di dolfino, signora?» Che no. «Guardi che è buonissimo. Prima si prende il dolfino e se lo neta. Poi se lo sala. Poi se lo impica in modo che si fùmighi. Poi, giorno per giorno, piano piano se lo intondisse con la mano. Poi se lo taglia a fileti, solo bisogna stare atenti che non vàdino mosche sopra, se no si incarica di vermi e non è più gnente di lui». — Perchè? — Ma indiferente. Iera per contarve. Mi no go mai magnà. Gnanche visto no go mai, fileto di dolfino. Insoma volevo dirve che el se intendeva. Co' andavimo in 'ste proveditorie maritime, cossa che no iera, siora Nina! Tuto! A boca desidera! E co' vigniva una barca, savè, come la nostra, la fazeva conto, savè, conto grosso. Che anzi 'sti qua ghe fazeva le bele, ghe diseva: «Pagherete con comodo». E lu, lussignan vero, una spada de omo, el diseva: «Pago in contanti. Coi bezzi in man se pol andar dove che se vol. Vù no savè el vostro mistier. Chì dà in credenza, perdi la roba e l'aventor». E cussì el ghe tirava zò el prezzo. — Ma andove, 'sta roba? — Dapertuto, siora Nina. Mi go viagià col Comandante Nìcolich mezo mondo. Hong Kong: a 'sti cinesi el ghe diseva: «Canta o no canta, un dolaro e quaranta» e basta: quei lo stava scoltar. — Come, un dolaro e quaranta? — Ma sì, se disi per dir: «Questo xe el prezzo mio. Per bon che sia, de più no pago». — Ahn! — Una spada el iera, siora Nina. Drito. Lui no sgarava. Centesimo per centesimo al armator el ghe rendeva conto. Fin le meze fiasche che vanzava. E no iera de quei che meteva la barca per tresso per via che el passeger no magni causa del mal de mar. Lui diseva sempre: «Se io gavessi voluto, gaverei la villa a Cigàle e tuto pulito». Per quel, bisogna dir, siora Nina, lui no se profitava. El diseva sempre: «Chi aceta per piazer, po' paga per dover. E mi poderete scriver sula mia tomba: Non si profitò mai di meza corona». Corone che iera co'l xe morto, siora Nina! Gaveva mandà el Lloyd, i armatori liberi, la Libera Triestina, le Canottiere, le Assicurazioni. Mai un'avarea no'l ga avù. E vardè che cole avaree se pol, savè, volendo... — Papà mio, povero, una volta iera restà fermo tre mesi in avarea a Rogòsniza. — Cossa volè che sia Rogòsniza, siora Nina, quatro case, un squero e una fabrica de spuzza de freschin. Noi col Comandante Nìcolich fazevimo Mar Nero. — Nero de nafta? —• Ma no nero de nafta. El Mar Nero. Odessa. Russia. Prima dela prima guera iera tuto altro: iera ancora el Zar Nicola... — Nìcolich? — Ma che Nìcolich? Nicola, el Zar di tutte le Russie. In Russia, savè, iera miserie grandi e grandi richeze. Iera tuta un'altra concezion del mondo. Che proveditoria che iera a Odessa! «Proveditorìe maritìme de Odesse» iera scrito per francese. E po', soto, anche per zirilo. Ben, là i gaveva de tuto. De tuto! Vodka, sampagna de Crimea meo de quela francese, salmon che i taiava come persuto: rosa, profumado! — El persuto? — Sì, de Dalmazia. El salmon, ve go dito. E po' caviale. — Savè che mi caviale no bazilo tanto. Gaveva portado mio papà defonto de un viagio... — Indiferente. Vù no bazilè, ma xe gente che bazila, siora Nina. Savè coss' che costa, ogi come ogi, el caviale? Go visto a Trieste: scatolete de dieci deca, tremila e zinquezento lire, che sarìa trentazinquemila lire al chilo. E là iera barili, siora Nina, barili de caviale. — A Trieste? — Ma noo, a Odessa. Prima dela prima guera. Noi ciolevimo, savè, per bordo. Per el passeger. Perchè noi fazevimo Costantinopoli, Mar Nero, Crimea, Odessa e tuto. — Ahn! — Insoma un giorno ne toca una bela in 'sta Proveditoria de Odessa. Difizile iera 'sto comandante Nìcolich. L'ordina tuto e po' el ghe fa el ghe disi a questo Proveditor: «Avete per caso fileto di dolfino?». Lori che no, che no i sa. «Male — el disi lui — male, perchè è buonissimo. Prima se lo sala, poi se lo impica, se lo intondisse...». Insoma el ghe ga contà tuto. E 'sto qua ghe disi che no, che ghe dispiasi, che i provederà, che se i pol favorirlo in qualcossa altro. Alora lui disi che va ben, che no fa gnente, che però xe pecà, pecà che no i ga. — No i gaveva? — No, no i gaveva. Gnanche mi, ve go dito, no go mai visto 'sto fileto de dolfino. Però i xe restai mal. E alora 'sto proveditor ghe disi: Signor Comandante Nìcolich, che lori xe assai contenti di servirlo, che anzi se i podessi ofrirghe personalmente, così come un cadò, una masteleta de caviale grigio del Caspio, prima qualità. Savè, caviale grigio del Caspio xe una roba che anche in Russia iera una rarità e el Comandante Nìcolich lo guarda, come de bruto, e ghe disi: «Chi aceta per piazer, paga per dover. Come Comandante del Lloyd Austriaco, io non accetto il più piccolo regalo». — Ah, perchè iera l'Austria quela volta? — Sicuro. «Ma no — ghe disi alora 'sto russo dela Proveditoria — alora femo che no xe un regalo.» Che i ghe lo venderà. «Voi per questo otimo cavial grigio del Caspio mi darete un rublo», che sarìa stà come dir dò corone, una roba de rider insoma. «Aah — ga dito el Comandante Nìcolich — alora la roba cambia aspeto. A questo prezzo prenderò pure due mastelete. E zò el ghe ga conzà dò rubli. E via lu coi dò bariloti soto scaio. Lussignan el iera. Per strada ancora el rugnava: «Mai che se possi trovar fileto di dolfino». MALDOBRIA XXV - IL BOCCHESE Nella quale Bortolo si aggiunge a coloro che assicurano d'essere stati imbarcati sullo stesso vapore in cui avvenne quell'episodio onde va famoso in tutti i porti del mondo il «savoir faire» delle genti dalmate. — Che se parlava dei telegrami. El telegrama, siora Nina, fa impression anche perchè disi tuto, cussì, diretamente: pim, pum: «papà grave», «barca persa», «funerali giòvedi». Inveze per letera un poco se prepara l'omo. Per tute le robe ghe vol un fià de puligana, saver dir, saver far, gaver un poco de quel che se ciama. — Sicuro. Però qualche volta istesso se ga come l'intuizion. Me ricorderò sempre, sior Bortolo, de quela volta che son smontada del vapor e me vien incontro mio cognà. «E Santina?», ghe go dito mi. E lui che la xe per strada, perchè la madre, insoma come che no la staria tropo ben. Ma mi go subito intuido. Povera mama. — Ah ve xe vignù incontro al vapor el cognà? Quel xe zà mal. Lui gavessi dovù intuir che vù gavessi intuido. Puligana ghe vol in 'ste robe. Ve ricordè el nostro-omo Micovìlovich? Quel, vedè iera un omo che gaveva puligana! Cussì almeno i diseva. Barba Nane, inveze, una volta voleva farghe cavar la matricola. Ma dassèno, savè. El iera andà propio al Governo Maritimo a far petizion. — Contro de vù? — No contro de mi. Contro el nostro-omo Micovìlovich. Quela volta de Nini Dubìnovich. Quela volta che ierimo imbarcai sule Boche de Cataro. — Cossa, ieri in tera? — No: la barca la se ciamava «Boche de Cataro». Fazevimo la linea de Fiume a Cataro: dò barche iera, la «Fiume» e la «Boche di Cataro», iera vapori dela Ungaro-Croata, ma a bordo iera tuti patrioti: iera 'sti dalmati, istriani, piranesi. Là gavevo fato el mio primo viagio col Comandante Dùndora. Ve ricordè el Comandante Dùndora? — No. Mi conossevo un nostro-omo Dùndora, un ruspido. — Quel iera un altro. El Comandante Dùndora iera un omo tuto diferente, iera un de quei che se impressionava per tute le robe. Assai de famiglia. Lui al molo gaveva sempre la moglie sotobordo: lui pianzeva co' el rivava, lui pianzeva co' el partiva, un tipo comovente insoma. Ogni volta, gavevimo zà molà la zima, che el ghe zigava ala moglie: «Scrivime se ti xe rimasta!» Assai de famiglia. — Mi co' mio marì navigava no go mai vossudo andar al molo. — Indiferente. Iero giovine quela volta, de coverta. Nostroomo — ve go dito — iera el nostro-omo Micovìlovich. E Barba Nane iera come Secondo squasi, perchè lui gaveva la patente di padrone. Iera barche pice, savè, queste dela Ungaro-Croata. Bon, quela volta viagiava con nualtri un giovinoto. Giovinoto, propio, gnanche giovine de coverta. Nini el se ciamava. Nini Dubìnovich. Un dalmato. El iera de Spalatro. — I spalatini massima parte naviga. — Difati lui navigava. E un giorno, co' semo apena fora de Sebenico el Comandante Dùndora ciama el nostro-omo Micovìlovich e ghe fa: «Ciò, Ive — Ive se ciamava 'sto Micovìlovich — ciò Ive, xe passà telegrama a Sebenico per Nini, che ghe xe morta la madre». — De un colpo? — No so mi. Fato sta che iera passà telegrama che la madre ghe iera morta. E alora el Comandante Dùndora, che come che ve go dito iera un omo che assai se impressionava, el ghe disi al nostroomo: «Ive, mi no so come dirghe a Nini, perchè bisognassi sbarcarlo a Zara che el vadi a Spalatro per el funeral». — Per el funeral dela madre? — Per el funeral dela madre, sì. Cossa volè, per el funeral del padre, se ghe iera morta la madre? E po' el padre ghe iera morto zà de tanti anni. Insoma, ghe disi el Comandante Dùndora che lui no sa come dirghe e el nostro-omo Micovìlovich alora ghe fa: «No steve a preocupar, capitano, no stè gaver pensier, che ghe digo mi a Nini, cola fiaca». «Eh, me racomando Ive, cola fiaca, povero Nini!» — 'Ste robe xe delicate, ghe vol preparar l'omo. — Sicuro. Difati 'sto Micovìlovich, va de Nini che fregava la coverta e ghe fa, ghe disi, ci fa ci dice, cussì senza parer: «Nini, de dove sè vù? «Eh, de Spalatro son» — disi lu. «Ah, de Spalatro, sè vù? Dalmato. E cossa, a Spalatro stè cussì, solo?» «Eh no. Sposà no son, ma la madre me xe in casa». «E come, come sta vostra madre?» «Eh, vecia la xe, ma stagna. Stagna vecia. Co' son in tera stago con ela e co' navigo ghe mando. «Ah, ghe mandè ala madre? «Eh sì, guai se no ghe mandassi. Come me faria a viver la madre? Vecia oramai la xe, e con quel che ghe mando la me vive». «Ah perchè cussì la vive?» «Eh sì». «Kùraz! Morta la ve xe! Stamatina bonora.» — Eh i dalmati ga sempre 'sta parola in boca. Spece quei dele Boche de Cataro. MALDOBRIA XXVI - L'EREDE PRESUNTIVO Nella quale si narra come il dottor Colombis di Lussino, dopo i lunghi studi compiuti presso l'Università di Graz, fosse finalmente pervenuto alla scoperta di un metodo per la individuazione prenatale del sesso e di come ebbe modo di dimostrare la propria infallibile valentìa in un evento di non poco conto. — Cossa ve dago ogi, siora Nina? — Eh, ogi dovessi proprio trovarme un astiseto, che no sia grando, che no sia tanto de spender, perchè mia fia Pierina assai lo brama e no volessi che ghe resti la voia. — La voia? Perchè, cossa, la speta? — Come no. La speta, la speta. Spetemo per la Madona de agosto. — Alora ghe vol proprio un astise, Dio ne guardi de la voia de astise! Me ricordo del nostro-omo Sforzina, che navigava con mi sull'Austro-Americana, proprio qua, con rispeto, sula culata, el gaveva una voia de astise: ma tuto, savè, se vedeva, fin le tanaie. — Eh, i disi, i disi che no xe vero. Ma inveze xe proprio vero. Mia sorela defonta gaveva ... — Indiferente. Ma cossa volessi vù, un mas'cio o una femina? — Ah, per mi, xe la stessa roba, i fioi xe tuti cocoli. Anche Pierina e Enio no ghe interessa più che tanto. A mio marì pitosto. Xe lui che ghe tignissi che sia un mas'cio: savè per el nome. — Per la dinastia, insoma. — Ma no, dai! Miga per quel. Xe che el bramassi che i lo ciami Nicolò come lu. — Eh ben, se xe una picia i ghe ciama Nicoleta e xe festa istesso. — Sì, sì, ma lui proprio ghe tien. Lui disi sempre che val più un per de braghe che zento còtole. Vederemo, ah! — Vederemo sì: per la Madona de agosto me gavè dito? Savè come che se disi: «Cola luna vecia femine, cola luna nova mas'ci». Adesso fè vù un poco i conti. — Ah, magari che fussi cussì fazile! Per quel se disi anche: «Mama bela una putela». Inveze mi iero proprio ben quando spetavo Albino e co' spetavo Pierina inveze iero 'ssai patida. — Ma vostra Pierina xe bela, una bela sposa proprio. — Oh Dio, no la xe bruta: insoma la piasi. La ga un bel trato. E po' assai un bon caratere, quel disi tuti. Savè, a mi — ve go dito — no me interessa, però per mio marì sarìo quasi più contenta che rivassi 'sto mas'cio. Savè, xe anche per la compagnia. Co' l'omo invecia ... — Oh, vardè che per quel xe tuto l'incontrario. Per l'omo xe la fia che ghe xe più de compagnia. I mas'ci va ognidun per le sue e chi ga avù ga avù. Bongiorno e bonasera, e qualche volta gnanca quel. — Mah, semo nele man de Dio. — E po' xe el primo, no? Savè come che se disi: «Le primarole le fa quel che le vòle». Inveze, vedè, el dotor Colombis, le intivava tute. — Colombis chi? Quel che gaveva la farmacia? — No lui. Suo fradel. Un iera farmacista e un iera dotor. Ma nominà, savè! — Chi el farmacista? — Ma no el farmacista, el dotor! El iera nominà perchè lui intivava sempre. Co' lu visitava l'indovinava ogni volta. — El mal? — Machè el mal! Cossa i fioi xe un mal? I fioi xe una benedizion, specialmente co' se li tien sui zenoci! Lui intivava sempre se iera mas'cio o femina, ma mesi e mesi prima! Vardè che i andava de lu a Lussin, fin de Pola, de Trieste! E volè creder? Mai sbalià una volta. — Cossa el ghe passava i ragi? — Ma chi gaveva ragi a Lussin, che quela volta iera i primi primordi dei ragi! «Intuito», cussì el diseva lu! Ma no 'liera miga un zarlatan, savè! Lui se gaveva dotorado a Graz. Me ricordo che el gaveva la laurea in sfasa. — La Laura Colombis? — Machè Laura Colombis! La laurea de dotor. Medizin dòktor. — Ma come el fazeva? Se i disi che no se pol saver gnanche coi ragi! — Ma vù la gavè fissa coi ragi! Lui intivava. Una andava a passar la visita e lui ghe diseva: «Mas'cio, sarà mas'cio». E el cioleva nota. Opur «Femina! Una femina, una bela putela, signora». El gaveva un trato lui, el saveva far cola gente. Un signor el iera: Nobili de' Colombis, iera lori. «Femina» e el se cioleva nota. — Ah, no savevo. E no 'lghe ga contà a nissun come che el fazeva? — A Barba Nane el ghe ga contà, co'l lo gaveva in cura per la flussion. Che anzi, dopo, Barba Nane ghe diseva sempre: «Dotor, dotor, vu scherzè col fogo, con 'ste maldobrìe!» — Ma cossa maldobrìe el fazeva? — Ma no maldobrìe. No iera maldobrìe. Lui diseva sempre «mas'cio o femina, no ga nissuna importanza. Natura règulat». Che sarìa stà che la natura se regola sola sistessa. Ma sicome che la gente bramava tanto de saver, lui fazeva cussì. — Cussì, come? — Lui ghe diseva, presempio: «Sarà un bel mas'ceto». El cioleva el libro e el notava. — El notava mas'cio. — No. El notava «femina». Questa iera la furbità. Perché se nasseva mas'cio, tuto ben, tuto bon: el dotor Colombis ga proprio intivà. — E se nasseva femina? — E se nasseva femina, andava la gente de lui e ghe diseva: «Dotor, come? la me ga dito mas'cio, e inveze xe nata una femina». E lu: «Mas'cio go dito? No me par. Che vedo sul libro». El cioleva 'sto suo libro e el diseva: «Vedè qua? Ve xe la data, ve xe el nome e ve xe scrito femina. Dove gavè la testa: Cossa, magnè memoria?» Uh, el gaveva un trato! Un signor el iera: de' Colombis! — Ah, cussì el fazeva? Ma, scusè, e se inveze lui ghe diseva femina e nasseva un mas'cio? — Oh Dio, siora Nina, se lui gaveva dito femina el notava mas'cio. E co' i vigniva el diseva: «Vardè qua: mas'cio. Dove gavè la testa? Cossa magnè memoria?» — Ah, go capì. E se inveze iera mas'cio, tuto bel e bon. — Te Deum laudamus! Sonemo le campane de Santo Spirito, che la gavè capida! — E cussì ghe xe andà sempre tuto ben? — Sì, ben, fin el giorno che 'sta roba de 'sto dotor che sempre la intivava no la ghe se vignuda in orecia al Arciduca Francesco Salvatore. — Un regnante. — Regnante? Arciduca. L'Arciduca Francesco Salvatore, quel che andava sempre de istà col yakt a Plauno, là vizin de Lussin. Una matina el ghe ga mandado el caìcio, la lancia anzi, con dò marineri coi pomponi e col remo cussì in alto: se el vol favorir a bordo. — Un aborto? — Ma no aborto. A bordo del suo yakt, l'«Adria» ... Un trealberi che no ve digo. Cola sua bandiera, sua de lu, sula maestra. Dio che tempi che iera quei! No par gnanche vero. Ma spetè che ve conto: insoma per farvela curta el ghe disi al dotor Colombis che el vegni a Trieste a Mìramar, che là xe una sua parente che speta, e che i lo vol per un consulto. — E lui xe andado? — Sicuro che el xe andado. Cossa volè che no'l vadi? Ricevuto proprio a Mìramar per un consulto secreto che no doveva saver nissun. Savè, anche 'sti grandi del Sangue gaveva 'ste curiosità e po' capì, iera anche question de dinastia. — Aah! E lu cossa ga fato? — Gnente. Finida la visita el ghe ga dito: «Maschio, ein Knabe». Lui parlava franco tedesco. — E inveze el ga scrito sul libro «femina». — Sì, proprio! Cossa credè che quei là iera gente de Ciunski, de òrlez? Iera i più grandi, quei del Sangue, quei che stava proprio a Mìramar. Lori, lori ga ciolto nota su no so quanti libri che el ga dito «Mas'cio». — Mama mia! E inveze xe nata una femina? — Una femina? Oto. Oto xe nato. — Oto gemele? — Machè oto gemele! Oto d'Asburgo, fio de Carlo Piria defonto, erede presuntivo ala Duplice. Mas'cio. Ancora vivo el xe. Lu xe quasi morto de paura, el dotor Colombis, finchè el spetava. El ga patì più lui che Zita. MALDOBRIA XXVII - IL MIRACOLO DELLA PALMA Nella quale Bortolo, dopo aver dissertato e sul clima e sulla flora del Quarnero, sulle differenze di vegetazione in riparo o in battuta di bora, racconta la storia della palma del Comandante Ossòinak. — Mi go leto sul giornal, sior Bortolo, che xe cambiado el clima, che no sarà più bore. — Sì, go leto anche mi, siora Nina, ma mi no ghe credo. Perchè qua bora iera e sarà. E quel xe, la bora. Perchè se noi no gavessimo la bora ... — Saria sempre caligo. — Machè caligo! Mi una volta, tanti anni fa, me spiegava proprio un professor de giografia che se de noi — a Trieste, in Istria — no fussi bora, fussi clima subtropicale qua. Perchè xe l'Adriatico mare stretto e caldo, e gavessimo tipo Nizza, Costa Azzurra, Riviera di Levante, di Ponente. Mai inverno, primavera eterna, caldo seco, polmon san, batù de Inglesi. Arè, per esempio, Abazia, la diferenza. — Eh sì. Quando che mi andavo a Abazia con mia zia... — Indiferente. Volevo dirve come che xe diferente el clima, el paesagio, tuto. Perchè? Perchè i xe più a riparo de bora. No i xe proprio in batuda. Gavè mai visto Cherso, Lussin, Veglia? In batuda de bora xe come esser sula Luna, de l'altra parte xe un incanto: verde, bel. Cigàle par de esser in Florida, Acapulco. — Eh, però la bora xe sana. — Sì, ma i Inglesi va in Costa Azzurra se i xe malai de petto. Presempio voi gavè osservà le palme che no xe a Abazia, Volosca e Laurana? — Che palme? — Le palme dela domenica dele palme! Ma dài, siora Nina! In riva, no gavè mai visto? E nele vile? Palme vere, dàtoli, banane. — Cossa cressi banane a Abazia? No go mai osservà. — Ma no che no cressi banane. Però l'albero dela banana e del dàtolo cressi istesso. Solo che no gavemo clima adato e no frutifica. Giusto che riva a far el fior. Po' basta. — Ahn! — Ma ghe vol cura, savè, lo stesso. De inverno, per esempio, ghe vol tuto infassar de paia e de saco. — I datoli? — No i datoli. La palma del dàtolo. E anche quela dele banane. Istesso. Dilicate tute e dò. Me ricordo el Comandante Ossòinak che gaveva comprà la vila a Volosca el gaveva una palma sola, ma el ghe tigniva a 'sta palma come a una cratura. No'l gaveva fioi. — Gnanche un? — Eh, no'l iera sposà. El iera puto vecio. Vecio, zinquanta anni el gaverà avù, zinquantazinque. Ma el navigava de anni annorum. A sedici anni el se gaveva imbarcà come cadeto. Bravo omo, i sui de lu gaveva casa a Fiume, ma lui se gaveva inamorà de Volosca che no ve digo. Gavè presente quela vila vizin de quela dove che i ga fato adesso quel grande restàurant? — No. No go presente. — Bon, proprio quela iera sua. Una vista! El gaveva giardin sul dadrìo e sul davanti. E proprio sul davanti el gaveva 'sta palma. Una bela palma. Proprio devo dir che no gavevo mai visto una palma cussì bela. Pareva una palma de Maiorca, una roba imensa. E lu ghe stava drio. — Drio dela palma? — Sì, per veder se riva i pirati! Ma dài, siora Nina. El ghe stava drio nel senso che el la curava. Pensève che no solo el la infassava, ma el ghe gaveva fato far tuto atorno per l'inverno una cheba de vetro, come una serra proprio. Perchè lui gaveva 'sta idea fissa: «Mi de 'sta palma, prima de morir, voio magnar i dàtoli». Co' ghe vigniva gente — che lui invitava de Trieste, savè, comandanti, uficialità, passeggeri — el ghe diseva, mostrandoghe 'sta palma: «E' tuto quistione di clima. Il clima può esser fato anche artificiale. La palma in caldo e in umido deve dare il dàtolo». — Ma tanto ghe piaseva i dàtoli? — Ma no iera per el dàtolo, iera per la sodisfazion. Insoma, savè coss'che el ga fato? Dentro de 'sta cheba col vetro lui ga fato meter la stua. Co' mi che iero suo giovine de camera iero in tera con lu, el me fazeva bagnar tuto cola pompa, vaporizada. E impizzar la stua. Guai se se distudava la stua de inverno! Fina april, magio, sempre stua. «'Sto anno, me par che sia l'anno bon — el me ga dito una volta, me ricordo — perchè no ga fato fredi, perchè xe sol, perchè el fior me par che xe proprio ben. Vardè che ben che xe el fior. Bortolo, magneremo dàtoli e faremo una grande festa, una grande tavolata». — Vù e lu? — Cussì dovevimo. Inveze no ghe vien l'imbarco? Ma, signor imbarco. «Marta Washington»! Savè coss'che iera una volta la «Marta Washington»? Saria come dir oggi un «Rafaelo», un «Michelangelo». Un «Saturnia». «Caro Bortolo — el me disi, mi fa mi dice — ti ti resti in tera, ma mi te tegno in paga. Ti ti ciaperà la paga come a bordo, solo voio che ti me staghi qua, che ti me tendi el dàtolo, la stua, per tuto l'inverno. Ti lo bagni come che fazzo mi. Ludame, gran ludame, metighe ludame. Scrivime sempre come che va. Se co' torno xe i dàtoli, ti vien con mi sul «Marta Washington» come, come... lassime far a mi, te meto in gambusa». — Bel! — Oh! Dovevi veder Barba Nane, che iera a Volosca quel anno. «Go savù che i te ga cavà la matricola — el me ga dito — e che ti tendi i dàtoli! Bel mariner». E el bateva le man una col'altra. E'lme diseva. «Tira su i dàtoli, che mi bato le palme!» Ah, ah! Un rider! — El ve cioleva via? Barba Nane iera assai remenèla. — Sì. Ma mi gavevo casa e panatica, i soldi per el carbon, stavo in pase a Volosca, pitosto che andar a pericolar per mar. — E impizzavi la stua? — Sempre. Fina che xe rivà Marco Mitis. E co' ghe go contà 'sta storia dei dàtoli, Marco Mitis mi fa, mi dice: «Senti, mi no go mai sentì che dele nostre parti sia nato un dàtolo». «Eh — ghe go dito — ma cola stua, bagnando». «Sì — el me disi — cola stua ti poderà rostir le castagne, no i dàtoli. Ogni modo — el me disi — se proprio ti vol saver la drita, mi domani vado a Trieste. Là xe un nostro patrioto in Orto Botanico». — Un patrioto nostro? Chi iera? — Indiferente! Iera un dele nostre parti. — Giardinier, là? — No, no: un studià. Insoma Marco Mitis va de lu. 'Sto qua guarda i libri e ghe disi: «Guarda che qua de noi solo una volta, nel 1882, xe nato un dàtolo immaturo. Disi qua. Con tute le stue, con tuto el riparo, el sol, no xe gnente de far. Massimo riva el fior. Dàtoli dele nostre parti, mai. In Spagna go sentì che i riva a far». — Ah, no se podeva? — No. E cussì mi go incomincià a no impizzar più la stua. Iera pecà butar via tuti quei soldi. E in quela ciapo una letera del Comandante Ossòinak de Nèviork, che iera là che i fazeva crocere, che i viagiava per là. «Caro Bortolo, come va il dàtolo. Ho molta fiducia per il dàtolo questo anno. Qualunque cosa che occorre rivolgiti a mia sorella a Fiume». Qua, là, una roba e l'altra, che el posto in gambusa xe sicuro, che no stio aver pensier. — Ah, no gavevi pensier? — Come no gavevo pensier? Pensavo: se no'l trova i dàtoli, adio posto in gambusa. Savè come che xe i òmini. E alora go comincià a scriverghe che ben, che el fior xe ben, se spera ben, una roba e l'altra. Speravo che vignissi caligo... cussì «mancanza di sole, con tute le cure, purtropo». — E xe vignù caligo? — No, no: caligo iera per mi. Iera inveze un sol che spacava le piere. E mi iero disperà. E Marco Mitis alora me ga dito: «E ti, perchè no ti ghe fa trovar i dàtoli?» «Ma se ti me ga dito ti che no i cressi!» «Cresser no, ma comprarli a Trieste, in via Nova, dàtoli de Nordafrica in graspo, fin che ti vol». — Come? Comprar i dàtoli? — Sì, sì, sicuro. Cussì go fato, siora Nina. Mi gnanca no savevo che i vendi 'sti dàtoli in graspo. Mi gavevo visto sempre quei pressai, no me iera vignuda l'idea. Per farvela curta, Marco Mitis me ga portà dò graspeti de Trieste. Noi gavemo tirà zò i fiori. E ben, col fil de fero, li gavemo tacai su, sula palma. — Mama mia, che truco! — Siora Nina, iera una meraviglia. Pareva vero. Difati co'l Comandante Ossòinak xe rivà, quasi che el se meti a pianzer dela contentezza. «Gavevo dito mi che vigniva i dàtoli, te gavevo dito mi! Basta cura, clima artificiale. No tocarli! che nissun li tochi, che domani me riva dò inglesi che gavemo imbarcà a Gibiltera. Marì e moglie, distintissimi, gente che ga vissù anni in colonìa. Sudafrica, Kenia, Tanganika». — El voleva salvarli che li magni lori? — Sicuro. Difati i vien. Iera anche Marco Mitis. Savè quei inglesi vestidi in kaki, col capel come che i usava quela volta? E i guarda: «Bela palma!» — Chi diseva, i inglesi? — No, no el Comandante Ossòinak. El me disi: «Bortolo, prendi la scala, vai su, e prendi un dàtolo per omo che lo zerchiamo». — Ah, dovevi andarli a zercar? — Ma no. Zercarli, per sentir el gusto. Me rampigo su 'sta scala, tiro zò un dàtolo per omo, vegno zò, ghe li dago in man del comandante che li ga messi in un bel piato, con religion proprio. E el ghe diseva «Plis, plis» come dir prego, bitte schoen, che i gusti. Tuti gusta e el comandante ghe domanda: «Sono buoni? Ha mai, mister, zercato dàtolo più buono?» — Ah, i magnava i dàtoli? — Sicuro. «Ha mai mangiato dàtolo più buono, mister?» — «Oh, very good» — diseva 'sto qua. — «Wonderful» — diseva ela. E alora el Comandante Ossòinak ga dito: «E' la più granda sodisfazione dela mia vita. Non è vero che è straordinaria questa palma, mister?» E 'sto inglese ghe fa, ghe dice: «Molti extraordinaria. Questo è il primo dàtolo che vedo crescer su palma di banana». Eh, cossa volè, siora Nina, de palme ghe vol intenderse. MALDOBRIA XXVIII - I TURCHI ALLA PREDICA Nella quale Bortolo espone una propria teoria sull'utilità dello studio delle lingue insolite e racconta come riuscì a sedare una sommossa di prigionieri turchi in Odessa, persuadendoli nel loro stesso idioma. — Dème, dème 'sta orada, sior Bortolo che adesso che el mio Anteo me xe ale Superiori el ga bisogno de sostanza. — Alora el studia anche lingue, Siora Nina? — Come no? El ga una obligatoria e una facoltativa. E lui ga sielto inglese per obligatorio e spagnol per facoltativo. Bel, spagnol! Ma chi no sa spagnol? Cossa ocori studiar spagnol? Spagnol se se rangia. Segnor, segnorita... vàmos, vegnìmos, adelante. Unica roba che bisogna ricordarse xe che per spagnol aceite vol dir oio e burro vol dir mus. Per el resto cossa volè che sia? Inglese sì, inglese servi. Adesso senza l'inglese no se pol moverse. Ma perchè Anteo ga sielto spagnol? — El disi che xe più fazile. Che se impara presto. Po' che xe tanti che parla spagnol. — Sì, in Sudamerica. Cossa el vol andar in Sudamerica? — No. — E alora cossa el studia spagnol? Con chi el parlerà? Coi Padri Spagnoi che xe a Trieste, là, vizin dela Stazion? Ma dèi, dèi, una lingua difizile ghe vol impararse, per farse strada nela vita, una de quele lingue che sa pochi. Vardè, per esempio, el cadetto Giadròssich: lui saveva ungherese, perchè el iera de mama ungarese. Bon, durante la guera, lui mai al fronte. Sempre come interprete, nei ufizi a sporcar carte. E cussì el se ga portà la pele a casa. Magari dopo el xe morto de spagnola. Ma spagnol, cossa volè studiar spagnol? Danimarchese che el studi, svedese, norvegin. Inglese, tedesco, francese, quel sa tuti. Barba Nane me diseva sempre: «Imparite inglese, sempio, che cussì no i te caverà mai la matricola». E inglese pochi saveva quela volta, iera gran de moda el francese. Ma Barba Nane gaveva naso per le robe: ogi inglese xe pasaporto rosso per tuti. — Ma el fa inglese. Ve go dito che el fa inglese, come obligatorio proprio. — Apunto, adesso inglese sa tuti. Anche el fio de quela del apalto. Che el xe un poco indrio cole carte e el fa el camerier in albergo. El parla franco, inglese. — Quel che i lo ciama TuliBuli? — Proprio lu. Una lingua de quele che sa pochi! Quel ghe vol! Orpo, se me ricordo mi quel che me ga tocà durante la guera. — Cossa, 'sta ultima? — Sì, la prossima! Quel'altra. No 'sta ultima che iero dela Contraria. — Ah, ieri contrario? — Che contrario e contrario. Mi son de Rovigo e no me intrigo. Iero dela Contraria, là dela Contraerea, come che se disi. —Del' Unpa? — Quel iera un'altra roba, no fa gnente. Mi ve contavo de quel'altra guera, dela prima. De Odessa. — De prima o de adesso? — Siora Nina: Odessa sul Mar Nero. Russia. Cossa no gavè mai sentì parlar de Odessa? — Come no? Mio defonto padre navigava per Odessa. — E alora, cossa fè miracoli?! I ne ga ciapà a Odessa, no, co' ne ga fato prigionieri i Russi. Perchè co' xe s'ciopada la guera, ierimo là cola barca. E via noi in campo de concentramento. — Ieri in campo de concentramento? — Sicuro. Come cittadino nemico. — Vù ieri nemico dei Russi? — Mi? Tuti ierimo. No ierimo Austria-Ungheria quela volta? — Ahn! — Bon. Iera un poco fora de Odessa, al interno. Un bel campo, devo dir. Gavevimo barache, bele. Per quela volta, iera bel. E vizin de noi iera i turchi. — Confin turco? — No. Iera prigionieri turchi. Perchè anche el turco iera contro la Russia. E iera prigionieri che i li gaveva ciapai sul fronte. — E come, come xe 'sti turchi? — Turchi ah, i xe. Ma noi no gavevimo de far gnente con lori. Noi ierimo in un campo e lori nel campo vizin. Oh Dio, siora Nina, no xe de dir che per el magnar fossi un aleluja: militari ierimo, de bassa forza e po' prigionieri in più. Bisognava anche lavorar, savè? Fazevimo la strada Odessa Jekaterinoslav, che dopo i ghe ga ciamà Stalino e adesso chi sa come che se ciama. Pala e picon, siora Nina mia. I interpreti inveze stava ben. Iera uno de noi che parlava franco, russo. E lui dentro, fora, razioni speciali. El se rangiava. — E vù? — E mi gnente. Pala e picon. Fin quel giorno. — Che giorno? — Dies illa benedicta. Co' xe vignù dentro un a domandar chi che de noi sa parlar russo e turco. Per russo se ga anunziado un dela Bucovina, cossa so mi, ma no'l saveva turco. E alora mi go avù un'idea: me go anuncià mi. — E vù savevi russo? — Oh Dio, con un poco de croato e con quel che ierimo stadi là quei mesi, un poco me rangiavo. — E turco, savevi? — Savevo contar in turco. Perchè co' fazevimo la linia de Sorìa gavevimo un foghista turco a bordo che'l ne gaveva imparà a zogar la mora in turco. — La mora giaponese? — Ma no. La mora cantada. No gavè mai sentì la mora? Uno, dò, zinque, sete, tuta, tre. Bon, el ne gaveva imparado a zogar in turco. E mi savevo contar in turco come un turco. Ancora adesso me ricordo, vardè: bir, iki, uc, dòrt, bes, alti, yedi, sekiz, dokuz, on. Po' savevo «yuz yirmi bir», savè coss che vol dir «yuz yirmi bir»? — No mi. — Ben: «yuz yirmi bir» vol dir zento e vinti un. E mille se disi «bin». — In turco? — No. In greco ortodosso. Se ve digo che savevo contar in turco. — E no savevi altro? Solo contar? — No, savevo anche dir «Kapalì», che in Turchia, co' navigavo per Costantinopoli, iera sempre tuto «kapalì» che saria «chiuso». Bon, per farvela curta, i me disi va bene. Karasciò. Che per russo xe «Va bene». Che però devo far un esame. «Ahi, ahi — go dito mi — qua casca el mus» ... — Sì, ma i numeri savevi. — I numeri sì, cossa gavevo de contarghe i cavei in testa ai turchi, che po' i iera quasi tuti spelai? Esame. Conversazion, insoma, con un che iera adeto al Interpretato. Me ricordo come ieri: vado dentro in 'sta camereta e trovo 'sto Primo Interprete. El me parla prima in russo, che ml go subito capido drio el moto che el doveva esser un campagnol dele Boche de Cataro. E alora — savè come che se disi — «Co' se se sta per negar, se se guanta anche sui rasadori» — mi ghe digo franco: «Brate, ma vù sè dele Boche de Cataro!» «Sì — mi fa, mi dice — son Bocchese». Che no'l iera po' gnanca bochese, perchè el doveva esser un campagnol del interno. E el me vien vizin e el me disi: «Brate, noi che semo squasi patrioti, no stème tradir la fiducia. Mi, de turco so solo una canzon e co' i russi me disi de dirghe ai turchi qualcossa, mi ghe digo le parole de 'sta canzon, un poco missiade. Lori no capissi, i russi no capissi e va tuto ben istesso». — Ah, no'l saveva turco? — Come mi. Che mi no lo tradisso a lu, e mi ghe digo: «Ti no tradirme a mi». E alora lu me ga spiegà che bastava, de sera, co' iera el coprifuoco, andar là e zigar «Kapalì, kapalì!» Come dir che i devi serar le finestre e le porte dele barache. — Ma vù savevi «kapalì»? — Zerto. Quel e anche i numeri. E tuto xe andà lisso come l'oio, fin quel giorno che i turchi nel campo ga comincià a far un desìo, ma un desìo... — Perchè, i se gaveva inacorto che vu no savevi turco? — Cossa volè che ghe importassi a lori de mi? Lori no saveva gnanche che mi iero interprete. I se gaveva inacorto inveze che la carne iera de porco. E alora, dàghe tuti insieme a bater coi cuciari sule gamele! — Perchè, i voleva ancora? — Machè ancora! No savè che el Turco ga la sua religion e noì pol magnar porco? Iera un desìo, insoma, un remitùr. Alora me ciama a mi 'sti russi e i me disi che devo 'ndar là mi, a parlarghe ai turchi che i staghi boni e calmi. Siora Nina: no ve digo e no ve conto. — E gavè parlà? — No, ghe go contà. — Ghe gavè contà come che iera? — No: ghe go contà: bir, iki, iic, dòrt, bes, alti, yedi, sekiz, dokuz, on. Del un fin al diese. E dopo per indrio, del diese fin l'un. Ma con sentimento e fazendoghe moti: on, dokuz, sekiz, yedi, alti, bes, dort, iic, iki, bir. E in più ghe go zontà «Yuz yirmi bir». Zento e vinti un. Siora Nina, 'sti turchi no podeva più star de tanto rider. I rideva! E più che lori rideva, più mi contavo. E ridevo anche mi. Cussì quei dò russi che iera con mi, ga credesto che mi li go ciapadi cole bele, cola ridada: un sucesso che no ve digo! Capo Interprete i me ga fato. Vedè coss' che vol dir saver 'ste lingue, cussì, che no sa tuti. Altro che spagnol! MALDOBRIA XXIX - L'UOMO CHE SAPEVA TROPPO Nella quale si narra di Anteo, ex ufficiale marconista, assolto delle Nautiche di Lussino e detto «Radio Londra» e di come Bortolo, assieme ad alcuni suoi amici, gli avesse raccontato la storia dell'orso di Berlino. — Curioso mi? Mai stà. No me ciamo miga Anteo! — Che Anteo? — Cossa no conossè Anteo? Anteo, Radio Londra, po'! — Ah, Anteo Radiolondra, quel che sta in volta dela strada! — Lu po'. E meno mal che'l sta in volta dela strada, perchè quando che el capita qua el me fa la testa come un balon. Lu sa de quel, lu sa de quel altro: vita morte e miracoli de tuti quanti. E coss' che no iera con lu co' iera la guera! De quela volta, po', i lo ciama Radio Londra. — Ah, perchè el scoltava Radio Londra? Per quel i ghe disi? — Scoltar, ascoltava tanti. Ma lui iera Radio Londra. Me ricordo che el vigniva sempre de mi in agenzia maritima e el me diseva: «Bortolo, stanote i bombarda». «E chi ve ga dito?» «So». E po' el diseva sempre: «Tre cità no i bombarderà in 'sta guera: Firenze perchè tropo bela, Venezia perchè tropo antica e Trieste perchè tropo amica». E mi ghe disevo: «Ma chi ve ga dito?» E lu: «So». E dopo i ga bombardà tuto. — Ma chi ghe diseva? — Ah! Chi sa chi che ghe diseva! Lui saveva. E po', guera o no guera, lui ghe ga sempre tignù a far vèder che el sa più dei altri. Lui ga sempre slongà l'orecia. Barba Nane ghe diseva za in illo tempore: «Ante: chi che sta in ascolteria senti robe che no'l voria! Ve meterè in urto, i ve ciaperà in odio e i ve caverà la matricola». — Perchè? Ante navigava? — Prima dela guera, come no? Lui iera uficial, marconista. Lui gaveva fato le Nautiche a Lussin. E no xe miga sempio Anteo, solo che el ga 'sta mania. E savè come che se disi: chi ga el difeto, ga el sospeto. Lui pensava che tuti fazzi chi sa che sconderiole. — Ma sconderiole come? — Sconderiole, po'! Dovevi veder coss' che no iera con quel tedesco: quel xe stà de rider! — Durante la guera? — Ma, siora Nina, ve fazeva de rider a vù i tedeschi durante la guera? No. Bon, gnanca a mi. Dopo la guera xe stà. Anni fa, quando ga comincià a rivar i primi turisti. E xe vignù un tedesco cola moglie e dò fioi grandi. La moglie e i fioi andava ai bagno e 'sto gnoco andava su per i grèmbani ogni giorno, col suo baston. E sempre el ghe passava rente dela casa de Anteo. — Eh, per andar fora bisogna passar là davanti, el ga la casa proprio in volta dela strada. — Bon, e 'sto Anteo vigniva ogni sera qua in caffè e el diseva: «Mi, pur, 'sto tedesco lo go za visto, mi giuro che se lo vedessi in montura lo raviserio». Insomma el tazzava ogni sera con 'sto gnoco e cussì mi, Piero Vis'ciada e Bepin del Albergo gavemo pensado de farghe qualcossa. — Al tedesco? — Machè al tedesco, a Anteo. Una sera Anteo, come el solito, el disi: «Mi, pur, 'sto tedesco lo conosso». Perchè Anteo savè che ga anche quela che lu conossi tuti. E che tuti lo conossi a lu. I ve ga mai contà quela dela cartolina? — Che cartolina? — Ma sì, dài: che una volta a lu ghe xe rivà una cartolina che gaveva scrito come indirizzo solo «Anteo Istria». Perchè lui disi che in Istria, in Quarner i lo conossi tuti. E noi a darghe corda: «Eh, sì, anche a nualtri ne par de conosserlo a 'sto tedesco». E lu: «Ah, anca a vualtri? Gavevo ragion mi». — Ma per bon lo conossevi? — Ma no! Ve go dito: ghe davimo corda. E cussì ghe gavemo contado la storia del orso... — Qual orso? — Ma nissun orso, dài! Se disi per dir. Come dir una storia. Insoma ghe demo de intender che, ve ricordè quei tedeschi che iera qua durante la guera in Lanterna? ... — Come no? Che xe ancora là el bunker. — Eco: noi ghe gavemo fato balenar che 'sto qua iera el capo de quei. Ma no de quei che stava là. De quei che gaveva el Comando Marina a Pola. E che lui sicuro iera vignudo a zercar qualcossa qua. — Nel bunker? — Machè bunker! Noi ghe flociavimo a Anteo che el gnoco iera tornà qua a zercar la cassa. — Che cassa? — La cassa del Comando Marina de Pola, po'. Cole monede de oro. Quela monada dele monede de oro che se legi ogni tanto sui giornai, che i tedeschi gaveria sepelì de qua e de là prima de scampar. — E lui credeva? — El credeva, el credeva. El vedeva ogni giorno 'sto gnoco che inveze de andar al bagno e'lse calava zò per le grote. — Ma alora el zercava qualcossa? — Ma no! Bepin del Albergo ne gaveva contà che 'sto qua iera un geologico de Berlino. Proprio professor de Università. De quei che va a zercar piere. Ma la più bela xe stada quel giorno che ghe gavemo fato trovar la carta. — A chi ghe gavè fato trovar la carta? — Spetè... 'Sto tedesco andava ogni giorno là dei Tre Busi che xe drio dela casa de Anteo e prima de calarse zò el se cavava el sacheto e el lo pozava là, sula masiera. Cussì una volta ghe gavemo dito a Anteo: «Perchè no ti ghe cuchi in sacheto, ti che ti sta là?» e lu: «Go zà cucà, no xe gnente: iera solo un dò bilieti de un tram germanico». E noi: «Anteo, cuca meo! Anteo, cuca meo!» Un rider che no ve digo, dopo. Piero Vis'ciada se la ga pensada pulito: una matina, intanto che el tedesco fazeva marenda Bepin del albergo ghe ga ficà in scarsela del sacheto, che el gaveva lassado impicà sul picador, savè quela carta che i dà qua al Turistico? Bon, quela carta là con fate sora tre crosete: una sui Tre Busi, una là dei figheri de Anteo e una là dele case nove. — E lui la ga trovada? — Spetè, spetè. De sera, in cafè, lui disi: «Go cucà anche ogi, no iera gnente, gnente». «Come gnente?» ghe disemo noi. «Gnente, gnanche i bilieti del tram?». Un rider, un rider che no ve digo, dopo. E lui sempre sule sue che no, che gnente, che sì i bilieti del tram ma che gnente altro. — Ah, no'l gaveva trovà la carta? — Siora Nina, sè nata ieri? Sicuro che el gaveva trovà. Difati, passada mezanote, andemo là in volta dela strada e vedemo Anteo che scava, che scava, siora Nina, con pala e picon, che pareva un dela Todt. — Ah! No'l gaveva palesà gnente e lu zercava la cassa cole monede! — Siora Nina, setimane e setimane el xe andà avanti a far busi. Ogni note: tra i sui figheri, nei Tre Busi, po' vizin dele case nove.... — Ah! E no'l ga trovà gnente? — Come no, siora Nina! El ga trovà, e come! — Cossa? El tesoro del Comando de Pola? — Machè el tesoro del Comando de Pola! Siora Nina, el ga trovado el cavo del telefono che passa proprio soto i sui figheri. Ve go dito no, che prima dela guera el iera marconista? Per questo adesso el sa vita, morte e miracoli de tuti. Gavè fato caso che, quando che se telefona, se senti come un «clic»? Bon: no xe miga Rankovic, savè! Xe Anteo! MALDOBRIA XXX - USI DI MARE Nella quale Bortolo, narrando del tempo in cui gli venne effettivamente tolta la matricola, rievoca le tragedie dei trealberi «San Francisco» e «Maris Stella», non senza portare con il suo drammatico racconto un valido contributo alla ricerca delle origini delle fortune di alcuni fra i più bei nomi dell'Armamento. — Barba Nane diseva sempre: «Xe meio esser paron de barca che capitan de vapor». — Eh sì, Barba Nane, fin che el ga podesto navigar el ga avudo sempre barca sua. — Ma sempre bon coi altri, Siora Nina. Pensè che el me imbarcava anche quel periodo che i me gaveva cavà la matricola. — Ah, i ve gaveva cavà la matricola, sior Bortolo, un periodo? — Sì, dopo de quela volta che iera stada la storia del «Maris Stella». — El «Maris Stella», la barca de Menigo? Quel che i ghe diseva Sanfrancisco? — Sì, perchè lu prima gaveva el «San Francisco», una bela barca, un trealberi, ma senza motor. Dopo el «San Francisco» se gaveva perso, no se ga mai savesto ben come. E coi soldi dela sicurtà Menigo se gaveva comprà el «Maris Stella». Bela barca, anche un trealberi, ma sempre senza motor. Lui gaveva quela che la barca a vela va a vela e che el motor fa solo sussuro e spuzza. Barba Nane ghe diseva sempre: «Ma perderè i noli, co' xe bonazza ve intardighè massa». E lu: «E mi me intardigo! E chi me core drio? Se i vol cussì ben e se no, che i vadi cagar». Cussì el diseva. — Eh, me ricordo el «Maris Stella», che barca! Co' la rivava qua la impiniva el molo, iera un piazer vederla. — Sì, come barca iera una bula barca. Squasi meo del «San Francisco». No se ga mai capì come che se ga perso el «San Francisco». Lori tuti salvi, anche cola biancheria, e la barca come svampida. Un fortunal, i ga dito. Solo un tambucio se ga trovà, che iera giusto scrito sora «San Francisco». Lui, savè, ghe gaveva dado nome «San Francisco» perchè el gaveva disertà in America un periodo. — A San Francisco? — No, a Nèviork. Però lui diseva sempre che in America no esisti più bela città de San Francisco. Suo fradel stava là. — Tonissa? — Giusto. Tonissa. Tonissa devi esser ancora vivo, mi credo. — A San Francisco? — No propio San Francisco San Francisco, là vizin. Insoma, per farvela curta, ve dirò che Barba Nane gaveva ragion; tuti gaveva messo motor Disel: quela volta iera gran Disel. Gaveva messo el motor l'«Istria», el «Promontore», la «Maria C.», el «San Isidoro». E cussì lori navigava con qualunque tempo, anche se i intivava bonazza. Lori, i noli de Dalmazia fin Trieste, Venezia, Cioza i li fazeva sempre. E inveze el «Maris Stella» iera là che più de qualche volta falava el nolo. — E perchè no'l meteva el motor? — Perchè el mus ga le orece longhe, siora Nina? Cussì xe, xe omini fati cussì. E Mènigo, bravo omo, devo dir, bravo, ma duro diamante. E pian pian el ga dovesto contentarse de noli de rider: de qua a Portolongo, a Ràbaz per un fià de bauxite, in Arsa carbon. Roba insoma che poco rendi e assai sporca la barca. Finchè che ghe ga tocà che el «Maris Stella», xe restà fermo mesi e mesi. — Eh, el «Maris Stella» co' iera qua, impiniva el molo. — Sì, ma el restava svodo. Finchè una sera, me ricordo come se fussi ieri, in osteria qua de Bepin, Menigo me comincia un discorso. Mi iero imbarcà con lu quela volta. — Come no, me ricordo: vù ieri tanto tempo sul «Maris Stella». — Fin che i me ga cavà la matricola. Insoma quela sera, disperà el iera: ghe scadeva la poliza dela sicurtà. «Tempo zinque giorni — mi fa mi dice — qua bisogna che ghe vignimo fora.» Che lu sul momento no ga i soldi, che Dio guardi un fortunal, te saludo. «Perchè — el me diseva — ti sa come che xe cola sicurtà: fin che ti la ga, va tuto ben, ma co' no ti la ga più, xe la vera volta che te nassi qualcossa». — Proprio cussì xe: per un mese, povero Frane ga perso tuto, tuto, tuto. — «Bon — ghe digo mi — fa di novo come col «San Francisco». «Cossa el San Francisco?» — el me disi, risentido come. «Ma dài — ghe digo mi — che sa anche ]e piere del molo: che prima ti ga vendù el carigo a Sebenico, e pò ti ga fondà la barca e la sicurtà te ga pagà carigo e barca». — Eh, i diseva, i diseva. — Bon: alora el me se ga palesà che el vol far propio cussì. Che mi dovessi cior la barca, andar via dei molo, armisarla sula boa e spetarlo. Che lui intanto va a Trieste a veder la situazion con quel avocato che ghe gaveva fato anche le pratiche del «San Francisco» e che co'l xe sicuro, sicuro, sicuro, femo quel che gavemo de far. — Cossa, rinovar la poliza dela sicurtà? — No, siora Nina: fondar la barca. Se el vedeva che iera tuto in regola cola sicurtà, mi ghe verzevo el spinel soto prova e cussì barca persa. Lu ciapava i soldi, chi ga avù ga avù, e el quindise per cento per mi. — Mama mia, che maldobrìa! — Siora Nina, maldobrìa corente. I più bei nomi del'Armamento ga comincià cussì. Insoma, se metemo ben d'acordo. Lui me disi: «Ti ti va cola barca sula boa, che là xe fondal e diman l'altro mi torno. Ti tien de ocio la riva col canocial: se ti me vedi rivar in volta dela strada in vetura, cava el spinel e salta in caìcio, cussì mi go anche l'alibì. Se inveze ti vedi che rivo cola coriera, ferma el lavor, perchè vol dir che l'avocato ga dito che xe meo de no.» — Ma che avocato? — Cossa ve interessa a vù? Se conta el pecato, ma no el pecator. Fato sta che Menigo xe andà a Trieste. Febraro iera, fredo crudo, bora, lastron. L'avocato stava in casa del diavolo su per Scorcola e Menigo ga dà un sbrisson e el se ga scavezzà la gamba. — Ah, cussì xe andà tuto in gnente? — Cussì xe andà tuto in tuto, siora Nina. Perchè cola gamba scavezzada el ga ciolto la vetura. E mi, co' meza ora prima del'ora dela coriera, me lo vedo comparir cola vetura in volta dela strada, cavo el spinel e salto in caìcio. Siora Nina, de prova la xe andada a fondo e più presto de quel che se pensava. E Menigo zigava, zigava... — Perchè, ghe dioliva la gamba? — No. Perchè la sicurtà iera scaduda zà de un giorno. Quel ano iera bisestil. Savè come che se disi: ano bisesto, ano senza sesto. MALDOBRIA XXXI - LA NUOVA CLASSE Nella quale si racconta di favolosi rinvenimenti archeologici tra le rovine della romana Aquilonia e di un classico busto che Bortolo dissotterrò scoprendo, se non una antica divinità, alcuni moderni altarini. — Se trova, se trova antichità qua de noi. E ancora più se trovava una volta. Co' mi iero giovinoto, col professor Sàblich — che po' se ga fato Sauli — che iera del'Università proprio, andavimo a zercar castelieri, tute 'ste robe antiche. Co' ierimo a Cherso, Aquilonia gavevimo trovà noi, se pol dir. — Aquilonia? — Sì, dài Òrlez. Ma in antico iera Aquilonia. Pensè che i disi che Barba Ive ... — Ah, quel che i lo ciamava Negus? — Sì, quel. Bon, savè come che i diseva che el se gaveva fato la casa nova lu? — Gavevo sentì qualcossa. — Parlava tuti. I diseva che lui gaveva trovà, là dove che el gaveva i ulivi, scavando fra dò piere, un vaseto pien de monede de oro. — Ah, me ricordo, sì: i diseva, i diseva. — Bon: a mi me ga tocado un truco propio là vizin. Savè là sula punta, dove che xe el confin tra la campagna che iera del mio povero padre, quela de Negus e quela de Miro? — Gavè trovà soldi anche vù? — Sì, quei dò soldi che i me ga dà co' i me la ga portada via! Insoma, no me ricordo gnanca ben che anno che iera. I iera zà qua, ma no i me gaveva ancora ciolto la campagna. E mi andavo ogni sera, cussì per passar el tempo, un poco a bagnar e un poco a zapigar. Eh, bela iera quela vostra campagna... — Sì, ma ghe gavessi volù starghe drio. E po' no meritava gnanche. Per cossa, per lori? E insoma là se trovava sempre 'ste piere, fin le masiere iera fate con piere antiche. E una bela sera, me ricordo, iera apena calado el sol che, pàm, cola zapa, come sul duro vado. — Gavevi roto la zapa? — Spetè. Xe stà una roba che merita contar. Co' go comincià a netar via ia tera, vedo, bianca, come una testa de omo. — Mama mia! Iera un vecio zimiterio? — Necropoli romana, sì, gaveva dito el profesor Sàblich. Ma quela no iera una testa de morto, iera una testa de piera. Bianca. Pian pian la go netada, po' go fato come leva cola zapa e la me xe vignuda fora tuta intiera. — Ah, intiera la iera? — No. La iera rota. Cioè, no proprio rota, iera quasi tuto intiero, solo el davanti del viso doveva esser saltà via. El naso mancava, la boca mancava e el de soto dela boca. — E cossa iera alora? — Tuto el resto iera: la testa, i oci; due oci parlanti. Però mancava anche un toco de piedistal. Se vedeva scrito soto una A e una N e po' iera roto. — Una A e una N iera scrito? — Scrito, sì. Scarpelà. Orpo, go dito mi, se fussi ancora vivo el povero professor Sàblich che contento che el sarìa! Ma savè, con 'sti qua, go pensà xe meio no aver dispiazeri. E cussì, drito drito, son andà a avertir in Comun, là, ai Circondariale come che i ghe ciama. Là i me ga dito che no stio tocar gnente, che vegnerà un de Fiume, e intanto i ga mandà un militar col s'ciopo a far la guardia che nissun tochi. Che no i porti via 'sta testa antica. «Xe patrimonio popolare», cussì i parlava quela volta. Insoma, per farvela curta, ariva 'sto qua de Fiume, doveva esser un del interno. Un omo civil però, el parlava anche italian ben. — E cossa el ve ga dito? — A mi gnente. El parlava là con un dei sui. Che xe roba romana. Basso impero. Injsoma, antico. Mi, savè, 'sti qua li capisso, ma quei de là, co' i parla svelto... Insoma i neta tuto e po' i se meti a zapigar tuto atorno, ma pian, come se fussi ovi. E anzi per aiutarli i gaveva ciolto quel Guerino, savè quel, un poco indrio cole carte, che i lo ciamava «Spètime un poco». — Come no? El fio de Maria Longa: «Spètime un poco, che vanza un toco». El iera longo anche lu: no'l trovava mai scarpe. — Proprio lu. El zercava con lori, e dopo un poco sentimo che el ziga: «El naso! el naso! go trovà el naso!» Savè con quela vose de dindio che el gaveva. — El naso dela statua? — No, quel de San Tomaso. El naso dela statua, sì, quel i zercava: el naso, el mento, e el toco de piedistal che mancava. — E i gà trovà? — Tuto i ga trovà. Siora Nina, no me dimenticherò mai. Perchè prima i gaveva portà la testa a casa de Miro, che xe proprio là vizin. E dopo i ga portà 'sti tochi. E i li ga messi insieme. Una scena, siora Nina! Zà col naso se ga comincià a capir qualcossa. Ma co' i ghe ga tacà su la sbèssola, no xe sta più dubi. — Ah, iera un roman? —t Sì, sì, siora Nina. Roman de Romagna. Co' i ghe ga tacà el toco de piedistal che mancava, vizin de dove che iera scrito A e N, savè cossa che xe saltà fora? «A Noi!» — A chi? — «A Noi!», siora Nina. Iera lu. Iera la testa de lu. Quela che Miro gaveva comprado per el Dopolavoro co' i lo gaveva fato segretario. — Quela? Me ricordo, la iera là del bar. Soto del orologio. — No ve digo 'sto qua che iera vignù de Fiume. Con 'sto altro, che iera con lu i se pissava de rider, con rispeto. E Miro, bianco più che la statua. — Ah, la gaveva sepelida Miro? — Mi no so gnente, mi no digo gnente. — E Miro? —Gnanche lu no disi gnente. Specialmente adesso che i lo ga fato presidente dela Ricreativa. MALDOBRIA XXXII - L'ORA DI CAISOLE Nella quale si torna agli albori del XX Secolo e Bortolo narra come egli abbia trascorso la memorabile notte di San Silvestro del 1899 in aspro conflitto con il Comandante Bussànich, uomo per molti versi singolare, il quale, in dispregio dei fusi orari internazionali, pretendeva di far vigere a bordo l'ora di Caìsole. — Eh, inutile che disè, sior Bartolo, ma, magari per poco, son ancora del Otozento. Son nata prima che cambiassi secolo. — E mi? Altro che nato: mi zà navigavo co' ga cambià secolo. Fazevo, me ricordo, la linea de Estremo Oriente col Lloyd Austriaco. Iero imbarcà insieme col nostro-omo Pìllepich, col Comandante Bussànich sul «Calliope». Bela barca. Ierimo proprio del Novantanove e giusto gavevimo calcolà che, pègola, el Novo del Anno ne tocava a Bombay. — Perchè? Xe bruto Bombay? Dove xe Bombay? — No xe bruto. Belisimo logo: nele Indie xe. Ma no passavimo a casa, no? E po', savè, col Comandante Bussànich no iera miga fazile navigar. — Perchè? Iera difizile? No'l cioleva a bordo? — No no, grave iera co' se iera a bordo, propio. Perchè el iera un tazzaanime, un che gaveva le sue fisime. Figureve, presempio, che ogni volta bisognava far provianda per tuto el viagio. Perchè lu nei porti no comprava gnente: giusto un poco de verdura, che po' lu gnanca no la magnava, perchè el diseva che no la gaveva gusto: «Volè meter cola verdura che gavemo a Caìsole!» Perchè lui iera de Caìsole. El stava a Trieste, ma el iera de Caìsole. — Mia santola defonta iera de Caìsole. — Indiferente. Lui po' iera un de quei che no cambiava l'ora. — Come l'ora? — Ma siora Nina! Co' se fa rota per Levante, se cambia l'ora, no? Perchè el sol... — ... magna le ore! — Sicuro che el magna le ore. Cossa me ciolè via? Come che se camina per Levante, se camina contro el sol, perchè come che el sol ga caminà, cussì el ga magnà le ore. E alora ghe vol continuamente regolar l'orologio. Calcolè che quando nualtri gavemo mezanote, a Bombay xe zà le sie de matina. — Come «zà», sior Bortolo? «Apena», volè significar. — Se volevo significar «apena», disevo «apena», inveze go dito «zà» perchè volevo significar «zà». Perchè co' qua xe mezanote metemo dir de giòvedi, là xe le sie de matina de vènerdi. — Ahn! Del giorno dopo! E quando cambia el giorno? — A mezanote cambia, no? — Nostra mezanote? — Indiferente. No steve sforzar. Ma pensè, no? El sol vien prima de lori — presempio in Croazia — che de noi. E in Turchia, ancora prima e in Aden prima, e in India, prima ancora. — E in Giapon? — E in Giapon, prima de tuto. Là xe Sol Levante. — Ah, el nassi propio là? — Sì là, in cichera... Ben, insoma, ve contavo del Comandante Bussànich, vù me fè perder el fil. Lu l'ora no la cambiava. Lu diseva: «Mi tegno l'ora de Caìsole». Ei tigniva quela in orologio, capì? Cussì el diseva: «Mi so, che co' segna le sie i va a benedizion, che co' xe le sete, Martin Ghèrbaz va a butar la rede, co' xe le quatro me riva el vapor». Capì, insoma, iera un omo cussì. E no iera nè Dio nè Santi, savè: tuti i orologi de bordo doveva gaver l'ora de Caìsole. Che po' no se capiva gnente perchè mostrava mezanote e inveze iera le sie. Cossa so mi, bisognava far tuto calcoli sublimi. — Ah, el iera de Caìsole lu? — E dispetoso, po', che no ve digo. Pensè che mi gavevo un altro orologio, quel de Cresima, che tignivo in scafeto col'ora giusta del logo. E un giorno che el xe vignù a sbisigarme in gabina, el ga dito: «Questo fa confusion! Te lo tornerò a Trieste». Un Purgatorio iera con lu, siora Nina. Bon omo, ma pien de fisime. Insoma, semo in 'sto viagio del Novantanove che no me dimenticherò mai e arivemo a Bombay giusto dopo Nadal. — Ah, i ga Nadal là? — Come i ga Nadal? Tuti ga Nadal! Solo che lori no tien Nadal. Quei che xe cristiani tien Nadal, quei altri no. Ma Nadal xe istesso. — Novo del Anno inveze i tien? — Per forza. I tien anche in Russia el Novo del Anno. Insoma, 'pena sbarcà, mi son andà far provianda — che lu no lassava — e là son andado in Agenzia nostra del Lloyd. Siora Nina, dove no se trova triestini? Una triestina go trovado. Che iera la nevoda de quel del'Agenzia. Bela. Studentessa. In bele letere, che la iera andada zò per istruzion. Insoma, cicole ciacole, una roba l'altra, cosa fate per il Novo del Anno? Che gnente, che son a bordo. Ma che forsi — la disi — rivo istesso a far un scampone a casa sua. Per farvela curta, la me ga propio invità, come, pel Novo del Anno, a casa sua de lori. — A Bombay? — No, a Pinguente! A Bombay, sicuro. I stava a Bombay. — E sè andà de lori? — Spetè, spetè. Vado del Comandante e ghe digo se per il Novo del Anno posso essere franco in tera. E lu, se son mato. Che cossa, che cambia secolo, che vignirà el Nunzio Apostolico a bordo, che bisogna sonar le sirene, che mi go le ciave dele sirene. «Bon — ghe go dito — ve lasso le ciave». E lui: «E mi sonerò le sirene? E dopo, magari, frego la coverta?». A piade, savè, quasi el me ciapava. «Undici e meza in punto, tuti a bordo — el ga dito — cossa semo diventai mati qua? Una volta ogni zento ani xe un Novo del Anno cussì e ti ti domandi permesso?!» — Eh sì, xe vero. — Machè vero! Cossa? No'l podeva farghe sonar le sirene a Pìllepich, zà che mi gavevo 'sta ocasion? — E cussì no sè andà? — Son andà, son andà. Perchè ale sie iera franchigia. Undici e meza bisognava esser a bordo. E cussì mi ale sie son andà via. — E ale undici e meza ve ga tocà tornar a bordo, povero? — Spetè, spetè. Perchè lui credeva de gaver de far col laico, e inveze el gaveva de far col padre guardian, come che se disi. Insoma, mi son andà là del agente del Lloyd, còcola persona, un certo Strukel, iera, con 'sta nevoda. I gaveva un bungalov, bel, sora el porto. Pensè che i gaveva pien de servitù: i indiani quela volta se li pagava un bianco e un nero. Po' no ve digo, una botiglieria, tuto roba de Porto franco. Pensè, perfin sampagna, co' xe stà mezanote. — Ah! Gavè passà là mezanote? — Sicuro! Tute le sirene del porto ga fis'cià. Se sentiva benissimo: ierimo propio sula terazza del bungalov. E po' anche rochete i ga tirà, tuto scrito in ciel «Mile Novecento, Nèv Cènturi», che saria Nuovo Secolo. — Per indian? — Machè indian. Per inglese. Quela volta l'India iera colonia inglese; miga come adesso che tuti bàgola. Insoma una festa! Iera una vista po' che mi no go mai visto compagna. — E quando sè tornà a bordo? — Ale zinque e meza de matina, siora Nina. E un poco lustro anche. Quando son rivà a bordo, un silenzio. Anche Pìllepich, che iera de guardia, dormiva su in coverta. Go spetà che sia le sie: e alora dàghe de sirena, mi. A tuta forza. — Gavè sonà le sirene? — Sicuro! In mudande el xe saltà fora, siora Nina! — Chi Pìllepich? — Ma no! El Comandante Bussànich! El me disi: «Fiolduncàn, che no ti xe vignudo, fiolduncàn, cossa ti fa? Cossa ti soni?». E mi ghe digo: «Tanti auguri di Buon Anno e di Buon Secolo, sior Comandante! Questa è la mezanote in punto. Ora di Caìsole. Io no conosco altra ora che quela di Caìsole». E dopo, in comission de dissiplina el ga volesto dir che anche ghe go fato un ruto. MALDOBRIA XXXIII - ROSSO DI SERA Nella quale Bortolo, discorrendo della sua controversia con la Comune per la servitù della panchina municipale collocata su una particella di sua proprietà, racconta anche della semisecolare discordia fra la famiglia dei Bùnicich e quella dei Bunicelli. — Eh, zerto, sior Bortolo, che esser in pase in famea xe la prima roba. Ve par bel, per esempio, qua Miro che xe in còlera de prima dela guera con suo cugin? Primo cugin de sangue! Che se i intiva de incontrarse, i volta la testa del'altra parte. — De prima dela guera, disè? De prima dela prima guera, perchè zà el papà de Miro iera in còlera con suo fradel Vinco. Ve ricordè Vinco? — Quel che se ga ciolto la vita? — No. Questo no xe vero. No 'l se ga ciolto la vita. Xe stà che el se ga indormenzà, col carbon dolze impizzà. Ga dito anche el dotor Colombis, che el ghe ga fato l'autospia, l'autopsia, là come che se disi. — Però quela volta i parlava che el se gaveva ciolto la vita. Ma perchè i iera in còlera? — Perchè? Sempre per quela po'. Per la «Mariastela». Per la caratura. Se val la pena, per dò carati maledeti, che po' ghe xe 'ndà tuto per tresso, perchè la se ga perso. E la Sicurtà se ga profità per no pagarghe gnente. Savè, qua de noi la gente xe dura, interessosa, ve ricordè i Bùnicich? — I Bunicelli? — Xe i Bùnicich e xe i Bunicelli. Perchè quei dela casa nova se gaveva fato Bunicelli. I altri iera restai Bùnicich. Mi iero in bona e parlavo con tuti dò. Cossa volè missiarse? Barba Nane me diseva sempre: «No stè far ciacole, Bortolo, perchè quei ga el dente invelenà. El vecio Bùnicich xe capaze de farve cavar la matricola!» Barba Nane no se intrigava mai in 'ste robe. «I se magnerà tuta la facoltà andando per man de avocati — el diseva sempre — xe meo un acordo magro che una sentenza grassa». — Sì, però per dir el giusto, quel zio che gaveva el squero, el ghe lo gaveva lassà ai Bunicelli. Mia mama saveva tuto, perchè la iera un poco parente de lori, per parte de nona. Barba Toni gaveva propio dito: «El squero xe per i Bunicelli». No, perchè quel che xe giusto xe giusto. — San Giusto xe morto, siora Nina. E i lo ga negà in Sacheta a Trieste. Fato stà che lori no se ga mai più parlado. E adesso el squero non xe nè de Bùnicich nè de Bunicelli, ma xe «Mehanotechna». Diseme vù se merita farse cativo sangue fra parenti! ... Però quela volta xe stà un truco. — In squero? — Savè dove che iera la casa che stavo mi, quela vizin la ponta? Dove che adesso i ga fato el camping? — Sì. No xe gnanca de conosser più. — Cossa volè! Va come che vol i altri. Ve ricordè come che iera? Iera la mia casa col orto. Po' iera la strada de passagio, propio sul lungomar e po' sora i scoi mi gavevo ancora un tocheto, dove che iera la banchina. — Ah, la banchina dela ponta. Me ricordo! Quela rossa. Piturada tuta in rosso. — Quela. Mi de sera, de istà, dopo zena, me metevo in pergolo a fumar el spagnoleto. Là iera sempre ariegià. E vardavo zò el passegio. 'Sta banchina oltra dela strada, iera sul mio. La gaveva messa la Comun. Ma la iera sul mio. L'avocato Miagòstovich co'l iera podestà, el me ga dito che xe una servitù. «Altro che servitù! — ghe disevo mi — che la gente possi 'ndar sul mio». E lu che se volevo, podevo sempre domandarghe la rivalsa ala Comun, ma inibirghe ala gente de sentarse no podevo. — Eeh, se sentava gente. Tante volte me son sentada anca mi con mio marì, prima de sposarme. — E credè che mi no ve gabio visto? Savè come che iera là: iera riparà del passagio, perchè iera el bosso e l'uliver; ma del pergolo mi vedevo. E una sera me ga parso e no me ga parso... Iera scuro. Ma mi go bon ocio. Prima el se ga sentà lu e dopo zinque minuti vien ela del'altra parte. Mi go dito: «Xe impossibile. Xe un'eresia». Epur no i podeva esser che lori. El moto, tuto. — Ma chi iera? — Spetè, spetè ... Anche mia moglie me ga dito: «Ti xe mato, ti stravedi». E in caffè, po' no ve digo. Barba Nane me ga ciolto via. «Bon — go pensà mi — sarò sempio mi». Ma de sera me go messo de novo a farghe la sguàita in pèrgolo. Ecoteli: prima ela, stavolta. Po' lu. Zò per la scaleta. E cicicì, cìcili, ciòcili: amor amor iera propio. E lori, ah! Lori. Nissun altro che lori! Alora mi, pian pian vado zò, traverso el vial, e giusto in quela li vedo che i 'ndava via per la stradeta. Lori, ah! — Ma lori chi? — Chichirichì. Spetè. Go dito: «Qua Bortolo no xe orbo, nè de quei che vedi Sant'Andrea sentà soto el figher». E cussì, de sera, in caffè, con quei quatro amizi, che, savè, noi gavevimo la Società dei Magna e Bevi, che se trovavimo una volta per setimana, ghe digo: «Bon, visto che no me credè, doman vignì in Riva, che ve mostro el spetacolo mirando». — Mirando? Chi iera Mirando? — Ma dài, siora Nina, se disi per dir: «el spetacolo mirando» per dir roba de stupirse. Insoma savè coss' che go fato? A ora de zena, che no iera nissun squasi, go ciolto pitura de minio e penel, son andà là dela banchina e ghe go dà una man. — Ma a chi? — Ma ala banchina, siora Nina. — Per via che no i se senti? — Ma cossa, che no i se senti. In scuro no i vedeva che iera pitura fresca. E no go miga messo i spaghi cole carte! Cussì son tornado a fumarme el spagnoleto e lori tàchete. Prima lu e dopo ela. E cicicì, cìcili ciòcili, amami Alfredo. E dopo mi, pim pum, son 'ndà zò fazendo sussuro aposta sul bosso. E subito un va via de là per la stradeta e un cori zò per i scalini. — Ah, i ve xe scampai de novo? — Scampai, sì. In Riva i xe 'ndai a far liston. Un de qua e un de là, fazendo finta de gnente e de esser ognidun per conto propio. Ma tuti dò gaveva le striche rosse in schena e in culàbria. Noi zinque dela ditta ierimo davanti l'albergo e lori vigniva, lui de su e ela de zò. E co' i xe passadi, mi go dito forte : «Giulieta e Romìo, cole striche sul dedrìo». Un rider, siora Nina! — Giulieta e Romìo? — Ma dài! Savè chi che iera? Ela iera la fia de Bùnicich, Nerina, e lu iera Nini Cazzopa, el fio grando de Bunicelli. — Ma no i iera in còlera? — E questo iera el punto: Giulieta e Romeo, po'. Le famèe iera in còlera, ma lori inveze, iera «Non c'è amore più grande». — Aah! E le famèe xe ancora in còlera? — No. Fra de lori no. Perchè Nerina e Nini se ga sposà. Ma con mi i xe in còlera. Volè creder che el vecio Bùnicich se ga messo d'acordo col vecio Bunicelli e i me ga fato cavar la matricola? MALDOBRIA XXXIV - L'AVANZAMENTO Nella quale Bortolo disserta sull'importanza dei bottoni d'oro negli ordinamenti militari dell'Impero Austro-Ungarico, dei loro riflessi sociali nonchè di quel che avvenne nella chiesa di Lussingrande in occasione del tanto atteso avanzamento di Nicoletto Nìcolich. — Istesso me par siora Nina che 'sto istà sia più movimento de barche e de foresti che vien qua coi cùteri. — Sì. E gavè visto, sior Bortolo, come che adesso i usa quei sacheti blu coi botoni de oro? — Sacheti blu coi botoni de oro? Chi? — Ma questi: de 'sti cùteri, de 'sti motoscafi. — Ah, xe montura de yachtman. I se meti cussì per far saver in tera che i ga la barca in mar. Se no, in tera, come se capiria che i ga la barca? — Ah, xe obligo, come? — Machè obligo. Xe che i bati mafia. Xe come quei che una volta gaveva el spolverin e i ociai de automobilista. Ve ricordè i ociai de automobilista? — Quei che gaveva quei che 'ndava in auto? — Sì. E cussì adesso, 'sti inglesi, 'sti francesi, anche triestini più de un, bati mafia sul molo in sacheto blu coi botoni de oro. Perchè savè come che se disi, «l'abito non fa il monaco, ma lo rapresenta». Però volessi vederli mi tanti de 'sti qua con tuta la giacheta e i botoni de oro cossa che i fa se ghe beca un neverin in canal dela Morlaca. — Eeh! Per neverin no basta giacheta, ghe vol inzerada. — Siora Nina, vù no capì el mio conceto. Volevo dir che xe 'ssai fumo e poco rosto. E che el fumo brusa i oci qualche volta. Anche el Cicio pol comprarse giacheta blu con botoni de oro, ma istesso no'l xe per barca. — Ma una volta no iera solo per el militar de Marina giacheta blu coi botoni de oro? — Per el militar, botoni de oro? Un sior militar ghe voleva esser per aver botoni de oro sula montura de Marina. Ve parlo de prima dela prima guera. — Per gaverli de oro vero? — Ma cossa ghe entra, de oro vero? Botoni de oro se disi per dir. Ma boton de oro voleva dir che un iera almanco un graduato. — Ahn! Se un no iera graduato, no podeva? — Sicuro de no! Per i altri iera o boton nero o boton de argento col'ancora e la corona. Che anzi quei de Fiume, che iera pertinente ala Corona ungarese, gaveva la corona de Santo Stefano, cola crose storta ... — Sui botoni? — Sui botoni e sula bareta. Coss' che no ga patido, mi me ricordo, a Lussin, el povero Nicoleto Nìcolich, per 'sti botoni de oro. — Nicoleto Nìcolich gaveva i botoni de oro? E chi el iera? — No. No el gaveva i botoni de oro. Chi che el iera? El iera una Finanza. Soto l'Austria, ancora, ve digo. — Ah, Nicoleto Nìcolich no iera pertinente ala Corona ungarese? — Ma se el iera de Lussin, siora Nina? Il Margraviato d'Istria con le isole di Cherso, Veglia e Lussino iera Litorale, con Trieste città imediata: Austria. — Ahn! E le Finanze no gaveva botoni de oro? — Gaveva! Ma solo el graduato. Del graduato in zò i gaveva botoni de argento. Che mi magari me piaseva de più. Ma 'sto Nicoleto Nìcolich spetava come la mana del ciel l'avanzamento e mai no'l ghe vegniva. — Ma lu cossa voleva, veramente? — El voleva esser Soto-Ispeziente. — Perchè iera più paga? — Oh, quatro soldi de più. Per quel là, lu, con tuto che el iera pitosto tirado coi soldi — lussignan el iera, cossa volè — più che tanto no ghe gavessi importado. La question iera che essendo SotoIspeziente, el podeva meterse i botoni de oro e la siabola. E la moglie podeva meterse in capel. — Perchè, prima no la podeva? — Tuto se podeva. Però l'Austria iera un paese ordinato. Capel meteva le mogli del'uficialità e dei graduati. El militar semplice, gnente capel. Dove una campagnola, una volta, se gavessi preteso de meter capel e scarpe? Zavate e fazoleto in testa. Adesso ara! Le vien zò del monte che le par Alida Valli... — Alida Valli i diseva che la iera de Pola. — Indiferente. Lassème che ve conto de 'sto Nicoleto Nìcolich e dei botoni de oro. Lu gaveva sposado una nevoda de don Giusepe, che iera el prete de Lussingrando quela volta. E el prete ghe vigniva star zio vero, e anche la sorela del prete, che stava con lu, ghe iera zia vera. — Ah, Nicoleto Nìcolich stava col prete. — Noo! Lui gaveva sposà una nevoda del prete. La sorela del prete stava col prete. E col prete stava anche un nevodo che iera Finanza anche lu. 'Ssai più giovine: lui iera propio semplice, semplice, coi botoni neri. — Ah. Gente de cesa. — Lori sì. Ma Nicoleto Nìcolich no tanto. No che el fussi contrario, savè. Ma trascurante. El prete ghe diseva sempre: «A vù, Nicoleto ve se vedi in cesa Pasqua e Nadal, e le altre volte solo al fumo dele candele, co' vignì a cior vostra moglie». — L'omo tante volte xe trascurante. Ma no vol dir. — E Nicoleto ghe diseva: «Don Giusepe, savè coss' che speto mi? El miracolo. Che i me fazi SotoIspeziente. Che xe ani anorum che devo andar cola botonera de argento e senza siabola. E mia moglie col fazoleto in testa. Che i me fazi sotoIspeziente e vù me vederè qua ogni domenica a messa dele oto». — E i lo ga fato? — Come no. Tardi, ma i lo ga fato. Co' ghe xe vignù el decreto, siora Nina, lui xe andà a Pola cola moglie. El se ga comprà tuta la nova botonera de oro, la siabola, e dò, digo dò, capei per ela. Un per uso e un per bel. E sì che el iera tira, savè. Che fin a Lussin i diseva che el iera tirà. — E dopo l'andava in cesa? — Come no! Come omo de parola, el iera omo de parola! Domenica matina, ala messa dele oto, lui iera sempre là, sentà sul banco — ancora me lo vedo — cola siabola fra le gambe, la bareta sui zenoci, guanti e 'sta botonera che no ve digo. E la moglie con un capel zenerin. Solo che el gaveva quela, de guaraar fisso drito el Santissimo co' passava el nonzolo cola borsa dele limosine. Che anzi la moglie ghe fazeva de moto col còmio, che qualcossa bisognava pur dar. «Il prete serve l'altare e dell'altare vive» — diseva sempre don Giusepe ala predica. — E dopo el ga dà limosina? — Spetè, spetè. El dava sì. Se sentiva propio che cascava dentro la borsa. Savè a Lussin i ga orecia fina per 'ste robe. Insoma, passa un poco de tempo, una roba l'altra, lui contento, Ispeziente, perchè tuti lo ciamava Ispeziente, anche se el iera solo Soto. Anzi, bon omo, el ga dito anche una bona parola per via che i passi de grado el nevodo del prete che iera propio Finanza semplice semplice, gnanche scelto. — Ah, i iera insieme? — No. Come cognai, soto l'Austria, no i podeva mai esser insieme in servizio. L'Austria iera un Paese ordinato. Nicoleto iera a Lussingrando e el cognà iera a Unìe. El vigniva ogni tanto, co'l iera franco de servizio. — No'l stava più col prete? — No, ve go dito. Poco prima de darghe l'avanzamento, i lo ga mandà a Unìe. Insoma, un giorno, la moglie de Nicoleto Nìcolich va a trovar la zia che iera sorela del prete, come che ve go dito, e la vedi che la stava tacando i botoni de argento sula montura dei nevodo. «Ah, i ve lo ga avanzà?» «Eh sì — disi la sorela del prete — i lo ga fato scelto e adesso ghe taco i botoni de argento sula blusa dela montura» «Ah, che bei botoni — disi la moglie de Nicoleto — anche mio marì li gaveva compagni prima de gaver quei de oro». «Eh sì — disi ia sorela del prete — compagni, precisi: li gavemo trovai tuti dodese nela borsa dele limosine, un ogni domenica, dopo la messa dele oto». Eh, siora Nina, a tuti se ghe la fraca, meno che ai preti. MALDOBRIA XXXV - HOTEL IMPERIALE Nella quale Bortolo racconta l'incredibile avventura occorsa al Comandante Zar, sposo di bell'aspetto ma un po' avanti negli anni, quando questi volle recarsi in viaggio di nozze all'Hòtel Imperial di Ragusa. — Mi, Bortolo, i me ciama, ma mi, veramente, siora Nina, de batiso me ciamo Bartolomeo. — Ah, no savevo, mi credevo che ve ciamè propio Bortolo Bortolo. — Eh, dopo tanti anni! Ma el mio nome vero xe Bartolomeo. Che anzi Barba Nane me diseva sempre «Cossa ve fè scriver sule carte Bortolo che vu sè Bartolomìo. Un domani, per una roba cussì, i ve pol ricusar, far dispiazeri, e cavarve la matricola». Eh, coi nomi salta fora zerte volte zerte robe! — Me ricordo che mia nona Santina... — Indiferente! Mi me ricordo che co' go comincià a navigar, navigavo per la Dalmazia col comandante Zar. El iera comandante de prima nomina, un omo giovine, quaranta anni gnanca. — Mi conossevo un Zar de Cherso. — Questo inveze iera de Ossero. Capitan Nico Zar. Me lo ricordo come adesso. Bel omo, cola barba. Po' co' el iera in montura el se tigniva assai. El se ga sposà tardeto, me ricordo, con una de Neresine che gaveva campagne. — Mia defonta nona iera de Neresine. — Insoma — ve contavo — Un giorno 'sto Comandante Zar el me ciama e mi fa, mi dice: «Bortolo, el prossimo viagio vù lo farè col Secondo Ufficial, perchè mi me sposo». «Ah — ghe digo mi — che bel, che Dio ve daghi». «Sì — me disi lu — el matrimonio xe una tombola, in ogni modo mi la go fata». El rideva! Assai degnevole el iera. E po' el me fa: «Fame un piazer. Mi adesso fazzo le carte, tuto, me sposo, e po' andemo in viagio de nozze a Ragusa. Che bel che xe Ragusa! Ogni volta che 'ndavo a Ragusa disevo: se mai un giorno me sposo, vignirò a Ragusa in viaggio de nozze». — Ma savè che no me ricordo de 'sto comandante Zar. — Per forza. Sarà stà una roba del Dieci, Undici, prima dela prima guera ancora. E alora el me disi: «Ti, co' ti rivi a Gravosa, ciol el tram, e ti smonti al'ultima fermata, propio. Propio fora dele mura. E là ti domandi, ti lo vederà bel grando, xe l' Hotel Imperial. Là ti ti me prenoti una camera matrimoniale. Me racomando cola vista sul davanti; al vintioto de 'sto mese, mi sarò là». — Cola moglie? — No. Col nostro-omo! Ma dài, se l'andava in viagio de nozze, el sarà andà cola moglie. Insoma mi rivo a Gravosa e là, una roba l'altra, semo 'ndai tuti in permesso a Ragusa. E me xe andà fora dela testa de andar in Hotel. — Ah, ve gavè dismentigà. — Ve go dito: fora dela testa! E me xe tornà in a mente propio co' stavimo per partir de Gravosa per Cataro. Alora son corso in Governo Maritimo e ghe go pregà a un che el vadi prenotar. «Ma no ocori — me disi lu — xe fora stagion: trovè posto fin che volè al Imperial». Ma mi ghe digo: «No xe per mi, xe per el mio Comandante». «Eh, el trova posto! No stève preoccupar! In 'sta stagion xe solo un per de inglesi che i xe qua col cuter. El trova, el trova ...» Bon, bon alora. Tornemo a casa, rivemo a Fiume e lo incontro. — Chi, el cuter? — Machè cuter. El Comandante Zar, no, el Capitano Nico. Prima roba, el me fa: «Ti ga prenotà?». «No — ghe digo — Comandante Nico. I me ga dito in Governo Maritimo a Gravosa che no ocori prenotar, che xe tuto svodo». El se rabia come una belva. Che el me gaveva dito de prenotar, e che perchè no go prenotà. E che quando che lui me disi de prenotar, mi devo prenotar. E che cossa ghe entra el Governo maritimo co' el me gaveva dito de prenotar. — Vù dovevi prenotarghe? — Sì. Ma ghe go dito: «Sì, comandante, ma in Governo Maritimo ve go prenotà. E dopo ve prenota lori». «Chi, lori? In Hotel»? «Insoma quei del Governo Maritimo ve prenota. In Hotel troverè posto, no steve preocupar». E lu che diman el se sposa, che diman l'altro el devi partir e che no'l ga prenotazion. E alora mi ghe go dito: «Comandante, andemo in Governo Maritimo». E lu, rabià che el iera, el me ga dà un stramuson. Iero giovinoto. — Un stramuson? — Sì, un stramuson propio. E mi ghe digo: «No, andemo in Governo Maritimo, se no sè sicuro, per telegrafar che i prenoti». Perchè i Governi Maritimi gaveva linia direta. — Per bater telegrama? — Sicuro e cussì el se ga un poco calmà. Semo andai in Governo Maritimo e là i ga passà telegrama al Governo Maritimo de Gravosa: «Ariva domani, Hòtel Imperiale Zar Nicola». Che po' iera el Comandante Nico Zar, che lui, veramente, se ciamava Nicola. — Anche mio zio Nico se ciamava Nicola. — Indiferente. El parti cola sposa. — El el ga trovà prenotà? — Spetè, spetè. Me ga contà Marco Mitis che el ga fato el viagio con lu sul'«Illiria». Apena che i xe sbarcai i ga visto che iera assai militar. Po' i ghe ga vardà nele valise tuto, gnanca che i vignissi del'America. Che i se ga anzi meraviglià perchè Fiume e Ragusa iera tuto pertinente ala Corona ungarese. Po' el Comandante el se presenta in albergo. Gnente, che no se pol gnanche andar dentro. E lui ghe disi: «Ma io ho prenotato». «Spiacente, se vuole nela nostra dipendàns, ma qui l'Hotel Imperiale è tuto prenotato». E el portier ghe disi: «In confidenza, ghe dirò che ga prenotà tuto Zar Nicola». «Eh sì — ghe disi el Comandante — sono io Zar Nicola». «Maestà Imperiale!» — ghe fa el portier — e el ghe se buta in zenocion davanti. — Come, come? Maestà Hotel Imperiale? — No, no, siora Nina, no gavè capì. «Maestà Imperiale». Lori gaveva ricevù el telegrama del Governo Maritimo de Fiume: «Ariva domani Zar Nicola» e i ga credesto che fussi el Zar Nicola de Russia. Capì come che xe? Nicola Zar, che po' in Governo Maritimo, come che iera l'uso nela Marina austriaca, i gaveva messo Zar Nicola. E quel là in zenocion: Zar Nicola! Quel che dopo i lo ga copà. — A 'sto Zar de òssero? — Sì, Lenin xe andà là aposta col vaporeto. MALDOBRIA XXXVI - L' INNOMINATO Nella quale Bortolo racconta dei suoi favolosi viaggi fra Capetown e Lorenzo Marques lungo la rischiosa rotta dei contrabbandieri d'oro, imponendo peraltro a se stesso di mantenere sullo scottante argomento, pure a distanza di cinquant'anni, il massimo riserbo. — Cossa xe restà più de sicuro in 'sto mondo, siora Nina? Gnanca l'oro no xe più quel che iera una volta. Voi dovevi veder cossa che iera una volta l'oro. Sul oro se fazeva afari che no ve digo. Perchè iera diferenti quotazioni, capì. In un Stato e nel altro. Presempio un maritimo, con un fià de coraio, perchè ghe vol coraio, savè, per far 'ste robe, se fazeva i soldi in un per de viagi. — Come, sior Bortolo? Cossa intendè? — Intedo che, presempio, el comprava oro a Hòng Kong dove che el iera più a bon prezzo e lo vendeva a Bòmbai. Solo che iera gran contrabando far 'sta roba. Roba de andar propio in dispiazeri, savè. — E vù fazevi, 'ste robe? — Mai fato. Mi portavo 'ssai roba fora de Puntofranco. Ma con oro, polverina, opio, no go mai vossù intrigarme. Ma xe stada gente, savè, maritimi de bassa forza, che se ga fato soldi, casa, barca. E Primi Uficiai, Comandanti anche. Podessi scriver un libro mi. — E vù no fazevi? — No, mi disevo: «Mi son de Rovigo e no me intrigo». — E per comprar, chi ghe dava capital? — Ma no ocoreva soldi! No iera miga i marineri che fazeva. Iera altri, traficanti, gente che lavorava in grando, savè, col oro. Miga cadenele e medaiete cola Madona de Tersato. Là iera lingoti che passava. Chili de roba. I marineri solo portava fora e ciapava el percento. Ma iera un bel percento, siora Nina! — Per cento chili? — Ma dèi, siora Nina, che zento chili de oro tuti insieme no li ga visti gnanca el Kan Kan co' i lo pesava in balanza! I dava un tanto per portar de un porto a quel altro un zinque, sie chili, quel che pol portar un omo. — E come portavi? — Mi no portavo. Quei che portava doveva rangiarse. Intanto trovar el posto a bordo per sconder, che iera zà caligo, perchè iera la Dogana che vardava tuto co' se fazeva quei viagi. E po' bisognava portar fora. Iera un periodo, per esempio, che mi iero ancora giovine... — Giovinoto? — No no, giovine de camera. E ierimo col «Jùpiter» che fazevimo el cabotagio — nolegiai — de Lorenzo Marques a Capetown. — Lorenzo Màrchez? No conossevo. — Siora Nina! Lorenzo Marques xe una città in Africa del Sud. E Capetown xe un'altra, che saria Città del Capo, Sudafrica. — Ahn! Me pareva che no conossevo. — E insoma là iera grando trafico de oro. Perchè a Capetown costava de meno, perchè là xe le miniere e a Lorenzo Marques de più, perchè là xe i portoghesi. E quei altri inveze iera inglesi dopo la guera boera. — Ahn! — Insoma là iera 'sto trafico che gavevimo sempre polizia a bordo. I portava, savè, oro, i portava, ma mai no i li trapava. Ve disevo che mi iero giovine de camera. Iera el Comandante Marìncovich. E nostro-omo ancora, pensève, iera Barba Nane. — Eh sì, sì, xe vero. Barba Nane un periodo viagiava per Lorenzo Marques. — Sì. E mi iero giovine de camera. Ierimo misti: passegeri e carico. E mi, come giovine de camera, gavevo el salon de prima classe. Iera un caminar tuto el giorno. Perchè la cusina iera de pupa nel ponte de soto, quel de terza e el salon iera su, sul ponte passegiata. E iera scale e scalete, savè come iera le barche una volta e alora mi, per scurtar la strada, savè cossa che fazevo? Passavo per fora, rasente le sialupe de salvatagio, squasi fora bordo insoma, con guantiera e tuto. — Eh, per un giovinoto! — Sì, giovinoto, ma un pìe in falo, e dopo chi torna indrio a ciorte? Anzi Barba Nane me diseva sempre: «Passè per dentro, no stè andar a pericolar fora de bordo, sbrisserè con tuta la guantiera, cascarè in acqua, perderè la vita e la matricola». — Perchè ieri insieme con Barba Nane? — No, col Negus. Con Barba Nane, sì, che me diseva 'ste robe. E un giorno che tornavimo su de Capetown per Lorenzo Marques — zento volte la gaverò fata mi digo — come che passo fora del vinch dela sialupa, chi sa, forsi una macia de smirn, per farvela curta, sbrisso e patapùnfete in acqua, con guantiera e tuto, propio come che me gaveva dito Barba Nane. — Mama mia! In mar? Mar de Sudafrica? — El mar che iera, siora Nina: mar. — E cossa gavè fato? — Nudavo ah! Ma per fortuna che un me gaveva visto e i ga sonà l'alarme de uomo in mare. — Ah, i ve ga visto! — Per fortuna. Difati vedo subito che el «Jùpiter» vira de bordo. Ciaro iera, bel tempo, mezogiorno. Portavo giusto el brodo de mezogiorno sula pasegiata. El vira e el me vien vizin. — E voi gavevi paura? — Paura? «Pessecan» go pensà subito. Ma per el resto no, cossa volè. Po' istà, iero lisiero. Insoma, co' i me xe propio vizin, vedo — me ricorderò sempre — el nostro-omo Lupetina che iera in coverta, che el mola el salvaomini e bum el me lo buta. Propio vizin el me xe cascà. Tanto che subito cola man lo go guantà. — El salvagente! E ve gavè tignù su de lu? — Siora Nina: se no lo molo presto, vado mi soto con lu. Mi go sentì subito che el me scampava e son restà interdeto. Go dito «Come? El salvaomini che el va a fondo?». Alora me xe vignù come el lampo, savè! — Cossa, iera temporal? — Machè temporal, siora Nina. Ve go dito che iera mezogiorno, bela giornata. Me xe vignù el lampo: go capì tuto. El salvaomini iera batù de oro. Là i lo scondeva. Lingoti e lingoti sarà stà là. — E lo gavè molà? — Sicuro! Volè che me nego? E nudando son andà sotobordo, go becà una zima e su come un simioto. Giovinoto iero ah, quela volta. Le feste! baci, abraci! Barba Nane, veramente, me ga dà subito un stramuson, perchè el me ga dito: «Te gavevo dito». Però tuti contenti. Savè: uomo in mare no se sa mai. Anche un mariner qualche volta... E mi son 'ndà in gabina a cambiarme. E co' son che me metevo giusto, con decenza, le mudande longhe, vien dentro — boca tasi — e el me disi: «E el salvaomini, Bortolo?» — E chi iera? — Siora Nina, gnanche se i me metessi in crose come Nostro Signor no dirio. Iera un. Quel che saveva, quel che fazeva. Quel che portava. Carico perso. Lui ga capì che mi gavevo capido. E mi fa, mi dice: «Bortolo, me racomando, no me palesar. Noi che semo dele Vece Province, dovemo iutarse fra de noi. Xe ancora un altro salvaomini come quel — el me fa — e il silenzio sarà d'oro». — Come dir che guai se parlavi? — No. Come dir che gaverio avudo el mio se tasevo. — E vù? — E mi ghe go dito: «Comandante Marìncovich, mi son de Rovigo e no me intrigo». Mai, Siora Nina, no dirò, gnanche se i me incioda sula crose, chi che iera. MALDOBRIA XXXVII - L'UOVO DELL'ALTRO MONDO Nella quale si parla di Teta Rosina, del suo desiderio di far nascere e crescere un tacchino americano e dell'esotico uovo che a tale scopo Bortolo le portò al ritorno da uno dei suoi viaggi nel Nuovo Mondo. — Ma disème la vera verità, sior Bortolo: per davero xe freschi 'sti barboni? Perchè, savè, mia suocera xe cussì sufistica ... — Cossa la xe malada che ghe fè vù la spesa per ela? — Machè malada. Magari. Almeno la starìa un poco in leto a casa sua! Quela ne sepelirà a tuti quanti. Setantanove la ga e la xe come una giovinota. Ela ale sie de matina la xe zà andada a Messa e la cominzia a vignirme per casa a tazarme. Savè come che la ga quel suo moto, no? «Nina, mi istesso no farìo cussì! Mia madre defonta che Dio ghe brazzi l'anima, fazeva sempre culì». — Eh siora Nina, savè come che se disi: «madona e gnora, tempesta e gragnola». — Ah, ma la xe una bona dona savè! Mi no voio dir. Mai una parola xe corsa fra de noi. Zerto che qualche volta, insoma... Ma ela ga quela che ghe par che suo fio, che xe zà nono, sior Bortolo, nono el xe, el sia come un putel. E che nissun meio de ela lo pol tignir. — E disèghe no, che Sior Idio i fioi, miga no li dà, li impresta, come che se disi. Ognidun ga la sua famea — El bel xe, po' che ela ancora disi che no la se intriga: che me fa un nervoso! Un giorno ghe dirò: «Truli, truli chi che li ga fati i fioi che se li trastuli». E che la se lo porti a casa de novo, mio marì. No, volevo solo dirve, che ogi la me vien a pranzo, e no volessi far bruta figura a darghe barboni passai. Voi gnanche no ve imaginè cossa che xe mia suocera. — Siora Nina: imagino, straimagino e ve supero. Cossa credè che mia muièr sia nata de un cavolo o de un articioco? Mi no so se vù gavè conossù mia suocera defonta... — Teta Rosina? Quela che i ghe ciamava el gendarmo? — Gendarmo? Ela la iera Ober dei gendarmi. Barba Nane, co' iero promesso, me diseva sempre: «Bortolo, pensèghe ben, vù no sposè vostra muièr, vù sposè Teta Rosina. Quela che dovevo sposar mi, che per fortuna che no la go sposada, perchè se no perdevo la fede dei boni costumi e i me gaverìa ancora cavà la matricola». — Eh, Barba Nane xe restà puto vecio. — Mi inveze me go sposà assai giovine. E i primi anni stavimo in casa con ela. Coss' che no iera! «Cossa, andè fora?» la ne diseva co' andavimo fora. «Cossa sè zà tornai?» la ne diseva co' tornavimo. «Cossa, ancora sè sbarcà», la me diseva co' spetavo el numero. «Cossa, sempre per mar andarè?» la me diseva co' me imbarcavo. Una vita che no ve digo. — Ma Teta Rosina no gaveva tanti fioi? No la podeva star con qualchedun altro, anche? — Siora Nina, savè come che se disi: una madre mantien venti fioi, ma venti fioi no mantien una madre. E mia moglie, che xe bona, cossa volè, la diseva tignimola nualtri, dopo che la iera restada vedova. Che i disi anzi che suo marì xe morto in dubio. — Che dubio? — In dubio se iera più dispiazer morir, o più bel deliberarse cussì dela vecia. Voi no savè quela storia dei ovi, cossa che no la me ga tazà ela! — Che storia dei ovi? — Dovè saver che iera a Portolongo una sua comare che suo marì de ela, dela comare, che viagiava anche lu per el NortAmerica, ghe gaveva portà a casa un ovo de dindio. — Eh ben, cossa ocori andar in NortAmerica per un ovo de dindio? — Siora Nina, vù no savè cossa che xe i dindi in NortAmerica! No xe miga come i nostri dindi. I nostri xe roba de quatro zinque chili, massima. Là i ga dindi de venti, ventidò, ventitrè chili. Vien fileti come de vedel. Una carne bianca! E po' i Americani ghe tien fora de modo al dindio: i ga la Festa del Dindio ogni anno, che i sera i ufici, tuto. Mi ve dirò che con tuto che son omo che go viagià bastanza, istesso me go stupìdo co' son rivà a Nèviork e go visto in 'ste becherie 'sti dindi. — Ma ela cossa, voleva bever un ovo de dindio? — Machè, la voleva far come sua comare de Portolongo. Ela voleva che mi ghe porto un ovo de dindio ingalà, indindià, come che se disi. E farlo covar qua de una galina, in modo de gaver 'sto dindio spetacoloso. Perchè devo dir, 'sta sua comare, gaveva tirà su el dindio a disaoto chili. Iera andà tuto el paese quando che i ghe ga tirà el colo: in dò i lo tigniva. — Ah, ela voleva l'ovo ingalà per farlo covar. E vù no podevi portarghelo? — Ma vù cossa credè, che Nèviork sia Buie, Umago, che vù andè là in una casa e ghe disè: «Comare, compare, cedème un ovo de dindio»? Nèviork xe una città granda come Lussingrando e Lussinpiccolo messi insieme, e Cherso e Veglia e Arbe, tuto tacà, fin Fiume, cossa so mi. Dove andavo a zercar ovi de dindio? E ogni volta che tornavo iera una vita: «Me gavè portà l'ovo?» — la me domandava. «Machè ovi! — ghe disevo mi — cossa semo de Pasqua?» E mia moglie: «Ma contèntila, una volta, cossa te costa?» Per farvela curta, una volta son a Nèviork, in tera, perchè a bordo i fazeva i profumi, e go profità per andar a trovar mio cognà. Lui gaveva disertà in America, ancora prima dela prima guera, el parlava franco american. Anche el modo el gaveva ciapà su cussì de lori. Johnny Lovrich. El gaveva anche cambià nome. — Giovani el se ciamava qua. — E Johnny no xe Giovani? Per american xe Giovanin. Insoma co' torno via de lu, tutintun davanti i oci me trovo un negozio dove che iera scrito in enorme: «Eggs of America», che sarìa come dir «Ovi de tuta l'America». Tuto i gaveva. Mi son restà come incantà de 'ste vetrine belissime: i gaveva ovi de tuti i colori! — Ah, ovi de Pasqua? — Ma no: ovi de tute le specie, de tute le bestie. Perchè là in America i ga quela che i ovi de zerte bestie aiuta l'omo in età, me capì... come dir ovo fa ovo. Iera ovi de galina, de dindio, de còndor, de bissa, de serpente. Insoma de tute le bestie che fa ovi. Mi vado dentro e ci faccio ci dico che mi servirebbe insoma un ovo di dindio, di dindio grande. Ingalato o indindiato. Bon, bon, me disi 'sto omo e el me domanda dove che lo devo portar. A Trieste? Che xe 'ssai lontan. Insoma el me spiega che ghe vol imbalar ben cola paia perchè se no 'sti ovi se sfredissi e no xe più gnente de lori. — Eh, xe altro clima. — No, no, el clima xe preciso. Solo che iera assai longo el viagio. E alora che torno domani, che lui el me lo fa trovar ben imbalà in cassettina. — E sè tornado? — Orpo, se son tornado! No me pareva vero de poderghe tapar la boca a mia suocera con 'sto ovo. Che iera un ovo, un signor ovo, savè: grando squasi come una borela. — E sè arivà col ovo intiero? — Come no? Ma spetè: la matina dopo son andà a cior 'sto ovo. I me ga consegnà la cassetina tuta pronta col indirizzo: zà sdoganado, tuto fato e son tornà a bordo. Nèviork, Boston, Gibiltera, quela volta se fazeva quela rota là, fin che rivemo a Trieste. E de Trieste in coriera son rivà a casa. Ciàpila lìghila mia suocera dela contenteza. L'unico giorno, devo dir, che no la gaveva el muso duro. — E la ga fato covar 'sto ovo de una galina? — De una dindia. Perchè ela ga dito: simile col suo simile vien meio. E volè creder, per esser sicuri che no 'lciapi fredo, vinti giorni in cusina gavemo tignù 'sta dindia che covava. Iera april e el spàher impizzà ogni matina. — E po' xe nato el dindio? — El xe nato proprio el stesso giorno che me xe rivà el telegrama. — Che telegrama? — Telegrama de quei del' Eggs of America. Quei dei ovi, insoma, de Nèviork. — E cossa i voleva? — Mah, sul primo no go capì, perchè iera scrito per american. — Ah, che l'ovo non iera bon forsi? — Bon, siora Nina? El iera altro che bon. Solo che inveze de un dindieto xe saltada fora una sariandola compagna. — Una sariandola? — Sicuro, siora Nina: iera stado un deplorevole sbaglio: «mistàke», scriveva el telegrama. Iera stà un scambio de pacheti. E i me gaveva dàdo inveze che un ovo de dindio, un ovo de alligatore. — Che liga cossa? — Alligatore, siora Nina! Che sarìa el cocodril american. — Mama mia, che truco! E voi cossa gavè fato? — Se gavemo afezionado, siora Nina: el iera cussì cocolo, cussì picio, verdolin, verdezalo, con 'sti dentini, oceti, el ne vigniva a magnar in man. Mia moglie iera come mata per lu. E alora gavemo dito: lo tignimo, finchè se pol, lo tignimo. Ve ricordè che drio dela nostra casa iera el vecio deposito del'acqua dela cava de bauxite? Iera sempre pien de acqua, perchè co' pioveva no gaveva scarico. E lo gavemo messo là. Lu contento, lui nudava come un scombro! E per magnar ghe davimo quel che vanzava in cusina. Tuti vigniva a vardarlo. Anche el giornal de Fiume ga fato un articolo. E po' el ne iera anche utile co' el xe diventà più grando. Pensè che là andava a bever sorzi e pantigane, e lu zac, se li magnava in un bocon. Ghe iera vignù una bocazza che no ve digo! — E fin quando lo gavè tignù? — Fin quando che xe stà la disgrazia de mia suocera che iera andada a cior acqua. MALDOBRIA XXXVIII - LA PORTA OTTOMANA Nella quale Bortolo narra di come fosse stato costretto ad imbarcarsi su di un piroscafo ottomano ed altresì del suo favoloso comandante, sul culo del quale piovevano grazie anche quando stava seduto. — Ah, sior Bortolo! Volè che ve digo, che stanote me go insognà de Barba Nane defonto, che Dio ghe brazzi l'anima, ma cussì vivo, ma cussì vivo el me iera ... — ... che gnanca no pareva che el fussi morto. — No. Se capiva che el iera morto. Mi savevo che el iera morto. — Eh, siora Nina: anca mi so che el xe morto! — No, volevo dir che mi, in sogno, savevo che el iera morto, ma el me iera cussì presente propio. El iera in cusina nostra vecia, savè come che gavevimo una volta, che el pareciava e el ghe parlava a mia defonta madre. — Ah, perchè la iera anche ela? — Sì, la iera anche ela. Più giovine, come quando mi iero putela, e Barba Nane ghe diseva: «Oio, pevere e sal, Teta Maria, e aio per conzar ben». «Per conzar ben» — el diseva. E mi me ga fato come impression e me go dismissià tuta in un'acqua. — Ah, mi credevo inveze tuta in un oio, pevere e sal. E anca aio per conzar ben. Bel sogno, savè, siora Nina, perchè la madre porta bon. — Però la madre pol esser anche un avertimento. — Ma porta bon la madre, la madre per la sua cratura porta bon. Roba de magnar porta anche bon e vecio che parecia, po' porta bonissimo. — Ma mi me go come impressionada. Forsi perchè gavevo tuto el tempo cognizion che el iera morto. — Zoghè i numeri alora. —Ah, i numeri de mia mama zogo ogni setimana. Zogherò quei de Barba Nane. De che milesimo el iera lu? — Barba Nane doveva esser del Cinquantaoto, perchè mio povero padre iera del Sessantatrè e el diseva sempre che Barba Nane iera zinque anni più vecio de lu. Fè 61, vecio che parecia; 58 el milesimo e 24 San Giovani, perchè Barba Nane, veramente se ciamava Giovani Maria. — Sì, sì. Però coss' che ga de esser el sogno! —Eh, qualche volta sì. Per esempio, ve ricordè che Barba Nane me diseva sempre «I ve caverà la matricola»? Ben, una volta me go insognado che el me diseva: «I ve caverà la matricola» e i me la ga cavada. — In sogno? — No, no, per bon. Perchè i ne gaveva trovà tabaco in saco dela roba sporca sula passerela de Sant'Andrea a Trieste, che ierimo zà fora dela Dogana e i ne ga ciamà indrio, a mi e al povero nostro-omo Pìllepich. — E cussì no podevi navigar? — Con bandiera austriaca, gnanca parlar. In turno general podevimo. E per fortuna iera a Trieste una barca otomana che finiva la quarantena e ghe mancava un dò, tre de lori. Febre tarzana i gaveva avudo a bordo. Quela volta iera assai. — Adesso, inveze, poco se senti. — Indiferente. Insoma se imbarchemo mi e Pìllepich. Iera una barca otomana, no ve digo altro. «Izmir» la se ciamava, che sarìa «Smirne». Iera carigo seco, me ricordo come ieri, equipagio misto: un poco de greghi, un poco de turchi. E el comandante no se capiva ben: i greghi diseva che el iera turco e i turchi diseva che el iera grego. Bon omo, però. El parlava franco venezian, gnanca italian, venezian propio. El iera de Costantinopoli. — Ah, fazevi la linia de Costantinopoli? — Sicuro. Go fato un per de viagi con lu. E anzi una volta el me ga portà a casa sua. Una casa! Belissima. Tuta de antichità. 'Ste robe de Levante! Tapedi, cussini, otomane: bel. Zogador el iera. Sul ponte, coi uficiai, lui zogava coi dadi. In tera po' no parlemo. Zentinera de quela volta lui zogava al loto. El diseva sempre: «Fortuna qua vien». E el se bateva el peto come un tamburo. Che omo, che macia che el iera! — Turco el iera? — No se capiva. Là a Costantinopoli xe tuto un missiòt! Fato sta che el gaveva nome che la barca fussi sua, po' de gaver case, robe. Insoma el doveva star assai ben. — Zogando el loto? — Machè loto, lu fazeva de tuto. Lui, ogni porto, el gaveva conciliaboli con questo, con quel, i vigniva a bordo, i se serava in gabina, i stava dentro ore cole ore. Po' el vigniva fora e el diseva ridendo: «Chi che nasse fortunai, ghe piove sul culo anca a star sentai» ... Franco, in venezian. Insoma, un giorno che ierimo fermi a Corfù, mi pituravo la murada, sula tola, fora de bordo: savè, senza matricola, mi e Pìllepich dovevimo adatarse a far de tuto. — E xe bel Corfù? — Bel, bel logo! Mi pituravo fora bordo e cussì, sorapensier contavo i oblò dele gabine. E digo: «Fiol d'una tecia, come mai i oblò xe quatordese e le gabine, se no falo, xe tredese?» Ma cussì, savè, sorapensier. Però fato sta, che 'sta roba me ga messo in curiosità. Conto de novo le gabine: tredese, ah! — Iera una con dò oblò? — Sì, col pergolo e cole spedistre de fora! Ogni gabina gaveva un oblò. Cossa credè che quela volta iera Saturnia, Vulcania, Conte di Savoia? Iera tredese gabine, po' quela del comandante, che dava sul davanti e altro gnente. «E pur xe un oblò che vanza — digo mi — qua qualcossa me spuzza». — Forsi iera del logo de decenza. — Machè decenza. Quel iera tuto de un'altra parte. Mi go comincià a congeturar che doveva esser una gabina de più che nissun saveva. Però porte no iera. E co' son andà dentro, go comincià a bater, a bater sul paredo. Dopo del numero tredese go sentì svodo, come. Però porta no iera. — E come podeva esser? — Eh, siora Nina. In qualche modo podeva. E mi go volù sincerarme. Basta. Rivemo a Patrasso. Rèpete, vien 'sti mati a bordo, i se sera col comandante. Dopo i va fora — i spuzava de rachìa dò passi lontan — e mi osservo che quel oblò che ve disevo, xe un fià in sfesa. «Qua — digo mi — xe el mistero dela Sfinge, che prima caga e dopo minge», come che diseva el Capo Machinista Ersini. E cussì, de note, che iero giusto franco de guardia, go pensà: «Andemo a veder». — La Sfinge? — Che Sfinge, siora Nina! Volevo veder coss' che iera 'sta gabina che iera e che no iera. Mi gavevo zà una mia idea in testa, savè: e alora pian pian, col scuro, son andà fora in camisa de note dela gabina che gavevo con Pìllepich e discalzo per no far sussuro. Go ciolto un cavo in man, lo go ligà sula cluca dela gambusa e po', sempre pian pian, frontandome coi pìe, me go calà fora bordo fin 'sto oblò. Un momento go gavù paura, perchè me pareva che el cavo scapoli, ma po' son rivà a meter le gambe sul'oblò che iera in sfesa, lo go girà e via mi dentro. Gabina iera, siora Nina, gabina chiusa, serada. E tabaco, e spezie, e tè e caffè, e pacheti de chissà cossa e robe che pareva cochi e inveze, per conto mio, iera paneti de opio. Un valor, siora Nina. — Opio? Qual opio? — Oppio, po' siora Nina. Una volta iera gran contrabando de opio. Adesso inveze no se senti tanto. Insoma, go pensà, qua xe meio no intrigarse. Boca tasi e fila via. Guanto de novo in man el cavo e, come che me fronto per tirarme su, siora Nina, patapùnfete... — Sè cascà? —» Mi no. Ga cedù la porta dela gambusa, e la xe 'ndada drita a plonzo in mar. Iera una barca vecia, una carobera. Iera tuto che stava insieme per scomessa. Ga fato un plonzo che no ve digo. E sento quel de guardia che ziga per grego «Omo in mar». Un gheto, un bacan, ferma le machine, sona la sirena. E mi zito che no i me trapi là dentro. Dopo un poco, sento che i fa l'apelo e che co' i riva al mio no. Pìllepich disi: «No 'lxe, no 'l xe». E i gira, e i gira, tuto in tondo con 'sta barca. — Ah i ve zercava a vù come se fussi cascado in mar? — Sicuro. Ma mi no podevo vignir fora. Porte no iera, no gavevo più el cavo per andar fora del oblò. Insoma disperà. Vintiquatro ore son stà là dentro. Perchè no me fidavo de moverme prima che fazessi scuro de novo. E co' ga fato scuro, pian pian go comincià a tastar tuto el paredo, e a un zerto punto, trovo drio de un mucio de tapedi, una cluca. — Ah, ghe iera una porta? — Cussì go calcolà. Se xe una cluca sarà una porta, ah! Un lavor mover tuti 'sti tapedi! Po' go sforzà, la porta se ga averto pian pian e sento come un ronchisar. Siora Nina, luna piena iera squasi, e vedo distintamente oltra de 'sta porta la gabina del comandante. Passagio segreto iera. E el comandante ben che ronchisava in cuceta. Alora, pian pian, per no sveiarlo, sero de novo la porta del passagio e in punta de pìe zerco de rivar ala porta vera dela gabina per calumarme fora. In quela, lu verzi i oci e el me vedi, là, in camisa de note, cola barba de dò giorni, e el me disi: «Anima santa del Purgatorio — cussì franco, in venezian — diseme tre numeri» ... E mi: «Un, dò, tre, fin che coro no me ciapè». E via mi, fora dela porta. — Mama mia! E lu? — E lu el ga zogà, siora Nina, «un, dò, tre» e i xe vignudi fora, sula roda de Venezia. Cossa volè! A chi nasse fortunai, ghe piove sul culo anche a star sentai. MALDOBRIA XXXIX - FUOCO A MEZZOGIORNO Nella quale si narra l'incredibile ma veridica storia del cannone di Rogòsniza, del campanile di Don Blas, della sirena dello squero nonchè di un forzato pellegrinaggio compiuto da Bortolo ed altri alla Madonna di San Salvador, mentre già era passato telegramma che l'Austria aveva intimato guerra alla Serbia. — Siora Nina! El tempo xe una convenzion. Xe tuto relativo, xe la relatività, ga dito anche Frankestein. Eisenstein, Einstein, là, come che i ghe disi. Basta meterse d'acordo. Barba Nane diseva sempre: «No ga mai furia chi che se ciol el suo tempo». E quando iero giovine e no gavevo gnanche orologio, che domandavo a bordo che ora che xe, el diseva «Xe l'ora de ieri a 'sta ora, nè più tardi, nè più bonora». — Anche mio defonto nono diseva questa, Sior Bortolo. Cussì proprio el diseva. Che rider! — Indiferente! E po' propio Barba Nane me ga regalà l'orologio. Bel orologio iera, con dopia cassa e la cadena. «Eco, ciàpite qua — el me ga dito — cussì co' i te cava la matricola, ti ga qualcossa de portar al Monte». — Eeh, el diseva per dir! El iera un omo lu! Quei omini là! Dove xe adesso quei omini là? — Questo iera dopo la prima guera, savè. Perchè mi me ricordo che prima dela prima guera no gavevo orologio: pochi gaveva. In Dalmazia, me ricordo, i Murlachi per saver l'ora vardava el sol in bareta. — Mi go quela, che co' go de sveiarme ale sete, con quel pensier me sveio sola giusto ale sete. — Indiferente! Ve volevo dir che mi, co' xe s'ciopà la prima guera iero militar de leva, de Marina. — Imbarcà? — No. Ve dirò, iera i più bei ani che mi go passà. Iero in Dalmazia, a Rogòsniza. Dio che bel posto che xe Rogòsniza! No propio Rogòsniza. Una de quele isole vizin. Ma iera un paeseto de quei! Belissimo. Squero iera anche, bastanza grandeto, ma del'altra parte, bisognava andar cola barca. Iera un molo, fè conto, come che xe qua la porporela. Con fortificazion e munizion propio. E mi iero distacà là per el canon. — Cossa, vù tiravi col canon? — Sì. A mezogiorno. Co' iera mezogiorno: iera stà un lassito che gaveva lassà un grando. Un de Marina, un amiraglio. Che lu gaveva là una vileta, tanto che ghe piaseva. E in memoria el gaveva lassà ala Comun in testamento una facoltà, per via che i tiri col canon ogni mezogiorno. In memoria. — Anche a Trieste i tirava col canon. — Come no! Se usava quela volta. Anche a Pola. Insoma mi gavevo el mio caìcio. Co' iera undici, undici e meza fazevo marenda con quei del Governo maritimo, po' andavo in porporela e a mezogiorno in punto tiravo. No scampava più gnanca i cocai. I iera abituai. Iera ani anorum che iera 'sta storia del canon de mezogiorno. Co' i me ga dà el servizio, quel che iera prima, un dalmato de Lissa, me ga spiegà tuto come che dovevo far. — Per tirar col canon? Ma proprio cola bala? — Machè bala, siora Nina. Salva se tirava. El me ga spiegà tuto pulito. — Come tirar senza bala? — No. Come vardar l'orologio dela cesa. Perchè el me ga dito: «Savè, per regolamento ghe volessi far el punto col sestante. Inveze vù, col canocial vardè l'orologio del Domo. Co' là vede che xe mezogiorno, vù tirè. No ve sbaliè mai. Come che tirè, sona la sirena del squero. Mai sbalià. In tanti anni che son mi qua. Co' sbara el canon qua in paese tuti regola l'oroloio». E cussì go fato anca mi. — Tiravi col canon? — Sicuro. Me ricordo un giorno — vardè, come che fussi ieri — fazevo marenda con quei del Governo maritimo, che xe vignù dentro el piloto. Me ricordo come ieri. El ga pozà la bareta sula carega e el ga dito: «Xe passà telegrama che l'Austria ghe ga intimà guera ala Serbia!» — Ah, quel'altra guera! — Quel'altra sicuro! No ve digo che confusion! Perchè subito dopo iera passà l'ordine dele ostilità. — Passà l'ordine dele ostilità. Come? — Come che se usava quela volta. Miga come adesso, che un xe zà morto quando che el sa che xe s'ciopada la guera. No, no: iera vignù propio l'ordine di operazione. Operativo numero uno: aprire il fuoco ala mezanote. — Vù dovevi sbarar a mezanote? — Ma no, siora Nina. Mi sbaravo sempre a mezogiorno. Iera come dir «dala mezanote in poi è guera». — Ahn! — Insoma una confusion che no ve digo. El giorno dopo, mi verso le undese vado in porporela, ciogo el canocial per vardar l'orologio del Domo e vedo che xe nove e un quarto. «Orpo — digo — xe impossibile che xe nove e un quarto». E in quela vedo la passera del prete che voga verso de mi in porporela. Don Blas, me lo ricordo. Iera un prete ala man. Però studià. Canonico. — Per el canon? — Machè canon. Canonico de Traù el iera. Onorifico. E mi fa mi dice: «Bortolo, che ora xe?», ancora dela barca el me ziga. «Mah — ghe digo — mi no so. Spetavo per tirar el canon». E lu me fa, armisando la barca: «Pènsite, con quela confusion che iera ieri sera, quel mona de nònzolo se ga desmentegà de tirar l'oroloio dela Cesa e no so che ora che xe per l'Angelus». — Ghe se gaveva fermà l'orologio? — Sicuro. Mostrava nove e un quarto e mi gavevo zà fato marenda. «Orpo — ghe digo — don Blas, no so mi che ora che xe. Mi per sbarar el canon me regolo sempre sul orologio dela Cesa». Come se fa, come no se fa? Adesso che ora sarà? Che propio ogi che xe le ostilità no savemo l'ora giusta! Che de boto devi esser mezogiorno. E alora mi me vien un'idea. Ghe digo: «Don Blas, semplicissimo. Ciolemo el caìcio e andemo in squero, dove che a mezogiorno in punto i sona la sirena. E cussì savemo una drita». «Ben ti se la ga impensada» — el disi lu. Insoma, siora Nina, un remo mi e un remo lu, ghe demo de sugo de còmi e andemo oltra el canal fin el squero. El mistro ne ga visto rivar de lontan: el ne spetava sul molìch con un canocial in man. «Mistro — ghe disi don Blas — che ora xe?» «Mah — el disi — no so, ma no xe ancora mezogiorno, perchè el canon no ga sbarà». «Ma come — ghe digo mi — no sonè la sirena a mezogiorno?» «Sì, co' vedo el lampo del canon col canocial, alora tiro la sirena». «Come — disi don Blas — anche vù ve regolè sul canon? Anche mi me regolo sul canon. Co' sento el tiro in canonica, vardo el campanil e vedo che xe sempre mezogiorno spacà». «Per forza — ghe digo mi — don Blas, co' mi vedo che xe mezogiorno spacà sul Domo, tiro el canon». — Mama mia, che truco, E come gavè fato? — Gnente. Apena in quel momento ghe xe vignù el dubio a don Blas che disi: «Mi me regolavo sul sbaro, ti sula cesa e el mistro sul lampo... De quanti anni va avanti 'sta storia?» «Ma de sempre — ghe digo mi — perchè anche quel che iera prima de mi fazeva cussì». «Orpo — disi don Blas — anche quel canonico che iera prima de mi me ga dito: «L'orologio del campanil no ocori mai tocarlo. Ogni giorno a mezogiorno el xe spacà col canon». E alora el mistro disi: «Ma insoma, alora che ora sarà? Bisogna domandarghe a qualchedun». «Ma a chi volè domandarghe — disi don Blas — se tuti se regola sul canon?» — E la sirena? — E la sirena se regolava sul lampo, ve go dito. E mi sula cesa. Insoma, per farvela curta, don Blas disi: «Qua bisogna andar ala Madona de San Salvador». — Per pregar? — No, no per pregar. Per veder la meridiana che iera là. — Meridiana? — Ma sì, l'orologio a sol come che iera sula vila Prohaska, no gavè mai visto? Insoma, mi, don Blas e el mistro coremo su per el monte per i grèmbani per far presto. Iera un logo de pelegrinagio, savè. La gente andava una volta al anno co' iera la festa dela Madona de San Salvador. Rivemo su, sudai — istà piena — vardemo 'sta meridiana: undese! E doveva inveze esser passà mezogiorno. — Come? — Sicuro. In tanti anni mai tocà, l'orologio dela cesa el iera andà avanti de un'ora e passa. — Orpo! E come gavè fato? — Gnente. Don Blas ga dito «Domani no me resta altro che dir dal pulpito». «Per l'amor de Dio — disi el mistro — no, don Blas, che i lavoranti del squero ne meti in conto zento anni de ore straordinarie, che li go ogni giorno mandai via un'ora dopo». — Ah, xe vero, povera gente. — «Gnente paura — go dito mi — no ocori dirghe gnente a nissun. Ogi, inveze che a mezogiorno, sbaro a mezanote. No xe passà telegrama che bisogna aprire il fuoco a mezanote?» MALOBRIA XL - IL TESTAMENTO Nella quale Bortolo narra del testamento della Signorina Bortolina, sorella del fu Giovanni Maria, detto Barba Nane, fornendo una gustosa dimostrazione del come le vie del Signore siano infinite, ma finiscano per condurre sempre alle Reverende Madri di San Benedetto, più note come le Mùnighe del Squero. — L'omo puto xe mal, siora Nina, xe bruto diventar veci cussì soli. Anche per un aiuto material. Bisogna pur aver qualchedun che tendi, Dio guardi un mal de note. Vardè, per esempio, Barba Nane: tuti ghe diseva «Sposève, Barba Nane, cossa, no poderè miga star sempre con vostra sorela in casa. Po' anche ela la ve xe sacrificada con vù». — Eh, Barba Nane no ga mai vossù sposarse. — E sì che el gaveva ocasioni e boni partiti, perchè in Barba Nane — me contava mia mama defonta — se gaveva inamorado la fia de un dei primi, ma propio dei primi de Spalatro... E po', disème vu, siora Nina, se meritava aver avudo i soldi che gaveva Barba Nane per po' lassargheli a chi? — Ala sorela el ghe ga lassà tuto. Fin la matricola in sfasa. — So, so! Eh, siora Bortolina de Barba Nane gaveva eredità bei soldi. E la se li ga godudi anche. Savè come che se disi: «Chi mori el mondo lassa e chi vivi se la passa». A ela ghe iera restado in facoltà: barca propria, carati in barche de altri, campagna, la casa dove che la stava ela, quela che i gaveva comprà in Ponta Sant'Andrea. E el torcio a Cherso. — Eh, Barba Nane iera un omo che no xe stà più un secondo. Però el iera assai assai interessoso. — Sì sì, el iera interessoso per le sue robe, però no stè miga creder che el fussi strento. Con sistesso, forsi sì. Ma el iera bon propio bon de cuor. Lu ga aiutado l'aiutabile. Però lui no voleva che se savessi. Per esempio, ve ricordè povera Teta Rosina che iera restada vedova, quela che el marì ghe se gaveva negà col «Baron Gautsch»? Ogni mese lui ghe andava a portar zinque fiorini. E no se ga mai savesto. Savè, presempio, chi che ga fato el saliso novo dela Cesa? — El fascio. — Machè el fascio! Barba Nane lo ga fato. Co 'l xe morto, don Giusepe defonto ga dito propio dal pulpito che iera dono del nostro caro Giovanni Maria, che po' sarìa stà Barba Nane ... — Aah, me ricordo! Ma mi no gavevo capì che el defonto Giovanni Maria iera Barba Nane. — Ma vù no savè cossa che xe nato co' la xe morta ela, siora Bortolina! — La sorela de Barba Nane? — Ela sì. Co' la xe morta, i sui parenti, che sarìa stà el padre de Marco Mitis — che po' me ga contà tuto — i Bunicelli, insoma i Bùnicich, e i Superina, (che i stava a Fiume, ma i xe rivadi subito) i xe corsi a casa dela defonta per farghe la vèa. — Ah, Marco Mitis ve gà contà? — Sicuro. Insoma i riva tuti qua. I ga fato far lori el funeral. Messa e tuto, col catafalco. Ben, ben, bisogna dir, ben. E tornai de cimitero, tuti a casa per discuter sula facoltà. — In casa de chi? — Ma in casa dela sorela de Barba Nane, no! E, insoma, come che i ga verto el comò, per zercar i ori, una roba l'altra, i trova una busta. — De soldi? — Machè de soldi, siora Nina. Testamento oleografo! — Oleografo? Cossa sarìa? — Fato de sola sistessa, dela sorela de Barba Nane. — Aah! E a chi la ghe lassava? — Eh, siora Nina! Quel xe stà el punto. Iera scrito: «Lassio tuti i miei beni, compreso il torchio di Cherso, la campagna segnata in particella — insoma come che iera scrito — la barca «San Martino» e le carature in mio possesso...», ma scrito ben perchè ela gaveva fato le scole dela Lega Nazional, qua, cola maestra Moratto, insoma la ghe lassava tuto, quasi tuto, savè a chi? — A chi? A chi? — Ale Mùnighe, siora Nina, ale Mùnighe del Squero. Ale Reverende Madri di San Benedetto, iera scrito là, per Messe in suffragio e cossa so mi, l'otavario, una roba e l'altra. E inveze a 'sti parenti, poco. Poco? Sempre qualcossa savè; tuto el liquido, tuto quel che iera in fiorini, in oro, no iera stà dimenticado nissun. Ma el grosso ale Mùnighe. Insoma, contava Marco Mitis, che i iera disperai. «Cossa, lassarghe ale Mùnighe? Che le Mùnighe ga campagna, che le ga de tuto, che nissun meio dele Mùnighe, che la vecia in ultimo bazilava, che la iera andada in dolze, che cussì e che culì...». — Ah! I ga impugnà el testamento? — Machè impugnà, siora Nina. Adesso se pol dir, xe passai tanti ani. I lo ga brusà! I ga dito: «Noi rispeteremo la volontà dela defonta, ghe faremo avere le Messe, i otavari, tuto, — quei Superina iera driti, savè — ma la facoltà che vada agli eredi niaturali, che siamo noi, vero». — Ma se pol far 'ste robe? — Se pol? Se pol? Brusado el testamento, figurava che ela iera morta intestada. Quindi tuto agli eredi naturali. Xe vignù l' Ispeziente Superior de Finanza, col avocato Miagòstovich, e i ga dito anche lori: «Tuto agli eredi naturali». — E cussì ga ciapà tuto i Mitis, i Bùnicich e i Superina? — Ah sì! Miga no. «Erede naturale? — ga dito el Tribunal — Chi è l'erede naturale dela defunta Bortolina, sorella del defunto Giovanni Maria? La figlia del defunto Giovanni Maria», Barba Nane, come dir. — Cossa?! Barba Nane gaveva una fia? — Fia de anima, siora Nina. Un'orfana iera, rilevada dele Mùnighe del Squero. E lui, bon de cuor, la gaveva adotada. E come per el saliso dela Cesa, nissun no gaveva mai savesto gnente. E sicome la iera sempre dele Mùnighe, la se gaveva fato mùniga anche ela. Madre Conceta, no ve ricordè Madre Conceta? Ela! E cussì ga becà tuto le Mùnighe. Anche quel che lui ghe gaveva lassà ai Superina, ai Bùnicich e ai Mitis. Eh, siora Nina, a tuti se ghe la pol far, fora che a Quel che ghe ga fato i manighi ale zariese. MALDOBRIA XLI - IL FIGLIO DEL CAPITANO Nella quale Bortolo racconta la storia di un ombrello giapponese, di una giornata veneziana, di due aspiranti nostròmini e di come Capitan Fillìnich giungesse alla conclusione che «iera meo non farli mover de casa». — Sì, ma l'ombrela po' finissi che se la perdi... — Questo magari xe vero. Po' se la scambia nei locai. E sempre in pezo, se gavè osservà. Però la mia no se podeva confonderla, perchè mi son stà el primo qua a gaver quele che se verzeva cola susta, giaponesi. Viagiavo per Kobe quela volta, cola «Libera», che Barba Nane me diseva sempre: «Con quela susta ve se verzerà l'ombrela in tran, inorbarè qualchedun, gaverè dispiazeri, e i ve caverà la matricola». Ma a mi no la me ga mai fato un scherzo: bastava fracar el boton e la se verzeva, come un floco col vento in pupa. — Che boton? — L'automatico, po'. Cossa no gavè mai visto? Per verzerla con una man sola. Un ga una valisa, un paco, un qualcossa, la man ocupada e xe intrigado per verzer l'ombrela... — Ah! No gavevo mai sentì! — Oh Dio, gnanche adesso no ghe ne xe tante. Ma quela volta iera proprio una rarità. Sul «Diana» dela «Libera» la gavevimo solo mi e Nini Lupetina. Me ricordo come ieri, ierimo a Kobe, un caligo, che mi go dito: «Dò calighi fa una bora, tre calighi fa una piova, andemo comprar un'ombrela che domani piovi garantito». E se gavemo comprado queste col automatico. Solo che la mia iera de seda gloria vera, manigo de malaca vero; quela de Nini Lupetina iera seda giaponese e manigo imitazion. Zà questo ve dimostra el caratere del omo. Savè come che se disi: de sora lisso lisso, de soto merda e pisso. —Sì, i Lupetina iera pitosto voio e no posso, per dir el vero. — E po' mi quela volta lo gavevo sui corni perchè el se russava sempre atorno del Comandante, del capitan Fillìnich, perchè assai ghe spizzava de diventar nostro-omo. E mi iero a bordo 'ssai più tempo de lu, savè! Indiferente! ierimo giovini, pochi soldi. Pensè che mi, su quela ombrela l'ago gavevo messo. No ve digo altro, l'ago! — L'ago? Per cossa? Che ago? — Per el trinciato levante, siora Nina! Se meteva l'ago sul puntal de l'ombrela e co' se vedeva quele bele ciche, longhe come subioti, cussì senza parer, se le impirava e se le tirava suso, per disfarle e far tabaco. — E cossa, anche Nini Lupetina fazeva compagno? — No. Lui no fumava. Anche questo ve disi el caratere del omo. Insoma un giorno semo a Venezia e el Comandante Fillìnich gaveva fato vignir per ferovia sua moglie e el fio picolo che no gaveva mai visto Venezia. El ne ga portà tuti dò, Nini Lupetina e mi, a bever un mistrà al Flòrian. Iera marzo, pioveva ogni momento. Zà marzo e otobre per matìo i se somea come pare e fio. E in cafè molemo le ombrele sul ombreler. 'Sto fio del comandante, me ricordo, come mato de esser a Venezia el iera. Sveio: tuto el domandava. Picio el iera. Adesso el xe un toco de marcantonio, più de coss' che iera suo padre. — Lo go visto. 'Sto istà el iera qua. El ga un bonissimo posto a Ravena. — Indiferente. Insoma, in piazza, el padre ghe ga comprà un balon. Rosso, me lo ricordo, come el fogo. Vignimo fora del Flòrian, ciolemo le ombrele, gnanche no le verzemo perchè caminavimo soto le Procuratie e el muleto cori avanti con 'sto balon, e subito gran pianti, gran zighi... Cossa volè, el destin dei baloni xe de svolarghe via de man ai fioi. — Ah, iera quei baloni col fil, che va in alto? — Sì, ma no el xe 'ndà tanto suso, perchè per fortuna ierimo propio soto el portigo dele Procuratie. E 'sto balon se ga fermà in alto sul volto. Nini Lupetina, dovevi vederlo, el ga comincià a saltar su e zò: «Comandante, farò mi...» «Picio, lo ciogo mi. Signora se farà in un momento». Insoma, savè come che se disi: bisogna rispetar el can per el paron. E lu sempre con quela de diventar nostro-omo el se rampiga sula colona. E mi su quel'altra. Anca mi volevo diventar nostro-omo. E 'sto malignazo de Lupetina, per paura che rivo a becarlo mi prima de lu, giusto co' stavo per ciaparlo per el fil, el slonga l'ombrela, e zac! — Zac, el lo ga ciapado lu? — No! Zac, el ga fato s'ciopar el balon. Perchè l'ombrela no iera la sua, iera la mia col ago sul puntal, che 'sto malignazo gaveva fato finta de cior in sbaglio in Cafè Flòrian. Savè: la mia iera de seda gloria, col manigo de malaca. — E el picio? — El picio pianzeva per tuta la piaza. La madre che ghe coreva drio, el padre infotà: «Se merita far vignir a Venezia la famèa!» el biastemava. E Nini Lupetina che lui no saveva, che lui no voleva. Per farvela curta, el viagio dopo iero nostro-omo. Che me competeva, perchè iero più tempo imbarcà de lu. E lu in coverta sempre. Coss'che vol dir qualche volta cambiar un'ombrela... — E la gavè 'ncora 'sta ombrela? — Sì, sì, la go. Ma in sufita, averta... perchè me se ga incantado l'automatico. MALDOBRIA XLII - L'UOMO DI SANSEGO Nella quale si rende onore ai tempi in cui sui vapori dell'AustroAmericana e del Lloyd Austriaco, l'ufficialità curava l'aspetto dell'equipaggio, non solo in camera, ma anche in coperta e in macchina e Bortolo racconta un famoso episodio delle cronache di Dalmazia di cui egli fu testimone nella bella Sebenico. — Savè come che se disi, siora Nina: «L'usel se lo conossi dele piume». E, per mi, l'omo che no xe curado nel pel, come dir barba, mustaci, cavei, ga quel'aria ontolosa e tacadiza che no fa bona impresion. Ben, ve dirò, co' noi ierimo giovini, ierimo semplici maritimi, ma i comandanti del'Austro Americana, dela Libera, del Lloyd, dela Cosulich, dela Navigazion Generale Italiana, guai se un maritimo no iera in ordine coi mustaci e i cavei! Per rispeto, no, anche per el paseger, per la Compagnia. E no solo quei de camera, savè, anche quei de coverta e de machina. — Mio santolo Toni che iera nostro-omo, me ricordo, lu gaveva el fero per i mustaci. — E Barba Nane? Ve ricordè Barba Nane, che el pareva un giudice, co'l iera in zivil. Lui gaveva sempre quela che el diseva: «Vestì un pal e el par un cardinal». — Barba Nane, me ricordo, gaveva un poco l'anda del Arciduca Giovanni Salvatore, quel che se ga perso in mar con tanti chersini, poveri. — Indiferente. Me ricordo mi una volta, iera carneval, e ierimo in porto a Sebenico. I sebenzani fazeva grande feste per carneval. Me par come ieri, che i vendeva anche cartoline ridicole, che se vedeva una bota con quatro imbriaghi dentro e soto iera scrito: «Bòse pomòsi nas, Cristo provedici, noi siamo in tredici senza un soldin. Saluti dalla bella Sebenico». Che gavevimo firmà tuti: mi, el nostroomo Pillepich, el cadeto Giadròssich e Marco Mitis. — Perchè, vù navigavi con Marco Mitis? — No. Con Marco Mitis se rampigavimo sul Monte Magior! Zerto che navigavimo insieme. No ve go contà mile volte? — Domandavo solo. — Indiferente. Ve disevo che ierimo giòvedi grasso. — No gavevi dito. — Bon, ve digo adesso: iera giòvedi grasso e iera el balo dela Dalmatica. — Ma vù no ieri dalmati? — Cossa vol dir? — Eh sì, i dalmati parla cola calada... — Sì, e vù parlè in cresser. Lassème parlar a mi, inveze, lassè che ve conto. Insoma, iera giòvedi grasso e la setimana no se la cucava che sabo. Sabo se tirava la paga quela volta, no come adesso che semo tuti diventai impiegati e bisogna spetar la fin del mese. — Ah, xe vero, de sabo, in antico, se tirava la paga. — Sicuro: «Siamo Stati Sempre Senza Soldi, Solo Sabato Semo Siori» se diseva. E insoma giòvedi, fliche no iera più. E de sera iera 'sto balo dela Dalmatica, e cisto iero. No solo per el balo, ma no gavevo soldi gnanche per el barbier. In tera, savè, perchè a bordo i taiava ala va là che vai bene. E alora, in guera de bon guerier, son andà del Comandante Okrètich, che no ga ocoresto gnanca che parlo. El me ga dito: «Ti vol l'antecipo per andar a fraiar stasera: qua, ciapa dò fiorini, ma de più no, se no sabo oto semo a cope e finirò col darve la paga del Quatordici; perchè ierimo del Tredici quela volta. — El giorno prima? — Machè el giorno prima. L'anno prima. Ierimo del 1913, che anzi, lui propio del '14 el xe stà un dei primi a andar a fondo, povero. «Qua, te dago dò fiorini — el me ga dito — e basta». E cussì no me xe restà che andar a impegnar orologio e cadena se no no me bastava le fliche e per el balo e per el barbier. — Una volta i omini i andava del barbier anche per la barba, adesso inveze ... — Come no? Ogni giorno. Mi, co' iero in tera gavevo l'abonamento che se pagava a setimana. Insoma, vado dentro de 'sto barbier, no propio in riva, savè là su per la scala che porta al Domo? — No, no iero mai a Sebenico. — Meza vita persa, diseva sempre Barba Nane: «Chi no iera a Sebenico no vi conto e non vi dico». Insoma, vado dentro de 'sto barbier: pien de maritimi, 'sti istriani, 'sti piranesi. Ve go dito, iera balo quela sera. Me sento a spetar. Legevo un giornal de Zara e vien dentro un maritimo con un picio per man. «Istesso 'ssai gente xe, istesso — el disi — ma istesso speteremo». Sansegoto el doveva esser, mi go calcolà de come che el parlava. El se senta là a spetar, con 'sto picolo sui zenoci, un putel de sete, oto anni. E el ghe fazeva sula man, savè quel che se ghe fa ale crature: «Ghìrin ghìrin gaia, Martin xe sula paia, paia paiuza, ciàpite una s'ciafuza!» Tuti un rider. Insoma prima me toca a mi, i comincia a farme i cavei e po', co' se delibera l'altra poltrona, disi 'sto qua de Sansego: «Bon, feme prima a mi, che go furia, e dopo farè el picolo». — Anche mio padre defonto portava sempre, lui, mio fradel defonto de Zago barbier, defonto. — Requiem eterna e lassème contar. Insoma, ve disevo, 'sto sansegoto se senta e el ghe disi: «Barba e cavei», po' el fero per i mustaci, la frizion, se el vol profumo: profumo! Zipria sul colo, insoma completo. Co'l ga finì, el se alza, el meti la cratura sul caregon, el ghe disi: «Feghe i cavei cola franzeta che intanto mi vado». — E el xe andà fora intanto che i ghe fazeva al picolo? — Sicuro. E 'sto muleto bon, savè, che i muleti qualche volta fa pantomine, perchè i xe fastidiosi, no i ga pazienza. Inveze bon, el ga lassà che i ghe fazzi ben cola franzeta davanti, in perder de drio, e dopo el barbier ghe ga dito: «Adesso picolo speta qua», el lo ga fato sentar su un scagneto e el ghe ga dà de guardar pupoli de soldai. Mi iero zà lesto che 'sto omo no iera ancora vignù a ciorlo. Bel picolo iera, cussì sui oto, nove anni. E intanto che me metevo suso l'inzerada, sento el barbier che ghe disi ai muleto: «No sta gaver paura, picolo, papà tornerà presto a ciorte». E 'sto picolo ghe disi: «Che papà?» «Papà che iera con ti, no?» — ghe disi el barbier... «Ma quel no xe mio papà» — disi el picolo. «E chi el te xe? El zio?» «No — el disi — no el me xe zio. Xe un signor che go incontrà qua fora sule scale del Domo e che el me ga ciapà per man e el me ga dito: «Vien picolo con mi, che andemo a farse taiar i cavei a gratis». E po' i vol dir che i sansegoti xe moni, siora Nina. MALDOBRIA XLIII - L' IMPORTANZA DI CHIAMARSI DÙNDORA Nella quale Bortolo, nel rievocare l'arrivo di uno storico telegramma, apre una parentesi sulla parte determinante avuta dalle Nautiche nello sviluppo economico e civile delle isole dei Lussini e narra le vicende del Comandante e del Nostromo Dùndora, uomini di uguale cognome, ma di indole ben diversa. —Disè coss' che volè, sior Bortolo, ma mi go quela che co' vedo rivar un telegrama me fa palpitazion, come. — Ben, una volta forsi el telegrama iera qualcossa. Me ricordo mio povero padre defonto che el diseva sempre: «Co' riva un telegrama el più dele volte xe che qualchedun ga fato la fin del pedocio sul petine fisso». — Eh, sior Bortolo, co' se ga gente per mar, xe sempre el pensier: Dio guardi un pìe in falo, una stiva, un bozzel in testa ... — Ma cossa, no gavè altro de pensar? — Ve digo, sior Bortolo, che a mi co' riva un telegrama me fa palpitazion. — Uh, no ocori miga saltar in aria come el diavolo in fiasca. Cossa gavessi fato vù, se ieri come mi quela volta in Governo Maritimo co' xe passà telegrama che l'Austria ghe ga intimà guera ala Serbia? Vardè, siora Nina, xe passai zinquanta anni e passa, e ancora me vedo el povero piloto Bogdànovich che xe vignù dentro, el ga pozà la bareta de montura sul scritorio, el xe sta zito un momento, e po' el ga dito... — Cossa el ga dito? — El ga dito: «Xe passà telegrama che l'Austria ghe ga intimà guera ala Serbia». — Quel'altra guera? — Per forza. Se iera quela guera che l'Austria ghe ga intimà guera ala Serbia, iera quela guera là, no un'altra. Però i maritimi usava assai. — Intimar? — Machè intimar! Usava assai telegrami. — Per forza. Co' se va per mar, Dio guardi un pìe in falo, una stiva, un bozzel in testa. — Ma dài, siora Nina, ogi no gavè per la testa che bozzei in testa. Intendevo dir che i usava assai telegrama per dir «Arrivati bene», «Siamo a Lorenzo Marques», «Vènerdi siamo a Bòmbay», per aver la posta, no? Opur no so: «Tre giorni Venezia», alora la moglie andava coi fioi. Usava una volta cussì i maritimi. Che anzi Barba Nane me diseva sempre: «Telegrafè co' rivè, no stè far star in pensier vostra povera madre». — Oh anche mi, co' navigava mio marì! Spetavo, spetavo, e istesso me fazeva impression ciapar telegrama. — Se so: Dio guardi un pìe in falo, una stiva, un bozzel in testa. Una volta, me ricordo, adesso che se parla de telegrami... conossevi vù el Comandante Dùndora? — Mi gavevo sentì parlar de un nostro-omo Dùndora. — Spetè. Come no? Iera un Comandante Dùndora e un nostroomo Dùndora. El Comandante gaveva fato le Nautiche a Lussin. Vardè voi cossa che no ga avù Lussin co' ga avù le Nautiche! — Perchè, cossa ga avù? — Volevo dir, giusto che se parla de questo, che Lussin ga avù una gran roba cole Nautiche. Me contava, savè, el Comandante Brazzànovich che una volta iera a Lussin l'Arciduca Francesco Salvatore, me par — o cussì un — e xe andada de lu la Deputazion dela Comun, come che se usava. E lui ga dito: «Che cosa si può fare per questa bela isola?» E lori ghe ga dito: «Le Nautiche». E cussì cole Nautiche lori ga avù i capitani, i capimachinisti, i armatori e tuto. Vardè vù, per esempio, Cherso e Lussin. Dò isole tacade; e ben: tuto un'altra roba. E savè perchè? Perchè Lussin gaveva le Nautiche. Solo per quel. Gnente altro. — Eh, ma Lussin gaveva anche el squero. — E perchè gaveva el squero? Perchè gaveva le Nautiche. Bon, indiferente. Una gran roba xe le Nautiche. Ma ve disevo che iera 'sto Comandante Dùndora e 'sto nostro-omo Dùndora. — Parenti? — No. Oh Dio, lontanamente, qua se xe sempre un poco parenti. Ma no i gaveva gnente de far un col altro. 'Sto nostro-omo Dùndora ve iera un fiolduncan. No pareva, savè. Anzi el gaveva un viso, cussì, de santificetur. Sua moglie meteva le man sul fogo per lu. Inveze a mi i me diseva che co'l iera in viagio, no ve digo, no ve conto per tuti i porti coss' che lu no fazeva... — El beveva? — Ben, quel tuti. Ma lu, quel e altro! Insoma, pace all' anima sua. Ma Barba Nane me diseva sempre. «Quel Dùndora el buta zinque e el leva sie. Un giorno o l'altro i ghe cava la matricola. E po', i disi anche che anni fa, a Zara el xe stà sicuro de no andar soto le carrozze per bastanza tempo.» — Come sicuro de no andar soto le carrozze? — Ma sì, dài, i lo gaveva messo soto ciave, in canon. Lui, inveze, ghe gaveva dito ala moglie che el iera in ospidal. Povera dona, coss' che no'l ghe ga fato passar! — Eh, qualche volta nele case xe robe che no se sa. — Dùndora el Comandante, inveze, ve iera tuto un altro omo. Lui portava a casa anche cole orece. No iera porto che no'l mandassi telegrama. Epur sua moglie gaveva sempre de rugnarghe qualcossa. Vardè vù, come che xe le robe qualche volta! — Eh, qualche volta xe meo no saver quel che xe nele case. — Indiferente. Insoma, un giorno 'sto nostro-omo Dùndora el torna a casa coi oci un poco infoscadi. Sua moglie ghe vedi subito che el ga i oci un poco infoscadi e la ghe fa: «Cossa ti ga, Dùndora?» Savè come che iera l'uso una volta tra marì e moglie de ciamarse per cognome. Indiferente. Ve digo che el rìva a casa coi oci un poco infoscadi. «Coss'ti ga, Dùndora?» Che gnente! «Misurite, giusto cussì per curiosità». Trentaoto e oto. De note mal, mal, mal. Siora Nina: el xe andà. — De un colpo? — No, rissipola i diseva. Mi credo inveze che iera febre scarlatina. Quela, co' la ghe vien ai grandi, xe finì. Gnente: insoma funeral, tuto ben. Ela in nero, in profondo luto la se ga messo. — E i gaveva fioi, povera dona? — No, no i gaveva fioi. Insoma la iera là cola comare, con 'ste vizine. Che no la se capacitava gnanche. Tuti saveva che bon rosto che el iera lu. Ma là, di fronte ala Morte ... — Quel vedè xe el bel, sior Bortolo. Che dopo se se ricorda solo el ben. — El Comandante Dùndora, inveze ... — Che no iera morto? — Che morto? Morto iera el nostro-omo. El Comandante Dùndora, che fazeva la linia de Sudafrica, iera rivado giusto quel giorno a Dar es Salam. — Cossa el iera rivà a dar? — Ma cossa gavè capì? El iera arivado a Dar Es Salam, che xe un porto: el più grando porto del Tanganika. Africa equatoriale. Che là suda anche i mussati. Lu, come sempre, omo preciso, el ghe fa el telegrama ala moglie. E, capì, sicome in paese iera Dùndora un, Dùndora l'altro, el postier ga pensà che el telegrama iera per la moglie del nostro-omo, che ghe rivava tanti de condoglianza. — Ahn! — Insoma 'sta qua iera a casa cola comare e le vizine, subito dopo el funeral. El postier vien dentro, el ghe disi: «Nìniza, ve xe un altro telegrama». «Grazie, Nadalin». E la verzi 'sto telegrama. Siora Nina, savè cossa che iera scrito? — No. — Siora Nina, iera scrito: «Arivato bene. Caldo insopportabile. Dùndora». Savè no, come che iera l'uso una volta tra marì e moglie de ciamarse per cognome... MALDOBRIA XLIV - UN VASO DI CHINA Nella quale si racconta dei vasi di porcellana che i marittimi portavano dalla China, di uno che andò rotto, delle masiere del fondo della Signorina Politeo e di quel che accadde a Bortolo, mentre la Signora Resi era andata alla Fiera di Sant'Isidoro. — Una volta, siora Nina, i maritimi portava: ve ricordè, per esempio, quei bei vasi che i portava de China? — Come no: mio padre, povero, me gaveva portà de Kobe un dò vasi de China bellissimi. Adesso uno go mi sul comò in camera de leto e uno ga mia sorela. Per memoria de papà gavemo tignù un per omo. — Un per dona, dei. E cossa, de Kobe el ve gaveva portà vasi de China? No savè che Kobe xe in Giapon? Mi iero a Kobe. Come che se riva, xe una passegiata belissima. Tuta in giro del porto: la Cornìs, ghe diseva i maritimi... Cossa che no iera Kobe! Ma là xe altri vasi, xe vasi giaponesi. Quei de China xe quei che val. Xe zerti vasi de China che ogi pol valer milioni. — Noi gavevimo de China anche un servizio de tè, de vintiquatro. Ma xe roba assai delicata: xe andà roto quasi tuto. Gavemo solo quatro cichere: dò go mi... — ... e dò ga vostra sorela, per memoria de vostro povero padre de Kobe. Mi go portà tanta roba de China, siora Nina! Barba Nane me diseva sempre: «Vù portè tanta roba de China in tera, che ve traperà la Finanza». — Barba Nane gaveva un vaso de China grandioso in tinelo. Col drago, lilla, me ricordo. Chissà a chi ghe ga lassà Barba Nane quel vaso? — Ala Cesa el ghe lo ga lassà. E el nònzolo lo ga roto, quel sempio, quel che diseva sempre, co' el iera bevù: «El padre me xe paroco a Zara». — Chi? Serenelo, man de puina? — Lu, po'. Chi altro? Per cossa i lo ciamava «man de puina»? Eh, i vasi de China ghe vol star atenti! Me ricordo mi una volta ... — Gavè roto un vaso? — Mi no. La putela. — Chi, vostra fia? — Machè mia fia! La putela che fazevo l'amor quela volta. — E chi iera? — Ben, adesso se pol dir. Iera la fia de siora Resi, quela che gaveva botega. — Nevina? — Sì, Nevina! Nevona, adesso! Se incontravimo sempre co' mi tornavo del squero. Insoma se parlavimo: per forza, savè come che se disi «Chi che se ama, se incontra». E noi se incontravimo. Un poco perchè se amavimo, e un poco perchè volevimo incontrarse. Mi dovevo giusto partir per militar ... — «Amor de soldà el dura un'ora: dove che el va el trova una siora»! — Ma mi no iero ancora soldà. Iero de leva. E siora Resi dela botega no vedeva tanto de bon ocio 'sta roba. La diseva che son senza arte nè parte. Savè gavevimo apena perso la barca quela volta. — Eh, siora Resi iera signoreta. Lori gaveva botega, mulin, torcio. — E arie! Assai arie! Una sera passo davanti la casa, là dela fontana. E mi tiro drito per no aver ciacole. E Nevina vien fora dela porta col secio e la me fa de moto. E la me conta che la madre ghe xe andada col vapor ala Fiera de San Sidoro. Mi ghe iuto a portar el secio in casa e, qua, là, una roba l'altra; siora Nina, chi se ama se brama, no? Ma gnente de mal, savè! Quela volta no se fazeva 'ste maldobrìe che i fa 'desso. Fato si è che ela me disi: «Dài, dài, che la finestra xe averta». Iera istà. E la tira el cordon de la coltrina. Me ricordo sempre 'sta coltrina. — Eeh, siora Resi gaveva coltrine tute col ajùr. Che bele coltrine che gaveva siora Resi! — Indiferente. Fato si è che, come che la tira la coltrina, patapùnfete el vaso. — Che vaso? — El vaso de China che iera sul sburto. El xe cascado in cortivo: zento tochi. Un toco un poco più grando e el resto fregole. — Mama mia! — Mama sua, ara! — La se ga rabiado? — Spetè, spetè. Insoma Nevlna me disi che a 'sto vaso, sua madre ghe tigniva più de no so cossa. Che iera un regalo de riguardo, una roba e l'altra. Come che la farà. Che sua madre torna dela Fiera de San Sidoro col vapor de domenica, che ela no ga coragio de dirghe. Insoma, disperada. — Eh, xe delicata la roba de China. Noi gavevimo vintiquatro... — ... sì, e adesso gavè quatro cichere per memoria. Mi inveze quela volta me xe vignù come un lampo! Ve ricordè la sorela del maestro Politeo? — Uh! La signorina Politeo, come no? Puta vecia. Quela che stava nela casa del vecio Politeo, che inveze lui, el maestro, iera andà a star nela casa de sua moglie. Veramente del padre de sua moglie, quel che i ultimi anni iera andà in dolze. — Sì, d'acordo: ela, la sorela del maestro Politeo. La stava sola e la me ciamava sempre per qualche lavoreto. No so, taiarghe le vide dela pergola, cambiarghe i cerci ale bote, piturarghe i scuri. Insoma 'ste robe. E po' sofistica: gnente no ghe andava ben. Che quel iera tropo verde, che ghe vol darge ancora una man. A farvela curta, me gavevo stufà. E po' iera setimane che la me tazava l'anima che ghe meto a posto le masiere nel fondo. — Ah, el fondo Politeo. Che bel che iera! I gaveva ulivi lori, tante piante. — Sì, ma iera assai trascurà. Ghe andava dentro le cavre, le piègore, perchè iera tute le masiere per tera. Insoma, però, siora Nina savè cossa che vol dir meter su masiere: xe pezo che far un muro de matoni, go sempre dito mi. — Ghe vol arte. I Cici xe bravi de far masiere. — Sì, i Cici. Bortolo iera bravo de far masiere. Ma no 'lgaveva voia. Ve go contà questo per dirve che vardando el toco grando del vaso de China de siora Resi che se gaveva roto, me xe subito vignù in amente che la sorela del maestro Politeo gaveva due vasi compagni sula napa, in cusina. Compagni de quel che iera andà roto. «Bon — ghe digo — Nevina, ti sta tranquila, no sta pensar, no gaver pensier, ti prima de domenica ti gaverà un vaso preciso». — E sè andà a robarghelo ala sorela del maestro Politeo? — Machè robarghe. Mi no go mai robà. Gnente, son andà a dirghe: «Signorina» — ela ghe tigniva a 'sto «signorina» e la iera che la podeva esser mia madre. «Signorina — ghe digo — son vignù per le masiere». Alora la me disi: «Come se comodemo? Ve dago un tanto per giornata, o femo a metro de muro?» «Ma signorina — ghe digo mi — se comoderemo, no stè pensar, no faremo barufa». — Eh, la iera strenta. Ma i gaveva, savè, i gaveva lori. — Indiferente. Iera màrtedi e go tacà subito. Siora Nina, savè coss' che xe far masiere: sangue dele man. De sera, co' tornavo sfinì zò del fondo Politeo, Nevina me domandava «E 'sto vaso? Mia mama torna domenica!» «No sta pensar, no gaver pensier, ti ti gaverà ei tuo vaso». Sabo de sera go finì le masiere. — Màrtedi, mèrcoledi, giòvedi, vènere e sabo: zinque giorni gavè lavorà! — Lavorà? Scanà me go! Iera come la Todt dei tedeschi! Insoma sabo, no sarà stà gnanche l'Angelus ancora, torno zò del fondo e vado in casa dela Politeo. «Signorina — ghe digo, ci facio — mi gavessi finì. Adesso gavè masiere che no ve vignirà dentro più cavre, più piegore e gnanca mussi». «Benon — la fa ela — andemo veder». E la vien veder. Sofistica la iera, però devo dir, no la ga trovà gnente de dir. «Bele — la ga dito — gnanche a Lesina no xe più bele masiere!» Ela gran Lesina ghe iera l'oracolo, perchè sua madre iera de Lesina. «E alora come se comodemo?» la me domanda. — Ah, perchè no ve gavevi ancora comodà? — Ma siora Nina, perchè gavevo fato le masiere? Mi volevo el vaso, no? «Signorina Politeo — ghe digo — stavolta ve costa poco o gnente. Un matìo che me xe vignù, perchè mi volessi far un regalo. Se me darii un de quei vasi de China che gavè sula napa». «Oh — la disi — tanto volentieri Bortolo...». — Ah! La ve lo ga dàdo! — Ma spetè: «Uh, tanto volentieri, Bortolo, con tuta l'anima, ma uno el me se ga roto ancora per Pasqua». «E vù dème quel altro» — ghe digo mi — E ela: «Uh, tanto volentieri, Bortolo, con tuta l'anima, ma quel altro, visto che no gavevo più el per, ghe lo go regalado a siora Resi dela botega». — Mama mia, che truco! E alora per le masiere nove quanto la ve ga dà? — Gnente no la me ga dà. Perchè la ga dito: «L'omo che biastema, no voio aver afari con lu!» MALDOBRIA XLV - I LIPIZZANI DELL'ARCIDUCA Nella quale Bortolo racconta di quando con Marco Mitis, un czeko e un polacco di Leopoli, che veniva chiamato Bucalowski, era addetto ai quattro cavalli lipizzani del Reggimento personale dell'Arciduca Francesco Ferdinando, di un imprevisto abigeato e dei drammatici eventi che, subito dopo, ne seguirono. — Auto? Chi no ga auto ogi, siora Nina? No xe miga come gaver carozza e cavai. L'auto pol gaverla anche un de bassa forza. Ma una volta el parecio coi cavai, qua gaveva solo l'avocato Miagòstovich, e i Prohàska, co' i vigniva. Barba Nane, povero, diseva sempre: «Mi gaverò cavai solo per el funeral». — Eh però Barba Nane ga avù un bel funeral. — I bei funerai xe l'unica roba che no invidio, siora Nina. E po' adesso gnanche quei no i li fa più coi cavai. E xe pecà, perchè el caval assai ghe dà anda: un militar a caval, soto la Defonta iera qualcossa. E mi go visto, savè, cavai. Anche lipizzani: quei che l'Austria tigniva per parada. — Ma se i xe ancora. Mi iero una volta in pelegrinagio ala Madona de Lipizza. — Ma questi xe lipizzani de adesso. Quei de una volta i iera veri lipizzani. Bianchi, bei. Pensè che Francesco Ferdinando gaveva dà proprio ordine, befèl, che ogni regimento doveva gaver quatro lipizzani per ogni evenienza: visite de regnanti, titolati, festa del Imperator. — Per le carozze? — Che carozze! I lipizzani iera cavai de parada, de figura! Figureve che mi con Marco Mitis, un czeko e un de Leopoli, che noi ghe disevimo Bucalowski, chissà dove che el ga finì, ierimo militari de leva in Moravia e gavevimo solo quel incarico là. — Qual incarico là? — Quel de tènder 'sti quatro lipizzani del nostro regimento. Infanterie Reghiment, fanteria, ma però quatro lipizzani doveva esser sempre pronti. Ierimo a Brunn che adesso i ghe ciama Brno e Francesco Ferdinando iera proprio comandante onorario del regimento. — Ma chi iera 'sto Francesco Ferdinando? — El peck de Buie iera! Ma dài, siora Nina! Francesco Ferdinando, l'erede presuntivo al trono dela Duplice. — Aah! Francesco Ferdinando! — Eh, savè come che iera in Austria. Là anche el più grando dei grandi gaveva el propio regimento. E el nostro iera el suo. — De Francesco Ferdinando? — Sicuro. Insoma, 'sto nostro regimento gaveva due quartieri. — Quartieri per star? — Sì: camera, camerin e cusina! Siora Nina, quartieri dove che ierimo de stanza. Un iera a Brùnn, e quel altro iera a Pilsen. E tignivimo dò lipizzani a Brunn e dò a Pilsen ... — Pilsen? La bira? — Sicuro, propio là i fa la bira. E che bira, siora Nina! E xe stà propio causa dèla bira. Dunque dovè saver che a Pilsen ierimo mi e Marco Mitis con dò lipizzani e i altri dò iera a Brunn con 'sto czeco e Bucalowski. Chissà dove el sarà andà a finir. Un toco de mato. — E stavi tuto el giorno a tènder i lipizzani? — Sì, ma de sera ierimo franchi. Co' i cavai dormiva, che po' no xe miga vero, savè, che i cavai dormi in pìe: li go visti mi colegadi sula paia, come cristiani. Insoma una sera semo fora, e in bireria trovemo quatro de lori de un circo. Circo Klunski. Iera un dei primi circhi del mondo. E una roba e l'altra, un stifel drio l'altro, noi ghe gavemo tuto contà de 'sti lipizzani. Addestrati. Pensè che a uno de 'sti quatro, ma no de quei che tendevimo mi e Marco Mitis, i ghe gaveva imparà che co' el sentiva el nome del Imperator, el se alzava sule zate de drio. Bastava dir Franz Josef, e su lu! — I ghe gaveva imparado? — Sicuro, a Viena i ghe imparava 'ste robe ala Spanische Schule. No a tuti, ale bestie più inteligenti. Per farvela curta, quela sera gavemo ciapado una bala de bira che no ve digo. E no i pol esser stadi che lori. No se ga mai savesto, ma mi go sempre dito che no i podeva esser stadi altro che lori. — Ma chi? Cossa? — Siora Nina, i ne ga robà i lipizzani. Quela note istessa. E el giorno dopo el circo, chi lo ga visto? E i cavai, sparidi. — Tuti quatro? — Ma no tuti quatro! Quei nostri dò che tendevimo a Pilsen! — Mama mia! E come gavè fato? — Gnente ah! Semo andadi a Brùnn per ferovia, del nostro capitano, un bon omo, che però se ga rabià come una belva. Penseve che, come dopodomani, doveva arivar Francesco Ferdinando a Pilsen. Cossa che femo? Che se lui no trova i cavai, lui xe capaze de farne passar tuti quanti soto Tribunal militar. — Mama mia! Corte marzial! — Sicuro. Ma mi me xe vignuda l'impensada e ghe go dito: «Signor Capitano, sa cosa che fiamo? Intanto i cavali de Brùnn li femo andare a Pilsen cola ferata, dopo vedremo, zercheremo... ne faremo mandare altri dò». E lu, che sicuro, che no resta altro de fare. E cussì gavemo fato. — Cussì, come? — Cussì che noi gavemo portado i cavai de Brunn a Pilsen per ferovia. E la matina co' xe vignuda l'ispezion, col Arciduca, no ve digo coss' che iera, i iera là, bei, pronti, lustri, con noi e el capitano vizin. 'Sto Francesco Ferdinando li ga vardai: tuto ben, el gaveva dò mustaci de fero compagni, e el ga fato anche un discorso, che a un certo punto el ga dito: «Sua Maestà Apostolica Francesco Giuseppe», Franz Josef, insoma per tedesco. E un de 'sti dò lipizzani — quel che saveva — se ga subito alzà sule zate de drio, che xe stà propio un spetacolo. 'Sto Francesco Ferdinando no voleva quasi gnanche creder, ma el nostro capitano ghe ga spiegado, e alora lui xe vignù vizin, el ga dito un dò, tre volte «Franz Josef» e el caval sempre su che se alzava. — Alora xe 'ndà ben? — Pareva. Ma la sera ne riva el capitano e el disi. «Siamo rovinati. Sua Altezza Imperiale vuol fare l'ispezione anche a Brunn, domani mattina». — Jesus Maria! E voi, cossa gavè fato? — Siora Nina: l'unica roba che restava de far: de note gavemo carigado i dò lipizzani in vagon dela ferovia, e via a Brunn con lori. E la matina iera tuto a posto. Iera i dò lipizzani, in manegio, col czeko e con quel Bucalowski, che ghe disevimo noi. Tuto in ordine. — E no'l se ga inacorto? — No. Savè, i lipizzani xe cavai de razza, tuti compagni. Ma giusto in quela che Francesco Ferdinando stava andando via, riva dentro un corrier a caval, tuto sudà, el smonta zò, el se presenta al Arciduca e el ghe disi : «Altezza Imperiale ho un messaggio per Vostra Altezza Imperiale di Sua Maestà Apostolica Francesco Giuseppe». E 'sto malignazo caval de Lipizza, co' el senti «Franz Josef», no'l se alza in pìe sule zate de drio? — Mama mia! E cussì el se ga inacorto! — Sicuro. Iera de tremar coss' che el zigava: «Prozess! Militèr Prozess!» El zigava. — E sè 'ndai soto Corte marzial? — Dovevimo. Ma in quel messagio de Francesco Giuseppe iera scrito: «Altezza Imperiale, partite immediatamente per Sarajevo». Cussì dopo xe andà tuto in gnente. MALDOBRIA XLVI - LA MONTURA BIANCA Nella quale Bortolo porta un prezioso contributo al discorso sul tema dell'instabilità dell'umana ragione, illustrando l'impresa fiumana falsamente attribuita al Comandante Prohaska e in realtà compiuta da altri, ma che tuttavia prelude a una gesta gloriosa. — Zerto che se un ghe beca i zinque minuti, tuto pol nasser, Siora Nina. Ve ricordè «Martin Zinque Minuti?» — Chi, sior Bortolo, quel che ghe ciapava i zinque minuti? — No, i diese ghe ciapava! Per cossa i lo ciamava cussì? Perchè ghe becava i zinque minuti. Iera un omo bon, ma ogni tanto ghe becava. Ognidun de noi, però, ga el suo rameto de matìo. — Eh, ghe xe mati che xe savi e ghe xe savi che xe mati. — Per forza! Me ricordo mi, co' viagiavo per el Sudamerica col Comandante Prohàska. — Quel dela Vila Prohàska? — Ma no, quei iera altri, iera tanti Prohàska. Lori iera czechi de origine. E me ricordo mi che una volta semo andadi a Buenos Aires. E là iera un frenocomio, ma grando, savè, più grando del Ospidal de Trieste. E sora iera scrito: «No es todos quelos che son, no es todos quelos che stan...». — Quelo che stan? Cossa iera? — Ma dài, siora Nina: xe argentin. Che voleria dir che no tuti quei che xe mati xe dentro, e no tuti quei che xe dentro xe mati. — E perchè no i li mola? — Ma siora Nina, xe per dir, no! Perchè l'omo, xe fato cussì, no: ognidun ga el suo rameto de matìo. Anche 'sto Comandante Prohàska, per esempio, iera un estroso che no ve digo! Lui stava a Fiume... — Perchè? No'l gaveria dovù? — Come, no'l gaveria dovù? Ve disevo che el stava a Fiume, no. Solo el iera, gnanche sposà. Un estroso! El stava propio in riva, nela casa tacada del Governo Maritimo. Quela volta viagiavimo per el Sudamerica, col «Jùpiter», mi iero giovine, savè, ve parlo ancora de prima dela prima guera. Iero giovine de camera e co' ierimo a Fiume, sicome 'sto Comandante Prohàska no'l gaveva famiglia, no'l gaveva nissun, cole sorele el iera in còlera... — Quele dela Vila Prohàska? — Ma se ve go dito de no! Che quei iera altri Prohàska. Se queste iera sue sorele, iera altre. Insoma, sicome che no'l gaveva nissun, el me cioleva in casa a mi, per lavarghe, stirarghe, disbratar. Bonissimo omo. ve go dito: solo estroso. Per esempio el gaveva la manìa dela montura. Savè, mi gavevo savesto che lu prima iera in Marina de Guera. Po' el iera cascà in stiva e ghe iera restà un poco el pìe ofeso, e cussì dopo el iera passà sula Marina Mercantil. — Ma in montura de guera? — Ma noo! Ghe iera restà quela ambizion dela montura, no? Che ga quei dela Marina de Guera. Savè, quela volta, no iera miga come adesso. Iera Ka und Ka Krigsmarine. Iera tuto «Abtàt», tuto coi fis'cioti che i se ciamava a bordo. — Ahn! — No steme interomper. Ve disevo che 'sto omo gaveva l'ambizion dele monture. El voleva el coleto coi becheti cussì e cussì. La montura bianca, guai se fazeva una pieta. Perchè, savè, noi dovevimo portarse dopia roba co' viagiavimo per el Sudamerica. — Eh, xe lontan. Mi gavevo un zio... — Indiferente quanto che xe lontan. Xe che quando che de noi xe inverno, là xe istà. E tuti dovevimo portar per mezo viagio le monture de inverno e per mezo viagio le monture de istà. — Ma là, quando che de noi xe giorno, xe note? — Questo no ghe entra. Insoma me ricordo un giorno: semo a Fiume, inverno crudo, iera una bora! I vol dir a Trieste: a Fiume xe bora! — Sì, sì: mi go sentì dir che la bora la nassi a Lubiana, a Fiume la se sposa e a Trieste la mori. — Indiferente. Fato sì è che ierimo pronti per el viagio, che gavevimo de partir el giorno dopo, e ghe dovevo stirar la montura de istà. Ierimo a casa sua. E ve go dito: lu iera un omo estroso. El dormiva de giorno e de note sempre sul ponte. El diseva sempre: «Di giorno qualunque man, di note el capitan». Cussì el diseva. Estroso. Insoma, sarà stà undici ore de matina, lu dormiva, e mi ghe stiravo la montura bianca. La me iera vignuda propio ben. De lin se usava quela volta. Xe difizile sopressar el lin. — Eh, el lin no tien la pieta. — Se ghe meteva una punta de cola quela volta. Me gaveva insegnà un chinese, lavander del Lloyd. Bon, ghe la stiro, la me iera vignuda propio ben. No volè che me vegni quel'idea? — De incolarla? — Ma no, siora Nina. De provarme la montura. —Vù, la montura del Comandante? — Mi, sì. Volevo veder come che stavo in montura de comandante. Giovine iero. E po' savè come che xe: l'omo ga 'sti estri. — Ah, ve gavè provà la montura sua de lu? — Sicuro. La me iera un fiatin larga, ma cussì incolada la me cascava ben. Me gavevo messo anche in testa la bareta col'ongia e cussì me saludavo davanti el specio. Giovinoto ah! Ve parlo de prima dela prima guera. E in quela sento che sona la tromba. — Del militar? — Ma no. Dele scovazze. Quela volta iera l'uso in città che co' vigniva i scovazzini, i sonava la tromba. E alora bisognava portar fora el scovazzon. — In porton? — No, fora sule scale. Dopo vigniva su i scovazzini a svodarlo nel saco. — Ah, comodo! — Insoma, sento sonar 'sta tromba, ciogo el scovazzon, cussì cola montura come che iero, cola bareta in testa, e porto fora el scovazzon. Lasso la porta in sfesa e patapàn. Bora iera, ve go dito. No me se sera la porta col scroc? — No la ve se sera? — Ma sì. La me se sera. Patapùm. Colpo de bora. E mi no ve digo, no ve conto: iero intrigado, perchè iero vestì de capitano, sule scale, coi scovazzini che vegniva su e senza ciave dela porta. — Ah, ieri restà serà fora! Anche mi me ricordo una volta... — Indiferente. Capì: gavessi podù sonarghe, lui iera dentro che el dormiva, ma guai. Prima de tuto el se gaveria rabià come una bestia che lo go sveià, e po' se ghe comparivo davanti cola sua montura, iera la vera volta che el me fazeva cavar la matricola, come che me diseva sempre Barba Nane. — Mama mia! E alora? — E alora go pensà che l'unica iera andar dentro per el pergolo. El quartier iera in ultimo pian. Go pensà: vado fora per la finestra dela sufita, salto sula teraza del Governo Maritimo e de là me calo in pergolo. Iera quasi tacà: iera una calisela in mezo, de gnente. Me capì? — No. — Indiferente. Iera cussì. Alora son andà fora del abaìn, son saltà sula teraza del Governo Maritimo e là go visto che iera più grave de quel che pensavo. — Perchè el pergolo iera lontan? — No tanto, ma iera tuto sporco de fumo, perchè là iera i camini e go pensà: qua rovino la montura bianca apena stirada. E alora, in guera de bon guerier, co' se se nega se se guanta anche sui rasadori, savè coss'che go fato? — No. — Me go spoià. — Nudo? — Machè nudo: son restà in maia e mudande longhe, come che se doprava quela volta. Un fredo! Perchè ve go dito che iera una bora! Fazo un pacheto ben dela montura e zerco una corda per calarlo zò in pergolo. Cossa volè! Sui teti xe sempre corde per la biancheria, ma là iera Governo Maritimo e iera solo la corda dela bandiera. — Bandiera del Governo Maritimo? — Sicuro. Bandiera austro-ungarica, che me ga tocà tirarla zò per cior la corda e ligar la montura. Un fredo, ma un fredo, che go dovesto involtizarme cola bandiera. Prima zò el paco e dopo zò mi. — E no ve ga visto nissun dela strada? — Come no? Tuti. Solo che mi no me gavevo inacorto. Iera — dopo go savesto — tuti in contrada che diseva: «Vardè el Comandante Prohàska, vestì in montura bianca, che se spoia sul teto, se involtizza nela bandiera e salta per i pergoli». — Aah, perchè lori credeva che vù fussi el Comandante Prohàska? — Sicuro! Cossa volè, dela strada pareva. Insoma, per farvela curta, siora Nina, i ga ciamado quei del frenocomio. — Ah, perchè i credeva che el fussi diventà mato? — Eh, estroso come che el iera! Fato sta che de là un poco i ne sona la campanela. Me ricordo che iera ancora de quele cola girandola. Mi intanto me gavevo tuto cambià. Averzo. E i me disi: «El Comandante?» Mi ghe digo: «El Comandante dormi». Come, che el dormi, che i lo ga visto che el salta per i copi. Mi no, che el dormi. Un gheto, una confusion. Finchè salta fora el Comandante Prohàska de camera sua, in maia e mudande longhe come che se usava quela volta, tuto insonolì, coi cavei impiradi, e el comincia a zigar, a dir parole. Siora Nina: dito fato, i lo ga guantà e i ghe ga messo la camisa de forza. E che storie che el ga avù prima che i lo moli, perchè el dotor del frenocomio diseva: «El mato se lo conossi co'l vol esser savio». — E el se ga rabià con vù? — Rabià? El me ga dito: «Fin che no mori el Comandante Prohàska, ti no ti navighi altro!» — E dopo el xe morto? — Come no? Durante la guera. Co' i ghe ga silurà la «Viribus Unitis». I me ga dito che el xe andà a fondo saludando, tuto involtizà nela bandiera. Un estroso el iera. MALDOBRIA XLVII - IL PONTE DI GALATA Nella quale si parla della famosa cartomante di Gàlata in Costantinopoli che godeva di grande reputazione presso il Comandante Brazzànovich nonchè di un fortuito incontro sul Bosforo che ebbe in seguito influssi quanto mai benefici sull'esistenza di Bortolo. — Vardè, vardè la mia man, siora Nina: man che tuti resta stupìdi a vardarla! Una linia dela vita che la me riva fina ala pieta del còmio. Salute, devo dir, no me ga mai mancà. Però tuto quel che i me diseva — soldi, facoltà, barca mia, carozza e cavai — quel gnente. Zà mi, per la fortuna, son un de quei, mi credo, che se me metessi a fabricar barete de montura, i maritimi nasseria senza testa. — E mi? E mio marì? Lu po', ghe digo sempre: «Nicolò — ghe digo — ti no ti ciaperìa el levro gnanche se el fussi ligà». E inveze a lu una butacarte una volta ghe gaveva dito ... — Indiferente. Dovè saver che una volta a Costantinopoli — sarà stà del Dòdese — iera una butacarte nominada che no ve digo. Assai nominada. A Gàlata. La parlava italian propio franco. Zà a Gàlata i parla tuto. Tuto: qualunque roba. — A Costantinopoli? — No, a Galipoli. — Ah, a Galipoli. — Machè Galipoli! Se ve conto de Costantinopoli, sarà de Costantinopoli. Bon, Quela volta navigavo col Comandante Brazzànovich e lu ghe credeva a 'ste robe. El iera propio fissà. El me diseva: «Bortolo, andè de 'sta butacarte, la ve xe subito fora del ponte de Gàlata. E la ve dirà tuto giusto. Me saverè dir vù se no la ve indovina tuto el giusto. A mi tuto la me ga intivà, fin de la febre scarlatina de picio, dela povera Ketty, propio tuto». — E sè andà? — Volevo andar. El me gaveva tanto inzinganà, tanto dito, che me iera vignù curiosità. Ma apena son fora del ponte de Gàlata, chi vedo? — Chi? — Spetè, spetè che ve digo. Son giusto fora del ponte de Gàlata, che el sarà, fè conto, come de qua ala porporela, se no de più, giusto fora son, co' vedo — che anzi me pareva impossibile e go dito «Ma come, el xe lu o me fa i oci?» — vedo Marco Mitis! «Marco!» ghe zigo. E lu baci, abraci, che el xe qua per combinazion cola Silvia Tripcovich. — La sua sposa? — Sì, sposa con dò camini! La barca, la «Silvia Tripcovich»! Cossa no gavè mai sentì? — La «Silvia Tripcovich» dela Tripcovich? — No. Dela Cosulich... Se la se ciamava Tripcovich, de chi volè che la fussi? Insoma, indiferente. Semo andai in osteria, che a Gàlata andava sempre 'sti istriani, 'sti piranesi, e gavemo fato una baracada! — E la butacarte? — Siora Nina, completamente fora dela testa. Tanto che co' son tornà a bordo, che iera altro che passada l'ora, no savevo gnanche come dirghe al comandante. E alora mi, cussì, muso risoluto, co 'lme ga domandà, ghe go dito che sì, che iero... «E la ve ga indovinà tuto?» «Tuto! Anche de quela volta che son cascà del figher dele mùnighe». — Ma inveze no iera vero? — Zerto che no iera vero. Ma zà che iero, ghe contavo. «Eeh, ve go dito mi» — el diseva lu. E mi: «Immensa!» E anzi, me xe vignù un'impensada e ghe go dito: «La me ga cussì ben intivà el passato che me go fato dir anche el futuro». — Mama mia! — «Sì, Comandante. El futuro. E go ciapà el coragio a dò man e ghe go domandà anche quando che morirò». «Mama mia — mi fa mi dice el comandante Brazzànovich — e la ve ga dito quando?» «No, l'epoca — mi furbo ghe go dito — la me ga dito solo: voi morirete un anno prima del vostro comandante che era qui l'altro giorno, quel dalmatinsco». — Ma dài, la ve gaveva dito? — Ma se gnanche no iero! Mi ghe go dito a lu che ela me ga dito. E lu ga credesto. E lu, volè creder, de quela volta, solo lavori lizieri el me fazeva far. Lu me mandava franco co' volevo. E se mi ghe disevo «Me diol la schena», lu subito me meteva in sovenzion. E quela volta che i me gà operà del ernia, lu come un fradel el me iera là. — Mama mia che furbo! Perchè lu, pensando che vù... — Sicuro. El me tigniva de conto. Fin co'l xe 'ndà in pension. Anche dopo el me scriveva. E el me mandava ogni anno l'acqua dei frati. MALDOBRIA XLVIII - IL SEGRETO Nella quale Bortolo racconta del dramma ottico di cui fu protagonista il Comandante Bolmàrcich e dei discorsi con cui questi era solito intrattenere a tavola Nunzi Apostolici, ufficialità e passeggeri di rango. — Cossa ve brusa i oci, Siora Nina? No stèveli stuzigar. Barba Nane me diseva sempre: «I oci xe meo tocarseli solo coi còmi. Perchè se no se ga oci boni, xe fazile che i ve cavi la matricola». 'Sto qua tuta la vita xe stà el drama del comandante Bolmàrcich, un dàlmato che dopo a Trieste el se ga fato Bonmarchi. — Che drama? Che el se ga fato Bonmarchi? — Machè. El suo drama iera che el gaveva el complesso dei ociai, siora Nina. Perchè el iera curto de vista. Ma el ga sconto sempre. Lu per la visita medica, pensève, quando che el iera alievo, el se gaveva imparà a memoria la tabela, che iera sempre quela, e cussì i lo gaveva fato abile. — E no'l portava ociai? — Davanti dei altri, mai. Gnanche sul ponte: solo in gabina sua. Pensè che el gaveva quei ociai stringinasi, quei che se li piega, cola cadenela. E el li tigniva in scarselin del gilè. — Ah, vù savevi che el portava ociai? —Mi savevo? Tuti saveva. Anzi sula Libera i lo ciamava «Orbo Cìrolich». Solo lu no saveva che tuti saveva. I armatori ghe diseva sempre ai Primo Uficial: «Stèghe drio co' el fa manovra, che mi no go voia che la barca me fazzi dano sul molo». E po savè, un'altra roba iera anche: che el iera bevandèla. — Bevandèla? No gavè dito che el se ciamava Bolmarcich? — Ma sicuro. Ma el iera bevandèla nel senso che — pace all'anima sua — ghe piaseva el bicer. Anzi el bicerin. In gabina — mi iero suo giovine de camera — el gaveva wiski, gin, slivoviz, spiriti insoma. E el beveva de scondon. — Che nissun no lo vedi? — Sicuro. E volè creder che lu, in tavola, coi passegeri, el predicava: «Solo vino» — el diseva — «Pensino loro — perchè el parlava cussì propio — pensino loro che questi popoli nòrdichi, come sarebbe svedesi, norvegini e danimarchesi, si insempiano tanto con wiski e altre porcherie che non trovano più personale per i loro vapori». E po', in gabina, trinken! — Cossa, no i trovava personal? — Ma el diseva lu, indiferente. Cossa me interompè ogni momento? Insoma una sera ierimo in porto a Corfù, che quela volta fazevimo la linia de Sorìa. Savè, iera viagi quela volta: passegeroni, Nunzi Apostolici, ufficialità. El xe rivà in tavola zà un poco lustro, che mi go visto subito come che lo servivo che el strambizava. El ghe diseva al Nunzio: «Eminenza — el ghe fa, el ghe disi, ci fa ci dice — Eminenza, è mai stato a Malaga? No? Ben, guardi che a Malaga è la statua di legno più grande del'umanità. E' un Cristo crocifisso così imenso che lei può metere la mano intiera dentro dele corbe». — Dele corbe? — Ma sì, dele costole, ma lu parlava cussì. El iera andà, insoma, quela sera. Tanto che, finì la zena, el me ciama e el me disi: «Bortolo, iutime a spoiarme che go un poco de riscaldo». Siora Nina: duro el iera. Insoma lo spoio. — El iera un poco ciapado? — Ve go dito: duro. Lo spoio, piego ben i vestiti — lu ronchizava. — «Bon — go dito — zà che ghe son, ghe li anche scoveto, cussì domani matina son lesto». Insoma ciogo 'sta scartazza e co' scoveto el gilè e lo volto, no vedo che me vien fora fregole de vetro? — El gaveva una fiasca? — Sì, magari che iera una fiasca! Siora Nina, scovetando el gilè, ghe gavevo roto i ociai che el gaveva nel scarselin. — Mama mia! Cussì ve gavè acorto che el gaveva i ociai? — Ma se ve go dito che saveva tuti, che i lo ciamava «Orbo Cìrolich»! Solo che go pensà: domani el me copa perchè ghe go roto i ociai. E alora, de prima matina, con 'sta susta del stringinasi in man — perchè no iera restà che la susta — vado in tera a Corfù in una botega de ociai. — Per comprargheli novi? — No no, guai novi. Per meterghe nove le lenti, se no el se gaverìa inacorto. Insoma, per farvela curta, vado de un lòttico, che parlava benon italian: quela volta iera pien de veneziani a Corfù. El me fa: «Quante dotrìe?» E mi savevo, perchè a mi che iero suo giovine de camera, el me gaveva dito che el gaveva zà sie dotrìe. «Xelo presbite o xelo miope? — mi fa mi dice 'sto lòttico. «Orco — digo mi — no so ...» «Quanti anni galo?» el me domanda. «Sessanta passati» — digo mi — «Alora fazile che xelo presbite» — el disi lu — E el meti su 'ste lenti che propio no se conosseva. Torno a bordo, giusto che ghe rivo a meter i ociai in scarselin che el se sveia. — El dormiva? — Uuh! Duro! Con quela piomba! El me disi: «Bortolo, xe passà telegrama?» «Sì — ghe digo — ecolo». Ghe lo go portà. Ogni matina passava telegrama del armamento. Insoma che ghe dago i ociai. El verzi el telegrama, el se meti su i ociai e el comincia: «Maledeto el momento che son nato! Bogatì, bogamì, bogalà, me gaveva dito el dotor de no bever! No vedo più gnente, Bortolo, me go ruvinà, vedo tuto fosco». — El stava mal? — Ma no, siora Nina. Mi go capì subito. Gavevo sbalià i ociai. — Ah! E alora? — Alora ghe digo: «Gnente, comandante, xe un disturbo de riscaldo, una bona dormida e mi ve preparo intanto qualcossa che ve tiri su». «Va ben, va ben» — el ga dito. Come un bambin el iera diventà. Ciogo i ociai, coro de novo de 'sto lòttico e ghe digo: «No'l vedi gnente, no'l vedi una madona». «Alora fazile che xelo miope». E cussì el me cambia le lenti. — Aah! El ghe ga cambià le lenti! Vol dir assai. — Insoma, torno a bordo. Ghe go preparà dò ovi in satò con un poco de vin de Zipro, e ghe digo: «Bevè, bevè, Comandante, che questo fa risussitar i morti». El bevi subito. Ve go dito, come un bambin el iera diventà. «Bon — ghe digo — adesso provè a leger el telegrama». El se meti su i ociai, el salta su, el me basa, el me brazza. Che el vedi ben, che mi son el più grando dei grandi. Bon, volè creder che a pranzo, in tavola, el ghe disi al Nunzio: «Pensi lei, Eminenza, questi popoli nòrdichi, come sarebbe svedesi, norvegini e danimarchesi, si insempiano tanto con wiski e altre porcherie che non trovano più personale per i loro vapori». MALDOBRIA IL - LA LUNGA GUERRA DI CAPITAN JURISSEVICH Nella quale si narra la dolorosa storia del Primo Pilota, capitano Jurissevich, assolto dalle Nautiche di Lussino che, per un infortunio occorsogli nel porto militare di Sebenico, si ritirò in volontario esilio sulle Isole Incoronate e di come Bortolo ingegnosamente lo uccellò, non per malvagità ma per l'avversa sorte. — Savè, sior Bortolo, che me xe tornado Albino, povero. — Povero, se el naviga! Chi che naviga no xe mai povero: el gira el mondo e el vedi popoli. — Sì, ma una volta ne iera assai più comodo co' el ne fazeva la linia de Dalmazia. El ne iera a casa una volta per setimana, de boto. Adesso inveze el fa Beirut, Latachìa, quei loghi là insoma. — Linia de Sorìa? Cossa volè de meo per el maritimo? Se porta borse de pele, naranze cola scorza grossa cussì, bone. — Sì, ma no'l xe mai a casa. I lo ga cambià de servizio e no'l ga podesto dir de no. — Eeh, ma la vita del maritimo xe sacrificio, Siora Nina. Bisogna far quel che vol i altri. Savè come che se disi? «Chi pissa controvento, se bagna le braghe». «Comanda chi pol, ubidissi chi devi». Per mar, siora Nina, xe cussì, propio come che diseva el Capitan Jurìssevich: «Xe meio ubidir che farse santificar». — Capitan Jurissevich? Cossa el iera un comandante? — No, lui iera piloto. Ma piloto vero. Capitano, assolto del Nautico de Lussin. Lui iera stà per anni piloto a Suèz coi francesi. E dopo el iera andà in Marina militar. — Marina militar francese? — Machè francese! Lui iera a Suèz, coi francesi, che gaveva la compagnia del Canal. — In compagnia in Canal? — Sì, in canal de Trieste dove che i vendeva angurie. Ma dài! El Canal de Suèz! I piloti quela volta se fazeva bori, perchè Suèz iera assai intrigoso. Ma indiferente: Lui iera vignù in Marina militar austriaca. Perchè quela volta ierimo soto l'Austria tuti. — Mi anche son nata soto l'Austria. Che a scola i primi ani, me ricordo, i ne fazeva cantar Serbidiòla. — Eeh, Serbidiòla. Go cantà mi Serbidiòla. Gavevo in a mente tute le parole, ma adesso me go dismentigà. «Sempre d'Austria il soglio unito sia d'Asburgo col destin». Quanti anni, mama mia! un altro mondo, un altro mondo! Ma de cossa ve stavo contando? — De questo Jurissevich. — Ah sì! Ben lui iera piloto. Primo piloto, ve go dito. Assolto del Nautico de Lussin. Epur in mar no se pol mai dir. No se ga mai savesto la vera verità, però fato si è che el xe 'ndà in dispiazeri. — Dispiazeri de famiglia? — Machè de famiglia. Quei li gavemo tuti. E po' lu no gaveva famiglia. Lui iera solo, puto vecio. Gnente, lui a Sebenico... savè come che se vien dentro de Sebenico? — No. — Bon, eco. Co' se vien dentro de Sebenico, là xe el Forte de San Nicolò che bisogna spetar el segnal de libero che i mandi el piloto. — E no i lo ga mandà? — Come no i lo ga mandà? I ga mandà el capitan Jurissevich che iera Primo piloto. Lui va su, tuto pulito, come al solito. El xe andà a bordo cola pilotina. Po', savè come che xe usa a bordo: co' vien el piloto, un bicer de qua, un bicer de là. «Come stè? Barba mi, Barba ti». E al timon iera restà el mariner. E lui iera là a dò passi col comandante. Oh Dio, per regolamento, propio regolamento militar dela Marina de Guera austro-ungarica, el gavessi dovù lu star sul timon, ma iera uso che el stava vizin. — Cossa iera, una barca de guera? — No, la barca no iera de guera, ma el porto iera porto militar. Sebenico, po'. E là la barca xe 'ndada a finir sula rede. — Dei pescadori? Ga fato dano? — Sì, i ga mazzà una menola! Siora Nina! Iera la rede de sbaramento, in aciaio, roba che fazeva la Skoda a Pilsen, su in Boemia. La barca ga avù dano, le propelle ghe se ga ciapà dentro. — A Sebenico? — Sicuro. E el ga avù el processo, perchè el piloto xe responsabile dela barca, dal'imboco fin l'atraco. E el comandante se ciama fora. Iera el regolamento cussì dela Marina austro-ungarica. — Ma vu lo conossevi 'sto Jurissevich? — Quela volta no ancora. Dopo lo go conossù. Questo me gaveva contà Barba Nane. Che me diseva sempre: «A ti i te cavarà la matricola come al Capitan Jurissevich, che el iera Primo piloto». — Ah! I ghe gaveva cavà la matricola? — Questo gnanche no se ga mai savesto. Lui no ga mai più parlà de 'sta roba. Fato stà che dopo el ga domandà de esser messo come fanalista al faro. Lui ga fato domanda de sua spontanea volontà. — Al faro de Sebenico? — Machè a Sebenico. Là in Dalmazia, fora dell'lncoronata, un scoio che no vigniva anima viva. E mi là lo go conossù. — Ma se no 'ndava anima viva! — Ma mi 'ndavo. Perchè qualchedun ghe doveva pur portar la roba de magnar e tuto. Mi gavevo tre fari che fazevo, tuti là in giro del'Incoronata. Parlo del Quatordici. Ma mi istesso calcolo che a lui no i ghe gaveva dà condana. Perchè lui iera andà via con tute le sue spetanze e ghe ga corresto sempre la paga. El gaveva soldini, savè, el Capitan Jurissevich. Tanto che mi una volta, che andavo ogni mese con mio cognà a portarghe la provianda, ghe go dito: «Ma cossa fè vù su 'sto scoio dei vostri soldi?» Lui no vigniva mai in tera, perchè lui de quela volta dela rede el se gaveva avilido, come. No ghe interessava più gnente. E insoma ghe digo ghe faccio: «Capitan Jurissevich, perchè no ve metè in società con mi e mio cognà, con nualtri, e compremo un bulo bragozzo nostro, a nome de tuti tre, vostro, mio e de mio cognà, e vignimo in qua con angurie e tornemo in là con baussite?» — Volevi comprar una barca? — Sì, sicuro. Insoma, una roba, l'altra, tira, para, mola, el ne le ga dade. — Le angurie? — Che le angurie! Le corone, che ne ocoreva per comprar la barca. Gnente. Gavemo comprà 'sta barca, che iera meio che gnanche no se movevimo de casa. Ne xe andà mal. Qualche volta una barca nassi impegolada. Se la trovava un carigo per qua, no la trovava el carigo per là. Siora Nina: gavemo dovesto venderla! Mi go perso el mio, mio cognà ga perso el suo. — E el Capitan Jurissevich el suo? — Sicuro. Ma chi 'ndava a dirghelo! Per fortuna, che propio in quei giorni xe passà telegrama che l'Austria ghe ga intimà guera ala Serbia. Co' se disi combinazion! E alora mi ghe go dito: «Capitan Jurissevich, el capital ve xe salvo in barca. I interessi ve xe salvi. Guera xe, navigar no se pol. Cossa volè che andemo a finir su una mina o su una rede?» Che a lu, parlarghe de rede iera come el diavolo a benedizion. «Insoma, co' finissi la guera, capitano, faremo i nostri conti e tuto pulito». Intanto ciapavimo fià, siora Nina. — Ah, no ghe gavè dito gnente che gavevi vendù la barca? — Sicuro de no. Lui i soldi no ghe serviva. E po', là sul scoio, lu no saveva gnente de gnente. Ve go dito: ierimo noi, una volta al mese, che ghe portavimo la provianda. — E dopo, co' ga finì la guera, gavè fato i conti? — Siora Nina: co' ga finì la guera, ierimo più in malora de prima. E me ricordo, la prima volta: Diciaoto, novembre iera, bruto tempo, un sirocal. La prima volta che semo 'ndai là dopo el ribalton, el me domanda: «Come xe con 'sta guera, Bortolo?» E mi me ga ciapà teror de doverghe dir. E ghe go dito: «Eh, Capitan Jurissevich, avanti va la guera, avanti, longa guera, longa la ne sarà». — Ma no la iera finida? — Ma sicuro che la iera finida. Ma mi no go avù el coragio de dirghe. E cussì passa un mese, passa quel altro, e noi sempre che la guera sarà longa. Che l'Imperator Carlo xe vizin Venezia, che el comanda el fronte, che bruto xe in Russia, assai bruto, che i tedeschi va ben, in Macedonia xe stragi, Salonicco no xe più gnente de ela. «Che bela che iera Salonico!» diseva el Capitan Jurissevich. — Aah, voi ghe contavi come che la guera andassi avanti per no far i conti? — Sicuro. E ogni volta co' passavimo l'Incoronata tiravimo su la bandiera austro-ungarica, che no'l se acorzi che xe stà ribalton. E che el turco xe mal, ma che però el bulgaro va ben. «E l'Imperator Carlo?», domandava el Capitan Jurissevich. «Sempre vizin Venezia: sarà guera longa!» Ghe disevimo cussì, ah, per via che no'l se inacorzi. — E quando el se ga inacorto che la guera iera finida? — Mai, siora Nina, mai. Perchè el xe morto del 1928, che'l gaveva — pensè — otantanove anni. L'ultima volta che lo go visto vivo, povereto, el iera un poco in dolze: «Eco qua — el me ga dito — qua xe tuto scrito come che xe stà quela volta cola rede de Sebenico. Co' finissi la guera, Bortolo, portèghe 'sta suplica al Imperator Carlo. Che no i gabi de dir dopo. Perchè el Capitan Jurissevich xe Primo piloto, assolto dele Nautiche de Lussin.» MALDOBRIA L - PRIMA DEL DILUVIO Nella quale si parla di cappelli, di teste, di opinioni e d'uno sposalizio ove Bortolo incontrò il Conte Bertotto, gentiluomo, come si suol dire, d'antico stampo. — Fin che se podeva, siora Nina, mi me go sempre tignù ben. «L'abito non fa il monaco, ma lo rappresenta»: 'sta qua me la ga dita un che iera un omo, savè. — Ah, ve la ga dita un omo? — Un vero omo. Un omo de quei che se ga perso el stampo. Mai no me dimenticherò. Se sposava la fia de Frane Peteani, savè quel fanalista de Medolin. Insoma 'sta fia, una putela studiada, che sposava un de Parenzo, figureve. Bona posizion, bonissima: el vigniva a star omo de fiducia del conte Bertotto e sua mama ghe iera dona de chiavi in vila. Insoma un matrimonio de signoreti. Tanto che i me gaveva mandà la partecipazion, tuto ben, in dopio: la madre e el padre, de qua e de là, che sono lieti... propio bel. — Come invito? — Sicuro. Per la cesa e per el rinfresco. Anzi, co' semo vignudi fora dela cesa, Frane iera andà avanti coi sposi, cossa so mi, e mi no savevo dove che iera de andar. — Per la bichierata? — Altro che bichierata. I ga fato una roba in grando che no ve digo. Insoma, no savevo dove che se gaveva de andar, quando vedo un brum de nolo fermo in piaza e el cùcer pozà sul sportel che fumava. Bel omo, alto, col capel de cùcer. E ghe digo: «Scusè, maestro — ghe fazzo — savè dove che xe quel rinfresco de quela fia de quel Frane Peteani che se ga sposà?» «Sì, sì, so, so» el me fa. Bon, go pensà mi: xe sposalizio ... godi popolo, godi Bortolo, me fazzo portar in brum. — Eh, quela volta dove iera tassametri? Iera solo brum. — Sicuro, e ghe digo al cùcer: «Sè libero? Cossa me fè per portarme fin là?» «Fin che no i me meti in preson, son libero», el me fa. «Comodève che se comoderemo». Dito fato, monto. Lui in serpa e mi de drio che fumavo. Lu rideva e el fazeva s'ciocar la scuria. E el me disi, mi fa mi dice: «Sè invitado a nozze?» «Come no? — ghe digo, ghe fazzo — go anche la carta.» «Ben, pulito, a divertirse alora!» E via lu. E in quela vedo che drio de nualtri xe uno che coreva coreva e fazeva de moto. E alora ghe digo al cùcer. «Maestro, ma chi xe quel che ne cori drio?» E lu se volta, el ridi, e po' el me fa: «Eh, quel me ga assai l'anda de esser el cùcer del conte Bertotto!» «E perchè el ne cori drio?» «Ah — el disi — sarà forsi perchè questa xe la carozza del conte Bertotto». «Mama mia — digo — e vù chi sè alora, Maestro?» «Mi — el disi — son el conte Bertotto, maestro de maldobrìe.» El ridi e el tira el slaif. — El slaif? — Sì, el fren. El ga fermà la carozza. El me se volta e el me se cava el capel. Mi ghe digo «Ma cossa, ma come?» E lu: «Ma come, ma cossa? Vù me gavè tignù per cùcer e mi de cùcer ve go fato. Solo cavème una curiosità: perchè me gavè tignù per cùcer?» E mi ghe go dito franco: «Eh, cossa la vol, sior. La iera vizin del brum e la gaveva el capel de cùcer». «Intanto — el me fa — questo no xe un brum ma xe un landò. Iero vizin de la carozza perchè spetavo el mio cùcer, che ecolo qua, povereto, che el riva. E po' questo no xe un capel de cùcer, xe la mia cana: per nozze e consimili cerimonie mattutine, come batizi, cresime, ricevimenti alla Comun e altri funerai. Bon — el ghe disi al cùcer — portine al rinfresco». E el me se sentà vizin, cussì democraticamente. — Eh, el conte Bertotto, iera assai nominà! — Insoma, intanto che andavimo el me ga spiegà tuto dei capei: tuba, lobia, mezanosa, girela, diplomatica, paieta, cilindro, cana, magiostrina, panama, tuto quel che gaveva messo in testa quel omo. Anzi, dopo el rinfresco, che ierimo tuti un fià ciapai, el me ga menà a casa sua. Siora Nina: scansie de capei che mi no go visto compagne gnanca a Trieste nele boteghe. Tuto, ve digo, tuto, anche el fez cola franza. Però el iera un bon omo, assai degnevole. Istesso no i gavessi dovesto... Indice _*_*_ LE MALDOBRÌE MALDOBRIA I - IL VARAMENTO DELLA «GIUSEPPE G.» MALDOBRIA II - LA DOPPIA MEZZANOTTE DI VOLOSCA MALDOBRIA III - L'OMBRA SULL' INCROCIATORE MALDOBRIA IV - IL RITRATTO MALDOBRIA V - DUE UOMINI IN COFFA MALDOBRIA VI - LUNGO PRANZO DI NATALE MALDOBRIA VII - IL MORTUARIO MALDOBRIA VIII - IL BERRETTO DEL COMANDANTE MALDOBRIA IX - ORE GIAPPONESI MALDOBRIA X - I PRANZI DI CATTARO MALDOBRIA XI - UN BIGLIETTO DA MILLE CORONE MALDOBRIA XII - IL CANARON DI TENERIFFA MALDOBRIA XIII - PICCOLO MONDO ANTICO MALDOBRIA XIV - LUNGO VIAGGIO DI RITORNO MALDOBRIA XV - FIORI PER L'ARCIDUCA MALDOBRIA XVI - LESSICO FAMIGLIARE MALDOBRIA XVII - IL NOSTRO AGENTE IN EGITTO MALDOBRIA XVIII - LA BARBA DI MASSIMILIANO MALDOBRIA XIX - INVERNO 1929 MALDOBRIA XX - IL FIGLIO MASCHIO MALDOBRIA XXI - IL CAVALIERE DI BOEMIA MALDOBRIA XXII - BARCA PROPRIA MALDOBRIA XXIII - LA NEVE DEI CARPAZI MALDOBRIA XXIV - FILETTO DI «DOLFINO» MALDOBRIA XXV - IL BOCCHESE MALDOBRIA XXVI - L'EREDE PRESUNTIVO MALDOBRIA XXVII - IL MIRACOLO DELLA PALMA MALDOBRIA XXVIII - I TURCHI ALLA PREDICA MALDOBRIA XXIX - L'UOMO CHE SAPEVA TROPPO MALDOBRIA XXX - USI DI MARE MALDOBRIA XXXI - LA NUOVA CLASSE MALDOBRIA XXXII - L'ORA DI CAISOLE MALDOBRIA XXXIII - ROSSO DI SERA MALDOBRIA XXXIV - L'AVANZAMENTO MALDOBRIA XXXV - HOTEL IMPERIALE MALDOBRIA XXXVI - L' INNOMINATO MALDOBRIA XXXVII - L'UOVO DELL'ALTRO MONDO MALDOBRIA XXXVIII - LA PORTA OTTOMANA MALDOBRIA XXXIX - FUOCO A MEZZOGIORNO MALOBRIA XL - IL TESTAMENTO MALDOBRIA XLI - IL FIGLIO DEL CAPITANO MALDOBRIA XLII - L'UOMO DI SANSEGO MALDOBRIA XLIII - L' IMPORTANZA DI CHIAMARSI DÙNDORA MALDOBRIA XLIV - UN VASO DI CHINA MALDOBRIA XLV - I LIPIZZANI DELL'ARCIDUCA MALDOBRIA XLVI - LA MONTURA BIANCA MALDOBRIA XLVII - IL PONTE DI GALATA MALDOBRIA XLVIII - IL SEGRETO MALDOBRIA IL - LA LUNGA GUERRA DI CAPITAN JURISSEVICH MALDOBRIA L - PRIMA DEL DILUVIO Created with Writer2ePub by Luca Calcinai CARPINTERI & FARAGUNA PRIMA DELLA PRIMA GUERRA Introduzione di Giovanni Comisso EDIZIONI DE LA CITTADELLA TRIESTE 1970 Edizioni, de La Cittadella Trieste Sesta Edizione febbraio 1970 Prima edizione 1967 Seconda edizione 1967 Terza edizione 1968 Quarta edizione 1968 Quinta edizione 1969 Degli stesai autori: LE MALDOBRÌE La Cittadella Trieste 1966 IL DISCO DELLE MALDOBRÌE (L. P. 33 giri in un album illustrato) Trieste 1968 SERBIDIÒLA La Cittadella Trieste 1964 (esaurito) Ò SERBIDIÒLA Edizione accresciuta e rinnovata • Scheiwiller Milano 1967 Introduzione "Le maldobrìe" è un termine dialettale che significa "ribalderie". Bisogna dire subito che tutto il libro dal titolo alla fine è scritto in un dialetto che aveva la forza di lingua... La narrazione riguarda il principio del 1900 e per colmo di autenticità vi sono interposte cartoline dell'epoca in facsimile. Devo dichiarare che, a parte le difficoltà, un'emozione simile la provai a Cormons durante la guerra dove mentre imperversava il bombardamento del Carso, trovai nel granaio una cartolina postale di una signora di Gradisca che si congratulava con il padrone di casa per i bei rosai del suo giardino, rosai che allora vedevo scomparire sotto il fumo delle granate, e che nel tempo precedente, di pace, erano in fiore. Leggere questo libro documentato dai facsimili e dalla lingua è come un penetrare in un mondo sepolto che conservi tra i detriti della polvere molte cose intatte, troppo intatte così da sentire nell'aria l'atmosfera soffocante della contemporaneità, della verità assoluta, che non si può afferrare subito, ma dopo meditazione e pensamento. Mi si permetta di parlare dei facsimili prima di parlare della evidenza e forza della prosa. Era un'epoca ed una civiltà per la quale chi sapeva scrivere doveva dimostrarlo con bella calligrafia. Vi sono cartoline di marinai o di popolani che sembrano scritte a macchina, tanto sono esatte non solo nelle doppie, ma nel testo. Bisogna leggere il telegramma che annuncia da Pola a Lussino la dichiarazione di guerra alla Serbia. È un telegramma ufficiale del Governo marittimo di Pola a quello di Lussino, ma non si dice Serbia, bensì Regno di Serbia, da meditare solo su questo e da mettere da parte per la prossima volta. Era allora che si agitavano le carte di un popolo educato e dietro alla fotografia della famiglia reale sotto al baldacchino per le vie di Vienna il giorno del Corpus Domini, si legge di mano di un suddito di allora : "L'Austria iera un paese ordinato"... Uno stato di diversi popoli con i porti di Fiume e di Trieste ugualmente trafficanti per le tariffe, non doveva essere sfasciato. Ora abbiamo i detriti e dobbiamo tenerceli. Se i facsimili danno vita alla narrazione si può immaginare cosa dà la narrazione quando è basata su una lingua autentica per cadenza e per situazioni realistiche. Tutto il libro sarebbe da citare, ma basta quello che ha scritto agli autori Natalia Ginzburg quando dice : "A me è caro il vostro dialetto perchè era quello di mio padre, quello che si parlava in casa mia, nella mia remotissima infanzia. E non è solo il vostro dialetto, ma tutto quel mondo in cenere che voi rievocate con tanto effetto". Letterariamente vi sono i suoi difetti ma bisogna perdonare perchè dal lato narrativo invece ci risulta un' impressionante riesumazione che ci fu data soltanto leggendo un libro di enorme narrativa, quello di Proust, dove i biancospini di una siepe diventano nei particolari di una guerra : giganteschi. Naturalmente in Italia non esiste una critica letteraria, e per questo l'anima umana non è stata nè avvertita nè completamente avvisata di quale capolavoro le Maldobrìe trattano. Un orologio si è fermato e un pollice indica sul quadrante l'ora. GIOVANNI COMISSO Treviso, maggio 1967 (per l'uscita della terza edizione de "Le Maldobrìe") MALDOBRIA I - IL MOLO TRE Nella quale Bortolo, uomo di mondo, narra a Siora Nina dal suo banco in pescheria al quale è approdato dopo infiniti viaggi, vicende e maldobrìe, la prima delle sue storie di prima della prima guerra. — Orade, orade, ociade ociade, branzini, scarpéna, capelonghe, capesante, orece de San Piero. Àle àle done, che el sol magna le ore, àle àle, siora Nina che el le magna anche per vù. — A proposito de orece de San Piero, sior Bortolo, ve fis'ciava le orece ieri sera che gavemo par là tanto de vù? — Ah! gavé parlà de mi? E parlavi ben o parlavi mal, siora Nina? — Eh, questo dovè saver vù, sior Bortolo. Secondo l'orecia che ve fis'ciava ... savé come che se disi: «Orecia zanca, parola franca, orecia drita parola mal dita». — Mi 'ste robe, siora Nina, no go mai credesto. Per mi, co' fis'cia le orece vol dir che se ga alta pression e che xe meio tignirse calmi, se no se ris'cia un insulto. E cossa parlavi de mi? — Ma no, gnente, sior Bortolo, se contava quel che vù conté. Mio marì diseva che vù sé quel che qua sa più de tuti, tuto de tuti. — Eh, siora Nina, co' se ga la mia età e co' se ga girà el mondo senza andar baùi e tornar cassoni, per forza qualcossa resta. No soldi, savé, quei a Bortolo no i ghe xe mai restài. Vardé mi, per fortunà, son fortunà come i cani in cesa. Ve ricordé una volta che se diseva che co' se incontra un caval bianco, porta fortuna, o un prete grego cola barba ... o un spazacamin? Vardé: mi gnanca se incontro un prete grego su un cavai bianco che se tira drio un spazacamin, fortuna no go. — Eh, però xe assai gente che ghe credi a 'ste robe: che co' el gato se lissa piove... — Per forza, perchè el senti l'umido. — Che no se devi regalar roba che sponzi... — Per forza, perché se se sponzi. I disi anche che no bisogna regalar un fazoleto perché porta lagrime. Credo ben: che bel regalo che xe un fazoleto! Xe zà quela la disgrazia ... — E el gato nero che traversa la strada? — Quela pò xe la più sempia dele sempie. Figureve che mi co' viagiavo per Kobe, in Giapon e in China, là i ga inveze che porta pegola el gato bianco. E alora come va 'sta roba, che se vado in China el gato nero me xe fortuna e in Dalmazia e Istria me xe disgrazia? Dài, dài, siora Nina! Me meraviglio de vù, che no sé miga una campagnola. — Eh, ma istesso, anche gente studiada credi. E omini anche tanti omini. Noi gavevimo a costo un istà un studente, ma un propio studià: ben lui... — Indiferente. So che anche i omini credi. Anche le Compagnie credi. Volé creder vù che sule barche dela Ungaro-Croata co' navigavo mi, no esisteva gabine né numero Tredese né gabine numero Diciasete: Dodese bis iera e Sedese bis. — Iera gabine più grande? — Maché più grande. Iera per quela che i disi che el numero tredese e el numero diciasete porta scalogna. Che po' inveze qualchedun disi che porta fortuna. Ma questo no ghe entra. Cussì per no impressionar el passeger, la Ungaro-Croata gaveva quela de no gaver gabine Tredese e Diciasete. Siora Nina: mai 'sta roba xe stada sul Lloyd Austriaco. L'Austria iera un paese ordinato. Come se podeva gnanche concepir de saltar numeri? Ma i Ungaresi, savé, ga l'indole cussì dela superstizion. Calcolo che xe i zìngani che li inzìngana. — Ma iera Ungaresi sul' Ungaro-Croata? ... — Maché Ungaresi. L'Armamento iera ungarese — ve parlo de prima dela prima guera — ma quei che navigava iera tuto patrioti. Iera 'sti istriani, 'sti piranesi, 'sti dalmati. E Capitano, quel periodo, me ricordo, sula «Liburnia», iera el Comandante Vattovani. — Un ungarese? — Maché ungarese. Vàttovaz el se ciamava prima. Dopo el se gaveva fato Vattovani. — Per parer ungarese? — Maché per parer ungarese. Quel parlo de dopo dela prima guera. Indiferente. El iera un patrioto nostro, un arbesan, propio de Arbe. Ben, quel iera un superstizioso che no ve digo. Lui diseva sempre: «Sete, diciasete e vintisete nassi sempre qualche straléca». Lui gnanche no partiva quei giorni. El se intardigava col carigo o col manifesto, che anzi più de una volta i ghe gaveva fato osservazion. — Sete, diciasete e vintisete? — Sì. E po' inveze el xe cascado in stiva per la Festa del Imperator che iera el diciaoto de agosto. Me ricordo come ieri che el se gaveva messo i stivai novi e el xe sbrissà in coverta. — El se ga fato mal? — Gnente. Un miracolo propio. Che anzi el diseva: «Se me tocava come ieri, sicuro me copavo». — Ah, de sete e diciasete magari savevo, ma de vintisete no go mai inteso. Anzi, una volta, vintisete iera bon, perchè iera San Pagarin. — E inveze el Comandante Vattovaz diseva che propio el vintisete, co' se ciapava la paga, i omini i se imbriagava per i locai e ghe nasseva qualche straléca. E ve dirò che qualche volta iera anche vergogna andar fora con lu, perché dio guardi incontrar per strada un carro de morto, specie se el iera svodo. «Pezo — el diseva — el xe pronto per mi». E el fazeva sesti cola man sula braga che la gente se voltava. E pò, ve ricordé Nadalin defonto, quel che i ghe diseva Zimiterio? — Nadalin Zimiterio, come no? Quel alto, magro, palido, el fio de Bepin Agonìa? — Lu. Volé creder che el Comandante Vattovaz ga sempre ricusà de imbarcarlo? E una volta che el se lo gaveva trovà a bordo a Spalatro, el lo ga sbarcà a Mortér. — Eh, xe de quei che ga 'ste robe. — E pò lu, siora Nina, viveva de numeri, per el Loto. — Chi, Nadalin Zimiterio? — No, lu povereto poco ga vivesto, perché el xe morto che el iera ancora omo giovine. El Comandante Vattovaz. Lu zogava al Loto perchè el diseva che ogni roba ga el suo numero. Lui gaveva tuto una sua idea sui numeri, che anzi più de una volta go sentì che el ghe tambascava in tavola ai passegeri. «Il numero Un — per esempio el diseva — non è né pari né dispari, ma dispari e pari nello stesso tempo: perché è il parìmpari». — El tartaiava come? — Ma no: parìmpari. Né pari né dispari, el diseva. Mi no gavevo mai sentì, ma lui gaveva leto un libro. Insoma una volta, ve digo, semo a Trieste, marzo iera, ierimo andai col «Liburnia» sul Molo Tre, che de solito andavimo sul Quatro, ma quela volta no se ga podesto, perché iera tuto ocupado. In alora, ierimo nel Milenovezento e tre, a Trieste iera vapori a boca desidera. Bon, vignimo fora dela passerela de Porto Novo, pioveva, tanto che gavemo ciolto el tram, che de solito andavimo a pie. «El Tre» me disi el Comandante Vattovaz. — Come, el tre? — Sì, el trànvai numero Tre. E subito el comincia a stroligar e el disi: «El Tre, giorno tre, del tre del Tre». — Come, tre del tre? — Ma sì dài, tre del Tre: tre de marzo, del Milenovezento e tre. Ierimo sul trànvai numero Tre, e el Comandante Vattovaz me disi: «Coss' che ga de esser; e anche el Molo Tre ne ga tocà stavolta». E tuto el tempo el congeturava e el iera sorapensier. Fin che co' rivemo in riva, là dela Pescheria, che iera un local che andava tuti 'sti istriani, 'sti piranesi, 'sti dalmati, el me disi strenzendome el brazzo, che el me ga fato fin mal: «Arili là tuti tre!» — Chi? — Anche mi ghe digo: «Chi?» E lu: «I tre Bùnicich». Savé iera un stupor vederli tuti insieme. Perché lori tre fradei, iera in còlerà de ani anorum per la facoltà del padre. E no i se tratava. E quel giorno tuti tre insieme in local. «Coss' che ga de esser! — disi el Comandante Vattovaz — tuti tre insieme! Tre ani che no i se parlava. E po' el Tre, xe tre volte l' Un: el parìmpari». Bon, magnemo e bevemo in local e volé creder, siora Nina, che el conto vien de tre corone e tre soldi. Coss' che se magnava per tre corone e tre soldi soto l'Austria! «Ti vedi — me disi el Comandante Vattovaz — el gaveva i oci spiritai, savé — ti vedi? Tre corone e tre soldi! El parìmpari, de novo. Ti sa coss' che fazzo mi? Mi zogo el Loto!» — Un terno? — Sì, siora Nina, un terno col tre! Come volé zogar un terno con un numero solo? Primo estrato el lo ga zogà. Quela volta se usava assai zogar primo estrato. Tre, primo estrato sula ruota de Trieste. Trieste iera ruota, savé, soto l'Austria. «Molo Tre, tram Tre, tre del tre del Tre, tre corone e tre soldi, i tre Bùnicich» — me fa el Comandante Vattovaz. «Se no go de zogar el tre primo estrato stavolta, no lo zogo più fin che moro», el me ga dito fazendo sesti sula braga. — E xe vignù pò el Tre, primo estrato? — No. Terzo estrato el xe vignù. Sula roda de Trento. Anche Trento iera ruota, soto l'Austria. MALDOBRIA II - DONNE NELLA VITA DI NICCOLO' PREMUDA Nella quale Bortolo racconta l'avventurosa vita del Comandante de Vidulich, capohornista e autore di romantici e segreti quaderni, che sia in mare sia in amore ebbe sempre a navigare su bastimenti di altura. — 'Sti libri che i fa adesso xe tuto maldobrìe, tuto sporchezi. Ma la vita, la vita vera del uomo umano: quei iera libri, siora Nina! Me ricordo che mi legevo el Conte di Montecristo. — Un libro de Cesa? — Ma cossa ve insogné? Xe un'isola e lui se iera fato conte, per vendeta. Alessandro Dùmas, me ricordo: La signora dele camelie — quel iera de amor — e pò quei altri, I tre moschetieri, Vinti ani dopo, Il Visconte di Bragelòne. Che anzi Barba Nane me diseva sempre: «Ma cossa legé 'sto Visconte de Braghelonghe, cossa ve esalté con 'ste robe? Diventerè un Longino quel che ghe ga dà la lanzada a Nostro Signor, e i ve caverà la matricola!» Ma mi li go leti tuti, me li imprestava el Comandante Vidulich, lui iera propio apassionà. — De leger? — De leger e anche de scriver. Perché lui scriveva propio libri, a bordo. — Libri de bordo? — Maché libri de bordo, libri, veri libri. De aventure maritime, la vita del uomo umano. Lui gaveva viagià a vela, el gaveva fato Capo Horn con bastimenti de altura, pò un periodo el gaveva navigà per le Antille, ani. Lui gaveva due grandi robe: la dona, con rispeto, e scriver. — El rispeto per la dona? Quel xe bel. — No. Disevo dona per dir done. No 'l iera sposà. El diseva sempre «Basi, bessi e bussolai no i xe boni se no i xe assai». Però iera un omo de sesto. Maritimo insoma, ma de sesto. El me diseva sempre, me ricordo: «Bortolo, ocio: la dona la xe un precipizio, co' ti xe con ela gabi giudizio». No 'l ga mai fato una ciacola. Fora che una volta magari. — I ghe ciacolava drio? — Mai prima de quela volta. Me ricordo come ieri che el scriveva «Le aventure di Nicolò Premuda, un lussignano nei Caraibi». — Ma no me gavé dito che el se ciamava Vidulich? — Sì. Ma lui scriveva tuto robe che ghe iera nate a lu, figurando che fussi inveze 'sto Nicolò Premuda. Ogni sera co' ierimo in navigazion, se mi iero franco el me ciamava su in gabina e el me legeva un toco. Bel iera, roba de vita. Lui gaveva navigado a vela, lui gaveva fato Capo Horn con bastimenti de altura e lu tuto el contava dei fortunai, dei terzarioi, del pensier del maritimo, insoma bel. — E propio el fazeva libri per vender? — Ah, lui gavessi avù l'ambizion e una volta anzi el gaveva parlà cola tipografia del Lloyd Austriaco, ma ghe vigniva a costar tropo. E cussì no 'l gaveva mai avù ocasion de publicar prima de quela volta. — Ah, perché dopo sì? — Speté, speté. Quela volta el iera bastanza in età e el fazeva viagi per Dalmazia. Vignivimo de Sebenico, andavimo a Zara e lu, sul ponte, me ricordo come ieri, che el me diseva: «Bortolo, mi go fato Capo Horn, mi go navigà a vela con bastimenti de altura, epur tira più un pel de dona che zento manzi...» El iera abatù, come. — Che dona? — Ve dirò: una giovinota, figureve, de Zara. Una zerta Nevina, bela! Le dalmate xe bele done, ma quela iera propio speciale. Lui iera zà omo fato e mi ghe gavevo dito «Comandante: pensé, co' ela gaverà quaranta che xe el fior dela dona, vù gaveré otantadò». Ma lu che al muss vecio ghe vol l'erba fresca e 'sta Nevina lo gaveva come iluso. E lu dopo se iera avilì. El me diseva: «No volessi gnanca veder tera stavolta». E sì che el stava propio a Zara. — Ela la lo gaveva lassado? — Lassado? Iluso la lo gaveva e lui iera abatù, come. E alora mi go avù un'idea: apena che semo a Zara, go dito, voio che 'sto omo gabi una sodisfazion. — Sé andado de questa Nevina? — No, mi cole done dei altri no go mai messo parola. Mi son andado de Marco Mitis che lu gaveva un cognà che scriveva propio sul foglio de Zara. — El scriveva su un foglio? — Ma sì, sul foglio, sul giornal de Zara, articoli propio el scriveva, giornalista, insoma. Semprevivo. — Ah, el xe sempre vivo? — Ma no, el xe morto de ani anorum. Semprevivo el se ciamava de nome. Insoma, che ve conto, mi son 'ndà in scafeto del Comandante Vidulich, ghe go ciolto 'sto suo scartafàz dele aventure di un Lussignano nei Caraibi, go fato un paco e ghe go dado a Marco Mitis che el ghe mostri a 'sto Semprevivo. «Varda ti — ghe go dito — se i pol stamparghe magari un toco, nominarlo, almeno, far qualcossa che el gabi una sodisfazion». — Meterlo sul giornal? — Sicuro. E 'sto Semprevivo personalmente ghe ga scrito al Comandante Vidulich. Dunque, che ricevuto l'alegata vostra, che il raconto sul Lussignano nei Caraibi iera massa longo, ma che però bella e pubblicata il giorno stesso in terza pagina la novella d'amore in forma epistolare «Nevina, Nevina, Nevina!» — Ah, el scriveva anche de amor? — Ma no. El ghe scriveva a Nevina. Letere de pianzer el ghe mandava de tuti i porti. E mi gavevo ciapà nel framezo dele carte del «Lussignano nei Caraibi» anche la bruta copia de una de 'ste letere a 'sta Nevina che lo fazeva tribolar. — Ah cussì no 'l ga podesto spedirghela? — Ma no, siora Nina: cussì i ghe la ga publicada sul giornal. Che tuta Zara ga parlà per mesi. Iera el titolo «Nevina, Nevina, Nevina!» col punto amirativo. E in 'sta letera lui ghe ricordava i giorni felici, la via, la casa, la stanza. E po' quel suo fradel che iera in ospizio, tuto, insoma. E firmado: Giovanni de Vidulich. Iera conossuda la sua famiglia a Zara. — E lu cossa ga fato? — Siora Nina, lui coreva per tuti i café a portar via i giornai, ma istesso no ga servì. El ga dovesto tornar a navigar a vela, Capo Horn el ga fato de novo, su bastimenti de altura. MALDOBRIA III - IL DENTE DEL GIUDIZIO Nella quale Bortolo si diffonde sulla capacità di sopportazione del dolore da parte dei singoli, rievocando il famoso episodio del nostromo Girolimich al tempo in cui l'arte odontoiatrica, benché priva di titoli accademici, onorava Trieste e le altre città dell'Impero. — Cavarse el dente xe individuale, siora Nina. A qualchedun ghe fa propio mal: dolor fisico che no 'l soporta. Ve ricordé el nostroomo Girolimich? — Quel de Lussin? — No 'l iera propio de Lussin. El iera de San Piero ai Nembi. Ma insoma, lussignan. Lui gaveva un dente del giudizio che el Comandante Brazzànovich ghe diseva che iera el dente del Giudizio Universal, perché a ogni roba che iera de far a bordo, lui ghe dioliva el dente del giudizio. — Ah, el iera un poco voia de lavorar sàltime indosso? ... — No, no, per quel ghe dioliva sul serio. Tanto che Barba Nane ghe diseva sempre: «Vù, nostroomo Girolimich, se no ve cavé quel dente del giudizio, andaré a finir che i ve cava la matricola». E anche el Comandante Brazzànovich — lui, savé, a bordo iera un de quei duri, che stangava — el ghe gaveva dito: «Noi adesso semo una setimana a Trieste in Arsenal. Intanto che i picheta 'sta maledeta barca, vù pichetéve quel maledeto dente. Perché, se no, sul «Jupiter» no meté più pie. Perché mi no go voia de gaver nostriomini in cuceta ogni mezo viagio!» — E lui xe andà? — El ga tentà de no andar. El ga dito: «Adesso, propio, xe un periodo che no me diol più gnente». Ma el Comandante Brazzànovich ghe le ga dade curte. E el ghe ga dito: «Nostroomo Girolimich, savé come che se disi? «Xe un bel ricordo quel che se ga patì». «Passada la doia, tornada la voia». Cavéve el dente e sluss». De chi che el ga de 'ndar, de chi che no 'l ga de 'ndar. E el Comandante Brazzànovich ghe fa: «Se gavé dò patrioti qua a Trieste? No gavé che de sielzer: o andé de Diminich o andé de Petris». — Come, patrioti? — Lussignani come lu, ah. Lui, veramente iera de San Piero ai Nembi. Ma 'sto Petris e 'sto Diminich, tanto un che l'altro iera de Lussin. Dentisti 'ssai nominadi a Trieste. No i iera propio dotori: savé come che iera soto l'Austria: «Zahnarzt» i ghe ciamava, che dopo l'Italia li gaveva riconossudi dontoiatri. I gaveva la Picola Laurea, insoma. Cossa ocori che un dentista sia propio un dotor chirurgo finì? No i ga miga de taiar panze, no? — Ah, i iera de Lussin tuti dò? — Sicuro. E el Comandante Brazzànovich ghe ga messo propio l'autaut. «Aré, nostroomo Girolimich, de no farme scherzi, perché mi stasera me informo». — E 'l se ga informà? — Siora Nina, co' el Comandante Brazzànovich diseva una roba, iera vangelo. Vangelo secondo San Mattìo, perché se no iera come che el voleva lu, ghe montava el futer. E pò lui co 'l iera a Trieste el se trovava ogni sera coi patrioti. Savé dove? In Café Moka, là in Marina visavì dela Stazion Maritima, che quela volta gnanche no iera. I se trovava: lu, el padre de Marco Mitis, el fio del vecio avocato Miagòstovich, el dotor Baicich, el dentista Petris e el dentista Diminich. Iera un ganga. I se le contava dò per un soldo. — E cussì lui se ga informà? — No ga ocoresto, siora Nina, no ga ocoresto. Perché el Comandante gnanca sentà no 'l iera in Café Moka, che el dentista Diminich ghe disi: «Vù, Brazzànovich, disé che quei de Brazza xe omini. Quei de Lussin, quei de Lussin, altro che, xe omini cole braghe! Volé saver coss' che me xe nato ogi? De primo dopopranzo vien de mi un maritimo, de Lussin, go capido subito de come che el parlava. Che el ga furia, perchè el xe imbarcà. Quanto che costa cavar un dente del giudizio. Ghe digo, che el dente del giudizio xe quindese corone col'inizion.» — Che inizion? — L'inizion per el dolor. La sponta de narcosi. «Quindese corone col'inizion» — ghe ga dito Diminich. E 'sto maritimo: «E senza?» «Senza? Come volé far senza, un dente del giudizio? Senza vignirìa zinque corone. Ma ve farà mal, 'ssai mal, 'ssai mal, savé». Che a lui no ghe importa, che el farà senza. «Bon — ghe fa el dentista Diminich — contento vù, contenti tuti: lo cavemo senza sponta. Solo speté che sero le finestre perché no volerìo che nassi confusion in contrada e che me vegni su el gendarmo quando che zigheré». — E el ga zigà, ah? — Xe quel che ga domandà Brazzànovich. E Diminich: «Zigar? A 'sto omo ghe go do vesto scarpelar la gingiva, spacarghe el dente in quatro e fora toco per toco. Bon, 'sto omo no ga dito un amen. Lussignan, pò, come nu. Omo cole braghe. Che anzi ghe go dito: «Sé stado cussì bravo, che gnanche le zinque corone no ve ciogo». E vardé, siora Nina, che per un lussignan iera qualcossa zinque corone. — Eh, xe zerti òmini cussì: xe volontà, forza de volontà. — Speté, speté. Perché apena che Diminich ga finì de contar, salta su el dentista Petris che fa: «Un lussignan iera, alto, toco de omo, cola bareta de maritimo?» «Sì, ghe fa Diminich: un lussignan, alto, toco de omo, cola bareta de maritimo». «Can de malignazo — disi Petris — savé coss' che me ga tocà a mi de primo dopopranzo in ambulanza? Me se presenta un lussignan, alto, toco de omo, cola bareta de maritimo. E el me domanda: «Quanto costa cavar un dente del giudizio?» «Quindese corone, ghe digo mi, col'inizion.» «E senza?» — el me fa lu. «Zinque corone, ma ve farà mal. Fa assai mal, savé.» Bon, alora che elfarà col'inizion. Insoma ghe fazo la sponta, ghe digo che el speti un momento in andito che ghe fazi l'efeto, e intanto ghe go trapanà el dente a un altro. Po' vado a ciamarlo. E no 'l xe più! Go pensà dentro de mi: el ga ciapà paura, in malora! Go perso le diese corone dela sponta». «Ostia e mi le zinque che ghe go fato l'estrazion gratis et'amoris!» — disi Diminich. — Mama mia che truco... — Altro che truco! Barufa xe stà: in Café Moka. Petris voleva che Diminich ghe daghi le diese corone dela sponta, Diminich voleva che Petris ghe daghi le zinque corone del'estrazion. E el Comandante Brazzànovich che rideva cole lagrime e diseva: «Malignazo Girolimich. Lussignani, po'. Ben ve stà». Insoma un rider, un rider. — E chi ga pagà po'? — Ga pagà tute le quindese corone Brazzànovich, che iera l'unico che no iera de Lussin. De Brazza el iera, man sbuse. MALDOBRIA IV - IL GIOCATORE DI SCACCHI Nella quale Bortolo vanta le virtù stimolanti d'uno dei più antichi giochi dell'umanità, raccontando le fasi di una memorabile partita a scacchi da lui ingaggiata con il Campione Bulgaro e Subcarpatico. — Adesso 'ste persone in età cori coi auti e cole moto. Dove una volta iera 'ste robe? La bassa forza bateva carte in osteria e i siori, al Circolo Patrizio o ala Democratica i zogava i scachi: tuto là ve iera. — Scachi, quei che se zoga sula dama? — Scachi pò. Dama xe una roba e scachi xe un altra. I scachi, siora Nina, xe stà un dei primi zoghi del omo. Sempre stado ancora dei tempi de Carlo Magno. — Carlomagno? Cossa quel che stava là in vila nova? — Ma no, dài, siora Nina, quel i lo ciamava Carlomagno perché el magnava, el se profitava soto el Fassio. Carlo Magno Imperatore, quel del Orlando Furioso ... — Soto l'Austria? — Maché Austria! Iera sì Austria. Ma anche Germania, Italia, Francia, tuto insieme. Stato universale iera, cussì i dovessi far adesso, tuti uniti. Cossa no xe un assurdo che xe 'sti passaporti, 'ste prepùsnize, ai tempi che se va sula Luna? — Un Stato mondiale, come? — Indiferente. Che no lo vederemo né mi né vù. Ve disevo dei scachi, che iera fin del tempo de Carlo Magno. Mi qua, iero un dei primi, savé, pei scachi. E siben che fussi un semplice maritimo, i me ciamava ala Democratica e anche al Patrizio a zogar. — Ma cossa zogavi per soldi? — Che soldi! Xe per la sodisfazion. El zogo dei scachi xe quel che rivela l'inteligenza dela persona umana. Figuréve che una volta, parlo de prima dela prima guera, iera vignù propio in Abazia a riposarse el Campion de scachi dela Bulgària. — Bulgària? — Bulgària. Bulgaria, come che volé ciamarghe. Bùlgaro el iera. Campione dela Bulgària e anche campion Subcarpatico. Me ricordo come ieri, Gorgiakoff el se ciamava. Boris Gorgiakoff. Perché lori in Bulgària i se ciama cussì. Savé 'sto omo gaveva la scachiera tascabile. Anche in vaporeto, sempre cola scachiera. No 'l la molava mai. — Come tascabile? — Sì, de quele che se pol piegar e ogni quadrato ga el suo buseto e i tochi xe picoli col perno. — No conosso. — Xe siora Nina. Anche se vù no conossé, ve digo mi che xe. Xe per zogar in treno, in viagio, in qualunque logo. Dovè saver che 'sto Gorgiakoff stava in Hotel in Abazia e per andar a Fiume el cioleva el vaporeto. «A mi carozza non piaci» el me ga dito un giorno. El parlava bastanza ben italian. 'Sti Bulgari, 'Sti Polachesi, 'sti Russi xe 'ssai per le lingue. E per i scachi. Insoma, ve disevo, che quela volta mi iero nostroomo sul vaporeto che fazeva FiumeAbazia. E co' lui zogava scachi in vapor mi lo stavo a vardar. — E con chi el zogava? — Solo con si stesso el zogava, per star in pratica. E un giorno che lo guardavo de drio, ghe go dito, ci facio ci dico: «Mi a questo punto farìo l'arocamento». — E cossa saria? — Siora Nina, se mi ve devo spiegar coss che xe l'arocamento! Indiferente, xe una roba dei scachi. — Ahn, xe dei scachi. — «Farìo l'arocamento!» E lui se volta, el me varda. Pò el ga vardà la scachiera. Dopo el me varda de novo. E el me fa: «Zoga omo!» Cussì, franco. — E vù? — E mi go zogà, siora Nina. Xe stado, savé, una roba de no creder. Co' semo rivai a Fiume, lui no ga volesto sbarcar. El xe tornado in Abazia de novo col vapor per no molar la partida. FiumeAbazia, Abazia-Fiume, su e zò come la pele dei oci. — Tante partide gavé fato? — Tante? Una, siora Nina. E gnanca finida. Vù no savé che, a scachi, una partida pol durar anche dò ani. E difati iera scuro zà, sera, ora de zena e el me fa, el mi dice questo Gorgiakoff: «Io parto e vado in Atene, ma notiamoci su un toco di carta la scachiera. E continuàmo per telegrafo. Pago tuto io». — Ma come, per telegrafo? — Sicuro. Cossa no gavé mai sentì che se pol zogar scachi per telegrama? Lui me ga dà el suo indirizo: «Hotel d'Athènes in Atene» che se telegraferemo le mosse. Difati due giorni dopo, mi go ben pensà su e ghe bato telegrama: «Regina A 4 A 9». — Come, Regina a quattro, a nove? — Siora Nina, xe cussì nei scachi, dài. Vol dir la mossa. La Regina, de qua, va là. E la sera istessa me riva telegrama de Atene, savé: «Re B 5 B 6». — El Re de qua fin là? — Sicuro. E dopo mi ghe rispondo, me ricordo come ieri: «Re B 9 B 10». — E dopo come xe finì? — Xe finì, cara siora Nina, che i ne ga messo in preson tuti dò. A mi xe vignù a ciorme la Forza sul vaporeto e a lu al Hotel d'Athènes in Atene. — In preson? Perché, come? — Come anarchici, po'. Savé, quela volta, prima dela prima guera iera assai questo del'anarchia. I copava i regnanti come acqua. Umberto, Elisabeta. E lori a leger 'sti telegrami «Re, Regina» «B 1 B 2» i ga congeturà chissà cossa che noi tramavimo. — Mama mia. Sé andai in dispiazeri! E pò come xe stà? — Xe stà che lui xe vignù fora subito. Perché per lu se ga mosso Ambasciatori, Uficialità, Nunzi Apostolici. E mi apena un dò mesi dopo perchè i ga volù sincerarse. Savé, l'Austria iera un paese ordinato. MALDOBRIA V - I CANNONI DI GALIZIA Nella quale Bortolo, parlando dei nuovi pezzi d'artiglieria Krupp impiegati sul fronte dei Carpazi, si duole del ritardo con cui scoppiò la Rivoluzione d'Ottobre e racconta infine come a Leo poli si fosse reso conto a proprie spese di quanto è piccolo il mondo. — L'omo, siora Nina, dopo el porco xe l'animale più adatabile che esisti, diseva el povero avocato Miagòstovich. E a tuto se se abitua, ale patrone, ai sràpnel, ai pedoci. I sràpnel, iera una roba che s'ciopava in alto e molava balini de baliniera, e guai a ciaparli in testa. Per questo in Galizia i ne gaveva dà el capel de fero. Stàhelm. Prima el militar iera in semplice bareta e dopo i ga fato obligo, propio, de tignir sempre in testa el capel de fero. — Sempre, sempre? — Sempre sempre: Dio mio, co' ocoreva. Mi per esempio, quando che iero adeto al Krupp sempre dovevo tignirlo. — El crup, come difterite, intendé? — Maché difterite. El Krupp, el canon Krupp. Una roba germanica che gaveva mandà i Germanici. Perché l'Austria prima gaveva canoni Skoda. Dopo el Germanico ghe gaveva mandado i Krupp, che iera el meo del meo. Come canoni, intendo. I me gaveva mandà sui Carpazi propio per 'sti malignazi de Krupp, perché noi de Artiglieria de Marina gavevimo zà pratica. Dovè saver che mi iero con Bogdànovich ale Boche de Cataro. — Che bel che xe le Boche de Cataro ... — Belissime. E stavimo ben. Gavevimo 'sti canoni Krupp e ierimo sul sicuro. Chi se azardava a vignir drento dele Boche de Cataro? Gnanche Danunzio. Insoma un giorno ne riva a mi, a Bogdànovich e al povero nostroomo Sangulìn che iera anche lui là, el Befél: in Galizia. E tuti diseva che xe ben, che gnanche no femo in tempo de rivar che el Russo zà mola. — El mola el sràpnel? — Maché sràpnel. Che el mola la guera. I Russi gaveva zà amutinamenti e a qualche uficial de lori, i diseva, che i ghe gaveva inciodà le spaline sule spale. In guera l'omo diventa bestiale. Xe la bestia che torna fora, diseva sempre el fio del'avocato Miagòstovich. El iera anche notà in polizia come socialista, ma per un riguardo al padre ... indiferente. Insoma, siora Nina, ve digo, arivemo in Galizia e là i tirava sui omini propio. — Quel'altra guera? — Quel'altra sì. Iera i ultimi mesi del Sedese. Mi no iero propio sul fronte, ierimo in seconda linia, perché gavevimo 'sti grandi canoni germanici. Ma arivava istesso savé granate, sràpnel, tuto rivava e mi no podevo propio adatarme. E zà verso i Santi mi gavevo visto che per Nadal a casa no 'ndava nissun. I gaveva dito prima, ma inveze el Russo no molava. Per via che el moli ghe ga volesto che vadi Lenin in vagon piombà. — Per la Dogana? — Indiferente, no ga importanza. E mi go pensà: se el Russo no mola, mola Bortolo. Iera tanti che se dava maròt ma no i li cioleva gnanche in considerazion. Là ghe voleva trovar una roba nova, che li persuadi, come. — Ai Russi? — Maché ai Russi! Ai do tori del Ospidal militar. Là i gaveva una tal pratica con quei che pomigava, che no se ghe la fracava fazile. Alora vù dovè saver che 'sto canon Krupp, che ierimo mi, Bogdànovich e el povero Sangulìn, iera un tananài che no finiva più: longo de qua fin là e el tirava proieti de tre e otanta. — Che quanto sarìa ogi? — Sempre tre e otanta, siora Nina, quel no ga né cressù né calà. Trezento otanta milimetri, che sarìa trentaoto centimetri. Più de una quarta: ve imaginé che bala! E alora co' tiravimo dovevimo stroparse le orece coi diti e verzer la boca. — Iera obligo? — Obligo? Se no, podeva restar ofeso el timpano. E cussì me xe vignù l'idea. — Che idea? — Speté. Cussì ghe la go contada al dotor co' son andà in Ospidal de campo. «Capitano — ci facio, ci dico — io avevo le mani intrigate, causa un'impelenza, e non ho potuto stroparme le orece coi diti e lori intanto gaveva sbarà col canon». — Contro de vù? — Machè contro de mi. I gaveva sbarà — questo ghe go dito — e che mi insoma no sentivo più gnente. — Causa el rimbombo? — Sicuro. E alora 'sto dotor me ga spedido per el controlo a Leopoli. A Leopoli iera tuto quela volta: Oberkomando, Ospidal militar generale... Corte marzial, l'arciduca Carlo Ludovico, tuto insoma. — E no sentivi gnente? — Ma come no sentivo gnente, siora Nina? Sentivo benon. Co' i gaveva sbarà, mi me gavevo stropado le orece, ma a lori ghe contavo che son diventà sordo, per via che i me mandi a casa. — Ah, simulavi, come? — Sicuro. Vado a Leopoli e xe questo primo Primario militar che me visita. Me ricordo come ieri, el me fa tute le prove e mi sempre che no sento, che no sento e che no sento. Po' el me fa sentar, el me scrivi el zertificato. Me lo vedo ancora, bel omo, coi favoriti, sui sessanta, sessantazinque, sentà drio del pulto bianco, e davanti el gaveva un grando bicer, de quei bei de cristalo de Boemia con vodka drento, mi calcolo, perché co 'l parlava el spuzava de petéss. — El beveva? — Fredo iera là, siora Nina, cossa credè? Insoma el me firma 'sto zertificato, ben pulito. El me disi: «Andate!» E mi, furbo, fermo là, perché che no 'l capissi che sento. Alora lu me ga fato de moto cola man «Ghez, ghez», come de 'ndar via. Me alzo, me volto, vado verso la porta e co' go la cluca in man, sento che 'sto malignazo buta per tera el bicer che se spaca con un tiro che no ve digo. Ma mi — furbo — no me giro e digo: «Truco vecio, mona de vecio», cussì, senza voltarme. Siora Nina, volé creder che 'sto qua, prima, iera stà vinti ani a Trieste? — Mama mia, e alora? — E alora, el me xe vignù là, el me ga guantà per el brazzo e el me ga zigà tanto, ma tanto che de quela volta me xe restado ofeso el timpano. MALDOBRIA VI - UN'AVVENTURA A BUDAPEST Nella quale Bortolo narra la storia del Primo Ufficiale Cùculich detto Jònapot, che sui bastimenti della Società in azioni Ungaro-Croata era il solo a mantenere un legame affettivo con la capitale magiara. — Chi sa dove che xe finì quel Cùculich che i lo ciamava Jònapot! — Jònapot? No go mai sentì. — Ma no. Jònapot i ghe diseva. Che vol dir «Bongiorno» per ungarese. Lui se ciamava Cùculich. — El iera ungarese? — Sì ungarese, Cùculich! Ungarese dele Boche de Cataro! Un patrioto el iera, un dalmato. Toco de omo, bon omo. El iera Primo Uficial con mi sul Duna che iera una barca dela Ungaro-Croata. — Iera barche ungaresi? — Ungaresi? La compagnia iera ungarese. La Direzion iera a Budapest, ma Comandante, uficialità, equipagio, iera tuti 'sti istriani, 'sti piranesi, 'sti dalmati. Comandante iera un zerto Terdoslàvich, bravissimo; e po' remenéla che no ve digo. — Chi, 'sto Cùculich? — No Cùculich. Cùculich iera Primo Uficial sul Duna. Comandante iera 'sto Terdoslàvich. Anche lui un patrioto. Un rider con lui. Iera lu che gaveva cominciado a ciamarlo «Jònapot». Perché dovè saver che 'sto Cùculich, co' andava del Comandante Terdoslàvich a portarghe el telegrama che passava ogni matina del Armamento, el ghe fazeva el saludo cola man sula bareta de montura e el ghe diseva «Jònapot, Comandante». Che sarìa stado «Bongiorno» per ungarese. Perché 'sto Cùculich gaveva quela del'Ungheria. — Ah perché el iera stà in Ungheria? — El iera stà in Ungheria? El iera stà in Ungheria per modo de dir, siora Nina! Partido de sabo e tornado de giòvedi, i contava. Ma ani anorum prima, ancora. Dovè saver che la Direzion dela Compagnia, come che ve go dito, iera a Budapest. E una volta i gaveva avudo premura de mandar no so che carte de Fiume a Budapest, e visto che lui iera là che spetava l'imbarco, i lo gaveva mandado a lui con 'ste carte per la Compagnia. «Società in azioni Ungaro-Croata per la Navigazione Libera in Fiume» se ciamava. Ma la Direzion iera a Budapest. Insoma lui, dopo de 'sto viagio, el iera tornà che per lu l' Ungheria ghe iera l'oracolo. Lui se gavessi cavà el sangue per l' Ungheria. — Ghe piaseva l'Ungheria? — Siora Nina: ghe piaseva? Pareva che 'sta Ungheria ghe fussi la sposa. Dio cossa che no se ga ridesto sule barche dela UngaroCroata per 'sta roba! Per ani, siora Nina! Cùculich Jònapot, coss' che no iera! Fé conto che un ghe diseva una roba qualunque, per esempio: «Stasera andemo in tera!» e lui: «Dio cossa che no xe la tera in Ungheria! Come che vù andé drento in Ungheria vedé subito 'sta tera grassa. 'Ste strade leteralmente coverte de porchi! 'Sto pan! Pan ungarese. Bianco el ve xe come el late. E Budapest che bela che xe Budapest». E po': «Budapest ve xe due città, Buda e Pest. E in mezo ve xe el Danubio. Con 'sti ponti. E po' i disi che el Danubio xe bel a Viena. Danubio blu no xe a Viena. Danubio blu xe a Budapest: a Viena el xe zalo». — Ah lui iera stà propio a Budapest? — Sì, ve go dito: partì de sabo e tornà de giòvedi. Ma ghe gaveva fato impression, come. Lui ghe predicava ai marineri de bassa forza: «La nostra barca se ciama Duna. Savé perché che la se ciama Duna? Perché per ungarese Duna vol dir Danubio. Che i disi el Danubio a Viena! El vero Danubio xe a Budapest. Perché Budapest ve xe due città: Buda e Pest. E in mezo ve xe el Danubio: Duna». — Ah, el contava de novo? — Questo iera, che el contava tuto el giorno. Ve go dito: el scuminziava de matina bonora co 'l ghe diseva al Comandante «Jònapot, Comandante!» Che sarìa bongiorno per ungarese. Po' de sera el ghe diseva: «Jò ésakat» che sarìa stà bonasera. E co' l'andava in tera, saludando dela banchina el diseva: «Visonlatasrò» che sarìa stà come arivederci. — Ah, ma el parlava per ungarese? — Maché parlar per ungarese. Che l'ungarese xe difizile anche per i Ungaresi, i me disi. Lu quele zinque parole el saveva. E lu esser dela Ungaro-Croata, esser stado a Budapest e saver 'ste quatro parole ghe gaveva dà come in testa. — E cussì el contava? — Sempre. Mi me ricordo che quela volta iero giovine de camera. E sul Duna servivo in tavola dei uficiai. E el Comandante Terdoslàvich lo stuzigava. El ghe schizava de ocio ai altri uficiai e el ghe diseva: «Primo Uficial Cùculich, ve sarìo obligado se me passassi quel pan là». E el ghe fazeva de moto col comio al Secondo. «Dovere», diseva 'sto Cùculich. «No xe roba più bona del pan — po' el diseva — ma vù Comandante, gavessi dovù provar come mi coss' che xe el pan ungarese. Bianco el ve xe, come el late. Per forza con quela tera che i ga là. Come che vù andé drento in Ungheria vedé subito 'sta tera grassa, 'ste strade leteralmente coverte de porchi. E Budapest. Cossa che no xe Budapest! Ve xe due città: Buda e Pest. E in mezo ve xe el Danubio. Duna. Come la nostra barca, Comandante». — Ah, anche al Comandante el ghe diseva? — A tuti, siora Nina. A chi che voleva e a chi che no voleva sentir. Co' el gaveva in man una corona el diseva: «Rex Ungarìe, vedé, xe scrito. Perché el nostro Imperator xe Re de Ungheria. Savé perché al nostro Imperator i ghe disi «Maestà Apostolica»? Perché el Re de Ungheria xe Re Apostolico. El Papa lo ga fato. Santo Stefano. Mi iero a Budapest!» Siora Nina, coss' che lori no rideva, con decenza. Che anche Barba Nane me diseva sempre co' ghe contavo: «Ti no rider dei Primi Uficiai. Lassa che ridi i Uficiai. Ti no rider». — Perché vù ridevi? — Tuti rideva. Insoma una volta, per farvela curta, fora de Spalatro ne ga becà un fortunal, ma un fortunal de quei, che gavemo pericolà per ore. Un vento de maìstro che ne ciapava de prova, bruto, propio bruto. Cussì gavemo pensà, el Comandante Terdoslàvich ga pensà, de taiar per drento e de armisarse a Traù per no dover passar Capo Planca. — Eh, xe bruto Capo Planca col maistro, me contava mio padre defonto ... — Indiferente. Capo Planca ve xe bruto con qualunque vento che sia. E co' rivemo a Traù no trovemo el Buda? — No trové el Buda? — Ma sì che trovemo el Buda! El Buda iera quel'altra barca del' Ungaro-Croata che fazeva la nostra linia per in zò inveze che per in su e i gaveva scapolà per miracolo Capo Planca e i iera tuti in local a Traù. No ve digo coss' che no xe stà: «Barba mi, Barba ti!» Perché iera raro che se intivavimo. De solito, come che noi rivavimo in un porto, lori rivava anche, ma dopo. Iera la linia. Insoma 'sto Comandante Terdoslàvich el se basa el se brazza col Comandante Dùndora e po' el ghe disi, remenéla che el iera; «Savé chi che gavemo a bordo?» — Chi? — Anche el Comandante Dùndora ghe ga domandà chi. E lu ghe disi pian «Cùculich Jònapot». Per farvela curta el ghe ga contà tuta 'sta storia de 'sta Ungheria che no finiva mai e el ghe disi: «Vù stasera in tavola — che magneremo tuti insieme dài, che no gavemo mai ocasion — vù diseghe: «Primo Uficial Cùculich... una qualunque roba. Vederé che lui ve vien subito sul'Ungheria». Un rider, un rider e de sera gran zena a bordo del Duna col Comandante e tuta l'uficialità del Buda. — Ah, invitai a bordo? — Sicuro. No gavevimo mai 'sta ocasion. Insoma dopo che tuti ga un poco magnado e bevudo, el Comandante Terdoslàvich ghe dà come una piada al Comandante Dùndora e el ghe schizza de ocio. E 'sto Comandante Dùndora ghe disi: «Primo Uficiale Cùculich, per favor me passassi el pan?» E 'sto qua ghe lo passa, e zito. — «Prova, prova de novo, dài», ghe disi pian Terdoslàvich. «Primo Uficial Cùculich, vù che sè de 'ste parti, tera magra me par qua a Traù». E lu sì, ma che lui xe veramente dele Boche de Cataro. — Ah, no 'l contava? — No. Forsi el gaveva sogezion. «Dài, dài, prova de novo — ghe disi in zito Terdoslàvich — dighe se el iera mai in treno». «Mi no me piasi viagiar per treno — disi forte Dùndora che iera remenéla anche lu — vù Primo Uficial Cùculich, ve piasi viagiar in treno?» «La prima volta che go viagià in treno, disi Cùculich — e tuti se schizzava de ocio — iero giovinoto e andavo de Fiume a Trieste in Ferata». E alora Terdoslàvich ghe disi: «Ma che viagio in treno ve ga fato più impression?» «Questo che ve digo, de Fiume a Trieste — disi Cùculich — perché co' semo rivadi a Erpéle el nostro treno se ga fermà per via che iera stà un scontro de dò treni de militari. Propio rente Erpéle. E alora semo smontai e semo andai tuti a veder. Iera dò vagoni leteralmente un drento del altro». No ve digo in 'sta tavola che mufi che iera tuti. E 'sto Cùculich disi: «Un vagon leteralmente drento del altro, un disastro, vitime! Militari che coreva de qua e de là. Ma quel che me ga fato più impression iera un uficiai, austriaco, che se ghe vedeva solo la testa spacada fora del finestrin e el zigava ancora: mama! In ungarese.» MALDOBRIA VII - WEST SIDE STORY Nella quale Bortolo racconta del fortunale che investì il vapore «Jupiter» sulla rotta del Nord Atlantico, di come ne venne salvato il carico e del gran profitto che ne trasse a Nuova York il nostromo Lupetina. — Mai, siora Nina, me dimenticherò de quela volta che gavemo salvà el carigo del «Jupiter» e i ne ga dà la gratifica a ogni mariner del equipagio. — Cossa gavé salvà el carigo? Che carigo? — El carigo de briscola! Ma dài, siora Nina! El carigo dela barca. Iera tuto stofe inglesi. Fazevimo NortAtlantico quela volta. Ne ga becà fortunal, e che fortunal! Se gaveva ingavonà la barca e i colli fazeva caropéna, tanto che el Comandante Ossòinak ne ga dito: «Qua sarìa de butar el carigo in mar, ma se volé ris'ciar lo tignimo. El sarà squasi come nostro». — E gavé ris'cià? — Sì, sì. Tuti dacordo. E ala fin del viagio ... — El carigo iera vostro? — No, perché la Sicurtà se gaveva intestardido. Anche l'Armamento diseva che iera e no iera. Ma insoma i ne ga dà a tuti una bonaman, una gratifica, come. Zento fiorini a testa, che iera soldini, savé quela volta ... — Eh! Li gaveré spacai, me imagino, maritimi... — No, no, perché xe stà quela volta che a mi me xe vignuda quela malignaza idea. — Che idea malignaza, una maldobrìa? — No. Come idea la iera giusta. «Femo un calcolo — mi go dito — zento fiorini, va ben, xe qualcossa. Ma in fondo cossa femo con zento fiorini per omo? Poco o gnente. Inveze mile e dozento fiorini, xe un capitaleto». «Orpo se xe un capitaleto — ga dito Pìllepich — tanti pochi fa un assai. Ma chi ne li dà?» «Nualtri — digo mi — semo in dodese. Dodese volte zento fa mile e dozento. Metemo tuto in mucio e ciapa un solo». — Un solo chi? — Speté, speté che ve conto: «Metemo tuto in mucio — go dito — e tiremo a sorte. E ciapa tuto el più fortunà». — Ah, a sorte! — Sicuro. E tuti entusiastichi. I se ga convinto. Meio un tuto che tanti pochi. E Pìllepich disi: «Femo bilieti coi nomi e li metemo in bareta». E el nostroomo Lupetina che no, che dopo chi tira su el bilietin? Alora Marco Mitis disi: «Femo chi che tira la carta più alta». E el nostroomo Lupetina disi che no, che el mazzo de carte de bordo xe vecio, e che se conosse tute le carte per de drio. — Alora no gavé fato? — Gavemo fato sì. Perché el nostroomo Lupetina ga dito: «Perché no femo testa e crose col sistema american? Se buta una corona. Mi bato con ti, vinzo mi, ti ti xe fora. Mi bato cc5n Marco, vinzi lu, mi son fora e cussì avanti finché resta solo un che beca tuto». — Ah, testa e crose? — Sicuro. Per farvela curta, a Névjork, el giorno che i ne ga dado la gratifica, gavemo messo tuto in mezo dela tavola in salon de pranzo. E là, testa e crose, testa e crose. Siora Nina, no go mai visto un omo più fortunà! — Chi? — Chi? Ma el nostroomo Lupetina. Vardé, lui ga batù con tuti. Ierimo in dodese, po' in sie, po' in tre, po' dò e po' uno. Mi son stà subito fora de pignata e me la go messa via. Ma el nostroomo Lupetina iera una roba de no creder. El ghe domandava ai altri: «Ti vol testa o ti vol crose?» «Ti vol l'Imperator o ti vol la galina?» — La galina? Gavevi una galina? — Ma dài, siora Nina, la galina con dò teste, l'Aquila Imperiai, la stema sul de drio dela corona. De una parte l'Imperator, de quel'altra la galina. — E el nostroomo Lupetina vinzeva sempre cola galina? — Qualche volta cola galina e qualche volta col Imperator. Indiferente. El domandava, ve go dito. El domandava «Ti vol testa o ti vol crose?» Mi per esempio ghe go dito testa e xe vignuda fora la galina. Pìllepich ghe ga dito crose e xe vignù fora la testa del Imperator. Insoma 'sto nostroomo Lupetina no ga mai perso un colpo. Co' vigniva testa el diseva «Abtàt! che passa el Kaiser». Co' vigniva crose el diseva «Viva l'Austria!» Tempo meza ora i mile e dozento fiorini iera sui. — Mama mia! — E savé coss' che ga fato el nostroomo Lupetina? — El se ga comprà la casa? — Maché casa! El xe restado in tera a Névjork. E là el se ga comprado un local a Ventitré Strade. Go visto: una bela posizion. El ghe ga ciamà: «Alla Città di Fiume». Andava là tuto marineri... 'sti istriani, 'sti dalmati, 'sti piranesi. E dopo el ga fato vignir la moglie. — Eh, bori ciama bori! — Però poco el li ga godesti. Me ricordo che un viagio, semo de novo a Névjork e vado a zercarlo «Alla Città di Fiume» anche perché là se se trovava sempre coi nostri patrioti. E trovo la moglie in profondo luto. Ghe digo: «Cossa ve xe Nìniza?» «Eh — la me fa — xe una setimana come ogi che, propio el giorno dei Santi, el me xe vignù a casa che no 'l ga voia, che no 'l ga voia. Mi ghe go visto subito i oci infoscadi: "Ti vol Tonin che ciamo el dotor?" Che no, che no, ma de note mal, mal, mal, e el xe andà ...». — Povera dona, restar vedova cussì in America. — Povera sì. Anzi la ga vossù che vado a casa sua de ela che la stava là vizin a Ventidue Strade: «Qua xe la sua roba — la me ga dito — tuto come che el ga lassà. El satùl che el tigniva la matricola, le sue carte. E vardé 'sta cogumeta. Lu ve iera afezionado a 'sta cogumeta». Verzo la cogumeta, siora Nina, cossa trovo? — Café ancora? — Maché café ancora! Trovo dò corone. Dò monede de una corona: una con dò teste e una con dò crose. Siora Nina: mortus est e non più buligaribus, mi no go 'verto boca. «Pace sepulto — go pensà — dove che ti son adesso no te servi fiorini, fiolduncan». E me le go messe in scarsela almeno quele. — Per memoria? — Maché per memoria! Per zogar testa e crose. Fina al ribalton del'Austria go zogà. MALDOBRIA VIII - PAVONIRICH Nella quale Bortolo narra dell'eterna giovinezza del Primo Ufficiale Pavonìrich e dell'invidia che essa suscitava nel Comandante Petrànich, il quale, grazie a un ben congegnato machiavello, si ebbe una clamorosa ma effimera rivincita nel Salone di Prima Classe. — Dopo i zinquanta, diseva sempre Barba Nane, se pol meter fora el tabelon: «Chiuso per la morte del paron.» — Ma Barba Nane no mostrava i sui ani. — No, no 'l li mostrava, co 'l stava serà in casa. Savé a quanti ani che el xe morto? Novantaoto el gaveva e le sue ultime parole — me ricordo come che fussi ieri — xe stade 'ste qua: «Novantaoto ani go e no i me ga mai cavado la matricola». — Eh fazile per vualtri omini. L'omo a qualunque età xe sempre un omo. L'omo ga sempre la sua presenza. Quante volte un bel vecio xe più bel de un giovine. Per le done inveze xe grave. Me ricordo che mia povera madre me diseva sempre: «Gòdite, Nina, gòdite fin che ti ga i ani». — Tuti i ani xe boni per goderseli, basta saver come e quando. E po' no gavé mai pensà? Xe bel invecir, perché chi che no invecissi mori giovine. — Sì, sì, però de giovini se baia e de veci se trabaia. Per quel che tante done zerca de sconderse i ani. — Perché i omini no, siora Nina? Ghe ne go conossudi mi co' navigavo! Spece i maritimi ga 'sto vizio. Me ricordo — sarà stà ancora prima dela prima guera — giovinoto iero, putel se pol dir, che fazevo la linia de NortAmerica col'AustroAmericana. Iera bele barche quele del'AustroAmericana. Oh dio, no iera quele comodità per el passeger che i ga ogi, ma per quei tempi iera lusso. Mi iero primo giovine de camera. — Mio padre defonto, inveze, ga navigà sempre in coverta. L'ultimo ano el iera nostroomo. — Anche mi iero nostroomo e inveze iero sempre dei altri. Indiferente. Iera i primi viagi che fazeva come comandante, el Comandante Petrànich. E Primo Uficial iera un dàlmato, un vràsio dalmatinsko — toco de omo, bel omo — un zerto Pavonìrich, de Curzola el iera. E sempre el se becava col Comandante Petrànich che ghe diseva: «Curzolani gente persa, fa la crose ala riversa». — Come ala riversa? — Sì, come dir che là iera anche qualchedun de religion vecia. Bon, 'sto Pavonìrich mi me lo ricordo sempre compagno. Savé quei omini che par sempre precisi, che vù no podé saver quanti ani che i ga? Suto, stagno, tuti i cavei e tuti i denti. — Eh i dalmati ga bei denti: i disi che xe del'acqua. — Sì, perché i dalmati no bevi acqua, bevi solo vin. Insoma el Comandante Petrànich diseva sempre: «Mi pagassi no so quanto per piturarlo davanti a tuti coi veri ani che el ga. Lui disi che el xe del Otantadò e mi inveze son sicuro che el xe almanco del Setantasete». «Vù, Primo Ufizial — el ghe diseva sempre — gavé un difeto de pronunzia, opur no savé far conti». Ma 'sto Pavonìrich gaveva carte dalmate, ancora de Baiamonti mi credo, che mostrava che el iera del Otantadò. — Povero fradel de mio povero padre iera del Otantadò. — Indiferente. Vù dovè saver che sul'Austro-Americana se fazeva feste a bordo, che adesso, con tute le comodità che ga ogi el passeger gnanche no i se le insogna. Signore feste. E 'sto Pavonìrich con tute le passegere — ma signore passegere, perché quei che andava in Prima Classe una volta iera Uficialità, nobiltà, magnati ungaresi, gente che no ghe dioliva la testa — eben lui iera el primo omo de bordo, 'sto Pavonìrich. Balerin, una sbàtola che incantava e pò 'ste signore el se le portava su e zò per i ponti, cola luna. El ghe diseva per mostrarghe i alisei e i controalisei. «Altro che alisei!» diseva el Comandante Petrànich. — Ma quanti ani el gaveva? — Ma speté, speté. Insoma dovè saver che mi, come giovine de camera, fazevo anche la sua gabina. Ghe fazevo tuti 'sti lavori, 'sti servizi. Ghe portavo su e zò la roba de lavar. El cambiava camisa dò volte al giorno. Anche tre. Puto el iera, no 'l gaveva de pensar per nissun. E quela volta, savé, le camise iera un lavor. Col peto incolado, polsi incoladi e el coleto duro coi becheti. — Ah, no se incola più adesso. — Bon, inveze quela volta se incolava. E una matina, che la sera doveva esser la festa, la festa del «Forvél» i ghe diseva, l'adio de bordo, perché sbarcavimo a Boston, quela volta se sbarcava prima a Boston e dopo a Névjork, el me sona. — El sonava? — Sì, la Manon, diseva el Comandante Petrànich. La campanela el sona. El Primo Uficial Pavonìrich me sona la campanela, vado drento: el se stava fazendo la docia, voltà el iera, col sugaman atorno ala vita — perché no iera miga come adesso, savé, iera più rispeto umano — e senza gnanche voltarse mi fa mi dice: «Bortolo, alora la camisa dela montura che me sia incolada per stasera». E in quela che el parlava, mi vedo una roba, siora Nina, che gnanche no ve digo. — Cossa, cossa? — Ma dài, siora Nina, no sté esser curiosa, ve conterò dopo. Insoma, apena che vado fora, coro del Comandante Petrànich e ghe digo: «Sior Comandante il suo desiderio sarà esaudito». «Che desiderio, cossa? — disi el Comandante. E mi ghe digo: «Se me lassé far a mi, stasera ala festa del Forvél el Primo Uficial Pavonìrich lo coionemo per la vita e per la morte». E lui apena che el ga sentì, el me disi: «Bortolo, carta bianca». Contento el iera, come se el gavessi intivà la Loteria de Praga. — Ma cossa ghe gavevi palesado? — Speté che ve conto, perché se no speté no conto. Alora de sera, iera oto de sera, ale oto iera el dinner, ghe vado in gabina del Primo Uficial. Mufo. Fazevo el mona per no pagar dazio. E ghe digo: «Me dispiasi, ma el lavander chinese, quela vostra camisa de montura el la ga brusada col fero». Ciàpilo, lighilo lu. «Per fortuna — ghe digo mi — solo la camisa ma no la roba incolada che iera zà pronta». Savé come che iera una volta le camise: la roba incolada iera separada. — Come no: iera el peto, i polsini el coleto e dopo iera la camisa separada. — Giusto. Cussì ghe go dito. «Sior Primo Uficial, gnente de grave, vù ve meté su el peto, mi ve ligo de drio, po' ve meté i polsini, el coleto e el gilè de sera. E dopo co' ve gavé messo su la giacheta, chi vedi gnente?» Insoma el ga rugnà, ma el ga fato come che ghe go dito mi. El gilè sora el sparato e la giacheta coi brazzi nudi, ben serada cola dopia botonera che se usava quela volta. — Ah, i ghe gaveva brusado la camisa sopressando? Nassi, nassi. — Maché. No i ghe gaveva brusà un bel gnente. Mi ghe gavevo flociado. Ma volé o no spetar che ve conto coss' che iera 'sto scherzo? Festa, dopozena, coi cotiòn, con serpentine, come che se usava quela volta e co' xe in punto a mezanote, sampagna. In punto a mezanote, sul'AustroAmericana i dava sampagna. E tuti imborezai. E el Comandante Petrànich disi: «Adesso, se giocassimo, vero, i pegni?» — I pegni come i fioi? — Fioi sì, i fioi anche zoga. Ma xe un gioco di società. Gente fina zòga i pegni. E po' xe tuto una scusa per basarse cole done, dirghe quel e quel altro, cìncili, ciòncili. E me ricordo che el Comandante Petrànich ga dito: «Giochiamo a „E' arrivato un carico di..." E bisogna dir che el Primo Uficial Pavonìrich iera el primo de tuti. No 'l perdeva un colpo. Iera tute le babe come mate per lui. Fina che el Comandante Petrànich ghe buta el fazoleto col gropo e ghe disi: «E' arrivato un carico di zeta». «Zuchero» — el disi lu. «Ah no, zuchero é già stato detto!» (che inveze no gaveva dito nissun). «Zaratini» el disi lu, alora. «Zaratini no vai, zaratini xe omini e no carigo, e po' i zaratini no naviga», ah, ah, el rideva. «Ziévoli», disi el Primo Uficial. «Non vale, non vale, ziévoli é in dialeto, si dice cefali, non vale ziévoli». Alora lu: «Zufoli». «Maché zùfoli, xe anche dialeto, in italian se disi ciùffoli». «Ma no, i zufoli per suonare». «Maché, maché chi ga mai visto carigar zufoli, pegno, pegno, pegno!» Tuti ziga «pegno, pegno, pegno» un desìo che no ve digo, un rider. — Ma no 'l podeva dir «zidéle»? — Ma dài, siora Nina, zidéle no se disi. E po' no 'l ga dito insoma. «Pegno, pegno». Ghe toca pagar pegno. — E che pegno i ghe fazeva far? El doveva dar una roba? — Ma no! A bordo se usava o baciare la mano a qualche vecia crodiga, opur bever sampagna tuto de un fià de un vaso de fiori. Ma inveze stavolta, perché ierimo zà dacordo, el Comandante Petrànich ghe disi: «Il nostro brilante Primo Uficiale, lui sempre così impecabile, farà un giro di valzer con la signora del Consigliere Aulico Metzger, che abbiamo l'onore di avere qui imbarcata, ma senza giacheta». E tuti a bater le man: «Bene, bene, bene!» I siori, savé, se divertiva anche con poco. E lu sorapensier el ghe sta al scherzo, el ridi, el se cava la giacheta. Un urlo, siora Nina, un urlo! — Ah xe vero, perchè el gaveva i brazzi nudi e el peto incolado ligà. — Sì, sì tuti ga ridesto per quel, ma el Comandante Petrànich con tuti i uficiai che iera avisadi, i ghe alza su el brazzo come ai lotadori, come a Raicévich, e savé coss che el gaveva sul brazzo? El tatuagio. — Che tatuagio? — L'àncora, siora Nina. Qua in alto dove che se fa le variole. El gaveva l'àncora e scrito: «Classe 1872». Quel iera el suo milesimo. Diese ani el se calava, siora Nina. — Però che macia 'sto Comandante Petrànich! — El iera, sì, macia. Adesso povero, el xe morto. Pavonìrich, inveze, lo vedo sempre, co' vado cola barca a Curzola. El sta là in riva. Novantazinque ani: e el ghe fis'cia drio ale foreste che passa. Sempre preciso, savé quei omini che no se riva mai a capir quanti ani che i ga... MALDOBRIA IX - LA COMMEDIA DELL'ARTE Nella quale Bortolo parla di sei personaggi in cerca d'autore i quali, dopo che lo ebbero trovato, seppero superare molte difficoltà, ma non l'ultima, come del resto accadde a protagonisti di ben maggior statura. — Mi son dacordo che el teatro xe una gran passion, ma istesso i spendi massa soldi adesso: scenari, costumi... i podessi far teatro come che fazevimo noi, co' ierimo giovini. — Come teatro? Teatro de opera fazevi? — No. Opera no. Vose per coro, come corista, mi go sempre avudo. Ma cussì de cantar propio a solo, no. Comedie fazevimo. E no ve digo come che dovevimo rangiarse presempio co' iera de far le prove: in magazen del pesse, figuréve. Era di notte e non ci si vedea, perché Marfisa aveva spento il lume! — Marfisa chi? No conossevo. — Ma dài, siora Nina: «Era di notte e non ci si vedea, perché Marfisa aveva spento il lume». Goldoni: «Il poeta fanatico», atto terzo, parte di Brighela. Ancora go in amente. Come dir che se fazeva le prove quasi in scuro. E scene pò? Dò gavevimo, sempre quele: Un muro coi alberi de drio e un «interno di casa borghese», basta. Ne le gaveva regalade i frati de Dàila. Che bel che iera i frati de Dàila. Istesso no i gavessi dovesto. — Poveri frati. Ah, vù ieri dela filodramatica? — Maché filodramatica. Noi no ierimo gnente. Se fazeva cussì tra de nualtri. Ierimo mi, Marco Mitis, el fio del vecio avocato Miagòstovich, che iera studente quela volta, la nevoda dela Maestra Morato, Piero Bùnicich, Favreto, quel che po' iera cogo del Lloyd, Primo cogo, e la signorina Bertoto, che iera sorela de Bertoto, Maestro de Posta, puta vecia, ma assai cocola. Ela la ne copiava le parti, po' la ne sugeriva e tuto. Bei ani: gioventù, che iera una volta e no la torna più. Con una s'cinca e un boton se fazeva tuto. Mai no me dimenticherò de quel ano che gavemo volesto far la «Partita a Scacchi». — Ah, perché zogavi anche a scachi? ... — Sì. E la tria. Ma dài, siora Nina: la «Partita a Scacchi» di Giuseppe Giacosa. Una comedia nominada, dài: «Perchè pagio Fernando mi guardi e non faveli?» «Perché speto che el figo i me lo speli», diseva sempre Piero Bùnicich, che iera una macia. — Ah, xe una comica? — Maché comica! Xe un drama in costume. Che in costume se fazeva assai de raro. Perché chi ne dava i costumi? Se se li fazeva de satin, de cotonina, ala domàcia. Insoma però quel ano meritava, perché cascava tuto ben. Difati vigniva a esser al quindese de agosto, la Madona Granda, pò iera subito domenica e pò iera el diciaoto de agosto. — Diciaoto de agosto? Cossa iera al diciaoto de agosto? — Siora Nina! Diciaoto de agosto, forsi vù no ve ricordé, ma una volta el Diciaoto de agosto iera altro che el Primo Magio! Iera la Festa del Imperator! Festa granda. E noi gavevimo pensà che podevimo far tre recite: el Quindese de agosto, la domenica e el Diciaoto de agosto. Gnanca primavera no iera che gavevimo comincià a pareciarse. Qua, là, una roba e l'altra, femo 'sta «Partita a Scacchi». Per i costumi se rangemo: un poco ne gaveria dado le Mùnighe de Squero, i vestiti dei pageti del Santissimo Sacramento, un poco ga fato la Maestra Morato, scena no ocori perché, gavemo dito, xe istà e femo al aperto, sula scala del Domo. — Ah, bel sula scala del Domo! Bel! — Altro che bel! Noi gavevimo zà scoperto quela volta 'sta roba che adesso par l'ultima invenzion de Guglielmo Marconi. L'unica roba che ne mancava iera le paruche, perché comprarle gnanche parlar. In alora le paruche iera fate de cavei veri e costava un ocio dela testa. E nolegiarle, sì, gavevimo pensà de nolegiarle, ma istesso iera una spesa tropo granda per nualtri e po' ghe voleva cauzion. — E alora come gavé fato? — E alora ghe xe vignuda l'idea al fio del vecio avocato Miagòstovich. «Cossa ocori paruche? — el ga dito — Pagio Fernando gaveva la paruca? No! el gaveva cavei longhi. E ben, se femo cresser anche noi i cavei longhi. Adesso semo in marzo, fin agosto gavemo cavei longhi come Atilio Hortis. Risparmieremo i bori dele paruche e risparmieremo i bori del barbier. E pò xe anche più natural». — Ah, farve cresser i vostri cavei? — Sicuro. Tuti entusiastici ierimo. Muli, se pol capir, roba de vinti ani! E pò ne dava anche anda, cussì de artisti. — E i cavei ve xe cressudi? — No, i ne se ga scurtà! Per forza, se no li taiavimo i ne cresseva. Zà in magio la gente se voltava per strada a vardarne. In giugno pò ierimo come San Nazaro. Me ricordo che Barba Nane me diseva: «Ma cossa ve faré le drezze? Dopo ve tocherà farve el cocon. Perché no meté anche recini?» Tuti ne coionava. La mularìa, de domenica al liston ne zigava drio: «Cavéi dove porté quel omo?» E al balo dela Democratica, che iera rivada una barca de Sebenico, tuti 'sti dalmati vegniva a invitarne a baiar, per ciorne pel fioco. — Ah, i ve cioleva via, insoma! — Altro che. Savé, l'omo coi cavei longhi fa strano. — E dopo gavé fato 'sta recita? — Iera tuto pronto siora Nina. La parte tuta a memoria, che gnanche el prete in cesa, costumi cusidi, i cavei mi li gavevo fin qua sule spale e a Marco Mitis, anzi, fin tropo i ghe iera cressudi, che el gaveva dovesto zimarseli. Tuto pronto, insoma. — Per el Diciaoto de agosto? — Sì. Ma prima xe vignù el ventinove de luglio. — «Il Ventinove luglio del Millenovecento, Umberto Primo spento fu da viliaca man ...». — Maché Milenovezento. Milenovezentoquatordici; Ventinove luglio 1914. Guera ala Serbia, mobilitazion general. Tempo tre giorni ierimo tuti in Galizia. Mi, Marco Mitis, el giovine Miagòstovich, Piero Bùnicich e el povero Favreto. Tuti in Galizia, rasadi a zero. MALDOBRIA X - LE NOTTI BIANCHE Nella quale Bortolo narra della febbre gialla e della quarantena che dovette trascorrere sul «Karlsbad», mentre guizzavano i primi lampi della Prima Guerra. — Anche mia moglie: la prima roba che la varda sul giornal xe i morti e subito dopo el Oroscopo. Mi no capisso propio come che ghe se possi andar drio a 'sti sempiezzi. — Eh sior Bortolo, savé come che se disi: «Tuti i giorni xe giorni ma no i se someia». — E cossa volé vù? Saver prima quel che nasserà dopo? Per infassarve la testa prima de rompervela? Crederne a mi, siora Nina, mi go un'unica bandiera: «Chi vol viver e star ben che el ciapi el mondo come che el vien.» Zerto che, qualche volta, el presentimento ... El presentimento xe una roba anche sientifica, savé? Xe come i ragi, gavé mai fato i ragi? — Come no, una volta a Ancarano co' gavevo la picìte. — Indiferente. Iera per dir che i ragi, una volta, no sarìa stà gnanche concepibile de poder vardar dentro el corpo umano. E cussì chi sa che in un domani no se possi veder per bon nela mente, in 'sti fenomeni, in 'ste forze. Telepatìa, come. Perché esisti Forze, savé! — La forza del destino? — Sì, la Vergine degli Angeli! Forze vere esisti. No 'ste pupolade dei giornai, che per esempio tuti quei che nassi el stesso giorno, ghe dovessi nasser la stessa roba. «Supererete una dificoltà improvisa.» Tuti ga dificoltà. E improvise, perché se no le fussi improvise no le sarìa gnanca difizili. E se le supera perché semo ancora qua, siora Nina. Mi, de giovinoto, gavevo assai curiosità de 'ste robe. Barba Nane me diseva sempre: «Ma sé stroligo o el diàvulo ve la ga contada?» — Ah, vù induvinavi, induvinavi? — Induvinavo... Mi savevo dele stele. Anche dele carte savevo. «Una letera, un omo ala porta de casa, per mi, per ti, per lu ... — ... e per chi che ne vol mal, che ne protegi da morte, carestia, ospidal.» — Indiferente. Ma xe robe che ghe vol star assai atenti, perché dopo più de un, qualche volta, bazila. Barba Nane me diseva sempre: «Savé vù, stròligo, quando che i ve caverà la matricola? Quando che andaré a contar sasseti in frenocomio.» — Eh fa, fa impression 'ste robe, gavé ragion. — Dovevi veder che impression che ghe go fato mi una volta al Comandante Vàttovaz ... — Quel che dopo se ga fato Vattovani? Ghe gavevi induvinà? — No quela volta. No 'l se gaveva fato ancora. Parlo de prima dela prima guera, i ultimi giorni propio: luglio del Quatordici. I gaveva apena copà Francesco Ferdinando. Quaranta anni fa ... No! Zinquanta! Orpo come che passa el tempo, mama mia. — Mi iero giusto putelina. — E mi iero giovinoto, giovinoto de camera. Mi son stà sempre in camera. Coverta no me ga mai piasso. «Soto la coverta sempre, ma in coverta mai», diseva el Commissario Bonifacio, un triestin, una macia de omo, un cotoler. Insoma, tornavimo de Bòmbei col «Karlsbad», che dopo, soto l'Italia, i ga volesto farlo «Campidoglio». Iera una barca vecia zà quela volta. E una sera, poco prima che rivemo a Fiume, el Secondo Uficial disi che no 'l ga voia: i oci infoscadi, mal de testa e, de note, mal, mal, mal. Squasi quarantadò de febre. — Quarantadò? Ma no se mori con quarantadò? — Dipendi dele malatie. Malaria se pol gaver anche quarantatré che no vol dir gnente. — Ah, malaria el gaveva? — Speté, speté. Quela volta no gavevimo miga dotor a bordo. Iera el Comandante, che gaveva un armereto de purganti, salicilato, iodio, valeriana, chinin. Insoma gran chinin che ghe buti zò la febre e impachi fredi sule gambe. — Ah, sì, quel fa assai ben, anche a mio padre defonto, ghe fazevimo. Mio padre, povero, gaveva quela che l'acqua ghe vigniva su, sempre più su... e el dotor ga dito: «Co' la ghe riva al cuor, el more». — Dropisìa. Conosso. Ma indiferente. Fato stà che 'pena rivadi a Fiume vien su la Sanità Maritima. Un dotor giovine. El ghe dà un'ociada e el ghe domanda al Comandante Vàttovaz el manifesto de bordo. «Ah! De Bòmbei vigni! Febre zala ve xe». El Comandante Vàttovaz diseva che no, che la febre zala fa l'ocio rosso, che mai più. Ma 'sto qua gnente, duro: quarantena. Fermi in rada de Fiume, fondo al'ancora e su bandiera zala. — Orpo! — Orpo sì. Mi gavevo la sposa a Fiume. La stava a Fiume e no iera verso de 'ndar in tera, savé! De matina rivava la betolina dela Sanità cole proviande, i giornai e te saludo. Insoma, mi una sera no ghe ne go podesto più. Anche per conto mio febre zala no iera, perché febre zala fa l'ocio rosso. E alora savé coss' che go fato? Me go calà zò con una zima de pupa, che no i me vedi, e coi vestiti ligadi sora dela testa son andà a Fiume, nudando. Luglio iera. — De note? — De note, sì. Se no, de giorno, i me vedeva. Note: 'pena che fazeva scuro. No ve digo coss' che no iera Fiume 'pena s'ciopada la guera: un movimento, militar che rivava, che partiva, 'sti Ungaresi tuti coi cavai. E al Governo Maritimo l'Amiraglio Horthy che bateva bandiera sul pinon, propio. Insoma ogni note mi andavo e pò tornavo a bordo ... — De note, dela sposa? — No miga per far del mal, savé? Stavimo là a casa sua de ela perché no podevo farme veder in giro e se parlavimo spetando suo padre che lavorava de note ala «Bilancia». — Ala pesa publica? — Maché pesa publica. «La Bilancia» iera el giornal de Fiume e lu iera là componista, tipografo come che i disi adesso. Lui tornava sempre col foglio in man, apena stampà. Iera la una, le dò de matina. Me ricordo 'sto giornal parlava tuto dela Serbia. Iera l'avanzata quela volta. E Hindenburg, Ludendorff: ogni giorno pezo iera. Insoma fazevo quatro ciacole col padre de ela e po' tornavo a bordo, nudando. — E no i ve ga mai trapà? — Una note. Una note me ga visto sul ponte el Comandante Vàttovaz che me gavevo apena vesti. «Coss' ti fa Bortolo a 'sta ora sul ponte? Maldobrìe? No ti son miga de guardia». E mi, cussì, ciapà sul momento ghe go dito: «No, mi son qua che guardo le stele». «Le stele, el me fa, ti se ga insempià?» Insoma, per farvela curta, mi ghe go contado che mi savevo tuto dele stele, del influsso, del avenir, una roba e l'altra. «Presempio, ghe go dito, Comandante Vàttovaz, mi legio che diman, diman l'altro sarà gran novità col Germanico». Perché mi, capì siora Nina, a casa dela mia sposa gavevo zà visto el giornal. — Ah, ghe flociavi! — No che no ghe flociavo: mi gavevo zà leto del'ocupazion del Belgio, ma el giornal rivava a bordo apena ale undese de matina, co' vigniva la betolina dela Sanità. E mi cussì, de quela volta, ogni note ghe la voltavo, ghe la giravo e ben o mal fazevo finta de induvinar, cussì, con parole de stròligo, quel che gavevo zà leto sul giornal. «Successo di un grande Impero», ghe disevo, «l'Aquila vola verso la Voivodina», «un'altra Potenza si muove», co' xe vignù in guera el Turco. Siora Nina, i me stava 'scoltar a boca verta. E po' tuti che me domandava del padre, dela madre, dele spose... e numeri del Loto, ma quei — disevo — no posso dar. Insoma cussì. Finché una note no son tornà a bordo. E ala matina dopo, ale undese, i ga leto sul giornal: «Spia nemica caturada in rada.» Un granfo me iera vignù, siora Nina, propio là del Silurificio. E fin che no xe vignù el Comandante Vàttovaz a dir che iero mi, l'Amiraglio Horthy me ga tazzà l'anima tuta la note per via che ghe digo dove che xe la Flota Inglese. MALDOBRIA XI - MAISTRO A CAPO PLANCA Nella quale Bortolo narra della sua prestigiosa carriera di cuoco di bordo sui battelli della Ungaro-Croata e di come il Comandante Ivàncich finì per costruirsi una villa a Cigale con moletto privato. — Vardé, siora Nina, che mi no parlo solo perché go la boca. Mi iero cogo de bordo. Primo cogo de bordo. Magari sul' UngaroCroata, ma Primo cogo. Gavevo comincià a navigar prima come gambusier sul Lloyd Austriaco, pò me rangiavo un fià fra le pignate e pian pianin i me gaveva tignù in cusina. Cussì co' i me ga ciamà sul'Ungaro-Croata, se volevo imbarcarme come Primo cogo, son andà subito: me piaseva. — Cossa, viagiar sul' Ungaro-Croata? — Ma cossa Ungaro-Croata! Cussì la se ciamava, perché i Diretori grandi iera ungaresi. Ma Comandanti, uficialità, bassa forza iera tuto patrioti: 'sti dalmati, 'sti istriani, 'sti piranesi. Volevo dir che mi iero assai portà per la cusina. Perché mi go sempre dito: «Indo che si manduca, Dio sempre mi conduca ...». — E cusinavi gòlas? — Maché gòlas. Gòlas gaverà magnà i Armatori che iera ungaresi, ma ve go dito che a bordo iera tuti patrioti. Comandante pò iera el Comandante Ivàncich. Sule «Boche di Cataro». — Ah! El comandava tute le Boche de Cataro! — Ma dài siora Nina, «Boche di Cataro» iera el vapor. Iera dò vapori dela Ungaro-Croata che fazeva la linia Fiume-Boche de Cataro. Uno se ciamava «Boche di Cataro» e quel altro «Fiume» ... — Ah, comodo! — No so mi se iera comodo. Cussì iera. Iera dò barche dela Ungaro-Croata. Insoma ve disevo che Comandante iera Barba Ivàncich, El Comandante Ivàncich, un lussignan de Lussingrando. Che Barba Nane, anzi me diseva sempre: «Fé, fé el cogo vù per el Comandante Ivàncich, che quel là per diese deca de butiro che no ghe bati el xe capaze de farve cavar la matricola ...» — El iera strento? — Strento si. Ma istesso el voleva che no mancassi gnente in tavola. Tavola sua del Comandante. La matina, me ricordo, el me ciamava in sua gabina e el me domandava: «Cossa gavemo ogi?» El iera un boncùlovich. — Boncùlovich? — Ma sì, siora Nina: insoma el ghe tigniva a magnar ben. E fin de prima matina el voleva saver tuto el menù. E no iera miga de dir con lu: un giorno risi e bisi, e 'sto altro bisi e risi. Bisognava stroligarse per trovarghene sempre una nova. Una volta che gavevimo un Nunzio Apostolico a bordo el me gaveva dito: «Ogi voio uno de quei pranzi che fazzi stronzi». 'Ssai pretese el gaveva. — No stéme dir a mi che anche a casa ... — Siora Nina, no stemo far paragoni. No savé coss' che vol dir aver più de zento passegeri a bordo. E miga campagnòi savé. Iera linia de lusso la Ungaro-Croata. Viagiava 'sta Uficialità, signorìe, signoroni. Ungaresi anche. Croati pochi però. E una volta, apena passà Sebenico, me la go vista propio bruta. — A Sebenico? — Ma no a Sebenico. Se ve go dito «apena passà Sebenico», vol dir che Sebenico iera fora discussìon. Insoma no ierimo gnanca a Capo Planca che un odor, un odor, un odor ... — Cossa, se iera brusà el pranzo? — Magari. Dovevo farlo ancora. Pranzo e zena. E pranzo del giorno dopo. Verzo la jazzera e un odor ... Insoma, per farvela curta, mi credevo che a Zara el gambusier ga vessi comprà el jazzo. Quela volta no iera l'eletrico. Lu credeva che lo ga vessi comprado mi. Tuti dò credevimo in Sant'Antonio: fato sta che tuta la provianda xe andada de mal. Agosto iera. Torido. Caldo. Pò in Dalmazia fa più caldo che qua. — Eh, in Dalmazia xe bel. — Ma bel no iera quela volta, ve digo mi, con verdura, carne, tuto marzido. E ghe voleva ancora un giorno e mezo per arivar a Cataro. — E gavè dovesto tornar indrio? — Sì, tornar indrio con un vapor! Un vapor no xe miga el trànvai, savè. La linia xe la linia. E el momento istesso che el «Bocche di Cattaro» rivava ale Boche de Cataro, el «Fiume» doveva rivar a Fiume. — Ah, iera fato aposta? — Indiferente. Fato si é che mi son andà del Comandante Ivàncich e ghe go dito: «Comandante, qua causa del jazzo, che siamo senza jazzo, é andato tuto di male. Gavemo solo un poco de scatolame, ma al massimo per un zinquanta pasti». Ciàpilo, lighilo el Comandante Ivàncich. E mi ghe go dito: «Savé mi pensavo ...» E lu: «Ti no ti devi pensar. Ti ti devi far solo quel che te digo mi. Quando che ti ga pensà, ti ga sbalià.» Che tuta 'sta roba butada via, che zà xe pecà de per sé stesso e pò anche ala Compagnia, che chi ghe rifonderà ala Compagnia? Che lu no de sicuro. Insoma, siora Nina, una rangiada de quele! — El ve zigava? — Come un falco. Ma intanto che el me zigava el mio zervel lavorava. — Podevi darghe galete. Quele no va de mal. — Siora Nina! Galete ai passegeri de linia? Col pan suto Zizeron diventa muto, come che se disi, ma mi ghe go dito al Comandante Ivàncich: «Comandante Ivàncich — ghe go dito — sentì Comandante Ivàncich, in guera de boni guerieri. Mi go navigado col Lloyd Austriaco, col Comandante Brazzànovich». Lui che no ghe interessa, che el Comandante Brazzànovich iera un muss. «Bon — ghe digo mi, per no far barufa — el sarà stà un muss, però me ricordo che co' navigavo col Comandante Brazzànovich per Costantinopoli ne ga becà un fortunal in Canal Doro». — E ben? — «E ben?» — anca lu me ga dito. E alora mi ghe go spiegà. Che quela volta co' ne gaveva becà 'sto fortunal, iera restado pranzo e zena, pranzo e zena, perché tuti i passegeri iera in doghe colegadi in cuceta che i fazeva i gatini. — E alora? — Anche el Comandante Ivàncich me ga dito: «E alora?» E alora — ghe go dito mi — quel che ne ocorerìa saria un fortunal. «E cossa — el disi lu — mi ghe telegrafo a Sior Idio che el ne mandi un fortunal?» «No, digo mi, un poco de mar. Un poco de mar trovemo garantito a Capo Planca, perché là a mezogiorno ve xe el maìstro sicuro come la morte. Vù, Comandante, meté un fià la barca per tresso, che la ciapi el mar de prova, che salti su la pupa, e in salon de pranzo no sé che vù e i uficiai». — Orpo, che truco! — Truco? Xe andà benissimo. Come che go dito mi. A Capo Planca, maìstro, barca per tresso e tuti i passegeri in cuceta. E fin che gavemo trovà maìstro e fin che semo rivadi ale Boche di Cataro sempre in cuceta i xe stai. Mal de mar ah, solo l'idea del magnar fa disgusto, come. — Eh, el mal de mar, mazza... — Sicuro. E co' semo rivadi ale Boche di Cataro el Comandante Ivàncich me ga ciamado: «Bravo — el me ga dito — ti se la ga pensada bela ... Quel Brazzànovich no doveva esser tanto muss. Ti sa che ti me ga dà un'idea?» — Che idea? — L'idea che, de quel viagio, ogni volta poco prima de Capo Planca, lui meteva la barca per tresso. Savé, siora Nina coss' che vol dir sparagnar dò tre giornade de provianda a bordo? vol dir assai. Butandola in fiorini podeva voler dir villa a Cigàle, una roba e l'altra. Iera un cine ogni volta con 'sta linia dela Ungaro-Croata. Passegeri in cuceta e el Comandante Ivàncich che mi ghe fazevo el pranzo solo per lu e i uficiai. — Ah sempre cussì el ga fato? — Fin che el xe andà in pension. Solo che dopo, co' el se ga sbarcà, savé coss' che ghe tocava far? Ora de pranzo el se calava zò del suo molìch là a Cigàle, soto dela vila, el montava in caìcio, l'andava fora dela ponta, là dove che xe la Cesa, per ciapar un poco de mar, cola barca per tresso. — E per cossa? — Per tirar fora el portapranzi. Perché el diseva: «Se no son su qualcossa che baia, no son bon de magnar». I ultimi tempi ghe scassavo mi la barca vizin del molìch. Cossa volé, vecio el iera. MALDOBRIA XII - IL SOCIO Nella quale Bortolo narra la storia di un'insolita pescata e di come venne utilizzato l'insperato capitale che essa rese e delinea per la prima volta — nell'affresco dei suoi ricordi — la figura di Toni Polidrugo. — Mi digo sempre: ognidun per sé e Dio per tuti, dopo quela che me xe tocada quela volta. Ve ricordé Toni Polidrugo quel che gaveva la trata? — Ah, Polidrugo! Quel che gaveva la trata. — No, Polidrugo, quel che gaveva la pivida. Ma se ve go dito che el gaveva la trata! — Go capì, go capì: el gaveva la trata! — E inveze no, no 'l la gaveva. Perché el la ga avuda apena dopo. Quela volta no 'l gaveva gnanca la barca, el vigniva a pescar con mi, in parte, sula barca mia. — Ah, el iera vosto sozio? — Mai sozi no go avudo, siora Nina. Perchè mio defonto padre diseva sempre che chi che ga sozio ga paron. El pescava con mi in parte, savé come che se usava: tanto per la barca, tanto per el paron, tanto per la rede. E dopo el resto se dividi. Ma Barba Nane me diseva sempre: «No meterte con Toni Polidrugo, che i pessi xe per lu e i spini xe per ti». — Eh, Barba Nane conosseva i omini. — Insoma, dovè saver che un giorno semo andai a pescar in Valon. — Con Barba Nane? — Sì, cossa go, zento ani? Co' pescavo, Barba Nane iera zà no so quanto tempo che el stava solo sentà sula porta de casa e co' passava le ragazze el ghe cantava: «La Marianna la va in campagna...» Con Toni Polidrugo, no, andavo a pescar. E quela sera semo andai in Valon. Tiremo su la rede, iera un ciaro de luna, che anzi se diseva «mah». Tutintun 'sta rede diventa greve, ma tanto greve che ghe go dito a Polidrugo: «Toni, ti vol veder che la ne se ga incozada!» E inveze tira, tira, tira, pian pian la vigniva suso. Savè, quela volta, no iera miga 'ste redi de nailon: per sbregar la rede bastava poco e ierimo in pensier quando — cossa xe, cossa no xe — me par de veder qualcossa. — Jesus! Un negà! — Negà? Chi se ga negà? — Un omo negà volevo dir. — Siora Nina, ma cossa no gavé pensieri più alegri? Perché doveva esser un negà? — No, cussì, pensavo. — Xe meo che no pensé. Scolté inveze quel che ve conto: iera qualcossa che mi go visto subito che iera roba viva, perché se moveva. Ma pesante! «Pronta el remo! — ghe go dito — che se xe un pessecan, quei ga sete vite e noi solo una.» — Mi go sentì che el pessecan basta un secio de acqua dolze in boca e subito el more. — Sì, sì, e mi go sentì che i colombi se li ciapa metendoghe el sal sula coda. No, no iera un pessecan. Iera una tartaruga. E bon che el gaveva prontà el remo, perché ghe go dà subito per la testa. — Ma le tartarughe no xe bone? — Sì, bone de magnar le xe, ma le mòrsega. Almeno cussì i me ga contà, perché ciapar una tartaruga de 'ste parti no xe miga una roba de ogni giorno. Difati, co' la gavemo portada in Pescheria, l'avocato Miagòstovich — lui ogni matina bonora iera in Pescheria — el me ga dito: «Bortolo, portila a Trieste, al Museo de Storia Patria, là de Storia Naturai, insoma». — La tartaruga? — Chi altro? L'avocato Miagòstovich? La tartaruga, sì. E che fadiga portarla a Trieste. Semo andadi col vapor. Un quintal e passa la gaveva. Semo sbarcadi, me ricordo come ieri, là del molo Giuseppina, po' gavemo ciolto un servo de piazza col careto e subito là in Piazza Lipsia, iera el Museo. — A Trieste? — A Trieste, sì. Solo che adesso se ciama piazza Ortis, perché xe giardin publico. Indiferente. Siora Nina, volé creder che i ne ga dà zento corone? — No! E iera assai? — Iera, iera. Tanto che se gavemo messo dacordo con Toni Polidrugo de far qualcossa, perché sbagazarle sarìa stà pecà. Quela volta iera el vecio Girardeli che voleva dar via la privativa dei tabachi e el voleva dozento corone. Savé: iera bon, perché iera privativa de tabachi, sal, pò el vendeva cartoline, boli, quaderni per i fioi de scola, penei de barba, britole, rasadori, lame giléte, petini. E la iera sul canton. Savé come che se disi: «botega de canton fa fortuna ogni coion». E cussì volevimo ciorla in sozietà. — Ma no gavé dito che 'sto Girardeli el voleva dozento corone? — Quel iera. Le altre zento bisognava farle su o far debito. Intanto gavemo dito subito: «Una roba xe zerta: 'ste zento corone no se le toca». E per esser più sicuri un del altro — savé come che xe? «Tegno mi? Ti tien ti? Mi no voio responsabilità» — gavemo patuì de taiar el bilieto in dò cole forfè. Mi go tignudo la metà che gaveva la dona e lu quela col tondo. Ve ricordé come che iera le zento corone, zelestine? — Mi le me pareva verduline. — Sì, iera un zelestin verdulin. Insoma gavemo fato metà e metà. Cussì nissun dei dò podeva spenderle se no iera dacordo anche quel altro. — Ah! Ben pensada! E gavé comprà pò la privativa? — Volevimo. Ma pò mi go pensà fra de mi: «In fondo ga ragion Barba Nane: cossa me meto con 'sto Polidrugo. Chi ga sozio ga paron.» E pò iera anche la moglie che no me iera contenta. E la pase in casa xe una gran roba. Zà, le done xe tute compagne e anche ala moglie de Polidrugo 'sta storia dela privativa no ghe squadrava. Perché ela gaveva paura de dover star drio del banco e ghe gaverìa parso de diminuirse, come. — Eh, la moglie de Polidrugo assai la se tigniva. E suo padre iera un semplice campagnol. — Anche mia moglie me diseva: «No stemo missiarse con quei Polidrugo». E cussì, culì, finché un giorno la me capita de mi in barca. — Vostra moglie? — No, la moglie de Tonin Polidrugo. La vien de mi con 'sto mezo bilieto de zento e la me disi se lo voio comprar, anche per quarantazinque. — Come, per quarantazinque? — Ma sì: gaverìo fato un afareto, gavessi avudo le zento corone pronte, pagando quarantazinque inveze che zinquanta. — Intendo. — Bon, cussì go fato. Torno a casa e me vien incontro mia moglie tuta contenta. «Ti sa chi che iera qua?» la me disi. «Chi?» ghe domando mi. «Polidrugo: te go deliberà de quel afar». «Come?» «Sì, xe vignù qua Polidrugo a pesar el pesse e go profità del'ocasion e ghe go vendù el nostro mezo bilieto de zento per quarantazinque corone.» — Ah! Vù gavè comprà el mezo suo e vostra moglie ghe ga vendù a lu el mezo vostro! — Sì, figureve! 'Sto figuroto voleva far l'afar solo. — Ma anche vù no sé stado ai pati. — Cossa ghe entra? Mi no volevo far l'afar con Polidrugo, inveze lu lo voleva far solo. Difati, de quela volta semo stadi in còlerà. Ognidun col suo mezo bilieto. Anzi: col mezo de quel altro, senza poder far gnente. — E dopo, chi ga cedù? — L'Austria ga cedù. E cole zento corone se involtizava le fiepe. MALDOBRIA XIII - IL BAZAR DI COSTANTINOPOLI Nella quale Bortolo racconta del macinino turco da lui acquistato sulle rive del Bosforo per il dott. Colombis che intendeva collocarlo nel suo salottino ottomano e del rumore che la cosa suscitò nella capitale del Sultano, prima della prima guerra naturalmente. — Quel che i fa in local magari cava el sono, ma el café de cògoma che se fa a casa no ghe ga mai cavà el sono a nissun: sbicia pò. — Mi ve dirò la sincera verità, mi no go vizi, ma me piasi assai el cafè forte, de quel son propio golosa. — Va ben, va ben, tute le boche xe sorele e tuti i stomighi xe fradei e tuti gavemo la boca per tresso e tuti savemo cossa xe bon, però el cafè forte fa assai nervoso. Mia madre defonta ga sempre fato cafè de cogoma, però masinado finissimo, nel suo bel masinin turco. Ghe lo gavevo portà mi de Costantinopoli, savé quei bei, longhi, lustri, de oton. — Ah, quei che i fa adesso per i foresti. — Maché, quei veri, veri de Costantinopoli. Fazevo la linia de Sorìa in quei ani, coi celeri e la gente me li ordinava ogni viagio. Barba Nane me diseva sempre: «Andaré in radighi cola Finanza». Quela volta per roba de oton i fazeva assai osservazion. L'ultimo gavevo portà per el dotor Colombis, lui gaveva assai passion per 'sta roba de Levante. Ve ricordé che el gaveva qua in vila el salotin otomano? — Ben, l'otomana la go anche mi. — Ma no, lui gaveva propio el salotin otomano al uso turco, quela volta iera de moda savé: lui gaveva tapedi per tera, tapedi impicadi sui muri, cussìni de marochin, el narghilè, la campanela turca, el tavolin de oton del fumoàr, che anzi l'avocato Miagostovich lo cioleva via e ghe diseva: «Ciò, Kemal Pascià, che mal, che ben: cossa semo qua in Vila Orientale?». Bon: quela volta el ga volù che ghe porto el masinin turco, el me ga fato fina el pupolo come che el lo voi. E mi a Costantinopoli ghe lo go trovà propio in bazar, che sarìa come el mercà, ma grando, savé, xe una cità intiera. — Anche mio marì fazeva viagi per Costantinopoli. — Indiferente: go ciolto 'sto masinin, lo go messo soto scaio, bel, grando lustro, un tantumergo compagno e pò me ricordo che quel giorno gavevo de andar in tre loghi. Numero un, far un bagno turco che i me gaveva tanto parlà, po' comprar rahàtlokum per i fioi e ciorghe tabaco de pipa per Barba Nane che zà no navigava più. Barba de Sultano. — Chi, Barba Nane? — No, el tabaco se ciamava cussì, quel longo. Insoma, per farla curta co' vegno fora del apalto — che là apalto vol dire negozio enorme con tabachi de tute le qualità — insoma vegno fora e no go più el masinin. — Turco? — Ma sicuro, quel masinin turco che gavevo comprà per el dotor Colombis. Torno drento — no iero stado fora gnanca un minuto — e ghe domando 'sto masinin. Oh Dio, lori parlava turco, un poco de francese, ma mi me va meio el tedesco: «Café mascìne» — ghe fazzo; gnente, come parlarghe turco. — Ah, vù parlavi turco! — Ma no, digo per dir. Ve stavo spiegando che no i me capiva. Alora savé coss' che go fato? Go ciolto un toco de carta, àpis e ghe go fato el pupolo del masinin. Mi disegnavo ben a scola, el povero maestro Politeo — quel che se ga ciolto la vita — diseva sempre che gavevo assai zata. 'Sti turchi del apalto varda el pupolo e i me disi, tirando indrio la testa: «Jòk». Ah — go pensà mi — masinin se disi «jòk» e se qua no i lo ga, vol dir che lo go lassà là del rahàtlokum. Intanto son sul bon. — Ah, che bon che iera rahàtlokum. Un fià tropo dolze, forsi. — No ga importanza. Son andà là in 'sta pasticeria e i me domanda coss' che voio. Gentilissimi i xe là nele boteghe. E mi ghe digo: «Jòk». Insoma jòk, che go lassà là el mio jòk. Volé creder, siora Nina, che i me ga ridù in muso? — Ah, i ve cioleva via? I ve lo gaveva ciolto lori? — Cussì go pensà anche mi e go fato scandàl. «Jòk, deme el mio jòk». E lori prima ga ridù sempre de più e dopo i ga tacà a rabiarse: i biastemava, mi credo. — Oh, i turchi xe assai nominadi per biastemar. — Insoma mi me go ciapà su e son andà a ciamar la guardia che iera là col fez e col baston. Iera quel'epoca che no i ghe gaveva ancora inibì el fez. — Chi, i fassisti? — Ma cossa ghe entra i fassisti? El fez turco, rosso, che adesso no i ga più. Insoma 'sta guardia cossa che voio e mi ghe spiego: «Jòk». Un poco in turco, un poco per tedesco, e un poco ala domàcia. E 'sto qua prima a rider e po' a biastemar, anca lu come quei altri. Siora Nina, no volé che i me porta in polizia? — E i ve ga serà? — Sì, coi imbriaghi, fin che no xe vignù el dragomàn. — Drago chi? — Drago moj! El dragomàn: xe l'interprete per turco. Insoma savé coss' che iera 'sto jòk? — El masinin del dotor Colombis. — Maché: Jòk voleva dir «gnente», «no go», «no so». E mi gavevo fato un remitùr per tuta Costantinopoli zigando che no voio gnente. — E chi gaveva el masinin alora? — El bagno turco: lo go trovà là sbrovente, tuto caldo de vapor. El Turco no porta via la roba dei altri. Lui ga la sua religion. MALDOBRIA XIV - LA MEDAGLIA DELL' IMPERATORE Nella quale Bortolo parla del favoloso Istituto Nautico di Lussinpiccolo, di una lezione di canto corale che ebbe imprevisti sviluppi e del componimento di lingua per il quale, nonostante i pregi letterari dell'elaborato, egli non ottenne la Medaglia dell'Impe ratore, riconoscimento a quei tempi ambitissimo. — Eh, siora Nina, chi ga fioi ga dispiazeri e chi no ghe ne ga, ga un dispiazer solo. Cussì se disi, però ... — Eh i fioi xe una gran roba. E noi nel nostro picolo gavemo sempre zercà che i gabi el meo: mio marì ga sempre vossù farli studiar. — Come el mio povero padre defonto. Coss' che no 'l se ga sacrificado lui per via che mi vado ale Nautiche de Lussin. Perché mi, savé, go fato tre ani de Nautica, ma dopo go dovesto molar. — Anche mio fradel Nicolò, povero, ga dovesto molar. — Indiferente. Ve disevo che mi go fato tre ani de Nautica: dopo go fato l'esame de paron de barca, co' go dovesto molar, ma prima studiavo propio per capitano de lungo corso. — Ma vol propio le Nautiche de Lussin a Lussin gavé fato? — A Lussin pò, dove che iera le Nautiche. Dove dovevo andar al'Università de Ciunski? Pò me iera comodo a Lussin, perché là gavevo zia che gaveva sposà un lussignan e stavo de lori, a costo, gnanca dir. — Eh, parenti mal de denti. — Insoma adesso ve conto: mia zia iera sorela de mia madre e la gaveva sposà 'sto lussignan, un mistro de squero, e i gaveva un fio che vigniva a star propio mio primo cugin de sangue e el fazeva anche lu le Nautiche. Stessa età gavevimo. — Ah, ieri in classe insieme? Che comodo. — No, perché lu me iera cugin per parte de madre, ve go dito e no gavevimo el stesso cognome. Lui era Bùnicich cola «Be» e mi inveze iero cola «Pe», e cussì lui iera in «A» e mi in «Be». — 'Sto Bùnicich. — Si: lui iera in sezion «A» perché el iera cola «Be». Quei dopo la «Ge», come mi che iero cola «Pe», andava in sezion «Be». — Ahn! — Insoma volevo dirve che no 'ndavimo in classe insieme. Lui iera bravissimo: eminentista, propio e con quela severità che iera quela volta. I maestri savé, gaveva la siba. — Eminentista? — Sì, quela volta i dava cussì le note sul atestato. Quel che adesso xe Dieci iera Eminente, po' iera Buono, Mediocre, Deficente, no, Insuficiente, cussì una roba. E quei che gaveva tuto Eminente ala fin del ano ciapava la medaia del Imperator. — Come, vegniva l'Imperator a Lussin? — Sì, passando per Sànsego. Ma dài, siora Nina! La medaia del Imperator, cola testa del Imperator; e scrito atorno «Franciscus Joséfus Imperator Rex Moravie» miga per tedesco, savé. I rispetava 'ssai la lingua. — E come? Medaia de militar? — No medaia de militar, cossa ghe entra el militar? Iera medaia de scola, de eminentista, de oro la iera. Co' iera el sagio i se la petava qua in patela, e mi cicavo. Stimo mi, ogni ano 'sto mio cugin Bùnicich la gaveva e mi mai. — Perché vù no ieri eminentista? — Per un pel, siora Nina, perché i dava una per ano. In prima una, in seconda una, in terza una e cussì avanti. Indiferente se iera prima «A» o prima «Be»: el più bravo la ciapava. Iera una Iota fra «A» e «Be» che no ve digo. — Per chi che iera più bravo? — Sicuro! E iera tante materie: navigazion, machine, disegno giometrico e ornato, storia patria, religion, condota e anche canto, canto vocale. Iera modi de dir che i gaveva quela volta. Gavevimo un'ora de canto per setimana e vegniva un maestro de musica che iera un chersin, anzi el iera de Ossero. — Per insegnarve a cantar? — Sì: musica, Elementi di musica, Inni civici. Ma lui iera un pianista, propio diplomà, che el dava concerti a Pola, a Fiume, a Abazia, Pisin. E la scola a lui ghe serviva più che altro per iutarse un poco. Bon omo: pensé che el ghe dava a tuti Eminente, ma propio a tuti, anche a quei stonai come campane rote. El iera professor per tute le Nautiche e tute le classi el le gaveva lu. — Ah, un solo per tuta la scola! — Sì. El più bon de tuti el iera, ma savé come che xe i muli: più un xe bon, più i se aprofita. E un giorno che se gaveva roto el ponte de Ossero e el iera rivà tardi, intanto che lo spetavimo ghe gavevimo fato quela del tuss. — Quala quela del tuss? — Ma sì, dài, siora Nina, col tuss ghe gavemo piturado tuti i tasti neri del piano. — E i bianchi? — I bianchi gnente! Se gavessi visto subito, sui tasti bianchi. Inveze tuss nero sui tasti neri no se vedi, cussì un meti su i diti e se smerda. — Ah malignazi muli! — Muli ah, cossa volé, morbin. Insoma 'sto qua riva: e prima roba el ne fazeva cantar Serbidiòla. — Ah Serbidiòla, anche mi, me ricordo ... — Indiferente. 'Sto qua, tac, taca Serbidiòla cole man sul piano e el le tira su nere. Mai no me dimenticherò: Savé co' ghe ciapa la fota ai boni? Ben, iera i ultimi giorni de scola e palido, me ricordo, el ne disi: «Loro confondono la bontà, la gentilezza, la pazienza, con la dabenàgine. Loro sono sempre stati aiutati da me negli atestati, ma adesso loro vedranno». Perché i ne dava del loro, savé, a scola, miga come adesso che xe tuto ciò mi, ciò ti. Insoma el guanta el registro, la pena e el disi: «Adesso a loro calerò a tuti una nota». E noi ziti, ah, iera una stangada. — Eh, ve gavevi profitado tropo ... — Insoma con 'sto registro in man el comincia a leger, me ricordo come ieri: «Apolonio, eri Eminente, avrai Buono, Bertoto anche... Bùnicich anche, Crivellari anche ...». E noi rider! Come mati ridevimo! — E perché ridevi? — Ma come, siora Nina? Apolonio, Bertoto, Bùnicich, Crivellari, iera quei dela «A», no noi. Noi ierimo dela «Be». Lu ghe calava le note a quei dela «A»: el gaveva sbalià registro. — Ah che truco! E no 'l se gaveva inacorto? — Dela fota, siora Nina, no 'l se gaveva inacorto. Lui calava le note e noi ridevimo. E lui: Apolonio Mediocre, Bertoto Mediocre, Bùnicich Mediocre... Tre note el xe rivà a calar. Vardé, siora Nina, mi mai, come quela volta — con rispeto — de tanto rider. E la più bela, savé quala che xe stada? Che cussì mio cugin Bùnicich no ga avù la medaia del Imperator, perché Mediocre in canto. — E la gavé ciapada vù? — Squasi, se no fussi stà quela storia dela Notte in Mare. — Ieri cascà in mar de note? — No, no: xe stà che i ne ga dado per compito de comporre «Una Notte in Mare», quando xe vignù l'Ispetor Didatico de Pisin, perché Pisin iera tuto quela volta. — Ah «Una Notte in Mare», bel, sugestivo. — Sugestivo sì, ma no iera miga de scherzar: iera l'Ispetor là co' scrivevimo. Insoma mi go scrito de 'sta «Notte in Mare» che andavo a pescar con mio zio Bùnicich, che fazevimo tuti i lavori come el solito, insoma ben me xe vignù, go scrito tuto. E el diretor dele Nautiche, per star sul sicuro — mi iero bravo in comporre — me ga ciamado a mi a leger el compito. — Davanti a tuta la classe? — Classe, Ispetor, Autorità, Dame del Patronato, Cosulich, Martinolich, Tarabochia, Diretor, tuti i più grandi de Lussin. E mi che legevo davanti ala tabela. Siora Nina: xe stà un scandàl. — Cossa gavé fato sbagli? — Ah no, no: iera tuto contà giusto. Insoma mi go fato ben la descrizion. El scuro de luna, el mar, come che col caìcio semo andai soto la scuna, che i ne ga passà el saco de tabaco, i pachi de spagnoleti, po' come che gavemo incontrà la Finanza de Mar, i spagnoleti che ghe gavemo dado a lori, quei che gavemo portà al Ispeziente del Governo Maritimo, me ricordo iera un dalmato de Almissa ... «Una notte in mare una dele tante notti — gavevo finì — che facciamo noi, come un poco tuti qui a Lussin». — Mama mia! E cossa xe nato? — Ve go dito: un scandàl. Nissun saveva de che parte vardar. Po' el Diretor ga dito: «Ah, un ragazzo pieno di fantasia» e cussì cola fantasia xe andà tuto in gnente. Però a mi la medaia del Imperator no i me la ga dada. — E chi la ga ciapada? — El fio del Ispeziente del Governo Maritimo. Perché el ghe passava i spagnoleti anche al Diretor de scola. MALDOBRIA XV - L'OSPEDALE DI LEOPOLI Nella quale Bortolo assieme a Marco Mitis, nel tentativo di disertare il fronte dei Carpazi, viene coinvolto in un'operazione di guerra da lui non prevista. — Sui Carpazi i sbarava sui omini e mi e Marco Mitis gavevimo una unica filosofia. Disevimo «Soldà che scampa xe bon per un'altra volta, chi xe per tera no fa più guera». E cussì se gavemo dadi maròt, tuti dò, mi un lùnedi e lui un mércoledi. Che ne gira la testa, che ne fa come fosco davanti ai oci, che le gambe ne fa jàcomo, qua, là, una roba l'altra, per pomigar. — Ma ve fazeva sul serio? — Oh Dio, le gambe, jàcomo, quando che i tirava i sràpnel ne fazeva. Gavé mai visto un sràpnel? El sràpnel xe una roba tremenda, perché, prima el s'ciopa e dopo vien zò i balini e amen, de profùndich, come che diseva el paroco de Ciunski. — Ma insoma stavi mal, vù e Marco Mitis, o no stavi mal? — No stavimo mal, disevimo che stavimo mal per no star soto i sràpnel: pomigadori pò. Fato sta che gavemo tanto fato, tanto dito, che i ne ga mandà in Ospidal a Leopoli. Bela cità Leopoli, adesso no so come che sarà, ma quela volta iera bela cità. Gavé mai visto Graz? — No. — Bon, 'ssai più bela de Graz. Insoma arivemo là in Ospidal e i ne dà la matricola. — De maritimo? — Maché de maritimo! La matricola del Ospidal, el numero. A Leopoli iera cussì la regola: co' se 'ndava drento in Ospidal, via el sacheto dela montura e i dava un terlìss. Per via che no se scampi, perché un, se i lo vedeva in cità in terlìss, el iera sicuro un scampà del Ospidal e la Feldghendarmerì lo guantava de colpo. — Ma che terlìss iera, quel zenerin che se usava una volta? — Ma cossa ve interessa che terlìss che iera! Terlìss iera e un in terlìss no podeva girar. Insoma, mufi ierimo mi e Marco Mitis. Perché la visita dovevimo passarla apena el giorno dopo e serai là dentro iera malinconìa. A Leopoli l' Ospidal militar iera come che xe a Fiume Tersatto, in alto e soto se vedeva tuta 'sta città: bela, più bela de Graz ... — E xe bela Graz? — Bela Graz, come no! Xe tipo Gorizia, Graz, ma più granda, però Leopoli iera più bela: adesso no so come che sia. E mi e Marco Mitis, una bava de andar fora, de 'ndar veder. Savé, giovinoti! Anche 'ste polachesi che gavevimo visto passando, bele done, forti, bionde. — E inveze ve tocava star drento, in terlìss. — Sicuro. E cussì semo ndai a girar per 'sto Ospidal. Imenso, siora Nina: gavé mai visto l' Ospidal de Trieste? Forsi dò, tre volte più grando. 'Sti anditi... e gira che te gira rivemo in un posto, un cameron, che iera scrito fora: «Erste Hilfe Stelle». — Che stelle? — Stelle comete, siora Nina! Quele del albero de Nadal! Dài, Stelle vol dir posto per tedesco. Erste Hilfe Stelle vol dir Posto di pronto soccorso, per i casi urgenti. E, apena che 'ndemo dentro, vedemo là due. — Due feriti? — Maché feriti, dò sacheti, impicai sul picador, quel che zercavimo, siora Nina! Due sacheti, per meterseli su e andar a far un giro per Leopoli! — E el terlìss? — E i terlìss se li cavavimo, se cavavimo el terlìss e se metevimo el sacheto: col sacheto podevimo andar a Leopoli e col terlìss no. E cussì semo andai. Co' semo passai in montura davanti dela guardia, driti noi, musi roti, gavemo saludà, Abtàt. Lu ga risposto, e noi zò a Leopoli. Perché a Leopoli l'Ospidal militar xe in alto, fé conto come Tersatto a Fiume. — Che bel che xe Tersatto! Mio povero padre gaveva fato voto. — Indiferente. Leopoli xe bel che no ve digo, bel, propio bel. Savé, giovinoti, 'ste polachesi, la montura del militar che impone, la quindicina in scarsela dele braghe ... Pò no volé che incontremo un dàlmato, militar anche lu! Podé imaginarve: mezanote e ierimo zà imbriaghi duri, ma duri de rodolarse! — E come sé tornai su? — Col caro ambulanza, siora Nina, mi calcolo. Fato si é che ale sie de matina se trovemo in sala operatoria. — Perché, ve gavevi fato mal? — No, imbriaghi sì, ma fato mal no. E alora noi tentavimo de spiegarghe, ma lori gnente: lori ne spoiava, ne lavava, i ne rasava, tuto qua col rasador. Gnente, insoma. — Come gnente? — Sì, gnente de far, siora Nina: patapìm, patapùm, i ne ga dà l'indòrmio a tuti dò. — L'indòrmio? Per cossa? — Per l'operazion, siora Nina. Dopo gavemo savesto! Marco Mitis xe stà operà de ulcera e mi de duodeno. — Ah, ma alora ieri malai sul serio? — No noi, siora Nina. No noi: quei dò dei dò sacheti, dei dò sacheti che se gavevimo messo suso. — Come, come? — Ma sì! No ve go dito? Noi ierimo 'ndai al pronto socorso, là gavevimo trovà 'sti dò sacheti che iera de quei dò ricoveradi de urgenza, fase acuta, pronto socorso. E in scarsela iera la matricola e la carta del dotor de operar entro vintiquatro ore. E co' la Feldghendarmerì ne ga trapà imbriaghi, i ne ga trovà 'ste carte. — E quei dò che iera maladi? — Ah, no i li gà operadi, perché no i gaveva le carte. I sarà morti, mi calcolo. Cossa volé, moriva tanta gente sui Carpazi... MALDOBRIA XVI - ROYAL NAVY Nella quale Bortolo, rievocando la storia del Presepio vivente allestito a Fiume per il Soccorso Marittimo, racconta di come gli accadde di trascorrere un Natale sul «Poseidon» al servizio di Sua Maestà Britannica. — Presepi go fato mi che vù gnanche no ve imaginé, siora Nina. — Come, no me imagino, se fazevo Presepio fin de quando che gavevimo nona. — Sì, ma no vivente. — Come, no la iera vivente? Se la stava con noi... — Siora Nina, qua noi no se capimo. So che vostra nona defonta, co' la iera viva la iera vivente ma mi volevo dir Presepio vivente. Cossa, no gavé mai visto el Presepio vivente? Don Blas ga fato fin prima dela prima guera l'ultimo, in Domo. Se fazeva la stala a grandezza natural e alberi, veri alberi. Iera oleandri, imensi oleandri in vaso che ne dava le Mùnighe de Squero per far Palestina. — Mi go sentì che indormenzarse soto l'oleandro se pol morir. — Indiferente. Noi fazevimo vivente. Con veri alberi, piante, insoma. E po' omini vestidi de pastori, de Re Magi. La Madona, una dona naturalmente, San Giuseppe, i angioleti — tuto fioi — e piégore, persin piégore noi portavimo. Barba Nane fazeva de San Giusepe, ogni ano. El vigniva ciorme a casa: lui iera fabricere del Domo e co' iera la procession de San Sidòro el portava el stendardo dela Confraternita dela Bona Morte. A casa el me vigniva a ciamar e el me diseva: «O ti vien a far de Re Magio o ghe digo al Vescovo de Ossero che el te fazzi cavar la matricola». A mi el me ciamava sempre per far el Re Moro, perchè mi iero specializado per snegrisarme el viso. — Col stropon brusà? — Maché stropon! Iera una pasta per el viso, una roba germanica che se fazeva vignir de Viena. — E fazeva propio bel nero? — Perfeto. Naturai, sopratuto. Perchè no iera quel nero de tapo. Insoma iera assai bel 'sto Presepio vivente. Sugestivo. Me ricordo che fina a Fiume semo andadi a farlo per el Soccorso Maritimo. — Cossa, pericolava qualchedun? — Ma no! El Soccorso Maritimo iera come che adesso xe, fé conto, l'Infortunio, la Cassa Malati. Insoma a Fiume i gaveva sentì che tanto bel, tanto bel iera 'sto Presepio de Don Blas che i ne gaveva dito de vignir là per far opera pia, per tirar su soldi per quei che no podeva: veci maritimi, quei cola gamba o cola man ofesa. El Soccorso Maritimo a Fiume una volta iera là vizin del Bonavia. Iera una sala granda e là i gaveva fato la stala e su un tavolin rente la porta iera una guantiera che la gente meteva un'oferta e portava i fioi a veder. Figureve i fioi: incantadi! Barba Nane gaveva fato vignir de quel suo cognà de Cherso fin i agnei. E a mi i me gaveva fato un vestito de Re Moro el più bel che gavevo mai avù. Savé come che se disi: «Vesti un pal e el par un Cardinal». Però devo dir che mi iero propio come vero: tuto in seda, con in testa la corona. — Ah, propio come vero? — Sicuro, tuti vigniva a veder e ga parlà anche el giornal. Figureve che zà la prima sera in guantiera gavemo trovà anche lire sterline, perché a Fiume quela volta iera vignuda una Squadra naval inglese, per via che iera in quel periodo guera balcanica e l'Inglese ficava sempre el naso in 'ste robe. — Eh, la Flota inglese iera assai nominada. — No fa gnente. Insoma un giorno mi son stà tuto el giorno là fermo. Perché bisognava star fermi. Iera vivente sì, ma fermo. Ale undese de sera gavemo serà. Vigilia iera. Del Dodese o del Tredese doveva esser. Iera Guera balcanica. Insoma mi me go spoià del costume là e co' vado per lavarme el viso, la spina no funzionava. Gaveva fato un fià fredo e se gaveva jazzà. Savé come che xe: nelle Casse Malati no funziona mai gnente. «Bon — go pensà mi — andarò de zia». Perché mia zia Marìci... conossevi mia zia Marìci? — No. — Bon. La stava là in Riva, propio là vizin. Scuro iera e mi go dito: «Chi me vederà per 'sti dò passi?» E caminando rente i muri son andà per marina. In marina movimento, perché ve go dito che iera 'sta Squadra inglese. Iera in porto tre torpediniere sue de lori. E giusto co' rivo davanti el porton de zia Marìci, sento zigar qualcossa e vedo che tre marineri inglesi de ronda i vien verso de mi, come. «Cossa vol 'sti mati?» — go pensà. E in quela vedo tre altri che riva corendo. — Inglesi? — Inglesi sì, anche lori. E mi «Ben — ghe fazzo — cossa?» E lori me guanta come per strassinarme via. — Per cossa? — Cossa savevo mi per cossa. «I sarà imbriaghi» go pensà subito. E ghe peto un dò pugni. E lori no me incapéla? — No i ve incapéla? — I me incapéla sì, con un saco. E sento che i me beca per le gambe e per le spale e via mi. — Via dove? — Sul «Poséidon», i me ga portà. Iera una torpediniera inglese. Tre iera in porto: el «Poséidon» el «Juno» e la «Priamus». — Ma perché i ve ga portà suso? — Perché? Perché, siora Nina, ghe iera scampado del «Poséidon» propio, un foghista negro. Un de Giamaica, là, quele colonie sue che iera, e la ronda lo zercava. I me ga imbrocà a mi col muso snegrisà de Re Moro sul porton de zia Marìci e i me ga imbragà e portà a bordo. — Ah credendo che vù fussi quel foghista negro de Jamaica che i zercava? E no podevi spiegarghe? — Ah, mi ghe gavessi spiegà. Ma i me ga serà in un cameroto zò in sentina e co' finalmente i ga lassà che me spiego ierimo zà rivadi ale Boche de Cataro. — Che bele che xe le Boche de Cataro! — Sì, che bel Nadal che go passà mi! E i rideva ancora, savé, 'sti malignazi. Iera el Comandante, un inglese, me ricordo, un rosso malpel. El parlava franco tedesco. Mi me rangiavo e ghe go spiegà: «Konig Schwarz — ghe go dito — von Presepio, Leben Presepio». Come dir che iera vivente. Rideva el mato ... — E dopo? — E dopo, tanto ghe ga piasso l'idea che i ga volesto far lori a tuti i pati a bordo el Presepio vivente. Protestanti, inglesi, anglicani i xe, ma i ga come noi, savé: Messa, Nadal, Presepio, tuto. Solo che el Papa no i tien. Ma el resto tuto. Presepio vivente a bordo, siora Nina. — E vù gavé fato de Re Moro? — No mi go fato de Re biondo. De Re Moro ga fato el foghista negro, che i lo ga trovà imbriago come un comato in stiva. No 'l se gaveva mai mosso de bordo. I negri co' bevi diventa come bestie. MALDOBRIA XVII - LA PESA DELLA DOGANA Nella quale Bortolo narra delle preoccupazioni della moglie del defunto Giadròssich, detta Marta Wassington e d'un carico di sale del Monopolio che ebbe poi parte determinante nella vita del defunto stesso. — Me fa de rider a mi tute 'ste cure dimagranti! L'unica cura che servi xe quela de no magnar massa, siora Nina. — Ah no. Quel se fazeva una volta, adesso xe tuto diferente. Go leto in un ilustrato tuto spiegà pulito: la prima roba che bisogna star atenti xe el sal. Perché el sal xe fissatore. — Fissator de cossa? Dele fissazioni? — Ma no, del'acqua. L'acqua fa grasso. E po' gnente farinacci, gnente grassi animali, gran carote, verdura, bisteche e poco zuchero. — Ah 'sto qua no xe per mi. Cossa volè che ogni volta che go de magnar qualcossa vado a pensar se xe drento farinacci o altre fissazioni. Mi digo: boca mia ti xe una vale, gola mia ti xe un canale. E pò volé saver la mia opinion? A mi la dona la me piase che la sia ben portante. Che l'omo no gabi de sponzerse sui ossi. Del resto basta vardar i quadri del Risorgimento: la bela dona xe la dona che ga qualcossa: fa bel veder, fa bon prò. Vù, siora Nina, come che sé cussì, sé giusta. E pò a smagrirse el primo che patissi xe el viso. Prima che cali el resto, xe assai de subiar. — Ben portante sì, ma no tropo forte. — Ben portante o forte, bisogna lassar le robe come che le sta: una dona ga de esser aleluja e no miserere. No voleré miga far come la moglie del povero Giadròssich defonto? — E chi la iera? — Come, chi la iera? La iera la moglie del povero Giadròssich defonto, siora Chéti Giadròssich. Che anzi me ga tocà un truco con ela. — Ah, la moglie del defonto Giadròssich, quel Lussignan paron de barca? Sì, sì, me ricordo. Ma quela iera tropo: i la ciamava «Marta Wassington». — Orpo, sì, sicuro, per el tonelagio. No savevo che vù savevi. Dio quanti ani. Eh, grassa la iera. La iera vizin al quintal, però alta, bela dona. E ela, vedé, viveva con questa ossession de esser grassa. La magnava renghe, me ricordo. Che i diseva che quel smagriva e acqua de spinaze che i diseva che fa drenagio. E mi ghe disevo: «Siora Chéti, no sté bazilar, ne baziluàite, che l'ocio su de vù ga dove pozarse.» Volevo dirve che 'sta dona iera tanto ossessionada de esser grassa che la vigniva ogni sabo a pesarse qua al molo sula pesa dela Dogana. — E quanto, quanto la pesava? — Se ve go dito: intorno al quintal la iera. E ogni sabo co' la vigniva, la diseva: «Istesso me par che 'sta setimana devo esser calada». La montava sora e l'andava via avilida che no ve digo, perché sul decimai ierimo sempre sui zento e ancora qualche chilo dovevimo zontar sul piato. No ve digo el defonto Giadròssich. Perché ela ghe fazeva vite a casa che no iera più né un viver né un morir. Lu inveze magro, vedé come che xe qualche volta. E sì che el iera un magnòn. — Eh, quel xe costituzion. — Indiferente. Insoma dovè saver che mi quela volta iero imbarcado sula «Maris Stella» che iera la barca sua de lu, del defonto Giadròssich. Bela barca, dozento tonelate. Carigavimo sal qua e cemento a Valmazzinghi. Barca stagna iera, strapazzona, che anzi Barba Nane me diseva sempre: «Meno mal che gavé sal in barca, perché in zuca ghe ne gavé poco». — Iera un ridicolo, Barba Nane! — Altro che ridicolo! Iera stà propio lui a tirar fora quela de «Marta Wassington» per siora Chéti. Lui iera un omo picolo, pitosto e 'sta dona ghe pareva un sproposito. Però mi, tra che ela me fazeva pecà e tra che suo marì Giadròssich iera sempre più nervoso, qua, là, una roba e l'altra, go avudo l'impensada de tararghe la balanza. — Come, tararghe? — Tararghe pò! Mi ogni sabo alzavo el fondo dela balanza, movevo el contrapeso, e cussì ghe fazevo un zinque, sie sete oto chili de meno. E ela andava via contenta col suo mezo quintal per gamba, povera dona: al mondo xe l'ilusion quela che conta. — Orpo che truco! — El truco xe stà dopo, siora Nina. Dunque, ierimo arivadi un sabo sui quindese chili de meno, quando che i me ciama al Governo Maritimo de Pola per no so cossa. Mi son andà via col vapor e dovevo tornar dopopranzo. — E siora Chéti? — Apunto. Iera el giorno che siora Chéti doveva vignir a pesarse. Ma mi, partindo col vapor, me iera andà fora de testa de meter la balanza a posto, perché la gavevo tarada de quindese chili. — E alora? — E alora mi torno de Pola e el defonto Giadròssich gaveva zà ordinà de far el carigo de sal. Insoma, su dozento tonelate che gavessimo dovù portar ghe ne iera trenta e passa de più. Per forza: ogni otantazinque chili che segnava la pesa, iera inveze un quintal, el quintal de siora Chéti. — E alora? — E alora, ierimo carighi come ovi, che anzi el defonto Giadròssich ga dito co' semo partidi: «Ma 'sta barca cossa ga? Gnanca che gavessimo la caluma!» Pò ga fato anche un poco de mar, e el sal se ga imbumbì de acqua. — Per forza. El sal xe fissatore. — Ma el bel xe stà co' rivemo in Dogana. — Che Dogana? — In Dogana del sal. Dovevimo scarigar el sal, no? El sal iera privativa de Stato. Gavevimo el manifesto per dozento tonelate e ala pesa vien fora che xe dozento trenta e passa. «Mah — disi Giadròssich — se gaverà imbumbì de acqua: gavemo trovado un fià de mar fora de Punta Nera». E el Delegato de Spiagia ghe fa: «Sì gavé imbarcà trenta tonelate de acqua! Cose ve iera a Punta Nera, el diluvio universal?» 'Sto Delegato de Spiagia no iera de qua, iera un dalmato sufistico. Un certo Bugliovaz. E el disi: «Dozento tonelate xe el manifesto, dozento tonelate ve ciogo con un poco de tara per el diluvio universal de Punta Nera, ma per el resto rangéve». — Come, rangéve? — Sicuro. Gavemo dovesto tignirse le trenta tonelate. — Ah, ben per vù! — Ben per nù? Vù no savé che, soto l'Austria, el sal iera el più grando dei contrabandi. No se podeva miga vender el sal cussì de privato a privato perché iera privativa de Stato. L'Austria iera un paese ordinato. El defonto Giadròssich ga dito: «Mi no voio ràdighi. Torneremo in magazen del sal che i me lo cioghi indrio.» — E i ve lo ga ciolto indrio? — Maché. Ve go dito che l'Austria iera un paese ordinato. Se el Demanio gaveva fato manifesto per carigar dozento tonelate e dozento tonelate iera stade carigade, no i podeva miga cior indrio lori trenta tonelate. Alora ghe go dito al defonto Giadròssich: butemolo in mar che cussì se deliberemo de 'sto sal. E lui che no. Che el mar lo ga zà salà abastanza sior Idio e che se la providenza ne ga lassà 'ste trenta tonelate el le doprerà lu per casa. Lussignan po'. — E el le ga doprade? — Assai el ga doprà. Perché lui soto sal per ani anorum el ga messo tuto. Sardele, sardoni, scombri. Fin i fighi suti mi calcolo. E savé che de quela volta el se ga ingrassado, ma tanto ma tanto che i ga dovù slargar el porton de casa per far passar la cassa co 'l xe morto? La iera quadrata, come. Cossa volé, siora Nina: il sale è fissatore. MALDOBRIA XVIII - LA MARCIA RADETZKY Nella quale Bortolo racconta come ascoltò per la prima volta un apparecchio grammofonico e come la tecnologia venne per la prima volta impiegata allo scopo di eludere il severissimo regolamento di disciplina che allora vigeva nella Marina AustroUngarica. — So, so, che adesso ghe xe 'sti fonografi automatici che no ocori far gnente. L'omo se distrusi solo si stesso e la machina fa tuto. Presto la balerà anca per lu. Dove xe el gusto de passarsela? Zà i dischi me ricordo mi, iera una modernità una volta. Perché, co' mi iero giovinoto, iera el cilindro, gran cilindri se usava. — Come capel intendé? — Anche come capel. Ma mi intendevo el cilindro fonografico. Mama mia! Me ricordo el Cadetto Giadròssich, che co' suo zio ghe ga portà de Viena l'aparato iera tuto el vapor incantà, quando che el sonava la Marcia Radetzky cola banda dei Kaiserjegher. — 'Sto suo zio de Viena? — Maché zio de Viena. El zio iera de qua. Solo che sicome che sto nostro Cadetto gaveva la passion de sonar el violin, 'sto suo zio, co' el iera andà a Viena a farse l'operazion del'ernia, quela volta i maritimi — Comandante el iera — assai gaveva ernia ... — ... eh sì, un sforzo, el maritimo ... — Indiferente. Ve contavo che 'sto suo zio ghe gaveva portà de Viena 'sto spetacolo de fonografo. Iera una casseta compagna, tuta in lustrofin, cola tromba e po' i cilindri che se cambiava. No iera dischi, iera cilindri e sul covercio de dentro iera la reclàm scrita in tute le lingue del Impero, anche per polachese ... — E cossa iera scrito? — Iera scrito, me ricordo come el Padre Nostro: «Questo strumento raccoglie la parola umana o qualunque altro suono, la fissa, l'incide e la restituisce all'aria libera in ogni tempo con le sue inflessioni e con la sua intima espressione». — In polachese iera scrito? — Anche in polachese. Ma anche in italian. In tute le lingue del Impero: boemo, polachese, ungarese, tedesco no se parla, e anche italian. Anzi una volta con 'sto fonografo ghe xe tocà un truco sul «Carlo Sesto». — Un vapor? — Vapor de guera: el «Carlo Sesto» iera un incrociator dela Marina Austro-Ungarica, che mi iero imbarcà là co' el Cadetto Giadròssich iera de leva. Lui iera assai apassionà de violin, come che ve go dito e el sonava. — Ma el sonava el violin o el sonava dischi? — Cilindri iera quela volta, siora Nina, ve go dito. El sonava el violin andandoghe drio al fonografo, per far pratica co' el iera franco de servizio. Insoma xe stà cussì che xe nata quela roba... — Ma che roba? — Speté, speté: ierimo in crociera. In visita di cortesia ai porti del Regno. Quela volta iera la Triplice. — Che triplice? — Ma sì, dài, la Triplice Aleanza: ierimo noi, el Regno e el Kaiser Guglielmo. Dopo l'Italia ga molà. Indiferente. Insoma 'sto Cadetto Giadròssich iera un birichin, una macia. Bel giovinoto. E lu in ogni porto regnicolo el gaveva putele a boca desidera. — E vù andavi con lu? — Sì, propio! No iero miga uficial mi! Iero nostroomo de dissiplina. — Che sarìa stà cossa? — Nostroomo de dissiplina pò. Adeto al ordine, ai raporti, ale punizioni. Tuto passava per le mie man. Insoma 'sto Primo Cadetto Giadròssich, una sera xe tornado a bordo tardi come el suo solito, e el Capitano Prohàska che lo ga trapà sula biscaìna lo ga relegà in gabina. Perché i uficiai vigniva relegai per punizion nela propia gabina de lori. Mi son andà là col bilieto de punizion che el me lo firmi. E alora el me fa, mi fa mi dice 'sto Cadetto Giadròssich: «Senti, ti che ti xe come mi dele Vece Province, che semo patrioti, se mi vado in tera, ti ti me fa la spia?» E mi ghe digo: «Sior Primo Cadetto Giadròssich: mi son 'rece de asino e boca de formigola, mi no parlo, però se vien l'Ispeziente per l'ispezion, cossa ghe digo? Che xe le quatro e meza?» — Ah, perché i vigniva a far ispezion? — Miga che i perquisiva le gabine. L'uficial iera relegado sula sua parola de uficial. Ma però l'Ispeziente podeva domandar. E mi cossa ghe disevo? «Bon — me disi 'sto Cadetto Giadròssich — ti, Bortolo no ti ga de dir gnente, perché mi sonerò el violin in gabina». «Ma come — ghe digo mi — alora no volé andar in tera?» Insoma per farvela curta, savé coss' che el ga fato? El ga messo su un disco, un cilindro dài, de un violinista e via lu per la biscaìna de pupa. Mi dovevo andar ogni tanto drento, darghe la corda e cambiar cilindro, cambiar disco, come che volé. — E no i ve vedeva andar drento e fora? — Sì, ma una volta andavo col café, un'altra cola camisa stirada, un'altra con un'altra roba e po' seravo a ciave. — E xe andà tuto lisso? — Fin quando xe passado l'uficial dela ronda de bordo cola lista de punizion. El iera un ungarese, tremendo per la dissiplina. Co 'l senti el violin, 'sto mostro se ferma e el disi: «Paganini». «No, ghe digo mi, Giadròssich. Erst Kadett Giadròssich gestrafen». In punizion, insoma. — Mama mia, e no 'l se ga inacorto? — No, el iera come incantà. Savé i ungaresi per el violin xe come mati. E el ga dito: «Bravo Cadetto Giadròssich», mi calcolo, perchè el parlava per ungarese. Insoma gnente, el va via, mi iero oramai con el cuor in pase, zà finido el cilindro de Paganini, co' me lo vedo che el vien zò dela scaleta. — Ma chi? — Ma l'uficial de ispezion, che el tornava, siora Nina, apassionà de violin. Go avù apena el tempo de corer drento in gabina, de ficar sul fonografo el primo cilindro che me xe capità sotoman, de vignir fora e de serar la porta a ciave, che 'sto Ispeziente me xe davanti. — E alora? — E alora ga tacà la Marcia Radetzky, siora Nina: trombe, piati, tamburi, oboi. .. tuta la banda dei Kaiserjegher de Viena, zento e vinti de lori. Maestro von Kluge dirighirt. MALDOBRIA XIX - LE VOCI DI DENTRO Nella quale Bortolo racconta la storia del pappagallo di Plauno che sapeva bensì ripetere irriverentemente le prediche di Don Blas, ma mai seppe le conseguenze che un tal giorno ebbe una sua petulante domanda. — El papagal xe anche un usel de sodisfazion. Xe zerti papagai che parla come cristiani, ve ricordé el papagal che gaveva Don Blas? El ghe fazeva drio tute le prediche, ma che ben! Savé Don Blas che parlava un poco cola calada, dalmato che el iera? Bon, el papagal ghe fazeva drio preciso. — Come no? Mi iero putela, che el predicava ancora a Pola e el diseva sempre: «E qui rispeto ala cità, al anfiteatro dei gentileschi piaceri, ove regna silenzio e ruina, qui dove erano adorati gli idoli e i demòni, tu Madre delle Divine Grazie, spargi ora i tesori delle tue celesti misericordie ...» — Orpo che memoria che gavé vu. Ma ieri assai putela? Perché dove xe Don Blas, oramai? Iero squasi putel anche mi quela volta. Però, dopo che el xe morto, el papagal lo ga tignù sua nevoda e ancora durante la guera mi lo go visto. Savé che i gnochi gaveva fato là sul canton dela strada nova el bunker? Bon, 'sto malignazo de papagal el parlava franco tedesco: «Arbàiten, arbàiten — el zigava — snell, snell!» Iera un rider. Come che l'omo se adata. Eh, xe una bestia inteligente el papagal! — Sì, ma i sporca assai e po' ghe vol la cròzola. — Savé come che se disi? Fioi e colombi sporca la casa e chi che no vol sporco che no tegni colombi. Mi quei ani che iero a Plauno come fanalista, iera là un papagal che gaveva portado Marco Mitis de un viagio, che el iera una roba de no creder. «Checo» lo ciamavimo, perché el diseva sempre: «Povero Checo, povero Checo». — El se diseva solo si stesso? — No. Perché Checo — prima — no 'l iera lu, Checo iera el padre dela moglie de Marco Mitis, che co' el se alzava de matina, zà el cominciava a rugnar e el diseva: «Povero Checo, povero Checo». Barba Nane lo cioleva sempre pel fioco, co 'l vigniva a Plauno e el ghe diseva: «Barba Checo, come xe, Barba Checo? No i ve ga cavà ancora la matricola?» Vecio el iera Barba Checo, che no se saveva gnanche quanti ani che el gaveva: savé, quela volta gnanche no i notava. Lui diseva zento, ma mi no credo. Ogni ano el se cresseva i ani. — Ah, Barba Checo? Quel che stava a Plauno? El padre dela moglie de Marco Mitis? — Se ve go dito. Insoma 'sto Checo — el papagal, intendo — una volta ghe ne ga combinada una, ma una ... — El xe scampado? — Uh, tante volte el xe scampado, ma a Plauno xe poco de scampar: xe scoio. Insoma una volta la moglie de Marco Mitis, ve ricordé Mercedes? ... — Sì, Mercedes Mitis, come no? Suo zio gaveva la Posta a Caìsole. — Indiferente. Un giorno la se gaveva messo dacordo col pitor, la lo gaveva fato vignir aposta de Ossero, perché a Plauno no iera pitori, per via che el ghe pituri el pòrtigo. Insoma i xe restai dacordo per le oto de matina. Volé che sia? Ela xe andada ala Messa dele oto e la se ga dismentigà. — E el pitor se ga rabià? — Speté, speté! El se rabiava sempre: iera un estroso po', come i pitori. Però lui iera pitor de camere. E guai dirghe per esempio: «'Sto celeste mi lo farìo più celestin o 'sto verde lo farìo più verdulin». El iera capaze de molar là tuto e de 'ndar via. Iera un che 'ndava in còlera. Insoma quela matina, che lori iera dacordo e che ela la se gaveva dismentigado e la iera andada ala Messa dele oto, lui ale oto in punto iera là, vignù cola barca de Ossero, davanti dela casa. El bati la porta del pòrtigo e el senti drento: «Chi xe?» — Ma alora la iera a casa? — No, iera Checo. — Suo padre? — Ma no Barba Checo! Iera Checo, el papagal. El iera abituà el papagal, co' el sentiva bater, de dir «Chi xe?» E cussì 'sto pitor ghe rispondi: «El pitor!» E speta 'sto pitor che i ghe verzi la porta. Cossa volé che ghe verzi la porta un papagal? E po' el iera ligà sula cròzola, lu saveva solo dir «Chi xe?» E quel altro: «El pitor!», «Chi xe?», «El pitor!!» Perché el pitor credeva che fussi drento qualchedun e el se rabiava che no i ghe verzeva. Capì? — E inveze drento iera el papagal. — Sicuro e el pitor iera de fora, grubian che el iera, e pò rabià. Una còlera... «Chi xe?» «El pitor! El pitooor!» El se gaveva come persuaso, mi calcolo, che i lo volessi cior via e alora el ga comincià a scassar la porta. E più che lui bateva, più el papagal zigava: «Chi xe?» E lui: «El pitor! El pitoooor!» Insoma, siora Nina — volé creder — ghe xe vignù un insulto. Toco de omo, cussì pretorico, sanguigno. — Ma come un insulto? — Ma sì: ghe xe vignù mal, ghe ga ciapà mal, dela gran bile, capì? El xe cascà per tera longo e disteso davanti dela porta. — Mama mia! — E in quela torna a casa Barba Checo, che lui andava in pescheria, sempre de matina bonora, col suo bastunìch. E el vedi 'sto omo longo disteso: «Boga ti — el disi — chi xe?» E de drento dela casa, el papagal ghe rispondi: «El pitor!» A zento e vinti ani xe rivà quel papagal. E el pitor gaveva zinquantazinque. Omo giovine ancora. MALDOBRIA XX - IL SEGRETO DI TEGETTHOFF Nella quale Bortolo getta nuova luce sulla tattica della guerra sui mari e sull'importante ruolo giocato da una pittura sottomarina sia nei rapporti fra le massime Potenze dello scacchiere mondiale, sia in quelli di lui con il Comandante Ossòinak. — Una barca, siora Nina, no xe mai finida. Forsi el primo viagio, co' la parti. Che se xe passegeri no la rendi gnente, perché xe tuti inviti del Armamento... ma zà co' la torna xe sicuro qualcossa de refar. E pichetar e piturar e meter a posto. Far e disfar xe tuto un lavorar. Diseme vù se gavé mai visto una barca ferma in porto senza el tresso de fora col omo che pitura. La pitura xe tuto per una barca. — Eh, stuco e pitura fa bela figura. — Ma no intendo la pitura per belvéder — anche quela ga la sua importanza, perché la bona barca devi gaver la sua presenza — ma in un vapor più che ala pitura del'opera morta, bisogna vardar ala pitura del'opera viva. — Come, viva? — Opera viva, siora Nina: quel che sta soto el pel del'acqua. Quel xe importante. Perché la barca — diseva el Comandante Ossòinak — ve xe come la dona: xe quel che no la mostra che move tuto. — Come, quel che no la mostra? — Ma sì: le propéle, la carena, la colomba. Opera viva, pò. No gavé mai visto un vapor co' i lo tira suso coss' che no 'l ga soto? Denti de can, barbe, quintai e quintai solo de pedoci, qualche volta. Adesso imagineve vù coss' che pol voler dir questo in guera. — La prima guera? — La prima, la seconda, la terza, tute le guere. Savé coss' che xe la bataglia naval? Xe tuto manovra, diseva el Comandante Prohàska, che lui iera stà propio sula «Viribus Unitis». Star fora del tiro dei altri e drento del tiro propio. E per questo bisogna poder caminar forte. Cossa credè, per esempio, che sia stado Lissa, Jutland, Teghethoff? Star fora del tiro dei altri e drento del tiro propio: chi che camina de più, quel ga vinto. Premuda no parlo, perché là iera torpedo e quando che xe torpedo ve xe tuto un'altra roba. Una barca de guera che gabi de soto denti de can, barbe e quintai de pedoci, ve perdi subito quatro, zinque miglia e quel pol voler dir perder anche una guera. Vedé vù coss' che ve xe la pitura per una barca! — Come la pitura? — Ma sicuro. Come se ga fato i bori quei Veneziani dela fabrica de pitura de Trieste? Col naviglio de guera. E no solo la flota nostra Austro-Ungarica, savé: anche quela inglese — che bisogna pensar coss' che no iera la flota inglese una volta — e Francesi, Danimarchesi, Norvegini, Giaponesi perfin. Lori, a Trieste, gaveva una pitura secreta come, che una volta dada, vù no gavevi più né denti de can, né barbe, né pedoci perché la li mazzava tuti. Penséve che el vecio Veneziani solo si stesso la missiava, cole sue propie man, che no vedi e che no sapi nissun. Perché iera secreto. Co' iera guera el militar ghe montava la guardia fora dela porta col s'ciopo e la sbiza. — I ghe fazeva la guardia al vecio? — Ma no al vecio. A 'sto secreto militar de 'sta pitura Moravia per le barche de guera. — Ah, i Czechi fazeva, in Moravia? — Maché i Czechi: la se ciamava Moravia, ma la fazeva i Veneziani a Trieste, nominadi in tuto el mondo. — No capisso. — Indiferente. Mi go propio visto. Vù dovè saver che quel periodo mi navigavo col Comandante Ossòinak sul' «Almissa». Picola barca iera, ma celere. Linia celere de Levante fazevimo. E un novembre, me ricordo, 'pena rivai a Trieste el ga dito: «Mal caminavimo 'sto viagio. Perdevimo un dò, tre miglia garantito. Semo pieni de denti de can, de barbe e de pedoci. Che se no fossi pedoci de fero, mi calcolo che podessi far marenda tuta la Marina mercantil». — Eh, i pedoci de fero fa mal! — Sicuro. Al Comandante Ossòinak ghe piaseva assai pedoci. Lui, per marenda dele diese — quela volta tuti, specie i maritimi, fazeva marenda dele diese — sempre pedoci se iera l'ocasion. Ben, insoma, indiferente. 'Sta nostra barca va in Arsenal del Lloyd: pichetarla, piturarla, una roba e l'altra. Se ga fato un calcolo che fina dopo Nadal no sarìimo stadi lesti. — Eh, xe lavori longhi... — Per forza. E el Comandante Ossòinak diseva: «Pecà che me toca star qua a tender i lavori, che gavessi l'ocasion de 'ndar in vila a Volosca». Perchè lui gaveva una vila a Volosca. Lui iera come inamorà de Volosca. Giardin davanti e de drio el gaveva. E zinque camere, figureve, per lui solo. Perché el iera puto vecio. «Mi, quando che go finì de navigar — el diseva — stago qua con tuti i mii comodi. Perché no xe gnente più bel che Volosca e pedoci meo che a Volosca no se li trova in nissuna parte: boni, sugosi, con quel savor de mar». — Ah, e cussì el xe 'ndado a Volosca? — Se ve go dito che no 'l podeva andar a Volosca perché el doveva star in Arsenal a Trieste a tender i lavori. A mi el me ga mandà a Volosca. «Vame in vila a Volosca — el me ga dito — a piturarme a oio i seramenti, visto che gavemo pitura a bordo». Cussì usava una volta i Comandanti. Che lui me farà aver le mie spetanze come se fussi imbarcado, che ciogo de bordo tuti i vasi de pitura che me ocori, che vado a Fiume col vapor e che dopo per Volosca me xe el vaporeto dò volte al giorno. — Comodo. — Comodo gnente. Perché là co' son rivado cola pitura, pinei, pinelesse tuto, vedo che iera assai trascurà. Savé, omo puto vecio, poco l'andava a Volosca; e dir che tanto ghe piaseva. Ma istesso go fato prima de quel che pensavo. Porte, finestre, el porton de strada, i cancei, i abassamenti, tuto, insoma. Anche el logo de decenza go fato, con decenza, perché quel xe meio far a oio. E dopo, che me iera vanzada pitura rossa, ghe go dà una man anche ai travi de fero del moleto che el gaveva davanti, propio sui scoi, belissimo. E in ultimo go visto che el gaveva anche quatro brìcole in mar, per tacar i calci, mi go calcolà. — Brìcole? — Sì, pài batudi in mar per tacar i caìci, come a Venezia, no gavé mai visto? E propio de quel me xe vignù l'idea. Ghe fazo l'improvisata, go pensà. Ghe li pituro in bianco e rosso, a striche, a bissa boba come che i fa a Venezia. E, anche profitando dela bassa marea — che là fa assai bassa marea, a Volosca — ghe go dado un dò man anche soto el pel del'acqua, fin dove che rivavo, cussì che el legno no patissi. Ben le me xe vignude: pareva propio quele veneziane. — Ah, cussì ghe gavé fato l'improvisata al Comandante Ossòinak! E el xe stà contento? — Altro che improvisata! Co 'l xe vignudo a veder, el voleva incapelarme col vaso de pitura! Quele, siora Nina, no iera brìcole per i caìci: quele iera pedocére dei sui santissimi pedoci de Volosca, tanto boni, sugosi, col savor de mar. E la pitura rossa che ghe gavevo dado mi, savé coss' che iera? Iera quela dela colomba del'«Almissa». Quela che maza el pedocio fin ala setima generazion. Che gnanche adesso no xe più pedoci a Volosca. Pensé vù coss' che podeva voler dir 'sta pitura in tempo de guera. Per quel el militar ghe montava la guardia. Tuta la flota Austro-Ungarica la gaveva: fora del tiro dei altri, drento del tiro propio. Questo ve xe stado Lissa, Jutland, Teghethoff. Premuda no parlo, perché là iera torpedo. E po' xe stà anche tradimento. MALDOBRIA XXI - IL SISTEMA POLIDRUGO Nella quale Bortolo spiega come un nativo delle isole dei Lussini possa concludere un affare realizzando un immediato utile del 40 per cento, a condizione che la controparte sia, a sua volta, nativa di Caìsole. — Un fiorin, coss' che no iera un fiorin una volta! I sacrifizi che mia madre povera no fazeva per un fiorin. Un fiorin xe dò corone, la diseva, una corona xe zinquanta soldi e el soldo bisogna vardarlo. — Ah, al soldo sì se stava atenti a casa: come che xe cambiado el mondo, sor Bortolo. —Cambiado! Xe diverso. Quela volta gnanche no iera propio el giusto: perché iera grandi richezze, ma anche grandi miserie. Però chi che li saveva far li fazeva, e boni. Quei ieri soldi che restava, no come questi che bisogna corerghe drio cola bicicleta. In Canal de Suéz, per esempio, el piloto coss' che no se podeva far de soldi! A mio povero padre defonto i ghe gaveva dito: «Vù che sé piloto, Ménigo, perché non andé a Suéz, che là i piloti fa soldi a boca desidera?» Ma mio padre, savé! Cossa, che cossa l'andarà lu coi Otomani — che pò inveze iera tuto francesi là — che cussì, che culì, che lui pochi, maledeti e subito. Mio padre iera un bravo omo, assai bravo, però come dir, ghe mancava coraio ... — Coragio. — Sì, coraio, coragio: quel xe de passagio. Se lo ga una volta o no se lo ga mai più. I Lussignani, quel bisogna dir, coragio ga sempre avù. Coss' che no ga fato i Lussignani! ... Dove che no i andava lori con 'ste scune! E indebitarse, e ris'ciar e pericolar per mar. E, persa una barca, fata un'altra. Magari i saveva come indrizzarse le corbe cola Sicurtà. E col carigo più de una volta ... E anche quei de bassa forza, savé, iera sbisighini. Lori vedeva tuto in grando. Volé meter i chersini? Mi me ricordo sempre de Polidrugo. — Un de Cherso? — Maché de Cherso. Lussignan. De bassa forza. Nostroomo el iera, dopo, ma prima, semplice mariner. Lui co' ve tirava fora el portafogli, pareva l'armonica del orbo de Ossero. Lui se una volta el restava in tera, forsi el fazeva più soldi che navigando. Lui gaveva l'osso de morto in scarsela, mi calcolo, perché le ghe 'ndava sempre drite, lui trovava sempre el modo. Che anzi Barba Nane me diseva sempre: «Quel Polidrugo buta zinque e leva sie, diese el ghe ne pensa e nove ghe va drite, ma per quela che ghe 'ndarà storta el perderà la matricola sua e dei quei che se meti con lu.» — El nostroomo Polidrugo? — Solo in ultimo el iera nostroomo. Quela volta el iera de bassa forza, e ghe ocoreva setanta corone. — Perché el iera de bassa forza? — Maché perché el iera de bassa forza: una volta ghe ocoreva setanta corone. E mi me ricordo ancora come ogi, a Fiume, che el me mostra una carta de zinquanta corone e el me disi: «Zinquanta corone go e setanta me ocori». Forsi el me la buta va ma mi, savé, con Polidrugo no volevo tanto intrigarme ... — E alora? — E alora el xe andà al Monte de Fiume. — Al Monte de Tersato, dela Madona? — Maché Madona de Tersato! Al Monte de Pietà: el se presenta al Monte de Pietà con 'sto bilieto de zinquanta corone e el ghe disi, ci fa ci dice Polidrugo, che questa ghe xe una carta de zinquanta corone che suo povero padre defonto ghe gaveva lassà sul leto de morte. Che po' inveze no iera vero gnente, perché lui iera un trovatelo, che lo gaveva rilevà come fio de anima el vecio Piero Polidrugo che iera tuto un'altra persona. — Piero Polidrugo quel del squero? — Indiferente, lui ve iera trovatelo. Insoma, che suo padre defonto ghe ga lassà 'sta carta de zinquanta corone sul leto de morte, che lui pitosto che darle via el mori de fame. El pianzeva, i me ga contà. E che el se trova nela dolorosa necessità de gaver bisogno, una roba e l'altra, che se el podessi impegnar 'sta carta de zinquanta corone, che cussì dopo co 'l tornerà del viagio el poderà riscatarla. — Ah, falsa la iera! — Maché falsa! Bona, bonissima: figureve se al Monte... Lui insoma voleva impegnarla e questi del Monte ghe disi che sì, che va ben... che no i ga mai fato, ma che insoma, in considerazione, per 'sta carta de zinquanta corone i ghe darà una sovenzion de quaranta e i ghe dà la boleta. — Ma come, quaranta per zinquanta? — Sicuro, perchè el Monte dà sempre de meno. — Ahn! Ma alora ... — Speté, speté: lui, fora del Monte, con 'sta boleta in scarsela, el va in quel local che gaveva quela Nina Longa de Portolongo dove che a Fiume andava tuti 'sti istriani, 'sti piranesi, 'sti dalmati, 'sti patrioti e el vedi là un de Caìsole che spetava el numero per imbarcarse. E alora Polidrugo va là de 'sto qua de Caìsole, una roba e l'altra, che el gavessi un'imediata necessità, che el Monte xe zà serado e che se lu vol comprarghe subito 'sta boleta de zinquanta corone, lu ghe la cedi per trenta. — A 'sto qua de Caìsole? — Sicuro. E 'sto qua de Caìsole ghe pensa su, che sì, che zinquanta per trenta xe un bon afar, l'afar xe bon, el ghe dà trenta corone e el ciol la boleta. — Ah, sempre per de meno! — Siora Nina! Polidrugo quaranta gaveva ciapà al Monte, trenta ghe gaveva dà quel de Caisole: quaranta più trenta fa setanta. E iera quele setanta che ghe ocoreva. Polidrugo, pò: no 'l se perdeva mai. — Orpo! Quaranta più trenta, setanta xe vero... e lu gaveva dà solo zinquanta. E se pol far sempre 'sta roba, sior Bortolo? — Siora Nina, essendo Polidrugo se pol far. Ma ghe vol trovar un mona de Caisole che paga setanta per zinquanta, perché anche el Monte ga volù indrio i sui soldi, dopo. E 'sto qua de Caisole che come, che cossa, che lui ga zà pagà, che dove che xe Polidrugo. «Imbarcà per Suéz el ve xe — ghe go dito mi — coréghe drio col Calitea». Piloto in Canal de Suéz el xe restà... eh a Suéz se fazeva soldi i piloti. Mio povero padre defonto, inveze, no ga avù mai coraio. MALDOBRIA XXII - PINUS AUSTRIACA Nella quale Bortolo narra di un Natale trascorso assieme al Comandante Dùndora sul «Calitea», alle soglie della Terrasanta e di come i Turchi allora colà dominanti, per certi versi si opposero ad una degna celebrazione della più gran Festa della Cristianità. — Una volta no se usava alberi de Nadal, né in Bassa Italia né in Levante. Vardé che mi son stà el primo che ga fato l'albero de Nadal a Beirut, che ve digo Beirut, che xe Libano. — Ma là no i tien per Maometo? — Cossa Maometo? Vù no gavé girà el mondo, siora Nina. No savé vù che a Beirut i xe cristiani? Catolici, romani. Arabi, magari, ma cristiani, catolici e romani. E anche biondi, per via che xe stà le Crociate, me spiegava el Comandante Dùndora. — Ahn, alora anche lori tien Nadal? — Sicuro. Se no i ga de tignir Nadal lori, che drio el canton xe el Santo Sepolcro! Insoma ve contavo: fazevimo la linia de Sorìa col Lloyd Austriaco. Ve parlo de prima dela prima guera, che iera ancora i Turchi. — Al Lloyd Austriaco? — Maché al Lloyd Austriaco! I Turchi iera in Libano, però i ghe lassava la sua religion. — Ai Turchi? — Come ai Turchi la sua religion? Sicuro che i Turchi se lassava soli si stessi la sua religion. Ma i ghe lassava anche la religion ai cristiani. No iera più quei orori de una volta. Se gaveva fato avanti le Potenze. E alora... ma cossa ve stavo disendo che me fé perder el fil? — Che i Turchi lassava. — Ah sì! Che fazevo la linia de Sorìa col Comandante Dùndora sul Calitéa. Che anzi, iera a metà dicembre e ierimo in Antivari e mi ghe go dito: «Comandante Dùndora, dài zà che semo in Antivari, tanto me devo sbarcar co' vignimo de ritorno, adiritura me sbarco adesso e cussì fazo Nadal a casa». E lu che no, che cossa, che mai più no gaverò un'ocasion compagna, che anderemo insieme mi e lu a Gerusaleme, a Betleme, ala Casa di Nazareth, che mi gnanche no me imagino coss' che i fa là per Nadal. Lui iera assai de Cesa. — Ah, sé andadi. Che bel che devi esser là cola neve! — Maché neve, maché andadi. Soto carigo a Beirut ierimo la Vigilia, che no se gavemo podesto mover. Che anzi mi ghe go dito al Comandante Dùndora: «Gavé visto, Comandante, che no gavemo podesto moverse, che sarìa stà meio che mi passavo Nadal a casa e che gnanche l'albero a bordo no gavemo?» — Perché, fazevi l'albero a bordo? — Sempre sul Lloyd Austriaco per Nadal. In qualunque logo che ierimo. Che anzi el Primo Uficial Sablich, un triestin, che iera un Baraba, diseva sempre: «Volé far l'albero? Meté candele e mandolato su quel de maestra». — Mio nono defonto, ogni ano co' iera Nadal el fazeva dir Messa in terzo in cesa dele Mùnighe per suo padre defonto che se ciamava Nadalin. — Indiferente. Ve contavo che cussì no gavevimo gnanche l'albero a bordo e el Comandante Dùndora me disi: «Coss' ti vol Bortolo, una volta toca cussì, una volta toca culì, anche mi go la famiglia a Neresine». E el pianzeva. El iera un omo assai comovente. Per la famiglia po' lu portava anche cole orece. Insoma el me disi: «Bortolo ti sa coss' che faremo mi cun ti e ti cun mi? Faremo istesso un bel albero in salon de Prima Classe». — E sé andadi a comprar l'albero? — Siora Nina, semo andai sì. Ma a Beirut, alberi de Nadal xe come andar a domandarghe barche ai Cici. In Libano — Beirut xe Libano, savé — i ga cedri, gran cedri del Libano: xe famosi... — Cedri, quei per dolci? — Ma no. Quei i ghe disi cedri, ma no xe cedri. Cedri del Libano: xe alberi imensi. Là i ghe tien a 'sti alberi. Persin sula bandiera adesso i lo ga. Ma quela volta iera Turchia e i iera sotoposti. — Ah, no i ghe lassava i cedri? — Indiferente. No iera alberi de Nadal de comprar. E i cedri xe grandiosi. — Ah, no se podeva far coi cedri? — Sicuro che no. Ma el Comandante Dùndora, me disi, el me fa, mi dice: «Mi go visto qua in giardin publico che i ga tute le qualità de alberi, anche quei de Nadal. Ciolémo un, nissun se acorzi de gnente». «Come sarìa a dir «ciolémo» — ghe go dito mi — Comandante? Andé vù o vado mi a cior? Perché se devo andar mi, mi no vado a zercar ràdighi col Turco». E lu che cossa, far Nadal senza albero? Che el vegnerà anche lu. Lu con mi e mi con lu, ti con nu e nu con ti, insoma el me ga inzinganà. — De andar a cior? Ma come se podeva cior? — Se podeva, col scuro, ah! Co' no vedi nissun. Per farvela curta semo andai del mistro, se gavemo fato dar un segazzo, un caveto de treìna per imbragar i rami e co' iera mezanote passada, che là i serava tuti i locai ale undese, perché i Turchi iera tremendi, semo andai dentro el cancel. E iera fazile saltar oltra, perché iera basso, fina a che rivemo là de un'aiola, che iera diversi alberi de Nadal. «Ara ti — go dito mi — i disi che no i ga». Insoma, zie zac, col segazzo gavemo taià un de misura giusta. — E no ve ga visto nissun? — Soto i Turchi la gente gaveva paura de 'ndar fora de note. Gavemo imbragà l'albero e via noi coi bori del oio a bordo. Siora Nina, che figuron in salon de Prima! Apena là se ga visto che grando che el iera. Perché al aperto l'albero perdi. E anzi co' lo gavemo messo su se gavemo inacorto che sul tronco iera una placheta, in oton, invidada. Bela. Con su scrito «Pinus austriaca». «Ara ti — ga dito el Comandante Dùndora, fin dove che riva i nostri alberi». Perché quela volta, ve parlo de prima dela prima guera, noi ierimo Austria. — Alora tuto ben, insoma? — Gnente ben! Savé come che se disi? Nadal de foia, Pasqua de poca voia. E poco ga mancà che no i ne tignissi dentro fina Pasqua. Violazione di Orto Botanico, distruzione di Parco Sultanale, furto — che quela volta i Turchi taiava la man — e ofesa al gendarmo, perché co' xe vignù a bordo el gendarmo turco, el Comandante Dùndora ghe gaveva dito qualcossa dela mama per croato e 'sto qua che gaveva fato la guera in Bosnia, gaveva capì. — Orpo i ve ga trapà? Ma come i ga fato a traparve? I ve ga visto? — No nissun ne ga visto. Perché de matina bonora co' xe andà el guardian nel parco, no ierimo più né noi né el «Pinus Austriaca» ma ben iera ancora per tera el segazzo che gaveva scrito sul manigo «Lloyd Austriaco». E semo stadi dentro zinque giorni perché el Console austriaco — un triestin, un zerto Smecchia — iera andado a Betleme. In pelegrinagio. MALDOBRIA XXIII - LA TEMPESTA Nella quale Bortolo racconta le pietose storie di Barba Nico e della vecchia Scombrolinca e rievoca la paurosa vicenda dello schooner «Cinque Fratelli» pericolante davanti a Capo Planca durante il fortunale. — El ga, el ga ani, povero Barba Nico. No 'l pol gnanche più moverse de casa. Co' ghe domando: «Quanti ani gavé, Barba Nico?» lu: «Un più dela Morte» el rispondi sempre. El gaverà novantasete ... novantaoto cossa volé? El iera militar con mio povero padre. De Marina. Austro-Ungarica. Portéghe, portéghe 'sti scombreti, vù che passé de là. Diseghc che ghe li manda Bortolo. Savé come che se disi? Col far la carità no se va in malora. Povero vecio. — Ah, che Dio ve daghi del ben, sior Bortolo. Perché el ga proprio 'ssai bisogno, savé. Con quel poco de pension che i ghe passa. E sì che el ga navigado lu! — Per forza. Pension minima el gaverà. Perché prima no 'l ga vossù riscatar i ani del'Austria. E dopo quei pochi che el gaveva el li ga persi cola Garibaldi. Insoma portéghe 'sti scombreti: ogni piada tira avanti. — Eh, co' se pol iutar, se iuta. — Savé coss' che me diseva sempre Barba Nane? — Che i ve caverà la matricola? — Quel el ghe diseva a tuti, ma a mi el me ga dito una volta: «Bortolo, ricordéve che chi dà subito, dà dò volte». — Eh dava, Barba Nane, el dava. Però no 'l voleva che se savessi. — Altro che! Savé chi che ga fato el salìso novo dela Cesa, dopo de la prima guera? — Chi lo ga fato? — Lo ga fato Barba Nane. Perché el gaveva fato un voto ala Madona de Tersato, quela volta che el iera finì cola barca sula Pericolosa. — Eh, xe assai pericolosa la Pericolosa ... — Indiferente. Ma come che go pericolado mi coi «Cinque Fratelli» no ga pericolà nissun. — Ma no gavevi un fradel solo vù, Bortolo, e una sorela? — Ma i «Cinque Fratelli», siora Nina! La barca dei Nìcolich, quei lussignani no ve ricordé, che i vigniva sempre qua coi «Cinque Fratelli»? — Ah! I «Cinque Fratelli» quela barca dei Nìcolich! ... — Veramente lori iera in quatro fradei, perché Giusepe se gaveva perso coi «Sei Fratelli» a Capo Planca. E dopo, co' iera morto Giovanin, no i ga volesto più cambiarghe nome ala barca. «Sempre spese, sempre spese» i diseva. — Cossa vù gavé navigà con lori? — Sicuro. Dò ani. Iera una buia scuna i «Cinque Fratelli». Andavimo fina Antivari come gnente. Comandante iera Giacomo, quel che i lo ciamava «Fiorin», perché el diseva sempre «Soldin su soldin se fa un fiorin». — Cossa che no iera una volta un fiorin! — Iera quel che iera, siora Nina. E noi semo quel che semo. Insoma, vù dovè saver che lui la ga mandada via. No cole brute maniere, ma insoma ela xe andada via avilida. — Ma chi xe andada via avilida? — Se no speté che ve conto, come volé saver? Parlo de prima dela prima guera ancora. Ve ricordé la vecia Scombrolinca, quela che xe morta e che suo marì i ghe diseva Scombro? — Sì, Scombrolinca, la vedova del defonto Nini Scombro. — Ela. Nini Scombro gaveva navigà ani anorum coi Nicolich, ancora col «Sei Fratelli». Che anzi i diseva che quel che se gaveva perso a Capo Planca iera el meo, la vera testa dela faméa. Insoma el gaveva navigà con lori e dopo che lui xe morto ela se iera vignuda a trovar in ristreteze, come. — Eh la dona co' no la ga più chi che porta ... — Insoma la vecia Scombrolinca, che no iera gnanche tanto vecia ancora quela volta, iera andada a domandarghe a Giacomo Nicolich come un sussidio. Che suo marì defonto gaveva navigà con lori, che se lui gavessi possudo, magari come in imprestito. E lui che i ga tante spese. «Vedé no gavemo gnanche cambià nome ala barca». Che San Donà xe morto e che suo fio sta mal. Insoma che el vederà, che el penserà, che el parlerà coi altri tre fradei. — Ah, el ghe ga dito de no? — Ma no propio de no; el iera un de quei, savé, che xe de quela: «Aiuto compare me nego! Aspeté che impizzo la pipa e dopo ve salverò!» — El fumava la pipa? — Ma dài siora Nina, se disi per dir. Insoma 'sta dona xe andada via avilida, come. E lui anche ghe gaveva dispiasso, dopo. Ma fato sta che quando che ocore Dio meti sempre la sua santa man. Ve conto: ierimo cola barca propio a Capo Planca, che xe bruto savé per el navigante, el più bruto logo dela Dalmazia! Disi propio el Portolano: «Vi infuria il maìstro e la bora vi giunge improvisa senza segni premonitori». — Gavé pericolà? — Altro che pericolà. Mi gavevo dito subito che iera tempo missià. Ghe gavevo dito «Jacòmo», perché se ghe diseva Jàcomo, tra de nualtri, «Jàcomo — ghe gavevo dito ancora el giorno avanti — farà bruto: vardé che nuvolo che xe sul Vélebit». «Quel me sa dir assai — el me gaveva rispondesto — quando che el Vélebit se meti el capel, o che fa bruto o che fa bel... e noi andemo avanti, perché gavemo el nolo». E anche a Rogòsniza ghe gavevo dito: «Andemo drento a Rogòsniza che sarà bruto passar Capo Planca». E lu che gavemo el nolo. Insoma per no perder el nolo, quasi che gavemo perso l'osso del colo, siora Nina, come suo fradel defonto e propio nel stesso logo. No me dimenticherò mai: un mar, un vento, che mi no go mai visto una roba compagna. Coi cortei sbregavimo le vele! — Per sprezzo? — Maché per sprezzo, siora Nina! Perché no iera tempo de mainarle. Due ore gavemo pericolà. Che no 'ndavimo né avanti né indrio, che se andavimo a finir sui scoi no ierimo più né Fratelli, né cugini, né equipagio, né barca. E xe sta là che lu se ga votà. — El ga voltà la barca? — Maché voltà la barca. La barca se voltava per conto suo. Lui se ga votado propio ala Madona de Tersato. Che se lu se salva la vita el ghe impresta i venti fiorini ala vecia Scombrolinca. Che dopo anzi, co' semo rivadi a andar drento a Rogòsniza — che mi subito gavevo dito che iera meio andar drento a Rogòsniza — el ga comincià a contrastar che lui se gaveva votà per tuto l'equipagio ala Madona de Tersato e che bisognava far coleta. «Soldin su soldin faremo i vinti fiorini, per 'sta povera vecia. Magari podemo anche lassarglieli». — Ah, el se gaveva votado! Tanti, cussì pericolando in mar, se votava. — Come no: el ga fato far anche el quadreto: «Il Cinque Fratelli pericolante davanti a Capo Planca in mezzo al fortunale. P. G. R.». Per Grazia Ricevuta. Zinque fiorini voleva el pitor. Tre el ghe ga dà lui. Con coleta naturalmente. Ma devo dir che dopo de quela volta de Capo Planca, Jàcomo Nicolich se gaveva come spaventado, e el iera diventado un che aiutava. Sempre fazendo coleta fra de noi, magari. Però insoma lui dava, secondo la caratura, come che se usava quela volta: tanto quel, tanto mi, tanto lu, che anzi el iera nominado. A Lussin i lo ciamava «Man sbusa». — Ah Jàcomo Man sbusa, me ricordo. El vigniva qua sempre coi «Cinque Fratelli». — In fondo lui iera bon de cuor, savé. interessoso, ma bon de cuor. — Eh, se la Madona de Tersato ghe gaveva fato la grazia! .. — Insoma, per contarve, un giorno semo a Fiume. — Per andar ala Madona de Tersato? — Ma no. Quela volta ierimo a Fiume per un nolo. Fato sta che lui de prima matina sorti dela barca, che el ga de far qualcossa al Governo Maritimo in cità. E el torna mufo, come, che iera zà mezogiorno sonà. Ierimo là che pareciavimo e lui no gaveva gnanche voia de magnar, el gaveva dito. Me ricordo iera polenta e brodeto, e dopo el ga netà la tecia. E pò el fa: «Pensarse! Moglie de un Comandante e adesso ridota in 'sti stati!» — Chi questa? — Speté. Lui ne ga dito che iera una patriota sua de lu, de Lussin. Moglie de un Comandante. E 'sto Comandante se gaveva come incapriciado de una e el iera restà in America e pò el iera morto. Ela sola, senza sussistenza de gnente, in condizioni de no poderse descriver gnanche. E che iera squasi un ano che no la pagava l'afito e che el paron de casa doveva butarla fora del quartier. «Penséve, una patriota, cussì, dove andarà 'sta povera dona?» — diseva tuto el tempo Jàcomo Nicolich, netando la tecia. — Eh, una dona co' no ga un omo che porta ... — Insoma, per farvela curta, el disi che no dovessimo mai dismentigarse de quela volta a Capo Planca. Che se podessimo far una carità, una coleta tuto l'equipagio. Un ano de afito xe quaranta fiorini e che soldin su soldin se fa quaranta fiorini. — E gavé fato la coleta? — Come no? Me ricordo come ieri: el nostroomo Pillepich xe andà in giro cola bareta de montura; vizin de noi iera armisada anche un'altra barca lussignana e anche lori ga dado. E dopo el nostroomo Pillepich ghe disi al capitano: «Barba Jàcomo, qua xe i soldi, dove li devo portar? Dove sta 'sta povera dona che i la vol butar fora de casa?» E Jàcomo Nicolich ghe disi, ci fa ci dice: «Ah, me li podé dar a mi diretamente, tanto son mi el suo paron de casa.» Tre case el gaveva lui a Fiume: soldin su soldin se fa el fiorin! MALDOBRIA XXIV - DOTTORE IN RUSSIA Nella quale Bortolo racconta come fu fatto prigioniero dai Russi al largo di Odessa e come, per un equivoco, venne aggregato all'Ospedale militare del campo di Jekaterinodar, dove seppe illustrare le tradizioni della Scuola Medica delle nostre Province. — Cossa credè che xe difizile far el dotor? No ve digo un Deste, un Oliani, un Saiz, che iera dela Cassa Maritimi, me ricordo: quei iera dotori de una volta. Ma cussì, per rangiarse, cossa ghe voi? A bordo, per esempio, chi gaveva dotori a bordo prima dela prima guera? Gavevimo un scafeto in gambusa, e mi che iero gambusier, quel poco che iera de far, una sponta, un sotrativo, un poco de valeriana, un calmòn per la testa, late caldo, té petoral e po', siora Nina, un'onza de oio de rizino ... — Eh, però l'oio de rizino, i me ga dito, guai se xe el mal del'apéndice, se pol anche perder la vita. — Questo so: ve go dito che a bordo me rangiavo. Per i marineri. E anche col Comandante. Devo dir che magari el defonto Comandante Petrànich el me cioleva sempre via. «Va là, va là — el me diseva — Dotor Blaga, che ciapava el buso del culo per una piaga». Però ghe fazevo i sotrativi anche a lu in navigazion. Opur el me diseva: «Bortolo me sento come un tremor qua». E mi ghe disevo: «Late caldo, té petoral e tintura de valeriana». Me ciamava tuti «dotor», savé, a bordo. «Sì — ghe disevo mi — Dotor Bortolo fin che no rivemo in pòrtolo». — No capisso ... — Indiferente. Iera per dir. Fato sta che co' l'Austria ghe gà intimà guera ala Serbia, noi ierimo in Mar Nero col «Diana», e una note, qua e là, una roba e l'altra, cossa xe, cossa no xe, ne par e no ne par: «Tuto a drita!» — ga zigà el nostroomo, ma iera oramai tropo tardi: mina. — Mina iera? — Se ve go dito: mina! Tempo de calar le sialupe che la barca iera zà persa. Che note! Con rispeto la massima parte ierimo in mudande! Meno mal che quela volta se le portava longhe. — E gavé pericolà? — Per quel no. Perché xe vignudi subito i Russi. Iera un monitor. Bel monitor, alto de bordo: el «Poljanski». — I lo ciamava? — Ah, no ocoreva, no, ciamarlo. El xe vignù subito solo, apena che el ga visto el ciaror dela mina. E el ne ga portà tuti a Odessa e de là in campo de internamento. Citadini nemici ierimo. — Come Austria? — Come Austria, come Ungheria, come tuto. Insoma i ne porta col treno in un posto che se ciamava Jekaterinodar. Bona gente iera 'sti Russi, cossa volé, i popoli no ga mai gnente un contro del altro. Fato sta che una matina, me ricordo come che fussi ieri, xe chiamata generale per el smistamento del campo. E mi me gavevo indormenzà sul paion, e alora el nostroomo Pìllepich me scassa e el me disi: «Dotor, dài, su che i ve ciama anche a vù!» Ve go dito che a bordo i me ciamava dotor. Come che me tiro su, me vedo davanti un Russo in montura, che me disi: «Dòktor? Medizin Dòktor? ...» E mi digo: «No, gavemo perso tute le medizine a bordo». E lu me fa moto come che vegno con lu ... — E vù? — E mi son 'ndà con lu. Cossa volé che fazzo barufa coi Russi in montura? Mi che iero là sul paion in mudande. Insoma i me porta in infermeria e mi go subito capì. — Cossa gavé capì? — Che lu gaveva pensà che mi iero dotor vero, no dotor Blaga come che i me ciamava a bordo. Insoma, per farvela curta, i me ga tratà benissimo. I me ga dà una montura russa, senza steme, senza gnente, el camisoto, cola crose rossa, e subito in Ospidal... — E vù no podevi spiegarghe? — Mi spiegarghe, perché? A mezogiorno i ne ga dà borst, che sarìa come una jota, ma più gustoso, polpete de porco, kùkuruz, là come che se disi, lori ghe diseva kùkuruz, panoce con butiro e sal, vin, vodka a boca desidera. Cossa volé che ghe spiego? — E fazevi el dotor? — Come no. Nel'infermeria del campo de internamento. Lori gaveva gran bisogno de dotori, perché sui Carpazi iera più morti che vivi. Pò, cossa volé che nassi in un campo de prigionieri de guera. Qualchedun se pestava un dedo: acqua de buro; el ciapava fredo: late caldo e té petoral. Quel iera più de tuto, late caldo e té petoral, perché là xe fredo e i ghe fazeva far strade ai prigionieri. — I li mandava lontan? — No no: i ghe fazeva far le strade vere e propie, col sotozero. — Al'aria aperta? — No, i ghe fazeva far strade in camera de leto! Sicuro che al'aria aperta. Là iera de portar piere, bater pala e picon, e 'sta povera gente, 'sto povero militar austriaco ... iera de tuti i loghi: Bosniaci, Boemi, Polachesi, Croati. Ogni tanto i zercava de far «demoghéla» del lavor, disendo «me diol la panza». E mi me vigniva, savé, siora Nina, de dirghe «Métighe nome Marianza», ma mi zito per no palesarme, se no anca a mi me gavéria tocà andar a bater pala e picon ... — Ahn! Cussì ve la gavé sugada. — Speté, speté. Un giorno, dovè saver, in Ospidal no ierimo che mi, de dotori disemo per dir, e un vecio dotor, un certo Gònciarov. Vecio, cossa volé, per i prigionieri i meteva i più veci. Degnissima persona, el parlava bastanza ben tedesco ... el iera de Smolensk, un Russo bianco. — Ah, bianco el iera? — El iera dela Russia Bianca. Come noi — metemo dir — gavemo l'Istria e la Dalmazia, in Russia i ga la Russia Bianca e l' Ucraina. Insoma ariva uno de questi prigionieri, compagnà de un militar col s'ciopo. Che mal, mal, mal, che ghe diol qua, propio qua, vardé. — Sul'apéndice? — Sicuro: sul'apendicite. Dolori. 'Sto dotor russo ghe fracava e domandava: «Bòli, bòli?» Se ghe diol, insoma. «Orpo — disi 'sto qua — diòli, diòli», me diol, me diol. E mi go capì subito che doveva esser un patrioto. — Come, un patrioto? — Sì, un dele nostre parti. E 'sto dotor Gònciarov me disi che bisogna operar subito d'urgenza, pericolo di peritonìtis el me disi, che sarìa stà peritonite. «Bene — ci facio ci dico — alora facio subito preparar sala operatoria». — Ah, el doveva taiarlo subito lu? — Cussì credevo anche mi. Ma lui me disi: «Di Milenovecentododici no opero più, perché mia mano, vedete» ... ghe tremava la man. — Cossa, el beveva? — No, siora Nina, vecio el iera. El beveva anche el suo, ma insoma iera più per el vecio che per el bever. Fato sta che el me disi che devo taiarlo mi, e el me lassa solo con 'sto omo ... — Che omo? — Quel che doveva esser operà, siora Nina, 'sto prigionier. — Ahn! E vù lo gavé operà, propio taià? — Speté. 'Sto qua me disi franco in dalmato, co' semo soli: «Dotor, mi so che vù sé patrioto, ve digo la sincera verità a vù, mi no go gnente, ma no posso più lavorar, con quele piere che i me fa portar sule spale; son nele vostre man». Siora Nina, iera un simulatore. — Ah, no 'l gaveva gnente, el fazeva finta per no lavorar? — Sicuro. Alora a mi me se gà slargà el cuor. «Va ben — ghe digo, ghe fazzo — mi no te taio ... mi te darò solo medizine, ma ti ogni giorno ti devi dir che un poco meio ti sta, che ti ga meno dolori, e cussì tiremo avanti. Fra patrioti se devi aiutarse.» E alora son 'ndà de 'sto Primario russo. «Avete operato — mi fa, mi dice — tuto bene?» «Guai operare» — ci faccio, ci dico io. «Perché guai operar?» «Perché noi in Vienna guai tocar peritonìtis ... solo riposo, medizina e basta». «Davero?» — el me domanda. «Come no! No solo in Vienna, anche in Trieste. Dotor Oliani, Deste, Saiz mai tocar peritonìtis». «Va ben — mi dice — io rispeto opinion di colega ... però vol vi prendete tuta la responsabilità, ganze responsabilitét...». — E come xe andà? — Come volé che sia andà? Sie mesi lo go curà. Ogni giorno el stava un poco meio. Tanto che co' ghe go dito che el pol alzarse, 'sto dotor Gònciarov ga fato vignir tuti i dotori del Ospidal civil de Jekaterìnodar e el ga dito: «Miracoloso! Peritonìtis senza operazion, clinicamente guarito, perfectamente». — E no 'l ve ga domandà come che lo gavé guarì? — Come no? Tuti me ga domandà. E mi: «Late caldo, té petoral e qualche sotrativo». Ghe spiegavo mostrandoghe col deo. MALDOBRIA XXV - IL MONUMENTO Nella quale Bortolo fa alcune brevi considerazioni sui costumi, la salute e gli usi dei suoi vecchi, nonché sulla straordinaria longevità di Niccolò Tommaseo. — Siora Nina, vù in età? E mi alora? E po' cossa vol dir? Chi no invecissi mori giovine. Se semo vivi, vivi semo e più che veci no se diventa. E po', veciaia! Xe un'altra concezion dela vita ogi. Una volta, me ricordo, mio defonto padre diseva sempre «Co' se diventa veci, se perdi la virtù, le gambe diventa fiape, le calze no sta su ...» — Alora vù credè che podessi? — Diseme coss' che go de creder che podé o no podé, e ve poderò dir. — Intendevo dir se no sarìa ridicolo per la mia età. Imagineve: xe tuto pepita, ma grando pepita, zenerin, blu e come un rosso ... — Ma cossa xe zenerin, blu, rosso, pepita? — Quel vestito, no, che me ga mandà mia cognada de America, Malvina, quela che ga sposà Tonissa, el fradel de mio mari. — Ah, quel che gaveva disertà a Névjork? — No, no, adesso el ga avù propio la citadinanza. Lori xe americani adesso. Forsi in America 'sta roba se usa, ma qua mi go paura che la gente me fazzi osservazion, come ... — Cossa osservazion? Vù ve lo meté, e se qualchedun ga qualcossa de dir, savé coss' che ghe disé? — Cossa? — «Chi che cica, me lo dica» come diseva l'avocato Miagòstovich quela volta che el se gaveva comprà la vetura. Vardé per esempio l'avocato Miagòstovich, anche lu el gaveva, savé, ani e no 'l ga mai volesto vestirse de vecio. Perché, se gavé osservà, una volta se se vestiva de veci. «Dopo i zinquanta — i diseva — se pol meter el tabelon: Chiuso per la morte del paron». E solo vestiti neri, braghe a righe al massimo. E le done dopo i quaranta no se le distingueva più. Mia nona, per esempio, che me pareva una roba enorme, co' la me portava a scola, savé coss' che la gaveva? Sessantadò. — Eh, ma co' la xe morta, mi calcolo, più de novanta la doveva gaver. — Però sempre precisa: zinquanta la gaveva e otanta pareva che la gavessi. — Sì, magari i mostrava de più, ma i nostri veci iera più sani de adesso, no iera 'ste malatie che ogi tanto se senti. — Questo xe vero: per salute, una volta iera altro. Savé coss' che me ga dito una volta el Comandante Brazzànovich, co' ierimo a Sebenico? — Quando? — Indiferente, ierimo là a Sebenico col «Iliria», semo passai davanti dela statua de Nicolò Tomaseo che iera là in giardin, col barbon ... e el me disi: «Varda Bortolo, se Nicolò Tomaseo fussi ancora vivo, ogi el gavessi zento e vintizinque ani, e pensite che quela volta no i gaveva quele medizine che gavemo adesso. Questo te dimostra che i nostri veci iera più stagni de nualtri». — Propio quel che ve disevo mi. Più stagni i iera. E no i gaveva ancora 'ste peniciline. — Gnanche vù no gavé aferà el conceto, siora Nina. El Comandante Brazzànovich iera un remenéla. Lui diseva: «Se Nicolò Tomaseo fussi vivo el ga vessi zento e vintizinque ani». Ma no 'l iera miga vivo. Quel iera el scherzo. E ghe cascava tuti savé! Anche gente studiada, uficialità. Ogni volta che se fazeva Sebenico e se passava davanti del monumento de Tomaseo, lui gaveva quela: «Penseve che se Nicolò Tomaseo fussi vivo el ga vessi zento e no so quanti ani...» El se gaveva rabià che no ve digo el Comandante Brazzànovich quando che i serbi i ga cavà el monumento. Istesso no i gavessi dovesto, un omo cussì in età. MALDOBRIA XXVI - LA BARCA IN FIASCA Nella quale Bortolo, parlando dell'ormai perduta arte d'imbottigliar modelli di naviglio, narra la storia del Comandante Crivellari e dell'«Arciduca Alberto», nave da guerra a tre alberi con ridotto corazzato. — Volevo dirve, sior Bortolo, vù che savé, no savessi per combinazion chi che gaverìa un de quei trabacoli in fiasca? ... — Trabacoli in fiasca, siora Nina? Ombra de campami in fiasca se trova qua adesso. Una volta t'amavo ... — Intendevo dir, savé, quele scune, quele barche, quei trealberi che fazeva i maritimi e che i meteva in butilia... — Se so, go capì, ma ve go dito, siora Nina, «una volta t'amavo ...», una volta fazeva i maritimi, adesso dove fa più i maritimi? No i fa più gnanche squasi i maritimi, perché xe tropo sacrifizio andar per mar. — Alora no se trova più? — No so, forsi, zercando, a Lesina, a Curzola, a Lissa se poderìa trovar, là i fazeva assai. Xe un lavor, savé, far. Cossa credè! — Sì, quel veramente no go mai capì, sior Bortolo: 'sta barca granda coi alberi, le vele, i pinoni, el pavese e tuto, come i fazeva a farla passar per el colo dela butilia? — Cola piria, siora Nina. Iera pirie speciali che vendeva qua sior Giovanin American. — Che pirie? — Ma dài siora Nina: ancora de qua sé. Fia de maritimo, sposada per un maritimo! Meterle drento: xe quel tuto el lavor! Mi, savé, co' iero giovine, iero un dei primi qua per far 'ste barche in fiasca, me gaveva imparà Barba Nane. El me diseva sempre: «Ghe vol pazienza, per 'sta roba ghe vol pazienza, biastemar no servi gnente, e vù no faré mai gnente perché sé furioso, e la gata che gaveva furia ga fato i gatini orbi. Mariner furioso, mariner intrigoso». — Eh, Barba Nane iera famoso per far barche in fiasca, el fazeva barche belissime, me ricordo. Quela che gaveva in villa Prohàska el Baron Prohàska defonto gaveva fato Barba Nane. — Come no? Quela iera el «Dodici Apostoli» che iera precisa con tuti i bozzei del «Dodici Apostoli» che iera de Tonissa, che dopo el se ga perso. Ma per quante barche che lo go aiutà mi! Me ricordo che per quela scuna che el gaveva fato per l'avocato Miagòstovich drento de un butilion de oio, el me gaveva dito: «Se ti me brusi 'sto albero, te cavo la matricola!» Perché se fazeva col fogo, savé? — Come col fogo? — Col fogo sì. Perché el scafo, tuto el scafo, opera morta e opera viva doveva passar per el colo dela butilia. Là no iera santi. I alberi inveze se li meteva colegadi zò e fermadi col perno; pò se tacava i fili, co' la barca iera drento la fiasca se zucava i fili e alberi e vele vigniva suso. E dopo ai fili se ghe dava fogo, perché che no se conossi. Lavori che adesso no se fa più, se ga perso l'amor. — Alora credè che no se trova più? — Mah, no so, ve go dito, forsi a Lissa, a Curzola, a Brazza. Forsi a Brazza. Anche là i fazeva assai. Ma vù, siora Nina, gavessi dovù veder l'«Arciduca Alberto». — No, mi son rivada solo a veder l'Arciduca Otto. Iero putela a Fiume sul molo, me ricordo, e mio padre me ga dito: «Eco, ti vedi, quel xe l'Arciduca Otto». Iera un muleto rizzo, un biondin, con una dama de compagnia e tuto Uficialità atorno. — Ma cossa ghe entra? Mi parlavo del «Arciduca Alberto», la barca de guera «Arciduca Alberto»: iera un trealberi a ridotto corazzato. Che el Comandante Crivellari gaveva in pitura impicà in gabina sua de lu. Lui el iera stà imbarcà sul «Arciduca Alberto» un periodo, co' el iera in Marina de Guera. — Comandante Crivellari? No conosso. Mi conossevo un Crivellari che gaveva botega a Ossero. — Indiferente. Vù volè conosser tuto el mondo. Mi ve parlo de prima dela prima guera, un dei primi imbarchi che go avudo, che iero suo giovine de camera. Dovè saver che 'sto Comandante Crivellari, el iera stà de leva in Marina: quatro ani se fazeva soto l'Austria in Marina, altro che adesso, che co' i torna i fa gropi che fa spavento. Cadetto el iera, Primo Cadetto. E per lu 'sto «Arciduca Alberto» iera un oracolo. «Trealberi con ridotto corazzato — el ghe diseva sempre ai passegeri in salon de prima co' i magnava — Arciduca Federico Rodolfo Alberto, il vincitore di Custoza.» — Come Custoza? — Indiferente, el saveva lu. «Vincitore di Custoza». 'Sto Arciduca Federico Rodolfo Alberto doveva esser stà un Feldmaresciallo de quei che gaveva vinto ancora co' iera la guera de Lissa. E alora i gaveva fato 'sta barca de guera che se ciamava come lu. — Ah, come in memoria? — Maché memoria! Le barche ocori e co' le ocori i le fa e dopo i ghe dà el nome de un grando. E per 'sto Comandante Crivellari, no esisteva altra barca de guera per lu. Figureve che la prima volta che a Pola gavemo intivà la Viribus Unitis, che iera una Viribus Unitis, lu ga dito: «E ben, cossa ve xe 'sta Viribus Unitis? Xe l'Arciduca Alberto un poco più grando. E po' la ga tropi camini. Barca che fuma, barca che se vedi e xe cativo per le torpedo». Cussì diseva lu. — E vù ieri con lu su 'sto Arciduca? — Ma come podevo esser mi con lu sul Arciduca Alberto, se mi iero suo giovine de camera? Quando che lui iera giovine el iera sul Arciduca Alberto e per Comandante el gaveva el Comandante Petris che iera — pensé — apena el nono del dotor Petris che gaveva farmacia in Arbe. — No conosso. — Indiferente. Iera per dirve come che iera le generazioni quela volta. «Inafondabile» el diseva lu, l'Arciduca Alberto, perché con paratia stagna dopia e ridotto corazzato, altro che 'ste barche nove.» Ve go dito, pò: in pitura el lo gaveva, impicà nela sua gabina. Coss' che no gaveva el Comandante Crivellari in quela sua gabina: libri, lui iera omo studià, fiasche, pipe de ogni logo, lui gaveva viagià tuto el mondo, con barche de altura. Capohornista el iera, Capo Horn el gaveva fato. Che adesso fazile i fa, con radio, aroplani e barche tuto atorno, dio guardi un mal de note. Quela volta inveze soli e a vela e strussiar e pericolar e perder la vita. Quanti che no ga perso la vita a Capo Horn! — Col Arciduca Alberto? — Ma no, col Arciduca Alberto, cola Marina Mercantil. El Comandante Crivellari gaveva viagià mezo mondo. Ve go dito che iera de tuto in quela sua gabina, solo de liquori el gaveva un scafeto pien. — Ah, el beveva! — Ma no 'l beveva, el tigniva per le ocasioni. Liquori de ogni logo: iera me ricordo, pò, una butilia longa e sutila, fé conto come quele de melissa che fazeva i frati a Venezia. — Ah milissa! Mia madre defonta ... — Indiferente. Iera 'sta butilia longa e sutila con scrito tuto per arabo, una roba che lu doprava per meter una jozza nel caffé: co' l'averzeva se sentiva un odor de mistrà, come. — Ah, mistrà iera? — Sì, mistrà, ma vero mistrà turco: Rachì. — Ah, rachìa? — Ma no rachìa, questo ve iera una roba turca vera. Insoma, per farvela curta, mi me piaseva tanto 'sta roba che ogni giorno bevevo un sluc co' ghe disbratavo la gabina. Tanto che, sluc ogi, sluc domani, me go inacorto un giorno che no iera più drento gnente. — Sbevuzavi? — Eh sì, gavevo sbevuzà. Ma insoma, per via che no 'l me trapi, go pensà: xe meio butar via la fiasca e ghe dirò che la xe andada rota per un colpo de mar. E cussì la go ciolta. Volé che sia fatalità? Come che mi vegno fora dela sua gabina, lui drento: cossa che fazzo con quela butilia in man. «Comandante — ghe digo mi — la porto via perché xe una butilia svoda.» — Mama mia, e lu? — Lu el disi: «Svoda? No me consta.» Che se la fiasca xe svoda vol dir che qualchedun se ga bagnà el gargato. Che per una roba compagna sul Arciduca Alberto iera diese giorni de feri, nel ridoto corazzato. E el ga comincià a zigarme: «No ti sa che quel iera el mio Rachì de Smirne, che bevevo col caffé?» Alora mi, siora Nina, go fato el sempio per no pagar dazio e ghe digo: «Comandante, sior Comandante Crivellari, cossa? De bever iera? Go visto che iera averto e go calcolà che fussi melissa svampida. E go butà via.» E qua, siora Nina, me xe vignù l'idea ... — Cossa, dela milissa? — Maché milissa. Mi ghe go dito: «Comandante, sior Comandante Crivellari, mi me piaseva assai el formato de 'sta butilia. E la go ciolta per meterghe drento, per farve per vù l'Arciduca Alberto». «Cossa, come?» — el me disi. «Sì — ghe digo mi — ve farò l'Arciduca Alberto compagno preciso drento de 'sta butilia de milissa.» «Maché milissa!» el me disi «che iera Rachì!» E po' che storia che xe questa? «Gnente storie, ghe digo mi: qua, tempo un mese gaverè la più bela barca in fiasca che esisti sul'AustroAmericana. L'Arciduca Alberto più bel de come che el ve xe là in pitura.» — E gavé lavorà un mese? — Un mese? Un ano, siora Nina. Fin che xe s'ciopà la guera squasi. Tute le sante sere! 'Sta malignaza fiasca gaveva un colo cussì sutilo che no passava drento maché alberi, gnanche el ponte. E po' el gaveva pretendeste che scrivo sula prova no solo «Erzherzog Albert» ma «Erzherzog Friedrich Rudolf Albert». Arciduca Federico Rodolfo Alberto. Il vincitore di Custoza. Un ano, siora Nina, però che gioielo. Preciso, compagno del quadro. — E iera contento el Comandante Crivellari? — Altro che contento. El lo gaveva sempre con sé in guera fin che i lo ga silurado cola Viribus Unitis, che anzi co' i lo ga salvà, el ga dito: «Ve gavevo dito mi che la gaveva tropi camini. Barca che fuma, barca che se vedi, e xe cativo per le torpedo.» — Perché xe andada a fondo la Viribus Unitis? — Come no. L'unica roba che xe restada a gala xe stà l'Arciduca Alberto in fiasca. Inafondabile. MALDOBRIA XXVII - L'ECO DELLA COLOMBERA Nella quale Bortolo racconta di un suo disegno per attirar foresti sulle nostre sponde e dei trattenimenti che pensò di offrir loro con l'aiuto di Gigi Vin. — Gaveva, gaveva soldi Barba Nane. Ma no 'l li dava. In carità magari sì, ma per imprestarli no. «Chi che impresta perdi la testa», el diseva sempre. So ben mi che ghe gavevo domandà quela volta che iera andada al incanto la Vila Stefania. Savé quela dove che stava la signora Stefi, che iera restada vedova tanti ani del Comandante Hubeny? — Hubeny? Gavevo sentì... — Ma sì, dài, che lui iera dela Marina de Guera propio, e dopo, in pension, el iera vignù a star qua. Ve parlo de prima dela prima guera. Ungarese el iera lui, ma ghe piaseva qua. Lui iera morto de ani anorum, e co' la xe morta ela i ga messo la vila al incanto. — Vila Stefania, come no? La xe ancora. Durante la guera stava i tedeschi. — Se so. Ma mi zà prima dela prima guera gavevo pensà che podeva starghe tedeschi, far tipo pension, cior gente a costo per la bona stagion. E soto, dove che i gaveva el portigo, far local averto tuto l'ano. — E ghe gavevi domandà i soldi a Barba Nane? — Sì. E savé coss' che el me ga dito? «A imprestar se perdi i bori e l'amico». «Bon — ghe go dito mi — féme almeno la maleverìa». «Sì, bravo furbo: chi garantisse, paga». Insoma, tuto mi e Marco Mitis gavemo messo fora el capital. «Vila Stefania» gavemo lassà, anche per el nome, e pò soto «Ai due amici», quel iera el local. Iera una vista bellissima, propio in ponta de Sant'Andrea, imenso. E Barba Nane ne diseva ogni giorno: «Se gavé tanta passion per la panatica, imbarcheve per gambusieri, che là la paga ve cori sicura, che sia o che no sia gente». — Ah, «Ai due amici», me ricordo! Adesso i ga fato magazen de ... — ... de gnente. Perchè no i ga mai gnente drento. Ghe vol testa per far le robe. E solo i omini ga testa, no i picarini. I picarini ga ganzi. E a noi, testa, no ne mancava. Fortuna, magari, gavemo avudo poca, ma testa no ne mancava. Pensé che gavevimo fato anche l' Eco dela Grota. — L'eco? L'eco, come? — Ma dài, siora Nina: l' Eco. L' Eco vero e propio. Savé coss' che xe l'eco? Ieri mai in Valon? Vù zighé: «Chi semo?» E lu rispondi: «Semo, semo, semo ...», che xe un rider. — Ah l'eco! Come che qualche volta fa scherzo in Cesa dele Mùnighe? — Indiferente. Dovè saver che con 'sta Vila Stefania, i primi ani iera duro. No la xe mai andada tanto ben, ma i primi tempi propio mal. Vigniva sì, gente, anche de Trieste, de Pola. Qualche czeco, qualche gnoco, una putela malada de peto — me ricordo — belissima, ma pochi. I se fermava poco. Pò i se noiava, no iera miga television quela volta per tignirli in local, gnanche radio. Fonografo iera un oracolo gaverlo. Insoma, per tirar avanti, Marco Mitis ga finì col dir: «Mi vado a navigar un viagio, cussì almeno paghemo le tasse». — E gavé serà? — Siora Nina: Marco iera un e mi iero quel altro. Lu navigava e mi tendevo la Vila, po' andavo a navigar mi e tendeva la Vila lu. Cussì se gavevimo concertà: «I due Amici», po'. — Ah, bela pensada. — Sì, bela pensada. Ma la più buia pensada la ga avuda Marco, co' el xe andado zò a far un carigo de vin. — Imbriago? — Cossa imbriago? El xe andado zò a far un carigo de vin col «San Francisco» ... — Zò in Dalmazia, ale Boche de Cataro? — Maché Boche de Cataro. Sé vù che parlé perché gavé la boca. El xe andado in Augusta, che xe vizin Ragusa. — Va ben, un poco più sù dele Boche de Cataro ... — Ma cossa ve xe le Boche de Cataro? El bunigolo del mondo per vù? Xe Ragusa che xe in Dalmazia e xe Ragusa che xe in Sizilia, vizin Siracusa. E a Siracusa, Marco ga visto l'Orecchio di Dionisio. — L'orecia de chi? — L'orecia de San Piero! Dài, l'Orecchio di Dionisio! No savé cossa che xe? Xe un posto ancora dela Antica Grecia. — Alora no xe in Sizilia? — Ufa. Se volé lassarme parlar a mi, conto e se savé meio vù, conté vù. Insoma, 'sto Orecchio de Dionisio xe come una grota e xe l'eco, ma un eco miga come in Valon: un eco che ve ripeti trenta volte ogni parola. E se paga bilieto. Ingresso per andar a sentir. Xe una dele meraviglie del mondo. — Come le Boche de Cataro. — Solo che, inveze, quela xe l' Orecia. Alora insoma Marco Mitis torna del viagio e me conta de 'sto Orecchio de Dionisio e che i scodi bori ai foresti e che noi dovessimo gaver una roba compagna. «Sì, ghe digo mi: noi podemo far el Naso de Giovanin Napariola». — Giovanili Napariola me lo ricordo, con el naso longo, povero. — Indiferente. Questo iera un scherzo che mi go dito de Giovanin Napariola. Inveze Marco Mitis me ga dito propio per bon che noi propio podessimo far un eco nostro. «E dove — ghe digo mi — se no xe el logo? In Valon?» «In grota — el me disi — in grota dela Colombera, soto la nostra ponta». «Ma no xe eco», digo mi. «E se lo fa», el me disi lu. — Come se lo fa? — Quel che ghe go domandà mi: «Come se lo fa»? E Marco Mitis me disi: «Noi metemo drento dela grota, in fondo, dove che la fa comio, uno. E quel che el senti zigar, lui rispondi: xe l'eco. L' Eco dela Colombera. — Ah, finto far? — Sicuro, ma la gente no doveva saver. Breve: trovar l'omo adato, secreto, un che gabi poco de far, che sia sempre là e noi ghe davimo la panatica. E cussì gavemo pensà a Gigi Ghérbaz. — Chi, Gigi Vin? — Si, sì, el fio de Martin Ghérbaz. I ghe diseva Gigi Vin perché ghe piaseva bastanza el calice. Cussì se gavemo fato dar del Demanio la privativa per la grota. Gigi Vin stava drento e noi menavimo i foresti a sentir l'eco. L' Eco dela Colombera. Vintizinque soldi i pagava. Ma iera qualcossa, savé. Nualtri fazevimo pension per zinque corone e meza, quela volta. — E i foresti ga credesto? — Altro che i ga credesto! Vigniva 'sti gnochi, anche triestini savé, qualche czeco, e i zigava, metemo dir, «Klagenfurt!» E Gigi Vin de dentro: «Klagenfurt, Klagenfurt, Klagenfurt», sempre più pian. I ultimi tempi el iera meo de un eco vero. Fin quela volta che xe vignù quel malignazo de Viena. — Un Ispeziente superior? — Maché Ispeziente superior. Iera un de Viena, me lo ricordo sempre: un longo cola moglie magra, un Santantonio de osso e una fia spisima, cole drezze. I va drento tuti tre: una corona e meza, e mi ghe spiego dove che i devi girarse per zigar. E 'sto qua el ziga: «Oesterreich ...» E Gigi: «steràik, steràik ...» bravissimo el iera. 'Sto qua el ziga: «Trìest» e Gigi: «ìest, ìest, ìest...». 'Sto qua de Viena me fa a mi «Wunderbar», come dir belissimo e dopo el comincia a zigar «Wien, Wien Wien» come dir Vienna. E Gigi no salta fora dela grota e el disi: «Son qua, son qua, cossa volé?» Perché, capì, 'sto sempio, tanto abitua che i lo damava Gigi Vin, co 'l ga sentì Wien el xe vignù fora. — E vù? — E mi son andà drento. Mi e Marco Mitis. Tre mesi. Soto l'Austria no i lassava far l'eco finto. MALDOBRIA XXVIII - IL CAPPOTTO DELL'ARCIDUCA Nella quale Bortolo racconta di una mancata visita dell'Arciduca Francesco Ferdinando, della sua sostituzione con l'Arciduca Francesco Salvatore, del varo della «Viribus Unitis» e di un accidente nautico in seguito al quale molto mutò l'aspetto dello Stato Maggiore e dell'Ufficialità nella Piazzaforte di Pola. — Siora Nina, noi semo de un'altra epoca. Dio mio, coss' che no ga cambià el mondo. Sciarpete, per esempio, che adesso i ghe disi cravate: dove un maritimo meteva una volta sciarpete? Mai un maritimo semplice se meteva in sciarpeta. Inveze adesso tuti. — Ah sì, me ricordo; el fazoleto i meteva... el fisciù. — Indiferente. Barba Mate Pessimòl, per esempio, ga portà l'orecin fin al ultimo. — Usava sì, i maritimi. — I veci maritimi, quei antichi, che anzi Barba Nane ghe diseva sempre a Barba Mate: «Porté, porté vù l'orecin, Pessimòl, i dirà che sé del milesimo de Marco Caco e i ve caverà la matricola». — Barba Nane iera sempre ben vestì, come un giudice, cola sua bela barba spartida in mezo ... — Eh, lui ghe tigniva. Quela volta iera Viena l'oracolo per come andar vestidi. Co' vigniva un de Viena, a Pola i sarti ghe fazeva subito drio. — Moti, come? — Maché moti! El modelo no? El modelo de Viena. Me ricordo che un ano xe tocado un truco al Arsenal de Pola che no ve digo. — Xe stà questioni coi arsenaloti? — Cossa questioni coi arsenaloti? No iera questioni, quela volta. L'Austria iera un paese ordinato. L'Arsenal de Pola iera la prima Piazzaforte dela Marina Austro-Ungarica. Là ve iera Uficialità, Amiragliato, Horthy, tuto. — Ahn! Prima dela prima guera? — Prima e durante. Dopo anche. Ma meno. Adesso xe un'altra roba. Ma insoma, che ve disevo, iera prima dela prima guera, sarà stà del Dodici, del Tredici, no me ricordo ben. Ma xe stà propio in quel ano che i ga varà la Viribus Unitis. — Mi me ricordo co' i ga varà la Santo Stefano. — La Santo Stefano iera la Santo Stefano e la Viribus Unitis iera la Viribus Unitis. Quel ano i gaveva varà la Viribus Unitis. Corazzata iera. Prima corazzata. Mi iero de leva con Marco Mitis, ierimo a Pola e i me ga mandà cola Ferata a Trieste per el varo. — Vù gavé varà? — Mi go varà? Lori ga varà. I ga fato el varo. E a noi i ne ga mandà là per servizio. Coss' che no iera un varo una volta a Trieste! I sarti e le sarte lavorava per mesi co' iera un varo. Perché tute le signore guai a no gaver el vestito novo e i uficiai in montura alta col capel puntà e i civili in cana. Iera un'altra epoca, un'altra concezion dela vita. — Iera bel? — Iera quel che iera. Sicuro che iera bel. Oh Dio, anche quela volta iera ingiustizie. Iera grandi richezze e grandi miserie. Però iera sugestivo. E insoma iera stabilì, propio patuìdo, che doveva vignir l'Arciduca Francesco Ferdinando, che lu gaveva fato dir «Va ben, io vengo, ma cola moglie o gnente». Savé iera sempre quela question che lui gaveva la moglie morganatica, che no la iera del Sangue e alora i ghe fazeva angherìe. — E no 'l xe vignù? — No. I ga fato dir «perché costipato» e, inveze de lui i ga mandado per el varo l'Arciduca Francesco Salvatore. — Che no iera morganatico? — No. Anzi. Lui iera uno dei primissimi del Sangue. Pò bel omo, alto, grando. Savé, mi son alto e me lo ricordo el iera una bona testa più de mi co' el me xe passà davanti. — Grando el iera? — Grandissimo. Pò elegante. Che lui a Viena vigniva considerado come un Principe de Galles. — Come in pepita? — Maché pepita. Principe de Galles come dir el massimo del'eleganza, che tuti lo copiava a lu. Insoma el riva, el riva in riva e mi e Marco Mitis ierimo cole lance. — Ah, vestidi de antichi? Cola lanza! — Sì la lanza de Longino, quel che ghe ga dà la lanzada a Nostro Signor! La «lancia», el motoscafo, per i trasbordi de una barca al'altra ... — Ah! La lancia. — Sicuro. Insoma noi ierimo fora del Arsenal del Lloyd de Trieste che lo spetavimo cola lancia. E lui riva cola pilotina. E el doveva trasbordarse de noi che lo portavimo al varo. Tuto ben, l'acosta, coi fis'cioti i ga fato tuti i segnai del rango che no finiva più. El se alza in piedi, alto el iera. Iera un poco de mar, el meti un pie sul bordo dela nostra lancia, la pilotina ciapa un'onda de traverso e lui iera mezo de qua e mezo de là, che Marco Mitis me fa pian: «Bel sarìa che el cascassi». Siora Nina: gnanca dito, che patapùnfete, el casca. — In mar! — In mar, in mar! Col capoto de Marina e el capel puntà. Ma lu come gnente; el se ga ciapà sul bordo dela nostra barca e tuto scolando el ga dito, me ricordo come ieri: «Bade-Saison», che sarìa come dir «Go fato el bagno!» — Tuto vestì! — De puntin, pronto per el varo che el iera. Xe stà un momento bruto. Ma lu ga dito solo che i ghe daghi un capoto. Solo un capoto che no se ritardi la cerimonia. Che queste bele signore non devono atendere. Bel omo el iera, grando. No iera fazile trovarghe un capoto. — Perché el gaveva fredo? — Maché fredo, siora Nina: el suo capoto ghe se gaveva bagnà. No 'l podeva miga andar sguazado a far el varo. Insoma, ve disevo che no xe stà fazile trovarghe un capoto cussì grando. Fortuna che con nu iera vignudo de Pola anche el Cadetto Giadròssich, un lussignan che iera bastanza toco de omo anche lu. — Eh, i lussignani ga grandi ossi. Mia defonta cognada ... — Indiferente. Insoma 'sto Giadròssich se ga cavà el capoto e el ghe lo ga dà. Ben, volé creder? El Cadetto Giadròssich iera un toco de omo, un lussignan, epur co' l'Arciduca Francesco Salvatore se ga messo el suo capoto ghe mancava boni zinque diti per le manighe e zò el ghe rivava sora del zenocio, tanto grando iera 'sto Arciduca. — Ah, no ghe andava ben? — Sì, ghe andava come spale e tuto, ben setado ... ma iera un poco ridicolo. Che anzi lui se ga vardà i brazzi e i zenoci e 'l ga dito: «Kàrnival von Venedig». Che sarìa come dir che el iera come un Carneval de Venezia. Insoma lo gavemo portà al Arsenal. Tuto pulito, xe stà el varo, quasi nissun no se ga inacorto de gnente. E mi, Marco Mitis e el Cadetto Giadròssich i ne ga mandado nela Caserma dela Guardia de Finanza de Marina che iera là soto Servola a farghe sugar e sopressar el capoto suo de lu del Arciduca. — Se ga podesto? — Se ga podesto, se ga podesto. Solo che i ga dovesto prima resentarlo in acqua dolze, che vadi via el salso, po' i ga impizzà una granda stua, de quele de maiolica, de Viena che se usava, e col fero, gran fero, i ga sopressà tuto el giorno e la matina dopo el iera pronto. A Mìramar lo gavemo portà, siora Nina, perché là el dormiva. Mai no me dimenticherò! I ne ga fermà zò, gavemo consegnà el capoto e lori ne ga dado indrio el capoto del Cadetto Giadròssich. E giusto in quela el vien zò lu. — Chi, el Cadetto Giadròssich? — No, l'Arciduca Francesco Salvatore con tuta l'Uficialità. In spadin el iera. — Cola siabola? — No, no, in spadin, in vita, senza capoto. Che anzi quando che 'l suo Aiutante ghe ga dado el capoto che noi gavevimo fato sugar el ga dito: «Nein nein, schönes Wetter, Sonne, Adria ...». Insoma che xe una bela giornada e kain capoto, gnente capoto. E via lu in carozza ala stazion. — Ah, el tornava a Viena? — No. El doveva andar a Pola, perché «Seconda Giornata del'Augusta Visita» — iera scrito — el doveva ispezionar l'Arsenal de Pola. E noi drio de lu a Pola, in vagon per militari semplici, se capissi. Rivemo a Pola, semo tuti in Arsenal, el riva lu, e tirava un fià de borin. Me ricordo come ieri, drio de lu iera l'Aiutante col capoto in man; l'Arciduca ga stranudà come, e 'sto Aiutante subito ghe tien el capoto. Lui se lo meti su: volé creder Siora Nina? Ghe mancava boni zinque dedi per le manighe e zò el ghe rivava sora del zenocio. — Ahn! Per sbaglio i ghe gaveva dà de novo el capoto del Cadetto Giadròssich! — Maché, siora Nina. Iera el suo, suo de lu. Solo che cascà in acqua, resentado, sugà davanti el fogo e sopressà tuto el giorno el ghe se gaveva strento. — E lu? — Lui gnente. No 'l ga dito meza parola. El ga fato la cerimonia, dado le medaie, una roba, l'altra. E tuti che lo vardava. E el dopopranzo ga lavorà tuti i sarti de Pola. — Per farghe presto un capoto novo? — No, no, per scurtarghe le manighe e farghe la pietà de soto ai capoti de tuti i Uficiai e Sotouficiai dela Piazzaforte de Pola. Xe cussì, siora Nina, che xe vignuda la moda dei capoti curti de Marina. Anche el Cadetto Giadròssich ga dovesto scurtarselo. MALDOBRIA XXIX - RUM BIANCO DI GIAMAICA Nella quale Bortolo esalta le qualità terapeutiche del plùzer, racconta dei suoi viaggi nelle Antille, del tipico liquore di quelle isole e delle pericolose abitudini notturne del nostromo Pillepich, accanito fumatore. — Xe meo tignirse sula vecia: «Acqua de cisterna ogni mal governa» e l'acqua calda del plùzer xe meio de tuto. Per disturbo, riscaldo, flussion, Dio guardi colica. Mi co' navigavo gavevo sempre el plùzer. E me ga tocà una volta un truco, ma un truco ... — Ve se ga 'verto el plùzer? — Maché. Dovè saver che noi quela volta fazevimo la linia de Centro-America. Linia de Giamaica. Zuchero se portava, zuchero de cana. Quel iera zuchero. Altro che 'sto zuchero de rave che i fa adesso. Ve ricordé che per le magnative se vedeva el pan de zuchero? — Pan de Milan, quel col zuchero? — Sì, la zonta de pan de fighi. Noo, pan de zuchero; involto in carta de zuchero. Dove se vedi adesso più? Zuchero portavimo e rum iera assai. Ma quel iera contrabando. Quel bon rum bianco de Giamaica. — Ma el rum no xe bianco, sior Bortolo, el xe scuro: mi meto sempre nei dolci. — Per vù el xe scuro, siora Nina, che no gavé visto mondo, che no gavé mai messo el naso fora dele Canìdole. El vero rum, quel de Giamaica xe ciaro. Limpido. Quel xe la purità del rum. Quel che i fa qua xe con essenza, alcol, zuchero. E dopo i ghe meti el negro col capel de paia sul'eticheta per far bel. Dio 'sti negri come che no se imbriaga de rum. Me ricordo mi un, una volta che me coreva drio con un cortel, che pareva la siabola de Teghetoff, dio che rider! — El ve ga ciapà? — Siora Nina, se son qua vol dir che no 'l me ga ciapà. Perché i negri diventa come bestie col rum. — Eh, i maritimi sempre pericola! — Cossa volé, siora Nina, mi son andà in 'sta osteria. «Posada» i ghe ciama là, che po' no se vedi una possada gnanche morti, i magna tuto cole man. Vado drento, una roba e l'altra, savé come che se taca a quistionar, 'sto qua ghe ga ciapà i zinque minuti e el me coreva drio col cortel. Ma co' son rivà in marina go visto subito che iero sul bon, perché là iera 'sti inglesi col frustin, che i mandava via i negri dei locai. Colonia inglese iera Giamaica quela volta, miga come adesso che tuti bàgola! — Ah, no 'l ve ga ciapà. — Indiferente. Volevo dirve che mi là a Giamaica compravo sempre 'sto bon rum. Miga per contrabando, savé, per uso de casa, per gaver, quei zinque, diese litri. Costava gnanca la metà là zò. Che qua pò gnanca no se gaverìa trovà quel bon. Solo che bisognava portarlo fora. — Fora del vapor? — Fora del vapor no xe gnente. Fora de Punto Franco: quel xe. Alora mi me iera vignuda un'idea. Savé dove che mi tignivo el rum? Nel plùzer. Nel plùzer no i guarda. Metevo un fià de oio de sora che no fazzi odor, caso mai savé che la Finanza nasi, e pò metevo el plùzer fra la roba sporca. Nissun vardava mai. — Ah, ben pensada! — Eh, siora Nina: bisogna pensarle tute. Guardie e Finanza, mai abastanza, guai se i trapa. — Ahn, trapa portavi? — Maché trapa: rum. Se i trapava cola trapa no iera gnente. Col rum iera radighi. Dovè saver che quela volta iero sul «Laura». Una bela barca del'AustroAmericana. E gavevo la gabina insieme col nostroomo Pillepich. Un ridicolo el iera! Coss' che no se gavemo divertì con lu. El le diseva con quela sua fiacheta. Fumador el iera! E no 'l gaveva mai un spagnoleto. El diseva sempre: «Se gavessi cartine, te domandassi tabaco, ma fulminanti no go!» Un rider ... — No 'l gaveva cartine? — Ma dài, siora Nina! Xe per dir, no, che no 'l gaveva gnente. Insoma una sera, semo ancora in Giamaica, squasi lesti per partir, pronto tuto: impinisso el plùzer col rum, lo pozo là sul scafeto e vado su sul ponte che iero de guardia. — Che sacrificio, ah che xe in mar! — Sì, sì, ma se se la passa anche. Insoma iero là de guardia e vien Pillepich. E el me disi con quela sua fiacheta: «Bortolo, se gavessi fulminanti, te domandassi cartine, ma tabaco no go». — No 'l gaveva fulminanti? — Indiferente. Lui gaveva sempre quela de fumar in cuceta. Mi ghe go dà el spagnoleto, ma ghe go dito: «Pillepich, no stà fumar in gabina, che xe bruto pò dormir in quel sofigo». Ma co' mi iero de guardia lui istesso fumava in leto. Ben, no volé che quela sera el se indormenza come un zoco e el spagnoleto ghe casca sul linziol? — Mama mia ... e pò a bordo! — Fogo, siora Nina! El se ga sveià col fogo! No assai, perchè per fortuna el se ga scotà la man e el se ga subito dismissià! El salta su, el zerca acqua, estintori quela volta, figurarse, dove iera, e broca svoda. E 'sto mostro, no ghe vien l'idea de svodar el plùzer? — Mama mia! — Roba mia, altro che mama mia! 'Sto rum infogonado che coreva come serpenti per tuta la gabina e fora dela porta. Xe vignù zò fin el Comandante Brazzànovich, e una spuzza de petéss che pareva de esser «Ale Baretine Rosse» in via Felice Venezian a Trieste. Una barufa! «Me dovevi avertir!» «E vù perché fumé in cuceta, che ve go dito tante volte!» «E vualtri cossa sté qua a quistionar — ziga el Comandante Brazzànovich — che xe pericolo! Che xe pericolo che el fogo ciapi el deposito del'acqua!» — Come el deposito del'acqua, pericolo? — Eh, siora Nina, el deposito del'acqua iera pien de rum. Là meteva el suo el Comandante Brazzànovich. Miga per contrabando, savé? Quei zento, dozento litri per uso de casa. MALDOBRIA XXX - L'UOVO, LA BESTIA E LA VIRTÙ' Nella quale Bortolo, illustrando il modo da lui usato per colorire le uova di Pasqua, narra la storia di Martin Gherbaz, dei propri pericolosi amori lussignani, e dimostra la veridicità del detto secondo il quale, alla fin fine, «tute le volpe se trova del pelizér». — Mi no rivo ancora capir, siora Nina, perché per Pasqua se ga de piturar i ovi. Se el li voleva far rossi e blu, el li gaverìa fati rossi e blu e no bianchi. — Ma chi? — Chi? Quel che ghe ga fato el manigo ale zariese. E pò savé, siora Nina, no me par gnanche san. Con tuto che mi son stà el primo che ga portà qua 'sta polverina per i ovi, roba tedesca, anelina finissima, quando che ancora tuti ghe dava color cola zivola. Cara, magari, la iera 'sta polverina ma tuti iera entusiastici, me ricordo come ieri. Perché in quel ano iera cari anche i ovi, assai cari perché i iera pochi. — Strano, perché de solito, inveze, per Pasqua, xe tanti ovi. Cossa, quel ano le galine gaveva la pivìda? — Maché pivìda! Iera una volpe malignaza e no passava note che no la portassi via un per de galine. E no valeva trapole, no valeva farghe la sguaita. Se la vedeva de una parte, là dela casa nova, e pò la vigniva fora là del zimiterio. Mi disevo sempre: «Xe dò volpi, le xe dò.» E tuti me cioleva via. Insoma, iera soto Pasqua: ve ricor dé de Martin Ghérbaz, che i ghe diseva Ménola? — Uh, altro che! Martin Ménola. Bon el iera, però un poco indrio cole carte, come. El stava là davanti de casa sua a distrigar parangai e i fioi ghe domandava: «Martin? Cossa gavé ciapà? Un gatin?» E lu diseva: «No: una ménola!» E el rideva. — Sì, ma no' l iera dispossente. Iera che el iera un poco indrio come mentalità. Bon omo. Un giorno, insoma, el capita de mi a portarme un parangal. Iera de Sabo Santo e el me disi: «Bortolo, ma come fé vù a far 'sti vovi rossi?» «Cola polverina» — ghe digo mi. «Cola polverina?» — el disi lu. «Sì, cola polverina» — ghe digo mi. E per ciorlo via ghe fazzo: Martin, vù ghe la dé de magnar ale galine e le ve fa i ovi rossi. Rossi o blu, come che volé, secondo dela polverina. — Dio che maldobrìa, sior Bortolo! — Ma lu, povero, me ga credesto. El xe andà in botega de siora Resi el ga comprà la polverina e de sera, che mi gnanche no ghe pensavo più co' el fazeva la panada gratada per le galine ... — Eh, Martin iera famoso lu, sempre el fazeva la panada gratada per le galine. — Me ricordo come ieri: de Sabo Santo, iera. Che quela volta el Gloria sonava a mezogiorno, no come adesso, mi no so coss' che i cambia 'ste robe. Anche coi Sepolcri xe tuto altro, che una volta se fazeva sempre le Sete Cese. — Uh, le Sete Cese, anche mi sempre go fato. Andavimo prima dele Mùnighe, dopo a San Sidòro, pò in Domo, Santo Spirito, quela là in fondo che no xe più, eh, le Sete Cese ... — Indiferente. Quel Sabo vedo là Martin che missia la panada gratada e ghe digo: «Ciò, Martin, cossa gavé ciapà, un gatin?» «No, una ménola» — el me fa, al solito suo. E el missia, el missia avanti una roba rossa. E mi ghe digo: «Cossa, pomidori ghe dé ale galine?» E lu: «No pomidori, ghe missio la polverina per via che le me fazzi i vovi rossi, me ga parso più bel rossi che blu». Capì, siora Nina? El me gaveva ciapà in parola, come che ve go dito. — Povero Martin! Devo ricordarme de dirghe un requie. — Figureve mi, son corso a gambe in spala in osteria de Bepin a contarghe a tuti. «Savé che Martin ghe ga fato la panada gratada col'anelina ale galine per via che le ghe fazzi i ovi rossi?» Un desìo: tuti a rider, a corer a veder, a dirghe «Bravo Martin!» — E le galine, cossa, le xe morte? — Indiferente le galine! La volpe xe morta! E no una, dò volpi, come che disevo mi. Iera dò volpi, mas'cio e femina. Insoma, le galine ga magnà la panada gratada: anelina, roba tedesca iera, finissima e le xe restade dure. Pò de note xe vignude quele malignaze volpi, le ga magnà le galine de Martin e i le ga trovade qua drio la casa del Maestro de Posta stechide. Inutile: i tedeschi sarà quel che se vol ma per colori e chimica no esisti che el tedesco. — E Martin? — Martin disperà! El pianzeva come un putel, savé el iera un poco indrio, come mentalità. Ma dopo contento come una Pasqua perché tuti ghe ga dà una galina per omo. Podé capir... 'ste volpi gaveva fato assai dano. — E vù? — E a mi i me ga dà la pele dele volpi, perché iero stà mi, in fondo che gavevo fato tuto. Dò bele peli che go fato dò volpi che ghe go regalado una per omo a quele due putele che me parlavo. — Come, due putele che ve parlavi? Insieme, voi tre? — Maché insieme noi tre! Giovine iero, siora Nina, mariner, gnanche sposà. Iero nostroomo sul «Lussino», savé quel vaporeto che fazeva su e zò Lussinpicolo-Lussingrando, LussingrandoLussinpicolo, Lussinpicolo-Lussingrando? — Sì, el «Lussino». — Sicuro. Che anzi Barba Nane me diseva sempre: «Ma cossa, vù giovine ala vostra età, fé 'sti viagi de rider? Ve insempieré, no vederé el mondo!» Ma savé coss' che iera la vera verità? Che a mi me piaseva le lussignane. 'Ste done grande. Perché per mi la dona ga de esser granda. — Mia nona defonta iera de Lussin e no la trovava mai scarpe in botega. — Indiferente. Mi iero giovine e pien de morbin, tanto adesso che xe passà tanti ani ve posso dir: me iero fidanzà. No de anel, ma me parlavo, ne parlavimo. — Con una de Lussingrando o una de Lussinpicolo? — Con una de Lussingrando e con una de Lussinpicolo. Spetavo de deciderme, come. Vù savé come che xe a Lussin, quei de Lussinpicolo se tien de più de quei de Lussingrando e quei de Lussingrando disi: «Come? A nù del vù che semo de Lussingrando?» Che pò inveze Lussinpicolo xe più granda de Lussingrando. Ma le dò putele le iera grande tute dò, grande compagne. Insoma mi, de matina iero a Lussingrando che me parlavo con una e de sera iero a Lussinpicolo che me parlavo con quel'altra. — Eh, i maritimi xe tuti compagni. — Ma andava tuto ben, savé! Fin quela Pasqua xe andà tuto ben. Perché quela de Lussinpicolo, come per ricambiarme dela volpe, la me ga regalà un ovo de ciocolata. Iera i primi che i fazeva cola sorpresa, che i rivava de Fiume, de quela magnifica ofelleria che iera soto la Tore. — Perché vù ghe gavevi regalà a 'ste dò done una volpe per omo? — Se ve go dito, una volpe per omo, ma speté. Questa de Lussinpicolo me regala 'sto ovo de ciocolata, giusto al molo che partivimo. E in navigazion mi go pensà: «In fondo, a mi cossa me importa l'ovo?» Con vinti soldi magno una stanga de ciocolata compagna e questo sicuro costerà almeno un dò tre corone. Savé: a forza de andar de Lussinpicolo a Lussingrando me iera vignuda quela mentalità. E alora go dito: «Qua gnanche no lo discarto e cussì come che el sta, ghe fazzo el presente a quela de Lussingrando e gratis et amoris fazzo un'altra bela figura.» — Ah, mostrìch de omo! E contenta magari quela povereta de Lussingrando? — Come no? Contentissima. «Ma che bel, ma che cussì, ma che culì». Che vardemo coss' che xe dentro. — Ah, cossa iera dentro, la sorpresa? — Altro che sorpresa! Savé coss' che gaveva fato 'sta putela, quel'altra, quela de Lussinpicolo? Col cortel sbrovente la gaveva averto l'ovo, cavà la sorpresa, che quela volta i meteva anei mati, stupidezi, e la gaveva messo inveze drento la fotografia sua de ela con scrito de drio: «Al mio Bartolomio», perché el mio vero nome xe Bartolomio. Insoma: dedica, firma, data e tuto. — Mama mia! E cossa ga dito quela de Lussingrando? — Dito? Fato! La xe 'ndada de quela de Lussinpicolo sul mio vapor, che mi go dovesto star serà in gabina. Insoma, siora Nina, no ve digo: pupoli, pupoli sul molo. E tute dò in volpe. — E pò chi gavé sposà? Quela de Lussingrando o quela de Lussinpicolo? — Siora Nina: go sposà mia moglie, una dona picola. Perchè le done grande cròzola. MALDOBRIA XXXI - IL TABACCO DI ZARA Nella quale Bortolo, pur non parlando di prima della prima guerra, ma di prima della seconda, racconta di una beffa di cui fu un giorno protagonista a Zara il Segretario Schitazzi, uomo di poche parole, ma che poi seppe trovarle tutte al momento giusto. — Ogni ridada ghe cava un ciodo ala bara, diseva sempre el Comandante Bojànovich. Magari una volta el ghe ga cavà de soto la carega al nostroomo Frànelich che se ga scavezzà la gamba... — Dela carega? — No, no: del nostroomo Frànelich, che anzi no i ghe ga mai vossudo riconosserghe l'infortunio. A mi, inveze el scherzo el me lo ga fato cole zigarete. Quela volta fazevimo la linia de Dalmazia col «Barleta». Ve ricordé el «Barleta»? Che bele barche che iera quele per i passegeri. Picole, comode, giuste per Dalmazia. A Zara, podé imaginarve — che là iera tuto franco: zuchero, liquori, café, tabaco — se impinivimo de spagnoleti. — Anche mio marì, quante volte che el ga pericolà cola Finanza. — Indiferente. Quela volta stavimo giusto per molar la zima de Zara e ierimo tuti in gabina del Comandante. Ierimo mi, el Comandante Bojànovich, el nostroomo Frànelich — che gaveva zà la gamba ofesa — e Marco Mitis. Un de lori devi esser stà sicuro, ma mi calcolo el Comandante. — Cossa? — Speté, no. Fato sta che a un zerto momento el Comandante Bojànovich me disi che vado fora, che vado a veder che tuto sia in ordine che no ghe se ingropi le zime e mi vado, cussì senza pensar. Me ga fato strano, ma insoma, son 'ndà fora. I stava giusto per cavar la biscaìna quando — savé come che xe el molo de Zara — me vedo rivar corendo tuto bel in bianco, coi stivaloni, el defonto Schitazzi. — In stivaloni? Schitazzi? — Per forza. Iera quel periodo, no? Ma lu, Schitazzi, sior Cesare, iera un bonissimo omo. Magari el gaveva un fià el muso duro, ma savé perché? Perché un poco el tartaiava. El se vergognava, come, e alora per darse un'anda el iera cussì, de poche parole. Però bonissimo omo. Lui iera tuto: Dopolavoro, Fiduciario del Fassio, Patronato, tuto. Insoma el me riva su per la biscaìna: me lo vedo come adesso che el se forbiva el sudor col fazoleto soto dela bareta col usel de oro. E el me disi, mi fa mi dice: «Ecomi qua al ultimo istante. Quasi che perdevo el vapor: preso in zona Cesarmi!» — Sior Cesare? — Sì, sior Cesare Schitazzi. «Ah ghe digo mi sior Cesare vignì, vignì, i xe tuti zò col Comandante. Xe anche Marco Mitis». Lori iera amichi ancora dele popolari. E insoma andemo zò in gabina, baci abraci, iera tuto una famèa, tuto ala domàcia, ciò mi ciò ti, sior Cesare de qua, sior Cesare de là. Savé, el Comandante Bojànovich ghe tigniva a comparir con Schitazzi, perché el iera lu che ghe organizava tute le crociere, comitive, dopolavori, tute quele robe insoma che se usava quela volta. — Iera un omo ala man? — Sì e no. Bon omo, ma ve go dito che lui gaveva quel difeto che nel parlar ogni tanto el se intopava, specie co' cambiava tempo. Co' iera siroco pò, iera orori. Schitatatazzi i lo ciamava. Alora là in gabina i ghe ga oferto Maraschino, Nocino, Crema Pera, Ceribréndi, quela volta i ghe ciamava «Sangue Murlaco», Danunzio gaveva trovà fora. Fato sta tuto bel, tuto alegria e mi vedo là la mia scatola de spagnoleti che gavevo lassà sul scritorio del Comandante. E ghe ofro una zigareta. Ghe digo: «Sior Cesare, se ve degné.» Me ricordo, iera un pachete de Principe di Piemonte, finissime, quela volta e a noi a Zara ne costava una lira e dieci, gnanche de creder. «Orco — el disi lu — grazie tatatante.» E el se impizza cola machineta. Tuti gavevimo la machineta, iera franco a Zara. El dà dò tirade, e patapùm, siora Nina ... un tiro che mai no me dimenticherò. — Cossa ve ga silurado i partigiani? — Maché partigiani! Dove iera quela volta i partigiani! Ghe ga s'ciopà el spagnoleto. E me lo vedo ancora là 'sto sior Cesare con 'sta zigareta rota in boca e tuto nero in muso. — Cossa, la iera difetosa? — Difetosa? Quei malignazi, per farme una maldobrìa a mi, con quela scusa de andar a veder le zime, i me gaveva mandà fora e i me gaveva messo nei spagnoleti quele mine, savé quei scherzi che se comprava a Trieste in Aquedoto. — Ah so, so: quei esplodenti. — Insoma lui xe restà là come un cocal. Quei altri ziti, stremidi. E mi che disevo: «Ma io no sapevo, ma io sior Cesare io no mi sarìa mai ciolto la confidenza». Dopo el ga butà via 'sta cica e el disi: «La prima volta che go visto far 'sto scherzo, iera del Trentatré a Trento per el Trofeo Tricolore del Troto». Ma cussì, franco, con tuto che iera tempo de siroco. — Eh, in Dalmazia fa, fa siroco. — Ma, siora Nina! «Del Trentatré a Trento per el Trofeo Tricolore del Troto», cussì come dir «amen». Che anche a mi e a vù ne se ingroperìa la lingua. — Ahn! — Quel tiro, siora Nina, quela stremida ghe gaveva cavà el difeto. Volé creder: l'altro viagio che semo passai per Zara el iera soto el barcarizzo tuto soridente e el me ga ciamà zò. «Bortolo — el me fa — de quela volta mi parlo franco come l'avocato Miagòstovich, ciapa qua». Insoma, per ricordo el me ga regalà un stupendo portasigarete che dentro iera la stema del dopolavoro. Reclam, ma de argento. — E no 'l ga mai più tartaià? — Mai, siora Nina. Gnanche quela volta co' xe vignù el ribalton. Al processo a Karlovaz el ga dito franco: «Io non mi sono mai profitato, io ero in buona fede: qualche volta se se se senta sora sui spini, se se se sponzi senza saver». Cussì franco. E iera tempo de siroco. MALDOBRIA XXXII - IL GIORNO PIÙ' LUNGO Nella quale Bortolo racconta la storia del gallo di Brazza e della fortunosa azione del Monitore 87 della Marina Austro-Ungarica fuori delle Porte di Spalato. — Mama mia, pensar coss' che no iera l'oio durante la guera, sior Bortolo! Che spetacoli che se xe rivai a pagarlo... Mile e otozento de quela volta, per un litro de oio se dava ... — Uh, adesso no stemo contar miracoli: con mile e otozento corone se podeva domandar coss' che val Cherso con tuti i sui uliveri. Mile e otozento corone iera un capital, siora Nina: novezento fiorini. E una carta de mile fiorini chi la ga mai vista? — Ma cossa corone e fiorini? Mi parlavo de 'sta ultima guera. — Quala ultima, siora Nina? Che qua me par che no xe mai l'ultima: mi parlavo dela prima guera. — Ah! Anche la prima guera ga mancà oio. Mi iero putela, ma me ricordo che mancava oio, oio mancava sì. — Mi, devo dir, che dela prima guera oio no me ga mai mancà, perché mi dela prima guera iero zò in Dalmazia. — Ah, in Dalmazia i ga oio, sì. Un fià pesante, magari: mi lo missio con quel de semi. — Vu missié coss' che volé, ma l'oio de Dalmazia per mi xe el meio oio che esisti. Volé meter, l'oio dalmato? Co' vignivo in permesso sempre portavo e a casa mia no ga mai mancà. Perché dela prima guera mi iero a Brazza. — Ah, a Brazza xe oio? — De tuto xe a Brazza, siora Nina. E oio e ùa e fighi e verdura e agnei. Che boni che xe i agnei de Brazza. E bona gente. Mama mia, che bona gente che xe a Brazza, bona e brava. El Comandante Brazzànovich diseva sempre: «Noi de Brazza e i altri strazza». — Perché iera de Brazza el Comandante Brazzànovich? — Per forza, siora Nina: se el se ciamava Brazzànovich e el diseva «Noi de Brazza e i altri strazza», de dove el gaveva de esser? De Costantinopoli?... — E vù ieri con lu a Brazza dela prima guera? — No, con lu go navigà dopo. A Brazza iero col Capitan Coglievina, ierimo. Ierimo mi, Marco Mitis, el nostroomo Pillepich, che quela volta gaveva ancora la gamba, e el povero Dùndora defonto, tuti patrioti de qua, insoma. Che anzi Barba Nane co' ne ga visto partir in ganga el ga dito: «Povera Austria!» — Ah, perché andavi in Austria? — Maché andavimo in Austria! Austria ierimo. Andavimo a Brazza perché iera guera. — A Brazza? — A Brazza? Dapertuto iera guera. Per forza, se iera guera. Noi ierimo imbarcai su un monitor che iera là a Brazza. — Come, monitor? — Monitor pò, siora Nina. Una barca de guera che se ciama monitor. — Come nome la gaveva Monitor? — Ma no come nome, monitor xe come dir torpediniera, dragamine. No gaveva nome, gaveva solo el numero: Otantasete, Sibunàczig. Co' passava telegrama per nualtri, scriveva sempre: «S. M. S. Sibunàczig, Brazza. Seiner Majestäts Schiff Otantasete, Brazza». Perché là stavimo in massima parte: Brazza, Milna, Marina. Altro no se fazeva, ierimo per perlustrazion come. Bela barca eh: portavimo torpedo, mitragliera e bombe de fondo. — Come bombe de fondo? — Sì, bombe che s'ciopa in fondo. Ierimo barca antisotomarin, insoma. Ma chi volé che vignissi là drento a Brazza? Xe come un lago là drento: perché davanti ve xe Spalatro, de drio ve xe Solta e ala drita po' ve xe Brazza. Belissimo. — E là fazevi guera? — Che guera, siora Nina! Ve go dito che là no vigniva nissun. Ierimo de perlustrazion. De stanza, ierimo là, de base come che i disi adesso. E pò ierimo tuti patrioti: ierimo mi, Marco Mitis, el nostroomo Pillepich e el povero Dùndora defonto. E Comandante iera Capitan Coglievina, un chersin, zà in età, perché el doveva esser del stesso milesimo de Barba Nane. Insoma ne iera nòma che ben. — Iera bon omo? — Come el pan, siora Nina. Lui ne gaveva dito subito 'pena rivai a Brazza: «Vù se capitai con mi e mi son capità con vù. Adesso semo 'sta barca e nù: mal no far, paura no gaver e vederé che semo nòma che ben». Cussì el diseva lui sempre; bon omo. E fazevimo Brazza, Milna, Marina. Raro che metessimo el naso fora. E là ne conosseva tuti. Massima parte stavimo a Marina, perchè Marina ve xe un porto sicuro, riparado de tuti i venti. Fora che de tramontana; e el Capitan Coglievina diseva sempre: «Qua stemo nòma che ben. Solo che staghi de guardia un se fa tramontana, che se fa tramontana andemo drio dela ponta. Tuto qua: mal no far, paura no gaver». — E stavi là? — Sicuro. Ogni giorno noi fazevimo la nostra perlustrazion e el Capitan Coglievina, co' tornavimo de matina bonora mandava Pìllepich che gaveva ancora la gamba, in Governo Maritimo a bater telegrama: «Rotta libera, gnente in vista». Cussì se diseva quela volta. Chi volé che vignissi là dentro? E noi ne conosseva tuti. Perché qualche volta che se ndava a Spalatro per ispezionar le propelle, la gente ne pregava de portarghe qualcossa che ghe ocoreva. E alora a nualtri i ne dava e oio e verdura e fighi suti e agnel e ùa, co' iera stagion. E magnar per le galine. Perché mi tignivo galine. — A bordo? — Ma no a bordo. Come a bordo, galine? Galine in tera tignivo, che ogni giorno gavevimo ovi freschi per tuti nualtri. Gavevo un galo, siora Nina, che no go mai visto cussì bel un galo: i ovi iera tuti ingalai. — Ma no li magnavi i ovi? — Un poco se magnava e un poco se li meteva a covar per aver avanti galine. Cussì me regolavo, che no ne manchi. Perché più de una volta, savé, me go inacorto che mancava galine. No la gente del logo, perchè iera bona e brava gente a Brazza, ma el militar de tera, el più dele volte se profitava. — Ah, i ve portava via le galine? — Mah, mi calcolo che i iera lori, ma el Capitan Coglievina diseva: «No steve intrigar col militar de tera, lassé che i porti via, solo no gaver questioni. Mal no far, paura no gaver». Insoma una sera, me ricordo, che anzi gavevimo paura che fazessi tramontana e che ne tocassi de moverse, torna Pillepich del Governo Maritimo. El coreva, me lo vedo ancora, el gaveva la gamba quela volta, col telegrama. Siora Nina: «Perlustrazione di settantadue ore fuori dele porte di Spalatro». In mar averto, ne tocava quela note. El Capitan Coglievina ga dito: «Mai che se podessi star in pase, reménghis!» Setantadò ore, mai stài via tanto. E prima che molemo le zime a mi me xe vignù come un lampo: «'Sti malignazi militari de tera me porterà via le galine, e pazienza le galine, ma el galo!» Che un galo come quel no go mai visto un cussì ben. Insoma, per farvela curta, savé coss' che go fato? Lo go ciolto a bordo. — E i lassava? — Guai un galo a bordo, in Marina Militar Austro-Ungarica. Gnanche el Capitan Coglievina no gavessi lassà, perché iera regolamento. — Cossa? Iera regolamento che no se pol portar gali a bordo? — Siora Nina! No parlava né de gali né de armente, ma insoma iera inconcepibile soto l'Austria. E alora mi lo go portà de scondon, involtizzà soto una coverta, gambe ligade, i gali ga ligà le gambe, e via noi in perlustrazion. — E no 'l fazeva confusion? No se lo sentiva? — Siora Nina! Con quel bacan dei motori che iera a bordo, quei primi Diesel! E pò de giorno lo tignivo soto de un tambucio e de note, co' tuti dormiva, go pensà: scoverzo el tambucio che el ciapi aria. La prima note, tuto pulito e la seconda robe de no creder! — Ve xe cascà in mar el galo? — Speté, speté. Dovè saver che ierimo fora de Brazza, servizio de perlustrazion in altura, e mi, come fanalista — perché mi iero fanalista — dovevo risponder co' i ne fazeva el segnal de tera. Ogni tre ore. E cussì apena risposto, me go ben calumado a dormir. Tanto là chi volé che vignissi e pò percossa? — E dormivi? — No propio dormivo: iero assopì come. Colegado in cuceta e tut'intun sento «chichirichì chichirichì». — El galo? — El galo, el galo sì. Vegno su del bocaporto e vedo un ciaror, ma un ciaror ... — Mama mia, iera alarme? — No, silenzio perfeto, me ricorderò sempre: savé cossa che iera? Sotomarin, iera. Italian, francese no so, ma sotomarin. El iera vignù fora: se ghe vedeva distintamente la toreta e el canon. E el gaveva tirà un bengal per veder. Siora Nina: ciel iluminà a giorno. E el galo visto che fazeva ciaro ga cantà. E quel xe stà la nostra fortuna, perché el Capitan Coglievina ga podesto dar subito l'ordine. — De sbarar? — Che sbarar! De voltar la prova, e via noi in Canal de Brazza, a tuta forza. Corine drio. — E gavé avù dispiazeri per el galo? — Dispiazeri, perché dispiazeri? El Capitan Coglievina me diseva sempre de quel giorno: «Benedeto quel tuo galo! Perché guera xe guera, ma qua andava de mezo òmini. Mal no far, paura no gaver!» Mezzo antisommergibile ierimo, come. MALDOBRIA XXXIII - SENZA FAMIGLIA Nella quale Bortolo narra la storia degli amori del giovane di camera, Egidio Bàcchia, il quale, trovatosi in ballo, ballò, nel caso specifico, con la figlia del Signor Ziffer, commerciante all'ingrosso in Trieste. — Eh, siora Nina, chi ga morosi ga fiori! ... Me ricordo sempre quela storia de Egidio. — Che Egidio? — Come no ve ricordé? Egidio Bàcchia ... — Ah, Gidio! — Sì, Gidio Bacchia. Iera un fiozzo de Barba Nane. El ga comincià a navigar che el iera ancora putel, quatordese ani, giovine de camera. Lui a quatordese ani el fazeva zà la linia de Levante. El iera de un'inteligenza che no ve digo: el parlava franco tre lingue, come una carta sugante el iera, el gaveva tirà su propio el trato de 'sta gente fina che el gaveva de far. Co' el iera in tera el iera come un figurin, camise de Oehler de Trieste el comprava, vestiti che no ve digo, un signoreto. A sentirlo a lu el pareva el fio del Re dela Luna, che inveze el iera nato a Ràbaz Superiore, cole armente in casa. — I gaveva, i gaveva un per de armente. — Sì, ma drento de casa. Barba Nane ghe diseva sempre: «Ciò, milord, tàighe la coda al can, ma el resta sempre can». — Barba Nane iera assai semplice, siben che el gavessi soldi. — Insoma, per farvela curta, 'sto Gidio Bacchia, una sera che el iera in permesso, el xe andà in teatro, al Politeama de Trieste. Iera Carneval, e lui xe andà al balo dela Lega Nazional. — Che sarìa stà l'Italia Redenta? — No, la Lega Nazional. L'Italia Redenta iera un'altra roba. — Perchè mi conossevo la maestra Moratto del'Italia Redenta. — Indiferente. Insoma, dovè saver che lu, Gidio, a 'sto balo el iera come un Cosulich a vederlo, e quela sera el ga incontrà 'sta famosa Elda Ziffer. — No conossevo. — Speté, speté. Insoma 'sta Elda Ziffer iera una putela de famiglia, e pò bela, un quadro, coi bissoni e i oci celesti. E Gidio che gaveva sbàtola, la gaveva incantada, come, e prima de andar via el ghe ga dito che lui volessi vederla come diman l'altro. 'Sta putela andava al Liceo Feminile e alora lui pronto che el la va a cior a scola, in via Madona del Mare, al Liceo Feminile, dove che ela andava. — In scola dele putele. — Siora Nina, el Liceo Feminile de Trieste iera una dele primarie scole del'Austria. 'Sti Ziffer iera comercianti in grando, grossisti con magazeni in via Valdirivo. — Gente che se pretendeva? — No, anzi. Però iera gente che gaveva una facoltà quela volta, in zentinera de miéra de fiorini. E 'sto Gidio, capì, per no sfigurar, quela sera del balo el ghe gaveva flociado che lui xe Alievo. — Del Liceo maschile? — Ma no, che el xe Alievo Uficial, sul Calitea, la barca che 'l navigava e che suo padre xe Primo Ufficial del Lloyd Austriaco, una roba e l'altra, maravée. — E no 'l iera? — Se ve digo che el iera giovine de camera e che i sui de lu a Ràbaz Superiore i tigniva le armente in casa! Insoma xe finì che i ga comincià a parlarse, ogni viagio i se parlava e pò i se scriveva. E un giorno ela ga vossù che el vegni in casa, savé quela volta una putela de sesto, de famiglia, no 'ndava miga per i cantoni, come che le fa adesso. E lui ghe ga fato una bona impression al padre e ala madre de ela perché el gaveva un trato che no ve digo, el parlava franco tre lingue, pò come Alievo, suo padre Primo Uficial, tuto pulito insoma. Finché una sera lo incontro a Trieste in local, disperà. — Ela lo gaveva lassado? — Maché lassado, anzi. La ghe gaveva dito che i sui gavessi avù tanto caro de conosser la madre, el padre, la famea, insoma. Perché oramai i li voleva prometer de anel. — Mama mia! E lu? — E lu me ga domandà a mi coss' che el doveva far. E mi: «Dighe che ti son orfano, tuti morti nel teremoto de Messina, quel che ti vol ti...» E lui: «No posso, ghe go zà dito che mi son Alievo e che mio padre xe Primo Uficial». «Bon — ghe go dito mi — ti ga volù la bicicleta? Adesso pedala!» E lui che go ragion, che va ben, ma che se poderio darghe una man ... — Eh, l'erba che no ga radise, se seca presto ... — Sì, sì, ma lui me secava a mi, che lo tirassi fora dei freschi. E mi, savé, son un de quei che lavora col zervel. Alora ghe digo: «Sa cossa? Ti fa in modo e maniera de tirarla in longo. Per adesso nissun sa né chi, né come, né cossa, né che. Dighe che la madre te xe a casa paralitica, e che 'l prossimo viagio, inveze, co' te vegnerà el padre a Trieste, l'anderà lui de lori». «Sì — me disi lui — cole armente!» «Ma no — ghe digo mi, — no el tuo vero padre. Marco Mitis». — E cossa ghe entrava Marco Mitis? — Siora Nina, Marco Mitis iera Primo Uficial de macchina, un carieron, perchè Marco Mitis quela volta gaveva sì e no quaranta, quarantadò ani. E ghe spiego: «Noi ghe pregheremo a Marco Mitis, tanto qua no lo conossi nissun, che el vegni con ti, in montura, figurando come tuo padre. Pò Dio provederà in un modo o nel altro e per intanto femo cussì». — Ah, un tranelo! — Ma no tranelo. Iera per giustar un poco le robe in un primo momento. Savé, co' la gioventù se vol ben, no ocori altro. Cossa xe 'sti sempiezzi: grandi, pici, signoroni, signoreti, tanto dopo morti semo tuti là sototera che sburtemo radicio. — Eh! Diseva sempre mio padre: vignimo tuti dela costola de Adamo. — Indiferente, siora Nina, xe stà belissimo. Gidio xe 'ndado in civil. E Marco Mitis — che lui co' iera de far comedie no se tirava mai indrio — in montura de Primo Uficial del Lloyd Austriaco. El ga fato un sbrego che no ve digo. «Ma che giovine papà, ma che così, ma che colì». Entusiastichi i iera. E pò un padre propio perfeto, savé, perché quando che Gidio Bacchia iera in viagio e Marco Mitis andava a Trieste, lui andava sempre trovar 'sti Ziffer, e el portava in giro la putela de qua e de là, a bordo, pò nei locai e a Sant'Andrea. — E pò, ga finì tuto ben? La lo ga sposado? — Sicuro, la ga sposado Marco Mitis. No conossevi Elda Mitis? Bela signora. Un bel peto la gaveva. MALDOBRIA XXXIV - IL LOTTO VOCULAT Nella quale Bortolo narra come tutto cominciò con una putizza giunta da Gorizia fin sui lontani Carpazi, della straordinaria intraprendenza dell'Ober Bonifacio addetto alla Feldpost e del famoso Operativo 114. — Savé coss' che ghe vol far per vinzer sul serio una loteria? Farla ghe vol, siora Nina, farla. Xe come col Loto. Savé chi che ogni setimana, garantito beca un terno al Loto? — Chi, chi? — El Loto. Quel vinzi sempre. So mi, nel mio picolo, che quando che iero in Galizia ... — Anche mio fradel defonto iera in Galizia. — Come no? Me lo ricordo, Nini Longo. El gaveva de vù el trato, sì. Ma lui no iera a Leopoli. Mi iero a Leopoli, al telegrafo de campo. — Ah, ieri in campo? — No, per fortuna mia. Ve go dito che iero a Leopoli. Là iera propio Feldpost generale de tuto el fronte. Feldpost 84, ancora me ricordo. Là ve iera posta, telegrafi, telefono — fin Viena direto rivava — el smistamento pachi, tuto insoma. Per el militar. Per el civil iera un'altra roba. Là iera tuto polachesi, bele mule. Forti, biondo zenere. Biondo zenere, meio de Venere, diseva sempre el Ober Bonifacio, un triestin, una macia, che el iera con noi in telegrafo. — Perché vù telegrafavi? — Come no. Gavevo fato el breveto Morse per no 'ndar in campo. E no iera miga come adesso, savé, che i bati sula machina de scriver le letere. Là iera tuto punto-linea-punto. E guai confonderse. Iera Corte Marzial. — In tempo de guera? — Sicuro che iera tempo de guera. Se no cossa andavo a far mi in Galizia? Bagni caldi? Insoma tuto ga comincià cola putizza de un zerto Vòculat. Iera un de Gorizia, povero. No propio de Gorizia, de Lucinico. Insoma i ghe gaveva mandado de casa 'sta putizza. El Smistamento Pacchi ghe la gaveva mandada al fronte, dove che el iera lui e la torna indrio con scrito su «Verschollen» che sarìa stà come «Disperso». — I gaveva perso la putizza? — Ma no che no i gaveva perso la putizza. Ve go dito che 'sta putizza iera tornada indrio perché 'sto Vòculat risultava come disperso. Savé, iera assai bruto esser disperso, perché là in Galizia in tempo de guera i tirava propio sui omini. Per quel mi no gavevo mai volù andar in campo. Bon: riva 'sta putizza de ritorno e ierimo là con 'sto Ober Bonifacio — domenica iera, ierimo de turno — e el disi: «De Gorizia in qua, vedé del timbro, 'sta putizza ghe ga messo un mese; che tuto vadi ben ghe vol un altro mese perché che la torni a Gorizia. E pò 'sta povera famiglia che se vedi tornar 'sta putizza con 'sto timbro «Verschollen» de disperso ... xe bruto aver una notizia cussì da una putizza, xe un diol de cuor.» Iera una macia 'sto Bonifacio! — Ma la putizza dura, qualche volta dura mesi una putizza. — Ma cossa volé che duri o no duri, che iera guera? Pìllepich che iera con mi, ga dito subito «Magnemola» ma 'sto Bonifacio, che lui zà gaveva 'sto disegno in testa, mi calcolo, ga dito: «Magnarsela cussì, povero Vòculat, sarìa bruto, metémola inveze al loto: se vendi i bilieti tra nualtri qua dela Feldpost e el primo estrato per Leopoli vinzi». — Come primo estrato per Leopoli? — Come che se fa sempre: quel che gaveva el bilieto col numero che vigniva primo estrato al Loto sula ruota de Leopoli, quel becava la putizza ... — E chi la ga becada? — Un. Chi se ricorda? Un ga avù la putizza. Ma dopo xe stà el problema. — Che problema? — El problema dei soldi, che gavevimo incassà vendendo 'sti bilieti per far el loto cola putizza. «Dividemoseli fra nualtri», ga dito Pillepich. Ma 'sto Bonifacio che no, che sarìa stà bruto per el povero Vòculat, che 'sti soldi xe meio meterli al loto, che qualchedun li vinzi. Primo estrato per Leopoli. — Ma cossa i fazeva el Loto anche durante la guera? — E come no? Ruota di Leopoli, di Praga, di Viena, di Budapest, di Trieste, Zara, Graz, Trento, anche la ruota di Trento iera. Iera uno dei più grandi introiti el Loto, sempre stado, per tuti i Stati. Quel, el tabaco e el sal. Insoma con 'sti soldi che gavemo messo al Loto, gavemo ciapà altri soldi. 'Sto Bonifacio iera un drito, el saveva ben organizar, e de là a un per de mesi gavevimo un capitaleto, tanto che 'sto Bonifacio ga dito: «Eco, povero Vòculat, femo cussì: che el capital xe per nualtri e la vincita ogni setimana xe per el militar che zoga, cussì resta anche una memoria». — Come per il militar che zoga? — Eh si, siora Nina, perché se gavevimo assai ingrandidi con 'sto Loto. Zogava tuti, anche i militari che iera al fronte, quei che iera in ospidal, tuti insoma. E el sabo tuti spetava come l'oracolo che vegni l'estrazion. — Primo estrato per Leopoli? — No, ve go dito che se gavevimo ingrandidi; gavevimo diversi premi oramai. Fazevimo primo estrato per Leopoli, primo estrato per Viena, primo per Trieste — perché iera assai triestini in Galizia — primo estrato per Budapest e per Praga che iera vizin. — E tanti zogava? — Per forza. Prima de tuto el militar no gaveva altre ocasioni. E pò 'sto Bonifacio iera assai bravo. Lui iera sempre stà del telegrafo, anche a Trieste e cussì co' iera el sabo el mandava Pìllepich in Posta civil a cior el telegrama del Loto con tute le estrazioni e noi batevimo telegrama a tuti i fiduciari de 'sto Loto Vòculat — cussì lo ciamavimo oramai per la memoria — che gavevimo al fronte, nei ospidai militari, de qua e de là. — E pagavi? — Come no pagavimo? El capital vigniva a restar per noi, ma la vincita pagavimo a volta di corriere. Savé, essendo dela Feldpost gavevimo 'sta comodità. E sabo de sera, co' iera ora morta, batevimo el telegrama circolare dei primi estrati. Fé conto: Leo 82, Bud 45, Gra 12, Pra 21, Tri 47, secondo le cità. Capì? Bud iera Budapest, Tri iera Trieste, Pra iera Praga, che pò 'ndava ben in tute le lingue, perché iera Praga per italian, Prach per tedesco, Pràha per boemo. Eh! 'Sto Bonifacio saveva organizar, lui gaveva zata in 'ste robe. Ogni sabo se bateva telegrama. — E i lassava? — Oh Dio, i lassava. In ore morte, linia libera, el telegrama andava. Solo che una volta quel sempio de Pìllepich ghe lo ga mandado anche ala Feldgendarmerie che sarìa stà i gendarmi de campo de Leopoli, perché là un suo amico gaveva comprà tre bilieti, figuréve. — Alora i se ga inacorto? — No che i se gabi inacorto, solo che 'sto qua che iera là del telegrafo dela Feldgendarmerie el se vedi rivar 'sto telegrama. — Questo che gaveva zogà? — No lu, un altro. Quel che iera de turno. El se vedi rivar scrito: Leo 82, Bud 45, Gra 12, Pra 21, Tri 47 e el ga calcolà che iera messagio cifrato, e drito lu lo ga portà al Uficio Cifra ... — Uficio zifra? Come? — Cifra, no? Cossa credè vù che durante la guera se bati telegrama «Atacate il nemico!» «Sfondate il fronte!» «Sbarate coi canoni!» «Spostate il reparto». Se fa tuto in cifra no, per via che el nemico no vegni a saver gnente. — Ah! Messagio cifrato! — Natural. Insoma, dopo gavemo savudo: 'sti qua del Uficio Cifra ga visto 'sto telegrama e una setimana intiera, savé, i se ga roto la testa per vignirghene fora. — Per capir coss' che iera? — Sicuro. Perché el «Codice A» no ghe combinava, el «Codice B», gnanche, ma dopo col «Codice incrociato» i ghe xe vignui fora ... — Che vol fazevi 'sto Loto? — No. I ghe xe vignui fora col famoso «Operativo Numero 114», che pò xe stà anche processo. Perché quei del Uficio Cifra i ga fato andar un regimento de «Alpenjégher» ale Boche de Cataro e la Fanteria de Marina sui Carpazi. Dopo, in Galizia zogava anche lori 'sti marineri al Loto Vòculat, per la ruota de Zara. Iera tuto Dalmati la massima parte. MALDOBRIA XXXV - BANDIERA GIALLA Nella quale Bortolo, esponendo una sua personale filosofia deterministica, racconta la storia dell'epidemia di febbre spagnola che colse il vapore «Jupiter» nella rada di Fiume e il Comandante Dùndora, Marco Mitis e Bortolo stesso nell'osteria di Catina la Zoppa. — Vardéme qua: vù savé i ani che go e mai fato un giorno de leto in trenta ani, meno de quela volta dela vespa. — Sé andado soto la vespa? — No, la me gaveva sponto in boca: sula bira la me se gaveva pozado quela malignaza. — Eh, la vespa in boca xe bruto, ma pezo xe el scarpion, me ricordo una volta che a Moschiena, mia defonta sàntula... — Indiferente. Vol dir che iera l'ora del scarpion. Go sempre dito: Co' xe l'ora che ga de vignir vien, xe tuto scrito sul libro. — Su che libro? — Sul libro de quel che ghe ga fato i manighi ale zariese. Mi no go mai avù avertenza per le malatie, e 'ste robe qua. Barba Nane me diseva sempre: «Scherzé, scherzé, vù... ve vegnerà una flussio, i ve meterà in cassa amalati e i ve caverà la matricola». — Povero Barba Nane! Lui xe andà cussì, de un giorno al altro. — Perché iera scrito sul libro. Pò la vacinazion per quei che ga novantaoto ani, no i ga ancora inventà. — Vù alora no gavé mai fato vacinazion? — Solo le variole e pò quela volta che navigavo per Levante, perché là iera assai tracoma. Me ricordo che la Sanità Maritima iera tuta piena de 'sti marineri istriani, dalmati, piranesi, che se imbarcava. — Tracoma istesso no se senti più. — Ah quel vien solo co' vien la guera, perché manca vitamina. Me ricordo inveze che del Diciaoto, dicembre... — Diciaoto dicembre? — Ma no. Iera dicembre del Mile Novezento Diciaoto. 'Pena finida la guera: el ribalton iera stà in otobre.. — E xe vignù tracoma? — Maché tracoma. Se ve go dito che iera finida la guera. Xe vignuda la Spagnola, febre maligna iera. Insoma ierimo a Fiume e iera el primo viagio che fazevimo dopo la guera. Per farvela curta, rivemo e in Sanità Maritima i ne averti che xe febre spagnola. — Mi me xe morta mia sàntula, povera, quela volta de Spagnola. — Ma no la iera morta del scarpion? Bon, pace all'anima sua. Ve disevo che ierimo a Fiume col Comandande Dùndora e lu, vedé, iera un omo che assai se impressionava. No ve digo: lu pianzeva co' el partiva, lu pianzeva co' el rivava, lu gaveva sempre la moglie sotobordo sul molo: «Scrivime, scrivime se ti xe rimasta ...». Un tipo comovente, insoma. — Mio marì no ga mai volesto che ghe vado sotobordo. — Indiferente. Fato sta che el Comandante Dùndora co' el senti de 'sta Spagnola el dixi: «La gavemo scapolada dela guera, San Simon ne ga salvà dele torpedo!» — lu co' tonizava diseva sempre: «Santa Barbara, San Simon, liberéme de 'sto ton» — San Sidòro ne ga salvà co' pericolavimo ala Pericolosa, e tuto per morir adesso de febre maligna, no, no, qua no sbarca nissun, se metemo in rada!» — Eh, no 'l gaveva torto, perché mia sàntula... — Xe morta prima del scarpion e dopo de Spagnola, savemo! Ma figureve noi che tornavimo del primo viagio, dopo la guera, se no gavevimo voia de 'ndar in tera! Alora mi che savevo come ciaparlo, ghe go dito: «Comandante: giusto! Restemo in rada, ma no podemo pensar solo per nualtri, le mogli ne starà in pensier, almeno andemo in tera a bater telegrama». Tanto go fato, tanto lo go inzinganà che el xe vignù. E con nu xe vignù anche Marco Mitis che in quel'epoca ierimo inseparabili. — Sé 'ndai in porto? — La barca no. Noi semo andai, col piloto, al Governo Maritimo. — A bater telegrama? — Sicuro. E pò là gavemo trovado posta, che tuto bene, che la moglie del Comandante ben, insoma el se ga pacificà. Alora ghe digo, ghe fazzo: «Comandante Dùndora, se andassimo de Catina Zota qua in marina a festegiar l'avenimento?» Che no. Che lui ga paura dela Spagnola. Ma Catina Zota xe ruvignese, no spagnola ghe go dito mi. Lui assai ghe piaseva co' se la butava in rider. In breve, de là a meza ora ierimo zà in cimberli. — Un poco ciapai? — Ciapai? Imbriaghi. Iera el militar francese che ne coreva drio, perché quela volta a Fiume iera ocupazion interaleata, Danunzio xe stà dopo. Ve disevo: iera el militar francese che ne coreva drio per tuta la marina per el desio che fazevimo. El Comandante Dùndora e Marco Mitis gaveva dispirà un porton e a tuti i pati i voleva butarlo in acqua a Porto Baros. Insoma i ne ga serà. — Cossa, el porton? — Ma no, i ne ga serà, i ne ga portà in preson. Nissun capiva gnente perché iera ocupazion interaleata. Fato sta che semo stai oto giorni serai drento. E roba de lege marziale, perché iera el militar francese che comandava in porto. — E dopo? — Dopo i ne ga molà. E co' andemo là del Governo Maritimo per tornar sul Jupiter — perché ierimo sul Jupiter quela volta — el piloto ne disi: «Jupiter? El Jupiter ve xe in rada, in quarantena, el ga la Spagnola a bordo, i ga dodese malai». Siora Nina, vedé se no xe vero come che digo mi: Xe tuto destin. I unici de tuta la barca che no ga becà la Spagnola, semo stai el Comandante, mi e Marco Mitis. Cossa contagio? El Jupiter iera in rada e no iera contagio. Lori gaveva de becarla e i la ga becada, noi no gavevimo de becarla e no la gavemo becada. E pò con tuto quel vin che gavevimo bevudo ... — Cossa ghe entra el vin? — Siora Nina, se xe microbi el vin li copa. Cossa volé che el microbo resisti al vin, se zà l'omo el vin lo mazza? MALDOBRIA XXXVI - IL LAVANDER CHINESE Nella quale Bortolo racconta della passione del Comandante Gladulich per le chineserie d'epoca e di come Likiang, già lavandaio di bordo sulle navi del Lloyd Austriaco, avesse successivamente tratto profitto in commercio dalle nozioni apprese dal Capitano. — Pensé, sior Bortolo che dolor: gaveva portà mio defonto padre de China due belissimi vasi chinesi de porcelana che tignivimo sul comò, un de qua e un de là. Ani i iera sempre là, e ieri, scovando, no so gnanche capacitarme come, ghe go dado drento col manigo dela scova. Un diol de cuor che no ve digo: ani che el iera là sul comò de mia defonta madre. — Ma 'sti vasi iera de vostro defonto padre o de vostra defonta madre? — Mio padre li gaveva portai de China e el comò iera de mia madre. Là la tigniva la biancheria, el coredo, tuto. La me diseva sempre: «In quel ultimo scafeto troverò el vestito, le calze per quando che sarò morta». — Indiferente, siora Nina. No stè bazilar per 'sto vaso. Savé coss' che diseva Barba Nane quando che sua moglie rompeva un piato? — Cossa, cossa el ghe diseva? — El ghe diseva: «No bazilar, solo la fatura gavé perso, i tochi ve xe tuti là». Lu ghe dava ala moglie del vù sempre, se usava quela volta. Perché no prové a far tacar i tochi? — Ah, no credo. No xe gnente de far, xe andà tuto in fregole. — Alora doveva esser un vaso de valor! — No stéme dir! — Ve digo, ve digo, perché so. Perché el Comandante Glàdulich, che se intendeva de porzelane de China, el diseva sempre: «Un solo sistema sarìa propio quel giusto per saver se xe porzelana fina de China: butarlo per tera. Se va in fregole xe bon. Se resta tochi no xe bon. Però xe pecà, perché se perdi la fatura». El iera un ridicolo! Lui ga viagiado ani anorum sula linia de Sciangai, e i diseva che a casa el gaveva un valor in roba de China. Dopo xe stà el ribalton, xe andà tuto in malora. Dio quante robe che xe andade in malora! — Istesso però adesso no se usa più tanto 'ste robe de China. — Questo disé vù. Chi che sa, ga. E se el ga roba de prima dela guera, ghe sarà sempre un valor. Perché mi credo che adesso in China, in 'sta situazion no i fa gnanca più porzelane. Mi stupidamente no go mai portà roba de China. E sì che go avù ocasioni. Ma Barba Nane me diseva sempre: «No sté portar robe de China, che i fa assai osservazion. Per un fornimento, volé meterve in radighi cola Finanza?» e cussì e coli. Insoma, no go mai portà gnente, con tuto che son stado no so quante volte a Sciangai, propio col Comandante Gladulich. Dovè saver che quela volta con nù iera un lavander chinese. — A Sciangai? — A Sciangai tuti i lavanderi xe chinesi. Questo iera un lavander chinese de bordo. Un lavander del Lloyd. E el Comandante Gladulich lo portava sempre con sé a Sciangai, a Hong Kong, per 'sti negozi de antichità, de porzelane, per farghe de interprete. Perché lu parlava franco chinese. — Chi el Comandante Gladulich? — Maché el Comandante Gladulich. El chinese parlava chinese. El Comandante Gladulich parlava lussignan. Tuti i Gladulich xe lussignani. Ben, volé creder? 'Sto chinese el gaveva fato tanta pratica de porzelane che el ga avù una buia impensada. El se gaveva sbarcà e 'l gaveva averto in Abazia una botega, ma bela, de porzelane e de chineserie. Perché Abazia, quela volta, iera foresti de lusso: iera 'sti Czechi, 'sti Ungaresi, magnati: vigniva un Eszterhazy... vigniva un Andrassy, come dir milionér, ma milionér de prima dela prima guera. — E i vigniva per 'sto chinese? — Maché per 'sto chinese! Lori vigniva in Abazia e cussì iera movimento, le boteghe, i hotei lavorava. Pò, capì, una botega che vendi robe de China con un chinese drento! Che pò, inveze, el Comandante Gladulich diseva che l'unica roba chinese in quela botega iera el chinese. Perché el gaveva assai maroca, roba che ghe portava i maritimi, roba de imitazion, roba giaponese, perché i Giaponesi fa roba chinese meo dei Chinesi, se i vol. — Ahn! E i ghe comprava? — Sicuro che i ghe comprava. Cossa volé che capissi la gente! Ma el Comandante Gladulich se intendeva come pochi. E pò, co' 'sto chinese se gaveva sbarcà, el se gaveva rabià, perché el diseva «Chi adesso me stira le camise?» Perché come che ghe saveva stirar le camise 'sto chinese no saveva nissun, el diseva lu. E alora ogni viagio, se se rivava a Fiume, el Comandante Gladulich diseva: «Bortolo, ciol le mie camise, ciolémo el tassametro, andemo in Abazia, che ghe le portemo a stirar al chinese. Po' vedemo se, per scomessa, no ghe xe capità qualcossa de bon in botega». Perché diseva sempre el Comandante Gladulich, faceva, diceva: «In ogni botega, anche la più scarta, l'intenditor può trovare il toco di valore». Ale signore el ghe diseva questo. In salon de Prima Classe. — Questo Gladulich? — Lu. Insoma un giorno andemo in Abazia con 'ste camise. Mi portavo la cofa e el Comandante Gladulich, in zivil, col bastunìch come che usava lu, andemo drento. «Ah, Comandante!» Parlava franco italian, 'sto chinese. — Ma no gavé dito che el parlava franco chinese? — Sicuro che el parlava franco chinese. Ma el parlava anche franco italian. Ani anorum el gaveva navigà per el Lloyd. E el Comandante Gladulich comincia a chibizzar in giro. «Questo dove ti ga comprà — el ghe diseva — ala fiera de San Nicolò?» Insoma gnente, che no iera gnente, roba bona per i sempi. E dopo el me fa de moto col comio. — El chinese? — Ma no el chinese. El chinese stava contando le camise. El Comandante. El me fa de moto col comio, e el me mostra un gatin che licava el late. — Piturà su un vaso? — Ma che piturà su un vaso. Un gatin, vero gatin, soto una carega, che el licava el late de un piatin. E el me disi «Ming». E mi ghe digo: «Chi? El gatin?» «Ma no — el me disi lu pian — el piatin xe Ming, xe un valor. Ti stà zito e ti vederà». Alora el va in retrobotega del chinese e el ghe disi: «Insoma, no ti ga propio gnente. Bon, noi andemo, passeremo a cior le camise ogi oto, compàgnime». E co' passemo vizin del gato — furbo de lussignan iera el Comandante Gladulich! — el disi: «Che bel gatin, che bel gatin, che bel gatin!» — Quel che licava el piatin? — Sicuro. Ma lu, furbo de lussignan, no ga parlà gnente del piatin. El disi, el Comandante: «Ah, mia moglie xe mata drio dei gatini, ti me vendessi 'sto gatin?» «Mah — disi 'sto chinese — xe un gatin de razza, savé?» «Vedo, vedo, — disi el Comandante — me intendo de gati; mi te podessi dar anche diese corone per 'sto gatin...» — Iera assai diese corone? — Ogi no se podessi far un calcolo. Ma quela volta per un gato iera qualcossa. Che sì, che no, che diese xe poche, che quindese, che vinti. Insoma per vintizinque corone i se ga giustà per el gatin. — Ma iera assai vintizinque corone? — Ve go dito che ogi no se podessi far un calcolo. Ma quela volta, per un gatin, vintizinque corone iera un sproposito. «Alora écote le vintizinque corone», el ghe le dà in man, el ciol su el gatin. E pò, furbo el iera, lussignan, el ciol in man el piatin e el ghe fa, el ghe disi, cussì come gnente: «Senti, Likiang», perché se ciamava Likiang 'sto chinese, «Senti, Likiang, mi ciolessi anche el piatin, perché penso che el gatin xe abituà al suo piatin, cussì ciogo anche el piatin». — Ah, furbo el Comandante Gladulich, i lussignani xe furbi. E cussì el ga portà via el piatin? — Eh no. Perché el chinese ghe ga dito «No Comandante, el piatin no!» E lu: «Ma perché no el piatin? El gatin xe afezionado al piatin». El chinese ghe disi: «No el piatin, no, Comandante, perché con quel piatin go vendudo finora vintioto gatini contando el vostro». Eh, siora Nina, mi go paura che 'sti Chinesi un giorno o l'altro ne subisserà tuti. MALDOBRIA XXXVII - IL CONCERTO DI SEBENICO Nella quale Bortolo narra come per la Festa dell'Imperatore avessero gettato l'ancora a Sebenico ben tre Divisioni Navali della Marina Austro Ungarica, ciascuna con la sua banda; e dei dolori del giovane Superina, Corno d'armonia d'una delle medesime. — Mi son amante per la musica e anzi gavessi avù sempre ambizion de sonar, ma no go mai avudo ocasion, meno che quela volta. — Che volta? — Quela volta che ierimo tuti cola Squadra a Sebenico. — Zogar balon, cola squadra? — Sì, contro el Grion de Pola! Ma dài, siora Nina, cola Squadra dela Marina Austriaca, co' iero militar de leva, che iera con mi Pìllepich, Marco Mitis, el Cadetto Giadròssich e l'Amiraglio Horthy. — Come, ieri imbarcà col Amiraglio Horthy? — Siora Nina, imbarcà col Amiraglio Horthy se fa per dir. Lui iera Comandante in Capo de tuta la Marina Austro-Ungarica. Lui iera ungarese, veramente. Che anzi Barba Nane diseva sempre: «'Sti Ungaresi ga zà in man tuta la Marina Militar, adesso i ciaperà anche la Marina Mercantil e i ne caverà la matricola a nualtri dele Vece Province, povera Marina Mercantil!» — Anche mio padre defonto diseva sempre: «Povera Marina Mercantil» — Per quel diseva sempre tuti i maritimi. Cossa volé, co' toca navigar! Ma quela volta ierimo in Marina Militar. Ierimo de leva. Mi, Marco Mitis, el Cadetto Giadròssich, el nostroomo Pillepich ... — ... e l'Amiraglio Horthy. — Sì, de leva anca lu, come mistro. E Francesco Giuseppe gambusier. Nualtri ierimo de leva, e iera la Festa del Imperator. — A Sebenico i tigniva la Festa del Imperator? — Sicuro che a Sebenico i tigniva la Festa del Imperator. Tuta l'Austria tigniva la Festa del Imperator. — Ahn, la Festa del Imperator, come che iera qua. — Natural. E insoma dovè saver che iera tuta la Squadra Naval a Sebenico, con tre bande. Perchè ierimo tre Divisioni Navali e ogni Division gaveva la sua propia banda. E alora no ve digo, no ve conto coss' che no iera Sebenico quela volta per la Festa del Imperator. — I sonava la banda? — Tute e tre bande i ga volesto che sonassi quel giorno. Me ricordo come ieri. Iera el palco là dei giardini. Ieri mai a Sebenico? Savé dove che xe i giardini co' se va su per la Posta? — No, no iero mai a Sebenico. — Bon là propio. Insoma dovè saver che con mi e Marco Mitis, Pillepich e el Cadetto Giadròssich, iera anche un zerto Superina de Fiume, che lui iera propio dela banda dela nostra Division che iera imbarcada sula nostra barca, che iera el Karl Sesto. Sexte i ghe diseva lori. — Superina? Mi conossevo quei Superina che iera cognai dei Bùnicich ... — E questo iera inveze un altro Superina che no iera cognà de nissun. A Fiume vù trové Superina come bacoli, dapertuto. Dunque, che ve contavo: Festa del Imperator. El Militar de Marina iera franco, perché noi co' gavevimo tirà su el pavese e sbarà le salve ierimo a posto. — Cossa sbaravi sul paese? — Indiferente. Volevo dir che noi ierimo franchi. Che tuti i marineri de Marina iera franchi. Fora che la banda che gaveva 'sto grando concerto in piazza. E vien de mi 'sto Superina, disperà, che propio a Sebenico ... — No ghe piaseva Sebenico? — Cossa, no ghe piaseva Sebenico? Anzi. Lui a Sebenico gaveva la morosa. Una zerta Otavia me ricordo. Che tuto el viagio el ne gaveva impinì la testa de 'sta Otavia, che lu se pretendeva per ela. Ma savé la famiglia no iera tropo contenta, perché el padre suo de ela iera professor ale Reali de Sebenico. E i Superina gaveva soldini, ma botegheri. Savé come che xe 'ste robe, insoma. In Dalmazia assai i ghe tigniva ... — Ah, no i iera contenti a casa? — No tanto. Ma dopo i se gaveva come capacità. E 'sto Superina iera disperà perché propio quela sera che iera festa, Festa del Imperator, finalmente i ghe gaveva dito de vignir in casa, per zena. — E perché el iera disperà? — Disperà, siora Nina, perché lui che iera dela banda ghe tocava sonar. Concerto in piazza. Alora el vien de mi: «Bortolo mio, solo ti ti me pol aiutar, se no se aiutemo fra de noi dele Vece Province...». Qua là, una roba e l'altra. Insoma che vado mi per lu in banda a sonarghe. — Ma vù savevi sonar? — No. Ve go dito che gavessi sempre bramado. Ma no savevo. E alora ghe digo: «Ti xe mato, come posso mi sonar per ti, se no so sonar?» E lui me spiega come far. — El ve impara come sonar? — No. El me impara come far. Intanto la montura iera compagna, solo che quei dela banda gaveva la lira. — Ma no iera le corone quela volta? — Ma no la lira lira. La lira de musica. I gaveva puntà sul peto la lira, come dir che i xe dela banda. El me disi: «Ti ti se peti la lira e con quel semo a posto. Pò — el me fa — mi sono el corno de armonia e semo in tre che sonemo el corno de armonia in banda. E noi semo dacordo che ora pòmiga un, ora pòmiga l'altro. Cossa ocori sufiar tuti tre col corno? Ti ti fa finta de sonar, no? Solo el moto. Tanto sona i altri dò. Gavemo fato tante volte cussì — el me disi — con un finto». — Ah, che truco! — E cussì go fato, siora Nina, per aiutarlo. Iera una banda granda che no ve digo. Iera tromboni, tube, bassotube, oboi, otavini, flauti, corni inglesi, e noi tre Corni de armonia. Insoma xe andà tuto ben. Se ga sonà «Serbidiòla» prima de tuto, po' «Radetzkymarsch» e el Duo dei Puritani, che là iera gran trombe. «Suoni la tromba intrepido». Pò iera la «Marcia turca» de Mozart, e anche là tuto ben: mi voltavo le pagine co' le voltava i altri e s'gionfavo le ganasse. Ma a un zerto punto vedo che el Maestro che dirigeva, un Capitano di Musica iera, ne fa moto a noi tre Corni de armonia cola bacheta, savé cussì, come per impirarne ... — Come, come per impirarve? — Siora Nina, el ne fazeva de moto de tacar. Iera un «a solo» di Corni di armonia. Tuti i altri dela banda, fagoti, oboi, grancasse, fiati, tromboni, tuti ziti. E solo a noi tre el Maestro ne fa de moto. Siora Nina: silenzio de tomba. Mi vardo i altri dò, i altri dò me varda a mi. Ierimo tuti tre finti: quela sera gaveva intivà che pomigava tuti tre Corni de armonia. — Mama! E el Maestro? — Siora Nina, el Maestro ciàpilo lighilo ... — Ah, perché el iera assai rabià? — No, ciàpilo lighilo sul serio. Perché el voleva ciorse la vita. Savé, soto l'Austria una roba compagna iera una vergogna granda. L'Austria iera un paese ordinato. MALDOBRIA XXXVIII - TRE UOMINI IN BARCA Nella quale Bortolo spiega le vere cause del crollo dell' Impero AustroUngarico che perdette, negli ultimi giorni del conflitto, pressoché per intero tutti i suoi magazzini e depositi e narra delle imprese di Polidrugo che a Fiume possedeva le chiavi dei medesimi. — Perché, cossa ga rovinà l'Austria? Va ben che mancava anche de magnar, in ultimo, ma pezo de tuto iera per el vestirse. Se el militar no ga con cossa vestirse, cossa pol far el militar? Prima roba ga mancà scarpe e quel mi go dito subito che xe bruto. Pò quel paneto de montura ga mancà. Fin terliss no iera più. Questo i diseva: e inveze, co' xe vignù el ribalton, magazeni e magazeni de roba i ga trovado. Nova novente, mai tocada. — Ah, iera tradimento, come? — Maché tradimento. Magari che fussi stado tradimento, almeno sarìa stà un perché. Xe stà la disorganizazion. E co' ga comincià la disorganizazion, l'Austria no xe stà più gnente de ela. — Ahn! La prima guera. — La prima sì. Quela che doveva esser l'ultima. Me ricordo che co' xe vignù el ribalton, la gente strazzada strazzada andava per le strade; a Fiume i se fazeva capoti e vestiti con coverte, con monture de militar. Che anzi Polidrugo ne ga dito: qua xe de farse i bori. — Chi Polidrugo? — Polidrugo. El nostro Polidrugo. Quel che, durante la prima guera ierimo insieme mi, lu, Marco Mitis e el Cadeto Giadròssich. — Ah, Polidrugo. — Lu. Insoma vien 'sto ribalton e lu ne disi a nualtri che gavendo un poco un gnente de capital, ne podevimo far bei soldini. Perché lui conosseva un, che giusto in ultimo gaveva avù in consegna el deposito, propio del Comando del Amiraglio Horthy. — De munizion? — Maché munizion! Cossa volevi far cola munizion, oramai che el militar molava el s'ciopo per le strade? Deposito de coverte, linzioi, monture de Marina. Perché la Marina Militar iera come nova ancora. Solo disorganizazion iera, ve go dito. E insoma Polidrugo, de 'sto qua che gaveva in consegna el deposito el comprava per un bianco e per un nero monture e coverte, che pò la gente se fazeva capoti. Otobre iera: ma un fredo zà! Un otobre che pareva un novembre. — Se fazeva sì la gente capoti de coverte e de monture, anche dopo questa guera, me ricordo. — Indiferente. Polidrugo ne gaveva inzinganà a mi, a Marco Mitis e al Cadeto Giadròssich, che ierimo tuti patrioti, de darghe a lui i soldi che gavevimo per tornar a casa e che, tempo dò setimane, ognidun de nualtri gavessimo avudo un capitaleto. — Ah, el ga fato debito con vù? — Ma no debito. Società, come: lui comprava de questo suo conossente del deposito del Amiraglio Horthy, dopo el vendeva e una roba e l'altra. Vol no savé coss' che no iera a Fiume subito dopo el ribalton. — Che la gente girava strazzada? — Quel sì. Ma ocupazion, ocupazion internazional. Iera vignudi i Francesi, i Inglesi, fin i Americani. American cancan i ghe diseva, me ricordo. Ma i più tremendi de tuti iera i Francesi. E difati xe stadi lori che ga trapà Polidrugo. — Lui iera contro de lori, come? — Che, contro de lori! Lui vigniva sie, sete volte al giorno fora del deposito del Comando del Amiraglio Horthy con 'sti sachi de mariner pieni de coverte e de monture. E al militar francese sula porta el ghe diseva: «Biancherì de lavé!» — Biancherì de lavé? — Ma sì, biancherì de lavé. Biancheria de lavar: roba sporca insoma. Fin che un giorno el Francese ghe ga dito «Vardòns!» come dir che el vol vardar drento. Insoma, siora Nina, i lo ga serado. Quela sera istessa portà drento in preson de militar: savé, iera lege marzial, quel iera «sachegio», come. — Perché el gaveva 'sti sachi de Marina? — Ma no! Sachegio, perché el portava via botino belico e el Francese iera tremendo. Savé come che se disi: chi roba un toco de pan va in galera e chi roba una cità porta bandiera. E per farvela curta, noi semo restadi là a Fiume, con Polidrugo drento e senza un boro, perché dove che iera i nostri soldi saveva solo Polidrugo. — Ah, ieri in radighi? — Altro che radighi. De magnar e de dormir no gavevimo squasi, perché nela nostra caserma de Marina iera i Czecoslovachi, figureve. Che quela volta i Czecoslovachi noi no savevimo gnanche che i esistiva. — Eeh, ma adesso xe tanti. — Adesso. Ma quela volta no. E cussì, per tirar avanti, intanto che vigniva fora Polidrugo, se gavemo rangià con un caìcio che gavemo trovado là a Porto Baros, e con quel menavimo su e zò 'sti militari inglesi, americani, francesi co' i iera franchi, del molo fin le barche de ocupazion che iera ferme in rada. — E cussì guadagnavi? — Sicuro, qualcossa i ne dava sempre, ne conosseva tuti oramai. Ma no iera bel: no tanto per mi e Marco Mitis che ierimo semplici marineri, ma per el Cadeto Giadròssich, che el iera Cadeto. Sempre el diseva: «Maledeto el momento che ghe go dà i soldi a Polidrugo. Maledeti i soldi, maledete le coverte, maledeto l'afar che go volesto far!» Che pò lui iera Lussignan, interessoso, figureve. — E Polidrugo? — Polidrugo gnente. Drento. Finché un giorno che tornavimo de gaver portà dò uficiai francesi sula barca sua de lori, co' voghemo, vedemo che sula Kaiser Karl Sesto xe la biscaìna sbassada. — Iera ancora el Kaiser Carlo? — Ma no! La Kaiser Karl Sesto. Sexte, come che i ghe diseva lori, iera una torpediniera dela Marina Austro-Ungarica. Ancora là in rada. Dopo el ribalton la iera restada sempre ferma. E Marco Mitis ne fa ne disi: «Chissà coss' che xe dela Kaiser Carlo, che no sia ancora a bordo patrioti». — Come patrioti? — Sì: 'sti istriani, 'sti piranesi, 'sti dalmati che iera imbarcai sula Marina Austro-Ungarica. E alora, visto che la biscaìna iera zò, semo andai a veder suso, a bordo. — E iera permesso? — Permesso o no permesso, la biscaìna iera zò, gavemo ligà el caìcio e semo andadi suso a bordo a veder. Siora Nina, mai no me dimenticherò: «Vox clamante in deserto», come che diseva Don Blas. Ciamavimo, ciamavimo e nissun no rispondeva. Volé creder? Barca de guera, completamente abandonada: disorganizazion, pò. Anche de 'sti altri, i Interaleati, come che i li ciamava, perché nissun iera andà a veder coss' che iera. Fato si è che noi gavemo trovà gabine averte, anche quela del Comandante, e proviande in gambusa e monture nete. Insoma el Cadeto Giadròssich disi: «Savé cossa? ...» — Cossa? — «Savé cossa? Pitosto che dormir in tera in quela zimisera che dormimo, noi podemo dormir pulito in 'ste gabine». Che provianda no manca, che caìcio per andar in tera gavemo e che semo nòma che ben. — Ah nissun no iera su 'sta barca? — Prima no, dopo ierimo nualtri. E stavimo de papi: là noi sula Kaiser Carlo se cambiavimo, se lavavimo, se metevimo in ordine e de sera col caìcio andavimo in local. E un sabo che semo là a bever, ne se senta vizin, cussì soridente, un de 'sti Interaleati. American cancan. In zivil. E alora cicole ciacole una roba e l'altra, el parlava franco per 'talian. Che lu xe de Névjork, che mi iero a Névjork, che anche el Cadeto Giadròssich iera a Névjork, che Marco Mitis propio co' stava per andar a Névjork, iera s'ciopada la guera. Un bever, un rider... E lui ne domanda, ci fa ci dice, coss' che nualtri femo de mistier. «Ah — ghe gavemo dito ridendo — nualtri semo paroni de barca. No gavemo pensieri!» Che barca che gavemo. «Là, quela in rada» — ghe mostremo. La Kaiser Carlo. E alora el ne fa che a lui assai ghe interesserebbe vedere. Per farvela curta, col caìcio lo gavemo portado a bordo anche lu. — A 'sto American? — Sicuro. E co 'l xe su: che bel, che bel, che bela che xe 'sta nostra barca. Se semo solo nualtri o se xe anche altri. No, che semo solo noi. E lui alora, tuto soridente, che se semo dacordo, podessimo combinarse. Mi go pensà che dove che pol dormir tre, pol dormir quatro e ghe go dito che sì, perché de no, che podemo combinarse. E alora lui disi che, cussì come che la sta, lui pol anche ofrire un milione di corone. — Per dormir? — Per dormir, siora Nina? Per comprarla! Per comprar la Kaiser Carlo. Alora gavemo capisto: lui gaveva congeturado che la barca fussi nostra, che podessimo dispor. In montura che ierimo... Lui pensava de far l'afar. — Mama mia! E lo gavé fato? — Noi no. Polidrugo lo ga fato, co' el xe vignù fora. El ghe ga vendudo la Kaiser Carlo per dò milioni de corone. Perché el se gaveva vestido de Amiraglio Horthy. Lui gaveva le ciave del deposito. MALDOBRIA XXXIX - QUARANTADUE DI SCARPA Nella quale si narra la storia del vecchio Bùnicich, che portò alle sue estreme conseguenze la pratica dello sparagno e di sua figla Ketty, donna di polso e ragazza da marito, promessa a Nicoletto Giadròssich. — I padri eterni fa i fioi crocifissi, siora Nina. Anche el vecio Bùnicich, per esempio. Mi lo conossevo ben, savé, perché mi prima dela prima guera lavoravo de lui, in squero. — Bùnicich Bunicelli? — Dopo. Dopo el se ga fato anche Bunicelli. Ma zà come Bùnicich el me la gaveva fata sporca, perché el me tigniva come semplice lavorante in quel squero, che mio santolo Toni diseva sempre che una parte sarìa stada mia. Indiferente anche questo. Dunque el vecio Bùnicich gaveva una fia che se ciamava Ketty, Caterina, ma lori la ciamava Ketty, perché lori gaveva sempre quela de esser più dei altri. E lui gaveva un secondo cugin de parte de moglie, un Giadròssich. — El Cadetto Giadròssich? — No. Iera altri Giadròssich. Insoma 'sti Giadròssich gaveva anche lori una parte nel squero; e alora el vecio Bùnicich, vecio se disi per dir, quela volta el gaverà avù sì e no zinquanta, voleva far sposar 'sta sua fia Ketty con Nicoleto Giadròssich. Cussì, capì, dopo, el Squero gaverìa avù un paron solo. — Ahn. Ben pensada! — Sicuro. — E lori iera contenti? — Contenti? Quela volta bisognava esser contenti! Me ricordo che Nicoleto no ghe dispiaseva la Ketty, la iera una bela putela: granda come tute le lussignane, quarantadò de scarpa, una putela de polso. Ela inveze, mi savevo che la se gaveva inamorada in un maestro. — De musica? — No, no de scola. Bel ragazzo, alto. Pò inteligente, studià. El se ciamava, me ricordo ... gnanca no me ricordo come che el se ciamava, me par Crivelari, cussì qualcossa. Serio, ma una pagheta: i maestri de scola, anche soto l'Austria no gaveva de cantar aleluja. E facoltà gnente. Figureve Bùnicich, lui che se pretendeva che no ve digo. E i se parlava, savé, gnente de mal, iera 'sta simpatia. — Con 'sto maestro? — Sì, ma ve digo, el vecio Bùnicich gaveva zà destinà che ela doveva sposar el Nicoleto Giadròssich. E cussì el li gaveva fato prometer e tuto. Promessi de anel. Ma però co' xe vignù che mancava poco al sposalizio, el vecio Bùnicich, che iera strento fora de modo, ghe ga comincià a diolir la testa. — Cossa, el stava mal? — Ma no! Diolir la testa. Ve go dito che el iera un strento. El ga comincià a far i conti. Lui iera là sempre sul suo pulto che el fazeva i conti: mi calcolo che no 'l ga mai scrito una parola in vita sua che no fussi un numero. Insoma: el rinfresco, mobiliar la casa, pranzo dei compari, pò per la cesa, no parlemo, se usava far un'oferta. Ma questo no iera ancora gnente: el coredo! Trentasie linzioi. Per quel che se pretendeva lori, zento e trentasie i gaverìa dovesto. E intimele, e viagio de nozze, e confeti ... Insoma, lui gaveva calcolà che tra schermi e stropi ghe andava no so quanti mila fiorini. — Eh, ma se el voleva sposar la fia ... — Sì, ma lui voleva la bota piena e la moglie imbriaga, come che se disi. E alora propio per 'sta sua manìa de esser strento coi soldi, el ga avù una de quele impensade, che anche adesso co' penso — no digo per quel che a mi el me ga ciolto del Squero, che mio povero santolo Toni gaveva sempre dito che un toco de Squero sarà per Bortolo — no digo per quel, digo propio pel fato in se stesso: una figura porca. — Ma cossa? Cossa? — Cossa? Savé coss' che el ga fato? Lui ga ciamado la fia. Anzi no, prima el ga ciamado Nicoleto e 'l ghe ga dito: «Senti, Nicoleto, cossa xe tute 'ste pantomine che bisogna far, de feste e de robe, che el nostro dovemo darghelo ai altri. Inveze el nostro, nu se lo tignimo per nualtri. Alora femo cussì: ti ti vien una sera e femo figurar che ti ti fa come che voi dò scampé insieme, che ti la porti via. Femo per l'ora che parti el vapor per Zara. Ti ti ciol la Ketty, ve imbarché e amen. Pò co' torné, nozze in furia, come che se usa far per meter le robe a posto, gnente comedie, gnente rinfresco, el coredo faremo incontro. Ve sposé qua su nela ceseta de Ciùnski, tuto risparmià, anche el vestito bianco che costa un ocio, e zinquezento fiorini te vien a ti». — Eh, ma cussì el ghe cavava anche a lu tuta la poesia. — Poesia? Savé: Zinquezento fiorini iera qualcossa quela volta. — E el ghe li ga dadi cussì in man? El se ga fidà? — Sì, figurarse! Ala fia el ghe li ga dadi, quando che el ghe ga palesà cossa che la doveva far. — Ma come? Anche la fia xe stada dacordo? — Speté, speté che ve conto. La fia, la Ketty, la iera bona, però, ve go dito, iera una putela de polso; quarantadò de scarpa la gaveva. «Sì, papà, se vù pensé che xe meio che el nostro resti per nu, sì papà». Zinquezento fiorini! Insoma tuto pronto, tuto pareciado. — Per far finta de scampar? — Sicuro. Dunque, ariva 'sta famosa sera: el vecio Bùnicich, cola moglie drio del sburto del tinelo che cuca, ela che vien zò pian pian per le scale, per la porta de drio e lu col tabaro. Iera fredo quel ano, magio fredo. Pioveva, un tempo de sirocal. Ela cola sua coffa, quela volta se usava le coffe, ghe va incontro, lui ghe ciol la coffa e via lori in scuro verso el molo. Fis'cia el vapor e el vecio Bùnicich, tuto contento, el ghe disi ala moglie: «Eco fato, mezanote, i xe partidi e consumatum ovest». Pò el varda l'orologio e el vedi undese e meza. «Orpo — el disi — che vapor ga fis'cià, se el vapor de Zara parti in punto a mezanote?» E la moglie ghe fa: «El vapor de Trieste: ogi xe sabo». «Orpo — el disi — bruto. Meza ora i doverà spetar al molo che li vederà tuti». El va zò dele scale incazado, e in quela ghe compari davanti Nicoleto Giadròssich. — Che iera tornà indrio? — Maché indrio. El vigniva avanti lui apena, cola coffa. E el vecio Bùnicich ghe fa: «E Ketty, dove ti ga lassà la Ketty?» «La Ketty — ghe rispondi Nicoleto — son vignù a ciorla, come che ierimo patuidi. Ma pitosto vù, no dovevi star sconto? ... Cossa, gavé cambià pensier?» Insoma, per farvela curta, siora Nina, ga ridudo tuta Lussin. — De cossa? — De cossa? Savé coss' che iera nato? Quel de prima, col tabaro, no iera Nicoleto Giadròssich, iera el maestro Crivelari. Crivelari, Crivelari el se ciamava, adesso me ricordo. La Ketty, savé, iera una putela de polso. E la ga pensà drento de sé che se suo padre, per quela sua mania de esser strento, la fazeva sposar come una ladra, ladra per ladra, la se sposava con chi che la voleva ela. — Ah! Cussì la iera scampada col maestro? — Col maestro e coi zinquezento fiorini. E de Trieste, devo dir, la ghe ga scrito una bela letera al padre: «Caro padre, la presente per dirvi che meteremo tuto a posto, come si usa. Niente comedie, niente rinfresco, ci sposeremo nella chiesetta di Ciùnski e il coredo faremo incontro». Che dona che iera la Ketty: quarantadò de scarpa la gaveva. MALDOBRIA LX - GLI STATI SUCCESSORI Nella quale Bortolo fornisce qualche dato sul trattamento pensionistico applicato dagli Stati Successori della Duplice ai militari ex a.u. e narra la sconcertante storia del sottufficiale di Marina Menigo, del Primo Tenente Malabòtich, dell'Arciduca Rodolfo d'Absburgo, nonché di Gigi Vovo da Pinguente. — Mi go leto una volta che la memoria xe nel zerveleto, no nel zervel. E che xe propio come un disco: che de giovini xe più ciaro, e dopo sempre meno, sempre meno, sempre meno, fin che se va in dolze, ala sensa. — Eh, però vardé Barba Nane, novantasete ani che el gaveva, el se ricordava tuto de tuti. El iera vecio là, sula porta de casa che pareva che no 'l sa dò e dò quatro, e inveze el saveva vintiquatro! — Si, ma i ultimi ani no. Difati la barca che el diseva sempre «Te la lasso a ti, te la lasso a ti», pò no 'l se ga ricordà de lassarmela... — Ahn! Ma anche i giovini, qualche volta, mi go sentì che no i ga gnente memoria. — Alora xe traumatico. De un gran colpo, pol esser. Sul zerveleto. A Fiume, per esempio, subito dopo la guera, xe stà una roba che ancora me ricordo. Iera ocupazion interaleata, quela volta. Danunzio xe vignù dopo. E un giorno, in giardin publico, i trova un: strazzà, cola barba longa che girava come perso. — Imbriago? — No imbriago, siora Nina. Perso, come. Bel omo, dopo, quando che i lo ga netà e i ghe ga fato la barba. Solo che no 'l se ricordava gnente. Pensé che lui, solo si stesso no saveva chi che el iera. Traumatico. Difati el gaveva un taio compagno in testa. — Ah! Ferito de guera. — No se saveva. E alora i ga tacà la fotografia de lu in stazion, dove che la gente zercava i dispersi dei Carpazi, quanti che se ga disperso sui Carpazi, poveri! E a lu i lo ga messo in ospidal. — Perché, el stava mal? — No. Smemorato. Lui tuto parlava e diseva, ma no 'l se ricordava. E un giorno se presenta in ospidal una de Pola, una bela dona, che la ga visto 'sta sua fotografia in stazion e la ga dito: «Questo no pol esser che el povero Menigo, mio marì, che iera sotouficial de Marina, che dopo che lo ga silurà i 'taliani, no se ga savesto più gnente de lu». Insoma 'sta dona ga dito: «Xe lui mio marì». — E el iera suo marì? — El iera? Ela lo ravisava. Ma el bel xe stado che qualche giorno dopo, se presenta in ospidal una signora de Spalatro, ben vestida, in profondo luto, che anche ela ga visto 'sta fotografia in stazion e che quel xe sicuro suo marì Malabotich che iera Primo Tenente col «97» in Galizia. Ultima letera de Leopoli e pò più gnente. — Ma come? El iera suo marì anche de ela? — El iera? Ela lo ravisava. Ma lui intanto se gaveva dà come marì de quela de Pola. Perché ela, fra le altre, ghe gaveva dito: «Te speta la pension de guera quel, quel altro, aretrati... invalidità permanente». E lui sì, che sì, che lui no se ricorda, ma che se la se ricorda ela sarà cussì. — E quel'altra de Spalatro? — Là ga comincià i radighi. Perché 'sto omo ga comincià a pensar: «Come marì de questa, mi me spetassi la pension de Primo Tenente. Invalidità permanente, aretrati, una roba e l'altra. E sicuro assai de più». Perché i Stati Successori pagava tuto el debito del'Austria. — E cossa el ga fato? — Eh, el la ga fata furba lu. Lui zito zito, prima el xe 'ndà a Pola e el ga tirà la sua pension dei Italiani; e po' el xe andà a Spalatro e el se ga fato dar le sue spetanze dei Croati. — E a 'ste done cossa el ghe diseva? — Ah, lui ghe diseva che con quel che ghe xe nato lui no pol più star fermo, che el devi girar, viagiar, Spalatro Pola, Pola Spalatro el fazeva. Ma questo se ga savesto solo dopo. — Dopo de cossa? — Dopo che propio a Fiume, una volta che el tornava de Spalatro, el xe andà a finir soto una vetura. — Morto? — No. Xe stà una roba de gnente come disgrazia. Solo che el se ga tombolà e el ga batù la testa sul copìn. Propio sul zerveleto. — E alora? — E alora, tutintùn, de colpo, el se ga ricordà chi che el iera. Xe vignù gente atorno, anche un dotor che passava e lui se ga messo in senton e el ga dito: «Io sono l'Arciduca Rodolfo che tutti credevano mazzate, e inveze mi avevano sconto per comploto di Corte. Voglio parlare con mia moglie Stefania». «Come, come?» — ghe fa el dotor, stupido. E lui ghe fa: «Sissignore, io sono lo sventurato Arciduca Rodolfo, sfugito ala Tragedia di Mayerling, e una galina pépola la fa tre vovi al dì, se no la sarìa pépola, no la farìa cussì». — Ma come? Ma cossa? L'Arciduca? — Maché Arciduca. Alora i se ga ricordà chi che iera 'sto omo. 'Sto omo ve iera Gigi Vovo, de Pinguente, quel dela galina pépola, che el diseva de esser l'Arciduca Rodolfo. Che zà de prima dela guera i lo gaveva messo in frenocomio. Iera stà che col ribalton del'Austria, nela gran confusion, iera scampai tuti dele presoni e anche dei frenocomi. E lu nel saltar zò dela finestra del frenocomio de Fiume el gaveva batù la testa sul copìn. E cussì el se gaveva dismentigà de esser mato. MALDOBRIA XLI - LE ANIME DEL PURGATORIO Nella quale Bortolo, pur dimostrandosi scettico in materia di fenomeni medianici, lascia intravedere che vi son più cose fra la Terra e il Cielo di quante, ieri ed oggi, non ne abbia pensate la nostra filosofia. — Sentì, siora Nina: mi go paura del vivo, perché el vivo pol far del mal, ma el morto, come che diseva el Comandante Petrànich, mortus est e non più buligàribus. Vù me disé la strada del Zimiterio. Dovevi veder coss' che no i diseva una volta dela strada del Mulin dove che iera la casa dele dò vece. — La casa dele dò vece? — Ma sì dài, là fora dove che adesso i ga fato garàs. Là iera la casa de quele dò sorele pute vece che xe morte, no se ga mai savesto come che le xe morte. — Ah, là del Mulin, me ricordo che mia madre la se fazeva la crose co' la passava davanti. — Dopo che le xe morte iera restà disabità, come. E una sera che ierimo in local xe cascà el discorso e mi go dito: «Maché spiriti!» E el Comandante Brazzànovich che vigniva qua ogni estate, in vila, me fa: «Bon: passerii vù la note là?» «Mi no fazzo gnente per gnente — ghe digo mi franco — ma se volé che scometemo, scometemo». Insoma, per farvela curta, scometemo che mi e Bepi Scombro andavimo drento ale undese de sera e vignivimo fora ale sete de matina. — Mama mia! — Anche mama mia povera me ga dito cussì! E Barba Nane, pò! «Ve vederemo diman! De sera grandi leoni e de matina grandi coioni». — E sé andà? — Come no. Tuti ne diseva se semo mati. Ma mi e Bepi Scombro semo andai istesso in casa dele morte. Ale undese ore drento e a mezanote un desìo, un scandal: cadene, come. Porte che se verzeva sole. E Bepi Scombro, chi lo ga guantà più? Via lu. — Anime sante! E vù? — Mi go tignù duro. Sentà sula carega, spale al muro, disevo: «De drio no i me guanta». Ma davanti, siora Nina! Davanti me se presenta dò spetri veri, propio col linziol. Bianchi, che la luna dela finestra ghe bateva contro. — Le dò pute vece morte? E sé scampà? — Mi no mi. Mi go visto subito sul canton del linziol la stema del Lloyd Austriaco col'ancora. E alora ghe fazzo a 'sti spiriti purganti: «Comandante Brazzànovich, sporcaré i linzioi che gavé portà via del «Jupiter»!» — Orpo che truco! — Sicuro. E alora anche Barba Nane se ga cavà el linziol e i me ga dito: «Bravo, ti ga avù coraio». Un rider pò. — Ah coss' che no iera Barba Nane co' 'l stava ben. I ultimi ani el gaveva dà come un croio, dopo. Me lo ricordo sempre a casa sentà in cantunìch. E chi pò gaveva eredità quela bela casa de Barba Nane? — Quela volta la gaveva ereditada quel Jedrélcich, quel che i ghe diseva ToninCuciarin, un che se spauriva per ogni roba. Lui iera suo fio de anima. — De Jedrélcich? — No. Lui iera Jedrélcich. El iera fio de anima de Barba Nane, come. E el ghe gaveva lassà la casa. Anzi, me ricordo che Marco Mitis iera restà assai mal. Lui lo gaveva curà, fin l'ultimo, netà e tuto: lui vigniva a star propio suo quarto o quinto cugin. — Eh, i ultimi tempi Barba Nane iera andà un poco in dolze. — Indiferente. E tanto più ghe fazeva bile a Marco Mitis, perché Tonin no iera gnanche andà a star in 'sta casa. Gnanche de istà no 'l vigniva. Lui stava a Pinguente. — E 'sta casa el la afitava? — Sì, i primi ani el gaveva afità. Pò se iera come sparsa la vose. — De cossa? — Solita roba, siora Nina. I parlava che xe spiriti, cadene. Perché i diseva — penséve — che Barba Nane defonto, vigniva a zercar i bori che el ghe gaveva lassà ale Mùnighe e che no se gaveva mai trovado. — Eh, coss' che no disi la gente nei paesi qualche volta! — Ma pò ga durà poco. No i parlava gnanche più. Ma Tonin no se ocupava de 'sta casa e cussì iera restà svodo. E una sera vien de mi Marco Mitis e me disi: «Bortolo, ieri iero a Pinguente, go incontrà Tonin e ghe la go butada». «Cossa?» — ghe digo mi. E lui che el volessi comprar la casa de Barba Nane defonto. — Ah, el voleva comprarla de 'sto Tonin Jedrélcich? — Sì, propio cussì. Solo che Marco Mitis me disi che el ghe gaveva domandà assai. Un'esagerazion. No me ricordo più se vinti o vintizinquemila de quela volta. — Eh, la casa de povera nona noi la gavemo venduda per quindesemila. — Indiferente. Marco Mitis ghe ne pensava sempre una, co' iera soldi de mezo. El iera un interessoso. E el me disi: «Senti Bortolo, Bortolo senti: no se parla più qua in paese de quela storia dei spiriti? Perché, sa, una casa coi spiriti val assai de meno». La madre de Marco Mitis iera una lussignana. «No, ghe digo mi: dei spinti no se parla più. La casa xe svoda perché Tonin xe sempio, ma de spiriti no se parla». «Bon, me fa lu, inveze bisogna che i parli. Perché mi, più de quindesemila no ghe dago». — Ah, go capì! Ve gavé messo dacordo de contar in giro. — Contar? Far, far, altro che contar. Che parli la gente, no nualtri. Una sera semo andai là prima de mezanote, undese e meza, gavemo impizzà qualche candela drio dei vetri, fato «uuuh uuh», le solite monade, fina che la gente ga comincià a parlar de novo. — E alora? — E alora Marco Mitis xe andà a Pinguente e el ghe ga dito a Tonin che no 'l la vol più. Che tuta la gente parla de 'sta casa de Barba Nane. Che propio se fussì per un toco de pan, fazendola benedir ... Per farvela curta, una sera el lo ga strassinà in coriera e che el vegni lui de persona a sincerarse. Noi ierimo dacordo, natural. — Mama mia. E cossa, stavolta gavé fato vù de spirito? — Speté, speté: co' iera poco prima de mezanote, mi son andà drento per la porta de drio, con el linziol, un toco de cadena dei «Cinque Fratelli», che iera sempre là in un canton del molo, la solita roba. E lori, intanto, iera zò nel pòrtigo che i contratava. A mezanote in punto vado in sufita per cominciar a far sussuro e vedo che me se presenta davanti un altro con el linziol bianco. «Ara là — go dito — 'sto Marco Mitis vol farse calar ancora la casa. El ga mandà anche suo cugin Mondo a far de spirito». «Ciò Mondo — ghe digo — in dò semo!» E fazzo come per andarghe incontro. Siora Nina: mai no me dismentigherò. Vedé qua 'sto zuf de cavei bianchi che go? — Ma i xe tuti bianchi. — Sì, ma 'sto zuf iera zà bianco prima. Siora Nina: volé creder che ghe son passado oltra per oltra? — Come, oltra? — Oltra, siora Nina. No so come, ma oltra. Gò sentì come un vento fredo e distintamente una vose che me ga dito: «Sé un imbroion, fé fufignezi: i ve caverà la matricola!» La sua vose, siora Nina. Sua de lu. Come co' el iera vivo. MALDOBRIA XLII - IL MEDICO DI BORDO Nella quale Bortolo racconta come per la prima volta sul «Jupiter», al comando del capitano Terdoslàvich, fosse stato imbarcato un dottore e del male che improvvisamente colse il mistro Bogdanovich, circostanze queste dalle quali scaturì una delle più famose, rudi ed aspre storie di tutto il litorale dalmatico. — La speranza xe la putana del povero, che lo compagna fina ala morte, diseva sempre mio defonto padre. No per dir male parole, siora Nina, ma perché cussì parlava i maritimi quela volta. Eh, la vita del maritimo coss' che no iera co' navigavimo nualtri! Se vedeva sì mondo, no se restava tùmbani, ma però e far e strussiar e lavorar e via dele famiglie e sacrificio e pericolar per mar. E Dio guardi un mal, perché, savé, dove se se sognava per esempio de gaver un dotor a bordo? Visita se passava sì e no per l'imbarco o co' se tornava de Bombay, che là iera sempre 'ste epidemie, ma in navigazion se iera nele man di Dio. — Ah, perché no iera dotor a bordo? — Dotor? Sperar in Dio iera el dotor. Dove se gaveva mai visto dotori sui pacheti? I ultimi ani, sì, prima del ribalton del'Austria, i gaveva comincià a meter sui misti, quando che navigavimo sul «Jupiter» col Comandante Terdoslàvich. — I gaveva messo dotori sul «Jupiter»? — Dotori? Sì, la Facoltà de Viena! Un dotor i gaveva messo sul «Jupiter». Gaveva volesto la Compagnia, dopo che la Sicurtà no ghe gaveva riconossù l'infortunio de Pillepich, quela volta che el gaveva perso la gamba. Ve dirò, anzi, che el Comandante Terdoslàvich rugnava co' i ga mandà 'sto dotor Seperizza, un dalmato de Zaravecchia, me ricordo. Che cossa, che el dotor a bordo xe intrigoso, come se per intrigo no bastassi el Comissario, che adesso i manderà anche el prete a bordo, Dio guardi che qualchedun no ghe manchi i Sete Sacramenti. El sacramentava che no ve digo. Perché lui se pretendeva de dispor lu se un stava ben o stava mal. — Come, dispor se un stava ben o stava mal? — Ma sì, el Comandante Terdoslàvich, prima, gaveva sempre decidesto lui: se qualchedun gaveva qualcossa el ghe diseva: «Ecote qua: qua te xe un poco de salamaro, che te se movi el corpo, che te se deliberi.» — Se usava sì una volta salamaro, mio defonto padre... — Indiferente. Ve disevo che i gaveva mandado sul «Jupiter» 'sto dotor Seperizza. Bonissimo omo, ma savé, quela volta a bordo se imbarcava 'sti dotori che spetava de vinzer la condota. «Fin che speté, qua intanto ve xe el condoto» — ghe diseva sempre in tavola el Comandante Terdoslàvich. Podè capir, dotor giovine, de Zaravecchia, che là i se tigniva a Zaravecchia, lui no iera abituà a 'sto parlar dei maritimi e tuti rideva e lu no. — I lo cioleva via, come? — No iera un cior via. Iera cussì che parlava i maritimi quela volta e lui forsi no se trovava. Insoma, una matina, che ve conto, el mistro Bogdànovich, toco de omo: mal, mal, mal. Che ghe diol la testa, febre, che ghe se missia el stomigo e che no 'l pol tignir gnente. «Bon, se no 'l pol tignir che el moli — ghe ga dito el Comandante Terdoslàvich al dotor Seperizza — deghe un fià de salamaro che ghe se move el corpo, che el se deliberi.» — Eh, quel xe la prima roba: no magnar gnente e deliberarse... — Insoma 'sto Seperizza disi che si, che comunque no salamaro, che el ghe darà un lassativo, un purgante più blando, cussì el parlava. «Bon, ga dito el Comandante Terdoslàvich, scriveremo sul libro de bordo: Giovanni Bogdànovich, lassativo blando. Cussì riderà anche l'Armamento.» Savé, siora Nina, Bogdànovich, 'sto mistro, 'sto Giovanni iera un toco de calandron che no ve digo. E difati el giorno dopo, co' el dotor ghe passa davanti ala gabina e ghe domanda: «Giovanni, hai evacuato?» «No, sior dotor», ghe rispondi lu. «Ve gavevo dito mi — ghe fa el Comandante — de darghe salamaro, che ghe se move el corpo, che el se deliberi...». Che no, che salamaro in ogni modo no, che l'aumenterà inveze la dose, che xe più eficace. — No 'l se deliberava? — Siora Nina: xe passà un giorno, dò, tre. El dotor passando ghe domandava: «Giovanni, hai evacuato?» e lui sempre che no. No ve digo coss' che el Comandante Terdoslàvich no cruziava in tavola 'sto dotor. Che se no 'l ghe dà salamaro no sarà gnente. E pò ancora de 'sta condota e de 'sto condoto: lui, savé, Terdoslàvich iera un omo assai materiale. — E pò el ghe ga dà salamaro? — No. Devo dir che 'sto dotor Seperizza, che gaveva l'anda de stremido e che in tavola gnanche no 'l rispondeva, iera inveze un che no se lassava impor. Lui diseva: «Mi aumento gradualmente la dose, ma salamaro, in ogni caso no.» Siora Nina, el ghe ga aumentà mi calcolo un dodese volte 'sta dose. Ma ogni matina, co' el passava davanti dela gabina del mistro Bogdànovich e el ghe domandava «Giovanni, hai evacuato?» «No, sior dotor», rispondeva Giovanni povero. «Tromba di culo, sanità di corpo — lo stuzigava Terdoslàvich — el ve scoresa almanco?» No ve digo coss' che no iera in tavola! Però dopo — iera zà un vinti giorni de 'sta storia de «Giovanni, hai evacuato? No, sior dotor» — el Comandante Terdoslàvich ga comincià a impressionarse, come. El diseva: «'Sto omo ne se malerà sul serio.» E cussì el se ciapa su, me ricorderò sempre, una matina bonora, el va sula porta dela gabina de Bogdànovich e el ghe domanda: «Giovanni, ti ga cagà?» E Bogdànovich, palido, scunì, che gnanche no se lo conosseva: «Anche l'anima, sior Capitano!» Povero dotor Seperizza, co' i italiani ga evacuà Zaravecchia el ga perso tuto. MALDOBRIA XLIII - LA POLVERIERA DEL 97 Nella quale Bortolo, dopo aver fatto una breve storia dell'accendisigari, narra come assieme a Marco Mitis riuscisse in Galizia e su altri fronti a soddisfare il suo vizio del fumo anche in fortunose circostanze. — Far e disfar xe tuto un lavorar. Savé coss' che diseva sempre el Comandante Petrànich, che iera un ridicolo, propio in tavola, in salon de pranzo, co' mi che iero giovine de camera, vignivo cola guantiera dei spagnoleti? A bordo del'AustroAmericana, iera tuto franco, cossa volé: i spagnoleti iera gnente. Bon. El Comandante Petrànich el diseva: «Miei cari signori, sapete che cosa io vi dirò? Che prima l'omo ha inventato i fulminanti, come sarebbe i svedesi e i solforati, poi ha pensato cola sua mente umana che sarebbe più meglio avere una machineta che no ocore sempre andare a comprare i fulminanti, poi ha fato la machineta che no funzionava causa il pavér, poi la Skoda di Pilsen ha deto bisogna fare una machineta che funzioni sempre e hano fato quele col ciodo imbumbito di spirito che si russa sula pietra focaia di soto. E questa era la perfezione. Perché funzionava sempre ma aveva due difeti: primo, che pesava massa nele scarsele, secondo che si poteva perdere ed era pecà. Alora la mente umana ha pensato — cussì savé propio parlava el Comandante Petrànich — che bisogna fare una machineta che si impizzi sempre, che no pesi e che se se la perde no importa gnente perché costa poco. E così l'uomo ha inventato di novo la scatola di fulminanti, miei cari signori». El rideva! Iera una macia 'sto Comandante Petrànich ... — Ah, i ga propio inventado? — Ma dài, siora Nina: iera tuto un scherzo, per passarsela cussì in tavola del Comandante. Viagi longhi iera. Insoma per dirve che mi son restà su quela dei fulminanti. Perché xe propio vero, come che diseva el Comandante Petrànich, no i pesa, se impizza sempre e se se li perdi, àmen. — Eh sì, mio marì, li dismentiga dapertuto. Più de una volta in local go visto che el ghe domanda fogo ai altri. Che anzi Miro ghe disi sempre: «Mai impizar in tre, Bepi, col fulminante, perché el più giovine mori e me toca a mi.» — Miro xe un tandùl. Xe vero quela dei tre che mori el più giovine, ma no in local. Al fronte moriva el più giovine, impizando in tre. Orpo se no so mi 'sta roba! Siora Nina, co' ierimo sui Carpazi... — Ah, i più giovini moriva sul Carpazi? — I più giovini? Giovini e no giovini moriva, ma mi ve spiegavo coss' che xe 'sta storia de impizar in tre col stesso fulminante. Dela guera vien. Parlo dela prima guera, che co' se iera al fronte, in trincea de note, guai impizar in tre el spagnoleto. Perché, col primo el Russo se inacorzeva che là iera omini, col secondo i ciapava la mira e al terzo, che per forza iera el più giovine, perché el più giovine se impizzava per ultimo, ghe tocava la bala in testa. Questa ve xe la vera verità. El resto ve xe tuto superstizion. — Ahn! Ma vù fumé, sior Bortolo? No go osservà ... — Fumavo, siora Nina; go fumà el mio. Ma adesso, enfisema. Meo de no. Eh, me xe stà sacrifizio in prinzipio, perché mi iero fumador acanito. Me fazevo solo el spagnoleto: el vero fumador se fa solo el spagnoleto. — Come, solo? No xe monopolio? — Ma no: solo si stesso el vero fumador se fa el spagnoleto, con cartina e tabaco. Mi con una man sola me io rodolavo, savé. Con una man: mi e Barba Nane. Lu me gaveva imparà. El diseva sempre: «Se un mariner no sa farse solo la zigareta i ghe cava la matricola, perché no 'l xe un vero mariner.» El iera un ridicolo anche lu. I ultimi ani el spandeva un poco de tabaco: ghe tremava la man. — Tremito si el gaveva, però el xe stà lucido fina in fondo, lui se ricordava tuto de tuti, tuto. — Eh! Se ga perso el stampo. Ben, ve dirò, co' se disi spagnoleti, che la prima guera i ne gaveva mandà in Galizia, sui Carpazi, no so se ve go mai contà, come Fanteria de Marina. Ierimo mi e Marco Mitis, fumadori tuti dò. Volé creder che i ne gaveva cavà la razion de tabaco? — Per punizion, come? — No, no, befél, befél iera. Ordine. Perché mi e Marco Mitis ierimo de guardia sula munizion. — Del s'ciopo? — Ma no, tuta la munizion del Novantasete. Le patrone, le granate, i sràpnel, tuto: polveriera pò. E polvere, natural. Dio, no una polveriera come quela che iera a Pola, che iera imensa, questa iera una polveriera de campo. Volé creder che i ne fazeva perquisizion prima de montar la guardia, per veder se gavevimo spagnoleti? Adesso mi no digo: xe pericolo sì fumar in polveriera, ma stando un poco atenti, un omo no xe miga un fiol. E pò, savé, star tuta la note a caminar su e zò, senza la sodisfazion de un dò tirade, xe roba de diventar còfe. — Eh, anche Bepi, lui senza fumar xe assai nervoso. Anzi, co' mi trovo cussì spagnoleti per casa, ghe salvo per via che el gabi co' no 'l ga. — Insoma, ve digo: savé dove che scondevo el tabaco? Nela camera de scopio, là no i vardava mai. — Ah, gavevi una camera? — Sì, con comodo de cusina! La camera de scopio del s'ciopo volevo dir: là scondevo el tabaco. E i fulminanti nela fodra dela bareta de montura. Che quela volta ancora no i gaveva dà el capel de fero, quel prima gaveva solo i Germanici. E per cartine, siora Nina, savé cossa? La cartafina dei giorni del calendario; me ricordo che iera febraro, giusto, e el calendario iera zà rivado ala Madona de agosto. Mi e Marco Mitis, co' iera quel'ora de calma se metevimo in canton dela casamata. — Gioventù, ah, strambi! — Ma no: se ciama casamata propio. — Dove che xe la camera de scopio? — Indiferente. Insoma, se rodolavimo 'sti spagnoleti e fumavimo propio de sodisfazion. Savé, co' no se pol, tuto par più bon. E mai nato gnente, cossa volé che nassi co' se sta atenti? Una sera, solo, gavevimo apena impizzà, che sentimo come un sussuro. Marco Mitis ziga: «Wer da?» che sarìa come dir: «Alto là! Chi va là! Stòj!» Gnente. E sempre 'sto sussuro. Alora me xe vignù come un lampo: zà un'altra volta gavevo sentì quel sussuro. Savé coss' che iera? Iera el capoto del Russo che scassinava per tera. Lori gaveva quei capotoni longhi che scassinava per tera. — Mama mia: iera propio el militar? — Altro che militar! No ga passà gnanca un minuto che zà i sbarava. Marco Mitis me fa: «Orpo, Bortolo: guera xe guera, ma perder la vita, propio!...» Se gavemo capì subito. Ierimo come fradei, mi e Marco Mitis. Butemo via i spagnoleti impizadi e via noi: soldà che scampa xe bon per un'altra volta. Mi credo che de quela volta me se ga ofeso un poco l'orecia: perché un tiro, siora Nina, un tiro! Ga fato un ciaro come giorno. Fin a Leopoli se ga roto le lastre. E ciaro, ve digo, ciaro come de giorno. Sbarava? Xe saltada la polveriera, savé: carta de calendario gaveva fato bronza. — Mama mia, che dano! — Dano? Maché, xe stà quel che ga salvà tuto. Con quel ciaro che ga fato, i Russi xe stai trapai propio co' i vigniva avanti per l'assalto. Xe stà scrito anche sul Ordine del Giorno che «con iniziativa e grave rischio personale i soldati di Fanteria di Marina, mi e Marco Mitis facevano saltare il deposito di linea inibìndolo al reparto nemico.» Cussì, insoma, iera scrito. — Ah, e cussì i ve ga perdonà dei spagnoleti? — Ma no! Quel no i ga mai savesto. Lori ga credudo che noi gavemo fato aposta, per eroismo, come. Anzi de sera ne ga ciamà el Magior, che soto l'Austria un Magior iera qualcossa, ne ga ciamà el Magior e el ne ga mostrà la carta che lui personalmente el ga scrito a Viena che i ne daghi la Picola Medaglia di Merito. — Ah, vù e Marco Mitis sé stai decoradi de Picola Medaglia propio? — Questo del Sedici. Ma del Diciaoto i ne doveva dar la Grande Medaglia, perché gavevimo fato saltar la polveriera de Pola, che se gaveva roto i vetri fin Fiume. Savé: la carta de calendario fa bronza. Ma dopo xe rivadi i Italiani e xe andà tuto in gnente. MALDOBRIA XLIV - IL MATRIMONIO SEGRETO Nella quale Bortolo racconta dell'antica ruggine tra Barba Tonissa, suo prozio, nonché padrone di barca e la famiglia della sua promessa sposa, ai tempi in cui si portavano in corredo ventiquattro lenzuola. — Mi co' me go sposado, mia moglie me ga portà vintiquatro linzioi, e vintiquatro intimele, e tute cola zifra. E che zifra! — Credo ben. Vintiquatro linzioi xe un capital. — Ma no, digo zifra per dir zifra: l'inizial, el monograma. Che gaveva ricamado sola si stessa, mia moglie co' la iera puta. Che Barba Nane anzi me diseva sempre: «Quela putela ve ga le man de oro». Savé, la ricamava anche per le Mùnighe de Squero: pianete, camici. Agopitura, lavor de fin. — So, so, vostra moglie iera assai nominada. Ricamatrice prima. Mi inveze no go avù mai pazienza. — Indiferente. Vù dovè saver che per 'sta storia dei monogrami quasi che no vado in còlerà con mio zio Tonissa. No 'l iera propio vero zio mio ... — Ah me ricordo! El vecio Tonissa! El iera fradel de vostro nono, el ve vigniva star prozìo, come. — El vigniva a star che el gaveva un caratere, ma un caratere! Bon omo, ma rùspido. Tuto diferente de mio nono defonto. Perché lui iera un sufistico, un barufante. Bon omo, ma barufante. Basti dir che quei dela famea de mia moglie, per lu, iera tuti morti; morti el li calcolava per una storia ancora de suo padre, che no so ben gnanca cossa. De una volta a Portolongo che i se gaveva dà drento cola barca. Iera scuro de luna. Che lu no gavessi dovesto meterse per tresso. Che lui se pol meter alà o per tresso come che el vol e che quando un no sa dar fondo al'ancora, l'ancora ara. Che ara che mona che ara che muss, una parola tira l'altra e i iera andai per man de avocati. Insoma de quele robe che se un de lori vigniva in local, mio zio Tonissa fora. — Eh, i iera in còlerà de ani, me ricordo. Iera per via de quela roba de Portolongo. — Indiferente. Mio zio Tonissa iera sempre stà paron de barca, e co' mi iero giovinoto, el gaveva el «Sant'Andrea». Bela barca roba de un dozentozinquanta tonelate. Noli, signori noli el fazeva. E el me diseva sempre: «'Sta barca sarà tua». Lui no gaveva fioi. Magari con 'sta scusa no 'l me dava gnanche paga, solo la panatica. «Sarà tua, sarà tua», e mi in barca con lu no go mai visto una flica. — Eh, el iera un omo assai interessoso. Strento, come. — Bon, mi in quel periodo me parlavo con mia moglie. Che no ierimo ancora sposadi, se no, cossa stavo a parlar con ela? Ne parlavimo, insoma, andavimo in riva, in liston. E me ricorderò sempre de quela sera che ne intiva mio zio Tonissa. El me fa «Viva!» cussì suto, suto e el tira avanti. — Ah, el ve gaveva visto cola sposa? — Sicuro. E el giorno dopo, de prima matina el me se presenta davanti dela porta e el me fa: «Me ga contà un sempio che ti, paron de barca, in vita tua, no ti vol diventar mai». «Cossa, come?» — ghe digo mi. «Come, cossa, come?» — el me disi lu: «Xe che se ti, come che me ga dito quel sempio, ti se sposi per la fia de quel fiolduncan fio de un fiolduncan, el «Sant'Andrea» ti ti lo vedi col canocial de Marina austriaca». El volta i tachi e 'l va per le sue. — Mama mia! El ve gaveva inibì? — Altro che inibì. No podevo più farme veder con ela. Tuto in scondariola dovevimo andar. Dò, tre, quatro mesi semo andai avanti cussì. E ela gaveva finì el coredo. Vintiquatro linzioi e vintiquatro intimele, tute cole zifre sue de ela: M. P. Marieta Politeo. Che la ghe lo gaveva zà mostrado a tuti. E la me ga messo l'autaut: O che se sposemo o che ognidun va per la sua strada. E mi che spetemo, che gaveremo la barca, che la ciameremo Marieta, come ela, ma ela no ga vossù sentir ragion. — E vù? — E mi la go sposada. Ma se savessi come. In cesa de Ossero semo andai, de matina bonora, che iera ancorà scuro, una volta che mio zio Tonissa fazeva un nolo per Dalmazia e mi me gavevo butà malà. — E dopo no 'l se ga inacorto? — Oh Dio, fin che se navigava no iera gnente de inacorzerse. E co' ierimo qua, mi stavo a casa mia, de mia madre defonta e ela a casa dei sui de ela. E de sera andavo a dormir là. Mio zio Tonissa, quela volta gaveva otantadò, otàntatré, e mi disevo: «No l'anderà avanti al infinito». — Però el navigava sempre? — El iera come un ròvere. Po' che oci che el gaveva! Lui legeva el giornal, cole letere picole, senza ociai, come un giovinoto. Insoma, una matina presto vegno fora de casa de mia moglie e vedo che in barca el me varda. «Cossa gavé, Barba?» — ghe digo. Lui zito e el me varda. E po' el disi, ma cussì suto suto, savé: «Adesso femo anche i rovinafamee». E zò el me mola un stramuson che son andà longo disteso in coverta. «Ma Barba Tonissa, cossa gavé?» — ghe digo. E lu el me ponta el dito sula ganassa — fermo el gaveva el dito, otantaquatro ani che el gaveva — e el disi: «Eme Pi, Eme Pi, ti lo ga scrito su quel muso de tola: Marieta Politeo». — El ve gavevo visto vignir fora dela casa de ela? — Maché visto! Sì, mi gavevo dormido là quela note, come sempre, ma no volé che me se gaveva stampado sula ganassa el monograma dell'intimela: M. P., el nome de putela de mia moglie. — E lu? — E lu ga dito: «E adesso ti te la sposi, perchè xe el tuo porco dover: se no, fora de 'sta barca e va a navigar a Portolongo!» Ma mi ghe go dito: «Barba Tonissa, la go zà sposada, quela volta che fazevi el nolo per Dalmazia...». — Ma la barca el ve la ga lassada? — Fin co' el ga avudo novantadò el me ga fato navigar per lu. E mai visto una flica, solo la panatica. E pò, ve ricordé? El xe andà in dolze, i ultimi ani. E quei sui nevodi de Caìsole che lo tendeva intanto che mi navigavo, quei Gémbercich i lo ga inzinganado e la barca el ghe la ga lassada a lori. Ma no ghe ga fato bon prò. Perché ancora me la vedo, tuta piturada de griso, co' la xe andada a fondo qua in porto. Con 'ste dò letere M. P., de prova, longhe dò brazzi. — Ma cossa, istesso i ghe gaveva ciamado «Marieta Politeo»? — Maché Marieta Politeo. Marine Polizai: M. P. I gnochi la gaveva requisida, 'sta ultima guera. Cossa che qualche volta pol voler dir un monograma: un destin, una vita ... MALDOBRIA XLV - LA CROCIERA DEL «THALIA» Nella quale Bortolo narra del «Thalia», yacht per viaggi di piacere con 164 letti di classe di lusso, messo in linea dal Lloyd Austriaco e riferisce la famosa previsione del tempo formulata dal Mistro Bogdànovich, che ancora si tramanda di generazione in generazione fra le genti del litorale della Dalmazia. — L'Austria curava assai la presenza del maritimo. Sui vapori del Lloyd, per esempio, guai se un maritimo no iera in ordine con montura, mustaci e cavei. Per rispeto, no, anche per el passeger, per la Compagnia. E no solo quei de camera, savé. Anche quei de coverta e de machina. E pel parlar, pò gnanca parlar. — Cossa, no se podeva parlar? — Come no se podeva parlar? Sicuro che se podeva parlar. Ma nel parlar col passeger — iera propio regolamento de bordo — mai rivolger la parola. Solo l'uficialità podeva e el Comandante, natural. El Comandante in barca xe primo dopo Dio. Ma el semplice maritimo, solo se interogato e con rispetosità. Zerto che sui pacheti, 'ste barche strapazone de carigo iera altro, i lascava, per forza. Iera solo l'equipagio a bordo. E se sentiva male parole che no ve digo. Specie i dalmati. Ma se iera un passeger, anche un solo, «il passegero é sacro» diseva el Comandante Terdoslàvich. «Perché mi, sula barca, son primo dopo Dio. Ma, per l'Armamento, el passeger xe mio paron dispotico». De Ossero el iera. — Chi, 'sto passeger? — Maché passeger de Ossero! Quando mai se ga visto un passeger de Ossero? Mi go navigà ani anorum e no go mai intivado un. El Comandante Terdoslàvich iera de Ossero. Mi iero con lu prima un periodo sula Ungaro-Croata e pò sul «Jupiter», fin che i lo ga messo in disarmo. Mai no me dimenticherò de quela volta che tuto l'equipagio del «Jupiter» i ne ga passà sul «Thalia» che iera apena fato. — I ve gaveva cambià tuti de barca? — Sicuro. El «Jupiter» iera stà messo in disarmo e 'sto «Thalia» iera una roba nova, come. Iera un «yacht per viagi di piacere» con zento e sessantaquatro leti de classe de lusso. No gaveva linia. Con lu se fazeva queste crociere de lusso. Quela volta le crociere iera ai primi primordi. E noi fazevimo Dalmazia, Corfù, Pireo, Candia, Mar Nero: fina Yalta se rivava. Savé Yalta, per el Russo, ve iera come un'Abazia: 'sti hotei, 'ste case de giogo... restàurant. Iera el Zar ancora. — Ah, prima dela prima guera? — Per forza. Cossa volé che sia adesso. Ierimo del Nove, me ricordo e su 'sto «Thalia» ghe iera passegeri, ma signori passegeri. Tuto gente granda, Uficialità, milionér in fiorini. Che anzi el Comandante Terdoslàvich gaveva sempre quel pensier. — De Yalta? — Maché de Yalta. Yalta iera la linia. No iera gnanche linia, ve go dito, se 'ndava qualche volta in crociera. El Comandante Terdoslàvich gaveva sempre quel pensier che podessi nasser una malagrazia. Savé, massima parte del equipagio iera stado sul'Ungaro-Croata, prima. Pò 'sti pacheti. Pò sul «Jupiter» che iera tuto «ciò mi, ciò ti» e no ve digo che male parole. Insoma 'sto Comandante ne diseva sempre: «Omini mii, qua no semo più né sul'Ungaro-Croata, né sui pacheti, né sul «Jupiter». Qua gavemo passegeri e el passeger xe sacro e 'sti qua xe passegeroni. Che qua con quel che un spendi per el bilieto, nualtri podessimo viver pulito a casa senza andar a pericolar per mar». Ve go dito, siora Nina: iera tuto Uficialità, gente granda, Diretori de banca, Nunzi apostolici. E alora, diseva el Comandante Terdoslàvich: «Ve racomando che no nassi malagrazie, che no sia osservazioni, tigni serade quele vostre maledete boche, che kùraz no deve esister gnanca fra de vualtri dopo che gavemo molà le zime. E ve aviso: no biastemar, né per 'talian né per croato, perché Dio pol perdonar, ma el Lloyd Austriaco no.» Cussì parlava el Comandante Terdoslàvich. — Eh, quel xe bruto, biastemar. — E pò xe anche inutile, diseva el Comandante Petrànich che iera una macia: «Perché se Dio ve xe, mi calcolo che assai el se rabia e se no 'l ve xe, ve xe fià butà via». — Questo diseva Terdoslàvich? — No: questo diseva Petrànich, ve go dito giusto per dir. El Comandante Terdoslàvich diseva che sul «Thalia» no doveva esser né malagrazie né male parole. Insoma che no i ne fazzi osservazion. Ben, me ricordo, partimo de Trieste col «Thalia», andavimo a Candia — no ve digo che passegeri che gavevimo a bordo — e in salon de Prima i gaveva apena servì el brodo coi sàndvich come che se usava sul Lloyd Austriaco, co' capita in coverta un dele Generali, un grando, un Diretor, i me ga dito che el iera ... el capita in coverta cola moglie e iera tempo missià. Savé, quando che de meza matina fa quel poco de vento fredo de tramontana come, che pò no xe gnanche tramontana, perchè dopo gira? E nuvolo iera. — Iera bruto tempo? — No iera bruto tempo, ma minaciava. Pò caminavimo per el Canal de Mezo e se vedeva el Vélebit incapelà, che quel no se capissi mai coss' che fa. E, me ricordo come ieri, inzenocià sora de un tambùcio iera el mistro Bogdànovich che cambiava una vida spanada. E 'sto passeger cola moglie, i vardava tuto in giro. In spolverin i iera tuti dò. E lui ghe se fa vizin al mistro Bogdànovich e el ghe domanda: «Come semo con 'sto tempo, omo? Tornerà bel?» «Aah — ghe disi Bogdànovich, disvidando 'sta vida spanada — questo ve xe tempo ciavado». — No capisso. — Anche 'sto qua in un primo momento no gaveva capido, ma co 'l ga capido el xe andado drito su del Comandante Terdoslàvich, che iera sul ponte che el vardava col canocial, e el ghe disi che lui non avrebbe mai pensato che su di un vapore del Lloyd Austriaco, un semplice maritimo podessi esprimersi in 'sta maniera, in presenza poi di una signora. — El se gaveva rabià? — Assai. Lui se gaveva inofeso, propio. Gente no abituada. E el Comandante Terdoslàvich disi: «Chi, come, cosa? Signora, non ho parole. Io no posso creder, ma se lei dice, faremo subito, con la massima severità», che gli par fina impossibile, perché lui da tanti ani con questo equipagio, mai una mala parola. Insoma el ghe domanda chi che iera e coss' che el ga dito. Che iera un toco de omo che invidava una vida. Alora che xe el mistro Bogdànovich. Ma cossa che veramente el ga dito. Che lui non può ripetere. Ma no, che ripeta pure cola massima libertà, che la gentile Signora si volti un momentin, perché lui deve rendersi conto. — E lui ghe ga dito? — Sicuro el ghe ga riferido: che lu ghe gaveva domandà al mistro Bogdànovich che tempo che xe, se tornerà bel e che 'sto maritimo ghe gaveva risposto «Questo ve xe tempo ciavado». «Tempo ciavado! — ziga el Comandante Terdoslàvich — Cossa tempo ciavado? Quel mona de Bogdànovich parla col cul e no capissi un kùraz: tempo meza ora sbonazza». MALDOBRIA XLVI - LA VECCHIA DEI PILLEPICH Nella quale Bortolo narra, come già era uso fare nei saloni di prima classe su invito dei Comandanti Dùndora e Brazzànovich, la straordinaria storia dell'esempio di vivere insieme fornito dalla famiglia del nostromo Pillepich, dapprima a Fiume e poi a Loparo. — Siora Nina, scoltéme a mi che no son solo persona in età, ma son vecio per bon: che vostro fio cola sposa no staghi andar a star coi veci de ela. Perché mi go esperienza. Savé come che se disi: ghe volerìa esser prima veci e pò giovini per goderse la vita. Inveze cussì, come che xe messe le robe, ogni ano passa el meo. — Cossa ghe entra. Lori dò xe giovini e i ga el meo davanti. — No steghe farghe far quel sbaglio, siora Nina. Perché tra marì e moglie, tante robe se se disi e tante robe se se dismentiga, ma co' se ga testimoni davanti, tuto diventa grando, tuto diventa tremendo. — E cossa se ga de far d'altra parte? Adesso i ga spese. Cussì i se compra solo la camera de leto, logo in casa xe, i veci dormi su, lori dormirà zò, savé, vizin el tinelo, dove che adesso i tien i remi del caìcio, la rede, la fòssina. Insoma là dove che xe ... — ... magazen. Conosso, conosso. — Ma xe vignù belissimo: tuto piturà. — Sì, sì: gavé cambià el magazen in camera de leto, ma i veci, credéme a mi no li cambieré. Savé come che se disi: «I veci no se li cambia». Pensé a mi, presempio, che ala mia verde età, go ancora per casa la madre de mia moglie. Perché gavemo comincià anche noi cussì, savé: Per el momento, gavemo dito, finché finissi la guera — parlo dela prima guera — per el momento, se aloghémo soto el portigo, dove che i tigniva i remi del caìcio, se femo la camera de leto. E semo ancora là. E la vecia, savé, no xe miga come le vece de una volta. — Uh, la xe assai vecia, perché me ricordo che mi, quando che ela ... — Indiferente. Diséghe a ela che la xe vecia. Ela ve rispondi: «Mi no son vecia, mi son siora Marieta». E la va per novantadò. Ma la xe giovinota: ela ga la sua Messa, le sue ciàcole cole sue babe, television, che po' la pica davanti l'aparato e bisogna strassinarla in leto. Qualche volta me par fin la storia dela vecia dei Pillepich. — La vecia dei Pillepich? No conossevo. — Vù volé conosser tuti. 'Sta qua no podevi conosser, perché 'sta qua iera zà vecia dei Pillepich, co' mi iero giovine. E vardé che el Comandante Brazzanovich propio, e el Comandante Dùndora anche, i me ciamava in salon de prima classe a contarghela ai passegeri, dopo zena, che iera savé, quela volta, quei «dinner» famosi a bordo. — Ieri a bordo con 'sto Pillepich? — Cossa ghe entra. Iera la storia del nostroomo Pillepich, che mi contavo. El nostroomo Pillepich iera de Arbe, anzi no propio de Arbe: de Loparo, che xe drio de Arbe. — Eh, Arbe xe bel de istà, per i fioi. — Ma el nostroomo Pillepich no iera de Arbe, iera de Loparo e no 'l gaveva fioi: el stava solo cola moglie e cola vecia. — Che sarìa stada 'sta vecia dei Pillepich? — Sicuro. Lori de Arbe, che i stava prima, i iera vignudi a star a Fiume, perché ghe iera più comodo. Lui navigava prima co l'IstriaTrieste e po' cola Fiumana di Navigazione. I gaveva quartier a Fiume e sempre cola vecia i stava. Iera tre camere: una per lori, un tinelo e una per la vecia e pò i gaveva una belissima cusina che dava propio sul davanti, 'ssai bela. E la vecia iera con lori sempre: co' lui iera in tera, se i andava in qualche logo, sempre la vecia drio. Pensé, per esempio, che una volta i xe andai a Postumia e ela ga vossù a tuti i pati andar a Postumia con lori. — A Postumia bisogna star atenti co' se va drento, perché xe un fredo! Magari fora xe sofigo... — Cossa ghe entra el sofigo. Mi ve stago contando la storia del nostroomo Pillepich. 'Sta vecia, bisogna dir, ghe iera anche un fià de compagnia. Savé, no gavendo fioi — quel lori ga avù sempre un cruzio de no gaver fioi — e pò co' el nostroomo Pillepich navigava, ela stava con ela: xe sempre ben gaver una persona in casa. Lui magari qualche volta rugnava, per el vin, per tuto: ma in tanti e tanti ani, oramai el se gaveva abituà. — Ma 'sto Pillepich navigava sempre? — Sempre navigà: lui xe andado via con pension piena, el iera nostroomo de machina, savé, che iera qualcossa in quei tempi. Ve go dito che lui ga fato i ultimi sui viagi cola Fiumana di Navigazione. E co' el xe 'ndà in pension, coi ani de guera che i ghe contava el dopio, lui iera propio un signoreto. Anzi Barba Nane me diseva sempre: «Vardé el nostroomo Pillepich che xe andà in pension con tute le sue spetanze. Altro che vù, che i ve caverà la matricola!» — Ma el iera vecio 'sto nostroomo Pillepich? — No, no vecio, oh Dio un omo in età, ma lui gaveva comincià a navigar de ragazeto propio. E alora el ghe ga dito ala moglie: «Marìci, sa cossa che femo adesso? Noi se ciapemo su e tornemo in Arbe». Anzi a Loparo, perché lori no iera propio de Arbe. «Coss' ti vol, Marìci, mi son stufo de navigar, de pericolar per mar... là noi gavemo la nostra casa, el nostro orto, el caìcio: se la passemo, mi e ti, tuti insieme». — Alora i xe andai tuti in Arbe cola vecia? — A Loparo, cola vecia sì. I gaveva una bela caseta a Loparo, una bela cusina e cussì i xe stai là. Ma savé come che xe el maritimo: el maritimo ghe par che quando lui sarà in tera, lui farà, lui se riposerà, che el se la passerà, pescar quel e quel altro. Inveze mi ghe ne go visti tanti: i maritimi co' i xe in tera, in pension, i xe come persi. — Eh, anche mio padre defonto, me ricordo: el se remenava per casa, in local, dopo i se impigrissi, i perdi la voia. — Sicuro. Difati, gnanche un ano no i iera ancora in Arbe ... — A Loparo. — Sì, sì, a Loparo, insoma. Gnanche un ano no i iera là, che 'sto nostroomo Pillepich ghe disi ala moglie: «Senti, Marìci, mi assai bramassi de far un viagio adesso». «Cossa, Pillepich, la ghe disi ela — perché savé qualcheduna ga quel uso de ciamar el marì per cognome — cossa Pillepich, ti vol tornar a navigar?» «No, Marìci», ghe disi lui. — Lui, Pillepich? — Lu. «No, Marìci — el ghe disi lu — mi volessi far propio un viagio, mi con ti. Ma varda, volessi, dopo trenta ani che semo sposadi, che andassimo mi e ti, nualtri dò, propio soli. Ne femo un bel viagio fin ale Boche de Cataro, Marìci, mi e ti. Ma stavolta senza tua madre ...» E ela ghe disi: «Pillepich, mia madre? Ma mi go sempre credesto che fussi tua madre!» — La vecia, sì. Perché lui gaveva sempre calcolà che la fussi de ela, e ela gaveva sempre credesto che la fussi de lu. Siora Nina, quando che mi contavo 'sta storia nei saloni de Prima, iera el Comandante Dùndora, cole lagrime, rosso de rider, che pareva che ghe vignissi un insulto ... — E xe vivi ancora 'sti Pillepich? — No, i Pillepich no, poveri. Xe viva la vecia. A Loparo. La ga una belissima cusina, che dà sul davanti. MALDOBRIA XLVII - RAUCHEN VERBOTEN Nella quale Bortolo si reca nel porto di Amburgo, una volta tanto viaggiando per ferrovia, assieme al Comandante Nacìnovich, del quale illustra le qualità di grande fumatore e l'imperturbabilità del carattere. — Fazile dir no fumar più. Ma al omo in età, pò cossa ghe resta? Conossevi el Comandante Nacìnovich? — Quel de Veglia? — No so se el iera de Veglia. Mi savevo che el iera dalmato. Lui iera un de quei fumadori che i ultimi ani i dotori ghe diseva: «No sté più fumar, no sté fumar tanto». E lu: «Cari signori dotori e professori, l'albero vecio no se lo indrizza. Cossa volé? Vecio son, vecia me xe la moglie, el vin de Lissa no xe più quel, cavème el mio zigaro e spedime in ziel. Me ga dito anche el professor Deste, de Trieste che cavare il fumo al fumatore abitudinario é più male che bene, perché l'uomo si avvilisse e non é più gnente di lui». — Eh, xe vero questo. Anche mio padre defonto ... — Indiferente. Mi go navigado più de dò ani col Comandante Nacìnovich. Pensé che la «Libera» gaveva comprà una volta una barca germanica in Amburgo, e i gaveva mandado el Comandante Nacìnovich e mi, come mistro, a rilevarla ... — In Amburgo? — Sicuro. Bela città, Amburgo, savé. Città germanica: là xe lavori. Me ricordo, iera barche in rada che gnanche no se le contava. Insoma dovevimo andar a rilevar, tuto spesati, 'sto vapor, el «Salona» che se ga ciamà dopo, prima el se ciamava per tedesco altrimenti. E i tedeschi, dopo 'sta ultima guera, lo ga afondà propio qua, in Dalmazia. Penséve coss' che vol dir el destin, qualche volta. — In Dalmazia, sé andai? — Ma no, siora Nina, se ve go spiegà: dovevimo andar a rilevar 'sta barca in Amburgo. — Cola barca? — Ma no, cola barca, siora Nina. Cola barca, in Amburgo, no se riva mai, bisogna andar fora de Gibiltera, su per el Nord, passar la Manica, e dopo xe ancora un bel toco. Col treno semo 'ndai; col treno se riva in un momento. Un momento, per modo de dir, perchè se fa Trieste, Villaco, Salisburgo, Monaco, Lipsia, Amburgo, me ricordo, bel viagio ... — Eh, el treno xe comodo. Perché mi, presempio, in coriera, con rispeto ... — Indiferente. Insoma, semo a Trieste, là 'sto Nacìnovich gaveva amici, patrioti, comandanti, nostriomini. Savé Piazza dela Stazion a Trieste? — Dove che xe el giardin dela Stazion? — Sicuro che in Piazza Stazion xe el giardin dela Stazion. Volevo solo dirve che là, sul canton, iera un local. Savé gnente de tale, ma se magnava assai ben: picio logo. I ghe ciamava El Cassetin, perché iera longo e streto. El Comandante Nacìnovich me disi: «Bortolo, ieri mai al Cassetin? Vigni a magnar, Bortolo, con mi, al Cassetin, perchè là ve xe tuto al bacio». E el fazeva cussì de moto col dito sula ganassa, me par de vederlo, come che usa i maritimi... — Eh sì, mio padre defonto sempre usava far cussì. — Insoma gavemo magnà, bevù ben: jota, me ricordo, gòlas, con gnochi de pan e panzeta. Dio, Dio: ierimo mi, el Comandante Nacìnovieh, el nostroomo Pillepich, el Comandante Dùndora, che quela volta iera Terzo Uficial, pensé, e el iera apena rivado de Nort America. — Dùndora, el Comandante? — Sì, ma quela volta el iera Terzo Uficial. Insoma el vigniva de Nort America cola «Marta Wassington» e lu saveva che a Nacìnovieh ghe piaseva fumar zigari e ala fin del pranzo el tira fora un zigaro, come un oracolo. E el ghe disi, el ghe fa: «Capitano, questo ve xe Avana, Avana vero». E Nacìnovich ghe disi: «Déme qua che vardo». El lo discarta, el lo nasa, con religion propio — eh, saver fumar xe una granda roba — e el disi: «Grazie, Dùndora, 'sto qua xe propio Avana dolze, gavé ragion, questo xe conzà con miei, questo me lo impizzo in treno, pacifico, e me lo fumo, mi digo, fin Ponteba almanco». Insoma i ne compagna tuti in Stazion. — A far el bilieto? — I bilieti gaveva zà fato el Comandante Nacìnovich el giorno avanti. Lui iera un de quei omini, savé, precisi, mai le robe al ultimo momento. Insoma xe pronto el treno, iera carozza direta fin Monaco quela volta. Se metemo in vagon. El fachin el ga ciamà, perché el ga dito «dopo magnà fa mal portar pesi». Un bel scompartimento de seconda classe, tuto spesati dela «Libera» ierimo. Iera un bel navigar, savé, cola Libera, e ne se sentemo. Iera solo una persona. Insoma tuto pulito. Parti el treno. Saluti. Dùndora e Pillepich che ne sventolava el fazzoleto. «Bon viagio» ... «Bona permanenza» — ghe disi Nacìnovich ... — Se usava, sì, una volta, dir «bona permanenza». — Partimo. El Comandante Nacìnovich tira fora el suo zigaro, el ghe fa ben el buso cola britola, el lo impizza, prima pian pian pian che tiri ben, che no scorli la zenere, e in quela, propio co 'l comincia a fumar, 'sto qua che iera sentà visavì de noi el disi che xe un scompartimento de non fumatori. «Sì, se nissun fuma — ghe disi el Comandante Nacìnovich calmo, savé con quela fiacheta che ga i dalmati — ma se un fuma, alora xe un altro discorso». 'Sto qua pareva che gavessi magnà pévere, perché el disi: «Come?» Che é un scompartimento di non fumatori — e el ghe mostra la tabela de «Rauchen verboten» — che pò propio el zigaro che impesta tuto, che qua, là, una roba e l'altra. — I ga fato barufa? — No. El Comandante iera calmissimo. «Omo — el ghe disi — andé a far un giro intorno al sol, se no ve comoda. Che a mi osservazion no me ga mai fato nissun. Se ve dà fastidio, andé fora. Mi no me alzo, perché mi in pie, come i cavai, no fumo. Posto no cambio perché qua go valise e tuto. Quindi dè pase, omo». 'Sto qua, ciàpilo, lighilo, che lu ciama el controlor. E el Comandante Nacìnovich, sempre calmo: «Ciamé, ciamé omo, ciamé chi che volé, ciamé anche una bira se ve comoda. Ma mi 'sto Avana, che xe un Avana Avana, no lo distudo, perché zigaro distudà xe zigaro ciavà. Perché no volé dar pase, omo?» — E 'sto qua? — E 'sto qua, giusto in quela che passava el controlor, el lo ciama dentro, e el ghe disi: «Controllore ...». Insoma, che el ga un reclamo de far. «Momento — disi el Comandante Nacìnovich — Momento. Momento, omo. Vardite a ti e po' parlerai de mi». «Controllore — ghe disi el Comandante — Controllore, questo passeggero viagia in Seconda classe con bilieto di Terza». E el controlor disi: «Prego, favorite il biglietto!» — Al Comandante? — No. A 'sto altro. E 'sto qua tira fora el bilieto e el ghe lo mostra: Terza classe! Insoma, no ve digo. El ga dovù ben che ciaparse su le sue strazze e cucio cucio 'ndar via, ancora quasi che ghe tocava pagar la multa! E el Comandante sera la porta, tira le tende: «Oh, finalmente che se fuma in pase!» E mi ghe digo: «Ma Comandante, come gavé fato a saver che 'sto rompicoioni gaveva bilieto de Terza?» «Eeh — el me disi — ghe go visto el bilieto co 'l lo ga messo in scarsela. Iera un bilieto color rosa. Rosa, come i nostri, Bortolo.» Ierimo completamente spesai dela «Libera» in Seconda classe. MALDOBRIA XLVIII - IL MIRACOLO DI SAN GIROLAMO Nella quale Bortolo racconta la complessa vicenda di una sacra immagine, dipinta a Lesina, venduta a Fiume, trasferita con l'inganno a Nuova York e poi restituita finalmente ai luoghi del suo culto originario. — 'Sti foresti che vien qua, sior Bortolo, se fa de tute le voie. Pensé che in sufita nualtri gavevimo un quadro, propio in pitura, savé, fato a man, che se vedi una scuna col fortunal. Ani anorum che el iera là che gnanche no bazilavimo e adesso che gavemo netà la sufita ghe lo gavemo impicà in camera de lori, e lori me ga fato capir, come, che se mi ghe lo cedessi, lori anche lo comprassi. Cossa credè, sior Bortolo, che se pol ciapar assai per una pitura propio fata a man? Ga anche la sua sfasa, savé. — Oh Dio, siora Nina: fato a man xe una roba e 'ste robe che i fa adesso xe un'altra. Mi, in vù, starìo atenta, perché un quadro no se sa mai coss' che pol esser: pol esser 'ssai e pol esser gnente e se xe gnente no xe gnente, ma se xe assai, xe assai. — Disé che xe assai? — Mi no go dito gnente, go dito che pol esser gnente e pol esser assai. L'avocato Miagòstovich, presempio, gaveva in pitura suo nono, e gnanche somigliante — perché mi lo conossevo, el gaveva tuto un'altra espression — eben i diseva che quel iera un valor. — Questa xe una scuna, col fortunal. — Indiferente coss' che xe, importante xe se xe o no xe. No so se me intendé: mi go conossù pitori, savé, perché de giovinoto co' spetavo el numero a Fiume più de una volta son 'ndà in scola de nudo. — Come, de nudo? — De nudo, sì. Perché una volta i pitori no iera miga come adesso, una volta i pitori doveva saver tuto come disegnar: per esempio la mano umana, opur tuti i muscoli dela pùpola; savé quanti muscoli che ga la pùpola? Eco: quei iera pitori che saveva e mi andavo in 'sta scola de nudo come modelo, giovinoto che iero, in tera, almeno de gaver per i spagnoleti. Che anzi Barba Nane me diseva sempre: «Ma cossa andé a far el sporcacion? Prima i ve diniegherà la fede dei boni costumi e po' in Governo Maritimo i ve caverà la matricola». — Eh, Barba Nane iera assai de cesa... — Ma cossa ghe entra questo? Iera 'sta scola de pitura de nudo, no? Che iera a Fiume e là mi gavevo incontrado quel Superina. — Nudo? — Maché nudo! Iera un pitor, pitor academico, dài. El iera assai nominà, in Abazia lo conosseva tuti. E prima dela guera i lo gaveva ciamà fin a Budapest a piturar la Canotiera «Duna», che «Duna» sarìa stà el Danubio. Se vedeva 'sti canotieri con tuti 'sti muscoli: ve disevo mi che quela volta i pitori doveva saver far ben fin la pùpola con tuti i nervi. — Ma in questo mio se vedi solo la scuna, no xe omini... — Indiferente. 'Sto Superina stava in Abazia, lui gaveva piturà tuti: Horthy, l'Amiraglio Horthy, che iera Grande Amiraglio Austroungarico, el vecio Cosulich in bareta de marina, e po' Danunzio, anche. Che anzi Danunzio ghe gaveva regalà una fotografia con soto scrito: «A Superina insuperato, ad sùpera!» Con punto amirativo. Per latin doveva esser e firmato «Gabriél», che sarìa stà Gabriele Danunzio. — Danunzio, quel che scriveva? — No quel che sonava la Manon. Danunzio pò, quel che iera a Fiume, che ga fato tuto quel desìo. Insoma una volta, con 'sto Superina me ga tocà un truco che no ve digo. Dovè saver che mi, in quei ani, subito dopo la prima guera fazevo la linia del NortAmerica, cola Cosulich. Iero camerier de gabina de Prima Classe e a Fiume, fin che spetavo el numero, me rangiavo. Savé iera de spetar, perché iero in turno general. — Andavi in scola de nudo? — Ma no. Iera passà ani zà: quela volta fazevo inveze barche in butilia che ghe vendevo a un che gaveva in Corso, poco prima de Braida, una botega de antichità, come. Iera una bela botega, i vendeva un poco de tuto: careghe vece, comò, quadri, vedute e vigniva 'sti foresti a comprar. E i comprava anche 'ste barche in fiasca che fazevo mi. E un giorno, come che mi vado drento, no ve lo vedo ... — Chi? — Speté, no. No ve lo vedo quel american che mi iero stado propio camerier suo de gabina, passeger de Prima Classe, passegeron? Insoma feste, una roba e l'altra, che el vien 'pena de Dalmazia, che bela che xe la Dalmazia, che el gaveva sentì, ma che no 'l gavessi mai credesto che in Dalmazia fussi cussì bel. — Ghe piaseva la Dalmazia? — A chi no ghe piaseva, siora Nina? Quela volta no iera miga come adesso che i vien a vagoni 'sti turisti tedeschi, quela volta in Dalmazia vegniva 'sti americani, 'sti inglesi, 'sti francesi, foresti de polso, savé, gente che gaveva facoltà. Perché in alora la Dalmazia iera la più bela costa del mondo. Me ricordo sempre che a bordo el Comandante Bolmàrcich ghe diseva in salon de Prima Classe ai passegeri: «La Dalmazia, miei cari signori, è la meglio costa dell'umanità. E questo digo no perché io sono dàlmato, ma perché è la pura verità. Io come Comandante maritimo ho navigato per tuto il mondo e anche la California e San Diego che dicono tanto, in confronto dela Dalmazia può andarsi scondere. Solo la costa dele Filipine, rente Manila, si potrebe parlare. Ma, primo: è massa lontano; secondo: è abitata da popolazioni feroci». Cussì el diseva. Vedé vù coss' che no iera la Dalmazia. — 'Sto american parlava cussì? — Ma no 'sto american. Cussì parlava el Comandante Bolmàrcich che iera un dalmato de Almissa. 'Sto american iera apena tornà dela Dalmazia e mi lo gavevo intivà in 'sta botega de antichità che el vardava un quadro. — De Dalmazia? — Sicuro, come savé? Iera propio un quadro che quel dela botega diseva che lu gaveva trovà a Lesina e che iera un San Girolamo. — Un quadro de cesa? — No so se iera de cesa, fato sta che se vedeva San Girolamo, Dotor dela Cesa, el Santo più grando che xe in Dalmazia. Se vedeva 'sto San Girolamo coi libri e coi leoni tuto intorno cufolai, boni, savé, come cristiani. E soto iera scrito per latin «Parce mihi Domine quia dalmata sum». — Come «Parce mihi Domine?» «Parce Domine, parce populo tuo», xe. — Ma cossa volé saver vù coss' che xe, e coss' che no xe! Là iera scrito cussì, che vol dir che co' un xe dalmato, Dio ghe perdona. «Parce Domine, quia dalmata sum» — diseva sempre anche el Comandante Bolmàrcich co' el iera imbriago. San Girolamo gaveva dito, prima de morir. — Ma no gavé dito che diseva el Comandante Bolmàrcich? — Sì: el Comandante Bolmàrcich diseva, perché gaveva dito San Girolamo. — Ahn! — E cussì co' mi go visto 'sto quadro ghe go dito a 'sto american: «Questo ve xe sicuro San Girolamo, perché ve xe scrito propio soto quel che diseva sempre el Comandante Bolmàrcich». — Co' el iera imbriago? — Indiferente. 'Sto american se gaveva inamorà in 'sto quadro e mi fa mi dice che se me par che sia caro quel che i ghe domanda. No me ricordo gnanca quanto, ma assai iera. Quel dela botega disi che xe caro, ma che xe Scuola de un Veronese, cossa so mi, che pò el xe stà trovà propio a Lesina, autentico. Insoma mi, per farvela curta, ghe digo a 'sto american che xe meio che ciamemo Superina, che lui xe pitor vero. — Per far un compagno? — Ma no per far un compagno. Per saver se 'sto quadro xe un valor, se xe antico, se merita spender, visto anche che ghe mancava la sfasa. Cussì son andà a ciamar Superina, lui vien là e disi che sì, che xe un valor, che xe antico, che merita. Insoma el lo ga comprà. — Superina lo ga comprà? — Ma no, l'american. E soldoni el ghe ga dado. Superina, anzi, ghe ga dito: «Orpo, però ve sarà ràdighi portarcelo in America, perché la Dogana roba antica no lassa, ghe ga inibì le Bele Arti.» — No i lassava portar fora de Punto Franco? — No fora, drento del Punto Franco no i lassava. Perché una volta che vù sé in Punto Franco, podé andar dove che ve comoda, liberamente. «Certo — ghe disi Superina — che si potrebe...» Come che si potrebe? Che si potrebe piturare sopra del San Girolamo un altro quadro, moderno: roba moderna i lassava portar fora. Pò, el ghe ga spiegà, co' el quadro xe in America, cola trementina se lava via la pitura nova e torna fora el vecio. — Orpo, che truco! E 'sto Superina ga piturà sul quadro vecio un quadro novo? — Sicuro! I se ga messo subito dacordo. Quela volta iera assai de moda Danunzio — iera del Vintiùn — e Superina saveva farlo in dò e dò quatro, somigliante che no ve digo. El lo ga fato propio ben, cola testa spelada e el capel de alpin. E scrito tuto atorno: «Hich manebimus ottime» che propio Danunzio gaveva dito. Messo in sfasa e via. — Via in America? — Speté. Iera tuto concertado: co' me xe vignù el turno, la «Marta Wassington» me ga tocà, go portà 'sto Danunzio drento del Punto Franco e savé coss' che go fato? Me lo son impicà in gabina come quadro. Che anzi Marco Mitis me ga domandà: «De quando in qua te son becà de Danunzio?» E cussì son rivà franco a Névjork e ghe lo go portà al american che iera zà partido un viagio prima. — Ah, lu ve spetava? — Come no, come la mana el me spetava. Semo andadi de un de questi che netava quadri a Névjork e 'sto qua se ga messo subito col bombaso e trementina a cavar via Danunzio, che me fazeva fina pecà, perché el iera vignù somigliante che no ve digo. — E xe vignù fora San Girolamo? — Sì, ma co' el xe tornado fora el ga scuminzià come a smoiarse e 'sto omo ghe disi, che soto doveva esser un quadro ancora più vecio. — Mama mia! E alora? — E alora el ga scuminzià de novo a lavar via pian pian in un canton. Un'ora e meza el xe andà avanti, fin che no 'l lo ga lavà tuto. E savé coss' che iera soto? — Cossa iera soto? — Siora Nina, Francesco Giuseppe in montura ungarese iera soto. Somigliantissimo, più ancora che Danunzio. — E «Parce Domine»? — Cossa «Parce Domine»? Parce Domine iera andà via. Se vedeva scrito de soto: «In Ricordo dell'Augusta Visita a Lesina Fedelissima». — E l'american? — L'american ga ciapà l'impirada, siora Nina. Rabioso come un can. El ga becà 'sto Franz Josef e el me ga dito: «Tièntelo!» — E lo gavé tignù vù? — Come no, lo go ancora. Più de una volta in 'sti ani ghe go anche impizzà el lumin de soto. — Ma perché, se no iera più San Girolamo? — Perché co' un xe dalmato, Dio ghe perdona! MALDOBRIA XLIX - IL MILIONE Nella quale Bortolo racconta la favolosa storia di Niccolò, settimo dei sette fratelli Nìcolich, una famiglia di Lussin, la somma delle cui fortune fu pari a quella delle multiformi capacità dei suoi membri. — A chi che ga testa, siora Nina, no ghe manca capel: vardé per esempio i Nìcolich, sete fradei. Dopo, quando che i ga avù barca, la se ciamava «Sei Fratelli», perché un iera morto ancora ragazeto, de rissipola. E iera assai diferenza tra el più vecio e el più giovine. Perché Jàcomo Nìcolich ghe gavessi podù esser padre a Nicolò. E tuti bravi, anche le sorele, bisogna dir. interessosi ma bravi. — Ma anche 'ssai fortuna i ga avudo. — Oh dio, fortuna no ghe ga mancado. I diseva sì che Jàcomo gaveva l'osso de morto in scarsela, ma però anche bravi. E navigar e strussiar e far. E, persa una barca, subito far un'altra, anche quela volta che el povero Antonio ga perso la vita. — Eh, el povero Antonio, me contava mio padre defonto, el iera restà soto la randa e no 'l ga rivà a vignir fora con quel mar. — Indiferente. Bravi. E dacordo sempre. I se gaverà iutado anche qualcossa cola Sicurtà, ma quel chi no ga fato? Giovanin i diseva che iera lu la vera testa dela faméa, però Jàcomo tigniva la barca drita, lui guardava anche el soldo. Senza Jàcomo no i gaverìa fato gnente. Ma el più sveio iera Nicolò. Se pol dir che el iera giovinoto, quela volta del milion. — El gaveva un milion? — I gaveva sì milioni lori. E tanti. Solo in case coss'che no i gaveva: a Lussin, a Fiume e meza Cherso iera diventada sua pò co' iera falido el vecio Mòise. Basta che pensé i fioi e i nevodi che i ga avudo e tuti che vivi ancora ben, in tuto el mondo. Ma quela volta del milion, Nicolò no podeva aver più de vinti ani, perché el gaveva apena finido le Nautiche. — I ghe gaveva dà un milion perché el gaveva finido le Nautiche? — Siora Nina, cossa, strambizémo? In alora, con un milion de corone se comprava tute le Nautiche e le Popolari de Lussin! El milion, lui doveva andarlo a cior. Speté che ve conto, no. Lui doveva andar a cior 'sto milion a Trieste, perché lori zà gaveva in a mente de far un vapor de fero. Quela volta, pensève! Che anzi tuti diseva: «'Sto colpo me par che i Nicolich fa el passo più longo dela gamba». «Bori in man, cul per tera — ga dito Jàcomo — visto che gavemo avudo el fido, xe meo che la disponibilità la gavemo qua a Lussin, sotoman, Dio guardi una guera, un qualcossa.» Perché zà iera missiamenti in Macedonia. — E lui doveva andar in Macedonia? — Sì, a comprar spagnoleti! Maché Macedonia! Lui doveva andar a Trieste ala Banca Union a incassar 'sto milion e portarlo a Lussin. Perché Jàcomo, chi lo cavava del suo scritorio? Giusepe quel periodo iera in America. E le sorele, i cognadi e la madre che ghe iera ancora viva, i ga dito: «Xe meo che vadi el più giovine, che se osserva meno». Lori tuto pensava, siora Nina. — Ah, iera sposade le sorele? — Come no. Coi due fioi del vecio Bùnicich. Lori iera tuti imparentadi. Insoma lui ariva a Trieste col vapor de Lussin, el va in 'sta Banca Union, el se presenta cola letera de fido, l'incassa 'sto milion — el gaveva portà con sé una de quele borse a folo che usava una volta i dotori — e el va a veder al molo quando che el vapor el ghe partiva de novo per tornar a Lussin. — Ah, el tornava subito? — Per forza, cossa volevi girar con un milion de corone per le locande? Tornar, tornar subito, ghe gaveva dito Jàcomo: col primo vapor che te xe in giornata, no parlar con nissun, no andar in postribolo o a magnar nei locai. E i ghe gaveva dado de per con sé la merenda. Capì, con un milion in man! Un milion de corone ... Ben, volé che sia, che co' el va al molo, el vedi che iera sabo e che el vapor ghe partiva solo ale oto de sera. — Eh, no iera quela comodità de ogi... — Indiferente. Diese de matina iera. Xe una responsabilità girar con un milion in man e le banche iera solo fina mezogiorno, perché iera sabo. Soto l'Austria iera sempre sabato inglese. Dove meter 'sto milion? No 'l podeva miga andar in una paneteria e dirghe: «Per favor me tigni 'sto milion fin che torno». E là al Tergesteo quel grando palazzon che xe ancora a Trieste — là iera tuto dei afari — el vedi in un placato che propio quel giorno iera la gara de apalto per la Ferovia Meridionale che i la fazeva tuta nova. Savé iera un lavoron. — Ah i fazeva un apalto novo in stazion dela Ferovia? — Maché apalto, che privativa, siora Nina! L'apalto iera la gara per chi che fazeva i lavori de tuta la Ferata, de Trieste fin Viena. Chi fazeva per meno, quel ciapa va. — Ah, alora no convigniva? — Indiferente. Insoma chi voleva far 'sto lavor doveva depositar una cauzion come minimo de un milion de corone. E Nicolò Nìcolich pensa: «Eco, giusto ben, mi quasi qua deposito el milion come cauzion — qua el me xe sicurissimo — pò stasera, prima che me parti el vapor, digo che go cambià pensier, tiro fora el milion e torno a Lussin». — Ah, cussì el ga fato, per tignirlo là? — Sicuro. Cussì, deliberado de 'sto pensier, el se ga sentà là in Café Tergesteo, che anzi i contava — ma mi no credo che sia vero — che el ga ciamado un bicer de acqua, stecadenti e el giornal. Passa gnanche un'ora che ghe se presenta dò de lori, ben vestidi, là in Café. I ghe disi che se lui xe el signor Nicolich. Che si. Che se el xe lui che el ga dà la cauzion per i lavori dela Ferovia Meridionale. Che sì. Che, alora, una parola. Che i se comodi. E 'sti qua ghe spiega che lori anche xe in licitazion, che lori, veramente così in confidenza, i ghe disi, i sarìa zà dacordo tuti fra de lori e che l'asta iera solo prò forma, come. Zerto che adesso se anche lui vol esser in licitazion, questo li meti in una situazion nova. E che, sicome iera zà tuto fato e patuido, lori dò, anche a nome de tuti i altri i sarìa disposti de darghe in contanti, cussì brevimanu, senza scriturazion, senza récepis, un milion de corone, a pato che lui ritiri la sua oferta. — Ah quel milion che lui gaveva lassà in deposito? — No, siora Nina. Un altro milion vizin. Cossa credè, iera un lavoron la Ferovia Meridionale! Lori doveva aver zà fato la pasteta con quei dela Ferata de Viena e 'sto Nicolò Nicolich al ultimo momento senza saver, ghe iera vignudo a romper le togne. Cussì i ghe dava un milion per meterlo fora de pignata. — E lu? — Lu — lasséghe far ai Nicolich — ga intuido subito. Che sì, che no, qua là, una roba e l'altra, el ga fato un poco el difizile, ma pò el se ga ben che messo nela borsa a folo el milion de cauzion e quel altro de 'sti altri. E pò el xe ben che montado sul vapor de Lussin, terza classe, come che el iera arivà. — E se podeva far 'ste robe soto l'Austria? — Indiferente se se podeva. Lui ga fato. El torna a casa, savé la casa dei Nicolich che i gaveva là in riva a Lussin? El va in scritorio de Jàcomo, che i se gaveva trovado tuti là per spetarlo, el se senta — me contava Bùnicich, Piero Bùnicich, lui iera più franco — el se impizza el spagnoleto, cussì serio, intanto che Jàcomo contava i soldi. Novezentomila, un milion, un milion e zento — come? Un milion e mezo, dò milioni. Orpo. E i lo varda. «Nicolò — i ghe disi — come xe dò milioni, se ne doveva esser un milion solo?» «Eh — el ghe fa lui — doveva sì esser un milion, ma mi però son stado un giorno a Trieste». Che omini che gavevimo in 'ste isole, una volta! MALDOBRIA L - LA BATTAGLIA DI LISSA Nella quale Bortolo narra della rivalità che divideva l'equipaggio della «Viribus Unitis» da quello della «Santo Stefano»; e di Cuntento, suo compagno d'arme, nato a Vallon di Cherso nonché del confronto a impari forze che costui si trovò un giorno a sostenere coraggiosamente, in un'osteria della storica isola. — Vardé: mi son omo de età oramai, ma graziando Idio, stagno; e no me xe mai mancà el bicer. Vin, vin, solo che bon vin e ghe digo sempre a 'sti giovinoti: bevé vin, cossa bevé 'sti sbrodighezi! — Anche mio marì, devo dir, ghe piasi un bon bicer, magari in alegria, ma vin. — Ma sicuro, siora Nina: cossa bevi adesso la gioventù? Petesserie, con scrito su per inglese o per zirilo, ma sempre petéss xe: 'sto vischi, 'sta vodka, 'sti americani, tuto missioti che fa mal al stomigo e ai sentimenti. — Ghe digo anche a mio fio: ma cossa volé, adesso xe 'sta moda, i fa mi credo anche per darse anda, perché no pol piaser quela roba. E pò el sabo de sera, più de una volta qualchedun i ga dovesto portarlo a casa. — Siora Nina: de sera grandi leoni e, con rispeto, de matina grandi coioni. E pò gavé ragion: mi no so gnanche coss' che i ghe trova: xe forte come el diavolo e ga gusto de acido fenico. El fio de Miro, per esempio, co' el padre dà quei suoi rinfreschi dela Guardia del popolo, lui xe primo in fila davanti el banco col jazo in bicer che ghe sona la campanela, perché zà ghe trema la man, savé. — Ma percossa i meti jazo? Quel no go capì. — Per far rinfresco, siora Nina: se no ghe fa riscaldo. Ai mii tempi el jazo iera solo per el pesse de casseta. Per l'omo iera el vin, vin bon e plebeo gloria in excelsis deo, diseva sempre l'avocato Miagòstovich defonto, che lui anzi beveva più de un déo, povero. Che dopo i ga volesto dir che xe stà quel. Mi digo inveze, che co' ga de vignir, vien. Coss' che no gavemo bevù nualtri co' ierimo militari in Marina! A 'sta ora dovessimo esser tuti sototera a sburtar radicio. Inveze, vardé: mi son qua, Marco Mitis xe come un giovinoto, el cadeto Giadròssich xe cascà in stiva, ma no perché el iera imbriago, e el Comandante Prohàska, povero, per forza no 'l xe più, perché a 'sta ora el gaverìa zentoquatro, zentozinque, mi calcolo, sarìa l'omo più vecio dele vece Province. — Perché vù ieri militar de Marina? — No de aviazion, con Italo Balbo! Sicuro che iero militar de Marina, l'aviazion quela volta iera ai primi primordi. E pò cossa ghe entra l'aviazion? Iero militar de Marina Austro-Ungarica, come tuti pò de qua. E che barche che gavevimo! — De guera? — De guera, sì. El militar de Marina sta sula barca de guera. De leva ierimo: quatro ani se fazeva quela volta, miga come adesso che i va e i torna a casa che no i sa far gnanche un gropo. Iera la Viribus Unitis e la Santo Stefano: bele barche. Pecà xe stà, assai pecà... eh le torpedo xe malignaze: una bela barca granda, ani per farla, po' strussiar, lustrar otoni, tuto. Ariva una torpedo e adio che te go visto. — Ma adesso no se senti più tanto de torpedo. — Come no se senti? Mi e vù no sentimo. Ma xe, e chissà quante! Magazeni e magazeni sarà pieni magari. — E dove? — A mi i me vien contar dove! Sarà, no, in qualche logo. Pò cossa ghe entra le torpedo? Ve spiegavo che mi iero sula Viribus Unitis con Marco Mitis, el Cadeto Giàdròssich, el nostroomo Pillepich e el Comandante Prohàska. A Lissa ierimo quel istà. — In bataglia? — Maché bataglia. De leva ierimo e de istà se fazeva crociera, per farghe veder a 'sti dalmati, a 'sti regnicoli che barche che gaveva l'Austria. — I vigniva a veder? — I vigniva a veder? Co' rivavimo noi e la Santo Stefano el molo iera nero de gente. E raro iera che se podeva andar al molo, perché iera barche grosse de altura. E con nualtri iera un chersin de Valon, che no me ricordo gnanche come che el se ciamava de vero nome, perché noi lo ciamavimo Cuntento. — Come, Cuntento? — Cuntento, Cuntento. Perché lui ve iera de Valon ... savé coss' che iera Valon, una volta? Valon no iera gnente, quatro case, un per de piégore e dò caìci. E lu, cussì, de leva che el iera, el vedeva un poco de mondo. Cossa el gaveva visto lu fin a quel momento? Quatro case, un per de piégore e dò caìci. E noi magari rugnavimo un poco perché iera de far, de strussiar, de lustrar 'sti otoni ma lu inveze diseva: «Ah, mi son cuntento...» Me lo vedo ancora pozà sula porta dela gambusa col piato in man che el magnava — perché in Marina Austriaca el militar magnava in piato e no in gamela — e el diseva: «Ah, mi son cuntento». Lui, prima, capì, de Valon che el iera, cossa el gaverà magnà? Pan, un fià de formagio ... agnei, per Pasqua forsi. E cussì el diseva: «Mi son cuntento». Cuntento lo ciamavimo. — Cossa, lo ciolevi via? — No per ciorlo via. El iera sì, un poco indrio come mentalità, ma un de Valon, cossa volé più che tanto? Bevandela el iera, quel sì, perché là a Valon i ga bon vin. Aspro, come, ma bon vin. E co' el iera cussì un poco alegro, cossa che no se la passavimo con lu. Perché no 'l iera stupido: el gaveva quela mentalità, ma el iera un ridicolo, savé. Lui ne contava a tuti quela storia de quel che ghe disi a quel altro: «Se ti ti induvini come che se ciama mia moglie Caterina, mi te dago un paneto...» «Caterina la se ciama!» «Ma cossa ti son stròligo o el diàvulo te la ga contada?» Ridevimo noi, e ghe disevimo: «Conta, conta Cuntento quela del graspo.» — Quala del graspo? — Quela che contava Cuntento. Che xe quel che ghe disi a quel altro: «Se ti ti induvini coss' che mi go in 'sto zesto, te dago un graspo!» «Ah, uga ti ga!» «Ma cossa ti son stròligo o el diàvulo te la ga contada?» — Come, uga? — Uga, ùa, no: quei de Valon diseva uga. Vù dovè concepir che quei de Valon, iera là con quatro case, un per de piégore, dò caìci, gnanca strade no i gaveva, dove i se sognava strade quela volta. Vardé che 'sto Cuntento iera omo che beveva. Tuti a Valon beveva, per forza, che altri divertimenti i gaveva lori quela volta? Bon, lui beveva, ma mai che lo gabio visto pretamente imbriago. El tigniva, el tigniva. Che anzi a Lissa ne ga tocà un truco che no ve digo. — Con questo de Valon? — Speté, speté. Vol dovè saver che tra la Viribus Unitis e la Santo Stefano iera un farse la rifa, una rivalità che no ve digo. Anche perché la Santo Stefano iera più in man del ungarese. Savé Santo Stefano xe suo de lori, e Comandante iera un zerto Hubeny, ungarese tremendo. Noi inveze gavevimo el Comandante Prohàska. — Che no iera ungarese? — No, czeco, mi calcolo. A Fiume el stava, ma per de come che el vigniva mi calcolo che el iera un czeco. E alora una sera semo franchi a Lissa tuti 'sti istriani, 'sti dalmati, 'sti piranesi: perché iera tuto gente nostra. Monturati che ierimo 'ste mule de Lissa ne vardava, ah! Bele mule iera a Lissa, e a Lissa, savé per el vin, xe prima propio. Iera nominado el vin de Lissa, l'Opollo pò. E insoma, una roba, l'altra gavemo trovà de dir con questi dela Santo Stefano. — Questi ungaresi? — Che ungaresi! El Comandante, l'uficialità iera più ungaresi che altro, ma la bassa forza iera patrioti: 'sti istriani, 'sti dalmati, 'sti piranesi. E insoma iera dò grande tavolate, a Lissa in 'sto local, che iera soto l'Hotel Teghetoff, a Lissa iera tuto Teghetoff, natural. In una tavolata nualtri e in 'sta altra quei dela Santo Stefano. E co' vien drento l'osto coi doppi per noi, un de lori ziga: «Maestro — el ghe ziga al osto — maestro, andemo pian con quei doppi, perché questi ve xe dela Viribus e i ve rola anche in tera». Perché iera come una rivalità tra nualtri dela Viribus e questi dela Santo Stefano. E noi ziti, per no darghe corda. — Ahn! — E alora un altro de lori, subito, un dalmato doveva esser, el fa, ci fa ci dice, ma con bruto modo, savé: «Nualtri ve bevemo a vualtri... e la madre e el padre» ... bruto, savé, con brute maniere. — Eh, i dalmati xe barufanti! — Alora Cuntento, che nissun no gavessi mai pensà de Cuntento, el se alza in pie e con quela sua fiaca el ghe disi: «Omini, se vualtri sé con nualtri, anche nualtri semo con vualtri, ma se vualtri sé contro nualtri, anche nualtri semo contro de vualtri». Povero, lui de Valon el iera, cussì el parlava, ma el ghe la ga dita giusta. E lori, inveze a rider. E de novo cola madre, col padre: bruto. E Cuntento alora, torna a alzarse in pie con quela sua fiacheta e el ghe disi: «Se vualtri volé beverne a nualtri, mi ve digo, che mi ve bevo a tuti vualtri, e la madre e el padre lasséli a casa che no i ve ga fato gnente.» «Bravo, Cuntento!» gavemo zigado noi. Un gheto, un dirse robe che no ve digo. — Eh, xe bruto quando che i maritimi comincia a sbarufarse. — Ma no iera propio barufa barufa; iera cussì per dirse. E alora 'sto dalmato el monta in pie sula carega e el disi: «Bon, omini, de parlar tuti xe boni, che nù ve bevemo a vù e che vù ne bevé a nù: mandé qua un omo e vedemo chi che beve de più. Che nù el nostro omo lo gavemo!» E un rider, perché lori ghe pareva de aver dito chissà cossa con 'sta storia del nostro omo ... — Un nostroomo? — Ma no iera un nostroomo, iera un omo suo de lori, dela Santo Stefano. Per farvela curta, 'sto qua vien fora e se meti in pie là del banco. Iera un alto, biondo, col naso a spontièr e i oci celesti. El ciama dò doppi e chi de nu che vien a bever contro de lu... — Come? — Gara, come: chi de nualtri poderà bever più de lu. E alora noi gavemo comincià a zigar: «Cuntento! Cuntento! Va' ti, Cuntento, faghela veder ti Cuntento che ti xe de Valon!» — E chi pagava? — Indiferente, pagava chi che perdeva, chi che perdeva pagava per tuti. Insoma 'sto qua dela Santo Stefano, pian pianin se scola 'sto doppio come un oio. E Cuntento drio de lu. Altri dò doppi. E noi: «Forza Cuntento!» E 'sti altri: «Forza Filipàs!» perché 'sto qua se ciamava Filipàs, iera un de Caìsole. Rivai che xe i secondi dò doppi, 'sto Filipàs disi: «Aria!» — Aria, come? — Che adesso ghe vol ciapar aria, che lui va a ciapar un minuto de aria. E Cuntento che a lui no ghe ocori aria, che lui lo speta là. Passa gnanca mezo minuto, mi calcolo, torna 'sto Filipàs, el scola el doppio, lo scola anche Cuntento. E po': «Spagnoleto!» el disi. — Chi, Cuntento? — No, Filipàs. El va fora impizzandose el spagnoleto e el torna drento. Come novo el iera co' el ga bevudo el terzo doppio e Cuntento inveze zà un fià strambizava. Siora Nina, mi no so gnanche quanti doppi che ga bevù 'sto Filipàs. Dio, no freschissimo, ma a posto. Lui diseva: «Aria!», «Spagnoleto!», «Con decenza...» L'andava, el tornava drento e el beveva. E a un zerto punto Cuntento ga dito: «Istesso son Cuntento» e el xe cascà per tera longo disteso. Un zigo che no ve digo: gavemo dovesto pagar noi tuto. Una vergogna insoma per la Viribus, che co' ghe gavemo contado a Barba Nane el ga dito: «Mi, come el Comandante Prohàska, ve cavavo a tuti la matricola». — Ah, gavé perso? — La guera gavemo perso, siora Nina. A fondo la Santo Stefano, a fondo la Viribus, che mi iero in tera al Governo Maritimo de Pola, per fortuna. E co' i me ga dà de far la lista dei superstiti no vedo che sula Santo Stefano figurava imbarcai Giovanni Filipàs e Antonio Filipàs. Fradei, nati el stesso giorno, el stesso ano: gemei i iera. Gavé capì? 'Sti malignazi dela Santo Stefano ghe la fracava in ogni porto a tute le barche cola gara del bevi. Dò gemei iera: co' un andava fora, vigniva drento quel altro. Compagni, precisi, spudai, biondi, oci celesti, naso a spontiér, monturati tuti dò. Povero Cuntento! — Ah, dò gemei! Che truco! E i se ga salvà? — Altro che! Co' xe rivà la torpedo, lori iera in permesso in tera che i ghe fazeva el truco del bevi a quei de una barca otomana. — E i xe vivi ancora? — Come no: alti, bianchi de cavei, naso a spontiér, oci celesti. Un sta a Fiume e un sta a Trieste. Ma no sté parlar in giro, perché i ga un passaporto in dò. Indice _*_*_ Introduzione MALDOBRIA I - IL MOLO TRE MALDOBRIA PREMUDA II - DONNE NELLA VITA DI MALDOBRIA III - IL DENTE DEL GIUDIZIO MALDOBRIA IV - IL GIOCATORE DI SCACCHI MALDOBRIA V - I CANNONI DI GALIZIA MALDOBRIA VI - UN'AVVENTURA A BUDAPEST MALDOBRIA VII - WEST SIDE STORY MALDOBRIA VIII - PAVONIRICH MALDOBRIA IX - LA COMMEDIA DELL'ARTE MALDOBRIA X - LE NOTTI BIANCHE NICCOLO' MALDOBRIA XI - MAISTRO A CAPO PLANCA MALDOBRIA XII - IL SOCIO MALDOBRIA XIII - IL BAZAR DI COSTANTINOPOLI MALDOBRIA XIV - LA MEDAGLIA DELL' IMPERATORE MALDOBRIA XV - L'OSPEDALE DI LEOPOLI MALDOBRIA XVI - ROYAL NAVY MALDOBRIA XVII - LA PESA DELLA DOGANA MALDOBRIA XVIII - LA MARCIA RADETZKY MALDOBRIA XIX - LE VOCI DI DENTRO MALDOBRIA XX - IL SEGRETO DI TEGETTHOFF MALDOBRIA XXI - IL SISTEMA POLIDRUGO MALDOBRIA XXII - PINUS AUSTRIACA MALDOBRIA XXIII - LA TEMPESTA MALDOBRIA XXIV - DOTTORE IN RUSSIA MALDOBRIA XXV - IL MONUMENTO MALDOBRIA XXVI - LA BARCA IN FIASCA MALDOBRIA XXVII - L'ECO DELLA COLOMBERA MALDOBRIA XXVIII - IL CAPPOTTO DELL'ARCIDUCA MALDOBRIA XXIX - RUM BIANCO DI GIAMAICA MALDOBRIA XXX - L'UOVO, LA BESTIA E LA VIRTÙ' MALDOBRIA XXXI - IL TABACCO DI ZARA MALDOBRIA XXXII - IL GIORNO PIÙ' LUNGO MALDOBRIA XXXIII - SENZA FAMIGLIA MALDOBRIA XXXIV - IL LOTTO VOCULAT MALDOBRIA XXXV - BANDIERA GIALLA MALDOBRIA XXXVI - IL LAVANDER CHINESE MALDOBRIA XXXVII - IL CONCERTO DI SEBENICO MALDOBRIA XXXVIII - TRE UOMINI IN BARCA MALDOBRIA XXXIX - QUARANTADUE DI SCARPA MALDOBRIA LX - GLI STATI SUCCESSORI MALDOBRIA XLI - LE ANIME DEL PURGATORIO MALDOBRIA XLII - IL MEDICO DI BORDO MALDOBRIA XLIII - LA POLVERIERA DEL 97 MALDOBRIA XLIV - IL MATRIMONIO SEGRETO MALDOBRIA XLV - LA CROCIERA DEL «THALIA» MALDOBRIA XLVI - LA VECCHIA DEI PILLEPICH MALDOBRIA XLVII - RAUCHEN VERBOTEN MALDOBRIA XLVIII - IL MIRACOLO DI SAN GIROLAMO MALDOBRIA XLIX - IL MILIONE MALDOBRIA L - LA BATTAGLIA DI LISSA Created with Writer2ePub by Luca Calcinai CARPINTERI & FARAGUNA L'Austria era un paese ordinato "Andè! Ma ve racomando, no stè far maldobrìe", raccomandava la nonna di uno dei due autori di questo libro al nipote bambino. "Maldobrìa" significa "birbonata", "ribalderia". E "birbonate" o "ribalderie" sono molte delle storie narrate in questi racconti. L'Austria era un paese ordinato è un volume di una più vasta serie di "maldobrìe" che Carpinteri e Faraguna hanno scritto in prosa, in versi, per la radio, per il teatro. Le "maldobrìe" devono essere considerate sia una linea tematica dell'opera di Carpinteri e Faraguna sia un "genere" che si identifica soprattutto negli episodi narrati dal pescivendolo sior Bortolo alla divagante siora Nina, sua interlocutrice (in realtà, quelli di sior Bortolo sono dei monologhi, interrotti ogni tanto da osservazioni che quasi sempre risultano fuori tema, frutto di malintesi). Il contesto di questi racconti-episodi è quello di un'Austria "paese ordinato" e del suo governo su un territorio che si estende da Trieste al Quarnero a Fiume alla Dalmazia, con una espansione che riguarda la Mitteleuropa dall'Austria e da Vienna fino ai Carpazi, da Lussino alla Galizia; e fino a luoghi anche lontani ed esotici che venivano raggiunti dalla marineria austro-ungarica. È un mondo reale, storico e insieme e soprattutto mitico, quello evocato da Carpinteri e Faraguna, in una lingua ("un dialetto giuliano, istriano, quarnerolo e dalmata che nessuno forse ha mai parlato ma in cui tutti si possono riconoscere") articolata varia e colorita, reale e fantastica, in ogni caso originale. E anche le "maldobrìe" di questo libro si presentano come racconti pieni di verve e di trovate ingegnose, ben architettate, nei quali si mescolano e rivivono eventi della politica mondiale e della Monarchia e fatti di ogni giorno, cabine e tolde di navi, scompartimenti dell'Orient Express, interni della Hofburg e del castello di Miramare, fronti di guerra e case e strade delle isole del Quarnero, comandanti di nave nostromi e marinai della "bassa forza", avvocati ammiragli arciduchi e guardiani di fari: tutti insieme nella logorroica narrativa di sior Bortolo, talvolta in apparenza sconclusionata, in realtà guidata da una logica del ricordo esercitata negli enigmatici labirinti della memoria. Foto di copertina: Emil Mayer © Archivi Alinari Lino Carpinteri (Trieste, 1924) e Mariano Faraguna (Trieste, 1924 - 2001). Giornalisti e scrittori. Collaboratori dal 1945 del "Caleidoscopio", giornale satirico; fondatori della "Cittadella", foglio settimanale di carattere umoristico fondato nel 1947, pubblicato per molti decenni come inserto de "IL PICCOLO" del lunedì. Autori, dal 1947 al 1954, dei versi satirici su Druse Mirko, pubblicati anche in fascicoli dalle edizioni della "Cittadella" (e uri Opera omnia è del 1954). Va ricordato un singolare volumetto satirico sulla storia di Trieste, Sotto due bandiere. Tre anni di storia antipatica (Trieste, Zigiotti, 1948). Alla pubblicazione della "Cittadella" è legato anche il volume, in collaborazione con Luisella Fiumi, Scritti e discorsi de siora lei. Cosa dirà la gente (Trieste, "La Cittadella", 1954). Dalla trasmissione radiofonica locale della domenica "El Campanon" sono derivate le poesie in triestino del "nonèto" (Serbidiòla, Trieste, Editoriale Libraria, 1964), ma anche i testi delle "maldobrìe" raccolti in una serie di volumi: Le Maldobrìe, Trieste, "La Cittadella", 1966; Prima della prima guerra, ivi, 1967; L'Austria era un paese ordinato, ivi, 1969; Noi delle vecchie province, ivi, 1971; Povero nostro Franz, ivi, 1976; Viva VA., ivi, 1983. Molti volumi di Carpinteri e Faraguna sono ora ristampati dalla MGS Press di Trieste, che ha pubblicato anche (nel 1995) Cosa dirà la gente? Dalla caduta del muro di Berlino alla seconda Repubblica. Alcune opere dei due autori sono state tradotte in tedesco, altre ancora sono state pubblicate in versione italiana. Un capitolo particolare della produzione di Carpinteri e Faraguna è quello del teatro, per il quale i due autori hanno cominciato a lavorare nel 1949 con una rivista per la regìa di Nunzio Filogamo e per la Radio italiana. Hanno curato, per la scena, testi di Aristofane, Plauto, Marino Darsa, Carlo Zuckmayer. Diverse commedie sono state tratte dai volumi delle Maldobrìe. Vanno ricordate anche altre opere teatrali successive, tra le quali Due paia di calze di seta di Vienna (1986), Un biglietto di mille corone (1987), Marinaresca (1988), Sette sedie di paglia di Vienna (1990), Putei e putele (1992), Locanda Grande (1994). La Biblioteca del Piccolo TRIESTE D'AUTORE Collana a cura di Elvio Guagnini 6 CARPINTERI & FARAGUNA L'Austria era un paese ordinato Edizione speciale per Il Piccolo 1996 mgs press s.a.s su licenza temporanea della mgs press s.a.s. di trieste © 2003 EUROMEETING ITALIANA/M ED IASAT per questa edizione Stampa e legatura Cayfosa — Quebecor Barcellona ISBN 8497891139 Dep. Legale B. 390982003 Editoriale FVG SpA Divisione di Trieste Via Guido Reni 1 34123 TRIESTE Supplemento al numero odierno de II Piccolo Direttore responsabile: Alberto Statera Reg. Trib. Trieste n. 1 del 18/10/1948 II presente libro deve essere distribuito esclusivamente in abbinamento al quotidiano II Piccolo. Tutti i diritti di copyright sono riservati. Ogni violazione sarà perseguita a termini di legge. CARPINTERI & FARAGUNA L'Austria era un paese ordinato LA BIBLIOTECA DEL PICCOLO Prefazione Il sodalizio dei due scrittori e giornalisti Carpinteri e Faraguna è tra le imprese più durature e solide del secondo Novecento triestino. La vocazione della loro impresa si e indirizzata, fin dall'inizio, verso il genere umoristico e satirico. E la loro scrittura ha assunto spesso la veste di registrazione di luoghi comuni, battute, witz, sproloqui, ottiche e frasi del cosiddetto "uomo della strada' (o di quella che si pensa che sia la gente comune), per lo più stereotipe, spesso con un fondo qualunquistico e conservatore. Adesso, Carpinteri e Faraguna fanno riferimento riproducendolo e interpretandolo rendendolo anche e soprattutto nei tratti comici, ammiccando, assecondandolo nel divertimento del linguaggio ma anche avvolgendolo con un velo di ironia e di autoironia, soprattutto nella fase della produzione che va da Serbidiòla alle Maldobrie. Dopo un capitolo dedicato alla satira politica (antititoista, anticomunista, antindipendentista) svolta — attraverso il personaggio di Druse Mirko — negli anni tra il 1947 e il 1954 (e, dunque, in un periodo politicamente rovente, anche nel Territorio Libero di Trieste, di scontri e contrapposizioni politiche), Carpinteri e Faraguna hanno spostato il loro sguardo sul vecchio mondo di prima della Prima Guerra. Un mondo nel quale l'Istria, il Quarnero così come Trieste vivevano — nella cornice dell'Austria "paese ordinato"— il loro destino di sbocco sul mare della Mitteleuropa e fornivano gli scali e il personale ai traffici marittimi per le grandi rotte internazionalimeridionali e per il piccolo cabotaggio costiero. Sia le poesie di Serbidiòla recitate dal “noneto”, poesie piene di nostalgia (Cò ierimo putei) e di smaliziata ironia sul passato triestino (Che tempi che ridade), sia il primo volume delle Maldobrie, sono del 1964: ma le poesie erano testi radiofonici messi in onda negli anni Cinquanta e Sessanta; e anche Le Maldobrie nascono come testi scritti per la radio, molto seguiti dal pubblico locale, come lo sarebbero stati anche i testi per il teatro degli stessi autori. Si potrebbe quasi dire che i testi di Carpinteri e Faraguna costituiscono il versante "di consumo" per il largo pubblico, il risvolto umoristico e spettacolare — anche di colore, folclorico — di quell'attenzione alla Mitteleuropa come civiltà cultura costume, sulla quale—su un altro versante, di ricerca e di analisi — si andavano realizzando e impostando, in quegli anni, importanti indagini sul piano storiografico e critico. In questa nuova fase della ricerca di Carpinteri e Faraguna, il ricordo dei tempi passati dava luogo a una cultura della nostalgia nella quale le punte polemiche di diverso genere che avevano animato la fase precedente dei due autori, sembravano incanalarsi in una nuova direzione. Del resto, la fine di un ciclo di scontri politici e di declino del ruolo economico della città e il progredire della crisi sembravano offrire il sottofondo adeguato per l'affermazione di una ideologia e di una scrittura della nostalgia e del ricordo mitico e idillico di un passato lontano e apparentemente più felice. E il dialetto fa da supporto a questa operazione nuova e fortunata (per ciò che riguarda l'audience, si dice oggi). Un dialetto volta per volta colorito e petulante, nostalgico e mitico, in cui viene riesumato — come ha scritto Natalia Ginzburg— "un mondo in cenere, «defonto» ", atto a esprimere un clima e un 'atmosfera che possono sembrare sereni perché lontani nella memoria, viaggio nel mito e quasi rito esoreistico di altre possibili (e certamente probabili e reali) lacerazioni del presente. Questa serie di testi (i volumi delle Maldobrie sono numerosi) sono interessanti — tra l'altro — anche in quanto costituiscono un esempio di come una produzione di consumo possa essere alla fonte (e insieme manifestazione) di revival culturali, rifletta momenti di una ideologia "cittadina", "municipale", in via di svolgimento. Esempio, anche, di come una produzione di tal genere potesse venir recepita a livello editoriale e di consumo più "scelto" (l'edizione del 1968 di Serbidiòla, di Scheiwiller, recava in testa al volume la poesia inedita di Montale, La madre di Bobi B.[azlen], a ricordare che — un tempo — Trieste era stata "crocicchio o scontro di culture"). Questi testi entravano in un più vasto raggio di circolazione culturale anche sull'onda di mode e miti culturali di prestigio (le Maldobrie, scriveva Tullio Kezich, "rispecchiano il ravvicinamento avvenuto [...] fra la cultura triestina e la tradizione absburgica"). Anche L'Austria era un paese ordinato fa parte del ciclo delle "maldobrie" ; e porta un titolo che è un indice dell'atteggiamento ironicamente nostalgico e nostalgicamente ironico dei due autori. Come aveva spiegato Giorgio Bergamini introducendo il primo volume della serie, "maldobrie" sta per "birbonate" o "ribalderie". E i racconti che sior Bortolo, ora pescivendolo e " municipalizzato" ma un tempo "uomo di mare e di mondo", propone alla sua svagata e divagante cliente, siora Nina, racconta aneddoti e storie nei quali giocano un loro ruolo il caso, l'astuzia, la furberia, l'istinto di sopravvivenza, l'interesse (anche quello spicciolo), lo spirito pratico minuto di adattamento al mondo. Anche questo, come le altre "maldobrie" costituiscono quasi un decameroncino mitteleuropeo di mare e di terra che si svolge sullo sfondo del Quarnero, di Fiume, di Trieste, di Vienna, di luoghi vicini e lontani di questo palcoscenico reale e fantastico sul quale — evocati da questo narratore monologante — l'uomo di mare della "bassa forza" compare sulla scena con l'ammiraglio, col comandante in pensione, con l'Imperatore, con gli arciduchi e con vari personaggi "del sangue", cioè della dinastia absburgica. I racconti, tecnicamente, appaiono ben congegnati, a effetto, con i loro piccoli colpi di scena finali ben calibrati, realizzati in una « "lingua franca"— ha scritto Giorgio Bergamini — che gli autori hanno voluto ad un tempo istrovenetatriestina e dalmata», o — come ha scritto Giorgio Polacco — in una lingua assai personale, il" carpinterianfaragunese", che" è tutto un scintillio di trovate, vuoi sceniche, vuoi gergali, che muovono alla risata più spontanea, fresca, liberatoria". MALDOBRÌA I - La lavanda dei piedi Nella quale Bortolo, vecchio navigante esperto di tutti i mari e d'ogni tempo bello o avverso, narra a Siora Nina dal suo banco in pescheria la prima delle sue storie comprovanti che, sia pure nell'innegabile squilibrio di grandi miserie ed altrettanto grandi ricchezze e nel contesto di una concezione del mondo del tutto diversa, l'Austria era un Paese ordinato. — Orade orade, ociade ociade, sardele, sardoni, sardunìci, capesante, capelonghe, caperòzzoli. Àle àle, done, che el sol magna le ore, àle àle, siora Nina, che el le magna anca per vù. — Orpo, sior Bortolo, se no ga magnado ore el sol de quando che vù gavé cominciado a contarle. Tuti sa che vù sé quel che qua sa più de tuti, tuto de tuti. — Savé cossa che ve dirò mi, siora Nina? Che el sol magna le ore, ma mi no magno memoria. La memoria ve xe tuto co' no ve xe altro. Parlo per i altri, magari, perché mi, con tuto che ai mii ani go visto mondo, e che mondo, istesso no me dispiase de veder sti ani qua. E — aré che ve digo la sincera verità — ogigiorno el mondo xe tuto cambiado. In vinti ani se ga fato più che in dozento, mi calcolo. Una volta, le vece stava a casa a far le cuzazénere e i veci, se i restava soli, poveri, i li meteva in Ospizio Marino. Come Barba Checo, defonto che lui co' xe morto el gaveva, mi calcolo un novantaoto, novantanove. Però istesso el ga avudo la sua sodisfazion... — Novantaoto! Metessi mi la firma per rivarghe. Ma forsi anche che no. Perché dopo, co' se xe tanto veci, se xe solo che per intrigo. La madre de mio padre... — Indiferente. Barba Checo, ve disevo, quela volta andava per novantazinque, novantasie. — Ma no me gavé dito novantaoto, novantanove? — Co' el xe morto, novantaoto, novantanove. Ma quela volta che i lo ga mandado a Viena, l'andava per novantazinque, novantasie, mi calcolo. Perché, savé, no se saveva. Quela volta in Comun, dove i tigniva scriturazioni de nàssita? Solo in Cesa, nel libro dei batizi. Ma lui iera dalmato de Spalatro, ancora de soto Baiamonti, cossa volé! E co' i ghe domandava: «Barba Checo, quanti ani gavé?» «Un più dela Morte!» — el rispondeva sempre in Ospizio Marino, povero Barba Checo. — E cussì el gaveva dovesto andar a Viena? — Come cussì el gaveva dovesto andar a Viena? Lui a Viena xe andado come ultimo superstite. — De Baiamonti? — Cossa de Baiamonti? Baiamonti iera Podestà de Spalatro in antico. Quel ve xe tuto un'altra roba. Barba Checo iera ultimo superstite del «Novara» che iera andado zò in Messico a cior Massimiliano copà. — A Novara? — El «Novara», siora Nina: la barca de Massimiliano, sua de lu. Che lui iera andà zò col «Novara», come Imperator del Messico e — vedé el destin — con quela stessa barca i lo ga portà su copado. E i funerai che iera a Trieste! I me gaveva contado, savé, perché mi co' iero ragazeto, 'sta roba zà apena i contava. Ma Barba Checo, lu, iera stado propio militar de Marina de guera. I xe andadi a cior Massimiliano copà a Vera Cruz. «Vera Cruz — diseva sempre Barba Checo in Ospizio Marino — ve se ciama Vera Cruz, perché là ve xe una s'cenza dela vera Crose de Nostro Signor che tuti vien in pelegrinagio. Mi iero a Vera Cruz — el diseva — son andà a cior Massimiliano copà con el «Novara». Del Sessantasete. Pensévese che vecio che son. Che el Signor no se ricorda de ciorme. Mi ve go un ano più dela Morte. E povero Massimiliano inveze, cussì giovine. Mi lo go visto copà, cola sua bela barba spartida in mezo.» «Massimiliano, non ti fidare, resta al Castelo di Miramare», el cantava. Lui, siora Nina, se gaveva come un poco fissado su Massimiliano. — Ah, per quel i lo gaveva messo in Ospizio? — No. Vecio el iera e no el gaveva nissun che lo tendessi. Miga che el bazilassi, però, savé! Lui ve gaveva una memoria, ma una memoria che el se ricordava tuto. — Tuto cossa? —Tuto. Del viagio in Messico, de sta Camera Ardente che i gaveva fato a bordo. E de giorno e de note Ufficialità e bassa forza che montava la guardia. Che guai se se distudava una candela del catafalco. E insoma contava Barba Checo, che lui una note ghe ga tocado de tignir el zùfolo. — Che zùfolo? — El zùfolo del parato del catafalco, siora Nina. Perché i ghe gaveva fato el catafalco a bordo. Capiré: Arciduca d'Austria, Imperatore del Messico e fradelo del nostro Imperator! Insoma, a Barba Checo, una note, ghe gaveva tocà de tignir el zùfolo. Dodese zùfoli iera e un tigniva Barba Checo. — Durante la véa? — Véa? Iera sempre véa, siora Nina, fin che no el xe rivado de Vera Cruz a Trieste. E Barba Checo, profetando che in sta Camera Ardente iera impizzade solo candele — no ve digo che alegria — cola brìtola el gaveva taiado un pochi de zùfoli del zùfolo, per memoria. — Del catafalco? — Del catafalco? Per memoria de Massimiliano, che lui ghe gaveva tignudo un zùfolo. E lui gaveva messo sti zùfoli del zùfolo in una scàtula de tabaco e el li portava sempre con sé, come un oracolo. — Col tabaco? — Speté: lui gaveva sempre de per con sé due scàtule de tabaco. Una per el tabaco, che lui tabacava, natural. E quel'altra per i zùfoli del zùfolo de Massimiliano. Che anzi, quando che qualchedun andava a trovarlo in Ospizio, che el iera vecio, per portarghe, cossa so mi, dò màndole, un pochi de fighi suti, una fiasca de passito, lui diseva: «Grazie, che Dio ve rendi merito! Volé tabacar?» E el tirava fora inveze la scàtula dei zùfoli del zùfolo. «Ah, me son sbalià! — el diseva — Vecio son: go la testa per intrigo. Savé cossa che ve xe questi? Questi ve xe i zùfoli del zùfolo de Massimiliano, che iero a ciorlo copà a Vera Cruz. Vera Cruz se ciama Vera Cruz, perché là ve xe una s'cenza dela vera Crose de Nostro Signor.» E cussì avanti. Insoma ve iera una crose sto vecio, con sta storia del zùfolo. Ma bon veceto. Sempre cola bareta de montura, me lo ricordo, sentado sula bita del molìch del Ospizio Marino. — El tabacava? — Sicuro che el tabacava. Ma cossa ghe entra? Lui gaveva due scàtule e el fazeva sta pantomina per contar la storia de Vera Cruz e de Massimiliano. Insoma, dovè saver che iera del Milenovecento e Oto e iera el Giubileo de Francesco Giusepe. Sessanta ani de regno, pensévese. Giubileo del Trono. E quel ano, per Giòvedi Santo a Viena no i ga fato come i altri ani. I ga volesto propio ciamar un de ogni provincia del Impero Austro-Ungarico. — Ciamar per Giòvedi Santo un de dove? — Siora Nina Giòvedi Santo a Viena iera la Lavanda dei Piedi che fazeva l'Imperator. — Ma la Lavanda dei Piedi no fazeva el Vescovo de Ossero, che me contava mia madre? — Ma dài! La Lavanda dei Piedi per Giòvedi Santo se fa dapertuto. A Ossero gaverà fato el Vescovo de Ossero, ma a Viena fazeva l'Imperator. Perché l'Imperator Francesco Giusepe iera Maestà Apostolica. E la Lavanda dei Piedi no i ghe la gaveva fata ai Apostoli? E alora chi meio de lu, come Maestà Apostolica? Solo che, de solito, i cioleva dodese veci, i più veci del Ospizio dei Poveri de Viena. Ma quel ano che iera el Giubileo del Trono i gaveva divisado de ciamar un vecio per ogni provincia del Impero Austriaco. Veramente qua, come qua, che ierimo Margraviato d'Istria con le Isole di Veglia, Cherso e Lussino, el più vecio dei veci del Ospizio Marino, vigniva a star Pìllepich che po' ghe gavessi tocà anche come Lissa, ma povero Pìllepich no gaveva più la gamba. E alora, cossa volé, una Lavanda dei Piedi, senza gamba, gavessi fato strano. — Propio l'Imperator ghe lavava i pie a sti veci? — Oh Dio! Lavarghe i pie ai veci. Simbolico. Se capissi che prima i ghe li gaveva lavadi no so quante volte col savon. Ma, in ultimo, propio l'Imperator de sua man, nel cadin de oro. — Un cadin de oro? — De oro, de oro. L'Imperator gaveva tuto de oro. Cortei, cuciari, pironi. E insoma, visto che Pillepich no gaveva più la gamba, i gaveva decidesto de mandar Barba Checo, che iera subito el più vecio dopo de lu. E po' perché el iera anche ultimo superstite, come che ve disevo, de quei che iera andadi a cior Massimiliano copà. E cussì, quando che don Blas ga predicado in Domo che, per la nostra Diocesi, l'umiltà del Augusto Monarca, insoma che l'Imperator ghe gaverìa lavado i pie a Barba Checo, tuti xe andadi a trovarlo. Anche el Podestà, che iera l'Avocato Miagòstovich, che in Cesa no andava mai, perché el iera ateista, come. E co' el xe montado in vapor, insieme col Comandante Prohàska, vignudo apositamente de Pola per compagnarlo a Viena, come Marina de Guera, me ricordo che Barba Nane ghe ga messo in man vinti fiorini e ghe ga dito: «Bon viajo, Barba Checo, passévesela a Viena. Solo lavéve i pie prima, se no i ve manda via del Ospizio Marino.» — Eh, Barba Nane iera assai bon de cuor. Lui dava, dava. — Siora Nina, come Dio ga volesto i xe rivadi a Viena. No ve digo, no ve conto che viajo, che viagio. Zà in Governo Maritimo de Trieste i ga comincià a lavarghe i pie a 'sto povero Barba Checo. Che lui a tuti i Ufìziai el ghe diseva «Tabaché»? e po' el ghe mostrava i zùfoli del zùfolo de Massimiliano. Po' i ga tornà a lavargheli in stazion de Graz, po' al Ospizio Militar de Viena, dove che i gaveva messo insieme tuti sti veci dela Lavanda dei pie. E scarpe e calze nove i ghe ga comprà. Po' un'ora prima, in Palazzo Imperial, che se ciamava Hofburg, de novo ghe ga lavado i pie le Suore de San Vincenzo. E un dotor, penséve, un dotor, ghe ga taià le onge. — A mia madre, povera, mi sempre, co' la iera inferma... — Indiferente. Iera sto salon, ga contà el Comandante Prohàska, imenso. E tuti sti veci sentadi in poltrona, con tuto atorno Uficialità, Corpo Diplomatico, Nunzi Apostolici, fina che xe vignudo dentro l'Imperator con un che ghe tigniva el cadin de oro. E a un per un, lui ghe lavava i piedi e ghe diseva robe. — Robe de piedi? — Ma cossa, robe de piedi! 'Sti grandi drio de lui gaverà dito: «Questo è un vecchio dela Stiria» e alora l'Imperator ghe gaverà dito qualcossa dela Stiria, come che usava i Regnanti. Fina che l'ariva là de Barba Checo. Che anzi prima el Comandante Prohàska ghe gaveva portà via la scàtula dei zùfoli, per paura che no il ghe la mostri al Imperator. E insoma, contava sto Comandante Prohàska, l'Imperator inzenocià meti i pie de Barba Checo nel cadin de oro e ghe disi pian qualcossa. E sto Barba Checo, prima un poco, e dopo sempre de più, el taca a riderghe. — Al Imperator? — Sicuro. Ma rider cole lagrime ai oci, contava el Comandante Prohàska. E pensé, l'Imperator lo ga vardà de soto in suso, inzenocià che el iera e ga ridesto anche lu. Ma che se lo ga sentì propio. E Barba Checo sempre più rider. E sempre più rider l'Imperator. E sicome che rideva l'Imperator, alora ga ridesto tuti. Ufìcialità, Corpo Diplomatico, Nunzi Apostolici. Anche el Comandante Prohàska. E co' l'Imperator xe andado via col cadin de oro, tuti atorno de sto Barba Checo che ghe domandava. — Cossa i ghe domandava? — Come cossa i ghe domandava? I ghe domandava cossa che ghe ga dito l'Imperator che ghe ga fato tanto de rider quando che el ghe lavava i pie. «No so — ga dito Barba Checo — perché el parlava per todesco; mi go ridesto perché el me fazeva grìzoli sui pie.» — E po' el ghe ga domandado a tuti: «Tabaché»? E co' el se ga inacorto che no el gaveva più in scarsela la scàtula dei zùfoli el se ga messo a pianzer. Savé come che xe i veci. MALDOBRÌA II - Whisky e gloria Nella quale si narra del Comandante Bolmàrcich e della sua propensione per il whisky cui attribuiva qualità terapeutiche nonché di un misterioso male che, secondo il Commissario Bonifacio, il nostromo Dùndora avrebbe contratto sulla linea delle Indie. — Mal de testa no vol dir: co' un sa perché che el ga mal de testa, gnente paura. Mi, vardé, che no son più un giovinoto, so sempre perché che go mal de testa: o xe pienezza, o xe che se ga bevudo qualcossa de sera in compagnia, o xe che no se ga dormì, o qualche volta xe anca tuti tre, perché co' se xe in compagnia se magna, se beve e se dorme poco. E co' se sa no xe gnente de impressionarse. Guai impressionarse per le malatie, come quei che co' senti de qualchedun che ga avù qualcossa, subito ghe vien tute le magagne. Ghe diol el brazzo? Dio mio: mal de cuor. Ghe diol la gamba? Dio mio: flebite! — Ma cossa xe veramente la flebite? — Xe el flebo, no? Co' el flebo xe ofeso. Indiferente. Savé chi che iera un omo cussì? E Comandante, savé, un omo de età, un omo che gaveva girà mezo mondo. Savé chi? El Comandante Bolmàrcich. — El gaveva flebite? — Maché flebite! Che soto l'Austria cola flebite, dove i lo gavessi lassado navigar! 'Sto Comandante Bolmàrcich, ve disevo, iera un omo che gaveva visto mezo mondo, epur el primo che ghe contava che a un — metemo dir al povero Jurissa — ghe xe nato cussì e cussì, che ghe se inforcava i oci, che ghe dioliva el fìl de la schena, lui subito: che anca lu, che qualche volta ghe diol el fìl de la schena, che più de qualche sera se ghe infosca i oci, che anca lui devi gaver come che gaveva el povero Jurissa, e insoma, una roba, l'altra, ghe vigniva fora tute le magagne de sto mondo. — Ghe se infoscava i oci? — Ben, quel magari no stento a creder che al Comandante Bolmàrcich ghe se infoscassi i oci. Savé, lui iera un de quei che noi dirìimo bevandéla. E inveze wisky. — Come wisky? — Wisky, siora Nina, vischi, dài, come che disi i foresti, e vardé che quela volta assai poco se vedeva bever. — No se vedeva bever? — Ah, siora Nina, quel se vedeva ancora più che adesso, alcolisti al ultimo stadio. Wisky, inveze, no se vedeva bever quela volta. I maritimi caso mai, i Comandanti più che altro, ma nei locai gnanca no i saveva cossa che iera. E sto Comandante Bolmàrcich, dovè saver che co' el iera alievo lui gaveva navigado propio su barche inglesi, dela Cùnard Line, che iera una Compagnia, ma signora Compagnia. Ben, lui ve gaveva fato tute 'ste linie de Suéz, de Aden, de Bombay e là lui se ga imparado. — A navigar? — Come a navigar? Lui iera assolto dele Nautiche de Lussin! A bever wisky el se gaveva imparado. AdenBombay el fazeva, bruti climi, caldo e umido che quel ve xe el pezo de tuto. E no iera miga omo che scondeva, savé. Lui diseva liberamente che per lu el wisky xe la sola medizina che esisti a sto mondo. Me ricordo che in quel tempo lui iera zà omo anzian, iera ani anorum che el iera vignudo via de Inghiltera e fazevimo la linia de Dalmazia. Ierimo sul «Cherca» e iera a bordo anca Marco Mitis, che iera de machina, el nostro-omo Sangulin, Primo Ufìcial iera Petrànich, che dopo i ghe ga dado le meo barche, e Comissario iera un zerto Bonifacio, un de Trieste, un baraba che no ve digo. — Xe tanti Bonifacio a Trieste. — Va ben, sarà tanti, chi ve ga dito de no? Mi conossevo quel che iera Comissario de bordo. Bon, vù no savé che crose che no iera in tavola con sto Comandante Bolmàrcich. Mi iero gambusier quela volta e là sul «Cherca», savé barca picola, ufìciai e sotufidai ierimo tuti in tavola insieme, che qualche volta xe ben e qualche volta xe mal. Questo iera sula «Libera» e sul'«Ungaro-Croata». Dove sul Lloyd Austriaco e sul'Austro-Americana i gavessi lassado! — Che el bevi wisky? — Ma cossa che el bevi wisky? El Comandante pol far quel che el vol a bordo, quando che el fa el suo servizio. Ve disevo che iera una crose in tavola, perché dò robe el gaveva: o de ste malatie che gaveva i altri e che ghe pareva de gaver anca lu, o de sto wisky. «El wisky — el diseva — no fa mal, el ve xe fato tuto de robe genuine. De cossa xe fato el wisky? Di orzo fermentato — el diseva — soto l'azione di acqua di torba, e l'orzo xe genuin, xe natural, se ghe lo dà anca ale crature col late. La torba po' xe carbon finissimo e carbon fa ben pel stomigo. E tuto messo in fusti de rovere che fa l'omo san come el rovere.» E el rideva. Con questo lui calcolava de gaver dito chi sa che rarità: del rovere che fa rovere. — Ah no fa mal el wisky? — Ma sicuro che fa mal, siora Nina. Oh Dio, el giusto no, ma come che el beveva lu, per forza che ghe fazeva mal. Lui diseva: «Voi podé bever liberamente wisky. Vardé per esempio l'Inglese, dove l'Inglese poderìa tignir tute ste sue Colonie, con sti climi teribili, che lori ve ga Suez — mi iero a Suez — che lori ve ga Aden — mi iero a Aden — che lori ve ga Bombay — tre mesi iero a Bombay in avarea — dove podessi l'Inglese tignir tute ste Colonie se no el gavessi el wisky? Perché el wisky ve xe disinfetante, salva l'omo de tute quele malatie che noi gnanca no se sognemo che i ga là. Pensé solo che lori ga in ste Colonie la febre zala. Bon, come l'Inglese se salvava dela febre zala senza el wisky? Voi podé bever wisky liberamente, el diseva e po' l'andava in gabina a beverselo solo, perché mi no go mai visto che el ghe gavessi oferto un dito gnanca al Primo Ufìcial. — Ah, ghe fazeva ben a lu? — Siora Nina, ben. Ve go dito: in quei ani assai poco el ghe vedeva anca. De vizin. Perché de lontan, anzi benissimo. El iera el primo che el vedeva de giorno el faro de Lesina, co taiavimo driti fora. Ma de vizin el diseva che ghe fa fosco i oci. Ben quel ve xe el wisky. E penséve che co' in porto ghe rivava una letera, lui ciamava in gabina sua el nostro-omo Pìllepich e el ghe diseva: «Pìllepich, sentévese qua, che ogi me fa fosco i oci come el povero Jurissa, e legéme sta letera che no me sforzo». Ben, volé creder che intanto che Pìllepich ghe legeva forte la letera, lui in pie, drio dela carega el ghe stropava le orece con dò dedi per via che noi sentissi cossa che el legi? El wisky, ah siora Nina! Anca per quel i ghe dava oramai solo ste picole barche. — Ah, no el voleva che Pìllepich sentissi le robe sue? — Siora Nina, mi no so se gavé capì el conceto, ma indiferente. Insoma, che ve volevo contar, un giorno sto Comissario Bonifacio, che iera un triestin, una macia che no ve digo, el disi: «Ghe la frachemo, ghe la frachemo, sto colpo lo femo deventar mato!» E apena che semo sentadi in tavola — me ricordo tornavimo su dele Boche de Cattaro — el ghe fa, ci fa ci dice: «Comandante Bolmàrcich, savé chi che xe morto, che i me ga dito a Cattaro?» «Chi?» — el disi lu. «Dùndora — ghe disi Bonifacio — Dùndora ve xe morto.» «Dùndora el Comandante? — el disi — ma come, se lo go visto a Zara in local ogi oto che ierimo?» «No Dùndora el Comandante, Comandante — el ghe disi — el nostro-omo Dùndora. Bruto mal.» — Che mal? — Eh, xe quel che ga domandado anca el Comandante Bolmàrcich che assai se impressionava per ste robe: «Che mal?» E che nostro-omo Dùndora, che lui no conossi nostriomini Dùndora. «Ma come? Dùndora, el nostro-omo, quel toco de omo, nostro-omo Dùndora. Quel che ve fazeva i viagi per Aden, per Suéz, per Bombay. Bruti climi. E ghe xe vignù quel mal che tanto se parla adesso. Xe che uno gnanca no se inacorze, e ghe se s'gionfa la testa come, la ghe deventa sempre più granda qua sora dei oci. Dolori gnente, e a un zerto punto la s'ciopa. De note a Dùndora ghe ga tocà, povero.» —Mama mia! E come, cussì al improviso? — Ma siora Nina, noi ghe contavimo, no iera miga vero. E un tignirse de rider che no ve digo, perché Bonifacio iera una macia — serio el ghe contava—e el Primo Ufìcial Petrànich a darghe corda: che povero Dùndora, che no se vedeva gnente, che chi gavessi mai pensà de Dùndora. Che però el dotor del Arsenal de Cattaro gaveva dito: «Che bela morte, no el se ga inacorto de gnente». — E lui ga credesto? — Come no el ga credesto? El ga credesto sì. E po' questo no ve iera che el principio. Perché sto malignazo de Bonifacio, savé coss' che el ga fato? La matina, prima che lui se svei — perché el se alzava tardi, con quele slucade che el dava — el ghe ga messo un suro torno torno nela fodra de marochin dela bareta de montura. — De Dùndora? — Maché de Dùndora, che iera morto. E che po' no el iera gnanche morto, perché solo ghe gavevimo contado: nela bareta de montura del Comandante Bolmàrcich. E lui, in tavola, el ne disi subito, come diman, che lui sta sera, qualcossa ghe xe nela testa, come un gonfio. E noi che no se vedi gnente. E de novo de sera Bonifacio ghe fica un altro suro, che Pìllepich me ga contado che a Sebenico, intanto che lui ghe legeva la letera, el Comandante Bolmàrcich el se gaveva perfìna dismentigado de stroparghe le orece per provarse davanti del specio sta bareta de montura che no ghe andava in testa. E noi un rider in gabina del Primo Ufìcial Petrànich, che no ve digo: eh iera bei ani! — E dopo? — E dopo, siora Nina, Bonifacio ghe ga messo un altro suro, che anzi el voleva meterghe un giornal rodolado e Petrànich ga dito «No, no, che dopo el se inacorzi». Insoma quela sera a Zara, dopo che Bonifacio ghe gaveva messo el quarto suro in bareta, dovevimo andar tuti in tera, che iera Corpus Domini — che procession che i fazeva a Zara, siora Nina, per Corpus Domini, tuto sule mura, belissimo, de sera — ben, indiferente, semo sula biscaìna per andar in tera, el Comandante Bolmàrcich se meti la bareta in testa e la ghe resta solo pozada, come. Volé creder? El se ga messo a pianzer. Pretamente pianzer. Pensé un Comandante! El ga butà la bareta per tera, el xe corso in gabina e el se ga serà dentro. — Povero omo! — Eh sì, anca al Primo Ufìcial Petrànich ghe ga fato passion e el ga dito: «Adesso basta». El ga tirà su la bareta, el ga tirà fora tuti i suri e el li ga butadi in mar. Po' el ga impicà la bareta sul picatabari dela camera de pranzo. — E Bolmàrcich iera in gabina che el pianzeva? — Siora Nina, mi no so se el ga pianto avanti. Bevudo el ga sicuro, perché del oblò xe rivada sul molo una butilia de wisky svoda, che squasi copava una Finanza de Marina. Insoma el riva a mezogiorno in tavola, col ocio infoscado, el ciol la bareta del picatabari, el se la meti in testa. E el fa un viso de contentezza, siora Nina, che mai mi no go visto un compagno. E con sta bareta in testa el se senta e el disi: «El wisky, miei cari signori, salva l'omo de tute le malarie, perché el ve xe fato tuto de robe genuine: orzo che se ghe dà anca ai fìoi col late, acqua de torba che xe carbon che fa ben per el stomigo. Vardé l'Inglese: come l'Inglese podessi tignirse le Colonie senza el wisky? Il wisky è disinfetante.» Insoma, tanto el ne ga tazzado l'anima, che Petrànich ghe ga dito a Bonifacio: «Bon, stasera metighe in bareta el giornal rodolado!» MALDOBRÌA III - L'ispettore delle boccaporte Nella quale Bortolo si richiama alla terribile legge del mare che implacabilmente impone al Comandante di lasciare per ultimo il suo legno in periglio rivelando peraltro come anche nella Marina Austro-Ungarica non mancassero meno rischiose occasioni per ottenere onori, encomi, avanzamenti e decorazioni. — La più pezo roba che pol tocarghe al maritimo in acqua xe, Dio guardi una disgrazia, trovarse rente de un che no sa nugar. Perché quel, col teror che el ga, el ve se grampa adosso, vù no podé più far gnente e perdé la vita vù e lu. Savé cossa bisogna far? A Pola i ne insegnava, co' ierimo soto istruzion: se se vedi un che se nega, bisogna andarghe pian rente per de drio, darghe un pugno nel muso che el perdi i sentimenti e dopo strassinarlo per i cavei. A mi me ga tocà, savé! — I ve ga dà un pugno nel muso? — Cossa, a mi, un pugno nel muso? Mi, a Fiume, ghe go dà un pugno nel muso al capitano Hùbeny, co'iero de leva. — Perché el ve fazeva angherie? — Maché angherie, siora Nina. Mi lo gavevo portado col caìcio fora in rada, perché el doveva ispezionar le bocaporte dela Viribus Unitis. E no volé che — iera un fìà de siroco, mar bianco — e lui, de pupa che el iera sentà, el se schizava tuto el tempo. Alora ghe go dito, mi e lu soli che ierimo in sta barca: «Capitano — ghe go dito — perché no ve meté sotovento? Cambiévese de posto e vigni qua rente de mi.» Ben: sto qua, come che el se alza in pie per cambiarse de posto, no el me se tombola e el me casca in acqua? Siora Nina: mi go visto subito che no el saveva nugar; perché, intanto ghe ga ciapà teror e pò el ga comincià a zigar «aiuto» per ungarese — ungarese che el iera — e vedo che el va soto la prima volta. Tre volte, siora Nina, va soto quei che se nega. — Mi gavevo sentido dir sete... — Indiferente. Me buto in acqua; subito vedo che sto omo el procurava de guantarme e alora, pugno nel muso, lo go strassinà per i cavei e lo go colegado in barca. Vedè: quel omo me xe sta sempre grato, anche perché mi no go mai contado gnente. Podé capir: Capitan de Marina, che lui iera propio del Amiragliato del Amiraglio Horthy, Ispeziente dele bocaporte, che iera qualcossa quela volta in Marina de Guera, e no saver nugar! — Ma come? I ciol in Marina un che no sa nugar? — Sicuro che no i gavessi dovesto ciorlo. Ma savé, siora Nina, lui ve iera ungarese. E più de un ungarese in Marina de Guera, quela volta i diseva che no saveva nugar. Ma lui, sto Hùbeny, el iera de Transilvania, un nobile, i diseva e el iera proteto del Amiraglio Horthy. Che lui tanto protegeva sti ungaresi che oramai quasi tuta la Marina de Guera, come ufficialità, ve iera in man de lori. Che anzi Barba Nane diseva sempre: «'Sti ungaresi, un giorno o l'altro finirà per cavarne la matricola». La bassa forza inveze iera sti istriani, sti dalmati, sti piranesi, gente nostra. — Soto l'Austria? — Soto l'Austria-Ungheria. Per questo i ungaresi ciapava sempre più el trato avanti. Fiume — presempio — iera pertinente alla Corona ungarese. Ben, questo per contarve, co' xe vignuda la guera. Mobilitazion general, per forza. E mi i me gaveva messo col Comandante Coglievina, che iera un dela Marina Mercantil, passà subito in Marina Militar, guera che iera. Ierimo mi, Marco Mitis, el nostro-omo Pìllepich e sto Comandante Coglievina sul Monitore 87, Sibunàczig, come che i ghe ciamava per tedesco. Ve devo dir che se gavemo trovado noma che ben, perché sto Comandante Coglievina iera un bon omo. Lui diseva sempre: «Quaranta ani no iera guera soto l'Austria e propio a nualtri doveva tocarne questa. Ogni modo, omini, nualtri femo el nostro servizio, vardemo de no pericolar e mal no far, paura no gaver.» De Cherso el iera. Bon omo. — Eh a Cherso iera assai bona gente! — Indiferente. No ve iera greve el servizio. Noi con sto Monitore 87 fazevimo solo perlustrazion sotocosta e un giorno sì e un giorno no ierimo a Fiume in porto. Ben: un giorno che semo a Fiume, volé creder chi che no ve xe riva a bordo? Hùbeny, siora Nina. Quel Hùbeny che ve disevo, quel ungarese. — Per ispezionar le bocaporte? — No. Savé coss' che iera? Iera che, proteto che el iera del Amiraglio Horthy, i voleva avanzarlo de grado. Però, per regolamento de Marina Militar Austro-Ungarica, no i podeva avanzarlo se no el gaveva tanti mesi de navigazion. E alora cussì i lo gaveva messo come Primo Ufìcial — Comandante in seconda, che se diseva sule barche de guera — su sto nostro Monitore, per un per de mesi. In guera un mese contava dò, per la navigazion. Per pericolar no pericolavimo, un giorno sì e un giorno no ierimo in porto a Fiume, sto Capitan Coglievina no ghe tazzava sicuro l'anima a nissun — e pò fìguréve a lui, proteto del Amiraglio Horthy — insoma el iera propio in una bote de fero. — I lo tigniva dentro in una bote de fero? — Ma cossa! Se disi per dir, no? El iera in una bote de fero, per dir che con noi el iera ben, sul sicuro. «A noi, una unica roba ne pol far dano — diseva sempre el Comandante Coglievina — la mina. La mina xe malignaza. Perché stemo sotocosta e le barche che incontremo xe solo nostre. El sotomarin, per noi picoli che semo, no va a strazzar una torpedo che costa più de tuti noi messi insieme. La mina, la mina vagante: quel bisogna star atenti. Ma se la xe a pel de acqua se la vede, basta no gaver furia e no corer tropo. E se la xe soto el pel, pazienza, tute no se se le pol pensar!» — Eh, la mina xe bruto! El «Baron Gautsch» se gaveva perso cola mina. — Bruto, siora Nina? Anche quel dipendi de come che se la intiva. De prova no xe tanto mal, perché xe paratìa. In fìancada inveze sbrega. E noi la gavemo ciapada propio de prova. —Mama mia! Vù sé andadi sula mina? — Eh sì, siora Nina. Ve go dito che el Comandante Coglievina diseva che no se se le pol pensar tute. Ierimo apena partidi de Fiume con sto Hùbeny a bordo. Sera tardi, istà, quasi scuro. Passavimo rente de Veglia, che se vedeva ben el fanal de San Nicolò. Ierimo sotocosta, gnanca dozento metri de riva, mar come un oio, ma soto el pel del'acqua la iera 'sta malignaza. Vagante. Che co' se ga sentì el tiro, el Comandante Coglievina ga dito: «Questa ne ga tocà a nù e podemo ringraziar Sior Idio che la gavemo ciapada de prova e che no se ga fato mal nissun. Adesso femo ben pulito l'abandono nave, che no merita pericolar. Là ve xe Veglia che vede el fanal de San Nicolò, a mainar le sialupe se intardighemo massa, nugar savemo tuti, cavéve le scarpe, butévese in mar, vardé de star insieme, che mi vegno dopo. E, ve racomando, che nissun perdi la vita.» — Lui vigniva dopo? — Regolamento militar dela Marina de Guera, siora Nina. Dapertuto, anche in Giapon. El Comandante, ultimo. — Perché, andavi a pico? — Siora Nina, a pico. Forsi che sì, forsi che no. «Più sì che no — ga dito el Comandante Coglievina — a mi me ga el moto. E pitosto che un perdi la vita, Dio guardi che la barca se ingavoni e che la se ribalti, abandono nave. Guera xe guera.» Insoma noi se gavemo butado in acqua, sto fanal se lo vedeva ben, mar come un oio: tempo meno de meza ora ierimo in tera. — E el pessecan? — Cossa pessecan? Dopo la mina ne doveva capitar anche el pessecan? Pò el pessecan zà vedi poco de giorno, fìguréve de note. El Comandante ga spetà che semo tuti zò in acqua, pò el ga mainà la bandiera de guera. «Reménghis — el ga dito — sempre sta storia che i la vol de ritorno, che una volta persa la barca, cossa ghe costa comprar un'altra bandiera!» Insoma el màina la bandiera, el la piega, el se la meti soto de la maia, el se cava le scarpe, el va sul ponte per cior el libro de bordo e no el trova là sto Hùbeny, sentado, che fumava? «Hùbeny mio, el ghe disi, cossa fé qua? No sé ancora saltado in acqua?» 'Sto Hùbeny che no, che lui in acqua no el salta, perché el ga apena magnado e el ga paura che ghe vegni el granfo. Che forsi intanto i marineri xe zà rivadi in tera, che i avertirà e che vegnerà sicuro a ciorne qualchedun. «Come — fa Coglievina — a ciorne? Mi no speto, savé Hùbeny! Chi sa se i pol dar l'aviso, se i ga modo e maniera de vignirne a cior? E se intanto la barca se ingavona e la se ribalta, qua la ne ciucia soto con ela». — Eh, co' fa gorgo, me diseva mio padre defonto, xe assai bruto. — No ga importanza. Hùbeny ghe disi che cossa, che l'acqua vien drenio pian, ma che se el Comandante vol butarse, che no el se preocupi, che el pol andar liberamente in tera. «In tera? — ghe disi Coglievina — mi in tera e vù a bordo? No savé che xe regolamento de Marina, che el Comandante devi esser l'ultimo a lassar la barca? Vù, adesso me faré el santo piazer de cavarve le scarpe e el sacheto, de farve el segno dela crose e de butarve in acqua.» Savé: Coglievina, prima de 'ndar in acqua se fazeva sempre la crose. — Usava, sì i maritimi una volta. — Indiferente. Alora sto Hùbeny ghe disi che lui ghe dispiasi ma che lui in acqua no se buta. Come che ghe dispiasi? — ghe disi Coglievina. «Piasi o no piasi, el Comandante son mi e mi ve ordino de butarve in acqua, perché no voio intardigarme per spetarve a vù. Cavéve le scarpe e el sacheto, féve el segno dela Santa Crose, magari per storto come quela de Santo Stefano, magari ala riversa se sé de religion vecia, ma salté zò de sta maledeta barca!» Alora, siora Nina, Hùbeny se ga palesado: el ghe disi che lui devi palesarse, che xe stado tuta una serie di circostanze ma che insoma lui no sa nugar. «Reménghis — ghe fa Coglievina—adesso me disé un tanto, che no xe più i omini per mainar un caìcio?» Ma che gnente de mal, che el se meti el salvaòmini, che el ghe calerà la biscaìna, che el vadi zò e che el lo speti in acqua, che lui vegnerà subito a darghe una man. Che el lo speti solo un momento, per la formalità, perché el Comandante devi esser l'ultimo a lassar la barca. — E i gaveva sì, salvaòmini? — Quanti che i voleva, siora Nina, perché massima parte dei marineri no se lo gaveva gnanca messo, tanto vizin che i iera de tera. Ma 'sto Hùbeny che no: che el salvaòmini xe fato de suro e che come pol un toco de suro tignir suso un toco de omo come lu? Ungarese el iera. Volé creder che el Comandante Coglievina ga comincià a rabiarse? Come che un toco de suro pol tignir suso un toco de omo? E che alora come che la barca che xe fata de fero pol star a gala? E che ancora de Marina el xe, Comandante in Seconda! E che pò no xe el momento de far ste discussìoni. E che ga fato anche un fìà de borin e che lu ga anche fredo. Ma gnente. Duro sto Hùbeny, che lui no se buta, che morir per morir, lui more a bordo. «Bon — ghe disi Coglievina, che no ghe piaseva far barufa — se nassi qualcossa, me gaveré sula cossienza.» El ghe se senta vizin e — fredo che gaveva comincia a far—el se tira fora dela maia la bandiera de guera e el se la meti sule spale. Iera una bela bandiera granda, de laneta. — Eh, una volta i le fazeva sempre de laneta le bandiere. —E là sentai che i iera e i fumava el spagnoleto, el Comandante Coglievina ga pensà de ciaparlo cole bone. «Bon — el ghe disi — Hùbeny, come che volé: speteremo. Ma féme almeno la carità de méterve el salvaòmini, perché se la barca se ingavona e la se ribalta, mi no voio responsabilità». Dacordo, che el se lo meti, ma che no el se movi de bordo. E i fumava sto spagnoleto. E dopo un poco el Comandante Coglievina se scassa come e ghe disi: «Hùbeny, gavé sentì?» «Cossa?» Se el ga sentì come un sussuro a prova, che sarìa meio che i vadi a veder. No, che no el ga sentì. No fa gnente: istesso che xe meio andar a veder. — E cossa iera? — Gnente no iera, siora Nina, lui lo ga lusingà cussì de vignir a prova. E co' i xe a prova, che a prova i monitori no gaveva gnanca passamani, apena che sto Hùbeny se ga messo a vardar cossa che iera, el Comandante Coglievina ga ciapà la rincorsa e zò con una piada nel culo el lo ga smacado in acqua. «Bon — el ghe ga zigà — adesso ti vederà, cicio de un ungarese, come che un toco de suro tien suso un toco de mona!» —Mama mia: el lo ga butado in acqua! — Sicuro: col salvaòmini, cossa ghe podeva nasser? Ma sto Hùbeny taca a zigar per ungarese «Aiuto! Aiuto!» E propio in quela se senti: «Ah, qua sé? Vignimo subito! Vignimo subito!» E el fanal de una barca de ricupero ilumina el Comandante Coglievina, in pie sula prova, tuto involtizà nela bandiera. Siora Nina: semplici maritimi de Veglia che i iera, i se ga messo squasi a pianzer, a veder sto eroismo, come. Volé creder? El Comandante Coglievina i lo ga messo su tuti i giornai, quei ilustradi anche. «Animoso attendeva la morte avvolto nell'Imperial Vessillo.» La medaia de Maria Teresa i ghe ga dado. — E el povero Hùbeny? — Siora Nina: Hùbeny, come penultimo che gaveva lassa la barca e «solo su insistenza del di lui Comandante» i ghe ga dà la Picola Medaglia. E, proteto che el iera, tempo dò mesi el iera col Amiraglio Horthy, Primo Aiutante, sula Viribus Unitis. Quela che xe andada a fondo in zinque minuti. Hùbeny gnanca el salvaòmini no el xe rivado a meterse e l'Amiraglio Horthy ga dovesto darghe un pugno nel muso e strassinarlo per i cavei. Assai el lo protegeva. MALDOBRÌA IV - La cabina dell'Armamento Nella quale Bortolo narrando delle traversate transoceaniche dell'Austro-Americana, disserta su di un fenomeno tipico degli anni a cavallo fra i due secoli, ovvero quello dei clandestini e illustra compiti e responsabilità dell'Ispeziente viaggiante delle Panatiche. — Vardé, siora Nina, che adesso no se senti tanto, ma una volta sui vapori i clandestini ve iera al ordine del giorno. — Su che vapori? — Sul vapor de Muia! Ma dai, siora Nina, parlo dei vapori de linia, massima parte su quei che andava per Nort-America se trovava sempre clandestini. I se scondeva in stiva, magari i iera dacordo con qualche patrioto, un mariner de bassa forza che ghe portava de magnar qualcossa e i stava sconti in stiva per no pagar el passagio. Se ghe andava ben i rivava in Nort-America, ma el più dele volte i li trapava. Me ricordo, per esempio, che el Comandante Bojànovich co' el comandava el «Laura» del'Austro-Americana, che iera una barca a dopia elica, penséve, lui prima de ogni viagio per Néviork, che anzi se tocava prima Boston quela volta, lui fazeva l'ispezion dei clandestini a bordo insieme cola Finanza: «No voio rogne in mar», el diseva. — E el ghe dava la multa? — La multa, siora Nina! Dove podeva sti qua pagar la multa, miseri che i iera? Lori voleva, poveri, rivar in America senza pagar el passagio, e i li trapava in stiva, la massima parte o là del deposito de carbon. Poveri, a piade i li butava zò, zà a Trieste. Questo ve parlo, quando che sul «Laura» iera el Comandante Bojànovich. Dopo, inveze, co' Bojànovich xe andado in pension e i ghe ga dado el «Laura» al Comandante Okrétich, lui se regolava altrimenti: lui spetava de molar le zime e apena co' ierimo fora de Salvore el fazeva l'ispezion dei clandestini. E co' el li trapava el ghe fazeva far lavori, piturazioni, cambiar vide spanade, una roba e l'altra, tuto ore extra che lui gavessi dovesto pagarghe al mistro o ai marineri. — E inveze el ghe pagava a lori? — Sì a lori! A piade in culo el li butava zò, ma apena a Tàngeri: «Qua ve xe porto internazional — el ghe diseva — qua rangévese». Tàngeri, quela volta, iera internazional, iera le Potenze. Inveze, vedè, Polidrugo la ga fata furba co' el ga volesto andar in America. Vù savé che Polidrugo iera un de quei che butava zinque e levava sie, fina che una volta per dò ani no el ga corso ris'cio de andar soto le carozze. — El stava atento per strada? — Cossa star atento per strada? Ala vecia se usava dir: «No el cori ris'cio de andar soto le carozze» per chi che iera in cassetin, in preson, serado. E Polidrugo co' el xe vignù fora de esser andà dentro per quei sui fufignezi, matricola no el gaveva più, che questo ghe gaveva sempre pronosticà Barba Nane. Matricola no el gaveva più, lavori iera pochi e po' quei pochi no i ghe li dava sicuro a Polidrugo. E alora cussì el ga pensado de andar in Nort-America, che là iera suo cognà, che dopo el ghe ga magnà tuto, ma indiferente. — El ga emigrà? — El gavessi volesto, ma no i ghe dava le carte, perché el iera stado in buso. Soto l'Austria, siora Nina, un che andava in buso o in frenocomio iera un omo perso, altro che adesso che i va dentro e dopo i vien fora più grandi de prima. Insoma, cussì Polidrugo ga divisà de andar come clandestin. — In Nort-America de suo cognà?... — Sicuro. Ma Polidrugo, savé, iera un drito, lui la ga fata furba: prima roba el xe andà de quel suo cugin Peteani che iera camerier de prima classe sul «Laura» e el ghe ga domandà se xe ancora sul «Laura» el Comandante Bojànovich. Che no, che i lo ga sbarcà. Che questo xe zà bon, perché a quel malignazo de Bojànovich no se ghe la fracava. Che chi che xe. Che xe el Comandante Okrétich, che xe tuto un altro omo, un confusionario, ma che el staghi atento perché lui ga quela de sbarcar i clandestini a Tàngeri dopo averli fati strussiar per tuto el viagio e con poca panatica. E Polidrugo ghe ga dito che questo forsi ghe podeva tocar ai clandestini sempi, ma che no a lu. — No iera sempio Polidrugo? — Tuto se podeva dir de Polidrugo, ma no che el fussi sempio. Savé cossa che lui ga escogitado? Lui ghe ga dito a questo suo cugin Peteani camerieri «Giovanin — el ghe ga dito — dove i trapa i clandestini? I li trapa in stiva o là del deposito del carbon, e alora vol dir che là el clandestin no devi sconderse, perché se no i lo trapa. Perché quei xe loghi dove che i varda. E dove inveze no i varda?» — Dove no i varda? — Xe quel che ghe ga domandà Peteani: «No i varda in prima classe — ghe ga dito Polidrugo — nele gabine de prima, quele svode, quele libere, quele che no ga trovà passeger.» Alora sto Peteani ghe ga dito prima de tuto che lui xe mato e po' che 'sto viagio el «Laura» xe tuto pien anca in prima classe, tanto che xe libera solo la gabina del Armamento e che meo cussì, che cussì no el se meti gnanca in testa zerte idee. E sto malignazo Polidrugo savé cossa che ghe disi? Che mai de meo, perché propio nela gabina del Armamento — che lui sa, perché el ga navigado anca lui per el Nort-America — no varda mai nissun. — Come la gabina del Armamento? — Ma sì, siora Nina, la gabina del Armamento iera in tute le grandi barche: quela dela Compagnia, i la tigniva se andava un grando dela Compagnia, un Ispeziente, qualche passeger de rango, al ultimo momento. Lusso ve iera, gabina de lusso, sul primo ponte. — Ah, la gabina del Armamento! — Sicuro. Insoma, per farvela curta, siora Nina, Polidrugo ghe disi a sto Peteani camerier che lui devi farghe solo che tre piazeri. Primo: che con una scusa o l'altra lui vien a bordo e che el ghe verzi la gabina del Armamento, un momento che no vedi nissun e che lui se fica dentro; secondo: che pel magnar, co' el poderà, co'el volerà el ghe porterà qualcossa dei pranzi de prima classe; terzo: che el ghe daghi una mappa dela barca, quela che doperà el Comissario per destinar le gabine e per far i posti in tavola. — Che mappa? — Ve go dito: la mapa del vapor, quela che doperà el Comissario per destinar le gabine e per far i posti in tavola. A Polidrugo la ghe ocoreva per capir come che xe messe le gabine, i ànditi, le scalete, i passagi, per poderse regolar, Dio guardi un'evenienza. «Ma ti vederà — el ga dito — che se la gabina del Armamento xe libera, in gabina del Armamento per tuto el viagio no meti mai el naso nessun». Savé, siora Nina, sto «Laura» iera una granda barca, con dopia elica. Insoma Polidrugo tanto ga dito, tanto el ga fato che a sto Peteani camerier el lo ga persuaso: el ghe ga 'verto la gabina e el ghe ga dà la mapa. — El se ga imbarcà? — Sicuro. E in gabina del Armamento, e noma che ben: lusso, e logo de decenza privato, con decenza. — Ah! Cussì no ocoreva che el vegni mai fora... — Per forza, Polidrugo ve le pensava tute. Insoma sto «Laura» sta per molar le zime de Punto Franco a Trieste e Comandante come che ve go dito, iera sto Okrétich che i lo gaveva cambiado de poco de linia. Lui, sto Okrétich, prima el ve gaveva fato sempre la linia de Sorìa, lui gaveva sempre viagiado per Alessandria, Porto Said, Jaffa, Caifa, Beirutti, Alessandretta, Mersìna: i porti de Levante, insoma. E lui là con sti Otomani, con sta gente, con sti agenti del Compagnia, lui tuto là ve trapolava, el dava màndole e el ciapava mandolone. — I carigava màndole? — Sì, sul albero dei sarcòfaghi! Màndole, per dir mance. Savé, là el levantin ve xe venale. Una màndola a un piloto, a una Finanza otomana, vù sula lima de Sorìa podevi far quel che volevi. Presempio, tanto per dirve, in un'Alessandria lui diseva che bisogna piturar la barca de fora, che in Alessandria costa de meno el ghe diseva ala Compagnia. Ben, lui ghe fazeva dar una man de pitura a ste dite de piturazion e dopo el ghe fazeva pagar ala Compagnia per due man. E la diferenza, che iera bei soldi, i se spartiva lu e ste dite de pituranti. Che se no se fa cussì no se ga gnente, el ghe diseva al nostro-omo Fatutta, che lui se gaveva sempre portado drio come omo secreto. — Fufignezi? — Fufignezi, siora Nina! Viagi de Levante. Chi no ga fato? Là, gnanca i Ispezienti dela Compagnia no se meteva a missiar fra le carte se no sarìa stà orori per tuti, anca per i più grandi. E cussì sto Comandante Okrétich co' i lo ga passà sula linia del Nort-America el ga pensado che se pol far compagno. Siora Nina, sula linia del NortAmerica ve iera tuto un'altra roba, e massime sul «Laura», perché là, ani anorum che iera stà Comandante Bojànovich, no podeva mancar una vida, un fiorin, che lu controlava tuto, come che fussi la Banca Union. — No el se profìtava? — El Comandante Bojànovich profìtarse? Dove mai! Penséve che el Comandante Bojànovich, co' i cambiava una vida spanada, el la fazeva meter de parte, co' se fulminava una lampadina, anca, per render conto. Imagineve che, co' in Salon de Prima, prima de rivar a Néviork i fazeva la festa del Forvél, lui ghe gaveva dado ordine ai camerieri de tirar suso de per tera, tuti i stroponi dele butilie de sampagna averte. «Tante butilie che se ga 'verto, tanti stroponi devo portar in Palazzo. Che el Comandante Bojànovich no ve xe un de quei — el diseva — che dise che xe andade per el Forvél quaranta butilie e inveze xe 'ndade vinti e vinti el porta a casa». Che anzi, in Palazzo, l'Ispeziente dele Panatiche, no saveva mai cossa far e dove meter sti stroponi, e i ghe rugnava. «Che el li meta dove che el vol, anca in culo — diseva el Comandante Bojànovich — ma mi ghe li porto, perché no voio che domani un Ispeziente Viagiante me possi far osservazion.» — No el se profìtava. — Sicuro che no. Ve go dito un tanto per dir che omo che el iera. El Comandante Okrétich, inveze, ve iera tuto un'altra persona. E anche quela volta che Polidrugo iera sconto in gabina del Armamento come clandestin, el Comandante Okrétich gaveva comincià subito in Punto Franco a Trieste a imbarcar sotomanvia Maraschin de Zara, che lui po' zò a Néviork ghe dava a sti istriani, a sti dalmati, a sti piranesi che se trovava sempre in local e che i ghe procurava a lu scarigadori de porto fora de Sindacato. — Che no se podeva? — Tuto se pol, siora Nina, basta dar màndole. Okrétich ghe diseva sempre al nostro-omo Fatutta: «Levante o calante, la luna e l'omo ga sempre la goba, basta saverghela carezzar». Insoma, indiferente. Dove che metemo sto Maraschin ghe domanda el nostro-omo Fatutta. «Dove che lo metemo, dove che no lo metemo, in qualche logo metélo, metélo là in gabina del Armamento che sto viagio no xe nissun, metélo là, metélo là, Fatutta mio.» E via lu sul ponte che el «Laura» molava le zime. —Mama mia! Propio in gabina del Armamento! — Fatalità, siora Nina, fatalità. Apena molade le zime, el nostroomo Fatutta xe andado dentro in gabina del Armamento per meter ste cassete de Maraschino. 'Sta roba Polidrugo no podeva calcolar e come che el nostro-omo Fatutta verzi un momento la porta, el vedi sto Polidrugo sentà sul scritorio che vardava la mapa dela barca. — Ah, el lo ga trapà? —Trapado? No el capiva chi che podeva esser. Capì? In gabina del Armamento, el vedi un, sentado pacifico che varda la mapa del vapor, e alora el sera pian la porta, el meti in canton del àndito le cassete de Maraschino e subito el core del Comandante Okrétich. «Perché — el ghe disi — Comandante Okrétich, me gavé dito che xe svoda la gabina del Armamento, che inveze xe drento un?» «Uno xe drento? E chi xe?» «Mah — ghe disi sto nostro-omo — xe un grando, sentado in scritorio che el varda la mapa del vapor». «Reménghis — fa Okrétich—volé véder, Fatutta mio, che la Compagnia ne ga mandado a bordo, senza dirne gnente l'Ispeziente Viagiante dele Panàtiche?» «Fazile — ghe disi Fatutta — el vardava la mapa del vapor!» Cossa che se fa, cossa che no se fa. «Gnente— disi el Comandante Okrétich — in guera de bon guerier»; el se meti la bareta, el se sera el coleto dela montura, che sempre el se verzeva co' el iera sul ponte, e el va in gabina del Armamento. — E Polidrugo? — E Polidrugo che prima no se gaveva inacorto de gnente, tutintùn el se vedi comparir davanti el Comandante in bareta che ghe vien incontro, ghe dà la man e ghe disi: «Caro Ispeziente, no go avù mai ocasion de véderve in Palazzo, go tanto piazer de far la vostra conossenza.» Che faré el viagio con nualtri, che no i lo ga avertido, ma che — come el poderà constatar — tuto a posto, tuto in ordine e intanto el ghe fazeva de drio moti a Fatutta de portar via le cassete de Maraschino e che insoma el lo speta in tavola stasera per el «dinner». Muso roto, muso risoluto. — Chi, Polidrugo? — Anca Polidrugo, perché Polidrugo ga subito intuido come che se gaveva messo le robe e, Ispeziente per Ispeziente, come Ispeziente el ghe se presenta in tavola de sera. «Come vede — disi el Comandante Okrétich—cole panàtiche siamo più che noma che ben: antipasto, primo, secondo, dessért a volontà, diamo anca il brodo coi sànguich a mezzogiorno, il passegero è soddisfato, l'equipaggio ha il suo. E dopozena, se permeté ve farò zercar un fià de quel Maraschino vero autentico original di Zara, che tignimo per nualtri, così per uso di bordo». Siora Nina, cussì pranzo, zena e marenda sto Polidrugo iera sempre in tavola del Comandante, che suo cugin Peteani camerier ogni volta quasi ghe vigniva un colpo. — E cussì el xe rivado franco in Nort-America? — Speté, speté. Altro che franco! Una sera, poco prima che i rivi a Tàngeri, el Comandante Okrétich, che gaveva fato vignir su sampagna dela gambusa e che i stroponi andava per tuti i cantoni, che al Comandante Bojànovich ghe sarìa vignudo un insulto, el comincia a farghe a Polidrugo un discorso longo. Che Tàngeri xe porto internazional, che là tuto costa de meno, che xe assai meo per la Compagnia de far le piturazioni esterne dela barca a Tàngeri intanto che se scariga, che là xe una dita grega de piturazion che dà una man de pitura che par che sia due, che lori darà una man, che vù Ispeziente me daré una man a mi, che una man lava l'altra, che fatura faremo per due man e che in man posso meterve subito a vù, che mi inveze incasso sto altro viagio, metà dela diferenza. Che cioleremo sti dozento e zinquanta fiorini dala Cassa dele Panàtiche, che tra omini de mondo se gavemo capido e che se a sua moglie ghe interessa tapedi de Smirne lui ga anca quei in Puntofranco a Trieste e che per sdoganar se troverà modo e maniera e che la torta xe granda e che, feta in più feta in meno, tra patrioti se se intende. — El iera patrioto de Polidrugo? — Cossa patrioto de Polidrugo! Lui no saveva che iera Polidrugo, lu credeva che fussi l'Ispeziente Viagiante dele Panàtiche e cussì, co' i xe rivadi a Néviork, el ghe ga messo in man dozento e zinquanta fiorini e el lo ga compagnà per tuto el ponte: «Caro Speziente, écove una butilia de Maraschino, per una butilia no i ve fa osservazion in dogana, e tanti omagi alla signora, che se ha bisogno di tappeti di Smirne, tenga presente». — E cussì a Polidrugo ghe xe andado tuto ben? — Orpo, come no: con dozento zinquanta fiorini in scarsela! No ghe pareva gnanca vero. El xe corso presto presto zò per la biscaìna, che quasi che el ribalta el Comandante Bojànovich che stava vignindo a bordo. — El Comandante Bojànovich? Ma no el iera in pension? — Come Comandante sì, ma come Ispeziente Viagiante dele Panàtiche, quel viagio ghe tocava sul «Laura». Per farghe i pulisi a Okrétich de Néviork fin Trieste. MALDOBRÌA V - La guerra di China Nella quale Bortolo, tratteggiando il ferreo carattere del Comandante Bussànich, inflessibile disciplinatore di equipaggi, riferisce come costui, anche ingrazia di un sogno premonitore del nostromo Fatutta, seppe fronteggiare gli orrori della sanguinosa rivolta dei Boxers che indignò tutto il mondo civile. — Mi no me piasi sto «ciò mi, ciò ti». Che, pazienza i giovini, ma anca le persone più in età adesso, apena che i se conossi, xe come che i fussi intrinsechi no so de quanti ani. Penséve che a mia madre defonta, che iera mia madre defonta, ghe go sempre dado solo del vù. — No, mi a mia madre no: mia madre a mia nona. Quel iera più in antico. — Maché antico e moderno: quel iera el rispeto, siora Nina! Perché del vù se ghe dava ala madre e al padre; del lei a Comandanti, Ufìcialità, al maestro de scola, al Deputato de spiagia... e del ti, co' se diseva «semo del ti», voleva dir che iera propio esser del ti. — Del vù però se ghe dava anche ai fìoi e ai lavorenti. — Quel iera un altro «vù», siora Nina. Iera modo e modo de dar del vù. Che anzi qualche volta se diseva: «A chi del vù?» Un Comandante, per dir, ghe dava del ti a un maritimo se el iera in confidenza, se el iera dela gente sua. Mi me gavessi inofeso, per esempio, se el Comandante Brazzànovich me gavessi dado del vù. Iera tuto un altro modo de tratarse, tuto un'altra concezion dela vita. — Ah, vù ieri del ti col Comandante Brazzànovich? — Mi del ti col Comandante Brazzànovich? Lui iera del ti con mi. Soto el Lloyd Austriaco nissun no podeva esser del ti col Comandante. Gnanche el Primo Ufìcial. Che qualche volta iera Primi Uficiai più veci del Comandante. Me ricordo sul «Calliope» iera el Primo Ufìcial Okrétich, che gavessi podù esser el fradelo più vecio del Comandante Bussànich. Ben: pensé, lui al Comandante Bussameli ghe dava del lei. Che anzi me ricordo che el ghe diseva sempre «Perché la sa Comandante, mi pensavo...» E el Comandante Bussànich ghe diseva: «Vù no ocòre che pensé, vù fé quel che ve digo mi e basta.» — Rabià? — No rabià. Iera el suo modo de far. Iera un rùspido. Un omo fato cussì. Soto de lui a bordo rigava drito tuti. Che anzi co' me go imbarcà sul «Calliope», che quela volta fazeva la linfa de Sciàngai, Barba Nane me ga dito: «Giusto ben che ti gaverà el Comandante Bussànich, che quel ghe indrizza le corbe anche ai gobi. Qua o el te cava la matricola o el te fa omo!» — Perché no ieri omo fato ancora? Ieri giovine? — Sicuro che iero giovine. Ve parlo ancora de prima dela Prima guera. Iera del Novezento, me ricorderò sempre. Bon, ve disevo che sto Comandante Bussànich lui no ghe dava confidenza a nissun. «A bordo — el diseva — prima xe Sior Idio, dopo son mi e dopo xe San Gaudenzio che ga maledì tute le bisse de Cherso.» De Ossero el iera lui. — San Gaudenzio? — Ma no San Gaudenzio, San Gaudenzio no so mi de dove che iera. El Comandante Bussànich iera de Ossero: patrioto del nostroomo Fatutta che gavevimo a bordo. Bon, penséve, sto Comandante Bussànich co' el gaveva de dirne qualcossa a nualtri del equipaggio el ne fazeva vignir sul ponte e no el ne parlava a nualtri, che ierimo tuti là, davanti de lu, ma solo al nostro-omo Fatutta. «Diséghe a sti omini — el diseva — che qua basta intenderse una volta per tute per esser in regola. Mi, nostro-omo Fatutta — el ghe diseva — son bon, diséghe. Mi co' no sè de turno ve fazzo anche fumar un spagnoleto, diséghe. Co' semo in tera, se un vol, pol anche vignir in local con mi, ma co' semo a bordo chi fala, paga. A mi, sul «Jupiter», che iera el mio primo comando, i me ga dà un equipagio de fìolduncani. E tempo dò mesi iera un equipagio che i li voleva sule meio barche, diséghe. Se un me la fraca e mi no me inacorzo, liberamente podé tirar su el pavese, ma se un me la fraca e mi me inacorzo, el se sbarca dove che semo e senza la biscaìna. Diséghe, diséghe questo a sti omini, nostro-omo Fatutta.» — E el nostro-omo Fatutta ve diseva? — Ma cossa volé che el ne disessi, che ierimo tuti là! Iera el suo modo de far, el suo trato: lui, co' ierimo a bordo, parlava col nostroomo e no con nualtri. — E inveze, in tera, podevi andar in local con lui? — Sì, figurarse! Quel el parlava. Ma una volta a Kobe, al povero Pìllepich che ghe xe andà rente de lui che iera sentado in tavola in un local, el ghe ga dito: «Ciolève una carega e sentévese per tera.» Iera un omo fato cussì: no cativo, ma rùspido. — El se imponeva? — No iera question de impònerse: iera che lui no ameteva. Come quela volta col secondo cogo del «Calliope». Bon: el secondo cogo, per regolamento, doveva magnar el pranzo dela bassa forza. E un giorno che sto Comandante Bussànich xe vignù drento in gambusa el ga visto sto secondo cogo che, sentà in tavola, magnava svazeto. «Svazeto — el ga dito — xe del pranzo dei Sotufìciai.» E el ghe ga dà un stramuson. «No per farte mal — el ga dito — ma per via che te vadi per tresso e che te se ricordi la bona creanza.» Ve go dito, siora Nina, iera tuto un altro mondo, tuto un'altra concezion dela vita. — El defonto zio de mia madre iera Sotufìcial sul Lloyd Austriaco... — Indiferente. Noi quela volta, ve go dito, fazevimo la linia de Sciàngai col «Calliope» e nissun no gavessi mai credesto. — Che el ghe gavessi dà un stramuson al secondo Gogo? — Cossa ghe entra? Quel iera stà un altro viagio. Nissun no gavessi credesto, perché de solito, co' rivavimo, vigniva sti Chinesi sotobordo con biancheria, linzioi, fornimenti de China, ombrele, spedistre, che con un fìorin se comprava de tuto. Inveze quela volta: zito, gnente e el militar sul molo cola baioneta in cana. — In China? — No: in cana. Sì, sicuro in China. Sciàngai dove ve xe? Ale Boche de Cataro? E bruto insoma. Perché ne vien su a bordo quel del'Agenzia del Lloyd Austriaco, un triestin, un zerto... savevo come che el se ciamava, adesso no me sovien come che el se ciamava... e el ne disi che xe bruto, che xe movimenti, che forsi se scàriga, che forsi che no. Che ieri una barca norvegina ga scarigado, e che inveze una barca nostra no ga podesto scarigar, come ogi. Che lui torna in Agenzia, che noi spetemo e che xe meo che no sia omini in coverta perché xe assai odio. — Contro de sto Bussànich? — Maché contro de sto Bussànich, siora Nina! Contro del Europeo, contro del American. Iera odio del Chinese. Perché el zalo vedeva che el bianco ciapava sempre più el trato avanti in China e per un fìorin se comprava qualunque roba, e le done, una roba l'altra. Po' fanatismo religioso. Insoma i gaveva comincià a copar i missionari. — I Chinesi? — Sicuro. E noi ierimo capitadi a Sciàngai — ma no savevimo ancora — che iera sti missiamenti. Ve disevo che quel giorno no gavemo scarigà, perché sti poveri scarigadori chinesi, a dò tre de lori che iera andadi a scarigar un vapor germanico, i ghe gaveva taiado el codin, che là quela volta iera la più granda vergogna. — Ma adesso i chinesi no ga più codin? — Cossa volé che i gabi adesso el codin i chinesi che no i ga gnente. Insoma, bruto; perché scarigà no gavemo, andar in tera de note gnanca parlar. E dopio turno de guardia. Cussì xe vignù matina e omini sotobordo gnente; iera rente de noi una barca italiana e el Comandante ne ga dito: «Noi andiamo a Hong Kong a vedere come è là» e el Comandante Bussànich disi che lui va zò a veder in Agenzia, perché no el pol arbitrarse de falar el nolo e che no el volessi che l'Armamento ghe fazzi osservazion. E el fa calar la biscaìna. — El xe andà in tera? — Speté, speté. Giusto el stava per andar in tera, quando che vien, corendo tuto scavelà, su dele machine el nostro-omo Fatutta. «Intanto — ghe disi el Comandante Bussànich — dove gavé la bareta de montura?» Che el la ga in gabina. Che alora che el la vadi a cior in gabina e che dopo el parlerà. Bon cossa che el ga de dir. «Comandante Bussànich — ghe disi el nostro-omo Fatutta — son ancora tuto in un'acqua. Penséve che stanote me go insogna che iero a Ossero.» Savé, siora Nina, che el Comandante voleva darghe un stramuson? Che cossa, che lui ga de andar in Agenzia per robe interessanti dela barca e che un sempio de nostro-omo ghe vien là a contar che el se ga insognà che el iera a Ossero; con tuto el tempo che el ghe ga zà fato perder per andar cior la bareta. E Fatutta ghe disi che no, che xe una roba importante, che lui insoma se ga insognà — ci fa ci dice — me go insognà Comandante che iero a Ossero. «Iero a Ossero, me presento a casa vostra e me compari davanti vostra moglie in profondo luto e la me disi: «Fatutta, Fatutta!» tuta pianzendo. E la me porta in cucina e ve vedo a vù, Comandante, distirado sul marmo dela tavola de cusina, in montura cola bareta pozada sul peto, cole scarpe nove e i oci seradi. E sul fogoler, chi ve vedo, Comandante? Savé quel lavander chinese che iera con noi quel altro viagio? Ben: el iera là sentado sul fogoler che el pregava el rosario.» — Ma i chinesi prega el rosario? — Ma indiferente! Questo cossa ghe entra, siora Nina se i prega o no i prega el rosario? Questo se gaveva insognado el nostro-omo Fatutta e el ghe contava tuto impressionado al Comandante, per dirghe che lui lo gaveva visto propio là distirado, in montura cole scarpe nove e la bareta sul peto, sula tavola de cusina, e che insoma visto che iera sti movimenti, sarìa stà meio che el Comandante non andassi in tera. — Xe bruto quando che se se insogna cussì de una persona. — Bruto sì. Perché mi gavevo visto subito che anca al Comandante Bussànich ghe gaveva fato un zerto che. Difati el disi che, in malora, sto sempio del'Agenzia podessi anca lui scomodarle de vignir a bordo a dir se se scàriga o no se scàriga e che cossa, lui, un Comandante del Lloyd Austriaco devi esser schiavo de andar in tera per saver una drita. — E cussì no el xe andà in tera? — Eh no, siora Nina: perché ve go dito che ghe gaveva fato come un zerto che. Anca perché dopo se ga comincià a sentir tiri e a veder foghi. — Ah! El ga spetà che vegni a bordo quel del'Agenzia? — Bonifacio! Bonifacio el se ciamava: adesso me sovien, un triestin, 'pena manda a Sciàngai che el iera cussì contento. Sula porta del'Agenzia i ghe ga taià la testa. Povero omo, giovine ancora. — Ma no gavé dito che i taiava i codini? — Ai Chinesi i ghe taiava el codini ma al Europeo, al American, massime al Inglese che iera assai odia, i Boxer ghe taiava la testa. Rivolta dei Boxer iera, siora Nina: 1900! Xe stà stragi, orori in China. Che dopo apena se ga mosso le Potenze e i tirava coi canoni drito su Sciàngai fin che no i se ga sotomesso. — Le Potenze tirava? — Le Potenze, sì. El Russo, el Germanico, l'Inglese, l'Italia, l'Austria-Ungheria, l'America. Quela volta, in qualunque logo del mondo se i tocava un bianco, la Flota Inglese bombardava subito. Altro che adesso, che tuti bàgola. — E el Comandante Bussànich? — Siora Nina: el Comandante Bussànich salva la vita el ga avudo, perché se lui fazeva tanto da rivar in Agenzia, dovevimo portarlo a Ossero in dò coli separadi. E lui, apena che gavemo molado le zime, perché oramai no iera più de fìdarse gnanca de star sul molo, el ga ciamà el nostro-omo Fatutta in gabina sua. E el ghe disi: «Nostro-omo Fatutta, vù ve gavé insognà propio cussì stanote?» Che sì, che lui propio cussì, che qualche volta cossa che vol dir un sogno, Comandante. «Vol dir — ghe ga dito el Comandante Bussànich che me dé la matricola. Chi che se insogna, vol dir che ga dormì — el ghe ga dito. E chi che ga dormì co' el iera de guardia, vol dir che no 'I xe un nostro-omo, ma el xe un Purcinéla!» E in dò tochi el ghe ga sbregà la matricola soto el naso. «Chi fala, paga! In malora: ve go dito tante volte.» — Rabiado? — No. Calmo. Lui mai no se imbilava. Epur, una sera a casa sua, a Ossero, el xe diventà tuto rosso, e el ga dito: «Me gira la testa», tanto che i ga pensà ben de distirarlo un momento sula tavola de cusina. Cussì el xe andado. Me ga contà el nostro-omo Fatutta che quela note xe andà a farghe la véa. E el ghe ga pregà el rosario sentà sul fogoler. MALDOBRÌA VI - Per chi suona la campana Nella quale Bortolo, attingendo ai suoi ricordi religiosi narra del fulmine che colpì in maniera irreparabile la campana del Duomo e come questa fu sostituita con lo spontaneo contributo dell'Armamento nonché del prodigioso pellegrinaggio notturno che ne seguì alla volta della Madonna di San Salvador. — Il più grande rumore é il silenzio, diseva l'avocato Miagòstovich defonto. E el gaveva ragion, savé. Sé mai stada in Cesa dele Mùnighe, cussì ale tre de dopopranzo che no xe mai nissun? Bon, mi qualche volta che vado là a portarghe el pesse, resto come incantà a sentir sto silenzio. In Domo inveze ve xe tuto altro, tropo rintrona dela campana che bate i quarti. — Mi inveze ve dirò la sincera verità che la me fa squasi compagnia. La ga sempre batudo i quarti, fina de quando che iero putela. — No sempre sempre. Perché sempre me ricorderò de quela volta che don Blas no gaveva vossudo meter el parafùlmine sul campami. — Ma adesso xe el parafùlmine. — Ma quela volta no el iera e co' tonizava, don Blas diseva sempre «Santa Barbara, San Simon liberéme de sto ton, liberéme de 'sta saeta, Santa Barbara benedeta». Perché no el voleva spender pel parafulmine e, inveze, una note el fulmine ga intivà propio la ponta del campanil e zò per el lamierin el se ga scarigà tuto sula campana. —Mama mia! No me ricordo. — Cossa volé ricordarve vù, che mi in alora iero apena giovinoto. Insoma gnente de tale: no xe stà né fogo né gnente, però la campana xe restada ofesa e, volé creder, la ga perso el son. No iera più quela, se avertiva propio co' la sonava che iera campana rota, ofesa. E Barba Nane, che iera fabricer del Domo, tanto el ga dito, tanto el ga fato che el ga messo su don Blas che bisognava cambiar la campana. — E la gavé cambiada? — Sì, come che se cambia el sacheto! Siora Nina, vù no savé cossa che no xe cambiar una campana! Prima de tuto ghe vol soldi, e che soldi, perché una campana costa: me ricordo che ne pareva un sproposito. E po' don Blas ga dito: «Zà che dovemo comprar una campana nova, mi assai bramassi de gaver una come quela dela Cesa dela Madona de San Salvador». — Miracolosa, come? — Come miracolosa? La Madona de San Salvador xe miracolosa, la campana xe una campana. Solo che la gaveva assai un bel son: digo gaveva, perché ancora soto l'Austria, me ricordo, i la ga portada via co' iera guera, per far canoni. L'omo co' xe guera, no ga più rispeto per nissun. Indiferente. Ve contavo che don Blas ga dito che lui voleva 'sta campana nova, cussì el ga scrito fora in Boemia, che là i iera specialisti a Pilsen per campane e i ghe ga risposto che, dando dentro la campana vecia, vigniva costar no so quanti fiorini, insoma un sproposito, ve go dito. — Ma a Pilsen no i fazeva bira? — Siora Nina, bira o no bira, i fazeva anche campane. E po', cossa, dove che se fa bira, xe proibido far campane? Insoma, sto don Blas, una domenica matina el ga dito del pulpito che tuti i fedeli sono tenuti a sovvenire ale necessità dela Chiesa contribuendo secondo le legi e le usanze e che insoma bisogna che tuti meti le spale soto e se fazi su sti no so quanti fiorini. — E la gente ga dado? — Sì, sì, la gente ga dado. Ma, cossa volé, quei picoli dela limosina: tanto che Barba Nane ga dito «Con questi no se compra gnanca el ganzo del batocio». E alora, un giorno — Pasqua iera, me ricordo — che ne fazeva fina vergogna sentir sta campana ofesa, Barba Nane ga ciamà soto la Losa el vedo Nìcolich, l'avocato Miagòstovich, con tuto che no il iera assai de cesa, el vecio Bùnicich che gaveva el squero, mio zio Barba Jàcomo e tuti insoma quei che gaveva carature in barca e el ga dito: «Xe una vergogna per nualtri, anche con sti campagnoi che vien de domenica a Messa dele diese, che noi gavemo de gaver sta campana, che fin a Ciunski i la ga meo, perché la xe intiera.» E che insoma sta nova campana devi pagarla l'Armamento. — Come l'Armamento? — Sì i armatori, quei che gaveva barca, quei che gaveva carature. Barba Nane ga dito che xe tanta gente nostra che pericola per mar e che sta campana nova sarà anche come un voto. E don Blas ga dito che sicuro, che per chi che ga barca no xe un gran sacrifizio, che con un per de noli boni, Dio aiutando e profìtandose un poco cola Sicurtà, che quel no xe pretamente pecato, se gaverìa podù gaver zà per la Madona de agosto la campana nova, precisa compagna de quela dela Cesa dela Madona de San Salvador. — Che bela che xe la Cesa dela Madona de San Salvador: andavimo sempre in pelegrinagio in barca. E i ga dado, i ga dado sti soldi? — Come no? Anche l'avocato Miagòstovich che no iera assai de cesa. Lui gaveva le sue idee, però bon omo, retto. Ateista, ma retto. Insoma, no ve digo, i ga mainà 'sta campana vecia, el «Cinque Frateli» la ga portada a Trieste con nolo franco, de là per ferata in Boemia e co' iera i primi de agosto xe passà telegrama che la campana nova iera pronta in Porto Novo a Trieste. I Boemi iera assai de parola. — E i la ga portada qua? — No, i la ga tignuda in Porto Novo a Trieste per belvéder! Sicuro che i la ga portada qua: sbarcada in porporéla, portada fin soto el Domo coi manzi e zucada su, che xe stà un lavor che no ve digo, che se ga dovesto dar acqua ale corde no so quante volte tanto che la iera in forza. E una campana belissima: in mezo la gaveva un'àncora e una crose incrosade che fazeva un bel scherzo e tuto in giro iera scrito: «In tempestàte secùritas — Mortuos piango — Fùlgura frango», come dir che la gaveva salvado la cesa del fulmine, no ela, quela de prima. — E la sonava ben? — Siora Nina, per mi, precisa compagna de quela dela Cesa dela Madona de San Salvador. Per mi. Altri diseva de no, che no la xe precisa, che xe un altro son. Però co' la ga sonà la prima volta per la Madona de agosto iera tuti che pianzeva, anche l'avocato Miagòstovich. — Che no el iera assai de cesa? — No, ateista ma omo retto. Bon, che ve contavo, quela sera istessa don Blas ga fato i conti con tuti quei che gaveva dado: tanto gaveva costà la campana, tanto la ferata fin Trieste, tanto ga costà meterla suso. Insoma, co' xe stà pagà l'ultimo omo, el ga dito: «Ancora xe avanzadi zinquanta fiorini». E Barba Nane ga dito: «Che i sia per tuti, per quei che ga dà e per quei che ga lavorà». E cussì de sera gran zena dove che adesso xe l'hotel e che quela volta gaveva el local el povero Anteo. — Quel che se ga ciolto la vita col carbon fossile? — I ga volesto dir, ma no xe vero: intanto iera carbon dolze e po' xe stà una disgrazia; Dio mio, iera un omo un poco estroso, ma indiferente. Ve disevo: gran zena per la Madona de agosto, tuti in local del povero Anteo. E là, verso mezanote el giovine Bùnicich torna de novo a quistionar che no la ga el stesso son dela campana dela Cesa dela Madona de San Salvador. E mi che sì, e altri che sì, e lui che no, e altri che no. — Eh, Piero Bùnicich iera assai contraston. — Che sì, che no, un poco ciapai che ierimo — perché, capì, campana nova, Madona de agosto, se gaveva bevudo un poco, anzi bastanza — alora che andemo a sentir subito. — Come, subito andar ala Madona de San Salvador? — Subito sì. Ve go dito, ierimo ciapai, anzi pretamente imbriaghi. Alora che ciolemo dò caìci, Bùnicich e i sui un, mi Marco Mitis e Martin Ghèrbaz e i nostri un altro, mezanote che iera, mar come un oio, gavemo calcolà che vogando fussimo rivai giusto ala Madona de San Salvador per el matutin co' i sonava la campana. E che chi che rivava ultimo pagava la zena e i soldi ghe li tornavimo a don Blas per el saliso novo del Domo, che anche quel lui assai bramava. — E sé andadi sui caìci? — Come no? Che anzi iera scuro de luna, che no se vedeva de qua fin là e Polidrugo, imbriago che el iera anche lu, xe cascà in acqua là dela porporéla. — El se ga negà? — Maché negà, lo gavemo tirà su e el se ga imbarcà in caìcio con nualtri. Ma cussì se gavemo un poco intardigadi, perché quei altri intanto gaveva zà molà la zima. Siora Nina, gavemo vogà tuta la note, un mar come un oio, ma pesante, cussì pesante che no gavevo mai sentì. Mi go messo el timon drito, perché de qua a San Salvador xe drito come un tiro de s'ciopo, e voga che te voga, tre ore, mi calcolo gavemo vogà, fina che sentimo un dindon, dindon. «Eco — disi Martin Ghérbaz che iera sentà de prova — eco, tanto che parlava Bùnicich, sentì se la campana dela Madona de San Salvador no ga el son compagno preciso come la nostra». «Come, come la nostra? — ghe digo mi — xe la nostra, toco de mona, che ti se ga dismentigà de molar la zima del molo.» Tre ore, siora Nina, gavevimo vogado ligadi in porporéla. Cossa volé, l'omo imbriago no ga quela prontezza. MALDOBRÌA VII - Le acque di Pola Nella quale Bortolo narra come i Bùnicich costruirono, fiorino dopo fiorino, la loro fortuna cominciando dalle accorte parsimonie di Capitan Nicolò che aveva le sue buone ragioni nel preferire Pola a Trieste per i rifornimenti idrici dell'«Almissa». — Una volta iera tuto un'altra concezion dela vita: grandi miserie e grandi richezze, siora Nina. Dopo, tuto se regola. Vardé per esempio i Bùnicich, cossa che no ve iera una volta! Lori gaveva casa in riva, lori gaveva casa su a Ciunski, lori gaveva comprado dei Colombis la vila per la càzia a Plauno, e squero — che quel, devo dir, che i me la ga fata sporca, perché mio sàntolo Toni defonto gaveva sempre dito che doveva esser anche mio el squero — e barche proprie, e carati in barche de altri, e tordo, e mezza Cherso iera de lori co' xe falido el vecio Mòise. Brava gente, quel bisogna dir, perché anca adesso lori fora ga posti bonissimi, dapertuto, che Nicoleto Bùnicich a Néviork, i me ga contado che xe un dei più grandi de Agenzia Maritima. Ma qua adesso dopo che xe morto el povero Antonio no xe più nissun e xe tuto in man dei altri. Quela volta el sparagno, esser interessosi gaveva un scopo. Perché lori, i Bùnicich, no so se vù ve ricordé, i gaveva cominciado propio del gnente. — Eh, ma anche in antico, lori i iera sempre signoreti. — Signoreti! Cossa ve iera per esempio Nicolò, che vigniva a star el bisnono de Nicoleto Bùnicich, che ve disevo prima? Lui ve iera un semplice Capitano maritimo. Dopo i se ga fato la prima barca, ma prima, Nicolò Bùnicich, che iera el più grando dei fradei, iera semplice Capitano maritimo, che anzi i contava che i sui veci gaveva fato assai sacrifizi per farghe far le Nautiche a Lussin. Ben, mi me lo ricordo, che iero giovinoto, lui ve iera semplice Capitano maritimo sul Lloyd Austriaco. L'«Almissa». — El stava in Almissa? — Ma cossa el stava in Almissa? I ghe gaveva dà l'«Almissa» che iera una picola barca del Lloyd Austriaco e se fazeva i viagi de Trieste fina le Boche de Cataro. Linia de Dalmazia po', semplice Capitano maritimo. Eco, vedè, quel iera un ano che vardava el soldo. Tuti i Bùnicich, eh, vardava el soldo: i contava che a casa de lori, se i gaveva un a pranzo — che zà quela volta i stava ben — el vecio Nicolò ghe diseva se iera, metemo, gnochi de patate: «Ciolé, ciolé ancora, ciolé de più, ciolé due!» — Ghe piaseva gnochi? — Ma cossa importa se ghe piaseva o no ghe piaseva gnochi, a tuti ghe piasi gnochi. Iera per dir el temperamento dela persona. E sua moglie po' iora Cheti? Pensé che un giorno, al fio Antonio che sarìa stà el nono de quel Nicoleto che ve disevo prima, la ghe gaveva fato un ovo sbatudo col zuchero e dopo la ghe voleva meter un dito de rum drento e la ga sbalià butilia, e 'sto picolo — sior Antonio, ma picolo el iera quela volta — el vedeva che sto rum vigniva zò massa pian e el ghe ga dito: «Ma, mama, questo ve xe oio, no ve xe rum!» «Ah, ma no fa gnente — ga dito ela — magna istesso che xe oio de Cherso». E magnarlo el ga dovesto, per no butar via. E dir che meza Cherso iera sua, dopo che iera falido el vecio Mòise. — Come? Ovo sbatudo col zuchero e oio? — Sicuro. No bisognava butar via gnente quela volta, cussì se se fazeva i soldi. Soldin su soldin se fa el fìorin, diseva el vecio Bùnicich. Epur, vedé, Nicolò co' ga cominciado iera semplice Capitano maritimo sul'«Almissa», che quando i me ga imbarcà a mi, Barba Nane ga dito: «Va, va sul'«Almissa», che col Comandante Bùnicich te se imparerà a scortigar el pedocio per conzarghe la pele e cussì, co' i te caverà la matricola, ti gaverà un mistier in man!» — Si, ma anca Barba Nane fiera interessoso! — Ma in un altro modo: Barba Nane iera anca grandioso qualche volta. Savé chi che gaveva fato el saliso novo del Domo? — El Fassio. — Maché el Fassio! Barba Nane lo gaveva fato, lui iera assai divoto. Ma indiferente: ve contavo che viagiavimo col'«Almissa» col Comandante Bùnicich. Mi iero giovinoto e con noi iera Marco Mitis, gnanca dir, che noi due ierimo inseparabili, el nostro-omo Pìllepich e Cuntento che iera giovine de coverta. Giovinoto propio el iera: savé quel Cuntento de Valon che ve contavo tante volte? No el se ciamava Cuntento, ma nualtri ghe disevimo cussì, perché lui, povero, de Valon che el iera, le prime volte che el navigava e el vedeva un poco de mondo, el diseva sempre: «Ah, mi son cuntento». Cuntento, po'. No el iera sempio, savé, el iera un poco indrio come mentalità, ma no sempio. El gaveva fato anche scole, el saveva leger, che no iera fazile quela volta intivar un de bassa forza che savessi leger. — Ah, el legeva? — El legeva! Cossa volé che el legessi a bordo? «Almissa» che iera scrito de pupavia sula barca? Disevo per dir che no el iera pretamente ignorante. — Ah! El gaveva studiado nela scola del'Italia Redenta? — Maché Italia Redenta, che quela volta chi se sognava del'Italia redenta! Parlo de prima dela Prima guera, co' fazevimo i viagi col'«Almissa» per Dalmazia e el vecio Nicolò Bùnicich iera semplice Capitano maritimo. Ben, el ve iera interessoso sula provianda che no ve digo, lui solo si stesso fazeva la spesa, fazeva tuto. Pensévese, presempio, che una volta a Sebenico che lui ga trovà una letera cola multa, perché i gaveva sbaliado de meter la marca, lui ga ricusado de ciorla. Che po' inveze iera, se ga savesto dopo, che i ghe diseva che sua madre, che stava zà mal de ani, la iera propio al ultimo stadio. Difati a Spalatro el ga trovà lassà dito in Governo Maritimo che la ghe iera morta. — Eh, qualche volta xe meio che Dio cioghi. — Indiferente. Volevo contarve che lui xe andado in Posta a Spalatro a bater telegrama, i contava. El ga scrito: «Straziato dolore torno subito.» E che l'impiegato dela Posta ghe ga dito che per tarifa minima el podeva meter ancora due parole. E alora lui ga zontà, tuto pianzendo, «Distinti saluti». Insoma, una volta che ve contavo, partimo de Trieste con sta «Almissa» per la linia de Dalmazia che se fazeva, e el ghe disi al nostro-omo Pìllepich che semo lesti e che molemo le zime. «Come — ghe disi el nostro-omo Pìllepich — semo lesti, che no gavemo fato acqua?» E lui, che lu no stia pensar e che una roba e l'altra, che co' lui ghe disi de molar le zime, se mola le zime. — No el voleva acqua? — Cossa no el voleva acqua? Come se pol star a bordo senza acqua dolze? Iera inveze, savé cossa? Iera che fazendo acqua a Trieste, co' i tacava la màniga bisognava pagar el disagio. — Come el disagio? — Sì el disagio, cussì se diseva quela volta in Marina Mercantili la spetanza del lavor de meter la màniga, de pompar l'acqua. El disagio po'. E inveze lui, una volta che ghe iera tocado de restar senza acqua fora de Pola e el xe andado a far acqua a Pola, che iera Porto Militar dela Marina Austro-Ungarica, el va a far acqua, i ghe meti la màniga e tuto, e el osserva che no i ghe fa pagar el disagio. Perché a Pola, capì, come Porto Militar fazeva tuto el lavor el militar e no se podeva pagar el militar soto l'Austria. E cussì no se pagava el disagio, che po', siora Nina, sto disagio ve iera un diese fiorini, gnanca. Che per una barca diese fiorini no iera gnente, ma lui diseva sempre: diese fiorini xe diese fiorini. E cussì lui, dopo de quela volta, più de una volta — no sempre per no dar nel ocio — inveze de far acqua a Trieste e pagar el disagio, el fazeva acqua a Pola gratis et amoris. «Tanto — el diseva — la Marina de Guera, co' no xe guera, xe solo che per intrigo». — Eh, ma co' xe guera xe bruto. — Ma no iera guera, ve go dito, ve go dito che ve parlo de prima dela Prima guera. Però iera Marina de guera a Pola. Savé, quela volta ve iera la «Viribus Unitis», la «Santo Stefano» che bateva bandiera del Amiraglio Horthy, el «Karl Sesto», el «Prinz Eugen», la «Kaiserin Elisabeth», tuto a Pola iera. Un poco a Pola e un poco a Cataro. Anche a Cataro el fazeva acqua qualche volta. Insoma che ve conto: andemo dentro de Pola per far acqua e ve vedemo tuta la Flota Austro-Ungarica, mi calcolo, in formazion de fila, come che se diseva in alora, dentro del porto, coi pavesi tiradi su, e sule naviscuola a vela, i cadeti rampigai sui trincheti, sui parocheti, sule mezane, sule sàrtighe, in paratia insoma. Parada militar, perché iera rivado l'Arciduca Francesco Ferdinando e iera parada. — A Pola? — No a Sànsego, coi sansegoti che magnava fighi sul molo. Ma se ve go dito che ierimo a Pola! E che iera la parada militar de tuta la Flota Austro-Ungarica in porto de Pola. E Bùnicich, gnente, lui drito avanti, el disi: «Adesso andemo a far acqua». E come che passemo a drita de un monitore, sto monitor fìs'cia cola sirena, e tira su una bandiera. E el Comandante Bùnicich col canocial el varda e el dise: «I dimanda cossa che volemo». «Far acqua, ah, volemo, go sempre dito che la Marina Militar co' no xe guera xe per intrigo». E iera là sul ponte Cuntento che lustrava i otoni e el Comandante Bùnicich ghe disi, ci fa ci dice: «Cuntento, alzéghe su la bandiera sula maestra che dovemo far acqua». — La bandiera? — Sicuro, in Marina se fa sempre segnai cole bandiere. E sto Cuntento va zò dove che iera i scafeti cole bandiere e el varda sul libro che iera notadi tuti i segnai, che iera scrito, per esempio «Chiediamo di entrare», «Malato a bordo», «Portiamo posta», tanto per dir. E in 'sto libro che ve digo, el vedi scrito vizin de un segnai: «La barca fa acqua». Bon, ga pensà Cuntento, questo sarà che femo acqua. El ciol sta bandiera e el la issa suso sula maestra. Siora Nina, coss' che no xe nato! Vedemo la «Viribus» che vira, dò monitori che vien un de qua e un de là de nualtri, tuta la fila che se averze, la «Santo Stefano» che bateva bandiera del Amiraglio Horthy che meti el segnal che disi «Veniamo subito», e un'altra bandiereta su, vizin de quela del Amiraglio Horthy, che dopo i ne ga spiegà che vol dir «Attendo che ogni marinaio faccia il suo dovere». — I ve portava acqua? — Ma no, siora Nina! 'Sto sempio de Cuntento gaveva tirado suso la bandiera che vol dir «La barca fa acqua». Come dir che andemo a fondo. E lori, in parada che i iera, i ga manovrado subito, tuta la Flota — e che ben anche — per il socorso in mare. L'Amiraglio Horthy comandava personalmente sul ponte, col canocial e el capel puntà, i ne ga contado dopo in Governo maritimo. E vien soto un de sti monitori e un ne ziga col portavoce dove che femo acqua. «Al molo — ghe risponde Bùnicich — là dove che xe la màniga!» Siora Nina: savé quanto che ga dovesto pagarghe el Lloyd Austriaco ala Marina de Guera? Tremila fiorini. De disagio. MALDOBRÌA VIII - Il porto dell'amore Nella quale il Comandante Nacìnovich, per bocca di Bortolo narra quanto di sacrificio fosse la vita del marittimo: navigare, scaricare, avarie, osservazioni dell'armatore, dura routine di bordo, famose città viste soltanto attraverso il grigio sipario delle gru e dei docks, e lunga lontananza dagli affetti familiari. — Dove se moveva in antico le done? El marì che navigava, i fìoi de tender a casa, po' l'orto, la campagna—che la campagna anca adesso, savé, se no xe un che ghe stà drio, i lavorenti no fa gnente — qua, là una roba e l'altra, dove gaveva tempo de mòverse la dona? Solo co' capitava l'ocasion che el marì vigniva col vapor a Fiume o a Trieste. — Usava sì le mogli andar a Fiume o a Trieste. — Le usava sì, ma una volta andar a Trieste, cossa digo Trieste, digo a Fiume, iera un avenimento. Co' i vigniva col vapor, i maritimi profìtava de quei dò tre giorni che i scarigava o che iera lavori a bordo, e ancora de Venezia i ghe bateva telegrama: «Sarò Fiume mércoldi giovedì vénerdi» e, fin che i iera lesti, le mogli andava. Miga in hotél, savé, le cioleva una camera, in riva, che i fìtava. Iera quela Pierina che fìtava, iera Maria Longa, che gaveva anca local, e andava tute là, tute ste istriane, ste dàlmate, ste piranesi. E miga solo la bassa forza, savé, anca mogli de Comandanti, signori Comandanti, Capi Machinisti, andava de queste che fìtava. Massima parte, i Comandanti andava dela moglie del defonto Primo Ufìcial Okrétich che gaveva un bel quartier a Fiume. Un poco cola pension, un poco che la fìtava, la se iutava, povera. Iera un quartier grandioso, quatro camere, camerin e cusina. Camerin, fiera camerin scuro, ma pensé che più de una volta ela dormiva in camerin scuro per poder fìtar. Savé, iera un aiuto. — Una volta iera grandi quartieri. — Indiferente. Vardé che, in antico, anca i Comandanti iera assai sacrificadi, el maritimo xe stà sempre sacrifìcado. Cossa volé, lui no godeva la famiglia. Me ricordo sempre che el Comandante Nacìnovich diseva: «Cossa xe vita sta qua? Navigar, carigar, scarigar, avarea, l'armator che fa sempre osservazion se se fala el nolo, come se nualtri se divertissimo a falar el nolo, po' ancora in tavola che bisogna esser schiavo del passeger che xe obligo de invitarlo in tavola: passegeri, passegere, sampagna e vini fini e tuto. Che po', tra una roba l'altra, bisogna star su de sera per far i conti a bordo, che gnanca la sodisfazion de andar in tera no se ga. Che un'Alessandria che xe un'Alessandria, cossa go visto mi de Alessandria? E anca Kobe: solo el muso de quel che vien a far el manifesto, che inveze sarìa tanto bel véder un poco de Giapon. Trieste no se parla e Fiume po', giusto co' vien la moglie, andar a dormir là in quela caponera dela moglie del defonto Okrétich», el diseva. E inveze iera un bel quartier: grandioso. E cussì el ve rugnava dela vita del maritimo che xe assai sacrifizio. — El defonto Okrétich? — Cossa el defonto Okrétich. El defonto Okrétich ve iera in tomba oramai de ani anorum. E la moglie, ve go dito, fitava le camere a ste istriane, a ste dalmate, a ste piranesi, co' ghe rivava el marì. El Comandante Nacìnovich el rugnava a casa che xe sacrifizio la vita del maritimo. E insoma, che ve contavo, i ga dieci ani de matrimonio. — I maritimi? — Come, i maritimi? Come volé che tuti i maritimi gabi dieci ani de matrimonio? Xe chi ga dieci, xe chi ga vinti, xe chi xe apena sposà e xe chi no xe sposà. Ve disevo che el Comandante Nacìnovich e sua moglie, che nasseva Dùndora, sorela del Capo Machinista Dùndora, i gaveva dieci ani de matrimonio. — Quando? — Siora Nina, propio diese ani dopo del sposalizio, no? Se i gaveva dieci ani de matrimonio, che ve contavo... — No, veramente no me contavi. — No, no ve contavo, disevo le giaculatorie. Ve contavo, no, che i gaveva dieci ani de matrimonio, e capitava propio l'ocasion che lui vigniva col «Cherca» a Fiume un mércoldi, giovedì e venerdì, perché i sarìa stadi lesti apena sabo. E alora, come che i iera dacordo, ela ve xe andada a Fiume... — E i fìoi? — I fìoi ghe li tigniva la cognada, no? Ve contavo, ela nasseva Dùndora, sorela del Capo Machinista Dùndora, che pensé, un che lui gaveva fato sbarcar, lo ga spetà sotobordo e ghe ga tirà col revòlver. Per fortuna che el iera imbriago... — Chi? El Capo Machinista Dùndora? — Cossa el Capo Machinista Dùndora imbriago? 'Sto qua che ghe ga tirà col revòlver, se no, se el iera sincero, el lo copava. Iera, iera sacrifizio la vita del maritimo. Insoma, ve disevo: sta moglie va a Fiume e lui, Nacìnovich, comincia subito a quistionar che el xe stufo de andar in quela caponera dela vedova del defonto Okrétich. E ela che va ben, che forsi una volta tanto se podessi dormir a bordo. E lui se la xe mata, che quando mai el Lloyd Austriaco ga permesso che le mogli dormi a bordo? Dove mai pol una dona vignir a bordo senza biglieto? Ma che visto e considerato — el ga dito — che la vita del maritimo no ga mai una sodisfazion, e che xe sti diese ani de matrimonio, che — in malora — i anderà al Bonavia. — In local? — Come in local? Al Hotél Bonavia, che quela volta iera el meo hotél de Fiume. Adesso no so. E apena che i va drento in salon iera el placato che in Abazia, come quela sera, iera «Zigainer Musìk». — Cossa? Confusioni? Siopero? — Maché siopero! Che soto l'Austria no iera mai confusioni! L'Austria iera un paese ordinato. «Zigainer Musìk», musica zingàna: iera sti ungaresi che vigniva de Budapest, perché Fiume quela volta ve iera pertinente ala Corona ungarese e in Abazia iera sempre sti tzigàni, sti violinisti, 'ste balerine ungaresi al Kùrsal. Che el Kùrsal ve iera el meo local de Abazia per ste robe e pensévese che el tigniva averto tuta la note. — Iera balo? — Balo, varieté, tutto ve iera. Fiasche de sampagna che andava al Kùrsal più che sula «Marta Wàssinton»! E insoma per farvela curta, ela ghe disi: «Senti Nicolò — Nicolò se ciamava Nacìnovich, ela inveze se ciamava Caterina, ma Chetti i ghe diseva in casa — senti Nicolò, la ghe disi, mi assai bramassi de veder questa Zigàiner Musik perché me ga contado la Carmen Nìcolich che assai merita, che xe propio una rarità, e anca ti che ti xe sacrifìcado ogni sera a bordo, che xe dieci ani, pénsite, che semo sposadi: insoma andemo al Kùrsal, una volta tanto no cascherà el mondo». E lui che come, al Kùrsal? Che no per dir, ma che xe anca una spesa e che xe in Abazia, che xe lontan, che bisogna cior el vapor, che po' vien tardi e che per tornar no xe più vapor, che ocore cior la carozza. Ma insoma ela tanto ga dito, tanto la ga fato — savé, dieci ani de matrimonio — che lui la ga portada. — A sto Zigàiner Musìk? — Sicuro. «Va ben, va ben — el ga dito — andemo a musicarse in banda.» E i va in 'sto Kùrsal. Bel ve iera, savé, sto Kùrsal, mi go visto una matina che i netava. Come che andavi drento, prima ve iera giardin, po' la scala col tapedo rosso, el salvaroba e dopo el salon coi tavolini, lampadari de Boemia e i camerieri tuti cole code, de lusso iera. — Iera caro? — Sicuro che iera caro. Là ve andava i più meo de Fiume, de Abazia, de sti ungaresi che stava là. Insoma i va drento, i va là del salvaroba e ste putele del salvaroba, come che lui ghe dà el spolverin dela moglie, le ghe disi «Bonasera, Comandante!» «Come — ghe fa ela pian — i te conosse qua?» «A mi qua, perché?» «Eh! Se le te ga dito "Bonasera Comandante".» «Ma dài: son in montura, no? Le ga visto che son Comandante.» — Ahn! — Anca la moglie ga dito «Ahn!» E cussì i va su per sta scala dentro in salon e ghe cori subito incontro el Diretor de sto Kùrsal e ghe fa: «Bonasera, Comandante Nacinovich», ci fa ci dice. E sta moglie stupida, podé capir, ghe dise: «Ma come? 'Sto qua propio sa che ti ti xe el Comandante Nacinovich, el te conosse propio.» «Sì — ghe dise lui pian — el me conosse, te dirò.» E come che i se senta in un tavolin, el ghe conta che questo che xe el Diretor del Kùrsal, Primo Diretor, el vien ogni viagio a bordo, e che lui ghe cede — ti capissi Chetti — quele meze butilie, quele robe che vanza del viagio, che tuti dò ga cussì una convenienza, che chi che no se rangia more, e che insoma el lo conosse de bordo. — El lo conosseva de bordo? — Speté, speté. Vien el camerier de lori in tavola e ghe dimanda: «Sampagna, Comandante Nacìnovich?» «Senti, Nicolò — ghe fa la moglie — ma anche sto camerier te conosse.» «Come, el me conosse? — ghe disi lu — el me ga ciamà Comandante Nacìnovich, perché el Diretor ghe gaverà dito: «Varda che quel xe el Comandante Nacìnovich e che tuto sia in massimo ordine.» Insoma bel, i bevi, una roba l'altra e vien el varieté. Zigainer Musìk: 'sti ungaresi che andava per i tavolini col violin, anca de lori i xe andadi, e insoma belissimo. Fin che vien fora questa che cantava. — Quala, questa? — Questa ungarese che cantava. La ve gaveva in testa, come che ga le ungaresi, la scufìa che ghe tigniva le drezze, el corpeto ricamà come che usa le ungaresi e la cotola plissé curta, perché le ungaresi ga i stivaloni rossi col tacheto. — Ungarese la iera? — No, serbo-ortodossa. Se ve digo che la iera ungarese. Insoma la bala cantando, fin che la se mola le drezze, la se cava la scufìa, la la gira cola man tignindola per i nastri e la disi, la fa la dice: «Questo per il signor Tòmaz!» E la ghe buta sta scufìa al signor Tòmaz che iera un signoron de Fiume sentado là. E zò sta zigàiner musìk. E dopo, sta qua che cantava, savé cossa che la fa? La se cava el corpeto tuto ricamà, la lo gira cola man e la dise: «Questo noi daremo al signor Baron Bàbosch» e la ghe lo buta. Savé sto Bàbosch ve fiera un magnate propio, ungarese, che stava in Abazia in una vilona, che ogi xe hotél, e pensé quela volta solo lui el stava. E zò sta zigàiner musìk. E alora sta qua che cantava, se cava la còtola plissé curta, che soto la gaveva el combiné col merlo, e la la gira cola man e la disi «E questa... e questa... a chi daremo questa?» E tuti quanti quei che iera là i ziga insieme: «Al Comandante Nacìnovich!» Siora Nina, cossa che no xe nato! — Cossa no xe nato? —Tuto xe nato. La moglie del Comandante ghe ga molado un stramuson davanti de tuti, la se ga ciapado suso, e via ela. E lui drio. «Porco!» la ghe zigava. E lu: «Ma mi te posso spiegar tuto!» E ela: «Busiaro!» E come che la se voltava, stramusoni. Fina che fora del giardin, in strada che la coreva, la trova una carozza e la monta suso e lui giusto giusto che xe rivado a montar anca lu sula carozza. «Ma Chetti, ma mi te posso spiegar tuto!» E ela: «Porco, busiaro... vergognoso, vergògnite, no stame gnanca vignir vizin.» «Ma mi te posso spiegar tuto!» E ela stramusoni. Ma stramusoni, savé, siora Nina, de restar incandidi. E alora el cùcer se volta, fazendo moti cola scuria, e ci fa ci dice: «Comandante Nacìnovich, gavemo portado in vita nostra putane a bordo, ah? Ma cative come questa, mai!» MALDOBRÌA IX - I cavalli di Jerazìmovich Nella quale Bortolo descrive gli orrori e le stragi della guerra sul fronte macedone intorno alla Fortezza di Monastir, dove tragico e concreto significato assunsero le parole dell'Imperatore Francesco Giuseppe secondo cui l'Austria-Ungheria avrebbe combattuto sino all'ultimo uomo e all'ultimo cavallo. —Tabaco Orientale e pretamente el Macedonia xe quel che più invelena. I disi che Macedonia xe paia. Altro che paia: mi so, savé, perché iero in Macedonia. Vù dovessi veder cossa che no ve xe el tabaco macedone, là i ga sti campi imensi. Solo tabaco, ve xe siora Nina: tabaco, tabaco, tabaco e tabaco. E Finanze. Penséve che, soto l'Austria, la Finanza contava le foie: una foia, che iera una foia, no doveva mancar con tuto che fiera guera e ocupazion. Perché mi, Marco Mitis, el mistro Bogdànovich e el povero Cadetto Giadròssich ierimo in Macedonia un periodo. — Ma dove iera 'sta Macedonia, che go sentì anca mi tanto parlar de mio cognà defonto? — Come dove la iera? La iera dove che la xe, solo che quela volta sicome che iera ancora el Turco in pie, co' gaveva de nasser qualcossa, nasseva sicuro in Macedonia. Polveriera d'Europa, cussì i parlava quela volta. — Per sto tabaco che no doveva mancar foie? — Ma cossa tabaco? Là ve iera un punto strategico: là ve iera Turchi, Bulgari, Serbi, Greghi, Rumeni, Macedonia po'. E durante la guera, parlo dela Prima guera, fìguréve che là iera propio fronte. — Ah, Galizia iera come? — Galizia iera una roba e Macedonia iera un'altra: fronte macedone. Dio mio cossa che no iera el fronte macedone, figuréve che iera sbarcadi sti francesi, sti inglesi, i italiani; e nualtri, che quela volta ierimo Austria, i ne gaveva mandado là come Fanteria de Marina. K. und K. Kriegsmarine Infanterie Regimént ierimo, me ricordo. Cossa che no iera Monastìr, là xe stà propio stragi. Perché con nualtri iera el Turco, el Bulgaro, e anca el Germanico gaveva mandà militari. Combatimenti, siora Nina, iera al ordine del giorno. — Iera ordine de combater? — Indiferente. Mi ve contavo de Monastìr, che noi no ierimo veramente a Monastìr, ierimo più in su, che no iera propio quel boio, ierimo più in dentro, come dir. Aquartieramento iera là che iera sta granda fortezza, turca mi calcolo la doveva esser stada prima, e tuto atorno siora Nina, sti imensi campi de tabaco, ste done in braghe che andava a coléser e la Finanza che contava le foie. Ma istesso per noi i serava un ocio e insoma, siora Nina, noi come noi, stavimo noma che ben. Ma pretamente sul fronte ve iera stragi, i ne contava. — Ah vù no ieri sul fronte? — Ve go dito che ierimo in aquartieramento in fortezza. Perché spetavimo dò altri regimenti de Fanteria de Marina per l'avanzata, che dovevimo ciapar de novo Antìvari, i parlava, andandoghe per drio. Perché sti altri iera sbarcai per davanti, ve go dito: un suf. E artiglieria gaveva de vignir, i parlava. E doveva tornar anche Jerazìmovich che iera andado intanto a far requisizion de cavai in Erzegovina. — Jerazìmovich, un general, un grando? — Maché general! El iera sì grando Jerazìmovich perché el iera un toco de omo, un dalmato, no propio dalmato perché el iera de Bùdua, che là zà se calcolava Montenegro, ma insoma un dalmato. E sto omo ve iera un baraba che no ve digo: bravo, furbo. Lui forniva l'Intendenza de cavai. Perché quela volta chi zucava i canoni, i cavai, no? E lui con un per de coverte, monture vece, qualche scartozo de sal e minace el ghe comprava a sti contadini i cavai per un bianco e un nero. Vù dovevi veder cossa che no iera de noi in fortezza co' rivava Jerazìmovich coi cavai. Lui tuto saveva, tuto podeva, tuto disponeva. El iera là coi ufìciai, el gaveva un baston in man, longo de qua fin là, me lo ricordo, e ogni caval che passava davanti per esser contado lu fazeva un taio col cortei sul baston. — Rabià, come? — Ma cossa rabià? Lui fazeva cussì per contar i cavai. «Jerazìmovich — el diseva — no tien scriturazion, ma conto bati sempre con Jerazìmovich.» E svelto po' che el iera, perché sti cavai che el fazeva passar davanti ai scriturai del'Intendenza, per contarli, el li fazeva corer cola scuria. Là, mi calcolo che iera qualche maldobrìa, ma istesso a Bogdànovich che iera capo scriturai, i conti ghe bateva sempre: tanti cavai notadi sul libro del'Intendenza, tanti tài sul baston de Jerazìmovich. «Conto bati sempre con Jerazìmovich», el diseva metendose dentro dela camisa 'sti pachi de fiorini grossi come le «Massime eterne» de don Blas defonto. — El li imbroiava? — Quel ve iera sicuro come la morte, ma no se saveva come. Insoma ierimo là, cavai gavevimo, ma sti omini che spetavimo coi canoni no rivava mai. E inveze una matina riva — me ga contà subito el Cadeto Giadròssich — un General, che soto l'Austria un General se lo vedeva sì e no dò volte al ano, e el ghe disi al nostro Comandante che iera un zerto Colonelo Hùbeny, un ungherese, bon omo, che come domani riva la Comission. — De leva? — Ma cossa de leva, che ierimo in guera? Siora Nina, la Comission dei ufìciai dele Potenze Aleate. Doveva vignir Germanici, no se parla, sti Bulgari, sti Turchi — quela volta i iera ancora Otomani — e che i vien con lu a ispezionar sti nostri tre regimenti de Fanteria de Marina. «Come tre regimenti che ho uno solo? — ghe rispondi Hùbeny—che aspetiamo i altri di due setimane, oramai. E che anche artiglieria abiamo poca. E che solo cavai gavemo, che per fortuna ga portà Jerazìmovich.» — E alora gnente? — Come, gnente? 'Sto General ciàpilo, lìghilo, che l'Austria se ga impegnà a Costantinopoli che là devi esser tre regimenti. Che pazienza per el Turco e per el Bulgaro, ma che una figura compagna col Germanico no se pol far. Che l'Austria xe un Paese ordinato, una roba e l'altra. Insoma, rabià, che lui no senti ragion, e che 'sto Hùbeny devi proveder. — Sé andai a cior sti omini? — Sì, dove andavimo a ciorli, siora Nina? Che a Monastìr iera stragi. No gavevimo omini e sto povero Hùbeny ciama tuti i ufìciai e el ghe disi francamente che lui se ciol la vita, e el tira fora el revolver. —Mama mia! —Mama mia, sì. Tuti iera come mati, perché sto Hùbeny iera un bon omo, ma de proposito. E alora Jerazìmovich che iera là — perché lui iera sempre là coi ufìciai — el se alza e el disi: «Una parola». Che se poderìa far cussì: che un reghimento gavemo, che dò porte ga la fortezza, che una xe davanti e una xe di drio, che el reghimento vien fora con canoni e cavai, che lui ga portà, perché Jerazìmovich quel che disi porta, e che batalion per batalion, i omini va fora di porta davanti, passa davanti di Comission, ciapa drio per bosco, torna per porta di drio e vien di novo fora per porta davanti come se fussi secondo reghimento. Po' porta davanti, Comission, bosco, porta di drio, porta davanti: Terzo Kriegsmarine Infanterie Reghiment! — No capisso. — Gnanca i ufìciai no ga capido subito, ma lui ghe ga spiegado che bastava far passar tre volte un reghimento che subito iera tre reghimenti, con Jerazìmovich conto bati sempre, Jerazìmovich sa. — Ma come el saveva? — Per forza, siora Nina, el saveva: iera tuta la guera che el fazeva cussì coi cavai. Zento cavai iera, vignimo dir, ma trezento el notava perché el li fazeva passar tre volte. Iera cussì che l'imbroiava. —Mama mia, che fufìgnezo! E xe andà ben? — Speté, speté. Tuto ben, de matina, co' xe rivadi sti Bulgari, 'sti Turchi, sti Germanici, vien fora i omini: monture stirade, scarpe lustre, ma però gaveva piovù tuta la note, in Macedonia xe assai piove. — E alora? — E alora, co' i omini i tornava per la porta di drio, Jerazìmovich iera pronto con Bogdànovich e i altri che presto presto ghe lustrava i stivai cola pàtina, che no se conossi che i xe passadi per el bosco. Anche pàtina lui forniva al'Intendenza. «Stivai lustro omo novo — el zigava ridendo — con Jerazìmovich conto bati sempre!» Un toco de omo el iera, un baraba, un dalmato de Bùdua. — E la Comission no se ga acorto? — Sicuro che no, perché pàtina per scarpe no ga mai mancà. Òmini ga manca, quel ve xe stà el ribalton del'Austria. Ve go dito che iera stragi. MALDOBRÌA X - A bordo della «Radetzky» Nella quale Bortolo narra degli ultimi anni di servizio prestati nella Marina da guerra, di Barba Mate Pessimòl, solitario custode di antiche glorie e di un giuoco di marinai in cui incautamente si lasciò coinvolgere un ufficiale dell'Esercito, di terra boema. — L'omo in pension, siora Nina, ve xe tuto un altro omo, perché lui prima pensa che lui farà, che lui andarà, che quel e che quel altro, e po' inveze i va a far la spesa in Ponterosso e in Pescheria granda. — Eh xe meio che i vadi, perché se no i se remena per casa o in local. Mia madre defonta me diseva che... — Indiferente. Xe anca che adesso la vita xe assai cambiada, xe un'altra concezion, come. Una volta, per esempio, el maritimo de bassa forza, con quele misere pensioni che dava la Cassa Maritimi, no podeva tirar avanti. E i andava a pescar e con quei pochi che i ghe dava de bonuscita i se meteva in parte con qualche rede, qualche trata o in Arsenal i lavorava come guardiani. Ve ricordé, per esempio, Barba Mate Màrovich quel che i lo ciamava Pessimòl? — Barba Mate Pessimòl? Sua fìa me ricordo che andava a scola dela maestra Morato con mia madre e che i la ciamava Pessimòlca. — Cossa me vigni fora cola maestra Morato? Vù no podevi conosser Barba Mate Pessimòl, perché ogi se Barba Mate Pessimòl fussi vivo el gaveria zento e sete, zento e oto ani, el sarìa el più vecio maritimo de bassa forza che esisti. Perché lui ve xe andà in pension che el gaveva, mi calcolo, un setanta. Lui ga naviga fin al ultimo suo, sempre sula «Radetzky» che iera una vecia barca dela Marina de Guera. Ben, volé creder, quando che i la ga messa in disarmo, lui ga fato petizion. Barba Nane ghe gaveva dito de far: «Fé, fé petizion, Barba Mate — ghe gaveva dito Barba Nane — che mi go sentido in Governo Maritimo che la «Radetzky» no va pretamente in disarmo, ma che i la meti come navefanal a Pola, fora del Porto Militar e se vù fé petizion, forsi i ve meti come guardian e cussì no i ve cava la matricola.» — Guardian de Porto Militar? — Sì, Padre Guardian dei Frati de Squero! Cossa guardian del Porto Militar? Guardian de sta navefanal che i calcolava de far. La navefanal, siora Nina, ve xe una barca in disarmo che i ghe meti su una lanterna e che servi per lanterna. I ghe meti assai calùma, i la àncora, i la armisa con un per de bòe e cussì in un domani i pol anche moverla per meterla in un altro logo, dove che ocore. — Ah, comodo! — Comodo un corno, siora Nina. Perché vù no savé cossa che no iera esser guardian de una navefanal: voleva dir esser soli: sì e no un giorno sì e un giorno no che vigniva la betolina a portarve le proviande e el petrolio per el fanal. E no dormir de note, Dio guardi che no el se distudi, che no se rompi la redina: sacrifizio, insoma. Però Barba Mate, savé, la fìa ghe se iera sposada, la moglie ghe iera morta, altri fìoi no el gaveva e cussì el iera tuto contento quando che el ga avù l'acetazion dela suplica. Oh Dio, no i ghe dava miga più la paga de maritimo, ma un poco la pension, sta spetanza, la panatica, una roba e l'altra, lui se la passava. Insoma, el se la passava! Sempre a bordo de sta barca el iera, zinque giorni franchi al ano i ghe dava. Vedé come che iera le robe una volta e istesso la gente iera più contenta. Per lui iera nòma che ben, el fazeva, savé, quele barche in butilia che fa i veci maritimi e po' qualchedun sempre andava a trovarlo co' vigniva a Pola ste barche de guera. Me ricordo mi quando che iero militar de leva, che co' se ghe passava davanti, se ghe dava una vose «Barba Mate! Barba Mate!» e lui «Viva!» el zigava, saludando cola man. El iera sempre de provavia che el pescava cola togna. «In fin dela mia vita — el diseva sempre, co' andavimo a trovarlo col caìcio—son deventà Comandante e paron dispotico dela «Radetzky». Magari me comando solo si stesso, ma meo no gaver nissun soto che qualchedun de sora!» El iera un ridicolo savé, i contava de lui che co' el iera giovine el gaveva visto e fato el suo. — El pescava? — Sì, sicuro che el pescava, cossa volevi che el fazzi solo su sta barca? Ma no iera questo che intendevo. Volevo dirve che una volta ierimo mi e Polidrugo arivadi a Pola col «Arciduca Ludovico Vittore» che iera una barca dela Marina de Guera, assai de figura ma gnente de tale, e se gavemo fato portar col caìcio su sta navefanal de Barba Mate. Ghe gavemo porta vin de Sànsego che lui assai ghe piaseva e là, una roba e l'altra, tuto el dopopranzo a bever e a contarsele dò per un soldo. E dopo Polidrugo, che iera un omo stufadìz: che basta, che andemo in tera, che andemo in tera. Ghe gavemo dado una vose a una pàssera che passava, perché Barba Mate no gaveva gnanca caìcio: «Viva! Tanti saluti! Torneremo!» e andemo in tera. — Con sta pàssera? — Ma sì, una pàssera, quel diàmberne che iera, una barca che passava. 'Sta «Radetzky» iera armisada fora de Scoglio Ulivi, se podeva rivarghe solo che cola barca. Andemo in tera, zà bevudi un poco, e andemo in local de Maria Longa, che là se trovava sempre tuti sti istriani, sti dalmati, sti piranesi, e trovemo inveze pien de militar de tera. Iera sti militari de tera, poveri, boemi massima parte e qualche triestin. I triestini iera mace, savé, e savé come che xe, un dopio tira l'altro, co' iera le nove de sera, no che fussimo pretamente imbriaghi ma assai alegri. — Eh i maritimi co' i xe in tera, xe bruto. — Bruto! Sacrifizio xe in mar e in tera se se la passa. E Polidrugo che iera un baraba, savé, ghe disi a un triestin «Per l'ultimo dopio femo el zogo dei fulminanti». — Impizzar fulminanti? — Ma che impizzar fulminanti, siora Nina! El zogo dei fulminanti: se ciol dò fulminanti, uno intiero e uno se lo rompe a metà. Po' se li meti tuti dò tra i dedi, che se vede solo le teste e se ghe dise de scelzer a quel altro che zoga. Cussì fazeva Polidrugo e el diseva: «Curto paga e longo perde.» — No capisso. — Come no capì? Se quel altro scelzeva el curto el pagava e se el doleva el longo el perdeva, no? — Ah cussì! O andava ben o andava mal... — Ma cossa o andava ben o andava mal? Sempre andava mal, siora Nina, per chi che zogava con Polidrugo. Perché curto paga — longo perde, cossa ve vol dir? Che quel che zogava con Polidrugo no vinzeva mai. E no i capiva, savé, specie i boemi; questa iera la furbitù de Polidrugo. El ghe diseva a sti boemi per tedesco: «Lang zahlt, kurz verliert» e sti qua «dobro, dobro» e i pagava sempre el dopio de vin. Un rider, una contentezza! Perché po' sti triestini che no iera i ultimi sempi gaveva capido e quela sera ga finì che iera anche mace de vin sul plafòn. — Ah, ga fìnido? — Maché fìnido! Ga apena cominciado. Perché co' iera sto Polidrugo in pie sula tavola che zogava lui solo contro tuti sti boemi «Longo paga, curto perde» no vien dentro un ufìcial de tera? — No el riva a vignir dentro? — Come no el riva a vignir dentro? El vien dentro sì e come. E el ziga: «Schluss! Abtàt», perché i gaveva sentì sto gheto fina in sua caserma de lu, che iera là vizin. Cossa che femo? E Polidrugo che lui zoga. E sto ufìzial che el militar, per regolamento del Esercito Austro-Ungarico, no pol zogar. E Polidrugo, ciapà che el iera, el ghe rispondi che lui no ghe importa, che cossa Esercito Austro-Ungarico, che noi semo dela Marina de Guera, Kriegsmarine! E dàghe una macia de vin sul plafòn, in piedi che el iera sula tavola. — Per sprezzo? — Cussì, ciapà che el iera. E mi rider e sto ufìciai rabià come una belva ne domanda chi che xe el nostro Comandante. E Polidrugo, saludando, ghe disi che «il nostro Comandante Supremo in pace e in guera è Sua Maestà Apostolica l'Imperatore Francesco Giuseppe Primo, che Dio ghe brazzi l'anima.» 'Sto ufìcial de tera — un czeco doveva esser—sempre più furioso el domanda de dove che semo nualtri dò. E Polidrugo ghe fa: «Noi siamo del Litorale Austriaco, Küstenland, che comprende la Contea Principesca di Gorizia e Gradisca, il Margraviato d'Istria con le Isole di Cherso, Veglia e Lussino e la Città di Trieste col suo Territorio e tuti i sui postriboli.» «Curto paga e longo perde», el ghe dise e el ghe presenta davanti i fulminanti. — El voleva che el zoghi? — Ah! Mi no so più cossa che voleva Polidrugo, fato si è che sto ufìcial disi che, imediatamente, noi dovemo portarlo sula nostra barca, perché el vol personalmente far raporto al nostro Comandante per questo comportamento vergognoso. «Sofort! Heraus!» e el ne guanta per le manighe e el ne porta al molo. Dove che xe la barca nostra? Che la xe là, disi Polidrugo. E sto qua ciama un barcariol, ne fa montar, monta a bordo anche lu e el ne dimanda quale che è il nome di nave. E Polidrugo ghe disi al barcariol «Radetzky». «Quale è il nome di comandante?» «VizeAdmiral Pessimòl», ghe rispondi serio Polidrugo fazendoghe moti al barcariol come se sto ufìcial fussi imbriago. 'Sto omo voga e el ne porta soto la biscaìna dela Radetzky, che el fanal lampava — iera zà note — e primo lu, sto ufìcial, monta sula scaleta. E apena che el ga fato un per de scalini, Polidrugo ghe ziga al barcariol: «Via, via! Che sto czeco xe imbriago e el ga el revòlver!» — Sé scampadi? — Sicuro che semo scampadi. 'Sto barcariol gaveva ciapà paura, tanto più che 'sto ufìcial, dela scaleta, zigava come un mato: «Wohin gehen sie?», come dir dove andate? «Nach Prag!» ghe zigava Polidrugo, fazendo moti e flati, come dirghe a sto czeco che andavimo a Praga cola barca. Un rider, una contentezza. Imbriaghi po'! — E sto ufìcial? — Siora Nina, come màrtedi note lo gavemo portà sula navefanal, come giòvedi, apena, xe vignuda la betolina. Dò giorni el xe stà su sta «Radetzky» solo con Barba Mate. E gnanca tanto mal no el se la ga passalo: massima parte del tempo i ga zogado «Longo pagacurto perde». Iera stado Barba Mate che ghe gaveva imparà a Polidrugo. MALDOBRÌA XI - Il viaggio dell'Imperatore Nella quale si narra della storica venuta di Sua Maestà Apostolica nel Margraviato d'Istria, in Illiria e nelle Isole del Quarnero nonché del monumento che per l'occasione fu deciso di erigere nella cittadina di Caìsole dopo un accordo fra i suoi maggiorenti. — Una volta, siora Nina, iera tuta un'altra concezion del mondo. Per esempio mi me ricorderò sempre de quela volta che a Caìsole la Deputazion Municipal gaveva decidesto de far la fontana in piazza, perché doveva vignir l'Imperator in visita. — Una fontana? Iera obligo? — Ma no obligo. Per far più bel. Solo che co' ben iera tuti dacordo, dove meterla e tuto, i ga fato mente locale che a Caìsole no iera acqua. Coi ludri, siora Nina, i la andava a cior in lago de Vrana. — La Deputazion Municipal? — Sì, lori ve andava per acqua! Vardé che in Deputazion Municipal de Caìsole ve iera un avocato Miagòstovich, un Comandante Petrànich, un Bepin Rodoslòvich; insoma i primi. E iera sempre sta invidia per Lussin che gaveva le Nautiche, me capì. — Ma no me contavi dela fontana? —Ve contavo. Ma adesso no conto più perché no me lassé parlar. Speté no, che ve conto: questo dela fontana ve iera nato propio per via dele Nautiche. I gaveva messo le Nautiche a Lussin e a Cherso i diseva: «Perché no a Cherso?» E quei de Caìsole diseva alora: «A Cherso, va ben, ma perché propio a Cherso-Cherso? Cherso ga zà el squero, Cherso ga el torcio, Cherso ga le mùnighe, ga i frati, e Caìsole cossa ga? Gnente». Che anche a Caìsole ghe vol far qualcossa. E i voleva le Nautiche, fìguréve. Lori se ga impetì a Pola, lori se ga impeti a Trieste: gnente. E cussì quando che xe passa telegrama che, come de là a un ano, sarìa vignudo l'Imperator a Lussin e a Cherso, l'avocato Miagòstovich ga dito: «Anderò mi a Cherso a portarghe la suplica!» — Dele Nautiche? — Sicuro. Che lui andarà a Cherso a portarghe la suplica dele Nautiche al Imperator. E i altri che cossa, che quei de Cherso po' lo inzìngana e che perché l'Imperator, visto che el xe de passagio, non el ga de vignir anche a Caìsole? Che cossa i xe lori, fìoi dela serva? — L'Imperator de Austria? — No, del Giapon. El Mikado. Ma dài, siora Nina: iera el famoso viagio che ga fato l'Imperator Francesco Giusepe nel Litorale, nele isole e nele Province Iliriche e tuti zà preparava le supliche. Savé, un Regnante che vigniva, iera un'ocasion. E alora, me capì, iera sta Deputazion Municipal, serada ore cole ore in Municipio che studiava modo e maniera de come far vignir l'Imperator a Caìsole. — Ah! Alora per quel i ga fato la fontana! — Ma se ve go dito che no i la ga fata. La prima idea che ghe xe vignuda iera quela dela fontana. Ma, senza acqua, come volé far fontana? E alora l'avocato Miagòstovich ga dito: «Monumento». E tuti entusiastichi che sì, che sì: monumento. — Ai Caduti? — Ma cossa, Caduti! Che quaranta ani no iera guera soto l'Austria! Un monumento, no? Che l'Imperator inauguri e cussì el vegnerà a Caìsole e, senza che se intrighi quei de Cherso, i ghe darà la suplica per le Nautiche. — Un monumento ale Nautiche? — Ma come un monumento ale Nautiche? Insoma indiferente. Che i devi far un monumento per aver l'ocasion de darghe cussì, direttamente, la suplica al Imperator. E tuti ga dito el monumento dacordo, el monumento va ben: ma a chi che se ghe fa el monumento? — Eh, se no iera Caduti... — Alora Bepin Rodoslòvich ga dito: «Savé a chi che ghe dovessimo far el monumento? No perché ghe son fradelo, ma a mio Fradelo Nicolò, povero, che el xe nominà dapertuto.» Perché, savé, siora Nina, questo Nicolò Rodoslòvich, che vigniva a star el fradelo de Bepin Rodoslòvich, e che iera morto zà de qualche ano, ben, lui ve iera stado Primo Ufìcial sula «Tegetthoff», quela famosa barca che gaveva trovado, scoperto propio, la Terra di Francesco Giusepe, là vizin del Polo Nord. Che quela volta iera stà un avenimento grando, come che fussi ogi un Amundsen, un Duca degli Abruzzi. — El iera andà al Polo Nord? — No propio al Polo Nord. Con sta barca i gaveva scoperto ste isole là vizin, che i ghe gaveva dado el nome del nostro Imperator: Tera di Francesco Giusepe. E alora sto Bepin Rodoslòvich ga dito: «No perché el me iera fradelo, ma de Caìsole che el iera, che el iera in sta Tera de Francesco Giusepe, che el xe nominà dapertuto, che vien qua Francesco Giusepe: se no ghe femo a lui el monumento, a chi ghe lo gavemo de far?» Che po' tuti se lo ricorda ancora: che el iera un bel omo, de figura, alto, biondo, in montura de Marina, col capel puntà e la sua bela barba spartida in mezo, che anzi tuti diseva che ssai el gaveva del povero Massimiliano defonto. — Massimiliano? Un altro de sti fradei Rodoslòvich? — Ma no! Massimiliano del Messico povero, de Mìramar, quel che i lo ga copà in Messico. Alora don Blas ga dito, che pol darse che Nicolò Rodoslòvich iera nominado, ma alora chi più nominà del Vescovo de Ossero, che el iera de Caìsole anche lui? E alora l'avocato Miagòstovich che iera ateista, come, ga dito che cossa, che a Vescovi no se fa monumenti, e che in ogni modo, caso mai se don Blas lo vol far coi soldi dela Cesa, va ben, ma no con quei dela Comun. Insoma, barufa in Deputazion. E alora el Comandante Petrànich ghe ga dito a Bepin Rodoslòvich: «Ti sa, Bepin, che ti me ga dado un'idea, co' ti me ga ramentado prima Massimiliano? Mi me ricordo, che un per de viagi fa, co' iero a Venezia, in quel magazen del squero che xe rente dela Sussistenza militar, xe là, per tera, in dò tochi un magnifico, che giusto lo osservavo, monumento de Massimiliano.» — A Venezia, butà per tera in dò tochi? — Eh sì, siora Nina. Perché quela volta l'Austria no iera più a Venezia. Iera ani anorum che la gaveva fato la cession de Venezia al'Italia. E cussì, contava el Comandante Petrànich, in sto magazen del squero i gaveva smacà per tera sto monumento a Massimiliano, che iera stà Governator dele Vece Province, come che i usa far dopo i ribaltoni. «Capì — diseva el Comandante Petrànich — sto monumento a Massimilian el ve xe smacado là, ma novo novente, perché no i xe rivadi gnanche a meterlo suso che xe vignuda la cession de Venezia.» — Pecà, quanti soldi butai via!... — «Sicuro — diseva Petrànich — novo novente el xe, e a caval de un caval lipizzan, in montura de Marina, col capel puntà e col canocial che el varda. E mi calcolo che, là che no el ghe servi, quei del squero i ne lo dà per una s'cinca e un boton. Figuréve, a caval, che figura che el farìa in una Caìsole!» E tuti che sì, che alora sì, che po' Massimilian, che iera Comandante dela Flota, cole Nautiche, el sarìa propio intonado. Rodoslòvich ga rugnà, che cossa, el suo povero fradelo, che i lo ga sprezzà in vita e che i lo sprezza in morte. Ma l'avocato Miagòstovich ga dito che anche bisogna vardar la convenienza, che qualchedun vadi a veder e che se i dà sto monumento per un bianco e un nero, che el prossimo viagio che el fa, Petrànich vadi a ciorlo, che cussì no se spende per el nolo. Che lui intanto ghe manda subito la notifica a Pola che i averti, in modo che possi vignir l'Imperator a Caìsole. — E i lo ga comprà? — Per un bianco e un nero, siora Nina. Gnanche a peso. A ocio i ghe ga fato. Lori no ghe serviva. Ghe fazeva solo intrigo in magazen del squero. E insoma, torna sto Petrànich con sto monumento che, ve digo, iera un spetacolo e i lo meti in magazen del pesse. Ma volé creder, siora Nina: tempo quatro giorni, ghe vien la letera de Pola, che va ben, che l'Imperatore verrà anche a Caìsole, ma che, per l'amor di Dio, niente monumento a Massimiliano: primo perché xe zà un a Trieste; secondo perché su quela storia ogi come ogi è meglio che no se insistissi; terzo, che l'Imperator povero, dopo tute ste altre disgrazie che el ga avudo, tirarghe de novo fora anca el fradelo copà, data l'età avanzata non è oportuno, insoma. Cussì, in confidenza, ghe gaveva scrito questi de Pola. — Ma a chi el vigniva a starghe fradelo? — Del Imperator, siora Nina. Massimiliano iera fradelo del Imperator! Figureve in Deputazion Municipal! Come mati. Gaver sto monumento pronto, a caval, in magazen del pesse, che bastava farghe el basamento e no poderlo meter. L'Imperator, po', vigniva come de là un mese e no iera più tempo de far un altro. — I iera intrigadi, come? — Intrigadi siora Nina? I iera disperadi. E alora l'avocato Miagòstovich ghe xe vignù come un'ispirazion: «Senti Bepin — el ghe disi a Bepin Rodoslòvich — no ti gavevi dito ti, e mi me ricordo anche, che tuo fradelo Nicolò povero, assai ghe somiliava a Massimiliano defonto?» «Sicuro — ghe fa Rodoslòvich — diseva tuti: la gente se voltava co' el passava a Pola in montura». «Ben e no ti credi che se podessi dir, in fondo, che xe tuo fradelo? Se podessi scriver soto che xe tuo fradelo. In montura de Marina che el xe, col capel puntà e el canocial che el varda...» «Sì — disi el Comandante Petrànich — a caval! Nicolò Rodoslòvich a caval, de un caval lipizzan: te prego, no stemo renderse ridicoli.» «Orpo, xe vero, el xe a caval. Ma, aspeta, aspeta, aspeta: el monumento xe in dò tochi, no? Xe el caval e xe Massimilian. Ben: noi tiremo zò Massimilian del caval, ghe disemo a tuti che xe Nicolò Rodoslòvich e amen.» E i cori subito con dò fachini de porto in magazen del pesse. — Per tirarlo zò del caval? — Sicuro. I lo ga tirà zò del caval. Ma capì, siora Nina, come che Massimiliano gaveva el moto de star sul caval, vardando col canocial, una volta tirado zò del caval, no iera propio gnente bel de veder. Perché el fazeva strano, come: cussì in senton cole gambe larghe. «No stemo renderse ridicoli — ga tornà a dir el Comandante Petrànich — ve prego, no stemo renderse ridicoli.» «Cossa ridicoli? — ga dito Bepin Rodoslòvich — cossa xe sti sprezzi per mio fradelo defonto? El par che el stia in senton, va ben: e alora... fémoghe un logo per sentarse. Cossa mio fradelo no se sentava forsi?» «Sì — ga dito don Blas — sentémolo sui scalini dela Cesa, cussì chi che passa ghe dà un soldo.» «Ziti, ziti, ziti — fa l'avocato Miagòstovich — savé dove che lo sentémo? Sula bita de piera del porto, col canocial che el varda el mar. Cossa volé de meio? Ghe metemo la placheta col nome e col'iscrizion e cussì se onora anche el nostro povero Nicolò Rodoslòvich che, bisogna dir, xe assai nominado dapertuto.» — Ah! I lo ga sentado sula bita de piera del molo? Come un capitano che varda? — Propio cussì, siora Nina. E xe vignudo l'Imperator. Tuto coverto cola strazza. — L'Imperator? — Cossa l'Imperator coverto cola strazza? El monumento iera coverto cola strazza. L'avocato Miagòstovich, come capo dela Deputazion, ga fato el discorso: «Sacra Maestà, questo figlio di Caìsole, Nicolò Rodoslòvich che le Terre Polari scoperse e all'Augusto Nome Vostro dedicò, qui di fronte all'Adria...» e cussì avanti, come che iera anche scrito sula bita. Po' un mariner de Marina de Guera ga tirado zò la strazza. Siora Nina: savé che no i ga avù gnanche coragio de darghe la suplica per le Nautiche al Imperator? — Cossa al Imperator no ghe gaveva piasso el monumento? — Come no? Anzi: el gaveva dito «Aggradisco molto». Ma dopo ghe xe vignù come un gropo in gola e el xe andà a pianzer drio dela Cesa. Savé: sto monumento ghe gaveva assai ricordado el suo povero fradelo Massimiliano copado in Messico. Anche Bepin Rodoslòvich pianzeva: «Preciso — el diseva — una somilianza impressionante, cussì sentado a cavaloto sula bita, come che usava mio fradelo Nicolò defonto, i ultimi ani...» MALDOBRÌA XII - Un paio di brache Nella quale Bortolo si richiama alla parsimonia e alla semplicità nel vestire dei vecchi marittimi e racconta quel che occorse sull'Orient Express al Capitano Jurìssevich dopo aver preso la non facile decisione di provvedersi di un nuovo pantalone. — I capoti dura, siora Nina. Oh Dio, ogi no più come una volta: una volta, un capoto de montura, un capitan fazeva forsi due in vita... — Come? I fazeva due capoti e po' i andava in vita? — Sì, in spadin. Intendevo dir che i fazeva dò capoti, che ghe durava tuta la vita. — Un cava e un meti? — Cossa un cava e un meti? Fruga un, i fazeva quel altro. E po' iera el capoto de legno. Cossa volé, roba de Marina, roba che durava. E miga solo i capoti, savé? Anche le monture. Cossa che no durava una montura! El piloto Jurìssevich, per dirve, fin che i lo ga fato capace de comprarse un altro per de braghe, xe stà un teatro. — El piloto Jurìssevich, chi questo? — Siora Nina, quel che iera patrioto nostro, che po' el iera piloto a Suéz. Savé: el piloto Jurìssevich iera primo piloto, capitan vero, assolto dele Nautiche de Lussin. Dove, se no, i lo gavessi ciolto a Suéz? Là doveva esser tuti primi piloti, capitani. E difati lui, prima, el navigava per la Marìnovich. — La Marina croata, come? — Ma come la Marina croata, come? La «Matteo Marìnovich e Consorti, Società per la Navigazione a Vapore», che gaveva bei vapori per quela volta. Ve iera el «Beatrice», el «Rosanka», el «Prazzàtus», el «Leopoldina» — bela barca iera el «Leopoldina» — e po' el «Maria Immacolata», el «Gràdaz», el «Dùbaz», el «Gardenia», el «Robinia». Tante barche i gaveva. Mi go navigà, savé. Iera linie gnente de tale, ma comode. Col «Leopoldina», che mi iero imbarcà col capitan Jurìssevich, se fazeva, pensévese: Lussingrando, Lussinpicolo, Pola, Fasana, Rovigno, Orsera, Parenzo, Citanova, Umago, Salvore, Piran e Trieste. E po' répete; de Trieste fin Lussingrando. E po' no ve digo! Noi, in tuti sti porti gavevimo amichi, perché iera giornaliero. Postale iera anca el «Leopoldina». Po' comodo: perché lui una sera ve iera a casa e una sera ve iera a Trieste. — Chi iera a casa? — Chichirichì cola bareta rossa! El capitan Jurìssevich, el piloto ve iera a casa. Lui gaveva casa sua a Lussingrando. E cussì co' el rivava a Lussingrando el dormiva a casa sua de lu a Lussingrando e co' el rivava a Trieste, el dormiva a bordo. — Del vapor? — No, dela «Viribus Unitis» che vigniva aposta a ciorlo. Natural che el dormiva a bordo del vapor, del «Leopoldina», che quela volta el iera imbarcado. Indiferente: mi ve contavo per dirve che a sto omo per farghe comprar un per de braghe nove, xe stà teatro. Lui ve gaveva la sua montura. Dò monture el gaveva. Una blu de inverno e una bianca de istà, perchè iera vapor giornaliero, de passegeri anca, e iera obligo. De istà in bianco. E le monture, capì, ai marineri semplici ghe le passava la Compagnia, ma ufìciai e sotufìciai doveva farsele soli. I dava sì una rivalsa per la montura, ma anca soto l'Austria quel iera una picolezza: assai malfato. Insoma, lui ve gaveva sta montura blu de inverno e meza stagion che come sacheto — podé capir — più che tanto el maritimo no fruga, ma come braghe iera orori. Savé cossa che vol dir pezo el tacon che el buso? Ghe se vedeva el dedrio straponto, i zenoci fora e fin sfìlazzi sui bindéi che mi più de una volta go dovesto taiàrgheli cole forfè. — Trascurante, come? — Altro che trascurante! Tuti ghe diseva de comprarse un per de braghe nove, anca la moglie, le fìe sposade, che iera una vergogna fin per Lussingrando. E lu che el sacheto xe bon, che se pol dir che el xe novo e che chi va a vardar le braghe. No ve digo cossa che no xe stado in quela casa quando che Bepi Màrovich, che lori vigniva a star secondi cugini, ghe ga partecipado che, come sto altro mese, el se sposa, con una de Trieste e se el ghe vien far de compare de anél. — Con una de Trieste? Ah, ben... — De Trieste, insoma, no propio de Trieste: ela ve iera de Nabresina, una del teritorio, che Bepin Màrovich gaveva conossudo a Trieste in local de sua zia de ela che gaveva local. La iutava, come: bravissima giovine. Seria. Insoma sposalizio in cesa de Nabresina e el piloto Jurìssevich compare de anel per el sposo. — E per la sposa? — Ma cossa so mi chi che iera per la sposa? Insoma fato stà che el piloto Jurìssevich ga dito: «Giusto ben, che poderò meter el mio vestito de sposo, che el xe novo novente.» — Ah giusto: iera l'ocasion. — Ocasion, siora Nina! Ocasion de renderse ridicolo: no ve go dito che sto piloto Jurìssevich gaveva zà fìe sposade? Savé come che se disi: muro vecio fa panza e sto vestito de sposo no ghe ndava gnanca sul naso. Che slargarlo sarìa spese, e che alora lui anderà in montura. Che lui xe capitan, assolto dele Nautiche de Lussin, e che i pol esser onorati. E che el sacheto xe bon e che le ghe lo sopressi. E alora tuti de novo a dirghe dele braghe e lui che cossa, che le braghe nissun no bada. «Se vù fussi al Lloyd Austriaco inveze che ala Matteo Marìnovich e Consorti — ghe ga dito Barba Nane — a vù, con quele braghe, i ve gavessi zà cavado la matricola!» — Eh co' xe morto Barba Nane, siora Bortolina defonta ga regalado tante braghe ai veci del Ospizio marino: lui tigniva assai de conto la roba. — Indiferente. Insoma el va a Trieste col «Leopoldina», el suo viagio solito e dopo, per andar a Nabresina, i ghe gaveva dito che meo de tuto xe cior el treno. Parlo de prima dela Prima guera, siora Nina: dove quela volta ve iera coriere? Savé, Nabresina iera Bivio e fermava tuti i treni. Ben, de prima matina lui se sbarca del «Leopoldina» a Trieste, el ghe disi al nostro-omo Fatutta che el tornerà come diman, che el ghe racomanda e che, arivederci, el va in stazion a véder a che ora che ghe parti el treno per Nabresina. E via lu per Riva col suo bel sacheto sopressado e le braghe straponte. No volé che co' el xe là del Governo Maritimo, el ve intiva el vecio Pìllepich, Marco Mitis, el capitano Nacìnovich e i gemei Filipàs, tuti insieme che i vigniva fora del Governo Maritimo. Che dove che el va, che chi che no mori se rivedi, che cossa che el fa, che lori va tuti al Cassetin a far marenda e che el vegni con lori al Cassetin. — La marenda in cassetin? — Siora Nina: el «Cassetin» ve iera un local a Trieste in via Geppa, che i maritimi ghe ciamava el Cassetin, perché el iera longo e streto come un cassetin, e là se trovava tuti sti istriani, sti dàlmati, sti piranesi per far marenda de matina. Che lui no, che lui no pol — ghe disi el piloto Jurìssevich — che el devi andar a Nabresina, che el xe de nozze. E lori che noi stia bazilar, che xe bonora, che per Nabresina xe treni ogni momento perché xe Bivio, e che cossa, ogni morte de papa che se se intiva, insoma che el vegni al Cassetin. — Eh usa sì, i maritimi, co' i se intiva, andar in local. — Natural. E come che i andava in local e che el piloto Jurìssevich e el Capitan Nacìnovich caminava davanti, i gemei Filipàs, che iera due ridicoli, caminandoghe drio, i diseva tuto el tempo se ghe gira l'aria per le braghe e se co' quele braghe iera intiere iera ancora vivo Marco Caco. Insoma un rider che no ve digo, un ciorlo via per ste braghe straponte. E anche al Cassetin, con 'sto persuto crudo e sti mezi de nero che i ciamava un drio de un, no i fazeva che scherzarlo e stuzigarlo per ste braghe. — Se osservava assai? — Enorme. Tanto che el Capitan Nacìnovich ghe ga dito: «Jurìssevich, alzévese un momento dela carega che vedo anca mi ste braghe». — E lui se ga alzà? — Come no. Savé: Nacìnovich iera un omo che imponeva. «Jurìssevich — el ghe disi — cossa a nozze andaré con quele braghe? Quele braghe ve xe una strazza. Cossa andé a Nabresina per farghe vergogna a Bepi Màrovich? Vù adesso gavè solo una roba de far. Vù andé subito qua a rente che ve xe la Proveditoria Maritima e ve compré un per de braghe nove.» E Jurìssevich: ma cossa, che chi osserva le braghe e che po' oramai xe tardi e che dopo no el troverìa più treni per Nabresina. Come che no el troverìa più treni dopo? Che a mezogiorno in punto ghe parte l'Oriént Express, che anca quel ferma a Nabresina, e che el ga tuto el tempo de comprarse anche dò peri de braghe. Che po' sul Oriént Express a Trieste xe sempre posto sule veture che scrivi su «Lubiana e oltre», perché quele se impinissi apena a Lubiana. Insoma el Capitan Nacìnovich iera un omo de poche parole, ma che imponeva e el lo ga fato persuaso, fìgurévese, de andarse comprar ste braghe nove. — In Proveditoria Maritima? — Sì, in Proveditoria Maritima de Màitzen che iera là rente. El piloto Jurìssevich va drento: se i ga un per de braghe de montura misura granda? Che i ga monture: braghe e sacheto. No, che lui vol solo braghe. Che no se pol, che xe braghe e sacheto insieme. Che lui sacheto no ghe ocori, che el suo xe novo, che el vol solo le braghe. Che i ghe domanderà a sior Màitzen. «Va ben — ga dito sior Màitzen — deghe le braghe de sta montura misura granda». Che xe venti corone, che el vadi ala cassa, che el troverà el paco. Che no ocori paco, che se i ga un camaroto el se le meterà là. Che no i ga camaroto, che no el vedi che xe pien de gente de servir, che el daghi pase, che el vadi ala cassa, che el troverà el paco: venti corone. — Quanto vignissi a esser venti corone? — Indiferente. El le ga pagade, el ga ciolto sto paco e el xe andà in stazion. Siora Nina: cossa che no ve iera una volta l'Oriént Express! De Parigi el vigniva e l'andava fin in Levante, coi sentai rossi e scrito per tute le lingue: Parigi, Trieste, Nabresina, Laibach che iera Lubiana, Zagabria, Belgrado, Léskovaz, Sofìa, Costantinopoli: pensévese. Insoma come che ghe gaveva dito Nacìnovich, lui xe andà in sta carozza che iera meza svoda, el se ga informà pulito se se ferma a Nabresina: sì che se ferma. E alora el se ga comodà con sto paco vizin. — Fermava a Nabresina? —Tuti i treni, soto l'Austria fermava a Nabresina: iera Bivio. E co' el treno se ga movesto e ga passado Mìramar, el piloto Jurìssevich ga ciolto el suo paco, el xe andado — con decenza — in logo de decenza, el se ga serado drento e el se ga cavà le braghe. — Un impelenza? — Ma no, siora Nina: el voleva cambiarse le braghe. Difati el se le ga cavade, el ga tirà fora el fazoleto de naso, el portafogli e la brkola, el ga verto el fìnestrin e el ga butà fora le braghe vece. Siora Nina: el se gaveva capacitado anche lui che no le iera più gnanca bone per far strazze. — El le ga butade fora del fìnestrin? — Sicuro. Po' el ga serado el fìnestrin e el ga averto el paco. Siora Nina: un sacheto. — Come un sacheto? — Un sacheto, siora Nina: drento del paco el ga trovado el sacheto de quela montura che lui voleva solo le braghe. Assai gente, confusion in negozio: e nel paco, inveze che le braghe, i gaveva messo el sacheto. —Mama mia! E cossa el ga fato? — Gnente no el ga fato, siora Nina. El ga batù sì coi pugni sula porta fin che xe vignù el controlor. Ma no i lo ga lassà sortir del logo de decenza. Fina a Costantinopoli. Savé: i veci maritimi, quela volta, no usava portar mudande. Nabresina, Lubiana, Zagabria, Belgrado, Léskovaz, Sofìa. Braghe de turco ghe ga dado un ferovier a Costantinopoli. MALDOBRÌA XIII - Il sottomarino francese Nella quale Bortolo ricostruisce gli eventi della prima notte di guerra nel porto militare di Pola, subitaneamente attaccato con sfortunato ardimento da un sottomarino francese e della notevole parte che ebbe, nella fulminea reazione del dispositivo di sicurezza, il mistro Bogdànovich delle Bocche di Cattaro. — Co' xe guera, siora Nina, per un porto militar, no xe gnente de meo che una rede de fero. Sbaramento, siora Nina, sbaramento de rede de fero: no passa el sotomarin, no passa i silurenti, insoma no passa nissun. Chi ve pol passar oltra de una rede de fero in una Pola, presempio? Qua parlo de Pola, de prima dela guera, anzi de dopo che iera apena cominciada la Prima guera. Iera del Quatordici, me ricordo, pena cominciada. E Pola, siora Nina, ve iera tuto una rede. De fero: de quele che fazeva su la Skoda, a Pilsen. — No i fa bira, a Pilsen? — Per quel i fa anca panada gratada, ma i fazeva anca redi. La Skoda de Pilsen iera nominada in tuto el mondo. E Pola ve iera tuto una rede. E minado. Piazzaforte militar, iera, de guera: iera l'Amiraglio Horthy che bateva bandiera. Insoma ve contavo: iera una sera, agosto, caldo e i Francesi credeva che, cussì come gnente, se pol vignir dentro in una Pola con un sotomarin. — Ah, no se podeva? — Per forza che no se podeva. Iera tuto una rede e mina. E se un no gaveva le carte, dentro no vigniva. — I domandava le carte? — Siora Nina, spieghemose un momento. Come i domandava le carte? Iera guera, e el Francese iera in guera contro l'Austria. Ve disevo che sto sotomarin francese per vignir dentro de Pola, gavessi dovù gaver le carte nautiche per capacitarse de dove che se podeva vignir dentro: per scapolar le redi, per scapolar le mine. E inveze, come che el xe vignudo dentro, el xe subito fìnido in rede e no ghe xe restà altro che vignir fora a gala, se no se gaverìa perso tuti i omini. Note iera, de agosto, me ricordo. Alarme xe stà subito. E sto sotomarin se lo vedeva ben perché iera ciaro de luna, e el comandante Hùbeny, subito ga dado ordine de sbararghe col canon. — Gavé tirado vù? — Ma cossa mi? Mi iero mistro in Arsenal. Ga tirado un del Carlo Sesto, che iera la barca de sto Hùbeny. E un zigar e un corer, e un sonar le sirene. Imaginévese che iera la prima roba de guera che nasseva a Pola e sti Cadeti de Marina che iera imbarcadi sula Santo Stefano, dove che l'Amiraglio Horthy bateva bandiera, tuti come mati che i coreva cole lance per far sti primi prigionieri francesi. Muli, ah! Cadeti, roba de vinti, ventidò ani. Entusiastichi. Bon, ve disevo, mi iero mistro in Arsenal. E con mi iera mistro, che proprio in quel periodo ierimo inseparabili, el mistro Bogdànovich, che iera un toco de omo, un dàlmato dele Boche de Cataro. Insoma, come mato, anche lu: che lui ciol el caìcio e che lui va a véder. E mi ghe go dito: «Ma no vedé che confusion? Cossa volé andar, che xe guera? Che zà i ga sbarà e che a sti qua del sotomarin, chissà cossa che ghe pol girar.» E Bogdànovich che cossa, che oramai el sotomarin xe ciapado in rede, e che lui va là col caìcio, perché apena che i gaverà fato disbarcar i omini, là sarà sicuro otoni, bozzei, manizze, tuto roba che pol servir. — A lui? —A lui, a nualtri. Savé: lui iera proprio come capomistro in Arsenal. Insoma, el se ciol sto caìcio, cussì in terliss come che el iera e via lui. Siora Nina: volé creder cossa che no ghe ga tocà a Bogdànovich? Co' el iera sotobordo de sto sotomarin, che sti Cadeti fazeva una confusion del diavolo, perché i voleva ciapar ognidun el suo omo come prigionier, Bogdànovich se alza in pie sul caìcio per montar de pupa sul sotomarin. E in quela el xe cascà, e malamente, perché el ga batudo la testa e mi calcolo che el gaveria perso la vita — vedé come che qualche volta l'omo no pensa — se un de sti Cadeti no lo tirava suso. —Mama mia, povero omo! — Speté, speté. Vù dovè saver che sto Bogdànovich, co' el Cadeto lo ga tirado suso, el iera in deliquio e po' el gaveva bevù. — Imbriago? — Maché imbriago! Bevudo acqua, come che el iera cascado in mar. E, in terlìss che el iera, sto Cadeto ga pensado che el iera un francese, insoma un del sotomarin. — E el lo ga copà? — Ma no, siora Nina, cossa? Guai copar el prigionier in guera, soto l'Austria no iera concepibile: prigionier mai. Lui ga calcola de aver ciapà un prigionier francese e el se lo ga portà sula Santo Stefano. Insoma, siora Nina, i ga involtizzà sto povero Bogdànovich in una coverta, i lo ga portado in infermeria de bordo e el militar de Marina fora dela porta a farghe la guardia. — E lui? — E lui, prima senza sentimenti e po' el se devi esser indormenzà. Fato stà che la matina i lo vien a cior, i ghe liga i oci e i lo sveia. — Come, i ghe liga i oci? — Col spago, siora Nina! I ghe liga i oci, no, come che se usava soto l'Austria col prigionier, col fazoleto. Cossa, el prigionier ga de veder le nostre barche, che dopo, un domani, el possi andar a riferir? El prigionier a bordo doveva gaver el fazoleto sui oci apena che el sortiva fora de gabina. — Ma Bogdànovich no iera nostro? — Sicuro che el iera nostro, ma sti qua dela Santo Stefano credeva che fussi un de quei francesi ciapadi rente del sotomarin. — Povero omo! — Speté, speté: insoma i ve lo porta con dò militari con el s'ciopo e cola sbiza, sul ponte, proprio dove che iera l'Amiraglio Horthy e tuta l'ufficialità, sentadi atorno de una tavola, E l'Amiraglio Horthy ghe fa: «Ches ches sé che sé che vù fazé?» Una roba cussì, per francese, insoma. E sto Bogdànovich, che no el vedeva una madona, con sto qua che ghe parlava per francese, savé coss' che el ga pensà — el me ga dito dopo — «Rémenghis, qua me ga becà i francesi. Iera meo se scoltavo Bortolo e no me intrigavo col sotomarin!» «Ches ches sé che sé che vù fazé? Respondé! Parlé!» Insoma tuto per francese, e sto Bogdànovich sempre più che lo ga becà i francesi. —Mama mia! In man dei francesi. — Ma no, siora Nina! Lori credeva de gaver becà un francese e lui credeva che i francesi lo ga becà a lu. «Parlé! Parlé!» E lui ga pensà: qua xe meo no intrigarse, che un domani podessi anche esser riferido. E cussì, sentado in carega, con sto fazoleto sui oci, el fa: «Parlé, parlé: Boga ti! Chi tropo parla spesso fala, miei cari signori. E in boca serada no va drento mosche! Parlé, parlé! La pezo rioda xe quela che canta! Parlé vù se volé: perché tute le letere no va ala posta e tute le parole no merita risposta!» Siora Nina! Stupidi, podé creder, a sentirlo sti ufìciai, che massima parte iera dele nostre parti! E i ghe spiega al Amiraglio Horthy, che sto Francese doveva esser una spìa de quele tremende, perché apositamente i ghe gaveva imparado a parlar dàlmato meo che i dàlmati. E alora un ufìcial ghe disi, sempre per francese: «Spion d'un spion! Chés chés sé che sé che vù fazé?» E el mistro Bogdànovich, zito, perché el ga pensà: boca tasi. E sto qua che «Chi tase, conferma». «Sì, propio», el ghé fa lu: «Chi tase tien la lingua ferma». «E alora perché vi hanno imparato a parlare per dàlmato?» «Perché? Perché son el mistro Bogdànovich dele Boche de Cataro». — E alora? — E alora, siora Nina, l'Amiraglio Horthy ga biastemà. Per ungherese. MALDOBRÌA XIV - Il tràiber Nella quale si narra della modesta posizione occupata da Bepi Màrovich nel contesto sociale di un Paese ordinato e di quel che gli accadde in Padova nel pittoresco disordine dei radiosi giorni del maggio 1915. — Natural che i fìoi unici no vien su ben, perché, cossa volé, in un fio unico ghe xe sempre qualcossa fora squara. Però no xe dito: vardé qua, per esempio, vù gavevi el specio nel fio del avocato Miagòstovich che — fio unico, viziado el viziabile — epur, un dei primi el xe diventado. — Primo avocato? — No avocato, avocato ve iera l'avocato Miagòstovich, el padre; el fio inveze ga vossudo studiar per dotor. Che, anzi, al padre ghe gaveva assai dispiasso, perché el diseva, qua per ti xe tuto pronto, el scritorio te va avanti solo. E lui inveze dotor, dotor, a tuti i pati el ga vossudo studiar per dotor. Pensé vù come che xe nele famée: el fio del dotor Colombis, inveze, avocato. Un padre no pol mai far un calcolo sul fio. Ve disevo: in scritorio del avocato Miagòstovich andava tuto avanti solo, lori più che altro gaveva de far scriturazioni, carte de mandar avanti a Pisin, a Pola o a Fiume, o al massimo a Trieste. Per bravo, l'avocato Miagòstovich iera bravissimo e chi che se meteva in man sue iera sul sicuro. E po' el gaveva quela fortuna de gaver in casa Bepi Màrovich. — Bepi Màrovich, gavevo sentido. — Per forza che gavé sentido, Bepi Màrovich fazeva tuto per i Miagòstovich. E bravo giovinoto el iera, perché, pensé, Bepi Màrovich iera qua su del monte de Dragosetti, che i Miagòstovich a Dragosetti gaveva ulivi e vide e piégore, e senza padre che el iera restado ragazzeto ancora, l'avocato Miagòstovich lo gaveva ciolto qua che el daghi una man in botega dela moglie. L'avocato Miagòstovich gaveva sposado una fìa del vecio Mòise, che lori gaveva de tuto, campagne, case, mulin e la botega che el padre ghe gaveva intestado a ela co' la se gaveva sposado. In botega, propio drio del banco, lori gaveva quela Pierina, ve ricordé, che xe morta, e Bepi Màrovich, ragazzeto ancora, ghe dava una man. Lui ghe fazeva i scartozzi, el ghe travasava i butilioni del oio, el ghe portava la roba del magazen, e anche in scritorio, se ocoreva, el ghe portava le carte de un e del altro. Lui ghe andava in Posta, ghe tendeva el caìcio, ghe lo piturava e, poco più grando che el iera del fio del avocato, el lo mandava a compagnar e a cior a scola e el ghe portava i libri, come che se usava quela volta. — Gavevo, gavevo sentì de Bepi Màrovich. — Come no, sicuro: lui ghe fazeva tuto per i Miagòstovich. Co' l'avocato gaveva de andar in dibatimento a Pisin — che a Pisin una volta iera tuto — lu lo compagnava col birocin, el ghe andava a comprar spagnoleti, tuto insoma el fazeva per i Miagòstovich. — Omo de fiducia. —Tràiber, siora Nina. Lui iera propiamente el tràiber del avocato. Onesto fin l'anima, mai profitado, mai preteso gnente, el iera sempre con lori, el xe cressudo quasi insieme col fio del avocato Miagòstovich: però tràiber e sempre stado al suo posto. Che sto fio, savé, de picolo iera un viziado, come che per forza xe tuti i fìoi unici. Piron lustro, sedia nova, carne bona, pan de soto, po'. — Come piron lustro, sedia nova, carne bona, pan de soto? — Ma dài, siora Nina, che saveva tuti che sto fio del avocato Miagòstovich, capricioso che el iera, co' el se meteva in tavola el pretendeva de gaver un piron lustro, insoma un più lustro se vedi dei altri che i gaveva; sedia nova, sta carega che i gaveva fato far; carne bona, guai una pele se el trovava, e pan de soto: la crosta del fondo de la struzza el voleva. Viziado po': piron lustro, sedia nova, carne bona, pan de soto. Ma po' a scola inveze, bravissimo. Prima a Pola, che i lo gaveva messo a costo e po' a Padova in Università. Ve go dito che a tuti i pati el ga volesto studiar per dotor. — A Padova? — Sì, a Padova. Perché, savé come che iera qua, tuti quei dela Democratica, l'avocato Miagòstovich, un dotor Colòmbis, un farmacista Petris e i Millevoj, lori tigniva assai per l'iredentismo e no i voleva mandar i fioi a studiar a Graz. Lori tuti a Padova i li mandava, perché anca lori gaveva studiado a Padova. — Eh, a Padova xe el Santo. — Cossa ghe entra el Santo? I andava in Università de Padova. E iera tuti savé a Padova: el fio del avocato Miagòstovich, che studiava per dotor, el fio del dotor Colòmbis che studiava per avocato, el fio del farmacista Petris che fazeva farmacia, natural, perché lori gaveva la farmacia, e tuti dò i cugini Millevoj. Del Tredici, me ricordo, lori iera partidi, perché i iera tuti coetanei. Ben, e Bepin Màrovich fina Padova andava del fio del avocato Miagòstovich. — Per compagnarlo a scola? — Cossa compagnarlo a scola, che el studiava zà per dotor! No, l'avocato Miagòstovich mandava Bepin Màrovich a Padova, penséve, un per de volte al mese a portarghe al fio formagio de Cherso, che lui ghe piaseva assai, vin de casa, passito e oio per conzar la salata, perché se lui no gaveva l'oio de Dragosetti no ghe pareva oio. Savé, el iera sempre restado un poco piron lustro, sedia nova, carne bona e pan de soto. — Viziado, come? — Vizià? I lo viziava. E co' un vizia, chi no se fa viziar, siora Nina? Anche a mi me gavessi piasso gaver cussì un padre e cussì un tràiber. Inveze noi e strussiar e far e pericolar per mar. Indiferente. Ben, questo ve iera in quei ani. E del Quindici, che iera magio e che el fio del avocato Miagòstovich doveva dar i esami, va fora a Padova Bepin Màrovich cola cofeta dela provianda. Ma a Padova no el lo ga trovà a casa e alora el xe andà per strada e el ga visto che iera assai movimento. 'Sti studenti con bandiere che cantava «Abbasso gli Asburgo e i Lorena» e un, su un pérgolo, che diseva che el nostro Imperator impica tuti quanti. Insoma, bruto. — Dimostrazion? — Dimostrazion sì: perché lui iera capitado a Padova che propio a giorni l'Italia doveva intimarghe guera al'Austria. E cussì e culì. Tanto che co' xe torna a casa, dove che el stava a Padova, el fio del avocato Miagòstovich, el ghe ga dito: «Bepi, cossa ti fa qua? No ti sa che ogi, diman xe guera?» Insoma, per farvela curta, guera xe stada e Bepi Màrovich iera a Padova. Cossa che el ga de far, cossa che no el ga de far. «Mah — ghe disi el fio del avocato Miagòstovich — Bepi mio, fa quel che ti vol: ti qua ti son sudito austriaco e i te interna. Se propio ti vol, ti pol tornar a casa passando per Svizzera. Ma te merita? Un giorno o l'altro i te manda in Galizia anca ti, che oramai ti xe de leva. Mi in ti farìo come che femo nualtri: noi tuti, anca i Millevoj, se presentemo in caserma come iredenti. E quel anca per ti sarìa nòma che ben, perché come iredento no i te interna e ti fa el militar con nualtri, che tanto, ogi diman, l'Austria va in malora.» — Andava in malora l'Austria? — Cussì i parlava. E insoma, tanto el ga dito, tanto el ga fato, che Bepi Màrovich se ga presentà con tuti lori in caserma del militar a Padova, come iredento. E in sta caserma, una confusion che no ve digo: primi giorni de guera iera. E un graduato, un sergente italian, cioleva nota in un notes de sti qua. No so, per dirve, al fio del dotor Colombis el ghe ga dimandà: «Tu, come civil, cosa facevi?» «Studente di legge». «Bon: Fanteria». I Millevoj ga dito: «Noi studiemo per ingegneri». «Bon: Artiglieria». Petris, farmacista: Bon, Sanità. E el fio del avocato Miagòstovich che studiava per dotor, natural, Ospedal de Campo. — I li distinava? — Sicuro. E dopo sto sergente italian ghe ga domandà anca a Bepi Màrovich cossa che el fazeva de civil. «Mah — ci fa ci dice Bepi Màrovich — io ero col padre di questo signor Miagòstovich». «Come cosa?» «Come tràiber». «Tràiber? — dise sto sergente italian —Tràiber. Va ben». E el nota sul nòtes Tràiber e che vedremo dopo, che anzi el vegni con lui del Capitano. E i va de sto Capitano, su in scritorio dela caserma e sto sergente italian el fa el dice al Capitano che tuti gli iredenti sono oramai presi in forza, che resta solo questo Tràiber, e la decida lei dove lo metiamo. «Tràiber? — disi el Capitano — vedo, vedo, certo certo: abbiamo bisogno di Tràiber.» El se alza del pulto e con sto sergente italian i porta Bepi Màrovich del Colonelo. «Signor Colonnello, qui ci sarebbe un Tràiber delle Province Irredente». «Ah — disi el Colonelo — i famosi Tràiber! Bravo! Bravo!» E in quela vien dentro un General col barbuz, tuti in pie che lo saluda, e el Colonelo el fa el dice: «Signor Generale, abbiamo qui tra i volontari uno dei famosi Tràiber delle Terre Irredente.» «Giustamente famosi — fa sto General, alzando el déo — Bravissimo! Come vi chiamate?» «Bepi Màrovich». «Bene, Bepi Màrovich, allora mi organizzerete un reparto di Tràiber!» — E el ghe ga fato un reparto de Tràiber? — Sicuro. El fazeva istruzion vizin Venezia, insieme con un certo Stolfa, un triestin, che i ghe gaveva dado de organizzar un reparto de Bùbez. MALDOBRÌA XV – I ponti sulla Drina Nella quale Bortolo, citando le autorevoli parole dello stesso Ammiraglio Horthy, elenca doveri e diritti del Corpo degli Ufficiali e dei Sottufficiali della Monarchia austro-ungarica, e ne illustra l'esercizio in due momenti di vita vissuta sul fronte serbo e nei foyers dei Teatri dell'Opera di Fiume e di Pola. — Cossa che vol dir qualche volta el destin: opere in musica i ga dàdo el dàbile; ben xe stà destin che mi no son mai rivado a veder un'opera intiera in teatro. Anca quela volta a Fiume che Pìllepich, apena rivadi del viagio che ierimo, el ne gaveva inzinganado de andar veder l'opera in teatro per quela storia dela Prima Dona de Londra. — Vualtri ieri rivadi de Londra? — Cossa rivadi de Londra? Rivavimo de Cattaro: ierimo mi, Marco Mitis, Polidrugo — Tonin Polidrugo — el Cadetto Giadròssich e Pìllepich, che sempre iera un rider con lu con sta storia dela Prima Dona de Londra. Pìllepich, vedé, un periodo co' el navigava cola Libera, el gaveva fato viagi per Cardiff e là, no so chi, me par el nostro-omo Fatutta, lo gaveva portado a veder la Prima Dona de Londra. — Bela? — No so mi se la iera bela. Iera la Prima Dona de Londra, la prima Cantante dell'Opera de Londra che cantava a Cardiff, e Fatutta lo gaveva portado a sentir sta Prima Dona de Londra. — E chi la iera? — Cossa volé che mi sapio chi che iera quela volta la Prima Dona de Londra! Ma Pìllepich, semplice maritimo, sentir sta dona che cantava sbregandose come che le usa, ghe gaveva fato impression, assai. E ben, volé creder? De quela volta per lui ogni dona che el sentiva cantar in quela maniera — no so, al Café Speci de Trieste, che se usava, o in Piazza Dante de Fiume — lui se fermava come incantado e el diseva: «Sentì, sentì: xe la Prima Dona de Londra!» — Ah, la vigniva a Fiume e a Trieste, anca? — Siora Nina, contarve a vù le robe no xe sodisfazion, perché no aferé el conceto. Per lui tute le cantanti iera la Prima Dona de Londra, perché le cantava come quela che lui gaveva sentido quela volta. — Ahn! — Ahn, sì. Insoma, ve contavo che ierimo rivadi de Cattaro col «Cherca». I ne meti in molo a Fiume, propio là dove che xe el Teatro e de matina, verso mezogiorno, mezogiorno e meza — se vedi che i fazeva le prove — se sentiva de drento del Teatro, istà che iera, finestre averte, una dona che cantava. E Pìllepich come mato ne fa: «Sentì sentì, omini, xe la Prima Dona de Londra!» Povero Pìllepich che ridicolo che el iera, un rider con lu. Ma tanto el ga dito, tanto el ga fato che el ne ga inzinganado che de sera andemo tuti in teatro a sentir sta sua Prima Dona de Londra. — Costava assai. — Costava? Oh Dio, l'Opera ga sempre costado. Ma insoma giovinoti che ierimo, maritimi che spaca, in logion se intende, ma semo andadi. Me ricordo che zò se vedeva sentadi nele poltrone de platea sti signoroni de Fiume, uficialità, consiglieri aulici, done. E tuto ben, comincia l'orchestra, se vedeva come un bosco, me ricordo, sta cantante che cantava e Pìllepich che diseva pian: «Xe, xe: xe la Prima Dona de Londra». Quando no volé, siora Nina, che de colpo vien zò el tendon e se impizza tute le lumi? — Iera finido? — Ma come iera finido, se iera apena cominciado, siora Nina? Tutintùn vien zò el telon, se impizza tute le lumi e sul palco vien fora un a dir — me ricordo sempre, vardé — vien fora un a dir: «Dati gli avvenimenti, il spetacolo è sospeso.» La gente che se alza, che va fora, tuto un dimandar un dir, e noi zò dela scala, fora in Riva, siora Nina, vedemo che iera zà tacadi per i muri i placati. — I tacava placati? — Sicuro, i tacava. «Ai miei popoli» iera scrito in grando. Guera, mobilitazion general, fìrmado Francesco Giusepe. Tuti doveva presentarse subito dove che ghe competeva: l'Austria ghe gaveva intimado guera ala Serbia, e noi, come maritimi — in Fanteria de Marina gavevimo fato servizio de leva—ne competeva a Pola. Siora Nina: sto treno carigo de militar, de gente, che gnanca no se pagava bilieto. Aré, come de matina bonora, mi, Marco Mitis, Tonin Polidrugo, el Cadetto Giadròssich e el povero Pìllepich se presentemo a Pola e, come de sera, zà i ne vesti e in treno bestiame tuti noi, fora che el Cadetto Giadròssich, partimo. Dove i ne manda, dove no i ne manda? Tempo dò giorni semo oltra Sarajevo, sul fronte dela Drina, che zà sentivimo i tiri. — Guera. — Guera, siora Nina? Stragi. Capì, iera sta Drina che i ghe ciama, fiume de confin tra l'Austria e la Serbia. E el Serbo malignazo gaveva fato saltar tuti i ponti, natural, ma noi istesso gavevimo ordine de andar oltra. E i fazeva sti ponti de barche, zàtere, de tuto per andar oltra. E gnente, no iera modo e maniera, perché el Serbo del'altra parte gaveva le Saint Etienne. — Cossa el gaveva? — Le Saint Etienne, siora Nina, mitragliatrici nove che la Francia ghe gaveva zà dà ala Serbia — iera tuto preparado — e iera stragi. No se rivava a passar, cascava omini su omini, gioventù, e quel che fazeva più passion iera sti cavai che se negava nela Drina. Ga subito comincià a mancar sotuficialità, perché i sotufìciai i li mandava avanti e adio che te go visto. Anca ufìciai. E cussì, una sera, vien un con un blocknotes in giro per el campo a dimandar chi che de nualtri militari semplici de Fanteria de Marina iera stà de civil a bordo come mistro, nostro-omo, primo timonier o che gaveva l'esame de paron de barca. E questo perché sti qua i li mandava a Pola a far el corso de sotufìciai. Siora Nina: beata l'ora. Là sula Drina iera roba de perder la vita del ogi al dimàn. E cussì mi, Marco Mitis, Tonin Polidrugo e Pìllepich se gavemo subito dà in nota. E la sera istessa, imbarcadi in treno. Un rider, una contentezza, che tornavimo a Pola... —Tuti indrio de novo a Pola? — No tuti, siora Nina: noi, che ierimo mistri, nostro-omini, primi timonieri, esame de paron de barca. E come che semo de novo a Pola in caserma, intivemo sul porton el Cadetto Giadròssich, che lui no se gaveva mai mosso de là, perché come Terzo Ufìcial, el gaveva apena fìnido el corso de cadetto. — Ma no iera zà cadetto el Cadetto Giadròssich? — Sì, nato el ve xe cadetto, in cuna! Là a Pola i lo ga fato cadetto. Per quel dopo sempre se lo ga ciamado Cadetto Giadròssich. Un basarse, un brazzarse: Giadròssich mio, cossa che no ve xe de orori sula Drina. Orpo, che lui ga fìnido el corso de cadetto e che come dimàn i lo manda sula Drina. Che giusto el torna dela bichierata. — Un poco ciapado? — Ma perché ciapado? Soto l'Austria, co' i cadetti finiva el corso de cadetto, i fazeva la bichierata con tuta l'ufìcialità e a Pola propio l'Amiraglio Horthy ghe fazeva el discorso de nomina. Giadròssich tuto ne ga contà, che sto Amiraglio Horthy, con sto bicer de sampagna in man, al Circolo Ufficiali el ghe ga dito: «Signori Cadetti, voi da questo momento fate parte del Corpo degli Ufìciali dela Monarchia. E questo vuol dire due robe: primo, che come Ufìciali, avete dirito di sedere a mensa con l'Imperatore; secondo, che avete anche un dovere pari al grande onore conferito.» Penséve, omini, ga dito Giadròssich: mi de ogi, se voio, posso sentarme in tavola col Imperator. — E el xe andà a sentarse? — Cossa el xe andà a sentarse? El xe andà sula Drina, siora Nina. Questo ve iera el dover. Quel de sentarse in tavola col Imperator iera el dirito, caso mai se vigniva l'ocasion un giorno. — E el xe andà sula Drina? — Sicuro, e con lui tanta gioventù. Nualtri inveze restavimo a Pola per far sto corso de sotuficiai, che intanto la scapolavimo. Ma poco, perché, savé, tempo de guera, in una setimana ierimo lesti. E co' gavemo fìnido, che gavevimo sto grado de Feldwebel de Fanteria de Marina, là in Sala de Armi dela caserma granda de Pola, pensévese, xe vignù l'Amiraglio Horthy. Me lo ricordo, bel omo, alto el iera, col capel puntà. E el parlava franco italian perché, capì, massima parte là ierimo tuto sti istriani, sti dalmati, sti piranesi. E col bicer de vin in man, el ne ga dito, ci fa ci dice: «Vualtri graduati di Fanteria de Marina, da questo momento, fate parte del Corpo dei Sotufìciali dela Monarchia. E questo vuol dire due robe: primo che condividete quela responsabilità di comando che scominzia dal Imperator per arrivare fino a vol, miei graduati di Fanteria di Marina; secondo, che avete anche un dovere pari al grande onore conferitovi.» — I ve ga conferì l'onor? — Come conferì l'onor? Onor iera 'sta responsabilità de comando che scuminziava de nualtri e finiva col Imperator. Graduati, insoma, e bichierata. Un poco ciapai de sto vin, paga de graduato che i ne ga dà in antecipo, perché come diman tornavimo sula Drina, e sera franca, mi, Pìllepich, Tonin Polidrugo e Marco Mitis gavemo dito: femo festa. Volé che sia, siora Nina, che come che caminemo per Pola — che zà el militar semplice ne fazeva el saludo — tutintùn vedemo davanti del Politeama gente che va drento. «Orpo — disi Pìllepich — ve sarà sicuro opera cola Prima Dona de Londra.» Tanto el ga dito, tanto el ga fato, tanto el ne ga inzinganado che semo andai. Poltrone de platea gavemo ciolto, siora Nina, perché cossa volé, soldi gavevimo, diman sula Drina: spaca popolo. — Costava assai? — Bastanza. Ma cossa volé, ierimo imborezai e come che se presentemo là che se andava drento in platea, un Ufìcial de Marina ne ferma: Dove che andemo? In teatro ghe disemo. Che no podemo. Che come no podemo, che qua xe i bilieti de tuti quatro. Che questi bilieti xe de platea e che nualtri no podemo andar in platea. Come che no podemo andar in platea se gavemo i bilieti? Che no xe quistion de bilieti, che xe che semo sotufìciai. Sicuro che semo sotuficiai, taca a zigar Pìllepich e comincia a vignir gente atorno. E sempre più zigar, zigar, zigar. E in quela no vien drento in teatro cola moglie l'Amiraglio Horthy col capel puntà? — No el vien drento? — Come no el vien drento? El vien, el vien drento. E Pìllepich ghe cori incontro, el ghe mostra i bilieti e el ghe disi: «Signor Amiraglio, noi vogliamo andare a vedere la Prima Dona de Londra!» E sto Horthy, senza vardarlo, ciama quel Ufìcial de Marina che ne quistionava e el ghe disi, ci fa ci dice: «Come lei permette che questo omo mi parli diretamente senza metersi a rapporto?» «Uuh, Amiraglio, ghe dise Pìllepich, se comincemo a far quistioni qua fra nualtri graduati, chi farà filar drito el militar?» E dopo in commission de dissiplina i ga volesto anca dir che el ghe ga dà col déo sul bunìgolo. MALDOBRÌA XVI - Il crollo della corona Nella quale Bortolo descrive il caos monetario in cui erano precipitate leprovince del caduto Impero Austro Ungarico nel novembre nero del 1918 e parla della croce di Fillepich, memoria della madre defunta, che, per una serie di circostanze, finì a vil prezzo nelle mani di un orafo dello Stradon di Ragusa. — Co' xe guera i soldi xe e no xe: ogi pol esser, doman xe carta strazza. Me ricordo de Barba Nane, che el se ga operado de ernia, che iera del Dicioto, che el xe andado a Graz, che là ghe stava quela sua nevoda che gaveva sposà un de Graz e el xe andà fora, pensé, cola valiseta piena de corone. — Eh, Graz iera assai nominada per dotori. — Indiferente. Volevo dirve che de giorno in giorno iera i soldi che valeva sempre de meno. Quel che prima costava, metemo, zento corone, tempo un mese ve costava zentinera de miéra de corone: el ribalton dela corona po'. Tanti che se ga rovinado e se ga ciolto la vita e tanti che inveze se ga fato i soldi, solo che bisognava saver far. Chi che ga testa no ghe manca mai bareta, come Polidrugo. Inveze el nostro-omo Pìllepich a Ragusa, come un sempio el se gaveva fato inzinganar. — I ghe gaveva portà via la valiseta? — Che valiseta, che no el gaveva gnanca un soldo più. Questo ve iera ancora in istà: prima del ribalton del'Austria. Savé, se navigava ancora per Dalmazia, ma iera assai bruto. E redi, e mine e torpedo, che quele xe malignaze e no le ghe manda dir a nissun co' le riva. Noi ierimo sul «Jupiter», mi, Pìllepich e Polidrugo che fazevimo la linia de Trieste ale Boche de Cataro, sempre pericolando per mar e un giorno che ierimo a Ragusa, sto Pìllepich che iera un omo senza corajo, devo dir, el ga dito che in malora el «Jupiter», in malora la guera, in malora la panatica e che lui se sbarca, che lui no va più ale Boche de Cataro, perché in local un ghe gaveva contà che fora dele Boche de Cataro iera sti italiani, sti francesi coi sotomarini che spetava le barche nostre per fis'ciarghe una torpedo. —Ah! I fis'ciava prima? — Sì, la Manon i fis' ciava. Cossa volé che i fisci? Se disi per dir, no? Insoma, lui, impressionado se ga sbarca. Che lui no vien ale Boche de Cataro, e che qualcossa el farà, che in qualche modo el se rangerà. Savé, un pochi de soldini el gaveva perché le paghe iera bone co' se navigava in guera, e po' oio che se portava su de Dalmazia e savon zò, lui pensava che quei quatro picoli ghe dura eterni. El ga disertà, insoma. — In America el ga disertà? — Cossa in America? Cossa, solo che in America se pol disertar? Lui ga disertà a Ragusa. E per dicembre, co' semo tornadi zò noi e no ve digo in che condizioni, perché iera zà stà el ribalton del Diciaoto, gavemo dovesto armisarse propio a Ragusa in Porto Casson, perché a Gravosa iera tuto pien de barche de guera austriache che gaveva alzà bandiera croata: un suf. Arivemo insoma in Porto Casson, in rada, fora. — Arivé? —Arivemo sì. E mi e Polidrugo, che in quel tempo ierimo inseparabili, ciolemo el caìcio, andemo in tera e, volé creder, no trovemo sul molo Pìllepich? — No lo trové sul molo? — Ma sì che lo trovemo. Ve go dito: no trovemo sul molo Pìllepich? Là, sentà sul sol, soto i volti, come perso. «Cossa ve xe Pìllepich, cossa gavé?» Che ghe xe mal, che no el ga più soldi, che fin la crose de filigrana cole piere che ghe iera memoria de sua madre defonta el ga dovesto vender, e che l'orefize lo devi gaver imbroiado, perché dopo el la ga vista in vetrina — el ga mandà dentro un ragazeto a domandar cossa che la costa, come che la mama lo gavessi mandado — e che sto fiolduncan de orefize gaveva dito dozento e zinquantamila corone. Svalutazion, ribalton del'Austria iera, siora Nina, ve go dito. I soldi ve iera oramai, con decenza, carta de culo, ma sto malignazo de orefize dò giorni prima, al povero Pìllepich, per sta crose de filigrana ghe gaveva dado solo che zinquantamila. «Cioléle, cioléle — el ghe gaveva dito meténdoghele in man — prima che me pento.» — El lo gaveva imbroià come? Un fufignezo? — Sicuro. E no tanto, savé, al povero Pìllepich ghe dispiaseva per sti soldi, come per sta crose che ghe iera memoria de sua madre defonta. Alora Polidrugo ga dito: andemo a véder. Andemo tuti tre in Stradon de Ragusa — savé che xe quel bel Stradon de Ragusa, cole boteghe de una parte e del'altra, che xe una roba che lassa incantadi tuti i foresti — e sta crose ve iera sempre là in vetrina su un veludo. Bela, picola ma bela. Fiolduncàn de un orefize! — dise Polidrugo — el se ga profìtado del povero Pìllepich. Se iero mi, sicuro no el se profìtava.» Perché, savé, Polidrugo iera un de quei che Barba Nane diseva che buta zinque e leva sie. Lui viagiando el se rangiava col oio, col savon, coi spagnoleti e in Punto Franco lui ghe dava la màndola a più de un. «Bon, disi Polidrugo, tute le volpe se incontra del pelizér. Quando xe — el me domanda — che partimo col Jupiter?» «Diman marina ale diese», perché el Comandante gaveva dito che iera meio no fermarse a Ragusa visto che a Gravosa iera ste barche de guera austro-ungariche che gaveva alzà bandiera croata. «Ale diese? — disi Polidrugo — bon diman matina ale nove tornemo qua.» — Per zigarghe al orefize? — Cossa, per zigarghe? Speté che ve conto. «Ti, Pìllepich — ghe disi Polidrugo — no stà gaver pensier. Ti adesso ti vien a bordo con nualtri, che el Comandante te imbarca sicuro. Insoma no gaver pensier.» Difati, de matina bonora, nove ore iera, vegnimo Polidrugo e mi col caìcio e andemo in Stradon de Ragusa. Se fermemo davanti del orefize che sempre in vetrina iera la crose, e Polidrugo me disi: «Vien con mi» e el traversa la strada. «Vien con mi — el me disi — che andemo un momento in bomboneria.» Perché là, visavì, siora Nina, ve iera una bomboneria, mi calcolo la più bela che iera in Ragusa. «Ma cossa in bomboneria che no go vola de bever de matina bonora, che el vapor mola le zime ale diese e che se intardigheremo.» Che mi no stìo pensar e che vegno con lui in bomboneria. Insoma andemo dentro e Polidrugo va del paron e el ghe disi che ghe ocore pastecreme per una festa e che a quanto che el ghe fa ala pastacrema. Insoma a tanto, un poco de meno, i se giusta e «Bon—disi Polidrugo — prepareme trezento pastecreme.» «E tasi ti e dà pase!» — el me disi a mi, che ghe fazevo moti — dàndome una piada. El paga e che el vignirà a ritirar. — Ma perché pastecreme? — Xe quel che ghe go dimandà mi. E lui che stago zito, che el le ga pagade lu e no mi, e el traversa la strada e, per el brazzo, el me strassina dentro del orefize. Che el volessi veder quela crose che xe in vetrina, quela de filigrana cole piere. E sto orefize — un furbo, se lo vedeva in muso — el ciol sta crose, che la xe bela, de filigrana, cole piere. Che xe un'ocasion, che lui poco ghe guadagna, che el ghe farà dozentozinquantamila corone. Polidrugo disi che xe tropo, che el vapor ghe parti, che se el ghe fa dozento l'afar xe fato. Sto orefize che sì, che no, che no, che sì. E po' che sì, co' ierimo zà sula porta. — Aah! El ghe ga calado! — Speté. Ben, disi Polidrugo, dozentomila. Che orpo ghe parti el vapor, che no el riva e che xe meio che sto orefize vegni con lu a cior i soldi. E come che traversemo el Stradon el ghe conta che in bomboneria i ghe devi pagar, ci fa ci dice, quel oio e quela farina che el ghe ga portado col vapor. — Ah! Lui ghe portava? — Speté, no? Alora el se presenta sula porta dela bomboneria col orefize e el ghe dà de vose al paron: «Paròn — el ghe dise — de quele trezento, dozento ghe daré a sto sior! Va ben?» «Come che volé — disi el paròn — sarà fato. Un momento che i le sta contando.» E el va drento in retrobotega. «Bon—ghe disi Polidrugo al orefize—alora semo a posto, tanto piacere.» El ciol la crose de Pìllepich e via noi, apena voltà el canton, ghe la demo, corendo come levri fin Porto Casson. Siora Nina: in quel momento mi go capido la furberia de Polidrugo! 'Sta roba el doveva averla fata più de una volta... —Mama mia, che truco! E l'orefize? — E l'orefize lo gavemo visto de bordo, co' zà gavevimo molà le zime, che el coreva sul molo, de una Finanza al'altra con sta guantiera de pastecreme in man, ma nissun ghe dava bado. Savé: iera un suf in quei giorni cole barche de guera austroungariche che gaveva alzà bandiera croata. MALDOBRÌA XVII - Sotto due bandiere Nella quale, rievocando un privato conflitto tra provetti Capitani e uno storico confronto tra Flotte, Bortolo dimostra, documenti viennesi alla mano, come l'Austria fosse veramente un Paese ordinato. — Siora Nina, guai quando che l'omo diventa schiavo dela ciave. E qualche volta no xe miga solo i veci, savé, che tien tuto sotociave. Mi go conossù omini giovini, insoma ancora giovini e no iera versi. Adesso che me vien in a mente: vardé el Comandante Ossòinak. — Dove? — Ma come, dove? Se disi per dir, vardé. El xe morto de ani anorum. Disevo: «Vardé el Comandante Ossòinak» per dirve come che un omo ancora giovine, no sempio, perché istruido, Comandante, assolto dele Nautiche de Lussin, epur con lu a bordo no iera un scafeto averto. El gaveva sempre con sé quel maledeto mazzo de ciave che ghe rompeva tute le scarsele, che po' me tocava strapònzerghele a mi, perché — puto vecio che el iera — chi lo tendeva? — Chi lo tendeva? — Sua sorela, prima. Ma po' co' la ga avù quel'ocasion de sposarse con Giovanin Millevòj, che lui iera zà fora in America, savé, e i se ga sposado per fotografìa, el Comandante xe restado solo e mi che iero suo giovine de camera lo tendevo mi. Anche a casa, per esempio, a Volosca, che lui gaveva la vila. Che bela che iera la Vila Ossòinak a Volosca! El me diseva, metemo dir: «Va a ciorme la butilieta de milissa che ti la trovi in camera da leto, in armeron de muro. Come che ti verzi, sul secondo calto, ti vedi una scatola più granda: no quela, quela più picola, là ti trovi.» E dopo el vigniva con mi, perché no el se capacitava de darme la ciave in man e el verzeva l'armer, solo si stesso. — No el ve dava la ciave? — Dove! Tuto lui verzeva e serava, davanti e drio de mi. Ma no che no el se fidassi, eh. Iera la natura sua. Vù dovevi veder, siora Nina, coss che no xe stà co' el ga fato meter la casseta dele letere fora del porton grando dela vila, che quela volta anzi se usava poco, perché el postier portava dentro in casa, specie a un Comandante. Ma lu, che lui naviga, che mi navigo con lu, che la vila ghe xe sola, e cussì che xe meo che ghe sia la casseta, cussì nissun ghe devi tender la posta e che lui, co' torna, la trova tuta là. — Ah: comodo! — Sì: comodo. Dovevi veder sta casseta cossa che no iera. Lui la gaveva comprada a Trieste, in Proveditoria maritima de Màitzen, me ricordo: iera una casseta compagna, de fero. Roba germanica con ciave inglese. Murar el la ga fata, perché iera casseta de muro, che ga lavorà dò giorni el murador per farghe el buso nela piera viva. Fé conto come che iera per el Pane dei poveri di Sant'Antonio fora del Domo. Cussì. Iera la sfesa per meter le letere, natural, e soto iera la gradela per veder se iera o se no iera posta. E po' sto buso per la ciave che no ve digo. Ciave inglese a pétine, ve go dito. Anzi, de Màitzen a Trieste i ghe gaveva dà dò ciave. El per, come che se usava. E sto Comandante Ossòinak savé cossa che ga fato? — El le ga perse. — Maché perse. Lui diseva sempre: «Mi le ciave no perdo. Mi le ciave le tegno sempre in scarsela dele braghe. Perché el sacheto se pol cavarse in local ma le braghe no. E chi vol gaver le mie ciave ocore che el me cavi le braghe. E chi che ghe caverà le braghe al Comandante Ossòinak devi ancora nasser». Lui, savé, gaveva avudo i primi comandi su tute le barche del Lloyd Austriaco. E, insoma, che a lui dò ciave no ghe servi. Una el la ga messa in sto maledeto mazzo e quel'altra savé cossa che el ga fato? — El la ga serada in armeron de muro? — Sì, propio! Lui, inveze, el xe andà zò in molìch che el gaveva davanti ala vila, belissima vila, la più bela de Volosca, el ga ciolto el caìcio, el xe andado fora, ma in fora, e là el ga butado la ciave in mar. «Bon — el ga dito, co' el xe tornà — adesso che i mandi i balombari!» Eh, iera un omo cussì, savé. Ma bon però. E bravo: i primi comandi el ga avudo sul Lloyd Austriaco. Che anzi co' i ga fato el «Karlsbad», che iera una barca per quei tempi la meo, con dopia elica e aparato Marconi, lui iera sicuro che i ghe la dava a lu. — El «Karlsbad»? — «Karlsbad», sì, el se ciamava apena fato. Dopo, soto l'Italia i ghe ga volesto ciamar «Campidoglio». E inveze, co' el va al Lloyd in Palazzo a Trieste, el sente dir cussì — savé come che se sente dir in Palazzo — che el Comandante Nacìnovich se ga fato avanti per el «Karlsbad». E lui, che cossa Nacìnovich. Che, va ben, Nacìnovich, ga tanti ani de navigazion come lu, ma che anca i stronzi naviga e i resta sempre stronzi. Che va ben, che el Comandante Nacìnovich sa tre lingue, ma che co' un sa tre lingue e xe sempio, el xe sempio tre volte. E che po' Nacìnovich xe de Ciunski e che cossa adesso a quei de Ciunski ghe daremo barche con dopia elica e aparato Marconi? A mi el me predicava, siora Nina: come se mi gavessi podesto meterlo a lu sul «Karlsbad». — Ah el iera in còlerà come, con questo Nacìnovich? — Che in còlerà! Prima che i parlassi de darghe el «Karlsbad» a Nacìnovich, lui Nacìnovich gnanca no el lo calcolava. El iera restà assai mal in Palazzo co' el gaveva sentì un tanto. Ma savé: sto Nacìnovich gaveva i sui stessi ani de navigazion, mai una straléca, serio, e in più el saveva tre lingue, che iera ben, perché l'Austria mandava le nostre barche dapertuto. E alora i iera in dubio, come. E sto Comandante Ossòinak predicava che se lori ghe fa sta parte, lui resta in America, dela sorela. Figuréve se lui restava in America con quela bela vila che el gaveva a Volosca! — A vù el ve predicava? — A mi... a tuti. Penséve che una volta iera qua Barba Nane e el ghe ga contà tuta sta storia. E Barba Nane ghe ga dito: «Ma vù, Comandante Ossòinak, co' ieri giovinoto, no ieri a Lissa?» «Sicuro che iero a Lissa — el disi — come militar de leva. Iero anche in bataglia. Ma cossa ghe entra?» «Come, cossa ghe entra? — ghe fa Barba Nane — se vù ieri a Lissa in bataglia questo ve xe un atestato, Comandante. Nacìnovich a Lissa no iera, perché lui iera a Pola quel periodo. E un che xe stà a Lissa, al Lloyd Austriaco, ghe conta come un ano de navigazion de più. Pensé che quando che i ghe ga cavado per un ano la matricola al primo piloto Jurìssevich, perché el iera andà a finir cola barca in rede a Sebenico, ben, lui perché iera stado a Lissa el ga avudo istesso tute le sue spetanze». — 'Sto piloto Jurìssevich? — Ma cossa ghe entra Jurìssevich? Quel iera per dir, no: come esempio. E Barba Nane ghe disi al Comandante Ossòinak che lui devi impetirse in Palazzo che el iera a Lissa. «Bon — ga dito Ossòinak tuto contento — adesso gliela fìamo vedere a Nacìnovich, che stavolta el se beca lui un'impirata come a Lissa el «Re d'Italia». E el ga scrito subito fora a Viena che i ghe mandi le carte. — Per impetirse? — Sicuro. A Trieste, tuto el Palazzo del Lloyd el ga impinì con sta storia. Che anzi el Comandante Nacìnovich, co' ga sentì, el ga dito: «Va ben, se lui iera a Lissa, mi iero a Lepanto». El iera un omo de poche parole. A Lussin el stava. Ma iera vero quel che diseva Ossòinak: el iera nato propio a Ciunski. — Ma xe bona gente a Ciunski. — Indiferente. Dapertuto xe bona gente, siora Nina. Cossa ghe entra? Ve contavo, no? Insoma el Comandante Ossòinak spetava come la mana sta letera de Viena col atestato. Ma no rivava. Savé, iera passadi ani anorum oramai de Lissa e fin che a Viena i scavernava quele carte... — No i le trovava? — Cossa no i le trovava? L'Austria iera un paese ordinato. Iera question de spetar un dò tre giorni. Ma in quela che el spetava, lo averti de Trieste un suo patrioto che iera concepista propio in Direzion del Lloyd Austriaco, che Nacìnovich xe rivà a Trieste e che ogni matina el vien in Palazzo. Che lui un tanto ghe ga dito e che el se sapi regolar. Siora Nina: ciàpilo lìghilo el Comandante Ossòinak. Che quel malignazo de Nacìnovich ghe farà sicuro le scarpe in Palazzo, che el «Karlsbad» xe presto pronto, e cossa, lui starà là a Volosca, schiavo de spetar ste maledete carte de Viena. — A Viena i zercava? — Cossa i zercava? I gaveva zà trovà: le iera per viagio. Doveva rivar come diman, diman l'altro. Ma el Comandante Ossòinak me disi che lui va a Trieste e che, apena che riva 'ste carte, mi ghe le mando drio. Volé creder, siora Nina, lui xe partì col vapor dele nove e mi ale dieci e meza vedo nela casseta dele letere 'sta sopracoperta, 'sta busta zala cola Bicipite e el timbro de Viena che iera rivada. — Pecà! — Pecà sì, siora Nina, perché sta busta iera nela casseta dele letere e lui — sempio — no el me gaveva lassà le ciave. — E alora? — E alora, cossa volé? Ghe go subito batù telegrama a Trieste in Palazzo. «Carte costì in cassetta, ma privo chiave». Cussì ghe go partecipà propio, me ricordo. — Ah, ghe gavé partecipà... — Sicuro. E lui zà de sera me telegrafa che el manda la ciave. E mi là in vita che speto. Uno, dò giorni, e nissun che riva con 'sta ciave. Fin che lui me ciama per telefono, in Governo Maritimo, che xe vignù el piloto a avisarme. Che perché no ghe mando ste carte, che lui speta ste carte, che come diman i decidi per el «Karlsbad» e che Nacìnovich fa fogo e fìame e che lui no ga le carte. «Ma qua — ghe digo — Comandante, nissun me ga portà la ciave. Le carte xe in casseta». Come? Che lui ga mandà la ciave zà de dò giorni. Con chi? «Cola posta» — el me disi. Siora Nina: in casseta dela posta iera la ciave. — Ah! E la gavé ciolta? — Ma, siora Nina! Come podevo cior la ciave dela casseta, se per verzer la casseta me ocoreva la ciave? —Mama mia che truco! E come xe andà? — Eh: xe andà, siora Nina, che el «Karlsbad» lo ga avudo Nacìnovich. A Ossòinak i ghe lo ga dado solo dopo la guera, co' soto l'Italia i lo ga volesto ciamar «Campidoglio». Perché Nacìnovich no ga mai podesto dimostrar che el Comandante Ossòinak iera stado a Lissa in bataglia contro i 'taliani: dopo el ribalton a Viena no iera più carte. Le iera solo a Volosca serade in casseta dele letere. Ancora là le xe, siora Nina, nissun no xe mai rivado a verzer quela casseta. Gnanche i partigiani. MALDOBRÌA XVIII - Trecento giorni a Pechino Nella quale Bortolo narra di un viaggio sulla linea di Morea a bordo della «Silvia Tripcovich», al comando del Comandante Okrétich, reduce e superstite dell'atroce guerra di China agli albori del secolo. — El povero Comandante Okrétich no stava mai un momento zito, che fussi o che no fussi qualchedun con lu. Mi questo gavevo sùbito fato osservazion co' me gavevo imbarcado sula «Silvia Tripcovich», che lui tuto quel che el fazeva el diseva. — Ah, el contava tuto? Omo sincero, franco come? — No, no che el disessi quel che el gaveva fato — che lui anzi confidenza no dava — xe che lui tuto quel che el fazeva in quel momento, in quel istesso momento el diseva. Presempio, mi tante volte lo go sentì in gabina sua: «Eco, adesso me fazzo un spagnoleto... Dove me xe la scatula? Reménghis, mai che co' zerco la scatula trovassi la scatula... Ah, eco la scatula... Uh, tuto tacà me xe sto libreto de cartine... Suto me xe el tabaco... Tuto el se spande, reménghis! Fulminanti in scarsela gavevo, adesso no go. Dove me xe i fulminanti?... Ah, in scarsela i me xe... Massa tira sto spagnoleto, reménghis!...» — El ve diseva a vù? — A mi el me diseva, che iero nel cameroto dele proviande? Mi oltra del paredo lo sentivo che el predicava solo si stesso. Mi lo sentivo sempre sul ponte, presempio: «Ocio, Okrétich che qua no guanta!... Eco un poco a drita, Okrétich!... Là, Okrétich, un poco fora dela porporéla me par ben per dar fondo, Okrétich!» — Ma chi ghe diseva a Okrétich? — Ma siora Nina, per chi parlo mi? Okrétich ghe diseva a Okrétich: solo si stesso el se ciamava Okrétich. — Sì, go capì. El se ciamava Okrétich. — Sicuro eie el se ciamava Okrétich se el iera el Comandante Okrétich, ma zercavo de farve capir che iera un omo che parlava solo si stesso. Tuto quel che lui fazeva, lui diseva. Savé, mi go savesto che questo ve iera perché lui, del Mile Novezento e Un, prima ancora dela prima guera, che iera stà guera de China, a lui come Comandante sti Chinesi, lo gaveva fato prigionier in tera a Scianghai, i lo gaveva portado drento, drento, nel interno dela China e ancora fortunà che no i ghe gaveva taiado la testa. Perché a più de un, co' iera stadi in principio quei orori dela guera de China, i Chinesi ghe gaveva taiado la testa. E lui ga fato prigionìa squasi un ano, internado in China. E podé capir, povero omo, a parte i patimenti — che solo risi i ghe dava de magnar in scudela de legno — sto povero omo no gaveva con chi parlar. Perché lui iera dàlmato e sti Chinesi parlava solo che chinese. Cossa volé che sapi altro i Chinesi del interno? E cussì sto Okrétich, per parlar con qualchedun, el parlava solo si stesso. —Mama mia, sti Chinesi un giorno i ne subisserà tutti quanti... — Indiferente. Mi ve parlavo de Okrétich. Lui là gaveva ciapado el vizio de parlar solo si stesso. Che quando el Console austriaco xe andarlo a ciorlo, col militar dele Potenze e baioneta in cana, lui ve se iera imbianchido de cavei, ma imbianchido, che el ga sempre mostrà più vecio, Okrétich. E pensé che quela volta che mi iero gambusier sula «Silvia Trìpcovich» e che lui iera Comandante, el iera ancora omo giovine: zinquanta, zinquantazinque ani. No iera un omo cativo, savé. Ve go dito: no el dava confidenza, ma mi de Okrétich no posso dir che el gabi mai fato un'angheria a nissun. Savé sula «Silvia Trìpcovich» inveze chi che iera un sufìstico? El Primo Ufìcial Tarabochia. Penséve che lui ve iera un omo che vigniva a fìcar ogni giorno el naso in gambusa, che dove mai se ga visto un primo ufìcial intrigarse in gambusa. Mai no me dimenticherò de quela volta che perfìn per far conserva de fighi go dovesto domandarghe el beneplacito a lui. — Come, conserva de fighi? — Conserva de fighi, come conserva de fighi, siora Nina. Cossa xe la conserva de fighi? Perché mi, savé, a Ossero me gaveva imparado a far la conserva de fighi, siora Bortolina, la sorela de Barba Nane, povera. Vedé, coi fighi che a Ossero prima dela guera iera fighi pel porco più che a Cherso, assai i usava far conserva de fighi, perchè col figo ve va poco zuchero. Perchè el figo in si stesso ga zuchero. Siora Bortolina me gaveva imparado a far bona conserva de fighi. — Mia madre fazeva cotognata. — E mia cognada inveze fazeva sope. Insoma, iero imbarca sula «Silvia Tripcovich» che fazevimo la linia de Morea, fazevimo Kalamàta e tornavimo. Ulive ve iera là e fighi. E mi — ve go dito — iero gambusier e gavevo tuta la provianda soto de mi. E ben, ogni viagio, cossa iera, cossa no iera, mancava sempre qualcossa in gambusa. Margarina, butiro, scatolame, tochi de pan. No assai, ma mancava. E co' fazevo i conti col Primo Ufìcial Tarabochia che, fìguréve Primo Ufìcial che el iera, el me vigniva a far i conti in gambusa, el me fazeva sempre quistioni, perché che manca. Che va ben, che manca poco, ma che manca. E mi ghe disevo: manca, sicuro, manca, ma mi no so come che manca, sarà qualchedun che ciol. — Xe bruto co' manca. — Sicuro: a bordo xe bruto co' manca in gambusa, perché subito se pensa che xe el gambusier che se profìta. — Eh i gambusieri se ga sempre profìtà. Cambusieri e comissari. — Bon. Mi, inveze — diséme pur sempio — inveze no. Oh Dio, parlo in confronto de altri. E mi, anca per farghela veder a sto tazzaanime de Tarabochia, assai gavessi bramado de trapar chi che iera che cioleva in gambusa. Bon, ve disevo, ierimo a Kalamàta e là vado a far provianda : ulive, un poco de formaio grego salà, pesse — là no ve xe che ulive, formaio grego salà, pesse — e fighi. «Ma cossa compré tanti fighi?» me dise el Primo Uficial Tarabochia: el me vigniva drio, pensévese, co' andavo a far provianda. «No volere miga meterli sugar in coverta tuti sti fighi?» E mi che no, cossa sugar fighi in coverta? Che farò conserva de fighi per tutti, che xe tanto boni 'sti fighi de Kalamàta, meo de quei de Cherso. «Nasé, nasé» ghe disevo, verzendoghe un figo soto el naso. — Eh, xe bon el figo. — Sicuro che xe bon. E alora mi ghe spiegavo che farò conserva de fighi. «Vedé, Primo Ufìcial Tarabochia, ghe disevo, no sté gaver pensier, per far conserva de fighi va poco zuchero, perché el figo in si stesso ga zuchero.» «Bon — el me diseva — fé, ma no sté frugar massa zuchero.» — Ah, el ve ga lassà far conserva? E ve xe vignù bon? Perché qualche volta... — Cossa qualche volta? Me xe vignù noma che ben. Go fato tuti i vasi, ben tapadi con carta oliata in dopio, quatro giri de spago atorno, che sia stagno e li go messi in gambusa, in alto sui calti. — Eh, ghe vol tapar ben, perché se ciapa aria... — Indiferente. Mai no me dimenticherò quela note: iero in cuceta, giusto apena assopido, quando tutintùn sento un tiro, ma un tiro che go avù propio un sussulto. Orpo — digo — qua ga s'ciopà la caldaia picola. Coro sul ponte — cussì, con decenza in mudande longhe e maieta sutila come che iero — e un mariner me dise: «De là, de là! De là xe vignù el tiro!» e tuti che coremo de quela parte, anca el Primo Ufìcial Tarabochia in braghe de terliss. E co' verzemo la porta dela gabina del Comandante Okrétich, lo trovemo in un lago. — De sangue? — No siora Nina: de conserva de fighi. Gavevo messo massa poco zuchero, tropo poco. Gaveva fermentà e el vaso iera s'ciopado. — Eh, per torza: co' fermenta s'ciopa. — Natural, co' fermenta s'ciopa. Difati de là un poco, un drio de un — e che tiri!—s'ciopa tuti i vasi che iera sui calti in gambusa. Fermentazion. — E perché quel de prima iera s'ciopado in gabina del Comandante Okrétich? — Colpa dei Chinesi, siora Nina. Perché el Comandante Okrétich no iera omo de profìtarse. Iera che lu — come che ve disevo — durante la guera de China, co' i lo gaveva internado al interno, el gaveva patido tanta fame, solo risi i ghe dava — ve contavo — in scudela de legno e senza cuciaro, che lui, povero omo, gaveva sempre quela che ghe mancherà de magnar. Difati in gabina sua de lu, dopo che netavimo, gavemo trovado in armereto: margarina, butiro, scatolame, pan, perfin pan, co' se disi. «Okrétich mio — el se diseva solo si stesso, intanto che lo netavimo — el vaso te xe s'ciopà... la montura te se ga smasalà... Adesso me farò un spagnoleto... Dove me xe la scàtula?... Mai che co' zerco la scàtula, trovassi la scàtula... Ah, eco la scàtula: tuta tacadizza la me xe. Reménghis.» MALDOBRÌA XIX - Sangue lussignano Nella quale si esaltano le virtù terapeutiche dell'aria dei Lussini e si racconta del prodigioso cambiamento che si operò nell'Arciduca Carlo Salvatore, Principe del Sangue di malferma salute ivi esortato a soggiornare dai più illustri luminari della Facoltà di Vienna. — I primi dotori de Viena diseva che no xe logo meio de Lussin, specie per i maladi de peto, e quel xe stà anca la fortuna de Lussin. Le Nautiche dacordo: ma anca quel. E lori ga impiantà bosco, lori ga messo pini, ste vile, una roba, l'altra. E zà prima dela prima guera vigniva sti foresti, che adesso i foresti par che sia l'ultima invenzion de Guglielmo Marconi. Lussin gaveva foresti che i altri gnanca no saveva come che i xe fati. Bravi xe i Lussignani, interessosi, strenti, ma bravi. — Eh, el pin fa, el pin xe san! Ma anca noi gavevimo pini qua. — Cossa volé che noi podevimo competer con Lussin? Intanto lori gaveva ogni sera e ogni matina bonora el vapor, che anca quel vol dir, e anca sti yacht, perché i grandi, nobiltà, gente de polso vigniva col yacht savé. Prima dela prima guera solo che i grandi gaveva el yacht. Adesso ga tuti e xe come se no gavessi nissun. — No capisso. — Indiferente, xe cussì. Mi, in quei ani — sarà stà del Dodici, del Tredici — iero in Governo Maritimo de Lussin, e un giorno, me ricordo, son là in scritorio del Capitano Nìcolich, fradel del Comandante, che giusto i lo gaveva avanzado, perché prima el iera deputato de spiagia a Sànsego, fìguréve, e vien drento el piloto Matìevich — me lo ricordo come ieri — el se senta, el poza la bareta de montura sul pulto e el disi: «Xe passà telegrama...» —... che l'Austria ghe ga intimà guera ala Serbia. — Ma cossa? Perché l'Austria doveva intimarghe guera ala Serbia, che iera del Dodici, del Tredici, che dove mai un gaverìa pensado che dopo l'Austria se gavessi precipitado in sto modo. — No, pensavo: sicome che iera passa telegrama... — E cossa? Co' passa telegrama, l'Austria ghe devi intimar ogni volta guera ala Serbia? Insoma, indiferente. Me ricordo come ieri: el piloto Matìevich vien dentro, el se senta, e el poza la bareta de montura sula carega. — Ma no el la gaveva pozada sul pulto? — Ma sul pulto, sula carega, sul picatabari, sul'ostia: indiferente. Me ricordo come ieri, el ga pozà sta bareta e el ga dito: «Xe passà telegrama che ariva a Lussin l'Arciduca Carlo Salvatore.» — Una barca in avarea? — Una barca? Perché una barca? E po' perché avarea? Chi ve ga dito che la iera in avarea? E po' no iera una barca. — No, pensavo... — Vù no sté pensar. El rivava sì cola barca, sua de lu, el yacht — ve go dito che quela volta solo i grandi gaveva el yacht — ma l'Arciduca Carlo Salvatore iera un del Sangue. In carne e ossi, in persona: vivo. Oh Dio, vivo... vivo, per miracolo i diseva, perché sempre, fin de picolo, i contava che no el gaveva assai salute. E pensé, omo giovine, ancora. E insoma parlava el telegrama che l'Arciduca Carlo Salvatore vigniva a Lussin per un lungo sogiorno. Perché prima i lo gaveva mandado in Dalmazia, a Curzola e gnente, tropo umido, e cussì i sperava assai de Lussin. Che anzi noi no savevimo, ma gavevimo visto che zà de mesi ì pareciava a Cigàle quela vila dove che adesso i ga fato quel ultimo hotél, prima dela cesa. Bon: che riva come stasera sto Arciduca e che fora xe ssai mar e che, viste le condizioni, i ga dito che sarìa meio che el piloto vadi ciorlo cola pilotina in Boca Falsa, cussì i ghe sparagna el giro. — Mal de mar? — Mal, siora Nina, de mar e de tuto. E el Comandante Nicolich ciàpilo, lighilo, che a lui no i lo ga avisado, che i doveva avisarlo prima, che adesso come se fa, e cussì e culì. Che el piloto Matievich pareci subito la pilotina e che intanto lui farà tuto quel che se devi far per saludarlo. Savé, un Principe del Sangue imponeva, come. 'Sto povero piloto Matìevich disi che va ben, che lui andarà, ma che lui no sa, che lui no ga pratica, che, presempio, quante volte bisogna saludarlo? «Muss: vintiun volte — ghe disi el Capitano Nìcolich — vintiun, un Principe del Sangue.» Bon, che se lui no saveva, no vol dir che el xe un muss. I ga trovà anca de dirse. — Vintiun, come? — Speté, speté, no. Intanto che el Capitano Nìcolich coreva su in bateria — un canon iera a Lussin, quel che sbarava per mezogiorno una volta — el piloto Matìevich ciol la bareta de montura, me lo ricordo come adesso e rugnando che chi che ghe disi muss ai altri dovessi vardarse prima soli si stessi e che chi che dice è, cento volte più di me, e insoma el monta in pilotina biastemando che no ve digo, che anzi el ghe ga dado una piada a Pìllepich che el lo ga trovà che el beveva soto coverta. — El iera rabiado? — Rabiado e impressionado, come: no iera miga ogni giorno che capitava a Lussin un del Sangue. E insoma, siora Nina, el ghe va incontro per Boca Falsa, rugnando che co' un xe malà che el staghi a casa in leto. Siora Nina, co' i xe tornadi, Pìllepich in local, un poco ciapà che el iera, el ne ga contà che xe stà pupoli. Insoma, che vien zò sto Arciduca Carlo Salvatore dela biscaìna, vestì in zivil, con una coverta sule spale, palido come Sant'Antonio morto che xe in cesa dei frati a Cherso, e sto piloto Matìevich, fermo sula prova, che comincia a saludarlo cola man sula bareta de montura. Duro el stava e dò, tre, quatro, zinque volte no el fazeva che saludarlo. E sto Arciduca che ghe ga dito «Basta, basta!» E lui ghe disi: «No, Altezza Imperiale: manca ancora dieci volte!» E zò a saludarlo avanti. Vedé come che xe: gaveva ragion el Capitano Nìcolich de dirghe muss, perché lui intendeva dir vintiun volte la salva de canon. — Eh, i sbarava, i sbarava per sti grandi. — I sbarava sì. Anche a Francesco Ferdinando i ghe ga sbarado magari cussì no. Indiferente. 'Sto Arciduca Carlo Salvatore iera là, ma no se lo vedeva atorno per Lussin. El iera sempre in vila, col dotor suo propio de lu, portado apositamente zò de Viena. E un giorno: mal, mal, mal. Savé cossa che i ga fato? I ga ciamà el dotor Colombis, quel che el fradelo ghe gaveva la farmacia. Consulto, come, cussì i parlava a Lussin, almeno. E i ga fato ben, perché sto povero omo el iera al ultimo stadio e savé come che se disi: «Fa meio el Papa e el nonzolo, che el Papa solo.» Aré, siora Nina, che el dotor Colombis iera un dotor come pochi. Lui xe restado sempre là, perché inamorado de Lussin, ma lui gaveva avù oferte, lui gavessi podù diventar a Graz el primo primario, e el ga sempre ricusà. Insoma lui ghe ga subito capì cossa che el gaveva, guardandoghe qua dentro dele bale dei oci: anemia, siora Nina. — Perniciosa. —No, siora Nina. El dotor Colombis ga dito subito «Perniciosa no», che anzi quel altro de Viena contrastava. E che l'unica roba — ga dito el dotor Colombis — xe una trasfusion de sangue, ma prima che xe, meio xe. Che ghe vol propio un cambiamento de sangue, che sarà un benefìcio subito. — Cavarghe el sangue? — Ma cossa cavarghe, che no el stava gnanca in pie, siora Nina? Méterghe, méterghe: e presto ga dito el dotor Colombis. E anzi lui stesso, cussì diretamente, el xe andà subito in local, dove che iera tuti sti maritimi che se trovava e el ghe dimanda a dò tre più giovini, chi che se anunzia volontario per darghe un dò litri de sangue al Arciduca Carlo Salvatore, che Lussin no devi sfigurar e che sarà compensado anche. Quela volta, siora Nina, iera i primi primordi de ste robe. Però Pìllepich se ga fato avanti subito. «Ti no — ghe ga dito el dotor — perché ti xe ancora imbriago.» Che pitosto el giovine Piero Bùnicich. E Piero Bùnicich, che no: lori savé stava ben de casa, i gaveva el squero. Ma Barba Nane ghe ga dito: «Varda, xe meo farse cavar el sangue che la matricola.» Che se se vien a saver che un ga ricusà de darghe sangue a un del Sangue, i fa assai osservazion. — E xe andado questo Bùnicich? — Sicuro, andado e tornado. E co' el torna, el conta che sto Arciduca Carlo Salvatore, parla franco italian, che subito dopo el dotor Colombis ghe ga fato bever due biceri de vin de Porto, che nualtri gnanca no se sognemo, che cavarse el sangue no fa gnente mal, che l'Arciduca, pretamente democratico, ghe ga dà la man e anca una busta, e che dentro dela busta iera zinquanta fiorini, penséve. E subito meio xe stà sto Arciduca, che anzi el giorno dopo se lo ga visto che el caminava in giardin cola coverta sule spale. — Guarido! — Guarido? Magari, siora Nina. Savé: xe anca el fato che questi regnanti se sposa fra de lori e quel no xe ben, perché vien sangue marzo. E cussì, un per de giorni dopo, el dotor Colombis ga dovesto andar a zercar qualchedun altro in local, perché Piero Bùnicich no podeva dar più. E alora xe andà Premuda povero. Tuto ben, l'Arciduca ghe ga dà la man, el bicer de vin e la busta. Solo che Premuda ghe ga dito a Bùnicich: «Come? A ti Piero, el te ga dà zinquanta fiorini e a mi solo vintizinque?» Ben: volé creder, siora Nina, che quando xe andado el Cadeto Giadròssich, che no iera gnanca Cadeto ancora, el ghe ga dà diese fiorini? E che quando che xe andado Pìllepich, un giorno che no el iera imbriago, el ghe ga dà solo el bicer de vin? — Sempre meno? El se gaveva disgustado, come? — Eh, siora Nina! El Comandante Brazzànovich me fazeva sempre contar sta qua nei saloni de prima classe. No xe che l'Arciduca Carlo Salvatore se gavessi disgustado, xe che prima Piero Bùnicich, po' Premuda, dopo el Cadeto Giadròssich: co' el xe rivado a Pìllepich oramai no el iera più gnanca un del Sangue. Solo che sangue lussignan el gaveva in corpo. MALDOBRÌA XX - La regata di Kiel Nella quale Bortolo rievoca la tradizionale regata della Belle Epoque che veniva disputata da legni rappresentativi delle Marine di Guerra d'Europa con la partecipazione di Regnanti, Principi del sangue, del Comandante Vìdulich e del nostromo Ucròpina. — El nostro-omo Ucròpina, co' andavimo in local, diseva: «Ciolémose barbon, perché la testa del barbon no la magna el gato, la magna el paron. E mi no me piase lassarghe roba per i piati co' vado in local». Lui iera cussì un omo. Lui butar via gnanche no el concepiva. Vù dovevi veder cossa che no iera nei scafeti de quela sua gabina. Pien de spaghi, de spagoti, de verine, de sàibe, bozzei incarognidi, vide spanade, suri: tuto. Bastava domandarghe, lui tuto gaveva. El diseva sempre: «Se qua no sarìa el nostro-omo Ucròpina, vualtri fussi omini persi in sta barca». — In che barca? — Indiferente, nela barca dove che el iera. Lui, devo dir, che con tute ste sue fìsime, el iera un dei meo nostro-omini e i lo ciamava in tuti i meo vapori. Pensé, presempio, che quando iera che le Potenze ga manda le barche de guera a Sciangai, che quela volta in China iera orori, che i copava i bianchi pezo che adesso: bon sula «Kaiser Karl Sesto», chi i ga ciamado come nostro-omo? El nostro-omo Ucròpina. Quela volta el iera in Marina de Guera. — Iera guera? —No. No iera guera. Iera orori. E alora le Potenze gaveva mandado le barche de guera. Pinpun, mandadi cussì, che i omini partidi in montura de inverno, co' i xe rivadi là iera caldo, sòfìgo. E insoma, co' xe fìnido tuto, e là a Sciangai i ga fato la parata dele Potenze, volé creder che la Marina austriaca no gaveva le braghe bianche de montura? Solo el nostro-omo Ucròpina gaveva, in un scafeto sconto dela sua gabina. — El scondeva le braghe bianche? — Ma no el scondeva. El le gaveva. Ve go dito che lui gaveva tuto, sempre. E el comandante Prohàska ghe ga dito: «Giusto ben, nostro-omo Ucròpina, che vù gavé un per de braghe bianche de montura. Alora savé cossa che vù faré, nostro-omo Ucròpina? Vù, con ste braghe andé de un de sti sarti chinesi. Vù ghe le lassé là come campion, e ghe disé che el ve fazzi dò dozene de braghe bianche compagne, precise». Capì: iera la parata dele Potenze e la Marina Austro-Ungarica no podeva andar in braga blu co' tuti i altri la gaveva bianca. — E i ghe ga fato dò dozene de braghe nove? — Nove noventi, siora Nina. Cossa volé? Là, la roba costava un bianco e un nero. In China la manodopera no vigniva gnanca calcolada. E tute quante coi tasséi sul culo. — Cossa? La Marina Austro-Ungarica gaveva la braga coi tassei sul dedrìo? — No la Marina Austro-Ungarica. El nostro-omo Ucròpina gaveva le braghe coi tassei sul culo, che no el butava mai via gnente. E sto povero braghessante chinese — perché anche là, savé xe bona gente — per farle precise compagne, come che el ghe gaveva dito, el ghe gaveva fato i tasséi sul culo a tute dò dozene de braghe nove. Penseve che lavor! Ma là in China, savé, la manodopera no vigniva gnanca calcolada. — E dopo? — E dopo gnente! Cossa volé? Iera per dirve de sto Ucròpina come che el iera. El iera nominado in tuta la Marina. Pensé solo che quela volta che la Marina de Guera gaveva armado l'«Arciduca Massimiliano Francesco Carlo», i ga ciamado subito el nostro-omo Ucròpina. — Per armarlo anche lu? — Ma cosse armarlo a lu? I gaveva armado l'«Arciduca Massimiliano Francesco Carlo», l'«Erzherzog Maximilian Franz Karl», che iera una barca, tuta a vela, per la regata de Kiel. — La regata de chi? — Come de chi? De Kiel. Kiel, in Germania, che iera quela volta el più grando porto germanico. Che vigniva el Kaiser a veder sta regata. E vigniva barche inglesi, francesi, russe, italiane anche, e danimarchesi, norvegine: iera la più granda regata del mondo. Ve vigniva un Principe de Galles, siora Nina, un Francesco Ferdinando, un Duca degli Abruzzi. Cossa che no iera Kiel! Mai no me dimenticherò. Tute le Marine de Guera iera, e solo a vela. Perché solo a vela se vedi la bravitù intrinseca del mariner. E penseve che sto «Arciduca Massimiliano Francesco Carlo» i lo gaveva fato aposta novo per sta regata, al Arsenal de Pola. — E ga vinto el nostro-omo Ucròpina? — Ma cossa el nostro-omo Ucròpina ga vinto? Lui xe stà ciamado come nostro-omo. E comandante iera el Comandante Vidulich, che lui gaveva navigado a vela ani anorum. Capohornista el iera. Bravissimo de vela. Lui vedeva a ocio tuto. E apena che semo andadi per prova, come che fazeva tuti, sul percorso de regata, el ga dito: «Qua bechemo l'impirada». «Ghe go dito — el zigava sul ponte — a quei sempi del Arsenal de Pola, che sta barca pesca tropo!» — El ghe gaveva dito? — Sicuro. Apena montà a bordo el ga dito: «'Sta barca pesca tropo». E lori che no, che là xe mari grevi, che là xe fondai fin che se vol, e che co' la barca pesca se governa meo. Inveze, siora Nina, se se ga inacorto nel tòsser, perché là a Kiel iera un maledeto bordo de far sotocosta e el Comandante Vìdulich ga dito: «Qua se andemo tropo rente tera, ris'cerno de gratar fondo e se se tignimo massa in fora se intardighemo». — Sé tornadi indrio? — Che tornar indrio? No iera concepibile. E alora, me ricordo, tuta una note se ga lavorà. Via el Castel, via tuti i otoni che propio pretamente no serviva, gnente calùma, gnanche parlar, perfina tuti i pòmoli el ga fato cavar. L'asta dela bandiera la faremo de legno, el ga dito... — Per sprezzo, come? — Ma come per sprezzo, siora Nina? Per cavarghe peso a sta maledeta barca! E dò omini el ga lassa in tera perché, el ga dito, xe sempre dò quintai de meno: dàlmati i iera. — Gente nostra. — Indiferente gente nostra: dò quintai po'. Ben volé creder una, siora Nina? Lui la sera prima che partimo — perché se partiva de note e se rivava de primo dopopranzo — lui el ga ciamado el nostro- omo Ucròpina e el ghe ga dito: «Nostro-omo Ucròpina, mi go fato el conto: ste letere de oton che gavemo del nome dela barca ve sarà almanco un chilo ogniduna. «Erzherzog Maximilian Franz Karl», che sarìa stado «Arciduca Massimiliano Francesco Carlo», scrito dò volte de prova e una volta de pupa, come gnente ve xe più de novanta chili de oton. Nostro-omo: in guera de bon guerier. Fé disvidar le letere». «Come — ghe ga dito el nostro-omo Ucròpina — senza nome no se pol corer. E po' ve sarà bruto, se conosserà tuti i segni dele vide.» «Scriveremo sora in pitura!» — ga dito el Comandante Vìdulich — lui le pensava tute. Capohornista el iera. — Eh, l'oton pesa. — Sicuro. E la pitura gnente. E cussì i ga disvidado el nome. Che mi calcolo quel xe stà la prima volta che i gabi fato una roba compagna sula Marina Austro-Ungarica. Indiferente. Partimo. Vento fresco, mar — là xe sempre mar — e co' semo fora, rinforza e rinforza. E là ve iera, siora Nina, quel maledeto bordo che bisognava far sotocosta. E el Comandante Vìdulich ga dito: «Qua bisogna strenzer, strenzer, strenzer, perché se lo ciapemo largo se intardighemo.» Siora Nina, no go mai visto un bordo cussì strento. Ma pareva che fussimo zà franchi co' gavemo sentì el russon. Savé co' par che la barca vadi tuta in doghe? Quel! — Sé andai a fondo? — No se podeva, siora Nina. Tocavimo zà fondo cola colomba. Col rimurciador i ga dovesto vignirne a cior. Una vergogna! Con sta gente per le rive, per le vile che vardava coi canociai. E el brick del Imperator Guglielmo che ne xe passà vizin sonando la campana. E el Comandante Vìdulich che zigava sul ponte che a quei del Arsenal, quando lui torna a Pola, lui ghe fa una roba, che insoma no se pol dir. — Gavé perso? — Siora Nina, perso! Col rimurciador i ne ga portado fina al molo. E in furia, perché fazevimo acqua, che gavevimo sbregado el paramezal. El Comandante Vìdulich no xe andado gnanca al ricevimento. — Avilido? — Disperà, siora Nina. E el nostro-omo Ucròpina ghe dise che pazienza, che una volta se vinze e una volta se perde, che i omini ga zà stropà la fala, che come diman, con calma, se varderà de cambiar el paramezal e che intanto lui va a cior i pòmoli, l'asta dela bandiera, quele bele letere de oton che gavevimo prima, che istesso, con tuta la pitura se conossi i segni dele vide, almeno per ben figurar sul molo. «Bon — ghe ga dito el Comandante, che el iera come perso — gavé ragion, che almeno ben fìguremo sul molo. Andé in tera a cior tuta sta roba.» «In tera — ghe ga dito el nostro-omo Ucròpina — in tera gavessi lassà mi tre quintai de otoni? Roba che i li robi? Go tuto ben salvà mi, in mia gabina a bordo.» Iera omo che salvava, el nostro-omo Ucròpina. MALDOBRÌA XXI - Il caìcio dei Consoli Nella quale Bortolo rilevando come, per diverse vie, la carriera della gente di mare, porti allo splendore dei saloni di Prima Classe o all'oscura plancia dei postali, narra del prestigioso rituale diplomatico adottato con esito lusinghiero dal Comandante Terdoslàvich nelle acque territoriali del Regno iel Montenegro. — Se capissi che far el maritimo xe sacrifizio. Ma co' un va per mar, per mar el devi andar e no per tera. Se no se perdi anzianità, xe poco avanzamento. Savé che co' se va fora de Gibiltera e de Suéz xe tuto un'altra paga? I conta de più la panatica e anca i ani de navigazion. Cussì iera soto l'Austria, almeno. Adesso no so, perché i cambia ogni momento qualcossa. Metemo el Capitan Terdoslàvich, presempio. Savé quando che el xe diventado Comandante lui? Pochi ani prima de andar in pension, povero. Che anzi poco el la ga godesta. — Ah! Povero Capitan Terdoslàvich, che bon omo che el iera! Me devo ricordar de dirghe un requie... — Ben. Lui, apena sposado, ve parlo de prima dela prima guera, el navigava su ste barche dela Ungaro-Croata che fazeva Dalmazia. E quando che el Lloyd Austriaco lo gaveva ciamà in Palazzo e ghe gaveva domandado se el voleva andar come Primo Ufìcial sul «Cherca», che quela volta fazeva Sciàngai, lui che el penserà. Pò la moglie lo ga messo suso che no, che cossa andar pericolar per mar, che xe meio sti viagi per Dalmazia, che xe tuto gente nostra e che ogni setimana el xe a casa. E che cussì e che colà. Insoma lui, siora Nina, ve xe restado sula Ungaro-Croata, vita natural durante. Primo Ufìcial, la massima parte e dopo, propio i ultimi ani, Comandante. Però, come Comandante, cossa volé? Volé meter un Vìdulich che iera stà Capohornista? Un Brazzànovich che ga avù la Marta Wàssinton, che ga visto tuto el mondo? Un Okrétich, un Petrànich, tuti sti primi Comandanti che iera? Che anzi, co' i se trovava con Terdoslàvich, lui iera come avilido. — Eh, una volta se trovava sì, i Comandanti insieme, che mio povero padre me diseva che fra de lori i se le contava dò per un soldo. — Mi digo! Ma lui poco gaveva de contar, povero Terdoslàvich: Fiume-Boche de Cataro, Boche de Cataro-Fiume, Sebenico, Spalatro, Zara. Inveze sti Petrànich, sti Brazzànovich, sti Vìdulich, sti Bolmàrcich ghe parlava de Kobe, de Hònkong, de Bòston, de Néviork, de Buones Aires, de ricevimenti, signori passegeri, diplomatichi, Nunzi Apostolici che lori gaveva sempre in tavola. E lui al massimo qualche Ispeziente Superior l'intivava. «Co' ne ierimo apena fora de Spalatro — el contava — me vien vizin sto Ispeziente Superior...» e lori gnanca no ghe dava bado. — Al Ispeziente Superior? — Maché al Ispeziente Superior! Al Capitan Terdoslàvich gnanca no i ghe dava bado. Savé: sti primi Comandanti iera omini de mondo, e po' i gaveva avudo anca sodisfazioni. Perché co' iera le visite de cortesia, come che se usava quela volta, i andava, metemo dir a Sciàngai, e là el Chinese ghe dava l'Onorifica del Celeste Impero, che i Comandanti meteva su co' i iera in montura alta col capel puntà. — Sul capel i se meteva? — Ma cossa sul capel? Sulla montura. Come che gaveva el militar de Marina de Guera anca. Vìdulich gaveva presempio l'Onorifica del'Argentina co' el gaveva fato Capo Horn, l'Ordine del'Imacolata Virgo: là i usava quela... — In Cesa? — Maché in Cesa! Iera un'Onorifica. Come l'Ungheria gaveva Santo Stefano, e i italiani gaveva l'Anunziata, che — penséve siora Nina — col'Anunziata i diventava cugini del Re. — Cossa el Comandante Vìdulich iera cugin del Re? — Ma cossa Vìdulich? L'Anunziata in Italia i ghe dava ai più grandi, ai primi: a un Petiti di Loreto, a un Marconi, a un Balbo. Cossa Vìdulich? Lui gaveva Immacolata Virgo, che iera del'Argentina. E inveze Terdoslàvich gnente. Cossa volevi che i ghe daghi ale Boche de Cataro? L'Ordine dela BocaTasi? Insoma che ve contavo, Barba Nane diseva sempre: «Povero Comandante Terdoslàvich lui con sti viagi de Dalmazia el se ga perso, e pecà perché el xe un bravo Capitan; come che lui ve va dentro a Sebenico, no ve va nissun, che più de un a Sebenico xe fìnido in rede.» — Eh, però la comodità de esser a casa ogni setimana... — Indiferente. Qua se parla de Comandanti. Volé saver una roba? Che un giorno i lo ga ciamado a Fiume, in direzion dela Ungaro-Croata e i ghe dimanda se el volessi cior el comando del Jupiter. — A Terdoslàvich? —A lui sì. Cossa, un Vìdulich ve se gaverìa fato ciamar dela Ungaro-Croata? E, insoma, i ghe disi che xe sto Jupiter. Iera una vecia barca che iera stada del Lloyd Austriaco e la gaveva comprada l'Ungaro-Croata. E sto Jupiter ve fazeva Trieste-Pola-FiumeDalmazia-Boche de Cataro e Antivari. E Terdoslàvich, me lo ricordo, contento che mai de andar in Antivari. — Ve xe bel, no, Antivari? — Cossa volé che ve sia bel Antivari? Xe Antivari. Solo che Antivari, quela volta, soto l'Austria, no iera Austria. — Come? Soto l'Austria no iera Austria? — No, siora Nina. Digo: co' noi ierimo soto l'Austria, Antivari ve iera Montenegro. Ma no Montenegro come che xe adesso: iera Regno di Montenegro, col Re Nicola di Montenegro. — Che iera contro l'Austria? — Ma cossa contro l'Austria? Quela volta, fin che no i ga copà Francesco Ferdinando, no iera nissun contro l'Austria. 'Sto Montenegro ve iera un Stato libero. Iera confìn propio, dogana, rente de Cataro: tuto scrito per zirìlo che xe Montenegro. Antivari ve iera a dò passi de Cataro, ma a sto Comandante Terdoslàvich l'idea, el conceto de andar in un porto foresto assai ghe podeva. «Ve porterò del Montenegro...» — el ghe diseva a tuti in local — no so cossa, perché quela volta in Montenegro se andava solo che per carigar cavroni. Insoma, mi iero con lui in sti viagi de Antivari. E con mi iera el nostro-omo Ucròpina, pò Pìllepich, che quela volta gaveva ancora la gamba, e el povero mistro Fatutta che ga perso cussì stupidamente la vita. — In Montenegro? — Maché in Montenegro. El xe cascà in stiva a Porto Re. Ma indiferente. Insoma, vù dovè saver che sto Comandante Terdoslàvich, apena fora de Cataro, el diseva: «Tra poco saremo in acque teritoriali del Montenegro: issé la bandiera del Montenegro!» E el la vardava andar su sul pico, come se fussi un oracolo. E pò, co' rivavimo in Antivari, che se metevimo in rada, perché col Jupiter no rivavimo a andar al molo — penséve che scarto porto che ve iera Antivari — lui spetava in montura alta, col capel puntà, che ghe rivi el caìcio dei Consoli. — Come el caìcio dei Consoli? — Sicuro. El caìcio dei Consoli. Perché in Antivari, ve iera sti Consoli onorifìchi. Savé: el Montenegro se tigniva; ve iera el Console russo, el Console italian, pò quel de Panamà, el Console de Svezia, Norvegia e quel de Austria-Ungheria, no parlemo. Ve disevo: no ve iera veri Consoli diplomatichi; questi ve iera onorifìchi. Iera tuto gente del logo che gaveva magazeni. De pelame, massima parte. Che però i bateva bandiera, come i veri. Insoma, volé creder, co' vigniva 'sto caìcio soto bordo, con tuti i Consoli suso, Terdoslàvich gaveva pareciado tuto una roba sua. — Una festa? — Speté. Lui fazeva vignir soto bordo el caìcio dei Consoli: montava sula biscalna el Console de Russia che iera el più in età e lui fazeva tirar su la bandiera russa. — Cola falza e el martel? — Ma dove ve iera quela volta la falza e el martel? Iera l'aquila del Zar, quela volta. E dopo, montà a bordo sto qua e tirada su la bandiera, el caìcio fazeva tuto el giro atorno del vapor e el fermava de novo soto la biscalna. Vigniva a bordo el Console de Italia e Terdoslàvich fazeva tirar suso la bandiera italiana. E dopo de novo el caìcio fazeva el giro e vigniva su el Console del Panamà, e cussì tuti. E con sta pantomina andava via tuta la matina, siora Nina. Però a sti Consoli ghe podeva. Terdoslàvich iera nominado in Antivari che no ve digo. «Pranzo consolare» el fazeva. Qualche volta vigniva su anche le Consulesse. — Come le Consulesse? — Le mogli, no, de sti Consoli. E penséve che una volta, sto Terdoslàvich, come che el gaveva sentì del Comandante Brazzànovich, che co' se gaveva Ufficialità, Corpo diplomatico a bordo, bisognava far el brindisi per la moglie del più in età, el se gaveva studiado tute le rime. — Le rime? Che rime? — Sì, perché quela volta se usava far el brindisi in rima, in poesia, come. E lui gaveva studià, penséve, questa: «La moglie del Re é la Regina, eviva la Consulessa norvegina!» — Bel! — Sì, bel. Solo che in tavola, al ultimo momento el Console del'Austria-Ungheria ghe gaveva dito che la più in età iera la signora Jerazìmovich, che iera la moglie del Console de Russia. E lu, là, zà col bicer in man, ga dovesto inventarse de colpo una nova e el ga dito: «La moglie del mus si chiama mussa, eviva la nostra Consulessa russa!» Che, dopo, de sta roba ga ridesto per ani tuta la Marina Austro-Ungarica. — Se usava, sì ste rime, anche per sposalizi. — Indiferente. 'Sti Consoli assai ghe voleva ben a Terdoslàvich, perché lui iera grandioso con lori. E una volta el Console austroungarico che iera un zerto Malabòtich — pelami de castron el carigava — ghe ga dito, ci fa ci dice, perché che el Comandante Terdoslàvich no va a farghe visita a Re Nicola de Montenegro. Che xe vizin, che sarìa ben per l'Ungaro-Croata, una roba e l'altra. Che i lo compagnerà lori tuti insieme. Fato sta che el va su in Cettigne, dove che stava sto Re Nicola. Siora Nina: lui se ga vestì de tuto punto in montura alta quela matina, col capel puntà e sul mus i xe andadi suso in Cettigne, perché no iera una vera strada per carozze. E mi e Pìllepich, che gaveva ancora la gamba, drio de lu. Ognidun col suo mus. Che semo rivadi su che gnanca no podevimo più sentarse. Per dirve che strada che iera. — Strada bruta? — Siora Nina, gavé presente la strada che va de Ràbaz a Ràbaz Superiore? Cussì. Solo ancora più longa. Insoma, arivemo in sta piazza de Cettigne. «Quela — ne disi el nostro Console, sto Malabòtich — ve xe la Reggia.» Reggia, siora Nina! Gavé presente la vila Prohàska? Cussì, un circumcirca. Bela vista, ma come la vila Prohàska. Gnente de tale. E vedo un omo in età, coi mustaci e la bareta tonda, che fumava la pipa sentado davanti dela porta, che mi go congeturado che doveva esser un guardian, come. E inveze ve iera sto Re Nicola de Montenegro: pretamente democratico el ve fumava davanti dela porta. — El Re iera? — El Re, sì. E no ve digo che ala man. El ne bateva sula spala che andemo drento. El parlava franco italian, dopo che la fìa ghe se iera sposada in Italia. E che pranzo! E che vin che i ga in Montenegro! Un fià greve, ma bonissimo. E sto Terdoslàvich in montura alta, col capel puntà, e le braghe tute ontolade de drio — savé, tre ore de mus — che ghe diseva che lui «anche a nome dela Ungaro-Croata, Vostra Maestà...» Tuto rosso el iera. Felice. E dopo zena xe vignudi questi cole zìtare a sonar e, alegri de sto vin pesante che iera tuti ga cantado: «Ona jé sama, da nésna mama». Bela vose el gaveva. E cussì imborezado, che el iera, anche Terdoslàvich se ga messo a cantar, savé quela, «Tre marineri che vano in Egito, oh che bel sito che vano a vedér». Anca Terdoslàvich gaveva una bela vose. Insoma un divertimento, un rider, una contentezza. — Tuti che cantava? — Sicuro; e penséve che quando che stavimo per tornar in Antivari, sto Re Nicola ghe ga dito al Comandante Terdoslàvich che el vol darghe come memoria, l'Ordine del'Aquila Doppia dela Zernagòra. — El ghe ga dà un ordine, el ghe ga intimà? — Ma no intimà! El ghe ga dà sta Onorifica: «Cavaliere del'Aquila Doppia dela Zernagòra.» Un patacon compagno, siora Nina, che sula montura alta fazeva propio un bel véder. No ve digo el Comandante Terdoslàvich, che iera la prima Onorifica che el ciapava. Co' tornavimo zò sui mussi el diseva: «Adesso Vìdulich pol andarse a sconder, cola sua Imacolata Virgo ora prò nobis; mi, Antonio Terdoslàvich, go l'Aquila Doppia dela Zernagòra...» «Ona jé sama, da nésna mama» el cantava, che rimbombava tuta Antivari. — Contento, come? — Contento? Altro che! Come dimàn che semo partidi, sto patacon el se lo ga messo anca sula montura bassa. Ma mi gavevo subito osservado che zà fora de Ragusa, sta Onorifica, che iera una Crose de Religion Vecia, col'aquila dopia drento, iera diventada verde, ossidada insoma. Come che fussi de oton. E el Capitan Terdoslàvich no podeva capacitarse. Che come de oton pol esser se ghe ga dà Re Nicola? Ma mi, che ghe iero giovine de camera, una manna ghe la go lustrada cola PutzPomàde. «Vedé, Comandante — ghe go dito — che la xe tornada bela. Xe come le cluche: se se lustra xe lustro, ma dopo se ossida.» Ben: savé cossa che ga fato sto omo, apena rivà a Trieste? El xe andado da Jànesich, che iera la più granda oreficeria, e el se ga fato far sta Crose compagna, ma de oro, con quatro brilantini sui oci del'Aquila dopia. — Bel! — Sicuro. E lui ghe la mostrava a Brazzànovich, a Vìdulich a tuti. Apena che el se podeva meter in montura alta el se la petava. Stimo mi, ghe iera vignudo a costar più de zento fiorini, senza i brilantini che quei el li gaveva ciolti dei recini de sua madre defonta. — Sua madre ghe gaveva dà? — Defonta la iera. El li gaveva avudi in facoltà. Ma speté, speté. El viagio dopo, che semo tornadi in Antivari, el Console Malabòtich — dopo che gavevimo fato tuta la pantomina del caìcio dei Consoli — ghe disi che xe ben che semo rivadi, perché giusto xe San Nicolò, che xe la festa del Re Nicola e che, come dimàn, xe zà pronti i mussi per andar tuti su in Cettigne. Breve: co' rivemo su, Re Nicola tuto contento, lo basa e lo brazza al Capitan Terdoslàvich che iera in capel puntà e el ghe disi che adesso tuti in Montenegro sona cole zìtare «Tre marineri che vano in Egito» e po' ghe casca l'ocio su sto patacon del Ordine del'Aquila Dopia dela Zernagòra. «Come — gli fa gli dice — solo Cavaliere?» Che un Comandante devi esser come minimo Grande Ufìcial. E dito fato, el ghe tira zò dela patela el patacon de oro e el se lo meti in scarsela. Pò el ciol de una guantiera che tigniva un suo, una crose compagna con dò Aquile Dopie, una de sora e una de soto e el ghe la peta sula montura. Sarà stà, mi calcolo, un dieci deca de oton. Tuto el viagio, siora Nina, go dovesto lustrarghela cola PutzPomàde. MALDOBRÌA XXII - L'Allievo Nella quale Bortolo narra la storia di un matrimonio per fotografia, di una nave senza allievo ufficiale in rotta per New York via Algeri, Orano, Costantina e dell'impossibile amore di Mercedes Smecchia, figlia del Console Austro Ungarico in terra di Barberia. — Me ricorderò sempre de quela volta che la nevoda del Comandante Nìcolich doveva sposarse per fotografìa. — Sposarse per un fotografo? — Ma cossa sposarse per un fotografo? Cossa volé che una nevoda de un Comandante Nìcolich se sposassi per un fotografo, che quela volta no i iera gnente consideradi? Ela se sposava per fotografìa, perché i Nìcolich e i Bùnicich, massima parte se sposava fra de lori per via che le carature dele barche, del squero, de tuto, ghe restassi in faméa. E sicome questo giovane Bùnicich che doveva sposarse cola nevoda del Comandante Nìcolich iera zà de ani in America, alora i se sposava per fotografìa. Perché quando lui iera partido coi «Sete Frateli» e el iera restado zò, ela iera ancora putelina. — E la Cesa no ghe lassava sposarse? — Ma cossa i ghe lassava e no i ghe lassava? Gnanca no i pensava quela volta. Ossia, le famée pensava, ma no iera ancora el momento. Cussì, dopo, lui ghe gaveva mandado la fotografìa a ela, ela ghe gaveva mandado la fotografìa a lu, i se gaveva piasso, e insoma iera zà tuto disposto per via che i se sposi. — Amor? — Amor, siora Nina, cossa volé che quela volta se pensassi al amor in questi sposalizi! El vecio Nìcolich, el padre de ela, che iera fradelo del Comandante—cussì la ghe vigniva a star nevoda— diseva: «Amor vignirà dopo, cola conossenza, col uso, coi fìoi. L'importante xe esser persone de sesto, la stima e el volerse ben. E po' amor fa amor e crudeltà distruge.» — Eh, questo xe vero. — Vero o no vero, cussì se usava quela volta e istesso no se sentiva tute ste brute robe che se senti ogi nele famée. — Xe, xe tante sì via del marì adesso. — Indiferente. Insoma tuto iera disposto che questa Ketty Nìcolich doveva sposar el giovine Bùnicich de America. Prima i gaveva divisado de far per procura, ma dopo, sicome iera l'ocasion che el zio, el Comandante Nìcolich, iera sul'Austro-Americana e el doveva andar zò col «Calliope», suo fradelo ghe gaveva dito: «Parla in Palazzo con quei del'Austro-Americana, che la Ketty vadi zò cola «Marta Wàssinton», in terza classe — tanto co' la xe zò, la xe zò — che i ne fazzi un bon sconto e cussì co' ela la riva, ti che ti sarà zà là, ti la va a cior. Che i se sposi subito, ti ghe fa de compare ti e in sta maniera sparagnemo la procura che l'avocato Miagòstovich disi che xe assai spese. E po' qua ghe volessi far un rinfresco e l'offerta per el Domo e altre spese, insoma.» — E sta sposa no podeva adiritura andar zò col zio? — Col zio zò, col zio su! El «Calliope», siora Nina, se vù no savé, ma mi so, iera barca de carigo e no podeva cior passegeri. E po' no iera miga la strada del orto: lori, prima de rivar a Néviork ve fazeva Brindisi, Alessandria, Algeri, Orano, Cadice, Tenerifa: coletame. Dove che iera i cioleva. Insoma el Comandante Nìcolich ga fato e dito col'Austro-Americana, ma Compagnia iera Compagnia e al massimo lori ghe podeva far el bilieto de ponte come emigrante e meterla in terza classe. E istesso iera soldini, perché quela volta no iera miga come adesso che se va e se vien de America con un bianco e con un nero. — Forsi che sto ano vien mia cognada de America... — E forsi che vien guera anca, siora Nina! Cossa me interompé co' ve conto! Iera soldini, insoma, sto viagio. E el fradelo del Comandante Nìcolich gaveva dito: «Se tanto costa per farla sposar, alora xe meo che la metemo come conversa dele Mùnighe del Squero, la ne resta vizina de nualtri, la vocazion vegnerà dopo e po' xe sempre ben aver in faméa una mùniga che prega per le anime sante del Purgatorio.» — Ah, alora i la ga fata mùniga? — No. Perché el zio ga dito: «No, povera Ketty, che se no la ga proprio la vocazion xe pecà». Che po' i xe zà in parola coi Bùnicich, che sarìa come farghe un sprezzo e che lui farà in modo e maniera che la possi vignir zò in America a gratis. — Come emigrante? — Maché emigrante! Lui iera furbo, savé, el Comandante Nìcolich. Quela volta iera i comandanti che fazeva i equipagi, i andava in giro per le osterie a ingrumar su maritimi per l'imbarco. E alora lui ga pensado: «Mi no ciogo l'alievo ufìcial sto viagio e a Trieste che la Ketty se vesti pulito de alievo, la vien su de sera, mi dirò che xe l'alievo, la va in gabina, la matina dopo mal mal mal, che l'alievo sta mal, e mal fin Néviork. A Néviork col scuro la se sbarca e chi ga avù ga avù.» —Mama mia! Iera un fufìgnezo questo! — Fufìgnezo, sicuro, ma mal no far paura no gaver. A chi ghe fazeva del mal el Comandante? Lui ghe spetava l'alievo e se el voleva far senza, afar suo. — E se podeva? — Per forza che no se podeva, se iera un fufìgnezo! Ma lui per la nevoda sua de sangue, ga fato. Cossa volé che la vadi dele munighe senza vocazion? E po' iera una bela putela, savé, forte, granda, la Ketty, come un omo. Quarantadò de scarpa la gaveva. Lui pulito, a Trieste, come che el gaveva dito, el ghe ga dado la montura, ela la se ga taiado i cavei, che dopo tanto fin Néviork i ghe cresseva de novo in gabina. Cussì, una sera che sul «Calliope» iera tuti franchi e iera solo Pìllepich de guardia, lui ghe ga dito a Pìllepich de andar a veder no so cossa de pupa, el ga portado a bordo la nevoda come alievo, la ga serada in gabina e fata la xe. — Ah, el la ga portada a Néviork travestida? — Siora Nina, questo ve iera a Trieste. E, come diman, ale diese che i ufìciai fazeva marenda e ierimo zà fora de Salvore, el Comandante Nìcolich disi: «Signori ufìciali, reménghis, si scuminzia male, perché gavemo za le rogne a bordo!...», che l'alievo novo ga febre, che el xe in cuceta, ma che insoma in qualche modo faremo e che intanto femo marenda. — E a ela gnente marenda? — Ma come gnente marenda? Lui a ela ghe portava dopo, in carta. «Al alievo penso io» — el ga dito una volta per tute — fazendo come capir che sto alievo iera fio de un grando dela Compagnia. E insoma tuto ben. Quando semo rivadi in Algeri, là iera sempre el Console Austro-Ungarico, un triestin, un certo Smecchia, che profitava co' passava barche nostre per imbarcarse e andar a Orano. Perché lui iera Console Austro-Ungarico di Algeri, Orano e Costantina, come che se usava quela volta. Insoma, el vien su cola fìa. — 'Sta Costantina? — Siora Nina, Costantina iera che lui iera Console. Orano, Algeri e Costantina, Console unico. Una città ve xe Costantina. La fìa, me ricordo, se ciamava Mercedes, Mercedes Smecchia. Bela putela, mora, oci grandi, studiada, apena fìnido el Liceo Francese in Algeri la gaveva. Quela volta iera el Francese in Algeri, miga come adesso, che tuti bàgola. E el padre la portava con lui in Orano che la vedi un poco el mondo. Mondo: Orano e Algeri ve iera vizin, ma insoma un viageto. — Eh, xe bel che le putele un poco vede. — Indiferente. Rivemo in Orano e in rada vien suso el piloto, un francese, italian de razza, e el ghe domanda a Pìllepich che lo spetava in zima dela biscaìna, come che xe, come che va, se stemo tutti ben a bordo. E Pìllepich che sì, che magari tanti bori quanta salute, che solo l'alievo ga un fìà de febre. «Ahi, ahi ahi! — disi sto piloto — febre ga l'alievo?» Che el devi avertir la Sanità Maritima, perché a Orano xe zà tre barche con a bordo febre zala e una con dissenteria. Che alora spetemo. E el se ciapa su cola pilotina e el torna presto presto in porto. — Perché el gaveva dissenteria? — Cossa lui gaveva dissenteria? Lui andava presto a avertir in porto che noi gavevimo un con febre a bordo. E el Comandante Nìcolich, no ve digo, co' Pìllepich ghe ga contà sta roba. Che cossa lui ga de andarghe a contar al piloto che l'alievo ga febre e no ga febre, che no el sa chi che lo tien de darghe un stramuson su quela maledeta boca, che adesso i ne farà pratiche de Sanità, che se intardigheremo, una roba e l'altra. Po' el me ciapa per un brazzo a mi che iero corso a veder cossa che iera sti zighi e el me strassina in gabina sua de lu. — Per darve un stramuson? — A mi? Cossa ghe entravo mi? Mi iero el suo giovine de camera. Siora Nina, el Comandante Nìcolich, in quel momento iera intrigado che mai, perché el iera sicuro che insieme col piloto sarìa vignuda a bordo anca la Sanità maritima per visitar l'alievo. Capì: febre zala! —Mama mia, e cussì i ghe trovava la nevoda! — Per forza. Cola visita medica iera poco de sconder. E alora el me se ga palesado: che mi lo devo iutar, che se no el va in ràdighi cola Compagnia e cola Sanità Maritima, che lui meterà la nevoda in gabina sua de lu e che mi vado a far l'alievo malado in gabina dela nevoda, tanto per el dotor omo xe omo. E mi ghe digo che come posso far, che mi febre no go. E lui che la febre se fa e che quel che no se fa più, inveze, xe la matricola una volta che se la perde, come che diseva Barba Nane defonto. — Come se fa a far la febre? — Se fa, se fa. Se ga fato, se ga fato ben, siora Nina. La nevoda xe andada de scondon in gabina del Comandante, mi me go messo in leto in gabina del alievo e el Comandante Nìcolich me disi: «Co' vien el dotor de Sanità e te mete el termometro, mi lo tignirò in ciacole e ghe darò rachìa e ti soto la coverta russa el termometro sule mudande longhe come che fazevimo de militari». — I militari russava el termometro sule mudande? — Sicuro per butarse maladi. Insoma, cussì go fato. El Comandante Nìcolich ghe predicava a sto dotor dela Sanità Maritima che vignimo de Algeri, che gavemo el Console a bordo, che la fìa ghe ga finido le scole, se el vol rachìa, che ancora un bicerin, che xe bon no? genuin de casa. E mi intanto russavo soto le coverte el termometro sule mudande. Volé creder, siora Nina, che go russà massa? Perché quando el me vien a cior el termometro, el iera quasi tuto pien: quarantadò e passa. «Bon—el ga dito — febre zala no xe, perché febre zala no fa più de trentanove, massimo quaranta: questo xe malaria.» Che xe un ataco de malaria, che zinque giorni ghe volerà fin che passa, che stemo in rada e iazzo sui pie. E che purtroppo il signor Console Austro-Ungarico non può sbarcarsi gnanca lui cola figlia, perché se la malaria si difonde tra gli Arabi è la fine. — Sé stadi fermi in rada? — Sì propio, per via che torni el dotor! «Pitosto continuiamo il viagio — ga dito el Comandante Nìcolich—e che il signor Console scusi tanto, lo sbarcheremo in Maroco, così anche la signorina ha occasione di vedere.» E cussì via noi fora de Orano. Ma de sera, in tavola sta fia del Console comincia a dimandar de sto alievo, de come che sta l'alievo, se el ga sempre tanta febre, che ela, visto che no xe dotor a bordo, col permesso del signor Comandante, volessi assistirlo. E anca el Console ga dito che sì, che è un sudito austroungarico malato e che all'estero bisogna portarghe conforto, anca lui, come Console. — E i xe vignudi in gabina de vù? — No de mi, siora Nina, che a mi zà i me conosseva come mariner de tanti viagi. El Comandante Nìcolich xe andado in gabina dela nevoda e el ghe ga dito: «In guera de bon guerier: senti Ketty, qua xe meio che i te vedi alzada in montura che no in leto in camisa. Mi ghe digo che la febre cussì come che la xe vignuda cussì la xe andada, che quel dotor xe un sempio che no capissi gnente, e vien in tavola stasera, no xe altro de far.» —Mama mia! La xe vignuda in tavola? — Sicuro. E ve digo, siora Nina: benissimo. Cavei curti, cola montura, ossi grandi, quarantadò de scarpa. Ben imbotonada sul colo davanti, po' savé le lussignane ga poco peto: un belissimo giovine! De no creder, belissimo. Tanto che, volé saver, fina che semo rivadi in Maroco, sta fìa del Console se ga inamorado in lu, in ela, insoma, perché ela credeva che ela fussi lu. E anca al padre la ghe gaveva fato bona impression, come omo. «Che distinto allievo! Speriamo di avere di nuovo il piacere», el ga dito co' i xe sbarcadi. E la fìa che ghe vigniva de pianzer e ghe domandava dove gli può scrivere. Che no fa gnente, che scriverà lui. No, no, che vuole l'indirizzo. E va ben, ga dito la Ketty: che scriva all'Allievo Carlo Malabòtich — el primo nome che ghe xe vignudo in testa — presso Governo Maritimo, Fiume, Austria-Ungheria. E sta povera putela po' che saludava col fazoleto, del molo. «Adieu, adieu!» El Liceo francese la gaveva fato. — E dopo? — E dopo, gnente, siora Nina. La Ketty xe sbarcada a Néviork e la se ga sposado col giovine Bùnicich. — Ah no con sta fìa del Console? — Ma come volevi, siora Nina? Se la iera una dona?! Però sta povera putela de Algeri ghe scriveva sempre: «Allievo Carlo Malabòtich, presso Governo Maritimo, Fiume, Austria-Ungheria.» Oto ani la ga scrito. In Governo Maritimo a Fiume i gaveva un armeron pien de letere. Po' la devi esser se scoragiada, come, perché la se ga fato mùniga. Dele Madri Francesi in Algeri. La curava i Arabi cola malaria. La vocazion xe vignuda dopo. MALDOBRÌA XXIII - Il biglietto dell'Arciduca Nella quale Bortolo, raccontando di un singolare quanto importante recupero marittimo effettuato nelle acque di Fiume, riferisce di una franchigia concessagli dalla liberalità di un illustre personaggio e ingiustamente revocata per cause di forza maggiore. — Vù no savé, siora Nina, no savé che martirio che xe le scarsele, perché: e ciave e spagnoleti e fulminanti e la brìtola e un poco de spago che pol sempre ocorer, carte, e la matricola co' se navigava. Mi, quela — devo dir — me ga sempre secado portarmela indosso perché fazeva assai intrigo. Barba Nane me diseva sempre: «A vù i ve caverà la matricola perché no gavé mai la matricola con sé. I ve pol ricusar de un momento al altro!» Savé cossa che fazeva Barba Nane? — Co' el navigava? — Co' el navigava e co' no el navigava. Lui, per la matricola, se gaveva fato far de sua sorela povera, la signorina Bortolina, un aposito sacheto de inzerada cola cordela che el passava intorno del colo e el la tigniva sempre sula persona. Che anzi quela volta che ghe ga ciapado el primo mal, co' i lo ga volesto colegar in leto, in svenimento che el iera, no el voleva molarla a nissun pato. — El gaveva sto pensier? — Insoma, esagerazioni. Ma però mi go sempre pensado che perché se la dona ga la borseta, no pol anca l'omo gaver la borseta? Dio, una borseta: una roba adata per l'omo, che staghi dentro le carte, la ciave, la brìtola, un poco de spago, che quel ocori sempre, soldi e tuto insoma. E cussì no se romperìa le scarsele, le mogli no gavessi de brontolar, sarìa più comodo mi calcolo. — Borsa, come i fioi de scola? — No cussì granda, una roba giusta, come per esempio gaveva el dotor Colombis, povero. —Va ben, i dotori capisso, perché i dotori ga le sue robe de dotor dentro. — Indiferente. Mi ve dirò inveze che una volta i grandi, quei primi propio, assai usava la borsa. — Una busta de ati, come? — Ben, quel xe ancora. Inveze iera propio una roba che adesso no se vedi più, picola. O Dio, picola: giusta, cola sua seradura, manigo e tuto. E Francesco Ferdinando gaveva anche la zifra «F. F.» in oro. Franz Ferdinand voleva dir veramente. Me ricordo come ieri, co' iero sul «Erzherzog Maximìlian», che sarìa stado l'Arciduca Massimiliano. — Massimiliano gaveva sta borsa? — Cossa, Massimiliano, che lui iera zà de ani anorum che el sburtava radicio in Messico! Radicio se disi per dir, perché in Messico no i ga radicio, i ga un'altra roba, mi go visto a Vera Cruz. L'«Erzherzog Maximìlian» iera una barca, una nave scuola della Marina Austro-Ungarica, che mi iero imbarcà in quel periodo: ve parlo de prima dela prima guera. De leva iero, nave scuola. E, in alora, Francesco Ferdinando, che iera l'Erede al Trono dela Duplice, el più grando dopo Francesco Giusepe, ve podé imaginar con che servitù e comodità e ufìcialità e yacht suo personale, ben lui — mi lo go visto propio — co el xe vignù in visita sul «Erzherzog Maximìlian», lui sempre tigniva personalmente sta borsa in man. — E cossa el gaveva dentro? La brìtola? — Cossa brìtola, cossa volé che mi, semplice mariner, podessi saver cossa che el gaveva lui dentro in quela borsa? Secreti de Stato, robe importanti mi calcolo. Greve la iera, quel posso dir, perché dovè saver che un giorno, grande pulizia — a Fiume ierimo, in rada — lustrar otoni, fregar la coverta, e gran pavese tirà su: chi vien, chi no vien? — Francesco Ferdinando. — Chi ve ga dito? Sì, propio Francesco Ferdinando in visita, su sta nave scuola. A vela, savé, iera ste navi scuola de quela volta, miga come adesso che i fraca boton e i parti macachi e macachi i torna. Un brick iera, e tuto papafìchi, parocheti, rande, carbonere, fiochi, e controfiochi del'ostia, che bisognava rampigarse sui alberi come i simioti per sbroiarle. Eh, iera dura una volta la vita del maritimo. Insoma el vien su: tuti i segnai del rango col fìs'cioto i ghe ga fato, in montura de marina blu el iera, me ricordo perché iera febraro. Tuto ben: el ga vardà tuto, parlado con tuti, anca coi maritimi de bassa forza. I diseva difati che el iera pretamente democratico e che con lu l'Austria sarìa cambiada de cussì a cussì. Cussì i parlava quela volta. — A bordo? — A bordo? Dapertuto: el iera l'Erede dela Duplice. Insoma, finida l'ispezion i cala la biscaina e soto sula lancia de bordo che spetava per portarlo in tera — ve go dito che ierimo in rada — ierimo el Cadeto Giadròssich al timon, mi, Marco Mitis, el nostro-omo Pìllepich e, in pie, col mezo mariner, i due gemei Filipàs, che a lori i li mandava sempre in ste ocasioni perché, savé, alti, biondi, precisi compagni, oci celesti, naso a spontier, i fazeva assai figura. — No conossevo. — Vù volé conosser tuti. Vù no conossevi gnanca Francesco Ferdinando, inveze mi si, perché el me iera sentado propio davanti col suo aiutante de campo e col Comandante Prohàska che comandava la «Maximllian» e lo compagnava in tera: iera la pramatica. Che anzi el Comandante ghe ga dito: «Altezza Imperiale, la me dia a me!» E lui: «No grazie, porto io!» — Cossa? — Ma sta borsa, siora Nina, de cossa ve stago parlando? 'Sta borsa con «F. F.» in oro, la seradura e el manigo. Lui la tigniva sui zenoci con tute dò le man de sora. Mi calcolo che doveva esser secreti de Stato. — O napolioni? — Ma cossa volé che ghe podessi ocorer napolioni a Francesco Ferdinando? Lui dove che andava, tuto i ghe dava. Insoma, arivemo cola lancia sul molo de Porto Bàros, i Filipàs se guanta col mezo mariner, lui sta per sbarearse con sta borsa in man, quando: patapùnfete! —Mama mia! El casca in acqua? — No lui, la borsa. El manigo ga cedù de una parte e la ghe xe sbrissada de man, in mar, siora Nina. — Persa la borsa? — Forsi che sì, se no iero mi. Perché mi, cussì come che iero, con tuta la bareta de montura, me son butado drio. — In mar? — In mar sicuro, se la borsa iera cascada in mar, dove me bufavo, in tera? E son rivà a guantarla prima ancora che la tochi fondo. No ve digo, no ve conto, co' son tornado suso per la scaleta del molo! «Subito un capoto per questo bravo marinaio.» «Guter Matrose» el ga dito per tedesco, ma mi go capisto. Ghe dago sta borsa e volevo dirghe: Altezza Imperiale, una roba e l'altra, savé iera l'ocasion ma me bateva i denti del fredo. Podé capir: febraro, ierimo soto carneval. —Mama mia! E lu? — E lu, zinque fiorini de oro el me ga dado. Che el se ga fato dar, che ve go dito che i ghe dava. «Eco, el ga dito netando col fazoleto de batista solo si stesso sta borsa, eco, el ga dito, per il balo di carnevale di stasera». «Profiterò, Altezza Imperiale, ghe go dito franco, ma 'sta sera no perché sono di guardia.» E alora lu, savé cossa che el ga fato? — El ga netà solo si stesso sta borsa col fazoleto de batista. — No, el ghe la ga dada in man un momento al Comandante Prohàska — che el la tigniva in alto, me ricordo sempre, come el Vescovo de Ossero el Santissimo in procession — el tira fora un bilieto e una stilografica, che quela volta le stilografiche iera ai primi primordi e i ghe ciamava «penna senza fine», el me domanda come che me ciamo, el scrivi sul bilieto, el me lo dà, e via lu con tuti i altri. — Una suplica? — Ma cossa suplica, siora Nina? Volé che Francesco Ferdinando me scrivi una suplica a mi? Sul bilieto che gaveva sora la stema sua de lu, iera scrito: «Il Marinaio Bortolomio ecetera ecetera è franco stasera di ogni servizio. Francesco Ferdinando. Der Matrose — mi — hat Urlaub heute Abend für alle Dienste. Franz Ferdinand.» 'Ca madòdise, cossa che no iera una volta! — E dopo? — E dopo, quela sera, son stà franco. Quela sera là e la sera drio e cussì avanti: quatro mesi son stà franco ogni sera, fina in giugno, perché el se gaveva dismentigà de meter la data sul bilieto. — E dopo el la ga messa? — Messa in terzo, siora Nina, con tuti i parati a luto iera a Fiume, co' i lo ga copado. Assai me ga dispiasso. Savé, no podevo più usufruir del bilieto, perché tuti i giornai gaveva parlado tropo de quela roba de Sarajevo. MALDOBRÌA XXIV - I patrioti Nella quale si parla della guerra nel Quarnero e del tacito patto di mutuo soccorso fra gli uomini di mare delle Isole dei Lussini, sempre operante al di là delle contingenti anche se aspre controversie fra le vecchie Grandi Potenze del concerto europeo. — I lussignani ve xe come el persémolo, lori ve xe in tuti i loghi del mondo. Mi una volta a Néviork, che caminavo là de Ventitré Strade, savé chi che ve intivo? — Un lussignan. — Come savevi? Ve go zà contà? — No: adesso me gavé dito che i xe come el persémolo, che i xe per tuto el mondo. — Sicuro, come el persémolo. Però bravi, e sempre insieme, e i se protege un col altro sul lavor. E massima parte i se sposa sempre fra de lori. Sule barche, presempio... — I se sposava sule barche? — Cossa sposarse sule barche? Chi mai se sposa sule barche? Solo in estrémis el capitan pol sposar sula barca. Quel el pol: in estrémis, ma mi volevo dirve che, specie sule barche, sti lussignani assai se aiutava fra de lori, i se protegeva un col altro. Anche in Marina Militar, savé. Me ricordo che co' iera guera, ve parlo dela Prima guera, el Capitan Giadròssich, che vigniva a star el padre del Cadeto Giadròssich, co' i ghe ga dado el comando del «Pilsen», lui ga fato carte false, siora Nina, pur de gaver solo lussignani a bordo. Figuréve che fin quei de Unìe, de Canìdole, de San Piero ai Nembi, lui li ricusava. Solo lussignani, e de Lussinpiccolo, massima parte, perché zà quei de Lussingrando no ghe comodava tanto. — Eh: quei de Lussinpiecolo se ga sempre tignudo, in confronto de quei de Lussingrando. — Sicuro, quei de Lussinpiccolo, de domenica, per dirve, là del Domo i fazeva liston. I omini vestidi de tuto punto: camisa, sciarpeta, corpeto e orologio de oro con cadena. Rari gaveva orologio con cadena a Lussingrando. Per forza: quei de Lussinpiccolo gaveva el squero, le Nautiche. Ben, volé creder che in sta barca, in sto «Pilsen», che ve iera un Avviso... — Iera l'avviso che i cioleva a bordo solo lussignani de Lussinpiccolo? — Ma cossa, scherzé, siora Nina? Dove podeva uno azardarse de meter fora un aviso compagno? Soto l'Austria tuti i popoli del Impero, doveva esser precisi, fìguréve far angherie fra Lussingrando e Lussinpiccolo, quando che ve iera una Boemia, una Galizia, una Bosnia Erzegovina! — Gavé dito vù che iera sto aviso... — Ma, siora Nina: el «Pilsen» iera un Avviso, come dir un Avvisoscorta, un monitòr, una barca de guera de perlustrazion. E 'sto Comandante Giadròssich gaveva fato in modo e maniera de gaver solo lussignani a bordo, ma cussì, sotomanvia, con scondariòle. Volé creder, che tanto el gaveva dito, tanto el gaveva fato, che i unici che no iera pretamente de Lussin sul «Pilsen», con lu, ierimo mi e Barba Nane? Perché nualtri gavevimo pratica de torpedo, che quela volta ieri pochi. — Butavi torpedo? — No, no butavimo torpedo. Gavevimo sì a bordo, per ogni evenienza, ma nualtri ierimo propio adetti a zercar sti Mas, che i ghe diseva, ste silurenti italiane che se scondeva drio dei scoi... — Silurenti che se scondeva drio dei scoi? — Ma sì: silurenti, siluranti, come che volé dirghe. Guera iera ah! E vigniva sti Mas, sti Danunzio, come gnente fussi, i coreva come diavoli, iera una novità, quela volta. Come ve xe andada a fondo una Santo Stefano? Come ve se gà perso una Wien? Con sti silurenti: lori ve rivava de note, svelti che nissun li vedeva e i gaveva la furbità de sconderse drio dei scoi e i spetava. Cussì, quando che i vedeva passar qualche barca austro-ungarica, i vigniva fora, i ghe molava un per de torpedo e via, i scampava in Ancona, e chi li ciapava più? Iera una novità, quela volta. — E vù dovevi ciaparli? — Maché ciaparli! Chi li ciapava, che i coreva come diavoli! Noi, presempio, co' andava la Squadra fora del porto militar de Pola, dovevimo andar in avanti, vardar scoio per scoio, star atenti che no i sia, e darghe via libera al Amiraglio Horthy, perché iera lui che comandava tuta la Marina de Guera. — E vù ghe fazevi moto che el vegni avanti? — Moto! No ocoreva far moto, perché co' lori vedeva che noi caminavimo, voleva dir che i podeva andar franchi. Insoma, ve contavo che in sto «Pilsen» del Comandante Giadròssich, con sti lussignani a bordo, tuto gente nostra, se trovavimo noma che ben. Penséve che in dò ani, mai no gavevimo pericolado, noi fazevimo el nostro servizio de perlustrazion e basta. Una volta per setimana, de vénerdi, co' ierimo foraman, sotocosta, el Comandante Giadròssich ordinava de butar una bomba de fondo. «Per sicurezza militare — el diseva — Dio guardi che no sia qualche malignazo sotomarin.» E inveze savé per cossa che iera? Per gaver pesse fresco. Siora Nina: con un vaseto de conserva de pomidoro de dinamite, qualunque sempio se fa su un dò cassete de pesse, fìguréve con una bomba de fondo! Fazevimo tanto pesse che fin vendevimo a Pola a un fìorin el chilo. — Eh, i lussignani xe assai interessosi. — Ma no: vanzava e alora se vendeva. Xe pecà butar via, diseva el Comandante Giadròssich: lui no podeva concepir che la roba vadi strazzada. Pensévese che presempio co' tornavimo a Pola, lui passada la diga el ghe dava de vose al foghista che el fermi la machina e andavimo avanti de briva fina al molo. Bravissimo, come comandante el iera: el stava lui al timon, co' andavimo de briva. «Perché butar via carbon — el diseva — co' la barca va avanti sola si stessa?» Insoma, che ve contavo, una volta semo fora de Premuda. — Bepin Premuda? — Ma cossa ghe entra Bepin Premuda? Che quela volta el iera ancora nelle braghe de suo padre! Premuda, l'isola, no? Ve xe prima Lussin, dopo ve xe San Piero ai Nembi, dopo ve xe la Gruìzza e po' ve xe Premuda. E come che semo che viremo, no ne salta fora un de 'sti silurenti? Sconto el ve iera, drio del scoio. — Quel che vù andavi a zercar? — Sicuro. Noi lo zercavimo, ma lui ne ga trovado e el ne mola dò torpedo, siora Nina, una de prova e una de pupa. Al timon gavevimo el nevodo de sto Giadròssich, che lui cossa no el gaveva fato per imbarcarlo con lu, giovinoto che el iera. Prima che sto giovine se inacorzi e che el fazzi manovra, tute dò torpedo gavemo ciapado, in colomba. —Mama mia! Siluradi! — Siluradi, sì. Fala granda, gnente de far, ma per fortuna nissun gnanca un sgrafo. Vigniva drento l'acqua, siora Nina, sul «Pilsen», che pareva le cascate del Cherca. Abbandono nave. Mezogiorno in punto iera, me ricordo, go vardà l'orologio. E cussì come che ierimo, vestidi, cole scarpe e tuto, gavemo dovesto saltar in acqua. El Comandante Giadròssich, come che se usava, se gà butà ultimo e no el ga avudo gnanca el tempo de ciorse la borsa coi soldi del pesse che gavevimo vendudo a Pola. — Naufragio! — Come no: il siluramento del «Pilsen». E la Squadra del Amiraglio Horthy che vigniva drio de noi apena apena che se ghe vedeva el fumo, e sto Mas che intanto scampava via per Ancona, presto che no ve digo. Insoma, ierimo tuti in acqua che nudavimo, co' tutintun lo vedemo che el vira. El vira, siora Nina, sto silurente, el vien là de noi, el se ferma, e sentimo una vose che ziga: «Òmini, omini, movèvese, e vigni suso!» — 'Sti qua del silurante ve ga salvado? — Sicuro, tuti: un per un. E volé creder, savé chi che vien fora de sotocoverta? — Danunzio! — Maché Danunzio! Vien fora Nicoleto Nìcolich, quel che col fio del'avocato Miagòstovich, el gaveva disertado per andar col'Italia, perché lui iera assai per l'iredentismo. Siora Nina: no ve digo! Col Comandante Giadròssich el se basa el se brazza: lori iera compatrioti, un poco parenti, anche. «Grazie, Nicoleto, che ti xe tornado indrio per tirarne suso». «Ma che, figùrite, Giadròssich, che come podevo lassar in acqua tanta gente nostra, tanti lussignani.» «E come ti ga fato, Nicoleto — ghe disi Giadròssich — cussì de lontan a ravisarne che ierimo lussignani?» «Remènghis — fa Nicoleto Nìcolich — e come podevo no ravisarve che ieri lussignani, che col canocial ve go visto che nudavi tuti con una man sola e col'altra tignivi in alto, fora de l'acqua, l'orologio de oro?» Tuti, siora Nina, nudava con una man sola per tignir con quel'altra fora de acqua l'orologio de oro. Tuti, meno Barba Nane: lui col'altra man, tigniva in alto la matricola. MALDOBRÌA XXV - Bandiera vecchia Nella quale Bortolo, ricordando l ancor verde stagione in cui egli viaggiava noleggiato e militarizzato alla volta dell'Africa Orientale, narra quanto gli occorse nel Sultanato di Zanzibar, dove mentre si fondava un Impero, un altro non era ancora tramontato. — Maledeta quela volta che me go fato far i aghi col milesimo, ma assai se usava in antico, specie i maritimi. Savé, tuti i maritimi squasi se fazeva far el tatuagio col milesimo. De bassa forza la massima parte, ma anca sotufìciai e comandanti. Eh, de giovini no se pensa, quela volta pareva che esser del Otantaoto fussi el fior dela gioventù, e ogi inveze xe el «memento omo». — Eh, per tuti vien el momento... — Cossa momento? «Memento omo che pùlveris est et in pulvere reverteribus» come che disi el prete in cesa. Cossa volé, siora Nina, el tatuagio ve iera per el maritimo, come dirve, una bravura. Ben, questo che go sul brazzo, col milesimo no xe gnente de tale, ma dovessi vederme qua, sula persona che go, pensévese, in rosso e blu la stema del Lloyd Austriaco. A Sciàngai me go fato far i aghi, i chinesi iera famosi per far i aghi, lori ga aneline che no va mai via. — Ah, no se pol cavar più? — Oh Dio, tuto se pol, operandose, ma cossa volé operarse? A Sciàngai i fazeva de tuto coi aghi: scune, barche, àncore no se parla. Barba Nane, fìgurévese, se gaveva fato far la Madona dei Sete Dolori per divozion; lui iera assai divoto, fabricer del Dòmo el iera. «Questa — el me diseva — va sempre ben, ti, inveze, con quela stema del Lloyd Austriaco che ti ga, adesso che xe vignuda l'Italia, un giorno o l'altro i te cavarà la matricola!» — Ah, i fazeva osservazion dopo? — Mai, devo dir, per quel mai. Anche sior Cesare defonto che iera del Fassio, co' el me intivava sul molo senza maia, el me bateva qua sula stema e el diseva: «Orco, noi che semo dele Vece Province!» E del Fassio el iera... — Eh iera assai bon omo, sior Cesare, istesso no i gavessi dovesto... — Quei ani, me ricordo, penséve, viagiavimo col «Laura» per Mogadissio, nolegiadi. Iera guera, no, e noi portavimo provianda, munizion, militar, tuto quel che ocori, insoma. — La prima guera? — Ma che prima guera? Se ve go dito che sior Cesare iera zà del Fassio! Iera guera de Africa, no, che tuti cantava: «Io ti saluto e vado in Abissinia, cara Virginia ti scriverò, ti porterò dal'Africa un bucal, el Negus, una scimia e un papagal.» Che tempi, ara! Nolegiadi sul «Laura» ierimo: mi, Pìllepich, Marco Mitis e el Primo Ufìcial Giadròssich, povero, che dopo i lo ga silurà, in quel'altra guera. Comandante iera un italian. Un caldo a Mogadissio che no ve digo e no ve conto, mai patì tanto caldo, ma pezo ancora iera a Massaua, co' ne tocava. Un umido!... — Eh, l'umido col caldo xe bruto. Mio marì... — Indiferente. Quela volta inveze andavimo a Mogadiscio. Cossa sarà stà? Trentaquatro, Trentazinque, perché del Trentasie ga zà finì. — El caldo? — Cossa el caldo? Trentaquatro, Trentazinque, doveva esser, perché del Trentasie iera zà finì. Ve disevo: ierimo sul «Laura», nolegiadi, militarizadi, insoma e andavimo per Mogadissio. E carbon se fazeva a Zànzibar, per no carigar tanto in Italia, cussì stava più provianda, più munizion, più militar. — A Zànzibar i ve dava carbon? — Come, i ne dava? Se comprava, no? Vigniva sotobordo la maona de carbon, me ricordo, e carigavimo. Un giorno e mezo stavimo a Zànzibar e una sera ierimo franchi, noi nolegiadi, perché el militar no se podeva mover. Quanta gioventù che iera! I gaveva scrito sul capel de suro: «Viva Badoglio». Bon, indiferente, lori fina che ierimo fermi a Zànzibar no i podeva moverse de bordo. — Zànzibar. Ma Zànzibar se ciamava, o ghe disevi per rider? — Ma cossa per rider? Zànzibar quela volta ve iera un Sultanato dei arabi, un potentato. Là se vedeva, siora Nina, grandi richezze e grandi miserie, come in tuti sti loghi. Savé l'oio de garofano? Bon: là i fa l'oio de garofano. Alora mi, Pìllepich e Marco Mitis, semo andadi in local. — Per bever? — Bever a Zànzibar, siora Nina? Ma dove vivé vù? Late de coco e banane strucade! No savé che l'arabo, come maometan no pol bever? No el pol bever né vin né bira, né bicerini, e gnanca magnar porzina, salame, ossocolo, persuto. — Gnanca persuto coto? — Ma cossa coto, siora Nina? Né coto, né crudo. Lori no devi magnar porco, lori ga la sua religion. Come che noi gavemo che bisogna cavarse el capel in cesa, lori inveze se cava le scarpe. Ben: volé che come che andemo drento in 'sto local, intivemo Tonin Polidrugo, el nostro-omo Fatutta e altri dò de lori — chersini massima parte — nolegiadi anca lori, col «Calitea» che i carigava carbon a Zànzibar? «Ma varda ti, co' se parla de briganti...»; che giusto ieri li menzionavimo. Che cossa i fa qua? Che i cariga carbon in quel altro porto, che per quel no li gavemo visti. E che se sentemo e che bevemo con lori, perchè i se gaveva portado de per con sè el vin de bordo. — Patrioti. — Sì, iera Tonin Polidrugo, el nostro-omo Fatutta e altri dò de lori, chersini la massima parte. No ve digo, un bever sto vin de Sànsego che i se gaveva portado de per con sé, un cantar, un rider, una contentezza. — Imbriaghi? — Oh Dio imbriaghi! Ciapadi, siora Nina. Savé, cussì trovarse tra patrioti, nolegiadi, militarizadi a Zànzibar, ghe disevimo robe ridicole a 'sti arabi che ne passava davanti del tavolin. Fina che Polidrugo, che el se gaveva imparado a Smirne, ga comincià a farghe col canton dela jacheta l'orecia de porco. — A chi? —A sti arabi che passava, siora Nina. No ve digo cossa che no xe nato: i ne se ga butado adosso, perché guai farghe al arabo l'orecia de porco, xe un sprezzo teribile. Anca al turco, ai maometani, insoma. Polidrugo se gaveva imparado a Smirne. Bruto, siora Nina: pugni e paura che i tiri fora el cortel. Fina che vedemo rivar corendo cola scuria, sti gendarmi de Zànzibar che iera tochi de janìzeri che no ve digo. — Eh, i marittimi xe barufanti! — Siora Nina, el nostro-omo Fatutta ga dito: «Òmini, scampemo, che semo militarizadi!» E via noi, zò per ste stradete con sti arabi drio che zigava per arabo. Siora Nina, mi no so come che xe stado: forsi un pie in falo, forsi un poco ciapado che iero, me go tombolà e no go savesto più gnente. — De sti arabi? — Maché de sti arabi, de sto Fatutta, de Pìllepich, de sti chersini, malignazi, ancora patrioti che i iera, che i me ga lassà là solo. Insoma, per farvela curta: co' son tornado in sentimenti iero in preson. —Mama mia, in preson dei arabi? —Altro che, siora Nina: e scarpioni compagni che coreva su pei muri. Po' a Zànzibar, mi gavevo sentì che i xe tremendi, che per la minima roba i taia la man. La man destra a chi che roba e la sinistra ai altri. — E se un xe zancheta? — Cossa andavo a pensar mi, in quei momenti, se un xe zancheta, e po' mi no son zancheta. Insoma, che ve contavo, iero là, senza scarpe, senza camisa, solo le braghe i me gaveva lassado, e in quela vien dentro un con dò in montura e cola scuria e el me fa de moto che vado con lori. — Per taiarve la man? — Gavevo quel pensier, ma po' inveze i me ga portado zò in porto che, pensé, el «Laura» no iera più, perché iera guera in Abissinia e no i podeva fermarse più de un giorno e mezo. Zò in porto i me ga portado. — Per imbarcarve? — Se ve go dito che el «Laura» no iera più. I me ga messo su un caìcio de lori, i me ga ligà con una cadenela sul scalmo e tuti atorno che me vardava e che diseva robe. «Consulàt» me ga dito sto monturato. — Per consolarve, come? — Maché per consolarme! Dopo go capì che i me portava al Consolato. Difati sto caìcio me sbarca in quel altro porto dove che iera ancora el «Calitea», e su per strade e stradete i me porta in sta vila. — Una vila? Che vila? — La vila del Console, siora Nina. E come che la vedo, no volé che me vegni un colpo? — Un insulto? — No un insulto, siora Nina, un colpo. Perché sta vila, sul pérgolo, gaveva la bandiera Austro-Ungarica. — Sul pérgolo? — Ma siora Nina, no xe quistion de pérgolo! Bandiera AustroUngarica iera. Che ierimo del Trentaquatro, Trentazinque, guera de Africa. E iera ani anorum che iera sta el ribalton del'Austria. — No intendo. — Gnanca mi no intendevo, siora Nina. Insoma, i me porta su in camera del Console e drio del pulto ve iera el quadro in pitura de Francesco Giusepe. E sto omo tuto vestì de bianco ga parlà per arabo coi gendarmi e lori xe andadi via. De dove che son, el me disi. — Chi? — Chichirichì. Mi, de dove che son, me domanda sto Console. E mi ghe digo. E lui che el xe dele Boche de Cataro, un bochese. Che el ga savù tuto de ieri, dela orecia de porco e dela barufa, che ringrazio Dio che gavevo el tatuagio cola stema del Lloyd Austriaco, che cussì i me ga porta de lu, che farghe l'orecia de porco ai arabi xe roba che i taia la man, che me sento e che se voio un bicerin. «Ma, ghe digo mi, sior Catarìnich — Catarlnich el se ciamava, un bochese de Cataro, toco de omo — sior Catarìnich, ghe digo: come gavé el Consolato Austro-Ungarico? No savé che xe stà el ribalton del'Austria?» «Boga ti — el me dise — come volé che no so? So, so! Ma del Dodici xe che mi qua son Console onorifico Austro-Ungarico, mi qua tuti me vol ben, mi go magazeni de oio de garofano, politica mi no go mai fato e se xe stà el ribalton, mi no me intrigo, e po' qua nissun no sa. Cossa volé — el me dise — che sapi sta gente, che no i sa gnanche se i xe vivi.» — No i saveva? — No, siora Nina, là no iera altri Consolati. Solo quel AustroUngarico, perchè l'Austria iera un paese ordinato e gaveva Consoli dapertuto. E cussì lui continuava. «Ogni diciaoto de agosto — el me dise — mi ve fazzo la Festa del Imperator. Diman l'altro toca. Zento e zinque candelete ghe meto sula torta, zento e zinque ani gavessi adesso Francesco Giusepe. E vien tuti 'sti potentati, ghe dago fràmbua e limonade, che lori no pol altro, nissun me dimanda gnente e mi stago noma che ben. Vù adesso no stéme palesar, disé «giuro in Dio» che no me palesé, e mi, dando un per de màndole, ve fazzo imbarcar sul Calitea.» — E vù? — E mi go dito «giuro in Dio», siora Nina. Savé, là a Zànzibar xe roba de perder la man. E no lo go mai palesado. Solo l'ano passà go comincià a palesar. L'ano passà xe morto sto Catarìnich. El venti de agosto. Savé, el diciaoto, per la Festa del Imperator el gaveva magnado massa. Torta granda el gaveva fato: con zento e trentaoto candelete. Dio quanti ani che gavessi ogi Francesco Giusepe! MALDOBRÌA XXVI - La màndola Nella quale Bortolo descrive la felice condizione dei Commissari di bordo sulle navi passeggeri di linea e narra quanto questo incarico, dopo la repentina morte del Commissario Fonda, fosse ambito sulla «Marta Washington» affidata al Comandante Nìcolich. — Assai gavessi bramado mi de far el Commissario de bordo, ma ghe voleva gaver fìnido le Nautiche e mi, dopo che mio padre gaveva perso la barca, diciassete ani che gavevo, zà iero imbarcado. — Sula barca de vostro padre? — Ma se el la gaveva persa! Su barche de linia iero imbarcado e là go comincià a véder che bel che xe esser Commissario de bordo! — I ga bona paga? — Bona paga, oh Dio, Commissario xe sempre Ufficialità, ma mi no digo la paga, mi digo tuta la zonta. Solo de spetanze, cossa che no ghe vien: tra quel che ghe speta proprio sula provianda, sula còmprita, el cambiovalute del passeger, una roba e l'altra ghe vien altro che una seconda paga. Almeno ghe vigniva, adesso no so. Pensé vù cossa che no guadagnava, presempio, un Commissario de bordo cola «Marta Wàssinton», tanto per dirve. — Una americana? — Ma cossa una americana? La «Marta Wàssinton» iera el più meo vapor, una volta, del'Austro-Americana. Con dopia elica e aparato Marconi. — Soto l'Italia? — Ma no: «Italia» i ghe ga ciamado dopo. Quela volta iera la «Cosulich», ancora, ma gnanca la «Cosulich»: iera l'AustroAmericana. Se ve go dito che iera la meo barca del'AustroAmericana, che fazeva la linia del Nort-America. Passegeri, passegeroni, barca granda, ve disevo, dopia elica e aparato Marconi. — Telegrafo senza fili? — Indiferente. Insoma ve contavo che sula Marta Wàssinton iera stado ani anorum Commissario de bordo un zerto Fonda, un piranese, toco de omo, pletorico, un voson. Ve iera un omo che no trovava mai scarpe, quarantazinque, quarantasie el ve gaveva lui de pie. A bordo tremava tuti con lu. E un giorno, de matina bonora, apena passada Gibiltera, el giovine de camera xe andado a baterghe sula porta col caffé come che l'usava, e bati, bati, bari: gnente no el rispondeva. Bela morte, siora Nina. Nel sono. — Mio padre, inveze, povero se ga tirado avanti per undese mesi... — No ga importanza. Lui, cussì, nel sono. Che anzi el Comandante Nicolich, che quela volta gaveva la «Marta Wàssinton», no saveva cossa far: tornar indrio a Gibiltera se perdeva uno, dò giorni de viajo, e cussì i lo ga messo in frigorifero, che xe stà un intrigo, ve digo mi che iero gambusier. — E no i podeva, in mar? — In mar se fa solo sule barche de guera involtizà nela bandiera, o co' xe contagio. Ve disevo, mi iero gambusier, che anzi el Comandante Nicolich me voleva assai ben, intrigado cussì che el se ga trovado con sta morte, el me ga dito: «Bortolo fé vù che sé gambusier, che gavé pratica, che savevi tuto del povero Fonda defonto.» E el se ga fato la crose, come ogni volta che el passava davanti del frigorifero. — Iera omo divoto? — Divoto, siora Nina! Di fronte ala morte! Però iera un bon omo, savé. — 'Sto defonto Fonda? — Ma cossa el defonto Fonda! Ve contavo del Comandante Nicolich. Bon omo, si, ma duro e drito come una spada. Lui come Comandante no se ga mai profìtado gnanca de un ciodo. E savé che i Comandanti gaveva ocasioni, meno dei Commissari, ma assai ocasioni anca lori. Una piturazion, se fa per dir, fìguréve, una piturazion su una «Marta Wàssinton»! Ben, lui gnanca un ciodo, lui no se profìtava. Figurévese che una volta che iero con lu a Teneriffa su un'altra barca, questo del'Agenzia maritima de là, un fiuman sposado per una spagnola che — pensé — mai no la gaveva imparado italian, bon 'sto qua del'Agenzia prima che parti la barca, cussì come cado, ghe ga mandado a bordo una cistéla de ananas. Cistéla se disi per dir cistéla, perché ve iera drento una dozéna de bei ànanas, quei grandi, freschi. Un profumo! Cossa volé che sia un per de ànanas a Teneriffa, ve sarìa come de noi una cassetina de pérsighi co' xe la stagion. — Ah, iera stagion de ànanas? — Siora Nina, a Teneriffa ve xe sempre ànanas, là xe eterna primavera. Mi sempre pensavo: per un toco de pan se podeva là aver una casa. Indiferente. 'Sto Comandante Nìcolich veder sti ànanas e ciaparghe una fota, ma una fota che mi no lo go mai visto cussì infotado, xe stà tuto un. «Come? Che a lui, un Comandante dela Austro-Americana, sto sempio de agente dei sui stivai se perita de mandarghe regali? Che cossa el credi che lui se farà lusingar? Che lui no xe omo de ciapar màndole, che lui in trenta ani de navigazion, no se ga mai profìtà de un ciodo!» E che ghe porto subito indrio in tera sti ànanas che ghe fa anca odor in cabina. Un profumo iera, siora Nina! Freschi! Ben, volé creder, che mi, con sti ànanas sui brazzi, go dovesto portarli in procession come el Santissimo per tuta Teneriffa, perché iera domenica, serada l'Agenzia, nissun a casa e 'sto agente maritimo doveva esser andado chissà dove in carozza cola moglie, perché là ve xe dintorni stupendi? Con un toco de pan se podeva gaver una casa. E che posizioni! — El Comandante se gaveva ofeso? — Ofeso sì, perché lui, solo pensar che a lui se ghe podessi dar la màndola, iera zà un ofenderlo. E sempio el me ga dito co' mi son tornado con sti ànanas a dirghe che no lo go trovado. Che li buto in mar. Anzi, me ricordo come ieri, infotà che el iera, el me ga ciolto de man la cistéla e el li ga butadi in mar con tuta la cistéla. Fazeva fina pecà: un profumo! El iera fato cussì el Comandante Nìcolich, tuto altro de quei sui cugini, che iera inveze interessosi. E de una semplicità! Due monture el gaveva, uniche. E volé creder? Mai gavudo orologio suo de per con sé. Lui diseva: «A bordo orologi xe fina tropi, se me ocori de saver l'ora, mi basta che vardo el sol, anca se xe nuvolo mi lo vedo dove che el xe.» E no el domandava mai l'ora. «Cossa servi dimandar l'ora — el diseva — che la cambia ogni minuto?» E guai a chi che no rideva ogni volta co' el la diseva. — No el gaveva orologio? — No. E el diseva anca che co' se va per Nort-America l'orologio fa solo che confusion, con sti meridiani de Grénwich che cambia l'ora ogni ora. Che lui sa dove che xe el sol anca se xe nuvolo. E inveze proprio sto viagio che xe una solàna maledeta dovevimo gaver sto intrigo in frigorifero. E el se fazeva la crose passandoghe davanti. — Ah, per la salma! — Sicuro, el Commissario defonto, ve go dito. Go fato mi de commissario in quel viagio al posto suo de lu, ma provisorio, natural, perché mi semplice gambusier iero, no gavendo le Nautiche. E insoma co semo tornadi a Trieste indrio — che el povero Fonda i lo ga sepelido a Baltimora che stava suo cognà — el Comandante Nìcolich se ga trovado su quela de doverse scelzer un Commissario de bordo novo, vero. Oh Dio, scélzer! Poco de scélzer iera, perché quela volta no iera tanti commissari. Solo le barche grande imbarcava commissari e, in tera, iera solo dò: Chinchéla e Polidrugo. — Tonin Polidrugo? — Sì, sì: el nostro Polidrugo. Lui ve iera un che saveva rampigarse anca sui speci. Barba Nane diseva sempre: «Quel Polidrugo buta zinque e leva sìe, un giorno o l'altro i ghe cava la matricola.» Inveze, Commissario de bordo el iera diventado. E pensévese, senza le Nautiche e mai stado gambusier, solo perché el saveva lingue — che el iera stado un periodo piloto a Suéz — e per protezioni. El Commissario Chinchéla, inveze, ve iera tuto un altro omo: modestissimo, bravo, de quei che no se sburtava. Ma podé capir, diventar Commissario de bordo, su una «Marta Wàssinton» dove che iera stado el povero Fonda defonto, ghe fazeva gola a tuti. — Iera bona paga? — Ma se ve go dito, la paga iera gnente in confronto de tuto el resto. E insoma, in scritorio del'Austro-Americana, sior Antonio ghe ga dito al Comandante Nìcolich che el se decidi se Chinchéla o se Polidrugo, perché la barca ne xe lesta e che bisogna partir, che el sol magna le ore. E el Comandante Nìcolich ghe ga dito che questo el sa anca lu, senza orologio, e che come diman l'altro senza falo el ghe saverà dir. Volé creder, siora Nina, che quel dopopranzo istesso, che passo per Trieste in Capo de Piazza, intivo Polidrugo che vien fora de Janesich, che iera el primo orefice de Trieste? Cossa che no iera Janesich! Brilanti in vetrina e drento come un saloncin de prima classe. Bon, ve intivo sto Polidrugo, con un pacheto in man e baci abracci. Savé, mi, Marco Mitis, Polidrugo e Pìllepich ierimo patrioti, propio intrinsechi fina de ragazzeti. Che come va, el me disi. Che come vol i altri, ghe digo mi. Che el povero Fonda xe morto. Che el sa, che el sa e che anzi el xe andà propio de Janesich a comprar un orologio de oro con cadena, perché i ghe ga dito che el Comandante Nìcolich no ga orologio de per con sé. — De questo orefice el gaveva comprado? — Sicuro. Che anzi mi, stupido, ghe domando: «Percossa ti lo ga comprado?» «Ma — el me disi tuto soridente — no ti sa che el Comandante Nìcolich devi imbarcar el Commissario de bordo sula «Marta Wàssinton» e semo o mi o Chinchéla? Bon, mi ghe mando al Comandante Nìcolich sto orologio de oro con cadena, che lu no ga, perché coi Comandanti xe sempre sbaliado presentarse cole man svode.» «Polidrugo mio — ghe digo mi — meno mal che se gavemo intivado. Ti ti xe apena mato, ti no ti conossi el Comandante Nìcolich!» E ghe conto de come e perché Nìcolich no vol orologi, e dela cistéla de ànanas che davanti dei mii oci el ga butado in mar a Teneriffa, disendo anca male parole che lu de solito no usava, e ghe digo a Polidrugo che se lui propio no el vol meter pie sula «Marta Wàssinton», el ga trovado la maniera giusta. «Polidrugo mio—ghe go dito — meterò mi pitosto una bona parola per ti col Comandante Nìcolich che me vol assai ben. Ghe dirò che Chinchéla xe bravo, ma che el xe in età, che ti ti xe patrioto nostro, che ti parli franco lingue, che ti ieri a Suéz e una roba e l'altra.» — E ghe gavé dito cussì al Comandante Nìcolich? — Proprio cussì. Difati, come diman l'altro, me vedo capitar in gambusa, tuto soridente, Polidrugo in montura bianca — istà che iera — e, baci abracci: Commissario lu. «Ti ga visto, Polidrugo — ghe go dito — che ga servido la mia bona parola e che al Comandante Nìcolich ti ga fato assai ben de no mandarghe l'orologio de oro cola cadena?» «Ma mi ghe lo go mandado!» me fa Polidrugo. «Ti ghe lo ga mandado a Nìcolich — ghe digo mi stupido — e ti xe qua Commissario? Mi no posso capacitarme!» «Sicuro — me disi Polidrugo — ghe lo go mandado a bordo quel dopopranzo istesso che te go incontrado. Ghe lo go mandado con un servo de piazza, disendoghe che el ghe disi che ghe lo manda Chinchéla. A nome de Chinchéla ghe lo go mandado.» — L'orologio de oro con cadena? E Nìcolich? — Siora Nina, in scritorio del'Austro-Americana el Comandante Nìcolich ga ciapado per un brazzo Chinchéla, el lo ga strassi nado nel logo de decenza, el ga tirà fora de scarsela l'orologio e el ga dito: «Vedé sto logo de decenza? Bon, sto orologio con cadena qua drento lo buto!» El lo ga butado, e el ga tirado l'acqua. Iera una dele prime acque che i meteva nei loghi de decenza. «Via che el vadi lu con tuti i stronzi!», el ga dito. E Chinchéla no ga mai capido perché. MALDOBRÌA XXVII - La rivincita di Lissa Nella quale Bortolo, ricordando una celebrazione del Cinquantesimo della drammatica e discussa battaglia navale, narra della parte che vi ebbe a bordo del vascello «Kaiser» Tonissa, Nostromo di Prima. — Cossa flocioni i maritimi? Xe maritimo e maritimo. Mi la conto giusta, savé: no son miga come el vecio Tonissa! — Chi Tonissa? Quel che gaveva la trata? — Maché quel! Questo iera Tonissa Ocio de Manzo, che i lo ciamava, che vù no podé gnanca gaverlo conossudo, perché lui zà prima dela prima guera andava per novanta. — Tonissa Ocio de Manzo? Cossa el gaveva? L'ocio grando, come? — La boca granda el gaveva, siora Nina, altro che l'ocio. Ocio de manzo i lo ciamava per tuto un'altra roba. — Ah, che no se pol dir? — Come, che no se pol dir? Se pol, se pol: fìguréve, ve go dito che lui zà prima dela prima guera l'andava per novanta. — El xe morto adesso? — Sì, l'altro sabo! Ani anorum xe che el xe morto! Se el fussi vivo el sarìa l'omo più vecio de Dalmazia, l'andassi per zentozinquanta, zentosessanta ani. Zà quela volta del ' 16, che xe stado a Pola el Cinquantesimo, el xe vìgnudo perché i lo ga mandà ciamar propio, ma lo ga dovesto compagnar i nevodi: un dalmato el iera, de Pago. — 'Sto Cinquantesimo? — Ma cossa sto Cinquantesimo? I fazeva a Pola, nel ' 16, el Cinquantesimo de Lissa. E sicome che Tonissa Ocio de Manzo iera el più vecio che a Lissa iera stado sul «Kaiser» e nel'16 a Pola i meteva in linia el novo «Kaiser», perché el vecio iera massa vecio, alora Tonissa che iera el più vecio che iera stà sul vecio «Kaiser» i lo ga mandà a ciamar per el «Kaiser» novo. — No capisso. — Indiferente, siora Nina, se no capì, iera cussì. Vù dovè saver che Lissa iera stà el più grando combatimento naval che fussi mai stado qua dele nostre parti, e iera del Sessantasìe. Penseve: Mileotozentosessantasìe, e nel Sédese iera el Cinquantesimo, zinquanta ani. E capì, guera che iera, gran feste i ga fato e iera vignudo l'Amiraglio Horthy e l'Arciduca Francesco Salvatore e anca el nostro Kaiser gavessi dovesto vignir. — Ma no gavé dito che iera el Kaiser novo? — Siora Nina, no stemo far confusion. El «Kaiser» iera una barca che se ciamava «Kaiser» e iera stada a Lissa in batalia. El vecio Tonissa, quela volta de Lissa gaverà avudo un quaranta ani, mi calcolo, e el iera imbarcado come nostro-omo de Prima sul «Kaiser». — Quel novo? — Ma no quel novo, quel vecio. Quel che iera stà a Lissa in batalia, su quel novo i lo ga ciamà come per memoria, perché lui iera el più vecio del vecio: insoma no steme far perder el fil, che ve contavo. — Ahn! Lui iera stà in batalia de Lissa? — Sicuro, nostro-omo el iera. E lui dopo ga contà per ani anorum per tuta la Dalmazia, per tuta l'Istria, a Fiume, a Trieste, a chi che voleva e a chi che no voleva scoltarlo sta storia de sti ovi ocio de manzo. — Ma che storia de ovi de manzo? — Maché ovi de manzo, che nissun no ga mai visto ovi de manzo: ovi ocio de manzo. Lui, el vecio Tonissa contava sempre che, quel giorno, lui iera sul «Kaiser» nostro-omo e che el iera in coverta de guardia e che de matina bonora apena che ga fato ciaro, cossa xe, cossa no xe, el vedi el mar nero de vapori de guera. —Mama mia! In Mar Nero? — Ma cossa in Mar Nero? A Lissa el mar iera nero de vapori de guera, cussì el contava lu, perché scuminziava el combatimento. — 'Sto Tonissa? — Cussì contava lu, che fìs'ciava le bale, che iera fogo, che le barche se dava dentro una col'altra e quei de un canon butai per tera in coverta che i pianzeva... — Eh, xe bruto per el maritimo in batalia. — Bruto o bel, 'sto Tonissa contava che el xe andado lu sul canon, che lu sbarava e che a un mariner giovinoto che iera là che pianzeva el ghe ga dito: «Andé zò in cusina che go fame, intanto che sbaro, e diséghe al gambusier che el me fazi dò ovi ocio de manzo.» — Eh, de matina se ga, se ga languor. — Insoma, diseva sto Tonissa, che sto giovinoto, stremido che fìs'ciava le baie, iera fogo e i omini pianzeva in coverta, no el ga capì ben e el ghe ga portà su dò ovi intieri, cussì in man. — Ovi freschi? — Ah mi no so se iera freschi, dò ovi iera po'. Fato stà che sto Tonissa contava che el ghe ga portà su dò ovi intieri in man e che lu, tanto sbrovente iera el canon che el se li ga fati là a ocio de manzo sula cana del canon e el se li ga magnadi sbarando avanti. «Quei xe stadi — el ghe diseva ala gente — i più boni vovi che go mai magnà in vita! Al rombo del canon!» E el cantava anca. Per tuta la Dalmazia, in Istria, a Fiume e a Trieste el contava sta storia a chi che voleva e a chi che no voleva scoltarlo. Che anzi Barba Nane ghe diseva sempre che lui, in Tegetthoff, ghe gavessi cavà la matricola perché i ovi a bordo xe solo per i ufìciai. — E i ghe la ga cavada? — Maché cavada: sto Tonissa nel Sédese iera assai considerado, perché el iera el più vecio che a Lissa iera stà imbarcado sul «Kaiser». I gaveva ciamado a Pola el più vecio che iera Tonissa e el più giovine che iera un chersin de Valon che i ghe ciamava Cuntento, che nel Sédese co' xe stà el Cinquantesimo el gaveva un setanta ani, perché quela volta a Lissa el gaverà avù un vinti, vintiun. Insoma, me ricordo, ierimo tuti a Pola per sto Cinquantesimo: iera el vecio Tonissa, ssai vecio el iera che squasi gnanca no el podeva più parlar, sto Cuntento de Valon, po' ierimo el Comandante Prohàska, mi, Marco Mitis e Pìllepich, che quela volta ierimo inseparabili, insoma tuti patrioti, sti istriani, sti dalmati, sti piranesi. Una granda tavolata. — In local? — In local, sicuro. E el Comandante Prohàska ghe ga dito: «Conté, conte, Barba Tonissa, la storia dei ovi de quela volta a Lissa.» Povero Barba Tonissa, vecio el iera, el picava sula carega, ghe se serava i oci, ve go dito che no el podeva squasi gnanca più parlar. — Ah — ga dito alora Cuntento de Valon — la storia dei ovi de Lissa? Me ricordo, me ricordo: ierimo mi e Barba Tonissa, qua povero, sul «Kaiser», mi iero semplice mariner e lui iera Nostro-omo de Prima e el me ciama. El iera colegà in cuceta che el pianzeva e el me dise: «Cuntento, vù che sé giovine, andéme in cusina e diséghe al gambusier che el me fazi dò ovi sbatudi cola marsala che qua xe la batalia de Lissa!» — Un rider, siora Nina, co' Cuntento ga palesà sta storia! Un rider che no ve digo! — E Tonissa? — «Eh sì, Cuntento — ga dito alora pian el vecio Tonissa — guera xe guera, ma quela volta a Lissa i sbarava sui omini.» Ancora me lo vedo là sula carega che el ga averto un ocio. Tonissa Ocio de Manzo i ghe ciamava. MALDOBRÌA XXVIII - Il vapore di ferro Nella quale si lumeggia la vigorosa figura del vecchio Capitan Nìcolich campeggiante sullo sfondo delle fortune della marineria dei Lussini e del sicuro intuito con cui egli, ad onta dell'età grave, seppe perseguire il suo grande disegno della nave del futuro. — El vecio Nìcolich, che xe stado un vinti ani mi calcolo cole gambe perse, lui mai no ga volesto che i lo porti zò in carega. El iera orgolioso, come. I fìoi ghe diseva: «Vigni che ve portemo zò in pòrtigo, che ciapé un fìà de sol.» «Sì, propio — diseva lui — mi me farò veder dispossente in carega de sti campagnoi, de sta bassa forza che passa per strada!» Savé, a Lussin, lori i Nìcolich i gaveva la casa in alto de Cigàle e lui, dopo de quela volta che ghe xe vignù l'insulto, che el xe stado una setimana tra la vita e la morte, no el ga mai più volesto vignir zò del pian. Lui, là in pian, gaveva la sua camera col pulto dove che el tigniva i conti. E dove che prima iera la camera de sua sorela puta defonta, là lui ga fato portar suso i mobili de camera de pranzo, che prima i magnava zò. I fìoi gaveva rugnado, perché i diseva xe una schiavitù portar su el magnar dela cusina, ma lu ga dito. «Schiavitù per schiavitù, la schiavitù più granda la go mi, e ognidun che gabi la sua crose.» E cussì lui, cola sua sedia a rodele, che i gaveva fato vignir apositamente de Viena, el bagolava in pian come che el voleva. — Questi ve iera quei Nìcolich de Lussin? — No: iera quei Nìcolich de Napoli che gaveva la fabrica de macaroni! Ma dài, siora Nina? De dove ve xe i Nìcolich se no de Lussin? E pò ve go dito che i gaveva la casa a Cigàle. Questo Nìcolich ve iera el vecio Nìcolich. El vecio Nicolò che vigniva apena a star el padre de Nicoleto, de Antonio, de Giusepe, de quei insoma che gaveva el «Cinque Fratelli». — La barca? — Sicuro, la barca. Lori gaveva tante barche. Ma lui, el vecio Nicolò, gaveva fato la prima, la «Ketti N.», che iera sua moglie, morta giovine. Giovine, insoma, giovine in confronto. Lui gaveva navigado sempre a vela. Barche de altura. L'andava per Levante, per Suéz, per tuto, dove che iera de far soldi. L'ultimo viagio el lo ga fato che el gaveva setanta, pensévese. E lui gaveva propio decidesto che quel iera l'ultimo viagio. «Go navigado el mio — el ga dito — e adesso che navighi i altri.» Ma tuto in man sua iera restado: barche, case, piégore che i gaveva a Cherso, el squero, i uliveri, tuto. Lui se ga sbarcà ogi e — come dimàn — no el ga più messo pie in barca. «Xe inutile sconderse drio de un déo, el diseva: chi che no naviga, in barca xe solo per intrigo. In barca sta el Comandante e l'Armator sta in scritorio. E mi stago in scritorio.» — Ah, sempre in scritorio el stava? — No. Lui prima de perder le gambe l'andava fora, altro che! In riva a Lussin, me lo ricordo. Drito come una spada, col suo capoto de montura coi botoni de oro, che anzi i fìoi ghe rugnava. — I gaveva paura che el li perdi? — Che el perdi cossa? — I botoni de oro. — Siora Nina, se disi per dir botoni de oro: iera botoni de montura de metal gialo. Chi portava de oro? Gnanca l'Amiraglio Horthy. I fìoi ghe rugnava, perché sto capoto ve iera vecio, frugà, lustro sui corni, sul sental. Un capotìch, insoma. El se lo gaveva fato che el iera ancora alievo, gnanca sposo. E lui che cossa, che sto capoto el lo ga sempre portado per tutto el mondo e che perché no el lo ga de portar a Lussin. — Eh, una volta i capoti durava... — I durava sì, ma savé, per Lussin magari andava ben. Tanto a Lussin tuti saveva chi che iera Nicolò Nìcolich. Ma lui con quel capoto ve andava anca a Fiume, a Trieste. Per questo i fìoi ghe rugnava. Fioi, siora Nina... omini fati che gaveva zà faméa con fìoi grandi. Insoma, una volta, tuti dacordo, ognidun ga messo un poco e i ghe ga comprado a Trieste un capoto col dedentro de pelizza per la sua festa. I ghe ga contado che iera una ocasion, che iera de un deposito andà al incanto e che insoma i lo ga avù per poco per gnente, quaranta corone, e che ghe sarà bel caldo quando che farà bora. — E quanto sarìa stado quaranta corone? — No se pol far gnanca un calcolo, ogi, siora Nina. Xe un'altra concezion del mondo. Ma la vera verità ve iera che lori el capoto lo gaveva pagado zento e vinti corone. E iera qualcossa, la paga de un piloto, tanto per dir. — Ah! E a lui i ghe ga flocià che costava de meno? — Sicuro. Perché lui no gaverìa podudo concepir de spender come la paga de un piloto per un capoto. «Quaranta corone gavé dà — el ga dito — pulito, perché el ga anca el dedentro de pelizza. Grazie tante, aggradisco molto, come che disi l'Imperator, ma no sté creder, vualtri fìoi, de comprarme con un capoto. Perché fin che Dio me dà salute, dei soldi de casa no ve fazzo parte. Perché gavé el vostro bisogno, de più no ve ocore, e prima de serar i oci voio che femo el vapor de fero.» — El vapor de fero? — Sicuro. Quel iera stado i ultimi ani che el navigava, el suo ciodo fìsso: far el vapor de fero prima dei Tarabochia. — Perché i Tarabochia fazeva el vapor de fero? — No, siora Nina, no i lo fazeva. Vapori de fero, quela volta, fazeva solo le grande Compagnie. Un Lloyd Austriaco, un'AustroAmericana, una Libera Triestina. Ma lui zà calcolava che i Tarabochia lo gaverìa fato e el voleva farlo prima de lori. Ben, savé cossa che el ga fato un giorno? — El vapor de fero. — Sì! Vù credè che un vapor de fero se fazeva cussì come un caìcio. Lui un giorno che el xe andà a Trieste con sto capoto novo, no i lo vedi tornar a Lussin in vapor — febraro che iera — in vita? — Senza capoto? — Senza. El ghe ga dito ai fìoi: «Sessanta corone me ga dà un in Caffé Tomaso che assai ghe piaceva el dedentro de pelizza. Quaranta gavé dà vù: sessanta go ciapà mi. Xe sempre vinti corone de più per el vapor de fero. E a mi capoto no me manca, perché go quel de montura.» Tombarse voleva i fìoi, siora Nina: sessanta corone perse. — Ma no el le gaveva guadagnade? — Siora Nina: guadagnade vinti su quaranta che lui credeva. Ma su zento e vinti che lori gaveva dado, iera sessanta perse. — No capisso. — Indiferente. Quela, vedé, ve xe stada l'ultima volta che lui xe andà a Trieste, perché subito dopo ghe xe vignù l'insulto. Anca del fredo che el gaveva ciapado in vapor, i calcolava. E apena che el xe stado un poco meo, che ve contavo de sta sedia a rodele fata vignir apositamente de Viena, lui ga cominciado a tazzar i fìoi per sto vapor de fero. «Vedé — el diseva — come che xe: se xe e no se xe. Mi no so se sarò, ma se vien l'ocasion de una guera per esempio, che xe tanti ani che no vien guera, ma vignirà, perché de quando che xe el mondo se fa guere, se vien guera faremo el vapor de fero.» — Per andar in guera? — Ma cossa per andar in guera? El vecio Nìcolich calcolava che, co' xe guera, i soldi no xe più sicuri, che xe meio meterli in qualcossa, e cossa xe meio — el diseva — che meterli in un vapor de fero? Che dopo le guere xe lavori, xe viagi, xe noli. I fìoi, inveze, no iera dacordo. Davanti no i ghe diseva gnente, perché chi se gavessi azardà col vecio Nìcolich! Ma fra de lori i parlava che questa del vapor de fero iera propio un ciodo del vecio, che dopo che el gavù l'insulto no il xe propio pretamente come prima, che lui per el vapor de fero sarìa capaze de far debito e che xe meio dirghe sì, sì, faremo e tirar tuto per le longhe. Cussì podé imaginarve, siora Nina, cossa che no xe nato in quela casa co' i ga copado Francesco Ferdinando. — In casa de lori? — Siora Nina, perché no scolté inveze de parlar? Ma cossa in casa dei Nìcolich i ga copà Francesco Ferdinando? Ve le insogné de note? I ga copà Francesco Ferdinando a Sarajevo, no? Xe stà guera cola Serbia, cole Potenze, con tuti. E alora capì, sti fìoi del vecio Nìcolich ga dito: «Qua xe guera e el vecio volerà far la barca de fero. El se indebiterà, el se magnerà tuto, no el ne lasserà gnente e el ne magnerà anca el nostro!» Perché, savé, quela volta, per far una barca de fero ghe voleva minimo un mezo milion de fiorini. E qualunque banca ghe lo gaverìa dado a un Nicolò Nìcolich, ma ghe voleva indebitarse, i diseva. «E pò, co' ben lo femo sto vapor de fero, dopo la guera sarà pò noli? Meio xe che se tignimo le nostre scune e che no ghe disemo gnente al vecio.» — No dirghe che no sarà noli? — Ma cossa noli? No dirghe che iera guera, siora Nina. Quel ve xe stado tuto. Lori no ghe ga dito gnente de Francesco Ferdinando, lori no ghe ga dito gnente dela Serbia e gnanca del'Italia co' la ghe ga intimà guera d'Austria. Savé, lui ve iera là, o in sta sua camera che el fazeva sempre i conti del vapor de fero, opur in camera de pranzo. Quei che lo vigniva trovar, i fìoi ghe diseva de no parlarghe gnente che xe guera, che Dio guardi col insulto che el ga avudo, che no ghe vegni un altro. Giornai lui zà prima no legeva, perché el diceva che i conta solo busìe, dela finestra el vedeva solo che la Canìdole e mar averto: insoma, siora Nina, quel omo no ve ga mai savesto gnente de gnente dela Prima Guera. Gnanca co' la xe finida, che xe cascada l'Austria e che xe vignudi i 'taliani. «Perché — ga pensado i fìoi — se adesso ghe disemo che iera guera e che la xe finida, el ne tazzerà l'anima fin che el more, che no gavemo fato el vapor de fero, tanto più che adesso xe lavori, xe viagi, xe noli.» — Eh iera, sì, dopo la Prima Guera noli! Me ricordo che mio defonto padre... — Indiferente. Propio per quel, perché iera viagi, iera lavori, iera noli, i fìoi del vecio Nìcolich se ga capacità anche lori che bisognava far el vapor de fero, tanto più che i Tarabochia lo gaveva zà fato. E alora i ghe xe andadi là e i ghe ga dito: «Papà — i ghe ga dito parlandoghe forte, perché no el sentiva più tanto ben — papà, par che adesso vegni guera e sarìa ben far debito in banca, perché fra de noi fradei, tuti dacordo, gavemo pensado che xe el momento de far el vapor de fero. Perché qua la Serbia, ogi o dimàn se pol mover.» E iera del Vintiquatro, siora Nina, che iera zà Mussolini. — Ah, i ghe flociava avanti? — Sicuro. Che forsi vien guera e che xe meio far debito in banca per far el vapor de fero. Che el fazzi la firma per el fido. «Debito in banca? — ga dito el vecio Nìcolich — mi no go mai fato debito in banca. Vignirà guera? Ocore far el vapor de fero? Mi go zà fato i conti. Mezo milion de fiorini? Ecoveli qua, un sora l'altro», el ga dito, verzendo cola ciave el cassetin del pulto. Siora Nina: mezo milion de fiorini, un sora l'altro in carte de zento corone, drento el cassetin del pulto el gaveva. E iera zà Mussolini. —Mama mia! — Altro che mama mia! Tombarse voleva sti fìoi. Ma el vecio iera cussì contento de far el vapor de fero, che no i ga gavesto el coragio de dirghe che oramai con quele corone se podeva forbirse el culo. E dopo, co' passava fora de Lussin la Vulcania i ghe la mostrava dela finestra e i ghe diseva: «Eco, papà: quel ve xe el nostro vapor de fero.» In terazzo i lo sburtava a vardarla, col capoto suo vecio de montura. MALDOBRÌA XXIX – Il figlio della colpa Nella quale si narra dell'oscura nascita, della dura infanzia e della tribolata giovinezza di Nini Lupetina nonché della sua perigliosa milizia al fianco di Bortolo sul fronte dei Carpazi che fu due volte inopinatamente interrotta da imprevisti avvenimenti. — Chi no ga fìoi ga un dispiazer solo, diseva sempre Nìniza povera, la madre de Nini Lupetina. — Qual Nini Lupetina? — Nini Lupetina, po', el fio de Nìniza. — Quel che i ghe diseva Scombro? — Ma no, quel ve iera tuto un altro Lupetina, quel ve iera el marì de Scombrolìnca. — Ah quela dela casa nova in volta dela strada? — Ma cossa casa nova in volta dela strada, che no i gaveva gnanca strada per andar su in casa e i se rampigava per i grémbani! — Questo Lupetina che i ghe diseva Scombro? — Ma no, Nini Lupetina, el fio de Nìniza che ve contavo. — Veramente no me contavi gnente... — Se no me lassé contar, come posso contarve? Ve contavo de Nini Lupetina, che Nìniza povera, ga avù tuta la vita quel cruzio. Perché una volta, in paese, savé, una ragazza che ghe tocava una roba compagna, no iera più né un viver né un morir. Insoma ela gaveva avudo sto Nini, ma el padre de Nini, Giovanin American, che se pretendeva de esser chissà cossa più de ela perché el iera stà in America un periodo, gaveva sempre ricusado de sposarla. — Questo Lupetina, papà de Nini? — Ma no che no el iera Lupetina, el padre de Nini, se el gaveva ricusado de sposarla. Ela la nasseva Lupetina e Nini, per forza, ala Comun, i lo gaveva notado col nome dela madre. Per questo, povera Niniza diseva sempre: «Chi no ga fìoi, ga un dispiazer solo.» E la lo ga rilevado con sacrifizi, strussiando, lavorando: ela lavava per i Prohàska, per i Miagòstovich, per tuti la lavava ela. E anca don Blas la ga assai iutada. Diseva sempre don Blas: «Nostro Signor ghe ga perdonado al ladron e mi no go de perdonarghe a Niniza?» Quel vedé, ve iera un prete. Indiferente; sto Lupetina... — Quel che i ghe diseva Scombro? — Ma no! Nini Lupetina. 'Sto Lupetina mi lo conossevo ben, el iera con mi sui Carpazi, dela prima guera. Ierimo partidi insieme propio: mi, Nini Lupetina e Pìllepich che dopo, povero, ga perso la gamba. Bruto iera sui Carpazi, combatimenti che no ve digo, perché el Russo iera propio deliberado de butar zò l'Austria. E iera sti treni, siora Nina, che rivava ogni setimana càrighi de gioventù, povera. E iera fazile rivar, ma assai difìzile tornar indrio intieri, e permessi gnente: dò tre giorni a Leopoli e po' de novo al fronte soto el fogo. — Vù ieri al fronte soto el fogo? — No. Mi iero a Leopoli, in ufìzio, stabile. Lupetina iera al fronte soto el fogo. Insoma, che ve contavo: vien sto Lupetina in permesso a Leopoli per tre giorni e a mi me manda a ciamar el prete de campo, che prima iera stà prete a Pédena e el me disi, mi fa mi dice, se conosso Lupetina. Che sì, ghe digo mi, che semo patrioti. Ben, el disi, che bisogna prepararlo, perché ghe xe morto el padre. Come el padre? — ghe digo mi — che el padre lo ga sempre ricusado. «Ah no — disi sto prete — che ghe ga scrito don Blas, che lori iera stadi insieme in Seminario de Capodistria, che el padre de Nini Lupetina in punto de morte, per no morir in pecato mortale, el gaveva sposado in extrémis la povera Nìniza. — Come in extrémis? De scondon? — Ma come de scondon? Sul leto de morte. Tanto gaveva dito, tanto gaveva fato don Blas, che sto Giovanin American gaveva sposado Nìniza in extrémis e de là a meza ora el xe spirado. — Bel! — Eh bel, siora Nina... no xe un ben senza un mal: sempre morto el padre ghe iera. E a mi me disi sto prete de Pédena, che co' riva Nini Lupetina, che el Comando lo ga zà fato ciamar, che lo preparo, che lo averto, che xe meio cussì, fra patrioti. — E vù? — E mi? E mi ghe go dito, ah! «Lupetina mio, ghe go dito, tuo padre te ga sposado la madre prima de morir e ti adesso ti xe con tuti i diriti. Pecà che el padre te xe morto. Condoglianze.» E mi lo vedo che el me varda cussì col ocio sorapensier. E ghe digo «Cossa ti ga, Lupetina mio, te dispiase?» «No, el disi, stavo pensando. Stavo pensando che el padre me ga sposado la madre, che el padre me xe morto, che la madre me xe restada vedova e che mi vegno a star fio unico di madre vedova. «Einziger Sohn einer Witwe», come che i disi ala leva. E alora mi, per regolamento militar, in tempo de guera, go dirito de 'ndar ogni ano tre mesi a casa per i lavori de campagna.» «Ma che campagna ti ga? — ghe digo mi — che tua madre povera devi lavar per i Prohàska, per i Miagòstovich, per tuti?» «Sì — el disi lu — ma mio padre gaveva campagne in Punta Sant'Andrea e zò in Vale.» — Questo Lupetina che iera morto gaveva? — Ma se ve go dito, siora Nina: Lupetina se ciamava Niniza povera, el padre de Nini ve iera Giovanin American, che i ghe diseva. Ma insoma lui gaveva ste campagne. E gaveva ragion, savé, Nini: figlio unico di madre vedova, per regolamento — l'Austria iera un paese ordinato — lui tempo dò giorni i lo ga ben che mandado a casa per tre mesi. «Adio Leopoli, tomba dei popoli», el cantava in treno co' son andà a saludarlo ala stazion de Leopoli. Iera una macia, savé, sto Nini, iera un rider con lui, sempre. — Aah! No el xe più tornado a Leopoli? — Come no? Lui tre mesi de permesso el gaveva — che lui in prinzipio ghe pareva enorme — ma quatro ani ga durado la prima guera. Altro che a tornar el xe rivado! E xe stà co' el tornava, che xe nata quela roba del treno. — Un scontro? — Perché un scontro? — Gavé dito vù: quela roba del treno. — E cossa i treni ga solo scontri? Speté, no, che ve conto. Passadi sti tre mesi — che Nìniza ve iera tuto un'altra dona, povereta: in profondo luto, ma contentissima — 'sto Nini el monta in treno a Trieste con tuta sta povera gioventù che i mandava sui Carpazi. E lui a sti giovinoti apena ciamadi soto le armi el ghe ne contava dò per un soldo: che a Leopoli xe ste polachesi biondozénere, che xe liquori, che se pol trovar pan bianco, che istesso per chi che sa rangiarse no xe mal, e «Viva Leopoli, tomba dei popoli» el ghe imparava a cantar, per rider, un poco ciapadi che i iera tuti, capirè, militar che partiva. — 'Sto Lupetina? — Lupetina sì. Chi tornava a Leopoli se no Lupetina? Con tuta 'sta altra gioventù povera, che a ogni stazion el treno se carigava sempre de più. Ma però in alegria, cossa volé, giovini, roba de vinti ani. E co' i passa Nabresina, a Nabresina monta su in vagon un ciamà soto le armi, che se lo vedeva, savé, col bauleto, el rùssak e la coverta, gnanca in montura ancora, perché questi del teritorio i li vestiva a Gorizia, e el se senta sul sentàl visavì de Lupetina. Insoma come che el se presentava, tuto l'insieme, el iera ridicolo un poco. — Ah un campagnol! Sarà stà un campagnol. — No: de Parigi el iera! Sicuro che el iera un campagnol, del teritorio. E alora sto malignazo de Lupetina, che iera una macia, ciama fora del scomparto, in àndito, sti altri giovinoti e el ghe spiega. — Cossa? — Speté. Un truco de farghe a sto campagnol. E el ghe disi che xe un truco che sempre se ghe fa ai campagnoi in treno. E tuti un rider: «Sì, sì, femo, femo!» Insoma, sto Nini Lupetina torna dentro con tuti nel scomparto, el ciapa in man la manizza del segnal de alarme e el fa fìnta de sforzar, sforzar, tuto rosso. Che no se pol, che no se pol. — Cossa no se pol? — El fazeva fìnta che no se pol tirar la manizza del alarme, che iera duro. — Ah, iera duro? — Ma no! Lui fazeva fìnta che xe duro. Prima con una man, po' con dò, po' prova un altro, po' ancora un altro de sta ganga, po' tuti tre insieme. Duro, duro, duro, che no se podeva. — Tuti fazeva finta? — I fazeva sì fìnta. E sto campagnol li vardava, li vardava. «Gnente, gnente: xe duro, no se pol», diseva Lupetina coi altri. E i va de novo fora del scomparto, in àndito. E de fora i cuca oltra del vetro cossa che fa sto campagnol. Siora Nina: sto qua meti in bando el bauleto che el tigniva sui zenoci, el se alza in pie e po' el guanta la manizza e el dà un zucon. — E iera duro? — Maché duro! Un gran fìs'cio, le riode che fìs'cia sule sine fazendo falische e el treno che se ferma de colpo. Che anzi el bauleto xe vignudo zò e se ga averto. E Nini Lupetina coi altri in àndito tuti un sora del altro. Tempo dò minuti, xe el gendarmo de campo, subito smontà zò del primo vagon, che cori zigando soto i finestrini: «Chi ga zucato il segnale di alarme?» E sto campagnol meti fora la testa e tuto contento el ghe fa: «Mi, con una man sola!» — Omo forte? — Ma dài, siora Nina, cossa omo forte? Omo cojonado. Che el gendarmo de campo lo ga subito tirado zò del treno — perchè guai soto l'Austria fermar un treno — e mandà indrio a Trieste. — Dove? — A Trieste. In Tribunal, in frenocomio, no so mi, ma intanto sto campagnol la ga scapolada de andar sui Carpazi. — E i altri? — E i altri gnente. Prima i rideva, e dopo al fogo. Che anzi, in local a Leopoli, co' el vigniva in permesso del fronte, Lupetina sta storia de «Mi, con una man sola!» el ghe la contava a chi che voleva e a chi che no voleva scoltarlo. — Ma disème, sior Bortolo: sto Lupetina, de quai Lupetina vigniva propiamente a star? — Ma dài! Nini Lupetina, quel che sui Carpazi ga ciapado el schrapnel sul brazzo. Lupetina: quel con una man sola. MALDOBRÌA XXX - L'Ospizio Marino Nella quale si danno notizie delle prime provvidenze a favore della gente di mare in tarda età e si sottolineano le varie misure di contributo dell'Armamento privato a questo civile slancio di umana solidarietà all'alba di un secolo di sociali rivolgimenti. — I disi, i disi strenti quei de Lussinpicolo: i xe strenti no digo, ma i veri strenti, per quel che mi posso dir, xe quei de Lussingrando. — Ancora più strenti? — Mio padre povero me diseva che no xe confronto: «Ti ti ga el specio de come che xe quei dei Lussingrando — el me diseva — se ti vardi el vecio Bùnicich.» — Ma i Bùnicich no i iera de Lussinpicolo? — Dopo. Dopo iera anca i Bùnicich de Lussinpicolo quei del squero che i ghe ga fato quela bruta parte a mio padre ma, per come de dove che i vien, i Bùnicich i ve vien propio de Lussingrando. Perché tre fradei iera in antico: questo che xe vegnudo a Lussinpicolo co' el ga sposado una Nicolich, Giusepe povero che se ga perso in mar cola barca, e Antonio che ve vigniva a star padre de questo vecio Nico Bùnicich de Lussingrando, che no se ga mai movesto de là. — Mai movesto de Lussingrando? — Oh Dio, mai movesto: per andar, l'andava anca lui in qualche logo, ma, come star, lui stava nela vecia casa dei Bùnicich, rente del Domo de Lussingrando. 'Sto vecio Bùnicich ve stava là cola vecia Tona. — La moglie? — Cossa moglie la vecia Tona? La vecia Tona povera, ve iera de Ciunski, una campagnola, che ancora ragazeta ghe iera vignuda in casa a servir, e sempre restada con lui, perché el vecio Bùnicich de Lussingrando no se gaveva mai sposado. — Puto vecio? — Dopo sì, puto vecio. Ma co' el iera giovine, el gaveva avudo anca ocasioni, savé. I parlava che lui se pretendeva per una fìa de quei Giadròssich che stava in riva, ma el padre no voleva. — E lui se pretendeva? — El se pretendeva sì, perché — savé come che iera una volta — i Bùnicich gaveva soldi ma i Giadròssich de più, assai, assai de più. Insoma bastanza de più. Perché anca el vecio Bùnicich, che quela volta iera giovine, stava ben e — stremo che el iera — noma che ben. Ma el vecio Giadròssich, che lui zà quela volta iera vecio, no ghe pareva bastanza, insoma no el ghe ne voleva saver. E lori dò, Bùnicich e questa giovine, i se parlava un periodo liberamente, ma dopo basta, co' el padre ga deto basta. E per vederse i doveva spetar che el vecio Giadròssich ghe sorti de casa. E i diseva, la gente contava, che una volta, un sabo, ela ghe ga dito: «Passé stasera, Nico, dopo zena soto la finestra e se el padre me xe sortido, ve buterò zò un soldo in contrada, cussì che sentì e alora podé vignir drento in pòrtigo.» — De scondon, come? — In sconto, sì: perché el padre no voleva, ve go dito. E insoma quela sera — cussì contava la gente — come che i se gaveva concertado, lui dopo zena, col scuro el xe passado soto le finestre de ela. E, tintin, lui senti che casca el soldo sul saliso. Ela alora va zò in pòrtigo a spetarlo e, speta, speta, speta: lui no vien, no el vien, no el vien. Basta. Come diman che iera dimenica, ela la lo intiva fora del Domo e perché che no el xe vignudo, la ghe dimanda. E lui, che iera scuro e che lui ga zercà, zercà, ma no el xe stà bon de trovar el soldo, e che anca stamatina bonora el se ga alzà per zercarlo, ma se vedi che lo deve gaver trovado qualchedun altro. Iera un omo fato cussì, siora Nina: assai tacado al soldo. Ela dopo se ga sposado ben, con un de fora. Savé, questo la gente contava, mi no so se ve sia pretamente la verità, fato si è che lui sposado no se ga mai e el xe restado solo in casa cola vecia Tona. — Per via de sto soldo? — Ma dài, ve go dito che questa del soldo i contava, a Lussin i ghe ne conta dò per un soldo, ma lui in verità ve iera assai tacado al soldo. De lui i contava, per esempio, che se l'andava in local, el ciamava un bicer de acqua, un stecadente e el giornal, ma che se l'andava in casa de altri e i ghe dimandava: «Barba Nico, volé un bicerin de rachìa o café?» «Déme, déme — el rispondeva — un bicerin de rachìa, intanto che se scalda el café». E dopo che el gaveva bevudo el café el diseva: «Che bon che iera quel primo bicerin de rachìa!» Iera un omo fato cussì. E se inveze qualchedun andava de lui, metemo dir don Blas per benedirghe la casa per Pasqua, el ghe diseva: «Cioléve, cioléve pur, don Blas, el terzo bicer de passito. Tona, taiéghe, taiéghe a don Blas la seconda feta de cùguluf.» Contava don Blas, savé, no so se iera vero. E co' el vecio Bùnicich, ogni morte de Papa, gaveva qualchedun a pranzo, el ghe diseva: «Ciolé ancora fasioi, ciolé de più, ciolé dò!» — Come ciolé dò? — Sì: ciolé dò, ciolé due. Fasioi, siora Nina. Capì come che ve iera sto omo. Ah sì! E po' i contava che una volta che el gaveva flussion, el iera andado a Lussinpicolo a passar una visita del dotor Colombis. Tuto ben e co' el ga passà la visita e messa in scarsela la rizeta, el ghe ga pozado sul pulto del dotor Colombis zinque corone. «Come, zinque corone? — ghe lisi el dotor Colombis — no basta, savé, Barba Nico!» Oh, che ghe dispiasi tanto, ma che no el imaginava e che lui de Lussingrando ga portado de per con sé solo che zinque corone. «Va ben, va ben — ghe fa el dotor Colombis — per stavolta femo cussì, ma ricordévese che mi, de regola, ciogo vinti corone.» «Orpo, vinti! — disi el vecio Bùnicich — i me gaveva deto diese!» Insoma, del vecio Bùnicich de Lussingrando, a Lussingrando e a Lussinpicolo i ve contava el contabile. — E ghe ga passado la flussion? — Ma cossa ghe entra la flussion! Indiferente; ve disevo per dir. Basta, vù dovè saver che la Comun de Lussinpicolo dacordo con quela de Lussingrando gaveva decidesto de far l'Ospizio Marino. Che sti veci maritimi, poveri, con quele picole pensioni che iera soto l'Austria, co' i gaveva finido de navigar, no i podeva più né viver né morir, che se no i gaveva qualchedun a casa che li tendeva, no i saveva dove andar, che, povera gente, dopo aver tanto pericolà per mar, una roba e l'altra. Insoma, i gaveva decidesto, tuti dacordo, che la Comun e quei che un poco podeva, sti armatori, questi che gaveva el squero, i possidenti insoma che quela volta i ghe ciamava, dassi tuti un poco per omo per far l'Ospizio Marino per sti veci maritimi bisognosi. — Iera, iera a Lussin l'Ospizio Marino... — Come no: inaugurado del Arciduca Francesco Salvatore. Ma, che ve contavo, tuti qualcossa ga dado: ga dado i Nìcolich, ga dado i Glàdulich, ga dado i Geròlimich, ga dado anche i Tarabocchia, figuréve, e i Còsulich no parlemo. E inveze sto vecio Bùnicich de Lussingrando come che el fato no fussi suo. Alora ala Comun i ghe ga dito un giorno a Barba Nane... — Anche Barba Nane gaveva dado? — Ma sicuro che gaveva dado Barba Nane, Barba Nane dava. E ala Comun i ghe ga dito: «Barba Nane, vù che sé bastanza intrinseco con el vecio Bùnicich de Lussingrando, che fin a pranzo el ve ciama qualche volta, co' andé de lu, butéghela che el daghi qualcossa per l'Ospizio Marino.» Insoma che sì, ga dito Barba Nane, che el ghe la buterà apena che el lo ciama a pranzo. E co' el lo ciama el ghe la buta: de sti poveri maritimi che ga tanto pericolado per mar, veci, in bisogno e senza più matricola, che tuti ga dado qualcossa e che vù Bùnicich, graziando Idio, no ve ga mai mancado gnente e qualcossa podessi dar. «Perché vù gavé sta casa — che bela che ve xe sta casa rente del Domo — vù gavé campagna, vù gavé uliveri, vù gavé dò scune propio vostre e carati tanti in barche de altri e soldi in Cassa Ruràl e quartieri a Fiume, i me dise. Insoma sté meo de tanti che istesso ga dà per l'Ospizio Marino.» «Ah cussì la xe, Barba Nane — ghe ga dito el vecio Bùnicich — ah cussì, vualtri ala Comun me gavé fato i conti in scarsela. Pulito. Ma quando che se fa i conti, se li fa in dò colone! E gavé contà vù che el padre me xe morto e che la madre vedova me xe restada? Otantazinque ani la ga e nissun no pensa per ela, perché el fradelo me xe dispossente in Ospidal de Pola, che per tuto i devi assistirlo. E la sorela che me xe in Ancona, via del marì, che la vive in ristretezze che no se pol gnanca concepir, con zinque fìoi, che el padre no pensa per lori? E gavé messo in conto, vù, che i cugini che go, che se gavemo rilevado insieme come fradei, i xe assai malamente perché i se ga imparentado col vecio Mòise che xe falido? E gavé pensà ala vecia Tona, che se no la stassi con mi no la gaverìa gnanca dove magnar un piato de minestra?» — Eh, xe tante robe che no se sa nele famée... — Cussì ghe ga dito anca Barba Nane: «No, Bùnicich mio, sto qua no gavevimo calcolado.» «Bon — ghe fa Bùnicich — alora calcolé anca questo: se a tuta sta gente, gente mia, che ga tanto bisogno, che xe sangue del mio sangue, no ghe go mai dado gnanca un soldo e gnanca mai no ghe darò, volé che ghe dago del mio a sti veci del Ospizio, che xe zà tanti che pensa per lori?» «Ciolé, Barba Nane, ciolé ancora fasioi, ciolé de più, ciolé dò.» MALDOBRÌA XXXI - L'uomo e il mare Nella quale Bortolo rivela come due fra le più famose storie tramandateci oralmente dalla gente d'Istria e Dalmazia altro non sono che episodi di vita vissuta e sofferta da una medesima persona, Marco Patisca, umanissimo testimone di ponderata saggezza tanto nella buona quanto nella cattiva sorte. — Mi no so se conossevi vù Marco Palìsca, ma lui ve iera assai conossudo. Ben, de lui quela volta co' ghe iera morto el padre, tuti ga dito che el xe stà sempio. — Colpa sua? — Ma che colpa sua? Chi ga mai dito una roba simile? El padre ghe xe morto perché el doveva morir, ma la gente diseva: «Varda ti, che sempio Marco Palìsca, el più vecio dei fradei, e el se ga fato infenociar dei fradei più giovini.» Perché ve iera tre fradei Palìsca: Marco, che ve disevo, Nini e Bepin, gente che stava ben, signoreti. Lori gaveva casa là in toriòn e anche soldi, perché cola barca i gaveva fato soldi lori, prima dela Prima guera. E po' i gaveva la barca, no se parla: el «Sant'Antonio», bela barca, primi noli i fazeva. Ben, co' xe morto el padre, i fradei ghe ga dito: «Marco, un giorno tuti se sposeremo, no, e alora no ne basterà la casa. Meio far prima quel che bisognerà far dopo: ti, come più vecio, xe giusto che ti gabi la casa de povero nostro padre defonto e nualtri se faremo zò in riva casa nova, noi gaveremo spese e ti cussì no ocorerà che ti gabi spese.» E per farvela curta, siora Nina, lori ghe ga fato figurar che la casa vecia del padre — che, Dio mio, iera quel che iera, gnente de tale — valeva come la casa che lori se gaveva fato nova. — No capisso. — Come no capì, siora Nina? Lori se ga fato la casa nova, un pian per un fradelo, un pian per quel altro, terazzo, pòrtigo, sul fondo che po' iera de tuti tre, che quel no i lo ga gnanca contegiado, perché i ga dito quel xe nostro, e cussì tuti diseva: «Che sempio che xe stado Marco Palìsca.» — Eh sì, sempio, perché se el fondo iera de tutti tre, sempio ah! — Ma no sempio! Vardé, siora Nina, che Marco Palìsca no ve iera un omo sempio. Savé cossa che el ve iera? Lui iera un omo che no voleva quistioni, lui tante volte, anche soldini che el gaveva imprestado a quel e a quel altro, no el se ga mai fato avanti per averli indrio. E ben, ve disevo che de ste robe no se pol mai dir. Chi gaverìa mai dito, per esempio, che lori, cussì giovini, tempo una setimana, adio che te go visto. — Lori chi? — Nini e Bepin, siora Nina. I fradei de Marco. Marco se gaveva sposado con una de Veglia, vegliota la ve iera, e sicome che lui, come apena sposado, dacordo coi fradei el ga saltado un viagio, Nini e Bepin Palìsca xe andadi soli col «Sant'Antonio». E in Antivari — cussì ga calcolà la gente—i ga ciapado tuti dò la febre scarlatina, che una volta, ciapar la febre scarlatina de grandi se podeva contar sui dèi de una man quei che la scapolava. E lori poveri no la ga scapolada. «Nini, Nini, mi vado», i contava che gavessi dito Bepin: e quel altro gnanca no lo ga sentì perché el iera zà andado. — Morti? — Febre scarlatina, siora Nina. E cussì Marco Palìsca se ga trovado paron solo in barca e con dò case: la vecia del padre là del toriòn e quela nova dei fradei in riva. Vedé come che no se pol mai dir ste robe. — Eh, la fatalità. — Fatalità sì. Perché penséve, anche sta moglie de Marco Palìsca fin che iera vivi i fradei la gaverìa avù come riguardo de andar con el marì in barca, ma dopo inveze la andava. Savé, viagi per Dalmazia, fìoi no i gaveva, e una volta che i gaveva fato a Fiume un carigo de fulminanti per Spalatro xe stada la fatalità. Ve iera bruto carigo el carigo de fulminanti, siora Nina. Me ricordo che prima ancora che nassi la disgrazia del «Sant'Antonio», una volta che nualtri col Comandante Bussànich carigavimo fulminanti sul «Liburnia» a Fiume — a Fiume la massima parte se carigava fulminanti — bon, sto Comandante Bussànich, che iera un tremendo, intanto che spetavimo i vagoni el ga pretendesto che un per un ghe ripetessimo come litanìe dela Madona quel che lui ne legeva sul Regolamento Maritimo, de come che se fa el carigo de fulminanti. «I zolfanelli pericoloso carico, dovrà essere maneggiato con cautela, giacché spesso per causa di scuotimenti nella caricazione i zolfanelli presero fuoco ed abbruciando lentamente, dopo alcuni giorni di viaggio, comunicarono un generale incendio.» Ancora me ricordo. «Per causa di scuotimenti»: quel devi esser stado. E una note, che i navigava de note, siora Nina mia, el «Sant'Antonio» ga ciapà fogo. Ga perso la vita dò giovini de coverta e la moglie de Marco Palìsca, povera defonta. — Persa la moglie? — E la barca. E diograzia che el ga salvado la vita lu. Però el ga fato protesta de avarea generale e la Sicurtà ghe ga pagado tuto ben e cussì el se ga fato far in squero de Lussin dei Bùnicich barca nova: el «Sant'Antonio Secondo». E intanto che i finiva le piturazioni lui ga comincià a parlarse con 'sta fìa dei Bùnicich, fìa unica de Nicolò Bùnicich e i se ga sposado. No in Domo perché iera ancora passà poco dela disgrazia, che anzi Barba Nane sempre diseva quando a qualchedun ghe nasseva qualche straléca: «Cossa volé, vardé Marco Palìsca che el ga passà le sue; la vita ve xe come el mar, no bisogna mai ciaparla de prova.» — Eh, xe carateri... — Cossa carateri? Xe che lui iera un omo fato cussì. Vardé, a mi me ga contà propio el Comandante Bolmàrcich, una sera a bordo del «Jupiter», de quela volta che el lo ga incontrado a Zara. Savé che el Comandante Bolmàrcich no saveva gnente? Perché lori iera assai amichi, anche come famiglia, coi Palìsca, ma po' Bolmàrcich iera andado un periodo in CentroAmerica dove che el navigava nolegiado e cussì iera ani anorum che no i se vedeva. E alora el Comandante Bolmàrcich, che el iera tornado e el iera a Zara che el carigava spiriti — che anca quel no xe un bel carigo — un giorno, magnon che el iera el xe andà a magnar solo in un local in riva de Zara. — Figureve che mi no go mai avudo ocasion de andar a Zara. — Indiferente. El Comandante Bolmàrcich inveze el iera là che el magnava in local solo. Rosto de vedel el magnava, e come che l'alza i oci del piato el vedi passar fora dela porta per riva Marco Palìsca. El se alza, el cori fora, e el lo ciama: «Marco, Marco!» e i se basa, i se brazza e el lo porta in local. Che se el ga zà magnà? Che no. Che ben, che i magnerà insieme. Podé capir, tanti ani che no i se vedeva! Alora Marco Palìsca ga ciamàdo una pasta e fasioi. — Ciamà, come? — Ciamà, ordinà in local una pasta e fasioi, perché i magnava insieme. «Cossa xe del'anima tua, Marco mio? — ghe fa el Comandante Bolmàrcich — quanti ani sarà dela disgrazia dei tui poveri fradei?» «Eh tanti ani, tanti xe, Bolmàrcich mio, poveri fradei mii.» «Ben, coss' ti vol — ghe disi Bolmàrcich — chi more el mondo lassa e chi vive se la passa, oramai xe tanti ani. Sa cossa che fazzo mi? Mi me ciogo un répete.» E i ghe porta de novo vedel rosto. «E ti, Marco mio, come te va? Te va ben, no?» «Ah, coss' ti vol: la barca go perso, col fogo, fora de Spalatro.» «No stàme dir! — ghe disi Bolmàrcich — No savevo: alora xe mal! «Mah — ghe fa Marco Palisca — istesso no xe mal perché dopo la Sicurtà me ga pagado tuto, anca qualcossa de più e me go fato la barca nova.» «Ah — ghe disi alora Bolmàrcich — alora xe ben. Sa che i fa ben qua el vedel rosto?» E el ciama el camerier e el ghe disi «répete». «Va ben, disi Marco Palìsca, ciolerò répete anca mi, per farte compagnia», e «répete» el ghe disi al camerier. «Alora — ghe fa Bolmàrcich — ti me contavi che ti ga la barca nova, che xe ben.» «Eh — ghe risponde Palìsca—istesso no xe ben, perché cola barca vecia me se ga negado anca la moglie.» «No stàme dir, povero Marco mio, no savevo, condoglianze: alora te xe mal.» «Eh, istesso no xe mal, perché intanto che in squero dei Bùnicich a Lussin i me fazeva la barca nova, me parlavo cola fìa de Nicolò Bùnicich e la go sposada.» «Orpo! — ghe disi Bolmàrcich — la fìa de Bùnicich ti ga sposado? Alora te xe ben?» «Né mal, né ben, Bolmàrcich mio: cussì cussì. Xe cussì la vita. Ti vedi, per esempio, co' ti ti ordini «répete» i te porta vedel rosto e co' ordino «répete» mi xe zà tre volte che i me porta pasta e fasioi.» MALDOBRÌA XXXII - La terza corona Nella quale Bortolo, rivelando gli oscuri intrighi politici che avevano fatto da sfondo alla tragedia di Mayerling, appalesa altresì le vere cause della misteriosa scomparsa di Giovanni Orth, nome borghese dell'infelice Arciduca Giovanni Salvatore di Absburgo-Lorena, con lo yacht imperiale «Margherita». — Amor xe amor, co' xe amor, sior Bortolo! Mayerling, per esempio. El povero Rodolfo, in un'Austria che iera un'Austria, lui e ela i se ga ciolto la vita per amor, e quel iera propio amor. Perché altro a lui cossa ghe mancava? Bel, giovine, fio del'Imperator, tuta la vita davanti. — Mayerling, amor? Vù, siora Nina, sé come mia defonta nona che ne contava la storia de Eustachio e Genovefa. Mayerling? Cossa amor, Mayerling! Lui gaveva, sì sta putela che el la gaveva ilusa, come, ma la vera verità xe che là soto iera tuto politica, comploto de palazzo, tradimento. — Ah, i lo ga copà, no el se ga ciolto la vita? Diseva sì qualchedun che i ghe gaveva dà zò per la testa cola butilia de sampagna. — No se ga mai savesto la vera verità: i diseva che dopo zinquanta ani dela morte de una contessa, una granda, i gavessi dovesto averzer un satùl che là iera dentro tute le carte. Dopo, inveze, xe vignù guere, robe, e chi sa andove che sarà andado a finir 'sto satùl. Solo un cùcer, siora Nina, saveva, el cùcer suo de lu, de Rodolfo defonto, che ga portà fora la morta in carozza, sentada sul sental, pensé coss' che no i fazeva per sconder: secreto de Stato iera, politica, ve go dito. E a sto cùcer i ghe ga inibido de palesar e i ghe ga dà una casa e un vitalizio. Questo assai se parlava qua, perché una volta, qua, de nualtri, in Abazia, a Fiume, a Ragusa vigniva sempre sti Regnanti, questi del Sangue. Mai no me dimenticherò l'Arciduca Giovanni Salvatore, povero. — El xe morto? — No se ga mai savesto come. Lui se ga imbarcado sul suo yacht con nome fìnto: Giovanni Orth el se fazeva ciamar e el xe partì col «Margherita» e el se ga perso in mar. E quanti che ga perso la vita con lui, tuto gente nostra: sti istriani, sti dalmati, sti piranesi. Chersini la massima parte. — Margherita? Una sua morosa, come? — Maché, siora Nina: el «Margherita» iera el yacht personale del Arciduca Giovanni Salvatore, bela barca, tre alberi, barca de altura. Che comodità che no iera a bordo! Lui, vedé, iera cugin del Sangue propio e intimo, intrinseco de Rodolfo. Quel xe stà. —Ah, lui lo ga copà? Geloso come? — Maché geloso. Ve go dito, siora Nina, che là iera tuto politica, secreti de Stato. Lui, intanto, parlava italian come mi e come vù perché lui iera Asburgo-Lorena propiamente, quei de Toscana che i li gaveva mandadi via quela volta. E el stava a Viena, cola Famiglia. — Con moglie e fìoi? — Ma cossa moglie e fìoi? Cola Famiglia imperiale, perché lori iera tuti imparentadi, cugini fra de lori. Anche per quel iera sangue marzo. — Eh xe bruto cussì sposarse fra cugini: mia cugina Malvina... — Indiferente. Lu iera, ve go dito, intrinseco de sto Rodolfo. E savé cossa che iera la question? La question iera che i voleva far la Triplice Monarchia. — Ma no iera Duplice? — Sicuro: l'Austria iera Duplice, perché iera Austria e Ungheria. Fiume, per esempio, iera pertinente al'Ungheria, miga al'Austria. Ma lori gavessi volesto far anche un Terzo Regno per Boemi, Slovachi, Croati, per quei insoma che parlava per slavo. E no la iera miga mal pensada, savé, siora Nina: perché cussì no saria stà Sarajevo. — Tre Re? — Sì i Tre Re Magi! Imperator iera un: solo che come che el iera Imperator d'Austria e Re de Ungheria, cussì el fussi stà anca Re de sta terza roba, che dopo i gavessi trovà come ciamarla. E alora comploto e ciapà dentro el povero Rodolfo che, quando che el padre, l'Imperator xe vignù a saver, ga dito: «Figlio o non figlio!...» e lui messo ale strete, se ga ciolto la vita: questo ve se stà Mayerling. Cossa amor? E sta povera putela no ghe entrava per gnente, ela iera quela sera là, come che gavessimo podesto esser mi o vù. — E l'Arciduca Giovanni Salvatore no iera? — No, lui, là, quela sera no iera. Però el iera restà sempre de quel'idea. Savé, de sicuro no iera gnente, però el iera sempre osservado, come. — Ma perché no i voleva far sta Triplice Monarchia? Triplice no xe più che Duplice? — Eh, siora Nina, iera politica, i ungaresi no voleva perché i pensava che sti altri chissà cossa gavessi preteso: Fiume, forsi. E l'Amiraglio Horthy iera come una belva, perché lui iera ungarese e gaveva in man tuta la Marina Militar. — Ahn! Cussì xe restà Duplice. — Sicuro che xe restà Duplice. Ma ve contavo che mi con sto Arciduca Giovanni Salvatore, un periodo iero imbarcà propio sul suo yacht personale, el «Margherita». — A bordo ieri? — No, a rimurcio i me tigniva! Sicuro che iero a bordo, se iero imbarcà, nostro-omo de camera iero. Col Comandante Bolmàrcich. Che anzi Barba Nane diseva sempre: «Bolmàrcich xe bevandéla e un giorno el farà dano sul molo e i ve caverà la matricola a tuti quanti!» — Ah, el beveva? — El beveva sì. Bolmàrcich e anca l'Arciduca Giovanni Salvatore beveva el suo. Mai no lo go visto pretamente imbriago, ma alegro sì. Ve digo mi che iero suo nostro-omo de camera. El ghe diseva sempre a Bolmàrcich co' rivavimo in qualche porto: «Dona e vino fa morbino!» El parlava franco italian, ve go dito, de Toscana el iera, AsburgoLorena. E lori dò ve iera come compari, i andava in tera vestidi anca de semplici maritimi a fraiar. — E anche vù andavi? — Mi, fìgureve! Mi lustrar otoni, strussiar, lavorar e vardar che tuto sia a puntin in tavola. E far fìnta de no veder, far fìnta de no sentir, perché i portava, savé, ste giovini a bordo. E no iera miga aleluia gnanca come paga, con tuto che iera yacht imperiale. Perché quela iera l'ingiustizia a bordo: che el personal de machina e de coverta iera de Marina Militar e, oltra la paga i gaveva tre corone al giorno de sorapiù. E inveze nualtri, personal de camera, ierimo tuti de Marina Mercantil e de sorapiù gavevimo solo dò corone al giorno. Che anzi iera quistioni a bordo. — Eh, xe bruto a bordo quando che nassi quistioni. — Indiferente. 'Sti qua dela Marina Militar gaveva meo tratamento e ghe pareva de esser chissà cossa, specie i ungaresi. E noi de camera che ierimo tuto sti istriani, sti dalmati, sti piranesi, e chersini la massima parte, gavevimo fato propio petizion che i ne daghi anca a nualtri sta terza corona. E el Comandante Bolmàrcich diceva che sì, che fussi giusto, ma che no dipendi de lu, che dipendi de Fiume, del Amiraglio Horthy perché el nostro iera yacht imperiale. — Ah, e cussì gnente? — No gnente, se spetava insoma. Cussì xe sempre la vita del maritimo: spetar, spetar, spetar. E lori intanto se la blangiava. — Sti qua che gaveva ste tre corone? — Ma no, anche lori strusciava come noi. El Comandante Bolmàrcich e l'Arciduca se la blangiava, lori una note sì e una note no, ve iera in tera in incognito, in civil o vestidi de semplici marineri, ve go dito. E mi, de camera che iero, far fìnta de no saver, de no veder, de no sentir. Fina a quela volta... — Quala volta? — Quela volta che i me ga ciapà de mezo. Insoma, una sera ierimo a Ragusa, armisai a Porto Casson e me vien vizin el Comandante Bolmàrcich, serio, che anzi me ga fato strano perché iera le sete passade e no el iera gnanca lustro, e el me fa, mi dice che vegno su de lui in gabina per una parola. — El ve ga fato osservazion? — Speté, speté. Vado in gabina de lui, el me fa sentar sula carega, che mai col equipagio no se gaveva visto una roba compagna — soto l'Austria solo i ufìciai podeva sentarse — e mi fa mi dice che, da omo a omo, sula mia parola, secreto assoluto, che mi basta che fazzo quel che el me dise lu. Che in stretissima confidenza el me dirà che sua Altezza Imperiale cussì e culì devi assentarse de bordo per tre giorni, che però no devi saver anima viva, gnanca Pìllepich che iera in gabina con mi. Che la barca adesso anderà via del armiso in rada, che figurerà che me sbarco mi e inveze se sbarcherà l'Arciduca, ma che nualtri continueremo a bater la sua bandiera sul pinon e che mi vado in gabina sua de lu e che tegno el lume impizzado. — Ma no dovevi sbarcarve? — No, se ve go dito, siora Nina: doveva figurar che mi me sbarcavo e inveze se sbarcava l'Arciduca vestì de semplice maritimo e mi andavo in gabina sua de lu col lume impizzado. E anzi, visto che gavevo la figura circa compagna e anca i mustaci, perché a noi de Marina Mercantil i ne lassava i mustaci, de giorno gavessi dovesto passegiar ogni tanto sul suo ponte privato, in montura de lu, in modo e maniera che se qualchedun de tera chibizzava col canocial, podessi figurar che l'Arciduca iera sempre a bordo. Che no gaverò de pentirme, che el farà in modo e maniera de farme dar la terza corona come quei de coverta. —Mama mia, che maldobrìa! — Altro che maldobrìa! Ma savé come che se disi: xe meio ubidir che farse santificar e cussì go fato. — E i ga credesto? — Come no i ga credesto? Tuti ga credesto. De sera, col scuro, i ga visto che me sbarcavo — e iera lu — de giorno i lo vedeva a lu — che iero mi — che caminavo sul ponte privato col Comandante vizin, bandiera sua de lu che batevimo sul pinon e tuto pulito. — E l'Arciduca Giovanni Salvatore dove iera andado? — Quel a mi no i me ga dito, quel forsi saveva el Comandante Bolmàrcich. Mi go calcolado che iera qualche sconderiòla con done sposade, e chi sa dove che el iera andado. — Ah, cussì xe andà tuto ben? — El primo giorno sì. Anzi xe passada una barca otomana e ne ga saludado col pavese. Ma la seconda sera 'sto Comandante Bolmàrcich el me disi che lui star a bordo assai ghe seca, che lui andassi in tera un momentin, che mi stago in gabina del'Arciduca col lume impizzado e che dopo lui ben torna. — E inveze no el xe tornà? — Speté speté, el xe sì tornà. Ma prima, cossa xe cossa no xe, vedo che riva sotobordo una pilotina con dò monturati de tera. — I vigniva de tera? — Se i vigniva a bordo cola pilotina, per forza i vigniva de tera! Volevo dir che i iera in montura de tera. Tenenti generai, siora Nina. Vedo che i xe soto la biscaìna e che i ghe mostra a Pìllepich che iera de guardia — che lui no saveva gnente e el credeva che mi me iero sbarcà — una carta che i devi parlar col Arciduca. Mi tuto vedevo e sentivo del oblò e no savevo cossa far. —Mama mia! —Mama mia sì, siora Nina. Sti qua — compermesso — ga batti la porta dela gabina e mi «si comodino» ah, ghe go dito, per talian come che usava l'Arciduca. Go pensà in un primo momento: li gaverà mandadi el Comandante Bolmàrcich che ghe sarà nata qualche straleca de imbriago in tera. Inveze sti qua vien dentro, i me mostra una carta, che li ga mandadi chi che so mi, e inveze mi no savevo gnente, e i taca a parlar de robe che no capivo un'ostia, fin che tutintùn un de lori me disi che i xe vignudi qua per meterse dacordo sula terza corona. Ah, meno mal, go pensà mi e ci dico ci faccio: «Sula terza corona oramai siamo tuti dacordo». E lori xe stadi subito assai contenti. Che alora possono riferire che é tuto combinato. E mi che sicuro, che no dipendi che de lori. «Noi siamo prontissimi — i disi — ma la Marina di Guera cossa dice?» «La Marina di Guera, ghe digo mi, é dacordo, é tuto gente nostra: sti dalmati, sti istriani, sti piranesi». «E i ungaresi?», i me fa lori. E mi ghe go dito che i ungaresi basta che no se ghe cavi gnente dei sui diriti e dele sue spetanze, i xe dacordo anche lori. — Giusto. — Sicuro. Sempre più contenti i iera. E i disfi: «Alora, possiamo palesarci anche col Amiraglio Horthy?» «Certo, ghe digo mi, se siete dacordo vol, lui mete la firma e con sabo si può cominciare». — E cussì i xe andadi del Amiraglio Horthy per farve dar la terza corona anca a vù marineri de camera, come quei de coverta? — Sì, la terza corona dei marineri de camera! Anca mi gavevo credesto. Ma inveze iera la Terza Corona dela Triplice Monarchia che lori parlava. E l'Amiraglio Horthy li ga fati meter in fortezza a tuti dò. A lori e a chi li gaveva mandadi. E l'Imperator ga dito: «Un altro dolore, propio nulla mi è risparmiato». — E l'Arciduca Giovanni Salvatore? — L'Arciduca Giovanni Salvatore, siora Nina, ga dovesto cambiarse nome, ciamarse Giovanni Orth, andar via cola barca insieme col Comandante Bolmàrcich e dopo no se ga savesto più gnente de lori. I ga calcolà che i se ga perso per mar. E quanti che ga perso la vita con lori. Tuto gente nostra: sti istriani, sti dalmati, sti piranesi. Chersini la massima parte. Savé, Bolmàrcich iera quasi sempre imbriago. MALDOBRÌA XXXIII - Giuseppe e i suoi fratelli Nella quale Bortolo parla della tolleranza religiosa praticata dall'Amministrazione austro-ungarica nelle province del vasto Impero, della cella frigorifera del piroscafo «Duna» e del pietoso uso cui di tanto in tanto essa veniva adibita sulla linea di Costantinopoli. — Go visto mi sangui diniegadi in testamento, che a Lussin parlava tuti! Cossa volé, siora Nina, ognidun ga el suo e ognidun del suo disponi come che vol. Va ben, xe la legitima mi capisso: un fio, una moglie, o un fio de anima, che se ga un dover. Ma i nevodi? A Lussingrando, che ve disevo, i Giadròssich iera quatro fradei e una sorela, che la se gaveva sposado per un cugin, Giadròssich anche lui. Ben: co' xe morto el povero Giusepe Giadròssich... — Bepin Giadròssich? — Bepin ghe iera el padre. Lui iera propiamente Giuseppe: vù no podevi conosser, perché lui iera sempre via. In ultimo el gaveva a Costantinopoli l'agenzia dela Giadròssich. — Questa sorela che se gaveva sposà col cugin? — Cossa l'agenzia dela sorela? Cossa ghe ocoreva un'agenzia ala sorela? L'agenzia dela «Giuseppe Giadròssich e figli», che iera. Che Giuseppe sarìa stà Bepin, ma no i podeva meter Bepin, propio in lingua scrito sula tabela. Eh, i gaveva diverse barche: ancora a vela, savé. In antico, questo, assai prima dela prima guera, e soldini i gaveva. E alora, sti fradei e sta sorela iera tuti caratisti. Due navigava, un stava a Lussingrando e Giusepe gaveva l'agenzia a Costantinopoli, perché lori fazeva viagi per Levante. Scune, barche a vela ancora: in antico. — Prima dela Prima guera? — Sicuro. Però Giusepe coi altri Giadròssich i iera un poco in còlera. Perché i fradei gavessi vossudo che el se sposi cola sorela de quel cugin che gaveva sposà sua sorela de lori. E lui, inveze, no el sentiva de quel'orecia. «Beato el Turco — el diseva — che ga quatro mogli e che a tute el ghe comanda. E vù, inveze, che ve gavé sposà con una sola, gavè tuti la moglie comandòra.» Insoma, una roba e l'altra, lui iera andado a Costantinopoli per no trovar più de dir. — E el ga sposà quatro turche? — Ma cossa quatro turche? Lui iera sudito austro-ungarico, siora Nina, come el podeva sposar quatro turche? Gnanca in Bosnia Erzegòvina, che iera tuti de religion turca, l'Austria no lassava aver più de una moglie. Giusepe Giadròssich no se gaveva mai sposado. E cussì lui ai fradei el ghe la ga fracada. Savé cossa che el ga fato? Lui, in testamento propio, el ghe ga lassa tuto el suo al Domo de Lussingrando. Come per sprezzo, ga calcola i fradei. — Un sprezzo per la Cesa? — Ma cossa un sprezzo per la Cesa? Anzi! Tuto al Domo el ghe ga lassado per far sprezzo ai fradei. «Non avendo io né moglie né dissendenti legittimi, e considerando che i miei fratelli hanno ogniduno la propria facoltà, come membro della Confraternita della Buona Morte, lascio il disponibile del mio — del suo, insoma — al Domo di Lussingrando, per abelimenti e migliorie». Cussì una roba: me gaveva contado don Blas, che iera scrito in testamento. E Messa in Terzo, ogni primo vénerdi del mese. — Quel, tanti fa. — No so. Fato si é che lui xe morto ancora giovine. Tutintùn xe passà telegrama de Costantinopoli che el xe morto. E i fradei ga disposto subito de portarlo su, a Lussingrando, che i pagava tuto lori. Savé: el notaio Petris no ghe gaveva ancora notifìcado el testamento né a lori né a don Blas. Questo me ga contà tuto el Comandante Terdoslàvich, povero, co' andavimo zò a Costantinopoli col «Duna» dela Ungaro-Croata. «Reménghis — el diseva — mi ve preferisso un stivagio de terpentina che, Dio guardi un fogo, adio, pitosto che portar su morti.» Savé: el «Duna» ve iera una barca nova dela Ungaro-Croata e el gaveva cella frigorifera. E nualtri co' andavimo zò a Costantinopoli portavimo luganighe, porzina, lardo, struto, tute 'ste robe che in botega turca no se trovava, perché el Turco ga la sua religion e guai porco. Per el Corpo Diplomatico. — No intendo. — Ma sì, siora Nina, per el Corpo Diplomatico. Iera i Ambassiatori dele Potenze ala Porta Otomana e no i podeva comprar né porzina, né luganighe, né ste robe de porco in botega turca. E alora noi portavimo zò in cella frigorifera, per le ocorenze dele famiglie, no? Quela volta, savé, specie el Germanico, iera assai intrinseco col Turco. E cussì, co' tornavimo, se iera qualche morto de portar su, un patrioto, un tedesco, un cussì, i ne lo conzava a noi, perché gavevimo cella frigorifera. — Ah, comodo! — Maché comodo! El Comandante Terdoslàvich diseva che iera una schiavitù. E po' lui iera superstizioso, come. Insoma ve contavo che semo rivadi a Costantinopoli e l'Agenzia ne averti che xe de carigar dò defonti. E Terdoslàvich che come dò? Che lui ga el manifesto per un. E chi che xe sto altro defonto. E che maledeto el momento che lui se ga messo cola Ungaro-Croata, che el gaveva tante bone ocasioni col Lloyd Austriaco. — Iera un altro morto? — Sicuro. El spetava in Punto Franco de Costantinopoli de no so quante setimane che vignissimo zò noi per portarlo a Métkovich. — Spetava, sto defonto? — Siora Nina, cossa volé che speti un morto? El Giorno del Giudizio? La speditura spetava. Perché, sto defonto, quando che la Bosnia Erzegovina ve iera ancora turca, el iera stado come Kedivé, una roba cussì, de Mòstar. E co' xe vignuda l'ocupazion austroungarica, el gaveva dovesto andar via. — Come profugo? — Ma cossa, profugo? Quela volta no esistiva profughi. Lui iera Turco e co' i Turchi xe andadi via dela Bosnia, lui via con lori. Però el gaveva lassà scrito in testamento che dopo morto i lo doveva portar de novo a Mòstar là in zimitero turco, che iera cussì bel, cussì suto. — E l'Austria ghe lassava, come Turco? — Perché de no? Mortus est. E po' l'Austria nele robe de religion no se intrigava. Pensévese che, me ricordo mi, a Trieste, vizin del giardin publico iera una Moschea. — Dove che i portava sto Turco? — Ma cossa ghe entra? Ve disevo come esempio. 'Sto Turco, noi lo dovevimo portar fin Métkovich in Dalmazia e dopo, de là, i lo portava per ferovia a Mòstar: xe un per de ore de treno. — E chi pagava, chi pagava ste spese? — Come chi pagava? La famiglia pagava. Pensévese, che, co' gavemo imbarcà sto casson col Turco, quatro mogli lo ga compagnado a bordo. In braghe, col velo. In profondo luto. Che anzi Terdoslàvich ga dito: «Qua su sta Ungaro-Croata no se sa più se rider o se pianzer.» Capì, siora Nina: dò defonti a bordo, ste quatro in braghe che pianzeva e cantava la tràina tuto el tempo in gabina. Un viagio de chebe. — E Giadròssich lo compagnava i fradei? — Maché. I fradei lo spetava a Lussingrando. Nissun se gaveva più mosso, dopo che i gaveva savudo del làssito al Domo. Caratteri. Insoma, finalmente rivemo a Métkovich e Terdoslàvich ga dito: «Bon, intanto, un defonto va. E, graziando Idio, se sbarca anche le turche.» E avanti noi in suso, a far tuti i porti de Dalmazia. Se se fermava in ogni buso, quela volta: savé, la Ungaro-Croata iera una compagnia scarta. — Anche a Zaravecchia ve fermavi? Mia zia... — Indiferente. Sicuro che a Zaravecchia se fermavimo. Zaravecchia, Zara e po', come che Dio ga volesto, semo rivadi a Lussin. E, vedé, là ve go visto che el Comandante Terdoslàvich, cussì rùspido che el iera, gaveva boni sentimenti. Perché, apena che gavemo imbocado el Canal de Lussin lui ga dito: «Per el povero Giusepe Giadròssich, bisogna che femo tuto pulito. Che i fradei trovi tuto in ordine e ghe faremo qua in salon, camera ardente, se i lo vol benedir, se i vol qualcossa, se i lo vol veder per l'ultima volta.» Insoma, se ga fato tuto come che se devi: messo sula tavola, cole candele. E el Comandante ga ciamado el mistro che el disvidi le vide dela cassa. Siora Nina, mai no me dismentigherò. Ierimo al molo, ma no gavevimo ancora calado la biscalna, e come che el mistro ga disvidà l'ultima vida dela cassa e mosso el covercio, mi go visto subito la bareta. — Che bareta? — Quela rossa, siora Nina, che ga el Turco. Bareta rossa, siàbola de turco e in calze, perché el Turco, anche de vivo in Moschea va senza scarpe. «Putana ciavada—ga dito Terdoslàvich — go sempre dito che a Métkovich i scarigadori fa tanta confusion, che no se riva a starghe drio ai colli.» — Ah! I gaveva ciolto uno per l'altro? — Questo ve iera: scambio de colli. E una roba simile, in una circostanza compagna, sarìa stada una granda vergogna anche per l'Ungaro-Croata. — E alora? — E alora, siora Nina, presto serar la cassa, presto invidar le vide, presto meter i piombi. Messa in Terzo ga avudo 'sto Turco in Domo de Lussingrando. Che se Barba Nane, che iera dela Confraternita dela Bona Morte, gavessi savesto el ne gavarìa fato cavar la matricola a tuti quanti. Però, de quela volta, ve devo dir, ogni viagio che rivavimo a Métkovich, el Comandante Terdoslàvich, andava impizarghe un lumin al povero Giuseppe Giadròssich in zimiterio turco de Mòstar. E più de una volta el ga intivado le vedove. Quatro iera, in braghe, col velo, in profondo luto che cantava la tràina. MALDOBRÌA XXXIV - Il vessillo dello Zar Nella quale Bortolo, narrando della guerra che Polidrugo, con alterne vicende, combatteva contro i Russi sul fronte di Galizia, illustra l'unico metodo cui ancora si poteva far ricorso per sottrarsi alle atrocità del conflitto e parla delle conclusioni strategiche che ne furono ricavate dagli Stati Maggiori. — Dove, una volta, el maritimo gaveva permesso? Ogni morte de papa: se la barca iera in avarea o se se gaveva lavori a bordo. Se no, iera giusto un scampon a casa, co' se rivava a Trieste o a Fiume: no se gaveva tempo de rivar, che zà se partiva. E mia povera madre defonta una volta la pianzeva co' rivavo, una volta la pianzeva co' partivo: iera tuto un pianzer sto permesso. Dovevi veder po' co' rivava a casa el Comandante Dùndora, che lui iera un omo assai comovente: pianzeva anche lu, che se lo sentiva zò in piazeta! Eh, la vita del maritimo, una volta! Sula «Libera» navigavo. «Navigazione Libera Triestina»: Ene, Elle, Te ve iera scrito sul camin. Savé cossa che ve voleva dir N. L. T.? — Navigazione Libera Triestina... — No: voleva dir: Naviga, Lavora e Tasi. Altro che permesso! Una volta el maritimo iera come el militar. Navigar iera come esser tuta la vita soto le armi. No parlemo po' in guera. Zerto che per quei che iera in Galizia iera pezo, ma anche nualtri gavevimo la nostra sopa. Pericolar come sempre — che el maritimo sempre pericola — e per zonta mine e torpedo e silurenti e tuto quel che iera. — Dela prima guera, questo? — Dela prima, dela seconda e dela ultima, quela che no sarà mai. Ma dela prima, per noi, iera più orori. E pensévese che istesso Polidrugo me diseva: «Beato ti, Bortolo! Ti no ti sa cossa che xe in Galizia.» — Ah! Vù no savevi? — Come no savevo? In Galizia iera orori, siora Nina. Orori. — Più che in Marina? — Eh, più che in Marina. Anca noi — che mi iero imbarcado sul Jupiter — anca noi gavevimo orori, ma no quei orori de Galizia. Savé: in Galizia là ve iera fronte propio. Col militar russo. Che el militar russo iera, xe e sarà sempre tremendo. Me contava Polidrugo che i gaveva sti capotoni longhi, che i strassinava sula neve, che se li sentiva de lontan. E zà quel fazeva teror. — Polidrugo iera in Galizia? — No: el iera in giardin dela stazion! Ma sicuro che el iera in Galizia, se ve contavo che el iera in Galizia che el diseva che iera orori e che beati nualtri che navigavimo. Parlando de permessi, che parlavimo, savé quando che a Polidrugo i lo ga mandà per la prima volta in permesso a casa de Galizia? Del dicembre del Sedici, perché el iera partido con quei del Novantasete. —Tanti anni al fronte? — Come tanti anni? Col Regimento Novantasete el iera partido per Galizia, in agosto del Quatordici, che l'Austria gaveva intimado guera ala Serbia. Quanta gioventù, povera! E ben: del agosto del Quatordici che lui iera partido, per Nadal del Sedici lui xe stado la prima volta che i ghe ga dado un mese de permesso per vignir a casa. E no perché iera Nadal, ma per tracoma. — Tracoma dei oci? — No: dei busi del naso. Siora Nina, dove vien el tracoma se no nei oci? Dio mio, cossa che no xe de tracoma in Levante. — Ma Polidrugo no iera in Galizia? — Sicuro che Polidrugo iera in Galizia. Ma mi disevo cussì per dir, che in Levante, che mi iero tante volte, xe assai tracoma. E po' Polidrugo no gaveva tracoma. Lui se gaveva fato tracoma. — Come el se gaveva fato tracoma? — Siora Nina! Vù no savé cossa che no iera la guera in Galizia: là iera roba de perder la vita ogni giorno. E sto povero militar austriaco doveva pensarsene ogni giorno una per via che i lo cavi del campo, per no perder la vita. Perché là, savé, i tirava sui omini. — Un povero militar austriaco? — Cossa un povero militar austriaco? Se disi per dir: tuti quei che iera fora. Sti polachesi, sti boemi, 'sti croati, 'sti dalmati, 'sti istriani, sti piranesi, triestini massima parte, che ogni giorno doveva pensarsene una: e tavoleta, e mato, e sordo! E po' tracoma. — No intendo. — Vù no intendé, perché no me sté a scoltar, co' conto. Ve disevo che Polidrugo iera vignudo a casa un mese in permesso per tracoma e el me diseva: «Beato ti, Bortolo, che ti xe in Marina, perché in Galizia xe orori. Là te xe schrapnel, te xe piova, te xe fango, te xe tuto. Te xe sti russi con 'sti capoti longhi che i strassina sula neve, che co' i se move, solo a sentirli fa teror. E là oramai tavoleta no serve più, no serve più dir son sordo e xe quasi impossibile gaver la carta de mato.» — In Galizia, questo? — In Galizia, sì. Me ricordo come ieri, Polidrugo iera apena tornado de Galizia e el me ga dito: «Cossa ti vol, Bortolo, me ga tocà far tracoma. Perché, ti sa, quel de tirarse col s'ciopo oltra la tavoleta sul pie no fa più nissun. Primo, perché con sti dotori de campo, ti pol anche perder el pie. Secondo, perché i te fa la visita e se no xe patrona russa ti passi soto Corte marzial. Qualchedun ga patrone russe, ma per cederle i vol tropi soldi. Xe anca quei che se fa passar per sordi. Ma cossa ti vol farte passar per sordo? Quel serviva assai in principio. Cuntento gaveva fato, povero. Ti se ricordi quel Cuntento de Valon? Ben, lui ga fato per mesi pulito de sordo, ma no ti vol che quando el dotor ghe ga dito pian al gendarmo de campo: «Bon, lo mandiamo in ospedale», sto sempio de Cuntento ga soridesto? E adesso pochi se ris'cia. De mato — Bortolo mio — no convien più far, perché i disi che in frenocomio de Leopoli i te pesta come una bestia. E alora go fato tracoma.» — Come el ga fato tracoma? — Sì, me ga contà Polidrugo, che quela iera l'ultima roba che ancora se podeva far per andar via del campo. E che se podeva far anche in dò tre dacordi, perché el tracoma xe contagioso. «Fa mal — el diseva — Bortolo mio, ma quel se pol ancora far: ti ti impizi un fogo, co' ti xe de patulia in dò tre, ti meti un poco de quela carbonela bagnada che fazzi filmo e te se meti sora col muso, che ciapi i oci. Te vien l'ocio rosso, che lagrima, gonfio, de bòbolo come, e sti dotori de campo disi subito: Tracoma. Specie se xe in dò tre che se dà maròt, perché tracoma xe contagioso. E cussì, el me diseva, stavolta son a casa per un mese: intanto no son in campo.» — Ah, cussì el xe stado un mese a casa! Furbo... — Furbo sì, ma el iera disperado perché no el saveva più cossa far. Perché tavoleta, sordo e mato no el se ris'ciava e tracoma el gaveva zà fato. Permessi de licenza no i dava perché se sentiva ogni note sti russi che se moveva strassinando i capoti e podeva essere assalto de un momento al altro. Insoma el me ga dito che oramai se podeva gaver solo permesso cola bandiera, ma che quel iera una roba de esaltai. — I fazeva un truco cola bandiera? — Ma no truco, siora Nina. Che truchi volé far cola bandiera? Polidrugo intendeva dir che permesso i ghe dava solo a quei che in combatimento ghe ciapava al Russo una bandiera. Un mese de permesso e Piccola Medaglia, pensévese. «Ma, Bortolo mio — me diceva Polidrugo — come ti vol ciaparghe una bandiera al Russo? Intanto ghe vol trovar un Russo cola bandiera. E po' per portargliela via ghe vol combater, ti sa, perché el Russo tira, tira sul omo. E po' chi li vedi mai sti Russi? Se senti solo che i strassina i capoti.» — Ah! Per eroismo come, i dava el permesso? — Sicuro. Permesso e Piccola Medaglia. Ma mi alora ghe go dito a Polidrugo: «Una roba no capisso, Polidrugo, perché i fa tanta vita per gaver ste bandiere russe, che solo noi a bordo sul Jupiter ghe ne gavemo un dò tre.» — «Gavé bandiere russe sul Jupiter? — me disi Polidrugo stupido — come gavé dò tre bandiere russe sul Jupiter?» — «Sicuro — ghe digo — come che gavemo bandiere germanesi, norvegine, inglesi, italiane, americane, per quando che se tirava su el pavese, che adesso no se fa più perché xe guera, e per el saluto in mare che se fazeva, co' se intivava una barca foresta. E cussì gavemo anche bandiere russe. Dò, tre, devi esser nei scafeti.» Siora Nina, me lo ricordo sempre come che fussi ieri, Polidrugo. El se alza in pie dela carega, che ierimo in local a Fiume, el me se buta in zenocion davanti e el me disi: «Bortolo mio, ti ti me devi far sta carità! Ti, dime quel che ti vol, ti ti me pol dimandar qualunque roba, ma ti ti me devi dar quele bandiere russe che ti ga a bordo. Perché se mi torno in Galizia senza quele bandiere, so che sto colpo perdo la vita, no torno più a casa e ti ti me gaverà sula cossienza.» — E podevi darghe vù ste bandiere? — Siora Nina, tuto se pol a bordo e gnente no se pol. Ma mi go pensado: pavese no se tira più su, saluto in mare no se fa, perché xe guera, e de tute ste bandiere che gavemo a bordo, propio la russa i andarà a zercar, che semo in guera coi Russi? E po' go considera: sto povero Polidrugo xe in Galizia che xe orori, e nualtri, in fondo, pericolemo sì, ma in confronto, gnente. Che mai gavessi volesto aver sula cossienza un Polidrugo, che ierimo amichi fina dele popolari. Insoma, siora Nina, savé cossa che go fato? Son andado a bordo a zercar nei scafeti ste bandiere russe e ghe le go dade. Tre che gavevimo e tre ghe go dado. —Mama mia, e dopo cossa xe nato? — Xe nato, siora Nina, che no iera passado gnanca un mese che go leto sul giornal — perché ga parlà tuti i giornai, anche quei de Viena — che «sul fronte russo di Galizia sono state catturate al nemico alcune bandiere di Marina. Di Marina. E che questo é segno importante. Perché quando un Stato riva al punto di dover mandar il militar di Marina sui fronti di terra, vuol dir che la Russia é propio agli estremi.» Cossa volé? Sul Jupiter, solo bandiere de Marina gavevimo: per forza, vapor iera. MALDOBRÌA XXXV - La generazione felice Nella quale si narra la storia di Iginia Politeo e Tonin Bellemo, cugini secondi, che in età non più verde decisero di unirsi in matrimonio, fondendo le proprie fortune nel rispetto delle rispettive abitudini, e delle afflizioni e consolazioni che ne derivarono. — Eh, per una madre xe tanto gaver una fìa. Vardé, presempio, siora Iginia Politeo: ela, ala madre inferma de ani anorum la la gà tendesta fin l'ultimo. Una santa, bisogna dir, una santa. Perché ela ga perso tante ocasioni, per tender la madre, i più bei ani. Cussì, quando che la madre ghe xe morta, ela iera zà bastanza in età, oh Dio, dona giovine ancora, forsi quaranta. Ma fìa unica che la iera, ghe iera vignudo tuto a ela: case che i gaveva a Cherso e a Lussin, campagna, uliveri e a Pola la casa che ghe gaveva lassado el zio Toni che iera morto puto vecio, casa granda, savé, lui iera al Governo Maritimo. — Signoreta, come. — Eh signoreta! Signorona, per qua. Lori assai se tigniva. Però la gente diseva: «Povera Iginia, che la xe stada sacrifìcada tanti ani cola madre, che la ga perso tante ocasioni e che la ga le man de oro.» Perché la gaveva, savé, le man de oro, ela la ricamava per le mùnighe, per i frati: in agopitura, piviài, pianete e tovaia del altar magior del Domo, tuto in ajùr cole spighe, i graspi de ùa e in mezo l'I. H. S. Po' xe andà tuto perso dopo la guera. — La ricamava? — Massima parte la ricamava, perché per casa ghe fazeva tuto la vecia Cate, che la iera stada sempre con lori fin de putela. Anca ela ghe gaveva tendesto la madre, ma la gente diseva: «Povera Iginia, che la xe stada cussì sacrifìcada...» — Anca mia sorela... — Indiferente. Ela, veramente, ve gaveva un cugin, secondo cugin ghe vigniva a star, Tonin Bellémo. Perché una Bellémo, in antico, gaveva sposado, speté: no un Politeo propio, insoma no ga importanza. Secondo cugin ghe vigniva a star e anca lui iera avanti coi ani, savé. El iera restado puto, me lo ricordo un omo de poche parole. El gaveva el torcio a Cherso che quela volta col oio se fazeva soldini, insoma una bela facoltà, che anzi la gente diseva: «Perché Iginia Politeo no se sposa con suo cugin Bellémo? I fussi assai adatadi.» E una roba e l'altra. — I se parlava? — Sicuro che i se parlava. I gaveva la boca per parlarse. Lui veramente iera de poche parole, ma savé, unichi parenti che i iera restadi de ste famiglie, ela che, natural, le ulive la le fazeva portar sempre in torcio de lu, la gente che diseva che i fussi stadi assai adatadi: insoma ela, una dimenica che i iera andadi tuti dò a una nozze, la ghe ga dito: «Tonin, ti sa che la gente assai dise percossa che noi no se sposemo.» E lui ghe ga dito: «Eh sì, Iginia mia, ma coi ani che gavemo, chi ti vol che ne cioghi!» «Come, chi ti vol che ne cioghi? La gente dise per cossa che no se sposemo mi cun ti e ti cun mi, fra de nualtri.» E lui che no el gaveva mai pensado, veramente perché come cugini... E ela: ma che solo secondi e che in fondo basta gaver la dispensa del Vescovo de Ossero, che adesso che sua madre xe morta, che lui no ga nissun, che sarìa meio una casa sola, che xe anca meno spesa. Insoma, per farvela curta, i se ga sposado. Bel, in Domo. — Ela in bianco? — Ma cosse volé che sapio mi se la se ga sposado in bianco o in nero! I se ga sposado e i xe andadi a star in casa de ela, perché la vecia Cate no voleva moverse de casa, savé come che xe le vece. E la gente diseva: «I ga fato propio ben de sposarse, perché i xe assai adatadi.» Lori pensieri no ve gaveva, siora Nina, perché ela gaveva el suo, lui gaveva el torcio, che là fazeva tuto el vecio Andre, una spada de omo, che Tonin Bellémo no ghe ga mai ocoresto de intrigarse col torcio. Mai no se ga profìtado de un centesimo el veciò Andre, che el gavessi podesto — altro che adesso — e i ve iera noma che ben. Ela ve ricamava sempre per i frati e per le mùnighe. — Dona de cesa? — Anca lui — meno — ma anca lui. Però meno. Lui, savé, ve iera un bel omo anca. Me par de vederlo: cole sue braghe zenerine, cola giacheta bianca de istà, el capel — quela volta dove un omo andava fora de casa senza capel — e el baston de passegio. Lui ve iera un omo che ve se alzava de matina bonora, lui andava fina al molo, el vardava quei che tornava cola trata che scarigava el pesse e dopo che i gaveva scarigado el tornava a casa a far marenda. — Anca lui scarigava? — Ma cossa Tonin Bellémo volé che ve scarigassi? Lui vardava che i scarigava e dopo el tornava a casa a far marenda dele diese e po' el se ciapava su e l'andava marinavia fin zò, zò in fondo, là dela casa del maestro Girardeli, che vù no ve podé ricordar. — No me ricordo. Lui lo conosseva? — In paese tuti se conosseva, ma lui andava marinavia fin zò zò in fondo dela casa del maestro Girardeli e po' el tornava indrio. Cussì, per la caminada. Dopo i pranzava, che la Cate ghe fazeva tuto per casa e, dopo pranzà, i se colegava in leto, come che se usava quela volta. Co' ve iera poco che mancava alle zinque, lui ve tornava zò de novo al molo a spetar el vapor de Pola dele zinque. — Per andar a Pola? — Ma cossa per andar a Pola? Per spetar el vapor, no? Veder chi che xe, chi che no xe, vardar che i carigava i fighi co' iera stagion. L'andava al vapor insoma. — Se usava si, una volta, andar al vapor. — E alora cossa fé maravée? Lui andava al vapor. E dopo el tornava a casa, su per drio del torion e el spetava sentado in pòrtigo, in scuro, che ghe torni la moglie dei Vesperi, che ela andava cola vecia Cate. Sentà in carega el spetava, e ela co' tornava impizava el lume e i se diseva bonasera. — Eh, anca mia madre sempre quando che impizava el lume diseva bonasera. — Sicuro, se diseva. E dopo vigniva el vecio Andre coi conti del torcio e lui ghe diseva: «Come semo, Andre, qua con sto torciò nostro?» E el vecio Andre, che iera un ridicolo, savé, ghe rispondeva: «El fa el suo mistier: el màsena.» 'Sto vecio Andre stava un poco là a bever un bicer de vin e co' l'andava via, Tonin Bellémo diseva: «Eco, Iginia, anca ogi gavemo fato el nostro» e i andava a zenar in tinelo. Siora Nina: no volé che un giorno ela la ghe dise che ghe se missia el stòmigo? — Dopo zena? — Cossa so mi se dopo pranzo, dopo zena o dopo marenda. Ghe se missiava el stòmigo. Come un malstar, che ghe gira la testa, come, che ghe va i cavei per aria: insoma, siora Nina, la spetava. — Un fio? — No: l'Imperator Francesco Giusepe che vigniva a visitar le tere redente! Sicuro che la spetava un fio, se ghe se missiava el stòmigo, se ghe girava la testa, come, se ghe andava i cavei per aria. E stupidi tuti: «Come, siora Iginia che speta? Ma che bel, ma che però in età, che chi gavessi mai dito, che anca lui però... E che Dio ghe daghi.» E Barba Nane diseva: «Al omo xe sempre tempo de cavarghe la matricola.» Savé come che xe nei paesi: qualchedun gaveva fato osservazion che cussì in età tuti dò e po' anca cugini, ma inveze co' el xe nato, un belissimo picio. Tuto dei Bellémo, propio come che i iera lori: oci celesti e el naso a spontier. — No go presente. — Indiferente. Tuti i Bellémo gaveva oci celesti e el naso a spontier. E sto picio vigniva su pulito cola vecia Cate che iera come mata per sto picio. Nadalin i lo ga ciamà. — Perché el iera nato soto Nadal? — Soto Nadal? Nadalin Bellémo se ciamava el vecio dei Bellémo, che Tonin ga dito: «Ah se mio povero padre fussi vivo che contento che el sarìa.» Ma cossa volé? Iera zà zinquanta ani che el iera morto. Ben, cussì, tuto pulito andava avanti, lui co' tornava del vapor se sentava in pòrtego in scuro insieme col picio. Solo che i gaveva cominciado a osservar che sto picio no parlava. El caminava e tuto, ma no el parlava. E i gaveva un poco de pensier. — Quel no vol dir: xe fìoi che parla prima, xe fìoi che parla dopo. El mio Albino... — Indiferente, i gaveva pensier, perché per san el iera san, mancarghe — natural — no ghe mancava gnente: anzi, i lo tigniva come in bombaso. L'ovo in bicer de matina, griss col late, risi col oio, più de una volta galina, palacinche, galetine, tuto insoma. Ma no el parlava. Che anzi una volta, che el gaverà avudo un quatro ani, Tonin Bellémo se ga fermado, propio, del maestro Girardeli e el ghe ga dimandado: «Vù, che sé maestro, maestro Girardeli, a quanti ani parla i fìoi?» E el maestro, che dipendi... a un e mezo, dò. «Ah cussì la xe?» ga dito lui. E marinavia el xe tornado a casa. Siora Nina, oramai sto picio ve gaveva un sie ani. I xe andadi anca del dotor Colombis e una volta, par, perfìna de un dotor de Pola. No se ga savesto. Savé, la gente gaveva riguardo de dimandarghe. Lori iera bonissime persone, mai un sprezzo a nissun, però i stava un poco sule sue. E po' come volé dimandar? Volé che no sia un dolor de cuor per una madre? — Ah! El stentava a parlar?... — No, no: no el stentava, gnente no el parlava. Per el resto tuto, ma parlar gnente. Che anzi la gente diseva che istesso no iera stà tanto adatado sposarse cussì fra cugini e in età. Insoma, siora Nina: Tersatto. No se ga mai savesto de un sicuro, ma lori, mi so, ve xe andadi anca ala Madona de Tersatto. — Un voto, come? — No se ga mai savesto, ve go dito. Però a Tersatto ve xe ancora una tovaia da altar tuta in ajùr, cole spighe, i graspi de ùa e, in mezo, l'I. H. S. Man de oro la gaveva. E gnente. Affezionadi lori a 'sto picio, podé capir. Oramai el gaveva undese ani e vignù su ben, ma parlar gnente. — Gnente gnente? — Gnanca una parola, siora Nina. Fin che, quela famosa matina che iera tuti in portigo, che i fazeva marenda dele diese, el maestro Girardeli xe rivà de lori tuto sudà, istà che iera, fin de giugno, e ghe ga dito: «Sior Toni, gavé senti? Xe passà telegrama che a Sarajevo i ga mazà Francesco Ferdinando!» E alora sto picio Nadalin ga dito, cussì, franco: «Ostroporco!» Siora Nina: sto padre se alza in pie stupido, la vecia Cate se meti a pianzer, sta madre come mata che lo ciapa per la man e ghe dise: «Ti ga dito Ostroporco! Ma ti parli, picio mio, ti parli!» E el picio dise: «Sì che parlo.» «Ma perchè no ti ga parlado fina adesso?» «Perchè — ga dito el picio — fina adesso andava tuto ben.» Savé, siora Nina, co' i ga copà Francesco Ferdinando, parlava tuti. MALDOBRÌA XXXVI - Un uomo di carattere Nella quale Bortolo, ricostruendo la fortunosa vita di Tonissa Tomìnovich, padron di barca, rimasto tragicamente orfano in ancor giovine età, ricorda come questi, pur senza ricorrere a mezzi estremi, seppe validamente tener testa all'Arciduca Francesco Ferdinando, Erede presuntivo della Duplice Monarchia. — «Meo paron de barca che capitan de vapor», rugnava sempre Tonissa. — Ah, iera capitan sto Tonissa? — No, el iera paron de barca, ve go dito che el rugnava sempre: «Meo paron de barca che capitan de vapor!» — E alora perché el rugnava? — Ah, per quel el rugnava sempre. Però quel che lui ga vossù, lui ga sempre fato, omo de proposito; testardo come un muss, ma no el iera miga muss, savé: anzi, lui iera squasi capitan. El gaveva fato le Nautiche fin l'otava a Lussin. Stava ben i Tomìnovich. — Ah! I Tomìnovich: quei che... — Cossa quei che? Vù volé conosser tuti. Questi vù no podevi conosser, perché i Tomìnovich xe propio fìnidi con lui. Lui no ga mai volesto sposarse e vù no podevi conosser. — Ah, no podevo? — Indiferente. Questo Tonissa ve iera el fio de Méne Tomìnovich, che col fradelo Zammaria, povero, gaveva el «San Biagio». E lori stava ben. — San Biagio, mia nona defonta, me ricordo, per el mal de gola sempre la pregava San Biagio! — Ma cossa ghe entra el mal de gola de vostra nona defonta? El «San Biagio» ve iera una scuna, ma una bula scuna. Lori ve fazeva noli per Dalmazia, per Italia, per tuto, e i stava ben perché i iera soli paroni: Méne e Zammaria Tomìnovich, che vigniva star el padre e el zio de sto Tonissa che ve contavo. Méne gaveva solo che Tonissa e Zammaria gaveva due femine: una, povera, xe morta giovine de mal de peto e quel'altra me par che la se gaveva sposado ben ma dopo no so. E lori navigava sempre col «San Biagio» e Méne, a Tonissa, lo gaveva mandado a costo a Lussin per via che el fazzi le Nautiche. Ve go dito: squasi capitan el iera co' xe nata la disgrazia. — Che xe morta questa putela de mal de peto? — Quel xe stà ancora prima. Ve go dito: giovine la iera. Come che se moriva una volta de ste malatie, che adesso no se more più. No, no, la disgrazia, ve disevo: che lori pensévese, una note, col scuro e col caligo e scirocal, i ghe ga dà dentro in canal de Lésina a quei maledeti scoi che ghe xe là dele Spalmadore e, siora Nina, persa la barca e persa la vita. Tuti dò fradei, pensévese. — E le sorele? — Ma cossa ghe entra le sorele? Le sorele iera fie de Zammaria che po' una iera zà morta de mal de peto: lori due, no, 'sto padre e sto zio de Tonissa, che lui iera a costo a Lussin; che i ghe ga subito partecipado. — Orfano? — Orfano sì, perché la madre ghe iera zà morta de ani, de rissìpola. Quel ancora prima, quando i Tomìnovich stava assai ben. Penséve, siora Nina, cussì tutintùn in una note, per un caligo, persa la barca, persa la famea. Xe andà a avisarlo a scola, perché de matina bonora i ga savesto, el vecio Chiole che i iera un poco parenti, e el ghe ga dito: «Tomìnovich mio, cussì e cussì e cussì.» Ben, volé creder, 'sto giovine che el gaverà avù quela volta un disdoto, dicianove ani, lui se ga ciapà su col primo vapor e el xe andà drito a Lésina. E lui a Lésina el ga fato vignir subito quei dela Sicurtà, quei del Ricupero maritimo. Ma purtropo bruto iera, perché i Tomìnovich, savé, se gaveva assicurado per el càrigo, per avarea, per tuto meno che per la perdita generale. E assai poco cussì lui e sua prima cugina — perché iera lori dò soli restadi cola madre de ela — vigniva a ciapar dela Sicurtà. — Eh, co' xe ste disgrazie, xe la ruvina dele famée. — Insoma, siora Nina, quel che sarìa vignudo a costar a tirar su la barca, meterla in squero, tuto, lui ghe gavessi ocoresto zontar squasi diesemila fiorini, perché questo ve iera ancora assai prima dela Prima guera. — E quanto sarìa adesso? — Siora Nina, ogi no se podessi gnanca far un conto. Calcolé che con un fìorin... Iera tuto un altro mondo, tuto un'altra concezion dela vita. Ben, volé creder, lui, giovinoto, disdoto, dicianove ani, che ogi a quel'età, diséme vù dove che i ga la testa, lui ga molado la scola, lui se ga disnotà dele Nautiche. «Ma come — ghe diseva el vecio Chiole, che i iera un poco parenti — un ano te manca per esser capitan e ti se disnoti dele Nautiche?» Ma lui ghe ga rispondeste: «Barba Chiole, con tuto el rispeto: meo paron de barca che capitan de vapor.» «Ma che barca, Tominovich mio, che la te xe persa col padre?» «Persa per chi la lassa perder — el ghe ga risposto — el padre xe con Dio, ma la barca me xe là.» Insoma, per farvela curta, siora Nina, lui xe andado a Lussin dei Nìcolich e el ga fato debito. El ghe ga dito: «Sior Nicolò — che iera ancora el vecio Nicolò Nìcolich—vù me impresté diesemila fiorini, mi tiro su la barca; viagerò per Dalmazia, per Italia, che noli ai Tomìnovich no ghe ga mai mancà, l'interesse ve xe salvo e se andarà ben ve tornerò el capital e se andarà mal vù gavé sempre la barca per la rivalsa.» Penséve, siora Nina, un giovinoto de disdoto, dicianove ani, quela volta. — E la cugina? — La cugina e la zia, lui le ga pagade fora. Lui ga fato tirar su la barca — soto prova i ga trovado i morti — el la ga portada in squero dei Nìcolich a Lussin. Lavor mio ma lavor anca vostro, el ghe ga dito a sior Nicolò, e una roba e l'altra lui cussì, siora Nina, el ga viagià el viagiabile. Fin Patrasso lui ve fazeva, Kalamàta a carigar oio e ulive, tuto. Lui ga pagà i Nìcolich — la cugina el la gaveva zà pagada fora cola Sicurtà — ventizinque ani che el gaveva, el iera paron de barca, solo, paron dispotico. Altro che capitan de vapor, el diseva, che no ghe devo render conto a nissun de gnente, che quel che xe mio xe mio, che mi canto, porto el Cristo e sono la campanela, ma almeno no go nissun sora de mi. — Omo de caratere? — Oh, per quel, un carateràz el gaveva! Savé, strussiar, lavorar tuto solo per refarse dopo la disgrazia! Lui gaveva, come dir, una bruta maniera. No che el iera cativo, ma una bruta maniera. Me ricordo, per esempio, de quela volta che el se ga trovà de dir col povero Malabòtich, che iera Capitan de Porto in Arbe, co' el se gaveva messo col «San Biagio» sul molo. Vien là sto Capitan Malabòtich che iera un bon omo, tuti lo conosceva, e el ghe disi, el fa el dice: «Orpo, el ghe disi, sul molo ve gavé messo che giusto devi rivar el vapor dele zinque?» E Tomìnovich ghe disi, tirando fora l'oroloio: «Se xe le sie, no ga de rivar el vapor dele zinque.» Ma che xe maìstro, che el vapor ga el mar de prova e che ogi el farà tardi. E alora che chi tardi ariva male alogia, ghe rispondi Tomìnovich. Che se el vapor rivava ala sua ora el trovava logo al molo e che se xe maìstro pazienza, che xe robe che nassi e che tanti in mar ga perso anche la vita. E no xe stà né Dio né santi de farlo mover, savé. Che va ben, ga dito el povero Malabòtich, che se lui la meti cussì, alora che lui come Capitan de Porto el ghe intima de andar via del molo. Che chi el xe lui per intimarghe? Che el xe el Capitan de Porto. E che de cossa un ga de capir che lui xe el Capitan de Porto? Ma come — ghe disi 'sto povero Malabòtich — che tuti sa che mi son el Capitan de Porto. E Tomìnovich ghe disi che lui no sa, perché el Capitan de Porto ga la bareta e che lui in testa bareta no ghe vedi. Volé creder, siora Nina, che sto povero Malabòtich, con tuta la gente che se iera ingrumada sul molo, ga dovesto ben pulito andarse a cior la bareta fin in Governo Maritimo che iera, savé come che xe in Arbe, tuto del'altra parte del porto. — Perché per intimar ocoreva la bareta? — O Dio, siora Nina, propio per regolamento dela Marina AustroUngarica el Capitan de Porto gavessi dovesto essere sempre in montura e cola bareta. Ma in una Arbe, dove che tuti lo conosseva, bon omo che el iera, Tomìnovich ghe ga fato sto sprezzo davanti a tuti de mandarlo a ciorse la bareta e no el ghe ga mai più rivolto la parola. Questo per dirve che caratere che gaveva Tomìnovich. «Mi — ga dito Barba Nane—se fussi stado in Malabòtich, me gavessi messo in montura, anca alta se el voleva, ma la matricola ghe la cavavo, per un tanto. Diniegarghe el logo sul molo al vapor de linia!» — Un barufante. — No un barufante, ma el diseva sempre: «Quel che xe mio, xe mio, quel che me speta, me speta.» Presempio, lui gavessi dovù andar militar de leva. Ben, lui, come navigante in propio, soto l'Austria ghe spetava, se el voleva, de spetar fina ai vintisete ani per andar a far el militar de Marina. — Ghe spetava de spetar? — Sì: per spetanza fina ai vintisete ani, come navigante in propio. Che anzi tuti ghe diseva, anca Barba Chiole: «Andé a far el militar fin che sé giovinoto, che dopo ve sarà greve.» E lui che no, che lui fina a vintisete ani ga dirito de spetar e che gnanca un minuto prima. E che quel che ghe speta ghe speta. Che la Sicurtà a lu no ghe ga regalà sicuro gnente. Caratere. — Cussì no el xe andà militar? — Come volevi no andar far militar soto l'Austria? A vintisete ani el xe andà. Adesso me toca e vado, el ga dito, ma assai ghe spuzava, pensier per la barca e tuto. A Pola i lo ga mandà, del Quatordici, penséve, in caserma dela Marina de Guera. — Iera guera? — No ancora. Che anzi chi pensava quela volta che vigniva guera? Vigniva barche americane, inglesi, francesi in visita de cortesia a Pola, a Fiume. E una volta a Pola, che no me ricordo più gnanca per che ocasion, xe vignudo Francesco Ferdinando che iera Erede dela Duplice e Amiraglio Superior dela Marina de Guera. Insoma, che ve contavo de sto Tornìnovich che el iera in caserma a Pola, una matina xe tuti là in montura che passava l'ispezion in piazza d'armi dela caserma de Marina sto Francesco Ferdinando. Ma sul serio, savé, el passava in ispezion, no come quei che passa e basta. Francesco Ferdinando guardava e osservava tuto e tuti un per un. E el ghe parlava anca a un e al altro de sti militari, per tedesco, per croato, per talian, lui tuto el saveva: el iera Erede dela Duplice. Solo che per 'talian lui no saveva dar del ti, lui diseva sempre — me contava anca el Comandante Prohàska — lui diseva: «Lei la sa», cussì un poco ala nostra, come che el se gaveva imparado qua. «Lei la sa che questo, lei la sa che sto altro»: un modo de dir. Ben, indiferente: el passa sta ispezion quela matina e co' el riva davanti a Tomìnovich, puntandoghe cola man col guanto bianco el déo sul peto, el ghe disi. «Lei la sa che manca un boton?» Savé, 'sto Francesco Ferdinando iera un omo che imponeva: mustaci de fero. Ma Tomìnovich se guarda 'sto boton che mancava e ghe disi franco: «Così mi hano dato la montura e a mi no me speta de meter i botoni.» «Come a lei non speta, se la montura è sua?» E savé cossa che ghe rispondi 'sto Tomìnovich muso roto? Che se la montura è sua, nissun ga de intrigarse dela sua montura. —Mama mia! El ghe ga risposto! — Sì ma per fortuna, savé, lui no ga ben capì cossa che lui ghe ga risposto. Lui ga solo capì che sto qua ghe rispondeva e solo perché el ghe gaveva risposto, che soto l'Austria no bisognava mai risponder, el ghe ga dà tre giorni de fortezza. — Come fortezza? — Preson. Tre giorni perché el ghe gaveva risposto. Giusto i tre giorni che Francesco Ferdinando stava a Pola prima de partir via de novo. Cussì co' Tomìnovich xe vignù fora, propio quela matina iera la parada de tuto el militar de Marina de Pola prima de partir. Bel: in montura alta tuti, i ufìciai in capel puntà e l'Amiraglio Horthy in persona che co' xe vignù dentro Francesco Ferdinando el ga zigado: «E per Sua Altezza Reale e Imperiale l'Amiraglio Superiore Arciduca Francesco Ferdinando d'Austria-Este, hoch, hoch, hoch!» — Come? «Ho ho ho»? — Sì: hoch, hoch, hoch: viva, viva, viva! E tuto el militar doveva risponder «Hoch!» Viva: saluto ala voce iera. E «Hoch» ziga tuti alzando la bareta, fora che Tomìnovich. E Francesco Ferdinando lo ga subito intivado, savé, perché el iera là a dò passi e, puntandoghe cola man col guanto bianco el déo sul peto, el ghe fa: «Lei la sa che ho visto? Lei non è quello che ho già dato tre giorni di fortezza?» Che sì, ghe disi Tomìnovich, che el xe propio lu. E Francesco Ferdinando: «E perché non mi ha salutato?» «Mah — ghe disi Tomìnovich — mi veramente credevo che ierimo ancora rabiadi.» Del Quatordici iera, siora Nina, tempo tre mesi a Francesco Ferdinando i lo ga copado: no el ga mai rivado a far pase con Tomìnovich. MALDOBRÌA XXXVII - La tomba di famiglia Nella quale Bortolo rievoca la lunga vita del vecchio Bùnicich di Lussin, che nella perenne attesa della buona morte, aveva costruito una considerevole fortuna e narra altresì dei figli di lui, consci, anche se in diversa misura, della pietà dovuta ai defunti. — Savé cossa che ve dirò mi, siora Nina mia? Che chi no more se rivede, e per morir xe sempre tempo. Savé come che se disi: meio el gendarmo de drio che el prete davanti. — Ma cossa gnanca fé sti discorsi, sior Bortolo, che vù sé stagno come un ròvere, che giusto ieri ghe disevo a mio marì: ti vedi, Tonin, Bortolo, con tuti i ani che el ga, el xe stagno come un ròvere. — Indiferente. E po' chi fa sti discorsi? Vù fé sti discorsi, mi go i mii ani, e bastanza per gamba anca, ma no volessi mai esser de quei dela Confraternita dela Bona Morte. — Quai quei? Che Confraternita? — Se disi per dir, no, de quei che disi sempre: a mi oramai poco me resta, mi no me importa, ogi suso, domani in buso. — Eh, mia madre defonta, povera, diseva sempre: «Ogi suso, domani in buso, Nìniza mia, tuto te xe pronto per quando che te sarò morta; in primo calto del armeron ti troverà quel mio vestito nero, le calze e tuto. Métime in man quel rosario che gaveva portado papà povero de Jerusaleme co' el navigava per Levante». — Orpo, che discorsi alegri che gavé, siora Nina, me paré el vecio Bùnicich, che zà prima dela Prima guera, ogni ano el doveva morir e po' el xe rivà a véder anca l'Abissinia. — Cossa i lo gaveva mandado in Abissinia, el vecio Bùnicich? — Sì, e el cantava «Cara Virginia, ti scriverò!» Ma cossa i gaveva mandado in Abissinia el vecio Bùnicich? Se disi per dir, no, che lui xe rivà a veder anca Mussolini in miniera del'Arsa, e inveze zà prima dela prima guera el diseva: morirò prima mi che el nostro Imperator! — Ma qual vecio Bùnicich? — El vero vecio Bùnicich. Adesso ve xe tuti veci i Bùnicich, ma questo vecio Bùnicich ve iera el vero vecio, el padre de Giovanin, de Nicoleto, e de Bepin povero. Lui cola scusa de morir, no el lassava viver nissun e intanto el se gaveva fato el squero, el torcio, comprà case e uliveri. Eh, stava ben i Bùnicich, signoreti i iera e a Lussin gaveva più soldi lori che tanti che se pretendeva, come i Nìcolich. Ma lui — che metessi mi la firma per esser come che el iera lu fina l'ultimo — el gaveva 'sta fìssazion, come, de morir. Siora Nina, zà per el Novo del Ano, che se andava sempre a casa de lori, mi, Marco Mitis e Tonin Polidrugo, per passar l'ano, lui diseva: «Eeh, zenaro forte, tuti i veci va ala morte!» E po' co' andavimo in pelegrinagio ala Madona de San Salvador, per la Madona de agosto, co se tornava zò un poco bevui, el ne predicava: «Luio scunissi, agosto indebolissi, setembre te finissi, otobre sepelissi». — Ma i morti no xe de novembre? — Indiferente. Cossa vol dir? Lui intendeva dir che no el gaverìa passado l'ano, come. El diseva sempre: «I giovini pol, i veci devi morir. Co' se xe comodài, se distira i crachi, xe destino. I veci devi far logo». E po' inveze el tigniva tuto lui in man, che Nicoleto, Giovanin e Bepin povero, fina che ghe iera vivo el padre, omini fati, no i podeva disponer de gnente: «Speté, speté — el ghe diseva — co' sarò morto gaveré tuto, tanto, cossa volé, «zenaro forte i veci va ala morte, luio scunissi, agosto indebolissi, novembre sepelissi.» Insoma un giorno, iera ancora prima dela Prima guera, savé, el torna a casa coi oci infoscai, che no el ga volà come, e i fìoi gnanca no lo badava, perché savé come che el iera, e inveze: un insulto. — Un insulto i fìoi al padre? Quel xe bruto. — Ma come un insulto i fìoi al padre? Ghe xe vignù un insulto, no? Savé, vecio che el iera: caduta, cataro, colpo, cagaja ve xe le quatro «ce» che devi star atenti i veci. A lui ghe xe vignudo un colpo, insulto insoma: longo disteso in pòrtigo. I fìoi e Cate povera che stava sempre con lori lo ga portado in leto. Anca el dotor Colombis ga dito: «Cossa volé, fìoi mii, el ga l'età sua, meo cussì che patir, che oramai lui no sente gnente. Ve sarà per stanote, ve sarà per domani matina bonora.» — La massima parte i veci more sempre de matina bonora. Mio padre, povero... — Insoma, che meio cussì, che no el patisse, che no el sente gnente, e sti fìoi in camera de leto col lumin a oio e la Cate povera che pianzeva e pregava le orazioni dela bona morte inzenociada davanti del leto. — Eh, xe bruti momenti. — Ve contavo: iera là sti fìoi che diseva: «Eh, el diseva sempre lu che l'anderà, meno mal che no el patisse...» E intanto i se concertava per el funeral. Savé come che se usava quela volta: prima el morto se lo portava in Domo de Lussin e dopo in zimiterio. — In zimiterio de Lussin? — No, in zimiterio dei Inglesi a Trieste. Ma dài, siora Nina, se el iera de Lussin, se el moriva a Lussin, dove volevi che i lo porti, in zimiterio de Lussin, no? E insoma Nicoleto, cussì che i parlava de note, col lumin a oio davanti del moribondo, el dise che papà povero bisogna propio farghe un bel funeral, che lui tanto ghe tigniva a sta morte e che, prima classe, quatro cavai, Messa in Terzo e catafalco. Che qualcossa costerà, ma che insoma bisogna, povero padre. — Eh, el padre xe el padre... — Xe quel che ga dito anca Giovanin: el padre xe el padre, ma che lui mai povero no el gavessi voludo lussi, che lui in vita no ga mai lussado come metemo dir i Nìcolich, che po' semo a Lussin, che la gente osserva, che quando che xe morto el Comandante Petrànich iera de seconda classe e iera belissimo. Che no se onora i morti per farse véder dei vivi e che per tuto insieme, insoma, saria meo de seconda classe. — Qualche volta vien ben de seconda classe. — Oh, ga dito Bepin, per ben, el funeral vien sempre ben. Che el funeral lo femo per nualtri e no per i altri, che el padre xe stado sempre cussì modesto, che dopo morti no se vivi gnanca un'ora. Che a voler far grandezzade magna più un morto che zento vivi, che terza classe no xe mai stà una vergogna per nissun e che, in fondo, se podessi anca informarse se la Comun ga obligo. — Ga, ga obligo la Comun! — Ma cossa obligo la Comun, che forsi i Bùnicich gaveva più soldi lori che la Comun! Strenti i iera, siora Nina, e in quela che i voleva mandar la Cate a informarse ala Comun, no volé che el vecio Bùnicich el verze un ocio e el ghe disi, ci fa ci dice: «Bon, fìoi mii, se qualchedun me dà un per de braghe, andarò in zimiterio caminando...» — Ah, el gaveva sentido tuto? — Come no, siora Nina: tuto. E in zimiterio, quela volta, no el xe andado né a pie né coi cavai, perché el giorno dopo, ben, ben, ben, che anzi el dotor Colombis iera stupido e el ga dito: «Eh, coi veci no se pol mai dir.» Ve gavevo dito, siora Nina che el vecio Bùnicich xe morto apena dopo dela prima guera, che iera zà guera de Africa. — Ah! El xe morto, dopo? — Sicuro che el xe morto, cossa volevi che el restassi eterno come l'Eterno Padre? El xe morto de cagaja, ma anni annorum dopo. Che me ricordo che ierimo tuti là, anca con Marco Mitis e Tonin Polidrugo e che la Cate pregava rosario inzenociada davanti del leto e sti tre fradei Bùnicich, Nicoleto, Bepin e Giovanin se concertava per la tomba. — Per farghe la tomba al padre? —Al padre sì, siora Nina. Lori voleva far tomba de familia che dopo podessi doperar tuti, no. Quela volta no i gaveva ancora tomba de familia, come che gaveva tuti sti Nìcolich, sti grandi de Lussin che se pretendeva. Perché iera stado el vecio che gaveva fato i soldi. E Nicoleto diseva che cola tomba no bisogna sfigurar e Giovanin che però no bisogna gnanca esagerar, e Bepin che vizin de povera mama defonta devi esser ancora un posto, che xe meio no mover ossi e che po' per lori tre fradei i penserà dopo, co' sarà el momento. — Eh, la madre de lori iera morta assai ani prima, dona giovine ancora. — Sì, la iera là dove i sepeliva la bassa forza e là no ghe iera più bel per i Bùnicich. E alora Nicoleto, che cossa gnanca tomba de familia? Che lussi magari no, ma che la tomba de familia ocore far. — Eh, adesso xe la tomba dei Bùnicich in zimiterio de Lussin! — Sicuro che la xe, siora Nina, ma xe quela che xe. Oh Dio, i li ga stivadi tuti: un sora l'altro i xe stadi. Ma picola come tomba de familia, camera ugnola. Difati, me ricordo che, ogni ano, el Giorno dei Morti co' andavimo a impizarghe el lumin al povero vecio Bùnicich, Nicoleto diseva sempre... — Cossa? — Sì, co' tornavimo fora del zimiterio e passavimo davanti dela tomba dei Nìcolich, savé quela granda cole colone, col marmo nero, el nome in oro e la capela coi vetri: «Eco — ghe diseva Nicoleto Bùnicich ai fradei—vardé la tomba dei Nìcolich: questa sì che xe gente che sa viver!»... MALDOBRÌA XXXVIII - Jubileum Nella quale si ricordano i grandi festeggiamenti che si tennero in Vienna per il Sessantesimo di Regno dell'Imperatore Francesco Giuseppe e della decisione presa dal Lloyd Austriaco d'inviare nella capitale per il fausto anniversario i Comandanti Brazzànovich e Terdoslàvich in rappresentanza del Corpo di Marina, e di quanto accadde sulla collina di Grinzing — No xe che ogni roba i ghe ciami compagno in ogni logo. Me ricorderò sempre del Comandante Terdoslàvich defonto che el diseva: «Volé creder che vù a Viena, se andé a Viena, non podé gaver una luganiga de Viena?» In salon de prima classe, ai passegeri el ghe diseva. «Miei cari signori — el predicava — se vualtri andate a Viena non è modo e maniera che potiate avere una luganiga di Viena. Frankfurter Wurstel! — el zigava—a Viena, pretamente a Viena, la luganiga di Viena la chiamano Luganiga di Francoforte. Frankfurter Wurstel! Vi giuro in Dio, perché io ero a Viena dell'Otto per il Giubileo del Trono!» Un rider con lu. — Ma el Giubileo no i fa a Roma per l'Anno Santo? — Ma cossa me vigni fora col Anno Santo? Quel xe dela Cesa. Questo ve iera del Mile Novezento e Otto el Giubileo del Trono del Imperator. Mi iero giovinoto, roba de gnanca vinti ani, che iera sto Giubileo del Trono. Sessanta ani de regno. Pensévese sto Francesco Giusepe: del Otto, el gaveva sessanta ani de regno e apena nel Sédese el ve xe morto. Ancora due ani che el durava el gavessi avù setanta ani de regno, giusto per el ribalton. Meo cussì xe stado forsi, povero vecio. — Terdoslàvich? — Cossa Terdoslàvich? Ve disevo come che el destin qualche volta... Indiferente. Ve contavo, se me lassè contar, che iera sto Giubileo del Trono. E alora iera a Viena feste che no ve digo, perché sessanta ani de regno, ciò! Perché tuti quanti, tute 'ste Compagnie mandava qualchedun a Viena. Oh Dio, per el Lloyd iera andà subito fora el baron Wurmbrand, per el Palazzo, ma — come Corpo di Marina — i gaveva mandado a Viena el Comandante Terdoslàvich e el Comandante Brazzànovich. — E no i trovava luganighe? — Cossa ghe entra le luganighe? Quel ve contavo per dir come che lui diseva. Insoma xe stà una roba, savé, che ga parlado tuta la Marina Mercantil. Per ani i ga parlado: a Trieste, a Pola, a Fiume, a Lussin. Lori due, el Comandante Terdoslàvich e el Comandante Brazzànovich, come rappresentanti del Corpo di Marina del Lloyd Austriaco i ve xe andadi a Viena cola Ferata. Ferovia Meridionale: Südbahn. «Se vù rivé a Viena cola Meridionale — contava sempre Terdoslàvich in local — vù sbarché ala Südbahnhof, che xe apena una dele quatro stazioni che ga Viena. Guai sbaliar stazion a Viena, se va tuto in un altro logo. E a Viena, guai domandar luganighe de Viena.» E qua el ghe contava, capì, quela dele luganighe. — Quatro stazioni ga Viena? — No so se ga. Adesso ga assai perso Viena in confronto. Quela volta iera quatro. Insoma che ve disevo, el Comandante Brazzànovich iera tuto un altro omo del Comandante Terdoslàvich. Brazzànovich ve gaveva girà el mondo, iera un primo Comandante: lu ve parlava franco per inglese, per tedesco. Terdoslàvich, inveze, povero, che gaveva fato massima parte solo viagi per Dalmazia, i lo gaveva mandado a Viena anche per darghe una sodisfazion. — Eh, iera nominado el Comandante Brazzànovich. — Se digo. E difati lui un poco se vergognava come, perché Terdoslàvich iera assai materiale. Fato sta che i riva a Viena, confusion in stazion che no ve digo, fola de gente che vigniva per el Giubileo del Trono, e l'Agenzia General del Lloyd de Viena — agenzia per modo de dir, perché a Viena el Lloyd Austriaco quela volta gaveva un Palazzo più grando del Palazzo che xe a Trieste — sta Agenzia, contava Terdoslàvich, gaveva mandà l'Agente... — Tuta sta gente? — Come tuta sta gente: l'Agente, l'Agente generale. No propio l'Agente generale, che quel chi lo vedeva mai — cossa che no iera el Lloyd una volta! — el CapoCancello iera vignudo a spetarli: un zerto Bonifacio, un triestin, una macia. Insoma sto Bonifacio el ghe disi che el ghe porta i saluti del cavalier De Scarpa, l'Agente general, che no ga possudo vignir, ma che tuto é predisposto, che per fortuna i ga telegrafado che i vigniva, perché se no, se i falava de un giorno, no sarìa stà più modo e maniera de trovarghe una camera in hotél. Che a Viena xe cussì cussì de gente, che i scuserà, ma che lui fazendo fogo e fìame, xe rivà a trovarghe solo una camera al Hotél Boemia, che no xe gnente de tale, ma che xe neto, in ordine, che lori ghe consiglia a tuti. E po' xe in centro, là del Domo de Santo Stefano e che i se devi adatar perché xe una camera sola con due leti, che altro no i xe rivadi a trovarghe e che xe tuto pagà. — Eeh, anche a Fiume, co' semo andadi per la Madona deTersato, mi e mia madre, povera... — Indiferente. De quel che go capì che contava Terdoslàvich, el Comandante Brazzànovich no el ve iera assai contento de dormir con Terdoslàvich. Savé, Terdoslàvich ronchisava che se lo sentiva fora dela gabina fina a prova. Ma insoma, in guera de bon guerier, i xe andadi in hotél e i li ga comodadi. Che se stasera i vol far qualcossa — ghe dimanda sto Bonifacio — che i podessi andar in sti locai, che xe anche ste Vienesi, che insoma se pol passarsela in ste birerie. E Terdoslàvich che bira no, che lui bira ghe fa pienezza, e dove che xe bon vin a Viena. Anche a Brazzànovich questo no ghe dispiaseva, perché el iera anca lui — oh Dio, meno de Terdoslàvich, che in Marina Mercantil i ghe ciamava Carlo Ottavo Re dei goti — ma insoma anca Brazzànovich el beveva el suo ottavo e po' el ciamava répete un per de volte. — Beveva Brazzànovich? — El beveva, siora Nina: tuti beveva e tuti beve. Ma insoma, più Terdoslàvich, ma anca Brazzànovich. E alora sto Bonifacio ghe disi: «Grinzing, signori mii comandanti. A Viena, per vin, Grinzing ve xe al bacio.» Che no xe pretamente Viena, che xe un poco fora, ma che là xe local un drio de un, a boca desidera, produzione locale, ma che i staghi atenti perché xe un vin che par gnente, ma taia le gambe. E che el cavalier De Scarpa, co' andava a Grinzing se portava drio un servo de piazza, per ogni bon conto, che el lo porti indrio. Per rider, el ghe diseva, siora Nina, perché el cavalier De Scarpa chi lo vedeva mai! — Ah, no iera vero? — Forsi anca iera vero, chi sa. Insoma lori che va ben, grazie, che i andarà. E dopo zena — che xe stà là che no i ga trovà luganighe de Viena — i ga ciolto un brum e via lori su a Grinzing. Siora Nina: tempo dò ore, lori iera amichi de tuti. In sto local — Augustiner, che contava Terdoslàvich — lui ga cantado «Zwanzig Personen in Automobìl», «Mòlighe el fìl che el svoli», bela vose gaveva Terdoslàvich. E Brazzànovich sotobrazzo con ste vienesi che el fazeva «Bruderschaft». Savé, siora Nina, sto vin de Grinzing, che par gnente, lisiero che par che ve va zò come acqua, xe vin che imbriaga. E ala una de note, Brazzànovich e Terdoslàvich iera montadi sule careghe che i fazeva sesti. — Ciapadi un poco? — Ciapadi? Duri, siora Nina: come scalini. Tanto che a un zerto punto Brazzànovich, che un poco ancora el iera in sentimenti, el ghe disi a Terdoslàvich, che sarìa ora de tornar in hotél, che come diman xe el Giubileo, che lori devi esser in montura alta e che Serbi Dio l'Austriaco Regno, el cantava anca lu. — Imbriago? — Ciapado, siora Ninà. Insoma i va fora rolando, come el «Jupiter» a Capo Planca col maìstro in prova, e fora del local i vedi un portier de hotél — credeva lori — monturato col capel puntà. «Maestro — ghe disi Brazzànovich per tedesco, lui parlava franco per tedesco — Maestro ciaméne un brum!» «Ma mi — ghe rispondi sto qua — son un Amiraglio di Marina». «Va ben — ghe fa alora Brazzànovich — ciaméne la Viribus Unitis. Rufen Sie die Viribus Unitis.» E via lu corendo zò per la riva. — E Terdoslàvich? — Terdoslàvich iera che el pianzeva caminando con un pie su e un pie zò del marciapie e zigava: «Son zoto, son zoto!» — Ciapà anche lui? — Imbriago come un scalin, siora Nina. Se ve digo che el diseva «son zoto, son zoto!» Epur, siora Nina, che i disi, e xe vero, esisti un dio dei imbriaghi. Difati dopo un poco che i fazeva spetacolo per strada, i ga trova un brum che li ga portadi in hotél. Insoma el cùcer del brum e el fachin del hotél li ga portadi su per le scale fin davanti la porta dela camera. Xe bona gente a Viena. — Eh, l'austriaco xe diferente del tedesco. — Indiferente se el xe diferente. I li ga dovesto portar fina davanti la porta dela camera. Lori dò verzi sta porta, imbriaghi che gnanca no i trovava el lume, i se cava i stivai e i se calùma in leto. Ma, volé creder, in quei stati che i iera, con tuto che in camera iera dò leti, un de qua e un de là del sgabelin, i se ga calumà tuti dò nel stesso leto? E dopo un poco, Terdoslàvich disi: «Brazzànovich, savé che go trovado un omo nel mio leto!» «Orpo, Terdoslàvich — rispondi Brazzànovich — anca mi go trovado un omo nel mio.» «Bon — ghe disi Terdoslàvich — volé, Brazzànovich, che li butemo zò a sti dò?» «Butemoli — disi Brazzànovich — e i cominzia a sburtarse un col altro zò del leto. Fin che Terdoslàvich, che iera un toco de omo, ga butado zò Brazzànovich. E subito el disi: «Brazzànovich, mi go butado zò el mio. E vù come sé col vostro?» «Mal semo, Terdoslàvich mio — ghe rispondi Brazzànovich — perché sto fìol d'un can, me ga butado zò a mi.» «Bon — ghe disi alora Terdoslàvich — no fa gnente Brazzànovich, vigni a dormir nel mio leto.» Bon omo iera Terdoslàvich. MALDOBRÌA XXXIX - La tragedia degli Absburgo In cui Bortolo narra di Barba Checo, mistro a bordo dello yacht arciducale «Rovenska», che nulla ignorava della composizione della Famiglia non troppo felicemente regnante a causa di una forse non fortuita lunga serie di domestici lutti nella quale, in forza di una cluca, anch'egli si sentì fatalmente coinvolto. — Adesso sti cùter, siora Nina, ve xe presto più dei caìci che i ve bagola per Quarner. Dove una volta? Chi una volta ve podeva tignir un cùter? Un Amiraglio Horthy, che gaveva l'«Aram» a Pola, un Hohenlohe che gaveva l'«Alma», un'Arciduchessa Maria Teresa che ve tigniva el «Rovenska» a Lussingrando, yacht a vapore. — Maria Teresa? Imperatrice? — Sì. E Carlo Magno ghe iera gambusier! Ma dai, siora Nina, che Maria Teresa iera roba dei tempi de Marco Caco. Questa ve iera un'altra Maria Teresa, Arciduchessa. Ela ve iera vedova del Arciduca Carlo Ludovico, che vigniva a star fradel vero del Imperator Francesco Giusepe e la se ciamava Maria Teresa come in memoria. Che po' questa iera solo una Maria Teresa, soto l'Austria. Perché ve iera anca Maria Teresa moglie del Arciduca Carlo Stefano, un nevodo apena, e po' ancora una terza, cugina inveze. — De chi? — Cossa volé che sapio mi de chi? Questo ve saveva dir tuto come un libro stampado Barba Checo. Che lui iera stado ani anorum mistro sul «Rovenska». Lui tuto ve saveva dei Regnanti, de questi del Sangue: «Savé vù — el diseva in local — savé vù, se more Francesco Giusepe e se more anca Francesco Ferdinando, chi che vien? Ve vien Imperator l'Arciduca Otto, perché l'Arciduca Otto ve vien a star fradelo più giovine de Francesco Ferdinando. E Francesco Ferdinando e l'Arciduca Otto ve xe fìoi de Carlo Ludovico defonto, che iera marì dela Arciduchessa Maria Teresa, quela che ga el «Rovenska», che son mi. Cognada de Francesco Giusepe, perché Carlo Ludovico ve iera fradelo vero del Imperator. Due fradei gaveva l'Imperator, questo che ve disevo, e Massimiliano povero, che i lo ga copado in Messico, senza fìoi. Alora tuto per Carlo Ludovico ve vien ogi quei del Sangue, perché Rodolfo, che vigniva a star fio vero de Francesco Giusepe, ve xe morto cola sposa, co' i ghe ga dà per la testa cola butilia de sampagna, e dopo no xe che fémine: Gisela e Maria Valeria.» — Cola butilia de sampagna i ghe ga dà per la testa? — Quel no se ga mai savesto, de Rodolfo. Solo un cùcer saveva, ma i ghe ga intimà de taser per tuta la vita. Ma indiferente. Cossa ghe entra? Mi ve contavo de Barba Checo, che lui saveva tuto dei Regnanti, de questi del Sangue. E i lo stuzigava, savé! Iera el Comandante Brazzànovich che ghe diseva in local: « Vù che sé del Sangue, Barba Checo, diseme vù, se more Francesco Giusepe e more Francesco Ferdinando e more anca l'Arciduca Otto, cossa nasse?» «Ve digo mi cossa che nasse — diseva Barba Checo — ve diventa Imperator l'Arciduca Carlo, che ve xe fio del Arciduca Otto e del'Arciduchessa Maria Gioséfa, quela che sta a Trieste in Castel de Mìramar. E savé una roba, Comandante Brazzànovich? Che se more anca l'Arciduca Carlo, vien Imperator l'Arciduca Massimiliano Eugenio, e se more Massimiliano Eugenio, vien Ferdinando Carlo Ludovico e se more lui vien Ludovico Vittore e po' Giusepe Ferdinando Salvatore, Leopoldo Salvatore, Ranieri Carlo, Francesco Salvatore. E se more anca lui, vien Francesco Carlo Salvatore!» «Ah cussì la xe? — ghe diseva el Comandante Brazzànovich — bon, Barba Checo, vù che sé del Sangue, savé de dove che se cava el sangue?» E el fazeva quel moto, batendose sul brazzo. Un rider, un scherzarlo a sto Barba Checo che no ve digo. Fin che xe stada la storia dela cluca. — Che storia dela cluca? — Siora Nina, la storia dela cluca de Mìramar, che Barba Checo, de quela volta ve xe diventado come un altro omo, de no ravisarlo propio. — El se gaveva fato mal cola cluca? — Ma me conte vù o ve conto mi? Cossa fato mal cola cluca? Ve disevo no, che sto Barba Checo iera mistro a bordo del «Rovenska», che ve iera un yacht a vapore, propio privato del'Arciduchessa Maria Teresa, che stava massima parte a Lussin, perché la iera malada de peto. Uh, che bel yacht che iera el «Rovenska», mi me lo ricordo: co' el iera a Lussingrando l'impiniva tuto el molo. Comandante iera un zerto Prohàska che gaveva lassado la Marina de Guera, perché — pensévese — el gaveva avù el pie ofeso colpa de un bozél. Ma no ga importanza. Insoma, un giorno, iera de istà, agosto, che come al Diciaoto Agosto doveva esser la Festa del Imperator e passa parola che el «Rovenska» devi andar a Trieste, al Castel de Mìramar, perché iera una granda festa per la Festa del Imperator. Diciaoto de Agosto. Diciassete iera co' i xe rivai davanti de Mìramar: vardé co' se disi i numeri. — Che numeri? — Sì, che sete, diciassete e vintisete nassi sempre qualche straleca. Insoma, iera zà tuto pronto per sta festa, co' a Maria Gioséfa ghe se rompi la cluca. — Maria Gioséfa? Ma no gavevi dito Maria Teresa? — Go dito Maria Teresa co' parlavo de Maria Teresa, adesso che parlo de Maria Gioséfa, digo Maria Gioséfa. Maria Gioséfa ve iera l'Arciduchessa Maria Gioséfa, che la iera moglie del Arciduca Otto e che la stava quei ani a Mìramar. Iera ela che fazeva sta festa per la Festa del Imperator ghe se gaveva roto la cluca de camera sua. Savé, una roba de gnente: iera quele cluche col scroc, al scroc se ghe gaveva incantado la susta e ela la iera schiava, capì, o de serarse a ciave in camera, o de gaver sta porta che ghe se verzeva sola. — Noi gavevimo la porta del tinelo che... — Indiferente. Capì, sto scroc che no serava iera una schiavitù e lori gavessi dovesto mandar ciamar un clànfer fin Trieste, ma zà che iera sta ocasion, che giusto el «Rovenska» gaveva butà l'àncora davanti de Mìramar, sta Maria Gioséfa — questo tuto ne contava Barba Checo — ga dito: «Ci sarà pure un mistro a bordo del Rovenska» e, cussì, una roba e l'altra i ga mandà un caìcio a cior Barba Checo che iera el mistro. Siora Nina: cossa che lui no ga contà miracoli de sto Mìramar... — Eh, el scroc xe sempre cativo de governar. — Cossa el scroc? Cossa ve pol esser un scroc per un mistro de bordo? Lui contava tuto: de come che i lo ga fato andar drento, de come che i lo ga compagnà su per le scale, dei quadri de tuti quei che iera là, de Massimiliano defonto, de Carlota povera, de sta qua cussì dignevole che ghe ga dito de governar el scroc e che iera tempo missià, de siroco, che iera 'sti cùcer cole ombrele. E cussì culì, intanto che el se ga intardigado a governar sto scroc, ga comincià a far mar. E el Capitan Prohàska, sicome che el «Rovenska» iera traversado dele onde e el pativa, el ga dado ordine de molar le zime, de tirar su l'àncora e de meterse a ròdolo fora. — Eh, co' xe bruto mar... — Mi digo! Ma fato stà che Barba Checo no podeva più tornar a bordo, perché la barca iera a ròdolo fora. Per farla curta, siora Nina, i lo ga fato dormir a Mìramar. — In castel? — Sicuro, in castel. Lui contava in local a quei che voleva e a quei che no voleva starlo a sentir, che pretamente l'Arciduchessa Maria Gioséfa gaveva dito che l'omo dorma in castel e che gli trovino logo. El contava che i ghe gaveva dado una belissima camereta, col plafòn un poco in spiover, ma la broca, el cadin, el sugaman col monograma e che dela finestra se vedeva fin Piran con tuto che iera siroco. — El sugaman col monograma de Barba Checo? — Ma cossa col monograma de Barba Checo? Cossa volevi che in castel de Mìramar i savessi che esisti un Barba Checo? Iera el monograma che iera su tuti i sugamani, tovaioi, biancheria de Mìramar: Eme Jota, Maria Gioséfa. E Barba Checo spiegava che Maria Gioséfa, come terza in lista de sucession del Sangue, ghe competeva de star a Mìramar. «Ve xe tuto quistion de spetanza — el diseva — cossa credè vù, presempio, che lori a Mìramar ve va drento in camera de pranzo cussì come che nualtri vegnimo drento in local? Là ve xe Tabela de Corte, pramàtica. Che prima va drento quei che ve xe del Sangue e dopo tuti i altri.» «Presempio — el diseva — se no xe a zena l'Imperatrice Elisabeta, savé vù chi che ve va drento prima? Ve va drento l'Arciduchessa Gisela, che xe la fìa più granda del Imperator e, dopo, Maria Valeria, che xe la fìa più picola. E se no le xe lore, alora ve vien, no la moglie de Francesco Ferdinando, che xe moglie morganatica e no la pol, ma l'Arciduchessa Elisabeta Franziska che la vien a star fìa de Francesco Salvatore. E se no le xe lore, Maria Gioséfa. No perché adesso la sta ela a Mìramar, ma come prima de tute, se no xe le altre.» E po' el tambarava de Maria Cristina, Elena Maria, Margherita Maria, Maria Clotilde, Sofìa Clementina, cossa so mi, tute queste del Sangue. «Ma contéme una roba — ghe ga dito una volta Barba Nane — vù, Barba Checo, cossa vù gavé dormisto propio a Mìramar?» «Come no — dise Barba Checo — una belissima camereta, col plafòn un poco in spiover, ma cola broca, el cadin e el sugaman col monograma...» «Ah sì? — ghe disi Barba Nane — alora, Barba Checo mio, mi a vù ve vedo e no ve vedo!» — No el vedeva ben? — Cossa no vedeva ben Barba Nane! Gaveva oci lui meo de un giovinoto! Lui ghe ga dito «ve vedo e no ve vedo» per via dela maledizion de Carlota. «Cossa, propio vù Barba Checo, che savé tuto del Sangue, no savé dela maledizion de Carlota? Che ela, dopo che i ghe ga mazado, con un tranelo, el marì Massimiliano in Messico la ga dito che «Qualunqueduno che abiterà soto questo teto muoia come il mio consorte: lontan dala Patria, lontan dagli affeti, di violenta morte, in pecato mortale!» —Jésus! Gaveva maledido Carlota? — Siora Nina, no se sa, no se ga mai savesto. Ma cussì i diseva e cussì ghe gaveva contado Barba Nane a Barba Checo. «Perché vardé, Barba Checo — el ghe ga dito — dopo de Massimilian, ve xe morto Rodolfo, el fio del Imperator, che lui stava a Miramar... e in pecato mortale, con una giovine, po' dopo ve xe morto l'Arciduca Giovanni Orth, che se ga perso cola barca e tanti chersini ga perso la vita; e anca lui vigniva sempre a Miramar. Po' ve xe morta, mal che mai, la cognada del Imperator, che iera per tuti i giornai «L'Arciduchessa Maria Ludovica, bruciata nel incendio del bazar di Parigi.» E l'Arciduchessa Edvige, fìa del Arciduca Alberto, brusada anca ela, con una candela co' la se cavava el vestito de balo?... E l'Arciduca Ladislao, che ghe ga s'ciopà in man el s'ciopo de càzia? E l'Arciduca Guglielmo, cascà de caval e batù la testa sula piera? Tuti a Mìramar ve iera questi. Ve xe la maledizion de Carlota.» — Eh, se parlava sì, ste robe de Mìramar. — Sì, ma Barba Checo ghe ga dito: «Va ben, Barba Nane, questo ve sarà per quei del Sangue, ma no per un semplice maritimo come mi!» «E Sangulin?», ghe disi Barba Nane. «Qual Sangulin? El nostro-omo Sangulin, quel che xe morto cascando in stiva a Buones Aires?» «Sicuro, Barba Checo, lui co' ve iera militar de leva, el tendeva i caìci a Mìramar: lontan dala Patria, lontan dagli affeti, di violenta morte, in pecato mortale — perché el iera imbriago — cussì ve xe morto el povero Sangulin, in stiva a Buones Aires.» Siora Nina, un altro omo. — Un altro omo che xe morto? — No, siora Nina. El povero Barba Checo, dopo de quela volta, ve xe diventado come un altro omo. Lui subito ga tacà a bazilar un poco, ma quando che l'Imperatrice Elisabeta, via de Mìramar, i la ga copada in vapor de Ginevra, lu ga cominciado a ricusar imbarchi per fora. Che lui viagerà per Dalmazia, che basta, che lui lontan dala Patria no va. Fin la prima guera el ga viagià sempre solo per Dalmazia, lui no ve meteva pie gnanca a Venezia. E co' i ga copado Francesco Ferdinando, el se ga fato meter in pension. Perché el ga dito: «No servi gnanca in patria star più, perché Sarajevo sempre Austria ve xe. Austria annessa, ma Austria.» Lui stava sempre a Ossero, qualche lavoreto fora el fazeva in squero, po' più gnanca quel, perché quando che xe morto l'Imperator Carlo a Madera, el ga dito: «Eco un altro de nualtri de Mìramar! Fioi mii no ve durerò tanto, mi, savé, squasi squasi xe meio che no me movo più de casa, perché guai lontan dagli affeti.» E el stava là a zapigar in orto. E in gamba che el iera a otantazinque ani, el se fazeva vignir a casa Don Blas per confessarse e comunicarse. «Don Blas mio — el ghe diseva — nualtri de Mìramar, guai farse trovar in pecato mortale.» Novantaoto ani, siora Nina, gaveva Barba Checo co' el xe andà, con tuti i fìoi atorno del leto suo de lu, confessado e comunicado quel'istessa matina che Dio lo ga ciamado. «Eh, vado, vado — el ga dito — sento che vado: maladeta quela volta che go dormido a Mìramar.» MALDOBRÌA LX - La berretta Nella quale Bortolo fornisce informazioni sulla carriera e i privilegi di grado degli addetti agli i. r. Governi Marittimi, illustrando inoltre gli usi ed i costumi dell'isola di Ulbo dalla vigilia della prima guerra mondiale alla caduta della Duplice Monarchia. — In mar ghe vol sacrifizio: pensé, presempio, cossa che no ga fato per avanzar el povero Piero Sangulin defonto. Lui propiamente no ve navigava, perché el iera in Governo Maritimo. Oh Dio, el gaveva navigado anca lui, col esame de paron de barca e tuto, ma dopo che i gaveva perso la barca, suo santolo Toni che iera in Governo Maritimo de Fiume, lo gaveva fato cior come piloto. Piloto? gnanca sotopiloto; el iera de quei semplici marineri de Governo Maritimo cola bareta tonda. — Come cola bareta tonda? In Marina ga tuti la bareta tonda. — Sì, siora Nina, anca i soldi xe tuti tondi, ma ve iera la corona e ve iera el carantan, ve iera el fiorin de oro e el patacon. E cussì in Marina iera, xe e sempre sarà — perché questa ve xe la storia dele storie del mondo — la bareta tonda e la bareta col'ongia. Col'ongia o senza ongia: là xe el salto grando. Soto l'Austria el semplice mariner gaveva la bareta tonda e, anca in Governo Maritimo, apena de soto piloto in su cominciava la bareta col'ongia. El sotopiloto gaveva la bareta col'ongia e l'aquila de lata e solo co' un diventava piloto i ghe dava l'aquila de oro. — Costava assai de oro? — De oro, siora Nina! Gnanca l'Amiraglio Horthy no gaveva l'aquila de oro sula bareta. Oro per dir, insoma: cordonzin de oro, ma in confronto de quela de lata iera anca salto grando, perché in montura alta i podeva portar el spadin, e la moglie meterse in capel. — Ah, el iera sposado sto Santulin? — Cossa Santulin? Sangulin. Santulin ve iera tuto un'altra persona, che i ghe diseva po' e gnanca no el se ciamava cussì, indiferente. Cossa volé che fussi sposado Piero Sangulin, che el iera bareta tonda in Governo Maritimo? Cossa el gaverà tirà de paga? Un zentovinti, zentotrenta corone, mi calcolo, per questo lui tanto bramava de avanzar. Perché là a Fiume, el iera sì in Governo Maritimo de Fiume, che iera qualcossa, ma ghe tocava vogar sui caìci, ligar i caìci, tender i caìci, mai un lavor de scriturazion. Bassa forza insoma, con tuto che el gaveva l'esame de paron de barca. — No el podeva sposarse. — Natural che no, gnanca no i lo lassava. Cossa credè vù che soto l'Austria, un del Governo Maritimo podessi sposarse cussì co' ghe saltava? El doveva domandar el gradimento e dopo i se informava sula sposa, sula famiglia, fin la setima generazion. L'Austria, siora Nina, iera un paese ordinato. Insoma lui, ve go dito, el sospirava sta bareta col'ongia che no ve digo, ma ve iera difìzile, perché a Fiume, cità granda, iera assai de spetar. E là atorno, come dirve, in una Lovrana, una Icici, una Ica, una Medea, una Fianona, ve iera zà destinadi tuti i meo posti, no parlemo de Ràbaz. E cussì sto Sangulin, sempre bareta tonda. — Eh, là xe bei loghi a esser. — Sì, ma lui no iera. Fina che un giorno, vedé come che xe qualche volta che capita le combinazioni, lo ciama suo santolo Toni a casa sua de lu per no far ciacole in Governo Maritimo e el ghe disi, el fa el dice: «Senti, Piero, qua te xe forsi un'ocasion, perché xe passà telegrama de Pola che i meti un semaforo a Ulbo. Adesso a Ulbo xe solo un deputato de spiagia che po' no te xe gnanca vero deputato de spiagia perché xe un civil che fa de deputato de spiagia. E alora ti ti sa, e se no ti sa te digo mi, che dove che xe semaforo, per regolamento de Marina de Guera, el semaforista devi esser almeno sotopiloto. Oh Dio, Ulbo te xe un buso, i ghe ga zà domandà a Frane Luviér se el vol andar e lui ghe ga risposto che gnanca piturado no el va in un buso come Ulbo. Ma, Piero mio, se ti ti va a Ulbo, per mi questa te xe un'ocasion, perché i te fa subito sotopiloto, esame de paron de barca ti ga e te xe pulito. Oh Dio. Ulbo xe Ulbo, ma no xe dito che ti resti tuta la vita a Ulbo.» — Ulbo? Ma dove xe sto Ulbo? — Ma dài, siora Nina: adesso i ghe ciama altrimenti, ma Ulbo ve xe quela isola visavì de Selve. Cossa no gavé mai sentido? Ulbo, Selve, Premuda, Scarda e Isto, ve xe tuto là in prinzipio del canal de Zara. Busi, siora Nina. Selve magari xe bel, ma Ulbo, propio nominada come buso. Per dir un selvadigo i diseva che el ga studiado al'Università de Ulbo. Un buso, siora Nina, ma buso o no buso, Piero Sangulin ga pensado: semaforista, sotopiloto, bareta col'ongia col'aquila de lata, almanco me tiro fora de sti maledeti caìci. — El xe andà a Ulbo? — Sicuro. Cola sua bareta col'ongia, col'aquila de lata e anca montura nova el se gaveva fato per ben figurar. Siora Nina, se disi Ulbo, però lui a Ulbo el iera qualcossa, un qualchedun. Perché a Ulbo, presempio, tanto per dirve, chi gaveva mai visto una bareta col'aquila? Mai visto gnanca l'aquila, perché no ve iera gnanca vera privativa de tabachi cola stema fora e i spagnoleti i li vendeva in botega magnativa. La Posta, po', siora Nina, no gaveva gnanca casseta e 'sta povera gente doveva consegnarghe le letere brevimanu al Maestro de Posta che gaveva là el cameroto del telegrafo. E sto qua saveva tuto de tuti, perché tuto el legeva lu, fin le sopracoperte el verzeva. El bateva un telegrama ogni morte de papa e el taiava tabari per i vivi e per i morti. Anteo Bùttoraz el se ciamava, partitante croato, tremendo. E lui, vedé, prima che rivassi Piero Sangulin el fazeva anca de deputato de spiagia e per questo ve xe stà subito invidia. — Dela gente? — Ma no dela gente! Pensé, prima che rivassi sto Piero Sangulin, sto Bùttoraz ve iera el primo a Ulbo. Perché lui: Maestro de Posta, deputato di spiagia, che el legeva tute le letere, che co' nasseva qualcossa fora el iera el primo a saver perché ghe passava telegrama, che co' vigniva el vapor — penséve, una volta ogni quindici giorni vigniva el vapor a Ulbo — el caminava su e zò per el molo col naso insù e le man drio la schena senza darghe bado a nissun. Insoma el se ga sentido come diminuido, podé capir, con sto Piero Sangulin che gaveva la bareta col'ongia e l'aquila de lata e paron dispotico del semaforo. — Che semaforo? — Semaforo; ve go dito che i gaveva messo el semaforo, che propio per quel a Piero Sangulin i lo gaveva mandado a Ulbo. Iera un semaforo de fero per segnalazion navale, a petrolio, quela volta, natural, dove iera l'eletrico a Ulbo? Gnanca adesso mi no credo che i gabi. E 'sto semaforo ieri vignudo a meterlo un monitor dela Marina de Guera, in Porto San Nicolò, perché i calcolava che là in canal de Selve i gaverìa fato manovre cole barche de guera. — Ah, iera zà guera? — Maché guera, a Ulbo. Ve parlo de prima dela Prima guera. I calcolava de far manovre e Piero Sangulin doveva tignir sempre el semaforo in massimo ordine: tignir neti i vetri dei ferai, darghe oio ale manizze, meter petrolio e cambiar i pavéri. Che anzi, vedé, sto malignazo de Buttoraz, mai diretamente, mai davanti de lui, ma co' Piero Sangulin no iera, el ghe ciamava «Piero Pavéro, machina de fero, aquila de lata, Piero zavata», come dir che no el gaveva gnente de far. — Ah, no el gaveva gnente de far? — Siora Nina, ve go dito, Ulbo iera un buso, lui gaveva solo de tender el semaforo, de andar al molo co' vigniva el postal, perché adesso l'andava lui e no più Buttoraz, e basta. 'Sto vapor cola posta vigniva, ve disevo, ogni quindese giorni perché el fazeva Zara, Selve, Ulbo, Premuda, Bozàva, Domboca, Porto Jàz e, toccata facoltativa, qualche volta, Zapuntélo. E basta. No iera altri vapori. Oh Dio, sì, un giorno sì e un giorno no, de Porto San Nicolò dove che i gaveva messo el semaforo se vedeva passar ale nove de sera el «Liburnia». — Ah, rivava el «Liburnia»? — Rivava, siora Nina! Un «Liburnia» a Ulbo? El «Liburnia» ve iera la linia celere de Zara per Fiume: bela barca, bianca, dopia elica, solo passegeri, del Lloyd Austriaco. E de Ulbo i la vedeva passar fora de Porto San Nicolò tuta iluminada e co' iera vento de tera se sentiva qualche volta anca sonar l'orchestrina che i gaveva a bordo. Linia celere, de passegeri, passegeroni. Ve iera un avenimento, savé, a Ulbo co' passava el «Liburnia». — Ma no gavevi dito che el passava un giorno sì e un giorno no? — E ben? Un giorno sì e un giorno no, ve iera un avenimento a Ulbo, perché cossa altro nasseva a Ulbo? Ve iera propio come un liston che, dopo zena, una sera sì e una sera no, quei de Ulbo andava de Ulbo a Porto San Nicolò a veder passar el «Liburnia». Vedé come che se contentava la gente una volta. — Eh, adesso xe mile grili! — Indiferente. Una matina che Piero Sangulin fazeva marenda in local, vien dentro sto Anteo Bùttoraz e el ghe disi: «Piero, ve xe passà telegrama che come diman l'altro ve sarà manovra de Marina de Guera qua in Canal de Selve e che tigni pronto el semaforo. Un tanto ve dovevo dir e un tanto ve go dito.» E el ga smacà el telegrama sula tavola: «E vù Piero, pensé al pavéro». E el xe andà via ridendo, come. — Bruta maniera? — Cussì el iera fato. No ve digo 'sto Piero cossa che no ga prontà, lustrà sto semaforo. E po' ve xe stà tuto per gnente, perché ve iera sì dò, tre dragamine che fazeva manovra per campo de mine, ma po' al ultimo momento i ga decidesto de farla del'altra parte del'isola, là dove che imboca el Canal de Zara. E cussì, una sera che iera andadi tuti a Porto San Nicolò a veder passar el «Liburnia», sto Bùttoraz, batendo cola man verta sul semaforo ghe fa a Sangulin, ci fa ci dice: «Me par che sto semaforo xe bon per impicar i fighi suti.» «Come fighi suti?» ghe fa Piero. «Sì — ghe rispondi sto Bùttoraz parlando forte che senti tuti — osservavo che i dragamine ve xe andai del'altra parte, che sti pavéri no ga mai avudo el beneficio de un fulminante, e po' mi calcolo, savé Piero, che un vapor vero, come sto «Liburnia» che passa, vù ghe podessi lampar col semaforo fina domani matina bonora, che no el ve se gnanca volta indrio. Per questo parlavo prima de fighi suti.» E rideva sta gente de Ulbo, cossa volé? Paese. Bon, no volé che Piero Sangulin, la matina dopo, se ciapa su e va fora col caìcio? — Perché la gente ghe rideva? —No. El iera sì avilido de tuta sta invidia, ma lui sempre ogni matina el fazeva el giro col caìcio de Porto San Nicolò fin l'altra parte. E co' l'ariva del'altra parte, dove che ve xe quela gerina — Slatinìzza, i ghe diseva — el vedi come una roba nera sula gerina bianca. — Un morto? — Ma perché un morto? Chi ve ga dito che iera un morto? Una roba nera, granda, tonda, el vedi. Una mina iera, siora Nina. —Mama mia, una mina! — Mina, sì. Lui ga subito calcolado che, come che iera sti dragamine che fazeva manovra del campo de mine, doveva esserseghe molada una mina e che col fortunal che gaveva fato de note, el mar la gaveva butada in tera a Slatinìzza. Prima roba el ga pensado, co' el tornava col caìcio, mi vado de Bùttoraz che el passi telegrama per avertir. Po' el se ga visto come davanti sto Bùttoraz, ghe ga fato una fota che no ve digo e el se ghe ne ga pensada un'altra meo. — De tirar su lui la mina? — Sì, col caìcio tirar su la mina, per veder subito la Comunione dei Santi, la remissione dei pecati, la vita eterna e così sia! No, no, el se la ga pensada assai meo. Savé cossa che el ga fato? La sera dopo, che passava el «Liburnia» e iera tuti là del semaforo in Porto San Nicolò e che Bùttoraz parlava de novo de fighi, lui no l'impizza el semaforo? — No el lo impizza? — No, no siora Nina: el lo impizza tuto. El ghe dà fogo ai pavéri, el gira le manizze e el ghe fa al «Liburnia» el segnal di «Arresto» e di «Riparare immediatamente nel porto segnalato». Cussì diseva el libreto che el gaveva. Siora Nina, tuti stupidi: el «Liburnia» volta la prova e, tempo meza ora, el xe, fìguréve, sul molo de Ulbo. Tuto iluminado, coi passegeri sui ponti, col capitan che vien zò dela biscaìna e Piero Sangulin che ghe va incontro e confàbula. — Confabula? — Sì, lui ghe ga dito pian che lui de dopopranzo xe andado fora col caìcio e el ga visto in mar una mina vagante propio là dove che imboca el Canal de Zara e che per questo el ga fato presto vignir drento in porto el «Liburnia», perché con mina vagante navigar de note nel canal podeva nasser una strage. — Ma no el la gaveva vista in tera, la mina? — Siora Nina, lui la gaveva vista in tera ma prima de finir in tera a Slatinìzza, dove che solo lui la gaveva vista, in mar la doveva esser pur stada. E cussì lui el ghe ga dito al capitan del «Liburnia» che el la ga vista in mar, per fargliela veder a Buttoraz e a tuti quei de Ulbo, che lui — se voleva — podeva fermar qualunque barca. Siora Nina, no ve digo cossa che no xe sta a Ulbo tuta la note col «Liburnia» iluminà sul molo: una festa, una contentezza. Pensévese che nissun no xe andado gnanca a dormir. — Sì, ma dopo? — E dopo cosca, siora Nina? De matina xe vignù el dragamine, che Buttoraz, per ordine de Piero Sangulin, ga dovesto passarghe telegrama a Pola e i ga trovado la mina sula gerina de Slatinìzza. E i ga calcolà che el mar per fortuna la gaveva butada in tera, fortunal che fazeva sempre ogni note. —Mama mia, che truco! —Truco? Bela pensada, siora Nina. Perché Piero Sangulin, per el fato de gaver «salvato le vite di un mercantile di linea in repentaglio per mina vagante» i lo ga fato piloto vero, cola bareta col'ongia e l'aquila de oro. E lui a Ulbo, ve iera come un dio. Mai no el se cavava quela bareta, gnanca in Cesa, che, come monturato, ghe competeva. Eh, iera tante bele robe soto l'Austria. — E Buttoraz? — Buttoraz no se ga ben comportà con lui, siora Nina. Perché co' xe fìnida la Prima guera — che a Ulbo, devo dir, no i se ga gnanca inacorto che iera guera — e tuti ghe voleva un ben del'anima a Piero Sangulin, un giorno, i me ga contà, iera el Giorno dei Morti del Diciaoto, vien dentro Buttoraz in local, el va drito de Piero Sangulin che iera sentado là, cola sua bela bareta col'ongia e l'aquila de oro in testa e el ghe disi, ci fa ci dice, col déo puntado drito sul muso: «Paiazzo, càvite quela bareta, che xe passà telegrama che l'Austria ga calà le armi.» E, Piero Sangulin, povero, ga pozà la bareta sula carega e no ga dito gnente. Cussì, siora Nina, ve xe cascada l'Austria a Ulbo. Indice * CARPINTERI & FARAGUNA L'Austria era un paese ordinato _*_*_ CARPINTERI & FARAGUNA L'Austria era un paese ordinato Prefazione MALDOBRÌA I - La lavanda dei piedi MALDOBRÌA II - Whisky e gloria MALDOBRÌA III - L'ispettore delle boccaporte MALDOBRÌA IV - La cabina dell'Armamento MALDOBRÌA V - La guerra di China MALDOBRÌA VI - Per chi suona la campana MALDOBRÌA VII - Le acque di Pola MALDOBRÌA VIII - Il porto dell'amore MALDOBRÌA IX - I cavalli di Jerazìmovich MALDOBRÌA X - A bordo della «Radetzky» MALDOBRÌA XI - Il viaggio dell'Imperatore MALDOBRÌA XII - Un paio di brache MALDOBRÌA XIII - Il sottomarino francese MALDOBRÌA XIV - Il tràiber MALDOBRÌA XV – I ponti sulla Drina MALDOBRÌA XVI - Il crollo della corona MALDOBRÌA XVII - Sotto due bandiere MALDOBRÌA XVIII - Trecento giorni a Pechino MALDOBRÌA XIX - Sangue lussignano MALDOBRÌA XX - La regata di Kiel MALDOBRÌA XXI - Il caìcio dei Consoli MALDOBRÌA XXII - L'Allievo MALDOBRÌA XXIII - Il biglietto dell'Arciduca MALDOBRÌA XXIV - I patrioti MALDOBRÌA XXV - Bandiera vecchia MALDOBRÌA XXVI - La màndola MALDOBRÌA XXVII - La rivincita di Lissa MALDOBRÌA XXVIII - Il vapore di ferro MALDOBRÌA XXIX – Il figlio della colpa MALDOBRÌA XXX - L'Ospizio Marino MALDOBRÌA XXXI - L'uomo e il mare MALDOBRÌA XXXII - La terza corona MALDOBRÌA XXXIII - Giuseppe e i suoi fratelli MALDOBRÌA XXXIV - Il vessillo dello Zar MALDOBRÌA XXXV - La generazione felice MALDOBRÌA XXXVI - Un uomo di carattere MALDOBRÌA XXXVII - La tomba di famiglia MALDOBRÌA XXXVIII - Jubileum MALDOBRÌA XXXIX - La tragedia degli Absburgo MALDOBRÌA LX - La berretta Created with Writer2ePub by Luca Calcinai CARPINTERI & FARAGUNA NOI DELLE VECCHIE PROVINCE Maldobrìe di terra e di mare EDIZIONI DE LA CITTADELLA - TRIESTE 19 7 1 PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Edizioni de la Cittadella - Trieste Copertina di Jose Seconda edizione 1972 Prima edizione 1971 Degli stessi autori: LE MALDOBRÌE - La Cittadella 1966 (Settima edizione riveduta 1971) PRIMA DELLA PRIMA GUERRA - La Cittadella 1967 (Sesta edizione 1970) L'AUSTRIA ERA UN PAESE ORDINATO - La Cittadella 1969 (Quarta edizione 1971) II. DISCO DELLE MALDOBRÌE - (L. P. 33 giri in un album illustrato) Trieste 1968 SERBIDIÒLA - La Cittadella 1964 (esaurito) SERBIDIÒLA - Edizione accresciuta e rinnovata - Scheiwiller Milano 1967 Delle stesse edizioni: Giulio Verne - LA CONGIURA DI TRIESTE - Viaggio straordinario presentato presentato da Carpinteri e Faraguna con illustrazioni originali della prima edizione di Parigi - 1970 NOI DELLE VECCHIE PROVINCE Sulla breccia del giornalismo umoristico dal '45 (prima con il settimanale «Caleidoscopio», poi con «La Cittadella»), attivi con successo anche a teatro e alla radio in trasmissioni di larghissimo ascolto, Carpinteri e Faraguna hanno rivelato una singolare vena poetica nella raccolta «Serbidiòla» (ripubblicata a Milano da Scheiwiller con l'avallo di Eugenio Montale). «Le Maldobrìe» (arcaico, riscoperto vocabolo che significa «ribalderie») insieme con i successivi «Prima della Prima Guerra» e «L'Austria era un Paese ordinato» ai quali gli autori hanno anche attinto per la loro felice trascrizione scenica, trasferiscono il discorso di «Serbidiòla», che è triestino e popolaresco, al più vasto e vario mondo dei litorali adriatici. Al centro c'è un personaggio, Bortolo, che rievoca i fasti di «prima della prima guerra» in una prospettiva autoironica. Sul filo delle chiacchiere di Bortolo gli autori si impegnano a scavare nel dialetto e nel costume di un'epoca scomparsa, non tanto con strumenti filologici quanto sul filo di una funambolica capacità imitativa e lessicale. Ma le componenti delle «Maldobrìe» sono molteplici come le stratificazioni dell'anima triestina: se la bizzarria di certe avventure dei personaggi fa pensare alle schermaglie psicoanalitiche di Svevo, il timbro di alcuni aneddoti appartiene inconfondibilmente all'umorismo ebraico e non sarebbe estraneo al gusto di Saba. Nei modi ridanciani e colloquiali del loro dialetto «Le Maldobrìe» celano una vocazione europea e rispecchiano il ravvicinamento che nell'ultimo decennio è avvenuto fra la cultura triestina e la tradizione absburgica (segnato per esempio da un saggio fondamentale come «Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna», pubblicato nel 1963 da Claudio Magris). Il retroterra «diverso» non è più un peccato originale, di cui bisogna vergognarsi cancellandone le tracce e magari cambiando cognome, ma la componente essenziale di un drammatico e labile equilibrio fra opposte tradizioni. Aver individuato questa realtà sociologica e politica è merito soprattutto se inquadrato nella tendenza di assecondare sempre meglio la funzione mediatrice che Trieste compie per amore o per forza. E qui mi piace riprendere le parole scritte per «Sipario» subito dopo la prima a Roma delle «Madobrìe», presentate dallo «Stabile» di Trieste con l'ottimo Lino Savorani nella parte di Bortolo, e dirette da Francesco Macedonio, un regista per il quale la scena è ancora un luogo di tenere fantasie: battute e spunti episodici assumono uno smalto di ancestrale verità; basti vedere come il racconto evoca, nello squallore dei saccheggi, la caduta dell'Austria (il «ribaltòn»); e come nel finale, intorno all'apparizione soave e derisoria al tempo stesso di Francesco Giuseppe, riunisce tutti i personaggi ciascuno portando un ritratto, una divisa, fiori finti, orologi dalle lancette immobili e altri brandelli dell'impero dissolto e trasformato in rigatteria. TULLIO KEZICH Ora il vecchio mi parla d'altre rive, d'altri tempi, di sogni. E più m'alletta di tutte la parola non costretta... Sereno è quando parla e non disprezza il presente pel meglio d'altri tempi: «O figliolo il meglio d'altri tempi non era che la nostra giovinezza!» GUIDO GOZZANO MALDOBRIA I - PER GRAZIA RICEVUTA Nella quale Bortolo, ritornando con il vascello della memoria sulle antiche rotte della sua or quieta or tempestosa esistenza, narra a Siora Nina, dal suo banco in pescheria, del viaggio compiuto dall'Imperatore in quelle terre di lingua nostra, che oggi vengono definite le Vecchie Province, ossia la Contea Principesca di Gorizia e Gradisca, il Margraviato d'Istria con le Isole di Cherso, Veglia e Lussino, la Città di Trieste col suo Territorio, Fiume, Corpus Separatum della Corona Ungarica ed il Regno di Dalmazia. Nell'occasione dell'imperial sosta a Cherso, parabola su corsi e ricorsi della storia, ascesa e decadenza di porti e genti. — Orade orade, ociade ociade, branzini, pessimòli, scampi, caramai, capesante, capelonghe, caperòzoli! Ale, àle, siora Nina, che el sol magna le ore! — No per vù, me par, sior Bortolo, che sé qua sempre in gamba a contarne una roba e l'altra, tuto de tuti, anca quel che se gavemo dismentigado ... — Memoria, graziando Idio, no me ga mai mancado. Ma el mal xe che el sol magna le ore e le ore, pian pian, ne magna anca a nualtri. — Ma diséme la sincera verità: quanti anni gavé vù, sior Bortolo? — Indiferente. No conta i anni che se ga fato, conta quei che resta. Savé cossa che mi ve dirò? Che xe modo e modo de deventar veci. Mi, presempio, con tuto che son in pension, mi no me go mai sentisto pretamente omo in pension. Perché l'omo in pension ve xe tuto un altro omo. Perché lu prima pensa che lui farà, che lui andarà, che quel e quel altro. E po', inveze, el se remena tuto el santo giorno per riva, sul molo a spetar che rivi el vapor. Co' el riva, se el riva. Che in più de un logo, se gavé fato osservazion, ogi riva pochi vapori. E co' no riva vapori, no riva più el spago per tante altre robe. No volerìo, siora Nina, che anca a nualtri, in un per de ani, ne tochi come che ga tocado a Cherso, che i gaveva scuminziado a gaver sempre de meno, fina che no i ga avù più gnente. Perchè, savè, una volta a Cherso iera tuto. Tuto, intendo significar, per Lussin e per Cherso, per Sànsego, per Unìe, per San Piero ai Nembi e per Veglia, anca. A Cherso, presempio, soto l'Austria ve iera el Capitanato Distretual, che stava propio in Piazza. Capitano Distretual e Capo Presidial dela Luogotenenza che i ghe diseva. — E inveze no el iera? — Come, no el iera? El iera Capitano Distretual e Capo Presidial dela Luogotenenza che tuti quei — no ocori dir de Smergo, de Dragosetti, de Caìsole, natural — ma anca quei de Lussinpicolo, de Lussingrando e qualche volta anca de Veglia, se ghe ocoreva una carta, un atestato, una scriturazion, i doveva vignir propio a Cherso. E cussì a Cherso iera movimento. Anca perché, metemo dir per la Cesa, per la Scola: dove ve iera de logo el Canonico Onorario e l'Ispetorato dele Scole Popolari? — Dove? — Se ve digo: tuto a Cherso ve iera. — Ma no disevi prima che a Cherso no i gaveva quasi più gnente? — Prima disevo de dopo. Ma prima i gaveva. Dopo, inveze, sempre de meno. Prima i ga cavà e portado a Lussin l'Amministrator dele Lanterne Maritime e po', pian pian, sempre de più robe a Lussin i portava. Perché, savé, Lussin, Lussinpicolo intendo, che zà ghe gaveva magnado quasi tuto a Lussingrando, iera sempre più granda, più nominada. I gaveva gente de polso che se imponeva: a Pola, a Fiume, a Trieste, a Viena, perché lori i gaveva in man l'armamento. E cussì, pian pian, un inverno i ga portado a Lussin la Ricevitoria Daziaria, che quel subito tuti ga dito che iera bruto per Cherso, e po', un per de ani dopo, i ga cominciado a meter l'aviso fora dele Poste che col primo de luglio el Consiglier Superiore Postale — che zà più no iera un chersin ma un lussignan — gaverìa avudo l'ufizio a Lussin, Lussinpicolo propio. — Cossa, a Cherso no iera più la Posta? E come far zeva 'sta povera gente? — Ma come, a Cherso no iera più la Posta? Sicuro che iera la Posta, sempre, ma el Consiglier Superiore Postale che gaveva soto de sé tute le Poste de Cherso, de Lussin, de Unìe, una roba e l'altra, i lo meteva de stanza a Lussin e adio che te go visto. Capì, intendevo dir che Lussinpicolo, dopo averghe magnado tuto a Lussingrando, pian pian cominciava a magnarghe tuto anca a Cherso. — E alora iera invidie? — Maché invidie! Oh Dio, sarà stà anca invidie, ma, capì, iera un diol de cuor veder 'sta bela citadina che i ghe cavava tuto. Perché Cherso, savé, fina de in antico ve iera sempre stado Capitanato Distretual e cussì a Cherso iera tuto. El vecio Mòise ghe diseva sempre a quei dela Comun: «Nualtri de Cherso no gavemo corajo, nualtri no savemo impònerse, a nualtri un giorno i ne porterà via anca el Domo, mi calcolo, e i ne lasserà solo le mùnighe del Squero e i frati che ne canti el Miserere. Perché no andé a Pola a impetirve? Perché no ghe scrivé a Trieste? Perché no ghe mandé a dir a Viena a Padre Orlich, come che qua i ne fa sempre più sprezzi?» — Mandarghe a dir al padre de Orlich? — Ma no al padre de Orlich! A Padre Orlich, Padre Francesco Antonio Orlich, che lui, pensévese, iera Padre Provincial dei Frati Neri a Viena. E lui iera chersin e el iera confessor, pensévese, de Stefania, vedova de Rodolfo, povero, che ela, dopo dela disgrazia, iera diventada assai de Cesa. — Lui podeva? — Oh Dio el podeva! In confession, natural no el podeva, perché guai contar fora quel che se sa, quel che se sente, quel che se vien a saver in confession, ma lui, savé, come Padre Provincial dei Frati Neri a Viena el iera un qualchedun. — E el ghe ga dito a Stefania de 'sti sprezzi che i ghe fazeva a Cherso? — Mi no so se el ghe ga dito, e po' mi calcolo che de Cherso no i ghe ga gnanca mai scrivesto, perché el vecio Mòise predicava, predicava, ma ala Comun nissun stava a scoltarlo. E po' l'avocato Miagòstovich, che iera ateista come, diseva: «Per l'amor de Dio, lassé star Padre Orlich che, coi Frati Neri, meno che se se intriga meio xe.» E el fazeva sesti. Fato si è però che, co' l'Imperator ga fato el viagio in Istria e nele Isole, me ricordo che 'sto Padre Orlich iera con 'sti grandi co' i xe vignudi zò del vapor. — Che el confessava? — Ma cossa volé che el confessassi vignindo zò del vapor? Dopo el confessava; in Domo quela volta el gaveva confessado, che iera fila fora fina soto dela Tore de 'ste chersine, vece massima parte, che andava confessarse de lui. E siora Mima Chiole, povera, che anca ela iera restada vedova, e la fazeva limòsine grandiose per el Domo, la diseva sempre che nissun confessa cussì ben come Padre Orlich, che el dise propio parole di conforto. Indiferente, questo no ghe entra... — Ma cossa, l'Imperator iera vignudo a Cherso? — Sicuro, in Visita Imperiale. Quel, dopo. Ma volevo dirve che prima a Cherso sempre più i ghe portava via robe. Anca el Maestro Stradale i lo gaveva passà a Lussin, che anzi ghe gaveva dispiasso, povero sior Petris, perché lui iera de Cherso e el gaveva tuti là. — A Lussin? — No, a Cherso, el gaveva tuti. Ma tuto i portava a Lussin. Tanto che a Cherso, un bel momento, iera restado solo el Capitanato che anca quel oramai poco fazeva, perché i fazeva tuto a Pola, e el Giudizio Distretual cola Preson Governiale... — Come saria Giudizio Distretual cola Preson Governiale? — Sarìa come che iera: che a Cherso iera el Giudizio Distretual, el tribunal come che se ghe dise adesso, e la Preson Governial, de Stato, tacada, che se andava drento per un balador senza passar per fora. — Ah, comodo! — Mah, poco comodo co' se xe in preson, siora Nina. Se xe magari sicuri de no andar finir soto le carozze, ma soto l'Austria, in preson no iera scherzi. Pan e acqua, un toco de carne de dimenica e sfilazar canapa per far corde. Bruto. — Eh bruto, bruto. — Oh Dio bruto: a Cherso, savé, iera tuto bona gente e in 'sta Preson Governiale, che pareva chi sa cossa, iera de ani e ani che no iera drento gnanca un can. Qualche imbriago de sabo, che po' de dimenica matina i lo molava perché che no el perdi Messa. E anca 'sto Giudizio Distretual, el iera sì, ma el gaveva de far solo per 'sti campagnoi che comprava e vendeva particelle, per caratisti de barche, che zà co' una barca la ga più de un paron se finisse sempre per andar per man de avocati, e una roba l'altra. Ladri no iera. Vardé: a Cherso vù podevi liberamente lassar la porta de casa averta. Contrabandi iera qualche volta, ma quel più fazeva i lussignani. E po' chi no fazeva contrabandi? E a Cherso, se propio el gendarmo no intivava un col saco de tabaco che el saltava sui scoi, i fazeva finta de no saver. Insoma, in preson de Cherso de ani anorum no iera nissun. — Eh, anca adesso xe contrabandi. — Come che ve xe el dazio ve xe el contrabando, siora Nina. Se i cavassi i dazi no sarìa più contrabandi. Quel, vedé, ghe volessi, ma l'omo, cossa volé, se distruse solo si stesso. Indiferente. Ve dirò che co' xe vignuda la notifica che l'Imperator stava per vignir anca a Cherso in Visita Imperiale, con tuta l'Uficialità, el Luogotenente, el Capitan de Pola — che quel sì iera qualcossa — e el Barone Pino che gaveva titolo e carattere de Consigliere Intimo, figurévese, e anca Padre Orlich, come chersin, co' xe rivada 'sta notifica, l'avocato Miagòstovich ga comincià a gaver pensier. «Perché — el diseva ala Comun — parla i giornai che in tuti 'sti loghi che el va, l'Imperator visita le Carceri». — Eh sì, visitare i carcerati xe opera de misericordia... — Xe quel che diseva el vecio Mòise. «Si, ma anca vestire gli ignudi, xe opera di misericordia — ghe ga rispondesto l'avocato Miagòstovich, — e inveze qua, se gavé osservado, Lussin, pian pian, ne spoia de tuto. E adesso mi calcolo che, co' l'Imperator vien qua, se el visita la preson e el vede che drento no gavemo nissun fora che bàcoli, mi calcolo che i ne cava anca la Preson Governiale e con ela el Giudizio Distretual e mi e ti, caro Nini — el ghe diseva al giovine Filipàs che iera Candidato de Avocatura — podemo andar liberamente in Ospizio Marino a ciapar sol.» «Capì — el ghe predicava a tuti — anca al Podestà Petris, el fradelo del Maestro Stradale, che i lo gaveva zà mandado a Lussin — capì, Petris mio, se a Cherso i ghe cava via anca el Giudizio Distretual, no sarà più movimento, no sarà più comprevendite, no sarà più testamenti e anca vù, notaio Coglievina, poderé vignir con nù a ciapar sol in Ospizio Marino. Qua ve se ferma comercio e tuto. Qua ghe volerìa pregarghe a Padre Orlich, che el xe chersin, che el xe Provincial dei Frati Neri a Viena, che el xe Confessor de Stefania, che per l'amor de Dio no i ne porti via el Giudizio Distretual.» — Ah, i ghe ga scrito, dopo, a Padre Orlich? — No so. Ma ogni modo tuti ga dito che bisogna far qualcosa, perché xe vero, guai de Dio se i porta via de Cherso el Giudizio Distretual e la Preson Governiale. «Savé cossa? — ga dito el vecio Mòise — fémoghe al Imperator una bela improvisata, fémoghe véder che el nostro Giudizio Distretual ga lavor no solo come Civil, ma anca come Criminale, fémoghe ben trovar la preson piena. Cossa volé che ve sìa impinir 'sta nostra preson? Un sabo de sera se ghe dise al gendarmo de ingrumar suso nei locai tuti quei che xe imbriaghi, se mete drento quei de Dragosetti che fa trapa de note senza pagar dazio, e con quei che fa contrabando, coi dò fradei Millevoj, che sa tuti che i xe iredentisti e con Giovanin American che iera anarchico in America, noi gavemo ben pulito la nostra bela preson piena. — Meter drento tuta 'sta povera gente? — Ma cossa povera gente! Giusto per quel giorno che stava l'Imperator e dopo i li mandava fora, natural. «Si — ga dito l'avocato Miagòstovich — se podessi. Ma ve par bel a vù, che l'Imperator, in una Cherso, trovi la preson piena? Cossa? Che conceto el se farà de Cherso? Che i chersini xe gente cativa, come a Sanvincenti, a Canfanaro, e no el darà più sussidi, che nualtri gavemo tanto bisogno, e magari el ne lassa sì el Giudizio Distretual e la preson, ma el ne cava qualcossa altro, come castigo». — Eh giusto. Xe bruto per un logo gaver la preson piena. — Si: bruto gaverla piena, ma bruto anca gaverla svoda. «Cossa femo alora?», ga dimandà el vecio Mòise. «Savé cossa che femo? Femo una bela roba — ga dito l'avocato Miagòstovich — femoghe trovar solo un. Femo l'unico detenuto dela Prigione Governiale della Città di Cherso. Tropi in preson xe tropo, nissun xe poco: uno xe bel. Capì? L'unico detenuto dela Prigione Governiale della città di Cherso, e cussì l'Imperator vede che el Giudizio Distretual lavora anca per el Criminal, ma che la cità xe onesta.» — Ah, ben pensada! — Sì, ben pensada. Ma chi i cioleva come unico detenuto? Che i imbriaghi no se podeva, propio per giustizia, cior un sì e i altri no, che quei dela trapa de Dragosetti o tuti o nissun, che per contrabando se podessi sì, ma chi? Cossa tiremo el nome a tómbola? Che per politica, come unico detenuto, fa bruta impression. «E alora, cossa volé? Che vado drento mi?» ga dimandà el vecio Mòise. «No — ga dito l'avocato Miagòstovich — savé cossa? Propio stamatina xe vignudo qua in Comun de mi Martin Ghèrbaz, cole sue solite storie del sussidio e con quele sue sue fiabe dei sui fioi in bisogno, che lui no el pol lavorar perché el ga mal de nervi.» — Martin Ghèrbaz, cossa un che gaveva fato qualcossa? Meterlo drento? — No: gnente no gaveva fato Martin Ghèrbaz. Mai no el fazeva gnente lu. Perché el gaveva poca voia de far del ben, de lavorar. Lui ve stava in una caseta rente el Pis'cio che ghe gaveva lassado el padre, cola moglie povera, che la iera in condizioni, e tre fioi. Lui no lavorava perché el diseva che el ga mal de nervi e che no el pol lavorar. E tra la minestra dei Frati, qualcossa che ghe dava le Mùnighe per compassion dela moglie e dei fioi, Siora Mima Chiole che dava, dava sempre ai poveri, e sussidi che el vigniva a scoder una setimana sì e una setimana no ala Comun, lui cussì tirava avanti: un bisognoso. «Bona idea — ga dito el Podestà Petris — nualtri a Martin Ghèrbaz ghe daremo un diese corone, ghe diremo che el staga drento in preson fin che no parte l'Imperator e che sicome xe qua l'Imperator, un sussidio, un qualcossa ghe faremo dar, per lu, per la famiglia, per l'ostia sua, che faremo una suplica.» — Ah i ga messo drento 'sto Martin Ghèrbaz, per quando che xe vignudo l'Imperator? — Sicuro: l'unico detenuto dela Prigione Governiale della città di Cherso. E l'Imperator, come che ve disevo, xe rivà zò del vapor con Padre Orlich e tuti e dopo el Te Deum in Domo, che tuti ga cantado, e la visita ala Comun, che iera tuti i Marineri dela Marina de Guera de una parte e del'altra dela strada, 'sto Imperator ghe ga dito a Padre Orlich che el volessi visitare i carcerati. Alora se ga fato avanti el Podestà Petris e in porton dela Comun el ghe ga dito: «Sacra Maestà! La città fiorente un giorno, ora per vicende di tempi scaduta, non può accogliervi con degni splendori, ma la bontà del Sire non guarda alla pochezza dell'offerta, ma al cuore.» — E cossa ghe ne entrava questo cola preson? — Gnente, ma intanto cussì el Podestà Petris ghe la ga butada che a Cherso i ghe portava via tuto. E po' «al Suo Alto Comando, Maestà Apostolica» el lo ga portado drento in preson a véder l'unico detenuto della Città di Cherso. — Ah, i gaveva zà messo drento Martin Ghèrbaz? — Per forza, se i gaveva fato tuto aposta! Cossa, i lo gaveva de meter drento dopo? Ben, volé creder che l'Imperator, inveze che vardar solo del cucherle dela porta dela cela, come tuti se spetava, el ga dito « Verzéte! », el se ga fato verzer la porta de 'sto cameorto e andando drento propio che Martin Ghèrbaz se ga butà in zenocion, el ghe ga dito: «Alzatevi in pie, come vi chiamate?» Che Martin Ghèrbaz, Sacra Maestà. Che se ha famiglia. Che sì, che moglie e sete figli tuti in bisogno, ghe ga dito 'sto qua, che inveze el gaveva solo tre fioi. Che se lavorava e cossa? Che non può lavorare oramai di oto ani, perché è malato di nervi. Che perché è detenuto? Che per contrabando, no propio vero contrabando, ma solo per gaver portà un saco di tabaco in tera per far un piazer! — Ma cossa, per contrabando el iera drento? No i iera dacordi? — Sicuro che i iera dacordi, ma Martin Ghèrbaz ghe flociava, el gaveva 'sta ocasion de gaver l'Imperator davanti e el ghe flociava. El ghe ga contà no so mi quanti miracoli, straléche, magagne, malore, disgrazie per scòderghe un sussidio. Che sete fioi, che oto ani che no el lavorava, che nove mesi che el iera in ospedal. E alora l'Imperator ghe da dimandado: «Quanti ani avete di condana?» «Diese!» — ga zigà Martin Ghèrbaz butandose de novo in zenocion — e Padre Orlich lo ga benedido. — Ah, el lo ga benedido! E dopo? — E dopo, cossa volé, passion ghe ga fato 'sto povero omo al Imperator. El ga volesto a tuti i pati che i lo compagni in scritorio del Giudizio Distretual e là motu propio, de suo pugno el ga scrito «La Maestà Nostra desidera che il detenuto criminale Martin Ghèrbaz resti in Prigione Governiale di Cherso per anni cinque». Insoma el ga fato che, come per Grazia Sovrana, el ghe cavava metà ani de preson. — Bel: Grazia Sovrana! — Maché bel, Grazia Sovrana, siora Nina, che Martin Ghèrbaz no gaveva fato gnente. Inveze cussì, con 'sta carta de Francesco Giusepe el ga ben che dovesto star drento zinque ani. No podeva esister ricorso contro el Motu Propio scrito de pugno del Imperator. Pan e acqua, un tocheto de carne la dimenica e sfilazzar canapa per far corde. L'Austria, savé, iera un Paese ordinato. MALDOBRIA II - LA CORAZZATA POTEMKIN Nella quale Bortolo, ricordando come il nostromo Pìllepich ebbe a perdere così stupidamente la gamba, evoca i fasti dei vari dagli scali del triestino Arsenale del Lloyd e della fama da esso conquistata negli ambienti della Marina Imperiale Russa a San Pietroburgo. — Pensé vù, siora Nina, povero Pìllepich, per esserse sponto cussì stupidamente su un ciodo, el gaveva perso la gamba. — Qual Pìllepich? — Pìllepich, quel cola gamba de legno, i ultimi ani. Che anzi Sior Nicolò, co' el lo ga visto tornar a Lussin de Fiume che i ghe gaveva messo la gamba de legno, el ghe ga dito: «Pìllepich mio, no te se conossi assai; istesso no te xe mal.» E Sior Nicolò, devo dir, quela volta el ga agido assai ben con Pìllepich. Va ben che Pìllepich gaveva navigado ani anorum per lori, per i Nìcolich, ma istesso Sior Nicolò no iera tignudo, perché Pìllepich gaveva ciapà infortunio, invalidità, Cassa Maritima e tuto. Ma lui ghe ga dito subito: «Omo mio, istesso no te xe mal. Sa cossa? Mi ghe parteciperò al fradelo, quel che me xe a Trieste in Arsenal del Lloyd e lui te troverà sicuro un postisin. Cussì anca per no impigrirte, Pìllepich.» Perché savé, siora Nina, Pìllepich oramai, cola gamba de legno no podeva più navigar. — Eh xe radighi cola gamba ofesa! — Ofesa? De legno, siora Nina. Cussì: per esserse sponto stupidamente su un ciodo. Insoma, per farvela curta, Sior Antonio che iera fradelo de Sior Nicolò Nicolich, ghe ga ben che trovado e no miga un postisin, savé, un bulo posto in Arsenal del Lloyd a Trieste, dove che quela volta i fazeva le meo barche. — El ghe fazeva far barche? — Sì: pàssere, caìci! Ma, siora Nina, l'Arsenal del Lloyd de Trieste, parlo de prima dela Prima guera, fazeva le meo barche che esistiva. Anca barche de guera. Dove i ga fato una Viribus Unitis? Dove i ga fato una Santo Stefano? Un Carlo Sesto, che mi iero imbarcado? — Dove? — Ma in Arsenal del Lloyd de Trieste, siora Nina! E insoma che ve disevo, propio un bulo posto, no un postisin el ghe ga trovado. Figurèvese che Pìllepich i lo ga ciolto propio come primo guardian, omo de fiducia. Anca la bareta i ghe gaveva dado cola stema del Arsenal del Lloyd. E lui doveva verzer e serar el porton dela direzion: omo de chiavi el iera. — De 'sto porton? — Del porton, dele porte, de tuto. Per dir omo de fiducia. Lui anca, con 'sta sua gamba de legno, tanto che i disi, el se gaveva abituado benissimo e el caminava senza baston. Solo co' iera siroco el doprava, e co' fis'ciava de sera la sirena — in punto ale zinque, me ricordo, fis'ciava la sirena in Arsenal del Lloyd a Trieste — lui visitava i omini che sortiva. — L'andava in visita, cussì, per le case? — Maché per le case, lui li visitava sula porta che no i porti via el nichel, tondini de oton, fil de rame, insoma, come che se usava quela volta. — E lui li trapava? — Mi no so se el li trapava. Lui gaveva anca 'sta incombenza qua de visitar, insoma. Omo de fiducia, ve go dito: lui gaveva navigado ani e ani per i Nìcolich e i Nìcolich ghe voleva ben. Quartier savé, el gaveva, propio in Arsenal. Oh Dio quartier! solo el ve iera, el gaveva camera, camerin e cusina, ma drento in Arsenal. Comodo, perché cussì cola gamba de legno no ghe ocoreva moverse e far strade. E pagheta, quartier e tuto franco. — Anca acqua e gas? — No so mi. Ma sicuro che el gaverà avudo anca acqua e gas. Cossa volé che fussi per un Arsenal del Lloyd quel fià de acqua e gas che podeva consumar un Pìllepich! L'Arsenal del Lloyd iera grandioso, savé. E co' iera un varo lavorava meza Trieste. — In Arsenal? — Come, in Arsenal lavorava meza Trieste? Se dise per dir, perché co' iera un varo de una de 'ste prime barche che i fazeva, e vigniva Arciduchi, Uficialità, Nunzi Apostolici a benedir, lavorava tuti a Trieste: sarti, sarte, modiste, fioristi, hotéi. Perché iera un avenimento, savé. E tute le siore se fazeva el vestito novo, i omini in cana, e una fila de carozze, me ricordo, che andava dela Tore del Lloyd fina in Campo Marzio. — Mi go visto qua in squero dei Chiole co' i ga varado i «Cinque Fratelli» ... — Ma cossa volé che ve podeva esser un «Cinque Fratelli», che iera sì una bela scuna, in confronto de quele barche che i fazeva in Arsenal del Lloyd a Trieste? Là se parlava de transatlantici, de corazzate! Ve basti pensar che l'ingegner del varo, quel che propio iera diretamente el responsabile del varo, stava là col revòlver pronto in scarsela. — E el sbarava co' iera el varo? — Ma cossa el sbarava co' iera el varo? Lui stava col revòlver pronto in scarsela, perché se ghe nasseva qualcossa ala barca el se cioleva la vita. — Iera obligo? — Ma no obligo! Iera per dirve cossa che no iera un varo in Arsenal del Lloyd a Trieste. Ma andava sempre ben: me ricordo 'ste butilie de sampagna che se spacava sula murada, tuti che bateva le man, le sirene che fis'ciava e la banda che sonava la Marcia del Principe Eugenio. — Anca lui là? — Indiferente, Prinz Eugen Marsch. Insoma, anca co' iera 'sti vari, Pìllepich iera là in bareta, perché el gaveva anca l'incombenza che no vadi perso el stropon. — El stropon dela barca? — Cossa el stropon dela barca? El stropon dela fiasca de sampagna. Perché se usava, no? Finido el varo, se cioleva el stropon dela fiasca de sampagna e dopo i ghe fazeva far del orefice, de Ianesich propio, el tondél de oro con scrito sora el nome del vapor, el giorno, el mese, l'ano, tuto. I salvava in Direzion per memoria. Che, anzi, ogni volta che Pìllepich ghe portava el stropon a Sior Antonio, Sior Antonio ghe diseva: «Pìllepich mio, pecà 'sto bon sampagna del Novantaoto che ne xe andà tuto in acqua!» E el rideva. 'Sto Pìllepich, come che ve disevo, iera solo in quartier in Arsenal, ma istesso el se la passava. Un poco el servizio, un poco el pescava cola togna sul molo del Arsenal e un poco el fazeva barche in fiasca, savé quele che fa i maritimi, per passar el tempo. Man de oro, el gaveva. — Ah, barche in fiasca! Adesso nissun fa più. — Indiferente, lui fazeva. Man de oro el gaveva, che in Direzion el ghe gaveva regalado una a Sior Antonio che tuti diseva «Che bela, che bela! Se vedi tuto, anca i bozei!» E qua, là, una roba l'altra che ve disevo, qualche volta vigniva a trovarlo suo cognà Politèo. — Ah Politeo? Mia nona nasseva Politeo. — Tuti nassi in qualche modo, siora Nina. Politeo sarà che noi no saremo. Iera tanti, ma 'sto Politeo che iera cognà de Pìllepich, iera gambusier sul Lloyd. El gaveva navigado insieme con Pìllepich tanti ani, prima dela disgrazia. — Che disgrazia? — Come che disgrazia? No volé che no sia una disgrazia perder la gamba per esserse sponti cussì stupidamente su un ciodo? E a 'sto Politeo, Pìllepich ghe diseva: «Te se ricordi, Giovani, co' vignivo in gambusa che se bevevimo le fiasche vanzade de sampagna?» — Vanzava fiasche? — No miga fiasche intiere che vanzassi a bordo! Iera che el passeger qualche volta no beveva tuto e alora vanzava dò dèi, tre dèi. E zinque, sie fiasche con dò, tre dèi ogniduna che vanzava, lori se le slucava in gambusa. Anca mi qualche volta: un rider, una contentezza! «Bei ani, ah iera», ghe diseva Pìllepich a 'sto suo cognà. E Politeo che no el stia bazilar, che istesso no ghe xe mal nela disgrazia, che el ga un bon posto, che i xe insieme a contarsela come una volta e che sicuro, dio mio, se ghe fussi un dò tre dèi de sampagna sarìa ancora più meo, ma che ognidun ga el suo destin. E vedé, xe stà qua che a Pìllepich ghe xe vignuda la tentazion. — La tentazion del diavolo? — Ma cossa ghe entra el diavolo? La tentazion. Perché zò in cantina dela Direzion del Arsenal, dove che i tigniva le bandiere, iera sempre una dozena de fiasche de sampagna, quele che i doprava per i vari. Sampagna francese, per i vari po', prima qualità. Pronte là, perché assai se varava, savé, quela volta. E Pìllepich ghe fa a Politeo: «Giovàni, mi tante volte go pensado co' vado a cior el stropon: pecà che 'sto bon sampagna vadi tuto in acqua. Anca Sior Antonio el dise. E gnanca la butilia no resta intiera per far barche in fiasca. Solo al stropon i ghe sta drio per tignir in memoria. E se mi e ti, Giovàni, pulito se verzessimo una de 'ste fiasche de sampagna e ben pulito se la slucassimo mi e ti qua in quartierin?» — Orpo! e no el gaveva paura che i se inacorzi che manca? — Xe quel che ghe ga dito Politeo: «Varda Pìllepich, che i se inacorzerà che manca, le butilie sarà sicuro contade!» E Pìllepich che no mancherà gnente. Che lori solo se la beverà e che dopo i meterà tuto in ordine: el stropon, el fil de fero, la carta de oro, che giusto basterà star atenti de cavarla pian pian, e amen. «Si — ga dito Politeo — e drento dela fiasca?» «Drento meteremo bira, passereta, quel che ti vol, basta che fazzi spiuma: chi te andarà a licar la prova dela barca per zercar se xe propio sampagna quando che i vara? Figùrite, con quela confusion!» — Eh, bira fa spiuma! — Fa anca pienezza. Ma inveze savé cossa? Lori no ga messo gnanca bira drento. Che xe pecà, ga dito Pìllepich. Savé cossa che i ga messo drento lori? Acqua e citrato, citrato che Pìllepich tigniva per l'acidità. E dopo, lui che gaveva man de oro, barche in fiasca che el fazeva, el ga messo tuto a posto, la butilia col fil de fero e la carta de oro che la pareva nova de botega. E i cantava contenti «Dò marineri che vano in Egito, oh che bel sito che vano a vedèr», un poco ciapadi che i iera! — Mama mia che truco! E dopo? — E dopo gnente. Dopo xe andà tuto ben co' de là un mese xe stà un varo. Se ga spacà 'sta fiasca de sampagna sul «Héluan», me ricordo, che mai tanta spiuma, che tuti anzi ga dito «Fortuna! Fortuna!», podé capir, citrato che iera. E cussì xe stà col «Vienna», col «Cherca», con no so quanti vapori. Savé: ogni volta che vigniva Politeo, che gaveva bastanza ocasioni de vignir, lu e Pìllepich i se slucava insieme una fiasca de sampagna de queste dei vari. — Imbriaghi? — Cossa imbriaghi per una fiasca de sampagna! Alegri. E insoma gnente, nissun no se ga mai inacorto de gnente. Iera prima dela Prima guera. Che anzi, un giorno xe vignudi tre Amiragli, mi calcolo, russi. — A trovar Pìllepich? — Ma cossa a trovar Pìllepich tre Amiragli russi? Iera vignudi in Arsenal del Lloyd a parlar con Sior Antonio 'sti tre Amiragli russi — che quela volta iera ancora el Zar — vignudi apositamente de Pietroburgo, San Pietroburgo se ciamava in alora. E i iera vignudi a parlar con Sior Antonio perché la Marina Russa gaveva divisado de far la Corazzata Potemkin. — Farla con Sior Antonio? — Come con sior Antonio? I voleva far 'sta corazzata in Arsenal del Lloyd e se i la voleva far là con chi i doveva parlar se no che con Sior Antonio? Ve contavo no, che i xe vignudi. De dopopranzo, e i se ga serado in scritorio de Sior Antonio a parlar con Sior Antonio. E Pìllepich spetava fora che i sortissi per po' serar el porton dela Direzion, perché lui iera omo de chiavi, de fiducia. Sona la sirena dele zinque, va fora tuti i omini, vien le sie, le sete, sete e meza, e 'sti qua sempre drento che i parlava. Tanto che Sior Antonio ale nove ga messo la testa fora dela porta e ghe ga dito a Pìllepich: «Andé, andé Pìllepich, che qua faremo tardi. Lasséme la ciave che sererò mi.» E Pìllepich ghe ga dito: «Va ben, grazie, Sior Antonio». Iera assai bon Sior Antonio, dignevole. E via lui su per le scale per andar in quartierin, scalin per scalin con 'sta sua gamba de legno, savé come che l'usava. — Ah, el gaveva suso el quartierin? — Sicuro. E po' su o zò che importanza ga? El fato xe che ale diese, diese e meza, 'sti tre Amiragli e Sior Antonio gaveva quasi fato contrato per 'sta Corazzata Potemkin. E Sior Antonio ghe ga contà po' a Sior Nicolò, che mi go savù co' za no iera più né Austria, né Russia, né gnente, che Sior Antonio ghe ga dito a 'sti tre russi: «Pulito, siamo praticamente dacordi e per la firma faremo un bel brindisi, solo che mi spetate un momentin.» Per francese el ghe parlava. — Un brindisi per far festa? — Far festa? Per bagnar el contrato come che se dise: se usava. Sior Antonio ga ciolto le ciave de Pìllepich, che el ghe le gaveva lassade sulla carega fora dela porta, el xe andà zò in cantina e el xe tornado suso con una fiasca de sampagna, fresca. — E i ga bevudo? — Bevudo, sì, siora Nina. E la Corazzata Potemkin no i la ga mai fata a Trieste. Mai no se ga savesto perché. Ma mi calcolo che 'sti Amiragli russi gabi pensado che, se in Arsenal del Lloyd per sampagna i dà citrato, no pol esser serietà de un cantier. MALDOBRIA III - LE GRANDI MANOVRE Nella quale si narra dell'audace piano operativo concepito per le esercitazioni combinate della i. r. Marina e dell'Esercito austroungarico, le cui comunicazioni, in caso di emergenza, erano garantite da corrieri volanti, e di non meno audaci imprese amatorie. — Presto quà sarà più colombi che cristiani, tanto cristiani veri xe pochi, go sempre dito mi, siora Nina. E po' 'sti colombi qua vien suso come l'erba mata, perché questi no ve xe colombi de razza, questi xe colombi bastardi; sempre la razza bastarda vien suso. Dovevi véder vù inveze i colombi che gavevimo nualtri. — Cossa gavevi una colombera, come el maestro Girardeli in Ponta Sant'Andrea? — Maché maestro Girardeli, cossa ghe entra el maestro Girardeli? No che mi, propiamente mi, gavessi colombera, nualtri gavevimo colombera a Séghedin, Seghedino, che se ghe diseva. — Andove vignissi a star? In Montenegro? — Perché po' in Montenegro? Cossa ve insogné del Montenegro? Seghedino xe Séghedin, nominada dapertuto. Seghediner wurstel, luganighe de Seghedino: nei meo locai de Fiume e de Trieste i tigniva. Sempre i dimandava: «Viena» o «Seghediner»?... — Cragno no i tigniva? — Come no i tigniva? Anca Cragno. «Viena, Cragno o Séghediner?» i dimandava sempre. — A vù i ve dimandava? — Cossa, a mi? Ai aventori, per véder che luganighe che i voleva. Anca a mi, sicuro anca a mi i me dimandava. Ma po', cossa ghe entra le luganighe? Mi ve contavo che ierimo a Séghedin quel periodo che iera le Grandi Manovre in Ungheria. Perché, dove ve xe Séghedin? In Ungheria. A metà strada fra Budapest e Zagabria. Che Zagabria no xe Ungheria, ma quela volta, ve parlo de prima dela Prima Guera, iera pertinente ala Corona Ungarese, come Fiume, del resto. E difati iera dò colombere: una a Fiume e una a Séghedin. — No iera altre? Dò uniche colombere? — Ma cossa no iera altre? Chi sa quante che sarà stade! Ma queste ve iera propio colombere dela Fanteria de Marina Austro Ungarica quel periodo che ve contavo che iera le Grandi Manovre. — Tiro al piccione come, fazevi col s'ciopo? — Ma cossa, tiro al piccione, in un esercito austro - ungarico? Questi ve iera colombi de razza, colombi viagiatori. Féme logo, speté che me sento. Perché vù dovè saver che quel periodo iera le Grandi Manovre e tuti nualtri de qua, mi e Polidrugo, massima parte, de Fanteria de Marina che ierimo, i ne gaveva mandado a Séghedin. Del Dòdese iera e iera le più grande Grandi Manovre de prima dela Prima Guera. Insoma, iera tuto concepido come che se una flota nemica gavessi fato un sbarco de militar sul Litorale Ungarico. — Ah, ungarico! Lontan iera 'sto litorale? — Cossa lontan? Fiume ve iera. Litorale Ungarico, cussì come che iera regolade le vece province. De Fiume fin no so dove iera tuto Litorale Ungarico. Dalmazia inveze iera Austria, cussì iera regolado. Ben, queste Grandi Manovre iera concepide come se 'sta flota nemica, che ve disevo, gavessi sbarcà el militar sul Litorale Ungarico e de là, drito via per Zagabria, Seghedino e oltre, i doveva ciapar Budapest. Che po' el Comandante Hùbeny diseva che iera tuto monade e el predicava che, propio volendo ciapar Budapest, no se pol passar driti per Zagabria, ma bisogna prima andar a Lubiana. — E lui xe andà a Lubiana? — Ma cossa lui a Lubiana? Lui iera ufizial, lu andava dove che i ghe diseva de andar, lui predicava cussì, ma anzi lui iera contento de esser a Séghedin, perché, savé, lui ve iera propio ungarese. Ungarese de Fiume, ma ungarese e là lui se la passava. Anca nualtri, per dirve la sincera verità, se la passavimo. Savé, de Fanteria de Marina che ierimo, con tuto monture nove per le Grandi Manovre che i ne gaveva dado, là a Séghedin che no i gaveva mai visto altro che militar de tera, 'ste regazze ungaresi iera come mate per nualtri. Capiré la montura assai ghe pol ale done. — Eh, quante regazze, povere, che se ga cussì iluso col militar! — La dona, siora Nina, no se la iludi se no la vol farse iluder, ma indiferente. Ve contavo perché iera bel 'sta concezion de 'ste Grandi Manovre. Figurévese che figurava che iera propio dò eserciti nemichi. — In dò contro de vualtri? — Ma no in dò contro de nualtri: un contro de quel altro, Grandi Manovre, po'. Iera tuto militar austro - ungarico, natural, ma figurava che metà fussi nemichi e metà nualtri. Iera 'sta flota de sbarco che sbarcava el militar sul Litorale Ungarico per far invasion del'Ungheria, che po' iera de rider, perché 'sti qua che doveva invader l'Ungheria iera comandadi del Amiraglio Horty che iera el primo dei ungaresi. Chi più ungarese de lu? Anca dopo. E con lu iera tuto gente nostra, anca Pìllepich per dirve, e tuti 'sti istriani, 'sti dalmati, 'sti piranesi, triestini massima parte. E inveze chi che difendeva, che figurava de difender l'Ungheria, iera el General Boròjevich von Bojna, un partitante croato, i diseva, che no podeva véder i ungaresi gnanca in pitura. Insoma de rider. E tuto iera po' de rider con 'ste Grandi Manovre perché, a un zerto punto, ga figurado anca che tute le linie de comunicazion fra Budapest, Séghedin e el Litorale Ungarico iera interote. — Ah, no se podeva più moverse? — Ma sicuro che se podeva moverse, difati el zivil se moveva, mandava letere, telegrami, tuto. Ma per nualtri militari figurava che no iera più né telegrafo, né posta, né treni, né telefono e che po' tuti i ponti iera saltadi. — Mama mia, che dano! — Cossa dano? Figurava. I ponti iera là, solo che davanti e de drio del ponte iera un aviso: «Ponte saltato», scrito per tedesco, ungarese, croato, anca italian, qualche volta. «Gesprengte Brücke»: ponte saltato, e pensévese che el militar, per andar oltra, doveva cavarse i stivai, tirarse su le braghe e andar saltando de un sasso al altro, che anzi 'sti campagnoi ungaresi, coi capei de ungaresi, ne vardava pozadi sul parapeto del ponte, ridendo e disendo parole per ungarese. Ve disevo: per el militar figurava che no iera più ponti, no iera più telegrafo, no iera più telefono, no iera più treni, no iera più poste. E alora solo colombi. — I colombi podeva? — Ma cossa i colombi podeva? I colombi doveva: per mandar ordini, una roba e l'altra del militar, de Séghedin al Litorale Ungarico, no iera che i colombi viagiatori. Che ierimo mi, Polidrugo, el Comandante Hùbeny e un per de croati che netava le chebe, adetti a 'sta colombera. E savé chi che iera el Comandante Superiore de tutti 'sti reparti de Colombi Viagiatori? — Se gavé dito, el Comandante Hùbeny. — No! El Comandante Hùbeny iera apena el Comandante Distretuale dela Colombera de Séghedin. Ma el Comandante Superiore de tuti i reparti de Colombi Viagiatori ve iera l'Arciduca Francesco Salvatore, un del Sangue, propio Absburgo - Lorena d'Austria - Este. Bel omo, giovine ancora, nevodo del Imperator che co' el vigniva a Séghedin el stava in una magnifica vila con un vial stupendo, rente de la colombera. Belissimo omo. E cotolér, i diseva. Figurévese che lui, Comandante che el iera de tuti i reparti de Colombi Viagiatori, el gaveva chebe de apositi colombi bianchi sui de lu, candidi, che lui mandava de qua e de là con bilietini per queste sue done. Una bravura, come de omo romantico, ma ale done, quela volta 'ste robe assai ghe podeva. E po', bel omo che ve disevo che el iera, sempre in montura de Kaiserjegher, che iera belissima, col capel de pel e la siabola longa, el iera assai figuroso e el gaveva regazze a boca desidera. Ve go dito: la montura assai ghe pol ala dona. — No el iera sposado? — El sarà stà sì sposado, el gaveva anzi le fotografie dei fioi sul pulto in 'sta vila a Séghedin, che una volta mi go visto, ma per questi del Sangue iera indiferente. E me ricordo che quando che rivava in colombera un colombo bianco, nissun de nualtri doveva tocarlo: solo Hùbeny. Hùbeny andava lu personalmente nela cheba, ghe cioleva via dela zata el tubeto col bilieto e el ghe lo portava in vila. Dopo el tornava con altri tubeti de bilieti e sempre con colombi bianchi el li spediva via. Maldobrìe, fufignezi, con done. — Xe bele done le ungaresi? — Belissime, bionde, biondo-zenere. Ma 'sto Francesco Salvatore no ve gaveva solo che ungaresi, lu ve gaveva done dapertuto, anca a Fiume, i diseva una. Belissima, fia unica de un grossista ebreo, mora. Ben, bon, indiferente. Ma anca nualtri no se fazevimo mancar in Ungheria. A Séghedin po' iera belissime putele, bionde; ma no de quel biondo panocia, quel biondo-zenere, bel. E co' andavimo in 'sti locai dove che le iera, Polidrugo me scassinava drio, el se setava ben la montura e el ghe diseva cussì, franco per ungarese, che el se gaveva imparà: «Signorina, ghe piasi la luganiga de Séghedin?» E queste subito a riduzzar, cicole ciàcole, balar, bever tokài, natural, e vin del Bàlaton, che xe bonissimo, Baràsz Palìnka, liquor forte che imbriaga: un rider, una contentezza. Insoma putele no ne mancava. Savé, la montura assai ghe pol ala dona. — Ma vualtri no ieri sposadi? — Ma no: ve parlo de prima dela Prima Guera, co' iera le Grandi Manovre del Dòdese, che le ga durà più de un ano, perché l'Amiraglio Horthy, con 'ste trupe de sbarco, che iera anca Pìllepich, no rivava mai a ciapar Budapest, che anzi el Comandante Hùbeny diseva: «Go sempre dito mi che per ciapar Budapest, bisogna prima passar per Lubiana.» No ierimo no, sposadi, siora Nina. Sì, Polidrugo gaveva una sposa, una che el se parlava a Volosca. Marìci la se ciamava, me ricordo. Che anzi co' el iera imbriago duro, che ghe vigniva malincunìa, come, el ghe diseva a 'ste ungaresi: «Io a Marìci ci voglio bene!» — El se gaveva inamorado in ela? — Mi calcolo, perché, come che figurava che no iera più linie de comunicazion fra Séghedin e Fiume, e el militar in montura no podeva gnanca andarghe vizin né ala Posta, né al Telegrafo, lui no podeva più né scriver né ciapar letere de 'sta Marìci e el iera assai avilido. — E no el podeva andar ala Posta vestì in zivil? — Intanto chi gaveva vestito de zivil? E po' Polidrugo a Séghedin dove el se gavessi mai messo in zivil, che el diseva sempre che la montura ala dona ghe pol. Gnente, ve digo: no iera né modo né maniera per el militar de scriver o de ciapar una letera. Fin che finalmente un giorno, i me ga dà permesso per andar a casa, in licenza. — Ah, e cussì Polidrugo ve ga podesto dar de portarghe una letera a vù? — Anca. Però el me ga dito: «Bortolo, mi go 'vudo un'impensada che ne sarà ben per mi, per ti, per tuti nualtri, ti vederà. Bortolo, questi croati che neta le chebe dei colombi me ga spiegado che el colombo viagiator per andar de un logo al altro el deve esser nato.» «Sicuro che el deve esser nato — ghe digo mi — se no el xe nato come el svola?» «Ma no, sempio, speta: el colombo ga nel zervel, nel zerveleto, l'orientamento fin de quando che el xe ancora nel ovo. Me ga dito anca el veterinario. Se ti ti porti un ovo de colombo ingalà, incolombà insoma, de qua fin Volosca metemo, 'sto colombo co' el nasse e el svola, co' ti ti lo moli, el torna qua garantito. E alora ciapa qua 'sto ovo de colombo e portighelo a Marìci insieme cola letera, che drento xe spiegà tuto. Ela la lo fa covar de una dindia, po' tempo un mese, co' el nasse e el svola, ela la lo mola e lu xe qua de ritorno col bilieto.» — Che bilieto? — El bilieto che Marìci me scriverà, ga dito Polidrugo dandome anca un tubeto. E insoma, cussì semo restadi dacordi, el me ga compagnà in stazion — che el militar in licenza, cola carta podeva andar in treno — bon viagio, adio e 'sta atento de no romper l'ovo! — Gavevo, gavevo sentido questa dei colombi che co' i nasse i torna... — Sicuro. E colombo bianco iera 'sto qua. Perché Polidrugo gaveva avudo ocasion de cior un ovo propio del Arciduca Francesco Salvatore, de colombo, natural. E cussì, dopo, co' son tornà, ne tocava a mi e a Polidrugo presto presto visitar, vardarghe nel tubeto de tuti i colombi bianchi che rivava, prima de ciamar Hùbeny. — Per cossa? — Oh Dio, per cossa! Per véder se rivava el colombo bianco de 'sta Marìci. E no ve digo cossa che no gavemo leto in quei bilieti che 'ste done ghe scriveva a Francesco Salvatore. De tuto iera scrito: «tuta me stessa», robe cussì. Ben, un giorno xe rivado finalmente 'sto bilieto de Marìci, e Polidrugo contento, podé capir. Dopo lui, 'sto suo colombo lo tigniva separado dei altri, come una reliquia. Bel el iera, grando, ben vignù, perché covadi dele dindie i colombi i dise che vien belissimi: forti. Ben, no volé che un giorno che ierimo su in colombera, sentimo zigar soto «Abtàt!» «Fuori la guardia!» e tuto. Chi xe, chi no xe? L'Arciduca Francesco Salvatore con un tubeto in man. E el ghe dise a Hùbeny che el ga urgenza de mandar questo messagio urgente a Fiume, che el lo mandi con quel colombo là che ghe par el più bel e el più forte de tuti. E no el mostra, puntanto col déo dela man con el guanto bianco el colombo de Polidrugo? — No el mostra? — El mostra sì, propio quel. E Hùbeny lo ciol fora, ghe taca el tubeto sula zata e via lu el svola fora dela colombera. «Messagio partito», ga dito Hùbeny saludando. — Messagio de guera, urgente? — Urgente sì iera, ma no de guera. Perché dopo gavemo savesto che iera scrito su in italian per 'sta mora fia de quel grossista ebreo de Fiume che ve disevo prima: «Giovedì 14, ore 3 di dopopranzo Chiesa dela Madona di Tersato rente il confessionale ungarese.» Senza firma, podé capir, un Arciduca no se comprometeva. — E 'sto colombo xe andà de 'sta fia de 'sto grossista ebreo? — Ma che fia del grossista ebreo, se iera el colombo de Polidrugo? Quel saveva solo che andar a Volosca in casa de Marìci e subito, 'pena che el rivava, el se cufolava vizin dela dindia. — Che truco! E cossa ga fato Marìci? — Cossa volé che fazzi Marìci? Co la ga leto 'sto bilieto, la ga ciolto el vapor, la xe andada a Fiume e po' su per la riva in Cesa dela Madona de Tersato, giovedì 14 ale 3 de dopodranzo, la ga spetà rente del confessional ungarese. — Mama mia! E cossa xe nato? — Cossa volé che sìa nato, siora Nina? El xe vignù lu, Francesco Salvatore. E, capiré, vestì de Kaiserjegher, capel de pel, siabola longa... Inutile: ala dona assai ghe pol la montura! MALDOBRIA IV - L'AMERICANO Nella quale si varca anche l'Atlantico per seguire in Nuova York le avventure di Giovanin, detto successivamente American, che, dopo essersi elevato ad impreviste altezze, tornò, arricchito di nuove esperienze, nel solco delle antiche tradizioni proprie alle genti dell'Adriatico orientale e alle stirpi dei grandi navigatori. — A chi, maritimo, un bel momento no ghe xe vignuda la stufa e la ufa de navigar? Che po' nassi in tuti i mistieri savé, ma massime col navigar xe che un bel momento vien la stufa e la ufa. Capiré xe sacrifizio, xe un esser sempre via de casa, un rugnar che per quel che i dà no merita. Epur, istesso come che piase navigar, e véder mondo e gaver de contarle, e profitarse co' se pol, e intivar gente de qua e de là. E po' come che dispiase co' no se pol navigar più, e i altri naviga, e torna, e i conta e i dise e i fa. Xe la vita del maritimo, siora Nina. Oh Dio, xe anca qualchedun che propio no ghe piase. Ve ricordé Giovanin American? — Quel che i ghe diseva American, quel che navigava? — Sicuro che el navigava, ma lui no ga mai gavesto voia de navigar. No come quei che dopo, un bel momento, ghe vien la stufa e la ufa: lui propio de bel prinzipio, apena che el podeva el ve se sbarcava. Mi me lo ricordo ancora ragazzeto. — Che el se sbarcava? — No, che el gaveva pochi ani de meno de mi, picio, nero del sol, cole braghe sbregade e una maieta a righe, ancora me lo ricordo che el iera un malignazo, che iera fin de rider dele maldobrìe che el fazeva. — No el voleva andar a scola? — No so mi se el voleva o no el voleva, fato sta che lui iera sempre in strada, e a Fiume che el stava un periodo, el iera sempre per le strade coi muloni in Braida. Ben, pensévese che una volta, che i zogava de balon co' una bala, con 'sta bala el rompe la lastra de una levatrice che stava in piantéra. Tuti 'sti altri muli scampa e lui, muso risoluto, el va là soto dela finestra de 'sta baba che zà zigava che i ghe ga roto la lastra e che la voleva ciamar le guardie, e, ve disevo, muso risoluto, 'sto Giovanin American ghe fa, ci dice: «Go roto mi, scusème tanto signora, go fato senza voler e ogni modo no stéve preocupar, che mio padre che xe conza-lastre vignirà subito a meterve una lastra nova.» Ma con bela maniera propio, un bel sestin el gaveva, fin de picio. — E 'sta levatrice? — Ela gnente, la se ga pacificado: che va ben, alora che va ben, che vegni 'sto suo padre conzalastre. E difati de là un poco, 'sto omo xe vignudo, el ga messo su la lastra ben, col stuco, come che se usava quela volta, che no la stia né verzer né serar fin che no se suga, e che xe una corona e vinti. «Come, una corona e vinti — ghe fa 'sta levatrice — che el fio che ga roto la lastra cola bala ga dito che vù sé suo padre?» «Come, mi suo padre? — ghe dise 'sto conzalastre — a mi el me ga dito che vù sé sua madre e che vegno a conzarve la lastra!» — Ah, no el iera suo padre? — Sicuro che no! Come volé, siora Nina, che Giovanin American gavessi el padre conzalastre a Fiume, che el iera orfano? Né padre né madre no el gaveva, povero picio, perché el padre e la madre — prima el padre, che lui se pol dir gnanca no lo ga conossudo, e po' la madre — ghe iera morti giovini. Poveri, assai ben i se voleva, ma i gaveva poca salute. — Mal de peto? — Sì, lui mal de peto e dopo ela ga ciapà de lu. Indiferente. Insoma, 'sto Giovanin stava col zio Jurissa, che lo gaveva ciolto con sé a casa, zinque fioi che gaveva 'sto Jurissa, un de più, un de meno, cossa volé? Dove che magna zinque magna sie. Ma podé capir che un ragazzeto cussì finissi che el cresse come l'erba mata. — Eh, i fioi rilevadi senza padre né madre xe bruto. — Indiferente. Vardé che però lori lo ga rilevado come che el fussi fio suo, ma lui fin de picio ve iera un de quei che gaveva, no so come dirve: grandezze, forsi. Insoma, lui per dirve, l'andava fora del hotél co' vigniva foresti a vardar 'sti foresti. Che lui andarà a Trieste, el diseva sempre, che quela volta Trieste iera come dir Parigi per nualtri. E ghe spuzava de imbarcarse cussì come giovine de coverta a quindese ani come che qua tuti se imbarcava. Me ricordo che la prima volta che i lo ga mandado col «Maristella» de Barba Chiole, lui se ga sbarcado solo si stesso a Pola, el ga ciolto el treno fin Pisin in cesso senza pagar bilieto e el xe tornado qua. — Scampado? — Sì, lui iera propio un de quei che scampava de man. E tornado a casa el ghe ga dito a suo zio Jurissa che sul «Maristella» a lui, figurévese, no ghe piaseva la panàtica, come che i cusinava, insoma. Che anzi in local rideva tuti co' Jurissa ghe fazeva dir. E alora dopo i lo ga imbarcado sul «San Francisco» de Piero Tomìnovich, che Piero gaveva quela granda scuna che i fazeva viagi fin zò in Antìvari, in Levante anca i andava. «No sté gaver pensier, Jurissa — ghe ga dito Piero Tomìnovich — che ghe indrizzerò mi le corbe!» E inveze 'sto Giovanin, propio in Antìvari el xe montado su una barca grega che vigniva in su, che lui ghe laverà i piati, spelerà patate, e el xe tornado a casa. Che cossa? Che lui starà con Piero Tomìnovich che el ghe fazeva fregar ogni santo giorno la coverta, gnanca che i gavessi de magnarghe suso la calandràca, che el lo mandava a rampigarse ogni momento su per i cavi in cofa senza scopo, anca col bruto tempo, che ogni volta che el verzeva boca iera subito un stramuson e che lui anderà a Trieste. — No el se trovava? — Per forza che no el se trovava, se el gaveva tute 'ste pretese. Ma volé creder che lui, per quel unico viagio che el gaveva fato su quela barca grega, lui zà parlava qualcossa per grego, che anca Barba Nane scoltandolo ga dito che sì che propio cussì parla i greghi. «Pecà, diseva anzi Barba Nane, che un fio cussì, con bona testa, gabi de butar strambo!» Che forsi ghe volessi anca secondarlo un poco. E tanto el ga dito, tanto el ga fato che el lo ga fato imbarcar a Trieste sul'Austro-Americana, che fazeva la linia del Nort-America. Capiré: su 'ste barche grande, de passegeri, véder America, forsi chi sa ghe vignirà amor, calcolava Barba Nane. Sul «Laura» i lo ga imbarcado, bela barca iera el «Laura» me ricordo: dopia elica. — Ah, comodo! — Iera le prime a dopia elica: el «Laura» e la «Marta Wàssinton» che fazeva tute dò Nort-America. E 'sto Giovanin iera imbarcado come giovine de camera. Che anzi, el Comandante Bojànovich, che pur iera un tremendo, ghe gaveva dito dopo un viagio a Barba Nane che 'sto giovine iera pulito, che subito el se gaveva impratichido de parlar coi passegeri per inglese e per tedesco. — E no per grego? — No so mi, se el gaveva ocasion forsi el parlava anca per grego, ma per dirve, no, come che subito el se imparava. Perché lui iera pronto, sveio, e per quel anca ghe fazeva rabia. — A chi, cossa ghe fazeva rabia? — A 'sto Giovanin ghe fazeva rabia — rabia, insoma, come un'invidia — de véder 'sti passegeri che lussava, che gaveva disponibilità, e anca 'sti Alievi uficiai che iera imbarcadi, che co' i rivava a Néviork i se meteva in montura alta: braghe longhe setade cola banda, corpeto a vita, botoni de oro, fiocheto e bareta col'ongia, che co' i tornava a bordo i gaveva sempre qualche putela che li compagnava. — Putela americana? — Sì, americana, facile a Néviork. Inveze, savé el maritimo de bassa forza, cola blusa e la bareta tonda iera poco calcolado. — A Néviork? — A Néviork come dapertuto e come sempre, siora Nina: el mondo gira, ma el gira per tornar là dove che el iera. E 'sto Giovanin, capì, pativa. Cussì una volta, co' i xe rivadi a Néviork, savé cossa che el ga fato? Lui pulito xe andado in gabina de un Alievo, uno che giusto i lo gaveva portado in ospedal in tera perché gran dolori qua, el se ga ciolto la montura de 'sto Alievo uficial, el la ga ficada nel suo saco e nel primo condoto che el ga trovà, de quei che a Néviork xe sototera là dela ferovia, el se ga cambiado, el ga lassà el saco cola sua roba in stazion e el ga cominciado a spassegiarse per le strade cussì vestido de Alievo. Savé a Néviork dove che la Quarantadue Strade fa canton cola Quinta Strada? — Mi no mi. — Bon, mi so, mi iero: là. Là ve xe un gratacelo, che quela volta, ve parlo sempre de prima dela Prima guera, iera forsi el più alto de tuti i gratacei che iera a Néviork, dopo no più. Un trenta, quaranta piani ga contado Giovanin cola testa in su che el vardava, e un porton, siora Nina, grandioso, con drento negozi, boteghe de fioristi, privativa de tabaco: tuto. E 'sto Giovanin, vestido che el iera de Alievo, el se ga sentido come in coragio e el xe andà drento. Savé per cossa? Perché lui ga pensado, se in palazzo del'AustroAmericana a Trieste i ga el saliscendi, che xe zinque piani, chi sa qua che xe trenta, quaranta piani che saliscendi che i devi gaver! — Saliscendi, come dir ascensor? — Cossa come dir? Quela volta se diseva saliscendi, e difati el vede 'sta porta del saliscendi, che ognidun podeva andar liberamente drento. E el va drento anca lu. Grandioso saliscendi: per un diese, dòdese de lori, ma in quel momento per combinazion no iera nissun. Savé, iera quei primi saliscendi senza manizza, coi botoni, che no ocoreva gnanca l'omo aposito. — Che omo aposito? — Quel che, una volta co' iera la manizza, ghe voleva l'omo apòsito. Ma 'sto saliscendi qua iera zà coi botoni con sora i numeri de ogni pian come che xe adesso. Un podeva andar liberamente drento, verzer la porta, serar la porta, fracar el boton e l'andava su solo: roba americana. E cussì Giovanin ga profitado e se ga menà fin su in alto, anca perché tuti i botoni gaveva un numero e inveze sul ultimo iera scrito «top» e lui voleva saver cossa che xe 'sto «top». — Stop iera scrito? — No «stop»: «top», che per amierican ve vol dir ultimo pian, mi so. Lui fraca 'sto «top» e el va su in alto. Che là in alto, propio sul teto iera la terazza. — Ah! Per meter sugar i linzioi! — Ma cossa meter sugar i linzioi in una Néviork! Terazza coverta: iera un local, in alto, dove che la gente, massime foresti, gente de passagio, andava a magnar e a véder Néviork de là suso, el panorama, insoma. E iera anca, subito fora del saliscendi, in sfasa la lista cibaria, con prezzi che Giovanin ga visto subito che fazeva spavento. Alora el torna drento in saliscendi e in quela el vede oltra dei vetri una siora che coreva e che ghe fazeva moto de spetar. E lui speta, ghe verzi la porta, con quel bel sestin che el gaveva e el la fa vignir drento. 'Sta qua vien drento e ghe dise «Flòor». — Che el ghe daghi un fior? — Perché el doveva darghe un fior? «Flòor»: piantéra vol dir per american, quel saveva anca Giovanin. Lui alora fraca el boton del «flòor» e zò va 'sto saliscendi fin zò in piantèra. Lui ghe verze le porte a 'sta siora, 'sta siora varda in borseta, la tira fora una moneda e la ghe dà dieci centesimi. — Dieci centesimi? Come che se ghe dava ai poveri? — Siora Nina: diese centesimi de dolaro, dieci cent, cossa poveri? El dolaro quela volta ve valeva zinque corone, e diese centesimi de dolaro iera meza corona de quela volta, figurévese. Che a Trieste con meza corona vù gavevi una Viena con kren, capuzzi, una bigheta de pan, un rwezo de bira: e tuto quanto se pagava meza corona. — Iera assai? — Per noi assai: per America iera mancia. Capì, siora Nina, 'sta siora a véder 'sto Giovanin che ghe verze le porte e ghe fraca i botoni, tuto in montura de Alievo che el iera, la ga calcolado che el doveva esser el giovine apòsito del saliscendi e la ghe ga dà mancia. E Giovanin se vardava ancora 'sti diese centesimi che el gaveva in man, co' in quela vien drento tre de lori, e un ghe dise: «top». E anca i altri «top», «top». Alora Giovanin ga serà le porte, ga fracà el boton del «top» e su lori sul «top». Siora Nina: trenta centesimi. — Come, trenta centesimi? — Eh sì, siora Nina: ognidun de 'sti tre ghe ga dà diese centesimi. De dolaro. Una corona e meza: che con quei diese de prima iera dò corone. Che vù a Trieste, con dò corone, liberamente pranzavi al Bonavia. — E Giovanin xe andà a pranzar? — Ma cossa el xe andà a pranzar, siora Nina? Giovanin ga continuado a andar su e zò con 'sto saliscendi «top-flòor», «flòortop» e con quel bel sestin che el gaveva, 'ste siore, 'sti siori col stecadente in boca che vigniva zò, tuti ghe dava. Ora de pranzo: tempo un'ora lui se ga fato dò dolari. — E quanto vigniva a star? — Ve go dito: diese corone. — No me gavevi dito. — Se ve go dito che diese centesimi iera meza corona, diese per diese, zento, vol dir che venti iera dò dòlari: diese corone. Che diese corone Giovanin no le vedeva gnanca per setimana. Per far a mese, diese per trenta, trezento che forsi gnanca el Comandante Bojànovich no le vedeva in un mese, lui calcolava. Che inveze i comandanti gaveva altri proventi, ma insoma, indiferente. Per farvela curta, siora Nina, Giovanin ga disertà, ga disertà in America. Lui xe restado a Néviork e co' iera ora de pranzo e de zena, lui cola sua montura de Alievo del'Austro - Americana ben scovetada, se meteva in saliscendi. E top e flòor e flòor e top, e bori su bori. — E nissun no ghe diseva gnente? — E chi ghe doveva dir gnente? In America ognidun se fa i fati sui e se un ga volontà... El se gaveva anca impratichido, savé. Anca per altri piani el fermava se iera ocorenza. Cussì per lui iera nòma che ben. E un giorno, de 'sto local in terazza dove che la gente andava a magnar per véder Néviork, vien fora in furia dò capitani de marina mercantil. — E i lo ga conossù? — Che conossù? Questi ve iera americani, che parlava american, ma Giovanin capiva ben oramai. Furia che i gaveva, i diseva che ghe parte la barca, che presto, presto! Lui fraca «flòor» per andar zò e no volé che de là un poco, de colpo el saliscendi se ferma e resta incantà tra un pian e l'altro? — Ga mancà l'eletrico? — No so: fermo. E 'sti dò capitani de marina disperadi, che come i farà che la barca ghe parte, che el fazzi qualcossa. — A Giovanin, questo? — A Giovanin, sì. A chi volé che i ghe disi, al Presidente Wilson? Lori lo calcolava el giovine apòsito del saliscendi, no? Ben, savé coss' che fa Giovanin? — El verze la porta. — No se pol verzer la porta se el saliscendi no xe in pian. Lui ga tirà fora la brìtola. — Per minaciarli, come? — Cossa, per minaciarli? El tira fora la britola, el monta sul sentàl del saliscendi e el disvida el teto del saliscendi: quatro vide, presto el ga fato. Po' el se cava el sacheto e le scarpe, el se rampiga su per el cavo che tigniva el saliscendi e su per el cavo, come che el gaveva imparado in barca de Piero Tomìnovich, el xe andà fin suso dela machina, un sìe piani, savé, rampigàndose su per el cavo, e là, girando a man la rioda, el ga calà el saliscendi pian pian fin a un pian. E po' presto, zò per le scale, el xe corso a vérzerghe per de fora la porta a 'sti dò. — Contenti? — Altro che! Contenti che mai 'sti dò capitani de miarina. Che pecà — i ga dito anzi — un giovine cussì bravo, cussì svelto de rampigàrse su per i cavi, perderse cussì in un saliscendi a far el lift. Che no el stia far el sempio, che el vegni con lori, che sarà la sua fortuna. Insoma, volé creder, siora Nina, diretamente a bordo i se lo ga strassinado. Un trealberi grandioso i gaveva, tuto a vela. E i lo ga ciolto con lori. — Giovanin American? — Giovanin American i lo ciamava, co' el xe tornado, dopo dela Prima guera. Ma poco lui ga visto de America, perché massima parte el iera sempre in mar. China i fazeva, con 'sto trealberi, Batavia, Adelaide, San Francisco, passando per Capo Horn. E strussiar, lavorar, fregar la coverta e rampigarse in cofa senza scopo per i cavi anca col bruto tempo. MALDOBRIA V - ANTICA CASA Nella quale, con il dovuto omaggio, alle grandi Case di Spedizioni che illustrarono in ogni lido il nome delle nostre terre, Bortolo racconta d'una tradizione familiare dei Mitis e di quel che avvenne in assenza di don Blas, ferreo custode del calendario gregoriano. — Cossa volé, adesso i batiza con qualunque nome! Dove una volta i fazeva bon un nome se no el iera nel calendario o nel Martirologio, come che diseva don Blas! — Ma orologio se usava per cresima, no per batizo. — Cossa orologio? Martirologio go dito, che, una volta, se no iera el nome sul calendario o sul Martirologio Cristiano — che don Blas gaveva un libro grosso compagno in canonica — no i batizava. Me ricordo mi che al avocato Miagòstovich — che iera ateista come, ma bon omo, retto — don Blas, che iera tremendo, ghe ga propio ricusado de ciamarghe Libero al fio. «Se vù — el ghe ga dito — volé ciamarghe Libero, liberamente podé ciamarlo Libero a casa vostra, ma in Cesa no: qua ve xe el libro de tuti i Santi, Angeli, Arcangeli, Vergini e Martiri, scelzé un.» — Ma no el iera ateista? — Sì, ma iera sua moglie, siora Iginia povera, che ga vossudo batizar el fio in cesa. Lui no iera de quel'idea, ma el rispetava. Indiferente. Presempio: gavé presente i Mitis? — Marco Mitis? — No Marco Mitis: i Mitis ve iera tanti e Marco Mitis no iera de quei Mitis là, Marco Mitis navigava con mi. Questi ve vigniva tuti a star dela parte de Sisìnio Mitis, el vecio Sisìnio, spedizionér. Sisìnio: aré, ve parlo de bastanza prima dela Prima Guera, ma ancora fina pochi ani fa, fina che i ga piturado de novo quel magazzén che iera suo in Riva, ancora se distingueva che iera scrito: «S. Mitis Spedizioniere». — Spedizionere? — Ma no spedizionere: spedizionér. Lori fazeva spedizioni, lori gaveva propio una Casa de Spedizioni, granda, lori ve iera unichi qua come spedizioneri, e po' lori ve iera anca agenti generali de Màitzen de Trieste, dela Union Speditùr de Viena, de Catarìnich de Zara, de tuti, insoma: Casa nominada. Per quel el vecio Sisìnio Mitis diseva: «S. Mitis Spedizioniere», semo nominadi dapertuto. E nominadi dapertuto che semo, come Antica Casa, no bisogna mai cambiar el nome S. Mitis. Quando che mi sarò morto no voio, fioi mii — el ghe diseva ai fioi — che fé quel sempièz che i fa adesso de zontarghe Succ.» — Ciùss? — Cossa ciùss e muss? «Succ.» Successori. «No voio — el diseva — che co' sarò morto scrivé Succ. No per mi, che quando che un xe morto, no el vive gnanca un'ora de più, ma per la Casa. Lassè «S. Mitis» come che xe. Anca se mi no sarò più, vù se tuti cola esse e cussì no gavé de far barufa.» — Come tuti cola esse? — Ma sicuro, siora Nina: lui, el vecio Sisìnio gaveva fato apositamente. No gavevi mai fato mente? Quatro fioi el gaveva, e a tuti quatro el ghe gaveva dado un nome che scuminziava per esse. Iera Stefano Mitis, Severino Mitis, Silvio Mitis e Simone Mitis, Simon, e Stefania, che iera morta picia, de grup. — Ah, zinque fioi el gaveva? — Sì, ma quatro vivi. Tuti cola esse. Cussì lui ghe diseva sempre ai fioi: «Cossa volé andar dopo a far spese de cambiar le tabele in tuti i magazzeni, che graziando Idio, in Quarner e in Dalmazia magazzeni gavemo bastanza? E po' ve resta in scritorio tuta la carta col'intestazion, i libri, le notifiche in Governo Maritimo, i manifesti in Dogana, e tuto. S. Mitis tignì sempre. Esse sé tuti e podé star contenti.» Fin quando che i iera ragazeti el ghe predicava cussì. — E co' el xe morto, inveze, i fioi ga cambiado? — No, perché i doveva cambiar? Ghe iera cussì comodo. Esse Mitis iera tuti e tuti iera contentadi. Anzi, ognidun de lori, ai fioi che ognidun gaveva, i ghe ga dà sempre nomi cola esse. «La Dita no se sa a chi che ghe pol restar, ogi semo, domani no semo — diseva Stefano che iera el più vecio — e restemo dacordi che i fioi de nualtri, tuti gaverà nome cola esse, e xe justo far cussì, anca in memoria de nostro povero padre che iera Sisìnio!» — Eeeh! Justo. — Oh, justo! Justo fin a un zerto punto, perché Sisìnio el se ciamava, ma qua tuti lo ciamava Nini. — Ah! El vecio Nini Mitis spedizionér? — No, Vescovo de Pédena! Ma de chi stemo parlando, siora Nina? Insoma, per contarve, 'sti quatro fioi ga avudo fioi, tanti che no ve digo — quela volta se usava aver fioi — e tuti gaveva de lavorar e guadagnar ben, perché iera granda Casa de Spedizioni. E anca 'sti fioi, oramai nevodi del vecio, tuti cola esse: Salvatore, Sebastiano, Serafin, Serenela povera, Settimio, quel che gaveva la gamba ofesa; Sigfrido, che anzi qua i ghe rideva; Mondo, ma che propriamente iera Sigismondo; Silvestro — che me ricordo, co' iera San Silvestro, iera festa granda de lori per l'ultimo del ano — Silvia, che gaveva sposado el fio del'avocato Miagòstovich e Madre Sista, che se ga fato mùniga, perché lori iera assai de Cesa e cussì, vocazion che la gaveva, i la ga messa dele Mùnighe del Squero. E po' tanti altri: perché anca 'sti nevodi gaveva avudo fioi, pici, ma insoma i li gaveva avudi. Tanti. — E sempre tuti cola esse? — Sicuro. Che anzi, savé, sicome lori no gaveva l'uso de darghe de novo el nome del padre o quel del nono, i iera un poco intrigadi, come. Perché nome in esse xe fazile dir nome in esse, ma a un bel momento anca cola esse scuminzia a mancar. E co' ga scuminzià a mancar, el fio del avocato Miagòstovich ghe ga dito ala nevoda: «Ciaméghe Spartaco a 'sto vostro novo.» Ma lori che cossa Spartaco, che Spartaco se ciama tuti 'sti fioi de anarchichi, socialisti massima parte, che giusto in quel periodo i gaveva copado Elisabetta povera, l'Imperatrice. — Un Spartaco la gaveva copada? — Ma no, un anarchico! Ma iera per dir che Spartaco no iera un nome adatado, e po' don Blas no gavessi gnanca lassado. Gnanca Giordano Bruno no el lassava. Giordano solo, sì. Anca Bruno solo. Ma Giordano Bruno insieme no. Gnanca se iera dò fradei. Eh, vecio iera quela volta zà don Blas. E per 'sta storia dela esse i doveva sempre vardar el calendario e el Martirologio Cristiano, insoma la lista dei Santi e Beati. Che, per esempio, Sandro no, perché Sandro in verità ve xe Alessandro: Sant'Alessandro Magno, che Secondo gnanca per idea, perché xe de ateista, e che Sempione, se i vol i pol, ma che xe pecà, povero picio, perché dopo a scola i lo burla. — E Spiridione? A Trieste xe San Spiridione... — Sì, ma quel xe un santo de religion vecia, tipo Zirilo e Metodio più. Indiferente. Vecio, ve disevo, iera don Blas, ma istesso el ga volesto andar. — Andove andar? — Speté, no, che ve contavo. El ga vossudo andar, Don Blas, a Tersatto perché iera el Zentenario dela Santa Casa, che andava tuti. — Zento ani dela Santa Casa? — Ma cossa zento ani dela Santa Casa, che xe la Santa Casa de Nazareth a Tersatto! Ogni zento ani iera el Zentenario dela Santa Casa e tocava quel ano. E a Tersatto iera vignudi el Vescovo de Trieste e Capodistria, quel de Parenzo, el Vescovo de Fiume e de Veglia, natural, e po' el Nunzio Apostolico i gaveva mandà de Viena, perché quela volta ierimo pertinenti a Viena anca come Cesa, l'Abate Mitrato de Curzola, un e l'altro: tuti. E cussì xe andà anca don Blas che assai bramava de andar. «Co' torno sarà giusto per el batizo», el ghe diseva ala moglie de Sisto Mitis che spetava. E inveze, intanto che lui iera a Tersatto, 'sto fio xe nato. — In antécipo? — Antécipo o posticipo no se pol mai dir: el ve xe nato prima de quel che gaveva dito el dotor Colombis. Una dimenica matina. E subito la madre febre de parto e el picio mal mal mal... — Morto apena nato? — Maché morto apena nato. Mal. E sua zia Santina, che iera una puta vecia assai de cesa, ga dito: «Qua ghe vol subito batizarlo, perché se el picio more el va nel Limbo!» — Eh, i pici va, va nel Limbo ... — No so se i va nel Limbo. El picio stava mal e cussì, involtizzado cole coverte, i lo ga portado in Domo. «Almanco per el nome — ga dito Sisto Mitis — stavolta no gavemo de stroligarse, perché ghe demo el nome del Santo de ogi, che go visto sul calendario che xe cola esse.» — Che nome? — Speté che ve conto, no! I va con 'sto picio involtizzà nele coverte in Domo e, per forza, no iera che el nonzolo, perché don Blas iera a Tersatto per el Zentenario. Che no fa gnente, ga dito el nònzolo, che lui sa, che se anca no xe don Blas, el picio lo pol batizar un qualunque Cristian. Per farvela curta, lo ga batizado 'sta zia Santina e el nònzolo ghe legeva tuto sul libro de Cesa, sul Messal, no so: «Qual è il nome del batizando?», ga domandà el nònzolo, che gaveva tuto ben imparà de don Blas, ani che el batizava. «Sessuàges», ga dito Sisto Mitis. «Va ben. Alora: «Sessuàges, rinunzi al demonio e ale sue pompe?», ga dimandà el nònzolo. Insoma rinunzio, abrinunzio — come che se disi — e pulito i lo ga batizà in furia, perché el stava mal. Sessuàges. — Sessuàges? No gavevo mai inteso... — Siora Nina, gnanca don Blas no gaveva mai inteso. E co' el xe tornado de Tersatto, che el picio stava zà ben, el ga visto notà sul registro parochiale 'sto batizo. Alora el ga ciamado Sisto Mitis e el ghe ga dimandado se el xe mato o se el deventa. «Sessuàges!» «Sì — ga dito Sisto Mitis — xe el Santo del giorno che el picio xe nato. Go visto sul Calendario dei Frati che gavemo impicà in cusina.» E don Blas subito a vardar 'sto Calendario dei Frati che el gaveva impicà anca lu in canonica e: «Sisto — el ghe dise — savevo che ti xe mona, ma no credevo tanto. Sessuàges te xe Sessuagesima, Domenica di Sessagesima, sessanta giorni per Pasqua, vol dir.» Ma che xe cola esse. Che anca sempio xe cola esse e che per sora quel altro sempio de nònzolo se ga peritado de scriver sul registro parochiale Sessuàges! E el ga tirado un pugno, savé, su quel pulto alto del registro che se scriveva in pie, un pugno che la pena xe saltada via con tuta la bozzeta de inchiostro e el se ga sporcà la veste e i dèi. — Rabià don Blas? — Rabiado sì, ma dopo cossa volé, ghe xe passada la fota, come. E el ga dito: «E va bene. L'intenzione era buona, chi pol dir? Le vie del Signore sono infinite, Sessuàges scrito xe zà, el picio sta ben. Quod scripsi scripsi, ga dito anca Pilato, che po' i lo ga fato santo.» E el xe andà a lavarse le man. Del inchiostro. — E 'sto picio Sessuàges xe stà sempre ben, dopo? — Come no? El xe ancora vivo. El se fa ciamar Sexy. Un cotolér! MALDOBRIA VI - UN PAIO DI CALZE DI SETA DI VIENNA Nella quale si narra come le suddette fossero non articolo d'uso corrente ma raffinata galanteria nei tempi in cui la vecia Santina, allora fanciulla, ebbe ad entrar nelle simpatie d'una distinta personalità poi travolta da drammatici eventi col morganatico sposo. — Dove le done, una volta usava portar combiné? A Trieste forsi, a Viena, ma qua sotocòtola. Corpeto, natural e no solo che una sotocòtola: dò, tre. A Sànsego, savé quante sotocòtole che usava le done, le regazze? — Quante? — No me ricordo, siora Nina, ma assai. Ben, indiferente. E calze? Chi comprava calze? Calze, le done se fazeva sole coi feri de calza. Savé chi che per far calze gaveva le man de oro fin de quando che la iera putela? La vecia Santina. — No go presente. — Ma come no la gavé presente? La vecia Santina iera sorela de Tonin Polidrugo, più granda de lu, che ela anzi co' el iera picolo la lo tendeva a Lussin... — A Lussinpicolo? — Ma cossa a Lussinpicolo? Tonin Polidrugo iera picolo quela volta, ma ve iera a Lussingrando che 'sta sorela più granda lo tendeva. Più granda: ragazzeta la ve iera ancora la vecia Santina, cossa la gaverà avudo quela volta? Nove ani, diese forsi, ma no diese: nove. Che anzi tuti la ciamava Santina picola, perché Santina ghe se ciamava anca la nona, per no confonder. — La nona dela vecia Santina? — Indiferente, mi ve contavo dela vecia Santina co' la iera picola, a Lussingrando, che tuti propio tuti ghe voleva assai ben. Ve go dito: la iera assai brava e la gaveva le man de oro. Pensévese che ela doveva tender Tonin, che iera cratura quela volta, ma zà malignazo, assister la nona che no podeva, con decenza, moverse del leto, pareciar, guciar le calze e tuto. Perché là no iera gnente ben con quela famea. Savé, suo padre, Ménigo Polidrugo, ve iera sul stampo de Tonin, ma ancora più barca stramba. Lui gaveva cominciado assai ben, perché prima el iera nostroomo sula Geròlimich, po' in Governo Maritimo co' el se ga sposado, e inveze dopo el se gaveva butado su quela del bever. Volé che no sia un diol de cuor per una moglie? — Eh! El vin xe un bon servitor ma un cativo paron, diseva mia madre defonta. — Indiferente, ognidun ga le sue. Ma bruto ve iera per la moglie de Ménigo Polidrugo, perché ela mai se gavessi aspetado un tanto. No che el fussi cativo come omo, specie in prinzipio, ma ela no iera abituada che ghe manchi el bisogno. Ela, savé, ve nasseva Politeo, che i Politeo se tigniva. E sempre la diseva, povera: «Mi me go sposado in calze de seda de Viena.» — Come in calze de seda de Viena? — Ma sì: iera una rarità, ve disevo, quela volta le calze de seda! Chi ve portava? A Viena se usava, anca a Trieste, ma qua calze de fil o de lana, de inverno, guciade coi feri. Iera una rarità le calze de seda. «Mi me go sposà in calze de seda de Viena», la diseva, povera. «Mi go portà el mio in casa: trenta napolioni e vinti fiorini de oro. E al sposalizio per el pranzo de nozze tuti ga avudo anca ciculatini involtizadi in carta de argento.» — Ah, no confeti? — Come no confeti? Natural confeti. Chi se sposa senza confeti? Ma la voleva dir che i gaveva dado anca ciculatini involtizadi in carta de argento, che anca quel, quela volta iera una rarità. Dove se trovava qua? A Fiume bisognava andar a comprarli, soto la Tore in una ofeleria aposita. «Me go sposado in calze de seda de Viena», la diseva, me ricorderò sempre. «Go portà el mio: trenta napolioni e vinti fiorini de oro, e ciculatini in carta de argento; e ogi me toca andar a cùser per le case.» — Ah, la cusiva in casa? — No cùser in casa. Chi no cùse in casa? Nele case dei altri ghe tocava andar a cùser ala madre de 'sta povera Santina. Perché, ve go dito, lu, Ménigo, pian pian bevendo ghe ga magnado tuto. Anca la paga del Governo Maritimo — che i gaveva bone paghe in Governo Maritimo — finiva più in local de Bepin che in botega magnativa. «Questa te xe la tua crose!», ghe diseva la madre del leto, co' l'andava fora de matina bonora a cùser per le case. E 'sta Santina, picola, cratura che la iera ghe tocava far tuto: tender el fradelo che ghe fazeva dispeti, pareciar, guciar, assister la vecia e in più andar a scola, natural, perché soto l'Austria guai chi che no andava in scola popolar: i lo vigniva a cior a casa col gendarmo. — Ah, la madre andava a cùser per le case? — Sicuro: de 'sti armatori, che quela volta a Lussin-grando ve iera i più grandi armatori: un Crélich, un Pòlich, un Premuda, Giadròssich, massima parte. E anca in Vila la andava. — In Vila Prohàska? — Ma sì forsi, anca, no so. Ma a Lussingrando, co' un diseva la Vila, intendeva dir la Vila de Carlo Stefano... — Carlo Stefani? Quei che prima iera Stìpanich? — Ma cossa Stìpanich, che quei ve iera chersini! Carlo Stefano, l'Arciduca Carlo Stefano, che gaveva la Vila a Lussingrando, in Rovenska, che ancora la ve xe, che i vien aposta i foresti per véderla. E lui ve stava là squasi tuto l'ano. Natural co' el doveva andar a Viena, l'andava a Viena, ma massima parte el stava a Lussingrando, anca perché el iera malado de peto. Difati la moglie, Maria Theresia, l'Arciduchessa propio, la xe restada vedova bastanza giovine. E ela ghe andava a cùser anca a ela in Vila. — 'Sta povera madre de Santina? — Natural: iera un dò tre done che andava cùser in Vila. Tovaie, tovaioi, biancheria, monogràmi. Ela ve iera propio sarta de bianco deventada. E là, con 'ste altre che cusiva e tuta 'sta servitù che iera in Vila — regazze de Ciunski, massima parte — la sentiva tute 'ste robe... — Che robe? — Ma sì, tute 'ste robe che le parlava in Vila, drio che le cusiva: de chi che andava, de chi che vigniva in Vila. Perché là vigniva 'sta Uficialità, 'ste dame de Corte. Lui ve iera Arciduca, l'Arciduca Carlo Stefano, e vigniva a trovarlo anca quei del Sangue... — Ghe vigniva sbochi de sangue? — Ma cossa sbochi de sangue? El iera sì malà de peto, ma mi intendevo dir che vigniva a trovarlo anca quei del Sangue. Presempio, una volta xe vignuda la moglie de Francesco Ferdinando, che iera propio Erede dela Duplice e Arciduca Ereditario. Epur, pensévese, ela no iera del Sangue. — Questa madre de povera Santina? — Ma natural che ela no iera del Sangue, povera, che la andava a cùser per le case. Intendevo dir che — vardé come che iera le robe — la moglie del Arciduca Francesco Ferdinando, con tuto che la iera sua moglie, no la iera del Sangue. — Come no la iera? — Eh no. Ela ve iera moglie morganatica. — Ah morganatica! Malada anca ela. — Perché malada? Anzi, una bela signora, forte, ma morganatica la iera. — Ah no la iera austriaca! — Oh Dio, tuti ierimo austriachi come suditi, noi dele vece province. Ela iera boema, veramente, ma la jera morganatica perché no la iera del Sangue. — De religion vecia, come? Serba ortodossa? — Sì serbo-croata! Boema la iera. Sofia Hohenberg. Principessa e tuto, ma no Arciduchessa, perché no la iera del Sangue. — Ma Principessa no xe più che Arciduchessa? — No, no iera de più soto l'Austria. Perché soto l'Austria i Arciduchi iera del Sangue e i Principi no. E ela, no essendo del Sangue, ga dovesto far matrimonio morganatico. Ela, in prinzipio, ve iera una semplice dama de compagnia del'Imperatrice Elisabeta, povera, che i la ga copada; Francesco Ferdinando se gaveva inamorado in ela e per poderla sposar — che tuti iera contrari — el ga dovesto far matrimonio morganatico. Che sarìa, primo: che i fioi no pol diventar imperatori, secondo che ela podeva esser sì moglie del Imperator, ma no Imperatrice e terzo — che quel iera el pezo de tato — che tuti ghe passava davanti per le porte. — Come i ghe passava davanti per le porte? Per dispeto, come? — No per dispeto. Iera la Pramàtica de Corte. Che ela, no essendo del Sangue, co' i andava nei loghi, la doveva lassarse passar davanti fin l'ultima pissona de 'ste giovini Arciduchesse che iera del Sangue. Cussì iera Pramàtica e in più, più de una, profitandose, ghe fazeva sprezzi. — Le ghe dava sburtoni? — Maché sburtoni! Sprezzi: che in camera de pranzo i ghe meteva la carega lontan del marì, che co' i andava in carozza, ela in un'altra carozza, e in cesa a ela la comunion per ultima. Gnanca in Domo de Viena, per un Corpus Domini, per un Te Deum, no la podeva mai sentarse vizin de Francesco Ferdinando. Volé che no sia un diol de cuor per una moglie? — Anca in Vila a Lussingrando i ghe fazeva 'sti sprezzi? — Meno. Perché qua i considerava cussì, come in campagna. Ma, presempio, co' i xe arivadi col yacht imperiale, lui, Francesco Ferdinando, xe andà in tera solo, cola lancia e el mariner in pie de prova col mezo-mariner de parada, e ela, inveze, i la ga mandada a cior dopo con un caìcio del Governo Maritimo. Che anzi i voleva prima mandar Ménigo Polidrugo, ma dopo i ga pensà: «Imbriago sempre che el xe, chi sa dove che el la mena.» E cussì i ga mandado Pillepich, me ricordo. — Eh Pillepich gaveva una bela presenza, prima de perder la gamba! — Indiferente. Ve go dito: a Lussingrando sprezzi no i ghe fazeva, ma la Pramàtica sì. Però, vedé, no xe un mal senza un ben: perché dove, presempio, una Arciduchessa Maria Theresia ve podeva caminar sola per Lussingrando? Ela la doveva gaver con sé almanco una dama de compagnia e un ufizial dò passi indrio, me ricordo. E la moglie de Francesco Ferdinando inveze, come morganatica, la podeva andar fora sola liberamente, come che la voleva, a passegiar per el paese, in cesa, tuto... — Democratica? — No so se la iera democratica. La andava cussì sola a passegiar o in cesa perché ghe piaseva. E una volta, che se parlava dela picola Santina, 'sta moglie de Francesco Ferdinando, cussì come che la vien zò per la via dela Madona, fora de cesa, la vede sentada sul scalin dela porta de casa 'sta picola Santina che guciava la calza coi feri. — Inveze de andar a scola? — Ma cossa inveze de andar a scola? Un dopopranzo iera, che 'sta picola Santina iera sentada sul scalin dela porta de casa che guciava la calza de lana coi feri. «Brava — ghe dise 'sta moglie de Francesco Ferdinando — che bel punto!» E Santina, savé, che no iera una che se perdeva de coragio, ghe dise franco: «Sì, signora: è punto canelletta. Due driti, un roverso, e ogni tre giri si mola un ponto.» «Brava, brava — ghe ga dito 'sta Sofia — che bel per di calze che gaverai! E poderessi far anche per mi un cussì bel per di calze di lana compagno in punto canelletta?» «Sì che sì» — ghe ga rispondesto 'sta picola Santina, ma che ghe volerà almanco un mese. Savé, quela volta, se usava calze longhe fin al cavaloto, con rispeto. E cussì 'sta moglie de Francesco Ferdinando ghe ga lassado un bilieto con scrito l'indirizzo che co' la gaverà finido de farghe le calze de lana, la ghe le mandi a Viena. «Principessa Sofia, Palazzo del Belvedere in Viena». E che no ocore altro. — La voleva une calze? — Sicuro. Un poco che ghe piaseva, un poco che cussì cocola iera 'sta povera picia: insoma che la ghe le mandi. E no ve digo cossa che no xe stado a Lussingrando co' 'sta picola Santina ga contado. Tuti che vigniva a véder come che la fa 'ste calze, anca l'avocato Miagòstovich, che iera Podestà, po' la maestra Morato ghe ga fato el pacheto e le righe col àpis per el bilieto de acompagnamento, che dopo i ga scancelà. — I ga scancelà el bilieto? — Ma no, i ga scancelà le righe col àpis, come che se usava. Soto l'Austria guai scriver storto. Insoma, una roba l'altra: i ga spedido 'ste calze de lana a Viena e, tempo un mese, riva in Posta de Lussin, un paco de Viena per la picola Santina Polidrugo, che propio sior Nadalin, che iera Maestro de Posta ghe lo ga portado a casa. — Ah, un zogàtolo che ghe mandava la moglie de Francesco Ferdinando in contracambio! — No, più bel. Ve iera un per de calze de seda de Viena, con drento in una fiorini de oro e in quel'altra pien de ciculatini involtizadi in carta de argento. — Che bel! Che bel contracambio! E la picola Santina? — E la picola Santina, come diman, che la gaveva ancora el bilieto col indirizzo, la ghe ga scrito in bela scritura, una letera ala moglie de Francesco Ferdinando. «Cara Signora — la ga scrito — il suo bel regalo mi ha fato tanto piangere: perché i fiorini li ha ciolti via subito mio papà, i ciculatini li ha mangiati tuti mio fradelo Tonin e le calze di seda se le è messe indosso mia mama.» — Mama mia! E la moglie de Francesco Ferdinando cossa ga dito? — Ah cossa volé che la disessi! ela gaveva altri pensieri per la testa! Pensévese che l'unica volta che i la ga lassada sentarse vizin del marì, xe stà quela volta in auto a Sarajevo che quel bosniaco ghe ga tirado dò colpi de revòlver. Gavé presente? Che lui, col sboco de sangue, el ghe ga dito: «Sofia, vivi per i nostri figli» e ela iera zà morta. MALDOBRIA VII - LA FINE DEI CONSOLATI Nella quale Bortolo racconta del prestigio, decoro e privilegi derivanti anche in antico ed anche in Sebenico dall'essere titolari, sia pure onorari, d'un Consolato di qualsivoglia straniero Regno, Repubblica o Impero e di come il commerciante Giadròssich avesse votato a questo fine i migliori anni della propria vita. — Cavème una curiosità, sior Bortolo, dove diavolo andé vù de dopopranzo che giusto dopopranzo passavo davanti de casa vostra e volevo darve de vose e inveze go visto tuti i scuri seradi. Dove ieri? — A casa iero, siora Nina, coi scuri seradi. Cossa co' son a casa, per farve saver a vù che son a casa, devo tignir i scuri averti e bater bandiera come el vecio Matiazza che iera console a Sebenico? ... — Console de Sebenico? — Ma cossa console de Sebenico? Come pol uno esser console de Sebenico? El vecio Matiazza ve iera a Sebenico Console de Serbia. Del Regno di Serbia che iera quela volta, perché ve parlo de prima dela Prima Guera. Oh Dio, console! Console onorifico, come tuti quei che iera consoli a Sebenico. — Ah, a Sebenico iera tuti consoli? — Sì, che i se consolava un col altro! Maché tuti. Pochi iera. Iera un'ambizion esser consoli, e solo che i meo a Sebenico iera consoli: armatori, spedizioneri, quei che gaveva agenzia maritima, massima parte. Onorifichi, ve disevo. Per forza, perché Sebenico no ve iera una Trieste, una Fiume, che là iera propio consoli veri. Questi, metemo dir 'sto vecio Matiazza, un Débelich, un Pende, un Mattìevich, un Bolis, un Smecchia, conte Smecchia, no ve iera foresti, ve iera del logo, però consoli, onorifichi magari, ma i bateva bandiera e tuto. — Ah, sebenzani! — Sebenzani, sì, de Sebenico, massima parte, ma qualchedun iera anche no de Sebenico. Presempio i Giadròssich, quei de Sebenico, no questi de qua. Lori ve iera de Lussin, natural, come famea, ma zà ani e anorum prima de prima dela Prima Guera el vecio Nicolò Giadròssich gaveva messo agenzia maritima a Sebenico. — E vù lo gavé conossudo a Sebenico? — Sì, in zimiterio de Sebenico lo go conossudo! Ma come volevi che podessi conosser mi el vecio Nicolò Giadròssich, che lui ve iera stado Console ancora del Impero del Messico, quando che iera vivo Massimiliano, povero, figurévese. — Massimiliano, povero, lo gaveva fato console? — Maché Massimiliano! Cossa gnanca Massimiliano saveva che esistiva un Nicolò Giadròssich! I pistaci lo gaveva fato console. — Pistaci? Quai Pistaci? — I pistaci po', che magna le crature. Savé come che iera 'sti consoli onorifichi? Iera armatori, spedizioneri, gente che gaveva agenzia maritima, grossisti massima parte. E 'sto Nicolò Giadròssich — ma in antico ancora ve parlo — i me contava che lui fazeva vignir de Messico pistaci, e lui coi pistaci se gaveva fato bei soldini, un capital propio. — Ah i pistaci! El vendeva pistaci? — Sì, in scartozeto, rente del Domo de Sebenico! Ma dài: coi pistaci se fazeva oio de arachide che i ghe dise, oio de semi, insoma. — Quel mi mai no dopro. — Indiferente, inveze tanti dopra e doprava, perché oio de oliva xe e xe stà sempre un lusso e povera gente no ga mai mancado. 'Sto Nicolò Giadròssich, morto zà de ani anorum quela volta, ve digo, gaveva avudo el più grando impòrt-expòrt de pistaci in tuta la Dalmazia, mi calcolo. E sicome che cole sue barche lu fazeva vignir 'sti pistaci de Messico, che el Messico iera assai nominado pei pistaci, ga finido che, come che se usava, ancora quando che Massimiliano iera Imperator del Messico, i lo gaveva fato Console onorifico del Impero del Messico in Sebenico, che el bateva bendiera sul pergolo con stema, aquila, corona e tuto. Fin che no i lo ga copà, natural. — I ga copà Nicolò Giadròssich a Sebenico? — Ma no Nicolò Giadròssich a Sebenico: Massimiliano in Messico i ga copado e, podé capir, no el ga podesto più bater bandiera. Perché, come Console onorifico del Impero del Messico che no iera più, a Sebenico no el podeva più bater bandiera e in Messico, come ditta austriaca che i lo calcolava, no i ghe dava più pistaci. — Bruto! — Bruto sì, perché lui zà vecio che el iera, no ga vendo più 'sti pistaci de Messico, el mandava sì le barche in altri loghi a zercar pistaci, ma là ve iera zà altre ditte che lavorava de ani. — Adesso no se vedi più tanto per strada che i vende pistaci. — Ma cossa ghe entra adesso i pistaci? Ve disevo per dir che lui, el vecio Nicolò Giadròssich, ve iera restado a Sebenico senza consolato, che inveze tutti i altri, quei che se tigniva, gaveva e bateva bandiera. E el xe morto con 'sto cruzio. El fio bravo, però. Perché mi el fio go conossudo, co' iero in Governo Maritimo a Sebenico. Antonio, Tonin, che i lo ciamava, Giadròssich. Bravissimo. Lui co' xe morto el padre el ga subito pensado: xe inutile mandar barche per el mondo in zerca de pistaci, che perso el Messico gavemo perso anca la convenienza. E un viagio che el ga fato in Alessandria de Egito, el ga visto che in Egito se podeva lavorar cole zivole. — Zivole de Egito? — «Le zivole de Egito ve xe le meo zivole del'umanità», diseva sempre el Comandante Bolmàrcich che iera un boncùlovich. Eh, iera nominade le zivole de Egito. Ben: Tonin Giadròssich, trapolando là con 'sti pascià e 'sti grossisti de Port Said, tempo un per de ani el ga avudo el più meo impòrt-expòrt de zivole in tuta la Dalmazia, mi calcolo, e el fazeva spedizioni fin Trieste, Fiume e Viena. Volé creder che lu cole zivole se ga fato più soldi de quei che suo padre se gaveva fato coi pistaci? Solo che ghe restava 'sto cruzio. — Che el padre ghe iera morto? — Ma no, no quel, cossa volé, i padri, a un zerto momento more tuti co' i fioi diventa grandi: xe destin. No, el gaveva 'sto cruzio de no gaver più el Consolato che tuti i altri inveze gaveva. — El Consolato del Messico? — Maché del Messico, che là iera rivoluzion ogni giorno e po' l'Austria no gaveva mai più volesto aver de far col Messico dopo che i ghe gaveva copado el povero Massimiliano in quela bruta maniera! Tonin Giadròssich gaveva el cruzio che el iera l'unico de questi de Sebenico che un poco se tigniva, che no el iera console onorifico de gnente. — Ah, lui ghe tigniva? — Sicuro che el ghe tigniva. Perché a Sebenico tuti quei che un poco se tigniva, ghe tigniva de esser consoli. Un Débelich, presempio, ve iera Console de Svezia, Norvegia e Danimarca, un Pende, Console germanico, un Mattìevich, Console di Montenegro, Regno di Montenegro, Smecchia, el conte Smecchia, Console inglese — no inglese, insoma: de Inghiltera, onorifico — e persin Monsignor Bùtoraz, che iera partitante croato, iera Viceconsole Pontificio, perché per l'Austria el Papa iera sempre Re, e el Comandante Bolis, Console de Italia. Tuto per comercio, per robe de armamento che lori gaveva con 'sti Stati. Sebenico, savé, iera qualcossa una volta. E capì, un Tonin Giadròssich, che suo padre gaveva avudo el Consolato del Impero del Messico, no esser più console de gnente ghe iera un cruzio. — E no el podeva esser console de Egito, visto che de Egito el se fazeva vignir tute 'ste zivole? — No, no el podeva, siora Nina. Perché l'Egito quela volta ve iera Vicereame, soto el Turco — magari iera l'Inglese che gaveva tuto in man — ma figurava el Turco. E Console dela Tùrchia Otomana ve iera un italian, un zerto Trani, che gaveva cambiovalute, un ebreo. — E guadagnava assai un console? — Maché guadagnar, siora Nina! Solo che spese i gaveva, ma iera un'ambizion. Numero un, perché i bateva bandiera, cola stema sul porton, sul pergolo, come che se usa. Po', una volta al ano, co' fazeva i ani el Re de un de lori, andava tuti al rinfresco de lu, e lu, natural, de tuti i altri. Co' iera la Festa del nostro Imperator i andava tuti, ricevuti propio, in Capitanato, perché a Sebenico iera el Capitano Distretual e po' i gaveva spagnoleti, liquori, botiglieria, tuto franco. E nei loghi i li ciamava «Signor Console». Insoma iera bel per un, esser. — Ma i gaveva de far anca? — Cossa volé che gavessi de far un console onorifico in una Sebenico? Quel de Svezia, Norvegia e Danimarca, magari, se qualche volta rivava una barca norvegina, el doveva mandar a ingrumar 'sti maritimi imbriaghi, perché i nordichi beve. Ma i altri poco gaveva de far. Figurévese che iera a Sebenico anca el Console de China. Console del Celeste Impero, con scrito tuto fora anca per chinese, me ricordo, un zerto Tabòga, un grossista. Ben: barche chinesi no rivava mai, o rare, più che altro ghe se sbarcava a Sebenico qualche chinese lavander del Lloyd e alora lui savé cossa che fazeva 'sto Tabòga? Lui prima fazeva vignir 'sto lavander chinese in consolato a molar el saco. Oh Dio, in consolato: in una camera che el gaveva a casa sua, che po' zogava i fioi. E dopo el lo cioleva sotobrazzo e con 'sto chinese l'andava su e zò per Riva, per Borgo, el se sentava in café, el lo menava in Posta che lo vedi tuti, e per tuta la setimana el diseva: «Me xe ... me iera arivà un de China...» Capì: iera ambizion esser consoli. — E 'sto Tonin Giadròssich inveze no iera? — Sicuro che no el iera, perché tuti i consolati iera oramai destinadi. De padre in fio i se li passava. Pensévese, presempio, che Sior Giuseppe Menze de Ménzevich iera console de Chili, Venezuela, Nicaragua, Costarica, Brasil, Guatemala e Panamà con tute sete steme e sete bandiere su tute le finestre che el gaveva sul davanti dela vila, magnifica. Ben, Tonin Giadròssich xe andado a dimandargli se el ghe cede almanco uno, el più scarto, e lu che, volentieri, Giadròssich mio, ma fin de quando che iera vivo mio padre defonto tignivo tuti sete, se no, gavemo ràdighi col café. Insoma no iera modo e maniera che 'sto Tonin podessi procurase un consolato. — Povero giovine. — No el iera più tanto giovine, savé. El iera un omo de meza età. E po' perché povero? Cossa un se no ga un consolato, more? «Ma cossa morì drio de 'sto Consolato — ghe diseva sempre el vecio Matiazza — che tuta Sebenico ve ciol via!» — E chi iera 'sto Matiazza? — Se ve go dito: Console de Serbia el ve iera, onorifico, natural. Lui iera un bochese, dele Boche de Càttaro e el gaveva magazen de cordami che el mandava in Serbia. Savé, in Serbia, quela volta, no i gaveva quasi gnente. 'Sto vecio Matiazza no gaveva né moglie né fioi, puto vecio. Però bela vila el gaveva, vizin del Castel, ben tignuda. El gaveva un marì e moglie che ghe serviva e la più bela festa dei consoli iera forsi la festa serba, perché lui ve gaveva un salon con tapedi turchi e in mezo un grandioso lampadario de Boemia. — No iera sposà 'sto Matiazza? — Puto vecio, ve go dito. El ve iera sàntulo de Tonin Giadròssich e sempre el ghe diseva: «Cossa ghe morì drio a 'sto consolato, che tuta Sebenico ve ciol via? Gavé pazienza, che mi fioi no go e nevodi gnanca, che mia sorela povera xe morta giovine. Gavé pazienza: co' mi moro ve lasserò el Consolato de Serbia e el lampadario de Boemia per ben figurar. In memoria mia.» E el pianzeva, povero. Iera assai vecio Matiazza. «Gavé pazienza, Tonin — el ghe diseva — e intanto scuminzié a farve véder qualche dimenica in Cesa dei S'ciavoni, che i veda che gavé simpatia.» E, una roba, l'altra, el ghe predicava de pazientar. — De pazientar che el more? — Sicuro. Ma iera stagno savé el vecio Matiazza. Del Dòdese ghe iera vignù un insulto, che anzi Tonin sperava, ma dopo el se gaveva refà benissimo. Oh Dio benissimo: un pochetin el strassinava le gambe, che Tonin lo compagnava tignindolo sotobrazzo in Cesa dei S'ciavoni e là, vardando i altri, anzi el se gaveva imparado a farse la crose ala riversa, savé come che usa quei de religion vecia. Lu ghe passava cola man l'acqua santa e 'sto vecio Matiazza ghe diseva: «No stévese preocupar Tonin, vedé che bela Cesa che gavemo e quando che sarò morto me faré pulito el catafalco qua in mezo, rente dela piléla. Preghé per mi, anche se no sé de religion vecia, e mi ve lasserò el Consolato de Serbia e el lampadario de Boemia. La casa no, che vù gnanca no ve ocore, e po' ghe la go zà promessa ala Cesa.» — Serbo ortodossa? — Sicuro. I usava 'sti puti veci de religion vecia lassar ala Cesa dei S'ciavoni. E che funeral che no i ghe ga fato: perché lori canta anca, xe assai sugestivo. Insoma, per farvela curta, omo de parola che el iera, co' el xe morto, el vecio Matiazza ghe ga lassà a Tonin Giadròssich, in testamento propio, el Consolato de Serbia e el lampadario de Boemia. Che anzi, el giorno dopo del funeral, Tonin ga mandado tre sui scarigadori dela ditta a tirar zò la stema de Serbia, l'asta a righete dela bandiera, la bandiera, natural, che ancora iera a meza asta e el lampadario de Boemia, che subito el lo ga impicà a casa sua de lu nela camera col pergolo. — E cussì el ga podesto bater bandiera? — No, perché el spetava che ghe rivi de Serbia el decreto, che el vecio gaveva zà scrito fora prima de morir. E me ricordo che un giorno, luglio iera, caldo, ghe xe rivada 'sta busta zala cola stema de Serbia e drento tute le carte che lui iera propio Console Onorifico, Console di Serbia in Sebenico. Ben, come de matina bonora xe rivade 'ste carte col vapor e come de dopopranzo lui ga zà fato meter fora la stema cola bandiera e, de sera, impizzà el lampadario de Boemia che tuti vedi. Bon, volé creder? Co' iera le oto, oto e meza, ghe se presenta do' de lori, in montura: che el scusi ma che i ga de dirghe una roba importante. Che i se comodi in Consolato, ghe ga dito Tonin Giadròssich — prego — verzendoghe la porta. Che se xe lui el Console de Serbia, ghe dimanda 'sti monturati. «Che sì: del Regno di Serbia.» Che alora, Regno o no Regno, xe ben che el sapi che a mezogiorno, a Sarajevo, l'Arciduca Francesco Ferdinando xe stà mazà de un serbo che ghe ga tirà un colpo de revòlver anca ala moglie. Che tuti i altri serbi de Sebenico xe zà stadi messi in preson e che, àle, el vegni anca lu con lori. — I lo ga portà in preson? — Come no? E co' i lo ficava drento in carozza con un gendarmo per parte el ga visto che se ingrumava cussì cussì de gente fora de casa sua per tirar zò la stema e darghe fogo ala bandiera de Serbia. E un fachin de porto, in maia a righe, me ricordo, con un cògolo compagno, tirado dela strada drento dela finestra, el ghe ga mandà in tochi el lampadario de Boemia. Xe stà assai odio quela volta. MALDOBRIA VIII - LA PRESA DI SALONICCO Nella quale Bortolo riapre un sovente obliato capitolo della Prima Guerra Mondiale quando gli inglesi ed i loro alleati ebbero la brillante idea, purtroppo trascurata nel corso della Seconda, di sbarcare in forze nella a noi vicina penisola balcanica. Sullo sfondo una sonata per violino solista eseguita con magistrale talento. — Guera iera, ma noi navigavimo ancora per Sebenico col «Cherca». Ierimo col Comandante Dùndora, el nostro-omo Ucròpina, el Cadetto Giadròssich, Marco Mitis, natural, Polidrugo e mi. Guera iera, ma navigavimo ancora. — Cola barca de guera? — Ma come cola barca de guera, se go dito che navigavimo ancora? Co' xe guera, le barche de guera apena le scominzia a navigar. No, no: el «Cherca» iera vapor mercantil, coletame. E noi navigavimo istesso con tuto che iera guera, perché l'Italia no ghe gaveva ancora intimado guera al'Austria: dopo la ghe ga intimà. E quando che i italiani ga serado Otranto, che no iera modo e maniera de andar oltra perché iera pien de silurenti, el Comandante Dùndora ga avù ordine de restar fermo col «Cherca» a Salonico. — Iera più sicuro? — Natural che iera più sicuro. Salonico iera porto grego e el grego, quela volta, iera neutral. El turco inveze no. El turco iera col'Austria. Ma chi se fidava de andar in porto turco, che fora de Salonico iera la Flota inglese? Che quela volta, savé, la Flota inglese, iera un qualcossa. — E iera bel Salonico? — Oh Dio, bel! Savé 'sti porti greghi no xe né bei né bruti, ma assai movimento iera. Po' a Salonico ve xe gente de tute le qualità: greghi, turchi, bulgaresi: Macedonia, po'. — Ma no iera stragi in Macedonia? — Quel dopo. Dopo che xe vignuda la Flota inglese. Ma prima anzi iera assai lavori, movimento. — Ve movevi cola barca? — Ma no: ve go dito che ierimo fermi a Salonico col «Cherca». E poco de far che iera, ierimo più in tera che a bordo. In zivil però andavimo in tera. Iera propio ordine de far cussì. El console austriaco a Salonico, un zerto Smecchia, un triestin, ghe gaveva dito espressamente al Comandante Dùndora: «Xe meo che i omini no vadi in tera in montura del Lloyd Austriaco, che no sìa odii.» Savé, co' xe guera xe sempre odii: o per un verso o per l'altro. Ben: quel periodo iera assai intrinsechi Polidrugo e el Cadetto Giadròssich, perché Polidrugo, lui gaveva amichi in tuti i porti, regazze massima parte, e el Cadetto Giadròssich, giovine che el iera, l'andava con lu, col violin. — I andava de violin? Dacordo, come? — Sì, i andava dacordo, ve go dito. Ma iera che el Cadetto Giadròssich portava in tera sempre el violin, in busta, perché lui sonava el violin. — Per i locai? — Ma cossa per i locai? Polidrugo gaveva 'sti amichi, regazze massima parte, e el Cadetto Giadròssich portava el violin con sé per ben figurar, per sonar, cossa so mi che baracade che i fazeva! Mi no andavo con lori. Mi andavo con Marco Mitis che in quel periodo ierimo inseparabili. Ben: otobre del Quindici, iera. E una marina bonora, che i gaveva fato tardi, notolada, Polidrugo e el Cadetto Giadròssich no ne ga trovado più... — A vù e a Marco Mitis? — Maché a mi e a Marco Mitis! A nissun de nualtri. Perché de note xe vignù a bordo del «Cherca» el console austriaco — un zerto Smecchia, un triestin — a darne aviso che dovemo partir subito per un porto turco perché qua, fioi mii, tempo tre ore riva la Flota inglese e le Potenze ocupa Salonico. — Mama mia! Perché, cossa iera nato? — Gnente no iera nato. Iera nato che le Potenze ocupava Salonico. L'ocupazion de Salonico, no? Che dopo in Macedonia xe stà stragi. Ben, indiferente. Noi, no so gnanca cóme, semo rivadi a andar in porto turco, ma figuréve vù come che xe restadi Polidrugo e el Cadetto Giadròssich co' i xe rivadi sul molo, dove che ierimo de tanti mesi, e no i ga trovà più el «Cherca». — Restadi in tera! E cossa i ga fato? — Gnente no i ga fato. No i ga visto più el «Cherca» e anzi i vedeva 'sta Flota inglese che zà scominziava a sbarcar omini, zigando per inglese che tuti vadi via. L'ocupazion de Salonico, po'. — E Polidrugo e Giadròssich i li ga ciapadi? — No, perché i doveva ciaparli? In zivil che i iera, col violin in man, lori se ga messo drento de un de quei loghi de decenza che iera in Riva e de là i vardava 'sti inglesi che sbarcava zigando col'arma in man. Lori ga congeturado subito che i inglesi sbarcava a Salonico, che el «Cherca» iera scampado e che lori dò là i iera e là i restava. — Ah, i restava là in logo de decenza? — Per el momento sì. Solo che dopo Polidrugo ghe ga dito al Cadetto Giadròssich: «Cadetto Giadròssich mio, mi go paura che qua ne toca come al povero Comandante Nacìnovich che del'Uno, in China, lo ga becado i chinesi e el xe sta internado più de un ano. Qua no bisogna farse internar». — Dei chinesi? — Ma cossa dei chinesi? Lori gaveva paura che li interni i inglesi, perché lori, come suditi austriachi, i iera nemichi. E alora i se ga concertà che l'unica roba de far iera de andar oltra el confin bulgarese, perché dela Bulgheria se podeva tornar a casa, natural, per tera. — Ah, cussì i xe scampadi per tera? — Sì, quel i gaveva intenzionà. Ma iera una parola. Perché, savé, a Salonico, de otobre, xe come qua in april: primavera, bel sol, no ocori gnanca spolverin. E lori iera cussì, vestidi in zivil, ma in vita, con gnanca un capoto. E in scarsela cossa i gaverà avù? Un per de corone, de dracme, là che ghe serviva. Andar in Consolato austriaco gnanca pensar, perché co' i stava andando i ga visto che iera el militar inglese tuto atorno che mandava via tuti, anca i greghi. E 'sto povero Smecchia in finestra che vardava del sburto. Cossa se fa, cossa no se fa? I congeturava in mezo dela strada: «Qua semo nudi e crudi, Cadetto Giadròssich mio. Gavemo quel che gavemo indosso... soldi, giusto per un caffé.» «Sì, ma gavemo el violin» — ga dito el Cadetto Giadròssich. «E ben, cossa vù soneré el violin per i cantoni e mi andarò in giro col piatin, che l'inglese ne ciapa a piade? No vedé che i manda via tuti?» E insoma cossa che se fa, cossa che no se fa... — No i saveva cossa far? — Sì i saveva che i doveva andar oltra el confin bulgarese, ma no i gaveva conquibus. «E senza quibùscum — ga dito Polidrugo — Cadetto Giadròssich mio, qua no se papuza via.» Ben, bon cossa se fa, cossa no se fa: i se ga tuto concertà e i ga decidesto che un andava de una parte e un del'altra, che el violin lo tigniva Polidrugo e che, finì tuto, i se gaverìa trovado de novo là. — Là de quel logo de decenza? — Ma no! I iera zà andadi fora, no ve go dito? Là dove che i se trovava in quel momento. — Aah! Là. — Là, sicuro! E Polidrugo, che lui conosseva ben Salonico, va in Piazza e po' drito drento in un café. «Kalimèra, kalispèra — el fa. E po': «Un caffé — el ghe dise al paron — col late». E se el gavessi anca un toco de pan. «Orpo cossa che no xe nato a Salonico!» ghe fa 'sto paron. Che no ocori che el ghe dise a lu, ghe fa Polidrugo, che el se pensi che, cussì e cussì: e el ghe ga contà tuto, come che el «Cherca» ghe iera scampado. Cossa che el pensa de far, ghe dimanda el paron. Che no el sa. Che l'anderà in giro de qualchedun de 'sti amichi che el ga, per véder. Che anzi se el ghe fa la carità de tignirghe 'sto violin, che el ghe xe de intrigo per caminar. Che sicuro, che el lo lassi pur, e el lo ga messo là, rente dela cassa. Kalimèra, kalispèra e Polidrugo xe andà via. — De 'sti sui amichi? — El xe andà via. Ben, apena fora Polidrugo, de là gnanca meza ora, vien drento in 'sto caffé un giovine, biondo, coi oci celesti e el naso a spontièr, fumando un spagnoleto col buchin. El se senta in tavolin, el ciama una fràmbua, el giornal, e el legi. E dopo el se alza: el va là dela cassa come per pagar e ghe casca l'ocio su 'sto violin in busta che iera là. Se xe un violin? Sì, sì, che xe un violin. Se se pol véderlo? Mah, perché de no, che el se còmodi, ghe fa el paron. Alora 'sto qua verze la busta, tira fora el violin, el sona un poco, ben, propio ben, savé, come che usa far i orchestrai, prima che scominzi l'opera, e dopo tuto el varda 'sto violin, el lo bate pian pian de qua e de là coi dèi e «Orpo — el ghe fa al paron — xe vostro 'sto violin?» «Perché?» — dimanda 'sto grego. «Eh, perché no xe fazile véder cussì un violin!» Che violini cussì xe assai pochi. Stradivario, po'. De contarli sui dèi. Violin Stradivario. — Straordinario? — No: Stradivario. Sicuro straordinario, se iera un Stradivario. «E quanto — dimanda el paron — pol valér un violin compagno?» Ah, ghe fa 'sto giovine, che minimum, minimum zinquemila franchi in una Parigi dove che lui ga studià musica. Ma che adesso anca de più con 'sti ciari de luna, che xe guera. «Beato chi che li ga zinquemila franchi!» ga dito 'sto biondo coi oci celesti e el naso a spondier. E el ga pagado la fràmbua e el xe andado via. — Iera assai zinquemila franchi? — Iera una fortuna quela volta. Come dir zinquemila corone. Va ben: co' xe dopopranzo, torna Polidrugo in 'sto caffé. Che el xe vignudo a cior el violin — el ghe dise al paron. E 'sto qua ghe dimanda se el ga trovado quei amichi che el zercava. Che no, che xe pien de militar de ocupazion per le strade e che xe confusioni, e che el se senta un momento, perché el xe propio straco de girar tuto el giorno per gnente. Che el se comodi liberamente. Che anzi, una parola — ghe fa 'sto grego — e el ghe la buta: che lui ga un nevodo che assai bramassi de studiar violin e se Polidrugo pol venderghe 'sto violin. «Ma come posso venderlo, se xe l'unica roba che me xe restada?» Che va ben, ma che vendendo el violin el se pol iutar. «Ma xe un bon violin, tuti me ga sempre dito che xe un bon violin!» E po' che el ga anca la busta. Va ben — ghe fa el paron — che cola busta e tuto, lui ghe darla anca trezento franchi. Ah che no, che trezento franchi no ghe basta. Che lui minimo, minimo ghe ocore per scampar in Bulgheria — tuto el ghe diseva pian in orecia — minimo, minimo siezento franchi. E 'sto altro: «Dacordo, per no far barufa e per iutarve: zinquezento franchi.» «E va ben: zinquezento franchi.» Afar fato e el ghe ga dado anca un altro caffé e un toco de pan. E Polidrugo xe andà via magnando per strada. — Orpo 'sto malignazo de grego se ga profità de Polidrugo! Zinquezento el ghe ga dà per el violin, con zinquemila che el valeva! — Siora Nina mia, nissun al mondo ga mai mincionà Polidrugo! Dove valeva quel violin zinquemila franchi? Gnanca zinquezento. E gnanca zinquanta. Zinque franchi forsi el gaverà valesto. Una roba de dozena ve iera. Squasi valeva più la busta. Comprà in gheto de Trieste. — Ma vù, sior Bortolo, come savé, chi ve ga dito? — El Cadetto Giadròssich me ga dito. Chi credevi che fussi quel giovine biondo, coi oci celesti e col naso a spontièr? El Cadetto Giadròssich. Ve ricordé, no, el Cadetto Giadròssich: biondo, coi oci celesti e el naso a spontièr. MALDOBRIA IX - IL DUELLO Nella quale si narra della pacifica vita di guarnigione nella munita ed imprendibile piazzaforte navale delle Bocche di Cattaro, sconvolta un giorno non dalla cieca violenza della guerra, bensì da una malaparola. — Sicome che mi, prima dela Prima guera, iero paron de barca, che gavevo passado l'esame propio, in tempo de guera vignivo a star Sotuficial. Unteroffizìr de Marina de Guera. Krigsmarine. — Austriaca? — No, giaponese. Sicuro che austriaca, austro - ungarica. Meno ani gavevimo quela volta a Cattaro e più morbin e co' ierimo franchi de servizio se trovavimo tuti al Kasino. — Postribolo, come? — Maché postribolo! No iera postribolo a Cattaro. Kasino se ciamava, propio cussì, cola ka. Ka und ka Krigsmarine Unteroffizìr Kasino. No postribolo, Circolo iera: el Circolo dei Sotuficiai de Marina de Guera. Perché a Cattaro iera el Kasino dei Uficiai, natural, per l'Uficialità e po' iera el Kasino dei Sotuficiai. — Per la sotuficialità? — No esistiva sotuficialità. Iera Uficialità, Sotuficiai e bassa forza. Cussì ve iera soto l'Austria regolado. Ben: me par ancora de véderlo, un bel palazzeto in piazza, vizin el Municipio de Cattaro. E fora iera scrito — tuto tacà, che a noi ne fazeva fin de rider — «K.u.k. Kriegsmarineunteroffizier kasino.» — Ah, casinò come, per zogar? — No per zogar. Oh Dio, chi che voleva, terziglio, tresette, cotecio, a dama anca, podeva; ma iera Circolo, pretamente. Difati iera anca scrito soto per italian, perché i iera rispetosi, «Circolo dei Sotto-Ufficiali della Imperial-Regia Marina di Guerra.» Bel iera: là se magnava, se se trovava, ierimo tuti dele vece province, massima parte: 'sti istriani, 'sti dalmati, triestini anca, e po' iera Marco Mitis e el nostro-omo Pìllepich, natural. — Sotuficial, Pìllepich? — Sì, quela volta no el gaveva ancora perso la gamba: el iera nostro-omo de machina e cussì Sotuficial anca lu. E savé chi che iera anca con nualtri? — I dò gemei Filipàs. — No, lori iera ancora de bassa forza quela volta. No, con nualtri iera anca dò del interno: un de Klagenfurt e un de Fiume. Se disi per dir de Fiume: el stava a Fiume, ma ungarese el ve iera propio, un de quei veri ungaresi del interno. E 'sto ungarese savé cossa che el gaveva? — Cossa, cossa el gaveva? — Gnente no el gaveva, el stava benon. Ma el gaveva quela che el se vergognava, come, de esser Sotuficial. Lui assai ghe gaverìa podesto esser Uficial. El bramava propio, ma no el gaveva bastanza scole. Però assai ambizioso, pien de ambizion, come. Pensévese che el se gaveva fato la montura de Marina in modo e maniera che cussì, de prima vista, no se conosseva subito che el iera Sotuficial. Perché la bareta iera squasi compagna, col'ongia e tuto, che gavevimo tuti, e po' lui el gaveva la furbità che co' l'andava fora el se meteva su el capoto de piova che no se ghe vede el grado sule spaline. Cossa che vol dir l'ambizion! Anzi lo ciolevimo via per questo. El se ciamava, 'sto ungarese, Bela Bòka, cola ka, e noi lo burlavimo, che se ghe diseva «Bela Bòkatasi!» Dio che rider, a Cattaro! E lui, 'sto Bela Bòka, iera de quei che assai se tigniva, de quei voio e no posso, capì? E po' el stava drito, ma drito in un modo — impettì propio — che Pìllepich diseva sempre che el gaveva magnado el mànigo dela scova. E el contava che in Ungheria, de qua e de là, el gaveva beni, terre... — Pìllepich? — Cossa Pìllepich gaveva beni e terre in Ungheria? 'Sto ungarese, 'sto Bela Bòka. Lui contava. Pìllepich diseva che el gaveva magnado el mànigo dela scova, perché cussì duro che el stava, anca con quel lui ghe pareva de esser più come i Uficiai. Che anzi una volta, con 'sta storia del mànigo dela scova ve xe nate quistioni. — I se ga dado zò col mànigo dela scova? — Ma dove, siora Nina, quela volta i Sotuficiai gaveria podesto concepir de darse zò fra de lori! Gnanca i militari de bassa forza no podeva: rispeto dela montura. Ve contavo che una sera che ierimo in 'sto Kasino, el nostro-omo Pìllepich che iera assai un ridicolo e un che remenava, el ga comincià a no darghe pase a 'sto ungarese, chissà perché. Lui lo saludava tuto el tempo cola man sul'ongia dela bareta e batendo i tachi. «Jawohl — el ghe diseva — Jawohl mein Herr.» E dopo, col brazzo el ghe fazeva sesti. E 'sto qua no iera un cativo, savé. Un poco el ga fato finta de no darghe bado, ma Pìllepich, sempre più imborezzà, no volé che el ghe fazzi el scherzo dela scova? — El lo scherzava che el gaveva magnado el mànigo dela scova? — Ach! Quel no sarìa stà gnente! El ghe ga fato el vero scherzo dela scova, che se usava fra militari. «Savé vù — el ghe dise — Béla Bòka, boca bela — sempre saldandolo — che go legesto sul giornàl che in Galizia i nostri ga ciapado prigionier un Uficial russo e i lo ga serado in un cameroto?» E tuti che scoltavimo ridendo. «Ah sì? — fa 'sto ungarese che se spetava qualcossa — e poi?» «E poi — ghe dise Pìllepich — a 'sto Uficial russo che i lo ga serado nel cameroto, un Uficial nostro ghe consegna una scova e el ghe dise, ci fa ci dice: Signor Ufficiale, noi adesso sereremo la porta del cameroto e se lei sarà bravo di far vignir fora del cameroto questa scova senza che noi verziamo la porta, lei è libero di tornare a Pietroburgo. E no iera finestre.» — Ma per bon i lo lassava tornar a Pietroburgo? — Ma dài, siora Nina, iera un scherzo che Pìllepich ghe contava a 'sto ungarese. Speté che ve conto. «Ben, volé creder — el ghe dise a 'sto ungarese — che 'sto Uficial russo ga fato vignir fora la scova del cameroto, senza che i ghe verzi la porta, e finestre no iera?» «E come ha fato?» — dimanda 'sto ungarese. «Fazile — ghe dise Pìllepich — lui ga cavà i fildeferi dela scova e, paia per paia, el la ga passada tuta soto dela porta.» «Sì — ghe dimanda 'sto ungarese — e el mànigo?» «Drento del culo a ti!» — ghe dise Pìllepich, fazendoghe sesti col brazzo. Un rider tuti che no ve digo. Bon, volé creder che 'sto ungarese se alza in pie, bianco, palido e ghe dise: «Bene. Adesso basta! E di questo mi renderà ragion!» El se ciapa su e el va via. — El se ga inofeso? — A morte. Tanto che, de là un poco, el manda un de bassa forza a ciamar Marco Mitis. Marco Mitis va, e co 'el torna, el conta che 'sto ungarese vol far duelo. — Con Marco Mitis? — No con Marco Mitis. 'Sto ungarese voleva far duelo con Pìllepich. Propio sfidàndolo, come che usava i Uficiai sfidarse. Che lui lo ga inofeso aposta e che el vol far duelo. — Duelo? Jesus Maria! — Duelo, duelo, come no. E Marco Mitis, come amico, perché lori iera amichi, Marco Mitis parlava franco ungarese, doveva farghe de Secondo. E tuti ga dito che alora anca mi dovevo far de Secondo, come amico de Pìllepich. — De secondo, come? — Ma dài, siora Nina! No savé? Nei dueli xe i Primi, che xe quei che propio fa duelo e i Secondi, quei che li assistissi, quei che parla, che se mete dacordo dove, quando e come far 'sto duelo. E dopo xe el Diretor del scontro. El più anziano dei Sotuficiai, che iera quel de Klagenfurt. Un de cariera, un sempio che parlava spudaciando. E no xe stà ne Dio ne Santi: gavemo dovesto tuto dispòner, rivoltele, ciamar el dotor e una roba e l'altra. — I revolver? — No, revolver, rivoltele de duelo ala pistola. Là del zimiterio de Perasto, i ga dito, ale zinque de matina bonora. — Mama mia! Morti? — Maché morti! Ve go apena de contar. Iera de trovarse davanti de 'sto zimiterio ale zinque de matina bonora. Insoma, per farvela curta, mi e Marco Mitis, prima se vedemo e disemo: «Ciò, no faremo miga monade qua, che ancora qualchedun perde la vita?» E insoma cossa femo, cossa no femo, se gavemo concertà de avertir la Feldgendarmerie, i gendarmi de campo. E cussì, gavemo pensà, ale zinque de matina vien i gendarmi là del zimiterio de Perasto, li guanta tuti dò, e 'sto mona de duelo no se fa più. I li guanta tuti dò e i li strassina via, perché, natural, siora Nina, el duelo iera inibido, specie in tempo de guera. — Gnanca la Cesa no lassa duelo! — Indiferente. Mi e Marco Mitis gavemo mandà un piranese, un zerto Fonda a avertir i gendarmi de campo. E ale zinque ore de matina semo là drio del zimiterio de Perasto: mi, Marco Mitis, el dotor, el Diretor del scontro — 'sto qua de Klagenfurt — che gaveva portado la cassetina cole dò rivoltele e la munizion. Vien zinque ore e un quarto, zinque ore e meza e no compari né Pìllepich né 'sto ungarese; zinque ore e tre quarti: gnente, no i compari, no i vien. Iera scuro ancora, perché iera inverno. Un fredo! E 'sto qua de Klagenfurt scuminzia, spudaciando, a dir: «Bene, per onor militèr, se no sono venuti i Primi alora si batono i Secondi.» — E perché no i iera vignudi? I gaveva fato pase? — Maché pase! Siora Nina: ale tre ore de note — dopo se ga savesto — i gendarmi de campo, senza spetar le zinque de matina, iera andadi a ciorli diretamente in cuceta che i dormiva e i li gaveva seradi tuti dò in un cameroto, in preson. Insoma 'sto qua de Klagenfurt va avanti a dir spudaciando: «Bono, se non sono i Primi, dopo un'ora si battono i Secondi. Così è la regola, per onor militèr.» E co' xe sìe ore, el ne consegna a mi e a Marco Mitis le rivoltele e el ne meti schena contro schena, davanti al zimiterio de Perasto. «Vintizinque passi e, a mio ordine, fare fuoco, per onor militèr! Bravi siniori sottoufiziali!» — E gavé fato vintizinque passi? — Domiladozentovintizinque, siora Nina. Co' lui ga dito: «Via!», schena contro schena che ierimo, via noi nel scuro, un de una parte e un de quel altra, a gambe levade! — Ah! Ghe sé scampai! — Sì, ma dopo i ne ga ciapà a Cattaro. E 'sto qua de Klagenfurt, rabià come una belva perché ghe gavevimo tradido l'onor militèr, el ne ga serà in preson, in cameroto insieme con Pìllepich e 'sto ungarese. Tre giorni. Ben, volé creder, siora Nina, che 'sto ungarese, che no voleva parlar più con nissun, perché el iera rabià con tuti, per passar el tempo, ga ciolto el scóvolo del buiòl, el lo ga disfado molando i fildeferi e, paia per paia, el lo ga fato passar tuto soto dela porta. Tuto, fora che el mànigo. MALDOBRIA X - IL GHETTO DI LEOPOLI Nella quale, sullo sfondo della storica città che fu Quartier generale delle operazioni sul fronte austro-russo, si dimostra che non l'uomo è fatto per il Sabato, bensì il Sabato è fatto, come si sa, per l'uomo. — Ve dirò la sincera verità, co' i requisiziona una vila e va drento el militar, quela vila no xe più gnente de ela. Me ricordo mi, per esempio, del Quatordese a Leopoli. — Ma Leopoli no iera in Galizia? — Come iera? Iera e xe. Chi la ga portada via? Si, va ben, la ga portada via i russi, ma la xe ancora. Mi iero a Leopoli del Quatordese, apena s'ciopada la guera, la Prima Guera, natural. Ierimo mi, Marco Mitis, i dò gemei Filipàs che gaveva fato petizion de star insieme... — Insieme con vù? — No, insieme fra de lori, gemei che i iera. Che anzi no se gavessi podesto dò gemei insieme soto l'Austria, ma lori gaveva fato petizion. Ierimo mi, Marco Mitis, i dò gemei Filipàs, Polidrugo e, in principio, anche Pìllepich. Nualtri ierimo tuti de Fanteria de Marina, sotuficiai, natural, perchè gavevimo tuti l'esame de paron de barca, e i ne gaveva mandado a Leopoli, come distacati, perchè i calcolava che co' sarà avanzata, noi doveremo far ponti de barche, una roba e l'altra, per passar oltra. — Oltra del mar, passar. Mar Nero? — Ma cossa Mar Nero, siora Nina! A Leopoli, in Galizia, xe i Carpazi. Passar fiumi, no? La xe 'sti fiumi polachesi. Polonia austriaca iera. Bon, indiferente, a noi i ne gaveva messo in 'sta vila. — In quala vila? — Questa vila che ve contavo. — No che no me contavi. — Sì che ve contavo, che ve disevo che quando che el militar va drento in una vila el la ridusi in stati. Iera una bela vila, poco fora de Leopoli e là i gaveva messo el Comando del distacamento de Fanteria de Marina. Che anzi, 'ste putele polachesi, bele biondozénere, coi oci celesti, co' le ne vedeva in montura de Marina, assai ghe podeva. Perché, capiré, là, massima parte, tuto el militar iera de tera. Iera boemi, iera croati e po' el Regimento 97 che iera 'sti triestini, 'sti dalmati, 'sti istriani, 'sti piranesi: poveri omini. — Tuti poveri? Bisognosi, come? — Maché bisognosi! Poveri omini, perché lori iera propio sul fronte, su de Leopoli e nualtri, per fortuna, ierimo restadi al Comando; tuti fora che Pìllepich. — El iera in permesso? — Ma dove i dava permessi, apena s'ciopada la guera? Befél, ordine, el gaveva avudo de andar sul fronte, lui con altri trenta de lori de Fanteria de Marina. E nualtri, mi, Polidrugo, i gemei Filipàs e Marco Mitis ierimo restadi al Comando de Leopoli. Bela cità iera Leopoli. E assai Uficialità, perché a Leopoli iera propio Quartier Generale. E là ve iera, per dir, un Circolo Uficiai che, in confronto, el Café Speci de Trieste podeva andarse a sconder. Nualtri, co' passavimo davanti, vedevimo oltra dei finestroni che più de una volta i fazeva feste de sera. Iera 'ste signore, signorine polachesi, e 'sti uficiai che i fazeva feste in primo pian, e soto vedevimo passar i soldai in guanti bianchi con guantiere, biceri e una botiglieria che no ve digo. Sampagna, massima parte. — Bicchierate? — Ma sì, bicchierate, feste. De sera, co' i iera franchi, i uficiai se la passava. Savé, soto l'Austria, l'Uficialità gaveva in man tuto, specie in tempo de guera. E là in Galizia iera bruta guera, perché 'sto povero militar semplice, sul fronte, ogni giorno coreva el ris'cio de perder la vita e ogni sera, co' iera ùndese ore, ùndese e meza, col scuro, rivava 'sti treni carighi de 'sta gioventù che perdeva la vita e i li portava in Ospedal. Insoma bruto. E nualtri, come sotuficiai no gavevimo mai feste. — El sotuficiai no podeva far feste? — No che no podessimo, no podevimo perché no gavevimo logo. Pensé che el Circolo Sotuficiai, perché a Leopoli iera anca un Circolo Sotuficiai, gnente de tale, ma el iera, co' ierimo rivadi su nualtri, zà i lo gaveva requisizionà per far ospedal de campo. E noi cussì no gavevimo logo per far feste. Dapertuto i meteva ospedai de campo, perché iera 'sti feriti, 'sti invalidi, e fina nel padiglion del giardin de quela vila dove che noi gavevimo el Comando, i gaveva fato deposito de coverte, de leti de fero, de brande, barele, roba rivada del fronte, tuta piena de pedoci. Perché el militar sul fronte el se incarigava de pedoci, che i doveva gratarseli via dele cusidure dela montura cola baioneta, pensévese! — I parlava, i parlava, che in guera iera pedoci! — Pien. Che anzi el Comandante Prohàska, che iera in 'sto nostro Comando de Fanteria de Marina, dopo che el gaveva visto 'ste coverte, 'sta roba, el gaveva dito: «Xe tuto pien de pedoci, no xe gnente de far, qua bisogna brusar tuto». Anzi el ne gaveva fato el folio de scarico de tuto 'sto material, che ghe demo fogo. — Al folio? — Ma no al folio, a 'ste coverte, a 'sti leti, a 'ste barele che iera nel padiglion immuciade drento. «Bruciare tutto — gaveva dito el Comandante Prohàska — che se no, un giorno o l'altro, se carighemo anche noi de pedoci». De Fiume el iera. — E vù gavé brusado? — Brusar! Fazile dir brusar! Cussì cussì che iera Leopoli piena de munizion, dove brusavi? In padiglion no se podeva, in giardin iera stive e stive de proieti, patrone, munizionamento, granate che se se azardavimo de brusar là, iera ris'cio che saltava per aria tuta Leopoli, mi calcolo. E nualtri, po', là del Comando, fazevimo la morte del pedocio sul petine fisso. «Bruseremo — ghe disevimo al Comandante Prohàska — bruseremo 'sta roba impedociada co' sarà modo e maniera, co' sarà logo, co' sarà ocasion. Tanto, el padiglion xe serà con ciave, lucheti e cadene e nissun va drento». — Ma no podevi gratar via i pedoci cola baioneta? — Cola baioneta? Ma là iera quintai de roba e chili de pedoci! Insoma, che ve contavo de 'ste feste che nualtri no podevimo mai far perché no gavevimo logo, un giorno co' gavemo fato mente che i Santi quel ano cascava giusto de dimenica, se gavemo impetido dal Comandante Prohàska e ghe gavemo dito: «Noi sotuficiai mai una festa, stavolta xe l'ocasion che i Santi xe de dimenica e xe dopia festa, femo una festa anca nualtri, come sotuficiai de Fanteria de Marina». E lui ga dito: «Ah i Santi casca de dimenica? Va ben, alora fé la festa per i Santi, visto che xe dimenica». E el ne ga fato la carta, el permesso. «Si, va ben — ga dito Polidrugo — adesso gavemo la carta, ma dove femo 'sta festa che no gavemo logo?» E Marco Mitis alora ga dito che lui conosse un uficial de Pola che xe al Circolo Uficiai e che el xe zà quasi in meza parola che el dimanderà se i ne pol imprestar a nualtri el salon del Circolo Uficiai, giusto per una sera. — Lui conosseva un de Pola? — Sicuro. Cossa xe de strano? Chi non conosse un de Pola? Semo andai con Marco Mitis, i dò gemei Filipàs e Polidrugo al Circolo Uficiai de matina bonora. Che 'sto uficial de Pola no xe, che 'sta setimana el xe a Cracovia. Se alora xe qualchedun de parlar per la festa dei Santi. Che andemo drento de quela porta là in fondo. Batemo la porta, andemo drento e iera un uficial. Che noi semo de Fanteria de Marina, sotuficiai — ghe disi Marco Mitis — e che gavessimo intenzionà de far el balo, la festa dei Sotuficiai per i Santi. 'Sto qua ne varda e ne dimanda perché che ghe lo vignimo a contar a lu. Perché gavessimo pensado, che anzi Marco Mitis iera zà in meza parola con quel de Pola, se i podessi imprestarne el salon del Circolo Uficiai per el giorno dei Santi, de sera. E 'sto uficial ne dise che, a parte tuto, no el vedi come; perché — el ne conta — proprio per el giorno dei Santi, de sera, i ga divisà de far la festa dei uficiai. «Va ben, che alora se podessi far insieme: uficiai e sotuficiai». «Come insieme?», fa 'sto qua. Che, a parte tuto, el salon xe uno, unico e che tuti insieme, gnanca no se stassi. Va ben, alora, ga dito Marco Mitis, che se no se pol proprio per la dimenica dei Santi se podessi far el lùni, che xe i Morti, o el sabo: un giorno dopo, o un giorno prima. Alora 'sto uficial se ga alzado in pie e el ga dito che no xe quistion né de un giorno prima, né de un giorno dopo, né de Santi né de Morti. Che fora de 'sta palazzina sula tabela xe scrito «Circolo degli Ufficiali» e no dei sotuficiali e che cossa ghe femo perder gnanca tempo, che no vedemo che lui sta contanto le butilie de sampagna 'pena rivade? Che perché che no andemo al Circolo dei Sotuficiai? Ma che al Circolo dei Sotuficiai xe adesso Ospedal militar. «Eeh — ga dito lui — guera xe guera!» E po' cossa che se insognemo de far feste, che xe l'ofensiva e che el militar more al fronte! E rugnando per tedesco el ne ga fato de moto cola man che andemo via, e el se ga messo de novo a contar le butilie de sampagna. — Per 'sta festa che fazeva i uficiai? — No so. Sicuro no per la nostra. «Ben, omini — ga dito Marco Mitis — 'sta nostra festa andò ve la femo?» E Polidrugo alora me fa ciapandome sotobrazzo: «Savé che a mi me xe zà vignuda una meza idea? Noi podessimo far pulito la nostra festa nel padiglion del giardin del nostro Comando». «Ma come — fa i gemei Filipàs — che xe pien de coverte, leti e roba impedociada?» «Va ben — ma gavemo anca el folio de scarico per deliberar el padiglion». Sì, ma che alora 'sta roba bisogna brusarla! E dove? «E cossa ocore brusarla — fa Polidrugo — se gavemo el folio de scarico? Noi basta che deliberemo el padiglion. E po' mi go pensà che i dise che xe pedoci, ma de tanto tempo che xe là 'sta roba, 'sti pedoci sarà anca crepadi, senza gnente de magnar». Insoma, per farvela curta, lui ne ga dito che nualtri 'sta roba, inveze che brusarla, col folio de scarico che gavevimo, podevimo liberamente venderghela ai ebrei in Gheto de Leopoli. — Vender 'sta roba in gheto? — Sicuro. Dovè saver che el Gheto de Leopoli ve iera el più grando Gheto del mondo, mi calcolo. Iera 'sti ebrei polachesi coi capei neri e coi cavei coi rizzi e boteghe, boteghe e boteghe. Boteghe de strazarioi, no? Come che se usa in gheto. Ma là ve iera proprio un Gheto grandioso con 'sti ebrei, 'sti ebrei che caminava su e zò parlando per ebreo opur che stava sentai sul scagneto davanti dele porte dele boteghe. — E lori anca comprava? — Comprava e vendeva, vendeva e comprava: come che se usa in Gheto. Insoma, prima de tuto gavemo deliberado el padiglion, che xe vignù fora una montagna de roba. Un emporio, che guai darghe fogo: se ga capacità anca el Comandante Prohàska. E in quela, xe tornado Polidrugo con un grando carro dela Sanità. «Savé — el ne ga dito — mi go un amigo in Sanità, un triestin, un zerto Bonifacio. Lui me ga imprestado 'sto grando carro dela Sanità coi cavai, e con 'sto carro nualtri porteremo la roba in Gheto. Ma el ne lo pol dar solo per 'sto dopopranzo, perché xe sabo, sabato inglese, e per l'amor di Dio, el ga dito, che ghe lo dovemo portar de ritorno stasera prima dele oto ore, perché come diman che xe dimenica xe offensiva — che xe un secreto che nissun devi saver, ma lui sa — e el carro ocore, perché zà i prepara tuto per 'sti feriti che vignirà, anche nele scole». — El ve imprestava 'sto carro dela Sanità? — Sì, per quel dopopranzo, come amigo de Polidrugo. Insoma, no ve digo: gavemo carigado tuta 'sta roba su 'sto carro, barele, coverte, leti de fero, e via, Polidrugo e mi. «Iìe» — ghe femo ai cavai — e andemo in Gheto. Ben co' rivemo, siora Nina, semo proprio restai. — Restadi in Gheto? — No, restadi de stuco. Un silenzio, un nissun per le strade, un tuto 'ste boteghe serade. Solo fora dela Cesa dei Ebrei se sentiva chel 'sti ebrei drento cantava «Adonài, Adonài!» — Per talian? — Cossa per talian in un Gheto de Leopoli? Per ebreo: Adonài. — E cossa vol dir? — Indiferente cossa che vol dir. Religion sua. Voleva dir che iera sabo e che i ebrei de sabato no lavora, i sera le boteghe come che noi le seremo de dimenica, ma ancora de più perché lori de sabo i sera anca i locai e i va tuti in cesa. — In cesa dei Ebrei? — No, in cesa dei S'ciavoni. Sicuro che in Cesa dei Ebrei se i xe abrei! E vù podé capir come che nualtri dò se gavemo trovado intrigadi. In Gheto no podevimo vender la roba, perché l'ebreo de sabo no pol né comprar né vender, pecato mortal; el carro dovevimo tornarghelo prima dele oto de sera; portar tuto de novo indrio in padiglion del Comando, gnanca pensarse, perché i gaveva oramai tuto messo calzina, sbianchizà e prontà per la festa, e i gemei Filipàs iera zà in giro che zercava mule. E alora cossa se fa, cossa no se fa? Giravimo come disperai per Leopoli con 'sto carro e 'sti cavai senza trovar un logo dove scarigar 'sta roba. E co' passemo davanti l'Ospedal Militare Superiore, che iera zà oto ore passade, vedemo che vien fora 'sto Bonifacio con un General de Sanità e el ziga: «Ecoli, écoli!» — Ecoli, chi? — Ecoli nualtri, finalmente, con el carro che 'sto General bramava, perché momento per momento doveva rivar i feriti. E el taca a urlar come mai che el carro xe carigo, che el ghe serve svodo perché sta per rivar i feriti. E Bonifacio furbo, ghe disi franco per tedesco che, Herr Ghéneral Dòktor, el carro xe carigo de barele, coverte e leti de fero, perché non hanno trovato logo dove scarigarlo. «Scaricarlo in qualunque luogo — ga zigado el General — in jédem Platz». «Va ben — ga dito Polidrugo — in jédem Platz», però che el ghe lo meti in carta scrita. — Che el ghe meti in carta cossa? — Gnente. Che el ghe meti in carta scrita, nero su bianco. E 'sto qua ghe lo ga messo: «Scaricare in jédem Platz». Firmato, Wutzinger, Ghéneral Dòktor von Lemberg, che saria stà Leopoli, col timbro e tuto. — E dopo gavé scarigà el carro? — Come no? Al Circolo Uficiai gavemo scarigado. «In jédem Platz», iera scrito. E Polidrugo ghe mostrava la carta a quel che de matina contava le butilie de sampagna, intanto che mi e Bonifacio scarigavimo tuto in salon dele feste. — Mama mia! E i uficiai cossa ga fato? — I se ga gratado per setimane, siora Nina, con tuta quela roba impedociada. — E vù gavé fato la festa dei sotuficiai? — Come no? Gavemo balà, saltà, se gavemo divertido con 'ste polachesi fin le undése, undése e meza, fin co' ga scuminziado a rivar i treni carighi de feriti, dei invalidi del'ofensiva. Anca Pìllepich xe rivà. Senza una gamba. MALDOBRIA XI - IN MORTE DEL FRATELLO GIOVANNI Nella quale Bortolo, favoleggiando di prestigiosi Istituti di Credito quali la Banca Union, narra come la repentina scomparsa in Costantinopoli del congiunto, avesse aperto nuovi orizzonti e conti correnti ad un pioniere delle linee celeri e di oggi correnti operazioni. — Me ricordo che un cek dela Banca Union iera una roba che se podeva cambiar in qualunque porto, anca a Costantinopoli. Adesso i ghe ciama assegni e i fa sempre storie. Una volta un cek iera un cek: chi che prima dela Prima guera gaveva un libreto de cek iera un omo de polso. Pochi qua gaveva: l'avocato Miagòstovich, Sior Antonio Millevòi; più a Lussin se vedeva. Savé, a Lussin iera assai soldi una volta, ma anca là un cek iera sempre un cek. Presempio Bepin Giadròssich... — De quai Giadròssich? — Dei Giadròssich, po'. — Ah! Quei de Lussinpicolo... — Cossa de Lussinpicolo? I Giadròssich ve iera de Lussingrando. I stava sì a Lussinpicolo, dopo. Ma Bepin, che no se gaveva mai sposado — caratere — iera restado sempre a Lussingrando, in casa dei veci. Savé, lori iera tanti fradei, quatro i iera, perché dò iera morti giovini. El nono se ciamava anca Bepin: difati lori per le barche, come Società, i gaveva la «Giuseppe Giadròssich e Consorti». Cussì propio la se ciamava. Indiferente. Ve disevo che lori iera tanti fradei, quei vivi. Dò ve iera a Lussinpicolo, un gaveva l'Agenzia a Costantinopoli, Giovanni, povero, che gnanca quel no se gaveva sposà — caratteri — e un iera lu, Bepin Giadròssich che el stava a Lussingrando in casa dei veci. — Puto vecio? — No vecio. El iera omo giovine ancora quela volta, el gaverà avudo un zinquantaquatro, massimo zinquantazinque. I fradei, a Lussinpicolo, se gaveva zà messo con 'sti grandi, coi Tarabochia, coi Martinolich, i fazeva noli fin per Nort - America, perché anca i se gaveva sposado cole fie de questi. Lu Bepin, inveze, gaveva vossudo tignir quel che ghe gaveva lassado el padre, che con quel i gaveva incominciado. Bepin gaveva vossudo tignir quele barche che gaveva i Giadròssich in prinzipio, che lori fazeva noli de cimento, de baussìte, de carbon. I ve andava a Valmiazzinghi per cimento, in Canal del'Arsa per carbon e a Ràbaz per baussìte, savé là tra Ràbaz e Rémaz che iera la teleferica. — Iera, iera me ricordo la teleferica: co' se andava in Albona se vedeva. — Tante robe se vedeva una volta. Indiferente, ve contavo. Lui se gaveva tignù ala vecia: el gaveva 'ste grande barche a vela, qualcheduna i ghe gaveva messo su anca el motor e, su e zò, lui quela volta el fazeva bastanza soldi. Oh Dio, lavor più grezo iera, gnanca de confrontar coi fradei, ma insoma Bepin Giadròssich per una Lussingrando ve iera un sior: el gaveva scritorio e tuto. E po' co' ghe xe morto el fradelo, el fradelo ghe gaveva lassado tuto a lu... — Un de quei de Lussinpicolo? — No, no de quei. Quel de Costantinopoli che no se gaveva sposado. A Costantinopoli el xe morto, de quele malatie che ve xe là. «L'omo solo si stesso se zerca el suo destin» — diseva sempre don Blas. E lui ve xe morto là a Costantinopoli. E in testamento propio el gaveva scrito: «Lassio tuto il mio, parte al Domo de Lussin, ma il resto tutto al mio fratello Giuseppe», che sarìa stà Bepin. Insoma in modo e maniera che resti qualcossa anca a Lussingrando, come quando che lui iera ancora putelo. — Chi? Questo fradelo morto? — Sì, el ghe gaveva lassado tuto el suo a Bepin e al Domo, che resti tuto a Lussingrando, anca in memoria come, e po' 'sto Giovanni, con quei sui altri fradei, quei de Lussinpicolo no iera andà mai tanto dacordo, più con Bepin el se trovava. Savé: quando che el xe morto, che xe passà telegrama, Bepin propio pianzeva. E subito el ga decidesto de andar, dito fato, a Costantinopoli a cior el fradelo. — Prima che el mori? — Ma come prima che el mori, se el pianzeva, cole lagrime propio, dopo che el iera morto? Lui ve xe andado a Costantinopoli a cior la salma per compagnarlo indrìo e meterlo in zimiterio de Lussingrando, in tomba sua de lori che i gaveva, belissima. Semplice, ma bela. «Mai in vita no go fato un viagio — el diseva — e adesso in morte de mio fradelo me toca». E el pianzeva sul molo. E che viagio che ve iera: perché lui ve xe andado de Lussin a Trieste col vapor e a Trieste el se ga imbarcado, terza classe, per Costantinopoli con un de quei postali che ve fazeva la linia de Sorìa. Viagio longo ve iera: ve digo mi, propio, che go fato tante volte la linia de Sorìa. Perché, prima se tocava Venezia, po' Ancona, Zara, Brindisi, Patrasso, po' zò tuto el giro de Morea fin Kalamàta, po' ancora Candia e po' su de novo Smirne, che apena dopo se fazeva Dardaneli e Costantinopoli. Ben, volé creder: lui, come ogi el ve xe rivà a Costantinopoli e come l'altro ieri el fradelo i lo gaveva zà spedido, quei del'Agenzia, con un'altra barca, dela «Libera» me par, perché iera zà passado massa tempo che el iera morto e el cominciava a render odor. In cassa de zingo. — No el ga trovà più el fradelo? — Se ve digo che i lo gaveva zà spedido in cassa de zingo! Lui ve xe andado in Agenzia: Come che no xe el fradelo? Che i lo ga zà spedido. Che perché che i se ga arbitrà de spedirlo se lui gaveva anca telegrafado che el vigniva zò apositamente. Che lori oramai credeva che no el rivi più, visto che no el rivava. Che per forza no el rivava perché el viagio xe longo. Che cossa i credi che sia la strada del orto far la linia de Sorìa? E alora quel del'Agenzia ghe ga spiegado. — Che i lo gaveva zà spedido? — Quel no iera più gnente de spiegar: el rendeva odor. Lori, quei del'Agenzia, ghe ga spiegado che a lori no ghe iera gnanca passado per la testa che lui, in una circostanza compagna, el gavessi fato la linia de Sorìa, inveze de cior la Linia Celere. «Che Linia Celere?» — ghe dimanda 'sto Bepin stupido. «La Linia Celere po' — ghe dise 'sti qua del'Agenzia — quela che fa Trieste -Brindisi e drento per Corinto in Atene e po' diretamente Costantinopoli, passando per Canal de Corinto, senza far tuto el giro». «Cossa sé andà a far a Candia? — i ghe ga dimandado a 'sto Bepin, che pianzeva perché no el gaveva rivado a intivar el fradelo. «Vardé, sior Giadròssich — i ghe ga dito alora — che se adesso per tornar ciolé subito la Linia Celere che parti stasera, vù rivé a Lussin prima che ve rivi el fradelo, cussì almanco podé andar al funeral.» E ben ben i ghe ga spiegà tuto pulito come che el doveva far: cior la Linia Celere per Canal de Corinto, che a Brindisi el troverà la concidenza col treno per Trieste, che se fa prima che col vapor. E a Trieste, guai se el ciol el vapor per Lussin, che el se intardiga senza scopo, che inveze el vadi subito a Fiume in treno e che de Fiume el procuri de trovar qualche barca, un qualcossa, che lo porti diretamente fin Lussin. «Vù fé cussì, sior Giadròssich, e senza falò giovedì sé a Lussin e vénerdi sé zà là co' riva la salma.» — Ah, comodo! — No so se iera comodo, ma el xe rivado per el funeral del fradelo, co' i lo ga messo in tomba. E lui cussì ghe xe vignuda l'idea. — De sepelirlo? — Granda idea quela de sepelir un morto! No: lui cussì ghe xe vignuda l'idea dela Linia Celere. «Se go fato mi — el ga pensado — podessi far tuti...» — De andar a Costantinopoli? — Ma no Costantinopoli! Cossa tuti ga de andar a Costantinopoli? Lui ghe xe vignuda l'idea dela Linia Celere Trieste Lussin. «Ogi, come ogi — el ga considerado — cossa fa un che ga de andar de Trieste fin Lussin? El ciol el vapor. E ghe toca far: Piran, Umago, Parenzo, Orsera, Pola, Valmazzinghi, Ràbaz, Cherso e po' apena Lussin. Per forza che no xe tanto movimento de foresti. Sarìa assai de più se tuti fazessi come ghe go fato mi. De Trieste a Fiume in treno — che xe 'sta comodità che i ga messo el treno — e de Fiume, una barca picia, no granda insoma, ben messa con saloncin, cusina e tuto, che fazzi solo Fiume - Lussin, senza tocar Cherso, che tanto chi va a Cherso?» Questa ve iera l'idea dela Linia Celere per Lussin. — Come che xe adesso? — Per forza che xe adesso. Anca sula Luna i va adesso. Ma pensarla quela volta iera una bravitù. E cussì, Bepin Giadròssich, anca con più coragio visto che el podeva dispòner de 'sti soldi che ghe gaveva lassado el fradelo, el se ga messo in testa che lui farà 'sta barca, 'sto vaporeto de fero per la Linia Celere de Fiume fin Lussin. Come de matina partivi de Trieste e de sera, maché de sera, zà de dopopranzo vù ieri a Lussin. — E el ga fato? — Come no? Speté. Prima roba lui xe andado a far dò robe: primo, in stazion a véder come che iera i orari dei treni e po' in Banca a cior i soldi del'eredità del fradelo che iera rivadi in Banca mandadi de Costantinopoli. Cola valiseta, el xe andado. — Per el viagio? — Ma no per el viagio: svoda, per cior i soldi, che lui calcolava de cior fora tuti i soldi e de portarseli con sé a Lussingrando. E là, in Banca, co' i lo vedi con 'sta valiseta che el stava verzendo, i ghe dise: «Ma cossa, Sior Giadròssich, la vol portar tuti 'sti soldi in valiseta a Lussin?» Sicuro, che lui li tien a Lussingrando. «In banca de Lussingrando?» — i ghe dimanda. «Che banca de Lussingrando? Mi i mii soldi li tegno in scritorio, a casa mia, che go la cassaforte.» E alora questi ghe ga spiegà. — Che no el podeva?... — Cossa no el podeva? Se el voleva el podeva. Uno, dei soldi sui, fa quel che vol. Cussì iera una volta, almeno. Solo che i ghe ga spiegado che se el li tien in cassaforte in scritorio, intanto no i ghe xe propio sicuri come che i ghe sarìa in Banca, e po' che el perde i interessi. Ma che lui ga de far el vapor dela Linia Celere. Che lui xe paronissimo, ma che se el li tien là de lori in Banca, el capital ghe xe sicuro, meo che in cassaforte, ripetemo a dir. Che in più el ga el fruto dei interessi e che lori ghe dà subito un libreto de cek, che i cek dela Banca sua de lori xe come soldi contanti in qualunque parte. I ghe ga mostrado el libreto dei cek, dove che el ga de scriver quanti soldi che ghe ocore, dove che el ga de firmar e tuto. E lui se ga fato persuaso. «No savevo 'sta modernità — el ga dito — ma me par ben: comodo.» — Cek dela Banca Union? — No so se iera dela Banca Union. Iera una Banca dele più nominade. Ben, volé creder, siora Nina, che lui ga messo in 'sta Banca a Trieste, anca i soldi sui de lu che el gaveva in cassaforte a Lussin e el girava sempre con 'sto libreto dei cek? E in squero dei Bùnicich, dove che el gaveva ordinado el vapor per la Linia Celere, el ghe dava i aconti, incontro, sempre coi cek. — E el ga fato subito el vapor? — Oh Dio, subito! Lavor longo iera, siora Nina, po' lui se gaveva cussì inamorado de 'sta Linia Celere, che el ga vossudo dò saloncini, anca un dò gabine, caso mai che un vól dormir, cusina, dopio ponte, per co' xe sol e co' xe bruto tempo, motor Diesel el ga fato vignir dela Fabrica Machine de Trieste, e «Giovanni G.» el ghe voleva ciamar a 'sto vapor, in memoria del fradelo. «Linia Celere Giovanni G.» — el diseva — vignirà, vignirà, vederé foresti qua a Lussin!» Cek drio cek e, savé, tra schermi e stropi, tante robe nove che el voleva, ga finì che el ga spendesto assai de più de quel che ghe gaveva fato el preventivo i Bùnicich. Fato si é, siora Nina, che un giorno i lo ciama in Banca a Trieste, con tuti i riguardi, ma i lo ciama in Banca. Che bongiorno, Sior Giadròssich, che el se comodi. El Diretor, questo. Che ghe dispiase de gaverlo disturbado, ma che propio l'altro giorno, esaminando la situazion, i ga considerado che el xe zà un poco, anzi bastanza, fora. — Fora de cossa? — Anca Bepin Giadròssich ga dimandà: «Fora de cossa?» «Fora coi soldi, caro Sior Giadròssich», i ghe ga dito. Che lori, per riguardo, per correntezza, ga zà onorado un quatro, zinque cek che — volendo dir le robe come che le sta — i iera senza copertura. E che, insoma, per farla curta, lui ghe deve ala Banca più de un milion. «Come più de un milion? Quanto più de un milion? Diseme esato quel che xe» — ghe fa Bepin Giadròssich. «Eco — ghe dise el Diretor de Banca — qua xe l'estratto conto e vien a star che in 'sto momento lei la ne devi un milion centoventicinquemila trecento e quaranta corone e venti centesimi.» «E ben? — ga dito Bepin tirando fora el libreto — un milion centoventicinquemila trecento quaranta e venti centesimi? Eco qua: ve fazzo un cek.» Siora Nina: in Ospizio el xe finido. In Ospizio marino de Lussinpicolo che no el se ga mai rendesto conto come e perché. Co' vigniva a trovarlo qualche volta l'avocato Miagòstovich, lui ghe diseva: «Vardé, Miagòstovich mio, che mi qua in Ospizio no voio star per carità. Mi, se i vol, qualunque momento ghe fazzo un cek!» MALDOBRIA XII - IL VISITATORE NOTTURNO Nella quale Bortolo rivela alcuni aspetti del contesto socioeconomico delle Vecchie Province, raccontando come una «partita di giro», il cui meccanismo, forse oscuro ai profani, ma ben noto ai cultori di scienza delle finanze, consentì a Lussingrande tutta, dal nostromo Pìllepich al maestro Sablich, dal sarto Pende al vecio Jose, di pareggiare i privati bilanci, cosa oggi impossibile ai più accreditati Enti pubblici. — Va ben che per i debiti no i impica, come che se diseva una volta, ma mi co' no me bate i conti, co' go, per dir, un debito, no go pase de note. — Eh, xe una gran roba la pase de note! — Ben, che me vien in a mente: savé co' Pìllepich ga perso la gamba? — Ghe dioliva? No el podeva dormir de note...? — No, co' el ga perso la gamba el ga averto un local. — Cola gamba? — Sicuro, con quel che el gaveva ciapado del Infortunio. Lui, savé, tanti ani che el gaveva navigado, el gaveva bona pension, po' 'sto Infortunio che el ga tirà, dopo che el gaveva perso cussì stupidamente la gamba, sponzendose su un ciodo, che ghe xe andà in cancrena, pensévese, trascurante, sì, trascurante el xe stà, va ben, indiferente: insoma el ga averto local a Lussingrando... — Ah! Un grando local a Lussin!... — No, anzi picolo local, ma a Lussingrando no a Lussinpicolo, perché Pìllepich pretamente ve iera de Lussingrando. Picolo local: «Al Vapore», adesso no xe più. «Al Vapore», se ciamava, perché Pìllepich iera stado un dei primi che gaveva navigado su vapori veri a Lussingrando, ma nualtri usavimo dir «Andemo de Pìllepich». Ma «Al Vapore» ve iera propiamente scrito... — Come in memoria? — Cossa in memoria? El gaveva averto 'sto local che lui ghe ciamava «Al Vapore», al vapor, insoma, e me ricordo che drento el gaveva un grando vapor in pitura, ma noi disevimo «Andemo de Pìllepich». Ale mogli, natural, co' andavimo a béver ghe disevimo «andemo al vapor». Inveze andavimo de Pìllepich. No disevimo busìe. Insoma che ve contavo, che giusto me gavé ramentà co' disevi che xe una gran roba aver pase de note, sarà stado zinque e meza de sera, perché giusto iera rivado el vapor, anzi sie, perché el vapor se gaveva intardigado col mar che iera e bora scura, co' tutintùn vien drento 'sto ungarese cola valisa. — Dove? Che ungarese...? — No so che ungarese, no se ga mai savesto chi che el iera. Ungarese el iera, apena rivado de Fiume a Lussingrando col vapor. — El «Vapor» de Pìllepich? — Maché el «Vapor» de Pìllepich. El vapor de linia, rivà de Fiume. E 'sto ungarese — che se capiva che el iera un ungarese de come che el parlava, ma el iera un ungarese de Fiume, mi calcolo, perché el parlava franco italian — 'sto ungarese con 'sta valisa, el vien drento in local de Pìllepich, bagnà, piova che iera, e ci fa ci dice se xe modo e maniera de andar subito a Lussinpicolo. E Pìllepich, savé, macia che el iera, ghe dise che sicuro, che se pol andar a Lussinpicolo anca subito: un poco a pie e un poco caminando... — Come, un poco a pie e un poco caminando? — Oh Dio, macia che el iera, el ghe voleva significar che no iera mezzi, che bisognava andar a pie. Un poco a pie e un poco caminando. Alora 'sto qua, piova che iera, 'sta valisa intrigosa, el se ga sentà, el ga ciamado una trapa e ci fa ci dice a Pìllepich: «Maestro, podessi comodarme?» Se el gavessi, insoma, una camera per dormir. Che camera xe, se el se contenta, ma che el deve contentarse, perché lu, più che altro, ga local e come alogio el gaverìa sì una camera, ma che el deve contentarse. Però che xe neto, che xe lavaman, cola broca e tuto. — El gaveva anca camere Pìllepich? Quel xe bon de istà... — E inveze iera de inverno. E po', camere, siora Nina! Dò camere el gaveva, giusto cussì, se iera un'ocasion. E 'sto ungarese ghe dise che va ben, che no ghe importa, che xe giusto per dormir per quela note e che come diman matina bonora l'anderà a Lussin. — Caminando? — No so mi se caminando. Lui gaveva de esser de matina bonora a Lussin per robe importanti. E Pìllepich però ghe ga dito: «Savé, sior, se andé via de matina bonora, mi de matina bonora no me alzo, perché vedé come che son cola gamba. Vù andé a dormir, ve alzeré co' ve comoda e podé andar via liberamente diman de matina bonora, basta che me paghé la camera in antecipo, e la trapa.» E che xe diese corone, figurèvese. — Diese corone, cola trapa? — Ma cossa cola trapa o senza trapa! Che po' la trapa cossa ve sarà stà? Tre soldi! Xe che diese corone, per una camera de queste che gaveva Pìllepich, iera bastanza, iera massa. Insoma Pìllepich ga volesto profitarse, come. Anca a bordo Pìllepich se profitava se iera ocasion. Ma 'sto qua — un sior iera, savé, e stanco — el ga dito che va ben, che va ben, che a lu no ghe importa. Che èco qua le diese corone — e el ghe le ga dade, un bilieto novo novente de diese corone — ma che el xe stanco, che iera bruto mar, e che el vol dormir in pase. Che lui ghe paga in antecipo, ma che solo una roba lui vol: che sia pase, che no sia bordelo, che no sia scàndal, perché lui vol dormir in pase, che el xe stanco. «E va ben — ga dito Pìllepich — qua no ve xe mai né bordelo, né scandàl, e vù liberamente podé andar a dormir anca subito.» — Ah! El xe andado a dormir senza zena? — Sicuro. Stanco el iera. Co' se xe stanchi, no se ga voia de magnar. Insoma 'sto ungarese no el iera gnanca ben andado suso in camera, che subito Pìllepich ga ciolto el suo bastunìch e, cola gamba de legno che el gaveva, el xe andado del fornér... — Per ciorghe pan per 'sto ungarese? — Ma se el iera andà in leto senza zena! — No, pensavo de matina, per el caffé col pan. — No sté pensar. Iera un'altra roba, iera che Pìllepich ga pensado: «Sabo che xe stasera, come diman xe dimenica e no volessi che in cesa de novo me intivi e me vardi de bruto el fornèr Bertoto che ancora de Nadal el vanza de mi diese corone per el pan, el pan cundì e la zonta de pan de fighi che el me gaveva mandado per le feste.» Savé, in un local, per le feste, se fazeva presto a far su diese corone per pan, pan cundì e la zonta de pan de fighi per le feste. Insoma el va subito in casa de 'sto Bertoto, che soto el gaveva el forno, el ghe dise: «Écove, Bertoto le vostre diese corone, aré qua, un bilieto novo novente, cussì sé pagado, semo pata, e ricordévese de disnotar del libro.» — Ah! Pìllepich gaveva debito col fornèr? — E cossa ve stavo contando? El gaveva debito e el xe andado a deliberarse de 'sto pensier, vista l'ocasion che el gaveva 'ste diese corone rivade cussì al'improvista. E contento xe stado el fornèr Bertoto, perché el ga dito: «Visto che xe 'sta ocasion che go scodudo 'ste diese corone, fora el dente fora el dolor, mi ghe le porto subito, prima che me vegni la tentazion de spenderle, al maestro Sàblich.» Perché, dovè saver che Bertoto, el fornèr, fazeva studiar el fio ale Nautiche de Lussin e sicome 'sto fio scantinava in conti el maestro Sàblich ghe dava lezion a casa. — A casa sua de lu? — Ma cossa so mi, se a casa sua de lu o de quel altro! El ghe dava lezion a casa e el forner Bertoto ghe doveva al maestro Sàblich diese corone. E cussì, l'ocasion che iera, el xe andado subito a portargliele. «Écove, maestro, me racomando el fio e écovele qua!» Che anzi 'sto maestro Sàblich gnanca no se le spetava, perché, savé in una Lussingrando, logo picolo, 'ste robe qualche volta se fazeva anca per piazer come, e cussì lui propio no se le spetava. E ancora in man che el gaveva 'sto bilieto novo novente, el ga dito: «Sa cossa?», — A chi el ghe ga dito? — Come a chi el ghe ga dito? A nissun no el ghe ga dito. Solo si stesso el ga pensà: «Sa cossa? Prima che me pento, xe meo che ghe le porto subito al sarto Pende, che me ga fato ancora per Pasqua el vestito zenerin.» El sarto Pende iera de ani sarto a Lussingrando, ma lui veramente iera de Arbe. Bon: 'sto maestro Sàblich l'intiva el sarto Pende che giusto el vigniva fora de casa. «Oh Pende mio, justo che ve vedo, profito del'ocasion per darve quele diese corone che vanzé per la fatura del vestito zenerin, che me casca ben e no fa più quel difeto». Insoma, una roba e l'altra, ciacolando el ghe le ga dade, cussì nove noventi che le iera. — Cossa, 'sto Pende iera sarto de omo? — Sicuro che el iera sarto de omo. Dove iera sarti de dona nei paesi? Le done se cusiva sole. Bon, indiferente. Dovè saver che 'sto sarto Pende, propio per via che el iera sarto de omo e che ghe vigniva 'sti capitani a farse monture, lui no ghe piaseva farli vignir cussì in camera de leto. — El iera sposado? — Sposado sì el iera, zà nozze de oro el gaveva fato. E iera che co' lu meteva in prova le monture, i vestiti in camera de leto, 'sti capitani, 'sti omini doveva cavarse le braghe, e la moglie, natural, doveva andar fora de camera de leto. E alora lui, del vecio Jose, che a Lussingrando fazeva de murador per l'un e per l'altro, el se gaveva fato tirar su in cusina — che el gaveva granda cusina — un paredo, un muro munighìn drito fil con una finestra, che cussì el ga podesto gaver un logo aposito per meter in prova braghe, sacheti, tuto. E diese corone ghe iera vignudo giusto a costar 'sto muro munighìn. Ma savé come che xe: i sarti devi sempre spetar e chi che vanza bori dei sarti speta anca lori. «Chi sa — ga pensado el sarto Pende — se come stasera, el vecio Jose xe in paese? Sicuro che el sarà in paese, perché xe sabo, e xe meio che lo regolo.» «Jose! Jose! — el lo ga ciamado del cortivo — ve go quele diese corone del muro munighìn!» Contento, ah, 'sto vecio Jose, sabo che iera. A lui assai ghe piaseva un bicer, anca dò. E anzi l'andava un dò tre volte al giorno in local de Pìllepich. El se ordinava el suo quarto e anca el suo mezo e el ghe diseva: «Noté, noté, Pìllepich, noté sul jazzo!» Che quela volta iera le prime stanghe de jazzo. — E lui notava su 'ste prime stanghe de jazzo? — Ma no: se dise per dir. Come dir no notar, perché el jazzo se squaia. — Ah, no el pagava? El beveva in credenza? — Mi no so se el beveva in credenza o in armeròn. Fato si è che no l'usava pagar subito ogni volta. E Pìllepich notava. — Sul jazzo? — No, no sul jazzo, ve go dito che se dise per dir: sule pagine davanti dela Sacra Scritura. Quela volta se usava. — Ah, xe vero! Nualtri in casa sule pagine davanti dela Sacra Scritura notavimo le nàssite, i sposalizi, le messe de morto... — Bon, inveze Pìllepich notava chi che gaveva debito con lu, perché lui gaveva local. E rari iera quei che pagava subito in local. E no solo che in local. — Ah, cussì a Lussingrando tuti gaveva debito? — Oh Dio tuti! No tuti, massima parte. Che anzi in cesa, de dimenica, a Messa de mezogiorno, i se vardava de bruto un col altro. E quando che don Blas diseva al Pater «... e rimetici a noi i nostri debiti sicome noi li rimetiamo ai nostri debitori...» più de un tossiva. — Tanti usa sì tòsser in cesa, perché xe giro de aria... — Indiferente, no iera quistion de giri de aria. Bon quela sera, el vecio Jose apena ciapade 'ste diese corone del sarto Pende, ghe dise al sarto Pende: «Savé cossa, Pende? Andemo de Pìllepich, che pago mi con 'sto bel bilieto novo novente. E come che i vien drento de Pìllepich i trova in local el fornèr Bertoto, el maestro Sàblich e Pìllepich, natural. «Ècove, Pìllepich, diese corone — ghe fa el vecio Jose a Pìllepich — disnoté el mio dover del jazzo, déme un mezo per mi e per el sarto Pende e notélo su una stanga nova.» — Come su una stanga nova? — Sì, l'intendeva dir su una nova stanga de jazzo. Ma Pìllepich ghe fa: «Cossa stanga nova? Stasera ofro mi a tuti!» E tuti i altri, el fornèr Bertoto, el maestro Sàblich, el sarto Pende, el vecio Jose che no, no, che stasera i ofre lori. Capiré, tuti iera contenti de no gaver più debito. Va ben, che alora ognidun ofrirà un. Un mezo, un litro, dò. Insoma, siora Nina, xe stà tuto un ofertorio, tuto un rider, una contentezza, con 'sto vin che coreva come acqua. E i ga tacà a cantar la Vergine degli Angeli e xe stade anca mace de vin sul plafòn. Gheto, undése de sera che iera oramai. Ben: no volé che vien zò, scavelado e rabioso, cola valisa in man, l'ungarese? — Che ungarese? — Ma sì, quel sior ungarese de prima, che dormiva perché el iera stanco e che con 'sto gheto no el podeva più dormir. Che lui no ga pase — el ziga — che cossa xe 'sto bordelo, che cossa xe 'sto scandàl? Che lui gaveva patuìdo che deve esser pase, che no deve esser bordélo, che no deve esser scandàl. Che lui vol indrio quele diese corone che el ga dà in antécipo e che lui andarà a pie a Lussinpicolo! «Un poco a pie e un poco caminando» — ghe ga dito Pìllepich, ciapado che el iera, e el ga tirado fora del scafeto le diese corone nove noventi apena ciapade del vecio Jose e el ghe le ga tornade. 'Sto ungarese le ga ciolte e con in una man la valisa e in quel'altra 'ste diese corone nove noventi, el xe andà via nel scuro, soto la piova, biastemando per ungarese, che tuti ghe cantava drio. E i xe andadi avanti a cantar fina le zinque de matina, tuti alegri e contenti perché, ripeto a dir, tuti quanti gaveva pagado el suo debito con un bel bilieto de diese corone nove noventi. MALDOBRIA XIII - IL NUOVO TESTAMENTO Nella quale si fa distinzione fra il concetto ottocentesco di «millionnaire» e quello moderno di milionario a proposito della vita, delle intraprese, del mondo affettivo e dei lasciti testamentari del vecchio Mèise, sulle cui cospicue sostanze avevano posto gli occhi i numerosi nipoti di Lussinpiccolo e la Municipalità di San Nicolò di Veglia, ultimo rifugio di Capitan Premuda. — Un milion, siora Nina? Ma cossa volé che ve sia ogi un milion? Qualcossa, un milion, ve iera prima dela guera. — Prima de questa ultima? — Sì, sì anca prima de questa ultima, un milion iera ancora qualcossa. Chi che gaveva un milion iera un milionario. Ma prima dela Prima guera chi che gaveva un milion, no milionario: milionér el ve iera. — Ah, milionér xe più che milionario? — Per dir, sarìa l'istessa roba, ma quando che in antico se diseva milionér, un milion ve iera una roba de no concepir. No se pol far gnanca un calcolo quanto che iera, perché iera tuto un altro mondo, tuta un'altra concezion dela vita. Figurévese che a Lussin che i diseva che el vecio Mòise gaveva più de un milion, lui — come tera — ve iera paron de meza Lussin e de meza Cherso. E po' case el gaveva e piégore e quartieri e torcio, uliveri in Dalmazia che gnanca no se saveva, perché, per parte de madre, lui ve iera mezo dalmato. Bel vecio, grando, ve iera el vecio Mòise, propio come i dalmati, che scarpe apòsite el doveva farse far. Anca el fradelo ve iera un toco de omo. Perché ve iera dò fradei. — Chi, due fradei? — El vecio Mòise e el fradelo del vecio Mòise. Un più vecio e un più giovine: e el vecio Mòise iera el più vecio. — Ahn! — Milionéri, milionari tuti dò, siora Nina: de fiorini. Che — Dio mio tuto i gaveva quel che ghe ocoreva — ma a véderli nissun gaverla dito. Oh Dio, el vecio Mòise girava col suo bel capel de paia, el sacheto de àlpagas, braga bianca de istà, el suo bastunìch col pòmolo de osso: me lo ricordo co' el girava per marina. — A Lussin? — El gaverà girà anca a Lussin per marina, ma mi veramente me lo ricordo ben, propio ben, in ultimo, co' el stava a San Nicolò de Veglia, che stavo anca mi quel periodo. Uuh! Ve iera stada una storia! — A San Nicolò de Veglia? — No, siora Nina, tuto gaveva scuminzià a Lussin. Roba che nassi nele famée, ma gaveva parlà tuti. Vù dovè saver che el vecio Mòise no se gaveva mai sposado, caratere. Inveze el fradelo del vecio Mòise se gaveva sposado giovine, con una dalmata, una terza cugina, e el ve gaveva avudo come che se usava quela volta a Lussin, no so più se nove o ùndese fioi, perché qualchedun iera morto ancora cratura, ma tanti insoma. E dovè pensar che co' lui xe morto 'sti fioi ve iera zà grandi, omini fati, con fioi sposadi. — El vecio Mòise? — Ma no, siora Nina: ve go dito che el vecio Mòise no se gaveva mai sposado. El fradelo del vecio Mòise iera morto e tuti 'sti fioi, zà con fioi grandi, sposadi, iera fioi sui. Tra fioi, nevodi, bisnevodi, cognai, cognade, una roba l'altra a Lussin mi calcolo che sarà stadi un zinquanta de lori. — E la moglie, vedova? — No: la moglie iera zà morta prima, de rissìpola, che i più pici gnanca no iera rivadi a conosserla. Iera la vecia Cate che ghe fazeva tuto in casa, dona de fiducia. E inveze al vecio Mòise iera la vecia Tona che lo tendeva, perché no el iera sposado. El stava in casa, però. — In casa de chi? — Come in casa de chi? In casa dei Mòise: in casa sua de lori, dei dò fradei. Che anzi, fin che iera vivo el fradelo del vecio Mòise, tuto ben, ma dopo el vecio Mòise no andava più tanto dacordo coi nevodi; savé: altre generazioni. I diseva che el iera sufistico e sussetìbile, ma davanti i ghe fazeva le bele, podé capir. Oh Dio, a lori no ghe mancava gnente, ma i soldi no xe mai bastanza, specie per chi che li ga, e 'sti nevodi calcolava, puto vecio che el iera, che lui ghe gaverìa lassà tuto a lori, come unico zio. — E inveze no? — Come no? El gaveva fato testamento che el ghe lassava tuto a lori, come unico zio, co' el iera rivado a otantazinque ani, perché el gaveva dito: «A otantazinque, forsi, xe meo far testamento.» Insoma che ve disevo, el gaveva fato propio de suo pugno 'sto testamento e el lo tigniva in camera sua in comò. — Anca noi tignimo in comò le carte... — Anca Barba Nane tigniva in comò la matricola co' no el navigava, ma questo no ga importanza. Tuto xe nato quela volta del matrimonio dela nevoda. Una nevoda — no so più gnanca come che la se ciamava, iera tante — che vigniva a star fia de un fio del fradèlo del vecio Mòise, pensévese. Insoma i vien fora del Domo de Lussin e po' pranzo de nozze a casa. Tuto ben, tuto un rider, tuto una contentezza e, tutintùn, in tavola — savé come che xe i veci — 'sto vecio Mòise taca a pianzer. E pianzendo el ghe dise a 'sta nevoda, propio co' la stava per andar via col sposo: «Vien, vien qua Antonia — Antonia la se ciamava, adesso me sovien — vien qua, Antonia che te dago un baso anca per el mio povero fradélo che xe morto cussì giovine!» Otantatré anni — pensévese — ghe gaveva el fradelo co' el ghe iera morto! E cussì tuti, a sentir 'sta storia del vecio che iera morto cussì giovine, i se ga messo a rider. Savé: pranzo de nozze, alegri e tuti ciapadi un poco. Ma 'sto vecio che pianzeva a véder tuti che ghe ridi, sussetìbile che el iera, savé cossa che el ga fato? — El se ga messo a pianzer... — Come el se ga messo a pianzer, se zà el pianzeva! Inofeso el se ga, rabiado. In colera propio. Insoma, el se ga ciapado su e el xe andà in camera sua zigando su per le scale che no i ga gnanca rispeto per el padre morto. — Eh, un padre xe sempre un padre... — Ma cossa un padre xe sempre un padre, se el iera morto zà de ani anorum a otantatré ani! Però, savé come che nasse coi veci nele famée, una parola tira l'altra e xe stà barufa, gran barufa, con 'sto vecio che coreva su e zò per le scale. Ben, volé creder? Un bel momento el ga ciolto fora del comò el testamento e sul balador dele scale el lo ga sbregado in tochetini, che i tochetini cascava zò in piantèra come coriandoli de carneval. — Jesus! Sbregado el testamento! — Sicuro. E no basta: sussettìbile che el iera, lu in vita sua no ga mai volesto saver più gnente dei nevodi. E come diman l'altro lui ga fato portar zò tuta la sua roba, el se ga ciolto con sé la vecia Tona, el xe montà in vapor e el xe andà a star a San Nicolò de Veglia. — A San Nicolò de Veglia? Via de Lussin? — Via de Lussin, perché lui là a San Nicolò de Veglia el gaveva una casa sua de lu, che assai ghe piaseva, che qualche volta l'andava de istà e che ghe iera vignuda a lu, perché el paron de prima — un zerto Udina, man sbuse, disgrazie anche — no gaveva podesto pagarghe , l'ipoteca. Bela casa, savé: forsi la meo che iera a San Nicolò de Veglia. — Ma dove xe veramente 'sto San Nicolò de Veglia? — Ma a Veglia, siora Nina! Dove volé che sia? Anca mi iero là. Ve go dito che là lo gavevo conossudo. Perché mi, quel periodo, iero al Governo Maritimo de Veglia soto del Capitan Premuda, che iera là Capitan de Porto, un lussignan. — Qual Premuda? — El Capitan Premuda, de Lussin. Che lui iera zà de tanto tempo in Governo Maritimo de Veglia, però el stava a San Nicolò de Veglia, altro Comun, ma solo meza ora de strada caminando. Savé, Veglia, per alora, ve iera cità, una citadina propio, e i afiti iera bastanza cari; inveze a San Nicolò se podeva gaver un quartier per poco per gnente. — Per quanto? — Cossa volé che sapio mi per quanto? Per poco per gnente. «Per quel poco — diseva el Capitan Premuda — che mi posso permeterme.» Savé: lui ve iera come in ristretezze, lui sempre rugnava che i fradei e i cugini, tuti 'sti Premuda, massime el zio, con quela de pagarlo fora lo gaveva lassà nudo e crudo. — Quala quela de pagarlo fora? — Quela che fazeva tanti a Lussin, che quando uno restava senza padre de putelo, i procurava a vintiun ani de pagarlo fora. Perché, savé, un giovine, co' i ghe mete qualche soldo in man, el se ilude, el se lusinga e dopo no ghe resta gnente. E co' po' el domanda: «E i carati dele barche? E la parte del padre?» i ghe dise: «Ma noi, benedeto, te gavemo zà pagado fora!» Insoma, per farvela curta, 'sto Premuda, assolte le Nautiche de Lussin, e pagado fora, dopo un per de ani el iera restado nudo e crudo, solo con 'sta paga, 'sta pagheta del Governo Maritimo de Veglia, che lui no podeva gnanca star de casa a Veglia e el gaveva ciolto 'sto quartierin a San Nicolò, propio vizin de 'sta belissima casa, che anca mi stavo là. — Ah, vù stavi in una belissima casa? — No, mi stavo in un quartierin vizin del Capitan Premuda e tuti dò stavimo vizin de 'sta belissima casa che el vecio Mòise gaveva a San Nicolò de Veglia. Pensévese: la iera in volta dela strada in alto, propio dove che scuminziava le case, con orto davanti e dedrìo. Po' iera la strada e visavì come un giardineto sul mar, che i ghe diseva giardin publico perché el iera dela Comun, ma iera un giardineto de gnente. Figurévese: iera un dò alberi, dò banchine de legno piturade de rosso, me ricordo, e là se trovava, specie de sera, de istà, che iera sempre fresco, el Podestà Pende, el notaio Quékich, 'sto Premuda Capitan de Porto e el vecio Mòise, dopo che el iera vignudo. — In giardin publico? — Ma cossa giardin publico! Iera un slargo dela strada, con un dò alberi e dò banchine. Giardin publico i lo ciamava perché el iera dela Comun. E la casa del vecio Mòise ve vigniva a star propio visavì, oltra dela strada. Iera el porton de fero, el muro e — oltra del muro — picava fora sula strada i rami dei figheri che lui gaveva drento sul orto davanti. — Iera bel? — Eh, belissimo. E po' una bela casa questa del vecio Mòise, che anzi la Comun sempre gaveva studiado de poderla comprar dei Udina per far el Municipio, perché el Municipio i lo gaveva alogado in piantèra dela scola popolar e no iera gnente comodo. Ghe la butava sempre el Podestà Pende al vecio Mòise: «Qua pensavimo, pensé, Barba Mòise, de far el Munizipio, prima che vigni vù!» E el vecio Mòise rideva e diseva: «Adesso son vignù mi, che a Lussin no i me vederà più gnanca in pitura, perché mi qua stago noma che ben, e per el Munizipio novo parleremo, parleremo quando che sarò morto.» E el rideva. — El li cioleva via? — No: el diseva cussì, come per farghe intender che dopo morto i gaverìa parlà. Insoma, gavé capì. Lui in 'sto San Nicolò de Veglia el ve se gaveva trovado tanto ben, che el gaveva divisado de lassarghe tuto ala Comun de San Nicolò, per no darghe el gusto ai nevodi, dopo che el ghe gaveva sbregado el testamento e quela granda barufa. Anzi, el notaio Quékich, che iera un ciacolon, gnente omo secreto, ghe gaveva contado al Podestà Pende che el vecio Mòise iera vignudo in scritorio de lu e propio de suo pugno el gaveva lassà tuto el suo in testamento ala Comun de San Nicolò. E tuti contenti, perché milionér che el iera, questo voleva dir per la Comun un enorme. Ma dopo xe stada la storia dela carozza dela Posta. — El xe andà soto la carozza dela Posta? — Ma cossa soto la carozza dela Posta? Perché el doveva andar soto la carozza della Posta? Iera la carozza dela Posta che vigniva de Veglia che passava propio soto de casa sua. Tra casa sua e quel che i ghe ciamava el giardin publico. 'Sta carozza dela Posta — parlo de diversi ani prima dela Prima guera — iera vecia e un giorno quei dela Posta de Pola, ghe ga mandado a Veglia col vapor la carozza nova, che xe stado un avenimento. — Carozza nova! — Nova, novente: più granda, più alta, piturada tuta in zalo e nero, cola stema, come che se usava. Ben, volé creder: co' passa 'sta carozza nova soto dela casa del vecio Mòise, no la passa. — Co' la passa no la passa? — Sicuro che no la passa, perché più alta che la iera, i rami dei figheri del vecio Mòise ghe se ciapava sul de sora dove che stava el bagalio e anca al cùcer ghe xe cascado per tera el capel de cùcer. — Una disgrazia! — Ma cossa disgrazia? Nissuna disgrazia: solo che la carozza no passava perché i rami dei figheri impediva. E alora la ga dovesto tornar indrìo e far el giro per dedrìo che iera riva, sassi e mal per i cavai. Cussì el giorno dopo el vecio Mòise co' se alza de matina bonora e va in finestra el vedi dò omini mandadi dela Comun con scale e segazzi. Cossa che i fa? Che el Podestà Pende ghe ga dito de taiar i rami dei figheri che intriga. Che cossa? Che i figheri xe forsi del Podestà Pende? Che lori no sa, che cussì i ga avù ordine. Siora Nina: col baston el ghe ga coresto drio, che i ga dovesto scampar, otantasete ani che el gaveva quela volta. E dopo ve xe stada un'ira de dio con 'sto Podestà. Che la carozza nova dela Posta no passa e che bisogna taiar i rami dei figheri, che cossa sarà po' dò rami de figheri! Che questo no ghe compete a lui de dir cossa che xe o cossa che no xe dò rami di figheri: che i figheri xe de propietà e no se li toca. Che la carozza deve passar e che lui ghe dispiase tanto, ma el li fa taiar. Che lui alora se impetirà a Pola. Che xe inutile che el se impetissi, perché per lege quel che pica sula strada dela Comun xe dela Comun, e che se sula strada casca un figo, quel figo xe dela Comun. Che lui no ghe ne importa un figo, che se la carozza deve passar che i tài i alberi del giardin publico. Che quei no fa nissun intrigo, che xe i sui che fa intrigo. «Bon — ghe ga dito alora el vecio Mòise al Podestà Pende — se la meté cussì, parleremo quando che sarò morto!» — Come dir che no el parlava più con lu? — Ma no: come per farghe capir che se lori ghe taiava i figheri, lui, dopo morto, no ghe lassava ala Comun più gnanca meza corona. — Che dano! — Dano si, ga pensado questi dela Comun de San Nicolò, e i ga considerado: assai vecio el xe, no el poderà andar avanti al infinito, cussì xe meio che femo passar la carozza dela Posta per drio, governeremo la strada e pazienza. — El la ga avuda vinta? — Per forza: quela volta un milionér iera un milionér. Un milionér pol — diseva el Capitan Premuda — e quando che el se mete in testa qualcossa, amen. Insoma, per contarve, siora Nina, gnanca un ano no xe passado che 'sto vecio Mòise mal, mal, mal. Ghe ga ciapà mal in tavola, po' enfisema e iera zà un mese che no el se moveva del leto e che la vecia Tona ghe gaveva dito al Podestà Pende che ela oramai ogni sera ghe dise le orazioni dela bona morte. No i verzeva più gnanca le finestre. — Sempre le finestre tignivimo serade co' mia madre... — Indiferente. Iera april, me ricordo come adesso, e a 'sta carozza nova dela Posta un giorno ghe se rompe una rioda sula riva dedrìo che giusto tornava a casa el Capitan Premuda, che me ga contà. «In malora — ga dito el Podestà Pende — taiémo 'sti maledeti rami dei figheri, che oramai el xe più de là che de qua e gnanca no el se inacorze.» E cussì i ga fato. E no volé che in quela che i taiava, lui devi gaver sentìdo el sussuro dei segazzi?... — El vecio Mòise? — Lui sì, chi po'? El se alza del leto, più de là che de qua che el iera, el spalanca la finestra e el vede che oramai i ghe gaveva zà zimà tre figheri. Ciàpilo lìghilo: el ve xe andà subito in comò, el ga tirà fora el testamento e in finestra el lo ga fato a tochetini zigando: «Eco là: adesso che el ve xe sula strada el ve xe tuto dela Comun!» Siora Nina: el ga diseredà la Comun in punto de morte. Perché, come la sera istessa, el xe morto. Anca per la fota, ga calcolà el Capitan Premuda. — Mama mia! — Eh xe stà un dano per la Comun! El Podestà Pende ga sbalià de no spetar. Perché cussì ghe xe andà tuto ai nevodi de Lussin. — Ma come? No el gaveva zà sbregado el testamento a prò dei nevodi? — Cossa ghe entra? L'Austria iera un Paese ordinato: se lui no gaveva fato testamento per nissun altro, de dirito ghe tornava tuto ai nevodi, per legitima. — Assai? — Altro che assai! Ve go dito che el iera un milionér. E con tuto che i iera un zinquanta de lori, a ognidun de 'sti nevodi ghe vigniva assai, ma assai soldi. Bastanzissima. E i xe vignudi tuti savé, in vapor, per i funerai, de Lussin. Che tuta San Nicolò de Veglia iera piena de lussignani. «Mai no go visto tanti lussignani insieme — ga dito el Capitan Premuda — gnanca a Lussin, mi che son lussignan.» E caminando anca lui drio del caro el li contava. E dopo co' i ga calà la cassa, el se ga messo a pianzer 'sto Capitan Premuda, ma propio a pianzer cole lagrime. «Ah Capitano — ghe go dito mi — anca vù sè parente del vecio Mòise, che ve vedo pianzer...» «No, no — el me ga rispondesto — me vedé pianzer propio perché qua son l'unico lussignan che no xe parente...» Milionér iera el vecio Mòise. No milionario: milionér. MALDOBRIA XIV - I SANSIGOTI Nella quale per voce di Bortolo parla il di lui padre defonto, esperto del linguaggio dei sansegoti e del concetto in cui gli stessi abitanti dell'isola di Sansego erano, a torto o a ragione, tenuti dalle altre genti del Quarnero in tempi di nomèe, remote favole e leggende. — Vedé come che xe le nomèe, siora Nina! Tanto che i dise che quei de Sànsigo xe indrio cole carte e inveze i me ga contà che i Americani ga fato pulito piturar tuta nova la cesa de fora e de drento e i ga anca governà l'orolojo che iera incantado de no so più quanti ani... — I Americani ga fato questo a Sànsigo? — Ma no i Americani americani! Quei americani sansigoti che xe in America. Lori sempre se ricorda e i vien anca ogni tanto, per mostrarghe ai fioi come che xe 'sta sua isola, come che iera Sànsigo. Fioi! Fioi grandi oramai, con fioi. E i manda. — 'Sti fioi? — Ma no i fioi. Anca i fioi, de istà. Ma soldi i manda, dòlari. E cussì i ga governà la cesa e anca l'orolojo. — In memoria, come? — Si, in memoria, ma anca per 'sti veci, per 'ste done che xe restade a Sànsigo. Perché adesso, massima parte, a Sànsigo no ve xe restadi che veci, done e qualche cratura, che po' apena che i xe grandi i va in America. Mezo paese ve xe svodo, e pensarse che una volta i contava che de dimenica, co' iera messa cantada a Sànsigo, meza gente restava fora dela porta dela cesa. — No i li lassava andar drento? — No: picola cesa. Che anzi, me ricordo, mio padre defonto contava sempre de quela volta che quei de Sànsigo gaveva divisà de farla più granda. — Quala volta? — Chi sa quala! Mai forsi. Ma questo i contava in antico per dir che quei de Sànsigo xe indrio de mentalità, come. Vedé come che xe 'ste nomèe... — Eh xe bruto le brute nomèe. — Ma no brute! Nomèe... Me contava mio padre — che lui sempre andava a cior vin a Sànsigo e assai ben el se gaveva imparado a farghe drio ai sansigòti come che i parlava — che una volta, chi sa quando, el paese de Sànsego se gaveva ingrandì e la jente gaveva visto che la su' cesa iera massa picola per lori. Bisognava slargarla. «Cari, diseva el Podestà de Sànsigo, no ghe xe bajochi!» E alora i ga fato una radunansa in piazza e i se ga consejà. Parla un, parla dò e tuti i crede de dir chi sa che robe bele e i dise castronade. In ultimo alza la man Tone che iera un dei capi del paese che el fa: «Amissi, compari e parenti, òj come òj no gavemo bajochi, ma ben gavemo forza. Semo omini tressi, de spale stagne e podemo far senza spesa quel che ocore. Sintìme! Metémose un tacà l'altro drento i muri dela cesa, e po' sburtemo i muri. Vedaré che la cesa se slarga.» «E come savaremo — dimanda Jacomo, un de lori — che i muri se ga slargà?» «Metaremo — ghe risponde Tone — le jachete picade fora dela cesa. Se le casca zò vol dir che la cesa se ga slargà.» «Bon, bon — ziga tuti — brào compare, brào compare!» Co' xe el jorno destinà, i va; i meti le jachete picade de fora dela cesa e po' i va drento e un rente l'altro, i taca a sburtar i muri. E i ciapava el brivo zigando: «Òeee!... nena, iohohò!... òeee!... nena, iohohò!» Intanto che lori sburtava, passa un ciapo de ciosoti vignudi col bragozzo che, viste le jachete, i le ga rancurade tute e via lori da novo per Cioza col bragozzo. Co' i sansigòti ga finì de sburtar per una bona ora, i va a véder fora dei muri e no i trova più le jachete. «Vé visto — fa el Podestà de Sànsigo — che compare Tone gaveva rajon? Gavemo tanto sburtà che, del colpo, le jachete ga svolà via.» «Ma — dise Jacomo — no savemo quanto che la cesa se ga slargà.» «Anca quel savaremo», fa el Podestà. Vien la domenica adrìo e i va in cesa tuti. Ma la cesa ghe ga parso pricisa come prima. E alora i ga fato una seconda radunansa. «El mal xe — dise Jàcomo — che no savemo quanto che la cesa se ga slargà.» «E alora femo cussì — dise compare Tone — stavolta metaremo le jachete drento dela cesa, davanti dei nostri pìi. E co' sburtaremo, vedaremo de quanto lore le se slontanerà de nualtri. Va ben?» «Bon, bon — ziga tuti — semo cuntenti!» El giorno distinà i va in cesa, i se mete un rente l'altro, fissi fissi, coi calcagni vizin del muro e le jachete davanti i pìi. E i taca a zigar: «Òeee!, nena, iohohò, òeee! nena, iohohò!» e zò a sburtar. Ma sul saliso lustro i pìi ghe sbrissa e lori, tuti insieme de colpo, i xe andai russando la schena zò del muro, col cul partera. Le jachete, se sa, le se ga slontanà insieme coi pìi. E alora tuti cuntenti i sansigòti i se ga alzà de tera e i se ga dito: «Gavé visto come che la se ga slargà?» E i ga misurà de quanto che le jachete se gaveva slontanà dei pìi: ostia, un metro bondante per parte, i muri dela cesa se gaveva slargà. «Guai se sburtavimo tropo — ga disesto el Podestà de Sànsigo — el colmo ne sarìa cascà sula testa!» — E no el ghe xe cascà? — Ma cossa, siora Nina, ghe xe cascà o no ghe xe cascà? Questa in antico i contava dei sansigòti. Capì come che i li calcolava per mentalità? E, presempio, me ricordo de Tone, povero... — Questo Tone che contavi? — Ma no! Quel ve iera el Tone dela storia, che forsi no xe mai esistido. Questo che digo mi, ve iera Tone povero che i ghe diseva, no ve ricordé? — Ah, Tone povero, quel sansigòto, quel che iera un poco indrio cole carte! — No propio indrio cole carte, el iera un poco indrio come mentalità. Persina i sansigòti diseva che el iera un poco indrio come mentalità. Dovè saver che lui gaveva tre fradei, ma tuti ghe iera andadi in America. Quei de Sànsigo, massima parte ve andava tuti in America. Ben — e solo che el iera restado, sposar che no el se podeva, perché le regazze no lo calcolava — 'sto Tone, con quel poco de tera che ghe iera vignuda in parte, no el podeva nè viver nè morir. E cussì l'avocato Miagòstovich, come per compassion, perché iera bon, iera una cara persona l'avocato Miagòstovich, el ghe ga trovado un lavor a Cherso. — Ma cossa, iera de Cherso l'avocato Miagòstovich? — Indiferente, lui a Cherso, che el gaveva conossenze dapertuto, el ghe gaveva trovado a 'sto Tone povero, un lavor. Oh Dio, un lavor! Giusto che no el sia propio senza lavor, che el possi tirar una pagheta. «Ti, Tone povero — el ghe ga dito — semo dacordi con quei del vapor, che no ti ga de far altro che questo: ti pulito ala matina bonora ti speti el vapor, ti ghe ciapi la zima e ti speti fin che el vapor sta per partir de novo, e alora ti ghe moli la zima. Écote, Tone, questo te xe el lavor: zinque corone i te darà ogni sabo. E per dormir, ti dormirà in torcio del povero Andre che giusto xe morto e che tuto el suo xe in mia curatela. Cussì anca ti ghe dà un'ociada de note che no vegni qualche Zingano.» — Ah in torcio el dormiva? — Sì, quel che iera una volta, che adesso no xe più, apena passade le Mùnighe. Squasi un quarto de ora del molo, caminando. Che tante grazie, ghe ga dito Tone povero, che lui no sa come dirghe grazie. Che no ocore che el ghe dise in nissun modo, solo che per l'amor de Dio che el vardi de esser ale sete ore e un quarto in punto sul molo, ogni matina, perché se lui no xe ale sete ore e un quarto in punto co' riva el vapor per ciapar la zima, no merita gnanca che el sia. Ben, e vardé che bon che iera l'avocato Miagòstovich, el ghe ga dado anca i soldi che el se compri un svejarin per sveiarse in punto bonora per esser in punto al molo. — Un svejarin novo? — Novo sì, che el vadi ciorselo in botega de sior Giovàni. 'Sto Tone povero xe andado, e là lui a sior Giovàni che ga contà la storia dei fradei che xe in America, che qua xe cussì difizile sposarse e che lo ga mandado l'avocato Miagòstovich e che qua xe i soldi. «Per cossa?» — ghe ga dimandado sior Giovàni. «Per el svejarin.» Che lui deve sveiarse bonora in punto per esser in punto al molo. Per farvela curta, sior Giovàni ghe ga puntà el svejarin sule sie, ghe ga spiegà come tirarlo per darghe la corda, come che se move le sfere e «Andé, andé, omo — el ghe ga dito — che ve sveiaré in punto bonora.» Rideva tuti in botega. Savé: paese. — Mi go un svejarin vecio, de quei che i portava de Costantinopoli, cola musica. De tanto tempo dovessi portarlo a governarlo... — Indiferente. Tone gaveva el svejarin novo e la matina, in punto, ale sie ore, el ghe sona. Sie ore propio mostrava. «Che ben che va 'sto orolojo!» — ga pensà Tone povero. El se ga levà del leto e, vestì come che el iera, perché vestidi dormiva massima parte i sansigòti, e col scuro ancora, el xe andà caminando fina in Piazzeta. E co' el riva in Piazzeta, sul orolojo dela Tore el vede che xe sie ore e un quarto. Per forza — capì — perché intanto che lui iera rivado in Piazzeta, iera passado un quarto de ora. «Ostroporco — el dise — no va gnente ben quel svejarin mio, perché qua mostra sie ore e un quarto e el mio mostra sie ore. E cussì el se ciapa suso, el torna in torcio dove che el dormiva e el vede che el suo svejarin mostra le sie ore e meza. «Ostroporco — dise Tone povero — prima el me andava indrio e adesso el me va avanti!» E el lo mete sule sie e un quarto. Via lu de novo, caminando fina in Piazzeta, e là el vede che sul orolojo dela Tore xe le sie e tre quarti. «Malòrzega — el dise — quel ostroporco de svejarin adesso me va indrio. Perché sule sie e un quarto lo go apena pontado e xe zà sie ore e tre quarti!» E cussì da novo el xe tornado in torcio, e co' el riva el vede sul sgabel che el svejarin ghe mostra sie ore e tre quarti. «Ah, Dio grazias — el ga dito — son cuntento, perché adesso el me va pulito.» E, caminando, el xe andà verso Piazzeta, che justo co' el iera in volta de Piazzeta, el ga sentido fis'ciar el vapor che stava rivando al molo. «Che bel che xe gaver cussì un orolojo — el ga dito — son cuntento: no go spetado gnanca un momento e propio in punto son rivado al molo!» Bona gente xe quei de Sànsigo. Gente che se cuntenta. MALDOBRIA XV - LE GRANDI FAMIGLIE Nella quale guerra, pace e febbre spagnola ruotano intomo ad un vistoso e per certi versi anche irriguardoso caso di omonimia, non infrequente nel Quarnero, dove genti di unico ceppo ebbero diverse fortune. — Sicuro, propio come nome de batizo son Bortolomìo, ma savé, siora Nina, sicome che iera quel mio primo cugin defonto che se ciamava anca lu Bortolomìo come el mio povero defonto nono, e sicome che lui iera più vecio, cussì a mi subito i me ga ciamado Bortolo per no far confusion. — Eh, nasse sì, nasse cussì nele famée. — Capiré: Bortolomìo mi, Bortolomìo lu, tuti dò in memoria del nono defonto e sicome che lui iera più vecio, lui xe restado Bortolomìo e mi Bortolo. — Vostro nono iera più vecio? — No. Mi iero più vecio de mio nono. Ma dài, siora Nina, del cugin defonto parlavo ... — Eh tante volte nasse nele famée che dò se ciama compagno ... — Ma sì, compagni semo tuti, precisi no semo. Indiferente. Ma no solo nele famée nasse che dò se ciama compagno. Anca nei paesi nasse. Pensé solo — no so se ve ricordé — al povero Comandante Nìcolich defonto, che se ciamava Nicolò Nìcolich, propio come quel povero Nicolò Nìcolich che iera anche lui Comandante. — Cugini primi anche lori? — Maché cugini! Né primi, né secondi, né ultimi... Lori, ve digo, 'sto Comandante Nicolò Nìcolich e 'sto altro Nicolò Nìcolich, anca lu Comandante, no ve iera gnanca parenti, gnanca ala lontanavia... Nasse nei paesi. Ma lori no ve iera gnente inparentà, perché el Comandante Nicolò Nìcolich... — Qual? — Qual? Quel che ve conto. El Comandante Nicolò Nìcolich iera fio de Sior Antonio Nìcolich, quel che gaveva la casa qua in Riva, che lori ve gaveva la Navigazione a Vapore di Lussingrando, quei po': i Nìcolich, che ve iera diese fradei e dò sorele. — In dòdese i iera? No gavevo sentì. — No in dòdese: diese. Diese fradei con dò sorele: oto mas'ci e dò fémine, che le se gaveva sposado assai ben. — Ah, me sovien, coi Bùnicich, con dò fradei Bùnicich. Chi no conosseva i Nìcolich? Qua i gaveva la casa, in Riva. — Se ve disevo. Solo iera che 'sto Comandante Nicolò Nìcolich, gaveva sempre quel cruzio che a lu ghe rivava le letere de quel altro e che intanto quel altro ghe legeva le sue. — Ma qual altro? — Quel altro Nicolò Nìcolich. Perché se no, perché ve contassi? Dovè saver che un iera el Comandante Nicolò Nìcolich, fio de Sior Antonio — e va ben — e inveze quel altro Comandante Nicolò Nìcolich che no ghe iera parente gnanca ala lontanavia, el iera fio de quel Bepin Nìcolich che iera el bechin del zimiterio de Ossero. Lui 'sto Bepin iera fio de un campagnol: gente bassa, bassa forza e, bechin che el iera, e qualche soldo che el gaveva fato, perché gente che more no ga mai mancado né mai mancherà, mi calcolo, lui gaveva avudo quel'ambizion de farghe far al fio le Nautiche a Lussin. E cussì: Nicolò che el se ciamava — bravo, perché per bravo el iera bravo — xe stà che, a un bel momento, iera dò Comandanti Nicolò Nìcolich. E no ve digo qualche volta che confusioni. — Ah! Iera confusioni? — Maché confusioni! Soto l'Austria no iera mai confusioni. Perché questo ve iera ancora soto l'Austria che ve conto. No: confusion iera che, qualche volta, anzi più de una volta, rivava in Governo Maritimo... fé conto in Governo Maritimo de Fiume, de Pola, de Trieste, de Zara, de Sebenico anca, anca a Néviork qualche volta, arivava letere per il Comandante Nicolò Nìcolich, presso Governo Maritimo di Trieste, Fiume, Pola, Sebenico, Néviork anca, che là se ciama altrimenti, ma insoma anca là xe un Governo Maritimo, rivava 'ste letere per il Comandante Nicolò Nìcolich... — Rivava letere in tuti 'sti loghi? — Sicuro. E alora questo ve iera el bel, che rivava sì 'ste letere per el Comandante Nicolò Nìcolich, ma le verzeva quel altro, se — combinazion — el capitava prima. E alora el Comandante Nicolò Nìcolich, el fio de Sior Antonio, che lui assai se tigniva, diseva: «Ma in malora, ma in reménghis, ogni volta me toca verzer 'ste letere de 'sto tùmbano, leger 'ste robe misere de quel pizzigamorti de suo padre, del nono campagnol, dela moglie che ghe scrive che el se ga dismentigà le tirache, tute 'ste robe misere che mi gnanca no legio. E po' a lu, inveze, ghe va in man letere mie, robe interessanti del Armamento, del squero, dela Banca Union, de nualtri fradei, che mi no me còmoda gnente che lui gabi ocasion de leger per 'sta storia che se ciamemo compagno e che viceversa no semo parenti gnanca col canocial de marina de guera austro-ungarica.» — Ah, no i iera inparentà? — No che no i iera inparentà! Se ve go spiegado che un iera dei veri Nìcolich e che quel altro iera el fio del bechin de Ossero, diventà Comandante cussì per l'ambizion del padre, figurévese, che anzi i fradei Nìcolich voleva fina impetirse ... — Impetirse, come? — Impetirse in Tribunal, in dibatimento: come che el fio de un bechin, de un bisognoso pol ciamarse come lori. Savé, iera tuto un altro mondo, quela volta, tuto un'altra concezion dela vita. «Ma cossa volé impetirve? — ghe ga dito l'avocato Miagòstovich — no xe gnente de far: xe un caso de omònia...» — De omonimia, volé dir, sior Bortolo? — E cossa go dito? Omonimia, caso de omonimia, e lu savé, 'sto Comandante Nicolò Nìcolich, fio del bechin, iera anca ambizioso come el padre. Tanto che lui lassava anca creder nei loghi, nei porti che lui iera imparentà come, coi Nìcolich veri... E el massimo dei massimi po' xe stà cola tomba. — El voleva andar in tomba dei Nìcolich? — Come in tomba dei Nìcolich? Dove i Nìcolich lo gavessi ciolesto in tomba con lori? E po' perché, se no i iera inparentà? No, no: lui ancora de vivo, figurévese, soldi che el se gaveva fato navigando e trapolando i diseva anca, lui se gaveva fato far, de vivo, in zimiterio de Lussin una tomba de faméa, più méa ancora de quela dei Nìcolich veri, con sora scrito «Nìcolich», come quei altri, «Famiglia Nìcolich». E el più de rider de tuto de 'sta tomba iera, e in quel se vedeva l'ambizion, iera che drento no iera nissun. Perché dei sui, el padre ghe iera vivo, e anzi el sepeliva i morti, la madre anca ela, el nono campagnol, vecio ma vivo, e la moglie mi credo che xe ancora viva adesso ... Tomba svoda: de quel se vedeva l'ambizion. Belissima. — No. No credo che la moglie ghe sia viva, perché mi xe assai ani che no la vedo. — Indiferente. Ve volevo contar del Capitan Terdoslàvich. — Che el se ciamava Nìcolich anca lu? — Ma cossa? Se el se ciamava Terdoslàvich, no el se ciamava Nìcolich. Ve volevo contar che iera del Diciaoto, ancora guera, che mi navigavo quela volta sul «Jupiter» col Capitan Terdoslàvich, pericolando, guera che iera. Ben, co' rivemo in porto a Fiume, che anca a Fiume iera bruto, perché savé la gente moriva, i ga calcolado, più de quela che dela guera ... — De quala quela? — Dela spagnola, no? Dela febre spagnola, che iera nel Diciaoto, che la gente moriva come mosche. — Mia sàntula povera defonta... — Indiferente, moriva tanti. E giusto a Fiume che ierimo arivadi mi col Capitan Terdoslàvich, mi vado in tera, in local de Maria Longa, che là se trovava tuti 'sti istriani, 'sti dalmati, 'sti piranesi, e intivo Pìllepich. «Ti sa, Bortolo — me dise Pìllepich — che go savesto giusto adesso in Governo Maritimo che a Lussin xe morto de spagnola el Comandante Nicolò Nìcolich, che anzi tuti rideva, perché el Capitan Nacìnovich ga subito dito: «Giusto ben che el xe morto: cussì finalmente el poderà profitarse dela tomba.» E un rider tuti. — Ah, de 'sta tomba svoda che el se gaveva fato far? — Sicuro. E mi torno sul «Jupiter», vado del Comandante Terdoslàvich e ghe digo: «Savé che a Lussin xe morto el Comandante Nicolò Nìcolich de spagnola, che anzi in Governo Maritimo tuti ridi perché i dise che finalmente el poderà profitarse dela tomba, e che i funerai xe come diman?» «Ostia — dise el Comandante Terdoslàvich — come diman, volendo, se rivassi, ma sa cossa che go de dirte Bortolo? Che mi no go voia de moverme con 'sta spagnola che xe in giro. Va ben che gavevimo fato le Nautiche insieme, va ben che suo padre ga sepelido el mio, ma insoma, mi no go voia de andar a ciapar fredo in zimiterio de Lussin. E in qualche modo farò.» — Ah no xe andado Terdoslàvich al funeral? — No. Anzi, dopo ga finido la guera, xe vignudo el ribalton e no el xe andado più a Lussin per diverso tempo. Apena del Dicianove el Capitan Terdoslàvich xe andado a Lussin, co' el se gaveva sbarcado del «Jupiter». Anca mi, con tuti quei remituri iero andado per le mie e cussì anca dopo, co' go savesto, no go mai avudo modo e maniera de avisarlo. — De avisarlo de cossa? — Siora Nina, de avisarlo che iera stado tuto un malinteso, che no iera morto de spagnola Nicolò Nìcolich, fio del bechin, ma Nicolò Nìcolich fio de Sior Antonio, el vero. Povero, ancora giovine, de spagnola. — Ah, iera morto quel altro? — Sicuro. E cussì, come che ve contavo, che el Capitan Terdoslàvich xe tornado a Lussin apena del Dicianove, co' l'ariva al molo, no volé che el primo che l'intiva fora del Governo Maritimo xe Nicolò Nìcolich, el fio del bechin? E el Capitan Terdoslàvich, come che el lo vede vignir fora del Governo Maritimo, el resta là come stremido. Ma po' subito el ghe fa: «Nicolò, Nicolò mio, tanto me dispiase che no go podesto vignir al tuo funeral, però ti ga visto, Nicolò, che te go mandà una girlanda?» Savé: i gaveva fato le Nautiche insieme. MALDOBRIA XVI - IL DITO DI DIO Nella quale, sullo sfondo dell'annessione della Bosnia Erzegovina all'Impero Austro-ungarico, si narra del periglioso viaggio per mare d'un alto prelato di Cracovia, d'un arrischiato stivaggio in coperta, dell'eterna opinabilità dei casi di forza maggiore e dei rapporti fra il signor Jerazìmovich, negoziante in Antivari e la stimata ditta di telerie Babich e Klein in Trieste. — Ve iera scarta Compagnia la Ungaro - Croata. Figurévese che perfin sule barche de passegeri i stivava el càrigo anca in coverta. Sul mercantil de linia, pensévese: in coverta. Che questo no se deve mai far, diseva el Comandante Petrànich, povero defonto. — Ah no lassava el Comandante Petrànich, stivar in coverta?... — Sul Lloyd Austriaco, che el iera prima, no se gavessi gnanca podesto concepir un tanto, ma dopo, più in età che el iera, che el ga avù 'sta ocasion de navigar ancora dò ani sul'Ungaro - Croata — savé iera viagi curti, el iera a casa ogni setimana — insoma el rugnava ma el doveva adatarse. Cossa volé? La Ungaro - Croata ve fazeva collettame, de tuto, i cioleva su qualunque roba, anca al ultimo momento. Perché, la Ungaro - Croata ve fazeva tuti i porti, anca i più scarti dela Dalmazia e più de una volta se ga visto stivade in coverta fin cofete de ùa. Carighi miseri, cossa volé. Ma sul «Jupiter», che iera la meo barca che i gaveva, per dir la sincera verità, là cofete de ùa no go mai visto carigar. Questo prima dela Prima Guera, natural. Del Oto iera. Milenovezento e oto: Giubileo del Trono. Che giusto in quel ano i gaveva profità del'ocasion per far l'anession dela Bosnia-Erzegovina. — Mama mia! Guera in Bosnia! — Maché guera, siora Nina! L'Austria ve iera in Bosnia Erzegovina zà de ani anorum, ma no propio come Austria - Austria. L'Austria iera là come fiduciaria dele Potenze, perché el Turco oramai iera in malora; ma nel Milenovezento e oto i ga decidesto a Viena de far 'sta anession, per far che la Bosnia - Erzegovina fussi propio Austria Austria. — Ah no più Bosnia - Erzegovina...? — Ma sì Bosnia - Erzegovina, però austriaca. Austria annessa. Savé, Giubileo del Trono, sessanta ani de regno del Imperator! iera l'ocasion. E in quel anno se ga fato carighi per la Bosnia Erzegovina, che no ve digo: de Trieste, de Fiume, per el militar, per tuto; assai lavorava le Compagnie. Specie la Ungaro - Croata che gaveva propio scalo a Métkovich e, se capissi, de Métkovich ala Bosnia - Erzegovina xe subito, perché zà quela volta iera ferovia. Scarta, però ferovia. Linia direta: Métkovich-Sarajevo. Una spuza! — Ah, vù andavi a Sarajevo? — No, a Sarajevo no go mai avù ocasion. A Métkovich andavimo de Trieste col Jupiter, e Petrànich defonto iera Comandante, ve disevo. Lui no gavessi mai volesto far stivagio in coverta, ma quela volta, che zà iera bastanza càrigo stivado in coverta, i ghe ga dito in Governo Maritimo che el speti ancora un giorno, che come diman de matina bonora, riverà i caradori con ancora un quaranta, quarantadò casse, e che el le stivi in coverta. — Casse de cossa? — Cossa savevimo nualtri de cossa che iera casse: casse iera, un quaranta, quarantadò che ga portado i caradori coi cari e sora iera timbrà a fogo «Bàbich e Klein -Telerie.» — Come Bàbich e Klein? — Bàbich e Klein; casse de Bàbich e Klein, ditta de Telerie a Trieste, iera i primi, quela volta. Fora del magazen suo de lori in via Sanità, i gaveva una tabela de vetro nero con scrito in oro tuto: Tele da vela, Tende, Cinture di salvamento, Stoffe di juta di tutti i generi, Sacchi con e senza cucitura, Strofinacci per macchine, Lana per pulimento, Vessilleria da bordo. Telerie po': Bàbich e Klein - Telerie, Trieste. — Gavevo sentido parlar de Bàbich e Klein. No i fazeva anca inzerade per maritimi? — E i fazeva anca confusion, ve dirò: perché 'sto carigo, mandado al ultimo momento per Métkovich ghe ga assai secado i bisi al Comandante Petrànich, che el biastemava sul ponte zigando: «Imbraghé ben, imbraghé ben, dé de volta sicura, che con 'sti stivagi in coverta nualtri andemo a zercar solo che disgrazie!» E in quela, no volé che ghe vien in carozza un del'Agenzia? — Cola carozza a bordo? — Ma cossa la carozza a bordo? Se ga fermado sul molo 'sta carozza e xe vignudo a bordo quel del'Agenzia. El ciama in parte el Comandante Petrànich, el ghe fa moti come che noi stia biastemar e che el ga de dirghe una parola. «Ve dirò mi una parola!» — ghe ga zigado el Comandante Petrànich — e 'sto qua che noi stia dir gnente, per l'amor de Dio; e el ghe ga spiegado che xe stà tuta una serie de circostanze, ma che insoma l'Abate Mitrato de Cracovia, a Viena ga perso l'Orient Expréss. «Si e el frate ga perso le zavate!» — ghe fa el Comandante Petrànich, remenando. Che cossa ghe importa a lu se l'Abate Mitrato de Cracovia ga perso l'Orient Espréss? «Ma sì che importa, inveze, perché l'Abate Mitrato de Cracovia xe zò in carozza che el speta, perché a tuti i pati el deve esser a Sarajevo el giorno che i fa l'annession, per benedir. E che anzi — che la Compagnia propio ghe manda a dir — che el Comandante Petrànich ghe fazzi el piazer de céderghe la sua gabina, perché: «Capiré, Comandante, un Abate Mitrato de Cracovia che va a Sarajevo per l'Annession, el Giubileo, una roba e l'altra...» «Maladeto Bàbich e maladeto Klein — ga zigado el Comandante Petrànich — che se no iera per 'sto maladeto carigo de Bàbich e Klein a 'sta ora ierimo zà oltra Porér!» Insoma, per farvela curta, el ga dovesto céderghe la gabina a 'sto Abate Mitrato. — De Cracovia? — Sì, de Cracovia: iera come un vice-Vescovo de Cracovia che andava a Sarajevo per 'sta Annession, per benedir. Un polachese. Ma el parlava franco italian, savé. Perché, un giorno, in coverta che el passegiava fra 'ste casse, cole calze rosse e le scarpe cole fibie, el diseva che italian xe come latin. Insoma tuto ben fin oltra Spalatro, che anzi pareva che, come diman de matina bonora, sarìimo stadi a Métkovich e: «Finalmente — diseva el Comandante Petrànich — dormirò de novo nel mio leto!» Inveze, apena fora de Spalatro: nuvolo, scuro, un tiro de tramontana e po' bora, ma bora, ma una bora, che ancora no me ricordo una bora compagna. — Fortunal? — Altro che fortunal: ragàn de bora. Che xe el pezo che pol capitar fora de Spalatro. Anzi el Comandante Petrànich ga dito: «Mi calcolo che più che ragàn xe siòn», e che Sua Eminenza, Ecelenza, quel'ostia che el xe, insoma, che el stia in gabina e che el se distiri per tera, col cussìn soto la testa. «Ma è periculoso?» — dimandava 'sto Abate Mitrato de Cracovia, intanto che el Comandante Petrànich ghe meteva el cussìn soto la testa. Bon omo, iera, in fondo el Comandante Petrànich. «Ma siamo in procella!» — ghe diseva 'sto Abate, cavandose le scarpe cole fibie. Che noi stia gaver pensier, che xe procella sì, ma che la barca xe stagna. Che l'unico pensier xe per el càrigo stivado in coverta, ma che quel xe afar mio, e che, caso mai, farò taiar i cavi e lo buteremo in mar: cussì se imparerà 'ste teste de cazzi del'Ungaro - Croata — scusi Eminenza — de ordinar stivagi in coverta! — Iera bruto? — Bruto, siora Nina? Fortunal. Ma insoma el lo ga pacificado. Ma no volé che la bora rinforza? Ve go dito: più che fortunal, iera ragàn, che anzi el Comandante Petrànich ghe ga dito al nostro - omo Fatutta che i omini se tegni pronti coi cortei. — Per ciorse la vita? — Maché per ciorse la vita, per taiar i cavi, caso mai che gavessi ocoresto butar el càrigo in mar. E po' el Comandante Petrànich xe andado in gabina a véder come che iera con 'sto Abate Mitrato che iera sempre colegà per tera col cussìn soto la testa e le scarpe de laca cole fibie che navigava de una parte e del'altra. — Acqua in gabina? — Ma no: disevo navigar per dir che 'ste scarpe de laca cole fibie andava de una parte e del'altra. «Capitano, ma non è periculoso? Non credete che sìa periculo di naufragio, in tempestàte?» — De istà? Estate iera? — No istà: tempestàte, lui parlava cussì italian per latin, come che el saveva. «No si preocupi, Ecelenza — ghe ga dito el Comandante Petrànich — perché fora in coverta xe tuti i marineri che biastéma. E fin che i biastéma, Eminenza, non è periculo! Periculo è quando che i marineri scominzia a pregar!» E el ghe ga ridesto anca, cussì, per tirarlo su. — Ma no el iera colegado? — Disevo tirarlo su, che no el gabi paura! Sicuro che el iera colegado 'sto Abate e anca el pregava. El pregava la Madona Nera de Cracovia e la Preghiera dei Naviganti: «O tu, che al suplice grido dell'Apostolo Pietro...» — «... salvaci o Signore, perché siamo perduti, calmaste il mare in procella...» — Sicuro, cussì: la Preghiera dei Naviganti. Insoma bruto. — Ragàn, iera? — Sion, siora Nina: vero siòn, tanto che 'sto Abate ga comincia a bater sula porta dela gabina e a ciamar per polachese el Comandante Petrànich: «Capitano — el ghe ziga — è bruto?» Oh Dio: che bel no xe, ma che gnente paura. «E i marineri, signor Capitano, cosa fano, pregano?» «No — ghe ga dito el Comandante Petrànich — no, Eminenza: biastémano». «Aaah — ghe fa 'sto Abate de drento dela gabina — biastémano? Sìa ringraziato il Signore! Deo gratias.» — Mia madre diseva sempre «Dio grazias» co' finivimo de magnar. — Indiferente. Savé come che xe; a bordo le straléche no vien mai sole: iera nato qualcossa in machina, tanto che andavimo avanti a meza forza e anca meno in 'sto ragàn. «Qua — ga dito el Comandante Petrànich — andemo a finir in Bassa Italia!» Perché el mar ne passava oltra per oltra e la bora ne sburtava in fora. Prima in fora, e dopo in drento, de tute le parti, insoma, squasi in Bassa Italia, che anzi el Comandante Petrànich, sul ponte el ghe zigava a tuti: «Omini, stemo atenti che no andemo a finir sui scoi de Pelagosa come el povero Comandante Bolmàrcich che po' ga avù processo.» — E no sè andadi a finir? — No: ma iera un ragàn che no go mai visto compagno, tanto se tombolava a ogni onda 'ste casse de telerie per coverta che el Comandante e el nostroomo Fatutta, tuti bagnadi, ga comincià a concertarse se iera forza magior. — Come forza magior? Mar forza magior? — Maché mar forza magior! El mar iera forza nove, mi calcolo, ma iera che el Comandante Petrànich tuto slavazzà se concertava col nostro - omo Fatutta se iera o no iera forza magior, insoma se iera o no iera Dito di Dio, come che i ghe ciamava e se ierimo o no ierimo su quela de dover butar el carigo in acqua. — Dito di Dio, come? — Sì: Dito di Dio, una roba che l'omo no pol far gnente. Cussì diseva el regolamento dela Marina mercantil austro - ungarica. Ma dopo i ga decidesto che no, che no xe propio Dito di Dio e che forsi guanta. Per farvela curta, un bel momento, el vento ga calà e se ga calmà anca el mar... — Come calmàr calmàr? — No, se ga calmà anca el mar e el Comandante ga dito: «Savé cossa? Zà che ghe semo, femo rota per Antìvari, perché oramai mi calcolo che semo a quel'altezza. Pensévese quanto che ne gaveva sburtado el mar in fora! — In Antìvari sé andadi? Ma no dovevi andar a Métkovich? — Altroché che dovevimo, ma in mar una roba xe quel che se deve e una roba xe quel che se pol. «Un giorno de viagio gavemo perso, ma l'importante xe che no gavemo perso la vita» — ga dito el Comandante Petrànich. E el iera zà sula porta dela gabina per andar avisar l'Abate Mitrato de Cracovia, co' el ga sentì che el ronchizava drento. «Bon, lassémolo che el dorma, che ogi ghe ne gavemo zà avude bastanza!», ga dito el Comandante Petrànovich e el ga fato tirar suso la bandiera del Montenegro. — Per voto, come? — Ma cossa per voto? Antìvari ve iera in Montenegro quela volta e bisognava tirar suso la bandiera de cortesia. — Eeeh! Iera bele usanze una volta... — Indiferente: quele xe ancora. El Montenegro no xe più. Antìvari, bel iera in Antìvari! Ben, butemo la zima e, come che butemo la zima, chi no ve xe sul molo? Jerazìmovich... — Zìmovich iera sul molo? — Uffa! Iera Jerazìmovich sul molo co' butavimo la zima... — 'Sto Jerazìmovich ve ga ciapà la zima? — Un Jerazìmovich ciapar la zima? Vù no savé, siora Nina, chi che no ve iera Jerazìmovich. Jerazìmovich ve iera un dei più grandi de questi che gaveva magazeni in Antìvari, magazeni de tuto el gaveva: massima parte pelame de castron, ma tuti i Comandanti con lu fazeva sempre afari, fufignezi, de tuto. Lui pretamente el gaveva in testa la bareta rossa de montenegrin, quela tonda ancora, mustaci, baston e opanche. Però co' el vigniva — metémo — in una Zara o a Trieste el se meteva in zivil: cravata, che lu ghe ciamava gargantéra chi sa perché, capel e tuto. Gaveva soldi, savé, Jerazìmovich. «Takò me Bog pomòga! E cussì che Dio mi iuti» — el diseva sempre batendose la man sul peto come un tamburo. Ma el parlava franco per 'talian, per grego, tuto. Turco, anca. Ben, bon, indiferente: el vien a bordo, el brazza e el basa el Comandante Petrànich, che 'ssai usava basarse quela volta i omini, e Petrànich ghe conta che cussì, che culì, che el siòn, che squasi stavimo per andar a finir sui scoi de Pelagòsa, che in gabina sua de lu xe l'Abate Mitrato de Cracovia che dorme, e insoma una roba e l'altra. — Ah, ancora el dormiva? — Sicuro che el dormiva, dopo quel ragàn. Ma quel che volevo dirve iera che 'sto Jerazìmovich tuto vardava 'ste casse de telerie che gavevimo in coverta. «Ah telàmi gavé — el ga dito — gavé telàmi de vender?» «No, no xe de vender — ghe dise el Comandante Petrànich — xe el càrigo che gavevimo per Métkovich». «Oh, Dio — ga dito el nostro-omo Fatutta — zerto che, oramai, iera càrigo perso, perché soto Pelagòsa, per vero regolamento, gavessimo avudo obligo de butarlo in mar. Perché, Comandante Petrànich, ve iera, ve iera forza magior, ve iera Dito di Dio, xe stà un miracolo che ga guantài» «Eeeh, vender — ga dito el Comandante Petrànich — se podessi anca vender, perché, propio per regolamento sarìa càrigo perso.» — Se gaveva ruvinà la roba? — Noo: iera le casse bagnade ma ben serade tute, solo che con quel fortunal che iera stà, che i gaveva zà oramai intenzionà de butarle in mar, se podeva calcolarle càrigo perso. «Bon — ga dito Jerazìmovich, che iera omo de poche parole — quanto me farìi?» «Quanto, quanto... Diseme vù quanto che darìi.» «Femo una bela roba, Petrànich mio, nù che se conossemo de tanti ani — ghe ga dito Jerazìmovich — femo una bela roba: qua xe scrito telerìe, telàmi, insoma, mi no voio gnanca verzer. Cossa xe drento? Mi no so. Vù no savé. Nissun sa gnente e che nissun no sapi gnente mai. Quante casse? Gnanca no le go contade: quarantadò che xe, mi ve le crompo a oci serai. Diese fiorini per cassa, tàko me Bog pomòga e cussì che Dio mi iuti.» E el ghe ga contà sora de una cassa i fiorini, me ricordo come ieri. Tuti in monede de oro, perché Jerazìmovich diseva: «Carta xe per altro!» — Petrànich ghe ga vendudo el càrigo? — Vendudo? Cedudo. Tanto, iera càrigo perso. Noi marineri ierimo tuti dacordi, Jerazìmovich ga mandado subito a bordo sui omini, tochi de masgràiberi montenegrini, butilioni de rachìa che girava e, tempo meza ora, gavevimo la coverta neta e saludavimo tuti Jerazìmovich che andava via sul ultimo muss dela fila. Montenegro, cossa volé: quela volta iera cussì. — Lo saludavi? — Sicuro e proprio come che lo saludavimo vien fora dela gabina del Comandante, l'Abate Mitrato de Cracovia, in calze rosse, che se ghe gaveva bagnado le scarpe de laca cola fibia. «Avete visto che procella? — ghe fa el Comandante Petrànich — che intanto che vù dormivi soto di Pelagòsa gabiamo dovesto butar il càrigo in mare, perché iera Dito di Dio e vu Eminenza, con Dio, ne sé testimonio?» E anzi subito el ghe ga fato sotoscriver in tre loghi: sul libro de bordo, sul manifesto e sula Protesta de Avarea General, che lui Aloisio Stanislaus Abate Mitrato di Cracovia, in fede di Dio, è testimonio che i ga dovesto butar el càrigo in mar. «Deo gratias» — el ga dito firmando — che siamo salvi noi, anime cristiane.» Che no el stia gaver pensier ghe ga dito el Comandante Petrànich, che come dimani matina bonora saremo a Métkovich e che l'ariverà in tempo debito per cior la ferata. E difati a Métkovich, come diman matina bonora, lo gavemo sbarcado, che la stazion del treno xe là, sia lodato Gesù Cristo, e gavemo molà le zime... — E no gavé sbarcà el càrigo? — Ma siora Nina, come podevimo sbarcar el càrigo a Métkovich se lo gavevimo zà vendudo in Antìvari, tuti dacordi, fato le parti, spartidi i soldi e tuto? Apena rivadi a Trieste, el Comandante Petrànich ga deposità in Governo Maritimo el libro de bordo, el manifesto e la Protesta de Avarea General, tuto sotoscrito del Abate Mitrato di Cracovia, Aloisio Stanislaus con tanto de crose e la Sicurtà ga pagà. Chi perdeva qualcossa? — Oh Dio, la Sicurtà... — La Sicurtà no perde mai. Lori guadagna sempre. Basta vardar i palazzi che i ga. — Aaah! Tuto ben, insoma. No xe nato gnente? — A noi gnente. In Antìvari, Jerazìmovich ga avudo un fià de radighi. Ràdighi, insoma: el se ga inacorto de gaver fato un afar un poco balengo, come. Perché, savé cossa che iera drento in quele casse de telerìe? — Braghe de tela? — Maché braghe de tela: ve iera bandiere. Quarantadò casse de bandiere austro - ungariche che i gaveva carigado a Trieste per mandar suso in Bosnia Erzegovina per far entusiasmo per l'Anession. — Bandiere austriache? — Austro - ungariche. E, capì, Jerazìmovich, in Montenegro, che i gaveva altra bandiera, no saveva cossa far de tute 'ste bandiere austriache. Ma el ga pensà: «Bandiere austriache, nove noventi, dove meio che in fabrica de bandiere a Trieste posso venderle?» Bàbich e Klein fazeva bandiere per tuti: anca per el Montenegro, lui li conosseva. Lui xe andà a Trieste, in cravata, capel, pulito e «Senor Klein — el ghe ga dito a Klein perché de bandiere se ocupava più Klein che Bàbich — Senor Klein: questo go avù ocasion de gaver, questo ve vendo. Quindici fiorini per cassa, che almeno trenta vi costano. Tàko me Bog pomòga, cussì che Dio mi iuti!» e el se bateva la man sul peto come un tamburo. E 'sto sior Klein ga dito che va ben, ma però che no el ghe conti gnente a Bàbich, che xe una roba che i fa lori due. Capì, una volta se fazeva, se fazeva cussì, coi càrighi. — E in Bosnia Erzegovina po' i ga fato 'sta Anession? — Sicuro che i la ga fata. Ma mufa la iera. Capiré: senza bandiere. A Trieste iera inveze assai bandiere. Perché Bàbich e Klein le vendeva per un bianco e un nero, bele bandiere austro ungariche, ma tante: trope. Gnanca in diese ani no i xe rivadi a vénderle tute. Savé, dell'Otto ierimo e del Diciaoto xe cascada l'Austria. Bàbich e Klein devi gavérghene ancora in magazen, mi calcolo. MALDOBRIA XVII - IL VECCHIO E IL MARE Nella quale Bortolo evoca la mitica figura di Barba Checo, capohornista d'antichissima data, traversatore dell'Atlantico su scomparsi velieri e del suo sbigottito scetticismo di fronte alle nuove conquiste della carpenteria navale e ad un antichissimo principio della fisica. — Tuti fa onde adesso, siora Nina e poco struco. Mi per mi anca el vapor devi gaver un limite: pensévese solo se un de 'sti novi vapori de dozentomila tonelate che i fa adesso ve se perdi, che dano! Se, inveze, per dozentomila tonelate — che i fa anca trezento, i me ga dito — fé tre vapori, ve se perderà un, ve se perderà dò, ma no tuti tre. E po' 'sti qua no pol passar per Suéz. — Ma Suéz no xe serado, go leto? — Va ben, ma se fussi 'verto, no i passassi. E una barca che no ve passa per Suéz, no ve fa utile: tropo migliatico. Epur cossa che no i fa adesso de barche! Pensévese che co' mi iero ragazeto zà fazeva impression véder un vapor de fero. — De guera? — Cossa de guera? Prima dela Prima guera, oh Dio, bastanza prima dela Prima guera, un vapor de fero fazeva zà impression. Me ricordo, tanto per dirve, che el vecio Barba Checo no podeva capacitarse che un vapor de fero podessi star a gala. — E inveze el stava? — Sicuro che el stava a gala in alora come adesso. Ma Barba Checo no podeva capacitarse. «De fero — el diseva — come pol star a gala el fero?» Savé, Barba Checo no navigava zà de ani anorum, quela volta che Tomìnovich gaveva decidesto de far una barca de fero a Rogòsniza. Perché dovè saver che i Tomìnovich ve gaveva squero a Rogòsniza. Meza Rogòsniza iera dei Tomìnovich e lori gaveva trate, fabrica de pesse e anca squero. Dela madre i gaveva ereditado el squero. E bei soldini i se gaveva fato zà in antico, fazendo trabàcoli, barche de legno insoma che serviva per là. Ma pretamente de fero, quela xe stada la prima volta. — Quala quela? — Quela volta che el giovine Tomìnovich, Piero Tominovich, fio del vecio gaveva decidesto de far una barca de fero, no granda, savé, no esagerazioni: un novezento, mile tonelate, per portar zimento, baussìte, carbon, roba che ruvina assai le barche de legno. E lui la gaveva pensada giusta: «Se baussìte, zimento e carbon — el diseva — ruvina assai le barche de legno, nualtri femo pulito una barca de fero, che adesso se fa.» E 'sto Barba Checo, che ve disevo, no ve se podeva capacitar che una barca de fero podessi star a gala. Savé, Barba Checo, quela volta iera assai vecio, iera un omo antico, come. Pensévese che el portava ancora, come che usava in antico i maritimi, el recin sul'orecia. — Sul'orecia el portava el recin? — Sicuro che sul'orecia, dove se porta i recini? Sul naso, come la regina Taitù? Xe che lui come vecio maritimo, el portava ancora el recin sul'orecia, una roba che i maritimi portava solo in antico. Lui, vedé, Barba Checo gaveva navigado col nono dei Tomìnovich sempre su barche de legno, natural, ma grande barche: scune, trealberi, sempre a vela. Atlantico el gaveva fato anca. «Mi — el diseva — go fato Atlantico e gavemo passado fortunai, e che fortunai, che qua no fa mai fortunai compagni! Ma el pezo de tuto in Atlantico savé cossa che ve xe? El pezo de tuto ve xe co' se resta in bonazza. Ve xe bonazze in Atlantico che anca quindese giorni xe bonazza, fin che cambia luna. E quante volte che semo restadi fermi in bonazza con galete, renga e acqua misurada: dò dedi de pignato per omo e gnanca un spagnoleto de fumar.» «Savé vù — diseva Barba Checo — con cossa che se fazevimo nualtri i spagnoleti in Atlantico co' iera bonazza? Cola carta de involto dei coli e segadura de legno ras'ciada dei maieri. E che bon che iera! Co' se ga bava de fumar, tuto xe bon in Atlantico.» E xe vero, savé, siora Nina: co' se ga bava de fumar, tuto xe bon, me ricordo mi sui Carpazi! Indiferente. Bon: Barba Checo co' viagiava col nono de Tomìnovich el stava via ani, savé. Anca dò ani via de casa. Mai no el se ga sposado Barba Checo. Gnanca casa no el gaveva: lui ve stava dei Tomìnovich in quel cameroto in pianterà che i gaveva subito drento del porton del squero. — Qual cameroto? — Quel subito drento del porton del squero, in piantera. Ma lui ve saveva far de tuto, lui se fazeva solo si stesso de magnar, lui fazeva calandràca che nissun saveva far calandràca come Barba Checo. Lui ve iera ancora de quei che ve fazeva a maia maioni, calze, come che una volta i veci maritimi saveva far — ogi nissun sa più far gnente — e rede natural: lui fazeva rede svelto e senza gnanca vardar, col ago de legno. Che anzi, co' no el ga navigado più e i Tomìnovich lo gaveva tignudo come guardian in squero de Rogòsniza, el fazeva rede, trate massima parte, per i Tomìnovich che gaveva trate e la fabrica de pesse. — Ah, el stava coi Tomìnovich? — Stava! Lori lo tigniva come de casa. Lui ghe fazeva tuto, ve go dito. Rede, trate finide coi suri, piombi e tuto. Mi no so quando che dormiva quel omo: perché lui ve iera sempre giorno e note o che el fazeva rede o che el pareciava calandràca o che el ghe predicava al giovine Tomìnovich, sempre col suo recin, me lo vedo ancora. — El giovine Tomìnovich col recin? — Ma cossa el giovine Tomìnovich col recin, che nissun più portava recini, fora che Barba Checo! Barba Checo ghe predicava al giovine Tomìnovich de Atlantico, de bonazze, de spagnoleti de segadura de maier rodolada nela carta de involto dei coli, una roba e l'altra de 'ste robe che iera in antico. E quando che el ga savù che i gaveva decidesto de far la barca de fero, con lui no iera più né un viver né un morir, perché, no so se ve go dito, lui no podeva capacitarse che una barca de fero podessi star a gala. «Ma Piero mio — el ghe diseva — ridendoghe, perché de fero?» Sentado sula bita del molìch del squero el ghe butava in acqua tocheti de fero, tochi de lamierin rùzini che iera là e el ghe diseva: «Piero mio, vedé che i ve va a fondo? E aré, inveze come che inveze 'sti qua ve sta a gala.» E el ghe butava in acqua tressi de legno. Piero Tomìnovich rideva, cossa volé, e el ghe diseva: «Ma Barba Checo, xe un'altra roba!», sempre ridendoghe. «Ah, me cojoné!», diseva Barba Checo e l'andava in suo cameroto a far calandràca. — Ma veramente, sior Bortolo, anca mi tante volte go pensado: come sta a gala una barca de fero? — Ma dài, siora Nina, cossa fé 'ste dimande? Xe lege fisica, no? — Ma alora una barca de piera... — Ma cossa barche de piera? Chi ga mai visto una barca de piera? Insoma, che ve contavo, quando che Barba Checo ga visto che i meteva suso sul scalo del squero paramezàl, corbe e lamierini, tuti de fero, el ga comincià a bazilar, come. «Ma cossa per bon — el diseva — volé far una barca de fero? Tomìnovich mio, la ve anderà a fondo e perderé i soldi e la fatura!» Tomìnovich rideva e contava in local de 'sta storia de Barba Checo che no se capacitava, ma sicome che 'sto veceto iera stado sempre con lori, navigando e tuto, propio intrinseco, el gaveva assai pazienza con lu. E un giorno che Barba Checo stava fazendo rede per una nova trata e giusto el rodolava sula maestra el piombo in foio, el ghe se ga sentado a rente, el se ga impizado un spagnoleto e el ghe ga dito: «Come andemo Barba Checo, come sté? Ve xe passadi i reumi?» «E a vù — ghe dise Barba Checo — ve xe passado quel matìo de far la barca de fero che la ve andarà a fondo e perderé i soldi e la fatura?» E alora Tomìnovich, che gaveva assai pazienza con lu, ghe ga dito: «Déme, déme, Barba Checo, quel toco de foio de piombo che ve spiego, adesso vardé cossa che fazzo mi.» E insoma, siora Nina, Piero Tomìnovich con 'sto toco de foio de piombo el ghe ga fato là, a man, come una barcheta in forma de barca. «Vedé Barba Checo — el ghe ga dito — adesso la metemo pulito in acqua, écola qua, e vedé che la ve stà a gala.» — E la stava a gala? — Per forza che la stava a gala, siora Nina. Piombo o no piombo, fato a barcheta, el piombo sta a gala. «Vù me cojoné — ghe ga dito Barba Checo — perché el piombo xe tenero, ma el fero xe duro. Credéme a mi, che go fato Atlantico, 'sta barca de fero che fé, la ve andarà a fondo e perderé i soldi e la fatura.» «Va ben, va ben, Barba Checo — ghe ga dito Tomìnovich — andé a far calandràca, che presto ve xe mezogiorno.» — E po' i ga fato 'sta barca de fero? — Come no, siora Nina, se i la lavorava in squero! Che giorno e note Barba Checo ghe zavatava atorno e diseva: «Quanti soldi e quanta fatura persa!» Mi no so quando che dormiva quel omo. E insoma i la ga finida: una bela barca de fero, de un novezentozinquanta quasi mile tonelate, per baussìte, zimento, carbon, che per un squero de Rogòsniza iera qualcossa. E per el varo xe vignudo un del Governo Maritimo de Spalatro e don Blas a benedirla. E la fia più picia de Tomìnovich, che i ghe ga dà de romper la fiasca de sampagna, còcola, tuta vestida in bianco cola madre, che po' povera la xe morta del mal de peto. — La picia? — No, la picia se ga sposado: la madre. Indiferente. Insoma xe 'sto varo, i cava i scontri, tuti che ziga «viva» e i saluda col fazoleto, come che se usava. 'Sta barca xe andada pulito ben zò, gente atorno coi caìci che cioleva suso i tressi e don Blas che la benediva drio col'acqua santa. «Gavé visto, Barba Checo — ghe ga dito tuto soridente el giovine Tomìnovich — gavé visto che con tuto che la xe de fero, la ne xe stada a gala?» «Cojoné, cojoné, vù — ghe ga rispondesto Barba Checo — ma in Atlantico, co' sarè in bonazza, con 'sti maieri che gavé fato far de fero, de dove grateré segadura de legno per far spagnoleti?» E el xe andà via predicando solo si stesso a far calandràca. MALDOBRIA XVIII - IL BRAVO SOLDATO UCRÒPINA Nella quale Bortolo contrappone alla moderna realtà del consumismo agevolato dal moltiplicarsi dei punti di vendita, il riposante ricordo della sola bottega che provvedeva ai variati bisogni della città di Ossero, già sede vescovile e dell'influenza di tale sistema sulle operazioni al fronte austro-ungarico in Transilvania. — Per dir una Ossero, che pur Ossero iera qualcossa, a Ossero iera un'unica botega. E vardé che Ossero una volta iera qualcossa; tuto iera a Ossero, me contava mia defonta nona: Comun, Comun anca per Lussin e po' el Vescovo ve iera anca, quel magari più in antico. Ma con tuto che iera persin el Vescovo — mi no me ricordo, ma el iera — a Ossero ve iera un'unica botega. Dei Ucròpina. Drio del Domo, me ricordo: «Giovanni Ucròpina Commestibili e Coloniali» iera scrito, cussì come che se usava una volta. E po' una soto l'altra tute le tabele de fero smaltà: «Olio d'Oliva», «Olio di Semi», «Strutto», «Margherina». — Sonza no i tigniva? — Come no i tigniva sonza? Tuto i gaveva. Ve go dito che iera botega unica. Lori ve gaveva propiamente botega magnativa: «Commestibili e coloniali», insoma. Ma po' paese che iera, i tigniva de tuto; per dirve: seci, cadini, quei bianchi col orlo celeste che se usava, lume a petrolio, pavéri, vide, ciodi, scove, scove de cusina e de camera de leto, po' scóvoli anca, mastéla de capuzzi garbi — natural, perché iera magnativa — acido muriatico e po' bomboni — mentine, massima parte — libreti de ciocolata per i fioi, e anca, con decenza, bucai. Anca privativa i gaveva, apalto insoma. — Giovanni Ucròpina questo gaveva? — Ma no! Giovanni Ucròpina ve iera apena el nono de Nini Ucròpina. 'Sto Giovanni Ucròpina gaveva messo su botega co' el iera vignudo a Ossero. Messo suso: el gaveva comprado la vecia botega dei Mòise, ma quel periodo che ve conto, lui iera zà morto e paron ve iera el fio. — Quel Nini, che disevi? — No, Nini. Nini ve iera el nevodo. El ve iera fio de sior Antonio Ucròpina botegher, che apena lui iera fio de Giovanni Ucròpina, che iera morto. Padre e fio iera in botega e anca la madre de matina bonora co' i dava el pan. Perché anca pan i tigniva. Però ve dirò che 'sta botega ve iera restada precisa compagna squasi de come che la gaveva el vecio Mòise, perchè unica botega che iera, lori no bazilava. Figurévese che per andar drento in botega iera dò scalini, che più de una volta qualche vecia se tombolava, e co' el fio Nini ghe diseva al padre: «Padre, perché no fé cavar 'sti dò scalini e femo la porta gualìva cola strada?» sior Antonio ghe rispondeva: «Eh ghe volerìa sì far. Faremo, faremo; costi quel che costi, basta no spender.» E el rideva. — E alora i ga fato? — Ma no, siora Nina, mai no i ga fato, perché se el diseva «Costi quel che costi, basta no spender», vol dir che no el voleva spender. Iera omo fato cussì e sempre de risposta pronta con tuti. Co' i ghe diseva, metemo dir. «Sior Antonio, perché fé a otanta i bisi spacadi, che giusto ieri a Cherso go visto che i li vende a sessantazinque?» «Ah, ieri li gavé visti? E vù dimàn, ciolévese el muss e andéveseli a comprar a Cherso!» ghe rispondeva sior Antonio. Opur, no so, co' un comprava una lume a petrolio e ghe diseva: «Sior Antonio, mi che son aventor, no voleré miga farmela pagar dò fiorini? Tiréme zò meza corona, ve darò un fiorin e una corona e meza.» «Un fiorin e una corona e meza? — diseva sior Antonio — no posso: me costa a mi un fiorin e una corona e meza.» — Iera assai un fiorin e una corona e meza per una lume? — Indiferente se iera poco o se iera assai, iera per dirve come che iera fato sior Antonio. Opur no so, rasadori, un che comprava un rasador, una volta ogni morte de papa: che xe sie corone. «Sie corone per un rasador?!» «Sie corone sì: ve xe roba germanica!» E con 'sta scusa dela roba germanica, lu ve vendeva più caro de tuti anca el fil de Spagna. — Fil de Spagna germanico? — Indiferente. Se dise per dir come che iera sior Antonio. Che lui ve tigniva in botega anca cotonina, madapolàn per linzioi e terlìss per far terlìss, no so quanto al metro. «Che eresìa — ghe diseva 'ste done — e lu: «Eh si, el diseva, ve xe caro, sì, ma ve xe roba de prima dela guera!» Che, figurévese, prima dela Prima guera, in Austria no iera stada guera per quaranta anni. Savé: botega unica, i se profitava. Oh Dio, no assai, ma bastanza. E de sera: sete, sete e meza, sete e tre quarti che i serava, quela volta no iera orari, se vedeva, passando davanti soto de la porta sul scalin el ciaro del lume che i fazeva i conti. Nini ghe tigniva i conti, el fio. Su un quaderno de conti, strica rossa in mezo, carico e scarico, e po' in un altro quaderno de scritura i conti de quei che pagava a setimana. — Eh se pagava sì a setimana una volta, però no convien, perché sempre i se profita. — Se profitava sì, anca sior Antonio. Zà el botegher sempre se profita e sempre se profiterà. Gavé fato osservazion, presempio, che lori buta sula balanza prima la carta e dopo el persuto? Ben: lori ve fa pagar la carta a prezzo de persuto! Eh gaver una botega! Unica po', come che gaveva i Ucròpina a Ossero. Iera bravo però sior Antonio. Anca Nini, come el padre. «Preciso padre» — diseva tuti. Perché anca lu gaveva quela: «Alora andévelo a comprar a Cherso», «Xe roba germanica», «Xe roba de prima dela guera». «Ma come, un fiorin e una corona e meza? Me costa a mi un fiorin e una corona e meza!» La madre, inveze, no. Ela solo vendeva el pan. — Anca pan i tigniva nel'istessa botega? — No: per el pan i gaveva un casoto de legno de fora, ma iera sempre de lori, perché a Ossero iera botega unica. Parlo de prima dela guera. Che, anzi, co' xe vignuda la Prima guera, i primi ani, Nini Ucròpina no i lo gaveva ancora ciamado militar, perché no el gaveva ancora i ani, ma del Sédese ghe ga tocà andar. Ben che in Transilvania i lo ga mandà, che in quel periodo iera propio bruto. — Perché, xe bruta la Transilvania? — Tuto xe bruto, siora Nina, co' xe guera. Anca Lussin co' iera qua i tedeschi iera bruto. Magari adesso de istà, xe più tedeschi de quela volta, ma indiferente. Ve disevo che i lo gaveva mandà in Transilvania e che iera bruto perché la Rumenia, cussì dela sera alla matina, ghe gaveva intimado guera al'Austria, profitando che l'Austria iera zà in guera. Un tradimento iera stà calcolado, come. Che difati i primi giorni 'sti rumeni gaveva fato avanzata, perché nissun no se li spetava e Nini Ucròpina con tanti altri, gioventù, i li ga mandadi là per fermarli. — Fermar i rumeni, Nini Ucròpina? — Ma cossa lu? L'esercito austro - ungarico. E anca i germanici, perché, dopo i primi giorni, a Viena i se ga capacità e i ga fato subito fronte austro - germanico e i ga fermado i rumeni in Transilvania: trincee. E Nini Ucròpina iera propio al fronte in trincea. — Eh bruto, bruto iera in trincea, contava i omini. — Bruto sì, ma savé, in Transilvania no iera quei orori come in Galizia. Iera sì anca assalti e gioventù che perdeva la vita, ma no iera quele stragi come a Leopoli per dir. E Nini Ucròpina, dopo un poco che el iera là, el iera deventado come omo de fiducia del ufizial che iera sora de lu, un giovine, un dalmato. E in 'sta trincea che el iera, lui ve iera come responsabile de tuta 'sta trincea. — Chi, Nini Ucròpina? — No 'sto ufizial, giovine, dalmato. Lui gavessi dovesto tignir nota de quei che vigniva novi e de quei che perdeva la vita, dela munizion e de quel che mandava la Sussistenza. Ma Nini Ucròpina gaveva fato osservazion che lui tute 'ste robe el se le notava su tochetini de carta per le scarsele. «Eh no — el ghe ga dito un giorno a 'sto ufizial dalmato che se zercava per le scarsele — no se pol far cussì, perché faré confusion. Qua bisogna gaver un quaderno de conti a quadreti, cola strica rossa in mezo e se fa el carico e scarico dei morti, de tuto: dela munizion, dela Sussistenza, de una roba e l'altra.» E cussì pulito el ghe spiegava, come che lui se gaveva imparado del padre in botega. Insoma, per farvela curta, lui xe deventado suo omo de fiducia. Lui ghe tigniva el carigo e scarigo dei morti, lui liberamente andava de una trincea al'altra e cussì andando e vignindo, lu ga cominciado a véder che, volendo, al fronte, iera anca modo e maniera de profitarse. — Profitarse? E i lassava, al fronte? — No i lassava, ma iera modo e maniera de profitarse. Presempio el carigo e scarigo dei morti lui lo fazeva a setimana. E cussì, per modo de dir, se un moriva al lùnedi, ghe coreva la razion dela Sussistenza fin al sabo. E vivo che figurava 'sto morto, Nini Ucròpina vendeva 'ste pagnoche, 'sta carne in scatola, 'sti spagnoleti ai altri militari. Opur, metémo che, come diman matina bonora iera assalto per andar oltra del fil spinà de 'sti rumeni, bon, prima del assalto, de sera — sete, sete e meza, sete e tre quarti, no iera orario — al militar i ghe mandava un déo de gamela de cògnàc per omo, cussì perché i se fazzi corajo. Ben, Nini Ucròpina andava, soto el fogo qualche volta, fin la trincea dei bosniàchi, che lori massima parte iera tuti de religion turca e no i podeva bever spiriti e el ghe comprava el cògnàc. I ghe lo cedeva per un bianco e per un nero, perché el bosniàco, propio per sua religion no pol bever spiriti. — Ah, alora el beveva lu? — Ma no lu. Lui ghe vendeva ai altri, a quei che no iera bosniàchi. Po' l'andava in trincea dei ungaresi, che i ungaresi gaveva pan bianco, tuta la guera ga avù l'ungarese pan bianco, e nualtri, inveze, nero, duro. Che ingiustizie che iera anca quela volta! Ben, indiferente. Pensévese che 'sto Nini Ucròpina, con cògnàc e pan bianco el ve andava fina in trincea dei germanici — che ve disevo che iera vignudi anca i germanici per fermar 'sti rumeni — e lu là se fazeva dar in cambio spagnoleti, lamete giléte e mudande longhe. — Per cossa mudande longhe? — Per star caldi soto, siora Nina, per no ciapar reumi in 'ste trincee umide. E Nini Ucròpina ghe vendeva 'ste mudande longhe, 'sti spagnoleti, 'ste lamete giléte al militar austriaco che iera con lu. E el se fazeva soldini, savé, perché el ghe diseva: «Xe roba bona, xe roba germanica, xe roba de prima dela guera.» Ben, no volé che cominci i combatimenti? No ofensiva ancora, ma combatimenti, de avvicinamento, i ghe diseva quela volta. I mandava fora le patulie in perlustrazion e i germanici, ogni volta che i tornava de 'ste perlustrazioni, i portava indrio, cole man alzade, dòdese, trédese, anca vintiquatro, qualche volta, prigionieri rumeni. — I germanici cole man alzade? — Ma no i germanici! Dove se ga mai visto alzar le man el militar germanico! I rumeni alzava le man e butava via i s'ciopi. — E i germanici ghe tirava? — No. Dela Prima guera no se tirava sul omo senza s'ciopo. I li fazeva prigionieri. File de prigionieri rumeni iera con 'ste monture zenerine, me ricordo, che anzi ga comincià a esser invidia del Comando austriaco, perché l'austriaco no fazeva quasi mai prigionieri. Rari: un dò per setimana. Savé: per far prigionieri bisognava andar avanti, bisognava combater, ris'ciar la vita. Cussì, un giorno, vien un Ober, che i ghe diseva, un Colonelo, come. E el dise che bisogna far prigionieri, perché i germanici fa. E che de ogi in avanti, per ogni prigionier rumeno el Comando austriaco ghe darà a chi che lo ciapa, dò fiorini. — Iera assai? — Bastanza ma, savé, bisognava combater. Ben, no volé che, come diman, Nini Ucròpina che va in perlustrazion, el torna con un prigionier rumeno, in montura zenerina cole man alzade e: «Ecovelo qua. Xe dò fiorini.» — E i ghe li ga dadi? — Come no? E anca bravo ghe ga dito 'sto Ober. «Bravo soldato». E no xe stà miga l'unico savé. Perché quela istessa setimana, un giorno un, un giorno dò, Nini Ucròpina, no vigniva mai senza prigionieri rumeni co' el tornava de perlustrazion. «Bravo soldato». — I ghe diseva? — Sicuro. E i ghe dava ogni volta dò fiorini per omo. Fin che una matina bonora, propio contava questo tuti quei che xe tornadi de Transilvania, 'sto Nini Ucròpina vien avanti zigando la parola d'ordine e strassinandose drio una dozena de prigionieri rumeni ligadi cole strenghe. «Bravo. Bravo soldato!» i ghe ga dito. «Però — ghe fa 'sto giovine ufizial, 'sto dalmato — stavolta xe una dozena. Inveze che dò fiorini per omo, Ucròpina mio, faremo un fiorin e una corona e meza, no?» «Un fiorin e una corona e meza?» — ghe ga dito Nini Ucròpina — no posso: un fiorin e una corona e meza i me costa a mi!» — Ma cossa el li gaveva ciapadi lu, tuti dòdese? — Ah, questo no se ga mai savesto. Forsi iera roba germanica. MALDOBRIA XIX - BAFFI ALLA RODOLFO Nella quale Bortolo tratta del problema dei figli naturali nelle comunità civili e militari di fine-secolo e della condizione umana di Nini Lupetina, causa di un ben comprensibile dolore di cuore per una madre. — 'Sti giovinoti cola barba! I me par San Nicolò Tomaseo che iera el monumento a Sebenico. Gavé fato osservazion, siora Nina, che in ogi, più giovini che i xe, più i ga la barba? Massime i studenti. Mah! Mio defonto padre me diseva sempre: «El saver no sta nela barba, Bortolomio», perché mi, veramente, me ciamo Bortolomio. Cussì me ciamava el padre. — Una volta inveze assai se usava che i veci portava la barba e i giovini no. — Savé cossa che mi calcolo? Che come che adesso i ga tuti i cavei ala longàtica e no se conosse più quei che xe mas'ci de quei che xe f emine, alora cussì i mas'ci se lassa la barba perché che se li distingui, come. E po' assai ghe pol, se vede, 'sta barba. Ghe par de esser più interessanti. Mio padre defonto — ma cossa che me vien in a mente ogi mio povero padre! — diseva sempre: «El gardèl se lo conesse del canto e no del pel, Bortolo!» — Ma no el ve diseva Bortolomio? — Ma sì: Bortolo, Bortolomio. — El fradel de mia madre, Barba Toni, gaveva una bela barba, quele che me piaseva a mi, de quele spartide in mezo. — Indiferente! Chi una volta, omo de età, no gaveva la barba? Tuti gaveva: i Regnanti, quei del Sangue, solo el Papa no gaveva, gavé osservà? E po', soto le armi, assai. — I soldai del Papa? — Ma cossa i soldai del Papa? Disevo che soto le armi, soto l'Austria, tuti i giovinoti, come minimo, i se fazeva cresser i mustaci ala Rodolfo. — Rodolfo Valentino? — Che Rodolfo Valentino, che quel gaveva i cavei cola riga in mezo! E po' quela volta chi se insognava de un Rodolfo Valentino? Rodolfo: el marì de Stefania. — No conosso. — Per forza che no conossé. La vera verità no se ga mai savesto. Ma tuti parlava che i lo ga copà dandoghe per la testa con una butilia de sampagna: Mayerling po'. L'Arciduca Rodolfo, el fio del Imperator, che i lo ga trovado morto in leto con una giovine. Ben, lui gaveva i mustaci ala Rodolfo. — 'Sto Rodolfo copado? — Per forza che Rodolfo gaveva i mustaci ala Rodolfo. Ma mi disevo lui, Nini Lupetina che, co' el xe andà a far el militar soto le armi a Graz, subito el se ga fato cresser i mustaci ala Rodolfo. — Nini Lupetina? Qual? — Quel che gaveva i mustaci ala Rodolfo, po'. No podevi conosser. Lui ve iera fio de Nìniza, povera, e el padre ghe iera Giovanin American, che no lo ga mai volesto riconosser. E quel ve iera el dolor de Nìniza. Savé, una volta in un paese, una regazza che ghe tocava una roba compagna iera bruto. Ela lavorava e tuto, Giovanin ghe dava qualcossa, ma una picolezza e 'sto Nini ve xe vignudo suso un poco barca stramba. No cativo, ma savé quei giovini senza mistier? Col padre che gaveva la trata no el voleva lavorar, perché el diseva: «Cossa el padre me diniega e mi lavorerò cola trata per lui, per i sui bei oci?» E cussì el ve iera de quei giovini senza arte né parte che ve se remena per el paese, in local, senza mistier, cussì. — Strazzon, come? — No strazzon, anzi! Perché un piato de minestra a casa el gaveva de Nìniza. Po' la madre — savé, la madre xe sempre la madre — ghe dava qualche soldo. Anca Giovanin, el padre, ghe dava. Poco, ma qualcossa el ghe dava. E cussì lui ve iera assai ben tignudo, scovetado. No pretamente scartozeto, ma de quei che se tien nel vestir. Ma, savé, quando che un ve xe senza mistier, questo no ve xe un bon segno. Anzi, tuti diseva povera Malvina, che la se gaveva inamorado in lu e che i se parlava zà de un per de ani. — Una putela? — Sicuro che iera una putela, se la se gaveva inamorado in lu. E la famiglia de ela disperada, perché capì: fio no legitimado, 'sto padre che no gaveva volesto sposar Nìniza, e senza mistier. Tanto che co' el xe andà militar i ga pensado: «Meio, cussì la se lo caverà dela testa!» — Nìniza? — Ma come Nìniza? Come una madre se pol cavar dela testa un fio? Malvina. Indiferente, lui xe andà militar a Graz e come che là lu ga visto che tuti i ufiziai gaveva i mustaci ala Rodolfo, lui se ga fato cresser i mustaci ala Rodolfo. — El iera ufizial 'sto Nini Lupetina? — Cossa ufizial! Che el gaveva solo le popolari e po' el iera fio ilegitimo. Dove, in Austria, un ilegitimo podeva esser ufizial! L'Austria iera un paese ordinato. Lui se gaveva fato cresser i mustaci come i ufiziai e anca i favoriti. — I favoriti gaveva mustaci? — Maché favoriti e favorite! I favoriti, la barba in parte del viso, come che gaveva Francesco Giusepe. E co' el xe tornado che el ga finì el servizio de militar, tra che el iera in montura, tra che el gaveva 'sti mustaci e 'sti favoriti, tràche, tràche, de no riconosserlo. — El padre, questo? Che lo ricusava? — Quel del padre iera un'altra storia: de no ravisarlo, intendo. Che anzi Barba Nane, co' lo ga incontrado al molo con 'sti mustaci e 'sti favoriti, ghe ga dito: «Ara Francesco Giusepe Secondo che torna del giro del mondo!» — Ah! El lo cioleva via? — Sicuro, iera famoso per cior via Barba Nane, iera un che cojonava. «Taiévese quela barba de nane — el ghe diseva ogni volta che el lo intivava — o i ve cavarà la matricola, se mai riveré a gaverla!» Ma lui, gnente, cussì conzado a lui ghe pareva de esser chi sa chi. — Eh, però l'omo con barba e mustaci sta ben. Barba Toni, el fradelo de mia madre defonta... — Indiferente. Inveze a Malvina no ghe piaseva. Pensé che con Malvina, quando che el iera militar i se gaveva promesso per letera. Savé qualche volta, propio cola lontananza, una se intestardisse. Che lui po' no iera de cativi sentimenti. Ma capì, in paese, ilegitimo e senza mistier, insoma la famiglia iera disperada. Ma disevo che gnanca a Malvina no ghe piaseva 'sti mustaci e 'sti favoriti. «Mi credo che co' ti magni ti se tuto smàsali de minestra! », la ghe diseva. La ghe voleva propio assai ben, inamorada in lu. — Ah, a ela no ghe piaseva? — Ve go dito de no: la ghe diseva che con 'sti mustaci e 'sti favoriti no el par gnanca più lu, che el se tài, che almanco un poco, insoma una roba e l'altra. E lui che no, che ghe sta ben, che a Graz tuti. Ma ela storzeva el muso — savé, la barba anca sponzi — fina che xe rivadi, che iera el suo compleano, i Santi. — I Santich? — Maché Santich! I Santi. Lui ve iera nato el giorno dei Santi, che qua anzi in paese iera festa, granda festa, perché subito dopo vigniva i Morti. Iera bel una volta, tuti andava in zimiterio per i Santi, me ricordo, perché per i Morti iera massa gente; per i Morti xe assai gente in zimiterio. — Eh, sì! Gavé mai visto la tomba de Barba Toni, fradelo de mia madre defonta? El xe là in porcelana, cola sua bela barba spartida in mezo. — Bon, che el staghi. Mi volevo dirve che iera la festa dei Santi e che ghe cascava el compleano a Nini Lupetina. E lui, che no el iera cativo de sentimenti, ga pensado che con tute 'ste storie che ghe fazeva la sposa per 'sti favoriti e 'sti mustaci, el ga pensà de contentarla. — Farse legitimar? — Ma cossa farse legitimar? Quel no podeva far lui, quel doveva far Giovanin American, indiferente. No, lui ga pensado: la contento, e el xe andado del vecio Zago barbier e el ghe ga dito: «Barba Zago, via tuto!» Ve ricordé de Barba Zago? — Come no? Barba Zago, el barbier. — Brava. Via tuto — el ghe ga dito — e Barba Zago ghe ga rasado col rasador mustaci, favoriti, tuto. Più giovine, el mostrava dopo, volé creder? E insoma, de sera, savé come che iera l'uso, che se andava a passegiar in Riva, là del Fòntego, liston grando ... Dio cossa che ne pareva a noi, quela volta, 'sto liston in Fòntego! ... — El ga visto la sposa? — Come no: la sposa Malvina che lo spetava là caminando con sua cugina Norina: perché dove quela volta dò giovini podeva véderse cussì soli dopo zena? Le putele: nove ore a casa, un baso ala Madona, pissin e in leto. Nini se gaveva messo in vestito de festa e, come che el la vede cola cugina, el ghe scominzia a caminar drio. Ela ghe dà un'ociada, ma no la lo ga ravisado, vestì de festa, senza mustaci e senza favoriti, zà scuro, ela no la lo ga ravisado. E lui sempre drio. ela se voltava ogni tanto, perché istesso qualcossa ghe pareva, e iera un rider, che i giovinoti rideva, fina che, savé come che xe, ogni bel balo stufa. — Cossa, iera balo? — Ma no, cossa balo, che tuti tornava del zimiterio! Se dise per dir: ogni bel balo stufa! E Nini Lupetina se ga palesado e el ghe ga dito: «Ma dài, Malvina, son mi: Nini!» ela se volta e, palida, ghe casca el pacheto de man. — Che pacheto? — El regalo per Nini, no, che fazeva i ani. Siora Nina, savé cossa che la ghe gaveva comprado per regalo? — Dieci deca de fave dei Morti? — Ma cossa fave dei Morti? El fero, la ghe gaveva comprado, el fero per farse el rizzo sui mustaci. La se gaveva inabituado come, chi sa, forsi ghe piaseva. La dona ... — El fero per farse el rizzo sui mustaci? E lui senza mustaci, cossa el ga fato con 'sto fero? — Lui, siora Nina, come diman de matina bonora, el xe andado drito de Barba Zago barbier e el ghe ga dito: «Barba Zago, mi go el fero per far el rizzo sui mustaci, me ciolé con vù in botega?» Cussì el ga trovà un mistier. Tuti andava de lu a farse el rizzo sui mustaci. Anca Giovanin American che, bisogna dir, ghe pagava. Una picolezza, ma ghe pagava. MALDOBRIA XX - IL NOBILE RAGUSEO Nella quale prestigio di casato, affabilità di modi e innata signorilità danno risalto alla figura dell'ultimo Conte Duda degli Ivanìssevich, indimenticabile personaggio della belle époque adriatica, ugualmente generoso con le amabili donne e con la Casa di Dio. — Per morir e per pagar i debiti xe sempre tempo, come che diseva el Conte Ivanìssevich. — Ivàncich? — Maché Ivàncich! Iera sì anca i Ivàncich, ma el Conte Ivanìssevich defonto ve iera propio un Duda degli Ivanissevich, Conte Duda degli Ivanìssevich el se sotoscriveva. Lu ve iera propiamente de Ragusa: nobile raguseo, che suo padre, el vecio Conte Ivanìssevich, che mi me lo ricordo de putel, gaveva sposado una fia del vecio Petris de qua; perché lori, savé, zò a Ragusa, una volta — ma ancora in antico parlo, che iera stade no so che confusioni — i gaveva perso tuto. — Poveri... — Poveri? Poveri in confronto. Perché la moglie del vecio Ivanìssevich, gaveva soldi e i stava ben, ma el fio iera barca stramba. Savé come che se dise: padre avaro, fio strambéra. — Strambéra questo fio che conossevi vù co' el iera ancora putel? — No: disevo che co' mi iero putel, iera ancora vivo el vecio che xe morto. Questo ve iera el fio del vecio, che iera barca stramba: el conte Bepi, lo conosseva tuti. — Barca stramba? El beveva? El gaveva done? — Oh, per bever el beveva come che beve tuti e per done el gaveva quele che ghe compete al omo. Barca stramba, se dise per dir: lui ve iera, come dir, un grandioso. E in pochi ani, dopo morto el vecio, lui se gaveva magnado anca la parte dela madre. Unica roba che ghe iera restada iera la casa, quela bela vila che iera in ponta Sant'Andrea, sul mar propio, che po' i tedeschi, co' xe andadi via — primo magio iera, me ricordo — ga fato saltar per aria. Cativeria inutile. — Ah, cussì el ga perso anca la vila! — Ma cossa volé che lu ve podeva perder la vila, che co' xe andadi via i tedeschi, lui iera sototera che sburtava radicio, povero, zà de tanti ani! Mi ve parlo ancora de prima dela Prima guera, che lui in 'sta vila gaveva ancora bastanza bela roba. No tanta, perché sempre più el vendeva. Ma savé cossa che lui gaveva più de tuto? — Cossa? — Debito, lui ve gaveva, debito grando con tuti. Lui, per modo de dir, no el gaveva in scarsela gnanca i soldi per un mistrà. Mi me lo ricordo che el vigniva drento in Café dela Losa, col suo bel capel de paia de istà, sacheto nero de àlpagas, braga bianca, scarpe lustre come speci, el suo bastunìch de canadindia col pòmolo de argento e el ghe diseva a Giovanin: «Giovanin, un mistrà!» — Ma se no el gaveva gnanca i soldi per un mistrà? — Quel ve iera. Perché lui diseva «Giovanin, un mistrà!» E Giovanin ghe dava. Cossa volé che fussi un mistrà! E po' el iera un omo che imponeva, un omo de presenza, el Conte Bepi. Bepi degli Ivanìssevich, nobile raguseo. Che lu anzi sempre diseva: «Nualtri no semo né patrizi né plebei, siamo nobili ragusei. Bon 'sto mistrà, Giovanin, déme un altro.» — E Giovanin ghe dava? — Come volevi diniegarghe un mistrà a un Ivanìssevich, che un mistrà po' ve iera zinque soldi? E po' tuti ghe voleva ben e el iera ala man con tuti, ma man sbuse el gaveva; come ogi el ve fazeva un debito e come diman, no se sa come, no el gaveva più un soldo. Savé, lui fazeva un ciodo per stropar un buso e dopo i interessi ghe magnava tuto. — Ma se no el gaveva gnente? — Va ben che no el gaveva gnente, ma come debito el gaveva enorme. Me ricordo che contava l'avocato Miagòstovich, che una volta che i stava per meterghe al incanto la vila, 'sto Conte Bepi ga firmado un «pagherò». — El gaveva dito che el pagherà? — No: el gaveva propio firmado un «pagherò», quel che ogi se ghe ciama una cambial. Una obligazion che anca soto l'Austria, me ricordo, se comprava in apalto. Lui iera là col avocato Miagòstovich sentà in scritorio, con 'sta cambial bolada, zinque corone la costava, e lu cola pena in man, prima de cominciar a scriverla: «Vedé — el ga dito — vedé, Miagòstovich mio, come che ve xe le robe? Adesso 'sta carta ve val zinque corone e co' ghe gaverò messo sovra la mia firma no la valerà più gnente. No stévela ciapar — el diseva — Miagòstovich mio, che i debiti ve xe come le done: più se ghe ne ga e manco se ghe ne paga.» Tuti ghe voleva ben... — 'Ste done? — No le done. Sì, anca le done. Ma tuti ghe voleva ben al Conte Bepi e nissun propio ghe diniegava. Tuti ghe imprestava co' el iera in bisogno. Anca i Nìcolich e i Giadròssich ghe gaveva imprestado bastanza. «Tanto — i ghe diseva ale mogli — podemo sempre gaver la rivalsa cola vila.» Che po' 'sta vila, savé, se gavessi dovesto farghe assai lavori, tuti i seramenti, presempio. Ma indiferente. I vigniva qualche volta anca a zercarlo in vila questi che lui ghe doveva soldi, ma no quei de qua... vigniva qualchedun de Fiume, de Trieste, de Abazia; un ungarese in vetura xe vignù una volta. E el Conte Bepi, che el gaveva el vecio Andre che ghe tendeva la casa ancora de quando che iera vivo suo padre, el zigava del balador: «Andre! Diséghe che no son a casa!» E el vecio Andre rispondeva subito: «El Conte Bepi el ga deto che no el xe a casa!» Un rider iera in Café dela Losa eo' contava questa l'avocato Miagòstovich. Che anca l'avocato Miagòstovich ghe gaveva imprestado l'imprestabile. Figurévese che lui una volta, col avocato Miagòstovich, che el gaveva un'impelenza de soldi, de liquido, el diseva lu... — Chi, l'avocato Miagòstovich, gaveva un'impelenza? — Ma no l'avocato Miagòstovich che iera sior ma assai regolato: el Conte Bepi! Pensévese che quel ungarese se gaveva impetido propio in Tribunal per gaver indrio 'sti sui soldi. «Favorime vù, Miagòstovich mio, in 'sta impelenza de liquido che go!» — el ghe ga dito. E insoma, per farvela curta, 'sti dozento fiorini che el ghe doveva a 'sto ungarese ghe li ga dadi in man al Conte Bepi l'avocato Miagòstovich, cussì, senza récepis e insieme i xe andadi in Abazia. — De 'sto ungarese? — Sicuro, per pagarlo fora, che no el ghe fazzi vergogna per i tribunai. Ben: no volé che come che i passa cola vetura là de quel belissimo negozio de antichità che iera in Abazia, el Conte Bepi ghe ga dito al cùcer: «Fermévese un momento, che torno subito.» Savé cossa che iera? Iera che lui, cola coda del ocio, gaveva visto un portapìrole... — Un portapìrole? Ghe ocoreva pìrole... — Cossa pìrole? Lui gaveva visto in vetrina de 'sto negozio de antichità un portapìrole de argento smaltà, antico, bel. E, prima che l'avocato Miagòstovich rivassi gnanca a smontar de vetura, lui lo gaveva zà comprado. Che quanto xe?, el ghe gaveva dimandado a 'sto qua del negozio. Che zento fiorini. Che èco ve i zento fiorini. Che, veramente, sior Conte Bepi, ghe sarìa anca quela picola pendenza de quel pendaglion de l'altra volta. «Ah, giusto! E quanto iera, che no me ricordo?» Che iera anca zento fiorini. «Bon: zento più zento fa dozento, i me ga imparado a scola» — ghe ga dito el conte Bepi e el ghe ga dà anca i altri zento, che l'avocato Miagòstovich in vetura se tigniva la testa fra le man sacramentando. — Dozento fiorini? — Sì: zento più zento, dozento, tuti quei che ghe gaveva dà in man l'avocato Miagòstovich. «Vegno subito, Miagòstovich mio — el ghe ga zigado traversando la strada — vado solo un momentin qua in Vila Ester a saludar una mia conossente, zà che semo qua.» — Una dona? — Una dona, sì, una sua conossente. E co' el xe tornado in vetura el ga dito: «Assai ghe ga piasso a 'sta mia conossente quel mio portapìrole, che ghe lo go mostrado, e cossa volé, Miagòstovich mio, ghe lo go dado: tignilo vù, mon amie, alora, se tanto el ve piase. Inutile — el diseva ridendo — ale bele done ghe piase le bele robe.» — Mon amie? — Sì sì... mon amie, «Mona mi che ve go dato i dozento fiorini!» ga dito l'avocato Miagòstovich. Perché cussì a 'sto punto el ga dovesto tirar fora altri dozento fiorini, per via che quel ungarese no ghe fazessi vergogna al Conte Bepi per i tribunai. Capì, siora Nina, che omo che ve iera el conte Bepi? Man sbuse. Però istesso tuti ghe voleva ben, tuti ghe imprestava. Tuti, fora che el vecio Bùnicich. — Perché no el gaveva soldi? — Cossa no gaveva soldi el vecio Bùnicich? Lui gaveva più dei Nìcolich e dei Giadròssich messi insieme mi calcolo. Che anzi una volta che l'avocato Miagòstovich ghe gaveva dito «Imprestéghe al Conte Ivanìssevich, che in fondo ve xe sempre un qualcossa i Ivanìssevich», el vecio Bùnicich ghe ga rispondesto: «Bori e nobiltà, metà dela metà: e qua me par che no xe restà gnanca un otavo per cavarse la sede.» E anca con bruta maniera el ghe ga dito. Savé: el vecio Bùnicich ve gaveva assai soldi, ma no el iera calcolado, come. Presempio lu no ve iera Fabricer del Domo, come che iera tuti 'sti Petris, i Ivanìssevich, no se parla, el dotor Colombis, el fradelo farmacista, i Nìcolich e i Giadròssich, natural; l'avocato Miagòstovich no, perché el iera ateista. — Senza Dio? — No senza Dio, lui gaveva un dio, suo. El diseva sempre: «Una Mente deve esser, ma che no me vegni a contar Don Blas che lui ga la Mente in sacrestia, in armeron dele ostie!» E la moglie, inveze, assai de cesa. Ben, indiferente. Iera uso che de dimenica dopo la messa dele ùndese, co' iera mezogiorno, perché iera messa longa, cantada cola predica e tuto, mezogiorno e un quarto, qualche volta, tuti 'sti Fabriceri andava in canonica de don Blas che ghe dava un bicer de vin de messa, come che se usava quela volta, e i parlava de una roba e l'altra. — Robe de cesa? — Ma no: de tuto. Un bicer de vin, prima de pranzo, no? Cussì, fra omini. E una dimenica, dopo l'Itemissaest, don Blas ghe ga fato de moto, come sempre, ai Fabriceri e po', passando vizin del vecio Bùnicich, el ghe ga dito de vignir anca lu, se el favorisse, in canonica. Contento, podé capir, 'sto vecio Bùnicich che iera la prima volta che i lo degnava. Bon: i va drento e Don Blas, col bicer in man anca lu, el ga dito: «Qua ghe vol far qualcossa e presto, perché spande.» — El bicer de vin? — Ma no el bicer de vin! L'intendeva dir che spandeva el teto del Domo e che in fondo, visto che quel lavor bisognava farlo, saria stada l'ocasion per rinfrescar un poco tuto, che anca l'aitar de San Sidoro xe in malora, che el confessional xe in condizioni, e che el saliso no xe più decoro per la Casa di Dio. Insoma, che i Fabriceri e che anca el signor Bùnicich, che el xe contento de véderlo anca lu là, ognidun, un poco per omo farà sicuro in modo e maniera de sovenire ale necessità dela Chiesa contribuendo secondo le legi e le usanze. — Ah, iera obligo soto l'Austria? — No, obligo no: preceto dela Chiesa. No ve ricordé? I zinque precetti della Chiesa sono cinque: primo... indiferente, adesso i ga cambiado tuto. «Va ben» — ga dito tuti — e Don Blas se ga sentado drio del pulto del libro dei batizi e el ga comincià a notar. El meteva in cassetin i soldi e el fazeva i récepis. Tuti ga dado. Anca el vecio Bùnicich ga tirado fora 'sto suo portafogli che pareva un'armonica e el ga dado, pensévese, dozento corone, cussì anca per farse véder dei altri. E el Conte Ivanìssevich ga dito: «Altro che! Qua xe tuto de refar, de rinfrescar, anca la Madona Adolorata, sarìa de indorarla tuta de novo. Capisso che xe propio necessità e alora mi, più che volentieri, darò mile corone!» «Bùnicich — el ghe ga dito a Bùnicich — giusto che gavé el portafogli 'verto in man, che mi no go mai soldi con sé, déme qua 'sta carta de mile corone. Ecove Don Blas, écovele qua, anca in memoria del mio povero padre defonto!» Cussì ve xe stà, siora Nina, che el vecio Bùnicich, ciapado al'improvista, ga dovesto imprestarghe al Conte Bepi mile corone, che iera qualcossa. — Iera, iera qualcossa mile corone... — Altro che iera. E el Conte Ivanìssevich co' el xe vignudo fora dela Cesa ghe parlava tuto soridente al vecio Bùnicich, tignindolo sotobrazzo. Bon, volé creder che come diman matina bonora 'sto vecio Bùnicich xe zà andado in vila a scòderghe? Se xe el conte Bepi. Che el ga deto che no el xe, ghe ga dito el vecio Andre, e se sentiva el Conte Bepi del alto del balador che el zigava: «No son, no son!» Dò, tre matine xe andado el vecio Bùnicich in vila e sempre che el Conte Bepi no xe. Fin che lui, disperado come, el xe andado de Don Blas. Che come se ga de far con 'ste mile corone, che a lui ghe ga tuta l'anda che el Conte Bepi no ghe le torna. «Come che se ga de far? — ghe fa don Blas — regolévese vù, Bùnicich mio, col Conte Bepi, mi per 'ste mile corone el récepis ghe lo go fato al Conte Bepi.» «Ma a vù ve le go dade mi!» — ghe fa Bùnicich. «Vù me le gavé dade, lu me le ga dade? A mi nissun me ga dado gnente — ghe ga dito don Blas — tuti ghe ga dado ala Casa di Dio. Domus Dei et janua Coeli.» — Eh, giusto: come oferta. — Eh sì, ma iera mile corone, savé! E sto vecio Bùnicich iera come mato. «Casa di Dio, va ben — el predicava — ma mi son fora con mile corone e no go in man gnanca el récepis, no go gnanca un toco de carta per impetirme, altro che janua celi!» — Perse, dài! — Perse! Sior Idio, magari gavessi savesto che le mile corone iera de Bùnicich, ma lu no voleva perderle, e cussì el xe andado del avocato Miagòstovich, ma Miagòstovich, ghe ga dito: «Mi cole robe de cesa no me intrigo!» E el vecio Polidrugo, papà de Tonin, che lori dò veci iera amichi, co' Bùnicich ghe ga contà, ghe ga dito: «Ti sa Bùnicich che ti xe stà sempio a darghe mile corone cussì, senza una carta, senza un récepis! Sa cossa? Va de Ivanìssevich e fate almanco far un récepis, una carta, che ti possi gaver qualcossa in man!» «Ma dove lo trovo — ghe fa Bùnicich — che ogni matina in vila el me dise che no el xe a casa?» — Eh, xe vero, povero omo... — Maché povero omo, che el vecio Bùnicich gaveva più soldi dela Comun! «Sa cossa alora — ghe ga dito Polidrugo, che anca el vecio Polidrugo iera un malignazo — sa cossa: ti, pulito scrivighe una letera e intìmighe che el te torni le domila corone che ti ghe ga imprestà.» «Ma come domila? Mi ghe go imprestà solo che mile corone, per fortuna.» «Justo — ghe fa Polidrugo — xe quel che Ivanìssevich te scriverà subito, e cussì ti ti gaverà in man el récepis sotoscrito de Ivanìssevich che domila no, ma mile sì, el te deve.» — Orpo, che truco! Scriverghe! E lui ghe ga rispondesto? — Sicuro: iera omo retto el Conte Bepi. Lui ga subito rispondesto che come duemila? Che forse lui si confonde, ma che il momentaneo prestito fu di corone mille. E tuto ben firmà: Conte Bepi, Giuseppe, insoma, Duda degli Ivanìssevich. Siora Nina, co' Bùnicich ga avù 'sto récepis in man, el xe corso subito in vila e, sventolandoghe 'sta carta soto el naso del vecio Andre, el ghe ga dimandà se xe una bona volta a casa el conte Bepi. Che no el xe. Che cossa no el xe, che lui sa che el xe e che el fa dir che no el xe. «Ve giuro in Dio — ghe ga dito el vecio Andre — no el ve xe, el ve xe andà in vetura a cior el vapor che el parte, e prima el ve va a Trieste e po' a Costantinopoli a trovar un suo secondo cugin. Ve giuro in Dio.» Ciàpilo lìghilo el vecio Bùnicich... el core al molo, che giusto el vapor, el «Narenta», me ricordo, molava le zime. E el vede sul ponte de Prima Classe el Conte Ivanìssevich, tuto vestì de bianco, col Comandante, con un Visitator Apostolico che tornava via de esser vignù qua a véder i lavori del Domo, signore, uficialità. El «Narenta», savé, iera granda barca... El vecio Bùnicich, tuto rosso ingalà, vede 'sto Conte Bepi vestì de bianco sul vapor in mezo a tuta 'sta gente e el ghe ziga de sotobordo sventolandoghe 'sta carta: «Ivanìssevich, Ivanìssevich! Le mile corone! Le mile corone!» «No fa gnente, Bùnicich — ghe ga zigà Ivanìssevich del ponte de Prima Classe — no fa gnente: me le daré quando che torno de Costantinopoli, se sarà l'ocasion, con comodo, no fa gnente, no fa gnente!... Con comodo...» — E Bùnicich cossa ga dito? — Ah, no se ga sentido, perché el vapor fis'ciava. MALDOBRIA XXI - LA DOGANA TURCA Nella quale Bortolo racconta dell'imprevedibile fioritura di traffici suscitata dalla rivoluzione dei Giovani Turchi, dei relativi dazi imposti dal nuovo regime e dello spiraglio trovato dal Comandante Bogdànovich, dalmata d'ingegno, in una Porta non più Ottomana. — Ognidun ga la sua religion e i sui usi. Vardé: nualtri, presempio, andemo in cesa cavandose el capel e inveze i ebrei co' i va in cesa dei ebrei, i se mete el capel... — E el turco in cesa se mete el capel o se cava el capel? — No, el turco se cava le scarpe. In ogni cesa turca xe un grando logo aposito che se lassa fora le scarpe. — E no i ghe le roba? — Robar in cesa turca? Guai! Se el turco roba in cesa i ghe taia la testa. Se el roba fora de cesa i ghe taia la man, ma in cesa la testa. Almeno una volta i usava, adesso no so. Perché in Tùrchia, solo de quando che mi me ricordo, xe stadi assai cambiamenti. Aré, mi go navigado prima dela Prima guera per Levante e se andava a Costantinopoli, che iera la Porta Otomana, ancora. — Iera una porta per andar a Costantinopoli? — Sì, una porta cola cluca! Ma dài, siora Nina, la Porta Otomana i ghe ciamava per dir che iera el Sultano, l'Impero Turco, questo prima dela Prima guera. E quela volta ve iera tuto diferente de dopo dela Prima guera. Perché, primo: le done no iera gnente considerade e se le andava per strada le doveva covérzerse el viso, solo i oci fora le gaveva. Bei oci gaveva le turche. Secondo: no le portava còtole, ma braghe. Braghe turche, quele larghe compagne. E po' quel che più dava nel ocio iera che i òmini, tuti i omini, portava el fez. — Come i balilli? — Cossa i balilli? Quel xe stà dopo, e po' ve iera altro. Fez turco i portava, duro, rosso, de panneto, belissimo. E vestidi de turchi, tuti. Quel dava subito nel ocio. Me ricordo mi la prima volta che son sbarcado a Costantinopoli, giovine de camera che iero, quel me ga dà subito nel ocio, quel e le papuzze. Perché el turco no portava scarpe. — Discalzi i andava? — No discalzi. Ve go dito: papuzze i gaveva. Che mi go portà tante volte. — Metevi papuzze turche? — Ma no che no metevo papuzze turche, portavo de Costantinopoli papuzze turche per portar per casa, de panneto, bele. E dopo, inveze, ga tuto cambià. — Dopo dela Prima guera? — Dopo de dopo dela Prima guera, perché prima in Tùrchia xe stà stragi, iera Kemàl Pascià, rivoluzion dei Giovini Turchi: stragi... — I giovini copava i veci? — Ma no i copava i veci. I se ciamava Giovini Turchi, come dir che lori cambierà tuto. E difati i ga cambià tuto. Prima de tuto Kemàl Pascià ga dito che nissun devi esser più Pascià. Po' che basta con 'ste monade de vestirse de turco, una roba e l'altra. Che bisogna vestirse più in moderno, come nualtri. — De maritimi? — Ma come de maritimi? Digo come nualtri qua, europei che semo. E prima i scriveva tuto per arabo e dopo i ga scominzià inveze a scriver per italian. — Ah, cussì capivi tuto? — Ma no iera, siora Nina, che i scrivessi per italian. Sempre per turco i scriveva, ma cole letere italiane, come che ga tuti, fora che quei che scrivi per zirìlo, ma questo xe indiferente. Quel che più ve dava nel ocio iera che 'sto Kemàl Pascià — che guai dopo ciamarlo Pascià — prima roba el ghe ga fato cavar le braghe ale done. — Che bruto! — Ma cossa gavé capì? Fato cavar le braghe, nel senso che le doveva portar còtole, scovérzerse el viso — che quel iera propio una barbarie che la dona no iera gnente considerada — e quel che più dava nel ocio, che ve disevo, iera che i omini ga dovesto cavarse el fez. Pensévese che se i trapava un col fez, i ghe taiava la testa. E gnanca papuzze no i podeva più portar. Guai portar papuzze. — I ghe taiava i pie? — Quel no so, no go mai osservado, ma no i podeva portar papuzze. Scarpe, i doveva portar scarpe. E povero quel che se vestiva de turco. I doveva vestirse come nualtri: con sacheto, braghe, camisa, cravata e tuto. — E capel? — Capel e capoto, se capissi, de inverno. In Tùrchia fa fredo de inverno. A Costantinopoli, digo, più zò a Smirne inveze, là podé andar liberamente in vita tuto l'ano. Capel sì, perché no i podeva più portar fez. E là, vedé, tanti de quei Comandanti, Commissari de bordo, massima parte, in quei ani se ga fato i soldi. — 'Sti turchi? — Maché turchi! Nostri Comandanti, Commissari, gente nostra, patrioti se ga fato i soldi. Perché, capì: de un momento al altro, 'sti turchi che no podeva vestirse più de turco, doveva comprarse tuto roba nova per vestirse come nualtri: e còtole per le done, e capéi per i omini, e scarpe de omo e de dona, e camise, sacheti, calze, gilè che se usava quela volta, tuto insoma. E, massime sula Libera Triestina, che se fazeva viagi per Smirne e Costantinopoli, più de un se ga fato sior. — Ah, vendendoghe la roba sua ai turchi? — Ma no la roba sua. Se comprava qua roba, dei grossisti, e visto che se gaveva l'ocasion de andar a Smirne e a Costantinopoli, là se vendeva. Anca mi go fato. — E i lassava? — I lassava sì. Bastava far manifesto. Vù scrivevi sula carta dela Dogana Turca — no so: diese capéi, diese sacheti, braghe, còtole, scarpe, camise: digo diese per dir, quanti che volevi — pagavi el dazio e se sdoganava ... — E iera assai dazio? — Oh Dio, bastanza. Per zerte robe, enorme. Ma quel, vedé, siora Nina, ve iera la furbitù dei maritimi, dei Comandanti, dei Commissari de bordo. La furbitù ve iera che el turco ve fazeva pagar dazio su quel che vù ghe disevi che la roba val. Metemo dir: cossa costava qua, quela volta, un per de scarpe? — Cossa costava qua quela volta un per de scarpe? — Oh Dio, qua gnanca no me ricordo, ma a Fiume — che quela volta Fiume iera porto franco, Città Libera — un per de scarpe mi pagavo oto, nove lire. Bon: inveze al turco in Dogana vù ghe scrivevi sul manifesto che valeva tre lire e vù pagavi dazio solo su quele tre lire e basta. E dopo, fora, natural, le vendevi per quel che le valeva: dòdese, trédese, quìndese lire. Lire turche. La xe stadi guadagni immensi. Assai i se ga profitado: tropo. Specie el Comandante Bogdànovich che iera assai interessoso. Lui una volta el ga avudo el muso roto de scriver sul manifesto che zento camise — che lui gaveva portà, pensévese zento camise — valeva zento e vinti lire, che sarìa stà una lira e vinti per camisa, figurévese, che gnanca in China no se trovava per quei prezzi. Cussì lui ve pagava poco dazio, gnente. El se profitava tropo. — Ah furbo! — Furbo sì ve iera el Comandante Bogdànovich — un dalmato, bochese, dele Boche de Cataro — ma gnanca i turchi no iera i ultimi sempi, savé, siora Nina. Perché lori, dopo un pochi de mesi i se ga subito capacità che 'sta roba andava fora de Dogana come che no la valessi gnente e inveze, a comprarla nele boteghe la costava orori, causa che i se profitava. — 'Sto dalmato, 'sto Comandante Bogdànovich? — Lu e tuti se profitava. Insoma, savé cossa che ga pensà el turco? El turco ga avudo una bela impensada, bela per lori ma bruta per nualtri. El turco ga dito che va ben, che lori accetta, che lori no sindaca. Che quel che un scrive sul manifesto per lori va ben. Ma che però — e qua vedé la furbizia del turco — che la Dogana Turca si riserva il dirito di acquistare, ela sola si stessa medesima, ogni merce introdota al prezzo indicato sul manifesto di Dogana. Me ricordo in tute le lingue iera scrito su una carta che i dava. Anca per 'talian. — Ah! I comprava tuto lori! — No, siora Nina, no iera quel, no iera che lori volessi comprar tuto. Lori furbi, perché el turco xe furbo, in 'sto modo i ve avisava che se lori ghe pareva che fussi stado fato el fufignezzo de dichiarar meno valor per pagar meno dazio, che va ben, che lori ve cioleva in parola e i comprava lori per quel valor. — Come? No capisso... — Oh Dio, siora Nina, no xe gnente de capir: iera cussì. Presempio, co' un Comandante Bogdànovich ve scriveva sul manifesto che una camisa val una lira e vinti, la Dogana turca podeva dirghe: «Bon, per una lira e vinti, la compro mi.» — E i la comprava? — E come che i la comprava! A tanti ghe xe nato le prime volte. I turchi comprava 'sta roba a par valor del manifesto, per un bianco e un nero, e dopo i la meteva al incanto e guadagnava el Stato Turco. E come che guadagnava! Capì: qua una camisa meno de zinque lire no costava mai e in 'sta maniera più de un maritimo, inveze che guadagnar ga perso. E cussì iera tuti disperadi i Comandanti e i Commissari de bordo: finida la bubana. Perché una dele dò: o sul manifesto i dichiarava giusto e i pagava dazio enorme o i ris'ciava che ghe vadi tuto al incanto. — Eeh, xe sempre cussì con 'ste robe dela Dogana, mi, una volta, figurévese, per un sacheto e còtola... — Indiferente. Tuti disperadi iera e el Comandante Bogdànovich più de tuti. «Ancora un viagio me bastava — el diseva porconando come che usa i dalmati — e me compravo un quartier a Fiume. E inveze adesso 'sti sacramentadi xe andadi a tirar fora 'ste angherìe. Basta dir turchi po'!» E el biastemava come un turco. Ben, gnente. Passa un per de mesi, partimo col «Pandora» dela Libera, sempre per Smirne e Costantinopoli, e no volé che vedo che a Fiume in banchina xe casse per el Comandante Bogdànovich. «Comandante — ghe dise el Commissario Bonifacio, un triestin, un drito — cossa la xe diventado mato? Cossa xe tute 'ste casse per lei che adesso i le imbraga su col vinch?» «Cazzi mii — ghe fa Bogdànovich — per vender zò a Smirne. Scarpe xe. De omo.» — Ah! Convigniva de novo? — No che no convigniva. Iera sempre quel ris'cio: o dichiarar giusto sul manifesto e guadagnar poco gnente, o dir che val poco gnente e ris'ciar assai. Ris'ciar che vadi tuto al incanto, siora Nina. «E mi ris'cio — ga dito el Comandante Bogdànovich — e, kuraz, mi ve giuro in Dio, che se me va ben 'sto afar, mi me fazzo turco. Oh Dio, turco: almanco vado a impizzar una dozena de candele in cesa turca, camadòdese!» Siora Nina: zinquemila peri de scarpe el gaveva comprado a Fiume in Porto Franco. Roba de ruvinarse de capoto per tuta la vita. — Bele scarpe? — Cossa volé che sapio mi se iera bele o brute. Le iera nei cassoni. Zinquemila, savé: no iera miga una. E insoma, gnente, rivemo a Smirne. E mi vedo che là in banchina de Smirne i scuminzia a scarigar col vinch casse de Bogdànovich e lu el va in Dogana. E mi ghe vado drio, col nostroomo Fatutta e vedo che zà el fazeva scriturazion sul manifesto. «Marchandise»: Scarpe di uomo.» «Quantité»: Cinquemila. «Valeur complessif declaré: lire diecimila.» Diesemila che, siora Nina, sarìa dò lire per pér... Che mi ghe go dito subito al nostro-omo Fatutta che Bogdànovich stavolta andava in zerca de disgrazie, perché chi ghe podeva creder che un pér de scarpe val dò lire per pér? Ma lu ne ga dito: «Andé in mona, cossa fé qua?» e, muso risoluto, el ga consegnà el manifesto. — Ai turchi? — Ai turchi sì, a chi po'? Siora Nina: mai no me dimenticherò. 'Sto qua dela Dogana Turca ciol el manifesto, lo varda e el va drito drento in uficio. E dopo zinque minuti el torna fora con un altro, un ufizial con un per de mustaci che no ve digo, che va de Bogdànovich e ghe dimanda per francese: «Xe sto qua le valor declaré?» «Sì, sì, uì uì» — dise Bogdànovich — e 'sto ufizial, pum, el peta sul manifesto un timbro dela Dogana turca, tuto scrito per turco e el ghe fa, sempre per francese: «Compròns nù», come dir che i compra lori, che compra la Dogana turca. — Mama mia! Perso tuto?! — Speté, speté, siora Nina. «Bon — dise el Comandante Bogdànovich — compré vù, va ben.» E senza scompònerse l'incassa i bori: diesemila lire. Capì: una miseria, perché a lui le scarpe le ghe doveva esser vignude a costar almanco nove lire per pér, un quarantazinque, zinquantamila lire. Ma Bogdànovich gnente. Calmo, lui xe andado subito drito al salon dei incanti, che la Dogana fazeva i incanti subito, cussì diretamente, e iera zà pronti 'sti grossisti turchi per comprar. — Ah! Al incanto andava! — Siora Nina, ve go contà tuto el tempo che andava al incanto. E difati i verzi 'ste casse e vien fora tute 'ste scarpe. Zinquemila scarpe, siora Nina. Zinquemila scarpe: tute de pie sinistro. — Come, tute de pie sinistro? — Xe quel che ga dito quel dela Dogana: «Come tute de pie sinistro?» E Bogdànovich che cossa come? Che lui no ga scrito zinquemila peri, che lui ga scrito zinquemila scarpe. Che i le conti. Che se lui vol portar zinquemila scarpe tute de pie sinistro per vènderghele a tuti i turchi che i ghe ga taiado el pie destro, lui xe paronissimo. Che i ghe mostri la lege turca che dise che no se pol. Insoma, per farvela turca, volevo dir per farvela curta, nissun de 'sti grossisti de Smirne — natural — voleva comprar 'ste zinquemila scarpe tute de pie sinistro. Unico a 'sto incanto xe restà Bogdànovich. E el le ga comprade lu per quanto che el ghe le gaveva vendude: diesemila lire. Chi volé, siora Nina, che a Smirne compri zinquemila scarpe tute de pie sinistro? Solo che el Comandante Bogdànovich podeva comprarle, perché, siora Nina, lui a Costantinopoli ga fato la stessa roba, compagna, con zinquemila scarpe tute de pie destro. — Mama mia che truco! E po' el ga messo insieme i peri? — Sicuro: in cesa turca de Santa Sofia, siora Nina, el li ga messi insieme. Che là xe el più grando logo aposito de tuta la Tùrchia per lassar fora le scarpe. MALDOBRIA XXII - IL PALOMBARO Nella quale si narra di quanto accadde nelle acque di Pola subito dopo gli spari di Sarajevo per il prevalere delle direttive tecnologiche della Marina da guerra germanica su quella austro-ungarica e per le esibizioni nautiche di Cuntento di Vallòn al cospetto dell'Ammiraglio Horthy, Comandante in capo della Flotta. — Tanto i dise de 'sti sub, 'sti subacquei! Ma cossa ve xe in fondo i sub, siora Nina? Ve xe quel che una volta ve iera i palombari. — Ah! I balombari... — Ma cossa balombari? Ma chi ve ga imparado a dir balombari? Palombari, se dise. Anche vù sé come Cuntento, quel de Valon. — Chi xe cuntento a Valòn? — Cossa chi xe cuntento e chi no xe cuntento a Valon? Come volé che i ve sia contenti a Valòn che tuta Valòn xe dò caìci, un per de piégore e quatro case. Che quando l'avocato Miagòstovich ghe ga portà a Valòn la prima volta un radio del Dopolavoro i scampava via de paura. Cuntento, intendevo dir, quel nostro Cuntento de Valòn, quel che iera con nualtri in Marina de Guera, che no se ciamava Cuntento. Gnanca no me ricordo come che el se ciamava: i ghe diseva Cuntento perché lui diseva sempre «Mi son cuntento». Capiré, fora de Valon, el podeva ben esser cuntento che almanco el vedeva un poco de mondo. Bon, vardé, me lo gavé propio ramentado, perché lu, come vù, diseva sempre «Mi adesso lavoro coi balombari». — No go dito. — Ma sì, anca vù gavé dito balombari come che diseva Cuntento. Palombari se dise. — Ah, lui lavorava coi palombari? El iera balombaro? — Cuntento, balombaro? Dove podeva esserve palombaro un Cuntento? Ghe vol anca fisico gaver per far el palombaro. Pensévese che solo quel che i se invida atorno dela testa — che va ben che xe quel che pesa de più — ma solo quel pesa no so quanti chili. Per no parlar po' dei stivai de piombo. Cossa Cuntento? Visco, presempio ve iera palombaro. 'Sto Visco ve iera un toco de omo, un dàlmato. Un maciste el ve iera: toco de mato, dò metri, no el trovava mai scarpe, un per de spale de camaleonte, come che ghe diseva sempre Pìllepich... — Ga grande spale el camaleonte? — Ma no, siora Nina, el camaleonte ve xe una bestiuzza, in Sudamerica, massima parte, ma Pìllepich che no gaveva mai visto in vita un camaleonte ghe pareva chissà cossa che xe un camaleonte. Indiferente, ma ridevimo savé in Arsenal de Pola. Ierimo una ganga! — Una ganga de balombari? — Massima parte. Ma mi no: mi no iero palombaro, gavessi podesto, ma no go vossù. Gnanca Pìllepich, gnanca Cuntento. Ma lavoravimo tuti coi palombari apena cominziada la guera, quela Prima ve parlo, in porto militar de Pola. A Pola xe stà subito assai lavor per el palombaro, perché bisognava meter le rede contro i silurenti, contro i sotomarini, che zà i francesi cominciava a vignir. — Cola rede se li ciapava? — Sì e dopo li fazevimo friti in fersora. Ma dài, siora Nina, iera la rede de fero de protezion. Fero! Aciaio, roba dela Skoda de Pilsen, e 'sti palombari calava 'ste rede e pulito le inganzava sul fondai, sui cadenari. Iero anca mi, perché ve iera la barca aposita cola pompa del'aria — a man, quela volta se fazeva tuto a man — e po' ve iera i caìci, apositi caìci, per filarghe i cavi e i tubi del'aria ai palombari co' i andava soto e po' tirarli suso, una roba e l'altra. E tuto ben, insoma, fina che no xe rivadi i germanici. — Coi sotomarini? — Cossa coi sotomarini? Con novi scafandri de palombaro. I ga portado de Germania, de Amburgo propio, 'sti novi scafandri, che no se invidava più el de sora intorno del colo, ma se serava coi galetti. — Che gaietti? — Gaietti po', ma roba germanica. Insoma i ga dà 'sti novi scafandri che tuta l'uficialità dela Marina Austriaca, diseva anzi che caso mai quei iera adatadi per Mar del Nord, che per qua andava ben quei de prima, ma savé, el germanico se imponeva sempre. Indiferente, vù dovè saver che Cuntento no gaveva fato gnanca le popolari e no el saveva né leger né scriver. Tante reclùte iera cussì. Lui giusto saveva far la firma co' el tirava la paga, quela picolezza che i dava. E cussì i lo cioleva via. I ghe diseva che el xe cicio, che no el xe per barca, che el xe de Valon, una roba e l'altra. E lui se inofendeva, savé, sussetibile el iera come. — Eh tanti xe che xe cussì. — Ben, lui no saveva né leger né scriver, ma el diseva che per el lavor, per barca, lui no xe né meo né pezo de nualtri. Forsi più meo che pezo, el diseva. Figurévese che, co' lui iera nel caìcio aposito per filarghe el cavo e la goma del'aria al palombaro e, qualche volta, ghe passava vizin a tuta forza come che l'usava passar el motoscafo del Amiraglio Horthy, lui per far bravure el se alzava in pie, con tute le onde che fazeva 'sto motoscafo e el ne zigava «Aré, aré come che stago in calìbrio!» — Chi, l'Amiraglio Horthy? — Ma cossa l'Amiraglio Horthy in calìbrio? Cuntento ne zigava a nualtri che ierimo nela barca granda dela pompa dei palombari: «Aré, aré, come che stago in calìbrio!» Come dir che lui no cascava con tuto che fazeva onde, che lui iera omo de barca. Bravure. — In calìbrio el stava? E dove xe el calìbrio? — Là dela culàbria, siora Nina! Ma dài, no gavé capido? Lui diseva calìbrio per dir che el sta in equilibrio, in pie, cole onde. No el saveva né leger né scriver e co' el parlava el strambizava. Ben: xe stà quela volta... — Che el ga strambizà? — Sempre el strambizava parlando. Ma xe stà quela volta che xe nata quela roba de Visco. Come palombaro, Visco ve iera primo palombaro. Conossudo, nominado: Visco, chi no conosseva Visco? Ben, un giorno, 'sto Visco el xe in caìcio con Cuntento, Cuntento lo iuta a serarse i gaietti de 'sto novo scafandro germanico, Visco se calùma oltra de bordo e el va soto acqua. E Cuntento ghe fila cavo e ghe sròdola la goma del'aria. Noi in barca granda, logico, pompavimo. — Pompavi via? — Maché pompavimo via! Pompavimo l'aria. E dopo un poco Visco dà, come che se usava, un per de zuconi al cavo per farse tirar suso. El vien suso, giusto el se poza coi brazzi sul bordo del caìcio per montar drento, quando in quela passa a tuta forza el motoscafo del Amiraglio Horthy. E Cuntento, solito suo, se leva in pie e, fazendo sesti el ne ziga: «Aré, aré, omini, come che stago in calìbrio!» con tute 'ste onde che iera. Siora Nina, propio in quel momento 'sto povero Visco ga fato come un moto cola man e el se ga tombado per indrio e po' zò a pico in acqua. Devo dir che Cuntento gà ciapà subito in man el cavo — forza el gaveva, no el iera omo grando, ma assai forza el gaveva nei brazzi — e el lo ga tirado suso subito, lo ga colegado drento del caìcio, el ghe ga molado i galetti. Siora Nina, savé cossa che vol dir blu? Blu el iera. — Cuntento? — Ma no Cuntento, 'sto Visco, povero, e no xe stà né modo né maniera de farlo tornar in sentimenti. E tuti là che ierimo andadi che Cuntento ciamava «Juto, juto che Visco sta mal!» lo gavemo portado in Ospidal dela Marina de Guera. — De Pola? — No, de Néviork! Sicuro che de Pola, siora Nina, se ierimo a Pola. Ben, volé creder? «Prinzipio de asfissia» i ga dito. Tuti 'sti dotori iera là atorno del povero Visco che, me ricordo, i pie ghe vanzava fora del leto tanto longo che el iera. E xe stà barufa anca. — Per via dei pie? — Ma cossa per i pie? Xe stà barufa in Comando de Marina de Guera de Pola, che i nostri ga tornado a dir che 'sti scafandri germanichi no iera adatadi, che i gaietti no iera stagni, una roba, l'altra. Insoma barufa e reclamo a Viena con certificato medico. — Ah! Stava assai mal 'sto Visco? — Se ve go dito: prinzipio de asfissia, tanto che i ga dovesto tignirlo soto ossigeno cola bómbola e el tubo su per el naso e drento dela boca. Bruto. — Eh, co' a mio povero padre i ghe ga dà ossigeno... — Indiferente, dò giorni soto ossigeno. E un dopopranzo, toc toc, bati la porta, chi xe? Xe Cuntento che vien a véder come che stà 'sto povero Visco. — Dove? — In Ospidal Militar, ah, in camereta dove che i lo gaveva messo solo. «Visco mio, come me sté?» E 'sto Visco, povero, ghe fa moto cola man che cussì cussì, perché no el podeva parlar con 'sti tubi del ossigeno su per el naso e drento dela boca. Cuntento ghe dà la man: «Visco mio, istesso me paré meio che no sé più tanto blu!» E 'sto povero Visco col'altra man ghe comincia a far moti, sesti come. «Ma cossa xe, Visco mio, sté mal?» E 'sto qua gemeva come e ghe mostra cola man carta e àpis che iera sul sgabelin. Insoma el ghe fazeva capir che el vol scriver qualcossa. — El voleva far testamento? — Ma cossa far testamento! Che el vol scriver qualcossa, perché no el podeva parlar. E per fortuna che el iera toco de omo, perché el ga rivà a scriver tuto. «Cuntento — el ga scrito — no stéme meter de novo el pie sula goma del'aria!» Bona de Dio che Cuntento no saveva né leger né scriver, perché, per andar a farse leger del dotor 'sta carta, el ga cavado el pie dela goma. Più de una volta 'sto cicio de Cuntento, per far calìbrio in barca, el montava col pie sula goma. Bravure, co' passava l'Amiraglio Horthy. MALDOBRIA XXIII - ADRIATISCHES KÜSTENLAND Nella quale il Litorale adriatico di cui parla Bortolo non è quello di prima della Prima guerra bensì quello di durante la Seconda, quando il coprifuoco non impediva audaci scorrerie notturne, poiché più che il terror potea il digiuno. Ma chi muore, il mondo lassa e chi vive se la passa, come si usa dire dalle nostre parti. — I vol dir che cola prima guera iera più carestia, ma anca cola seconda iera carestia. Ve ricordé, siora Nina, cossa che no se magnava co' iera qua i tedeschi? — Cossa no se magnava? — Gnente no se magnava, soto i tedeschi. «Ognidun ghe piase le sue patate» diseva mio defonto padre, ma lori ne magnava anca le nostre. — Dela prima guera, questo parlavi? — E perché dovessi parlar solo che dela prima guera? Iero zà nato anca co' iera la seconda, savé. E anca vù, mi calcolo, gaveré avudo de bazilar cole tessere. O gavevi oio del torcio dele mùnighe? — Ah, le tessere! Dio quanti ani! Me ricordo, me ricordo: un decilitro de oio i dava, e po' farina de soja, ovi in polvere e formagio Roma... ve ricordé el formagio Roma? — No so mi se se ciamava Roma, ma malta iera... Fortuna che a mi qualche volta formagio me portava Cuntento de Valòn. Questo parlo i primi tempi, perché dopo co' xe vignudi i tedeschi, Cuntento no se ris'ciava più. — A mi me portava una de Dragoséti. — Indiferente. Ve ricordé de cossa che se fazeva caffé, siora Nina? — De orzo. — Ben, quel de orzo e de cicoria se ga fato sempre, anca in tempo de pase; per caffé de cògoma intendo, sbicia. Ma per caffé nero se fazeva de formento brustolà, formentòn anca fazeva qualchedun. Però se trovava, savé. A Fiume e a Trieste se trovava. — Formentòn? — Sì, in Piazza Granda per i colombi! Caffé vero se trovava. Caffé - caffé. Me ricordo che a Trieste iera un caffé rente l'Aquedoto che se andava drento e bastava dirghe «caffé - caffé» che i dava caffé. Vinti lire, pensévese! — Vinti lire? Ma no xe assai. — Ogi come ogi no, ma quela volta... — Iera assai?... — No se pol far un calcolo: iera tuto altro, tuto altre paghe. Pensé che pareva fin bon el pan tedesco. — Se ordinava de fora? — Sì, a Amburgo se ordinava franco Lussin! Ma dài, siora Nina, cossa volevi ordinarghe vù ai tedeschi? El tedesco che iera qua gaveva el pan suo de lu. Dela Sussistenza sua de lori. Ogi a gaverlo chi ve lo magnassi? Ben, quela volta iera tanta carestia che pareva fin bon el pan tedesco. — Savé che no go presente... — Ma dài, siora Nina, iera quel pan grando, greve, nero, garbo anca, però una roba el gaveva: che el gaveva sostanza, perchè i lo fazeva speciale per el militar germanico e po' el durava. Me ricordo che una fetina de pan tedesco con un fià de margherina sora pareva una rarità. Dio che tempi! — Margherina mi dopro anca adesso, misto con butiro. — Sì e oio, aio e persémolo! Ma cossa ciacolé, siora Nina, che ogi xe tuto un altro mondo, tuto un'altra concezion dela vita! Quela volta, ve disevo, una fetina de pan tedesco cola margherina pareva una rarità. Me ricordo sempre de quel che diseva Ante. — Anteo? — No, lui ve iera propio Ante. I parlava croato in casa. Lui diseva: aré qua la mia zintura dele braghe che strenzi, strenzi, son rivado al foro Mussolini! — Per croato el diseva questo? — No, el diseva per 'talian. A casa, disevo, che i parlava croato. Toco de omo che el iera, co' i lo gaveva ciapà dela Tot, el iera rivado al ultimo buso dela cintura. — El iera ciapà dela Trot? Una dona? Inamorado in ela? — Cossa inamorado? Chi gaveva voia de inamorarse co' iera qua i tedeschi? Lo gaveva ciapà quei dela Tot, Organizazion Todt, Servizio del Lavoro, per bater pala e picon qua su, per far fortificazion, che chi sa chi che i calcolava lori che doveva sbarcar! — Ah! Quei dela Todt che fazeva qua su fortificazioni: i tedeschi. E i ghe dava pan? — Sì, una fetina e senza margherina. E una gamela de brodàus: quel ve iera tuto, e bater pala e picon tuto el giorno. Lui veramente no bateva, perché, furbo che el iera, con quel poco, anzi bastanza de tedesco che el saveva, el se gaveva anunciado per interprete. «Zà barlare tedézco?» — i ghe gaveva dimandà. «Zi, zò barlare tedézco» — el contava che el gaveva rispondesto. E i lo gaveva ciolto come interprete. Un rider con lu, el iera un ridicolo. — E vù no ieri dela Todt? — No. Mi pescavo. E po' ghe gavevo dito che gavevo la gamba ofesa ancora dela Prima Guera in Galizia, che quel assai ghe podeva a lori, e cussì me la gavevo scapolada. — E 'sto Ante, no? — Eh no. Ogni giorno ghe tocava andar. De sera i lo lassava vignir a dormir a casa, ma de giorno, ogni giorno ghe tocava andar. E insoma caligo, siora Nina: fame iera. Ve go dito: a lori i ghe dava una feta de pan tedesco e una gamela de brodàus. E 'sto Ante me contava de sera in local de povero Bepin, che a lui ghe fazeva una bile, ma una bile véder inveze 'sto tedesco che iera suo capo, taiarse fete compagne de pan con sora un déo de margherina. — I tedeschi usa assai margherina: anca 'sto istà che ghe gavevimo afitado... — Indiferente. Insoma 'sto capo suo de lu, iera propio un tedesco de Germania, un che tuto el giorno ghe zigava per tedesco. Per farvela curta, un giorno, de sera, che se gavemo trovà in local de Bepin defonto, Ante me conta cossa che no ghe iera capitado quel giorno. Che 'sto tedesco de matina bonora sul lavor se gaveva rabià come un lion perché lui el giorno avanti gaveva dito: «Domani tuta camerata strangùla,» e inveze nissun no gaveva portado i strangulini. — Strangùla? — Sì, 'sto tedesco ghe ciamava strangùla per 'talian, ma iera strangulini: savé quei che se dopra per far busi per le mine. E nissun gaveva portà i strangulini. E alora Ante me conta che 'sto tedesco lo gaveva mandado col càmion in magazzén de lori, che i gaveva fato magazzén de lori dove che prima iera el magazzén del sal, a cior 'sti strangulini. El ghe gaveva dà la carta per andar drento, perché per andar drento ghe voleva la carta: che xe un monturato tedesco fora dela porta, che lui ghe mostra la carta e che el tedesco lo mena avanti. Siora Nina, lui xe restà stupido. — Che 'sto tedesco lo menava? — Cossa che 'sto tedesco lo menava! El xe restà stupido che propio prima del logo dove che iera strangulini, pale, piconi, cariòle, dinamite, iera magazzén de viveri pien fina al plafon. Pan, siora Nina: bon pan tedesco. Struzze, struzze e struzze. E vasi de margherina compagni. — Magazzén de viveri? — De viveri! Pan e margherina, quel che i gaveva, po'. Perché gnanca lori no gaveva tanto, i ultimi tempi. Insoma, in breve, Ante me conta che lui, prima de vignir fora el se ga intardigado in ciàcole con 'sto tedesco, giovine, e che lui vardando ben tuto in 'sto magazzén de viveri, gaveva fato osservazion de una roba: che sul davanti, dela parte del porton grando, drio de un paredo iera le brande dove che dormiva el militar tedesco e sul dadrìo, inveze — là dei strangulini — iera el portonzin del vecio magazzén del sal che iera serà solo per dedentro col cadenazzo e che el finestrin gaveva el vetro roto. «Bortolo — el me dise — mi go pensà tuto el giorno: sul dedrio no xe de gaver paura, basta passar oltra del fil de fero spinà che i ga messo, ma quel no ghe vol gnente: se lo slarga. Dopo, metendo el brazzo drento del finestrin che el vetro xe zà roto, con un fero mi calcolo che se riva a tirar el cadenazzo. Se va drento dove che i tien i strangulini e subito te xe el magazzén dei viveri. Bortolo mio, se mi e ti andemo drento pian pian, per drio, de note, el militar che dormi davanti no pol sentir perché xe el paredo, impinimo un saco de pan, guantémo dò vasi de margherina, e andemo fora. Col fero po' seremo de novo el cadenazzo, un de nualtri passa oltra el fil spinà, quel altro ghe passa el saco, el passa anca lu e via noi coi bori del'oio.» — Anca oio iera? — Maché oio! Se dise per dir coi bori de l'oio. Insoma, me dise Ante che se mi vegno con lu, Bortolo mio, noi gavemo pan e margherina fin che finisse la guera, mi calcolo, perché oramai i gnochi xe col cul per tera. — E sé andadi? — Mi de prinzipio no volevo: e se i ne ciapa? Che no i ne ciapa. Che come se pol? Che basta far pian. Che el saco sarà greve! Che semo in dò. Che per dove vigniremo zò? Per i grémbani. Insoma, siora Nina, tanto el ga dito, tanto el ga fato, che son andado. — Mama mia, de note? — No, de giorno, che ne vedi tuti. Sicuro che de note! E devo dir che Ante iera un omo de corajo, e anca un drito, perché xe andà tuto come che el ga dito lu. Passà el fil spinà, tirà el cadenazzo per de fora, pan e margherina nel saco, serà de novo tuto, fora Ante oltra del fil spinà, ghe passo el saco e passo mi. Ben: no volé, siora Nina, che in quela che mi passo, me tómbolo per davanti e resto ciapà nel fil spinà propio cola gamba ofesa? — Ahi! — Ahi! Xe quel che go zigà anca mi: «Ahi! Ahi!» Un mal, siora Nina, ma propio un mal de zigar sula gamba ofesa. E mi zigavo, zigavo e Ante me fa pian «Sta zito! Zito, che te me svei i tedeschi!» E el me mola un pugno in tei muso che go perso i sentimenti. — Rabià? — Rabià? Mi, zigando, ghe sveiavo i tedeschi per bon. El ga fato ben anzi, che meo de cussì, povero Ante no el podeva far: devo dir che el me ga salvà la vita. Fora dei sentimenti che iero, el me ga tirà fora del fil spinà e el me ga portado a casa in spala zò per i grémbani. Prima el saco e dopo a mi. Salvà la vita, perché pensévese cossa che no saria nato se se sveiava i tedeschi. Ben, volé creder, siora Nina, che dopo, per ani anorum mi no go savesto più gnente de Ante? Perché co' stava per finir la guera lui ga dovesto scampar coi partigiani, savé come che iera. — Eh, bruto iera: mio cognà inveze... — Indiferente. Insoma, siora Nina, iera squasi un vinti anni che iera finida la guera, che una matina bonora, chi ve intivo sul molo? — Ante! — No. Ve intivo sul molo el nostro - omo Salvagno, no so se ve ricordé, che adesso xe imbarcà su una de 'ste barche che fa crocere per Istria e per Dalmazia. E se parla de una roba l'altra e el me dise: «Ti sa chi che go visto adesso che iero a Sebenico?» — Ante! — No. Me dise Salvagno che a Sebenico el ga intivado un dei Filipàs che anca naviga con 'ste barche e che 'sto un dei Filipàs ghe ga dito che el ga visto Ante. «Ante! — digo mi — che xe vinti anni che no vedo Ante, che assai bramassi de véderlo, che el me ga salvà la vita.» E ghe conto. Che dove che el xe. «Uuuh — el me conta — Ante te xe noma che ben! El te xe deventado diretor de hotèl. Che anzi i lo manda nei meio hotèl che i fa e propio adesso i lo ga fato diretor de un novo hotél che i ga fato in Abazia!» — Diretor de hotél in Abazia? — Sicuro. E mi, podé capir, apena che go avudo un giorno franco, go ciolto el vapor dele quatro de matina — che go dovesto alzarme ale tre e meza — e via mi in Abazia. Son rivà che sarà stà le sie, ancora scuro. Giusto che cominciava a far ciaro. E ghe dimando là a un pescador che passava cola casseta del pesse e che andava in pescheria, se el sa dove che lavora un zerto Ante, cussì e cussì. «Ah — el me dise — Ante, el diretor de quel novo hotél, che ghe mandemo el pesse? Vedé quel hotél novo là? Quel.» — El lo conosseva? — No so mi se el lo conosseva. El saveva. Insoma, siora Nina, mi vado in 'sto hotél. Novo, novente, bel, tapedi per tera, cole colone fodrade in pele e dò done che scovava el terazzo, matina bonora che iera. E no ve vedo vignir zò del scalon col tapedo rosso, Ante? Gnente cambià: solo un poco più griso. Tuto ben vestì, con sacheto longo, cravata lustra e braghe a righe che el me pareva l'avocato Miagòstovich co' ghe se gaveva sposà la fia. E alora mi ghe son corso incontro zigando: «Ante! Ante mio! — zigavo nela tromba dele scale — Ante!» E lu: «Sta zito!», el me fa, rabià come. «Zito, che te me svéi i tedeschi!» MALDOBRIA XXIV - UNA LANTERNA DI PRIMA CLASSE Nella quale molto si apprende sul funzionamento dell'imperial regia Fanalisteria che assicurava rotte e approdi sicuri ai naviganti e del declassamento subito sia dalla Lanterna di Punta Sant'Andrea, sia dal suo fedele guardiano Barba Mate dopo l'installazione, poco lungi, di un modernissimo faro ad arco voltaico. — Zerto che ga assai perso Ponta Sant'Andrea senza la Lanterna. Va ben che ancora prima de quando che i tedeschi la ga fata saltar per aria, ghe andava drento solo che le cavre... — In Ponta Sant'Andrea? No me ricordo. — Beata vù che sé giovine, siora Nina! Mi altro che me ricordo. Mi me ricordo ancora de quando che ala Lanterna iera Barba Mate. — Cole cavre? — Maché cavre! Come cole cavre? Chi mai una volta se gavessi azardado a menar cavre in Lanterna co' iera Barba Mate che lui gaveva orto e che el tigniva tuto in massimo ordine, anca dopo che ghe iera morta la moglie, povera. — Chi? La vecia Martinàzinca? — Sicuro, la fia de Martin Ghèrbaz, ma indiferente. Barba Mate iera restado vedovo e senza fioi. — Eh xe bruto restar cussì soli. — Bruto e bel. Perché mi no ve go mai visto un omo più senza pensieri in vita mia de Barba Mate, co' el iera primo fanalista ala Lanterna. Lanterna de Prima Classe iera una volta la Lanterna de Ponta Sant'Andrea, bela, tuta de piera, cola grùa per el caìcio e machina a vapori de spirito. — Machina a vapor, iera? — Sì, con drio el vagon per el carbon! Ma dài, machina a vapori de spirito, l'aparato dela lanterna, che fazeva i lampi e, co' iera caligo, nebia insoma, volendo anca splendori. — Come anca splendori? — Sicuro, perché le lanterne, no parlemo i fari, oltra che lampi pol far anca splendori. Cussì iera propio scrito sul regolamento della Fanalisteria austro-ungarica. Zerto che per far splendori andava assai più spirito. — Spirito de brusar? — No, Spirito Santo. Sicuro che spirito de brusar! E pensévese che i diseva che quando che la Lanterna de Ponta Sant'Andrea fazeva splendori se la vedeva fina del Monte de Ossero co' iera bel tempo. — Ma no gavé dito che la fazeva splendori solo co' iera caligo? — Indiferente, del Monte de Ossero i la vedeva: me ga contado un de Ossero, un Comandante e senza canocial. — No el gaveva canocial? — Come volè che un Comandante no gavessi canocial? Intendevo dir che anca senza canocial se la vedeva. Ga assai perso Ponta Sant'Andrea de quando che no xe più la Lanterna. E quante barche che Barba Mate ga portà in salvamento! — Barba Mate l'andava a salvar lui? — Sì, nudando! Se ve go dito che Barba Mate iera primo fanalista ala Lanterna. Primo fanalista no perché el iera solo che lu, ma propio come grado. «Mi — el diseva sempre — anderò in pension cola pension de Primo Fanalista». E iera qualcossa, savé, soto l'Austria, perché ve parlo ancora de prima dela Prima guera. E le barche quela volta, quele de qua, iera massima parte tute a vela. Ve ricordé el «Cinque Fratelli» dei Nìcolich? — Come no! Me ricordo che co' el rivava dei viagi l'impiniva tuto el molo. Bela barca el «Cinque Fratelli». — Ben, una note, volé creder, el «Cinque Fratelli» che iera un «Cinque Fratelli», barca granda e stagna, che andava fin in Centro America, se ga trovado a pericolar propio qua fora, sula porta de casa, co' se disi el destin. Prima no pareva gnente, solito tempo de siroco, inveze dopo, nùvolo, nùvolo, nùvolo, e caligo. E ga fato un sirocal che ghe ga sbregado un fioco come una cartafina. Ben, se quela volta no iera la lanterna de Ponta Sant'Andrea che fazeva splendori, mai el Comandante Nìcolich — el ga dito propio lu — mai no el gavessi intivado l'imboco per vignir in porto e el gaverìa fato la fin del povero padre de Tonissa Tomìnovich. Co' se disi el destin: vignir fina del Centro America e po' perderse qua subito fora, davanti. — Ah, el se ga perso, povero? — Se ve go dito de no. Lu coi splendori che ghe fazeva Barba Mate, el ga intivado l'imboco e pulito el se ga armisado al molo, che sarà stà le tre ore de note e un sirocal che no ve digo. Che anzi de matina Barba Mate, che usava sempre andar marinavia fina al molo, el ga visto che ghe vigniva incontro propio Sior Nicolò Nìcolich tuto soridente. «Barba Mate — el ga dito — mi stanote, senza de vù, me vedevo e no me vedevo. Perché capivo che iero vizin, ma gavevo teror de darghe drento ai scoi dela Colombera. Fortuna che nel caligo tutintùn go visto la lanterna che lampava». «Lampava? — ghe ga dito Barba Mate — mi stanote no go miga fato solo che lampi. Go fato splendori! Che me xe andade squasi do latte de spirito». — Latte de spirito? — Sì, latte de fighi! Dò latte compagne, piene de spirito, ghe xe andade per far splendori. E cussì: «Vignì, vignì — ghe ga dito Sior Nicolò a Barba Mate — vignì, Barba Mate a bordo che ve fazzo zercar un rum bianco de Jamaica che go portà de Jamaica de contrabando». Savé, iera una rarità qua el rum bianco de Jamaica, perché massima parte qua el rum, fazeva le done a casa col estrato. — Sì, come no! Fazzo ancora. Bonissimo vien... — Indiferente. Quel ve iera rum bianco vero de Jamaica, quel che i ghe dava ai marineri inglesi sule barche de guera inglesi: zinquanta gradi. Che bisognava béverlo tuto de un fià. Liquor de stòmigo, diseva sior Nicolò, opur col'acqua calda. Savé, questi che più in antico navigava per l'Atlantico, saveva 'ste robe. No ve digo 'sto Barba Mate: «Che bon, che bon che xe 'sto rum bianco de Jamaica». Ben, volé creder, apena che ga fato scuro, Sior Nicolò con un mariner ghe ga mandado col caìcio fina in lanterna una cassa de rum bianco de Jamaica a Barba Mate. Dòdese butilie, una dozena, perché i inglesi fa tuto a dozene. E savé cossa che ga fato Barba Mate? — El se ga imbriagado. — No. Lui ga pulito sconto 'sta cassa in un casson, ancora el casson del coredo della vecia Martinàzinca, povera defonta, e el ghe contava a tuti in paese che Sior Nicolò Nìcolich, per contracambio, come, dei splendori de quela note, el ghe gaveva mandado dòdese butilie de vero rum bianco de Jamaica de contrabando. Anca a Rimbaldo el ghe gaveva contado, che iera Finanza. «Dòdese butilie de vero rum bianco de Jamaica, de contrabando!» Per fortuna che Rimbaldo iera un bon omo. «E savé cossa — ghe diseva a tuti Barba Mate — savé cossa? Mi de qua e un ano e mezo vado in pension cola pension intiera de Primo Fanalista, perché farò setanta ani; e pel mio setantesimo faremo tuti una granda tavolata e beveremo rum bianco de Jamaica. Savé come che se beve el rum bianco de Jamaica? O se fa un sluc tuto de un colpo o col'acqua calda. Zinquanta gradi el ga». — Ah, setanta ani el gaveva? — No ancora. L'ano dopo, dopo un ano e mezo. A setanta ani quela volta se andava in pension, miga come adesso che a sessanta zà i li manda via e dopo li vedé al molo come persi che i se pìndola e pàndola a spetar el vapor. Barba Mate, inveze, iera l'omo più contento de 'sta tera. — Contento de 'ste butilie? — Indiferente le butilie. Lui iera contento de esser Primo Fanalista in una Prima Lanterna e per lu quel de Tibidabo xe stado un bruto colpo. — Un colpo de tibidabo? — Ma cossa strambizé, siora Nina? Cossa xe un colpo de tibidabo? Xe stà che el Governo Maritimo de Pola ga decidesto de far un faro a Punta Tibidabo. Col eletrico. Faro propio, no lanterna: el faro de Ponta Tibidabo. E capiré, con un faro col eletrico a Ponta Tibidabo, la lanterna de Ponta Sant'Andrea podeva servir ancora come segnal de imboco de porto, ma come lanterna no ocoreva più. — Ah, i ga dado ordine de distudarla? — No, i la ga tignuda come segnal de imboco de porto: lampo picolo. Dove più splendori! E al faro novo de Ponta Tibidabo i ga messo un boemo, fato vignir de Pilsen, che là iera la Skoda che fazeva 'sti aparati, con tuta la famiglia. Ve dirò: Barba Mate dopo de 'sta roba, ve iera assai avilido. «L'ultimo ano e mezo quei malignazi del Governo Maritimo ga volesto farme 'sto sprezzo». Che inveze lori, propio per no volerghe far un sprezzo, i lo lassava in Lanterna fin che l'andava in pension a far lampo piccolo. — Ah, el fazeva sempre el lampo? — Sì, ma lampo picolo, de imboco de porto. Ve go dito: dove più splendori! E anca i ghe dava meno spirito, per forza. Una latta ogni mese i ghe portava. «Ma no fa gnente — el diseva — che i fazza quel che i vol. Tanto al Governo Maritimo de Pola no i ga mai capisto una madona. Come che i fa i sbalia. Meno mal che de qua a oto mesi — oramai solo oto mesi ghe mancava — mi vado in pension cola pension de Primo Fanalista. E per el mio setantesimo faremo una granda tavolata e beveremo tuti vero rum de Jamaica, quel che i ghe dà ai marineri inglesi sule barche de guera inglesi! De contrabando!» A Rimbaldo che iera Finanza, el ghe diseva. — Ma xe morto Rimbaldo! — Sicuro che xe morto Rimbaldo! Xe morti tuti oramai, cossa me vignì fora con 'ste malincunìe! Ben, una note che Barba Mate iera là in lanterna, sentado in terazzo che el se fazeva un spagnoleto, ga comincià a lampar. — La Lanterna? — Sicuro, la Lanterna fazeva picolo lampo, come che i ghe gaveva ordinado, ma lampava rente Ossero, lampi iera e tonizava. Una bruta calada; minaciava insoma. E Barba Mate ga dito solo si stesso: «Cossa che minacia! Minacia fortunal propio stasera che in Deputazion de Porto i me ga deto che dovessi esser de ritorno del viagio el «Cinque Fratelli» de Sior Nicolò». El se rodolava 'sto spagnoleto e sempre più minaciava. E scuro e quel mar fermo, bruto, che xe pezo de tuto. — Minaciava? — Come no! Lampava, tonizava e xe vignudo anca un poco de piova. E scuro fondo zà che iera, se vedeva montar su el caligo. «Qua, se torna Sior Nicolò — diseva Barba Mate solo si stesso — con tuti 'sti lampi e 'sto caligo che monta, dove el vede el lampo picolo? Qua ghe volessi splendori, ma chi pol far splendori con una unica latta de spirito che go, e anca quela nezada? Cossa fazzo, cossa no fazzo?» Cussì tuto el se cruziava. — E cossa el ga fato? — Speté, speté. La matina dopo, che iera rivado ale tre ore, tre e meza de note el «Cinque Fratelli», Barba Mate xe andà marinavia al molo e el vede sentado a bordo che fazeva marenda Sior Nicolò Nìcolich. «Viva — el ghe fa — bruto ah iera stanote, Sior Nicolò! Bruto ve iera». E Sior Nicolò: «Eh, sì bruto iera, Barba Mate, minaciava. Per fortuna che dopo el fortunal ga girado drio del Vélebit e no ga fato gnente. Ogni modo, Barba Mate, fin de lontan lontan go visto subito el lampo dela Lanterna de Ponta Sant'Andrea. Stanote gavé fato più che lampi, gavé fato splendori, mi calcolo». — Splendori? — Sicuro che iera splendori, siora Nina, e che splendori! Miga ogni giorno no se vedi una lanterna che va avanti a vapori de rum bianco de Jamaica. Dòdese butilie ga doprado Barba Mate, tuta la cassa, tirada fora del casson dela vecia Martinàzinca. MALDOBRIA XXV - LA NOTTE DEI LUNGHI COLTELLI Nella quale Bortolo, ricordando i tempi in cui intensa era l'introduzione nelle terre adriatiche di cineserie e giapponeserie da parte dei marittimi, racconta la storia dei Capitani Ossòinak e Vìdulich, appassionati raccoglitori di lame da karakiri nei loro viaggi a Kobe. — Savé vù quel scherzo ridicolo che fazeva sempre el Comandante Ossòinak? Lui co' se trovava con uno, disemo un Vìdulich, che i iera assai amichi, tutintùn el ghe dimandava: «Vìdulich, come i ghe ciama, che no me ricordo più, al Imperator del Giapon?» E Vìdulich ghe rispondeva: «Mikado». «Ah! Mi cado, bon, alora ciàpite per qua» — ghe diseva Ossòinak fazendoghe sesti. Anca col casco l'usava. — Come col casco? — Sì, Abissinia iera quela volta, e lu ghe dimandava: «Vìdulich, come i ghe ciama, che in 'sto momento no me sovien, quel capel de suro che ga el militar in Africa?» «Casco!» — ghe rispondeva Vìdulich. «Come?» «Casco!» «Bon: ciàpite per qua!» — Per qua, per dove? — Per là, insoma. Scherzo de omini, oh dio, ordinario un poco. Però iera un rider con Ossòinak! Ma che ve disevo del Mikado, no ve digo cossa che no iera una volta el Giapon! — Bel? — Bel quel xe sempre. Ma cossa che no iera, disevo, calcolà lontan. Una volta un che tornava de Giapon pareva che el tornassi de no so dove. Adesso, inveze, go leto su un ilustrato che se va come gnente: in aroplan, hotél compreso, quindese giorni, per poco per gnente: un milion gnanca. — Orpo! Un milion! — Siora Nina, cossa volé che sia ogi un milion? A gavéndolo. Mal xe a no gaverlo, gavéndolo no xe gnente. Iera per dir che una volta el Giapon pareva chi sa cossa. — E inveze no iera? — Altro che iera! El Giapon iera nominado, sempre. Solo per dirve che, adesso, ogi sé qua e diman matina bonora sé a Kobe. Che bel che iera Kobe! Ben, che ve disevo de Ossòinak: quela volta che fazevimo la linia de Kobe, lui gaveva ciapà su quela manìa dei cortei de karakiri! — Cortei? Processioni, come? — Cossa processioni, che i Giaponesi ga la sua religion! Cortei per dir un cortel. De karakiri. No. savé cossa che xe el karakiri? Karakiri xe quela roba che se fa i giaponesi co' i ga un dispiazer. Madama Buterflai, po': al ultimo ato, co' ela se inacorzi che lui la ga ilusa, la se fa karakiri. — Ah karakiri! Che ela mori col picio! — No el picio no mori, ela fa karakiri e co' lui vien drento ela xe zà morta: belissimo. Ma ve disevo che el Comandante Ossòinak fazeva de ani anorum la linia de Kobe. — In Giapon? — No: ale Boche de Cataro! Sicuro che Kobe xe in Giapon se fazevimo la linia de Kobe per Giapon. E là una volta i lo gaveva inzinganado de comprar un cortel de karakini. Gran maravée che i gaveva fato a Volosca co' el iera tornado — lui gaveva la vila a Volosca, belissima vila, in marinavia — e tuti: «Pòrtime un anca a mi! Pòrtime un anca a mi!» Savé, per taiacarte o per impicar in tinelo. Insoma el gaveva comprado diversi e cussì, per farvela curta, el gaveva incominciado a far la racolta. — De cossa? — Ma dei cortei de karakiri! De quei che se se taia la panza in Giapon, siora Nina. — Mama mia, che impression! Mi no farìo mai. — E chi ve domanda un tanto? E po' vù no sé miga Samurai. Solo i Samurai, che sarìa i nobili del Giapon, come che noi gavevimo Arciduchi, quei del Sangue, solo quei podeva far karakiri. E le mogli. Per quel 'sti cortei iera bei, con tuto scrito e ornà per giaponese del mànigo fin la ponta. Mi li go visti, savé, propio un lavor de pazienza. — Ahn! — Inutile: le manìe se le ciapa su un del altro e quel Comandante Vìdulich che ve disevo, che quela volta el iera Primo Ufizial, el se gaveva messo a far anca lu. — Karakiri? — Karakiri no se pol miga meterse a far, se fa e basta. Racolta de cortei de karakiri el fazeva: perché anca lu fazeva viagi per Kobe col Comandante Ossòinak. El Comandante Ossòinak stava a Volosca, in quela sua bela vila che ve go dito, e lui inveze stava a Fiume. Insoma, ogni viagio a Kobe e a Yokohama, lori no iera gnanca zò dela biscaìna che i andava in batuda de cortei de karakiri. E i se fazeva la rifa. — Coi cortei? — Ma no: i fazeva a chi che comprava più bei cortei. La rifa. Dovè saver che el Comandante Ossòinak in vila sua a Volosca gaveva un armer, coi vetri fora, belissimo, pien de cortei de karakiri. E Vìdulich, inveze, li gaveva impicadi in tinelo. E anca in àndito, tanti el gaveva: quartier picolo. E co' i vigniva in local, iera un teatro che no ve digo. «Mi go trentasie!» diseva Ossòinak. «E mi quarantaun!» «Sì, vù gavé quarantaun, ma mi go dò col mànigo de osso, che i me dassi diese dei vostri per quei dò, e cussì mi go quarantasie!» — I se sbarufava? — No sbarufarse! I se stuzigava, i se cojonava un col altro. Insoma, per contarve, dovè saver che el Comandante Ossòinak fazeva vintizinque ani de matrimonio e giusto la barca iera ferma per piturazion in Arsenal a Fiume. Cussì, una roba e l'altra, che lori farà viagio de nozze de argento. — Ossòinak e Vìdulich? — Ma come Ossòinak e Vìdulich nozze de argento? Ossòinak cola moglie sua de lu, che i iera sposadi de tanti ani ma senza fioi. E insoma el me dise: «Bortolo — mi fa mi dice — noi andemo a Venezia per l'aniversario e visto che la barca xe in piturazion, mi te tegno istesso come imbarcado, ma ti ti me devi star in vila. No me piase lassar la casa sola per tanto tempo!» Che pol vignir i ladri, che i ghe pol portar via i cortei, perché quel iera el più de tuto per lui. E vardé che el gaveva tanta bela roba in vila: tavolini de lacca, vasi de China, Buddi. Ma per lui gnente ghe valeva i cortei, guai chi che tocava un cortel. — Che no i se tài? — Ma cossa che no i se tài, che no i gaveva fioi! Lui iera appassionado. Insoma el me dise: «Te lasso tuto in man, ti ti xe in paga e ti ti devi risponder, te racomando e mi vado a Venezia.» E i xe andadi. — E vù stavi in vila a Volosca? — Sicuro. Ma gavé mai visto vù cossa che xe Volosca de inverno, con 'sto Monte Magior che no xe mai sol? Mi, tempo dò giorni, siora Nina — vintizinque ani gavevo — iero come se fussi stado a Trieste ai Gesuiti. E bramavo de andar a Fiume che no ve digo, che là gavevo amichi, tuti 'sti dalmati, 'sti istriani, 'sti piranesi, maritimi massima parte, che se se trovava in local, a far marenda, a béver. E cussì go pensado: mi sero la vila e vado a Fiume. Ma subito me xe vignudo el scrupolo dei cortei. «Orpo — go dito — se vien i ladri e i ghe roba i cortei, el me fa cavar la matricola, come che sempre me gaveva pronosticà Barba Nane.» E cussì go pensado: mi vado via e porto con mi i cortei. Se i cortei no xe più là, chi li roba? Nissun. — E sé andà a Fiume coi cortei? — Sì, in valisa. Ve ricordé quele valise come che adesso ga ancora le levatrici, che iera una volta? Ma rivà là me xe vignù un altro scrupolo: «E se intanto che son fora de casa — perché a Fiume stavo de mia sorela sposada col nostro-omo Pìllepich, che lui navigava e ela andava sempre in cesa — se intanto che son fora de casa i me roba i cortei?» E cussì, savé cossa che go fato? — Li tignivi con sé! — Sì, trentasie cortei: per andar in dispiazeri! Li go portadi al Monte. — Che Monte? — Siora Nina: el Monte de Pietà. Dove xe più sicura la roba che al Monte de Pietà? Là i ga casseforti, i ve dà la boleta, la sovenzion. Po' basta presentarghe de novo la boleta, tornarghe i soldi e i ve dà i cortei. — Impegnar, come? — Sì, li go impegnadi, ma no per impegnarli: perché i staghi in logo sicuro. Dopo, go pensà, li ciogo fora, torno a Volosca, li meto de novo in armer, prima che torni el Comandante Ossòinak. — E gavé fato cussì? — Cussì gavessi volesto, ma quela sera gavemo fato la scomessa del litro. — Gavé scomesso un litro? — No, siora Nina. Mi, el nostro-omo Dùndora, Marco Mitis e Nini Santospirito, che i ghe diseva, gavemo fato a chi che riva a béver un litro de trapa. — Un litro de trapa in quatro de lori? — Cossa in quatro de lori un litro de trapa? Cossa volé che sia un litro de trapa in quatro de lori? Un litro per omo. E go vinto mi. Solo che co' me go sveià iero zà in frenocomio. Anca el giornal de Fiume gaveva messo l'articolo: «Vince la scommessa, ma perde la ragione.» E mi iero quel. Che po' no iera vero, perché mi me go ricordado subito, apena sveià, del Monte. E anzi ghe disevo al dotor: «Devo andar al Monte!» «Al Monte Magior?» — me dimandava el dotor. E mi: «No: al Monte. Devo andar a cior i cortei.» «Sì, sì — me diseva la mòniga, la suora insoma — al Monte de Tersato che la Madona ve farà la grazia!» «Ma el karakiri!» — disevo mi. «Sì, sì, bravo, el karakiri» — ga dito el dotor; e i me ga ligà sul leto. — I ve gaveva ciapado per mato? — Mato de ligar, siora Nina. E ligà iero. Che po' a mi me ga contà tuto dopo Marco Mitis. — Che i ve ga ligado? — No, no, quel savevo solo che iero ligado. Mi no iero miga mato. Marco Mitis me ga contado che el xe andado col Comandante Ossòinak e col Primo Ufizial Vìdulich al Monte. Perché intanto che mi iero ligà, el Comandante Ossòinak iera tornado cola moglie de Venezia col vapor e iera sbarcadi a Fiume. E là, sul giornal el ga leto l'aviso che come dopopranzo al Monte iera un incanto di Coltelli rituali da karakiri giapponesi autentici. Perché, savé cossa che iera nato? I cortei mi li gavevo impegnadi solo che per tre giorni e dopo tre giorni i iera andai al incanto. — E Ossòinak e Vìdulich xe andadi al Monte? — Sicuro, siora Nina.E Marco Mitis me ga contà che, ogni cortel, iera lota a cortei fra Vìdulich e Ossòinak. «Vinti corone!» «Quaranta corone!» «Vintizinque fiorini!» Perché, capì, Ossòinak, de lontan, senza ociai, no el podeva distinguer che iera i sui. — E Vìdulich sì? — Ma gnanca! Cossa volé! I cortei de karakiri xe tuti compagni: un mànigo e un cortel. Quei col mànigo de osso xe andadi più su, perché Ossòinak voleva averghene quatro e Vìdulich almanco dò. Siora Nina, i ga speso bastanza per farse la rifa un col altro, squasi un mile corone. E vinti ga comprado Ossòinak e sédese Vìdulich. Per forza: trentasie, iera. Contenti, imborezzadi co' i xe vignudi fora del Monte, massime Ossòinak che ghe ne gaveva compradi vinti. — Ah, più de Vìdulich? — Sì, ma dopo, co' el xe tornado a casa, in vila a Volosca e el se inacorto che l'armer iera svodo e che el se gaveva comprado i cortei sui solo si stesso, in dò i ga dovesto tignirlo, sua moglie e Vìdulich. Karakiri el voleva farse, con quel col mànigo de osso. MALDOBRIA XXVI - SERBIDIÒLA Nella quale torna una tipica parola cantabile delle Vecchie Province in cui le prime sillabe dell'inno «Serbi Dio l'Austriaco Regno» si contraevano bizzaramente, salva restando la solennità della musica di Franz Josef Haydn che, come fiamma, erompe improvvisa nel concertato finale del racconto di Bortolo. — Sbàtola, graziando Idio go sempre avudo e sempre me ga servido; eben vù no crederé, siora Nina, che mi, de cratura, iero tartaia, un periodo. — Tartaia vù, sior Bortolo? — Un periodo. Mi gnanca no me ricordo, ma me ricordo che mia madre povera defonta la me contava che mi de picio co' contavo la Sacra Scritura disevo: «E alora A-a-a-damo ga dito...» — Cossa? — Ma cossa ve importa cossa che ga dito Adamo? Disevo che mi disevo «A-a-a-damo ga dito». Dopo però devi esserme passà: perché mi no me ricordo. Tuti i fioi passa quel periodo, ma qualchedun ghe resta. Zaneto, presempio. Ve ricordé el vecio Zaneto? Ben mi me lo ricordo ancora co' el navigava... — Zaneto de Micél? — No quel xe morto giovine, insoma ancora giovine. Questo ve iera Zaneto dela Lanterna, che el stava là dela Lanterna e che el iera nònzolo un periodo. Bon, lui sempre el ga tartaià in vita, solo che, fin che el navigava, no se fazeva tanto osservazion. — No i ghe fazeva osservazion? — Cossa volé farghe osservazion a un tartaia? No xe miga colpa sua. Xe che co' el navigava, ancora prima dela Prima guera, no se osservava tanto perché lui, dovè saver, el iera imbarcado su quele picole barche dela Ungaro-Croata che fazeva queste picole linie qua: lu fazeva Cherso, Lussin, Selve, Ulbo, Zapuntélo, Porto Jàz — tocata facoltativa iera me ricordo — Isto, anca Isto tocava, sì. Ben, ve iera 'ste picole barche per passegeri e lu i lo tigniva su in coverta che no el gabi tanto de gaver de far col passeger, propio per quel che lui iera come impedido nela parola. Xe che anca, mi go sempre fato osservazion, lui se intimidiva, come. Perché se el gaveva de parlar con mi, con gente che el iera in confidenza, un don Blas, presempio, no iera quei orori, ma se iera un foresto, lui propio no el podeva, me ricordo: el strucava i oci e adio che te go visto. — Impedido nela parola? — No impedido. Tartaia, ve go dito. Ma po', savé, a bordo lui ve iera un bravo mariner, no el gaveva de far discorsi con nissun e come che lui butava la zima de prova al molo, pochi saveva butarla come lu. Gavé osservà che adesso, più de una volta, la zima va in acqua fra el vapor e el molo che xe cussì bruto de véder, che dà quel'aria de poco amor? Bon, lui iera bravissimo: in man, me ricordo a Lussin, el ghe la butava al vecio Barba Mate Pessimòl. — Ma qual Pessimòl? El padre o el fio? — Indiferente, Barba Mate Pessimòl. Po' in fondo, a bordo, per regolamento de Marina mercantil, soto l'Austria, el maritimo de bassa forza no doveva mai rivolgerghe la parola al passeger. Solo se interogato e con rispeto. E «Sissignor» el doveva dir, massima parte. E, capì, dir «Sissignor», anca per un che no xe tartaia xe come se el fussi. Ben, volé creder che una volta che iera sirocal, che no xe pezo che el siroco per quei che tartaia, i iera fermi cola barca a Porto Jàz che i gaveva fato tocata facoltativa, e 'sto Zaneto povero iera a prova che meteva in ordine i cavi. E là, cussì come che se usa, ghe vien rente un passeger, papà e fio, una cratura de quatro ani. E 'sto padre ghe dimanda a Zaneto a che ora che i partirà. E Zaneto se ga subito intimidido come. El strenzi i oci e el ghe fa: «Co'-co'-man co'-co'-manca un qua-quarto ale quatro!» «Ah bon» dise 'sto passeger papà e fio, e i va via. — Rabiadi? — Ma perché rabiadi? I va via. Solo che, dopo gnanca zinque minuti, i ghe torna là rente e de novo i ghe dimanda a che ora che i partirà. E 'sto Zaneto, stupido e intimidido, podé capir, torna a dirghe: «Co'-co'-man co'-co'-manca un qua-quarto ale quatro.» E via lori. E dopo un fià i torna. E de novo i ghe dimanda a che ora che i partirà. E cussì un per de volte. Fin che 'sto Zaneto, con tuto el rispeto — perché con rispeto bisognava risponder — el ghe dise che tante volte el ghe ga zà dito che se parte co'-co'-man co'-co'-manca un qua-quarto ale quatro! E 'sto padre ghe dise che sì, che lui ga capido, ma che el picio tanto se diverte con 'sto co'-co'-man co'-co'man. Savé, i fioi, a bordo se stufa. Ben, indiferente, tanto per dirve, cussì, come che iera 'sto Zaneto, povero. — E po' xe partì el vapor, co' mancava un quarto ale quatro? — Ma cossa volé che mi sapio se quela volta i xe partidi co' mancava un quarto ale quatro de Porto Jàz, che po' iera tocata facoltativa. Iera per dirve de 'sto povero Zaneto. Che po', se dise povero, però lui ga fato tuti i sui ani de navigazion che ghe competeva. Solo che co' i lo ga sbarcado, iera misere le pensioni quela volta. E misere che iera 'ste pensioni — una picolezza — lui zercava de iutarse, de inzegnarse de qua e de là. Iera un bon omo e sempre i lo ciamava de qua e de là per qualche lavoreto. — Ma mi me lo ricordo che el iera nònzolo in Domo... — Sicuro, ma cossa volé che ghe podessi dar el Domo? Don Blas lo iutava, ma anca lui una picolezza. Perché, in prinzipio lui solo scovava la cesa, impizzava e distudava le candele, l'andava in giro cola borsa col baston, quela dele limòsine e basta. «Perché, Zaneto mio benedeto, ghe gaveva dito don Blas, vù nele vostre condizioni no podé risponder messa.» — No el saveva? — No, no; per saver, el saveva. Lui iera assai divoto. Lui se gaveva votado una volta che i pericolava a Zapuntélo — che là xe bruto perché fa anca corente — ala Madona de Tersato el se gaveva votado. E lui risponder messa el saveva. Solo che el iera impedido nela parola, ve go dito. E xe stà quela volta che una dimenica che Nini Longo che rispondeva messa se gaveva malà — malaria el gaveva, ciapada in China — che Don Blas, capì, al ultimo momento, ghe ga dito «Va ben ah, Zaneto, rispondere vù come che poderé e el Signor Idio ve aiuterà.» Ben, siora Nina: vù no me voleré creder, ma xe stà... — Un miracolo? — No, miracolo no, ma, dimenica che iera e messa cantada, come che Don Blas la prima volta se volta per dir «Dominus vobiiiscum», Zaneto ghe rispondi pulito cantando: «E cum spirito tuoooooo». Perché, siora Nina, i tartaia, quando che i canta, no i tartaia più. Anca più de un dotor ga fato osservazion. E Zaneto per tuta la messa, ga risposto messa benissimo cantando, che po' el gaveva anca bela vose. El Sursum Corda, el Credo, el Gloria, el Santus: tuto quanto, che tuti in Domo iera stupidi. — Miracolo dela Madona de Tersato! Anca una putela che gaveva el mal de San Valentin... — Indiferente. No miracolo: i tartaia co' canta no tartaia. E Zaneto, dopo de quela volta, anca le messe basse, anca la messa dele sie de giorno de lavor, lui rispondeva sempre cantando; che cussì ogni giorno in Domo iera messa cantada e le vece iera tute contente. — Ah bel, anca de giorno de lavor, messe cantade... — Sì, siora Nina. E Don Blas ga pensado — el gaveva parlado anca col dotor Colombis — che forsi 'sto Zaneto se podeva far che no el tartaiassi più con un'improvisata. — Come con un'improvisata? — Sì, con una roba al improviso, fazendoghe ciapar al'improvista un grando spavento. El dotor Colombis ghe gaveva propio dito a Don Blas che qualche volta questi tartaia con un spavento ghe passava. — Un spavento come? — Speté, no, speté che conto. Don Blas ga fato in modo e maniera che una sera, che iera zà scuro, el ciama Zaneto, el ghe dà un bilieto chiuso in sopracoperta e el ghe dise: «Zaneto, xe una roba de premura. Vù dovè andar a portar subito 'sta letera al maestro Girardeli. Che xe premura.» — Per farghe spavento? — Ma cossa volé che questo ve sia un spavento, siora Nina? Questo iera apena el prinzipio. Perché el maestro Girardeli, ve ricordé dove che stava el maestro Girardeli? El stava oltra dela Lanterna, in malora sua, squasi là dei Alberoni e per andar a casa sua de lu se doveva passar davanti del zimiterio. Capì? Scuro che iera, passar davanti del zimiterio, zà no iera bel. E Don Blas, furbo, xe andà presto su per Draga — bone gambe gaveva Don Blas — el xe andà su per Draga taiando su per i grémbani la strada e el se ga sconto drio dela porta del zimiterio. E co' passa Zaneto davanti del zimiterio, 'sto Don Blas, cufolado drio de un fighér, el ghe ziga con vose de morto come: «Zaneeeto! Zaneeeto!» — Mama mia! E Zaneto? — E Zaneto ghe ga dito: «S-son qua, s-son qua d-don B-blas!» Gnente, ah, no ga servì. — E don Blas? — Cossa volé? Don Blas xe vignù fora e el ghe ga dimandado se el ghe ga portado la letera al maestro Girardeli. Iera omo de corajo Zaneto, lui gaveva solo questa che el iera cussì, come impedido nela parola. Ma mal el tirava avanti, siora Nina: mal, pension misera e don Blas che ghe dava quel che el ghe podeva dar, una picolezza. El se gaveva fato scriver una suplica a Viena, ma de Viena i ghe gaveva rispondesto che lui ga la sua pension e che non vedono come. Vedé, anca quela volta i fazeva malamente qualche volta. Insoma lui per tirar avanti, che el doveva pensar anca ala sorela puta vecia che el gaveva, el gavessi avudo bisogno de qualcossa de più. — Eh 'ste ragazze, se no le se sposa subito, dopo le resta pute vece. Mia cognada... — No ga importanza. Un bel momento xe vignuda l'ocasion de Sior Giovanin Millevòi. — Che el ga sposado 'sta sua sorela? — Maché sposado la sorela de un Zaneto! Dove un Giovanin Millevòi se gavessi degnado: lui iera un possidente, lui gaveva mulin, campagne, barche, tuto. E in più el ga avudo la furbizia che, al momento giusto, el ga fato qua Deposito de Legnami, che dopo ghe ga rendesto el rendibile. Ve ricordé? — No. — No, no podé ricordarve, perché el ga tignudo pochi ani. Ma ghe ga rendesto el rendibile. Iera propio in riva, vizin del Governo Maritimo. — Magazzén? — No magazzén. Cossa ocore, per tavolame, magazzén? Iera fato giusto un riparo che no ciapi piova propio diretamente el tavolame, e basta. No iera spese, solo guadagno. E personal poco: giusto i scarigadori co' ghe rivava le barche — che po' iera i soliti scarigadori de porto — se pol dir che no ghe ocoreva lavorenti sui, quela xe stada la sua furbità. Solo, capì cossa che nasseva? Che, de giorno, per forza in riva che iera, nissun podeva portar via gnente, ma de note spariva tole: tavolame. E cussì, Sior Giovanin, ga pensado che el doveva almanco tignir un guardian de note. «Chi meo che Zaneto, che ve xe un omo che ga corajo — ghe ga dito don Blas — e po' el ga tanto bisogno!» «Va ben, don Blas, che el vegni de mi, a parlar, come diman de matina bonora.» — E el lo ga ciolto, povero? — Speté, speté. Zaneto xe andà su in casa de Sior Giovanin Millevòi — bela casa che i gaveva con dò pergoli — e che bongiorno, che écolo qua, che d-don B-blas lo-lo-lo g-gamandado. «Sì — ghe dise Sior Giovanin Millevòi — so, so: mi anca ve ciolessi come guardian de note. Ma — no stéve inofender, Zaneto mio — ma vù, con quela parola un poco impedida che gavé, no so se me sé adatado...» Cossa ghe entra, ghe ga dito Zaneto, che lu no ga miga de far discorsi cola gente: «Mi go solo de star atento che de note no i ve p-porti via le-le-le... el tavolame!» «Dacordo per questo, Zaneto mio — ghe dise Sior Giovanin Millevòi — ma metemo l'evenienza, disemo per dir che, no so, ciapi fogo el Deposito, vù con quela parola impedida che gavé, fin che rivé a dar vose, me se brusa tuto.» «Ah no, no!» — ghe dise Zaneto — che el lo gaverà pur sentì cantar in cesa, che lu co' canta, no el tartaia, che lu ga vose forte e che, in quela evenienza, el podessi zigar cantando: «Ga ciapado fogo el legno!» E subito el ghe ga cantado «ga ciapado fogo el legno» come che se cantava quela volta Serbidiòla. — Serbi Diola? Una cantante? — Ma cossa una cantante Serbidiòla? Serbidiòla: «Serbi Dio l'Austriaco Regno, guardi il nostro Imperator...» che noi dele vece province se gavevimo tuti imparado a cantar fin de fioi a scola, ale Popolari. — Ah, Serbidiòla, che se cantava ale Popolari! — Sicuro. «E va ben — ghe ga dito alora Sior Giovanin Millevòi — se xe cussì, pulito». E el lo ga ciolto. — Come guardian de note? — Come guardian de note, sì. E tuto ben. Iera omo de corajo Zaneto. Nissun se azardava de portar via tavolame. Solo che una note — forsi che qualchedun ga butà passando el spagnoleto, forsi anca invidia, vendeta, chi pol dir — fato si è che a mezanote, mezanote e meza, Zaneto se inacorzi che comincia a vignir fumo e spuza de brusà fora del Deposito de Legname. — Mama mia! Vendeta? I ghe ga dà fogo per vendeta! — No so: ve go dito che no se ga mai savesto perché. E 'sto Zaneto povero, nissun che no iera per Riva a quel'ora, el core in caserma dela Finanza de Marina, che iera drio dela Ponta — che lori gaveva le mànighe del'acqua — el ghe bate sula porta, el va drento, el trova quatro de lori de guardia, che zogava carte bevendo e el ghe canta con tuto el fià che el gaveva: «Ga ciapado fogo el legno...» E 'sti qua, un rider: i se leva in pie coi biceri in man e i ghe risponde, cantando anca lori: «Guardi il nostro Imperator!» Siora Nina, co' Sior Giovanin Millevòi che gaveva visto el fogo, alto oramai, de un dei pergoli de casa sua, xe rivado coi oci fora dela testa là dela Finanza de Marina, i iera sempre su quela che Zaneto disperado ghe cantava «Ga ciapado fogo el legno.» E quei altri ghe rispondeva: «Guardi il nostro Imperator!» Più de una volta, co' le iera de guardia de note usava imbriagarse 'ste Finanze. MALDOBRIA XXVII - LA BALLA DI BIRRA Nella quale tutti vengono resi attenti sulle imponenti conseguenze — atipiche rispetto ad altre ebbrezze — della balla di birra, in una ribalda avventura da notte brava vissuta in Zara da Tone Lusina ed imperniata su un tutt'altro che infantile gioco del portone. — Conossevi vù Tone Lusìna? Bon, a lui assai se ghe conosseva, con tuto che el gaveva un unico no suo. — Un fio no suo? — Ma cossa un fio no suo? Volevo dir che a lui assai se ghe conosseva el dente. E pensarse — ve disevo — che lui gaveva un unico no suo, solo che per meterghelo i ga dovesto fodrarghe de oro quel vizin, propio davanti, e se ghe conosseva. — Tone Lusìna? No conossevo!... — No podevi conosser vù. Lusìna Dente-de-oro, i ghe ciamava, perché propio questo qua davanti i ghe gaveva fodrado, per el resto bel omo, forte. Giovine el xe morto, pecà. Giovine, insoma; ancora giovine. Lui quela volta el navigava cola Ungaro - Croata e el fazeva viagi per Dalmazia col Comandante Terdoslàvich. — Co' el xe morto? — Sì, in cassa de zingo! Prima de morir, intendevo, che el iera giovine ancora che ve contavo. Un materan el iera, che anzi Barba Nane, una volta qua in local de Micél, che se andava, ghe ga dito: «Vù, Tone, me sé un poco piria, me dà l'anda, e più de un per el béver i ghe ga cavà la matricola!» — El beveva? — No béver per béver, el beveva co' iera l'ocasion, in compagnia. Insoma, una volta, i xe a Zara e lui xe franco de sera e el gaveva de trovarse, come ale nove, con 'sti altri del vapor che iera franchi dopo e — o che i se ga stracapìdo o che el ga sbalià local — fato sta che ale nove lui xe là, el speta un'ora e no xe nissun. — Svodo el local? — Maché svodo! Ve iera quel local che iera a Zara là dei Zinque Pozzi, rente del Mandrachio. — Che iera? — No, el Mandrachio xe ancora, i Zinque Pozzi anca, ma Zara no xe più, la xe cambiada de cussì a cussì, de no conosserla. Povera Zara. Indiferente. Iera 'sto local rente dei Zinque Pozzi, vizin del Mandrachio, pien de gente. Aré, siora Nina, che no esisti pezo roba dela bala de bira. — Chi ga ciapà la bala de bira? — E de chi parlemo? De Tone Lusìna, no? Bon, lui iera in pie davanti del banco che spetava 'sti qua che no vigniva, e el ga comincià col ciamar un mezo de bira. E 'sta regazza che iera là che serviva, la ghe dise che bira a spina no i ga, che xe solo in butilia. E lu che vadi per la butilia e, per bravura, come che l'usava anca a bordo, el la verze coi denti. — Come coi denti? — Coi denti sì, inveze che col fero aposito. — E el se ga spacà el dente? — No: lui iera abituado, per bravura el fazeva sempre 'sta roba a bordo. A bordo e anca per i locai: el gaveva denti come un murlàco. — Eh, ga bei denti sì i murlàchi... — De murlàco, po'. Se dise per dir forti. E un che iera là, ghe ga dito: «Orpo che bravo!» — Un murlàco? — Ma cossa un murlàco? Un che iera là in local, ben vestì. Per farvela curta: bala de bira. Perché 'sto qua ghe dise che el ghe fazzi véder de novo come che el fa a verzer le butilie de bira coi denti. E insoma verzendo una butilia drio l'altra, insieme i ga ciapado la bala de bira. Che apena dopo se sta mal, perché al momento par de esser lioni. I iera alegri e amichi come porchi, che i se basava e i se brazzava. Insoma, un rider, una contentezza. — Eh, mia madre defonta ghe diseva sempre a mio padre, povero: «De sera grandi lioni, de matina grandi cojoni.» — Indiferente. I se ga imbriagà tuti dò de bira. — Chi questi? — Come chi questi? Tone Lusìna, che ve stago contando de meza ora e 'sto qua che iera là con lu. Dovè saver che 'sto qua che iera là con lu — mai visto né conossù prima e che i ga fato subito amicizia, imbriaghi duri che i iera — no iera miga un maritimo savé, miga un de bassa forza. Questo ve iera un dotor de Zara, giovine, ma dotor vero col dotorato de Graz. Che anzi el ghe contava, che lui co' studiava per dotor a Graz, el dispirava portoni. — De mistier el dispirava portoni? — Cossa de mistier, siora Nina? Chi ga mai avù per mistier de dispirar portoni? Lui, 'sto dotor, ghe contava a Tone Lusìna che co' el iera studente a Graz che el studiava per dotor, co' i se imbriagava, co' i ciapava ' ste bale de bira, che la matina dopo no i se ricordava più gnente, i gaveva quela de far la bravura de dispirar portoni. — Ma de dove i li dispirava 'sti portoni? — De dove che i li dispirava? Ma de dove che i iera impiradi: dove che sta impiradi i portoni. I li dispirava dele bartuele dei portoni dele case. Capì, 'sti studenti, co' i se imbriagava i fazeva bravure e in dò, un per sora e un per soto, i dispirava el porton via del porton e, con 'sto porton in spala, i coreva come mati su un ponte che xe a Graz e de 'sto ponte i butava in acqua el porton. — In mar? — Ma dove ve xe el mar a Graz, siora Nina, che a Graz gnanca no i sa cossa che xe mar! Fiume ve iera. — Ah Graz, vigniva a star vizin Fiume? — Ma cossa Graz vizin Fiume, che Graz xe Austria e Fiume iera soto l'Ungheria! E po' Fiume ga el mar e a Graz inveze xe fiume, che ve contavo. I butava in fiume 'sti portoni dispiradi: robe che fa i studenti imbriaghi, massime de bira. Bravure. — Maldobrìe? — No pretamente maldobrìe, bravure de studenti, che 'sto dotor giovine ghe contava a Tone Lusìna, imbriaghi che i iera: ciò mi ciò ti, amichi come porchi, che ve go dito. E, volé creder, imbriaghi che i iera, i cori fora del local, zò per San Simeòn e Porta Marina, i va in Riva, i dispira un porton e, corendo con 'sto porton in spala, i cori là dela Porporéla e i lo buta in mar, ridendo e rutando come mati. — E de chi iera 'sto porton? — Cossa volé che sapio mi de chi che el iera: un porton de una casa de Riva. Ma in quela che i lo butava in mar, no li vedi dela finestra i gendarmi? — I gendarmi no li vedi dela finestra. — Come no li vedi? Li vedi, sì, i gaveva la finestra propio là sora e i ghe ga coresto drio intanto che lori scampava. — E i li ga becadi? — No, speté. Come che i scampava, che i scampava propio, a gambe batticulo, Tone Lusìna el perde una scarpa. — E po' el la ga trovada? — Ma cossa trovada? Discalzo el xe restà. Perché, come che el scampava, coi gendarmi de drio e con 'sto dotor che coreva con lu, el se ga cavado anca quel'altra scarpa per corer meo. Bon, discalzo el coreva, che assai meio se cori discalzi, e i se ga ficà per le calli che 'sti gendarmi no li trovava più. Ma co' i riva là dei Zinque Pozzi, che i voleva tornar in local — pensévese che imbriaghi che i iera — 'sto dotor el se senta per tera, che el xe stanco, po' el se distira sul scalin del pozzo e el se indormenza. Duro: bala de bira. — Eh, le bale di bira dura! — Altro che dura, no iera modo e maniera de sveiarlo. El iera imbriago come un scalin, più che el scalin che el iera distirado sora. Alora Tone Lusìna, savé cossa che el ga fato? Lui ga dito: cossa fazzo con 'sto omo? Capì, mai visto né conossù prima, el ga cominciado a vardarghe per le scarsele se el ga una carta, un documento, un certificato. — Carta de identità? — Ma dove ocoreva soto l'Austria carta de identità! No ocoreva gnente: un diseva chi che el iera e bastava, soto l'Austria. Ve disevo che el ghe vardava in portafogli se el trovava chi che el iera e cussì el ga visto che 'sto qua gaveva con sé bastanza soldi, fiorini. — E el ghe li ga robadi? — Tone Lusìna, robadi? Vù no conossevi che omo che iera Tone Lusìna! El zercava, no? E el ghe trova una carta de visita che sora iera tuto: nome e indirizzo suo de lu. Sapunzachi. — Chi, questo? — 'Sto dotor, no? El se ciamava Sapunzachi e el stava in Calle Larga numero diciaoto, me ricordo che contava Tone. E insoma, el se lo cariga in spala come un saco e dove che xe Calle Larga numero diciaoto. — Dove? — Ve stago disendo: el dimandava dove che xe Calle Larga numero diciaoto a quei pochi che l'intivava per strada de note. «E qua ve xe Cale Larga — ghe dise un — e el numero diciaoto ve xe soto de quel pérgolo.» E el rideva 'sto omo, de 'sto omo che portava 'sto altro omo sule spale come un saco, discalzo. Insoma, siora Nina, per farvela curta, lui ghe ga trovà le ciave del porton in scarsela, ghe ga averto el porton, ghe ga tornà a meter le ciave in scarsela e el lo ga pozà drento. E co' Tone, andando zò per Porta Marina, stava per tornar a bordo, no volé che lo beca i gendarmi? Capiré, siora Nina: discalzo che i lo ga visto, i ga subito congeturado che el iera lui quel che scampava discalzo. Diese giorni de preson i ghe ga dado. Dispirar portoni: no se gaveva mai visto a Zara, in alora. — I ghe ga dà condana? — Diese giorni, ve go dito. Veramente el giudice ghe gaveva dà de scelzer: o una multa de vinti fiorini o diese giorni drento, e lu che in tuto lu no gaveva che tre fiorini, ga dovesto farse i diese giorni in preson de Zara in un cameroto con dò murlachi. E co' el xe vignù fora, el vapor, natural, ghe iera zà partido. E 'sto Tone Lusìna ve se trova solo, abandonà, in una Zara, che pioveva: solo, discalzo e con solo tre fiorini in scarsela. — Mama mia! Perso el vapor! E come el ga fato? — Siora Nina, per prima roba el xe andado a comprarse un per de scarpe, perché no el podeva girar per Zara discalzo come un murlàco, cola piova che iera. Che ghe ga costà un fiorin: scarpe andanti, ma sempre un fiorin. E coi dò fiorini che ghe iera restadi, cossa el podeva far? Gnanca tornar a casa. Cussì el ga pensado de andar de 'sto dotor Sapunzachi — amichi come porchi che i iera diventadi, in spala che el lo gaveva portado a casa imbriago — che el ghe impresti qualche soldo, che dopo el ghe tornerà, che el ghe manderà cola posta. E el ve va in Cale Larga numero diciaoto, soto el pérgolo propio: iera anca la tabela «Dottor Sapunzachi. Ambulanza mezzanino» e el sona. — La campanela? — No, la tromba dele scovazze! Ma sicuro che el sona la campanela e ghe vien verzer una, in bianco, infermiera come. Che el volessi el Dotor Sapunzachi. Se el Dotor lo speta? Che no, che no el lo speta, ma che el ga un'impelenza. Va ben: alora che el speti e la lo meti in una sala de aspeto che iera altri che spetava, che lui ga spetado fin squasi mezogiorno. E co' xe mezogiorno, che giusto sonava el Domo, 'sta qua in bianco, 'sta infermiera come, che el vegni drento. — In punto a mezogiorno? — In punto o no in punto, che el vegni drento. 'Sto Tone Lusina va drento tuto soridente e 'sto dotor Sapunzachi lo varda e gnente. Bongiorno. Che el se senti là sula poltrona. Poltrona de dentista iera, dotor dei denti iera 'sto dotor. E no el lo ravisava. — No el ravisava Tone Lusìna? — Eh no, ah. Cola bala de bira el giorno dopo no se se ricorda più gnente, figurémose dopo diese. Che el se senti. El ghe meti in man un bicer de acqua che el se slavazzi la boca; 'sta infermiera ghe liga atorno del colo un bavariol — savé quei bavarioi che liga i dentisti atorno del colo? — e 'sto dotor ghe dimanda verzendoghe la boca cossa che el ga. E Tone Lusìna se ga vergognà, come, povero: 'sta ambulanza, 'sta infermiera, 'sto dotor che no lo ravisava e no lo gaveva gnanca per l'anticamera del zervel. E col bicer in man el ghe dise che ghe diol un dente. Cossa volé che el ghe podeva dir altro a un dotor dei denti? Che dente che ghe diol? Che questo qua davanti. Che qual, questo? Questo o quel? Questo. Siora Nina: zàchete, cola tanaia el ghe lo ga cavà, de colpo. «Fora el dente, fora el dolor — el ghe ga dito — slavazzéve la boca, torné diman a mezogiorno e un fiorin de antécipo.» — Mama mia, cavà el dente? — Sicuro. Una volta i dotori dei denti no bazilava più che tanto. Massime cola bassa forza, co' a un ghe diolìva i cavava. E 'sto povero Tone Lusina ga dovesto anca darghe un fiorin. E cussì, fora del porton, e el se ga trovado solo in Cale Larga, con un unico fiorin in scarsela e un dente de manco. Bon, volé creder, siora Nina, lu con quel fiorin, de sera el ga ciapado una bala de bira e de note, imbriago duro, el xe andado in Cale Larga numero diciaoto, el ghe ga dispirà el porton e el lo ga butà in mar. Povero Tone Lusìna: dopo, col dente de oro, el stentava a verzer le fiasche de bira. MALDOBRIA XXVIII - LA GRANDE PIOGGIA Nella quale si racconta dell'inzerada de piova in dotazione all'i. r. Fanteria di Marina, della carenza di norme che ne regolamentassero l'uso e dell'emblematico valore da essa assunto nella burrascosa estate fiumana del 1914. Usi e costumi del militare austriaco. — Mi no so più cossa che xe ogidì regola o no regola soto el militar. Più de una volta go fato osservazion che el soldà semplice gnanca no fa el saludo al'Uficialità, che una volta guai. Ma indiferente: quando che mi iero militar de leva a Fiume, presempio cola storia de meterse o de no meterse l'inzerada de piova, no iera né un viver né un morir. — Moriva el militar? Iera guera... — Ma no che no iera guera. Questo ve iera prima dela Prima guera, che mi iero militar de leva a Fiume, un periodo. Perché quela volta se stava ani soto le armi, tanto che prima iero a Cataro anca, a Métkovich e più de tuto a Zaravecchia. — Dio che bel che iera Zaravecchia, me contava mia sàntula che tanto bel iera a Zaravecchia... — No ga importanza. Mi quela volta che ve disevo del capoto de piova, iero a Fiume militar de leva. Fanteria de Marina. Ierimo mi... — ... Marco Mitis... — Sì, come savé? Marco Mitis, mi, i gemei Filipàs e Tomìnovich. Savé quel che el padre ghe iera morto negado restando soto la randa, quando che i gaveva perso la barca?... Bruta morte. Tonissa Tomìnovich. — Quel negado? — Ma come negado se el fazeva el militar de leva con nualtri? El padre ghe se gaveva negado: Zammaria. E Tonissa ghe iera el fio. Savé, co' el padre ghe se gaveva negado, lui iera giusto che ghe mancava un ano per esser assolto dele Nautiche de Lussin e inveze lu ga volesto molar la scola, tirar suso la barca e navigar in propio. Perché lui diseva sempre: «Meo paron de barca, che capitan de vapor». — Ah, capitan el iera? — Ma no capitan, Sotufizial el iera, de Fanteria de Marina. E po' capitan — morto el padre — lui no voleva più esser. Ve go dito che el diseva sempre «Meo paron de barca che capitan de vapor!» E cussì, come paron de barca, soto le armi el iera Sotufizial. — Ahn! — Insoma che ve contavo, che me fé perder el fil, nualtri ierimo tuti militari de leva a Fiume: Fanteria de Marina. Krigsmarine Infanterì Reghimént Sibunàczig, Otantasete. De leva. Che po' 'sto Regimento 87 iera dò batalioni: un — che iero mi, che ierimo nualtri — a Sùssak e quel altro — che iera altri, ma anca lori patrioti dele vece province massima parte — nela caserma rente del'Academia Militar de Marina, del'altra parte: vizin Cantrìda, là dei Piopi. — A Fiume? — A Fiume sì. Dove xe i Piopi se no a Fiume? Prima de Cantrìda. Ben: volé creder? Iera sempre 'sta storia del'inzerada. — L'inzerada dela tavola de magnar? — Sì, e piati fondi e piati lissi. Ma dài, siora Nina! L'inzerada de piova. Perché el Militar de Fanteria de Marina gaveva l'inzerada de piova per quando che pioveva, come in Marina vera. E co' iera una matina, come stamatina presempio, che minaciava, bisognava star là a spetar l'ordine... — De cior l'ombrela? — Ma cossa ombrela? Dove se ga mai visto un militar austriaco col'ombrela? L'inzerada. Ve go dito che la Fanteria de Marina gaveva l'inzerada. E iera de rider, savé, qualche volta. Perché ogni giorno, 'sti dò batalioni che ierimo, un a Sùssak e un là dei Piopi, ale sete ore de matina in punto — ale zinque ore se se levava, altro che ogi — ogni mativa ale sete ore in punto dovevimo trovarse tuti dò batalioni o in Piazza Elisabeta o in molo Àdamich... — Per far cossa? — Ma cossa per far cossa? Per far quel che fa i militari: ein, zwei, passi de fero. I giorni de lavor in molo Àdamich e co' iera una festa, un qualcossa, in Piazza Elisabeta. Bon, volé creder che più de una volta no se iera compagni? Se questi che vigniva dei Piopi gaveva l'inzerada, noi ierimo senza e se gavevimo l'inzerada nualtri, i iera senza lori. Più de una volta. Oh Dio: qualche volta gavevimo tuti opur ierimo tuti senza, ma doveva propio esser o piova-piova o solsol. — No intendo. — Come no intendé? Iera bruto de véder no, anca per la gente, se un batalion gaveva l'inzerada e quel altro no e difati el Colonelo, che vigniva sempre verso le oto e meza, oto e tre quarti, più de una volta se rabiava. Me ricordo che el iera un ungarese, ma no un ungarese de Fiume, propio un ungarese de Ungheria: Szabò, el se ciamava, un zerto Szabò, e lui iera comandante de tuto el regimento. Ungarese de Ungheria, che gnanca no el saveva parlar per italian. E cussì el se rabiava, per ungarese solo si stesso e per tedesco con Tomìnovich. — Solo con Tomìnovich el se rabiava? — No, con tuti. Ma a Tomìnovich el ghe diseva per tedesco che el ghe diga a tuti che xe una granda vergogna, perché Tomìnovich ghe iera interprete, come. Ve go dito, 'sto Szabò no saveva parlar per italian e Tomìnovich, assolto quasi che el iera dele Nautiche de Lussin prima dela disgrazia, el parlava franco tedesco, che a scola el se gaveva imparado. «Es ist ein grosser Skandàl» — diseva 'sto Szabò, co' el vedeva che un batalion iera là col'inzerada e un senza. — E lu gaveva l'inzerada? — I uficiai no gaveva inzerada. I uficiai gaveva el drénch. Zenerin, bel. Insoma lui se rabiava che no ierimo tuti compagni. Perché, savé, soto l'Austria, el militar doveva esser sempre compagno. — Come adesso, che i xe tuti compagni, i drusi? — Adesso xe un'altra roba. I doveva esser tuti vestidi compagni: o montura alta o montura bassa, o con guanti o senza guanti. Me ricordo, presempio, che el Vintiun de marzo tuti doveva disbotonarse el primo boton del coleto, quei de tera, parlo; per Santa Barbara bisognava meterse in montura de istà, indiferente anca se iera fredo o minaciava, e per i Santi montura de inverno. — E de meza stagion no i se vestiva? — Cossa de meza stagion? Dove una volta el militar podeva pretender! Gnanca adesso. Bon: e Vintiun de marzo, Santa Barbara, i Santi quel iera tuto regolado; inveze quel del'inzerada, quel doveva regolarse solo si stesso el Comandante de ogni caserma, e sicome che ierimo in dò caserme, una de qua una de là, una a Sùssak una ai Piopi, più de una volta combinava che inveze de esser tuti compagni, un batalion gaveva l'inzerada e quel altro no. E alora el se rabiava con Tomìnovich. — Chi questo? — 'Sto Szabò, ve go dito. Che no saveva parlar per italian e alora el ghe diseva per tedesco a Tomìnovich, che el ne diga a nualtri: «Es ist ein grosser Skandàl!» Che po', savé, co' 'sto Szabò parlava no iera tanto fazile: numero un, perché el zigava e po' el parlava spudaciando, e in più ungarese che el iera propio de Ungheria, lu parlava sì per tedesco, ma come che parlava per tedesco i ungaresi e Tomìnovich, parlava sì per tedesco, ma come che podeva parlar per tedesco quei che gaveva fato scola a Lussin. E più de una volta xe nati truchi, come, de rider insoma. Gnente de mal, ma de rider... — Per tedesco? — Ma come volé rider per tedesco, per ungarese, per italian, o per crovato? Iera de rider per tuti soto l'Austria, qualche volta. Bon, per dirve, presempio, co' 'sto Szabò legeva in molo Àdamich — che là se fazeva queste robe — i bilieti de punizion, lui li legeva per tedesco e po' Tomìnovich spiegava per italian. Per Pìllepich, quela volta xe stà assai de rider. Perché Pìllepich che una sera iera tornado lustro, anzi bastanza imbriago, i lo gaveva consegnado in caserma per zinque giorni... — Consegnado, a chi? — Ma come consegnado a chi? Consegnado in caserma, che per zinque giorni no el podeva andar de sera franco fora de caserma. E Pìllepich, inveze, xe andà fora dopo quatro giorni, pensando chi volé che se inacorzi. Inveze i se ga inacorto, savé, soto l'Austria i notava tuto sul libro. E alora lui ga dito che el credeva che fussi quatro e no zinque. E lori che el militar no devi mai creder gnente e insoma i ghe ga fato un altro bilieto de punizion. In molo Àdamich, propio Szabò ga leto per tedesco 'sto novo bilieto de punizion. E Tomìnovich, che iera vizin de Szabò ga subito spiegà per italian: «Il marinaio di Fanteria di Marina Pìllepich è punito di novo perché è uscito di caserma, credendo di essere giunto alla fine dei suoi giorni!» Un rider! Che anzi 'sto Szabò diseva per tedesco che no xe gnente de rider e Tomìnovich spiegava per italian che el ga dito che no xe gnente de rider. — Ah, un truco, come? — Sì, ma el più bel xe tocà per Giadròssich. Perché, pensévese, el Cadeto Giadròssich un dopopranzo che el iera franco in Abazia, no el vedi una cratura impinciocada su un scoio che sbrissa e casca in mar? — No el la vedi? — Come no el la vedi? El lo ga visto sì: e subito, in montura de inverno che el iera, col'inzerada, col drénch, insoma e tuto, el se ga ben che butado in acqua e el lo ga tirado fora. Jazado el iera, povero, perché iera zà inverno. E 'sto Szabò che assai ghe voleva ben al Cadeto Giadròssich, perché el iera propio suo Uficial de ordinanza, el ga tanto fato, el ga tanto procurado, che el ghe ga fato gaver la picola medaglia. — A 'sta cratura, povera? — Ma no a 'sta cratura. Al Cadeto Giadròssich che iera suo Uficial de ordinanza. Picola medaglia per Virtù Civili, se diseva soto l'Austria. E in Piazza Elisabeta — perché 'ste robe, inveze, se fazeva in Piazza Elisabeta — che ierimo tuti in fila col'inzerada perché propio pioveva a mastele quela matina, 'sto Szabò ghe ga pontado sul peto de Giadròssich 'sta medaia, disendoghe per tedesco. — Cossa? — Disendoghe che el ghe la ponta, ma con bele parole, per tedesco. E Tomìnovich ga subito spiegado per italian: «Sono orgoglioso di appendere la medaglia sul petto del mio braccio destro!» E tuti ga zigado «Hurrà!», ridendo: se usava. — Se usava rider? — No, se usava zigar hurrà. Ma ridevimo, capì, perché 'sta medaia sul peto del brazzo destro, iera de rider no? — E no se ga rabiado 'sto Szabò che ridevi? — Ma noo, iera un bon omo in fondo, co' nualtri ridevimo, lu, più che altro diseva: «No xe gnente de rider», de divertirse, insoma, come che spiegava Tomìnovich. Lui rabià, propio rabià el iera solo quando che ghe capitavimo mezi col'inzerada de piova e mezi senza. Bon, indiferente. Iera del Quatordese, me ricordo... — Che ridevi? — Ma noo! Quel iera prima. Nel Quatordese no iera gnente de rider, perché i gaveva zà copado Francesco Ferdinando. Luglio iera, prinzipo de agosto, me ricordo: caldo. Quel caldo sòfigo, che dopo se sfoga e fa neverini. Minaciava. Insoma, ve digo, iera assai bruto perché i gaveva copado 'sto Francesco Ferdinando e i giornai assai parlava e anca el Cadeto Giadròssich diseva che iera bruto. Ben, una matina che dovevimo andar in molo Àdamich, perché iera giorno de lavor, al ultimo momento, vien inveze ordine che dovemo andar in Piazza Elisabeta. E là, in Piazza Elisabeta che semo, un caldo, un sol — quel bruto caldo sòfigo che ve disevo — spetemo, spetemo, spetemo, e apena ale diese ore vien Szabò cola vetura e dò altri Ufiziai. Un de 'sti Ufiziai, che gaveva una borsa, ghe dà una granda letera con una sopracoperta zala e lui con 'sta sopracoperta zala in man, in mezo de Piazza Elisabeta, l'ordina prima l'Abtàt e po' el presentatàrm, che el ga de leger un Indirizzo... — Un indirizzo de Fiume? — Ma cossa un indirizzo de Fiume, col presentatàrm? Un Indirizzo di Sua Maestà Apostolica l'Imperatore e Re Francesco Giuseppe Primo, al suo Militare e ai suoi Popoli, come che ga spiegado propio pulito per italian, Tomìnovich. E insoma, prima el ga dito dell'ineffabile assassinio, che priva la Casa del Erede al Trono — tuto ben spiegava Tomìnovich — e po' del sdegno dei Stati civili. — Ah, sì, me ricordo, me ricordo ... — E chi no se ricorda? E po' 'sto Szabò, zigando più forte e spudaciando, xe rivà a quela, che per tedesco, sul foglio che el legeva, iera scrito: «Fosche nubi, gravide di tempesta, si adensano minaciose nel nostro cielo già sereno, facendo paventare un oscuro domani. Miei militari, siate tutti pronti a ogni immediata evenienza!» E Tomìnovich, che per tedesco iera assai difizile 'sta roba, ga spiegà più in curto: «Omini — el ga dito — l'Imperator dise che dimani pioverà e che tuti, ma propio tuti, dovemo meterse l'inzerada de piova!» Agosto, iera, me ricordo, caldo: quel caldo bruto che minacia. MALDOBRIA XXIX - UN UOMO E' UN UOMO Nella quale si narra la veridica storia d'una frase pronunciata in faccia al nemico da un suddito delle Vecchie Province identificato una volta per sempre in Bepin Malabòtich, uomo buono e mite di carattere, sbalzato dalla sua Cherso ai campi delta Bucovina. — Ve ricordè el povero Bepin Malabòtich, che pur — signor che el iera — el iera un omo ala man? Bon, lui chi lo ga mai visto, né de inverno né de istà senza jacheta? — Chi Malabòtich? Don Giusepe? Quel che xe vignù dopo de don Blas? — Ma cossa, preti in giacheta, quela volta! Solo i preti tedeschi usava in una Trieste, in una Fiume; no, no, disevo Bepin Malabòtich, che no gaveva gnente cossa far con don Giuseppe, perché lui ve iera de quei Malabòtich de Lussin che gaveva campagna a Cherso. — Ma i iera de Cherso o de Lussin? — De Lussin i iera ve contavo, solo che i gaveva campagna e anca casa a Cherso. Lori oltra al suo, gaveva ereditado anca tuto quel che iera del vecio Moise. Gaveva soldi, savé i Malabòtich, ma lori oramai no stava più a Lussin de ani anorum. Lori, tuti i fradei e anca el padre defonto, i iera andadi a Trieste; e l'Agenzia maritima che i gaveva a Lussin iera oramai gnente in confronto de quela che i gaveva averto a Trieste. In via del'Anunziata, me ricordo, rente Marina. Quante volte che iero de lori! In primo pian i gaveva el scritorio. — E drento iera 'sto Bepin Malabòtich? — In principio sì, ma dopo sempre meno se lo vedeva. Perché lui zà per Pasqua andava a Cherso e el tornava poco prima dei Santi. Lui in Agenzia maritima no el se trovava, come; anca perché co' el fazeva qualcossa, i fradei gaveva sempre de dirghe che no iera ben fato. Po' no ghe piaseva aver quistioni coi capitani: se qualche volta iera ràdighi, pitosto el se tirava indrio che farse avanti. E in scritorio no el ghe fazeva mai osservazion a nissun, gnanca al cursor, tanto che suo fradelo Marco ghe diseva: «Ma cossa ti speti, Bepin, che i te cavi le braghe con tute le mudande longhe?» Savé inveze dove che lu se trovava ben? — A Lussin. — No. «A Lussin — el diseva — xe assai invidie.» Lui pretamente ben el se trovava solo che a Cherso. «A Cherso — el predicava — xe gente bona, a Cherso no xe quistioni, a Cherso no xe ràdighi. E po' no xe quele invidie che xe a Lussin.» «Nualtri, savé, gavemo fato propio pulito — el ghe diseva ai fradei — de no vender la roba che ne xe vignuda del povero Barba Moise, perché cussì pulito gavemo a Cherso casa, campagna, piégore e torcio e qualunque evenienza in un domani, là per nualtri ne xe nòma che ben. Per quel ripeto a dir che a 'sti interessi che gavemo a Cherso bisogna starghe drio!» E cussì lui, con 'sta scusa, zà prima de Pasqua el se la mocava a Cherso, e a Trieste in scritorio no i lo vedeva fina San Nicolò che iera la festa del fradelo più grando. — Ma no gavevi dito che el stava fina i Santi? — In principio, ma dopo el stava sempre de più. «De otobre a Cherso — el diseva — xe el più bel mese. Anca novembre.» Perché lui co' el iera a Cherso, savé cossa che el fazeva? Lui là se alzava de matina tardi, l'andava al molo co' rivava el vapor dele ùndese, po' a mezogiorno el se trovava o in farmacia Colombis o al Circolo dela Democratica con quei sui amichi Petris, col fradelo de Marco Mitis, i gemei Filipàs, fin ora de pranzo. E po' co' iera ora de pranzo l'andava a pranzar e dopopranzo el se butava. — Andove? — Zò dela finestra. Ma dài, siora Nina, digo che el se butava, per dir che el se butava in leto, serando i scuri e tuto, cavandose le calze, fin le zinque, zinque e meza. Capì, iera un che no se scomponeva. Me lo ricordo, savé, cola sua jacheta, el capel de paia, braga bianca de istà, el bastunìch col manigo de osso, i ociai piziganaso col cordon nero: insoma lui no se scomponeva. — Omo in età? — Maché omo in età quela volta! Ve parlo de prima dela Prima guera, che Bepin Malabòtich quela volta no doveva gaver gnanca trenta ani, difati, prima ancora, che i lo gaveva ciamado soto le armi de leva, che sarà stado del Quatro, del Zinque, sì e no vinti el gaverà avudo. Disaoto, no so. Ben, volé saver una? Tanto el iera un che no se scomponeva, che lui quela volta, co' i lo ga ciamado soto le armi de leva, el gaveva pagado Martin Ghèrbaz che el vadi a far el militar per lu. — Martin Ghèrbaz militar inveze de lu, travestido? — Ma no travestido. Quela volta se podeva, iera ancora le ultime volte che se podeva. Un pagava un altro che el fazzi el militar per lui. Cossa ghe interessava al Stato se iera Bepin Malabòtich o Martin Ghèrbaz? Bastava che fussi un. Un omo xe un omo. Uno podeva liberamente pagar un altro che el vadi per lu. — Assai se pagava? — Ma cossa so mi, se assai o se poco? Se podeva. Prima dela Prima guera, questo, se capissi. E vardé che Bepin Malabòtich iera un bon omo, perché lui sempre ghe mandava qualcosa a Martin Ghérbaz intanto che el fazeva el militar per lu ale Boche de Cataro, che po' come logo iera belissimo. E Bepin Malabòtich ogni sabo andava a casa dela madre de Martin Ghérbaz, fin su a Dragoseti, a scriverghe a 'sto Martin, perché ela — campagnoi, savé, quela volta — no saveva né leger né scriver. — E cossa el ghe scriveva? — Cossa so mi cossa? El ghe scriveva come che se usa scriverghe a un fio che xe militar: «Noi qui siamo tutti bene e parimenti speriamo segua di te.» — Bon omo? — Bon omo sì. Omo serio. Oh dio, serio: lui gaveva quel suo modo de far, quela sua fiacheta, ma qualche volta el ghe ne gaveva anca dele bone. Me diseva Marco Mitis, che ghe contava suo fradelo, che con Bepin Malabòtich — cussì che no pareva — qualche volta iera propio de passarsela. Se el voleva el iera anca ridicolo. Quela dela càzia, presempio, che el contava. Perché lu con questi sui amizi assai ghe piaseva andar a càzia: xe bel, savé, Cherso per la càzia, là ghe xe levri, là ghe xe fòlighe in Piscio co' xe stagion, ve xe zeneveroni, quaie co' xe passo, bel ve xe a Cherso per la càzia. E lui contava sempre quela dei tre fradei che va ala càzia. — A Cherso? — A Cherso el la contava, ma iera una storia che el saveva lu, chissà de dove. — De tre fradei che va ala càzia? — Sicuro. Speté come che la iera, dunque iera che... ghe iera tre fradei: dò orbi e un che no vedeva. — Come dò orbi e un che no vedeva? Orbi tuti tre? — Ma speté, speté che ve conto. Xe un scherzo. Xe tuto una storia cussì, ridicola. Ghe iera tre fradei: dò orbi e un che no vedeva. I xe andadi ala càzia con tre s'ciopi, un senza cana e dò che no tireva. Co' xe vignudi fora i lievri, i ga smirà: tre lievri i ga ciapà, ma un ghe xe scampà e dò no i li ga copà. Alora camina, camina, camma i riva in un palasso de paia cola porta senza muro e el balador de vetro. I ciol un fil de erbaspagna e bati e bati i ga roto balador e porta. Quei che no iera in casa i ghe dimanda: «Fradei cossa no volé?» E lori: «Semo tre fradei, dò orbi e un che no vede. Tre lievri 'vemo ciapà, ma dò ne xe scampà e un no lo 'vemo mazzà. Li volemo cusinar e far fraia. Gavé tece, fersore, pignati bastanza per duta 'sta carne?» E quei che no iera in casa i ghe risponde: «Ve porteremo tre tece senza fondi, tre fersore sbusade e ve dassimo anca tre pignati, se li 'vessimo.» E cussì i sa messo a cusinar la gran magnada. Ma un dei tre lievri che no iera, co' el se ga sentù scotar del fogo el xe saltà fora dela tecia senza fondo, e el ga morsegà la recia de un fradel, a quel altro el ghe ga sbusà la gamba e al terzo ghe xe vignù la febre dela paura. — Ah, iera una roba de rider, come? — Altro che de rider. Dopo la va anca avanti. A càzia Bepin Malabòtich contava sempre 'sta qua dei tre fradei che va ala càzia. Anzi, adesso che me sovien, una volta che i iera a càzia ... — Chi? 'Sti tre fradei: dò orbi e un che no vedeva? — Ma no! Quela ve xe la storia. No, Bepin Malabòtich, Petris, el fradelo de Marco Mitis e i dò gemei Filipàs, iera a càzia una volta, per bon. E xe stà quela volta che Bepin se ga propio rabià. I iera vizin de Smergo, sul suo, che i caziava e Bepin Malabòtich ga dito: «Sentémose un momento che femo marenda!» I se senta e, come che i fa marenda, no volé che propio là traversa un levro? «Aré el levro!», dise el farmacista Colombis. E in quela, pim pum, dò tiri e propio davanti dei gemei Filipàs, la tera se alza per una sbalinada che, per fortuna, no ghe ga fato mal a nissun. — Chi gaveva tirà? — Altri. Altri che andava a càzia. E Bepin Malabòtich, che lui co' fazeva marenda no se alzava mai, xe saltado suso in pie e ga zigà: «Ma cossa sé mati? Qua drio xe omini, savé?!» E dopo el se ga sentà e el ga dito: «Ostia dio, no solo i vien a càzia sul mio, ma anca i tira andove che xe omini.» — Rabiado? — Sì. Ma a lui no ghe durava la fota. Perché anzi subito dopo el ga contado avanti la storia dei tre fradei che va ala càzia. De 'sto levro che no iera che a un ghe gaveva morsegà la recia, al altro sbusà la gamba e al terzo ghe iera vignuda la febre dela paura. «E alora — el contava — 'sti tre fradei i ga ciamà un dotor che iera senza brazzi e senza oci. Cola man che no el gaveva el dotor ghe ga tastà el polso a quel dela febre, coi oci che no el vedeva el ga vardà la recia de quel altro e per el terzo, iutà de quei che no iera a casa, in una fersora sbusada el ga pestà e cusinà una manteca e una triàca fata de fià de morto, de ombra de sol in fiasca e de ciaro de note. Po' el ghe l'à messa sora la gamba malada. E st'altro subito se ga inguarì, cussì oltra che orbo el xe restà anca zoto. E alegri come Pasque i tre fradei, i tre de casa e el dotor i ga fato fraia dei liévri e dopo de 'ver magnà lievro scampà e bivù vin de aria i ga cantà: «Semo in sete fra i più fortunai, come i sete pecati mortài!» Eh iera sì de rider, qualche volta con Bepin Malabòtich. — El iera ridicolo? — Qualche volta. Ben, no volé che co' xe s'ciopada la guera, lui iera a Cherso? A Cherso che el iera, xe s'ciopada la guera, e Mobilitazion general. «Bon — ga dito Bepin Malabòtich — qua bisogna che vado suso a Dragoseti a avertir Martin Ghèrbaz che el vadi lu per mi come l'altra volta.» «Andarò sabo» — el ga pensà, lùnedi che iera — e co' el xe andado suso a Dragoseti, el trova la madre de Martin Ghèrbaz che ghe dise: «No el ve xe, no el ve xe Martin, el xe zà partido cola Mobilitazion general.» Alora dove che el xe andà? «Ah no so mi: al fronte el sarà, in campo, mi calcolo» — ghe ga dito la madre. E la ghe ga dado fighi, ùa e formagio fresco. — Formagio de Cherso? — Indiferente. Marenda. E alora Bepin Malabòtich xe tornado zò a Cherso e el xe andado de Rimbaldo, che iera Finanza. El ghe dimanda come che xe con 'sta Mobilitazion general, e el ghe spiega che lui prima gaveva Martin Ghérbaz che andava a far el militar per lu, ma che Martin Ghérbaz xe zà partido e se lui savessi de qualche altro campagnol che podessi andar al posto suo. Con paga, natural. E Rimbaldo ghe dise: «Ma Bepin mio, cossa sé perso? Un altro volé mandar per vù in guera? Ma no savé che xe Mobilitazion general? Anzi, come mai sé ancora qua?» E che se no el va presentarse subito a Fiume xe ris'cio che el passi soto Corte Marzial. — Ah, lui credeva de poder mandar un altro? — El credeva sì. Ma inveze no la iera più cussì. Iera guera. E come che Bepin Malabòtich xe andà a Fiume, tempo dò giorni i lo ga ben che vestido in montura e spedido in treno con tuto el militar semplice in Bucovina. — Ah no in guera? — Ma sicuro che in guera! Bucovina, sul fronte dela Bucovina, là dei Carpazi sul fiume Prut, che iera el fronte propio fra el militar austriaco e i russi che iera del'altra parte. — Combatimenti? — No ancora. Co' Bepin Malabòtich xe arivado, con tuti 'sti altri militari semplici, no iera ancora combatimenti. Anzi el xe rivado che iera verso mezogiorno che i dava la boba in gamela. E lui iera sentado là drento de 'sta trincea che el magnava col cuciaro de militar e el scuminziava zà a contarghe a dò de Pinguente che iera là che magnava anche lori, la storia dei tre fradei che va ala càzia co', tutintùn, no volé che rivi — ma gnanca a diese passi davanti de lori — una granata: un tiro, la tera che se alza e che la va per aria, ma per fortuna no se ga fato mal nissun. E alora Bepin Malabòtich, el xe saltado suso in pie fora dela trincea, e batendo col cuciaro de militar sula gamela, el ga zigado a 'sti russi del'altra parte: «Ma cossa, ostia dio, sé mati?! Qua drio xe omini, savé!» Povero Bepin Malabòtich, omo giovine el iera ancora. Xe stà Martin Ghèrbaz che ga dovesto scriver ala famiglia per parteciparghe. MALDOBRIA XXX - LA STELLA MORTA Nella quale, chiarite le norme giuridiche che regolano la sorte d'una nave senza governo, si narra di quel che accadde all'Arciduca d'Austria Francesco Salvatore, imparentato con la tragica dinastia dei Romanoff, allorché di governo rimasero privi uno dopo l'altro i più secolari vascelli nel tempestoso mare d'Europa. — Quando che una barca xe senza nissun a bordo, senza governo in mar, la xe del primo che la trova. — Ma come pol esser 'sta roba? — Come, come pol? Xe, deve esser perché una barca in mar senza governo, xe un grando pericolo per i naviganti. — Ah! Alora la xe del Governo? — Maché del Governo! Una barca senza governo xe del primo che la trova e che la porta in porto. Legge di mare. Come che xe stà anca con quei inglesi che me contava mio padre defonto, in antico ancora. — 'Sti inglesi ga trovado una barca senza governo? — No, lori gaveva un bel yacht, inglese — in antico questo — e lori ve iera sportman zà, come, e in barca i fazeva tuto lori, soli si stessi, senza marineri. Un marì e moglie e dò fioi grandi, signoroni, savé, milord, come che iera una volta, ma appassionadi. Ben, volé che un giorno, in bonazza che i se ga trovado traversando el Quarner, i ga pensà de far bagno. Un drio l'altro i se ga butado in mar e co' tuti xe stadi in mar i se ga inacorto che a bordo no iera più nissun e no i gaveva lassado né biscaina, né un cavo né gnente per tornar suso. Questo i ga congeturado dopo, natural! — Chi ga congeturado, 'sti inglesi? — Ma cossa 'sti inglesi? De 'sti inglesi no se ga savesto più gnente! Ga congeturado quei lussignani de quel trabacolo che i andava in Ancona e che i ga intivà 'sto yacht che bateva bandiera inglese, senza nissun a bordo, senza governo, con tute le vele issade, che navigava solo, col borin fresco e el timon ligà cola scota. Pensévese, siora Nina, 'sti inglesi poveri: forsi la stanchezza, forsi un granfo, forsi un pessecan... E 'sti lussignani inveze, el yacht xe stà suo de lori che lo gaveva trovado. Novo, novente, senza dano. Cussì come che el iera i ghe lo ga vendudo a Sior Antonio Nìcolich che lo ga portado in squero de Bepin Matìevich a Fiume per meterghe el motor, che se cominciava a doprar, e cambiarghe nome: el «Matilde», ve ricordé? — «Matilde»? No me ricordo. — No podé ricordarve. Perché quela volta — parlo de prima dela Prima guera — figurévese che el squero de Bepin Matìevich iera ancora a Porto Baros e Bepin in 'sto squero iera un semplice machinista. Bravissimo machinista. Nominado iera propio Bepin Matìevich per governar motori. Perché quela volta i lo ciamava Bepin, dopo xe stà che el squero se ga ciamado propiamente «Giuseppe Matìevich». E no più a Porto Baros, ma ancora più in grando, a Fiume propio, là del Silurificio. — Ah me ricordo de Sior Giuseppe Matìevich! Mio padre, povero, co' el se ga incaliado cola barca, el gaveva debito con lu. — Indiferente, lui quela volta ve iera un semplice machinista in squero. Motorista, insoma. El governava motori. Fina al Diciaoto. — Ah, dopo no el governava più? — Dopo del Diciaoto no sicuro; ma del Diciaoto poco. Capiré, del Diciaoto, ultimo ano de guera, in 'sti squeri no iera più né un viver né un morir, massime per i motori perché mancava tochi. Savé, 'sti yacht, quei de fero specialmente, li gaveva requisizionadi la Marina de Guera come avvisi, come monitori. Guera iera ah, e mancava tochi. 'Sto Bepin Matìevich iera un dò giorni — maché dò giorni! — tuta la santa setimana che el bazilava drio de un motor de una de 'ste barche requisizionade, perché la gaveva motor de Lìverpul e no iera modo e maniera de trovar la guarnizion dela stella morta. — Morta? Quando? — Cossa morta e quando? Stella morta xe un toco del motor, che sa tuti. Volé creder? Una monada, una guarnizion de stela morta smagnada, una roba picola cussì e no iera modo e maniera senza el suo toco vero de ricambio de Liverpul de far girar pulito le propèle. — E no i podeva far vignir de Liverpul? — Ma cossa far vignir de Liverpul, che ierimo in guera col'Inghiltera... che ierimo in guera con mezo mondo, che quel xe stà la ruvina del'Austria. Gnente ah! Però, savé, Bepin Matìevich gaveva un pensier in testa: propio là, a Porto Baros sul molo, unica barca che no iera requisizionada e ferma là de mesi e mesi, ani oramai, perché no se podeva navigar, iera el yacht del Arciduca Francesco Salvatore, el «Vindobòna». — El vin de dove? — De Sànsigo! Ma cossa el vin de dove? Vindobòna iera el nome dela barca. Che per latin, per grego, no so cossa, voleva dir Viena. Vindobòna: Viena, in antico, insoma. E Bepin Matìevich ga pensado: ferma che xe qua 'sta barca e no la se move e no la se moverà, perché no se se pol mover, motor de Liverpul che la ga, compagno preciso de quel che mi zà de una setimana me rompo la testa per una stupida guarnizion de stela morta, mai nissun che no xe a bordo de 'sta Vindobòna gnanca un mariner de guardia, insoma — el se ga dito solo si stesso — sa cossa che ti farà ti, Bepin? — Cossa? — Lui ga divisado che meo de tuto iera andar de note a bordo dela Vindobòna, cavarghe la guarnizion dela stela morta, meterghe suso quela smagnada de quel'altra barca e àmen. De note, nissun se gavessi inacorto de gnente. — E el paron? — Cossa el paron? Ve go dito che el paron iera l'Arciduca Francesco Salvatore. E per 'sta barca pensava tuto el Comandante, che iera el Comandante Prohàska. El Comandante Prohàska el stava in vila sua a Volosca. Savé, el gaveva la gamba ofesa, in Marina de Guera no i lo voleva più e aposta per questo lo gaveva ciolto l'Arciduca per 'sto suo yacht. Equipagio iera tre de lori, ma i ve iera sempre o a casa o per i locai a bever. E po' — che no ve go ancora dito — l'Arciduca Francesco Salvatore iera un poco baziloto, cussì almeno i parlava a Fiume, perché lui stava in Abazia massima parte. — Come baziloto? El bazilava? — Mi no so se propio pretamente el bazilassi, ma i diseva che el bazilava. Estroso, come. Perché, savé, lui no se gaveva mai sposà, puto vecio. Vecio, insoma, per quela volta: zinquanta, zinquantadò el gaverà gavù. E de giovine el iera stado amico intrinseco, propio, del suo primo cugin. — Amico del cugin? Tanti xe. — Sì, ma suo primo cugin savé chi che iera? Iera Rodolfo, l'Arciduca Rodolfo, quel che i lo gaveva trovado cola testa spacada a Mayerling e la sposa morta. E 'sto Francesco Salvatore, come suo intrinseco, iera l'unico che saveva. — Ma no saveva tuti che i lo gaveva trovado cola testa spacada e la sposa morta? — Sicuro che tuti saveva. Ma solo che lu saveva come e perché. Questo i diseva. E i diseva anca che lu gaveva in consegna le memorie del Arciduca Rodolfo, scrite fin l'ultima note e dove che iera tuto ben spiegà come e perché. Per questo lui ve iera osservado a Viena, perché i gaveva paura che un giorno el contassi. E lu cussì stava in Abazia: solo, puto vecio e sempre con 'sto pensier del cugin mazado. Insoma i diseva che el bazilava un poco. E po' savé cossa che iera stado el pezo de tuto, che contava el Comandante Prohàska dopo dela guera? El pezo de tuto ve iera che 'sto Arciduca Francesco Salvatore, imparentà che el iera con tuti i Regnanti, una sua sorela più giovine gaveva sposado el Granduca Michele de Russia. E zà subito co' iera vignuda guera cola Russia per lui ghe xe stado un diol de cuor. E po', del Diciassete, co' xe vignuda in Russia la Rivoluzion del Diciassete, lui gaveva savesto che i bolscévichi a 'sto suo cognà i ghe gaveva inciodado le spaline de uficial sule spale, prima, e la bareta de montura in testa, dopo. Copado, insoma: ma in bruto modo, podé capir. E la sorela anca, i diseva: orori. — Eh iera, iera orori quela volta in Russia. — Rivoluzion po', e bolscevìca. E 'sto Arciduca Francesco Salvatore che zà gaveva cominciado a bazilar per Rodolfo, che 'sta bruta nova del cognà e dela sorela ghe gaveva fato un impression enorme, co' se ga savesto che 'sti bolscévichi gaveva mazzado el Zar cola moglie, i fioi, tuti, anca la servitù in cantina, el ghe ga dito al Comandante Prohàska: «Un giorno o l'altro vederé che anca qua vien una roba compagna.» — Rivoluzion bolscévica? — Un circumcirca. Perché, ve go dito, del Diciaoto ierimo e zà se capiva che in Austria sarìa stado ribalton. «E co' sarà el ribalton — diseva 'sto Arciduca Francesco Salvatore — qua i farà compagno.» — El iera stremido, come? — El Comandante Prohàska calcolava che sì, la gente inveze diseva che el bazilava, perché più de una volta in Abbazia i lo vedeva caminar marinavia su e zò, tuto scavelà, senza capel in testa, parlando solo si stesso. Figurévese, in 'sto teror che lui viveva, se lui ghe stava più drio a 'sta sua barca. 'Sto yacht iera come abandonado là sul molo a Porto Baros e per quel a Bepin Matìevich ghe xe vignuda quel'idea de andar una note a bordo a ciorghe via 'sta guarnizion dela stela morta che ghe ocoreva. Otobre iera, ma un fredo zà che pareva un novembre, e cussì Bepin Matìevich, una note de piova, xe andado a bordo del Vindobòna. — Per robar 'sta guarnizion? — Robar! Ciorla, no. Ben pulito el va su, e giusto co' el stava per cavar el primo paiol de sora dela machina, el sente come un sussuro. Cossa xé, cossa no xe? Qualchedun che vigniva a bordo. — Mama mia! I gendarmi! — Magari che fussi stadi i gendarmi, perché quei de solito dava un'ociada e andava via. Ma Bepin Matìevich sente propio de come che el caminava in coverta, zoto che el iera, e dela vose, che xe el Comandante Prohàska: el Comandante Prohàska coi sui tre marineri e drio de lori, che i lo iutava a vignir suso per la biscaìna, l'Arciduca Francesco Salvatore. — E i lo ga trapado? — No, perché lui come che el ga sentido el passo de zoto, el se ga calumado drento de un sentàl cola ribalta che iera nel saloncin del yacht. E come che el se gaveva apena colegado drento, no volé che el sente che 'sti qua ghe se senta de sora sula ribalta del sentàl? — El sente che i ghe se senta? — Sì, ma no tuti: i marineri iera restadi in coverta, ma el Comandante Prohàska e l'Arciduca se gaveva sentado propio sora de Bepin Matìevich su 'sto sentàl. E lui de soto del sentàl el sente che i confabula. «Comandante Prohàska — ghe ga dito 'sto Arciduca — qua prima che molemo le zime meo xe. Mi go savesto de Viena che a Salonico ga cedudo el fronte, che i italiani vien avanti là de San Donà de Piave, che el nostro militar oramai mola el s'ciopo per le strade, che zò in Dalmazia più de una barca de guera ga tirà suso bandiera croata, che a Trieste la gente strazza le tessere del pan e la tepa roba tuto fora dei magazeni. Savé cossa che ve digo mi, Comandante Prohàska mio? Che qua, tempo dò giorni, xe rivoluzion bolscévica, che ai uficiai i ghe incioderà le spaline sule spale e che mi farò la fin de mio povero cognà cola bareta de montura inciodada sula testa. Che mi magari de morir no me importassi tanto se no gavessi de render conto de come che xe stà con Rodolfo, povero defonto.» Insoma, una roba e l'altra, el ghe tontonava a 'sto povero Comandante Prohàska che come quela sera istessa bisognava molar le zime e scampar in Spagna. — Come in Spagna, perché? — Xe quel che ghe ga dimandado el Comandante Prohàska, perché in Spagna? E 'sto qua, sempre sentai che i iera sora del sentàl con soto Bepin Matìevich, zercava de farlo persuaso: «Sicuro, in Spagna, perché la Spagna xe neutral, perché là go parentà.» Ma come che i riverà fin là zò? «Col aiuto di Dio.» Ma come che i passerà oltra dele flote nemiche, se i le intiva? «Tirando suso la bandiera dela febre spagnola, che xe febre spagnola a bordo, cussì nissun se azarderà a vignir a bordo e noi riveremo pulito in Spagna dove che no i me pol ricusar!» — Eh, iera, iera febre spagnola quela volta... — Ma cossa ghe entra la febre spagnola? No capì che 'sto omo bazilava con 'sto teror che i ghe inciodi la bareta de montura sula testa? E cussì el Comandante Prohàska per contentarlo, ga dito: «Va ben, moleremo le zime, partiremo», che Sua Altezza si calmi, che resti qua sentado che lui intanto va a dar i ordini. — E i xe partidi? — Sicuro, i xe partidi. E 'sto povero Bepin Matìevich ga cominciado a sentir che la barca se move e lu sempre colegado in 'sto casson col sentàl. — El ga dovesto andar anca lu in Spagna? — Ma cossa Spagna, siora Nina, che de prima matina, alba, co' i iera in Quarnerolo, Bepin Matìevich sente che i ferma le machine e che tuti core in coverta, anca l'Arciduca. E cussì finalmente el ga profitado de vignir fora de 'sto casson, tuto coi ossi roti che el iera. El vien fora, el varda del oblò e, siora Nina: Sotomarin! — De Danunzio? — Maché de Danunzio! Un sotomarin che vien fora, tuto sufiando e spudando acqua e l'Arciduca che dà ordine de tirar suso la bandiera zala dela febre spagnola. Gnanca tirada suso che i la gaveva, 'sto sotomarin tira suso la bandiera germanica: iera un sotomarin germanico. — Mama mia! Un sotomarin germanico! — Cossa mama mia? Per lori iera noma che ben che el fussi germanico pitosto che altro. E difati subito i ga tirado zò la bandiera zala dela febre spagnola e i ga tirado suso la bandiera austro ungarica. Insoma, gnente: vien a bordo con dò marineri el Comandante de 'sto sotomarin germanico, un tedesco iera, de Germania, e el ghe dimanda al Comandante Prohàska chi che i xe e dove che i va, che i cambia cussì bandiere. Alora l'Arciduca ga dito: «Io sono l'Arciduca Francesco Salvatore d'Austria-Este e vado in Spagna per una roba interessante.» Capiré: 'sto qua lo ga saludà e el ga dito: «Ai sui ordini.» — Ah, questo sotomarin se meteva ai sui ordini? — Ma no: «ai sui ordini» el ga dito per dir, come che usa i militari. Ma quando che l'Arciduca ghe ga ordinà: «Benissimo, alora ci scorterete fin in Spagna!», 'sto tedesco ghe ga dito che lu molto ghe dispiase, ma che lu el ga altri ordini. Che lori torna a casa in Germania, perché i ga savesto che l'Austria cala le armi, che lori come sotomarin, navigando soto acqua, forsi i pol far tanto de no farse véder dela Flota Interaleata che sta vignindo tuta suso per Adriatico, ma che scorta, guai. Che per le navi di superficie non c'é speranza e che zà lori se i riverà a passar oltra de Gibiltera sarà un miracolo. Cussì el ghe ga dito per tedesco, come che dopo dela guera ga contà el Comandante Prohàska. — Ah el se ga ricusado de vignirghe drio? — Sicuro. «E va bene — ga dito l'Arciduca — alora vualtri ci porterete a nualtri in sotomarin in Spagna, visto che avete ocasion di passare per Gibiltera.» «A nualtri? — ga dito el Comandante Prohàska — a vù, Altezza Serenissima, se volete, ma io e i marineri torniamo indrio a Fiume cola barca.» «Mai il Vindobòna in man dei bolscévichi! — ga zigado Francesco Salvatore — se vù volete farvi inciodare le spaline sule spale siete padrone, ma vù e i omini andé in tera col caìcio e intanto il Comandante di questo sotomarino ci farà almanco il piazer di silurar la barca!» Figuréve Bepin Matìevich che de soto sentiva tuto! Fortuna che 'sto Comandante germanico no iera cofe e ghe ga dito al Arciduca che silurar gnanca sognarse, perché le torpedo xe dò e ara se lu strazza una cussì. «Ma almeno cannoneggiateci!» Sì, che cussì apena che se sente el primo tiro xe qua tuta la Flota Interaleata. Che se propio el vol fondar la barca, che el verzi le valvole, come che se usa in Marina de Guera. — Mama mia, i ga averto le valvole? Alagamento? — Come no? Cussì xe stà: che l'Arciduca ga ciolto sotobrazzo un bauleto, greve, che el se tigniva sempre rente, mai no el molava 'sto bauleto — fiorini in oro ga calcolà Prohàska — e el xe andà sul sotomarin, i marineri ga presto presto calà el caìcio, 'verto le valvole e via lori, vogando verso tera col Comandante Prohàska che diseva che xe robe de mati. — E Bepin Matìevich, povero? — Gnente: co' el ga sentì che tuti iera andadi via de bordo, el xe saltà fora del tendagio che el se gaveva sconto, giusto in tempo per véder i omini che girava col caìcio drio la ponta de Santa Crose e el sotomarin che serava el portelo e fazeva presto presto imersion. Fortuna che, come che ve disevo, Bepin Matìevich iera assai nominado come motorista, perché lu, zà col'acqua che cominciava a vignir drento, el ga rivà a serar le valvole — bonissime guarnizioni de Liverpul che le gaveva — a meter in moto le pompe, po' el ga impizzà el motor e, tempo dò ore gnanca, el iera in porto a Lussingrando. — Salvo, dài! — Altro che salvo! E anzi, co' el xe vignù drento de Lussingrando, el xe andado in Governo Maritimo a notificarse che el xe là cola barca. De chi che xe 'sta barca, i ghe dimanda. Che xe una barca abandonata in mare. «Senza governo?» ga dimandado quei del Governo Maritimo. «Alora — i dise, ciolendo nota — la xe del primo che la ga trovada.» «E chi più primo de mi la ga trovada — ga pensado Bepin Matìevich — che iero zà drento?» E subito el ghe ga contà flociando a questi del Governo Maritimo: «Iero andado col mio motor verso Cherso, che là i me gaveva dito che in squero dei Chiole forsi i gaveva ancora una guarnizion dela stela morta che me serviva e come che andavo verso Cherso de note, squasi che ghe dago drento a 'sta barca, abandonada, senza governo.» Siora Nina: xe passadi trenta giorni, quei che competeva per el reclamo e, dopo, la Vindobòna xe stada sua de lu, de Bepin Matìevich. Legge di mare. E no solo che la barca, savé, ma anca tuto quel che iera drento. Pensévese che in un scafeto, anca soldi el ga trovà, bastanza soldi: fiorini in oro. — Ma i fiorini no se li gaveva portadi con sé l'Arciduca Francesco Salvatore, in quel bauleto greve che me disevi che el se tigniva sempre a rente? — In quel bauleto? Maché fiorini, siora Nina. In quel bauleto iera le memorie del Arciduca Rodolfo scrite fin l'ultima note e tuto spiegà come e perché de quela volta a Mayerling. Tuto propio ben spiegà. Pecà: no se ga mai savesto come e perché. Perché quel sotomarin se ga perso. No se ga mai savesto perché e come. MALDOBRIA XXXI - DUE CARTOLINE POSTALI Nella quale Bortolo ricorda le ultime ore della lunga giornata terrena di Barba Checo che, com'egli stesso amava raccontare, era nato il giorno stesso in cui era nato l'Imperatore. Stesso millesimo, stesso anno, stesso mese, stesso giorno: ovvero il 18 di agosto del 1830. — El pessimòlo xe molo, ve lo dise el nome, ma per zena no ghe xe gnente de meo per i veci. Me ricordo che a povero Barba Checo, de sera, la vecia Tona che lo tendeva, ghe fazeva sempre un pessimòlo, la ghe lo netava e po' la ghe mete va suso oio bon de Cherso che a ela i ghe portava. Oio crudo, siora Nina, sul pessimòlo lesso, ben netà, limon, pévere e sal. No ghe xe gnente de meo per i veci: no xe greve, no fa pienezza, me diseva anca el dotor Colombis. Anzi pévere meo de no. — Gnanca sal, i dise adesso, perché fa pression. — Barba Checo no gaveva tanto pression, ma el gaveva assai arterie sclorosi. I ultimi tempi propio el se perdeva. Figurévese che, una volta, la vecia Tona xe andada a casa sua de lu come ogni matina, che ela povera andava per tènderlo, e no la lo trova. No el iera, no el xe. Dove el sarà? In pescheria no el iera, in Cesa dele Mùnighe gnanca, al molo che i lo ga visto ma dopo che no i lo ga visto più. Insoma, per farvela curta, savé dove che i lo ga trovà, siora Nina? — In Cesa dei Frati. — Perché in Cesa dei Frati? I lo ga trovado, siora Nina, a Fiume, soto la Tore del Orolojo, perso. I ga calcolà che lui de matina bonora doveva esser andà al molo, montà in vapor e rivà a Fiume. E là, perso, soto la Tore del Orolojo, che un gendarmo ga apena rivà a zucarlo indrio per un brazzo che se no el finiva soto una carozza. — Ma qual Barba Checo ve iera questo? — Barba Checo po', anca vù dovevi conosserlo, quel Barba Checo che ghe iera morta tanti ani prima la moglie, siora Giacomina. Lui gaveva navigado tanti ani col Lloyd Austriaco, massima parte per Kobe, el ve iera nostro-omo lu, e co' i lo ga messo in pension, el iera qua come scritural in Agenzia, ma po' tutintùn el se gaveva perso. — A Fiume, soto la Tore del'Orolojo? — No, el se gaveva perso, come che se perde i veci: el iera andado in dolze. — Ma no me gavevi dito che el se gaveva perso a Fiume? — Sicuro, el se gaveva perso a Fiume, perché el se gaveva perso. 'Sti veci che ve ga le arterie sclorosi, ghe ciapa ogni tanto 'sti tiri, lori ve monta sui treni, sui vapori. Anca caminando qualche volta: chi sa dove che lori pensa de andar. E a Fiume gnanca no i saveva chi che el iera, perché no el gaveva nissun atestato con sé e no el iera gnanca bon de dir chi che el iera. El diseva solo che lui xe vignudo a Fiume a comprar zucaro de orzo. Fortuna che Marco Palisca che passava per Riva el lo ga ravisado, co' el iera che el quistionava con 'sto gendarmo. — Zuchero de orzo? Se trovava anca qua però zuchero de orzo, me ricordo che, in botega de siora Resi... — Ma indiferente! Natural che se trovava anca qua zuchero de orzo. Solo che Barba Checo se gaveva perso. Iera momenti. Perché, aré, che co' lui no se perdeva el iera ben in sentimenti, con tuti i ani che el gaveva. Lui ve gaveva un otantasie ani... — Quando questo? — Quando che el li gaveva, po'. Perché, dovè saver che lui ve iera nato el giorno istesso che iera nato l'Imperator. Lui diseva sempre: «Mi son nato el giorno istesso che xe nato el nostro Imperator: stesso milesimo, stesso mese, stesso giorno: diciaoto de agosto. E co' iera la Festa del Imperator, che qua iera grande feste co' iera la Festa del Imperator, lui ve se vestiva in montura de nostro-omo del Lloyd, l'andava al molo, in Cesa, in Piazza, tuto. Ma nissun, povero, se ricordava gnanca de dirghe: «Per molti ani, Barba Checo», perché, capì, Festa del Imperator che iera, iera confusion e nissun se ricordava. — Ah, in montura: lui navigava ancora? — Ma no, lui se meteva in montura per la sua festa, per sé. Questo co' l'andava ancora fora. Perché, savé, fioi che no el gaveva, la moglie che ghe iera morta ancora giovine, giovine insoma: setanta ani, ma giovine in confronto, dopo de quela volta che el se gaveva perso a Fiume, l'avocato Miagòstovich che iera Podestà, gaveva dito che iera meio starghe atenti che no el vadi più fora. O almanco, el ghe gaveva dito ala vecia Tona, compagnarlo. Perché l'avocato Miagòstovich iera una cara persona. Savé, Barba Checo ve gaveva sì la sua pension del Lloyd, ma, cossa volé, quela volta le pensioni iera misere; casa sua el gaveva, che quel iera ben, perché cussì no ocoreva che el vadi in Ospizio, la vecia Tona ghe vigniva a star un poco parente e l'avocato Miagòstovich ghe lo gaveva dado a ela come in curatela: ela ghe andava a tirar la pension, la lo tendeva, quel se capissi; domenica la lo compagnava a Messa granda, per pranzo la ghe fazeva qualche picolezza e per zena un pessimòlo. La ghe serava i scuri, la ghe impizzava el lumin a oio sul sgabél, la ghe meteva dò jozze de milissa in un bicer de acqua, che usava quela volta i veci, e sul piatin la ghe pozava un quadretin de zuchero de orzo, che lui assai ghe piaseva 'sto zuchero de orzo. — La lo tendeva, come. — Sicuro, se no chi lo gavessi tendesto? El gavessi dovesto andar in Ospizio. Che anzi co' xe s'ciopada la guera, la prima guera, se capissi, che squasi subito ga comincià carestia, l'avocato Miagòstovich pensava de meterlo in Ospizio. Capì: la pension, zà prima bastava e no bastava, e in tempo de guera pezo che pezo... Ma la vecia Tona ga dito de no, che la lo tenderà ela, che in fondo el magna come un useleto, che lui a casa sua ga le sue memorie e che portarlo in Ospizio voleria dir la morte. Anzi, pensévese che, co' xe morto l'Imperator, che iera del Sédese, a Barba Checo no i ghe ga dito gnente per via che no el se impressioni. Capiré, lui che diseva sempre: «Mi son nato el giorno istesso che xe nato el nostro Imperator: stesso milesimo, stesso mese, stesso giorno», dirghe che iera morto l'Imperator saria stà un spavento, come, per lu. — Quanti ani gaveva l'Imperator co' el xe morto? — Otantasie, ve disevo. E dopo che el xe morto, xe andà sempre pezo. — Chi, Barba Checo? — Ma no Barba Checo: l'Austria. Del Sèdese xe morto l'Imperator e del Diciaoto xe stà el ribalton del'Austria... — Diciaoto de agosto? — No: quel iera la Festa del Imperator. Nel Mile Novecento Diciaoto xe stà el ribalton del'Austria, no gavé presente? Che xe rivade le torpediniere e dopo l'Italia e una roba e l'altra. Bon, no ga importanza. Per Barba Checo, coi soldi iera pitosto mal. Perché i continuava a darghe la pension, le sue spetanze, ma no i gaveva regolado ben ancora. E zento e vinti corone che i ghe dava prima dela guera, zento e vinti i ghe dava anca dopo. — Lire? — No: sempre corone. Fina el Ventiun xe stà corone qua nele vece province, ma corone che oramai poco se podeva far con lore. Pensévese che 'sta vecia Tona podeva giusto soperir per 'sta picolezza de pranzo e el pessimòlo per zena, ma a Barba Checo gnanca el zuchero de orzo no la rivava più a comprarghe. Costava, savé el zuchero de orzo. — E la milissa? — Milissa la ghe portava ela, cossa volé: do jozze de milissa, quele fiaschete sutile dei frati durava un'eternità. Ma perché stavimo parlando de milissa? Ah sì, per el zuchero de orzo. Una sera Barba Checo ghe dise: «Tona, dove me xe el zucaro de orzo? No me gavé lassà el quadretin de zucaro de orzo, Tona.» Tante sere no el se gaveva inacorto e po' cussì, tutintùn, el gaveva momenti che el iera lucidissimo. — Anca mia madre defonta, una matina... — Indiferente. Barba Checo se ga inacorto che no la ghe gaveva lassado el zuchero de orzo, e la vecia Tona alora cussì ghe ga dovesto palesar pianzendo in che ristretezze che el iera: «Barba Checo mio, xe solo zento e vinti corone e, cola guera e tuto, ogi co' se cambia diese corone se le ga zà spese...» Insoma una roba e l'altra. Ben, savé cossa che el ga fato lui de matina bonora, presto? — El xe andado a Fiume col vapor. — No, dove l'andava lui più fora de casa? Lui ve se ga alzado del leto e, cussì ancora in mudande longhe che el iera, el xe andado a sbisigar nel satùl dove che el tigniva tute le sue carte, per vardar el decreto dela pension. Lucidissimo. In 'sto satùl el gaveva el decreto dela pension, la matricola, la fede de nàssita, la vera dela moglie defonta, e altre robe, per memoria... E come che el zerca 'sto decreto dela pension, no volé che ghe vegni in man dò cartoline postali no doprade? — Nove? — No, vece. Ma no doprade. Ancora col bolo con Francesco Giusepe defonto, che inveze iera zà Carlo, che po' no iera gnanca più Carlo, perché iera l'Italia... — No doprade. Pecà. — Ben, volé creder: Barba Checo ga ciolto una de 'ste cartoline e, col àpis copiativo, bagnandolo in ponta sula lingua, el ghe scrive... — Ala vecia Tona? — Cossa ala vecia Tona, che el la vedeva ogni santo giorno? El ghe scrive una suplica al Imperator. Là del indirizzo lui ga scrito: «A Sua Maestà Apostolica l'Imperatore Francesco Giuseppe Primo, in Vienna». E de drio la suplica: che avendo lui servito nel Lloyd Austriaco per quaranta ani ed essendo nato il suo stesso giorno e trovandosi in ristretezze, insoma che l'umilia ai piedi dela Maestà Vostra una suplica per un sussidio di cento e venti corone, pari a una mesata di pensione. E dopo tuto pulito el ga firmado: nela speranza che la presente verrà benevolmente acolta, Francesco, deto Checo, come che el se ciamava e dove che el stava. — Ma l'Imperator no iera morto? — Sicuro che el iera morto. Gnanca l'Austria no iera più, ma lui no saveva gnente. Ben, volé creder, lui ga 'verto la finestra, i scuri, el ga spetà che passi una cratura e el ghe ga butado zò la cartolina che el la buti in casseta... — E la cratura la ga butada? — Sicuro. Altro che. Savé chi che iera 'sta cratura? Iera Bepi Màrovich, picio quela volta, che no el rivava gnanca ala casseta e el se ga fato cior in brazzo de un Carabinier. — Un regnicolo? — No so mi se el iera regnicolo: iera un Carabinier. Contava sempre Bepi Màrovich. Insoma, per farvela curta, 'sta cartolina de Barba Checo xe rivada in Posta. Iera sior Nadalin ancora quela volta, sempre restado Maestro de Posta, che i ghe la ga portada a lui, disendoghe: «Sior Nadalin, vardé qua, qualchedun ga fato un scherzo.» E Sior Nadalin la ga vardada e ga dito: «No, no: no ve xe un scherzo, questo ga scrito propio Barba Checo, povero: raviso la scritura. Pensé che no el sa più gnente del mondo e in che brute condizioni che el ve xe.» E alora savé cossa che i ga fato? Sior Nadalin ga dito: «Omini, savé cossa che femo? Femo coleta per el povero Barba Checo.» E in zinque che i iera in Posta i ga dà ognidun vinti corone, i ga fato un vaglia de zento corone e i ghe lo ga mandà a Barba Checo. — E el ghe xe arivado? — Come no? Ghe lo ga portado, tuta soridente, la vecia Tona. E lu savé cossa che ga fato? — El xe andado in Posta a tirar i soldi? — No, quel xe andada la vecia Tona e subito la ghe ga comprado zuchero de orzo. No, lui apena che el xe restado solo, el ga ciolto quel'altra cartolina postale no doprada e el ga comincià de novo a scriver col àpis copiativo. — Per domandarghe altri soldi al Imperator? — No. Lui ga scrito l'indirizzo come prima, a Sua Maestà Apostolica, e po' che «tante grazie alla Maestà Vostra, ala quale umilio i mii ringraziamenti per il sussidio di cento e venti corone richieste, peccato però che quei malignazi dela Posta si sono tignuti per loro venti corone, che ogni modo non fa gnente e che sono contento anche cussì.» — E el la ga spedida? — Sì: con una cratura che passava. E pochi giorni dopo el xe mancà. Cussì, come un useleto. No el se ga gnanca inacorto. El xe morto zuzando un zuchero de orzo. MALDOBRIA XXXII - IL FONDO DELLA BOTTIGLIA Nella quale sul trono della Duplice Monarchia, sul fronte e dietro il fronte di guerra, compare per breve tratto Carlo Piria. Origine e dubbia credibilità di tale epiteto, peraltro reputato valido dal Comandante Coglievina in una singolare circostanza al teatro di Fiume. — Defonta l'Imperatrice Zita? Perché defonta? Chi ve ga dito? Ve la gavé sognada che la ve tirava i pie? Quando xe morta Zita? No go mai sentì. Giusto l'altro ieri legevo che la xe viva. «L'ultima Imperatrice dai secoli dela memoria», cussì qualcossa scriveva un ilustrato. Viva, viva la xe. Oh Dio, la ga i sui ani. Come Meri Colombis, mi calcolo, però viva e gnanca tanto vecia, savé, perché, sentì l'Imperator Carlo, povero, el nevodo de Francesco Giusepe, ogi el vignirìa a gaver otanta ani, e Zita, come moglie, setantazinque, setantasie, al massimo. Perché, scolté, Otto el più grando dei fioi che i gaveva, iera del Dòdese, questo me ricordo, come Tonin Millevòj. Barba Checo, vedé se fussi vivo savessi contarve tuto pulito. — Chi, el vecio Barba Checo? — Sicuro, vecio el iera. E co' el iera vivo se se ghe dimandava «Quanti ani gavé, Barba Checo?» «Un più dela morte!» el rispondeva. Lui tuto saveva de 'ste robe dei Regnanti. Perché lui, un periodo, de Marina de Guera che el iera, i lo gaveva messo a Mìramar a tènder i caìci. — I caìci de guera? — Maché i caìci de guera! Dove mai se ga visto caìci de guera? Prima dela guera i lo gaveva messo a tènder i caìci che ghe ocoreva a Mìramar, perché a Mìramar, quela volta stava Maria Josefa, la madre de Carlo. — Ma no stava Massimilian a Mìramar? — Sì, Massimilian ve stava ai tempi de Marco Caco, ma quando che iera Barba Checo a Mìramar, in Castel de Mìramar stava Maria Josefa, la madre del Imperator Carlo, che però xe diventado Imperator apena dopo... — Dopo cossa? — Dopo che xe morto Francesco Giusepe, siora Nina: no ocori esser Barba Checo per saver 'ste robe. Solo che lui, 'sto Carlo — giovinoto che el iera ancora co' el stava a Mìramar, oh dio giovinoto: apena sposà — lui, ve disevo, gnanca no se sognava che el sarìa diventado Imperator un giorno, perché dopo de Francesco Giusepe ghe gavessi tocado a Francesco Ferdinando. — Che inveze no ga volesto? — Come no el ga volesto? No el ga podesto, povero, perché i lo ga copado, no? Cossa ve iera Sarajevo? Che i ga copà Francesco Ferdinando. E, copado che i lo ga, ghe ga subito spetado a Carlo de diventar Erede dela Duplice. A Mìramar. — Erede dela Duplice a Mìramar? — Ma no! Erede dela Duplice in Austria, Ungheria, Boemia, Moravia, Lodomiria etcetera, come che i ghe ciamava quela volta. Solo che, quando che xe passado telegrama che i ga copà Francesco Ferdinando, 'sto Carlo iera a Mìramar. A Trieste in Castel de Mìramar che, anzi, Barba Checo — che me ricordo come ieri quel giorno, lo gavemo intivado in local dele Beretine Rosse, rente Marina a Trieste — me ricordo, come ieri, che Barba Checo ne ga dito: «Savé vù omini, chi che adesso ve deventerà Erede dela Duplice? Savé chi? Carlo.» «Chi — ghe ga dimandado Marco Mitis — Carlo Piria?» — Ah xe vero, xe vero: me ricordo che i lo ciamava Carlo Piria. Carlo Piria, l'ultimo Imperator, quel che beveva. — Questo no se ga mai savesto. La vera verità se el fussi o no el fussi piria, no se la ga mai savuda. Insoma, che ve contavo, Barba Checo iera propio intrinseco de lori, perché el ghe tendeva i caìci a Mìramar e lu — co' mi, Marco Mitis e el Comandante Coglievina semo tornadi a Trieste, el viagio dopo — tuto el ne ga contado cossa che iera nato a Mìramar quel giorno. — Quel giorno che sé tornadi? — No, quel giorno tuto el ne ga contado cossa che iera nato a Mìramar quando che xe passà telegrama che i gaveva copado Francesco Ferdinando. Numero un: i ga fato meter la bandiera a meza asta anca sui caìci, e tuti in profondo luto. Numero due; Carlo, povero, che cussì ghe tocava deventar Erede dela Duplice, voleva subito partir per Viena, cola ferata. E inveze che no: ghe xe rivado l'aviso de Viena che ga dito l'Imperator che, visto che el xe a Mìramar, che el resti a Trieste fin che riva le salme. — Doveva rivar salme a Trieste? — Per forza che doveva rivar le salme: se i gaveva copado Francesco Ferdinando e la moglie a Sarajevo, natural che per portarli a Viena prima i li doveva sbarcar a Trieste. A Trieste xe stà funeral de Marina fina in stazion: su per el Corso, Piazza dele Legna, via del Torente, Piazza Stazion. El militar col s'ciopo cola cana per in zò e el Vescovo davanti che cantava «In Paradisum». Insoma bel. Ma indiferente. Quel che volevo contarve xe che Barba Checo ne ga contà tuto. Come che i ghe ga ordinado a Carlo de restar a Trieste, cussì ga cominciado a rivar a Mìramar gente de Viena, de Budapest, de Praga, de dapertuto, Arciduchi, quei del Sangue, Uficialità, e anca el General Boròjevich von Bòjna, che iera stado suo Comandante de regimento. — De chi? De Francesco Ferdinando? — Ma no, Comandante del regimento de Carlo, co' el gaveva fato el militar, perché soto l'Austria anca i Arciduchi doveva andar militari come tuti. — I xe vignudi tuti là a spetar le salme? — Anca, ma anca a renderghe come omagio a 'sto Carlo che diventava Erede dela Duplice. Però, savé, 'sto Carlo, ne contava Barba Checo che lo gaveva portado tante volte in caìcio a Mìramar, no iera un omo che se imponeva come Francesco Ferdinando che iera mustaci de fero. Lui ve iera anca omo picolo de statura — picolo: insoma no grando — e no el pareva, cussì a véderlo, omo de proposito. El pareva un omo senza corajo. Lui iera un omo che assai ghe piaseva presempio andar in caìcio solo con Zita e Barba Checo che ghe vogava. Omo assai de Cesa, anca, e po' caminade, gran caminade el fazeva in parco de Mìramar. E cussì, star fra tropa gente, ghe fazeva sogezion, come. Carateri. Lui, presempio, con tuto che iera passadi ani e ani, co' el se vedeva davanti 'sto General Boròjevich von Bojna, che iera stado suo Comandante de regimento, come che ve contavo, 'sto Boròjevich assai ghe imponeva, ghe fazeva sogezion. Insoma una roba, l'altra. E quela sera 'sto Carlo gavessi dovesto ricever tuta 'sta gente, 'sta Uficialità, questi del Sangue, 'sto Boròjevich von Bojna: riceverli e anca risponderghe. — Risponderghe, cossa? — Risponderghe grazie tante dele condoglianze, quel, quel altro, che el farà del suo massimo meglio per rendersi degno... Cussì lo sentiva predicar Barba Checo per tedesco, caminando su e zò per 'sti viai de Mìramar. El se esercitava insoma. Omo timido, no? Quel ve xe stado tuto. — El se imparava a memoria? — El se esercitava, come; ma tanto nervoso el iera che la madre, 'sta Maria Josefa, ga pensado ben, come per farghe corajo, sicome che lui no beveva quasi gnente, solo co' iera un'ocasion de un brindisi, la ga pensado ben de meterghe nel brodo un bicer de Madera. — Un bicer de chi? — Un bicer de Madera, de vin de Madera, che xe una marsala come, ma più forte, che el se tiri suso. Che a bordo, mi me ricordo, in prima classe assai se usava meter Madera nel brodo. — Ah, vin nel brodo! Usa, usa i maritimi. Anca asedo nela pasta e fasoi... — Sì, pasta e fasoi a Mìramar! Nel brodo la ghe ga messo 'sto bicer de Madera, senza dirghe gnente, perché che el se fazzi corajo. E volé che sia, che Barba Checo ne ga contado, che in 'sta cichera de brodo, quando 'sta Maria Josefa ghe ga dito ala fia Elisabeta Franziska de portarghelo suso al fradelo, 'sta Elisabeta Franziska, che saveva che omo che el iera, prima la xe passada per camera de pranzo e la ghe ga butado drento in cichera un altro bicer de Madera. — Ah! Dò biceri? — Sì, dò, ma la fia credeva che fussi un, perché no la saveva che la madre anca. Insoma iera squasi più Madera che brodo e 'sto Carlo, nervoso che el iera, lo ga bevù. E bevù che el lo ga, passando per camera de pranzo, prima de andar drento in salon dove iera tuti 'sti qua che lo spetava, vedendo là sula credenza 'sta butilia de Madera, el ga pensà: «Xe meio che prima de andar drento me bevo un sluk.» Un sluk el ga dado, forsi anca dò, perché subito co' questi ghe parlava del cordoglio generale dei popoli, de 'sta perdita irreparabile, lui gaveva l'ocio lustro. — Per comozion, come? — Sì, tuti ga credesto comozion, ma co' el ga rispondesto, se ga tuti inacorto inveze che el iera propio lustro. Perché prima de tuto el ga dito che con gaudio immenso lui aceta queste condoglianze, po' el ga strambizà come e el ga dito «Adesso beviamo tuti ala salute dela Duplice Monarchia» e, ciapando soto brazo el General Boròjevich von Bojna, el ga strassinà tuta 'sta gente in profondo luto in camera de pranzo. E là «prosit», «prosit!» el ga fato verzer no so quante butilie de Madera. — Imbriago? — Lustro, capì. Omo no abituado. Natural, tuti ga fato finta de gnente, ma de quela volta xe stà che i ga comincià a ciamarlo Carlo Piria. — Eh sì: co' el iera Imperator, tuti lo ciamava Carlo Piria qua. — Natural. Però, come che ve disevo, no se ga mai savesto se dopo de quel giorno el ga continuado a bever avanti. Ma savé come che xe le nomèe, de quela volta Carlo Piria i lo ciamava. — Bruto. — Oh dio, né bruto né bel. Po' lui no ga mai savesto che i lo ciamava Piria, perché nissun se gavessi azardà a dirghe davanti, specie dopo che el xe diventà Imperator. Perché, presto, savé, el xe diventà Imperator: del Sédese, co' xe morto Francesco Giuseppe e piena guera iera. — Quel'al tra? — Per forza che quel'altra. Insoma iera piena guera e lui, se capissi, el iera massima parte del tempo sul fronte, anca come esempio. E al fio Otto, che quela volta gaveva solo che sie ani, primo ano de scola, sempre come esempio, el ga volesto meterlo nel Convitto del Colegio Militar dela Marina de Guera, che iera rente de Abazia. Picio iera 'sto Otto, el più picio dei fioi che iera in 'sto colegio, ma tuto vestì come un mariner vero, de guera. Come esempio. — A oto anni? — Otto el se ciamava: Ottone, ma sie el gaveva. Insoma gnente, una sera 'sto Imperator Carlo torna del fronte con 'sto General Boròjevich von Bojna, che de quela volta i iera diventadi assai intrinsechi, e el va a Fiume per véder el fio. — In Abazia? — No, lui con Boròjevich xe andado a Fiume, perché apena rivà a Fiume, el ga visto che in Teatro Grando de Fiume, iera una roba dela Croce Rossa per i feriti de guera e el ga decidesto: mi vado. E el ghe ga dito al General Boròjevich che el vadi in Abazia a ciorghe el fio e che el ghe lo porti in palco in teatro, cussì che anca la gente lo vedi. — In palco in teatro col fio picio: bel. — Bel, sicuro. Ma cussì al impronto che el xe rivà, in teatro no iera gnente pareciado per lu, anzi iera zà cominciada la musica. E come che i vien drento dela porta del teatro, là del'entrata, no i trova nissun. I se varda atorno e el General Boròjevich vedi passar un in montura de Marina, che po' savé chi che iera? Iera el Comandante Coglievina, che iera là, andado fora un momento per un'impelenza e el ghe dise: «Comandante, compagnate Sua Maestà Imperiale nel palco reale e metetevi fuori di guardia, fin che no torno io!» — Al Comandante Coglievina? — Sì, ah! Al impronto che i iera rivadi, no i ga trovado altri che el Comandante Coglievina, che el iera in montura e el se imbotonava le braghe e i ghe ga dito a lu. E podé capir, Coglievina, tuto emozionà, ga compagnado suso l'Imperator e se ga messo fora del palco in andito davanti dela porta. — De guardia? — De guardia sì, come che ghe gaveva intimà Boròjevich, e lui più de un'ora ga spetado caminando su e zò tuto contento, perché, capiré no iera roba de tuti i giorni esser messo a far la guardia davanti del palco de un Imperator Carlo. — Carlo Piria?... — Ma sì, che i ghe diseva Carlo Piria. Insoma che ve contavo, 'sto Coglievina caminava su e zò tuto contento e dopo squasi passada un'ora, el vedi rivar un putel, tuto biondo, vestì de mariner de guera e lui subito lo ga ravisado che iera Otto el fio del Imperator. E alora el ghe xe andado incontro tuto soridente e ci fa ci dice: «Presto, presto, che papà è già drento!» E el General Boròjevich von Bojna che iera drio, a sentir 'sto «papà» ghe fa coi oci fora dela testa: «Ma è ubriaco, Comandante?» E Coglievina: «Imbriago? No, non credo. Co' me lo gavé lassà lo go compagnà suso per le scale e no me go inacorto de gnente. E se no me go inacorto mi, sicuro no se ga inacorto nissun.» Povero Carlo Piria! A Madera el xe morto. Co' se dise el destin: i diseva sì, che ghe piaseva el Madera. MALDOBRIA XXXIII - FINO ALL'ULTIMO CAVALLO Con la quale, allo spegnersi del lume di candela di un'asta demaniale, sullo stanco passo dell'ultimo lipizzano delle i. r. Poste di Lussino, si chiude un'epoca, un capitolo di storia e la breve vita felice di Nicolò Bùnicich proprietario prima di carrozza e poi di cavallo. — Eh, cussì la xe, siora Nina: che el sol magna le ore. Purintropo, come che diseva el povero Barba Checo. Che po' lui xe andado avanti fin a novantasete ani, novantaoto, mi calcolo. — Purintropo, come? — Purintropo, come per dir purtropo. Lui ve iera un ridicolo, sempre purintropo el diseva, fin al ultimo suo. E pensévese, novantasete, novantaoto che el gaveva, mai stado un giorno in leto. — Gnanca in sovenzion? — Cossa in sovenzion? Omo vecio in sovenzion e barca vecia in avarea, xe pronti per la véa. Savé chi che parlava cussì? — Barba Checo, povero defonto ... — Ma cossa volé saver vù de Barba Checo, che no lo gavé mai né visto né conossudo. Cussì parlava el vecio Andre, povero. — Quel che stava là dela Ponta de Sant'Andrea? — Maché Ponta de Sant'Andrea! Vù sé sempre che volé farghe la ponta al apis per scriver ancora prima che mi parlo. El vecio Andre iera el vecio Andre de Lussingrando che el iera ancora vivo, pensévese, quando che el vecio Bùnicich iera zà vecio. — No co' iera vecio Barba Checo? — Lassemo star Barba Checo che lui iera zà morto e sepolto. Mi ve contavo del vecio Andre, che lui ve iera stado omo de fiducia, omo secreto, del vecio Bùnicich, che ve disevo. — Quel che gaveva squero a Lussin? — No stéme parlar dei Bùnicich che gaveva squero a Lussin, che quei me la ga fata sporca perché sa tuti che mio santolo Toni, co' el xe morto, gaveva dito che el squero doveva esser anca de mio padre, che iera zà in parte, come. Bon, indiferente. Mi, questo che ve parlavo iera el vecio Nico Bùnicich, Nicolò. Quel che iera restado puto vecio solo in casa vecia dei Bùnicich a Lussingrando, perché i Bùnicich ve iera veramente de Lussingrando per come che de dove che i vigniva. Dopo, i fradei iera andai a Lussinpicolo, ma lui iera restado sempre a Lussingrando col vecio Andre. Puto vecio. — El vecio Andre? — No. El vecio Andre iera stà sposado cola vecia Tona, che iera stadi tuti dò sempre in casa dei Bùnicich come gente de fiducia, senza fioi. Dopo, la vecia Tona iera morta. Tutintùn la xe morta, che de matina ancora la fazeva la lissia; e insoma. — Insoma, cossa? — Insoma per dirve. 'Sto vecio Bùnicich gaveva un cugin, primo cugin, Giadròssich, Giuseppe Giadròssich, Bepin. Lori ve iera imparentadi per parte de madre. 'Sti Giadròssich ve gaveva scune, barche, tuto. Agenzia Maritima a Trieste e Costantinopoli, perché massima parte lori navigava per Levante. — E a Lussin, gnente? — Come gnente a Lussin, che a Lussin i gaveva luto? A Lussin ve iera la «Fratelli Giadròssich e Consorti». E 'sto Giuseppe Giadròssich, se me lassé parlar, ve disevo che el iera andado a Costantinopoli per ténder 'sta Agenzia de Costantinopoli, che pareva che no andassi tanto ben. Perché quel altro fradelo iera un poco barca stramba. No ga importanza. Pensévese: come che 'sto Giuseppe Giadròssich va a Costantinopoli, no el ve mori de rissìpola? — Lu no mori e i altri sì? — No: lui mori e i altri no. Ma questo xe indiferente. Solo per dirve che, in testamento propio, Giuseppe Giadròssich ghe ga lassado a Nicolò Bùnicich la carozza. — Per el funeral? — Ma cossa per el funeral? La carozza sua de lu, che quela volta tuta la gente che se tigniva gaveva carozza. Chi gaveva veture, automobile intendo, quela volta? Ve parlo de prima dela Prima guera. — Ah, la carozza col caval? — Sicuro. Ma lassè star el caval, che cavai sarà che noi no saremo. 'Sta carozza de Giuseppe Giadròssich ve iera una carozza che a Lussin no se gaveva mai visto una carozza compagna. Bela, inglese, che lui se la gaveva comprada a Trieste e anzi i diseva che prima la iera del Console inglese. Savé, Giuseppe Giadròssich iera un poco omo capricioso e anche el lussava. E co' el stava a Lussin, prima de andar a Costantinopoli el vecio Bùnicich ghe diseva sempre: «Che bela, Bepin, che xe 'sta tua carozza! Ah se podessi gaver una carozza compagna!» «Bon — ghe gaveva dito ridendo Giadròssich — te la lasserò in testamento, che mi son dò anni più vecio de ti». E el rideva con 'sta scuria in man. E inveze, vedé: a Costantinopoli, rissìpola e el xe andà. Ma per bon, savé, el ghe la ga lassada in testamento. «Lassio la mia carozza all'amico fraterno e cugino primo Nicolò Bunicich di Lussingrando». L'avocato Miagòstovich ghe ga leto propio. — El ghe ga lassa tuto? Carozza e caval? — No. Cavalo no. Quel xe stà. Perché lui co' xe partido per Costantinopoli — che iera meo che gnanca no el se moveva de casa — chi ghe gavessi tendesto el cavalo? E cussì el lo ga vendudo. E la carozza, inveze el la gaveva lassada in stala sua de lori, tuta ben coverta, savé, con su l'inzerada che no la se ruvini. — Eh, una volta inzerada se usava assai! — Tante robe se usava, anca le bone maniere. Bon, indiferente. 'Sto Bùnicich xe andado dei Giadròssich, che i ghe la ga dada senza discuter, perché, capì testamento, ultime volontà, e lui, pensé, ga dovesto imbarcarla sul vapor, de Lussinpicolo fin Lussingrando, perché no el gaveva cavalo. — Come no el gaveva cavalo? — No. No el gaveva cavalo. Cossa ghe xe de strano? Vù gavé un cavalo? Mi go un cavalo? No. Cussì el vecio Bùnicich no gaveva cavalo perché no el gaveva carozza. E adesso che el gaveva l'ocasion de gaver la carozza el zercava un cavalo. — A Lussin? — A Lussin, sì el lo zercava. Perché cossa volé, el vecio Nico Bùnicich, strento che el iera, dove el podeva concepir de far vignir un cavalo de fora? Sarìa stà massa spesa. E po' el trasporto in mar, portar un cavalo sul vapor, quela volta, i domandava un'eresìa. E cussì lui zercava un cavalo a Lussin. El gaveva dimandado ai Nicolich, ai Politeo, ai Colombis, a tuti quei che gaveva carozza; ma, capì, questi che gaveva la carozza ghe ocoreva el cavalo e no i ghe lo vendeva. Breve, siora Nina, quela carozza xe restada ferma in cortivo dela casa dei Bùnicich a Lussingrando soto l'inzerada, perché anca l'inzerada i ghe gaveva dado, un dò ani e mezo, mi calcolo. Che anzi oramai a Lussin, quando che i Nìcolich gaveva fato el primo vapor de fero e subito dopo el ghe iera tornado in squero in avarea, tuti diseva: «El vapor dei Nìcolich no va né avanti né indrio, come la carozza de Bùnicich!» E Barba Nane un giorno che el lo ga incontrà, che el iera in confidenza, el ghe ga dito: «Bùnicich mio, xe vero che i ve ga cavà la matricola de cùcer»? Un rider, siora Nina, ve iera a Lussin, per 'sta carozza soto l'inzerada. E lui se cruziava, savé, Bùnicich. Perché adesso che el gaveva l'ocasion de gaver la carozza, e che carozza, ghe sarìa stado noma che comodo doprarla, campagne che lui gaveva de qua e de là, per andar a Cigale, a San Martin, a Ciunschi, a Ossero, a Neresine — lui gaveva vide a Neresine — e po' più de tuto su e zò de Lussingrando a Lussinpicolo, che inveze ghe tocava vignir a pie o cior el vapor. Una schiavitù. — No el trovava cavalo? — Sicuro che no el trovava cavalo, se no el lo voleva comprar fora. Lui sempre a Lussin zercava, dimandava, el spetava che mori un e l'altro per 'sto cavalo. Fin che un giorno cossa xe, cossa no xe, l'intiva in riva sior Nadalìn, che iera Maestro de Posta, lu gaveva l'apalto dela Posta per tuta Lussin, che ghe disi, ci fa ci dice: «I me ga deto, Bùnicich, che zerché un cavalo». Che sì, che el zerca, se propio xe ocasion. Bon, che ocasion xe. Che el cavalo dela Posta xe vecio, che lui no ghe vol sconder gnente, che el va per vinti ani, che per un omo sarìa otanta, ma che el xe sempre stagno, bon cavalo, lipizzan. Che però per la Posta i ghe ga intimà de Pola de cambiarlo, che el novo cavalo ghe riva de Fiume e che se lu vol, che el se regoli, perché Bepin mio, come diman l'altro, in stalagio dela Posta, mi meto el cavalo vecio al incanto. — Otanta ani sarìa vinti ani per un caval? — Si ma iera ancora un cavalo che fazeva el suo lavor. I lo meteva al incanto, al'asta insoma. Cola candela come che iera regolamento dele Poste Austro-Ungariche. — I gaveva candele per leger le letere? — Cossa per leger le letere? I fazeva l'incanto cola candela. Co' i meteva un cavalo al incanto, o una carozza o una qualunque roba dela Posta, i impizava una candela, su una tavola e tuti quei che iera là podeva far oferte fin che la candela no se distudava. L'ultimo che gaveva fato l'oferta più alta cola candela ancora impizada, guadagnava l'incanto. — Bel! — Eh, iera tante bele robe quela volta. Insoma che ve contavo, come diman l'altro Bùnicich e el Maestro de Posta se trova in stalagio dela Posta, solo che lori dò, perché altri no iera vignudi, capì, un cavalo de vinti ani, vecio, sfiancà de Posta, i impizza la candela sula tavola, Bùnicich disi «diese fiorni» e dopo i ga ciacolado de una roba e del altra per un per de ore fin che se ga distudado la candela. Per diese fiorini el lo ga avudo. — E no el ghe lo podeva ceder subito, se i iera solo che lori dò a 'sto incanto? — Eh no! Bisognava prima spetar che se distudassi la candela. Cussì se usava nele vece Province. — Quanto sarìa stà diese fiorini? — Indiferente: un bianco e un nero, per un cavalo. Siora Nina, per la Domenica dele Palme ve xe stà un spetacolo. — In teatro? — Maché in teatro. Ve xe stà un spetacolo, per dir un avenimento. Xe andada tuta Lussingrando a véder Bùnicich che sortiva del cortivo de casa sua de lu, col cavalo, cola carozza tuta lustrada e el vecio Andre cola scuria e le brédine in man come un cùcer de casada. E Bùnicich vestì de messa cantada, domenica dele Palme che iera, sentado drio. — Sul sental dela carozza? — Sì. Ancora me lo vedo — mi iero giovinoto — con in man le cartuline de Bona Pasqua che el doveva impostar. Insoma i ariva in Piazza, i se ferma là dove che iera la casseta dele letere e Bùnicich ghe consegna in man al vecio Andre le cartuline de impostar. Domenica dele Palme, casseta piena che tuti mandava auguri de Pasqua, el ga stentado a ficarle drento. No iera casseta granda: ve ricordé come che iera le cassete dela Posta soto l'Austria? Longhe e strete, zale cola stema nera e scrito su: Imperial Regie Poste. I. R. Poste. — Me ricordo sì co' impostavo per mio padre che navigava. — Sicuro. Piena che la iera el ga stentado un poco a impostar le cartuline, tanto che el ga dovesto darghe un dò colpi cola man sula casseta che le vadi zò. Bon: i va avanti sula strada per Lussin, fin che i riva là del Domo de Lussinpicolo e là, Siora Nina, 'sto cavalo ghe se ferma. El ghe si impianta là e no ghe xe né Dio né Santi de mandarlo avanti. «Iìeee!», scuria e el vecio Andre lo zucava per davanti. Gnente. 'Sto cavalo no se moveva, e cussì cussì de gente tuto atorno che rideva. — Perché el cavalo no se moveva? — Sicuro. Ma savé perché che no el se moveva? Perché là, rente del Domo de Lussinpicolo, iera la casseta dele letere. E 'sto cavalo inabituado che el iera de ani anorum, come cavalo de Posta, de fermarse davanti de ogni casseta dele letere, no el se voleva mover. — E basta? — Come basta? El vecio Andre ga avudo l'impensada: el xe smontado, el xe andado là dela casseta, el ga dado un per de colpi cola man sula casseta e co' el cavalo ga sentido el sussuro, alora el xe andà avanti pecifico. — Eh, le bestie se inabitua! — Ma la gente no, siora Nina. Me ricordo che corevimo drio de 'sta carozza de Bùnicich, come mati, mulerìa che ierimo, per rivar a véder el cavalo che se fermava davanti ala casseta dela Posta che iera in Riva. — E el se ga fermado? — Come no? In Riva dove che iera la casseta, po' avanti in volta dela strada che va su a Cigale, insoma ogni logo che iera una casseta dela Posta. E ogni volta el vecio Andre ga dovesto smontar zò, bater sula casseta, perché se no el caval no ghe andava avanti. No ve digo cossa che no xe stado quela Domenica dele Palme, de sera, a Lussin, in Riva. Barba Nane ghe ga dito: «Bùnicich mio, qua xe meo che vendè 'sto cavalo o che ve fé dar l'apalto dela Posta. Ma dài! Comprévese un cavalo de sesto a Fiume»! E Bùnicich che cossa, che far vignir un cavalo de Fiume, con quel che vol de nolo i vapori, ghe costassi un'eresìa e che inveze un peston sula casseta dele letere a lu no ghe costa gnente. — Eh! Justo! — Ma cossa justo, siora Nina! Che a Lussin ve iera spetacolo ogni santo giorno. Che quando nele case, vizin dele cassete dele letere, la gente sentiva 'sti pestoni sul bandòn, diseva: «I vien cior la posta o xe Bùnicich che passa?» Però, ridi, ridi, co' xe vignuda la guera se ga visto che el vecio Bùnicich la gaveva intivada. Perché el militar ga fato requisizion de tuti i cavai de Lussin, dei Nìcolich, dei Tarabochia, dei Colombis, de tuti. «Fino all'ultimo uomo e fino all'ultimo cavallo», gaveva dito l'Imperator, e inveze quel de Bùnicich no, perché se el iera tropo vecio per la Posta, figurévese per el militar, per un Esercito AustroUngarico! E cussì tuta la guera lui se ga menà in carozza e i altri zu fuss, a pie. — El bateva sempre sule cassete? — Per forza. E po' la gente gnanca no rideva più, perché, pensieri, guera, tessere del pan, la gioventù al fronte o che pericolava per mar cole torpedo ... — Eh, bruto iera! E po'? — E po', siora Nina, xe finida anca la guera, xe vignuda l'Italia e tante robe ga cambiado. Anca le cassete dela Posta i ga cambiado. Quele rosse italiane i ga messo, rosse, grande. Tuto altro ve iera: figurévese che el cavalo de Bùnicich, una matina co' el xe passado in Piazza de Lussingrando, davanti de una de 'ste cassete nove, el ga tirà avanti. Siora Nina: no el la ga ravisada. E là del Domo de Lussinpicolo, idem. El ga vardà, po' el ga tornà a voltar la testa, el ga scassà la coda, e via lu drito. E cussì in marina, anca. El vecio Bùnicich ve iera zà tuto contento e zà el congeturava che el poderà meter in pension el vecio Andre che oramai, vecio che el iera, el ghe serviva solo per pestar sule cassete dela Posta. — Ah, il cavalo no se fermava più... — No. Ve go dito: no el ravisava le cassete. Ma co' el ga imbocà la riva de Cigale, propio davanti al'ultima casseta de Lussin, el se ga tombà per tera. Tuti atorno, podé capir, ma gnente de far: morto. Oh Dio, vecio el iera, vintizinque ani, che per un omo sarìa zento: po' assai greve iera la riva. Ma più el diol de cuor, i ga calcolà quela volta. Indiferente. Stampato con i tipi de La Editoriale Libraria S. p. A. - Trieste per conto delle Edizioni de La Cittadella Indice _*_*_ NOI DELLE VECCHIE PROVINCE MALDOBRIA I - PER GRAZIA RICEVUTA MALDOBRIA II - LA CORAZZATA POTEMKIN MALDOBRIA III - LE GRANDI MANOVRE MALDOBRIA IV - L'AMERICANO MALDOBRIA V - ANTICA CASA MALDOBRIA VI - UN PAIO DI CALZE DI SETA DI VIENNA MALDOBRIA VII - LA FINE DEI CONSOLATI MALDOBRIA VIII - LA PRESA DI SALONICCO MALDOBRIA IX - IL DUELLO MALDOBRIA X - IL GHETTO DI LEOPOLI MALDOBRIA XI - IN MORTE DEL FRATELLO GIOVANNI MALDOBRIA XII - IL VISITATORE NOTTURNO MALDOBRIA XIII - IL NUOVO TESTAMENTO MALDOBRIA XIV - I SANSIGOTI MALDOBRIA XV - LE GRANDI FAMIGLIE MALDOBRIA XVI - IL DITO DI DIO MALDOBRIA XVII - IL VECCHIO E IL MARE MALDOBRIA XVIII - IL BRAVO SOLDATO UCRÒPINA MALDOBRIA XIX - BAFFI ALLA RODOLFO MALDOBRIA XX - IL NOBILE RAGUSEO MALDOBRIA XXI - LA DOGANA TURCA MALDOBRIA XXII - IL PALOMBARO MALDOBRIA XXIII - ADRIATISCHES KÜSTENLAND MALDOBRIA XXIV - UNA LANTERNA DI PRIMA CLASSE MALDOBRIA XXV - LA NOTTE DEI LUNGHI COLTELLI MALDOBRIA XXVI - SERBIDIÒLA MALDOBRIA XXVII - LA BALLA DI BIRRA MALDOBRIA XXVIII - LA GRANDE PIOGGIA MALDOBRIA XXIX - UN UOMO E' UN UOMO MALDOBRIA XXX - LA STELLA MORTA MALDOBRIA XXXI - DUE CARTOLINE POSTALI MALDOBRIA XXXII - IL FONDO DELLA BOTTIGLIA MALDOBRIA XXXIII - FINO ALL'ULTIMO CAVALLO Created with Writer2ePub by Luca Calcinai CARPINTERI & FARAGUNA POVERO NOSTRO FRANZ Maldobrìe degli Anni Trenta EDIZIONI DE LA CITTADELLA TRIESTE 1976 PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Edizioni de La Cittadella Trieste Copertina di José (Esecuzione della Sartoria Valent Trieste) Prima edizione, dicembre 1976 Degli stessi autori: LE MALDOBRÌE La Cittadella, 1966 (Nona edizione 1976) PRIMA DELLA PRIMA GUERRA La Cittadella, 1967 (Settima edizione 1975) L'AUSTRIA ERA UN PAESE ORDINATO La Cittadella, 1969 (Sesta edizione 1976) NOI DELLE VECCHIE PROVINCE La Cittadella, 1971 (Quinta edizione 1975) Ò SERBIDIÒLA La Cittadella, 1964 Scheiwiller, Milano 1967 (esauriti) POVERO NOSTRO FRANZ Ora il vecchio mi parla d'altre rive, d'altri tempi, di sogni. E più m'alletta di tutte la parola non costretta... Sereno è quando parla e non disprezza il presente pel meglio d'altri tempi: «O figliuolo il meglio d'altri tempi non era che la nostra giovinezza!»... Poi cade il giorno col silenzio. Poi rompe il silenzio immobile di tutto il tonfo malinconico d'un frutto che giunge rotolando sino a noi. GUIDO GOZZANO MALDOBRIA I - VECCHIA GUARDIA Nella quale Bortolo, uomo navigato e aduso alle burrasche e alle bonacce di tutti i mari ma particolarmente del nostro, nonché della nostra vita, narra dal suo banco di pescheria a Siora Nina anche dei tempi in cui le aquile avevano una testa sola, dopo averne avute due per secoli, talché più d'uno, negli anni Trenta, alla vista della sigla del Partito Nazionale Fascista, P.N.F. si trovò ad esclamare: Povero Nostro Franz! — Orade, orade, ociade ociade, barboni, riboni boni, sardoni, sardele, sardunìci, capelonghe, capesante, caperòzoli. Ale, àle, done che el sol magna le ore, àle, àle, siora Nina, che el le magna anca per vù... — Eh, se so, sior Bortolo. Per mi, per vù, per tuti. Una drio l'altra. E xe meo che nualtri gnanca no le contemo... — Ah, siora Nina, mi inveze me piasi contarle. Sempre. Le istorie, intendo, no le ore. E po' le ore, cossa serve contarle? «A ogni ora la sua ora» — diseva el vecio Ivissa — co' la moglie tirava zò el lume, la lo impizzava e la diseva «bonasera». A Rependa, me ricordo... — Ah, el lume la impizzava? No i gaveva eletrico a Rependa? — Eletrico a Rependa, siora Nina? Che l'ultimo anno prima dela guera apena i lo ga messo... — Prima dela Prima Guera? — Ma cossa prima dela Prima Guera, che prima dela Prima Guera, no iera eletrico gnanca in Albona! Giusto a Pola i gaveva: el militar e qualche famiglia. Prima de questa ultima guera, intendevo, che el vecio Ivissa gaverà avudo un setantazinque, setantasie anni, mi calcolo, assai vecio el ve iera. Ma ve dirò che el vecio Ivissa de Rependa, i lo calcolava vecio zà prima del ribalton de quel'altra guera. Quela volta se usava. — Calcolar veci? — Calcolar e esser, siora Nina. Perché a sessantazinque, una volta un omo ve iera pretamente vecio. Fora del mondo, come: massime i campagnoi. Figurèvese che i ultimi anni dela Prima Guera, el vecio Ivissa, sempre gaveva quela de dir «El nostro Imperator Francesco Giusepe...». — Cossa? — Indiferente: quel e quel altro. Quel che el gaveva de dir. E i fioi ghe diseva: «Ma no, papà, no ve xe, no ve xe più Imperator Francesco Giusepe, adesso ve xe Imperator l'Imperator Carlo». «Va ben, va ben: Carlo», rugnava el vecio Ivissa, «Carlo o no Carlo, a ogni ora la sua ora». — El rugnava? — Tuti i veci rugna, siora Nina. Disevo per dirve come che iera quela volta Rependa, cussì, coi campagnoi. Ma lui, vecio zà che el ve iera, ancora l'andava a sfalzar fien. E sfalzando fien, una volta, el se ga dà cola falza sul colo del pie. — Eh bruto! La falza taia. — Sicuro che la taia. Se no la taia no la serve. Ma qua lo ga curado pulito el dotor Colombis, che anzi ghe ga dito: «Perché, Ivissa mio, adesso che podé caminar de novo, no andé a Trieste, che i ve darà l'infortunio?» E cussì, una roba e l'altra, anca i fioi lo ga fato persuaso de andar a Trieste a passar visita e a tirar 'sti soldi del infortunio. — Ah, pulito! — Cossa pulito, con quele picolezze che i dava quela volta! Anca soto l'Austria quel no iera ben regolado. Ma no iera per questo che ve disevo. Iera per dirve che quando che el vecio Ivissa ve xe tornà de Trieste, a Rependa lu contava maravée. — Del infortunio? — Sì anca del infortunio, che el gaveva tirado quei picoli. Ma lu più che altro ve contava che a Trieste, quando che fa scuro de sera, xe tuto impizzà. Che a Trieste i ga l'eletrico, che un che no ga visto l'eletrico no pol gnanca imaginarse cossa che no xe l'eletrico. E che proprio là del Infortunio, in un cameron che spetava tuti, che iera sie ore de sera e che cominziava a far scuro, xe vignù drento un, un cursor come, che xe andà rente de una roba de porzelana che iera sul muro, el ga dà de volta con dò dèi e in mezo del plafòn se ga impizzado un lume imenso che picava de un cordon fato a drezza. «Pensévese, cussì un semplice cursor: cossa che no ve xe l'eletrico!» — A Trieste questo? — A Trieste sì. Cossa volevi, che a Rependa i gavessi l'eletrico, Prima Guera ancora che iera? Dopo i ga messo, in Albona. — No a Rependa? — No a Rependa. In Albona apena. Che mi me ricordo ben che i gaveva messo i pài de Pola fina Albona. E dopo apena, de Albona fin a Ràbaz. Ma a Rependa, che no passava la linia, gnente. — Eeeh: se no passa la linia, no pol l'eletrico... — Sicuro che no pol. Come volevi che ve vegni a Rependa l'eletrico se no iera la linia? Per opera delo Spirito Santo? E inveze, volendo, se gavessi podesto. — Eh se i vol, i pol, i pol! ... — Xe quel che diseva el vecio Ivissa, quando che co' fazeva scuro in casa, la moglie tirava zò el lume dela napa, lo impizzava e la diseva «bonasera». «Se i vol i pol», el predicava. E iera anca giusto, siora Nina, perché iera zà del Trentaùn, questo. — Trentaùn del mese? — Ma no trentaùn del mese! Mile novezento trentaùn, che Albona e Rabaz gaveva zà la luce e Rependa gnente. — Eh iera, iera sì la luce in Albona... — Sicuro, e el vecio Ivissa ga mandà su in Albona el fio — ve ricordé quel Zaneto? — a farghe un sollecito, come, che i se distrighi de meter l'eletrico anca a Rependa. E là in Albona questi del Eletrico ghe ga dito che la linia xe de Albona a Rabaz, che lori no ga ordine per Rependa, ma se quei de Rependa vol, volendo se pol, a spese sue natural, metendo un pal. — A spese de 'sto fio del vecio Ivissa? — A spese de quei de Rependa, siora Nina. Anca del vecio Ivissa. Solo che el diavolo ve iera la particella dei Nadaja! — La Particella Nadaja? Una giovine fia dei Nadaja? — Ma cossa una fia dei Nadaja, Particella? Chi se ga mai ciamado Particella? Iera che, per meter 'sto pal, per portar la luce a Rependa, i lo gavessi dovesto impiantar in un ulivèr dei Nadaja, e el vecio Nadaja, testardo che el iera, no voleva ceder la particella. «Cossa? Che lui pagherà e anca cederà la particella? Che lui gaverà la schiavitù de gaver un pal in mezo del suo ulivèr? E po' che i pal del eletrico ruvina le ulive». Insoma: una roba e l'altra. E gnente. — Ma quai Nadaja ve iera questi? — Indiferente. Quei de Rependa ve iera. Ma con 'sta storia de 'sto vecio Nadaja che diniegava, iera zà guera de Abissinia e Rependa no gaveva ancora la luce. E 'sto vecio Ivissa, ogni sera co' i impizzava el lume a petrolio, el contava che a Trieste un semplice cursor, dando de volta sul muro, impizzava una lampada imensa sul plafòn. Insoma, una roba e l'altra el predicava. — Mi una volta cola man bagnada, che lavavo i piati, go ciapà la scossa ... — Indiferente. Finida ve iera la guera de Abissinia, quando in Albona xe passà telegrama che el vien a véder la miniera del Arsa. — Chi questo? — Come chi questo? Mussolini po'. No ve ricordé che el iera vignudo qua aposta a veder la miniera del'Arsa? — Mi quela volta iero in ospidal. — Bon, lui xe vignudo istesso, siora Nina e no ve digo cossa che no iera. Che i gaveva mandado cartoline per tute le case che tuti deve andar in Arsia propio, che vien Mussolini a veder le miniere del'Arsa e che bisogna andar. Cola camisa nera. E che passerà aposta la coriera a cior, anca a Rependa. — Ah comodo! — Eh: pitosto che andar a pie, iera comodo menarse in coriera. Che anzi — me contava Zaneto — co' lui ghe ga portado al padre una de 'ste camise nere che sior Cesare Schitazzi spartiva come segretario del Fassio, el vecio Ivissa ga dito: «Bela, perché questa in miniera gnente no ve se sporca col carbon. Ben pensada!» — el diseva imbotonandosela e ficandosela drento dele mudande longhe. — E i xe vignudi a ciorlo cola coriera? — Sicuro. Con tuti i altri de Rependa. Fora che el vecio Nadaja che nissun podeva mòverlo del suo ulivèr, gnanca de dimenica. Ma no volé che sia, siora Nina — savé come che iera la strada de Rependa — che, apena partidi i ga sbusà la goma? E fin che Nini Safér ga cambiado la rioda, i se ga intardigado e i xe rivadi in Arsia che zà el parlava. — Nini Safér? — Maché Nini Safér! Mussolini parlava in Arsia. — Con chi? — Ma come con chi? El ghe parlava a tuti. De una roba in alto aposita. E co' el vecio Ivissa e i altri xe rivadi in piazza, el stava giusto disendo che Faro di Civiltà, che Mete Luminose, e po' ogni tanto, impirando i oci e fazendo sesti cola man, me ricordo, el zigava: «E sia ben chiaro! E sia ben chiaro! ...» — Cossa che sia ben chiaro? — Indiferente. Quel che lu voleva che sia ben chiaro. Ma el vecio Ivissa, — tra 'sto faro, tra 'ste mete luminose, tra 'sto «sia ben chiaro» che el diseva ogni momento — el gaveva congeturà che el parlava del eletrico. Anca perché co' dopo i ga zìgà «Duce Duce», come che se usava quela volta, lui, in età che el iera, capiva che i dise luce. E co' i ga zigà «A noi!», lui ghe ga dito a Schitazzi che ghe stava a rerue: «Sicuro che a noi, anca a nualtri, de Rependa!» — Povero vecio! — Cossa povero vecio? Che el vecio Ivissa, con tuti i sui otantasie, otantasete e passa anni, el iera ben portante. Che anzi, co' — finido tuto — Mussolini, che iera vestido de minator del Arsa, me ricordo, cola lampadina invidada davanti sul clabùc, sul capel insoma, el se ga fermà passando rente de Schitazzi e el ghe ga batù sula spala disendoghe no so cossa 'sto Schitazzi, tuto rosso, ghe ga dito: «Questi sono quelli de Rependa!» «Benissimo! — ga dito lu — bravissimi! E chi è il più vecchio?» E alora Schitazzi, zucandolo per un brazzo, ghe ga messo davanti el vecio Ivissa. — Mama mia! E dopo? — E dopo 'sto Mussolini volesto saver quanti anni che el ga. Che el va per otantaoto. «Bene, bene: antico ceppo!» «E come vanno qui le cose?» — el ghe ga dimandà vardandolo coi oci itnpiradi. «Ben, grazie parimenti, — ghe ga rispondesto el vecio Ivissa — ben grazie, signor l'ingegner. Solo, co' torné a Trieste, ve prego tanto, scrivèghe a Viena al Imperator Carlo che a Rependa no gavemo ancora la luce.» — Jésus Maria! E lu? — E lui gnente. Lui ga capì Duce, mi calcolo. E el xe andà via saludando ala romana, con Schitazzi che ghe coreva drio in stivaloni. MALDOBRIA II - I RESTI DI QUELLO CHE FU Dove si raccontano i tramonti paralleli delle vite diversamente splendide del Conte Bepi Duda degli Ivanissevich, nobile raguseo e di Nini Giadrossich già armatore navale, entrambi sopravvissuti a una Defunta. — Soldi, soldi! Cossa ve xe i soldi, siora Nina? Soldi sarà che noi no saremo, come che diseva el Conte Bepi. Come, chi che xe el Conte Bepi? Chi che el iera, caso mai. El Conte Bepi, siora Nina, ve iera el Conte Bepi Duda degli Ivanìssevich, Conte vero el ve iera. Perché lui diseva sempre: «Nualtri de casa semo nobili ragusèi, e conti semo calcoladi.» E iera vero, savé, perché el nono suo de lui, vigniva propio de Ragusa, ragusèo. — Aah! I Ivanìssevich! Quei che gaveva la Vila in Ponta Sant'Andrea, che po' i tedeschi la ga fata saltar per aria... — Sicuro, per cativeria. Cativeria inutile, po', perché zà la vigniva zò sola. Meno mal che el povero Conte Bepi no ga visto, perché ghe sarìa stado un grando diol de cuor... — Ah, no el ga visto? El iera via quel periodo? — Via? Altro che via. Soto el iera, povero, soto tera che el sburtava radicio de anni anorum. Perché lui ve iera zà morto prima. — Ahn! Prima dela Prima Guera! — No. Dopo. E quel xe stà el mal. Perché dopo dela Prima Guera, che ghe xe morta la moglie e che tuti diseva che iera la defonta, povera, che ghe tigniva la barca drita, lui el xe andà completamente in malora. — Ah! I gaveva barca i Ivanìssevich? — Ma no! La ghe tigniva la barca drita, come che se dise, ma barca no gaveva i Ivanìssevich. Lori ve gaveva de tuto, ma barca no. Lori gaveva la Vila, e po' case, campagne, roba in Dalmazia, anca, a Ragusa, e soldi. Tanto per dirve, figurévese che lori, qua come qua, lori ve gaveva la vetura, vetura sua de lori, de casada. Auto. Iera un dei primi auti, che me ricordo. Anzi, la mulerìa zigava corendoghe drio: «la vetura, la vetura» e iera la vetura del Conte Bepi. Questo prima. — Prima de cossa? — Prima che ghe more la moglie. Perché, savé cossa che xe nato? Apena che ghe xe morta la moglie, tuti se ga fato avanti... — Per sposarlo, come? — Maché sposarlo, se ga fato avanti tuti quei che vanzava soldi de lui. Perché, ve go dito: iera la moglie che tigniva la barca drita in quela casa. E capì, mancada ela, tuto che iera soto ipoteca, perché, savé, lu iera un bonissimo omo, ma el gaveva quel grando difeto de zogar nele case de zogo, insoma tuti se ga fato avanti per gaver i soldi indrio... — 'Sti soldi che lui perdeva zogando? — Noo! Quei che lu perdeva zogando, lui li pagava tempo ventiquatro ore: debito d'onore, omo retto ve iera el Conte Bepi. Ma capì, per quel ve iera tute 'ste ipoteche. E po' iera stado bruto anca cola corona... — El gaveva la corona? — Sicuro, sula carta de visita el gaveva la corona, ma intendevo dir la corona austriaca. Le corone, i soldi, i fiorini. Co' xe cascada l'Austria, i ga cambiado sì i soldi, ma chi che gaveva soldi, assai ga perso. Presempio Giadròssich. Gavé presente i Giadròssich? — El dotor Giadròssich, che gaveva ambulanza qua? — No. Suo fradelo. Dovè saver che el vecio Giadròssich, padre de lori dò fradei, ve gaveva una barca, no granda, el «Maristella». Ben, el vecio Giadròssich, co' i dò fioi ghe xe deventadi grandi — un anno de diferenza i gaveva — el ghe ga dito: «Fioi mii, mi, un giorno o l'altro, no digo quando, ma ve morirò e alora 'sta barca, 'sta nostra «Maristella», per tuti dò no ve poderà esser: no sarìa né un ben viver né un ben morir per nissun dei dò. E alora savé cossa che faremo pulito? Un pochi de soldi mi go: e chi che de vualtri dò vol studiar per dotor, mi con 'sti pochi soldi che go, lo mando a Graz a studiar per dotor, e a quel altro ghe resterà la barca.» — Aah! Ben pensada. E el dotor Giadròssich ga studià per dotor! — Come no, Tonin. E suo fratello Nini, inveze, cominziado che el gaveva con 'sta unica «Maristella», tempo zinque anni el ga fato fortuna: sei barche el se ga fato. El fazeva noli lui, ma signori noli, dapertuto, che anzi la gente diseva: «Che sempio che xe stado el dotor Giadròssich a studiar per dotor!» Vedé però come che cambia la fortuna: durante la Prima Guera a Nini Giadròssich i ghe ga requisizionado le barche e i soldi che i ghe ga dà in contracambio iera tuti in cartele de Stato a Viena, che, co' xe cascada l'Austria, savé vù con quanto che el se ga trovado in man? — Con quanto? Con quanto? — Con gnente. Per dirve: 'sto Nini Giadròssich, squasi milionèr in fiorini prima — e che suo fradelo Tonin, tuti, e massime sua moglie, lo considerava come se el fussi stado sempio in confronto — el se ga trovado a dover pretamente dipender del fradelo. Savé, in casa del fradelo, el suo bisogno no ghe mancava. Perché — cossa volé, dove che magna dò, magna tre — e per fortuna Nini Giadròssich no se gaveva mai sposado e suo fradelo Tonin no gaveva fioi. — Ah, el stava in casa col fradelo? — Sicuro. Ma poco lui ve stava in casa. Massima parte lui ve iera tuto el santo giorno col Conte Bepi, dopo che el Conte Bepi iera restado vedovo, e in braghe de tela. Che persin el gaveva messo la vetura in granér e là lassada ferma. Massima parte Nini Giadròssich ve iera col Conte Bepi che o i andava avanti e indrio per Marina, o i se sentava in Cafè, anca senza cior gnente, o i confabulava caminando sù e zò in giardin dela Vila dei Ivanìssevich... — Aah, ma ghe iera restada la Vila ai Ivanìssevich? — Oh dio là la iera e lui là ve stava, ma tuto ipotecado ve iera, e con tuti questi che vanzava soldi de lui che ogni giorno i se fazeva avanti. Che anzi savé chi che ga fato un afar, inveze? Bùnicich. — Bùnicich? Qual Bùnicich? — El vecio Bùnicich. Perché el vecio Bùnicich un giorno in cafè ghe la ga butada cussì al Conte Bepi: «Conte Bepi — el ghe ga dito ciolendolo in parte — vù no podé, mi capisso, gaver testa de starghe drio a tuti questi che ogni giorno ve se fa avanti. Femo una bela roba mi con vù e vù con mi. Vù me fé cession de tuto a mi: i debiti — che gavé debito grando — e tuto quel poco che gavé ancora e quel tanto che no gavé più. E penserò a tuto mi e vù cussì poderé star in pase.» «Sì, in pase in zimiterio — ghe ga rispondesto el Conte Bepi — perché dove andarò a star mi se ve fazzo cession de tuto? In tomba de famiglia, zò a Ragusa?» — Come dir che lui se cioleva la vita? — Ma no! Come dir che lui no gavessi avudo dove andar a star. «Anca a questo go pensado — ghe ga dito el vecio Bùnicich — vù in casa vostra podé star liberamente, vita natural durante.» «Sì, sentado per tera a vardar le mace sul plafòn!» «Noo, conte Bepi: tuto quel che xe in casa, vù vita natural durante podé tignir. E un vitalizio, un tanto al mese per el vostro bisogno, ve passerò mi. Cossa perdè, Conte Bepi? I pensieri, perdè: gnente altro.» — Eeh, giusto! — Cossa giusto? Che Bùnicich ga fato el meo afar dela sua vita. Perché, lui, un bianco e un nero ghe ga dado a quei che vanzava soldi del Conte Bepi, e in cambio el ga avudo tuta la roba dei Ivanìssevich. E savé cossa che iera 'sto famoso vitalizio che lu ghe passava a lu? Zento e ventizinque lire al mese. Che, capiré, el Conte Bepi, con quele ga dovesto serar squasi tute le camere e tignirse solo dò per lu e el giardin, natural, dove che el confabulava ogni giorno caminando sù e zò con Nini Giadròssich. — Quel che anca gaveva perso tuto? — Sì, ma Sior Nini ancora no se gaveva fato capace. Lui diseva sempre: «Conte Bepi mio, mi un giorno apena che posso vado a Viena e là mi me impetirò e me farò dar tuto quel che me compete: milioni in fiorini mii xe a Viena che i ricusa de darme! Ma solo che un giorno mi rivo a andar a Viena a parlar col Consigliere Metzger...» Insoma, siora Nina, el parlava... — El ghe parlava al Conte Bepi? — Sicuro. E anca el Conte Bepi diseva: «Mi solo che un giorno, Nini mio, rivo andar a Venezia, al casinò del Lido, che adesso i ga averto, mi, Nini mio, mi ve torno con zinquantamila lire, me presento de Bùnicich e ghe compro tuto indrio, e faremo qua in Vila de novo feste, come prima dela guera, verzeremo el salòn...» Insoma, siora Nina, el parlava ... — Ah, i parlava fra de lori de 'ste robe? — Tuto el giorno, siora Nina. E un giorno, no volé che, cussì parlando, el Conte Bepi ghe spiegava a Sior Nini Giadròssich come che lu el farà tuto novo in Vila, co' el gaverà vinto zinquantamila lire al casinò de Venezia, no volé che i va drento in granèr e Giadròssich vede la vetura? — Che vetura? — La vetura, l'auto del Conte Bepi, che ve contavo, che el gaveva dovesto meterla in granér, perché no el gaveva soldi per mantignirla. E Giadròssich ghe fa: «Orpo, xe vero, la vetura ve xe restada!» «Eh, sì: bei tempi quei!» E insoma, dopo de quel giorno, più de una volta i andava in granèr, i se sentava in vetura e i parlava. De quando che Giadròssich andarà a Viena, de quando che el Conte Bepi vinzerà zinquantamila lire al casinò de Venezia, del Consiglier Metzger, del baccarà, che lui col baccarà el ga sempre avù man fortunada... E cussì vigniva scuro. — Scuro? E lori no impizzava el lume? — Ma cossa el lume, se i iera in granèr, sentadi in vetura che i se la contava! Anzi, cussì, che i se la contava, un giorno Giadròssich ghe dise al Conte Bepi: «Femo una bela roba, Conte Bepi, mi no go mai avesto vetura, vù co' vinzeré quele zinquantamila lire a Venezia, ve compreré una nova. Perché 'sta vetura qua no me la vendè a mi, che mi co' torno de Viena, ve la pago?» «Vendervela a vù la vetura? E quanto me darìi?» «Eh, 'sta vetura, cussì come che la stà, mi ve la poderìo pagar un ventimila lire.» «Ventimila? No me par mal. Xe el suo prezzo giusto. Afar fato.» — E iera el prezzo giusto? — Siora Nina, chi sa cossa che xe giusto e cossa che no xe giusto a 'sto mondo? Ogni modo quela vetura, cossa volé, no la ve valeva più gnente. Senza gome, ferma de anni. Però istesso el Conte Bepi se ga pentido, come. E el giorno dopo che, in granèr, i stava sentai in vetura el ghe ga dito: «Nini mio, volé far un afar? Mi ve go vendudo 'sta bela vetura per ventimila lire. Ben, go cambiado idea. Mi ve la comprassi de novo indrio e ve farìo un bon prezzo: ventizinquemila, co' torno de Venezia. Perché mi calcolo che a Venezia vinzerò un zentomila lire, perché mi col baccarà go sempre gavesto man fortunada.» «Ventizinquemila? — ghe ga dito Giadròssich — me par ben. Me par giusto.» — E iera giusto? — Cossa volé, siora Nina, che sia giusto o no giusto in 'sto mondo! Fato stà che, con 'sta storia, lori ve xe andadi avanti per più de un anno. 'Sta vetura i se la vendeva un col altro sempre per de più soldi. Perché un a Venezia gaverìa vinto dozentomila lire, quel altro che el Consigliere Metzger, che lui ghe gaveva zà scrito a Viena, doveva risponderghe a giro de posta: insoma in ultimo el Conte Bepi ga comprado de novo 'sta vetura de Nini Giadròssich, disé per quanto... — Ah no so: mi no me intendo de veture... — Bon: per otantamila lire. De quela volta, natural. — E iera assai quela volta otantamila lire per una vetura? — Eh, iera un enorme. Ben: no volé che un giorno che cussì i parlava, i confabulava in giardin dela vila del Conte Bepi, Giadròssich ghe fa, fazendo el moto de andar in granèr: «Go pensà ben, Bepi, che ve sarìo obligato se me vendessi de novo la vetura. Ve darò otantazinquemila lire co' torno de Viena.» «Con tuto el cuor, volentieri, Nini mio — ghe dise el Conte Bepi — con tuto el cuor, ma no posso. Pensévese che ieri matina, che no se gavemo visto, xe vignù un de Trieste che conossevo de prima, e cussì, una roba l'altra, el ga visto in granèr 'sta vetura e ghe la go venduda. Per otanta lire: savé, no gavevo moneda.» «Dio mio, Bepi — ghe ga dito Nini — vendudo gavé la vetura? Perché gavè fato un tanto? Perché gavè fato un tanto de venderla? Adesso nualtri dò poveri, de cossa viveremo?» — E i xe morti dopo? — No, no subito. Solo che, de quela volta, no i xe più andadi a parlar in granèr. In granèr, capì, no i gaveva più logo dove sentarse. Pensévese: otanta lire per una vetura che lu gaveva pagado più de mile corone. Eh, siora Nina, diseva ben la gente a dir che no iera più la Defonta a tignir la barca drita. MALDOBRIA III - USO DI MARE Nella quale le esperienze acquisite da Capitan Jurissevich, già pilota nel Canale di Suez, vengono applicate, a bordo del «Neresine», sulle domestiche rotte, all'alba d'una nuova era per le nostre fortune marinare. — Eh, Suèz, siora Nina, co' i ga verto Suèz, el Canal de Suèz, che po' dopo i ga volesto dirghe Suez, tanti de lori, piloti massima parte, se ga fato soldini... — Con contrabandi, come, sior Bortolo? — Ma cossa contrabandi? Suèz — il Canale di Suèz — apena che i lo ga averto, de cossa i ga avesto bisogno per prima roba? De piloti, siora Nina, streto e intrigoso che el iera. E chi ve iera i meo piloti quela volta? I Inglesi, natural. Ma subito dopo i nostri: 'sti Lussignani, Chersini, Piranesi, Dalmati massima parte, che gaveva assai de bazilar con tuti 'sti canai che ve xe in Dalmazia, mi calcolo: un Canal de Sebenico, une Boche de Cataro... — Ma quando questo? — Uh, siora Nina, quando! Assai prima dela Prima Guera: mi, presempio no iero gnanca nato. Almanco cussì calcolo. Ma iera solo per dirve che, de quela volta che i lo gaveva verto, sempre dopo i ciamava piloti nostri zò in Canal de Suèz, streto e intrigoso che el iera. — Ah, e adesso no xe più? — Adesso, siora Nina, i me conta che i lo ga slargado, ma istesso el ve xe intrigoso, per altro, magari. Ma quela volta el Capitan Jurìssevich — perché bisognava esser Capitani, per esser piloti a Suèz — lui ve se gaveva fato bei soldini. — Andando zò a Suèz? — Zò, siora Nina? Su e zò! Perché quel ve iera el lavor del piloto a Suèz: de andar su e zò pel Canal, de andar a bordo de 'ste barche che doveva andar su o zò per el Canal e de star al timon fazendo in modo e maniera che no le se russi... — Ah, iera zà i Russi? — Ma cossa i Russi! Chi se insognava quela volta i Russi, che in alora iera i Inglesi che gaveva tuto in man! Che no se russi 'ste barche sul fondo, sui bordi del Canal streto e intrigoso che el iera. E xe stà là che lui ve se ga imparà... — A no russarse? — Ma come volevi che ve se russassi un Capitan Jurissevich, vero Capitano, assolto dele Nautiche de Lussin? Lui ve iera picolo omo, ma bravissimo come capitano. Sempre me lo ricordo che el caminava svelto svelto per riva. E là lui ve se ga imparado 'sto Uso di mare... — Ma che mare? — El Mar Rosso, siora Nina, per quel. De una parte. E de quel'altra quel altro. Ma l'Uso di mare che contava dopo el Capitan Jurissevich iera quel de dimandar... — Sti soldini che disevi che el se gaveva fato?... — Cossa ghe entra? Quei ve iera de spetanza. E iera soldoni anca. Savé vù cossa che pagava una volta una barca per passar Suèz? No so quanto, ma un'eresia. L'uso de dimandar, 'sto Uso di mare che diseva el Capitan Jurissevich iera quel che co' i intivava in Canal un'altra barca che vigniva del'altra parte i ghe zigava — lui, Jurissevich, cole man a tromba, vose un fià de galina che el gaveva, ma forte — el ghe zigava: «Ehi di bordo!» E po' che nome che ga la barca, dove che i va, de dove che i vien e con che càrigo. «Uso di mare». — E questi doveva risponderghe? Iera obligo? — No obligo. Uso. Uso di mare. Una roba inglese — diseva el Capitan Jurissevich — che i Inglesi fa e che nualtri che semo grubiani no femo, ma dovessimo far. E po', savè, Suèz ve iera streto e intrigoso e 'ste robe ocoreva saver. — E lui saveva? — Eh, dopo che i ghe gaveva rispondesto, el saveva. E alora el ghe rispondeva anca lu. No so, per dir, se el iera su una barca olandese, metemo dir, el zigava: «Siamo la "Wilhelmina", veniamo di Roterdam, direti a Batavia con carigo generale»! Uso di mare. — Ah, bel! — Bel sì. Oh, dio, bel. A lui assai ghe piaseva. Tanto che quando che pulito el Capitan Jurissevich se ga fato i sui soldini e el xe tornà qua e el se ga comprà el «Maristella» del vecio Tonissa Tomìnovich, che oramai povero no gaveva più oci per navigar — catarata — lui sempre qua in local de Bepin el contava 'sta qua e el predicava: «Xe che nualtri qua semo grubiani e no femo. Ma l'Inglese fa, e anca i altri fa e dovessimo far anca nualtri!» — Cossa i gavessi dovesto far? — Ma cossa, cossa, siora Nina? De cossa stago parlando de meza ora? De 'sto Uso di mare. «Ehi di bordo! Chi siete, dove andète, di dove vignite e che carigo ciavète!» Un cruzio, siora Nina. — Ah in local de Bepin el ghe zigava questo a chi che vigniva drento? — Ma cossa a chi che vigniva drento in local? In local el contava. Prima el contava ma dopo, siora Nina, el ga cominzià anca a far. E savé quando? — Quando, quando? Quando che el xe andado fora del local? — Ma cossa fora del local? Fora in mar. In barca. Prima col «Maristella», ma meno, perché ve iera picola barca, ma massime dopo dela guera, quando che qua xe cascada l'Austria e i ve vendeva le barche del'Ungaro-Croata per un bianco e un nero, e lui se ga comprado pulito el «Jàblanaz». — El ga comprado un jàblanaz? Per cossa? — Ma cossa un jablanàz? El «Jàblanaz», che ve iera un vapor dela Ungaro-Croata, picolo vapor, in confronto, ma vapor de fero e grando per lu, che el ga dovesto ciorse anca equipagio a bordo e tuto. Solo che lui no ghe piaseva. — E alora perché el se lo ga comprado? — No! No ghe piaseva el nome, intendevo. E sicome che el Capitan Jurissevich ve iera pretamente de Neresìne, lui a 'sto suo vapor ghe ga volesto ciamar «Neresine». E me ricordo che in local sempre el ghe diseva a Tonissa Tomìnovich: «Vù, Tomìnovich, che disevi sempre che xe meo esser paron de barca che capitan de vapor, savè inveze cossa che xe meo de tuto? Esser capitan e paron de vapor.» — Ahn, el iera paron de vapor! — Sicuro. E capitan. Con equipagio — pochi — ma con paghe che coreva e panatica e tuto. Che anzi in local de Bepin tuti diseva: «'Sto colpo el Capitan Jurissevich se magna tuti i bori che el se ga fato a Suèz soto l'Austria!» E inveze, siora Nina, lui ve ga avesto la fortuna de trovar ben pulito el Czèco. — El ceco? 'Sto Tonissa Tomìnovich che gaveva la catarata? — Ma no ceco! Czeco! Czecoslovacco. Un Czecoslovacco che gaveva in Punto Franco a Trieste un magazen de una fabrica de Pilsen. Un zerto Novak. Boemo pretamente, ma dopo cascada l'Austria i li ciamava Czechi. Czecoslovacchi, massime. E lui 'sto Novak in Punto Franco a Trieste, in 'sto magazen de 'sta fabrica de Pilsen el gaveva, savè cossa? — Bira. Bira Pilsen. — Perché po' bira? Che a Pilsen i fazeva de tuto! Anca canoni, rede per sotomarini e utensileria, che se ghe diseva quela volta. Sicuro che i fa anca bira. Ma lui 'sto Novak gaveva magazen de stoviglie come che iera scrito anca fora dela porta: Stoviglie. — 'Sto Novak? — No 'sto Novak: stoviglie. Sì, 'sto Novak gaveva magazen de stoviglie, ma lui 'ste Stoviglie che iera scrito fora, pretamente ve iera — che in Czecoslovachia i fazeva magnifichi — ve iera, con decenza, bucai. Bucai de fero smaltà. Savé quei bianchi col orlo celeste e col manigo che se usava tignir soto el leto? — Eh, mia povera madre... — Indiferente, siora Nina. Anca le crature, per quel. Bon, el Capitan Jurissevich, con 'sto suo «Neresine», vapor no grando, savé, roba de un sete otozento tonelate, lui ve carigava in Punto Franco a Trieste 'ste stoviglie — come che iera scrito anca sul manifesto de Dogana, perché dove la Finanza Italiana ve gavessi scrito bucai? — lui ve le carigava e dopo el fazeva el viagio per Cioza, Chioggia — come che diseva Jurissevich — dove che iera un grossista che se gaveva fato capace che 'sti bucai czecoslovachi convigniva assai, anca pagando dazio, e lui ve li spartiva dapertuto, anca in Bassa Italia. — Oh dio, xe roba che servi. Serviva. — Eh serve, serve, dio guardi un mal de note! Bon, indiferente. El Capitan Jurissevich con 'sti noli de 'ste stoviglie lui se ga fato, mi calcolo, più soldi che come piloto a Suez. E po' finalmente el gaveva l'ocasion de far propio ben... — In 'ste stoviglie, come? — Ma cossa far in 'ste stoviglie? El gaveva l'ocasion de far propio ben 'sto Uso di mare che el predicava sempre lui in local. Metemo dir, lui vigniva via de Cioza e l'intivava in navigazion un de 'sti bragozzi ciosoti, savé questi che vigniva a portar in Canal a Trieste angurie, meloni, pesse, una roba e l'altra? Bon, lui montava sul ponte de comando e con 'sta sua vose un fià de galina, ma forte, con tuto che el iera picolo omo, el ghe zigava cole man a tromba: «Ehi di bordo! Che nome ha la vostra navee? Da dove venitee, dove siete diretti e con che carigooo?» — E 'sti qua? — E 'sti qua, 'sti poveri marineri ciosoti ghe rispondeva, no so, che i se ciama «San Marcuòla», che i vien de Trieste, che i torna a Ciosa e che i ga carigo de bisi de Capodistria. — E basta? — Per lori sì, bastava. Ma lu apena tacava alora. Perché, passandoghe rente e fazendoghe onde, el zigava: «Noi siamo il "Neresine", di otocento tonelate brutto, provenienti da Trieste, diretti a Chioggia con carico generale di stoviglie!» E in più el ghe sonava la sirena. — Mama mia! La sirena... — Ma pazienza la sirena. Ve iera un cruzio con 'sto Jurissevich che ghe dimandava a tuti. Anche a 'ste misere barche, ciosote massima parte, che ve andava a carigar carbon in canal del Arsa, baussìte a Ràbaz, cemento a Valmazzinghi... «Ehi di bordo! Chi siete! Dove andète! Di dove vignite? Qui il "Neresine", di mille e cento tonnellate brutto...» Perché, savé siora Nina, più vecio che el deventava, più el fazeva grandezzade. «Con stoviglie di Boemia!», contava i sui marineri che el ga dito una volta, fermando una brazzera de Ruvignesi. — Ah, vecio el ve iera deventado? — Eh sì, siora Nina. Piloto ancora de Suèz de prima dela Prima Guera, in tempo che el gaveva fato de comprar el «Maristella», el «Jàblanaz», el «Neresine» insoma, e de far un'eresia de viagi de Trieste a Cioza con 'sti bucai, mi calcolo che el gaveva anca un'eresia de ani, perché doveva esser oramai del Ventinove... — L'inverno fredo del Ventinove?... — Sì. Anche. Che anzi l'andava su e zò de Cioza perché con quel fredo se vendeva un'eresia de bucai, in quel anno. E insoma assai anni el doveva gaver. E el iera anca deventado un fià curto de vista, che qualche volta qualche barca ciosota, scapolava 'sto Uso di mare perché no el rivava a vederla in tempo. Ma quela volta no ve xe stà per la vista. Xe stà per la nebia. — Mama mia! La nebia! El ghe ga dà drento al molo? — Perché al molo, se el iera a un sie milia de Salvor? E po' perché darghe drento? Un piloto de Suèz no se ga mai dà drento in vita. Xe che, con 'sta nebia, 'sto caligo pretamente che iera, e quela bruta ora de sera, savé, che no xe né ciaro né scuro, lui ve ga avù sì cognizion che el gaveva a rente una barca, dei lumi anca, ma no el ga capì ben cossa. E alora, secondo el suo solito, el xe montà sul ponte de comando e, con 'sta sua vose un fià de galina, ma forte, con tuto che el iera vecio, el ghe ga zigà cole man a tromba: «Ehi, di bordo! Che nome ha la vostra navee? Da dove venitee, dove siete direti e con che carigooo?» — E 'sti qua? — 'Sto qua, siora Nina. 'Sto qua de 'sta altra barca, con un portavoce compagno, ghe ga zigado: «Siamo il Saturnia, di ventiquattromila tonnellate, salpato quindici giorni fa da Nuova York, diretto in Patria, con a bordo duemilacinquecento passeggeri e milleduecento uomini di equipaggio. E voi chi siete?» «Ah gnente — ghe ga rispondesto el Capitan Jurissevich — solo che el "Neresine", salpado meza ora fa de Trieste per Ciosa con un carigo de bucai...» Cossa volé, siora Nina, andarghe a dir «stoviglie» a un Saturnia? MALDOBRIA IV - GENTE CHE VA, GENTE CHE VIENE Nella quale sì parla della straordinaria memoria di Barba Mate Pessimòl, uomo di mare prima e poi di molo: su quest'ultimo sbarcano personaggi di epoche diverse con diversi fardelli di trascorsi ed esperienze. — De tuto ve fa el maritimo de vecio, anca quela, se no el trova altro, de andar al molo per ciaparghe la zima al vapor. Ma dove un Barba Mate Pessimòl ghe gavessi ciapado la zima ai vapori, lu che co' navigava, ve iera stado nostroomo e el gaveva una bonissima pension? Oh dio bonissima: come che pol esser bone le pensioni. Ma per esser pension iera una bona pension. — Barba Mate Pessimòl? Me lo ricordo, sì, i ultimi tempi, lo intivavo sì qualche volta sul molo... — Ma come, qualche volta, sul molo, siora Nina? Barba Mate Pessimòl ve iera pretamente sempre sul molo. Perché, savé, lui i ultimi anni che el navigava, el pensava che lui, co' l'andarà in pension, lui el farà, el governerà robe a casa, l'andarà a pescar, el ghe starà drio a quel ulivèr che lori gaveva, tute quele robe insoma, siora Nina, che un maritimo co' naviga no pol mai far. — Eh, xe sacrifizio la vita del maritimo. — Sicuro. Però Barba Mate, co' ve xe andà in pension, inveze che far, far, no el saveva cossa far. El ve iera come perso. Come tuti, del resto, questi maritimi che va in pension. — El iera andà in dolze, come? — In dolze Barba Mate? Ma dove? Lui, siora Nina, ve gaveva una testa che el se ricordava tuto de tuti. E dele robe più antiche el se ricordava: nomi de vapori, presempio, che nissun gaveva mai visto, comandanti morti e sepolti. Lui, per modo de dir, una volta a Kobe, in Giapon, pensévese, el ga intivado in dogana el nostroomo Sangulin, e subito el ghe ga dito: «Vù, no sé el nostroomo Sangulin che ve go visto sentado una volta in local a Trieste ale Baretine Rosse con el mistro Palìsca?» «Sì, fa 'sto Sangulin, son Sangulin, ma ale Baretine Rosse a Trieste no me ricordo. Dove xe le Baretine Rosse a Trieste?» — 'Sto Sangulin ghe dimandava a Barba Mate? — Sicuro, perché pensévese, lui solo sistesso Sangulin no se ricordava de sistesso e inveze Barba Mate, apena che el lo ga visto, subito el se ga ricordà. E savé quanti anni che iera passadi? — Quanti? — No me ricordo quanti, ma tanti. E lui, Barba Mate, che quela unica volta el gaveva visto el nostroomo Sangulin ale Baretine Rosse a Trieste, el se ga ricordà de lu anni anorum dopo, a Kobe. In Giapon, pensévese. — Eh me ricordo, me ricordo che intivavo qualche volta sul molo Barba Mate Pessimòl! — Come qualche volta? Se ve disevo che lui, dopo andà in pension, el ve stava tuto el giorno, massima parte, insoma, pretamente sul molo ... — A spetar el vapor? — No che lui spetassi pretamente el vapor come vapor. Lui ve stava là sul molo. De matina, oto ore, oto ore e meza, me ricordo, lui vigniva zò dela riva, che el stava suso in Draga, cola sua bareta de maritimo, el se sentava sul scalin del fanal in zima del molo e subito el se fazeva un spagnoleto. — Ah! El fumava! — El fumava sì. Cossa ghe entra se el fumava o no el fumava? Xe che lui cominziava con quela del spagnoleto, e po', verso le nove ore che rivava Rimbaldo che iera Finanza, guardia insoma, parlo ancora de prima dela Prima Guera: «Rimbaldo — el ghe diseva — tempo missià ah, ogi?» — Ah, iera tempo missià? — Ma no! El ghe diseva: «tempo missià» metemo dir, opur: «caldo bastanza per esser otobre»... — Ah, otobre iera? — Indiferente. El parlava con 'sto Rimbaldo. Insoma, per farvela curta, Barba Mate Pessimòl ve stava tuto el giorno sul molo. El parlava con un e col altro, co' rivava el vapor el vardava chi che vigniva zò del vapor, quei che el conosseva el li saludava e quei che no el conosseva el li vardava, l'andava giusto a casa a magnar co' iera ora de pranzo e dopopranzo el tornava, fin che vigniva Visco a impizzar el fanal. — Ah Visco, me ricordo, quel che impizzava el fanal... — Lu. Co' calava el sol, l'impizzava el fanal. E po' con Visco, ciacolando, pian pian l'andava verso casa. — Chi questo? — El fanal, siora Nina! Ma come chi questo? Barba Mate, Barba Mate Pessimòl. Ve contavo, per dirve che lui squasi tuto el santo giorno pretamente el ve stava sul molo. — Ah sul molo, el stava là a remenarse, el pescava cola togna? — No. Per pescar no el pescava. Anzi el diseva sempre: «Mi, per pescar, no go pazienza.» Bon, no volé che un giorno co' riva el vapor, vien zò del vapor el novo Comandante de 'sto vapor, che giusto i lo gaveva cambiado, e come che el vien zò, Barba Mate Pessimòl lo varda e, fazendoghe de moto cola man, el ghe fa: «Viva!» «Viva!» — ghe fa 'sto qua. E Barba Mate: «Ma vù — el ghe dise — no ieri del Novantaoto terzo uficial sul "Calitea", che ve go intivado in Governo Maritimo a Costantinopoli che quistionavi con un Turco?» — «Sì che sì — ghe fa 'sto qua — iero del Novantaoto a Costantinopoli, come no, perché propio in quei anni fazevo la linia de Costantinopoli e me ricordo sì che fota che go ciapado con quel Turco del Governo Maritimo. Figurévese che lui pretendeva...» — Cossa el pretendeva?... — Indiferente cossa che el pretendeva ... che i cambi molo, che i moli le zime, perché a 'sti Turchi ghe ocoreva el molo. Ma 'sto Comandante, se ga subito stupido, dopo, che 'sto Barba Mate Pessimòl, che lui gnanca no lo conosseva, se ricordassi de 'sta roba de Costantinopoli del Novantaoto. Mileotozento novantaoto, pensévese. «Che mimoria che gavé» — el ghe ga dito — el lo ga ciapà sotobrazzo, el lo ga portado con lu a bever un bicer de Bepin, e po' andando via el ga volesto a tuti i pati anca regalarghe una scatula de trinciato turco, che quela volta iera una rarità... — Una scatula che ghe gaveva dado 'sto Turco quela volta a Costantinopoli? — Cossa quela volta! Che quela volta con 'sto Turco el quistionava. Lu, 'sto Comandante, stupido, come, che 'sto Barba Mate se gavessi ricordado de 'sta roba de quando che ancora lui iera terzo uficial, el ga volesto darghe 'sto trinciato turco, e anca libreti de cartafina, tuto. Iera cocolo savé Barba Mate. Perché lui, metemo dir, sentado sul scalin del fanal del molo che el iera, el ghe andava incontro a questi che smontava dei vapori e el ghe diseva: «Ma vù del Dodici no ieri...?» — Dove? — Indiferente dove. Lui se ricordava, lui iera fisionomista propio, e a 'sti qua ghe piaseva che 'sto qua se ricordassi, ghe fazeva simpatia, come. Lui, Barba Mate, se gaveva inabituado a far cussì de quela volta che quel Comandante ghe gaveva dado la scatula de trinciato turco. No che el fussi interessoso, savé, siora Nina, e gnanca in bisogno. Barba Mate ve gaveva la sua pension. Ma tuti ghe dava qualcossa co' lui se ricordava e per lui anca, cussì, ghe iera un passatempo. — E anca soldi i ghe dava? — I foresti massima parte ghe dava qualche volta soldi. Lui, dopo del ribalton del'Austria, che xe vignuda l'Italia e i ga fato l'albergo novo e vigniva foresti, lui ghe diseva, metemo dir, a uno: «Ma vù per la Madona de Agosto de dò anni fa, no ieri qua cola fia?» «Sì — ghe diseva 'sto qua — dò anni fa, sì, sì, cola fia iero, sì, sì...» — Chi questo? — Ma cossa, chi questo? Un. Un altro, inveze che cola fia iera stà cola madre, indiferente: lui se ricordava. Ben, volé creder che 'sto Barba Mate, cussì fisionomista che se ricordava tuto de tuti, una lira de qua, dò lire de là, specie de istà, el se fazeva squasi una seconda pension. «Ma vù no ieri qua del Trentazinque?» «Ma vù no ieri qua del Trentaoto?», «Ma vù no sè partido de qua col "Narenta" quela dimenica che pioveva, che gavevi el trench ciaro de piova?» — Ghe vigniva in a mente? — Come in fotografia, siora Nina. E tuti ghe dava qualcossa a 'sto cocolo veceto che se ricordava cussì ben. Squasi una seconda pension el se fazeva in quei anni. — In quai anni? — Quei anni là, prima de 'sta ultima guera. E dopo xe vignuda la guera. Che po' i Tedeschi, qua sul molo i gaveva fato el bunker, ve ricordé, col fil spinà tuto atorno, che a Barba Mate no i lo lassava più vignir sul molo e lui iera assai avilido... Po' i Tedeschi xe scampadi, xe vignudi i partigiani, una roba e l'altra, e i ga butà zò el bunker. — Eh me ricordo co' i butava zò el bunker: in mar i butava 'sti tochi de cemento... — Sicuro che i butava in mar, perché iera più fazile de tuto. Ma dopo i ga dovesto dragar el fondo, perché el vapor no podeva più tacarse al molo. Dopo apena i se ga inacorto. Indiferente. — Eh i dragava sì el fondo, qua al molo, me ricordo, perché no podeva tacarse el vapor. — Sì, ve disevo che apena dopo i se ga inacorto. Po', dài e dài, el vapor ga podesto tacarse de novo sul molo. Nel Quarantasie apena però, che me ricordo rivava el «Liburnia», sù e zò de Carlopago. — Eh, come no, me ricordo. Un giorno sì e un giorno no. — Ben, no volé che un giorno del «Liburnia» vien zò Miro?... — Ah Miro: quel che iera dei Poteri Popolari, un periodo? — Sicuro, ma quela volta che el xe vignudo zò del «Liburnia» nissun no lo conosseva. Insoma, el vien zò del «Liburnia» e Barba Mate lo varda, el se leva del scalin del fanal del molo, el ghe va incontro tuto soridente e el ghe fa, ci fa ci dice: «Ma vù?...» «Chi mi?» «Sì, vù, vù, no ieri qua col "Narenta", nel Trentaoto, con quela gita che vù li gavé menadi tuti in piazza?» «Mi, con una gita nel Trentaoto? No! No me ricordo...» «Ma sì, come no — ghe ga dito tuto soridente Barba Mate Pessimòl — quela gita che iera del Dopolavoro, che vù ieri in montura del Fassio, bianca.» — I usava sì quei del Fassio de istà, montura bianca. — No xe quistion de istà e de inverno, siora Nina. Xe quistion de montura. E mi calcolo che bastanza ghe devi gaver dado Miro. Che anzi Barba Mate se ga stupido che el ghe ga dà tanto, più de quel che ghe dava i altri. Perché, el diseva: «Tanto el me ga dado, che me son ricordà. E, in fondo, no xe passadi gnanca tanti anni.» MALDOBRIA V - COCAI DE PUPA In cui la storia degli usi e dei costumi dei gabbiani s'inserisce in quella più vasta del primo conflitto mondiale che coglie all'improvviso il Comandante Dùndora nelle infide acque di Alessandria d'Egitto. — El cocal, sempio? Chi ve ga dito, siora Nina, che el cocal xe sempio? Se usa sì dirghe cocal a un sempio, ma scoltème mi che go navigà el mio: el cocal tuto sarà, fora che sempio. Presempio: perché qualche volta el cocal svola basso? Perché el tempo se move. E co' el tempo se move, se move anca el pesse. E alora el cocal svola basso... — Per mostrarne che se move el tempo? — Ma dài! Cossa per mostrarne che se move el tempo? Chi ghe ga dito de far un tanto al cocal? El cocal svola basso perché co' se move el tempo, se move anche el pesse, el vien suso e cussì el cocal ga cossa magnar. Questa ve xe la sua furbitù. Sempio el cocal? Chi ga dito? El cocal xe furbo. Sempi semo nualtri che per magnar ne toca sfadigar tuto el santo giorno. Lui inveze... — El svola basso. — Anca. Ma intendevo significar un'altra roba. No so se gavé mai fato osservazion che drio dele barche che naviga, xe sempre un nuvolo de cocai. — Eh altro che! Nuvoli de cocai xe drio le barche... i zìiiga... — Sì: i ziga aleluja, siora Nina, perché cossa ve xe de meio per un cocal de una barca in navigazion? Vù no gavé gnanca idea de cossa che no buta via de roba in mar una barca in navigazioni massime le barche de passegeri... — Ah: xe 'sti passegeri che buta via in mar robe? — Ma cossa volé che buti via robe in mar i passegeri? Roba de cusina, intendevo significar. Cossa che no butava via una barca del Lloyd, presempio! Cossa credè vù, che su un Lloyd Austriaco, se salvava per zena quel che vanzava de pranzo? Via, via se butava, in mar. E 'sti cocai drio. Nuvoli de cocai. — Pecà però strazzar cussì la roba. Noi salvemo più de una volta per zena quel che vanza de pranzo ... — Ma vù no sé el Lloyd Austriaco, siora Nina. E po' Lloyd Austriaco se dise per dir. Tute le barche butava via, de tute le Compagnie. Compagnie grande butava via de più, Compagnie più scarte de meno. Però me ricordo che anca sul'Ungaro-Croata, che ve iera pretamente Compagnia scarta, co' fazevimo la linia de Dalmazia, gavevimo sempre drio nuvoli de cocai... — Ah vù navigavi anca per Dalmazia, un periodo? — Un periodo? Un'eternità me pareva de giovine. E inveze, magari, e come, esser in Dalmazia quela volta che ne ga tocà quel truco! — Quela volta quala? — Quela che ve conto. Truco! Oh dio, truco: iera una roba enorme. Insoma, per farvela curta, ierimo in Alessandria de Egito. E bruto ve iera. Istà iera, agosto... — Eh de istà xe caldo in quei loghi... — Caldo? Caldo in Alessandria ve xe sempre de agosto. Solo che quela volta ve iera agosto del Quatordici. — Ahn! El giorno prima dela Madona de agosto! — No, siora Nina. No quatordici de agosto! Agosto del Quatordici. Cossa, un giorno prima? Un mese dopo. El mese dopo che i gaveva copado Francesco Ferdinando, a Sarajevo; quel Bosniàco, no so se gavé presente. Bon. Indiferente. Agosto iera del Quatòrdese... — Aah! Prima dela Prima Guera, ancora... — Qualche giorno prima. Quel ve iera tuto. Che in Alessandria, che carigavimo coton, col Comandante Dùndora a bordo de 'sta barca no iera né un viver né un morir. Capiré: se saveva che iera bruto. Perché quando che noi ierimo partidi de Trieste, i gaveva zà copado Francesco Ferdinando, che anzi giusto fora de Salvore lo gavemo intivado che el tornava suso cola «Viribus Unitis» in capoto de legno ... — Chi questo? — Francesco Ferdinando copado, siora Nina, de quel Bosniàco a Sarajevo, sula «Viribus Unitis», in capoto de legno! In cassa de morto, insoma. Che anzi passandoghe rente, tiravimo su e zò 'ste bandiere per el Saluto ala Salma. Però bel. Iera bele 'ste usanze de una volta, tuto el pavese: bel! Indiferente. No ve digo i Inglesi. Perché i Inglesi che iera in Alessandria — quela volta mezo mondo iera del Inglese — 'sti Inglesi che iera in Alessandria se capiva che i iera come mati. L'Inglese, savé, siora Nina, no fa conosser, ma istesso in Alessandria se capiva che anca l'Inglese sarìa vignudo in guera, se la guera s'ciopava... — E se no la s'ciopava? — Ma cossa se no la s'ciopava, siora Nina! Se la xe s'ciopada! La Guera del Quatòrdese po'. Solo che in quei giorni no la iera ancora s'ciopada e ve disevo che nualtri su 'sta barca, che carigavimo coton in Alessandria, col Comandante Dùndora no iera né un viver né un morir. Capiré: barca austriaca che ierimo, bandiera austroungarica che batevimo, guera che doveva de un giorno al altro vignir col Inglese, in porto inglese che ierimo, gavevimo paura. Oh dio paura: cossa volé che i ne gavessi fato? Come massimo i ne internava, ma, con quatro anni che se ga visto dopo che ga dura la guera, el Comandante Dùndora iera in pensier... — Eh star quatro anni via de casa, se pol capir! ... — Sì: ma cossa el podeva saver lu quela volta che la guera gavessi durado quatro anni? Che anzi se diseva che sarà una guera tictac, un mese, dò ... tre ala granda. La verità vera ve iera che el Comandante Dùndora iera un tazzaanime che no ve digo. Lu co' el partiva e vigniva la moglie a saludarlo sotobordo, lui pianzeva, lui ve pianzeva co' el iera via perché no el iera a casa, lui ve pianzeva co' el tornava de un viagio, per la contentezza de esser tornado, e po' a casa el pianzeva con quel pensier de dover partir de novo. Iera un omo assai comovente. E podé capir, in Alessandria, con 'sta guera che doveva s'ciopar de un momento al altro, cossa che lui no fazeva furia de carigar presto presto 'sto coton... — Eh, in quei momenti... — Ben: me ricordo una sera, che iera zà scuro, perché in Alessandria, co' va zò el sol fa subito scuro, no xe come qua, xe Egito ... Ben, una sera che iera zà scuro, vien a bordo el Comandante Dùndora tuto stranudando, perché là in Alessandria, co' va zò el sol fa subito quel fresco crudo anca de istà, el vien su tuto stranudando e disendo che bisogna molar le zime e andar via, perché lui ga savesto in Agenzia del Lloyd, che anca in Caffè i parlava, che l'Austria ghe ga intimà guera ala Serbia e che tute le Potenze oramai se move, e che se anca nualtri no se moverno presto, nualtri tuta la guera doveremo farla internadi, chi sa dove, lontan de casa e cola moglie in pensier. — Eeh: quatro anni! — Ma, siora Nina, chi saveva ancora quela volta che la guera gavessi durado quatro anni, per finir po' in quela bruta maniera? Lui diseva che finiremo internadi chi sa dove, lontan de casa e cola moglie in pensier. E che po' l'Inglese se profiterà, secondo el suo solito, per portarne via carigo e barca, come suditi nemichi e che lui dopo la guera, se el sarà vivo, el doverà apena ancora risponderghe ai sui fradei a Lussin dela parte sua de lori dela barca. E insoma che molemo le zime subito, che quele dò bale decoton che xe ancora de carigar le lassemo star in tera, perché xe meo perder quele dò bale che la vita... — Eeh, giusto. — Sì, giusto! Ma cossa perder la vita? Chi perdeva la vita? El maritimo mercantil no i lo tocava. I lo internava, ma no i lo tocava. Ben: volé creder, col scuro semo andadi fora de Alessandria. E senza piloto! Per quel, bisogna dir che el Comandante Dùndora iera bravissimo. E come diman de matina bonora, come che se ga levà el sol, che là, apena che vien su el sol, fa subito ciaro, ma un ciaro che no ve digo e caldo, perché no xe come qua ... Ben, no volé che apena che xe vignù su el sol, davanti de nualtri vedemo, lontan ancora, ma propio davanti de nualtri, una barca de guera inglese che bateva bandiera inglese, col canocial. — Cossa col canocial, iera quela volta la bandiera inglese? — Ma cossa quela volta e adesso, che i Inglesi, de quando che i xe al mondo, no i ga mai cambià bandiera! Noi gavemo visto col canocial che 'sta barca inglese de guera bateva bandiera inglese. E con 'sto Comandante Dùndora, natural, no xe stà né un viver né un morir. Che se lori ne vede a nualtri, come che nualtri li vedemo a lori, i capirà subito che semo barca austriaca, che per fortuna lori ne vede de prova e noi li vedemo de pupa, ma che fin che semo in tempo sarà meo cambiar bandiera ... — Cambiar bandiera perché? Se quei altri no cambiava? — Ma per forza, siora Nina: perché el Comandante Dùndora calcolava — e in questo el gaveva ragion — che se 'sti Inglesi ne gavessi visto che ierimo Austriachi, i ne gavessi podesto anca intimar de tornar indrio in Alessandria, guera che iera, e i ne portava via la barca e el carigo. E nualtri finivimo internadi chi sa dove, lontan de casa, cola moglie in pensier. Per quatro anni. E alora el ghe ga intimado al nostroomo, che iera el nostroomo Fatutta, me ricordo, de tirar subito suso bandiera italiana, che tanto noi parlemo taliàn, per ogni evenienza, el ga dito... — Ah! Ben pensada. — Sì, ma dopo el ga pensà meio. E el ga dito che, in fondo, l'Italia xe dela Triplice, alleata del'Austria e del Germanico. Che noi no savemo, ma che forsi anca l'Italia xe zà in guera contro del' Inglese — aré vù come che se pensava quela volta — e che cussì i ne ciaperà istesso e che in più i ne darà condana per bandiera falsa. E che alora, nostroomo Fatutta, visto che qua a bordo gavemo tute le bandiere, tiremo zò la bandiera italiana e metemo suso la bandiera francese, che con quella semo sicuro sul bon. — E savevi, savevi parlar francese, in un'evenienza? — Cossa volé siora Nina, che ocori saver parlar in mar per dò barche che se intiva ala lontana? Co' ghe semo passadi vizin a 'sta barca de guera inglese, el Comandante Dùndora — che iera un furbo, savé, cussì che no pareva — del ponte el ghe zigava «Arevuàr, arevuàr!» salutando cola bareta, come dir che lu, che la barca, insoma, xe francese... — E i ve ga credesto? — Come volé che no i credessi? Bandiera francese che batevimo, 'sto Comandante Dùndora che zigava «arevuàr, arevuàr» saludando cola bareta — furbo — 'sta barca inglese ne ga lassà passar. Che anzi me ricordo che dopo la ga virà de bordo e via ela per Alessandria, mi calcolo, con un nuvolo de cocai drio, che no ve digo. I militari buta via in mar assai roba de magnar... — Mama mia! che momenti. — Eh momenti, sì. «Arevuàr» zigava el comandante Dùndora a 'sti Inglesi e po' «Aré vu, ara — el ne ga dito a nualtri — cossa che no ne toca far per salvarse la vita!» Che omo. Ben, driti avanti nualtri a tuta forza con 'sta bandiera francese che batevimo, co' verso mezogiorno, che de quele parti a mezogiorno xe orori de caldo in agosto... — Eh, anca qua ... — Ma là più. Co' xe mezogiorno, no volé che una barca inglese, un mercantil che bateva propio bandiera inglese, vien fora del sol come, che prima no lo vedevimo, e el vira verso de nualtri. Drito verso de nualtri, con 'sta bandiera inglese che se ghe vedeva distintamente de pupa. E alora el comandante Dùndora, la ga ben vardada per un boni diese minuti, po' el xe andà sul ponte... — Per zigar «Arevuàr!» saludando cola bareta? — Anca nualtri credevimo. Inveze lu, tutintùn, el ga dito: «Nostroomo Fatutta, disèghe in machina che i fermi le machine!» — Fermar le machine inveze che scampar? Perché? — Anca nualtri no capivimo perché. Che, anzi, el nostroomo Fatutta ghe ga dito: «Come, fermar le machine, Comandante Dùndora? Perché volé fermarve? Vardé che 'sta barca, anca se xe un mercantil, vedo sul albero che i ga aparato Marconi. E lori se i se inacorze che semo Austriachi con bandiera francese falsa, come gnente lori ve averte quela barca de guera inglese che gavemo scapolado prima e i ne porta in Alessandria. E con quel tranelo del «arevuàr» che ghe gavé fato, stavolta andemo per bon, tuti in ràdighi...» — Ah, i ve dava condana? — Xe quel che ghe ga dito Fatutta. Ma el Comandante Dùndora ghe fa: «Vù, Fatutta, no stè pensar, disèghe in machina che i fermi le machine, che 'sta barca qua nualtri la spetemo.» Po' el se ga sentado su una bala de coton, che iera là butada in furia in coverta, e el se ga impizzà un spagnoleto. — Calmo, come? — Più che calmo. Contento come, el pareva, intanto che 'sta barca vigniva sempre più avanti. E co' la iera che ierimo a portada de vose, el Comandante Dùndora se ga alzà in pie, el ga vardà de novo col canocial e el ga dito «Giadròssich!» — Ah, Giadròssich, el ga dito, no per francese? — Ma cossa per francese! «Giadròssich, ne xe» — el ga dito. E volé creder, siora Nina, iera propio Giadròssich. Giadròssich iera su 'sta barca che bateva bandiera inglese. — Prigionier dei Inglesi! ... — Ma cossa prigionier dei Inglesi! Iera Nicolò Giadròssich de Lussin che vigniva de Port Said, cola barca sua de lu, cariga de zivòle che bateva bandiera inglese, falsa natural, più ancora che la nostra. «Dùndora mio — ghe ziga Giadròssich — salute! Ma come ti se ga fidado de spetarme che te vegno a rente, con bandiera falsa che ti bati e mi che bato bandiera inglese?!» «Eh — ghe ga dito Dùndora — Giadròssich mio, mi go capido subito de lontan, che ieri barca lussignana, perché no gavevi cocai de drio.» Mai i cocai no va drio dele barche de Lussin, perché i lussignani in mar no buta via mai gnente. «Ma dime ti, pitosto, come ti se ga fidado ti de vignirme rente, con bandiera falsa che ti bati, che mi bato bandiera francese?» «Eh, Dùndora mio — ghe fa Giadròssich — cossa, ti forsi ti credevi de gaver cocai de drio...?» Siora Nina: barche lussignane tute dò ierimo. Ve go dito che i cocai no xe sempi. MALDOBRIA VI - L' ULTIMO ABSBURGO Nella quale, all'inizio della Grande Guerra, non essendo ancora venuto a morte il vecchio Imperatore, il suo Erede l'Arciduca Carlo perlustra i dipressi del fronte con Nini Chauffeur nell'auto guidata da quest'ultimo. — Tante robe ve iera prima dela Prima Guera, che ogi la gente no sa. Auti, presempio ve iera. Dove i giovini pol concepir ogi che prima dela Prima Guera iera auti? Auti! Oh dio, veture, come che se ghe diseva. — Ah iera zà auti prima dela Prima Guera? — Sicuro che iera auti. Francesco Ferdinando dove i lo ga copà? — A Sarajevo! — Sicuro che a Sarajevo. Ma in auto, no? Cola moglie. Che se no iera auti, forsi gnanca no i lo copava. — Eh, fatalità xe qualche volta coi auti! ... — No xe quistion de auti, siora Nina, xe che quel ghe ga tirà col revòlver! Ma iera, iera auti prima dela Prima Guera. Oh dio, iera una rarità un auto, una vetura, che se ghe diseva quela volta, ma presempio i Prohaska qua, gaveva ... — In Vila Prohàska? — In Vila, sì: i la tigniva in stala, che Nini Safèr li portava quando che i andava a Fiume in auto, che quel, in fondo xe stà la sua fortuna... — De andar a Fiume? Nini Safèr? Qual Nini Safèr? — Come qual, siora Nina? Quel Nini che dopo fazeva el safèr dele coriere. No ve ricordè che el vigniva zò cole coriere de sior Cesare come un fulmine, sonando la tromba in volta dela strada?... — Ah! Nini Safèr, povero! Quel che se ga mazado cola coriera in volta dela strada? — Eh sì, povero! Fortuna che no iera nissun suso. Ma quel xe stada la sua fortuna... — Ah, che no iera nissun suso? Cussì nol ga avudo dispiazeri? — Come no el ga avù? Cossa no xe un dispiazer perder cussì stupidamente la vita cola coriera, vignindo zò in volta dela strada, che mile volte el la gaverà fata? Fatalità. Indiferente, ve disevo che la sua fortuna xe stada in guera, che lui, safèr che el iera dei Prohaska, co' xe s'ciopada la Prima Guera, che no iera safèri quela volta, perché un'auto ve iera una rarità, ben, a lui soto le armi i lo ga fato subito safèr. — Ma no me disevi che el iera zà? — Sì, safèr dei Prohaska. Ma inveze, s'ciopada la guera, che i ga copà Francesco Ferdinando in auto, lui in Galizia, sul fronte i lo ga fato safèr del auto del'Arciduca Carlo... — Ah, de Carlo Piria. — Carlo Piria i ghe diseva dopo, come Imperator, ma prima, che iera ancora Imperator Francesco Giusepe, e che lui iera Erede dela Duplice, tuti ghe ciamava l'Arciduca Carlo; e Nini Safèr iera suo safèr al fronte. — Ma Erede dela Duplice, no me gavè dito tante volte che iera Francesco Ferdinando?... — Siora Nina: se i lo gaveva copado in auto come el ve podeva più ereditar la Duplice? Morto lu, ve iera deventado Erede l'Arciduca Carlo, e Nini Safèr lo menava cola vetura per tuti i loghi del fronte. Oh dio del fronte, no propio dove che iera el boio, nei dipressi: quel xe stà la sua fortuna. Perché, capì: safèr del'Arciduca Carlo al Oberkommando, magnar noma che ben, perché capiré in un Oberkommando, e po' el iera al fronte per modo de dir, perché i andava solo che nei dipressi... — Depressi? — Ma cossa depressi! Dipressi: «Nei dipressi del Fronte» come che diseva i boletini de guera: «ha ispezionato il Fronte e i suoi dipressi». Altro che nualtri poveri che ierimo propio in campo, che el Russo tirava sui omini, che de note se lo sentiva moverse strassinando i capoti, longhi che i gaveva, che zà quel fazeva teror, e un'umidità che no ve digo. Galizia po'. — Che vù ieri? — Altro che iero! E me par ieri che un giorno, che i ne gaveva dà el cambio in linia e che andavimo in retrovia, vedemo sula strada poco fora de Leopoli, una vetura ferma e drento savé chi? — L'Arciduca Carlo! — No: Nini Safèr. L'Arciduca Carlo iera andado un momentin a spander acqua, ne ga dito Nini e insoma, baci e abraci. Capiré: in una Galizia, poco fora de Leopoli, intivar Nini Safèr, xe stà tuto un rider, una contentezza. Tanto che quela sera istessa a Leopoli se gavemo trovado tuti in local, dove che iera 'ste polachesi che portava bira... — A vualtri? — A nualtri, e a tuti quei che ciamava bira. Un local, po'. No gavé mai visto un local? Solo che là ve iera polachesi, 'sendo Leopoli, là. Bon, indiferente. 'Sto Nini Safèr ne conta che lui noma che ben, che per fortuna che el iera safèr e cussì i lo ga fato safèr, che de magnar no ghe manca e che anca come perder la vita, lui no ga paura de perder la vita, perché col Arciduca Carlo i va sì al fronte, ma solo che nei dipressi. Perché, istà del Sedici che iera, in Galizia ve iera boio... — Caldo, come? Là fa caldo? — Caldo? Per caldo fa caldo come qua; ma boio ve iera perché el Russo iera ancora in pie quela volta e zà dò anni che ierimo là, no se vedeva una fin. «Fortuna che son safèr!» ne diseva quela sera Nini Safèr e po' el ne contava che l'Arciduca Carlo anca spagnoleti ghe dava più de una volta... — Ah fumava l'Arciduca Carlo? Mi veramente gavevo sentì che el beveva e che per quel i lo ciamava Carlo Piria... — No, inveze el fumava: cola piria. Ma dài, siora Nina, che iera tute ciacole quel che el beveva. Che anzi el iera un omo assai de Cesa. Ben: Pillepich, che ancora el gaveva la gamba, povero, ghe ga dito a Nini Safèr: «Ciò, Nini, ti che ti xe sempre in vetura col Arciduca Carlo, perché no ti ghe dimandi quando che finirà 'sta maledeta guera, che qua semo zà dò anni sul fronte e no se vede una fin?» «Ah sì che sì che mi ghe dimandassi — ga dito Nini — perché l'Arciduca Carlo ve parla franco per talian, che sua moglie Zita ve xe italiana. E po' lu, prima, ve stava a Miramar e anca a Lussin el ve andava col jacht; ghe dimandassi sì, che tante volte me vien de dimandarghe, che più de una volta in vetura semo solo che mi e lu, ghe dimandassi sì, ma mi no posso dimandarghe...» — No el podeva dimandarghe? Ghe fazeva riguardo, come? — No iera quistion de riguardo, siora Nina: iera quistion de pramatica. Che a un del Sangue, un che no iera del Sangue, no podeva dimandarghe ... — No el podeva dimandarghe quando che finiva la guera? — Né quel, né gnente, siora Nina. A un del Sangue no se ghe podeva dimandar. Bisognava spetar che lu dimandi e, dopo che el gaveva dimandado, cussì, in discorso, se podeva forsi anca dimandarghe... — Ah, come dir che bisognava spetar che el dimandi lu: pramatica. — Sicuro. Come volé dimandarghe a un Arciduca, a un Erede dela Duplice, metemo dir, che ora che xe? Anca se no 'l gaveva l'orologio. Lui, l'Arciduca Carlo, doveva dimandar, metemo dir, che ora che xe. E alora forsi... — Ah, perché Nini Safèr gaveva l'orologio? — No so. Iera per dirve. Per dirve che Nini per parlar, doveva spetar che lui ghe dimandi. — E no el ghe dimandava. — Raro. «Raro — ga dito Nini — perché lui ve xe sempre sentado in vetura drio de mi, che lo vedo nel speceto, che el pensa, che el lege, che el varda carte, che el varda fora del finestrìn, che el se cruzia. Una roba e l'altra. E raro che el me dimandi. Ogi, aré combinazion, el me ga dimandà quanto che manca per rivar. E alora mi ghe go rispondesto: "Eh, una bona meza ora, Altezza Imperiale". E alora lu xe smontà per spander acqua. Che ve go visto, no ve ricordé?» — Un'impellenza! — Eh! Ben, volé creder, siora Nina, che de quela volta con Pillepich no xe stado più né un viver né un morir? Ogni volta che intivavimo Nini Safèr, che andavimo in retrovia o vignivimo via del fronte e ierimo nei dipressi, ben ogni volta Pillepich ghe dimandava a Nini Safèr: «Ti ghe ga dimandà quando che finirà 'sta maledeta guera, Nini?» E Nini che no: che no el ghe ga dimandà, perché l'Arciduca Carlo no ghe gaveva dimandado gnente. — Mai no el ghe dimandava? — Raro: una volta el ghe ga dimandà un fulminante. «Ma cossa volé — ne ga dito Nini Safèr — che a un che me dimanda un fulminante, mi, dàndoghelo ghe dimando quando che finirà la guera? Xe difizile. Ghe vol che vegni, cussì, l'ocasion, el discorso.» — No vigniva? — Eh, siora Nina, vigniva, vigniva... vigniva sempre più militar sul fronte, gioventù che perdeva la vita con 'sti Russi che tirava sui omini propio, e bruto, sempre più bruto, e no se vedeva una fin. Fin che un giorno, iera de sera, poco fora de Leopoli, no ve intivemo Nini Safèr fermo, pozà sula vetura, che ne fa moto? — De fermarve? — No, no... el ne fa moto che l'Arciduca Carlo, xe andà un momentin a spander acqua, ma che, pensévese, stavolta el ghe ga propio dimandà. «Propio lu me ga dimandà!» — ga dito tuto soridente Nini Safèr. «E cossa el te ga dimandà?» — ghe dimanda Pillepich. «El me ga dimandà, pensévese, come che me ciamo». «E ti?» «E mi: "Nini" ah, ghe go dito». «E lu, alora el me ga dimandà: Nini — el me ga dimandà — quando ti credi ti che finirà questa maledeta guera?» Parlava franco, savé, l'Arciduca Carlo per talian. Lui prima ve stava a Miramar, anca a Lussin... oh dio, no a Lussin, propio. Nei dipressi. MALDOBRIA VII - IL CAMBIO DELLA CORONA Nella quale la Corona di cui si parla non è solo quella caduta dal capo degli Asburgo ma altresì la valuta rimasta in corso nelle nostre terre per alcun tempo anche dopo l'approdo dell'«Audace» al molo poi omonimo. — Aré, mi go fato osservazion, no solo che in dogana nostra, ma in tute le dogane che iera prima dela Prima Guera — che po' prima dela Prima Guera iera pochissime dogane — bon: mi go fato osservazion che presempio anche in una Néviork, a Sciangai, a Kobe, a Hòngkong no se parla, ma anca a San Francisco, ben — aré siora Nina — savé cossa che ghe vol? Un paco. — Spedir per paco? — Ma cossa spedir per paco! Gaver un paco! Uno, no, co' passa una dogana ga tute le sue valise, no? E ben: tuto sta de gaver anca un paco. Ma no un paco, cussì de botega, un paco vero de quei come che se fazeva una volta... — Come se fazeva una volta i pachi? No go presente ... — Ma come no gavé presente, siora Nina? Cossa no gavé mai visto un paco? Un vero paco: vù ciolé una scatola de scarpe, o una scatola de pupe, svoda, ve ricordé quele pupe de celuloide che se portava de China? Bon, drento vù meté robe interessanti, ma che possi passar dogana... — Interessanti, come? — Interessanti: una panzera, libri, un due libri che fazzi peso, el rasadòr, el pinel de barba, savon, la matricola, cussì, robe interessanti, che servi e po' un sugaman che tegni fermo tuto. Po' carta de impaco per far el paco, ben tuto ligà col spago, strento coi gropi, più gropi che se pol. Bon, volé creder, siora Nina? Vù podé andar in dogana con zinque valise e 'sto paco, un poco sporco anca de fora: ben che sia italiani, che sia turchi, che sia croati, americani, chinesi, ungaresi che iera una volta, ben, in dogana, quei dela dogana, garantito ve dimanda cossa che gavé in quel paco. — Ahn! I dimanda cossa che xe nel paco? E cussì bisogna dir... — Noo! Guai. Cioè a dir, no bisogna dir busìe, ma bisogna tignirse sul vago, dir e no dir. «Effetti personali; oggetti d'uso», cussì bisogna dir, come se un volessi dir e no dir. Ben, novantanove volte su zento, che i sia turchi, taliani, chinesi, americani, ungaresi, croati, i ve dise garantito: «Verzéte il paco!» — Mama mia! E bisogna verzer el paco? — Sicuro, come no! Xe tuto là el truco! Alora pian, cola calma, cola fiaca, cola càfia, vù molé i gropi un per un, disvoltizé el spago, lo fé suso, discarté la carta, verzé la scatola e cominziè a tirar fora: sugaman, rasadòr, savon, libri, pinel de barba, matricola, natural e l'incalzascarpe. Insoma, per farvela curta, tuta 'sta pantomina ve dura un vinti minuti, fin che 'sto doganier ve manda a remengo... «Andéte!» andate, insoma, e noi ve varda più gnanca una valisa. Quel ve xe: che vù, inveze, in una valisa podé gaver per bon robe interessanti, qualunque roba: camise de Sciàngai, scarpe americane, spagnoleti, liquor, oro anche, quei che se ris'ciava, ori... — E vù ve ris'ciavi de portar ori?... — Eh ris'ciavi, ris'ciavi. Ris'ciavo sì! go fato anca mi le mie, a tempo debito, siora Nina. Ma ve go dito: un paco. Se vù gavé un paco come che ve go dito mi, vù in valisa podé liberamente portar anca un branzin grando compagno. — Ma come un branzin in valisa? Ma dopo ciapa odor la valisa! — Indiferente. Iera per dirve, un branzin. Qualunque roba! Anca borse de pele! Cossa volé che sìa un branzin, che vù un branzin podé portar liberamente in man che no i ve dise gnente... — Ahn! — Ahn! Ahn! Cossa merita adesso far contrabandi?... Adesso xe tute robe misere, qua de nualtri: una volta, una volta, vedé qua de nualtri ve iera contrabandi, ma signori contrabandi! — Signori che fazeva contrabandi? — Anca. Ma anca gente che fazendo contrabandi se fazeva signori. Aré Polidrugo. — Andove? — In piazza sentà in café de Bepin!... Ma dài, siora Nina, che Polidrugo ve xe morto povero. Ma Polidrugo, un periodo, se ga fato signor, signoreto insoma, fazendo contrabandi. Lu ve fazeva contrabandi sempre, a bordo, in treno, anca in coriera in ultimo. — Col paco? — No, quel col paco fazevo solo che mi, perché solo che mi gavevo fato osservazion de questo del paco. Lui ve gaveva altri modi e maniere. Ognidun ga el suo, anca le done... — Eh come no! Le sansigote che gaveva nove cotole, soto le cotole chi ghe trovava? — Eh, siora Nina, l'omo se vol, trova, trova... — Mia madre, me ricordo, sul ponte de Sùssak i ghe ga trovà butiro ... — Indiferente. Quel ve xe contrabandi miseri. Ma in sen, in sen, qua sul petto, digo, anche usava le done. Me ricordo sempre de una volta, apena finida la Prima Guera, finida de poco che la iera, del Diciaoto, gavemo decidesto de andar a Graz che dovevimo andar zà de tanto tempo, per portarghe ala famiglia l'orologio de un che iera morto con nualtri in guera, un zerto Steiner. Che anzi dovevo andar mi solo e me secava, ma po' Polidrugo ga dito: «Sa cossa? Mi vegno con ti». E cussì ierimo andadi cole nostre valisete e 'sto orologio. — Che la dogana no lassava? — Come no lassava la dogana? E po' no iera ancora dogana, dopo el ribalton del'Austria. Dopo Postumia iera solo el posto de bloco del militar italian. — E i ve ga guardà l'orologio? — Sì per véder che ora che xe! No, gnente no i ne ga guardado, gnanche le valisete. Che anzi mi me go stupido. Insoma gnente: andadi a Graz — che 'sta famiglia no ve digo che pianti — e tornadi in treno, cola Meridionale... — Con una meridionale in treno? Una regnìcola, come? — Ma cossa regnìcola! La Meridionale, la Ferovia Meridionale, quela che rivava a Trieste in stazion Campo Marzio!... Viena, Graz, Lubiana, Postumia e oltre. E in scompartimento con nualtri iera — combinazion — una veceta de Trieste, una vecia, che gaveva un apalto, una privativa de tabachi e una sorela sposada a Graz. Tuto la ne contava in treno. Tututùn, tututùn, la ne tontonava 'sta vecia; ancora, pensé la go presente... — Ah la gaveva una sorela sposada a Graz! — Sicuro e l'apalto a Trieste, in via dela Zonta, aré cossa che no se se ricorda! Ben, 'sta qua, fra le tante che la ne tontonava, la ne conta che no tuti a Trieste sa, ma che a Trieste i italiani i cambia in banca una corona per una lira e che inveze a Graz, una corona se la pol comprar per gnanca zinquanta centesimi... — Ma che corona? Una corona del Rosario? — Ma cossa Rosario! Chi pregava più el Rosario, che iera zà finida la guera! Una corona, no? Cossa ve iera soto l'Austria, le corone? Soldi, no? Bon: a Trieste come irredenti, ai triestini in Banca i ghe dava una lira per una corona e inveze a Graz, in Austria che iera patatràc, una corona se podeva comprarla per zinquanta schei... — Ah cussì convegniva? — Sicuro che convegniva, podendo portar. Ma iera a Postumia el posto de bloco del militar italian che visitava aposta per via che no i porti. E 'sta vecia de quel gaveva paura. Perché, la ne contava, mi go qua in sen, mi go qua in sen, nel petto insoma... setanta anni, sessantazinque la gaverà avudo, mi qua in sen, capì, in sen go una carta de mile corone, comprada a Graz per zinquezento lire, che se mi rivo pulito a Trieste, che la go qua in sen, mi, no solo me go pagado el viagio, ma anca me vanza per tante robete che gavessi propio bisogno. — Come, questo? — Come «come questo?» Perché a Trieste, cambiando quelle mile corone in banca, i ghe gavessi dado mile lire, che iera un bel guadagno, per una veceta. Zinquezento che la le gaveva pagade ela a Graz. E tututùn, tuto la ne tontonava, de 'sta roba, fina che, tutintùn, siora Nina, Longàtico ... — Ah, la la fazeva longa? — Ma cossa la la fazeva longa? Sì, anca la la fazeva longa, ma Longàtico ve xe poco prima de Postumia, andando in zò, e là ve iera el posto de bloco del militar italian. E vien suso i carabinieri con quei capei de aroplani che i gaveva in tempo de guera, fodrai de tela e, subito un de 'sti carabinieri italiani ghe dimanda ala vecia, che iera la prima sentada vizin del sportel, se la ga gnente de dichiarar. «Valuta, signora?» E ela che no. «Come che no? — ziga Polidrugo saltando suso e mostrandola col déo «Come che no?... Se la ga dito prima che la ga? In sen! in sen...». E tuti in treno stupidi, capiré, anca mi, che Polidrugo ghe fa 'sta parte a 'sta povera vecia. Bon, per farvela curta, siora Nina, i la ga portada zò in uficio, dove che iera la dona che visita... — Xe sì in dogana la dona che visita le done... — Natural! Chi volé che ve visiti una dona? Un carabinier? Una dona visita le done. Dona dei carabinieri. Ma fato sta che i ghe ga ben che trovado in sen 'sta carta de mile corone e ela xe tornada in scompartimento pianzendo, tanto che co' xe smontadi i carabinieri e se ga movesto el treno, tuti ghe ga cominzià a dirghe robe a Polidrugo. E anca mi — devo dir — ghe go dito. «Pian, pian — ga dito Polidrugo — prima de dir. Cossa gavé perso vù — el ghe ga dimandado ala vecia che pianzeva — mile corone? Un bilieto de mile corone? Un. Ma mi ve go 'sta valiseta piena de bilieti de mile corone. Che se no i ve vardava a vù, i gaveva sicuro el tempo per vardarme a mi. Ecove qua domila per el disturbo, anca tre se volé, ciolé, ciolé». E el ga verto 'sta valiseta. Valiseta? Valisa! Che drento iera solo che bilieti de mile corone. — Mama mia che truco! — Truco sì, siora Nina. Ognidun gaveva i sui truchi. Mi gavevo quela del paco, usavo col paco, e Polidrugo gaveva quela dela vecia. Cola vecia l'usava quel periodo che el fazeva contrabando de corone. Cola vecia. In ultimo el se la portava drio aposita. MALDOBRIA VIII - HOTEL SAVOIA In cui un Grand' Hotel della Belle Epoque ospita i grandi protagonisti delle fortune armatoriali di tutti i mari, fra i quali, sulla scia del varo della «Vulcania», s'inserisce inopinatamente Tonin Polidrugo. — I altri naviga e pericola e chi che ga Agenzia Maritima sta in scritorio e tira le spetanze. Perché quel che ghe compete al'Agenzia, nissun ghe lo ga mai cavado, no ghe lo cava e no ghe lo caverà in eterno. Me gavessi piasso a mi gaver Agenzia, pitosto che lavorar, far, strussiar e pericolar per mar. Polidrugo gaveva Agenzia. — Tonin Polidrugo gaveva Agenzia Maritima? — Anca, siora Nina. Ma pretamente suo padre la gaveva prima, a Lussin. Agenzia dela Ungaro-Croata. No ve iera una granda roba, perché la Ungaro-Croata ve iera calcolada Compagnia scarta. Questo i calcolava, ma istesso ghe vigniva le sue bele spetanze, al vecio Polidrugo. «Xe stà un ben — diseva sempre Tonin — che el padre me sia morto prima del ribalton.» Perché, capì, dopo dela Prima Guera, co' xe cascada l'Austria, no iera più la Ungaro-Croata e lori ga perso. — I ga perso l'Agenzia? — Oh dio el scritorio ghe iera restado: pulto, careghe, e armèr e anca la tabela de fora «Giovanni Polidrugo Agente Maritimo», ma senza più la Ungaro-Croata no i gaveva lavori. Tonin Polidrugo, questo. Perché el padre, come che ve go dito, iera zà morto. — Del dispiazer, come? — Maché del dispiazer! Se el dispiazer no el ga rivà gnanche a averlo, perché el xe morto prima del ribalton! I dispiazeri ghe xe restadi a Tonin Polidrugo. Perché, senza la Ungaro-Croata, in una Lussin, l'Agenzia de Polidrugo no gaveva più lavor. Oh dio quel misero lavor che podeva ancora darghe 'ste misere barche che andava a Valmazzinghi, a Ràbaz, al'Arsa a cior carbon, cemento, baussìte. Barche misere, de un e del altro, che suo padre povero defonto, co' el gaveva la Ungaro-Croata, le tigniva giusto per farghe un piazer. Cossa volé, quele ve iera barche che a un'Agenzia no lassava quasi gnente. — Eh, el carbon del'Arsa! Chi adesso dopra più carbon? Pensévese, sior Bortolo, che l'altro mese che me ocoreva carbon... — Indiferente. Quela volta se doprava, ma ve go dito, iera carighi miseri. «Cossa tignì gnanca Agenzia Maritima, che no gavé più la Ungaro-Croata? — ghe diseva Barba Nane a Tonin Polidrugo — e po' Ungaro-Croata no ve sarà mai più in vita, perché de quando che xe cascada l'Austria, Ungaresi e Croati, fra de lori no i se pol véder». — Barba Nane ghe diseva questo? — Barba Nane e tuti quanti. Anca mi ghe disevo. Insoma lui se ga fato lusingar de vender la casa dove che i gaveva l'Agenzia e con quei pochi de soldi che ghe iera vignudi — perché subito dopo la guera le case ve valeva poco o gnente — Tonin Polidrugo pulito ve xe andado a Trieste. Perché dopo la guera, a Trieste ve iera lavori, ve iera noli, ve iera nove Compagnie regnicole che vigniva su de tuti i loghi. E cussì, ve disevo, lui se ga fato lusingar, el xe andado a Trieste e là el ga averto. — Cossa el ga averto? — La finestra, de matina bonora, che ghe se ariegi la camera! Ma dài, siora Nina, cossa el ga averto? El ga averto l'Agenzia Maritima a Trieste. Lui ve gaveva la licenza de agente e el ga pensà de averzer a Trieste, visto che per lu a Lussin no iera più né un viver né un morir. — Ah bel! Pulito gaver un'Agenzia Maritima a Trieste! — Sì, perché a Trieste i spetava Tonin Polidrugo! A Trieste, siora Nina, ve iera, ve xe — no so se xe più, ma insoma ve iera — Agenzie Maritime cussì cussì fisse in Riva, in via Sanità, in Canal e po' rente là del Caffè Tomaso. No ve iera miga fazile meterse suso con un'Agenzia Maritima a Trieste con quele poche misere barche che ghe iera restade a Polidrugo. Ma lu pensava: a Trieste xe lavori, xe movimento e qualcossa sarà. — El gaveva propio scritorio a Trieste? — Scritorio? El ve gaveva sì trovado un scritorio in via Canal Picolo rente el Caffè Tomaso, ma ve iera una roba misera: un porton, siora Nina, che prima iera un calighér, cussì almeno i contava. — Iera, iera calighéri per i portoni una volta a Trieste ... — Calighéri sì, anche orefici. Ma Agenzie Maritime in un porton, iera solo quela de Tonin Polidrugo, mi calcolo. Però iera bona posizion, perché subito là vizin ve iera una Tripcovich, una Martinolich, una Cùnard Lain inglese. Po' iera Màrovich, Premuda e po', a dò passi, el Lloyd, la Libera, la Cosulich. Come posizion iera bona, solo che no el gaveva Compagnia. — El stava solo? — Indiferente se el stava solo o no el stava solo. Polidrugo no gaveva una Compagnia come che Dio comanda, per scriver fora un nome, meter una tabela, una bandiera, un qualcossa. Cossa el gaveva de meter fora? «Agente dela Maria Immacolata de Fianona»? Per dir de una de 'ste misere barche che el gaveva. E cussì, co' lui ga sentido che el Lloyd Sabaudo gaveva intenzionado de vignir a Trieste, lui ghe ga scrito a sua zia. — Che la ghe vegni a far compagnia? — Ma no che la ghe vegni a far compagnia! Lui gaveva una zia che la ve nasseva Tarabochia, che la se gaveva sposado ben, con un Italian, Italian, insoma un regnicolo, un de Genova e ela la stava a Genova, perché la se gaveva sposado. Un cognà de questo gaveva un bon posto al Lloyd Sabaudo, che ve iera una bona Compagnia de Genova, i fazeva Nort-America. E cussì Tonin Polidrugo ghe ga scrito a sua zia. — I me dise che a Genova no se vede el mar, cussì diretamente come che lo vedemo nualtri... — Indiferente. Lui istesso el ghe ga scrito a sua zia. Se el zio pol meter una bona parola con 'sto cognà, visto che el Lloyd Sabaudo ga intenzionà de vignir a Trieste e lui ga 'sta Agenzia. Ben, volé creder, siora Nina, che, come che se aiuta i lussignani fra de lori, un giorno ghe vien la letera che i ga parlà e che insoma meio de tuto xe che, visto che proprio el ga de vignir a Trieste per el varo dela «Vulcania», lui parli diretamente con 'sto signor. — Che signor? — Eh: iera spiegado nela letera. Iera un del Lloyd Sabaudo, dela Direzion propio, che vigniva a Trieste per el varo dela «Vulcania» e che, come sabo, come sabato oto, el sarà in Hotél Savoia. Che 'sto qua xe avisado e che come dimenica matina Tonin Polidrugo el fazzi in modo e maniera de andar, ma però de prima matina, perché dopo 'sto qua ga de andar al varo. — Che varo? — Ma quel dela «Vulcania», che ve go dito, che parlava tuta Trieste e tute le siore se fazeva i vestiti e tute le più grande Compagnie gaveva mandado quelchedun dela Direzion. Perché la Cosulich gaveva zà varado la «Saturnia», e «Saturnia» e «Vulcania», per quela volta ve iera el meo in tuto el mondo dele barche de passegeri. Motonavi. — Eh, motonavi iera una volta sì! — Tante robe iera una volta. Ma indiferente, per farvela curta, dimenica matina bonora, Tonin Polidrugo, ben vestido, scovetado e in capel, el ga ciolto el tram e el xe andado in Hotél Savoia. Ma el xe smontado la fermata prima, perché el ga fato subito osservazion che tuti rivava in auto. — Chi questi? — Questi che iera vignudi per el varo. Auti, che pochi quela volta gaveva auti. E co' el riva in Hotél Savoia, el dimanda de 'sto signor de Genova. E el portier, tuto in trequarti e botoni de oro, cole ciave sule patéle, ghe dise che el se comodi pur un momento e che intanto lori lo ciama suso in camera, che el ga lassà dito che i lo pol ciamar. — Chi questo? — Ma 'sto qua, 'sto Italian del Lloyd Sabaudo, che iera vignudo per el varo dela «Vulcania». Ben: e no volé che come che Tonin Polidrugo se senta in una de 'ste poltrone de pele del Hotél, che ghe fazeva fin riguardo de sentarse, el ve vede vignir drento dela porta, savé chi? Sior Antonio. — Ah! Iera là anche Sior Antonio? — Figurévese se no iera là Sior Antonio, per 'sto varo de 'sta barca che iera sua de lori, dela Cosulich! Sior Antonio e tuti i fradeli iera anni anorum che a Lussin oramai se li vedeva solo che de istà. Lori oramai ve iera a Trieste, in grando, in grandioso. Lori prima ve gaveva avudo l'Austro-Americana e dopo 'sta Compagnia sua de lori, con 'ste barche nove, aposite per passegeri, motonavi. Conossudi i ve iera in tuto el mondo. E Tonin Polidrugo ve vede propio Sior Antonio che vien drento, con tuti che ghe coreva incontro, che prego, che la se acomodi, che cossa el desidera. E fina el portier, tuto in trequarti e botoni de oro, xe vignudo fora del banco. — Ah, Sior Antonio ve stava in Hotél Savoia? — No! Lui a Trieste ve gaveva villa, grandiosa. Lui ve iera vignudo là in Hotél, solo per saludar tuta 'sta gente che iera vignuda per el varo. E Polidrugo sente che Sior Antonio ghe dimanda, cussì pretamente democratico, a 'sto portier, quanto che el crede che sarìa de spetar per ciamar Amburgo col telefono. Che i ciamerà subito, subito e che i procurerà de far el più presto possibile. Che va ben che el speterà. Ben, siora Nina, no volé che Sior Antonio ghe se senta su una poltrona de pele del Hotél, propio visavì de Polidrugo e el tira fora l'orologio de oro? E alora Polidrugo svelto svelto ghe dise che ghe xe oto ore e tre quarti. «Sì sì, ghe fa Sior Antonio, anca sul mio me manca un quarto ale nove». Figurévese Polidrugo! — Cossa, iera tardi? — Maché tardi o bonora, siora Nina. A Polidrugo no ghe pareva vero che 'sto Sior Antonio se gavessi degnado cussì de risponderghe. E alora a Polidrugo — savé che Polidrugo no se perdeva mai, anzi muso risoluto el ve iera — ghe xe vignù come un'ispirazion. «Sior Antonio», ci fa ci dice, se el permete una parola. Sior Antonio lo ga vardà un poco, soridente, ma assai sule sue: «Una parola sì, ma no afari de dimenica!» «No afari — ghe ga dito Polidrugo alzandose in pie — solo che una parola». Che anca lui xe de Lussin, che vù, Sior Antonio no me conossé, ma anca mi son de Lussin. Che mi no ve dimando gnente, che no xe quistion de soldi, ma solo de una carità. «Che mi, Sior Antonio, son 'pena vignudo a Trieste de Lussin, che go dovesto lassar tuto a Lussin e che zerco de farme la mia strada. Che propio son qua perché go de veder una persona interessante, che solo una carità, che, se quando passé, Sior Antonio, me vedé qua sentado con 'sta persona che parlo, ve prego solo la carità de saludarme. Perché se 'sta persona interessante vede che vù, un Sior Antonio, me saluda, vù capì che mi posso gaver più ocasioni. Solo che questa carità, Sior Antonio». — Mama mia! E Sior Antonio? — Siora Nina! Sior Antonio ga ridesto. «Vedo, vedo che sé de Lussin — el ghe dise — no solo per via de come che parlé». E insoma che come che el se ciama. Che Tonin Polidrugo. «Quei Polidrugo che gaveva l'Ungaro-Croata?» «Quei, quei, e che purtropo, adesso no xe più gnente». E che lui vignissi a star el fio del defonto Polidrugo: Tonin. «Bon — ga dito sior Antonio alzandose — adesso devo telefonar con Amburgo, ma co' gaverò finì, se gaverò ocasion de véderve, va ben, ve saluderò, visto che se gavemo conossudo». E el xe andà via ridendo. — E Tonin? — E Tonin ghe xe andà incontro a 'sto qua del Lloyd Sabaudo de Genova, che propio in quel momento vigniva fora del saliscendi e el portier ghe lo mostrava. I se senta, e giusto che questo gaveva apena finido de dimandargli se iera lui che lo spetava, una roba e l'altra, passa Sior Antonio che gaveva zà finì de telefonar con Amburgo. El passa e — passandoghe davanti, tuto soridente — lo toca sula spala cola man e el ghe dise: «Adio, Tonin!» E Polidrugo: «Adio, Antonio — el ghe fa — ma no stàme far perder tempo, adesso, no ti vedi che go de far?» Xe stà cussì, siora Nina, che Tonin Polidrugo ga avudo l'Agenzia del Lloyd Sabaudo. In Piazza Granda. E sul pergolo el bateva bandiera blù Savoia col nodo Savoia. Come el Re, povero. MALDOBRIA IX - MARCO PALISCA STORY Storia, ovvero saga di Marco Patisca, seguito passo passo nella sua conquista d'una Nuova Frontiera nel Nuovo Mondo, lungo l'ampio arco di tempo fra l'inizio del Secolo Ventesimo e il Mercoledì Nero del Ventinove. — Chi che pretamente ve saveva far i veri sardoni in savòr ve iera Marco Palìsca. Tanto, mi go dito sempre che i sardoni in savòr, proprio veri sardoni in savòr come che i va fati, li sa far solo che i omini. — Marco Palìsca? No conossevo. — Gavé perso, siora Nina. Per i sardoni in savòr, digo. Perché, come discorso, no el gaveva assai discorso. Oh dio, xe anca che el stava solo, senza nissun, ma no el iera omo stupido. Anzi. Vedé, lui solo, senza nissun, ve stava in quela casa, che i ga butà zò ancora co' i fazeva le galerie per la miniera del'Arsa. Ben, indiferente. Lui ve stava là, perché iera la casa de suo padre che iera morto; la madre ghe iera morta giovine — oh dio, giovine in confronto — un tocheto de tera che el gaveva là in Vale, e lui ve stava solo senza nissun. Un poco el ve stava a casa, un poco el navigava, massima parte. — Maritimo? — Chi, siora Nina, no iera maritimo una volta? Xe adesso che ai giovini ghe spuza navigar. Lui, più che altro, ve iera in Turno General e co' i ciamava el suo numero l'andava. «Ti sa — el ghe diseva a Martin Ghérbaz, quele rare volte che el lo intivava — ti sa, co' i ciama el mio numero mi no ricuso». Anca perché, mi calcolo, che lui, Marco Palìsca, ghe iera restado assai impresso quel che ghe gaveva dito una volta in local a Trieste Tonin American. — A Martin Ghérbaz? — Ma no! A Marco Palìsca ghe gaveva dito Tonin American, che stava in America. No el iera de qua. El iera de Santa Marina. — In America? — Ma cossa de Santa Marina in America? De Santa Marina, là de Portolongo. Solo che Tonin American gaveva disertà in America de anni anorum. E là el se gaveva fato i soldi. Citadinanza americana lui gaveva pretamente e una volta che el iera tornado qua no so né per cossa né per come, a Trieste el gaveva intivado in local Marco Palìsca, imbriago. — E i se ga trovà de dir? — No, perché lori gnanca no se conosseva. Solo che in local i se gaveva intivado, e imbriago che iera 'sto Tonin el contava de America. Maravée, natural. Oh dio, el se gaveva fato sì i soldi in America col pesse in scatola, solo che el contava maravée. E el ghe gaveva dito a Marco Palìsca: «Cossa fé qua a Trieste o là andove che sté, fra quatro grote? Co' fé un viagio diserté, vignì anca vù in America, che in America ve xe ocasioni». Savé, questo ancora ve iera del Undese, prima dela Prima Guera, che quela volta iera, iera ocasioni in America. «Diserté — el ghe gaveva dito — vignì anca vù in America, e a Néviork, apena che ve sbarché a Néviork, dimandé de mi! Dimandé de Tony, che a Néviork tuti me conosse.» Imbriago che el iera, podé capir. — Savé cossa che me ga scrito una volta mia cognada de America?... — Indiferente. A Marco Palìsca ghe iera restado impresso questo. E la prima volta dopo che i gaveva ciamado el suo numero in Turno 'General per un viagio per Nort-America, lui ve ga messo in valisa più roba che el podeva. El gaveva, savé, una de quele valise noce che se usava una volta, de fibra. Bon: per farvela curta, Marco Palìsca, come de sera che xe rivada la «Marta Wàssinton» a Néviork, lui la matina dopo, de matina bonora, cola sua valisa noce in spala el ga disertado e el xe andado per Néviork a zercar 'sto Tony. — Toni chi? — Toni Baloni! Tonin American, quel che ve contavo prima, che el ghe gaveva dito de disertar. Solo che, apena dopo che Marco Palìsca gaveva fermado e un e l'altro per 'ste strade rente del porto — savé come che xe a Néviork — solo dopo el se gaveva fato capace che de 'sto Tonin lui saveva solo che el se ciamava Tony e che qua i ghe diseva American. Ma in America, siora Nina mia, xe tuti americani. — E no el lo ga trovado? — Come volé trovar cussì un Tonin, in una Néviork? Ma lu, testardo — iera omo risoluto Marco Palìsca — el lo ga zercà per tre giorni e intanto ghe iera partida la «Marta Wàssinton», senza de lu, natural. Pensévese: solo, senza nissun, in una Néviork, con 'sta valisa noce in spala e senza più un soldo in scarsela. Gnanca per un pranzo. — Eeeh, bruto. Xe bruto senza soldi. — Sicuro. Ma lui, co' ve ga visto un local, che scriveva fora sula tabela «Alla Città di Fiume», per talian, per american e per ungarese, lui xe andado drento, el se ga sentà, el ga pozà la valisa per tera e el ga ciamado pranzo. 'Sto local «Ala Città di Fiume» — che scriveva fora per talian, per american e per ungarese — ve iera de un Ungarese, un Ungarese de Fiume, ma ungarese. E co' el ga fini do de magnar, lui a 'sto Ungarese de Fiume el ghe se ga palesado. — El ghe ga dito che el iera Marco Palìsca? — Cossa volé che ghe interessassi a 'sto Ungarese de Fiume, in una Néviork, se lui ve iera Marco Palìsca o Marco Paparela? Lui se ghe ga palesado disendoghe che — qua come che me vedé — no el ga un soldo in scarsela, perché cussì, cussì e cussì... «Ah, cussì la xe? — ga dito 'sto Ungarese — ah magnado gavé e no gavé de pagar?» Che lui ghe pol lassar la valisa. Che cossa ghe interessa a lui la valisa che la fa anca intrigo qua per tera e che intanto el cominzi col meterla in alto sora de quela credenza. Che inveze, visto che el ga magnà e che in America, omo mio, chi no lavora no mangia, che pulito lui resterà là in cusina per un per de giorni a lavar piati. — I piati che el gaveva magnà lu? — Ma cossa i piati che el gaveva magnà lu? I piati del local, de tuti, no? Visto che el gaveva magnà, che el lavi i piati per un per de giorni, per sdebitarse. Cussì se usava in America. — E el ga lavà i piati? — Come no? 'Sto Ungarese de Fiume iera un tremendo, savé! Ma bon omo. El se gaveva capacitado, come. Tanto che: «Omo mio — el ghe ga dito dopo — mi vedo che qua vù no gavé né arte né parte e se volé restar in cusina, mi ve posso anca far restar in cusina.» — A cusinar? — No. A lavar i piati. Un dolaro e la panatica, e el magnar, natural. Ma no volé che un giorno che 'sto Ungarese gaveva comprado sardoni, perché ve xe in America sardoni, savé: sardoni compagni; bon: lui gaveva comprado sardoni e Marco Palìsca, che gaveva finido de lavar i piati, se ga pareciado per marenda sardoni in savòr. E pareciadi apena che el li gaveva, ancora caldi, el ghe ga dito a 'sto Ungarese se el se degna. — Selsedegna, per ungarese? — Ma come se el se degna per ungarese? Se el se degna de zercar, come che se dise, no? E 'sto Ungarese zerca e dise: «Ostroporco! A te giuro in Dio che bon xe, che, sa cossa, che stasera per zena, mi voio che ti ti li fazzi per zena.» — Come per zena far per zena? — Sì, ah. Che el fazzi per el local no? Sardoni in savòr. «Specialità di Fiume» el ga notà sula lista, per talian, per american e per ungarese. — E come se diseva Fiume per ungarese? — «Fiume» — se diseva — come volevi che se disessi? Indiferente. Ben, volé creder? Lui ga parecià 'sti sardoni in savòr e xe andà via tuto. Perché ve gavevo dito che come Marco Palìsca no ve iera nissun che savessi far sardoni in savòr. Insoma 'sti sardòni in savòr «Specialità di Fiume» ve xe deventadi la specialità de 'sto local. E ve vigniva no solo semplici maritimi e 'sti lavorenti del porto, ma gente de Néviork propio, in carozza, col auto. Primi auti che iera quela volta in America. Fortuna. — Eh, fortuna de trovar cussì un bon omo, che lo gaveva tignudo ... — No, no: fortuna del local. Che se ga ingrandido anca suso, in pian, con speci, vasi de fiori, camerieri. In pochi anni. Iera nominado «Alla città di Fiume» a Néviork, prima dela guera, quel'altra. — E dopo? — E dopo xe vignuda la guera, quel'altra. Che qua, che là, che al'America i sotomarini germanesi ghe ga fondà el «Lusitania», che tuti i popoli invocano e l'America ghe ga intimado guera al'AustriaUngheria. — A Néviork? — Come a Néviork? Dapertuto. L'America ghe ga intimà guera al'Austria-Ungheria. E, pensévese, 'sto Ungarese de Fiume — che come citadinanza el gaveva sempre volesto tignirse ungarese — una bela matina xe vignudi dò de lori, che el vegni con lori e via lu in internamento, in California, in Arizona cossa so mi. — E Marco Palìsca, povero? — Povero? Quela xe stada la sua fortuna. Primo, perché el gaveva avudo la furbitù de farse American; che quela volta bastava dò che giuri che lui xe american e i lo fazeva subito American. Secondo, perché el local ghe iera restado a lu e cola guera iera lavori, iera guadagni; terzo perché l'Ungarese un bel momento xe morto. — De cossa? — No so. Un infezion che el ga ciapà stupidamente in California, in Arizona, no so. E Marco Palìsca, de una cugina de 'sto Ungarese, una vecia un poco in dolze piena de gati, el ga comprà el local, zà drento che el iera. Suo: paron dispotico. «Alla città di Fiume di Marco Palisca». Scrito soto dela stema de Fiume col'aquila che spandi la broca. Savé no, come che iera la stema de Fiume? — Quela col'aquila che spandi la broca? Bel. — Sì, ma el bel iera che adesso iera tuto de Marco Palìsca. E sardoni in savòr pranzo e zena, che vigniva la gente cussì cussì, perché — finida la guera — iera ancora più lavori e ancora più guadagni. — Dopo del ribaltòn, questo? — Ribaltòn iera qua, siora Nina. Ma per l'America iera vincita. Ben, no volé che una sera a Marco Palìsca, ghe par e no ghe par? Sentà in un tavolin, coi cavei più bianchi e un fazoleto compagno dela cravata in scarselìn davanti, chi xe, chi no xe? Tonin American! Podé imaginarve, siora Nina! «Che vù Tonin no gavé idea de quanto che mi quela volta no ve go zercado. Che gavevi propio ragion, che in America xe ocasioni. Che mi pulito son proprio pulito in 'sto local. Che tante grazie, xe stada propio la mia fortuna disertar in America!» — Ma chi questo? — Questo ghe diseva Marco Palìsca a Tonin American che — vardé come che xe le combinazioni — iera vignudo per combinazion in 'sto suo local. Ben. Savé cossa che ghe ga dito Tonin American? «Vù, vera fortuna farìi solo se 'sti sardoni in savòr, vù li metessi in scatola. L'America, omo mio, ve xe tuta una scatola. Vù in scatola vendè per diese quel che ve costa un; e questo ve lo digo mi che go una fabrica de scatolame.» — Eh, i manda i manda sempre de America scatolame! — Sicuro e tanto el ga dito, tanto el ga fato 'sto Tonin American che el ga fato persuaso Marco Palisca de meterse in società con lui a far scatole de sardoni in savòr in 'sta sua fabrica de scatolame. — Sardoni in savòr in scatola? Ma no cambia savòr? — Un poco. Ma cossa volé, per America va benissimo istesso. I Americani xe come fioi. Lori dò ve ga fato con 'sti sardoni in savòr in scatola tanti de quei soldi, ma tanti, che milionèri, propio milionèri i iera deventadi. — Tuti dò? — Più Tonin American, ma anca Marco Palìsca. Lori sule scatole ve gaveva messo la stema de Fiume col'aquila che spande la broca e drento del'acqua che spandeva la broca — figurévese — iera el pupolo de 'sti sardoni in savòr. Ben pensada. — Ma i vende ancora 'ste scatole de sardoni in savòr? — No più. Xe finido tuto nel Ventinove. — Che iera l'inverno fredo del Ventinove? — Qua. Ma in America iera vignuda crisi. — Chi questa Crisi? Una giovine? — Maché giovine! Crisi: la crisi del Ventinove. Che tute le più grande dite andava in falimento e al incanto del ogi al diman. Che la gente — 'sti milionèri americani — se cioleva la vita butandose zò dele finestre dei ultimi piani dei gratacéi. E un dopopranzo, Tonin American ... — Se ga butà zò dela finestra? — No. El ga averto la porta del scritorio de Marco Palìsca, che oramai gaveva anca lui scritorio, e el ghe ga dito: «Marco mio semo a reménghis, no gavemo più gnente e mi scampo a Bones Aires.» — Mama mia! E Marco Palìsca? — E Marco Palìsca, siora Nina, milionèr che el iera fina poche ore prima, con dò auti e safér, ga dovesto vender tuto. Anca el local «Alla città di Fiume» che co' el xe andà là, che el se lusingava che almeno quel ghe resterà, el ga trovado zà quei dela Banca che i meteva i piombi, e i ghe ga lassà cior solo quela valisa noce de fibra, restada sempre in alto dela credenza, de quando che nel Undese el gaveva disertà in America. — Sempre là restada? — Sì. Apositamente là el la gaveva lassada lu, perché l'usava mostrarghela a tuti i aventori contandoghe che con quela lui, Mister Marco Palìsca, vinti ani prima el iera rivado in America. Come un simbolo. — Mama mia! E dopo? — E dopo, savé, lui se ga come spoetizado de star in America, lui ga ciolto 'sta valisa in spala, el se ga imbarcado sula «Saturnia» come semplice maritimo — perché senza un soldo el ve iera restado — e, tempo quindese giorni, lui iera a Trieste. E là el ga ciolto el vapor per qua. E in 'sto vapor el pensava: «Mama mia, cossa che no ga de esser la vita del omo: ogi suso, dimani in buso, milionèr iero e adesso son in braghe de tela. Chissà cossa che i me dirà adesso in paese, che torno dopo vinti anni.» — Vinti anni iera zà passadi? — Squasi. De matina bonora xe sbarcà del vapor Marco Palìsca con 'sta sua valisa noce in spala. E come che el se ferma un momento là dela pescheria, no el vede che volta el cantòn Martin Ghérbaz? Martin Ghérbaz volta el canton, lo varda e el ghe va a rente e el ghe dise: «Marco? Cossa ti fazzi con quela valisa in spala de matina bonora? Cossa ti parti? Vien, vien con mi in local, che prima che ti parti, se magnemo una de sardoni in savòr ...» MALDOBRIA X - PASTA UND FASIOI Nella quale all'insegna di una definizione forestiera della celebrata minestra di casa nostra si narra di un incontro tra i fornelli fra l'Arciduca Francesco Ferdinando d'Austria-Este e Cuntento di Vallon. — «Valon quatro piégore e un castròn», diseva sempre Barba Nane. Cossa volè? A Valon no i gaveva gnanca strada: i doveva vignir coi caìci, massima parte. Cuntento, quel che i ghe ciamava Cuntento, iera de Valon. E co' i lo ga ciamà soto le armi, de leva, parlo de prima dela Prima Guera, a Sebenico iera propio un rider con lu. Perché lui diseva sempre «Mi son cuntento», perché lui, povero, se contentava. Per quel i lo ciamava Cuntento. Capiré, de una Valon che el vegniva, esser a Sebenico, anche come militar de Marina, per lui ghe iera America. Lui diseva sempre: «Mi son cuntento». — Eh quando che l'omo se contenta, xe la più meo roba del mondo: mia madre, povera, me diseva sempre: «Cunténtite, Nina, se sa che i maritimi ga paga picola, ma almanco no el te beve, almanco gavé tuti salute, ti vederà, passerà 'sti anni, ti rileverà i fioi, e i te se sposerà ...» — Ma indiferente! Cossa ghe entra? Cuntento se cuntentava, con tuto che, massime in prinzipio, in Marina de Guera el iera pitosto intrigado, e anca intrigoso, perché savè el ve iera un omo che no saveva — come dir — dove meterse, dove star. E po' anca per el parlar... — El diseva male parole? — Noo! Dove Cuntento ve diseva male parole? Oh dio el biastemava qualche volta come tuti 'sti campagnoi de Valon, che mi calcolo che no i saveva gnanca quel che i diseva, perché savé come che ve xe in quei loghi: i nostri ga quela de biastemar per croato e i croati per talian. Perché cussì ghe par de biastemar de meno. Ma no el diseva male parole Cuntento: ve iera che lu, che el gaveva la madre croata, ma gnanca croata, propio montenegrina de Antìvari, lui a casa ve parlava croato — morto presto che ghe iera el padre — e co' el parlava per talian, come dir, no el gaveva trato. — Ah! Montenegrina de Antìvari ve iera sua madre? Bela dona? — Cossa so mi se la ve iera bela o bruta la madre de Cuntento! Tute le done ve iera compagne a Valon, no se le distingueva più dopo sposade. Lui, presempio, per talian no el saveva dar né del vù né del lei, e lui a tuti ghe dava del ti. — Chi questo? — Cuntento, no! De chi stemo parlando? Che anzi i contava che lui una volta ghe gavessi dito al piloto de Cherso, savé, Malabòtich: «Mi a nissun dago del lei, solo a ti, sior capitano». Ma no ve iera vero. Questo contava el defonto Malabòtich che iera un remenèla. — Eh, me lo ricordo el defonto Malabòtich, mi iero putela, e lui me diseva sempre co' andavo a cior acqua: «Secio, dove ti porti quel picio?» Perché gavevo avù el tifo e i me gaveva taiado i cavei. Se usava. — Sì, in antico! Ma no ve iera vero questo che contava Malabòtich. Inveze quela de Sebenico ve iera vera: che apena vestì de militar de Marina, al dotor de Marina de Guera, che ghe passava visita, Cuntento ghe ga dito: «Bon, bon, se ti vol mi mi cavarò anca la maia». E 'sto dotor — un zerto Hubeny, me ricordo, dela Sanità Maritima de Marina de Guera, un ungarese de Fiume, un bel omo — ghe ga zigà: «Come? Mi che son Lei ve dago del Vù a vù che sé ti e vù che sé ti me dé del ti a mi che son Lei?!» — No go capì. — Come no gavé capì? Parlava ben savé per talian i ungaresi de Fiume! Cola calada, ma Hubeny parlava franco italian. Ben, iera per dirve de 'sto Cuntento che el iera pitosto intrigado e anca intrigoso, e sule barche de guera no el saveva mai dove meterse, come star. E alora, brodeto che ve go dito che lui fazeva benissimo... — No me gavé dito... — Bon, ve digo adesso. Cuntento l'unica roba che el saveva far propio pulito, iera cusinar. Dela madre el se gaveva imparado, sempre per cusina che el se remenava. Lui ve fazeva noma che ben: brodeto, calandraca e pasta e fasioi... — Eh, per far brodeto ghe vol pazienza... — E pazienza ghe voleva anca con Cuntento, perché savé, el ve iera un poco indrio anca come mentalità. E cussì el nostroomo Ucròpina, che ve iera propio nostroomo de Marina de Guera sula «Carlo Sesto», che ierimo nualtri, no el ga fato né ben né mal e el ga dito: «'Sto nane lo metemo zò in gambusa, in cusina, insoma, cussì gnanca no ocore che el vegni in coverta, no lo vede nissun e no nasse ràdighi.» — Ah come cogo? — No come cogo! Come volé uno, apena imbarcà, cogo? Come giovine de cusina. Ma aré che lui ve cusinava meio del cogo, che iera un zerto Fonda, piranese, un omo con una panza compagna, che in Marina i ghe doveva far le braghe aposite, pensévese. E cussì, siora Nina, ve xe nata quela roba de Francesco Ferdinando. — Ah! Che i lo ga copado a Sarajevo cola sposa, una volta... — Sicuro che una volta. Cossa volevi che dò volte i lo copi? Che zà una volta ga bastà e vanzà. No, questo che ve digo, iera prima, sarà stà del Undici, del Dodici, co' mi iero militar. Tre anni militar de Marina se fazeva soto l'Austria. E insoma che vien Francesco Ferdinando a Sebenico, e ve iera un remitùr che no ve digo ... — Ah i gaveva paura che i lo copi? — Ma no, chi podeva gnanca concepir quela volta de copar un Francesco Ferdinando? Iera remitùr, perché lui ve iera Erede dela Duplice e co' el vigniva a ispizionar la Marina de Guera, tuto doveva esser in massimo ordine. — Perché lui ispizionava? — Sicuro. E per bon l'ispizionava. Fin l'osso lui vardava el militar. Insoma, per farvela curta, i ga passà parola che prima el gaverà ala Comun de Sebenico, no so cossa, che dopo l'andarà sula «Viribus Unitis», Nave Amiraglia, che iera amiraglio l'Amiraglio Horthy e che po' a mezogiorno, mezogiorno e meza el vegnerà de nualtri sula «Carlo Sesto», per ispizion e saluto ala voce. E capì: mezogiorno, mezogiorno e meza ve iera l'ora che el militar de Marina de Guera, magnava... — Ahn! Cussì no gavé podesto magnar quel giorno? — Come? Se el Regolamento de Marina de Guera iera che a mezogiorno in punto se magnava, lui co' el vigniva a bordo, doveva trovar che a mezogiorno in punto el militar magnava. E bon: «Vitto nutritivo e in buona porzione», come che iera per regolamento de Marina de Guera. E in piato. Perché questo ve ga avù sempre de bel la Marina de Guera, che el mariner austriaco magnava in piato e no in gamela come el militar de tera. — Ah tuti in piato magnava? Che fornimento che dovevi gaver a bordo! — Fornimento? Un piato; un piato per omo, però ognidun gaveva el suo. Insoma, sicome che, come che ve disevo, i gaveva passà parola che 'sto Francesco Ferdinando vigniva a mezogiorno, mezogiorno e meza a bordo, tuto doveva esser in massimo ordine. E alora el Comandante Prohàska ga dito: «Calandràca!» — Calandraca? Rabiado, come? — Ma no rabiado. Lui ga dito: «calandraca», per dir che quel giorno per pranzo se pareci calandraca. Che el nostroomo Ucròpina ghe diga al cogo Fonda che el ghe diga a Cuntento de far calandraca, visto che Cuntento sa far cussì ben calandràca ... — Eh no xe fazile far ben calandraca, perché bisogna cusinar le patate separato... — Sicuro, separato. Prima se fa la carne tipo gòlas, po' se fa le patate separato, po' se mete tuto insieme e se lassa consumar sul fogo. Eh, fata ben, xe bon calandraca, xe bona. E cussì gavessimo podesto ben figurar nualtri dela «Carlo Sesto» con Francesco Ferdinando. — Ah, e alora el xe vignudo a veder che magnavi calandraca? — No, quel ve xe stà tuto. No el ga possudo. Perché, savé come che xe 'ste robe, lui, Francesco Ferdinando, xe andà prima ala Comun, po' sula «Viribus Unitis» e sula «Viribus Unitis», Nave Amiraglia che iera, del Amiraglio Horthy che iera amiraglio, podé figurarve se no i ga fato fogo e fiame per via che el se fermi a pranzo. — E cussì gnente? — No. Come gnente? El ga fato passar parola che sula «Carlo Sesto» el vignirà per zena. Xe vignù propio un, apositamente, a avisar col motoscafo. Alora podé capir: remitùr a bordo. Perché la calandraca iera zà magnada e una ora de dopopranzo che iera, bisognava zà pensar per la zena... — Ah: perché no iera avanzà gnente calandraca de pranzo? — Si, iera avanzada calandraca. In Marina de Guera avanzava sempre, perché i pareciava abondante. «Vitto nutritivo e in buona porzione.» Solo che no se podeva tornar a dar calandraca per zena, perché se Francesco Ferdinando, metemo dir, gavessi dimandado: «Cossa gaveva te per pranzo?» bisognava, natural, dir «calandraca» e cussì el gavessi subito fato osservazion che iera calandraca pranzo e zena, e pensévese che conceto che el se gavessi fato de 'sta nostra barca de guera. Xe stà cussì che el Comandante Prohaska ga dito: «Pasta e fasioi!» — No rabiado? — Come no rabiado? Rabiado sì. Che Francesco Ferdinando no iera vignudo per pranzo, che Cuntento gaveva fato la meo calandraca che se gabi mai magnado su una barca. Pasta e fasioi, el ga dito. Che el nostroomo Ucròpina ghe diga al cogo Fonda, che el ghe diga a Cuntento de pareciar pasta e fasioi, che anca pasta e fasioi Cuntento fazeva assai ben e che xe assai adatado per zena. Ma che, per l'amor de Dio, prima de tuto lavar ben i piati, perché i contava che più de una volta Francesco Ferdinando gaveva anca nasado el piato. Guai in Marina de Guera austriaca se el piato gaveva odor! — Ah no gavevi dopio fornimento? — Ma dài, siora Nina, dopio fornimento! Come volevi gaver dò piati per omo con tuti quei omini che ierimo sula «Carlo Sesto»! Lavar ben i piati che no i gabi odor e meter nel'acqua soda, soda, soda, gran soda! — Mi, dopo anca resento col limon. — Sì, soto l'Austria, limon! Che el limon, soto l'Austria iera come un oracolo. Sule barche taliane i gaveva limoni de butar via. Cossa limon? «Soda, soda, gran soda!», zigava el Comandante Prohaska. E insoma tuto pulito. — Ah, che sia neto? — Sicuro, ma disevo tuto pulito, per dirve che Francesco Ferdinando ne xe vignudo a bordo, poco prima de ora de zena, zinque e meza, sie ore de dopopranzo, natural: se usava cussì in Marina de Guera. E xe andà tuto noma che ben; el saluto ala voce: «Eeee per Sua Altezza Reale e Imperiale l'Arciduca Ereditario Francesco Ferdinando d'Austria-Este, hip, hip, hip — ga zigà el Comandante Prohaska — e noi tuti «Hurrà!» come che bisognava. Lui ga dito no so cossa saludando e in quela el nostroomo Ucròpina ga fato sonar la campana dela zena, perché ne gaveva avisado, quel del motoscafo, che dovevimo far tuto secondo el nostro solito. — Ah, campana sonava per zena? — Sicuro. A bordo campana e in tera, per el militar de tera, tromba. Ben, no volé che, subito come che el ga sentì la campana, Francesco Ferdinando ghe fa, ci fa ci dice, al Comandante Prohaska: «Signor Comandante, visto che è ora di zena, che vediamo che cosa avete di buono per zena!» — Mama mia! E cussì el ghe ga dovesto dir pasta e fasioi? — Sicuro; pasta e fasioi. El Comandante Prohaska ghe ga dito a Francesco Ferdinando: «Minestra di pasta e fasioi». «Pasta und Fasioi!» E Francesco Ferdinando che alora andiamo védere in cusina questa Minestra di Pasta und Fasioi. E zò per le scalete, siora Nina, fina in cusina de Cuntento, sotocoverta ghe xe rivada tuta 'sta procession de uficialità con Francesco Ferdinando, che lui iera in traversa. — Chi, Francesco Ferdinando per no sporcarse? — Ma cossa volé che un Francesco Ferdinando se meti in traversa, che se lu gaveva una macia sula montura, el la butava via e i ghe fazeva subito una nova! Cuntento ve iera in traversa davanti de 'sta caldiera che fumava. — El spagnoleto? — Maché el spagnoleto! La caldiera fumava. E Francesco Ferdinando ga dito, puntando el déo dela man col guanto bianco sula caldiera: «Fatemi zercare questa Minestra! Un cuciaro!» E alora Cuntento, povero, ga averto la boca come per dir qualcossa, ma Francesco Ferdinando ga ripetù a dir: «Un cuciaro!», che subito el nostroomo Ucròpina ghe ga dado el più lustro. — Ah el voleva zercar! — Sicuro, per sincerarse se tuto iera nutritivo e in buona porzione. Po' el ga ciolto una cuciarada col cuciaro drento de 'sta caldiera che fumava, el ga sufià sul cuciaro e el lo ga messo in boca e el ga ingiuti. E apena ingiuti che el ga 'sta cuciarada, puntandoghe el cuciaro sul peto de Cuntento el ghe ga dito: «Cossa? Pasta und Fasioi, lei chiama questo? Questo, omo mio, io ciamo lavadura di piati!» «Eh — ghe ga dito Cuntento, tuto soridente — xe quel che volevo dir mi prima. Xe lavadura de piati, lavadi nel massimo ordine, con soda, soda, gran soda». Savé, assai soda i gaveva messo, però un cuciaro no pol far mal. Anzi rinfresca, i dise. MALDOBRIA XI - ROSSO MATTUGLIE In cui un piccolo edificio d'una piccola località dell' entroterra fiumano diventa l'ideale estetico-cromatico per il defunto Schitazzi, allora segretario politico, che lo assume a modello di un'altra Opera del Regime. — Mi go la concezion che l'omo co' el xe in permesso, xe meo che el staga a casa a far tuti quei lavori che no se pol far co' se lavora. Aré che mi, presempio, co' iero in tera, co' iero sbarcà, profitavo ... — Ah ve profitavi? — Come me profitavo? Profitavo, presempio, per piturar i scuri, cambiar copi, dar una man ala fazada, stucar la barca, tignir tuto in ordine, insoma: mentalità che se gaveva quela volta ... — Eh, vù co' ieri a casa, sì, sì, me ricordo: ieri assai omo de casa. — Ah no solo per casa! Mi, per pitura, presempio, qua, me ciamava tuti. Tuti, insoma: quei che no saveva farse soli, massima parte: un avocato Miagòstovich, un Comandante Filini, un defonto Schitazzi... — Ah el iera defonto?... — Sì: per quel noi podeva piturarse solo. Ma dài: el defonto Schitazzi, quela volta iera vivo. Oh dio, co' l'andava vestì de bàcolo el gaveva un fià de pizigamorti, ma quela volta, camisa e siarpeta nera, de sabo, massima parte iera al ordine del giorno. — Soto l'Austria questo? — No: soto el Fassio. Come, soto l'Austria de nero? Monture zenerine gaveva l'Austria. Soto el Fassio: che el defonto Schitazzi iera tuto qua soto el Fassio: Dopolavoro, Maternità e Infanzia, Balilli no parlemo, tanto che po' i lo gaveva fato segretario. Oh dio no, Segretario Segretario: segretario de qua, insoma. Iera l'epoca. Però no el iera de quei sfegatai. Cossa ve disevo, che me fé perder el fil? Ah sì, che mi per piturar le fazade dele case, quela volta, a mi me ciamava tuti; quei che no saveva farse soli, ve go dito. — E quante man? — Come quante man? Dò man: quele che go ancora, graziando Idio. Ma mi davo una man sola, siora Nina, perché mi son stà el primo qua che a Trieste gavevo comprado quela pitura nova. Oh dio nova! Nova per quela volta. Secante. — Ah, ai altri ghe secava? — Ma no: iera pitura secante. Quela che se sugava, che secava, in una note. Che quela volta iera una novità: roba germanica. Barba Nane me diseva sempre: «Ve inveleneré con 'ste aneline, deventeré viola come un granziporo, i ve cavarà la matricola!» Ma a mi, intanto, me ciamava tuti. — E come se dava 'sta roba? Col pinèl o a spriz? — Come a spriz? Dove iera quela volta el spriz. Cola pinelessa granda, gnente paura e zò, zò fin che iera finido. Bastava una man. Anzi, una volta me ga tocado un truco, propio col defonto Schitazzi. Perché dovè saver che el defonto Schitazzi, del Fassio che el iera, segretario che i lo gaveva fato, el iera andado a compagnar i balili a Mattuglie che iera un de 'sti Campi Dux ... — Camping? — Maché camping! Campi Dux, che andava i balili, i fioi, e a Matuglie, passando per Fiume, 'sto Schitazzi ve gaveva visto una Casa Balila nova, tuta in rosso maton coi telèri dele finestre in bianco ... — Ah bel! In matoni? — Ma no in matoni. Sì, sarà stà fato in matoni, quela volta se fazeva zà in matòni, ma la fazada ve iera piturada in rosso maton, coi telèri dele finestre in bianco. E lui ve se gaveva inamorado come, de 'sta Casa Balila in rosso maton: che xe bel, che xe moderno, che xe futurista, cossa so mi, e, insoma 'a tuti i pati, che mi ghe pituro qua la Scola vecia, che co' el Fassio gaveva fato la Scola nova, de quela vecia i gaveva fato Casa del Fassio con scrito sora P.N.F., quela che adesso xe «Bar Bianco». Insoma, che mi ghe la fazzo in rosso maton, compagna de quela de Matuglie, che se voio vado a Matuglie a véder. «Va ben — ghe go dito — cossa sarà 'sto rosso maton de Matuglie coi telèri dele finestre in bianco? Un rosso maton po'! E po' in bianco i telèri dele finestre...» — Ahn! E ghe gavé piturà? — I telèri subito, ma po' per la fazada, savé, una roba e l'altra no vigniva mai el momento. Perché mi, co' iero in tera, massima parte andavo a pescar de note. De giorno dormivo. E come gnente vigniva le oto de sera che dovevo tornar a andar a pescar... — Ah, no ghe fazevi? — Eh! Xe quel che me diseva el defonto Schitazzi ogni volta che el me intivava! Che perché che no ghe fazzo, che cossa che speto de farghe, che quando che ghe farò, che 'sta altra setimana sarà Natale di Roma e che se no xe per el Natale di Roma, dopo no ga gnanca più scopo. — Ah, Nadal iera! — Ma no Nadal; Natale, Natale di Roma: se usava quela volta, in april. Bon: per farvela curta, una sera che minaciava bora, come, che po' dopo no ga fato, ma assai minaciava, no semo andadi a pescar, e alora giusto ben — go dito — sa cossa che fazzo? — Cossa? — Go dito: fora el dente, fora el dolor, ghe piturerò 'sta fazada se no, con 'sto Schitazzi no iera più né un viver né un morir. «Me racomando — el me diseva sempre — rosso cupo, come a Matuglie — pecà che no ti ga volesto andar a Matuglie — rosso cupo: se no vien fora la casa del diavolo». El iera, sì, un tazzaanime, ma no de quei sfegatai, un tazzaanime. «Rosso cupo!» — E vù gavevi el color giusto? — Giusto? I colori se li fa no? Quela note go ciolto el rosso, ghe go messo drento una bona punta de nero e tuta la note go piturà. Tuta la note! Cussì de matina, sortindo de casa, che lui stava visavì, el la trovava pronta, fata e finida, visto che i teleri dele finestre in bianco, per fortuna, gavevo zà fato. Pronta per la matina bonora, calcolavo. E la matina, siora Nina, nera me la vedo! — Ah no gavevi rivà a finir el lavor? — No no, el lavor iera zà finì, prima ancora che fazessi ciaro. Nera iera la casa del Fassio: tuta nera. Oh dio, vardando ben, se vedeva un'ombra de rosso, perché quel ve iera: che mi, de note, nela furia, gavevo messo una punta de rosso nel nero e no una punta de nero nel rosso. — Mama mia, che truco! — Truco! Altro che truco! Capiré, 'sta Casa del Fassio, tuta nera, coi telèri dele finestre in bianco, iera tuti davanti che ghe fazeva le condoglianze a Schitazzi. «Cossa ve xe morto el gato o el dindio?» — ghe ga dimandà Barba Nane a Schitazzi, tuto soridente. — Soridente, Schitazzi? — Maché soridente Schitazzi! Schitazzi iera rabià come una bestia: «Zà che i ne disi bacoli — el diseva — che mi so che i ne disi bacoli e ancora me fé la Casa del Fassio in nero, coi telèri dele finestre in bianco, che la me par el mortuario de Francesco Giusepe!» — Ah! Perché iera zà morto Francesco Giusepe? — E come no, siora Nina? Se no el fussi morto, quela volta el gavessi gavesto un zento e diese, zento e undese anni: el sarìa stà l'omo più vecio dele Vece Province! Altro che morto. Difati se diseva sempre: Povero Nostro Franz. MALDOBRIA XII - LA CONTENENZA In cui l'invadenza magiara nella Marina austroungarica, determinata dalla pertinenza di Fiume alla Corona di Santo Stefano, s'incarna nel comandante Hubeny in puntiglioso conflitto col comandante Ivancich. — Ve iera, ve iera sì Ungaresi in Marina de Guera Austriaca. Che anzi, con 'sti Ungaresi ve iera un cruzio in Marina de Guera. Oh dio: col comandante Hùbeny, pretamente, ve iera un cruzio ... — Hùbeny? Mi conossevo un Hùbeny a Fiume... — Sarà restado sì qualchedun a Fiume, mi calcolo de 'sti Hùbeny perché lui el gaveva famiglia. Ma i Hùbeny, che iera ungaresi, natural, no i ve iera ungaresi de Fiume, loro ve iera propio ungaresi de Ungheria, de Transilvania, nobili. E i diseva che lui iera proteto del Amiraglio Horthy, che iera anca lu ungarese, natural. E lui tanto protegeva 'sti Ungaresi, che oramai squasi tuta la Marina de Tera, come uficialità ve iera in man de lori. — La Marina de Guera, volé dir? — Sì la Marina de Guera, ma la Marina de Guera de Tera. Metemo dir al Platzkommando de Pola, in tuti i ufizi de scriturazion, iera 'sti Ungaresi, sporcacarte i li ciamava, però in montura — e che monture! — e lori, tute le carte in man che i gaveva, i ciapava sempre più el trato avanti anche su quei dela Marina de Guera de Mar. Sporcacarte i li ciamava e massime el Comandante Ivàncich. Perché lui ve iera un vero Comandante! — E inveze 'sto Hùbeny no? — Come no? Comandante el ve iera. Più comandante ancora, come comandante, del Comandante Ivàncich. Perché lui ve iera Vicecomandante del Platzkommando de Pola. — Questo Ivàncich, questo? — Ma no, siora Nina! Ivàncich — el Comandante Ivàncich — ve iera comandante del incrociator Carlo Sesto, Carlo Séxte, come che i ghe diseva per tedesco. 'Sto Hùbeny inveze ve iera Vicecomandante del Platzkommando de Pola. Perché comandante, natural, ve iera l'Amiraglio Horthy che però massima parte stava a Fiume. — Mi conossevo una Hùbeny a Fiume, maestra de piano. — No so mi chi che gavaré conossù vù a Fiume, ma 'sto Hùbeny stava inveze a Pola. Magari cussì no! Che anzi quel iera el cruzio del Comandante Ivàncich! «Mi — el diseva sempre — quel sporcacarte de Hùbeny, cussì come che lo vedo, me vien le catarìgole!» — Le catarìgole, come? — Le catarìgole che ghe vigniva, co' el Comandante Ivàncich ghe tocava andar de 'sto Hùbeny in scritorio al Platzkommando o co' 'sto qua ghe capitava a bordo. Che co' el vigniva a bordo, figurévese, no la biscaìna, el scalòn de onor i doveva calarghe. — Per farghe onor? — No, per via che no el se tómboli. Perché, savé, 'sto Hùbeny, no gaveva mai pretamente navigado, ma solo che per figura. Sporcacarte, pò: gaveva ragion el Comandante Ivàncich. E po' una pretesa che no ve digo! Intanto el parlava italian che meio gnanca parlar: orori. E ogni minuto, co' no ghe vigniva la parola, el diseva «una roba e l'altra». — Ah: el diseva una roba e l'altra?... — No, siora Nina: co' no el saveva dir quel che el gaveva de dir el diseva «una roba e l'altra!» «Comandante Ivàncich, unarobael'altra... vù unaroba e l'altra dovete sapèr... unarobael'altra.» E sicome che el parlava spudaciando e el magnava le parole, el diseva anca:«altraaltra», e qualche volta pensévese, solo che «tratra». «Unarobael'altra, altraaltra, tratra». Un rider! — Ah, ghe ridevi a 'sto Hùbeny? — Riderghe? Guai riderghe! Ridevimo dopo, fra de nualtri; anca el Comandante Ivàncich ghe rideva dopo: «Tratratra» el ghe fazeva drio, fazendo anca sesti. Sul «Carlo Sesto» questo. Perché ogni maladeta volta che 'sto Hùbeny vigniva a bordo del «Carlo Sesto» lui pretamente ghe tazava l'anima. Pensévese che la prima volta che el ghe xe capitado suso al Comandante Ivàncich sul «Carlo Sesto», 'sto Hùbeny ghe ga subito dimandà, cussì de bruto: «Quanto lungo?» — Quanto lungo cossa? — Xe quel che ghe ga rispondesto el Comandante Ivàncich: «Quanto lungo cossa?» «Quanto lungo — una roba e l'altra — vi è il Carlo Sexte? Quanto è largo — una roba e l'altra — quanti proietti da ottanta gavete in stiva — altraaltra? E quanto è alto l'albero de maestra, tratra?» «Mah — ghe ga dito el Comandante Ivàncich — ciapado al'improvista — no so, Comandante, cussì al impronto.» «Ma come — una roba e l'altra — e la contenenza? Quala è la contenenza di stiva?» «Mah, cussì al impronto — ghe ga dito 'sto Ivàncich — veramente...» «Ma come — una roba e l'altra — se un Comandante estero, venindo in visita vi dimandassi la contenenza di stiva, vù, una roba e l'altra — cossa risponderessi — altraaltra, tratra?» E, insoma, cussì avanti. «Savé cossa — ghe ga rispondesto el Comandante Ivàncich, rabiado, ma calmo — savé cossa che farìo? Manderìo a ciamar el nostroomo contabile — che se un propio ghe interessa saver 'ste monade, lui le ga tute notade sul scartafàz de bordo.» — Ah, iera monade, come? — Oh dio, monade! Tuto xe monade e gnente no xe monade a bordo. Ma 'sta roba dela contenenza, de 'ste misurazioni, una roba e l'altra, co' iera de navigar sul serio podeva interessarghe solo che a un mona. O a un tùmbano de Ungarese sporcacarte, come che diseva el Comandante Ivàncich. — Ah, el ghe ga dito un tanto? — No! Dove el se gavessi peritado? Cussì el zigava dopo che 'sto Hùbeny iera andado via, caminando su e zò tuto infotà per coverta. E el gaveva ragion, savé! Perché el Comandante Ivàncich, ve iera comandante de Erste Kategorì, de prima categoria; lui ve iera stado col «Teghetoff», con quei che gaveva scoverto la Tera de Francesco Giusepe al Polo Nord, lui col «Carlo Sesto» ve andava drento in porto per el Canal de Sebenico drito come una spada, lui per andar a Cattaro, che ve iera una Cattaro, intrigoso che mai de andarghe drento, lui no ve imbarcava gnanca el piloto. — Eh mio padre diseva sempre che a Cattaro xe intrigoso ... — Sicuro. Ma 'sto Hùbeny mi calcolo che 'ste robe no saveva gnanca che esistiva. Per lui esistiva solo contenenza, quanto è longo, quanto è largo, quanti proietti da Ottanta gavete in stiva, una roba e l'altra, altraaltra, tratratra. E po' sempre con quela: «Cossa direbbe un Comandante estero?» — Un sufistico, come? — Sporcacarte, siora Nina. Ben, no volé che una volta riva a Pola — parlo de prima dela Prima Guera — riva a Pola in visita de cortesia la Squadra inglese? — A bombardar? — Ma cossa bombardar? Chi bombarda co' xe in visita de cortesia? In visita de cortesia i ve iera. Xe rivado, me ricordo come ieri, el «Formidàble», l'«Implacàble», l'«Irresistìble» e el «Majestic». — Ah, in Hotèl Majestic? — Ma cossa in Hotèl? El «Majestic» ve iera la nave amiraglia de 'sta Squadra inglese in visita de cortesia. E quele altre iera l'Irresistìble, l'Implacàble e el Formidàble. E insoma 'sto Hùbeny ciama in scritorio suo de lu el Comandante Ivàncich e, tignindolo in pie — che zà quel ghe ga fato fota — el ghe ga cominzià a predicar: «Comandante Ivàncich, sapete vù unarobael'altra, quanti cavalli vapore di forza vi ha l'«Implacàble»? 15.244; inveze, altraaltra, il «Formidàble» vi ha 15.511, l'«Irresistìble» — tratra — 15.603, e il «Majestic» inveze solo che 12.497.» «Bon — ghe fa 'sto Comandante Ivàncich — e a mi cossa me interessa?» «Inveze vi interessa sì, unarobael'altra perché, come stasera, vù vignirete con me sul "Majestic" — altraaltra — in visita di concambio — tratra.» — Ah 'sto Hùbeny saveva tuto? — Per forza! Navigar che no el saveva, dele biscaìne che el se tombolava, lui ghe pareva de impònerse tignìndose in a mente tute 'ste monade che iera scrite per i Annuari dele Marine de Guera, che qualunque mona podeva comprarse in Governo Maritimo per un fiorin. Basta. Come de sera, 'sto Hùbeny va con 'sto Ivàncich a bordo de 'sto «Majestic». E noi, mi e Pìllepich, con lori de scorta. Bela barca, savé. Perché i Inglesi, bisogna dir, come Marina de Guera xe stadi sempre i primi. E tuto bel, tuto in ordine. Banda, bandiere. Tuti i fis'ci de cortesia, Serbidiòla, Inno inglese, una roba e l'altra, tratra. Andemo suso, 'sto Hùbeny, el Comandante Ivàncich e el Dolmècer natural... — Chi questo Dolmècer? — Ma come chi questo Dolmècer? Dolmècer in Marina de Guera Austro-Ungarica voleva dir interprete. Perché 'sto Hùbeny, tanto che el se pretendeva — Ungarese duro — no saveva parlar per inglese. E insoma una roba e l'altra, i se saluda, i passa in rivista e Hùbeny ghe diseva a Ivàncich: «Vedé, vedé — unarobael'altra — che equipaggio, che otoni lustri, che dissiplina? Questo Comandante inglese vi è un vero Comandante — altro che tanti altri, altraaltra, imparatevi tratra!» — El ghe predicava a Ivàncich? — Sicuro. Insoma, dopo che i xe sul ponte con 'sto Comandante inglese — bel omo, rosso de cavei, cola barba — Hùbeny cussì, de bruto ghe disi al interprete: «Chiedete al signor Comandante di Sua Maestà, unarobael'altra, quala è la contenenza dela barca, tratra!» E 'sto Inglese ghe fa risponder che, cussì al impronto, no el saverìa esserghe preciso. Alora unarobael'altra, quanto che è longa la barca e quanto che è larga, tratra. E 'sto Inglese che el dovessi far mente locale. Ma — ghe fa dir Hùbeny — che gl'interesserebbe saper almanco quanti proietti da Otanta che ha in stiva e quanto è alto l'albero di maestra, tràtrà. E intanto mi vedevo el Comandante Ivàncich che fazeva sesti de drio cole man. Alora 'sto Inglese ga parlà per inglese con 'sto interprete, che subito ghe ga dito al Comandante Hùbeny: «Comandante Hùbeny — ci fa ci dice — il signor Comandante inglese dice che se proprio a vù ve interessa saper 'ste monade, lui ve manda a ciamar el nostroomo contabile che le ga tute notade sul scartafàz.» — Mama mia? E 'sto Hùbeny? — Ah no so. No lo go più visto de quela volta. Me ga contado el Comandante Ivàncich — dopo dela Prima Guera, questo — che co' xe andada a fondo la «Santo Stefano», 'sto Hùbeny, povero, xe restado intrapolado in stiva con dò altri Ungaresi che, col passeto, i misurava la contenenza. Una roba e l'altra, tràtrà. MALDOBRIA XIII - MAGYARORSZAG Storia il cui titolo significa semplicemente Ungheria e della lingua di quel Paese racconta difficoltà nonché vantaggi, a cavallo di due epoche vissute dal Comandante Brazzànovich, uomo di fermissimi propositi. — Eh, l'ungarese ve xe difizile anca per i Ungaresi, diseva sempre el Comandante Brazzànovich, quela volta che ghe ga tocado quela bela sopa per el «Thalìa» ... — Elthalìa, una che se ciamava Elthalìa? Una Ungarese, come, sior Bortolo? — Ma cossa una Ungarese che se ciamava Elthalìa? Dove mai se ga sentido una Ungarese che se ciamassi Elthalìa? El «Thalìa», siora Nina, una barca. — Ahn, un vapor? — Sicuro, un vapor. Ma el «Thalìa» ve iera una barca nova come concezion, i lo ciamava «Nave di linea per viaggi di piacere», pensévese, con zento e sessantaquatro leti de classe de lusso. Che po' no gaveva gnanca pretamente linia. I fazeva con lu «crociere di lusso»: Dalmazia, Corfù, Pireo, Candia, Costantinopoli, Mar Nero, Yalta. Yalta in Mar Nero ve iera una Abazia, come, dei Russi. Iera el Zar ancora, quela volta. Ve parlo de prima dela Prima Guera. — El Zar in Abazia? — Ma cossa el Zar in Abazia? Cossa ghe entra el Zar, che mi ve stavo contando del Comandante Brazzanovich che diseva che l'ungarese ve xe difizile anca per i Ungaresi, quela volta che ghe gaveva tocado quela bela sopa col ungarese, propio per el «Thalia». — No intendo, sior Bortolo, no capisso ... — Per forza, siora Nina, che no capì, se me vignì fora col Zar! La verità ve iera che el Comandante Brazzanovich assai bramava — e chi quela volta no gavessi bramado un tanto? — che i ghe dassi el «Thalia». Anzi, lu co' ve andava in Palazzo, in Palazzo del Lloyd Austriaco a Trieste, natural, lui a questi che podeva, el ghe diseva sempre che a lui el «Thalia» ghe spetava: numero un come anzianità e numero dò perché lui co' el navigava per Dalmazia col'«Almissa» el gaveva fato pratica coi passegeri. «Passegeri? Passegeroni — el diseva — sul'«Almissa»: Magnati ungaresi, Tedeschi, che mi po' so tedesco, Inglesi, che mi po' ve so anca inglese, perché mi go viagià cola Cùnard Lain, propio per Mar Nero, arè combinazion.» Insoma, lui el predicava che se no i ghe dava a lui el «Thalia», a chi i gaveva de darghelo? — A chi, a chi, sior Bortolo? — No so mi a chi. Iera che el comandante del «Thalia», che in alora ve iera el Comandante Bojànovich, ancora un viagio o dò e po' el sarìa andà in pension. E lui, Brazzanovich, cussì ghe predicava a sior Metzger, che in Palazzo iera pretamente lui che distinava: «Aré — el ghe diseva — sior Metzger, che mi ve go zà fato viagi per Mar Nero, cola Cùnard Lain, che là me go imparà inglese, perché mi ve so inglese, tedesco natural, italian no se parla e po' quel croato che pol ocorer...» E sior Metzger, impizzandose un spagnoleto, un giorno ghe ga dito: «E ungarese, Brazzanovich, savè ungarese?» — Ah, fumava 'sto Metzger? — Sicuro che el fumava. Tuti i omini fumava quela volta. Le done guai. Ma indiferente. Xe che 'sto Metzger, impizzandose el spagnoleto, ghe ga dimandado: «E ungarese, savé ungarese, Comandante Brazzanovich?» E el Comandante Brazzanovich che, oh dio, sior Metzger che ungarese, come ungarese no, ma tuti 'sti Magnati ungaresi ve parla tedesco, franco per tedesco i parla, come mi. «Eh, ma savendo ungarese — ghe diseva sior Metzger — ve xe tuto altro. Un che sa ungarese, poco de dir, Brazzanovich, xe un che sa ungarese, savé!» — Ahn, intendo: e Brazzanovich no saveva ungarese ... — Come volé, siora Nina, che el Comandante Brazzanovich ve savessi ungarese, che ve go dito che el diseva che ungarese xe difizile anca per i Ungaresi? Ma lui, risoluto come che el iera de gaver 'sto «Thalìa» e de far viagi per Mar Nero, lui ga dito subito: «Bon, sior Metzger, se vù cussì pensé, mi, tempo tre mesi, ve parlo ungarese come l'Amiraglio Horthy!» — Parlava ben, sior Bortolo, ungarese l'Amiraglio Horthy? — Ma come volé che no ve parlassi ungarese l'Amiraglio Horthy che ve iera Reggente de Ungheria — questo, dopo, magari — ma zà quela volta el ve iera pretamente Ungarese. Cossa ve contavo? Ah sì, che, dito fato, el Comandante Brazzanovich se ga alzado e el ve xe andado via... — Rabiado, come? — Ma cossa rabiado? Risoluto, ve go dito. E, fora de Palazzo, el ve xe andà drito in Cavana... — Che bruto, in Cavana ... — Ma cossa credè? In Cavana, quela volta, ve iera la più granda libreria de Trieste. «Libreria Internazionale». E là lu pulito ve ga comprado un libro che se ciamava — me ricordo che se ghe lo vedeva sempre in man sul ponte del'«Almissa» — un libro, me ricordo, bianco, rosso e verde, che se ciamava, me ricordo: «Vado in Ungheria e so l'ungherese». — Ah, el xe andado in Ungheria? — No: el ga comprado 'sto libro: «Vado in Ungheria e so l'ungherese». E su quel lui ve studiava ungarese solo si stesso. Tuto el giorno el tambascava per ungarese con sto libro in man. E anca in gabina sua de lu, co' ghe portavo el cafè, sentivo che el diseva, cossasòmi: «jònapot», «visontlatasrò», «kessiciòcolon», «Magyaròrszag», «ekescèghete», insoma ungarese. — E cossa, cossa vol dir? — Cossasòmi! Bongiorno, bonasera, bacio le mani, alla salute... Lui ve studiava ungarese, capì, per 'sti passegeri, 'sti passegeroni, 'sti magnati ungaresi che sarìa vignudi sul «Thalia» che lui calcolava, che se el saveva ungarese, i ghe lo gaveria dado subito. Giorno e note. — Ahn! Se i ghe lo dava, i ghe lo dava giorno e note? — No, solo de dopopranzo! Ma sicuro che se i ghe lo dava i ghe lo dava giorno e note. Ma mi ve disevo che lui giorno e note ve studiava ungarese. E po' apena che andavimo in un porto più grando, subito el «Pesti Naplò»... — Pèsterna? El pesternava?... — Ma chi el pesternava? I fioi, sui de lu, che fazeva zà le Reali? El «Pesti Naplò»! Che iera el giornal de Pest. De Budapest, insoma, perché Budapest ve xe dò cità: Buda e Pest. E in mezo xe el Danubio, «Duna», el Danubio, per ungarese. E lui legeva forte. — Per ungarese? — Per ungarese sì. Ben, volé creder? Tempo sie mesi — perché lu co' se meteva in testa una roba, chi lo distoglieva?... — Chi lo distoglieva? — Nissun lo distoglieva. Volevo dirve che el Comandante Brazzanovich tempo sie mesi — sie, no tre, perché l'ungarese ve xe difizile anca per i Ungaresi — lui se gaveva imparado a parlar ungarese. «Vado in Ungheria e so l'Ungarese»: el saveva a memoria tuto el libro. Che anca Marco Mitis che parlava franco ungarese, perché la madre ghe iera Ungarese, el diseva che propio el saveva ungarese. — Eh la volontà, sior Bortolo, co' un ga volontà! ... — Ah, quela no ghe mancava al Comandante Brazzanovich! Capiré: l'ambizion, el «Thalia», el Mar Nero... Bon, no volé, siora Nina, che, come per la Madona de Agosto doveva andar in pension el comandante Bojanovich e sicuro el «Thalia» i ghe lo gavessi dado al Comandante Brazzanovich, visto che anca sior Metzger gaveva visto che Brazzanovich se gaveva imparado propio ben ungarese, bon, no volé, siora Nina, che, come in luglio, l'Austria-Ungheria ghe ga intimà guera ala Serbia? — Per ungherese? — Ma cossa per ungherese? Sì, anca per ungarese, visto che iera Austria-Ungheria. Ma quela volta, pretamente se usava intimar guera in francese. Altro che adesso che no i ìntima più gnente e che i distruse tuto. — Mama mia! Xe s'ciopada la guera! — Pazienza che xe s'ciopada la guera. El bruto ve xe stà che, s'ciopada la guera, al Comandante Brazzanovich i lo ga messo in Marina de Guera, e el «Thalia» in disarmo, natural: nave de lusso. E ale Boche de Cataro! — In disarmo el «Thalia» ale Boche de Cataro! — No: el «Thalia» in disarmo a Trieste e soto le armi ale Boche de Cataro el Comandante Brazzanovich, che, ara ti — el diseva — cussì no go più ocasion! — De andar sul «Thalia»? — Anca, natural. Ma no el gaveva più ocasion de parlar ungarese. Perché ale Boche de Cataro, in Governo Maritimo che i lo gaveva destinado, chi ve parlava ungarese? Cossa volé! Gnanca croato no i ve parla ale Boche de Cataro. Là i ve parla pretamente bochese... Quatro ani. — Quatro ani per imparar bocchese? — Ma cossa quatro ani per imparar bocchese? Quatro ani ga durà la guera e al Comandante Brazzanovich i ghe ga dado el «Thalìa» apena dopo finida, soto l'Italia. No più sior Metzger — che chissà andove che iera finido sior Metzger — un altro, un novo del Lloyd. Lloyd Triestino, che se ga ciamà dopo. Ma insoma pulito, el Comandante Brazzanovich ga avesto el suo «Thalia» cussì come che ghe spetava, perché l'Italia gaveva rispetà tute le spetanze. — Ah, bel! — Bel sì. Oh dio, bel! Ghe spetava de spetanza e i ghe Io ga dado. E lui contento che mai. «Che finalmente poderò parlar ungarese coi passegeri — el diseva — e cole passegere — el rideva — «kessiciòcolon», «baccio le mani». E inveze gnente. — L'Italia no ghe lassava parlar ungarese? — No, anzi, perché de no? Ma ve iera che, subito dopo la guera, ve iera sì crociere col «Thalia» e tuto, e vigniva anca foresti, e come: vigniva Czèki, Polachesi e tuto, ma Ungaresi no. E savè perché, siora Nina? Perché ve iera vignù Bela Kun! — Belakùn? Un belakùn? Un ribaltòn, come? — No ribaltòn, che quel iera stà prima. Rivoluzion. Rivoluzion in Ungheria fata de 'sto Bela Kun, che se damava Bela Kun e i Ungaresi gaveva tuto altro per la testa che far crociere col «Thalia». E cussì gnente. — Gnente cossa? — Gnente passegeri ungaresi. Ma per el resto, belissimo. Ve digo mi che iera belissimo, perché el Comandante Brazzanovich, che assai me voleva ben, ancora del'«Almissa», me gaveva ciolto con lu sul «Thalia». «Che ara ti — el me diseva — Bortolo mio, come che ga de esser: quatro anni de guera, se fa le guere, xe stragi e orori, e dopo co' le finisse, se xe de novo tuti cul e camisa che se fa crociere insieme...» — Eh, anca adesso... — Adesso xe adesso e quela volta iera quela volta. Ma quela volta al Comandante Brazzanovich, sul «Thalia» ghe brusava bastanza che no el podeva parlar ungarese. — Causa de 'sto belakùn che disevi? — Sì, de 'sta rivoluzion, de tuto quel che iera vignù prima e dopo in Ungheria, somosse, Regente Horthy una roba e l'altra. E insoma Ungaresi no vigniva. Ve iera Polachesi, Czeki, Czeke massima parte, e regnicoli anca: Italiani che podeva. Ma più done che omini e più vece che giovini. E assai vedove; tante. Perché savé come che xe, siora Nina, co' una dona ga bori e tempo per divertirse, massima parte la ve xe vecia e vedova. Come che ogi ve xe le Americane. Indiferente. — Eh sì, massime ve xe vedove queste in età... — Sicuro, siora Nina. Perché l'omo strussia e la dona bàgola. E come che le ve bagolava a bordo de 'sto «Thalìa», che fazevimo Dalmazia, Ragusa, Corfù, Rodi no se parla, che iera Dodecaneso quela volta, e bali ogni sera! ... E una sera che iera la Madona de Agosto, Ferragosto che se ghe diseva dopo la guera, el Comandante Brazzanovich me ciama e el me dise: «Senti, Bortolo, ieri sera mi go visto che qua el viagio xe bel, la musica xe bona, ma go fato osservazion che più de una de 'ste babe, de 'ste passegere, le fa tapezeria in salon tuta la santa sera.» — Ah, no le cioleva nissun a balar? — Ve go dito che iera più babe che omini. E el Comandante Brazzanovich me ga dito franco: «Ti sa, Bortolo, 'ste passegere vien qua anca per divertirse e se no le trova de balar, dopo le protesta cola Compagnia che el viagio iera mufo e a mi i me manda de novo, gnanca sul' «Almissa», che povero el xe finì su una mina, in pension i me manda, mi calcolo.» «E alora sa cossa? — el me dise — qua a ti, Bortolo, dei passegeri no te conosse nissun: va del Terzo Uficial, dighe che ga dito el Comandante che el te daghi un smòkin e 'sta sera fame balar 'ste vece, in salon, sul ponte, andove che le xe... va a zercarle!» — Ahn, dovevi far finta de esser un passeger? — Sicuro. Perché el Comandante Brazzanovich me ga dito: «Ti, balar ti bali ben, parlar parla meno che ti pol. Anzi, sa cossa? Ungaresi che qua no xe, remènghis, fa finta de esser Ungarese. Parla un poco per italian, mal come che parlava i Ungaresi de Fiume, cola cantada, e po' dighe bongiornobonasera, jònapotjò èsakat e gran «kessiciòkolon» me racomando, gran «kessiciòkolon» che sarìa «baccio le mani»... — Per bon voleva dir «baccio le mani»? — Altro che per bon, siora Nina! El Comandante Brazzanovich saveva parlar franco ungarese. Ve go dito. Solo che no el gaveva avudo mai ancora ocasion. «Ma ricordite — el me ga dito — più che tuto, bala, bala, bala!» — Bala kun? — Sì: «bala cun questa, bala cun quela». E visto che iero in balo go balà. E 'ste babe subito quela sera — Madona de Agosto, Ferragosto, savé, se beveva — in smòkin che iero, le me ga ciapà in simpatia. «Sàndor de qua, Sàndor de là...» perché mi, come Ungarese, ghe gavevo dito che me ciamo Sàndor. Un rider! — Ahn! Le ve rideva che ve ciamavi Sàndor? — No, le rideva de contentezza, come. Mi, come Ungarese me ciamavo Sàndor, perché massima parte Sàndor se ciama tuti i Ungaresi. Ben, no volé che iero sula passegiata de Prima Classe che bevevo bicerini con una Czecoslovacca, bela signora, forte, cussì sui quaranta, quarantadò, e se sentemo sula sdraio... — Sula sdraio, sior Bortolo! Mama mia! — Sula sdraio, sì... ma speté. In quela passa un sior, bel omo, alto moro e 'sta Czecoslovacca me fa, mi fa mi dice: «Voi conoscete lui?» «Mai visto!» — ghe digo mi. E ela: «Ma coome? Che anche lui è di Budapescht!» E la lo ciama: «Venite, venite, conte Jànosch, qua vostro compatrioto ungarico!» — Ahn! Una combinazion, come? — Altro che! E mi subito ghe go dito «Kessiciòkolon», «baccio le mani». Ma co' stavo zà per dàrghela con una scusa, 'sto qua strenzendome forte el brazzo el me fa: «Vienghedè, deghedè lagadà!» — Ah, per ungarese! — Ma cossa per ungarese? Mi subito go capì: iera quel modo secreto, come, de parlar per no farse capir dei altri, che usavimo noi ancora de fioi a scola. — No intendo ... — Ma sì, dài, siora Nina: xe fazile, xe una roba de fioi. Ala «a» se ghe zonta «gadà», ala «e» se ghe zonta «ghedè» e cussì avanti. Presempio, per dir Siora Nina, se dise Siogodò ragadà Nighidì nagadà! — Jéssus Maria! — Cossa Jéssus Maria! Xe robe de fioi. E mi subito go capì che «vienghedè deghedè lagadà» voleva dir «vien de là». — Mama mia! E vù? — E mi son andà de là con lu, drio de una bocaporta. E là el me se ga palesà. Che lu no xe Conte, che lu no xe Jànos, che lu no xe Ungarese e che lui sa che no xe altri Ungaresi a bordo. Che lui xe de Fiume, un Fiuman, che lui ga perso tuto col ribalton e che lui fa 'ste crociere, dove che xe 'ste vece carighe de bori per far in modo e maniera de gaver qualcossa, de profitarse ... — Povero omo! — Gnente povero! Furbo! Perché lui subito me ga dito che lui se ga palesà con mi, ma che lui sa anca che mi son un semplice maritimo col smòkin imprestà, che fa balar le vece... E che alora femo una bela roba: Ungaresi che ierimo, Ungaresi restemo. E cussì semo tornadi dela Czecoslovacca che la iera sula sdraio che la vardava el ziel e 'ste stele filanti che iera sempre per la Madona de Agosto. E mi con 'sto qua se gavemo sentado rente de ela, parlando per ungarese ... — Ma cossa? Savevi ungarese? — Maché ungarese, siora Nina! Noi andavimo avanti con quela de nighidì nagadà neghedè. Tanto, cossa saveva 'sta Czecoslovacca? E lu me disi a mi: «Cosgodò teghedé pargadà deghedè stagadà bagadà bagadà?» Coss' te par de 'sta baba? E mi ghe go dito: «Oh dio, bon toco, ancora!» «Ohgodò Dighidì ogodò bongodò togodò cogodò...» Co' propio in quela vedo che drio de nualtri in pie iera el Comandante Brazzanovich in montura bianca che ne stava scoltando. «Remènghis — el ga dito — tanto che go strussià per impararne 'sto maledeto ungarese prima dela guera, e adesso no capisso un kuraz! Eeh, go sempre dito mi, che l'ungarese xe difizile anca per i Ungaresi!» MALDOBRIA XIV - I CORFIOTI Dove, sulla scia dei motti, dei lazzi e delle beffe dei vecchi marinai di casa nostra si passa dalla storia della Madre Badessa e del suo sopìn a quella invero più piccante e più concretamente sfruttabile del luganighin. — Chi sa cossa che xe nato de Marco Palìsca! ... Ah! el sarà morto, mi calcolo, siora Nina, perché el doveva gaver più anni de Polidrugo ... — Ma chi questo che xe morto, sior Bortolo? — Ah no so mi se el xe morto, mi congeturavo. Perché, figurévese co' lui, 'sto Marco Palìsca che ve disevo, navigava per Antìvari, per Corfù — anca quele linie là se fazeva quela volta — ve parlo de prima dela Prima Guera — bon: co' lui fazeva quele linie là, mi iero imbarcado ancora con Barba Nane che ancora Barba Nane navigava, figurévese... — Insieme con 'sto Marco Palìsca che me disevi? — No, Marco Palìsca no iera con nualtri; ve disevo, lui ve fazeva quele linie là: Antìvari, Corfù, Monopoli, Gallipoli, quele linie là. Lui ve iera imbarcado sul «Galatea», carighi misti: ulive, vin i ve portava su anca, e zò i ve portava... no me ricordo gnanca più cossa che i portava zò... Sul «Galatea» ve iera comandante — comandante! — capitano, lui gaveva solo l'esame de paron de barca, mi calcolo, capitano ve iera un zerto Capitan Zandonà. — Zandonà? No conossevo... — Ma come podevi conosser vù un Capitan Zandonà, che lui no ve iera de qua. Lui ve iera Corfioto, de Corfù, pretamente. — De Corfù? Ah i navigava sì, in antico per Corfù. — Sicuro: «E se al San Marco no i ne vol più, fora le carte e andemo a Corfù.» Come che se cantava. — Eh, me ricordo, i cantava, i cantava: «E a Corfù che noi sarem, là xe lavori, là se stà ben...» — Eh, se stava ben sì a Corfù. Contava sempre Marco Palìsca. Perché là iera tabaco, spagnoleti, liquori, tuto franco. E Marco Palìsca contava che 'sto Capitan Zandonà, 'sto Corfioto, iera una macia, ma una macia, che iera propio de rider con lu. Lui, presempio, gaveva sempre quela dela Madre Badessa ... — Lui gaveva una Madre Badessa? — Sì, de clausura, come le Mùnighe del Squero! Ma come pol un omo gaver una madre badessa, dài, siora Nina, cossa disé eresie? Lui, ridicolo che el iera, el ghe ne contava dò per un soldo e massime in tavola, el contava quela dela Madre Badessa. Ve xe 'sta Madre Badessa che vien in tavola cole altre mùnighe e xe zà pronti i piati cola sopa. E alora ela la mostra un piato pien fin el colmo e la disi: «Per chi xe 'sto sopòn?» «Per vù, Madre Badessa» — ghe dise le mùnighe. «Ah — fa ela — per mi xe 'sto sopìn?» Un rider! — No capisso. — Ma sì dài: ela prima ghe pareva un sopòn, se sarìa stà per un'altra; po' visto che iera per ela, ghe iera un sopìn: perché la voleva ancora, no?... — Ahn, el sopìn! — Ahn, el sopòn! Indiferente. Iera per dirve che macia che iera 'sto Capitan Zandonà. Tuti i Corfioti che mi go conossudo iera mace, massima parte. Ma massima parte savé cossa che gaveva 'sto Capitan Zandonà — che prima me gavé fato vignir in a mente — lui gaveva, che, co' l'andava in local, el contava sempre 'sta qua... — Questa del sopòn e del sopìn? — Anca! Ma massima parte lui ve contava quela del luganighin, del pan, del vin e dela minestra... — Che magnava 'ste mùnighe? — Ma cossa le mùnighe? De quando in qua le mùnighe ve magna luganighin? No, questa ve iera de quel Corfioto che una volta xe andà in un local e co' iera de pagar, xe vignudo l'osto per pagar se. E l'osto ghe dimanda a 'sto Corfioto: «Alora cossa gavemo?» «Gavemo, paròn — ghe dise 'sto Corfioto — el luganighin, el pan e el vin!» «E la minestra?» — ghe fa 'sto osto. «Digo ben — ghe fa el Corfioto: — la minestra, el luganighin e el vin.» «E el pan?» «Digo ben: el luganighin, el pan e el vin!» «E la minestra?» «Digo ben: la minestra...» E cussì, capì, siora Nina, no el la finiva più... iera un rider co' Marco Palìsca contava come che la contava 'sto Capitan Zandonà, un Corfioto, una macia. — Ah, perché el gaveva magnado el luganighin, el pan e el vin?... — ... e la minestra, siora Nina? Vedé che anca vù gavé lassado fora un: e questo ve xe el scherzo. — Ah: el lassava fora un, come per imbroiar l'osto, per no pagar! Istesso no xe bel. — Oh dio, per no pagar! Ve iera un scherzo. E insoma 'sto Marco Palìsca — che ve iera un de quei che parla cola fiacheta — gaveva apena finido de contarghe per la no so quanta volta 'sta qua a Polidrugo andando in local a Trieste ale Baretine Rosse, co' Polidrugo ghe fa: «Bon, bon, basta: sentémose». «Sentémose sì, sì, Polidrugo mio. Cossa ciamemo ogi?» «Sa cossa? — ghe fa Polidrugo ridendo — ciamemo una minestra, el luganighin, el pan e el vin!» E l'osto che iera là in pie col àpis, el ghe fa: «Va ben, alora va ben: minestra, luganighin, pan e vin.» — Ah, el gaveva? — Sicuro. Cossa volé che in un local no i gabi minestra, pan, vin e luganighin? 'Sto Marco Palìsca e Tonin Polidrugo magna — che iera cussì, cussì de gente in local, andava assai maritimi ale Baretine Rosse a Trieste — e co' xe el momento de pagar, vien l'osto per pagarse. «Alora cossa gavemo?» — el dise. E Polidrugo, schizàndoghe de ocio a Marco Palìsca, el fa: «Alora gavemo la minestra, el luganighin e el vin!» «E el pan?», ghe fa l'osto. «Digo ben — fa Polidrugo — el pan, el vin e la minestra!» «E el luganighin?» «Digo ben: el luganighin, el vin e el pan...» «E la minestra?» «Digo ben: la minestra, el pan e el vin...» «E el luganighin?» Insoma, per farvela curta, i xe andadi avanti una bona meza ora, che tuti 'sti maritimi ale Baretine Rosse, 'sti istriani, 'sti dalmati, 'sti piranesi, triestini massima parte, rideva per le tavole. — Per ciorli via, come? — No, perché i se divertiva che Marco Palìsca e Polidrugo cioleva pel fioco l'osto. Ma 'sto osto no se divertiva gnente. Tanto che el ghe fa: «Va ben: el pan, el vin e la minestra, paghème quel diàvulo che volé, basta che me andé fora dei pie!» Un rider... — Ah! No i ga pagà el luganighin? — Sicuro. E difatti, savé cossa che ga cominzià a far Tonin Polidrugo e Marco Palìsca, che lori in quel periodo i iera inseparabili? Lori, per tuti i locai de 'sti porti che i fazeva, i andava a farghe ai osti questa del luganighin, del pan, del vin e dela minestra. E in tuti i loghi con 'sta storia del «Digo ben, el pan, el vin e el luganighin...» — ...no i pagava la minestra. — Una volta no la minestra, una volta no el vin, una volta no el pan e una volta no el luganighin. E qualche volta anca no i pagava gnente, perché i osti, stufi che tuti rideva, i li butava fora del local. — Ah! I fazeva per sparagnar? — No so! Mi calcolo che più per far bravure, come, i fazeva. In Antìvari i se gaveva imparado a farghela anca per croato, figurévese! E 'sti Croati, biastemando per 'talian, più de una volta, li mandava via a gratis. — Ah! In Antìvari i fazeva?... — In Antìvari, a Bùdua, a Monopoli, a Gallipoli: dapertuto. Vin i carigava a Gallipoli. Bon, no volé che una volta i ariva a Corfù, e franchi che i xe de sera, i va in un local, là in Riva dove che una volta andava sempre el Capitan Zandonà. «Patron — ghe fa Marco Palìsca, ciamando el paron, perché a Corfù el paròn se ghe ciama patron — patron, porténe una minestra, un luganighin, pan e vin!» — I tien luganighin a Corfù? — Come no? Bonissimi luganighini! E bon vin: cole ulive i lo porta. Ben, Marco Palìsca e Tonin Polidrugo i magna, i beve e tuto. E co' xe el momento de pagar e vien l'osto, i taca: «Cossa che gavemo, patron? Alora, patron, gavemo: la minestra, el pan e el vin.» E 'sto osto corfioto li varda, el se mete de novo el àpis drio la recia, el se tira una carega vizin de lori, el se senta, el ciol de novo el àpis de drio la recia e el ghe fa: «E la calandraca?» «Che calandraca, patron — ghe fa stupido Polidrugo — che nualtri gavemo ciolto solo che la minestra, el luganighin el pan e el vin?» «Digo ben, ghe fa l'osto: alora gavé, la minestra, el luganighin, el pan e el vin, e gnente calandraca.» Volé creder, siora Nina, che con 'sto malignazo de osto corfioto, xe stà la prima volta, dopo anni anorum, che Marco Palìsca e Tonin Polidrugo, ghe ga tocado pagar tute le quatro robe: la minestra, el luganighin, el pan e el vin? — Ahn! E dopo no i ga fato più el scherzo? — Come no? Solo che, de quela volta, Polidrugo ciamava ogni volta anca calandraca. «Digo ben: la calandraca, el luganighin, el pan e el vin!» «E la minestra?» «Digo ben: la minestra, el luganighin, el vin e el pan!» «E la calandraca?» «Digo ben: la calandraca el luganighin...» Xe bon, savé calandraca con luganighin, pan e vin. Anca senza minestra. MALDOBRIA XV - LA CAPITALE Nella quale la Capitale d'un grande Impero multinazionale viene rivisitata nelle sue varie componenti etniche dal Cadetto Giadròssich che, dalla sua piccola isola natia, passa al più gaio mondo della Belle Epoque. — Viena! Coss' che no ve iera Viena una volta per Trieste, siora Nina! Tuto ve iera Viena. Una volta, questo, natural: ve parlo de prima dela Prima Guera... — Eh per forza, sior Bortolo, Viena. Perché quela volta Trieste iera Austria, mi calcolo... — Sicuro che iera Austria, senza che calcolé vù. Ma per dirve la sincera verità, Viena no ve iera propio Austria-Austria. — Come no iera Austria-Austria, una Viena? Chi più de Viena? — No, intendevo dir che no iera propio Austria-Austria, perché savé cossa che quei che gaveva ocasion de andar a Viena, diseva che i diseva a Viena? — I diseva che i diseva? — Ma sì, questi che gaveva ocasion de andar a Viena, diseva che a Viena i diseva. E adesso lasseme dir. A Viena i diseva che quando che quatro Vienesi se trova insieme, un xe Boemo. — Che i se trova dove? — Ma indiferente dove che i se trovava. Per strada, in trànvai, in Cafè — che a Viena iera imensi Cafè, adesso no so — bon: se quatro Vienesi se intivava, uno ve iera sicuro Boemo. E po', speté, i diseva anca un'altra: che se a Viena se intiva quatro Boemi, due sicuro xe Prohaska. — Ma anca qua iera la Vila Prohaska... — Eh xe ben per quel che ve digo, siora Nina... — Ahn! Iera quei Prohaska che vigniva qua in Vila de istà?... — Ma no, siora Nina! Cossa gavé capì vù? Mi, per dir che Viena no iera propio Austria-Austria, ve disevo che a Viena i diseva che co' quatro Vienesi se intiva insieme, un xe sicuro Boemo e che se po' ve se intiva quatro de 'sti Boemi, due ve xe sicuro Prohàska. — Cugini primi? — Ma cossa cugini primi! Come dir che i Boemi, massima parte, se ciama Prohaska. — Eh, perché xe nome boemo, me diseva mia madre defonta. Sempre mia madre defonta me contava che de regazza ela andava a cùser in Vila Prohaska ... — Ela ve andava a cùser e vù a mi me gavé fato perder el fil... Per cossa ve stavo contando questo de Viena? Ah sì: per el Cadeto Giadròssich. Che, natural, el padre ghe iera armator e co' el fio i ghe lo ga ciamado soto le armi in Marina de Guera, tre ani che se fazeva quela volta de leva in Marina de Guera, ghe iera un pensier... — Eh, soto le armi i fioi xe sempre un pensier, massime co' xe guera... — Ma chi pensava quela volta, prima dela Prima Guera, che vignirà guera! Iera servizio de leva che quel in Marina se fazeva tre ani. E al padre de 'sto Cadeto Giadròssich ghe iera un pensier che 'sto fio tre anni ghe fussi via del scritorio... — Ah, che bravo! El iutava el padre in scritorio! — Co' un padre, un armator, ga un scritorio de anni anorum come ghe gaveva i Giadròssich, cossa volé, siora Nina, el scritorio ve va avanti solo. Ma cussì el padre gaveva meno pensier... — Ma no disevi che el gaveva pensier?... — Dopo, co' i ghe ga ciamà el fio soto le armi. E cussì el padre tanto ga dito, tanto ga fato a Trieste, che a 'sto Cadeto Giadròssich inveze che mandarlo per el mondo sui vapori de guera — che co' no xe guera i vapori de guera i ve gira per tuto el mondo — el ga fato in modo e maniera che i lo distini a Trieste e i lo meti in Governo Maritimo. «Perché — el diseva — apena ciamado soto le armi, subito tignirte a Lussin no xe gnanca de concepir, ma, dopo, de Trieste a Lussin xe più fazile...» — Più fazile concepir, sior Bortolo? — Sicuro. Difati i lo ga messo come concepista in Governo Maritimo de Trieste. — E iera assai, concepista? — Oh dio, el lavor de ufizio de un Cadeto, dopo fato Cadeto. Sporcacarte i ghe ciamava a questi ufiziai dei uffizi quei che navigava per el mondo sule barche de Guera, che i andava fina in China, Giapon, America, San Francisco. Ma, savé, l'Austria ve iera un Paese ordinato e anca i sporcacarte ocoreva, per tignir 'ste carte in neto, che pulito risultassi... — Cossa che risultassi? — Tuto, siora Nina, quel che doveva risultar. Perché figurévese che de un Governo Maritimo de Trieste ve iera pertinenti tuti i Capitanati dei Porti, le Deputazioni de Porto e i Deputati de Spiaggia, natural... — Ahn, iera assai lavor! — Oh dio, più che esser, pareva. Carte assai, ma no difizile de tignirle in ordine, perché l'Austria sola si stessa ve iera un Paese ordinato. «Tanto che, figurévese — contava el Cadeto Giadròssich — che la prima volta che i me ga menà in ufizio in Governo Maritimo de Trieste, in àndito mi go visto una porta che fora ve iera scrito su una tabela, savé cossa?» — Cossa cossa? — Ve iera scrito: «Imperial Regio Governo Maritimo della Città Immediata di Trieste. Magistrato dei Servizi Generali. Sezione Pubblici Edifizi. Ripartizione Quarta Manutenzione Interni. Locale di Servizio. Custodia.» E, averta quela porta, drento savé cossa che ve iera siora Nina? Una radazza in un secio. — Una ragazza? — Maché ragazza e regazza, in un secio! Una radazza! Una de quele scove che se dopra anca a bordo per lavar la coverta, quele coi sfilazzi de corda! — Ahn, una radazza! — Eco. Una radazza in un secio. Ma questo per dirve come che l'Austria ve iera un Paese ordinato. Indiferente. Per el Cadeto Giadròssich el mal ve xe stà che i ga cambià el Comandante del Governo Maritimo. — E cussì no i trovava più 'sta radazza? — Ma cossa ghe entra la radazza? Quel iera per dirve. Questo iera inveze che — bravissimo 'sto Cadeto Giadròssich che iera come concepista, belissima scritura che el gaveva, ben per tedesco che el parlava, pratica che el gaveva fato in Governo Maritimo, a Viena che i gaveva distinado, al Dicasterio dela Marina de Guera de Viena, 'sto Comandante del Governo Maritimo de Trieste — bon, volé creder, che 'sto qua, un zerto Petz, che po' ga fato un carieron, bon, 'sto Petz se lo ga portado con lu a Viena e el padre disperà... — El padre de 'sto Petz? — Ma cossa volé che 'sto Petz, zà Vice Amiraglio e Comandante del Governo Maritimo de Trieste gavessi ancora el padre vivo? El padre del Cadeto Giadròssich ve iera disperà. Perché lui a Trieste che el lo gaveva fato distinar con quela che, dopo, sarìa stà più fazile farlo vignir in Governo Maritimo de Lussin, tràchete i ghe lo mandava a Viena. Pezo che imbarcado. Perché un vapor de guera, una volta o l'altra tornava qua. Inveze el Dicasterio dela Marina de Guera de Viena ve restava sempre là a Viena, siora Nina. — Ah, bruto! Bruto! — Oh dio, bruto. No ve iera gnente bruto quela volta star a Viena, perché Viena quela volta ofriva molto. Più che Trieste ofriva. Ve iera de tuto a Viena, 'sti Cafè imensi, 'ste Dame Vienesi, po', per un giovine, capiré, monturato, Cadeto de Marina. Disevo che per el padre ghe iera bruto, perché sempre più lontan. — Eh, un fio lontan xe pensier! — Per el padre. I padri, le madri, massime, ve xe sempre in pensier, anca se i fioi ghe xe andadi zò a cior spagnoleti. Ma per lu, per el Cadeto Giadròssich ve iera noma che ben a Viena. Perché lui in 'sto Dicasterio dela Marina de Guera de Viena, con drento pien de quadri in pitura con bataglie de Lissa e busti de Tegethoff, lui no ve iera più solo che concepista, lui ve iera Capocancello, che se diseva quela volta. Con un pulto tuto per lu e 'sto Vice-Amiraglio Petz che lo protegeva, natural, visto che el lo gaveva volesto con sé. — De per con sé? — Anche. Insoma, come che ve disevo, in una Viena, giovine, monturato, Cadeto de Marina 'sto Cadeto Giadròssich, el ve gaveva giovini a boca desidera... — Giovini che lavorava soto de lui?... — Eh siora Nina! El gaveva anca sì concepisti, cursori soto de lui. Ma lui, pretamente, ve gaveva giovini, putele. — Soto de lui, in ufizio? — No in ufizio, siora Nina! Dove se podeva concepir quela volta che in un Dicasterio dela Marina de Guera ghe fussi done? Fora, lui ve gaveva putele, giovini, a boca desidera. Giovine, monturato, Cadeto de Marina, capiré. E tuto ben, insoma. Solo che quela sera che el iera zà rivado al Graben che ve xe propio piena Viena, e che là in un de 'sti imensi Cafè che iera a Viena lo spetava una giovine, el se ga inacòrto che el se gaveva dismentigado... — Che ela la lo spetava? — Ma come? Se l'andava aposito! Al Cadeto Giadròssich, ghe xe vignudo de colpo in a mente che el se gaveva dismentigado sul pulto in scritorio una scatuleta de ciocolatini col fioco che de matina andando in ufizio el gaveva comprado per ela in una de 'ste imense ofellerie, pasticcerie che ve iera a Viena... — Una scatuleta de ciocolatini? I vendeva in scatulete a Viena i ciocolatini? No in scatule?... — Sì, per quel i vendeva anca in scatule, ma lui come Lussignan, capiré, gaveva comprado una scatuleta. Ma bela, col fioco. E sul pulto. — Sul pulto come? — Come sul pulto come? Sul pulto dismentigada. E alora, chi no ga testa ga gambe, el ga dito, dò passi che iera, el xe tornado indrio in 'sto Dicasterio dela Marina de Guera, che — oto ore de sera che iera zà — el portonier gaveva zà serado el porton grando e ghe ga verto la portisela. E ciolta del pulto 'sta scatuleta, che el vigniva zò per el scalon, che tuto rimbombava, nissun che no iera più per i uffizi, co' el xe rivado in un pian, che iera un àndito, se ga verto una porta e savé cossa che iera, siora Nina? — Una radazza in un secio! — Ma cossa me vignì fora cola radazza nel secio, che quela iera in Governo Maritimo a Trieste! Iera che fora de 'sta porta ve xe vignù fora un Cadeto ... — Giadròssich? — Ma cossa Giadròssich, se el Cadeto Giadròssich el iera lu! Un altro Cadeto, con una borsa de ati sotobrazzo, che tuto parlava solo, tanto che el Cadeto Giadròssich, con in man 'sta scatuleta de ciocolatini tignuda per el fioco, sintindolo che el parlava solo, passandoghe vizin el ghe ga dimandà cossa che el ga. E 'sto qua che el lo lassi star che el ga un diavolo per cavel. Che orca — insoma per tedesco el ghe ga dito orca, come — anca stasera xe zà oto ore passade, squasi oto ore e meza e ancora no el ga finido e anca ogi el deve portarse el lavor con sé a casa. Che in 'sto maladeto Dicasterio dela Marina de Guera, maladeto el momento che el se ga fato distinar là. E che insoma tute le pratiche più rognose, più bigolose, de 'ste barche de guera austriache che xe per el mondo, se una, metemo dir, ga avesto un'avarea in China, o un'altra un morto a Kobe, le ghe capita tute a lu. — Povero giovine! — Eh, xe quel che ga pensado anca el Cadeto Giadròssich: povero giovine. Ma che el se fazzi furbo — el ghe ga dito a 'sto altro Cadeto, ciapandolo sotobrazzo zò per el scalon — che el se fazzi furbo. «Perché, Herr Kollèghe, no fé come che fazzo mi? — el ghe ga dito — come che fazzo sempre mi quando che me capita una pratica rognosa, e tante che me capita? Fève furbo, fé cussì: vu ciapé pulito 'sta pratica rognosa, la meté drento in un cartolar e ghe scrivé de sora in bella scritura: «Prohaska». Sicuro: Prohaska in bela scritura — el ghe ga dito ridendo — perché savé come che i dise qua a Viena, che quando quatro Vienesi se intiva un xe sicuro boemo e che po' co' se intiva quatro de 'sti Boemi, due ve xe sicuro Prohaska! «E cossa volé, Herr Kollèghe, caro colega insoma, che in tuto sto imenso Dicasterio dela Marina de Guera de Viena no ve sia un Prohaska? E xe sicuro che el ve xe, perché, difati, a mi, nissuna de 'ste pratiche no me xe mai tornada indrio.» — Ah, furbo lu! — Sicuro che furbo. E col ocio furbo el Cadeto Giadròssich ghe ga dito a 'sto altro: «Cussì, vedé, a mi, Herr Kollèghe, me resta tuto el tempo che voio per andar a torzio cole giovini. Mit Putèlen.» E el ghe zinzolava davanti del muso 'sta scatuleta de ciocolatini tignuda per el fioco. — E 'sto altro? — Sto altro gnente. El lo vardava. E alora Giadròssich ghe ga dà la man come per saludarlo e el ghe ga dito: «Mi sarìa el Cadeto Giadròssich e vù?» «Ah mi gnente — ghe ga fato 'sto altro — mi son Prohaska.» — Mama mia! — Mama mia sì, siora Nina. Perché 'sto Prohaska ve iera el fio del Contro-Amiraglio Prohaska che contro de lu gnanca el ViceAmiraglio Petz no podeva gnente. E, dito fato, al Cadeto Giadròssich i lo ga spedido in quela che i calcolava la Deputazion de Porto più scarta de tuta l'Austria-Ungheria: a Sànsego. Dove che tuta 'sta Deputazion ve iera un cameroto con un pulto, un armereto e in un canton la radazza in secio. — A Sànsego! — A Sànsego sì, povero Cadeto Giadròssich. Però el padre ghe iera contento. Cossa volé che sia de Sànsego a Lussin? Ogni sera el ghe vigniva a casa col caìcio. MALDOBRIA XVI - L' ORA CHE UCCIDE Nella quale sul quadrante del vecchio orologio della Cresima di Bortolo, dono dell'avvocato Miagòstovich, batte un'ora storica per il destino della vecchia Europa nella ben munita piazzaforte marittima di Pola. — Per un orologio la corda xe tuto. Bisogna dargliela sempre ala istessa ora, se no finisse che o el va avanti o el va indrio o el se ferma. Anzi, savé cossa che ve dirò? L'orologio de brazzo no ga mai quela precision. Vero orologio xe quel de scarselin. — Uh! Orologio de scarselin? Ma no i li vende gnanca più, mi calcolo! — Anca mi calcolo, perché la gente ogi xe piena de smorfiezi! Che l'orologio deve esser picolo, sutìlo come una cartafina e po' guai al mondo se se sente el tictac. Ben, mi ve dirò che l'orolojo con cadena che me gaveva regalado a mi el vecio avocato Miagòstovich per Cresima, no esiste meo al mondo ... — Orolojo? — Sì. Quela volta se diseva orolojo. Adesso i vol dirghe orologio. — De scarselin? — Oh dio de scarselin! De scarsela. Perché iera un orolojo de peso, savé! E mai no el me se ga fermado con tuto che el me ga magnado tante ore quante el sol! Orolojo sempre giusto. Aré che mi quel periodo che iero in Arsenal del Lloyd, el iera sempre giusto in punto col canon de mezogiorno. — In punto col tiro? — No col tiro, siora Nina: col lampo. Col lampo se varda se l'orolojo xe in punto. Perché fra el lampo e el tiro fa sempre diferenza. Picola, natural, ma diferenza. Po' cossa me fa a mi che l'orolojo fazzi un fià de sussuro, co' el xe in punto? Perché, per far sussuro, per forza, sussuro el fazeva. — El canon de mezogiorno? — Ma cossa el canon de mezogiorno? Natural che el canon de mezogiorno fa sussuro. No. El mio orolojo fazeva sussuro, un fià. Insoma, co' go cominzià a navigar con Barba Nane e che el me gaveva ciolto a dormir in gabina con lu, poco posto che iera, barca picola, el me diseva sempre: «Con vù de note no se pol dormir, con 'sto vostro relòjo — perché lu ghe diseva ancora relòjo, gnanca orolojo ancora — 'sto vostro relòjo xe un fastidio in continuo! Ve la buterò in mar 'sta vostra maladeta zivòla, ve farò cavar la matricola!» — Ma cossa, iera un sveiarin? — Ma no: iera un cronògrafo. Però, per dir la sincera verità, de note, nel silenzio dela note... — Eh, per forza, un fonografo! — Ma no fonografo! Cronografo. Iera un orolojo cronografo con cadena, siora Nina. Se ghe diseva cussì, quela volta. E una volta, ve disevo, me ga tocà una bula. Una volta? Magari che fussi stada una volta come tante altre! Quela volta! — Quala quela? — Quela volta che i ga copà Francesco Ferdinando. Dovè saver che i gaveva apena trucidado a Sarajevo Francesco Ferdinando, mio padre povero xe vignudo a casa e — me ricordo come ieri — el ga pozado la bareta sula carega e el ga dito: «Xe passà telegrama che l'Austria ghe ga intimà guera ala Serbia!» — Mama mia! E vù? — E mi gnente. Tempo dò giorni mobilitazion general, i me ciama soto le armi e via mi a Pola, in Arsenal dela Marina de Guera de Pola; anzwai, spoiarse subito, far paco dela roba civil e i me mete in montura. Bon: mi, subito, co' sbara el canon... — Ahn! Subito in campo i ve ga mandado? — Ma no! El canon de mezogiorno de Pola! Ben, subito 'pena che el sbara, el sangue me va in acqua, perché subito me inacorzo che no go più l'orolojo. Cossa volé? Nela confusion, lassado nel gilè. Nel paco dela roba civil. E mi el paco dela roba civil, lo gavevo lassado in Arsenal dela Marina de Guera, in un armeron de fero nel Deposito, insieme coi altri. Insoma coro a zercar el mio fagoto, e vedo che tuto atorno del Deposito xe quei dela Feldghendarmerì col chifel davanti: cordon de militar. E el Comandante, rampigado sora una carega, che de una finestra el vardava drento del Deposito, fazendo cola man moto che i staghi ziti... — Rampigà sula carega! Mama mia! — Mama mia, go pensado anca mi. E subito ghe dimando a un che iera là che vardava, un patrioto, un de Caìsole, cossa che xe nato. E questo dise che par che sia una bomba, che i sente 'sto tictac de orologeria nel Deposito e che insoma xe sicuro una bomba. Podé capir, quela volta dopo mazzà Francesco Ferdinando i pensava subito a 'ste robe. Perché iera 'sti Serbi che fazeva atentati per tuti i loghi. Iera fanatichi per ogni canton. — Jésus Maria! E cossa? I voleva far saltar l'Arsenal de Pola? — Maché, siora Nina. Mi go capido subito cossa che iera la bomba a orologeria: iera el mio orolojo, che là in 'sto armeron de fero rimbombava un poco. — Mama mia, che truco! E ghe gavé palesado? — Sì, per farme mandar in Galizia, che zà iera stragi! Mi, inveze, son andà là del Comandante che iera rampigado sula carega, che el scoltava el tictac e ghe go dito: «Comandante, io mi chiamo fuori come volontario. Io di questa roba ho pratica!» — Ah gavevi pratica? — Per forza. Iera el mio orolojo. Ma lori no dimandava altro che andar via de là prima del tiro. Difati i ga dà ordine di sgombero, tuti via, e mi solo, son andà drento. Un silenzio, siora Nina, che se sentiva solo el rimbombo de come che caminavo e 'sto orolojo che fazeva tictac drento del armeron de fero. Per farvela curta, mi presto go ciolto el mio fagoto e, tignindolo alto sora dela testa, intanto che tuti scampava a gambe baticùlo, go coresto, coresto lontan fin sula zima del molo, go ciolto via l'orolojo e butà el resto del fagoto in acqua. Tanto cossa volé? Dò strazze. Ben, volé creder? I me ga dà la medaia. — Ah! La medaia per la cadena del orolojo? Tanti usava... — Maché, tanti usava. La medaia: la prima Piccola Medaglia dela Prima Guera, che i ga dà a Pola! L'Amiraglio Horthy in persona me la ga pontada sula montura, sora el scarselin del orolojo. Che, anzi, co' el ga sentì 'sto tictac del orolojo che me rimbombava sul peto, el iera come nervoso un poco. Savé: cossa el saveva lu chi che iero mi? Podevo anca esser un Serbo. Un fanatico. MALDOBRIA XVII - IL PICCOLO CAMPO In cui si parla di pesca e di agricoltura. La prima talvolta praticata con l'uso indebito di dinamite e altri materiali esplodenti, la seconda resa difficile dalla mancanza d'uomini impegnati sui campi di Galizia. — Guai! La dinamite distruse el mar, mazza la semenza del pesse, che Barba Nane diseva sempre: «Se mi intivo un che pesca cola dinamite, ghe dago zò pel muso cola calza bagnada...» — Ah! Anca mia madre povera, diseva sempre questa dela calza bagnada. No per la dinamite, per altre robe sue. Ma i usava, una volta, più de una volta, pescar cola dinamite ... — No tuti pescava più de una volta. Perché più de un ghe restava la prima volta. Perché credè vù che el povero Schitazzi defonto gavessi perso la man? — Ah! El la ga persa in Abissinia. — Sicuro che in Abissinia. Sul lago Tana, perché el pescava cola dinamite. Sul lago Tana — come che se cantava — nel'aria triste dela sera s'inalza un'umile preghiera, che dà brivido ad ogni cuor. Mama mia come che ga finì anca el Negus! Bon, el povero Schitazzi, in Abissinia, sul lago Tana, adio man, insoma un per de dèi, per pescar cola dinamite. Bravure, ah! — Ah, mi credevo, ferito come! — Eh, altro che ferito! Ma savé vù, siora Nina, chi che qua gaveva scominzià a pescar cola dinamite, ancora prima dela Prima Guera? Oh dio no propio cola dinamite, cole patrone, cola polvere dele patrone? Savé chi? Polidrugo. Tonin Polidrugo. Anca lu per bravura, savé; perché lu, po' no gavessi gnanca gavesto bisogno. — Tonin Polidrugo? El nostro Polidrugo? Quel che me diseva mia madre defonta che el pescava cola dinamite? — No cola dinamite. Lui, savé come che el fazeva? Subito dopo s'ciopada la Prima Guera, che i lo gaveva ciamà soto le armi, un periodo el iera qua, prima de andar in campo. E sicome che el tendeva el magazèn dele patrone, lui, pulito el ghe cavava ale patrone la bala, el svodava la polvere in un vaseto, e con quel vaseto pien de polvere, una càpsula e un tocheto de stupin che l'impizzava col spagnoleto, lui de sera, nel'ombra triste dela sera, l'andava fora de Ponta Sant'Andrea col caìcio e s'giunf, el pescava cola dinamite, insoma no cola dinamite, cola polvere dele patrone svodade. E el ciapava, savé. — Cossa el ciapava? — Orade orade, ociade ociade, branzini zievoli sardoni el ciapava. Ma massima parte el ciapava paura. Perché xe stà sempre difizile pescar ben cola dinamite. E po' guai se lo ciapava la Finanza. Che po' lui, ve disevo, no gavessi gnanca gavesto bisogno. — Eh, perché stava ben i Polidrugo! — Sicuro che i stava ben. Lu perché el xe stà sempre un de quei che butava zinque e levava sie, e po' la moglie, fia unica, ghe gaveva portà: numero un, casa; casa belissima con orto davanti e de drio, e che vista! Numero dò: quela campagneta. Campagneta? Campagna bela che i gaveva in Draga, che zà lavorando solo che quela, lu ve iera squasi un signoreto. Signoreto? Benestante. — Ah! Tonin Polidrugo lavorava la campagna, in Draga? — Sì, propio lui ve lavorava! Lu ve fumava el spagnoleto, intanto che i altri lavorava. I lavorenti che i cioleva a giornada, campagnoi che stava qua sul Monte, o anca i scarigadori, co' no iera cossa scarigar al molo. E co' la moglie li pagava, un bianco e un nero, ancora i ghe diseva grazie tante, perché la ghe dava un bicer de vin, ogni tanto. — Ah i fazeva vin? — No vin. In Draga no iera mai stà bon per vide. Patate lori fazeva assai. Bonissime patate. — Eeh, iera bone le patate dei Polidrugo! — E alora cosa fé tute 'ste maravée, siora Nina, se savé zà tuto. Mi alora no ve conto più gnente. — No, mi so solo che i Polidrugo fazeva patate, bone per gnochi. — E anca che el pescava cola dinamite, savevi... — No: quel me diseva mia madre... — E inveze no iera dinamite. Iera polvere dele patrone svodade co' lu qua, i primi mesi dela Prima Guera el fazeva el militar qua. Lui, savé cossa che el fazeva? Lui, pulito svodava la polvere dele patrone in un vaseto. Ah ve go zà contà... Poco el ga godesto! — Mama mia! El se ga fato mal sula man? Ghe xe s'ciopà el vaseto! — Ma cossa! Polidrugo iera de man svelta. Lu butava zinque e el levava sie. No ghe xe s'ciopado, no, el vaseto. La guera s'ciopava sempre più in grando, col Russo e tuto, e lui poco qua el ga godesto, perché dopo un per de mesi i lo ga mandà in Galizia. — Mama mia! Cussì lontan! — Lontan! Quel iera el meno. El pezo ve iera che iera el Russo vizin e el Russo, né ài né bài, tirava sul omo, savé, siora Nina. Iera bruto in Galizia. E bruto anca qua, perché: numero un: sempre più omini i ciamava soto le armi, figurévese che anca Barba Mate Pessimòl, che gaveva squasi zinquanta ani i lo ga ciamà soto le armi, e numero dò, qua ga scominzià a esser fame, del Diciassete ve parlo, fame per bon. Che la gente magnava giusto quei pochi de pesseti che podeva ciapar 'sti veci che iera restadi, pan nero, duro come i cògoli e patate che no podeva più vignir dela Stiria ... — Ah i magnava patate? — Se ve go dito che no le podeva più vignir dela Stiria, come volé che 'sta povera gente magnassi patate, se no le podeva vignir? — Ma i Polidrugo no gaveva patate in Draga? — Sì: prima dela guera, co' iera i lavorenti, che i ghe lavorava la campagna in Draga, ma nel Diciassete no iera più omini e per zonta ela ve iera incinta, perché lui una volta ve iera vignudo in permesso. — Chi questo? — Come, chi questo? Polidrugo no? — Polidrugo incinta? — Sì: e el ga anca vinto el Premio de Maria Teresa. Ma dài, siora Nina: la moglie de Polidrugo ve iera restada incinta, del Diciassete, che lui iera vignudo in permesso. Omini no iera per lavorar la campagna, ela no podeva perché la spetava, insoma, podé capir, cola fame che iera, disperada. Savé vù quanto che se pagava quela volta un litro de oio? — Quanto, quanto? — Gnanca no me ricordo. Ma un'eresìa. Assai. Cussì la ghe scriveva ela, a lu, fora in campo, che el iera in Galizia. Che, di salute per fortuna tuti bene, che ela, natural, la speta, che xe assai difizile per el magnar, perché un litro de oio costa un'eresia, e che con tuto che ela speta, ghe tocherà andar ela a zapar la tera per piantar patate in Draga, perché lavorenti no xe. E che in paese oramai xe solo militari e veci che giusto ciapa qualche pesseto... — Ciapava pesseti i militari? — No: i veci ciapava pesseti. I militari iera i militari de Fanteria de Marina che fazeva la guardia, dio guardi che i Italiani no fazzi sbarco. E ela, podé capir, disperada la ghe ga scrito che la anderà a zapar ela la tera in Draga, perché lavorenti no xe e patate bisogna pur piantar cola fame che xe, con tuto che la xe incinta... — Uh, zapar incinta! Guai zapar la tera incinta: la moglie de Nini che zapava incinta... — Indiferente! Tonin Polidrugo, subito del fronte, che lui iera in campo rente Leopoli, subito el ghe ga scrito una letera, cola Feldpost, Posta da Campo. Che dio guardi! — Che dio guardi zapar incinta? — Anche. Ma no iera quistion de incinta. Lui ghe ga scrito: «Dio guardi tocar quela campagna in Draga, perché nela campagna in Draga io ho sconto sototera tute le patrone e anca proieti grossi più grandi, per quando che tornerò per andar a pescar cola dinamite...» Insoma no cola dinamite, cola polvere svodada de 'ste patrone sconte. — Ah, no la podeva tocar la campagna in Draga? — Guai! Cussì ghe ga scrito Tonin Polidrugo. Che, natural, lori ga leto subito. — Lori chi? — Come chi lori? Quei dela Feldpost. Quei dela Posta del militar che iera là a posta per leger la posta del militar. — Ah, cussì la moglie de Polidrugo no ga ciapà la letera? — Come no? La ga ciapà, sì la letera, ma come che ela ga ciapà la letera, el giorno istesso i ga dà ordine al militar, de Pola propio, che i li ga avisadi de Leopoli, i ga dà ordine al militar, a un reparto de Zappatori de Fanteria de Marina de andar a zercar in 'sta campagna in Draga tuta 'sta munizion sepelida. — Mama mia! E i la ga trovada? — No, siora Nina! 'Sti Zapatori ga zapà, zapà: una giornata intiera i ga zapà zercando, ma no i ga trovà gnente... — E ela incinta, mama mia! — Sicuro: ela incinta che vardava. E dopo la ghe ga scrito al marì, a Tonin: «Caro Tonin — la ghe ga scrito — sono vignuti i Zapatori di Fanteria di Marina e hano zapato tuta la nostra campagna in Draga per zercar la munizion che però non hano trovato gnente. E adesso mi cossa devo fare?» — Ah! Al marì la ghe ga partecipado? — Sicuro: «E adesso mi cossa devo fare?» E Tonin ghe ga subito batù telegrama del fronte: «E ti adesso — el ghe ga batù telegrama — ti adesso pianta le patate!» Savé: piantar patate xe lavor lisier. Zapar, zapar xe lavor greve, incinta. Eh iera furbo Polidrugo! Lu butava zinque e levava sie. E la moglie quela volta, no so quanti quintai de patate che la ga levà! — Mama mia che truco! E el fio? — Bel, grasso, s'gionfo lo ga trovà Polidrugo co' el xe tornà. Perché ela ghe dava pranzo e zena piré de patate. MALDOBRIA XVIII - UOMINI SUL FONDO In cui, sia pure essendo giunto il secolo oltre il traguardo degli Anni Trenta, il carbone delle miniere dell'Arsa è ancora fonte primaria di energia: onde questa vicenda illuminata solo nel finale da luce improvvisa. — Savé come che se diseva una volta, siora Nina? «Benedeto l'istà con tuti i sui pulisi e le sue mosche». E benedeto el carbon, co' fa fredo de inverno. El carbon a nualtri, siora Nina, no ne ga mai tradido, perché, cossa volé, ala più maledeta, se lo andava a cior in miniera del'Arsa. — Se andava a cior? I dava? — Oh dio, i dava! El iera. L'unica roba che gavemo, diseva sempre el povero Martin Ghérbaz, xe che a nualtri, de inverno a casa caldo e fogo per pareciar non ne manca. — Ah! L'andava a cior carbon in miniera del'Arsa? — Come l'andava a cior carbon in miniera del'Arsa? Lu e Marco Palisca, che i ve iera cugini primi, dopo dela disgrazia, barche che no iera e pochi noli e pochi viagi e poca ocasion de lavorar per mar che iera, i ve iera andadi a lavorar propio in miniera del'Arsa. Zà de subito dopo dela disgrazia... — Che disgrazia? In miniera? Gaveva ciapà fogo la miniera? — Sì! Quel che i gaveva fato la canzoneta: «Nela miniera è tuto un balior di fiame ...» Ma no, dài, siora Nina: la disgrazia del «Sant'Antonio II», la barca del padre de Marco Palisca, che iera metà anca del padre de Martin Ghérbaz, perché lori ve iera cognadi... — Marco Palisca e Martin Ghérbaz? — Ma no: i padri ve iera cognadi. Lori, ve go zà dito, ve iera cugini. E gnente: de un giorno al altro, giovini che i iera, maché giovini, putei ancora, perché quela volta se cominziava a lavorar de putei, i iera restadi senza arte né parte. Capiré, quela note, in Canal de Zara, el vapor de linia ghe ga dà drento al «Sant'Antonio II», caligo e sirocal che iera, e dopo ancora la Sicurtà ga volesto dir che la colpa iera de lori, poveri defonti, perché, savé, i morti no pol parlar ... — Eh xe bruto cussì quando che se perde la barca! — E quando che se perde la vita, siora Nina? Barca e vita ve ga perso lori quela note in Canal de Zara e i fioi poveri, poco più che crature, perché quela volta i cioleva a lavorar anca i ragazeti, i xe andadi a segar traversine drento in miniera del'Arsa. — De scondon? — Ma come de scondon? Lori doveva segar le traversine dele sine dei vagoni, in fondo dela miniera, drioman che 'ste sine andava avanti. — Le andava avanti sole? No capisso! — Ma come sole, come no capisso? Cossa se fa in miniera per trovar el carbon? Se scava, no? In galeria. E come se porta fora el carbon? Coi vagoni! E come camina i vagoni? Sule sine! E per le sine ghe vol le traversine. E Marco Palisca e Martin Ghérbaz, come lavor lisier, che quela volta quel se calcolava lavor lisier, per ragazeti, pensévese, i segava le traversine per le sine. Col segazzo. A dò man: un de una parte e un de quel'altra: zunzun col segazzo. — In miniera? — No, in cortivo de casa! Sicuro che in miniera. In fondo dela miniera, andove che rivava le ultime sine, perché de quele po' se andava avanti. E cussì i portava 'sti soldini a casa. E carbon, natural, perché quel ghe spetava per spetanza. — Eh, anca adesso i lavora in miniera! — Ah sicuro. Ma no più né Marco Palisca, né Martin Ghérbaz, perché 'sta roba che ve conto, ve iera apena de prima de 'sta ultima guera. Bon: lori dò, Marco Palisca e Martin Ghérbaz ve fazeva el turno de giorno. E quela volta iera giornada longa, savé! — Ahn! Iera de istà? — Ma cossa de istà? Giornada longa ve iera che lori andava zò in miniera del'Arsa, prima dele sie de matina, col scuro, ancora, col lume a carburo, me ricordo che se vedeva tuta 'sta gente che andava a lavorar e pareva una procession de Nadal, a Càrpano, in Arsia, a Vines, Pozzolittorio, in 'sti loghi e i tornava suso che zà iera sera, note squasi. Pensévese che longa giornada che iera! ... — Eh, bruto iera in miniera! — Eh, in miniera bruto ve iera, ve xe e ve sarà. Però cussì, ve disevo, almanco i portava 'sti soldi a casa. Che po' Marco Palisca iera un ragazo sveio, che dopo xe andà in America, e inveze Martin Ghérbaz ve iera no pretamente stupidin, ma istesso un poco indrio come mentalità. Ma cossa volé? Con 'sto segazzo: zunzun, i segava traversine e co' finiva el turno i vigniva suso col saliscendi. Ultimi, natural, perché lori dò ve iera più in fondo de tuti. Dopo i ve andava a casa, i se lavava in cadin col savon de 'sto carbon che i gaveva adosso, i zenava e, dopo zena, rente del fogo, de inverno, el nono, el padre dela madre de Marco, el vecio Jurissa, ghe legeva la storia de Genovefa e de Eustachio. Figurévese come che se viveva quela volta. Col lume a carburo. — Se viveva col lume a carburo? — No, el legeva col lume a carburo, la istoria de Eustachio e Genovefa, perché anca carburo i ghe dava in miniera del'Arsa. E quel ve xe stà. Che una sera el vecio ga dito che no el ga voia de leger, come. E insoma: mal, mal, mal, i ga do vesto portarlo a Fiume, in Ospidal de Fiume. — Perché no el podeva più leger? — Ma no: de quela che no el podeva più leger se ga capì che el stava mal. Una vena, i gaveva calcolà che ghe se gavessi s'ciopado drento... — Ahn! Come mia madre: quel ve xe bruto! — Altro che bruto. Tanto che, dò giorni apena el iera in Ospidal de Fiume, che a Marco Palisca e a Martin Ghérbaz — vignudi fora de miniera col saliscendi, sera che iera, squasi note, come ogni sera — i li ga subito avisadi che i vadi a Fiume, perché el nono ghe xe moribondo. — Eh, co' s'ciopa una vena! — Difati, no i xe rivadi gnanca a véderlo vivo, perché — volé fatalità — ghe ga s'ciopà una goma... — Al vecio? — Ma come s'cioparghe una goma al vecio? Dove una volta gaveva gome i veci? Ala coriera! Ghe ga s'ciopà una goma ala coriera, ala coriera de linia: quela che fazeva Pola, Arsia, Càrpano, Albona, Abazia, Fiume. Che po' la se fermava in tuti i loghi. Ma quela volta, nove e meza, diese ore de sera che ve iera, la se ga fermado là, sora de Volosca, perché al safèr ghe iera s'ciopà una goma. E intanto che el safèr cambiava la rioda, Marco Palisca e Martin Ghérbaz ve stava là come incantadi. — A vardarlo che el cambiava la rioda? — Ma no! A vardar tute 'ste lusi impizade de Fiume, de Abazia, che de là, de sora Volosca se vede tuto benissimo. Savé: ve iera la prima volta che lori ve vedeva un tanto. Perché fora de miniera cossa i ve vedera lori? 'Sta procession de minadori che tornava a casa col lume a carburo. E inveze là: Fiume, Abazia, savé 'sti lumi dei hotéi, dele vile, del Silurificio, perché de là se vede tuto ben, fina in fondo, Tersato, Sùssak. E ben, istà che iera, no volé? tutintun: rochète! — Chi questo? — Ma come: chi questo? Rochète, foghi de artifizio che i fazeva per 'sti foresti, per 'sti Czèchi, 'sti Tedeschi, 'sti Ungaresi, massima parte che ogni istà ve vigniva a passar l'istà in Abazia. Lori dò ve stava come incantadi a vardar 'ste rochète che s'ciopava in aria de tuti i colori: girandole, piogge di fuoco, cascate del Niagara, che i ghe ciama: tuto coi foghi de artifizio. — Ahn! Le rochète! — Sicuro. Ma lori no gaveva mai visto. «Eh i xe siori qua — ghe diseva Marco Palisca a Martin Ghérbaz che vardava tuto stupido zigando: «Ara! ara!» e tuto mostrando col déo 'sti foghi — i xe siori, chissà cossa che costerà tute 'ste robe! Altro che nualtri che ne toca tuto el giorno zunzun col segazzo, soto in miniera!» Come stravirado ve iera Martin Ghérbaz, a vardar 'sti foghi, che anzi, Marco el ga dovesto strassinarlo per un brazzo, perché la coriera, finì de cambiar la goma, zà ghe partiva... — Per tornar in miniera del'Arsa? — Ma cossa tornar in miniera del'Arsa, se apena i stava andando a Fiume, che el nono ghe iera moribondo? — Ah, i lo ga trovà moribondo! — Ma no, zà morto! Pretamente morto. Ve gavevo dito: fatalità che ghe iera s'ciopada la goma... — Ah, no la vena? — Anca! Ma insoma, indiferente. Mi ve conto, ma vù no me capì. Bon: gnente. Funeral e tuto, e lori come sempre ve xe tornadi a lavorar, soto, in miniera del'Arsa. Drento i andava che iera ancora scuro e fora i vigniva che iera zà sera. Note, squasi, ogni sera. E adesso che no i gaveva più el nono che ghe legeva, dopo zena i andava in local, che Martin Ghérbaz ghe contava a tuti: «Eh, siori i ve xe in Abazia, che i ve fa foghi a colori de note. Chi sa cossa che i spende per 'sti stupidezzi! E nualtri, poveri...» Insoma, una roba e l'altra, savé quel che dise sempre i lavorenti... — Sì, ma quela volta, picole paghe iera, anche in miniera! — Paghe picole e giornada longa. Ancora scuro co' i andava drento e zà sera co' i vegniva fora col saliscendi. Bon, no volé che una matina, fora dela miniera del'Arsa, un temporal tremendo, un stratempo, istà che iera, savé, de quei stratempi che vien de istà? Insoma: tanto ga piovesto e tanto se gaveva tuto alagado, che l'acqua ga cominzià a jozar in miniera. E alora l'ingegner Millevòi ga dà ordine che tuti i omini vegni suso. — Per sugar per tera? — Ma cossa, per sugar per tera? Se ghe jozava in miniera, i gaveva paura de inondazion, perché l'acqua spupava propio fora del lago del'Arsa! Podé capir che confusion. Sirene, fis'ciava le sirene, e 'sti omini che se strucava nei saliscendi per andar suso... — Eh xe bruto, pànico in miniera! — Pànico ve xe bruto dapertuto. Ma co' xe vignudi fora Marco Palisca e Martin Ghérbaz, perché lori, ve go dito, i iera i ultimi più in fondo de tuti, iera zà tuto finido. — Finido el pànico? — Sicuro, finido el pànico, perché iera anca finido el temporal. Tanto che oltra de Albona, verso de Abazia, se vedeva un stupendo arcobalen, savé un de quei stupendi iridi con tuti i colori del iride, che fa dopo che ga tanto piovesto? E Martin Ghérbaz xe restà come incantado a vardarlo e: «Ara, ara Marco — el ghe ga dito a Marco Palisca — ara, ara, anca de giorno i ga soldi per 'sti stupidezzi! Ma no per cresserne le paghe a nualtri, poveri cani!» Savé, siora Nina, Martin Ghérbaz ve andava zò in miniera del'Arsa de matina ancora col scuro e el ve vigniva fora col saliscendi de sera, squasi note, ogni sera. No el gaveva mai avù ocasion. MALDOBRIA XIX - IL RITORNO DELL'ARCIDUCA Nella quale torna alla ribalta la misteriosa vicenda dell'Arciduca Giovanni Salvatore, sparito nel nulla quando qui battevano le ali l'ormai mitica Aquila a due teste e l'ancora più favolosa Gallina Pépola. — Sonambular! Cossa vol dir sonambular? Tante crature se leva de note, massime quei che xe più nervosi. Ma dopo ghe passa col'età. Oh dio, qualche volta ghe resta. A Giovanin Politeo, presempio, ghe iera restà per diverso tempo. — Cossa? — Questo che ve disevo, siora Nina: che el se levava de note e el bagolava per casa, su e zò per le scale, anca: insoma lui pretamente ve sonambulava... — Mama mia! 'Sto Giovanin Politeo sonambulava! E chi vigniva a star questo Politeo? — Come chi? Savé i Politeo? Bon, questo ve iera Giovanin Politeo, el fio de siora Mercedes Politeo e de suo marì, sior Antonio: lori ve stava ben, lori ve gaveva quela bela casa in volta dela strada, che dopo i ga butado zò per far hotél. Lui ve iera nato tanti anni dopo i fradei, savé, padre e madre, in età, con 'sto picio... — Ah, intendo: padre e madre in età, i lo viziava. — Chi no vizia i fioi, siora Nina? ... No: iera che 'sto Nini ve iera un poco nervoso. Lui se impressionava come, e presempio, co' i ghe contava istorie — savé quele istorie che se ghe contava una volta ai fioi: «Son in primo pian, dàme el mio fegato» — bon, lui 'sto Giovanin Politeo, era tura, lui ghe pareva de esser quel. E el sonambulava! — Per via che i ghe contava 'ste istorie? — No. A tuti i fioi una volta se ghe contava 'ste istorie de «Son in primo pian, dàme el mio fegato», ma lui pretamente el sonambulava. Anche co' iera istorie de rider, savé. Presempio, ve ricordé quela istoria dela galina pépola? — Ah! «La galina pépola la fa tre vovi al dì, se no la fussi pépola no la farìa cussì» ... — Sicuro. No la farìa cussì. Una istoria de rider. Ben: 'sto Giovanin de note, più de una volta co' el se levava del leto per sonambular, e che po' el padre, la madre, in camisa de note pian pian i lo sveiava, perché pian pian bisogna sveiarli questi, ben, co' i lo sveiava e i ghe dava de bever acqua col zuchero, lui li vardava e diseva — ma serio, sveio, savè — «Son la galina pépola che fa tre vovi al dì: se no la fussi pépola no la faria cussì...» — Ah, che de rider! — De rider, sì, ma iera un cruzio per 'sti genitori. Perché lui co' el xe deventà più grandeto e el ga cominzià a sentir robe che i contava cussì in tavola de sera a zena, lui de note el ve gaveva zerti tiri. — Tiri come? Che tiri? — Ve contavo, no, presempio quela volta — ve parlo de prima, ma assai prima dela Prima Guera — ben in quei anni 'ssai se parlava del Arciduca Giovanni Orth. — Giovanni Ort? Gavevo sentido de un Giovanni Ort qualcossa... — Come no, siora Nina! Giovanni Orth ve iera propiamente l'Arciduca Giovanni Salvatore, primo cugin vero de Rodolfo, el fio de Francesco Giusepe, quel che, povero, xe morto cola sposa a Mayerling. Ben, i diseva che lu, dacordo col cugin e coi Ungaresi, i gaveva divisado de cambiar tuto in Austria. Per quel i diseva che Rodolfo se gaveva copado. Perché el gaveva savesto che la polizia saveva tuto. Ben: 'sto cugin, l'Arciduca Giovanni Salvatore... — Se ga copà anca lu?... — No: lui ga dito: «No voglio essere più Arciduca». De quel giorno el se ga fato ciamar Giovanni Orth, el ga comprado un granda barca a vela e el xe andà per el mondo. — Giovanni Ort! Gavevo sentido, sì, questa de Giovanni Ort... — Sicuro. Ma un bel giorno no se ga savesto più gnente de lu. I ga dito che el se gaveva perso cola barca a Capo Horn in SudAmerica e che tanti chersini de Cherso gaveva perso la vita con lu. — Capo Hort? — No, Capo Hort. Capo Horn, in Sud-America! Lui se ciamava Giovanni Orth e Giovanni Politeo, ragazeto che el iera, assai ghe gaveva fato impression 'sta istoria che el gaveva sentido contar in tavola e una note, co' el se ga levà per sonambular, al padre e ala madre in camisa de note che lo sveiava col'acqua col zuchero, el ghe ga dito: «Io sono l'Arciduca Giovanni Orth, perso cola barca a Capo Horn.» Fioi, cossa volé, siora Nina, che i se impressiona... — Ma come se gaveva perso 'sto Giovanni Ort? — Cola barca, i parlava che el se gaveva perso, in Sud-America, ma no se gaveva mai savesto ben. Ben, volé creder che una sera, che ve iera a zena dei Politeo el vecio Mòise — che el vecio Mòise ve iera milionèr in fiorini — bon, 'sto vecio Mòise iera vignudo a zena de lori, dei Politeo, apena tornado de Viena. «Savè — el ga dito — cossa che i parla a Viena, che mi 'sta setimana go dovesto andar a Viena in Banca Union? A Viena tuti parla che el xe vivo...» — Chi questo iera vivo? — Speté: el vecio Mòise contava che a Viena tuti parlava che no iera vero gnente che l'Arciduca Giovanni Orth se gaveva perso cola barca, che no el iera morto. Che lui inveze stava in Sud-America dove che con 'sti chersini el gaveva comprado una immensa campagna e che el viveva là pacifico. Anzi, che ogni tanto, lui con nome falso el vigniva a Viena per andar a trovar sua madre povera che iera vecia oramai. — Con nome falso? — Sì, cussì i parlava. Ben, no volé che, come a zena el vecio Mòise ga contado e, come de note, Giovanin Politeo, che oramai iera omo, giovine, ma omo, con una bela barba bionda spartida in mezo come che se usava quela volta, ben, Giovanin se ga levado del leto e, pretamente sonambulando, el xe andado in camera del padre e dela madre e el ghe ga dito: «Io sono l'Arciduca Giovanni Orth che no si è perso cola barca e son vignù a trovarte, mama...» — Mama mia! — Mama mia, sì, siora Nina. Perché i veci Politeo, poveri, pensava che lui oramai ghe fussi passada 'sta storia. — 'Sta storia de Giovanni Orth? — No, 'sta storia de levarse del leto e de sonambular, 'sto nervoso insoma. E alora i ga decidesto — ben che stava i Politeo, soldi che i gaveva — de portarlo a Graz, perché quela volta a Graz iera i meio dotori, e de farlo véder... — A chi? — Alla gente che passava per strada! Ma dài, siora Nina, a 'sti dotori de Graz, che iera i meio quela volta in Austria. Basta: i riva a Graz, in stazion de Graz e, come che i riva in stazion de Graz, 'sti veci Politeo ghe dise a Giovanin: «Giovanin, noi stemo qua a tender le valise e ti va fora de stazion a ciamar una carozza!» — Per andar dei dotori? — Ma sì, ma no, per andar in hotél intanto, dopo i sarìa andadi anca dei dotori. E savé come che xe fora dela stazion de Graz — come che xe... come che iera, perché mi iero — ben fora dela stazion de Graz, apena rivado che iera el treno de Trieste, no iera più carozze, ma 'sto Giovanin vede che una carozza sta proprio passando del'altra parte dela piazza, el core, el core per ciaparla, quando, no volé che rivi una carozza... — Ah, alora el ga ciolto quela? — Noo! Riva una carozza che coreva e lui xe finì per tera, butà in tera dei cavai, e podé imaginarve, tuti che core atorno... — El padre e la madre? — No; el padre e la madre iera in stazion, che tendeva le valise e che no saveva gnente. Lui soto la carozza, tuti atorno, el cùcer... e anca dò gendarmi e un ufizial. E co' i ghe ga dado de béver acqua col zuchero ciolta in un Caffè — che quela volta assai se usava dar acqua col zuchero co' un andava in svenimento — lui se ga levado in pie, solo, e metendose la man sul peto el ga dito: «Sono l'Arciduca Giovanni Orth, che non è vero che si è perso cola barca e sono venuto di scondòn in Austria per védere mia mama!» — Mama mia! El sonambulava... — Siora Nina: mezogiorno in punto, sol alto, ma andà soto la carozza, iera come se el sonambulassi... — E alora? — E alora quel ufizial che iera con 'sti dò gendarmi, ghe ga dito ala gente «Weg! Weg!» e li ga mandadi tuti via, e Giovanin Politeo i lo ga portado in Polizia, propio in Polizia Granda de Graz, e i lo ga messo in una belissima camera, che iera un ufficio de un Ispeziente Superior, belissimo, ma serado a ciave. — Ah, i lo ga serado! — Sicuro. E dò gendarmi fora. E i ga mandado subito a ciamar un de Viena. Savé, de Viena a Graz, no xe assai ore de treno, ma per un giorno i lo ga tignù là serado. — E lui cossa fazeva? — Speté che ve conto. Co' xe rivà 'sto qua de Viena, un dei più grandi dela Polizia de Viena, el ga trovado 'sto Giovanin — che iera un bel giovine, savé Giovanin cola sua bela barba bionda spartida in mezo — che, colegado sul canapé, pacifico, el dormiva come una cratura. — Del colpo? — Eh, sarà stà anca del colpo. Fato si è che, come che i lo ga sveià, lui ga dito subito: «Io sono l'Arciduca Giovanni Orth...» «So, so, Altezza Imperiale, ghe ga dito 'sto grando dela Polizia de Viena, e, sinceramente parlando, Altezza Imperiale, i casi sono due: qui, ella vede, abbiamo carte di tuto il comploto dei Ungaresi di quela volta — de Rodolfo l'intendeva — e qui invece sono un milione di fiorini e un passaporto per il Sud-America... — Come? Come? — Sì: el ghe voleva significar che o el restava là e el finiva soto processo, o el se cioleva 'sto milion de fiorini, 'sto passaporto falso — vero insoma, ma soto altro nome — e l'andava in Sud-America e mai più meter piede in Austria Ungheria. Ragion di Stato. — Mama mia! E lu? — E lu, come mi e come vù, siora Nina, el se ga ciolto 'sto milion de fiorini, 'sto passaporto e propio 'sto qua grando dela Polizia de Viena, lo ga compagnado in treno, vagon piombado, fin Trieste; che de là i lo ga imbarcado su un vapor del'Austro-Americana e el se ga sbarcà a Buones Ayres ... — Povero giovine! — Maché povero giovine! Savé cossa che iera un milion de fiorini? — Cossa iera? — Assai iera, ma assai, assai. E po' a Buones Ayres, aria bona, ghe xe passà anca el nervoso. E, tempo un anno, Giovanin Politeo, che là con 'ste carte false se ciamava no so come, el ga messo su el meo importéxport de tuta Buones Ayres. Solo una volta al anno el se taiava la barba e el vigniva qua de scondòn per trovar la madre. De note. E per farse vérzer la porta el bateva, e el diseva pian: «Son la galina pépola che fa tre vovi al dì, se no la fussi pépola no la farìa cussì.» MALDOBRIA XX - ACCADDE UNA NOTTE In cui si narra come, dopo il tramonto degli uomini e dei miti della Belle Epoque, altri ne fossero sopravvenuti suscitando nel popolo delle cittadine e delle campagne sinceri entusiasmi peraltro non ufficiali. — Cossa volé, siora Nina, xe robe che se perde coi anni! Anca quela de mandar la gente in april se perde! Adesso la gente no ga voia, come. E po', al giorno de ogi, con radio, television, ilustrati, tuti se ga fato furbi. No i ghe casca più. Quel iera roba de tanti anni fa, quando che l'omo gaveva meno cativeria. — Ma cossa? Se anca l'anno passà, per el Primo de April, me ricordo, i gaveva dito che i gaveva ciapado in squero el pesse cordela, longo dòdese metri... — Sì: longo dòdese metri dala testa ala coda e dòdese metri dala coda ala testa, tuto insieme vintiquatro metri: quela la gaveva fata la prima volta el povero mistro Chiole, defonto, ancora prima dela Prima Guera a Cherso. — Epur xe andada cussì cussì de gente a véder e dopo i li ga ciolti via... — Eh, siora Nina: chi che xe lole no ghe serve scole e sarìa meo che no el se gnanca movi de casa. E po', savé come che se dise: «Chi che ga la testa de fiasca, che no el vadi andove che i tira scoi». — Sì, sì, ma vardé che i va avanti a far 'sti scherzi: gavevo leto, un anno, che anca a Trieste — che po' i Triestini no xe miga Sansigoti — i gaveva passà la vose che i gaveva trovado petrolio in Carso e iera cussì cussì de veture che andava suso a veder... — E ghe ciamé scherzi a 'sti qua? I gaverà fato per farghe reclàm a chissachi! I scherzi bei se li fazeva una volta. Adesso, se gavé fato osservazion, la gente no ghe casca più. Ve go dito: xe radio, television, xe ilustrati. E pecà, savé, perché ogni ridada ghe cava un ciodo ala cassa de morto, come che diseva el defonto avocato Miagòstovich. Ogni modo un Primo April, mi son stado el primo qua a mandar in april tuti quanti. In quei anni, ve parlo de subito dopo dela Prima guera, ogni anno una nova se ghe ne trovava. Barba Nane me diseva sempre: «I ve mandarà al confin, i ve butarà fora del Fassio e i ve cavarà la matricola!» Ma mi, ogni anno, mi e l'avocato Miagòstovich, co' iera verso i ultimi de marzo se metevimo a stroligar. E po', dacordi con quel del giornal... — Cossa? Anca sul giornal metevi? — Sicuro che metevimo. Tuti dacordi in tre quatro de lori: quel ve iera el bel. Insoma, me ricordo che un anno, un anno che iera tuto Mata Hari per via dela film, ghe ne gavemo pensada una con Greta Garbo. — Greta Garbo chi? La artista? — No: la moglie de Garbin, Teston de Grota! Sicuro che Greta Garbo la artista! Cossa, no ve ricordé? Che iera la film con scrito «parlato e cantato in italiano?» Mama mia, Greta Garbo! Coss' che no iera Greta Garbo! Me ricordo che ogni volta in cine de Lussin, co' iera el bacio, quei longhi che i usava quela volta, el Comandante Tarabochia, che iera un ridicolo, el zigava: «Mola l'osso!» — L'osso de Greta Garbo? — Indiferente. Cossa l'osso de Greta Garbo? El zigava «mola l'osso» come dir «zo le man del banco!» Insoma, che ve disevo, per 'sta Greta Garbo, che fazeva Mata Hari iera tuti come mati. — Perché la iera mata? — Maché mata. Mata la se ciamava. Spia la iera. Spia vecia del'Austria. No vecia: giovine. No del'Austria, del Germanico. Bela: balerina orientale. Insoma dovè saver che l'avocato Miagòstovich me gaveva dito: «Varda, Bortolo: Greta Garbo xe a Viena e alora noi podessimo far, con De Manzolini, quel del giornal, podessimo dir che la va anca a Trieste e che po' la vien qua col vapor». Quela volta iera el «Narenta», me ricordo, che fazeva 'ste crocere per Istria e per Dalmazia. — El «Narenta»? Eh, el «Narenta», come no? El rivava de note. — Natural, perché el partiva de Trieste de prima sera. E alora nualtri tuti a dir de qua e de là che a bordo del «Narenta» sarà Greta Garbo. Parlava cussì anca el giornal e se ga preparado tuto in riva, anca festoni. Ale ùndese e tre quarti iera nero de gente sul molo. Perché el bel xe stado che iera trentaùn de marzo e chi andava mai a imaginarse che a mezanote sarìa stado Primo de April? — Orpo, che maldobrìa! — Eh! Se la gavevimo studiada pulito. Insoma, me ricordo: xe mezanote e un quarto e se vede el «Narenta» che vien drento dela porporela. La gente come mata. Iera fina vignudi zò del monte i campagnoi, i bùmbari. Tùmbani, ma Greta Garbo assai ghe podeva. Po' iera el Podestà Petris, e Schitazzi defonto, che quela volta iera Segretario del Fassio. — Ma cossa? I ghe iera cascadi anca lori? — Ma speté che ve conto no! Insoma, i buta la zima, i cala el ponte e sbarca dò siore. Un bater le man che no ve digo! Scuro iera, più che tanto no se vedeva. El Podestà e el defonto Schitazzi i ghe va incontro. I le ga fate montar in vetura e una de lore saludava con la man levada la gente che iera propio entusiastica e tuti che se sburtava. Che anzi me ricordo che Martin Ghérbaz xe cascado in mar. Tuto ben, insoma. La vetura va via e mi e l'avocato Miagòstovich ierimo pronti in Agenzia maritima per saltar fora con un bacalà de carton grando compagno e sora scrito «Greta Dolze», capì el scherzo? — Che scherzo? Come Greta Dolze? No iera Greta Garbo? — Ma sì, dài: Greta Garbo, Greta Dolze, per far capir che li gavevimo mandadi in april. Cojonadi. Insoma, giusto co' stavimo per saltar fora con 'sto imenso bacalà de carton, vien el Segretario comunal, el povero Tonin Froglia, quel che i ghe diseva el Duca dei Labruzzi, perché el parlava cola boca strenta, e con 'sta boca strenta el ne fa, ci fa ci dice che el Podestà ne vol subito in Comun. — Perché? El se gaveva rabiado? — Anca noi gavemo credesto. Difatti, co' semo là, me ricordo come ogi, propio soto el pòrtigo dela Comun, el Podestà Petris ci fa ci dice: «Chi ga pareciado tuta 'sta roba de note?» «Insoma — ghe digo — de note o de giorno, xe stà un'idea nostra qua... del avocato Miagòstovich». Mi ghe go dito cussì, perché savevo che el iera suo amico. — Eh, lori se gaveva sposado con due prime cugine, quele Bertoto, che dopo una xe restada vedova... — Indiferente. «Bravi — el ne dise — bravi! Bel lavor che gavé fato!» «Uuuh — ghe fa l'avocato Miagòstovich — no sarà stada quela gran roba, Petris mio, però, insoma, modestamente, xe vignudi zò anca i bùmbari: sa, lori che va a dormir cole galine, vignir de note, sul molo: dime ti.» E lu: «Te digo, te digo, sì: Schitazzi xe tuto contento, perché sua moglie xe andada a cior a Trieste l'Ispetrice del Fassio Feminile, quela dele Massaie Rurali, cossa so mi, e 'sta qua mai più se gavessi spetado, in mezo dela note, tuto el paese al molo. Felice.» — Oh che truco! Perché ela gaveva credesto che ... — Ela gaveva credesto, sì. Cossa volé: ingenuità, siora Nina. Ingenuità dela gente umana. Ve disevo prima: al giorno de ogi chi più ghe cascassi? Nissun: xe radio, television, 'sti ilustrati, figurévese! — Eh sì, robe de una volta! Altri tempi. Veci semo deventadi, sior Bortolo. Cossa, stavi mal 'sto sabo che no ve go visto qua? — No, no... sabo iero franco come ogni primo del mese. E alora go profitado, no, per andar a Portorose. Savé, i me gaveva dito che riva va Sofia Loren al Pàlas. — Sofia Loren? — Ma sì, dài, Sofia Loren. Quela che in cine, a Lussin, co' xe la scena del bacio, el vecio Comandante Tarabochia ziga sempre: «Mola l'osso!» MALDOBRIA XXI - LE TRE CITTA' Nella quale tre città di tre diverse dimensioni sono le protagoniste della vicenda lungo la quale si dipana il filo della vita e della carriera dei due figli dei comandanti Terdoslàvich e Petrànich, nel dì di Sant'Isidoro. — Via de casa no xe mai come a casa, a meno de no meterli in una famiglia. Questi giovini che studia fora, intendo. Una volta sempre se li meteva in una famiglia, a costo. Me ricordo, presempio, che el fio del Comandante Terdoslàvich lui ve stava pretamente a costo, a Trieste. Lui e el fio del Comandante Petrànich. Le Nautiche i ve fazeva a Trieste. Savé, siora Nina, sicome che una Terdoslàvich gaveva sposado un Nacìnovich e un Petrànich gaveva anca sposado una Nacìnovich, lori a Trieste i ve stava a costo tuti dò in casa de questa... — De questa Nacìnovich? — No, de questa Fillìnich, che ve disevo, che — natural — nasseva Nacìnovich... — No me disevi. — Indiferente. Lori tute le Nautiche i ve ga fato a Trieste stando a costo de questa che ve disevo. Vedova. La vedova Fillìnich. Che cussì a ela ghe iera anca un aiuto. E quela volta, savé, no ve iera come adesso, che i fioi ve xe più a casa che a scola. Quela volta, me ricordo, questi che studiava fora vigniva a casa solo che de istà, per Pasqua e Nadal, natural, per i Santi e el primo de giugno, per San Sidòro. — Aah! Quela volta per San Sidoro fazeva festa le scole? — Qua, siora Nina, fazeva festa la scola per San Sidoro. Dove in una Trieste, che a Trieste San Sidoro no iera gnanca considerado! Solo che quela volta no se podeva gnanca concepir che i fioi no fussi qua a casa col padre e cola madre el primo de giugno per San Sidoro, perché qua se fazeva festa granda per San Sidoro. E a scola, a Trieste i li lassava andar via, perché quela volta per 'ste robe i lassava. — Ah! I considerava, come... — Sicuro. E me ricordo che lori, zà giovinoti, ultimo ano che i stava per esser assolti dele Nautiche de Trieste, ogni santo San Sidoro i iera qua. Iera Fiera, savé qua per San Sidoro, che i vigniva de tuti i loghi, fina i Murlàchi vigniva zò a vender cuciari, cuciarini de legno, quele robe là, insoma, che fazeva i Murlàchi. — Ah, i cuciari de legno! Me ricordo: noi sempre tignivimo un per de cuciari de legno e anca cuciarini de legno, per far l'ovo sbatudo. — E po' vigniva i Sansigoti a vender vin, con 'ste Sansigote che gaveva tute 'ste cotole una sora l'altra. Savé quante cotole che gaveva le Sansigote? — Quante? Quante? — No so, ma tante: una sora l'altra. Che anzi Barba Nane diseva sempre: «Per le Sansigote ghe vol el suo tempo!» Eh, eh, ridicolo iera Barba Nane. Insoma Fiera ve iera. Imensa. Po' no solo Fiera i fazeva per San Sidoro. Numero un, de matina, me ricordo che iera Messa dele ùndese, come de dimenica, con el Te Deum e la preghiera pei Regnanti: benedici il Re, benedici Colui che guida le sorti dela nostra Nazione — Mussolini come dir — e po' el Papa e el Vescovo, natural... — Vigniva el Papa e el Vescovo? No go mai inteso... — Ma cossa vignir el Papa e el Vescovo? Iera la preghiera, no, che se usava quela volta. Benedici il Papa e il Vescovo. E apena finido, sonava le campane e Don Blas ciamava tuti dentro in canonica. — Tuta la gente? — Ma no tuta la gente, questi che ve iera un qualcossa: un Petrànich, un Terdoslàvich coi fioi, i Mòise natural, el dotor Colombis, i Tarabochia, tuti insoma. E là el li tratava con vin passito e buzolini. — Buzolini, quei col zuchero? — No: buzolini col oio, miei e màndole spacade. Quei se fazeva per San Sidoro. Che anzi 'sti fioi, 'sto Terdoslàvich e 'sto Petrànich, studenti dele Nautiche che i iera, e che assai i se pretendeva, i diseva che 'sti buzolini xe roba de crature, che cossa i ne dà 'ste robe per crature. E tuti i altri fazeva sope. — Eh, xe bon far sope coi buzolini nel passito! — Sì, ma lori giovinoti che i iera, e che i se pretendeva, i diseva che xe roba per crature. Po' a casa per pranzo, che se fazeva el pranzo de San Sidoro tute le famée, anca la bassa forza, savé, fazeva agnel rosto de Cherso, natural, gnochi de susini e fogazza... — Sì, ma anca gnochi de figà in brodo se fazeva per San Sidoro. — Quel prima. E po' Malvasia, Refosco, un bicerin per digerir e dopo tuti andava a butarse. — A butarse dove? — Ma come, dove, siora Nina? A butarse in leto, come che se dise. Perché subito, ale zinque de dopopranzo iera procession granda del Domo fin la Cesa del Santo Spirito, che vigniva zò anca i campagnoi de Orlez vestidi in massimo ordine. E davanti don Blas col Santissimo e i pagetti del Santissimo Sacramento che anzi i diseva che, de fioi, 'sti fioi de Terdoslàvich e de Petrànich i iera i più bei de tuti... — Co' i iera studenti? — Ma no co' i iera studenti, de fioi, co' i iera pagetti, prima de andar a studiar a costo. Che anzi dopo, giovinoti, i zercava de scapolar la procession. E po' iera i fabriceri del Domo, la Confraternita dela Bona Morte: iera belissimo. E tute 'ste vece drio che pregava el Rosario forte. — Ah bel xe cussì pregar Rosario forte in procession, cole litànie... — Sì, ma cossa volé: in alora lori iera giovinoti. I se pretendeva. Ben, dopo co' finiva la procession, la gente — i maritimi parlo — andava massima parte in local, «Al fedele Chersino»; inveze i altri andava al Fòntego, natural, in caffé del Hotel. E là iera sempre questa che Petrànich e Terdoslàvich, come che i se gaveva imparado a Trieste, i ciamava dò americani... — Dò Americani che stava in Hotel? — Ma cossa Americani che stava in Hotel, quela volta, che ve parlo del Vintioto, Vintinove! Che dove se insognava i Americani de vignir qua? I americani ve iera i primi aperitivi, come, che i fazeva con vermut, bitter, anca a bordo, e sifòn, cola scorzeta de limon, no ve ricordé? E lori, me li vedo ancora sula porta del Fòntego con 'sti dò americani in man che i vardava el liston, el passegio. I se pretendeva. Insoma iera 'sto liston, che per riva passava su e zò le quatro Colombis — dò sorele e dò cugine, bele putele — la Norina Petris, che la gaveva una testa de cavei che no ve digo e po' tuti quei dela compagnia: el fio de Marco Mitis, el fio del avocato Miagòstovich, i gemei Filipàs, i Craglieto e Nini Chiole. Tuti insoma. E po' iera balo al Fòntego. — Eh, nualtre putele che no gavevimo possibilità, no andavimo... — Indiferente, ma quele che andava balava, savé. E le madri iera tute sentade atorno sule careghe che parlava de una roba e l'altra: che bela che xe quela, che bruta che xe quel'altra. E i campagnoi, natural, tuti fora in strada che vardava drento oltra dele finestre. E Terdoslàvich e Petrànich — che ve go dito che i se pretendeva, a Trieste che i studiava per capitani — no so, tute 'ste robe ghe pareva poco, come. E i diseva: «Ara ti: primo de giugno xe, che a Trieste xe Giugno Triestino, e noi semo qua come sempi a Cherso». — No ghe piaseva? — Oh dio: giovinoti, che se pretendeva. Savé lori ghe diseva a tuti: «Uuh, Trieste offre, offre molto!» — Al balo questo? — No, sempre i diseva: «Uuh, Trieste offre molto!» Ma dopo el balo, anca lori con 'sta gioventù, tuti in ganga, i andava suso in Torion a veder i foghi che impizzava i campagnoi de Orléz. — Per San Sidoro? — No: per darghe fogo a Orlez! Sicuro che per San Sidoro! I foghi de San Sidoro. Ben: Petrànich e Terdoslàvich se ga assolti tuti dò benissimo dele Nautiche de Trieste e subito i ga trovà imbarco, natural. Quela volta iera assai viagi. Un cola Cosulich e quel altro cola Libera. Navigazione Libera Triestina. E, un cola Cosulich e un cola Libera che i navigava, per un tre anni no i se ga mai intivado. — Ma i se scriveva? — Cossa volé che sapio mi se lori se scriveva! Forsi i se gaverà anca scrito. Ma no i se gaveva mai intivado prima de quel giorno che, no volé che sia, i se ga intivado a Néviork. Savé come che xe a Néviork là che se incrosa Setima Strada con Broadway e che xe Time Square? — Le fa timesquàr co' le se incrosa? — Ma cossa co' le se incrosa? Là ve se incrosa 'ste dò grandiose contrade che ve xe Broadway e Setima Strada e fa 'sta piazza: Time Square che xe la più granda piazza de Néviork. Ben, là lori ve se ga incontrado per combinazion, cussì traversando, che iera zà sera. «Terdoslàvich mio!» «Petrànich mio!» «Mi col Vulcania son rivado.» «Mi col Victoria zà del altro ieri!» I se basa, i se brazza, terzi uficiai tuti dò i iera, savé: che tanto tempo che no i se ga intivado, che giusto ben, che alora stasera spaca popolo. E i caminava sotobrazzo per 'sta Broadway, che iera cussì cussì de gente, 'sti locai tuti iluminadi, e 'ste reclàm de cine cole lampadine che se impizava e se distudava. E dopo meza ora che cussì i caminava per 'sta Broadway, che co' ve xe de prima sera ve xe propio un spetacolo, perché mi go visto, i se ga sentado in un tavolin de un de 'sti grandiosi Caffè e i ga ciamà dò americani... — Dò Americani che passava? — Ma no dò Americani che passava! Dò aperitivi: con vermut, bitter, scorzeta de limon e sifòn, natural. E cussì, sentadi là, contandosela i ga passà un'ora, un'ora e meza mi calcolo. Fina che a Terdoslàvich ghe casca l'ocio su quel grando orologio che ve xe là in piazza in alto de un grataciel e che no mostra solo che le ore, ma anca el mese, el giorno, l'anno, tuto... — Anca mio nevodo ga un col giorno ... — Indiferente. Questo de Néviork ve xe un orologio imenso, cola luminosa. E Terdoslàvich ghe fa a Petrànich: «Petrànich mio! Primo de giugno ne xe ogi. San Sidoro ne xe!» «Ostroporco! San Sidoro ne xe ogi — ghe dise Petrànich — che mi calcolo che a 'sta ora a Cherso xe balo dopo procession!» «Mama mia — ghe fa Petrànich — liston deve esser, se no zà balo, che vien le Colombis, Norina Petris, i gemei Filipàs e tuti quanti!» «Xe vero, Terdoslàvich: San Sidoro, che de matina Don Blas dopo Messa dà el passito coi buzolini cole màndole spacade e che per pranzo xe agnelo rosto de Cherso, gnochi de susini e fogazza...» «E i gnocheti de figà in brodo, Petrànich mio?» «E la procession cole vece che prega Rosario forte? Dio che bel!» «E tuti che po' va in local e al Fòntego e dopo el balo che se va tuti suso cantando in Torion a véder i foghi che impizza i campagnoi de Orlez per San Sidoro!» «Dio mio, Terdoslàvich mio, che bel che xe el Primo de giugno a Cherso per San Sidoro!» «Ara ti: ogi San Sidoro ne xe e noi semo qua a Néviork come dò mone!» O moni, no so come che se diseva quela volta. Eeeh, per San Sidoro, Cherso offriva, offriva molto. MALDOBRIA XXII - LA FRECCIA DEL CARNARO Nella quale il mitico nome d'una linea lampo servita da fiammanti torpedoni fa spicco in una vicenda vissuta da militi, popolani e comuni passeggeri sulla vecchia strada che unisce da mezzo secolo Fiume a Trieste. — Scartozo ghe vol per el pesse. Vero scartozo de carta. Carta zuchero, carta paglia o carta strazza ghe vol per el pesse. Ve ricordé de Nìniza povera? — Nìniza povera, come no! La madre de Nini Lupetina, che Giovanin American no ga mai volesto sposarla. — Per forza perché el xe andà in America. E per quel ela po' iera andada a star a Trieste, perché, savé, quela volta, gaver cussì un fio de foravia, qua iera una granda vergogna. Adesso ara! Ben, che ve disevo, ela iera andada a Trieste a star de quela sua zia che iera scartozera in Pescheria Granda de Trieste. — Ahn! Perché Nìniza iera scartozera, come? — No. La zia ghe iera scartozera. Ela la ghe iutava, la ghe fazeva i scartozi. Dopo, co' la zia ghe xe morta, a Nìniza ghe iera restado a ela el bancheto de scartozera in Pescheria Granda de Trieste che, quela volta, la Pescheria Granda de Trieste iera un qualcossa, savé. — Ma Nìniza no se gaveva sposado con quel regnicolo che vendeva i limoni? — No el iera regnìcolo. Sì, el iera regnìcolo, ma el stava a Trieste ancora de prima dela Prima Guera. Bon omo. Bon de cuor, indiferente. La Pescheria Granda de Trieste iera un qualcossa. Dove qua de nualtri in pescheria, gnanca i se insognava scartozi. Che anzi mi ghe gavevo dito a Barba Nane che gaveva la privativa dela pescheria. Ve ricordé Barba Nane, co' el gaveva la privativa dela pescheria? — Sì, sì, me ricordo. Iera un rider con lu: el ghe ne gaveva una per tuti. — Indiferente. Mi ghe go dito a Barba Nane: «Cossa lassé che i involtizzi el pesse in 'sti giornai che no xe gnanca san per l'igienico. Meté qua fora un, pulito col suo bancheto de scartozi come che xe in Pescheria Granda a Trieste.» «Sì, sì — el me diseva lu — te meterò a ti co' i te gaverà cavà la matricola!» Lui ga ciolto pel fioco tuti, fina l'ultimo. Ma una volta, me ricordo, iero de Nìniza in Pescheria Granda de Trieste e ghe digo: «Nìniza, dème un scartozo che go de cior bisati.» De carta strazza la me lo ga dado. Quei che — pensévese — costava diese centesimi. Per regalo la me lo ga dado. Bona dona la iera. Dieci centesimi. Dieci centesimi, quela volta, no iera miga de butar via, savé. Un povero, co' se ghe dava dieci centesimi iera contento in quei anni. Ve parlo del Trenta, del Trentaùn. — E cossa, vù compravi pesse a Trieste? — A Trieste i bisati iera assai più bon prezzo che a Fiume. A Fiume inveze iera assai più bon prezzo i scampi. E mi co' andavo a Trieste per el turno de imbarco a véder in Capitaneria de Porto se i ciamava el mio numero, portavo sempre bisati. Savé quela volta se fazeva presto: Trieste Fiume iera la Freccia del Carnaro. — La feccia del Carnaro? — Che feccia del Carnaro? La Freccia. La corriera iera. Freccia per dir che la andava presto. «Freccia del Carnaro»; ghe gaveva trovado el nome Danunzio. 'Sti nomi tuto trovava Danunzio quela volta: anca «Sangue Morlacco» el gaveva trovà per el liquor de zariese de Zara. E «Stadio». — Lui gaveva trovà Stàdion? La Corsia Stadion? — Ma cossa Corsia Stàdion, che anzi i italiani subito ghe gaveva ciamà Via Battisti! «Stadio» per i spagnoleti. Per i spagnoleti «Sport», che dopo se ga ciamà «Stadio». No ve ricordé i spagnoleti «Sport»? — I Popolari? — No: i «Popolari» iera «Popolari», e «Sport» iera «Sport». «Stadio», che ghe gaveva trovà Danunzio. Anca «Freccia del Carnaro» gaveva trovà Danunzio. La corriera Trieste Fiume: novanta minuti. Gnanca el tempo de leger el giornal. Insoma, che me fé confonder, quela volta in Pescheria Granda de Trieste compro 'sti bisati, me li fazzo meter in 'sto scartozo de carta strazza de Nìniza, monto in coriera e li meto su, sula rede. E gnente, mi legio. — Ah mi no posso mai leger in coriera perché me se missia el stomigo. — Mi no, mi no me se missia. Solo che me ricordo, no rivavo mai a leger avanti 'sto giornal — che quela volta contava tuto del sposalizio del Principe Umberto — no rivavo mai a leger avanti, perché vizin de mi iera un sior che, oltra tute le teste, no el fazeva che parlar con sua moglie che iera sentada vizin del safèr. Sior — ghe go dito — se la vol vado mi davanti e vien qua la signora, cussì sté vizini. E lu no, che tante grazie, ma che sua moglie devi star davanti, perché ghe fa mal; e el me ga contà tuto una storia che la iera de anni e anni per man de dotori. — Eeeh, qualche volta i dotori no ghe la intiva. Anca mia cognada... — Indiferente. Co' semo là de Castelnovo, un urlo. Un urlo de una baba davanti. — Quela che stava mal? — No: un'altra. Una un dò posti davanti de mi. «Una bissa! Una bissa!» — Una bissa? — Sì, sì: una bissa. La zigava che iera una bissa in coriera. Una vipera. — Mama mia! — Mama mia, sì. El safèr dà una frenada che tuti casca per davanti e un panico, che no ve digo, vero panico xe stà, siora Nina. Savé: tuti un sora l'altro che voleva smontar, babe che montava in pie sui sentai e un tassista dela Milizia in montura, col pugnal che el zercava soto. — Eeh, bruto, bruto una vipera in coriera! — Maché vipera in coriera, siora Nina! Iera un mio bisato. Che lori, 'sti bisati, ga sete vite. Che sete! Vintisete. E Nìniza, ve go dito, me gaveva dà un scartozo de diese, de quei de carta strazza, che col bagnà se gaveva smoià e lu xe scampà fora, vivo che el iera. Ma mi, podé capir son stà zito. Go pensà: qua vado ancora in dispiazeri. E tuti zò dela coriera no i voleva più montar suso. Perché, savé come che se dise: el scarpiòn pol esser soto ogni piera. — Povera gente! E po' cola paura no se discute... — Insoma ierimo tuti là fora dela coriera con atorno tuti 'sti campagnoi vignudi a veder, co' finalmente smonta zò del predelin 'sto fassista dela Milizia in montura col bisato impirà sul pugnal de montura: un toco de brìtola compagna. E el dise, ci fa ci dice: «Di chi è questo bisatto? Qui non si muove nessuno fina che no salta fuori di chi è questo bisatto!» E mi go pensà: in fondo cossa xe? Un bisato xe. Cossa uno no pol comprar bisati? E me fazzo avanti e ghe digo: «Mi veramente avevo bisati sula rede, può darsi che sia uno dei miei bisati!» — E i ve ga dà la multa? — Maché multa. Iera tuti che rideva, anca 'sti campagnoi vignudi a véder. E lui con 'sto bisato impirà, che el lo tigniva in alto. Ben: no volé che in quela una baba me salta indosso, me basa, me brazza: «Ma grazie — la me fa — grazie, iera un mese!» E suo marì che me dà la man contento. — Ma perché, chi? Che marì? — Ma el marì de quela moglie sentada davanti. Perché, savé perché che la andava su e zò del dotor a Trieste? — Perché la spetava? — Maché la spetava! La andava su e zò del dotor a Trieste perché la gaveva el sangiòz. Persistente. Vero singulto, siora Nina. Iera un mese che no la fazeva che gaver sangiòz. Xe una roba tremenda, savé, el sangiòz. E col spavento dela bissa ghe iera passà de colpo. Tutintùn. — Ma no iera un bisato? — Sì, ma solo che ela, come tuti, gaveva credesto che fussi una vipera. Insoma ela ga volesto saver nome e indirizzo e, come diman, la me ga mandado a casa un grongo compagno, grosso come un brazzo, che co' ghe lo go mostrà de colpo a quel fassista dela Milizia, el ga ciapà un spavento che no ve digo. Ancora me lo vedo che el ga fato come el moto de tirar fora el pugnal. Ma sera che iera, no el iera più in montura. MALDOBRIA XXIII - IL VIAGGIO DI NOZZE In cui un viaggio di nozze d'altri tempi, dopo essere stato lungamente discusso e predisposto, porta la Fides Petris e il Nicoletto Nicolich, a una classica meta agognata dai promessi sposi di tutto il mondo. — Done via del marì iera, xe e sarà sempre, oh dio meno iera una volta. Meno almanco se sentiva. Ma bisogna considerar che iera anca meno gente una volta, siora Nina. E po', savé, una volta, tuto se concertava prima, i le distinava che le iera ancora regazze, metemo dir la Fides Petris, presempio, zà de ragazeta i la gaveva distinada al fio del vecio Nicolich, che lori i Nicolich gaveva zà soldi, ma no quei orori che i ga fato dopo ... — I ga fato orori i Nicolich, quando? — Dopo, siora Nina: orori de soldi. I Petris, inveze che ve iera una dele prime famée de Cherso, oh dio, ben i stava anca lori, ma iera tuto un altro star, più al'antica. E 'sta Fides Petris, che ve disevo ... — Fides Petris? No conossevo... — Siora Nina no podevi conosser. De Cherso ve iera i Petris; e i Nicolich, natural, de Lussin: lussignani de Lussingrando che dopo i iera andadi a star a Lussinpicolo. Che anzi quela volta che i xe andadi a star in casa nova, pareva che i gavessi fato chi sa che viagio. Ben, una volta tuto i concertava prima e anca per el viagio de nozze no so de quanto tempo se concertava 'sta Fides Petris con Nicoleto Nicolich, fio del vecio Nicolò... — Eh, me ricordo el vecio Nicolò! — No podé ricordarve, siora Nina. Quel che pensé vù iera un altro Nicolò, più giovine. Insoma, 'sti dò giovini tuto i se concertava che dove che come che i andarà. E ela, che ela assai bramassi de andar a Viena. E lu che come a Viena, che xe cussì lontan anca andando in treno? E po', una volta rivadi a Viena, cossa se fa? — Cossa, cossa se fa a Viena? — Xe quel che ghe diseva el Nicoleto ala Fides: «Cossa se fa a Viena, una volta rivadi a Viena?» E po' che xe anca una spesa, andando in treno, e che andando a pie, i sarìa rivadi a Viena zà con un fio grando, ghe diseva Nicoleto, ridendo, perché el ve iera un ridicolo, savé el Nicoleto Nicolich... — Ah, zà la spetava? La iera incinta? — Ma come volevi esser incinta, prima? — Prima dela Prima Guera? — Ma cossa prima dela Prima Guera? Prima del viagio de nozze! No iera concepibile, una volta. In viaggio de nozze se podeva concepir, solo. Indiferente. Che a Viena no, perché xe massa lontan. Che in America, inveze, se podessi andar. — Ma come, in America no ve xe più lontan de Viena? — Sicuro che xe più lontan de Viena, che bisogna andar in vapor. Solo che in America, Nicoleto Nicolich podeva andar senza spender, perché suo cugin Tarabochia che gaveva la barca che fazeva linia per Nort America ghe gaveva dito: «Se ti vol...» Ma lui ghe diseva ala Fides: «Sa, podessimo andar liberamente in America, che po' no xe quel lontan che se crede, solo che, el "Sant'Antonio", la barca dei Tarabochia, te fa Néviork e Baltimora e alora noi dovessimo andar de Néviork a Baltimora per imbarcarse de novo e tornar indrio; una schiavitù. E po' fra Néviork e Baltimora — mi iero — no xe gnente de véder, no ne merita...» — No ghe meritava? — Ma sicuro che ghe meritava! Figurévese una Néviork, e po' anca Baltimora xe belissimo, che mi iero, e che posizioni, che vista! No, la vera verità ve iera che lu no gaveva volontà de moverse. «Perché, come che un se move, cussì el spende — el diseva sempre — anca se el va a gratis.» «Ti sa inveze cossa, Fides mia — el ghe ga dito — che xe belissimo? Venezia! Che tuti i sposi, de tuti i loghi va a Venezia e che perché nualtri dovessimo sacrificarse de no andar a Venezia? Che a Venezia po' mi go la zia Marieta, e liberamente podessimo dormir de ela, senza andar per i hotéi, per le locande, che xe spesa e po' xe anca bestie. Che zia Marieta ga casa granda e tuto, vedova che la xe...» — Una Marieta zia dei Nicolich? No conossevo... — No podevi conosser, siora Nina. Ela, questa zia Marieta ve gaveva sposado un del Governo Maritimo de Venezia, che dopo iera morto. Vedova. — Eh, xe bruto cussì restar vedove, co' more el marì... — Indiferente, siora Nina. Co' more el marì se resta vedove. Ma lori dò, 'sti dò giovini gaveva apena de sposarse e insoma, per farvela curta, i se ga sposado. E i xe andadi in viagio de nozze ... — Ah, i xe andadi in viagio de nozze! E andòve? — Andove? A Venezia. Dove che va tuti i sposi de tuti i loghi. Col vapor. I ve xe andadi a Venezia, pulito col vapor che quel xe sempre belissimo, che mi go sempre dito che co' se riva a Venezia col vapor xe belissimo. Solo Rio de Janéiro, che xe tuto un'altra roba, se podessi far un confronto! Ben: i se sveia de matina... — A Rio de Janéiro? — Ma cossa a Rio de Janéiro, che no el gaveva vossù andar gnanca a Néviork? A Venezia, in casa de 'sta zia Marieta, dopo che i se gaveva sposado in Domo de Ossero, perché la madre dela Fides ve iera assai divota de San Gaudenzio. Sempre la gaveva dito: «Se mi gaverò una fia voio che la se sposi in Domo de Ossero, perché là ve xe San Gaudenzio che ga fato scampar tute le bisse de Cherso e de Lussin.» — Eh xe vero, sì: se diseva una volta «San Gaudenzio, San Gaudinzio, che ogni bissa trovi assinzio.» Se diseva ... — Ah per quel se pol dir anca adesso: no i ve mete miga in preson. Ma insoma, cossa ve contavo? Ah sì che de matina bonora, insoma bonora, co' i se ga sveià, capiré, 'sto Nicoleto Nicolich e 'sta Fides i xe andadi fora per Venezia, che Venezia ve xe belissima, iera, almanco, e ela subito: «Ah i colombi, le gondole, le gondole! Una gondola, una gondola!» Insoma che la vol andar in gondola. E lu che cossa, che in gondola se se dondola e che po' xe anca una spesa, che Venezia, per veder ben Venezia, bisogna vederla per drento e che per vederla per drento ghe vol caminar. «Andaremo un poco a pie e un poco caminando» el ghe ga dito; el iera un ridicolo savé, el Nicoleto Nicolich... — Ah! E ela la ghe rideva?... — No, gnente no la ghe rideva, la ghe pianzeva, squasi. Savé come che ve xe le done in 'ste ocasioni. Che in viagio de nozze a Venezia ghe vol almanco andar in gondola. Che cossa, se no, ela ghe gaverìa contado ala madre, ai fradei, ala cugina co' la tornava? Perché, savé, una volta, co' se tornava del viagio de nozze, iera intrigoso, come, contar... — Eh, me ricordo mi, che semo andadi in Arbe! — Indiferente. Lori ve iera a Venezia e ela intendeva significar che se i andava in gondola, ela almanco gaverìa podesto contar che i iera andadi in gondola. E alora Nicoleto ghe ga dito che va ben, che le done ghe pica sempre qualcossa e che se propio la vol far grandezzade de contar che la iera in gondola, che va ben, visto che tanto la brama, i ciolerà 'sta gondola. Che po' cossa xe 'ste gondole, che le xe anca vérgole. E subito, là in riva, el ga cominzià a concertarse. — Con ela? — No, con un gondolier che stava giusto osservandoli che i quistionava. Che quanto che vignissi a costar 'sta gondola. Che dipende, che se i vol andar a far un giro, passar soto el ponte dei Sospiri per drento fina Rialto, che i se comoderà. E lu che quel xe bel de sera e che adesso no xe gnanca mezogiorno. E che comodarse, comodarse, cossa vol dir po' comodarse? E el gondolier che va ben, che se i vol andar solo che fina San Marco i se comoderà per de meno. Che a San Marco i andarà con comodo e che po' cossa vol dir per de meno? Che sempre se dise de meno e dopo xe sempre de più. «Sior mio, ghe ga dito alora 'sto gondolier, se lu, sior lu, vol esser sicuro de no pagar de più, posso sempre traghetarli qua visavì alla Salute.» «Adesso parlé ben, omo mio — ghe ga dito Nicoleto — andaremo là visavì, ala Salute, perché el belo a Venezia, ti sa Fides, te xe far el Canal per largo e no per longo, che quel se pol far anca a Lussin in Cavanela. Andemo, andemo, Fides mia, ala Salute, che cussì gavemo anca l'occasion de pregar la Madona che la ne daghi salute. E bori.» — E el ga pagado assai? — El patuìdo, siora Nina. El patuìdo per un tragheto. Un soldo. Un soldo de Corona. Perché quela volta Corone ve iera a Venezia, perché a Venezia, quela volta ve iera ancora l'Austria. Ve go dito che no podevi conosser nissun de 'sti qua. In antico ve iera 'sta istoria. Quando che ancora gnanca no se diseva viagio de nozze. Viajo, se diseva. Viajo. E de 'sto viajo per tuta la vita ga contà la Fides, povera. Povera? Milionèri i iera. Milionèri in fiorini. MALDOBRIA XXIV - UN COLPO DI PISTOLA Nella quale effettivamente si narra la storia di un colpo di pistola, riecheggiato sullo sfondo della disagiata condizione del personale di macchina a bordo dei vapori, che sfociò poi nel celebre sciopero del 1902. — Giovine de coverta, che i disi bruto mestier! Intanto esser giovini, siora Nina, no xe mai bruto. E po' el giovine de coverta, almanco ve sta in coverta, al'aria. Bruto, a bordo, ve xe — ve iera, perché adesso no so gnanca più come che va avanti i vapori — bruto ve iera esser foghista... — Eh, anca mio fradelo un periodo ... — Un periodo no ve xe gnente, siora Nina, far el foghista a bordo. Anzi. Perché a bordo bisogna impararse a far de tuto. Bruto ve xe restar foghisti per viagi e viagi: sempre solo in machina, sempre doverse scanar col carbon, bazilar con caldaie, che Dio guardi se s'ciopa una, che più de una volta nasse. Tanto che, savé vù, qual che xe stà el primo siopero? El siopero dei foghisti. — Mama mia, sior Bortolo, siopero dei foghisti! Ma xe ancora foghisti? — Ma dove ve xe più foghisti, adesso, siora Nina? Adesso ve xe Personale di Machina. Siopero dei foghisti, siora Nina, ve iera del Due! — Ah, solo due? — Ma cossa solo due? Tuti. Ma ve iera del Milenovezento e Due. El siopero del Due dei foghisti del Lloyd. Che dopo xe stà orori, cola trupa. E fis'ciava patrone savé in Piazza dela Borsa a Trieste. Che per fortuna iera le colone — diseva sempre el foghista Màver. Perché lu pretamente ve se ga salvà drio dele colone... — Che colone? Le colonete? — Ma che colonete? Dove ve xe colonete in Piazza dela Borsa? Le colone dela Borsa, quele grande compagne che tien suso tuta la Borsa. E lui se ga salvà drio de una de ste colone, co' el militar sbarava ... — Ma chi questo? — Come chi questo? El foghista Màver che ve contavo, che lui iera propio foghista del Lloyd Austriaco co' iera el Siopero dei Foghisti e el militar sbarava... — Ahn, i se gaveva inacorto che el fazeva siopero? — Indiferente. Savé foghista ve iera un bruto mistier, no tanto come foghista, ma per via che in alora ve iera assai intrigoso impizar le machine e alora i vapori in porto tigniva le machine impizade anca de fermi... — Mama mia, che caldo, poveri! — No iera quistion de caldo, siora Nina. Iera quistion che no i podeva andar in tera. — I foghisti? — No, i fioristi! Sicuro che i foghisti! Chi ve tigniva impizade le caldaie? I foghisti. — Del Lloyd Austriaco? — Del Lloyd Austriaco, del'Austro- Americana, dela Libera, de tuti insoma. Iera machine a carbon, cossa credè, che quela volta iera 'sti gasòli? Insoma xe sta là, sul «Calliope» che fazeva la linia del Sud America, che el foghista Màver — ve parlo de ani dopo, ma sempre prima dela Prima Guera — ga cominzià a quistionar col Capomachinista Dùndora, che po' ve iera un bonissimo omo.,. — 'Sto Màver? — Oh dio, 'sto Màver bon omo! Nervoso el ve iera più che cativo. Ma bonissimo omo, pretamente, ve iera el Capomachinista Dùndora, che — fatalità — quela matina, zà in montura bianca che el iera, pronto per andar in tera, el xe andado zò in machina per veder come che andava... — Come che andava le machine?... — Sì, se andava ben le caldaie una roba e l'altra. E, giusto apena zò dela scaleta, el ga intivado el foghista Màver che se lavava in secio. E, come che el lo stava osservando, 'sto foghista Maver, col savon in man ghe ga dito: «Savè, Capomachinista Dùndora, ogi mi voio esser in tera prima de mezogiorno.» «Voio, voio — ghe ga dito el Capomachinista Dùndora — cossa, voio? Voio xe morto in Libia!», guera de Libia che iera quela volta. «Mi no go de andar in Libia, mi go de andar in tera — ghe ga rispondesto, malamente, devo dir, 'sto foghista Maver — se gavé voia andé vù in Libia a indrizzar banane!» E el ga smacà el savon in secio che quel xe stada, mi calcolo, la fatalità. — Perché no bisognava? — Sicuro che no bisognava, perché cussì el ghe ga schizà la montura bianca al Capomachinista Dùndora, che iera bonissimo omo, ve go dito. Ma cussì, al impronto, pronto che el iera per andar in tera, vederse schizada la montura bianca con 'sta acqua sporca del secio, ghe ga montado el fùter: «Ah mi andarò a indrizzar banane in Libia? — el ghe ga dito zigando — mi ve indrizzerò le corbe a vù, a Trieste!» E dito fato el xe andà del Comandante Bojànovich... — Per indrizzarghe le corbe? — No al Comandante Bojànovich. Al Comandante Bojànovich el ghe ga dito che el sbarchi 'sto grubian de foghista Màver che cussì, cussì e cussì... E el ghe mostrava le schizze sula montura bianca. — Eh, xe cativo netar le monture bianche! ... — No iera cativo el capomachinista Dùndora, ma el Comandante Bojànovich ciàpilo, lighilo, tremendo che el iera. Dito fato, el ga ciolto del scafeto la matricola del foghista Maver e — savé come che iera le matricole — là dove che i notava i imbarchi e i sbarchi, el ga scrito su che el lo sbarca. Quel xe stà la fatalità. — Che el lo ga sbarcà? — Ma no tanto quel. Che quela volta a Trieste, sbarcadi de una barca se trovava altre dò pronte per imbarcarse. La fatalità ve xe stada che su 'sta matricola de 'sto foghista Maver, là dove che se notava i imbarchi e i sbarchi, e che de solito se usava, iera uso anca soto l'Austria, de scriver «Sbarcato per comune acordo» o «Di propia volontà», lui inveze, 'sto Bojanovich, che no podeva concepir che un foghista rispondi e smachi savoni, ghe ga scrito — che raro se usava — «Sbarcato per indissiplina», con dò esse, che anzi in Governo Maritimo prima i ga ridesto ma dopo, a 'sto Maver i ghe ga ben che cavado la matricola... — Mama mia, cavada la matricola! Che Barba Nane diseva sempre che guai... — Ma, siora Nina, adesso vù me contaré a mi cossa che diseva Barba Nane? Guai, sicuro! Soto l'Austria no se podeva miga navigar, savé, senza matricola. E 'sto Màver in tera, mesi e mesi el iera; e in ristretezze. Perché con cossa ve podeva viver el foghista Màver se no el fazeva el foghista? Con quei quatro picoli dela pension de suo padre defonto che gaveva sua madre, che iera Finanza de Marina... — La madre ghe iera Finanza de Marina? Se podeva? — Ma cossa la madre ghe iera Finanza de Marina? Cossa se se podeva? Dove podeva una dona una volta! El padre defonto ghe iera stado Finanza de Marina e ela come vedova la tirava la pension. Ma ve iera misere pensioni, anca quela volta. E 'sto Màver, zà nervoso che el iera, el ve iera deventà, i ga calcolà, nevrastenico. — Eh come no! Gaveva picole pensioni le Finanze... — Massime dopo morte. E po' per la vedova iera solo che metà. Insoma, per farvela curta, co' el Capomachinista Dùndora xe tornado de novo a Trieste col «Calliope» de Buones Ayres, che quela volta iera tre mesi de viagio, de prima sera — savè quel'ora che no xe né ciaro né scuro — come che in montura scura el vigniva zò dela scaleta e zà el gaveva messo el pie sul molo, un — Màver i ga calcolà — de drio de una grua del Puntofranco, ghe ga tirado col revolver! — Jéssus Maria! Mazado?! — No mazado, speté. El Capomachinista Dùndora ve xe cascà longo disteso, a musada propio, su un plotsch, perché un poco pioveva e el se ga anca tuto schizado, e intanto 'sto qua col revolver ghe la ga dada ... — 'Sto Maver?... — Eh, tuti ga congeturado che iera el foghista Maver. Bonissimo omo che iera 'sto Capomachinista Dùndora, mai gavesto de dir con nissun, quistionado che el gaveva solo con 'sto Màver, che i ghe gaveva cavado la matricola, tuti ga dito: Màver! Anca perché co' i gendarmi xe andadi a casa de 'sto Màver, perché in Governo Maritimo tuti diseva Maver, in casa de 'sto Maver in comò, soto i linzioi del coredo dela madre che, capiré, disperada, i ghe ga trovà el revolver. — El revolver che el ghe gaveva tirado a Dùndora? — No. O sì. No so. El revolver del padre. El revolver dela Finanza Maver defonta, che giusto mancava una patrona ... — Quela che el ghe gaveva tirado a Dùndora! — Eeh, siora Nina! Su quel ve xe stà tuto el dibatimento in Tribunal, che el Piccolo scriveva pagine intiere! Perché, el capomachinista Dùndora, longo disteso che el iera cascado dopo la revolverada, e in Ospidal subito che i lo gaveva portado cola Guardia Medica, el Dotor Deste ga dito che lui no apre... — No apre? No apre la porta del Ospidal? — Ma cossa no apre la porta del Ospidal, che i lo gaveva portado drento cola Guardia Medica! El Dotor Deste ga dito che lui a Dùndora no lo apre, no lo averze, no lo taia, perché passadi che el ghe gaveva i raggi — primi raggi che iera — el gaveva visto che 'sta patrona iera in un logo soto la spala, che là dove che la iera, no la ghe podeva far nissun mal. E che inveze, per tirarghela fora gavessi bisognado verzerghe el costato. E quela volta verzer un costato, chi? Nissun. Gnanca el Dotor Deste! — E cussì el xe morto, povero omo? — Ma come el xe morto? Se ve go dito che là dove che la iera 'sta patrona no la ghe podeva far nissun mal. Iera tanti che gaveva drento patrone, nella persona, una volta: quei che iera stadi in guera, massima parte. — Ahn, xe vero sì. Anche aghi. Solo che l'ago drento, se move. E se el riva al cuor e el lo sponze, adio! Una sarta a Fiume, che gaveva un ago nela persona ... — Indiferente. Sta patrona iera là cuza e, tempo diese giorni, Dùndora ve iera de novo in pie, tanto che el xe andà anca al dibatimento. Se el conferma che el foghista Maver ghe ga tirado col revolver. Che lui conferma che i ghe ga tirado col revolver, che el ga sentido el tiro e che dopo el ga perso i sentimenti. Che se el credi che xe stado el foghista Maver? Che lui pol creder e no creder ma che giurar no el pol in cossienza, perché iera scuro e no el ga visto. — Eh giusto! — Cossa giusto! Che l'Accusa de Stato ga dito che i Gendarmi ga trovado che mancava una patrona del revolver del padre de Maver. E che chi alora la ga sbarada? Chi la ga sparada alora? Che sicuro — ga dito Maver — la gaverà sbarada suo padre come Finanza, visto che el revolver iera de suo padre. In aria, per qualche contrabando, in Puntofranco. «Che si interroghi il padre del Maver». «Sì, andèghe a dimandar a mio padre! — ga dito ridendo el foghista Maver — ve dago anca l'indirizzo: Santa Ana, Campo Quarantaoto! Lo trovè sicuro a casa.» Un rider! Scriveva anca el giornal che tuti rideva. — Ahn! E cussì i ghe ga dà condana? — No, siora Nina. Perché l'Austria iera un Paese ordinato. A Maver nissun lo gaveva visto tirar. El Capomachinista Dùndora no podeva giurar e la patrona no se podeva tirarla fora de Dùndora per veder se iera quela che mancava del revolver. Per farvela curta, siora Nina: Assolto. Assolto per il benefizio del dubbio, come che se diseva soto l'Austria. — Ahn, ghe iera restà el dubio? — A nissun, siora Nina. Tuti calcolava che iera Maver. Ma per lege, visto che no se podeva tirar fora 'sta patrona per veder se iera quela del revolver... — Ahn! El Capomachinista Dùndora gaveva sempre drento la patrona, povero? — Maché povero! Che quela xe stada la sua fortuna. Perché co' xe s'ciopada la guera — che un per de ani dopo ga s'ciopà la Prima Guera — al Capomachinista Dùndora inveze che mandarlo in guera, visto che el gaveva 'sta patrona drento, i lo ga mandado in scritorio del Governo Maritimo. E savé dove? A Zaravecchia. Che ve iera belissimo. Massime in tempo de guera. Perché a Zaravecchia no i se ga gnanca inacorto che iera guera. — Eh, iera bel Zaravecchia. Più bel che Zara i diseva ... — Indiferente. Ben, volé che sia, del Diciaoto, guera ancora che iera, una matina de istà, lavandose in cadin, el Capomachinista Dùndora, el ga sentido qua sul costato, framezo de dò coste, come un qualcossa... — Mama mia! Un assesso! — Cussì el ga calcolado anca lu. E el xe andado subito del Dotor Seperizza che in alora gaveva la Condotta a Zaravecchia e che lori sempre se trovava de dopopranzo che i andava a bever cafè in Cafè. Siora Nina, per farvela curta, savé cossa che iera? La patrona! — La patrona che ghe gaveva fato assesso? — Maché assesso! Iera la patrona che se ghe gaveva movesto, se vede, come che usa moverse drento le patrone e la ghe iera oramai rivada soto la pele. Tanto che el Dotor Seperizza, là, subito in ambulanza el ghe la ga cavada con el bisturi... — El bisturìn? — Ma cossa bisturìn e britolìn. El bisturi... Un cortelo de quei guzai che ve ga i dotori, disinfetadi... — Ahn! El ghe ga tirado fora la patrona! — Altro che! Tirada fora e messa in man. «Eco qua, Dùndora, salvèvesela per ricordo!» el ghe ga dito. «Cossa ricordo e ricordo — ghe fa el Capomachinista Dùndora — adesso se poderà finalmente veder in Tribunal a Trieste se iera o se no iera Maver! Quel Maver che ve contavo!» E lui, dito fato, come diman el ga ciolto el vapor per Trieste con 'sta patrona in una scatuleta col bombaso in scarsela dela montura e, apena in tera a Trieste, subito el ga volesto andar in Via Santi Martiri. — In cesa a pregar? Per ringraziamento, come? — Maché cesa! In Via Santi Martiri a Trieste ve iera el Tribunal Criminale. Ma intanto che de Marina l'andava in Via Santi Martiri, el ga dovesto fermarse per spetar che passi el treno, savé come che xe a Trieste che passa el treno per Riva ... Ben, siora Nina, iera orori! — Orori de spetar? — Ma no! Orori perché iera un treno dela Sanità che vigniva del fronte e che l'andava in Lazareto. Giugno del Diciaoto che iera, siora Nina, quel treno ve iera carigo de 'sto povero militar austriaco in condizioni: tuti infassadi, feridi che i tornava del fronte. «Ara ti cossa che no xe qua! — ga pensado Dùndora — e pensar che a Zaravecchia gnanca no se se pensa che xe guera, e 'sti orori! ...» El xe stà là un poco sorapensier e co' ga finido de passar el treno, inveze de passar oltra dele sine el ve xe andado fina in zima del Molo San Carlo e là, siora Nina, el ga tirado fora dela scatuleta la patrona, el la ga vardada girandola pian fra i dèi e po' el la ga butada in acqua. «Tanto — el ga dito — per una schizada de acqua sporca sula montura...» Iera un bon omo el Capomachinista Dùndora. Ma gnanca el foghista Maver no iera cativo. Solo nervoso. In Galizia el xe morto. Per una patrona. Un Russo, i diseva. Ma no se ga mai savesto. Iera de prima sera: savé quel'ora che no xe né ciaro né scuro. MALDOBRIA XXV - LA LUNGA MARCIA Dove si puntualizzano i motivi che avevano indotto l'Impero Russo ad adottare uno scartamento ferroviario diverso da quello degli Imperi Centrali e le conseguenze che ne derivarono a Tonin Polidrugo. — Cossa volé che ve sia partir? No ve xe gnente partir. Xe bel anzi. Mi me ricordo, co' navigavo. Ierimo contenti co' se partiva. In tempo de pase, natural. In tempo de guera iera un'altra solfa. Mai no me dimenticherò, siora Nina, quando che in tempo de guera, — Dio, quanto tempo che no vien guera, me fa fin strano! — mai no me dimenticherò, parlo dela Prima Guera, co' Polidrugo xe partido in guera. Iera tanta gioventù che partiva per el fronte de Galizia. Ma Polidrugo gaveva fato più pecà, perché apena sposo che el iera e el fio che no ghe iera ancora gnanca nato, Polidrugo ga dovesto lassar tuti e via lu, su per Galizia ... — Ma no gavé dito che el fio no ghe iera ancora nato? — Sicuro e volé che no ghe sia un diol de cuor per un omo, sposo giovine, no véder gnanca nasser el fio — che po' el ga avù una putela — e dover partir solo, cussì, per Galizia? — Eh, iera bruto in Galizia... me contava mio fradelo defonto... — Indiferente. Xe morti tanti in Galizia. Ben, volé creder che Polidrugo, apena rivado in Galizia, subito el se ga capacitado che el Russo iera tremendo? — I sbarava? — Anca. Quel iera al ordine del giorno. Ma lui se ga subito capacitado che el Russo iera tremendo e che sarìa stado assai malamente per l'Austria, savé per cossa? Per le sine. — Come per le sine? Che sine? — Le sine del tran de Piran! Ma dài, siora Nina, le sine del treno, dela ferrata, perché savé cossa che gaveva concepido el Russo, ancora prima dela Prima Guera? Lui ve gaveva concepido de far le sine dei treni sui de lori, più larghe dele sine dei treni nostri de nualtri... — Ah più larghe per star più larghi in treno? Comodo! — Gnente comodo, siora Nina. Perché come che el nostro militar ga cominziado a far avanzata dela Galizia drento in Russia, perché in principio l'Austria vinzeva, dopo xe stà tradimento, ben — che ve disevo — come che el nostro militar ga cominzià a far avanzata de Galizia in Russia, tutintùn no el podeva andar più avanti coi treni. Tropo larghe le sine. — Ma se gavé dito che le sine iera più larghe, come no i podeva star drento? — Siora Nina: scartamento. Iera tuto quistion de scartamento. Noi, in confronto del Russo, gavevimo scartamento ridotto e i Russi, con 'ste sine più larghe, se gaveva cauteladi come, che i nostri treni no possi andar drento in Russia. De questo se vede che lori zà prima pensava che i farà guera. — Un tranelo, come? — Ma no tranelo, iera i treni nostri che iera massa streti per le sine russe. E cussì bisognava far un lavor de deventar mati. Pensévese, siora Nina: bisognava strenzer tute le sine. — E no se podeva inveze slargar el treno? — Sì, perché el treno se slambricia, come l'astico dele mudande! Ma dài, siora Nina! Cossa disé eresìe? Iera un lavor de deventar mati, perché driomàn che el militar austriaco andava avanti, bisognava disvidar le sine dele traversine e tornarle a invidar più strete. — Le sine dele traversine? — Sì per darghe el nostro scartamento. Ve go dito: iera tuto quistion de scartamento. E savé vù a chi che ghe tocava far 'sto lavor? — A Polidrugo. — Ma cossa ve insogné de Polidrugo? Chi ve ga dito de Polidrugo? Sì, Polidrugo iera là, ma el vedeva che 'sto lavor de disvidar le sine dele traversine e de invidarle de novo più strete i ghe lo fazeva far savé a chi? Sicome che ghe voleva zentinera e zentinera de omini per far 'sto lavor, i ghe lo fazeva far al prigionier de guera russo. Che i Russi, savé, xe bona gente, mi go visto, in Odessa. Bon, indiferente. 'Sti prigionieri russi fazeva 'sto lavor de far le sine più strete per via che passi i treni del militar austriaco, co' un giorno, savé cossa che nasse? — Se ghe ga slargà de novo le sine? — No; come volé che le se slarghi, se le iera zà invidade più strete? Xe nato che un treno austriaco pien de munizion e de croati, xe andado fora dele sine. Deragliamento. — Un tranelo? Sabotagio, come? — No se ga mai savesto. Però, de quela volta, podé capir, no i se ga fidado più. — De chi? — Come de chi? De 'sti Russi che disvidava e invidava le sine. E cussì, apena che lori, in un toco, disemo de qua fin là de quela bita là zò, gaveva finido el lavor, subito iera drio un militar austriaco col martèlo in man. — Per darghe zò a 'sti Russi? — Ma cossa per darghe zò a 'sti Russi, che iera bona gente? Per bater le sine col martèl, per sentir se le ga el son bon... — El sombòn? Cossa sarìa el sombòn? — Ma sì el bon son, el son bon: per véder se le ga el bon son ... — Ah el bonsòn! — Sicuro, perché una sina co' no la ga bon son, co' no la ga son bon, quando che se la bate col martèlo, vol dir che la xe ofesa, o che no la xe ben invidada. Una dele due. No gavé mai visto che i bate le sine col martèlo, anca in stazion de Trieste? — Ah, go visto, sì, che i ga quel martèlo longo aposito, anca a Fiume. — E alora cossa fé maravée? Bon, che ve contavo, de cossa ve contavo, che no me ricordo più de chi che ve contavo?... — De Polidrugo ... — Ah sì, Polidrugo. Polidrugo gaveva visto subito che iera malamente con 'sti Russi. Capiva le robe Polidrugo, anca perché dopo ghe gaveva propio tocà andar al fronte, al fogo. Fronte russo, siora Nina, combatimenti al ordine del giorno. Un fredo, una neve, 'sti Russi con 'sti capoti longhi che i strassinava per tera che fazeva teror solo sentirli de note. Insoma, siora Nina: disperso. — Chi questo? — Come chi? Polidrugo. Disperso. I lo ga dà disperso. Tanti i dava dispersi che iera in Galizia. E xe vignuda propio qua in Municipio, in Comun, la carta ala moglie de Polidrugo, che ghe iera zà nata la picia. Insoma, basta, che el iera disperso sul fronte dela Galizia. Verstòlen, iera scrito per tedesco, che anzi lori in casa pianzeva, perché i credeva che vol dir morto, inveze sior Nadalin dela Posta ghe ga spiegado che vol dir disperso. — Eh ma in guera xe bruto anca disperso. Tanti che iera dispersi, po' no se ga savesto più gnente de lori. — Tanti sì e tanti no. In guera xe sempre bruto. Bruto xe co' xe guera. Me ricordo che qua, presempio, che son tornado del Ospidal militar un mese in permesso, bon, qua, che xe qua, iera più fame che al fronte. — Eh, come no! Fame, fame iera: se pareciava quele verdure seche, quele patate gelade... — Altro che! A Parenzo però se trovava ancora qualcossa de magnar. Anca a Orsera. E mi, per mia madre, povera, e per i mii fradei, più de una volta andavo col treno a Orsera o a Parenzo a comprar roba... — E se trovava? — Eh, qualcossa se trovava, dei campagnoi: lardo, pareva una reliquia el lardo, formentòn perfina. Adesso ara! Ben, iera difizile trovar, e po' caro perché 'sti campagnoi se profitava, ma ancora più difizile iera portar fina qua, perché in stazion, — savé la vecia stazion, che xe là lontan in malora? — iera gendarmi e finanze che vardava se la gente porta roba de magnar senza tessera. — Ah! I fazeva osservazion? — Osservazion? I portava via, se i trovava. Tuto. E alora savé cossa che fazevo mi? — Magnavi prima... — Ma cossa magnavo mi prima, se dovevo portar per casa! Mi, poco prima che el treno rivassi in stazion, savé cossa che fazevo? Gavé presente, siora Nina, che el treno passava rente dele masiere dela campagna del vecio Barba Ive? Ben, mi verzevo el finestrin, butavo zò del treno el rùssak pien de roba, cussì in stazion, co' i me vardava, no gavevo gnente e dopo, pulito, andando a pie per la strada vecia tornavo là a cior suso el rùssak... — Ah! Ben pensada! Ma no i ve lo portava via intanto? — No, ah: iera el vecio Barba Ive che me lo tendeva: lui stava sempre là in campagna sua sentado soto el ledògno che el vardava passar i treni. Ben, no volé che una sera, oh dio no iera ancora sera, de prima sera, ciaro ancora, sarà stado zinque ore, zinque ore e meza de dopopranzo, che iero rivado e smontado in stazion, e tornavo indrio a pie a cior el rùssak, no volé che co' son là che la strada vecia passa alta propio rente dele sine del treno, no volé che ve vedo un militar austriaco con un martèlo longo longo in spala che vien avanti pian pian caminando in mezo dele sine ... — Mama mia! Un militar austriaco! — Sicuro, un militar austriaco come che ierimo tuti. Ma che el caminava in mezo dele sine con un martèlo longo longo in spala. Mi lo vardo, lui me varda e, come che el me varda, el me ziga «Bortolo! Bortolo mio!» La barba el gaveva, ma istesso lo go ravisà: «Polidrugo! — ghe fazzo — Polidrugo mio, cossa ti fa là in mezo dele sine? De dove ti vien?» «De Galizia — el me dise — vegno, Bortolo! Son scampado, go disertado! De Galizia vegno, caminando sempre in mezo dele sine!» — Mama mia! — «Mama mia, si — anca mi ghe go dito — e no ti ga paura, Polidrugo mio, caminando cussì in mezo dele sine, che qualche militar, che qualche ufizial, che qualche gendarmo de campo, te vedi?» «Eeh, tanti me ga visto — me ga dito tuto soridente Polidrugo — tanti me ga visto de Galizia fin qua, ma ogni volta che mi li vedevo a lori, davo un dò tre colpi con 'sto martèlo sule sine». Eh, siora Nina, se la sina no ga son bon, bon son, xe pericoloso, massime in tempo de guera. MALDOBRIA XXVI - LA BEFFA DI ZEBOKIN Nella quale si raccontano gesta ingiustamente sconosciute dell'Aviazione austroungarica nella Grande Guerra, quando per tutti i pazzi delle macchine volanti facevano testo le imprese di Gabriele d'Annunzio. — Vapori? Oh dio, vapori magari ancora xe, ma la gente no ga più pazienza, i ga perso el gusto del bel de un viagio. Che un viagio, aré, siora Nina, xe sempre un bel viagio. Adesso inveze, i ve monta in 'sti aroplani, che xe grandi come treni: i parte baùi e i torna cassoni. Chi gavessi mai pensà! — Che i aroplani porti baùi e cassoni? — Anche. Dove se gavessi podesto concepir una volta che un aroplan, che po' quela volta se ghe diseva velìvoli, pensévese velìvoli, dove se gavessi mai podesto concepir che un aroplan gavessi podesto portar baùi, cassoni, passegeri, zentinera de passegeri! Perché, una volta, siora Nina, l'aroplan, el velìvolo pretamente, portava solo che un omo, massimo due: un davanti e un de drio. Mi go visto, savé! — Gavé visto un davanti e un dedrìo? — Sì, anca un davanti e un dedrìo, sicuro. Mi, siora Nina, ve go visto i primi aroplani che esistiva in 'sto mondo: ve parlo dela Prima Guera... — De prima dela Prima Guera? — No, de prima! De durante. Co' iero a Pola. In Marina de Guera, natural: tuti de tela... — De tela de Marina? In montura de tela? — Sì! In braghe de tela! I aroplani ve iera fati de tela, siora Nina. Che po' no iera gnanca aroplani: iera idrovolanti, quei che se calava sul mar. De legno de traforo e de tela cusida, per via che i sia più lisieri, che no i fazzi peso. Altro che adesso che i porta baùi, cassoni, passegeri: zentinera de passegeri... De tela ve iera in alora 'sti aroplani. Tela resistente, natural, aposita per aroplani, tela de vela: velìvoli, ve go dito, idrovolanti, ma roba che ogi un no ghe montassi suso gnanca per un milion, che un milion, po' cossa xe ogi un milion. E inveze nualtri a Pola gavevimo proprio l'Aviazion de Marina, el Krixmarine Luft-Sturm, el Stormo dei velìvoli dela Marina de Guera Austro-Ungarica, che iera — ancora me ricordo — un zerto Motka, capitano, po' un che se ciamava Béla Boka, un Obertenente ungarese, barca stramba un poco, po' iera Ruzzier, un triestin, piranese de come che 'l nasseva, sempre scavelà me lo ricordo, e po' un zerto Zébokin, che iera sora de tuti, natural. Herr Major Zébokin, un de Viena, sempre cola caramela. — In boca? — Ma no! Sul ocio! Una caramela nera perché el gaveva perso un ocio svolando senza ociai, che ghe iera andado drento una scovazza, capiré con quela briva che i svolava. E col frustin in man, che anzi quel no go mai capì perché. Perché cossa él gaveva de frustar? Indiferente: el lo tigniva per darse un'anda mi calcolo. — Senza un ocio! Come el vecio Malistàri! — Ma indiferente, senza un ocio! Iera guera no! E questi che ve svolava ve iera assai consideradi, e lori po' se tigniva che no ve digo. Che a nualtri de Marina semplice no i ne gnanca calcolava. E inveze con quel Superina — che po' chi iera Superina? Un fiuman, sotufizial, come nualtri — i iera tuto un ciò mi e un ciò ti. Va ben che lui come motorista el iera bravissimo. — Superina? I Superina xe de Fiume massima parte. — Sicuro che i xe de Fiume! De dove volé che el ve fussi, se el iera fiuman? Ma lui iera a Pola con nualtri, come motorista, e 'sti qua del Luft-Surm, de 'sti idrovolanti, lo gaveva ciolto con lori perché el iera un bravissimo motorista e sempre con lori i lo Portava nei loghi, tuti in ganga. E pensévese che el iera fio de un postier. — De un Postier de Marina? — Ma dove se ga mai visto postier de marina? Lui ve iera fio de un postier de Fiume. Che anzi lui contava sempre che de ragazeto, el padre lo portava con se per tuta Fiume a butar le letere, i bilieti, le cartoline, le cartoline postali, la corispondenza insorti nele cassete dele letere dei portoni dele case. — Come che i fa anca adesso! — Come che i dovessi far, siora Nina, ma indiferente! Mi ve disevo per dirve come che un fio de un semplice postier, motorista bravissimo, specializado in velìvoli che el iera diventado, el iera sempre con 'sti grandi che svolava: un Motka, un Béla Bòka, un Ruzzier e un Zebokin. Perché, come che i impizzava 'sti motori del aroplam, lui subito saveva dirghe se qualcossa no andava, a orecia. Bravissimo, ve go dito. Pensévese: fio de un postier. — Ah! E svolava anca lu, 'sto Superina? — De drio, siora Nina, nel posto de drìo, come motorista. Bon, indiferente. Tuto xe stà quela volta del Volo su Viena. — Ah tuti 'sti qua che svolava xe andadi a svolar su Viena? — Ma per cossa volé che questi del'Aviazion dela Marina Austriaca ve andassi a svolar su Viena? Per perder tempo? No, siora Nina: Danunzio! — Ah! Danunzio! Co' el xe vignudo a Fiume coi danunziani, che i parlava! — Quel dopo, siora Nina. Ma quela xe stà che Danunzio col'Aviazion dela Marina de Guera Italiana che anca lori per quel ve iera bravissimi el xe andado a svolar su Viena, guera che iera, fin sora Viena... — Mama mia, a butar bombe, povera gente! — Ma no bombe! Biglieti. Quel ve xe stà. Lori come per un sprezzo come per una Beffa di Bùcari i ve xe andadi fina Viena, solo per butar bilieti, bilietini: una bravura, come. — E cossa iera scrito su 'sti bilietini? — Questo ve iera scrito: che lori xe vignudi fin Viena e che, a volendo, i gavessi podesto col ferro e col fuoco e che inveze l'Ala Tricolore sul cielo di Viena, come mònito insoma... questo ve xe stà. Che tuta Viena ve iera stupida e piena de 'sti bilietini bianchi rossi e verdi e l'Amiraglio Horthy a Pola se ga infotà come una belva. «Come?! Che a Viena è tuto carigo di bilietini nemichi e che noi, che anche abiamo Aviazione di Marina, inveze no fémo gnente!» — Ahn! Come dir che anca lori, anca questi che svolava a Pola, gavessi dovesto andar a Viena a butar bilietini? — Ma perché a Viena, che iera Austria? Se i gaveva de far anca lori una bravura, un sprezzo, una Beffa di Bùcari, come, i doveva farghela in Italia. E cussì i ga decidesto: Venezia. Siora Nina, iera sachi e sachi de 'sti bilietini, in zalo e nero, dove che iera scrito che anche noi risparmiamo questa Storica Città che già felicemente appartenne all'Impero e che siamo vignuti solo per far védere che anca noi, quando che vogliamo veniamo. Scrito tuto in italian, se capisse, e soto «Viva l'Austria!», natural. — Ah go capì. Questi che svolava, 'sti aviatori austriachi doveva andar svolando sora Venezia a butar 'sti bilietini. Una vendeta, come? — Vendeta? Nissun ghe fazeva del mal a nissun: una bravura. «Cosa solo che Danunzio! — zigava anca 'sto Béla Bòka, la sera prima, in Circolo dei Ufiziai dela Marina de guera. Domani gliela fiamo védere nualtri!» Insoma, siora Nina, la matina dopo, in porto de Pola, là rente Scoglio Ulivi, tuti pareciadi 'sti aroplani, coi sachi de bilietini drento, i motori zà impizadi, che li gaveva impizadi Superina, belissima giornada, e Béla Bòka no vien. — El se gaveva indormenzà? — Ma no indormenzà. De sera che el diseva: «Domani gliela fiamo védere!» el gaveva bevù un fià massa, spacando i biceri per tera come che usava i Ungaresi. — Ahn! Imbriago. — No, imbriago. El se ga roto una gamba vignindo zò per le scale de casa, imbriago ancora che el iera. Ma, cossa volé, oramai i iera tuti pronti e 'sto comandante Zébokin, vedendo Superina sul idrovolante de Béla Bòka sentado de drio, el ghe ga dito: «Superina, si senti davanti, la piloti lei, e via con noi in Venedig! A Venezia!» — Mama mia! I xe andadi svolando a Venezia? — Sicuro, siora Nina. Andadi, butà i bilietini sora Venezia — che iera propio un spetacolo — che anca i ghe ga tirà de tera qualche canonada, e tornadi per ora de pranzo a Pola, tuti contenti. — Ah tornadi tuti! — Ma no: tuti contenti sì, ma no tuti tornadi. Mancava l'aroplan de Superina. Pensévese! I speta, i speta, e Superina no vien. «Ma dov'è Superina? Ma chi ha visto Superina?» Che Ruzzier lo ga visto l'ultima volta propio sora Venezia, ma che dopo el lo ga perso de vista, che chissà, forsi un'avarea del motor, forsi quele canonade, povero Superina... — Morto a Venezia? — Maché morto a Venezia! Speté che conto, no! Passa tre giorni, che zà tuti parlava de medaia, co' de sera, sarà stà le sie de sera, che tuti 'sti ufiziai che svolava, i iera al Circolo Ufiziai che beveva, rrrrun, rrrrun, rrrrun, se sente rivar un aroplan sora Pola... — Danunzio! — Ma no Danunzio! Superina! Iera Superina col suo velivolo che se ga calà in porto. El se cala in mar, i lo va a cior, presto i Io porta in 'sto Circolo Ufiziai, che iera anca l'Amiraglio Horthy e i ghe dimanda: «Cosa è successo, Superina?» Cossa che xe nato, Superina. Che come mai Superina si è intardigato tanto. Che i altri xe zà tornadi tre giorni fa de gaver butado i bilieti su Venezia! «Butado? — ga dito Superina — come, butado i bilieti? Mi son andado casa per casa, porton per porton a meterli nele cassete dele letere!» Ve go dito, Siora Nina, Superina, bravissimo motorista, fio de un postier de Fiume el ve iera. MALDOBRIA XXVII - ADDIO GIOVINEZZA Nella quale la giovinezza in questione scompare ogniqualvolta il protagonista della vicenda si leva il cappello e ciò in tempi in cui cominciava a diffondersi anche nelle nostre contrade un altro genere di saluto. — Tuto xe bel e gnente no xe bel. Xe bel quel che piase, dipende dela moda. Prima dela guera — parlo dela Prima Guera — che lui iera giovinoto e che gaver le onde pareva chissà cossa — ben lui gaveva le onde. Naturali. Dopo, col'ultima classe che i lo ga ciamado in guera, per forza el ga dovesto taiarse i cavei come tuto el militar. Savé, in guera iera pedoci. Ma dopo el ribaltòn, co' el xe tornado e che de novo el ga podesto farse cresser i cavei e che ancora più onde ghe iera vignude, perché co' se se taia i cavei vien ancora più onde, se gavé osservado, ben quela volta — parlo del Dicianove, Vinti, Vintiùn — tutintùn xe vignuda la moda che no iera più de moda. — Ma chi questo, ma cossa, ma de chi parlé? — Cossa de chi che parlo? Cossa chi questo? Sior Cesare Schitazzi, quel che gaveva le coriere. Del Vinti, Vintiùn doveva esser, che lui gaveva le onde e no iera più de moda gaver le onde. Savé, iera quel periodo de Rodolfo Valentino che i omini, massime in città, usava gaver i cavei ala Rodolfo Valentino. No ve ricordé come che iera i cavei ala Rodolfo Valentino? Petinadi per indrio, ala mascagna come, però tiradi, petadi e cola riga in mezo. — Eh me ricordo. Come che gaveva i artisti de cine. — E cossa ve iera Rodolfo Valentino? Paron de barca? Artista de cine el ve iera. E ben, lui se gaveva fato i cavei ala Rodolfo Valentino. — Rodolfo Valentino? — Per forza che Rodolfo Valentino se gaveva fato i cavei ala Rodolfo Valentino. Disevo che lui, el defonto Schitazzi quela volta gaveva pensado de tignirse i cavei ala Rodolfo Valentino e alora el comprava sempre in botega de siora Resi quei vaseti de brilantina... — Quai vaseti? — Ma sì, quei, no ve ricordé, che vendeva quela volta in botega siora Resi. Quei vaseti de vetro, tondi col covercio de oro — de oro, insoma, de lata — e che drento ghe iera quela brilantina zala, ve ricordé che gaveva quel profumo de barbier, come. — Ah! Brilantina. Anca mio marì usava, apena sposadi. — Bon, alora cossa fé maravèe? Insoma che ve contavo, lui, el defonto Schitazzi, gaveva el cavel cussì ondulado che per tirarseli indrio e petinarseli ala Rodolfo Valentino cola riga in mezo, mi calcolo che ghe andava mezo vaseto ogni volta. Che anzi una matina, che son andà a casa sua de matina bonora — perché zà el gaveva le coriere e dovevo portarghe una roba de matina bonora — me ricordo che, apena levà del leto che el iera, el gaveva 'sti cavei impiradi sula testa, come quela reclàm dele matite Presbìtero che iera una volta. — Rabià come, che lo gavevi sveià? — Perché rabià? Che el iera zà alzado, e el me spetava, anzi? El gaveva 'sti cavei impiradi perché, onde che el gaveva, no i ghe stava zò senza brilantina. Bon: quel omo se ga ruvinà. — Cole coriere? — No, le coriere ghe andava benon: el le ga avude fina in ultimo. Lui, mi calcolo, el se ga ruvinà cola brilantina. Perché propio in quel periodo che el se meteva tanta brilantina, el ga cominziado a perder i cavei. Prima un pochi e po' sempre de più. Savé, quela volta iera quele brilantine scarte ancora. Prima de drio, che lui vardandose in specio gnanca no se inacorzeva: la cirica ghe iera vignuda; e po' in mezo, co' el se fazeva la riga in mezo. — Eh ghe vien, ghe vien ai omini la cirica. Mio padre... — Indiferente. Lui ghe iera vignuda come un'ossession, come, con 'sti cavei che sempre più el perdeva. Capirè: bei cavei che el gaveva una volta, perderli cussì stupidamente, omo giovine, dio, ancora giovine ... Ben, me gaveva contado Nini Safér, che iera safér dele coriere de Sior Cesare, che lui fazeva in modo e maniera de no cavarse più el capel de quando che el gaveva visto quela reclàm sul giornal. — Che giornal? — Indiferente che giornal. Su tuti i giornai iera, no ve ricordé? Iera due pùpoli de un omo, prima col capel e dopo che el se cavava el capel. E soto iera scrito: «Quando si leva il cappello la sua giovinezza scompare». — Reclàm de capei? — Ma no reclàm de capei. Iera reclàm de bulbocapillina, cossa so mi, che fazeva véder come che un omo senza cavei, quando el se cava el capel, el mostra più vecio. «Quando si leva il cappello la sua giovinezza scompare». Iera messo su tuti i giornai. — Iera obligo? Soto l'Austria? — Ma cossa Austria?! Che iera finida de anni la guera e iera zà el Fassio, che anzi Schitazzi, quel periodo iera qua Segretario del Fassio. 'Sto qua che ve disevo, ve iera una reclàm: «Quando si leva il cappello la sua giovinezza scompare». E cussì lu fazeva in modo e maniera de no cavarse mai el capel. In cesa, presempio, che bisogna cavarse el capel, savé cossa che el fazeva lui? — No el se cavava el capel! — Come volé che no el se cavassi el capel in cesa, che Don Blas lo gaverìa subissado! Lui, dimenica, a messa dele ùndese el vigniva drento ultimo e el se meteva in fondo drio de tuti, in quela nichia che dopo i gaveva messo drento la Madona del Mare. In cesa questo. Inveze co' l'andava al bagno che — capiré sarìa un assurdo anca ogi andar al bagno col capel — ben, lui se meteva la redina. Ve ricordé le redine de rede col elastico che se inganzava de drio? Ben: lui al bagno sempre redina. E per el resto capel, capel, capel: sempre capel in testa. Lui in caffè no se cavava mai el capél, che più de una volta, l'avocato Miagòstovich ghe diseva: «Schitazzi, cossa? Piove?» Ma lui fazeva finta de no sentir. Tanto che cussì che no el se cavava mai el capel, i lo considerava superbo, come. Che anzi Siora Mima Chiole co' la spetava la coriera e lui iera là dela fermata rente la Losa, sempre co 'sto capel in testa, una volta la ga dito forte: «Omo superbo, asino imenso!» — Superbo el iera, come? — No. Iera che no el se cavava mai el capel, con 'sta ossession di «quando si leva il cappello la sua giovinezza scompare». Ben, volé creder che el xe stà lui el primo che ga cominzià a far per strada? — A far per strada cossa? — A far el saludo ala romana. Co' el defonto Schitazzi intivava per strada un che el doveva proprio saludar, lui fazeva el saludo ala romana. Ma no per saludar ala romana, mi calcolo — oh dio anche, perché el iera Segretario del Fassio — ma più che altro per no cavarse el capel. «Viva!» — el diseva — col brazzo levà. — Eh, ma ancora adesso i campagnoi usa dir «Viva!» levando el brazzo ... — Sì, ma quel ve xe un'altra roba. Lui proprio ve saludava pretamente ala romana. Che anzi, dopo, xe vignù obligo. — Perché usava Schitazzi? — No perché usava Schitazzi. Perché xe vignù obligo. Si saluta romanamente. Però lui zà prima saludava ala romana, ma più che altro per no cavarse el capel. — Eh, se cavandose el capel ghe scompariva la giovinezza ... — Quel xe stà, povero Schitazzi. Ma volevo contarve che in quei anni mi navigavo per Sciàngai. E là, savé, el Chinese ghe tien assai al cavel, no? E a Sciàngai i vendeva tuti 'sti preparati, pomade, lozioni capilifere per 'sti Chinesi. — Eeeh, per forza, fin che ghe cresse el codin... — Maché codin! Codin no gaveva più nissun quela volta. Sciàngai, savé, ve xe come qua. Oh dio, come qua: adesso forsi no più: ma quela volta ve iera. Bon, co' go visto a Sciàngai 'sta vetrina de robe per cavei, me xe vignù in a mente Schitazzi. Savé, quela volta lui oramai gaveva pochi cavei e con quei pochi che el gaveva el se fazeva el riporto estetico che i ghe diseva, petandoseli cola bira. Lo gavevo osservado in cesa. — Cola bira? — Ma sì, el se li petava cola bira. Tanti fazeva. E mi a Sciàngai gavevo visto in 'sta vetrina una reclàm, savé quele, de prima, durante e dopo la cura? Bon, per farvela curta ghe go comprado una fiasca de 'sta frizion. — Una frizion per far cresser i cavei? — Sì, sì, sì: miracolosa i diseva. Anca el capomachinista Filimeli doprava. Insoma, oblighi anca che gavevo col povero Schitazzi, che più de una volta el me fazeva fermar la coriera anca dove che no iera fermata, «Sior Cesare — ghe go dito — èco qua, ve go portado de Sciàngai 'sta roba che tuti dise che xe miracolosa, anca el capomachinista Filimeli». — Ma adesso che me ricordo, i ultimi anni el defonto Schitazzi no iera spelà propio? — Come un zenocio, spelado, siora Nina. Perché dò giorni dopo che el ga finido la cura chinese, mi no so come che xe stà, el gaverà avudo el cavel inadato, cole onde che el gaveva una volta e i chinesi no ga onde, fato sta che el me ga propio ciamado a casa che vedo: insoma quei quatro cavei che el gaveva in testa i ghe vigniva via come la lana. Mi iero avilido, podé capir, propio con lu che me tochi una roba compagna. — El se ga rabià? — Oh dio, no el mostrava, ma mi calcolo che el iera rabià. Anca perché, tempo zinque minuti ghe partiva la coriera per Pola, che lui doveva andar a una seduta interessante del Diretorio del Fassio, cossa so mi. Insoma el me ga saludado ala romana e el xe montà in coriera. — Col capel? — Sì, cola bareta de montura col usel de oro. Ben, volé creder? Co' el xe tornado el iera un altro omo. Tuto soridente. Che tuti questi interessanti de Pola ghe ga dito che ghe sta tanto ma tanto ben, cussì lisso, come rasà col rasador, che ghe fazeva una testa romana, che ghe dava quel'anda de autorità, che insoma el Ghe somigliava. — Orpo, xe vero, xe vero: el ghe somigliava! Sì, sì, el ghe somigliava! — Eh, el ghe somigliava sì, sior Cesare. Anca per quel, dopo de questa guera, el se gaveva fato cresser la barba. Che, anzi — ve ricordé? — la ghe iera vignuda cole onde. MALDOBRIA XXVIII - NEL NOME DEL PADRE Dove un antico e duro proverbio nostrano fa da motivo conduttore d'una storia di vita vissuta dalle lontane e perigliose rotte di Capo Horn doppiato a vela all'inizio del nostro secolo, sino a una morte nel pomeriggio dell'ultima estate calda degli Anni Venti. — I padreterni fa i fioi crocifissi, diseva sempre l'avocato Miagòstovich e el gaveva ragion, siora Nina, perché meté, presempio, el vecio Matìevich... — El ve iera omo de Cesa, come? — Ma come omo de Cesa, come? Se dise che i padreterni fa i fioi crocifissi, perché el vecio Matievich no ga mai volesto in vita che el fio, e fio unico che el iera, ghe navigassi cole sue barche ... — Cole barche del fio? — Ma cossa le barche del fio, che el fio no gaveva gnente, che iera tuto intestado al padre! «Giuseppe Matìevich» iera scrito sula tabela fora del scritorio. «Xe scrito Giuseppe Matìevich — el diseva — solo che Giuseppe Matìevich, e no Giuseppe Matìevich e Consorti o Giuseppe Matìevich e Figlio. Perché el Figlio vien dopo del Padre: ve xe anca scrito sula Sacra Scritura.» Cussì el predicava, ve go dito, siora Nina: i padreterni fa i fioi crocifissi. Perché pò 'sto padre ve iera eterno... — Ahn, el ve xe ancora? — Ma dove el ve xe ancora? Se fa per dir, eterno. Ma assai el ve ga durà. Che magari xe anca bel quando che el padre dura, no come mi che iero ancora ragazeto co' me xe morto el padre. El vecio Matìevich ga durà anca massa, mi calcolo. Perché figurévese che el fio, el Primo Uficial Matìevich, che lui gaveva fato Capo Horn ancora a vela su barche de altura, bon, lui, dopo dela Prima Guera el ve gaveva ancora el padre vivo... — Chi questo? — El vecio Matìevich, po'. Chi ve iera el padre del Primo Uficial Matìevich? El vecio Matìevich. Che lui a Lussingrando ve iera un dei primi armatori. Con barche, scritorio e tuto. Bon, lui diseva: «No voio che el fio me navighi sule mie barche perché mi so che i capitani ai fioi del armator i li ruvina con protezioni fazendoghe tuto fazile, e che la vita po' inveze xe difizile e xe meo che el trovi subito qualchedun che ghe indrizzi le corbe. E po' no voio che el me staghi qua in scritorio, perché in scritorio co' se xe padre e fio se se intriga un col altro! E po' un giovine deve navigar, no star in scritorio!» E una roba e l'altra. Insoma, siora Nina, per farvela curta, el vecio Matìevich el ve ga pulito mandado el fio a navigar sul «San Francisco» una barca dei Tarabochia, granda, col Capitan Bussànich, che fazeva la linia del Chile: Capo Horn. — Come Primo Uficial? — Noo: el Primo Uficial Matìevich i lo ga fato Primo Uficial apena dopo dela Prima Guera, che el iera zà in età. Questo ve parlo ancora de prima dela Prima Guera, quando che se fazeva ancora linia del Chile a vela: Capo Horn. — Mama mia! Capo Horn! Ve iera cativo far Capo Horn a vela me contava mio padre... — Eh iera, iera cativo far Capo Horn a vela! A Capo Horn, co' i virava, pensévese, el Capitan Bussànich zigava: «Ochio ala vita che prendo quartiere!» Perché guai se un cascava del pinon in acqua in quel momento: no se podeva tornar indrio a ciorlo! — Ah, no ghe lassava questi de Capo Horn? — Ma cossa no ghe lassava? E chi po', questi de Capo Horn? Chi ve pol viver a Capo Horn? Questi dele barche de altura, de un «San Francisco» che fazeva Capo Horn no podeva tornar indrio e cior un che, metemo dir, fussi cascado in acqua del pinon. Perché passar Capo Horn controvento — che quela volta i lo passava controvento, no come questi de ogi che lo passa per l'altra parte — ve iera come un terno al loto. A Capo Horn ve iera ponentère che gnanca no se pol concepir: con iazzo, sule sàrtighe fin suso in cofa, scuro che anca a mezogiorno iera impizadi i lumi a bordo, refoli de portar via la testa e onde che coverzeva tuto de provavia, che chi che rivava a passar con quele barche, no tornava sicuro indrio a cior un sempio che iera stà tanto sempio de cascar in acqua del pinon ... «Ochio ala vita che prendo quartiere!» zigava el Capitan Bussànich co' el virava, come dir che de quel momento lui no tornava più indrio... — Eeh diseva, diseva mio padre defonto che iera cativo far Capo Horn a vela. — Sicuro che iera cativo! Oh dio, cativo! Per un bon capitan tuto deve parer cativo e gnente no deve esser cativo. Ma qualche volta iera orori. Capo Horn ve iera un zimiterio de barche, perché sbaliar un bordo voleva dir andar a piturarse sui scoi. E fina el Capitan Bussànich, che ve iera un primo capitano, Capohornista de no so quante volte, contava el Primo Uficial Matìevich, quela volta ga dovesto tornar indrio... — A cior uno che iera cascado in acqua? — No, quel no i tornava mai. I dava anca l'aviso: «Ochio ala vita che prendo quartiere!» No, el Capitan Bussànich ga dovesto tornar indrio quela volta che per sete setimane, pensévese, no iera stà modo e maniera de poder passar con quela sacramentada ponentèra — el diseva — che gavemo de prova. Tanto che el ga dito: «Qua, Matìevich mio, no ne resta altro che far el giro del mondo!» — Ah, far el giro del mondo. Per scherzo come, come che se dise far un giro atorno el sol? — Ma no per scherzo! Per bon! Quanti a Capo Horn no ga dovesto far per bon el giro del mondo co' no iera modo e maniera de passar Capo Horn! Perché, per andar in Chile, una volta, se no se intivava de passar Capo Horn, bisognava far el giro del'altra parte: per Levante, cussì se gaveva la ponentèra in pupa... — Ahn, comodo! — Come comodo? Gnente comodo, siora Nina. Perché longa la ve iera: bisognava far Capetòwn, Australia, Nova Zelanda — che là, quela volta, no ve iera squasi anima viva, solo che qualche Inglese, e adesso inveze, i me conta che xe pien de 'sti dalmati, 'sti istriani, 'sti piranesi, triestini, massima parte — po' passar tuto el Pacifico e dopo apena se podeva cominziar a parlar de Chile. — E iera bel el Chile? — Chili, se ghe diseva quela volta, per dirve la sincera verità. Chili. Ma quela volta 'sto povero giovine Matìevich no lo ga visto. Perché, come che i xe rivadi in Australia, che in Australia se usava far Adelaide, come che i xe rivadi in Adelaide, siora Nina: guera! — Guera in Australia? — Ma cossa guera in Australia, che l'Australia no ga mai fato guera in Australia! Guera, che l'Austria ghe gaveva intimado guera ala Serbia. Del Quatordici, che l'Inglese iera vignudo subito drento e bandiera austriaca che i bateva lori sul «San Francisco», con tuto che i contava per italian che i vigniva de Capo Horn, perché no iera stado modo e maniera de passar, 'sti Inglesi che quela volta, figurèvese, i gaveva anca l'Australia, li ga fati pulito prigionieri e i ghe ga sequestrà la barca, come barca austriaca. — Una cativeria, come? — Ma no una cativeria. Iera che ve iera la Prima Guera, del Quatordici, e lori per lori ve iera nemichi. E prigionia. Oh dio, prigionia: internamento, pretamente. Gnanca, perché lori ve podeva liberamente girar per Adelaide, ma quel ve xe stà: ve xe stà che per quatro anni no i ve se ga podesto mover. — Ma no disevi che i podeva girar liberamente? — Sì, per Adelaide. Ma no moverse de là, perché iera guera e quatro anni che ga durado la Prima Guera, persi che a Lussingrando tuti li calcolava a Capo Horn, la sposa de 'sto povero giovine Matìevich, la ve se ga sposado con Tarabochia... — Mama mia, e lui disperado natural! — No per quel. Perché quel el ga savesto apena dopo dela guera. Lui, el giovine Matìevich, che oramai iera zà in età, ogni anno el diseva: «Quatro anni che dura 'sta guera, vecio che me xe el padre, no vederò mai più in vita el padre, povero!» — E no el lo ga più visto? — Come no el lo ga più visto? Sul molo de Lussin, el lo ga visto, del Dicianove, co' el xe tornado. Che anzi iera el padre, el vecio Matìevich che pensava che no el vederà più el fio, persi che i li calcolava a Capo Horn. — Eh, xe bel cussì trovarse, dopo tanto tempo, un padre e un fio ... — Bel sì. Ma gnente bel no xe stà co' el fio ghe ga dito al padre che lui zà tante el ga passà per mar, che oramai lui xe zà in età, insoma in età in confronto, e che lui zà come diman el cominziassi a meterse un fià calmo in scritorio. «In scritorio? — ghe ga dito el padre — che ancora ti ga de véder mondo, che no ti ga visto che Chile, Chili? Che China no ti ga visto ancora e che chi che no ga visto China, come pol pensar un domani de meterse in mio scritorio, co' mi no sarò più qua a tignir drita la barca?» «Ma nualtri — ghe ga dito el fio — no gavemo barche che va per China!» «E justo per quel mi digo che ti devi andar in China, che el Lloyd te ga barche per China a boca desidera! Te go zà deto che no voio che ti navighi su barche nostre, perché mi so che i capitani ai fioi del armator i li ruvina con protezioni fazendoghe tuto fazile e che la vita po' inveze xe difizile e xe meo che ti trovi subito un che te indrizzi le corbe.» — Ahn, el ghe gaveva zà deto? — Sì, el ghe gaveva deto, dito insoma, ma, ve disevo, ancora prima dela Prima Guera. Indiferente: per farvela curta el lo ga fato imbarcar come Primo Uficial, sul «Calitea» col Comandante Bojànovich, che po' no fazeva gnanca China, perché la vera verità ve iera che el vecio no lo voleva né in scritorio, né su barche sue. «Che se ga visto — el predicava — cossa che ga durado l'Austria, co' xe vignudo Carlo al posto de Francesco Giusepe!» — Ahn, iera zà cascada l'Austria? — Sicuro, ancora co' el iera in Adelaide. Che là anzi quel giorno iera tuto bandiere e feste imense. Ve iera cascada l'Austria, ve iera vignuda l'Italia e 'sto giovine Matìevich ve iera zà in età. Anca per esser Primo Uficial el ve iera zà in età. Che anzi xe stado per quel che el Comandante Bojànovich, che iera un tremendo, ga finido subito per ciaparlo in urta... — Ah! El Comandante Bojànovich! Me diseva, me diseva sì mio marì che el Comandante Bojànovich iera tremendo massime co' el ciapava uno in urta... — Sicuro e savé perché che el lo gaveva ciapado in urta? Perché 'sto Primo Uficial Matìevich, zà in età che el iera, ben che el se tigniva, bel trato anca che el gaveva, co' qualchedun, un interessante vigniva a bordo del «Calitea» el ghe andava subito incontro a lu, a Matìevich, perché a vederlo cussì sul ponte, pareva che fussi lu el Comandante. E questo — podé capir — al Comandante Bojànovich ghe urtava. — Eh, co' el Comandante Bojànovich ciapava uno in urta, me diseva mio marì... — Indiferente. Bon, in urta che el lo gaveva, savé cossa che ghe fazeva el Comandante Bojànovich? De istà, presempio, che iera tuti in montura bianca per pranzo e 'sto Primo Uficial Matìevich zà se gaveva sentado in tavola dei ufiziai col Comandante e la salvieta sui zenoci, ben el Comandante Bojànovich ghe diseva: «Primo Uficial Matìevich, stè un momento zito che me par che le machine no ga gnente bon son. No: no le ga gnente bon son. Matìevich, movévese, andé zò in machina a veder cossa che nasse, perché che 'ste machine no ga gnente bon son...» — Bon son? E alora? — E alora comanda chi pol e ubidisse chi deve. E cussì 'sto povero Matìevich ghe tocava molar el pranzo, andar zò in machina per tute 'ste scalete ontolade in montura bianca, che co' el tornava suso, natural, el iera tuto smasalàdo de smirn. Tre quatro volte ogni viagio el ghe fazeva 'sta cativeria. El lo gaveva in urta, ve go dito. Bianco de fota el lo fazeva deventar. Più bianco dela montura, che anzi el Comandante Bojànovich in tavola, dopo, davanti de tuti — anche passegeri, se iera — ghe diseva: «Primo Uficial Matìevich, savé che gavé bruta ziera? Savé che esser cussì bianchi no xe segno de sanità? Savé che con ziere compagne mi go visto gente ricusada dele Compagnie? Vù, Matìevich, co' ve sé imbarcà, no gavevi cussì una ziera.» E po' répete, el lo mandava zò in machina in montura bianca. E co' el tornava suso tuto smasalàdo de smirn, el ghe diseva: «No ve vedo ben con quela ziera. Co' tornemo févese veder de un dotor, Primo Uficial Matìevich, che vostro padre, con tuto che el ga presto novanta, el ga più bela ziera de vù.» E el rideva. In urta el lo gaveva, come. — Novanta anni ghe gaveva el padre? — Squasi. E con tuto che iera stà l'inverno fredo del Ventinove, el vecio Matìevich lo gaveva passà pulito. Per la Madona de Agosto, inveze. — El ga ciapà fredo? — Ma come volé ciapar fredo per la Madona de Agosto? El vecio Matìevich per la Madona de Agosto, come sempre l'usava per la Madona de Agosto, el iera andado in pelegrinagio, in procession con Don Blas e tuti ala Madona de San Salvador. E tornado a casa, che ghe brusava i pie — la iera longa, savé fina ala Madona de San Salvador — el se ga fato tirar suso dala Cate un secio de acqua de cisterna per tociarse i pie in cadin. El massa fredo de colpo: quel xe stà, ga calcolà el dotor Colombis. Ma el ve iera restado là sentado in carega pozà sul schenal, in terazzo, che la Cate gnanca no se ga inacorto. — Che el iera in terazzo? — Ma cossa che el iera in terazzo, siora Nina? Che el iera morto. Un colpo. El massa fredo de colpo. Quel, ga calcolà el dotor Colombis, e subito i ghe ga partecipado per telegrama. — A chi, cossa? — Ma come a chi, cossa? I ghe ga partecipado al Primo Uficial Matievich, che per combinazion iera giusto a Trieste col «Calitea», che el padre ghe iera morto tociando i pie in cadin. No pretamente questo nel telegrama, nel telegrama iera solo: «Papà morto, funerali lùnedi». Gnanca cussì, un poco meio, ma insoma un circumcirca. — Funerali lùnedi? — Sicuro. E come sabo che el ga ciapà 'sto telegrama, el Primo Uficial Matìevich, prima roba el xe andà in Palazzo, in Palazzo del Lloyd, el se ga sbarcà e el se ga fato dar tuto quel che ghe competeva: liquidazion, competenze e anca la pension el se la ga fata dar tuta in un colpo che quela volta — perdendo qualcossa — se podeva. Po' el xe andà a bordo. E a bordo, lui pulito, calmo el se ga sentado in tavola in montura bianca cola salvieta sui zenoci e, mostrando col dito davanti de tuti el Comandante Bojànovich, el ghe ga dito: «Comandante Bojànovich, me par che 'ste machine no ga gnente bon son!» E pensé che iera le machine ferme. «Vado a véder!» E dito fato el va zò in machina. El torna suso tuto smasalàdo, cole man ontolade de smirn, che fazeva fina senso, el ghe va rente del Comandante Bojànovich e el ghe dise: «Tuto bene in machina, Comandante. Le machine xe un gioielo. Go tanto piazer per vù, Comandante, anca perché ve vedo che gavé bona ziera!» E el lo basa, e el lo brazza tuto smasalàndolo con 'ste man ontolade de smirn sula montura bianca e ribaltandoghe anca la fiasca de vin sule braghe. Dopo el ghe ga fato un sesto e zò lu per la biscaìna, che ogni tanto el se voltava per farghe altri sesti. — Mama mia! E Bojànovich? — Gnente. El xe restado là come un sempio tuto smasalàdo. E el Primo Uficial Matìevich ga ciolto, pensévese, l'aroplan, che quela volta iera i primi aroplani che andava a Lussin, per andar a Lussin al funeral del padre. No ve digo cossa che no xe stà a quei funerai, co' el giovine Matìevich — oh dio giovine, se dise per dir, perché el iera zà rente i sessanta — ghe contava a un e al altro in cesa, per strada, in zimiterio, de come che iera restà come un sempio Bojànovich tuto smasalà. «Là tuto smasalà!» Cossa che no xe stà a quel funeral, siora Nina! Iera tuto un rider. Fina in scritorio, co' el se ga sentà sula carega del pulto del padre, el rideva ancora con Tarabochia. MALDOBRIA XXIX - CAFFE' CAFFE' Nella quale si narra della difficoltà di procurarsi l'aromatica bevanda subito dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale e del progressivo diffondersi dei surrogati, uno dei quali ideato da Bortolo. — Una volta espressi, pretamente cafè espresso, ve iera solo che a Trieste, in Cafè dela Stazion, che i gaveva una machina che pareva el tabernacolo del Domo de Zara, con un'aquila de sora. Noi qua inveze, siora Nina, bevevimo sbicia, o cafè de cògoma... — Eh, me ricordo sì. Sbicia. Se meteva un fià de cafè, giusto per el profumo. E po' cicoria e orzo. — Orzo, orzo, gran orzo. Me ricordo mia madre defonta, sempre col brustolìn; brustolìn che brustolava: orzo. Cafè iera solo per el mal de testa. Se lo tigniva come una medizina. No digo che mi no me piasessi el cafècafè. Anzi. Propio mi de Costantinopoli gavevo portado el masinin. Savé, quei masinini de Costantinopoli, tondi, streti, de oton, longhi un brazzo, lustri, tuti ricamadi. El cafè vigniva fora de là fin fin come la zipria... — Eh so, so: anca mia madre gaveva. — Indiferente. Chi no gaveva? Parlo de prima de l'ultima guera. — Ah no de prima dela Prima? — No, de prima de 'sta ultima, che speremo che la resti ultima, almeno per nualtri, siora Nina, che gavemo passà le nostre. — Eh, mi dela Prima, iero putela... — E mi dela seconda, iero zà che me damavo fora, come dir che no i me ga ciamà soto le armi. Però navigà go sempre: navigar, pericolar ... — Eh bruto, bruto. Xe bruto navigar in tempo de guera. — Oh dio, bruto! El maritimo, in guera, ga sempre ocasioni. Presempio, el cafè, che ve disevo: apena cominziada 'sta ultima guera, chi lo ga visto più? — Chi, chi lo ga visto? — Come «chi, chi lo ga visto?» Disevo «chi lo ga visto più?» No se lo vedeva. E una volta, propio per el cafè — del Quaranta iera — apena s'ciopada la guera, che in prinzipio no pareva gnente — inveze, propio per el cafè, squasi che andavo in ràdighi. — Contrabando? — Oh dio contrabando! Iera quel poco de cafè che se podeva trovar in Punto Franco a Trieste, roba che anca i grossisti scondeva e no dava fora. Ben, ocasioni che ga el maritimo, mi che iero tornà apena de Brindisi che gavevimo portà col «Conte Grande» el militar — gioventù — in Albania, gavevo avudo ocasion de trovar oio. Oio de Molfeta, quel bon, savé. Che qua iera zà tessera. Anca là, ma insoma là i gaveva, e po' là zò i xe sempre più laschi. Bon: oio gavevo e i me gaveva dito che propio là in Punto Franco a Trieste, in un magazen iera uni che gaveva cafè. Insoma son andado là, e lori chi che me ga mandà, chi che son. E mi che no ga importanza chi che son, che son mi, ma che go oio, e che se go oio vol dir che no son una Finanza. Che questo xe l'oio, oio bon de Molfeta e vù dème cafè, che i me ga dito che gavé cafè. Mezo chilo i me ga dà per un butilion de oio. Un butilion, un chianti. Un chianti de oio. — In gran? — Cossa l'oio in gran? Ah! El cafè. No, no: no in gran, zà masinà. E mi lo go messo in un vaso de lata. — Vien bon cafè in vaso de lata? — Cossa bon cafè in vaso de lata? Mi lo go messo in un vaso de lata per portarlo fora de Punto Franco. Ben: no volé che co' rivo sul molo, là dove che in fondo iera la Finanza, me vien vizin Barba Nane e me dise ... — Cossa? Iera ancora vivo Barba Nane? — Noo! El iera morto! El iera vignudo solo per dirme... Ma sicuro che el iera vivo, se el me xe vignudo vizin per dirme. El me vien vizin e el me dise: «Sté atento Bortolo, che andé pericolando, che ogi i guarda! Se gavé qualcossa in bauleto stè atento, perché i guarda e — tempo de guera — xe roba che i ve cava la matricola ...» E difati, là dove che iera la Finanza, me vien vizin una Finanza e che cossa ciavéte, che cossa che go ... — Gavevi ciavete? Le ciavete del bauleto? — Ma noo! Ve disevo come che parlava 'sta Finanza de Bassa Italia: che cossa ci avete, che cossa che go, che cossa che no go in bauleto. Insoma salta fora 'sto vaso de lata! 'Sta Finanza, subito, che cossa che xe drento, che cossa che c'è... — Mama mia! E vù?! — E mi gnente. Perché, come che lo verzo, subito el me dise «Caffè?» «Cafè? — ghe digo mi. Dove trovate cafè adesso che è guera? Xe orzo, orzo brustolà che noi bevemo a bordo.» E 'sta Finanza fa che orpo che bon profumo, però 'sto orzo! «Eh, noi lo fémo bon, brustolà col brustolìn, masinà col masinìn: sapete quei masinini tondi, streti, di otone, longhi un brazzo che si portava di Costantinopoli prima dela guera, lustri tuti ricamai? Orzo. Con buon profumo, perché noi lo fémo ben, brustolà col brustolìn, masinà col masinìn ...» Ben — me fa 'sto qua — che 'ssai ben fémo 'sto orzo e che se ghe vendo un poco, che el ghe porta a sua moglie che xe incinta ... — El gaveva la moglie incinta! — Ah, per quel, le mogli dele Finanze ve xe sempre incinte. Una volta almeno. — E lui ve dimandava che ghe vendè, perché el gaveva nasado che iera cafè? — Oh dio nasà el gaveva, perché el diseva «che buon profumo», ma no so se el gaveva nasà nasà... Lui fazeva finta de gnente. Ma mi, capiré, guai se i me cavava la matricola! E alora ghe go dito: «Vender? Ma gnanca per sogno, cioléte cioléte, dimani farò altro...» — E ghe gavé dà, tuto? — Cossa volé, siora Nina? Come orzo, ghe lo go dà tuto. E ancora 'sto malignazo el me zigava drio: «Portate ancora! Ma mi racomando compagno di questo. Brustollà col brustollìn, maccinà col maccinìn.» Savé, no, come che parla quei de Bassa Italia. MALDOBRIA XXX - DREI GROSCHEN OPER In cui si narra del non breve soggiorno in Abbazia di Jan Kiepura e Marta Eggerth, celebre coppia mitteleuropea della ribalta musicale e dello schermo, nonché di un caldo cappotto nell'Inverno Freddo del '29. — Me ricordo che l'avocato Miagòstovich, che qua, pensevése, iera zà finida la guera, lu diseva ancora: «Inutile, per mi, la più bela film, resta sempre "Angeli senza paradiso"». — «Angeli senza paradiso»? No go presente. Cossa, i dava per Vénerdi Santo? — Ma cossa, per Vénerdi Santo, che iera de amor! Che per Vénerdi Santo i dava solo che el «Re dei Re», «Inri» e «Golgota». No: «Angeli senza paradiso», con Marta Eggerth e Jàn Kiepura! Belissimo. Mi me lo ricordo. Gaveva ragion l'avocato Miagòstovich. — Marta Eggerth! Come no! Me ricordo Marta Eggerth, che la fazeva sempre film con Jàn Kiepura ... — Per forza, siora Nina: i iera marì e moglie: i stava insieme in Abazia, un periodo. — Soto l'Austria questo? — Ma cossa soto l'Austria? Che soto l'Austria no iera cine! Oh dio iera, i primi primordi. Dopo, parlo: soto l'Italia, co' iera zà el sonoro e el parlato in italiano. No ve ricordé «Angeli senza paradiso» che lui cantava «Già la note col suo manto...»? — Giala note? Una film giala? — Ma cossa zala? «Già la note col suo manto abruna il ciel.» Lui cantava, Jàn Kiepura. In «Angeli senza paradiso.» E po' iera «Avemaria», che cantava ela, Marta Eggerth e «Va canzon d'amore», natural... — Aaaah! «Vacanzòn d'amore, non fermarti più! ...» me ricordo... — Sicuro! E alora come no ve ricordé «Angeli senza paradiso»? Mi me ricordo benissimo. E po' me li ricordo lori dò, che i stava in Abazia. — I stava in Abazia? Lori dò? Veri? — Veri, veri, Marta Eggerth e Jàn Kiepura i stava in Abazia: i gaveva una belissima vila, in Abazia, perché ela ve iera ungarese, lu polaco. E cussì i stava in Abazia. — Eh sì, ah. Perché cussì ghe iera più vizin... — Ma più vizin de cossa? Lori stava in Abazia, perché Abazia iera belissimo. Che anzi xe stado cine propio quela volta col sarto Pende ... — Sartopénde? Una film in cine? — Ma cossa una film «Sartopénde»? El sarto Pende che ve iera sarto. De Volosca. Pende: lui ve iera de Lussin. No pretamente de Lussin. I Pende ve vigniva a star de Arbe, ma anni anorum che iera stadi a Lussin sarti, i Pende, lui 'sto sarto Pende bravissimo che el iera, el iera andado a far el sarto a Volosca, e cussì el lavorava anca con Abazia. Che lavorar con Abazia per un sarto ve iera noma che ben. Perché là ve vigniva gente granda, l'elite propio, 'sti Magnati ungaresi, Nobiltà austriaca, un Principe Umberto, un conte Calvi di Bèrgolo, foresti che vigniva de tuti i loghi in 'ste vile, in 'sti hotéi immensi. E no solo de istà, anca de inverno! — Eh Abazia ve iera sempre riparada, bel per star cussì de inverno. Un fià scuro solo, che fa el Monte Magior. Ma assai riparado. — Sì, ma nel Ventinove no iera riparo! Savé; nel Ventinove ve gaveva fato un fredo, ma un fredo crudo, che ve iera propio l'Inverno Fredo del Ventinove. — Me ricordo sì l'Inverno Fredo del Ventinove che, con decenza, se gaveva jazà anca i loghi de decenza... — Ma cossa me tiré fora i loghi de decenza, che mi ve contavo de Abazia. Che iera 'sto Inverno Fredo del Ventinove e Marta Eggerth e Jàn Kiepura iera là, natural. E lu se ga inacorto de esser senza capoto. Capiré, in Abazia chi usava portar capoto, riparado che iera? Spolverìn al massimo. E cussì, anca come cantante che no el ciapi fredo in gola, la moglie lo ga fato persuaso de farse un capoto. Pensévese, che el se fazzi in premura un capoto del sarto Pende a Volosca. Un belissimo capoto, de stofa inglese, comprada a Viena. — Comprada a Viena del sarto Pende? — Ma cossa el sarto Pende a Viena, che 'sto sarto Pende, fora che Lussin, Volosca, Abazia e Fiume no el gaveva visto altro! Trieste, forsi! Jàn Kiepura ghe gaveva portado al sarto Pende 'sta stofa che lori gaveva comprado a Viena, co' i cantava a Viena. Un'ocasion: stofa inglese. I sarti quela volta ve fazeva solo che la fatura. Che me ricordo che, per fatura e fodre, po' i cioleva una picolezza. Altro che ogi. E Marta Eggerth lo gaveva compagnado del sarto Pende... — Eh, come moglie... — Sicuro: e la moglie del sarto Pende, co' la ghe ga averto la porta de strada in giardin, perché lori gaveva un belissimo giardin sul davanti, grando, a lu no la lo ga ravisado, ma a ela subito: «Marta Eggerth!» Quasi che la se tombava. E Jàn Kiepura. — Marì e moglie... bel cussì due artisti sposadi! — ...eh iera, iera una volta: tanti de 'sti artisti che se sposava un col altro! Adesso ara: no se sa gnanca più quei che xe omini e quei che xe done. Indiferente. Insoma, pulito che el ghe fazzi 'sto capoto dato che xe 'sto Inverno Fredo del Ventinove. I ve parlava franco italian tuti dò, Jàn Kiepura e Marta Eggerth. Oh dio, franco. I parlava. Insoma che el ghe fazzi 'sto capoto, subito in premura, perché iera fredo. — A lu? — A lu, sì. Perché ela, podé capir, come cantante de opera, la ve gaveva armeroni de pelizze. Insoma, pensévese, che 'sto sarto Pende, come ogi ghe ga ciolto le misure e ga taià el capoto e, come diman, prima prova de matina, seconda prova de sera e come dopodiman, capoto fato, che tute 'ste ragazze, la moglie e la vecia madre de lu che a otanta anni la impirava l'ago senza ociai, tute a cùser i gasi, i orli dei busi dei botoni che quela volta se fazeva tuto a man. E el colo in veludo, blu scuro. — Bel! Usava sì i omini el colo de veludo quela volta. — Difati lu contentissimo, co' el xe andà a casa del sarto Pende a cior 'sto capoto cola moglie e anca ela ghe ga dito che el ghe cascava benissimo. «Benissimo, bravissimo», el ghe ga dito lui ridendo. Perché, savé, assai ghe fazeva de rider a 'sti cantanti foresti che noi qua disemo «bravissimo» «prestissimo», propio come nele opere. — Eh! Anche Santissimo, se dise! El Santissimo! — Ma cossa ghe entra el Santissimo? Lui insoma ga dito «Bravissimo» e el ghe ga dimandado cossa che xe el suo dover, quanto che insoma el ghe deve per questo belissimo capoto. Cossa volé, siora Nina, quela volta i sarti cioleva una picolezza per fatura e fodra. E cussì el sarto Pende ghe ga dito: «Ma dài, signor Kiepura, gnanche insognarsi, cosa vuole che sia fatura e fodra.» Insoma el ga dito che lui no voleva gnente, che iera un onor. Che solo el ghe fazessi una carità, che lui tanto bramassi de sentir quela belissima «Già la note col suo manto ...» — Ah, che el ghe canti? — Sicuro: che el ghe canti «Già la note col suo manto abruna il ciel». E lu — volé creder — siora Nina, lusingado come, el ga cantà. A piena vose propio e «Già la note» e «Va canzon d'amore». E ela, pensévese, co' lu ga finì, cussì, senza dir gnente: «Avemaria». — Ave Maria? La pregava in zito? — Ma noo! Senza che el sarto Pende ghe disesse gnente, ela, Marta Eggerth, ghe ga cantà l'«Avemaria» de Subert, quela po' de «Angeli senza paradiso». — Ah! l'«Ave Maria». — Quela. Pensévese: Jàn Kiepura e Marta Eggerth. Rintronava 'sto quartierin del sarto Pende, con tuto che lu gaveva averto le finestre... — Verto le finestre col inverno fredo del Ventinove? E per cossa? — Come per cossa? Perché soto, nel giardin che i gaveva davanti, giardin grando, iera cussì, cussì de gente. E la mama del sarto Pende girava cola guantiera, che tuti butava qualcossa. Ela, la mama del sarto Pende, ve iera pretamente lussignana. MALDOBRIA XXXI - L'ISOLA DEL TESORO Nella quale si dà uno sguardo sugli austeri usi e parsimoniosi costumi dell'isola di Lussino, visti attraverso il succedersi di cinque generazioni, quattro bandiere, e tre valute. Il resto — come si suol dire — è moneta. — Cossa volé che sia dò fioi, siora Nina? Una volta, in antico, se usava gaver assai più fioi. Pensévese che, per modo de dir, siora Iginia Politeo, che iera ancora giovine, ghe ne gaveva avudi zinque, un ogni anno, squasi. Me ricordo che el Comandante Politeo co' el partiva, sempre el zigava de suso del ponte, co' el vapor molava le zime: «Adio, Iginia, bona permanenza e scrivime se ti xe rimasta!» — Ah, una cratura ogni anno i gaveva? Cossa i spetava sempre che ghe vegni el mas'cio? — No, no iera quel, siora Nina. Anzi, el mas'cio i gaveva gavudo subito, po' due femine, e dopo un altro mas'cio — Andrea povero, che i lo ga dà disperso e no se ga mai savesto più gnente de lu — e po' ancora una femina. Inveze, ve iera che lori spetava i gemei. Perché lui, ma anca ela, siora Iginia, a tuti i pati voleva gaver gemei o gemele. Indiferente, i diseva: ma gemei. — Gemei? Come gemei? Perché gemei? — Uh, ve iera una istoria, siora Nina, che no ve finiva più. Perché lori, i Politeo, gaveva sempre gavesto gemei in faméa. Anche ai gemei Filipàs la madre ghe nasseva Politeo, e po' iera dò gemele, pretamente sorele del Comandante Politeo. Più vece. — Più vece de chi? — Una de quel'altra! Ma dài, siora Nina: se le iera gemele! Più vece del Comandante e de quel'altra sorela sposada Filipàs. Pute vece. Oh dio, vece, vece in confronto. Cossa le gaverà avudo? Gnanca zinquanta anni. Ma quela volta zà a quaranta, mi calcolo, una dona i la calcolava puta vecia. Lore le gaveva le man de oro e le ricamava tovaie de altar, piviài, pianete, parati de Messa per le Mùnighe del Squero, che co' vigniva el Vescovo per le cresime, fina i ghe imprestava a Don Blas in Domo. — Tuto a ricamo? — Agopittura, pretamente. Ma indiferente. Lore le ve iera compagne, precise, squasi de no conosserle una del'altra. Po', savé come che xe i gemei, le se voleva un ben de vita. Per quel i diseva che no le gaveva vossudo mai sposarse. Dolores e Mercedes. — Dolores e Mercedes, chi queste? — Ma dài, siora Nina, de chi parlemo? Dolores e Mercedes Politeo. Che lore sula carta de batizo, anzi, le ve iera Maria Dolores e Maria Mercedes, perché el padre de lore, el vecio Capitan Politeo, co' el navigava, el se gaveva sposado con una spagnola, come, in Sud-America. Una gemela anca ela, i diseva, ma indiferente. — Eh xe, xe, nele famée questo dei gemei, che se torna a gaver gemei, anca mia santùla Tona... — Indiferente vostra sàntula Tona. Iera per dirve che lore come batizo le se ciamava Maria Dolores e Maria Mercedes, ma in casa i le ciamava Marieta e quel'altra Marìci: Marìci e Marieta Politeo, pute vece, che le stava in casa del padre, zà morto natural, anca la madre, che iera una belissima casa, ma bastanza lontan. — Lontan de cossa? — Lontano dagli occhi, lontano dal cuore! Ma dài, siora Nina: lontan dela casa de siora Iginia, che ghe vigniva a star cognada a 'ste dò pute vece. Che sempre le diseva: «Che pecà che Iginia no ga gemei!» — Ah, per questo lori gavessi volesto gaver gemei? — Sicuro, perché lore 'ste dò zie, savé, gaveva soldi, le stava ben e siora Iginia calcolava che se ela gavessi gavesto dò gemei o meo ancora dò gemele, lore che gavessi lassado la facoltà a 'sti dò gemei, pitosto che ale Mùnighe del Squero come che i diseva che le gaveva divisado. — Eh, le pute vece qua più de una volta usava lassar tuto ale Mùnighe del Squero ... — Siora Nina: questo ve iera el pensier de siora Iginia. E ela ve se tigniva assai in bona 'sta zia Marieta e 'sta zia Marìci e co' el marì no ghe iera qua, ela ogni santo dopopranzo andava a trovarle a casa sua de lore. — Coi fioi? — No. Sì qualche volta, de dimenica, ma el più dele volte no, perché 'sta zia Marieta e 'sta zia Marìci, co' le vedeva i fioi le tirava sempre fora quela de che pecà, che pecà, che con tanti fioi no la ga mai gavesto gemei. — Ghe brusava a 'ste zie? — Oh dio ghe brusava! Le gavessi gavù piazer. E siora Iginia sempre sperava che un giorno o l'altro ghe vignirà 'sti gemei. Anca la maestra Morato ghe diseva che xe ereditario. — Ereditario, come? L'eredità de 'ste zie? — No, quel de gaver gemei in una faméa che ga zà avesto gemei. «Ve vignirà, ve vignirà, siora Iginia — ghe diseva la maestra Morato — se no ve fermé. Co' un ga gemei in faméa, finisse che vien sempre.» E una roba e l'altra. Difati co' la spetava l'ultima fia che ghe xe nata, la maestra Morato ghe diseva a siora Iginia: «Anca la levatrice in Comun me ga deto che 'sta volta gavé assai l'anda.» E inveze gnente. — Oh, l'anda no vol dir, mi presempio co' spetavo Albino ... — Speté, speté: ve disevo che 'sta siora Iginia andava sempre a trovar 'ste zie de dopopranzo. E, natural, i fioi la li lassava a casa a far le lezioni. E, cìcole ciàcole che le parlava de questo e de quel, de una e del'altra, intanto che lore le ricamava, ela se intardigava. Come gnente vigniva ora de zena e co' la tornava a casa no la gaveva ancora pareciado per i fioi. Bon, savé cossa che fazeva siora Iginia? — Una zena in svelto ... — Natural, qualche volta. Ma savé cossa che la fazeva anche qualche volta? Cussì, come che la vigniva a casa de furia e la intivava che un o quel'altra de 'sti zinque fioi, no so, iera rampigà sul figher o dela finestra el ghe spudava in testa a quei che passava, pinpun, la ghe dava un scapeloto a tuti zinque e àle, tuti in leto senza zena! — Ah cussì no la pareciava? — Per essa, una picolezza. E savé cossa che la fazeva anca qualche volta, cussì co' la se intardigava a ora de zena? Ela la se sentava in tavola in tinelo, la pozava sula tavola la borseta e la ghe diseva a 'sti fioi: «Stasera, fioi, faremo cussì: che chi che vol zena, gaverà zena e chi che inveze de zena vol un fiorin, mi ghe darò un fiorin!» — Un fiorin inveze che la zena? — Sicuro. E 'sti fioi — capiré come che xe i fioi — tuti voleva el fiorin. I cioleva 'sto fiorin e i se lo meteva soto el cussìn. E siora Iginia, setandoghe le coverte, ghe diseva: «Salvèvelo, salvèvelo 'sto fiorin, fioi mii, perché ricordévese che el sparagno xe el primo guadagno!» E lori tuti contenti i se indormenzava con 'sto fiorin soto el cussìn. — Eh, i fioi xe còcoli co' i xe pici! Dopo, dopo... — Dopo, inveze, de matina co' i se levava per andar a scola dela maestra Morato, siora Iginia savé cossa che fazeva? La ghe diseva ai fioi: «Savé cossa, fioi? Chi che vol marenda, cafè bianco, pan e marmelata de fighi, me darà pulito un fiorin.» Un rider, siora Nina ... — Chi, sti fioi? — No, no, i fioi gaveva el muso longo, ma per forza i ghe dava ognidun el suo fiorin, fame che i gaveva, che no i magnava del pranzo del giorno indrio. Un rider iera, co' ela ghe contava 'sta roba ale zie, e un rider per tuta Lussin, perché una roba compagna fazeva de rider anca in una Lussin. Le rideva 'sta zia Marieta e 'sta zia Marìci e po' le ghe diseva: «Che còcoli che xe i fioi, ah pecà che no ti ga gemei, Iginia!» — E no la podeva gaver? — Come no la podeva? Ghe diseva sempre la maestra Morato che la gavessi podesto. E difatti, rimasta che la iera, e che suo marì, el Comandante Politeo, pensévese iera a Sciàngai, ghe xe nate dò gemele. Dò bele gemele, grande, precise de no conosserle una del'altra, col naso dei Politeo, spudado. — Come spudado? — Sì, gavé presente? El naso a spontier come che gaveva tuti i Politeo. De matina bonora le ve xe nate e ela benissimo, con 'ste dò gemele in leto, la ga fato vignir drento dela camera de leto el fio più grando e la ghe ga dito: «Adesso ti pulito va a scola e avisa la maestra Morato, dighe Signora Maestra che vualtri fioi ogi e diman resté a casa de scola perché ala mama ghe xe nate dò gemele. Dighe pulito e che la saludo tanto.» — Eh, se usava sì una volta farli restar a casa de scola quando che nasseva un fradelo! — Sicuro. E 'sto picolo più grando xe andado corendo a scola e xe subito tornado. «Ti ghe ga deto pulito ala maestra Morato?» «Sì mama, ghe go deto!» «E cossa ga deto la maestra Morato co' ti ghe ga deto che me xe nate dò gemele?» «Ah, mi no ghe go deto, mama, che ne xe nate dò gemele. Mi ghe go deto che ne xe nata una. Quel'altra se la salvemo per star a casa de scola 'sta altra setimana.» Eh, siora Nina, el sparagno xe el primo guadagno. — Ahn! El se gaveva imparado, come? — Sicuro. Assai butava sula madre 'sto fio più grando. 'Ste dò gemele, inveze, dopo, precise dela zia Marieta e dela zia Marìci. Che po' natural, le zie ghe ga lassado tuto a lore per la dote. E istesso tuto dopo le ga perso, perché, dopo, una roba e l'altra, le ve xe restade a Lussin. E ancora là le ve xe che le ghe dise ai nevodi: «Stasera savé cossa che faremo? Stasera, fioi, faremo pulito cussì: che chi che vol zena, gaverà zena e chi che inveze de zena vol un dinaro, mi ghe darò un dinaro!» Cossa volé, siora Nina, xe una picolezza ogi, in confronto. MALDOBRIA XXXII - IL PRINCIPE E IL POVERO In cui Barba Checo, uomo d'altri tempi già in tempi remoti, dimostra ad un Augusto Ospite di Lussino di aver molto da insegnargli e, successivamente, d'avere, fuori della sua isola, anche qualcosa da imparare. — A Lussin, de inverno co' no xe bora, par istà e no xe gnanca primavera. Per questo una Lussin ve xe una Lussin. Difati mi iero ancora ragazeto che de inverno a Lussin vigniva i più grandi... — I più grandi de vù, come? — Come i più grandi de mi? Sicuro che i più grandi de mi, ma i più grandi de tuti, i primi dotori de Viena, zà quela volta i diseva che per i deboli de petto no xe la meo che Lussin... — Eh iera sì una volta più de un debole de petto, adesso istesso no se senti tanto. La defonta nona de mio marì che gaveva avudo zinque fioi, prima — pensévese — ghe xe morti de mal de petto i dò gemei, po' la fia più granda, apena finide le scole... — Indiferente. Cossa me vignì a contar disgrazie dei tempi de Marco Caco. Mi ve contavo che i primi dotori de Viena diseva che per i deboli de petto, pretamente no xe la meo che Lussin, de inverno. Presempio, perché credè vù che l'Arciduca Carlo Stefano se gaveva fato a Lussingrando in Rovenska quela imensa vila che xe a Lussingrando in Rovenska? — Per vignir a star. — No. Perché el iera debole de petto. Oh dio, debole de petto: pretamente ètico el iera, ghe gaveva dito i meo dotori de Viena, come dir in malora cola casseta, e alora star atento, no sfadigarse, guai fumar spagnoleti e, de inverno, gnente de meo che Lussin. — Ah 'sto Arciduca Carlo Stefano iera malado de petto, come? — Come «come»? Pretamente ètico, el ve iera, de quei con febre de dopopranzo. Oh dio, avendo possibilità questi ètichi, quela volta i ve durava anni anorum, e a Lussin qualchedun se gaveva anca inguarido. Ma l'Arciduca Carlo Stefano, in principio, ve iera assai mal. Me ricordo come ieri che co' el xe rivado col vapor a Lussinpicolo e i lo ga menado a Lussingrando in carozza, Barba Checo ghe ga messo una coverta sui zenoci, a quadratoni, vedé cossa che no se se ricorda qualche volta... — Eh, zerte robe resta, resta impresse. Barba Checo, disevi, qual Barba Checo? — Barba Checo, po', el vecio Barba Checo, che zà quela volta, figurévese, prima dela Prima Guera, iera zà in pension. E in pension che el iera, istesso el iera sempre sentà fora del Governo Maritimo, su un bancheto de piera che iera là propio soto dela stema col'Aquila a dò teste. E cussì co' xe rivado a Lussinpicolo l'Arciduca Carlo Stefano, i ghe gaveva dito de compagnarlo anca lui in carozza a Lussingrando e lu ghe gaveva messo una coverta sui zenoci, a quadratoni. — Eh iera vecio sì Barba Checo, me ricordo anca mi. — Uh, co' el xe morto el gaveva un'eresìa de anni, no se ga mai savesto quanti perché quela volta gnanca no i tigniva scriturazioni, co' el iera nato, intendo. Indiferente. Vecio in pension el ve iera zà, co' xe rivado 'sto Carlo Stefano malado e compagnia che el ghe gaveva fato in carozza ciacolandoghe, ciacolon che el iera, e tuto mostrandoghe e setandoghe la coverta sui zenoci, subito 'sto Arciduca Carlo Stefano lo gaveva ciolesto in simpatìa. «Dove xe l'omo?» — el dimandava sempre in vila in Rovenska, e alora subito i mandava a ciamar in Governo Maritimo Barba Checo che lu, ve disevo, iera fazile trovarlo perché el iera sempre sentado su quel bancheto de piera, propio soto dela stema col'Aquila a dò teste del Governo Maritimo. — E Barba Checo ghe andava a far compagnia? — Come no? Lui tuto ghe contava, e tuto ghe mostrava: «Quela de 'sta parte ve xe Arbe... oltra podé anca véder Veglia... e Cherso ve xe quela. No: el bruto tempo no ve vien de là, el bruto tempo ve vien de 'sta altra parte: de San Piero ai Nembi... No quel no ve xe un cocal: quel ve xe un màsoro, magnabalini come che ghe ciamemo nualtri, sior». E el rideva ... — Chi, Barba Checo? — No, l'Arciduca Carlo Stefano rideva, de 'sto veceto che lo ciamava «sior», perché tuti i altri qua, a Trieste, a Viena, massima parte, i lo ciamava Altezza Imperiale, Vostra Grazia, Doppia Altezza, cossa so mi... E Barba Checo inveze «Sior», «Sior l'Arciduca», qualche volta. — Eh iera assai cocolo veceto Barba Checo ... — Veceto sì, ma ancora in gamba. E volé creder che 'sto Arciduca Carlo Stefano, subito meo che el ga cominziado a star, aria bona che xe a Lussin de inverno, quasi più gnente che no el fumava spagnoleti, che inveze a Viena, i diseva, che el fumava orori, atenti che ghe stava tuti, sol e riposo, el stava zà meio. E qualche volta co' iera bele giornade, pensévese, Barba Checo lo menava in caìcio, in 'sti bei loghi che xe a Lussin, una Crivìzza, un Zabodàrski, e no parlemo Cigàle. — Ah el se menava in caìcio con Barba Checo, cussì, lori due soli? — Sicuro. Per quel l'Arciduca Carlo Stefano ve iera pretamente democratico, el lassava dito, natural, dove che i andava, ma l'andava in caìcio solo con Barba Checo che ghe vogava, ancora in gamba che el iera. Perché, savé cossa che ghe iera vignuda tutintùn a 'sto Carlo Stefano? — Febre de dopopranzo! — Ma cossa febre de dopopranzo? Quel in principio. Ma dopo, che el stava zà meo e che l'andava in caìcio con Barba Checo, ghe iera vignuda tutintùn la passion de pescar cola togna. «Dove xe l'omo?» el dimandava, cussì ala nostra, che el se gaveva imparado, co' iera bela giornada de matina. E subito i ghe mandava a ciamar Barba Checo che, co' no el iera in vila, el iera sempre sentado fora del Governo Maritimo, con pedoci e sardonzini per esca zà pronti. Lori pulito ve andava fora col caìcio; Barba Checo, podé capir saveva tuti i loghi, i butava el fero e cole togne, una per omo, un de qua e un de là, i pescava fina mezogiorno, mezogiorno e meza. E savé cossa che tigniva Barba Checo in una scatula de lata? — Vermi per esca! — No. Spagnoleti. Perché i dotori de Viena e anca el dotor Colombis qua, che andava ogni giorno in Vila, ghe gaveva inibido i spagnoleti, e Barba Checo inveze, in caìcio, de mezamatina, dopo marenda che i portava de per con sé — sànguich de rosete con persuto coto che no xe pesante e una fiascheta per béver drio dò dedi de vin rosso che fa sangue — Barba Checo, dopo, tirava fora, tuto soridente, 'sta scatuleta, come un oracolo e ghe dava de fumar al Arciduca Carlo Stefano una Kedivé che, de tuti i spagnoleti che i vendeva in apalto a Lussin, iera i più lisieri. «Un al giorno no fa mal, per chi che iera abituado, Sior — el ghe diseva — e dopo el se impizzava anca lu un spagnoleto, e tuti dò i fumava pulito in caìcio, vardando el mar, Arbe, e Veglia che se vedeva in fondo, bela giornada che iera. — Sì, sì: un spagnoleto ogni tanto no fa mal. Mal xe quei che impizza un spagnoleto novo cola cica del vecio ... — Natural, per un che xe malà de petto. Ben: i pescava pulito, savé, perché Barba Checo conosseva i loghi. «Ogi gavemo per esca vermo de Rìmini, Sior, e ciaparemo orade» ghe diseva Barba Checo. «Un'orada! Un'orada!» zigava l'Arciduca Carlo Stefano tirando suso. «Ma no ve xe un'orada, questo, Sior — ghe diseva Barba Checo discuzzandoghe el pesse del amo — questo ve xe un sargo. Anca bon: lessado con oio, sal e un fià de radiceto. E guai limon che ruvina el gusto del pesse. Un sargo ve xe, Sior. Bel sargo.» E cussì lui tuto ghe imparava dei pessi, capì siora Nina. «No, Sior, questo no ve xe un branzin. Dove pol esserve questo un branzin? Questo ve xe un ziévolo. Bel ziévolo, de scoio.» «Cossa, pàssera? Questa ve xe una sfoia! Bela sfoia. Orpo che bela sfoia che gavemo ciapado, Sior. Questa ve xe bona frita. Dilicata.» E una roba e l'altra. — E i magnava dopo, anca? — Come no? L'Arciduca Carlo Stefano fazeva pareciar tuto cossa che i ciapava e per Barba Checo el ghe fazeva prontar in cusina, perché lui capiré, del Sangue che el iera, el doveva magnar coi sui in camera de pranzo. — Eh, un Arciduca come volé che magni in cusina? — Natural. E co' iera inveze tempo missià, che ve contavo, istesso lui lo mandava a ciamar de matina bonora e inveze de andar in caìcio i andava in carozza de Lussingrando fin Lussinpicolo a véder i pescadori che scarigava le cassete de pesse. «No, questi no ve xe scombri — ghe diseva Barba Checo — queste ve xe lanzarde; no, queste no ve xe ragòste, questi ve xe àstisi, Sior, noi no gavemo ragòste! Per quele ghe vol andar in Dalmazia ...» — E i xe andadi in Dalmazia? — Ma no: come volevi che el podessi mover se fina in Dalmazia? I tornava a Rovenska cola carozza. E un giorno sì e un giorno no, iera sempre quela storia, che co' i passava davanti del apalto de Lussin, che iera apena fora dela piazza, con sora dela porta la stema, 'sto Carlo Stefano, schizandoghe de ocio ghe mostrava col déo a Barba Checo l'Aquila a dò teste... — Come dir che lui iera Arciduca? — No, come dir che xe l'apalto e che el vadi a comprar Kedivé che no manchi. «Eh, Sior — ghe diseva Barba Checo — ogi, me par che gavemo fumado zà bastanza.» Ma istesso el smontava e el andava a comprar. I iera propio deventadi intrinsechi e po', un anno zà che el stava a Lussin, 'sto Arciduca Carlo Stefano stava propio assai meo. El gaveva più color anca. Tanto che quela volta no xe stà né dio né santi, e con tuto che el dotor Colombis ghe gaveva dito «io non consiglio», ben, a tuti i pati lui ga volesto andar a Postumia. — A véder le grote de Postumia? — Cossa le grote de Postumia, che el ciapava fredo! A Postumia, là rente de Postumia, che quela volta po' se ciamava Adelsberg, pensévese, ve iera el Castel de un de 'sti grandi del'Austria, un Windischgraetz, un Jélacich, un Radetzki, no me ricordo, che gaveva invitado a càzia Francesco Ferdinando, che iera Erede dela Duplice e gaveva 'sta moglie morganatica, savé come che iera, che no la podeva mai star con lui e tuti ghe fazeva sprezzi perché la iera morganatica. — Eh i parlava, i parlava de 'ste robe una volta. — Bon, 'sto Arciduca Carlo Stefano, propio per 'sti sprezzi che ghe fazeva tuti i altri, lui ga volesto andar, perché el iera assai intrinseco de Francesco Ferdinando, che iera stado anca malado de petto un periodo. Ben, volé creder, che a tuti i pati el ga volesto portar con sé Barba Checo. — Ah, per farghe conosser Francesco Ferdinando ... — No, cossa volé che ghe podessi interessar a un Francesco Ferdinando de conosser Barba Checo! No, per compagnia in viagio. Lui iera inabituado oramai a 'sto cocolo veceto che ghe ciacolava e anca el dotor Colombis e i sui, iera più pacificadi, perché i saveva che Barba Checo, più de un spagnoleto al giorno no ghe dava... — Omo de fiducia, come. — Sicuro. Bon: per farvela curta, in vapor fin Fiume, e po' in carozza de Stato a Postumia, cola stema col'Aquila a dò teste sul sportelo. Che po', co' i xe rivadi, a Barba Checo per dormir, in 'sto castel i ghe ga dà una belissima camereta, in sufita natural, col teto un poco in piover, ma che se vedeva tuti i boschi. Lui ve iera propio contento. — Barba Checo de 'sta camereta? ... — Anca, che dopo el ga contà el contabile. Ma assai contento ve iera 'sto Carlo Stefano, perché de tanti anni, malà che el iera, no el gaveva più podesto andar a càzia. E de matina bonora, col s'ciopo in spala, el ga subito dimandà: «Dove xe l'omo?» No tanto matina bonora: iera meza matina, perché i altri iera zà andadi via ale zinque, ma lui col umido no el se fidava. «Dove xe l'omo?» Subito i ga mandado a ciamar Barba Checo, suso in camereta e lui con Barba Checo, pian senza sfadigarse, con un can davanti, i xe andadi per 'sto bosco per trovarse con Francesco Ferdinando e coi altri che zà fazeva marenda. E pien de bestie che iera 'sto bosco, come che i caminava cussì calmi, el can ga alzà un fasàn. E 'sto Carlo Stefano, ga tirà zò el s'ciopo de spala, e, de prima cana, lo ga ciapà. «Bravo, Sior! — ga dito tuto stupido Barba Checo, ciolendoglielo via dela boca del can — che bel becanòto!» «Ma no, no becanoto — ghe ga spiegà l'Arciduca Carlo Stefano — questo, Barba Checo, vi è un fasàno. Bono rosto.» E col déo el se ga fato cussì sula ganassa. «No, Barba Checo — el ghe spiegava po', andando avanti e mostrandoghe altri usei — quele là suso non sono quaie, quei sono pagneròi.» E po' el ghe diseva tuto dele pernisi, dei zeneveròni e una roba e l'altra. — Ah, el caziava? — Caziava! El caminava caziando per 'sto bosco. E se ghe vigniva un tiro, natural, el tirava. Fin che, tutintùn, come che i caminava e che Barba Checo ghe ciacolava che anche a Lussin xe usei, 'sto Carlo Stefano, se ferma de colpo e ciapandolo per un brazzo el ghe fa: «Zito!» El ghe mostra un usel alto alto che svolava, el smira col s'ciopo e pimpum, dò colpi. E volé creder? Come un perognoco xe vignù zò 'sto usel: grando, enorme, imenso, che fin el can gaveva paura de andarghe vizin. — Mama mia! — Xe quel che ga dito Barba Checo: «Mama mia! Che toco de bestia che gavemo ciapado, Sior. E diséme, Sior, che usel ne xe questo?» «Ma come, Barba Checo — ghe fa 'sto Carlo Stefano batendoghe la man sula schena tuto soridente — xe un'aquila, un'aquila xe!» «Ah no po' — ghe ga dito Barba Checo — no po' Sior, vù me cojoné, come pol esser un'aquila, con una testa sola?» Volé creder, siora Nina, che de sera a zena in 'sto castel, in camera de pranzo, cole possade de oro, co' l'Arciduca Carlo Stefano ga contà 'sta storia, Francesco Ferdinando ga volesto andar zò in cusina per conosser Barba Checo. MALDOBRIA XXXIII - IL POLACCHESE In cui si racconta la storia di un nome irto d'incognite, però perfettamente inserito nei ruolini d'imbarco della Imperial Regia Marina di Guerra, e di quanto accadde successivamente, quando le cose mutarono. — I Polachesi, siora Nina — Polachi che i vol dirghe adesso — con tuto che no i gaveva mar, in Marina de Guera Austro-Ungarica, i Polachesi, siora Nina, ve iera omini de corajo... — Polachesi, sior Bortolo? E cossa ve fazeva 'sti Polachesi in Marina Austro-Ungarica? — Cossa che ve fazeva i Polachesi? Quel che fazevo mi: el militar de Marina, co' tocava de leva. Che tre ani quela volta se fazeva servizio de leva in Marina. Oh dio, no che i mandassi pretamente de leva i Polachesi in Marina, che lori no ve gaveva mar, ma a qualchedun ghe tocava. Rari, ma ghe tocava. Massime quei che stava a Trieste. — Ma come? I Polachesi ve stava a Trieste quela volta? — Oh dio, siora Nina, tuti ve stava a Trieste quela volta: Polachesi, Boemi, Bosniàchi anca... — Ahn, quei che stava cussì per star! Anca Greghi alora... — Sicuro che anca i Greghi, ma cossa ghe entra i Greghi? Mi ve parlavo, siora Nina, dei Popoli dela Monarchia ... quei che l'Imperator ghe diseva sempre «Ai Miei Popoli». E ve iera Austriachi, natural, Ungaresi, Crovati, Serbi anca ... — Eh, a scola cantavimo sempre Serbidiòla... — Siora Nina, qualche volta xe difizile con vù intenderse: Serbidiòla iera Serbidiòla. E i Serbi ve iera i Serbi. De Erzegovina massima parte, perché quei altri ve iera in Serbia-Serbia. E cussì ve iera anche i Polachesi. — Che no i stava in Polonia-Polonia? — Ma cossa Polonia-Polonia, siora Nina, che quela volta la Polonia oltra de no gaver mar, gnanca no la esistiva! Galizia, ve iera. Galizia, Bucovina e no so cossa altro, che ve iera i Polachesi nostri, de Austria-Ungheria. Per dirve, una Leopoli. E tanti de questi che ve go dito vigniva a Trieste a far fortuna. Perché se podeva quela volta a Trieste far fortuna. «Trieste offre molto» diseva sempre el padre de Przukowsky che iera adeto ale panatiche al Lloyd. «Trieste offre molto». — El padre de chi, sior Bortolo? — Come de chi? Se ve go apena dito: «de «Przukowsky», cossa gnanca vù no savé dir Przukowsky? Perché quel, savé, ve iera de rider in Marina de Guera Austro-Ungarica ... — Che offriva molto? — Ma cossa che ofriva molto? Sicuro che Trieste ofriva molto. Se rideva de Przukowsky. E no del padre, del fio. Perché el padre de Przukowsky, vero Polachese, ma ani anorum che el stava a Trieste, el ve iera adetto ale panatiche del Lloyd Austriaco. E el fio inveze 'sto Przukowsky, che pretamente ve se ciamava Alois Przukowsky, noi de militari lo ciamavimo Gigi... — Per ciorlo via, come? — No, siora Nina, perché ciorlo via? Alois per polachese ve xe Luigi e noi lo ciamavimo Gigi perché, per dirve la sincera verità, no ve iera tanto fazile dir Przukowsky... — E no disevi? — Oh dio, inabituandose se podeva anca dir. Difati mi adesso poderio dirve franco Przukowsky, ma no tuti, savé, saveva. Pillepich, presempio, in Ospidal Militar de Trieste el se intopava... — Ah Pillepich, povero, el se intopava perché el gaveva perso zà la gamba? — No quela volta, siora Nina, che ierimo ancora militari de leva! Lui, anca dopo, no so per quanti anni ve ga avù ancora la gamba! Pillepich se intopava co' el gaveva de dir Przukowsky. Che anzi, la prima volta che el ve ga avù ocasion, ve xe stà un truco ... — Un truco in Ospidal Militar, se podeva? — Eh, un truco, sempre se pol, co' capita. Sotufizial che ve iera Pillepich, perché Pillepich de zivil ve iera nostroomo, in Ospidal Militar, quela note ghe tocava a lu. — Come nostroomo? — Ma no come nostroomo! Come sotufizial ghe tocava a lu. A lu ghe competeva de meter fora l'omo quela note... — Meter un omo fora del Ospidal? — Ma no fora, drento, in pian, fora dela porta, de guardia. Perché drento de 'sta porta, in camereta separata — perché, dove i lo gavessi messo in cameron coi altri? — ve iera un Ungarese, un ufizial, un grando, proteto del'Amiraglio Horthy con dissenteria... — L'Amiraglio Horthy con dissenteria? — Ma no, l'Amiraglio Horthy lo protegeva. Questo gaveva dissenteria. Indiferente: ghe voleva sempre un omo de guardia fora dela porta, dio guardi un'impelenza. — Ahn, dio guardi un mal de note! — Sicuro: dio guardi un mal de note. E propio quela note no iera nissun de guardia fora dela porta, che 'sto qua zigava per ungarese che tuto l'Ospidal Militar de Trieste rimbombava e se ga sveiado tuti. E insoma la matina dopo el Comandante del Ospidal un zerto Mayer, Colonnelo, ga mandà ciamar Pillepich: che perché no el ga messo nissun fora dela porta. E Pillepich che a lui nissun no ghe ga dito chi che iera de meter quela note fora dela porta. Che come — ghe fa 'sto Comandante — che lui in persona ga fato far le tabelete aposite col nome de chi che ogni sera ga de star de guardia fora dela porta e che la iera propio impicada sul ciodo del muro del'ambulanza. — Impicada cossa? — La tabeleta col nome de chi che doveva star fora dela porta quela note. E sicome che Pillepich contrastava — con rispeto, ma el contrastava — 'sto Comandante se ga fato portar la tabeleta e el ghe la ga mostrada: «Ecove qua: Przukowsky, ve xe scrito. Przukowsky. Przukowsky doveva star fora dela porta. Cossa no la gavè vista 'sta tabeleta?» «Ah sì che sì, che mi la go vista, signor Comandante — ghe ga dito Pillepich — ma mi credevo che fussi la tabela del oculista!» Un rider, siora Nina, co' i contava 'sta qua in Marina de Guera. — Ahn, ridevi anche in Marina de Guera?... — Sicuro, siora Nina, massime quela volta che no iera guera. Che po', dopo, questo Przukowsky, questo Polachese, ve iera restà sempre con nualtri, perché el padre, che iera adetto ale panatiche del Lloyd, un periodo, con protezioni, el lo gaveva fato star in servizio in Ospidal Militar, che cussì el ghe restava a Trieste, ma dopo, siora Nina, anca lu ga dovesto imbarcar se come nualtri. Sul Carlo Sesto. «Karl Sechste» che i ghe diseva. — Per polachese? — Ma cossa per polachese! Polachese oramai no ve iera più gnanca Przukowsky, el ve iera Triestin. Fora che el nome. Che ve iera cativo, savé, dir Przukowsky, anca per i ufiziai. E cussì lui se la scapolava. Perché nualtri, ve go dito, lo ciamavimo anca Gigi, ma un ufizial dove podeva dar e cior confidenze soto l'Austria? Iera cativo dir Przukowsky e cussì lui pulito ve se la scapolava sempre. — Se la scapolava cossa? — Se la scapolava, perché se iera de far qualcossa de greve, de intrigoso, no so, andar in cofa, tanto per dir, un ufizial ghe diseva pitosto a un altro de andar in cofa, perché dir Przukowsky ghe iera cativo. Iera più fazile dir 'sti nomi nostri: Terdoslàvich, Mitis, Vòkulat, un de Lucinico che iera. Fin Depicolzuàne — un de Gorizia questo — ve iera più fazile che i lo mandassi in cofa che no Przukowsky. E lui cussì se la scapolava. E el rideva. — El rideva de 'sti ufiziai? — No in muso, natural. Ma el rideva che a 'sti ufiziai ghe iera cativo dir Przukowsky e cussì lui pulito più de una volta se la scapolava. Co' magnavimo, me ricordo, soto coverta, sentadi, in piato, perché quel ve iera el bel dela Marina Austriaca, che anca el semplice mariner magnava sentado, in piato... — Come, magnavi sentadi in piato? — Ma come volé magnar sentàndovese in piato? Sentadi e in piato. Ma cossa ve stavo contando? Ah sì: che co' magnavimo a bordo de 'sto Carlo Sesto, magnavimo e anca bevevimo — perché anca quel ve iera bel dela Marina Austriaca, che al mariner i ghe dava el suo vin, in bona dose, vin de Lissa massima parte, Opollo — bon co' bevevimo, dopo magnà, 'sto Przukowsky diseva ridendo: «Qua me xe meo ancora che a scola, perché a scola, ancora, el maestro, qualche volta, per no dir Przukowsky, el me diseva: «Vieni fuori tu cola maglia noce» ma qua, come marineri, semo vestidi tuti compagni e i ufiziai no pol dirme...» — E no i ghe diseva? — Meno che i podeva. Anca perché una volta che un ufizial de Zara, per no dir Przukowsky, ghe gaveva dito «Sì, tu, ti Polachese» i contava che el gaveva propio ciapado una filada del Comandante Prohaska, perché soto l'Austria guai far diferenze. Perché qua — i ne gaveva dito el giorno istesso che i ne gaveva vestidi in montura — qua no esisti Austriachi, Ungaresi, Istriani, Dalmati, Piranesi, Italiani o Boemi — qua siamo solo che marineri dell'Imperial Regia Marina di Guerra! Guai far diferenze! Difati, anche l'Imperator diseva sempre «Ai Miei Popoli!» — Ahn! El ghe diseva ai sui popoli? Cossa? — Quel che el gaveva de dirghe. Indiferente. A Przukowsky ghe iera noma che ben con 'sta istoria del nome, fina che no i ga imbarcado a bordo el Cadetto Sforzina, un Piranese. Bon, volé creder? De quela volta, ogni santa volta che ierimo in fila sul ponte che spetavimo che i ne destini per la giornata, ben, 'sto qua, 'sto cadeto Sforzina, senza gnanca vardar i altri, co' iera de far robe grevi, intrigose, lui ciamava Przukowsky. «Przukowsky in cofa!», «Przukowsky, qua! Przukowsky là!» E Przukowsky lustrar otoni, far su cavi, Przukowsky star de guardia anca co' pioveva. Insoma Przukowsky sempre. — Ahn, el lo gaveva ciapado in urta, come Polachese? — Guai — ve go dito — ciapar un in urta per un tanto soto l'Austria! Ma anche nualtri, dopo un poco se gavevimo fato persuasi che 'sto Sforzina doveva gaverlo propio ciapado in urta. Tanto che Przukowsky un giorno — con rispeto — ma el ghe ga dito: che se el lo gaveva ciapado in urta, Signor Cadeto Sforzina, el ghe ga dimandà. Insoma, se el la ga con lui. «Con lu? Con vù? Con ti? Nno, nno, nno ... La wvera verità vwe xe che mmi sson un po ... po ... poco tartaia e che el dotor mme mme ga ordinà de de de ddir ppiù che posso rrrrrobe difizili. Questa vve vve vwe xe la vvverra werità, marinaio Przukowsky! — Mama mia! — Mama mia, sì. Lui, siora Nina, 'sto Cadeto Sforzina, tartaia che el iera, el se esercitava a dir robe difizili. E omo de proposito che el iera, el se imparava presto a dirle franche. No solo che Przukowsky, ma tante altre robe difizili che ve iera soto l'Austria, come dir Schleswig-Holstein, Wienerneustadt, Liechtenstein, Gnaedige Frau, Depicolzuane, anca, questo de Gorizia. Anca a lui qualche volta el lo mandava in cofa... — Ahn, e cussì el se ga inguarì del tartaiar? — Tutintùn ghe xe passà, siora Nina. Ma no quela volta. Dopo, che iera zà guera. Anzi che iera zà finida squasi la guera. A Pola, che ierimo in porto de Pola sula «Viribus Unitis», che i Italiani la ga fata saltar per aria. De colpo, come che la xe saltada per aria, cussì al Cadeto Sforzina, che quela volta iera zà Primo Tenente, ghe xe passà de tartaiar. Del spavento. — Ah, del spavento! Xe vero, si! Anca el sangiòz passa col spavento i dise. E vualtri ve gavé assai spaventado quela volta? — Oh dio, siora Nina, stremido più se gavevimo. Perché una barca che ve salta per aria soto dei pie no xe una bela roba. Przukowsky inveze no. Lui calmo. Come gnente. Ve go dito che i Polachesi — Polachi che i vol dirghe adesso — con tuto che no i gaveva mar, in Marina de Guera Austro-Ungarica ve iera omini de corajo! Saltadi in aria che ierimo e, tempo dò giorni fati prigionieri dei Italiani, a Pola, a 'sto Italian che, ciolendolo in nota ghe dimandava come che el se ciama, lui ghe ga dito calmo, come gnente, senza paura: Przukowsky! — Orpo! — Orpo! ga dito anche 'sto Italian. E come che si scrive. E Przukowsky ghe ga dito: «Cola ipsilon». Cussì, franco, senza paura. Dopo, soto el Fassio, i ghe ga fato cambiar nome. In Perissutti. MALDOBRIA XXXIV - I DUE PRIGIONIERI In cui, all'inizio di un nuovo anno di guerra, la vecchia Europa è percorsa da un lungo brivido, che è ben poca cosa a petto di quelli provati sul fronte austro-russo da Bortolo e Marco Mitis, poi però decorati sul campo. — Novi del Anno sarà che noi no saremo, siora Nina. E Novi del Anno iera che gnanca no me ricordo. Una volta iera tuto un altro mondo, tuto un'altra concezion dela vita. Per modo de dir, me ricordo che del Sédese, el Novo del'Anno savé dove che lo gavemo passado? — A bordo? — Sì, a bordo! A bordo, magari! In Galizia, guera che iera. Col Regimento 97. Parlo dela Prima Guera. Che, del Sédese, mi e Marco Mitis ierimo pretamente in Galizia, fronte russo per el Novo del Anno. — Eh xe bruto, esser in guera per el Novo del Anno ... — Tuti i giorni del anno xe bruto esser in guera, siora Nina. E po' no iera Novo del Anno, iera San Silvestro: ultimo del anno. — E istesso fazevi guera? — Per forza! Cossa credè che le guere se ferma per augurarse ala mezanote? E po' i Russi no tigniva el nostro Novo del Anno ... — Come ateisti? — Cossa ateisti? Che quela volta el militar russo se fazeva ogni volta la crose prima de sbarar. Ala riversa magari, perché i Russi iera de religion vecia, ma i se la fazeva. No, no, i Russi no tigniva el nostro Novo del Anno, perché i gaveva el Novo del Anno suo de lori... — Che cascava quando? — Ah no so quando che cascava, ve disevo per dir che lori gaveva un altro calendario. Presempio, dopo, la Rivoluzion de Otobre, lori la ga fata in novembre... — Ah i se gaveva intardigado, come? — Ma cossa intardigado! Iera altro calendario. Indiferente. Ve disevo che mi e Marco Mitis ierimo in Galizia, de fanteria de Marina. Perché là iera de passar 'sti fiumi; de istà e de primavera, natural, perché là de inverno xe tuto un gelo. Lastròn fa sui fiumi, sui laghi che se podeva caminar liberamente. Oh dio: co' no i tirava... — Eh, ma anca qua fa jazzo, in lago de Vrana... — Sicuro. Che se andava a schetinar de muli. Che quela volta iera el meo divertimento schetinar. Chi andava a siar quela volta, che po' se diseva skiar! Insoma me ricordo che iera San Silvestro e in Galizia ve iera tuto bianco, come che l'omo gnanca no se imagina che possi esser bianco. Ma ve parlo de un vinti, vintizinque... — Anni fa? — Maché anni fa! Vinti, vintizinque gradi. Sotozero. Savé quel fredo che ve se jazza i sentimenti? Insoma, San Silvestro che iera, a mi e a Marco Mitis i ne ga mandado a cior roba in deposito, per passar un poco meo almanco 'sto Ultimo del Anno... — I ve ga mandà a cior fogazze? — Sì, fogazze! Ma dài siora Nina, che el militar no ga mai gnente, e figurévese po' in guera, in Russia, sul fronte. Patate. I ne ga mandà a cior in deposito patate. Patate per far gnochi de patate: aré de cossa che se contentavimo! — Eh, ma xe boni i gnochi de patate! — Sicuro. E in guera po'. Difati, lontan che iera 'sto deposito, co' semo vignudi via mi e Marco Mitis col saco in spala, ne pareva de portar frìtole. Ma savé che iera de no vederghe fora dei oci del fredo? Tanto che, a un zerto punto, gavemo perso la strada. Perché iera tuto un: strada, campagna, fossi; tuto un, un zinque diti de jazo tanto che gavevimo i iazini soto le siole. Fina che tutintùn, co' semo fora de un bosco de ròveri, vedemo un col capoto longo ... — Eh, stimo mi! Con quel fredo! — Siora Nina! Vù no savé cossa che voleva dir in Galizia capoto longo! Capoto longo gaveva el Russo: el militar russo. Perché nualtri gavevimo inveze quel trequarti. E mi go visto subito che iera assai mal perché 'sto Russo no gaveva s'ciopo ... — Ma come? Se no el gaveva el s'ciopo, ve iera ben per vù... — Eh no, siora Nina. Ne iera mal, assai mal! Perché el gaveva la bareta col'ongia e le spaline de oro. Insoma, un Ufizial grando, mi calcolo. E mi go pensado — savé come che se dise — co' passa i canònighi la procession xe finida, se qua ne xe un Ufizial grando vol dir che semo propio ben drento dele linie russe, perché in guera, chi che sta davanti, xe la bassa forza, miga i Ufiziai grandi, e assai assai dovevimo esser andai fora de strada! E mi ghe digo a Marco Mitis: «Marco mio, démoghela!» E lu me fa «demoghèla», e vardando i àlbori, se gavemo orizontado. — I àlbori? I alberi de Nadal? — Che alberi de Nadal! I àlbori che iera là, iera sì, tipo alberi de Nadal, ma indiferente. Se gavemo orizontado sui àlbori, perché sui àlbori, dove che xe el mus'cio xe el Nord, no savé? E alora nualtri, mi e Marco Mitis, driti per Ponente! — Dove che no iera el mus'cio? — No: dove che iera el Russo, perché se gavemo perso de novo. E tempo meza ora, ierimo zà ben che prigionieri: mi, Marco Mitis e el saco dele patate. — Ah, e cussì gavé po' fato in prigionia la guera, spetando che la finisse? — Speté, speté! I ne consegna a dò militari con caro e cavai. I omini per nualtri e el caro e el cavai per le patate. E i ne mena in retrovia. E cussì — mezogiorno circumcirca che doveva esser — mi go sentido 'sti dò Russi che parlava fra de lori, de fermarse. Savé, savendo un fià de croato, se pol capir. Almanco el conceto. — Mi inveze no capisso propio gnente... — Russo? — No, no, croato. — Indiferente. I se ferma là sul jazzo che doveva esser un lagheto soto. Mi me intendevo, savé: ve disevo che andavo a schetinar de mulo in lago de Vrana. E alora digo: «Da, da, qua qua», e con una piera batevo el jazzo per véder se el iera duro bastanza. E vedo in quela che 'sti dò Russi prepara per far fogo. Perché, podè capir, fermarse là senza fogo, voleva dir morir incandidi. E po' sul fogo i voleva farse un per de patate. — Ah, patate rostide soto la zenere? Xe bone! — Indiferente. Lori impizza 'sto fogo e, mi batendo cola piera go subito capido dove che el jazzo iera sutilo e dove che el tigniva. E ghe digo a Marco Mitis: «Marco, métite de qua, métite de qua!» E 'sti dò Russi, inveze, se ga messo più in mezo con 'sto fogo, che i ga fato anzi un fogòn per scaldar anca el cavalo. E a un zerto momento, savé quel sussuro che fa la tela co' se sbrega? Quel. A un zerto momento, ga fato quel. — Chi? El cavalo? — Maché el cavalo! El jazzo! El jazzo che tutintùn se ga spacà. Jazzo sutilo, peso, fogo, per forza, cossa volé altro? El cavalo, perché le bestie ga l'istinto, se ga subito tirado indrio, mi e Marco Mitis ierimo sul sicuro, e i dò Russi inveze drento in acqua che i zigava «Mati Bòsia!» — Madre de Dio! E i se ga negà? — A esser cativi se podeva lassarli negarse in fredo. Ma mi e Marco Mitis gavemo ciolto i s'ciopi sui de lori e ghe li gavemo slongadi che i se guanti. I xe vignudi fora duri come caramei, che i pareva, savé, dò scampi congelai. E mi e Marco Mitis li gavemo carigadi sul caro, lori e le patate. El cavalo davanti e nualtri de drio col'arma, fin che semo rivadi a passar de novo el fronte. Al Regimento 97 i ne calcolava zà per persi: inveze semo tornadi con patate, caro, cavalo e dò prigionieri. Quela istessa note, visto che iera San Silvestro, Picola Medaglia i ne ga dado. E gnochi de patate. Aré de cossa che se se contentava quela volta! MALDOBRIA XXXV - IL SACCO DI ANTÌVARI In cui si parla di quello che, assieme a un altro, è — da noi — uno dei più antichi mestieri del mondo: il contrabbando, e di come a Rabaz, dopo il pensionamento della Finanza Rimbaldo cominciò l'era dei Buttoraz. — Ah, sior Bortolo, vù sé propio come mio padre povero: el stesso moto co' el se fazeva el spagnoleto solo si stesso, adesso assai pochi usa... — Eh sì, siora Nina, adesso pochi usa, ma una volta tuti se fazeva soli, con una man sola, qualche volta, se fazeva el mistro Bogdànovich e con quel'altra el disvidava una vida spanada. E quante sorte de tabaco che ve iera una volta: iera Drama, Barba del Sultano, tipo Josèfa, Levante, tante, tante sorte iera de tabaco. Cossa che no se ga portà tabaco de fora, soto l'Austria! — Perché? L'Austria no gaveva tabaco? — Cossa no gaveva tabaco l'Austria? L'Austria gaveva de tuto, fora che limoni. In Erzegovina iera tabaco a boca desidera. Ma mi disevo che se portava de fora, per dir el maritimo. Savé, anche soto l'Austria el tabaco pagava assai dazio. E alora el maritimo portava, no? — Ah, perché portando, no se pagava dazio? — No sicuro portandolo come el Santissimo in procession. Ma dài, siora Nina, ghe voleva portar de scondòn... — El tabaco? — No, i fulminanti. Ma sicuro che el tabaco! De cossa stemo parlando? Mama mia cossa che no se portava! De Montenegro, de Levante, de Costantinopoli. Cossa che no ga portado de Antìvari tabaco, presempio Piero Tomìnovich: sachi. — In spala? — Ma come in spala? Come se podeva portar el saco de tabaco in spala davanti dela Finanza? Disevo che el portava sachi cola barca. Savé, quela volta assai se usava ligar el saco de tabaco soto dela colomba, prima de andar drento in porto. — Soto dela colomba dela barca? Ma come? No se bagnava? — Siora Nina: el saco de tabaco se lo ficava drento in un saco de inzerada ligado ben stagno, che se fazeva aposito. — Ahn! E alora? — E alora, fata la iera, perché a Ràbaz, prima de andar drento in porto, Piero Tomìnovich fazeva ligar el saco soto la colomba. Anzi el gaveva fato meter aposito un anelo. Dopo el ligava la barca in mezo del porto sula boa, e el spetava che vegni suso la Finanza per la visita. Lui tuto ghe mostrava, e sicome che no i trovava gnente, perché el saco iera soto, i ghe dava libera pratica e amen. Po', dopo, de note, col scuro, i portava el saco de tabaco in tera col caìcio. — A Ràbaz questo? — Oh, in tanti loghi. Ma massime a Ràbaz. Perché là ve iera Finanza el vecio Rimbaldo. Finanza del'Austria bon omo. E lui, mi calcolo, saveva tuto, anca perché ogni volta, se come ogi rivava Tomìnovich, come diman Tonissa, che vigniva a star cognà de Tomìnovich, ghe portava a casa quel mezo chilo, mezo chilo e mezo quarto de tabaco tipo Josèfa che ghe piaseva assai al vecio Rimbaldo. — Ah, i iera dacordi? — No dacordi. Dove una Finanza del'Austria, gavessi lassado, vedendo! El vecio Rimbaldo no vedeva e amen. Ocio no vede e omo no sa. E po', co' i ghe portava, i ghe portava. Perché tante, tante robe i ghe portava. Fighi suti, ovi, oio. Che anca oio pagava dazio. Poco, ma un poco pagava. E cussì i ghe portava anca tabaco, oh dio quel poco: mezo chilo, mezo chilo e mezo quarto, giusto de gaver per uso. Quela volta Piero Tomìnovich gaveva l'«Imacolata». — Ah, el gaveva l'Imacolata a bordo, el iera divoto? — Ma cossa l'Imacolata a bordo? «Imacolata» se ciamava la barca de Piero Tomìnovich. Oh dio, divoto: chi no iera divoto quela volta? Ma lui su 'sta «Imacolata» ligava el saco de tabaco de soto. Me ricordo che, quel periodo, ierimo imbarcadi con lui — giovinoto iero ancora: assai prima dela Prima Guera — ierimo mi, el mistro Bogdànovich, che apena dopo el xe deventà mistro, e Pillepich, povero, che gaveva ancora la gamba. Insoma me ricordo che vignivimo de Antìvari con carigo general per Trieste. E se fermemo a Ràbaz. — E gavevi el saco de tabaco? — Natural, come ogni volta che vignivimo de Antìvari. E insoma, come che stavimo per ligarse sula boa, vedemo che ne vien incontro presto, presto col caìcio Tonissa, 'sto cognà che ve disevo de Piero Tomìnovich. Come xe, come no xe, baci abraci. Una volta el maritimo 'ssai usava basarse: savé, ogni viagio ve iera un pericolo. Ma po' subito 'sto Tonissa dimanda se gavemo savesto. Savesto cossa? Come? Che ancora no gavemo savesto? Che el vecio Rimbaldo, sessantazinque anni che el gaveva fato per la Madona de Agosto, i lo ga messo in pension e che propio per la festa del Imperator i ga zà mandà el novo ... — El novo Imperator? — Cossa el novo Imperator? Che l'Austria no ga mai cambiado Imperator, solo in ultimo co' iera zà guera e po' iera zà tuto finido. El novo, la nova Finanza al posto del vecio Rimbaldo. E che 'sto novo, tanto per cominziar, no el xe un patrioto de qua, che el ga mustaci de fero, brute maniere, un selvadigo che prima iera a Rogòsniza, sempre cola bareta de Finanza in testa, che el povero Rimbaldo no usava meter mai e che a una campagnola de Repénda, per un fià de sal che la gaveva soto la còtola — savé come che una volta gaveva le còtole le campagnole — el la gaveva fata andar in dispiazeri. — A Sànsego una volta le done gaveva dòdese còtole una sora l'altra... — Indiferente. Mi no ghe go mai contado le còtole ale sansigote. Fato sta che Tomìnovich disi: «Come, Tonissa, no xe più Rimbaldo?!» «No, no ve xe più Rimbaldo; el ve xe in pension. Mi credevo che vualtri savevi.» E che questo novo, Bùtoraz, che el se ciama Bùtoraz, figurévese, el xe un Longino pezo de quel che ghe ga dà la lanzada a Nostro Signor in crose. E che se gavemo savesto cossa che el ga fato mércoldi. Che no, che come podevimo saver cossa che el ga fato mércoldi, che no savevimo gnanca che i ga messo in pension Rimbaldo? Bon: che come mércoldi xe vignudo su, anca lu de Antìvari, Barba Nico cola «Incoronata» e che 'sto Bùtoraz senza dir né ai né bai, el ghe ga fato passar el cavo soto dela colomba e che el ghe ga trapado el saco de tabaco. E che subito el ghe ga portà via la matricola e po' dibatimento a Pola. Insoma che a Ràbaz, oramai, con 'sto Bùtoraz, no xe più né un viver né un morir. Passado el cavo soto dela colomba, pensévese! — Ma come passado el cavo soto la colomba? — Come che usava far la Finanza, siora Nina, ma solo in porti grandi. Dove se gaveva mai visto una roba compagna in una Ràbaz? Capì: con dò caìci, un de qua e un de là dela barca, la Finanza passava el cavo soto e se iera qualcossa, incozzava, per forza. — Ah! Due Finanze? Una de qua e una de là? — Sì, in porti grandi. Ma dove ve iera dò Finanze a Ràbaz? Ve iera una Finanza sola. Solo che 'sto malignazo Bùtoraz ghe gaveva intimado a quel Nini Longo, che i ghe diseva — savé quel Nini Longo, che se rampigava sui figheri, quel un poco indrìo come mentalità? — el ghe gaveva intimado de cior un caìcio e de passar con lu el cavo dela Finanza soto la colomba del'«Incoronata». E cussì i ghe gaveva trapado el saco de tabaco a Barba Nico. E dibatimento a Pola. — Mama mia, e vù gavevi el saco de tabaco impicado soto dela colomba? — Prima sì, siora Nina. Ma dopo no più a sentir 'ste nove. Difati, no gavemo avù gnanca tempo de ligarse ben sula boa, che vedemo vogar verso de nualtri 'sto Bùtoraz sul caìcio dela Finanza e Nini Longo su un altro che portava, mi calcolo, un zinquanta passi de cavo. — Mama mia! I ve ga passado el cavo soto la colomba! — Sicuro. Dò volte. E anca una terza, che no el podeva capacitarse. «Gavé un anelo soto dela colomba — el ne dise — percossa el ve serve?» «Pei picarini — ghe fa Tomìnovich — perché i omini xe a bordo e i picarini, qualche volta cuca soto!» Gnente, 'sto Bùtoraz fa finta de no gaverìa sentida, el liga el suo caìcio, el manda in tera Nini Longo col cavo e el monta a bordo. Pratica, manifesto, matricole, tuto; el sbisiga de qua e de là, fin nel logo de decenza, con decenza, insoma pareva che no el vadi più via. E alora Tomìnovich ghe dise se el favorisse un bicer de Opollo, che de Lissa i ga portà e che chi bazila more e «eviva, salute!» Anca una carta de sardoni i ga magnado insieme come marenda, intanto che mi, Pillepich e Bogdànovich armisavimo la barca, fazevimo tuti i lavori. — I ga fato marenda insieme? — Marenda sì. Intanto vien ora de pranzo e Bùtoraz dise che lui squasi tornassi in tera. «Bon — ghe fa Tomìnovich — zà che andé in tera, me ciolé con vù sul caìcio e me buté in tera anca a mi che cussì me delibero anche col Governo Maritimo. E vualtri, Pillepich e Bogdànovich, zà che xe 'sta ocasion vignì anca vualtri, ciolévese un remo per omo e voghé vualtri, che a nualtri dopo l'Opollo ne xe greve!» E el ghe rideva a Bùtoraz. Cussì i xe andadi, siora Nina, in tera tuti quatro col caìcio de Bùtoraz. E co' i xe al molo, Tomìnovich ghe dise: «Sentì, Bùtoraz, intanto che nualtri dò adesso andemo al Governo Maritimo, lassè che 'sti dò omini me vadi un momento col vostro caìcio là dela Posta a véder se me xe posta.» Che sì, che perché de no. E cussì, siora Nina ve xe finido tuto. — Ah xe finì cussì? Ma cavème una curiosità, sior Bortolo, dove gavevi sconto el saco del tabaco? — Impicado soto la colomba del caìcio dela Finanza, siora Nina. Perché soto el caìcio dela Finanza, la Finanza no guarda. MALDOBRIA XXXVI - LA RAGAZZA DI CAMPAGNA Nella quale Marìci, campagnola di Ciunski, stupisce in una questione testamentaria l'avvocato Miagòstovich per l'onestà della coscienza e l'acume interpretativo del Diritto e in cui si narra quel che in seguito disse la gente. — Eredità? Una volta, siora Nina, iera eredità, quando che la gente gaveva. Questi che gaveva, che podeva, una volta co' moriva, lassava una facoltà, che se diseva quela volta, in testamento. E anca quei che no gaveva, qualcossa sempre lassava. Mio padre me gaveva lassà no so più quanti carati del squero dei Bùnicich, che dopo lori ga ricusado, disendo che a mio padre i lo gaveva pagà fora. E inveze i ghe gaveva dà solo una picolezza... — Quando, questo? — Quando? Prima de prima de no so quala guera! Co' iero ragazeto ancora, perché mio padre xe morto giovine. E i se ga profitado. Anca l'avocato Miagòstovich diseva che i Bùnicich se gaveva profitado... — Eeh! La gente come che pol, cussì se profita... I fradei de mio marì... — Indiferente. L'avocato Miagòstovich me diseva sempre: «Vostra madre, povera, xe stada sempia, perché la se ga impetì tropo tardi, e inveze Marìci de Barba Chiole, una semplice campagnola de Ciunski xe stada più furba. Anca de mi.» — Più furba de vù, sior Bortolo? — De mi? No de mi. De lu, de lu, del avocato Miagòstovich. Lu diseva sempre: «Pensévese che Marìci de Barba Chiole, quela volta xe stada più furba de mi...» — Marìci de Barba Chiole? Qual Barba Chiole? No conossevo... — Come podevi conosser? Che lu iera morto quela volta che el gaveva fato testamento? Barba Chiole ve iera quel dela barca dei legni... — Ah, el gaveva una barca de legno? — Tute le barche, quela volta, iera de legno, siora Nina: dove se se insognava, in antico, in una Lussin, de gaver una barca de fero? Intendevo dir che lui gaveva quela barca — gnente de tale, una batana, ma una bela batana — che in porto a Lussin el portava i legni per arder de una parte al'altra del porto, che se no, a portarli per tera, iera una strada longa che no finiva mai, savé come che xe el porto a Lussin... — Legni per arder? — Legni per arder, sì. Con cossa se pareciava quela volta? Col gas asfissiante? Andove iera gas? Coi legni per arder se pareciava. E alora per portar 'sti legni per arder de una parte al'altra del porto e no far strada longa, lu ve gaveva 'sta batana, una bela batana che lu vogava e el gaveva anca el can ... — Per vogar? — Ma cossa per vogar? Che can ve voga? Can de barca, come che ga tute le barche. Quei che baia come bestie. No gavé mai visto un can de barca? — Eh, i cani de barca mòrsega! — Per forza. Per quel xe el can de barca. Che no vadi nissun in barca co' in barca no xe nissun. — Ah! Che no vadi nissun co' no xe nissun? — Natural. Insoma per farvela curta, che ve contavo, 'sta Marìci de Barba Chiole che gaveva la barca dei legni, ghe vigniva a star parente, come, fia de una sorelastra, nevoda, insoma. Squasi prima nevoda. E de giorno, solo che el iera, puto vecio, ma vecio per bon, savé, la vigniva zò de Ciunski ogni giorno a tènderlo, a disbratar, a pareciarghe quel che ghe ocoreva. E a piedi savé, perché dove iera coriere quela volta? — Dove, dove iera coriere? — In garàs de sior Cesare a Pola. Ma no a Lussin. Sì: iera la coriera de Cherso, ma ghe voleva intivarla. Insoma ela lo tendeva, de giorno. — E de note? — E de note, el dormiva, no? Cossa ocoreva che la lo tendi? Ben, 'sto Barba Chiole dela barca dei legni, che iera puto vecio, ma propio vecio, gnente ben no el se ga comportà... — Mama mia! El se profitava de questa povera Marìci?... — Ma noo! Cossa disé eresìe! Omo de Cesa che el iera! Lui no ve se ga gnente ben comportà, co' el xe morto. Perché, figurévese, che 'sta bela batana che lui gaveva, un dopopranzo, primo dopopranzo che iera, i la ga vista in mezo del porto che la andava per le sue. E lu i lo vedeva cufolado, come. Xe andado là col caìcio Pillepich del Governo Maritimo. E gnente: morto. Col can che baiava come una bestia. Ma gnente ben no el se ga comportà... — Eh, se el xe morto cussì, vogando... — Ma cossa morir vogando? Uno more co' ga de morir. E lu xe morto vogando. Anzi: bela morte. Iera poco prima dela Madona de Agosto. Iera un sol, ma un sol quel giorno! Anca per quel ga calcolado el dotor Colombis. Bon: lui, ve disevo, no se ga comportado gnente ben con Marìci. Perché 'sta Marìci, dopo che i lo gaveva sepelido e tuto, quando che la xe andada a casa sua de lui a meter in ordine, a véder in comò cossa che iera e cossa che no iera, soto i linzioi piegadi, la ga trovado el testamento. — De Barba Chiole? — No: del Baron Revoltela. Sicuro che el testamento de Barba Chiole, se iera morto Barba Chiole. E iera tuto scrito. Che la casa iera dei Bùnicich per ipoteca, sempre furbi i Bùnicich! E che la barca, ela, Marìci, che la la vendi. E che venduda che la la ga, i soldi la ghe li daghi a Don Blas per la cesa, per sovvenire ale necessità della Chiesa, e che a ela, ala buona Marìci, con tante grazie, el ghe lassa quei pochi de linzioi e savé cossa ancora? — Cossa, cossa, le intiméle? — Maché intiméle. Sicuro che anche le intiméle, perché coi linzioi va anca le intiméle. El can. El can de barca el ghe ga lassà, come in ricordo. Quel che baiava come una bestia. «Insoma, struca struca, ga dito l'avocato Miagòstovich co' ela ghe ga portà a mostrar 'sto testamento — 'sta letera, insoma, trovada soto i linzioi — struca, struca ghe ga dito l'avocato Miagòstovich, struca struca cara Marìci, se lassemo fora quei dò linzioi, Barba Chiole ga lassà tuto ala Cesa fora che el can ...» — Eh sicuro! I Cani in cesa, come volé? — No xe quistion de cani in cesa, siora Nina. Xe che — ghe ga dito l'avocato Miagòstovich — a vù, Marìci che tanto lo gavé tendesto no el ve ga lassà un bel gnente. Fora che 'sto bel onor de vender la barca e darghe i soldi ala Cesa. E el can de barca che baia come una bestia. «Savé cossa, Marìci — el ghe ga dito — mi no son omo de Cesa, come tanti, ma son omo retto e, metendome una man sula cossienza, savé cossa che ve digo? Vu gavé trovà 'sto testamento — che po' xe solo una letera — a mi no me gavé dito gnente, e vù, pulito, 'sto testamento lo buté in fogo. E cussì, quel che iera de Barba Chiole ve vien tuto a vù per legitima, unica parente che sé.» — Eh, come unica parente, se no xe altri parenti... — Sicuro. Ma ela ga dito: «Come? Mi no posso far una roba compagna. Come, dopo, fazendo un tanto, podessi andarme a confessar de Don Blas?» «Eh, ben, alora — ghe ga dito l'avocato Miagòstovich — Marìci mia, se vù pretendé anca de confessarve, in 'sto mondo no se pol gaver tuto. Mi me pareva giusto cussì, come che ve go dito, e vù fé come che volé.» E el xe andà via, perché sonava mezogiorno in Domo. — Eh usava sì l'avocato Miagòstovich andar via co' sonava mezogiorno in Domo. — Tuti usava: iera ora de pranzo. Difati xe andada via anca Marìci. Solo che dopo, savé cossa che la ga fato? Ela ve xe andada de Visco. Savé quel Dalmato, toco de omo che ghe portava col caro i legni per arder a Barba Chiole? — Visco? Qual Visco? No so. — Bon: lu. «Visco — la ghe ga dito — vù zà porté i legni col caro, se vù gavessi la barca dei legni de Barba Chiole defonto, ve sarìa noma che ben! E cussì, se volé, mi ve la vendo.» Ah sì che sì — ghe ga dito Visco — che giusto el pensava e che quanto che la vol. Che quanto che la vol, se comoderemo, ma che ela insieme cola barca la vol venderghe anca el can. «E va ben, bòn xe», ghe ga dito Visco. E che alora — ga dito ela — che el ghe daghi venti corone per la barca e dozento fiorini per el can. «Ma come — ghe fa Visco — dozento fiorini per el can? Ma cossa sé mata, Marìci mia?» «Sì — ghe ga dito ela — el can come can, xe caro, ma la barca come barca, xe regalada!» «Boga ti — ghe ga dito Visco — anca questo ve xe vero. Tuto sta meterse dacordi.» Insoma ala fin ga finì che i se ga comodà per zento e otanta fiorini per el can e venti corone per la barca, quel senza gnanca discuter perché iera bon prezzo. — No intendo. — Come no intendé? Cossa diseva el testamento de Barba Chiole, che po' no iera gnanca un testamento, iera una letera? Diseva che el can xe suo de ela e che quel che la ciapa per la barca la ghe daghi ala Cesa. — E ela ga dado? — Come no? Andando via de confession, 'ste venti corone la le ga butade nela casseta dele limòsine. Capiré, iera una picolezza. Ma istesso Don Blas se ga stupido, perché nela casseta delle limòsine del Domo, chi gaveva mai visto venti corone tute intiere in una Lussin? — Ma chi pretamente ve iera 'sta Marìci? — Ma sì, dài, siora Nina! Marìci: quela che i ultimi ani ga tendesto l'avocato Miagòstovich, co' el iera restà solo. Che po' el ghe ga lassado tuto a ela in facoltà per testamento. Che anzi la gente assai parlava. Ma no ve iera vero gnente, siora Nina. Perché l'avocato Miagòstovich, anche se no el ve iera omo de Cesa come tanti, iera omo retto. MALDOBRIA XXXVII - L'ULTIMA SPIAGGIA Veridica origine di una storia bilingue della quale si propone come protagonista Anteo, detto — non a torto — Maravèa, le cui favolose avventure spaziano dall' Oberkommando di Leopoli, all'America di Roosevelt. — Mi calcolo, siora Nina, che xe più Tedeschi qua adesso de istà de quei che iera durante la guera. E ve iera, ve iera, savé Tedeschi qua durante la guera! — Altro che iera, tanti, me ricordo. I iera in vila de Ponta Sant'Andrea, l'Albergo i gaveva requisizionà e po' in Vila Prohàska iera Comando propio, che anzi mia cognada... — Indiferente, vostra cognada no so. Ma Anteo assai se missiava con lori. Oh dio, missiarse... xe che lui parlava franco tedesco e insoma assai el parlava con lori. — In Comando, 'sto Anteo? Chi questo Anteo? — No in Comando. In local. Come, chi questo Anteo? Anteo, po', quel che ve stava in volta dela strada, quel che i lo ciamava Maravèa. Come no ve ricordé? Anteo Maravèa, perché lui ve iera un omo che contava sempre maravèe... — A 'sti Tedeschi in local? — Anca. Ma sempre lui in vita ve gaveva contado maravèe. No pretamente busìe; maravèe. Perché lui, Anteo, anzi, ve gaveva visto mondo, savé. Lui ve gaveva viagiado per Nort America no so quanti anni, in quei anni che in America no se podeva bever spiriti e lui contava che in America, con suo cognà che stava in America, el ve gaveva fato imensi contrabandi de spiriti. Ma massime, lui ve contava che prima dela Prima Guera lui ve gaveva navigado col Lloyd Austriaco e che po' in guera el ve iera stado in Galizia de Fanteria de Marina. — E no iera vero? — Come no iera vero? Tuti noi de qua che ierimo de Fanteria de Marina i ne gaveva mandado in Galizia, per passar 'sti fiumi, che inveze co' semo rivadi là i iera zà tuti iazadi. No, no, maravèe lui contava che in Galizia lui ve iera propio in Comando de Leopoli con 'sti grandi. E lui ga avù 'sta fortuna. — De esser in Comando de Leopoli con 'sti grandi? — Noo. Questo lui ve contava dela Prima Guera. No, la fortuna de Anteo xe stà che in 'sta ultima guera, lui zà in età che el iera e pratica de tedesco che el contava che el gaveva fato in Comando a Leopoli dela Prima Guera, lui la Marina Italiana lo gaveva messo pulito in Capitaneria de Porto de Pola, perché a Pola vigniva sempre ufiziai tedeschi a chibizzar, perché lori, se vedi che zà congeturava... — No capisso... — Per forza, in principio el Germanico no se fazeva capir. Ma indiferente. La fortuna de Anteo ve xe stada che quando che xe vignù el patatràc, lui ve iera giusto in permesso qua e cussì el se la ga scapolada. — Ahn! Lui ve iera in permesso qua, co' xe vignù el Ribaltòn? — No el Ribaltòn, siora Nina. El patatràc. El Ribaltòn ve xe stà dela Prima Guera, el ribaltòn del'Austria. E el patatràc, de 'sta ultima guera, el patatràc del'Italia. Che po' a nualtri, aré come che xe le robe, ne ga tocà zumbarseli pulito tuti dò. — Ahn, el patatràc! — Sicuro el patatràc del'Italia, per la Madona de Setembre, che 'sti poveri militari italiani ve scampava de Dalmazia, de Croazia e che qua tuti ghe ga dado braghe, sacheti che i se meti in zivil — che istesso pò 'sti altri li conosseva dele scarpe de militar — piati de minestra, una roba e l'altra. — Eeh, me ricordo, quela volta, noi gavemo dado el dàbile, povera gente... — Bon, Anteo, inveze, ve disevo el ga avù la fortuna che el iera giusto in permesso co' xe vignù el patatràc e cussì el iera qua, pulito a casa, che nissun ghe dimandava gnente. E inveze el ve xe andà a zercar disgrazie. — Per politica? — Maché per politica, Anteo! Lui, in local, che el parlava sempre con 'sti Tedeschi de Marina Germanica che vigniva in local a bever, ga finido che el se ga fato inzinganar. Perché lui, che parlava franco tedesco, el ghe contava per tedesco a 'sti militari tedeschi, maritimi massima parte, una roba e l'altra. Maravèe de quando che lui navigava col Lloyd Austriaco, de quando che el iera sul fronte in Galizia, che lui iera stado propio in Comando de Leopoli e che là iera anca un Comandante germanico che se ciamava Obermuller e se i lo conosse... — E i lo conosseva?... — Ma cossa volevi che lori conossessi un Obermuller, ancora dela Prima Guera a Leopoli, che po' anca adesso in ogni logo in Germania ghe xe un quarantaquindici Obermuller! No, volevo dirve che Anteo se ga fato inzinganar de andar in Amburgo. — Che là iera 'sto Obermuller? — Ma no! Lui, che el parlava franco tedesco, che el contava maravèe de Leopoli, del Lloyd Austriaco, una roba e l'altra, lui, un giorno che lo go intivado al molo, el me ga dito che el va in Amburgo. E mi che come in Amburgo? E lui che sì, in Amburgo. Perché andando come piloto in Amburgo — che i Tedeschi gaveva assai bisogno de maritimi che ghe lavori per lori — bon, che lui, andando in Amburgo come piloto el gaverà franco la panatica e el dormir, natural, e in più ghe vignirà no so quante zentinera de marchi che ghe resterà neti. Che cussì i ghe ga mostrà propio una carta. Insoma el se ga fato inzinganar. — Perché inveze no i lo ga mandado in Amburgo? — Sicuro che i lo ga mandado in Amburgo. Contenti 'sti Germanichi de trovar un maritimo che ghe va in Amburgo, che lori in ultimo i gaveva sempre meno omini. E cussì per ferovia el xe andà in Amburgo, che po' el ga contà che iera orori... — In Amburgo? — Anca in Amburgo, perché massima parte 'sti Inglesi e 'sti Americani coi aroplani bombardava Amburgo. Ma zà prima, in viagio, el ga avudo no so quanti bombardamenti. — Anteo? — Anca Anteo. No xe che i bombardassi pretamente Anteo: i bombardava 'sti treni che andava in Amburgo. Ben, no volé che co' finalmente el xe rivà in Amburgo, che i lo gaveva messo propio come piloto e tuto, lui per 'sti locai che andava 'sti piloti, 'sti maritimi germanichi a bever, lu che parlava franco tedesco, el ga tacà subito a contar maravèe. Che lui, ga fato Nort Atlantico no so quante volte: col Lloyd Austriaco, col'Austro-Americana, e anca con barche picole de coletame, che lu ga fato contrabandi imensi, che tuta la barca iera solo che un contrabando ... E qua el ga avù el momento del macaco. — Che momento del macaco? — Ma sì, se dise per dir. Una sera che lui iera in un de 'sti locai de Amburgo, savé de quei locai germanichi con un che sona el piano e una baba che canta in calze coi ligambi, cola vose de omo ... — No go presente... — Indiferente: quei. E insoma una sera che Anteo iera in un de 'sti locai, che iera anca ufiziai dela Marina de Guera che i beveva cògnàc, vèrmut, de tuto, come che usa bever i Germanichi, lui ga cominzià a contar maravée, che lui tanto contrabando de spiriti el ga fato che lu conosse una rota per andar in Nort America che no conosse nissun... — Che el conosseva solo lu? — Cussì el contava, forsi anca el saveva, anzi sicuro qualcossa el saveva, perché anca el ghe la ga mostrada a un ufizial de Marina Germanica, su una carta del Mondo che iera là impicada sul muro. Franco tedesco che el parlava, imbriago che no el pareva, lui ghe spiegava su 'sta carta del Mondo che tante volte el ga fato 'sta rota per Nort America fazendo contrabando de spiriti e che mai né in andata né in ritorno no i ga intivado nissuna altra barca. E che po' lu in America rente de Néviork el conosse una giarina, un logo per sbarcar, che quando che lu e suo cognà de America i sbarcava spiriti no i ga mai intivado anima viva. Ben, siora Nina, savé cossa che xe nato? — Che i lo ga messo dentro per contrabando ... — Ma cossa volevi che ghe podessi importar ai Germanichi del contrabando de spiriti che lu gaveva fato in America prima dela guera! Tuto altro ve iera. E insoma come de sera, el gaveva contado e subito, come de matina bonora, xe vignudi dò de lori in montura, là dove che el dormiva — in casa de dò veci, un marì e moglie — che ancora el iera in leto, a ciorlo. — Mama mia! I lo ga mandà in Germania! — Ma cossa i lo ga mandà in Germania, se el iera zà in Germania? Ben pulito i lo ga ciolto e, sempre con 'sti dò de lori, un per parte, i lo ga messo in treno. — Per castigo, come? — Maché castigo! I lo ga messo in treno e i lo ga spedido. Savé dove? — Dove? Dove? — Quel ve iera, siora Nina. Gnanca Anteo no saveva dove. Giorni e giorni i ga viagiado soto i bombardamenti fina che i xe rivadi a Bordò. — A bordo? — Sì, anca a bordo. Ma a bordo a Bordò. Bordeàux siora Nina, che xe in Francia, ma iera i Tedeschi anca là. Bordò, dèi, Bordeàux in Atlantico. — Mi gavevo una volta una blusa bordò che me stava assai ben, tuti me diseva che me stava assai ben, che me donava propio. — Meo per vù, ma cossa ghe entra? Xe che a Bordò, a Anteo i lo ga imbarcado su un vapor, un bel vapor francese, contava Anteo, motonave propio, che apena che i ga molado le zime de note e i xe vignudi fora del porto, subito de matina bonora Anteo ga visto che doveva esser soto un tranelo. Perché savé cossa che i ga fato? — I lo ga mandà al fronte? — Ma cossa al fronte? Che fronte? 'Sti Germanichi, de matina bonora ga tirado zò la bandiera germanica e tirado suso quela del Panamà ... — Panamà, come? — Panamà, come che anca adesso tante barche bati bandiera del Panamà. A quadri rossi, bianchi e blu cole stele. Bela bandiera. Solo che i dà paghe misere. Ben, indiferente. Anteo gaveva subito congeturado che iera un tranelo, come, anca perché el Comandante de 'sta barca che iera un germanico ghe ga tirà fora una carta del Mondo, che el ghe mostri 'sta rota del Nort Atlantico che el sa solo che lu. — Mama mia! E el ghe ga mostrà? — Qualcossa el ghe deve aver mostrado: su per Islanda, zò per Teranova, quela, mi calcolo xe una rota che no sa nissun. Fato stà che 'sto Comandante ghe ga dito che va ben, che xe propio quela che el pensava lu. E che adesso — e qua el ga tirà fora una carta del porto de Néviork, tuta scrita per inglese — che el ghe mostri dove che xe 'sta giarina rente de Néviork, 'sto logo per sbarcar che quando che lu sbarcava spiriti no i ga mai intivado anima viva... — Mama mia, la giarina! E Anteo ghe ga mostrà?... — Qualcossa el ghe deve aver mostrado, perché 'sto Comandante germanico vardando cola lente, ga dito che anca lu pensa che in 'sta giarina se pol andar in tera col caìcio. Che sicuro, ghe ga dito Anteo, che sempre lui sbarcava spiriti là con suo cognà de America che lo spetava e el ghe ga contà che difati lui ga ancora un cognà in America che sta pretamente a Néviork con sua sorela. Bon, ghe ga dito 'sto Comandante, che adesso el vadi e che co' sarà el momento el lo ciamerà. — Che momento? — No so mi. Intanto Anteo xe andà e, come che el stava per tornar in gabina, el capita in salon. — De prima classe? — No so mi se iera de prima o de seconda classe. Iera un unico salon de bordo, dove savé chi che iera? Iera pien de ufiziai tedeschi, anca de tera, sentadi per i canapé e in mezo dò giovini in montura germanica de Marina che parlava per american... — Con chi? — Con chi? Fra de lori e con tuti questi sentadi che ghe dimandava robe. E Anteo che, natural, gaveva viagià per Nort America, capiva propio che i parlava per american. — In montura germanica i parlava per american? — Ma sì, siora Nina. Cossa, no gavé capì? Quel ve iera el tranelo. 'Sta barca ve iera una barca travestida, aposta per sbarcar 'sti dò Germanichi in America a far finta de esser Americani. — E se podeva? — Ma no, siora Nina, che no se podeva! Questo ve iera spionagio, sabotagio! Chissà cossa che gaveva ordine de far 'sti dò Germanichi in America fazendo finta de esser Americani. — E come un fa finta de esser American? — In tante maniere, siora Nina. Parlando american, vestindose de American, savendo tuto de tuti de America; e po' carte false, natural, e pacchi cussì de dolari in scarsela. E lori, 'sti dò giovini germanichi, in salon de 'sto vapor i fazeva istruzion. — Istruzion? I marciava su e zò per el salon, ein zwei? — Maché ein, zwei, drei. Anteo che se gaveva sentà su un canapé, sentiva che i ghe dimandava: «Con che tran si va a Brooklyn?» e lori diseva «Numero Sei», per esempio. «Quanto costa un caffè nero a Néviork?» E lori diseva: «Dieci cents». «Dove siete nati?» E lori diseva: «Cicago». — Rabiadi, come? — Ma no: lori fazeva finta de dir che i xe nati a Chicago, e i ghe diseva la strada, el numero, tuto, la scola che i gaveva fato, chi che iera el meo campion de bàseball de quel anno... insoma tuto: come veri Americani. No gavé mai visto in cine? — Ahn! Spionagio! — O sabotagio. Anteo no saveva. E cussì ogni giorno. E savé cossa che i fazeva anca? I distudava la luce e i fazeva cine. I mostrava tute 'ste film americane, dove che se vedeva 'sti artisti americani che caminava per Néviork, per 'ste città, che i andava in tassametro. Iera, contava Anteo, Clark Gàble, Loretta Jung, che presempio Loretta Jung e Clark Gàble andava in un caffè, un de 'sti bar cole sedie alte come che i usa in America e i ghe diseva al barista «Martini»! — Martini? Un italian 'sto barista? I lo ciamava? — Ma noo: i ciamava un Martini de bever. Un Martini ve xe, siora Nina, un vermut col spirito, forte seco. Dry se disi per american. Martini drai. «Martini». E i ghe dava. — A Anteo? — Ma no, nel cine che i ghe mostrava a 'sti dò Germanichi che doveva far finta de esser Americani, per via che i fazzi pratica. E i ga fato, savé, pratica: che quando che i li ga vestidi in zivil i pareva più americani de Francot Tone e de Eroi Flin. — Ahn, i li ga vestidi in zivil? — Sicuro. Cossà volé che i li mandi in America vestidi in montura germanica? E co' xe stà el momento che el Comandante del vapor li ga fati calar in caìcio, el ga ciamado Anteo che el se cali con lori e che el li meni in 'sta giarina dove che lu sbarcava i spiriti e che no iera anima viva... — E no iera anima viva? — No. «E mai no me dismentigherò — contava Anteo — de quando che vogando nel più profondo scuro semo rivadi in 'sta giarina, che se vedeva in fondo, in fondo Néviork con tuti 'sti gratacèi che luseva, e no iera anima viva...» — No ve iera anima viva a Néviork? — Ma come volé siora Nina che no ve fussi anima viva in una Néviork? Ve go dito che iera tuto impizzado! In 'sta giarina no iera anima viva. E là rente lori pulito ga ciapado el treno e i xe andadi a Néviork. — E Anteo con lori? — No pretamente con lori, drio de lori. E, osservandoli, lui se ga capacitado che no xe nissun come i Tedeschi, perché lori ve pareva propio Americani e nissun se inacorzeva de gnente. Lori ve xe rivadi in stazion de Néviork, i ve xe vignudi fora, i ghe ga anca dimandado a una guardia a che ora che parte el tran numero Sei per Brooklyn, e tuto ben. — I xe andadi a Brooklyn? — No: lori voleva solo sincerarse, far la prova se va tuto ben. E tanto andava tuto ben che, co' i ga visto un de 'sti bar cole sedie alte, come che i ghe gaveva mostrado in cine, i xe andadi drento, pulito i se ga sentado su 'ste sedie alte e i ga ciamà «Martini!» — Martini? — Sicuro. E el barista ghe ga dimandado: «Dry?» E lori: «Nein, zwei!» in dò che i iera e no in tre. — Ahn: zwai inveze che drai! — Ma no, siora Nina: per tedesco inveze che per american. E cussì i li ga guantai. — Mama mia! E Anteo, povero? — Anteo gnente. Anteo xe andà a casa de suo cognà. Lui no ve gaveva ordinà Martini. Lui ve gaveva ordinà un mismas. MALDOBRIA XXXVIII - MAL DI MARE Nella quale si celebra anche sui mari il trionfo della medicina, quando, non essendo stati ancora scoperti gli antibiotici, valeva peraltro il principio del colpo d'occhio e del niente schifo pel malato. — Mi calcolo che i dotori de una volta doveva esser assai più bravi de questi de adesso. Perché dove quela volta i gaveva 'ste peniciline, 'sti sulfamédici, 'ste robe che i ga adesso? Lori doveva propio de sua testa capir, dir, far. Savé chi che una volta ve iera un bravo dotor? Prima dela guera, parlo, questa ultima, che iera giusto finida quel'altra, che noi gavemo poco godudo, in fondo. Savé chi che ve iera un bravo dotor quela volta? — El dotor Colombis. — No, siora Nina. El dotor Colombis ve iera bravo più in antico. Dopo el gaveva perso le gambe e el visitava solo che a casa. El dotor Coglievina ve iera un bravo dotor. Che anzi tuti se gaveva stupido. — Che el iera bravo? — No che el iera bravo. Che el gaveva studiado per dotor. Perché lui ve iera fradelo del Comandante Coglievina. — E no el gavessi podesto, come fradelo? — No podesto cossa, siora Nina? — No so: disevi... — Disevo che tuti se gaveva stupido che el dotor Coglievina gavessi studiado per dotor, perché massima parte i Coglievina ve iera tuti maritimi. Maritimi? Comandanti! Capitani! Capimachinisti! E le sorele anca, tute sposade, fora che quela puta. — Eh, se la iera restada puta! — Ma no: intendevo anca le sorele tute sposade con maritimi. Maritimi? Comandanti, Capitani — el Capitan Premuda — Capimachinisti! Con cussì omini le ve se gaveva sposado. E inveze lui no. — No el se gaveva sposado? — Ma come no el se gaveva sposado? El se gaveva sì sposado. Tardi, con una che dopo xe restada vedova, ma lui ve iera l'unico che dei Coglievina no gaveva volesto navigar. Dotor. Lui subito ga dito che el studierà per dotor, che in fondo i dotori qualunque roba che nasse, nissun li toca. Che, cossa pericolar per mar, una roba e l'altra. Insoma, el se gaveva dotorado propio a Padova, dotor. — Dotor del fisico? — Sicuro, dotor vero. Che visitava. Che, quando xe finida la prima guera, lui iera zà anni che el visitava. Condotto. — Dove el visitava? — In ambulanza el visitava. O l'andava per le case. Lui, pretamente dopo dela guera el ve gaveva la condotta a Unìe. Medico Condotto di Unìe. El gaveva vinto. — La guera? — Ma cossa la guera ve gaveva vinto el dotor Coglievina? Che qua, come Austria che ierimo, caso mai, el la gavessi persa. No: el gaveva vinto la condotta. Ancora soto l'Austria. E dopo el iera restà, natural, anca soto l'Italia, perché i dotori no li toca nissun. Savé Unìe, cossa che ve xe Unìe? Isola ve xe: con un unico logo che sia un logo e po' qualche casa, cussì, in campagna. Che, cossa volé: tosse pagana i fioi, febre scarlatina, morbili, tute 'ste robe che ghe vien ai fioi, e po' reumi, che i pescadori ghe vien reumi, atrite — mal de peto a Unìe mai no se ga sentido — mal del zuchero qualchedun, per i veci arterie sclorosi, cataro intestinal, duodeno, qualche taio cola falza — campagnoi, natural — o qualche ciodo che se infetava... — Mio cognà, una volta, con un ciodo ruzine... — Indiferente. Per dirve che, se iera qualcossa de più grave, lui li mandava col vapor a Lussin o a Pola. — Lui chi? — Ma el dotor Coglievina! Che massima parte, però, ve visitava 'sti campagnoi, 'sti pescadori de Unìe. E le crature e le done, natural: parti, co' le partoriva. Lui andava de un, de l'altro, o i ghe vigniva in ambulanza e i ghe diseva: «Dotor, go un dolor qua, che me risponde qua». — Qua, dove? — Ma indiferente: dove che ghe dioliva. «Go un dolor qua che me riferisse qua.» «Go qua qualcossa sul colo che me ròsega come una bestia.» Opur: «Me sento qua soto la boca del stòmigo come un'amarezza, un'ossession.» — Eh, povera gente! — Cossa povera gente! Quele robe che ghe vien a tuti, no? E lui con quela sua fiacheta el ghe diseva: «Ciolé un poco de salicidato, ma no tanto che ve fa brusòr, late caldo, tè petoral, co' andé in leto ciolève do joze de milissa in un bicer de acqua... E gavé una panzera? Tignive, tignive la panzera.» — Tute 'ste robe a un? — Ma no tute 'ste robe a un. A un e al altro. A seconda. Che anzi el ghe diseva sempre al Capitan Premuda, fradel de suo cognà, che fazeva la linia col vaporeto de Lussin, Unìe, Sànsego, San Piero ai Nembi: «Eh, Premuda mio, el ghe diseva: qua ghe volessi gaver zento man. Xe lavor, savé qua, in una Unìe, gavendo la condota. Campagnoi che se ghe ne sente de tuti i colori! Pensévese che ieri me xe vignudo un che me ga dito, che qua soto la boca del stòmigo el ga come un'amarezza, un'ossession.» Ben: no volé che propio in quel anno el dotor Colombis ga perso le gambe? E lui, come spetanza, el dotor Colombis, gaveva anca San Piero ai Nembi e no el podeva più andar. — Eh, cole gambe perse. — Sicuro. Cussì, de Pola, el Fisicato ghe ga intimado al dotor Coglievina de far anca San Piero ai Nembi. E per quel, dò volte per setimana lui andava de Unìe a San Piero ai Nembi col vaporeto de linia. Che «Varda ti, remenghis — el diseva — adesso me toca anca navigar, mi che no go mai volesto navigar.» — Ah, ghe ga tocà navigar? — Navigar, siora Nina! Cossa ve xe un navigar, andar de Unìe a San Piero ai Nembi? Gnanca dò ore. Perché, giusto che i tocava Sànsego e dopo i passava davanti ala Lanterna dela Gruìzza e i iera subito a San Piero. — Comodo. — Comodo? No iera gnente comodo. Perché no iera né un ben navigar, né un ben star in pase. Indiferente. Ala Gruìzza quela volta ve iera come lanternista Barba Checo. — Che iera ancora vivo? — Eh: se i lo tigniva come lanternista ala Gruìzza, el iera ancora vivo. Ma, vecio che el iera, sempre ghe picava qualcossa. E cussì, come che el iera inabituado col dotor Colombis, co' davanti ala Gruìzza ghe passava fumando e fis'ciando el vaporeto, el ghe dava de vose. — Per saludar? — Sì, sì: anca el saludava. «Vivaaa, Capitan Premudaaa! — el zigava del scoio, perché el vaporeto passava propio davanti — «Vivaaa, dotor Colombis!» «No el ve xe Barba Checo, no ve xe più el dotor Colombis! El ve ga perso le gambeee!» «Me dispiaseee!» «Adesso ve xe qua el dotor Coglievinaaa!» «Vivaaa, dotor Coglievinaaa! Savé che go ancora mal de schena? Che tuta la note la moglie me ga messo pape de lin e istesso go mal de schena che no posso star in pìeeee?» — Ma chi questo? — Ma, siora Nina, no gavé capido? Barba Checo ve iera questo. Che iera fanalista ala Gruìzza, che el stava là cola moglie Tona, povera, e che sempre ghe picava qualcossa. E 'sto Barba Checo, co' passava el vaporeto de linia proprio a rente della Lanterna, profitava, prima del dotor Colombis e dopo del dotor Coglievina, per contarghe tute 'ste sue magagne. Che ghe diol la testa, che ghe diol la schena, che no el xe gnente regolare. El iera là sul scoio in pie, cola moglie che intanto netava el pesse, el ghe zigava: «Go mal de schena, che no posso star in pìeee!» «E sentévese — ghe zigava del vapor el dotor Coglievina — ma dopo el ghe diseva: «Metévese la panzera, ciolé salicidato, un poco, no tanto, che dopo ve fa brusòoor...» E intanto el vaporeto filava per San Piero. — Ah: el passava visita, cussì, come. — Sì, a vose. Cossa volé, a Barba Checo ghe picava sempre qualcossa. Che anzi el Capitan Premuda, che iera un bon omo, co' el ghe passava davanti dela Lanterna del scoio dela Gruìzza col vapor, el dava ordine in machina: «Avanti adagio, quasi indietro». E el rideva. Pensévese che una volta fina el ghe ga imprestado el canocial de Marina al dotor Coglievina che el ghe vardi la lingua. — El Capitan Premuda se fazeva vardar la lingua col canocial? — Ma no el Capitan Premuda! El Capitan Premuda ghe ga imprestado el canocial al dotor Coglievina che el ghe vardi la lingua a Barba Checo sul scoio. Che el la gaveva bianca. «Ciolé magnesiaaa!» el ghe ga zigà. Cussì ve iera quela volta, siora Nina. Dove quela volta un dotor ve podeva andar cussì su un scoio? El fazeva ala vose. Cussì, passando davanti. — E co' iera bruto tempo? — Ah, co' iera bruto tempo el dotor Coglievina no andava. «Cossa — el diseva — andarò a pericolar per mar che me fa mal de mar? Anca el dotor pol star mal. Anca la scienza ga i sui limiti». E el restava a Unìe. E po' cossa ghe entra el bruto tempo? Xe stado che una volta, co' el passa col vaporeto, i vede sul scoio solo Tona, la moglie e gnente Barba Checo. «Vivaaa — ziga el dotor Coglievina — andove ve xe Barba Checo?» «Eh, in leto el xe — ziga la Tona — el ve xe assai malamente. El ga la testa calda, che scota e i pie fredi, fredi, jazadi.» «Orpo — ghe ziga el dotor Coglievina — féghe impachi fredi sula testa e impachi caldi sui pie!» E via 'sto vapor per San Piero. — Impachi de acqua de buro? — Indiferente. Questo ve iera come màrtedi. E come vénerdi, co' el dotor Coglievina torna a passar davanti dela Lanterna dela Gruìzza per andar a San Piero ai Nembi, el vede de novo 'sta Tona sola. «Vivaaa — el ziga — come va con Barba Checo?» «Maaal, sior dotor, malamente anca ogi. Ogi el ve ga la testa freda, freda jazada e i pie caldi de boio!» «Bon, Tona, alora ogi féghe impachi caldi in testa e impachi fredi sui pìee...». Fredi sui pieee, el ghe zigava tanto che el vapor se slontanava. Questo, siora Nina, come vénerdi. E come màrtedi oto, co' i passa de novo davanti dela Gruìzza col vaporeto fis'ciando e fumando, prima ghe pareva che no sia nissun e po' i vede che la Tona iera sentada sola sula bita del molo che la pregava el Rosario. «Toona — i ghe ziga de lontan — Cossa xe? Come ve sta Barba Checo?» «Aah, sior dotor — la ziga ela — morto el me xeee.. Ale sie ore stamatina bonora el me xe mortoooo!» «Cossa voléeee — ghe ga rispondesto alora zigando el dotor Coglievina — cossa volé, Tona mia? Anca la scienza ga i sui limitiii...» Savé, siora Nina, no iera 'ste peniciline quela volta, no iera 'sti sulfamèdici. MALDOBRIA XXXIX - LA BUONA MORTE Nella quale dagli Anni Trenta si passa agli Anni Quaranta, con tutte le incognite e i pericoli che tale passaggio comporta per la compianta vecchia Fatutta, nonché per gli altri protagonisti di questa vicenda. — Savé come che se dise: per pagar e per morir xe sempre tempo. Anca perché se uno more senza gaver pagà, el ga fato almeno un afar. Anca la vecia Fatutta, in fondo, gaveva fato un afar quela volta... — Quala volta? — Eh, siora Nina. Quela volta che la xe morta. — Ma chi questa, la vecia Fatutta, quela che stava drio dela Cesa? — Sicuro. E più che drio dela Cesa la ve stava drento, massime i ultimi anni. — Eh, la vecia Fatutta iera assai divota... — Per forza. Cossa ve gaveva più de far la vecia Fatutta, dopo che ghe iera morto el marì? Ve ricordé el nostroomo Fatutta che toco de omo che el iera? Come che se more! Bon, lori gaveva solo che un fio: Méne, che lui massima parte navigava nolegiado per SudAmerica e poco el vigniva a casa. E poco anca el mandava, poco el ghe mandava ala madre, che inveze el gaverìa dovesto considerar che con quele misere pensioni che ve iera quela volta, ela ve iera pretamente in ristretezze. — Eh, ma lori gaveva la casa, drio dela Cesa. — Siora Nina: chi no gaveva la casa davanti o de drio? Ma cossa volevi magnar la casa? Ben, ela — vecia che la iera, che più de una volta, mi calcolo, per zena la magnava solo che un ovo lesso — la ghe diseva sempre a Barba Nane co' el ghe dimandava de Méne: «El me manda, el me manda...» la ghe diseva, come per sconderlo. «El viagia, savé, nolegiado pulito per Sud America.» E inveze el ghe mandava un mese sì e diese no, che tuti saveva, perché, savé, sior Nadalin, che iera Maestro de Posta, no ve iera gnente omo secreto. «E po' — la ghe diseva a Barba Nane — a mi oramai poco me ocore e poco me resta. Savé quanti anni che go mi, Barba Nane? Mi ve vado per otantasie, perché mi ve son del Cinquantaquatro come milésimo.» — Quando, questo? — Sempre, come milésimo la ve iera del Cinquantaquatro, la vecia Fatutta, ma cussì la parlava mi calcolo poco prima dela guera ... — Quel'altra? — Cossa quel'altra? Questa ultima. Ma no iera ancora guera che la xe morta. Ela per anni la ve gaveva sempre questa che la morirà. Ela — ghe contava don Blas a Barba Nane — ogni sera prima de colegarse la diseva le preghiere dela Bona Morte: «Mi vado in leto col Angelo perfeto, col Angelo di Dio ...» — ... con San Bortolomìo, cola Santa Maria la madre di Dio che me sta d'intorno, con tuti i Angeli del mondo ...» Anca mia madre povera defonta diseva sempre la preghiera dela Bona Morte prima de colegarse: «Crose a capo, crose a pie, crose in mezo de 'sto leto, acompagna 'sta anima che va in 'sto leto...» — Sicuro. Chi no sa questa dela Bona Morte? ... «In leto mi anderò, de alzarme mi no so, tre cosse al mio Signor dimanderò: la confession, la comunion, l'oio santo, Padre, Figliolo e Spirito Santo.» — Bon. Amen. Iera per dirve che inveze la vecia Fatutta gnente. — Come gnente? Ma no xe morta la vecia Fatutta? — Sicuro che la xe morta. Cossa volevi che la ve resti per semenza? Che la iera del Cinquantaquatro! Solo che no la ve xe morta in leto. — No go presente. — Vù no gavé presente, ma mi go presente. Perché iero presente che me ga ciamado don Blas. Matutin ve iera, quel che i fa de sera: i Vesperi. Ela, come sempre, ve iera andada ai Vesperi, don Blas po' gaveva fato benedizion e el iera andà in sagrestia a spoiarse; Severino che iera nonzolo distudava le candele e la vecia Fatutta cola Filotèa in man, ve iera là sentada che la pregava, come, coi oci seradi... — Eh, ve iera assai di vota la vecia Fatutta! — Che divota?! Morta la ve iera, siora Nina, che se ga inacorto Severino che doveva serar la Cesa e el credeva che la se gavessi indormenzado ... — Ah, che bela morte, cussì davanti al Santissimo ... — Eh, insoma. Otantasie anni. Come che ve disevo, don Blas me gaveva ciamado a mi e a Martin Ghérbaz a dar una man, perché bisognava far in modo e maniera ... capiré. Ben: questo no ga importanza. Volevo dirve che la vecia Fatutta, povera, ve ga lassado seizento lire ... — In testamento ala Cesa? — Maché in testamento ala Cesa! Seizento lire de debito in botega de sior Mòise. Perché, podé imaginarve come che iera: con 'sto fio che ghe mandava e no ghe mandava, ela ghe diseva sempre a sior Mòise: «Noté, noté, sior Mòise, che quando che vignirà Méne, lui tuto regolerà ...» Seizento lire. — Eh: iera qualcossa seizento lire prima dela guera! — Iera seizento lire, siora Nina. La paga de un piloto, per dir. E co' xe tornado Méne, che i gaveva fato tornar qualche vapor perché el Tedesco iera zà in guera col Inglese, ben, co' xe tornado Méne, lui ga ricusado come. El ga dito che, cossa? Che la madre no fazeva mai debito. «Ma come, no la fazeva mai debito — ga dito sior Mòise, iera bon omo sior Mòise — come no la fazeva mai debito, che mi go qua tuto notado sul libro?!» «Ah — ghe ga dito Méne — vù gavé notado. Vù podé notar quel che volé sul libro. Cossa so mi? Mi no so gnente: mi a casa no go trovado gnente.» — Ah: el ga ricusado? — Sicuro. Ricusado. Che lui no sa gnente, che lui a casa no ga trovado gnente e sior Mòise alora ghe ga dito: «Savé cossa che ve dirò mi, alora, Méne? Che mi me impetirò in dibatimento.» — Ah, el se ga impetido? — El voleva sì impetirse, ma Tonin Polidrugo, che el ghe contava, ghe ga dito subito: «Mòise mio, vù no gavé con cossa impetirve!» «Come no go con cossa impetirme, che go tuto notado. Aré qua: dieci deca de butiro tre volte ... un quarto e mezo de risi... mezo chilo e mezo quarto de pan, dò setimane ...» «Sì, sì va ben — ghe ga dito Polidrugo — ma gavé notado vù e in un dibatimento, se ve impetì, 'sta roba no ve vai gnente. Savé cossa, inveze...» — Cossa? — Cossa, cossa?... Polidrugo ghe spiegava cossa che inveze el gavessi fato lu se el fussi stà in lu. «Sior Mòise — el ghe ga dito — vù dovessi meterve in man de un che sa.» «Del avocato Miagòstovich?» «Ma no, che ve xe spese ... Savé cossa, inveze? Mi conosso ben Méne, che go navigado con lui un periodo, e mi so tante robe de Méne. E con mi, mi calcolo che Méne no ricuserà; fémo cussì, sior Mòise: visto che ve xe tuto perso, quel che se ciapa se ciapa e fémo pulito metà per omo. Metà per vù e metà per mi. Seizento lire vanzé? Fémo trezento per vù e trezento per mi. Meo de gnente no, Mòise mio?» — Aah! Che lui, Tonin Polidrugo sarìa andado a scòderghe? — Sicuro. E cussì el ga fato no so come né cossa, una sera in local. E come diman de matina che el ga intivado Tonin Polidrugo che stava partindo col vapor, sior Mòise ghe ga dimandado: «Ben, Polidrugo, ghe gavé scodudo?» «Ghe go scodudo sì, Mòise mio: solo savé come che ve xe Méne: quele trezento lire che me competeva a mi el me le ga dade, e quele trezento che ve competeva a vù no el ga volesto tirarle fora. El se ricusa. Impetìve, ah...» el ga dito montando in vapor... — Ah! El se ricusava per quele trezento lire! — Ma dài, siora Nina! No gavé capido che Polidrugo se gaveva fato dar trezento lire de Méne e a sior Mòise el ghe gaveva brusà el paiòn? Iera un malignazo, savé Polidrugo. — Interessoso. — Interessoso e furbo, siora Nina. Perché quando che xe s'ciopada la guera anca qua, Polidrugo, con no so quai fufignezi el se ga fato meter dela Contraria ... — Che contraria? Chi iera 'sta contraria? — Tuti iera contrari, ma la Contraria... la Contraèrea, insoma, che i ghe diseva, iera la Contraerea. A Trieste là dela Lanterna el se ga fato destinar. E dopo con no so quai altri fufignezi, qua. — Come, qua? — Sì: dela Contraria, dela Contraèrea qua in paese, inveze che a Trieste. Solo che qua no iera gnanca Contraèrea ... 'Sti aroplani se li vedeva solo che passar, alti alti che i andava su in Germania a far bombardamento ... — E Polidrugo? — E Polidrugo li vardava, come tuti. Cossa volevi gnanca stuzigarli? Polidrugo iera sì qua, come dela Contraria, ma el stava con quei dela Costiera, che figurévese, no i gaveva gnente de far. I gaveva giusto un canon, là in Ponta Sant'Andrea tuto coverto cole foie e lu, più che altro ve iera qua in local de Bepin... — 'Sto canon coverto cole foie? — Ma no 'sto canon! Polidrugo, che no gaveva gnente de far, stava sempre in local. Ben, mai no me dismentigherò: guera iera, zà avanti, tuto tessere che no se trovava gnente e rare volte che rivava qualcossa nele boteghe... — Mama mia! Tuto coi bolini iera e quela pasta nera, tacadìza che mi fazevo cole sardele. Vigniva bon, savé, cole sardele... — Indiferente. Ben, che ve disevo, mai no me dismentigherò: una matina in botega de sior Giovani, sior Giovani Ucròpina — ve ricordé che el gaveva botega, dove che adesso xe Coperativa? — iera rivade sustine e baterìe e fora, natural, iera fila. E mi in fila. Anche mi. Perché giusto passavo e go visto la fila. E go dimandado a 'ste done, che sarà stà un vintizinque, trenta de lore: «Done — ghe go dimandado — cossa i dà?» Che sustine e baterie. — Sustine per baterie? — Ma cossa sustine per baterie? I dava sustine — che iera mesi che no se trovava più sustine — e baterie. Baterie per lampadina tascabile, che iera oscuramento, natural. — Mama mia che scuro che iera, me ricordo! Una volta, zò dele scale del Domo... — Indiferente. Iero in fila e, fora del local de Bepin, vien Polidrugo e me dimanda: «Bortolo, cossa i dà?» «Baterie — ghe digo — e po' i dà anca sustine... ti vedi che xe tute 'ste done...» «Orpo — el dise — qua sarà de spetar un dò ore, se basta, con quel Ucròpina che xe una camòma e che el ga le man de puìna... Sa cossa?» — el me dise in orecia — e dopo tuto in orecia el me ga spiegado. — Cossa? — Una roba che lui gaveva visto far in Italia una volta che el iera in fila. Insoma lu, volta el canton, el vien fora de drio dela Cesa e cussì, in montura che el iera, el dise forte: «Bortolo, mola pur qua, che in botega de Mòise i dà cògnàc e spagnoleti germanici...» Siora Nina: 'ste babe — prima un dò de lore, e dopo tute quante — se ga scaturìdo via dela fila de davanti ala botega de Ucròpina e via lore a far la fila drio dela Cesa fora dela botega de sior Mòise. — Che i dava cògnàc e spagnoleti germanici?... — Ma no che no i dava! Magari! Polidrugo gaveva dito per scaturir via 'ste done. Solo che mi e lu e Nini Sordo semo restadi davanti dela botega de Ucròpina. Spetavimo, perché drento iera ancora pien de gente, e vedo 'sto Polidrugo come sorapensier. «Cossa ti ga Polidrugo?» «Pensavo — el me fa — pensavo: ciò e se fussi vero che in botega de Mòise i dà cògnàc e spagnoleti germanici? Dài, dài, Bortolo: coremo anca nualtri a far la fila!» — E i dava? — No se ga mai savesto. Perché giusto in quela, passava alti alti quei aroplani che de solito andava suso in Germania a far bombardamento e i ga cominzià a bombardar. Ve ricordé no quela volta, che ga ciapà fogo la botega de sior Mòise, povero defonto? Anche Méne ve xe morto, che giusto i contrastava. MALDOBRIA XL - I TRAVESTITI Nella quale emergono nuove testimonianze sui rapporti tra Francesco Giuseppe e il suo Erede Francesco Ferdinando, anche grazie alla conoscenza del cifrario della lingua magiara da parte di Marco Mitis che la aveva appresa dalla mamma fin da fanciullo a Fiume. — Sempre diseva Marco Mitis che no xe vero che chi che sta in ascolterìa sente robe che noi vorìa, che lu anzi — stando — sul «Carlo Sesto» lu gaveva sentido robe assai interessanti... — 'Sto Carlo ghe diseva robe interessanti? — Ma che Carlo! Come volé che un Carlo Sesto ghe podessi dir robe interessanti a Marco Mitis! El «Carlo Sesto» — «Karl Sexte», che i ghe diseva lori — ve iera un vapor de guera. Che Marco Mitis, de leva che el iera, come giovine de camera che el iera stado prima in Marina mercantil, lu i lo gaveva messo in mensa ufiziai. Senza saver, natural, che lu gaveva la madre ... — No i saveva che lui gaveva la madre? — Siora Nina, se no me lassé finir! Mi volevo significarve che lori no saveva che Marco Mitis gaveva la madre ungarese... — No intendo. Chi lori? — Lori, no, i Ufiziai de 'sto «Carlo Sesto», che magnava in mensa ufiziai e che, massima parte, ve iera tuti ungaresi. Savé oramai, come che diseva Barba Nane, la Marina de Guera austriaca ve iera squasi tuta in man de 'sti Ungaresi. Ve iera sì anca gente nostra: 'sti istriani, 'sti dalmati, piranesi massima parte, ma in bassa forza. Iera anca Ufiziai nostri e anca austriachi propio, ma massima parte, specie sul «Carlo Sesto», l'Uficialità ve iera ungarese, perché iera l'Amiraglio Horthy. — Che gaveva la madre ungarese? — Eh sì, siora Nina, se l'Amiraglio Horthy ve iera ungarese el gaverà avudo la madre ungarese, mi calcolo. Ma mi ve contavo che Marco Mitis la gaveva. — Ahn! Una combinazion? — Come combinazion? Come una madre ve pol esser una combinazion? Iera sua madre. Solo che la ve iera ungarese. Ungarese de Fiume. Ela ve nasseva Bàbosch o Szabò, no me ricordo e po' la gaveva sposado un Mitis. Ma ungarese la ve iera, de Fiume. E Marco Mitis, natural, de picio se gaveva imparà cola madre a parlar ungarese, lingua materna. Tanto che un giorno, che lui ve serviva in tavola 'sta Uficialità ala mensa ufiziai del «Carlo Sesto», el gaveva sentì che lori ve parlava in ungarese. Perché — capì — co' no i ve voleva farse capir, co' i gaveva de dirse robe secrete, i parlava fra de lori per ungarese. Tanto, chi ve saveva ungarese? — Marco Mitis, saveva ... — Sì, ma lori no saveva che lu saveva, perché Marco Mitis no se lassava intender che lui saveva, dopo de quela volta... — Quela volta? Quala volta? — Quela po', siora Nina, che, intanto che lui serviva in tavola, 'sti qua parlava per ungarese che come diman el «Carlo Sesto», la «Viribus» e la «Santo Stefano» sarìa andade in alto mar a provar le nove torpedo che i fazeva a Fiume... — Mama mia! Guera! — Maché guera! Dove se pensava quela volta che gavessi gnanca podesto vignir guera! Manovre. Che venti giorni i sarìa stadi in alto mar e che ale zinque ore de dopopranzo bisognava fermar tuti i permessi. — Mama mia e Marco Mitis? — E Marco Mitis xe andà ale quatro ore a farse dar el permesso, disendo che la madre ghe stava mal. Capiré: venti giorni in alto mar, iera una sopa. E cussì lu, per scapolarla, che la madre ghe sta mal. — Questa Ungarese che disevi? — Sì, mi go dito, ma lu no ga dito più. Lui quela volta ga capido che, no palesando che lui ve saveva ungarese, el podeva saver a bordo robe interessanti. — Ah, furbo! — Eh, savendo ungarese, siora Nina, uno ve xe facile furbo. Questa ve iera la furbitù de Marco Mitis. Perché anca quela volta che 'sti Ufiziai ungaresi, a bordo in mensa ufiziai i ve iera rabiadi, lui no ga mai palesado che el saveva ungarese. — Rabiadi con lu? — Ma cossa rabiadi con lu, che 'sti Ufiziai quela volta a uno de bassa forza, gnanca no i lo calcolava! Lori ve iera assai rabiadi, perché Francesco Ferdinando se sposava. — Ah! Dò de lori che se sposava ...? — Ma cossa dò de lori? Francesco Ferdinando iera un. Un solo in tuta l'Austria-Ungheria. L'Arciduca Francesco Ferdinando. Erede dela Duplice, dopo che el fio de Francesco Giusepe se gaveva ciolto cussì stupidamente la vita con quela giovine... — Ah sì, sì... Che sarìa stà Rodolfo defonto, come ... — Come «come»? Sicuro defonto. Per quel Francesco Ferdinando ve iera deventado Erede dela Duplice. E per quel anca parlava, tuti rabiadi 'sti ufiziai, che, come?, un Francesco Ferdinando, Erede dela Duplice, un toco de omo, zà in età, mustaci de fero, va a inamorarse in una giovine e po' una Boema, capiré... — No capisso. — Ma capiva ben Marco Mitis, che capiva tuto, perché, per no farse capir 'sti Ufiziai parlava fra de lori per ungarese. Capì, un Erede dela Duplice, diman, dopodiman Imperatore d'Austria e Re d'Ungheria che sposava una Boema! — Ma la Boemia no iera anche Austria? — Sì, ma 'sti Ufiziai iera ungaresi. E lori diseva che questo ve iera propio come un sprezzo per l'Ungheria. Che, come?, con tuti quei bei partiti che lori gaveva in Ungheria, una Esterhàzy, una Andràssy, una Cossasòmy, 'sto qua andava a ciorse una Boema. E che anca Francesco Giusepe iera rabiado come una bestia. — Perché el sposava una Boema? — No, guai! Dove un Francesco Giusepe ve fazeva diferenze? Lui diseva sempre «ai miei popoli». Iera tuti compagni per lui: Boemi, Ungaresi, Italiani, Tedeschi, Polachesi... No: lui, Francesco Giusepe, ve iera rabiado come una bestia perché questa giovine, questa Boema, 'sta Sofia che la se ciamava, ve iera una semplice contessa ... — Ma come, sior Bortolo, semplice? Contessa, no xe assai Contessa? — Contessa xe Contessa. Ma per un del Sangue, una contessa no iera gnente. E anca 'sti Ufiziai diseva: «Come, una semplice contessa? E po' una Boema!» Insoma, contava un de 'sti Ufiziai, intanto che Marco Mitis ghe netava la sfoia cavandoghe i spini, che l'Imperator, propio l'Imperator ghe gaveva messo la roba in man ai Travestidi... — I Travestidi? Omini vestidi de dona? — Ma no, siora Nina! Quel ve xe adesso. In allora i Travestidi ve iera la Polizia travestida. Secreta. Come dir che no i gaveva montura, che i iera vestidi in zivil, come mi e vù. — Ah, anca done iera? — Sì, Mata Hari! Ma cossa, done? Omini. Ispezienti de Polizia Secreta, travestidi. I Travestidi, po'. E Francesco Giusepe ghe gaveva dà ordine a 'sti Travestidi che i se informi, che i fazi in modo e maniera de saver che giovine che xe 'sta giovine, una roba e l'altra, e che dopo i ghe vegni a riferir. — Ah, per véder se la iera una giovine de sesto, come? — Sicuro! E 'sti Ufiziai del «Carlo Sesto» tuto parlava de 'sta roba. «Bon — ga dito un de lori, che Marco Mitis giusto ghe impiniva el bicer de Tocài, assai Tocài beveva 'sti ungaresi — bon, volé creder, ga dito per ungarese 'sto Ufiziai ungarese, volé creder che 'sto Ispeziente dela Polizia travestida, tempo una setimana xe tornà del Imperator e el ghe ga dito "Sacra Maestà"....» — E basta? — Come «e basta?» Con quel apena el scominziava a dirghe, perché un, co' doveva parlar col Imperator, prima roba doveva dirghe Sacra Maestà... — Sacra Maestà! Che bel! ... — Bel, bel? Se usava. Insoma el ghe ga dito, Sacra Maestà, che questa giovine nulla da dire, di buona famiglia anca, di buoni costumi e di fede religiosa; solo che, Sacra Maestà, di un per di mesi 'sta giovine pratica un omo, un toco de omo zà in età che nissun sa chi che sia, un in civil, coi mustaci de fero, con un'anda gnente pulito, insoma un smàfaro! Un rider, siora Nina! — Ah, perché questo coi mustaci de fero ve sarìa stà Francesco Ferdinando? — Sicuro. E per questo 'sti Ufiziai ungaresi rideva. Ma per ungarese, natural. Cussì i altri no capiva. Se no, dove i se gavessi azardado! Ma volé creder, siora Nina, che de quela volta squasi gnanca più no i se parlava ... — Chi? 'Sti Ufiziai a bordo? — No: Francesco Giusepe con Francesco Ferdinando squasi più no i se parlava, con tuto che i iera zio e nevodo. «Che a me — diseva sempre Francesco Giusepe — nula mi è risparmiato!» E adesso el gaveva anca questa de 'sto nevodo morganatico. Perché po' dopo Francesco Ferdinando, muso risoluto, gaveva finido per sposar 'sta giovine, ma morganatico. — Ma mi, veramente, gavevo sentido dir che morganatica la iera ela... — Sicuro: Sofia di Hohenberg, moglie morganatica del Arciduca Ereditario Francesco Ferdinando, ma indiferente; parlava tuti! — 'Sti Ufiziai? — Anca. Ma lori dò no i se parlava squasi. — Tra marì e moglie no i podeva? Che bruto! — Ma sicuro che lori tra marì e moglie i se parlava. Come volé che no i podessi parlarse? I gaveva avudo anche fioi! Francesco Giusepe squasi no se parlava con Francesco Ferdinando. Che anzi, un dò anni dopo, perché tre anni quela volta se fazeva servizio de leva in Marina de Guera e Marco Mitis iera sempre là sul «Carlo Sesto», un altro de 'sti Ufiziai, un novo apena vignù, un zerto Hùbeny, ga contà che lui iera propio là a Métkovich. — Métkovich in Dalmazia? — Métkovich no ve se ga mai movesto de là: sempre in Dalmazia la ve xe, siora Nina. Ma 'sto Hùbeny contava che lui a Métkovich iera propio là, una dele rare volte che se gaveva intivado insieme — perché propio i doveva — Francesco Ferdinando e Francesco Giusepe, perché dopo i doveva andar ale Boche de Cataro che vigniva Zar Nicola. E i doveva andarghe incontro insieme, per pramatica. «Ben — dise 'sto Hùbeny, intanto che Marco Mitis scovetava le frégole dela tovaia e i beveva driomàn Tocài — ben, dise 'sto Hùbeny per ungarese, mi propio me ga tocasto, tocado, che iero in motoscafo con lori, che li portavimo de Métkovich sula «Viribus Unitis», in pie ...» — I li portava in pie? — No: lori stava in pie! Cossa volé sentarve davanti a un Imperator? Gnanca in motoscafo no se podeva. In pie e saludando. Tuti. Fora che el motorista, natural, perché el gaveva le man intrigade col timon. E 'sto Hùbeny sente che Francesco Ferdinando, tuto rizzandose 'sti mustaci de fero ghe diseva a Francesco Giusepe: «Sacra Maestà — perché anca lu doveva dirghe Sacra Maestà — ho fato osservazion che a Métkovich iérano assai pochi Travestiti e che la vita dela Sacra Maestà Vostra è assai poco protetta dala Polizia travestita.» E alora l'Imperator ghe ga dito: «No è gnente di preocuparsi, bel mio. La mia vita no corre nissun pericolo — el ghe ga dito — a mi nissun no me copa. Perché tuti sa che se moro mi, ti vien ti!» Un rider, siora Nina, un rider! — Chi, Francesco Giusepe? — No: 'sti Ufiziai ungaresi. «Figurévese, ga dito 'sto Hùbeny, che contava per ungarese, che Francesco Giusepe ghe ga dito 'sta roba a Francesco Ferdinando in ungarese, per via che no capissi nissun. Dove podeva imaginarse lu che mi son ungarese, che no go gnente l'anda de ungarese, perché mia madre xe italiana de Fiume...» «No scovetàtemi 'ste frégole sula montura!» — el ghe ga dito po' a Marco Mitis per talian. MALDOBRIA XLI - I TROMBINI Dove la storia della borsetta di pelle di coccodrillo di Alessandria d'Egitto della pia signora Mima Chiole s'incrocia con quella degli stivaloni rigidi del defunto Schitazzi, allora uomo dall'uccello d'oro. — Durava, durava la roba de pele una volta! No come adesso, che po' adesso, siora Nina, no se capisse gnanca più se xe o no xe de pele. Una volta, metemo dir, una borseta de pele de cocodrilo de Alessandria de Egito ve durava una vita. Presempio, vardé siora Mima... — Siora Mima? Dove? — Come dove? In zimiterio, adesso. Ma quela borseta de pele de cocodrilo che el fradelo ghe gaveva portado de Alessandria de Egito, a siora Mima ghe gaveva durado una vita, solo che — aré come che xe qualche volta le robe — ghe iera sempre stà una vita cola seradura... — La seradura dela casa de 'sta siora Mima? Ma quala ve iera 'sta siora Mima, sior Bortolo? — Ma come quala? Siora Mima Chiole. La sorela del Capomachinista Chiole, puta vecia, che fazeva la linia de Alessandria... — Siora Mima fazeva la linia de Alessandria? — Ma cossa siora Mima ve fazeva la linia de Alessandria? Dove una volta una dona podeva peritarse de far una linia? Massime po' una siora Mima che più in là de casa e cesa no la iera mai andada in vita, mi calcolo. Che mi, co' tornavo de pescar la intivavo sempre de matina bonora in piazza che la andava a messa dele sie. El fradelo, el Capomachinista Chiole ve fazeva la linia de Alessandria e de Alessandria el ghe gaveva portado 'sta belissima borseta de pele de cocodrilo che ghe ga durado una vita. Solo — ve go dito — ghe iera sempre stà una vita cola seradura. Savé, quando che una seradura nasse mal, massime de una borseta, no xe mai modo e maniera de governarla in ordine. Ma la borseta, come borseta, belissima. — Ah, siora Mima Chiole! Quela che, me ricordo, iero ancora putela, una sera in Domo ghe se ghe gaveva averto la borseta e tuti i soldi che coreva per la cesa, fazendo sussuro: un rider noi putele! — Ve go dito che ghe iera sempre una vita con quela seradura. Ma la borseta, belissima. Che, comprarla a Trieste, intanto compagna no se la gavessi mai trovada, e po' anche in alora gavessi costado un'eresia... — In alora quando? — Quando, quando? Subito dopo dela guera de Abissinia iera. E durava in alora la roba de pele, no come adesso, che po' adesso gnanca più no se conosse se xe o no xe de pele. «Pelletterie» iera scrito dapertuto una volta. — Andove? — Ma sule Peleterie po'! Se ciamava «Pelletterie». «Sellaio», anche, ma più raro; perché sellaio ve iera pretamente quei che fazeva soli si stessi. Inveze borse, borsete, valise, capelliere, iera in Peleteria. Adesso no so più gnanca come che i ghe ciama. So solo che costa orori. Savé vù, per dir, cossa che costa ogi una borseta de cocodrilo, che una volta in Alessandria se comprava per un bianco e un nero? — Cossa costa? Quanto? Quanto? — No so, ma orori i me dise. Che in alora, inveze, meno, ma istesso bastanza ... — Quando in alora? — Quando, quando! Ve go dito; subito dopo dela guera de Abissinia, che anzi me ricordo de quela volta che el Podestà Schitazzi, sior Cesare Schitazzi che quela volta iera podestà, ghe contava a tuti che sicome che xe l'ocasion che Mussolini vien a veder le miniere del'Arsa, el deve comprarse un per de trombini a Trieste... — Chi, Mussolini? — Ma cossa volé che Mussolini ve comprassi un per de trombini a Trieste per vignir in Arsia, lui che de trombini el ve doveva gaver armeroni pieni, mi calcolo. El Podestà Schitazzi no gaveva trombini, che po' soto el Fassio se ghe diseva stivaloni. E che insoma lui anderà a Trieste, là in piazza Santa Caterina, de un primo sellaio che lui conosse, perché a Trieste tuti questi grandi del Fassio se fa far i trombini là ... — Usava sì una volta trombini i omini, adesso più le done usa... — Indiferente, quel che usa e che no usa le done. Le done ghe pica sempre qualcossa. E siora Mima Chiole, che ve disevo che ghe iera sempre una vita cola seradura de quela borseta de Alessandria che ghe gaveva portado el fradelo, de pele de cocodrilo, bon, ela come che la ga savesto che sior Cesare Schitazzi l'andava a Trieste de 'sto primo sellaio a comprarse i trombini, la ga pensà: giusto ben. — Giusto ben, cossa? — Giusto ben che l'andava aposito in vetura a Trieste de 'sto sellaio e che cussì — la ghe ga dito, intivandolo in piazza — zà che el va, che el ghe porti a governar la seradura de 'sta sua borseta de pele de cocodrilo de Alessandria, che anca l'altra setimana giusto in Domo la ghe se ga averta. Remènghis, ga pensado el Podestà Schitazzi, ma a ela el ghe ga dito che come no, siora Mima, zà che vado ... — Ahn, ghe secava! — Sicuro, cossa volé, sempre a un omo ghe seca 'ste comissioni, ma sior Cesare Schitazzi iera un omo che gaveva trato, maniera. E po' sempre ben vestido, anca co' el iera in montura col usel de oro. E el gaveva anche la vetura, una Balila me ricordo, nera. E cola vetura el ve xe andado a Trieste. E de 'sto sellaio, primo sellaio che iera a Trieste, in piazza Santa Caterina, propio soto del «Popolo di Trieste», che a Trieste iera el giornal del Fassio, de 'sto sellaio el se ga provado no so quanti peri de trombini. Belissimi po' el ga ciolto un per, perché capì, in Arsia che el doveva andar in montura, perché vigniva Mussolini in miniera del'Arsa, guai se no el gaveva i trombini. Stivaloni rigidi se ghe ciamava quela volta, e i costava, pensévese, zento e venti lire. Zento e venti lire el ga pagado! — Zento e venti lire! E iera poco o assai? — Assaissimo siora Nina, perché un maestro, un maestro Girardelli, metemo, cossa gaveva de paga al mese quela volta? Un seizento lire. E lu, el contava, el ga pagado 'sti trombini zento e venti lire: una carta de zento e un de quei pataconi de venti lire de argento col Re e col Fassio, che drio iera scrito «Melio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora». — Tuta 'sta roba su una moneda? — Sicuro, siora Nina. No ve ricordé? Iera un patacon compagno. Bon, indiferente. Savé che el Podestà Schitazzi gaveva quela — che l'avocato Miàgostovich sempre ghe diseva che no se deve — bon lui gaveva quela de partir in seconda... — In seconda classe de treno? Ma no gavevi dito che el iera andà a Trieste in vetura? — Ma sì in vetura. E in vetura lui ve partiva sempre in seconda, che no se deve, perché bisogna darghe massa gas, el motor se imbala, fa confusion e cussì lui no ga sentì che 'sto sellaio, sula porta dela botega, ghe zigava drio che el torni indrio, perché el se ga dismentigado ... — La borseta de siora Mima Chiole? — Speté, speté. Lui, pretamente, el ve gaveva dismentigado el cavastivai, quel de legno, savé, che per cavarse i trombini, se fica drento el taco e se zuca, perché, se no xe una schiavitù... — Come schiavitù? — Schiavitù, sì, perché senza cavastivai, un deve farseli cavar de un altro i trombini, massime quei rigidi, perché i ve xe rigidi, come. — Ahn! El se gaveva dismentigà el cavastivai! — Sicuro. E no el se ga inacorto de gaverselo dismentigado. E inveze savé cossa che el se ga inacorto, apena a Castelnovo, che zà el iera rivado cola vetura tornando? Lui, intanto che el guidava, voltandose un momento per vardarse 'sto paco de 'sti sui trombini sul sentàl de drio, lui ga visto che in canton iera la borseta de Alessandria de pele de cocodrilo de siora Mima, che lui, tuto becà de 'sti trombini, la ghe iera andada completamente fora de testa! — Ahn, ghe iera andà fora de testa de farghe governar la seradura! — Completamente. Tanto che el ga dito: «Remènghis, qua me toca tornar indrio!» E el ga anca voltà la vetura e el xe tornado indrio fina a Erpelle, ma a Erpelle co' el ga visto che iera zà oto ore de sera e che a Trieste le boteghe iera oramai zà serade e che po' i sellai sera anca prima, lui ga voltà de novo la vetura e de novo el xe tornà fina Castelnovo e po' via avanti. «Ma sì, remènghis — el ga dito — me ne frego! Ghe dirò che no iera, che no i gaveva, una roba e l'altra e chi se ne frega ...» — Che bruto! — Bruto, bruto, fazile dir bruto! Cossa volé, siora Nina, darghe a un omo 'ste comissioni! Che po' la vera verità ve xe che co' una seradura de una borseta nasse mal, no xe dio né santi de governarla! Bruto xe stà che lui se ga intardigado. — Ahn, el xe rivado tardi a casa! — Bastanza. Tanto che co' el xe tornado a casa a dormir, la moglie zà ghe dormiva. — Ah, i dormiva insieme? — Eh, siora Nina, una volta, marì e moglie dormiva sempre insieme, adesso no so. Bon e la matina, co' lui se ga sveià, che ela iera zà alzada e in cusina la ghe fazeva cafè, lui ancora in camisa de note, che quela volta ancora se dormiva in camisa de note longa fina ai pie, el se ga messo sù 'sti trombini, 'sti stivaloni rigidi, el xe andà in cusina e, alzandose ben suso la camisa de note, el ghe ga dito ala moglie: «Iginia, varda!» — Mama mia! Ala moglie? — Sicuro che ala moglie! A chi altro? El se ga alzado ben suso la camisa de note per mostrarghe i trombini ... — Orpo! — Orpo, orpo. L'orpo xe stà dopo, siora Nina, perché, dismentigado el cavastivai che el se gaveva a Trieste, no xe stà modo e maniera de cavarseli. Lui se frontava sì, sentà sul leto, siora Iginia zucava, zucava, ma, savé, siora Iginia ve iera picola dona, no la gaveva forza ... e po' trombin novo, rigido, chi lo cavava? — Chi? Chi? — Visco, lui ga pensà che ghe li gavessi podesto cavar. Visco, savé, ve iera el fanalista, un Dalmato, un toco de omo che ve stava del'altra parte dela piazza. E matina bonora, gnanca sie ore de matina che iera, ancora scuro — che quela volta se se levava bonora — sior Cesare ga divisà che l'anderà, nissun che no iera per strada, cussì come che el iera, in camisa de note, un salto de Visco, che el ghe cavi 'sti trombini. E el xe andà. — In camisa de note e trombini?... — Sicuro, nissun che no iera per strada, e con un per de zavate in scartozo. E giusto in quela che el iera rivà corendo, con 'sti trombini che rimbombava per la piazza, squasi là del porton de Visco, no volé che là del canton del Domo, l'intiva siora Mima Chiole che senza borseta, col messalin in man, la andava a messa dele sie? — E la lo ga visto? — Come no! Con tuto che iera ancora scuro, in camisa bianca de note che el iera. E la se ga stremido, come, povera siora Mima. E lu, prima che la ghe dimandi dela borseta, per mostrarghe in che stati che el iera, el se ga alzà ben suso la camisa de note e el ghe ga dito: «Siora Mima, la vardi!» E siora Mima se ga fato el segno dela crose e la xe corsa subito in cesa a confessarse. — A confessarse cossa? — Ah, no se ga mai savesto, siora Nina. Secreto de confession. MALDOBRIA XLII - UNA DOMANDA DI MATRIMONIO In cui risalendo per li rami dell'albero genealogico di Tonin Polidrugo ci s'imbatte nel nonno del medesimo, propiziatore di vantaggiosi matrimoni e di occasioni che, per l'appunto ai tempi dei nostri nonni, ancora si potevano cogliere a Trieste e nei suoi paraggi. — Ve parlo de ancora in antico, siora Nina, ma a Lussin, quando che un divisava de far une nozze, quando che un gaveva una fia o un fio de sposar, l'andava del vecio Polidrugo ... — E el vecio Polidrugo li sposava, in Comun? — Ma dove un, una volta, gnanca podeva concepir de sposarse in Comun, che tuti se sposava in Cesa! E po' cossa el vecio Polidrugo in Comun? El vecio Polidrugo ve iera pretamente sensal de nozze. — Sensal de nozze? Esistiva? Mi credevo che fussi robe del tempo de Marco Caco ... — Come, esistiva? Altro che esistiva! Mi digo! Prima dela Prima Guera, savé, sposarse no iera miga cussì tictac come che i fa adesso, iera una roba longa ... — Eeh, mia madre me contava sempre che, con mio padre, sua madre... — Indiferente. El vecio Polidrugo, che ve vigniva a star apena el nono de Tonin Polidrugo, ve gaveva scominzià come sensal de pesse, a Lussin, drio dela pescheria vecia. Savé come che fa i sensai de pesse? Lori ve xe sul molo co' riva le barche, i ve va dei pescadori e de quei che compra e tuto i se parla pian in orecia: quanto che i vol, quanto che i dassi. Cussì: senserìa. E no solo che pesse, anca barche el fazeva vender e comprar el vecio Polidrugo. E una volta, pensévese, propio vendendo una barca, cussì, sempre parlandoghe in orecia, el gaveva fato sposar el fio de quel che la vendeva cola fia de quel che la comprava... — Cussì, per combinazion? — Quela volta per combinazion, ma sicome istesso i ghe gaveva dado una bona provigion, lui de quela volta el se ga messo a combinar sposalizi, sempre parlando in orecia, perché cussì el gaveva cominzià col pesse. Abitudine. — Ah, intendo: sensal de nozze el iera! — Sicuro: el più nominado de Lussin. O almanco cussì el se pretendeva. Lui in local, me ricordo sempre, co' el gaveva bevudo un bicer de più, el predicava a chi che voleva e a chi che no voleva ascoltarlo: «Mi — el diseva — credèghe al vecio Polidrugo, mi ve farìa sposar anca el fio del Angiolo cola fia del Diàvulo, basta saver far, basta gaver secretezza e puligana...» — Chi questa Puligana? Una vecia? — Ma cossa una vecia? Secretezza e puligana. Puligana: tàtica, come che se diseva ala vecia. «Mi — presempio — el ghe diseva a Bepi Scombro — mi, Bepi Scombro mio, se volessi, gaverìo ocasion de far sposar pulito anca vostro fio! ...» — Bepi Scombro? Chi vignissi a star 'sto Bepi Scombro? — Vigniva, povero. Bepi Scombro ve vigniva a star el marì dela vecia Scombrolìnca, un pescador; pescador ma senza gnanca barca sua, un che pescava per i altri. E no ghe vanzava soldi, savé. Anzi, più de una volta, co' iera ciari de luna, i ghe mancava. El ve gaveva, per dirve, una casa che gnanca tavèle no iera per tera, ma tera batuda... — Eh, una volta, dove iera tavèle? — In tanti loghi, a Lussin, siora Nina, ma no sicuro in casa de Bepi Scombro. Cossa volé, iera paghe picole quela volta per chi che lavorava soto paron! Ben, istesso el vecio Polidrugo, un poco bevù che el iera, ghe ga dito in local davanti de tuti: «Ve giuro in Dio, Bepi Scombro mio, che, se voio, mi go ocasion de far sposar pulito anca vostro fio! ...» E 'sto povero Bepi Scombro ghe ga dito subito: «Ma cossa volé che mi ve sposo el fio, che apena adesso qualcossa el me pol iutar, giovinoto che el xe e che altro no go ...» — Ah, no el gaveva altri fioi? — No el gaveva gnente, siora Nina. Gnente de gnente. E el vecio Polidrugo ghe fa, ci fa ci dice: «Ma mi per vù, Bepi Scombro, per vostro fio, gaverìo de farlo sposar con... savé con chi?...» E el ghe ga dito pian in orecia. — Ahn! E cussì no se ga mai savesto? — Come, no se ga mai savesto? Se ga savesto subito, perché Bepi Scombro, un poco sordo che el iera, cola dinamite che el pescava qualche volta, el ghe ga dito zigando: «Ma no stèrne parlar in orecia! Cossa credè che son sordo? Parlé forte!» «Bon — ghe ga dito alora forte el vecio Polidrugo, pretamente bevudo — per vostro fio sarìa de sposarse savé con chi?... Cola fia de Sior Antonio!» «Ah — ghe ga dito alora ridendo Bepi Scombro — se xe la fia de Sior Antonio, alora, Polidrugo mio, se pol parlar! ...» Un rider, siora Nina in local, un rider... — La fia de sior Antonio? Sior Antonio qual? — Come qual, siora Nina? No savé chi che iera Sior Antonio? Sior Antonio ve iera el primo a Lussin. E no solo che a Lussin. Anca a Trieste, dapertuto, conossudo dapertuto. Sior Antonio e i sui fradei ve gaveva barche a boca desidera. Dopo del Lloyd Austriaco vigniva subito lori, lu insoma: Sior Antonio. — Ahn, Sior Antonio! — Sicuro. Che co' no el stava a Trieste, el vigniva sempre a Lussin in vila, vila grandiosa che i gaveva. Hotèl i ga fato dopo ... — Eh, iera assai camere, assai logo... — Indiferente, se poco o assai: iera la casa sua de lu. Che me lo ricordo come che fussi ieri co' el vigniva de istà col suo sacheto de àlpagas scuro, serio, braga bianca, scarpe bianche, la bagolina e la bareta de capitano. E vignindo via del molo per andar in vila, l'andava sempre cussì caminando marinavia. E marinavia, un giorno, lo ga spetado, cussì, fazendo finta de gnente, el vecio Polidrugo per dirghe... — Del sposalizio? — Speté, speté! «Viva», el ghe ga dito intanto, come che se usava quela volta. «Viva, Sior Antonio!» E Sior Antonio che viva, Polidrugo, e che come che va. Che va bastanza ben ma che, Sior Antonio, solo una parola ... «Anca due — ghe ga dito Sior Antonio — se caminé, perché no me piase fermarme co' camino!» E alora lu, caminandoghe a rente, el ghe la ga butada... — No del sposalizio? — Sì che del sposalizio. El ghe la ga butada: «Sior Antonio, vù, me par che gavessi ancora una fia de sposar ...» Che sì, che lu ga una fia no ancora sposada, ma che no la xe ancora de sposar. «Eh, xe quel che ve disevo mi, Sior Antonio: gavé una fia puta.» «Puta sì, ma putela, no ancora de sposar — ghe fa Sior Antonio — apena finì le scole che la me ga, cossa volé che la me se sposi, che ancora no la sa gnanca che la xe nata... Ela ve deve véder ancora el mondo: la manderò, sì, in un viagio, in Levante, in America, a Londra, che la conossa mondo, gente, che la gabi ocasioni de trovarse fora con questi nostri Lussignani che xe fora. Cossa volé che la me se sposi adesso?...» — Eh, giusto. — Giusto, sì. Xe quel che ghe ga dito anca el vecio Polidrugo. «Però — el ghe ga anca dito — mi, vostra fia, podessi farla sposar pulito». E el ghe ga dito pian in orecia... — In orecia de Sior Antonio? — Sicuro che in orecia de Sior Antonio, se iera la fia de Sior Antonio. Ma Sior Antonio subito ghe ga dito: «Cossa me parlé in orecia? Cossa ve fermé? Caminé, caminé, che no me piase fermarme quando che camino! Parlé, parlème...» «Ve parlo, Sior Antonio: savé chi?... Per vostra fia sarìa de sposarse con el Diretor Partecipante dela Banca Union, che po' el ve xe anca lussignan». «Ah — ghe ga dito alora Sior Antonio, tuto soridente — se xe el Diretor Partecipante dela Banca Union e po' se el xe anca un Lussignan, Polidrugo mio, alora se pol anca parlar...» — Un Diretor Partecipante dela Banca Union? Ma el vecio Polidrugo no voleva farla sposar con el fio de Bepi Scombro? — Siora Nina, o me conté vù o ve conto mi! Speté che ve conto. El vecio Polidrugo, savé cossa che el ga fato? Lui, pulito, ve xe andado a Trieste, vestì pulito e, a Trieste che el xe andado, el xe andà drito ala Banca Union, che, siora Nina, dir Banca Union quela volta voleva dir una roba enorme. «Filiale diretta della Banca di Vienna» che, solo a andar drento, un in montura sula porta dimandava subito dove che se va. — E el ghe ga dimandado? — Come no? Dove che el va. E el vecio Polidrugo che el vien de Lussin per parte de Sior Antonio. E el ghe ga mostrà una granda sopracoperta zala, savé quele grande buste zale che se usava una volta. E come che po', andando su per le scale e per i ufizi, el diseva che el vigniva de Lussin per parte de Sior Antonio, con in man 'sta granda sopracoperta zala, subito i lo ga compagnado drento, come che el voleva, dove che iera el scritorio del Primo Diretor dela Banca Union, un Lussignan... — El Primo Diretor dela Banca Union iera un Lussignan? — Sicuro, de Lussin: un zerto Crélich. E 'sto Primo Diretor, sentà in scritorio, imenso scritorio che el gaveva, ghe ga dito subito al vecio Polidrugo bongiorno e che el se comodi. E, cussì sentà, el vecio Polidrugo ghe ga dito che el scusi. Che el scusi se el vien cussì, personalmente, ma che el xe vignù per una roba interessante. Che el ga piazer, ghe ga dito 'sto qua, che come che sta Sior Antonio e che el ghe diga liberamente. Che Sior Antonio sta ben, ma che, pretamente, sarìa questo: «Vualtri dela Banca gavéssivo bisogno de un Diretor Partecipante?» «Un Diretor Partecipante? — ghe ga ridesto 'sto Crélich — un Diretor Partecipante? Che Dio ne scampi e liberi. Beata l'ora che l'anno passà me go deliberado del Diretor Partecipante che gavevimo!» «Xe quel che ve disevo — ghe ga dito el vecio Polidrugo — vualtri dela Banca Union no gavé un Diretor Partecipante.» «E beata l'ora che no lo gavemo: ghe go deto che se gavemo apena deliberado de quel che gavevimo, perché, la sa, deta fra de nualtri, un Diretor Partecipante no serve un bel de gnente involto in carta, perché a parte la pagona che bisogna darghe, i pretende anca de andar in giro per el mondo a spese dela Banca, in Levante, in America, a Londra, come se nualtri dela Banca gavessimo soldi!...» — No i gaveva soldi? — Come no ve gaveva soldi una Banca Union? Iera che questo no voleva gaver fra i pie un Diretor Partecipante. «Ma sior Crélich — ghe ga dito el vecio Polidrugo — mi, per vù, come Diretor Partecipante dela Banca Union, gavessi un Lussignan... e savé chi?... E el ghe ga dito pian in orecia. — Ahn, no se ga mai savesto! — Come no? Perché: «Cossa la me parla in orecia — ghe ga dito 'sto qua — che la me sufia drento? La me diga franco: chi?» E alora el vecio Polidrugo ghe ga dito: «Savé chi, sior Crélich? Savé chi? Per Diretor Partecipante dela Banca Union mi gavessi per vù el zénero de Sior Antonio!» «Aah — ga dito alora 'sto Primo Diretor Crélich — se xe el zénero de Sior Antonio, sior mio, alora se pol parlar! Anzi, ghe dirò francamente, se po' el xe anca lussignan, xe afar fato!» — Mama mia, che truco! E cussì el fio de Bepi Scombro ga sposado la fia de Sior Antonio? — No. Pretamente no. Ma solo per un stupidèz. Perché, giusto in quei giorni i ga copà a Sarajevo Francesco Ferdinando, l'Austria ghe ga intimà guera ala Serbia, el fio de Bepi Scombro ga dovesto partir per el fronte e el ga perso 'sta ocasion. E tanti con lu, tanti, savé, quela volta ga perso tante ocasioni. MALDOBRIA XLIII - BELINSKI In cui un soprannome ligure, trasmigrando sulle coste dell'Adriatico, s'inserisce in una realtà squisitamente absburgica ai tempi nei quali gli uomini portavano baffi detti alla Rodolfo e le donne floride scollature. — Che maritimo, siora Nina, no ve iera ale Boche de Cataro? Massime in Marina de Guera. Un maritimo che no xe mai stado ale Boche de Cataro, mi calcolo che no xe gnanca un maritimo. E quela volta, co' ierimo in Marina de Guera, ierimo massima parte o a Pola o ale Boche de Cataro. — In guera questo? — Anca in guera. Ma mi ve parlavo ancora de Prima dela Prima Guera che ierimo là col «Carlo Sesto». — Carlo Sesto? L'Imperator Carlo? Ma prima dela Prima Guera, no iera Francesco Giusepe? — Prima e durante, siora Nina. E dopo iera Carlo Piria. Ma nualtri inveze ierimo sul «Carlo Sesto». Karl Sexte, come che i ghe ciamava per tedesco. Barca de guera, bela barca. Canoni no se parla. E siluri. I primi siluri. Che quela volta i ghe ciamava ancora torpedo. — Ahn! Una torpediniera! — Come savé? — Eh, se la gaveva torpedo! — Sì giusto, però me stupisso che savé. Bon, visto che savé, savé vù quanti mesi che se fazeva de leva quela volta, in Marina de Guera? Disé, disé: disé pur liberamente ... — No so: disdoto, vinti... — Trentasie, siora Nina. Tre anni. Eco: vedé che no savé gnente. Tre anni, pensévese, che ogi inveze cossa i ghe fa far? Un per de mesi, giusto che i se impari che el piombo va a fondo e che el suro sta a gala. E questo xe tuto quel che i sa, mi calcolo. Bon: de leva che ierimo, savé vù chi che iera silurista, primo silurista sul «Carlo Sesto» con mi? No podé saver: Bepi Marovich. — Ah! Bepi Màrovich! Quel che i ghe diseva Belìnski? — No lui. Suo padre. — No, no, propio a lui i ghe diseva Belìnski, me ricordo che tutti ghe diseva Belìnski a Bepi Màrovich... — Sì, ma perché i ghe diseva Belìnski? Perché i ghe diseva Belìnski al padre. Dopo anca al fio, come che se usa. Ma pretamente Belìnski ve iera el padre, che mi me ricordo benissimo, un toco de omo, che vù no podé ricordarve. E savé perché che al padre i ghe diseva Belìnski? Perché lui, ancora in antico, el ve gaveva navigado su barche genovesi dove che i ga sempre quela parola in boca, e inski i ghe gaveva zontà qua. Toco de omo, ve go dito. Belìnski. E xe inutile che me dimandé de più, perché vù sé una dona, siora Nina. Indiferente. E alora, che ve disevo, 'sto Bepi Màrovich, el fio, iera con mi sula «Carlo Sesto». Perché ierimo coetanei, quela volta, istessa classe de leva. Mileotozento e ... lassemo star, che me vien malinconie. Coetanei ierimo. — E adesso no sé più? — No, perché lu se ga fermà. El xe morto, povero. Ma istesso el ga fato un afar, perché el xe restà più giovine de mi... — Eh, ma vù porté ben, sior Bortolo... — Eh, anca lu porta ben, ma in sfasa, in porzelana. Bon, indiferente. Quela volta ierimo coetanei, roba de vinti, vintiun anni. Lui magari quela volta mostrava un fià più vecio perché el portava i mustaci ala Rodolfo... — Come? El ghe portava i mustaci ala Rodolfo? Chi questa? — Ma cossa chi questa? Siora Nina, strambisé ogi? Gavé pression bassa o pioverà. El gaveva i mustaci ala Rodolfo, che quela volta gaveva quasi tuti e mi no. Mi gavevo i cavei ala Umberto. — E no i mustaci? — No, no gavevo mustaci. Oh dio, sicuro che gavevo mustaci, come volé che un omo no gabi mustaci? Ma me fazevo la barba. E no gavevo mustaci. Gavevo i cavei ala Umberto. E inveze Bepi Màrovich gaveva i mustaci. Ala Rodolfo. — Valentino? — Ma cossa Rodolfo Valentino prima dela Prima Guera! Chi gnanca se sognava? Mustaci ala Rodolfo, soto l'Austria, voleva dir portar mustaci come che li portava l'Arciduca Rodolfo, el fio del Imperator, quel che xe morto copà. — Ah con quela giovine, che me contava mia madre! Ma no el iera morto? — Morto sì, con quela giovine, oh dio giovine, giovine per quela volta, ogi no so quanti anni che la gavessi, un'eresìa. Morto sì, copà. I se gaveva ciolto la vita. Però i mustaci iera restadi. — Ma come, morti e restadi i mustaci? — Ma come, come? Iera restado el modo de portar i mustaci come che li portava Rodolfo. Col rizzo, un per parte. E ve disevo che Bepi Màrovich gaveva i mustaci ala Rodolfo. Tuto qua. Cossa me fé sfiadar tanto, che mi go la mia età, savé... — Eh, ma vù sior Bortolo porté ben... — Porto ben, porto ben! Lu portava i mustaci ala Rodolfo e belissimo giovine. Che lui iera giovine, roba de vinti, vintiun anni sul «Carlo Sesto», silurista. — Sì, quel savevo. — Come savevi? Ah ve go dito mi, sì! Bon, no volé che una volta che semo ale Boche de Cataro, vien a bordo el Comandante Prohàska, che lu comandava el «Carlo Sesto» e el ne fa el ne dise, ci fa ci dice — che mi zà gavevo sentido prima in tavola dei ufiziai che servivo — che insoma, come mércoledi, vignirà a ispezionar el «Carlo Sesto», l'Arciduca Ludovico Vittore. — Ah no l'Arciduca Rodolfo? — Come volé che podessi vignir a ispezionar el «Carlo Sesto» l'Arciduca Rodolfo, se lui iera morto con quela giovine zà de anni anorum? No: questo ve iera l'Arciduca Ludovico Vittore, giovine anca lu, roba de vintiun, vintidò anni, ma zà Primo Luogotenente, pensévese, che insoma — ga dito el Comandante Prohàska — come diman el vignirà a ispezionar el «Carlo Sesto». — Ma no gavevi dito come mércoldi? — No, mi co' gavevo sentido in tavola che el ghe contava ai ufiziai, iera come mércoldi, ma co' el ghe ga partecipà anca ala bassa forza, iera come dimàn, perché iera zà màrtedi, e se no me lassé contar, qua faremo giovedì, mi calcolo. Bon figurévese, siora Nina, che apena che el Comandante Prohàska ga dito un tanto, Bepi Màrovich subito ga cominzià a dir che lui lo conosse. — Al Comandante Prohàska? — Cossa al Comandante Prohàska? Chi no conosseva a bordo el Comandante Prohàska? Lui, Bepi Màrovich, diseva che lu conosseva l'Arciduca Ludovico Vittore. E tuti che stava là a scoltarlo atorno. — Ah, el lo conosseva? E come? — Eh, xe quel che tuti ghe ga dimandado. E alora lui ga dito che pretamente conosserlo a lui come lui no, ma che l'Arciduca Ludovico Vittore iera fio del Arciduca Francesco Carlo, che cola moglie, Maria Carolina, Arciduchessa, ogni istà i vigniva un mese a Lussingrando, sul yacht e in vila de Carlo Stefano. — Che sarìa stà 'sto Carlo Sesto? — Ma cossa Carlo Sesto, che Carlo Sesto ve iera la barca! Carlo Stefano ve iera un de 'sti grandi — tuti nevodi de Francesco Giusepe — che gaveva vila e yacht a Lussingrando e altri grandi che iera sui amizi, cugini, de istà i profitava per vignir a Lussingrando in vila, in yacht, per menarse in barca e passarsela là. E lui diseva che, pretamente 'sto giovine Ludovico Vittore no el lo gaveva mai visto, perché nato fora, a Viena, ma el padre e la madre sì, de ragazeto. Che anzi la madre, 'sta Maria Carolina iera bela dona, forte e el padre, 'sto Arciduca, inveze un poco spìsima ma con belissimi vestiti. E che la madre iera de quele rare in alora che ciapava sol in barca, in vestito de bagno, che per quela volta, iera una rarità. Bela dona, sul biondo, forte. Che anzi a ela e a sua sorela i le ciamava Tetelefono e Tetelegrafo perché le gaveva, con rispeto, un petto compagno. — Ala Posta, questo? — Ma cossa ala Posta? Intendevo co' le ciapava sol... — Mia madre no ciapava mai sol... — Gnanca mia madre per quel, ma cossa vol dir, xe carateri. Ben, come mércoldi xe rivado 'sto Arciduca Ludovico Vittore, bel, in montura alta, col capel puntà, mustaci ala Rodolfo, che quela volta portava quasi tuti... — Ma vù no... — Come savé? Ah ve go dito mi. Sì, insoma el gaveva mustaci ala Rodolfo, bel giovine, roba de un vintidò, vintitré anni e zà Primo Luogotenente. Per forza, Arciduca e nevodo del'Imperator! — L'Imperator lo protegeva, come? — Cossa volé, siora Nina, che l'Imperator lo protegessi: se el iera nevodo del Imperator e Arciduca, el se protegeva solo si stesso. El mondo xe sempre compagno. Indiferente. In tavola, i Ufiziai, che mi servivo in guanti bianchi e botoni de oro, montura alta insoma, un dentàl compagno — vedé cossa che se se ricorda qualche volta — bon tuti 'sti Ufiziai guardava stupidi, come, 'sto Arciduca Ludovico Vittore... — Come nevodo del Imperator? — Anca, ma propio i lo vardava stupidi, tanto che 'sto Arciduca, rizzandose i mustaci ala Rodolfo, cussì, ridendo, el ga dito: «Ma magnate, magnate, Signori Ufiziali, magnate liberamente, cossa son mi, una bestia rara, che mi vardate senza magnare?» E el ga ridesto. E alora per forza ga ridesto tuti e el Comandante Prohàska ghe ga dito: «Con il vostro permesso, Altezza Imperiale, non è questo. E' che, col vostro permesso, voi siete cussì, senza capel puntà, preciso compagno del nostro — col vostro permesso — primo silurista Bepi Màrovich.» — Chi preciso compagno? 'Sto Arciduca? — Sì. El Comandante Prohàska ghe ga dito che el scusi tanto, ma che tuti iera stupidi, perché lui iera preciso, spudado de Bepi Màrovich. E iera vero savé, mi che propio lo osservavo, co' el strucava el limon sul dentàl, me gaveva fato fina impression de tanto compagno che el iera, anca el moto savé... — El moto de strucar el limon? — No so: anca. Tuto el moto el gaveva, l'anda. Ben, insoma siora Nina, per farvela curta, 'sto Arciduca ga volesto a tuti i pati che Bepi Màrovich vignissi in salon de pranzo per véderlo. Volé creder, siora Nina? Mi son andà a ciamarlo, a mi i me ga dito de andarlo a ciamar là dei siluristi e, come che el se ga cavà la bareta tonda, vignindo zò per la scala del salon, propio lo vardavo: preciso, compagno, spudado, l'Arciduca Ludovico Vittore, anche come che el se rizzava i mustaci ala Rodolfo, solo vestì de silurista. — Che inveze l'Arciduca iera vestì de Arciduca? — De Arciduca? El iera vestido de Primo Luogotenente, come che ghe competeva, senza capel puntà, natural, in tavola. «Orpo, orpo — fa 'sto Arciduca vardando stupido Bepi Màrovich — orpo!» — Mama mia! E Bepi Màrovich? — E Bepi Màrovich vardava stupido l'Arciduca. — Senza dir orpo? — Dove se gavessi podesto peritar soto l'Austria un semplice silurista de dir orpo davanti de un Arciduca? Ma no digo un Arciduca, davanti a un Ufizial! Orpo, chi diseva orpo? — L'Arciduca me disevi che diseva orpo. — Sicuro, l'Arciduca podeva. «Orpo — ci fa ci dice — mein Gott, di non credere. Ma lei come la si chiama?» Che Bepi Màrovich, che Primo Silurista Bepi Màrovich. «Ma lei, per combinazion, lei la conosse Lussin?» Che altro che, sissignor, che mi son propio nato a Lussin, a Lussingrando. «Ah Lussin, in Lussin? In Lussingrando? Natural. E lei la conosse Villa? Nostra Villa di Lussin?» «Come no, in Rovenska!» «In Rovenska exacto, natural! In Rovenska! E, lei, sua madre, forsi de istà vigniva a servizio come donna in Villa di Nualtri?» «No, no — ghe ga dito Bepi Màrovich — iera mio padre che de istà iera in servizio in barca, come nostroomo, de Vualtri». — Ahn! El vecio Màrovich, questo? — Vecio? Giovine, quela volta, siora Nina, el padre de Bepi. Toco de omo. Belinski, ve go dito che i lo ciamava Belinski. MALDOBRIA XLIV - LA VETTURA In cui rivivono i già più opachi splendori della Abbazia fra le due guerre, meta dei primi automobilisti di Trieste in genere e del Comandante Ossòinak in particolare che, in quel di Volosca, possedeva una villa. — Quela volta — ve parlo de, cossa sarà stà, el Ventinove, el Trenta — iera una modernità 'sta strada per Fiume col asfalto. Tanto che, volé creder, siora Nina, ognidun che a Trieste comprava un auto, una vettura, prima roba l'andava a Fiume... — Ah, iera obligo? Per provar, come? — Maché obligo. Chi podeva quela volta arbitrarse de obligarghe qualcossa a un che gaveva la vetura? Perché chi ve gaveva vetura quela volta? — Chi gaveva vetura quela volta? — Rari. Rari e gente de polso. Miga come adesso che ga vetura fin l'ultimo de bassa forza. Che xe un ben — no digo — ma xe anca un mal. Ben, indiferente. I Giadròssich ve gaveva vetura quela volta. Anzi, zà prima de quela volta. Perché i veci Giadròssich, a Lussin, pensévese, gaveva vetura ancora prima del ribaltòn del'Austria. Che con quel lori ga perso bastanza, perché soldi a Viena, Banca Union, una roba e l'altra... De cossa ve stavo parlando, siora Nina, che me fé perder el fil del discorso? ... — Dela strada de Fiume ... — No, mi volevo contarve del Comandante Ossòinak. Perché la più granda ambizion del Comandante Ossòinak ve iera quela de gaver la vetura. Capiré, puto vecio che el iera, quela belissima vila a Volosca che lui gaveva, co' l'arivava a Trieste coi vapori, lui ghe iera una schiavitù de dover andar a Fiume col treno e dopo cior el vaporeto per andar a Volosca in 'sta belissima vila che el gaveva. — Eh sì, xe una schiavitù dover cambiar cussì, cole valise... — Cossa schiavitù per quela volta, siora Nina, che fazeva tuti cussì i maritimi! El Comandante Ossòinak predicava che iera una schiavitù, ma la vera verità ve iera che lui gaveva 'sta ambizion de gaver la vetura. — Eh, ma costava assai soldi quela volta una vetura ... — Sicuro: ve disevo; pochi podeva, gente de polso. O gente de man svelta — diseva el Comandante Nacìnovich che no lo podeva véder. Ma, savé: lui sposà che no el iera, soldi che el gaveva anca de casa, che i Ossòinak a Fiume iera sempre i Ossòinak, e po' — natural, un Comandante, in un modo o nel altro, gaveva, ga e gaverà sempre i sui proventi — insoma, fato sta che un giorno el se ga comprà la vetura. — A rate? — Ma cossa a rate quela volta! Quela volta un podeva o no podeva. E se no el podeva no el comprava. Cossa, rate! Ben, iera un rider, savé: ogni volta che rivavimo a Trieste, lui ciamava el giovine Giadròssich che el iera imbarcado con lu sul «Cherca» come alievo, che iero anca mi. — Alievo? — Ma cossa alievo! Che mi, quela volta gavevo zà i mii anni, oh Dio, meno che adesso, ma li gavevo. El giovine Giadròssich iera alievo e el Comandante Ossòinak ciamava el giovine Giadròssich e el ghe dava le ciave dela vetura che el ghe la vadi cior in garàs, un garàs, me ricordo, che iera in Riva, cola pompa davanti. — Ah, comodo! — Gnente comodo, siora Nina. Perché el Comandante Ossòinak no saveva ancora menar l'auto e el gaveva zà la vetura. Iera de rider un poco. — Ah, no el saveva menar l'auto? — Prima no, ma dopo sì. Iera anca de rider, dopo, co' el ga cominzià! Perché el tigniva el volante come se el gavessi in man el timon del «Cherca»: cussì... — Come, cussì? — Cussì, come che ve mostro. Bon: un giorno rivemo a Trieste e lui fa 'sto grando anunzio, che po' el gaveva zà anunzià per tuto el viagio: «Come vénerdi — el ga dito — noi pulito rivemo a Trieste. E alora, intanto che i scariga, savé cossa che faremo nualtri, Giadròssich mio? Vù, pulito andaré a cior la vetura in garàs, vigniré sotobordo e noi, mi, vù, el commissario Bonifacio e Bortolo — perché co' se fa un viagio cussì in vetura fina Fiume xe meo gaver de per con sé un omo — nualtri pulito anderemo tuti a Volosca in vila de mi, che là go logo per tuti — e là ve staremo de vénerdi de sera fin sabo, e sabo de sera noi pulito se ciaperemo suso cola vetura e torneremo a Trieste, perché el vapor ne parte luni. Lùnedi.» — E dimenica? — Ah, dimenica lui ve voleva esser a Trieste. «Co' el vapor parte — el predicava sempre — xe meo esser a bordo un giorno prima. Perché no se sa mai». «Ma come — ghe diseva el giovine Giadròssich — gavemo 'sta ocasion de andar a Volosca, a Abazia e tuto, e volé partir propio el sabo de sera, che xe el più bel?» «Ma sì — ghe diseva anca el Comissario Bonifacio — partimo de dimenica con calma, cussì gavemo tuto el sabo de sera per star in Abazia, a Volosca, insoma». «Ah no — diseva el comandante Ossòinak — e se ne se sbusa una goma?» «Eh, ma gavemo Bortolo che ne la cambia!» — ghe diseva i altri. «Sì, sì, Bortolo, Bortolo, ma se ne se sbusa po' un'altra goma xe radighi!» — Iera ciodi sula strada? — Sì, de militari, massime, che iera tante caserme a Matuglie e i perdeva dei stivai. Ma indiferente. Iera un'assurdità tornar sabo de sera: anca mi pensavo. Ma el Comandante Ossòinak che no, che lui a tuti i pati. Insoma, partimo. — Cola vetura per Fiume? — No: cola grìpiza, per Erpelle. Ma de cossa ve conto, se no de tuto 'sto desìo che iera per andar a Volosca cola vetura! Insoma andemo. Un poco menava l'auto el giovine Giadròssich e un poco el Comandante Ossòinak, e mi sentà de drio col Comissario Bonifacio che tuto predicava de Abazia, che bel che xe el Principe Umberto. — Eh, iera bel sì, de giovine el Principe Umberto! — Ma no bel el Principe Umberto, Principe Umberto. El «Principe Umberto», «Principe di Piemonte» se ciamava pretamente, ve iera un hotel, un kursal, propio un local de lusso, che anzi soto l'Austria se ciamava Kùrsal. E po' 'sto Comissario Bonifacio, un triestin, una macia, co' guidava el Comandante Ossòinak el me fazeva in zito sesti de come che el Comandante Ossòinak tigniva el sterzo, come el timon. Cussì... — Cussì, come? — Cussì, come che ve mostro. Ben, indiferente. Rivemo a Volosca e 'sto Comandante Ossòinak ne ga mostra tuta 'sta sua vila, che devo dir, iera una belissima vila, e po' sti vasi de China che lui gaveva e in giardin dò palme, come se fussi una rarità, che po' inveze mi me ricordo che ghe ne iera dò compagne davanti del Caffè Moka a Trieste, in riva. Insoma, una roba e l'altra, che mi go visto subito che al giovine Giadròssich e al Comissario Bonifacio, de 'sta sua vila no ghe interessava un figo; lori, inveze, ghe spizza va assai de andar in Abazia al «Principe Umberto», che quel vénerdi, inveze, gnanca insognarse, perché el Comandante Ossòinak ga volesto che magnemo in vila, con sua sorela — sessantazinque anni, puta vecia anca ela — che ghe pareciava. — Pesse? — Sì, pesse, perché iera vénerdi. Quela volta de vénerdi se magnava sempre pesse, altro che adesso, che tuti bàgola. E intanto, cussì, xe vignudo sabo. — Ah, gavé dormido in vila? — Sicuro: iera un vila imensa, logo per tuti. E sabo de primo dopopranzo, el giovine Giadròssich e el Comissario Bonifacio ci fa ci dice, ci fano ci dicono al Comandante Ossòinak: «Comandante, nualtri gavemo zà fato le valise e zà le ve xe ligade sora dela vetura, intanto che vù fé le vostre, che Bortolo ve darà una man, noi femo un scampon in Abazia al «Principe Umberto», che xe sula strada, e cussì vù, co' xe de tornar a Trieste, passè de là, soné la tromba e nualtri vignimo. Che cussì anca podé far un pisoloto». — Eh, usava si i Comandanti dormir de dopopranzo. — Sicuro che anzi lori dò, fiolduncàni, me gaveva dito a mi de no sveiarlo, sperando che no el se svéi, ma mi ghe go dito: «Miei cari signori, se lui no me dise gnente, mi no lo sveio, ma se el me dise, dove posso mi arbitrarme de no sveiarlo?» — E no el ve ga dito? — Sicuro che el me ga dito. «Svèime», el me ga dito. Apena andadi via lori. E lori intanto, Giadròssich e Bonifacio, i xe andadi in Abazia, in 'sto «Principe Umberto», che iera tè danzante. — Ballo? — Si, anca ballo, ma «tè danzante», più: iera tuti 'sti signori, signorine, ungaresi ancora, che anca dopo, col'Italia, i Ungaresi vigniva sempre in Abazia, perché assai ghe piaseva. Ben: per farvela curta, 'sto giovine Giadròssich, in 'sto tè danzante, xe andado a invitar per un tango, una de 'ste Ungaresi. E Bonifacio inveze una triestina, che el ga intivado là per combinazion. — Ah i balava tuti due? — Altro che balar. No el ga perso un giro 'sto giovine Giadròssich. Savé lui gaveva un bel trato, bel giovine che el iera e el tango, savé come che xe el tango, iera tuto un strucarse, oh dio — per quela volta — ma sul più bel, che lui giusto ghe diseva a 'sta Ungarese de andar fora in veranda, no sona la tromba? — Quei dela musica? — Maché quei dela musica! El Comandante Ossòinak, che lo gavevo sveiado e ierimo vignudi a ciorli cola vetura. Insoma sona 'sta tromba intrepido e el giovine Giadròssich, con un diol de cuor, che podé capir, perché ela ghe gaveva zà dito de sì, che la sarìa vignuda fora con lui, sola a zena, el ga dovesto molar tuto e montar in vetura, col Comissario Bonifacio, che de drio me fazeva sesti come dir che cossa ocoreva partir de sabo co' podevimo benissimo partir come dimenica matina. — E ocoreva partir? — Ma no che no ocoreva, siora Nina. Perché el vapor ne partiva apena lùni. E sabo de sera se podeva benon restar in Abazia. Manie del Comandante Ossòinak. Che anca el iera come stravirado, perché insonnado ancora che lo gavevo apena sveià. «Mené, mené vù l'auto» — el ghe ga dito al giovine Giadròssich — e via noi per Trieste che iera zà scuro. — Eh xe bruto in auto col scuro. — Ma cossa bruto, che quela volta iera le strade svode. Ben: apena fora de Abazia, no volé che el Comandante Ossòinak se indormenzà, cola testa che ghe picava? E, poco prima de Castelnovo, ancora el dormiva. E alora, siora Nina, ve xe stà un truco, ma un truco che no ve digo! — Un truco cola testa che ghe picava? — Maché testa! Speté no, che ve conto. «Remenghis — ga dito el giovine Giadròssich — cossa ocoreva partir, che stasera iera la sera bona, pensévese, Bonifaciò, che la me gaveva dito che la vigniva con mi fora a zena sola.» «Eh, anca la mia! — dise Bonifacio — che scopo gaveva partir de sabo de sera, che el vapor ne parte solo che luni? E ancora el dorme! No el podeva dormir in vila e lassarne a nualtri che se femo i afari nostri?» «E ancora el dorme! Ma, speta vecio, che mi adesso te la fraco!» Siora Nina, savé cossa che el ga fato el giovine Giadròssich? — Lo ga sveiado? — Sì, dopo. Ma prima, savé cossa che el ga fato? El ga voltà la vetura, in un toco drito, senza case, in modo e maniera, capì, che el muso del auto che prima iera voltà verso de Trieste, natural, a Trieste che andavimo, dopo iera voltado verso de Abazia. — No capisso. — Capiré. Co' la vetura iera voltada, el giovine Giadròssich ga sveiado el comandante Ossòinak e ghe ga dito: «Comandante ve prego, mené vù l'auto adesso, che mi, col scuro, me lampa i oci.» «Come? Cossa? — fa 'sto Ossòinak — che meno mi? Bon, menerò mi, se ve lampa i oci... gioventù del'ostia!» E el xe smontà, el xe passà del'altra parte, el ga ciapado in man el volante come el timon del «Cherca» e via lu drito, a tuto gas, verso de Abazia, persuaso de andar a Trieste. Con de drio el Comissario Bonifacio che se sofegava de rider fazendo finta de gaver rafredor. — E vù? — Ah mi, gnente. Mi fazevo finta de dormir. E go fato finta de sveiarme solo co' go sentì l'urlo in Abazia, davanti del «Principe Umberto!» — Mama mia, che truco! — Eh, ghe ne fazeva sì de truchi el giovine Giadròssich! Pensévese che una volta, 'pena partidi de Malaga, dove che lui gaveva conossudo una de quele spagnole al bacio, al comandante Ossòinak, intanto che el dormiva, el ghe ga voltà la «Saturnia». MALDOBRIA XLV - UNA DELLE ULTIME SERE DI CARNEVALE Nella quale Bortolo, uomo dalla prodigiosa memoria, racconta, rivivendo i candidi mattini della sua remota infanzia, una delle prime esperienze da lui vissute, quand'era ancora il tempo dei Cici e del buon don Blas. — Quela volta ve iera tuto un altro mondo, siora Nina, tuto un'altra concezion dela vita. Ve parlo de prima dela Prima Guera: aré che prima dela Prima Guera, anca dopo, ma pretamente prima dela Prima Guera, per Carneval iera de divertirse. E no solo che nei loghi grandi, savé, ve parlo de una Rovigno, de una Parenzo, de una Albona, de una Cherso, de un Lussin — Pisin no se parla — ma anca nei loghi più picoli, per Carneval iera propio de divertirse... — Iera bali? — Oh Dio, anca bali. Ma no per i bali, e po' mi quela volta — perché iera bastanza prima dela Prima Guera — mi iero ragazeto propio, dove i me gavessi lassado andar drento in un balo? Se se divertiva de più perché iera che la gente saveva divertirse de più, anca stando a casa sua. — Bali a casa? — Ma cossa bali a casa? Chi ve fazeva bali a casa? I Colombis, che gaveva tante fie de sposar, solo che lori. Disevo che se se divertiva anca qua, a casa, in strada. Massime co' iera neve. Perché me ricordo, ragazeto che iero, che per Carneval iera sempre neve. Che se andava a scola cole calze sora dele scarpe e de matina bonora Severino che iera nònzolo, doveva spalar la neve cola pala davanti dela cesa per farghe logo ale vece che andava a Messa. E tanto alta ve iera la neve, che la vecia Scombrolinca, che iera picola, gnanca no se la vedeva più co' la gaveva fato i scalini. — Per andar drento? — Per andar drento e per vignir fora. Ma per dir che alta che iera 'sta neve. E me ricordo, ragazeto che iero, che vigniva i Cici a portar carbon dolze, figurévese, cola slita, con 'sti musseti, poveri, che zucava contro bora. Una bora! — Eh, iera, iera più bore una volta! — Indiferente. Sicuro che iera più bore. Perché ga cambià el climatico. Tuto ga cambià. Ben, in slita, presempio, co' iera bora e la gavevi in pupa, no iera omo che ve fermava. Mi, per dir, vignivo zò dela riva del Torion e fin in Strada Nova rivavo cola briva. — Cola slita? — Magari gaver una slita! Cola carega. — Cola carega? Come, cola carega? — Ma sì, con quele careghe che se piega; savé quele careghe con tre busi sul schenal che i gaveva una volta in local, massime per l'istà? Ma dài, quele careghe de legno, col sentàl a tressi e le gambe incrosade, che se piega per meterle via co' no le ocore. E cussì el sentàl fazeva propio de sentàl e le gambe, de slita... — No go presente... — Ma cossa, no gavé mai visto i muli che se molava zò dela riva del Torion fin Strada Nova? — Ah sì, cole baliniere! — Maché baliniere! Quel ve iera dopo, i careti cole baliniere per molarse zò dele rive! Ma, prima, cola carega se fazeva, co' iera neve, natural. — Ahn! — Insoma, che ve contavo, iero mulo, ragazeto. E co' iera neve me molavo zò per la riva del Torion cola carega. Tanto che Barba Nane, che el stava giusto là dela Strada Nova, me diseva sempre: «Andaré a finir contro el fighér, ve scavezzaré l'osso del colo e no i ve darà mai la matricola!» Sempre me ricordo che una volta, povero Don Blas ... — Ah iera vivo quela volta Don Blas? — Come no iera vivo Don Blas quela volta? Massime quela volta iera vivo Don Blas. Altro che vivo: lui sempre con nualtri ragazeti el iera che ghe servivimo Messa. Aré come che una volta se se rilevava de fioi! Lui ve stava ore cole ore con nualtri che zogavimo bandiera drio dela cesa, o porton davanti sul saliso. E co' iera neve, slita. Slita: insoma, carega. — Don Blas se butava zò dela riva cola carega? — Ma cossa disé eresìe, siora Nina? Dove volé che un Don Blas se butassi zò dela riva cola carega? Lui ve stava zò in Strada Nova a véder chi che rivava primo, e el ghe dava un santin. E noi, me ricordo — aré come che se se ricorda 'ste robe de fioi — ghe basavimo sempre la man disendoghe «Sia lodato Gesù Cristo» ... — Sempre... — «Sempre», sì, rispondeva Don Blas, come dir «Sempre sia lodato», più in curto. E me ricordo che propio per Carneval, che no iera mai stada tanta neve come quel Carneval, Don Blas ga dito che per Carneval faremo proprio gara vera de slita, de carega, insoma. E chi che vinze — el ga dito — savé cossa fioi? — chi che vinze gaverà propio un slitin vero. E el ghe lo ga fato far aposito in Squero a Barba Chiole che iera mistro, vero slitin come quei che doprava i Cici per el carbon, solo più picolo. E noi, mularìa, figurévese, come mati, gavemo tacado subito a far barufa. — Con Don Blas? — Perché con Don Blas? Fra de nualtri, mularìa. Perché un diseva: «Ti ti ga la carega più lisiera!» «La mia la xe poco alzada davanti!» Una roba e l'altra, insoma, capì, no? — No. — Indiferente. Iera che per bon ognidun gaveva una carega diferente de quel altro: capiré, iera careghe per l'istà del local de Bepin che dopo, povero, se ga ciolto la vita col carbon. Iera careghe scompagnade. E cussì mi go avudo una bona impensada e go dito: «Savé cossa? Tuti carega compagna!» E cussì se ga fato. Ogniduna col suo numero. Me ricordo che gavemo tirado zò i numeri del calendario del Maraschino Luxardo, che anca quel iera, coi numeri grandi in rosso, in local de Bepin. — Ma perché se ga ciolto la vita Bepin? — No se ga mai savesto... lori diseva che el iera nervoso, come. Ma indiferente. Insoma gavemo fato propio gara vera. Don Blas zò, là dela Strada Nova, che el gaveva fato una strica sula neve col baston, e go vinto mi. Perché mi tiravo le gambe suso. Perché quel ve iera tuto: gnente paura e suso cole gambe! — E Don Blas ve ga dà a vù el slitin? — Dopo sì. Ma prima un fraco de lignade, siora Nina, col baston che el gaveva fato la strica sula neve. — Ma perché? El se gaveva inacorto che alzavi massa le gambe? — Ma no! Lui se gaveva inacorto che le careghe iera quele dele dò ultime file dela Cesa. «Se no — ghe disevo co' lu el me coreva drio — dove trovavo, corpo de bìgoli tante careghe tute compagne?» E po' chi, siora Nina, quela volta se sentava nele ultime file dela Cesa? Le done andava davanti sui banchi e i omini, maritimi massima parte, in pie rente dela porta. Solo Don Blas, povero, se ga sentà una volta — tanti anni dopo — una sera dopo i Vesperi, che el stava per andar fora dela Cesa; el ga fato la genuflession e el ghe ga dito a Severino che iera nònzolo: «Andé, andé, Severino, che mi me sento qua un momento, su 'sta carega, che me ga fato afano ...» Cussì ve xe andà Don Blas. E cussì, sula carega, coi oci seradi, che pareva che el dormissi, lo ga trovado la vecia Scombrolìnca el giorno dopo del ultimo de Carneval, che la iera andada in Cesa de matina bonora a cior le Ceneri. Che po' mi no go mai capido cossa che andava 'ste vece a cior le Ceneri, che qua, per Carneval, quela volta no se fazeva mai gnente. MALDOBRIA XLVI - L'ANARCHISTA Dalla quale si apprende che con siffatta parola venivano chiamati dalle nostre parti gli anarchici, talvolta ingiustificatamente temuti dai Regnanti non ancora raggiunti dai loro micidiali colpi di revolver. — Cossa che no iera una volta fotografarse! Se andava apositamente a Pola, o a Trieste, a Fiume anca, per fotografarse, co' iera un'ocasion: una Prima Comunion, una Cresima, une nozze, co' se andava militari, opur con tuti i fioi per un aniversario, un ventizinque anni de matrimonio. E i dava quatro copie e un ingrandimento che quel, natural, se meteva in sfasa. — Mi go in sfasa la madre de mio marì, in grando. Teta Rosina, compagna precisa, propio come che la iera. — Natural! Ma quante volte, una volta se andava a fotografarse in vita? Ve go dito, per un'ocasion, une nozze, un ventizinque anni de matrimonio, opur col sàntolo, per una Cresima, per una Prima Comunion. Perché, savé, siora Nina, ve iera anca una spesa fotografarse. E inveze Nini Lupetina diseva: «Mi, come mi, me fotografo sempre a gratis et amore Dei». E dopo el fazeva sesti, perché lui ve iera un ateista, un anarchista, come. — Ahn! Nini Lupetina: el vedovo de quela povera Niniza? — No el vedovo! El fio, pretamente el fio. Ela ghe iera la madre. Savé: là ve iera tuta una istoria. Che Niniza, povera, gaveva avudo un fio de Giovanin American, perché lui la gaveva ilusa. Dopo, Giovanin iera andà in America e co' el iera tornà, fio grando che oramai la gaveva, zà andà militar, Niniza povera, lui sempre ricusava, tirava per le longhe, no digo de sposarla, oramai, ma almanco de legitimarghelo, de legitimarghe el fio... — Ah xe bruto, bruto, co' no i legitima! — Solo che in punto de morte don Blas lo ga fato persuaso. — Sposarla in punto de morte! Bel! — No: de legitimarlo a 'sto Nini Lupetina. Con tuto che a don Blas, Nini Lupetina ghe fazeva pretamente sprezzi, sesti, perché lui ve iera diventado, dopo tornà de militar, un ateista, un anarchista, come. — Anarchista soto le armi? Ma se podeva? — Se se podeva? Sicuro che no se podeva, massime soto l'Austria. Ma lui, savé, Nini Lupetina el ve iera sveio per via che tuto fin de picio el gaveva dovesto pensarse solo, perché el padre ve go dito, e la madre la ve lavorava andando a cùser per le case e lu doveva tuto pensarse solo. E po' apena ciamà militar, t.b.c., tebezé, mal de peto, e i lo gaveva mandà in Sanatorio Militar a Arco vizin de Trento. — Ah tebezé! Povero! E el se gaveva inguarido po'? Perché mio cognà... — Indiferente vostro cognà. El se gaveva inguarido sì, dopo. Ma ve volevo dir che in Sanatorio Militar el ve se gaveva intrupado con un dò, tre de lori, anarchisti, ateisti che ve iera drento zà de anni, tanto che tuti se gaveva stupido, che co' el iera tornado qua, una sera in osteria de Bepin el se ga messo a cantar, un poco lustro che el iera, «Adio Lugano bela...» — Ma no disevi un altro logo che el iera...? — Cossa ghe entra dove che el iera lu? «Adio Lugano bela o dolce tera pia, scacciati e senza colpa i anarchichi va via» cantava i anarchisti e Rimbaldo, la Finanza Rimbaldo, subito xe andà a riportar... — Rimbaldo, riportar? Come riportar? Che el iera anarchista? Bruto! — Ognidun, siora Nina, ga le sue idee. Rimbaldo no ve iera cativo omo, ma lui — stupidamente, forsi, più che come Finanza — xe andà a riportar su a Pisin che qua, in osteria de Bepin, 'sto Nini Lupetina cantava «Adio Lugano bela». E ga bastà, siora Nina, ga bastà, perché che de quela volta Nini Lupetina i lo metessi subito soto sorveglianza de Pulizia, come anarchista. I lo ga ciamado a Pisin — che quela volta a Pisin iera tuto — i lo ga portà per ferovia a Trieste, e là i lo ga fotografà in Pulizia. Capiré: con una Elisabeta, povera, copada de un anarchista, con 'sti anarchisti che andava in giro per tuto a copar Regnanti, che il Ventinove Luglio del Milenovecento, Umberto Primo spento fu da viliaca man, come che ne gaveva imparado a cantar la maestra Morato, con 'sti mazamenti insoma che iera de Regnanti quela volta, Nini Lupetina in Pulizia i lo ga fotografà tre volte come anarchista. — Tre volte i lo ga portà a Trieste? — No, una unica i lo ga portà, ma tre volte i usava fotografar i anarchisti, tre fotografie: una de davanti, una de profilo e una de profilo per quel'altra parte. Col magnesio, el contava sempre. — Ah, magnesia i ghe ga dà, no oio de rizino? — Ma cossa oio de rizino che quel dava dopo i fassisti! Col magnesio, col lampo de magnesio se fotografava quela volta; tre volte: una de davanti, una de profilo e una de profilo per quel'altra parte. E de quela volta i ghe ga fato sempre angherie. Oh dio, angherie! Cussì, come che i fazeva soto l'Austria: che presempio co' vigniva un Arciduca, un del Sangue, un Amiraglio Horthy, in visita per un varo, per un qualcossa, Nini Lupetina i lo vigniva a cior de Pisin e i lo tigniva drento, serado, un tre giorni, finché no l'andava via ... — Ahn! Finché 'sto Nini Lupetina no se stufava e no l'andava via. — Ma come Nini podeva andar via se el iera serado? Fin che no andava via 'sto Arciduca, 'sto un del Sangue, 'sto amiraglio Horthy. Ma quel no ve iera gnente de tale: el pezo iera che lu, ogni volta che l'andava via de qua, el doveva notificarghe a Rimbaldo, ala Finanza Rimbaldo. E lu diseva sempre che cossa, che mi gaverò 'sta schiavitù, per andar anche in una Santa Domenica, in una Dragosetti, in una Vines, perché lui ve gaveva spose dapertuto, mi gaverò 'sta schiavitù de doverghe notificar un tanto a Rimbaldo!? E savé alora cossa che el ga fato? — No el ghe ga notificà? — No: lui ghe ga notificà che l'andava a Pola col vapor per passar i ragi, e inveze lui xe andà pulito fin Trieste, el se ga imbarcà sul Austro-Americana e el ga ben che disertà in America... — Ah! El xe restà in America. — Anni, par. Ma questo no se ga mai savesto. Solo i congeturava qua. Rimbaldo congeturava, che se no el iera tornado de Pola, che se el se gaveva imbarcado su l'Austro-Americana, el doveva sicuro gaver disertà in America dove che usava andar tuti 'sti anarchisti. — Per copar Regnanti? — Ma cossa Regnanti in America? In America no iera Regnanti. In America iera sempre Stati Uniti. Indiferente. Anni xe passadi che no se ga savesto mai gnente de lui. — Ah! No el scriveva? — A chi? A Nìniza, povera, che no saveva leger? No, no el scriveva. Però un giorno, me ricorderò sempre, anzi una sera, che in osteria de Bepin xe vignù drento Pillepich, che quela volta gaveva ancora la gamba, apena tornà de Trieste col «Gerusalemme» che tornava de Càifa... — Tornà de Gerusalemme, col Càifa, Pillepich a Trieste, che el gaveva ancora la gamba? — Lassemo star. Lui iera imbarcà sul «Gerusalemme», che fazeva la linia de Levante: Càifa. E lui, in local de Bepin ga dito: «Savé chi che go visto a Càifa in local?» «Chi? Chi?» — ga dimandà tuti. E lui: «Nini Lupetina». Che mai no el se gavessi spetado de intivarlo a Càifa visto che el iera in America; che el xe assai cambiado, cola barba, quasi de non ravisarlo, però sempre ben, e che sentado con altri che lu, Pillepich, no conosseva — foresti, italiani massima parte — el cantava «Adio Lugano bela», col fioco ... — Eh: i anarchisti portava sempre el fioco... — Per quel el fioco portava anche el maestro Girardeli, cossa vol dir? Insoma che lui lo ga visto, che anzi el voleva andarghe rente, ma che po' ghe fis'ciava el vapor. E che assai cambiado, però ben... — Eh come che la gente se intiva nei loghi! I maritimi, massima parte, che viagia... — Indiferente. No volé che Rimbaldo — forsi stupidamente, perché no el ve iera un cativo omo — subito xe andà a riportar che Pillepich ga visto Nini Lupetina a Càifa e che insoma Nini Lupetina xe a Càifa. — Ma dove xe Càifa, pretamente? — Come, pretamente? Càifa ve xe sempre là, Càifa ve xe el più grando porto de Palestina. Càifa e Jaffa, ma Càifa xe più grando, almeno quela volta: de Càifa se andava, me ricordo, a Jerusaleme in un per de ore, che tuti i maritimi andava e i portava rosari de legno de ulivo del Santo Sepolcro, robe benedide, divozioni, Cristi in crose cola crose de madreperla, che i Turchi lassava andar, benedir e tuto quanto, perché quela volta la Palestina iera soto el Turco. Che tanto i diseva dei Turchi, epur iera più pase de adesso: Ottomani. — Mio padre gaveva portado de Jerusaleme una Crose cola madreperla, che vardando in un buseto, se vedeva el Santo Sepolcro ... — Ma quel portava tuti! Ben, volé creder che come che Rimbaldo ga riportà che Nini Lupetina xe a Càifa, i ga dà subito aviso a Pisin, e de Pisin a Trieste. E a Trieste i ga calcolà che se Nini Lupetina, in America che el iera come anarchista, adesso el xe a Càifa, sicuro el xe andà là aposta per quel. E i ga dà aviso a Viena. — Che el xe là aposta per quel? Per comprar un Cristo in crose cola crose de madreperla? — Ma cossa volé, siora Nina, che ghe interessi a un anarchista un Cristo in crose cola crose de madreperla! Aposta per quel che quela volta parlava tuti: che el nostro Imperator, che Francesco Giusepe, insoma — vecio che el iera — gaveva divisado, prima de morir, mi calcolo, de andar a Jerusaleme in pelegrinagio al Santo Sepolcro... — Per divozion, come? — Sicuro: el iera Maestà Apostolica. E alora a Viena i ga calcolado che se de un'America un anarchista come Nini Lupetina xe andado in una Càifa, lui sicuro xe andà là aposta per quel... — Ma per quel, cossa? — Ma cossa, siora Nina, no gavé capì? Lori ga congeturà che lui iera là a Càifa che l'aspettava Francesco Giusepe in Palestina, per tirarghe col revolver a Jerusaleme, magari davanti del Santo Sepolcro, ateista che el iera! — Mama mia! Copàr Francesco Giusepe sul Santo Sepolcro! — Eh: due ore de treno de Càifa che iera, lori ga calcolà cussì. E visto che, come 'sta altra setimana lui doveva partir, i lo ga fermà. — A Nini Lupetina? — Ma no, che el iera a Càifa! A Francesco Giusepe che stava per andar in pelegrinagio a Jerusaleme. E subito i ghe ga passado telegrama ala Pulizia Otomana che cussì e cussì e cussì. E col Orient-Express xe andado un apositamente de Viena a Costantinopoli, con 'ste tre fotografie de Nini Lupetina, de davanti, de profilo e de profilo per quel'altra parte, che i gaveva fato vignir de Trieste. — Mama mia! E dopo? — E dopo, siora Nina, xe passà quasi un mese de quando che iera tornà quel andà aposito, e sempre Francesco Giusepe fermo che no podeva andar a Jerusaleme. Fina che xe passà telegrama de Costantinopoli a Viena... — Che i lo ga ciapà? — No, siora Nina: che i li ga ciapadi. Tuti tre. — Tuti tre, chi? — Ah no so mi chi, siora Nina, che gaveva ciapà 'sti Turchi, ma lori con tre fotografie che i gaveva, tre i ga ciapado: quel de davanti, quel de profilo e quel de profilo per quel'altra parte. — E qual iera pretamente Nini Lupetina? — Nissun dei tre, siora Nina. Per quel Francesco Giusepe no xe più andado a Jerusaleme. Capiré, i gaveva sempre paura che Nini Lupetina lo speti col revolver in man drio del Santo Sepolcro. MALDOBRIA XLVII - IL ROMANZO DI UN MAESTRO Nella quale si rivela che Nicola della Gherardesca, autore di fortunati «feuilletons», altri non era che il maestro Girardelli, la cui prematura scomparsa non fu però, come si vedrà, una perdita irreparabile per le patrie lettere e per la narrativa dominata allora dal D'Annunzio. — Barba Nane, me ricordo, prima roba sul giornal el legeva i mortuari. «Tanto — el diseva — el resto xe tuto floce.» Prima roba i mortuari, e dopo el romanzo. Coi ociai. El diseva sempre, povero: «Quatro oci vede meo che dò.» — Ali, el romanzo sul giornal! Me ricordo, anca mi ghe legevo a mia madre povera co' la iera inferma: che iera la istoria de una giovine, senza padre, povera, che i la mandava a servir in un palazzo ... — Questo no go presente, sarà stado dopo. Co' legevimo nualtri 'sti romanzi sul giornal, ve iera tuto de nobiltà, storico anca, de una fia che no conosse la madre; de due che no pol sposarse... Anzi me ricordo che sul giornal de Fiume iera ogni giorno i «Amanti Indòmiti» ... — In dò, come? — Ma no in dò. Oh dio, sì: i iera in dò. I amanti xe sempre in dò. Ma i iera Indòmiti, come dir che nissun ghe la podeva contro de lori. E savé chi che lo scriveva? — Questi del giornal de Fiume... — No: iera sul giornal de Fiume, ma savé chi che ghe lo scriveva? El maestro Girardeli, quel che stava là, oltre de la Ponta; fora de man che iera quela volta, in alto sora dei scoi dela Colombéra, che no el gaveva gnanca logo per tignir in riparo la barca, tanto che co' fazeva bruto tempo el doveva tirar suso la barca in giardin: un estroso. Bon lui, là in 'sta sua casa, de dopopranzo, dopo de scola, el scriveva el romanzo. Che ogni setimana el ghe dava a Polidrugo che stava visavì dela scola, che el ghe porti a Fiume col vapor. E aposito vigniva al molo el cursor del giornal a ciorlo. — A Polidrugo? — Ma cossa a Polidrugo? A 'sto romanzo che Polidrugo portava col vapor. Ben, no volé che sia, che un dopopranzo che el scriveva 'sti Amanti Indòmiti, tutintun el more? — Chi questo, un de 'sti amanti indòmiti? — Ma no! El maestro Girardeli! Un insulto. Tornà de scola, come el solito suo, magnado pulito, che anzi el ghe ga dito ala moglie «Boni 'sti sardoni in savòr, sàlvimeli anca per zena», insoma tuto ben, inveze el xe morto. Sul pulto che el scriveva, cola pena in man. Che anzi el dotor Colombis ghe la ga cavada de man e el ga dito: «Povero Nico — perché Nicolò ve se ciamava el maestro Girardeli — povero Nico!» — Ah morto cussì! Senza inacorzerse... — Indiferente: insoma el xe andado cussì. Come un lùnedi. E, come sabo, la moglie ghe ga pregado a Polidrugo e anca a mi — che quela volta navigavimo insieme sula Ungaro-Croata che se fazeva Dalmazia, setimanale — la ne ga pregado de andar a Fiume al giornal, per partecipargli che cussì, cussì e cussì e che insoma, de 'sta setimana gnente. — Ahn! El mortuario! — Sì, anca. Ma anca che no el poderà più, per forza. — Come che no el poderà più? — Che no el poderà più scriverghe, no, 'sti Amanti Indòmiti. Che lui scriveva incontro, ogni setimana un toco, che ghe iera anca un aiuto, savé, per la famiglia. Cossa volé? Maestro, paga picola. Indiferente, mi e Polidrugo dovevimo andar là de 'sto giornal, propio suso in scritorio a spiegarghe. E savé, quela volta, ne fazeva riguardo come. E cussì ghe gavemo pregado de vignir con nualtri anca al dotor Seperizza. — El dotor Seperizza? Chi questo Seperizza? — Un dotor, po', che se ciamava Seperizza. El dotor de bordo. El dotor Seperizza, che gnanca no me ricordo come che el se ciamava de nome. Iera un bon omo. Bon omo, ma un poco bevandèla, per quel anca, mi calcolo, el iera finido come dotor de bordo su una Ungaro-Croata. Ma bravo e studiado anca. E cussì mi e Polidrugo ghe gavemo dito che, dotor Seperizza, vù che gavé pratica una roba e l'altra, insoma se el vien con nualtri al giornal, per via che xe morto el maestro Girardeli ... Che se el iera morto — el ne ga dito ridendo, zà lustro che el iera de prima matina — lu gnanca come dotor no el ghe podeva far gnente. — Eh, giusto! — Ma cossa giusto? El diseva per rider. Ma istesso, ridendo, el xe vignudo con nualtri al giornal co' ghe gavemo dito che andar soli ne fazeva riguardo. Insoma, per farvela curta, in 'sto giornal ne ga fato sentar, in camera sua de lu, tuti tre, el diretor propio, un zerto Zangrando, un grando propio, cola barba, i ociai de oro e, prima roba, el ga dito... — ... Condoglianze ... — No, prima roba, co' el dotor Seperizza ghe ga contado in lingua del maestro Girardeli, el ga dito: «E mi no savevo gnente! Povero Gherardesca!» Perché Nicola della Gherardesca, se firmava soto del romanzo el maestro Girardeli, e lui cussì el lo ciamava. Bel omo 'sto Zangrando, alto, col coleto duro e coi ociai de oro. «Però pecato!» — el ga dito. «Eh sì — ghe gavemo dito nualtri — perché ancora giovine, giovine in confronto, insoma, e po' la famiglia ...» «Sì, sì, anca per quelo — el ga dito lu — ma pecato per il romanzo anca, che lui lo scriveva incontro, e così resta senza una fin sul più belo ...» — Ahn, perché no el saveva come che andarà a finir? — Eh no! Solo che el povero maestro Girardeli saveva, e visto che el iera morto, adesso no saveva più nissun. «Pecato, pecato — fa 'sto Zangrando — perché questo romanzo era bene per il giornale, era bene anca per lui povero Gherardesca, pecato!» Sempre in lingua parlava 'sto Zangrando. E che el ne darà quindese fiorini che gli portiamo ala vedova. — Una carità, una sovenzion, come? — Anca nualtri credevimo, mi e Polidrugo e ghe gavemo dimandà. «No, no — fa 'sto Zangrando — questo è per le due ultime setimane, che, povero, non ho rivato a mandargli.» E intanto che l'andava a cior 'sti quindese fiorini in cassa, el dotor Seperizza ne fa «Orpo». «Orpo sì — go dito mi — quindese fiorini per una quindicina, un fiorin al giorno!» Iera qualcossa, savé, quela volta un fiorin al giorno: sessanta corone al mese, squasi la paga de un piloto. E alora a Polidrugo — savé come che iera fato Polidrugo — subito ghe ga balenado e el ghe ga dito, co' xe tornà coi fiorini 'sto Zangrando, che a casa del maestro Girardeli povero defonto, iera tuti i Amanti Indòmiti, solo che sono in sporco. Che xe solo de meterli in neto e che, se lei vuole, noi li copiamo ... — Coparli? Per far finir el romanzo? — Ma cossa coparli? Copiarli. «Noi li copiamo — ga dito Polidrugo — e ogi oto gli porto col vapore di sabo come sempre.» Polidrugo, savé, ve parlava franco in lingua: lui iera stado a Port Said un periodo. — Ah, el maestro Girardeli gaveva zà scrito tuti in sporco i Amanti Indòmiti! — Maché, ve go dito che lui scriveva incontro, lui ve iera un omo estroso, no el saveva gnanca lu come che andava a finir, mi calcolo. Polidrugo ghe ga flociado, perché dopo, per le scale, el diseva: «Ciò, un fiorin al giorno! Ghe lo scrivemo nualtri avanti el romanzo! Insoma nualtri: ghe lo fémo scriver al dotor Seperizza, qua ...» «Come sarìa — ga dimandà el dotor Seperizza, fermandose sui scalini — come sarìa ghe lo femo scriver?» «Femo che femo — ghe ga fato Polidrugo ciapandolo sotobrazzo — che vù, dotor, che sé studià, scriveré avanti incontro i Amanti Indòmiti cussì come che nualtri ve conteremo quele istorie che se contemo sempre a bordo...» — Istorie? Quale istorie? — Ma sì, siora Nina, quele istorie de maritimi che se contavimo sempre nualtri a bordo. De viagi. Perché ve iera giusto una istoria de viagi 'sti Amanti Indòmiti, che scampava de tute le parti, perché el padre de ela ghe coreva drio. E insoma che el dotor Seperizza che el xe studiado el scrivi, e che nualtri ghe conteremo una roba e l'altra. «Una roba e l'altra ve conteremo — lo fazeva persuaso Polidrugo in local, ciamando bicerini — e vù scriveré, insoma meteré in neto.» — E el dotor Seperizza ve ga scrito? — Sicuro: el dotor Seperizza, che mi, in viagio, su de gambusa ghe portavo fernet, che lui pretendeva che ghe fa ben per el stomigo, el scriveva e noi ghe contavimo. Insoma semo andadi avanti che Polidrugo ghe portava ogni sabo incontro al giornal a 'sto Zangrando 'sti Amanti Indòmiti che iera sempre più personagi, perché tuti a bordo contava la sua. Metemo dir, Marco Mitis ga fato meter quela dela Casa di Fumo a Sciàngai, e Polidrugo de Port Said, de 'ste arabe che balava col tamburo e mi ghe go contà quela che no ve go mai contado, de quele chinesi che stava in via Madona del Mare a Trieste. — No me gavé contà? Perché no me gavé contà? — Perché, perché, perché? Sarà un perché, no? Indiferente. Insoma nualtri con 'sti Amanti Indòmiti andavimo avanti propio pulito... — E 'sto diretor Zangrando no se inacorzeva? — No, noi ghe disevimo che iera zà tuto in sporco e che noi solo metevimo in neto. No so mi se no el se inacorzeva o se el fazeva finta, fato stà che el iera contento. El ghe diseva sempre a Polidrugo, co' un sabo sì e un sabo no el ghe dava i quindese fiorini: «Andiamo noma che bene», el ghe diseva in lingua. Fin che semo rivadi su quela del Tempio del Piacere, che el dotor Seperizza ga messo propio el titolo «Il Tempio del Piacere», ridendo e fazendo sesti, un poco ciapado, lustro che el iera, anzi bastanza... — Andavi noma che ben? — Sicuro. Fina a quela volta del Tempio del Piacere a Beirutti, come che i ghe ciamava in alora a Beirut. — Perché cossa xe nato a Beirut? — Gnente a Beirut, siora Nina: xe nato a Fiume. Che la Polizia ga sequestrà el giornal. Ghe xe rivada la carta a 'sto diretor, a 'sto Zangrando. Che el ghe la ga mostrada a Polidrugo, con su el timbro: la galina con dò teste e scrito soto «Sequestrato per l'eccessiva libertà del linguaggio» per italian, per tedesco e per ungarese. — Mama mia, male parole che iera scrite? — No, no male parole: più per quel che contava, mi calcolo, per la istoria, come... — De 'sti Amanti Indòmiti? — Ah, no xe stà più Amanti Indòmiti, siora Nina. De quela volta, schluss! I ga sequestrà el giornal. Però, dopo, co' a Fiume xe finida la guera, xe vignù el ribaltòn e xe cascà l'Austria, capì, 'sto diretor Zangrando — che mai prima l'Austria no gaveva sequestrado un giornal in una Fiume — 'sto diretor Zangrando, capì, xe deventado subito un dei primi. Podestà i parlava che i lo voleva far. E po' con Danunzio, co' xe vignù Danunzio, el ghe ga dà una fotografia sua de lu, che 'sto Zangrando se tigniva sempre sul pulto 'sto Danunzio in sfasa con scrito soto: «A Zangrando Indomito, Gabriel Impavido, in Fiume d'Italia» o cussì qualcossa. — Danunzio in sfasa? — Sì, Danunzio. Quel estroso che gaveva la barca in giardin, quel che xe morto sul pulto cola pena in man. Gavé presente? MALDOBRIA XLVIII - LA GRANDE ILLUSIONE Nella quale la lunga e profonda insenatura che con il nome di Canal di Leme penetra profondamente dall' Adriatico nel cuore dell'Istria è meta d'un ricercatore di tesori che i tempi nuovi rendono improbabili. — «Anca un orbo ga trovà un fero de cavai», diseva sempre l'avocato Miagòstovich, che po' zà in quei anni i cavai iera rari. Ma lui istesso ve diseva cussì perché el gaveva sempre quela ambizion de trovar una perla in un'ostriga. Per quel, savé, no per altro el me strassinava sempre a Leme in vetura... — Per zercar 'sto fero de cavai? — Ma cossa feri de cavai a Leme! A Leme se andava a magnar ostrighe, in alora. Lui ghe piaseva: me ricordo che el se portava de per con sé in vetura un cistel con limoni, vin bianco, vin suo, che lui gaveva campagne imense qua, insoma imense: bele campagne. E po' a Leme ostrighe, ostrighe: el comprava de 'sti ostrigheri ostrighe e — quel che ve disevo — el voleva verzerle lu perché el diseva sempre: «Anca un orbo ga trovà un fero de cavai e nualtri, con tante ostrighe che magnemo, òstrega, un giorno o l'altro doveremo pur trovar nel'òstriga una perla!» — Ah! E el trovava? — No, ma el calcolava che el gaverìa trovà. E cussì lui ve verzeva dozene e dozene de ostrighe che dopo gnanche no el gaveva più volontà de magnarle e me tocava magnarle a mi, perché, capiré, un'ostriga averta, se no se la magna, in un per de ore no xe più gnente de ela... — Ah, no el trovava? — Eh no, ah! Chi ve ga mai trovado una perla a Leme? Ghe vol altri mari, altri climi, in Giapon, a Giava Insulindia, che ghe se ciamava quela volta. Dove a Leme? Ma l'avocato Miagòstovich diseva: perché no anca a Leme? E dàghela a verzer 'ste ostrighe per veder se iera la perla, come se fussi stadi ovi de Pasqua ... — Eh qualche volta ... — Qualche volta gaverà trovà qualchedun in antico anca qua, per combinazion. Ma dove mai se ga sentido che un gabi trovado zercando, de proposito? Ma guai dirghe a lui un tanto: él se rabiava. E cussì ga finido che el se fazeva anca rider drio dei amizi sui de lu: un Podestà Petris, un notaio Coglievina, el vecio Mòise. Tanto che una volta, in Cafè, che mi iero andado drento per saludar Marco Mitis, che po' inveze el iera apena sortido, el vecio Mòise, che iera assai remenéla, me ga ciamado là de lori. — Per remenarve? — A mi? No! Perché? Cossa ghe importava a lori de remenarme a mi? Al avocato Miagòstovich. «Perché, Bortolo — el me ga dito — no ghe fé trovar una bela perla in un'ostriga, cussì per la sodisfazion?» E pulito el me ga messo in man, savé, una de quele perle mate che i vendeva una volta dò per un soldo sui careti in Canal a Trieste. — Ah, un truco? — Truco! Scherzi che i se fazeva lori fra de lori; e mi solo che ghe fazzo. Insoma, come sabo son andado a Leme col avocato Miagòstovich, in vetura, come che andavimo ogni sabo e intanto che lui iera andado un momentin via per un'impelenza, ghe go presto prontà una bela ostriga con drento 'sta perla mata. Serada ben de novo e po' la go messa nel cistel con tute le altre. Siora Nina, ancora me lo vedo: col cortelf el fazeva sesti per aria, roba che el me impiri un ocio. «Bortolo, Bortolo! La perla! La perla! La go trovada!» El zigava forte che tuto Leme rintronava e xe vignudi anca pescadori a véder. — Mama mia, che maldobrìa! — Speté, speté; lu ve iera come mato, con 'sta ostriga, che zà spuzava, perché, ve go dito, un'ostriga averta, in un per de ore, no xe più gnente de ela. Come mato! E a tuti i pati che subito dovemo andar a Trieste cola vetura, che lu 'sta perla ghe la vol subito mostrar a Jànesich... — Jànesich, chi? Un maritimo? — Ma cossa un maritimo Jànesich! Che Jànesich ve iera el più meo orefice che ve iera a Trieste, in Capo di Piazza. «Oreficeria e Argenteria Jànesich — Trieste-Parigi-Montecarlo». Iera 'sta botega che squasi no ve iera una botega, ve iera come un saloncin de prima classe. E lori ve iera amizi, propio intrinsechi. — In 'sto saloncin? — Come, in 'sto saloncin? Sempre i ve iera intrinsechi, amizi de anni anorum. E insoma el ghe la mostra. «Pénsite, Jànesich: a Leme — el ghe diseva zigando — mi la go verta, mi la go trovada! Ara che grandezza! Ara che grossezza!» — El ghe mostrava la perla? — E cossa po'? Sicuro che la perla el ghe mostrava, zigando. E 'sto Jànesich se ga ficà nel ocio, savé, quela roba che se fica nel ocio i orefici, el la ga vardada e el ghe ga dito: «Miagòstovich mio, ma dime la sincera verità, ma propio ti ti la ga trovada?» «Mi, mi, con 'ste mie man. Senti! Ancora le te spuza de ostriga! Cole mie man, la go verta che squasi me taiavo col cortélo, Jànesich mio! Tanti anni che semo amizi, mai mi a ti, mai no te dirìo una roba per l'altra!» «Eh, Miagòstovich mio — ghe ga dito alora Jànesich — se anca le ostrighe adesso scominzia a far perle mate, vol dir propio che el nostro tempo xe finìo!» Siora Nina, iera apena finida la guera de Abissinia. E qua, massime dele nostre parti, dopo un per de anni, xe andà tuto a ròdoli. MALDOBRIA XLIX - VENERDI' GNOCCHI Nella quale, in una Trieste capitale di un Litorale che non è più quello austriaco, bensì quello del Terzo Reich, Visco — uomo di molte risorse — apre un Luogo di Colazione e riesce ad arrivare al secondo dopoguerra. — Cossa che no iera i fasioi durante la guera! Savé cossa che mi calcolo? Che, senza i fasioi durante 'sta ultima guera più de un sarìa morto de fame. Oh dio, morto! Ma insoma, guai se no gavessimo avudo i fasioi in tempo de guera: i fasioi, savé come che se dise, xe la carne del povero. E ierimo tuti poveri durante la guera, anca i siori. E savé cossa che ve dirò mi, siora Nina? Che mi me fa paura quando che i siori diventa poveri. — Eh me ricordo, me ricordo sì: che se magnava fasioi pranzo e zena... — E anca per marenda. Mi, presempio, che in tempo de guera iero a Trieste un periodo, co' iera diese ore, diese ore e meza de matina, andavo sempre de Visco a far marenda. — Visco? Chi questo? — Visco, un toco de omo, un de Cherso. No pretamente de Cherso, de Dragosetti, che iera stà balombaro un periodo co' el iera più giovine e che gaveva fradei e campagna a Dragosetti. — Istesso che el iera balombaro? — Sicuro. Anzi coi soldi che el gaveva messo via come balombaro, perché i balombari ga sempre avudo bone paghe, anche soto l'Italia, lui, subito dopo che xe s'ciopada 'sta ultima guera el se ga comprà una barca... — Ah una barca de balombaro? — No. Lui apena s'ciopada la guera el ve se gaveva subito disnotà de balombaro, fazendose far una carta del dotor Colombis per el cuor, perché savé, tempo de guera, un balombaro chi sa dove che i podeva mandarlo. No una barca de balombaro, una barca per far noli el gaveva comprado, insieme con suo cognà Ménigo, che gaveva sposado una de quele sue sorele de Dragosetti. — Ah, a Dragosetti el gaveva anca sorele oltra che fradei e campagna! — Sicuro. E a lui la ghe iera andada sempre ben. Oh dio ben! Ben come che podeva andar in tempo de guera. Vù dovè saver che Visco, i primi anni de guera, iera andado avanti a navigar con 'sta sua barca che el gaveva in parte con suo cognà Ménigo. E chi che navigava in tempo de guera fazeva, fazeva soldini, perché gaveva modo e maniera de profitarse. — Ah, el navigava? — Prima. Prima del patatràc del'Italia. Ma dopo, coi Gnochi, i ghe ga militarizado la barca. — La barca coi gnochi? — Ma cossa barca coi gnochi? I Gnochi. I Tedeschi, che se ghe diseva, ghe ga militarizado la barca. — Jéssus Maria! Militarizado del militar germanico? — La barca, no lu. Lui el se ga fato sbarcar con quela che el gaveva una gamba ofesa: un bozèl che ghe iera cascado, ancora in antico, sul pie, ma lui gaveva salvà la carta del dotor. Cussì 'sti Tedeschi ga tignudo in 'sta barca con lori solo che suo cognà Ménigo e a Visco i lo ga sbarcà, per via de 'sta gamba ofesa, a Trieste. E a Trieste, che a Dragosetti no el voleva tornar, perché là iera movimento, partigiani, una roba e l'altra, soldi che el gaveva messo via navigando, remitùr che iera con 'sti Tedeschi, cusinar ben che el saveva, perché a bordo el gaveva sempre fato lui de magnar, a Trieste, Visco ga avudo l'ocasion, morto che iera el paron, de comprar per poco per gnente la «Vecia Batana». — Una vecia batana per tornar a navigar? — La «Vecia Batana» ve iera un local; cussì ve se ciamava un local a Trieste, subito in una de quele contrade rente de Marina, gavé presente? E lui 'sta «Vecia Batana», la ga fata sbianchizar tuta de novo, e inveze che dar solo che vin, come el paron de prima che iera morto, el ga cominzià anca a far de magnar. A pareciar. Oh dio, pareciar, qualche picolezza, quel che se podeva pareciar in tempo de guera: pesse, che ale quatro de matina l'andava in pescheria, pan cola tessera e fasioi. — Anca cola tessera? — No: quela xe stada la sua furbitù. Lui ve gaveva ocasion, con 'sto suo cognà Ménigo che navigava militarizà coi Tedeschi, per Istria e Quarner — che ogi no xe gnente, ma quela volta ve iera un continuo pericolar — lui ve gaveva ocasion de farse mandar dei fradei che lori, ve go dito, gaveva campagna a Dragosetti, lui ve gaveva ocasion de farse mandar fasioi, un poco de oio de Cherso, che quela volta iera un oracolo, e un per de volte al mese, patate. — Eh, xe bel gaver cussì una comodità... — Adesso tuto par bel. Quela volta pareva tuto bruto. Indiferente. 'Sto qua vigniva sempre a magnar de lu, ala «Vecia Batana». — Chi 'sto qua? 'Sto suo cognà. 'sto Ménigo che disevi? — Anca. Ma con lu vigniva anca — prima con lu e dopo anca solo el ga cominzià a vignir — un dela Marina de Guera Germanica, che iera lu che gaveva militarizà 'sta barca, un Sotocapo de Marina germanico che — me sovien ancora — se ciamava Stringher. — Un Germanico? — No pretamente germanico. Lui ve iera de un logo, no so, in Carinzia o in Stiria, indiferente. Un Austriaco el ve iera. Ma gnanca austriaco propio, perché suo padre ve iera stado, dela Prima Guera, a Trieste in Governo Maritimo, e sua madre iera una Triestina, no triestina pretamente, ma del teritorio, de Nabresina la ve iera. Natural, dopo, co' l'Austria xe cascada, 'sti Stringher iera tornadi in Austria e là el iera nato lu. E in 'sta ultima guera, pratico de qua che i lo calcolava, i lo gaveva mandado qua. 'Sto Stringher, me ricordo, ve parlava franco triestin, savé. Insoma triestin, cussì come che a casa el se gaveva imparado dela madre. «Cossa gavemo di magnar di bon?» — el dimandava, me ricordo. Cussì, come che el se gaveva imparado dela madre. Ghe piaseva bever e anca magnar, ma un poco sule sue sempre el stava. Capiré: militar germanico, in montura, guera, una roba e l'altra. — Eh i Tedeschi durante la guera stava sempre sule sue... — Ah, per quel i stava anca su quele dei altri. Ma per dirve che — mi me lo ricordo 'sto Stringher — ala «Vecia Batana» el se meteva in un canton, vizin del paredo de legno a vetri, dove che drio i pareciava e alzandose in pie, oltra de 'sto paredo che iera a tre quarti, el dimandava: «Cossa gavemo di magnar di bon?» E alora Visco ghe portava 'ste robe che el pareciava, che el gaveva. Savé, un dò tre sardoni, ma massima parte fasioi. — E ghe piaseva fasioi a 'sto Tedesco? — Come no? I Tedeschi xe mati per fasioi. Anca per patate. Ma Visco saveva pareciar fasioi in tante maniere: lessadi, in salata, natural, con una joza de oio de Cherso e el resto aséo; fasioi in tecia senza panzeta — perché dove se trovava panzeta? — pasta e fasioi, quela pasta nera, patate e fasioi co' iera patate. — Fasioi freschi? — Cossa fasioi freschi in tempo de guera! Fasioi sechi, quei duri come balini, che i campagnoi a Dragosetti salvava. Ma messi in smoio e cusinadi i vigniva boni... — Eh, xe quela la schiavitù dei fasioi, che bisogna tignirli in smoio ore cole ore... — Ma vigniva tanta gente, savé, de Visco a magnar fasioi. Maritimi, 'sti maritimi che ancora navigava con quele poche barche che iera, monturati e anca più de un zivil, siori anca che i gaveva sentido dir de 'sto local e i se profitava che el dava senza tessera. E no solo 'sto Stringher, ma anca altri militari germanici. E cussì vigniva qualche sera la Feldgendarmerie a ispizionar e lui ghe dava un bicer de vin. — Ala Feldgendarmerie? — Si, quei col kifel impicà cola cadenela sul colo e scrito propio sora «Feldgendarmerie», la Gendarmeria de Campo germanica che i iera tremendi. Ben, no volé che una volta a Visco fina un pranzo de nozze i ghe ga ordinado? — 'Sta Feldgendarmerie? — Ma no la Feldgendarmerie! Con chi gaveva de sposarse la Feldgendarmerie? Col kifel? Dò, dò giovini che gaveva de sposarse in tempo de guera. «Eh — ghe ga dito Visco — pranzo de nozze, cossa volé che ve fazzo pranzo de nozze che go solo che fasioi e se capita, qualche matina, un per de sardoni?» Che se almanco se podessi gaver gnochi de patate, dimanda 'sti sposi. E Visco che sì, che gnochi de patate se pol, col sugo de conserva de pomidoro, perché carne no xe, ma ogni modo solo 'sta altra setimana, perché el deve spetar suo cognà Ménigo che ghe porti patate de Dragosetti cola barca militarizada. Che va ben, che alora 'sta altra setimana, come vénerdi, che speremo che sia anca sardoni. — Ma chi iera questi che se sposava? — Indiferente. Dò, dò giovini che se sposava in tempo de guera, poveri, come che se podeva sposarse quela volta, che me ricordo mi che quela volta più de un per nozze ga fato tratamento con pan e marmelata. Ma volé che sia che xe propio vero che né di Venere né di Marte non si sposa e non si parte! E 'sti qua che come vénerdi gaveva de sposarse e che Visco zà giòvedi gaveva fato la pasta dei gnochi per quaranta de lori che doveva vignir, i ga mandado a dir che purtropo gnente. — Jessus! 'Sti sposi gaveva fato barufa al ultimo momento? — Cossa barufa i sposi? Xe che 'sto sposo, un giovine de vintiquatro, vintizinque ani, che lavorava ale Ferovie, el giòvedi de sera, propio co' Visco fazeva la pasta dei gnochi, i Tedeschi lo ga guantado insieme con tuti 'sti altri ferovieri e i li ga mandadi a Matuglie. — E ela? — E ela, podé capir, disperada. Ma anca Visco iera intrigado con tuti 'sti gnochi de patate. Podé capir: per quaranta de lori. Ma cossa volé, in tempo de guera, massime in ultimo, iera sempre più fame che gnochi. E tempo dò ore, Visco li gaveva zà dadi via tuti, tanto che el ga apena rivà a meter via dò porzioni per lu per zena. E tanta gente istesso vigniva a dimandar 'sti gnochi che Visco ga pensado ben de impicar fora dela porta del local una tabeleta con sora scrito col gesso «Gnocchi finiti». — Ahn, el gaveva finì i gnochi? — Siora Nina, marzo del Quarantazinque iera! E fora de 'sto local de Visco iera scrito bianco su nero, che vedeva tuti quei che passava per strada, propio scrito in tabela: «Gnocchi finiti»! Tuti vedeva. E vù dovevi véder Stringher co' el ga visto. Lui subito vignindo drento del local, lui prima ga leto, dopo el ga dispicà la tabeleta, el se la ga messa in scarsela del trench de Marina, po' el xe andà drento, el se ga sentado in quela sua tavola che l'usava sentarse, el se ga alzà in pie e, oltra del paredo de legno a vetri, el ga ciamà Visco. — Per ciamar de magnar? — Maché ciamar de magnar! Per dirghe. «Ah cussì la è — el ghe dise, ci fa ci dice a Visco vardandolo come che usava vardar i Tedeschi — ah cussì la è: "Gnocchi finiti!" Cossa ti credi ti, omo, che mi no so che vualtri a nualtri di Germania ci ciamé Gnochi? Gnochi finiti. Gnochi kaputt. Perché finiti? Perché kaputt? Mi no so. Forsi meo poderà saper Polizai o Feldgendarmerie che mi ghe porterò tabeleta!» E el se bateva cola man sula scarsela del trench de Marina. «Gnochi finiti! Ti vederà, ti vederà ti, omo!» E el ga ciamà gnochi. — Jessus Maria! El ga ciamà i Gnochi che i porti via Visco? In Germania? — No. Intanto el ga ciamado gnochi col sugo de conserva de pomidoro che Visco, natural, ghe ga subito dà quele dò porzioni che el gaveva messo via per lu per zena — che 'sto Stringher ga magnado, con Visco che ghe gratava sora formagio de Cherso — e po' sortindo del local, el ghe ga fato cussì col déo, come per dir che el staghi ben atento. — Mama mia! — Mama mia sì, ga pensà Visco. E lui de quel momento el ve iera in teror. Ogni volta che vigniva drento in local un militar germanico o, pezo, quei dela Feldgendarmerie, el se stremiva. — Per paura che i lo vegni a cior? — Sicuro. Che i lo vegni a cior, che i lo porti in preson, che i lo mandi in Germania. Tanto che, savé cossa che el ga fato? — El xe scampà! — Dove volevi scampar in quei giorni? Savé cossa che el ga fato? Lui se ga votado ala Madona de Tersato. El xe andado propio in Cesa, a Sant'Antonio Vecio che iera oltra del giardin rente del local e, inzenociado davanti del quadro dela Madona dei Sete Dolori, «Madona mia — el ga dito — se mi 'sto colpo no me nasse gnente, mi ve giuro in Dio che co' finirà 'sta maledeta guera, mi andarò a Fiume e po' caminando, andarò fina suso ala Madona de Tersato, caminando con i fasioi drento dele scarpe, con tuto che go el pie ofeso.» — Eh, tanti tanti fazeva 'sto voto de Tersato, ma fa mal andar caminando suso per el monte de Tersato con i fasioi drento dele scarpe. E el ga fato? — Come no? Visco ve iera omo de parola. Co' xe finida la guera — no subito, dopo, co' se ga regolado un poco le robe — lui se ga fato passaporto, el xe andà a Fiume, e po' el xe andado caminando fina suso del monte de Tersato con i fasioi drento dele scarpe. Solo che prima el li gaveva cusinadi. Eh, in tante maniere pareciava i fasioi Visco. MALDOBRIA L - IL GRANDE TITOLO Maldobrìa cinquantesima ed ultima, la quale s'intitola a un Grande Titolo che fu portato con diversa sorte ma con pari dignità dal primo e dall'ultimo servitore di uno Stato, che, essendo stato veramente Stato, ai tempi presenti non è più. Quindi i congedi finali. — Tuti stava a scoltar Barba Checo co' el contava, perché lui ve gaveva navigado ancora a vela, savé. Lui ve iera un omo antico, come: Capohornista. No so quante volte che el gaveva fato Capo Horn, a vela. Ma massime i ultimi anni lui contava sempre quela del Grande Titolo. Vecio el ve iera, assai, e massime a Padre Orlich, come frate, el ghe contava 'sta storia dei frati. — Ah la storia dei frati, no la storia del Grande Titolo? — Ma sì la istoria del Grande Titolo, ma proprio a Padre Orlich, come frate, che el iera dei Frati Neri, el ghe contava 'sta istoria de Viena ... — Ah! Una istoria de Viena, no de frati? — Ma speté che ve conto! Qua l'Austria ve iera zà cascada, de no so quanti anni, ma Barba Checo sempre ghe contava a Padre Orlich e a tuti, 'sta istoria del funeral. — Ah! De un funeral ve iera 'sta istoria? — Ma cossa un funeral? El Funeral, siora Nina! El Funeral de Francesco Giusepe, povero, che i ghe lo ga fato a Viena subito dopo che el xe morto. — Ah, subito dopo? — Eh sì ah! Per presto che i fazessi, no i podeva farglielo prima che el more... Insoma, per farvela curta, vù podé capir cossa che no iera un Funeral de un Francesco Giusepe in una Viena! Guera iera e zà bruto, ma istesso i ga mandado de tuti i loghi el militar austriaco, anche de Marina, per una presenza, come. E per Marina i gaveva mandà de Fiume el Comandante Prohàska con tuto un Corpo de Marina, che iera anca Barba Checo. Quel ve xe stà. — Barba Checo a Viena? — Per forza, siora Nina: se el funeral iera a Viena, dove volevi che i lo mandasse, a Klagenfurt? Insoma, dovè saver che xe stadi imensi funerai, per tuta Viena, e per tuta Viena, in profondo luto, per tute le strade de Viena ve iera el militar e a Barba Checo ghe ga tocado, pensévese, de star propio fora dela porta dei Frati. Per quel ve disevo che lui ghe contava sempre 'sta istoria a Padre Orlich, come frate. Perché a Viena i gaveva quela che i Imperatori i li sepeliva nela Capela dei Frati. Tuti. — E i stava drento tuti quanti in 'sta capela dei frati? — I stava, i stava. Un Imperator, cossa volé, more ogni morte de Papa. Insoma, lui, Barba Checo iera propio davanti dela porta dela Capela dei Frati co' xe rivada la cassa. — Ah bel! Cussì el ga podesto vederlo! — Ma cossa vederlo, se la cassa iera zà serada! Ma lui contava de come che i gaveva fato. — A serar la cassa? — Sì, coi ciodi de garofolo! Ma noo: tuta la pramatica, no, che i usava. «Padre Orlich mio — ghe contava Barba Checo — come che ve xe rivada la cassa, cussì i la ga pozada per tera sul saliso, pensé. Sul saliso bagnà, perché pioveva. E un xe andà a bater sula porta dei Frati. Un de 'sti grandi, tuto in montura nera, con un baston col pomolo de oro. E drio dela porta serada, un frate, un frate come vù, Padre Orlich, che dopo lo go visto, ga dito: "Chi è?" Chi xe, insoma!» — Ah, no i iera stadi avisadi? — Ma cossa no avisadi? Iera la pramatica che el frate doveva dimandar «Chi xe?», chi è, insoma, chi vuole vegnire drento? E alora 'sto grando col pomolo de oro ga rispondesto: «Sua Maestà Apostolica Imperiale e Reale Francesco Giuseppe, Imperatore d'Austria, Re d'Ungheria, Re di Boemia, Re di Galizia e Lodomiria, Re di Croazia, Slavonia e Dalmazia, Re di Gerusalemme, Duca di Stiria, Salisburgo, Carinzia, Carnìola e della Marca Slovena, Duca di Slesia e Bucovina, Margravio d'Istria, Conte Principesco del Tirolo, Gorizia e Gradisca, Signore di Cattaro e di Trieste!» — Mama mia! — Sì che sì, mama mia, siora Nina. Questo ve iera il Grande Titolo che gaveva l'Imperator. Ma volé che sia — contava Barba Checo — che el Frate de drento dela porta serada ghe risponde: «Non lo conosco!»? — No el gaveva avudo ocasion? — Ma no, siora Nina, iera la pramatica: «Non lo conosco». E allora questo grando ga batudo de novo col pomolo de oro. E «Chi xe?» — sempre dimandava 'sto frate. «Chi vuole vignire drento?» E alora 'sto qua ga dito: «Sua Maestà Apostolica l'Imperatore d'Austria, Re d'Ungheria e di Boemia etecetera etecetera, Francesco Giuseppe Primo». Più in curto, capì? «Questo — spiegava Barba Checo — ve iera el Picolo Titolo. Ma istesso el frate de drento dela porta ga dito «Non lo conosco!» Pensévese. — Ah! El lo diniegava, come? Mama mia! — Sicuro. Per pramatica. Insoma, siora Nina, de novo rèpete. De novo batù, de novo dimandà «Chi è?» «Chi xe», insoma. E alora 'sto qua in montura nera, col baston col pomolo de oro, butandose in zenocion per tera sul saliso bagnà, el ga dito: «Sono il vostro fratello Francesco, un miserabile pecatore!» «Pensévese, Padre Orlich — ghe diseva sempre Barba Checo — che solo cussì i ghe ga verzesto la porta e i ga finì el funeral.» — Bel, sugestivo: come dir che di fronte ala Morte, tuti... — Eh, come dir. E quante volte che Barba Checo ghe contava 'sta istoria a Padre Orlich, che gnanca no ve conto! Insoma, savé siora Nina, cossa che ve conterò mi? Che morto Francesco Giusepe, l'Austria no xe stà più gnente de ela, xe vignù el ribaltòn, gnanca dò anni dopo. E qua xe vignuda l'Italia e Barba Checo, povero, ga navigado ancora per un per de anni soto l'Italia. — Eh me lo ricordo sì, mi me lo ricordo in pension. In Cesa dei Frati l'andava qualche volta... — Come qualche volta? Sempre, siora Nina. In convento, de Padre Orlich, per via che Padre Orlich ghe fazeva sempre tute le petizioni per la pension. Perché un giorno Padre Orlich, che lo gaveva intivà in Cesa, ghe ga dito pian: «Savé, Barba Checo, che vù podessi gaver più pension, perché adesso l'Italia riconosse anche i ex A.U., quei del Austria-Ungheria, tuto quel che vù gavé navigà soto l'Austria.» In cesa el ghe gaveva dito, pian. — Ah, no se podeva dir forte? — Ma no! Come, no se podeva? Se podeva, sì. Solo che in cesa se parla sempre pian. Cossa volé zigar un tanto, davanti al Santissimo? Insoma che l'Italia riconosse, che el pol gaver più pension, che el ghe porti tute le carte che el ga a casa e che i varderà insieme. «Ah no, Padre Orlich, vardaré vù, perché mi no go più oci, no go più uoci» ghe ga dito Barba Checo, come che lui usava. E, andando con lu fora de cesa, in piazza el ghe contava de novo: «Un frate come vù... non lo conosco! ... Re di Lodomiria... Re di Croazia, Slavonia e Dalmazia, Conte Principesco ... Signore di Cattaro e di Trieste...» — Ahn! Quela del Funeral? — Quela po', che el ghe contava sempre: del Grande Titolo, del Piccolo Titolo e de 'sto grando in montura nera, col baston col pomolo de oro. «Sono il vostro fratello Francesco, un miserabile pecatore...» «Va ben, va ben, Barba Checo — ghe ga dito Padre Orlich — portème dimàn 'ste carte che vardaremo insieme.» — E i ga vardà? — Padre Orlich ga vardà. Padre Orlich ga vardà tute 'ste carte de Barba Checo e el ghe ga scrito anca la petizion, perché lui no gaveva più oci, più uoci. «Savé — el ga dito — che adesso l'Italia ve darà bastanza de più de pension, come ex A.U., perché vedo qua che vù, Barba Checo, Coglievina Francesco di anni 89, sé stado: Nocchiero di porto di prima classe, Brevetto di lunga navigazione, Cinque anni di servizio nella Marina di Guerra Austro-Ungarica di cui quattro in equipaggio di combattimento ...» «Sicuro — ghe ga dito Barba Checo — dovessi esser anca la carta de Lissa.» «Sì, sì, la xe, ma adesso xe meo meter solo in equipagio di combatimento. Po' sé Capohornista, Nostromo imbarcato per quaranta anni su bastimenti del Lloyd Austriaco, dell'AustroAmericana e dell'Ungaro-Croata.» — Ah! Tuta 'sta roba iera Barba Checo? — Sicuro! Anca lu se ga stupido, e el ghe ga dito a Padre Orlich: «Orpo, Padre Orlich mio, quante robe che mi ve iero!» Ben, volé creder che, de quela volta che Padre Orlich pulito ghe gaveva scrito la petizion con tuto quel che el iera, ben — ogni matina — Barba Checo, dopo messa, che l'andava in convento de Padre Orlich a trovarlo, che lui ghe dava caffè bianco con quei boni buzolini che gaveva i frati, mandadi dele mùnighe, bon, ogni matina el ghe bateva la porta e co' padre Orlich de drento dimandava chi xe, lui diseva: «Sono Francesco Coglievina, Nocchiero di Porto di Prima Classe, Brevetto di Lunga Navigazione, Cinque anni in Marina di Guerra di cui Quattro in Equipaggio di combattimento, Capohornista, Nostromo del Lloyd Austriaco, dell'Austro-Americana e dell'UngaroCroata, Pensionato ex A.U.» «Superbia! Superbia!», ghe zigava ridendo de dentro dela porta Padre Orlich. E alora Barba Checo, andando drento, tuto soridente, el ghe diseva: «Sono il vostro fratelo Francesco, un miserabile pecatore». E dopo el fazeva sope de buzolini nel caffè bianco, contandoghe a Padre Orlich quela dei Funerai de Viena, col Grande Titolo e el pòmolo de oro. — Ah i iera amizi, come? — Oh dio, amizi. Padre Orlich ve iera un Padre Orlich. Ma Padre Orlich ghe voleva ben a Barba Checo, povero veceto, tuti ghe voleva ben. Tanto che una matina, dopo tre matine che no el lo gaveva visto in Cesa, el se ga impensierì come — novantaoto che el gaveva — e el ga pensà ben de andar a véder a casa sua, che no el staghi poco ben. — E el stava mal? — Moribondo, siora Nina, lo ga trovà Padre Orlich. Moribondo, in fin de vita. Tanto che co' Padre Orlich ghe xe andà drento in camera sua de lu, Barba Checo no lo ga gnanca ravisà. «Barba Checo — ghe ga dito Padre Orlich — pozandoghe la man sula fronte — me ravisé? Chi son mi?» E Barba Checo, gnente, solo el lo vardava coi oci spanti. «Su, su, Barba Checo, cossa no savé chi che son mi? Son Padre Orlich! Me capì? Me sentì? Diséme, vù chi sé?» E alora Barba Checo, che gaveva zà serà i oci, el li ga averti de novo e el ga dito: «Sono Francesco Coglievina, Nocchiero di Porto di Prima Classe, Brevetto di Lunga Navigazione, Capohornista di Dalmazia, Slavonia e Croazia, Nostromo del Lloyd Austriaco, dell'Austro-Americana e dell'Ungaro-Croata, Conte Principesco del Tirolo, Gorizia e Gradisca, Duca di Stiria, Salisburgo, Carinzia, Carnìola e della Marca Slovena...» E no el ga gnanca rivà a dir «Sono il vostro fratelo Francesco, un miserabile pecatore», perché quando che el diseva «Re di Lodomiria, Signore di Cattaro e di Trieste», el xe andà... — Andà? — El xe andà sì, siora Nina. E quando che un de nualtri va, va per l'ultimo imbarco, par gnente: un capoto de legno in canton dela stiva, un capotìch. Però, aré, va tanto: tanti ani, e robe, e nomi de vapori che nissun ga mai visto, e Comandanti morti e sepolti e porti e loghi che no se sa più. Robe del bel de una volta. Che po' el bel de una volta, forsi, ierimo solo che nualtri, come che nualtri se ricordemo che ierimo. Cossa volé, siora Nina, el sol magna le ore. Indiferente. Indice _*_*_ POVERO NOSTRO FRANZ MALDOBRIA I - VECCHIA GUARDIA MALDOBRIA II - I RESTI DI QUELLO CHE FU MALDOBRIA III - USO DI MARE MALDOBRIA IV - GENTE CHE VA, GENTE CHE VIENE MALDOBRIA V - COCAI DE PUPA MALDOBRIA VI - L' ULTIMO ABSBURGO MALDOBRIA VII - IL CAMBIO DELLA CORONA MALDOBRIA VIII - HOTEL SAVOIA MALDOBRIA IX - MARCO PALISCA STORY MALDOBRIA X - PASTA UND FASIOI MALDOBRIA XI - ROSSO MATTUGLIE MALDOBRIA XII - LA CONTENENZA MALDOBRIA XIII - MAGYARORSZAG MALDOBRIA XIV - I CORFIOTI MALDOBRIA XV - LA CAPITALE MALDOBRIA XVI - L' ORA CHE UCCIDE MALDOBRIA XVII - IL PICCOLO CAMPO MALDOBRIA XVIII - UOMINI SUL FONDO MALDOBRIA XIX - IL RITORNO DELL'ARCIDUCA MALDOBRIA XX - ACCADDE UNA NOTTE MALDOBRIA XXI - LE TRE CITTA' MALDOBRIA XXII - LA FRECCIA DEL CARNARO MALDOBRIA XXIII - IL VIAGGIO DI NOZZE MALDOBRIA XXIV - UN COLPO DI PISTOLA MALDOBRIA XXV - LA LUNGA MARCIA MALDOBRIA XXVI - LA BEFFA DI ZEBOKIN MALDOBRIA XXVII - ADDIO GIOVINEZZA MALDOBRIA XXVIII - NEL NOME DEL PADRE MALDOBRIA XXIX - CAFFE' CAFFE' MALDOBRIA XXX - DREI GROSCHEN OPER MALDOBRIA XXXI - L'ISOLA DEL TESORO MALDOBRIA XXXII - IL PRINCIPE E IL POVERO MALDOBRIA XXXIII - IL POLACCHESE MALDOBRIA XXXIV - I DUE PRIGIONIERI MALDOBRIA XXXV - IL SACCO DI ANTÌVARI MALDOBRIA XXXVI - LA RAGAZZA DI CAMPAGNA MALDOBRIA XXXVII - L'ULTIMA SPIAGGIA MALDOBRIA XXXVIII - MAL DI MARE MALDOBRIA XXXIX - LA BUONA MORTE MALDOBRIA XL - I TRAVESTITI MALDOBRIA XLI - I TROMBINI MALDOBRIA XLII - UNA DOMANDA DI MATRIMONIO MALDOBRIA XLIII - BELINSKI MALDOBRIA XLIV - LA VETTURA MALDOBRIA XLV - UNA DELLE ULTIME SERE DI CARNEVALE MALDOBRIA XLVI - L'ANARCHISTA MALDOBRIA XLVII - IL ROMANZO DI UN MAESTRO MALDOBRIA XLVIII - LA GRANDE ILLUSIONE MALDOBRIA XLIX - VENERDI' GNOCCHI MALDOBRIA L - IL GRANDE TITOLO Created with Writer2ePub by Luca Calcinai La copertina di questo libro è stata tratta da un manifesto della società di navigazione «Austro-Americana», stampato in litografia, negli anni immediatamente precedenti il primo conflitto mondiale, dalle Arti Grafiche Modiano di Trieste, che qui ringraziamo per aver messo cortesemente a nostra disposizione i suoi archivi. Il manifesto raffigura il transatlantico dell'«Austro-Americana» «Martha Washington», costruito nel 1908 dai Cantieri Russel di Port Glasgow per gli armatori triestini. Fu un vanto della nostra marineria e per molti anni la migliore unità in servizio sulla linea del Nord America. Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra contro gli Imperi Centrali, il «Martha Washington», alla fonda nel porto di New York, venne considerato preda bellica e navigò sotto la bandiera americana. Alla conclusione del conflitto fu restituito alla società di navigazione di Trieste, divenuta nel frattempo la «Cosulich Line». Nel 1933 la nave fu ceduta al Lloyd Triestino che, per adibirla ai servizi di linea con la Palestina, la ribattezzò «Tel Aviv». L'anno dopo, mentre si trovava al Cantiere San Rocco di Muggia per i lavori di trasformazione, la bella unità si incendiò e venne poi demolita a Monfalcone. La storia di una nave nella storia di una città. O viceversa. Quasi una parabola. CARPINTERI & FARAGUNA - VIVA L'A. Nuove maldobrìe fra due secoli EDIZIONI DE LA CITTADELLA TRIESTE 1983 PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Edizioni de La Cittadella Trieste Copertina di José PREAMBOLO Erano volumi un poco misteriosi quelli delle Edizioni della Cittadella di Trieste a firma Carpinteri & Faraguna, un'unione che pareva dare l'assicurazione di una solida impresa commerciale. Bastava, però, sfogliare uno degli episodi del ciclo Le Maldobrìe per essere afferrati da una specie di vertigine. Tra pagina e pagina scritta, erano inserite perfette riproduzioni o ancor più perfette imitazioni di cartoline illustrate d'epoca, c'erano anche telegrammi d'epoca, fotografie d'epoca, documenti burocratici d'epoca, si era attratti a sprofondare in un vortice multicolore e multisuggestivo di passato imperialregio. E le pagine scritte avevano un timbro, un movimento, un gusto insoliti, a cominciare dall'incipit della Maldobrìa n. 1 «Il varamento della Giuseppe C»: «Orade orade, ociade ociade, dentai, branzini, pessimòli, scampi, caramai, scarpene de grota e guati de scoio! Àle, àle, siora Nina, che el sol magna le ore. — Cossa gavè de bon, sior Bortolo? — El caratere. Ma el meio xe la scarpena che fa la tecia piena.» Questo Bortolo che veniva presentato in tutto il suo cicalare triestino (no, non esattamente triestino, più esattamente adriaticoorientale) era un narratore instancabile di storie di quel paese mitico che è l'impero di Francesco Giuseppe. I racconti del pescivendolo Bortolo si leggevano bene, con gran divertimento e un felice sospetto, crescente di pagina in pagina, che potesse trattarsi di qualcosa di più di una raccolta di allegri aneddoti e spensierati witz alla vecchia Vienna. Non un'«epigonata» di Robert Musil o di Joseph Roth, ma un risultato di sicuro di qualche valore, oltre che, altrettanto di sicuro, di molta comicità. I volumi del ciclo di Bortolo, irresistibile Sheherazade incapace di prendersi sul serio, si sono susseguiti sino a raggiungere il numero di cinque e a conquistarsi un nucleo di affezionati lettori, tra cui l'umilissimo sottoscritto. Poi, un giorno, la Longanesi & C di Milano ha mandato in libreria un'antologia, rielaborata e tradotta in italiano del ciclo sotto il bel titolo L'Austria era un paese ordinato in grado di rimpiangere e insieme di far giustizia di ogni rimpianto. All'impresa Carpinteri & Faraguna si era aggiunto un nuovo socio per l'esportazione fuori dai confini imperialregi, Furio Bordon, incaricato della traduzione. A questo punto, avevo avvertito un brivido d'apprensione per l'iniziativa. Non potevo fare a meno, infatti, di ricordare un caro amico di Trieste, Nereo Rocco, il Paron del «Milan», quando il «Milan» era il «Milan». Anni fa avevo scritto un libretto insieme con Gianni Rivera, Un tocco in più, per la Rizzoli, e mi era capitato di citare spesso il Paron, i suoi interventi di saggezza e ironia, di umanità e tattica, di astuzia e ingenuità. Presentando in pubblico il libro, accennai al mio dispiacere per non aver potuto rendere con il mio italianuzzo di mezzo toscano (sono nato all'Elba, la definizione è esatta, senza aver bisogno di tirare in ballo la mia statura che al Maridepo di Pola fu spropositatamente calcolata in m. 1,63) il leggero, cantante, ilare dialetto triestino. «Eh, no, dotor...», protestò il Paron dalle ultime file della libreria Rizzoli, e venne avanti con quella grinta che lo faceva apparire un misto tra il Gattamelata e il Gambadilegno. Aveva detto «dotor» con le o alla triestina, ma per la familiarità che avevo con lui, avevo perfettamente inteso che lui intendeva «mona». E, infatti, spiegò all'incolto e all'inclita che il triestino non è un dialetto, ma una lingua. In prima fila applaudì subito con calore Angelo Rizzoli, il vecchio, quello vero. Dunque, temevo per la traduzione, anche se fatta da un triestino. Ma Le Maldobrìe hanno evidentemente una forza intima (poetica? e perché no?) che si impone anche in un'altra lingua. L'Austria era un paese ordinato ha avuto un bel successo. Ed ecco, comunque, dopo la parentesi italiana, Bortolo riattaccare a offrire pesci e storie nella Maldobrìa n. 1 del nuovo volume, il sesto, in adriatico-orientale Viva L'A. per le Edizioni della Cittadella di Trieste: «Orade orade, ociade ociade, barboni, riboni boni, sardoni, sardele sardunìci, capelonghe, capesante, caperòzoli. Àle, àle, done che el sol magna le ore, àie, àie, siora Nina che el le magna, anca per vù... — Magari cussì no, sior Bortolo, el le magna, el le magna per tuti: le ore, i giorni, i mesi e i anni. Dio mio, come che passa el tempo! Me par ieri... — Indiferente. A tuti ghe par ieri. Che pò, no so se gavè fato osservazion, più se deventa veci, più el tempo passa presto. E inveze co 'iero giovine, che navigavo e che tanto go visto, tanto che ancora adesso go tanto de contar, i anni no passava mai. Presempio per dirve, co' i me ga ciamà militar, militar de Marina de Guera — ve parlo de prima dela Prima Guera, natural...» Bortolo è partito, narra, narra, narra, alla signora Nina resta solo il compito di spalla, di stimolatrice, di complice del gran volo del comico. Questo primo racconto «Mustacchi di ferro» è straordinario, un piccolo capolavoro, come la prova di forza di Carpinteri & Faraguna per far capire che la parentesi italiana non stava a significare che si erano esauriti. Comicità e tragedia si sfiorano, dapprima cautamente, un'ipotesi appena, quella della somiglianza dei mustacchi del pilota Mattìevich con i mustacchi dell'Arciduca Franz Ferdinand, erede al trono. Si sfiorano, si saggiano, si interessano, si appetiscono nel cicalare di Bortolo, e, a un tratto, convolano a nozze, si coniugano mentre il mondo imperialregio e il resto del mondo, rotolano verso la tragedia di Serajevo. Chi muore a Serajevo, l'Arciduca o il pilota? E perché il pilota la scampa? In che modo il comandante Prohaska della imperialregia marina e la sua fobia per i mustacchi arbitrano il destino del mondo? Scherzando, facendo ridere, Carpinteri & Faraguna, ormai, ci narrano non tanto le storie quanto la Storia. E allora bisogna fare i conti con loro pure in sede critica. Non lo dico per me una volta tanto. Forse perché non mi sento critico, i conti li ho fatti subito con loro da quando ho acquistato il primo volume del ciclo e ci sono sprofondato dentro. Non me ne sono affatto pentito, e la mia gratitudine ai narratori in adriatico-orientale aumenta con il sesto volume. Invidio sinceramente voi prossimi lettori che non avete ancora letto Viva VA. e cominciate ora. Buon divertimento, non è un augurio, è una constatazione. Oreste del Buono VIVA L'A. MALDOBRÌA I - MUSTACCHI DI FERRO Nella quale i medesimi si rivelano come la chiave di volta delle nostre storie e della Storia contemporanea, dando avvio a un nuovo ciclo di nuovissime e finora inaudite maldobrìe che Bortolo, narratore di lungo corso, racconta dal proprio banco di pescheria a siora Nina, ancora una volta sua fedele nonché svagata interlocutrice. — Orade orade, ociade ociade, barboni, riboni boni, sardoni, sardele, sardunìci, capelonghe, capesante, caperòzoli. Ale àle, done che el sol magna le ore, àle àle, siora Nina che el le magna anca per vù... — Magari cussì no, sior Bortolo, el le magna, el le magna per tuti: le ore, i giorni, i mesi e i anni. Dio mio, come che passa el tempo! Me par ieri... — Indiferente. A tuti ghe par ieri. Che pò, no so se gavè fato osservazion, più se deventa veci, più el tempo passa presto. E inveze co' iero giovine, che navigavo e che tanto go visto, tanto che ancora adesso go tanto de contar, i anni no passava mai. Presempio, per dirve, co' i me ga ciamà militar, militar de Marina de Guera — ve parlo de prima dela Prima Guera, natural — dopo me pareva de esser stà militar una vita. Perché tre anni, fazeva quela volta, tre anni, pensèvese, i militari de Marina soto l'Austria, che i partiva mularìa e co' i tornava no iera gnanca de conosserli. E massime, siora Nina, perché tuti, anca mi, me ricordo, se gaveva quela de farse cresser i mustaci. Primo, perché iera i primi mustaci, perché prima de andar militari rari gaveva mustaci, e secondo perché quela volta iera anche un'ambizion, savè, gaver un bel per de mustaci. Metemo dir uni mustaci ala Rodolfo... — Rodolfo Valentino? — Ma cossa Rodolfo Valentino, che co' iera Rodolfo Valentino l'Austria iera zà cascada! Intendevo mustaci ala Rodolfo come che li portava Rodolfo, l'Arciduca Rodolfo, povero, el fio de Francesco Giusepe, prima de coparse, natural, quela volta a Mayerling con quela giovine. Per quel se diseva mustaci ala Rodolfo, come che se diseva, presempio, anche mustaci ala Franz Férdinand... — Chi questo? — Come chi questo? Franz Férdinand, l'Arciduca Francesco Ferdinando, quel che ve xe deventà Erede dela Duplice dopo morto Rodolfo. Mustaci de fero, pretamente ve gaveva Francesco Ferdinando, mustaci in ponta e voltadi per su. — Anche mio padre defonto, gaveva mustaci fina in ultimo e barba: una belissima barba spartida in mezo... — Quel ve iera tuto altro, siora Nina, quela spartida in mezo ve iera pretamente barba ala Massimiliano, come che gaveva Massimiliano, quel copà in Messico. Ma quela in Marina de Guera austriaca no se podeva. Perché in Marina de Guera austriaca a chi che andava militar de leva in Marina no i ghe lassava gaver barba: mustaci sì, ma barba no. «E i ga ragion — diseva sempre Barba Nane — perché la barba se smàsala co' un magna, perché la barba ve xe intrigoso tignirla in ordine e po' perché la barba sporca la maia dela montura...» E xe vero, maia bianca a righe celestine che iera, se gavessi subito osservà. E cussì no i ghe lassava barba. Ala bassa forza, natural. I ufiziai, inveze, podeva. E tanti gaveva: massime ala Massimiliano. — E ala Francesco Giusepe se podeva? — Intanto, Francesco Giusepe, siora Nina, no gaveva barba, ma el gaveva una roba tuta sua, gavè presente? E po' quel, più che altro, usava i veci. I giovini, inveze, come che ve disevo, usava mustaci: mustaci ala Rodolfo, mustaci ala Francesco Ferdinando. E i cavei, che quel soto l'Austria, in Marina de Guera iera propio obligo, tuti quanti gaveva i cavei ala Umberto... — I cavei ala Umberto? Come sarìa, sior Bortolo, i cavei ala Umberto? — Cavei a scartazza. Cavei alla Umberto. Curti de drìo sul copìn e alti dò dedi davanti, come che li portava Francesco Ferdinando. E in Italia el Re Umberto, prima che i lo copassi, natural. — Eh, una volta assai i copava i regnanti... — Indiferente. Savè vù chi che qua ve gaveva belissimi mustaci ala Francesco Ferdinando? Belissimi mustaci ala Francesco Ferdinando, qua ve gaveva el piloto Mattìevich. — No conossevo. — No podevi conosser, perché lu ve sarà stà, come milesimo, del Setantazinque, del Setantaquatro, e el gaveva fato el militar bastanza prima de mi, in Marina de Guera... — Ahn, e là el se gaveva fato cresser 'sti mustaci ala Francesco Ferdinando? — No. Guai, siora Nina, perché lui come militar de leva, ve iera imbarcado sul Carlo Sesto, che là el Comandante Prohàska no lassava mustaci. — Ma no disevi che solo che barba no se podeva? — Per la Marina de Guera austriaca, questo, ma per el Comandante Prohàska — che un Comandante, soto l'Austria, sula sua barca, ve iera primo dopo Dio — no se podeva gnanca mustaci. Un boemo el ve iera, 'sto Prohàska, tremendo, e «Pel xe pel — el diseva — e i mustaci se smàsala co' un magna, i mustaci xe intrigoso tignirli in ordine e po' i sporca la maia dela montura co' un se la cava!» — Eh sì, cavando, xe vero, pol sporcar! — Tuto pol sporcar, cavando, siora Nina, anche i cavei, ma questa dei mustaci ve iera pretamente una fisima del Comandante Prohàska. Lu no lassava: tanto che el piloto Mattìevich i primi mustaci che el ga podesto lassarse cresser, xe sta solo co' el xe torna a casa, che no iera gnanca de conosserlo. — No iera de conosserlo co' el xe torna a casa? — No: no iera de conosserlo co' el se ga lassà cresser i mustaci. Belissimi mustaci, ve disevo, ala Francesco Ferdinando, che anzi Barba Nane, la prima volta che el lo ga intivado in Governo Maritimo coi mustaci ala Francesco Ferdinando, el ghe gà disesto: «Savè, Mattìevich mio, che con quei mustaci, me gavè assai de Francesco Ferdinando?» — Eh, se el gaveva i mustaci ala Francesco Ferdinando... — Natural, però iera anche l'anda, massime cussì in montura de piloto col coleto serado. Che po' el piloto Mattìevich, siora Nina, no ve iera pretamente piloto. Perché, soto l'Austria, un per esser piloto, vero piloto, doveva esser capitano, come el Capitan Malabòtich, presempio, che ve iera vero piloto, natural, opur gaver almanco l'esame de paron de barca. — E lui no gaveva? — No, siora Nina, perché soto l'Austria, per esser paron de barca, bisognava almanco gaver la barca. Però cussì, nei loghi, in una Lussin, metemo dir, tante volte come piloto i podeva cior anca un Pratico... — Ah, perché i piloti no iera pratichi? — Come volè, siora Nina, che i piloti no ve fussi pratichi? Iera i Pratichi che no ve iera piloti. Piloti, veri intendo. Ma istesso i fazeva tuto quel che fa i piloti: andar cior le barche fora per menarle drento, saver come e dove armisarle, saver dove e come meterle in riparo de bora, de siroco, de maìstro, conosser i fondai, natural, e una roba e l'altra... E anca come montura, savè, i gaveva la montura de piloto, bareta col'ongia e tuto. Però, primo, no i gaveva i botoni de oro — botoni neri de osso i gaveva — e po' come paga, là dove che un piloto vero ve gaveva squasi la paga de un capitano, lori ve tirava sì e no la paga de un nostroomo. Pretamente un Pratico ve iera el piloto Mattìevich e per questo, capirò siora Nina, la moglie ghe rugnava. — Perché che el iera pratico? — No, la ghe rugnava perché no el iera piloto vero. Anche se el fazeva de piloto de no so quanti anni, che tuti lo ciamava piloto e che in Arbe, a un zerto Gropuzzo che iera anche lu un Pratico, un bel momento i lo gaveva fato vero piloto, che volendo se podeva, «per lunga pratica di mare», come che iera scrito sul decreto. — E a lui inveze no i lo gaveva fato? — No. E per questo, come che ve disevo, la moglie ghe rugnava e lo tazzava. Che come? Che ti tanti anni, che Gropuzzo, inveze... Che po' sarìa tuto un'altra paga e anca, no per dir, ti gavessi una bona volta 'sti botoni de oro e mi de dimenica in Cesa podessi meterme in capel... — Ah, se lu no gaveva botoni de oro, ela no podeva meterse in capel? — Tuto se podeva e gnente no se podeva soto l'Austria, siora Nina, ma ela in capel con lu senza botoni de oro no sarìa stà bel, no se usava. Assai in una Lussin i gavessi criticado. Con tuto che lui, anche senza botoni de oro, el fazeva la sua bela figura savè. Perché el piloto Mattìevich ve iera un bel omo, drito, ben tressà e con belissimi oci celesti. E, dopo de quela volta, mi calcolo, che Barba Nane ghe gaveva dito che con quei mustaci el gaveva assai l'anda de Francesco Ferdinando, lui ancora de più el se li gaveva fati ala Francesco Ferdinando. E, massime in bareta, ma anche senza, cavei a scartazza che el gaveva, e col capoto de montura longo de Marina col colo imbotonado, più de un a vederlo se stupiva. — Che el gavessi el capoto? — Cossa ghe xe de stupirse se un de inverno ga el capoto? Se stupiva, no questi de qua che lo gaveva sempre soto i oci, ma più de un che vigniva de fora se stupiva che el gavessi cussì l'anda de Francesco Ferdinando. Tanto che una volta che a Lussin xe vignuda la Viribus Unitis, e el piloto Mattìevich ve xe andado a bordo col Capitan Malabòtich, anche el Comandante dela Viribus Unitis, come che el lo ga visto vignir suso per el barcarizzo, el se ga assai ma assai stupido... — Perché che el iera con Malabòtich? — Ma no, siora Nina, perché lui, in massimo ordine che el se gaveva messo per andar sula Viribus Unitis, cola bareta e el capoto longo de montura imbotonà sul colo e i mustaci ala Francesco Ferdinando, natural, el pareva propio lu, spudado, Francesco Ferdinando, anche quando che rente del timon el se ga cavà la bareta, cavei a scartazza che el gaveva. Per farvela curta, siora Nina, là ve deve esser stada qualche parola con qualchedun, perché, tempo una setimana, al Capitan Malabòtich, in Governo Maritimo, ghe xe passà telegrama che el vadi a Pola. — El Capitan Malabòtich? — No, el piloto Mattìevich. Che el piloto Mattìevich vadi come diman a Pola «per partecipazioni di servizio» e cussì, podè capir, Mattìevich e sua moglie ga subito congeturado che forsi sicuro stavolta i lo fazeva piloto vero. — Ahn! E el xe andà subito a Pola? — Per forza, siora Nina, che el xe subito andado. Me ricordo, iera del Tredici, de febraro, perché difati del Tredici iera vignuda la Viribus Unitis a Lussin. E lu, col capoto longo de montura, ben scovetado e tuto, el ve se ga presentado a Pola in Governo Maritimo e de là dò de lori che lo spetava, lo ga compagnado drito in Comando di Piazza: in Comando de Piazza dela Marina de Guera de Pola. E là, in scritorio del Comandante Hubeny, apena che questo Hubeny lo ga visto, el ga dito: «Unglaublich!» — Ahn, per saludarlo come? — Ma no, per dir per tedesco, che iera una roba de no creder. E, volè creder? Subito i ga portà el piloto Mattìevich in un cameroto dove che iera impicada su un picarin una montura nova novente coi botoni de oro, i ghe ga dito che el se cambi e i lo ga sera drento. — Ahn! La montura nova de piloto vero? — No, siora Nina, una montura vecia de Francesco Ferdinando. — Ma no me gavevi dito che iera una montura nova novente? — Sicuro, perché, podè capir, Francesco Ferdinando ve dismeteva una montura co' la iera ancora nova novente. E co' al piloto Mattìevich, i ghe ga averto el cameroto e i lo ga portà de novo in scritorio del Comandante Hubeny, 'sto Hubeny, prima squasi che el ghe fazeva el saludo e po' el ga dito « Ausgezeichnet ! », che sarìa stà quela volta come dir per tedesco: Noma che ben, perfetto! — Indiferente, siora Nina. Quela volta no gaveva capido, cussì al impronto, gnanca el piloto Mattìevich, ma la vera verità ve iera che in quei anni assai, ma assai i copava i regnanti. Metemo dir, una Elisabeta, povera, la moglie de Francesco Giusepe, copada a Ginevra con una cortelada intanto che la montava sul vaporeto, un Re Umberto a Monza, che il Ventinove luglio del Milenovecento Umberto Primo spento fu da viliaca man, un Zar de Russia, ancora ani prima, e un Oberdan che squasi ve mazzava Francesco Giusepe. Insoma, siora Nina, iera tuti 'sti anarchisti, 'sti iredentisti, 'sti nikilisti, 'sti bosniàchi, po', dopo che l'Austria ve iera andada in Bosnia Erzegovina, che sempre più andava in giro procurando de mazzar regnanti. E cussì, capirè, per 'sti regnanti e per tuti 'sti qua del Sangue, come un Francesco Ferdinando, che ve iera Erede dela Duplice, quei dela polizia secreta ve iera assai in pensier. E in secreto i procurava de trovar qualchedun adatado per farlo andar a lu al posto suo, in treno, in carozza, in auto, quando che el doveva passar in mezo dela gente, Dio guardi un atentato. Un che ghe somiliassi, natural, come el piloto Mattìevich. — Ahn, i voleva che i ghe fazzi un atentato al piloto Mattìevich inveze che a Francesco Ferdinando? — Ma no! Come volè che i volessi un tanto? I voleva che, a ogni bon conto, el piloto Mattìevich andassi qualche volta al posto suo de lu. E lori là, in Comando di Piazza dela Marina de Guera de Pola, in scritorio del Comandante Hubeny, dove che iera sentadi anche dò dela polizia secreta, travestidi in zivil, i ghe ga dito franchi che sarìa de far cussì, cussì e cussì. — Ma come cussì, cussì e cussì? — Sì, cussì: che sicome che lu se trova nela fortunata condizione de esser squasi preciso compagno de Sua Altezza Imperiale e Reale, visto de lontan e anche de vizin, che el dovessi esser sempre a disposizion per andar qualche volta, cola montura adata — che natural i ghe la darà lori — in treno, in carozza e in auto, quando che per una roba o l'altra ocorerà. E che no el gaverà de far gnente, solo che star sentà ben drito sul sentàl, vardar la gente e saludar ogni tanto. Solo che questo, ma che, ogni modo, sarà sempre un de lori sentà vizin de lu, vestido de ufizial. Che tuto sarà con paga, natural, ma — ghe ga dito un de 'sti dò alzandose in pie e batendoghe col dèo sul peto — che per gnente al mondo no el ghe deve dir gnente de gnente a nissun, gnanche ala moglie. Bon e che adesso el se spòi, che el pol andar e che i lo ciamerà lori. Ma prima che el se dispoiassi, siora Nina, i ghe lo ga fato veder, figurèvese, anche al Amiraglio Horthy. — Jèssus Maria, gnanche ala moglie no el doveva contarghe? — Per forza, siora Nina: le done ciacola. E difati lui, zito. E co' la moglie che ghe iera andada incontro vestida a fiori, apena che el xe smontà del vapor a Lussin, la ghe ga dimandado se, insoma, i lo gaveva fato piloto vero, lui ghe ga dito che de sicuro no xe ancora gnente, ma che a Pola i ghe gaveva fato capir che el xe sul bon. Perché, difati, i lo ga avertì che de adesso in avanti el doverà andar, co' i lo ciamerà, più de una volta come piloto anche a Pola. E la prima volta che i lo ga ciamà, siora Nina, i lo ga mandado a Fiume. — Come piloto? — Ma cossa come piloto! Lui quel ghe flociava ala moglie che l'andava come piloto a Pola. Inveze iera che sicome che Francesco Ferdinando iera rivà a Fiume in treno e el doveva andar in auto al Silurificio de Fiume a ispizionar i siluri, i ga pensà ben de provar come che andava. — Come che andava i siluri? — Ma no, come che andava el piloto Mattìevich in auto averta come Francesco Ferdinando. Cossa volè, in una Fiume, bona gente, tuto calmo, ve xe andà tuto noma che ben. Dove ve iera bosniàchi quela volta a Fiume? Al piloto Mattìevich i lo ga portà in Governorato e là, in una camera i lo ga vestì de Francesco Ferdinando intanto che Francesco Ferdinando, andava de scondon al Silurificio con un'auto coverta che lo spetava sula porta de drìo del palazzo. Po' i lo ga fato vignir fora a lu per la porta davanti, montar su un'auto averta, con un de 'sti travestidi dela polizia secreta vestì de ufizial senta vizin de lu, passar per tuta Fiume, che la gente saludava e lu saludava la gente. E, una volta rivadi in Silurificio, i ga serà el piloto Mattìevich in un cameroto, fina che Francesco Ferdinando che, natural, iera zà là pronto, no ga finì de ispizionar i siluri e de dirghe robe ai ingegneri, ai lavorenti, al Podestà e a tuti quei che iera là in cana e in velada o in montura alta* — E dopo? — E dopo, gnente, siora Nina. Co' xe finida l'ispizion, Francesco Ferdinando xe andà via per le sue col'auto coverta e al piloto Mattìevich, tirà fora del cameroto, i lo ga fato montar de novo sul'auto averta e, per Borgo Marina, de novo fra tuta la gente che saludava e lui saludava la gente, a passo de omo, i xe tornadi a Fiume. Solo che quando che i iera zà squasi rivadi là dela Stazion, tutintùn i ga visto un vecio con qualcossa in man che ghe coreva incontro al'auto. — Mama mia, un atentato! — Maché atentato, siora Nina, in una Fiume! Una suplica, una petizion. 'Sto povero vecio gaveva in man una letera e el ghe la ga dada al piloto Mattìevich. Una suplica, come che se usava coi regnanti. «Verzer, verzer subito — ghe ga dito quel dela polizia secreta che iera sentà vizin de lu — verzer subito per far veder che Sua Altezza Imperiale verzi subito». — E el ga averto? — Sicuro che el ga averto e el ga leto anche: iera una suplica, ve go dito, per un sussidio. No ga importanza. E po', savè, siora Nina, questo de meter el piloto Mattìevich al posto de Francesco Ferdinando lori, a Fiume, ve gaveva fato più che altro per prova, per veder come che andava e, ve go dito, xe andà tuto noma che ben. Tornadi in Governatorato, al piloto Mattìevich i lo ga fato dispoiar e el ga fato ancora in tempo a ciapar el vapor de Lussin, intanto che Francesco Ferdinando andava al pranzo de gala a bordo dela Santo Stefano. — Ah, el xe tornà a Lussin? — Natural, ma flociandoghe però ala moglie che el tornava de Pola. E ela a tazzarlo che come che xe col avanzamento a piloto vero e lu che ben, che xe ben, che a Pola assai i lo considera e che questi che pol ghe ga dito che el fazzi una letera de petizion e che lori verzerà subito. — No capisso. — Gnanche sua moglie no ga capìdo ben. Indiferente. Ogni modo, de quel giorno che a Fiume iera andà tuto noma che ben, in Governo Maritimo de Lussin ogni mese ve passava un dò tre volte telegramma che el piloto Mattìevich vadi a Pola. — E l'andava a Pola? — Ma no, siora Nina, no gavè capì? Lui ve andava a Fiume, a Zagabria, a Budapest, a Leopoli, perfina a Cracovia una volta, e po' a Zara, a Sebenico, a Spalatro e a Trieste no parlemo: in tuti questi loghi, insoma, dove che doveva andar Francesco Ferdinando. E tuto ve andava lisso, pulito, come quela prima volta a Fiume. Anche perché Francesco Ferdinando el ve andava in tuti 'sti loghi solo. Perché, capirè, gavendo moglie morganatica, i fazeva in modo e maniera che la comparissi con lu el meno possibile. — Eh i diseva, i diseva sì, che la iera morganatica... — I diseva perché la iera. Sposadi in Cesa e tuto, ma lu ve iera del Sangue e ela no. Robe de quela volta. Natural che Francesco Ferdinando più de una volta istesso se la portava drìo co' el se moveva de Viena, ma co' lu ve andava a un'ispizion, a un'inaugurazion, a un varo, ela massime la lo spetava a casa opur la andava a spasso con qualche sua amica. E, volè creder, una volta a Trieste che el piloto Mattìevich stava finindo de imbotonarse la montura de Francesco Ferdinando in una camera dela Prefetura, che in alora se ciamava Luogotenenza, el ga sentido verzerse la porta e el ga visto comparir una belissima signora bionda in capel, vestito longo e ombrelin sotobrazzo che, dela porta, la ghe ga mandado un baso cola man e la ghe ga dito: «Bon, Ferdi, mi vado!» Questo per dirve, siora Nina, come che el piloto Mattìevich, co' el iera vestido de Francesco Ferdinando el iera cussì compagno preciso de Francesco Ferdinando, che gnanca la moglie no lo distingueva. — Ah, un baso la ghe ga mandado? — Sicuro, perché ela credeva che el fussi lu. E tuti credeva che el fussi lu co' i lo mostrava in montura alta, in treno, in carozza o in auto in giro per le strade, perché, podè capir, con tante volte che el iera andado de qua e de là, oramai el gaveva sempre più pratica de come far, saludar, cior le supliche, una roba e l'altra. Tanto che, figurèvese anche quela volta che Francesco Ferdinando xe andado a Lussin a inaugurar le nove Nautiche de Lussin e, zà che el iera, el xe andà prima a Veglia e a Cherso, tuta la strada de Cherso a Lussin i ghe la ga fata far in auto averta al piloto Mattìevich, sempre con quel della polizia secreta che ve disevo, vestido de ufizial, sentà rente. E co' i xe passadi marinavia per Lussin, no volè che i se ga visto corer incontro del'auto una dona vestida a fiori con una letera in man?... — Ahn, una suplica! — Sicuro: e el piloto Mattìevich ga subito ciolto 'sta letera e el la ga averta per far veder che Francesco Ferdinando verzeva subito. Che cossa che voleva 'sta dona ghe ga dimandà alora quel dela polizia secreta che iera con lu. «Ah, gnente — ghe ga dito ridendo Mattìevich — xe mia moglie che, pensèvese, la se impetissi a Francesco Ferdinando per via che el me fazzi piloto vero a mi. E visto che el rideva, sicome che Francesco Ferdinando de solito gaveva sempre muso duro, la gente ga subito batù le man. Arè vù, siora Nina, che poco che basta qualche volta per la gente! — E i lo ga fato vero piloto? — Ma cossa volè che el se fazzi vero piloto solo si stesso? Indiferente: questo iera solo per dirve come che el piloto Mattìevich, co' el iera vestido de Francesco Ferdinando, el iera cussì compagno preciso de Francesco Ferdinando che gnanca la moglie no lo ravisava. E xe andà tuto pulito avanti per el piloto Mattìevich fina quando, giugno iera, del Quatordici, no i ga decidesto che Francesco Ferdinando doveva andar a Sarajevo. — Mama mia! I lo ga mandado a Sarajevo, povero omo! — Ma spetè che ve conto, siora Nina, spetè. Cossa credè vù, che Sarajevo xe drìo el canton? Prima de tuto xe passà telegrama per el piloto Mattìevich che el vadi subito a Pola... — E inveze, natural, lui no xe andà a Pola... — Inveze sì: quela volta el ve xe andà propio a Pola perché de Pola Francesco Ferdinando, apena rivà de Trieste, doveva imbarcarse sula Viribus Unitis per andar a Métcovich... — Ah no a Sarajevo? — Siora Nina, come volevi che una Viribus Unitis ve podessi andar a Sarajevo, che Sarajevo ve xe drento, fra i monti, in Bosnia? Lu doveva sbarcarse a Métcovich e po' andar, per tera, su a Sarajevo. — Ahn! E cussì i ga imbarcado anche el piloto Mattìevich sula Viribus Unitis? — No, siora Nina, mai più quei dela polizia secreta ve gavessi fato una roba compagna de meter dò compagni sula stessa barca. No, al piloto Mattìevich i ga pensà ben de imbarcarlo sula Santo Stefano, vestì de nostroomo che el se confondi fra i altri nostriòmini. E tuto ben: la Viribus Unitis xe partida de Pola e drìo, natural, la Santo Stefano. E co' i iera ancora che i passava el Quarnèr no volè che el Comandante dela Santo Stefano ga volù sul ponte tuti i omini, i nostriòmini e i sotufiziai per veder se iera tuto in massimo ordine? Ma savè chi che iera Comandante dela Santo Stefano, che el piloto Mattìevich lo ga subito ravisà? — L'Amiraglio Horthy! — No, siora Nina, l'Amiraglio Horthy ve iera sula Viribus Unitis con Francesco Ferdinando. Comandante dela Santo Stefano ve iera pretamente el Comandante Prohàska che, se no el voleva mustaci sul Carlo Sesto, figurèvese su una Santo Stefano! E lui subito ve ga visto che 'sto nostroomo, che iera el piloto Mattìevich vestì de nostroomo, gaveva i mustaci. Mustaci de fero, mustaci in ponta, voltadi per in su. Che come che cossa — ga cominzià a zigar 'sto Prohàska — che come che el se pèrita de presentarse davanti de lu in mustaci, che mile volte el ga dito che i mustaci se smàsala co' un magna, che i mustaci xe intrigoso tignirli in ordine e po' i sporca la maia dela montura co' un se la cava. E zigandoghe «Zito!» a 'sto povero omo, che no ga podesto gnanche verzer boca, dito fato el ga mandà a ciamar el barbier de bordo, un zerto Zago de Portolongo, e davanti de tuti el ghe ga fato taiar i mustaci al piloto Mattìevich. Quel ve xe stà, siora Nina. — Ve xe stà cossa? — Ve xe stà che, co' la Santo Stefano xe rivada a Métcovich e el piloto Mattìevich, come che i ghe gaveva dito, ga ciolto subito el treno per Sarajevo dove che in un cameroto dela Gendarmeria de Campo austriaca el doveva vestirse de Francesco Ferdinando, i ga fato subito osservazion che no el gaveva i mustaci. E senza mustaci, siora Nina, lu a Francesco Ferdinando no el ghe somiliava propio gnente de gnente. Quel ve xe stà, siora Nina: che quela volta in auto a Sarajevo ga dovesto andar propio Francesco Ferdinando, sentà vizin dela moglie. E po', co' sula Viribus Unitis i stava imbarcando le salme per portarle indrìo a Trieste, el Comandante Prohàska, né in alora né dopo, no ga mai capì perché in Governo Maritimo de Mètcovich l'Amiraglio Horthy lo ga ciamà in scritorio, se ga serà drento con lu, ghe ga dà un stramuson, ghe ga dito «E zito!» e po' lo ga butà fora dela porta. — E el piloto Mattìevich? — E el piloto Mattìevich, gnente, podè capir: lui el ve se ga fato cresser de novo pulito i mustaci. Ma co' el se ga presentado a Pola in Comando de Piazza dela Marina de Guera, cola bareta in testa, la montura de piloto col coleto serado, i botoni neri e i mustaci de fero, el Comandante Hubeny se ga fato el segno de la crose e po' lo ga mandà de novo a Lussin a far el Pratico. MALDOBRÌA II - IL VALZER DELLE CANDELE In cui il segno del comando, i suoi splendori e il suo peso fanno del Comandante Terdoslàvich il protagonista di lunghi e movimentati viaggi su rotte domestiche e transatlantiche, uno dei quali doveva passare alla Storia. — Comanda chi pol e ubidissi chi devi — diseva sempre el Comandante Terdoslàvich. E lu, povero, prima de deventar Comandante, vero Comandante, ga dovesto ubidir el suo. Anni anorum, prima cola Ungaro-Croata e po' col Lloyd Austriaco che, prima, come primo uficial el fazeva viagi solo che per Dalmazia, soto del Comandante Bojànovich che iera un tremendo e po' per Levante, linia di Sorìa che i ghe diseva quela volta. Comandante sì, ma con barche scarte: un Jupiter, un'Almissa, che ghe tocava far tuti quei porti greghi e turchi un più intrigoso del altro, con coletame e passegeri in coverta, prima de rivar come che Dio voleva a Costantinopoli. — Eh, ma xe bel Costantinopoli, mio padre me contava... — Indiferente vostro padre. El Comandante Terdoslàvich contava inveze che co' el rivava a Costantinopoli no el gaveva gnanca squasi più voia de andar in tera, tanto che el gaveva dovesto combater con tute 'ste dogane greghe o otomane e carigar, scarigar senza perder gnanca un'ora perché se no l'Armamento fazeva subito osservazion. No solo, ma anche pericolar per mar più de una volta, perché più de una volta là el mar ve xe cativo. E po', finalmente... — Finalmente l'andava in tera a Costantinopoli? — Natural che l'andava in tera a Costantinopoli. Lui sì diseva che squasi no el gaveva gnanca più voia de andar in tera, ma come volè no andar in tera in una Costantinopoli, che xe logo belissimo? No, mi ve disevo che po', finalmente xe vignù el giorno che lo ga mandà a ciamar l'Austro-Americana. Perché, savè, el Capitan Terdoslàvich ve iera un Primo Capitano: mi me ricordo che, co' navigavo con lu per Dalmazia, come che el ve andava dentro lu in Canal de Sebenico no ve andava drento nissun.... — No podeva andar drento nissun altro? — Come volevi che no podessi andar drento nissun altro? Iera per dirve che el iera bravo come capitano, un Primo Capitano el ve iera, tanto che quei del'Austro-Americana un giorno che de un momento al altro i ga avesto bisogno de un, bravo, perché al comandante del Laura, che adesso no me sovien gnanca chi che iera, ma bravissimo, ghe xe vignù un insulto, i ga dito: «E perché no Terdoslàvich? Anzi!». E cussì ve xe sta. De un giorno al altro lu ve se ga sbarcà del Lloyd e el ve se ga imbarca sul Laura del'Austro-Americana e, vero Comandante, el ve ga cominzià a far la linia del Nort-America. — Ah, prima no el iera vero Comandante? — Sicuro che el iera vero. Nominado. Ma volè meter, fora de Gibiltera ve xe tuto un'altra roba, anca come paga e come panatica e tuto. E, insoma, combinazioni, el Comandante Terdoslàvich, tanto bravo el ve iera che, tempo dò viagi, co' xe andado in pension el Comandante dela Marta Wassinton, che adesso no me sovien gnanche chi che iera, ma bravissimo, ben, al Comandante Terdoslàvich i ghe ga dado la Marta Wassinton. La «Martha Washington», figurèvese, el più bel vapor de l'Austro-Americana. Anzi del'Austria, mi calcolo, che fazeva Trieste-Nèvjork. Che la gaveva dò camini grandiosi, ancora me li ricordo, rossi, bianchi e rossi... — Un rosso, un bianco e un rosso? Tre camini? — Ma no, siora Nina, dò. E tuti dò rossi, bianchi e rossi, come la bandiera austriaca. E cussì granda la ve iera 'sta Marta Wassinton che co' la vigniva in porto a Trieste la impiniva el molo. Anche a Nèvjork. — Ah, la Marta Wassinton! E i ghe ga dado de comandarla? Bel! — Comanda chi pol e ubidissi chi devi, ga dito el Comandante Terdoslàvich co' el xe montà a bordo la prima volta, tuto bel scovetado in montura nova col colo alto, che lu ve iera deventado pretamente un altro omo. Perché, podè capir: saloni de pranzo imensi, tavola del Comandante, con tovaia bianca e possade de argento, passegeri, signori passegeri, passegeroni, e signore che zenava de sera tute in grìngola. E pò Festa del Forvèl con sampagna e orchestra che sonava e tuti che cantava el Valzer dele Candele, festa grandiosa che i fazeva la note che i rivava a Nèvjork e se vedeva de lontan tuta Nèvjork cole luci impizzade... — Forvèl, chi iera questo? — Cossa, chi? El Forvèl, siora Nina, ve iera la Festa del Farwell che i fazeva a bordo, prima de rivar, festa de adio, come: uso inglese, che usava l'Austro-Americana, per 'sti passegeroni de Prima classe che andava a Nèvjork. — Ahn, e in seconda classe no i fazeva? — Sì, anche, ma più in picolo. Inveze in classe emigranti gnente, perché per lori, mi calcolo, con tute 'ste valise, cofe e cofete sotocoverta, zà veder una Nèvjork iera una festa. — Eh, povera gente!... — Cossa, povera gente? Che in America iera lavori, ocasioni e bori per chi che gaveva volontà! Ma indiferente, volevo dirve che, tuto magnifico, no se pol dir de no, diseva el Comandante Terdoslàvich, ma xe propio vero: comanda chi pol e ubidissi chi devi, però in mar no se ga mai finido de ubidir. Perché prima dovevo ubidirghe a quel fiolduncan de Bojànovich, po' col Lloyd a quei tazzaanime del Palazzo e adesso, su 'sta Marta Wassinton, mi ve digo la sincera verità — el ghe diseva al nostroomo Fatutta, un chersin che iera suo patrioto — mi ve digo, Fatutta mio, che mi qua ve son adesso schiavo del passeger. — De che passeger? — Come de che passeger? Dei passegeri, de tuti 'sti passegeri de Prima classe. Che più grandi che i iera più i gaveva pretese. Gentilissimi sempre, ma bisognava sempre pensar per lori. E invitarli in tavola del Comandante e meter pulito un omo una dona, un omo una dona, per 'ste signore che no ghe manchi l'omo. E stroligarse zà de matina bonora col maestro de camera su cossa e come far perché che el viagio no sia mufo. E parlarghe per tedesco a quel e per inglese a quel altro, che magari per tedesco Terdoslàvich no gaveva pensieri, ma per inglese, massime coi Americani ghe iera cativo. E po' quistionar col dotor per i emigranti, e el brodo in veranda a mezogiorno, che guai no esser là che massime là el passeger dimanda se sarà bel, se sarà bruto, se sarà mar, se no sarà mar. E po' 'sta Festa del Forvèl che xe ogni volta compagna, perché i passegeri cambia, ma mi son sempre mi, Antonio Terdoslàvich sempre col bicer de sampagna in man. «Insoma, Fatutta mio — el diseva — mi per dirve la sincera verità, me vien le balote, perché mi devo pensar per tuti e nissun no pensa per mi. E sul ponte, rente del timon, che quel sarìa el mio vero lavor, xe sempre quel Primo uficial Fillìnich che qua lo go trovà e qua lo devo lassar, ma, per conto mio, el xe un mona». — Male parole? — Ma cossa male parole! Lui diseva per dir. Per significar che un Comandante, su una Marta Wassinton, più che pensar a navigar, el deve sempre starghe drìo a tuto altre robe. «E mi — el ghe diseva a Fatutta — francamente ve dirò che tuta 'sta tràina me fa confusion in testa e qualche volta no go gnanca voia de andar in tera a Nèvjork». — No l'andava in tera a Nèvjork? — Ma sì che l'andava! Come volè no andar in tera in una Nèvjork che ve xe logo belissimo? Ma dopo un due anni de viagi TriesteNèvjork, Nèvjork-Trieste, sempre bazilar coi passegeri, sempre sampagna, sempre Salon Musìk e feste, el Comandante Terdoslàvich, più de una volta, verso le zinque, sei ore de dopopranzo el se colegava in gabina, grandiosa gabina che el gaveva lu sula Marta Wassinton, e el ghe diseva a Fatutta: «Fatutta mio, mi ve digo la sincera verità che me diol la testa». Ma per forza che ve diol la testa — ghe diseva Fatutta — perché vù, Comandante, bazilè tropo e, savè come che se dise, chi che bazila mori». E Terdoslàvich, coi oci serai, fazeva i corni con tute dò le man e ghe diseva: «Stè zito, che go mal de testa». — Anche mi co' go mal de testa me colego coi oci seradi. — No fa gnente. Lu ve gaveva tuto un altro mal de testa. Lui ghe contava al nostroomo Fatutta che el gaveva un mal de testa che cominziava prima come un ciodo qua sul copìn e dopo ghe se riferiva come un cercio tuto atorno dela testa e tanto ghe se riferiva, che ghe cominziava anca a rosegarghe la spala. Questo, prima, un per de volte ogni viagio e po', un periodo, squasi ogni giorno. — Che periodo iera? — Del Dodici, iera, me ricordo, perché dò ani dopo xe s'ciopada la guera. Ma intendevo che iera el periodo che el Comandante Terdoslàvich gaveva 'sti mali de testa. Che lu, inveze, prima, mai un giorno de leto: omo san el ve iera, toco de omo, stagno, un chersin, dàlmato per parte de madre, che co'l vigniva drento del salon de Prima classe dela Marta Wassinton, l'impiniva tuta la porta. Omo san, mai stà mal in vita. E per questo, mi calcolo, lu no se gaveva mai palesado col dotor de bordo. Mai el gavessi volesto che a bordo se savessi. «Mi 'sto mal de testa no so cossa che sia e no volessi che sapi quel mona de Fillìnich, che farìa ciàcole» el ghe diseva a Fatutta. Solo con Fatutta lui se palesava, e Fatutta ghe gaveva dà de provar questo e quel: salicidato, impachi e fina Unguento de Tigre che i maritimi portava de China. — E el gaveva provà cafè forte senza zuchero? — Tuto el gaveva provà, siora Nina, e gnente. E cussì ga finì che una volta, tornado a Trieste, che tuto el viagio el gaveva avù un mal de testa che no el ghe vedeva fora dei oci, el ga decidesto de andar del dotor dela Cassa Maritima. E dito fato, via de bordo, in montura de bordo come che el iera, el xe andado drito de 'sto dotor dela Cassa a dirghe che el vardi lu, perché lui gaveva provà de tuto per 'sto mal de testa, e gnente. «De tuto go provado — el ghe ga dito — de tuto go provà, dotor: salicidato, Unguento de Tigre, quel che i porta de China aposito, impachi fredi che no parlemo e anche acqua de buro, che me ga dito un, e che po' inveze me ga smagnà la pele». E 'sto dotor dela Cassa, che chi xe 'sto sempio de dotor che ghe ga dito de far impachi de acqua de buro per el mal de testa. «No, no un dotor, un nostroomo: el nostroomo Fatutta». — E ghe gaveva smagnà la pele? — Sicuro: acqua de buro smagna. E 'sto dotor che el ghe lassi far ai dotori e no ai nostriomini. Che intanto el se senti, che cossa el sta là in pie come un monumento e che el ghe spieghi ben come che ghe vien 'sto mal de testa. E el Comandante Terdoslàvich che, prima gnente, anzi benissimo, e dopo come un ciodo qua sul copin, sempre più, sempre più, fin che me riferisse come un cercio tuto atorno dela testa e tanto me riferisse, che cominzia anche a rosegarme la spala. Che spala, ghe dimanda el dotor, 'sta qua? Che sì, che no, che no el se ricorda, che forsi quel'altra, perché adesso come adesso no me diol. — Ahn, ghe iera passà? — In quel momento sì. E alora, ghe ga dimanda el dotor, se 'sta roba ghe vien pretamente a bordo. Che sì, che massime che a bordo. «Bon, ghe fa 'sto dotor: go capì. Savè vù cossa che farè, Comandante? Adesso sè a Trieste, no? Che sì, che una setimana e dopo tornemo fora in Nort-America e che el ghe daghi un qualcossa per el viagio, magari un pagliativo. «Ma che palliativo e no palliativo: a vù, Comandante mio, ve fazo inveze pulito la carta e vù 'sto viagio ve sbarchè e stè pulito in tera. Stè in tera almanco un mese e vederè che ve se regola. E caminè, caminè, andè a Òpcina a far caminade, andè a Barcola a ciapar sol...» — Eh, fa ben, fa ben ciapar sol. — Maché sol, che co' Terdoslàvich xe andà fora de 'sta Cassa Maritima, iera una piova che no ve digo. Savè quele piove fisse che vien a Trieste co' xe tempo de piova? Che anzi Terdoslàvich ga dito, rèmenghis, che me se rovina la montura. E caminando soto 'sta piova lu filava caligo. Che cossa, che un mese in tera, che ancora quel mona de Fillìnich me porta via el posto sula Marta Wassinton! E intanto che in via del Torente el caminava soto el muro per no bagnarse la montura, el vede un porton. — Ah, el xe andà in un porton per no bagnarse la montura? — No. El vede un porton, un bel porton, con rente una granda tabela de oton con sora scrito Dottor Weiss, Specialista del Nervoso, una roba e l'altra, secondo pian, dale zinque ale sìe. E, zinque e meza che iera, Terdoslàvich ga dito: «Sa cossa? 'Sti dotori dela Cassa no capissi un kùraz. Sa cossa? Mi vado privatamente de 'sto qua». E cussì el ga fato le scale, el ga sona e el xe andà. — A farse visitar de 'sto dotor del Nervoso? — Sicuro, e 'sto qua, uno dei primi dotori de Trieste, lo ga tignù drento una bona ora. Prima che el ghe conti come che ghe vien 'sto mal de testa e po' che el se cavi el sacheto dela montura, e la camisa, prego, e la maia prego e po', tirandoghe su la braga, el ghe ga dà anche sul zenocio con quel martel lustro che ga i dotori del Nervoso. Insoma el lo ga tuto visità pulito. E dopo el ghe ga dito che el se vesti e, intanto che Terdoslàvich se imbotonava i botoni de oro del sacheto dela montura, el ghe fa: «Imagino che lei è un capitano di mare». — Ah, el gaveva indovinado subito? — Per forza, se el iera in montura! Insoma che sì, che el xe. «Imaginavo!» ghe disi 'sto dotor e po': «Eh, caro il mio signor Capitano, qua è inutile scondersi dietro un dito, lei oramai è un uomo in età e, sa cosa? Io le consiglio vivamente una cosa: antècipi la pensione. Consiglio vivamente. E sa un'altra cosa? Io, come aria, le consiglio Gorizia. — De andar a ciapar aria a Gorizia? — No, de andar a star a Gorizia. «Perché, vede, — ghe diseva 'sto dotor intanto che el ghe scriveva una riceta de salicidato — vede, caro mio signor Capitano, a Gorizia non è mare. A Gorizia non è bora. Gorizia è anche più quieto, che tanti, di tanti loghi di tuta l'Austria vanno in pensione a Gorizia. Gorizia, Gorizia — el ghe diseva compagnandolo sula porta — consiglio vivamente Gorizia!». — Eh, a Gorizia xe anche la Madona de Montesanto! — Sarà, sì. Ma el Comandante Terdoslàvich, vignindo zò per le scale, el tirava zò tuto altre madone. Podè imaginàrvese, a un Comandante Terdoslàvich dirghe che no el pol più navigar e de andar a star a Gorizia. Che co' el iera in tera a Trieste, lui iera un che andava ogni santa matina in Pescheria e el se remenava tuto el giorno per marina. Lui, savè cossa che el ga fato? Lui inveze xe ben che andado a Viena. — Ma a Viena xe Pescheria? — Indiferente. Lui ve xe andado a Viena, perché Trieste iera ancora soto l'Austria, natural, e i meo dotori austriachi iera a Viena. Doktor Erlàcher, el dotor Erlàcher, primo dotor de Viena per 'ste robe de mal de testa. E lui xe andà. El nostroomo Fatutta lo ga compagnà in Stazion cola valisa e lu col suo bel vestito zenerin de zivil che el se meteva per andar in zivil, come stamatina el ga ciolto prima classe per Viena e come diman de matina el iera zà de 'sto dotor Erlàcher, che el ghe contava tuto. — Del viagio? — Ma cossa volevi che ghe interessassi a 'sto dotor del viagio? Terdoslàvich ghe ga contà tuto, per tedesco natural, perché lu ve parlava franco tedesco, de 'sto Kopfwehe, de 'sto maladeto mal de testa che el ga, de come che ghe fazeva ciodo qua de drìo, cercio atorno dela testa, che ghe se riferiva, che ghe rosegava la spala, quel e quel altro, ein Gottes Strafe, un castigo di Dio, Herr Doktor, el ghe contava. — Ghe dioliva assai, povero? — No. Co' el contava no. Ma el contava come che ghe dioliva sempre. E 'sto dotor Erlàcher, ghe ga fato cavar 'sto suo bel vestito zenerin e, con decenza, lassandoghe solo le mudande longhe, el lo ga visitado tuto ben, el ghe ga passado anche i ragi, primi ragi che iera quela volta, e po' el ghe ga dito che xe bastanza non bene, nicht gut, questo sì, ma gnanca tanto mal e che una roba io consiglio vivamente, ma che no el sa se lui ga la possibilità. — Se lui ga la possibilità? E de cossa? — Xe quel che ghe ga dimandà el Comandante Terdoslàvich. La possibilità de cossa? E 'sto dotor de Viena ghe ga dito che lu no sa se lui ga la possibilità, ma das ist der Punkt: «Ha lei la possibilità di fare un lungo viaggio per mare? Eine lange Seefahrt zu machen?» E che per la visita xe zento corone. Siora Nina: podè imaginarve Terdoslàvich. — El se ga rabià? Iera assai zento corone? — Per quel, assaissimo. Ma no el se ga rabià per quel. Lui, andando via de 'sta belissima casa de 'sto primo dotor de Viena e caminando zò per 'sta Kaertnerstrasse che i ga là, con negozi grandiosi e pien de gente, lu parlava solo si stesso, che anzi più de un se voltava a sentir 'sto qua che diseva che kuraz. E che anca in una Viena che xe una Viena, 'sti dotori del kuraz no capissi un kuraz. E che ancora zento corone. — Ma, sior Bortolo, quanto sarìa stà, come ogi, quela volta, zento corone? — No se pol gnanche far un calcolo, siora Nina. Quela volta ve iera tuto un altro mondo, tuto un'altra concezion dela vita. Ogni modo un'eresia. Pensèvese, presempio che Terdoslàvich, quel istesso giorno che, disendo, «In malora, spacapopolo!» el xe andà a magnar al Sacher, che iera el meo restàurant de Viena, dove che el ga magnado primo, dò secondi, vin e torta Sacher, natural, el ga pagado diese corone. — Ah, poco! — Cossa poco? Iera tanto, ma iera zento che iera massa tropo. Indiferente. E lu che iera là in 'sto logo Erste Kategorì, servì de un subisso de camerieri in flaida nera, un per el vin, un per la carne, un per el pesse e un per le torte, el ga cominizià a dirse solo si stesso, bevendose 'sto bon vin bianco fresco che i ga là, magnifico: «Istesso — el diseva solo si stesso — forsi 'sto dotor Erlàcher no devi esser pretamente un mona!» Perché a mi, come mi, Antonio Terdoslàvich, andar per mar, navigar, assai me piase, ma quel che a mi, come mi, me fa mal de testa, xe el pensier. El pensier del passeger, che mi a bordo dela Marta Wassinton come comandante son schiavo del passeger, che dove mi a bordo posso magnar pacifico come che presempio magno qua? Che là e parlar per inglese e parlar per tedesco e vardar che sia tuto in massimo ordine, una roba e l'altra e po' anca el pensier de quel mona de Primo uficial Fillìnich, che un giorno sicuro el finirà per far dano. — El parlava solo si stesso? — No: el pensava solo si stesso. E solo si stesso el ga pensà anche che se lu, Antonio Terdoslàvich, inveze che esser el Comandante Terdoslàvich, el fussi stà un signor passeger de prima classe, che tuti pensa per lu e lu no pensa per nissun, alora sì che ghe gavessi fato ben un lungo viagio per mare, eine lange Seefahrt, come che diseva quel no tanto mona de Erlàcher. — E el ga fato un lungo viagio per mare? — El lo ga fato sì, siora Nina, e come! El più meo viagio che i ga mai prometesto al mondo: el viaggio inaugurale del Titanic. Povero Terdoslàvich. Tomìnovich me ga contà: el nostroomo Tomìnovich, che quel periodo el navigava con Compagnie inglesi e che quela note co' el vogava su una de 'ste sialupe de salvatagio, carighe cussì cussì de done, de veci e de crature che pianzeva, el lo ga visto in alto sul ponte. E el lo ga anche ciamà: «Terdoslàvich, Capitan Terdoslàvich — el ghe zigava — butèvese!» Ma lu no lo ga gnanca sentì, forsi. «Ancora me lo vedo — contava sempre Tomìnovich — el iera là su 'sta barca ancora tuta iluminada che andava a fondo, rente del'orchestra che el cantava el Valzer dele Candele col bicer de sampagna in man». Savè: no iera logo per tuti nele sialupe e ai omini stagni i ghe ga intimà de restar sul ponte. Cossa volè, siora Nina: comanda chi pol e ubidissi chi devi. MALDOBRÌA III - NEL GIORNO DEL SIGNORE Dove si apprende che la libera Chiesa nel libero Stato di Sua Maestà Apostolica non era solo quella cattolica-romana, ma comprendeva anche i fedeli dell'Islam. E si narra d'uno di questi, Bogdan Jerazìmovich, fuochista del Lloyd Austriaco, che ebbe la ventura di imbattersi, a bordo del «Jupiter», nell'Abate Mitrato di Cracovia. — Cossa volè, siora Nina, ogi come ogi ga cambià tuto. Anca la Cesa. E nualtri che vendemo pesse no gavemo più gnanca quela del vénerdi... — Quala quela del vénerdi? — Come quala quela del vénerdi? Quela: che i cinque preceti dela Chiesa sono cinque. E terzo iera: «Non mangiar carne il venerdì e gli altri giorni proibiti e digiunare nei giorni presenti». Difati, siora Nina, una volta el vénerdi se podeva magnar solo che pesse. Dio, quanto pesse che se vendeva de vénerdi! Un'eresia. E inveze adesso che no xe più, no i vien più a comprar pesse. Pochi vien. I veci massima parte. — Adesso che no xe più pesse? — Cossa che no xe più pesse? Che pesse xe qua che vanza! Adesso che no xe più vénerdi. Che, insoma, no xe più che de vénerdi bisogna magnar solo che pesse. — Eh, tante robe ga cambià in Cesa, anca la Messa. — Indiferente la Messa: mi son de Rovigo e no me intrigo, come che diseva el nostroomo Fatutta che iera de Cherso. — Ah, no el iera de Rovigo? — Sicuro che no el iera de Rovigo, se el iera de Cherso. Lui diseva mi son de Rovigo e no me intrigo per dir che no el se voleva intrigar dei afari no sui. Come quela volta che i gaveva imbarcà sul «Jupiter» come foghista quel Jerazìmovich, Mene Jerazìmovich, quel che apena dopo i ghe ga ciamà Mene, perché prima a bordo i lo ciamava el Turco. Ben, quando che sul «Jupiter» i omini de machina andava del nostroomo Fatutta a impetirse che cossa xe 'sta pupolada che ogni giorno a mezogiorno in punto, sia quel che sia, el foghista Jerazìmovich mola el lavor per andar in coverta perché el ga de pregar ala Meca, el nostroomo Fatutta diseva: «Mi son de Rovigo e no me intrigo: el Turco ga la sua religion, che el se la tegni, e lassèlo in pase». — Ah, no el gaveva voia de lavorar? El iera una meca? — Ma cossa el iera una meca? Ala Meca el pregava, voltà verso la Meca. Cossa, parlo turco? Ve disevo che a bordo del «Jupiter» ve iera un Turco, 'sto Jerazìmovich, no turco pretamente turco, come dir otoman, che se diseva quela volta. Turco per via che el iera de religion turca. De Bùdua, el vigniva, oltra de le Boche de Càtaro, squasi Montenegro. — Ah! A Bùdua i xe turchi? — No, siora Nina. Quel ve xe. Che a Bùdua, in antico sì, una volta, ve iera i Turchi, ma soto l'Austria ve iera Austria. Solo che se vede che, de ancora de quando che iera i Turchi, qualchedun iera restado de religion turca, perché tanti, mi calcolo, se gaveva fato turchi, quela volta che a Bùdua iera i Turchi. I noni, i bisnoni, ancora questo. Insoma 'sto Jerazìmovich ve iera pretamente de religion turca. — E i ghe lassava? — Sicuro che i ghe lassava. L'Austria iera anca ela come el nostroomo Fatutta per le robe de religion: «Mi son de Rovigo e no me intrigo». E l'Austria lassava che ognidun per religion tegni la sua. Bon, per farvela curta, iera pochi questi de religion turca a Budua, ma istesso i tigniva la sua religion. Presempio: noi no magnavimo carne de vénerdi e lori no magnava porco mai. Presempio: lori a mezogiorno se lavava el viso e pregava cufolài verso la Meca sul tapedin. E quel che più se fazeva oservazion, iera che no i beveva. — Ma no i beveva cafè turco? — Cafè turco natural che i beveva, ma cossa xe un bever quel? Lori no ve beveva né vin, né trapa, né liquori, né rachìa, né bicerini: gnente spiriti, insoma. Quel se fazeva più che altro oservazion in Jerazìmovich, co' el iera con nualtri a bordo del «Jupiter»: che lui no vigniva mai per i locai, per le osterie, o se el vigniva no el beveva. Perché cussì i ghe gaveva imparado a casa. — La madre, a Budua? — La madre, el padre, el fradelo, tuti. Nissun no beveva, de 'sti qua de religion turca a Bùdua. E a Bùdua no fazeva strano. E gnanca a lui no ghe fazeva strano de no bever. Fina che no el ga avù l'ocasion. — L'ocasion de bever? — Ma no, siora Nina, l'ocasion de bever. L'ocasion de imbarcarse. Perché dovè saver che tuti questi de religion turca a Bùdua, lavorava massima parte per un zerto Tùrkovich, anca lu un de là, de religion turca, natural, che gaveva magazen de pelami. — Ahn! El cioleva solo che turchi? — O Dio, massima parte el ghe dava lavor a quei de religion turca, ma el gaveva anca altri, cristiani come dir, serbo-ortodossi. Che anzi là, come omo de magazen de 'sto magazen de Tùrkovich, ve iera, me ricordo, un zerto Pavìssich, cristiàn e gnanca serbo ortodosso, catolico propio, cola moglie e la fìa Anici, bela putela, assai de cesa. — A Bùdua questo? — Sicuro che a Bùdua. Tuti a Bùdua gaveva la sua cesa. Ve iera Cesa dei turchi, oh Dio, cesa: un logo dove che pregava i turchi, Cesa dei S'ciavoni e po' anca la Cesa catolica, nostra, insoma. E 'sto magazen de pelami in riva con scrito fora «Turkovich Pellami» in celestin, ancora me ricordo, arè de cossa che no se se ricorda qualche volta. E 'sto Jerazìmovich, natural, lavorava anche lu là. E el vigniva a carigar a bordo i pelami. Pele de castron, massima parte. Indiferente. Ocasioni che xe qualche volta, in Antivari gavevimo sbarcado un foghista che se gaveva sbrovà in machina col'acqua sbrovente e el Comandante Terdoslàvich ghe gaveva dito al nostroomo Fatutta de ingrumar su a Bùdua un omo che ne fazessi de foghista fina a Trieste, perché in Antivari no se gaveva trovà. Savè: foghista iera un bruto lavor, sempre stà. Assai greve, altro che adesso che i ga 'sti motori de ogi che fraca boton e salta macaco. E insoma 'sto Jerazìmovich, giovinoto che el iera, mai mosso de Bùdua, contento come una Pasqua. — Pasqua turca? — Maché Pasqua turca, che i Turchi no ga Pasqua! Lori ga Ramadàn. Lu ve iera contento come una Pasqua de gaver 'sta ocasion de imbarcarse. O Dio, siora Nina, el mestier iera bruto, ma pensèvese un giovinoto de Bùdua, che no se gaveva mai movesto de Bùdua, de religion turca po', l'idea de vegnir a bordo con nualtri fina a Trieste ghe iera altro che la Meca! Trieste, savè, quela volta, per i dàlmati, per 'sta gente ve iera come una Parigi. Una capitale. Trieste, siora Nina, ofriva molto. — Eeh: «Trieste ofre molto», diseva sempre mio padre povero defonto. — Quela volta, ofriva. Indiferente. Bravo giovine, savè, 'sto Jerazìmovich: lu ve lavorava in caldaia come un negro, solo che ogni santo giorno co' iera mezogiorno in punto, come che ve disevo, lu con un suo picio tapedin rodolado sotobrazzo che el gaveva, el coreva in coverta, el ghe dimandava al timonier che el ghe vardi sula bussola andove che ve xe la Meca e el se meteva cufolà per tera a far Allah Allah! — Ah! Là el fazeva. Che bruto! — Ma cossa el fazeva? Allah Allah el pregava. E podè imaginarve Pìllepich, che quela volta gaveva ancora la gamba e Polidrugo e tuti i altri, co' i passava i ghe fazeva sesti e i ghe diseva «Allah Allah, la galina me ga becà!» Un rider! E savè cossa che i ghe diseva anca? «Salamelèk, gambe de pek». Come dir che el se inzenociava, insoma. Cossa volè, maritimi: gaver 'sto qua a bordo de religion turca, a noi ne iera come un divertimento. E no ve digo a pranzo e zena, che lui, co' iera carne, el ghe dimandava a tuti se xe porco o no xe porco. E in local che el beveva limonade co' tuti i altri inveze iera imbriaghi. Bogdan el se ciamava: Bogdan Jerazìmovich, che lui me gaveva spiegà che Bogdan, in croato, per quei de religion turca, voleva dir «Nato nel giorno del Signore», perché lui iera nato de vénerdi. — Ma el giorno del Signore no xe dimenica? — Per nualtri. Per i Turchi xe vénerdi. Per i Ebrei xe sabo. Ognidun ga le sue. E savè una roba, presempio? Che in Alessandria de Egito, tre giorni le boteghe iera serade: vénerdi per quei de religion turca, sabo per i Ebrei e dimenica per nualtri, natural. Indiferente. 'Sto Jerazìmovich i lo cioleva via, perché «Allah Allah la galina me ga becà, Salamelèk, gambe de pek», pranzo e zena che guai se iera porzina e po' massime quela che lui in local beveva limonade e nualtri se scolavimo mezi de Opolo, de vin de Lissa e bicerini de rachìa a boca desidera. «Eh, vù podè e mi no posso — diseva 'sto povero Jerazìmovich — perché mi son de religion turca». Però contento savè, co' el xe tornà a Bùdua: al padre, ala madre, al fradelo, a 'sto signor Tùrkovich che gaveva 'sto grandioso magazen de pelami, a tuti 'sti qua de religion turca, de Bùdua, lu ghe mostrava la matricola, disendo tuto contento: «Son foghista, son foghista del Lloyd!» Anche a questo omo del magazen, a 'sto Pavìssich el ghe diseva, quel che gaveva per fia quela Anici, bela putela, assai de cesa. — E lori? — E lori: «Bravo, bravo!» ghe diseva tuti, anca 'sto Pavìssich, solo che 'sto Pavìssich ghe zontava ogni volta: «Pecà che ti xe de religion turca...» Ma tuti i altri, massime a casa sua de lu, i iera contenti, perché, capirè, dove a Bùdua un giovine gavessi podesto guadagnar quel che lu guadagnava sul Lloyd? Però istesso a bordo sempre el diseva: «Eh, vù podè e mi no posso». E el restava anca avilido, come, quando, presempio, co' se rivava a Caifa, el nostroomo Fatutta diseva, quistionando con quei de la dogana: «In malora, 'sti mone de Turchi no fa che romper le jàize». — Ma lui no iera turco... — No, de Bùdua el iera, ma de religion turca. E cussì ghe fazeva diol, come, sentir 'ste robe sui Turchi. Ben, volè creder che una volta proprio a Caifa ne se ga imbarcado sul «Jupiter» l'Abate Mitrato de Cracovia che tornava de esser stado in pelegrinagio al Santo Sepolcro? — A Cracovia? — Ma no, lui ve iera come un Vicevescovo de Cracovia che iera andado in pelegrinagio a Gerusaleme al Santo Sepolcro. E el se ga imbarcado sul «Jupiter» con nualtri. Polachese el ve iera, pretamente, ma austriaco, perché quela volta Cracovia iera Austria. E lu, con Jerazìmovich, el se intendeva parlando per croato. E un mezogiorno che Jerazìmovich iera là che fazeva Allah Allah sul tapedin, propio el lo osservava. E dopo el ghe ga dito... — Allah Allah la galina me ga becà? — Ma come volè che un Abate Mitrato de Cracovia, un Aloisio Stanislaus, Abate Mitrato di Cracovia, ve disessi un tanto? Lu ghe ga dito come che l'usava sempre per saludar: «Sia lodato Gesù Cristo» e po' el ghe ga dimandà se el xe de religion turca. E Jerazìmovich che sì, e el ghe ga tuto contado, che anzi a bordo i lo scherza, che in local anca, ma che insoma, cussì la xe, che lori pol e lu no pol. E alora, savè cossa che ghe ga dito 'sto Vicevescovo de Cracovia, che el girava sempre per coverta in calze rosse e scarpe nere cola fibia? El ghe ga dito: «Ma anca tu poderessi». Insoma per farvela curta, 'sto Abate Mitrato, come ogi e diman el ghe ga fato un poco de dotrina, de catechismo e come dimenica el lo ga batizà: in nome del Padre, del Figliolo e delo Spirito Santo. E de sàntolo de batizo ghe ga fato el Capitan Terdoslàvich, el Comandante Antonio Terdoslàvich, un dalmato, un toco de omo. — Ahn, e cussì i lo ga batizado Antonio? — Anca, ma come secondo nome. Che come primo nome, ghe ga dito 'sto Abate Mitrato, oramai grando che el xe, Bogdan el pol ciamarse avanti, perché Bogdan per croato vien a star come Domenico, il giorno del signore. Nostro Signor, natural. Nostro Signor Gesù Cristo. Per quel ve go dito che dopo a Jerazìmovich i lo ciamava Mene. Ménigo, Domenico. — Ah! Mene! Come el vecio Tonissa. Ah, el se ga convertido, come? — Cossa ghe entra el vecio Tonissa! Sicuro che el se ga convertido, solo che no el gaveva ancora la carta. — Che carta? — La carta del persuto! Ma dài, siora Nina. Sì, adesso, magari el podeva magnar persuto, bever e tuto e no se lo vedeva più a mezogiorno col tapedin in coverta. Volevo dirve che no el gaveva ancora la carta che el iera Cristiano, Catolico, Apostolico, Romano, come che ghe spiegava 'sto Vicevescovo de Cracovia. E po' el ghe diseva che no el stia preocuparse, che la carta el ghe la ga turca, de Bùdua, lu ghe mostrava la matricola, disendo tuto contento: «Son foghista, son foghista del Lloyd!» Anche a questo omo del magazen, a 'sto Pavìssich el ghe diseva, quel che gaveva per fia quela Anici, bela putela, assai de cesa. — E lori? — E lori: «Bravo, bravo!» ghe diseva tuti, anca 'sto Pavìssich, solo che 'sto Pavìssich ghe zontava ogni volta: «Pecà che ti xe de religion turca...» Ma tuti i altri, massime a casa sua de lu, i iera contenti, perché, capirè, dove a Bùdua un giovine gavessi podesto guadagnar quel che lu guadagnava sul Lloyd? Però istesso a bordo sempre el diseva: «Eh, vù podè e mi no posso». E el restava anca avilido, come, quando, presempio, co' se rivava a Caifa, el nostroomo Fatutta diseva,quistionando con quei de la dogana: «In malora, 'sti mone de Turchi no fa che romper le jàize». — Ma lui no iera turco... — No, de Bùdua el iera, ma de religion turca. E cussì ghe fazeva diol, come, sentir 'ste robe sui Turchi. Ben, volè creder che una volta proprio a Caifa ne se ga imbarcado sul «Jupiter» l'Abate Mitrato de Cracovia che tornava de esser stado in pelegrinagio al Santo Sepolcro? — A Cracovia? — Ma no, lui ve iera come un Vicevescovo de Cracovia che iera andado in pelegrinagio a Gerusaleme al Santo Sepolcro. E el se ga imbarcado sul «Jupiter» con nualtri. Polachese el ve iera, pretamente, ma austriaco, perché quela volta Cracovia iera Austria. E lu, con Jerazìmovich, el se intendeva parlando per croato. E un mezogiorno che Jerazìmovich iera là che fazeva Allah Allah sul tapedin, propio el lo osservava. E dopo el ghe ga dito... — Allah Allah la galina me ga becà? — Ma come volè che un Abate Mitrato de Cracovia, un Aloisio Stanislaus, Abate Mitrato di Cracovia, ve disessi un tanto? Lu ghe ga dito come che l'usava sempre per saludar: «Sia lodato Gesù Cristo» e po' el ghe ga dimanda se el xe de religion turca. E Jerazìmovich che sì, e el ghe ga tuto contado, che anzi a bordo i lo scherza, che in local anca, ma che insoma, cussì la xe, che lori pol e lu no pol. E alora, savè cossa che ghe ga dito 'sto Vicevescovo de Cracovia, che el girava sempre per coverta in calze rosse e scarpe nere cola fibia? El ghe ga dito: «Ma anca tu poderessi». Insoma per farvela curta, 'sto Abate Mitrato, come ogi e diman el ghe ga fato un poco de dotrina, de catechismo e come dimenica el lo ga batizà: in nome del Padre, del Figliolo e delo Spirito Santo. E de sàntolo de batizo ghe ga fato el Capitan Terdoslàvich, el Comandante Antonio Terdoslàvich, un dalmato, un toco de omo. — Ahn, e cussì i lo ga batizado Antonio? — Anca, ma come secondo nome. Che come primo nome, ghe ga dito 'sto Abate Mitrato, oramai grando che el xe, Bogdan el pol ciamarse avanti, perché Bogdan per croato vien a star come Domenico, il giorno del signore. Nostro Signor, natural. Nostro Signor Gesù Cristo. Per quel ve go dito che dopo a Jerazìmovich i lo ciamava Mene. Ménigo, Domenico. — Ah! Mene! Come el vecio Tonissa. Ah, el se ga convertido, come? — Cossa ghe entra el vecio Tonissa! Sicuro che el se ga convertido, solo che no el gaveva ancora la carta. — Che carta? — La carta del persuto! Ma dài, siora Nina. Sì, adesso, magari el podeva magnar persuto, bever e tuto e no se lo vedeva più a mezogiorno col tapedin in coverta. Volevo dirve che no el gaveva ancora la carta che el iera Cristiano, Catolico, Apostolico, Romano, come che ghe spiegava 'sto Vicevescovo de Cracovia. E po' el ghe diseva che no el stia preocuparse, che la carta el ghe la gaverìa mandada de Cracovia dove che el gaveva i timbri e tuto, e che cussì dopo el gavessi podesto far anca la Prima Comunion a Bùdua, e la Cresima, apena che vigniva el Vescovo. — De Cracovia? — Ma no de Cracovia. De Cracovia doveva vignirghe la carta de Cristian. El Vescovo, che solo un Vescovo, natural, pol cresimar, el Vescovo de Càtaro vigniva una volta al anno a Bùdua per le Cresime. — Ah, che bel che iera le Prime Comunioni e le Cresime. Qua vigniva el Vescovo de Ossero... — E là quel de Càtaro. Ma indiferente. Solo che 'sto Bogdan Jerazìmovich spetava ancora la carta. E bastanza viagi el la ga spetada. Andai e tornai dò volte de Caifa, che el nostroomo Fatutta sempre quistionava in Dogana turca e diseva: «In malora, 'sti mone de Turchi no fa che romper le jàize!» Ben, bon: apena dopo due viagi, 'sto Jerazìmovich ga trovado la carta a Bùdua, rivada per posta. — La carta de Cristian? — Sicuro, la carta che lui iera Cristiano, Catolico, Apostolico, Romano, coi timbri rossi e tuto sotoscrito del Abate Mitrato di Cracovia Aloisio Stanislaus, con tanto de crose e, in fondo, in scritura, «Sia lodato Gesù Cristo!» E lu contento come una Pasqua. — De esser Cristian? — Quel zà el iera de un per de mesi. Lu, siora Nina, ve iera contento come una Pasqua perché, vedendo 'sta carta quel omo del magazen de pelami de castron de Tùrkovich, quel Pavìssich che ve disevo, se ga fato persuaso che no el iera più de religion turca. E difati, de quel giorno, el ga cominzià a lassar... — A lassar el magazen? — Ma cossa lassar el magazen! Lassè che ve conto! El ga cominzià a lassar che 'sto Mene se parli con sua fia Anici. Perché ve go dito che lori i iera tuti assai de cesa e con tuto che Jerazìmovich iera foghista del Lloyd e che per tute le ragazze de Bùdua sarìa stato noma che ben sposar un foghista del Lloyd, lu, fin che lui iera de religion turca, no el ghe lassava gnanca andarghe vizin. — Lu fin che lui, vizin de chi? — De 'sta Anici che ve disevo, siora Nina. Che lui gaveva sempre avù simpatia — anca ela per lu — ma capirè iera inconcepibile che la sposassi un turco. — Ahn, e cussì no i se ga sposà! — Come no i se ga sposà? Altro che sposado, siora Nina, adesso che el iera cristiani. Xe stà una roba quel giorno in Domo de Bùdua che dopo i ga parlado per anni. Iera vignudi zò anca i montenegrini del monte. Pensèvese, 'sto Méne Jerazìmovich, 'sto giovine, quel istesso giorno, che xe vignudo el Vescovo de Càtaro a Bùdua per le Cresime dei fioi, lu ve ga fato tuto in un: Confession, Prima Comunion, Cresima e Sposalizio, che anzi el nostroomo Fatutta ga dito: «Zà che el ghe xe, el podessi farse anca l'Oio Santo». Un rider! Però iera bel savè, col organo e tuto. E tuti 'sti sui parenti de religion turca che lo spetava fora del Domo sentadi sul mureto. — Per sprezzo, come? — No per sprezzo: perché lori, come turchi de religion, no i ve podeva vignir drento in Domo. Però contenti anca lori perché el se gaveva sposà ben, e pò col organo, col Vescovo de Càtaro, tuto, tanto che perfina tuti 'sti montenegrini iera vignudi zò del monte col mus per vèderli. — Ahn, per veder 'sto sposalizio! — Come no? Sposalizio, Cresima, Confession e Prima Comunion. E 'sto Mene Jerazìmovich, toco de omo, in mezo de tuti 'sti fioi de Bùdua che fazeva la Prima Comunion, che tute le vece pianzeva, anca le turche. E i fioi inveze ghe rideva. — 'Sti fioi dela Prima Comunion? — Ma no, i fioi de religion turca. Che anzi lui vignindo fora de cesa a brazzo dela sposa, el ghe ga dito: «Ti vedi Anici, come che xe 'sti Turchi: zà de pici i rompi le jàize!» E inveze, ve disevo, le vece pianzeva. — Ahn, a 'ste vece turche ghe dispiaseva, come? — Ma no: savè come che xe le vece, che co' ve xe 'ste funzioni, 'ste Prime Comunioni, 'sti sposalizi, le pianzi. Le pianzeva de contentezza. E lori contenti, savè. Anca dopo. Felici e contenti. Che tuti diseva che 'sta Anici gaveva trovado propio un bon giovine e che 'sto Mene Jerazimovich gaveva trovado una putela assai adatada. E lu ve navigava sempre sul Lloyd, bravissimo, e de quando che no el iera più turco gnanca più no el fumava, che prima inveze el fumava come un turco, e mai imbriago con tuto che adesso, come Cristian, el podeva bever. Solo una roba ve iera: che co' lui iera a casa sua de lu a Bùdua, de dimenica quando che al Domo sonava mezogiorno, lui ve cioleva pulito sotobrazzo el suo tapedin, l'andava suso per le scale in terazzo e sul tapedin el ve se inzenociava a pregar. Voltà verso Cracovia. MALDOBRÌA IV - TOCCATA A ZARA Ovvero storia della linea celere Fiume-Cattaro, istituita con orari ferrei e un'unica toccata intermedia da un accorto armatore lussignano, nonché del Comandante Nadnovich che da quell'unica toccata sapeva trar profitto per altre, non previste dalla Compagnia di navigazione. — Ore morte in pescheria, una volta, siora Nina? Adesso ve xe ore morte in pescheria, perché o no xe pesse o el ve xe massa caro. Ma dove una volta, e no solo che in pescheria, ve iera ore morte, per chi che lavorava? Prima dela Prima guera, intendo, massime in una Trieste, in una Fiume, quando che iera sempre lavori. Metemo dir el vecio Nicolò Nìcolich: no esistiva ore morte per el vecio Nicolò Nìcolich. «Ogni ora persa xe soldi persi!» el diseva. E ben per quel el gaveva fato la linia celere de Dalmazia, Fiume-Càtaro: unica tocata Zara. — Dio che bela che iera Zara! — Sicuro che Zara iera bela. Ma indiferente: mi ve disevo che lui gaveva fato linia celere de Dalmazia, Fiume-Càtaro, unica tocata Zara, che i partiva a mezogiorno e meza in punto de Fiume. — Ah i partiva a ora de pranzo! Bel, cussì i pranzava a bordo. — No, siora Nina, cussì no i pranzava a bordo, perché, partindo a mezogiorno e meza — diseva el vecio Nìcolich — no ocore darghe pranzo al passeger. «Chi che vol pranzar de Cristian che el pranzi a mezogiorno, a casa sua, come tutti i cristiani» el predicava. E i rivava a Càtaro come diman ale sete ore de sera. «Perché cussì — el diseva — no ocore darghe zena al passeger, perché chi che vol zenar de Cristian, che el zeni ale oto ore, co' el xe zà in tera». Lussignan el ve iera. Tuto ve calcolava i Lussignani, al centesimo. Per quel i se ga fato i soldi. — Eh, me diseva sempre mia nona defonta che iera lussignana, che soldin su soldin se fa el fiorin. Ela no ve iera pretamente de Lussin-Lussin. Ela la iera de Neresine, ma lussignana, insomma. — De Neresine? I Lussignani veri, quei de Lussinpicolo, de Lussingrando a quei de Neresine gnanche no i li calcolava. Ogni modo ve iera belissima 'sta linia celere de Dalmazia che gaveva fato el vecio Nìcolich. Dò vapori iera: el «Città di Fiume» e el «Città di Cattaro». E co' el «Città di Fiume» iera a Càtaro, el «Città di Cattaro» iera a Fiume. «Forsi anca con questo — contava qua ridendo el Comandante Nacìnovich — lori ga pensà de sparagnar qualcossa». — Ah, co' el «Città di Fiume» iera a Càtaro el «Città di Cattaro» iera a Fiume? Comodo. — Non so se iera comodo. Mi so che iera cussì e cussì doveva esser. Xe stà per quel che quela volta el vecio Nìcolich se ga tanto rabià col Comandante Nacìnovich. Perché el Comandante Nacìnovich se gaveva intardigado a Zara e cussì, arivadi che no i iera ancora col vapor a Càtaro ale oto e meza de sera, ale oto i gaveva dovesto darghe zena a bordo ai passegeri. — Ah, xe bel cussì zenar a bordo de sera, in mar... — Bel sì, per quei che zena. Ma no per el vecio Nìcolich. «Savè vù — el ghe ga dito al Comandante Nacìnovich — savè vù, Capitan Nacìnovich cossa che vol dir dar una zena in più a bordo?» «Eh, so, so — ghe ga rispondesto Nacìnovich — so, perché go dovesto darla. Iera oto ore de sera e vù disè sempre che ale oto de sera magna ogni Cristian. E cussì go dovesto far far zena». — E cossa, cossa el ghe ga fato far de zena? — Cossa volè che mi sapio dei tempi de Marco Caco cossa che i ghe ga dà de zena quela sera prima de rivar a Càtaro! Mi so solo che el Comandante Nacìnovich contava che el vecio Nìcolich ghe zigava: «Pulito! Gavè fato far zena. Vù pulito la gavè fata far, el passeger la ga pulito magnada e mi go dovesto pulito pagarla. Zena per zentinera de lori! E alora per cossa go fato mi linia celere? Per dar dò zene? No, per dar una zena sola! E un solo pranzo! Diseme un fià: perché vù, omo mio, ve gavè intardigado a Zara?» — Sì, perché el se gaveva intardigado a Zara? — Eh, xe quel che no se capacitava el vecio Nìcolich e per quel el ghe dimandava. Ma dimanda e dimanda, istesso no el ga savesto. No el ga savesto la vera verità, intendo, perché el Comandante Nacìnovich ghe contava una roba e l'altra: che ogi come ogi per un vapor xe sempre più intrigoso andar fora e drento de Zara, che xe sempre de spetar davanti al molo fis'ciando, perché a Zara xe sempre qualche mona che no lassa logo libero sul molo e che po' i passegeri a Zara sempre se intàrdiga co' xe ora de tornar a bordo. Ma la vera verità no el ghe ga contà, quela che lui a Zara ogni volta, intanto che el vapor iera fermo, l'andava sempre in tera a trovarla. — L'andava in tera a trovarla? Chi? — Spetè, siora Nina! L'andava a trovar, in malora, oltra dei Zinque Pozzi, squasi fora de Zara, una giovine, che lui diseva che la ghe iera fiozza, fia de anima, forsi fia, chi sa come e con chi, ma ogni modo nualtri, cossa volè, no se intrigavimo. Fato sta che lu, apena che i meteva el ponte sul barcarizzo, el coreva zò in tera... — Ah, el coreva? — El coreva sì. Con tuto che el ve iera un omo zà in età. Oh Dio, in età, el gaverà avudo quela volta, me ricordo, un zinquanta, zinquantazinque, forsi più, forsi meno anca. Savè, el Comandante Nacìnovich ve iera un de quei omini che no se ghe distingueva i anni: alto, suto, cavei grisi, ma no tuti, anzi con quel fià de griso che dona, ma sempre come un giovinoto, svelto. E a Zara el ve coreva in tera e via lu, del molo el passava soto de Porta Marina e po' chi lo vedeva più? — Ah, no se lo vedeva più? — Sicuro che no se lo vedeva più, se passada Porta Marina el voltava canton. Intendevo dir che no se lo vedeva più fin che no iera ora de tornar a bordo. L'andava a trovar 'sta sua fiozza, fia de anima, che el diseva, no so mi. — Eh, xe bel gaver cussì una fia de anima a Zara. Che bela che iera Zara una volta! — Ah, per quel, una fia de anima xe bel gaverla dapertuto, se un la ga. Ma cossa ve stavo contando? Ah sì, de 'sta linia celere de Dalmazia: Fiume-Càtaro, unica tocata Zara. Che a Zara 'sto vapor più de una volta se intardigava e prima de Càtaro i doveva far zena a bordo. E cussì el vecio Nìcolich, come armator, propio, ga volesto sincerarse de persona de cossa che nasseva e el se ga imbarcado, de scondon, sul vapor. — Mama mia! Clandestino! — Ma cossa clandestino! Come, essendo suo el vapor, el podeva esser clandestino? Xe stado che el vecio Nìcolich el ve se ga imbarcado a Fiume senza che sapi el Comandante Nacìnovich. El xe montado a bordo de scondon e el se ga serado in gabina del Armamento, che solo lu el gaveva la ciave. «Voio veder coi mii oci — el ghe gaveva dito in scritorio al fradelo — coi mii oci!» Anca se el iera oramai curto de vista e istesso el se intestardiva de no doprar ociai. «Voio veder coi mii oci cossa che xe 'sta istoria che a Zara xe intrigoso, che a Zara una roba e l'altra, che a Zara i passegeri se intàrdiga de tornar a bordo e mi devo spender per le zene per zentinera de lori. Cossa xe 'sta istoria? Co' la sirena del vapor fis'cia el terzo fis'cio i passegeri ga da esser a bordo. E chi che xe a bordo xe a bordo, e chi che no xe che resti in tera!» — Eh, mi una volta a Volosca iera zà el terzo fis'cio che mi ancora corevo per la riva, ma istesso el vapor me ga spetà... — E invece el vecio Nìcolich no voleva spetar nissun. Difati, quela volta, rivadi a Zara e fermi sul molo de Zara che i iera, lu ve xe restà sconto, serado in gabina del Armamento fina al secondo fis'cio e po' el ve xe andà in coverta, là del barcarizzo dove che iera el nostroomo Fatutta che spetava i passegeri che tornava a bordo, anche per darghe una man ale signore che no le se tómboli... — Uuh, guai tombolarse fra el vapor e el molo, qua una volta una giovine... — Indiferente! Ve disevo che el vecio Nìcolich, come che el ve xe rivà in coverta, drìo del nostroomo Fatutta là del barcarizzo, cussì el vapor ga fis'cià el terzo fis'cio. E sùbito, dàndoghe col déo sula schena al nostroomo Fatutta, che come che se ga voltà e gà ravisà el vecio Nìcolich el ga ciapà un scasson de paura, el ghe ga dito: «Cossa spetemo, nostroomo Fatutta, de molar le zime? Che gavemo zà fis'cià el terzo fis'cio! Fè tirar suso el ponte, che chi che xe, xe in barca e chi che no xe, che resti in tera!» «Ma, Sior Nicolò...» ghe ga dito el nostroomo Fatutta. «Cossa, sior Nicolò e sior Nicolò, mi no son sior. Un sior de pagarghe la zena a bordo a zentinera de passegeri se se intardighemo de rivar a Càtaro. Disèghe che i moli le zime, che i tiri suso el ponte e andemo via!» — Ahn, i xe andadi cussì via, senza spetar. Mi, inveze, quela volta... — Ma cossa quela volta e quela volta! Quela volta che ve conto mi, el nostroomo Fatutta ghe ga dito al vecio Nìcolich che no se podeva andar via. «Come no se pol andar via, se gavemo zà fis'cià tre volte?» «No, mi volevo solo dirve, Sior Nicolò, che no xe ancora pretamente tuti a bordo. Arè presempio, sior Nicolò, là in fondo, quel là che riva corendo!» «Andove là in fondo, che me fa fosco?» ghe ga dimandà el vecio Nìcolich che se intestardiva de no doprar ociai. «Là, là zò, quel là che ve core sula Porporèla in giacheta noce e capel de paia!» E el vecio Nìcolich fora dela grazia de Dio che cossa, kuraz, ghe interessa a lu se uno core sula Porporèla in giacheta noce e capel de paia. «Eh, ma el deve imbarcarse, Sior Nicolò!» «El deve? Ma xe meza ora che gavemo fis'ciado tre volte! Che el resti in tera! Fè tirar suso el ponte e molemo le zime!» «Arè là, se se intardigheremo nualtri a Zara per un tandùl che core sula Porporèla in giacheta noce e capel de paia!» «Eh, ma Sior Nicolò — ghe ga dito el nostroomo Fatutta al vecio Nìcolich — ma quel tandùl che ve core in giacheta noce e capel de paia sula Porporèla ve xe el Comandante Nacìnovich!» — Mama mia! El Comandante Nacìnovich in giacheta noce e capel de paia? — Sicuro, perché lu, che no ve gavevo dito, el gaveva quela che, co' rivavimo a Zara e el coreva in tera, lu no el ve andava in tera pretamente in montura, ma el se meteva una giacheta noce e el capel de paia, istà che iera co' i fazeva 'sta linia celere. «Linia celere ve xe 'sta qua, ostia — ghe ga zigado el vecio Nìcolich al Comandante Nacìnovich, apena che el xe rivà in coverta tuto sudà, davanti de lu — linia celere con un Comandante che ve riva ultimo a bordo dopo che el vapor ga zà fis'cià tre volte?» «Ma, veramente, Sior Nicolò — ghe ga dito el Comandante Nacìnovich, tuto in un'acqua e sfiadando de tanto che el gaveva corso — veramente...» Insomma che, stavolta, lui ga avudo 'sta impelenza de dover corer in tera, perché savè, Sior Nicolò — el ghe diseva sugandose el sudor col fazoleto — mi qua a Zara ve go una fiozza, una fia de anima, che no la sta gnente ben, povera giovine, e go dovesto andar a trovarla per veder come che la sta e una roba e l'altra, e che in 'sta maledeta Zara mai no se trova un tassametro, mai no xe una carozza e che 'sta fia de anima la sta de casa in casa del diavolo oltra dei Zinque Pozzi e che go dovesto tornar corendo e che vardé in che stati che son. — Eh sì, povero omo, se no iera carozze! — Povero omo sì. Perché gavessi dovesto sentir po' in gabina cossa che no ghe ga zigado el vecio Nìcolich che se lo sentiva fina zò in sala machine. «Che cossa! Che se ga fato la linea celere, che se ga procurado de far in modo e maniera che no se daghi pranzo a Fiume, né zena a Càtaro e che lu, un Comandante, el Comandante del vapor se périta de far intardigar el vapor per andar zò in tera. Che cossa ghe interessa a lu se el ga una fia de anima a Zara? Che a Zara no se deve intardigarse, perché se no bisogna dar zena prima de rivar a Càtaro. E che no xe gnente de stupirse se un tandùl come lu se intardiga, se zà prima de andar in tera el perde tempo a cavarse la montura per vestirse come un pimpinèla cola jacheta color cagarela e el capel de pupoloto! Che cossa, kùraz, questa ve xe serietà de un Comandante, kùraz? Che cossa fia de anima? Che per un Comandante co' el xe a bordo no devi esistir né fie de ànima né fie de corpo e che el sa cossa? Che de 'sto momento, no el xe più el Comandante. — Mama mia! El Comandante Nacìnovich no più Comandante! — Sicuro. El vecio Nìcolich ghe ga dito: «Savè cossa che ve dirò? Che de 'sto momento no sè più Comandante!» Che basta, che el ciami el Primo uficial, che la barca a Càtaro la porterà el Primo uficial e che lu, liberamente el pol tignirse avanti el capel de paia in testa e la jacheta color cagarela ma che, seduta stante, el se cavi sùbito le braghe bianche, perché le braghe bianche xe de montura e la montura xe dela Compagnia. «Cossa fia de anima? — el ghe zigava — zò le braghe, kùraz, che cussì ve impararè»! — Jéssus, zò le braghe? E el Comandante Nacìnovich ga dovesto, povero, cavarse via le braghe sùbito? — No subito, Siora Nina. «Perché, Sior Nicolò — ghe ga dito el Comandante Nacìnovich — mi anca me cavassi zò le braghe subito, visto che no se discuti che le braghe xe de montura e la montura xe dela Compagnia, ma devo avisarve, Sior Nicolò, che in furia che iero, che el vapor gaveva zà fis'cià la terza volta, no go propio rivado a meterme le mudande.» Assai bela i diseva che iera 'sta fia de anima che lui diseva. MALDOBRÌA V - CUORE DI CANE Storia di un cane e di Tone Lusìna, legati dai vincoli d'una reciproca fedeltà, che fu messa a dura prova, ai tempi della Prima Guerra mondiale, quando chi, dalle nostre parti, veniva mandato in Galizia vi trovava dall'altra parte del fronte i Russi che sparavano sull'uomo. — El can, siora Nina, xe come l'omo: el va a antipatie. Xe istintivo, come, perché la bestia ga assai istinto. Xe cani che la ga cole vece, presempio, e guai se i vede una vecia; cani che la ga cola mularia de strada, perché lori intuissi che i ghe pol far del mal: savè, i muloni, più de una volta ghe tirà cògoli. E po' ve xe cani che co' i vedi uno vestido malamente, i ghe salta adosso. — Eh, per forza, perché i ladri ve xe sempre vestidi malamente, massima parte... — Massima parte qualche volta i veri ladri ve xe vestidi ben, anzi benissimo. Ma indiferente, cossa ve sa el can, se uno ve xe o no ve xe ladro? Lu el ghe salta adosso perché el xe vestido malamente. — Chi questo? — Come chi? Un. Uno che xe vestido malamente. L'altro giorno, presempio, xe vignudo un Zingano a vender cuciari de legno sula porta de siora Cheti e se ela no tien el can per la colarina, squasi che el ghe mòrsega la pùpola. Ai fioi pici inveze mai. Qualunque can, anca quei danimarchesi, savè, che xe tremendi, ale crature no ghe fa mai del mal. — Xe vero, xe vero el can va a antipatie. Mi co' iero cratura, me ricordo, gavevimo un can, un de quei cani che i ghe ciama cani de San Girolamo che, presempio, no podeva veder quei coi mustaci. E una volta gavemo avudo anca ràdighi coi gendarmi. — Natural, perché soto l'Austria el gendarmo gaveva sempre i mustaci! — Difati iera soto l'Austria, co' mi iero cratura che gavevimo 'sto can de San Girolamo... — Ma cossa, «can de San Girolamo»! Dàlmato, se dise. El can dalmato. Famoso in tuto el mondo. Figurèvese che mi, propio per un dàlmato, me xe capitada una de quele storie che un podeva anca perder la vita. — Eh i Dalmati xe malignazi! Conossevo un de Rogòsniza... — Ma no i Dalmati dalmati! Parlo de cani dàlmati. Dovè saver che mi gavevo un amigo, che ierimo più che amizi, fradei, quela volta... — Un dalmato? — Maché dalmato! De Caìsole el ve iera. Un zerto Lusìna. — Mi no conosso nissun de Caìsole... — E a Caìsole inveze xe istesso pien de gente, insoma pien: bastanza. Vù no li conossè epur i esisti istesso, anca senza de vù. E cussì esistiva anca Tone Lusìna. Mi e lu ierimo come fradei, quela volta. E el iera de Caìsole. — Chi questo Lusìna? — Lusìna po'. Tone Lusìna che i lo ga subito ciamado soto le armi, del Quatordese, co' xe s'ciopada la guera, quela che i diseva che sarà l'ultima, e inveze ogi ghe ciamemo la Prima. La Prima Guera, che de qua i li mandava massime in Galizia; e a lu i lo ga destinado propio in Galizia. A mi, inveze, che iero de Marina, i me ga mandado, pensèvese che fortuna, a Cherso in Governo Maritimo. Perché una volta a Cherso ve iera Governo Maritimo. — Eh, meo a Cherso che in Galizia! — Altro che meo a Cherso, che in Galizia el Russo tirava sul omo! «Beato ti!» me diseva Tone Lusìna, disperado. Disperado el iera perché, per zonta, Tone Lusìna gaveva un can. Ma un can, un can che no ve digo: un can dalmato de quei cani dalmati che ve disevo. Lui ghe tigniva a 'sto can come a un ocio dela testa. «'Sto qua no xe un can — el diseva — xe una persona. Mi ghe parlo, lu me scolta, lui capisse, lui no lassassi che nissun me vegni rente, lu co' son in coriera, lui sa che mi son in coriera». Insoma, per farvela curta, co' el xe partì per la Galizia el me ga dito: «Ti che ti resti qua a Cherso tiènme el can». Anca a mi el me conosseva 'sto can: ierimo come fradei... — Col can? Con 'sto can dalmato? — Ma cossa col can? Con Tone Lusìna. Che lu tanto me ga dito che l'amigo se lo conosse nel bisogno, che mi ghe go tignù el can. — A Cherso, in Governo Maritimo? — A Cherso sì, ma no in Governo Maritimo: lo tignivo a casa. A casa de quela mia zia de Cherso, che gavendo 'sta zia, gavevo la comodità de poder andar a dormir a casa sua de ela. No ve digo, co' lui xe partido cossa che no xe stà con 'sto can: come una cratura el pianzeva! — Eh, i cani assai i se afeziona! — Ma no el can: Tone Lusìna pianzeva come una cratura! Perché lu ve iera de quei de susta mola. Lu pianzeva co' el partiva, lu pianzeva co' el rivava... Indiferente. Per mi no iera tanto la scomodità de tignir el can: iera che quela volta, tempo de guera che iera, no iera gnanca tanto fazile mantignir un can come quel, perché — savè come che se dise — el Cristian capisse, ma el can esige. E bisognava darghe la sua carne e tuto, che quela volta carne iera solo cola tessera dela carne. — Eh, el can magna come un omo. E po' ghe vol sostanza... — Oh Dio, se contentavimo nualtri e el se contentava anca lu. Insoma, iera za un anno e passa che lo gavevo, co' una note, che iero de guardia in Governo Maritimo, solo, note che iera, ale tre de matina, sento gratar la porta. — Ahn, iera el can de questo Tone Lusìna... — No, siora Nina, iera Tone Lusìna cola barba longa: gnanca de conosserlo. — Ma no el iera in Galizia? — Quel ve iera: el iera in Galizia, ma el gaveva disertà. Anche perché in Galizia, savè, no iera de scherzar. In Galizia, ve disevo, el Russo tirava sul omo, e cussì, una roba e l'altra, el gaveva disertà. — Ahn! E per quel el gratava la porta! — Sicuro, lui se scondeva, no el voleva farse vèder. E el gratava la porta perché el me gaveva visto oltra dela finestra che iero solo. — E no el voleva farse vèder de vù? — De mi sì, ma de nissun altro! Perché, savè, soto l'Austria, in tempo de guera per el disertor iera fucilazione ala schiena. Tempo ventiquatro ore. — I li fusilava per ventiquatro ore? — Ma no, siora Nina, ventiquatro ore de tempo per fusilarlo. Se uno no se presentava, tempo vintiquatro ore, iera fucilazione. Corte Marzial. Per diretissima, nela schena. — Ma come i lo fusilava se no el se presentava? — Iera ben per quel che no el voleva presentarse. E mi ghe digo subito: «Tone mio — perché, ve disevo, questo Lusìna se ciamava Tone — Tone mio, ghe digo, mi per ti qualunque roba. No ghe xe meio specio che l'amigo vecio, come che se dise. Ma mi no posso sconderte. Perché qua se ne trapa i Gendarmi de Campo, prima i te fusila a ti e dopo a mi. E lu senza gnanca scoltarme, subito el ga dimandà del can: «El can, el can»! come che ghe sta el can. E mi: «Ma cossa ti pensi al can, che ti devi pensar ala vita! Che se i te trapa i te fusila...» — Ah, el pensava al can! — Ve go dito. Solo che el can el gaveva in testa, che inveze prima de tuto el gavessi dovesto pensar a sconderse. E cussì ghe go dito: «Sa cossa? Per stanote va a dormir suso in Torriòn — quela volta el Torriòn iera una matonèra e no iera mai nissun — e diman penseremo». — E come diman, cossa gavè pensà? — Eh, come diman xe stà pezo de tuto. Perché iero giusto in Governo Maritimo, quando, a mezogiorno in punto, che giusto sonava mezogiorno al Domo, me se presenta i Gendarmi de Campo e in mezo, ligado come Nostro Signor, Tone Lusìna. E drìo Martin Ghèrbaz, savè quel de Caìsole... — Mi no conosso nissun de Caìsole... — E inveze a Martin Ghèrbaz a Caìsole lo conosseva tuti come sempio, che difati i lo ciamava Martin Povero. — Ah, el iera sempio, come? — Sicuro: perché el iera curto de testa. E anca per quel no i lo gaveva ciolto militar. Pensèvese che el gaveva la mentalità de una cratura de diese ani. I diseva che, co' el gaveva diese ani, un muss ghe gaveva dado una piada in testa. Ma no el iera cativo: sempio el iera. E anca Tone Lusìna iera stà sempio: perché el iera andado suso in Torriòn e, fredo che el gaveva, el gaveva impizzado el fogo. E co' i Gendarmi de Campo ga visto fogo in Torriòn, guera che iera, i xe andadi suso in Torriòn a veder cossa che iera, e i lo ga becà. — Per fusilarlo? — Come, per fusilarlo? Lori che no iera gnanca de 'ste parti, no i podeva saver chi che el iera. Ma quel xe stà la fatalità. Che come che i lo portava zò, i ga intivado per strada 'sto Martin Ghèrbaz che, come ogni mese, iera vignudo a pie a Cherso de Caìsole per farse meter el timbro sula carta de sempio che con quela no el fazeva el militar. E come che 'sto sempio de Martin Povero ga visto Tone Lusìna in mezo dei gendarmi, con tuto che el gaveva la barba el lo gà ravisà. E el ghe ziga: «Adio, Tone Lusìna!» No el iera cativo, ve go dito, sempio el iera. — Mama mia! E dopo? — E dopo, mal! Perché lori za gaveva avù l'aviso che Tone Lusìna iera disertor e i lo ga portado de mi per el confronto. — Che confronto? — El confronto po'. Perché, capì, Tone Lusìna, che i gendarmi no lo conosseva, natural, diniegava de esser Tone Lusìna. Se no i lo fusilava. — E alora chi el ga dito de esser? — Nissun. Lui ga dito: «No so chi son». Perché, vedendo Martin Ghèrbaz, ghe iera vignuda l'idea. «No so chi son: un cavalo me ga dado una piada in testa. Carte no go e no so chi son». «No so chi son, no so chi son», el diseva tuto el tempo, intanto che i Gendarmi lo portava de mi per el confronto, ligado come Nostro Signor. — Jessus Maria! — Jessus Maria, sì, perché 'sti Gendarmi, apena che i xe vignudi drento, se 'sto qua xe Tone Lusìna i me dimanda. E mi con una sbìgola che me coreva zò per la schena come una sariàndola, go dito: «Io no lo conosso. Tone Lusìna lo conosso noma che bene, che anche ho il suo cane a casa, ma questo non è Tone Lusìna. E po' ha anca la barba che Tone Lusìna non ha barba». E 'sti qua che cossa vol dir la barba, che la barba cresse. Dò croati del interno i ve iera 'sti dò. E un mi fa, mi dice, che, visto che lori sa che mi go a casa el can de Tone Lusìna — tuto ve saveva el gendarmo austriaco, come i carabinieri — àidemo a casa del can. — E cossa i voleva de 'sto can? — Eh, siora Nina, mi subito go intuido cossa che i voleva: i voleva, i congeturava che, se lui iera Tone Lusìna, el can lo gavessi ravisado subito. E quela sarìa stada la prova. E qua anca Tone Lusìna se ga sentido perso. «No so chi son, no so chi son», el ripeteva a dir, sempre più pianzendo, perché ve go dito che el iera de susta mola. Insoma, semo andadi a casa, dove che stavo de mia zia de Cherso, con una sbìgola che no ve digo, per veder cossa che gavessi fato el can. — E el can? — E 'sto can, mai no me dismentigherò: come che semo andadi drento in coltivo, 'sto can, apena che el vede Tone Lusìna, el ghe salta ale cane dela gola, che se no iera i Gendarmi de Campo e mi che lo tignivimo per la colarina, el lo magna vivo. — Jessus! E perché? — Perché? Perché Tone Lusìna, oltra che esserse fato cresser la barba el iera vestido malamente. Come un Zingano de Galizia. E 'sto can dàlmato gaveva quela de gaverghela con quei cola barba, massime se i iera vestidi come zìngani. Ve go dito che el can ve va a antipatie. E cussì Tone Lusìna ga avù salva la vita. Mato i lo ga calcolà, perché el diseva «No so chi son, no so chi son» e i lo ga messo in Ospedal dei Mati a Trieste. — Povero omo! — Cossa povero? Contento el gavessi dovesto esser! Contento come un mato che i lo calcolava mato. E inveze disperà. Disperà per el can. Per la disilusion, come, che el can no lo gaveva conossudo. Come una cratura el pianzeva. «No el sa chi son, no el sa chi son!» el ghe diseva tuto el giorno ai dotori. Dopo la guera, con Martin Ghèrbaz andavo qualche volta a trovarlo in frenocomio. MALDOBRÌA VI - LA TERRA DI FRANCESCO GIUSEPPE In cui il nome del vecchio Imperatore si lega a una delle imprese di pace più vantate dalla Marina di Guerra austro-ungarica, ovvero la scoperta di nuove isole nel Mar Glaciale Artico, e viene confermata l'opportunità di non vendere mai la pelle dell'orso prima di averlo preso. — Savè vù, Don Blas — ghe diseva sempre l'avocato Miagòstovich a Don Blas — savè vù, Don Blas, perché che el Comandante Dùndora no ve ga mai portado quela pele de orso che tanto el ve gaveva deto che el voleva portarve dela Tera de Francesco Giusepe? Savè vù? — Tera de Francesco Giusepe? Come dir l'Austria, insoma? L'Austria-Ungheria? — Ma no! Quela ve iera anca qua l'Austria-Ungheria! La Terra di Francesco Giuseppe ve iera che, in prinzipio, nissun gnanca no saveva che la iera e apena dopo, co' la Marina de Guera austriaca la gaveva trovada, i ghe ga ciamà cussì: «Terra di Francesco Giuseppe». In onor de Francesco Giusepe, natural. La ve iera là del Polo Nord, squasi, e el Comandante Dùndora contava sempre de 'sto viagio che lui gaveva fato fina squasi in Polo Nord. Pensévese che al Comandante Dùndora, un anno, i gaveva vossudo scelzerlo propio a lu fra no so quanti de lori per andar — ve parlo de prima dela Prima guera — in una de 'ste spedizioni che la Marina austriaca usava far in 'sta Terra di Francesco Giuseppe, dopo che i la gaveva scoverta la prima volta. — A lu, al Comandante Dùndora i lo gaveva ciamado? — Sicuro, e omo de cesa che iera el Comandante Dùndora, prima de partir el se gaveva confessado e comunicado in Domo. E propio dopo Messa, al prosit, el ghe gaveva dito a Don Blas: «Don Blas, mi adesso parto per la Tera de Francesco Giusepe, e co' torno, se Dio me dà de tornar, mi ve porterò, che no ciapè fredo ai pie sul marmo soto l'altar, mi ve porterò savè cossa? Una bela pele de orso bianco de meter soto i pie co' disè Messa.» — Eh, me ricordo, me ricordo, Don Blas gaveva i reumi! — El gaveva, el gaveva sì i reumi con quel fredo che ve iera de inverno in Domo! Però volè saver una? El Comandante Dùndora co' el ve xe tornà de 'sto viagio, che giusto ve iera dimenica, el ghe ga dito a Don Blas, al prosit... — El prosit? Quel che se ghe diseva una volta al prete dopo Messa? — Sicuro, prosit se ghe diseva al prete, dopo Messa, in sacristia. E, dopo Messa granda de dimenica, Don Blas in sacristia usava spartirghe a tuti un bicer de vin bianco. Oh Dio, no a tuti, no ala bassa forza, se capisse! Al Podestà Petris, al Comandante Dùndora, al vecio Bùnicich, al dotor Colombis, ai frabriceri del Domo: a quei più interessanti insoma. Vin bianco dele Mùnighe che el nònzolo, Severino, scominziava a meter nei biceri in sacristia co' el sentiva l'itemissaest. E al prosit, come che ve disevo, el Comandante Dùndora ghe ga dito a Don Blas che, scusè tanto Don Blas, che lu no se ga dismentigado dela pele de orso bianco, ma che propio no el ga avù ocasion de intivar gnanca un orso bianco e che po' là, savè, rente squasi del Polo Nord, no ve xe boteghe. — Eh, nasse cussì de no trovar! Mi una volta a Postumia... — Indiferente Postumia! Ogni modo, orsi o no orsi, apena tornà che el iera de 'sta Terra di Francesco Giuseppe, col Comandante Dùndora no iera più né un viver né un morir. «Vù — el ghe diseva a chi che voleva e a chi che no voleva sentirlo — vù, no podè gnanca imaginarve cossa che no ve xe 'sta Tera de Francesco Giusepe! Fredo ve xe, ma propio quel fredo genico, savè: zima». E po' el contava de 'sto sol de mezanote, de 'sto vento che portava via la testa che iera là, tanto che — el diseva — mi adesso no gaverò mai più in vita paura de nissun fredo e anca in febraro, mi calcolo, mi qua ve girerò in vita. E che lu là, con tuto quel fredo genico che iera, istesso el ve girava ogni giorno per la Tera de Francesco Giusepe col s'ciopo in spala e che xe stà propio combinazion che no el ga mai intivado un orso. O che forsi no iera stagion, chi sa, el predicava. — A chi el ghe predicava? A Don Blas? — Ma si, anca a Don Blas, ma 'ste robe el ghe le predicava a tuti, apena tornado: ai fabriceri del Domo, al Podestà Petris, al vecio Bùnicich, al dotor Colombis e anca al avocato Miagòstovich, natural, tanto che una dimenica al prosit in sacristia, l'avocato Miagòstovich ga cominzià con quela che ve disevo, de dirghe ridendo a Don Blas: «Savè vù, Don Blas, perché che el Comandante Dùndora che qua tanto ne conta, no ve ga mai portado quela pele de orso che tanto el ve gaveva deto? Volè saver la vera verità, Don Blas? La vera verità ve xe che, come che ve ga deto el Comandante Dùndora, là rente del Polo Nord no ve xe boteghe. E savè perché? Perché là, rente del Polo Nord, con quel fredo genico, Dio guardi aver la botega averta!» Un rider, in sacrestia, che no ve digo, che rideva anche Don Blas. — Per 'sta botega averta? — Sicuro, siora Nina, podè capir. Fra omini. E 'sta remenada dela botega averta l'avocato Miagòstovich el la tirava fora ogni dimenica! Ve parlo de poco prima dela Prima Guera quando che, con tuto che el Comandante Dùndora contava tante maravée, no ve iera più 'sta granda roba andar nela Tera de Francesco Giusepe, che oramai la Marina austriaca tante volte ve iera andada e tornada. Una granda roba ve iera stada inveze quando che — tanti ani prima — la prima barca dela Marina de Guera austriaca ve iera andada là per la prima volta. — In guera? — Ma cossa in guera? Che soto l'Austria quaranta ani no ve iera guera, prima dela Prima guera! Ve parlo de quela volta, tanti ani prima dela Prima guera che i doveva anca qua levar i giovini per partir col «Tegethoff»! — Digo ben, partir con Tegethoff, per andar in batalia de Lissa, quela che, co' ierimo crature, se imparavimo a scola... — Ma noo! Quel ve iera stà prima. La barca ve se ciamava «Tegethoff», in memoria, perché Tegethoff iera zà morto. Una barca dela Marina de guera austriaca che doveva andar al Polo Nord e che inveze xe stà propio quela volta che per combinazion i ga scoverto la Terra di Francesco Giuseppe che ve disevo. — Ah! Quela volta zà i saveva che iera el Polo Nord? — Quel i saveva sempre. Solo che 'sta barca de guera, el «Tegethoff», doveva andar in esplorazion al Polo Nord, per meterghe suso anca la bandiera nostra, la bandiera austriaca. E per l'equipagio, tuti i loghi de qua, dele isole del Quarnero, de Veglia, Cherso, Lussin, anche de Unìe, doveva dar giovini, chi dò, chi tre, chi quatro. E xe stà cussì che i ga fato la leva. — Ahn, la leva per far i soldai? — No, per far le fritole. Sicuro che per far i soldai, marineri, pretamente per la Marina de Guera. Che una volta, più in antico, siora Nina, co' iera la leva, no xe che ghe tocassi a tuti de partir. Partiva solo quei che vigniva levai. — Come adesso, dài'. Ghe tocava a quei che iera de leva. — Ma no, siora Nina. Una volta più in antico, ghe tocava solo a quei che vigniva levai col numero, propio. Qua in piazza i fazeva la leva del numero. Tuti i giovini che quel anno ghe gavessi tocado andar militari i ghe dava un numero, po' i meteva tuti i numeri in un bussoloto e i tirava fora solo quei tanti che ghe ocoreva, e i altri a casa. I li levava, insoma. — Ah, come i numeri del Loto! — Sì, solo che quei giovini che ghe vigniva fora el numero, inveze che vinzer, i perdeva, perché ghe tocava andar militar, mariner. Opur qualchevolta, savè, i fazeva anca cole bale. — Che bale? — Le bale, pò. Balote propiamente. Perché i meteva nel bussoloto tante balote bianche e tante balote nere e chi che gaveva la pégola de levar la bala nera, ghe tocava andar. E cussì i ga fato anca quela volta che bisognava scelzer quei che doveva partir col «Tegethoff» per el Polo Nord. De Lussin no so quanti, de Cherso no parlemo — sempre i poveri Chersini i mandava per el mondo — e de Dragosetti, picolo logo che iera, ghe tocava solo a un. — Un solo? — Un solo, sì, de Dragosetti, perché picolo logo ve iera e ve xe Dragosetti. E quela volta iera solo che dò giovini che gavessi podesto andar al Polo Nord, marineri fati e finidi. Uno ve iera Tone Lusina, un campagnol, povero, fio de campagnoi, che, se capisse, no gaveva né sàntoli né buzolai, e quel altro, inveze, ve iera Bepi Màrovich, che iera traiber del avocato Miagòstovich. — Traiber? Fiozzo, come? — Ma cossa fiozzo? Bepi Màrovich ve iera orfano, no el ve gaveva né padre né madre e lui iera pretamente el traiber del avocato Miagòstovich, che i Miagòstovich ve gaveva uliveri, vide e piègore a Dragosetti. E orfano che el iera restado zà de ragazeto, l'avocato Miagòstovich, omo giovine ancora quela volta, lo gaveva fato vignir qua che el ghe daghi una man a casa e in scritorio. E cussì Bepi Màrovich ghe portava le carte de un e del altro, lui ghe andava in Posta, ghe tendeva el caìcio, ghe lo piturava, lo compagnava e lo andava a cior al vapor co' l'andava a Pola, el ghe andava a comprar spagnoleti. Tuto insoma lui ghe fazeva al avocato Miagòstovich quel che ghe ocoreva. — Omo de fiducia, come? — Pretamente traiber, siora Nina. E cussì ve xe stado che quando per andar al Polo Nord col «Tegethoff» i doveva cior o Tone Lusina o Bepi Màrovich, l'avocato Miagòstovich xe andado subito in Governo maritimo per parlar col Capitan de Porto, che quela volta iera el vecio Malabòtich. — A parlar de cossa? Del Polo Nord! — Ma cossa del Polo Nord? De Bepi Màrovich, perché, siora Nina, se ghe gavessi tocado a Bepi Màrovich de partir per el Polo Nord col «Tegethoff», l'avocato Miagòstovich saria stado assai intrigado. E come che l'andava in Governo Maritimo, cussì el ga intivado sul porton el vecio Malabòtich che giusto el sortiva per andar ala Lanterna. — A impizzar la Lanterna? — Ma dove, soto l'Austria, un Capitan de Porto ve impizzava una Lanterna! Qua per impizzar la Lanterna ve iera aposito Visco. Indiferente. L'avocato Miagòstovich ga profitado che el vecio Malabòtich andava in Lanterna de Visco, per compagnarlo caminando con lu marinavia e butàrghela subito. «Malabòtich mio — el ghe fa — come stè vecio mio?» E Malabòtich, che el xe vecio si, ma che el tira avanti, con tuto che el xe vecio e che el xe solo e che no el ga nissun in Governo Maritimo e che ghe toca far tuto solo si stesso, anca — vedè — andar a veder cossa che fa Visco in Lanterna. «Eh, xe quel che volevo dirve mi, Malabòtich mio — ghe ga dito l'avocato Miagòstovich — che se anche a mi me tocassi far tuto solo si stesso, no podessi far gnente. E zà che semo in discorso — el ghe ga dito butàndoghela — go sentisto che, come dimenica, vù doverè farghe tirar qua in Piazza la bala bianca e la bala nera a quei dò giovini de Dragosetti, che un de lori doverla andar al Polo Nord col «Tegethoff». Che sì, ghe ga dito Malabòtich, che xe Tone Lusina o Bepi Màrovich che ghe toca: un dei dò. — Ah, el saveva anca lu? — Natural che el saveva, se el iera Capitan de Porto. Iera lu che doveva mandar o un o l'altro. E l'avocato Miagòstovich ghe ga dito, ciapandolo sotobrazzo: «Eco, vedè, Malabòtich mio, se vù me mandè Bepi Màrovich al Polo Nord, mi cossa fazzo? Vado al Polo Sud? Che ogni giorno me toca andar in dibatimento in Tribunal e più de una volta col vapor a Pola per far carte e Bepi Màrovich intanto, a casa e in scritorio, me tende tuto!» «Cossa posso dirve, Miagòstovich mio? Speremo ben. Speremo che a Bepi Màrovich ghe tochi la bala bianca!» «Eh, no stemo solo che sperar, Malabòtich, perché chi che vive sperando more cantando e nualtri, mi e vù — el ghe ga dito pian, perché giusto in quela passava saludando el Maestro de Posta — mi e vù dovessimo concertarse in modo e maniera che Tone Lusina levi la bala nera e che Bepi Màrovich, povero, che xe orfano, che no ga né padre né madre, resti pulito qua con mi in casa e in scritorio.» — Eh giusto, povero. Ma come se podeva far? — Xe quel che ghe ga dito subito el vecio Malabòtich; «Ma, Miagòstovich mio, come se pol far? Le bale xe bale e a chi che le ghe toca, le ghe toca». «Eh sì, Malabòtich, cussì sarìa se no se se aiuta fra de nualtri e no se aiuta el justo. E alora, savè cossa che ve dirò mi? Savè cossa che farìo mi se fussi in vù? Mi mettessi pulito in bussoloto dò bale, che quel no se discute e xe justo meterle. Ma, sempre se mi fussi in vù, le metessi tute dò nere. Pò ghe farìo levar per primo la bala a Tone Lusina, che anca quel xe justo, perché a Tone Lusina ghe toca levar per primo propio come alfabetico. E, una volta che Tone Lusina ga levà bala nera, in dò che i xe, quel'altra bala no ocore gnanca vardarla e amen. E dopo, savè cossa? Mi e vù andaremo insieme a ciapar una bula bala col mio vin de Dragosetti, mi con vù e vù con mi. E per vù sarà anca qualche bela màndola, mi calcolo, caro mio Capitan Malabòtich, vecio mio belo...» — Mama mia! Un truco, come! Che bruto! — Oh Dio, bruto! No bel. Ma bel come truco. Ben pensado. Testa fina, savè, ve iera l'avocato Miagòstovich. E gnanca el vecio Capitan Malabòtich no ve iera un sempio. Iera un omo che, co' iera de capir, capiva. Lui, savè, de giovine ve gaveva navigado, lui ve iera omo de mondo. Solo, savè cossa che ve dirò, siora Nina? Che el iera un poco ciacolon. Oh Dio, ciacolon! No pretamente ciacolon: ciacoleta. Qualche volta, ciacolando, el diseva qualche parola de tropo. E cussì quela volta co' lu, de sabo de sera el ga intivado sul molo Tone Lusina che iera zà vignudo zò de Dragosetti per esser pronto per la leva che i fazeva come diman, dimenica, de matina bonora, subito el ghe ga deto... — Ah, el ghe ga dito! — Ma no che no el ghe ga dito. El ghe ga deto a Tone Lusina: «Bravo, bravo, Tone Lusina, che sé zà vignudo. Cussì, diman leverè la bala per partir col "Tegethoff". O vù, o Bepi Màrovich. E, disème, Tone, ve piasessi esser vù a partir col "Tegethoff"?» «Ah no che no, che no me piasessi — ghe ga dito Tone Lusina — che qua el padre me ga i reumi e no el pol lavorar e dovessi lassar la madre sola in campagna e pò là, in Polo Nord, i me dise che xe fredi che nualtri no podemo gnanca concepir!» «Eh, omo mio, ghe ga rispondesto alora el Capitan Malabòtich, qua xe poco de dir ah no che no e ah sì che sì: qua a chi che ghe toca, ghe toca. Forsi ghe tocherà a Bepi Màrovich, forsi ve tocherà a vù. Come che sarà distin! Ogni modo, questo volevo dirve, quando che o vù o Bepi Màrovich — distin xe distin — tornerè del Polo Nord, vù, Tone mio, me farè el piazer de portarme una bela pele de orso bianco per meter soto i pie in tinelo, che anca mi, savè, go i reumi. No Steve dismentigar — el ghe ga dito saludandolo — no stè dismentigarve! Portèrne, portème una bela pele de orso, con paga, natural, con paga...» — Ahn! El ghe ga dito che el ghe porti? — Questo ve xe stà. Un poco ciacolon ve iera el Capitan Malbòtich: ciacoleta. E quel sabo de sera a Tone Lusina el ghe ga dito qualche parola de tropo. — Ah, e cussì Tone Lusina ga capì tuto? — No tuto. Ma el gà intuì che là qualcossa scantinava, che iera qualche soterfugio. Perché Tone Lusina, povero campagnol de Dragosetti che el iera, el pareva sempio, ma no el iera pretamente stupido. Tanto che con quel pensier quela sera tanto el gà stroligà e quela note tanto no el podeva dormir, che inveze de andar a dormir, el xe tornado suso a pie col scuro a Dragosetti per contarghe tuto ala madre. — Ah, no el xe andà ala leva? — Come no el xe andà ala leva? Chi se gavessi azardado soto l'Austria de no andar ala leva? Come diman matina bonora, che iera dimenica, Tone Lusina iera qua in piazza rente de Bepi Màrovich per levar la bala. — La bala nera? — Cossa nera e bianca? Per levar la bala. Perché el Capitan Malabòtich ghe ga dito: «Tone Lusina, ve toca a vù per primo, come letera di alfabetico, de levar la bala, perché Eie de Lusina ve vien prima de Eme de Màrovich. Levè, levè la balota, Lusina, che dopo la leverà Màrovich. Levè, levè!» — E el ga levà? — Sicuro che el ga levà. Davanti de tuti. Oh Dio, no tuti, quei pochi che iera là, dimenica matina bonora che iera. Ma dopo che el ga levà la balota e che nissun gnanca no la gaveva vista che el la strenzeva in man, picia bala che iera, savè cossa che el ga fato, siora Nina? — El la ga mostrada? — No. Quel xe stà. Lu, senza dir né ai né bai, el la ga messa in boca e el la ga ingiutida. — El ga magnà la bala? Ma cossa, el iera deventà mato? — Xe quel che ghe ga dito el Capitan Malabòtich: «Ma cossa, sè deventà mato Tone? Gavè magnà la bala, che gnanca no gavemo visto se la iera bianca o se la iera nera?» — «Ah, no dovevo? — ghe ga rispondesto Tone Lusina — ah, no dovevo? Ah, mi credevo che cussì se usasse! Che la balota se ingiutisse. Cussì me ga deto mia madre!...» — La madre ghe gaveva dito? — Quel che la ghe ga dito quela sera mi no so, ma lui cussì ghe ga deto a Malabòtich. Tanto che el Capitan Malabòtich, rabiado, con tuti atorno che rideva, ghe ga zigado: «Ma cossa la madre e el padre?! E adesso cossa femo, che gavè magnà la bala?» — Ah, poco mal, Sior Malabòtich — ghe ga rispondesto Tone Lusina — poco mal: adesso che tiri suso Bepi Màrovich quel'altra balota, e se la sarà bianca volerà dir che la mia la iera nera e se la sarà nera, volerà dir che la mia la iera bianca. Ogni modo no stè gavèr pensier: se no dovevo ingiutirla, ve pagherò la balota!» Un rider, siora Nina, un rider, che rideva anca i dò militari de Marina croati che tigniva el bussoloto. — Ah, e cussì Bepi Màrovich ga levà la bala nera? — Sicuro, siora Nina, se iera solo che dò bale, tute dò nere nel bussoloto! E Bepi Màrovich ghe ga ben che tocà partir col «Tegethoff»! — Per el Polo Nord, povero? — No pretamente per el Polo Nord, perché prima con 'sta barca, col «Tegethoff», là suso, i ga avù tante straleche che no ve digo. Ma no xe un mal senza un ben, perché fredo che gaveva fato prima del tempo, venti tremendi che i gaveva intivado, strassinadi dei jazzi per mesi e mesi, i xe finidi in malora sua. Ma cussì i ga scoperto la Terra di Francesco Giuseppe, che dopo tuti ga parlado per anni anorum. — Con Bepi Màrovich? — Ma cossa con Bepi Màrovich? I ga parlado per tuta l'Austria, per tuto el mondo, che la Marina de Guera austriaca gaveva trovà 'sta nova tera: la «Terra di Francesco Giuseppe». Tuti, tuti parlava. Fora che Bepi Màrovich povero, che no podeva più contarla. — No el podeva più contar cossa? — No el podeva contar più gnente, siora Nina, perché, come che ga contà quei Chersini che iera con lu, lu, una matina bonora che l'andava col s'ciopo in spala a cazia de orsi, che giusto el giorno prima el gaveva copà un, con una belissima pele, tanti orsi che iera, un orso afamado, prima gnanche che el rivi a tirar zò el s'ciopo de spala, ghe ga dà una zatada e lo ga magnà. Destin. Che po' qua co' se ga savesto, Don Blas ghe ga fato Messa de morto in terzo e iera tuti: i fabriceri del Domo, el Podestà Petris, el dotor Colombis, el Comandante Dùndora che iera ancora cadeto, el capitan Malabòtich e l'avocato Miagòstovich, natural... — E i parenti? — Bepi Màrovich no gaveva parenti, siora Nina. Ve go dito che Bepi Màrovich iera orfano de padre e de madre, fio unico, che el stava fin de ragazeto col avocato Miagòstovich. E difati al avocato Miagòstovich ghe xe rivado el bauleto suo de lu che ga spedì qua la Marina austriaca. E drento del bauleto savè cossa che el ga trovado, sora de tuto? Una belissima pele de orso, bianca, fissa e lissa come la seda... — E l'avocato Miagòstovich se la ga messa in tinelo? — No, siora Nina. Tanto bela ve iera 'sta pele de orso, che l'avocato Miagòstovich, quando che el xe andado a Viena con tuti quei che gaveva scoperto la Terra di Francesco Giuseppe, in deputazion da Francesco Giusepe come unico squasi parente del defunto Bepi Màrovich, 'sta bela pele de orso el ga pensà ben — Sacra Maestà — de ofrirghela in memoria al Imperator. E Francesco Giusepe, che anca lu gaveva i reumi, savè dove che el la tigniva? Soto i pie in scritorio, suo de lu. — Ah bel! Soto i pie del Imperator. Bel! — Belissimo. E bel xe stà anche che l'Imperator, in contracambio, come, ghe ga dà al avocato Miagòstovich l'onorifica de Consigliere Aulico. Sempre l'avocato Miagòstovich portava sula patela el nastrin de Consigliere Aulico. Fina che xe vignù l'Italia e che i lo ga fato Podestà, e el ga messo el distintivo del Fassio. Come tuti. MALDOBRÌA VII - SAN NICOLÒ, SAN NICOLÒ Nella quale si narra come, nelle nostre Vecchie Province, ci fossero due maniere di allietare il 6 dicembre dei bambini: o con un San Nicolò invisibile che depositava i suoi doni sul davanzale, o con un San Nicolò visibilissimo, in paramenti episcopali, che li onorava nel giorno a lui consacrato d'una sorprendente visita personale. — Una volta, prima dela Prima guera intendo, ve iera grandi miserie, ma anca grandi richezze. Ogi inveze tuti pianze miseria, ma dove mai, ogi, per le feste, la gente se contentassi de far come che se usava una volta? Perché, se ve ricordè, siora Nina, una volta no se usava per le feste quel che se usa ogi... — Prima dela Prima guera? — Prima, durante e dopo. Metemo dir ai fioi: per Nadal, ai fioi dò grafioi, ma regalo, propio regalo, se ghe fazeva solo che per San Nicolò e se iera fora del pensier. Inveze adesso i pretende e per San Nicolò e per Nadal, e per el Novo del'Anno, e per i Tre Re, se basta. E no solo che i fioi. Anca i grandi pretende. Ma i fioi, una volta, solo che San Nicolò, e amen. — Che, in alora, iera zà un sacrifizio! Quanti sacrifizi che se fazeva una volta per i fioi! — Sacrifizi per i fioi? Cossa volè: dove che xe l'inocenza xe la Providenza, come che diseva madre Conceta dele Mùnighe del Squero. Ma, passà San Nicolò, per Nadal dove se fazeva regali, una volta? Per Nadal solo che l'albero. L'albero de Nadal? — No, l'albero de maestra! Sicuro che l'albero de Nadal. Che po', cossa se ghe meteva suso? Le candelete coi ciapini, fighi suti, naranze, mandarini, involtizadi in carta de argento, magari, un fià de mandolato e buzolai. Che, co' ai fioi se ghe li lassava dispicar, quela ve iera tuta la festa. — Eh, mandarini in carta de argento, me ricordo sì che se salvava aposta la carta de argento dele ciocolate. Adesso inveze ghe vol che per i fioi ghe sia qualcossa no solo sora ma anca soto l'albero! — E anca per i grandi! Inveze, una volta, solo i fioi e solo per San Nicolò. Savè come che se dise, siora Nina: benedeta quel'età che se gode e no se sa. Anca se a mi me par che ogi i fioi sa anca tropo. Difati adesso no se fa più San Nicolò-San Nicolò: adesso se fa solo regalo de San Nicolò. — Come sarìa a dir che no se fa più San Nicolò-San Nicolò? — Sarìa che xe una bela diferenza. Perché una roba xe el San Nicolò come San Nicolò, che el muleto crede che vien San Nicolò e un'altra roba xe «Ciapa qua, còcolo, che xe San Nicolò». — Eh sì, xe vero, co' noi ierimo fioi trovavimo i regali soto del camin... — Sì, adesso camin! Chi ga più camini? Adesso dove volé fargheli trovar? Sul bolitor? — No, mi adesso a quei dò mii nevodi più pici ghe meto sul sburto dela finestra. Quel che xe più grando zà sa, mi calcolo, ma lui calcola che noi no savemo che lui sa. — Ma cossa sburto e no sburto! Mi volevo contarve, ve parlo de prima dela Prima guera, quando che qua in paese se fazeva vero San Nicolò. — I regali? — Sicuro che i regali. Ma quela volta li portava propio San Nicolò. — Prima dela Prima guera? — Prima de tute le guere, siora Nina. Volevo dirve che un se vestiva proprio de San Nicolò e se ghe fazeva ai fioi, de sera, l'improvisata. Con barba, pastoral, pivial, e mitra. — Mitra ghe go regalado anca mi una volta, de quei cola bateria che fa la falisca e anca sussuro. — Ma che mitra, ma che bateria, ma che sussuro! La mitra, intendevo, la mitria, come che i vol ciamarghe ogi: quela che ga in testa San Nicolò. El capel de Vescovo, insoma. — Ahn, la mitria! Come el Vescovo de Òssero in procession! — Sicuro che la mitria come el Vescovo de Òssero in procession! Cossa gaveva de meterse el Vescovo de Òssero in procession? El basco col pirulìc? Vù dovè saver che, a nualtri co' ierimo putei, de San Nicolò ne fazeva Barba Nane. Cola barba, el pivial, el pastoral e tuto, che anzi mi son stà el primo qua, de noi fioi, che lo ga ravisado. E che dopo difati el me ga dito: «Malignazo mulo, ti de grando ti andarà drito per el mondo, solo sta atento, co' ti sarà grando, che per voler esser tropo furbo no i te cavi la matricola!» Povero Barba Nane! Me ricordo che po' co' iero zà grando, e zà navigavo, un anno, che lui zà gaveva squasi perso le gambe, una dimenica, dopo Messa granda in Domo, el me ga ciamà rente, sentado in banco che el parlava con Don Blas, e el me ga dito: «Bortolo, 'sto anno, per San Nicolò, fa ti...» E del quel anno, mi, sempre. E qualche volta anca Tonin Polidrugo. — Ah, perché vù ve vestivi de San Nicolò? — E come, e che ben! Che anzi, dopo che Barba Nane iera morto, Don Blas diseva che figuravo meo mi, come presenza, che lu, omo picolo che el iera. Ben, bon: dovè saver che un anno che ierimo imbarcadi sul «Jupiter» ierimo rivadi a Trieste col Comandante Brazzànovich. Sul vapor i fazeva profumi e cussì ierimo vignudi tuti qua in paese, a casa, zà per San Nicolò. — Profumi? — Ma sì, dài: disinfezion, disinfestazion, come che volè ciamarghe. Ma noi, veci maritimi, ghe ciamavimo profumi. E alora, una roba e l'altra, vù dovè saver che el Comandante Brazzànovich, che el se gaveva sposado zà in età, el gaveva un fio picio, Nicoleto... — El picio Nicoleto Brazzànovich, me ricordo sì, el fio del Comandante Brazzànovich, che sua moglie iera assai più giovine de lu. — Indiferente, adesso la xe vecia anca ela. Fato sta che durante el viagio ierimo vignudi in discorso col Comandante Brazzànovich che mi e Tonin Polidrugo usavimo far San Nicolò per le case. — Ahn! In dò, come i Tre Re! — Ma cossa in dò come i Tre Re? Un poco mi e un poco lu. Prima andavimo del parentà, po' de amizi, un pochi mi, un pochi lu, dopo che se gavevimo vestì dele Mùnighe. — Ve vestivi de Mùnighe? — Ma no, siora Nina, andavimo in Cesa dele Mùnighe del Squero e là iera Madre Conceta — ve ricordè Madre Conceta? — che la ne lassava cior i paramenti per vestirse de San Nicolò. La gaveva robe splendide, che le fazeva lore, tute a man, ricamade in oro, per quando che vigniva el Vescovo de Ossero. Quela volta Òssero gaveva ancora Vescovo. — Anche Pédena... — Anca Pédena, ma anca Òssero. Insoma noi ghe gavevimo contà al Comandante Brazzànovich che le Mùnighe ne lassava vestirse per farghe San Nicolò ai fioi, perché, savè, dove che xe l'inocenza xe la Providenza, come che diseva Madre Conceta, povera defonta. E el Comandante el dise, ci fa ci dice: «Visto che gavè 'sta ocasion, perché un de vualtri no vien anca a casa mia del mio Nicoleto, che el ga anca la festa, combinazion, perché el se ciama Nicolò?» — El picio Nicoleto Brazzànovich? — Sicuro, Nicoleto, Nicolò. «Visto che gavè 'sta occasion — el ne dise — che un de vualtri vegni a casa mia». — Eh, i Brazzànovich gaveva una bela casa, me la ricordo, in Punta Sant'Andrea. Dopo la guera i partigiani, prima gaveva fato colonia marina e po' i la ga butada zò per far l'albergo. — Altro che bela casa! Gnanca a Trieste mi no go visto case compagne. De dentro intendo: tuto bel, i lampadari, tapedi de Levante, quadri a oio, propio in pitura. Pensévese che, in camera de pranzo, iera in pitura el «Jupiter», el vecio «Jupiter» ancora, piturado col mar in tempesta al Capo di Buona Speranza. Belissimo, cole vele e tuto, che se podeva contar i bozzei sui alberi e tuti i terzarioi: belissimo. — El quadro? — No solo che el quadro, tuto iera bel, siora Nina. Ma pochi ga avudo ocasion de veder quela casa de dentro. Perché, quando che el Comandante Brazzànovich navigava, la moglie e la signora Bortolina, sorela del Comandante, una puta vecia che stava con lori, no le voleva nissun a casa, fora che el parentà e la vecia Tona, natural, che ghe fazeva tuto. E co' el iera a casa lu, iera lu che no voleva nissun, perché el diseva: «Co' son a casa, de raro che son a casa, mi voio gòderme la mia pase». — Eeh, giusto. — Giusto? Carateri. Per dirve che pochi gaveva visto quela casa de dentro, che sempre la vecia Tona contava maravèe de 'sta casa e cussì podé capir, in curiosità che ierimo, subito mi e Polidrugo ghe gavemo dito che sì, che andaremo. — Che andarè andove? — Ma come andove? Che un de noi andarà a farghe de San Nicolò al picolo Nicoleto Brazzànovich, in casa sua de lori. Insoma, per farvela curta, la sera de San Nicolò andemo in Cesa dele Mùnighe che là in sacrestia ne iutava a vestirse Severino. Ve ricordè Severino, quel che i lo ciamava Mòmolo? — Mòmolo dele Mùnighe! Eh, sì che me lo ricordo! Xe tanti ani che el xe morto. — Eh, per quel xe morte anca le Mùnighe. Insoma mi gavevo el pivial rosso, quel bel, che meteva sempre el Vescovo de Ossero co' el vigniva qua. E Polidrugo anche, un bel pivial rosso, solo più picolo, che iera ancora del Vescovo de prima, che iera omo picolo: quel che meteva sempre Barba Nane co' el fazeva lu de San Nicolò, che iera propio adatado per Barba Nane che iera anca omo picolo. — Oh dio, omo picolo: no el iera tanto grando... — Indiferente. Volè creder, siora Nina, che Polidrugo iera ancora più picolo de Barba Nane? Tanto che, co' el ga provado a caminar, el se intopava nel pivial e le mùnighe ga dovesto farghe soto una pietà con un soraponto. Che, anzi, Madre Conceta co' lo ga visto che i ghe fazeva la pietà la ghe ga dito: «Vù, Tonin, sé come vostro padre, picolo omo, ma granda canaia!» Un rider, 'ste mùnighe inzenociade che ghe fazeva el soraponto, che no ve digo. — Eh, le Mùnighe del Squero gaveva man de oro per cùser! — Ma cossa man de oro, per un soraponto! Insoma, ve contavo che mi gavevo el pivial rosso e Polidrugo anche, quel altro, cola pietà e la mitria, belissimo, cola barba tacada, fata de bombaso e, vestidi che ierimo e zà fora dela porta dele Mùnighe, disemo: «Alora chi va del Comandante?» Ma, veramente, che andassi mi, che l'andassi lu. «Ben, ghe digo, senti, femo una bela roba: prima andemo del parentà — mi dovevo andar de mio fradelo, de mio cugin Bepi defonto e lui de tuti i Polidrugo che iera una zaia de fioi che no ve digo — femo intanto el nostro solito giro, ghe digo, e dopo se trovemo de novo qua e faremo pari e dispari per chi che se spoia e per chi che va del Comandante Brazzànovich». — Perché, vù volevi andar? — Sicuro che volevo andar, anca per poder dir in un domani de gaver visto 'sta belissima casa del Comandante Brazzànovich che tuti parlava. Ma anca Polidrugo voleva. El fazeva come che no, che no ghe interessa più che tanto, e inveze mi savevo che lui assai ghe tigniva. Ghe tigniva lui de comparir col Comandante, e come! El iera, savé, zà in alora un de quei che se ràmpiga. — E inveze volevi andar vù? — Eh, savè, giovini che ierimo, giovinoti, el Comandante assai ne imponeva. — Ahn! E chi xe andà? — Spetè, spetè. Fora dele Mùnighe, mi de qua e lu de là. E mi go pensà: mi vado drito del Comandante, dopo a Polidrugo ghe conterò la storia del orso, che qua che là, che per combinazion go intivà el Comandante marinavia che el tornava de esser andado a cior spagnoleti e che el me ga dito: Vien. — E cussì sè andado vù? — Sicuro, e subito. Savè come che iera fata la casa dei Brazzànovich: sul davanti che dava sul mar la gaveva el balador cola scala de piera e alora mi su per la scala de piera del balador, bato sul vetro dela porta, vien fora el Comandante Brazzànovich — tuto in zito el fazeva — el me dà i regali — tuto in zito el rideva — e vado drento. E in 'sto bel salonein, belissimo che i gaveva, iera 'sto putel: el gaverà avudo un sie ani quela volta. — Nicoleto? — Sicuro: Nicoleto Brazzànovich. E el me varda con 'sti dò oci stupidi. — Ah, i fioi xe de magnarli, qualche volta! — Indiferente: el me varda con 'sti dò oci stupidi, ghe vado incontro e ghe digo: «Sei buono, sì, tu Nicoleto? Non fai rabiàre la mama, e il papà e la zia?» che iera la signorina Bortolina. — Che vigniva a star la sorela del Comandante, quela puta vecia? — Ela. Insoma, intanto che ghe dago i regali, se sente bater sul vetro dela porta del balador, e el Comandante dise: «Verzè, che sarà la vecia Tona che ghe go dito de andarme cior spagnoleti». I verzi e se sente de fora dir: «Sei buono, si, tu, Nicoleto? Non fai rabiare la mama? E il papà, e la zia?» Insoma, volè creder, siora Nina? Ve vien drento Polidrugo, vestì de San Nicolò che el gaveva tentado de fracarmela. Picolo omo, ma granda canaia! — Eh, ma anca vù ghe la gavevi fracada a lu! E el picio? — Siora Nina, el picio ve iera un spetacolo: el me vardava prima a mi e dopo a Polidrugo, po' de novo a mi. 'Sti dò San Nicolò: chissà cossa che ghe lavorava in quela testa... — Ah, che pecà! Cussì no el ga più credesto in San Nicolò? — Come no, siora Nina? El ga credesto e come! Lu, come che ghe ga subito spiegado la zia, 'sta signorina Bortolina, sorela del Comandante, lui ga credesto che xe due San Nicolò: un grando e un picio. San Nicolò e San Nicoleto. San Nicolò per tuti e San Nicoleto solo che per lu che se ciamava Nicoleto. E de quela volta sempre dopio regalo i ga dovesto farghe per San Nicolò. Eh, siora Nina: dove che xe l'inocenza, xe la Providenza! MALDOBRÌA VIII - GRAZIE, ZIA Ovvero storia d'un vaso di China, pervenuto dai remoti mari della medesima fino ai nostri lidi, ai tempi in cui era ancora diffusa l'usanza di tentar la fortuna partecipando a un familiare, ancorché illegale gioco del lotto con premio al primo estratto per la ruota di Venezia. — No steme parlar a mi de loti e loterie, che mi, ancora co' navigavo, iera sempre qualche maritimo che meteva qualcossa al loto! — Che ziogava al loto? — No, che meteva al loto: fornimenti de China che i portava, borsete de Alessandria, orologi de Costantinopoli, quei che sonava la Marcia Turca. Questo dopo dela Prima guera, che anzi la Finanza italiana, guai se vigniva a saver la Finanza italiana! — Ma che loto, sior Bortolo? — Ma come che loto? No ve ricordè? Primo estrato per Venezia, che se fazeva: novanta bilieti a zinquanta centesimi ognidun. Primo estrato per Venezia, vinze. Barba Nane ghe diseva sempre a Polidrugo che meteva roba al loto per le case: «I ve farà osservazion! Gavarè ràdighi cola Finanza italiana! I ve cavarà la matricola!» Ma istesso lui fazeva sempre loti e tuti ziogava, perché Polidrugo ve iera assai interessoso: lui sempre portava fornimenti de China, borsete de Alessandria, orologi de Costantinopoli, e el guadagnava pulito. Savè: primo estrato per Venezia, zinquanta centesimi ogni numero, novanta numeri, quarantazinque lire, che ve iera un qualcossa, subito dopo la guera. Perché cossa ve podeva costar a Sciangai un fornimento de China, in Alessandria una borseta de Alessandria, e un orologio de quei che sonava la Marcia Turca, a Costantinopoli? — Cossa ve podeva costar? — Un bianco e un nero, una picolezza, perché ve iera tuto roba de contrabando, che guai anca quel se la Finanza italiana vigniva a saver. E mai no me dismentigherò de quel che ghe ga tocà a Marco Mitis... — Che lo ga trovà la Finanza? — Ma no la Finanza, cossa volè la Finanza? La Finanza italiana ziogava anca lori. Po' qua, dela Finanza italiana ve iera Torchiarùlo che gaveva sposado la fia de Martin Ghérbaz. Un regnicolo, ma bon omo, bon come un pan. No: a Marco Mitis ghe gaveva tocado un truco subito dopo sposà. — Ghe iera scampada la moglie? — A Marco Mitis? Scamparghe la moglie? Perché ghe doveva scampar la moglie, che lori due se ga volesto un ben de vita fina in ultimo? Marco Mitis, savè, se gaveva sposado bastanza in avanti coi anni, dopo che ghe iera morta la madre, ma insoma i gaveva ciapado come regali de nozze diversa robeta. Bela robeta: fornimenti de China, una belissima borseta de Alessandria per ela, e figurèvese, un magnifico orologio de Costantinopoli, che savè cossa che sonava? — La Marcia Turca. — Come savè? Chi ve ga dito? Sicuro, la Marcia Turca. Vù ve volevi — metemo dir — sveiar ale sete ore in punto de matina bonora. Ben, puntavi l'orologio sule sete ore in punto e ale sete ore in punto, de matina bonora, el ve sonava la Marcia Turca. Belissimo. — Ahn! Un sveiarìn! — Sì, ma de Costantinopoli, cola Marcia Turca. Indiferente. Lori tanta bela robeta cussì i gaveva ciapado, come regalo de nozze. Anche Buddi, savé quei bei Budda de porcelana che i portava de Giapon? Ma quela zia de Cherso che i gaveva, no volè che la se ga insogna de regalarghe un vaso chinese coi grisantemi pituradi de fora in viola? — Zia de lu o zia de ela? — De lu, de lu! Sorela de quela madre che ghe iera morta, più vecia dela madre ancora. Puta vecia e ancora viva. Lori, savè, se la tigniva bona, perché ela ve gaveva bela robeta. — Questi fornimenti de China, borsete de Alessandria, orologi de Costantinopoli? — Ma no, cossa ghe entra? Ela ve gaveva el torcio del oio, uliveri e casa e carati in barca ancora del padre. Ma ela, che i dise tanto dei Lussignani, con tuto che la iera de Cherso, più che 'sto vaso de China no la ghe gaveva regalado. «Gavarè tuto co' mi no sarò più!» la ghe gaveva dito una volta a Marco Mitis, cussì in discorso, e alora lori se la tigniva bona. — Ahn! E un vaso de China la ghe gaveva regalado per nozze? — Sicuro. Un vaso chinese coi grisantemi pituradi de fora, in viola, che anzi Marco Mitis me ga dito subito: «Sarà stupidezzi, ma mi el grisantemo, massime viola, me ga pretamente quel'aria de De Profundis che no me piase». — Eh, xe vero, per une nozze, in casa de dò sposi! Quel xe più per zimiterio, come, el grisantemo. Per i Morti se usa portar, che anzi mi vado sempre in zimiterio per i Santi, perché per i Morti xe massa gente... — Indiferente. 'Sto vaso che ghe gaveva regalado questa sua zia de lu, Marco Mitis no saveva come deliberarse. Tanto che, zia o no zia — el ghe ga deto ala moglie — 'sto vaso bisogna che se lo cavemo de casa. Sa cossa? Metèmolo al loto e comprèmose pulito qualcossa altro, qualcossa de più alegro, un masinin de Costantinopoli, un de quei bei masinini de cafè de oton che i porta de Costantinopoli. Insoma, per farvela curta, 'sto vaso de China el ghe lo ga dado a Polidrugo che el lo meti al loto andando per le case. Ben: Polidrugo lo ga messo al loto e savè chi che lo ga vinto? Lo ga vinto el Piloto de porto, Bepin Malabòtich, ve ricordè de Bepin Malabòtich? — Come no, Bepin Malabòtich, quel Piloto de porto che prima ve iera a Fianona... — Sicuro, ma volè che sia, propio quela volta, tempo un mese, al Piloto Malabòtich, piloto a Fianona che el iera prima e qua dopo, no i lo destina a Cherso? — No i lo destina a Cherso? — Sì che i lo destina a Cherso, quela volta i usava mandar i piloti de qua e de là. I lo destina a Cherso e, combinazion, el ve xe andado a star propio visavì de 'sta zia de Marco Mitis a Cherso, che ela stava visavì dela Capitaneria de porto, cola finestra dela sua camera de pranzo che dava propio sula calisèla streta, visavì dela finestra dela camera de leto del quartier del Piloto de porto. — Che schiavitù! — Oh Dio, per Malabòtich e sua moglie, bastanza schiavitù, perché 'sta zia de Marco Mitis, puta vecia che la iera, la ve stava massima parte in finestra, intieri dopopranzi in finestra, e xe stà cussì che la ga visto el vaso. — El vaso de note? — Ma cossa de note! De giorno la lo ga visto, calisèla streta che iera, sul comò dela camera de leto del Piloto Malabòtich, la ga visto 'sto vaso chinese, coi grisantemi pituradi de fora, in viola. — Mama mia! Cussì la ga savesto che el nevodo ghe gaveva messo el suo regalo de nozze al loto! — No, perché el Piloto Malabòtich, ve lo ricordè, iera un omo che gaveva paura anca dela sua ombra. Figurèvese se lui ve palesava del loto, Dio guardi che la Finanza italiana ghe fazzi osservazion! Lui a 'sta zia de Marco Mitis, che ghe dimandava dela finestra, el ghe ga dito, el ghe ga flociado, che el vaso i ghe lo ga portà de fora, de China. — Ahn! No el ghe ga palesà? — Sicuro, e ela come mata la iera de contentezza! Propio i stessi grisantemi, l'istesso color viola: e ela tanto la ga dito, tanto la ga fato, tanto la lo ga inzinganà parlandoghe dela finestra ogni dopopranzo, co' 'sto povero Piloto voleva andarse a colegar un poco in leto, che lu, con paga, natural, ghe lo ga cedesto. — 'Sto vaso a 'sta puta vecia, zia de Marco Mitis? — Sicuro. E a Marco Mitis, propio per i Santi, che el Piloto Malabòtich vigniva qua per i Morti, la ghe lo ga mandado involto in carta. Che cussì, la ghe ga scrito, i ga el compagno e i pol meterli un de qua e un de là sul comò. — Tuti dò sul comò; bel, un de qua e un de là! — Sì, e in mezo l'orologio de Costantinopoli che sonava la Marcia Turca! Ma dài, siora Nina, se iera sempre quel, quel unico vaso! Coi grisantemi viola pituradi de fora. Se volè, lo podè ancora véder in zimiterio quando che andè. Sula tomba dei Mitis. Povero Marco, in fondo el xe morto ancora giovine. Oh Dio giovine, in confronto. In confronto dela zia che ve xe ancora viva, mi calcolo. MALDOBRÌA IX - OLIO DI CASA Ovvero dell'intramontabile attaccamento dei lussignani al prodotto genuino dei loro uliveti e del sistema usato per non restarne mai senza, neanche di là dall'Oceano, prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale. — «'Sto oio no conza la mia salata» diseva sempre mia nona povera defonta. Che tante volte, siora Nina, se pensa che i veci sia zà andadi in asedo, e inveze ela no la se fazeva infenociar: «'Sto oio no conza la mia salata», la diseva, e no iera versi... — De farghe magnar la salata se no ghe piaseva l'oio? — Ma cossa l'oio e la salata? Se dise per dir, no, siora Nina, «'Sto oio no conza la mia salata», quando che un ve fa le bele, ve se russa adosso, ve lissa massa, ve lassa creder che chissà cossa... — Chissà cossa, cossa?... — Siora Nina, se no gavè capì, no so cossa dirve. Ogni modo, iera per dirve che quando che un de nualtri a casa ghe fazeva massa le bele a mia nona povera defonta, che la ve iera una bona dona, ma comandòra, ela capiva subito che el gaveva de dimandarghe qualcossa e la ghe diseva tuta soridente, ma fazendoghe de no col deo: «Eh no, mio belo, 'sto oio no conza la mia salata...» — Mia nona inveze diseva sempre «Col oio de Cherso xe bone anche le ortighe». — Sicuro, l'oio fa sempre ben e va ben con ogni roba e, una volta, a Cherso, a Lussin, a Veglia, in tuta la Dalmazia l'oio ve iera tuto. Sì: «Col oio de Cherso xe bone anca le ortighe» diseva i Chersini, ma anca l'oio de Lussin ve iera assai bon. Ve iera? Ve xe anca adesso, trovàndolo, mi calcolo. — A mi i me porta qualche volta oio de Cherso, fato ancora col torcio in casa, che noi se lo tignimo come una reliquia... — Eh, a chi che ghe piase oio de Cherso ghe va ben oio de Cherso, ma i Lussignani, presempio, che, natural, xe inabituadi col oio de Lussin, per lori no esisti meio oio del oio de Lussin. E no ve parlo solo de adesso, che adesso, oramai, dove... Ve parlo anche de prima. De dopo dela Prima guera, intendo, quando che Comandanti, nostriòmini, capi machinisti, mistri, bassa forza anca, che ve iera andadi in America e i ve iera restadi là — e tanti ve gaveva fato fortuna, come che fazeva sempre fortuna i Lussignani — bon, lori, cussì come che i ve iera inabituadi col oio de Lussin, lori anca in America no i podeva starve senza l'oio de Lussin. Che per quel, quela volta, difati, i ghe ga pregado al fio de Marco Palìsca. — Chi questi che pregava? — Cossa che pregava! Spetè che ve conto. Ve contavo de tuti 'sti Lussignani che ve iera restadi in America e che i ve stava a Néviork in no so quante Strade... — In quante, in quante strade i ve stava? — Se ve digo che no so: sarà stà Ventidue Strade, Ventitré Strade, Ventizinque Strade. Cussì ve se ciama le strade per inglese a Néviork. Col numero. E visto che 'sti Lussignani che stava a Néviork i bramava de conzar anca a Néviork la salata col oio de Lussin, i parenti de qua, i parenti sui de lori che stava qua, i ghe ga pregado al fio de Marco Palìsca, che quela volta ve viagiava propio per Nort-America, cola «Saturnia», de portarghe fora ogni viagio una damigiana de oio de Lussin. — Ah, i cioleva anche damigiane sula «Saturnia»? No savevo. — Oh Dio, no che su una «Saturnia» i ciolessi pretamente damigiane. Ma se un portava, i cioleva. E el fio de Marco Palìsca, che ve iera un che rugnava sempre come el padre — preciso padre, diseva tuti — el ve xe andado a rugnar del padre che, oramai vecio che el iera, no el ve navigava più. «Sentì, padre — el ghe ga dito — anca vù, papà, quando che navigavi i ve dava 'ste bele sope?» — Che sope? Sope de vin? — Xe quel che ghe ga dimandà el vecio Palìsca al fio: «Che sope? Cossa sope? Sope de vin?» Ma Tonin Palìsca — Tonin ve se ciamava el fio de Marco Palìsca — ghe ga dito che sope se dise per dir. «Cossa sope de vin? Sope de oio! Arè qua, padre, che tantumergo de damigiana piena de oio de Lussin che me ga dado de portarghe ai Lussignani de America el parentà de qua, i parenti sui de lori.» — «Ah, bela! Bula damigiana — ghe ga dito Marco Palìsca al fio — qua te sarà almanco un trenta e passa litri de oio, de bon oio de Lussin!» «Magari cussì no — ghe ga dito Tonin — e mi me li devo tuti calumar fin in America!» — Eh, sicuro, povero. L'oio pesa! — Meno de l'acqua perché el sta a gala. Ma istesso trenta litri e passa de oio xe sempre un bel peso. E portarlo in spala a bordo e scarigarlo de novo e con 'sta damigiana in spala andar fina Ventidò, Ventitré, Ventiquatro Strade de Néviork! Senza po', siora Nina, contar la Dogana e la Sanità de America. Che i Americani per oio, butiro, roba de magnar, persuto massima parte — guai portar persuto in America! — in Dogana americana i ve xe sufistichi che no ve digo! E in Sanità ancora pezo. — Qua inveze persuto i lassa!... — Cossa qua e là che adesso xe tutto cambià el mondo! Iera che iera de portar 'sta damigiana de oio in America e el fio de Marco Palìsca ve rugnava col padre. Ma el padre subito ghe ga dito: «Eh ben, cossa xe de rugnar? Ti ti farà quel che go sempre fato mi, quando che i Lussignani de qua me dava 'ste calùme per i Lussignani de America. — Ah, anca al padre i ghe dava de portar? — Sicuro. Anca a lu co' el navigava i ghe dava. E el fio ghe ga dito: «Ma adesso vù no navighè più e me toca a mi la bela sopa de portarghe in America 'sta damigiana». «Sì che sì la damigiana — ghe ga dito el padre — ma che no l'oio. Noi qua, fio mio, pulito prima de tuto travaseremo la damigiana in dò butilioni, che aver dò butilioni de oio de Lussin a casa xe sempre ben, e ti cussì ti gaverà de portar in America solo che la damigiana svoda. Che la xe lisiera per carigarla a bordo, che dopo ti se poderà sbarcar a Néviork senza pensieri né per Sanità, né per Dogana, e là che ti sarà, ti ghe anderà pulito a portar 'sta damigiana ai Lussignani de America in Ventitré, Ventiquatro, Ventizinque Strade, andove che i sta... — Ma come? Svoda? — Xe quel che ga dimandà el fio de Marco Palìsca al padre: «Ma come? Svoda? I se inacorzerà che gavemo travasado». «Ma no svoda, poveri — ghe ga dito el padre — chi podessi azardarse de portarghe una damigiana de oio svoda a un Lussignan? Ti, pulito, come che ti arivi a Néviork, ti farà come che fazevo mi!» — E cossa el fazeva lu cola damigiana svoda? — «Ti farà come che fazevo mi — el ghe ga dito — ti, pulito come che ti arivi a Néviork, la prima botega de oio che ti intivi, ti se la fa impinir de quel oio che i ga in America, che el te xe assai a bon mercà e no el xe gnanca mal. Ti ghe calùmi de novo el tapo, ti lighi cola carta oliata e col spago e pulito ti ghe la porti. Perché una roba te dirò mi, fio mio, quel che fa più che tuto xe la damigiana: «Vesti un pai e el par un cardinal». — Ahn, cussì fazeva el vecio Palìsca de giovine? Furbo! Me lo ricordo, sì, el vecio Palìsca: el iera un bon rosto. E dopo, cossa xe nato? — Maravèe xe nate, siora Nina. Apena che Tonin Palìsca xe rivà a Néviork de 'sti Lussignani de America e ga pozà sula tavola de cusina in Ventitré Strade 'sta damigiana de oio che lu gaveva apena impinido in Ventidò Strade in una grandiosa botega de oio, tuti 'sti Lussignani che iera là e che lo spetava ga dito «Ooh!» «Ooh l'oio de Lussin! Grazie, Tonin, che ne gavè portado l'oio de Lussin!» E el padre ghe ga dito alla madre, el ghe ga deto: «Chetti, làssime a mi che molo el spago, che cavo la carta oliata, e ti, Nicoleto — el ghe ga dito al fio — pòrtime un toco de pan, che femo la sopa!» «Dio che bone xe le sope col oio de Lussin — ga dito la madre — zerchè, zerchè anca vù Tonin cossa che no xe 'sto bon pan bianco de America col nostro oio de Lussin!» Insoma, che bon, che bon, che bon. Che tuto xe bon se xe condì col oio de Lussin, anche le ortighe e che frita col oio de Lussin xe bona anca una zavata! «Oio de casa, oio de meter in sfasa!» ga dito una zia che iera là. Figurévese. — Ahn, 'sti poveri Lussignani de America credeva che fussi oio de Lussin? — Sicuro. Gaveva ragion el vecio Marco Palìsca: quel che fa più de tuto xe la damigiana. Vesti un pai e el par un cardinal. E l'ilusion fa el resto. Però, siora Nina, savè cossa che xe nato quando che l'Italia — che, ogi no par gnanca vero, gnanca concepibile — savè cossa che xe nato quando che l'Italia ghe ga intimà guera al'America? — Bombardamenti. — Ma cossa bombardamenti! Xe stà che, come prima roba, quando che l'Italia ghe ga intimà guera al'America, Tonin Palìsca no ga podesto portarghe più oio ai Lussignani de America. — Poveri, senza oio tanti ani! — No so quanto poveri, lori. Povero, inveze, Tonin Palìsca, perché come che l'Italia ghe ga intimà guera al'America, subito i lo ga ciamà soto le armi. — Contro l'America? — Ma cossa contro l'America un Tonin Palìsca, che po' qua no iera nissun contro l'America. Lui povero i lo ga ciamà soto le armi, de tera, e i lo ga spedido, pensèvese, in Dalmazia. — Contro i Dalmati? — Ma cossa contro i Dalmati un Tonin Palìsca, che po' qua no xe mai stà nissun contro i Dalmati. Lui povero i lo ga spedido là come trupa de ocupazion che, zò, in remengo, a Bùdua, squasi in Montenegro dopo, natural, co' ve xe vignudo el ribalton, tuto a pie. — Tuto a pie el ribalton el ga fato? — No, siora Nina. El ribalton lo ga fato l'Italia e Tonin Palìsca, per scamparghe ai Tedeschi, e ai partigiani, ga fato tuta la Dalmazia a pie per tornar qua a casa, pensévese, dopo el ribalton. Che el padre, el vecio Palìsca povero, no lo ga gnanca ravisado in quei stati che el xe rivado. E po', capirè, insemenido che el iera. — Insemenido, povero Tonin Palìsca? — Ma no lu. El padre de Tonin ve iera insemenido. Difati, guera, carestia che iera qua soto i Tedeschi, sentà sula porta de casa, el ghe contava a tuti, a chi che voleva e a chi che no voleva sentirlo, che lori ga salvado in cantina tanti butilioni de bon oio de Lussin. — Ah, lori gaveva oio! Furbi! — Per forza che i gaveva oio, siora Nina. Tuto quel che Tonin Palìsca, un viagio drio l'altro, no ghe gaveva portà ai Lussignani de America. E tanto el vecio Palìsca ghe gaveva contado a tuti, che un giorno xe vignudo un de note, un campagnol, lori calcolava, e inveze iera un che iera in bosco... — Ah, un campagnol che gaveva campagna in bosco... — Ma cossa campagna in bosco! El ve iera in bosco coi drusi, coi partigiani e 'sto qua de note, in zito ga ciamà sula porta de casa Tonin Palìsca e el ghe ga dito, vardandolo nei oci, che lu se règoli come che el vol, ma che con tuto quel oio che lori sa che lu ga, no sarìa mal, anzia sarìa apena giusto che el ghe porti un dò butilioni de oio a quei poveri che xe suso in bosco in Lovrenski, e che tuti zò in paese dà quel che pol. E che lu, adesso che el sa un tanto, el se règoli come che el vol. — Suso in Lovrenski! Eh, iera cativo una volta andar suso in Lovrenski, co' no iera la strada... — Sicuro che iera cativo. E cussì Tonin Palìsca xe andà una matina bonora, che no iera ancora ciaro, col muss, con dò butilioni impicadi uno per parte e sconti soto de una coverta de militar. — Ahn! E el ghe ga portado l'oio a questi drusi che iera suso in bosco! — Per forza. Come volevi no portarghe, quando che questi ghe gaveva mandado a dir che el se regoli come che el vol? Ma no volè che, in volta dela strada, prima de andar suso in Lovrenski, Tonin Palìsca ve intiva Martin Ghèrbaz? Che sicuro no per cativeria, Martin Ghèrbaz, ma per stupidità, mi calcolo, indrìo cole carte che el ve iera, quela sera istessa el ga contà in osteria de gaver intivado el fio de Marco Palìsca col muss e con una coverta de militar, suso per Lovrenski. — A chi el ghe ga contà? — A tuti in osteria lui ghe contava tuto quel che lu intivava per strada, sempre per strada che el iera, col sol e cola piova. Fato sta che qualchedun ghe deve aver riferì ai Tedeschi e cussì, co' Tonin Palisca xe tornà zò de Lovrenski, la sera istessa dò tedeschi xe vignudi a ciorlo in casa. E dove che era, e cosa che era soto la coperta di militar e dove che è la coperta di militar. Insoma, una roba e l'altra, prima i lo ga portà col vapor a Fiume, po' in camion a Trieste e po' in treno in Germania, cussì i contava. No so, ma la vera verità, siora Nina, ve xe che lui qua, povero, no ve xe mai più tornado, in vita. — Jessus! Morto! — Mai più tornado, siora Nina. Tanto che, co' xe finida la guera e iera de novo viagi e se podeva de novo mandar oio ai Lussignani de America, i sui parenti de qua, quei che iera restadi, insoma, dopo vignudi i drusi, i ghe ga dado al mistro Fatuta de portar fora in America una de quele damigiane de oio che prima i ghe dava a Tonin Palìsca. — Ah, al mistro Fatuta! E el mistro Fatuta anca la ga svodada? — Se parlè cussì, siora Nina, vù no conossevi el mistro Fatuta. Lui, dove ghe podeva gnanca passar per la mente de far una roba compagna? El mistro Fatuta, pulito, ve ga portado la damigiana in America, primo viagio che el fazeva dopo de la guera, e Dogana, e Sanità e tuto. E a Néviork, in Ventitré strade, el ve ga portado in spala la damigiana vera, con drento l'oio vero de Lussin. Che, come che el la ga pozada sula tavola de cusina, tuti ga dito «Ooh!» — O cossa? — Cossa, cossa? «Ooh — i ga deto — ooh, l'oio de Lussin! Grazie, mistro Fatuta, che ne gavè portà l'oio fresco de Lussin, che proprio ieri gavemo terminado l'ultima damigiana che ne portava Tonin Palìsca, povero. Chetti, làssime a mi che molo el spago e che cavo la carta oliata, e ti, Nicoleto, pòrtime un toco de pan che femo la sopa...» — Eh, xe bone le sope col bon oio de Lussin! — E, inveze, siora Nina, lori, dopo fata la sopa, i ga dito che el xe cativo. Che questo no par gnanca oio de Lussin. «Zerchè, zerchè anca vù, Fatuta mio — i ghe ga deto al mistro Fatuta — 'sto smirn de oio che i ne gà manda stavolta de Lussin e che fina ne ruvina el nostro bon pan bianco de America!» «No, no — ga deto siora Chetti — 'sto oio no conza la mia salata!» Insoma, volè creder, siora Nina, quel giorno per conzar la salata i ga mandado zò la fia a comprar l'oio in quela granda botega de oio che iera là vizin de casa sua de lori, in Ventidò Strade. E come che i lo ga zercado i ga dito: «Orpo — i ga deto — orpetìna! Questo sì che sì che xe el nostro bon oio de Lussin! Vedè, Fatuta mio, come che ve xe 'sti malignazi drusi che xe ogi a Lussin? L'oio bon i ghe lo vende ai Americani e l'oio cativo i ghe lo conza a 'sti poveri nostri Lussignani che xe restadi ancora a Lussin!» MALDOBRÌA X - CIKI CIKI NAGASAKI Ambigua formula usata dai marittimi frequentatori delle rotte dell'Estremo Oriente, quando le nostre navi approdavano con regolarità ai moli di Kobe, Yokohama, Scianghai e, per l'appunto, Nagasaki, per indicare ciò che il lettore, qui di seguito, avrà modo di apprendere. — El pericolo gialo i ghe diseva una volta, siora Nina; il Pericolo giallo! Questo ve parlo de dopo dela Prima guera, natural, perché prima dela Prima guera chi qua gnanca se insognava de 'ste robe? Solo i maritimi gaveva qualche cognizion, perché i maritimi, savé, cussì viagiando, ga cognizioni. — Del pericolo gialo? Dei giali? Dei Chinesi? — E chi ga parlà de Chinesi, siora Nina? Mi ve parlavo del Giapon. Il Sol Levante, il Pericolo giallo che i ghe diseva. — A 'sto sol, come? — Ma no a 'sto sol. Ai Giaponesi. Perché zà quela volta i Giaponesi ve iera i unichi che in quei loghi là, che noi col Lloyd fazevimo la Linia del Estremo Oriente, bon, el Giapon ve iera l'unico che se gaveva imparado a far... — A far 'sta linia? — Ma cossa a far 'sta linia, che la fazevimo noi per andar de lori! Kobe, Nagasaki, Yokohama fazevimo e lori iera i unichi che se gaveva imparado a far le robe come nualtri: biciclete, machine fotografiche, orologi, ociai de sol, mudande de omo, con decenza, che no sarà stà, natural, de Erste Kategorì come che diseva el Comandante Brazzànovich, ma che però costava un bianco e un nero. E quel ve iera il Pericolo giallo: la concorenza. Perché a lori la manodopera no ghe costava gnente e pensévese che, no ve digo altro, i orologi i li vendeva gnanca a toco: a peso, a chilo. E po' quel che se fazeva più osservazion, iera che in Giapon, i omini iera vestidi come nualtri. — De maritimi, in terlìss, come adesso i Chinesi? — Ma cossa de maritimi? Come nualtri quando che se metevimo in zivil: braghe, sacheto, cravata, camisa, ociai e capoto de inverno, natural, perché là fa anche fredi come de nualtri. E inveze le done no, quela volta, massima parte... — No le gaveva fredo? — Ma come no le gaveva fredo? Lore, massima parte, no iera vestide come nualtri, come vualtre intendo. Perché lore ancora ve portava quei kimoni col fioco dedrìo, ala Buterfly, e gnente in testa. — Eh, ma le Giaponesi ga bele teste de cavei, se vede anca nei vasi. Mio cognà ne gaveva una volta portà de Giapon dò vasi che propio se vedeva 'ste done con assai bele teste de cavei... — Bele teste de cavei, siora Nina! Iera bele, sì, ma no tuti sui. Dove volè che una dona possi gaver quel'imensità de cavei che gaveva le Giaponesi! No gavè fato osservazion che tute le Giaponesi — che le Chinesi inveze no — gaveva in testa oltra per oltra dò grandiosi aghi de calza col pòmolo... — Sì sì, xe vero, se vedeva anca sui vasi! — Sicuro che se vedeva. Perché con quei lore ve tigniva suso el postìz. Una paruca, come, che lore se pontava sui cavei sui de lore per farse quele imense bele teste de cavei. Se vendeva in botega. — 'Sti grandi aghi col pòmolo? — Ma no: i cavei. 'Sti postizi de cavei i li vendeva per le boteghe, natural, con 'sti grandi aghi col pòmolo. — E costava assai? — Un bianco e un nero, siora Nina, come tuto in Giapon. Il Pericolo giallo. Belissimi cavei neri, un poco grevi, ma bei, de figura. Che anzi là, una volta ne xe nato propio un truco. Per Carneval. — Ah, i tien anca lori Carneval? — Sì, ma cossa so mi, i lo fa in luglio, in agosto, un sproposito, e po' tuto diferente. Ma per Carneval nostro, febraro, me ricordo de un anno che, arè che pégola, propio per Carneval ierimo in porto a Kobe. Màrtedi grasso iera, el nostro màrtedi grasso, me ricordo come ogi, che ierimo mi e el nostroomo Fonda sul ponte del «Cherca» e 'sto nostroomo Fonda, un bel omo, el me dise, mi fa mi dice: «Pénsite, Bortolo, cossa che ogi no i se diverte de nualtri, come ogi. Che inveze nualtri, sempre per mar, sempre pericolar, sempre lontan de casa...» — Eh, la vita del maritimo xe sacrifizio, sempre lontan de casa... — Difati gavevimo el pensier de casa e gavemo dito comprémoghe per le mogli un de 'sti bei kimoni, che un kimono costava quela volta in Giapon un bianco e un nero, pura seda cruda. Insoma semo andadi in tera e me ricordo che propio là dela Dogana gavemo visto un'altra barca nostra, un vapor de Lussin, che gnanca no me ricordo più come che el se ciamava, vedè come che qualche volta no se se ricorda le robe. Bon: gnanca 'sti qua, gavemo pensà, no fa Carneval. — Eh, ma Carneval i fa poco a Lussin. — Sicuro, per lori el sparagno xe el primo guadagno. Ma nualtri semo andadi a comprar un kimono. Zaleto ga ciolto el nostroomo Fonda per la moglie sua de lu e zeleste mi per la mia. Capiré, apena sposi ierimo... — Vù e el nostroomo? — Sì, ma no insieme. Ognidun per conto suo. — Eh, gaveva, gaveva kimoni qua tante mogli de maritimi. Per vestaglia le usava. Portava de Estremo Oriente i maridi. — Sicuro, per vestaglia, e, zà che ierimo, gavemo comprado in 'ste boteghe che costava un bianco e un nero anca dò bei ventagli de carta de risi e dò postizi de cavei con 'sti imensi aghi de pòmolo che, tanto, gavemo dito, poderà servirghe per un'ocasion, per un Carneval... — Ah, per vestirse de Giaponesi, come? — Indiferente. Per un Carneval. E co' semo tornadi a bordo mi ghe fazzo al nostroomo Fonda: «Fonda — ghe fazzo — se qua per 'sti Giaponesi no xe Carneval, xe sempre Carneval per nualtri. E alora vestimose de musmè con 'sti kimoni e andemo a far la matada qua in porto». — Ah, de dona ve gavè vestidi? — De dona? De musmè. Col kimono, i cavei e 'sti grandi aghi de pòmolo. Po' se gavemo piturado i oci che parevimo Buterfly e col ventaglio in man e con 'sti kimoni longhi che ne scondeva i pie iera belissimo... — Eh, le Giaponesi ga el pie picolo, no come le lussignane... — Cossa ghe entra? Intanto quele col pie picolo xe le Chinesi — una volta almeno iera — e po' iera perché che no se vedesse i stivai de maritimo. Insoma sarà stà un oto ore de sera, scureto, perché el Giapon xe sì Sol Levante, ma ale oto ore xe zà scuro, e co' rivemo là sula passerela dela Dogana, no ve imbrochemo el Comandante Giadròssich, che vigniva a star zio del Cadeto Giadròssich, e el capomachinista Ivàncich, che iera capomachinista de 'sta barca de lussignani? Un toco de omo... — Che ridade, ah, che i gaverà fato! — Ridade? I ne ga becà per veri, per vere, dai; noi ghe fazevimo cìucìu, sayonàra tuto el tempo, e qualcossa per inglese: insoma 'sti omini zà in età, imborezai che mai! — Fiolduncìni de maritimi! E vualtri? — Nualtri? Nualtri gnente: fazeva tuto lori, che i ciama una carozza, che andemo in cità, insoma, intanto che i ciama 'sta carozza ghe digo al nostroomo Fonda: «Volè veder che sarà la prima volta che un lussignan ne paga de bever?» Difati prima de tuto in un local gavemo bevù 'sto sakè... — Sa che cossa? — Cossa sa che cossa? Sakè: liquor de risi che fa i Giaponesi. 'Sti lussignani voleva imbriagarne, figurévese, e nualtri, sempre col ventaglio davanti al muso, cìucìu sayonàra! Cikicikinagasàki — diseva lori fazendo sesti cola man — e i ciamava de bever per imbriagarne, e bevi che te bevi. — E no i se ga inacorto? — Savè: scuro iera, Giapon, 'ste lampade de talco che i ga là, insoma co' lori i ga pagà el conto, savè cossa che gavemo zigà nualtri? «Cinciuncian ga pagado el lussignan!» Mi e el nostroomo Fonda. E via semo scampadi, tignindose su le còtole per tuta Kobe. — E no i se ga rabià, dopo? — No, anzi! Perché co' li gavemo intivadi de novo in China, a Sciàngai, se gavemo sentà con lori in tavola — savè come che se usa fra patrioti — e i ne contava maravee de Kobe: che lori a Kobe, con dò musmè i gaveva fato savè cossa? Cikicikinagasàki. MALDOBRÌA XI - LA CASA DI RAGUSA Ovvero la casa della vecchia zia benestante e nubile, personaggio frequente, se non addirittura immancabile, nella storia di grandi e piccole famiglie come, in questo caso, quella di Marco Mitis. Sul cui destino Bortolo, nel suo volubile favoleggiare, ci propone un'altra ipotesi. — I colori val i bori, diseva sempre Tonissa Tomìnovich quando che el fazeva piturar le barche vece prima de venderle, perché anca l'ocio vol la sua parte. Ma, arè, siora Nina, mi ve dirò la sincera verità, che mi 'ste fotografie a colori, che adesso fa tuti, a mi no me piase, perché le xe massa càrighe. Per mi la vera fotografia xe in bianco e nero. Perché cossa ve xe la fotografia? Xe la luce e l'ombra, «Lux et umbra», diseva sempre l'avocato Miagòstovich, che, difati, mi, navigando, go visto in tanti loghi fotografi ciamarse «Lux et umbra». La luce e l'ombra: el contrasto. — Ma cossa contrasto! Sè vù, sior Bortolo, che sempre contrastè! Mi, che go in sfasa la fotografia de quando mio padre e mia madre defonti se ga sposado, assai bramassi de gaverla a colori come questa, arè qua, de mia sorela Bepina col marì in Cànada e i tre fioi... — Indiferente quel che vù bramassi, siora Nina. Ma disème vù se gavè mai visto un albero che gabi un verde come che xe 'sto albero qua? No vedè che par perlìn? Arè vostra sorela, in viso la par una de quele indiane de Bombai! I colori, siora Nina, nele fotografie a colori ve xe tuti falsi. Per forza, perché no vien miga el color naturale: vien el color che xe zà drento dela pelicola. — Ma xe bel, xe alegro! — Sì, sì, alegro: stuco e pitura fa bela figura. Indiferente. Arè che mi no son contro la fotografia a colori come color. Anzi ve dirò che co' vigniva qua de istà quel pitor Superina de Fiume, mi andavo sempre a vardar co' el piturava. — Va ben, ma quel xe quadri in pitura. Xe un'altra roba. — No, no, siora Nina, lui ve piturava pretamente fotografie. — Ahn, el fazeva un quadro dela fotografia! Tanti fa, massime dopo morti. — Dopo morti, siora Nina, se sburta solo radicio. E po' lu no ve fazeva quadri de fotografie. Lui pretamente piturava a colori le fotografie. Perché quela volta, ve parlo dei primi ani dopo dela Prima guera, dove ve iera fotografie a colori? Quela volta se se fotografava cussì: «Uno, due...», che bisognava star fermi, e se ghe diseva ai fioi «Varda là che vien fora l'useleto!» Ben, de istà, a 'sto pitor Superina, co' el vigniva qua, tuti ghe portava le fotografie de piturar. Lu, de bianco e nero che le iera, o de maronzin che se usava ancora, lu pulito le fazeva a colori. Coi lapis de anelina e el bianco de ovo, cussì se usava. Che Barba Nane diseva sempre: «'Sto omo metendo in boca i lapis se invelenerà cole aneline!» — Eh, anca la maestra Morato ghe diseva sempre ai fioi a scola che guai a meterse in boca el lapis de anelina! — Anca el maestro Girardeli diseva, per quel. Ma Barba Nane, che ve disevo, ve iera zà assai vecio quela volta. E anca a lu el pitor Superina lo gaveva fato a colori, che anzi, propio de quela fotografia, dopo i lo ga fato de novo in maronzin. Ma in porcelana, per la lapide. — Eh, sì, povero Barba Nane, lo vedo sempre co' vado in zimiterio. El xe giusto là vizin de mia sàntula Tona, povera. Propio come che el iera, cola sua bela barba spartida in mezo e la bareta de montura: parlante. — Parlante, sì: Superina ve gaveva piturado a colori Barba Nane, l'avocato Miagòstovich, co' el iera Podestà, Don Blas per i zinquanta ani de Messa, coi botonzini rossi un per un, la signorina Bortolina in capel e Marco Mitis, po' no parlemo, che quela volta con Marco Mitis, iera nato propio un truco... — Ma xe vivo ancora Marco Mitis? — Eh, el xe vivo sì. El xe a Ragusa, ma povereto no ve xe più gnente de lu. I me ga dito che el xe andà in dolze, come. Pensarse che el ga un anno meno de mi, squasi dò, come milesimo. Ma quela volta lu ve iera stagno, sempre imbarcado; che no el perdeva un turno. Insoma, che ve contavo, dovè saver che Marco Mitis gaveva una zia a Ragusa... — Ahn, e adesso el sta a Ragusa cola zia? — Ma dài, siora Nina, che 'sta zia la ve dovessi gaver un zento e zinquanta anni, se la fussi viva! La sarìa la dona più vecia de Ragusa; de Dalmazia, mi calcolo. Mi ve parlo ancora de subito dopo dela Prima guera che la iera zà vecia. Perché no la iera gnanca pretamente sua zia. Iera una sorela de sua nona. Zia Marìci el la ciamava, ma la ghe iera apena prozia, come che se diseva quela volta e la iera de Ragusa, ragusea propio. — Tanti, tanti una volta iera de Ragusa... — Eh, siora Nina: tuti quei de Ragusa. Indiferente, lui, Marco Mitis, 'sta zia de Ragusa, che la gaveva qualche soldin, el se la tigniva come la rosa al naso. Co' navigavimo e fazevimo Ragusa, sempre l'andava a trovarla. Che, pretamente, co' se fazeva Ragusa, col vapor no se andava a Ragusa, ma a Gravosa, che xe un poco prima e che xe porto grando, che Ragusa ga avù sempre porto picolo. Belissimo, ma piccolo: Porto Casson. Ben, volè creder, lu, come che nualtri rivavimo a Gravosa, lu cioleva el tran, che quela volta pensèvese, de Gravosa a Ragusa iera el tran, un tran gialo, me lo ricordo sempre, col rimurcio averto e le tende de sol che svolava col vento, e l'andava a trovarla. — Sul tran? — Ma cossa sul tran? L'andava a trovarla col tran, che se smontava propio davanti dela porta de San Biagio de Ragusa, che savè come che xe Ragusa cole mura tuto atorno, e l'andava a trovarla. E el ghe portava, me ricordo, galete de bordo, perché a ela assai ghe piaseva. La iera senza denti, perché dove, una volta, le vece se meteva i denti finti? Ma la zupigava, la ve zupigava 'ste galete nel passito, nel vin passito. La fazeva sope. E a ela el padre suo de ela, che vigniva a star, figurèvese, bisnono de Marco Mitis, nobile raguseo i diseva che el iera, ghe gaveva lassado in facoltà una casa, tuta a ela, visto che la iera restada puta e l'unico fio mas'cio che el gaveva, ancora giovine iera andà in America. Una belissima casa. Savè a Ragusa dove che se va suso per andar al Domo? — No, no iero mai a Ragusa. — Bon, là vizin. Iera una belissima casa, tuta in piera, natural, come che xe tute le case de Ragusa, con un grando pérgolo de longo fora per tuta la fazada, coi gerani, i oleandri e finestre che de tute se vedeva el Stradon e drento mobili e robe magnifiche che ela po' tigniva tute sconte, perché savè come che xe le vece, e sul dedrìo giardin. Ben, savè cossa: Marco Mitis ghe fazeva la tira a 'sta casa, perché sempre el me diseva: «Mi co' sarò vecio, voio andar a star a Ragusa in quela casa, in quela belissima casa che ga mia zia Marìci a Ragusa. E cussì el se tigniva bona la vecia. Un poco la bazilava 'sta zia, mi me pareva, de quel che lu contava: la iera puta vecia, no la gaveva mai vossù sposarse, la diseva. O forsi no la gaveva avudo ocasioni. E a Marco Mitis la lo tigniva come, come... — Come fio de anima. — Giusto, come savevi? Sì, come fio de anima. E insoma una volta che lui gaveva decidesto de sbarcarse a Ragusa per star un sete, oto giorni cola zia, e mi tornavo suso col «Narenta» — ve ricordè el «Narenta»? No quel che vigniva qua, el primo «Narenta», ma vù no podè ricordarve — insoma el me ga dà in man dò fotografie. — Dò fotografie de chi? — Spetè che ve conto. Dò fotografie compagne che ghe le porto a 'sto Superina che el ghe le pituri a colori. E in tute dò ve iera Marco Mitis con una, su una banchina. Savè quele fotografie che fazeva i fotografi in Riva? — Ahn, quele! E con chi el iera, cola sposa? — Ma come cola sposa? Che sposa, che el iera zà sposado! Cola zia el ve iera. Solo che, cossa volè, Superina co' gà scominzià a piturarle no ga capido che iera sua zia. Gnanca mi co' el me le gaveva mostrade no gavevo capì: mi 'sta zia me la iero imaginada sempre grassa con tute quele galete che el contava che la zupigava e la fazeva sope nel passito. Inveze 'sta qua dela fotografia ve iera magra come un spin. E cussì Superina la ga piturada come che fussi una de trenta anni, massimo quaranta. El ghe ga fato un bel incarnato, el vestito in lila che stava ben col rosso dela banchina e i cavei el ghe li ga fati biondi, bianchi che i iera. E Marco Mitis in montura coi gradi de oro, me ricordo, sotoufizial de machina che iera quela volta Marco Mitis. — Ah, bel! — Bel sì. E mi 'ste due fotografie piturade ghe go dito a Superina che, apena fate, el ghe le mandi una a casa sua de lu e una a Ragusa de sua zia, come che me gaveva dito Marco Mitis. Cussì ve xe nato el truco. — Ahn, le xe andade perse! — Come perse? Le xe rivade, rivade le ve xe. Una a sua zia e quel'altra a casa sua de lu, de Marco Mitis, che lu no iera a casa e la ga ciapada la moglie. — E ghe ga piasso? — Piasso? Co' el xe tornado, sua moglie no voleva verzerghe la porta de casa. «Va cola tua bionda!» La ghe zigava dela finestra e la ghe ga tirado in muso la fotografia sbregada in tanti tochetini. E lu li ga messi insieme, me lo ricordo ancora, inzenociado in cortivo che el zigava «Xe zia Marìci, xe zia Marìci». Un spetacolo. — Mama mia, che truco! E la zia? — Eh, la zia a Ragusa contenta come una Pasqua. La ghe ga mandado subito 'sta fotografia in America, a un nevodo, a suo nevodo de America, fio de quel fradelo che iera andà ancora giovine in America e che po' iera morto. — Ahn, el iera morto povero? — Ma cossa povero, che el iera zà morto de anni anorum. Pensèvese inveze che là, in America, un patrioto nostro, fato american dopo, a vederla cussì in fotografia con 'sta bela testa de cavei biondi e 'sto bel incarnato, el ghe ga scrito che el voleva sposarla a tuti i pati, vedovo che el iera. E ela, 'sta zia Marìci, lusingada, imborezada come — savè qualche volta le vece — la lo ga sposado, per procura, co' anca lu ghe ga mandà la sua fotografia: bel omo, ben tapà, cola cravata e i mustaci. Per procura la lo ga sposà in Municipio de Ragusa, prima de partir per l'America. — La lo ga sposado prima de partir? — Sicuro che prima de partir. Tute quele che se sposava per fotografia con un de America, le se sposava per procura prima de partir, perché dove una volta una dona no sposada ve podeva partir sola per l'America? — Ahn, la xe andada in America! — La voleva andar, siora Nina. Ma la ve xe morta per viagio sula «Saturnia» apena fata. Cussì: i la ga trovada morta in gabina. Vecia la ve iera, ah, assai vecia, quela zia Marìci de Marco Mitis! E la casa de Ragusa, natural, ghe xe andada tuta al marì, sposado per procura che la lo gaveva. — Mama mia! E Marco Mitis? — E Marco Mitis, ve go dito: el ve xe a Ragusa, al Ospizio Marino de Ragusa. I me ga dito che el xe andado in dolze, come. Con tuto che el ga un anno meno de mi. Squasi dò, per milesimo. MALDOBRÌA XII - PER LA COMPAGNIA Dove, sul finire del 1919, nella Trieste del primo dopoguerra, il Comandante Nacìnovich, uomo dal carattere difficile, ma di facile parola, complice un vecchio proverbio popolaresco, ha l'occasione di vivere un'avventura per molti versi comune, ma irripetibile nella fattispecie. — El Comandante Nacìnovich, siora Nina, no ve iera mai stado pretamente in bone col Comandante Ossòinak. Questo zà prima dela Prima guera. Savè: un poco carateri, perché tanto Ossòinak ve iera omo che saveva far cola gente, col Armamento, anche coi maritimi, tanto Nacìnovich ve iera un rùspido, tremendo col equipagio, che tuti doveva rigar driti e che no ghe le mandava a dir a nissun. E po' iera stada, che tuti saveva, quela istoria del Karlsbad... — Che istoria? Chi questo che no ghe le mandava a dir a nissun?.. — Ve go dito: el Comandante Nacìnovich che gaveva fato fogo e fiame in Palazzo del Lloyd quando che el Lloyd ve iera ancora Lloyd Austriaco per via che el Karlsbad i ghe lo dassi a lui: savè vapor novo, apena fato, con aparato Marconi, anni e anni che lu ve gaveva navigado per el Lloyd, lui diseva che el Karlsbad ghe spetava a lu. E xe stà là che el ga trovà de dirse col Comandante Ossòinak. Oh Dio, no che i gavessi fato barufa, cussì diretamente, ma visto che Ossòinak se impetiva anche lu per aver el Karlsbad e sicome che, savù un tanto, Nacìnovich, che no ghe le mandava a dir a nissun, el ghe gà mandà a dir che a chi che vol quel che no ghe speta pol capitarghe quel che no el se speta, xe stà che no i se ga più parlado per anni anorum. — Ah, no i se parlava? — Diretamente mai, ma tuti dò saveva quel che un parlava del altro. E per questo dopo de quela volta no i se ga mai parlado. Anche perché come volè che i se parlassi? Col aparato Marconi? Difati dovè saver che a Nacìnovich, che iera omo de proposito, el Lloyd Austriaco no se ga azardà de diniegarghe el Karlsbad che propio ghe competeva come spetanza e al Comandante Ossòinak, che lu ve gaveva amizi e rampini in Palazzo, istesso i ghe gaveva dado el Laura che iera anche una bela barca con aparato Marconi e tuto, ma però, podè capir, no iera quel che lui tanto bramava... — E no i se parlava col aparato Marconi? — Cossa volè che i se parlassi col aparato Marconi, che l'aparato Marconi ve iera solo per un'evenienza, per un bisogno, per un esse o esse. Dopo de 'sta istoria del Karlsbad, el Comandante Ossòinak no se ga parlà più col Comandante Nacìnovich né prima dela Prima guera né dopo, quando che el se ga ciamà Campidoglio... — Ah, Nacìnovich dopo la guera se ga ciamà Campidoglio? — Ma dài, siora Nina, come volè che Nacìnovich podessi ciamarse Campidoglio? Lui ve se ga sempre ciamà Nacìnovich, vita natural durante, lussignan che el iera: al Karlsbad dopo la guera i ghe ga ciamà Campidoglio. Perché, capì, per l'Italia, Karlsbad no ghe significava gnente, cussì come che, presempio, al Molo San Carlo i ga volesto ciamarghe Molo Audace. Xe robe che nassi sempre dopo i ribaltoni. Indiferente. Mi volevo solo contarve che el Comandante Nacìnovich no ve iera mai stado pretamente in bone col Comandante Ossòinak, anche perché Ossòinak — questo almeno i diseva, ma mi no so — picava pitosto per l'Italia e Nacìnovich, inveze, anche anni e anni dopo el ribalton, diseva sempre «Benedeta l'Austria che almanco la saveva far fulminanti!» ogni volta che el se impizava un spagnoleto con un de quei fulminanti svedesi italiani che no se impizzava mai... — Ah, nualtri per cusina dopravimo sempre solforati, quei che i ghe diseva «spètime un poco»... — Ma cossa spètime un poco! Spetè vù che ve conto. Anni che no i se parlava, vèderse che no i se vedeva perché un su una barca e un su quel'altra, che, co' un rivava, massima parte quel altro partiva, podè capir che impression che ghe ga fato al Comandante Nacìnovich, quando che, rivando una sera a Trieste, poco prima del Nadal del '19, col Karlsbad che zà se ciamava Campidoglio, ancora fora dele dighe, co' i ga ciolto a bordo el piloto, subito, apena montà a bordo, 'sto piloto, un zerto Malabòtich, primo piloto, ghe ga dito: «Nacìnovich mio, savè che stamatina bonora ve xe morto Ossòinak?» «Me xe morto Ossòinak? — ghe ga rispondesto, cussì subito al impronto el Comandante Nacìnovich con quel suo modo rùspido che el gaveva — a mi el me xe morto? El ghe sarà morto a chi che el sa lu, ostia!» Ma dopo el xe stà un momento zito, sorapensier, e, vardando Malabòtich, el ghe ga dimandà: «Ma cossa, Malabòtich, disè per bon, ostia, che xe morto Ossòinak?» Che sì, povero, che stamatina bonora. Che el se gaveva alzà come el suo solito ale zinque ore, el se gaveva fato la barba e tuto, che propio stamatina bonora el doveva partir col Laura per Levante, che anzi el gaveva dito: per Nadal a bordo faremo una granda festa e, tutintùn, mal, mal, mal. Che i lo ga colegà sul leto e che co' xe rivà el dotor el iera zà andado. — Ah, cussì? Bela morte! — Tuti ga dito bela morte, anche el piloto Malabòtich: «Ma, bela o bruta, Nacìnovich mio, Ossòinak ve iera omo giovine ancora e tuti se ga assai stupido; e in Governo Maritimo, là in Capitaneria de Porto, come che i ghe vol dir adesso, e in Palazzo del Lloyd e sule barche, no se parla de altro. E anche noi, come piloti, gavemo pensà ben de meter un aviso». — Che aviso? — Xe quel che ghe ga dimandado el Comandante Nacìnovich al piloto Malabòtich. «Che aviso, ostia?» «L'aviso sul giornal — ghe ga dito lu — el mortuario che come diman de matina vignirà sul giornal. Tuti ve ga fato el mortuario. La famiglia, natural, insoma la sorela, puto vecio che el iera, el Lloyd, la Libera Triestina, anche l'Austro-Americana, anzi la Cosulich come che la ve se ciama adesso e'nualtri piloti, ve disevo. E po' tuti i Comandanti». — Eh, usa sì i Comandanti partecipar co' more un Comandante... — Sicuro: tuti i Comandanti, ghe ga dito Malabòtich. «Ah tuti, anca mi?» ghe ga dimandà Nacìnovich. «Eh, no, Nacìnovich mio, intanto vù no ieri ancora qua e po' go sentì che in Governo Maritimo i Comandanti stamatina parlava fra de lori che chi sa se vù, visto che iera Ossòinak, ve gavessi comodado...» «Mi no me gavessi comodado? — ga cominziado a zigar el Comandante Nacìnovich, smacando la porta dela gabina che iera restada averta — perché no me dovessi comodar, povero Ossòinak? Per quela vecia monada del Karlsbad, che adesso 'sta maledeta barca no se ciama gnanca più Karlsbad? E benedeta l'Austria — el ga dito, zercando de impizzarse un spagnoleto e ostiando, nervoso che el iera — benedeta l'Austria che almanco la saveva far fulminanti!» — Nervoso? Impressionado, come? — Anche. Ma più che altro ghe secava, mi calcolo, perché el Comandante Nacìnovich no gavessi mai volesto sfigurar, con una Capitaneria de Porto, col Lloyd, col Armamento e coi altri Comandanti, fazendo veder che tuti iera e lui no... — Al funeral? — Ma no al funeral, che per quel iera tempo. Ma sul mortuario, che Malabòtich ghe gaveva dito che, come diman, sarìa stà sul mortuario un drìo de un i nomi de tuti i Comandanti fora che lu. Bon, volè saver, siora Nina, cossa che ve ga fato el Comandante Nacìnovich apena che el vapor se ga armisado in Punto Franco Vecio, quel vizin dela Stazion, zà diese ore de sera che iera? — El xe andà a farghe la vèa al morto? — Ma cossa volè che l'andassi a farghe la vèa al morto, che a Trieste no se ga mai usà? Lu, cussì in montura come che el iera, senza gnanche meterse in zivil, el xe andà in tera e po' del Punto Franco Vecio, prima marinavia e dopo ciapando per via Nova, el xe corso drito al giornal. — A comprar el giornal? — Sì, per comprar el giornal el gavessi fato tuta quela strada! No, lui ve xe corso al giornal per meterse anche lu sul mortuario del povero Ossòinak. «Che propio — el rugnava — no posso far de meno, anche se quela volta col Karlsbad quel malignazo de Ossòinak voleva bacarmela». Diese ore de sera passade iera, ve disevo e co' el xe rivà al giornal, in primo pian i ghe ga dito che el devi spetar fora perché xe tuti dentro. — Perché iera morto Ossòinak? — Ma cossa, perché iera morto Ossòinak! Mussolini! — Iera morto Mussolini? — Maché morto Mussolini, che del '19 Mussolini no ve gaveva gnanche cominziado. Iera che quel giorno, a Trieste, ve iera Mussolini, che in alora no el ve iera ancora gnente. Oh Dio, el ve iera un de 'sti tanti che se missiava. E lu quel giorno — che ve iera anche i placati per le strade — el ve iera vignù al Politeama de Trieste, per Oberdan. «Commemorazione di Guglielmo Oberdan», iera scrito sui placati, «Oratore Benito Mussolini». E insoma, per farvela curta, 'sto oratore Benito Mussolini iera là al giornal, tanto che co' Nacìnovich ga dito che lu iera vignudo per meterse sul mortuario de Ossòinak, come che ve disevo, un cursor ghe ga risposto che va ben, ma che el speti un momento perché i xe tuti dentro del diretor con un signor de fora. — Un signor de fora? Un foresto? Chi questo? — Xe quel che ghe ga dimandado Nacìnovich. «No so — ghe ga dito 'sto cursor — xe un signor coi oci impirai che xe tuti dentro che parla con lu. E in quela ve se verze la porta, ve vien fora prima 'sto signor coi oci impirai, po' el diretor, un alto, magro, po' tuti i altri che xe andadi chi in una camera chi in un'altra. E intanto che el cursor aiutava 'sto signor coi oci impirai a meterse el capoto, tignindoghe in man el capel, el Comandante Nacìnovich ghe ga dito al diretor che cussì e cussì e cussì, che el scusi se xe tardi, ma che el volessi meterse anche lu sul mortuario de Ossòinak. Che va ben, ghe ga dito 'sto diretor che gaveva furia, ciolendo el bilieto, che senza falo e el stava zà per saludarlo, co' osservando che el iera in montura, el ga fato come un moto, come se ghe vignissi in mente una roba. — Ah, el se ga inacorto che el iera un maritimo? — Sicuro, se el iera in montura de Comandante. Insoma el ghe ga dimandà se, no per entrar nei fati sui, se el torna in porto o se el va a casa. Che no, ghe fa Nacìnovich, che el torna in porto, in Porto Vecio. Magnifico, ghe disi 'sto diretor, che alora, visto che el xe de strada, se el podessi compagnar fin là dela Stazion el nostro oratore — e el ghe mostra 'sto signor che se stava imbotonando el capoto — che devi andar in Stazion, perché ghe parti el treno ale undese ore e tre quarti. Che volentieri — ga rispondesto Nacìnovich — che cussì i farà la strada insieme, un poco a pie e un poco caminando e che tanto el ghe racomanda el mortuario de Ossòinak. E 'sto diretor che senza falo e lu che grazie, e quel altro grazie a lei e che, caro e applauditissimo oratore nostro, questo nostro Comandante vi compagnerà gentilmente in Stazione, a ben rivederci presto e buon viagio. E el li ga compagnadi fin sule scale. — Chi questo? — Come, chi questo? El diretor del giornal che ghe ga dito bon viagio a 'sto signor coi oci impirai e grazie al Comandante Nacìnovich che lo compagnava in Stazion. — E Mussolini? — E Mussolini, siora Nina, iera 'sto sior coi oci impirai. No gavè presente come che impirava i oci Mussolini? Che anzi el diretor del giornal ghe lo gaveva presentà, ma Nacìnovich no gaveva gnanche scolta el nome, tuto becà che el iera del mortuario de Ossòinak. Insoma, i sorti del giornal e 'sto qua ghe dimanda se xe lontana la Stazione. Che gnanca per sogno, che adesso nualtri, un poco a pie e un poco caminando, anderemo zò pulito per via Nova e che saremo subito in Marina e che de là, marinavia, la Stazion xe a dò passi. Gnente lontan. A Trieste, sior mio, no ve xe lontananze. Trieste par granda, ma no la xe. Vù dovessi veder le lontananze che ve xe in una Névjork, in una Buones Aires. Che dove in una Névjork, in una Buones Aires, mi e vù ve podessimo andar in Stazion cussì un poco a pie e un poco caminando? Gavessimo subito dovesto ciamar un tassametro. Dio quanti tassametri che ve xe a Névjork! E là, siora Nina, Nacìnovich, ve ga cominziado a predicarghe e de Névjork e de Ventitré Strade e de Zentoventitrè e de zentinera e zentinera de grùe che ve xe in porto e che ogni viagio che lu va, anche prima, ma massime adesso dopo la guera, xe sempre più grùe, sempre più lavori, sempre più tassametri. Insoma una roba e l'altra, un subisso de ciàcole. — Ah, cussì, caminando i ciacolava fra de lori? — Maché fra de lori, siora Nina, che 'sto altro no podeva gnanche verzer boca. Un subisso de ciàcole, ve go dito. Perchè el Comandante Nacìnovich ve iera sì omo rùspido e tremendo a bordo coi ufiziai e cola bassa forza, ma in tera, se el gaveva ocasion, co' el tacava a parlar, no lo fermava nissun. E quela sera, come che ve disevo, lui no saveva gnanche con chi che el gaveva de far, perché, numero un, al giornal no el gaveva capì ben el nome e, po' anche se el lo gavessi capido, mi calcolo che in alora 'sto nome no ghe gavessi dito gnente. Dopo, siora Nina, dopo che iera passadi anni anorum, co' iera la guera de Abissinia, che navigavimo per Massaua portando trupe, e dopo de 'sta ultima guera, che lui iera zà in pension, el Comandante Nacìnovich ve contava 'sta istoria e el la contava sempre più longa, a chi che voleva e a chi che no voleva sentirlo. — 'Sta istoria dei tassametri de Nèvjork? — Ma no, siora Nina, lu ve contava che, del '19, figurèvese, dopo che el iera andado al giornal per el mortuario del povero Ossòinak, el gaveva compagnà Mussolini a Trieste, de note, quando che Mussolini no iera ancora gnente, de piazza dele Legna, zò per via Nova e po' marinavia, oltra el Canal, fina in Stazion. Questo, dopo, co' navigavimo per Massaua, portando trupe, ma quela sera, come che ve disevo, per lu, 'sto omo iera solo che un come un altro, un coi oci impirai che i ghe gaveva pregado de compagnar in Stazion. E tanto no el saveva con chi che el gaveva de far che, un dò volte co' caminando el se ga impizzà un spagnoleto, ogni volta el ga dito che benedeta l'Austria che almanco la saveva far fulminanti. E po', davanti dela Capitaneria de Porto, el xe andà avanti a predicarghe che adesso qua no xe più Governo Maritimo, ma che con lu a bordo, sul Karlsbad, Campidoglio, come che i vol lori, tuti deve rigar driti come soto la Defonta e che, arè come che xe le robe, stamatina bonora xe morto Ossòinak. — Ahn, lui no saveva con chi che el gaveva de far? — Sicuro. Tanto più che, co' i xe rivadi là del Canal, 'sto qua, 'sto qua coi oci impirai — come che contava sempre el Comandante Nacìnovich, in tavola, coi uficiai, butandose indrìo sula carega e levando el brazzo con el dito alzà — 'sto qua ghe ga dito che el scusi un momento, che lui gavessi un'impelenza. Che el voleva zà dimandar co' el iera al giornal, ma che el gaveva riguardo, ma visto che xe l'ocasion che xe scuro, che no xe nissun e che xe el Canal, che lui aprofita. «E, dito fato — contava el Comandante Nacìnovich — mai no poderò dismentigarme, el se ga messo a spander acqua in Canal cole gambe larghe». — Mama mia! E Nacìnovich cossa ga fato? — Xe quel che tuti ghe dimandava sempre al Comandante Nacìnovich. «Cossa che go fato? — el rispondeva — me go messo rente de lu, sotovento, e go pissà anche mi. Perché, savè come che se dise? Chi no pissa in compagnia o xe un ladro o xe una spia». E quanti, quanti, che dopo ga pissà con lu. MALDOBRÌA XIII - IL PADRONE DEL VAPORE Storia dei tempi in cui Pìllepich, avendo perduto così stupidamente la gamba, investì i frutti del suo indennizzato infortunio e della sua lunga vita di lavoro in una ben frequentata osteria, senza però aver fatto i conti con la temibile concorrenza di Sior Cesare Schitazzi che, forte della sua autorevole carica, aprì il Dopolavoro. — No xe quel che se fa, siora Nina, xe quel che no se fa che qualche volta fa el pezo. Arè, presempio, el povero Pìllepich come che ga perso la gamba: a bordo, montando su un ciodo. Un ciodo rùzine, infetado! E lui, trascurante, cussì, stupidamente, el ga perso la gamba. Oh Dio, i ghe la ga messa dopo, de legno, ma no iera più la istessa roba... — Eh, me ricordo sì el povero Pìllepich cola gamba de legno, drìo del banco del local... — Sicuro, lui ve stava sempre drìo del banco del local, sentado, massima parte. «Al Vapore» el ghe gaveva ciamado a 'sto local, dopo che el lo gaveva comprado de Bepin defonto, quel che dopo se ga ciolto la vita. «Al Vapore». E drento difati ve iera el vapor in pitura, el «Cherca», ultimo imbarco suo de lu. Un bel local iera rivà a far Pìllepich coi soldi del infortunio. Che anzi el vecio Malistàri che ve iera un ridicolo, sempre el ghe diseva: «Adesso, Pìllepich mio, vù liberamente podè montar de novo su un ciodo cola gamba nova, che dopo ve lo cavo mi cola tanaia!» Un rider, col vecio Malistàri. — In local? — Sicuro che in local. Sempre pien de gente ve gaveva el local Pìllepich. Ve vigniva, ve disevo, el vecio Malistàri, ve vigniva Tonin Polidrugo, el maestro Girardeli, mi, natural, e po' tuti 'sti maritimi de passaggio e 'sti scarigadori de porto. Fina che no i ga averto el Dopolavoro, propio visavì, sul slargo dela strada, con scrito sul muro «Se avanzo seguitemi», che anzi, el vecio Malistàri, co' el passava davanti, diseva ogni volta: «Mi, mi avanzo ancora soldi del'Austria, che i me ga magnà tuto cole cartele del debito de guera!...» — Cossa, el vecio Malistàri e questi che me disevi ga averto el Dopolavoro? — Ma cossa questi che ve disevo ga averto el Dopolavoro? Dove se gaverìa mai missiado col Dopolavoro presempio el maestro Girardeli che tuti saveva che el iera contro el Fassio? El Fassio ve ga averto el Dopolavoro. Propiamente el defonto Schitazzi. — Schitazzi, chi questo? — Ma dài, siora Nina, el defonto Schitazzi, quel che ve girava sempre in motocicleta, quel che in alora qua ve iera segretario del Fassio, gaveva volesto far el Dopolavoro. E fato in casa nova, savè, propio in marina, sul slargo dela strada dove che se fermava la coriera, con logo aposito per zogar boce, caloriferi per l'inverno, pensèvese, e pergolada per l'istà sul davanti che dava sul mar, radio con fonografo e tuto pulito, tanto che più de un ve andava in Dopolavoro, anca perché tuto costava un fià de meno, natural, come Dopolavoro. — E cussì de Pìllepich, povero, no ghe andava più nissun? — Chi ve ga dito un tanto? I veci, i più veci, andava sempre de Pìllepich. Polidrugo, mi e el vecio Malistàri fina in ultimo, che anzi el ve xe morto là col bicèr in man. Ma tanti andava inveze in Dopolavoro. Tanto che mi e Polidrugo ghe gavemo dito a Pìllepich: «Pìllepich, perché vù che gavè terazzo belissimo sora l'ultimo pian che se vede el mar e tuto fin a Cherso, perché no metè per l'istà tavolini in terazzo?» — Eh, se vedeva sì fin a Cherso del terazzo del local del povero Pìllepich. Iera assai bel. — Sicuro. E ancora più bel i ga fato metendo piante de oleandri in vaso, làvrani e sempreverdi: «Giardino prensile» gaveva dito el maestro Girardeli, ridendo. E tute 'ste piante vigniva su ben, perché, primo, ve iera in riparo de bora e, secondo, pompa. — Chi pompa? — Come, chi pompa? Pompa per l'acqua gaveva fato meter Pìllepich, per bagnar 'ste piante che, capirè, cola gamba de legno che el gaveva, ghe iera greve far tute quele scale portando su l'acqua coi stagnachi. — Eh, oleandri ghe vol bagnar! — Tute le piante ghe vol bagnar. E per quel el gaveva messo la pompa. Che anzi per 'sta pompa Pìllepich ga avudo ràdighi cola Finanza italiana. — Ahn! La Finanza italiana no lassava meter pompe! — Ma cossa ghe entra la Finanza cole pompe? Perché no gavessi dovesto lassar meter pompe la Finanza italiana? Iera che propio in alora a Polidrugo i ghe gaveva cavà la matricola per contrabando de trapa e el iera in tera. — E cossa el fazeva in tera? — Trapa de contrabando. Trapa domàcia, fata in casa, perché anca quela volta, savè, la trapa a comprarla in botega, se pagava più per la tassa sui spiriti che per quel che iera in fiasca. E cussì Polidrugo se la fazeva solo si stesso in cortivo, cola serpentina. Che Barba Nane ghe diseva sempre: «Trapa, sì! Fè, fè, sì, vù trapa! Vedarè che un giorno i ve trapa a vù e andarè in dispiazeri. I ve sporcarà la fede dei boni costumi e no i ve tornerà mai più in vita la matricola! Spetè che ve trapi Torchiarùlo...» — Torchiarùlo? Chi iera Torchiarùlo? — La Finanza el ve iera. Una Finanza italiana, vignudo qua de Monopoli. Lui iera de Monopoli, un regnìcolo, de Bassa Italia. E qua, subito apena vignudo el gaveva cominziado a parlarse con Nìniza, la fia de Martin Ghèrbaz, pensèvese. Che anzi, de sera, co' i li vedeva caminar marinavia, i muli ghe cantava: «E mia mama me ga dito no 'sta andar cola Finanza, che te cresserà la panza... no me sposerò mai più». — Ah! No el ga volesto sposarla. — No so mi se el ga volesto, ma el ga dovesto perché capirè, a Nìniza, oramai se ghe cominziava a veder. Insoma, indiferente. Torchiarùlo ve iera Finanza italiana, e sarìa stado assai mal se el gavessi trapà Polidrugo a far trapa, perché, savè, Polidrugo trapa, dopo, no el fazeva solo che per lu, ma anca per Pìllepich. Per el local... — E anca per el Dopolavoro? — Ma come podè pensar che el fazessi trapa de contrabando per el Dopolavoro, che iera del Fassio? Dove gavessi lassado un tanto Schitazzi? Per el local de Pìllepich fazeva trapa de contrabando Tonin Polidrugo, ma se i gavessi trapado Pìllepich cola trapa de Polidrugo, Torchiarùlo ghe serava el local chi sa per quanto, e multa. Dava multe quela volta la Finanza italiana per trapa e spiriti de contrabando, multe che no ve digo: mile lire, come gnente. Bon, però Pìllepich gaveva avudo una bona impensada: ve ricordè vù che prima che el Fassio fazessi l'Aquedotto, qua tuti gaveva in cantina un logo aposito de zingo per l'aqua, cola gorna? — Come no, noi lo gavemo ancora: dopremo assai per la lissia. — Bon, Pìllepich inveze gaveva fato 'sta impensada qua: in 'sto logo aposito, in 'sto casson de zingo cola spina, andove che una volta se ingrumava l'acqua dela piova che vigniva zò per la gorna, el tigniva la trapa che fazeva Polidrugo e sula gorna, suso in terazzo, el gaveva messo un stropon grando compagno de damigiana, che no ghe piovi drento. Dopo, zò in cantina, lui impiniva cola spina fiasche vece svode che gaveva el bollo dela tassa sui spiriti, e cussì iera tuto in ordine. — Ahn! E Torchiarùlo no saveva gnente? — Nissun no saveva gnente. Mi savevo, Polidrugo e Pìllepich, natural. Ma, per dirve la sincera verità, dopo de quela sera, ga savesto anca Martin Ghèrbaz, che, vecio che el iera, el beveva come un giovinoto e co' el iera bevudo el ghe ne contava dò per un soldo. — Quala sera? — Quela sera che po' xe nato tuto e che per combinazion ierimo in tavola con Martin Ghèrbaz, mi e Polidrugo. E quel ve xe stà el sbaglio de Polidrugo. Ierimo suso in terazzo del local de Pìllepich e là, per tera, rodolada soto la tavola, iera la goma per bagnar le piante, i fiori del terazzo. Insoma: bevi un mezo de bianco drìo de un altro mezo de bianco — che portava suso la picola Santina, quela nevoda senza padre né madre de Pìllepich che ghe serviva in local — insoma, bevi che te bevi, ierimo imborezadi, imbriaghi, come. E Polidrugo, cussì, ciapado, come, ghe dise a Martin Ghèrbaz: «Se ti ti me giuri in Dio che no ti ghe conti gnente a nissun — imaginèvese che imbriago che el iera per dirghe un tanto a un Martin Ghèrbaz — se ti no ti ghe conti gnente a nissun, e ti me dà quela goma, te fazzo veder una bela». «Giuro in Dio — ghe ga dito Martin Ghèrbaz — che no ghe conto gnente a nissun!». Ancora me lo vedo cola man sul petto, che ghe mancava un dèo, che el se lo gaveva taià cola manera spacando legni in Vale. «Ve giuro in Dio!». Bon, per farvela curta, savè cossa che ve ga fato Polidrugo? El ga cavà el stropon dela gorna e, soli che ierimo in terazzo, el ga calà zò per la gorna la goma. — Per bagnar i fiori? — Mache fiori! Per pompar suso cola pompa la trapa che iera zò nel casson de zingo del'acqua. — E vigniva suso trapa? — Suso e fora, a boca desidera, tanto che gavemo impinido tuto el mezo de bianco svodo. E po' gavemo salpà suso la goma, messo de novo el stropon sula gorna e tuto pulito. — E Pìllepich? — Cossa volevi che Pìllepich se inacorzessi per un mezo litro de roba? E mi no ghe go gnanca pensado più suso. Ma Martin Ghèrbaz xe tornado. — Quando el xe tornado? — Quando, siora Nina? Ogni sera el ve tornava. De sera, co' fazeva scuro, che massima parte i omini iera tuti a casa a zena, l'andava su in terazzo, l'ordinava zigando un mismas che ghe portava suso la picola Santina, perché a Pìllepich ghe iera greve far le scale cola gamba de legno, e dopo, via el stropon, zò la goma, pompa su la trapa e daghe de stagnaco. — Stagnaco? Che stagnaco? — Stagnaco se dise per dir. Martin Ghèrbaz, dopo pompada suso la trapa, el ve butava drento dela gorna un poco de acqua, per via che Pìllepich no se inacorzi che mancava trapa. E po' una volta — tante volte — el ve ga portado su anca Bepi povero, el vecio Pessimòl, el fanalista Visco, quel del fanal e, ogni santa sera, pompa trapa su e buta acqua zò. Oh, Dio, podè capir, 'sta trapa ve deventava sempre più lisiera, ma boca bagnata non perde ventura, come che diseva el maestro Girardeli e, tra che Martin Ghèrbaz el ghe ne contava dò per un soldo, tra che co' el iera ciapado el ghe ne contava anca sie, tràche, tràche, tempo un mese ga savesto tuti de 'sto ciuciar trapa. E l'ultimo a saver de 'sta trapa che iera nel casson de zingo del'acqua del local de Pìllepich, savè chi che xe stà? — Torchiarùlo? La Finanza Torchiarùlo? — No. Con tuto che la Finanza Torchiarùlo gaveva sposà la fia de Martin Ghèrbaz, Martin Ghèrbaz, a casa, ve iera omo assai secreto. No: l'ultimo che ga savesto de un tanto, per combinazion, sentindo Martin Ghèrbaz che ghe la contava a un altro imbriago propio soto le sue finestre, ve xe stà el defonto Schitazzi che assai el se ga infotà. Come un leon. Tremendo ve iera Schitazzi, anche se pensandoghe su ogi, no el ve iera omo cativo. Lui ve iera sì segretario del Fassio, ma più che altro perché, se no el iera lu, chi podeva esser? — Chi podeva esser? — Nissun. Perché el iera lu. E lu no se ga infotado tanto come Fassio; lui ve se ga infotado pretamente come Dopolavoro. Che, come? el ga pensà. Che lui ga tanto procurado de far 'sto Dopolavoro, che in Dopolavoro lui ga fato in modo e maniera che la trapa costi de meno che in local de Pìllepich e Pìllepich no se pèrita de tignir in deposito del'acqua trapa de contrabando? Ben, savè cossa che ga fato el defonto Schitazzi? — El xe andà a dirghe al Fassio? — Ma cossa al Fassio, se qua el Fassio el iera lu? Lui, zà in braghe de casa e ancora mezo in montura del Fassio, che el iera apena tornà in motocicleta de Pola, el ve xe saltà de novo sula moto, el xe andà a cior a casa Torchiarùlo che stava magnando con Nìniza e le crature, e, fazendoghe molar la zena, el ghe ga dito che el vegni subito con lu in local de Pìllepich. — Per ciuciar anca lori? — Maché per ciuciar! Spetè che ve conto. Lui ve xe andà drento, calmo, con drìo Torchiarùlo, zito, e a Pìllepich che iera sentà drio del banco, el ghe ga dito che el ga sentido che vù, Pìllepich, in cantina, gavè ancora el casson del'acqua, con tuto che el Fassio ga fato l'Aquedotto. E Pìllepich che sì, sior Cesare — perché Cesare ve se ciamava el defonto Schitazzi — che el casson xe sempre là, Dio guardi un'evenienza. «E alora, Pìllepich mio — ghe ga dito el defonto Schitazzi — mostrèghe al nostro Torchiarùlo qua, 'sta evenienza che gavè in cantina». — Jéssus! E Pìllepich? — E Pìllepich capirè, bianco come una strazza, lo ga portà zò zotando per la scala con 'sta sua gamba de legno. E, in cantina che i xe, el defonto Schitazzi bate cola man 'verta su 'sto casson de zingo, el sente che el xe pien e «Sentì, Torchiarùlo — el ghe dise ala Finanza Torchiarùlo — pien el ve xe!». E Pìllepich, sempre più bianco come una strazza: «Eh, sior Cesare, sarà ancora pien, sì, de acqua de bever». «Ah, se xe acqua de bever — ghe fa alora el defonto Schitazzi con anda de remenèla — alora bevèmola, 'sta acqua de bever!» El ciol un bicer del calto e, col ocio furbo, el ghe dise a Torchiarùlo de verzer la spina. — Mama mia! E xe vignuda fora la trapa? — Andove ve iera più trapa, siora Nina, con tuti i omini del paese che ve gaveva pompà su trapa e butà zò acqua? Acqua ve iera, acqua funtis. Solo un fiatin amaròtica, come che ga sentì subito el defonto Schitazzi. «Ah, cussì la xe, Pìllepich?» el ghe ga dito a Pìllepich dàndoghela de zercar, dopo esser stado un momento sorapensier. «Ah, cussì, questa xe l'acqua che dè de bever ala gente?» Che sì, ah, ghe ga dito Pìllepich, pacificado e tuto soridente, dopo averla zercada. «No xe gnente de rider — ghe ga dito alora el defonto Schitazzi — no xe propio gnente de rider! Stè ben atento, Pìllepich mio, perché 'sta acqua qua la ga de tapo». Volè creder, siora Nina? Dito fato el ghe fa fato far de Torchiarùlo notifica de contravenzion per acqua non potabile. Difati, come acqua, la ve gaveva assai de tapo de trapa e, come trapa, la ve iera pretamente acqua. E guai acqua non potabile soto el Fassio dopo che i gaveva fato l'Aquedoto. Pezo che soto Tito esser del Fassio. Povero defonto Schitazzi! Istesso no i gavessi dovesto. Perché lu ve iera sì segretario del Fassio, ma più che altro perché se no el iera lu, chi podeva esser? MALDOBRÌA XIV - LA PENNA D'ORO Storia del rampollo d'una famiglia di notabili, a cavallo fra due epoche e due mondi, scritta con una penna stilografica, status symbol, inizialmente, di pochi privilegiati e, infine, resto di quello che fu una fortuna e una vita. — Bela scritura, i ghe ciamava una volta a scola, siora Nina. Bela scritura. E a scola, per la bela scritura, i dava anca la nota in pagela, che la meo nota iera eminente. Oh Dio, eminente, pretamente eminente, in bela scritura gaveva pochi, ma tuti doveva scriver pulito. «Chi no sa legere la propia scritura è un asino di natura». Cussì diseva sempre el maestro Girardeli dàndoghe cola bacheta sule man a Nini Lupetina, che difati no ga gnanca finì le scole. Soto l'Austria tuti doveva scriver pulito a scola. Ve ricordè? Se cominziava cole aste e i fileti, prima col lapis e po' cola pena col penin, che se tociava nel inchiostro, che iera nel banco el buso aposito per el calamaio e guai sporcarse de inchiostro i diti. Anche per quel el maestro Girardeli dava cola bacheta sule man. — A noi la maestra Morato no ne dava cola bacheta. A noi putele la ne meteva in pie drio dela tabela, dio guardi che una fazessi zate de galina sul quaderno... — Zate de galina! Xe vero sì, cussì i ghe ciamava, co' se scriveva mal! Anca el maestro Girardeli. Tuti i maestri usava. E bisognava sempre scriver tuto in bela scritura, e guai andar fora dele righe. E per la pena gavevimo penai e netapene. Soto l'Austria questo. Altro che adesso che fin le crature scrivi zà con 'ste biro che gnanca no se capisse cossa che xe scrito... — Eh, però, sior Bortolo, 'ste biro ve xe una comodità, perché, una volta finide se le buta via. E anca i fioi a scola, se i le perde, pazienza. Che, inveze, ve ricordè che pianti e zighi che iera una volta co' un fio tornava a casa disendo: Mama, go perdesto la pena stilografica... — La pena stilografica! Dove quela volta ve iera pene stilografiche? Chi, soto l'Austria, a scola ve gaveva pena stilografica? Forsi el fio de un avocato Miagòstovich. Perché pene stilografiche quela volta gaveva solo un dotor Colombis co' el fazeva le rizete o un Sior Callisto Cosulich, co' in Palazzo del'AustroAmericana el ve firmava un récepis. — A vù el ve firmava un récepis? — Ma cossa a mi, che iero un semplice maritimo! A quei che el gaveva de firmarghe un récepis. In Palazzo del'Austro-Americana, co' Sior Callisto Cosulich ve firmava un récepis, mi calcolo che el lo firmava cola pena stilografica. E po' de Sior Callisto no ocoreva gnanca récepis: bastava la parola. Siora Nina, prima dela Prima guera una pena stilografica ve iera una rarità. Quei del'AustroAmericana gaveva cominzià a portar le prime e dopo, natural, i ga cominzià a venderle anche qua. Prima dela guera de Abissinia me ricordo. — Cossa i le portava de Abissinia? — Ma cossa de Abissinia, che in Abissinia portavimo noi zò i militari! Volevo dirve che, prima dela guera de Abissinia, iera zà abastanza che se vedeva 'ste pene stilografiche che se disvidava de sora e se meteva l'inchiostro cola pompeta. Nere, de osso, le iera massima parte. E a scola un fio de familia, de una familia che podeva, intendo, se lo conosseva dela pena, che i usava col clips portar nel scarselin de peto dela giacheta. — Come no! Per bel veder. E 'sti giovini iera come mati, quei che podeva, co' per Cresima o per un'ocasion i ghe regalava la pena de oro... — No! Pretamente per Cresima, iera orologio. Ma per ocasioni iera, iera sì pene de oro. Me ricordo che la prima pena de oro che mi go visto in man de un giovinoto, xe stà col fio de Sior Antonio Politèo, Tonin... — Sior Tonin Politèo? — Ma cossa, Sior Tonin Politèo? Tonin Politèo ve iera el fio de Sior Antonio Politèo, un de Lussingrando, che ve gaveva a Fiume la Maritima Fiumana di Navigazione. Ve iera qualcossa, savé, la Fiumana. O Dio, gnente in confronto de un'Austro-Americana, però in quei anni, lori, i Politèo, ve fazeva bei soldini con 'sti vapori. Vapori? Vaporeti, che però fazeva linia per Cherso, per Lussin, e po', natural, Abazia, Lovrana, Volosca, Ica, Idei, Ràbaz, Valmazzinghi, e po' zò fin Pola... — Ah, che bel! Mi tanto bramassi de andar cussì de novo, per mar, come che se usava una volta... — Oh Dio, andar per mar! Queste ve iera linie de vaporeti più che altro, però i ve fazeva bei soldini i Politèo quela volta. Tanto che, ve disevo, la prima pena stilografica de oro che mi go visto in man de un giovinoto, xe stà col fio de Sior Antonio Politèo, Tonin. — Pena con penin de oro? — El penin? Tuta de oro! Insoma, placata in oro, come che se usava. Quele iera pene! E el fio de Sior Antonio Politèo, che in principio co' el la impiniva el gaveva le man tute smasalade de inchiostro verde — perché inchiostro verde lui doprava, manìe de muli — ben, lui gaveva sempre quela... — Sempre quela pena? — No. Sempre quela de portar sempre de per con sé la pena de oro. El nono ghe la gaveva regalada, che ghe iera stado sàntolo de Cresima. Perché qualche volta anche per Cresima se usava regalar pene de oro. Bon, pensévese, 'sto nono, el vecio Politèo, che ghe la gaveva regalada, po', co' el ghe la vedeva in man a Tonin in scritorio dela Fiumana a Fiume, che zà giovinoto che el iera el iutava el padre, ben, volé creder che el vecio Politèo ghe rugnava: «Cossa, cola pena de oro ti scrivi? Ti la perderà, i te la roberà. Quela te xe per un bel vèder, per un'ocasion, per un vestito scuro...» — Eh, giusto: regalo de Cresima... — Cresima? Dove iera oramai i anni che Tonin Politèo gaveva fato la Cresima! Ve go dito che zà el iutava el padre in scritorio dela Fiumana a Fiume. Ben, lui quela volta ve iera zà giovinoto fato. Con dò spale de camaleonte, come che diseva sempre el nostroomo Fatutta, che, povero nostroomo Fatutta, chissà cossa che el credeva che fussi un camaleonte. Bon, giovinoto fato ve iera 'sto fio e, stagno che el iera, a Fiume el iera calcolado un dei primi vogadori dela Liburnia. — Primo vogador dela Liburnia? E chi lo calcolava? — Quei dela Liburnia. E anche quei dela Eneo. Perché a Fiume, parlo de quei ani, ve iera dò grande Canotiere: la Liburnia e la Eneo. Le iera rente una del'altra là dela Fiumara, ma no i se podeva veder... — Ahn! Iera un muro in mezo! — Maché muro! Per vederse i se vedeva, tacade che iera 'ste dò Canotiere, ma se dise che no i podeva vederse, perché iera granda rivalità, come. Perché una de 'ste Canotiere i diseva che la iera austriacante e quel'altra no, che adesso no me ricordo più gnanca quala. Ben, una volta che iera le regate, 'sti qua dela Eneo iera sicuri de vinzer. «Nualtri — i predicava per tute le Canotiere de Fiume — a quei dela Liburnia ghe demo strazze in tuto. Dopio con, dopio senza, quatro con, quatro senza». — Senza canotiera? — Ma cossa senza canotiera e senza mudanda? Senza timonier o con timonier. Solo per el singolo i gaveva pensier. — No intendo. — Indiferente, xe robe de canotieri. Lori ve gaveva paura che nel singolo — el skif con un omo solo — la Liburnia ghe dassi strazze a lori con Tonin Politèo. Che ve go dito: iera un toco de mulon, con dò spalazze de camaleonte, come che diseva el nostroomo Fatuta. 'Sto Tonin, figurévese, una volta el iera andado solo, vogando in skif, bela giornada che iera, de Fiume fin Lussin, che po' tuti lo cioleva via disendoghe che inveze de far tanta fadiga el gavessi podesto pulito, per andar a Lussin, cior el vaporeto del padre... — Eh sì, ah. Se el gaveva 'sta comodità de no pagar bilieto... — Cossa ghe entra el bilieto! Lu credeva de gaver fato chissà che bravitù con 'ste spalazze che el gaveva. E po' el gaveva un fià, siora Nina, un fià che no finiva mai. El iera un bon fio. E studiado anca, ma no propio de quei svelti come el padre. Più de un a Fiume se profitava de lu, cussì bon fio che el iera. — Eh, se un xe bon, più de una volta i altri se profita... — Bon, una volta 'sti qua dela Eneo i gaveva fato osservazion che lui andava sempre a vogar per farse el fià de matina bonora, quando che i vapori no fa onde. Ben, una matina bonora Tonin Politèo gaveva zà messo in acqua el skif ma, solo che el iera, ghe gaveva tocado tornar de novo in canotiera, perché el se gaveva dismentigado in armereto la redina dei cavei. E alora, un dela Eneo che iera là e che Tonin no el lo gaveva visto, savè cossa che el ghe ga fato? — Un sprezzo? — Ma cossa un sprezzo? Un truco. Pensèvese che el ghe ga ligado soto del skif, con un spagoto, figurévese, un stagnaco. — Un secio? — Sicuro, un stagnaco. Un secio. Ben, 'sto Tonin Politèo el voga, el va, e el vede che, natural, 'sto skif no ghe va. El vogava, el vogava con 'ste sue dò spalazze de camaleonte e, gnente, el skif no andava. Alora el ga molado i remi, el ga vardado soto, el ga visto el secio, el ga ridesto, el ga dito orca matina, el ga ciolto la brìtola e el ga taiado el spagoto che tigniva el secio. E zò a fondo el secio, e via lu, col skif, come una saeta. — Ahn! El se gaveva inacorto! — Come volè no inacorzerse? Pesa più un stagnaco in acqua, che tuto un skif! Ma no volè che, co' Tonin torna, iera tuti quei dela Eneo che lo spetava? E co' lu tira suso el skif, i ghe dise: «Tonin, e el stagnaco?» «Sì, sì — el dise lu — qualchedun me gaveva messo soto un stagnaco ma mi go taiado el spagoto e dopo son andado noma che ben...» E 'sti qua che, come? che lui ga fondà el stagnaco? Che el stagnaco iera dela Eneo e che lui adesso deve pagar el stagnaco. Sì, sì, ghe fa tuti, che adesso lui deve pagarghe el stagnaco ala Eneo. Bon, savè cossa che ga fato Tonin Politèo? — El se ga sbarufà? — No. Lui ghe ga pagà el stagnaco. «No savevo che el iera vostro — el ghe ga dito — mi credevo che el fussi dela Liburnia». Iera un fio fato cussì: un bon fio e i altri se profitava. — E quanto costava quela volta un stagnaco? — Ah, no me ricordo. Quel che podeva costar un secio, mi calcolo. Ma cossa volevi che fussi per un fio de un Sior Antonio Politèo pagar un stagnaco? Xe stà che questi dela Eneo po' i se ga anca profitado per andar a remenarlo per tuta Fiume contando che cussì, cussì e cussì e che ancora, in ultima, el ghe gaveva pagado el stagnaco. Insoma i lo remenava. Però bravo, savè. — Chi questo? — Come, chi questo? Lu. El fio de Sior Antonio Politèo, Tonin. Bravo come canotier, intendo. Lui nel singolo ghe dava strazze a tuti. Pensévese che la dimenica dopo de 'sta istoria del stagnaco, che a Fiume quela dimenica iera regate interessanti che no ve digo, e oltra dela Eneo e dela Liburnia iera vignudi anche i canotieri dela Duna de Budapest, dela Donau de Viena, l'Adria e la Ginastica de Trieste, la Libertas de Capodistria no parlemo, bon, lui ghe ga dado strazze a tuti e el ga vinto el singolo. «Primo nel singolo Politèo della Liburnia» i ga zigà col portavoce e po' come diman, iera anche scrito su tuti i giornai. — Su tuti i giornai! Che sodisfazion per el padre! — Per el padre, per lu, per tuti. Per Fiume anca. Pensévese che in Comun, proprio in salon del Municipio i ga fato la premiazion, che iera tuti, el Podestà, siori e siore anche de Trieste, e po' Ungaresi, gente de Viena, invitati: insoma Vermut d'onore. E tuti voleva l'autografo, anche le putele coi album. — Che el ghe scrivi robe sul album? — Ma cossa robe? L'autografo i voleva. Che 'sto fio de Sior Antonio Politèo ghe firmi per ricordo, come «Vincitore del armo vincente», come che gaveva scrito el «Picolo». Se usava quela volta. — Ah, l'autografo! Come i artisti de cine! — Sicuro. I ghe dava de firmar fotografie, programi, tochi de carta, album, natural, e Tonin Politèo ga fato la sua bela figura: cola sua bela pena stilografica de oro col inchiostro verde el firmava driomàn. A tuti el ghe firmava. A 'ste putele, a 'sti qua de Trieste, a 'sti Ungaresi, a tuti. E savé cossa che ghe ga messo soto per firmar un dela Eneo? — Un stagnaco? — Ma cossa un stagnaco? Come volè che un ve firmi un stagnaco? No, siora Nina, più bel. 'Sto qua dela Eneo, un malignazo, ghe ga messo soto de firmar una cambial, un pagherò, de zento corone. Ben piegada in quatro. E Tonin, che el iera là che el ghe firmava tuto a tuti, el la ga firmada cola sua bela pena de oro col inchiostro verde. E po', el giorno drìo, co' quei dela Eneo xe vignudi a scòderghela, lu ridendo e tuto disendo orca matina, el ghe la ga anca pagada. — Mama mia! Una cambial de zento corone! — Zento corone sì. Ma in alora zento corone no iera gnente per i Politèo. E quela, siora Nina, ve xe stada la prima cambial che lu ga firmà. Perché dopo, dopo el ribalton del'Austria, quando ghe xe morto el padre e Tonin Politèo ve xe restà unico paron dela Fiumana di Navigazione, el ghe ne ga firmade tante altre. Perché lui, cossa volé, bon fio, sì, ma no el ve gaveva testa come el padre. E no ve iera gnanca ancora guera de Abissinia che la Fiumana i la ga messa al incanto e la ve xe andada a fondo, come el stagnaco. — In falimento? — Oh Dio, no propio falimento, falimento. Però assai poco ghe xe restà a Tonin: giusto de poder viver. Ma sempre el gaveva de per con sé la sua bela pena de oro col inchiostro verde. Tuto lui ve firmava con quela pena. Anca quela volta del ribalton del'Italia a Fiume co' dopo l'Oto Setembre el ga tornà a notarse del Fassio. Cossa volè, lu no ve gaveva testa come el padre. Ma assai bon fio el iera povero: toco de mato, con dò spalazze de camaleonte. Istesso quela volta a Kàrlovaz no i gavessi dovesto. Pretamente de lu, dopo, i ga trovà solo la pena de oro in tuto quel mucio de tera. MALDOBRÌA XV - I FRATELLI BANDIERA Ovvero del sogno, che fu comune a ogni marittimo, di avere barca propria per ardite operazioni commerciali di piccolo cabotaggio, fra i bisi di Capodistria e il Grand Hotel di Ragusa, ancor vivo ai tempi in cui nell'isola di Pelagosa furono visti approdare i precursori di Cinecittà. — La cragna del mar che tanto i dise adesso! Zà co' i andava a carbon, Barba Nane rugnava e pensèvese che vecio che iera Barba Nane... — Rugna, rugna i veci. E perché el rugnava? — Lu pretamente ve rugnava perché i andava a carbon e el carbon fazeva cragna, no perché el iera vecio. E tanto vecio el ve iera, che quela volta iera barche, signore barche che andava ancora a vela. E, in cossienza ve devo dir che a vela iera un bel navigar! — A vela, come a vela? — A vela cole vele, siora Nina, coi papafighi, i trincheti, i fiochi, i controfiochi e tuto quel che ocore, che ocoreva, insoma. — Ma per divertimento, come? — Cossa per divertimento? Per navigar. Mi, savè, son stà un dei ultimi qua che go navigà a vela. Barba Nane me diseva sempre: «Vù, Bortolo, sè vero mariner, vù savè andar per mar, me fa fina pecà che a vù i ve cavarà la matricola, perché non ve intendè gnente de motori!» — Eeh, iera una macia Barba Nane... — El iera una macia, sì. E el gaveva bei soldini. Che anzi, mi e Polidrugo, prima dela Prima guera, disevimo sempre: «Gaver nualtri quei bei soldini che ga Barba Nane, podessimo liberamente compràrnese una barca a vela e far noli pulito per Dalmazia e per Galìpoli». Ma cossa volè, siora Nina, quela volta le barche a vela costava massa e giovini che ierimo, natural, bori no ne vanzava. Dopo dela Prima guera, inveze... — Ve vanzava bori? — Ma quando mai, siora Nina, dopo de una guera ghe ga vanzà bori a qualchedun de nualtri? Xe zà assai se vanza la vita. No: disevo che, dopo dela Prima guera, barche a vela se le trovava per poco per gnente. Presempio el «San Francisco» iera anni fermo sul molo che i lo vendeva. — Eeh! El «San Francisco», me ricordo el «San Francisco»: iera barca granda, a vela! — Eh, per quel che la iera a vela i la dava per poco per gnente. Bastava far un fià de debito. Ma Polidrugo diseva che iera tropa spesa per meterghe el motor. «Polidrugo mio — ghe go dito mi — vento sarà sempre e bori per la nafta no se sa! Compremo el «San Francisco» che xe una bula scuna, barca lussignana, stagna, che tien el mar, vele nove, oh Dio, squasi nove, apena fate prima dela Prima guera, che mi gnanca no so perché che i la vende». «Perché no la ga motor — me ga dito Polidrugo — e perché xe tropa spesa per meterlo». Ma tanto ghe go dito, tanto go fato, tanto lo go inzinganà che el se ga fato persuaso. — E la gavè ciolta? — Per un toco de pan, siora Nina. Oh Dio, fazendo debito.... — Eh! Chi che fa debito, qualche volta anche la intiva... — Ogi. Quela volta inveze i debiti se li pagava. Ma mi ghe disevo: «No sta gaver pensier, Polidrugo mio, che per i debiti no i impica e in un per de boni viagi noi gaveremo pulito pagado tuto». Perché mi, siora Nina, iero un de quei che saveva andar a vela, anca senza motor. Savevo! So ancora. «Chi no sa barca menar che no vadi a navigar!» E Polidrugo inveze saveva ben barcamenar per i noli, i càrighi, i afari, magari afari de chebe, qualche volta, ma indiferente. E un giorno el me ga dito: «Bortolo, go leto sul giornal che zò in Dalmazia, a Ragusa adesso — iera no so che ani, ma se gaveva apena sposado el Principe Umberto — a Ragusa adesso te xe un desìo de foresti...» — Per veder el Principe Umberto che se sposava? — Ma cossa a Ragusa el Principe Umberto! Suo padre apena iera quel che se gaveva sposado in Montenegro. Iera per dir i anni che iera: apena sposado el Principe Umberto e a Ragusa iera un desìo de foresti. «Xe un desìo de foresti — me diseva Polidrugo — e là xe tera de pipe, no i ga verdura. Se nualtri portassimo verdura nostrana e bisi de Capodistria a Ragusa — ti ga ragion ti — forsi se paghemo la barca con un dò viagi!» — Eh sì, el mio povero padre diseva sempre: «Viagi longhi guadagni picoli, viagi curti, guadagni grandi...» — Oh Dio, no la ve xe gnanca tanto curta andar fina a Ragusa — massime a vela — ma indiferente. Gavemo fato carigo de verdura nostrana e bisi de Capodistria che iera un màrtedi e come mércole semo fora Promontor. Eh, iera una bona barca el «San Francisco». Bon: no volè che apena fora de Promontor ne ciapa una scontradura? — Mama mia, con un'altra barca? — Ma cossa con un'altra barca! Quel xe colisione, che i ghe dise. Scontradura de vento. E mi go visto subito che iera bruto. Perché, come che diseva i veci maritimi, «co' el Monte de Òssero mete el capel, aviso al marinèr che naviga in Quarnèr!» Fortunal, insoma. — Mama mia! E no podevi tornar in tera? — Siora Nina, chi che xe in tera giudica e chi che xe in mar naviga. E noi gavemo navigà. Insoma sempre pezo, sempre più bruto e semo finidi a Rimini. Miramare di Rimini, pensèvese. Un odor! — Cossa? Un odor a Rimini? — Ma no: in barca. Capirè! El fortunal ne gaveva portà a Rimini, gavevimo perso giorni e giorni e le verdure zà un poco odorava. Polidrugo, ciàpilo, lìghilo: «Se gavevimo la barca a motor, mona, a 'sta ora ierimo a Ragusa! Cussì adesso gavemo perso e el nolo e el càrigo!» «Ma cossa el nolo e el càrigo, mona! — ghe go dito mi — cossa ti vol che sia un poco de odor, mona! Xe verdura nostrana!» E co' semo rivadi a Pelagosa, volè creder, cussì cussì de gente atorno al «San Francisco»... — Per l'odor? — Maché odor! La verdura e i bisi li gavevimo apena butadi in mar, perché i bisi fa gas... — Eeh! Anca i fasioi! — Sicuro! E col caldo pol andarve per aria la barca! Che, po', savè, iera un odor de tombarse. E el gas in stiva ve xe tremendo! No: a Pelagosa, ve iera cussì cussì de gente perché quela volta iera vignudi quei dela Cines... — Ah! Iera cine... — No che no iera cine! Iera la «Cines»: quei che quela volta fazeva cine se ciamava «Cines». I fazeva una film, me ricordo, «I Fratelli Bandiera»... — Fratelli d'Italia? Cola bandiera? — Ma cossa fratelli d'Italia cola bandiera? I Fratelli Bandiera ve iera sì, dò fradei de Italia, ma lori ve iera pretamente austriachi. Austriachi dela Marina Austriaca; fioi de un Amiraglio austriaco e, pensèvese, inveze i iera per l'Italia. — Iredentisti, come? — Ma no, lori ve iera Veneziani ancora. E insoma, per l'Italia che i iera, i ve xe andadi no so dove a far un comploto contro l'Austria e, ciapai che i li ga, subito i li ga fusiladi. — Chi questi? — Ma come chi questi? I fratelli Bandiera che xe anche el molo a Trieste. Molo Fratelli Bandiera. E i Austriachi li ga fusiladi perché lori, ufiziai dela Marina austriaca che i iera, compioto per l'Italia che i gaveva fato, iera, per quela volta, alto tradimento. Che guai, savè, soto l'Austria, alto tradimento: i fusilava subito. E alora capì, l'Italia che iera apena vignuda qua, dopo la Prima guera, i ga volesto far subito una film. Un bel lavor de guera e de amor, con Isa Pola. — De Pola? — Ma no! Alida Valli iera de Pola, inveze Isa Pola se ciamava cussì de nome. E insoma, per farvela curta, xe vignudo 'sto regissèr che i ghe diseva quela volta — adesso i ghe disi regista — el xe vignudo a bordo e el ne ga dito subito franco: «Belissima questa barca», ci fa ci dice. Che xe setimane che el zerca una barca compagna e, insoma, se ghe la cedemo per la scena del naufragio... — Ahn! Per far finta in cine de far naufragio! — No far finta. Naufragio vero. Fondarla per bon, per via che vegni meio in cine. E insoma che no dovemo gaver nissun pensier perché lui la barca ne la paga. — Assai? — Siora Nina: un sproposito de soldi. Assai più de quel che la gavevimo pagada nualtri. Savè, gente de cine, co' ghe ocore, i ve firma un cèk e basta. E istesso Polidrugo se ga profitado. Perché lu, malignazo che el iera, el ga fato la scena, propio: «El mio San Francisco! Che io navigo di zinquanta ani su questa scuna!» Che quela volta el gaveva sì e no lu zinquanta... E el butava la giacheta per tera zapandola coi pie, come che fa i Dàlmati co' i xe disperai! — Ah, el iera disperado! — Ma no! El fazeva finta, per ciapar più soldi, ma cussì ben el fazeva, che 'sto regissèr, 'sto regista, ghe ga fato de moto a quel cola machina de cine che girava cola manizza, che el lo cinematografi come marinaio disperato. «Lo meteremo nela film come marinaio disperato — el ga dito — quando che fucilano i Fratelli Bandiera!» — Ah, i lo ga messo nela film, a Polidrugo? — I lo gaveva messo sì, ma dopo i lo ga dovesto ben che taiar, perché apena dopo i se ga inacorto che, co' el se gaveva cavà la giacheta, sula maia de mariner el gaveva scrito «Fratelli Cosulich». Che, cossa volè, coi «Fratelli Bandiera» no ghe entrava propio gnente... MALDOBRÌA XVI - IL TAPPETO DI SMIRNE Storia d'un regalo di nozze ordinato da Siora Mima Chiole a Polidrugo e delle cose turche che ne seguirono sia in terra, sia a bordo del piroscafo «Calitea», quando il Lloyd non era più Austriaco, ma ancora Triestino. — Co' un de famea se sposa, co' ve xe un sposalizio de un del parentà, siora Nina, ve xe sempre una schiavitù. Perché no se pol miga regalarghe un bel de gnente involto in carta, come che diseva sempre Siora Mima Chiole. E difati ela la dava, la dava, e no solo per sposalizi. Limòsine grandiose la fazeva al Domo e po' tuto la ghe ga lassa ale Mùnighe del Squero. E co' xe stà el sposalizio de quela sua fiozza... — In cesa dele Mùnighe del Squero? — No. Sposarse se usava sempre in Domo. Disevo che, co' xe stà el sposalizio de quela sua fiozza, Siora Mima Chiole ogni giorno la ghe tontonava a Barba Nane: «Cossa go de regalarghe ala Norina? No posso miga regalarghe un bel de gnente involto in carta!» — Mio defonto padre inveze diseva sempre «un bel de gnente venezian involto in carta». — Indiferente. Insoma, pensèvese, che — pensa e pensa — la xe vignuda su quela del tapedo. — Chi questa? — Ma Siora Mima Chiole, po'! De chi stemo parlando, dela Madona Candelora? Pensa, pensa Siora Mima Chiole ghe xe vignù in a mente che co' iera ancora vivo suo marì, che iera comandante — el Comandante Chiole difati — bon, lu, el Comandante Chiole, che massima parte viagiava per Levante, sempre el predicava che a Smirne costa la metà e anca meno che la metà... — Cossa, el magnar? — Ma no el magnar. Sì, anca el magnar, ma cossa volè magnar quel che magna i Turchi, che xe pesante, che fa pienezza. Mussakà, presempio. Kebàb anche. — Due turchi questi? — Ma cossa due turchi questi? Kebàb e mussakà xe dò robe che i Turchi sempre ve magna. Che kebàb ve xe pretamente castron fato come che i lo fa lori, grasso, ontoloso; e mussakà ve xe inveze come pasta fata in casa, carne masinada, late e farina e po' tuto messo in forno: roba pesante po' che fa pienezza. E insoma el Comandante Chiole... — Ghe fazeva pienezza? — No so se ghe fazeva pienezza. Cossa volè che mi in alora, semplice maritimo, podessi saver se a un Comandante Chiole ghe fazeva o no ghe fazeva pienezza co' el magnava mussakà! Cossa ghe entra? Mi ve contavo che el Comandante Chiole predicava sempre che a Smirne, in porto, fora de dogana, se pol gaver belissimi tapedi turchi per un bianco e un nero. E cussì Siora Mima ga pensado de farse portar suso, per regalo de nozze per 'sta sua fiozza, un tapedo turco. Xe bei, savè, i tapedi turchi, figurosi, e bellissimi colori. Per un bianco e un nero. — Ah! Farse portar suso un tapedo de suo marì? — Ma come farselo portar suso de suo marì? Suso de dove, dela tomba del zimiterio? Che suo marì iera zà morto e sepolto de anni anorum! A Polidrugo la ghe ga dito, perché i Polidrugo ghe iera assai obligadi a Siora Mima per tante robe. E sicome che quel viagio, mi, Polidrugo e Pillepich, fazevimo la linia de Sorìa e se tocava Smirne, «Polidrugo — la ghe ga dito — vù, visto che gavè 'sta ocasion de andar a Smirne e che mio marì, povero, me diseva sempre che a Smirne costa metà e anche meno, portème suso un bel tapedo turco, no grando, savé, una roba giusta, cussì per un mezo tinelo, e che no costi assai». E la ghe ga dado anca i soldi. — Ah, la ghe ga dado i soldi in antecipo? Quanti? — Zento e zinquanta lire, siora Nina. Me ricorderò sempre. — Come cento e cinquanta lire per un tapedo? Me volè cior via, sior Bortolo? — No che no ve ciogo via, siora Nina, xe el mondo che ne ciol via a nualtri. Quela volta, ve parlo del Trenta, Trentadò, prima ancora dela guera de Abissinia, zento e zinquanta lire iera qualcossa. Perché cossa ve guadagnava quela volta un maritimo? Quatrozento, più la panatica, co' andava ben. «Ecove qua, Polidrugo, zento e zinquanta lire — la ghe ga dito — e zerchè de no spenderle tute, portème qualcossa indrio, vù che sè sbisighin, Polidrugo!» E la rideva, Siora Mima Chiole, che la gaveva una belissima boca de denti: tuti sui. — Eh, mia madre inveze... — Indiferente vostra madre. Quela volta mi, Polidrugo e Pillepich, che in alora gaveva ancora la gamba, fazevimo la linia de Soria, linia de Levante. Linia celere ve iera: Trieste, Istanbul, che po' saria stà Costantinopoli, Smirne, Trieste. Linia celere. Col Calitea, bela barca del Lloyd. I fazeva coletame, merci varie, passegeri, massima parte. E, figurèvese, per 'sti passegeri, tuti de prima classe, sul Calitea ve iera una belissima veranda sul ponte con poltroncine de canadindia, apòsita per el brodo de mezogiorno e per el tè dele zinque. Faifoclòck... — Ah, una roba turca come? — Ma cossa turco, faifòclock? Mussakà ve xe turco. Che fa assai pienezza. Che anzi, me ricordo, in 'sta veranda i passegeri ve gaveva la comodità, senza andar sotocoverta, de aver un anche là... — Un cossa? — Un logo de comodo, per comodità. Che propiamente iera due: uno per i passegeri... — Ahn! E quel altro per l'equipagio... — Ma cossa per l'equipagio, che l'equipagio per un'impelenza doveva andar soto, in remengo, in un de quei ala turca, rente dela sala machine: un caldo e un odor! No, quel altro logo de comodo ve iera per le passegere. — Ah bel! E i fioi con chi andava? — Cole done, soto l'Austria, dapertuto, anche al bagno ala Lanterna de Trieste, i fioi andava cole done. Soto l'Italia inveze no iera più regola. Indiferente: ve iera 'sta veranda, con 'sto logo de comodo. Closèt, propiamente, siora Nina, come che iera scrito de fora, per tedesco ancora del Lloyd Austriaco, sula porta. Questo solo per contarve le comodità che gaveva i passegeri zà quela volta. Insoma, quela volta sul Calitea, che ierimo mi, Pìllepich e Polidrugo, Siora Mima Chiole ghe gaveva dado a Polidrugo 'ste zento e zinquanta lire che el ghe compri 'sto tapedo turco, lui che iera sbisighìn. — Eh, iera iera sbisighìn Polidrugo... — Sicuro, siora Nina. Ma savè cossa che ve dirò? Tuto ve iera Polidrugo fora che zogador. E devo dir che lui massima parte no zogava. Solo che qualche volta, giusto per la compagnia. — Che Compagnia, el Lloyd? — Ma cossa volè zogar per el Lloyd? Disevo per la compagnia, co' se iera in compagnia e qualchedun voleva zogar a tuti i pati, come presempio quela volta el Capitan Malusà. — Malusà? Un de qua? — Un fià de qua e un fià de là, ma lassè che ve conto. Se no lassè che ve conto, no posso contarve. Volevo dirve che mi, Pìllepich e Polidrugo, a Smirne che ierimo rivadi, andemo in un cafè turco a bever, natural, un cafè turco. — Ah, perché anche in Turchia i fa café turco? — Sicuro che in Turchia i fa cafè turco, per cossa se ciama cafè turco? E tante robe i fa in Turchia che qua no i fa: 'sto mussakà che ve disevo e kebàb e rahatlokùm anche. E halvà. E Pìllepich, ogni santa volta che el gaveva ocasion de andar in Turchia, lui ve andava per 'sti locai turchi a magnarve tute 'ste robe turche: kebàb, rahatlokùm che el gaveva sempre i diti tacadizi, e mussakà, natural, che fa pienezza e, con decenza, anca mossa de corpo. Che anzi, co' tornavimo a bordo, lui ve iera più in logo de decenza che in coverta. Indiferente. Mi, Pìllepich e Polidrugo, a Smirne che ierimo rivadi, andemo in 'sto cafè turco e no volè che ve intivemo, sentado in fondo del local, che pulito fumava un spagnoleto e beveva un cafè turco el Capitan Malusà? — Ah quel Malusà, che me disevi: un de qua... — Mi propiamente ve disevo un fià de qua e un fià de là. Perché vù dovè saver, siora Nina, che el padre de questo Capitan Malusà, prima ancora dela Prima guera ve gaveva agenzia del Lloyd a Smirne e el se gaveva sposado per una turca. E questo che ve disevo ve vigniva a star el fio, che po' ve xe deventado capitano e anca lu sposà per una turca, fioi turchi e tuto, a Smirne che el se gaveva rilevado. — Ahn! El se gaveva fato turco? — Quel no se ga mai savesto, ma lu ve parlava franco per turco, natural, cola madre turca che el gaveva, e sposa per una turca. Po' lu ve parlava anche franco per grego, che a Smirne ve iera tanti greghi, squasi più che turchi, francese, che assai se usava quela volta in Levante, tedesco bastanza e italian no parlemo. — Ah, no el parlava per italian? — Ma come no el parlava per italian che el padre ghe iera de qua? Morto zà quela volta. E insoma 'sto Capitan Malusà el se alza in pie, el ne vien incontro, e baci e abraci. Che chi no more se rivede e che, ostia, quanti anni! Assai anni iera, perché dovè saver che nualtri, tuti tre, mi Pìllepich e Polidrugo, gavevimo navigado ancora zà prima dela Prima guera, sempre sula linia de Levante, con 'sto Capitan Malusà, che in alora ve fazeva pratica col Lloyd, perché savè, i Turchi quela volta gaveva barche scarte. — El padre questo? — Ma cossa el padre, che iera zà morto. Lui, lui, el Capitan Malusà che ve xe deventà capitano fazendo pratica sul Lloyd, e capitan che el iera deventà col Lloyd, lui in Turchia i lo calcolava un dei primi comandanti, che difati i ghe dava e le meo barche e noli e proveditorie. E lui a Trieste ve gaveva zentomila rampini col Lloyd e con tute le altre Compagnie, grandi contrabandi che i diseva che el fazeva: insoma un drito. Tanto che quando che el vigniva a Trieste, al Lloyd, in Palazzo del Lloyd, figurèvese, Sior Antonio in persona andava fin sula porta a compagnarlo. Insoma, grande feste, siora Nina... — In Palazzo del Lloyd? — Ma no, siora Nina, in 'sto cafè turco, sentado in fondo co' lo gavemo intivado a Smirne, mi, Polidrugo e Pìllepich. Grande feste: che come xe, che chi no more se rivede, che, ostia, quanti anni e che se se sentemo, se bevemo una rakìa e se volemo zogar con lu una partida de monighèla. — De monighèla? Un zogo de fioi, come? — Cossa zogo de fioi la monighèla, siora Nina, che monighèla ve xe giogo de azardo! Se va a carta più alta e el dò de spade, la monighèla la ciapa tuto. Zogo de fortuna, de azardo, ve disevo, e 'sto Capitan Malusà ve iera un zogador che mai, conossudo su tute le barche. Sul ponte, coi uficiai, lui ve zogava anca coi dadi, in tera po' no parlemo, setemezo, cotecio, bancùz e monighèla. E soldoni a zentinera de quela volta lui ve zogava, co' el zogava. E el diseva sempre, per italian: «Fortuna qua vien!» E el se bateva el petto cola man come un tamburo. Insoma el ne dise se zoghemo una partida de monighèla. E Pìllepich che sì, che magari, che anzi, ma che propio in quel momento el ga un'impelenza e via lu con un giornal turco in man. Mi me go ciamà fora, perché mi zogo de azardo no go mai volesto e, insoma, ghe ga tocà a Polidrugo. — Cossa ghe ga tocà? — Ma cossa, cossa? Ghe ga tocà zogar a monighèla col Capitan Malusà che lo ga inzinganà de zogar. Che el se senti, che i zogherà per poche lire, solo per la compagnia e una roba e l'altra. E intanto che Polidrugo missiava le carte, 'sto Capitan Malusà zigava «Fortuna, qua vien!» batendose el petto cola man come un tamburo. Che mi subito go pensado che Polidrugo no gavessi mai dovesto lassarse inzinganar. — Ah! El lo ga imbroiado, come? — Ah, mi no so se el lo ga imbroiado. Ma ve go dito: tuto ve iera Polidrugo, fora che zogador. E el ga perso. — Perso? Assai? — Diciaoto lire, me ricordo. Ma là xe saltà fora el maròn! Quando che lu, per pagarlo, ga tirà fora de scarsela un de quei pataconi de venti lire de argento col Re e col Fassio, che drio iera scrito «Melio vivere un giorno da leone che cento ani da pecora». — Tuta 'sta roba iera scrito su una moneda? — Altro che! No ve ricordò? Iera un patacòn compagno! Bon, co' Polidrugo, che zà ghe dispiaseva de gaver perso un tanto, ga messo in tola 'sto patacòn disendo: «Eco qua, déme dò lire indrìo», el Capitan Malusà lo ga vardà coi oci impiradi. E col muso duro, vero zogador che el iera, el ghe fa: «Come sarìa dò lire indrìo, Polidrugo? 'Ste qua ve xe lire italiane e nualtri ierimo patuìdi de zogar per lire turche. Andove semo qua, Polidrugo mio, no semo in Turchia? E che lire ve xe in Turchia, se no lire turche?» — Come, lire turche? — Sicuro, siora Nina. Andove ierimo là? No ierimo in Turchia? E la lira turca ve iera diese lire italiane, savè, quela volta. Insoma, per farvela curta, zento e otanta lire ga pretendesto el Capitan Malusà che el ghe daghi. — Zento e otanta lire turche! — Ma cossa zento e otanta lire turche? Che quel sarìa stà un'eresia! Zento e otanta lire nostre. Anzi no nostre: solo che diese iera nostre, che ghe gavemo dado mi e Pìllepich a Polidrugo vizin dele sue venti. E le altre zento e zinquanta iera quele de Siora Mima Chiole, quele per el tapedo. — Mama mia, che dano! — Eh, dano sì, ma cossa volè: zogo xe zogo e po' col Capitan Malusà iera meo no gaver ràdighi. Ve go dito: el Capitan Malusà iera un che ve gaveva zentomila rampini a Trieste, no solo che col Lloyd, ma con tute le Compagnie. E chi che gavessi fato un tanto de meterse in urto con lui, no gaverìa mai più trovà un imbarco, vita natural durante... — Ma Polidrugo no gaveva zà un imbarco? — Sì, ma se el fazeva un tanto de meterse in urto col Capitan Malusà el lo gavessi perso. — E el tapedo? E come el fazeva per el tapedo? — Eh: xe quel che ga pensado subito Polidrugo. E intanto che noi tornavimo a bordo, lu xe andado in un de quei magazeni che xe in porto de Smirne fora de dogana, per veder se, magari fazendo debito, istesso el gavessi podesto comprar 'sto tapedo, magari scarto. Perché, savè, Polidrugo iera assai obligado con Siora Mima Chiole e un piazèr che la ghe gaveva dimandado, i soldi che la ghe gaveva dado in antécipo, podè capir che lui no podeva tornar senza el tapedo. — E iera tapedi? — Uh, se no iera tapedi in 'sti magazeni! Montagne de tapedi. Ma anca comprandolo un fià scarto, Polidrugo ga visto che con meno de zento lire no el se la sugava. I domandava magari tre, quatrozento lire, savè come che xe i Turchi, ma dopo per zento lire i li molava. Che però iera zento lire. — E Polidrugo gaveva zento lire? — Gnanca in tuti noi no gavevimo zento lire, siora Nina, che la paga se la tirava apena a Trieste! Ma Polidrugo, savè, iera un omo che no se perdeva mai. Perché, là che el iera, lui ga fato subito osservazion che, in un canton del magazen, iera un de 'sti turchi che contratava con un de una barca de Spalatro per una partida... — Ahn! Una partida de monighèla? — Ma cossa una partida de monighèla? Una partida de quatro, zinque dozene de tapedi per Jugoslavia. Che in alora apena se cominziava a parlar de Jugoslavia, figurévese. Una dita, o un contrabando, mi calcolo. E per italian che parlava 'sto qua de Spalatro con 'sto turco, che i Turchi de Smirne parla tuto, anche italian, Polidrugo tirava l'orecia. E tirando l'orecia el vede che 'sto turco ghe consegna a 'sto qua de Spalatro un tapedo, che el lo porti pur a bordo dela barca sua de lu per farlo veder, come campion. — Ahn! E cussì, Polidrugo, furbo, se ga fato dar anca lu un tapedo come campion! — Sì, propio! Dove ghe gavessi dado 'sto turco un tapedo per campion a un Polidrugo, un semplice maritimo! No, Polidrugo ga fato più bel. Lu el xe andado là e el ghe ga dito che lui, che nualtri, semo là a Smirne col Calitea — che efetivamente ierimo — e che gavemo a bordo l'Armator. Pò che una roba e l'altra, che, 'sto Armator, per l'Armamento sarìa intenzionado de comprar per una nova barca de passegeri del Lloyd, granda come el Calitea, un dò tre dozene de 'sti tapedi turchi. E che come diman che 'sto turco vegni sul Calitea con un campion. Un bel campion, che sia un bel tapedo. Che diman sarà l'Armator che ogi xe via, ma diman el sarà sicuro, e che cussì el se intenderà diretamente con lu. — Ah, anca l'Armator voleva comprar tapedi? Questo no me gavevi contado! — Ma cossa l'Armator voleva comprar tapedi? Che no iera gnanca a bordo l'Armator. E po' gnanca no esistiva un Armator del Lloyd. Iera el Lloyd e basta. Questa ve iera la furbitù de Polidrugo. E Polidrugo tuto imborezado me torna a bordo, el me ciama in disparte, che no senti gnanca Pìllepich e el me conta che cussì e cussì el ghe ga dito a 'sto turco e che, insoma, basta che come diman matina, co' 'sto turco vegnerà a bordo col tapedo de campion, mi me fazzo trovar vestido con quel mio bel vestito zenerin che portavo sempre de per con sé per andar in tera, che lui dirà che mi son l'Armator, che se faremo lassar el tapedo de campion e cussì ghe la frachemo, perché tanto come diman molemo le zime. — Mama mia! Una maldobrìa! — Maldobrìa, sì, ah, perché se no come gavessi podesto far Polidrugo con Siora Mima Chiole? «Sì — ghe go dito mi — se podessi anche. Ma anca se gaverò el mio bel vestito zenerin, come poderà creder 'sto turco che mi son l'Armator?» E alora Polidrugo me ga tuto spiegado dela tabela. — Una tabela? Quala? — Gnente, fazile. A bordo ghe iera una bela tabela de oton cola cadenela con suso scrito «Riservato all'Armamento» in tante lingue, che se impicava sula porta de qualche gabina de prima classe se vigniva a bordo qualchedun de 'sti grandi del Lloyd, dela Compagnia. E 'sta bela tabela de oton la ve iera là del mistro Salvagno, in un scafeto. «Ben — ga dito Polidrugo — sa cossa che faremo nualtri, Bortolo? Nualtri 'sta tabela pulito la impicheremo». «Andove? — ghe dimando mi — che xe tute ocupade le gabine de prima classe?» «Nualtri — me fa Polidrugo — la impicheremo cola cadenela sula porta del closèt dela veranda. «Riservato al Armamento». E co' vien el turco col tapedo, ti ti se farà trovar in veranda, davanti dela porta del cesso come se per combinazion, giusto in quel momento ti vignissi fora dela gabina del'Armamento, col tuo bel vestito zenerin e tirando fora de scarsela l'orologio, come per significar che ti ga premura, ti ghe dirà in furia: «Va ben, lassiatemi il campione, che cioleremo due tre dozene di tapeti compagni, tornète come questa sera de prima sera, che si intenderemo...» E noi inveze, a mezogiorno molemo le zime e ghe la frachemo. E 'sto turco che se rangi, che tanto i Turchi xe tuti imbroioni». — Mama mia, che maldobrìa! E cussì gavè fato? — Sicuro, siora Nina. Gavemo impicà pulito 'sta tabela de oton cola cadenela sula porta del cesso, che propio scondeva pulito che iera scrito Closèt. Insoma xe rivà el turco col tapedo sotobrazzo e mi vegno fora col mio bel vestito zenerin, tirando fora de scarsela l'orologio, con 'sto turco che me srodolava el tapedo davanti ai pie e me diseva «Effendi»... — Ofendi? — Cossa ofendi? «Effendi», che per turco ve xe signor. Anzi più che signor ancora ve xe per turco «effendi». Figurèvese che Polidrugo ghe gaveva dito che mi son cossa so mi, el Signor Lloyd, el paron del Lloyd de Trieste. E 'sto qua che vardo che bel tapedo, Effendi, che lu de tapedi compagni, Effendi, el ghe ne ga quanti che voio per el vapor novo, che po' per el prezzo poderemo comodarse, Effendi, e tuto cìcole, ciàcole... — A vù, effendi? — Sicuro che a mi Effendi, se el me calcolava el Signor Lloyd paron del Lloyd. E mi inveze mostravo che gavevo furia e ghe fazevo premura, come. Che va ben, va ben, ghe go dito, che el ghe daghi el tapedo de campion a Polidrugo, che andarà a provarlo zò in gabina. E cussì xe stà. E via lu, Polidrugo con 'sto tapedo sotocoverta per la scaleta, e tuto pulito insoma. E zà 'sto turco stava per andar via, tuto piegà in avanti e caminando per indrìo, disendome che senza falo, Effendi, el sarà come stasera de prima sera soto bordo col carro dei tapedi, co', no volè siora Nina, che drìo de la porta con 'sta tabela «Riservato al'Armamento» che gavevimo messo, tutintùn no se sente tirar l'acqua? — No se sente tirar l'acqua? — Come no se sente? Se sente, se sente tirar l'acqua! E ga sentì anca el turco e el ga subito scominzià a nasar qualcossa. E propio in quela vien fora Pìllepich che ancora se imbotonava le braghe, smacando la porta, tanto che xe cascà zò la tabela del Armamento, che soto, natural, iera scrito Closèt. Con tuto quel mussakà che el magnava, sempre in cesso dela veranda dei passegeri andava de scondon Pìllepich, siben che, come semplice maritimo, no el gavessi dovesto, perché a nualtri semplici maritimi ne competeva quei sotocoverta, rente la sala machine, ala turca. — Mama mia! E 'sto turco? — E 'sto turco, ciàpilo, lìghilo, siora Nina. Lui, mi calcolo, come in un lampo el gaveva capì tuto — xe furbi i Turchi — e via lu zo per la scaleta sotocoverta a corerghe drio a Polidrugo, zigando per turco «Tapi, tapi!» che sarìa stà come dir: el mio tapedo, el mio tapedo! — Mama mia! E Polidrugo? — E Polidrugo, gnente. El turco no rivava a trovarlo: savè come che ve xe intrigosi per trovar 'sti grandi vapori sotocoverta. E tanto el se ga intardigà 'sto turco a zercar Polidrugo per tuto el Calitea, che intanto i gaveva fis'cià tre volte e molà le zime, mezogiorno in punto che iera, che le barche del Lloyd partiva sempre in punto. E co' el xe tornà sul ponte, sempre zigando «Tapi, tapi!» e sempre no trovando Poldidrugo, el ga visto che ierimo zà ben che fora de Smirne e che Smirne squasi no se la vedeva più. — Jessus! Restà in vapor! — Sicuro, restà in vapor. E co' Polidrugo ga visto che el turco ve iera restà in vapor... — ...el ghe ga tornà el tapedo? — No: Polidrugo ghe ga dito che per el tapedo no el staghi gaver nissun pensier, che el tapedo xe pulito in gabina. Che pitosto el ghe disi lu cossa che el fa lu ancora sul vapor. Che oramai el vapor va a Trieste e che oramai, omo mio, vù sè clandestino... — Clandestino chi? — 'Sto turco, siora Nina. Zà ben che fora de Smirne che ierimo, linia celere che iera che andavimo direti a Trieste, senza bilieto che el iera: clandestino. E che, come clandestino, se i lo trapava i ghe dava condana. E bisogna dir che assai ben se ga comportà con lu Polidrugo, perché subito el lo ga sconto in gabina sua de lu, el lo ga fato dormir sul tapedo, pranzo e zena sempre qualcossa el ghe portava, opur merenda. E anche, cussì che ghe passi el tempo, serà sempre in gabina che el doveva star, Polidrugo zogava con lu a monighèla giorno e note, con tuto che no el iera zogador. «Fortuna qua vien!» zigava Polidrugo batendose el petto cola man come un tamburo. E cussì prima de rivar a Trieste a 'sto turco el ghe ga vinto, pensèvese, el tapedo per Siora Mima Chiole e ancora vinti lire vizin. — Vinti lire turche? — No turche, italiane. Ierimo su barca italiana. Vinti lire. Un de quei pataconi de argento col Re e col Fassio, che drio iera scrito: «Melio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora». MALDOBRÌA XVII - IL SERGENTE DI FERRO Dove, attraverso la Finanza Rimbaldo e la Finanza Bùtoraz, entrambi monturati custodi dei diritti delle Dogane Austriache, si apprende come la medesima pubblica funzione possa essere esercitata con diverso spirito e con quale ricchezza d'inventiva la nostra gente di mare riuscisse sempre a portare in terra il lecito e l'illecito. — Contrabando, siora Nina, ve iera, ve xe e ve sarà, come che ve xe barche e come che ve xe maritimi. In una Trieste, per dirve, con quei imensi Punti Franchi che ga Trieste per quel imenso movimento che ve gaveva una volta Trieste, dove in una Trieste co' rivava una barca, un vapor de China, de Suèz, de America, dove qualchedun ve gavessi pagado dazio se no fussi stade Finanze sula Passerela de Sant'Andrea, in piazza Stazion e là del Cavalcavia de Barcola? Tuti ve sarìa andadi fora e drento de Punto Franco con tuti i contrabandi possibili e imaginabili! — Bel! — Bel sì, sarìa stado. Diseva anca mio povero zio Nini defonto, che el gaveva sempre teror dele Finanze ogni volta che el rivava de un viagio a Trieste e el ne portava a casa e cafè e spagnoleti e bomboni de Levante e liquori e pupe de Giapon e borse de pele de Alessandria. — Mama mia, e come el fazeva a portar fora tuto 'sto emporio in un colpo? — Come, in un colpo? Come podevi concepir de portar fora tuto insieme tuto quel che lu portava? Quel podeva far solo che i gemei Filipàs. — I gemei Filipàs? Chi questi? — Ma dài, siora Nina, i gemei Filipàs, quei dò fradei gemei, precisi compagni che no se li distingueva un del altro. Tuti dò alti, biondi, oci celesti e naso a spontièr, che i iera sempre imbarcadi insieme e che sempre no se li distingueva un del altro. — Ah, sì, me ricordo: i gemei Filipàs, quei che i diseva che gnanche le mogli no li distingueva. — Sicuro. E se no li distingueva gnanche le mogli, figurévese se li distingueva quei dela dogana, in Punto Franco a Trieste. E cussì in dogana andava solo quel de lori dò che, dentro del saco, no el meteva gnente de portar fora de scondon, gnente de contrabando, intendo. E co' quel dela dogana ghe meteva sula matricola el timbro de «Frei», libero, omo pol passar, insoma, lu ghe passava pulito la matricola al fradelo che lo spetava drìo el canton del Dazio e che, mostrandoghe ala Finanza che iera sula porta del Punto Franco la matricola timbrada, l'andava fora pacifico col saco pien de contrabando in spala. — No capisso. — Indiferente. Gnanche quei dela dogana no ga mai capisto el truco. Ma quel truco là podeva far solo che i gemei Filipàs, che i ve iera precisi compagni. Inveze tuti i altri, siora Nina, per poder portar fora roba del Punto Franco, doveva gaver pazienza e puligàna: bisognava saver far. Presempio el tabaco se podeva meter un poco in scarsela e un poco nele mudande longhe, el cafè nel saco dela roba sporca, le fiasche de liquori bastava nezzarle, bever un poco. Quel sì, fiasche averte i lassava, anca soto l'Italia — oh Dio, una, due, no un'esagerazion — e per bomboni de Levante bastava dirghe ala Finanza che xe per i fioi. E inveze per le borse de pele de Alessandria, borse de scola metemo dir, se portava fora tuto in un'altra maniera... — Soto el capoto? — Anca. Ma meo de tuto, savè cossa che ve iera? Meo de tuto ve iera dirghe al fio. — Al fio dela Finanza? — Ma cossa el fio dela Finanza? Chi podeva conosser, in una Trieste, i fioi dele Finanze? Intendevo dir che ognidun che voleva portar fora una borsa de scola de pele de Alessandria per un fio, un fio suo de lu, natural, el fazeva vignir el fio a bordo. Mi, arè, me ricorderò sempre che el nostroomo Fatutta che no gaveva fioi — no ga mai podesto gaver fioi el nostroomo Fatutta povero — una volta, el me gaveva portado de Alessandria una borsa per mi e cussì el me ga fato vignir a bordo a mi. — A vù come fio de anima? — Cossa come fio de anima? Ve parlo de assai prima dela Prima guera, che mi ancora andavo ale Nautiche de Lussin e el nostroomo Fatutta che viagiava col Calitea ghe gaveva promesso a mio padre povero defonto che el me gaveria portado una borsa de scola de pele de Alessandria, che quela volta in Alessandria le borse de pele le costava un bianco e un nero. Ben, volè creder, mi, con mia zia Marìci son vignudo aposito a Trieste per 'sta borsa. Cossa che no ve iera Trieste quela volta! O che a mi me pareva. — A Trieste con vostra zia Marìci? — Sicuro, perché ela, co' rivava el Calitea a Trieste, la vigniva sempre a spetar el marì, el mistro Chiole, quel che i lo ciamava Cagamiracoli, perché el fazeva de ogni mosca un caval, e el iera imbarca sul Calitea. — Sul Calitea? — Per forza che sul Calitea, se ela la andava co' rivava el Calitea. Ben, savè come che se fazeva? Mi, pulito, mia zia Marìci me ga portado col tran fina ala Passerela de Sant'Andrea e la me ga spetà là sentada su una banchina. E mi drento in Punto Franco coi libri de scola... — Per studiar in Punto Franco? — Ma cossa per studiar in Punto Franco? Chi ve studiava in Punto Franco, che in Punto Franco tuti quela volta gaveva de lavorar! Cussì se fazeva per portar fora senza pagar dazio le borse de scola de pele de Alessandria: che se andava drento coi libri de scola ligadi cola strenga dele braghe e le braghe senza strenga, solo tirache. Insoma mi son andà drento per la Passerela e po' sul Calitea go dimandà del nostroomo Fatutta, i me ga portado in gabina sua de lu, — nostroomo che el iera e el gaveva gabina sua — e là, pulito, el me ga dà 'sta borsa de scola de pele de Alessandria nova novente e anche bomboni. Mi go messo i libri drento dela borsa, me son tornà a meter la strenga sule braghe oltre i passerini e son andà fora de Punto Franco dove che iera el Dazio dela Passerela de Sant'Andrea, magnando i bomboni e con sotobrazzo la borsa de Alessandria davanti dela Finanza... — Mama mia! E cussì i ve ga visto la borsa! — Sicuro che i la ga vista. Anzi i me la ga fata verzer. I ga tuto ben vardà drento, tirando fora i libri de scola un per un e co' i ga visto che iera solo che libri de scola i me ga dito: «Weiter, weiter, mulo, avanti che ti ga de cresser e studiar!» — Soto l'Austria questo? — No, soto el Giapon! Sicuro che soto l'Austria, se la Finanza me ga dito «Weiter, weiter!» e mi andavo ancora ale Nautiche. Ma iera Finanze bone, savè, soto l'Austria. Mi go sempre calcolado che lori savessi che cussì se portava fora le borse de scola de pele de Alessandria, ma per una borsa de una cratura no i fazeva osservazion. — Eeh, soto l'Austria iera bone Finanze. Mio padre, povero, me contava sempre che a Ràbaz, co' el viagiava, iera la Finanza Rimbaldo che serava un ocio e anca dò, co' i portava in tera el saco de tabaco... — Sicuro che la Finanza Rimbaldo iera bona. Bonissima Finanza. Solo che, no so se savè, dopo, co' Rimbaldo xe andado in pension, i ve ga messo inveze un tremendo, una Finanza pretamente tremenda. Ve iera, me ricordo, un coi mustaci de fero, un zerto Bùtoraz, che i ghe diseva Cagarabia, perché per ogni roba el se rabiava, un croato del interno, che caminava sempre su e zò per el molo, con un'anda de gendarmo, man drio dela schena, bareta fracada e muso risoluto. E che, pensévese, co' rivava le barche da Antivari, de Montenegro, de 'sti loghi foresti insoma, lu e un suo bùbez, con dò caici, un de qua e un de là, i calava in acqua un cavo e i lo passava soto la colomba dela barca... — Per dispeto, come? — Ma cossa per dispeto? Per veder che no i gavessi impicado el saco de tabaco soto dela colomba dela barca, come che se usava. — Mama mia, e el trovava! — Eh sì, siora Nina. I primi sì el ga trovado, co' ancora no se saveva. Ma dopo, co' i ga passà parola, no più. Nissun più se fidava, natural. E el mistro Bogdànovich, che per portar tabaco de contrabando ve iera conossudo in tuti i porti, el ghe ga dito a Pìllepich che navigava con lu e che quela volta gaveva ancora la gamba: «Sa, Pìllepich mio, cossa che ghe faremo a 'sto fiolduncàn de Bùtoraz? Ghe faremo quel truco che se fa per mincionar le Finanze». — Un truco aposito per mincionar le Finanze? Che truco? — Che truco? Un truco. Spetè che ve conto. Bogdànovich ga ciolto in scafeto la matricola de Pìllepich, el se la ga messa in scarsela e el xe andado in tera col caìcio. E sul molo, mustaci de fero, bareta fracada e muso risoluto, xe 'sto Bùtoraz che lo speta. E subito el ghe dimanda a Bogdànovich de dove che i vien. Che de Antìvari. Che Antìvari xe estero e che i se ga zà fato libera pratica in qualche altro porto. Che no. Che alora per vignir in tera el ghe deve dar la matricola. «Ecola» ghe fa Bogdànovich e 'sto Bùtoraz la verze, el varda la fotografia, che iera, natural, quela de Pìllepich, e el dise: «Come? Questo no sè vù! Come xe 'sta istoria?» E el se mete la matricola in scarsela e el ghe fa: «Diman matina, omo, ale diese ore vignì in Governo Maritimo!» — Portada via la matricola? — Sicuro. El ghe la ga portada via, perché no el lo ravisava cola fotografia. — Ahn! E dopo? — E dopo, siora Nina, i xe andadi avanti con 'sta maldobrìa dele matricole. Come dopopranzo, dopo magnà, ga ciolto inveze el caìcio Pìllepich e el ve xe andà in tera cola matricola de Bogdànovich. E sempre sul molo 'sto Bùtoraz bareta fracada e muso risoluto. Se el ga la matricola. Che ecola. Che no el lo ravisa, che in fotografia no el xe lu, che come xe 'sta istoria, che 'sta barca no xe gnente in ordine. E el se mete la matricola in scarsela e el ghe dise anche a Pìllepich che, come diman matina ale diese ore, el se presenti in Governo Maritimo. — Ah! I ga dovesto andar in Governo Maritimo tuti dò, come diman? — Sicuro, siora Nina: quel ve iera el truco. Difati, come diman de matina, i xe andadi in Governo Maritimo tuti dò. «Eco — dise 'sto Bùtoraz al deputato del Governo Maritimo de Ràbaz, che quela volta ve iera un zerto Vìscovich — eco, questi ve xe quei dò marineri che ve disevo che tuti dò sula matricola i ga una fotografia che no xe sua». — «Bon — fa 'sto Vìscovich — alora vedemo come che xe 'sta istoria». El tira fora le matricole del scafeto del pulto, el verze una, el lege e el ciama: «Giuseppe Bogdànovich!» «Son mi!» dise Bogdànovich. «Ah sì che sé vù, ve raviso cola fotografia. Vedemo quel'altra: Antonio Pìllepich!» «Son mi!» «Eh sì, anca vù sé vù. Ve raviso cola fotografia!» E a Bùtoraz: «Come xe 'sta istoria Bùtoraz mio, che mi, savè, qua go assai poco tempo de perder!» Insoma, siora Nina, 'sto Bùtoraz, remenà per i vivi e per i morti. — Mincionà, come? — Sicuro, mincionado. Più che mincionado: cojonà. Perché, una volta fora de man de quei che fazeva 'sta maldobrìa, le matricole tornava giuste. Uuh, truco vecio, siora Nina, per cojonar la Finanza. Che, anzi, Barba Nane diseva sempre: «Cojonè, cojonè, vù, le Finanze! Mi a quei che fa 'ste bravure, ghe cavassi la matricola!» — Ahn, e cussì i ga perso la matricola? — Lori persa la matricola? E perché? Bùtoraz ve ga perso la tramontana; tanto el se ga infotà, tanto el se ga rabià per 'sta roba in Governo Maritimo che tuti, fina i scarigadori de porto, le crature che zogava in marina, xe vignudi a veder cossa che nassi, e lu tuto rosso ingalà che el zigava jebenti e che pareva che ghe dovessi vignir un colpo de un momento al altro. E volè creder che, de quela volta, tuti, ma propio tuti a Ràbaz lo ciamava Cagarabia? Anca le crature. — Le crature? Bruto. — Cossa bruto? Le crature, la mularia, insoma, co' lo vedeva passar marinavia, con quela sua anda de gendarmo, man drio dela schena, bareta fracada e muso risoluto i ghe zigava «Cagarabia! Cagarabia!» e po' i scampava su per quele scale, che, no so se ve ricordè, portava dove che iera la scola. Insoma, per 'sto Bùtoraz, a Ràbaz no iera più né un viver, né un morir. Tanto che el se gà impetì a Pola. — Ah, el se ga impetì che i lo ciamava Cagarabia, povero omo? — Ma cossa povero omo, che el iera un tremendo. E po' come volevi impetirse in una Pola disendo i me ciama Cagarabia? No, lui se ga impetì a Pola, che Pola, quela volta, ve iera tuto per la Marina, anche per la Finanza de Marina, el se ga impetì che i lo mandi in un altro logo. — Perché che no i lo ciami più Cagarabia? — Sicuro. E i lo ga distinà a Trieste perché, savè, a Trieste iera tanto lavor in porto, tanto movimento e tanto contrabando che i gaveva sempre bisogno de Finanze. In una Trieste, podè capir, no i lo ciamava né Cagarabia né Cagamiracoli, perché in una Trieste chi ve conosseva un Bùtoraz? E a Trieste savè dove che i lo ga messo come Finanza? I lo ga messo — che de bordo se lo vedeva caminar su e zò con quela sua anda de gendarmo, man drio dela schena, bareta fracada e muso risoluto, de quando che fazeva ciaro fina che fis'ciava mezogiorno — i lo ga messo propio sula Passerela de Sant'Andrea, che iera el pezo posto per una Finanza, perché là, con tuti i maritimi che andava e vigniva, iera un continuo. — Un continuo cossa? — Un continuo dimandar matricole, visitar la gente e, natural, un rabiarse con tuti 'sti maritimi che tentava de fracarghela. Ben, no volè che el fio de Nini Filipàs, un de quei dò gemei Filipàs che ve disevo, Nini e Tonin, che iera sempre imbarcadi insieme, tuti dò alti, biondi, oci celesti, naso a spontièr, precisi compagni, che gnanche le mogli no li distingueva, bon 'sto fio, cratura ancora, che l'andava a scola ale Popolari, xe andado a bordo del Calitea a cior una borsa nova de scola che el padre ghe gaveva portado de Alessandria. — Ah, come che me gavevi dito che fazevi anche vù, de cratura? — Sicuro; sempre se fazeva. De pici col padre e de grandi col fio. Ben, a bordo, 'sto Nini Filipàs, a 'sto fio ghe ga messo pulito in borsa i libri che lu gaveva portado drento in Punto Franco ligadi cola strenga, e, cratura che el iera ancora, el lo ga volesto compagnar fin oltra dela Passerela. — Per via che no 'l caschi? — Cossa volevi cascar dela Passerela che la ve iera e la ve xe larga e longa come el ponte de Salcàn a Gorizia, mi calcolo? No, lui lo ga compagnado per compagnarlo. E no volè che sula Passerela 'sto Bùtoraz che a Trieste el ve iera deventado ancora più tremendo che a Ràbaz, el ve ferma 'sta cratura? Che cossa che xe quela borsa. Che xe la borsa de scola del fio che va scola e che drento xe solo che i libri de scola, ghe dise Nini Filipàs, tuto soridente. Che no xe gnente de rider ghe fa 'sto Bùtoraz con bruta maniera, che lu sa sì che drento xe solo che libri de scola, ma che lui no xe Finanza per gnente per no saver che quela xe una borsa de Alessandria, che paga dazio. Cossa borsa de Alessandria, che xe borsa de scola, ghe disi Nini Filipàs e che po', in malora, dove mai se ga visto sula Passerela una Finanza far osservazion per una borsa de Alessandria. Che se lu no ga mai visto, el vede ogi, jebenti, ghe fa Bùtoraz. E insoma, borsa de scola, borsa de Alessandria, i ga cominzià a quistionar cussì forte, ma cussì forte che se ga ingrumado là tanta de quela gente che intanto el muleto — no so se perché zà furbo come el padre, o perché stremido, — in tuta quela confusion, cola sua borsa nova in man el ga passà la Passerela e, corendo, el xe corso a casa de sua zia a Trieste, che stava là vizin, in Broleto. — Jessus! El ga portà fora la borsa? — Natural, se el xe scampà via cola borsa. E 'sto Bùtoraz co' se ga inacorto de un tanto, che dove xe la cratura, dove xe la borsa e, tuto rosso ingalà, el ghe ga intimado a Nini Filipàs che el ghe consegni la matricola e che se el la volerà gaver de novo indrìo che el vegni come diman dopopranzo ale tre ore de dopopranzo a ciorsela in Governo Maritimo. — Mama mia, senza matricola? — Per forza, se el ghe la gaveva ciolta. E Nini Filipàs xe subito tornado a bordo a contarghe al fradelo Tonin, predicando che dove se ga mai visto una roba compagna, che sula Passerela xe un tremendo, un fiolduncàn che vol farghe pagar dazio anche ale crature e che mi, natural, go trovà de quistionar, che cussì, cussì e cussì e che insoma el me ga anca ciolto la matricola. Bon — ghe ga dito Tonin — lassa star Nini, in qualche modo faremo, perché no xe ancora nata la Finanza che ne la farà a nualtri. E la matina drìo Tonin Filipàs, che iera franco e Nini inveze no, el se veste, el va in tera, e el va su per la Passerela... — Ah, el passa la Passerela? — No, no el passa la Passerela. Perché Bùtoraz, che caminava su e zò come el suo solito, bareta fracada e muso risoluto, apena che el lo vede, el ghe fa: «Ah, vù sé? Vù sé qua di novo?» Che, de novo o de vecio, ghe dise Tonin Filipàs, lu no ga voia de far ciacole, che qua xe la matricola e el ghe la mostra. E 'sto Bùtoraz come un falco ghe la cava de man. Che cossa — el ziga — che come? Che come un maritimo pol gaver dò matricole. E che come dopopranzo no el gaverà gnanca una! Perché savè, siora Nina, guai gaver dò matricole soto l'Austria. — Libera nos Domine! El ghe ga portà via de novo la matricola? — Cossa, de novo? Una el ghe gaveva portà via a Nini e quel'altra a Tonin, che no se li distingueva, precisi compagni che i iera. Tanto che quel dopopranzo, ale tre ore de dopopranzo, in Governo Maritimo, propio, el Comandante del Governo Maritimo de Trieste, che iera un lussignan, un certo Stùparich ghe ga dimandado a Tonin Filipàs, che cossa che xe 'sta istoria che Bùtoraz qua me dise che vù gavè dò matricole. «Ah mi, come mi ve go una matricola, Comandante — ghe ga dito Tonin tuto soridente — sarà che quel'altra xe de mio fradelo Nini». E el ghe lo mostra col dèo, de drìo de lu che el iera. «Sarà, Comandante, che mi e mio fradelo semo i dò gemei Filipàs, tuti dò alti, biondi, oci celesti, naso a spontièr, precisi, compagni che gnanche le mogli no ne distingue». Un rider, siora Nina, in quel Governo Maritimo che mai, mi calcolo, no i gaveva ridesto tanto in un Governo Maritimo. — Chi, questi che rideva? — Tuti rideva, siora Nina. Anche el Comandante del Governo Maritimo de Trieste, che iera un lussignan, un certo Stùparich. Tuti ga ridesto. Fora che Bùtoraz, che rabiado el zigava jebenti, tuto rosso ingalà, che pareva che ghe dovessi vignir un colpo de un momento al altro. Cojonado per la vita e per la morte. Tanto che, de quela volta, anche a Trieste i lo ga sempre ciamà Cagarabia. Fina che xe cascà l'Austria. — E dopo? Dopo no i lo ciamava più? — No, dopo, lui ve xe andado a Métkovich, dove che el xe deventà Finanza croata. Che anni e anni el ve ga caminà su e zò per el molo de Métkovich, con quela sua anda de gendarmo, man drio dela schena, bareta fracada, mustaci de fero e muso risoluto. E tuti lo ciamava Cagarabia. Per croato, natural. MALDOBRÌA XVIII - UN POSTO AL SOLE Ovvero il romanzo di una giovane povera o, se più vi piace, la saga di una, anzi di due famiglie isolane, a cavallo di due secoli, quando, come tutti ben sanno, c'era tutto un altro mondo e tutta un'altra concezione della vita. — Cossa volè che ve digo, siora Nina, quela volta iera tuto un altro mondo, tuto un'altra concezion dela vita. Prima dela Prima guera, intendo, intanto perché per quaranta ani no iera guera, ma propiamente perché, a modo suo, ognidun gaveva el suo, fora che, natural, quei che no gaveva gnente. Savè, quela volta, tuto ve iera nasser dela parte giusta. Perché, numero un ve iera i signori... — Ben, quei ve xe anche adesso... — Eh no, perché i signori de quela volta, i signori veri, ve iera quei che gnanche no i saveva quel che i gaveva, tanto che i gaveva, come presempio, qua, i Petris, i Colombis, i Ivanìssevich, un Conte Bepi, un Conte Bepi Duda degli Ivanìssevich e i Bertoto anche, ma meno. Ma tuti questi ve gaveva case e campagne e tuto. E po' ve iera i richi. — Ah, i signori no iera richi? — Come no! Sicuro che i signori ve iera richi, ma i richi no ve iera tuti signori. Però iera quei che gaveva i soldi, che se gaveva fato i soldi coi squeri, cole barche, coi noli, cole agenzie maritime: per dirve un Bùnicich, el vecio Mòise, i Giadròssich, i Nìcolich, tuti i fradei Nìcolich... — Eh, me ricordo, i Nìcolich iera tuti gente de sesto... — No, siora Nina: i Nìcolich, ve go dito, ve iera richi e la gente de sesto iera altri; perché gente de sesto se ghe ciamava a tuti quei che lavorava per viver. E po' ve vigniva la bassa forza che iera quei che viveva per lavorar... — Come Martin Ghèrbaz, metemo dir? — Cossa, Martin Ghèrbaz? Chi ga mai visto lavorar Martin Ghèrbaz? Martin Ghèrbaz ve iera un povero. Oh Dio, no de quei poveri che dimandava pretamente la carità che quei, massime, i ve iera in cità, ma iera un povero. Un povero? Insoma, un bisognoso. — E i bisognosi no dimandava la carità? — No, i bisognosi se saveva che iera bisognosi e basta. Inveze quei pochi che qua dimandava la carità, quei sì ve iera pretamente poveri. — Ah, intendè dir quei poveri che vigniva sula porta? Mia madre povera defonta sempre ghe dava: un soldo, dieci centesimi, dopo, anche venti, se iera per le feste... — Sì, anche quel fazeva tanti. Ma a Lussin, propiamente savè cossa che assai se usava? Se usava che co' vigniva un povero a bater sula porta de casa e el dimandava un soldo le done ghe diseva: «Omo, volè pitosto una minestra de ieri?» Che sì, ah, che grazie. «Bon — le ghe diseva — alora tornè dimani». — Per no darghe, come? — No per no darghe, ma perché in alora no iera concepibile, siora Nina, che un povero podessi magnar una minestra de ogi, come i poveri de ogi. Una volta i poveri doveva magnar la minestra de ieri. — Ah, iera cussì regolado soto l'Austria? — Cossa regolado, siora Nina? Che in 'ste robe no ghe xe mai regola. Presempio, metemo dir, un Piero Tomìnovich che ve iera fanalista ala Lanterna. Lu, come fanalista, el ve iera de bassa forza, ma i Tomìnovich ve gavessi podesto esser anche gente de sesto, se no i gavessi avesto tanti fioi. Perché lui, Piero Tomìnovich gaveva quela, che tanti ga, de voler gaver a tuti i pati un mas'cio e cussì el gavudo sie. Sie femine. Sie fie: Maria, Vanda, Nevina, Nives, Mercedes e Pierina, l'ultima, perché lu se ciamava Piero. — Ah, Piero Tomìnovich el fanalista? — Sicuro, de chi ve parlo? Quel che iera fanalista co' iera ancora la Lanterna qua, sul scoio dela ponta. — Eh, se andava sì qualche volta a far la caminada fina ala Lanterna e, adesso che me sovien, co' iero putela mia madre me diseva sempre: «Qua, ti vedi, Nina, una volta stava Piero el fanalista che adesso xe in Ospizio Marino...» — Sicuro. Piero Tomìnovich, povero, che ve go dito. Ma, ve disevo, i Tomìnovich gavessi podesto anche esser gente de sesto, se no i gavessi avesto tute quele crature una drìo del'altra. Perché, con sie fie, cossa volevi che ve podessi far el fanalista Tomìnovich con quela picola pagheta de fanalista che el gaveva? Va ben che i gaveva anche quartier in Lanterna. Oh Dio, quartier, logo per star in Lanterna i gaveva, ma logo picolo, marì moglie e sie fie che i iera, che, con decenza, no i gaveva gnanche logo de decenza in casa. — Eh, sì, qua una volta, massima parte tuti gaveva separato... — Maché separato! Lori no i ve gaveva gnanche separato: lori pretamente sul scoio del fanal i doveva, siora Nina, che anca per quel, mi calcolo, a Piero Tomìnovich i lo ciamava Caghinacqua. Che anzi, co' le fie ghe iera più grande, qualche volta de istà, i muli, i andava là nudando soto acqua per vederle... mularìa, podè capir. Indiferente, Piero Tomìnovich gaveva i sui pensieri, natural. — Eh, 'ste putele, cussì, sole sui scoi... — Ma cossa quel, che quel saveva tuti fora che lu, mi calcolo. No: el gaveva pensieri perché con quela misera pagheta de fanalista che el gaveva, no ghe vanzava e no ghe rivava. — Xe, xe, pensieri, so, so, co' no riva, sior Bortolo... — Eh, però, qualche volta, siora Nina, i pensieri xe anche co' riva e co' avanza. Cossa che no ghe avanzava, per modo de dir, a Sior Nicolò Nìcolich che lui pretamente ve iera rico. Rico? Milionèr, in fiorini i calcolava. Perché i Nìcolich ve iera in zinque fradei e tuti gaveva la Nìcolich e, per zonta, ognidun de lori gaveva ancora del suo. — Tuti gaveva la Nìcolich? Chi questa? — Come, chi questa? La Nìcolich. La «Niccolò Nìcolich e Consorti», che lori gaveva barche, scune, vapori anche, agenzie maritime, qua, a Trieste e perfin in Levante che a Costantinopoli, figurèvese, co' mi navigavo per Levante, in un belissimo logo in riva de Costantinopoli, iera scrito fora in grando «Niccolò Nìcolich & Consorti». — Ahn, a Costantinopoli questo? — Anche a Costantinopoli, ma dapertuto. E a Trieste massima parte dove che stava i sui quatro fradei. — Ma no gavevi dito che i iera in zinque? — Sicuro che i iera in zinque, se Sior Nicolò gaveva quatro fradei. Perché iera lui, Sior Nicolò, Mondo, Meto, Marco e Ménigo. E lui gaveva due fioi. — E i altri gnente? — Cossa i altri gnente, che tuti i Nìcolich messi insieme i ve iera un emporio! Mi ve disevo che lui, Sior Nicolò, gaveva due fioi: Zaneto e Tonin, e propio per questo, che ve disevo, el gaveva pensieri... — Perché che el gaveva solo che dò fioi, in confronto dei altri? — Cossa solo che dò? Che dò fioi basta e avanza, siora Nina. Che po' anche volendo no el podeva gaverghene altri, perché la moglie, che prima ghe iera sempre inferma, come, po' la ghe iera morta. Ma el suo grando pensier iera, mi calcolo, che Zaneto, el fio più grando, ve gaveva anca lu poca salute e Tonin, che inveze ben, no el ve iera propiamente stupido, ma un poco momi. Pensévese che Sior Nicolò gaveva dovesto mandarlo a far le Nautiche a Trieste, dai fradei, perché ale Nautiche de qua el ghe fazeva vergogna. Lui, qua, siora Nina, per ogni anno de scola el ghe ne doveva far dò: longo longo, sempre in ultimo banco, che no l'andava né avanti né indrìo. — Ripetente, come? — Uh! Altro che ripetente! Perché, ale Nautiche de Lussin, soto l'Austria, no iera né Dio né santi. «Cossa ve manderò in mar a fondar i vapori?» ghe diseva qua el professor Marìncovich ai muli dele Nautiche. Soto l'Austria, savè, no ve iera protezioni, come che xe adesso. Oh Dio, ve iera anche, ma meno. E anche per quel, mi calcolo, 'sto Tonin a Trieste, dove che più se podeva sbisigar, cità granda, in un modo o nel altro, el andava avanti... — Ah, el stava a Trieste a costo dei fradei del padre? — Ma cossa a costo, che i fradei de Sior Nicolò a Trieste iera qualcheduni. Che anzi i ghe diseva sempre — perché lu, savè, iera la vera testa dela famea — «Perché ti sta là a Lussin, Nicolò, vien a Trieste con nualtri che a Trieste te xe noma che ben!» Capirè, lori anni e anni che i stava a Trieste, ghe pareva poco oramai star qua in paese. Ma Sior Nicolò no ghe sentiva de quel'orecia. «Cari vù — el ghe diseva — mi resto qua, perché qua se xe quel che se xe, e a Trieste vù sè quel che vol i altri!» — Chi 'sti altri? — Indiferente. Cussì el diseva. Ma la vera verità ve iera che lu, che ve iera el più vecio de tuti i fradei, lui ve gaveva le sue abitudini e lui fora de qua no el se gavessi gnanche trovado. Lui, de matina bonora, presempio, — ancora me lo ricordo, bel omo sempre, alto, drito come una spada, con tuti i sui cavei e belissimi oci — prima de far merenda, in capel e capoto de inverno e in vita de istà, el ve fazeva la caminada fina ala Lanterna e qualche volta anche fina là dela casa del maestro Girardeli, gavè presente? E po' el tornava indrìo. — Ah, l'andava a trovar el maestro Girardeli? — Ma cossa el maestro Girardeli, che a quel'ora el iera zà a scola. Lui ve andava e el ve tornava indrìo, per la caminada. Ve go dito che, massima parte l'andava solo che fina ala Lanterna. E xe stà là che una volta, subito dopo che la gaveva avudo el tifo — savè, 'ste fie del fanalista Tomìnovich, ve magnava pantalène sui scoi, rompendole col sasso — e che, natural, i ghe gaveva taià i cavei, xe stà là che Sior Nicolò el ve ga incontrado la picola Nives, cratura, con indosso una vecia maia del padre a righe, che ghe rivava fina ai zenoci, e che la portava un grando secio che tanto ghe pesava, che per portarlo la se fermava ogni momento... — Povera cratura! Un secio de cossa? — Cossa un secio de cossa? Un secio de acqua. Perché i Tomìnovich no solo no gaveva né in casa né fora, con decenza, el logo de decenza, ma no i gaveva gnanche l'acqua e la picola Nives più de una volta ghe tocava a ela andar a ciorla fora in cisterna. E tanto grando, siora Nina, ve iera 'sto secio che: «Secio, dove ti porti quel omo?» ghe ga dito Sior Nicolò ala picola Nives che, coi cavei taiadi e indosso la maia del padre a righe fina ai zenoci, la pareva un putel. E ela ga pozado el secio, la lo ga guardado e, «No che no — la ghe ga dito tuta soridente e con un bel sestin — no che no son un omo, la picola Nives ve son e i me ga taiado i cavei dopo che go avesto el tifo». — Eh, i fioi quando che i xe picoli i xe assai cocoli... — Sì, de picoli. Xe quel che ga pensà anche Sior Nicolò a veder 'sta picola putela con 'sti dò grandi oci celesti, coi cavei curti biondi e con 'sto bel sestin. «Ah, Nives ti se ciami! E mi, inveze, Nicolò, come San Nicolò», el ghe ga dito ridendo, intanto che ela tirava suso de novo el secio. E, saludandola cola man el se ga ciapà su e el xe tornà de novo indrìo, perché oramai iera zà ora de far merenda. — Eh, usava sì i omini una volta, a meza matina, far merenda... — Indiferente. Questo iera per dirve che, de quela volta, ogni matina — ogni matina, insoma, co' el la intivava fora dela Lanterna — «Secio, dove ti porti quel omo» el ghe dava de vose zà de lontan, sior Nicolò ala picola Nives e ela, pozando el secio, la ghe andava incontro, tuta soridente con quel suo bel sestin. E che brava e che anche ogi che la va cior l'acqua, e che l'acqua non costa nulla e che la pulizia giova ala sanità. Sì, e che chi è neto somiglia al angioleto, come che dise la maestra Morato. Ahn, che la va zà a scola? Che sì che sì, che come no, che la xe in quarta. E che come mai alora che de matina no la xe a scola? Che le sorele xe a scola, ma che ela i la fa star a casa perché la ga avesto el tifo. E che quanti anni che la ga. Che dieci la ga fato in april. Che brava, che zà cussì granda. E ela che sì e che quanti anni che el ga lu. — Ah, ela, cussì, franca, ghe ga dimandado quanti anni che el ga lu? — Sicuro. E anche Sior Nicolò se ga stupido, perché le crature no usa de solito dimandarghe i anni ai grandi. E cussì el la ga guardada e dopo, con quel'anda de cior via che qualche volta gaveva Sior Nicolò, el ghe ga dito: «Quanti anni che go mi, picola? Ah, mi te gaverò un trentasete o quarantasete, no me ricordo...» Che come che no el se ricorda, la rideva ela, che trentasete o quarantasete? E alora lui, sempre con quel'aria de cior via, el ghe ga dito: «Eh, picia mia, mi te conto le fiasche de vin che in cantina, mi te conto le possade de argento che go a casa in cassetin dela credenza, mi te conto i mii soldi, perché questo te xe roba che poderìo perder o che qualchedun me podessi anca portar via, ma i anni che go, picia mia, quei no li conto mai, perché quei no li posso sicuro perder e sicuro no me li porta via nissun...» — Ah, no el voleva contarghe? — Ma no: questo ve iera un scherzo, un scherzo che ancora ghe fazeva suo padre a lu, quando che el iera picio e che lui per far rider 'sta picola Nives ghe fazeva a ela che lo guardava come incantada. Tanti scherzi lui ghe fazeva, che ghe gaveva fato a lu suo padre o magari suo nono quando che lui iera picolo. Una volta, presempio, che i ciacolava sentai sul mureto del terazzo davanti dela Lanterna, e ghe iera cascà el capel zò sui scoi, el ghe ga dito: «Lassèmolo star là dove che el xe cascà, tanto più in zò de là no el pol andar, e po' se mi vado zò per tirarlo su a lu, forsi che casco mi, e cascà mi, lu, forsi che a mi el me tira su? E se lu no me tira su a mi, perché doverlo cascar mi per tirarlo su a lu?» — Ahn, el lo ga lassà là? — Ma no! Anche questo iera un scherzo che lui ve fazeva per far rider 'sta cratura. Sicuro che el lo gaverà tirà su: Sior Nicolò ve iera un omo svelto. «Vù sé sempre come un giovinoto» ghe zigava drìo el vecio Andre, co' de matina bonora el lo vedeva sortir, andando zò svelto per quela granda, bela scala de piera che lori gaveva in giardin davanti dela casa. Insoma, per dirve, 'sta picola Nives, ciacoleta che la iera, tanto ghe piaseva ciacolar con 'sto Sior Nicolò che più de una matina la se intardigava a spetarlo che el rivassi, rente de 'sto grando secio, tuta soridente. — Ah, i se intivava ogni matina? — Eh no, siora Nina, solo fin che no la ga dovesto tornar a scola. Però cossa che no ve iera a scola 'sta picola Nives! Brava che mai. Perché ela ve iera l'unica de 'ste sie fie de Piero Tomìnovich che gaveva testa e volontà. Massime volontà la gaveva, sempre bel sestin, bela anche e — ve disevo — bravissima a scola. Tanto che la maestra Morato, co' la ga finì, tuto con belissime note, le Popolari, la ghe ga fato gaver dala Comun el stipendio dele Scole austriache per andar a studiar avanti, in scola italiana natural, per maestra, a Pisin. Putela de sesto, con un bel sestin, sempre più bela, bionda de cavei, oci celesti e ben che la se tigniva, mai no se gaverìa dito che la iera fia del povero fanalista Tomìnovich, che la madre ghe girava in fazoleto e traversa anche co' l'andava a Pisin a trovarla. Ben, volè sentir, siora Nina, per farvela curta, cossa che xe nato co' la ga finì le scole? — Che la xe deventada maestra... — Anche. Ma indiferente quel. Ve xe nato, siora Nina, che Zaneto, el fio più grando de Sior Nicolò, una istà se ga inamorado in ela. — Ah, la ga avù dispiazeri, povera? — Maché dispiazeri. Perché? La Nives Tomìnovich ve iera, ve go dito, una che gaveva testa e volontà. Che la saveva quel che la voleva. E 'sto Zaneto, fio de Sior Nicolò, no iera una belezza, savè, el ve gaveva el naso a spontièr, come la madre, che la ve nasseva Bertoto, e poca salute che el gaveva, gnanca militar no i lo gaveva ciolto, debole de petto i diseva, ma assai un bon fio, de boni sentimenti. E lu, ve go dito, se gaveva inamorado in ela. Che quel'istà i se gaveva parlà tuto l'istà e lui ghe diseva che in un modo e nel altro i farà in qualche modo. — Che i farà in qualche modo, cossa? — Ma come, cossa? Podè capir, siora Nina, bisognava che i fazessi in modo e maniera de far qualcossa, perché chi qua podeva mai concepir che un fio de Sior Nicolò podessi sposarse con una fia de un fanalista Tomìnovich che, marì e moglie e sie fie che i iera, con decenza, no i gaveva gnanche logo de decenza in casa e i doveva sul scoio?... — Eh, bruto xe in 'ste robe, co' xe famee cussì diferenti... — Bruto o bel, siora Nina, el bel xe stà che sicome che la Nives Tomìnovich gaveva fato i studi a Pisin insieme cola Doreta Ivanìssevich e che i Ivanìssevich, per i Santi, i fazeva sempre granda festa in casa, per via che la madre se ciamava Santina e vigniva tuti, tuti i meo, intendo, de Lussin, i la ga, pensèvese, invitada anche a ela, perché lore due, tute le scole insieme che le gaveva fato, le ve iera deventade pretamente intrinseche. Sempre per casa dei Ivanìssevich ve iera la Nives e là, mi calcolo, la ga avesto modo e maniera de veder coi sui oci che noma che ben che viveva i signori. Difati, anche quela volta, festa granda e tratamento grandioso. — Ah, iera anca tratamento? — Sicuro, grandioso. El Conte Bepi dei Ivanìssevich ve fazeva sempre feste grandiose. Perché lu ve iera pretamente un signor. Ve disevo che i signori tanto gaveva che no i saveva gnanche quel che i gaveva e lu, difati, in alora no el saveva ancora de no gaver inveze più gnente. Indiferente. Bon, i la ga invitada e a 'sta festa e la Nives Tomìnovich ve ga visto, in camera granda, sentà su un canapè come un imperator, Sior Nicolò, sempre bel omo, con tuti i sui cavei, con tuto che iera passadi squasi diese anni, che el iera là che el guardava i giovini che balava. Sentà solo, perché, ve go dito, sua moglie ghe iera morta de anni anorum. Bon, la Nives Tomìnovich, savè cossa che la ga fato? Né dito, né fato, la xe andada drita là de lu. — Per dirghe de balar? — Ma cossa dirghe de balar! Che dove mai una volta una putela se gavessi peritado de dimandarghe de balar a un omo! Ela ve xe andada là drita de lu, la ghe se ga sentà vizin sul canapè e: «Sior Nicolò — la ghe ga dito — vù me scuserè, vù forsi no me conossè più, ma mi ve conosso e so che omo che vù sè...» «Ah, se vù savè che omo che mi son, mi tanto volessi saver chi che xe 'sta bela putela che sa che omo che son mi...» E alora, la Nives, vardandolo con 'sti grandi oci celesti: «Secio, dove ti porti quel omo?» la ghe ga dito tuta soridente. — Iera là un secio? — Ma cossa iera là un secio, siora Nina! Apena che ela ghe ga dito «Secio, dove ti porti quel omo?», lui subito la ga ravisada, dei oci, de quei grandi oci celesti che la gaveva, mi calcolo. «Orpo — ghe ga dito alora subito Sior Nicolò — me ricordo sì! Ma come? Me ieri una spìsima de cratura e adesso me sè un fior de gioventù! Parola mia che me lassè senza parole». «Inveze mi, se permetè, Sior Nicolò, gavessi de dirve una parola», la ghe ga dito subito, cussì, franca. «Vù, Sior Nicolò, sè quel che sè e mi son quela che son. Mi son una semplice ragazza, son solo che fia del fanalista Tomìnovich — no so se gavè presente — ma go assolto l'Otava a Pisin e no go grili per la testa, e in un domani, maestra che sarò, a mi no me mancherà mai el pan, e aver un pan xe tuto, come che vù saverè. Ma una roba che inveze no savè, Sior Nicolò, mi adesso ve devo dir: che vostro fio se ga inamorado in mi e mi in lu. Amor fa amor e crudeltà distrugge, come che se dise. Ma de mi nissun pol dir gnente e podè dimandarghe ala maestra Morato, a Don Blas che me confessa, a tuti, e nissun poderà parlar mal de mi. E i ve poderà anche dir che mi sicuro no ghe coro drìo ai soldi, perché mi soldi no ghe ne go mai gavesti. E se no fussi che son inamorada in vostro fio e lui in mi, no sarìa gnanca vignuda qua a disturbante». — Jèssus Maria! Cussì franca la ghe ga dito? — Xe quel che ghe ga dito Sior Nicolò. «Savè cossa che mi ve dirò, putela mia — el ghe ga dito ala Nives — che vù assai me piasè, cussì franca che sè, come che ieri anche in alora che ve intivavo col secio là dela Lanterna. E per dirve la sincera verità, ve dirò anche che no me dispiasessi che una putela franca, bela e sana come vù sposassi un dei mii fioi. Va ben, amor fa amor e crudeltà distrugge. Dacordo, sposèvese 'sto mio fio. Ma una roba ancora no me gavè dito: no me gavè dito ancora qual dei dò. El più vecio o el più giovine?» «Ah, dò fioi gavè de sposar? — la ghe ga dimandà ela scherzando, come, e vardandolo con quei sui grandi oci celesti — alora se dò fioi gavè, savè cossa, sior Nicolò, ciolerò quel che volè vù, perché mi mai no volessi far qualcossa che podessi dispiàserve». Cussì la ghe ga dito, sempre ridendo e scherzando. E anche lu ga ridesto e ela ciolendolo per man la lo ga portà là de Zaneto che no saveva gnente e che stava magnando una pastacrema. — Ah, per dirghe che la sposava quel altro? — Ma cossa quel altro? La ga sposado Zaneto, Zaneto che iera inamorado in ela, Zaneto, quel col naso a spontièr come i Bertoto e debole de petto. Xe stade une nozze, siora Nina, che tuti se ga stupido de 'sto fio de Sior Nicolò che se sposava con una dele fie de Piero Tominovich, che i ghe diseva Caghinacqua. E grando tratamento in casa dei Nicolich xe stà, che i ga invitado tuti i meo de Lussin, i fradei de Sior Nicolò vignudi de Trieste, natural, e tuto el parentà, fora che i Tominovich, perché ela ghe ga dito a Sior Nicolò, che a lori no ghe importa, che no i bazila, che lori basta che i vegni in cesa. E difati i ga contà che siì che ale nozze iera in cesa, in Domo, la madre de ela col fazoleto in testa e cole sorele, rente l'ultimo confessional, in fondo, soto l'organo. — Ah, i ga sonà l'organo? — No so, siora Nina, se i ga sonà anche l'organo, ma mi calcolo de si. Ma mi volevo contarve che 'sto Zaneto, tempo dò anni, un anno e mezzo, ventitré anni fati che el gaveva, el ve xe andà. — El xe andà militar? — Ma cossa el xe andà militar che gnanche no i lo gaveva ciolto militar, debole de petto che el iera. El ve xe andà: el ve xe propiamente morto. De mal de petto e ancora senza fioi, che inveze sior Nicolò tanto gavessi bramado. E ela, capirè, ga pianto. — Perché che no la gaveva fioi? — Forsi, anca, no so, ma insoma la pianzeva, che pensévese, sete giorni dopo che el iera morto la iera ancora in pianti sempre serada in casa, in 'sta granda casa che i Nìcolich gaveva in Riva. Ela che pianzeva, Sior Nicolò, che podè capir, perder un fio, e anche el fradelo Tonin, vignù de Trieste per el funeral, che no se capacitava. Gnanche zò a pranzo, in camera de pranzo no vigniva la Nives e le done, per via che la magni qualcossa, ghe portava su una picolezza, tanto che un giorno Sior Nicolò xe andado suso espressamente in camera de leto, sua de ela, a dirghe che la se fazzi una ragion. — Eh, mi co' xe morta mia madre defonta... — Indiferente, vostra madre defonta. Sior Nicolò xe andado suso a dirghe che la se fazzi una ragion. «Fève una ragion, Nives mia, vù no podè miga andar avanti cussì, xe oto giorni oramai e vù pianzè e ve disperè come se el fussi morto stamatina bonora. Bisogna farse una ragion, bisogna rassegnarse, Nives mia, se no ancora ve malarè anche vù e inveze bisogna che la vita la vadi avanti». Insoma, siora Nina, tanto el ga dito, tanto el ga fato, che el la ga fata persuasa... — De vignir a magnar zò in camera de pranzo? — Anche, ma, cola fiaca anche de un'altra roba che lui gaveva in testa. Perché, difati, gnanca sie mesi dopo, quei de luto streto che se usava quela volta, se ga savesto, figurévese, che la Nives se sposava de novo. La se sposava col fradelo de Zaneto, con Tonin, quel altro fio de Sior Nicolò. — Col fradelo! Quel un poco momi, che me disevi? — No pretamente momi: oh Dio, lui ve fazeva ancora le Nautiche a Trieste, con tuto che quei che gaveva scominzià con lu, gaveva zà fato e finì el militar e iera capitani. Cola fiaca el parlava un poco, ma bonissimo fio, che quel che i ghe diseva el fazeva. Anche le scole, cola fiaca magari, assai cola fiaca, ma dài e dài el iera rivà che ghe mancava solo che l'esame de capitano. E Sior Nicolò, che assai ghe piaseva che, con 'sta Nives, iera tornada un poco de vita in quela sua granda casa, dove che prima ghe iera solo che lu, 'sto fio de poca salute, el vecio Andre e la vecia Tona, zà veci, che ghe tendeva tuto quel che iera de tender con un dò tre ragazze, campagnole de Ciunski che vigniva a servir, el gaveva fato in modo e maniera che 'sto fio Tonin se fazessi avanti. Insoma, tuti parlava che la Nives se sposa col fradelo del marì defonto, cussì subito, e capirè che ciàcole che iera qua in paese... — Invidie, come? — Sì, sì, anche invidie, ma pretamente ciàcole. I diseva che come, cussì presto, che gnanca passadi sie mesi, che una roba e l'altra e che propio col fradelo: insoma tuto un parlar. Ma dopo, quel giorno che i se ga sposado, che Don Blas la ga sposada de novo, istesso tuti, tuti i meo de Lussin intendo, xe vignudi al rinfresco dei Nìcolich in casa e in giardin, magio che iera e zà caldo. Del Quatordici iera, me ricordo, perché me iera apena morta la madre... — Ah e cussì no sè andà al rinfresco? — Ma cossa volè, siora Nina, che a mi me ciamassi in un suo rinfresco Sior Nicolò Nìcolich! Me ricordo perché ancora me li vedo tuti quanti in grìngola che i andava drento per la porta de fero del giardin, tuti questi che qua ve iera un qualcossa... — Ah, in giardin i andava? — Sicuro, in giardin su per la scala del giardin, che lori gaveva grandiosa de piera bianca e in zima iera Sior Nicolò drito come una spada che ghe dava la man a tuti. In giardin e in casa, con tute le porte dele camere averte, spalancade e tuti iera ben che contenti de andar a 'sto rinfresco, anche per poder petàr el naso. Anca Siora Mima xe andada, che la gaveva tre fie, tute restade pute e una linguazza che tuti la conosseva come linguazza. Tanto che, co' 'sta Siora Mima ga visto sula credenza dela camera de pranzo la fotografia in sfasa del povero Zaneto defonto, forte, per via che senti tuti, la ghe ga dimanda ala Nives: «Chi xe in 'sta fotografia, Nives mia, chi xe 'sto bel giovine, che no vedo ben senza ociai? Chi xe?» «Oh, Siora Mima — ghe ga rispondesto pronta la Nives — xe el mio defonto cognà, che xe morto sie mesi fa, povero...» — Eh, sicuro, cognà el ghe vigniva a star, dopo. — Dopo? Cossa vol dir dopo? Tante robe nassi dopo. Dopo de quel rinfresco, presempio, del Quatordici che iera, gnanca un mese dopo, xe nato che xe morto Francesco Ferdinando, in quela bruta maniera, mazado de quel bosniàco che ghe ga tirà tre colpi de revolver a Sarajevo, cola sposa. — .Eh, bruto! — Bruto, sì. Se ga visto subito che iera bruto, ma istesso, 'sto Tonin, apena sposo, zà luglio che iera, ultimo esame dele Nautiche che el doveva dar, una matina, me ricordo, una belissima matina de sol con vento fresco, el xe partì per Trieste col vapor. «E tornime capitano!» ghe zigava la Nives, saludandolo dal molo col fazoleto, intanto che el vapor fis'ciava. E lu: «Ne vederemo come vénerdi, massimo sabo!» Inveze, siora Nina, come giòvedi, xe rivada la nova a Lussin, in Governo Maritimo. E volè che sia? Savè chi che iera propio là in Governo Maritimo co' xe passà el telegrama? — Sior Nadalin, el Maestro de Posta? — Ma cossa sior Nadalin, el Maestro de Posta, che el Governo Maritimo gaveva telegrafo suo de lu, aposito. No, el fanalista Piero Tomìnovich ve iera là co' xe rivà el telegrama, el padre dela Nives andà là per tirar quela misera pagheta de fanalista. E lu, podè capir, apena che el ga savesto un tanto e el xe sortido del Governo Maritimo e el ga visto in Riva che el vecio Andre verzeva la porta de fero del giardin dei Nìcolich, subito el xe corso là per andarghe a contar la nova ala fia. Ma po' co' el se ga trovà davanti a 'sta granda scala de piera bianca con in alto 'sta casa col pòrtigo che lui no gaveva mai visto, el ga avù come riguardo e cussì el ghe ga dito la nova solo che al vecio Andre che stava portando su un branzin apena ciapà cola fòssina. E mezogiorno che iera, soto el sol, metendose ogni tanto la man nela scarsela dove che el gaveva messo i soldi dela paga, el xe andà pian pian verso la Lanterna. Cussì ve xe stà siora Nina, che Sior Nicolò e la Nives ga savù del vecio Andre, rivà corendo in camera de pranzo con in man un branzin fossinado, stechì, e ancora impirà nella fòssina, che l'Austria ghe gaveva intimado guera ala Serbia. — E come iera 'sto branzin? Grando, per tuti lori? — Ma, siora Nina, cossa ghe andè drìo al branzin, se l'Austria ghe gaveva intimado guera ala Serbia! E questo ve ga volesto dir, numero un, mobilitazion general; numero dò, che Tonin Nìcolich no ga gnanche podù tornar a casa perché el ga dovesto presentarse diretamente a Trieste in Caserma Granda e po' che, sicome che no el gaveva rivà, natural, in quei momenti, a dar l'esame dele Nautiche, i lo ga mandado subito come semplice militar de tera, in Galizia. Vedè, siora Nina, come che qualche volta ve xe la fatalità? Altro che «tornime capitano», altro che «ne vederemo vénerdi, massimo sabo»: Tonin povero, no ve xe tornà né capitano, né gnente. E lu, la Nives e el padre no i se ga più visto né vénerdi, né sabo, né mai. — Come né mai, sior Bortolo? — Sicuro che né mai, perché iera guera e in Galizia el Russo ve sbarava sui omini e Tonin Nìcolich, Tonin povero come che dopo i diseva sempre, ve xe morto pretamente i primi giorni de guera. No se ga mai savesto quando ma, sula carta che i ga mandà qua de Viena insieme con una fotografia de lu in montura, iera scrito: In uno dei primi giorni di combatimenti, «In einem der ersten Schlacht Tage». E savè, siora Nina, che de quela volta, sior Nicolò no ga mai più volesto magnar in vita un branzin? — Mama mia! Mai più un branzin, Sior Nicolò, cussì bon che xe el branzin! E gnanca ela? — No, no: ela magnava branzini, orade orade, ociade ociade, barboni, riboni boni, sardoni, sardele, sardunìci, capelonghe, capesante, caperozzoli, perché ai Nìcolich no ghe ga mai mancado gnente, gnanca durante la guera. Che inveze ala povera gente ghe mancava, ghe mancava. E mancava zuchero e cafè no parlemo, e farina bianca e risi, farina de polenta perfina, tanto che in alora ve vigniva assai più poveri sula porta a dimandar, e gnanche più soldi, ma propio una minestra de ieri. — Che i ghe diseva che i torni diman? — Indiferente ogi e diman. A Trieste ve mancava anche oio, che più de una volta i fradei de Sior Nicolò ve vigniva col vapor a cior... — Ah, i vigniva a cior oio col vapor? Tanto? — Sì un vapor de oio! Ma dài, siora Nina, lori vigniva qua e Sior Nicolò ghe fazeva dar del vecio Andre una damigiana, che Sior Nicolò qua gaveva torcio e campagne, e el ghe dava anche persuto e cosseto de agnel e formagio e miel, che no iera zuchero, e patate, pensévese, che a Trieste no i gaveva gnanche patate. — Ah i vigniva sempre col vapor a cior tute 'ste robe? — Sempre? Lori i vigniva solo che co' ghe ocoreva, co' i gaveva finì. Perché oramai in 'sta granda casa dei Nìcolich, ve stava solo che Sior Nicolò e la Nives, e la gente, adesso diseva: «Che fortuna che ghe xe per Sior Nicolò, povero, che ga perso i fioi, gaver 'sta gnora che la lo tendi, che la ghe fa compagnia, un poco de alegria in casa, che la pensa per lu, che la lo compagna in campagna e anca ala campagna la ghe sta drìo che i campagnoi no se profiti». E inveze, siora Nina, i fradei de Sior Nicolò, i fradei de Trieste che ve disevo, Mondo, Meto, Marco e Ménigo, ogni volta che i vigniva qua, ogni volta meno ghe comodava.... — L'oio? — Maché l'oio. 'Sta Nives, che gaveva in man tuto, che la girava per casa col mazzo de ciave. Perché, capì, lori congeturava, che quando che Nicolò, che iera el fradelo più vecio, un giorno el sarìa morto, tuto ghe sarìa vignudo a ela come vedova del fio, dei dò fioi, anzi, diseva Mondo. Che cussì tuta la roba de nostro fradelo andarà a finirghe a ela e no a nualtri e ai fioi de nualtri, ma ghe andarà a quei altri. «Sì, sì, a quei altri, diseva Meto — ai Tomìnovich, a quei Caghinacqua dela Lanterna!» «Bon — diseva Ménigo che no voleva intrigarse più che tanto — no stèmose infassarse la testa prima de gaversela rota: giovine e bela che la xe, la finirà col sposarse de novo e tuto tornerà in regola...» «Sposarse? — diseva Marco — chi volè che la sposi oramai con dò maridi che la ga zà sepelido? Chi se azardassi? Ela no ve se sposerà altro mi calcolo e ga ragion Mondo che tuto ghe andarà a finir a ela e a quei Caghinacqua dela Lanterna. Lu, lu, inveze, Nicolò, sarìa ora che el se sposi, vedovo che el xe de tanti ani. E savè con chi? Mi go sempre pensà: savè con chi? Cola Noreta Bertoto». — La Noreta Bertoto? Chi questa? — Come, chi questa? Una cugina sua de lori, de tuti i fradei Nìcolich. Perché ve disevo no, che la madre de lori la ve nasseva Bertoto, che per quel più de un dei Nicolich gaveva el naso a spontièr. Ela la ve iera propiamente fia de un fio de un fradel dela madre sua de lori. Seconda cugina la ghe vigniva a star, restada ancora puta... — Ah, una puta vecia? — No puta vecia, giovine, anzi. Ela ve gaverà avudo in quel'epoca un trenta anni. «Cussì — diseva Marco — nostro fradelo Nicolò gavessi una che lo tendi e in più, un diman che lui mancassi, almanco tuta la roba de Nicolò restassi in famea inveze che andarghe a quei Caghinacqua». — Ah sì, come seconda e no prima cugina che la ghe iera, el podeva sposarla. E istesso la iera una dela famea: ben pensada... — Anche i altri fradei ga dito subito: «Sicuro, ben pensada, ben ti se la ga pensada, Marco». Solo che lori no gaveva pensado una roba: che per sposarse bisogna esser in dò e cussì, co' i xe vignudi apositi una volta a Lussin, cola scusa de vignir a cior oio, per dirghe un tanto al fradelo Nicolò e co', ciolendoselo de parte, natural, i ghe ga dito, lui subito, siora Nina, xe saltà su: «Mi, me sposerò la Noreta, con quel naso a spontièr? Che la ve xe noiosa come le litanie dela Madona, che no per gnente la ve xe ancora là, puta!» «Propio per quel che la xe puta — ghe ga dito Mondo — ti podessi sposarla che, adesso che ti, che Dio ga volesto cussì, no ti ga più i fioi, un giorno ti gaverà bisogno de qualchedun che pensi per ti, che te tendi. «Perché ti, Nicolò mio, ti xe el più vecio de tuti nualtri, ti sa quanti anni che ti ga oramai, Nicolò?» «Quanti anni che go mi? — ghe ga rispondesto Sior Nicolò, alzandose dela carega e taiando curto — mi gaverò quarantasete, zinquantasete, indiferente. Perché mi, per vostra regola, i mii anni no li conto. Mi conto i mii soldi, mi conto le fiasche de vin che go in cantina, conto i butilioni del oio, conto le possade de argento che go qua nei armeri dela camera de pranzo, conto i napolioni de oro che go, no ve conto dove, perché tuto questo ve xe roba che poderìo perder o che qualchedun me podessi portar via, ma i anni che go, cari mii, quei no ve li conto mai, perché quei no li posso sicuro perder e sicuro no me li porta via nissun!» — E quanti anni el gaveva in verità? — No so, indiferente. Questo solo per dirve che lu su sta istoria de sposarse cola Noreta Bertoto el ghe le ga dade subito curte. Ma mi calcolo che propio là lui devi gaver scominzià a pensar. — A pensar cossa? — A pensar, mi penso, che se i fradei lo sburtava de sposarse cola Noreta Bertoto che la gaveva vintizinque anni meno de lu, tanto valeva, alora... — Tanto valeva alora cossa? — Tanto valeva alora far quel che lu, senza gnanche saver, zà pensava. E difati, el giorno drìo, co' i fradei, Deo grazias, i xe andai via per andar a ciapar el vapor de Trieste, lui, serada la porta de casa, pozandoghe la man sula spala ala Nives el ghe ga dito: «Graziando Idìo i xe andadi con Dio! Iera ora! Che quei quatro eme de Mondo, Meto, Marco, e Mènigo i sa solo che vignir qua a far confusion». E po' ridendo: «Cussì adesso, Nives mia, semo restadi pulito de novo soli noi dò... come dò sposi». E ela, vardandolo con quei sui grandi oci celesti e setandoghe la cravata, la ghe ga dito: «E perché no?», tuta soridente. Siora Nina, volè creder? Tempo gnanche un mese, lori dò ve se ga sposadi de matina bonora nela ceseta de San Martin, che iera solo che el vecio Andre e la Tona che ghe ga fato de testimoni. E Don Blas, dopo che lori dò i xe andadi via sotobrazzo, el ghe ga dito al nònzolo Severino: «In 'sto mondo no se finisse mai de vèderghene de nove...» — Mama mia! El se ga sposà cola gnora? — Sì, siora Nina, quel in principio più de un diseva che figurévese, el se ga sposà cola gnora, ma dopo un poco la gente diseva solo che el se ga sposà cola Nives. Cossa volè, guera che iera, oramai no ghe pensava più nissun. Ma un dopopranzo ghe xe vignù in casa sua de lori, Siora Mima, curiosa come el suo solito, cola scusa de esser stada a Trieste e de aver visto i fradei de lu, ma in verità per petar el naso. Che Nives mia qua, che Nives mia là, che pulito che gavè fato tuto, che vedo che gavè messo anche tende nove e che de chi, che no go ociai e no vedo ben, xe 'sta fotografia sula credenza de 'sto bel giovine in montura?» «Chi che xe? — ghe ga rispondesto pronta la Nives — xe el mio defonto fiastro, povero, che xe morto in Galizia...» — Eh sicuro, adesso fiastro el ghe vigniva a star... — Indiferente. Questo per dirve che la Nives saveva dirghe el fato suo a tute le Siore Mime de 'sto mondo. E nissun in tuta Lussin se ga mai più azardado de far ciàcole. Lori dò, Sior Nicolò e la Nives, de dimenica, i ve andava a Messa granda in Domo sotobrazzo, lori ve andava a spassegiar per Riva de sera. Lui ve iera deventado pretamente un altro omo, come un giovinoto. Lori, per dirve, andava in caìcio anche, insieme, cola merenda, fina in Candia, in Altatore, a Crivìzza, più de una volta, e lu ghe diseva: «Pecà de Dio che xe guera, Nives mia, perché se no fussi guera, podessimo andarse a far un bel viagio, con qualche bel vapor de linia per el mondo. Ma co' sarà finida la guera, noi dò, sa cossa, Nives, ne faremo un bel viagio col "Viena", in Egito, oh che bel sito che andremo a vedèr...» E el ghe cantava anche. — Cossa el ghe cantava? — Quela el ghe cantava. El ghe cantava in caìcio quela canzon dei Dò marineri che vano in Egito, oh che bel sito che vano a vedèr... — Ahn, e dopo la guera i xe andadi in Egito? — Eh, siora Nina, l'omo propone e Dio dispone, massime co' xe guere, perché subito dopo la guera ve xe stà confusioni. Numero un, ve xe cascà l'Austria, numero dò xe vignudi qua i Italiani — che Sior Nicolò ga dito anzi: «Ghe impareremo a navigar anche a lori» — e po' ve iera la spagnola. La febre spagnola, dapertuto, che anzi due dei fradei de Sior Nicolò, Mondo e Marco, ve xe morti pretamente tuti dò de spagnola a Trieste e lui, inveze, qua, gnente. Arè el destin. «Xe inutile, Nives mia, che andemo adesso a zercar disgrazie per el mondo — ghe diseva Sior Nicolò — che anca qua stemo noma che ben, noi dò insieme». E tanti bei anni i ga passado insieme qua, savè. E i ga fato piturar de novo la casa, de drento, de fora e messo parcheti dapertuto e pensèvese, caloriferi, i primi caloriferi de Lussin e vasca de bagno in bagno, tuto in tavèle e logo de decenza, un belissimo logo de decenza. Anca un fonografo i se gaveva comprà. E po' un bel giorno, Sior Nicolò ghe ga dito: «Sa cossa, Nives mia? Cossa, col "Viena" in Egito, che là te xe tracoma! Noi inveze andaremo pulito de Trieste in America cola "Saturnia" che i la ga apena fata, nova, novente...» — Ah, la Saturnia! La Saturnia e la Vulcania! — No. La Vulcania i la ga fata dopo. Prima de tuto i ga fato la Saturnia che anche mi iero imbarcà sula Saturnia che navigavo quela volta cola Cosulich. Cossa che no ve iera la Saturnia, siora Nina! Perché vardè, mi ve iero sula Marta Wassinton, mi ve iero sul Viena, sul Héluan, sul Thalìa, che iera barca aposita solo che per crociere de passegeri, signori passegeri, passegeroni de lusso, e ben mi ve dirò la sincera verità che co' mi me go imbarcà la prima volta sula Saturnia son restà incantado! Mama mia, che tapedi, che lampadari, che saloni de prima classe, che buffet, che butilierìa! Fina orchestra ve iera a bordo e feste con sampagna che mi che iero in gambusa col commissario Fonda, povero, ogni sera mandavimo su, in secio col iazzo, dozene e dozene de butilie de sampagna. Un viagio in America col Saturnia, siora Nina, in quei anni — ierimo del Vintioto — ve iera una roba che, dopo, mi calcolo, el passeger se ricordava più dela Saturnia che del'America. — Lusso, come? — Lusso, siora Nina, cossa ve vol dir lusso? Ve iera la comodità del passeger. Dove ogi? E gabina sula veranda del ponte ve ga ciolto Sior Nicolò cola Nives. Me diseva el comissario Fonda, povero, che le gabine sula veranda del ponte ve iera el meo del meo: con saloncìn, camerin de bagno, logo de comodo, con decenza, e gabina, natural, con leti veri, no un sora l'altro ma vizini come a casa e tuto in lustrofin. — Orpo! Chi sa che spesa! — Come, che spesa? Sior Nicolò ve gaveva azioni e carati in tute le barche e lu, natural, no ve pagava bilieto. E per el resto, con tuti quei soldi che el gaveva, primo viagio che el fazeva cola Nives, no el se fazeva mancar gnente. E tute le robe che iera: e rinfreschi e zoghi de bordo e cine e feste e bali, tuto quel che iera, lori ve andava dapertuto. Ben, un sabo, che de sabo iera sempre zena grandiosa, dinner che i ghe ciamava, con balo e che, per combinazion, propio quel sabo Sior Nicolò fazeva i anni, ben, come che me contava dopo el comissario Fonda povero, quela sera Sior Nicolò e la Nives xe stadi su a far festa fina matina. Perché apena a mezanote gaveva cominziado el balo, figurévese quanto che no i dava de magnar a zena in prima classe, e noi gavemo mandà su fin le tre de matina e ancora avanti, in secio col iazzo, dozene e dozene de butilie de sampagna. — Festa granda per Sior Nicolò? — Sì, ve go dito, quel sabo per combinazion iera la sua festa, el fazeva i anni, ma no iera propio per lu, ogni sabo se fazeva cussì sula Saturnia: balo con tigliòn, che i ghe diseva, che voleva dir che dopo i spartiva per le tavole capei de carta crep de tute le sorte e i passegeri e le passegere che gaveva capel compagno, doveva balar insieme. — Ah, iera obligo, come? — Ma cossa obligo? Chi ve podeva obligar un passeger de una Saturnia? Tanto xe vero che Sior Nicolò e la Nives ga fato in modo e maniera de gaver el capel compagno e i ga balà sempre insieme fina squasi che iera ciaro. E co' i xe tornadi in gabina, lui, capirè, che gaveva bevudo el suo, ghe xe cascà el capel per tera, nel saloncìn e el ghe ga dito ala Nives: «Bon, là che el staghi, tanto più in zò de là no el pol andar, che se mi lo tiro su a lu casco mi e, cascà mi, forsi che lu me tira su a mi?» — Imbriago, come? — Siora Nina, i signori a bordo no xe mai imbriaghi, i signori xe alegri. E lui iera alegro, savè: «Ogi — el ghe predicava ala Nives, cavandose la giacheta in gabina — go fato i anni, che no so gnanche quanti, perché mi i anni no li conto...» Ma prima ancora che el disessi «tanto quei nissun no me li pol portar via», la Nives ga visto che ghe xe vignù in viso come una vampa e lu, colegandose sul leto ancora cole scarpe, el ga dito: «Go come una scalmana, una vampa in testa, vame, te prego, Nives, a ciorme un poco de jazzo». E ela, podè capir, impressionada, la xe subito corsa in salon dele feste, la ga ciolto un secio de quei del sampagna col jazzo e, sempre corendo, la xe tornada in gabina. E Sior Nicolò, come che el la ga vista vignir drento con 'sto secio in man, zà bianco in viso, el ghe ga dito guardandola tuto soridente: «Secio, dove ti porti quel omo?» E cussì el ga serà i oci e, tuto soridente, el xe andà. — Povero Sior Nicolò! Però che bela morte... — Bela! Bela per lu, ma per la Compagnia no tanto: savè, un morto a bordo ve xe sempre un morto a bordo, frigorifero e tuto. Indiferente. Ogni modo, cossa volè, in alora Sior Nicolò, come che ga dito anche el comissario Fonda povero, el gaveva oramai i sui anni. I sui anni? Oh Dio, in confronto de ela, perché in fondo el ve gaverà avudo circumcirca i anni del padre dela Nives. Solo che el padre dela Nives ve iera ancora vivo e sempre fanalista in Lanterna. — Ah! El fanalista Tomìnovich! — Oh Dio, fanalista. Oramai in Lanterna i gaveva messo l'automatico — anca se no i gaveva mai messo logo de decenza — ma lui ve stava sempre là, solo cola moglie malada, perché le altre fie ve se iera oramai tute sposade, una de qua, una de là. E inveze sola, senza gnanca più el marì, ve iera restada la Nives in quela granda casa dei Nìcolich con tute 'ste fotografie in sfasa: de Zaneto defonto, del povero Tonin in montura e con in mezo, adesso, più in grando, anche Sior Nicolò, tuto soridente. — Sola la ve xe restada, povera? — Povera? Ela, oramai ve iera parona solo che ela de tuto quel che iera dei Nìcolich dela parte de Sior Nicolò. E po', in 'sta granda, imensa casa, ela ve gaveva ancora el vecio Andre, la Tona e tute 'ste ragazze de Ciunski che ghe vigniva a servir. Perché, savè, adesso el vecio Andre ve iera assai vecio e vecia anca la Tona, gnanca più le scale no la ve fazeva, metemo dir, per andar a verzer la porta. Cussì, quel giorno che al fanalista Tomìnovich ghe xe morta la moglie, in Lanterna, propio quando che lu ghe stava scaldando el cafè, e lui, subito, povero, el ga pensà de avisar la Nives e marinavia el xe andà fina in Riva a sonarghe la campanela dela porta de fero del giardin, xe andada a verzerghe una de 'ste ragazze de Ciunski. Che chi che xe che sona, ga dimandà de suso in casa la Nives. Che ghe par un povero. «Ah, alora dimandèghe se el vol una minestra de ieri». «Che va ben, ah», ghe ga dito a 'sta ragazza de Ciunski el povero fanalista Tomìnovich, vardando 'sta granda scala de piera bianca e sperando che cussì almanco i lo fazessi vignir drento in cusina. «Signora che sì, che grazie, el ga deto, che el magnerìa una minestra de ieri». «Bon — ghe ga dito de suso in alto la Nives — alora disèghe che el torni dimani...» No per no darghe, savè siora Nina, ma perché in alora, massime a Lussin, no se podeva concepir che a un povero se ghe dassi una minestra de ogi. E po' ela, cossa volè, no gaveva gnanche visto che iera el padre, perché co' lu gaveva sonà la campanela, ela ve iera, con decenza, in logo de decenza. Perché adesso ela gaveva un belissimo logo de decenza. MALDOBRÌA XIX - GOLA PROFONDA Storia dei tempi in cui, prima della Prima Guerra, non solo i treni, ma altresì i vapori arrivavano, anche dopo lunghi e perigliosi viaggi, sempre in perfetto orario, e di quanto accadde allorché il Comandante Dùndora, che abitualmente spaccava il minuto sul molo, si trovò a dover giustificare a Sior Antonio un incredibile ritardo. — Una volta, siora Nina, la gente iera assai più de parola. Metemo dir un nolo: quando che un capitano falava un nolo de un giorno, de dò giorni — che una volta, viagi longhi che iera, un giorno, dò giorni in mar no iera gnente — bon, una volta falar de un giorno, dò giorni un nolo voleva dir per un Comandante doverghe render conto per fil e per segno al Armamento. — Che ogi, inveze, no ocore? — Natural che ocore anca ogi, mi calcolo; ma quela volta, massime quando che in Palazzo — in Palazzo del Lloyd, natural — ve iera ancora Sior Antonio, guai falar un nolo senza poder dir perché, per cossa e come! — Come, perché e per cossa? — Come «come»? Perché che se gaveva falà el nolo e per cossa che se se gaveva intardigado dò giorni, anca un, su quel che iera distinado... — E perché i se intardigava? — Chi ve ga dito che i se intardigava? Guai intardigarse! Oh Dio, però qualche volta se se intardigava. E, savè una roba? Quel che massima parte fazeva intardigar i vapori no iera le avaree — che una volta iera una rarità specie per un vapor del Lloyd gaver in mar un'avarea — ma i bibiezi dele Dogane nei porti. Foresti natural. — Chi questi foresti? — I porti foresti, siora Nina. Dove che i ve vardava el manifesto punto per punto e i vigniva a bordo a ispizionar colo per colo cossa che gavevi a bordo; perché, savè, in tuti i porti foresti iera sempre modo e maniera de far contrabando. Perché, metemo dir, in una Hongkong, in una Sciànghai, in China insoma, ve iera mudande de omo e de dona che costava un bianco e un nero e po' tài de seda, porcelane, fornimenti de China e, per chi che gaveva corajo, opio. Massime per opio la Dogana chinese — no chinese, inglese a Hongkong — fazeva assai osservazion. — Come? Vù portavi opio? — Opio mi? Mai! Mi fornimenti de China go portà el portabile, e tài de seda anche, belissimi, ma opio, Dio guardi, andar a pericolar col opio! E po' de Kobe se portava machine fotografiche, orologi giaponesi che i Giaponesi vendeva a chilo, figurèvese, e spedistre, e piante de acqua e pupe. Pupe de ciluloide che, con rispeto, sul cavaloto, gaveva propio là una marca con su scrito «Made in Japan». Un rider, a bordo! — Noi tignivimo sul leto una pupa de Giapon che gaveva portado mio padre... — Tuti la tigniva sul leto, dove volevi tignirla, sul bucal? E de Odessa inveze se portava pelami e de Alessandria de Egito borse, belissime borse de pele de Alessandria e de Sudamerica cafè e de Costantinopoli masinini de oton, orologi de Costantinopoli cola Marcia turca, rahàtlokum, gran rahàtlokum per le crature, che i fioi iera come mati co' se ghe portava rahàtlokum. E de Marsiglia profumi. — E de America, cossa portavi de America? — De tuto, siora Nina, che una roba sola mi ve dirò: l'America gaveva, ga e gaverà sempre de tuto. Perché l'America xe un universo. Ma massime de America me ricordo che se portava machinete per impizar spagnoleti e tovaie de inzerada per la tavola de cusina, con suso a colori la Statua dela Libertà e tuto el porto de Néviork che iera belissimo de veder e po' le durava anni annorum. Roba americana. — Eh, durava, durava la roba americana! — E dura ancora. Ve go dito. L'America gaveva, ga e gaverà sempre de tuto, perché l'America ve xe un universo. Ma tuto questo, come contrabando, siora Nina, ve iera monade, iera tuto roba che tuti usava portar. Come contrabando, contrabando vero, tre robe ve iera tremende: primo, opio, che, ve go dito, mi no go mai vossudo intrigarme; secondo: valuta, che qua usava far massime quei che fazeva la linia de Sorìa, a Salonico, a Beirut, che in piazza a Beirut i ve vendeva dolari, sterline, fiorini, quel che volevi, sule barache, come che de nualtri i vende la salata e el radicio; e terzo: diamanti. — Diamanti a Beirut, in piazza, sule barache? — Cossa diamanti sule barache a Beirut? Diamanti, contrabandi de diamanti i fazeva dove che se ga sempre fato e sempre se farà, mi calcolo: in Sudafrica. Quel fazeva quei che fazeva col Lloyd la linia de Sudafrica, Capetown, Johannesburg, che là ve iera tremendo per el negro, iera grandi miserie e grandi richezze, oro, piere a boca desidera. Però, ve go dito, per i diamanti ghe voleva assai corajo perché a Capetown e a Johannesburg guai vignir trapadi in dogana con un diamante. — Ah, iera difizile portar diamanti? — Fazile e difizile, siora Nina. Difizile perché, numero un, ghe voleva assai, assai capital. Po' ghe voleva trovar quei che gaveva i diamanti, negri massima parte che i li robava in miniera e no ve digo, siora Nina, dove che i li scondeva per portarli fora. Però anca fazile, perché un diamante, anca se come diamante el ve xe enorme, el ve xe sempre picolo. Picolo per portar intendo. E cussì, gavendo soldi, fortuna, corajo e trovando el negro, iera un guadagno grandioso. Metemo dir quel che a Trieste in oreficeria de un Jànesich ve vigniva a costar no so gnanca quanto, ben in Sudafrica vù podevi gaverlo per no so quanto de meno: no se podeva gnanca far un confronto. — Ah, assai convigniva? — Enorme, siora Nina. E per questo, podè capir che longa tràina che ve iera ogni volta in Dogana a Capetown, a Johannesburg, co' se doveva molar le zime, che più de una volta, difati, i vapori se intardigava anche un giorno intiero su quel che iera distinado. Ma quela volta, siora Nina, no xe stà solo che un giorno. Passa un giorno, passa dò, passa tre, passa zinque giorni e, a Port Said, no i ga visto rivar de Capetown el «Jupiter» col Comandante Dùndora, che lui inveze de solito ve iera un de quei che spacava el minuto sul molo. — E cossa iera nato? — Xe quel che se ga dimandado quel del'Agenzia del Lloyd a Port Said, che iera un triestin, un zerto Bonifacio. Cossa xe nato, cossa sarà, cossa no sarà che el Comandante Dùndora che ve xe un de quei che spaca el minuto sul molo, xe zinque giorni che no el riva col «Jupiter». E zà de Port Said i voleva bater telegrama a Capetown, co', de sera tardi, dela finestra, i lo vede che el riva. Tanto che subito i lo ciama in Agenzia del Lloyd. — A chi? — Come a chi? Al Comandante Dùndora, che zinque giorni el se gaveva intardigado. «Zinque giorni de ritardo ne gavè fato — ghe ga dito 'sto Bonifacio — cossa ve xe nato? Ieri in avarea?» «No che no ierimo in avarea — ghe ga rispondesto el Comandante Dùndora — xe stado che Sanguini, el nostroomo Sangulìn — poco fora de Capetown el ne xe cascado in mar». Orpo, che xe bruto cascar in mar, bruto fora de Capetown, ghe ga dito Bonifacio. Ma che, cossa, che zinque giorni i lo ga zercado? «No savè che per regolamento maritimo un omo in mar se lo zerca solo che un giorno e che dopo se fa tuto per gnente?» — Zinque giorni i lo gaveva zercado per trovarlo? — Ma no, siora Nina, gnanca zinque minuti. «Gnanca zinque minuti — ghe ga dito Dùndora — no lo gavemo zercado, Bonifazio mio — lu, savè, a Bonifacio, lo ciamava cussì, Bonifazio, ala vecia — gnanca zinque minuti, perché el nostroomo Sangulìn, che come che de pupavia el vardava le propèle el ve xe cascado stupidamente in mar, propio gavemo visto che subito, povero, lo ga magnà el pessecan. Un grando pessecan, vecio, de quei che fora de Capetown speta i vapori che i buti via qualcossa: una roba de un quatro metri e mezo, pensèvese!» «E alora, Dùndora, se Sangulìn lo ga magnà el pessecan — assai me dispiasi, povero Sangulìn — se el pessecan lo ga magnà in zinque minuti, alora perché ne gavè fato zinque giorni de ritardo?» «Eh, per forza, Bonifazio, perché gavemo dovesto corerghe drìo a una barca norvegina!» — I ghe ga coresto drìo a una barca norvegina? E per cossa? — Xe quel che ghe ga dimandado subito 'sto Bonifacio al Comandante Dùndora: «Per cossa ghe gavè coresto drìo a una barca norvegina?» E qua, Siora Nina, el Comandante Dùndora, alzandose dela carega, ghe ga dito franco che «Ah, Bonifazio mio, questo, me dispiase, no ve posso dir a vù, cussì in una Agenzia de Port Said. Questo poderò dir solo a Trieste in Direzion dela Compagnia, in Palazzo!» — Rabiado come? — No rabiado. El Comandante Dùndora ve iera un omo che no se rabiava mai: lui a Bonifacio no ga volesto dirghe, ma subito come che el xe rivado a Trieste e el xe andado in Direzion dela Compagnia, in Palazzo. Bon, là Sior Polich, che ve iera un capocancello in Direzion e che Bonifacio ghe gaveva zà batù telegrama de Port Said, prima roba el ghe ga dimandà: «Perché, Comandante Dùndora, ghe gavè coresto drìo a una barca norvegina fora de Capetown? Disi qua 'sto telegrama «Cinque giorni di ritardo perché inseguito barca norvegina». «Perché? Perché, sior Polich, dovè saver che, apena fora de Capetown, ne xe cascado in mar el nostroomo Sangulìn! «Aah! E lo gaveva tirado suso 'sta barca norvegina?» «No, sior Polich, el pessecan lo ga magnà. Un pessecan longo quatro metri e mezo, dò volte 'sto pulto. El lo ga magnà in zinque minuti, povero Sangulìn!» «E alora, Comandante Dùndora, perché zinque giorni de ritardo? Perché corerghe drìo a una barca norvegina? Ma cossa ieri diventado mato?» — Ah, el iera deventado mato del'impression? — Ma cossa mato el Comandante Dùndora, che el Comandante Dùndora ve iera omo che no ve se scomponeva mai! «No — el ghe ga dito — sior Polich, xe stà che pescadori col motor che ne xe passadi rente gnanca un'ora dopo, ne ga dado aviso che una barca norvegina gaveva ciapà 'sto pessecan vecio, grando dò volte 'sto pulto e che i gaveva visto che i lo gaveva tirà suso a bordo. È alora, capiré, no ne xe restado altro che virar de bordo e corerghe drìo a 'sta barca norvegina...» «Ah, capisso, capisso, Comandante Dùndora, per ricuperar el povero nostroomo Sangulìn, magnà del pessecan! Posso capir! Xe umano, Dùndora. Ma zinque giorni ghe gavè coresto drìo?» «No, sior Polich, come diman li gavemo ciapadi sùbito, solo che gavemo perso squasi un giorno per contratar el prezzo del pessecan...» — Ahn, i vendeva 'sti pessecani quando che i li ciapava? — Sicuro, Siora Nina, tuto quel che se ciapa in mar se zerca de vender e chissà quanta gente che magna pessecan comprandolo per tonno in scatola! Ma indiferente. Ogni modo, va ben un giorno per corerghe drìo, va ben un giorno per contratar, ghe ga dito sior Polich, ma i altri tre? «Eh, ma noi dopo — ghe ga risposto Dùndora — ma noi dopo gavemo dovesto apena meterse in zerca de un dotor!» «Un dotor? Ma cossa, Dùndora, gavè trovado el povero nostroomo Sangulìn ancora vivo in panza del pessecan, come Jona nella balena?» «Ah, questo, sior Polich, me dispiase, ma no posso dirve a vù, cussì, in Direzion. Questo ghe poderò dir solo che a Sior Antonio, in scritorio suo de lui!» — Che Sangulìn iera vivo? — Ma cossa vivo o morto? Spetè che ve digo. El Comandante Dùndora ga dito che el voleva dirghe solo che a Sior Antonio. E Sior Antonio, el giorno drìo, come che el lo ga visto vignir drento dela porta in suo scritorio, subito el ghe ga dito: «I me dise in Direzion zò, che, Comandante Dùndora, me gavè fato zinque giorni de ritardo col "Jupiter", per zercar un dotor. Cossa gavevi? Colera a bordo?» «No, Sior Antonio, xe che nualtri, apena che ierimo fora de Capetòwn, ne xe cascà in mar el nostroomo Sangulìn...» — Ahn, el ghe ga contà de novo? — Cossa de novo, siora Nina? A Sior Antonio no el ghe gaveva contado ancora gnente. Difati: «Ah, cascà in mar el nostroomo Sangulìn! E el se ga fato mal?» ghe ga dimandà Sior Antonio. «No, Sior Antonio, lo ga magnà un pessecan sùbito. Un pessecan compagno, longo come 'sto pulto. Cossa volè? Scalogna. El ve vardava le propèle de pupavia...» E pò el ghe ga contà dei pescadori che ghe gaveva dà l'aviso, dela barca norvegina che gaveva ciapà el pessecan, del prezzo che i gaveva patuì per el pessecan, insoma de come che i gaveva perso dò giorni... — Ah, solo che dò giorni i gaveva perso? — Ma no, siora Nina, zinque. Che difati Sior Antonio ghe ga dito: «Capisso dò giorni per tute 'ste robe, ma zinque giorni de ritardo me gavè fato vù, Comandante Dùndora!» «Eh, Sior Antonio, ma nualtri, dopo, gavemo dovesto portarlo in ospidal!» «Al pessecan, Dùndora? Gavè portà in ospidal el pessecan?» «No el pessecan, Sior Antonio. El pessecan lo gavemo averto a bordo dela barca norvegina che cussì, svodo, dopo ghe lo gavemo vendudo de novo ai norvegini. In ospidal, a Zanzibar, gavemo portado el povero nostroomo Sangulìn». — Jessus Mària! Alora ancora vivo i lo gaveva trovado in panza del pessecan! — Xe quel che ghe ga dimandado anca Sior Anotnio: «Vivo lo gavè trovado, in panza del pessecan? Cossa xe 'sta istoria? Quela de Jona nela balena?» «No, Sior Antonio, — ghe ga dito el Comandante Dùndora tuto soridente — per dirve la sincera verità, el iera propio morto. Ma ben, pensèvese, lo gavemo trovà, pulito, pareva che el dormissi. Con tuto el morsegon. Ma lo gavemo dovesto portar in ospidal a Zanzibar perché solo un dotor de ospidal ghe lo podeva trovar drento, operando». «Ghe podeva trovar drento cossa? Operando chi? «Eh, Sior Antonio, operando el povero nostroomo Sangulìn. Solo operando el ghe podeva trovar drento quel diamante che el gaveva ingiutì per portarlo fora dela Dogana de Capetown, come che me gavevi dito vù. Che, écovelo qua, Sior Antonio, ben netà per la Vostra Signora, come che me gavevi dito solo che vù a mi. E cussì mi, solo che mi a vù, per quei zinque giorni de ritardo ve go dito un tanto». Tanto, ma tanto siora Nina, lo gà portà, la moglie de Sior Antonio quel cussì bel diamante. A tuti i vari. MALDOBRÌA XX - IL DIRE E IL FARE Tra i quali, come non mai, c'è di mezzo il mare con i suoi interminati silenzi e le rigorose abitudini della sua gente incline, ove possibile, a risparmiare financo il fiato. — Tuti i omini xe compagni, ma no precisi, diseva sempre l'avocato Miagòstovich. Come dir che xe carateri. Arè, presempio Cherso e Lussin: le ve xe tacade con un ponte a Ossero, epur Chersini e Lussignani ve ga tuto un altro caratere... — Eh sì, i Lussignani xe interessosi... — No xe quel. Xe che i Chersini ciàcola e i Lussignani inveze i xe de poche parole. Che qualchedun vol dir che i sparagna anca sul fià. Ma, ripeto a dir, che xe e xe sempre stà carateri, fin de in antico. Me contava Barba Nane che a Lussin i contava ancora in antico quela dei dò fradei Rodoslòvich che i gaveva i «Due fratelli». — Ahn! Questi fradei Rodoslòvich ve gaveva altri dò fradei? — Ma cossa i ve gaveva altri dò fradei? Lori iera dò fradei che gaveva i «Due fratelli». Questo parlo ancora in antico, co' tuti navigava a vela, e lori ve gaveva i «Due fratelli», quela barca dei dò fradei Rodoslòvich, che prima iera tre, ma po' un iera morto de rissìpola, ancora picolo, cratura. — Su 'sta barca, povero? — Ma cossa su 'sta barca? Che la barca se ciamava i «Due fratelli» aposta perché el terzo iera morto. Mi volevo dirve, se me lassè contar, che 'sti Rodoslòvich iera de poche parole. Pensévese che una volta, coi «Due fratelli», picola barca che iera, soli lori dò fradei, Bepin e Nicolò Rodoslòvich a bordo, i iera partidi de Lussin per andar fina ale Boche de Càtaro a carigar pelami de cavron. E lori ve xe partidi de Lussin come un lùnedi, come dò lùnedi dopo i ve xe rivadi a Càtaro e come ogi quindici de quel lùnedi i xe tornadi drento in porto de Lussin, sempre fazendo tuto quel che ocoreva, natural, ma senza mai dirse gnanca una parola. Anca quando che, proprio in Canal dela Murlaca, li ga ciapadi un ragàn de bora che i ga pericolado el pericolabile dele sete ore ale nove ore de matina, i se ga solo che vardà fra de lori e i se ga fato el segno dela crose. — Un col altro! — Ma come un col altro? Ognidun se ga fato el suo. Questo, per dirve che Bepin e Nicolò Rodoslòvich ve iera de poche parole. E i contava che, co' i xe rivadi sul molo de Lussingrando, poco fora del molo, Bepin ghe ga dito al fradelo: «Buto el fero, Nicolò?» E el fradelo ghe ga rispondesto : «Quante ciàcole, Bepin! Buta e basta!» — E el ga butà? — Ma sicuro che el ga butà. Come volè no butar el fero de pupavia a Lussingrando co' la barca ve xe de prova sul molo? Iera per dirve de che poche parole che ve iera massime Nicolò Rodoslòvich. «Quante ciàcole», «Vràsie ciàcole», «Maladete ciàcole»! diseva sempre Nicolò Rodoslòvich. E anca Nicoleto. — Chi questo? El fio de questi dò? — Ma come el fio de 'sti dò? Dove gavè mai visto dò fradei gaver un fio? Questo Nicoleto Rodoslòvich ve iera apena un nevodo de 'sti dò fradei, che i lo gaveva fato studiar ale Nautiche de Lussin. E lui pulito, dopo deventà grando e capitano che el iera, assolto dele Nautiche de Lussin, el navigava per l'Austro-Americana. E pensévese che in tuta l'Austro-Americana, con tuto che la iera squasi tuta in man dei Lussignani, no iera nissun più de poche parole de lu. — Questo Nicoleto? — Nicoleto! Nicolò el iera deventado oramai, deventà grando che el iera: el Comandante Nicolò Rodoslòvich, conossudo come un dei meio comandanti del'Austro-Americana, ma più ancora conossudo per de che poche parole che el iera. E inveze, volè creder, co' sul'Austro-Americana se ga imbarcà come giovine de camera Tonin Polidrugo, giovine che el iera, ben quela volta Tonin Polidrugo no lo conosseva ancora a 'sto Capitan Rodoslòvich. Tanto che la prima matina che lu lo ga ciamado in gabina zigando «cafè!», Polidrugo, ghe ga portà cafè. — De cògoma? — Ma indiferente se de cògoma o no de cògoma. El fato xe stà che el Capitan Rodoslòvich, co' el ga visto Polidrugo con 'sto cafè in guantiera, prima el lo ga vardà e po' el ghe ga dimandà cossa che el ghe ga portà. Che cafè, Comandante, ghe dise Polidrugo. «Ben — ghe fa alora el Capitan Rodoslòvich — ben, giovinoto, scoltème una volta per tute, perché mi no me ga mai piasso far tante ciacole. Co' mi de matina digo «cafè!», vù dovè portarme cafè, natural, perché, se no, no butassi via el fià per dir cafè. Ma col cafè, omo mio, vù dovè saver che vù me dovè portar anca el libro de bordo e el giornal fresco de matina se semo in porto, po' dovè far vignir drìo de vù Pìllepich che me fazzi la barba, el cogo che femo el menù del passeger, el gambusier coi conti e el nostroomo coi turni. E el late, se capisse, perché col cafè voio una iozza de late. E tirar suso la bandiera de pupa. Questo quando che digo «cafè!», perché cossa ocore tante ciacole? Se fa e basta...» — Ahn! Tuto questo el voleva col cafè? — Sicuro. E una volta tanto che el gaveva butà fora tanto fià, el ga volesto veder subito se ghe gaveva meritado, se 'sto Polidrugo gaveva eapido. «Vedemo se ti ga capido,» el ghe ga dito puntandoghe el deo sul muso, e de novo el ga zigà «cafè!». — El voleva un altro cafè? — Ma no che no el voleva un altro cafè. El voleva veder se Polidrugo gaveva capido. E Polidrugo che iera zà de giovinoto assai, ma assai sveio, subito el ghe ga dito tuto de un fià, come el Padrenostro: «Cafè vol dir che vù volè cafè, el libro de bordo, el giornal de òi se semo in porto, Pìllepich che ve fazzi la barba, el cogo per el menù del passeger, el nostroomo coi turni e el gambusier coi conti. Late, natural, per el cafè, e tirar suso la bandiera de pupa». — Mama mia! Anca la bandiera de pupa! — Sicuro come che se fa sempre sule barche: de sera se la tira zò e de matina se la tira su. E anzi el Capitan Rodoslòvich, a Polidrugo, prima el lo ga vardado e po', puntandoghe el deo sul muso, el ghe ga dito: «Bravo, ti te farà strada». E cussì ogni matina. — Ahn, ogni matina iera 'sta tràina? — Gnente tràina. El Capitan Rodoslòvich zigava «cafè» e Polidrugo fazeva tuto. Come che tuti fazeva tuto a bordo co' lui diseva una parola. Co' i rivava in porto, presempio, lui zigava: «Fondo!» e i ghe dava fondo al'àncora, i calava zò la biscaìna, el Comissario saltava in tera col manifesto, Polidrugo coreva in piazza a comprar verdura fresca, in apalto a cior el giornal e in Governo Maritimo a cior la posta, el Primo Uficial andava e tornava del'Agenzia e i marineri cominziava subito le piturazioni, perché una barca no se ga mai finì de piturarla, e i tirava suso sul pico la bandiera de cortesia, se i iera in porto foresto. — Tuto questo co' lui zigava «fondo!»? — Tuto. Per sparagnar el fià, come che el diseva sempre. Ma un giorno, Siora Nina, el Capitan Rodoslòvich se ga sentì mancar el fià. A Port Said, che là qualche volta xe caldi teribili. E de prima matina lui ga zigà... — El ga zigà «cafè!»? — No, cafè. No el gaveva voia de cafè. E gnanca «fondo!» no el ga zigà. Nè fondo, nè cafè. Perché, siora Nina, quela matina poco ben el se sentiva. E gnanca no el ga zigà. Solo che el xe malà el ga dito. «Malà!», el ga dito forte. Dò, tre volte el gà dito forte «malà», ma Polidrugo no ghe vigniva. E co' finalmente, passada squasi un'ora, el se lo ga visto comparir davanti, el ghe ga zigà come un mato: «Xe un'ora e passa che go dito «malà»! Cossa diàvulo ti ga fato in tuto 'sto tempo? No ti ga sentiste «malà», che go dito forte?» — Ah, Polidrugo no gaveva sentì? — Sì che sì che el gaveva sentì. «Gò sentisto, sì — ghe ga dito Polidrugo — go sentisto, sì, che gavè dito «malà!». E alora subito son corso in tera, go comprà chinin, sanguete e oio de rìzino, son andà a ciamar un dotor, go fato tignir un leto pronto in ospidal, go batù telegrama ala Compagnia e ala moglie, go ordinà una cassa de zingo, go scrito el mortuario, e, ghe go dito al fiorista che el pronti le corone coi nastri. E adesso son vignù a sentir de vù se volè che tiro zò la bandiera a meza asta». — Mama mia! E lui? — E lui gnente, siora Nina. El capitan Rodoslòvich no ga dito gnente. El se ga tirà su in senton sul leto e, per sparagnar fià, el ga solo che mostrado i corni, puntandoghe i dèi sul muso. Con tute dò le man. MALDOBRÌA XXI - UN ANNO DI SCUOLA Ovvero, frammento di storia delle Nautiche di Lussino, alta scuola di navigazione e di vita, fantasiosamente rivissuto da Bortolo, che evoca i tempi in cui per la biancheria intima dei bambini la civiltà dei bottoni e delle asole non aveva ancora ceduto alla civiltà dell'elastico. — «Vesti un pal e el par un cardinal» ghe diseva sempre l'avocato Miagòstovich defonto al povero Don Blas el giorno drìo dela procession de Corpusdomini co' el lo intivava in Piazza... — L'avocato Miagòstovich in procession de Corpusdomini? — Dove l'avocato Miagòstovich in procession de Corpusdomini, ateista che el iera! Che co' passava el Santissimo, la unica finestra senza tapedo fora iera quela del scritorio del avocato Miagòstovich! Però, bisogna dir, siora Nina, lui ve iera bon cola gente: omo retto. No, «vesti un pal e el par un cardinal» lui ghe diseva a Don Blas el giorno drìo de la procession, che, in procession, Don Blas, natural, meteva sempre el pivial de oro, come dir che el vestito no cambia la persona. — Ahn, cossa ateista iera l'avocato Miagòstovich? — No pretamente ateista-ateista, perché lui diseva sempre che una Mente, un Qualcossa ghe devi esser. Ma indiferente! Lui anca ala Finanza Rimbaldo co' el lo vedeva el Diciaoto de Agosto in montura alta per la Festa del Imperator el ghe diseva «vesti un pal e el par un cardinal» come dir che el vestito no cambia la persona. Ma per rider, savè, miga sul serio. Dove mai un avocato Miagòstovich se gavessi peritado de inofender un Don Blas o una Finanza Rimbaldo? El li remenava come, perché lui inveze iera sempre vestido preciso compagno, che fussi dimenica o giorno de lavor. Me ricordo che lui ve gaveva sempre el suo bel vestito nero, cola cravata longa, el gilè, la camisa bianca, i stivai e in testa la meza nosa. Questo de inverno. E de istà inveze el capel de paia, el vestito bianco, camisa bianca, fiocheto e scarpe bianche, natural. — Ahn! El gaveva solo che due vestiti? — Ma cossa solo che due vestiti, un avocato Miagòstovich! Lui ve gaveva un armeron de vestiti! Pretamente un guardaroba de vestiti e de scarpe. Che, quando che el xe morto, povero, la signora Bortolina, sua sorela puta vecia, ga regalà el regalabile a tuti i veci del Ospizio Marino. Ma tuti precisi compagni. — I veci del Ospizio Marino? — Ma no i veci! I vestiti veci del avocato Miagòstovich! Veci? Novi noventi i iera ancora, tanti che el gaveva e poco che el frugava. Ma per dir che lui se vestiva sempre preciso compagno. Come che po' fazeva una volta tuti i siori. Siori? Quei che podeva, insoma. Anca un Podestà Petris, un dotor Colombis, un dotor Bàicich, tuti 'sti veci che iera una volta. E anca i fioi savè, quei che ve iera fioi co' sti veci ve iera veci. Veci po' per modo de dir: cossa i gaverà avudo? Un trentazinque, trentasìe, quaranta ani, ma quela volta noi crature, muli de scola, cussì li calcolavimo: veci. E anca i putei, savè, quela volta: sempre vestidi compagni. — In vestito nero e mezanosa? — Ma cossa in vestito nero e mezanosa i fioi? Vestidi de fioi, i fioi, ma compagni precisi. Metemo dir maia e mudande: dove una volta i fioi se meteva maia e mudande? — Senza mudande andava i fioi? Anche le putele? — Ma cossa le putele senza mudande! Che solo la fia de Martin Ghèrbaz, che no gaveva la madre, no la gaveva mudande, che anzi tuti i muli coreva a vardarla, con rispeto, co' la se rampigava sui fighèri. Per forza che i fioi e massime le putele meteva mudande, ma in alora iera tuto un altro modo de vestirse. Mi me ricordo, presempio, siora Nina, che gavevo finido le Popolari e zà andavo ale Nautiche che gavevo ancora el bustìn... — El bustìn, per star driti, come? — Ma cossa per star driti! No ve ricordè che una volta i fioi, apena che i se levava dal leto e i se cavava la camisa de note — perché de note, pici o grandi, tuti meteva la camisa de note — prima roba i doveva meterse el bustìn cole spaline, imbotonado in schena cole sustine che quel zà ve iera un cruzio: el bustìn, che soto gaveva i botoni apositi per imbotonar le mudande... — Ah, come no! El bustìn! Me ricordo che a mio fradelo più picio, Nini defonto, povero, dovevo sempre imbotonarghe mi le sustine de drìo del bustìn, che solo si stesso no el rivava... — E alora cossa fè tante maravee? Sicuro che no el rivava, nissun no rivava. Anca a mi me imbotonava mia madre defonta. E po', me ricordo, sule mudande, in parte, iera un boton aposito per imbotonar el lastico coi busi che tigniva suso le calze, quele longhe, ve ricordè, de fil de scozia o de lana, co' iera inverno, che le rivava una bona man sora el zenocio. — Me ricordo, sì. Ai fioi le mudande se ghe le imbotonava sul bustìn. Tuto botoni. Guai cordele, guai elastichi in vita ai fioi, diseva sempre el dotor Colombis! — Anca el dotor Bàicich, per quel, diseva sempre guai elastichi che strenzi in vita. Quela volta, siora Nina, ve iera tuto un altro mondo, tuto un'altra concezion dela vita. Ve disevo che mi iero zà ale Nautiche e andavo ancora a scola col bustìn. — Anca mi andavo a scola col bustìn cola maestra Morato... — Che maestra Morato, che la maestra Morato insegnava a leger e scriver ai fioi dele Scole Popolari! Mi ve parlavo de co' andavo zà in prima classe dele Nautiche de Lussin. Perché mi go fato quatro ani ale Nautiche de Lussin, ragazeto che iero, prima che perdessimo la barca. Dopo no go podesto più. — Andar in barca? — Ma cossa andar in barca? Andar a scola! Intendevo dir che mi go dovesto molar le Nautiche co' mio padre ga perso la barca. E la vita. Iera duro una volta. — Eh, come orfano... — Indiferente. Prima dela disgrazia iera i primi ani che i gaveva dado le Nautiche a Lussin, anni e anni che prima Lussin se impetiva. Che po' xe stade grande invidie perché le Nautiche le voleva anche Parenzo, le voleva Cherso, le voleva Veglia: ve parlo de prima dela Prima guera. — Mi, inveze, iera guera quando che andavo a scola... — E mi iero al fronte, inveze, co' iera guera. Ve parlo de prima dela Prima guera, perché zà prima dela Prima guera i ghe gaveva dado le Nautiche a Lussin. E i gaveva volesto far scola modelo, come, tipo Marina de Guera. Difati ogni sezion gaveva diferente. Quei de la «Be», per dir, che i studiava per andar in squero — Costruzioni navali che i ghe ciamava — gaveva calze e cravata nera; quei dela «A», Capitani di lungo corso, gaveva blu, capì, e noi dela «Ce», che studiavimo per Capitani de machina, gavevimo rosso. Calze rosse e cravata rossa. — Per politica come? — Cossa politica? Iera l'uso dele Nautiche: nero, blu e rosso. E mi, ve disevo, gavevo cravata e calze rosse, longhe. Perché mi studiavo per capitano de machina, che dopo dela disgrazia go dovesto molar. E anzi Barba Nane, povero, cussì, per tirarme suso, avilido che iero, el me diseva sempre: «Cossa ti vol studiar, cossa ti vol insempiarte, vien a navigar in barca con mi, che te fazzo dar istesso la matricola...» — Eh, xe sta pecà però. Va ben che no sempre ocore studiar per farse una posizion, massime adesso... — Se so. Chi roba un pan more in galera e chi roba una cità porta bandiera. Indiferente. 'Ste mie calze rosse de scola iera un cruzio, perché savè come che xe i fioi: el fio che no 'scolta ragion rompe el timon, come che se dise. E mi rompevo le calze, perché saltavo masiere, me rampigavo sui scoi e sui figheri cola fia de Martin Ghèrbaz, andavo per le graie e me sbregavo sui spini. Insoma iera sempre busi in 'ste maledete calze, e mia madre, ciàpila, lìghila, co' ghe tocava strapònzerle. — Eh, xe de cavarse i oci a straponzer le calze dele crature... — Sicuro. E po' — che ve disevo — iera calze longhe fin sora el zenocio, come che se usava quela volta, tignude su col làstico e el boton imbotonado sule mudande. Insoma una volta me ga tocà una bela. — Col làstico? — Ma no col làstico! Xe che gavevo 'ste calze rosse tute busi e buseti e no gavevo coragio de dirghe a mia madre. Iera matina bonora, dovevo andar a scola e me xe vignuda una impensada. Savè cossa che go fato? — Gavè straponto vù? — Sì, andove! Che per straponzer ghe voleva l'ovo de legno, e ago e fil rosso e po' saver impirar la veta! Gnente! Son andado drento in classe prima de tuti e del scafeto del professor de conti, un zerto Marìncovich, el Professor Marìncovich — un tremendo — bon, del scafeto del Professor Marìncovich go ciolto la bozeta del inchiostro rosso, quel che ghe serviva per segnar i sbagli. E là, pulito, oltra de tuti i buseti che gavevo nele calze — una dozena per gamba, mi stimo, a cior more de spin che iero andado in graia — me go piturà de rosso sule gambe, cussì che no se osservi. — Ah malignazo de mulo! Cussì no se osservava i busi! — Si, no iera mal come impensada. Dopo go fato tante volte. Ma no volè che un giorno, che anche gavevo fato, no volè che capita a scola l'Ispeziente del Fisicato? Savè el Comandante Bàicich? — Si, lo conossevo, povero. — Bon, questo ve iera suo fradelo, el dotor Bàicich. Quel che dopo xe stà anni e anni in poltrona cole gambe perse... Indiferente. Andemo zò in palestra, tuta la scola, in mudande e bustin — quela volta de fioi se portava el bustin, ve go dito — e co' ghe rivo davanti, el dotor Bàicich, mi fa mi dice: «Che magro che ti xe, càvite anche le calze che vedemo i sèlini...» Mi me cavo le calze e el dotor Bàicich ghe vien dò oci come ferai a vederme tute 'ste mace rosse: «Febre scarlatina, ostia!» el disi. E po': «Isolarlo imediatamente!» — Mama mia! — Mama mia si, siora Nina! Tuti fora, disinfezion, le Nautiche serade per dò giorni: insoma un remitùr! — Orpo che truco! E vù? — E mi a casa in contumacia, per via de 'ste mace, ah! Ma macia anca el dotor Bàicich, savè. Perché co' el xe vignudo a casa mia a meter fora dela porta la tabela de Febre Scarlatina, mi, capirè, go dovesto dirghe che iera mace de inchiostro rosso. — Jessus Maria! E lu? — E lu, gnente. Con quela fiacheta che gaveva el dotor Bàicich, lu me fa, mi fa mi dice: «Senti, mulo, ti voleressi farte quaranta giorni de vacanza? E ti vol, in più, gaver una bela matita de oro?» E el la ga tirada fora del scarselin. «Bon, ti no ti ghe disi gnente a nissun de 'ste mace de inchiostro rosso e ti se fa pulito la contumacia e cussì no te va a scola fina Pasqua». E iera Carneval. Capì, lui no ga volesto far bruta figura cole Nautiche. Sarìa stada una granda vergogna soto l'Austria per un Ispeziente del Fisicato se mi gavessi palesado che el gaveva ciapà mace de inchiostro rosso per febre scarlatina... — Eeh, una volta anche se moriva de febre scarlatina! — De tante robe se moriva una volta. Pensèvese che l'avocato Miagòstovich xe morto de un colpo, zà vestido, col suo bel vestito nero, cravata longa, gilè, camisa bianca e stivai. Indiferente. Mi zito, ah, siora Nina. No ghe go dito gnente a nissun, né dei busi dele calze, né dele mace. Mi me go fato la mia bula vacanza de quaranta giorni e me go tignudo la matita de oro. Matita blu copiativa la ve iera. Sempre con mi la gavevo, co' dopo — parlo sempre de prima dela disgrazia — mio padre, povero, che el se gaveva messo in testa che mi dovevo inveze deventar Capitano de lungo corso, el me ga fato meter in sezion «A». Cussì gavevo le calze blu e me pituravo le gambe con quela matita là. E el dotor Colombis, che l'anno drìo, co' el dotor Baìcich ga perso le gambe, i lo ga fato a lu Ispeziente del Fisicato, no el rivava a vignirghene fora, no el capiva che diàmberne de malatia podeva far 'ste mace blu sule gambe. «Dermatòsis» po' el ga scrito. E el me ga dà un unguento. Cossa volè, siora Nina, quela volta, 'sti poveri dotori no ve gaveva come ogi tute 'ste peniciline, tuti 'sti sulfamèdici... MALDOBRÌA XXII - LE SCARPE AL SOLE Storia d'un servizio di leva nella Fanteria di Marina AustroUngarica prestato in quel di Sebenico, quando gli anni di ferma erano ben tre e c'era quindi tutto il tempo per allacciare rapporti duraturi con le ragazze del luogo. E durature erano anche le scarpe fornite ai suoi militari della Fanteria di Marina da Sua Maestà Apostolica. — No ve xe la pezo che el pie bagnà per el rafredor de testa! Co' piove, siora Nina, ghe vol scarpe forti, de corame, che no passa l'acqua! Ma andove i fa adesso scarpe forti, de corame, che no passa l'acqua? Siola de goma i fa: ma mi quel no posso sofrir... — Eh, no ve xe gnanca san, la goma. — Quel ve xe: che el pie no ve respira. Perché al militar, presempio, no i ghe dà mai siola de goma? Gnanca soto l'Italia no i dava, figurèmose soto l'Austria! Me ricordo che, co' iero militar de leva, a Sebenico, con Tonin Polidrugo — Fanteria de Marina che ierimo — ben, gavevimo scarpe forti de corame che, tanto ben no passava l'acqua che fina in acqua se podeva caminar ben. — Ahn, come Fanteria de Marina, caminavi sul'acqua! — Si come i Dodici Apostoli sul lago de Nazaret! Come, caminavo sul'acqua? Disevo che, se iera bisogno de andar col pie in acqua, no passava l'acqua. Dove passava l'acqua nele scarpe de Fanteria de Marina austriaca? — Eh, el pie suto ve xe tuto, co' piove. — E ghe ne gavemo ciapade, savè, de piove! Perché tre anni, se no savè, se fazeva el militar de leva in Fanteria de Marina. Tre anni, trentasìe mesi, miga un. Se andava fioi e se tornava omini. Omini? Giovinoti, ma omini. Tanto che, pensévese, Polidrugo, a Sebenico, dopo un anno che ierimo a Sebenico, lui ve gaveva zà la sposa... — Ah, el se gaveva promesso a Sebenico! — Eh, lui gavessi anca volesto prometerse, ma ve iera tuto una storia con el padre de 'sta Stefania. — Stefania, quala? — Stefania, la sposa de Polidrugo, po'. Che, quela volta, assai le putele se ciamava Stefania, perché Stefania ve iera la sposa de Rodolfo povero. — Ah, no de Polidrugo? — Ma cossa de Polidrugo? Rodolfo povero iera el fio del Imperator, quel che se gaveva copado con una giovine: brute robe che nasse nele famèe. Polidrugo, inveze, se ciamava Tonin, e el gaveva per sposa questa Stefania che ve disevo. Sposa? I se parlava. Cussì, fora de casa, perché in casa no el podeva andar. Per via che el padre de 'sta Stefania, che ve disevo, gaveva quela — diseva ela — che guai con un militar! — Ah, no el tratava col militar? — Ma no che no el tratassi. Lui, come lui, tratava. Ma no el voleva che la fia tratassi, praticassi, insoma, col militar. Massime col militar de Fanteria de Marina! — el diseva — contava ela. «Che qua a Sebenico — el predicava — xe tuto pien de Militar de Marina, ma ogi i xe e diman no i xe più. I lusinga 'ste giovini, una roba e l'altra e po' adio che te go visto». E po' anca 'sto padre se tigniva: perché lui iera un negoziante, e un militar de bassa forza no ghe gavessi comodado. Che po', nualtri de Fanteria de Marina, no ierimo pretamente de bassa forza e po' anca el padre de Polidrugo gaveva botega. Indiferente. — Eh, botega, sì, gaveva i Polidrugo in Piazza. Magnativa. — Questo ve iera: i stava ben, e Polidrugo pensava propio de prometerse, ma ela ghe gaveva subito significado che, fina che el iera militar, iera meo che gnanca no el se fazessi veder sula porta de casa. Che dopo sarà altro, che oramai no manca tanto e che el vignirà a casa co' no el sarà più in montura. — Ah, e cussì Tonin Polidrugo se ga cavado la montura? — Cavarse la montura soto l'Austria un militar austriaco? Guai! No se podeva. Pola: Corte Marzial, sùbito. Come abbandono nave i calcolava cavarse la montura. Guai! Gnente, lui andava fora cola cugina. — Ah, no più con 'sta Stefania? — Ma sì con 'sta Stefania, ma sempre in compagnia de una cugina de ela, propio prima cugina vera, fia de una sorela del padre, una coi denti in fora, me ricordo. Perché dove in una Sebenico quela volta una putela podeva andar per strada sola con un giovine, e militar per zonta? Ela ghe flociava a casa che la andava fora con 'sta cugina coi denti in fora e po', inveze, sul canton dela Posta, i se trovava anca con lu. Che una volta, anzi, Polidrugo me ga dito: «Vien anca ti, Bortolo». Ma mi co' son andà e go visto 'sta qua coi denti in fora, dopo no go più volesto. — Eh, una volta se vedeva assai de più putele coi denti in fora. Mia cognada Giovanina... — Indiferente vostra cognada Giovanina. Anca omini, per quel. El dotor Colombis diseva sempre che xe per via de come che i fioi ciucia de pici col dèo grando in boca. — Mi, inveze, gavevo sentì dir che xe de famiglia. — Anca. Indiferente. Ogni modo, mi con una coi denti in fora no sarìo mai andado. Cussì, per farvela curta, Polidrugo ga dovesto zumbarse anca 'sta cugina. — Coi denti in fora? — Sicuro. Per tuta Sebenico co' i andava fora, e per le camporèle, anca, co' i andava un fià fora de Sebenico a ciapar aria. — Con 'sta cugina? — Natural. Dove i gavessi podesto in alora azardarse senza? E el ga ben che dovesto spetar che finissimo 'sti trentasìe mesi — perché trentasìe mesi fazeva quela volta el militar de leva in Fanteria de Marina — prima de poder pensar de andar a casa de ela. — Ma questa cugina coi denti in fora, no la gaveva palesado gnente a nissun? — Ala madre la ghe gaveva palesado e anca ala zia, ma tute e tre dacordo, al padre le ghe gaveva tignù sconto. — No capisso. — Come no capì? Bon, no fa gnente, iera cussì che in casa solo el padre no saveva gnente. Ma mi, siora Nina, volevo dirve che Polidrugo, ve gaveva un belissimo vestito zenerin. — Soto de la montura? — Ma come soto dela montura? Prima de meterse in montura e anca dopo, natural, co' gavemo finido 'sti maledeti trentasìe mesi. Trentasìe mesi fazeva quela volta el militar de leva! Insoma, un bel vestito zenerin gaveva Polidrugo. Che, anzi, sempre el predicava in quei giorni: «Chi sa se me andarà ancora suso quel mio bel vestito zenerin che go deposità in Deposito co' son vignudo...» Tute le robe de zivil se depositava in Deposito: vestito, camisa, maia, mudanda e scarpe. Solo che Polidrugo, per andar militar, iera partido con un per de scarpe scarte. Oh Dio, scarte! Bone scarpe, ma vece. E cussì ghe gavessi ocoresto, per presentarse a casa dela sposa, un per de scarpe nove. — Usava, sì, i sposi, andar con scarpe nove la prima volta in casa. — Sicuro. «Sa cossa? — me ga dito una sera Polidrugo, un per de giorni prima che i ne molassi, intanto che se cavavimo sentadi sula branda le scarpe de militar — sa cossa? Mi 'ste mie scarpe de militar, forti, de corame, che no passa l'acqua, mi pulito ghe le venderò a un de quei campagnoi murlàchi che vien de matina al mercà de Sebenico, che sempre dimanda «póstoli, póstoli», scarpe insoma, per croato. Mi ghe vendo 'ste mie scarpe de militar e cussì, visto che l'ultima zinquina no se la cuca fin diman l'altro che partimo, con quel che ciapo de 'ste scarpe qua, me poderò comprarme un bel per de scarpe nove de zivil, che le mie che go deposità in Deposito xe propio in condizioni e me saria vergognà andar con lore in casa dela sposa». — Ah, pulito: ben pensada! — Pensada ben, sì. Anzi, zinque corone ga ciapado Polidrugo de un campagnol murlàco in mercà, che squasi anca mi ghe gavessi vendudo le mie a un altro che ne vigniva a rente dimandando «póstoli, póstoli», ma no me fidavo. Difati, propio al momento che sortivimo de caserma, vestidi in zivil, col baulèto e tuti contenti, xe saltada fora la stralèca. — Chi questa? — Ma come, chi questa? La stralèca. El marón xe saltà fora, perché proprio come che sortivimo del porton dela caserma, ghe ga coresto drìo a Polidrugo el Sotufizial del Magazinagio, un croato. Polidrugo, Polidrugo, che andove xe scarpe? Come, che indove xe scarpe? Che andove xe scarpe, perché lui ga dà indrìo montura, ma no scarpe. Che sicuro che no el ga dado indrìo le scarpe, perché le scarpe iera sue. E che visto che le iera sue, el le ga vendude. «Sue che ierano le scarpe? — zigava spudaciando 'sto croato del Magazinagio — come sue? Che le scarpe xe del Imperator. «Ara ti — ga dito Polidrugo biastemando e ridendo — anca l'Imperator ga quarantatré de scarpa!» Un rider. Ma insoma no xe stà ati né pati e el ga ben che dovesto pagar le scarpe. Quatro corone, col sconto de tre anni, che, se no, sarìa stà sete. — Ah, bisognava pagar le scarpe! — No bisognava pagarle. Bisognava darle indrìo, perché le iera del Imperator, come la montura. E chi che no le dava indrìo, i campagnoi massima parte, doveva pagarle. Col sconto: una corona per anno. In questo l'Austria iera assai giusta. — Ma Polidrugo de quel murlàco, no gaveva ciapado zinque corone? — Sì, ma con una corona che ghe vanzava, cossa el se comprava? Papuzze de murlàco, per andar a pranzo in papuzze a casa dela sposa? Perché i lo gaveva invità a pranzo, savé. El padre, co' eia ghe gaveva palesado, gaveva dito: «Va ben, vederemo. Vederemo de veder. Che intanto el vegna a pranzo!» — Ah, bel, a pranzo, in casa dela sposa! — Ah bel, sì. Ma oramai presto iera ora de pranzo e Polidrugo doveva far in modo e maniera de comprarse 'ste scarpe nove prima del'ora de pranzo. — Mama mia, prima del'ora de pranzo! E che ora iera? — Indiferente che ora che iera. Iera che no el gaveva soldi per le scarpe. E gnanca mi. Ve go dito che la zinquina i ne la pagava come diman. Ogni modo, Polidrugo iera un che no se perdeva, savè. Lui, prima, xe resta cussì, sorapensier, co' caminavimo per Riva, ma po' el me ga dito: «Sa cossa, Bortolo, che faremo nualtri? Nualtri, pulito, faremo quel che ga fato Pìllepich e Nini Lupetina a Trieste». — E cossa gaveva fato a Trieste Pìllepich e Nini Lupetina? — Spetè, no. Polidrugo xe andado ben pulito drento nel più bel negozio de scarpe che iera a Sebenico, el se ga sentado sula carega e el ga dito che i ghe daghi un per de scarpe nere, cussì e cussì, numero quarantatré. Se i ga numero quarantatré. Che sicuro che i ga numero quarantatré, ghe ga dito el paron, un Dalmato, toco de omo. Che fina quarantazinque i ga, che in Dalmazia ocore, che xe tuti tochi de omini. E cola scala el xe andà su sul scafai, a cior un tre quatro scatole — savè quele scatole bianche de scarpe — po' el xe torna zò, el ga tirà fora un per de scarpe ligade una col'altra cole spighete, e coi denti, denti grandi, forti che el gaveva, el ga molà el gropo metendose in zenocion davanti de Polidrugo sentà in carega. E, in zenocion che el iera, col incalzascarpe in man per provàrghele, el ga cominzià a provarghe prima una e dopo quel'altra col incalzascarpe. — Eh, se usava, sì, una volta, provar le scarpe col incalzascarpe. E le ghe andava ben? — Benissimo. Tute dò. Numero quarantatré. Polidrugo se ga alza in pie, in zenocion che iera 'sto omo che serava le altre scatole, e el xe andà a vardarse le scarpe nove davanti del specio. Po' el se ga sentado, che 'sto paron dela botega ghe ligava le spighete sempre in zenocion, e in quela son vignù drento mi. Son vignù drento, go verto la porta e, dela porta, mostrando Polidrugo col dèo, go zigà: «Ara, ara el mus che cambia i feri!» «Maladeto porco! — me ga urlado Polidrugo, saltando in pie — anca qua ti vien a burlarme! Ma adesso te conzo mi per le feste!» — Mama mia! E vù? Ma perché ghe gavè fato un tanto a Polidrugo? — Spetè, spetè. Fato un tanto, mi son scampà corendo più che podevo. E Polidrugo drìo, corendo anche lu, cole scarpe nove. Fina in Marina semo rivadi, scampando per le androne e zò per le scale, che Sebenico xe tuta piena de scale. Cussì, siora Nina, gaveva fato Pillepich e Nini Lupetina a Trieste, quando che Pìllepich gaveva ancora la gamba. — Ahn! Per no pagar le scarpe! Mama mia, che truco, che maldobrìa! E cussì Polidrugo ga podesto andar cole scarpe nove a pranzo a casa del padre dela sposa? — A casa sì, siora Nina, ma a pranzo no. Perché apena che el padre de 'sta putela ghe ga averto la porta, tuto soridente, coi denti in fora, sùbito Polidrugo lo ga ravisado che iera quel che ghe gaveva molado el gropo dele spighete coi denti, in zenocion, per provarghe le scarpe! Negoziante el iera, ve gavevo dito: el meo negozio de scarpe de Sebenico el ve gaveva. — E dopo? — E dopo, siora Nina, xe andado tuto in man dela Gendarmeria. Prima, ma po' in man del paroco, perché, cossa volè, incinta ve iera restada quela povera putela. — Incinta questa Stefania, povera? — No, quela sua cugina coi denti in fora. Fora in tre co' i andava, dopo compagnada a casa 'sta Stefania, lori dò ve restava soli. E in zenocion 'sto negoziante ga dovesto pregarghe a Polidrugo che el ghe sposi la nevoda, perché oramai se vedeva bastanza! Dò gemei i ga avesto, siora Nina, tuti dò coi denti in fora. Savé: quel xe de famiglia. MALDOBRÌA XXIII - PRANZO DI PRIMA CLASSE In cui la suddivisione della società in classi trova più appariscente riscontro negli ordinamenti d'una Società di Navigazione che, sia pure portando tutti— equipaggio e passeggeri — alla stessa meta, stabiliva in maniera e in misura rigorosamente diverse il loro diritto alla panatica. — Dotori, che adesso tuti cori dei dotori, dove iera dotori una volta? El Dotor ve iera. Uno, per tuta Cherso che iera una Cherso. Per tuto un Lussin che iera un Lussin e un Lussingrando e Unìe, e Sànsego e San Piero ai Nembi e le Canìdole, chi ve iera? Un dotor unico: el Dotor. — Che dotor? — Cossa so mi! Un dotor Colombis, fradelo del farmacista, un dotor Coglievina, fradelo del Comandante. Ma iera per dirve, siora Nina, che adesso tuti cori dei dotori e inveze, una volta, massima parte i campagnoi, i se curava cole erbe. — Ah sì, mia madre povera me diseva sempre: malva per i denti e, co' se ciapa fredo, late caldo e tè petoral... — ... sì, un baso ala Madona, pissìn e in leto. Sicuro che late caldo e tè petoral co' se ciapava fredo e malva per i denti. Quel saveva tuti. Ma mi propiamente savevo tuto dele erbe, un periodo. Me gaveva imparado a colèzerle Don Blas che iera erborista. «Vedé, Bortolo — me diseva presempio Don Blas mostrandome un fior de passiflora — sula passiflora ve xe tuto: i tre ciodi dela Crose de Nostro Signor, la Corona de spine, i Dodese Apostoli, e qua questo ultimo, Giuda ve xe». Indiferente. E co' viagiavo per China, mi là me gavevo imparado anche tute quele robe che doprava i Chinesi... — Cossa, viagiavi anche per China? — Come no? Per China, per Giapon, per tuto, col Lloyd Austriaco. Dove no andava una volta le nostre barche? Insoma, me ricordo, che una volta che ierimo a Sciàngai col «Jupiter» e che in tera gavevo comprado mudande, mudande longhe e maiete che là costava un bianco e un nero, perché quela volta el Chinese lavorava per una scudela de risi, bon, volè che gavevo comprado anca semenze de papavero? Ma no quel nostro papavero, quel papavero che i ga là. Là i ga imense campagne tute de papavero, siora Nina, come che qua de nualtri gavemo erbaspagna... — E per cossa i tien i papaveri? Per belvéder? — Che bel veder! Per veder bel, tuto più bel, caso mai, siora Nina. Col papavero, in China, lori ve fa l'oppio! — Ah, l'oppio dei popoli... — Maché oppio dei popoli. L'oppio che po' i Chinesi fuma. Fuma? Fumava, perché adesso no i ghe devi più lassar, mi calcolo. Però xe anche per medizina, savè. Servi per calmante, per i dolori, Dio guardi un mal de denti in mar, e per dormir co' un no pol dormir. Ma pochissimo ghe vol, se no se se invelena. Vù gnanche no ve imaginè quanti che no xe finidi in frenocomio! — Sui vapori? — Maché sui vapori. In China e anca qua questi che ga el vizio. Ma mi ve contavo del «Jupiter», che quela volta iera barca de passegeri, propio, una delle meo barche del Lloyd Austriaco. Vapor grando, con classe de lusso, prima classe, seconda, terza: tuto iera. Figurèvese che ghe iera anca el Maestro de Camera. Mi iero gambusier. E Maestro de Camera ve iera un zerto Pòlicek... — Qual Pòlicek? — Pòlicek, po'. Quel che iera Maestro de Camera sul Lloyd Austriaco. Primo Maestro de Camera. Che anzi i ghe ciamava Pòlice caldo, perché el se ciamava Pòlicek Aldo. E tuta la Camera iera soto de lu. — Che camera? — Come «che camera?». La Camera po'. Ogni vapor ve ga la Coverta e la Camera. E lui tuto quel che iera Camera, gabine, camerieri, coghi, giovini de cusina, iera soto de lu. Pòlicek, po': un alto, magro, de Fiume. Ungarese el doveva esser, per parte de madre. E una sera che mi iero in cusina, che mi ogni sera, gambusier che iero, dovevo andar in cusina per pensar ala provianda per diman, el me vien là e el me dimanda se go visto Tonin Bàchia. — Questo Pòlicek? — Sì, questo Pòlicek, Maestro de Camera, el me dimanda se go visto Tonin Bàchia, che iera un giovine de cusina apena imbarcado, primo viagio. Che no, che no lo go visto. «Eco — el dise — sicuro quel malignazo sarà in qualche logo sconto che el magna el pranzo de Prima». — Un pranzo vanzado de prima? — Ma cossa un pranzo vanzado de prima! Sul Lloyd Austriaco, co' vanzava, se butava via, in mar. Pessi compagni qualche volta. Miga come adesso che co' vanza i fica in frigorifero e i salva per el giorno drìo. Siora Nina: el pranzo de Prima, de Prima classe. Pensévese che questo Tonin Bàchia, semplice giovine de cusina, apena imbarcado, primo viagio, bassa forza insoma, ben — me conta questo Pòlicek — che 'sto fiolduncàn de un Bàchia el se peritava de magnar el pranzo dei passegeri de Prima classe, de scondon! — De scondon dei passegeri? — Maché dei passegeri! Cossa ghe importava a lori? De seondon del Lloyd Austriaco: perché, come gavessi podesto un giovine de Camera, un de bassa forza, su un Lloyd Austriaco, come el gavessi podesto peritarse de magnar el pranzo de Prima classe? — Ma i pranzi no iera tuti compagni? — Siora Nina: gnanca i dedi dela man no xe compagni! E vù volè che su un Lloyd Austriaco, soto un'Austria, fussi l'istesso pranzo per i passegeri de Prima classe e per la bassa forza? Iera pranzo de Prima classe, pranzo de Seconda, pranzo de Terza. I Uficiai e el Comandante magnava come la Prima, i sotuficiai come la Seconda e la bassa forza come la bassa forza. — E vù? — Cossa ghe entro mi? Mi iero gambusier in gambusa. Insoma 'sto Pòlicek no podeva capacitarse che — come che più de un ghe gaveva dito — 'sto Tonin Bàchia magnava de scondon el pranzo de Prima classe. — E perché no el ghe diseva de no magnarlo? — Perché lui no podeva dirghe de no magnarlo se no el lo vedeva magnarlo. E 'sto malignazo mulo lo magnava de scondon e mai che 'sto Maestro de Camera Pòlicek gavessi intivado de traparlo. Insoma, che ve contavo, quela sera in cusina el me dise: «Bortolo — mi fa, mi dice — mi con 'sta fota che me fa 'sta roba de 'sto Tonin Bàchia, savé cossa? Mi no posso dormir. Me fa un nervoso, una fota, che un giovine de cusina, un de bassa forza, apena imbarcado, se pretende de magnar el pranzo de Prima, che mi, ve digo la sincera verità, mi no posso dormir». «Ma xe meio che dormì — ghe digo — Sior Pòlicek, più che no dormì, pezo ve xe, perché anche ve inervosissi de più 'sto no dormir». — Eh, el dormir xe la prima roba. — Sicuro. E alora mi ghe go dito: «Sior Pòlicek: el dormir xe la prima roba. Spetè che mi ve darò qualcossa per dormir». E son andado in gambusa a cior el mio vaseto de semenze de papavero, ghe go scaldado una cìcara de brodo lisier che iera vanzado e ghe go dado un pochi de 'sti granei de papavero. «Butè zò — ghe go dito — ingiutìli. Tempo meza ora sentirò un assopimento come, e alora andè a colegarve che subito ve assopirè». E come che el se assopiva, che lo gavevo compagnà in gabina, ancora el diseva: «Malignazo Bàchia! Pranzo de Prima classe! No xe per el valor. Xe per la classe». E ghe cascava i oci. Bon, come diman, savè cossa? — Ah, come diman 'sto Pòlicek no podeva sveiarse... — Pòlicek? El Maestro de Camera Pòlicek come diman se ga sveiado. Xe stada tuta la Prima classe che, come dopodiman, no ga podesto sveiarse, siora Nina. Iera presto mezogiorno che zà sul ponte i camerieri serviva brodo caldo e sandvich e i passegeri de prima iera ancora in gabina colegadi in leto che i ronchizava duri... — No i li gaveva sveiadi? — Chi se azardava de sveiar un passeger de Prima classe che voleva dormir? Siora Nina, iera nato che mi, quela sera, sorapensier, compagnado che gavevo in gabina el Maestro de Camera Pòlicek, gavevo lassado sula tavola dela cusina el vaseto dei grani de papavero e zà de matina bonora sul menù iera notado, come piato forte, per la zena, gòlasch. Szeghedìner gòlasch: ungarese, bonissimo. I coghi del Lloyd Austriaco iera nominadi per el gòlasch. E insoma, Tonin Bàchia, 'sto giovine de cusina, se gaveva alzado ale zinque per masinar el pévere. — Eh, per el gòlasch ghe vol pévere. E paprica. Mi meto sempre anche un poco de paprica. — Bon: e lui, inveze, no ga messo né pévere, né paprica. Lui ga messo le mie semenze de papavero, che el credeva che fussi pévere. — Per sbaglio. — Sicuro. E i passegeri, che sarà stadi un quaranta de lori in Prima classe, tuti che dormiva. Ma in che modo che i dormiva! Come zochi! — Tuto colpa de 'sto giovine de cusina? E i ghe ga zigado? — Zigado? No lo sveiava gnanca una canonada. Perché su tuto el «Jupiter», l'unico dela bassa forza che dormiva el iera lu: Tonin Bàchia. E cussì el Maestro de Camera Pòlicek lo ga podesto infin trapar, che el gaveva magnado el pranzo de Prima. Siora Nina: i lo ga sbarcado, ancora che el dormiva, sul molo de Zara, senza gnanca darghe le spetanze dela panàtica. Figurévese: un semplice giovine de cusina che magnava el pranzo de Prima! — Dela sera prima? — Orpo, siora Nina, ma sé indormenzada anca vù! Dela Prima Classe. No gavé capì? Se un dela bassa forza cominziava a pretenderse de magnar el pranzo de Prima classe, dove andava a finir el mondo? No iera per el valor, iera per la classe. Anca per questo, mi calcolo che, dopo, xe cascada l'Austria. MALDOBRÌA XXIV - LUNGO VIAGGIO SENTIMENTALE Ovvero, storia di un uomo senza famiglia, ma non senza qualità, alla puntigliosa ricerca delle proprie radici, in un mondo sconvolto dalle conseguenze d'una guerra che, come fu detto autorevolmente, travolse popoli e nazioni. — Per la compagnia se ga sposà anca un frate, diseva sempre mia nona defonta, dopo che ghe iera morto nono. Ela, cossa volè, i fioi ghe navigava, le fie ghe se gaveva tute sposade e ela che, massima parte, la iera sola in 'sta granda casa ghe stentava a passarghe fin le matine, con quela picolezza che la gaveva de pareciar per sola ela che la iera, dopo tornada de Messa in cesa dei Frati. — De 'sto frate che voleva sposarse? — Ma cossa de 'sto frate che voleva sposarse? Se dise, per dir, no, che per la compagnia se ga sposà anca un frate, come che diseva mia nona defonta. Perché ela, sola che la iera po', de dopopranzo, cossa volè, co' iera quatro, zinque ore de dopopranzo la se meteva in finestra e la vardava chi che passava o la ciacolava con siora Mima che anca ela, visavì che la stava nela cale, la se meteva in finestra a guciar... — Ah, e cussì, povere vece, le se la contava una col'altra? — Se fa per dir una col'altra. Massime mia nona defonta la ghe contava de questo e de quel. Perché siora Mima povera, no che pretamente no la gavessi un discorso, ma ela no la se ricordava più gnanca del naso ala boca. E no solo de vecia, anca prima, puta vecia che la iera restada: sempre. Ma bona dona ve iera siora Mima, assai bona, perché chi gavessi ciolto come fio de anima el picolo Bepi Lusina, come che la ga fato ela, con tuto che lori i ve iera in parentà assai ala lontana? — Chi lori? — El padre e la madre de Bepi Lusina con siora Mima. E istesso ela gaveva ciolto come fio de anima 'sto povero Bepi. Povero? Perché povero? Mi calcolo che lu deve esser ancora pretamente vivo. El padre e la madre sui de lu ghe iera morti, inveze, presto, giovini, de febre spagnola. Del Dicianove: me ricordo che mi fazevo viagi per Spagna, che quela volta se fazeva Barcelona, Cartagèna, e mia moglie iera sempre in pensier. Pretamente tuti dò de spagnola i ghe iera morti: el padre come martedì e la madre come giovedì e lu, cratura, tirado su de siora Mima. — Me ricordo, me ricordo la spagnola, mio cognà, me sovien... — Indiferente! Siora Mima, inveze, no la se ricordava gnente. Ossia: qualche giorno sì, fora de modo la se ricordava, anche i stupidezzi. No so: ela, per modo de dir, qualche giorno la saveva dir tute le tombe come che le xe in zimiterio in fila una drìo del'altra. E qualche volta, inveze, che 'sto povero Bepi Lusina, zà grandeto che el iera, el ghe dimandava: «Zia Mima, chi me iera la madre?», ela ghe diseva: «Eh, i te xe morti de febre spagnola subito dopo la guera el padre e la madre e mi te go rilevà pulito e cussì se gavemo fato e se femo compagnia...» Bona dona iera siora Mima, ma 'sto Bepi Lusina, prima a scola e po' a bordo, co' el navigava e che tuti i altri contava «Mio padre cussì, mia madre culi», vita, morte e miracoli del padre e dela madre, lui saveva solo che el padre e la madre ghe iera morti de febre spagnola e basta. E cussì la iera tropo presto contada. — Eh, se moriva presto, sì, quela volta dela spagnola... — Indiferente se presto o no presto, iera per dir che Bepi Lusina del padre e dela madre saveva solo quel, e cussì el ve iera avilido, come, 'sto giovine. Ma siora Mima, più vecia che la ve deventava, meno la se ricordava. Perché, pretamente, vignindo dir al merito, ela ve gaveva le arterie scloròsi e solo qualche volta ghe vigniva un lampo. Lampo de memoria, intendo. Savè quei lampi de memoria che ghe vien ai veci? — No me sovien... — No fa gnente: ghe vien. Come quela volta che Bepin xe tornà de un viagio, co' al Domo sonava giusto mezogiorno, e apena che lu el ga posado la valisa per tera, siora Mima ghe ga dito: «Ti sa che, come che ti ga posado la valisa per tera, Bepin, ti me ga ricordado el moto de tuo povero padre, un giorno che el xe tornado, giusto che sonava mezogiorno al Domo, de Costantinopoli?...» — El, Domo de Costantinopoli? — Ma cossa el Domo de Costantinopoli, che a Costantinopoli i ga solo che cese turche e greghe! El Domo de qua, in Piazza, che sonava mezogiorno, co' el padre de Bepi Lusina iera tornado de Costantinopoli. «De Costantinopoli tornado mio padre? — ghe ga dito stupido Bepin — ma mio padre no iera morto de spagnola con mia madre?» «Sì che sì, ma quel dopo, picio mio, co' i xe morti — ghe ga dito siora Mima — ma, prima, el te iera imbarcado sul «Sette fratelli» dei Giadròssich, che fazeva viagi per Costantinopoli. Lori te fazeva: Zara, Sebenico, Spalatro, Ragusa, Antivari, Corfù, Pireo e po' Costantinopoli. — Mama mia, che memoria che la gaveva! — Memoria? Lampi, siora Nina. E difati Bepi Lusina se ga stupido de che memoria che la gaveva quel giorno, tanto che subito el ghe ga dito: «Che memoria che me gavè ogi, zia Mima, e dopo? E dopo, mio padre cossa? Cossa el ga fato?» «E dopo — la ghe ga dito — tuo padre, che iera un de quei stufadìzi, come, a Costantinopoli el se ga stufà e el se ga sbarcà, perché no ghe comodava più 'sti «Sette fratelli»: la cusina no ghe comodava. E per tornar a casa, ti sa cossa che el ga ciolto?» — Cossa, cossa el ga ciolto? — «El ga ciolto el treno, l'Orient Express el te ga ciolto», ghe ga dito siora Mima. «L'Orient Express, Bepin mio, quel treno che fazeva de Costantinopoli fina Trieste: Costantinopoli, Sofia, Bucarest, Budapest, Zagabria, Lubiana, Trieste. E soldi che no el gaveva per el bilieto, tuo padre se gaveva fato cior come aiuto in cusina. Treno con cusina, figurite, Bepin. Ma lui, tuo padre, dopo, stufadizo che el iera, ti sa cossa?» «Cossa, cossa zia Mima, mio padre?» «Tuo padre, Bepin, stufadizo che el iera e no ghe comodava la cusina, el se ga stufà e el xe smontà del treno a Budapest». — A Budapest? — Xe quel che ghe ga dimandà anca Bepin: «A Budapest, come, a Budapest?» «Sicuro — ghe ga dito siora Mima — el xe smontà del treno cola valisa a Budapest. E ti sa cossa? Là in un local che xe vizin dela stazion de Budapest, in una stradeta che no se pol sbaliar perché xe propio visavi dela stazion, ben, là, in quel local, tuo padre ga conossudo la povera Maria, tua madre, che la lavorava là. A Budapest lavorava tua madre, in local, brava de cusinar che la iera.» — Coga, come? — Brava de cusinar. E figurévese 'sto Bepin: «Ma cossa? Ma come? Mio padre ga conossudo mia madre a Budapest, in un local vizin dela stazion, in una stradeta che no se se pol sbaliar? De Budapest iera mia madre?» «Sicuro, Bepin, de Budapest te iera tua madre, che là tuo padre la ga conossuda. E tuo padre, come ti, el gaveva el stesso moto de posar la valisa. Me lo ricordo quel giorno che el xe tornà de Costantinopoli a mezogiorno che sonava in Domo». — Ah! De Budapest ghe iera la madre? Una Ungarese, come? — Tanti ve iera Ungaresi, siora Nina, dele nostre parti. Massime a Fiume, che Fiume, con tuto el Litorale Ungarico, come se ghe diseva quela volta, de Fiume fina Bùccari, ve iera pretamente pertinente ala Corona ungarese. E podè figurarve 'sto povero giovine che gaveva finalmente savesto un qualcossa de suo padre e de sua madre. Lui, savudo un tanto, apena rivà che el iera de viagio, el ga decidesto de gnanca no disfar la valisa e de partir subito per Trieste. E là in stazion de Trieste el ga ciolto, savè cossa? L'Orient Express e cussì, dito fato, risoluto el xe andado a Budapest per zercar 'sto local dove che lavorava sua madre... — Ma la madre no la ghe iera morta de febre spagnola? — Natural che la ghe iera morta de febre spagnola. Ma lui ve xe andado a Budapest per saver un qualcossa de ela, se la gaveva qualchedun là de famèa, un parentà, insoma. Perché, cossa volè, siora Nina: più che un tanto, de siora Mima, quela matina no el gaveva rivà a saver. Perché, co' lu ghe gaveva dimandado avanti, ela se gaveva perso de novo e la gaveva cominzià a contarghe tuto altro: de come che xe le file dele tombe in zimiterio. Che prima, apena che se va drento, xe quela dei Nìcolich, po' quela dei Giadròssich, po' quela andove che xe sola, povereta, la fia dela maestra Politèo che la studiava a Parenzo e i diseva che la se gaveva ciolto la vita, incinta che la iera rimasta. — No sposada? — Sicuro che no sposada. Ma no iera vero, me diseva la sorela dela maestra Politèo. Tuto ciacole e terze persone: che, intanto, no la se gaveva ciolto la vita e po' che no la iera rimasta incinta! «Una santa la iera, — la me diseva — una santa!» Insoma, indiferente. De cossa ve contavo che no me ricordo? Ah sì: de siora Mima che no se ricordava più gnente. Ah no: de Bepi Lusina che iera andado a Budapest. E a Budapest, apena smontà del treno in stazion, el se ga subito inacorto che iera tante stradete visavì dela stazion, ma tante, e longhe, che no le finiva mai. E che iera un local drìo del altro, come che xe sempre dapertuto in 'ste grande cità rente dele stazioni. — Ahn! El voleva andar a pranzo in local? — Ma cossa el voleva andar a pranzo in local, che el xe rivà de sera, ora de zena! Lui zercava 'sto local che el iera andado aposito a Budapest per trovarlo, dove che suo padre gaveva conossudo sua madre, in una stradeta visavì dela stazion, come che ghe gaveva dito siora Mima. Ma, ve go dito, subito el se ga inacorto che iera tante stradete visavì dela stazion, e tanti local. Massime buffet come che xe anca a Trieste. Una intiera setimana, pensévese, el ga girà un per un per tuti 'sti local che xe atorno dela stazion de Budapest, dimandando de qua e de là se xe qua che prima dela guera lavorava una zerta Maria che gaveva sposà un italian de Fiume, insoma de vizin Fiume, ma nissun no saveva gnente. Per tedesco. — No i saveva gnente per tedesco? — Come no i saveva gnente per tedesco? A Budapest quela volta saveva squasi tuti parlar per tedesco. E lu, Bepi Lusina, ghe dimandava per tedesco, perché lu ungherese no ve saveva. — Marco Mitis saveva ungherese, che el gaveva la madre ungarese... — Anca l'Amiraglio Horthy, siora Nina, saveva ungherese, ma Bepi Lusina no lo gaveva de per con sé per dimandar, e cussì lui a tuti el ghe dimandava per tedesco, che lui in Amburgo, co' el navigava per Amburgo, se gaveva pulito imparado tedesco. E insoma che Guten Morgen, se xe qua che prima dela guera lavorava una zerta Maria che gaveva sposado un italian de Fiume, insoma de vizin Fiume; ma nissun no saveva gnente. Tuti che ghe dispiase tanto, che tanto volentieri, ma che cossa la vol, signor, iera la guera in mezo e che de tanti no se ga più savesto gnente. — Eh tanti, tanti no iera più tornadi dela Prima guera! — E inveze un iera tornado. Un che intanto che Bepi Lusina ghe dimandava per tedesco ala parona del local, sentà rente dela porta che el iera e che el beveva una bira drìo de lu, lo ga subito conossudo per italian. — Conossù per de drìo? — No, drìo de come che el parlava tedesco. «Viva! — el ghe ga dito alzando un déo — viva nù che semo puti!» E come che Bepi Lusina se ga voltà, siora Nina: Francesco Giusepe! — Jessus Maria, l'Imperator! — Ma cossa l'Imperator, che l'Imperator iera morto del Sédese e ierimo zà del Trentaquatro, Trentazinque! Ve disevo Francesco Giuseppe, per significar che 'sto omo che ghe gaveva dito «Viva! Viva nù che semo puti!», ve gaveva i mustaci e la barba in parte del viso compagno, preciso identico spudado de Francesco Giusepe, come che usava tanti omini in età, ancora dopo la guera in Austria e anca in Ungheria. «Viva nù che semo puti!» — el ghe ga dito tuto soridente. E el ghe ga spiegà che lui ga subito capido che el iera italian drio de come che el parlava per tedesco. Perché lu — che, se lu no sa, el ghe disi adesso — lu tuta la guera el gaveva fato el militar a Fiume come militar ungarese e che cussì el saveva parlar franco italian. Italian: insoma come che parlemo nualtri. E che bele done che xe a Fiume — el ghe diseva — mio caro signor, ma che istesso lui no se gaveva mai sposado, né qua, né là, né prima, né dopo, e viva nù che semo puti! — Ah, un puto vecio! — No vecio: un omo in età. El pareva più vecio perché assai con 'sti mustaci e 'sta barba in parte del viso el gaveva el moto de Francesco Giusepe. E insoma, per farvela curta, el ghe ga dito a Bepi Lusina che, mio caro signor, questa parona de adesso no ve pol sapèr gnente, perché 'sto local ga cambiado tanti paroni, ma che lu gaveva, sì, sentido de una giovine che se gaveva sposado per un italian de Fiume. Che come? che dove? che cossa? che quando? ghe ga subito dimandado Bepi Lusina coi oci lustri. Uuh, che tanti, tanti anni fa, quando che in Ungheria iera ancora l'Austria; e che el ciùdi la porta, che ghe gira l'aria, Madòna scandalosa! — Madòna scandalosa? Chi questa? — Nissuna, siora Nina. Questo ve iera che 'sto omo voleva farghe veder a Bepi Lusina che el se ricordava anca come che se biastèma per italian e che inveze — come che vedè — non el se ricordava propio giusto. Indiferente. Che el ciùdi la porta — questo sì che el se ricordava pulito come che se dise a Fiume — e che giusto in 'sto momento el se ricorda che chi che sicuro, forsi, poderà sapèr de questa giovine che se gaveva sposà per un italian, xe quel del «Duna». Insoma un che prima iera paron qua e dopo el xe deventà paron del «Duna», Buffet Duna, che sarìa «Danubio», mio caro signor. E el ghe ga scrito su un de quei tondi de carton dela bira nome, cognome e indirizzo de 'sto qua, che Bepi Lusina xe subito corso fora de furia e 'sto omo ghe ga zigà drìo che el ciùdi la porta, perché ghe gira l'aria, Madòna scandalosa! — Con bruta maniera? — Ma cossa, bruta maniera! Lui ghe scherzava, giusto per parlar italian, che a Budapest no el gaveva mai ocasion. Per farvela curta 'sto Buffet Duna ve iera in casa del diavolo, a Buda, figurèvese, tuto del'altra parte. Perché Budapest ve xe due cità: Buda e Pest e in mezo ve xe el Danubio: Duna. Come che se ciamava 'sto local. E in 'sto local uno che iera là ghe ga dito subito che 'sto qua che el zerca per saver de sua madre el xe morto, povero, e che lu xe el fio e che, cossa el vol, lui iera ancora ragazeto quando che suo padre, prima, lavorava là dela stazion. E che po' xe stà tante robe in mezo, che xe vignù rivoluzion, Bela Kun, i Rumeni, l'Amiraglio Horthy e una roba e l'altra. Ma che chi che sicuro forsi saverà dirghe de sua madre, xe un che iera amico de suo padre defonto, che quel, sì, xe ancora vivo, perché el lo ga visto per strada e che per combinazion el sa anca dove che el sta de casa adesso. Che quel, quel poderà saver, perché xe un che sa tuto de tuti, ma che xe meo che el vadi de sera, perché 'sto qua de giorno xe sempre in giro. — Questo che iera morto? — Sì, in giro col caro de morto, come che gira i morti, siora Nina! Questo che iera amico del padre che ghe iera morto a 'sto qua del Buffet «Duna». E el stava tuto de un'altra parte de Budapest. No più a Buda, a Pest. Cussì a Bepi Lusina ghe ga tocà andar de novo oltra del Danubio e oltra del ponte e cior el tran che va in stazion perché xe bastanza lontan. Iera squasi diese de sera, siora Nina, co' Bepi Lusina ga finalmente trovà 'sta casa. «Szabò» iera scrito sula porta soto dela campanela a girandola, «Lajos Szabò». Bepi Lusina ga sonà girando la girandola e, dopo un poco, el ga sentì che un ghe vigniva pian pian a verzerghe in zavate e come che se ga verto la porta, siora Nina: «Madòna scandalosa!» — Chi questa? — No, chi questa. Chi quel. Quel de prima, quel che de militar gaveva fato el militar a Fiume: «Madòna scandalosa — el ghe ga dito tuto soridente — che el ciùdi la porta, che el vegni drento e che viva nù che semo pùti!» — Mama mia, quel de prima? — Sicuro, quel de prima: coi mustaci e la barba in parte del viso, compagno, preciso identico, spudado de Francesco Giusepe. — Che no conosseva la madre de Bepi Lusina? — Cossa volè, siora Nina che un Francesco Giusepe conossessi la madre de Bepi Lusina? E 'sto qua gnanca. E Bepi Lusina, apena che el lo ga visto, el ga capì che el gaveva fato tuto per gnente e, tuto avilido, rente dela stazion de novo che el iera, col primo treno, gnanca col Orient Express, el ve xe tornà a Trieste. E de là a casa. E co' el xe tornà a casa, posando la valisa per tera, con quel suo moto che el gaveva de posar la valisa, tuto avilido el ghe ga dito a siora Mima: «Zia Mima — el ghe ga dito — iero cussì, cussì e cussì. E tuto per gnente. Mi per una setimana, stradeta per stradeta, local per local, go zercà el local dove che me gavevi dito che mio padre ga conossù mia madre, e gnente. Per una setimana ve go zercà per gnente per tuta Budapest!» «Budapest? — ghe fa siora Mima — cossa, Budapest te gavevo dito, Bepin mio? Ah, me go sbalià! Volevo dirte Bucarest! Ma cossa ti vol, Bepin mio, vecia te son mi e quela volta Bucarest o Budapest, tuto Austria te iera, mi calcolo. Anca qua, Bepin, te iera tuto Austria. Che soto l'Austria ancora se ga sposado tuo padre e tua madre, che dopo, subito dopo, co' xe cascada l'Austria, i te xe morti de spagnola. E mi te go rilevà pulito e cussì se gavemo fato e se femo compagnia». MALDOBRÌA XXV - UN UOMO TRANQUILLO In cui si conferma che dei poveri in ispirito sarà il Regno dei Cieli, rivelando che uno di essi ebbe altresì costante beatitudine dopo essere stato arruolato nelle file della Marina di Guerra dell'Impero Austro-Ungarico, pur senza saper né leggere, né scrivere, ma solo far di conto. — Cuntento, siora Nina, mi no ve so gnanche dir come che propiamente el se ciamava, per via che tuti lo ciamava solo che Cuntento, quando che el iera imbarcà con nualtri, in Marina de Guera austriaca. — Durante la guera questo? — Ma cossa durante la guera, che durante la guera no iera contento nissun. Cuntento i lo ciamava, ancora prima dela Prima guera perché, cussì come che el parlava, el diseva sempre: «Ah, mi son cuntento!» Savè, de leva che el iera, lui navigando cola Marina de Guera austriaca, almanco el vedeva un poco de mondo. Perché lu savè de dove che el ve iera? Lu ve iera pretamente de Valòn. De Valòn de Cherso, che po' a Cherso a quei de Valòn gnanche no i li considerava. Capirè, cossa ve iera Valòn quela volta? — Cossa iera? — Quatro case iera, un per de piègore e dò caìci. Ma anche a Valòn lu ve iera contento. Cossa volè? Lui a Valòn el viveva pulito cola madre, che, vecia la ghe iera, ma stagna ancora e ogni matina la andava a mendar redi per i pescadori. E a quel'ora lui ve iera zà in Vale a pascolar quele quatro piègore che i gaveva. Cussì ela, prima de andar fora, la serava la porta a ciave e la ghe lassava, cussì come che se usava, la ciave sula finestra. — Se usava sì, una volta, lassar la ciave sula finestra... — Sicuro: tuti, dapertuto, anche in una Cherso, in una Lussin: le done co' le andava, metemo dir, in cesa, ai Vèsperi, a benedizion, le lassava la ciave sula finestra caso mai che i maridi o i fioi tornassi a casa prima de lore. Ogi chi lassassi? Indiferente. 'Sto Cuntento, che ve disevo, quel poco che el saveva, ghe gaveva imparado la madre. Perché dove Valòn ve gaveva una scola? Bisognava andar a Cherso o a San Martin. E la madre ghe gaveva imparado le divozioni, assai de cesa che la iera, con tuto che a Valòn no iera gnanche cesa e per ciapar la Messa dele sie la doveva andar a pie fina a San Martin. E sempre col rosario in man la ve iera, e, de sera, prima de colegarse, la pregava sempre quela dela Bona Morte. — Quala quela dela Bona Morte? — Quela, dài, siora Nina, che pregava anche mia madre: «Mi vado in leto col Angelo perfeto, col Angelo di Dio, con San Bortolomìo, cola Madona che me sta da capo, con San Nicola che me sta de pie, coi Santi Martiri che me sta in tondo, con tuti i angioli del mondo...» — Ah sì, sì, quela che finisse: «In leto mi andarò, de alzarme mi no so, tre cosse al mio Signor dimanderò: la Confession, la Comunion, l'Oio Santo. Padre, Figliolo e Spirito Santo.» — Amen. Questo ve saveva Cuntento, gnente altro, perché figurèvese che lui, in prinzipio, non el ve saveva gnanche contar. Apena dopo la maestra Morato ghe gaveva imparado a contar. — A scola? — Maché a scola, se ve go dito che a Valòn no ve iera scola. Omo fato iera zà Cuntento, co' la maestra Morato ghe ga imparado a contar. Vù dovè saver che lu, prima, contava coi dèi. — E cossa el contava? — Le piègore, ah, che el gaveva a Valòn. Cossa ve gaveva una volta la gente a Valòn? Quatro piègore e un caìcio. Una man ghe bastava per contar e con quel'altra el tigniva la siba. Un, dò, tre, quatro, zinque, el diseva e dopo el fazeva cola brìtola un segno sula siba. Tanto che la maestra Morato, una volta che la iera andada in Vale a colèzer fiori per la Madona de agosto e la lo ga visto che el fazeva cussì, ghe ga fato pecà, come, e la ghe ga dito: «Vignì, vignì qua, Cuntento, che ve imparo almanco a contar». — E lui se ga imparado? — Come no? No iera miga sempio Cuntento. El iera solo un poco indrìo come mentalità. Lui, dopo, ve contava franco fin zento, dozento, mile. Che anzi una sera el xe andado aposta a Cherso dela maestra Morato e el ghe ga dito: «Pensévese che stamatina go contado fina a seimila siezento e vintidò». — Tante piègore el gaveva contà? — Ma cossa piègore! Chi ve gaveva seimila e seizento piègore a Valòn? Piere dele masiere el contava. Lu, con quele quatro piègore che el gaveva, caminando davanti dele masiere el ve contava le piere, visto che el saveva contar. Cossa altro ve iera a Valòn de contar? Tanto che lu, dopo, per poder contar qualcossa de interessante, ala matina bonora, quatro ore e meza de matina, el cioleva el caìcio e l'andava al molo de Cherso co' iera i pescadori che tornava e scarigava le cassete de pesse. E là lu ve se sentava su una bita e — trentanove, quaranta, quarantaùn, quarantadò — el ve contava le cassete de pesse. «Viva, Bepi! Quarantatrè, quarantaquatro. Viva, Tonissa, andemo ben ogi, quarantasete, quarantaoto e dò zinquanta». — Eh, a Cherso i ciapava, i ciapava pesse... — Sì, ma un bel momento, al vecio Tonissa ghe ga ciapado i zinque. Che cossa ve insognè, de matina bonora, Cuntento, de contar forte le cassete de pesse? Sessantazinque, sessantasie, sessantasete. Ma sè mato? Che cussì senti quel del Dazio, che lu a 'sta ora ve xe ancora mezo indormenzado e no el conta mai le cassete de pesse e dopo ghe conto mi quel che voio. Ancora una volta che ve sento contar cassete, Cuntento, ve dago zò cola siba, cola vostra siba, ricordèvese! — Ah, i fazeva fufignezzi con quel del Dazio? I ghe scondeva cassete? — Sicuro. E Cuntento squasi che el li palesi, cussì. E sicome che sempio no el iera, no el ga più contà cassete. Ma savè, ve go dito, a Valòn no iera tante robe de contar e cussì una matina, co' xe rivada a Valòn una barca piena de militar austriaco de Fanteria de Marina, che i fazeva manovre, Cuntento, sentà su una masiera, cola siba sui zenoci, ga cominzià a contarli. Zento e vintioto, zento e vintinove, zento e trenta, zento e trentaùn... — Ah, tanti iera? — No so mi se pochi o se tanti: lui li contava. E tutintùn xe vignù zò de 'sta barca un sotufizial de Fanteria de Marina, corendo verso de lu e zigando che chi ghe ga dado ordine de contar i militari. Che nissuni — ghe ga dito Cuntento — ghe ga dado ordine. «Mi fazzo volontario, xe tanto militar che passa e mi che so contar, savè, conto. Zentotrentasie, zentotrentasete, zentotrentaoto...» E 'sto altro rabiado, zigando e tuto spudaciando, che come, che cossa, che chi? Che guai contar i militari senza ordine. Insoma che el vegni con lu subito in Governo Maritimo a Cherso. — In Governo Maritimo! E el xe andado in dispiazeri? — Squasi. Perché 'sto sotufizial credeva che Cuntento fussi chissà cossa, un spion, una spia, come, vestì de campagnol cola siba. Inveze dopo, in Governo Maritimo, el gendarmo Rimbaldo che ga spiegado che no, che gnente, che cossa, che questo ve xe solo che Cuntento de Valòn. Ma co' el gendarmo Rimbaldo e questi del Governo Maritimo per farghe veder chi che ve iera Cuntento, i xe andadi a cior, per mostrarghe a 'sto sotufizial che rugnava, el libro de tute le classi de leva de Marina, i se ga inacorto che no el iera... — No iera el libro? — Come volè che soto l'Austria, in un Governo Maritimo, dove che i tigniva tuto in massimo ordine, no fussi el libro dele classi de leva de Marina? La vera verità, siora Nina, ve xe che el libro iera, ma Cuntento no iera nel libro. Perché ve gavevo dito che lui no gaveva fato scole e sicome no el iera notà in nissuna classe de scola, no el iera notà gnanche in nissuna classe de leva. L'Austria, savè, iera un Paese ordinato e tuti doveva far le scole. — E lu perché no el le gaveva fate? — Perché a Valòn no iera scole. Insoma, per farvela curta, quela ve xe stada pretamente la sua fortuna. — Ah, i ghe ga fato far le scole? — No, siora Nina, i ghe ga fato far el militar. Che subito el devi andar militar, perché zà de dò anni el gavessi dovesto. Subito come dimàn, che el se presenti a Pola per andar soldà in Marina, che tre anni se fazeva quela volta militar in Marina de Guera. — E cussì lui ga fato solo che un? — Come se podeva gnanche concepir de far solo che un anno in Marina de Guera austriaca? Tre anni. «Tre anni — el ghe ga dito ala madre quela sera co' el xe tornado a casa tardi, che la madre ghe iera zà in leto — tre anni i me ga deto che doverò star in Marina de Guera austriaca: tre anni. Che, come mesi ve sarìa: un, dò, tre, quatro, zinque, sie...» E intanto che lu cussì ghe contava, pian pian cola fiacheta come che el ve usava, la madre ghe se ga indormenzado in leto, tardi che iera e la gaveva zà pregado le orazioni dela Bona Morte. — Eh, i veci cussì de sera, co' i xe colegadi, qualche volta i se indormenza... — Sì, ma i se sveia anche de matina bonora. Tanto che co' Cuntento se ga alzà del leto, la madre se gaveva zà levado per andar a ciapar la prima Messa a San Martin. «Ben — ga pensà Cuntento, serando la porta dela casa a ciave — ghe lasserò la ciave sula finestra». Po' el se ga fato menar de un campagnol col caìcio fina a Cherso e, de Cherso, col vapor, el ve xe andado a Pola. E quela, vedè, ve xe stada la granda fortuna de Cuntento. — Ah, el iera contento? — No ancora. Dopo. Perché tre anni lui ve xe stado in Marina de Guera austriaca, con mi, con Marco Mitis, con Pìllepich che, natural, gaveva ancora la gamba e tuti 'sti dalmati, 'sti istriani, 'sti piranesi, triestini massima parte. E lu cussì finalmente el ve ga visto un poco de mondo. Perché cossa el ve gaveva visto lu prima? Valòn, quatro case, un per de piègore, un dò caìci, le piere dele masiere che el contava e, natural, un poco de Cherso. Sul «Carlo Sesto» ierimo, Karl Sexte, come che i voleva ciamarlo per tedesco, col Comandante Bolmàrcich e nualtri magari rugnavimo un poco, perché iera de far, de strussiar, de lustrar 'sti otoni de bordo. Lui inveze diseva: ah, mi son cuntento. — Ah, lui no lustrava? — Come no? El lustrava, tuto soridente. E, finì de lustrar, me lo vedo ancora, pozà sula porta dela gambusa, col piato in man, che el magnava — perché in Marina de Guera austriaca el militar magnava in piato e no in gamela — e el diseva: «Ah, mi son cuntento». Lui, prima, capirè, de Valòn che el iera, cossa el gaverà magnà? Pan, un fià de formagio, agnel per Pasqua, forsi. E co' de sabo i ne dava el soldo, lui sempre se fazeva dar tuto in tochi de una corona. Per poder contar capì: un, dò, tre, quatro, zinque, sie... E ogni volta, co' el gaveva finido de contar el diseva: «Mi son cuntento». Cuntento lo ciamavimo, ve go dito. — Lo ciolevi via come? — Ciòrlo via perché? El iera sì un poco indrìo come mentalità. Ma de un de Valòn cossa volè, più che tanto? E inveze, dopo, tanto mondo el ga visto. Pensèvese che l'ultimo anno gavemo fato col «Carlo Sesto» la Crociera Granda che i ghe ciamava, de Pola fina in Amburgo e in più passando per Trieste, figurèvese, che cussì lui ga avesto modo de veder anche Trieste. E po' Venezia, podè imaginarve, e dopo Brindisi, che gnanche no i ne capiva, co' parlavimo cussì ala nostra, e in Spagna inveze benissimo, che a Barcelona, savon, per spagnol, se disi savon come de nualtri, e po' Gibiltera, no parlemo, con 'sti Inglesi coi fis'ceti che i fazeva saluto ala voce, e la Manica — che i ne gaveva dito che sarà mar, e inveze gnente — e po' per Yutland, driti, semo andadi propiamente in Amburgo: belissimo. — Sempre con Cuntento? — Per forza sempre con Cuntento, se el iera con nualtri de leva. Cossa volevi che lo sbarchemo per strada, povero Cuntento? Ma in Amburgo, inveze, propio in Amburgo ve xe rivà el telegrama. — Che el se sbarchi in Amburgo? — Spetè. In Amburgo, al Comandante Bolmàrcich ghe xe passà telegrama de Pola che la madre de Cuntento, povera, cusindo redi, tutintùn ghe gaveva ciapà mal e, mal, mal, mal, vecia che la iera, capirè, la ve iera grave. — E cossa, tuto questo ve iera scrito nel telegrama? De Pola in Amburgo? Che spesa! — Ma no: questa ve iera la vera verità. Sul telegrama i scriveva solo «Madre Cuntento grave», cussì un circumcirca ghe gaveva partecipado, in curto, el Governo Maritimo de Cherso a Pola e quei de Pola al Comandante Bolmàrcich, sul «Carlo Sesto» in Amburgo. — Ah, i ghe ga partecipado? — Eh sì, ah, i ghe ga partecipado che el ghe partecipi un tanto a Cuntento per dimandarghe cossa che el vol far, se de Amburgo el vol ciapar el treno per andar a casa, che, soto l'Austria, per un padre, per una madre moribonda e anche per un fradelo se podeva, e i pagava anche el viagio. E el Comandante Bolmàrcich, che ve iera un bon omo, un chersin el iera, lo ga ciamado in gabina sua de lu e, con bela maniera el ghe ga dito che sentèvese, Cuntento, e che scoltème, Cuntento mio: devo partecipante che de Pola i me ga batù telegrama che vostra madre sarìa grave, moribonda, come. «La madre? — ghe ga dito Cuntento — eh, vecia la me xe, Comandante Bolmàrcich mio, ma istesso no credevo che la me sia moribonda...» «Oh, Dio, qua sul telegrama no i dise propio moribonda, Cuntento, i dise grave; ma savè anche vù come che xe coi veci... Bon, disème, Cuntento, cossa volè far?» — E Cuntento? — E Cuntento che lui farìa se se pol. «Se se pol cossa?» ghe ga dimandà el Comandante Bolmàrcich. «Se se pol bater telegrama». «Sicuro che se pol, Cuntento mio». «E alora, Comandante Bolmàrcich, batèmoghe telegrama che i ghe partecipi, che i ghe disi ala madre che se la more, la me lassi la ciave sula finestra». E co' semo tornadi dopo squasi un anno, lui, bisogna dir, ve xe andado subito drito in zimiterio de San Martin, che la maestra Morato lo ga intivado là, col rosario dela madre in man. — Che el pregava el rosario? — No, siora Nina, che el contava i grani, mi calcolo. MALDOBRÌA XXVI - SAPORE DI SALE In cui si spiega come e qualmente anche in uno Stato affacciato sull'Adriatico con una lunga e frastagliata costa e benché il mare sia notoriamente salato, durante i conflitti e le conflagrazioni mondiali venga tosto o tardi a mancare il sale, con conseguenze spesso inimmaginabili. — Siora Nina, mi ve dirò una roba, che qualunquesia pesse, anca un zièvolo, se el xe apena ciapà, fato subito lesso ve xe la meo roba del mondo. O el sardon, frito. Inveze anca, metemo dir, un branzin, se lo fè spetar più de quel tanto, no ve xe più gnente de lu. «Non è più gnente di lui», come che diseva el Comandante Nìcolich, povero defonto. — Eh, va ben, ma quela volta no ve iera el frigo... — Ah! Anca vù sè una de quele che disi frigo! Cossa ve vol dir «frigo»? Gnente. El frigorifero se ciama frigorifero. Anca a Trieste, in Sacheta, ve xe scrito, in grando propio, «Frigoriferi Generali» e dir «frigo» xe una monada, come quei che adesso dise «vado in Jugo». Ogni modo, mi el frigorifero no go mai podesto veder. Anca a bordo co' i lo ga messo. Che mi, co' navigavo e co' no iera gnente de far e pescavo a pànola de pupa, ciapà el pesse, savé cossa che fazevo? Pitosto che el me se indurissi in frigorifero, vivo lo metevo in una nassa a rimurcio. Quel ve xe freschezza! — Sì! Ma mi dove lo meto? In cisterna, come le angurie? Lassè star, che el frigorifero xe una gran roba, che po' adesso ga tuti, no xe più come una volta el frigidèr che gaveva pochi. Massimo jazera se gaveva una volta, che po' iera quela schiavitù che bisognava cior 'ste stanghe de jazzo che jozava per tuta la cusina, e per sora esser sempre schiave de quel del'osteria se el ve dava o no el ve dava meza stanga, come che ghe girava el quarto... — Go capì, go capì. Presto 'ste done meterà anca i fioi in frigorifero, intanto che le se va a far l'ondulazion permanente. — E cossa volè? Che le vadi in giro come strighe? Per la dona una bela testa de cavei ve xe tuto. — Cossa ghe entra una bela testa de cavei adesso? Mi parlavo de pesse, che adesso per meter via el pesse par che no esisti altro che frigorifero, e inveze nualtri se gavemo rilevadi sempre savè con cossa? Cola salamora. In salamora, savè, xe san, xe natural, perché xe sempre tuto de mar, de mar el pesse e de mar el sal. Magari mi, una volta, con una salamora me gà tocà una de quele, ma una de quele... — Una salamora che ve xe andada de mal? — A mi no me xe mai andada de mal nissuna salamora. Mi iero nominado per le salamore. Barba Nane me diseva sempre: «Meterè in salamora anca vostro nono, cussì el ve dura zento ani! E po' se no finì de andar a robar sal, i ve cavarà la matricola!» — Robavi sal! In apalto? — Ma cossa in apalto e cossa robar? Ciolevo. In magazen del sal. El iera là e là lo ciolevo. E po' quela volta iera guera. — Eh, de 'sta ultima guera ga mancà, ga mancà sal! — Co' xe guera, sal manca sempre. Primo, perché manca manodopera, secondo, perché se l'omo gavessi un fià de sal in zuca no el farìa guera. E po' chi ve ga dito che iera 'sta ultima guera? La Prima iera. — Prima dela Prima guera? — No. Prima dela Prima guera iera sal. Sal de Piràn, se diseva. Anca in local, me ricordo, co' se dimandava sal se dimandava propio sal de Piran. — A Piran, questo? — Per forza che a Piran i gaveva sal de Piran. Ma anca in altri loghi. Perché el sal de Piran iera assai nominado. Arè che per le salamore, no xe gnente de meo che el sal de Piran. Insoma, una roba e l'altra. — Come una roba e l'altra? — Ma sì. Me fé sempre perder el fil, che no me ricordo più gnanca cossa che ve contavo... — Del sal de Piran... — Ah sì: che iera guera. E el sal, in apalto, prima de tuto iera poco, e po' costava. E per far salamora, che per far el pesse in salamora ghe vol assai sal, sal de Piran, mi me profitavo del magazen del sal del Governo Maritimo. No robar, siora Nina: ciolevo. Me profitavo. — Come ve profitavi? — Eh, cossa volè! In guera de bon guerier. E nel Sédese, Diciassete, iera là in Dogana tuti 'sti sachi de sal. Co' el rivava. Perché el rivava e no el rivava. Barche no iera, iera confusion e cussì, se rivavo a andar drento in magazen, un per de sessolade de sal, anca tre, quatro, zinque, sie, me le metevo in traversa... — Andavi in traversa aposta? — No aposta. Per lavor. Perché al fronte che iero prima, in Galizia, causa un sràpnel me se gaveva ofesa la gamba e cussì iero in convalessenza, come. E militar che iero i me mandava in magazen dela Dogana a scarigar, col traverson sula montura per no sporcar la montura, che guai soto l'Austria sporcar la montura! — Ahn! I ve gaveva messo propio là in magazen dela Dogana dove che rivava i sachi del sal! — E xe ben per quel che podevo profitarme. Bon: una sera vedo 'sti sachi apena rivadi, bel sal iera, più sutilo, no sal de Piran, sale fino. E go fato due viagi. Cussì tre caratei de sardoni go messo soto sal. — Orpo, tre caratei! Che bula salamora! — Ah, per quel, magnifica! Anca a vederla. Che, passa un mese, tuti diseva «Ara ti, xe passà un mese e 'sti sardoni xe come apena ciapadi». Solo che, apena che li gavemo magnadi, ga cominzià subito a esser dolori. — Ahn, i ve ga trapà che gavevi ciolto el sal? — Ma chi volè che me trapassi, che oramai iera passado più de un mese! Dolori de panza ve xe stadi, siora Nina. Perché quel che mi gavevo ciolto per far la salamora, no ve iera sal: ve iera salamaro. — Ah, salamaro, quel che se cioleva una volta per deliberarse, per mover el corpo... — Quel, siora Nina. Perché 'sto sal più sutìlo che ve contavo, quela volta iera rivado per un Regimento de Ungaresi imbarcadi a Spalatro che, passando per qua, i li mandava in Galizia. E, savè come che se usava soto le armi, al militar senza tante storie, che el stassi ben o che el stassi mal, i ghe meteva a tuti el salamaro nel cafè per deliberarli, per moverghe el corpo, che i parti più lisieri. — Mama mia! E cossa xe nato? — Xe nato che la barca xe partida senza de nualtri, siora Nina, perché con tuto quel salamaro che iera in quei sardoni, dopo gavevimo altro de far: ogni zinque minuti un'impelenza. E adio barca. — Che barca? — Ah, gnente de tale come barca de guera! Iera un monitore che insieme con 'sti Ungaresi, dovevimo imbarcarse mi, Marco Mitis e i dò gemei Filipàs che i ne gaveva intimà de presentarse de novo a Pola. E impedidi che ierimo de 'ste impelenze, 'sta barca de guera xe partida senza de nualtri. Fora de Punta Nera i la ga silurada, siora Nina. Cussì almeno i ga calcolado, perché de 'sta barca no se ga savesto mai più gnente. Silurati — cussì i gà calcolado — o una mina. Pensèvese che fortuna! — Come fortuna, povera gente!? — Ah, lori sì, poveri 'sti Ungaresi. Ma fortuna per nualtri che gavevimo magnado quela salamora de salamaro. L'Amarissimo i ghe ciamava quela volta al Adriatico. Ma no per el nostro salamaro. Danunzio gaveva inventado el nome. Savè Danunzio? Quel che andava in giro coi Mas a silurar le barche. MALDOBRÌA XXVII - PROFUMO DI DONNA Qui inteso nel senso dell'ormai mitico «Savon de odor», un tempo raffinatezza sconosciuta alle genti istrodalmate, che erano più aduse al rude contatto con il tipo Marsiglia, prima e, ovviamente, durante la Prima Guerra. — L'acqua de mar no ciapa savon, diseva sempre Barba Nane co' un zercava de lusingarlo. Perché Barba Nane ve iera un bon omo, che tuti sa che bon omo che el iera e che se un gaveva bisogno de qualcossa, lui raro ghe diseva de no. Perché, metemo dir, chi ga dà i soldi per el salìso dela cesa co' Don Blas gaveva dito che ocoreva farlo novo? Barba Nane. Chi ga fato rilevar dale Mùnighe, far scola e tuto ala picola Santina, che la iera restada orfana ancora de ragazeta? Barba Nane. E imprestiti che el fazeva, co' qualchedun iera in ristretezze, che po', più de una volta, aposta el se dismentigava de scoder. Però se qualchedun fazeva un tanto de rufianarse con lu per farghe far qualcossa lusingandolo, «Eh no — el ghe diseva fazendoghe de no col dèo — eh no, omo mio: l'acqua de mar no ciapa savon». — Ah, co' i lo lusingava che el compri savon per bordo? — Ma cossa savon per bordo! Lui diseva per dir quel che ve go dito. Indiferente. Però xe vero: l'acqua de mar no ciapa savon. E a bordo una volta bisognava lavarse col'acqua dolze, giusto un cadin de acqua dolze e savon Marsiglia. — A Marsiglia questo? — Ma cossa a Marsiglia? In tuti i loghi. Iera el savon che ve se ciamava Marsiglia. Anca qua, presempio a Piran, i fazeva savon Marsiglia e a Trieste, no parlemo. Tipo Marsiglia, insoma, che se ghe diseva. — Ahn, quel zalo grando per la lissia? — Sicuro. E con cossa credevi che se lavassi i maritimi a bordo? Col savon de lissia. Primo, perché el durava assai e secondo, perché dove una volta un maritimo se gavessi insognà de lavarse col savon de lavarse? — Ah, no i se lavava, come? — Ma come no i se lavava? Che «acqua e savon xe dò boni dotori» diseva sempre, in antico, ancora prima dela Prima guera el Comandante Bojànovich, che guai con lui no lavarse ogni dimenica! No, no: i maritimi se lavava e come! Ogni dimenica, massime i foghisti. Ma, ve disevo, no col savon de lavarse: i maritimi, pretamente la bassa forza, ve se lavava col savon de lissia, col savon de lavar. — Come de lavar e de lavarse? No capisso. — Sicuro. Perché una volta ve iera solo che tre sorte de savoni: savon de lavar, savon de lavarse e savon de odor. Che el savon de lavar iera, ve disevo, quel tipo Marsiglia, zalo, quadrato, po' iera el savon de lavarse, più picolo, bianco, che se usava a casa per lavarse le man e el viso in scafa. E po', natural, quei che podeva, anca i uficiai a bordo, doprava el savon de odor. — Per no render odor, come? — Cossa per no render odor? Iera el savon de odor. El savon col profumo, el Tualèt- Savon de odor de Viena. E quei ve xe stadi i primi savoni che se ga visto vender involti in carta. In carta crep. — Ah, me ricordo, sì i savoni de odor involti in carta crep. — Ben, siora Nina, volè saver una? No involto in carta crep, ma Tualèt-Savon de odor de Viena, go fato anche mi. — A Viena? — Ma cossa a Viena? Cossa volevi che mi andassi fina Viena per far savon? Qua go fato. Qua co' iera guera. Parlo ancora dela Prima guera. Me gaveva imparà, pensèvese, un Chinese. Un lavander chinese del Lloyd Austriaco. — Cossa, vù fazevi solo si stesso savon a casa? — A casa e a bordo. Che Barba Nane, me ricordo, me diseva sempre: «Zà che fè savon, Bortolo, fève anca la corda e impichèvese! Cossa, ve xe un lavor de mariner 'sto qua? Coi brazzi tuto el giorno nela soda caustica! Ve se smagnerà le man, ve se verzerà piaghe e i ve cavarà la matricola!» — Ah cussì iera regolado? Che chi che fazeva savon i ghe cavava la matricola? — Ma dài, siora Nina: Barba Nane ve iera un ridicolo, un che diseva cussì per dir! Cossa volè che i cavassi la matricola? Guera iera e ben contenti i iera al Governo Maritimo che qualchedun ghe navigassi, fra le mine e i silurenti. Che anca per Dalmazia, savè, navigar, dela Prima guera, no iera miga un scherzo, iera ràdighi. E mi savon no fazevo miga per divertimento, savé, mi fazevo solo per gaver roba. — Roba de lavar? Biancheria? — Ma cossa roba de lavar? Roba de magnar. Iera guera, ve go dito. In cambio de savon — che dove iera savon in tempo de guera? — in Dalmazia i me dava oio. Oio de Dalmazia. Che po' 'sti Dalmati, sempre me ga fato strano che no i rivassi a capir che chi che ga oio, ga anca savon. Basta saver far! — Cossa, anca col oio se fa savon? — Come no? Con oio, grasso, struto, late, sonza, con tante robe se pol far savon, anca coi ossi de carne. E mi me gavevo imparà a farlo in tute le maniere. Perché in tempo de guera, guai a no saver iutarse soli si stessi. E per iutarse, siora Nina, ghe vol saver far. Savè come che se dise? «Chi sa far, anca in Inferno deventa caporal dei diavuli» ! Con tante robe se pol far savon: col late anche. E po' talco. — Ma come? Col talco el savon? Talco borato xe apena per dopo lavadi, mi go sentì... — E inveze a mi quel truco me xe tocado propio col boro talco. Arè, adesso ve posso anca dir, tanto, no xe più guera. Ma quela volta, sarà stado del Diciassete, bruto iera, e oramai vero savon, massime quel bianco, no se trovava più gnanca per l'Uficialità. E alora savè cossa? Alora fazevo mi. Savon bianco, candido. Savè come che se fa? — Col butiro? — Cossa col butiro! La regina Taitù se lavava la testa col butiro. E po' chi in guera gaveva butiro? Col late. No ve xe difizile: late, boro talco, una fià de soda caustica, radìse de saponaria, e basta. E se pol far o a caldo o a fredo. Solo tuto ben sbatù, ghe vol assai ben sbater: tuto qua ve xe. — Ma come vien? Savon liquido? Lissìva, come? — Maché liquido! Vien duro, dopo, e bianco. Perché el late e el talco ghe dà el bianco e mi po', che in guera bisogna pensarsele tute, ghe metevo drento un fià de essenza de màndola amara e pareva propio savon de odor, come quel che i vendeva involto in carta. «Tualèt-Savon de Viena, roba de Viena», ghe disevo ai Dàlmati, anzi alle Dàlmate, massima parte. Perché massima parte le Dàlmate me cioleva 'sto savon de odor. — Eh, le Dàlmate xe assai nete! — Netissime. Oh Dio, in confronto. Nete sì, anca se no me ricordo più tanto, perché xe tanti ani che no go più ocasion. Indiferente. Del Diciassete, che mi fazevo savon, fazevimo la linia de Dalmazia. Paura, savè! Perché guera, mine, sotomarini, silurenti. Militarizadi ierimo, militarizadi, no ve digo altro! — Militarizadi! E i ve lassava vender savoni? — Oh Dio, quel se fazeva, siora Nina, come che se fa sempre. Se l'omo dovessi far solo quel che i lassa, l'omo no gavessi mai fato gnente al mondo. E mi fazevo 'sti savoni de talco, late e mandola amara che dopo me vigniva savon de odor. Tualèt-Savon de Viena: 'ste Dàlmate come mate. E bei soldini anca, e oio, le me dava in cambio, che in tempo de guera l'oio xe sempre come un oracolo. Solo, savé cossa che ve dirò? Che 'sti savoni de talco e late, che tuto ben per el resto, ga un unico mal: che i ga un gran calo. — Un calo? Andove? — Come andove? I ga un calo, perché dovè saver che el late sbatù col talco, el cresse, el se leva, ma po', sugàndose, co' svampisse l'acqua, el cala. De véderlo e anca de peso, perché l'acqua, savè, pesa! — Pesa, pesa l'acqua, altro che. Me ricordo mi de ragazeta, co' dovevimo andar a cior l'acqua in fontana cole brente... — Indiferente. L'acqua pesa e co' la svampisse el savon ga calo. Ma mi ve volevo contar che quela volta tuti i porti de Dalmazia fazevimo: Segna, Arbe, Zara, Porto Re — che bel che iera Porto Re — Sebenico, Spalatro, Rogòsniza. Fin Rogòsniza fazevimo... — E in tuti 'sti loghi vendevi savon? — Altro che. I Dàlmati xe neti, savè. Anca le Dàlmate. Ve posso dir mi che de militar go avù ocasioni. Un emporio de savon fazevo, perché, savè, come che se dise, no se fa capei per una sola piova. E zà che fazevo, fazevo assai. Insoma, bastanza, assai posto che gavevo in gambusa. E un giorno ne capita che dovemo andar anca in Antivari. Che de solito no andavimo mai. — Eh, ma Antivari xe fora de Dalmazia... — Sicuro, Montenegro ve xe Antivari. Là andavimo quela unica volta e no tornavimo altro. E giusto per quel alora go pensà: ghe conzo più talco, ghe slongo de più el late col'acqua, po' partimo e chi ga avù ga avù. Tanto, anca se el calo xe forte, qua no se torna altro. — Un fufignezzo, come? — Fufignezzo, siora Nina! Guera iera. E po', cossa credè, che 'sti Dàlmati col oio no zercava anca lori de profitarse? De uliva i diseva che el iera, tuto de uliva e inveze anca morca i ne meteva drento e oio de semenza. L'omo, co' xe guera e co' xe carestia, deventa come una bestia. — E le done? — E le done, in Antivari, co' semo rivadi iera cussì cussì de done sotobordo, apena che gavevo mostrado 'sti savoni de odor. Mai no i gaveva visto savon cussì bianco in Antivari, e col odor de màndola amara, gnanca in tempo de pase. Tualèt-Savon de Viena. Gaverò vendudo per no so quanti chili. Un subisso, mi calcolo. — E dopo sè partidi subito? — No: quel xe stà tuto. Oh Dio, si, per partir semo partidi subito, ma apena fora de Antivari, siora Nina, co' ierimo apena fora del fanal de Antivari, mi subito lo go visto... — El fanal de Antivari? — Ma cossa el fanal de Antivari? El siluro! El siluro che rivava! Sempre me ricorderò: soto el pel del'acqua che el filava come un siluro contro de nualtri. E mi go zigà: «El siluro! El siluro! A drita, a drita!» E drito el ne ga intivà de prova. Siluradi dei Italiani, siora Nina! Siluradi apena fora de Antivari! — E ve gavè salva? — No, son morto in Antivari del Dielassete! Sicuro che se gavemo salvadi, se son qua. Salvadi del siluro perché, graziando Idio, savevimo tuti nudar e, apena fora del fanal de Antivari che i ne gaveva silurado, semo tuti rivadi nudando in tera. Bagnadi, capirè, oltra per oltra, discalzi, natural, perché, prima roba, co' xe abandono nave, bisogna cavarse le scarpe e, podè capir, stremidi. — Eh sì, in quele evenienze! Ma xe una fortuna salvarse cussì del siluro in tempo de guera... — Siora Nina, se no xe guera, no xe gnanca siluri. Salvadi sì del siluro, ma no dele done de Antivari. Perché, capirè, quel savon che ghe gavevimo vendudo, in quela note gaveva avudo un calo, ma un calo, che no iera squasi più gnente de lu. Gavè presente quele savonete picole che i mete adesso nei hotèi sul lavaman? Bon, un circumcirca. No volè che 'ste done zigando, per montenegrin mi calcolo, le ne coreva drìo cole sibe per tuta Antivari a nualtri discalzi, che pò là, in Antivari, per le strade no ve xe gnanca salìso, ma cògoli, e più de un in ponta, perché le voleva indrìo l'oio. — Ah, l'oio! E ghe lo gavè dovesto dar indrìo? — Ma come podevimo darghe indrìo l'oio, siora Nina, se l'oio iera andado a pico con tuto el vapor! Che, anzi, i rimurciadori dela Marina de Guera Austriaca subito i gà trovà dove che iera andà a fondo el vapor. Perché de sora, sul pel del'acqua, ve iera una macia imensa. — De savon? — Ma no, siora Nina, acqua de mar no ciapa savon. Una macia de oio. De oio de uliva. Imensa. Assai, assai oio ne gaveva dà 'ste done de Antivari per 'sto savon de odor. Un subisso. MALDOBRÌA XXVIII - K. K. K. Tre kappa di seguito che da noi, nelle Vecchie Province, non significano e non hanno mai significato Ku Klux Klan, ma semplicemente Kaiser und Königliche Kriegsmarine, ovvero Imperialregia Marina di Guerra. Ma qui non di guerra si parla, bensì di quanto accadde nell'isola di Cherso quando la guerra era già finita da un pezzo. — Arè, siora Nina, mi qualche volta me ricordo come che fussi ieri robe che iera prima dela Prima guera e inveze robe che iera ieri, metemo dir, meno. — Anca mia madre, povera. Ela, presempio, poesie che i ghe gaveva imparado a scola, otantaoto ani che la gaveva, la le saveva ancora come el Padrenostro: «Una giovine donzela rica molto e molto bela...» — Come no! «...cavalcando una matina un fanciul per via incontrò e a lui fàtasi vicina...» Me la ricordo anca mi. La maestra Morato ne la imparava. Indiferente, cossa me fè adesso dir poesie! Mi volevo dirve che qualche volta me ricordo robe che gnanca più no me ricordavo de ricordarme. Ve ricordò vù, presempio, de quando che mi iero palombaro? — Come no! Cola Maritima Recuperi ieri palombaro. Me ricordo: mi iero ragazeta... — E mi iero palombaro, siora Nina. Palombaro, cola «pe» no balombaro, come che dise i bùmbari. Palombari ierimo, vestidi de goma e col casco de fero invidà cola ciave inglese. Fina zinque ore lavoravimo soto, co' gavemo tirà suso l'Arciduca Francesco Salvatore... — L'Arciduca Francesco Salvatore? Cossa, el iera cascà in aqua? — Ma no, siora Nina, cossa cascà in aqua lu? «Arciduca Francesco Salvatore» iera el nome dela barca, un monitor de guera, che in tempo de guera iera andado a finir stupidamente su una mina in Valòn de Cherso, pensévese e dopo, dopo la guera, co' xe vignuda l'Italia lo gavemo tirado suso, cola Maritima Ricuperi... Cussì, cussì iera de gente che vigniva coi caici a vèder. E una, pensévese, una signora de Trieste, tanto la se spencolava fora del cùter per vardar che i imbragava su i tochi, che, pùnfete, ghe xe cascada in aqua la borseta... — Mama mia! — «Mama mia», si, la ga dito! Come savevi? «Mama mia — la ghe ga dito al marì — che gavevo messo in tacuin i anei che me gavevo cavà per far el bagno!» — Eh, tante ga questa de cavarse i anei. Mi no me cavo mai... — E ela inveze se gaveva cavado. Bon, mi iero apena vignudo suso de soto acqua, stanco morto, zinque ore che lavoravimo, i me gaveva disvidado el casco e 'sta signora del cùter me ziga, mi fa, mi dice: «Sior palombaro — la me ziga, mi fa, mi dice — la me farìa la carità de andarme a zercar soto la mia borseta? Tuto go dentro, anche l'anel de promessa e la vera de matrimonio!» — Eh, quel fa assai diol de cuor, perder la vera... — Sicuro. E po' l'anel de promessa! Fa diol de cuor per una dona. Tanto che mi go dito subito: «Invidàtemi il casco che vado», che anzi Barba Nane me zigava drio: «Ma sè mato? Sè zà imbriago de mar! Xe zinque ore che sè soto! Ve ruvinerè, ve s'cioperà i sentimenti e i ve cavarà la matricola!» Ma mi gnente. Me go molà dela scala e via mi soto. E pian pian son rivado sul ponte del «Francesco Salvatore»... — Ma diséme, sior Bortolo, se vede cussì in fondo? — Come no? El sol passa sete acque, diseva sempre Barba Checo defonto. E po', mi, iera un mese che lavoravo su quel ponte e lo conossevo come le mie scarsele. E go visto subito come un lusòr drento un tambucio. — Mama mia, un feral! — Ma cossa un feral! Un lusòr che no gavevo mai visto prima e mi go capì subito che iera la manizza dela borseta. — Ahn, una borseta con manizza iera? — Sicuro, e vedè, come che xe qualche volta la fatalità: 'sta borseta, oltra del tambucio la iera andada a finir zò, soto el ponte. — Ah! E cussì gnente! — Come, gnente? Ve go dito che el manigo fazeva lusòr e alora drìo del lusòr, arè me par ieri, mi me calùmo soto el ponte zò per el tambucio e, soto dela borseta, siora Nina, ve vedo una casseta de fero rinforzada e coi lucheti, con su scrito Kapa Kapa Kapa... — Klùklus Klan? — Ma cossa Klùklus Klan! Chi se insognava quela volta de 'ste robe? Kapa Kapa Kapa... Ka und Ka Ka, come che i ne imparava una volta anca a scola e de militari, ve iera Kaiser und Koenig Krixmarine... Imperialregia Marina di Guera Austriaca, natural. E mi, savè, me xe vignudo come un lampo. — 'Sto lusòr che disevi? — No: el lusòr iera del manigo dela borseta, che zà la gavevo in man. A mi me xe vignudo come un lampo che quela casseta iera la cassa. «Questa — go pensà subito — xe la cassa dela barca... del Arciduca Francesco Salvatore. Qua drento sarà valori, soldi, fiorini de oro!» — Eh, me contava mia madre che una volta se usava fiorini de oro! — Se usava? Prima dela Prima guera se li gaveva in scarsela, come gnente. E mi, zito, natural. — Ah: co' gavevi fiorini de oro in scarsela stavi zito? No contavi? — Ma no! Perché no contavo, che quela volta gaveva tuti! Oh Dio, tuti. Tuti in confronto. Mi zito che go trova 'sta casseta. Mi pulito son vignudo suso, ghe go dado 'sta borseta a 'sta signora, che el marì, pensévese, me ga dà zinquanta lire me ricordo, una carta de zinquanta... — Che poco! — Zinquanta lire poco, quela volta subito dopo dela Prima guera, siora Nina? Che per quindese lire compravi un per de scarpe, oto lire a Fiume che iera Zona Franca, pensévese! Ma mi, zito. «Grazie, signora», natural, ma zito dela casseta. Perché mi go subito pensà che se mi conto dela casseta, adio casseta, i se la ciol lori, el Stato, l'Italia come Stato Successore del'Austria, che cussì i usava per tuto. E mi alora zito. — Aah, e cussì gavé lassà là la casseta. Pecà! — Cossa pecà? Cossa lassà là? No, spetè, spetè che ve conto. Mi zito con tuti e me go palesado solo che con Polidrugo, che lavorava con mi come pompista. Iera lu che me pompava l'aria quando che iero soto acqua, perché quela volta se pompava l'aria a man, cola rioda. Son andà soto prova a palesarghe 'sta roba dela casseta, che el se gaveva zà cambiado perché gavevimo divisà quela sera de andar in tera, che ve iera a Cherso la Festa de San Sidòro. — Eh, i fazeva bel una volta a Cherso per la Festa de San Sidòro! — Sicuro. Per quel gavevimo divisà de andar in tera con Polidrugo. Ma mi ghe go dito: «Polidrugo mio, qua ne pol esser la nostra fortuna». E cussì e cussì e cussì ghe go palesado de 'sta cassa con sora scrito Kapa Kapa Kapa. Per farvela curta, noi gavemo calcolà, Festa de San Sidoro che xe, tuti che andarà in tera, noi inveze ghe diremo che una roba e l'altra, che semo stanchi, che no gavemo voia, e de note mi vado zò soto acqua, ti de suso te me pompi l'aria e dopo femo metà per omo. — Mama mia! E gavè fato metà per omo? — Gavemo fato cussì come che ve go dito. A bordo ierimo solo che nualtri dò e el can. Son andà zò soto acqua col feral apòsito, scuro che iera, go imbragado la cassa e la gavemo tirada suso. Greve, siora Nina, che no ve digo. La pesava come no so cossa. — Mama mia! La cassa coi fiorini de oro! — Spetè. Insoma, gratemo 'sta cassa che la iera coverta de pedòci, rùsine imaginévese, in mar che la iera del Diciassete, e no xe verso de verzerla. Scarpei, martei, tanaie, gnente! E alora Polidrugo ga dito: «No fa gnente!» — Ah, no ghe importava? — No. El ga dito «No fa gnente, faremo cola fiama ossidrica». Che in una barca de una Maritima Ricuperi, capirè, iera fiame ossidriche a boca desidera. E Polidrugo subito ghe dà dentro ala casseta con 'sta fiama, che lui iera pratico ancora del Arsenal de Pola. E a un zerto momento, siora Nina, me ricordo come ieri, sento come un frizer. E me xe vignù un lampo... — Un lusòr, come? — Sì, se ga visto anca un lusòr. Per quel semo scampadi soto coverta. Un tiro, siora Nina! Un tiro, un remitùr, e in aria rochete de tute le parti: zale, verdi, rosse, de ogni color che s'ciopava s'ciopando e iera tuto un lusòr fina in fondo in Piazza de Cherso che i fazeva la festa de San Sidoro... — Rochete che s'ciopava in aria? — Roba che le ne s'ciopi in muso, siora Nina! Rochete sì, rochete de segnalazion. «Segnalazion Rokéte» dela Ka und Ka Krixmarine Austro-Ungarica, roba germanica! E nualtri ierimo andadi a stuzigarle cola fiama ossidrica! — Mama mia! E le xe s'ciopade? — In aria, sora la Piazza, siora Nina, che anzi Don Blas, come diman, ga dito anca del pulpito: «No go mai gavesto in vita cussì bele rochete per la Festa de San Sidoro». El ga dito propio del pulpito, contento che mai. Pensévese. Con tuto che le iera soto acqua del Diciassete! Capirè, siora Nina, roba germanica! MALDOBRÌA XXIX - LA GOMMA AMERICANA Storia, o meglio preistoria della gomma americana, che per la prima volta fece la sua comparsa nel Vecchio Continente inglobata in palline multicolori, la cui distribuzione avveniva per mezzo di ingegnose macchinette a moneta e girandola. Che funzionavano girando la girandola. — Pensèvese, siora Nina, che co' viagiavo per Sudafrica, per Nadal, che fazeva fin de rider, se vedeva per 'ste strade de Capetown, de Joànesburg la gente vestida de istà. — Eh, poveri 'sti negri. No i ga capoti lori... — Ma cossa ghe entra se i ga o no i ga capoti! E po' mi no parlavo de negri. In Sudafrica, siora Nina, massima parte ve xe bianchi. 'Sti Inglesi, 'sti Boeri. Bon: e ve disevo che per Nadal iera tuti vestidi de istà, perché iera un sol che spacava le piere. — Eh, natural, in Africa xe caldo anca de inverno. — Ma cossa natural, siora Nina? Che no xe gnente natural: in Sudafrica xe tute le stagioni voltade. Anca in Sudamerica. Quando che noi gavemo istà, lori ga inverno, e quando che noi gavemo Nadal... — ... lori ga Pasqua! — Ma che Pasqua! Cossa disè eresie! Le stagioni xe voltade, ma i mesi xe sempre quei. Qua de dicembre xe inverno e là de dicembre xe istà. E mi massima parte co' viagiavo per Sudafrica ve passavo el Nadal a Capetown, a Joànesburg, che iera fina de rider veder la gente per le strade tuta vestida de istà, perché iera un sol che spacava le piere. E scrito Bon Nadal dapertuto. — Per african? E come se disi per african «Bon Nadal»? — Bon Nadal se disi. Ma per inglese, per boero. Indiferente, sentì inveze questa: vedè 'sto dente de oro? Ben, siora Nina: questo ve xe de quela volta. — Ve lo gavè messo in Sudafrica, per Nadal? — Ma cossa ghe entra el Nadal? Sì: per Nadal me go roto ed dente bon, el mio, quel vero, ma xe stà tuto una storia de una goma americana. — Ah, alora in America, questo? — Perché po' in America? Cossa, goma americana ga de esser solo che in America? No ve xe anca qua tuti 'sti giovini, putei, putele, che per strada ve màstega brodo? Solo che una volta, ve parlo de dopo dela Prima guera, no iera 'sti libreti de goma americana che i vende adesso. Per la goma americana ve iera, in alora, quele machinete, me ricordo, col vetro che se vedeva oltra le balete de goma americana de tuti i colori. Po' iera la sfesa per la flica e la giràndola. — Che giràndola? — La giràndola che, giràndola, vigniva fora la goma americana. — Ahn! E con una de 'ste balete ve gavé roto el dente? — No. Spetè, no, che ve conto. Xe che mi, navigando prima per Nort-America e dopo per Sudafrica, mastegavo goma americana per no fumar più, che me gaveva dito el dotor. E tanto gavevo sempre 'sta goma americana in boca che, quando che me ciamava el Comandante, che quela volta iero camerier de prima classe sul ponte passeggeri propio, ben, co' me ciamava el Comandante dovevo cavarme 'sta goma americana de boca e tacarla de qualche parte soto un mobile, per no andarghe là mastegando, se no lui se rabiava. — Lui chi? — Lui, el Comandante Bussànich. Che guai comparirghe davanti mastegando goma americana. Me ricordo che anzi una volta el Comandante Bussànich, perché che mastegavo goma el me ga dà un stramusòn. El iera un bon omo el Comandante Bussànich, ma co' ghe becava i zinque minuti, el molava zerti paxtécum come el Vescovo de Òssero. Lui iera ala vecia, lui diseva sempre: «Ai giovini ghe vol indrizarghe le corbe, se no co' i xe omini, i se scavezza in colomba». Indiferente. Per farvela curta, a mi una volta, con 'sto uso che gavevo de intacar la goma americana soto dei mobili, me ga tocà un truco, ma un truco che dopo go dovesto farme el dente de oro. — Mi go leto che in Sudafrica xe assai oro... — Oro? Quel xe el meno, siora Nina: in Sudafrica ve xe diamanti! Miniere de diamanti, de brilanti, de topazi! Roba granda compagna, che i negri co' i vien fora dele miniere i li visita nudi e i ghe varda in tuti i loghi... — In che loghi? — Indiferente, in tuti i loghi che ga l'omo, perché done in miniera no lavora. Insoma ierimo a Capetown, Città del Capo, che iera soto Nadal e come che ve disevo fazeva fin de rider veder la gente vestida de istà. Ierimo là a Capetown col «Marco Polo», co' vien ordine de far pranzo un'ora prima per el passeger, perché vigniva la Finanza a far ispezion a bordo. Là in Sudafrica, prima de partir, ghe voleva far visita, manifesto, sigilo, una roba che no finiva più. Perché là, podè capir, ve iera grandi contrabandi de 'sti brilanti, diamanti, topazi. — Che portava i negri fora dele miniere? — No: che portava i bianchi fora del Sudafrica. Insoma, mi iero là che finivo de pareciar la tavola, che zà vien drento i passegeri e mi, tàchete, intaco la goma americana soto el tresso dela tavola in salon de prima classe. — Sì, sì, anca le crature fa, anca el picio de mia fia fa, che dopo xe sempre 'ste gome intacade soto dele careghe... — E mi inveze soto la tavola. Bon, servo el pranzo, tuto pulito, vien suso la Finanza, va via la Finanza, po' xe vignuda anca la Polizia inglese quela volta, coi frustini, che sempre l'Inglese gaveva de per con sè el frustin perché 'sti negri in Sudafrica iera teribili, e mi vado a spareciar la tavola. — Ve ga dito la Polizia? — Ma no! Anca la Polizia iera zà andada via. Me par de vederli che i andava zò per la passerela con 'sti frustini soto scaio, che subito el Comandante, intardigadi che se gavevimo, gaveva fato molar le zime. E in quela che spareciavo, go profità per ciorme via de novo de soto la tavola 'sta mia goma americana. La meto in boca, màstego e, vedé 'sto dente de oro? — Eh, ve sta ben 'sto dente de oro cussì davanti... — A vite i me lo ga messo. Un bravissimo dentista a Trieste, un zerto Liebman, de quei col diploma del'Austria, che val ancora adesso col'Italia, anca se no i xe dotori, tanto bravi che i iera. Insoma apena messa in boca 'sta maledeta goma americana, volè che sia? 'Sto dente me xe andado in tochi. De colpo. — Ve se ga roto el dente de oro? — Ma no el dente de oro: quel i me lo ga dovesto meter, perché me gavevo roto el mio dente vero. Insoma, coro sul lavabo e me trovo in boca un toco de dente e in più, savè cossa? Un toco de brilante compagno, siora Nina. Zinque carati, me ga dito Jànesich, quel orefice che iera a Trieste in Capo di Piazza. E una luce, una luce magnifica! — Mi e mio marì gavemo le vere de diciaoto carati... — E mio padre defonto gaveva oto carati in barca dei Bùnicich e i ghe li ga magnadi tuti! Ma cossa ghe entra i carati dela vera coi carati dei brilanti? Zinque carati per un brilante ve xe qualcossa. Tanto che con quel gavevo pensado de comprarme un per de carati dela barca de Marco Palìsca, quela che dopo se ga perso, che go fato meo a no comprar... — Carato de barca xe anca ben? — Tuto xe ben, siora Nina, quel che val soldi. E con 'sto brilante me gavevo fato un anel in oro bianco, che dava meno nel ocio e ghe contavo a tuti che no, che gnente, che iera un anel portafortuna che gavevo trovado drento in un ovo de Pasqua. — Ma no iera soto Nadal? — Sì, me go roto el dente soto Nadal, ma po' dopo contavo questa, che go trova 'sto anel in un ovo de Pasqua: un portafortuna, come. — Ah, cussì nissun saveva che iera un brilante? — I vedeva e no i saveva: quel iera la furbitù. — Ma, scuséme, una roba no go capì: vù come gavevi trovado nela vostra goma americana 'sto brilante? — Mi inveze go capido subito. Mi go subito congeturado che doveva esser stà qualche passeger che per far contrabando — là, ve disevo, iera contrabandi, signori contrabandi de diamanti — doveva esser stà qualchedun dei passegeri sentadi in tavola, che per paura dela Finanza, dela Polizia, a pranzo gaveva tacado soto la tavola el brilante cola goma americana propio rente dela mia: combinazion! — Dio che fortuna! E lo gavé ancora o lo gavé vendudo po' 'sto brilante? — Vendudo? Mai, siora Nina! Fortuna ti bacia, tiéntela streta come che diseva el Comandante Bussànich. Me go fato far quel anel che ve disevo, per gaver 'sto brilante sempre con sé sula persona, per ogni evenienza: iera un capital. Inveze, xe propio vero: quel che vien de rifa e rafa el va via de bufa e bafa. E miga tanto tempo dopo, savè: un giorno vardo e sul anel no xe più la piera. — Mama mia: la gavè persa! E dove? — Persa. E mi go congeturà che doveva esser stado quel giorno, a Buones Aires, in una de quele machinete cola giràndola per la goma americana. Go messo la flica, go girà la giràndola e, girando la giràndola, deve esser saltada via la piera. — Mama mia, che disperazion! — No, siora Nina: più che disperado iero avilido. Avilimento, come. Che anzi el Comandante Bussànich no el se capacitava. E el me diseva: «Ma cossa ti xe tanto avilido per 'sto anel? No iera un anel che ti gavevi trovado in un ovo de Pasqua, sempio?» E sicome che, sorapensier che iero, mastegavo goma americana, el me ga dà anca un stramuson. El giorno dela Madona de agosto iera, me ricordo. In Sudamerica, a Buones Aires: un fredo! MALDOBRÌA XXX - UNA ROMANTICA AVVENTURA Storia di Polidrugo ai tempi in cui la città di Fiume, essendo pertinente al Regno d'Ungheria, era ovviamente frequentatissima da ufficiali magiari dalla celebre prodigalità nonché da signore eleganti e piene di sconderiòle. — Ogni piada sburta avanti, siora Nina, e per el maritimo l'ocasion xe tuto, perché el maritimo pol profitarse. Oh, Dio, profitarse, rangiarse, no, come che se rangia el maritimo. Primi Comandanti se rangiava. No parlemo dei Commissari de bordo, dei gambusieri. Ma anche el maritimo de bassa forza. Anca mi go portà robe de tuti i loghi, massime de Sciàngai, mi go portà el portabile. Ma sempre con giudizio, mai quele esagerazioni che fazeva Polidrugo. Quel, vedè, ve iera un omo che, come che se dise, no ghe mancava bareta, perché el gaveva testa. — Testa granda, come? — Come testa granda? Testa fina. Lui, presempio, co' el viagiava per Sciàngai, per Kobe, no el se contentava come nualtri de un per de fornimenti de China o de un per de metri de seda, che là costava un bianco e un nero: Polidrugo, siora Nina, se intendeva de ori. E el portava. Anca co' el iera in tera, lui vendeva e comprava, comprava e vendeva oro, ori e ghe restava sempre qualcossa tacà sule man. Che anzi Barba Nane sempre ghe diseva: «Vù Polidrugo, butè zinque e levè sie, fina che trovarè quel del formagio che ve cavarà la matricola!» E lui quela volta che el iera a Fiume in tera, per mesi e mesi intanto che el spetava el numero del turno general per imbarcarse, el sbisigava, el sbisigava, come che el ga sempre sbisigà. — Eh, iera sbisighin, Polidrugo. — Sicuro. Lui iera a Fiume in tera e, comprando e vendendo ori, ve disevo, ghe restava sempre qualcossa tacà sule man. Fiume, prima dela Prima Guera ve iera 'sta uficialità, 'sti Ungaresi, perché Fiume iera pertinente ala Corona ungherese. — E quanto saria stà una corona ungherese? — Ma cossa quanto che sarìa stà una corona ungherese? Corona ungherese e corona austriaca iera la stessa roba. Iera Austria-Ungheria, difati. Mi parlavo come pertinenza. Fiume iera pertinente del Regno di Ungheria. E 'sto Polidrugo a Fiume iera conossudo come el soldo. Presempio i portonieri dei hotei, massime quei de Abazia che gaveva sempre ocasioni, i se lo mandava un del altro co' i gaveva un'ocasion. Savè, a Fiume quela volta iera movimento con tuti 'sti ufiziai ungaresi e man sbuse che gaveva i Ungaresi, massime i ufiziai, in 'sti grandi hotei de Abazia i beveva, spacando i biceri per tera, i zogava e, done che i gaveva a boca desidera, ocasioni no mancava. — Che ocasioni? — Ma sì, insoma, anei, orecini, piere dure, napolioni, marenghi, remenghi, ori insoma. Però mai roba robada. Quel bisogna dir, Polidrugo no se ga mai fidà. Bon. E una volta savè cossa? Una volta lo ciama el portonier del Hotel Quarnero Palàce e el ghe dise che xe una siora che cussì, cussì e cussì... — Ah, una via del marì? — Ma cossa congeturè? Lassè che ve conto. Iera una siora che, a véderla, propio una signora. Cussì, sui quaranta. Ben vestida, ungarese la iera, però la parlava franco per italian, per tedesco e per croato. Insoma, la va là del Strand cafè per 'sto abocamento che i gaveva concertado e la ghe se presenta a Polidrugo con un capel col velo come che se usava quela volta. — Vedova? — Ma cossa congeturè? Lassè che ve conto. La ghe se presenta a Polidrugo con 'sto capel col velo tirado zò, che no ghe se distingueva ben el viso e la ghe mostra un orecìn, belissimo. — La iera in bisogno e la voleva vender 'sto orecìn? — No. Iera tuta un'altra storia. Cossa congeturè! Ve iera una storia assai più intrigosa. Per farvela curta, iera che ela gaveva perso quel altro orecìn. — Come, perso quel altro? — Per forza quel altro. No quel che la gaveva in man. Ma la lo gaveva perso in modo e maniera che no la podeva palesarghe al marì. — Jessus, una relazion, come? — Indiferente. Polidrugo no se ga volesto intrigar. E po', cossa volè? Dimandarghe a una cussì in cafè, apena vista, apena conossuda se la ga una relazion? Ela ghe ga dimanda a Polidrugo — che la gaveva savudo in hotèl che lui xe pratico — dove che la podeva farse far un orecìn compagno preciso che el marì no se inacorzi. E Polidrugo ghe ga dito subito: «Solo a Trieste, in Capo di Piazza, de Jànesich. Chi altro volè che fazzi? Solo Jànesich in Capo di Piazza a Trieste». E che ghe volerà almanco un mese. E 'sta qua disperada: che come? Che i ghe gaveva deto che lui poderà far subito. E che almanco, alora se lui podeva andar con ela a Trieste. «Ai sui comandi!», ghe dise Polidrugo zà tuto imborezado: savé, iera una bela dona, ungarese e po' con 'sta istoria lui gaveva intuìdo subito che iera una piena de sconderiòle. — Aah! E ela la lo lusingava, come? — Mi no so se la lo lusingava. Fato si è che Polidrugo iera imborezado. Che, sicuro, che va ben, che i anderà insieme a Trieste, che el parlerà lui con sior Jànesich, che el conosse benissimo sior Jànesich. E cussì i xe restadi dacordi de vederse de novo sempre là in Strand cafè, come diman l'altro. E inveze, come diman, i avisa Polidrugo che xe un che lo zerca. — Mama mia, un gendarmo? — Perché un gendarmo? Cossa congeturè? Vu sempre volè saver meo de mi. Iera un. Se vedeva subito de l'anda, me ga contà Polidrugo, che doveva esser un ufizial in zivil. Ungarese, ma el parlava anche lui benissimo per italian. Giovine, sui trenta ani e el ghe dise, ci fa ci dice, se vuole comprar un orecìn. Che lo manda el portonier del Continental. E Polidrugo ghe dise che se xe un afar, se convien, che el ghe mostri. Siora Nina! 'Sto qua no ghe tira fora de una carta velina l'orecìn preciso compagno de quel che ghe gaveva mostrado quela siora? Che el lo ga avudo zogando al Kursaal: vinto al zogo, insoma. — Go capì! Questo iera quel che quel'altra gaveva perso! E Polidrugo subito ghe lo ga comprado? — No subito. Polidrugo iera furbo. El ghe dise de tornar come diman, in Strand cafè, che sì, che forsi che sì, che ghe interessa, ma che el ghe penserà suso. Insoma, natural, Polidrugo voleva prima véder de novo quel'altra. — In 'sto Strand cafè? — No, in Hotel Quarnero, dove che el saveva che la stava. Difati el va là subito e giusto el la imbroca che la beveva cafè. E el ghe conta de 'sto orecìn. E ela che, mama mia, che xe sicuro el suo. Se la vol che andiamo in polizia, ghe fa Polidrugo. E ela che, per amor de Dio guai polizia, che guai se suo marì vien a saver! E insoma la ghe dise che qualunque prezzo, qualunque roba, che Polidrugo ghe compri 'sto orecìn a 'sto qua che ghe lo vol vender. E i xe restadi patuidi che fina a zento fiorini ela ghe lo pagava. — Zento fiorini? Quanto sarìa? — Cossa volè? Ogi no se pol gnanca far un calcolo. Insoma, fè conto che la casa del defonto Pessimòl, quela granda in volta dela strada, xe andada al incanto per trezento fiorini. Indiferente. Come diman, Polidrugo xe là in Strand cafè e dopo un poco vien 'sto ufizial in zivil. El disvoltizza 'sto orecìn dela carta velina e el ghe dise: «Otanta fiorini». Polidrugo ga visto subito el bon afar, però — furbo che el iera — el ghe ga disesto: «Guardate che no bisogna profitarsi, perché questo, di valore suo, pol così ùgnolo come che è, massimo venti fiorini». E iera vero, savé, perché el suo prezzo giusto sarìa stà quel. — E 'sto qua se profitava? — Spetè, spetè: tira, para, mola i resta su zinquanta fiorini. Polidrugo ga pensà: «Ala baba ghe lo fazzo a otanta, che per ela xe sempre una convenienza, perché zento la gavessi pagà. Trenta me resta a mi e cussì xe festa per tuti». — Ah, furbo, Polidrugo. Anche lu cussì se profitava! — Siora Nina: Polidrugo paga i zinquanta fiorini, el ciol l'orecìn e el cori in Hotel Quarnero. E là che la signora è partita. Partida? Che quando? Che stamatina bonora. Ma come? Senza orecìn? — Sì, perché senza orecìn? — Ma cossa, siora Nina? No gavè ancora capido? Gnanca Polidrugo in un primo momento no se gaveva capacitado. Ma dopo el ga capì: quei dò iera dacordi. Con tuta quela storia, i ghe gaveva fato pagar l'orecìn squasi tre volte de cossa che el valeva. — Mama mia, che dano! — Gnanca tanto, siora Nina. Perché, intanto, ghe iera restà l'orecìn e po' Polidrugo, apena che el se ga imbarcà, col primo viagio che el ga fato, a Sebenico, vizin del Domo, che iera quela bela oreficeria, el xe andà del orefice col orecìn. E come ogi el ga fato de dona in capel col velo e, come diman, de ufizial ungarese in zivil. Lu gaveva, gaveva, quel'anda de ufizial ungarese in zivil. MALDOBRÌA XXXI - LA CASA DELLE DUE SORELLE Storia di Marco Patisca e Piero Sangulìn, compagni di scuola e di lunghe navigazioni, amici nella buona e nella cattiva sorte, da cui appresero, anche senza essere filosofi, come il Male spesso non sia che l'altra faccia del Bene. — No xe un mal senza un ben, siora Nina, come che diseva sempre Don Blas dopo de quela volta che el fulmine ghe gaveva fato s'ciopar la campana del Domo e che po', co' lu gaveva dito in cesa che bisogna sovvenire alle necessità dela Chiesa contribuendo secondo le leggi e le usanze, la Confraternita de San Sidòro ghe ga dà. — Cossa i ghe ga dà? — Cossa volevi che i ghe daghi, siora Nina, lignade? Soldi i ghe ga dado. Se lui gaveva dimandado per la campana s'ciopada, i ghe ga dà soldi, bei soldi, corone, fiorini per la campana nova. Che la gaveva bon son, più bon son ancora de quela che se gaveva s'ciopà. — Eh, natural, la campana s'ciopada no ga bon son! — Cossa ghe entra? Questa che ve disevo no gaveva pretamente bon son gnanca prima. E «no xe un mal senza un ben», diseva sempre de quela volta Don Blas. Che forsi, mi calcolo, Marco Palìsca e Piero Sangulìn gaveva ciapà su de lu, ragazeti che i iera e che i ghe serviva sempre Messa. — Marco Palìsca e Piero Sangulìn? Ciapà su cossa? — Quela del mal e del ben. Che anzi qua savè come che i li ciamava? Qua a Marco Palìsca e a Piero Sangulìn i ghe ciamava: «Mal e Ben»... — Ahn, perché i iera un bon e un cativo, come? — Maché un bon e un cativo, che anzi i iera tuti dò bonissimi giovini e i gaveva navigado anni anorum insieme senza che mai fra de lori ghe fussi stado un fate in là! No, Mal e Ben i ghe diseva per quela che lori diseva sempre per ogni roba: questo te xe mal, questo te xe ben. — A chi i ghe diseva? — Fra de lori i se diseva, perché lori i ve iera sempre insieme e insieme i se gaveva fato perfina la casa, dopo che i se gaveva anche sposado insieme, sposadi de Don Blas, no se parla. — Cossa? Marco Palìsca se gaveva sposado con Piero Sangulìn? Insieme? — Sì, fra de lori! E Don Blas li gaveva benedidi! Go dito insieme, per significar che lori ve gaveva fato nozze in Domo el giorno istesso, perché i se gaveva sposado per le dò gemele Ballabèn. Norina e Dorina Ballabèn: sorele, gemele, compagne, precise spudade, che anche suo padre, el mistro Ballabèn che navigava per Dalmazia sula Ungaro-Croata e che ogni setimana el iera a casa, no el le ravisava una del'altra, pensévese. Indiferente. Visto che i gaveva sposado 'ste dò gemele Ballabèn insieme e insieme i gaveva navigado per anni anorum senza che mai ghe fussi stado fra de lori un fate in là, come che ve contavo, i ga decidesto de farse anche la casa insieme. — Che bel cussì tuto insieme, anche la casa! — Bel e no bel, siora Nina, ben e mal. Perché apena che i gaveva finì de farse 'sta casa che po' iera dò case tacade con dò porte compagne sul davanti e sul dedrìo, i ga cominzià a dir: «Oh Dio, xe mal, perché xe anche una schiavitù star in dò case tacade, ma istesso far muro unico xe stà meno spesa e quel ne xe un ben». Mal ve iera inveze che, propio apena sposi, i iera restadi tuti dò in tera sbarcadi. Che, apena sposi che i iera, magari ghe iera un ben perché i podeva star de più cole mogli, ma senza paga, capirè, ghe iera un mal. — Ah, no i ghe dava paga? — E cossa volevi, che i ghe dassi paga per star cole mogli? No i ghe dava paga perché i iera restadi in tera tuti dò sbarcadi del «Cherca» che quel periodo i lo gaveva messo in disarmo. I iera senza paga: «E questo te xe mal — ghe diseva Marco Palìsca a Piero Sangulìn — te xe un mal, perché senza paga semo e xe più giorni che lugànighe, Piero mio». — Eh, bruto, bruto xe, co' l'omo xe senza paga, me ricordo che, de picia, co' mio padre... — Indiferente, vostro padre. Lori ve iera restadi senza paga apena sposi, el sol magnava le ore e, natural, ve iera più giorni che lugànighe. Fina che una sera, prima de andar in leto, Piero Sangulìn ghe ga dito a Marco Palìsca: «Sa cossa che gavessi de dirte, Marco mio? Gavessi de dirte, ma no dirghe a nissun, che go intivà in local Barba Chiole, che xe apena rivado col "San Francisco" de Antivari e el me ga dito, in secreto, che el ga un saco de tabaco de contrabando a bordo sotocoverta, ma che no el se fida de portarlo in tera». — I fazeva, i fazeva una volta contrabando de tabaco de Antivari! — Sicuro, perché iera guadagno. «E, Piero mio, senza paga che semo e spese grande che gavemo avù per la casa — ghe ga dito Marco Palìsca — guadagnar qualcossa ne sarìa pulito. E se Barba Chiole no se fida de portarlo in tera, podessimo fidarse nualtri per lu de andar a cior 'sto saco de note col caìcio e ne sarìa un ben. Ben: oh Dio, se la ne va ben, perché se inveze ne intiva la Finanza ne sarìa un mal». — Eh xe mal, xe mal co' la Finanza intiva che un fa contrabando! Se pol anche andar in dispiazeri... — Sicuro che xe dispiazeri co' la Finanza intiva, ma tante volte anche no la intiva. E xe quel che ghe ga dito Piero Sangulìn a Marco Palìsca: «Eh sì, Marco, però se la Finanza no ne intiva, una volta ciolto el saco de tabaco de sotocoverta e portado in tera, sarìa un bel guadagno e questo ne sarìa un ben». «Guadagno bel xe ben, Piero mio, ma, ben o mal, far contrabando xe mal». «Oh Dio mal, contrabando, Marco mio: Don Blas, una volta, in confession me ga dito — ma che no devo dirghe a nissun — che contrabando, per la lege austriaca, no xe pretamente pecato, ma solo contravenzion». «Alora no xe mal, Piero?» «Oh Dio, Marco, pol esserne ben, almeno mi spero!» Ore cole ore i ve xe andadi avanti quela sera, sentadi sul scalin dela porta de casa a parlar se iera ben o se iera mal, ma po' quela note istessa no i ga fato né ben, né mal, i ga ciolto el caìcio, che i gaveva anca quel insieme, e i xe andadi sotobordo del San Francisco, col scuro, a farse butar zò 'sto saco de tabaco. Un bel saco de tabaco. — Alora xe andà ben? — Fin squasi che i xe rivadi in tera. Ma mal xe stà co' là, poco fora dela Lanterna, li ga visti la barca dela Finanza perché, pégola, propio in quela la Lanterna ga lampà. E lori, savé cossa? Lori no i ga fato né ben né mal: i ga butado el saco de tabaco in mar, i ga armisà el caìcio sul moleto e, presto presto, prima che quei dela Finanza li ravisi, i xe corsi su per i grémbani a casa, e po' drento, de furia, per la porta de drìo, a ficarse in leto, cussì vestidi come che i iera, con tute le scarpe, cole mogli. — Ahn, la Finanza no li ga ravisadi? — Pretamente no. Però subito 'ste Finanze se ga inacorto che i remi del caìcio de Piero Sangulìn e de Marco Palìsca iera bagnadi e cussì i ga pensà ben de andar a veder a casa sua de lori. — Mama mia, alora ghe xe andà mal! — No! Ghe xe andà ben, perché co' 'ste Finanze ga vardà oltra dele finestre, in piantèra che i dormiva, i ga visto che tuti dò pulito i iera in leto cola moglie e cussì no i ghe ga podesto far gnente. Perché, soto l'Austria, uno, una volta in leto cola moglie, iera salvo. — Ah, cussì iera? Bel! Alora ghe xe andà ben? — Ben sì, anca perché una roba la Finanza no saveva: che nela furia e nel scuro, andando drento per la porta de drìo inveze che per quela davanti, Marco iera andado nela casa de Piero e Piero nela casa de Marco. — Piero nela casa de Marco e Marco nela casa de Piero? Come, come? — Come che tuti ga parlà in paese. Perché la vecia Teta Rosina, che de matina bonora andava sempre a ingrumar legni, ga visto Piero vignir fora dela casa de Marco Palìsca e Marco vignir fora dela casa de Piero Sangulìn e, capirè, co' Teta Rosina saveva una roba, saveva tuti. Come se gavessi sonà la campana del Domo: tuti ga parlà. — Ah, i ga parlà!... Alora iera mal? — Xe quel che ghe ga dito Piero Sangulìn a Marco Palìsca. «Eh, Marco mio, el tabaco gavemo perso, e ne xe mal». «Sì — ghe ga dito Marco — ma ala Finanza ghe semo scampadi, Piero mio, e questo ne xe ben». «Va ben, Marco mio, ma nel scuro e nela confusion del scampar, ti ti xe andado in camera de leto de mia moglie e mi in camera de leto dela tua: e questo ne xe mal». «Oh Dio, mal, Piero, però la Finanza ne ga visto che noi pulito ierimo in leto cole mogli e no i ne ga dà multa, e questo ne xe ben». «Sì, che ierimo cole mogli, però, Marco, tuto el paese sa che mi de matina bonora son vignù fora de casa tua e ti ti xe vignù fora de casa mia, apena sposi che semo, e questo ne xe mal». «Oh Dio, mal! Gnente ben no sarìa se noi a casa, sotocoverta, gavessimo fato contrabando, ma nualtri a casa, sotocoverta, inveze no gavemo fato contrabando ! Oh Dio, almeno mi spero...» — E chi iera questo che ga dito questo? — Tuti dò, siora Nina, ga dito «Oh Dio, almeno mi spero». Insieme i ga dito. E cussì, dopo, tuti dò ga continuado a viver sperando. Compagne, precise, spudade ve iera le dò gemele Ballabèn, Norina e Dorina, le mogli de Piero Sangulìn e de Marco Palìsca, quei dò che i ghe ciamava Mal e Ben. MALDOBRÌA XXXII - LA LOTTA DI CLASSE In cui il nostromo Jurìssevich contravviene in parte all'imperativo categorico del detto popolare «In vita strenzi, in viagio spendi e in malatia spandi», dimostrando che, sia per terra, sia per mare, la virtù del risparmio, oltre a esser premio a sé stessa, affina l'ingegno e, almeno un tempo, consentiva d'aumentare il proprio peculio. — In vita strenzi, in viagio spendi e in malatia spandi, diseva sempre Barba Nane defonto. E questo, siora Nina, per significar che a casa, in famea, per viver, bisogna strenzer, sparagnar, co' se sta ben. E co' se sta mal, inveze, spander, no badar al soldo, perché gnente no val più dela salute. E in viagio spender, perché, inutile ah, in viagio sempre se ga spese, sempre se spende e sempre se spenderà... — Eh, apena che un se move de casa, i soldi scampa de man... — Sicuro, perché la vera verità ve xe che i viagi costa e ga sempre costado. Se no, metemo dir, come se gavessi fato i soldi le Compagnie maritime? Come se gavessi fato i soldi i lussignani? — Come, come, sior Bortolo? — Cussì come che i se li ga fati. Numero un: cole Compagnie maritime, che nissun come i lussignani se ga fato i soldi cole barche, coi vapori, coi noli, e po', numero dò, con quel de esser sempre tacadi al soldo, che anzi propio quel ve iera el numero un. E no solo quei che gaveva Compagnie maritime, come, metemo dir, i fradei Giadròssich, i Fratelli Giadròssich, che i ve diseva sempre «costi quel che costi, basta no spender», ma anche, per dirve, un nostroomo Jurìssevich, che prima ve iera un semplice maritimo. Lu, dove che se podeva no spender, el zercava de no spender. — Ah, el se privava... — No, no el se privava. Lui, presempio, co' el gaveva voia de fumar, no so, a bordo o in local, el ghe diseva a quei che iera con lu: «Ah, se gavessi un fulminante, ve dimandassi cartine, ma tabaco no go...» — Perché? No el gaveva? — Ma sicuro che el gaveva. Cartine, tabaco, fulminanti e tuto, ma se el podeva sparagnarli, el li sparagnava. E sparagnin e interessoso che el iera, lui, dove che el podeva no pagar una roba che sarìa stada de pagar, no el pagava. In vapor, presempio, quante volte el nostroomo Jurìssevich no ve xe andado de giovine in vapor, montando cussì suso al ultimo momento e sentandose de schena in un canton in coverta... — Ah, quei sentadi de schena no pagava? — Ma cossa no i pagava? Lui sentandose de schena ghe pareva che no i lo vedessi con tuto che el iera un toco de omo. Lu cussì ve andava a Cherso, in Arbe, a Pola, a Fiume, senza pagar bilieto. E se, per combinazion, qualche volta i lo intivava e i ghe dimandava el bilieto, lu: «Ah, no go rivà a comprar el bilieto! Vù zà fis'ciavi, malignazi, e mi iero ancora per riva che corevo...» E el tirava fora el tacuìn. — E ghe tocava pagar? — Si, ma una volta su zinque, forsi. E in treno, presempio, co' l'andava de Fiume a Trieste per imbarcarse, lui ve stava sempre in pie vizin del logo de decenza, pronto a scampar drento. — A scampar drento se ghe scampava, come? — No, a scampar drento se vigniva el controlor. Indiferente. Volevo solo contarve che el nostroomo Jurìssevich — che gaveva cominzià navigando per i Giadròssich, prima come semplice maritimo e po' come nostroomo, e che in ultimo tanto el gaveva procurà de sparagnar e de profitarse con una roba e l'altra, che el se ga trovà forsi a gaver più soldi lui che i Giadròssich, dopo che i Giadròssich gaveva perso tuto — bon, lui, omo giovine, ma zà nostroomo, quando che el navigava ancora per i Giadròssich, el xe andà de Fiume a Trieste, per imbarcarse. In treno. — Senza pagar bilieto? — Forsi, no so. Ma volevo dirve che, apena rivà a Trieste, in scritorio dei Giadròssich, Sior Antonio ghe ga dito subito: «Bon che sè qua, Jurìssevich mio, perché go el Laura in Amburgo e quel sempio de nostroomo Fatutta me se ga malà de rissìpola in Amburgo e vù cussì andème subito in Amburgo e imbarchèvese vù sul Laura al posto de quel sempio del nostroomo Fatutta. Col treno natural...» — Imbarcarse col treno? — Ma cossa imbarcarse col treno? Andar in Amburgo col treno per imbarcarse. — «Ve pagherà tuto la Compagnia, Jurìssevich mio — ghe ga dito Sior Antonio — co' bisogna bisogna, e qua bisogna che vù dimani matina bonora me andè in Amburgo. Costi quel che costi, basta no spender». E ridendo el ghe ga dado i soldi per el bilieto de terza classe. «Come terza classe?» ghe ga dimandà Jurìssevich. «Sicuro: terza classe, perché no xe quarta. Cossa no faremo miga grandezzade de voler andar in Amburgo in prima classe, come l'Amiraglio Tegethoff?» «Che prima classe no, che podè capir, Sior Antonio, che prima classe no — ghe ga dito el nostroomo Jurìssevich — ma che, insoma, in terza, coi sentài de legno, fina in Amburgo, mi ve rivo, con rispeto, col fil dela schena in tochi». E una roba e l'altra, i ga cominzià a quistionar sula classe, fin che Sior Antonio ghe ga dito: «Va ben, andè in malora vostra visto che xe 'sta impelenza, andè in seconda, ma che ve sia la prima e l'ultima volta, perché 'ste grandezzade no me piase». E, sacramentando, el ghe ga zontado qualche fiorin de più. — De più? Assai de più? — Oh Dio, assai de più! Cossa ve iera per una «Fratelli Giadròssich» la diferenza de un pochi de fiorini fra una terza e una seconda classe per Amburgo? Gnente. Ma per un nostroomo Jurìssevich ve iera abastanza, un bel civanzo, tanto che lu, el giorno drìo de matina bonora, apena rivà in Stazion, el ve ga ciolto subito un bilieto de terza classe. — Ahn, e cussì no el xe andà in seconda? — No, siora Nina, lui ve xe andado pretamente in prima. — Jessus, in prima classe? E perché? — Come perché? Perché in prima ve iera più comodo coi sentài rossi de veludo cole suste e po' svodo. Nissun no ve iera. E in più, soto l'Austria, ve iera assai raro che in una prima classe vignissi cussì subito el controlor, pien de gente che ve iera in terza e anca in seconda. Apena a Vilaco, siora Nina. — Apena a Vilaco no iera più gente? — No, apena a Vilaco xe rivà el controlor in 'sto scompartimento de prima. Che el bilieto, prego, bitte die Fahrkarte... E el nostroomo Jurìssevich ga pulito tirà fora de scarsela el bilieto e 'sto controlor, in montura, cola bareta alta col'aquila de oro e i ociai a piziganaso ga subito visto che el iera zalo... — Zalo el nostroomo Jurìssevich? El stava mal? Mal de treno? — Cossa volè che un nostroomo ve gavessi mal de treno che i nostri nostriòmini no doveva gnanche gaver mal de mar, soto l'Austria, che soto l'Italia, inveze, più de uno. Indiferente. Zalo, siora Nina, ve iera el bilieto che el nostroomo Jurìssevich gaveva tirà fora de scarsela. E subito 'sto controlor se ga inacorto che iera un bilieto de terza classe, perché soto l'Austria, in treno, i bilieti de terza classe ve iera zali, quei de seconda celesti e quei de prima, natural, bianchi. Come? Che con bilieto de terza classe el xe in prima? Erste Klasse mit einer Dritteklassefahrkarte? Che, sofort, raus, che insoma subito fora e che el ringrazi Iddio che no el ghe dà la multa, solo perché che el vagon de prima xe svodo, ma che sia la prima e l'ultima volta. — Ahn, i dava assai multa per questo? — Bastanza, soto l'Austria, perché, savè, l'Austria ve iera un Paese ordinato, massime per le classi. Anche in treno. E in treno, presempio, siora Nina, soto l'Austria guai, con decenza, andar in logo de decenza nele stazioni. — Ma come, no se podeva andar nei loghi de decenza dele stazioni? — Ma no dele stazioni, che a Fiume, presempio, ve xe ancora, ogi come ogi, belissimi loghi de decenza in stazion fati ancora del'Austria. Oh Dio, i li tien come che i li tien, ma neti i sarìa belissimi. No, siora Nina, per regolamento propio dele Ferovie Austriache, ve iera che co' el treno iera fermo in stazion, no se podeva andar nel logo de decenza del treno, perché, capirè, con decenza, sule sine in stazion xe bruto veder. Tanto che me ricordo che el Capitan Terdoslàvich contava, che una volta che el gaveva dovesto anche lu andar in Amburgo col treno per andar a cior no so che barca in Amburgo, ben lui a Viena, propio a Viena, co' el treno iera fermo in stazion, el ga avù un'impelenza e, andar che el doveva, el xe andà. — A Viena? — Ma cossa a Viena, se el doveva andar in Amburgo? El xe andà in logo de decenza del treno, co' el treno iera fermo in stazion de Viena: Sùdbahnhof. E co' el xe vignù fora, no volè che el capostazion de Viena, propio el primo capostazion de Viena che passava propio in quela sul marciapìe, sportel averto che iera, el lo vedi che el sorti del logo de decenza? Che come? — el ghe ziga del marciapìe — che far questo in una stazion de Viena? E che ancora capitano maritimo el xe? E che el vegni subito zò del treno! E zò che el iera el ghe ga dito che das ist eine grosse Schweinerei, che assai el se meraviglia de una roba compagna e che poco de far, nix zu machen, el devi pagar la multa. Che va ben, ah, ghe ga dito per tedesco, che lui parlava benissimo per tedesco, el povero Terdoslàvich che se imbotonava ancora el sacheto, che va ben, che se el deve pagar la multa che el pagherà e che quanto che xe. «Eh, — ghe ga dito 'sto capostazion, sbassàndose e dando un ociada ale sine soto del vagon — qua mi calcolo che ve sarà per un dieci, dodici corone...» — E iera assai? — Ah, mi no se se iera assai. Mi no so cossa che podessi esser ogi un dieci, dodici corone. Ma questa, savè, ve la contava el Capitan Terdoslàvich che ve iera un omo ridicolo. Indiferente, mi ve contavo inveze del nostroomo Jurìssevich che, a Vilaco, cola valisa in man ga dovesto andar via dela prima classe, perché el gaveva bilieto de terza. — Eeh, col bilieto de terza, el doveva andar in terza. — E inveze no. Lui, inveze, siora Nina ve xe andà in seconda, che anche là iera i sentài de veludo, ma più strenti e verdi. Sera oramai che iera, lui pulito el ve se ga messo comodo, el se ga molà le stringhe dei stivai e el ga dormì fin che lo ga sveià el controlor. — Mama mia, quel de prima? — No, siora Nina, un altro, perché el treno ve iera oramai a Praga. «Prag-Praha» per tedesco e per boemo ve iera scrito in grando in stazion, che per el resto, le stazioni austriache ve iera tute compagne. E podè capir, anche 'sto altro controlor, co' el nostroomo Jurìssevich ga tirà fora de scarsela el bilieto, el ga visto subito che el bilieto iera zalo. E subito el ga cominziado a quistionarghe che come, che con un bilieto de terza, in seconda? Zweite Klasse mit einer Dritteklassefahrkarte? Che per stavolta no el ghe dà la multa, solo perché el treno xe assai pien, ma che subito, sofort el vadi in terza, i ultimi vagoni in fondo, die letzte Wagen dort unten! — Ah, el ga dovesto andar in terza! — Sicuro, stavolta sì. E in terza ve iera pien de gente, con 'sti sentài de legno e tanto de caminar de un vagon al altro che co', come Dio ga volesto, el ga trovà un posto el ve iera zà che ben drento in Germania. — In Germania, povero omo! — Cossa povero omo, che quela volta la Germania, iera un dei meo Stati, dopo l'Austria, natural. E lu del finestrin ve vedeva 'sti imensi boschi, 'ste campagne, 'sti paesi lindi e, in fondo, el mar. El Mar del Nord, pensèvese, siora Nina. Ben: e propio in quela el vedi vignir drento del fondo del vagon el controlor de terza classe. Bilieto, signori bilieto, meine Herren. E, pien de gente che iera, 'sto controlor se intardigava a vardar un e l'altro, capirè, fina che el xe rivà là del nostroomo Jurìssevich. E, apena che el ghe ga ciolto de man 'sto bilieto zalo, el ga leto che su iera scrito «Trieste-Monfalcone». Ma come — el ghe disi — Monfalcone? Wie so Monfalcone? Che Monfalcone xe in casa del diavolo, ancora in Austria, noch in Oesterreich, vizin Trieste, neben Triest, e perché che no el xe smontà in Monfalcone? «Ah — ghe ga dito el nostroomo Jurìssevich — omo mio, a Monfalcon ve semo passai ieri ale sie de matina bonora e cossa volè far a Monfalcon ale sie de matina?» — Mama mia! E 'sto controlor? — E 'sto controlor, siora Nina, in piedi che el iera, propio in quela el ga dovesto guantarse sul schenal del sentàl, perché el treno oramai se stava fermando in stazion de Amburgo. E el nostroomo Jurìssevich, pulito, ga guantà la valisa, el xe presto smontà del treno e via lu coi bori del oio... — Ma disème una roba, sior Bortolo, i altri dò controlori no se gaveva inacorto che el bilieto iera solo che per Monfalcon? — Ma dai, siora Nina, quei altri dò no gaveva gnanca guarda el bilieto: i gaveva solo visto che come color no el iera giusto. Quela ve iera stada la furbitù del nostroomo Jurìssevich. E cussì, in Amburgo, via lu coi bori del oio.... — Ma che oio? — Nissun oio! Via lu coi bori del oio, come che se usa dir, siora Nina. Via lu con tuti i bori che ghe gaveva dà Sior Antonio per andar in Amburgo in seconda classe e lui inveze ve gaveva ciolto el bilieto solo che fina Monfalcon e in terza. — Ah, cussì el gaveva sparagnà tuti i soldi, squasi! — Sicuro: el sparagno xe el primo guadagno, diseva sempre el nostroomo Jurìssevich. Perché lui, e prima e dopo, omo giovine e zà nostroomo che el iera, no pagando bilieti, procurando de no pagar mai dazi in dogana, e spendendo poco o gnente per viver, una roba e l'altra, pian pian, abastanza presto, el se ga fato i soldi. E el se ga anche sposà, pulito, dandoghe solo che una picolezza a Don Blas, che tuti ga criticà e, idem per el batizo co' ghe xe nato el fio, un bel picio. Insoma, siora Nina, per farvela curta, co' el fio gaveva un sete, oto anni, lui ve iera zà un signoreto con barca propia. — El fio, un signoreto con barca propia? — Ma no, la barca iera de lu, del nostroomo Jurìssevich, deventà un signoreto. Tanto signoreto che, pensévese, co' l'andava de Lussin a Trieste in vapor, oramai el comprava bilieto. Bilieto e anca gabina. Seconda classe, ma gabina. — Pagando? — Eh sì ah, ve go dito, pagando. Bon, volè saver? Un giorno el ve xe andà sul Narenta! Barca celere de lusso, solo passeggeri e solo che prima classe. E lui, quela volta, anca prima classe el ga ciolto, pagando. Rugnando, ma pagando. Che cossa xe 'ste grandezzade de far un vapor senza una seconda classe, el ghe predicava ai altri andando su per el barcarizzo con in man una granda valisa de paia. Savè quele grande valise de paia, cofe come, che se usava una volta per viagiar? Bon, quele. E, sul ponte, el ga subito trovà de dir col nostroomo Màver, un rùspido. — El nostroomo Màver? No conossevo. — Indiferente, gnanca el nostroomo Màver no conosseva el nostroomo Jurìssevich. E, apena che el lo ga visto con 'sta granda valisa de paia, el ghe ga dimandà con bruta maniera che dove che el va con quela cofa, sior. «No xe una cofa: questa ve xe la mia valisa!» E 'sto Màver che, per lu, questa no xe una valisa, che 'sta qua ve xe pretamente una cofa, un colo de carigo e che i coli de carigo deve restar in coverta. «No podè portarla in gabina — el ghe ga dito — dovè lassarla in coverta!» E alora Jurìssevich xe saltà su: «Che cossa? Che mi che go pagà bilieto de prima classe con gabina sarò schiavo de no poder portar la mia valisa in gabina de prima classe?» E 'sto Màver: «Propio perché xe gabina de prima classe, no podè portar drento cofe, perché questa ve xe una cofa e le cofe se le lassa in coverta!» «Cofe sè apena vù, se credè che mi lasserò la mia valisa in coverta!» ga zigà alora Jurìssevich. E Màver: «Cofe, sior mus, a mi no me ga mai dito nissun! E mai in vita 'sta cofa no andarà in gabina! Dèmela qua!» — Jessus! I quistionava? — Altro che quistionar! Pretamente i se sbarufava tuti dò in còlera: «Dèmela qua!» «E mi no ve la dago!» «Dèmela qua!» «No che no ve la dago!» Insoma, per farvela curta, a 'sto nostroomo Màver ghe ga ciapà i zinque minuti, el ghe ga zucà via de man 'sta cofa al nostroomo Jurìssevich e, dito fato, el ghe la ga scaraventada in mar. «Eco qua — el sbraitava tuto rosso — eco qua, remengo vostro, cussì no la ve xe né in gabina, né in coverta!» E Jurìssevich: «El fio! El fio! — el zigava disperado — el fio, me gavè butado in acqua el fio! Una cratura de oto anni, che ancora 'sto anno el me stava nela cofa!» El fio, siora Nina, fina a oto anni, l'usava meter nela cofa per no pagarghe el bilieto. E adesso che el gaveva soldi forsi più che Sior Antonio, el nostroomo Jurìssevich l'usava anche lu dir sempre: «Costi quel che costi, basta no spender». MALDOBRÌA XXXIII - I SANTI INNOCENTI In cui si racconta di quando i vecchi d'oggi erano bambini e, in tempo di Natale, festeggiavano il Bambino Gesù, o nella Contea Principesca di Gorizia e Gradisca, o nel Margraviato d'Istria con le isole di Veglia, Cherso e Lussino, o nella Città di Trieste col suo Territorio. — Una volta, siora Nina, a scola, co' mi andavo a scola, ma anche dopo, soto l'Austria, bisognava imparar tuto a memoria... — Le poesie, intendè, sior Bortolo? Mi ancora so tante che i ne ga impara a scola soto l'Austria. Ogi inveze no i ghe impara più gnente... — Gnanca la creanza, siora Nina. Noi, inveze, dovevimo impararse a memoria, no parlemo le poesie, ma squasi tuto. Presempio, guai no saver cola maestra Morato quela del Litorale Austriaco... — Quala del Litorale Austriaco? — Quela po': «Il Litorale Austriaco si compone della Contea Principesca di Gorizia e Gradisca, del Margraviato d'Istria con le isole di Veglia, Cherso e Lussino e della Città di Trieste col suo Territorio». — Ah, sì, me ricordo: «e la Città di Trieste col suo Territorio», me ricordo. — Eh, tanti se ricorda, ma no serve. Ma de fioi iera cativo tignir tuto in a mente. Perché, presempio, anche a catechismo, Don Blas, per Nadal ghe fazeva imparar ai fioi quela de Nadal. — Quala, quela? — La poesia de Nadal: «Ogi Egli è nato ad Èfrata, vaticinato ostelo, ascese un'alma Vergine la gloria d'Israèlo...» che po' 'sti poveri fioi no capiva una madona. Oh Dio, i capiva solo che l'alma Vergine iera la Madona. E po', sempre per Nadal, sicome che qua iera quela che, subito dopo Nadal, per la Festa dei Santi Innocenti, vigniva el Vescovo de Òssero per benedir i fioi, Don Blas pretendeva che 'sti poveri fioi ghe savessi a memoria come el Padrenostro, quela dele Suffraganee... — Sufraganee? Sarìa stà come le litànìe? — Iera sì una litània: iera quela de come che iera regoladi i loghi del Litorale Austriaco, Vescovà per Vescovà. Il Litorale Austriaco di Sua Maestà Apostolica si compone: della Diocesi Metropolitana del Principe Arcivescovo di Gorizia e Gradisca, delle Diocesi suffraganee di Trieste e Capodistria, nonché delle Suffraganee di Pola e Parenzo, Pédena e Òssero». Cussì bisognava saver, come el Padrenostro, visto che per i Santi Innocenti, vintioto dicembre, vigniva qua el Vescovo de Òssero per benedir i fioi.... — Ah, bel benedir i fioi inocenti... — Bel sì, ma no per i fioi che doveva impararse a memoria tute 'ste litànie: Oggi egli è nato ad Efrata, il Principe Arcivescovo e le Sufraganee di Pedena e Òssero. Che me ricordo ancora che co' andavo a casa de Polidrugo, Tonin Polidrugo, sentado in cusina, sul scagneto davanti del spàcher, el predicava forte tute 'ste robe col quaderneto de dotrina sui zenoci. — Tonin Polidrugo se imparava 'ste robe? — Sicuro che Tonin Polidrugo, ma no Tonin Polidrugo vero, che lu zà navigava con mi: Tonin Polidrugo picolo, el fio grando de Tonin Polidrugo che se ciamava anca lu Tonin, perché co' 'sta cratura xe nata, iera apena morto el padre de Tonin Polidrugo, che se ciamava anche lu Tonin... — Eh, xe bel cussì, el nome del nono. — Indiferente. Ma i fazeva assai confusion in quela famèa, tanto che al picolo Tonin Polidrugo i lo ciamava Tonin picolo, per no confonderlo col padre, con Tonin Polidrugo vero, che, quela volta, ve go dito, navigava con mi. Anzi, in alora, no el navigava perché iera del Diciassete: guera, mine e silurenti in mar, e se zercava de star in tera. Massime po' quela volta che iera Nadal. — Ah, Nadal iera? — Nadal sì, iera presto Nadal, se ve disevo che Tonin Polidrugo picolo iera sentà sul scagneto vizin del spàcher che predicava quela del Principe Arcivescovo di Gorizia e Gradisca. Guera iera, siora Nina, e un inverno fredo genico, che ve iera neve dapertuto, persin, pensévese, in una Lussingrando che a Lussingrando de solito xe sempre sol. E inveze neve, fredo, crudo e, guera che iera, 'sti poveri fioi, co' i andava a scola de matina, i doveva portar con sé ognidun un legno... — Per no sbrissar? — Ma no per no sbrissar, per meter in stua a scola, se i voleva gaver caldo, perché dove iera carbon? — Dove iera carbon? — In miniera del'Arsa, mi calcolo, ma, guera che iera, nissun ne lo portava. — Ma per Nadal, quela volta, no i serava le scole? — Natural che per Nadal i serava le scole. Ma solo per Nadal, Vigilia de Nadal, Nadal e Seconda festa de Nadal, no come adesso che i fioi xe più a casa che a scola. E ve dirò, siora Nina, che quela volta più de un andava volentieri a scola perché là, almanco, i gaveva caldo, ognidun un legno che i portava. Ma nele case, fora che in cusina col spàcher, le altre camere ve iera jazzere come i Frigoriferi Generali de Trieste. E cussì Tonin Polidrugo picolo, cola scusa de andar a far le lezioni a casa dei fioi de Marco Mitis, Nicoleto e la picola Santina sua sorela, che i gaveva la stua in tinelo, el se trovava inveze in Piazza con lori. E savè per far cossa? — Maldobrìe? — Ma no maldobrìe! Per andar a cantar i Tre Re. — Anche la putela? — Ma sì, cossa volè che a quel'età fazi diferenza putel o putela. E po', più che altro, 'sti dò fioi de Marco Mitis, che iera più picoli, Tonin Polidrugo ve li comandava a bacheta. Perché lui cantava ben, con bela vose, e el ve iera nonzoleto in cesa. E in cesa el gaveva modo e maniera de portar via le candele del altar dela Madona. — Che bruto! — Ma cossa bruto, crature inocenti. Guai, sì, se saveva Don Blas, ma tuti i fioi che iera nònzoli usava sempre portar via candele del Domo per andar a cantar i Tre Re. Perché fazeva più bel, podè capir, cantar davanti dele porte dele case in zenocion, cole candele impizzade. E la gente ghe dava... — Eh, sempre, sempre se ghe dava ai Tre Re... — Sicuro: e chi ghe dava qualche soldin, chi zibibe, màndole e nose, e chi, massima parte, fighi suti. Che po' 'sti fioi, alzandose e butando tuto nela traverseta dela picola Santina prima de andar via i ghe cantava «Tanti busi che ga 'sto crièl, tanti angeli ve porta in Ciel». Che se inveze qualchedun no ghe dava, ma rari no ghe dava, i ghe cantava quela che tanti ciodi che ga 'sta porta, tanti diàvuli che ve porta... — Eh, anca questo sì tuti i fioi saveva a memoria... — Sì, ma quel no ghe imparava sicuro Don Blas. 'Sti fioi, savè, cominziava a andar a cantar i Tre Re subito dopo San Nicolò e i andava avanti fin la Vigilia de Nadal. Fin al giorno prima, perché, pretamente la Vigilia de Nadal, el picolo Tonin Polidrugo, de matina, scola che no i gaveva, e anche de dopopranzo, che no el gaveva de far lezioni, el iera sempre de intrigo per cusina, perché l'andava a vardar dentro le tece e a sbisigar in forno... — Eh, granda zena che se fazeva una volta la Vigilia de Nadal, bisognava cominziar a pareciar zà de primo dopopranzo... — Xe ben per quel che Tonin Polidrugo ale done in cusina ghe iera de intrigo. Che la madre ghe diseva: «Tonin, lassa star quele tece che ti se sbroverà. Co' i fioi no ga scola, xe un cruzio». E la nona: «Su, su, Tonin métite el capotìch e va con Dio a zogar fora». «Andove? Che i muli no xe, che i xe tuti quanti a casa, co' no xe scola!» «I xe a casa che i intriga, e i li gaverà zà butadi fora de casa come ti che ti intrighi». E insoma che el se meti el capotìch, che el vadi in canonica de Don Blas, che là sarà zà tuti i altri fioi e che el seri quela porta, che fora xe crudo». — Eh, se iera neve... — Sicuro, neve iera e, savè come che xe i fioi, Tonin xe andà in Domo tuto plozcando nela neve coi stivai alti, perché quela volta ai fioi se ghe meteva i stivai alti ligadi cole spighete. Ma in Domo che el xe rivà, no iera inveze nissun: iera solo impizzade le candele davanti del altar dela Madona e un silenzio, savè, siora Nina, quel silenzio che ve xe in Domo quando che no xe nissun? — Eh, se no xe nissun... — Bon, quel. E alora Tonin xe tornà fora e, per la porta de drìo, el xe andà drento in sacristia per veder se forsi iera qualchedun là. Ma anche là gnente. Solo el ga visto che sula granda tavola dela sacristia iera zà pareciade, tute ben sopressade, tute le cotte rosse e i rocheti bianchi dei nonzoleti per la Messa de Mezanote. Perché solo per la Messa de Mezanote de Nadal e per i Santi Innocenti, Don Blas usava darghe ai nonzoleti le cotte rosse e i rocheti bianchi col merlo. — Me ricordo, me ricordo! Che bei merli che fazeva per el Domo le Mùnighe del Squero! — Belissimi, tuti a man, man de oro le gaveva. Tanto che Tonin, a veder là pareciade 'ste bele cotte rosse e i rocheti bianchi coi merli, el se ga subito invoià de vestirse e po' tuto vardandose, vestì che el se gaveva, el xe andado in cesa per vederse che bel che el iera sui vetri de dentro dela porta de mezo che fora iera serada e che se se vedeva ben come in un specio. E cussì, passando davanti del altar dela Madona, secondo el suo solito, el ga ciolto anche tre candele per andar a cantar i Tre Re e el se le ga messe in scarsela. Siora Nina, no volè che in quela salta fora de un confessional Don Blas che stava confessando una vecia? — Che vecia, che vecia? — Indiferente che vecia. Una de quele vece che le va sempre a confessarse, de dopopranzo co' no xe gente. Capirè: con 'sto silenzio che iera in cesa — che il più grande rumore è il silenzio, diseva sempre l'avocato Miagòstovich — Don Blas el ga sentì 'sti passi de Tonin che andava plozcando coi stivai per la cesa e come che el stava per dirghe: «Forbite quei stivai, Tonin, che la Tona ga apena lustrà el saliso!» el lo ga visto che el meteva in scarsela le candele. — Mama mia, e el se ga rabiado? — Rabiado? El ghe ga corso drìo zigandoghe: «Malignazo mulo che te me sporchi el saliso dela cesa e che te xe ti quel, alora, che roba le candele!» Per tuto el Domo el ghe ga corso drìo, ma Tonin ga ciapà la porta, e vestido cussì come che el iera, in cotta rossa e rocheto bianco col merlo, el xe scampà corendo e sbrissando per 'ste contrade piene de neve — che inveze Don Blas ga dovesto fermarse — e via lu per calli e per scale fina in Rovenska. E proprio là, in Rovenska, siora Nina, ve iera tuta la mularìa de Lussingrando che se tirava bale de neve davanti dela Vila. — Davanti dela vila, che vila questa? — Come, che vila? La Vila, la Vila de Rovenska, quela che ve xe ancora, che i ga fato Ospizio. Ma quela volta la ve iera del Arciduca Carlo Stefano, che el stava sempre a Lussingrando e — guera che iera — el stava noma che ben in 'sta Vila, perché logo più sicuro. Anzi, propio perché iera logo più sicuro, guera che iera, de Viena i gaveva mandà a star in 'sta Vila anca Maria Gisèla e Oto, crature... — Oto crature con Maria Gisela? — Ma no, siora Nina, cossa me ciolè via? Che savè anche vù. Otto, che iera ancora cratura, ve iera el fio de Carlo, del Imperator Carlo e el iera Erede al Trono dela Duplice. E Maria Gisela iera la sorela. — Ah, Maria Gisela, la sorela, cratura anca ela? E i stava là in Vila a Rovenska? — No sempre, perché de solito i vigniva solo de istà, ma guera che iera, quel anno i li gaveva mandadi anca per Nadal. E insoma, dovè saver che quel dopopranzo 'ste dò crature, Maria Gisela e Oto, se noiava anche lori, e i stava col viso fracado sui vetri de una finestra dela Vila a veder tuta 'sta mularia de Lussingrando che se tirava ridendo e zigando bale de neve. Po', co' xe rivà Tonin Polidrugo con 'sta sua cotta rossa e el rocheto bianco col merlo, iera tuti che se lo mostrava col dèo e ghe tirava bale burlandolo. — Eh, la neve fa alegria, massime ai fioi... — Sicuro e a veder tuta 'sta alegria, 'sto Oto e 'sta Maria Gisela, fioi che i iera, i se ga ingolosido, come, che 'sti qua zogava e, profitando che nessun li tendeva perché, Vigilia de Nadal, podè capir, anche in Vila, mi calcolo, iera tuti zò in cusina che pareciava, i xe andadi zò anche lori in strada e po', corendose drìo, i ga cominzià anche lori a tirar bale de neve, come tuti i altri. Fina che una bala de neve ga ciapà un feral e lo ga roto. — Jessus! Oto questo che ga roto? — Chi pol dir chi? Xe andà roto un feral. E guai, siora Nina, romper un feral soto l'Austria. Rivava subito el gendarmo. Difati, savè chi che ve xe rivà? El gendarmo Rimbaldo, che el iera zà in montura alta per la Messa de Mezanote e tuti 'sti muli xe scampai via fazendo bacan, fora che Tonin Polidrugo, che se gaveva intopà nela cotta e Oto e Maria Gisela che iera restadi là a vardarlo. — El se gaveva fato mal? — Maché: i fioi co' casca no se fa mai mal. I lo vardava, strano che ghe fazeva 'sto putel con 'sta cotta rossa sula neve e el rocheto col merlo. «Vergognèvese! — ghe ga zigà el gendarmo Rimbaldo — vergognèvese che gavè roto el feral!» E po' cossa che i fa a 'sta ora per le strade, che zà cominzia a far scuro e chi che i xe e come che i se ciama. E Oto, subito, con un bel sestin, ghe ga dito: «Otto, Ottone d'Absburgo, Arciduca Ereditario d'Austria Ungheria». E Maria Gisela, fazendoghe una bela riverenza, come che usava le putele de famèa, che la xe Maria Gisella d'Absburgo, Arciduchessa d'Austria-Este. — Ah, i se ga palesà? — Cossa palesà? I ga dito come che i se ciamava. E el gendarmo Rimbaldo, stranido come, vardando Tonin Polidrugo cola cotta rossa e el rocheto bianco col merlo, ghe ga dimandà: «E ti, chi te xe ti?» «Ah mi — ghe ga dito Tonin Polidrugo — mi son el Principe Arcivescovo di Gorizia e Gradisca!» E ciapando per man Oto e Maria Gisela el xe corso via con lori zò per la riva, intanto che el gendarmo Rimbaldo li vardava scampar, saltando, sbrissando e ridendo tuti tre. E po' tuti tre ve xe andadi a cantar i Tre Re de casa in casa, cole candele de Tonin Polidrugo impizzade. E la gente, savè — sera dela Vigilia che iera — ghe dava. Qualche soldin, zibibe, màndole, nose e, massime, fighi suti. Povero Oto: xe stada l'unica volta in vita sua che el ga fato el Re. MALDOBRÌA XXXIV - CAZZA E CAZZIÙL Dove Guerra e Pace si intrecciano e si alternano, nello scenario di tre isole dalmate, una più nota, più remote le altre due, anche a ulteriore testimonianza di quanto possano essere opinabili teoria e storia della storiografia. — «Cossa ociai, che a mi no me ocore ociai,» diseva sempre el Capitan Bolmàrcich, che inveze nele scarsele, ve posso dir mi che in alora ghe scovetavo i sacheti dele monture, el ve gaveva pien de ociai, per vizin, per lontan, per mezavia. Ma sul ponte, pretamente sul ponte, e anche in coverta, al Capitan Bolmàrcich nissun no lo gaveva mai visto coi ociai. Solo per magnar el pesse, qualche volta in tavola. Savè, metemo dir, una scarpena, un branzin, dove che xe spini picoli, per chi che no vede ve xe assai cativo. Ma sul ponte mai: «Mi go ocio», el diseva andando drento a Lussin, a Sebenico, che ve xe intrigoso, e in Arbe anche, che no ve xe fazile. E propio quela sera in Arbe, come che mi go visto come che l'andava drento e me vedevo passar davanti, de briva, un drìo de un, 'sti belissimi campanili che ve xe in Arbe, mi subito ghe go dito al Cadeto Giadròssich: «Per mi, stavolta, 'sta barca fa dano». — Che barca, sior Bortolo, che sera? — Quela sera in Arbe: el «Narenta» ve iera. La vera verità ve xe stada che lu, el Capitan Bolmàrcich, quela sera col «Narenta» ve xe andà drento in Arbe tropo imbrivado. Massa briva el gaveva e quando che infin el se ga decidesto de zigar «Indietro tuta», «Indrìo, ostia!» el ghe ga dà drento drito ala testa del molo, fazendo dano, natural. — Ah no el gaveva visto? — Come volè, siora Nina, no veder un molo de Arbe? Tropa briva el gaveva, el xe andà drento massa alegro. E dano sula testa del molo. Una vergogna, podè capir, per un «Narenta», davanti de tuti e no solo del Capitan de Porto, el Capitan Malabòtich che ve iera quela volta Capitan de Porto in Arbe, e dei marineri che ciapava le zime, ma anche de 'sti campagnoi del monte de Arbe cole zeste de ùa. E subito, siora Nina, ve xe stà quela sera quistioni che no ve digo. E savè chi che in ultimo xe andà de mezo? El povero Visco. — Un de 'sti campagnoi che ve iera sul molo cole zeste de ùa? — Cossa un de 'sti campagnoi? Visco ve iera el fanalista dela Lanterna de Arbe, che, figurévese, el Capitan Bolmàrcich ga volesto dir che, come che lui xe passà col «Narenta» davanti dela Lanterna, 'sto sempio de Visco, propio in quela el ghe ga impizzà la Lanterna e, capirè, el lampo me ga fato come scherzo nei oci. — Eh, el lampo fa fa, qualche volta scherzo! — Ma cossa scherzo el lampo? La verità ve xe che quela volta el Capitan Bolmàrcich, sorapensier, no so, e cisbo pretamente che el iera, con quela mania de no meterse mai sul ponte i ociai, el iera andado drento con tropa briva, che mi inveze gavevo visto subito. E ve go dito: xe stà quistioni in Governo Maritimo, con Malabòtich, defonto e, natural, con 'sto Visco mandà subito a ciamar. «Cossa che mi go impizzà la Lanterna? Sicuro che go impizzà la Lanterna. Mi stasera go impizzà la Lanterna ale sie ore in punto, come che xe per regolamento 'sto mese». «Ma cossa sera, che iera ancora ciaro! — zigava el Capitan Bolmàrcich — vù me gavè impizzà la Lanterna nei oci e me ga fato scherzo, e adesso doverè pagar vù, vù, savè omo, e el "Narenta" e el molo, che ga avudo dano, insoma no tanto dano, ma qua el Capitan Malabòtich dise che xe dano!» «Mi pagar el dano?» ga zigà Visco fazendoghe de moto che el xe mato. «Che mi, sior mio, apena che ve go visto imbocar el canal del porto, go subito dito: "Per mi 'sta barca fa dano!" Ostia, con quela briva che gavevi!...» «Mi briva? Vù gavè visto? Vù sè apena un sempio e sè anche un busiàro che inveze no gavè visto gnente, perchè, se no, no me impizzavi la Lanterna nei oci, sior mus!» E qua ga cominzià male parole: che vù no me gavè visto e che gavè lampà. Che a vù ve lampa e che mi go ben che visto che briva che gavevi!... — Ma el lo gaveva visto o no el lo gaveva visto? — Ma sicuro, siora Nina, che el lo gaveva visto, se gavevo visto subito anche mi che la barca con quela briva fazeva dano. E po' Visco, siora Nina, ve iera un che vedeva tuto. Perché lu in Lanterna, solo che el iera, tuto el santo giorno el ve stava col canocial in man. Lu come che el vedeva un fumo in mar, lui subito col canocial el ve vardava cossa che iera. Ahn, questo xe el «Narenta» che vien drento, ah quel xe el «Liburnia» che va a Lussingrando, e quel e quel altro, insoma tuti i vapori che passava. Lui tuto ve vedeva e tuto ve vardava. E i diseva anche che Visco co' el «Narenta» — barca de linia, de passegeri — iera in porto, lui de in alto dela Lanterna el ve vardava oltra dei oblò drento nele gabine, col canocial. El chibizava. Chìbiz i ghe ciamava, siora Nina, a Visco, in Arbe. — Ahn, el se ciamava Chìbiz? — Ma cossa, Chìbiz el se ciamava? Che nissun squasi saveva come che el se ciamava de cognome, che tuti lo ciamava solo che Visco! Chìbiz i ghe diseva, perché con quel suo canocial, un bel canocial de Marina de Guera, grando, de no so quanti ingrandimenti, ma assai, lui qualche volta, de in alto dela Lanterna, el ve vardava anche drento dele finestre averte dele case per chibizar. Savè, per casa, le done più de una volta se mete in libertà... — Ah, el cucava! Che bruto! — Cossa bruto? Lui, se le iera brute no el le vardava gnanche, lui ve cucava, metemo dir, nela casa del Maestro de Posta, che la ghe iera propio in fil dela Lanterna, che el Maestro de Posta, un zerto Pende, ve gaveva due belissime fie, grande, con un petto compagno. Wanda e Jolanda che in Arbe i le ciamava Tetelegrafo e Tetelefono... — Ahn, el chibizava? — Sicuro. E sicuro, siora Nina, ve xe che, come che diseva sempre Barba Nane, coi Comandanti no se deve mai quistionar, anche se se ga ragion. Perché 'sta istoria del dano sul molo de Arbe xe finida che ga pagà tuto la Sicurtà, ma male parole che Visco ghe gaveva dito a Bolmàrcich, Bolmàrcich se ga impetido a Pola e Visco i lo ga cazzà a Cazziùl. — Cazzà a cazziùl? E cossa sarìa? — Sarìa, siora Nina, che i lo cazzà a Cazziùl. Mandà via de Arbe e distinà a Cazziùl. Che Cazziùl, no so se gavè presente, ve xe in casa del diavolo. E po' logo picolo. Perché Cazza zà ve xe poco e figurèvese po' Cazziùl. — Ma diseme, sior Bortolo, cossa sarìa 'sto cazza cazziùl? — Cossa Cazza Cazziùl! Una roba, siora Nina, ve xe Cazza e una roba ve xe Cazziùl. Che là zò, in fondo dela Dalmazia, prima, e zà in malora, ve xe Làgosta con tuti i Lagostini e po', più soto, ancora più in fora, ve xe Cazza e Cazziùl, dò isole. — Ah sì, adesso me sovien, el povero nostroomo Scalamera gaveva la moglie de Cazza... — E al povero Visco, inveze, i lo ga mandà a Cazziùl. A far el fanalista a Cazziùl, figurèvese, dopo esser stà fanalista in una Arbe che ve xe logo belissimo. — Più de Cazziùl? — Ma dài, siora Nina, no se pol gnanche far un confronto! Arbe ve xe Arbe e Cazziùl ve iera un buso, bel magari, ma un buso. E senza gnanca più lanterna oramai, perché i gaveva apena fato lanterna nova a Cazza e a Cazziùl i gaveva lassà solo che un fanal. Questo ve iera el castigo per el povero Visco che po', povero, no el gaveva fato gnente... — Eh, ma se el chibizava... — Cossa ghe entra quel? Quel de chibizar ve iera caratere. Perché Visco, come caratere, ve iera pretamente omo curioso. No solo el vardava tuto e tuti col canocial ma lu, metemo dir, co' l'andava in Governo Maritimo e, per combinazion, el restava un momento solo in scritorio, lui tuto sbisigava fra le carte, per i scafeti, el vardava perfina nei armeri e po', per strada, se iera porte averte, de istà, el cucava drento. El chibizava. Ve go dito: Chibiz i lo ciamava in Arbe. Questo ve iera prima, bastanza prima, prima dela Prima guera intendo. E Capitan de Porto de Cazziùl, dove che ga dovesto andar Visco, arè le combinazioni, iera un zerto Dùndora, de Neresìne, che lui un periodo iera stado in Governo Maritimo de Arbe come concepista e el ve saveva tute 'ste istorie de Visco che sempre chibizava e che in Arbe i lo ciamava Chibiz. E apena che Visco ve xe rivà a Cazziùl, col vapor de Làgosta, mufo podè capir, assai el se ga stupido... — Stupido che 'sto Visco iera mufo? — No, stupido che i lo gavessi mandado a Cazziùl. «Almanco che i ve mandava a Cazza che là ve xe lanterna nova, perché qua a Cazziùl, Visco mio, noi no gavemo altro che fanal e poco ve sarà de chibizar per vù qua. Perché me ricordo, savè, Visco, che a vù in Arbe i ve ciamava Chibiz», el ghe ga dito ridendo. Ma Visco, inveze, mufo, ghe ga contà tuta 'sta istoria del dano sul molo de Arbe e che adesso qua ve son, Capitan Dùndora, perché ghe son andà de mezo mi. — Ah, el ghe ga contado tuto? — Sicuro. E Dùndora, che iera un bon omo, che tuti ghe voleva ben, che cossa volè, Visco, che cussì xe la vita, che comanda chi pol e ubidisse chi deve e che purtropo, purintropo, el ghe ga dito, qua no xe come in Arbe, qua semo in casa del diavolo, ma che el logo xe bel, che la gente xe bona, però logo picolo e picolo Governo Maritimo. «Qua — cossa volè — ve son mi, che devo far tute le scriturazioni, altro che in Arbe, che el Capitan Malabòtich me gaveva a mi come concepista, e po' ve xe solo che el piloto, un zerto Jùgovaz che me dà una man e me tien anca el magazen, e che fina ieri l'impizzava lu el fanal e adesso che sè vù e che gavè pratica, lo impizzerè vù, ah. E qua in Governo Maritimo ghe xe anca un cameroto dove vù che sè solo poderè anca dormir. Basta che — el ghe ga dito ridendo — basta che co' mi ve vado a casa, de sera, no me chibizè in scritorio, chìbiz che sè, Visco mio». — Ah, bon omo iera questo Dùndora? — Sicuro, iera un che no se intrigava più che tanto. E cussì, per Visco, a Cazziùl, nel mal ghe xe stà un ben. Perché a Cazziùl, cossa volè, lu ve gaveva solo che de impizzar el fanal de sera, de distudarlo de matina bonora co' fazeva ciaro e una volta per setimana de andar in scritorio de Dùndora a far la carta de consegna per el petrolio... — Ahn, el gaveva el lume a petrolio in cameroto? — Sicuro lume a petrolio el gaveva lu e tuti quanti a Cazziùl. Cossa volevi che prima dela Prima guera i gavessi l'eletrico a Cazziùl, che mi calcolo che no i lo ga gnanca adesso. No: lui andava una volta per setimana in scritorio de Dùndora per far la carta de consegna per el petrolio del fanal. Natural, anche el fanal ve andava a petrolio: a vapori di petrolio, come le lanterne. E con 'sta istoria dela carta de consegna, ogni volta ve iera una pantomina, perché Dùndora con quela sua fiaca che el gaveva, el tirava fora del scafeto del pulto una bela carta col'Aquila con dò teste e scrito in stampa per italian, per tedesco e per croato «Imperial Regio Governo Marittimo dell'isola di Cazziùl» e soto: «Con la qui presente si dispone la consegna di....» e dopo un dò righe de punti. — Come, dò righe de punti? — De punti un drito e un roverso, siora Nina! Ma dài, dò righe de punti, come che xe sempre nele carte dei uffizi, per scriver sora de cossa che se disponeva la consegna. La consegna di... a ... e un'altra riga de punti, per scriver el nome de a chi che se consegnava. E, in fondo, natural: «Il Comandante del Governo Marittimo», dove che el firmava lu. — Lu, chi? — Lu, Dùndora, el Capitano Dùndora. Ma ogni volta, ve disevo, con 'sta carta de consegna el ghe fazeva una pantomina. «Alora — el ghe diseva con 'sta carta davanti — Visco mio, qua gavemo l'Imperial Regio Governo Marittimo dell'isola di Cazziùl che, con la qui presente, dispone la consegna di ... Cossa ve ocore Visco? Una lata de petrolio, imagino». E el scriveva «di una latta di petrolio di litri 25 a...» «A chi? A chi ghe femo 'sta consegna? A vù. A Visco Cuculich — perché Cùculich ve se ciamava pretamente Visco — a Visco Cùculich, vulgo Chìbiz, el ghe diseva ridendo, perché ve go visto mi, savè Visco, che ogni matina andè a chibizar per le finestre in Riva, e chibizavi anche ieri nel vapor co' el vapor iera sul molo, e anche qua in scritorio me chibizè, mi calcolo, sul pulto, nei scafeti, nei armeri, co' mi vado via de sera». «Mi no che no chibìzo», ghe diseva Visco. «E inveze mi so che vù chibizè, perché sè chìbiz. E qua anca lo scrivemo: «Si dispone la consegna di una latta di petrolio di litri 25 a Visco Cùculich, vulgo Chìbiz». E el scriveva «a Visco Cùculich v. Chibiz». E po' el firmava lu, Dùndora. «Il Comandante del Governo Marittimo, Antonio Dùndora». E dopo, ridendo, el ghe dava 'sta carta che l'andassi drìo in magazen a farse dar del piloto Jùgovaz la lata de petrolio. — Ah, ogni volta tuta 'sta pantomina? — Sicuro, siora Nina, perché cussì al Capitano Dùndora ghe passava un poco anche el tempo, perché poco el gaveva anca lu de far in un Governo Maritimo de Cazziùl. E po' Visco, figurévese, ancora de meno de lu. Tanto che, per far ora, prima de andar a far merenda, co' rivava a Cazziùl el vapor de Làgosta, l'andava sul molo a ciaparghe la zima. — Eh, xe tanti, sì, che cussì sui moli ciapa la zima dei vapori... — Sì, siora Nina: quei che no ga gnente de far. E Visco, una volta che el iera andà veder rivar el vapor de Làgosta e el ga visto un mariner de prova che zigava per croato, lui ghe xe vignù de dirghe «Butàitemu zìmu», che el ghe buti la zima. 'Sto qua ghe la ga butada e lui pulito ghe la ga ligada sula bita, profitandose, prima per tacar boton con 'sto mariner e po' per andar a bordo a chibizar. Cussì ga cominzià e cussì xe andà avanti. E cussì xe passadi i anni, siora Nina: impizzar e studar el fanal, far la carta de consegna per el petrolio e andar a ciaparghe la zima al vapor, unico vapor che de Làgosta ve rivava a Cazziùl, dopo passà per Cazza, natural. — Ma xe granda Cazza, sior Bortolo? — Oh Dio, più granda de Cazziùl, sicuro, ma anche Cazza ve xe un buso, ve disevo, là zò in fondo e in fora dela Dalmazia. Ogni modo, co' xe s'ciopada la guera, la Prima guera , intendo, e xe stà guera anche col'Italia, l'Austria ga pensado ben de mandar anche a Cazza un pochi de militari de Fanteria de Marina, Dio guardi che i Italiani no se insognassi de far anca là un sbarco, un qualcossa, no so mi... — Mama mia, xe s'ciopada la guera e i Italiani ga fato sbarco a Cazziùl! — Ma no, siora Nina. Che Dùndora ghe predicava sempre al piloto Jùgovaz e a Visco: «Ma no, qua no ve sarà gnente, cossa volè che ai Italiani ghe importi de far sbarco a Cazziùl, lori caso mai ghe interessa de far sbarco a Trento e Trieste, in una Zara, Sebenico, forsi Spalatro, ma in una Cazziùl?» Però, dopo — del Diciaoto oramai — visto che sempre più militar vigniva a Cazza e che fora, in mar, Visco più de una volta ghe contava a Dùndora de gaver visto barche de guera italiane col suo canocial, Dùndora ga pensà ben de mandar la moglie e i fioi, dò crature che el gaveva, a Fiume, dala sorela. «Dio guardi un mal de note», el diseva, mostrando el mar col dèo. — Ah, el gaveva una sorela a Fiume? — Sicuro, se el ga mandà là la moglie e i fioi! E el ga fato ben, savè. Perché cossa sarà stà quela volta che la moglie de Dùndora xe partida cole crature? Agosto, me contava dopo Visco. E zà in otobre, fin de otobre, un bruto otobre, tempo missiado, piove e caligo, xe cascada l'Austria. — Ah, iera caligo? — Caligo che mai, siora Nina. Che del giornal de Spalatro, che rivava col vapor, se capiva che oramai l'Austria no iera più gnente de ela, che Jùgovaz contava che i militari che iera a Cazza molava el s'ciopo e procurava de imbarcarse per tornar a casa e che a Cazza i gaveva zà tirà su bandiera croata. Co' po' in Governo Maritimo de Cazziùl xe passà telegrama che de quel giorno in avanti no sarìa più passai telegrami, Dùndora se ga decidesto. «L'Austria xe cascada — el ga dito — xe bruti momenti e ognidun deve prender le sue decisioni e mi vado a Fiume che là me xe la moglie e i fioi!» «Ecove qua, Visco — el ghe ga dito a Visco dandoghe la ciave del Governo Maritimo — adesso xe tuto in man vostra, Visco, me raccomando». E quela istessa sera el xe montà sul vapor, che quel ve xe stà l'ultimo vapor, insieme col piloto Jùgovaz, che partitante croato e de Cazza che el iera, no el bramava altro che de tornar a Cazza. — Ultimo vapor! — Eh, xe sempre un ultimo vapor, siora Nina, prima che rivi un altro. E Visco, restà là solo sul molo, che la gente iera tuta serada per le case, anche perché pioveva, prima el ga impizzà el fanal come sempre, perché Dio guardi un mal de note, e po' el xe tornà in Governo Maritimo che, ara ti — el ga dito — gnanca la bandiera no i ga tirà zò prima de andar via. — Ah, el ga dovesto tirarla zò lu? — Lu, perché? Lu no ghe competeva. Lui ga dito solo «ara ti» el xe andà drento cole ciave, el se ga fato dò ovi friti e el xe andà a dormir nel suo cameroto. — Ah, el se cusinava solo? — Sicuro, solo che el iera restà. E la matina dopo, nissun che iera più in Governo Maritimo, savè cossa che el ga fato? — El se ga fato cafè? — Maché cafè! El ve xe andà a chibizar in scritorio, a vardar nei scafeti, a sbisigar per le scanzìe e a verzer i armeri. E in un armer che prima nissun no verzeva mai, savè cossa che el ga visto? Sul calto in alto un canocial, un revolver e un capel puntà, soto, un per de stivai lustri e, impicada su un picarin, una montura alta de Marina, quela che Dùndora meteva, col capel puntà, natural, solo per la Festa del Imperator. — Una montura alta? — Sì, siora Nina, e squasi nova: ve disevo che Dùndora la meteva solo che per la Festa del Imperator, una montura alta de Marina, coi spalini coi zùfoli, botonera dopia de oro e le bande de oro sule braghe. Belissima e col capel puntà come l'Amiraglio Horthy. E tanto bela iera 'sta montura che Visco, in mudande longhe e in calze ancora che el ve iera, apena levà, el se la ga provada. Un fià setada la ghe stava, ma belissima! Po' el se ga messo i stivai, giusti, e el capel puntà: tuto in massimo ordine. E giusto in quela che l'andava nel suo cameroto per vardarse in specio, el ga sentì el fis'cio de un vapor... — Ah, iera tornà el vapor? — Anche lu ga credesto perché ancora dò volte gaveva fis'cià e, come che lu usava sempre co' rivava el vapor, el xe corso oltra dela piazzeta sul molo per ciaparghe la zima. Ben, siora Nina, no volè che el ve vede, zà armisada e che i stava calando el barcarizzo, una barca de guera italiana che bateva bandiera de guera italiana? — Mama mia! I Italiani! — Sì, i Italiani: una torpediniera italiana, con un vinti de lori che coreva avanti e indrìo in coverta zigando per italian e un ufizial de Marina italiana cola bareta fracada, sotogola calado e gamasse bianche de tela sui stivai che, come che el se ga visto davanti Visco, cussì el lo ga saludà cola man sul frontin. — Chi, questo? — Ma 'sto ufizial de Marina de Guera italiana che, trovandose davanti Visco in montura alta de Dùndora e col capel puntà, el lo ga saludado. E Visco, cossa volè, lo ga saludado anca lu, ah. — Disendoghe cossa? — Ma cossa disendoghe cossa? El ghe ga fato el saludo anca lu con dò dèi sul capel puntà. E alora, pensèvese, siora Nina, 'sto ufizial de Marina de Guera italiana se ga messo in mezo del molo, el ga batù col taco per tera e el ga dito, sempre saludando: «In nome di Sua Maestà il Re d'Italia, prendo possesso dell'isola di Cazza!» «Arè — ghe ga disesto alora Visco — mostrandoghe col dèo in fora sul mar, arè che Cazza ve xe quela e questa ve xe Cazziùl». — Jessus! E 'sto qua? — Gnente. 'Sto qua ga batù de novo col taco per tera e, sempre saludando, el ga dito: «In nome di Sua Maestà il Re d'Italia, prendo possesso dell'isola di Cazziùl!» Po' el ghe ga dito a Visco: «Comandante, precedetemi» e come che, con Visco davanti, el traversava la piazzeta, el ghe ga dà ordine a dò marineri italiani de corer a tirar zò del Governo Maritimo, la bandiera austriaca. — Mama mia! La bandiera austriaca i ga tirà zò? — Sicuro: quela che Dùndora gaveva lassà là ancora del giorno prima. E co' un de 'sti marineri ghe la ga consegnada, piegada, 'sto ufizial se la ga messa soto scaio. Po', in scritorio del Governo Maritimo, in pie davanti del pulto de Dùndora, el ghe ga dito a Visco: «Comandante, procediamo alla consegna». — Che consegna? — Xe quel che ghe ga dimandà anca Visco che che consegna. «Come che consegna?» La consegna dell'isola di Cazza, Comandante, di Cazziùl, insoma». E el ghe ga fato moto de sentarse drìo del pulto. Alora, cossa volè, Visco ghe ga dito che va ben, ah, che se propio el vol la consegna, che faremo come sempre. E del scafeto del pulto el ga tirà fora una de quele bele carte col'Aquila con dò teste e soto, per italian, per tedesco e per croato «Imperial Regio Governo Marittimo dell'isola di Cazziùl» e là dove che iera stampado «Con la qui presente si dispone la consegna di...» el ga scrito in bela scritura, «dell'isola di Cazziùl...a...» «A chi metemo — el ghe ga dimanda legendo — a vù o al Re d'Italia?» «A Sua Maestà il Re d'Italia», ghe ga deto quel altro. E cussì lu ga scrito, sempre in bela scritura: «A Sua Maestà il Re d'Italia» e po', soto, dove che iera «Il Comandante del Governo Marittimo» el ga firmà: «Visco Cùculich v. Chìbiz», come che usava sempre Dùndora. — El ga firmà lu per Dùndora? — Sicuro, siora Nina, cossa volè, in quele evenienze... El ga firmà, po' el ghe ga messo el timbro, el ghe ga consegnà 'sta carta a 'sto italian e squasi squasi el lo mandava in magazen, co' el se ga ricordà che Jùgovaz no iera più. Volè creder, siora Nina, 'sto ufizial de Marina italiana, el ga vardà 'sta carta, el la ga piegada e messa via in petto come el Santissimo, po' el se ga cavà la bareta — che anca Visco se ga cavà el capel puntà — e el ghe ga dà la man. Pò el ghe ga dito a Visco che ghe dispiase, Comandante, de gaver fato la sua conossenza in questa per Lei immagino, incressiosa circostanza, e che l'apprezza il dignitoso comportamento e che el pensa de farghe cosa grata, consentendoghe di conservare la sfortunata bandiera. Cussì, un cirumcirca contava Visco. E cussì, Visco, con 'sta bandiera austriaca sotoscaio, xe andà fora del Governo Maritimo, che no el saveva gnanca dove andar, perché tuto el Governo Maritimo, anca el suo cameroto, iera oramai pien de marineri italiani che andava dentro e fora parlando forte per italian e una confusion de gente in piazza che no ve digo. In un prà ga dormì Visco quela note, siora Nina, soto de un figher, in montura alta. E fredo e umido che iera, novembre oramai, el ga doprà per coverzerse 'sta bandiera austriaca. Iera una bela, granda bandiera, de laneta. — Soto un figher, povero Visco? — Povero Visco? Povero mondo, siora Nina, perché de quando che xe cascada l'Austria xe restade solo che ciàcole. Figurèvese che a Fiume — me ga dito Dùndora — 'sto ufizial de Marina italiana, ghe contava a tuti in Hotel Bonavia che lu gaveva otenuto la resa di Cazza propio dalle mani dell'Ammiraglio Wisko Kukulich von Kibitz. Cossa volè, siora Nina, che possi saver un italian cossa che xe un chìbiz! MALDOBRÌA XXXV - BREVE INCONTRO In cui si raccontano vicende di grandi e piccoli uomini, di grandi e piccole donne, tra le luci e le ombre dell'economia domestica di un grande e piccolo mondo antico. — «La fortuna la va, la va e po' la se impianta» diseva sempre Barba Nane e la granda fortuna dela picola Santina xe stà quel istà che a Lussingrando in Vila i spetava Zita che spetava... — Zita spetava in Vila? — No: a Lussingrando, in Vila de Rovenska dove che, no so se ve go mai dito, stava l'Arciduca Carlo Stefano, i spetava che rivi col yacht de Trieste, de Mìramar pretamente, Zita che spetava Oto. E Carlo, natural. — Ah, la spetava anche Carlo? — Ma no, siora Nina, Carlo ve iera Carlo, povero, l'Imperator Carlo, ma no ancora Imperator, el marì de Zita, che quela volta, del Dodici che iera, gnanca no se gavessi mai spetà de deventar cussì presto Imperator, perché no i gaveva ancora copà Francesco Ferdinando. Quela, vedè come che xe le robe, ve xe stada la granda fortuna dela picola Santina. — Che no i lo gaveva ancora copado? — Ma cossa ghe entra questo? Sì, forsi, anche, no so. Ma la picola Santina, orfana del padre, che tuti saveva che el iera barca stramba, senza la madre che, povera, ga dovesto per anni andar a cùser per le case per tirar su 'sta cratura, i la gaveva ciolta come orfana in Convento dele Mùnighe, man de oro per cùser e guciàr che la gaveva anche ela come la madre. — Ah, ghe iera morta anche la madre? — Sicuro. E la fortuna de 'sta picola Santina ve xe stà che quel istà che i spetava Carlo e Zita che spetava, in Vila, i se gà trovado intrigadi perché no i gaveva bastanza servitù. Capirè, con questi che doveva rivar e in più con ela che spetava, ghe voleva più done, e alora i ga pensà: chi meio dele Mùnighe? — I ga fato vignir le mùnighe in Vila? — Dove, siora Nina, le mùnighe ve podeva andar fora de Convento, de clausura che le iera! No. La moglie del Arciduca Carlo Stefano ve xe andada in Convento dele Mùnighe a dimandarghe a Madre Conceta che la ghe disi ela chi e come che podessi vignir in Vila: qualche brava ragazza de boni sentimenti, perché cussì, cussì e cussì, i iera intrigadi sicome che doveva rivar Carlo e Zita che spetava. — La iera assai avanti? — No so mi se la iera avanti o se la iera indrio: insoma la spetava. E che se lore, come mùnighe, le conosse una brava ragazza de boni sentimenti che podessi, solo fina ala Madona de setembre, perché dopo i va via, vignir in Vila. Che si, ghe ga dito Madre Conceta, che saria la picola Santina, che i la ga là lore in Convento come orfana de quando che ghe xe morta la madre, che propio anzi la madre andava qualche volta a cùser anca in Vila. Questa vedè ve xe stada quela volta la fortuna dela picola Santina, perché in Vila che la xe andada subito, Carlo e Zita xe rivadi come ogi oto. E, cola camera che ela ghe disbratava propio a Zita, che de matina stava in leto fin tardi perché la spetava, più de una volta Zita — vedendo 'sta còcola putela, che la gaveva assai un bel sestin — la ghe dimandava de questo e de quel, in italian, natural, perché Zita ve iera italiana. — Ah no austriaca? — Austriachi ve ierimo tuti, siora Nina, solo che Zita ve iera pretamente italiana per come che la nasseva prima de sposarse. Insoma, Zita ghe dimandava de questo e de quel e de come che xe a Lussin. E 'sta picola Santina che ela poco la sa perché la xe dale Mùnighe. E come xe le mùnighe? Che xe bone le mùnighe, che ela de lore se ga imparà ben a cùser, a guciàr, a ricamar anche. E cussì, una roba e l'altra, ga finì che 'sta picola Santina ve iera più in camera de Zita, sentada rente del leto a guciàr calzétize a punto caneleta per 'sto Oto che doveva nasser e a ricamar bavarioi, che no in cusina a disbratar cole altre. — Eh, co' se speta xe bel. Xe un bel periodo. — Sicuro perché, dopo, i fioi deventa grandi e malignazi. No fa gnente. Quela ve xe stada la fortuna dela picola Santina, perché quando che Zita, che oramai iera bastanza avanti, e Carlo xe tornadi a Viena, Zita a tuti i pati ga volesto portarse drìo la picola Santina. Picola? Tuti ghe diseva sì ancora la picola Santina, ma oramai la ve iera una ragazza fata, figurosa, con una bela testa de cavei e i oci celesti come el padre defonto, bel omo che el iera, che, cole mùnighe che la stava, sarìa stà propio un pecà che la se fazessi mùniga. — Più de una de 'ste orfane che le mùnighe rilevava in convento, le se fazeva mùnighe... — Eh, sì, qualche volta le mùnighe lusinga. Indiferente, ma Zita ve iera dona de proposito e la picola Santina la ga volesto portarsela via con sé a Viena, no pretamente Viena, rente de Viena che lori ve gaveva una belissima casa in campagna. — Ah, la xe andada fora, in casa sua de lori, a servir? — Servir? Cossa vol dir servir? Per servir, quela volta, servivimo tuti, anche nualtri nela Marina Austriaca. La iera, sì, là a far lavori de casa, come tute le altre, ma con quel bel sestin che la gaveva, figurosa, oci celesti, Zita se la portava drìo, co' xe nato Oto, a sburtarghe la carozzela, anche co' la andava, presempio, in paese a comprar merli, tela de lin e fil de imbastir. E de istà i la portava anche a Trieste, a Mìramar... — Col vapor? — Ma cossa col vapor? Come volè andar de Viena a Mìramar col vapor? Col treno. Che, anzi, el Castel de Mìramar, per quei che stava in Castel de Mìramar, gaveva stazion aposita, picola, ma belissima, con saloncin e tuto, che gaveva fato far ancora, figurévese, el povero Massimiliano, quel copado in Messico. Che anche per questo i voleva dir che Mìramar portava pégola. — Per via de 'sta stazion? — Ma no! Per via che i lo gaveva copà in Messico. Ma indiferente: lori, inveze, de istà a Mìramar ve stava noma che ben, perché la madre de Carlo la stava sempre là e la iera come mata per i nevodi, giardin grandioso per i fioi che iera, e una posizion che no parlemo. Carlo assai ghe piaseva star a Mìramar, anche a Zita, cussì soli in famiglia. E la picola Santina no gaveva più che tanto de far e i ghe dava una belissima camereta, col teto un poco in spiover, ma che dela finestra la vedeva tuta Trieste. Savè, quela volta no i gaveva copà ancora Francesco Ferdinando e Carlo e Zita ve iera, sì, grandi, ma no enormi. Dopo, dopo xe stà. — Cossa, cossa xe stà? — Tuto xe stà, siora Nina. Che i ga mazzà Francesco Ferdinando, che xe s'ciopada la guera, che xe morto Francesco Giusepe e che Carlo, che dopo che i gaveva copà Francesco Ferdinando ve iera deventà Erede dela Duplice, i lo ga fato Imperator. — E i ga mandà via la picola Santina? — E perché i gavessi dovesto mandarla via? Cossa ghe entrava ela con tute 'ste robe? I se la ga portada con lori, a Viena, natural, Imperator che el iera. E ela tuto pulito ghe ga scrito a Madre Conceta, perché ela sempre la ghe scriveva ale mùnighe, che adesso no i starà più là dove che i stava, in campagna, che iera cussì bel, ma i andarà a Viena, in un grando palazzo de Viena, belissimo, però che tute le altre ragazze qua dise che xe bel andar a Viena, ma che sarà assai, assai de netar. — Eh, co' xe camere grande! Anche in Vila Prohàska, che iera camere grande, iera assai de netar... — Ma cossa volè meter una vila Prohàska, con una Hofburg, una Schoenbrunn, 'sti palazzi imensi de lori, che gnanche lori no i saveva quante camere che i gaveva! E una belissima camereta i ghe ga dà ala picola Santina, col teto un poco in spiover, ma tuto in massimo ordine, come che la ghe scriveva ale mùnighe e che del abaìn la vedeva tuta Viena. E con tuto che iera guera e che tuti i altri, anche qua, gaveva poco de magnar, quel per ela xe stà el più bel periodo, anche perché Zita, tanti fioi che la ga avesto, spetava sempre e ela sempre ghe guciàva 'ste calzètize a punto caneleta e ghe ricamava bavarioi per 'ste crature. Dopo xe stà. — Cossa xe stà dopo? — Tuto quel che xe stà dopo, siora Nina: el ribalton del'Austria, i soldai che butava el s'ciopo per le strade, che qua xe rivadi i Italiani e che i Croati tirava su bandiera croata sule barche nostre dela Marina Austriaca, che a Viena iera rivoluzion e che al Impertor Carlo i lo ga mandà via in quela bruta maniera. — Mi quela volta iero picia. — Indiferente, xe nato lo stesso. E xe nato anche, siora Nina, che qua in Rovenska, in Vila del Arciduca Carlo Stefano, i ghe ga roto i vetri dele finestre. No lussignani, savè, no gente nostra: partitanti de fora, mi calcolo. E le corone, i fiorini no valeva più gnente e massime ga perso tuto quei che gaveva messo via i soldi comprando cartele del Imprestito de Guera. — Chi questi? — Tanti. Per dirve un, che a tuti lui ghe contava che el gaveva perso tuto: Sangulìn. — Sangulìn? No conossevo. — No podevi conosser, lui ve iera un chersin che stava a Trieste. Mi lo conossevo: anni gavevo navigà con lu e co' xe cascada l'Austria, trenta anni che el iera stà imbarcà come gambusier sule barche del Lloyd e, come tuti i gambusieri, el gaveva avudo modo e maniera de profitarse, el gavessi podesto andar in pension. Inveze lui che gaveva messo tuto el suo nele cartele del Imprestito de Guera, co' xe cascada l'Austria el ga perso tuto. Questo per dirve come che quela volta perdeva i soldi la gente e che le corone e i fiorini no valeva più gnente, che iera rivoluzion a Viena e che l'Imperator Carlo i lo gaveva mandado via in quela bruta maniera. — E anche la picola Santina? — Cossa volè che a una rivoluzion ghe importi de una picola Santina! I li ga mandadi via a lori, a Carlo, a Zita, a Otto, ai altri fioi. E lori se la ga portada via con lori. — Via con lori indove? — In tuti quei loghi dove che i xe scampai, poveri, che nissun più li voleva, gnanca i Ungaresi, e po', in ultimo, là dove che i ghe gaveva intimado de restar là e de no moverse: a Madera. — Ma disème, sior Bortolo, dove sarìa pretamente 'sta Madera che tanto i nomina ancora? — Sicuro che i nomina ancora, perché fin che ve sarà vin, sarà Madera. A bordo i ghe fazeva sempre per i passegeri brisiole al Madera. Un'isola ve xe Madera, siora Nina, un'isola in casa del diavolo fora de Gibiltera, bastanza fora, Africa squasi, ma portogalese, e là, per ordine dele Potenze doveva star Carlo, e Zita natural, con tuti i fioi e la picola Santina... — Per ordine dele Potenze? — O Dio, no la picola Santina; la picola Santina, ve iera andada là con lori, perché lori ghe gaveva pregà de andar. Savè, crature pice che i gaveva ancora, abituadi ben come che i iera e, de un giorno al altro ridoti cussì in condizioni, meno mal che la gaveva dito de sì, che la andarà con lori. E ela, propio ela, che sempre, anche de là, la ghe scriveva ale mùnighe, la contava che Carlo e Zita sempre più i iera in condizioni... — Maladi, come? — Del pezo mal, siora Nina, perché la vera verità ve iera che lori no ve gaveva più soldi... — Per via del Imprestito de Guera? — Maché per l'Imprestito de Guera! Per la guera, siora Nina, che l'Austria gaveva perso, che lui no iera più Imperator, che i ghe gaveva portà via tuto el suo e che là a Madera, in 'sta isola, el se gaveva trovà solo con quel che el gaveva in scarsela. Insoma, come che scriveva la picola Santina, propiamente in ristretezze. In una casa senza, con decenza, logo de decenza, con soldi — soldoni, mi calcolo — del suo che el vanzava e che nissun ghe dava, no iera né un viver né un morir e anche, metemo, per far la spesa, i doveva guardar el soldo. Però logo belissimo. — Ma no me gavè dito che 'sta Madera ve iera in casa del diavolo? — E la ve xe ancora, ma belissimo. Tanti loghi ve xe in casa del diavolo epur belissimi. Un logo nominado con hotèi, logo de bagni anche. «Con te una note a Madera», me ricordo che i cantava... — Chi questi, Carlo e Zita? — Ma cossa, poveri Carlo e Zita, volevi che i gavessi voia de cantar, che no i gaveva gnanche soldi per star in hotel! Se cantava cussì perché Madera iera bela, belissima, tanto che, apena finida la guera, i primi loghi dove che l'Austro-Americana — che no se ciamava più, natural, Austro-Americana — ga decidesto de far crociere, xe stà propio le Canarie, le Azzorre, natural, e po' Madera. Cola Marta Wassinton, el meo vapor che i gaveva. Crociere de lusso, per quei che gaveva fato soldi cola guera. E, vedè le combinazioni, xe partido anche Sangulìn. — Sangulìn? Ma no me gavevi dito che Sangulìn gaveva perso tuto? — Sicuro, propio per questo. Perché Sangulìn, se no gavessi perso tuto col Imprestito de Guera, el gavessi podesto viver come un signoreto. «Come un signoreto — el diseva — podessi viver cola mia pension, con quel che me doveva render le cartele del Imprestito de Guera e, inveze, maladeta guera, adesso, de vecio, me toca tornar a far el gambusier». E cussì el se ga imbarcà anca lu, con tuti 'sti istriani, 'sti dalmati, 'sti piranesi, triestini massima parte, che se imbarcava sula Marta Wassinton, come primo gambusier, nominado che el iera, natural, trenta anni al Lloyd. — E el xe andado a Madera? — Sicuro. E sempre disendo che assai ghe spuzzava de dover navigar ancora. E po' iera anche che a bordo, i maestri de camera e i altri gambusieri, no parlemo, invidiosi, mi calcolo, diseva che oramai el xe insempià, che no el se ricorda più dove che el mete la roba e che xe un castigo de Dio ogni volta che se va in gambusa a dimandar qualcossa. — Andà in dolze? — No pretamente in dolze, me gaveva dito el nostroomo Fonda, ma assai confusionario e po' fastidioso. Indiferente, ciàcole de bordo. El diseva sì, me toca tornar a navigar de vecio, ma intanto no el iera propio vecio e po', in fondo gaveva ragion el nostroomo Fonda: lui rugnava perché el ve iera un fastidioso ma, inveze, ghe piaseva andar ancora per mar e esser paron dispotico dela gambusa, e profitarse e veder 'sti bei loghi. Perché Madera, no so se ve go dito, ve iera logo belissimo. — Come un'Abazia? — Più, più. Più sol. Abazia, pretamente, ve xe sempre in ombra. Madera, inveze, che posizioni! Ve disevo de 'sta casa de 'sto povero Carlo, che no i gaveva, con decenza, gnanche logo de decenza, però che posizion! Carlo, povero, de là ve vedeva tuto: 'sta cità, la gente che caminava marinavia, i moli e le barche che vigniva drento. E più de una matina lui, con Zita che spetava de novo, con Oto, coi altri fioi e la picola Santina che sburtava la carozzela dela cratura più picia, i andava anche lori marinavia, a caminar, a ciapar aria. Ela, i fioi e Santina andava in un giardin che iera là in Riva, e Carlo, cole man drìo la schena, l'andava solo, sorapensier, come, con tuti 'sti cruzi che el gaveva, fin la zima del molo a vardar i veci che pescava, sentadi sule bite cola togna, o i vapori, co' rivava un. Podè capir co' el ga visto scrito «Trieste». — Dove el ga visto scrito Trieste? — Sula pupa del vapor, ah, siora Nina: «Marta Wassinton, Trieste». E bandiera italiana: un dolor de cuor! E come che el vardava, cola testa in su, la murada de 'sto belissimo vapor, tuto apena piturado de novo dopo la guera, no volè che, per la passerela, tignindose cola man sul passaman, ve se calùma zò Sangulìn che l'andava a far provianda? — E cossa, cossa se compra a Madera? — Ma cossa ve interessa cossa che se compra là? Ve contavo che Sangulìn andava in tera e cussì i se ga intivà sul molo. E come che Sangulìn ghe vigniva incontro, Carlo, cussì ala nostra, che lu parlava benissimo ala nostra, tante volte che el iera stà in Vila a Lussin, e a Trieste, a Mìramar, massima parte, el ghe ga dimandà se i vien de Trieste. Che sì, sior, che vignimo de Trieste, el ghe disi saludandolo con dò dèi sul frontin dela bareta. Perché, savè, Carlo, anche vestì cussì in zivil, iera un omo che gaveva trato, che se capiva che el iera un signor. — Ma no gavevi dito che el iera in ristretezze? — Cossa vol dir quel? Un signor resta un signor anche co' el xe in ristretezze. «Sì, sior, vignimo de Trieste», ghe ga rispondesto Sangulìn. E che come che xe adesso a Trieste? Che ben per chi ghe piase e mal per chi che no ghe piase, ma che pretamente xe confusioni ogni giorno, bordelo. Che mi, presempio, che me vedè qua vecio, ve devo navigar avanti e perché mi ve devo navigar avanti, mio caro signor? Perché mi, cole cartele de l'Imprestito de Guera, go perso tuto. «Eh anca mi — ghe fa Carlo — cola guera go perso tuto». «Mai come mi, sior — ghe ga dito Sangulìn — perché vedo che vù almanco ve spassegè pulito per Madera». E lu che no, che no el se spassegia. E che cossa che el fa alora? Che el speta. Che cossa el speta? E Carlo lo ga vardà un momento senza dir gnente e po' el ga dito: «La moglie speto». Che la moglie el speta e i fioi che, vedè là, i ciapa aria in giardin. E po' el ghe ga disesto che sì, che xe bele posizioni anche qua per i fioi, ma che mai cussì bel come a Trieste, in marina, a Barcola e massime in giardin de Mìramar. Che se sè de Trieste, sior, ghe dimanda Sangulìn. Che no, ma che el xe stado tante volte a Trieste e che assai el se ricorda de Mìramar. E Sangulìn che xe bel Mìramar, anche se qualchedun vol dir che porta pégola. «Mìramar porta pégola? — ga dimandado Carlo stupido — no i me gaveva deto». «I dise, i dise, sì, sior, ma co' xe bele giornade ve va tuti là coi fioi. «Miramare i ghe ciama adesso a Mìramar: arè qua», e el tira fora de scarsela una cartolina col Castel de Mìramar e che soto gaveva scrito: "Trieste Castello di Miramare". «La mia fiozza che go tignù a Cresima me ga mandà 'sta cartolina. Arè qua» E el ghe la ga mostrada. — Che el legi la cartolina? — Ma no che el legi. Che el guardi, che xe scrito «Castello di Miramare», che dove mai prima Miramare? Sempre Mìramar se diseva. E Carlo ga ciolto in man 'sta cartolina e el la ga guardada, che no el finiva mai de guardarla. Tanto che Sangulìn un poco ga spetà e po' el ghe fa: «Volè tignirla, sior?» «Grazie, grazie tante» ghe ga dito Carlo soridente, ma coi oci lustri. El se la ga messa in portafoglio e pò, cavando fora del scarselin del gilè un soldo lustro de argento el ghe ga dito: «No volessi che vù ve inofendè, ma ve prego, tignì questo, cussì, per ricordo». Po' el ghe ga dà la man disendoghe: «Arivederci, forsi» e el xe andà avanti, caminando cole man drìo de la schena fin sula ponta del molo. — E Sangulìn? — E Sangulìn xe restà là con 'sto soldo lustro de argento in man, intanto che Zita, i fioi e la picola Santina che sburtava la carozzela la vigniva verso de lu. El ga vardà 'sto soldo, che de una parte iera la testa del Imperator Carlo con scrito Carolus Primo Imperator Austriae, e de quel'altra 10 Corone. E ala picola Santina che propio in quela, ghe passava rente per ultima cola carozela, el ghe ga dito: «Arè, vù! A mi a bordo i me dise insempiado, ma 'sto vostro sior diese corone el me ga dà. No el sa gnanca che xe cascada l'Austria». Un bon omo ve iera el gambusier Sangulìn, ma fastidioso. MALDOBRÌA XXXVI - A. E. I. O. U. Nella quale la lettera «A» del titolo di questo libro è seguita, non a caso, dalle altre quattro vocali il cui esoterico significato si lega alla cabala delle cento e cento isole della Dalmazia, azzurro labirinto e ultimo approdo dei nostri personaggi che, ringraziando tutti, vecchi e giovani, per la cortese lettura, qui felicemente si congedano. — Cossa che no ve xe la Dalmazia, siora Nina! La Dalmazia ve iera e ve xe ancora, mi calcolo, la più bela costa del mondo. «La Dalmazia è la meglio costa dell'umanità — ghe diseva sempre a bordo el Comandante Bolmàrcich in salon de prima classe ai passegeri — la Dalmazia, miei cari signori, è la meglio costa dell'umanità. E questo ho sempre dito e ripeto a dir, no perché io sono Dalmato, ma perché è la pura verità. Io, come Comandante maritimo, ho navigato per tuto il mondo e anche la California e San Diego, che dicono tanto, in confronto dela Dalmazia può andarsi scondere. Solo la costa dele Filipine, rente Manila, si potrebe parlare. Ma, primo: è massa lontano; secondo è abitata da popolazioni feroci...» — La Dalmazia ga popolazioni feroci? — Ma cossa la Dalmazia, siora Nina? Che in Dalmazia xe la più bona gente del mondo! Lui diseva che la Dalmazia è la più bela costa del'umanità e che, caso mai, propio volendo, solo la costa dele Filipine, rente Manila, se podessi far un confronto, ma che la xe in casa del diavolo e più de una volta se intiva canibali. — Anche adesso? — Chissà cossa che xe adesso là. No go più avù ocasion de viagiar per Manila. Indiferente. Mi volevo dirve solo che dove trovè nel mondo un'altra Dalmazia? Che po', se vù pensè cossa che ve xe la Dalmazia a Veglia, Cherso, Lussin e in Arbe, metemo dir, e cossa che la ve xe inveze a Cùrzola, ale Boche de Càtaro e a Bùdua, la Dalmazia sola si stessa ve xe un mondo intiero. — Eh la Dalmazia xe granda. Che po' ve xe anca Selve, che de là iera mia nona povera, e Ulbo e Pago — che bon formagio che i ga a Pago — e Scarda e Melàda... — ...e Mèleda, e Brazza e Lissa, e Lésina... Siora Nina, se se metemo a contar isola per isola stemo qua fina domani matina bonora. «Savè vù, sapete vualtri quante isole che sono in Dalmazia?», ghe diseva sempre, me ricordo, el Comandante Bolmàrcich ai passegeri de prima classe che iera con lu in tavola. «Disè, disète un numero, miei cari signori!» E, cossa volè, gente che magari fazeva el viagio la prima volta, provava a dirghe: trenta, quaranta, zinquanta... E lu savè cossa che el fazeva? Lu se tirava indrìo dela tavola cola carega, se impizzava el spagnoleto e, a tuti fazendoghe de no col dèo, el spetava fumando, fina che un diseva setanta. E quando che un gaveva dito setanta, lu, puntandolo col dèo el zigava, che tuti squasi ciapava paura: «Otocentosetanta, miei cari signori! Otocentosetanta isole e isole minori, senza contare i scoi!» — Ah, no el contava i scoi? — Cossa volè contar i scoi, siora Nina, in una Dalmazia che ga otocento e setanta isole! Se basta. Arè, mi calcolo che nissun no gabi mai podesto contarle tute. Perché la vera verità ve xe, siora Nina, che la Dalmazia ve xe assai intrigosa. Che anca quei che xe anni anorum che ve naviga per Dalmazia, se per andar in un logo e farla più curta i fa tanto de molar el Canal dela Murlaca, el Canal de Zara o el Canal de Mezo, i se perde. — Mama mia, i perde la barca! — Ma no la barca. I perde cognizion, come, de dove che pretamente i xe. Perché ve go dito che la Dalmazia ve xe intrigosa, con tante isole e tanti canai. Tanto che, qualche volta, quel che se vedi de lontan no se lo vedi più de vizin. Metemo dir presempio una Isto, che quando che andè via de San Piero ai Nembi, vù vedè subito Isto che ga la cesa sul monte, e anche se vignì del'altra parte la vedè — del'altra parte, natural — po' inveze, co' sè soto, no vedè né la cesa, né el monte, né Isto e solo che un no sia propio pratico el xe subito intrigado. — Intrigado a Isto? — A Isto e in tanti altri loghi, siora Nina. Che a chi che no xe pratico i ghe par tuti compagni e el gira per mar come un zurlo. E el se inacorzi de aver girà come un zurlo solo se el torna là dove che el iera prima. Perché in mar, savè, no xe miga come in tera, come in una Trieste che, co' un se perde, pol sempre dimandarghe a un che passa dove che xe, metemo dir, via Santi Martiri. Perché, primo, in mar, el più dele volte, no xe nissun a chi dimandarghe e, secondo, dimandar in mar xe una vergogna. — Eh, ma i Dalmati xe pratichi... — No xe dito. Perché ve esisti i Dalmati de Cherso, Lussin e Arbe e ve esisti i Dalmati de Ragusa, dele Boche de Càtaro e de Cùrzola. Pensèvese che anche el Capitan Coglievìna, chersin de Cherso, cola madre de Arbe, assolto dele Nautiche de Lussin, che lu per Dalmazia el ve gaveva navigà el navigabile, co' apena s'ciopada la guera — ve parlo dela Prima guera, natural — i lo ga distinà come Comandante de Porto a Slàtina, ben, pensèvese, lu, un Capitan Coglievìna, per andar a Slàtina se ga trovà intrigado. — El se ga perso? — Come volè che un capitano, assolto dele Nautiche de Lussin ve se perdi? Però el se ga trovà intrigado. Perché lu, come ieri, el ve se ga presentado a Zara, dove che in Governo Maritimo i ghe ga dado per andar a Slàtina una vecia barca de piloto, una batelina, apena piturada nova de zenerin, con un grando numero nero perché iera guera, e come ogi el ve iera a Zaravecchia. E, come diman de matina bonora, lui ve calcolava de esser pulito in 'sta Slatina, che lui no iera mai stà prima. — Ma dove ve sarìa 'sta Slàtina, sior Bortolo? — Indiferente dove. Lui, el Capitan Coglievìna, no ghe iera mai stà prima e per dirve la sincera verità, no el la gaveva gnanca mai sentida nominar. Che anzi, co' el la zercava fra tute 'ste isole che ve xe là, el pensava: «Guera, ah xe! Chissà in che buso pezo che Ulbo che i me gaverà mandà». Cussì el rugnava, parlando solo si stesso e vardando de prova se el podeva intivar 'sta Slàtina. «Ma in guera de bon guerier — po' el ga dito — e meo Comandante de Porto in un buso, che pericolar per mar. E po' 'sta guera no durerà in eterno». — Ah, no el iera contento? — Lu no ve iera né contento né no contento. Lui, savè, ve iera un de quei omini che diseva sempre: «Comanda chi pol, ubidisse chi deve. Drìo de la barca va el caìcio, mal no far, paura no gaver e qualcossa sarà...» Solo che el sol magnava le ore, ve iera zà le zinque de dopopranzo e el Capitan Coglievìna no se capacitava de no intivar ancora 'sta Slàtina, tanto ve iera intrigoso de trovarla. Insoma, per farvela curta, iera oramai squasi note, co', come Dio ga volesto, el ga visto de lontan el fanal de un molo e a un vecio che andava fora cola pàssera a butar le rede el ghe ga dà de vose per dimandarghe se quela iera Slàtina. Che sì, sior, ghe ga dito ridendo 'sto qua, se no i ghe ga cambiado nome dopo che son sortido de casa. Pensévese che vergogna per lu, Comandante de Porto. E cussì ve xe stà, siora Nina, che el Capitan Coglievìna ve xe rivà col scuro, squasi senza saver, de note a Slàtina. — Eh, xe bruto rivar cussì in un logo de note in scuro... — Sicuro. E difati quela note el Capitan Coglievìna no ga fato né ben né mal e el ga pensa ben de armisarse al molo e de dormir là in barca, sotocoverta. E stanco che el iera, el se ga dismissià co' iera zà nove, nove ore e meza de matina, col sol zà alto e in 'sta bela piazeta che gaveva Slàtina propio drìo del molo, iera zà pien de gente che andava in Domo perché, combinazion, ve iera dimenica. In un buso, siora Nina, credeva el Capitan Coglievìna che i lo gavessi mandado, e inveze: e Domo con campanil che sonava le campane, e Tore col orologio sora del leon cole ale, e Municipio tuto in piera bianca, con scrito propio sula piera Municipio, e Piazza, e molo grando, e porporela in fondo, dove che iera la Lanterna, e del'altra parte del porto, un poco più in là del squero, el Convento dele Mùnighe. E la gente vestida de dimenica che se saludava e ciacolava soto el portigo del Governo Maritimo, che sul pergolo, gaveva anca la bandiera. Siora Nina, gavè presente una Cherso, un Lussingrando, una Arbe? Bon, forsi più in picolo, ma cussì un circumcirca. Che anzi el Capitan Coglievìna se ga assai stupido, perché, ve go dito, lui credeva che i lo gavessi manda pretamente in un buso. — Eh, xe bel de dimenica nei loghi cussì. Anche a Veglia... — Anche, sì, de Veglia gaveva qualcossa, tanto che co' el Capitan Coglievìna xe andà in Governo Maritimo e che el piloto, un zerto Malabòtich, tuto fazendolo passar prima, lo ga portà sul pergolo, el ga visto che la gente vigniva fora dela Messa dele dieci e che la banda, come che i usava anche a Veglia, soto dela Comun tacava a sonar la Marcia Radetzky. — Ah, soto l'Austria ancora questo? — Sicuro che soto l'Austria. De cossa ve stago contando? Ve contavo, no, che iera apena s'ciopada la guera, la Prima guera natural e che al Capitan Coglievìna i lo gaveva mandado a Slàtina come Comandante de Porto. E lui subito, siora Nina, a Slàtina el ve se ga trovà noma che ben. Perché ve iera sì s'ciopada la guera, ma propio apena s'ciopada, de poco. Setembre del Quatordese ve iera, che in Dalmazia, xe inutile che i disi, el più bel mese xe setembre. E là de tuta 'sta guera che iera s'ciopada, l'unica roba che, per dir, quel giorno, se vedeva iera 'sta barca che lui iera rivado, piturada in zenerin, con un grando numero nero. — Che numero? — Indiferente che numero! Iera un grando numero nero come che usava meter la Marina de Guera co' iera guera, ma per el resto ve iera un paradiso. Bona gente, come tuti i Dalmati, bon vin, dalmato natural, po' ve iera la scola, con una bravissima maestra, una zerta maestra Morato... — Ma scusè, sior Bortolo, la maestra Morato no la iera qua de noi? Che anca mi gavevo la maestra Morato... — Per quel la gavevo anca mi! Ma cossa credè vù, che in una Dalmazia ve xe solo che una maestra Morato? Che ve sia solo un piloto Malabòtich? Anche a Slàtina ve iera un piloto Malabòtich, un Podestà Miagòstovich, un dotor Colombis, un sarto Pende, un sior Nadalin Maestro de Posta, un Don Blas, un fanalista Visco, un Barba Checo che ve ciapava la zima dei vapori al molo e el portava ancora l'orecìn come i veci maritimi, lui che gaveva fato in antico Capo Horn a vela, e una Finanza Rimbaldo. Perché, siora Nina, el mondo ve xe grando, ma el ve xe anche picolo e 'sti Rimbaldo, 'sti Pende, 'sta maestra Morato, 'sto Podestà Miagòstovich, 'sto Don Blas, 'sto fanalista Visco, 'sto piloto Malabòtich e 'sto sior Nadalin, Maestro de Posta, magari i ve se ciama altrimenti, ma istesso i ve xe sempre quei... — Ahn, capisso... — No so se gavè capì, ma indiferente. Per dirve che 'sta Slàtina no gaveva gnente de diferente de tanti loghi che mi e vù conossemo. Forsi che i uliveri, le vide e le masiere no ve xe compagne dapertuto? E là a Slàtina ve iera e uliveri — tantissimo oio che i fazeva in torcio — e vide — che, fin de setembre che iera, i cominziava a vendemiar — e masiere, natural, e agnei — bonissimi agnei, perché i gaveva bonissimo pascolo — e trate per andar a pescar — che cassete e cassete de sardoni e de scombri i stivava de matina sul molo — e ogni casa gaveva el suo orto e qualcheduna, in Piazza, in Cale Larga, in Cale Streta, anche el giardin de drìo. E soto el Municipio ghe iera el local che se incontrava tuti questi che un poco podeva. E po' iera l'osteria de un zerto Tonissa, dove che inveze andava i omini, che, co' fazeva scuro, el Capitan Coglievìna dal Governo Maritimo li sentiva cantar. Po', una volta per setimana, de sera, rivava anche el vapor con tuti i lumi impizzadi, che i fioi coreva in riva zà co' el fis'ciava fora dela Ponta. Barba Checo ghe ciapava la zima, cominziava a lampar la Lanterna e la gente, pian pian dopo zena, andava tuti al molo. — Ah, iera anca el vapor? — Sicuro, una volta per setimana, come che se usava in alora in tute quele isole più picole: una volta per setimana. Ma adesso che iera guera, ve rivava più de una volta anca vapori requisizionadi del militar, che no se ligava al molo ma andava driti in Valelonga a scarigar drìo dela Ponta dela Lanterna, andove che la Marina de Guera Austriaca gaveva messo un grandioso magazen de tuto quel che ghe podeva servir ala Marina de Guera Austriaca. — Ah, siluri, torpedo, canoni, come? — Ma cossa canoni, che l'unico canon che iera a Slàtina iera un vecio canon venezian che sbarava in punto a mezogiorno e fazeva scampar tuti i cocai. No, siora Nina, in 'sto magazen — posto sicuro che i calcolava Slàtina, anche perché iera cussì intrigoso trovarla — i gaveva messo tuto per la provianda dele barche de guera dela Marina Austriaca: e farina de pan, e cafè, e sal, e tabaco, e spagnoleti, e fasoi sechi e bisi, e risi e late de petrolio e coverte, e monture, tute quele robe insoma, siora Nina, che ghe podeva servir in Dalmazia ala Marina de Guera Austriaca, se in un domani i se gavessi movesto de Pola. — Ah, no i se moveva de Pola? — No, perché l'Italia no iera ancora vignuda in guera, ma dopo che la xe vignuda, istesso no i se ga movesto. Però, quela volta che xe vignuda in guera l'Italia, i ga fato meter el telegrafo militar col cavo sotomarin, che anzi sior Nadalin, el Maestro de Posta xe andà a impararse e a far pratica. E xe vignù anca un monitor che subito fora dela porporela, al imboco del porto, ga messo tuto mine, un campo de mine, che i pescadori, poveri, dopo, gaveva dovesto andar a pescar del'altra parte, a Porto Ciave. — Dove che no iera mine? — Sicuro. De quel, capì, a Slàtina i ga cominzià a capir che iera guera. E no parlemo, po', co' al Capitan Coglievìna i ghe ga mandado el ròdolo col vapor. — Un ròdolo col vapor? Che ròdolo? — El ròdolo dei placati, siora Nina. I placati stampadi a Pola che diseva che tuti i giovini che iera nati dal Novanta al Novantasìe — 1890-1896, che quela volta, pensévese, quei del Novantasìe e del Novanta iera giovini — doveva andar soto le armi, in Marina de Guera, natural: Ka und Ka Kriegsmarine. «Cossa volè! Comanda chi pol e ubidisse chi deve», ghe ga dito el Capitan Coglievìna, e 'sti giovini xe partidi tuti insieme, cantando e sventolando i fazoleti, che iera cussì cussì de gente al molo. Contenti i iera, poveri, de esser tuti insieme e po', inveze, no se ga mai savesto più gnente de lori. Una mina, i ga calcolà, o una torpedo de 'ste silurenti italiane che in alora andava in giro con Danunzio. Questo apena che ga cominzià la guera col'Italia, che subito se ga capì che la guera ve deventava sempre più longa. Perché longa, siora Nina, ve xe stada la Prima guera. — Eh, anca la seconda... — La terza, inveze, sarà un lampo. Indiferente. Volevo dirve che i anni passava e con sempre più mine e più silurenti che iera, a Slàtina no rivava gnanca più el vapor. E, natural, gnanca più giornai, cussì che a Slàtina no i ve saveva pretamente gnente de gnente. Tanto che, a un zerto momento, el Capitan Coglievìna che, ve go dito, lui più che tanto no se scomponeva, ga cominzià a congeturar che istesso un qualcossa doveva esser nato. Massime quando che quel ufizial de Fanteria de Marina che comandava el magazen de Valelonga, una bela matina — bela per modo de dir, perché pioveva e iera anche sirocàl — el ghe se ga presentà in Governo Maritimo e el ghe ga dito che ghe xe passà telegrama che lu el devi andar via cola sua barca e con tuto el militar suo de lu. Che el ghe lassa per far la guardia in deposito solo che i militari del logo e che questa xe la ciave del magazen dela Marina Austriaca. Che Dio guardi tocar le mine oltra la porporela e che, ogni modo, vù, Capitan Coglievìna, savè dove che le xe, perché là sul muro gavè la carta. E che se sarà qualcossa de interessante de saver i ghe parteciperà per telegrafo, che oramai el Maestro de Posta sior Nadalin ga pratica. — Ah, questo sior Nadalin gaveva ciapà pratica? — Sicuro, tanti anni oramai che l'andava a far pratica a Valelonga. «Cussì — diseva sempre sior Nadalin, co' el tornava de Valelonga in Posta — co' un giorno i meterà telegrafo anche qua in Posta de Slàtina, gaverò zà pratica. Ma là iera poco de aver pratica, siora Nina, perché dopo che de Valelonga iera andai via i militari, poco bateva el telegrafo. Ale sie de matina i partecipava de Pola solo che il sole sorge ale sete ore e meza de matina — novembre che iera — e che el tramonta ale quatro e meza de dopopranzo, che quel — ghe diseva el Capitan Coglievìna al Podestà Miagòstovich — podemo veder anca nualtri, perché el sol xe anche qua e orologio sula Tore no ne manca. Po' i partecipava i quarti dela luna, le maree, che gnanca quel no ocoreva, perché tuti le vedeva sui scoi e sul molo, e po' i Santi del giorno. Che cossa ocore che i ne li mandi per telegrafo — diseva Don Blas — che mi li go tuti notadi in canonica! Questo ale sie de matina. E ale sie de sera — contava sior Nadalin — i diseva: «Comunicazioni di servizio N.N.» — Chi Ene, Ene, un ilegitimo? — Ma cossa ilegitimo? Che quel apena ve xe fio de N.N. No, «Comunicazioni di servizio: N.N.» ve voleva dir che no iera nissuna novità. Fina che un giorno, de sera, no ve xe rivà più gnanca el N.N. E sior Nadalin ga dito «Meo, cussì, che per un N.N., mi ogni sera dovevo andar un poco a pie e un poco caminando, fina in Valelonga per gnente.» Che po', inveze, in Valelonga, un bel momento, perché intanto passava i mesi, ga dovesto cominziar a andar el Capitan Coglievina, e el Podestà Miagòstovich, compagnadi dela Finanza Rimbaldo e de sior Ucròpina dela botega magnativa... — Tuti per telegrafar? — Ma cossa per telegrafar, siora Nina? Chi gnanca se sognava più del telegrafo? Per andar a cior un per de sachi de farina bianca, de farina de polenta, cafè, spagnoleti, petrolio per i lumi. Perché, savè, in botega de sior Ucròpina, vapor che no rivava più, cominziava a mancar la roba. Oh Dio, oio i gaveva, vin anca, anca tropo, late de piègora e carne de agnei no mancava, e gnanche pesse, natural, perché i pescadori, fora de Porto Ciave dove che no iera mine, i pescava. Che anzi i diseva che — ara ti — fora de Porto Ciave se ciapa assai più pesse che del'altra parte. Ma, cossa volè, siora Nina, co' manca el pan, manca tuto. — Ah, no i gaveva pan, poveri? E perché no i gaveva pan? — Perché el pan se fa cola farina, siora Nina. E, a Slàtina, farina de formento no i gaveva, perché in Dalmazia, nele isole, no ve xe tera de formento. E fortuna de Dio che in magazen dela Marina de Guera Austriaca ghe iera farina de formento per tuta la vita, per una Slàtina. E po', anca per dir, stupidezzi... — Che stupidezzi? — Sì, intendevo dir che mancava anche quei stupidezzi, che xe stupidezzi, ma che però serve. Presempio, la maestra Morato diseva che no la gaveva più lapis per far scriver i fioi dele prime, e inchiostro per i più grandi. E Don Blas diseva che no el gaveva più candele, solo mocoli e che presto no sarà più gnanca fulminanti. E cussì, come che ve contavo, el Capitan Coglievìna, col Podestà Miagòstovich, la Finanza Rimbaldo e sior Ucròpina dela botega magnativa i xe andadi in 'sto magazen dela Marina Austriaca, in Valelonga, a cior qualcossa per le prime evenienze. «Mal no far, paura no gaver», ga dito el Capitan Coglievìna, verzendo la porta de 'sto imenso magazen che lu gaveva la ciave. «E po' — ghe ga spiegà a tuti el Podestà Miagòstovich — questo ve xe pretamente stato di necessità». «Sicuro — ghe ga dà subito ragion el Capitan Coglievìna — comanda chi pol, ubidisse chi deve e noi ubidimo al stato di necessità. Ogni modo, qua xe la Finanza Rimbaldo e sior Ucròpina che ghe farà el récepis perché tuto sia in massimo ordine!» — El récepis? Sior Ucròpina doveva far là el récepis, davanti de lori? — Sicuro. Cossa credè, siora Nina, che sia el récepis? Xe la ricevuta, come che se diseva soto l'Austria, perché tuto fussi in massimo ordine. Ben, volè creder, apena che i ga verto la porta del magazen de Valelonga, i ga visto che, stivado in massimo ordine, là ghe iera de tuto. No solo che sachi de farina, che no parlemo, late de petrolio, spagnoleti, fulminanti a boca desidera e monture, ma anche maie, terlissi, scarpe. E bisi e risi e persina pan gratà. E roba per i ufizi dela Marina, carta, pene, penini, lapis copiativi. E ferai per barche e salvaòmini coi nomi de tuti i vapori dela Marina de Guera Austriaca; e pachi e pachi de cartoline de Posta militar e cartele con zentinera e zentinera de marche per letere. E medizine, fasse, tacomachi, e butilioni de oio de rizino. Savè cossa che vol dir de tuto, siora Nina? Ben, ghe iera de tuto. Che anche de questo vedè che, se xe cascada l'Austria, no xe stà perché mancava roba: xe stà perché xe stà tradimento! — Ah, iera cascada l'Austria? — Sicuro, siora Nina, che iera cascada l'Austria, se a Slàtina no passava gnanca più telegrami. Zà de un anno. Ma lori, là soli, no i saveva. No i podeva saver un tanto, perché no passava più telegrami, no rivava più vapori e Slàtina, ve go dito, iera assai intrigoso de trovarla. E sicome che iera tornà de novo novembre, de novo piove e sirochi che, per i Santi, Don Blas, dopo pregà la preghiera per l'Imperator, gaveva dito del pulpito che qua bisogna che qualche Santo ne aiuti, el Capitan Coglievìna ga pensà: «Mah, perché che qualche Santo aiuti, bisogna prima aiutarse soli. Va ben, comanda chi pol e ubidisse chi deve ma, oramai, qua, chi comanda, se no che mi che son Comandante de Porto? Mal no far, paura no gaver, va ben: ma qua mi go paura che se mi no fazzo qualcossa, qua no sarà gnente e andaremo avanti cussì, senza saver mai una drita». — Avanti cussì, come? — Cussì, senza saver una drita, siora Nina. Tanto più che anca el Podestà Miagòstovich diseva che oramai, tempo un mese, el se gavessi trovà, e propio soto Nadal, intrigado per pagar el cursor dela Comun, el scritural e la maestra Morato, perché iera squasi finidi i soldi che lu gaveva per le ocorenze del Municipio, tanto tempo che no rivava più el vapor. E intrigado iera anca el Capitan Coglievìna, che anca lu, tempo un mese, no gavessi gavesto più né un fiorin né una corona per pagar — el diseva — no digo i militari de guardia del magazen, ma gnanca la povera Finanza Rimbaldo e el piloto Malabòtich, povero, che anca lori ga le sue ocorenze. — Eh, co' no cori la paga, se ga ocorenze. — Ah, per quel, anche co' la cori, siora Nina. Ma indiferente. Là, insoma, ocoreva saver una drita e cussì, una matina che iera sol — savè quele bele matine de novembre che xe in Dalmazia co' xe sol — el Capitan Coglievìna ga ciolto quela sua vecia barca de piloto piturada in zenerin col numero nero, el ga tirà zò del muro del suo scritorio in Governo Maritimo la carta dele mine, el ga ciolto con sé una meza dozena de late de nafta, provianda per un per de giorni e l'inzerada de piova. Pò, disendoghe al Podestà Miagòstovich che questa, per ogni evenienza, xe la ciave del magazen de Valelonga e che lu, no per gnente, ma per tute 'ste robe, el ga pensà ben de andar in qualche altro logo a veder cossa che xe nato, el ga impizzà el motor, el ga tirà su la bandiera austriaca, el ga molà la zima e, pian pian, vardando la carta e stando atento de no incozar le mine, el xe andà, fra isole de cavre, ponte e scoi, per dove che el iera vignù, oramai zinque anni prima, verso el Canal dela Murlaca. — Ah, perché in Canal dela Murlaca i gavessi savesto dirghe qualcossa? — Chi gaveva de saverghe dir qualcossa in Canal dela Murlaca, le grote? Lu ve xe andà verso el Canal dela Murlaca perché de là el saveva dove andar. E la prima roba che el ga pensà xe stà che, meo de tuto, iera de andar, no in un logo grando, Dio guardi che fussi stà brute nove, ma de andar pulito a Cherso, dove che lu — de Cherso che el iera e tuto bona gente che xe a Cherso — el gavessi podesto saver cossa che iera nato, se qualcossa iera nato, senza che ghe nassessi gnente. — Ah, lui gaveva i sui de lu tuti a Cherso? — Lui, siora Nina, oramai a Cherso de sui de lu non el gaveva pretamente più nissun. Perché lui, omo oramai zà cola sua età, padre e madre no el gaveva più e, fio unico che el iera, no el gaveva fradei. Solo che due cugini el gaveva, un in Arbe, primo cugin, Tonin Bellemo e, a Cherso, una cugina, seconda cugina, Siora Iginia Politèo, che anzi tuti ghe ciamava signorina perché, restada puta che la iera, no la se gaveva mai sposado. Savè, a Cherso la gente diseva che el Capitan Coglievìna, assai bel omo che el iera ancora e 'sta Iginia, che la ve iera signoreta — signorona squasi, perché i Politèo gaveva assai del suo — i sarìa stadi assai adatadi per sposarse. Prima dela guera, questo. Ma, prima dela guera, ela gaveva sempre dovesto tender sua madre che, restada vedova de giovine, la ve iera oramai deventada vecia, ma assai vecia — savè de quei veci che no more mai — po' iera vignuda la guera, lui i lo gaveva distinà zò in Dalmazia e cussì iera andà tuto in gnente. — Ahn, in gnente el matrimonio... — Ma no, lori no gaveva gnanca divisà de sposarse. Iera la gente che parlava. Però xe vero: i sarìa stadi assai, assai adatadi. Indiferente. Per farvela curta, prima roba co' el Capitan Coglievìna xe rivà de sera a Cherso, una sera de piova e squasi nissun per strada, e che lui, apena in tera, subito se ga stupido che rente dela porta dela Posta la casseta dela posta iera rossa inveze che zala, el xe andà drito drìo dela Piazza a casa de 'sta sua cugina Iginia che, anzi, ghe ga fato strano che, zà scuro che iera, in Piazza no iera ancora el gendarmo che caminava su e zò, come che sempre l'usava anche cola piova. I Politèo, siora Nina, ve gaveva a Cherso una casa belissima, no propio in Piazza, ma cole finestre sula Piazza e po' pretamente in Riva, gnanca a dò passi del Fòntego, col porton de strada che iera sempre averto e suso, in pian, un grandioso terazzo cola pergola che se vedeva el mar fina San Nicolò. — Eh, xe bel, xe bel cussì le case che ga vista... — Difati sua cugina Iginia lo ga visto subito del terazzo, che la iera apena tornada dei Vespri, cola vecia Cate che ghe stava verzendo la porta de casa. Che, anzi, prima ghe pareva e no ghe pareva, ma po' co' lu xe vignù drento del porton, el ga fato le scale e el ga cominzià a ciamarla «Iginia! Iginia!» la lo ga subito ravisado. «Dio quanti anni, Iginia mia — ghe ga dito lui, cavandose la bareta e pozandola sul banco de piera del terazzo — quanti anni! Ma dime una roba, Iginia, che qua me par tuto un fià strano, dime Iginia, cossa xe nato?» «Eh, Tonin mio — ghe ga dito ela, perché Tonin ve se ciamava el Capitan Coglievìna — eh, Tonin mio, te xe nato che me xe morta la madre! Più de un anno xe oramai — de otobre iera, povera — el giorno istesso che xe cascada l'Austria!» E cussì ve xe stà, siora Nina, che el Capitan Coglievìna, vestido ancora in montura de Marina de Guera Austriaca, sul terazzo de sua cugina Politèo, ve ga savesto un anno dopo che, un anno prima, iera stà el ribalton del'Austria. — Mama mia! — Mama mia, sì. Xe quel che ga dito el Capitan Coglievìna, sentandose sul banco de piera rente dela bareta. «Mama mia, Iginia, che disgrazia! Che granda disgrazia!» «Eh, Tonin mio, cussì Iddio ga volesto, ma iera tanto tempo oramai che la iera più de là che de qua». «Orpo, mi là, inveze, no gavessi mai credesto un tanto, che anche cussì come che la iera, con tute le sue maroche, pareva che la dovessi durar in eterno...» «Eh, anca mi, Tonin, me pareva, ma po', tutintùn, xe stà cussì». Insoma, siora Nina, se no fussi stado de pianzer — in profondo luto che iera Siora Iginia e incocalido, in montura austriaca, sentà là sul banco de piera del terazzo, el Capitan Coglievìna — sarìa stà propio de rider. Perché lori dò, per un bon quarto de ora, prima in terazzo e po' in casa, i ve xe andadi avanti a parlar ela dela madre e lu del'Austria: che la pareva ben, che inveze la iera mal, che Idio cussì ga volesto, che, povera, oramai la xe defonta, che co' lui xe partido mai ela gavessi pensado, ma che cussì la xe e che qua, Tonin mio, no resta che farse una ragion. — Una ragion che ghe iera morta la madre? — Ela, siora Nina, ve parlava dela madre, ma lu inveze, ve go dito, ve intendeva l'Austria. Ma intanto che lori se stracapiva la vecia Cate, impicandoghe la bareta sul picatabari in andito, ga fato osservazion, che lui ve iera ancora in montura dela Marina de Guera Austriaca. «Ma cossa, Tonin mio, ti xe mato — ghe ga dito stupida sua cugina Iginia, verzendoghe l'inzerada — ancora in montura austriaca ti me xe, un anno che xe cascada l'Austria?» E alora, podè capir, lui ghe ga contado tuto: che lori là zò no saveva gnente e ela, intanto che i zenava, ghe ga contà tuto quel che iera nato qua suso. Che, dapertuto, de un giorno al altro, el militar austriaco gaveva cominzià a molar i s'ciopi per strada, che le barche de guera a Pola gaveva tirado su bandiera croata, che l'Amiraglio Horthy iera scampado in Ungheria. E che po', su una barca de guera italiana, con un grando numero bianco, qua iera rivadi i Italiani e che quela sera, Tonin mio, in Piazza, al molo, in riva te iera pien de gente come per la festa de San Sidòro, e che i contava che a Trieste po' no parlemo: un subisso. Che insoma i disi che adesso semo Tere Redente, che l'Imperator no xe più Imperator e no se sa gnanca dove che el sia, che le Finanze, adesso xe Finanze italiane, che no xe più gendarmi, che a Fiume xe Danunzio, che, figùrite, anche povera Siora Mima Chiole te xe morta de spagnola, come tanti altri, che adesso ogni giorno i te more de febre spagnola. E che più de un conta che in tuti i loghi xe sempre più sioperi con bandiere rosse e confusioni, che oramai in botega se paga cole lire e che in cesa inveze tanti buta vece corone co' passa el nònzolo cola borsa dele limòsine. Che quei del vapor parla che a Veglia, in Arbe e a Selve i Italiani se sbaruffa coi Croati e qua ala Posta, figùrite, la casseta dela posta adesso no la xe più zala, ma la xe rossa. — Eh me ricordo, sì: prima roba co' xe vignù l'Italia i ga messo le cassete rosse. — Ma cossa me vignì fora cole cassete rosse, che el Capitan Coglievìna ga subito fato mente locale che sula sua barca, che el gaveva lassà armisada in Mandrachio, iera ancora el numero nero dela Marina Austriaca, che col ciaro i lo gavessi subito ravisado. «Bona de Dio — Iginia mia — el ga dito che, rivando, scuro zà che fazeva, più per abitudine che per altro, go almanco calà la bandiera». — La bandiera austriaca? — No, portogalese! Sicuro che austriaca, se lu, co' el navigava, el credeva ancora de esser soto l'Austria. Ma el Capitan Coglievìna ga dito come sempre: «Mal no far, paura no gaver». E, po', savè cossa? Lu, calmo, se ga cavà el sacheto de montura, el se ga fato tirar via de sua cugina Iginia, che per cùser la gaveva le man de oro, i cordonzini de oro e le stele a sei ponte che el gaveva sule spaline, cambiar i botoni, che natural el gaveva i botoni dela Marina Austriaca, discusir dela bareta l'Aquila con dò teste e la corona — figurévese che dolor de cuor — e, prima de metersela in testa e de andar via, zà col'inzerada indosso, che la vecia Cate ghe gaveva messo in scarsela pulito involtizai in carta i botoni e tuto, el se ga basà e brazzà cola cugina — prima e ultima volta in vita — e el ghe ga dito: «Grazie, Iginia mia, mi intanto vado e qualcossa sarà...» Note fonda iera, siora Nina, che l'orologio dela Tore de Cherso bateva le dò ore de note, co' el Capitan Coglievìna, caminando soto la piova, el xe rivà al Mandrachio e montà in barca, el xe andà subito a zercar nel gavòn sotocoverta, la pitura. — Per piturar de novo de zalo la casseta dela posta? — Ma cossa gavè sempre in testa 'sta casseta dela posta, siora Nina? Lu zercava la pitura zenerina, per darghe un per de man de pitura zenerina sora del numero nero dela Marina de Guera Austriaca, che, se no, con quel, apena che gavessi fato ciaro, quei dò Carabinieri, cole righe sule braghe, la mantela longa e el capel de carabinier che el vedeva de lontan caminar su e zò soto i ferai del molo, gavessi subito ravisà la barca. Ma, prima ancora che fazessi ciaro, lui, siora Nina, ve iera zà in Quarnèr, divisà che el gaveva de andar in Arbe. — Ah, in Arbe, perché la madre ghe iera de Arbe... — La madre? La ve iera sì de Arbe la madre del Capitan Coglievìna, ma oramai la ve iera in zimiterio de Arbe, anni anorum che la iera morta. No, lui tante nove e tante maravèe che el gaveva sentì de sua cugina Iginia de una roba e l'altra, per capacitarse propio pulito de quel che pretamente iera nato, el voleva sentir parlar un omo. E che omo meo — el gaveva subito pensà ancora in Mandrachio de Cherso intanto che el scancelava cola pitura el numero nero dela barca — che omo meo de mio cugin Bepin Bellemo, che semo cugini primi, che andavimo anche a scola insieme col maestro Girardeli? — Ah, tuti tre a scola insieme i andava? — Ma cossa tuti tre? Lori dò: el Capitan Coglievìna, quel periodo che lui stava in Arbe, e suo cugin Bellemo andava a scola insieme e per maestro i gaveva el maestro Girardeli. Indiferente. Lui ve xe rivà in Arbe, passando per el Canal de Ossero, che là gaveva girà el vento, no iera più gnanca un nuvolo e iera vignù fora un bel sol — savè quel bel sol che xe de novembre in Dalmazia co' xe sol — e subito el ga visto che in Arbe iera confusion in Riva. — Eh, in Arbe xe sempre confusion in Riva, perché co' xe bel tempo xe sempre pien de foresti... — Ma cossa foresti? Iera tuti de Arbe quei che fazeva confusion in Riva. Che el Capitan Coglievìna zà de lontan, bava de vento de tera che iera, el gaveva sentì come una tràina. Savè come che xe in procession, che el prete disi, no so, «Regina sinelàbe originali Concetta» e tuti ghe risponde «Ora prò nobis»? — Ah, le litànie dela Madona? — Eco, un circumcirca. Solo che là, quela matina in Arbe, el Capitan Coglievìna, passando pian cola barca drento del porto de Arbe, che savè che longo che xe el porto de Arbe, el ga visto che de una parte dela Piazza, ve iera quei de Arbe e de quel'altra, anche gente de Arbe, ma più campagnoi, come: de Lopàro, de Barbàto, de 'sti loghi. E uni, co' un diseva «Viva il nostro Mare Italiano!» ghe rispondeva «Evviva!» e i altri, co' un de lori diseva «Zfvelo nas Jugoslovensko More!», zigava tuti «Zivio!» — Ah, croati! — Croati questi e italiani quei altri. E in mezo iera i carabinieri, cole righe sule braghe, che corendo de qua e de là e sburtandoli indrìo i fazeva in modo e maniera che no i se patufassi. E savè chi che el Capitan Coglievìna ga visto che zigava «Evviva il nostro Mare Italiano!»? Suo cugin Bepin Bellemo, a brazzo del maestro Girardeli che gaveva in man una bandiera. — Italiana? — Sicuro che italiana se i zigava «Evviva il nostro Mare Italiano!» La bandiera croata, inveze, del'altra parte, la tigniva alta con dò man sora dela testa el vecio Andre, zigando quela del Jugoslovensko More. El vecio Andre, figurèvese, anca lu, vizin de un zerto Bùtoraz e de altri partitanti croati e de 'sta povera gente de Lopàro, de Barbàto, de Drasìzza. De questo, più che altro, el Capitan Coglievìna ve ga subito capì che gnente più iera e gnente mai più sarìa stado come prima. Perché pensévese che el vecio Andre, quando che el Capitan Coglievìna iera putel in Arbe, el compagnava e el vigniva a cior a scola Bepin Bellemo e tuto a casa el ghe fazeva per i Bellemo: el ghe tendeva le campagne e el torcio, el ghe piturava el caìcio, el ghe pagava i lavorenti e ogni sera el vigniva a mostrarghe i conti e lori ogni sera lo fazeva sentar in pòrtigo e i ghe dava un bicer de vin e lu, rodolandose un spagnoleto, contava sempre quela che lui iera militar de leva a Venezia, quando che Venezia iera ancora soto l'Austria. — Ah, perché Venezia ve iera soto l'Austria una volta? — Tuto ve iera soto l'Austria una volta, siora Nina, anca l'Italia. Indiferente. Come volevi che in quei momenti, in quela confusion, el Capitan Coglievìna andassi a dimandarghe a Bepin Bellemo cossa che pretamente iera nato e cossa che el doveva far? Lui, ve go dito, ga subito capì che gnente più iera e gnente mai più sarìa stado come prima e, senza gnanca andar in tera, el ga svodado un'altra lata de nafta nel motor e el ga pensà ben che, prima de tornar a Slàtina a contarghe a quela povera gente tute 'ste nove, tute 'ste robe de no creder, iera meo che l'andassi a veder solo si stesso coi sui oci in un logo grando cossa che iera pretamente nato. E, vizin oramai che el iera de Fiume, prima el ga fato merenda in barca e po' el ve xe andado drito a Fiume. — Ma no ghe gaveva zà dito sua cugina Iginia che a Fiume iera Danunzio? — Sì, tante robe ghe gaveva dito sua cugina Iginia, ma lui gaveva credesto che Danunzio fussi andado a Fiume, cussì, per una beffa di Buccari, come. E inveze, siora Nina, apena sbarcado a Fiume al molo Àdamich, che iera cussì cussì de barche grande e picole, el lo ga visto propio a lu che el parlava in Piazza. — Questo Àdamich? — Ma cossa Àdamich, che questo Àdamich doveva esser morto de anni anorum se el molo se ciamava Àdamich! Danunzio el ve ga visto. Danunzio, in Piazza Elisabeta, che, natural, no se ciamava più Piazza Elisabeta, con atorno pien de gente vestida con tute le monture possibili e imaginabili, omini in zivil con fioi per man e anche done che ghe tirava fiori. Danunzio el ve ga visto subito, Danunzio con in testa el capel de alpin, che anzi el Capitan Coglievìna se ga stupido, perché el gaveva sempre credesto che Danunzio fussi de Marina, visto che tanto el girava per mar con 'ste torpedo. E dopo ogni roba che el diseva, tuti bateva le man come mati e po' i zigava Alalà. — Ara là? — Xe quel che ga dito el Capitan Coglievìna: «Ara là che robe che nasse anca qua!» E intanto che Danunzio andava via saludando la gente col brazzo levà in alto e la brìtola in man, e tuti ghe coreva drìo cantando «O Fiume tu sei la più bela, o Fiume tu sei la più forte, meteremo i canoni ale porte...», su per la riva del Bonavia, fina là in Palazzo dove che una volta stava l'Amiraglio Horthy, el ga cominzià a girar per 'ste strade de Fiume, vardandose atorno. — Ah, el girava zercando un indirizzo? — Ma cossa un indirizzo! Lui girava per veder cossa che nasseva a Fiume: che tute le contrade iera piene de gente, de militari con e senza sacheto, con bombe impicade sula strenga dele braghe, e fora de tute le finestre bandiere de ogni qualità, e de Fiume e italiane e de Dalmazia coi tre liopardi, e tapedi sui pergoli, che pareva che dovessi passar de un momento al altro la Procession del Corpusdomini. E sui muri placati firmadi «Il Comandante Gabriele D'Annunzio». E, dove che iera i apalti con tabele con su scrito «Reggenza del Carnaro Sali e Tabacchi», iera pien de foresti che comprava cartoline de Fiume per mandar a casa, coi francoboli con su Danunzio senza bareta e cola testa spelada. «Ara là — el ga dito passando davanti del Tribunal, dove che fora iera una fila de omini e de done vignudi, come che ghe ga contà un maritimo, a Fiume aposta per divorziarse — ara là: qua no xe più Austria, che gnanca no parlemo, no xe più Ungheria, come che a Fiume sarìa pertinente, no xe gnanca 'sta Croazia, che adesso i parla tanto». E no xe gnanca pretamente Italia — el ga calcolà dopo, in local, dove che el ga ciamà una bira — sentindo che dò fiumani vizin de lu parlava che fora, in mar, davanti de Fiume xe pien de barche de guera italiane, che tuti ga paura che de un momento al altro le sbari col canon contro de Danunzio. — Ma come? I Italiani sbarava contro de Danunzio? — No ancora. Dopo. Ma zà quela volta se vede che i gaveva paura. Che inveze Danunzio, in Piazza, diseva «Me ne frego» e po' el legeva poesie. Cossa volè, robe de quela volta, siora Nina. Ma quel giorno, capirè, el Capitan Coglievìna poco ve podeva capir de tute 'ste robe. Tanto, che co' lu, in local, per pagar la bira el ga tirà fora del tacuìn uno de quei pataconi de diese corone de argento e el se ga visto dar fora soldi de carta de tute le sorte, assai el se ga stupido. E ancora de più el se ga stupido quando che, passado soto dela Tore, in una de quele stradete de Braida, che quela volta ve iera pien de strazzarioi, el ve ga visto che in un magazen de carta strazza i ve vendeva, come carta strazza, a peso, ma nove noventi, pachi e pachi de mile, de zento, de zinquanta, de diese e de una corona. — Jessus! I vendeva corone per carta strazza? — Sicuro, a peso i le vendeva, per carta strazza, ma nove noventi, quele vece ancora, de co' iera ancora vivo Francesco Giusepe, perché oramai no lè valeva più gnente. — Ma no me gavevi dito che el gaveva pagado la bira con diese corone? — Con diese corone de argento, siora Nina: che quele le ve val anca adesso. E cussì, contando quanti soldi de argento che el gaveva in tacuìn e per le scarsele, el Capitan Coglievìna el ve xe tornado in Riva, el xe andà fina sula testa del molo, dove che el gaveva lassà la batelina, el se ga sentà su una bita e el se ga fato e impizzà un spagnoleto. «Ara ti — el ga cominzià a pensar fumando, che lui iera assai raro che el fumassi — ara ti: drìo dela barca va el caìcio, comanda chi pol e ubidisse chi deve, va ben, ma adesso oramai comanda tuti e no ubidisse nissun. Va ben che, come che digo sempre mi, mal no far, paura no gaver e qualcossa sarà; ma adesso cossa sarà che, oramai, gnente più xe e gnente mai più sarà come prima? — El iera mufo, come? — Mufo? El Capitan Coglievìna no ve iera omo che se perdessi de corajo. Lui, più che altro, sentà che el iera, là solo sula bita, fumando e vardando el mar, el ve congeturava. Ma propio in quela ga tacà a schizar, come che usa in novembre, lu se ga alzà, el xe andà in barca, el se ga messo su l'inzerada de piova e po', come che el ga cominzià a zercar per le scarsele, per veder se el gavessi per combinazion anca là corone de argento, ghe xe vignù in man el pacheto. — El pacheto dei spagnoleti? — Maché pacheto de spagnoleti, che lu gaveva la scàtula aposita per farseli solo, come tuti i maritimi! Ghe xe vignù in man, siora Nina, el pacheto dei botoni de oro, dei fileti, dei cordonzini, dele stele a sei ponte e del'Aquila con dò teste che sua cugina Iginia, quela note a Cherso, ghe gaveva discusì dela montura e dela bareta. «Ara ti — el ga pensà — una volta ognidun saveva quel che el gaveva e quel che ghe spetava, quel che se podeva e quel che no se podeva far. E tuto gaveva una sua regola. E de tuto questo ara ti cossa che resta: dò patache e sie botoni in scarsela». E el stava zà per butar 'sto pacheto in mar, co' vedendo passar per el molo un servo de piazza, col careto zalo e el numero nero sula placa lustra de oton — perché i servi de piazza iera restadi servi de piazza, sempre precisi — el ga dito «Ostia, no!», el se ga ficà de novo el pacheto in scarsela, el ga butà via el spagnoleto, e, risoluto, el ghe ga dà de vose a 'sto servo de piazza che el vegni con lu. — In barca, col careto? — No in barca, lu se lo ga fato vignir drìo fina de novo in Braida e là, in quel magazen de carta strazza, lu per un per de pataconi de diese corone de argento, el ga comprà e carigà sul careto un per de sachi de pachi e pachi de vece corone, nove noventi, el ghe ga dà ordine al servo de piazza che el ghe porti tuto in barca, e el xe andà in una botega de marzer a comprar una carta de aghi e un rochel de fil nero. «De fil de imbastir?» ghe ga dimandà questa dela botega. «No, no, ghe ga dito lu — squasi rabiado, che questa, povera, se ga stupido — de filo fort, de fil stagno, che guanti, che tegni duro!» E, pagà l'ago e el fil, pagà el servo de piazza e montado in barca, el ga impizzà el motor, el xe andà fora del porto de Fiume, passando in mezo ai vapori de guera de 'sti Italiani, che ancora i stava congeturando se sbararghe o no sbararghe a Danunzio. — Ahn, el xe andà via de Fiume rabiado, come? — No rabiado, siora Nina, risoluto. Che, ostia no! — el ripeteva a dir — che no pol esser! «Che sia quel che sia, ma a barca rota no ghe basta sèssola e, se no volemo andar a fondo anca là de nualtri, ocore far qualcossa, qualcossa bisogna far. Perché bisogna che i veci possi morir in pase, che i giovini possi viver e i fioi... ben, per i fioi, co' i sarà grandi, penseremo». E, poco prima de rivar a Slàtina, tuto passando de novo per canai, fra isole de cavre, ponte e scoi, el se ga fermà in un logo riparado, el ga butà el fero e là, siora Nina, el ga tirà fora ago e fil, el ga impirà la veta e, con santa pazienza, el se ga cusì de novo sula montura e botoni de oro e cordoni e fileti e stele con sei ponte, el se ga tacà de novo l'Aquila con dò teste sula bareta, el ga tirà su la bandiera austriaca e el xe andà drito a Slàtina. No pretamente a Slàtina Slàtina, ma a Valelonga. E là, senza che lo vedi nissun, el ga tirà suso de soto acqua con una rampinela el cavo del telegrafo, el lo ga taià cola brìtola e el ga lassà che i dò tochi taiadi se fondassi in mar. — Sempre rabiado, come? — No, siora Nina, ve go dito: risoluto. E risoluto el xe tornado de novo a Slàtina, dove che tuti, apena che i lo ga visto voltar la Ponta dela Lanterna, podè capir, ghe ga coresto incontro sul molo per sentir le nove. E lui, tuto soridente, ghe ga dito che dele nove parleremo dopo, ma che adesso xe le diese e che ale diese ore ogni Cristian fa merenda. E el xe andà in local de Tonissa e là sentado, fazendo marenda, el ghe ga contado tuto. — Mama mia! Tuto quel che el gaveva visto che iera nato? — No, siora Nina: tuto quel che questa povera gente de Slàtina, 'sti veci, 'sti giovini, le done, i lavorenti, Don Blas, el Podestà Miagòstovich, la maestra Morato, Barba Checo anche, tuti insoma, bramava de sentir. E prima de tuto el ghe ga dito che, numero un, son assai contento de dirve che, graziando Idio, la guera xe finida. E pensévese che nissun no ghe ga gnanca dimandado chi che la gaveva vinta, perché là nissun no podeva gnanca concepir che no la gavessi vinta l'Austria. «A.E.I.O.U.» iera la prima roba che a scola la maestra Morato scriveva sula tabela per impararghe ai fioi a leger e che le Mùnighe ghe fazeva ricamar ale putele sui telèri: «A.E.I.O.U.»: «Austria Erit In Orbe Ultima». Come dir che l'Austria sarìa stada l'ultima. — L'ultima dela classe? — Maché ultima dela classe. Come dir che l'Austria sarìa stada l'ultima roba che fussi restada al mondo. E alora, podè capir, come gavessi podesto concepir tuti questi, tuta 'sta povera gente che stava a scoltar el Capitan Coglievìna che l'Austria podessi, no digo cascar in quela bruta maniera che la xe cascada, ma gnanca perder la guera. E cussì lu ghe ga dito solo che la guera iera finida, tanto che anche l'Imperator no se mete più in montura e che, per el resto, el sta ben. De salute. Che per le paghe no xe più de gaver pensieri, perché a Fiume lu gaveva fato in modo e maniera de poder gaver tute le spetanze e le competenze de tuti, fina l'ultima corona, per adesso e anche per avanti. Che el iera stà anche a Cherso, ma che a Cherso el se gaveva fermà poco, perché a sua cugina Iginia ghe iera morta la madre, povera, che in Arbe anche poco, perché suo cugin Bellemo iera in còlera col vecio Andre per stupidezzi. Che a Fiume inveze el se gaveva fermado un poco de più, perché a Fiume iera assai feste e el gaveva dovesto spetar per gaver le corone, i soldi insoma dele spetanze e che, ah sì, a Fiume xe un novo Comandante, un Comandante de Porto, che lui conosseva zà prima. E, unica bruta roba, che xe la spagnola. — Ahn, el ghe ga contà dela spagnola? — Sicuro: come che i ghe gaveva contado a lu. Che xe sta febre spagnola, che xe mal ciaparla, perché anche se more, che a Cherso ve xe morta de febre spagnola, pensèvese, anche una Siora Mima Chiole, dona ancora giovine e che propio per questo per un poco de tempo, anzi forsi bastanza, qua andarà avanti quela che no riverà el vapor. E che se no riva el vapor, no ga gnanca scopo far cavar via el campo de mine, che cussì nissun vignirà mai qua a secarne i bisi. «E insoma — ga dito el Capitan Coglievìna netandose via le fregole dela montura, che el gaveva finì de far merenda — importante xe che guera no xe più, che adesso semo in pase e in pase poderemo sempre viver avanti cussì come che vivevimo sempre. — Come, come che vivevimo sempre? — Xe quel che ghe ga dimandà tuti al Capitan Coglievìna. E lu ghe ga dito: «Come che vivevi e come che vivevimo sempre. Mal no far e paura no gaver». E tuti in 'sto local de Tonissa ga ciamà e vin per bever e persuto e formagio fresco e i ga magnà e bevù fina tardi, che po' el Capitan Coglievìna ga volesto pagar tuto lu con una carta nova novente de zento corone e xe stà tuto un rider, una contentezza. — Ah, i iera tuti contenti? — Sicuro, siora Nina. Perché no i gavessi dovesto esser contenti quel giorno? Quel giorno, el giorno drìo e tuti i altri giorni che Dio mandava. Perché a lori, siora Nina, a Slàtina, cossa ghe mancava? — Cossa, cossa ghe mancava? — Come cossa ghe mancava? Gnente no ghe mancava. Pretamente gnente. Perché, ve go dito, là i ve gaveva e Domo con campanil e Tore col orologio, Municipio tuto in piera bianca e Piazza e molo grando, porporèla, Lanterna e Convento dele Mùnighe. E po' i ve gaveva uliveri per l'oio e vide che dava un vin meo del vin de Lissa e bonissimi agnei, bonissimo pascolo che i gaveva. E pò i campagnoi tigniva anche el porco e tuti, anche in paese, ve gaveva casa con orto e galine e dindi. E co' i pescadori, de matina bonora tornava de aver pescà, iera stivade sul molo cassete e cassete de sardoni e de scombri, pesse bianco e anche àstisi. E co' iera qualcossa che propio no i gaveva, metemo dir farina de pan per far el pan, petrolio per i lumi, lapis, notes, quaderni e gome de scancelar per la maestra Morato, candele per Don Blas, una montura nova per el piloto Malabòtich e insoma tuto quel de altro che ghe podeva servir, una volta al mese el Capitan Coglievìna, col Podestà Miagòstovich, la Finanza Rimbaldo e sior Ucròpina dela botega magnativa, andava a far provista nel magazen dela Marina de Guera Austriaca a Valelonga, dove che ve iera — ve go dito — de tuto: un emporio. — Iera tanta roba? — Siora Nina: de no calcolar, se i gaveva messo là magazen aposito per tuta la Marina de Guera Austriaca. E zuchero, sachi e sachi de zuchero, che anzi quel Nadal tuti ga fato e frìtole e grafioi e strùcoli e palacinche a boca desidera... — Ma come, sior Bortolo, i ghe dava a tuti zuchero e tuto a gratis? — Come a gratis? Dove mai el Capitan Coglievìna gavessi concepido de dar la roba a gratis o de far cior del magazen senza pagar? Lui, con quei pachi e pachi de corone nove noventi che el gaveva portà de Fiume, el fazeva pulito in modo e maniera che tuti tirassi la paga, pagassi in botega e dapertuto e che sior Ucròpina ghe dassi el giusto per quel che lui ghe dava fora del magazen, col récepis, natural. E tuti cussì gaveva el suo, anche i militari de guardia a Valelonga, sior Nadalin dela Posta, la maestra Morato, el cursor e el concepista dela Comun. Che po' la Comun, natural, come che iera giusto, se fazeva pagar de tuti anche le tasse del erbàtico, del ripàtico, del valor locativo e dela possidenza, quei che podeva. E per el Domo, per Don Blas e el nònzolo Severino pensava un poco la Comun e un poco tuti, perché, come che diseva sempre Don Blas la dimenica a Messa granda dal pulpito, tuti deve sovenire ale necessità dela Chiesa contribuendo secondo le legi e le usanze. E con tuto questo, siora Nina, a più de un ghe vanzava corone de meter via, ala Posta, dove che sior Nadalin ghe dava anche una picolezza de interesse. Insoma, per dirve, ognidun, come che iera sempre stado e come che sempre dovessi esser, saveva quel che el gaveva e quel che ghe spetava, quel che se podeva e quel che no se podeva far e tuto gaveva una regola. — Ahn, intendo: là i se regolava sempre come prima... — Sicuro. Metemo dir, la dimenica, el Capitan Coglievìna dal pèrgolo del Governo Maritimo con rente el piloto Malabòtich che meteva fora la bandiera austriaca, scoltava la banda che soto dela Comun dopo dela Messa dele diese, apena che Don Blas gaveva finì de pregar la preghiera per l'Imperator, sonava la Marcia Radetzky. E a mezogiorno in punto, co' sbarava el canon de mezogiorno, tuti andava a pranzo. E cussì passava i giorni, i mesi e i anni. Prima che cominziassi la scola, el Podestà Miagòstovich meteva sempre fora el placato che ghe intimava a tuti i fioi de farse le variòle e el Capitan Coglievìna l'aviso che inibiva la pesca a stràssico. Leva, inveze, gnente, la leva no iera più, perché l'ultimo placato dela leva che el gaveva, iera quel dela classe 1896. E capirè, del Novantasìe, quei che no iera morti in guera, iera sempre più in età. E co' el Capitan Coglievìna gaveva de far qualche notifica per posta, presempio a qualchedun che no mandava el fio a scola o a qualche pescador che no iera in regola cola barca, el meteva sula sopracoperta i francoboli, quei verdi, ve ricordè, ancora con Francesco Giusepe, perché a Slàtina quei col Imperator Carlo no iera mai rivadi a rivar. E anche i fioi li doprava per mandarghe i auguri de Nadal e de Pasqua ala maestra Morato, come che se gaveva sempre usado, tanto che con tuto che iera passadi oramai tanti anni, a tuti ghe pareva che Francesco Giusepe no fussi gnanca mai morto. — Ah, no i saveva gnanca che iera morto Francesco Giusepe? — I fioi no. I fioi che iera nati dopo, no. Cossa volè, siora Nina, parlarghe de morti ai fioi? Quel che importava iera che la vita andava avanti. E ai fioi che nasseva i andava avanti a darghe per nome e Francesco e Giusepe, e Checo e Bepin, e Frane e Jose, e Rodolfo e Stefania, e Maria e Teresa. Elisabeta anche. E co' cominziava le scole, la maestra Morato, el primo giorno de scola la scriveva col gesso sula tabela A.E.I.O.U., come sempre, che i fioi doveva copiarse sul quaderno cole righe, perché guai soto l'Austria scriver storto. E nissuni, né fioi né grandi, se gavessi mai peritado de far qualcossa de storto in una Slàtina, perché tuti saveva che la Finanza Rimbaldo caminava su e zò tuto el giorno in Piazza e per Riva e in Cale Larga e in Cale Streta, tanto che no gavessi gnanche ocoresto serar a ciave le porte dele case. Ma istesso la gente, più che altro per abitudine, mi calcolo, co' sortiva de casa, le serava e lassava la ciave sula finestra. Le done, massima parte, co' le andava a Messa o, de sera, a Benedizion. E el Capitan Coglievìna anche de sabo de sera se meteva sempre in pèrgolo del Governo Maritimo e el vedeva Visco che tornava in paese marinavia dopo de gaver impizzà la Lanterna e, sentà sula bita del molo, el vecio Barba Checo, quel col orecìn, quel che gaveva fato in antico Capo Horn a vela e che una volta ghe ciapava la zima ai vapori e che adesso che el vapor no rivava più, el stava sentà là sula bita a fumar e a vardar el mar. E po', più sul tardi, ghe vigniva in orecia le ciacole de quei che un poco podeva e se trovava in local soto del Municipio. E dal'osteria de Tonissa, dove che inveze andava i omini, co' fazeva scuro, el li sentiva cantar. «La Vergine dei Angeli», massima parte. «Xe propio vero — diseva solo si stesso el Capitan Coglievìna — mal no far, paura no gaver. I dise sì che drìo dela barca va el caìcio, ma mi — nel mio picolo — no lo go fato andàr. E cussì qua, anche per ogi, gavemo tuti pulito finidò la giornada». — Ma disème una roba, sior Bortolo, quando po' xe finida 'sta istoria de 'sta isola? — Finida? No la ga mai finì, siora Nina: la ve va avanti ancora mi calcolo. Perché a mi più de un me la ga contada: a Cherso, a Lussin, in Arbe, a Trieste, a Fiume, a Pola, anche a Gorizia. — E dove, dove sior Bortolo ve xe pretamente 'sta isola? E come, come se ghe riva? — Eh, quel ve xe la malora, siora Nina. Che 'sta isola ve xe cussì sconta che, ogi, come ogi, oramai nissun ve sa più trovarla. «Otocento e setanta isole, miei cari signori, ve ga la Dalmazia! — diseva sempre el Comandante Bolmàrcich — Otocento e setanta, tra isole e isole minori. Senza contare i scoi». Fotocomposizione: Interlinea s.n.c. Trieste Stampato da La Editoriale Libraria S.r.l. Trieste per conto delle Edizioni de La Cittadella Fotolitografia: Biondi Trieste Indice CARPINTERI & FARAGUNA - VIVA L'A. _*_*_ PREAMBOLO VIVA L'A. MALDOBRÌA I - MUSTACCHI DI FERRO MALDOBRÌA II - IL VALZER DELLE CANDELE MALDOBRÌA III - NEL GIORNO DEL SIGNORE MALDOBRÌA IV - TOCCATA A ZARA MALDOBRÌA V - CUORE DI CANE MALDOBRÌA VI - LA TERRA DI FRANCESCO GIUSEPPE MALDOBRÌA VII - SAN NICOLÒ, SAN NICOLÒ MALDOBRÌA VIII - GRAZIE, ZIA MALDOBRÌA IX - OLIO DI CASA MALDOBRÌA X - CIKI CIKI NAGASAKI MALDOBRÌA XI - LA CASA DI RAGUSA MALDOBRÌA XII - PER LA COMPAGNIA MALDOBRÌA XIII - IL PADRONE DEL VAPORE MALDOBRÌA XIV - LA PENNA D'ORO MALDOBRÌA XV - I FRATELLI BANDIERA MALDOBRÌA XVI - IL TAPPETO DI SMIRNE MALDOBRÌA XVII - IL SERGENTE DI FERRO MALDOBRÌA XVIII - UN POSTO AL SOLE MALDOBRÌA XIX - GOLA PROFONDA MALDOBRÌA XX - IL DIRE E IL FARE MALDOBRÌA XXI - UN ANNO DI SCUOLA MALDOBRÌA XXII - LE SCARPE AL SOLE MALDOBRÌA XXIII - PRANZO DI PRIMA CLASSE MALDOBRÌA XXIV - LUNGO VIAGGIO SENTIMENTALE MALDOBRÌA XXV - UN UOMO TRANQUILLO MALDOBRÌA XXVI - SAPORE DI SALE MALDOBRÌA XXVII - PROFUMO DI DONNA MALDOBRÌA XXVIII - K. K. K. MALDOBRÌA XXIX - LA GOMMA AMERICANA MALDOBRÌA XXX - UNA ROMANTICA AVVENTURA MALDOBRÌA XXXI - LA CASA DELLE DUE SORELLE MALDOBRÌA XXXII - LA LOTTA DI CLASSE MALDOBRÌA XXXIII - I SANTI INNOCENTI MALDOBRÌA XXXIV - CAZZA E CAZZIÙL MALDOBRÌA XXXV - BREVE INCONTRO MALDOBRÌA XXXVI - A. E. I. O. U. Created with Writer2ePub by Luca Calcinai